Demons

di MelBlake
(/viewuser.php?uid=736816)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Home sweet home ***
Capitolo 2: *** Good impression? You're doing it in the wrong way, Bellamy ***
Capitolo 3: *** Back in Time ***
Capitolo 4: *** Devastation ***
Capitolo 5: *** Enjoy the party, Princess ***
Capitolo 6: *** Troubles ***
Capitolo 7: *** Confessions ***
Capitolo 8: *** Drift Accident ***
Capitolo 9: *** Breaking Point ***
Capitolo 10: *** Let sleeping dogs lie ***
Capitolo 11: *** Dark Nights ***
Capitolo 12: *** Open up your eyes, Bellamy ***
Capitolo 13: *** The storm ***
Capitolo 14: *** Brave Princess, Rebel King ***
Capitolo 15: *** Let's play ***
Capitolo 16: *** Out of control ***
Capitolo 17: *** If you dare, come a little closer ***
Capitolo 18: *** Let it burn ***
Capitolo 19: *** Fire and Flames ***
Capitolo 20: *** It's about trust ***
Capitolo 21: *** I want you ***



Capitolo 1
*** Home sweet home ***


1    






Demons



Salve a tutti! Prima di cominciare vorrei darvi alcune informazioni/avvertimenti.

Numero 1: Nel corso della storia ho aggiunto qualche personaggio preso dal libro, ma non temete… quando sarà così, verrà specificato a termine del capitolo con tutte le dovute spiegazioni.

Numero 2: Ho cercato di rendere i personaggi quanto più simili possibile alla serie. Se doveste trovare discordanze o credete che siano un po’ troppo OOC, fatemelo sapere e aggiungerò la voce.

Numero 3: Per esigenze di trama, ho dovuto modificare il lavoro del padre di Clarke, ma tutto vi sarà spiegato al momento opportuno, ve lo prometto.

Numero 4: Tutte le parti che vedrete segnate tra due asterischi e scritte in corsivo (* … *) saranno dei flashback. Spero che non vi stanchino, ma sono importanti per capire i punti fondamentali del passato dei nostri protagonisti. Nei primi capitoli saranno spesso presenti sia dal punto di vista di Clarke, sia da quello di Bellamy, ma con il progredire della trama ce ne saranno sempre meno. Mi tornano utili per spiegare come sono andate le cose nel passato dei due ragazzi.

Dovrebbe essere tutto… buona lettura e fatemi sapere cosa ne pensate!

 

CAPITOLO 1:  HOME SWEET HOME

 

Life is a mystery
Everyone must stand alone
I hear you call my name
And it feels like home

La vita è un mistero
Ciascuno deve stare da solo
Sento che chiami il mio nome
E mi fa sentire come fossi a casa

 

E così… casa dolce casa, alla fine.

Clarke si guardò intorno. Il quartiere era esattamente come lo aveva lasciato, dalle staccionate bianche dipinte impeccabilmente ai prati all’inglese perfettamente curati.

Quando il taxi accostò di fronte all’abitazione della ragazza, lei ebbe un sussulto. Pensava che non le avrebbe fatto alcun effetto tornare a casa e invece… beh, non avrebbe potuto sbagliarsi tanto.

Deglutì, porse un paio di banconote al tassista e scese dal mezzo. L’uomo alla guida la aiutò con i bagagli, poi si rimise in macchina e partì.

Un paio di secondi dopo era già sparito in fondo al vialetto e Clarke si ritrovò a fissare quella graziosa villetta in cui aveva abitato durante gli anni delle superiori.

Clarke e i suoi genitori si erano trasferiti nella zona di Fort Hill giusto poche settimane prima che Clarke iniziasse il liceo. Un giorno di inizio giugno, sua madre era tornata a casa annunciando che le era stato offerto un posto come primario di chirurgia d’urgenza nell’ospedale “Ark Medical Center”  in uno dei cinque borghi di New York: Staten Island. Così avevano deciso di trasferirsi e, a fine agosto, erano arrivati su quella piccola collina.

Fort Hill era una delle due zone residenziali di Staten Island, prevalentemente composta da numerose ville monofamiliari in stile Tudor, vittoriano e Art déco.

L’altro quartiere, più vasto e popoloso, era comunemente chiamato “Projects” ed era abitato da famiglie per lo più di colore o ispano-americane.

Era stato proprio lì che Clarke aveva incontrato il suo primo amico: Wells Jaha, figlio di uno dei più noti imprenditori edili della zona. In effetti, inizialmente, da ragazzina quattordicenne ed ingenua che Clarke era, si era chiesta come mai una famiglia come quella di Wells vivesse ancora nel Projects, poi aveva scoperto che il motivo era la nonna di Wells: un’anziana signora malata che per nessuna ragione al mondo voleva separarsi dalla casa in cui per ben sessantacinque anni della propria vita aveva abitato con il marito deceduto da poco.

Quindi Wells, suo padre Thelonius e la madre Angeline le erano rimasti accanto fino alla fine, dopodiché si erano trasferiti anche loro a Fort Hill, giusto nella villetta a tre piani di fianco a quella della famiglia Griffin.

Questo era successo un anno dopo, quando Wells e Clarke erano al secondo anno di liceo e da quel momento avevano sempre vissuto praticamente l’uno a casa dell’altra.

Clarke però aveva legato moltissimo anche con altri due suoi compagni di classe: Jasper Jordan e Monty Green, un duo alquanto dinamico e bizzarro. La ragazza sapeva benissimo che quando si organizzavano uscite con quei due di sicuro non ci si sarebbe annoiati. Erano divertenti da morire, ma forse un po’… pazzoidi.

La sua passeggiata sul viale dei ricordi fu interrotta dall’aprirsi della porta di casa sua e la figura slanciata di sua madre le corse incontro con un gran sorriso.

«Clarke!» esclamò la donna, abbracciandola quasi commossa.

Dapprima, la ragazza rimase rigida, poi si rilassò, restituendole l’abbraccio con più naturalezza.

«Ciao, mamma».

«Oh tesoro, mi sei mancata così tanto… ».

«Non ero poi così distante… il Massachusetts è praticamente attaccato a New York».

Nonostante tutto però, ciò che sua madre aveva detto era vero. Clarke era effettivamente così distante. No, ancora di più. Era lontana alcune galassie da lì e tuttavia non le sembrava abbastanza.

«Già… il tuo college non è distante» la riprese sua madre con un sorriso sincero.

Sì. Subito dopo aver finito il liceo, Clarke era stata ammessa alla facoltà di medicina ad Harvard e adesso, a ventitré anni, si era laureata: prima del tempo e prima del suo corso. Era sempre stata così, fin dalle superiori: la migliore in tutto e per questo, gran parte dei suoi compagni di liceo l’aveva detestata.

Sarebbe rimasta a casa l’intera estate e si sarebbe preparata per il test d’ingresso alla specialistica di chirurgia. Se fosse rientrata tra i primi cinque ammessi, avrebbe anche potuto scegliere un qualsiasi ospedale in cui affrontare l’internato per i sei anni successivi.

La punta di amarezza nel tono di sua madre però, le fece nascere dentro un certo senso di colpa. Non si era mai fatta sentire di sua spontanea volontà; era sempre stata Abby a mettersi in contatto con lei e solo due volte in sei anni era tornata a casa per le vacanze di Natale. Non aveva nemmeno partecipato alle seconde nozze della madre.

Questo probabilmente era dovuto al fatto che forse Clarke non l’aveva mai perdonata del tutto. Lei era andata avanti, si era rifatta una vita. La ragazza invece era rimasta ineluttabilmente incatenata a quella notte di tanti anni prima, quando il telefono era squillato a tarda notte e, la voce ferma e seria di Marcus Kane, allora detective nel dipartimento di Brooklyn, le aveva raccontato cosa fosse successo a suo padre.

E forse, neanche dopo sei anni Clarke era riuscita a riprendersi da quella perdita.

Si riscosse quando una seconda sagoma uscì dall’abitazione, venendole incontro sorridendo.

«Ehi, Clarke… ».

Ed eccolo lì: Marcus. Adesso era il nuovo marito di sua madre. Il suo patrigno.

Era una strana parola e neanche a quella la giovane si era ancora abituata, forse perché non era mai stata tanto a rifletterci. Per lei quell’uomo era il detective Kane: il capo dipartimento del nucleo investigativo di polizia di Fort Hill. E l’uomo che aveva dato il via alla notte peggiore della sua vita.

Non riusciva a vederlo come nient’altro e aveva dovuto fare una gran fatica prima di riuscire a chiamarlo semplicemente Marcus e dargli del tu. C’erano stati degli imbarazzanti episodi in cui le era scappato di chiamarlo “detective” oppure “signor Kane” anche dopo le nozze tra lui e sua madre.

Le nozze… ricordava bene di aver dato completamente di matto quando sua madre le aveva dato la notizia. Si era messa a sbraitarle contro al telefono, spaventando a morte la povera Thalia: la sua coinquilina e il loro gatto Yeti, un persiano dal pelo bianco e fulgido.

Lo aveva trovato Clarke due anni prima che ancora era un cucciolo dal pelo arruffato e zuppo di pioggia. Per questo aveva deciso di dargli quel nome, perché le aveva ricordato subito un mostro delle nevi, anche se in versione decisamente ridotta.

Ora invece era tutta un’altra storia: si era fatto grande e grosso e tutto quel pelo sembrava aver raddoppiato le sue dimensioni. Inoltre aveva anche un temperamento niente male e apriti cielo se ti prendeva in antipatia.

Proprio in quel momento il gatto miagolò sonoramente dall’interno della gabbietta da viaggio in cui si trovava per richiamare l’attenzione della sua padrona.

«Sì, Yeti, adesso ti faccio uscire».

Prima di rientrare aveva chiesto a sua madre e a Marcus se a loro andasse bene avere un gatto in giro per casa. Thalia non poteva portarlo con sé perché suo padre soffriva di una tremenda allergia e a Clarke non era dispiaciuto tenerlo con lei. Dopo tutti quegli anni… Yeti era l’unica cosa di realmente familiare che le fosse rimasta.

Una volta in casa, aprì la porticina della gabbia e il felino schizzò subito fuori, indignato. Non era abituato a stare rinchiuso e lo sguardo astioso che lanciò a Clarke le fece capire che le ci sarebbe voluto un po’ prima di riconquistarlo.

«Tesoro, hai bisogno di qualcosa?» le chiese Abby con fare premuroso.

«No, davvero… non è stato un viaggio lungo, faccio solo una doccia e comincio a disfare le valige».

«Ti do una mano a portarle in camera tua» si offrì subito Marcus.

Clarke sospirò, ma non negò il suo aiuto. In fin dei conti lui non era male, purtroppo, aveva solo un unico, enorme difetto: non era suo padre.

In silenzio si avviarono lungo le due rampe di scale che portavano fino in mansarda, passando per il primo piano. Era una bella casa, la loro: al pianterreno  l’ingresso spazioso portava a destra in una cucina arredata secondo il gusto sobrio ed elegante di sua madre e a sinistra su un salone luminoso in cui il bianco e il celeste facevano da padroni. Inoltre c’erano due bagni, un ripostiglio e una piccola palestra, che per lo più usava Marcus.

Al primo piano si trovava la camera da letto che un tempo era stata dei suoi genitori e che ora Abby condivideva con il suo nuovo marito, una stanza per gli ospiti, un altro bagno, uno studio e una sorta di biblioteca in cui erano conservati tutti i manuali di medicina dei suoi genitori. Clarke aveva passato lì dentro interi pomeriggi della sua vita, quando ancora era al liceo, studiando nozioni di anatomia, fisiologia, patologia e quant’altro. La medicina era la sua passione e l’aveva sempre avuta fin dalla più tenera età, quando i suoi genitori la portavano in ospedale con loro se non riuscivano a combinarsi con i turni.

Per la maggior parte delle persone l’ospedale era un luogo ostile, un luogo di sofferenza e dolore. Per Clarke, l’ospedale era il suo posto sicuro. Aveva imparato a leggere nelle gallerie di chirurgia, giocava nell’obitorio e, i suoi primi disegni, altra grande passione che aveva sviluppato negli anni, li aveva realizzati sul retro di vecchie cartelle mediche.

L’ospedale era la sua chiesa, la sua casa e la sua scuola. Era il suo santuario.

E poi era arrivato anche per lei il momento di viverlo come un posto di dolore, quando, dopo la chiamata di Marcus quel diciassette novembre di sei anni prima, si era recata al Wallace General Hospital di Brooklyn in una notte tempestosa come mai ne aveva viste e, dopo ore di attesa, una certa dottoressa Tsing le aveva dato la notizia del decesso di suo padre.

Tutto, da quel momento era cambiato.

«Clarke? Mi stai ascoltando?».

Fu solo in quel momento che la ragazza si rese conto di essere effettivamente arrivata al secondo piano, la mansarda, interamente occupato dalla sua stanza e un bagno.

«Scusa Marcus, io… avevo la testa altrove».

L’uomo sorrise.

«Ho solo detto che è bello riaverti a casa… ».

Clarke accennò appena ad un sorriso e si sentì in colpa. Quell’uomo provava del vero affetto nei suoi confronti e lei… non faceva altro che respingerlo. Non faceva altro che respingere ogni povero essere umano che provasse ad avvicinarsi a lei da quando era morto suo padre. Tranne quella notte. Quella terribile, terribile notte che continuava a rivivere nei suoi incubi, ammesso che riuscisse ad addormentarsi. Era da allora che era cominciata l’insonnia e, negli ultimi sei anni, non l’aveva mai abbandonata.

«Grazie» rispose al patrigno, sforzandosi di suonare gentile.

«Rinfrescati pure, io e tua madre nel frattempo prepariamo il pranzo, cosa dici?».

«Sei molto gentile».

Si stava sforzando così tanto di non suonare fredda e distaccata come si era dimostrata negli ultimi anni, ma d’altra parte… ora era passato del tempo e se sua madre era felice con lui, allora avrebbe dovuto cercare di essere felice per lei.

Così dicendo, Marcus uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.

Clarke si guardò intorno per un po’: tutto era come lo aveva lasciato.

Quella grande stanza in legno le era sempre piaciuta, le aveva sempre dato quell’aria di casa e sicurezza. Qualcosa di totalmente suo.

Ricordò dei caldi pomeriggi estivi trascorsi lì a giocare all’X-box insieme a Jasper e Monty o a studiare con Wells seduti alla grande scrivania nell’angolo a destra, preparandosi per i test finali quando ancora erano al liceo.

L’ultimo anno era stato molto duro: dopo la dipartita di suo padre, la giovane, che a quel tempo aveva soltanto diciassette anni, si era chiusa a riccio in sé stessa, non permettendo a nessuno di vedere il reale dolore che la angustiava prima di addormentarsi, tenendola sveglia per ore, e la soffocava non appena riapriva gli occhi la mattina. E poi la notte erano cominciati gli incubi. Era stato da quel momento che Clarke aveva iniziato a soffrire d’insonnia. La notte la tormentava senza darle tregua e il dolore tornava più vivo che mai.

Gli ultimi mesi di scuola erano stati un vero inferno, ma il suo rendimento scolastico, se possibile, era aumentato. Per scappare dal dolore si era buttata a capofitto nello studio e nella preparazione ai test d’ingresso per entrare a medicina e da quel momento era anche cominciata la sua dipendenza dal caffè e dal fumo.

La notte prima del test di ammissione ad Harvard, Clarke era talmente nervosa che credette le stesse scorrendo una quantità improponibile di caffeina nelle vene, al posto che di sangue. Con il fumo invece, riusciva a distrarsi, ad annebbiarsi, almeno per un po’.

Nonostante tutto però, i suoi sforzi erano stati ripagati.

La ragazza si buttò a peso morto sul letto, ci avrebbe pensato dopo a disfare le valige, allargò le braccia e chiuse gli occhi.

Per l’ennesima volta in quella giornata… si perse di nuovo nei ricordi.

 

I see fire, burning the trees
And I see fire, hollowing souls
I see fire, blood in the breeze
And I hope that you'll remember me

Vedo il fuoco bruciare gli alberi
Vedo il fuoco scavare le anime
Vedo il fuoco sangue nella brezza
E spero che ti ricorderai di me

 

Bellamy rientrò a casa a fine turno, esausto.

Era sporco di fuliggine e sudato, voleva soltanto andare in bagno, togliersi di dosso quei vestiti  e buttarsi sotto il getto freddo della doccia per svegliarsi un po’, ma era così stremato che si lasciò cadere di peso su una sedia in cucina, stanco perfino per alzarsi e prendere un bicchiere d’acqua.

Sentì a stento le chiavi girare nella toppa e la trillante voce di sua sorella salutarlo.

«Caspita, fratellone… quello straccio ha un aspetto migliore del tuo» disse Octavia avvicinandosi al ragazzo e posandogli un lieve bacio sulla guancia. «E puzzi come un cadavere in putrefazione sotto il sole nel deserto in pieno agosto».

Il fratello maggiore alzò le sopracciglia, solo vagamente stupito dalle parole della sorella.

«Hai intenzione di insultarmi per tutto il pomeriggio, sorellina? Perché quella è la porta» disse, passandosi una mano sul volto sfigurato dalla stanchezza e strofinandosi gli occhi, con il solo risultato di portarvi della fuliggine all’interno, facendoli bruciare da impazzire.

«Cazzo!» esclamò avviandosi verso il lavandino e aprendo il getto dell’acqua fredda per sciacquare la parte dolente.

«Sei proprio un disastro. Mi spieghi come faccio a lasciarti solo adesso?».

Infatti, la sua piccola Octavia, era rientrata a casa il mese prima annunciando che presto sarebbe andata a convivere con Lincoln: il suo fidanzato ormai da due anni.

Così, Bellamy aveva deciso di cedere quella casa alla sorella minore e al suo ragazzo, mentre lui si era trovato una villetta molto più piccola non distante da lì. Da solo non avrebbe avuto bisogno di tutto quello spazio e, per di più, con tutti i turni che faceva, rientrava a casa praticamente solo per dormire e a volte neanche.

Rivolse uno sguardo divertito in direzione della sorella e, grazie al contatto fresco e immediato dell’acqua, il bruciore ai suoi occhi cominciò ad attenuarsi.

«Credo di essere grande abbastanza da saper badare a me stesso. E tu, quando vorrai, saprai dove trovarmi».

La sorella minore gli rivolse un sorriso sincero e gli gettò le braccia al collo.

«Mi mancherai, fratellone».

«Ehi, O… sarò solo a pochi isolati da qui» le sussurrò con dolcezza.

Sua sorella era l’unica a cui Bellamy avesse mai parlato con una tale tenerezza nella voce. Quasi.

Octavia era sempre stata la sua missione, fin dal momento in cui era venuta al mondo, in una notte piovosa di vent’anni prima.

«Non permetterò che ti succeda qualcosa di male», le aveva detto tenendola in braccio per la prima volta, quando aveva solo sei anni.

Poi, sua madre Melinda, si era voltata stremata verso di lui e aveva detto: «Bellamy, tua sorella… è una tua responsabilità».

E da quel momento così era stato. Quelle parole lo avevano accompagnato per tutta la sua vita e lui aveva sempre protetto la piccola Octavia come meglio aveva potuto, soprattutto dopo la morte della madre, quando lui aveva vent’anni e Octavia solo quattordici.

Ricordava quel giorno come se fosse ieri: la fabbrica in cui Melinda lavorava aveva preso fuoco e lei era rimasta intrappolata al suo interno, non riuscendo a salvarsi. Bellamy non seppe mai se fosse morta per il fumo inalato o carbonizzata, ma sperava tanto per fumo. Se non altro avrebbe sentito meno dolore.

Era stato in quel momento che aveva deciso di diventare un vigile del fuoco. Dai diciassette ai vent’anni, da quando aveva finito il liceo, si era dedicato a lavori saltuari, arrangiandosi come poteva, ma quando il peso di ciò che era accaduto, gravò improvvisamente sulle sue spalle, dovette trovare un impiego che gli desse stabilità. Che desse stabilità ad Octavia.

Tra un mese esatto sarebbero stati sei anni dalla morte di sua madre: il ventisei luglio e Bellamy chiuse gli occhi, abbandonandosi per un momento a quei ricordi.

*Bellamy passeggiava lungo le strade di Fort Hill in un assolato pomeriggio di mezza estate quando due camion dei vigili del fuoco gli sfilarono accanto a gran velocità e con le sirene spiegate. Il ragazzo voltò pigramente la testa nella loro direzione, poi li vide svoltare a sinistra in fondo alla strada. Inizialmente non collegò il fatto, ma un istante dopo, un campanello di allarme si  accese nella sua testa, lasciandolo paralizzato per un momento.

La fabbrica in cui lavorava sua madre era l’unico edificio da quella parte, non poteva essere altrimenti.

Senza nemmeno rendersene conto, scattò in una corsa forsennata, il cuore che pompava così forte nel petto da sentirlo rimbombare nelle orecchie, nel cervello.

Una volta arrivato, affannato, in cima alla collina, la scena che gli si presentò di fronte, gli mozzò il respiro nella gola e il giovane ragazzo emise un rantolo. La  fabbrica era divorata da fiamme talmente alte e minacciose da sembrare l’entrata dell’inferno. Ed effettivamente lo era stato, perché da quel momento, il personale inferno di Bellamy Blake aveva avuto inizio.

Bellamy cadde in ginocchio davanti a quella scena, il volto contratto in una maschera di  disperazione e  un vuoto nel petto talmente enorme che minacciava di risucchiarlo nell’oblio da un momento all’altro.

Sua madre era una donna forte ed era stata il suo punto di riferimento da che il ragazzo ne avesse memoria. Ricordava a stento il padre, ma ciò che ricordava non era bello e inoltre era sparito dalla circolazione subito dopo aver saputo da sua madre che aspettava Octavia.

Da quel momento era stata lei a prendersi cura di loro, dei suoi figli, con le sue sole forze e ora… semplicemente non c’era più. Com’era possibile? No, sicuramente doveva esserci un errore. Presto il suo cellulare sarebbe squillato e la voce cristallina di sua madre gli avrebbe detto che per quel giorno non era andata al lavoro, che lo stava aspettando a casa, e poi lo avrebbe rimproverato perché la sua camera da letto, come sempre, era un totale e completo disastro.

Ma il suo cellulare non squillò. E lui non sentì mai più la voce di sua madre.

Fu distratto da una mano che si posò sulla sua spalla e un vigile del fuoco, un certo Sinclair, lo aiutò a rimettersi in piedi.

«Stai bene, ragazzo?».

«Mia… mia madre… lavora lì».

L’uomo lo osservò con uno sguardo sinceramente dispiaciuto.

«Mi dispiace… se si trovava lì dentro, non ce l’ha fatta».

Fu in quel momento che Bellamy percepì il suo cuore andare in pezzi.

Dirlo ad Octavia… quella sarebbe stata la parte peggiore.

Annuì, distrutto.

Voleva correre. Correre, scappare, gridare, spaccare l’intero maledetto pianeta, ma l’unica cosa che fece fu avviarsi al parco in cui Octavia avrebbe passato quel caldo pomeriggio estivo con alcune sue amiche. Stava per rovinare l’esistenza della sua dolce, indifesa sorellina e la parte peggiore era la consapevolezza che non avrebbe potuto fare niente per evitarlo.

Doveva essere forte. Doveva essere forte per lei.

Iniziò a camminare lentamente verso gli Staten Island Greenbelt, un sistema di parchi contigui, luogo d’incontro per innumerevoli giovani, soprattutto durante quel periodo dell’anno.

Per fortuna conosceva sua sorella abbastanza bene da sapere dove potesse trovarsi, altrimenti ci avrebbe impiegato ore, così si era avviato stancamente verso la sponda di un piccolo lago artificiale, dove la ragazza  se ne stava a chiacchierare con due sue amiche, la testa buttata all’indietro e un sorriso che le illuminava il volto.

Bellamy si  sentì male all’idea di ciò che sarebbe successo di lì a poco. Estrasse il cellulare da una tasca dei jeans e, velocemente, digitò un messaggio: Vediamoci all’ingresso del parco. Subito”. Semplice, perentorio.

Quando vide da lontano la figura di sua sorella alzarsi dal prato e avviarsi verso la direzione da lui indicata, tirò un sospiro di sollievo. Voleva essere solo con sua sorella per darle la notizia di quella terribile tragedia che li aveva colpiti così duramente e all’improvviso.

Infine, la sua piccola O gli fu vicina, una quattordicenne minuscola e con gli occhi chiari e grandi, mentre lo guardavano con curiosità.

Bellamy voleva seriamente scappare, ma non poteva. In quel momento sua sorella aveva bisogno di lui ed in quel momento il ragazzo ricordò le parole di sua madre il giorno in cui Octavia era nata: “Tua sorella è una tua responsabilità”.

Mai, prima di allora, quelle parole erano state più concrete e pesanti per lui. Talmente pesanti che adesso sembravano schiacciarlo con la forza di un macigno, minacciando di farlo crollare.

«Ciao, fratellone» lo salutò lei con il suo grande e luminoso sorriso.

“No, O… non farlo, ti prego. Non guardarmi con quegli occhi contenti perché tra poco si riempiranno di lacrime per ciò che sto per dirti”, aveva pensato il moro, con un nodo alla gola che quasi lo soffocava.

«Ehi, Bell… che succede?».

L’espressione sul viso di Octavia era cambiata e la giovane pose una mano sul braccio del fratello maggiore.

Bellamy deglutì a vuoto e fissò i suoi occhi scuri in quelli chiari di lei con determinazione. Non poteva farsi vedere debole. Non poteva permettersi di vacillare proprio in quel momento.

«Si tratta della mamma, O… è… è scoppiato un incendio alla fabbrica. Lei… lei non c’è più… ».

Non sapeva come altro dirglielo e dubitava che quelle parole fossero le più adatte, ma non gli venne in mente altro.

Le ginocchia di Octavia cedettero e prontamente, lui le circondò la vita con le sue braccia.

Sua sorella soffocò le grida contro il suo petto e Bellamy si sentì impotente e terribilmente disorientato. Gli sembrò di rivivere quella scena per la seconda volta, solo che allora non era stata Octavia a urlare e dimenarsi contro il suo corpo. E solo allora capì. Solo allora riuscì davvero a comprendere un dolore tanto devastante.

Come avrebbe fatto adesso?

Chiuse gli occhi, rimandando giù le lacrime che minacciavano di sgorgare di nuovo lungo le sue guance e strinse a sé sua sorella come mai aveva fatto nella vita. Lei era tutto ciò che gli era rimasto e non avrebbe mai e poi mai permesso che le accadesse qualcosa di brutto d’ora in avanti*.

Bellamy tornò alla realtà quando Octavia gli parlò.

«Domani possiamo darti una mano con il trasloco. Lincoln oggi è molto occupato, per via di un nuovo arrivo alla centrale di polizia».

«Già, ho saputo dai miei colleghi che arriva un nuovo comandante al Dipartimento. Si sa niente?».

«Non molto. Lincoln dice che è una donna e che è uno squalo. Ha fatto carriera in pochi anni ed è ancora giovanissima».

«Caspita… se è davvero così in gamba è strano che la mandino qui a Fort Hill e non a Brooklyn o Manhattan. Tutto sommato qui è tranquillo».

«Bell… tu sai chi c’è a Brooklyn… pensi che una come Anya Ground si faccia scavalcare dall’ultima arrivata?».

«Già… quella donna mi mette i brividi…».

«Sì, diciamo che è meglio non averla come nemica».

Bellamy sorrise gentilmente alla sorella e poi parlò: «Beh… credo che adesso andrò a farmi quella doccia dato che, come mi hai fatto gentilmente notare, non sono proprio in splendida forma».

Octavia gli lanciò uno sguardo divertito, poi gli fece una linguaccia e si avviò al piano superiore.

Bellamy non voleva ammetterlo, ma ormai non poteva più negarlo a sé stesso: la sua sorellina stava crescendo, si era fatta una vita e forse non aveva più bisogno di lui. Ma in cuor suo, ciò che Bellamy sapeva meglio di ogni altra cosa era che lui avrebbe sempre avuto bisogno di lei.

 

NOTE:

Ed eccomi qui con il primo capitolo! Allora… innanzitutto spero che vi sia piaciuto, ovviamente. Commenti e critiche sono ben accetti e, soprattutto, ho bisogno di sapere se i personaggi, a parer vostro, rispecchiano caratterialmente quelli della serie tv.

Capisco che ancora al primo capitolo sia difficile giudicare, ma ho bisogno di saperlo, altrimenti in caso aggiungerò la voce OOC. Ad ogni modo, semmai aspettate di leggere qualcuno dei prossimi capitoli prima di darmi la sentenza XD

Cosa volevo dire? Beh, in questo capitolo, come avete visto, abbiamo avuto un flashback da Bellamy riguardo al giorno della morte della madre. Ce ne saranno altri, naturalmente cambierà il contesto, ma, in linea di massima, dovrebbero aiutarvi a comprendere il passato dei ragazzi, nel capitolo quattro ce ne saranno anche di più corposi, sia di Bellamy sia di Clarke.

Altra cosa: Thalia, la coinquilina/migliore amica della nostra bionda. Allora… nella serie lei non è presente, ma nel libro sì, era proprio la sua migliore amica e le due si erano conosciute durante il periodo di detenzione. Erano compagne di cella (ecco, coinquiline XD).

“Per la maggior parte delle persone l’ospedale era un luogo ostile, un luogo di sofferenza e dolore. Per Clarke, l’ospedale era il suo posto sicuro. Aveva imparato a leggere nelle gallerie di chirurgia, giocava nell’obitorio e, i suoi primi disegni, altra grande passione che aveva sviluppato negli anni, li aveva realizzati sul retro di vecchie cartelle mediche.

L’ospedale era la sua chiesa, la sua casa e la sua scuola. Era il suo santuario.”.

Questa parte è riadattata su una citazione di Meredith Grey, se tra voi ci sono appassionati di “Grey’s Anatomy” se ne saranno accorti. La citazione è presa dal penultimo episodio (spettacolare) della sesta stagione che, appunto, si intitolava “Santuario”. 

Il titolo della storia invece è ispirato ad una canzone dei Within Temptation (gruppo che amo alla follia).

In ogni capitolo ci saranno, come avete potuto vedere anche in questo, degli estratti da qualche canzone. In questo caso, la citazione dal punto di vista di Clarke è stata presa dalla brano “Like a Prayer” di Madonna, mentre, dal punto di vista di Bellamy, l’estratto in questione faceva parte della canzone “I see fire”, di Ed Sheeran. Mi sembrava alquanto appropriato, anche dato il flashback.

Bene, non mi dilungo oltre e vi ringrazio se avete perso un po’ del vostro tempo per dare una letta! Ci risentiamo al prossimo capitolo!

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Good impression? You're doing it in the wrong way, Bellamy ***


c2  





In the middle of the Night

CAPITOLO 2: GOOD IMPRESSION? YOU’RE DOING IT IN THE WRONG WAY, BELLAMY

 

Remember the day
'Cause this is what dreams should always be
I just want to stay
I just want to keep this dream in me

Ricorda quel  giorno, 
Perchè è così che dovrebbero sempre essere i sogni. 
Voglio solo restare, 
Voglio solo continuare a tenere questo sogno dentro di me. 


 

Dopo il pranzo che Abby aveva amorevolmente preparato insieme a Marcus in onore del ritorno di sua figlia, Clarke tornò in camera sua e si decise a disfare le valige.

Odiava partire, o arrivare. In realtà odiava preparare e disfare i bagagli, non le importava se fosse perché era tornata a casa o in partenza per un viaggio in capo al mondo. La innervosiva e basta e per questo si riduceva sempre all’ultimo, spesso dimenticando qualcosa.

Yeti dormicchiava sul tappeto ai piedi del letto di Clarke, dopo essersi ingozzato fino a scoppiare e la ragazza gli lanciò un’occhiata divertita. Quel gatto mangiava davvero troppo, temeva che un giorno o l’altro sarebbe scoppiato come un palloncino proprio davanti ai suoi occhi. La ragazza scacciò l’immagine e riprese a sistemare i suoi vestiti.

Non aveva detto a nessuno dei suoi amici del liceo che sarebbe tornata a casa per l’intera estate e, in realtà, non sapeva neanche spiegarsi il perché.

Wells abitava proprio nella casa di fianco alla sua e le loro camere da letto erano allo stesso piano. Da ragazzi aprivano le rispettive finestre ed erano capaci di stare ore e ore a parlare, che fosse notte o giorno non importava. Clarke ricordò con affetto di quando l’amico le chiedeva chiarimenti in biologia e lei allora gli spiegava tutto a voce, dalla sua stanza, mentre Wells, con il libro appoggiato al davanzale della finestra, la ascoltava attentamente, prendendo appunti.

La sua adolescenza era passata in quel modo e poi suo padre se n’era improvvisamente andato e tutto era cambiato.

La ragazza non pensava a suo padre da molto, non da sveglia ad ogni modo, perché il ricordo di lui la tormentava comunque ogni notte e lei non si sarebbe mai aspettata che tornare a casa le avrebbe fatto un tale effetto.

Chiuse gli occhi mentre riponeva la valigia ormai vuota nello spazio angusto tra l’armadio e il muro. Conosceva quella stanza troppo bene dopo tutti gli anni passati lì.

Avrebbe tanto voluto essere come Yeti. Avrebbe voluto che la sua unica preoccupazione fosse quella di mangiare e ricevere coccole a sufficienza, ma i suoi problemi erano ben altri.

I suoi problemi la divoravano come se qualcuno, nascosto nell’ombra, provasse gusto nel vederla  soffrire. Uno dei suoi maggiori problemi, era che non fosse mai stato scoperto l’assassino di suo padre. Non era stata fatta giustizia.

Il labbro inferiore di Clarke tremò sotto la minaccia incombente delle lacrime. Lacrime che non versava ormai da più di sei anni. Dal giorno del funerale, in cui si era stretta a sua madre con una tale forza che la donna aveva dovuto faticare non poco per tenerle in piedi entrambe. Poi Wells l’aveva trascinata lontano, insieme a Jasper e Monty e lei non aveva mai più pianto da quel momento.

Aveva cominciato ad erigere un muro intorno a sé stessa. Un muro che solo Thalia, da allora, era riuscita a valicare.

 Se non fosse stato per lei, Clarke non sapeva davvero come avrebbe fatto a superare gli anni del college, ma l’amica era rimasta al suo fianco, sostenendola sempre.

Trovarla era stata una fortuna.

La ragazza ricacciò indietro le lacrime e si diede un contegno. Aveva deciso che sarebbe andata a trovare Wells e che poi avrebbe telefonato a Jasper e Monty e si sarebbero messi d’accordo per uscire tutti insieme una sera. Aveva bisogno di un equilibrio. Aveva bisogno di sapere che i suoi vecchi amici erano ancora lì.

Si cambiò, indossando un paio di shorts di jeans e una canottiera blu, scese le scale che portavano al primo piano e poi ancora la rampa fino a ritrovarsi al piano terra.

Marcus e sua madre erano seduti sul divano a guardare un film, l’uomo passava distrattamente un braccio intorno alle spalle di lei, e quell’immagine le fece inaspettatamente male.

Clarke poteva dirsi tutte le bugie del mondo, ma nel profondo sapeva che non si sarebbe mai abituata a vedere sua madre con un altro.

«Tesoro, stai uscendo?» scattò la donna non appena la vide.

«Sì, io… pensavo di andare a trovare Wells».

«Mi sembra un’ottima idea» sorrise Abby in risposta. «Ti farà bene passare un po’ di tempo con i tuoi amici del liceo».

Clarke accennò un sorriso di circostanza e fece un breve cenno di saluto alla coppia, che Marcus ricambiò con la mano in cui teneva il telecomando della televisione.

La temperatura esterna era calda e afosa e la bionda percorse i pochi metri che la separavano dal portico di casa Jaha sempre più elettrizzata. Non era mai rimasta seriamente a riflettere su come sarebbe stato rincontrare davvero i suoi amici, ma… lo avrebbe scoperto a breve.

Una volta davanti alla porta, suonò il campanello dell’abitazione una volta, con discrezione e, una manciata di istanti dopo, la familiare figura di Thelonius Jaha le si parò davanti, il viso attraversato da un lampo di stupore non appena realizzò chi si trovasse davanti.

«Clarke?».

«Salve, signor Jaha».

Senza che nemmeno se ne rendesse conto, l’uomo le aveva circondato il torace in un abbraccio paterno e, per un momento, la bionda rimase rigida in quella posizione.

«Vieni, entra… » le disse poi lui, scostandosi da una parte per lasciarla entrare in casa propria.

Clarke attraversò l’ingresso e, in un solo istante, una miriade di ricordi le turbinò nella mente. I pomeriggi passati con Wells, le loro chiacchierate, le ore di studio, i momenti in cui sottovoce si erano raccontati i loro “problemi” riguardo alle persone che interessavano rispettivamente all’uno e all’altra. E il dolore di Wells quando le aveva raccontato della morte di sua madre, quando lui aveva solo dieci anni e lei si era ammalata di leucemia. Clarke non aveva mai conosciuto Angeline Jaha, ma dalle parole dell’amico, doveva essere una donna straordinaria.

«Posso offrirti qualcosa, Clarke?» la riportò alla realtà Thelonius.

«Sto bene così, grazie».

«Immagino che tu sia qui per mio figlio, quindi… beh, non ti trattengo oltre. Credo che tu conosca bene la strada» disse sorridendo.

Lei annuì, salì le scale e poi di nuovo, arrivando sul corridoio della mansarda.

Bussò tre volte alla porta, piano, e, dall’interno, sentì un rumore secco. Non si era nemmeno resa conto di aver appena usato il segnale che lei e Wells avevano stabilito da ragazzini, per capire immediatamente che non poteva trattarsi di qualcun altro.

La porta in legno scuro della stanza del suo migliore amico si aprì di scatto e la figura massiccia del ragazzo torreggiò su di lei, uno sguardo ancor più sorpreso di quello del padre, dipinto in volto.

«Clarke… la mia Clarke… ».

Prima che se ne rendesse conto, il ragazzo l’aveva già presa per mano, portandola all’interno della stanza e richiudendosi la porta alle spalle.

Per un momento, all’interno delle quattro pareti, aleggiò uno strano silenzio, un silenzio teso, prima che Clarke gettasse le braccia al collo dell’amico, tenendolo stretto a sé.

«Scusa se non mi sono mai fatta sentire».

«È tutto a posto, Clarke… è tutto a posto» ripeté lui incoraggiante, accarezzandole piano la schiena con atteggiamento affettuoso.

Clarke annuì, chiudendo gli occhi al contatto con il torace di Wells. Quel ragazzo era sempre stato incredibilmente alto per la sua età e, di fatto, lei gli arrivava a stento alla spalla.

«Sei il mio migliore amico da dieci anni, Wells, il primo che mi abbia teso una mano quando sono arrivata qui e… io ti ho praticamente ignorato negli ultimi sei anni. Come puoi ancora volermi bene?».

«Perché, come hai appena detto, sei la mia migliore amica da dieci anni, Clarke Griffin e non si può semplicemente smettere di voler bene ad una persona» le rispose lui con un sorriso sulle labbra.

Clarke si abbandonò sul letto dell’amico e lui si sedette al suo fianco. In un attimo tornarono di nuovo quindicenni e spensierati e Clarke lo permise, perché in quel momento l’affetto che provava per Wells era maggiore di qualunque altra cosa che provasse dentro e si sentì perfino in colpa nei confronti di suo padre. Lui non c’era più, quindi con quale diritto lei si sentiva tanto bene? Ma, per quanto si detestasse, non riusciva a fare altrimenti. Trovarsi lì in quel momento la riportò indietro negli anni.

*«Wells! Allora… come sto?».

Clarke uscì dal bagno della sua camera da letto indossando l’abito che aveva scelto con mesi di anticipo per il ballo di fine anno. Era un abito davvero fiabesco: un mono-spalla blu notte lungo fino ai piedi e fatto di un tessuto talmente morbido e scivoloso da sembrare liquido. In vita aveva un inserto argentato e uno spacco sulla gamba destra.

La bionda lanciò uno sguardo impaziente in direzione del suo migliore amico, che continuava a tenere la bocca chiusa e gli occhi fissi su di lei come se avesse improvvisamente perso l’uso della parola.

«Wells!» lo richiamò spazientita.

A quel punto il ragazzo parve riscuotersi.

«Sei… stai d’incanto».

«Dici che piacerà a Finn?».

«Beh, dico che se non dovesse piacergli, avrebbe senz’altro bisogno di una visita oculistica… o psichiatrica».

«Sei proprio un idiota… ».

Lui accennò ad un breve sorriso, poi si alzò dal letto dell’amica con addosso il suo smoking elegante e le porse il braccio sinistro.

«Posso avere l’onore?».

Clarke si aggrappò a lui, anche per avere una certa stabilità su quei tacchi vertiginosi date le due rampe di scale che li attendevano.

Una volta giunti all’ingresso, Jake Griffin si parò loro davanti con una macchina fotografica tra le mani.

«Papà! Devi fare questo teatrino ogni anno?» gli chiese Clarke con tono falsamente scocciato.

«Assolutamente sì! Devo immortalare o no la mia bambina quindicenne la sera del ballo di fine anno?».

«Non sono più una bambina, papà».

Lui la abbracciò e le stampò un lieve bacio sulla fronte.

«Tu sarai sempre la mia bambina», disse infine.

Clarke sorrise nonostante tutto e abbracciò suo padre con affetto, poi fece lo stesso con sua madre, si lasciò scattare quella foto e infine, insieme a Wells, uscì di casa.

L’amico guidò fino ad arrivare alla loro scuola: la “Mount Weather High”. Era lì che si erano dati appuntamento con i rispettivi accompagnatori: Clarke era stata invitata da Finn Collins, un ragazzo che aveva iniziato a frequentare da poco che usciva da una relazione storica con la ex Raven Reyes, un anno più grande di loro.

Wells invece sarebbe andato con Roma Gordon, una loro coetanea che a Clarke stava molto simpatica. La ragazza era davvero contenta del fatto che Wells avesse finalmente trovato qualcuno; prima di allora il suo amico non aveva mai dimostrato interesse nei confronti di qualcuna in particolare, passando tutto il suo tempo con lei.

Wells lasciò l’auto nel parcheggio gremito della scuola e i due si avviarono verso l’ingresso. Finn e Roma li aspettavano in atrio, chiacchierando tranquillamente tra di loro.

«Ehi… » disse Clarke una volta che fu giunta abbastanza vicina al suo cavaliere.

«Ehi… ehm… wow, Clarke… sei… fantastica».

La ragazza stava per rifilargli una delle sue solite battute sarcastiche, ma riuscì a trattenersi e si limitò a sorridere.

«Grazie. Anche tu non sei male… ».

Stavolta fu Finn a sorridere, poi il ragazzo la invitò a prendere parte alle danze e i due si avviarono in palestra, addobbata per l’occasione.

Come sempre in quelle occasioni, c’era una gran folla lì dentro e i ragazzi si scatenavano in pista, alcuni accaldati e sorridenti, altri più impacciati e a disagio.

«Quello non è il tuo amico?» chiese Finn dopo un po’, indicando un punto alle spalle di Clarke.

La ragazza si voltò, puntando gli occhi su un Jasper evidentemente ubriaco che si esibiva in certe mosse da ballo alquanto improbabili.

«Oh, mio Dio… » disse cominciando ad avviarsi verso il ragazzo, ma il suo accompagnatore la trattenne per un polso.

«Ehi, aspetta! Dove vai?».

«Devo portarlo via da lì, prima che la cosa degeneri. L’anno scorso era continuamente preso di mira da Blake e i suoi scagnozzi idioti, se dovessero ricominciare non sarebbe più finita».

«Qual è il problema? Bellamy ormai non è più a scuola… ».

«Sì, ma John, Atom e soprattutto Murphy sono all’ultimo anno e sarebbero sicuramente capaci di rendergli la vita un vero inferno».

In realtà anche Murphy avrebbe ormai dovuto essere un ex allievo, se non fosse per il fatto che era stato bocciato agli esami finali, dovendo ripetere l’anno. Questo aveva peggiorato, se possibile, il suo carattere già parecchio problematico e alle volte violento, rendendolo un pericolo pubblico.

Ad ogni modo a Clarke era bastato che il capobanda fosse fuori da lì. L’anno precedente quel ragazzo attaccabrighe e scalmanato aveva reso la vita scolastica di Clarke un vero incubo, fino a che lei non lo aveva affrontato di petto un giorno in cui aveva davvero perso la pazienza e da allora, il giovane Blake aveva smesso di tormentare lei e  i suoi amici.

La ragazza si avvicinò a Jasper e in quel momento anche Monty li raggiunse.

«Ehi, Clarke!».

«Monty, dovresti portarlo via di qui… davvero».

«Ma come? La festa è appena cominciata».

«Monty!».

«Ok ok… hai sentito, amico? Il capo ha detto che è ora di sgombrare».

«E tu non darle retta… Clarke è una vera guastafeste» rispose lui in modo talmente scoordinato che i suoi amici dovettero seriamente concentrarsi per capire che diavolo stesse dicendo.

«Domani mattina mi ringrazierai, fidati».

Ma l’amico non le rispose più e, sorretto da Monty, si allontanò con passo malfermo.

«Disastro evitato?» Finn le si era nuovamente avvicinato e la osservava sorridendo.

«Sì, dov’eravamo rimasti?».

Lui le porse la mano sinistra e l’attirò a sé stringendola in vita.

«Qui, se non ricordo male… »*.

Clarke sospirò. Le sembrava fosse passata una vita da quella sera e in un certo senso era così. Di sicuro lei non era più la stessa persona. Non le importava più così tanto come le stessero addosso abiti lunghi ed eleganti, non le interessava se la borsa si abbinava alle scarpe e il colore del trucco a quello del vestito.

Le importava solo del fatto che il delitto di suo padre fosse caduto nel dimenticatoio e nessuno sembrava preoccuparsene. Anche per questo aveva voluto andarsene da quella città, perché la rabbia che aveva iniziato a covare nel petto dal momento in cui il caso era stato archiviato, era talmente opprimente che a volte se ne spaventava lei stessa.

E sì, nel profondo, era ancora furiosa con sua madre.

«Clarke? Ci sei?».

La voce di Wells la riscosse.

«Scusa, io… ».

«Eri andata a Pensierolandia?» il suo amico aveva inventato quella parola in occasioni del genere, quando si accorgeva che l’amica era assente, lo sguardo vuoto, lontano. I suoi pensieri erano lontani e allora aveva deciso di coniare quella nuova parola.

Clarke emise una risata leggera.

«Già… ».

La mano grande di Wells si posò sulla sua, più piccola.

«Sono contento che tu sia tornata, Clarke… ».

La bionda sorrise.

«Anch’io» “credo”, ma quell’ultima parola lasciò che si limitasse ad aleggiare nella sua testa.

 

Risin' up, back on the street 
Did my time, took my chances 
Went the distance now I'm back on my feet 
Just a man and his will to survive 
So many times it happens too fast 
You trade your passion for glory 
Don't lose your grip on the dreams of the past 
You must fight just to keep them alive 

Torno di nuovo sulla strada 
Ho fatto il mio tempo, ho avuto le mie occasioni. 
Sono stato lontano. Ora sono tornato sui miei passi
Solo un uomo con la sua voglia di sopravvivere. 
Troppe volte succede cosi velocemente 
Che tu in cambio di gloria svendi la tua passione
Non dimenticare mai i tuoi sogni del passato 
Devi combattere per tenerli vivi. 

 

Bellamy sapeva che a un certo punto della sua vita avrebbe potuto intraprendere solo due scelte: ridursi ad essere un reietto, oppure evolvere, diventando qualcosa di migliore. Aveva optato per la seconda, la morte di sua madre non gli aveva lasciato scelta, ma col senno di poi, sapeva di aver preso la decisione giusta e Atom aveva seguito i suoi passi.

Smettere di essere il ragazzino scapestrato del liceo e diventare l’uomo che adesso era, era stata dura, doveva ammetterlo, ma vedere il sorriso che adesso sua sorella aveva sulle labbra lo ripagava ogni istante.

Grazie a Dio, sua madre aveva messo da parte dei risparmi per il college dei suoi figli fin dal momento in cui aveva scoperto di aspettare il primogenito e, facendo due lavori, alla fine aveva raccolto una piccola somma.

Così, dopo la sua scomparsa, Bellamy era riuscito a pagarsi la scuola di formazione nazionale, dopo aver superato un concorso pubblico.

Mai, prima di allora, avrebbe pensato che la sua vita potesse andare così, ma si sa: ci si fanno tanti piani per il futuro e di solito nessuno di essi si realizza.

Una volta entrato a tutti gli effetti nel NYFD (Fire Department of New York), era stata una grande soddisfazione per Bellamy e, finalmente, aveva ricevuto il suo primo vero e proprio stipendio.

Così, anche lui aveva iniziato a mettere da parte qualcosa e, una volta che anche Octavia ebbe finito il liceo, tre anni dopo, riuscì a permettersi il college per lei, che da qualche anno aveva deciso di diventare infermiera e adesso lavorava presso l’Ark Medical Center, nel reparto di chirurgia d’urgenza.

Bellamy era davvero orgoglioso della sua sorellina.

Fu improvvisamente distratto dalla suoneria del suo cellulare. Era Miller.

«Ehi!».

«Bellamy, il capitano ci vuole alla stazione di polizia, tutti quanti. È arrivato il nuovo comandante e vuole che andiamo tutti per la presentazione».

Il ragazzo sbuffò, si era appena vestito per andare a fare una corsa al parco.

«Mi cambio e arrivo» disse invece.

D’altra parte, molte volte capitava che polizia e vigili del fuoco lavorassero a stretto contatto, quindi era logico che il capitano il richiamasse per l’arrivo del nuovo comandante. Era davvero curioso di conoscere la fantomatica donna di cui sua sorella aveva sentito parlare.

Tornò in camera sua al piano superiore e si cambiò velocemente, ma, nel prendere una maglietta sulla sedia della scrivania, fece volare giù dal ripiano un pezzo di carta che si affrettò a raccogliere e subito lo osservò sbigottito.

Era l’invito ad un ballo della scuola di tanti anni prima, non sapeva come avesse potuto ancora averlo lì, sulla scrivania. Doveva essersi infilato da qualche parte ed ora era  rispuntato fuori. L’invito risaliva a quando lui era ormai un ex allievo e aveva preso parte a quel ballo solo per rimediare una scopata a fine serata. Sì, allora era quel tipo di ragazzo.

*Doveva ammetterlo: era rimasto sorpreso quando Raven Reyes, una ragazza del terzo anno, era andata da lui chiedendogli se volesse accompagnarla al ballo di fine anno della scuola. E poi Raven non stava con quel Collins da tipo… tutta la vita? Tra i due doveva essere davvero successo qualcosa di grosso se la ragazza si era rivolta proprio a lui.

Ad ogni modo, non stava a lui preoccuparsi dei problemi di cuore di una qualunque ragazzina ferita, Raven gli sarebbe semplicemente stata utile a fine serata.

Indossò un paio di jeans scuri e una camicia bianca, più di così non avrebbe fatto, prese le chiavi dell’auto e uscì di casa seguito da una saltellante e dodicenne Octavia.

«Ehi, che stai facendo? Torna dentro» la ammonì con il solito tono da “io-sono-il-fratello-più-grande-quindi-con-me-non-si-discute-signorina”.

«Bellamy, voglio venire anch’io al ballo!».

Lui sorrise.

«Senti, O… tra due anni andrai anche tu al liceo e potrai andare al ballo… sempre se prima non prendo a pugni chiunque ci provi con te… ».

Lui era serio, ma sua sorella rise e gli gettò le braccia al collo.

«Ti voglio bene, Bell… ».

«Anch’io, O… ».

Stampò un bacio sui capelli scuri della sorellina, l’unica ragazza di cui gli importasse davvero, e si diresse verso l’auto di sua madre.

Doveva passare a prendere Raven, lei gli aveva scritto il suo indirizzo in un messaggio, così Bellamy seguì le indicazioni e arrivò in poco meno di venti minuti. Lei abitava nella zona del Projects.

Arrivato fuori dalla sua abitazione suonò il clacson due volte e, quando la figura di Raven si stagliò sul portico di casa, per un momento Bellamy rimase piacevolmente sorpreso.

A scuola era abituato a vederla con vecchie giacche e un abbigliamento semplice, ma adesso… ora indossava un abito argentato con una scollatura più che generosa e la schiena quasi totalmente nuda.

Qualunque cosa fosse successa tra lei e Collins… beh, doveva averla fatta proprio incazzare.

«Andiamo» fu il saluto di lei una volta all’interno dell’abitacolo della macchina, e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte. Forse per quella sera i suoi progetti si sarebbero realizzati senza tanti intoppi. Gli sarebbe bastato offrirle qualche drink et voilà… addio inibizioni.

Già pregustandosi il suo personale after party, Bellamy ripartì con un sorriso vittorioso stampato sulle labbra.

Una volta arrivati alla “Mount Weather High”, il ragazzo lasciò la macchina nel parcheggio e si avviò all’ingresso della scuola, fianco a fianco con la bruna, che non aveva aperto bocca durante l’intero viaggio in auto.

Giunti in palestra, i due furono inghiottiti dal frastuono della musica e dalle voci eccitate di un centinaio di ragazzi elettrizzati.

Raven prese per mano Bellamy e lui glielo permise, lasciandosi trasportare prima nelle vicinanze del tavolo dei cocktails, dove la ragazza buttò giù un bicchiere di punch, probabilmente corretto con del rum dato l’odore, e poi nel bel mezzo della pista da ballo.

Guardandosi intorno mentre Raven cominciava a ballare strusciandosi contro il suo corpo, Bellamy ebbe improvvisamente tutto chiaro: poco distante da loro, Collins e la nuova non più nuova ragazza, ballavano apparentemente molto presi l’uno dall’altra.

Poi la biondina parve accorgersi della loro presenza e si irrigidì.

Diede di gomito al suo accompagnatore e Bellamy seppe che il vero divertimento stava per iniziare*.

Già… Clarke Griffin. Bellamy si ricordava bene di lei.

Quella sera la bionda lo aveva definito un disadattato sociopatico e pericoloso. Lui aveva riso e, con il solito tono strafottente che tanto lo caratterizzava, le aveva risposto a tono, chiamandola con quel soprannome che le aveva affibbiato da quando la ragazza si era trasferita a Fort Hill con la sua famiglia e che tanto la mandava in bestia: Principessa.

Sì, in definitiva Clarke non era una persona di cui Bellamy si sarebbe scordato tanto facilmente, soprattutto non dopo quella notte e non si stava riferendo alla sera del ballo.

Riscuotendosi dai suoi pensieri, il ragazzo infilò un paio di scarpe sportive e uscì di casa, dirigendosi alla stazione di polizia.

Parcheggiò nel primo posto vuoto che trovò e scese dall’auto, avviandosi verso la grande porta di vetro della centrale.

«Ehi, Bell… » lo salutarono Miller e Atom, suoi due compagni di squadra.

Lui ricambiò il saluto e insieme camminarono verso la sala riunioni.

«Il nuovo comandante, eh?» disse Atom, incuriosito.

«Ho sentito dire che si tratta praticamente di una ragazzina… » rispose Bellamy distrattamente, ma una voce gelida alle sue spalle lo fece irrigidire sul posto.

«Una ragazzina? Beh… staremo a vedere, Signor Nessuno».

I tre si erano voltati lentamente per trovarsi faccia a faccia con una giovane donna dagli occhi azzurri e lunghi capelli castano chiaro.

Lei li sorpassò con passo spedito senza più degnarli di uno sguardo ed entrò nella stanza.  

Fra i tre aleggiò un intenso momento di silenzio, poi Bellamy deglutì a vuoto e  Nathan prese parola: «Devo ammeterlo amico... buona impressione? La stai facendo nel modo sbagliato, Bellamy».

«Oh, taci Miller! Se era lei ho appena messo fine alla mia carriera».

«Che te ne importa? Non è mica lei il nostro capo».

«Atom… lavoriamo tanto con la polizia quasi quanto tra noi vigili del fuoco. Sono fottuto».

«D’accordo, io volevo provare ad allentare un po’ la tensione, ma dato che sei così pessimista, allora sì, beh… sei fottuto».

Dopodiché, il ragazzo gli diede un’amichevole pacca sulla spalla e, sorridendo divertito, si apprestò ad oltrepassare la soglia della stanza, seguito subito dopo dai due colleghi.

Bellamy scosse la testa con aria scocciata ed entrò per ultimo. Polizia e vigili del fuoco erano lì riuniti, insieme a qualche autorità di spicco e, su una sedia all’estremità del lungo tavolo sulla pedana rialzata in fondo alla stanza, stava seduto Marcus Kane. Quell’uomo gli aveva sempre messo una certa… soggezione. Orgoglioso com’era, Bellamy non lo avrebbe mai ammesso neanche sotto tortura, ma sul lavoro, Kane faceva un certo effetto.

Era grazie a lui se la maggior parte delle celle di Fort Hill erano piene e sempre lui aveva arrestato il suo vecchio compagno di scuola e di guai: John Murphy.

Bellamy immaginò che anche Murphy si fosse ritrovato davanti allo stesso bivio suo e di Atom: reietto o persona migliore, ma, a quanto sembrava, lui aveva fatto una scelta differente perché era stato sbattuto dentro per spaccio.

I suoi pensieri galoppanti furono fermati alla vista di Kane che si alzava dalla sua sedia per prendere parola.

Fece qualche discorso di cortesia, giusto per ricordare il vecchio comandante, una certa Byrne di cui non ricordava il nome, deceduta durante una missione, poi introdusse il nuovo comandante, tale Lexa War.

“Già il cognome dice tutto”, pensò Bellamy.

Per un istante pregò di non vedere la giovane donna che aveva incrociato prima nel corridoio, ma, dato che era Bellamy Blake e che il destino sembrava divertirsi a giocare a dadi con la sua vita, fu proprio lei a farsi avanti, mento in alto e sguardo fiero.

Il comandante War aveva una voce ferma e determinata, era senz’altro competente e consapevole di ciò di cui stesse parlando. Disse che per lei un incarico simile era un onore data ancora la giovane età e che avrebbe fatto del suo meglio per tenere sotto controllo la criminalità a Staten Island.

Poi, con tono freddo aggiunse: «Non tollererò comportamenti indisciplinati di alcun genere» e, con queste parole, i suoi occhi si fissarono in quelli di Bellamy, gelidi come lame di ghiaccio.

Miller a quel punto, seduto alla sua destra, gli diede una lieve gomitata e disse: «Sì, sei davvero fottuto. Adesso quella non ti staccherà più gli occhi di dosso, amico».

Bellamy liquidò il collega con un gesto scocciato della mano, si alzò sbuffando e lasciò la stanza, unendosi alla folla di gente che sciamava fuori dalla porta.

 

NOTE:

E rieccomi qui con il secondo capitolo! Spero vi sia piaciuto e che i personaggi comincino a definirsi un po’ meglio.

Allora… alcune spiegazioni:

1.     Angeline, la madre di Wells è presa dal libro, ma il nome l’ho inventato perché non mi pare sia mai stato citato. È morta davvero in seguito ad una malattia, quindi ho voluto aggiungerlo anche qui.

2.     Quando nel flashback di Clarke ho scritto “John, Atom e soprattutto Murphy”, con il primo John in questione mi riferivo all’altro ragazzo, quello a cui, nella serie, i terrestri hanno tagliato la gola nella puntata in cui è stata uccisa anche Roma. Uno dei tizi che aveva seguito Murphy per dare la caccia a Charlotte.

3.     Ho deciso di far diventare Octavia infermiera ispirandomi alla puntata della prima stagione “I am become Death”, quando Murphy porta il virus al campo e lei resta sveglia tutta la notte a curare la gente. È vero che nella seconda stagione il suo personaggio sta prendendo tutta un’altra piega (che adoro), ma secondo me sarebbe perfetta anche come infermiera.

Ok, tutto quello che avevo da chiarire mi pare di averlo chiarito, se doveste avere dei dubbi/domande/perplessità o quant’altro, sono sempre qui.

Ah, sì… le due canzoni in questo capitolo sono: Losing your Memory, di Ryan Star per quanto riguarda Clarke e Eye of the Tiger per Bellamy. Trovo quella canzone molto adatta al ragazzo. Su Youtube c'è anche un video Bellarke, meraviglioso a parer mio, con il sottofondo di "Losing your Memory" e... beh, se volete distruggervi i feels ve lo consiglio. Vi lascio tutto qui sotto.

Losing your Memory

Eye of the Tiger

Bellarke  - Losing your Memory

Per chi fosse interessato, qui c' anche il mio profilo FB. Melody Blake.

Bene, detto ciò vi lascio, fatemi sapere cosa ne pensate!

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Back in Time ***


c3  







In the middle of the Night


CAPITOLO 3: BACK IN TIME

 

Move on, be brave
Don't weep in my grave
Because I am no longer here
But please never let
Your memory of me disappear

Vai avanti, sii coraggiosa 
non piangere sulla mia tomba 
perché io non sono più qui 
ma ti prego, non permettere mai che 
i ricordi che hai di me svaniscano 



Dopo aver trascorso l’intero pomeriggio in casa Jaha, Clarke ripercorse i pochi metri che la separavano dalla sua abitazione e aprì la porta.

Sua madre si apprestava ad uscire per andare a lavorare in ospedale, quella notte avrebbe avuto il turno di guardia.

«Tesoro, la cena è nel microonde e Marcus tornerà a casa tra poco, è dovuto andare alla centrale per la presentazione del nuovo comandante di Dipartimento. Sii buona con lui, d’accordo? Ci sta provando. Davvero».

Clarke rimase sorpresa dalle parole di sua madre, ma annuì. E così la attendeva un’intera serata da trascorrere da sola con il suo patrigno. Splendido.

Guardò l’orologio, erano ancora le sette e mezza, così decise di telefonare a Jasper per dargli la notizia del suo rientro.

Salì in camera, dove trovò Yeti beatamente sdraiato sul suo letto.

Non appena la vide, lui si girò con la pancia verso l’alto: una chiara richiesta di coccole. Allora Clarke sorrise, tirò fuori il cellulare dalla borsa e cercò in rubrica il numero dell’amico. Poi si sedette di fianco al felino e cominciò a grattargli placidamente il ventre, mandandolo in estasi.

Jasper rispose dopo qualche squillo e la sua voce sorpresa le fece provare un punta di senso di colpa. Avrebbe dovuto farsi sentire di più. Con tutti.

«Clarke!» esclamò il ragazzo, contento.

«Ehi, Jazz… come stai?».

«Benone! Devo preparare l’ultimo esame e poi sarò libero come l’aria dal dannato college. E tu? Che si dice in quel di Harvard?».

«Proprio di questo ti volevo parlare. Sai, io ho finito e ora aspetto gli esami per entrare nella graduatoria della specialistica. E insomma, dato che saranno solo a settembre… sono tornata a casa e resterò qui tutta l’estate».

Silenzio all’altro capo del telefono.

«Jasper? Sei ancora lì?».

«Vuoi dire che adesso sei a Fort Hill?!».

Ok, adesso si sentiva una persona davvero orribile.

«Sì» rispose semplicemente.

«Ma è fantastico!» lo sentì esclamare tanto forte che dovette allontanarsi il telefono dall’orecchio di colpo. «E poi starai qui fino a settembre, è meraviglioso! Dobbiamo vederci! Assolutamente! Adesso chiamo Monty, Monroe, Roma e il resto della compagnia e stasera si va a festeggiare! Porta pure anche il tuo noioso amico se vuoi!».

«Jasper… Wells non è noioso e poi stasera non posso, ho promesso a mia madre che avrei passato la serata con Marcus».

«Oh, che strazio. Allora domani. Se domani non ti tieni libera verrò personalmente a trascinarti fuori di casa. Ci siamo capiti?».

Suo malgrado, Clarke sorrise.

«Ho capito, sì, Jazz», rispose divertita.

«Fantastico! A domani allora! E ci sentiamo in giornata per i dettagli. Buona serata e buona fortuna con Mr. Rigidità».

«Non sei cambiato affatto tu, vero?».

«Oh sì, sono cambiato eccome! Ora non bevo più fino a sfondarmi e dimenticarmi chi sono come ai tempi del liceo» disse quasi con orgoglio.

«Stai scherzando? Vuoi dire che Jasper l’alcolizzato non è più alcolizzato?».

«È esattamente quello che sto dicendo. Il più delle volte».

In quel momento però, Clarke udì la porta d’ingresso aprirsi, così si rivolse nuovamente all’amico.

«Devo andare adesso, Marcus è tornato».

«Divertiti per la tua serata in famiglia!».

«Taci e basta, Jordan».

«Oh, mi sei mancata, Griffin».

Così, Clarke sorrise e premette il pulsante di fine chiamata.

In realtà non aveva molta voglia di trascorrere l’intera serata con Marcus, ma doveva sforzarsi. Doveva provarci, dunque prese un profondo respiro e si diresse verso il salotto, dove sentiva già il sottofondo della tv accesa. Politica. Cronaca. Erano questi i programmi che il suo patrigno seguiva solitamente.

Con una fitta allo stomaco, Clarke ricordò delle partite di football che guardava con suo padre, Wells e Thelonius quando era soltanto un’adolescente e, per un momento, fu quasi tentata di tornare al piano superiore e chiudersi nella sua camera tutta la sera.

Poi, strinse con maggior forza il corrimano della rampa di scale e mosse gli ultimi passi fino a trovarsi all’ingresso.

«Ehi, Clarke… hai passato un buon pomeriggio con il tuo amico?».

La ragazza si sforzò di sorridere.

«Sì. Davvero un buon pomeriggio» per qualche istante aleggiò un silenzio forzato che mise a disagio entrambi, poi Clarke riprese parola: «Ehm… allora... hai fame? Mamma ha lasciato qualcosa nel microonde».

«Mi sembra un’ottima idea, muoio di fame».

La bionda annuì e insieme si avviarono in cucina. La cena fu pronta in pochi minuti e, mentre Clarke controllava che non si bruciasse, Marcus preparò due posti a tavola.

«Mmm… la mamma ha detto che sei andato al Dipartimento, oggi pomeriggio… stai lavorando su qualche caso?» la giovane provò ad abbozzare una conversazione, giusto perché quel silenzio si stava facendo un po’ troppo pressante per i suoi gusti.

«Niente di particolare, oggi sono andato in centrale per la presentazione del nuovo comandante».

«Ah sì, è vero. Mamma me lo aveva accennato» cercò di apparire interessata, ma onestamente non le importava un granché.

Marcus annuì.

«Sì, lei… è davvero molto giovane. E molto in gamba. Sembra proprio una che sa il fatto suo. Credo che abbia giusto pochi anni in più di te».

«Davvero? Accidenti… ».

«Già… ».

Il resto della cena trascorse nel quasi totale mutismo e, quando finirono, finalmente Clarke poté alzarsi dal tavolo per raccogliere le stoviglie.

«Qui ci penso io, Marcus, non ti preoccupare».

«Sicura?».

«Nessun problema».

La ragazza ripulì velocemente la cucina e, quando tutto fu nuovamente in ordine, salì nella mansarda dando la buonanotte al patrigno, che si era chiuso nel suo studio, o meglio… nello studio di suo padre, a esaminare probabilmente qualche caso.

Una volta nella sua stanza, la ragazza estrasse da una vecchia tracolla il grosso libro di anatomia e lo poggiò sulla scrivania in legno chiaro sotto la finestra. Si era sempre trovata meglio a studiare la sera, o comunque la notte.

Suo padre l’aveva sempre rimproverata per il fatto che così facendo avrebbe perso ore di sonno preziose, ma Clarke non ci poteva fare niente, lei era un animale notturno.

Anni prima, durante un corso di psicologia, qualcuno le aveva spiegato il ciclo sonno-veglia con il termine di “allodole” per le persone che erano attive fin dal primo mattino e con il termine  di “gufi” per chi invece riusciva a concentrarsi maggiormente fino a notte fonda. Non c’erano dubbi: Clarke apparteneva decisamente alla seconda categoria.

Inoltre, lei aveva saputo di cosa fosse successo a suo padre durante la notte e, da quel momento, era stata la fine e l’inizio di veri e propri episodi di insonnia.

La ragazza aveva cominciato ad addormentarsi molto tardi, svegliandosi più e più volte nel giro di una notte e, quando accadevano episodi del genere, si trovava iperattiva per tutto il giorno seguente e con un gran mal di testa la sera.

Dopo erano iniziati i sogni strani e gli incubi che la lasciavano senza fiato e con il cuore in gola al suo risveglio.

Una volta si era messa ad urlare nel bel mezzo della notte e, al suo risveglio, Thalia era entrata correndo nella sua stanza e l’aveva abbracciata con fare protettivo, riuscendo a calmarla.

La sua amica già le mancava.

Yeti non era lì, segno che doveva essere uscito per una passeggiata notturna e Clarke sorrise… in quello aveva proprio preso da lei.

La ragazza aprì il libro, trovandosi a ripassare uno dei primi capitoli: l’apparato muscolo-scheletrico. Se chirurgia era davvero la specialistica che voleva intraprendere, e lo era, allora doveva conoscere l’anatomia alla perfezione. Il fatto che avesse preso trenta e lode all’esame non contava più molto, dato che erano passati cinque anni da quando lo aveva dato.

Così iniziò a leggere le pagine sottolineate e piene di appunti scritti nella sua grafia veloce e scattosa: i classici scarabocchi da medico.

“Il corpo umano ha 206 ossa suddivise in ossa lunghe, ossa piatte e…” la vibrazione del suo cellulare la interruppe.

Un messaggio da Jasper.

Sopravvissuta alla super divertente serata con il nostro super detective preferito e super simpatico?”.

Lei scosse la testa, esasperata.

No, affatto. Siamo stati in silenzio per quasi tutta la sera e, finita la cena, sono scappata a studiare in camera mia. E se usi un’altra volta la parola super non ti guarderò in faccia mai più”.

La risposta dell’amico non tardò ad arrivare.

Non trattarmi così male, Griffin. Per farmi perdonare, posso portarti del caffè, se vuoi”.

Oh, quel ragazzo la conosceva davvero bene.

Clarke infatti era sempre stata, fin dai tempi del liceo, una caffeinomane di prima categoria, una volta, sotto l’esame di patologia clinica, aveva pranzato con tre tazze di caffè.

Non aveva dormito per le due notti successive, ma questo importava poco perché le aveva trascorse a studiare.

Lo sai che non dico mai di no ad un caffè, Jasper. Stai attento perché potresti pentirtene”.

Il suo cellulare non vibrò per i successivi dieci minuti, ma Clarke non ci fece troppo caso perché venne assorbita dallo studio.

Poi, del colpetti alla finestra la distrassero per la seconda volta.

«Ma che diavolo… », alzò il vetro, lasciando entrare una leggere brezza estiva e, guardando nel suo giardino… «Jasper?!».

«Ciao, amica!» la salutò allegramente lui, con un grosso bicchiere di carta in mano. «Ti ho portato il caffé».

«Ma non mi dire… tu sei completamente impazzito».

Clarke non riuscì a trattenere un sorriso e si fece da parte.

Giusto fuori dalla finestra della sua stanza cresceva un grosso melo che sia Jasper sia Wells avevano sempre usato per arrampicarsi fin dentro la sua camera.

L’unico amico un po’ civilizzato che aveva era Monty, che era solito suonare il campanello come tutte le persone normali.

Certo, con quel bicchiere in mano Jasper fece più fatica del solito, ma alla fine balzò nella stanza della ragazza.

«Oh, diamine… non ero più abituato a fare queste acrobazie».

«Dì la verità, Jazz… sei spompato e stai invecchiando».

«Scusa signorina, a chi hai detto spompato?!» disse posando il caffè sulla scrivania dell’amica e assumendo la classica posa in cui si metteva prima di saltarle addosso per farle il solletico.

«Jasper, non ci pensare neanche! Marcus è nello studio qui sotto, non vorrai mica che ti senta!».

Lui parve desistere dal suo intento.

«Mmm, no, non ci tengo a incontrare il Poliziotto Cattivo, grazie».

«Ecco, meglio».

Per un momento i due si guardarono, poi Jasper si aprì in un gran sorriso e allargò le braccia: «Vieni qui, Griffin».

Lei non se lo fece ripetere due volte e gli gettò le braccia al collo.

«Mi sei mancato».

«Anche tu».

I due ragazzi trascorsero la serata a parlare di tutto e di niente, sdraiati l’uno di fianco all’altra sul letto a due piazze di Clarke e osservando le strane forme create dalla lampada a cera posata sulla scrivania di lei, che emetteva una luce azzurra e soffusa. La giovane aveva sempre adorato quella lampada, a volte era capace di restare a fissarla per ore, ipnotizzata dal movimento della cera e provando ad immaginare cosa potessero essere quelle strane figure.

Jasper le parlò di una certa Maya, una ragazza nel suo stesso corso di chimica, con cui lui era uscito qualche volta e che sembrava interessargli.

«E tu, Clarke? C’è qualcuno di importante nella tua vita?».

«Ad esclusione del mio gatto? No, nessuno».

Lui si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, poi si alzò dal letto.

«Abbiamo fatto tardi, amica. Credo sia meglio tornare a casa».

Lei annuì.

«Ci vediamo domani sera al pub dei genitori di Monroe, d’accordo? Dobbiamo chiamare tutti e festeggiare il tuo rientro! Domani mattina faccio un giro di telefonate».

La ragazza sorrise in direzione dell’amico e acconsentì.

«Allora a domani, Jazz».

«A domani».

Una volta che l’amico fu nuovamente sgattaiolato fuori e sceso dall’albero, Clarke diede un’ultima letta al capitolo di anatomia e poi s’infilò a letto che ormai erano quasi le due.

 

La mattina seguente, la ragazza si svegliò alle prime luci dell’alba. Si alzò dal letto con uno sbadiglio e, come la sera precedente, aprì la finestra che dava sul giardino, osservando il viale silenzioso e deserto, fatta eccezione per un atleta solitario che aveva deciso di darsi al jogging alle cinque e mezza di mattina.

Sua madre avrebbe terminato il turno alle otto, quindi era ancora troppo presto.

Clarke ripescò dalla borsa un pacchetto di sigarette leggermente ammaccato e se ne accese una, soffiando il fumo al di là della finestra per non impregnare la stanza con l’odore acre della nicotina.

Aveva preso quella brutta abitudine a seguito della morte di suo padre e da allora non aveva più smesso. Thalia l’aveva ripresa diverse volte su quell’argomento, ma Clarke non era stata a sentire la sua amica.

Il fumo la rilassava, annebbiava i suoi sensi e la faceva distrarre. Distrarre dal dolore.

Poteva quasi sentire nella sua mente la voce di suo padre dire: “Vai avanti, piccola, sii coraggiosa”, ma Clarke non ci riusciva. Lei semplicemente non sapeva vivere in un mondo in cui suo padre non c’era più. Un mondo in cui era stato brutalmente ucciso e nessuno se n’era preoccupato.

Marcus aveva detto che c’era un nuovo comandante della polizia, se solo Clarke fosse riuscita ad incontrarla, a parlarle…

Si riscosse dai suoi pensieri da un lieve rumore alle sue spalle e notò Yeti che entrava con passo felpato, quasi scivolando sul parquet tirato a lucido della mansarda.

«Ma guarda un po’ chi si fa vedere di nuovo… » disse a bassa voce, divertita. Spense la sigaretta, ormai ridotta a un mozzicone, in un posacenere che teneva sul davanzale e lasciò la finestra aperta.

Il felino le si avvicinò, strofinando il corpo morbido contro la caviglia di Clarke e lei lo prese tra le braccia.

Doveva davvero metterlo a dieta, quel gatto si faceva sempre più pesante.

Si sdraiò nuovamente sul suo letto, sopra il lenzuolo, e lui cominciò a farle le fusa mentre lei lo accarezzava lentamente dietro le orecchie e sotto il mento.

Non si rese conto di nulla quando si addormentò e, non appena riaprì gli occhi e guardò nuovamente l’orologio, ormai si erano fatte le sette passate da pochi minuti.

Clarke allora scese le scale e preparò la colazione per sé e per Marcus. Magari facendo qualcosa di carino per lui, sarebbe stato più facile accettare quella strana situazione. Che poi… ormai quella situazione era uno standard da quasi cinque anni, ma, essendo sempre stata al college, la ragazza non ci aveva ancora fatto l’abitudine.

Non riusciva a capacitarsi di un altro uomo che usasse lo studio di suo padre, che condividesse il letto con sua madre. No. Era tutto ancora troppo strano.

Ad ogni modo, preparò qualche pancake e mise su la moka del caffè.

Marcus arrivò una decina di minuti dopo, sorpreso alla vista della ragazza che armeggiava tra i fornelli.

«Clarke… non sapevo che cucinassi. Insomma… non dovevi disturbarti».

Suo malgrado, la ragazza sorrise debolmente.

«Mi piace cucinare e non ti preoccupare… nessun disturbo. Vai in centrale?».

«Esatto».

Lei annuì, mettendo in tavola due tazze di caffè.

«Beh, ti ringrazio allora. Di solito la mia colazione consiste in un caffè preso al volo lungo la strada per andare al Dipartimento» rispose il patrigno prendendo posto a tavola con un sorriso.

«Sì, diciamo che mia madre non ha una gran passione per la cucina. Mio padre diceva sempre che… » ma a quelle parole si bloccò, irrigidendosi di colpo.

Non parlava con qualcuno di suo padre da anni. Da quando aveva raccontato la storia a Thalia, in realtà e rimase non poco sorpresa che quelle parole le fossero uscite con tanta facilità proprio in quel momento e, soprattutto, proprio con Marcus.

Anche l’uomo per un momento parve essere a disagio.

«Scusa» mormorò allora Clarke, imbarazzata.

Fece per alzarsi dal tavolo, ma inaspettatamente una delle mani del patrigno si posò sulla sua.

«Clarke… va tutto bene, d’accordo? Lui era tuo padre, lo so e so che ti manca. Il suo nome non è bandito da questa casa solo perché adesso ci sono io, non ti chiederei mai una cosa del genere. E dovresti perdonare tua madre. Lei lo amava, credimi».

Quelle parole ebbero sulla ragazza l’effetto di un colpo di cannone.

Deglutì a vuoto e, piano, annuì. Poi riprese a mangiare.

Non si aspettava di certo che Marcus potesse farle un discorso del genere ed ora non sapeva proprio come interpretarlo.

Qualche minuto dopo, l’uomo si alzò da tavola e ripose il piatto sporco nel lavandino.

«Torno per cena, d’accordo? Salutami tua madre».

«Va bene».

Clarke rimase a fissare il suo piatto vuoto per qualche altro istante prima di rimettersi in piedi e lavare le stoviglie usate.

Avrebbe voluto aspettare sua madre, ma in quel momento sentiva solo un gran bisogno di camminare e pensare.

Così, andò in camera sua, indossò una t-shirt rossa e un paio di pantaloni neri fino al ginocchio, dopodiché prese un post-it e scrisse: “Sono andata al parco, Marcus è in centrale. Ci vediamo più tardi”. Attaccò il foglietto sul frigorifero e uscì di casa.

Ancora erano le sette e mezza e le strade cominciavano ad essere popolate da un paio di auto appartenenti a qualche sfortunato che ancora non era in ferie, o che era già tornato, e doveva recarsi al lavoro.

Camminò con passo lento e calmo lungo le vie che aveva imparato a conoscere tanto bene durante gli anni della sua adolescenza, come a voler assaporare ogni singolo istante.

Quando si ritrovò davanti i parchi verdi e rigogliosi di Staten Island Greenbelt, sorrise. Dopotutto… quel posto le era mancato. Attraversò i giardini seguendo i sentieri in pietra creati di proposito, lasciandosi andare. Il posto era quasi deserto a quell’ora, ma Clarke fu attratta da una melodia in lontananza. Era una musica triste, sembrava un sax e lei si avviò da quella parte.

Camminando, scorse un uomo che suonava, la custodia dello strumento aperta ai suoi piedi per raccogliere qualche spicciolo.

La ragazza avrebbe voluto dargli qualcosa, ma nessuno dei suoi vestiti aveva tasche e lei non aveva portato soldi con sé. Si ripromise che sarebbe ripassata l’indomani mattina.

A parte quel musicista solitario, le pareva che non ci fosse nessun altro; più tardi sarebbero cominciati ad arrivare gli sportivi che si mantenevano in forma grazie a qualche corsetta mattutina e verso le dieci, coppie di genitori avrebbero portato i loro bambini al parco. L’estate era sempre così.

Clarke buttò la testa all’indietro e chiuse gli occhi, lasciandosi andare alla musica,  il sole le rischiarava il viso e faceva splendere ancor di più i suoi capelli dorati, le mani abbandonate lungo i fianchi.

Fu quando rialzò le palpebre, che il suo sguardo incontrò due occhi scuri come l’ossidiana che mai si sarebbe aspettata di vedere lì. Che mai si sarebbe aspettata di vedere e basta. Ma d’altro canto… era un pensiero stupido. Lui viveva in quel posto, proprio come tutti i suoi vecchi amici, e aveva più diritto di lei a starci. Dopotutto era nato lì, ci era cresciuto, mentre Clarke ci era arrivata solo dopo. Infondo… si sentiva ancora la “ragazza nuova”.

Ad ogni modo, non rimase a pensarci su più di tanto e alzò la mano sinistra in un timido cenno di saluto, verso la figura seduta sull’altra sponda di un piccolo laghetto artificiale.

Così, mentre anche lui ricambiava il gesto con lo sguardo imperscrutabile ancora ancorato al suo; Clarke ricordò dell’ultimo, disperato incontro che aveva avuto con Bellamy Blake prima della sua partenza per il college.

 

Do you ever feel like breaking down?

Do you ever feel out of place?

Like somehow you just don't belong

And no one understands you

 

Do you ever wanna run away?

Do you lock yourself in your room?

With the radio on turned up so loud

That no one hears you screaming

 

No you don't know what it's like

When nothing feels alright

You don't know what it's like

to be like me

 

To be hurt

To feel lost

To be left out in the dark

To be kicked

When you're down

To feel like you've been pushed around

To be on the edge of breaking down

When no one's there to save you

No you don't know what it's like

 

Welcome to my life

 

Do you wanna be somebody else?

Are you sick of feeling so left out?

Are you desperate to find something more

Before your life is over?

 

Are you stuck inside a world you hate?

Are you sick of everyone around?

With the big fake smiles and stupid lies

But deep inside you're bleeding

 

No one ever lies straight to your face

And no one ever stabbed you in the back

You might think I'm happy

But I'm not gonna be ok

 

Everybody always gave you what you wanted

You never had to work it was always there

You don't know what it's like

What it's like

 

 

 

Ti sei mai sentito come se stessi crollando?

Ti sei mai sentito fuori posto?

Come se in qualche modo non fossi adatto

E nessuno ti capisca

 

Vuoi mai scappare via?

Ti rinchiudi nella tua stanza?

Con il volume della radio così alto

Che nessuno ti sente urlare

 

No non sai com'è

Quando niente ti sembra a posto

No non sai com'è

Essere come me

 

Essere ferito

Sentirsi perso

Essere lasciato fuori al buio

Essere colpito 

Quando sei giù

Sentirti come preso in giro

Essere sull'orlo, stare quasi per crollare

E non c'è nessuno lì a salvarti

No, non sai com'è

 

Benvenuto nella mia vita

 

Vuoi essere qualcun altro?

Sei stanco di sentirti lasciato fuori?

Sei alla disperata ricerca di qualcosa di più

Prima che la tua vita sia finita?

 

Sei bloccato in un mondo che odi?

Sei stanco di tutti quelli che ti circondano?

Con i loro grandi falsi sorrisi e stupide bugie

Mentre tu dentro nel profondo stai sanguinando

 

Nessuno ti ha mai mentito dritto in faccia

E nessuno ti ha mai pugnalato alle spalle

Puoi pensare che io sia felice

Ma non starò bene

 

Tutti ti hanno sempre dato ciò che volevi

Non hai mai dovuto lavorare, è sempre stato tutto lì

Non sai com’è

 

 

 

Bellamy era ormai tornato da qualche ora dalla centrale di polizia e osservava con ostinazione un bicchiere d’acqua come se lì dentro avesse potuto trovare la soluzione a tutti i più grandi problemi della sua vita e del resto dell’umanità.

«Fratellone… quell’acqua inizierà a bruciare se continui a fissarla in quel modo… » la voce sarcastica di Octavia lo riportò alla realtà.

«Scusa, che hai detto?».

«A che stavi pensando?» chiese lei divertita.

«Niente, io… niente. Senti, domani comincio a portare la mia roba nella nuova casa, d’accordo?».

«Va bene… anche se stai cambiando discorso».

«Non sto cambiando discorso».

«Oh sì, invece».

Bellamy sbuffò, infastidito dal fatto che sua sorella lo conoscesse così bene.

In realtà pensava alle parole che aveva sentito dire al detective Kane poco prima che uscisse dal Dipartimento.

Stava parlando con quella Lexa e alcuni altri colleghi quando gli aveva sentito dire: «Mi dispiace signori, adesso devo proprio scappare. Ho una cena in famiglia, mia figlia è tornata oggi dal college».

Il ragazzo non aveva collegato subito le cose, poi aveva capito che l’unica persona alla quale il detective potesse riferirsi era in realtà la figlia di sua moglie Abby: Clarke Griffin. E così era tornata dal college?

Bellamy non aveva notizie della ragazza da anni e, l’ultima volta che l’aveva vista, lei stava piangendo disperata aggrappata a sua madre durante il funerale di suo padre.

Allora Clarke non si era accorta della sua presenza e lui non si era fatto notare. Voleva semplicemente accertarsi delle sue condizioni dopo quella notte e le sue condizioni non erano buone.

Bellamy Blake non si era mai curato dei sentimenti altrui, se non di quelli di sua madre e sua sorella, ma quella notte disperata che avevano passato insieme, un moto di pietà si era mosso dentro di lui.

Beh, dopotutto immaginava che fosse normale, che chiunque al suo posto avrebbe avuto quella reazione.

Il ragazzo mandò giù di colpo l’intero bicchiere d’acqua e si alzò dalla sedia, riscuotendosi dai suoi pensieri.

«Vado a correre, O… ».

«Ma sono le dieci di sera!».

«E allora?».

Lei sospirò.

«Sì, tu hai decisamente qualcosa che ti frulla per la testa».

Bellamy liquidò le parole della sorella minore con un gesto della mano, salì in camera sua due gradini alla volta e indossò un paio di pantaloni da ginnastica neri, larghi, lunghi fino al ginocchio e una canottiera dello stesso colore, dopodiché tornò al piano terra e uscì di casa.

Accese l’mp3 e infilò le cuffie nelle orecchie, lasciandosi trasportare dalla musica che esplose a volume assordante nella sua testa, sulle note di “The Dark Eternal Night”, dei Dream Theater. Il ragazzo pensò che fosse alquanto appropriata.

Era solo in momenti come quello che Bellamy riusciva a sentirsi veramente libero. Solo lui e nient’altro, tutto il resto del mondo smetteva di esistere. Negli ultimi anni, soprattutto a seguito della morte di sua madre, si era sentito così tante volte fuori posto nel mondo, che ormai aveva smesso di tenere il conto.

Tutti lo avevano sempre visto come Bellamy Blake: il teppista del quartiere. Poi invece lo avevano conosciuto come Bellamy Blake: il vigile del fuoco. Ma il vero Bellamy? Solo Octavia lo conosceva veramente sotto quel punto di vista, ma, certi aspetti, il ragazzo aveva dovuto tenerli celati anche a lei.

Perché non voleva ferirla. Non voleva che vedesse quanto a volte si sentisse schiacciato da un peso che non era capace di reggere da solo sulle sue spalle, forti sì, ma non abbastanza. Non voleva che scoprisse che, per anni, dopo la morte di Melinda, quando la sorella usciva per andare a scuola o vedersi con delle amiche, lui si richiudeva in camera e alzava il volume della radio talmente tanto da coprire la sue grida.

C’erano stati momenti in cui avrebbe voluto scappare, in cui voleva semplicemente chiudere tutto fuori dalla sua testa, ma l’unico a sentirsi chiuso fuori, un escluso, era lui. Tuttavia non poteva esternare i suoi disagi con Octavia, perché lei aveva sofferto quanto, e forse più di lui.

Poi, quando era entrato nei vigili del fuoco, la sua vita aveva iniziato a cambiare, a ritrovare l’equilibrio che aveva perso. Aveva svolto il periodo di apprendistato insieme ad Atom e Miller e loro, insieme a tutti gli altri ragazzi, era come se fossero diventati un po’ la sua famiglia.

Bellamy corse a lungo prima di “tornare in sé” e, guardandosi intorno, si accorse di essere in una zona di Fort Hill che non conosceva. Dall’altra parte della strada rispetto al marciapiede su cui stava correndo, si ergeva un’enorme casa a tre piani fatta in legno nel perfetto stile che caratterizzava tutte quelle della zona.

Il ragazzo si fermò poco alla volta e si sedette su un muretto lì vicino, osservando il quartiere.

Ad un tratto, la sua attenzione fu richiamata da un lieve rumore dovuto all’aprirsi di una finestra e, poco dopo, un ragazzo dai capelli scuri sgusciò fuori dal varco, arrampicandosi su un albero che usò per scendere in giardino.

La finestra si richiuse e lui salutò con la mano qualcuno all’interno della stanza ancora illuminata da una strana luce soffusa e azzurrognola.

C’era qualcosa di familiare in quel ragazzo, ma fu solo quando saltò lo steccato del giardino e atterrò sotto la luce di un lampione, che lo riconobbe: Jasper Jordan, un ragazzino che Bellamy si era tanto divertito a tormentare durante il suo ultimo anno di liceo, finché la nuova ragazza, cioè Clarke Griffin, altrimenti conosciuta come “la Principessa”, non gli aveva rovinato la festa.

“E bravo Jasper” pensò Bellamy, certo che l’ex compagno di scuola stesse sgattaiolando via dalla casa di qualche amante.

Se fosse stato ancora la stessa persona di una volta, a quel punto se ne sarebbe saltato su e non gli avrebbe dato pace, ma Bellamy non era più lo spaccone del quartiere pieno di sé il quale motto era sempre stato: “Quello che diavolo voglio”. No, adesso era cambiato, o almeno gli piaceva pensarla così.

Una volta che Jasper fu sparito in fondo alla strada, il ragazzo si alzò dal muretto e si avviò nuovamente lungo la strada di casa.

Era stanco e la notte era l’unico momento in cui riuscisse ad avere pace.

Non lo avrebbe ammesso mai con nessuno, specialmente con sua sorella, ma il pensiero di sua madre ancora lo tormentava e la notte semplicemente riusciva a spegnere il cervello, sprofondando in un sonno ristoratore che gli avrebbe permesso di affrontare la giornata successiva.

Arrivò alla sua abitazione con i muscoli che dolevano piacevolmente, fece una doccia lampo per non imbrattare il letto di sudore, e dopo si buttò sul materasso morbido. Lanciando un’occhiata alla radiosveglia accanto a sé, constatò con l’ultimo briciolo di coscienza che gli fosse rimasto, che erano le due di notte.

 

Quando riaprì gli occhi la mattina seguente ormai erano le sette passate e Bellamy decise di andare a fare una passeggiata al grande parco di Staten Island. Quel giorno avrebbe dovuto coprire il turno di pomeriggio, così aveva l’intera mattinata libera.

Si alzò con i muscoli ancora lievemente indolenziti per la corsa della sera precedente, ma non gli dispiacque.

Lincoln probabilmente dormiva ancora e Octavia era già uscita per il turno in ospedale. Sarebbe rientrata alle due passate. Così lui si preparò un caffè veloce, indossò un paio di jeans e una maglietta scura e uscì di casa.

Il parco non distava molto da casa sua e ben presto arrivò.

Non c’era ancora anima viva, fatta eccezione per qualche musicista che, da dove si trovava in quel momento, non riusciva a vedere. Udiva soltanto una musica, una tromba o qualche strumento del genere, Bellamy non ne capiva molto. Non era mai stato un tipo artistico.

Quella quiete interrotta dalla melodia malinconica suonata dallo sconosciuto, piacque a Bellamy, sempre così abituato al rumore che il suo lavoro comportava, ma lì, in quel momento, riuscì a rilassarsi.

Si sedette sulla sponda di un piccolo lago artificiale, le ginocchia piegate, leggermente divaricate e le braccia tese a sorreggergli la schiena, dietro di lui.

La lieve brezza estiva gli solleticò il collo e per un momento chiuse gli occhi.

Quando li riaprì, per un momento, fu come se il suo cervello fosse andato in black-out.

Dall’altra parte del laghetto, avanzava una figura molto familiare a Bellamy: capelli biondi, occhi azzurri, sguardo perso.

Clarke Griffin mosse qualche altro passo avanti, senza notarlo, poi abbandonò le braccia lungo i fianchi e buttò la testa all’indietro, il viso rilassato illuminato dalla luce del sole mattutino.

Quando riaprì gli occhi, quelli della ragazza incontrarono i suoi e per un momento fu come se il mondo si fermasse.

Poi, con aria incerta, la ragazza alzò il braccio sinistro e lo salutò e lui fece altrettanto.

Bellamy capì dallo sguardo di lei, che in quel momento era tornata indietro nel tempo. Indietro fino a quello che Clarke credeva fosse stato il loro ultimo incontro.

 

NOTE:

Salve a tutti! Scusate il ritardo nell’aggiornamento, ma, a causa degli esami, non ho avuto un solo istante libero. Oggi ho dato l’ultimo, quindi sono decisamente più tranquilla!

Dunque… beh, intanto ringrazio tutte le persone che hanno aggiunto la mia storia tra le preferite/seguite/ecc. e, ovviamente, tutti coloro che hanno recensito. Siete fantastici, grazie.

Spero che l’attesa sia valsa la pena, questo capitolo diciamo che è un po’ di passaggio, ma è abbastanza corposo. Ho cercato di approfondire maggiormente certi aspetti del carattere di Bellamy e la canzone introduttiva mi sembrava perfetta. Inizialmente ne avevo messa un’altra, che troverete nel capitolo 5, ma quando mi sono resa più conto di ciò che stavo scrivendo ho subito cambiato, anche perché alcune frasi ci stavano  veramente a pennello.

Le due canzoni sono “The spirit carries on” dei Dream Theater e “Welcome to my life” dei Simple Plan.

Un’ultima osservazione prima di andare (stasera ho poco tempo, devo uscire XD). La frase: “Non era mai stato un tipo artistico” è presa dal libro stesso di “The 100”, di Kass Morgan. Non ricordo se il primo o il secondo, ma indicativamente il primo.

Spero di non aver dimenticato nulla e che il capitolo sia stato di vostro gradimento, ora devo scappare!

Buon week end a tutti e ancora scusate il ritardo nella pubblicazione!

 

The Spirit Carries On – Dream Theater

Welcome to My Life – Simple Plan

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Devastation ***


4  




In the middle of the Night

 

CAPITOLO 4: DEVASTATION

 

When you were standing in the wake of devastation
When you were waiting on the edge of the unknown
And with the cataclysm raining down, insides crying save me now
You were there impossibly alone. 

Do you feel cold and lost in desperation? 
You build up hope, but failures all you've known. 
Remember all the sadness and frustration
And let it go. 
Let it go.

 

Quando stavi in piedi sulla scia della devastazione
Quando stavi aspettando sull’orlo dell’ignoto
E con il cataclisma su di te, mentre urlavi “che qualcuno mi salvi”
Eri lì, assolutamente da solo.

Ti senti freddo e perso nella disperazione?
Hai costruito speranza, ma tutto ciò che hai ottenuto è il fallimento.
Ricorda tutta la tristezza e la frustrazione.
E lasciala andare.
Lasciala andare.

 
*Clarke si svegliò con un lieve sussulto nell’udire il fastidioso trillo del telefono. Guardò l’orario proiettato sul muro dalla sua radiosveglia: era l’una e mezza del mattino. Chi diavolo poteva telefonare a quell’ora della notte?!

Aspettò un paio di squilli, credendo che sarebbe andato a rispondere suo padre, dal momento in cui la madre si trovava in sala operatoria per un intervento urgente, ma, non sentendo alcun rumore provenire dal corridoio, scostò le coperte con fare ancora assonnato e si avviò velocemente verso il piano inferiore, rabbrividendo per essere passata dal caldo abbraccio delle sue coperte al freddo dell’aria della sua stanza a novembre inoltrato.

«Pronto?» disse quasi sbadigliando dopo aver sollevato la cornetta.

«Salve. Mi dispiace disturbarla a quest’ora. Parlo con la dottoressa Abigail Griffin?».

La voce all’altro capo del telefono era incredibilmente seria e Clarke si fece più vigile.

«No, io sono la figlia. Mia madre è in sala operatoria per un intervento urgente e non credo che sarà a casa prima di domattina. Ma con chi parlo?».

«Sono il detective Marcus Kane, dipartimento di Brooklyn».

Quelle parole misero subito in allarme la ragazza, che adesso era completamente sveglia.

«Posso fare qualcosa per lei, detective?».

«Circa un quarto d’ora fa è arrivato al pronto soccorso di uno dei nostri ospedali un uomo di nome Jake Griffin. È suo padre?».

Silenzio.

Clarke non riusciva a pensare. Ma com’era possibile? Suo padre era in camera sua, insomma… doveva essere in camera sua!

La ragazza annaspò e riuscì a emettere soltanto un “Sì” alquanto strozzato.

«Signorina, ha modo di venire nell’ospedale Wallace General?».

«Io… io… » non riusciva proprio a ragionare, era totalmente andata in tilt. Poi le parole finalmente uscirono più sensate: «Io abito a Fort Hill, a Staten Island… non credo di riuscire, a quest’ora non ci sono scafi e i miei genitori hanno entrambe le macchine».

«D’accordo, signorina. Mando due dei miei uomini a prenderla. Mi lascia il suo indirizzo?».

Clarke obbedì come un automa, poi cercò di avere notizie su suo padre.

«Detective, quanto è grave mio padre? Che cosa gli è successo?».

Sentì l’uomo sospirare pesantemente e questo non le lasciò presagire nulla di buono.

«Le spiegherò tutto una volta arrivata qui».

La ragazza annuì sconfitta e chiuse la chiamata.

Una volta riagganciato, si mosse con lentezza estrema verso la sua camera da letto. Fare le scale non le era mai costato così tanta fatica, però doveva vestirsi prima che arrivassero gli agenti a prenderla. Non le era piaciuto il tono di quella conversazione, non le lasciava immaginare qualcosa di positivo.

Una volta vestita, si avviò verso la stanza dei genitori: il letto era intatto, come se suo padre non ci fosse mai arrivato. Poi ricordò: era andato ad una cena di lavoro la sera prima e fuori imperversava una tempesta terribile, causa del motivo per cui la madre di Clarke era stata richiamata in sala operatoria. Doveva esserci stato un incidente. E suo padre? Anche lui aveva avuto un incidente? Se sua madre fosse stata lì l’avrebbe rassicurata, le avrebbe fatto forza, ma lei non c’era e Clarke poteva contare soltanto su sé stessa.

Non seppe dire con precisione quanto tempo fosse trascorso da quando aveva chiuso la chiamata col detective Kane, ma ad un certo punto sentì suonare alla porta.

Aprì con lentezza e, dimenticandosi persino di portare con sé una giacca, uscì nella notte tempestosa, con il vento di novembre che le sferzava il volto.

I due agenti non proferirono parola e si limitarono a scortarla, usando una delle loro volanti. In circostanze normali, viaggiare su un’auto della polizia probabilmente le avrebbe fatto un certo effetto, ma, in quel momento, Clarke non si sarebbe accorta di nulla nemmeno se avesse viaggiato in groppa a un elefante.

La ragazza non si accorse nemmeno di battere i denti durante il tragitto; l’unica cosa che importava davvero adesso era suo padre: arrivare da lui, capire cos’era successo ed essere rassicurata sul fatto che tutto sarebbe andato bene.

Ma quella notte niente andò bene.

Giunta al Wallace General Hospital di Brooklyn, un uomo alto e imponente dai capelli castani e l’aria truce le era venuto incontro.

Si era presentato come Marcus Kane e le aveva brevemente spiegato di come suo padre fosse stato vittima di una rapina mentre comprava un pacchetto di sigarette e che, il suo aggressore, gli aveva sparato. Ora Jake Griffin era in sala operatoria a combattere tra la vita e la morte.

Clarke non si era mai sentita tanto disperata e impotente in tutta la sua vita. Un improvviso senso di nausea la assalì e vomitò in un cestino nell’angolo di un corridoio.

L’uomo le era stato vicino, le aveva posato una mano sulla spalla e aveva cercato di consolarla, o se non altro di essere d’aiuto, ma Clarke non trasse alcun conforto da quel contatto. Nel frattempo, il detective Kane continuava a dire ai suoi uomini di cercare di contattare la madre della ragazza.

Così, Clarke aveva aspettato per ore fuori dalla sala operatoria e, alle quattro di mattina, una donna dall’aria cupa, tale dottoressa Tsing, era uscita dicendole che suo padre non ce l’aveva fatta. In quel momento il mondo parve crollarle sulle spalle pesante come un macigno e un sapore acido e disgustoso le salì dal fondo dello stomaco.

Clarke si irrigidì sul posto, incapace di proferir parola e incapace di piangere. Incapace di avere un qualsiasi tipo di reazione.

Semplicemente, voltò le spalle al chirurgo e al detective Kane e scomparve nella notte, sotto l’acqua incessante e il cielo squassato da tuoni, vento e fulmini. Quello scenario rispecchiava perfettamente il suo stato d’animo.

La bionda aveva camminato, camminato e camminato, inzuppandosi da capo a piedi già dieci secondi dopo essere uscita dall’ospedale.

Cominciò a correre. Corse fino a non avere più fiato e, quando davvero non ce la fece più, posò una mano contro un muro sudicio e lanciò un grido di dolore talmente straziante che avrebbe probabilmente svegliato l’intero circondario.

Lacrime salate cominciarono a scendere copiosamente sulle sue guance, mischiandosi alla pioggia, ma Clarke era così  fradicia da non farci neanche caso. Batteva i denti senza neanche rendersene conto e a un certo punto prese a tremare incontrollabilmente.

Non fece caso ai passi veloci che si avvicinavano nella sua direzione, non fece caso a nulla. Poi una voce vagamente familiare attirò la sua attenzione.

«Clarke?!».

Improvvisamente smise di pioverle addosso e Clarke si rese conto che qualcuno doveva aver allungato un ombrello su di lei.

«Clarke… Clarke, che cosa è successo?».

Ma la ragazza non parlò e non guardò neanche il suo interlocutore, nonostante le sembrasse di riconoscerne la voce.

Sentì un pesante sospiro, poi due braccia forti sollevarla e, dopo qualche istante, si ritrovò sotto ad una tettoia, riparata dal vento e dalle intemperie. Quando riuscì a mettere a fuoco chi l’avesse portata fin lì, ne rimase così sbalordita che, per un momento, persino le lacrime smisero di sgorgare incontrollate fuori dai suoi occhi.

Bellamy Blake le stava di fronte con il petto che si alzava e abbassava affannosamente, scrutandola con quei suoi occhi scuri che tanto l’avevano irritata in quegli anni.

Il ragazzo le afferrò con gentilezza le spalle.

«Clarke, parlami. Che cosa ti è successo? Qualcuno ti ha fatto del male? Devo chiamare la polizia, un’ambulanza, tua madre?».

Clarke… semplicemente non capiva. Non riusciva a capire che cosa il suo ormai ex  compagno di scuola le stesse dicendo. Aveva sempre considerato Bellamy come un disadattato sociopatico, il classico bullo a cui nessuno dava fastidio per puro terrore. Adesso però sembrava una persona totalmente diversa.

La bionda provò svariate volte a parlare, ma solo dopo diversi tentativi riuscì ad articolare una frase sensata.

«M-mio… mio padre… » balbettando a causa dei singhiozzi che le squassavano il petto, Clarke riuscì a tirarsi fuori quelle parole dal fondo della gola.

«Mio padre… hanno ucciso mio padre… ».

Un silenzio assordante aleggiò tra i due ragazzi, poi, senza nemmeno rendersene conto, Clarke si ritrovò avvolta dalle braccia di Bellamy, ma cominciò a colpirlo al petto, per cercare di allontanarlo. Lui però rimase al suo fianco, leggermente scosso dai suoi colpi, ma non si scostò. Ad un tratto la ragazza si sentì sollevare e, dopo qualche minuto, si ritrovò all’interno dell’abitacolo di una macchina che partì sparata lungo la strada a tutta velocità.

Solo dopo almeno un quarto d’ora si rese conto del familiare paesaggio di Fort Hill intorno a lei, ma l’auto non rallentò in prossimità di casa Griffin e tirò dritta, svoltando poi a destra in fondo alla strada. In realtà a Clarke non importava dove Bellamy la stesse conducendo, continuava soltanto a piangere, il petto spaccato da singhiozzi talmente dolorosi da risultare quasi insopportabili.

Il veicolo accostò nel vialetto di una villetta in legno a due piani in pieno stile inizi del ‘900 come tutte quelle della zona storica di Staten Island e si spense.

La ragazza udì a stento la portiera dal lato del guidatore aprirsi e poi sbattere e, dopo qualche istante, si aprì anche il suo sportello e lei venne nuovamente sollevata.

Tutto ciò che accadde dopo era sfocato e confuso, ma, quando la giovane venne adagiata su un letto, cercò di capire dove fosse, fallendo nell’intento. Non conosceva quel posto e non le importava. Non le importava più di niente*.

Clarke ritornò alla realtà, mentre i suoi occhi erano ancora fissi in quelli scuri del ragazzo che stava a pochi metri da lei.

A piccoli passi, aggirò il laghetto e si diresse verso di lui, che non si era mosso di un millimetro e sembrava che aspettasse che lei si sedesse al suo fianco. 

«Allora è vero che sei tornata… » disse Bellamy a mo’ di saluto.

«Chi te lo ha detto?».

«Kane ne parlava in centrale, ieri sera» disse semplicemente.

Clarke rimase in silenzio e si perse lontano con lo sguardo, verso l’orizzonte, verso suo padre.

«Allora, Principessa… dove sei stata in tutti questi anni?».

«Ti interessa davvero saperlo?».

«No. Ma i silenzi imbarazzanti mi mettono in imbarazzo, quindi sto cercando di fare conversazione».

Clarke emise un mezzo sbuffo divertito.

Stava parlando con Bellamy Blake dopotutto, e il fatto che il ragazzo si fosse preso cura di lei in quella notte da incubo non significava che fosse cambiato. Tipi come lui non cambiavano mai e questo Clarke lo sapeva bene. In effetti non doveva affatto esserne sorpresa, ma piuttosto doveva esserlo dal comportamento protettivo con cui l’aveva trattata sei anni prima.

«Comunque, giusto per non farti sentire in imbarazzo, sono stata ad Harvard in tutti questi anni. A laurearmi».

Bellamy non rispose subito e non si scompose, poi disse: «Se speravi di farmi sentire in imbarazzo citando una delle più importanti università del mondo, mi dispiace, Principessa… non sei riuscita nell’intento».

Stavolta fu lei a non rispondere, quindi fu di nuovo il ragazzo a prendere parola: «Accidenti… quindi adesso dovrò chiamarti Principessa o Dottoressa? Questo sì che mi mette in difficoltà».

Nonostante tutto Clarke sorrise, poi chiese: «Come fai a sapere che mi sono laureata in medicina?».

Bellamy alzò le sopracciglia.

«Seriamente? Principessa… ti portavi in giro per la scuola enormi volumi di anatomia e altre diavolerie mediche dei tuoi genitori. Non sono così ignorante come hai sempre creduto».

Clarke si sentì punta sul vivo.

«Non ho mai pensato che tu fossi ignorante! Solo irritante, violento, insopportabile e… ».

«Un disadattato sociopatico» completò lui al suo posto.

«Una cosa del genere» rispose con una certa nota di divertimento nella voce.

«Beh, grazie» rispose il moro.

«Ti sei sempre comportato come tale».

«Credi davvero di conoscermi, eh, Principessa?».

«Sai, io odio quando mi chiami “Principessa”».

«Lo so».

«Allora perché continui a farlo?».

«Perché è divertente e tu lo odi».

Clarke gli scoccò un’occhiataccia.

«Un’altra cosa che odio sei tu, Blake».

«Io non sono una cosa. E comunque vorrei farti notare che nonostante tutto sei ancora seduta qui a parlare con me».

«Già… e ora che mi ci fai pensare, dovrei proprio alzarmi e andarmene».

«Nessuno ti sta trattenendo, mi sembra».

Per un istante i loro occhi rimasero incatenati, poi, lentamente, Clarke si mise in piedi.

«Beh, vorrei poter dire che rivederti è stato un piacere, ma dato che in tal caso mentirei, mi limito a salutarti e tornarmene a casa».

«Mi sembra giusto. Fa’ buon rientro al palazzo, Principessa. O magari dovrei dire Vostra Maestà? Ti piace di più?».

Il sogghigno arrogante sulle labbra del ragazzo la mandò in bestia.

«Vai all’inferno, Bellamy».

«Sì, credo sia un posto divertente. Ho sempre voluto conoscere Cerbero».

Clarke si voltò, sorpresa da quelle parole o, più che altro, dal fatto che Bellamy mostrasse di conoscere qualche nozione di mitologia.

«Te l’ho detto, Principessa: non sono un ignorante».

«Beh… se conoscessi il mio gatto, sapresti che probabilmente è più feroce di qualsiasi altro mostro mitologico mai citato nei libri».

«Mi stai velatamente invitando a casa tua, Principessa? Cos’è? Sei attratta dagli uomini di cultura?».

Clarke avvampò e Bellamy non perse occasione di stuzzicarla. «Attenta… sei diventata dello stesso colore della tua maglia».

«Oh, taci, Blake!».

Lui sollevò l’angolo destro della bocca in un sorriso strafottente.

«Ci vediamo in giro, Principessa».

E, con il ghigno del ragazzo ancora davanti agli occhi e le sue parole nelle orecchie, Clarke si voltò verso l’uscita del parco, diretta nuovamente a casa sua.

 

In my darkest hours, I could not foresee
That the tide could turn so fast to this degree
Can't believe my eyes, how can you be so blind?
Is the heart of stone, no empathy inside?

 Nelle mie ore più buie, non potevo prevedere
 Che la marea avrebbe potuto raggiungere questo livello così in fretta
Non posso credere ai miei occhi, come potete essere così ciechi?
È il cuore di pietra, non c’è empatia?

 

 

*Era l’una e mezza di notte e Bellamy non riusciva proprio a dormire. Fuori, una terribile tempesta infuriava, tenendolo sveglio e lui continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, cercando una posizione comoda senza però riuscire a trovarla. Infine sbuffò e si mise a sedere sul materasso, irritato.

Non aveva mai avuto difficoltà ad addormentarsi, di solito cadeva nel mondo dei sogni dieci secondi dopo aver posato la testa sul cuscino, ma quella notte non c’era verso.

Infastidito, decise di prendere le chiavi dell’auto di sua madre e uscire. Magari un giro in macchina lo avrebbe calmato.

Senza fare alcun rumore, scese al piano inferiore, prese le chiavi dal mobile all’ingresso e uscì.

Il vento ululava, flagellandogli il viso e gocce di pioggia affilate come lame parevano volergli penetrare fin dentro la carne.

Una volta al chiuso nell’abitacolo dell’auto, mise in moto e accese la radio a palla. Guidò a lungo per Fort Hill, percorrendola da parte a parte e, verso le tre di mattina, decise di percorrere il ponte che la collegava a Brooklyn e spostarsi in quella zona.

Una volta lì, lasciò la macchina in un parcheggio quasi pieno, prese con sé l’ombrello che sua madre era solita tenere nel cruscotto, e iniziò a camminare, senza però ripararsi dalla pioggia e dalle intemperie.

Il ragazzo percorse a testa bassa e passo svelto  le vie di una New York costantemente in movimento. Doveva ammetterlo: “La città che non dorme mai”, era davvero appropriato come soprannome.

E, d’altra parte, Bellamy aveva sempre amato quel posto: il traffico, i rumori, la musica dei locali, le voci della gente. Il frastuono era il luogo perfetto in cui svanire.

Si guardò intorno: ovunque i suoi occhi si posassero, erano catturati dalle luci sfavillanti, anche lì a Brooklyn.

Il ragazzo si fermò nell’ombra, poco distante dall’uscita laterale di un pub.

Un ragazzo e una ragazza sembravano alquanto presi l’uno dall’altra, lei con le spalle contro la parete e lui con le mani sui suoi fianchi.

L’accenno di un sorriso passò sul volto di Bellamy, poi riprese a camminare, non gli importava nulla della pioggia e del vento incessanti, nonostante di solito odiasse il brutto tempo.

Non si rese conto da quanto stesse proseguendo, ma ad un tratto, da un punto non distante da lì, udì un urlo talmente agghiacciante che gli fece venire la pelle d’oca.

Senza che il suo cervello ebbe il tempo di registrarlo, il ragazzo scattò in avanti, cominciando a correre in quella direzione.

Ciò che trovò svoltando un angolo lo lasciò senza parole: Clarke Griffin, la Principessa, era piegata contro un muro, in lacrime, disperata.

Bellamy aprì l’ombrello, riparandola, la chiamò, cercò di farsi dire che cosa fosse successo, ma quando capì che la ragazza non avrebbe parlato, la prese tra le braccia e la portò al riparo sotto una tettoia.

Dopo un po’, Clarke parve tornare momentaneamente alla realtà e, non appena si accorse di lui, per un momento smise anche di piangere, tanta era la sorpresa nei suoi occhi.

Doveva avere davvero una bassa opinione di lui per non riuscire a mascherare quell’espressione.

Allora Bellamy riprovò, chiedendole se qualcuno le avesse fatto del male, se doveva chiamare la polizia o i soccorsi.

Dopo qualche tentativo Clarke riuscì a parlare e, quelle parole, lo lasciarono inchiodato sul posto.

«M-mio… mio padre… » balbettò lei. «Mio padre… hanno ucciso mio padre… ».

Il silenzio che si venne a creare fu il più terribile che il ragazzo avesse mai sperimentato.

Bellamy parve diventare una statua di ghiaccio tanto si era irrigidito, gli occhi sgranati, incredulo. Conosceva il padre di Clarke… chi mai lo avrebbe voluto morto? Era una persona buona come poche altre e a nessuno sarebbe mai passato per la mente di ucciderlo. O almeno… così credeva lui.

Un secondo grido di dolore della ragazza lo riportò alla realtà e lui fece l’unica cosa che riteneva potesse esserle di conforto in quel momento: l’abbracciò, mentre lei si aggrappava all’orlo della sua giacca, inondando di lacrime la sottile maglietta che il ragazzo portava sotto il giubbotto di pelle.

La giovane continuò a piangere e gridare e Bellamy la tenne stretta a sé, non sapendo in che altro modo potesse esserle utile. Clarke lo strattonò, lo colpì al torace, cercò di allontanarlo, ma lui non allentò mai la presa.

Certo che, se solo una settimana prima, gli avessero detto che si sarebbe trovato a Brooklyn nel mezzo della notte con Clarke Griffin disperatamente aggrappata a lui come se fosse l’unica cosa che riuscisse a tenerla in vita, Bellamy probabilmente avrebbe preso a pugni il povero mal capitato.

Adesso però gli sembrava la cosa più naturale del mondo. La cullò stringendola al suo petto cercando di infonderle un senso di forza e solo quando vide le labbra della ragazza cominciare a diventare blu si rese conto che indossava solo una maglietta in tessuto leggerissimo a novembre inoltrato e con una feroce tempesta in corso.

Si tolse la giacca e la posò sulle spalle della ragazza.

«Andiamo, Clarke… ti porto via da qui… ».

Per la seconda volta la alzò tra le braccia e, ripercorrendo la strada inversa, la portò nella sua macchina.

Non aveva idea di dove Clarke abitasse e lei sembrava nuovamente in uno stato impenetrabile di semi-coscienza, alternato a tremiti di freddo, gemiti soffocati e singhiozzi che sembravano capaci di spaccarla in due da un momento all’altro.

Così, l’unica soluzione che venne in mente al ragazzo, fu di portare Clarke a casa sua.

Guidò veloce, svoltò a destra alla fine di una strada e proseguì dritto per altri tre kilometri, poi arrestò l’auto nel vialetto della sua abitazione.

La bionda non ne voleva sapere di muoversi, quindi la prese di nuovo in braccio, a fatica riuscì ad aprire la porta di casa e poi la portò in camera sua, al primo piano.

Clarke non sembrava far caso a tutto ciò che stava succedendo intorno a lei, i suoi occhi erano persi lontano, il dolore ben visibile come una ferita mortale che la stesse dissanguando dall’interno.

Bellamy posò una mano sulla sua, inginocchiandosi davanti a lei.

«Clarke, riesci a parlare?» poi si accorse del gelo della sua pelle e aggiunse: «Dio, sei fredda come il ghiaccio».

Subito il moro si alzò, aprì un armadio e ne estrasse una coperta, con la quale avvolse la ragazza, che stava ancora battendo i denti, ma non disse una parola.

Un istante dopo, la porta della stanza si aprì e sua madre fece il suo ingresso.

«Bellamy! Che cosa ci fa qui la figlia della dottoressa Griffin? E che cosa le è successo?» Melinda era visibilmente preoccupata.

«Non lo so, mamma! Non lo so, ero a Brooklyn e a un certo punto ho sentito un grido agghiacciante e l’ho trovata contro un muro che urlava e piangeva. Sono solo riuscito a capire che… » ma quelle parole sembravano troppo terribili per essere espresse ad alta voce.

«Che cosa, Bellamy?».

«Ha detto che qualcuno ha ucciso suo padre».

D’istinto, sua madre si portò le mani alla bocca, inspirando forte.

«Il dottor Griffin?!».

Il figlio annuì.

Per un istante un silenzio teso aleggiò nella stanza, poi la figura minuta di Octavia fece capolino, gli occhi ancora mezzi socchiusi dal sonno.

«Che cosa sta… » ma quando si ritrovò davanti la scena si bloccò.

«Clarke!» esclamò avvicinandosi a passo svelto alla ragazza.

Si sedette sul letto accanto a lei e le circondò la vita con le braccia.

«Va tutto bene, Clarke, va tutto bene… » mormorò a bassa voce vicino all’orecchio dell’altra.

Bellamy rimase stupito. Non sapeva che le due fossero amiche.

«Ci penso io a lei. Andate, adesso. Bell, per stanotte dormi nella mia stanza, d’accordo?».

Lui annuì, ancora confuso, poi, insieme a sua madre, voltò le spalle alla minore di casa Blake e si diresse nella camera della sorella*.

Bellamy percepì il corpo di Clarke vicino al suo e, non sapendo che altro dire, buttò lì la prima cosa che gli venne in mente: «Allora è vero che sei tornata… ».

Lei sembrò vagamente sorpresa da quelle parole.

«Chi te lo ha detto?».

«Kane ne parlava in centrale, ieri sera».

Per un po’ nessuno dei due disse una parola, ma quando quel silenzio cominciò a stargli stretto, il ragazzo riprese: «Allora, Principessa… dove sei stata in tutti questi anni?».

«Ti interessa davvero saperlo?» il tono di sufficienza di Clarke lasciava capire molte cose. Per esempio la scarsa opinione che doveva avere di lui.

Bellamy rispose con sincerità: «No. Ma i silenzi imbarazzanti mi mettono in imbarazzo, quindi sto cercando di fare conversazione».

E con quella frase, probabilmente aveva appena confermato le aspettative della ragazza.

«Comunque, giusto per non farti sentire in imbarazzo, sono stata ad Harvard in tutti questi anni. A laurearmi».

Credeva di metterlo a disagio per questo? Beh, allora si sbagliava di grosso. Probabilmente sarebbe stata lei a rimanere senza parola una volta scoperta la strada che Bellamy aveva deciso di intraprendere anni prima, ma, per il momento, non le rivelò nulla.

«Se speravi di farmi sentire in imbarazzo citando una delle più importanti università del mondo, mi dispiace, Principessa… non sei riuscita nell’intento».

Un nuovo silenzio serpeggiò tra i due, finché non fu nuovamente il moro ad interromperlo: «Accidenti… quindi adesso dovrò chiamarti Principessa o Dottoressa? Questo sì che mi mette in difficoltà».

Clarke parve vagamente divertita da quelle parole. Bellamy continuava a studiare ogni sua reazione. A studiare lei.

«Come fai a sapere che mi sono laureata in medicina?».

A quel punto il ragazzo alzò un sopracciglio.

«Seriamente? Principessa… ti portavi in giro per la scuola enormi volumi di anatomia e altre diavolerie mediche dei tuoi genitori. Non sono così ignorante come hai sempre creduto».

Ora la bionda pareva a disagio.

«Non ho mai pensato che tu fossi ignorante! Solo irritante, violento, insopportabile e… ».

«Un disadattato sociopatico» l’anticipò ripetendo le esatte parole con lui lo aveva definito quella sera al ballo di tanti anni prima.

«Una cosa del genere».

«Beh, grazie» rispose il moro.

«Ti sei sempre comportato come tale».

«Credi davvero di conoscermi, eh, Principessa?».

«Sai, io odio quando mi chiami “Principessa”».

Bellamy lo sapeva bene e proprio per questo continuava a farlo. La cosa lo divertiva in modo quasi perverso.

«Lo so».

«Allora perché continui a farlo?».

«Perché è divertente e tu lo odi» spiegò come se fosse la cosa più ovvia del mondo.

Gli occhi della ragazza saettarono verso di lui con aria minacciosa e questo, se possibile, lo rallegrò ulteriormente.

«Un’altra cosa che odio sei tu, Blake».

«Io non sono una cosa. E comunque vorrei farti notare che nonostante tutto sei ancora seduta qui a parlare con me».

«Già… e ora che mi ci fai pensare, dovrei proprio alzarmi e andarmene».

«Nessuno ti sta trattenendo, mi sembra».

Si fissarono per un breve momento, poi la bionda si alzò.

«Beh, vorrei poter dire che rivederti è stato un piacere, ma dato che in tal caso mentirei, mi limito a salutarti e tornarmene a casa».

Bellamy sogghignò a quelle parole.

«Mi sembra giusto. Fa’ buon rientro al palazzo, Principessa. O magari dovrei dire Vostra Maestà? Ti piace di più?».

Il suo ghigno arrogante parve infastidire la ragazza.

«Vai all’inferno, Bellamy».

«Sì, credo sia un posto divertente. Ho sempre voluto conoscere Cerbero».

Clarke parve veramente sorpresa da quelle parole.

«Te l’ho detto, Principessa: non sono un ignorante».

«Beh… se conoscessi il mio gatto, sapresti che probabilmente è più feroce di qualsiasi altro mostro mitologico mai citato nei libri».

«Mi stai velatamente invitando a casa tua, Principessa? Cos’è? Sei attratta dagli uomini di cultura?».

Il volto di lei divenne improvvisamente rosso e il ragazzo ne approfittò per metterla ulteriormente in imbarazzo. «Attenta… sei diventata dello stesso colore della tua maglia».

«Oh, taci, Blake!».

Lui sollevò l’angolo destro della bocca in un sorriso strafottente.

«Ci vediamo in giro, Principessa».

La osservò finché non fu sparita dalla sua vista, poi si mise in piedi a sua volta e riprese la strada per tornare a casa.

 

Come già la sera precedente aveva annunciato a sua sorella, trascorse il resto della mattinata in auto a portare i suoi scatoloni dalla vecchia abitazione a quella nuova, più piccola e comunque non distante dall’altra.

Così se Octavia avesse mai avuto bisogno di lui sarebbe riuscita ad arrivare in fretta.

Nonostante tutto, Bellamy sentiva ancora quell’istinto iperprotettivo nei confronti della sorellina e dubitava che sarebbe mai sparito. D’altra parte, come sua madre gli aveva detto vent’anni prima, sua sorella era una sua responsabilità.

Fortunatamente il ragazzo non aveva molte cose da portare via e non dovette fare troppi viaggi.

Atom e Miller erano andati da lui per dargli una mano e Lincoln sarebbe passato dopo le due con Octavia, alla quale aveva lasciato una copia delle chiavi per ogni evenienza.

Il trasloco era sempre una gran fatica: i tre colleghi trascorsero la mattina a montare mobili, fortunatamente quella casa, a differenza della stragrande maggioranza lì a Fort Hill, si sviluppava su un unico piano, dunque non dovettero portarli su e giù per le scale, fatta eccezione per i tre gradini del portico, ma quelli non erano un problema.

L’unica stanza già ammobiliata era la cucina, ma per il resto, Bellamy aveva dovuto comprare tutto.

Ci vollero tutti e tre per portare dentro un grande divano in pelle nera da sistemare in salotto, ma per fortuna del trasporto del letto se n’era già occupato il negozio nel quale Bellamy lo aveva acquistato. Ovviamente, pagando un extra.

Verso l’ora di pranzo, il cellulare di Miller squillò e gli altri due decisero di fare una pausa.

Bellamy estrasse tre birre dal frigo, quelle non gli mancavano mai, ne passò una ad Atom, e lasciò l’altra sul tavolo.

Nathan fu di ritorno qualche minuto dopo, il telefono ancora in mano.

«Avete qualcosa da fare stasera?» chiese ai due.

Per un momento, Bellamy e Atom si scambiarono un veloce sguardo, poi il primo scrollò le spalle.

«Niente. Perché?».

«Era Harper, dice che Jasper le ha telefonato invitandola ad una festa stasera, al pub dei genitori di Monroe e… ha chiesto di espandere l’invito ai vecchi compagni di scuola, quindi immagino che voi due siate compresi nel pacchetto».

«Non credo che Jasper Jordan voglia che proprio io vada alla sua festa» rispose Bellamy con uno sguardo scettico.

«Oh avanti, Bell! Ormai ciò che è successo con Jordan è acqua passata e poi… che si festeggia?» chiese Atom allegramente.

«Pare che Clarke Griffin sia tornata a Fort Hill per l’estate e… beh, la festa è in suo onore».

«Ma davvero? La Principessa ha deciso di tornare tra i comuni mortali e abbandonare l’Olimpo dei cervelloni di Harvard? Sarà divertente, io ci sto! Bell?».

«Perché no? Dopotutto… dobbiamo dare il bentornato regale alla Principessa».

Atom lo osservò con sguardo complice, mentre quello di Miller, che alle superiori non aveva mai fatto parte della loro gang di teppisti, era alquanto allarmato, ma Bellamy non ci fece caso.

Sì. Sarebbe stato divertente.

 

NOTE:

Ed eccomi qui con il quarto capitolo. Scusate il ritardo, d’ora in avanti sarò costretta ad allentare un po’ i tempi per via dello studio e varie altre cose, ma non temete… i capitoli arriveranno!

Dunque, come avevo già anticipato, qui abbiamo finalmente scoperto cosa accadde quella notte. Cosa ve ne è parso del flash back? Era una cosa credibile o trovate Bellamy un po’ troppo OOC?

Spero che abbiate apprezzato, questo è stato un capitolo abbastanza importante anche se “nel presente”, diciamo così, non è successo un gran che. Recupererò nel prossimo, non temete e ci sarà anche un’altra parte del flash back già visto in questo capitolo dal punto di vista di Bellamy. 

IMPORTANTE: Esattamente tra una settimana (per dare a tutti la possibilità di leggere il capitolo e apprendere la notizia), cambierò il titolo della storia dall'attuale a "Demons".    

Bene… ora vi lascio in pace e ci sentiamo al prossimo capitolo!

Le canzoni in questo sono state “Iridescent” dei Linkin Park, per quanto riguarda Clarke e “Our Solemn Hour” dei Within Temptation per Bellamy.

Iridescent – Linkin Park

Our Solemn Hour – Within Temptation

Alla prossima!

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Enjoy the party, Princess ***


cap 5  






Demons

CAPITOLO 5: ENJOY THE PARTY, PRINCESS

 

White knuckles
And sweaty palms from hanging on too tight
Clenched shut jaw
I've got another headache again tonight

Eyes on fire, eyes on fire
And they burn from all the tears
I've been crying, I've been crying

 

Nocche bianche
E mani sudate per aver stretto troppo forte
Serro la mascella
 Ho avuto un altro mal di testa stanotte

Gli occhi sono in fiamme, gli occhi sono in fiamme
E bruciano per tutte le lacrime
Non ho fatto che piangere

 

Fino a sette anni prima, Clarke si sarebbe preoccupata di cosa mettere in un’occasione del genere, per il suo rientro a casa. Adesso prese le prime cose che le capitarono sotto mano e le indossò. Jasper le aveva raccomandato di essere pronta per le nove e Wells sarebbe passato a prenderla un quarto d’ora prima.

Non erano mai andati particolarmente d’accordo, Wells e Jasper, più che altro stavano su due lunghezze d’onda totalmente diverse: Jasper era un nerd di prima categoria e una sorta di scienziato pazzo.

Wells il classico ragazzo assennato, figlio perfetto e studente modello, si sarebbe laureato anche lui, a breve, in economia e commercio. Thelonius non faceva che elogiare le sue capacità, spesso mettendolo in imbarazzo. Forse suo padre sperava di recuperare gli anni del liceo, durante i quali i due non erano andati particolarmente d’accordo.

Clarke si chiese chi avrebbe rivisto quella sera, tra i suoi vecchi compagni di scuola. Ora che ci rifletteva più attentamente, in effetti non aveva mai avuto poi così tanti amici di cui si fidasse ciecamente: solo Jasper, Monty, Wells e… sì, Octavia. Aveva conosciuto la minore di casa Blake in circostanze piuttosto singolari, un giorno in cui era stata presa di mira da alcuni ragazzi, forse perché era soltanto una matricola e perché sembrava anche più piccola della sua età.

Clarke le era andata in soccorso e in seguito la ragazza l’aveva pregata di non dire niente al fratello maggiore, perché se avesse scoperto cos’era successo, probabilmente si sarebbe messo nei guai con la legge.

Tutto ciò era accaduto  quando Clarke aveva ancora, ma per poco, sedici anni. Circa due mesi prima della morte di suo padre.

Da allora le due ragazze si erano avvicinate molto; Clarke aveva spesso invitato a casa sua Octavia durante i pomeriggi e l’aveva aiutata con i compiti quando la minore le chiedeva una mano. Si erano sedute molte volte allo stesso tavolo nella mensa scolastica, con gioia di Jasper, che ai tempi aveva una bella cotta per la bruna.

Clarke lo aveva messo in guardia, perché se Bellamy lo avesse scoperto, probabilmente avrebbe dimenticato le parole che la ragazza gli aveva rivolto l’anno precedente e, come minimo, lo avrebbe preso a pugni e minacciato di morte.

Riscuotendosi da quei pensieri, la bionda guardò l’orologio di suo padre che portava al polso dalla notte in cui Jake Griffin era stato assassinato e vide che era quasi ora: Wells sarebbe passato a prenderla tra cinque minuti e lui non era mai in ritardo.

Legò i capelli in una treccia che lasciò ricadere su una spalla e, dopo aver preso la borsa, si avviò in salotto.

Sua madre era a casa, mentre Marcus sarebbe tornato tra poco dalla stazione di polizia. Spesso l’uomo stava fuori fino a molto tardi per analizzare dei casi, ma Clarke poteva capirlo, d’altra parte… la criminalità non aveva orari, proprio come la medicina.

Si chiese se il nuovo comandante avrebbe davvero portato qualche novità a Staten Island e, di nuovo, il pensiero di chiederle aiuto per far luce sull’omicidio del padre, tornò a sfiorarle la mente con insistenza.

I suoi pensieri furono interrotti dal trillo del campanello e Clarke salutò la madre, che ricambiò con un «Divertiti!», e aprì la porta, ritrovandosi davanti Wells.

La figura del ragazzo spiccava particolarmente, il torace coperto da una t-shirt bianca che faceva risaltare ancor di più la sua carnagione scura e un paio di pantaloni in tessuto leggero, chiari anch’essi.

«Allora, Clarke… pronta a rivedere i nostri vecchi amici?».

I nostri vecchi amici…”.

Se possibile, ai tempi del liceo, Wells aveva avuto ancor meno amici di lei; Clarke non sapeva spiegarsi se fosse più per il fatto che fosse sempre così serio e ligio allo studio oppure perché fosse l’unico figlio di un magnate in campo edilizio e quindi etichettato come il classico “figlio di papà”.

I due ragazzi salirono sull’auto di Wells e partirono, mentre Clarke era ancora impegnata a riflettere sulla domanda dell’amico. Era pronta? No. Non era pronta.

Avrebbe sfoggiato il suo miglior sorriso di plastica, avrebbe riso alle battute di Jasper e Monty e avrebbe riabbracciato Monroe, Roma e chiunque altro Jasper avesse invitato. Poi sarebbe uscita a fumare e, almeno per cinque minuti, si sarebbe persa nell’annebbiamento. Avrebbe sfiorato l’orologio di suo padre con la punta delle dita, com’era solita fare quando voleva sentirlo vicino a sé, nei suoi brutti momenti. Non avrebbe toccato un goccio d’alcol. Non poteva permetterselo.

No, non era pronta.

«Sono pronta» disse all’amico con il sorriso più falsamente vero che riuscì a strapparsi e gli angoli delle labbra di Wells si piegarono verso l’alto.

Da qualche parte doveva pur cominciare con le bugie, no?

Una volta arrivati al pub dei genitori di Monroe, slacciò la cintura di sicurezza e scese dall’auto. Pregò mentalmente che quegli squilibrati di Jasper e Monty non le avessero organizzato una di quelle patetiche scene da film in cui il festeggiato di turno entra e tutti gli invitati gridano «Sorpresa!» facendogli venire un mezzo attacco cardiaco.

Grazie al cielo, non fu così, e Wells la guidò in una saletta a parte che Monroe aveva fatto tenere libera dai genitori per l’occasione. Quando i due misero piede all’interno della stanza, un’esclamazione felice di Jasper fece voltare tutto il resto dei presenti, che guardarono Clarke con dei gran sorrisi sulle labbra: Jasper, Monty, Roma, Fox, Derek e molti altri dei loro vecchi compagni di scuola erano lì.

Per i primi dieci minuti Clarke non ci capì niente, risucchiata in un vortice di abbracci e baci e parole che per lei non avevano alcun senso.

Le sembrava di essere ubriaca senza aver toccato nemmeno un goccio d’acqua.

Jasper la prese per mano, conducendola sulla pista da ballo e Clarke poté chiaramente vedere l’espressione contrariata di Wells, che se ne rimase in disparte a braccia incrociate come se fosse un bodyguard. Aveva anche la stessa faccia minacciosa.

La bionda pensò di ribellarsi in un primo momento, ma a quale scopo? Jasper non l’avrebbe lasciata in pace e lei doveva recitare la sua parte, no? Quindi provò ad assecondarlo, almeno per un po’, ma poi, quando il disagio di quella situazione cominciò a farsi troppo pressante, lasciò perdere, defilandosi prima che l’amico se ne potesse accorgere.

Ok, quando sentiva della musica, la ragazza ne veniva totalmente rapita e non era in grado di stare ferma, ma questo succedeva nella sua camera quando nessuno poteva vederla, o al massimo con Thalia.

In una situazione del genere, un pezzo di legno sarebbe stato probabilmente più abile di lei. In alternativa, le sarebbe servita una bella dose di alcol per lasciarsi andare, ma, come si era ripromessa a inizio serata, niente alcol.

Si stava di nuovo avvicinando a Wells quando una chioma di capelli corvini le turbinò davanti agli occhi e, senza che riuscisse a rendersene conto, due braccia esili le si strinsero intorno al collo.

Clarke riconobbe l’odore prima della figura: Octavia aveva sempre profumato di fiori, era una cosa a cui ormai l’aveva associata.

La sorpresa iniziale venne sostituita da un senso di calore che parve irradiarla dall’interno scaldandole, almeno in parte, il cuore.

La piccola Blake le era veramente mancata.

«Clarke!» esclamò la ragazza, senza sciogliere la presa.

Restituendo l’abbraccio, Clarke accarezzò la schiena dell’amica.

«Ehi, Octavia… mi sei mancata… » quelle parole  le uscirono prima che potesse rendersene conto e ne rimase sorpresa lei stessa.

La mora si staccò da lei e la guardò con dolcezza.

«Mi sei mancata anche tu».

Clarke ricordò improvvisamente la notte in cui la sua amica l’aveva tenuta stretta, cercando di rassicurarla per quanto possibile, la stessa notte in cui aveva visto per l’ultima volta anche suo fratello, almeno prima dell’irritante incontro di quella mattina, ma scacciò in fretta il pensiero. Non era una cosa su cui voleva riflettere adesso.

Le due si misero a sedere al bancone, Octavia ordinò un gin tonic e Clarke un thé alla pesca. Colse lo strano sguardo della bruna alle sue parole, ma lei non disse niente e per questo la bionda la ringraziò mentalmente.

Parlarono a lungo e Clarke venne a sapere che adesso l’amica lavorava come infermiera nello stesso reparto in cui sua madre era primario.

«Tua madre è un grande chirurgo, Clarke e sono convinta che tu non sarai da meno» le disse Octavia con un sorriso, mandando giù un sorso del suo drink.

La bionda sospirò.

«Devo prima passare il test di ammissione alla specialistica».

«Ce la farai. Ne sono certa».

Octavia sorrise, poi diede un’occhiata al suo cellulare, che aveva preso a squillare

«Scusa, devo rispondere. Ci vediamo dopo!» detto questo, terminò il contenuto liquido del suo bicchiere, si alzò e sparì tra la marea di gente.

Clarke aveva bisogno di prendere aria… e di una sigaretta, quindi si alzò dal bancone e si diresse verso la porta. Aveva perso di vista Wells; Jasper e Monty invece si erano momentaneamente allontanati dalla pista e adesso erano seduti a un tavolo con Monroe, Fox e Miller, che teneva sulle gambe una sorridente Harper, circondandole la vita con le braccia.

E quei due da quanto stavano insieme? Senza dubbio, Clarke si era persa molte cose in quegli anni di lontananza da casa e si chiese se avesse fatto bene a interrompere completamente i rapporti con tutti loro. Scuotendo la testa, si avviò verso l’uscita.

Una volta fuori, la fresca aria estiva la investì e Clarke si rilassò, con le spalle contro il muro del pub. Indossava una camicia a quadri a mezze maniche  sopra una canottiera nera e degli shorts beige.

La ragazza infilò una mano nella borsa ed estrasse il suo fidato pacchetto di sigarette, constatando che stavano quasi per finire. L’indomani avrebbe dovuto comprarle.

Era assorta nei suoi pensieri quando una voce poco distante attirò la sua attenzione.

«Non è carino scappare dalla propria festa di bentornato».

Clarke voltò la testa da un lato, sapendo già chi si sarebbe trovata davanti.

«Blake… che ci fai qui?» chiese con poco interesse, espirando il fumo e cominciando subito a sentirne l’effetto calmante.

«Così ferisci i miei sentimenti, io ero venuto per la festa in tuo onore dalla quale, evidentemente, ti sei defilata. Cos’è, Griffin? Non è abbastanza divertente per te? Ti sei abituata agli standard di Harvard?».

La bionda alzò gli occhi al cielo.

«Sai, Blake… tanti anni fa c’è stato un periodo in cui hai avuto un picco e sia tu sia la tua voce irritante, avevate quasi smesso di darmi fastidio. Ora tutto è tornato alla normalità».

Clarke vide il solito sorrisetto strafottente comparire sulle labbra del giovane e la cosa le diede sui nervi, come sempre.

«Non dirmi che quella era una battuta! Sei capace farne? Sono piacevolmente sorpreso, Principessa».

Di nuovo quell’odioso soprannome.

Clarke si voltò verso di lui, soffiandogli il fumo in faccia e Bellamy tossicchiò un paio di volte.

«Questa non è una cosa che le Principesse dovrebbero fare» disse con sarcasmo.

«Allora forse non sono poi la principessa che credi tu».

«Sai, non  ti facevo un’accanita fumatrice, Griffin».

«Tu non mi conosci affatto».

«Perché invece di stare qui a distruggerti i polmoni non torni dentro dai tuoi amici e ti godi la festa che hanno organizzato?».

Clarke lo osservò, sollevando un sopracciglio.

«E da quando tu ti preoccupi per me?».

Per un breve momento, tra i due aleggiò uno strano silenzio, poi Bellamy rispose: «Non lo faccio, infatti».

La bionda prese un altro tiro dalla sigaretta, lo sguardo perso in lontananza e un’espressione rilassata sul viso. Inconsciamente, sfiorò l’orologio di suo padre con la punta delle dita.

«Ne vuoi una?» chiese al ragazzo dopo qualche minuto di silenzio, quando ebbe finito la sua.

«No, grazie. Non fumo».

Lei scrollò le spalle, gli lanciò una rapida occhiata, poi stirò il collo irrigidito, lentamente, a occhi chiusi.

«Se adesso torni dentro potrei quasi offrirti un drink» disse Bellamy dopo un po’.

«Stavolta sono io a rifiutare. Non bevo, Blake».

«Davvero? E da quando avresti preso questa decisione? Perché ti ho vista bere, anni fa e, se non ricordo male, riesci anche a reggere l’alcol discretamente bene».

Sul viso di Clarke passò un’ombra.

«Non bevo e basta».

«Fammi capire, quindi tu fumi, ma appena si tratta di toccare un goccio d’alcol, allora ti tiri indietro? Cos’è, Principessa? Hai paura che possa approfittare di te?».

«Bellamy, smettila» il suo tono adesso era freddo e serio, ma lui insisté.

«No, davvero. Voglio capire».

«E io voglio che tu stia zitto».

Il repentino cambio d’atteggiamento della ragazza lo fece desistere dal suo intento.

«Come vuoi… » fece un momento di pausa e nel frattempo Clarke estrasse un’altra sigaretta.

«Vuoi davvero consumarti i polmoni, eh? Dovresti smetterla, Griffin. Seriamente».

«Mi sembrava avessi detto che non ti preoccupavi per me».

«Infatti è così. Vedi, in realtà mi sto preoccupando per mia sorella perché, in qualche strano modo, voi due andate d’accordo e non vorrei mai che ti ammalassi precocemente di cancro ai polmoni, lei ne soffrirebbe».

Clarke accennò ad un sorriso.

«Se tu fossi come tua sorella mi staresti molto più simpatico».

«Il mondo è bello perché è vario, Principessa».

«Mi stai davvero dando sui nervi, Blake».

«Lo so, ma è divertente».

La bionda espirò un’altra boccata di fumo e cercò di ignorarlo.

Bellamy stava per riaprire bocca quando la porta del locale si aprì e ne uscì Wells.

Per un momento, il ragazzo rimase immobile alla vista dei due. Infine parlò: «Ehi, Clarke… ti stavo cercando… » il suo tono era teso.

«Mi hai trovata» rispose lei con una scrollata di spalle e sventolando in aria la sigaretta per far capire all’amico il motivo per cui fosse uscita.

«Torna dentro, dai… il tuo strano amico vuole ballare».

«Jasper?».

Wells annuì.

«Arrivo, Wells. Fammi solo finire questa».

Il ragazzo incrociò le braccia al petto e piantò bene i piedi per terra, lanciando un’occhiataccia in direzione dell’altro.

«Aspetto» disse in tono convinto.

Bellamy gli rivolse il solito ghigno divertito.

«Non preoccuparti, ragazzo d’oro… non avevo intenzione di farle del male. Principessa… goditi la tua festa» e, detto questo, il giovane Blake tornò all’interno del locale, probabilmente per cercare sua sorella.

Quando la porta si fu richiusa alle sue spalle, Wells si rivolse a Clarke.

«Si può sapere che cosa ci facevi con lui?».

La bionda lo osservò, le sopracciglia leggermente inarcate.

«Stavamo soltanto parlando, Wells».

«Clarke… quello è Bellamy Blake».

«Sì, so perfettamente chi è».

«Non dovresti parlare con lui».

Adesso Clarke non cercò nemmeno di nascondere la sua sorpresa.

«Si può sapere che ti prende?».

Wells scosse la testa, sospirando solamente.

«Niente. Solo… torniamo, dentro ok?».

E, detto questo, i due si riavviarono all’interno del pub.

Una volta giunti nuovamente nella saletta, Clarke venne investita dall’uragano Jasper.

«Ehi, Clarke! Ti piace la festa?».

«Ehm… certo! Ma non ballo Jasper, quindi non ci provare».

«Oh, avanti!».

«Assolutamente no».

«Tu non sai divertirti» e, così dicendo, il ragazzo sparì nuovamente tra la folla.

Clarke scosse la testa sorridendo e si guardò intorno. Per un istante, i suoi occhi incrociarono quelli di Bellamy Blake, poi il ragazzo alzò la bottiglia di birra che teneva in mano come a voler fare un brindisi e ne mandò giù un sorso. Dopo un istante voltò la testa dall’altra parte e riprese a parlare con il suo amico Atom.

La bionda ricordava quel ragazzo: era uno della gang di Bellamy, al liceo si muovevano sempre in branco e durante il suo primo anno le avevano causato non pochi problemi. Sembravano essere rimasti tutti, in qualche strano modo, tranne lei. Lei era stata la ragazza nuova e continuava a sentirsi tale anche dopo dieci anni.

Improvvisamente venne colta da una malinconia talmente forte che quasi le causò un dolore al petto e Clarke chiuse gli occhi per un momento.

Quando li riaprì, trovò nuovamente gli occhi scuri di Bellamy Blake a fissarla, impossibile dire a cosa stesse pensando, ma lei non voleva più vedere quegli occhi. A dire il vero… non voleva restare in quel posto un istante di più, così, andò a cercare Wells, sperando di trovarlo presto per chiedergli di riportarla a casa.

 

For a while I thought I fell asleep
Lying motionless inside a dream

Then rising suddenly
I felt a chilling breath upon me
She softly whispered in my ear

 

Per un momento
pensavo di essermi addormentato
sdraiandomi senza emozioni in un sogno

Poi svegliandomi improvvisamente
ho sentito un respiro freddo sopra di me
lei dolcemente bisbigliava nel mio orecchio

 

 

Bellamy se ne stava sdraiato nel suo nuovo letto, a pancia in su a osservare un soffitto che in realtà non vedeva a causa del buio della notte.

Stava pensando. Pensando a ciò che era accaduto quella sera e che non si sapeva spiegare precisamente.

Lui e Octavia si erano recati insieme alla festa per il rientro di Clarke Griffin, poi sua sorella era andata per conto proprio e lui aveva aspettato Atom. Miller si era defilato non appena era arrivata Harper. Quei due stavano insieme da quattro anni ormai, ma si comportavano come se fossero stati soltanto i primi mesi. Patetico.

Così, i due amici avevano preso una birra insieme, poi l’attenzione di Bellamy era stata catturata dall’abbraccio tra Clarke e sua sorella, così, aveva seguito con lo sguardo le due ragazze  andare al bancone, prendere da bere e infine Octavia si era allontanata per rispondere al telefono. Probabilmente doveva essere Lincoln.

Quando Clarke si era avviata verso l’uscita, Bellamy non era riuscito a resistere, dunque l’aveva seguita fino all’esterno del locale e lì l’aveva vista accendersi una sigaretta con tutta calma.

Era rimasto davvero sorpreso dalla cosa. Clarke Griffin che fumava? No, impossibile. Eppure era proprio lì davanti ai suoi occhi.

L’aveva stuzzicata, osservata e studiata per la durata della loro breve conversazione, c’era qualcosa… qualcosa di completamente diverso rispetto alla ragazza che aveva conosciuto quasi dieci anni prima. Un dettaglio che gli sfuggiva e questa cosa lo faceva impazzire, facendogli perdere il sonno. Il momento in cui la ragazza aveva sfiorato distrattamente l’orologio che portava al polso gli era rimasto particolarmente impresso. Sembrava un orologio maschile, quello che indossava. Un qualche fidanzato? Un gesto che significava qualcosa di preciso? Bellamy non lo sapeva.

Alla fine sbuffò sonoramente. Forse la Principessa non c’entrava niente con la sua momentanea e del tutto anormale insonnia, magari era solo dovuto alla nuova casa.

Poi l’espressione persa e lontana di Clarke gli passò nuovamente davanti agli occhi e lui si chiese a cosa la ragazza stesse pensando in quel momento. Ricordò, poco dopo, il suo viso rilassato mentre stirava il collo, facendogli compiere un lento movimento circolare, gli occhi chiusi, la pelle tinta d’argento dal bagliore della luna sopra di loro.

Infine c’era stato quel momento, una volta tornati all’interno del locale. Bellamy non seppe spiegarsi cosa fosse successo di preciso, ma aveva avuto l’impressione che Clarke stesse quasi soffrendo.

Il ragazzo si passò una mano tra i capelli scuri e si alzò dal letto. Aveva bisogno di bere un po’ d’acqua, magari si  sarebbe rilassato.

Andò in cucina, sbattendo nel buio contro un mobiletto lungo il corridoio e imprecando a mezza voce. Sì, doveva decisamente abituarsi alla nuova casa. Nella vecchia poteva tranquillamente camminare anche nell’oscurità più totale, con la costante consapevolezza  di cosa lo circondasse. Ora invece avrebbe dovuto abituarsi al nuovo ambiente.

Faceva davvero caldo e lui indossava solo un paio di boxer neri. In estate dormiva sempre in quel modo e quell’anno la stagione era particolarmente afosa.

Bellamy bevve due bicchieri d’acqua e poi se ne tornò a letto, cercando di non sbattere di nuovo contro il mobile del corridoio.

Il giorno dopo avrebbe dovuto essere presto al lavoro e, onestamente, non aveva voglia di sorbirsi le lamentele di Sinclair per essere arrivato tardi o per avere una faccia da zombie di prima mattina.

Tutto ciò a cui però riuscì a pensare una volta sotto le lenzuola, fu, di nuovo, quella notte di sei anni prima.

*Fuori dalla porta della sua camera da letto, Bellamy sentiva ancora il pianto disperato di Clarke, attutito forse dall’abbraccio di sua sorella.

Il ragazzo aveva provato ad andare a letto e dormire, ma i singhiozzi della bionda lo avevano tenuto sveglio per un bel pezzo, così alla fine aveva deciso di alzarsi nuovamente e adesso si trovava lì, davanti ad una porta chiusa, non sapendo cosa fare.

Che diamine, quella era la sua stanza e quasi si sentiva un intruso. Conosceva Clarke Griffin da tre anni ormai e non l’aveva mai vista piangere, nemmeno una volta, neanche quando si era rotta il polso al primo anno, mentre lui era all’ultimo.

Non una volta. E ora sembrava che non riuscisse a smettere di farlo. Bellamy sapeva che non gliene sarebbe dovuto importare molto, che avrebbe dovuto farsi gli affari suoi, ma erano le sei di mattina passate ed erano più di due ore che Clarke piangeva senza sosta, ormai. A quel punto avrebbe dovuto aver smesso, se non altro per sfinimento.

Alla fine, il ragazzo si decise ad entrare e Octavia lo fissò con uno sguardo di rimprovero.

«Bellamy!» lo richiamò.

«Vai in camera tua, Octavia. Qui ci penso io».

Aveva assunto il classico tono da “E non ammetto repliche”, quindi la sorella minore non protestò; aveva imparato a conoscere fin troppo bene suo fratello.

La mora posò un bacio sulla guancia umida di Clarke, poi si sciolse lentamente dal suo abbraccio e si riavviò nella sua stanza, lanciando un’ultima occhiata ammonitrice al fratello che non poteva significare altro se non “Sta’ attento a quello che fai”.

I due Blake avevano imparato a conoscersi e fidarsi talmente l’uno dell’altra, che a volte non avevano neanche più bisogno di parlare per capirsi.

Una volta che la porta si fu richiusa alle spalle di Bellamy, il ragazzo osservò attentamente Clarke, seduta sul suo letto, il viso tra le mani e i singhiozzi che le scuotevano tutto il corpo.

Sospirò pesantemente e, con passo lento, le si avvicinò.

«Clarke… ».

Ma lei non si mosse.

«Principessa?» riprovò allora.

Per un momento, la ragazza parve irrigidirsi, poi, lentamente, si tolse le mani dal viso, rivelando i suoi occhi blu incredibilmente gonfi e arrossati.

«Lasciami in pace, Blake».

Lui però non si mosse e continuò ad osservarla, mentre lei era ancora scossa da brividi.

Il ragazzo si accorse che la bionda non indossava più i vestiti inzuppati con cui l’aveva trovata. Adesso aveva una sua tuta che le stava ridicolmente larga. Doveva avergliela data Octavia, ma lui si astenne dal fare commenti, cosa che, in altre circostanze, non le avrebbe certo risparmiato.

«Non riesco a dormire se continui a piangere e gridare in questo modo. Senza contare il fatto che ormai, probabilmente, avrai svegliato il vicinato».

La bionda lo fulminò con un’occhiata omicida, ma non parlò.

Restarono in silenzio per qualche minuto, poi Clarke lo richiamò.

«Bellamy?».

Il ragazzo rimase sorpreso; le volte in cui la bionda lo aveva chiamato per nome in tre anni si potevano contare sulle dita di una mano.

«Dimmi… ».

«Hanno ucciso mio padre. Perché hanno ucciso mio padre?!».

La voce di Clarke si era fatta sottile, ma acuta e Bellamy ebbe la sensazione che potesse scoppiare di nuovo a piangere da un momento all’altro.

«Non lo so, Clarke. Mi dispiace».

Il ragazzo non registrò immediatamente cosa accadde dopo. Sentì prima le braccia di Clarke intorno alla sua vita, poi il viso di lei nascondersi nell’incavo del suo collo, inondandolo di lacrime, che però stavolta scesero silenziose, senza singhiozzi.

Il moro si irrigidì, sorpreso dal gesto della ragazza. Non sapeva che fare, non ne aveva davvero idea, ma quando il corpo di lei iniziò a tremare, ricambiò l’abbraccio, accarezzandole la schiena.

No, quello non era decisamente un comportamento da Bellamy Blake e, se qualcuno mai lo avesse scoperto, probabilmente il ragazzo lo avrebbe negato fino alla morte, perché le uniche persone, escluso sé stesso, di cui gli importasse in realtà, erano Octavia e sua madre. Non di certo una principessa viziata che… ma a cosa diavolo stava pensando? Quella ragazza aveva appena perso suo padre… era davvero questa la persona che voleva essere? Sua madre lo aveva cresciuto da sola, insegnandogli ad essere migliore, ad essere buono, ma ora non si sentiva tale.

Le lacrime di Clarke continuavano a scendergli lungo il collo, inzuppando il bordo della sua maglietta e la sola cosa che fu in grado di dire fu: «Non ti preoccupare, Clarke. Cerca di dormire, andrà tutto bene».

Passò un’altra mezz’ora prima che Bellamy si accorgesse che la ragazza aveva smesso di tremare ed ora era placidamente adagiata contro il suo corpo, inerme.

«Clarke?» la chiamò una volta. «Clarke?».

Dalla ragazza però non venne risposta e, quando lui le scostò i capelli dal volto, si accorse che aveva chiuso gli occhi e che adesso il suo respiro si era fatto più regolare e profondo. Si era addormentata, finalmente.

Piano, la adagiò sul suo letto, facendola distendere e coprendola con un’altra coperta perché, quella che le aveva dato quando l’aveva portata lì, ormai era tutta bagnata.

Senza fare rumore, si avviò verso la porta, lanciò un’ultima occhiata alla ragazza e uscì, facendo più silenzio possibile*.

Il mattino seguente, quando Bellamy riaprì gli occhi, il sole aveva già cominciato a fare capolino ad est.

Il ragazzo si alzò dal letto, stirando i muscoli intorpiditi. Per un momento si trovò disorientato, poi ricordò che non abitava più nella vecchia casa con sua sorella e Lincoln. Adesso aveva un posto tutto suo.

Il ragazzo si era chiesto varie volte come sarebbe potuto essere, ma ora che si trovava davvero a quel punto, gli sembrava strano. Gli sembrava strano non avere più la sua energica e allegra sorellina intorno, gli sembrava strano non assistere più ai suoi battibecchi con Lincoln o litigare per chi dovesse usare per primo il bagno la mattina. Liti alquanto inutili dal momento in cui in casa c’erano due bagni, ma quella scena si ripeteva ogni sacrosanta mattina.

Prese un caffè, godendoselo senza fretta, mangiò qualcosa e poi iniziò a vestirsi per andare al lavoro. Sperò solo che Atom non attaccasse con una delle sue solite domande imbarazzanti, chiedendogli dove fosse sparito la sera precedente.

Bellamy ripercorse di nuovo la breve conversazione avuta con la Principessa la sera prima e ricordò la faccia infastidita e il tono teso di Wells Jaha quando li aveva trovati fuori a parlare.

Quel ragazzo doveva avere una gran cotta per Clarke, questo era lampante. Lui si chiese semplicemente se davvero, in tutti quegli anni, la bionda non si fosse mai accorta di nulla. Gli strani comportamenti, gli sguardi fugaci, l’istinto protettivo nei suoi confronti. Ad ogni modo, quelli non erano affari che lo riguardavano.

Il ragazzo afferrò le chiavi di casa e quelle dell’auto prima di uscire dalla nuova abitazione e recarsi al lavoro.

Mentalmente, pregò che quel giorno tutto filasse liscio. Non voleva davvero che accadesse qualcosa che coinvolgesse la polizia. Non aveva la minima intenzione di rivedere il nuovo comandante dopo il loro non brillantissimo inizio, il giorno prima.

Sospirando, il ragazzo si richiuse la porta alle spalle e si avviò verso la caserma.

 

NOTE:

E rieccomi con il quinto capitolo! Sono un po’ di fretta oggi, quindi non posso soffermarmi molto, dunque… abbiamo visto la famigerata festa organizzata da Jasper, l’incontro con Octavia e il momento tra la nostra bionda e Bellamy fuori dal locale.

Nulla di eclatante in realtà, ma tra i due c’era una certa tensione, specialmente quando lui cerca di offrirle qualcosa da bere e lei rifiuta in modo molto deciso. Nei prossimi capitoli verrà spiegato meglio il rapporto Clarke/alcol e beh… non anticipo altro, ma ci saranno altri momenti Bellarke.

La citazione del flashback “Sua madre lo aveva cresciuto da sola, insegnandogli ad essere migliore, ad essere buono, ma ora non si sentiva tale” è ripresa dalla 1x08 di The 100, quando Bellamy ha appena ucciso Dax che aveva aggredito lui e Clarke e c’è quel momento strappalacrime in cui dice “Mia madre, se sapesse ciò che ho fatto, quello che sono diventato. Mi ha cresciuto insegnandomi ad essere migliore, ad essere buono…” ecco, è ripresa da lì. Ormai lo conosco a memoria, soprattutto ho amato quell’episodio.

Un ringraziamento a tutti voi che leggete, che avete inserito la storia tra le preferite e le seguite e soprattutto alle persone meravigliose che hanno speso due minuti del loro tempo per lasciarmi un parere: Marti Lestrange, Fangirl_G e Emma Bennet. Siete fantastiche <3

Le canzoni di questo capitolo sono state Blow me (one last kiss) di Pink per Clarke e Forsaken dei Dream Theater per Bellamy. 

P.s. Abituatevi ai Dream Theater e ai Within Temptation, sono due dei miei gruppi preferiti e vi ritroverete metà delle loro discografie ^-^ 

Bene, non mi dilungo oltre e… a voi la parola!

Un bacio,

Mel

Blow me (one last kiss) – Pink

Forsaken – Dream Theater

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Troubles ***


cap6  






Demons

CAPITOLO 6: TROUBLES

 

Everyday's an endless stream

Of cigarettes and magazines

And each town looks the same to me

The movies and the factories

And every stranger's face I see

Reminds me that I long to be

 

Ogni giorno è un flusso senza fine

di sigarette e di riviste

e tutte le città mi sembrano uguali

i film e le fabbriche

ed ogni faccia straniera che vedo

mi ricorda quanto lontano io sia.

 

 

Clarke appallottolò l’ennesimo foglio, gettandolo in un angolo della stanza come innumerevoli altri, che ormai cospargevano il parquet della mansarda.

Era nervosa, stanca e aveva un fastidioso cerchio alla testa.

Aveva trascorso l’intera nottata insonne e non c’era stato verso di riuscire ad addormentarsi. Quando era giunta alla conclusione che, per quella notte, non avrebbe chiuso occhio, aveva preso il blocco da disegno e si era messa a disegnare. Per modo di dire, dato che ormai erano ore che provava a tracciare qualcosa di sensato su quelle pagine bianche, ma fallendo miseramente nell’intento.

Alla fine rinunciò anche a quello, prese la borsa ed estrasse il solito pacchetto di sigarette. Dopo averne fumate due la sera precedente, ormai ne era rimasta soltanto una. La ragazza aprì la finestra e si sporse sul davanzale. Le strade erano deserte e l’unico rumore che Clarke riusciva a sentire, era il respiro di Yeti, che dormiva ai piedi del suo letto.

Dando un’occhiata davanti a sé, la bionda constatò che le tende della camera di Wells erano tirate. Ma d’altra parte… era ancora molto presto.

Wells… ripensò alla strana reazione che aveva avuto la sera precedente quando l’aveva vista insieme a Bellamy e, di nuovo, si chiese che cosa gli fosse preso.

La sua attenzione fu richiamata da una macchina scura che rallentò giusto in prossimità del suo giardino, restò ferma per qualche istante e poi ripartì. Clarke non riuscì a vedere chi fosse alla guida dell’auto, ma la cosa le parve piuttosto strana.

Ad ogni modo non ci diede troppo peso e, una volta finita la sua sigaretta, tornò a concentrarsi sullo studio. Avrebbe dovuto passare tutta l’estate china sui libri se davvero voleva rientrare tra i primi cinque ammessi e sarebbe stata un’impresa ardua.

Comunque la ragazza non si arrese, d’altra parte… che altro aveva da fare lì? Per la terza volta, il pensiero di suo padre e della possibilità di parlare con il nuovo capitano, tornò a stuzzicare la sua mente, ma lei lo scacciò. Probabilmente quella donna aveva di meglio da fare che perdere tempo con un caso archiviato sei anni prima.

Tuttavia, Clarke non riuscì a estirpare completamente quel pensiero dalla sua mente e ogni tentativo di studio fu completamente inutile.

Le sembrava di avere la testa talmente ingombra da non riuscire ad assimilare altro e l’immagine di suo padre le passò davanti agli occhi innumerevoli volte.

Alla fine, con un sonoro sbuffo, lanciò il libro di anatomia sul letto, il quale rimbalzò e finì sul pavimento della mansarda con un gran tonfo.

Il rumore fece sobbalzare immediatamente il povero Yeti, strappato in maniera così brutale al suo sonno tranquillo. Il gatto soffiò una volta, indignato, ed uscì di corsa dalla stanza.

La scena divertì Clarke, che per un momento sorrise, poi, senza rifletterci un istante di più, si vestì e uscì di casa a grandi passi. Dal momento in cui il pensiero di suo padre non l’avrebbe abbandonata, ne era certa, si avviò alla stazione di polizia, non sapendo nemmeno cosa avrebbe detto una volta che si fosse trovata davanti il nuovo comandante.

Probabilmente le avrebbe riso in faccia e l’avrebbe mandata via, dicendole di non farle sprecare il suo tempo e, dopotutto, Clarke non avrebbe potuto darle torto.

Attraversò spedita le strade che aveva imparato a conoscere tanto bene e, in mezz’ora, arrivò alla centrale.

Marcus stava ancora dormendo quando era uscita di casa e sperò solo che non arrivasse trovandola lì. Non aveva la minima voglia di spiegargli il motivo di quell’improvvisata.

Clarke non era stata molte volte alla centrale di polizia, giusto un paio quando suo padre era morto, sei anni prima, ma sapeva dove si trovava l’ufficio del comandante. All’epoca in carica c’era una certa Byrne, che non aveva fatto poi molto per scoprire cosa fosse successo o prendere l’assassino, non sapeva che fine avesse fatto adesso.

La ragazza era quasi arrivata alla porta quando, ad un tratto, udì una voce familiare alle sue spalle.

«Clarke!».

«Ehi, ehm… Octavia, che ci fai qui?».

«Sono venuta a portare il pranzo al mio fidanzato, sai… dimentica sempre di prenderlo la mattina, prima di uscire… » rispose la mora con un sorriso divertito.

«Il tuo fidanzato?» Clarke non si rese nemmeno conto dell’espressione sorpresa che doveva essersi dipinta sul suo volto, facendole inarcare le sopracciglia.

«La cosa ti sorprende tanto? Che io abbia un ragazzo, intendo».

«No, non è… non è per quello. È più che altro il fatto che tuo fratello abbia smesso di starti addosso a sorprendermi».

Octavia rise.

«Oh, mio fratello continua a starmi addosso, se è di questo che ti preoccupi. All’inizio è stato un vero inferno, non mi lasciava quasi uscire di casa, ma… devo dire che quando lui e Lincoln si sono conosciuti, nonostante i primi tempi si detestassero, poi le cose sono migliorate».

«Beh, buon per te, allora».

«Già… e tu? Che ci fai qui?».

«Io… ehm… » la ragazza iniziò a balbettare, non sapendo cosa dire. Alla fine, dato che non riuscì a trovare una bugia credibile, optò per la verità. «Vorrei parlare con il comandante in realtà, ma non so se possa ricevermi, ora che ci penso».

L’espressione di Octavia era solo vagamente sorpresa, poi, si voltò da una parte e fece cenno a qualcuno che, da dov’era Clarke in quel momento, non riuscì a vedere.

Poco dopo, un giovane alto, di carnagione piuttosto scura e la testa completamente rasata, entrò nel suo campo visivo.

«Ehi» lui salutò la mora con un sorriso, cingendole la vita con un braccio e posandole un bacio sulle labbra.

Clarke sorrise, leggermente imbarazzata e guardò altrove.

«Lincoln, lei è Clarke Griffin, una mia cara amica del liceo. Clarke, lui è Lincoln: il mio fidanzato».

«Piacere» rispose la bionda, stringendo la mano del ragazzo.

«Lincoln, Clarke vorrebbe parlare con il nuovo comandante… credi che sia possibile?».

Lui alzò le sopracciglia e sospirò.

«Non te lo so proprio dire, quella donna è un po’… rigida, diciamo così. Posso provare a chiedere».

«No, lascia stare, davvero. Non vorrei che avessi problemi sul lavoro a causa mia, io… non sarei dovuta neanche venire, grazie lo stesso per la disponibilità».

Clarke aveva ormai voltato le spalle ai due quando ad un tratto, la porta dell’ufficio si aprì e una giovane donna dagli occhi azzurri e lunghi capelli castano chiaro ne uscì.

«Cosa succede qui fuori?» chiese in tono freddo.

Lincoln stava per aprire bocca, quando Clarke lo precedette, la lingua completamente scollegata dal cervello.

«Vorrei parlarle. Riguarda l’omicidio di mio padre».

La bionda non si accorse dell’espressione sorpresa di Lincoln, né della bocca semiaperta di Octavia. I suoi occhi continuavano a fissare quelli del comandante che, nonostante tutto, rimasero impassibili.

La donna la osservò di rimando per qualche istante, poi, si fece da parte e con il capo le fece cenno di entrare nell’ufficio.

Quando Clarke si ritrovò nella stanza, si guardò intorno per un po’.

Era un ambiente freddo e impersonale: niente foto, niente quadri, nulla che potesse lasciar trapelare il minimo dettaglio della persona a cui adesso appartenesse. Le pareti erano completamente bianche, tanto che alla ragazza ricordò quasi la corsia di un reparto ospedaliero. C’erano delle mensole di vetro fissate al muro, sopra qualche volume, codice civile, penale e via dicendo.

Al centro della stanza c’era una grande scrivania, in vetro anch’essa e tre sedie. Sulla superficie fredda, una targa identificativa diceva: “Comandante L. War”.

La donna le disse di accomodarsi, indicando con un braccio una delle due sedie davanti alla scrivania, mentre lei prese posto su quella dietro, continuando a fissarla con la sua espressione imperscrutabile.

«Allora… credo che prima di tutto dovrebbe iniziare con il suo nome».

«Mi chiamo Clarke. Clarke Griffin. E mi dia del tu» rispose prontamente la bionda. Era strano, a parte questo, Clarke si trovava in difficoltà. Come avrebbe fatto adesso a spiegare al comandante cosa fosse successo? Tutto le parve improvvisamente ridicolo e lei si maledisse per essere andata lì.

«Bene, Clarke. Dunque, mi dicevi… tuo padre è stato ucciso?».

«Esatto».

«Quando è successo?». Il tono del comandante War era freddo e professionale e adesso, Clarke si rese conto, raccontare di nuovo a qualcuno cosa fosse successo quella notte, faceva male.

«Sei anni fa» disse con tono incerto.

La ragazza non seppe identificare bene lo sguardo lanciatole dal comandante War, ma non le piacque. E in quel momento seppe che presto sarebbe arrivato un rifiuto.

«Com’è successo?» continuò la donna, sempre nello stesso tono. Quella mancanza di inflessione nella voce stava cominciando ad innervosire Clarke, ma d’altra parte che si aspettava? Per lei quello di suo padre era un caso come un altro.

«È… lui è stato ucciso ad un distributore di sigarette, a Brooklyn. Gli hanno sparato».

Adesso le sopracciglia del comandante si inarcarono leggermente.

«Se è successo a Brooklyn io non ci posso fare niente, sarà competenza del Dipartimento di Brooklyn».

«La prego comandante, a Brooklyn non muoveranno un dito! Non hanno fatto nulla per scoprire cosa è successo, sei anni fa».

Ma il tono dell’altra rimase irremovibile.

«Mi dispiace. Non ti posso aiutare, Clarke».

La ragazza chiuse gli occhi, mandando giù a forza il groppo che le si era formato in gola, dopodiché si alzò dalla sedia e uscì dall’ufficio senza aggiungere un’altra parola.

Non incontrò né Octavia né il suo fidanzato e fu meglio così, perché in quel momento sarebbe davvero stata capace di aggredire verbalmente qualcuno.

Una volta fuori dalla centrale di polizia respirò profondamente, un paio di volte, affondando le mani tra i suoi capelli biondi e tirandoli indietro, gli occhi chiusi.

Aveva bisogno di una sigaretta, ma le aveva finite, così, per cercare di calmarsi, sfiorò l’orologio al suo polso proprio come la sera precedente.

Per un attimo si era illusa, si era davvero illusa di poter fare luce sull’omicidio di suo padre, di dargli la giustizia che meritava, ma aveva ricevuto l’ennesima porta in faccia.

Quando si fu calmata riprese a camminare, dove stesse andando non lo sapeva, come non sapeva quanto a lungo avesse camminato prima di ritrovarsi davanti alla sua vecchia scuola: la “Mount Weather High”.

Aveva così tanti ricordi di quel posto, così tante piccole cose che allora aveva reputato insignificanti o scontate, ma che adesso le sembravano così importanti.

Le ore trascorse china sui libri su quei banchi ad ascoltare con attenzione le lezioni, i momenti allegri in compagnia di Jasper e i suoi esperimenti da scienziato pazzo nel laboratorio di chimica, le lunghe ore di studio trascorse con Wells nella biblioteca, in quegli interminabili pomeriggi in preparazione agli esami di metà e fine semestre.

Non riusciva a capacitarsi, adesso, di aver dato davvero per scontate tutte quelle cose, quei giorni felici, quando ancora era una ragazzina e poteva permettersi di esserlo.

Per un momento si chiese chi ci fosse ora tra le mura di quella scuola, le storie dei ragazzi che la frequentavano. Ogni generazione faceva il suo corso e in ogni generazione c’erano più o meno gli stessi elementi: la mente brillante, la secchiona di turno, proprio come lei.

Il ragazzo studioso e assennato come lo era stato Wells.

Il chimico e l’informatico, i ragazzi nerd, come i suoi amici Jasper e Monty.

Il bullo di turno e la sua gang, Bellamy Blake e la sua vecchia combriccola.

Sì, in ogni generazione si ripetevano all’incirca le stesse storie, ma allora perché si sentiva come se nessuno al mondo potesse comprendere ciò che aveva passato lei, e con cui tutt’ora stava facendo i conti?

Guardò l’orologio: ormai erano le dieci di mattina, era fuori casa da quasi tre ore e nemmeno se n’era resa conto.

Così, cominciò a tornare indietro e durante il percorso si accorse di una cosa di cui solo ora comprendeva appieno la gravità: qualunque cosa per lei aveva perso interesse, tutto le sembrava uguale intorno a sé e ogni giorno era diventato una routine snervante che sembrava ripetersi in loop.

Si chiese a che punto preciso della sua vita avesse smesso di importarle del mondo, sapeva che la miccia, il fulcro di tutto, era stata la morte di suo padre, ma qualcos’altro doveva aver chiuso completamente il suo cuore. Che cosa fosse stato, Clarke non lo sapeva.

La giornata era appena cominciata, nonostante in realtà fosse sveglia dalla mattina precedente e la ragazza era già stanca di riflettere. Troppe idee che si ammassavano nella sua mente e, per di più, la delusione per non aver convinto il nuovo comandante ad aiutarla.

Sapeva che non avrebbe neanche dovuto provarci e cercò di soffocare quel senso di rabbia che le cresceva dentro, ma il risultato fu vano.

Così, smise semplicemente di pensare e se ne tornò da dov’era venuta, a passo svelto e con lo sguardo vuoto di chi ormai non ha più nulla da perdere.

 


I wanna hide the truth
I wanna shelter you
But with the beast inside
There's nowhere we can hide

No matter what we breed
We still are made of greed
This is my kingdom come
This is my kingdom come

 

Voglio nascondere la verità
Voglio proteggerti
Ma con la bestia dentro me
Non c’è posto per nascondersi

Non importa quale sia la nostra razza
Siamo ancora fatti d’invidia
Questo è il mio regno che arriva
Questo è il mio regno che arriva

 

 

Il sole era già alto quando Bellamy uscì di casa per recarsi al lavoro, quella mattina. Salì in auto, ancora stanco a causa della notte appena trascorsa. Avere difficoltà ad addormentarsi non era decisamente da lui.

Mise in moto il veicolo e partì. Stava percorrendo le strade ancora poco movimentate di Fort Hill quando, ad un tratto, qualcosa attirò la sua attenzione: una figura vagamente familiare sporta dal davanzale di una finestra. Il ragazzo rallentò giusto in tempo per riconoscere Clarke Griffin che fumava una sigaretta con aria leggermente malinconica… e lui sapeva bene a che cosa fosse dovuta.

Gli ci volle un momento per riconoscere quella casa: era la stessa da cui aveva visto Jasper Jordan saltare giù dalla finestra, qualche sera prima e si chiese se lui e Clarke stessero insieme, d’altra parte… erano amici da molti anni, poteva anche essere così.

Ad un tratto però, la ragazza parve accorgersi di lui, così Bellamy ripartì alla svelta, sperando che non lo avesse riconosciuto, altrimenti avrebbe fatto la figura dello stalker. Riprese velocità e guidò spedito fino ad arrivare in quella che ormai era diventata la sua seconda casa. Una lunga giornata di lavoro lo aspettava.

In caserma non ebbe un momento di tregua, infatti dieci minuti dopo essere arrivato, Atom prese la chiamata di un grosso incendio in un condominio, così la squadra partì a sirene spiegate.

Impiegarono tre ore per spegnere quell’incendio e tornarono al loro posto di lavoro stanchi e doloranti. Era stata una bella sfida. Ma d’altra parte… era proprio questo che a Bellamy era sempre piaciuto. Sua sorella si spaventava sempre a morte e finivano spesso col litigare quando lui le diceva che quello era il bello del suo lavoro. Octavia non capiva. O più semplicemente si preoccupava.

«Mamma è morta tra le fiamme, Bell! Come puoi non capire quanto mi spaventi saperti in quell’inferno ogni sacrosanto giorno!?»”, gli ripeteva sempre.

Sì, Bellamy si era sentito in colpa per sua sorella, ma non poteva negare il brivido di adrenalina che gli scorreva lungo la spina dorsale ogni volta che si trovava in mezzo ad un incendio. Sapeva che era sbagliato, che non era normale e che forse era lui ad avere qualcosa che non andava, ma non poteva mentire a sé stesso.

Con quei pensieri, compilò il suo rapporto e le scartoffie di routine da inviare al Dipartimento di Polizia, poi andò a fare una doccia per togliersi di dosso tutta quella fuliggine.

Impiegò due minuti, lasciandosi i capelli bagnati. Ormai luglio era alle porte e non avrebbe di certo preso un raffreddore.

«Ehi, Bell!» lo richiamò Atom quando fu tornato dagli altri.

«Ehi».

«Allora… com’è andata ieri sera? Insomma… ad un certo punto non ti ho più visto e poi sei ricomparso misteriosamente».

Ecco, esattamente ciò che Bellamy sperava non accadesse.

«Niente, ero fuori dal locale» cercò di stare sul vago, ma ovviamente il suo amico non aveva nessuna intenzione di demordere.

«Fuori dal locale? E a fare cosa?».

«Ma niente, Atom».

«Sai cosa penso, amico mio?».

«No, e non mi interessa».

Atom sogghignò.

«Così mi ferisci».

«La tua sensibilità non è un mio problema».

Il sorrisetto del suo amico parve allargarsi ulteriormente.

«Beh, grazie Bellamy».

«Non c’è di che».

L’altro sbuffò sonoramente, poi riprese parola.

«Comunque stavo pensando che eri fuori con una ragazza, ma sei troppo orgoglioso e stronzo per parlarne con il tuo migliore amico. Ho ragione, non è così?».

Bellamy non riuscì a trattenersi e alzò gli occhi al cielo.

«Stavo solo parlando con Clarke Griffin, pezzo d’idiota che non sei altro».

Adesso Atom parve perdere l’uso della parola.

«Aspetta… stiamo parlando della stessa Clarke Griffin? La principessa?».

«Proprio lei. Ti sembra una cosa così fuori dal mondo?».

«Beh, sì! Insomma… voi due riuscite a stento a stare nella stessa stanza e adesso fate gli amici del cuore? Mi sento spodestato. O magari invece che amica del cuore hai intenzione di farla diventare la tua amica di letto? Perché in tal caso credo che dovrei andare a rintanarmi sottoterra in attesa della terza guerra mondiale».

«Sottoterra ti ci spedirò io, ma in una bara se continui con queste stronzate».

«Ok, ok, non scaldarti tanto, amico. Stavo solo scherzando».

«Sarà meglio».

«Non sei di umore molto roseo oggi, non è vero Bell? Non è che magari la principessa ti ha fatto strani effetti?».

L’occhiata omicida che Bellamy gli lanciò fu sufficiente per zittirlo all’istante e farlo defilare.

Lui e Atom erano amici d’infanzia, ma a volte quel ragazzo sapeva essere davvero un emerito idiota.

Il moro si costrinse a non pensare alla conversazione appena avvenuta e si diresse al veicolo per ripristinare i materiali utilizzati nell’incendio di poco prima, ma due ore prima della fine del turno vennero chiamati di nuovo per un incidente d’auto e dovettero tirare fuori uno dei guidatori che era rimasto incastrato e, quando tornarono alla caserma, per lui era ora di tornare a casa, finalmente.

La forza dell’abitudine lo fece arrivare fino alla sua vecchia casa e una volta realizzato il fatto che adesso abitava da un’altra parte, si diede dell’idiota e tornò indietro.

Sì, era veramente stanco.

Una volta a casa mise tre hamburger su una piastra e li spazzolò in pochi minuti. Octavia lo rimproverava sempre del fatto che mangiasse troppo velocemente, ma aveva davvero una fame da lupi.

Subito dopo pranzo si buttò a peso morto sul divano e accese la tv, esausto. Dopo nemmeno cinque minuti le sue palpebre si fecero troppo pesanti per tenere gli occhi aperti e un momento dopo venne avvolto dall’oscurità.

 

Il ragazzo venne svegliato da un leggero scrollare sulla sua spalla.

Riaprì gli occhi e lentamente mise a fuoco la familiare figura di sua sorella china su di lui.

«Ehi, fratellone… che stavi facendo?».

Bellamy la osservò con uno sguardo ancora a metà tra l’assonnato e l’incredulo.

«Cosa stavo… ? Cosa… ? O, cosa ti sembrava stessi facendo? Dormivo!».

Lei corrugò la fronte.

«Non c’è bisogno di fare lo scontroso, è che non dormi mai il pomeriggio, avevo provato a chiamarti, ma dato che non mi rispondevi mi sono preoccupata e sono venuta a controllare che stessi bene. A quanto pare sei il solito idiota di sempre».

Un leggero senso di colpa si insinuò dentro di lui per aver risposto male alla sorella.

«Scusa, O… sono solo stanco».

L’espressione di lei si addolcì.

«Per stavolta forse posso perdonarti».

Lui le sorrise.

«Come mai sei passata? Avevi bisogno di qualcosa? O semplicemente sentivi troppo la mia mancanza e sei corsa a trovarmi dopo appena un giorno?».

«Scemo» rispose lei schioccandogli un sonoro bacio sulla guancia.

La ragazza si sedette al suo fianco e tornò seria, lanciandogli uno sguardo penetrante.

«In realtà sono venuta per un motivo».

Bellamy attese pazientemente che continuasse, dedicandole tutta la sua attenzione.

«Sai, ho incontrato Clarke stamattina» continuò dunque».

Clarke? Cosa c’entrava Clarke adesso?

Attese qualche istante, aspettando che sua sorella andasse avanti. Lei si morse un labbro, poi parlò: «L’ho incontrata alla centrale di polizia».

Le sopracciglia di Bellamy si inarcarono in un’espressione sorpresa.

«Alla centrale?».

«Sì, lei… voleva parlare con il nuovo comandante, per via di suo padre. Vuole far riaprire il caso».

Se prima era sorpreso, ora Bellamy non sapeva davvero cosa dire.

«È impazzita?».

«Bellamy!».

«Cosa?! O, è una follia e tu lo sai. Quella Lexa non farà mai riaprire il caso».

«Lo so, ho provato a parlarne anche con Lincoln e lui è dello stesso parere. Difficilmente riaprirebbero il caso, a meno che non saltino fuori prove abbastanza forti da indurli a farlo».

«Non c’è neanche uno straccio di prova, Octavia. Tu e Clarke siete amiche, prova a parlarle».

«Bellamy… credo di non essere la persona più adatta»

«Beh, allora chi? Magari dovresti avvertire il suo amico Wells. Quel ragazzo è innamorato perso  di lei dal giorno in cui si è trasferita qui, potrebbe trovare il modo adatto per farla ragionare».

«Wells non è la persona giusta».

«I nerd?».

«Nemmeno».

«Allora ho esaurito le idee, sorellina e la tua amica si caccerà in un sacco di guai e posso dirlo per certo perché la conosco e so che non si fermerà».

«Il punto sta qui, Bellamy».

Il ragazzo la guardò senza capire.

«Che intendi?».

«Lo hai appena detto: tu la conosci».

«Stai scherzando, vero? Intendi che dovrei parlarle io?».

«Sì».

«Octavia, quella ragazza mi odia. Come puoi pensare che mi darebbe ascolto?».

«Perché quella notte c’eri tu con lei, Bell. Non io, non Wells e non Jasper o Monty. Tu. L’hai portata al sicuro una volta, puoi farlo di nuovo. Ho paura che possa davvero mettersi nei guai se non riuscirai a farle cambiare idea».

«O, lei non mi ascolterà».

«Provaci. Non ti costa niente, no?».

Bellamy sospirò.

«E pensi che non si arrabbierà con te quando capirà come sono venuto a saperlo? Perché lo capirà, credimi. Sarà anche una principessa, ma è intelligente».

«Lo so che si arrabbierà, ma non m’importa. Voglio solo che non finisca nei guai».

Il fratello le lanciò un ultimo lungo sguardo prima di annuire, poi si alzò dal divano.

«Vado a correre, sorellina. Puoi restare qui se vuoi, ma se vai via chiudi a chiave la porta».

Detto questo si diresse in camera sua per indossare i soliti vestiti che utilizzava per andare a correre e uscì di casa, le cuffie nelle orecchie come sempre.

Corse a lungo, pensando alle parole di sua sorella e si chiese davvero se Clarke Griffin gli avrebbe dato ascolto, ma accantonò in fretta il pensiero: era veramente difficile.

Il cielo ormai aveva cominciato a farsi buio quando decise di tornare a casa.

Octavia naturalmente era andata via e Bellamy andò a farsi una doccia rigeneratrice. Aveva avuto una giornata pesante al lavoro, ma per fortuna il giorno dopo avrebbe avuto il giorno libero, così, una volta fuori dal bagno, decise che si sarebbe concesso una birra al pub dei genitori di Monroe, aveva voglia di uscire quella sera.

Indossò un paio di jeans scuri e una camicia bianca a mezze maniche e, una volta salito in macchina, fece un colpo di telefono a Atom per chiedergli se avesse voglia di raggiungerlo, ma lui gli rispose che quel giorno era il compleanno di sua madre e che la famiglia era riunita da lui, quindi non poteva defilarsi, anche se lo avrebbe fatto volentieri. Pensò di provare con Miller, ma poi ricordò che quella mattina al lavoro gli aveva detto che per quella sera sarebbe andato a casa di Harper, perciò chiamarlo sarebbe stato inutile.

Dunque Bellamy si avviò al pub per conto suo e lasciò la macchina in un posto vuoto non distante dall’ingresso.

Era sabato sera ed il locale era gremito di gente. A fatica, il ragazzo si fece strada verso il bancone e occupò un posto che si era appena liberato. Aveva avuto una bella fortuna a trovarlo. Quando si dice essere nel posto giusto al momento giusto.

Ordinò una birra e Joe, uno dei baristi, gliela allungò con un gesto fluido della mano.

Bellamy ne prese un sorso e si guardò intorno, lasciando scivolare gli occhi sulla sala: c’era gente che parlava, gente che ballava, gente che rideva e tutto questo, mescolato alla musica, creava un frastuono assordante, tanto che le persone dovevano quasi gridare per parlare tra di loro.

Ad un tratto, quando ormai aveva quasi finito la sua birra, qualcosa attirò la sua attenzione: uno scintillio di capelli dorati. Clarke Griffin.

Era seduta su un divanetto in un angolo della sala e teneva in mano un bicchiere ormai vuoto. Sul tavolo davanti a lei ne erano posati altri quattro, vuoti anche quelli, e al suo fianco stava un ragazzo che le passava il sesto bicchiere, una mano posata sul ginocchio di lei.

Fu quando Bellamy vide Clarke scostare con fare scocciato la mano dello sconosciuto, che un campanello d’allarme suonò nella sua testa e si fece strada in mezzo alla marea scomposta e variegata di gente, fino a raggiungere i due.

«Toglile le mani di dosso, idiota» disse con un tono più minaccioso di quanto lui stesso si sarebbe aspettato.

Il ragazzo parve leggermente a disagio di fronte alla stazza imponente di Bellamy, accentuata dal fatto che fosse in piedi mentre lui era seduto e dalla camicia che indossava il moro, che fasciava alla perfezione il suo torace, mettendone in evidenza i muscoli.

Una volta che quello si fu dileguato in mezzo alla folla, prese posto vicino a Clarke e la richiamò, ma lei non gli diede risposta e continuò a mantenere lo sguardo basso.

«Clarke, stai bene?».

Ma quando la ragazza sollevò gli occhi verso di lui, si accorse che erano rossi e gonfi proprio come quelli di chi era reduce da un pianto.

Bellamy serrò la mascella e una voglia quasi insopprimibile di trovare quel tipo e spaccargli la faccia s’impadronì di lui. Fu come tornare indietro nel passato, quando era ancora il teppista del quartiere. In quel momento la bestia dentro di lui parve ridestarsi.

«Aspetta qui» disse alzandosi dal divanetto e sondando la sala alla ricerca del tizio di poco prima. Un movimento di Clarke però attirò nuovamente la sua attenzione: la ragazza buttò giù tutto d’un fiato il bicchiere che quello sconosciuto aveva lasciato lì sul tavolino e il moro sgranò gli occhi.

«Clarke, che diavolo fai?! Potrebbe esserci qualsiasi schifezza là dentro!».

«E a te cosa importa?» disse lei, con un tono di voce che lasciava perfettamente intendere quanto ubriaca fosse.

Bellamy sbuffò sonoramente.

«Alzati, Principessa… ti riporto al palazzo».

«Io non sono una principessa… e non voglio tornare a casa. Mi hai capita, Blake?».

«Ma davvero? E dove vorresti andare, sentiamo…?».

«Ho visto mio padre… » disse lei e per un momento, Bellamy rimase interdetto.

«Clarke… non sai davvero quello che dici. Avanti, andiamo».

«Ti ho detto che non voglio tornare a casa!».

Probabilmente era anche ubriaca persa, pensò Bellamy, ma sembrava davvero consapevole di ciò che stava dicendo.

«Ti porto a casa mia, d’accordo?».

Lei lo osservò per un momento, poi lasciò che il ragazzo la prendesse per un gomito, trascinandola via da lì.

Bellamy non aprì bocca per l’intero tragitto in macchina e neanche Clarke si sprecò in chiacchiere, così, quando arrivarono nel suo appartamento, lui spense l’auto e girò dal lato della ragazza, aprendole lo sportello e aiutandola a scendere. Il fatto che non fosse in grado di stare in piedi da sola era chiaro.

«Questa non è casa tua» disse lei, in modo un po’ scoordinato, in realtà.

«Sì, questa è casa mia. Mi ci sono trasferito da poco».

«Ah».

Una volta giunti al portico, la bionda non si accorse dei tre scalini e Bellamy l’afferrò prontamente sotto le ascelle per evitare che finisse schiantata di faccia sulla veranda.

«Piano, Principessa… ci sei proprio andata giù pesante con quei drink, eh?».

«Sta’ zitto, a te che importa?» ripeté lei.

«Nulla, è solo che non vorrei averti sulla coscienza. Sai, è sempre il solito discorso: tu stai simpatica a mia sorella, quindi sarei dispiaciuto se lei stesse male perché ti è successo qualcosa mentre eri sotto la mia responsabilità».

«La tua… la tua responsabilità?» Clarke si aprì in una risata scomposta. «Io non sono sotto la tua responsabilità, Blake e sono perfettamente in grado di badare a me stessa».

«Sì, questo si è proprio visto… » disse lui con sarcasmo.

Ormai erano arrivati in casa, immersi nel buio dell’atrio.

«Secondo me continui a comportarti così perché in realtà ti piaccio» aggiunse poi la bionda, sempre con quel suo tono brillo.

«Credo che l’inferno gelerà, prima che io possa provare un interesse per te in quel senso, Griffin».

Bellamy si aspettava quasi una reazione offesa dalla ragazza, che però si mise nuovamente a ridere, stavolta in modo un po’ più normale.

«Questa era bella, Blake. Davvero, te lo devo concedere».

Il ragazzo trovò l’interruttore della luce e osservò la ragazza con aria stupita. L’alcol le faceva davvero uno strano effetto, però era divertente. Avrebbe dovuto farla ubriacare più spesso, pensò.

«D’accordo, Principessa… che dici se adesso mi dai il tuo telefono e chiamo tua madre per avvertirla che stanotte non torni a casa?».

Ma l’occhiata omicida che Clarke gli lanciò lo mise quasi in soggezione.

«Non ho dodici anni, Blake. Non mi serve l’autorizzazione della mamma per dormire fuori».

«No, ma vorrei non avere problemi con Kane, sai com’è».

«Mica dovranno sapere che ero qui, no?».

Infine Bellamy sospirò, sconfitto.

«Come ti pare, Principessa. Ti accompagno in camera, d’accordo? Io per stanotte dormirò sul divano».

Clarke sorrise in modo furbo.

«Ha! Lo sapevo di piacerti».

Il moro scosse la testa, a metà tra il divertito e l’esasperato; quella ragazza era davvero un mistero. La accompagnò nella sua stanza, che era ordinata solo perché si era trasferito lì appena il giorno prima e la lasciò a sistemarsi, dicendo che avrebbe potuto usare qualcosa di suo come pigiama per quella notte.

Nel frattempo lui andò in bagno, si lavò le mani, sciacquò il viso e si lavò i denti.

Andò a sistemarsi sul divano e la stanchezza lo colse subito. Il suo ultimo pensiero prima di cadere nel mondo dei sogni, fu che, probabilmente, Clarke Griffin gli avrebbe solo procurato un mucchio di guai.

 

NOTE:

 

Salve a tutti! Lo so, lo so, sono in ritardo epico, ma stavolta credo di essere giustificata: ho avuto un incidente e mi sono rotta un braccio, oltre vari altri problemi, perciò scrivere non era esattamente facile. Comunque… adesso tutto bene e il braccio è quasi totalmente a posto, quindi spero di riprendere gli aggiornamenti abbastanza in fretta.

Ad ogni modo… intanto sono qui e finalmente è qui anche il sesto capitolo che ormai immagino siano quasi tre mesi che aspettate.

Spero che vi sia piaciuto (scriverlo è stato un parto, quindi anche se  vi ha fatto schifo ditemi che era all’altezza delle vostre aspettative XD) 

Le canzoni di questo capitolo erano "Homeward bound" di Simon and Garfunkel per Clarke e "Demons" degli Imagin Dragons per Bellamy.

Bene, con ciò non ho altro da dire, perdonatemi ancora per il ritardo e ci sentiamo prossimamente con i prossimi capitoli. Fatemi sapere cosa ne pensate e a presto!

Homeward bound - Simon and Garfunkel

Demons - Imagin Dragons

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Confessions ***


c7  





Demons

 

CAPITOLO 7: CONFESSIONS

 

When you feel my heat
Look into my eyes
It's where my demons hide
It's where my demons hide

Don't get too close
It's dark inside
It's where my demons hide
It's where my demons hide

 

Quando senti il mio calore
Guarda nei miei occhi
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono

Non avvicinarti troppo
Dentro di me c’è il buio
È dove i miei demoni si nascondono
È dove i miei demoni si nascondono



 

Clarke aveva trascorso tutto il giorno china sui libri, ed ora la sua mente era ingombra da nozioni di anatomia e nomi di ossa, muscoli, vene e arterie. Quando chiuse il grosso volume ormai erano le tre di pomeriggio.

Dopo il suo fallimento con il comandante alla centrale di polizia, quella mattina, era tornata a casa e si era messa subito a studiare. Poi, verso l’ora di pranzo, sua madre l’aveva chiamata per avvertirla che era pronto da mangiare. C’era anche Marcus e quella era forse la prima volta, dopo la sera in cui era tornata a casa, che tutti e tre erano a tavola insieme. Spesso gli orari in ospedale di sua madre e quelli di Marcus alla centrale non erano compatibili, quindi era difficile che si trovassero a casa tutti e tre, ma per Clarke era meglio così. D’altro canto… c’era sempre una strana atmosfera quando erano tutti a casa, una sorta di malcelata tensione e Clarke era certa che dipendesse tutta da lei.

Da quando era tornata, era evidente come i due adulti si sforzassero per mantenere le adeguate distanze, forse per non ferire i suoi sentimenti, ma quello che non sapevano era che ormai i sentimenti di Clarke erano distrutti… la cosa non avrebbe potuto peggiorare.

Così, dopo aver mangiato in un cortese silenzio, Clarke era tornata in camera per proseguire il suo studio, ma ad un tratto era stata distratta da una voce fin troppo familiare che la chiamava da fuori la finestra.

La ragazza si avvicinò e si sporse dal davanzale, trovandosi davanti Wells, anche lui affacciato dalla finestra della sua stanza.

«Ehi, Clarke! Che programmi hai per oggi pomeriggio?».

«Stavo studiando, Wells… sai com’è, ho uno degli esami più importanti della mia vita tra due mesi».

«Due mesi sono lunghi, avrai tempo per studiare. Avanti, è una giornata calda, ti offro un gelato».

Clarke stava per ribattere quando lui la interruppe: «E non ammetto repliche».

Suo malgrado, lei sbuffò divertita e annuì.

Si cambiò rapidamente e disse a sua madre che sarebbe andata fuori con Wells prima di uscire di casa.

«Potevo vedere il tuo cervello fumare anche dalla mia stanza da quanto eri concentrata su quel libro» la prese in giro Wells quando furono l’uno davanti all’altra.

«Divertente».

L’amico si aprì in un sorriso luminoso, uno di quelli che riservava solo a lei, poi le posò una mano alla base della schiena, sospingendola nella direzione della gelateria che erano soliti frequentare al liceo.

«E tu, Wells? Che programmi hai per l’estate?».

«Beh, sto scrivendo la tesi di laurea. Mi manca l’ultimo esame e poi resta solo quella. Nel frattempo magari potrei lavorare da mio padre, giusto per guadagnare qualcosa, ma ancora non ne abbiamo parlato».

«E a tal proposito… come vanno le cose tra voi due? I rapporti si sono appianati?».

Wells si prese un momento prima di rispondere.

«E con tua madre?».

Clarke gli lanciò una strana occhiata, ma non proferì parola.

«Non succederà mai, Wells. Lo so che non dovrebbe essere così, lo so che sono io quella sbagliata. Ma non so se riuscirò mai a perdonarla per essere andata avanti con tanta facilità. Lui era mio padre».

L’amico sospirò pesantemente.

«Clarke… lo so. Lui era tuo padre, ma lei è tua madre… ed è giusto che sia andata avanti con la sua vita, ormai sono passati sei anni ed è arrivato il momento di accettarlo».

A quelle parole, Clarke spalancò gli occhi, stupita dalle parole del suo amico e dall’espressione di lui, forse parve capire troppo tardi il significato della frase che aveva appena detto.

«Un momento, che cosa?! Come puoi… come puoi dire una cosa simile?!».

Un senso di rabbia cominciò a montarle dentro, una sorta di basso ribollire che minacciava di esplodere da un momento all’altro.

«Aspetta Clarke, non intendevo… ».

«Intendevi eccome, invece!».

Doveva andarsene. Si sentiva tradita e ferita dal comportamento del suo amico, dalle sue parole, davvero non se lo aspettava.

In fretta gli voltò le spalle e si diresse nella direzione opposta a passo svelto.

Sentì Wells chiamare più volte il suo nome, ma non si girò indietro e corse più veloce che poté il più lontano possibile da lì.

Non sapendo dove altro andare, tornò a casa, per fortuna sua madre e Marcus erano usciti, non aveva voglia di spiegare il perché la sua passeggiata con Wells fosse durata così poco.

Andò in quello che era stato lo studio di suo padre e si immerse nella lettura di un libro che aveva sempre amato: Jane Eyre.

Quando rialzò lo sguardo e osservò fuori dalla finestra, la luce era cambiata e il cielo cominciava a farsi più scuro.

La ragazza salì in camera sua e trovò una pila di CD e dischetti vari rovesciata sul pavimento. Clarke sospirò. Doveva essere stato Yeti ad urtarli e farli cadere; se fosse stata sua madre, maniaca dell’ordine com’era, avrebbe rimesso a posto tutto.

Così, la bionda si mise a raccoglierli e ad un tratto, nel mezzo, trovò una vecchia videocassetta che non ricordava. Cosa poteva esserci registrato su quel nastro?

Accese la tv e infilò la cassetta nel videoregistratore, non sapendo in realtà se funzionasse ancora, ormai erano molti anni che non lo usava. Dopo qualche istante però, il nastro partì e a Clarke mancò il battito per un momento vedendo le immagini che le comparvero davanti: era la sua festa di compleanno, poteva avere al massimo sette anni e suo padre la stringeva a sé con quel suo modo che la faceva sentire sempre protetta e amata. Da quanto non provava più una sensazione simile? Semplice, si disse poi: da quando lui è morto.

Quei fotogrammi, che si susseguivano uno dopo l’altro, incrinarono qualcosa dentro di lei e Clarke osservò quelle scene come inebetita: erano ancora nella loro vecchia casa a Birmingham, in Alabama.

C’erano altri bambini nel giardino, bambini di cui Clarke non ricordava il nome. Era davvero importante, dopotutto? No. L’unica cosa importante era l’espressione distesa e sorridente di suo padre, che la teneva stretta contro il suo petto e le dava un bacio sulla guancia.

La ragazza si accorse di stare piangendo solo dopo essere scoppiata in un singhiozzo e si stupì della cosa. Non piangeva da… beh, non piangeva dal giorno del funerale, ma adesso non riuscì a farne a meno, nonostante cercasse di soffocarlo.

Pianse in silenzio e quando vide l’auto di Marcus parcheggiare nel vialetto di casa, decise che non poteva rimanere lì. Non voleva che lui e sua madre la vedessero in quello stato. Non voleva che la vedessero e basta.

Così, aprì la finestra e si calò in giardino usando l’albero che aveva utilizzato anche Jasper qualche sera prima.

Le lacrime le offuscavano la vista, bruciandole gli occhi, ma lei inghiottì il groppo che le si era formato in gola, passandosi una mano sul viso per asciugarle. Non voleva piangere. Non piangeva da sei anni, dopotutto lei era Clarke Griffin. Era forte.

Prese un profondo respiro e continuò a camminare, diretta al pub dei genitori di Monroe. Quella sera aveva bisogno di bere, nonostante ormai non toccasse più alcol da anni. L’ultima volta in cui lo aveva fatto aveva imparato la lezione.

Arrivò al pub verso le otto, non c’era ancora moltissima gente, ma era sabato sera e la situazione sarebbe cambiata presto.

Prese subito posto su un divanetto a due posti in un angolo della sala che davanti aveva un tavolino e, dopo qualche minuto, un ragazzo che non conosceva le si avvicinò per chiederle cosa potesse portarle da bere.

Clarke ordinò una tequila, sperando che i suoi occhi non risultassero troppo rossi o gonfi. Nervosamente, sfiorò l’orologio di suo padre con la mano destra, sperando che quel contatto potesse calmarla.

Quando arrivò la sua tequila, Clarke la bevve tutta d’un fiato, poi ne ordinò un’altra, seguita da uno shot di vodka.

Il locale aveva cominciato a riempirsi ed i suoi sensi ad annebbiarsi e quando uno sconosciuto le si avvicinò porgendole un bicchiere colmo di un liquido scuro non meglio identificato, Clarke lo prese, anche se con qualche riserva. In quel momento voleva solo bere. Bere e dimenticare.

Dimenticare il dolore, dimenticare il viso sorridente e felice di suo padre guardato nella videocassetta, dimenticare la lite con Wells e il secondo matrimonio di sua madre. Per una sera, la ragazza voleva semplicemente dimenticare la sua vita.

Quel tipo ormai aveva preso posto al suo fianco e le stava parlando di cose che Clarke non capiva davvero, si limitava ad annuire, confusa e ubriaca.

In seguito, lui le posò una mano sul ginocchio, lei la allontanò con aria infastidita e ciò che accadde dopo, fu inghiottito da una nube confusa e densa d’alcol.

[…]

Quando Clarke riprese conoscenza, la mattina dopo, la sua mente era ancora leggermente annebbiata, senza contare il mal di testa perforante che l’aveva colta.

Provò ad alzarsi da un letto che non riconobbe come suo, ma fu colta da un improvviso attacco di nausea.

Allora provò a capire dove diavolo fosse e, in effetti, l’odore di quel letto le sembrava leggermente familiare…  era qualcosa di balsamico, come il timo o l’eucalipto. Dove aveva già sentito quell’odore? Cercò di sforzarsi, ma non le venne in mente nulla.

Trascorse qualche minuto, durante il quale a Clarke passò qualche flash della serata precedente, ma ancora la situazione non era chiara. Non ricordava dove fosse né come fosse arrivata fino a lì. L’ultima cosa di cui avesse memoria era un ragazzo che continuava ad offrirle da bere.

Quando la nausea scomparve, si alzò dal letto e si rese conto di aver addosso una larga t-shirt blu scuro, apparentemente maschile. In cuor suo, la ragazza sperò di non aver fatto qualcosa di stupido la sera prima.

Una volta fuori dalla stanza, si ritrovò in un corridoio stretto e fu investita da un forte aroma di caffè, così, attirata da quella che ormai per lei era diventata quasi una droga, si avviò in quella direzione.

La ragazza giunse sulla soglia di una cucina non molto ampia, ma luminosa, arredata in modo pratico ed essenziale e, di nuovo, ebbe l’impressione di trovarsi in un ambiente prettamente maschile.

La figura di spalle che le stava davanti glielo confermò: un ragazzo alto, capelli scuri e spalle larghe e Clarke non ebbe nemmeno il tempo di registrare le sue impressioni, che quello si girò.

«Ben svegliata, Principessa. Hai davvero un aspetto orrendo» disse Bellamy Blake con un gran sorriso e i capelli ancora umidi sparsi disordinatamente sul viso.

Clarke era così esterrefatta che non riuscì a proferir parola, limitandosi a guardarlo con occhi sgranati e questo dovette risultare particolarmente divertente al ragazzo, perché si mise a ridere apertamente.

«Cos’è quell’aria sconvolta, Principessa?».

«Bellamy… che diavolo è successo?».

L’espressione del ragazzo adesso era ancora più divertita se possibile.

«Ti riferisci alla notte di sesso sfrenato appena trascorsa? Cavolo, ci sei andata giù davvero pesante, Clarke».

Quelle parole fecero perdere un battito alla ragazza, che dovette aggrapparsi allo stipite della porta per non perdere l’equilibrio.

«Notte di cosa, scusa?!».

A quel punto, il moro scoppiò in un’altra fragorosa risata.

«Principessa… ti prendevo in giro. Io ho dormito sul divano».

In quel momento Clarke provò due sensazioni totalmente contrastanti. La prima: sollievo immediato per ciò che in effetti non era successo; la seconda: un’improvvisa voglia di prendere qualcosa di pesante, tipo un camion, e lanciarlo addosso al ragazzo. Forse così gli avrebbe tolto quel sorriso sornione dalla faccia.

Le ci volle qualche secondo per calmarsi, poi tornò a fissare i suoi occhi in quelli scuri del ragazzo e parlò: «Mi vuoi spiegare che accidenti è successo?».

«Non ricordi proprio nulla?» chiese lui, con ancora una vaga ombra di divertimento sul viso.

«Ricordo che ero al pub dei genitori di Monroe e non molto altro, se devo essere sincera. Ricordo che c’era un ragazzo che mi ha offerto da bere e… che mi ha messo una mano sul ginocchio. E mi dava fastidio».

A quelle parole l’espressione di Bellamy s’indurì.

«Sì, ho dovuto cacciarlo».

Istintivamente Clarke sollevò le sopracciglia.

«Hai fatto cosa?».

«Hai capito. Cosa volevi che facessi? Che lo lasciassi fare?».

«Certo che no, io… sono solo stupita».

«Stupita? E perché mai?».

«Beh, non sei tu il primo a dire che non te ne importa nulla?».

Una strana espressione passò sul volto di Bellamy a quelle parole.

«Stavi piangendo, Clarke. O per lo meno… avevi pianto. Cos’avrei dovuto fare? Lasciarti lì?».

Ogni traccia di divertimento adesso era sparita dal volto di Bellamy, Clarke poteva capirlo. Come capiva che sotto c’era qualcos’altro.

«Non è a causa di quel tizio che stavo piangendo».

Le sopracciglia del moro si aggrottarono.

«E allora cosa? Cos’è successo, Clarke?».

Cosa poteva dirgli? Rivelargli di suo padre? Della videocassetta? Non sarebbe servito a nulla, suo padre non c’era più, era morto e la sua crisi isterica sarebbe stata vista da Bellamy solo come una debolezza.

La ragazza serrò la mascella e voltò la testa dall’altra parte. Non avrebbe parlato, non poteva farlo. Stava pur sempre parlando con Bellamy Blake: il re del “faccio quello che diavolo voglio”. Non gli importava davvero.

Lui intanto aveva smesso di armeggiare tra i fornelli e si era completamente voltato a guardarla: le braccia incrociate sul petto e un sopracciglio inarcato. Stava aspettando una sua spiegazione.

«Scusa, Bellamy… devo andare» disse solo la bionda, dandogli le spalle e tornando nella stanza in cui si era svegliata per recuperare le sue cose.

Come se fosse stato semplice. Non aveva fatto neanche tre metri che si ritrovò la figura del moro a sovrastarla, quasi sbattendo contro il suo torace imponente.

Lei sbuffò sonoramente, cercando di guardare ovunque tranne che gli occhi scuri e indagatori di lui. Si sentiva in trappola, ma non era solo quello. In quel momento sentiva come se dovesse allontanarlo perché, da quando era morto suo padre, aveva sempre allontanato tutti.

Tutti i suoi amici, sua madre, Marcus… la guardavano negli occhi, ma cosa vedevano? Nei suoi occhi c’era il buio e anche se il suo corpo era caldo si sentiva fredda e morta proprio come suo padre.

Era cambiata e per questo non voleva permettere a nessuno di avvicinarsi di nuovo a lei. Se si fosse affezionata troppo, prima o poi avrebbe finito col soffrire di nuovo.

«Allora?» la voce di Bellamy la riportò alla realtà.

«Togliti di mezzo, Blake» ma il suo tono non suonò sprezzante come avrebbe voluto. Era un tono stanco, al limite dell’esasperazione. Stava per spezzarsi.

Lui parve capirlo perché la prese per le spalle, costringendola a guardarlo negli occhi.

E in quel momento, come tanti anni prima, Clarke lo fece: si aggrappò a quel ragazzo come se  ne dipendesse della sua vita perché, per qualche strano scherzo del destino, Bellamy era l’unica persona sempre presente nei  suoi momenti di disperazione più totale.

 

Sometimes it's hard to say even one thing true
When all eyes have turned aside
They used to talk to you
And people on the street seem to disapprove
So you keep moving away
And forget what you wanted to say



A volte è difficile dire anche una cosa vera
tutti gli occhi si sono voltati dall’altra parte
Loro parlavano di te
E la gente per strada sembra disapprovare
Perciò continui ad andare avanti
E finisci col dimenticare ciò che volevi dire


 

Quando Bellamy riaprì gli occhi, quella mattina, si sentiva stranamente riposato come non gli capitava più da tempo. Ripensò per qualche minuto agli avvenimenti della sera precedente e a Clarke. Quella ragazza era un vero rompicapo.

Guardò l’orologio a pendolo nel suo salotto, erano appena le sei di mattina. L’ora ideale per fare una bella corsetta.

Gli avrebbe fatto bene, magari gli avrebbe schiarito le idee, così si alzò dal divano con mille pensieri che gli frullavano in testa già di prima mattina si avviò nella sua stanza proprio dove adesso dormiva Clarke.

Aprì piano la porta per non svegliarla e tirò fuori dall’armadio un paio di pantaloncini e una canottiera sportivi. Poi si fermò per un momento ad osservarla: la ragazza continuava ad agitarsi nel letto con addosso una sua maglietta, anzi, quella a dire il vero era la sua maglietta preferita. Era vecchia di anni, semplice, blu scuro, ma era estremamente comoda. Per Bellamy era diventata una sorta di seconda pelle.

Un pallido raggio di sole filtrava dalla finestra colpendo i capelli di Clarke e facendoli brillare ancor più del solito. Buffo, pensò il ragazzo: lui era buio come la notte, ma tormentato di giorno e la notte era l’unico momento in cui riusciva ad avere pace.

Lei invece risplendeva di luce solare, ma era esausta di giorno e inquieta durante la notte.

Scrollò la testa come per scacciare quel pensiero e uscì silenziosamente per andare a cambiarsi in bagno.

In due minuti era già pronto, con il fedele mp3 in tasca e le cuffie nelle orecchie.

Fuori una brezza piacevole gli accarezzò il viso e Bellamy iniziò a correre piano, per scaldare i muscoli ancora intorpiditi dal sonno.

Correre lo aveva sempre rilassato, soprattutto a quelle ore e anzi, adesso che era estate c’era già luce, ma durante l’inverno, con il buio, amava farlo ancora di più. Non sapeva perché, ma il buio lo aveva sempre affascinato.

Corse per cinque chilometri e poi tornò indietro, gli stava venendo fame e cominciava a sentire il bisogno di un buon caffè.

La casa era ancora silenziosa quando entrò, segno che Clarke non era ancora sveglia, ma dopotutto… erano solo le sette e un quarto e lei doveva smaltire una bella sbronza.

Andò in bagno per fare una doccia veloce, lasciando i capelli umidi e poi si avviò in cucina per mettere su una moka di caffè e iniziare a preparare qualcosa per la colazione, il suo stomaco reclamava cibo con una certa urgenza.

Tirò fuori dal frigo il cartone del latte e riempì una scodella, versandoci dentro una quantità inverosimile di cereali, tanto che per poco il latte non strabordò dalla tazza.

Trangugiò tutto con voracità, ma non soddisfatto si mise ai fornelli per preparare delle uova strapazzate con il bacon. Era da tanto che non le mangiava, Octavia non voleva mai fargliele perché diceva che il suo colesterolo ne avrebbe risentito. Al diavolo il colesterolo; aveva solo ventisei anni e conduceva una vita sana con una regolare attività fisica, un paio di uova una volta ogni tanto non lo avrebbero certo ucciso.

Dava le spalle alla porta quando sentì dei passi incerti lungo il corridoio. Bene bene, la Principessa era finalmente tornata dal mondo dei sogni.

I passi si fermarono dietro di lui e il ragazzo si voltò: Clarke Griffin se ne stava lì in piedi, l’aria stravolta di chi non capisce né dove sia né come sia arrivata lì. Inoltre aveva davvero un aspetto orribile: i capelli biondi scarmigliati ancora sparsi sul viso, due occhiaie mostruose e un colorito che avrebbe fatto invidia a Mercoledì della famiglia Addams.

Come sempre, Bellamy non mancò di farglielo notare e decise che prendersi un po’ gioco di lei sarebbe stato divertente.

«Bellamy… che diavolo è successo?» il suo tono e la sua espressione erano alquanto allarmati.

Doveva trovare una risposta che l’avrebbe scandalizzata e, quella risposta non tardò ad arrivare.

«Ti riferisci alla notte di sesso sfrenato appena trascorsa? Cavolo, ci sei andata giù davvero pesante, Clarke» era certo che quelle parole l’avrebbero davvero scioccata e infatti, proprio come pensava, la bionda se possibile impallidì ulteriormente, boccheggiò per qualche istante come un pesce fuor d’acqua e infine gli chiese spiegazioni.

Quando lui, ridendo, le disse che in realtà aveva dormito sul divano, dapprima sul volto di Clarke passò un’espressione sollevata, sostituita ben presto da una di furia omicida.

Quando si ricompose provò a chiederle spiegazioni su ciò che fosse accaduto la sera precedente, ma la bionda si limitò a dargli risposte evasive e anche alquanto scocciate. Provò persino a filarsela, ma a quel punto Bellamy le si piazzò davanti, prendendola per le spalle.

C’era qualcosa nel tono che aveva usato Clarke. Qualcosa che… in qualche modo lo allarmò e, per un solo istante, gli parve di tornare a quella notte di sei anni prima.

D’un tratto, la ragazza si aggrappò a lui e Bellamy rimase così sorpreso che per un momento non seppe che fare. Poi la sostenne, circondandole le spalle con un braccio.

«Clarke… mi dici che è successo? Quel tipo, ieri… ti ha fatto del male?».

Lei mosse il capo contro il suo petto in segno negativo.

«Allora cosa?».

«Mio padre… ieri ho trovato una vecchia videocassetta di quando ero piccola e… lui era lì e mi teneva in braccio e… eravamo così felici! Bellamy, com’è possibile che sia stato ucciso? Era la persona migliore del mondo!».

Il moro sospirò pesantemente.

«Da una parte capisco cosa provi, Clarke… credimi. Lo capisco».

Era la prima volta che si apriva con qualcuno in quel modo, esclusa Octavia certo, ma molte cose Bellamy le aveva nascoste anche a lei.

La testa di Clarke fece capolino dal torace del ragazzo e lo fissò negli occhi.

«Cosa intendi dire?».

Di nuovo, Bellamy emise un sospiro grave.

«Ho perso mia madre… sei mesi dopo tuo padre. Un incendio alla fabbrica in cui lavorava l’ha portata via e lei era il mio punto di riferimento, quindi… sì, Clarke. So cosa provi».

Silenzio.

Bellamy osservò Clarke, che sembrava essersi congelata sul posto. Poi, piano, la ragazza si staccò dal suo corpo per guardarlo meglio negli occhi.

«Bellamy, io… mi dispiace tanto… ».

Lui annuì.

«Lo so. Ho fatto i salti mortali. Per Octavia, per permetterle una vita dignitosa e adesso sembra che vada tutto bene, lei è felice. Io invece sono solo stanco, perciò immagino che anche tu debba esserti sentita così».

«Io mi sento continuamente così».

Il tono della ragazza gli fece nuovamente abbassare lo sguardo verso di lei e questa volta ciò che vide non era la solita principessa secchiona che gli aveva procurato tante grane al liceo.

Quelli erano gli occhi di qualcuno sopravvissuto a qualcosa di troppo grande da reggere sulle proprie spalle.

Bellamy prese un respiro profondo e fissò Clarke negli occhi.

Nessuno parlò per diversi istanti, fino a quando Clarke ruppe quel silenzio.

«Io, ehm… devo proprio andare».

«Cosa?» Anche Bellamy parve tornare alla realtà in quel momento.

«Sì, io… Yeti, sai, lo lasceranno morire di fame se non ci penso io».

Il ragazzo si chiese se la bionda non fosse improvvisamente impazzita. Che stava dicendo?

«Chi diavolo sarebbe Yeti?».

«Il mio gatto» rispose lei di getto.

Un gatto. Seriamente? Come diamine aveva potuto chiamare un gatto “Yeti”? Quella povera bestiola doveva essere cresciuta con un mucchio di complessi.

«Non credo che il tuo gatto morirà di fame se lo lasci a digiuno per altri cinque minuti, sono animali indipendenti, sicuramente si sarà già riempito la pancia… e dovresti farlo anche tu. Da quanto non metti qualcosa nello stomaco? Sto preparando… » solo in quel momento si accorse del pungente odore di bruciato che proveniva dai fornelli. «Cazzo, le uova!» imprecò.

Un attimo volò dall’altra parte della stanza, ma quando diede un’occhiata alla padella e vide il contenuto carbonizzato, sospirò pesantemente. Erano le ultime uova che aveva a casa e ne aveva davvero una gran voglia.

Alle sue spalle, sentì la lieve risata di Clarke e si voltò a guardarla alquanto scocciato.

«Lo trovi divertente?».

«Non sei molto pratico di cucina, eh Blake?» lo prese in giro lei.

«Oh, taci. Sono bravissimo a cucinare, ma tu mi hai distratto».

«Certo, dammi pure la colpa».

Ancora seccato, Bellamy diede un altro sguardo alla sua colazione appena andata in fumo… letteralmente.

«Invece di fare quella faccia imbronciata, butta tutto… anche la padella. Vediamo cos’hai qui… » disse poi Clarke aprendo la dispensa e il frigorifero.

«È tua abitudine curiosare nelle cucine altrui?» chiese il moro incrociando le braccia al petto.

«È tua abitudine bruciare i pasti?».

«Ehi!» il ragazzo si sentì punto sul vivo. Prima di allora nessuno si era mai lamentato della sua cucina. «Io sono un ottimo cuoco!» si difese.

«Ma che brava massaia, Blake» rise lei.

Ora Bellamy le rivolse uno sguardo offeso.

«Cos’è tutto questo sfottere?».

A quel punto Clarke scoppiò in una fragorosa risata.

«Io non sfotto… constato».

Bellamy alzò gli occhi al cielo.

«Divertente».

«Posso fare dei pancakes se vuoi».

Al moro si gelò il sangue nelle vene.

Quando lui e Octavia erano più piccoli, sua madre era solita cucinare i pancackes ogni domenica a colazione e lui li adorava. Era in assoluto la sua colazione preferita ed era da quando Melinda era morta che non li mangiava più.

«Bellamy… ci sei?» Clarke attirò nuovamente la sua attenzione e il ragazzo deglutì a vuoto e sbatté le palpebre più volte.

«Io… ehm… ho finito le uova».

La bionda sorrise.

«Sai, qui dietro l’angolo c’è un magnifico supermercato che apre alle sei di mattina. Mentre io mi do una ripulita potresti farci un salto e andare a comprarle».

«Com’è che ho la sensazione che tu mi stia ancora sfottendo?».

«Magari perché lo faccio».

Bellamy sbuffò sonoramente, ma alla fine acconsentì, dunque lasciò la ragazza a cambiarsi e sistemarsi con tranquillità mentre lui recuperava il suo portafogli e le chiavi di casa.

L’aria adesso era un po’ più calda, ormai erano quasi le otto di mattina, quindi percorse il viale e in fondo svoltò a sinistra, ritrovandosi il supermercato sulla destra dopo circa duecento metri.

Prese le uova e della farina, a casa non era sicuro di averne, dopotutto si era trasferito solo da un paio di giorni.

Era mancato solo per venti minuti, ma quando mise nuovamente piede in casa, sentì delle voci concitate provenire dalla cucina e, quando entrò, si ritrovò una bella sorpresa.

«Atom?!» chiese esterrefatto.

L’amico si voltò verso di lui con un gran sorriso.

«Ehi, Bell! Sai, ero venuto a farti un saluto, ma non mi sarei mai aspettato di trovare la nostra Clarke ad aprirmi la porta con una tua maglietta addosso».

La nostra Clarke?! Ma era impazzito?

La bionda, dal canto suo, sembrava alquanto imbarazzata.

«Stavo giusto provando a spiegargli che non è come potrebbe sembrare» prese parola lei con aria imbronciata.

«Ah no, eh?».

«Atom… » il tono di avvertimento nella voce di Bellamy era più che percepibile.

«Ok ok, come dici tu amico. Posso unirmi alla vostra colazione?».

“Ma che faccia tosta!” pensò Bellamy.

«Certo!» rispose Clarke con un sorriso, forse era così entusiasta perché sperava di cambiare argomento. Si vedeva che non conosceva bene Atom come invece lo conosceva lui.

Poi gli tornò in mente la frase del ragazzo di poco prima: “Ero venuto a farti un saluto, ma non mi sarei mai aspettato di trovare la nostra Clarke ad aprirti la porta con una tua maglietta addosso”.

L’aveva vista con solo la sua maglietta addosso?! Quell’informazione fece scattare dentro Bellamy uno strano senso di fastidio e il ragazzo si convinse che fosse perché non voleva che il suo amico si facesse strane idee.

Per non pensarci, tirò fuori dalla busta la sua scarna spesa e la porse alla ragazza, che si mise subito ad armeggiare tra i fornelli.

«Quindi hai passato la notte qui, Clarke?» riprese imperterrito il nuovo arrivato con un’espressione maliziosa stampata in volto.

«Atom!» il tono di Bellamy si era fatto molto più minaccioso adesso.

«D’accordo d’accordo… cercavo solo di fare conversazione».

«Sai, esistono degli oggetti chiamati telefoni, scegli il numero di chi vuoi contattare e premi il pulsante verde. Avresti potuto farmi un colpo prima di piombare a casa mia alle otto di mattina».

«Sì, e si presuppone che questi oggetti mistici dovrebbero essere accesi per poter funzionare».

Ora Bellamy parve sgonfiarsi come un palloncino, mentre Clarke scoppiò a ridere.

«Si sarà scaricato» rispose in tono burbero.

Lui non spegneva mai il telefono. Un po’ per abitudine a causa del lavoro, un po’ perché dato che adesso non viveva più con Octavia, voleva sempre essere rintracciabile nel caso la sua sorellina dovesse avere bisogno di lui.

 «O magari eri impegnato in qualche altra attività».

Ma allora era proprio una testa dura! L’occhiata omicida dell’amico ad ogni modo, bastò per zittirlo all’istante.

La prossima volta che lo avrebbe beccato al lavoro gliene avrebbe dette quattro.

«Com’è che tu non sei in centrale?» si limitò invece.

«Turno di pomeriggio. E tu?».

«Giorno libero».

Atom era sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi parve ripensarci.

«In centrale? Non sarete mica poliziotti?» s’intromise Clarke a quel punto.

«Vigili del fuoco, in realtà» rispose Atom con un gran sorriso.

Le sopracciglia di Clarke si sollevarono in segno di sorpresa mentre un profumo delizioso cominciava a diffondersi per tutta la cucina.

«Scusa Principessa, perché quel tono stupito? Credi che non avremmo potuto essere poliziotti?» prese parola Bellamy, ma lo sbuffo divertito di lei bastò come risposta.

«Al liceo voi e la vostra gang scatenavate l’anarchia… mi sembra difficile credere che poteste decidere di diventare poliziotti».

«Ehi, biondina… avremmo potuto. Siamo grandi, vero amico? Per non parlare di Bellamy poi… lui era sempre il primo ad ogni concorso e ogni esame».

«Se possibile questo è ancora più difficile da immaginare» rispose lei con un sorrisetto, impiattando la prima porzione di pancakes, sulla quale Atom si avventò senza tante cerimonie.

«Mi sento profondamente offeso» disse invece il padrone di casa, facendo di nuovo aprire Clarke in una di quelle risate che ormai le sfuggivano solo di rado.

Quando anche i loro pancakes furono pronti, Bellamy divorò i suoi e davvero gli parve di tornare indietro negli anni. Quando la sua vita era felice. Quando aveva ancora sua madre.

Per un momento la malinconia s’impadronì di lui, ma poi sentì la risata cristallina di Clarke e l’espressione divertita e soddisfatta sul volto di Atom. Il ragazzo doveva aver fatto una delle sue battute idiote. Quei due andavano troppo d’accordo per i suoi gusti.

Quando finirono di mangiare, Clarke si alzò dal tavolo dicendo che per lei era veramente ora di andare, così uscì di casa dopo aver salutato gli altri due.

Inizialmente Bellamy voleva offrirle un passaggio, ma data la presenza di Atom, farlo non era una scelta saggia, altrimenti lo avrebbe tormentato fino alla morte, cosa che comunque accadde non appena la bionda si fu richiusa la porta alle spalle.

«Vecchio bastardo!» esclamò non appena sentirono il tonfo della porta.

«Atom… no».

«No?! Oh, io credo proprio di sì. Tu e la principessa… chi lo avrebbe mai detto?».

«Nessuno, perché non c’è stato proprio niente!».

«Sì, e io sono il presidente degli Stati Uniti».

«A farti nero ci posso pensare io se non la pianti con tutte queste insinuazioni».

«Insinuazioni? A casa mia si chiamano fatti, Bell. L’ho trovata mezza nuda in casa tua!».

Questa frase per qualche motivo lo fece innervosire ulteriormente. Sì, Atom era il suo migliore amico da sempre, ma… lo avrebbe ucciso.

«Beh, non è successo niente e in ogni caso non sarebbero comunque affari tuoi!».

«Amico… ci credo solo perché se ti fossi fatto una sana scopata a quest’ora il tuo umore sarebbe decisamente migliore».

La voglia di prenderlo a pugni in faccia gli faceva davvero prudere le mani in quel momento.

«ATOM! Un’altra parola e giuro su Dio che ti butto fuori a calci».

«Accidenti, non c’è bisogno di fare così lo stronzo».

Il padrone di casa chiuse gli occhi e, prendendo un respiro profondo, si massaggiò le tempie. Gli stava per scoppiare la testa. Stava per dire qualcosa quando l’altro lo interruppe.

«Beh, io ero venuto per fare una corsa, ma ormai si è fatto tardi e avevo detto a mia madre che avrei sbrigato una commissione, quindi levo le tende. Ci vediamo, Bell!».

«Ci vediamo in centrale» ma il suo tono era più minaccioso che altro. 

L'irritazione di Bellamy era tanta in quel momento. Sì, lui ed Atom si conoscevano da tanto, ma nonostante questo c'erano sempre stati dei comportamenti che lo infastidivano, per esempio quello. Era come se si sentisse costantemente analizzato e giudicato, per un motivo o per un altro. 

Prima quando era al liceo e si era fatto la brutta nomina di bullo del quartiere. Poi dopo la morte di sua madre, ogni volta che camminava per strada aveva come la sensazione che la gente mormorasse alle sue spalle, ma quando si voltava nuovamente tutti improvvisamente si zittivano. Più volte avrebbe voluto farsi avanti e chiedere che diavolo avessero da parlare tanto, ma poi aveva desistito, il più delle volte per non creare dispiaceri ad Octavia.

La porta si era appena richiusa alle spalle di Atom e Bellamy aveva la mente ancora affollata da quei pensieri quando una vibrazione nella tasca dei pantaloni distolse la sua attenzione.

Malgrado tutto, sorrise non appena vide il nome che capeggiava sul display del suo cellulare.

Premette il pulsante verde per rispondere.

«Ehi, Raven… ».

 

NOTE:

E rieccomi con il settimo capitolo! Ebbene, è arrivato molto più velocemente del previsto, anche se scriverlo è stato un parto, continuavo a bloccarmi, soprattutto nella parte finale, ma ora eccoci qui.

Allora… abbiamo visto il perché si trovasse in quello stato e come ci fosse arrivata. All’inizio volevo anche spiegare in questo capitolo il rapporto tra  Clarke e l’alcol, ma poi ho pensato che fosse troppo e tutto insieme, quindi ho preferito spezzare.

Intanto Bellamy ha confessato alla ragazza di sua madre e, da questo momento in avanti, ci sarà sempre questo filo ad unire ulteriormente i due ragazzi.

Il fatto di aver perso un genitore in circostanze tragiche in qualche modo li ha avvicinati ed ora Clarke comincia a rendersi conto di non essere l’unica ad aver vissuto una situazione così dolorosa, questo la aiuterà a fidarsi ulteriormente di Bellamy.

La parte in cui arriva Atom, devo ammetterlo, non era in programma, ma quando sono ispirata e comincio a scrivere, il resto viene da sé, quindi ho aggiunto anche lui per dare un po’ di movimento alla mattinata già abbastanza turbolenta di Clarke. Lo scambio di battute tra lei e Bellamy non appena arriva nella cucina di casa Blake mi sono divertita un mondo a scriverlo, fatemi sapere cosa ne pensate XD

E, in ultimo, ho introdotto Raven. Devo ancora capire io stessa come farò evolvere le cose, ma di sicuro la situazione si complicherà, a causa di vari fattori.

Bene, mi sembra di aver messo abbastanza carne al fuoco e spero di riuscire ad aggiornare presto perché in questo periodo ho la casa invasa dai parenti, perciò purtroppo ho poco tempo.

Bene, vi lascio i link  delle canzoni di questo capitolo!

 

Demons – Imagine Dragons (sì, l’ho già usata per Bellamy nello scorso capitolo), per quanto riguarda Clarke

Little Bird – The Weepies per Bellamy

 

Ci risentiamo al prossimo capitolo! Un abbraccio

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Drift Accident ***


8  



Demons

CAPITOLO 8: DRIFT ACCIDENT

 

Open up your eyes
Save yourself from fading away now, don't let it go
Open up your eyes
See what you've become, don't sacrifice
It's truly the heart of everything

Open up your eyes

 

Apri gli occhi
Salvati dallo svanire adesso, non lasciare che accada
Apri gli occhi
Guarda cosa sei diventato, non sacrificarti
È veramente il cuore di tutto

Apri gli occhi

 

«Clarke!».

“Ecco che ci siamo…”

Abby Griffin si parò davanti la porta d’ingresso fuori di sé.

«Si può sapere dove sei stata?!».

Clarke sbuffò sonoramente. Non aveva voglia di raccontare a sua madre della notte trascorsa in casa Blake, così inventò una scusa lì su due piedi.

«Sono stata da Jasper».

Ora sua madre parve tranquillizzarsi, anche se solo leggermente.

«Potevi almeno avvisare… ».

«Scusa, sai… il mio telefono si è scaricato» questo era vero.

«D’accordo, beh… Marcus è andato in centrale e io sono appena stata chiamata in ospedale per un intervento, quindi devo andare».

«D’accordo» rispose la ragazza in tono piatto.

«A più tardi».

Clarke tirò un sospiro di sollievo, non pensava che se la sarebbe cavata così con poco. Beh, ora a quanto pare il pericolo era scampato e aveva la casa a disposizione per chissà quante ore ancora.

Innanzitutto riempì la ciotola vuota di Yeti, poi decise che una doccia avrebbe fatto proprio al caso suo.

La sua mattinata non era iniziata poi da chissà quanto, ma di cose ne erano già successe parecchie. Preparò dei vestiti puliti e andò in bagno, cominciando a far scorrere l’acqua. Il suo gatto non si era visto da nessuna parte, quindi probabilmente era uscito quando si era trovato senza cibo. Probabilmente una volta tornato a casa avrebbe fatto l’offeso per qualche ora.

Clarke si infilò nel box della doccia, lasciandosi coccolare dal getto caldo e rilassante. L’acqua sciolse i suoi muscoli indolenziti e lei si lasciò andare ai pensieri di quegli ultimi due giorni. Dapprima la lite con Wells, in seguito il ritorno a casa e la cassetta di suo padre, il pub, l’alcol, lo sconosciuto e poi la parte mancante che Bellamy Blake aveva provveduto a raccontarle.

Il suo intervento per allontanare quell’individuo e l’averla portata a casa sua.

Quella mattina poi era stata ancora più assurda.

Si era svegliata trovandosi addosso abiti non suoi in un letto non suo e, quando si era alzata, si era improvvisamente trovata davanti un Bellamy Blake bagnato e ai fornelli. Un’immagine che, non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, le aveva fatto un certo effetto.

Quel ragazzo per Clarke era sempre stato un mistero, non era mai riuscita a capirlo del tutto. Prima faceva lo schivo e poi si apriva completamente, rivelandole la parte peggiore della sua vita. Perché sì, lei sapeva come ci si sentiva a perdere un genitore e sapeva fin dai tempi del liceo quanto Bellamy fosse legato a sua madre.

Perderla doveva essere stato un colpo terribile per lui, proprio come per lei lo era stato perdere suo padre.

Sospirò mentre si massaggiava i capelli con lo shampoo e ripensò alla scena di quella mattina, quando a loro si era unito Atom e allo strano comportamento che il padrone di casa aveva avuto. Se non avesse conosciuto quel ragazzo ormai da quasi dieci anni, avrebbe potuto dire che fosse geloso. D’altra parte però si stava per sempre parlando di Bellamy Blake e la probabilità che lui potesse provare qualcosa di romantico per lei era pari a quella del ritorno dei dinosauri. Impossibile.

Clarke scosse la testa e si sciacquò un’ultima volta prima di uscire dalla doccia.

Legò i capelli bagnati in una treccia laterale, infilò gli abiti puliti e uscì dal bagno, ma aveva appena messo un piede fuori, che rischiò di inciampare su una palla di pelo bianco.

«Yeti!» strillò.

Il gatto soffiò indignato per la sua assenza dal giorno prima e, più probabilmente, per la mancanza di cibo e coccole. La ragazza sospirò. Quella bestiolina aveva davvero un temperamento niente male.

Provò a chinarsi per accarezzarlo, ma lui schizzò via infastidito. Clarke ridacchiò, doveva trovare un modo per farsi perdonare.

Nel frattempo decise di tornare a studiare, negli ultimi giorni non era stata molto produttiva.

Passò le successive tre ore china sul libro di anatomia e, quando alzò di nuovo lo sguardo, la sua testa ribolliva di informazioni. Per adesso era meglio fermarsi lì. Non che avesse potuto fare altrimenti dal momento in cui l’acuto trillo del campanello la fece sobbalzare.

Percorse rapidamente le due rampe di scale fino ad arrivare al piano terra e quando aprì la porta…

«Wells! Che diavolo ci fai qui?» era ancora arrabbiata con lui per via del pomeriggio precedente.

«E me lo chiedi? Ero preoccupato! Tua madre mi ha chiamato a mezzanotte dicendo che non eri ancora tornata e so che non hai passato la notte a casa».

«Non è certo a te che devo rendere conto di quello che faccio» rispose acida.

«Clarke!».

«Ero con Jasper, dannazione!» strillò sull’orlo dell’isteria.

«Ho visto Jasper, Monty e Monroe ieri sera e tu non eri con loro».

La ragazza alzò gli occhi al cielo e sbuffò, esasperata.

«Senti… » cominciò perentoria «… se te lo dico non dovrai dirlo a nessuno. Soprattutto a mia madre o a Marcus».

«Te lo prometto».

«Lo dico prima, giusto per essere chiari: NON è successo niente. Ho solo dormito e lui è rimasto sul divano».

L’espressione di Wells si era fatta tesa.

«E chi sarebbe lui?».

«Bellamy».

Per un attimo regnò il silenzio assoluto, poi Wells, l’equilibrato, gentile Wells, sbatté violentemente la porta d’ingresso, che tremò nei cardini e fece sobbalzare Clarke per lo spavento.

«Oh, dimmi che non fai sul serio! Bellamy Blake?! Quel disadattato? Cos’è, te la fai con lui adesso?!».

Clarke era a dir poco allibita. Wells non si era mai comportato in quel modo. Non aveva mai alzato la voce e non l’aveva mai guardata come la stava guardando adesso.

«Come scusa?! No, Wells… non me la faccio con Bellamy Blake, ma anche nel remoto caso in cui fosse così non sarebbero affari tuoi!» si alterò Clarke, alzando la voce a sua volta.

Era fuori di sé dalla rabbia, avrebbe voluto prendere la testa di Wells e picchiarla contro il muro. Ok, forse adesso stava un po’ esagerando.

Dio, era così furiosa!

«Sarebbero eccome affari miei, tu sei un affare mio da dieci anni, Clarke!» a quelle parole il ragazzo restò come pietrificato, così come Clarke. Ma che diavolo…?!

Ma la bionda non ebbe il tempo di chiedergli spiegazioni, perché Wells riaprì la porta con uno scatto improvviso e percorse a grandi falcate il giardino, fino ad arrivare al marciapiede e lì partì sparato, fino ad oltrepassare casa sua. Clarke gli corse dietro fino al cancello e poi lo osservò sparire lungo la strada con un’espressione frastornata sul volto.

Non si accorse della voce che la chiamava finché una mano non si posò sul suo braccio nudo.

«Clarke, è tutto a posto?».

La bionda si voltò e sbatté le palpebre un paio di volte, come se fosse appena stata svegliata improvvisamente.

«Io… io… sì, va tutto bene» disse infine, riscuotendosi e mettendo bene a fuoco l’esile figura di Octavia.

«Sicura? Sentivo le vostre urla dall’altra parte della strada. È per questo che mi sono avvicinata».

«Non preoccuparti, Octavia, è tutto a posto».

«Va bene, ma… insomma… cos’aveva Wells Jaha da sbraitare tanto contro mio fratello? Ho sentito il suo nome, anche se non sono riuscita a cogliere il senso generale della frase».

Clarke sospirò.

«Ti va di entrare?».

La piccola Blake annuì e seguì la bionda in casa.

«Posso offrirti qualcosa? Una limonata?».

«Con questo caldo andrà benissimo. Dicono sia l’estate più calda degli ultimi settantacinque anni».

Clarke ebbe la sensazione che Octavia stesse tentando di smorzare quella tensione che si era venuta a creare e gliene fu grata.

«Già, l’ho sentito ai notiziari… ».

Per un attimo aleggiò un silenzio imbarazzato, poi la mora riprese parola.

«Allora… mi dici cos’è successo con Wells? Lui non è tipo… il tuo migliore amico?».

«Sì, è solo che… non lo so, si comporta in modo così strano ultimamente! E poi sembra avercela a morte con tuo fratello per qualcosa che non vuole dirmi».

«Cosa c’entra Bellamy in tutto questo?».

«Io… ok, devi dirmi quanto tempo hai a disposizione Octavia perché la storia è complicata».

L’altra sorrise.

«Faccio il turno di notte, quindi direi che ho tempo fino alle dieci di stasera».

Con pazienza, allora Clarke cominciò a raccontarle degli strani atteggiamenti di Wells da quando lei era tornata a Fort Hill.

Prima la reazione che aveva avuto al pub dei genitori di Monroe quando l’aveva trovata a parlare fuori con il ragazzo, poi della lite del giorno precedente e tutto ciò che era successo dopo.

«Quindi hai passato la notte da mio fratello?».

Clarke era imbarazzata.

«Sì, ma… te l’ho detto: non è successo niente».

«Lo so, ti credo Clarke. Quello che mi chiedo è… davvero ancora non lo hai capito?».

«Capito cosa?».

Octavia sospirò, rassegnata.

«Clarke… Wells si comporta così perché è geloso, è chiaro!».

La bionda sgranò gli occhi.

«Geloso?! E di chi? Di Bellamy? Sa perfettamente che non lo sopporto! Senza offesa… ».

Octavia giocherellò con il suo bicchiere di limonata.

«So che il rapporto che hai con Bellamy è un po’… controverso, diciamo così».

«Diciamo anche che è molto complicato».

«Ma non puoi negare che mio fratello c’era quando nessun altro c’è stato Clarke. A stento io, nel momento peggiore della tua vita. Prima sei anni fa e ieri, quando hai visto quella videocassetta. E poi hai detto che ha cacciato via quel cretino che ti importunava ieri sera. Magari vuole fare credere al mondo che non gli importa nulla di niente e nessuno Clarke, ma a me non la dà a bere. In qualche modo lui si preoccupa per te, di conseguenza non gli sei poi così indifferente come vuole far pensare a tutti. E so che probabilmente mi ucciderebbe se mi sentisse in questo momento, ma credimi… conosco mio fratello e capisco quando finge qualcosa. Il disinteresse nei tuoi confronti? Ecco una cosa che sta fingendo».

Clarke era senza parole. Bellamy che si preoccupava per qualcuno escluso sé stesso e sua sorella? Inaudito.

E poi com’erano finite a parlare di questo dall’argomento principale da cui erano partite?

«Octavia, io so soltanto che tuo fratello è stato estremamente… irritante, tranne che in poche situazioni e diciamo pure che quelle situazioni erano molto, molto particolari. Credo che lo abbia fatto più per pietà che per vero interesse».

«Non è il mostro che credi Clarke. Lui è una brava persona. Si è spezzato la schiena per prendersi cura di me come meglio poteva e ti assicuro che ha fatto veramente un gran lavoro. Sarei stata persa senza di lui».

Un leggero senso di colpa s’insinuò dentro Clarke.

«Lo so, lui… mi ha detto di vostra madre, mi ha raccontato del perché ha deciso di diventare un vigile del fuoco, dell’incendio. So tutto. E mi dispiace».

Ora Octavia la fissava  con gli occhi spalancati.

«Perché mi guardi in quel modo adesso?» chiese la bionda.

«Bellamy non ne ha mai parlato con nessuno. A stento con me. Questa è un’altra cosa che dovrebbe farti ragionare su quanto stia solo fingendo che non gli importi nulla di te, Clarke. E per quanto riguarda Wells… beh, è innamorato di te più o meno dal giorno in cui sei arrivata qui».

Clarke chiuse gli occhi, come prosciugata.

L’aveva sempre saputo, ma nonostante tutto si era rifiutata di vedere la realtà, perché l’amicizia che aveva con Wells era più importante di quello che avrebbe potuto essere. Lo vedeva come un amico, il suo migliore amico e non voleva rovinare tutto con una relazione. Era stata così stupida, così ingiusta… ed ora aveva perso tutto.

Chiuse gli occhi stancamente e si prese la testa tra le mani.

«Ho solo combinato un disastro. Lo sapevo, Octavia, l’ho sempre saputo, ma ho ignorato la cosa sperando che gli passasse, che incontrasse qualcuno che gli facesse battere il cuore. Se fossi stata più diretta, se avessi avuto il coraggio di affrontare la cosa… ».

La mora le si avvicinò e le passò un braccio intorno alle spalle.

«Vedrai, andrà tutto bene».

Clarke posò la testa sul braccio della ragazza.

Non sarebbe andato tutto bene, lo sapeva, ma se non altro avrebbe almeno potuto contare su di lei.

«Octavia, non so davvero cosa fare. Wells è andato davvero su tutte le furie quando gli ho detto di aver passato la notte da tuo fratello, ma nonostante tutto lui è ancora il mio migliore amico. So bene di essere stata una persona orribile perché in tutti questi anni non c’è mai stata una volta in cui io mi sia fatta sentire con chiunque di voi e adesso mi avete riaccolta a braccia aperte come se non me ne fossi mai andata, specialmente Wells. Tra l’altro… »

«Ehi ehi Clarke… rallenta, ok? È tutto a posto, ok? Noi lo abbiamo fatto perché ti vogliamo bene, sei una di noi. Lo so che ti reputi ancora “la ragazza  nuova”, ma non lo sei, è chiaro? Siamo ancora qui, tutti insieme… e ti vogliamo bene. Te lo devo ripetere una terza volta?».

Clarke accennò un sorriso.

«Come farei senza di te, Octavia?».

La mora le prese una mano, sorridendo.

«E io cosa dovrei dire allora? Tu sei sempre stata il mio porto sicuro al liceo, quando mio fratello aveva ormai finito la scuola. Se non fosse stato per te e per quei due pazzi di Jasper e Monty sarei stata persa».

«Diciamo che siamo pari allora».

Trascorse qualche istante di silenzio, che venne poi interrotto dalla suoneria del telefono di Octavia e la ragazza si allontanò.

«Ehi Lincoln».

La piccola Blake si allontanò e Clarke rimase a fissare per qualche secondo il suo bicchiere ormai vuoto di limonata, rimuginando su ciò che la sua amica le aveva detto riguardo a Bellamy. Non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che in qualche modo quel ragazzo potesse preoccuparsi per lei in qualche modo.

Non ebbe il tempo di rifletterci troppo perché la mora tornò nella stanza con aria dispiaciuta.

«Mi dispiace Clarke, devo andare».

«Tutto a posto?».

«Oh sì, non ti preoccupare. Lincoln mi ha chiesto di raggiungerlo a casa, ma non c’è nessun problema. Solo una cosa… di qualunque cosa tu abbia bisogno, non esitare a chiamarmi».

«Grazie, Octavia. E la stessa cosa vale per te».

«Buona giornata Clarke» le disse la ragazza sorridendo.

«Anche a te».

Clarke accompagnò Octavia alla porta e la osservò finché non sparì lungo la strada.

Era stata davvero una mattinata ricca di sorprese ed era appena mezzogiorno. A tal proposito, il suo stomaco le ricordò che per vivere era anche necessario nutrirsi emettendo un gran rumore.

Doveva darsi una mossa a preparare qualcosa da mettere sotto i denti.

Si avviò in cucina quando Yeti le passò tra i piedi rischiando di farla finire lungo distesa per terra. Di nuovo. La fissò con aria di superiorità e tirò dritto, uscendo dalla porticina che dava sul giardino. Doveva essere ancora arrabbiato, ma questa non era una buona ragione per attentare alla sua vita.

Clarke sbuffò, avrebbe dovuto inventarsi qualcosa per conquistarlo un’altra volta, ma al momento la sua priorità era preparare il pranzo.

Cercò di non pensare troppo alle parole che Octavia aveva detto su suo fratello, focalizzando invece l’attenzione sul problema Wells, perché sì, era un problema e doveva trovare una soluzione al più presto, altrimenti le cose si sarebbero fatte ancora più complicate di quanto già non fossero.

Si diede mentalmente dell’idiota come minimo tre volte prima di arrivare alla conclusione che non sarebbe arrivata a nessuna conclusione se non avesse incontrato l’amico di persona.

Così sbuffò sonoramente e mise in tavola la sua bistecca prima di essere distratta dalla suoneria del suo cellulare. Alzò gli occhi al cielo e andò a rispondere.

«Ehi Clarke!» era Jasper.

«Jasper! Come va?».

«Non mi lamento. Volevo chiederti… sei libera stasera? Sai, io e Monty volevamo andare al pub dei genitori di Monroe per una bevuta, sai com’è… in onore dei vecchi tempi. Vuoi unirti a noi?».

«In onore dei vecchi tempi vuol dire che Jasper l’alcolizzato tornerà a farsi vedere?».

Clarke gli aveva affibbiato quel nomignolo dopo una festa di compleanno di ormai tanti anni prima, alla quale il ragazzo si era ubriacato davvero di brutto. Non aveva mai avuto veri problemi con l’alcol, ma da allora quel soprannome era rimasto.

«Può darsi» rispose lui e Clarke in quel momento era convinta che un sorrisetto increspasse le labbra del suo amico.

«Allora sarà meglio che venga a tenerti d’occhio» lo prese in giro lei.

«Meraviglioso! Facciamo stasera alle nove allora! Ci vediamo più tardi biondina!».

«Ciao Jasper».

La ragazza scosse la testa divertita e riagganciò. Lei non avrebbe toccato un goccio d’alcol, giusto per evitare una replica della serata precedente, ma di certo l’aspettava una serata scoppiettante. Con Jasper e Monty non avrebbe potuto essere altrimenti.

Finalmente riuscì di nuovo a sedersi a tavola e stavolta pranzò senza alcuna interruzione, ma subito dopo aver finito venne colta  da un terribile attacco di sonno, tanto che si trascinò fino al suo letto e si buttò a peso morto sul materasso. Strano, una stanchezza simile non era da lei.

Si addormentò dopo pochi istanti.

 

«Clarke… Clarke, tesoro? Ti senti bene?».

Quando riaprì gli occhi, la ragazza impiegò qualche istante prima di mettere a fuoco sua madre.

«Ehi… » borbottò ancora assonnata.

«Ti senti bene?».

«Mmm… sì, certo. Che ore sono?».

«Le otto di sera».

Un momento… le otto di sera?! Come dia volo era possibile che avesse dormito per quasi sette ore?! Il sonno perso negli ultimi giorni a quanto pare si era fatto sentire, ma non le era mai successo di dormire così tanto in un pomeriggio. Dio, avrebbe dovuto studiare, aveva una tabella di marcia da seguire in fin dei conti.

Come se non bastasse non avrebbe nemmeno potuto sfruttare la serata dato che aveva accettato l’invito di Jasper.

Così, si tirò a sedere sul letto e disse a sua madre che avrebbe dovuto cominciare a prepararsi per uscire con i due amici.

«Passi molto tempo con Jasper Jordan ultimamente» disse Abby accennando appena un sorriso.

Molto tempo? Ma se quella in realtà era la seconda volta che si vedevano? Beh, terza contando l’intrusione dell’amico qualche sera prima, ma di quella sua madre non ne sapeva nulla. E poi le tornò in mente che le aveva mentito sulla notte prima. Certo… meglio che pensasse che l’aveva trascorsa con Jasper piuttosto che con Bellamy. Sua madre non aveva mai visto di buon occhio il ragazzo, ma ai tempi era anche comprensibile, d’altra parte… Bellamy Blake era stato adocchiato da tutti come il bullo del quartiere. Non sapeva cosa Abby pensasse di lui ora che sembrava aver messo la testa a posto, ma, ad ogni modo, non era certo curiosa di scoprire la reazione di sua madre dicendole dove aveva in realtà trascorso la notte precedente.

«Sì, Jasper… è davvero simpatico e poi ormai ci conosciamo da tanti anni. Ma non pensare cose strane, non c’è niente  di più tra noi due. Anzi… da quanto ne so esce con una sua compagna di corso».

Abby alzò le mani, come in segno di resa.

«Non ho detto niente infatti» il suo tono però era scherzoso.

Anche Clarke sorrise, poi si alzò dal letto.

«Sarà meglio che cominci a prepararmi adesso».

«Va bene, allora ti lascio alla tua serata».

Così la donna voltò le spalle, avviandosi nuovamente alla porta.

Clarke si morse forte il labbro inferiore, non sapendo bene cosa fare. Infine la lingua si mosse prima che il cervello riuscisse a registrarlo.

«Mamma!».

Abby tornò di nuovo a guardarla, leggermente sorpresa.

«Sì?»

«Com’è andata oggi al lavoro?».

Voleva provarci, provarci davvero a riallacciare un rapporto con lei, ma per Clarke era così difficile. Sua madre invece parve illuminarsi e questo provocò nella ragazza un grande senso di colpa.

«L’intervento per cui mi avevano chiamata era complicato, ma direi di essere riuscita egregiamente nel mio lavoro».

«Sei sempre stata un grande chirurgo».

Abby sorrise.

«Sì, e lo diventerai anche tu. C’è qualche specializzazione che ti interessa particolarmente? Neuro? Cardio?».

Clarke sospirò.

«Non so neanche se riuscirò ad entrare in chirurgia, mamma. Come minimo avrò altri cinque anni davanti, penso che valutare un’ulteriore specialistica sia un po’ prematuro».

«Non c’è niente di prematuro, tesoro. E poi avanti… sei uscita da Harvard con il massimo dei voti e laureandoti prima del tempo, non avrai certo difficoltà ad entrare in chirurgia. Se ti impegni potrai fare tutto ciò che vorrai. Sei giovane, Clarke… il mondo è nelle tue mani. Ora avanti, devi prepararti per la tua serata».

La ragazza sorrise e annuì, dopodiché si avviò in bagno per fare una doccia veloce prima di vestirsi per uscire.

Alle nove in punto la ragazza era pronta e dopo qualche minuto sentì il campanello suonare. Salutò velocemente sua madre e Marcus e aprì la porta d’ingresso, trovandosi davanti due elettrizzati Jasper e Monty.

«Ehi, Clarke! Pronta per la serata?».

La bionda sorrise ai due amici.

«Certo!».

Presero l’auto di Monty per arrivare fino al locale e in un paio di minuti furono lì.

Il pub era affollato, ma non come la sera precedente e Jasper si avviò subito al bancone per ordinare un Sidecar. Il primo di una lunga serie, temeva Clarke.

Monty si limitò ad un Martini e Clarke si buttò nuovamente sul tè alla pesca. L’esperienza della sera precedente le era bastata. Non voleva ritrovarsi un’altra volta ubriaca e senza ricordi in un letto sconosciuto, specialmente non in quello di Bellamy.

Qualche shot di vodka e qualche drink dopo, Jasper le si avvicinò con fare piuttosto brillo.

«Oh, avanti Clarke! Bevi qualcosa di serio adesso!».

«Ci tengo al mio fegato, ma non ti preoccupare… il tè va benissimo, depurerà il mio organismo» lo prese in giro lanciando a Monty uno sguardo a metà tra il complice e il rassegnato.

L’amico scosse la testa, alzando le mani in segno di resa e buttò giù il suo drink analcolico. Dato che doveva guidare per il ritorno, si era fermato dopo il primo Martini. Ecco, Monty sì che era un ragazzo assennato e con la testa sulle spalle, non come loro due sbandati, pensò Clarke.

Ad un certo punto però, la sua vescica cominciò a risentire di tutti quei tè, così la ragazza si avviò verso il bagno, lasciando Jasper sotto la supervisione di Monty.

Dopo qualche minuto stava per tornare dai suoi amici quando s’imbatté in due iridi azzurre.

«Ma guarda un po’… Principessa! Pare che continuiamo a incontrarci noi due, non è così?».

Clarke non sapeva se ridere o se essere esasperata.

«Atom… non sapevo che frequentassi il pub dei genitori di Monroe. Sai, dopo i vostri trascorsi».

«Clarke, con lei non è mai stato nulla di serio, lo avevo messo in chiaro fin dall’inizio e poi ormai è storia vecchia, sono passati come minimo sette anni».

«Come dici tu. E poi scusa… non avevi il turno di pomeriggio oggi?».

«Ormai sono quasi le undici, il turno finisce alle dieci. Così io e un paio di ragazzi siamo venuti a farci qualche birra dopo il lavoro, da qualche parte dovrebbero esserci anche Miller, Roma e Sterling».

Ma com’era possibile che metà dei suoi vecchi compagni di scuola fossero diventati vigili del fuoco?

«Siete tutti vigili del fuoco?» si informò.

«Roma è uno dei nostri paramedici. Il suo partner è un certo Antonio, prima lavorava nella caserma 53, a Brooklyn. Ora si è trasferito nella grande famiglia della 62. Non scommetteresti mai su un tipo del genere, invece sa davvero il fatto suo».

«Capisco… » disse semplicemente la bionda.

«Allora… adesso che possiamo parlarne senza Bellamy che si metta in mezzo a rompere le palle… cosa c’è tra voi due?».

Clarke sgranò gli occhi.

«Assolutamente niente!» la schiettezza di quel ragazzo era sempre disarmante.

«Se… niente. Ti credo proprio, soprattutto dopo averti trovata mezza nuda in casa sua, stamattina».

«Atom, davvero… non c’è niente tra me e Bellamy Blake, te lo posso assicurare» doveva trovare una scappatoia a quel discorso e doveva farlo in fretta. Atom era una persona alquanto… pressante e se si metteva in testa qualcosa non c’era verso di smuoverlo da lì.

«Dovrei crederci?».

«Sì, assolutamente. Ora se non ti dispiace dovrei tornare dai miei amici, prima che Monty uccida Jasper o lui combini qualche danno».

«Bene, vengo con te!» esclamò come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.

Clarke alzò gli occhi al cielo. Liberarsi di lui non sarebbe stato così semplice.

Quando raggiunsero gli altri due, Monty osservò Clarke con aria a dir poco stupita, mentre Jasper le rivolse un gran sorriso.

«Ehi Clarke! Hai portato compagnia!».

Lei gli lanciò un’occhiata di fuoco, ma l’amico la ignorò bellamente, continuando, stavolta rivolto verso Atom.

«Dovresti farla divertire un po’, Clarke è davvero troppo rigida».

A quelle parole Atom scoppiò a ridere, Clarke lo guardò scandalizzata e Monty con aria allarmata, come se fosse pronto a mettersi in mezzo durante un’eventuale rissa. Quel povero ragazzo finiva sempre per trovarsi dentro situazioni piuttosto scomode anche quando lui non c’entrava assolutamente nulla. Semplicemente si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato e toccava a lui acquietare gli animi.

«Io non sono affatto rigida!» sbottò lei.

«Lo sei eccome».

«Beh, io voto per Jordan, quindi… che ne dici se ti sciogli un po’ in pista Principessa?».

«Oh, no Atom… io non ballo, davvero. Sono pessima».

«Non è pessima, è una bomba».

«Jasper, vuoi stare zitto?»

Quel ragazzo le stava davvero complicando l’esistenza quella sera.

«No, a questo punto non posso più accettare un rifiuto, avanti Clarke, andiamo!».

Detto questo, Atom la prese per un polso e la trascinò al centro della pista da ballo senza neanche tante cerimonie.

Era così imbarazzante! Clarke si muoveva impacciata, da quanto non ballava ormai? Più tempo di quanto le piacesse ammettere. Una volta adorava ballare e, come aveva detto Jasper, era anche brava, ma adesso sembrava aver dimenticato come si faceva.

Dal canto suo, Atom non sembrava cavarsela affatto male, anzi, Clarke osservò i suoi movimenti. Era sciolto, rilassato e sorridente.

«Oh avanti, so che puoi fare meglio di così!».

«Te l’ho detto, sono un disastro! Ti prego, lasciami tornare al bancone, sono ridicola!».

«Devi solo rilassarti, Principessa. Ok, fai così: pensa alla cosa che ti rilassa di più al mondo, pensa alla tua canzone preferita ed unisci le due cose. Immagina di fare la cosa che ti rilassa a tempo di quella canzone. Provaci e vedrai se non ho ragione!».

Sul momento, a Clarke sembrò una cosa davvero assurda, poi considerò l’idea.

Cosa la rilassava? Lo sapeva bene: la chirurgia. Aveva assistito a numerosi interventi durante l’ultimo triennio in medicina e a tanti aveva preso parte. Aveva tenuto in mano un cuore per un trapianto e quella era stata la sensazione più elettrizzante e meravigliosa che avesse mai provato. Era sempre stata dell’opinione che nella chirurgia ci fosse un’armonia meravigliosa.

Chiuse gli occhi e provò a fare ciò che Atom le aveva detto. Le venne in mente una canzone, non era la sua preferita, ma apparteneva al suo gruppo preferito: i Within Temptation.

La musica scorreva nelle sue vene proprio come un tempo e Clarke iniziò a pensare alle parole di quella canzone.

Open up your eyes
Save yourself from fading away now, don't let it go
Open up your eyes
See what you've become, don't sacrifice
It's truly the heart of everything

«Sì Principessa, proprio così!» esclamò Atom sorridendo e solo a quelle parole Clarke si accorse che il suo corpo aveva iniziato a muoversi al ritmo di quelle parole nella sua testa.

Atom la guardava intensamente e dopo un attimo Clarke sentì un lieve contatto tra le loro mani. Quando la musica finì, il ragazzo si portò la mano di lei alle labbra, posandovi un bacio leggero.

La bionda non se lo aspettava davvero, non aveva mai effettivamente valutato la possibilità di piacere a qualcuno dopo… beh, dopo Finn. Durante gli anni del college era stata troppo concentrata sullo studio e sul suo dolore per poter gestire anche una relazione e non se ne era minimamente curata. Adesso però, il comportamento di Atom lasciava intendere qualcosa di più.

Solo vagamente si accorse di una voce fredda proveniente dalle sue spalle.

«A quanto pare qui c’è una festa alla quale non sono stato invitato».

Fu quando Clarke si voltò che incontrò le iridi scure e penetranti di Bellamy Blake mentre fissava lei ed Atom con uno sguardo impenetrabile.

 

His eyes upon your face
His hand upon your hand
His lips caress your skin
It's more than I can stand

I suoi occhi sul tuo viso 
la sua mano sulla tua mano 
le sue labbra accarezzano la tua pelle 
è più di quanto possa sopportare

 

E così Raven tornava in città…

Bellamy ripensò alla telefonata di poche ore prima della ragazza e sorrise tra sé. Fino ad un paio di anni prima non lo avrebbe mai ammesso, ma… Raven gli era mancata.

Avevano avuto i loro trascorsi, questo era certo, ma non era stata un soprammobile sullo scaffale delle sue conquiste. No, in qualche modo quella ragazza era rimasta nella sua vita, era la cara amica con cui parlava quando sapeva di non poterne parlare con Octavia, nonostante Bellamy non le avesse mai apertamente raccontato della morte di sua madre, anzi… non appena si sfiorava l’argomento lui si affrettava a cambiare discorso.

Aveva l’impressione che questo non fosse mai sfuggito a Raven e d’altra parte, quasi nulla le sfuggiva, era una delle persone più intelligenti che Bellamy avesse mai incontrato. Semplicemente la bruna si limitava ad assecondarlo, se non voleva parlarne, lei non lo forzava e questa era un’altra qualità per la quale il ragazzo l’apprezzava.

Raven non gli aveva detto perché stesse tornando a Fort Hill dopo tutti quegli anni, in fin dei conti… era da quando aveva finito il liceo, due anni dopo di lui, che aveva lasciato Staten Island. Da quanto ne sapeva, aveva trascorso un po’ di tempo da una zia in Sud America, in Argentina forse, non aveva mai capito le vere origini di quella ragazza, lei tendeva a mettere la retromarcia quando si parlava della sua famiglia e Bellamy la capiva perfettamente dal momento in cui lui si comportava allo stesso modo.

Dopodiché era stata in Ohio e in California ed ora tornava. Chissà perché.

Lei gli aveva detto che sarebbe passata a trovarlo sicuramente, anche se non sapeva quando di preciso e lui non aveva fatto domande.

Il loro rapporto era sempre stato così, molto… vivi e lascia vivere. Ognuno si faceva gli affari suoi, ma c’erano sempre l’uno per l’altra e se gli avessero chiesto chi era la sua migliore amica, Bellamy avrebbe senz’altro fatto il nome di Raven. Ovviamente dopo sua sorella, ma Octavia era un caso a sé. Octavia non era solo sua sorella o solo la sua migliore amica. Lei era una parte del suo cuore e si sarebbe fatto strappare gambe e braccia per lei, si sarebbe gettato in mezzo alle fiamme.

Ad ogni modo, quel pomeriggio era libero, così decise di dedicarlo un po’ alle pulizie di casa. Non era possibile che quel posto fosse già un disastro dopo appena pochi giorni.

Impiegò diverse ore per ripulire l’appartamento e ad opera conclusa, si sentì davvero una brava casalinga.

Con il caldo infernale di fine giugno aveva sudato parecchio, quindi decise di fare una doccia, così prese degli abiti puliti dall’armadio e si avviò in bagno.

Era appena uscito dal box, con un asciugamano legato in vita, quando sentì suonare il campanello della porta.

“Tempismo perfetto”, pensò tra sé.

Ancora gocciolante si diresse all’ingresso e quando aprì la porta rimase a dir poco stupito.

«Raven!».

«Ehi cecchino!».

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Ancora quello stupido soprannome. Era saltato fuori una volta, quando Bellamy e la sua combriccola si divertivano a salire sulla terrazza di un locale e usare dei fucili a pallini per sparare ai passanti di sotto. Diversi anni prima il moro aveva colpito il signor Jaha e Raven lo aveva visto. Tutto era cominciato allora e da quel momento la ragazza lo aveva chiamato in quel modo, spesso e volentieri.

«Cos’è quell’espressione idiota, Blake?».

«Io… niente, è solo che non mi aspettavo di vederti qui».

«Sì, lo avevo intuito, altrimenti immagino che ti saresti fatto trovare con qualcosa addosso».

Il ragazzo scosse la testa divertito.

«Mi hai colto di sorpresa».

«Ti avevo detto che sarei passata!».

«Sì, ma non hai specificato quando. Avrei anche potuto essere in caserma. E ora che ci penso… chi ti ha dato il mio nuovo indirizzo?».

«Tua sorella. Ero passata nella vecchia casa e ho trovato solo Octavia e Lincoln, così lei mi ha detto che ora abiti qui. Grazie per aver informato la tua migliore amica tra parentesi».

«Te lo avrei detto, ma tu non mi dai il tempo di fare nulla!».

«La verità è un’altra Bellamy: tu non riesci a reggere i miei ritmi».

«Certo che non riesco a reggere i tuoi ritmi, tu sei completamente squilibrata!».

«Ehi!» esclamò la ragazza colpendolo con un pugno sulla spalla. «Sta bene attento a come parli, signor Tenente».

«Non sono ancora Tenente, Raven».

«Un uccellino mi ha detto che c’è una promozione nell’aria».

«Lincoln parla davvero troppo. Ancora non l’ho accennato nemmeno ad Octavia».

«Oh sì, a tal proposito è molto arrabbiata per averlo saputo dal suo fidanzato e non da te».

Il moro si passò una mano sul volto.

«Sono fottuto».

A quelle parole Raven scoppiò in una fragorosa risata.

«Perché non l’hai detto a tua sorella?».

«Perché il Comandante Sinclair lo ha appena accennato, ha detto che se continuo a  lavorare bene potrei avere una promozione. Ma è tutto ancora troppo vago!».

L’amica gli sorrise sinceramente.

«Vedrai che andrà tutto bene, Bellamy. Sei nato per quel lavoro» cercò di rassicurarlo.

«Lo spero. Sarebbe un passo importante… diventare Tenente».

«Lo ha detto lui: devi solo continuare a lavorare come stai facendo. Sei sulla strada giusta».

Per qualche istante un silenzio rilassato aleggiò tra i due, poi Bellamy disse: «Vado a mettermi qualcosa addosso e torno subito».

«Tanto lì sotto non c’è nulla che non abbia già visto» lo prese in giro lei, riferendosi alla famosa notte del ballo.

«Divertente, Reyes» e detto questo, sparì nel bagno.

Tornò pochi minuti dopo indossando dei pantaloni di una tuta e una canotta bianca.

«Allora… adesso mi dici perché sei tornata?».

«Beh, non essere troppo felice della cosa, mi raccomando».

«Non è quello, è che… sei schizzata da una parte all’altra del Paese per anni. Come mai tornare ora? Ti piaceva la California, no?».

«Oh sì, la California era fantastica».

«Ma…?».

«Ma il mio ragazzo è stato trasferito qui».

«Oh, sapevo che c’entrava un uomo! Dimmi… a chi è che devo spezzare le gambe?».

Raven sbuffò tra il divertito e l’esasperato.

«A nessuno. È intelligente, brillante e con uno stupido senso dell’umorismo proprio come te, quindi dovreste andare d’accordo voi due».

«Ora puoi anche uscire da casa mia. Nessuno insulta il mio senso dell’umorismo», ma non riuscì a rimanere serio e risero entrambi.

«Sei irrecuperabile, Bellamy».

«Dì solo che ti sono mancato».

«Mi sei mancato».

I due vennero nuovamente avvolti dal silenzio, poi Raven disse: «Sarà meglio che vada adesso. Ho ancora tante cose da sistemare e poi Kyle mi aspetta».

«Kyle? È questo il nome del ragazzo misterioso?».

Raven gli rivolse un sorriso che la diceva lunga, fece un cenno di saluto con la mano e uscì dalla porta principale.

Così, Bellamy restò nuovamente da solo. Era ancora metà pomeriggio e non aveva la minima idea di cosa fare.

Il giorno dopo avrebbe avuto il turno pomeridiano, ma fino ad allora non aveva alcun impegno, per di più non poteva chiamare nemmeno Atom o Miller perché in quel momento erano in caserma.

Alla fine decise di darsi allo zapping e girando trovò una serie decente: The Walking Dead. Octavia era solita guardare stronzate tipo The Vampire Diaries, che lui odiava con tutto sé stesso ed era capitato, durante i turni della sorella, che lui e Lincoln passassero pomeriggi o serate davanti alla tv guardando il telefilm sugli zombie. Diciamo che era più adatto a loro rispetto ai drammi di Elena Gilbert che, tra parentesi, Bellamy odiava.

Le immagini scorsero raccapriccianti sotto i suoi occhi, quella era solo la seconda stagione, ma cominciava seriamente ad appassionarsi a quella serie, avrebbe dovuto cominciare a seguirla con più continuità.

Quando vide l’ora restò sorpreso: ormai erano quasi le otto di sera ed il suo stomaco gli ricordò che doveva metterci dentro qualcosa.

Tirò fuori la piastra e prese una bistecca che qualche ora prima aveva uscito dal freezer per scongelare. Mangiava troppa carne, ma gli piaceva da morire.

Divorò tutto con voracità, come suo solito e poi ripulì le stoviglie con il sottofondo della radio.

Per quella sera decise che sarebbe andato a letto presto, così una volta che la cucina fu nuovamente tirata a lucido si avviò in camera, si spogliò e si buttò sul letto con i soli boxer addosso. Il caldo quell’anno era  veramente insopportabile e soffocante.

In un primo momento il ragazzo non ci fece caso, ma poi qualcosa colpì i suoi sensi, o meglio… un profumo che gli pareva vagamente familiare. Dove aveva già sentito quel profumo? Sembrava quasi gelsomino.

Bellamy si sforzò per capire da dove diavolo potesse provenire quell’odore e quando ci arrivò sgranò gli occhi. Quella notte Clarke aveva dormito lì e quello era il suo profumo. Ogni volta che si trovavano vicini, il moro era investito da una zaffata di quel particolare profumo che, non lo avrebbe mai ammesso, gli piaceva da impazzire.

Inspirò a pieni polmoni il cuscino sul quale Clarke aveva posato la testa la scorsa notte e dopo pochi istanti si addormentò.

Venne svegliato da una vibrazione sul comodino che quasi lo fece saltare sul materasso e, confusamente, guardò l’ora sul muro proiettata dalla radiosveglia. Erano le undici passate da pochi minuti. Chi diavolo poteva cercarlo a quell’ora? Subito pensò ad Octavia e afferrò il cellulare con foga. Era un messaggio di Miller.

Ancora mezzo intontito e alquanto perplesso, il ragazzo aprì il messaggio, chiedendosi cosa potesse spingere Miller a scrivergli a quell’ora. Il turno era finito. Che fosse successo qualcosa al lavoro? Ma ciò che lesse con il lavoro non c’entrava proprio nulla.

Ehi Bell, tu sapevi che Atom e Clarke sembrano essere grandi amici?” questa frase fece subito scattare qualcosa in Bellamy, qualcosa che non riuscì a spiegare e che si sforzò di reprimere.

In che senso?” si affrettò a rispondere.

Ormai era completamento sveglio e nei due minuti che Miller impiegò a rispondere lo maledisse mille volte.

Si stanno scatenando sulla pista da ballo al pub dei genitori di Monroe”.

Cosa?! No, non era possibile. Clarke non ballava e sicuramente non stava ballando con Atom.

Provare a dormire a quel punto sarebbe stato inutile, così, senza nemmeno degnarsi di rispondere a Miller, balzò in piedi ed in meno di un minuto indossava già un paio di jeans e una t-shirt blu.

Prese le chiavi della macchina dal mobile in salotto e partì sparato verso il pub.

Il tragitto per arrivare fu breve, ma a lui parve infinitamente più lungo del solito e la cosa lo fece andare su tutte le furie.

Perché era così irritato? Perché aveva quello strano senso di chiusura alla bocca dello stomaco? Non gli era mai capitato prima e soprattutto non aveva alcun senso.

Sopprimendo tutti quei pensieri entrò nel locale a grandi falcate, scandagliando la folla. Puntò gli occhi sulla pista da ballo e li vide: Atom che baciava lievemente il dorso della mano di Clarke, con un sorriso da cascamorto stampato in volto.

Un sentimento molto simile alla rabbia montò dentro di lui e Bellamy ricoprì la distanza che li separava in pochi istanti.

Arrivò alle spalle della ragazza ed un’ondata di profumo al gelsomino lo travolse. Solo poche ore prima si era addormentato respirando quell’odore.

«A quanto pare qui c’è una festa alla quale non sono stato invitato» disse in un tono così gelido che sorprese anche sé stesso.

Alle sue parole, Atom puntò gli occhi chiari nei suoi e Clarke si voltò, l’espressione a dir poco stupita nel ritrovarselo davanti.

«Ehi, amico!» lo salutò il collega con un gran sorriso.

Oh, gli avrebbe fatto sparire lui quell’espressione soddisfatta dalla faccia a suon di pugni.

«Bellamy… che ci fai qui?» Clarke invece sembrava quasi imbarazzata e il fatto che lo avesse chiamato per nome e non per cognome confermò la sua ipotesi.

Che poteva inventarsi adesso? Di certo non poteva dire che si era immotivatamente precipitato lì non appena aveva saputo che lei ed Atom stavano ballando insieme.

«Passavo» si affrettò a rispondere in modo quasi scontroso.

Ma Atom lo conosceva fin troppo bene per sua sfortuna. Incrociò le braccia al petto e sollevò un sopracciglio.

«Passavi. Certo, ti credo proprio», ma l’occhiata omicida che Bellamy gli lanciò, bastò per metterlo a tacere immediatamente.

«Io mi prendo una birra. Principessa, ti unisci a me?».

«Credo di aver bevuto a sufficienza per stasera. Tè» si affrettò ad aggiungere quando vide lo sguardo stupito dell’ultimo arrivato.

«Oh avanti… una birra non ha mai ucciso nessuno».

«La Principessa ha detto di no, Bell… lasciala in pace».

In quel momento Bellamy dovette fare uno sforzo non da poco per trattenersi dal colpire il suo migliore amico dritto in faccia. Che diavolo gli stava succedendo quella sera?

Grazie al cielo, la situazione fu salvata dall’intervento provvidenziale di Monty, arrivato proprio nel momento giusto.

«Clarke, credo che dobbiamo riportare a casa Jasper, ma dobbiamo andare via subito perché devo scappare a casa».

«Vai pure, qui me ne occupo io» la voce di Bellamy era perentoria e non ammetteva repliche.

Monty lanciò uno sguardo a Clarke per assicurarsi che lei fosse d’accordo e poi salutò il gruppo, un po’ impacciato.

«Andiamo» il ragazzo andò a recuperare Jasper mentre Clarke salutava Atom e Bellamy cercò di fare di tutto per ignorare la cosa.

Jasper era davvero ubriaco fradicio, constatò lui. Si fece passare un braccio attorno alle spalle e lo sorresse fino alla sua macchina, dove Clarke lo aiutò a farlo sdraiare sui sedili posteriori.

«Devi dirmi la strada per arrivare a casa sua» disse in tono gelido e Clarke annuì.

La cosa peggiore era che avevano almeno mezz’ora di strada da fare, Jasper abitava in una gran villa piuttosto distante. I suoi genitori lavoravano nel campo delle industrie farmaceutiche ed erano ricchi sfondati. Jasper, che a breve si sarebbe laureato in chimica, ce l’aveva proprio nel sangue.

Il viaggio in macchina trascorse nel più completo mutismo, Bellamy teneva gli occhi fissi sulla strada senza degnare Clarke della minima attenzione, la quale, dal canto suo, guardava fuori dal finestrino assumendo una postura rigida e parlando solo per dare al moro le indicazioni per casa Jordan.

Ad un tratto Jasper tossì violentemente, facendo sobbalzare entrambi.

«Se il tuo amico vomita nella mia macchina giuro che lo butto fuori dall’auto in corsa» disse guadagnandosi un’occhiataccia dalla ragazza.

Clarke aprì i cancelli in ferro battuto con un piccolo telecomando che aveva sfilato dalla tasca di Jasper prima di farlo stendere sui sedili posteriori e quelli si spalancarono senza emettere il minimo rumore.

Bellamy guidò lungo un sentiero di pietre nel grande cortile fino ad arrivare di fronte all’imponente villa.

Scese dall’auto, seguito da Clarke, e mentre lei andava ad aprire il portone d’ingresso, lui recuperò il ragazzo mezzo addormentato. Non fece caso al grande ingresso, né all’immensa sala che attraversarono e ad un certo punto, Clarke gli disse di adagiare l’amico su un divano di velluto.

Solo quando lo mise giù si guardò intorno e tanta ricchezza lo lasciò spaesato. Erano standard ben al di fuori della sua portata. Sapeva che la famiglia di Jasper era molto facoltosa, ma non immaginava fino a questo punto.

Clarke invece sembrava decisamente a suo agio e si muoveva da una parte all’altra come se fosse stata a casa sua. Si capiva che doveva aver passato lì molto tempo. Sparì momentaneamente dal grande salone e ritornò qualche minuto dopo con una tazza di caffè in mano.

Bellamy la osservò in piedi, a braccia conserte, mentre porgeva la tazza al padrone di casa, chiamandolo ripetutamente.

«Cosa vuoi?» biascicò lui.

«Bevi» ordinò in tono fermo.

«Ma puzza di vodka».

«No, quello sei tu».

«Ah».

Clarke aiutò il ragazzo a bere e poi scrisse su un pezzo di carta: “Chiamami domani quando ti svegli”.

Lasciò il biglietto sul torace di Jasper e, guardando Bellamy disse: «Possiamo andare adesso. I suoi genitori sono fuori città per lavoro e lui dormirà come un ghiro fino a domani mattina».

Bellamy si limitò ad annuire e ripercorse la strada inversa. Da una parte non vedeva l’ora di uscire da quella casa, dall’altra non aveva la minima voglia di trascorrere i successivi quaranta minuti da solo in macchina con la Principessa.

Come pensava infatti, i primi dieci passarono nel silenzio più assoluto, ma poi, nel cambiare marcia, la sua mano urtò involontariamente quella di Clarke e la sentì irrigidirsi.

«Scusa».

Dapprima la ragazza non disse nulla, poi sbottò: «Si può sapere che ti prende?!».

Bellamy rimase così sorpreso da quelle parole che per un momento non seppe cosa dire.

«In che senso, Principessa?» cercò di parlare con il suo solito tono annoiato e questo parve far imbestialire la bionda ancora di più.

«In che senso?! Sei piombato al pub come una furia scatenata e guardavi Atom come se volessi saltargli alla gola da un momento all’altro».

«C’è qualcosa tra voi due, vero?».

«Atom?! A malapena lo conosco! E poi sai… è strano, lui mi ha fatto la stessa domanda nei tuoi confronti».

«Scusa?».

«Sì, mi ha chiesto cosa c’era tra di noi dopo che stamattina gli ho aperto la porta con solo una tua maglietta addosso».

«Beh, tra noi due non c’è niente» tagliò corto il moro.

«Oh, lo so perfettamente. E tanto per la cronaca, non c’è niente neanche tra me e Atom».

Il ragazzo non disse nulla e serrò la mascella, mentre Clarke sbuffò sonoramente.

Non riusciva a capire lui stesso perché se la fosse presa tanto, quella ragazza era una vera rottura di palle.

Erano ancora lontani dal centro, in una strada poco trafficata, quando ad un tratto una macchina sbucò da una traversa laterale a tutta velocità, tagliando loro la strada.

«Cazzo!»

«Bellamy!» i due gridarono all’unisono.

Il ragazzo sterzò bruscamente per evitare un impatto a 140km/h come minimo, ma la sua auto slittò, finì fuori strada e Bellamy faticò qualche istante per riprendere il controllo ed evitare di schiantarsi contro un albero.

Il cuore gli batteva all’impazzata e le mani, strette convulsamente al volante, tremavano leggermente.

Con il respiro ancora irregolare, voltò lentamente la testa alla sua destra.

«Clarke… stai bene?».

La ragazza teneva gli occhi sgranati fissi davanti a sé, senza rispondere.

«Clarke?» riprovò di nuovo prendendole una mano. Era gelida.

In quel momento la ragazza parve ridestarsi, aveva anche lei il respiro affannoso e il viso pallido.

«Sì… sì, sto bene».

«Sei ferita?».

«No».

A quelle parole Bellamy tirò un sospiro di sollievo, spense la macchina e scese.

«Bellamy! Dove vai?» scattò subito la bionda, andandogli dietro.

Lui fece un giro intorno all’auto per controllare se ci fossero stati danni e lanciò un’occhiata in strada. Chiunque fosse stato quel pirata, adesso si era defilato alla svelta.

«Figlio di puttana» mormorò.

«La macchina è a posto?» gli chiese lei arrivando alle sue spalle.

«Pare di sì. Tu sei sicura di stare bene?».

«Sì, te l’ho detto. Hai avuto i riflessi davvero pronti».

«Merito va anche al lavoro che faccio. Siamo addestrati per questo».

Lei annuì, guardandolo dritto negli occhi.

«Grazie, Bellamy».

Il moro non poté fare a meno di notare che Clarke stava cominciando a chiamarlo per nome molto più spesso e questo gli fece alzare un angolo della bocca in un mezzo sorriso, che la ragazza non vide.

«Figurati, Principessa. Sai che razza di danni avrebbe avuto la mia macchina?» la prese in giro lui.

«Stronzo» ma il suo tono era scherzoso.

«Avanti… ti riporto a casa. Ormai è quasi l’una di notte».

Il resto del viaggio trascorse più rilassato rispetto a prima, adesso la tensione sembrava attenuata e i due non si guardavano più in cagnesco.

Bellamy accese la radio e lasciò che Clarke cambiasse i canali, fermandosi quando trovava una canzone che le piaceva. Di solito non lo permetteva a nessuno, ma considerando che avevano appena rischiato di fare un frontale lasciò correre, o almeno così si disse.

Non ci volle molto per arrivare, a quell’ora le strade erano deserte e dopo venti minuti il ragazzo parcheggiò di fronte casa Griffin.

«Eccoci arrivati al castello, Principessa».

«Devi davvero piantarla con quel soprannome».

«Perché? Io mi diverto» rispose lui con un sorrisetto di scherno.

La ragazza sospirò, ma non scese dall’auto.

Bellamy si chiese cosa stesse aspettando, ma poi la ragazza lo colse completamente impreparato quando si sporse dal suo lato per posargli un bacio sulla guancia e per poco al ragazzo non venne un colpo.

«Grazie, Bellamy» soffiò ad un millimetro dalla sua guancia.

Il profumo di Clarke gli diede alla testa e per un momento il ragazzo non fu in grado di proferire parola.

Deglutì a vuoto e voltò lentamente la testa per osservarla.

«Quando vuoi» riuscì solo a dire, dopodiché, la ragazza gli lanciò un ultimo sguardo e smontò dall’auto.

Bellamy rimase ad osservarla finché non entrò in casa e quando la porta si fu richiusa partì nuovamente nel buio della notte, ancora leggermente agitato. Si convinse che fosse per colpa del loro incidente mancato per un soffio, anche se aveva come la sensazione di mentire a sé stesso.

D’altra parte… era stato solo un incidente di percorso…

 

NOTE:

E rieccomi! Dai, ditemi che sono stata bravissima, quando ho pubblicato lo scorso capitolo dovevo ancora iniziare a scrivere questo e avete visto? È anche molto più lungo rispetto agli altri! A tal proposito spero che non sia troppo lungo. So che ad alcuni magari potrebbe risultare pesante, se così fosse non esitate ad avvertirmi, vedrò di accorciare, magari spezzando i prossimi.

Devo dire che questo è stato abbastanza ricco di avvenimenti tra la scena Clarke/Abby e Bellamy/Raven. Poi ovviamente tutto ciò che è successo dal pub in poi e dai che grazie all’insistenza e alla sfacciataggine di Atom, Bellamy sta cominciando a rendersi un po’ conto dei suoi sentimenti verso Clarke (esultiamo), anche se per lei ci vorrà del tempo in più.

Allora… un paio di chiarimenti:

1.    Antonio, il paramedico nominato da Atom al pub non è mai apparso nella serie tv, ma viene nominato una volta nel libro, fa parte dei 100.

2.    La caserma di cui fanno parte Bellamy e gli altri ragazzi è la numero 62. La scelta del numero è stata piuttosto personale, con il telefilm non c’entra nulla, ma il 62 era il numero del battaglione in cui mio papà ha fatto il militare.

3.    Cecchino, il soprannome con cui Raven chiama Bellamy era lo stesso di quando nella serie lei arrivava sulla Terra dopo aver saputo che aveva sparato a Jaha. Ovviamente ho un po’ ridimensionato la storia, altrimenti questa avrei dovuto ambientarla in carcere XD

4.    Ho scelto “The Walking Dead” come telefilm da far guardare a Bellamy innanzitutto perché è la serie che sto seguendo io al momento e in secondo luogo perché mi sembra adatta a lui piuttosto che tante altre.

Le canzoni di questo capitolo sono “The Heart of Everything” degli Within Temptation e un estratto de “El Tango de Roxanne” dal Moulin Rouge per Bellamy. Diciamo che mi sembrava adatta alla situazione.

Per gli Within Temptation mettetevi il cuore in pace: sono il mio gruppo preferito e penso che vi schiafferò la loro intera discografia prima della fine della storia XD  

P.S. "Drift accident", il titolo del capitolo, vuol dire letteralmente "incidente di percorso" e l'ultima frase della parte dedicata a Bellamy è lasciata un po' in sospeso non specificando se  sia riferita all'incidente mancato o al comportamento di Clarke... mah! Voi cosa dite?

Ci risentiamo al prossimo capitolo!

Mel

The Heart of Everything – Within Temptation

El Tango de Roxann – Moulin Roge cast

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Breaking Point ***


9  





CAPITOLO 9: BREAKING POINT

 

Just shake
Because you love
Cry
Because you care
Sleep
Because you're tired
Feel
'Cause you're alive
Shake
Because you love
Bleed
'Cause you got hurt
Die
Because you lived

Make heaven, Heaven out of Hell now.


Ti agiti
Perché ami
Piangi
Perché ti importa
Dormi
Perché sei stanco
Provi qualcosa
Perché sei vivo
Ti agiti
Perché ami
Sanguini
Perché sei stato ferito
Muori
Perché hai vissuto

Crea il paradiso, il Paradiso al posto dell'Inferno 

 

Erano trascorsi dieci giorni ormai dalla turbolenta notte in cui Clarke era uscita con Jasper e Monty facendo invece ritorno con Bellamy.

Dieci giorni da quell’incidente mancato per un soffio. Se ci ripensava, la ragazza aveva ancora i brividi. Non fosse stato per i riflessi pronti e i nervi saldi di Bellamy, probabilmente quell’auto sarebbe andata loro addosso a tutta velocità e per un momento aveva davvero avuto paura.

Grazie al cielo il ragazzo aveva sterzato in tempo, evitando l’impatto.

Non aveva più visto Bellamy da quella notte e, in quei dieci giorni, era rimasta pressoché segregata in casa a studiare per l’esame di ammissione  alla specialistica di chirurgia.

Aveva sentito un paio di volte Octavia, Jasper e Monty, cercando invece di evitare Wells con tutte le sue forze. D’altro canto… anche il ragazzo sembrava essersi volatilizzato.

Clarke si sentiva in colpa per quella situazione. Sapeva quando Wells tenesse a lei e, grazie alla conversazione avuta con Octavia, aveva finalmente preso atto e accettato il fatto che l’amico nutrisse dei sentimenti nei suoi confronti che andavano ben oltre l’amicizia.

L’aveva sempre saputo, ma aveva cercato di rimandare la cosa. Il guaio era stato che, rimandandola per quasi dieci anni, era stato inevitabile essere arrivati al punto di rottura al quale si trovavano adesso.

Dio, era una situazione così complicata.

Clarke sbuffò, prendendosi la testa tra le mani. In quel momento Yeti le si strusciò in mezzo alle gambe, facendo le fusa.

Dopo l’arrabbiatura delle settimane prima, finalmente l’aveva perdonata ed ora era tornato ad essere il solito ruffiano di sempre.

La ragazza si chinò per grattare la testa del felino e lui le leccò la mano. Poteva sembrare niente, ma averlo a casa con sé, per Clarke era davvero importante. Assurdo come un gatto potesse in realtà diventare quasi un punto di riferimento. Con tutto ciò che era successo nelle ultime due settimane, lui era forse l’unica cosa ad essere rimasta immutata.

Erano davvero passate solo due settimane? Dio, lei non se ne rendeva più conto. Il tempo le sfuggiva di mano ad una velocità impossibile, facendole quasi paura. Paura perché le sembrava di non avere affatto il controllo sulla sua vita e su ciò che la circondava, paura di non avere abbastanza tempo. Suo padre non ne aveva avuto.

Suo padre… ogni giorno le mancava sempre di più e, da quando era tornata a Fort Hill, il suo dolore sembrava essersi amplificato. Essere di nuovo lì, in quella casa, circondata dai suoi vecchi amici e da tutte le persone che avevano conosciuto Jake le aveva fatto un effetto che non si sarebbe mai aspettata.

L’insonnia era peggiorata, era molto più nervosa, di conseguenza fumava di più ed era costantemente sull’attenti, come se qualcosa di terribile dovesse succedere da un momento all’altro.

Le sarebbe venuto un esaurimento nervoso prima della fine dell’estate se non avesse fatto qualcosa. Il pensiero dell’esame di ammissione poi, non le facilitava di certo la vita.

Clarke sospirò, chiudendo il libro di anatomia. Era arrivata al sistema nervoso, uno dei suoi preferiti, nonostante fosse anche uno dei più complicati.

La finestra della sua stanza era aperta e lei guardò fuori. La camera di Wells era completamente sbarrata. Il ragazzo doveva ancora avercela con lei.

Doveva parlargli, doveva farlo assolutamente prima che la situazione degenerasse.

Sua madre le aveva chiesto più volte, in quei dieci giorni, perché lei e l’amico non si vedessero più, ma Clarke era sempre rimasta sul vago, dando risposte evasive e, alla fine, Abby aveva rinunciato.

Un altro pensiero che più e più volte aveva bussato alla mente della ragazza, lei non lo avrebbe mai ammesso, era stato quello di Bellamy.

Il ragazzo non si era più fatto vivo da quella notte, ma d’altra parte lei non era praticamente mai uscita di casa con la scusa dello studio, perciò incontrarlo sarebbe stato alquanto difficile.

Clarke non sapeva perché stesse pensando così spesso a lui in quel periodo, era una cosa completamente assurda e insensata. Nonostante questo però, non riusciva a smettere di farlo e si era sorpresa a pensare a Bellamy Blake in diversi momenti della giornata, qualsiasi cosa stesse facendo: durante le pause dallo studio, mentre preparava da mangiare, quando era sdraiata sul letto con Yeti che dormicchiava al suo fianco, sotto la doccia, prima di dormire.

A pensarci bene… Bellamy Blake occupava i suoi pensieri per la maggior parte della giornata e questo cominciava a mettere in Clarke un certo senso di inquietudine, non capendo da dove provenisse quella sorta di ossessione per il ragazzo.

Si era ripetuta più e più volte che fosse solo un senso di gratitudine per averle praticamente salvato la vita quella notte in auto, ma probabilmente stava solo mentendo a sé stessa.

Scosse la testa, scacciando quei pensieri e lanciò uno sguardo all’orologio da polso di suo padre. Erano le sei di pomeriggio passate da poco e la ragazza decise che era finalmente il momento di uscire e prendere un po’ d’aria.

Voleva andare al parco, il parco in cui aveva incontrato Bellamy per la prima volta dopo il suo ritorno a Staten Island, così, prese una borsa bella grande, ci infilò dentro il suo blocco da disegno e un carboncino e scese le due rampe di scale che portavano al piano terra.

Sua madre e Marcus stavano parlando in cucina e, quando la videro, si zittirono immediatamente.

«Vado a fare una passeggiata al parco» li informò con un sorriso.

«Torni per cena?» chiese sua madre con gli occhi che le brillavano.

Era da un po’ di tempo che avevano seppellito l’ascia di guerra, o meglio… che lo aveva fatto Clarke, dato che Abby aveva sempre cercato di riavvicinarsi a lei e questo sembrava aver riportato una sorte di pace in famiglia.

La figlia voleva davvero riprovarci e, poco a poco, si stava rendendo conto che Marcus non era così male, nonostante non fosse suo padre, ma voleva davvero bene ad Abby e questo a Clarke bastava.

«Non lo so, ti faccio sapere comunque».

«D’accordo. Buon pomeriggio, tesoro».

«Anche a voi» e detto questo, la ragazza sparì oltre la porta d’ingresso.

Camminò per quasi venti minuti prima di arrivare agli Staten Island Greenbelt e quando arrivò, cercò subito refrigerio all’ombra di una grande quercia vicino ad un lago.

Clarke aveva sempre amato quel parco, era immenso e lei stessa non lo aveva mai visitato per intero.

Tirò fuori dalla borsa il blocco da disegno e il carboncino e provò ad abbozzare il grande lago che le si trovava davanti, ma era come bloccata. Erano mesi che non riusciva a disegnare qualcosa di  decente e la cosa cominciava a darle davvero sui nervi. Disegnare era sempre stata la sua grande passione, perché adesso non ci riusciva più?

Dopo mezz’ora di tentativi decise di gettare la spugna, irritata e rassegnata al contempo.

Chiuse gli occhi e posò la testa contro il tronco dell’albero, restando così un paio di minuti, immobile, solo il lieve canto di un uccello in lontananza e la brezza del vento a fare da sottofondo a quel momento.

Quando riaprì gli occhi si accorse di qualcosa che prima non aveva notato, o meglio… di qualcuno.

Una sagoma, circa trenta metri alla sua sinistra, se ne stava seduta sotto un altro albero, con la testa china su un libro.

La ragazza si alzò, avviandosi con passo felpato in quella direzione. Quando gli fu alle spalle, si decise a parlare.

«Cosa leggi?».

Bellamy Blake alzò la testa nella sua direzione.

«Principessa… accomodati», le rispose il ragazzo facendole cenno di sedersi al suo fianco.

Clarke prese posto e per un po’ rimasero in silenzio entrambi.

Il ragazzo aveva chiuso il libro e lei poté leggerne il titolo “On the road” di Jack Kerouac. Amava quel libro, lo aveva letto anche lei qualche tempo prima.

«È un bellissimo libro».

«È da un po’ che non ti vedo in giro. Cominciavo a credere che fossi sparita nel nulla».

«Non è così semplice liberarsi di me».

«Non ho mai detto di volerlo fare».

Quelle parole provocarono in Clarke uno strano tremito.

«Devo prepararmi per l’esame di ammissione a chirurgia, più che altro ero a casa a studiare».

Bellamy restò in silenzio, lo sguardo perso lontano.

«Lo passerai senza problemi. Sei sempre stata un’insopportabile so-tutto-io».

Clarke sospirò divertita.

«Grazie tante».

«Non c’è di che. Disegnavi qualcosa?».

Ci provavo, ma ho una specie di blocco».

«In un posto del genere non si possono avere blocchi, insomma… guardati intorno. C’è bellezza in tutto questo. Prova di nuovo… magari devi solo cambiare prospettiva».

Da quando Bellamy Blake era diventato un tipo filosofico?

Ad ogni modo, la ragazza provò a seguire il suo consiglio e si spostò, posando la schiena contro il tronco di un albero di fronte a Bellamy.

Ora aveva il lago alle spalle e uno spazio di verde sterminato che si stendeva davanti ai suoi occhi.

Dapprima iniziò a tracciare qualche segno sullo sfondo, poi si avvicinò abbozzando il profilo di un albero e, dopo qualche minuto, non esisteva più nulla. Soltanto lei e un foglio bianco che aspettava solo di essere riempito.

Clarke cadeva come in trance quando iniziava a disegnare ed era una sensazione meravigliosa, che non provava più da molto tempo ormai.

Fu ridestata, non seppe quanto tempo dopo, dalle parole di Bellamy.

«Si sta facendo buio, Principessa, è meglio andare» disse il ragazzo, in piedi di fronte a lei.

Clarke scosse lievemente il capo, come svegliata improvvisamente da un sogno e guardò il blocco nelle sue mani, restandoci di sasso. Lì, su quel foglio di carta, nero su bianco, era raffigurato proprio Bellamy, intento a leggere il suo libro.

I capelli scuri, la testa chinata in avanti, la curva ben definita della mascella e le linee sinuose delle braccia e dei fianchi. Clarke lo aveva ritratto senza neanche rendersene conto.

Si affrettò a chiudere il blocco prima che il ragazzo potesse accorgersi di qualcosa e si alzò in piedi, ancora leggermente intontita e imbarazzata.

Ad un tratto, udì una voce fredda e familiare provenire dalle sue spalle.

«Certo… ora si spiega tutto» Clarke si voltò e impallidì nel ritrovarsi l’imponente sagoma di Wells che troneggiava su di lei.

«Wells, aspetta! Dobbiamo parlare!» esclamò scattando in piedi.

«Non ho più nulla da dirti Clarke. Sembra che voi due passiate molto tempo insieme, no? Continuate pure a divertirvi, tanto noi due abbiamo chiuso».

«Wells!».

«Ehi Jaha… ma che razza di problemi hai, si può sapere?» la voce di Bellamy attirò l’attenzione di Clarke, che quasi aveva rimosso la presenza del ragazzo in quel momento. In cuor suo, sperò che non facesse nulla di stupido.

«Il mio problema? Il mio problema sei tu Blake» fece un momento di pausa, poi i suoi occhi si puntarono in quelli dell’amica.

«Clarke… per favore… vieni via».

«Wells, io… ».

Lui sospirò e un’espressione quasi addolorata gli comparve sul volto.

«Ho capito. Hai scelto, va bene. Solo una cosa… ho ripromesso a me stesso che almeno una volta lo avrei fatto… ».

Clarke non fece in tempo a rendersi conto delle parole del ragazzo, che quello  aveva già coperto la distanza che li separava e le aveva racchiuso il volto tra le mani, posando le labbra sulle sue.

La bionda si irrigidì immediatamente, sgranando gli occhi e in quell’istante ebbe come l’impressione che il tempo si cristallizzasse in quel singolo momento.

Senza rifletterci, spinse via il corpo del ragazzo e al contempo sentì una sorta di basso ringhio provenire dalla sua sinistra. Voltò la testa, notando gli occhi fiammeggianti di Bellamy.

«Sta’ lontano da lei, Jaha».

Clarke capì dalla postura rigida e lo sguardo furente di Bellamy che si stava trattenendo a stento dal prenderlo a pugni.

Wells emise una risata amara.

«Ma certo. Accomodati pure, Blake. Rendila semplicemente… un’altra delle tante. È tutta tua» fece un attimo di pausa prima di continuare «Ti avrei dato qualsiasi cosa Clarke, ma a quanto pare non sei la persona che credevo… » e, detto questo, il ragazzo voltò loro le spalle, allontanandosi fino a sparire dalla loro vista.

Per diversi istanti aleggiò un silenzio teso tra i due, poi la ragazza venne scossa da un tremito, soffocando a stento un singhiozzo.

Si sentiva così umiliata, ferita e arrabbiata che onestamente non sapeva quale delle tre prevalesse. Aveva intenzione di andare a parlare con Wells, il giorno dopo, con calma per spiegargli tutto. Ma poi si erano incontrati lì e lui aveva frainteso ogni cosa e lei era certa che non vi fosse alcun rimedio a quel punto.

Quel bacio poi… la testa sembrava sul punto di esploderle da un momento all’altro.

«Clarke stai bene?».

La ragazza però continuò a dargli le spalle, immobile e rigida, senza quasi respirare. Strinse forte gli occhi, cercando di ricacciare le lacrime da dove erano venute, ma nonostante tutto si sentiva così perché le importava.

«Clarke?» il moro le prese delicatamente un polso, facendola voltare e quando vide l’espressione sul suo viso serrò la mascella.

Clarke deglutì, cercando di darsi nuovamente un contegno.

«Mi dispiace, io... è meglio che torni a casa adesso» si liberò dalla stretta del ragazzo, voltandosi dall’altra parte e iniziando a camminare, ma Bellamy la raggiunse facilmente, afferrandola per le spalle.

«Clarke aspetta… sei sconvolta. Che ne dici di venire a cena da me stasera? Possiamo mangiare qualcosa e guardare un film, magari ti distrai un po’».

La bionda era veramente stupita da quella richiesta. Nervosamente si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Come poteva rifiutare con tatto? Tutta quella situazione le sembrava sempre più assurda.

«Va bene» il suo cervello registrò con un attimo di ritardo le parole che le erano appena uscite dalla bocca.

Va bene?! No che non andava bene! Maledizione.

D’altra parte a questo punto non poteva più tirarsi indietro.

«Sai, per un momento ho pensato che stessi per prenderlo a pugni».

«Stavo per farlo» confessò lui con sincerità.

Clarke sospirò. A quel punto non poteva certo dubitare del fatto che Bellamy si preoccupasse per lei. Ormai era lampante.

«Mi dispiace per la scenata».

«Ehi… non è stata colpa tua, d’accordo? Jaha è un idiota».

«Avrei dovuto parlargli, avrei dovuto… ».

«Clarke… respira. Dai, non pensarci più adesso e andiamo. Comincio ad avere fame» e così dicendo, Bellamy rivolse a Clarke uno dei sorrisi più sinceri che la ragazza gli avesse mai visto.

Tornarono a piedi a casa di lui, parlando del più e del meno, senza fare più accenno a ciò che era appena accaduto con Wells.

«Avverto mia madre che non torno per cena» disse Clarke non appena furono arrivati nel salotto di casa Blake.

«Fino a dieci giorni fa non ritenevi opportuno dirle che ti fermavi a dormire fuori ed ora le dici che non torni per cena?».

«Ci sto provando con lei, Bellamy. Sto provando… a ricostruire quel rapporto che abbiamo perso».

Lui annuì.

«È una buona cosa».

Un silenzio leggermente imbarazzato aleggiò tra i due per qualche istante, poi Clarke si allontanò un momento per chiamare la madre.

Quando tornò, Bellamy stava tirando fuori dal frigo due bistecche.

«La carne va bene?».

«Perfetta. Posso darti una mano per qualcosa? Hai dell’insalata?».

«Sì, è nel cassetto in fondo al frigo» rispose Bellamy prendendo la piastra e accendendo la radio prima ancora dei fornelli.

Clarke fece ciò che il ragazzo le aveva detto, mettendo poi a lavare la verdura.

Le piaceva cucinare con la musica a fare da sottofondo e la compagnia di Bellamy rendeva tutto stranamente rilassante.

Era da un po’ che aveva cominciato a rendersene conto, ma, quando si trovava con il ragazzo, era come se avesse ritrovato parte di quel senso di sicurezza perduto dopo la morte del padre. E ora più che mai era convinta del fatto che Bellamy non avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa di brutto, nonostante faticasse ancora a capire il perché di quel comportamento.

I due ragazzi non parlarono molto, più che altro chiedevano di passarsi qualcosa l’un l’altro, Clarke batteva un piede a tempo di musica e Bellamy continuava a cuocere la carne lanciando di tanto in tanto occhiate fugaci alla bionda.

Poco prima che fosse pronto, Clarke apparecchiò la tavola, chiedendo al padrone di casa dove si trovassero posate e stoviglie.

«Bene Principessa… ora assaggerai la mia cucina e scoprirai che non è così pessima come credevi. Bon appétit» disse il ragazzo con un sorriso sornione, mettendole davanti il piatto.

Clarke scosse la testa divertita, prese forchetta e coltello e mangiò il primo boccone. In effetti era davvero delizioso, ma non poteva dargliela vinta così facilmente, quindi osservò la carne con uno sguardo di sufficienza e disse: «Mah… io avrei sicuramente saputo fare di meglio».

L’espressione che si aprì sul volto di Bellamy fu talmente buffa che la ragazza non riuscì a trattenere una risata.

«Come scusa?! È il pasto migliore che mi sia mai riuscito!».

Quelle parole fecero ridere ulteriormente la ragazza, che rischiò di soffocarsi con un sorso d’acqua.

«Ehi, piano Principessa, non vorrei dover intervenire con il massaggio cardiaco».

«Grazie Blake, so perfettamente cavarmela da sola».

«Comunque mi ritengo profondamente offeso».

«Scherzavo, Bellamy… è davvero ottima».

«Come scusa? Puoi ripetere? Non credo di aver sentito bene».

«Ah-ah. Divertente».

Ora anche il ragazzo si aprì in un sorriso di traverso che per un attimo fece accelerare il cuore di Clarke. Ma che diavolo le stava prendendo?

Mangiarono chiacchierando per la maggior parte del tempo. C’era un’atmosfera rilassata intorno al tavolo e Clarke divorò tutto con gusto.

«Ecco, tu sì che mi dai soddisfazioni… non come Octavia, che è vegetariana e conta ogni minimo grammo di ciò che mangia. Povero Lincoln».

«Ehi, non insultare tua sorella!» esclamò lei puntandogli contro la forchetta.

Il moro sospirò.

«Donne… quando vi coalizzate si salvi chi può».

«Avanti Blake… facciamo i piatti, così poi possiamo scegliere un film».

«Lascia stare, li farò domani mattina».

«Muovi il culo» ordinò lei senza tante cerimonie.

«Ehi! Le principesse non dovrebbero parlare così!».

«Infatti non sono una principessa».

«Sì, invece».

«Vai al diavolo».

Bellamy rise.

In dieci minuti i due avevano rimesso a posto tutto, così, Clarke si sfilò i guanti di gomma, si voltò a guardare il moro e disse: «Allora Blake… vediamo che film hai».

 

There she stood in the doorway, I heard the mission bell
I was thinking to myself this could be Heaven or this could be Hell
Then she lit up a candle and she showed me the way

Lei stava sulla soglia ed io udii il campanello d'allarme 
mentre pensavo tra me “potrebbe essere il paradiso o potrebbe essere l'inferno” 
poi lei accese la candela e mi mostrò la strada

 

Bellamy era seduto sul tappeto del suo salotto insieme a Clarke, ad esaminare la sua collezione di film ed era quasi del tutto certo che sarebbero finiti per litigare perché alla Principessa di certo non piacevano gli stessi film che guardava lui.

«Rambo? Ma seriamente?» chiese la ragazza osservandolo con uno sguardo scettico.

«Che problemi hai con Rambo?».

«Sarà dura».

Andarono avanti per almeno un quarto d’ora ad analizzare dvd che puntualmente venivano scartati dalla ragazza.

Bellamy stava ormai per gettare la spugna proponendo di vedere un film in streaming o fare un salto alla videoteca a due isolati da lì per affittarne uno, quando Clarke alzò in mano una custodia con aria trionfale.

«Trovato!».

Bellamy la prese dalle sue mani, curioso di vedere su cosa fosse ricaduta la scelta, per di più con tanto entusiasmo.

«Pearl Harbor? Davvero?»

«Adoro quel film!» esclamò lei con gli occhi che le brillavano.

«Principessa, hai appena guadagnato punti».

Bellamy la vide scuotere il capo con aria divertita, poi si alzò e inserì il dvd nel lettore.

«Luce accesa o spenta?» chiese.

«Spenta».

Così, il ragazzo premette l’interruttore, facendo piombare la stanza nell’oscurità, fatta eccezione che per il bagliore soffuso proveniente dalla televisione, dopodiché si sistemò comodamente sul divano, dal lato opposto a quello in cui si era seduta Clarke, lasciando uno spazio tra di loro.

Il film cominciò e per la prima ora ne furono totalmente assorbiti, tanto che nella stanza si potevano udire solo i loro respiri oltre le voci degli attori in televisione. Ad un certo punto Bellamy si alzò per prendere qualcosa da bere.

«Prendo una birra. Ne vuoi una, Principessa?».

«No, grazie. Niente alcol per me, ricordi?».

«Un giorno dovrai spiegarmi questa cosa. Meno di due settimane fa ti ho trovata ubriaca al pub, ma poi dichiari di essere un’astemia di ferro».

Clarke mise momentaneamente in pausa il film e lo guardò, sospirando.

«In realtà è molto semplice la storia: ero una ragazza qualunque, bevevo sì, reggevo l’alcol anche abbastanza bene, insomma… mi divertivo, senza esagerare. Riuscivo sempre a controllarmi. Poi mio padre è morto e tutto è cambiato. Il fatto è che… se comincio a bere, non riesco più a fermarmi, Bellamy. Credo che se quella sera non fossi arrivato tu, probabilmente sarei ancora lì adesso. Oppure mia madre mi avrebbe fatta rinchiudere in un centro di riabilitazione. Do scherzosamente dell’alcolizzato a Jasper, ma la verità è che qui quella ad avere problemi con l’alcol sono io. Ora se iniziassi non riuscirei più a fermarmi».

Bellamy ascoltò in silenzio, dandosi mentalmente dell’idiota. Avrebbe dovuto farsi gli affari suoi e non chiedere.

«Scusami, io… »

«È tutto ok», lo interruppe Clarke. «Non ne avevo mai parlato con nessuno prima d’ora, quindi, per favore, ti sarei grata se tenessi la cosa per te. Non ne ho mai parlato né con Octavia né con Wells».

Al solo sentire pronunciare quel nome, a Bellamy ribollì il sangue nelle vene. Gli tornò alla mente la scena di quel pomeriggio, quando il ragazzo aveva praticamente baciato di forza Clarke.

Se n’era rimasto lì come un imbecille senza fare niente, come paralizzato. Aveva avuto una gran voglia di spaccare la testa a quell’idiota e per non farlo aveva quasi dovuto farsi una violenza fisica.

Aveva scacciato il pensiero quasi immediatamente, ma per un attimo si era chiesto e aveva desiderato essere al posto di Wells. Per un solo istante si era chiesto come sarebbe stato baciare Clarke.

Osservò la ragazza che gli stava di fronte.

«Non lo direi mai a nessuno».

«Grazie» Clarke fece un momento di pausa, poi riprese: «Sai, sembra che tutto ciò che tocco, in un modo o nell’altro, alla fine si rovini. Io e il mondo dobbiamo avere un rapporto di odio reciproco».

Bellamy prese un altro sorso di birra dalla bottiglia che teneva tra le mani prima di rispondere.

«Io non ti odio. Sei presuntuosa, il più delle volte irritante e a tratti schizofrenica, ma non ti odio».

«Beh, grazie per l’onestà, Blake. La apprezzo, davvero».

«Dovere».

Clarke sorrise prima di stendersi ancora un po’ sul divano e qualche istante dopo, il ragazzo prese di nuovo posto vicino a lei, stavolta lasciando meno spazio tra i loro corpi.

Il fatto che Clarke gli avesse confessato del suo problema con l’alcol lo aveva sorpreso. Era forse il segno che le barriere impenetrabili che si era costruita attorno in quegli anni dalla morte del padre stavano crollando? Stava forse iniziando a fidarsi di lui?

Fecero ripartire il film, ma ora Bellamy non era più così preso.

Clarke si era accostata a lui, forse involontariamente dato che, almeno lei, stava seguendo il film con aria davvero concentrata e il suo profumo lo aveva totalmente pervaso, facendo sì che le lanciasse continuamente occhiate furtive invece che fare caso a ciò che succedeva sullo schermo.

Finì la sua birra, unica distrazione che ormai gli era rimasta e a quel punto era davvero disperato.

Non riusciva ad ignorare il corpo caldo della ragazza al suo fianco, che ormai era praticamente sdraiata e soltanto pochi centimetri li separavano. Inoltre ci si metteva anche il profumo… quel profumo lo faceva andare letteralmente fuori di testa e se non avesse trovato una soluzione, probabilmente non avrebbe più risposto delle sue azioni.

Un braccio di Clarke aderiva al suo e la ragazza neanche sembrava curarsene, mentre lui a stento riusciva a ragionare.

L’improvvisa suoneria del suo cellulare lo fece sobbalzare, così come anche Clarke, che fece un salto e quasi se la ritrovò in braccio.

«Scusami» si affrettò a dire lei, imbarazzata.

Bellamy si alzò dal divano e andò a prendere il telefono.

«Pronto? Ehi Raven… è tutto a posto? Ok… dopodomani? Sì, va bene, la sera sono libero. A presto» e riagganciò.

Quando tornò in salotto, Clarke lo osservava con aria strana.

«Era Raven Reyes?».

«Proprio lei».

Bellamy si rese conto con un istante di ritardo di quelle parole e si maledisse.

Aveva completamente dimenticato della storia passata tra Finn, Raven e Clarke. Quest’ultima si era ritrovata a fare l’amante senza neanche saperlo, lui non conosceva i dettagli, ma non era stata una cosa piacevole, quindi cercò subito di rimediare alla gaffe.

«È tornata in città per via del suo fidanzato, un certo Kyle e siccome siamo rimasti in buoni rapporti vorrebbe farmelo conoscere».

Ok… forse così aveva appena peggiorato le cose.

Per fortuna, Clarke sembrò invece più rilassata.

«Oh, bene allora».

Dentro di sé, Bellamy tirò un sospiro di sollievo. Non sapeva mai che cosa aspettarsi da quella ragazza.

Tornò a sedersi, ormai mancava meno di un’ora alla fine del film, ma lui cominciava a risentire di una certa stanchezza e Clarke non era da meno, anzi, ad un tratto la sua testa ciondolò da un lato, poggiandosi sul petto di lui e, scostandole i capelli dal viso, Bellamy si rese conto che la ragazza si era addormentata.

Ormai tra il sonno e la veglia, il moro circondò le spalle di lei con un braccio, facendola sdraiare sopra di sé prima di cadere a sua volta nel mondo dei sogni.

 

Venne svegliato da qualcosa che si muoveva su di lui e impiegò qualche istante per mettere a fuoco la situazione e ricordare gli ultimi avvenimenti prima di cedere al sonno.

Poco a poco, prese consapevolezza del corpo di Clarke che si agitava sul suo e si chiese cosa stesse facendo quella ragazza prima di rendersi conto che stava avendo un incubo. Infatti, nel momento in cui stava per svegliarla, lei scattò a sedere sul divano urlando.

«Clarke! Ehi, Clarke… va tutto bene, tranquilla. È stato solo un brutto sogno».

Era troppo buio perché Bellamy riuscisse a vederla in faccia, ma poteva percepire il suo respiro affannoso e il corpo tremante.

«Clarke…?».

Nel buio, lei cercò la sua mano e lui la strinse.

«Bellamy?».

«Sono qui. È stato un incubo Clarke, è tutto finito».

Al ragazzo parve di essere tornato indietro di quindici anni, quando, da bambino, si era ritrovato a consolare Octavia dopo i suoi brutti sogni, quando ogni sera si metteva in ginocchio sul pavimento della stanza della sorellina e controllava sotto il suo letto per farla stare sicura che non vi si nascondesse nessun mostro. Solo che adesso non aveva più undici anni, ne aveva ventisei e non era più sua sorella la persona tremante al suo fianco.

«Mi… mi dispiace tanto… » Clarke sembrava confusa e imbarazzata.

«Non ti preoccupare… non c’è nessun problema».

«È meglio che vada adesso, è tardi», ma Bellamy la afferrò per un polso, facendola nuovamente sedere al suo fianco.

«Siamo venuti qui a piedi e io ho lasciato l’auto da mia sorella, Lincoln passerà domattina presto a riportarmela, non se ne parla. E poi sei ancora agitata. Vuoi che ti prepari qualcosa? Un tè? Una camomilla?».

«No, grazie… sto bene così».

«Stai ancora tremando».

A quelle parole la ragazza, involontariamente, si strinse ancor di più al corpo di lui e Bellamy la circondò con entrambe le braccia.

«Stai tranquilla, Clarke. Gli incubi sono solo incubi. Uccidi i tuoi demoni».

Lei strinse il tessuto leggero della t-shirt del ragazzo.

«Mi dispiace per averti svegliato».

«Non preoccuparti di questo. Rimettiti a dormire ora. Se vuoi puoi andare in camera mia, starai più comoda».

«Non… non voglio stare da sola» confessò e dal suo tono, Bellamy era sicuro che fosse imbarazzata.

«D’accordo… restiamo qui allora».

Lei annuì contro il suo petto e Bellamy le accarezzò i capelli.

«Ti capita di averli spesso? Questi incubi… ».

«Quasi ogni notte».

Bellamy sospirò.

«Non è successo la prima volta che hai dormito qui».

«L’alcol mi ha aiutato, ma… ti ho raccontato la storia».

«Sono incubi su… »

«Mio padre» completò lei per lui.

«Ne hai mai parlato con qualcuno?».

«Con la mia coinquilina del college… solo perché mi svegliavo la notte urlando… proprio come adesso».

«Beh, io sono qui ora. Cerca di dormire, d’accordo?».

«D’accordo. E… Bellamy?».

«Sì?».

«Grazie».

«Figurati, Principessa».

Clarke sbuffò contro il suo torace e Bellamy inspirò il profumo dei suoi capelli. Ma come diavolo era possibile che gli facesse un tale effetto.

Con le braccia ancora attorno al corpo di lei, si sistemò più comodamente sul divano e scivolò nuovamente nel sonno.

Quella notte fece un sogno stranissimo in cui Clarke, alla tenue luce di una candela e avvolta in un lungo vestito bianco, lo aspettava silenziosamente in piedi sul portico di una casa che Bellamy non aveva mai visto prima di allora.

 

NOTE:

 

E rieccomi con il nono capitolo della mia ff! Dunque, come avrete notato, sono tornata ai miei vecchi standard di lunghezza e… beh, che dire? Non è certo tra i più corposi, ma direi che in quanto a contenuti è piuttosto intenso.

Dunque… partiamo dall’inizio: già il fatto che Clarke stia veramente cercando di recuperare il rapporto con Abby è molto importante e più avanti vedremo come si evolveranno le cose.

In secondo luogo: l’incontro tra Clarke e Bellamy al parco e il fatto che lei sia riuscita a disegnare, non a caso il ragazzo, dopo tanto tempo.

Sul litigio con Wells mi potrei dilungare per ore. Il ragazzo dimostra apertamente il suo disprezzo per Bellamy e cerca di riportare l’amica “sulla retta via” (ah-ah, povero illuso).

Quando la bacia poi, vediamo un Bellamy molto tentato di prenderlo a pugni, anche se si ferma proprio perché Clarke è lì con loro.

Infine, tutto ciò che succede da quando i due tornano a casa di lui.

Clarke svela finalmente il mistero del suo problema con l’alcol e questo è un chiaro segno di fiducia nei confronti di Bellamy. Il ragazzo dal canto suo, non esita un momento per andarle in soccorso e prendersi cura di lei quando si sveglia urlando nella notte.

Probabilmente qualcuno di voi scalpiterà affinché succeda qualcosa di più, ma… abbiate pazienza, per i nostri cari protagonisti fare quel passo è ancora troppo presto, ma non temete. Dopo diverse peripezie chissà che non succeda qualcosa. Intanto avranno ancora diversi momenti nel mentre.

Credo di avervi detto tutto, vi lascio con i brani di questo capitolo e ringrazio enormemente le fantastiche persone che leggono/recensiscono/hanno inseguito “Demons” tra le seguite, preferite e quant’altro. Siete tutte fantastiche.

Un abbraccio a tutti,

Mel

 

Heaven out of Hell – Elisa

Hotel California - Eagles


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Let sleeping dogs lie ***


cp.10  







CAPITOLO 10: LET SLEEPING DOGS LIE

 

Howling ghost they reappear
In mountains that are stacked with fear
But you're a king and I'm a lionheart.
And in the sea that's painted black,
Creatures lurk below the deck
But you're a king and I'm a lionheart.

And as the world comes to an end
I'll be here to hold your hand
Cause you're my king and I'm your lionheart.

 

I fantasmi ululanti riappaiono 
Tra le montagne che si addossano per la paura 
Ma tu sei un re e io sono un cuor di leone. 
E nel mare tinto di nero 
Creature sono in agguato sottocoperta 
Ma tu sei un re e io sono un cuor di leone. 

E quando il mondo giungerà a una fine 
Io sarò lì a stringerti la mano 
Perché tu sei il mio re e io sono il tuo cuor di leone. 

 

Clarke si risvegliò per via del caldo.

C’era così dannatamente caldo e poi… perché non riusciva a muoversi?

Aprì gli occhi e poco a poco mise a fuoco la situazione. Si ricordò della sera precedente, del film che avevano guardato insieme e poi ricordò di essere stata colta da un improvviso attacco di stanchezza, abbandonandosi al sonno contro il corpo del ragazzo.

Ricordò di essersi svegliata urlando per via di un terribile incubo e del fatto che Bellamy l’aveva ripetutamente chiamata per farla tornare alla realtà e che lei lo aveva cercato nel buio, prendendogli la mano e lui l’aveva stretta subito.

Tuttavia, la situazione adesso era ben diversa.

“Cristo santo” pensò Clarke, improvvisamente sveglia.

Sia lei sia Bellamy dovevano essersi mossi quella notte, perché adesso non era più sdraiata su di lui, che dormiva a pancia in su, ma era scivolata da uno dei lati del ragazzo, rimanendo incastrata tra il corpo imponente di lui e lo schienale del divano.

Poteva sentire il respiro caldo di Bellamy sulla pelle, un braccio del ragazzo le avvolgeva ancora un fianco e lei doveva trovare un modo per sgusciare via di lì alla svelta.

Con la luce del giorno, tutto ciò che era accaduto quella notte le sembrava inappropriato e l’incubo che aveva avuto non così spaventoso, o almeno non più di tutti gli altri che l’avevano tormentata negli ultimi sei anni. Insomma… nulla che non avesse imparato a gestire da sola.

Cercò di sfilarsi dalla presa del moro, ma non c’era verso, così rinunciò, d’altra parte non voleva nemmeno svegliarlo.

Allora alzò leggermente lo sguardo, fissando il volto di Bellamy. Il loro nasi praticamente si sfioravano, quella era in assoluto la prima volta che Clarke si trovava così vicina a lui, quindi ne approfittò per osservarlo.

Gli occhi chiusi avevano un taglio leggermente allungato, erano dei begli occhi, il naso dritto, le lentiggini sul viso e la curva decisa  della mascella.

Un bel viso, si ritrovò inconsapevolmente a pensare, anche se si accorse di stare evitando ostinatamente di guardare una parte di esso: la bocca.

Nel momento in cui fissò i suoi occhi sulle labbra di Bellamy, voltò di scatto la testa da un altro lato e poi cercò nuovamente di liberarsi da quella scomoda posizione, ma non c’era verso. Il caldo cominciava a diventare veramente insopportabile, così, Clarke fece l’unica cosa che le venne in mente per togliersi da quella situazione fastidiosa: diede uno spintone al povero ragazzo, che finì giù dal divano con un tonfo e lei dovette fare uno sforzo non da poco per trattenersi dalle risate nel vedere l’espressione spaesata e ancora addormentata di lui.

«Ma che… cosa accidenti… ?» continuava a balbettare guardandosi intorno.

«Scusa Blake, avevo caldo e tu sembri una stufa» disse con ari fintamente innocente.

«Avevi caldo? E questa ti sembra una buona ragione per farmi fare un volo dal divano?!».

«Beh sì, mi sembra ovvio».

La faccia di lui adesso era talmente buffa che Clarke non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere.

«Principessa, hai fatto davvero un grosso sbaglio. Non hai mai sentito il detto “non svegliare il can che dorme”? Beh, ora capirai cosa vuol dire».

Quelle parole allarmarono Clarke, che osservò Bellamy con aria preoccupata per un istante prima di saltare agilmente via dal divano nel momento in cui lui scattò in avanti per cercare di prenderla, mancandola di poco.

La bionda lanciò uno strilletto e corse via, fuori dal salotto e scappando lungo il corridoio, ma Bellamy le era dietro e lei s’infilò nella prima stanza che le capitò: il bagno.

Cercò di richiudersi la porta alle spalle, ma il padrone di casa vi si precipitò contro con una spallata, era troppo forte perché Clarke potesse trattenerlo a lungo e infatti, al secondo colpo, fu con lei dentro il bagno.

Un ghigno vittorioso comparve sulle labbra di lui.

«Allora Principessa… voglio proprio vedere che cosa hai intenzione di fare adesso».

Clarke si lanciò un’occhiata intorno disperata; doveva pur esserci qualcosa che la aiutasse! Infine i suoi occhi si posarono alla sua sinistra, sul getto della doccia.

Sorrise e Bellamy dovette capire le sue intenzioni con un attimo di ritardo perché si lanciò verso di lei urlando: «Non ci pensare neanche!», ma Clarke aveva già preso il sottile tubo d’acciaio tra le mani, puntandolo davanti a sé come un’arma.

«Principessa, io non lo farei se fossi in te» disse lui immobilizzandosi di colpo.

«Perché no, Blake?».

«Perché poi potrei non rispondere più delle mie azioni» il tono del ragazzo era serio, il petto ampio che si alzava e si abbassava velocemente.

«Beh… credo che correrò il rischio» e detto ciò, la ragazza aprì al massimo l’acqua fredda, colpendo in pieno il ragazzo, che per un momento rimase fermo sul posto, probabilmente colto alla sprovvista dal getto d’acqua gelida.

«È un’estate così calda Bellamy, non trovi?» disse lei trattenendo a stento una risata.

Dio, da quanto non si sentiva così… felice? Spensierata? Libera? Non lo sapeva. Non sapeva cosa provasse in quel momento, l’unica cosa che sapeva per certo era che da almeno sei anni non rideva e non si divertiva più in quel modo. Ed era una sensazione meravigliosa.

«Te la faccio vedere io l’estate calda, ragazzina!» disse lui, quasi ringhiando.

Apparentemente senza il minimo sforzo sollevò il corpo di Clarke, caricandosi la ragazza sulle spalle e a lei, per la sorpresa, sfuggì il tubo metallico della doccia dalle mani, che compiendo un mezzo giro, schizzò acqua da tutte le parti prima di toccare il pavimento con un tonfo sordo.

«Mettimi giù immediatamente!» strillò lei.

«Oh non credo proprio, questa volta te la sei davvero cercata».

Così Bellamy, che ormai era bagnato fradicio, raccolse il tubo da terra e si infilò nel box della doccia con una scalpitante Clarke ancora in spalla, dopodiché la fece scendere, piazzandola in un angolo contro un muro in modo che fosse schiacciata tra la parete ed il suo corpo, infine alzò il getto d’acqua sopra la testa di lei, che gridò, cercando di spingerlo via.

«Togliti di dosso!».

«No, non ci penso neanche» disse continuando a bagnarla.

«Bellamy, è gelida!».

«Sì, credo di averne una vaga idea».

«Smettila allora!» disse cercando di spingerlo nuovamente via da sé.

«Oh no, non funziona così. Devi dire: “ti prego Bellamy, chiudi l’acqua” e allora forse lo farò».

Clarke lo guardò con occhi fiammeggianti, prima di dire: «Vai al diavolo» e lui scoppiò a ridere.

«Bene, per me allora possiamo stare qui anche tutta la mattina».

La ragazza era furente, di sicuro lei non avrebbe pregato nessuno, men che mai Bellamy Blake. No, non esisteva proprio.

Fissò ostinatamente gli occhi del ragazzo prima di rendersi conto di una cosa: indossava una camicetta bianca che ormai era praticamente inutile dal momento in cui si poteva chiaramente vedere il reggiseno blu che indossava sotto.

Anche Bellamy parve farci caso solo in quell’istante e Clarke approfittò del suo momento di immobilità per allungare una mano e chiudere il getto.

Quando l’acqua si fermò, nella stanza cadde un silenzio assoluto, fatta eccezione per i loro respiri affannosi e i cuori che battevano come impazziti.

Entrambi grondavano d’acqua, Clarke era incastrata tra il muro e il corpo di Bellamy e lui teneva ancora il tubo metallico sopra di lei, mentre  con l’altra mano le intrappolava un polso.

La ragazza notò uno strano sguardo negli occhi del moro e non le sfuggì il suo deglutire a vuoto. Che cosa gli stava passando per la testa in quell’istante?

Per un momento, un silenzio carico di aspettative serpeggiò tra i due prima che Bellamy dicesse: «Credo che dovresti andare a metterti qualcosa di un po’ più coprente addosso, Principessa» nonostante questo però, il ragazzo non si mosse di un millimetro per lasciarla passare, continuando invece a guardarla dritto negli occhi.

Allora Clarke posò le mani sul petto di lui, che per un attimo la osservò con espressione sorpresa e non poté fare a meno di notare il ghigno soddisfatto sulle labbra di Bellamy. Quelle labbra… per una frazione di secondo, la ragazza si chiese come sarebbe stato posarvi sopra le sue e immediatamente si diede dell’idiota.

Ma cosa diavolo andava a pensare?! No, era decisamente fuori discussione. Baciare Bellamy Blake? Impossibile. In un momento del genere poi! Praticamente era più nuda che altro.

“Riprenditi Clarke, dannazione!” gridò nella sua testa.

«Tutto bene, Principessa? Sai, in questo momento pagherei per sapere cosa stai pensando» la voce strafottente del padrone di casa la riportò alla realtà.

La  bionda si sentì avvampare, facendo ridere il ragazzo.

«Non ti sarai mica fatta qualche pensiero sconcio su di me, vero?».

«Oh, ma piantala Blake!» esclamò esagitata, chiedendosi come diavolo Bellamy avesse fatto a capire cosa le passasse per la testa in quel momento. Aveva come l’impressione che il ragazzo la capisse molto meglio di quanto lei stessa immaginasse, così, con le mani ancora posate sul suo torace, lo spinse via e uscì dalla doccia, lasciando una scia d’acqua dietro di sé.

Aveva una sete terribile, così decise di tornare verso la cucina prima di cambiarsi, ma quando arrivò all’ingresso si trovò davanti proprio una bella sorpresa.

«Atom!» strillò colta completamente alla sprovvista.

Dal canto suo, il ragazzo sembrò spiazzato a sua volta, la bocca semiaperta e gli occhi fissi sul corpo fradicio della ragazza.

Clarke udì dei passi veloci provenire dalle sue spalle e un istante dopo, Bellamy le si piazzò davanti per coprirla dalla vista dell’amico.

«Che accidenti ci fai qui?!».

«Ho suonato al campanello, poi ho sentito delle urla e la porta era aperta, così ho deciso di entrare, ma… non pensavo certo di trovarvi in questo stato. Doccia mattutina, ragazzi?» disse sostituendo ben presto l’espressione stupita con una strafottente che la diceva lunga.

«Oh, ma per favore».

«A me sembra piuttosto evidente in realtà».

«Beh, non è così» rispose Bellamy quasi ringhiando.

«D’accordo d’accordo… non c’è bisogno di scaldarsi tanto, amico».

«Ci vediamo in caserma oggi pomeriggio» disse poi il padrone di casa e si poteva capire dal suo tono che la discussione era finita lì. Non avrebbe accettato un no come risposta.

«A più tardi. Ciao, Clarke».

Lei lo salutò con una mano da dietro la schiena di Bellamy, al massimo dell’imbarazzo. Come faceva quel ragazzo ad arrivare sempre nei momenti più inopportuni?

Quando Atom si fu richiuso la porta alle spalle, Bellamy si voltò verso di lei e disse: «Vai a metterti subito qualcosa addosso. Puoi prendere una delle mie magliette» anche questo caso, il tono era perentorio e anche se in altre circostanze Clarke avrebbe protestato, ora si limitò ad avviarsi verso la stanza di lui. Meglio non tirare troppo la corda. Aveva notato che Bellamy diventava improvvisamente nervoso quando Atom era nelle vicinanze.

La ragazza si chiuse la porta della camera da letto di Bellamy alle spalle e vi si poggiò contro, respirando a fondo. Si sfilò di dosso i vestiti bagnati e frugò nel cassetto di del ragazzo finché non trovò una t-shirt che l’avrebbe coperta fino a metà coscia con la scritta “I’m your King”.

Clarke si mise a ridere e infilò la maglietta, poi tornò nell’altra stanza, dove un Bellamy ancora bagnato e con un’espressione truce stava armeggiando ai fornelli.

Non appena la vide la tensione sul suo viso si allentò ed emise addirittura una mezza risata.

«Carina, Principessa».

«Alquanto presuntuoso».

«Dovrei tornare in quel negozio e vedere se ce n’è  una adatta a te».

«Grazie Blake, preferisco i miei vestiti».

«Anch’io, soprattutto le camicette bianche inesistenti».

La bionda sgranò gli occhi.

«Oh, ma piantala!».

A quel punto Bellamy non si trattenne neanche, ridendo apertamente.

«Ho preparato la colazione».

«Grazie» disse lei accomodandosi intorno al tavolo e versando del succo d’arancia in entrambi i bicchieri.

«Cosa dirai a tua madre del fatto che hai passato di nuovo la notte fuori?».

«Probabilmente che ero di nuovo da Jasper».

Bellamy sbuffò divertito.

«Cosa c’è, Blake?».

«Niente, trovo tutto molto… divertente».

«Divertente?» chiese lei alzando un sopracciglio e continuando ad osservarlo con aria scettica.

«Esatto».

La ragazza non si fece altre domande e finì la sua colazione, aveva davvero fame, poi frugò nella sua borsa, estrasse un pacchetto di sigarette e uscì in veranda.

Dopo qualche istante la voce di Bellamy la distrasse.

«Principessa? Che cavolo fai?».

Lei, con la sigaretta ancora spenta in bocca lo guardò come si guarda un bambino dato che era piuttosto palese.

«Hai addosso solo una maglietta» puntualizzò il moro.

«Sì, che è quasi un vestito praticamente. Cos’è Blake, hai paura che i tuoi vicini possano scandalizzarsi e iniziare a parlare male di te?».

Lui sbuffò.

«Non fare tanto la sarcastica e torna dentro».

«Non ci penso proprio» disse lei accendendosi la sigaretta.

«Clarke?».

«Bellamy?» disse lei con sguardo innocente, facendo gli occhi dolci.

Il ragazzo sbuffò, sconfitto.

«Sei impossibile».

Dopo qualche minuto di silenzio, il padrone di casa prese posto sullo stesso divanetto su cui era seduta Clarke e, guardando lontano, disse: «Ho saputo che sei andata alla centrale di polizia per… beh, per parlare con il nuovo comandante di ciò che è successo a tuo padre».

A sentire quelle parole, Clarke si bloccò per un momento, poi sospirò.

«Immagino che l’uccellino Octavia abbia cantato».

Adesso Bellamy volse lo sguardo verso di lei.

«Mia sorella si preoccupa per te, Clarke. Ti vuole veramente molto bene e ha paura che tu possa cacciarti in qualche guaio».

«Lo so».

«E allora perché vuoi far riaprire il caso? Sai, credo che se dovesse succedere, ti cacceresti davvero in un mare di guai».

Clarke si prese del tempo prima di rispondere, espirando il fumo denso e bianco e guardandolo dissolversi in strani disegni nell’aria.

«Mi hai vista stanotte, Bellamy. Sono passati sei anni, ma nonostante questo i fantasmi del mio passato continuano a tormentarmi. Il mio incubo… è come se mi trovassi in un’enorme vallata, al buio e mio padre è proprio lì di fronte a me. Ma qualcosa alle mie spalle mi trattiene e mi spinge via, lui allunga le braccia verso di me, chiamandomi, so che è in pericolo, ma vengo allontanata e poi ci sono le voci, che rimbombano tra le montagne. Mi hai detto di uccidere i miei demoni, ma… come faccio se non so nemmeno contro cosa sto combattendo?».

«Sei più forte e coraggiosa di quanto pensi, Clarke».

Lei sospirò.

«Credo che tu sia l’unico a vedermi in questo modo».

«È vero. Lo sei sempre stata. Ed io l’ho saputo fin dal momento in cui sei arrivata a Fort Hill. Nei miei primi tre anni di liceo, nessuno aveva mai avuto il coraggio di affrontarmi. E poi sei arrivata tu: una ragazzina quattordicenne tutta trecce e occhi grandi che mi si è piazzata davanti intimandomi di lasciar stare il suo amico Jasper Jordan, altrimenti avrei capito chi mi ero messo contro. Sono state le tue testuali parole».

Clarke scoppiò a ridere.

«Ho davvero detto così?».

«Oh sì, che lo hai fatto. Un’insopportabile secchiona con l’ulteriore difetto di avere le palle per sfidarmi. Un vero cuor di leone».

«Come no… ».

«Certo! Jordan è stato fortunato a trovarti come amica e semmai dovessi trovarmi in qualche casino, sarei ben più contento di averti dalla mia parte che contro. Quindi ti nomino il mio ufficiale cuor di leone» disse con aria soddisfatta, facendo di nuovo ridere la ragazza.

«Naturalmente. Perciò tu saresti qualcosa tipo… il mio re?».

Stavolta fu Bellamy a non riuscire a trattenere una risata.

«Qualcosa del genere. Vedi? È scritto anche su quella maglietta» disse indicando il petto di Clarke.

«Beh, questo allora vuol dire che il mondo sta andando a rotoli».

«Non ha importanza. Anche se fosse, sai che io ci sarò, quando avrai paura. Proprio come stanotte».

Quelle parole lasciarono Clarke interdetta. Non si aspettava una frase simile da Bellamy. Prese un ultimo tiro dalla sigaretta prima di spegnerla.

«Ed io sarò il tuo cuor di leone».

Bellamy sorrise.

«Credo sia meglio andare, adesso. Non vorrei dover dare troppe spiegazioni».

«Allora è il caso che ti cambi, Principessa».

Lei sbuffò, tentando però di reprimere un certo divertimento. Si stava quasi abituando a quel soprannome.

Tornò in casa, indossò i suoi vestiti, che grazie al caldo infernale di quell’estate si erano già quasi asciugati del tutto e poi tornò in veranda, dove Bellamy era rimasto.

«Ci vediamo in giro, Blake».

«Non vedo l’ora, Principessa».

La bionda scosse la testa, avviandosi lungo il vialetto e sparendo oltre una curva.

Tornò a casa con un senso di leggerezza addosso che non provava più da troppo tempo ormai.

Si stava rendendo conto, ogni giorno di più, di aver trovato una persona sulla quale poter contare, ma forse ancora non lo sapeva.

Quando arrivò nella familiare villetta, tutto era estremamente silenzioso. Sua madre e Marcus dovevano essere fuori, così, la ragazza si avviò nel vecchio studio che era appartenuto a suo padre, volendo sentire la sua presenza vicino a sé.

Ad un tratto, involontariamente urtò un mobile e dalla cima piombò giù qualcosa, una scatola, che si schiantò a terra con un gran tonfo.

Clarke sobbalzò e si chinò per vedere il contenuto della scatola, ma quando l’aprì, il suo cuore perse un battito.

Che diavolo era tutta quella roba?!

 

The sky was falling and streaked with blood
I heard you calling me
then you disappeared into the dust
up the stairs, into the fire
up the stairs, into the fire
I need your kiss, but love and duty
called you someplace higher
somewhere up the stairs into the fire

 

May your strength give us strength
may your faith give us faith
may your hope give us hope
may your love give us love

[…]

It was dark, too dark to see
you held me in the light you gave
you lay your hand on me
then walked into the darkness of your smoky grave
somewhere up the stairs into the fire
somewhere up the stairs into the fire
I need your kiss, but love and duty
called you someplace higher
somewhere up the stairs into the fire

 

 

Il cielo cadeva, striato di sangue
ho sentito che mi chiamavi
ma sei scomparso nella polvere
su per le scale, dentro il fuoco
su per le scale, dentro il fuoco
ho bisogno del tuo bacio
ma l’amore e il dovere
ti hanno chiamato più in alto
là su per le scale
dentro il fuoco

 

Ci dia forza la tua forza
ci dia fede la tua fede
ci dia speranza la tua speranza
ci dia amore il tuo amore

[…]

Era buio, troppo buio per vedere
tu mi tenevi stretta nella tua luce
poggiavi la mano su di me
poi sei entrato nel buio
della tua tomba di fumo
su per le scale, dentro il fuoco
su per le scale, dentro il fuoco
ho bisogno del tuo bacio
ma l’amore e il dovere
ti hanno chiamato più in alto
là su per le scale
dentro il fuoco

 

 

L’unica cosa che gli venne in mente di fare dopo che Clarke fu andata via, era correre, così, Bellamy tornò in casa, si cambiò velocemente e buttò i piatti e i bicchieri della colazione nel lavandino.

Ci avrebbe pensato dopo a lavarli, adesso sentiva l’impellente bisogno di esercizio fisico, quindi si cambiò rapidamente e uscì, cominciando a scaldare i muscoli intorpiditi.

La sua testa era così incasinata che neanche la musica riusciva a calmarlo.

Ripensò a tutto ciò che era accaduto quella mattina: il suo brusco risveglio, su gentile concessione di Clarke, la corsa fino al bagno, lei che gli puntava contro il tubo dell’acqua e apriva il getto congelato, togliendogli il respiro.

Poi lui se l’era caricata in spalla, incastrandola in un angolo, tra la parete ed il suo corpo, bagnandola a sua volta.

Improvvisamente si era reso conto del fatto che la camicetta della ragazza era diventata trasparente e in quel momento il suo cervello era andato in black-out.

Era piombato il silenzio e lui aveva deglutito a vuoto, continuando a fissarla. Riusciva a sentire le morbide curve del corpo di lei contro il suo petto e, di nuovo, aveva ardentemente desiderato di baciarla. Ogni cellula del suo corpo gli ordinava di farlo, mentre, più razionalmente, il cervello lo bloccava.

Il cuore pompava forte nel petto e inaspettatamente tutto gli fu chiaro: stava davvero iniziando a provare qualcosa per quella ragazza. Ora si spiegava i comportamenti assunti quando l’aveva vista ballare con Atom, quando aveva saputo che il suo migliore amico l’aveva vista con solo una sua maglietta addosso, quando, il pomeriggio precedente, Wells l’aveva baciata e lui aveva desiderato trovarsi al suo posto e infine quella mattina quando, di nuovo Atom, l’aveva vista più nuda che altro a causa di quella dannata camicetta.

“Maledizione Bellamy, non fare stronzate!”, si disse tra sé, accelerando il ritmo della sua corsa.

Aveva sempre evitato di stringere seri legami con qualsiasi donna con la quale fosse andato a letto, certo, a parte Raven, ma con lei era tutta un’altra storia.

Ed ora la Principessa gli stava lentamente incasinando l’esistenza. No, doveva stroncare sul nascere qualsiasi tipo di emozione, stava camminando su un terreno pericolosamente scivoloso e questo non andava bene. Ogni volta che ci provava però, davanti ai suoi occhi ripassava lo sguardo di lei, il suo respiro affannoso e poi Wells che la baciava o Atom che la fissava e tutto questo lo faceva andare fuori di testa.

Quel giorno, neanche correre lo avrebbe aiutato a liberare la mente, ma continuò il suo giro e corse a lungo prima di tornare a casa. Ormai erano le dieci e lui si accorse solo una volta rientrato di quanto caldo avesse.

Di solito usciva presto, ma quella mattina era stata del tutto anomala.

Prese un cambio di vestiti e si avviò in bagno, aprendo il getto della doccia e infilandosi nel box.

L’acqua gli scivolò addosso fresca e piacevole, lavando via il sudore dalla sua pelle e la fatica dai suoi muscoli. Se ci fosse stato qualcosa anche per liberarsi dei pensieri, Bellamy lo avrebbe fatto, ma ora in quella doccia non riusciva a scacciare dalla sua mente le immagini che lo avevano tormentato per tutta la mattina. Dannazione.

Rimase a lungo all’interno della cabina, molto più del solito se non altro. Voleva cercare di rilassarsi il più possibile prima di andare al lavoro.

Un’altra cosa che, si rese conto solo in quel momento, avrebbe dovuto affrontare: Atom. Erano di turno insieme quel pomeriggio ed era più che certo del fatto che l’amico non gli avrebbe fatto passare liscia la scenetta di quella mattina, anzi, era più che sicuro che lo avrebbe bombardato di domande. Non gli restava che sperare di ricevere qualche chiamata che facesse perdere loro del tempo.

Sbuffò e uscì dalla doccia, avvolgendosi un asciugamano in vita e strofinando con vigore i capelli con un telo più piccolo.

Di nuovo, si ritrovò a pensare alle labbra di Clarke. Santo Dio, ma che razza di effetto gli stava facendo?! Doveva assolutamente riprendersi il prima possibile, altrimenti sarebbe finito in guai seri.

Clarke Griffin…? Fuori discussione, categoricamente.

Telefonò ad Octavia per controllare se fosse tutto a posto e se avesse bisogno di qualcosa, lei si scusò del fatto che Lincoln quella mattina non era riuscito a riportargli la macchina e lui le rispose di non preoccuparsi.

«Anzi, sai cosa sorellina? Vengo a prendermela adesso, così non ho problemi per andare al lavoro più tardi».

«D’accordo! Allora ti aspetto, Bell».

»A tra poco, O… » e così dicendo, riattaccò e si avviò fuori di casa, avrebbe impiegato quasi un’ora a piedi prima di raggiungere la sua vecchia abitazione.

Quando arrivò, Octavia stava facendo le pulizie.

«Ehi! E così Clarke è rimasta a dormire da te anche stanotte, eh?».

A quelle parole, Bellamy rimase impalato sulla porta d’ingresso.

«Io Atom lo ammazzo. Alla prossima chiamata lo butto nel fuoco, non mi interessa se mi giocherò la promozione».

«A proposito di quella… perché non mi hai detto niente?».

Il ragazzo sbuffò.

«Sinclair me l’ha appena accennata, ha detto che se continuo a lavorare così potrei averla, ma comunque c’è un esame da fare per il titolo di tenente. Non è così immediato».

«È comunque un’ottima notizia! Quando sarebbe l’esame?».

«Tra un mese. E non ho ancora deciso se farlo o no. Sinclair dice che sarebbe un’ottima occasione perché il nostro attuale tenente ha chiesto il trasferimento ad un’altra caserma e prima che i piani alti lo approvino passerà un po’ di tempo, quindi le tempistiche coinciderebbero ed io resterei con la mia squadra».

«Allora lo devi fare! Tu adori lavorare con Atom, Miller e gli altri ragazzi della 62 e insomma… un avanzamento di carriera e la possibilità di restare a lavorare con loro? Bell, è quello che hai sempre voluto!».

Lui annuì.

«Infatti lo sto prendendo in considerazione».

«Fidati… ti conosco e so che se non lo farai lo rimpiangerai per il resto della vita»

«Farò il dannato esame, d’accordo?».

«Bravo! E adesso parliamo di te e Clarke».

Il moro alzò gli occhi al cielo.

«Dove sono le chiavi della mia macchina?».

«Non provare a cambiare discorso, Bellamy Blake!».

«Non c’è assolutamente niente da dire!».

«Beh, a detta di Atom non si direbbe».

«Atom deve imparare a tenere la bocca chiusa se non vuole ritrovarsi in un mare di guai».

«Oh avanti, fratellone… è una bella cosa!».

«Non c’è nessuna cosa, adesso dammi le chiavi, così me ne vado e smetterai di darmi il tormento».

Ma lei incrociò le braccia al petto e puntò i piedi.

«No» disse con disarmante naturalezza.

«Octavia?».

«Bellamy?».

Fratello e sorella si fronteggiarono, gli occhi chiari di lei incatenati a quelli scuri di lui, che non poté far altro che cedere.

«Bene, hai vinto! Dimmi che cosa vuoi».

Il viso di Octavia si illuminò.

«Tutto quello che è successo tra voi due e perché Atom vi ha trovati in quelle condizioni stamattina».

Il moro sospirò, sconfitto e, con pazienza, cominciò a raccontarle di cosa fosse successo dal pomeriggio precedente quando i due ragazzi si erano incontrati al parco, fino a quella mattina.

«Quindi Wells ha baciato Clarke?!» il tono e lo sguardo della piccola Blake erano palesemente stupiti.

«Sì» borbottò lui in tono piuttosto infastidito.

«E chi l’avrebbe mai detto? Pensavo che non avrebbe mai avuto il coraggio di farlo».

«Beh, lo ha fatto».

«Ehi, non c’è bisogno di essere così brusco. La cosa ti ha innervosito parecchio, vero?».

«No, affatto».

«Certo e io ci credo».

«Mi sembri Atom».

Octavia si aprì in una risata divertita.

Dopo qualche minuto, Bellamy guardò l’orologio e si alzò in piedi.

«Devo andare sorellina. Mangio qualcosa al volo e inizio il turno in caserma. Credo che prenderò a calci il tuo amico Atom, pare che voi due siate diventati amici del cuore».

«Bell, avanti! Siamo praticamente cresciuti insieme, è un po’ come se anche lui fosse il mio fratello maggiore».

«Ehi! Mi sento spodestato».

La ragazza lo abbracciò.

«Ma tu sei il solo e unico».

«E poi fratello maggiore un corno, ricordo bene di quella sbandata che si era preso per te alle superiori. Lo avrei fatto a pezzi».

«Il mio paranoico iperprotettivo fratellone. Come avrei fatto senza di te, Bell?».

Lui le restituì l’abbraccio, stampandole un bacio tra i capelli.

«Ti voglio bene, O».

«Anch’io».

Detto ciò, il ragazzo recuperò le chiavi della sua macchina e si avviò a casa.

Non aveva molta voglia di cucinare, così mise nel microonde una pizza surgelata e aspettò che si scongelasse.

Non aveva una dieta molto sana, soprattutto ora che non c’era più sua sorella a tenere d’occhio tutto ciò che metteva nello stomaco.

Non appena finì, ripulì tutto, compresi i piatti di quella mattina e si avviò in caserma.

Era proprio davanti al suo armadietto e si stava per infilare la t-shirt scura con lo stemma della caserma 62 quando sentì una voce familiare alle sue spalle.

«Notte di fuoco eh, Bell?».

Il ragazzo si irrigidì.

«Non so quali strane idee tu ti sia fatto, Atom… ma toglitele dalla testa» rispose in tono glaciale.

«Come siamo permalosi».

«Mi spieghi perché ultimamente piombi sempre in casa mia di mattina presto?».

«Oh tranquillo… non lo farò più se non prima di averti mandato una richiesta scritta. Non sia mai che disturbi te e la Principessa durante il pieno delle vostre attività ricreative».

«Sparisci» sibilò Bellamy a denti stretti.

Così, Atom non se lo fece ripetere due volte, allontanandosi ridendo.

Bellamy lo sapeva: d’ora in avanti gli avrebbe dato il tormento, ne era certo.

Sbuffò esasperato e si avviò verso la sala principale, nel quale erano radunati tutti i ragazzi in turno con lui.

Era passata appena un’ora quando la familiare sirena risuonò attraverso l’altoparlante.

«Camion 62, autopompa 22, squadra 9, ambulanza 52. Edificio in fiamme tra Walcott Avenue e  Brielle Avenue» annunciò la solita voce femminile.

Paramedici e vigili del fuoco si mossero all’unisono, era questo che Bellamy adorava di quella caserma: si conoscevano così bene e si fidavano così ciecamente l’uno dell’altro che non avevano nemmeno bisogno di parlarsi. Durante una chiamata, diventavano un’unica mente ed un unico corpo.

Miller si mise alla guida del camion e tutti i mezzi partirono a sirene spiegate.

Impiegarono pochi minuti per arrivare sul posto e quando il camion si fermò, tutti balzarono fuori.

Il comandante Sinclair  ordinò di entrare nell’edificio e i ragazzi lo fecero, seguendo gli ordini dei due tenenti della caserma 62, che entrarono con loro. Dovevano sempre assicurarsi che gli edifici fossero totalmente sgombri prima di cominciare a spegnere le fiamme. Si divisero in due parti e i tenenti li guidarono attraverso l’edificio.

Il caldo era infernale, le fiamme lambivano l’ambiente circostante, divorando ogni cosa e un brivido di adrenalina corse lungo la spina dorsale di Bellamy.

Era quello che amava del suo lavoro: la scarica di adrenalina che veniva pompata dalla gittata cardiaca e irradiata lungo tutto il suo corpo.

La squadra del tenente Jordan si allontanò lungo le scale per controllare i piani superiori, tra loro c’era Miller, mentre la squadra del tenente Clarence controllò il piano terra e il sotterraneo.

Bellamy sentiva Atom dietro di sé e Sterling davanti, il fumo oscurava molto la sua visibilità, ma in momenti del genere era come se tutti gli altri sensi fossero amplificati.

«Attenzione!» gridò una voce indistinta, probabilmente quella della nuova recluta, un certo Andrew arrivato da meno di un mese.

Bellamy alzò il capo appena in tempo per accorgersi di una trave instabile che poco dopo crollò al suolo con un gran tonfo, schivandola.

«State tutti bene? Sterling! Atom!» chiamò a gran voce.

«Tutto a posto, Bell. Andiamo!».

Dovevano gridare per capirsi in mezzo a quel frastuono di fuoco e fiamme.

Controllarono tutto il piano terra, portando fuori le poche persone rimaste intrappolate che non erano riuscite ad uscire, poi Bellamy e Sterling scesero le scale che portavano ai sotterranei.

«Guarda bene dove metti i piedi, le scale sono instabili» lo mise in guardia il moro.

«Sai cosa penso, Bellamy?».

«Non so se è questo il momento più adatto per le riflessioni personali» rispose puntando la torcia davanti a sé.

«Credo che saresti un grande tenente».

Bellamy abbozzò un sorriso.

«Staremo a vedere».

«Credi che ci sia qualcuno qua sotto?».

«Non lo so, riesco a vedere pochissimo e non sento niente tranne il crepitio delle fiamme, maledizione».

Ad un tratto un crollo alla loro destra li fece sobbalzare e loro dovettero muoversi alla svelta per schivare le macerie, ma Sterling non fu abbastanza veloce e fu colpito da una parte del muro sud dell’edificio, che gli bloccò la gamba.

«Ah! Bellamy!» gridò.

Il ragazzo corse per raggiungere e chiamò rinforzi via radio. Doveva trovare subito qualcosa che potesse essere usato come leva. C’era una sbarra d’acciaio , ma era pesante, troppo per lui.

Bellamy poteva chiaramente vedere la sofferenza negli occhi di Sterling, ma da solo non sarebbe mai riuscito ad alzare quella sbarra. Grazie al cielo fu raggiunto ben presto da Atom e dal loro tenente.

«Ok ragazzi, al mio tre afferriamo la sbarra, solleviamola e infiliamola sotto i detriti che lo tengono bloccato, d’accordo?».

Atom e Bellamy si lanciarono uno sguardo complice, annuendo.

Era inutile: fuori dal lavoro potevano anche comportarsi come due idioti, lanciarsi frecciatine, prendersi in giro e minacciarsi di morte a vicenda, ma sul lavoro, Bellamy non aveva mai incontrato nessuno che lo capisse come faceva il suo migliore amico.

Pensavano allo stesso modo, agivano allo stesso modo e avrebbero dato la vita l’uno per l’altro se uno dei due si fosse trovato in pericolo.

Il sudore ormai scorreva copiosamente lungo il collo e la schiena di Bellamy, la stanchezza appesantiva i suoi muscoli e il calore lo faceva sentire un leone in trappola, ma era una sensazione ormai familiare a lui.

Eseguì gli ordini del tenente, in modo che loro due ed Atom riuscissero a liberare la gamba di Sterling, poi, mentre il tenente faceva di nuovo strada per tornare dagli altri al pianterreno e, finalmente, uscire da quell’inferno, una voce flebile attirò l’attenzione del ragazzo.

«Aiuto… per favore… ».

Il ragazzo si irrigidì, voltandosi di scatto. Stava aiutando Atom a portare via Sterling, ma non poteva andarsene adesso.

«Atom! C’è qualcuno qui!».

«Che cosa?! Dove?».

«Tu e il tenente portate fuori Sterling, d’accordo? Io resto qui a cercare».

«Non esiste! Non ti lascio qui sotto da solo!».

Maledizione, quanto sapeva essere testardo quel ragazzo!

«A Sterling ci posso pensare da solo, andate! Ma se non trovate nessuno entro due minuti vi voglio fuori, questo edificio è instabile, crollerà».

I due ragazzi si lanciarono uno sguardo veloce e annuirono, dopodiché tornarono indietro.

«Vigili del fuoco, se c’è qualcuno rispondete!» urlò Atom a gran voce.

«Qui!» la voce che rispose era sottile e sofferente.

Finalmente, Bellamy notò una testa bionda nascosta dietro un armadio.

Indicò ad Atom la direzione e i due si avvicinarono, scoprendo una ragazza che non sembrava potesse avere più di sedici anni.

«La prendo io, tu vai avanti» gridò Bellamy all’amico.

Lui annuì mentre Bellamy sollevava il corpo esile della ragazza con facilità e si apprestava a seguire Atom lungo le scale che portavano al piano superiore, che ormai era sgombro. Tutti gli altri dovevano essere usciti e poco dopo anche loro furono fuori.

Il ragazzo vide le chiare espressioni di sollievo del comandante Sinclair e di tutti gli altri compagni di squadra, poi Roma si fece avanti per visitare la ragazza; Antonio era già impegnato con un altro uomo che sembrava aver riportato una brutta ustione alla spalla sinistra.

«Siamo tutti fuori, potete cominciare a spegnere l’incendio, ragazzi!» ordinò il comandante.

Le due squadre si misero al lavoro e impiegarono altre due ore prima di domare completamente l’incendio.

Erano tutti stremati e sporchi di fuliggine quando le sirene della polizia risuonarono nell’aria e dopo qualche istante, il nuovo comandante, Lexa War, scese dalla prima autopattuglia.

“Oh… fantastico” pensò Bellamy, vedendo la donna squadrarlo dall’alto in basso con la stessa espressione con cui si sarebbe potuto guardare un insetto estremamente disgustoso.

 

NOTE:

Ed eccomi con il decimo capitolo. Ci ho messo un po’ a scriverlo, mi ero arenata sulla parte di Bellamy scusate, scriverlo è stato un po’ un parto, ma ce l’ho fatta e sono di nuovo qui a rompervi le scatole.

Spero tanto che il capitolo sia stato di vostro gradimento, mi piacerebbe sapere i vostri pareri, sia sulla parte di Clarke (che, devo ammetterlo, mi sono divertita come una matta a scrivere), ma anche, e forse soprattutto, sul pezzo che riguarda Bellamy.

È la prima volta in assoluto che mi cimento in qualcosa del genere e devo ammettere che non è stato semplice, scrivere di un turno in caserma. Lo avevo fatto in uno dei capitoli precedenti, ma non era stata una parte così attiva, quindi vorrei sapere, attraverso voi, se il mio esperimento è riuscito. Sentitevi liberissimi di dire pure che ha fatto schifo e di cancellare la storia, potrei capirlo, anche se spero di non essere stata un tale fallimento ^^’

Detto ciò, vi lascio con i due brani del capitolo e spero di non avervi annoiato.

Ovviamente, come sempre, ringrazio le meravigliose persone che leggono, che hanno inserito “Demons” tra le preferite e le seguite e soprattutto coloro che spendono qualche minuto del loro tempo per recensire, siete tutte meravigliose.

Ah! Il titolo del capitolo “Let sleeping dogs lie” è un detto che equivale al nostro “Non svegliare il can che dorme”, frase che viene detta da Bellamy nella prima parte del capitolo.

Un bacio, a presto!

Mel

 

King and Lionheart – Of Monsters and Men

Into the Fire – Bruce Springsteen (ho trovato questa canzone per caso, è un tributo ai caduti dell’11 settembre 2001 e secondo me è davvero meravigliosa)

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Dark Nights ***


11  






CAPITOLO 11: DARK NIGHTS

 

In the blink of an eye
I can see through your eyes
As I'm lying awake I'm still hearing the cries
And it hurts
Hurts me so bad

And I'm wondering why I still fight in this life
Cause I've lost all my faith in this damn bitter strife
And it's sad
It's so damn sad

Oh I wish it was over,
And I wish you were here
Still I'm hoping that somehow

 

In un battito di ciglia 
Posso vedere attraverso 
i tuoi occhi 
Mentre giaccio sveglia
Sentendo ancora le grida
E 
fa male 
Fa così male  

E mi chiedo perché
In questa 
vita combatto ancora
Perché ho perso tutta la 
 fiducia 
In questo maledetto amaro conflitto 
Ed è 
triste 
È così dannatamente triste

Oh vorrei che fosse finita,
E vorrei che fossi qui
In qualche modo lo spero ancora


Tre giorni.

Erano trascorsi tre giorni, durante i quali Clarke era rimasta chiusa in camera sua, studiando e ristudiando tutti quei maledetti documenti.

Più volte sua madre le aveva chiesto se stesse bene, ma lei l’aveva sempre liquidata dicendo che si stava preparando per l’esame di ammissione o che in quel momento non poteva scendere per il pranzo o per la cena. Non mangiava da tre giorni, non dormiva da tre giorni. Non riusciva a pensare ad altro da tre giorni. Non capiva.

Quando quella mattina era tornata a casa, ignara di tutto, e la scatola era caduta da sopra il mobile nello studio di suo padre, la ragazza era rimasta basita dal contenuto.

Test scientifici, forse esperimenti, ad ogni modo nulla che avesse mai visto in sei anni di medicina ad Harvard.

Quei dati erano troppo controversi, troppo assurdi, semplicemente… troppo. Aveva persino consultato tutti i testi accademici che potessero essere correlati a quei documenti, ma non aveva trovato nulla che potesse esserle d’aiuto. Si trovava davanti ad una situazione che non comprendeva e non le era mai capitato prima di allora.

Questo la innervosiva.

Sapeva che, in qualche modo, tutta quella roba aveva a che fare con suo padre, ma non riusciva a spiegarsi come.

La testa le scoppiava, sapeva di essere pallida e di avere delle occhiaie e un aspetto orribili, d’altra parte… appunto, non mangiava da tre giorni.

Si prese il volto tra le mani e rimase immobile, in quella posizione, alla tenue luce azzurrina della lampada a cera posata sulla sua scrivania.

Era stanca… era così stanca. Ed era tutto così triste, lei era triste. Voleva semplicemente che finisse. Perché, semplicemente, combatteva ancora? A quale scopo? Suo padre ormai non c’era più e non sarebbe tornato.

Fuori era buio, doveva essere tardi. Negli ultimi giorni ormai aveva confuso la notte con il giorno, non si rendeva più conto di che ora fosse, non si rendeva conto della fame, della sete o della stanchezza.

Guardò l’orologio, era quasi mezzanotte.

Dopo qualche minuto si alzò dalla sedia, ripose tutti i documenti nella scatola in cui li aveva trovati e li infilò sotto il suo letto, dove era certa che sua madre non li avrebbe trovati.

Yeti le gironzolò intorno ai piedi, aveva capito che ultimamente qualcosa in lei non andava, così continuava a tenerla d’occhio con aria attenta. Aveva sempre pensato che quel gatto fosse estremamente intelligente, nonostante spesso e volentieri alquanto permaloso.

Sua madre era al lavoro, Marcus al piano di sotto e l’unica cosa che la ragazza voleva fare in quel momento, era camminare, allontanarsi da lì il più in fretta possibile, ma non voleva passare proprio davanti al suo patrigno, così, aprì la finestra della sua stanza, si arrampicò a fatica sul melo lì fuori e, non senza qualche difficoltà, scese a terra, tra l’altro cadendo in ginocchio nel suo giardino.

Sembrava totalmente prosciugata di tutte le forze.

Poco a poco si rimise in piedi, sentiva il miagolio di Yeti provenire dalla sua camera, ma non ci fece caso e si avviò fuori, lungo la strada.

Non aveva la minima idea di dove stesse andando, le gambe, barcollanti, la guidavano nella direzione che portava al suo vecchio liceo, la “Mount Weather High”, ma, ad un tratto, l’attenzione della ragazza venne richiamata da una voce familiare alle sue spalle.

«Ma guarda un po’ chi si rivede… Principessa! Ti dai alle passeggiate notturne? Non sarai mica ubriaca di nuovo? Sai, non mi sembri molto stabile».

Quella voce… Clarke la conosceva. Si voltò, lentamente, per ritrovarsi davanti il sorriso sornione di Bellamy Blake, che sparì non appena la vide in volto.

«Clarke, che cos’hai? Clarke!», ma tutto ciò che la ragazza vide, era Bellamy che si precipitava verso di lei un attimo prima di scivolare nel buio.

 

Quando riaprì gli occhi, non riuscì a riconoscere l’ambiente circostante, non c’era nessuna luce intorno a lei, ma si trovava distesa su qualcosa di morbido. Un letto? Un divano? Non lo sapeva, non vedeva niente e l’unico rumore che risuonava nell’aria era un sommesso brusio, sembrava quello di un climatizzatore.

Si mosse e uno spostamento d’aria alla sua destra le fece capire che non era sola.

«Clarke…? Sei sveglia?».

«Mhm… ».

«Come stai?».

Lei non rispose, emettendo un altro mugolio indistinto.

«Clarke, ehi… resta sveglia, parlami»

«Bellamy…?».

«Sì, sono io. Stai tranquilla, va tutto bene».

«Che cosa…? Cos’è successo?».

«Dimmelo tu… ti ho trovata vicino alla nostra vecchia scuola e appena mi hai visto sei svenuta. Insomma… so che faccio un certo effetto, ma questo forse è troppo… ».

Clarke non riusciva a vederlo in volto, ma era certa che in quel momento avesse il suo solito ghigno strafottente stampato in volto.

«Imbecille» bofonchiò.

«Ecco, questa è la Principessa che conosco».

La ragazza rimase in silenzio per qualche istante, non sapendo cosa dire. Si sentiva un’idiota, insomma… era svenuta davanti a Bellamy Blake, che diavolo, non era mai svenuta in vita sua!

«Che ore sono?» chiese per cambiare argomento.

«L’una passata da pochi minuti».

Maledizione, doveva tornare a casa.

Si mise a sedere sul letto e subito scattò in piedi, ma il brusco cambio di posizione le fece cedere le gambe e, in un istante, si ritrovò circondata dalle braccia di Bellamy, che si era mosso più velocemente di quanto credesse possibile.

La ragazza si aggrappò alle spalle di lui, posando la testa contro il suo petto.

«Ehi, dove credi di andare?».

«Devo tornare a casa».

«Ma se a stento ti reggi in piedi, pensi davvero che ti lasci andare?».

«Bellamy, devo… »

«Devi riposare» la interruppe lui in un tono che non ammetteva repliche, continuando a tenerla stretta a sé.

«Stavo per dire che devo mangiare. Non mangio da tre giorni».

Clarke sentì il corpo di Bellamy irrigidirsi contro il suo.

«Scusa?!».

«È… è complicato».

«Complicato? Vuoi morire di fame per caso?!» adesso sembrava arrabbiato.

La ragazza stava per ribattere, ma in un secondo si ritrovò sollevata dalle braccia di Bellamy, che si mosse nel più totale buio, aprì una porta e camminò lungo un corridoio. Doveva averla portata in camera sua.

Le uniche luci che rischiaravano l’ambiente provenivano dai lampioni in strada, gettando strane ombre per la casa.

Clarke allacciò le braccia intorno al collo di lui, colta alla sprovvista.

Qualche istante dopo, il ragazzo la depose su una sedia, si avviò verso il frigorifero ed estrasse una barretta di cioccolato. Con quel caldo, se lo avesse tenuto da qualsiasi altra parte si sarebbe sciolto.

«Intanto mangia questo mentre ti preparo qualcosa».

«Bellamy, lascia stare, per adesso questo andrà bene. Quando tornerò a casa mi farò qualcosa, non ti preoccupare».

«Perché? Credi davvero che ti lasci andare a casa nel bel mezzo della notte in queste condizioni? Mi sembrava di essere stato chiaro: per stanotte non ti muovi da qui».

«Non posso restare da te».

«Chi lo ha detto?».

«Io».

La ragazza, ormai abituatasi a quella penombra, osservò il padrone di casa, che le lanciò uno sguardo torvo.

Finì quasi tutto il cioccolato che Bellamy le aveva dato e subito si sentì meglio, dopodiché, si alzò dal tavolo.

«Dove stai andando?» le chiese lui in tono duro.

«A casa, te l’ho detto».

«Clarke… ».

«Bellamy», lo interruppe subito lei. «Stanotte non resterò qui».

Il ragazzo sospirò, sconfitto.

«Allora ti accompagno e non ammetto repliche» disse quando vide che Clarke aveva già aperto la bocca per protestare.

«D’accordo» si arrese la bionda.

Un minuto dopo i due erano già in macchina.

«Clarke?» chiamò Bellamy dopo qualche istante di silenzio.

Lei voltò la testa per osservarlo.

«Perché non hai mangiato per tre giorni?».

Quanto poteva dirgli riguardo ai documenti che aveva trovato?

«Io… ho trovato delle cose, nel vecchio studio di mio padre. Dei documenti. Li ho letti e riletti, giorno e notte, ma non capisco».

«Non hai neanche dormito in questi tre giorni?».

«No… ».

Con la coda dell’occhio, Clarke vide le mani del ragazzo serrarsi strette intorno al volante e la sua mascella irrigidirsi.

«Che tipo di documenti?» chiese invece il moro.

«Non lo so, sembrano quasi… test medici, esperimenti… ma non ho trovato nulla di comparabile che possa aiutarmi a capire».

Bellamy rimase in silenzio per un po’, prima di rispondere.

«Clarke… il passato è passato. Continuare a tormentarsi per te sarebbe doloroso e inutile  e per lui ancora di più. So che fa male, so cosa vuol dire e so che adesso mi odierai per ciò che sto per dirti, ma distruggendoti per capire cosa siano quei dati, non riporterai in vita tuo padre».

La ragazza deglutì a vuoto, chinando il capo. Lo sapeva bene.

«Ehi… » la richiamò il ragazzo e lei lo osservò, con sguardo infinitamente triste.

Quando l’auto si fermò, nessuno si mosse né parlò per un paio di minuti.

«Devo andare» disse infine lei, continuando però a non muoversi dal sedile. Nell’abitacolo aleggiava uno strano silenzio finché Clarke non si sporse dal lato di Bellamy, passandogli una mano dietro la nuca e tirandolo a sé per posargli un lieve bacio sulla guancia.

In qualche modo quel bacio era… diverso, rispetto a quello che gli aveva dato la sera del mancato incidente, dopo aver riportato a casa Jasper.

Lei stessa non sarebbe riuscita a spiegarsi come, ma in quel gesto c’era qualcosa di più della semplice gratitudine, che obiettivamente gli doveva per essersi preso cura di lei quella sera come in effetti aveva fatto altre volte nelle ultime settimane.

Clarke sentiva il corpo del ragazzo rigido accanto al suo, di sicuro non si aspettava da lei un gesto simile.

Senza aggiungere una parola, aprì lo sportello, si avviò con passo lento lungo il giardino e poi, invece che dirigersi verso la porta, si spostò verso l’albero di mele vicino alla sua finestra.

«Principessa! Che diavolo fai?» le chiese Bellamy, smontando a sua volta dalla macchina e seguendola.

«Sono uscita da qui e non vorrei mai che Marcus si accorgesse di qualcosa, quindi, per favore, non urlare nel bel mezzo della notte sotto casa mia, d’accordo Blake?» disse tornando al suo solito registro.

«Ti romperai l’osso del collo» rispose lui, in tono quasi scocciato.

«Non mi romperò proprio niente, l’ho sempre fatto. Torna in macchina, ok?».

«Non finché non sarai in camera tua».

Lei sbuffò, roteando gli occhi al cielo.

«Dio… sei peggio di mia madre».

«Sai com’è… prima svieni davanti ai miei occhi, poi mi crolli addosso e dici che non mangi né dormi da tre giorni e infine ti arrampichi sugli alberi neanche fossi Cita… avrei qualche dubbio».

A quelle parole, Clarke sbuffò divertita.

«Guarda e impara Blake… » disse lei accennando un sorriso.

«Sì… imparo come rompermi una gamba» mormorò lui.

«Ehi! Ti ho sentito!».

«Non era mia intenzione non farmi sentire» disse incrociando le braccia al petto e guardando la ragazza aggrapparsi ad uno dei rami più bassi.

Poco a poco, Clarke arrivò in cima, allungò una gamba verso la finestra che era rimasta aperta e in un attimo fu in camera sua.

«Contento?» bisbigliò guardando in basso, dove Bellamy era ancora lì che la guardava.

«Di non averti sulla coscienza? Sì, direi di sì».

Lei alzò di nuovo gli occhi al cielo.

«Oh, ma per favore. Buonanotte, Blake».

«Sogni d’oro, Principessa».

Detto ciò, Clarke rimase ad osservarlo finché non entrò di nuovo in macchina e sparì dalla sua vista.

Subito Yeti le andò vicino, strusciandosi contro le sue caviglie.

«Ehi… » disse lei prendendolo tra le braccia e accarezzandogli la testa.

Lo posò sul letto mentre lei si sfilava quei vestiti e indossava la camicia da notte bianca alquanto succinta che utilizzava in quel periodo.

Era stata Thalia a regalargliela, qualche anno prima, e Clarke non l’aveva mai indossata fino a quell’estate. Si era sempre rifiutata, ritenendola troppo scollata e provocante, ma quell’anno faceva davvero troppo caldo.

Andò nel bagno della sua stanza e si lavò i denti prima di tornare in camera e buttarsi a letto così com’era.

Yeti le si stese di fianco, facendole caldo sulla pancia con il suo pelo voluminoso e passarono pochi istanti prima che Clarke scivolasse in un sonno tranquillo.

 

La mattina seguente fu svegliata da un raggio di sole che le colpì in pieno gli occhi.

Si stiracchiò con calma, girandosi nel letto. Le sarebbe piaciuto restare un po’ lì a poltrire, ma in quei giorni era stata così assorbita dai documenti che aveva trovato nello studio di suo padre, che non aveva proseguito il suo ripasso in vista del test di accesso a chirurgia ed ora doveva assolutamente recuperare.

Così si incamminò verso la scrivania e riaprì i suoi libri.

Diede una rapida occhiata alla finestra di Wells, ma vide che era chiusa, come d’altra parte era rimasta in tutti quei giorni. La bionda sospirò prima di concentrarsi sul testo di anatomia che aveva davanti. Temeva che la sua amicizia con il ragazzo fosse irrimediabilmente danneggiata, non sarebbero più tornati al loro vecchio rapporto e Clarke sapeva che, principalmente, era colpa sua.

Se lei avesse affrontato prima il discorso con Wells, adesso magari non sarebbero arrivati a quel punto. Invece la situazione era degenerata, mandando  tutto in frantumi.

La ragazza scosse la testa e aprì il libro al capitolo del sistema endocrino, che, negli anni che furono, era stato uno dei più ostici per lei.

Studiò per almeno due ore, poi, verso le nove, decise di scendere al piano terra per fare colazione e allora tutta la sua fame si fece sentire.

Preparò una quantità industriale di pancakes, e sperò solo che Marcus e sua madre fossero in casa perché, si rese conto, nonostante avesse fame, forse aveva un po’ esagerato.

Pochi minuti dopo infatti, sua madre e il suo patrigno arrivarono in cucina, piuttosto sorpresi di vederla data la sua assenza negli ultimi giorni.

«Ciao, tesoro. Come stai?» le chiese Abby con un sorriso.

«Meglio, grazie. Ho preparato la colazione».

«Sì, lo vedo… deve arrivare un esercito per caso?».

Clarke ridacchiò.

«Scusate… credo di aver un po’ esagerato con le dosi. Marcus, potresti portare quelli che avanzano alla centrale, semmai».

«Beh questo tirerebbe decisamente su di morale i ragazzi. Ti ringrazio, Clarke» rispose sorridendo e anche sua madre le sorrise.

Grazie al cielo, parte della tensione che aveva aleggiato in casa i primi giorni dopo il ritorno di Clarke a Fort Hill, sembrava essersi attenuata.

Si misero a tavola tutti e tre, chiacchierando del più e del meno come una normale famiglia, e quella, notò Clarke, era la prima volta che succedeva.

Fu bello. Marcus non era affatto male e la ragazza si rendeva conto, ogni giorno di più, di quanto veramente amasse sua madre. Sembrava muoversi in funzione di lei, come se ruotasse sulla sua orbita.

Quando ebbero terminato tutti, Abby preparò i pancakes avanzati in modo che Marcus li potesse portare al lavoro e lui uscì, dopo aver di nuovo ringraziato Clarke.

Poco dopo invece, la donna si allontanò per sbrigare delle commissioni in centro, mentre Clarke tornò in camera sua a studiare, ma la sua attenzione venne di nuovo richiamata dalla scatola sotto il suo letto.

Così, la estrasse nuovamente e rimase a fissarla con aria pensierosa per qualche minuto. Un’idea, a quel punto, bussò insistentemente nella sua testa: e se quei documenti avessero potuto aiutare in qualche modo il comandante War nelle sue indagini? Se, grazie a quei documenti, avesse potuto far riaprire il caso dell’omicidio di suo padre?

 

The sun is rising, the screams have gone
Too many have fallen, few still stand tall
Is this the ending of what we've begun?
Will we remember what we've done wrong?

When we start killing
It's all coming down right now
From the nightmare we've created
I want to be awakened somehow

 

 Il sole sta sorgendo, le urla sono finite
Troppi sono caduti, pochi ancora si difendono
È questa la fine di ciò che abbiamo cominciato?
Ci ricorderemo cosa abbiamo sbagliato?

Quando iniziamo a uccidere
Tutto va a pezzi proprio allora
Dall’incubo che abbiamo creato
Voglio essere svegliato in qualche modo

 

 

Bellamy aveva passato il resto della notte girandosi e rivoltandosi nel letto.

Maledizione, quella non era decisamente una cosa da lui, ma la Principessa riusciva a fargli quell’effetto. Non poteva negarlo: vederla in quello stato lo aveva destabilizzato.

Quando l’aveva chiamata e lei si era voltata… il suo viso era pallido, scavato, segnato da occhiaie profonde. E poi era svenuta. Era riuscito ad afferrarla un attimo prima che cadesse al suolo e subito l’aveva portata  a casa sua, facendola distendere sul letto.

Era rimasto a vegliare su di lei per quasi un’ora prima che la ragazza riprendesse conoscenza e si era subito sentito sollevato quando lei aveva parlato. Ancora più sollevato quando gli aveva dato dell’imbecille, perché sapeva che allora era sempre la sua Principessa.

Un momento… la sua Principessa?! E da quando Bellamy aveva cominciato a vederla in quel modo?

“Sei veramente fottuto”, pensò il ragazzo tra sé, passandosi una mano tra i capelli e voltandosi per l’ennesima volta su un fianco, ma a quel punto un’altra scena gli passò davanti agli occhi: il bacio sulla guancia.

Era stato… beh, quello non era stato un semplice bacio di gratitudine, ne era certo, il modo in cui gli aveva passato la mano intorno al collo, l’averlo attirato a sé, quel contatto. No, non poteva essere solo quello. O forse era lui che ormai era partito per la tangente e vedeva cose che non esistevano in gesti del tutto banali.

Forse era stato davvero un bacio innocente dettato dal fatto che lui l’avesse letteralmente raccolta dalla strada per prendersi cura di lei.

Cercò di concentrarsi su qualunque altra cosa, ma anche se ci riusciva, dopo cinque minuti, inspiegabilmente, trovava il modo di ricollegare ogni suo ragionamento alla Principessa.

Sì. Era spacciato.

Era spacciato e doveva farsela passare, anche perché, in ogni caso, Clarke Griffin sarebbe comunque stata fuori dalla sua portata.

Appartenevano a due mondi completamente diversi nonostante certe esperienze di vita li accomunassero.

Si chiese come, in quale preciso momento, avesse iniziato a nutrire quei sentimenti nei confronti della ragazza, ma senza riuscire ad arrivare ad una risposta.

Per un’altra ora continuò ad agitarsi nel letto, finché ad un tratto crollò all’improvviso, addormentandosi profondamente.

 

Si risvegliò alle undici della mattina seguente, fortunatamente per quel giorno avrebbe dovuto coprire il turno di notte, quindi si poteva permettere di alzarsi a certe ore avendo anche il pomeriggio a disposizione.

Avrebbe voluto sentire Clarke, chiederle come stava e assicurarsi che fosse in condizioni migliori a quelle in cui l’aveva lasciata appena poche ore prima, ma innanzitutto realizzò di non avere nessun numero a cui contattarla e, in secondo luogo, se davvero voleva prendere le distanze, quella non era esattamente la strategia migliore.

No, doveva imporsi i minimi contatti, altrimenti la situazione sarebbe potuta degenerare e già così era alquanto critica.

Sbuffando, si passò le mani sul volto, esasperato.

Cristo santo, gli sembrava di essere tornato un qualunque idiota alle prime armi con gli ormoni dell’adolescenza. Lui era un uomo, dannazione! E Clarke era… una gran rottura di palle. D’altra parte a lui le cose facili non erano mai piaciute.

“Maledizione, controllati!” si impose mentalmente.

Non andava bene. Oh no, così non andava bene per niente.

Fare una bella corsa forse lo avrebbe aiutato a calmarsi, ma dato l’orario e il caldo atroce di quell’estate, non era un’idea così brillante, dunque decise di buttarsi sul divano e sperare che passasse qualche replica di “The Walking Dead”. Di certo  sangue e squartamenti lo avrebbero aiutato a distrarsi e per qualche ora fu così, finché non venne distratto dal suono del campanello.

«Raven!» esclamò sorpreso trovandosi davanti l’amica.

«Ehilà! Sono passata a farti un saluto».

«Prego, entra pure» disse scostandosi per lasciarla passare. «Va tutto bene?».

«Direi di sì, tutto a posto. Tu? Non te la prendere ma sembri un po’ spiritato. È tutto a posto, cecchino?».

Lui sbuffò, combattuto. Che poteva dirle?

«Ho fatto tardi stanotte».

Raven lo osservò con un’espressione dubbiosa.

«E come mai?».

«Non sei proprio capace di farti gli affari tuoi, vero Raven?».

«Non quando si tratta di te, mio caro».

Bellamy sospirò.

«È complicato. Non so se mi va di parlarne… onestamente non saprei neanche da dove partire».

Lei lo osservò pensierosa per un istante.

«Bellamy Blake… non c’entrerà mica una donna, vero?!».

Il moro le lanciò uno sguardo di traverso.

«Oh mio Dio, e tu non mi dici niente! Voglio sapere tutto! Chi è? La conosco?».

«Raven… non è proprio il caso. E ad ogni modo è una cosa che devo farmi passare. Parlando di te, piuttosto… Wick mi ha fatto una buona impressione l’altra sera, ma voglio che abbia bene in testa che se ti fa del male, lo prendo a calci».

«Stai cambiando discorso».

«Sì, è vero».

La ragazza sbuffò.

«Sei proprio un guastafeste».

«Ti ringrazio».

Lei gli fece una linguaccia e lui sollevò un angolo della bocca, divertito.

«Se non me ne vuoi parlare probabilmente la conosco anch’io, è per questo che non vuoi esporti troppo».

«Sei davvero insopportabile, lo sai Reyes?».

«Non hai fatto che dirmelo negli ultimi anni, quindi credo di averne una vaga idea. Allora… chi è la donna del mistero?».

«Te lo saprò dire un’altra volta se non mi stresserai troppo».

La bruna assunse un cipiglio imbronciato, ma Bellamy fu incorruttibile.

«Non se ne parla, non oggi almeno».

A quel punto Raven non poté fare a meno che sbuffare, sconfitta.

«Ti odio».

«Non è vero».

Lei gli lanciò uno sguardo di traverso, ma non disse nulla, dopodiché i due cambiarono argomento e iniziarono a parlare di tutt’altro.

A Bellamy erano mancati pomeriggi del genere. C’era stato un periodo, durante l’ultimo anno di liceo di Raven, in cui i due passavano insieme molto tempo ed ora gli sembrò di essere tornato indietro a quel periodo.

Quando era ancora solo un ragazzo e poteva permettersi di comportarsi come tale. Quando la sua vita andava bene. Quando sua madre era viva.

Per un momento avvertì una morsa alla bocca dello stomaco, poi chiuse gli occhi e respirò a fondo.

«Ehi, è tutto a posto?» la voce di Raven lo riportò alla realtà.

Riaprì gli occhi e sorrise.

«Sto bene».

Per qualche istante aleggiò il silenzio, poi la ragazza si alzò dalla poltrona sulla quale si era sistemata e si stiracchiò, spostandosi verso l’ingresso.

«È meglio che vada adesso, ho ancora parecchie cose da sistemare a casa e poi ormai è quasi ora di cena».

«D’accordo, grazie per la visita».

«Ehi, quando il nostro appartamento sarà presentabile, guarda che io e Kyle ti aspettiamo».

Bellamy alzò un angolo della bocca.

«Non mancherò».

«Bene. Buona serata».

«Buona serata? Alle dieci devo essere al lavoro».

«Allora buon lavoro».

«Grazie, Raven. Buona serata anche a te» così dicendo, aprì la porta per far uscire la ragazza e, una volta che si fu allontanata, la richiuse e si avviò in cucina per preparare la cena prima di recarsi al lavoro.

Aver avuto la sua vecchia amica in casa per tutto il pomeriggio lo aveva aiutato a non pensare, ma adesso che era nuovamente solo con la sua mente, il pensiero di Clarke cominciò a serpeggiare con prepotenza nella sua testa.

Com’era possibile una cosa del genere?! Dio, sembrava che non riuscisse più a pensare ad altro.

Cercò di concentrarsi sulla cena e rischiò anche di rovesciare la pentola da quanto era distratto in quel momento. Se avesse potuto si sarebbe preso a calci da solo.

Mangiò con una rapidità spaventosa come suo solito e poi lasciò tutto nel lavandino, non aveva voglia di mettersi a ripulire, anzi… ultimamente la casa era anche più ordinata rispetto ai suoi standard.

Quando era un adolescente sua madre lo aveva ripreso innumerevoli volte dicendo che la sua stanza sembrava la scena di un crimine o un campo profughi. Dopo la morte di Melinda era stata Octavia invece a dirgli di sistemare tutto. La sua sorellina era una maniaca dell’ordine, ancora peggio di quanto lo fosse stata sua madre e lo aveva sgridato spesso per la confusione inverosimile della sua camera da letto.

Del resto della casa riusciva ad occuparsene lei, ma Bellamy non aveva mai voluto che la riordinasse qualcun altro perché diceva che se non se ne fosse occupato lui, non sarebbe più riuscito a trovare le sue cose.

Era assurdo come nel disastro più assoluto riuscisse a trovare tutto, ma quelle poche volte che sua madre gli aveva ripulito la stanza come uno specchio, era andato in paranoia perché non trovava più nulla.

Da quel momento Melinda ci aveva rinunciato, ma gli intimava spesso di mettere in ordine.

Fece una doccia veloce e si cambiò prima di recarsi al lavoro e alle dieci meno cinque indossava già la divisa della caserma 62 e si avviava verso la sala principale con alcuni colleghi.

Quello era il primo turno che aveva in comune con Atom dall’incendio dell’edificio di un paio di giorni prima.

Sterling si era dovuto prendere un paio di settimane a causa della ferita alla gamba, ma per fortuna non si era rotta, altrimenti non lo avrebbero rivisto prima dei successivi sei mesi.

Miller invece aveva preso una settimana di ferie ed era andato con Harper in California. A ognuno di loro spettavano tre settimane di ferie estive e inizialmente Bellamy pensava di sfruttare le ultime due di agosto e la prima di settembre, ma ora che Sinclair gli aveva detto dell’esame da tenente, stava valutando di anticiparle in modo da poter studiare con tranquillità.

Il test sarebbe stato il 21 di agosto e risultati sarebbero stati esposti nove giorni dopo. Adesso era il 19 luglio e, facendo due calcoli, avrebbe potuto mettersi in ferie dal 3 agosto e rientrare il 24.

Sì, probabilmente avrebbe fatto in questo modo, anzi, la prossima volta che avrebbe visto il capitano gliene avrebbe subito parlato. Lui non era tipo da fare storie, specialmente se gli avesse spiegato le sue ragioni.

Stava per mettersi comodo sul divano della saletta quando la familiare voce metallica femminile annunciò dagli altoparlanti: «Camion 62, autopompa 22, squadra 9, ambulanza 52. Struttura in fiamme tra Richmond Avenue e Richmond Hill Road».

Come sempre si mossero tutti rapidamente.

Di solito era Miller a guidare il camion, ma in sua assenza fu Atom a prendere il suo posto.

Bellamy si sedette, guardando fuori dal finestrino, mentre i mezzi partivano a sirene spiegate. Le auto si spostavano al loro passaggio per permettere di proseguire velocemente verso la loro destinazione e, quando arrivarono sul posto, scoprirono che si trattava di una vecchia fabbrica abbandonata. Meno male, almeno non c’era rischio di trovare gente all’interno.

Pochi istanti dopo i veicoli si fermarono e pompieri e paramedici scesero a terra. Come la volta precedente, i vigili del fuoco si divisero in due squadre e fecero un breve giro di ricognizione per accertarsi che non vi fosse realmente nessuno all’interno.

Posti del genere potevano essere frequentati da tossicodipendenti o senzatetto, ma per fortuna l’edificio era completamente sgombro.

Senza troppi intoppi collaborarono per spegnere l’incendio e dopo più di un’ora le fiamme erano ormai domate. Pochi minuti prima di mezzanotte il gruppo era rientrato in caserma e Bellamy si mise subito a compilare il suo rapporto.

La parte burocratica era quella che amava meno del suo lavoro, quindi ogni volta che rientrava dopo una chiamata si metteva subito a lavorarci per toglierselo di mezzo.

Lasciò i documenti nell’ufficio del capitano, come sempre, in modo che trovasse tutto sulla sua scrivania la mattina seguente.

«Ehi, Bell! Vuoi una birra?» gli chiese Jason Bloom, uno dei suoi colleghi dopo qualche minuto.

«Una birra? Sei impazzito? Siamo in servizio!».

«Come non detto, hai ragione tu».

Scuotendo la testa, Bellamy si avviò verso il frigo ed estrasse una bottiglia di tè e quello gli fece tornare alla mente la sera in cui aveva incontrato Atom e Clarke al pub dei genitori di Monroe, quando lei aveva chiarito che non aveva fatto altro che bere tè per tutta la serata.

Cristo, se anche una bottiglia di tè gli faceva tornare in mente Clarke, allora era preso davvero male.

Riempì un bicchiere e mandò giù tutto d’un fiato.

Quel liquido  fresco gli scese in gola rinfrancandolo. Era ancora accaldato e i capelli gli stavano incollati alla nuca. Avrebbe voluto fare una doccia, ma aveva come l’impressione che quella notte non sarebbe stata tanto tranquilla e, solitamente, il suo intuito non sbagliava. Altre volte aveva avuto la stessa sensazione ed erano stati turni davvero infernali, nel vero senso della parola.

Così andò al suo armadietto e tirò fuori il libro in preparazione al test che avrebbe dovuto affrontare il mese successivo.

Era stato il loro attuale tenente a darglielo: il tenente Clarence. Era lui che aveva chiesto il trasferimento ad un’altra caserma per stare più vicino alla sua fidanzata, che abitava in tutt’altra zona di Staten Island e, una volta andati a vivere insieme dopo il matrimonio, avrebbe dovuto fare quasi un’ora di strada per raggiungere la 62.

Il tenente Jordan invece era più attempato e Bellamy aveva scoperto che si trattava dello zio di Jasper. Piccolo il mondo.

Così si mise a studiare seduto ad un tavolo più isolato rispetto agli altri e, dopo quello che a lui parve un minuto, ma che in realtà erano più di due ore, fu richiamato da una voce familiare che in quel momento lo irritò non poco.

«Ehi Bell! Allora… hai visto la Principessa oggi?».

Bellamy si irrigidì e sollevò gli occhi per trovarsi a guardare Atom che, in piedi, torreggiava su di lui.

«Perché avrei dovuto?» chiese in tono apparentemente calmo, ma che veramente di calmo aveva ben poco.

«Visto che ultimamente passate così tanto tempo insieme».

Bellamy lo guardò storto.

«Atom… io starei cercando di studiare. Ho l’esame da tenente il prossimo mese».

«Ma davvero? Tenente? Qualcuno qui vuole fare carriera… ».

«Non ci vedo nulla di male. Anzi, perché non lo fai anche tu? Così poi ti manderanno in qualche altra caserma e non sarò costretto a vedere la tua brutta faccia quasi ogni sacrosanto giorno».

A quelle parole Atom scoppiò a ridere.

«Tu non saresti in grado neanche di trovare la tua stessa ombra senza di me».

Bellamy scosse la testa, nascondendo un certo divertimento.

D’altra parte Atom aveva ragione… non riusciva neanche ad immaginarsi il lavoro senza di lui, senza contare che si erano praticamente salvati la vita a vicenda un mucchio di volte. Semplicemente… non sarebbe stata la stessa cosa.

La loro discussione fu interrotta dalla stessa voce metallica di poco prima: «Camion 62, squadra 9, ambulanza 52. Si richiede intervento per incidente stradale avvenuto in Nome Avenue».

«Zona sfortunata stanotte» commentò Atom. Ognuno di loro infatti aveva ormai impressa nella mente la mappa della città e Nome Avenue era vicina al luogo dell’incendio di poche ore prima.

Ecco perché stavolta non avevano chiamato l’autopompa, probabilmente non c’era alcun pericolo che la vettura prendesse fuoco, avrebbero solo dovuto tirare fuori dalla macchina conducente ed eventuali passeggeri.

Di nuovo, partirono a gran velocità e quando arrivarono, videro una macchina scura di grossa cilindrata schiantata contro un albero. Probabilmente un colpo di sonno, ma per fortuna non erano state coinvolte altre auto.

Roma e Antonio si avvicinarono per controllare le condizioni del conducente, non erano presenti altre persone all’interno del veicolo e l’uomo era vigile e reattivo.

Sarebbe stato semplice. Se avesse centrato un palo della luce sarebbe stato più pericoloso, avrebbero potuto esserci dei cavi scoperti, ma prendendo un albero non c’erano rischi e l’uomo non era in pericolo di vita.

Jason e Atom si avvicinarono alla portiera dell’auto mentre Bellamy, dall’altra parte della macchina, controllava che l’uomo non fosse stato ferito da pezzi di lamiera che, togliendosi, avrebbero potuto causare qualche emorragia.

Nel frattempo, Roma era entrata dagli sportelli posteriori e aveva bloccato la cervicale del conducente con un collare.

In pochi minuti lo tirarono fuori e l’ambulanza ripartì in direzione dell’ospedale mentre loro aspettarono la polizia stradale per i sopraluoghi di routine. Una volta arrivati, sarebbe stato loro compito accertarsi della dinamica dei fatti e chiamare il carro attrezzi per rimorchiare il veicolo.

Rimasero a parlare con gli agenti per qualche minuto, per spiegare brevemente cosa fosse successo e loro dissero che avrebbero interrogato il conducente per capire se davvero era stato un colpo di sonno.

A quel punto i vigili del fuoco tornarono sul camion e ripartirono.

Bellamy bevve un altro bicchiere di tè prima di farsi una doccia, ora ne aveva bisogno e sperò che per quel turno non avessero altre chiamate, nonostante quella non fosse stata impegnativa.

I muscoli del suo corpo erano indolenziti e la sensazione dell’acqua tiepida sul suo corpo fu piacevole.

Quando finì tornò dagli altri, ormai erano le quattro di mattina. Non aveva voglia di rimettersi a studiare, così cercò di rilassarsi un po’, ma erano passati appena venti minuti, che la sirena annunciò nuovamente: «Camion 62, squadra 9, ambulanza 52. Richiesto intervento per incidente stradale in Giffords Lane».

Scattarono nuovamente tutti in piedi, ormai esausti.

Atom si mise alla guida, ma Bellamy era inquieto. Aveva una strana sensazione e non era positiva. Gli era già capitato altre volte ed era certo che quella chiamata fosse diversa dalla precedente.

A confermare la sua ipotesi, vide il fanale di un’auto almeno 60 metri prima del punto dell’incidente. L’impatto doveva essere stato forte e quando si ritrovò la scena di fronte, per un momento gli si gelò il sangue nelle vene.

Due auto, una in un fosso, l’altra sul bordo della carreggiata, entrambe con le parti anteriori pressoché inesistenti: doveva essere stato un frontale.

La squadra del tenente Jordan andò ad occuparsi dell’auto nel fosso, in cui all’interno si trovava solo il conducente, mentre la squadra del tenente Clarence, in cui si trovavano Atom e Bellamy, andò ad occuparsi dell’altra auto.

Bellamy vide una donna fuori dall’auto, forse parlava con qualcuno all’interno. C’era una macchina integra poco distante, con le quattro frecce accese, probabilmente la donna stava passando lì al momento dell’incidente e si era fermata.

«Mi scusi signora, dobbiamo passare» disse Atom, facendola spostare e piazzandosi al suo posto dal lato del conducente.

Bellamy invece girò dal lato del passeggero. C’era una ragazza, molto giovane, poteva avere al massimo poco più di vent’anni.

Era sveglia, mentre il conducente, forse qualche anno più grande di lei, era privo di sensi, emetteva qualche lamento, ma aveva la testa insanguinata, probabilmente un trauma cranico.

Dovevano sbrigarsi, quella non sarebbe stata una passeggiata. Serviva almeno un’altra ambulanza e per il ragazzo alla guida fu allertato l’elisoccorso. Era grave. Entrambi erano gravi.

Bellamy si occupò della ragazza, usò la sega per la portiera e Roma arrivò a stabilizzarla, passando poi al ragazzo.

Nel tirarla fuori dall’auto, lei fece una smorfia di dolore. Doveva essersi rotta qualcosa.

«No… no, aiutate lui. Io sto bene, lui ha bisogno di aiuto… » continuava a ripetere.

«Ehi, sta calma, d’accordo? Il mio collega si sta occupando del tuo ragazzo, ma io devo pensare a te».

«Non è il mio ragazzo, è… è il mio migliore amico. Ci conosciamo da cinque anni, dovete aiutarlo».

«E lo faremo. Adesso però devi stare tranquilla, ok? Come ti chiami?».

«Jenny. Cioè… Jennifer, ma tutti mi chiamano Jenny».

«D’accordo Jenny. Io sono Bellamy. Ora muovi le gambe».

Doveva accertarsi che non avesse avuto lesioni midollari, altrimenti sarebbe rimasta paralizzata e, con un sospiro di sollievo, vide che la ragazza poteva ancora muoverle.

«Bravissima. Ascoltami, adesso devo infilarti questa barella sotto la schiena. Se qualcosa ti fa male, dimmelo subito».

«Il braccio… mi sono rotta il braccio sinistro».

Bellamy notò che la ragazza non respirava molto bene, temeva un danno ai polmoni, ma sperava tanto di sbagliarsi. Era così giovane…

«D’accordo, Jenny. Però dovrò voltarti. Prima sul fianco destro e poi sul sinistro. Farà male, ma sarà breve. Ce la fai a resistere?».

Lei annuì e Bellamy le posizionò la barella spinale sotto la schiena. Ovviamente anche loro avevano fatto un corso di primo soccorso e dato che lei era l’unica cosciente, i due paramedici erano impegnati con i conducenti. In lontananza cominciò a sentire le sirene degli altri mezzi di soccorso. Grazie a Dio. Quell’incidente avrebbe potuto essere una carneficina.

Il moro voltò la ragazza, prima da una parte e poi dall’altra e quando la girò sul fianco sinistro, fece un’altra smorfia di dolore ma non disse niente. In un attimo ebbe fatto.

«Ho finito, sei stata bravissima. Quanti anni hai, Jenny?».

«Ventuno… ventidue fra tre mesi».

Dio… aveva appena due anni in più di sua sorella. Si chiese come avrebbe reagito se una cosa del genere fosse capitata ad Octavia, probabilmente sarebbe andato fuori di testa.

Quando l’ambulanza arrivò, si fece da parte per lasciar fare a gente che di sicuro aveva più competenze di lui.

Fece il giro dell’auto per controllare le condizioni del ragazzo. Roma lo stava rianimando e dopo qualche istante furono raggiunti dal medico anestesista che si trovava sull’ambulanza. Doveva essere veramente grave, l’espressione di Atom era… angosciata.

Bellamy gli diede una pacca sulla spalla, poi si avviò nella direzione della donna che aveva trovato vicino all’auto dei due ragazzi al loro arrivo. Forse aveva visto cos’era successo. Stava parlando con un’altra signora più anziana, in pantofole e vestaglia. Doveva abitare in una delle case lungo la strada.

«Buonasera» esordì lui.

«Salve» risposero le due, in coro.

«Una di voi per caso ha visto che cosa è successo?».

«Io» disse la più giovane, facendosi avanti.

«Può parlarmene, signora?».

«Beh, i due… i due ragazzi erano sulla loro corsia e l’uomo che li ha investiti procedeva su quella opposta, parecchi metri davanti a me. Ad un certo punto ha… ha semplicemente invaso la loro corsia, non so perché, ho suonato diverse volte, gli ho fatto i fanali, ma… era troppo tardi, è stata questione di un istante. Li ha presi in pieno».

Bellamy annuì gravemente.

«Guardi, dalla forza dell’impatto le vetrate di casa mia sono esplose» prese parola la signora anziana, indicando a Bellamy una casa alla quale, effettivamente, erano saltate le vetrate.

Dio… doveva essere stato un impatto terribile. Ripensò  a Jenny e alla sua voce angosciata nel dirgli di controllare il suo amico. Improvvisamente gli montò una rabbia dentro che quasi si spaventò da solo.

Ringraziò le due donne e si allontanò.

Nel frattempo era arrivata la polizia, stavolta più in grande e tra loro c’erano anche Marcus Kane e Lexa War.

Il ragazzo prese un respiro profondo e si avvicinò ai due, riferendo loro ciò che aveva appena scoperto dalle due donne, ancora sul ciglio della strada.

«Grazie, Bellamy» disse Kane con sguardo grave. Probabilmente anche lui doveva essere rimasto scosso dalla scena, mentre il comandante War gli riservò il suo solito sguardo sprezzante.

Bellamy non ci fece caso e, con la coda dell’occhio, vide l’ambulanza sulla quale era stata caricata Jenny partire a sirene spiegate alla volta dell’Ark Medical Center.

Dopo aver parlato con la polizia, la squadra 9 risalì sul camion e ripartì in direzione della caserma.

Erano tutti esausti, nel camion c’era un silenzio di tomba. Seduto al suo posto, Bellamy posò la testa contro il finestrino, osservando sfinito le luci della città sfrecciare velocemente.

Ormai cominciava ad albeggiare, erano le sei meno un quarto di mattina. Fine turno. Com'era possibile? Cristo santo, com'era possibile che fosse successa una cosa del genere? Quell'incidente lo aveva destabilizzato, Bellamy non riusciva a capacitarsi del fatto che fossero gli uomini la più grande rovina per loro stessi. Uccidere, bere e poi mettersi alla guida. Non c'era poi molta differenza. 

Un collega della squadra del tenente Jordan aveva detto che nell'altra macchina si sentiva una terribile puzza di alcol. Quei due ragazzi non c'entravano nulla, si erano semplicemente trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Ed ora rischiavano la vita. Era assurdo.

Una volta giunti alla 62, andarono tutti a fare la doccia e compilarono silenziosamente i loro rapporti.

Quando ebbero finito, i colleghi del turno successivo erano già arrivati, ormai erano passate le sei da dieci minuti.

Mestamente, spiegarono loro cos’era successo quella notte e i nuovi arrivati rimasero senza parole, dopodiché, ognuno prese la sua strada.

Bellamy voleva solo buttarsi sul letto e dormire fino al giorno dopo, ma, ad un tratto, invece che svoltare per casa sua, girò verso l’Ark Medical Center.

Al pronto soccorso chiese informazioni di una certe Jenny, di ventun anni, vittima di un incidente stradale. Non sapeva neanche il suo cognome.

Lì, un’infermiera gli disse di andare in radiologia, dov’era stata portata per effettuare una TAC total-body. Parlò con il primario, era stato lui ad occuparsi della ragazza, non poteva dargli informazioni precise, ma ciò che gli disse gli fece capire che non si era semplicemente rotta un braccio ed ora era in sala operatoria di chirurgia generale.

Chiese se per caso era arrivato lì anche il suo amico, ma l’uomo disse di no. Bellamy lo ringraziò e si avviò verso le sale operatorie.

Aveva raccolto dall’auto gli effetti personali di Jenny e voleva darli alla famiglia, così, pensò che li avrebbe trovati lì.

In effetti, quando arrivò, dopo essersi perso varie volte dentro quell’ospedale che più che altro sembrava una piccola città, trovò una coppia, la donna in lacrime, l’uomo pallido come un lenzuolo e una ragazza che poteva avere pochi anni in più di Jenny, la sorella probabilmente.

«Scusate, voi siete la famiglia di Jenny?» chiese sommessamente.

Subito, tre paia di occhi si puntarono su di lui, poi sulla scatola che teneva tra le mani, dalla quale spuntava una borsa verde.

«Sì. Quella… è di mia figlia?» prese parola l’uomo.

«Sì, io… mi chiamo Bellamy Blake, sono un vigile del fuoco chiamato sul posto al momento dell’incidente. Questo è tutto ciò che sono riuscito a trovare nell’auto, spero non manchi niente. Credo ci sia anche qualcosa del suo amico, ma non so dove sia stato portato».

«Grazie» mormorò la donna, che aveva smesso di piangere ma aveva ancora gli occhi gonfi e lucidi.

Tutta quella notte gli sembrava un incubo, un incubo dal quale non riusciva a svegliarsi, anche se voleva.

«Spero tanto che vostra figlia possa riprendersi».

Di nuovo, i due lo ringraziarono e Bellamy stava per andarsene, quando fu di nuovo richiamato dalla madre, che, quasi timidamente, gli chiese se volesse restare, che sicuramente a Jenny avrebbe fatto piacere vederlo una volta fuori dalla sala operatoria.

Ma quando i medici uscirono, portando fuori la ragazza, ancora addormentata, dissero che avrebbero dovuto tenerla in coma farmacologico e che sarebbe stata ricoverata in rianimazione.

L’intervento era andato bene, avevano dovuto toglierle la milza per arrestare l’emorragia interna e una costola, rompendosi, aveva perforato il polmone sinistro, quindi era stata collegata ad un macchinario che lo avrebbe fatto espandere di nuovo.

Non dissero molto altro e solo dopo, Bellamy si accorse che la dottoressa che stava parlando era in realtà Abby Griffin.

La famiglia, affranta, salutò Bellamy e, dopo averlo nuovamente ringraziato, seguì gli infermieri che portavano Jenny in rianimazione.

«Bellamy… che cosa ci fai qui?» gli chiese Abby quando se ne furono andati.

«Ero in turno quando c’è stata la chiamata. Mi sono occupato di lei».

Per un momento, quella donna che mai si era fidata di lui negli anni della sua adolescenza, lo guardò con tenerezza.

«Vai a casa, Bellamy. Tutti noi abbiamo fatto ciò che era in nostro potere per aiutarla, ora tocca a lei».

Bellamy annuì, dopodiché le voltò le spalle e si avviò nuovamente verso l’ingresso.

Era esausto.

Tornò a casa, ma quando arrivò e si mise a letto non riuscì a chiudere occhio.

Continuava a pensare a quella notte, a quella ragazza, angosciato dal pensiero che una cosa del genere sarebbe potuta succedere anche ad Octavia. Lui ne sarebbe morto. O se fosse successo a Clarke? Anche quell’idea lo spaventò.

Prese un paio di respiri profondi, ma niente.

Le ore passarono, trascorse l’intera mattinata e poi il pomeriggio. Ormai era sera e lui era ancora sdraiato a letto, gli occhi sbarrati.

La sua mente era annebbiata e lui sentiva il suo corpo bollente, ma se fosse rimasto lì un minuto di più sarebbe andato fuori di testa, così saltò giù dal letto e si cambiò, indossando degli abiti puliti.

Prese l’auto e, senza rendersene conto, si ritrovò davanti alla ormai familiare villa dei Griffin.

Per qualche minuto rimase lì, inchiodato al sedile, stringendo saldamente il volante, poi si decise a scendere dall’auto e si incamminò a grandi falcate in direzione del melo sotto la finestra di Clarke. Dalla stanza della ragazza proveniva una strana luce azzurrognola e lui cominciò ad arrampicarsi proprio come lei aveva fatto due notti prima.

Ripensò a quando aveva trovato la ragazza esausta sul ciglio della strada, a quando l’aveva presa con sé e portata a casa sua. Si era spaventato. Erano state due notti terribili, due notti oscure.

Arrivò all’altezza della sua finestra e, agilmente, vi saltò dentro. Erano le undici di sera, ma la stanza era deserta. Bellamy si guardò intorno per un istante: si trovava in una mansarda, l’ambiente circostante era rischiarato da una tenue luce azzurrina proveniente da una lampada a cera posata su una scrivania alla sua sinistra.

A destra invece si trovava una grande letto matrimoniale dall’aria irresistibilmente comoda e le altre due pareti erano quasi del tutto ricoperte da librerie.

C’erano due porte, una doveva essere per forza di cose quella d’ingresso, mentre l’altra non se la sapeva spiegare.

Ad un tratto, venne spaventato a morte da qualcosa ai suoi piedi: un gatto soffiò così forte che gli fece fare un salto all’indietro e Bellamy quasi cadde dalla finestra.

A quel punto una delle due porte si aprì e, ciò che Bellamy vide, gli fermò il respiro per svariati secondi: Clarke, con i capelli dorati gocciolanti, indossava una camicia da notte che definirla provocante sarebbe stato un eufemismo.

«Yeti! Che cosa… ?» ma quando si accorse di Bellamy le morirono le parole in gola e sgranò gli occhi, pietrificata. «Che cosa ci fai tu qui?» disse in un soffio.

 

NOTE:

Lo so, lo so, lo so. Il ritardo è imperdonabile, quasi un mese, chiedo umilmente perdono, ma spero che il capitolo sia bastato per farvi le mie più sentite scuse (dai, è anche più lungo del solito).

Ho avuto un mare di impegni, i week end li ho passati pressoché fuori casa dal venerdì alla domenica e poi mi ero piantata sulla parte di Bellamy, vi giuro che Clarke l’avevo finita da settimane.

Praticamente mi sono sbloccata solo tra ieri e oggi, infatti credo di aver scritto dodici pagine in word solo in questi due giorni.

Beh, passiamo al capitolo… abbiamo scoperto cosa Clarke ha trovato nella famosa scatola, anche se per ora non si riesce a dare una collocazione a quei documenti, fatto sta che il nostro caro vigile del fuoco la raccoglie dalla strada per prendersi cura di lei.

La parte di lui, come nel capitolo precedente, è più incentrata sul lavoro, anche se Clarke torna spesso e volentieri nei suoi pensieri e alla fine i due si rivedono.

Vi prometto che per il prossimo capitolo non vi farò aspettare tanto come con questo e ancora vi chiedo scusa, ma per il tempo che non ho avuto e l’ispirazione che era andata a farsi un giro, questo è il risultato.

Per chi volesse vi lascio il link del mio profilo FB e, come al solito, i due brani di questo capitolo.

Ah, inoltre mi scuso per gli errori del capitolo scorso, ma non avevo avuto il tempo di rileggerlo.

 

Link profilo FB

A shot in the Dark – Within Temptation. Clarke

The Howling – Within Temptation. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Open up your eyes, Bellamy ***


c12





CAPITOLO 12: OPEN UP YOUR EYES, BELLAMY

 

I really wanna start over again
I know you wanna be my salvation
The one that I can always depend
I'll try to be strong, believe me
I'm trying to move on
It's complicated but understand me

'Cause I
Need time
My heart is numb has no feeling
So while I'm still healing
Just try
And have little patience yeah
Have a little patience yeah

 

Voglio veramente ricominciare tutto da capo 
so che vuoi essere la mia salvezza 
l
unico su cui potrò sempre contare 
proverò ad essere forte, credimi 
sto provando ad andare avanti 
è complicato, ma comprendermi 

Perché io ho bisogno di tempo 
il mio cuore è intorpidito, non sente niente 
perciò mentre sono ancora in via di guarigione
prova ad avere solo un po’ di pazienza 
abbi solo un po’ di pazienza, si 

 

 «Che cosa ci fai tu qui?».

Clarke era pietrificata. Bellamy Blake le stava davanti con un’espressione a metà tra lo sconvolto e il febbrile. Gli occhi spalancati e lucidi, la bocca leggermente aperta.

Yeti continuava a soffiare rumorosamente contro l’intruso e Clarke dovette chinarsi e raccoglierlo da terra per farlo stare zitto. Se fossero arrivati sua madre o Marcus si sarebbe trovata in un bel pasticcio.

Calmò il gatto grattandolo dietro le orecchie e, quando smise di agitarsi, lo posò nuovamente a terra, anche se continuò ad osservare il nuovo arrivato con sguardo attento e diffidente.

Clarke, ancora rigida nella sua postura, puntò nuovamente gli occhi verso il moro.

«Bellamy… che cosa ci fai qui? E non potevi suonare alla porta come tutte le persone normali?» ripeté di nuovo, la voce leggermente vibrante.

Lui boccheggiò un paio di volte prima di riuscire a tirare fuori qualche parola comprensibile. Nei suoi occhi c’era una strana scintilla che non aveva mai visto prima.

«Io… io non lo so. Ho visto le luci del piano di sotto accese e non volevo avere storie con Kane, insomma… non so perché sono venuto qui, sarebbe difficile spiegarlo a lui. Ed è difficile spiegarlo anche a te. Clarke, maledizione!».

La ragazza cominciava a preoccuparsi. Già l’imbarazzo di trovarsi seminuda davanti al suo vecchio compagno di scuola la stava rendendo abbastanza nervosa, ma per di più, il suo strano comportamento la allarmava.

Diede una rapida occhiata alla stanza e individuò una leggera vestaglia in raso appesa dietro la porta d’ingresso. Non aveva fatto però in tempo a indossarla, che Bellamy si fece avanti, bloccandole il polso.

La bionda aveva praticamente le spalle al muro e l’imponente figura del ragazzo la sovrastava.

«Che stai facendo?» la sua voce era appena un sussurro.

Gli occhi scuri e penetranti di Bellamy la scrutavano imperturbabili, era impossibile immaginare cosa stesse pensando e Clarke si sentì trafitta da parte a parte.

Che diavolo gli prendeva adesso?

Cercò di concentrarsi su qualunque cosa che non fosse il corpo di Bellamy a pochi centimetri dal suo. Maledizione, perché adesso si comportava così? Cos’era quel senso di chiusura che provava alla bocca dello stomaco? Perché, all’improvviso, il suo cuore batteva più forte? I loro respiri affannosi si fondevano l’uno con l’altro, Clarke abbassava e alzava il petto velocemente.

I suoi occhi, per un secondo, scivolarono sulle labbra del ragazzo. Avrebbe potuto baciarlo. Sì, avrebbe potuto, ma troppe cose la frenavano anche se il desiderio c’era. Si chiese come lui avrebbe reagito. L’avrebbe respinta o avrebbe ricambiato?

Bellamy teneva ancora il suo polso serrato nella mano e lei ad un certo punto smise semplicemente di sentirla.

Era in confusione totale ormai, le serviva aria, subito.

Fece un passo indietro, schiacciandosi contro il muro, nel momento in cui il moro compì la medesima azione, lasciandola andare e voltando la testa di scatto da un’altra parte. Anche il suo torace si muoveva in modo irregolare.

Per la tensione, a Clarke scivolò di mano la vestaglia, che leggera si posò sul pavimento senza il minimo suono.

Con le spalle al muro e gli occhi chiusi, si prese qualche istante per tornare a stabilizzare i battiti del suo cuore e il respiro.

Quando rialzò le palpebre, vide Bellamy darle le spalle, posato con entrambe le mani sul davanzale della finestra, la testa china.

Nessuno dei due proferì parola per diversi minuti, poi Bellamy si voltò.

«Che cosa è appena successo, Bellamy?» chiese lei, osservandolo di rimando.

Lui deglutì a vuoto.

«Non lo so. Io… non lo so, Clarke».

La ragazza si accorse che il moro era rosso in volto, con un sottile strato di sudore ad imperlargli la pelle, così gli si avvicinò, posandogli una mano sulla fronte e lui, per un momento, si irrigidì.

«Scotti da morire. Devi avere la febbre alta, avanti, sdraiati» disse sospingendolo con delicatezza verso il suo letto.

Bellamy obbedì senza dire una parola, sfilandosi le scarpe per non sporcare il lenzuolo immacolato di Clarke.

La ragazza era ancora nervosa, vederlo sul suo letto le faceva uno strano effetto, ma poi scosse la testa per scacciare quel pensiero e si allontanò un momento per prendere il beauty-case in cui teneva la sua scorta di medicine e una bottiglia d’acqua poggiata sul comodino.

Andò in bagno ed estrasse un termometro dal cassetto, poi lo mise sotto il braccio di Bellamy per misurargli la temperatura.

Quando l’oggetto emise il solito, fastidioso trillo, Clarke lo riprese in mano e sgranò gli occhi. Aveva la febbre quasi a 39º.

Lei non prendeva un’influenza dalle elementari e non aveva mai avuto una febbre così alta, ma era certa che semmai fosse arrivata ad un livello simile, avrebbe avuto le allucinazioni, mentre Bellamy, a parte essere accaldato, sembrava stare benissimo.

Sapeva che si sarebbe pentita amaramente delle parole che stava per dire, ma lo fece ugualmente.

«Togliti la maglietta» non riusciva neanche a guardarlo in faccia, così, semplicemente, gli voltò le spalle per estrarre la tachipirina dal beauty-case.

«Principessa… mi sorprendi».

A quel punto lei si girò un’altra volta, rivolgendogli un’occhiata di traverso.

«La maglia ti attaccherà il sudore addosso e così la febbre salirà».

«Sicura? O volevi solo che mi spogliassi? Sai, in tal caso chiedere sarebbe stato sufficiente».

«Blake… taci».

Bellamy rise sommessamente, ma poi fece ciò che Clarke gli aveva detto e, la ragazza, non riuscì a staccare i suoi occhi dal fisico scultoreo di lui.

Era senza dubbio un corpo allenato: addominali scolpiti e dei bicipiti che avrebbero fatto invidia ad una statua greca.

«Che succede, Principessa?» chiese lui, guardandola maliziosamente.

Immediatamente Clarke avvampò e si voltò dall’altra parte, cosa che fece ridere Bellamy di gusto. A quel punto la bionda si fiondò su di lui e gli tappò la bocca con una mano.

«Sei impazzito?! Se mia madre o Kane ti scoprono è finita! E tu sei entrato dalla finestra proprio come un autentico psicopatico per non farti scoprire da loro, no?».

«Un autentico psicopatico?! Ehi, con chi credi di parlare, signorina?», chiese lui, liberando la sua bocca dalla costrizione di Clarke. «E inoltre una volta ho visto Jasper Jordan uscire dalla finestra, quindi perché lui può e io no?».

«Jasper è uno dei miei più vecchi e cari amici! Lui può farlo, tu non ne hai l’autorizzazione».

«Oh, capisco. E ditemi, Principessa… dovrei avere un permesso scritto?».

«No, basterebbe semplicemente avere la mia simpatia».

A quelle parole, Bellamy sgranò gli occhi.

«Mi ritengo offeso nel profondo».

«La cosa non mi riguarda. Ora smettila subito di fare il finto offeso e vedi di prendere la tachipirina. Abbasserà la febbre».

«Agli ordini, Vostra Maestà».

Lo sguardo omicida che Clarke gli lanciò bastò a metterlo a tacere.

La ragazza gli porse la medicina e lo osservò mentre la mandava giù con un sorso d’acqua, dopodiché ripose nuovamente la bottiglietta sul suo comodino e lo fissò con sguardo clinico.

«Dimmi che cosa succede, Bellamy».

Lui aggrottò la fronte, interrogativo.

«In che senso, Principessa?».

«Hai l’aria di uno che non dorme da giorni e, da quanto ho capito, tu non hai mai avuto difficoltà a dormire».

Sul volto del ragazzo, per un secondo, passò un’ombra. Uno sguardo che era a metà tra l’addolorato, l’esausto ed il rassegnato. Fu solo un momento, ma a Clarke non sfuggì.

Così, Bellamy le raccontò del suo ultimo turno al lavoro.

La ragazza si sedette sul letto, al suo fianco, ascoltando con pazienza e lasciandolo parlare. Sembrava che ne avesse davvero bisogno. Quando arrivò alla parte del secondo incidente, Clarke riuscì a sentire l’angoscia nella sua voce.

Senza nemmeno rendersene conto gli prese una mano e Bellamy fermò per un momento il suo discorso, fissandola. Poi riprese e Clarke lo ascoltò parlare di una certa Jenny, una ragazza di neanche ventidue anni, che lui non sapeva nemmeno se fosse viva o morta. Nei suoi occhi scuri, la bionda lesse il panico.

Voleva fare qualcosa, qualsiasi cosa per confortarlo e l’unica cosa che le venne in mente, fu abbracciarlo. Solo quando furono pelle contro pelle si accorse che in pratica erano entrambi seminudi, allora cercò di tirarsi indietro, ma Bellamy la trattenne contro il suo corpo, respirando a fondo.

Restò così per un minuto, forse due, poi la lasciò andare.

«Grazie», disse solo.

Lei annuì, imbarazzata per quel contatto, poi scese dal letto, si avviò verso l’armadio ed estrasse una trapunta, che posizionò per terra.

«Che stai facendo?» le chiese lui, interrogativo.

«Hai la febbre molto alta, di sicuro non ti lascerò guidare fino a casa, sei stato già abbastanza incosciente a farlo per venire fino a qui, perciò dormi, io mi sistemo sul pavimento».

«Credi che te lo lascerò fare?» il suo tono era stupito e lo sguardo quasi minaccioso.

«Senti, Bellamy… ».

«Clarke… non ti butterò giù dal tuo letto, è chiaro? Io non mordo, di spazio qui ce n’è in abbondanza e se ti crea problemi ci dormirò io per terra».

«Non se ne parla, tu devi riposare».

Lui colpì lievemente il materasso un paio di volte con la mano.

«Allora vieni».

 Clarke non sapeva che cosa fare. Era indecisa, insomma… dormire nello stesso letto con Bellamy? Lui non le dava scelta e lei non lo avrebbe certo fatto dormire sul pavimento con la febbre così alta.

Raccolse da terra la sua vestaglia e la infilò, prima di avvicinarsi nuovamente al letto e sdraiarsi.

Per un momento, tra i due ci fu attimo di silenzio strano, imbarazzato forse. Clarke non se lo sapeva spiegare, insomma… si trovava sdraiata su un letto insieme a Bellamy Blake. Era consapevole del fatto che quel ragazzo fosse stato oggetto di desiderio della gran parte della popolazione femminile della “Mount Weather High” ai tempi in cui avevano frequentato la scuola, mentre lei… era agitata. Era come se non sapesse cosa aspettarsi da quella situazione, come se in effetti potesse realmente succedere qualcosa. No.

Lei e Bellamy? Neanche riusciva a pensarci. E sicuramente anche lui la vedeva allo stesso modo. Ma allora perché continuava a fissarla con quello sguardo che, nonostante ormai il suo corpo fosse coperto dalla sottile vestaglia, la faceva sentire ancora più nuda di prima? E perché lei non riusciva a toglierselo dalla testa?

Clarke spostò gli occhi sul soffitto e respirò a fondo. Una volta. Due. Ok, poteva farcela. Dopotutto… chi diavolo era Bellamy Blake per farla vacillare a quel modo?

«È tutto a posto, Principessa?» la voce del moro la riportò alla realtà e quando la ragazza voltò la testa, si accorse che lui la stava ancora fissando.

«Certo» rispose in un tono più brusco di quello che avrebbe voluto usare. «Scusami… » aggiunse poi, leggermente imbarazzata. Bellamy alzò un angolo della bocca, in un sorrisetto divertito.

«Non mi sembra… ».

Clarke roteò gli occhi al cielo, ecco che cominciava a fare il solito arrogante.

«Non ha importanza quello che ti sembra, ora devi dormire perché hai la febbre alta e soprattutto devi bere, perché è importante che tu resti idratato, quindi tieni» disse porgendogli la bottiglietta d’acqua e sperando così di metterlo a tacere.

Bellamy fece come gli aveva detto, lanciandole uno sguardo che alla ragazza non sfuggì.

«Principessa?».

«Dimmi… ».

«Perché ti preoccupi per me?».

A quelle parole, la ragazza alzò le sopracciglia, sorpresa. Che cosa avrebbe potuto rispondere a una domanda del genere? Perché si preoccupava per lui dopo l’anno infernale che le aveva fatto passare quando si erano trovati a scuola insieme?

Le parole le sfuggirono di bocca prima che potesse rendersene conto.

«Immagino che sia perché tu per primo ti sei preoccupato per me, quella notte, quando pensavo che la mia vita non avesse più senso. Quando il dolore era troppo grande da portare da sola e tu hai deciso di reggere parte di quel peso con me. Per me. E inoltre hai continuato a prenderti cura di me anche dopo, nelle ultime settimane. E onestamente non so perché tu lo faccia, ma lo fai. Credo… credo di aver sbagliato tutto con te, Bellamy. Anche se la metà delle volte ti comporti da stronzo… ti ho giudicato male».

Era vero. Poco a poco, Clarke si stava lentamente rendendo conto di quanto avesse sbagliato a giudicarlo. Sì, era arrogante e ironico e poteva sembrare egoista, ma stava scoprendo anche un’altra parte di lui, quella migliore. Quella che metteva davanti gli altri prima di sé stesso. Bellamy possedeva un’integrità morale che non tutti avevano. E questo a Clarke fece uno strano effetto, perché non si era mai sbagliata tanto su qualcuno come aveva fatto con lui. Ed ora se ne pentiva.

Il ragazzo ridacchiò, poi tornò a farsi serio.

«Beh, Principessa… non ti avrei mai lasciata da sola quella notte. E sia chiara una cosa: semmai, per qualsiasi motivo, tu ti sentissi di nuovo come allora… vieni da me, d’accordo? Sarà più facile se avrai qualcuno con cui portare il peso».

Clarke lo fissò negli occhi per qualche istante, poi si avvicinò, allacciandogli le braccia intorno al collo e posando la testa sulla sua spalla.

Sentì il corpo di Bellamy irrigidirsi accanto al suo, poi rilassarsi e infine lui le accarezzò i capelli, delicatamente.

«Mi hai comunque dato dello stronzo» disse poi il moro, in tono divertito.

Stavolta fu Clarke a sorridere.

«Ultimamente non lo sei poi così tanto. Adesso però basta parlare, è mezzanotte passata e tu devi riposare. Dormi, se avrai bisogno di qualcosa io sarò qui».

Detto questo, la ragazza sciolse l’abbraccio e si allontanò leggermente. Bellamy sembrava sul punto di dire qualcosa, ma poi parve ripensarci e rimase zitto, anche se le lanciò una lunga occhiata che fece desiderare a Clarke di stringerlo di nuovo.

«Buonanotte, Principessa» disse infine, sfiorandole appena la guancia con il dorso della mano.

Lei si immobilizzò, trattenendo il respiro, poi rispose: «Dormi bene… ».

Un momento dopo, Bellamy era già piombato nel sonno e Clarke si alzò dal letto, nervosa.

Non aveva sonno, il fatto che il ragazzo fosse lì le aveva completamente tolto di dosso la stanchezza accumulata in quei giorni e, si rese conto, l’unica cosa che avrebbe voluto fare in quel momento, era parlare ancora con lui. Tuttavia imporgli di dormire era stata la cosa giusta da fare, era stremato e il fatto che fosse crollato subito ne era una prova. Anzi, lo aveva tenuto sveglio anche troppo a lungo, ma era certa che lasciarlo parlare dell’incidente gli avesse fatto bene. C’era una tale angoscia nei suoi occhi e nella sua voce.

Poi, improvvisamente ricordò che quella mattina, sua madre le aveva detto di aver incontrato Bellamy in ospedale, dopo un intervento difficile. Com’era possibile che lo avesse dimenticato? Dio, lo stress di quei giorni la stava facendo andare veramente fuori di testa.

Era ancora presa dai documenti trovati nello studio di suo padre, stava valutando se portarli alla centrale di polizia o meno. Da una parte avrebbe voluto, ma dall’altra… non lo sapeva, qualcosa la fermava, non se lo sarebbe saputo spiegare neanche lei.

Così, silenziosamente estrasse per l’ennesima volta la scatola da sotto il letto e provò a rileggerli, nella speranza di capirci qualcosa di più, ma qualcosa non le quadrava, aveva come l’impressione che mancassero dei dati, per questo non riusciva a capire.

Il caldo iniziò a farsi sentire e lei decise di togliersi di nuovo la vestaglia; ora che Bellamy dormiva non era un problema.

Dopo quasi un’ora ci rinunciò e ripose nuovamente tutto. Nonostante l’ora tarda però il sonno non si faceva ancora sentire e, senza nemmeno rendersene conto, si ritrovò seduta sul letto, il blocco da disegno alla mano.

L’ultima immagine ritratta raffigurava proprio Bellamy seduto al parco intento nella lettura. Ora invece cominciò a tracciare il profilo del ragazzo profondamente addormentato sul suo letto.

Era a pancia in su, la testa voltata a sinistra e i capelli scuri che gli ricadevano scompostamente sugli occhi. Il petto ampio si alzava e si abbassava regolarmente, con il ritmo del suo respiro e Clarke, poco a poco, definì con tratti leggeri la sua figura: il volto rilassato, le spalle larghe, le lunghe gambe fasciate dai jeans scuri che indossava. Infine sullo sfondo ritrasse il letto e parte della stanza.

Quando ebbe finito, rimirò la sua opera e si ritenne soddisfatta. Chiuse il blocco e lo chiuse in un cassetto. Meglio metterlo al sicuro e tenerlo lontano da occhi indiscreti, specialmente quelli di Bellamy. Non avrebbe saputo spiegargli perché fosse diventato il soggetto principale dei suoi disegni e sarebbe diventato imbarazzante, lui l’avrebbe certamente scambiata per una stalker.

A quel punto ormai erano le due di mattina passate e la ragazza cominciò ad avvertire il sonno, ma da una parte non voleva dormire. Se si fosse addormentata aveva paura che avrebbe fatto altri incubi e il fatto in sé non la turbava particolarmente, insomma… lei ormai ci era abituata. Il problema era che quando le capitava iniziava a dimenarsi e così facendo temeva che avrebbe svegliato il ragazzo. Ad ogni modo non poteva fare altrimenti, così andò alla scrivania per spegnere la lampada, infilò nuovamente la vestaglia e si sdraiò sul letto, cercando  di prendere le distanze da lui.

Nel buio, guardò un istante dal lato di Bellamy e poco dopo si addormentò come un sasso.

 

«Clarke… Clarke svegliati, va tutto bene, stai tranquilla» la voce di Bellamy la fece ridestare. Per l’appunto, aveva appena fatto, per l’ennesima volta, l’incubo che ormai la tormentava da anni.

Sentì le braccia di Bellamy stringerla intorno alla vita, una mano di lui tra i suoi capelli. Quel contatto la fece avvampare, fortunatamente era buio.

«Scusami, non ti volevo svegliare».

«Non preoccuparti. Stai bene?» la voce del  ragazzo era ancora impastata di sonno e Clarke si sentì in colpa.

«Sì, sto bene. Tu come ti senti?».

«Ho mal di testa. E freddo».

A quelle parole Clarke si sporse verso di lui nel buio più totale e gli posò nuovamente una mano sulla fronte.

Era ancora bollente.

Saltò giù dal letto e, alla cieca, accese la lampada a cera sulla scrivania, rischiarando soffusamente la stanza. Estrasse un’altra tachipirina, ma stavolta raddoppiò il dosaggio.

«Ecco, manda giù questa» disse aiutandolo a sollevare la testa per bere.

Guardò l’orologio di suo padre: erano ancora le quattro e mezza di mattina. Allora spense la luce e tornò a letto.

Timidamente, cercò di avvicinarsi al ragazzo senza farsi notare e lui, automaticamente, la prese fra le braccia, attirandola contro il suo corpo. Alla faccia della discrezione. Lei perse un battito, ultimamente il contatto con lui le faceva quell’effetto anche se non sapeva spiegarsi il perché. O forse si rifiutava di capire.

«Cerca di liberare la mente, Clarke… e vedrai che gli incubi non torneranno».

Un attimo dopo, lei gli si strinse contro e scivolò nuovamente nel sonno.

Quando riaprì gli occhi, la luce del sole rischiarava già la stanza e la prima cosa che la ragazza vide, furono gli occhi scuri di Bellamy che la fissavano.

Era sdraiato su un fianco, con il gomito poggiato sul materasso e la mano a sorreggere la testa.

Vedendolo, le balzò il cuore in gola.

«Sai, ho sempre trovato inquietanti le persone che ti fissano mentre dormi». Quale faccia tosta dal momento in cui lei aveva trascorso due ore a ritrarlo mentre stava dormendo. Questo però Bellamy non lo sapeva.

In tutta risposta, il ragazzo sollevò un angolo della bocca.

«Buongiorno anche a te Principessa».

Lei alzò gli occhi al cielo.

«Sì… buongiorno. Come ti senti piuttosto?».

«Intontito. Che ore sono?».

«Le sette e mezza. Metti di nuovo il termometro, vediamo se la febbre è scesa» disse porgendogli l’oggetto.

Lei intanto si alzò e si avviò verso la porta che dava al corridoio.

«Ehi, dove stai andando?».

«A controllare che Marcus e mia madre siano usciti».

Detto questo, la ragazza andò in cucina e vide che sua madre le aveva lasciato un biglietto: lei avrebbe avuto un turno da dodici ore in ospedale, mentre Marcus sarebbe rientrato verso le cinque. Ottimo.

Preparò su un vassoio un bicchiere con del succo d’arancia e cucinò i pancakes. Quando li aveva fatti a casa di Bellamy, le era parso che il ragazzo avesse apprezzato e infatti, quando tornò in mansarda, gli occhi del ragazzo si illuminarono.

«Diamine Principessa… se mi porti addirittura la colazione a letto potrei farmi venire la febbre cronica e trasferirmi qui in pianta stabile».

La ragazza sbuffò.

«Non ti abituare troppo, Blake. A tal proposito… qual è stato il verdetto del termometro?».

«37.7º».

«Direi che non ci possiamo lamentare. Il mal di testa di stanotte ti è passato?».

«Non completamente, ma quasi. Ho di nuovo il turno di notte oggi».

La ragazza lo guardò sbalordita.

«Sei matto?! Non puoi telefonare per prenderti un giorno?».

«Vediamo come procede la giornata, ma non ho mai saltato un giorno di lavoro per malattia, onestamente mi scoccerebbe».

«Bellamy, hai bisogno di riposo».

«Agli ordini, dottoressa», la prese in giro lui.

Clarke sbuffò esasperata, sistemandosi una ciocca ribelle di capelli dietro un orecchio.

«Ora fa’ colazione, io mi metto qui a studiare».

«Tu hai mangiato qualcosa?».

«No».

«Allora prendi un po’ della mia, avanti».

«Non ne ho bisogno».

«Clarke… non fare storie».

La ragazza inarcò le sopracciglia.

Si alzò e, titubante, tornò a sedersi sul letto.

«Per sdebitarmi del fatto che mi hai accudito e dato da mangiare, ti offro una cena. Domani sera, a casa mia. Ti va?».

Clarke era stupita, non si aspettava una proposta del genere e poi era la prima volta che Bellamy la “invitava ufficialmente” ad una cena, anche se a casa sua. Ok, non era la prima cena insieme, ma le altre era stato per lo più un caso.

«Non devi sentirti in obbligo, ma se ti fa piacere verrò volentieri» disse infine, con un sorriso.

Non voleva rifiutare e apparire scortese, ma, al contempo, l’idea le metteva una certa agitazione.

«Mi fa piacere» confermò lui.

Clarke mangiucchiò qualcosa dal vassoio che gli aveva preparato, poi si mise a studiare, mentre lui rimase disteso sul letto. Sembrava che il moro si stesse sforzando di apparire al meglio, ma la ragazza aveva capito che la febbre lo destabilizzava.

Alle nove e mezza gli diede un’altra tachipirina, sperando che quella avrebbe debellato del tutto il virus.

Ad un certo punto Clarke avvertì una strana sensazione di formicolio alla nuca e si voltò. Bellamy la stava fissando.

«Ti serve qualcosa?».

«No».

«Allora perché continui a guardarmi in quel modo?».

«Stavo semplicemente osservando le facce strane che fai mentre studi».

La bionda alzò le sopracciglia.

«Io non faccio nessuna… faccia strana!» esclamò stizzita.

«Oh sì, ne fai eccome. Quando ti concentri ti si forma una ruga in mezzo agli occhi, a volte stringi le labbra o ti mordi il labbro inferiore. Questo lo fai anche quando sei imbarazzata o non sai cosa dire. Esatto, proprio così» disse ridendo di gusto e Clarke si rese conto che stava facendo esattamente ciò che le aveva appena detto. Avvampò e Bellamy rise più forte.

Era quasi mezzogiorno ormai quando il ragazzo si alzò dal letto e Yeti gli soffiò di nuovo contro.

«Principessa, direi che è il caso di andare ormai. E poi credo che il tuo gatto mi odi».

Lei si alzò di scatto dalla sedia.

«Il mio gatto odia tutti tranne me e Thalia. Tu sei sicuro di voler andare via? Insomma… la febbre… ».

«Starò bene, mi sento già molto meglio. Chi è Thalia?» chiese poi, recuperando la sua maglietta.

«La mia coinquilina del college. È la mia migliore amica» rispose lei, alzando le spalle.

«Wow, allora qualcuno è riuscito a penetrare le tue barriere, eh Principessa?».

Clarke accennò un sorriso.

«Già… pare che qualcuno sia riuscito nell’impresa», ma non era sicura di riferirsi  a Thalia in quel momento.

La bionda aveva sempre fatto fatica a fidarsi delle persone, specialmente dei ragazzi dopo ciò che era accaduto con Finn, ma in seguito alla morte di suo padre aveva definitivamente eretto un muro contro tutti, tanto che ormai il suo cuore era intorpidito a qualsiasi sentimento. Per questo era così stupita di ciò che il fatto di stare a contatto con Bellamy, in quegli ultimi giorni, le provocava.

Forse, poco a poco, ci stava riprovando. Voleva ripartire da zero, voleva andare avanti e sbloccarsi finalmente da quello stato di apatia che si era creata intorno.

Accompagnò Bellamy al piano terra, dopo averlo costretto a portarsi via una scatola di tachipirina che, sapeva, lui non avrebbe usato, dopodiché i due rimasero  a fissarsi nell’ingresso per un paio di secondi.

«Beh… grazie di tutto Clarke… ».

«Ma figurati, non dirlo neanche».

«Non dico solo per esserti presa cura di me, ma anche, e soprattutto, per avermi ascoltato. Avevo davvero bisogno di parlare con qualcuno».

«Beh… sai dove abito, quando vuoi mi trovi sempre qui».

Lui sorrise, poi si chinò per baciarle lievemente la guancia e stavolta fu lei ad irrigidirsi.

«Ci vediamo domani sera, Principessa. Ti aspetto alle otto».

Giusto… la cena.

«A domani Bellamy».

Detto questo, lo osservò mentre saliva in macchina e poi chiuse la porta. Si poggiò con le spalle al muro dietro di sé e chiuse gli occhi.

Era veramente nei guai…

 

All those days chasing down a daydream
All those years living in a blur
All that time never truly seeing
Things, the way they were
Now she's here, shining in the starlight
Now she's here, suddenly I know
If she's here it's crystal clear
I'm where I'm meant to go

And at last I see the light
And it's like the fog is lifted
And at last I see the light
And it's like the sky is new
And it's warm and real and bright
And the world has somehow shifted
All at once, everything looks different
Now that I see you
Now that I see you...

 

Tutti quei giorni passati a inseguire un sogno
Tutti quegli anni vissuti nel torpore
Tutto quel tempo senza mai davvero vedere
Le cose per quello che erano realmente
Adesso lei è qui, splendente nella luce delle stelle
Adesso lei è qui, e improvvisamente so
Se lei è qui, è chiaro come il sole
Che sono dov’ero destinato ad essere

E finalmente vedo la luce
Ed è come se la nebbia si fosse dissolta
E finalmente vedo la luce
Ed è come se il cielo fosse nuovo
Ed è caldo e vero e luminoso
E il mondo in qualche modo è cambiato
A un tratto tutto appare diverso
Adesso che vedo te
Adesso che vedo te

 

Bellamy non sapeva che pensare. Mentre guidava verso casa, le immagini di ciò che era successo da quando era arrivato a casa di Clarke, la sera precedente, gli sfilarono davanti.

Il suo corpo avvolto da quel ridicolo pezzo di stoffa che lasciava ben poco all’immaginazione, i suoi capelli gocciolanti, le gote arrossate per l’imbarazzo.

Tutto ciò che era accaduto dopo: Clarke lo aveva lasciato parlare e sfogarsi come non faceva più da tempo e quando lo aveva abbracciato… Dio, quel profumo. Sarebbe impazzito, lo sapeva. La Principessa lo stava facendo lentamente scivolare verso la follia. Avrebbe continuato a pensarci per chissà quanto ancora se non fosse stato per una familiare figura seduta con la testa tra le mani sui gradini della sua veranda.

Atom.

Bellamy lasciò la macchina nel vialetto e si avvicinò all’amico.

«Ehi… » lo richiamò e, quando l’altro alzò la testa, il suo sguardo era vuoto.

Il padrone di casa si avvicinò a grandi falcate, posandogli una mano sulla spalla.

«Atom, che cosa succede?».

Per un momento l’amico chiuse gli occhi, rimase in silenzio per qualche istante e poi parlò: «È morto».

Quelle parole fecero venire la pelle d’oca a Bellamy. A chi si stava riferendo? Chi era morto?

«Chi? Atom… di chi stai parlando?».

«Si chiamava David, aveva la nostra età Bellamy, qualche mese di meno. Avrebbe compiuto ventisei anni tra pochi mesi».

«Chi?» ripeté Bellamy.

Stava davvero cominciando a preoccuparsi, non aveva mai visto il suo amico in uno stato simile, sembrava caduto in una sorta di trance.

«L’incidente… l’altra notte. Il ragazzo che ho tirato fuori dalla macchina».

L’amico di Jenny. Ecco a chi si riferiva. Ricordò di come la ragazza lo avesse pregato di aiutarlo e lui le aveva detto che tutti loro avrebbero fatto tutto il possibile. Adesso era morto.

Bellamy chiuse gli occhi a sua volta e diede una pacca sulla spalla al suo migliore amico.

«Non è colpa tua, lo sai vero? Non avresti potuto fare di più per lui di tutto quello che non avevi già fatto».

Atom annuì sommessamente.

«Avanti, vieni dentro. Ti offro una birra».

Così, i due si avviarono in casa.

L’abitazione era immersa nel silenzio più totale, eccetto che per un ticchettio proveniente dal salone: un vecchio orologio a pendolo che Octavia non aveva voluto tenere nella villetta e che Bellamy aveva deciso di portare con sé nel nuovo appartamento.

Tutto era esattamente come lo aveva lasciato la sera precedente.

Atom si sedette a peso morto su una sedia della cucina mentre Bellamy lo teneva d’occhio con aria attenta.

Non era la prima volta che perdevano qualcuno sul lavoro, ma stavolta era diverso. Stavolta sembrava che fosse rimasto colpito nel profondo.

«Per caso lo conoscevi?» chiese a un certo punto Bellamy, porgendogli una birra.

Atom lo osservò per un momento, poi annuì.

«Me ne sono reso conto dopo. Quando ho visto la foto del necrologio, stamattina. Era il cugino di una mia amica».

Il padrone di casa sospirò pesantemente.

«Mi dispiace, amico. Posso fare qualcosa?».

L’altro scrollò le spalle.

«Non credo, ma grazie».

Bellamy si sentiva inutile. Avrebbe veramente voluto fare qualcosa per aiutarlo, ma non c’era nulla e questo lo faceva sentire impotente. Nonostante il sarcasmo e le frecciatine che spesso i due si lanciavano, Atom per lui era come un fratello, non importava se a volte avrebbe voluto prenderlo a pugni in faccia.

Estrasse un bicchiere dal mobile e tirò fuori una bottiglia d’acqua dal frigo.

L’altro lo guardò stranito.

«Acqua? Davvero? In un momento del genere a me servirebbe del whiskey e anche uno di quelli pesanti».

«Ho la febbre, meglio se mi astengo dall’alcol per un po’».

A quel punto l’amico lo osservò con le sopracciglia inarcate.

«Scusami Bell, se lo avessi saputo non sarei certo venuto a romperti le palle a casa».

Bellamy gli sbatté con leggerezza un pugno in testa.

«Non lo dire neanche per scherzo. Quando hai bisogno sai che ci sono».

A quel punto, Atom sfoderò uno dei suoi mezzi sorrisi ironici.

«Grazie. Adesso è meglio che vada. Ci vediamo stasera in caserma?».

«Certo, a stasera».

Così, il ragazzo lo guardò allontanarsi e sparire lungo la strada.

La sua mente tornò a Jenny. Si chiese come stava, come avrebbe reagito a quella notizia. Chiuse gli occhi. Troppi pensieri gli affollavano la mente in quel momento e poi, di nuovo, un paio di occhi grandi e azzurri gli passarono davanti. Clarke.

Cristo, come poteva pensare a lei in un momento del genere? Quella ragazza lo stava lentamente divorando, poco a poco, Bellamy sentiva che sarebbe diventata il suo pensiero fisso ventiquattr’ore su ventiquattro. Questo non andava bene, maledizione. Gli avrebbe fatto perdere la concentrazione e lui aveva bisogno di essere concentrato. Sul suo lavoro, per sua sorella e, adesso, anche per Atom. Perché sapeva che anche se il suo migliore amico stava cercando di essere forte, avrebbe avuto bisogno di qualcuno al suo fianco in quel momento. E lui sapeva bene come ci si sentiva.

Quella biondina gli stava bruciando il cervello, o meglio… lo stava monopolizzando. Bellamy si sorprendeva a pensare a lei in qualsiasi momento della giornata, qualunque cosa stesse facendo e, dopo quella notte, era ancora peggio.

Quando lei lo aveva abbracciato stringendogli le braccia al collo, per un momento la sua testa era andata in black-out. Aveva totalmente smesso di ragionare finché lei non si era allontanata e l’unica cosa alla quale riusciva a pensare  dopo, fu che voleva baciarla.

Dio, quanto avrebbe voluto farlo. Che sapore avrebbero avuto le sue labbra? In che modo lei avrebbe reagito ad un suo bacio? Probabilmente gli avrebbe dato uno schiaffo, conoscendo il suo temperamento. Eppure… era certo di aver visto qualcosa negli occhi di Clarke. Non sapeva identificarlo, ma se invece avesse ricambiato? Poteva davvero continuare a stare con quel dubbio che sembrava divorarlo?

Se la ragazza avesse risposto al bacio… Bellamy non riusciva neanche a prenderlo in considerazione. Ormai si era arreso alla realtà dei fatti: inesorabilmente, si stava innamorando di Clarke Griffin e la cosa peggiore era il fatto che non vi fosse alcun rimedio.

Non era una febbre, non poteva guarire con una medicina; non era una luce, non si poteva spegnere con un interruttore. Nessuna via di fuga: avrebbe dovuto smettere di scappare e affrontarlo. Per la prima volta in ventisei anni di vita, avrebbe dovuto affrontare i suoi sentimenti nei confronti di qualcuno esterno alla sua famiglia. Questo lo spaventava, lo paralizzava. Era stato tutto così improvviso, così inaspettato. Clarke Griffin? Se, nove anni prima, qualcuno gli avesse detto che si sarebbe trovato a quel punto, non ci avrebbe mai creduto, ma quella era la realtà e non poteva negarla. Perché la verità stava proprio di fronte a lui.

Bellamy chiuse gli occhi, si poggiò al bancone della cucina e prese un respiro profondo.

Si costrinse a cucinare qualcosa, giusto perché ne aveva bisogno, specialmente a causa della febbre. Doveva rimettersi in forze. Quella notte avrebbe dovuto lavorare.

Pranzò svogliatamente, cosa decisamente strana rispetto ai suoi standard e quando ebbe finito lasciò tutto nel lavandino, prese la macchina e guidò a velocità folle fino alla familiare villetta che, per anni, aveva chiamato “casa”.

Suonò al campanello per un paio di volte prima che la porta si aprisse e l’esile figura di Octavia si stagliò davanti ai suoi occhi.

«Ehi, Bell!» esclamò lei contenta, vedendolo.

Lui però non rispose e, invece di parlare, le buttò le braccia al collo, in un abbraccio protettivo come solo a lei li riservava e forse, ora, a qualcun altro.

«Bellamy! Stai bene?» sua sorella sembrava allarmata.

Lui annuì prima di rispondere.

«Sì O, non ti preoccupare. Sto bene».

Bellamy sciolse l’abbraccio e Octavia chiuse la porta alle sue spalle prima di prenderlo per mano e trascinarlo in salotto.

«Dimmi che cosa succede. E non dirmi che è tutto a posto perché non ci credo neanche per un secondo».

Bellamy sbuffò: non sarebbe mai riuscito a tenerle nascosto qualcosa.

«Io… Dio, O… ti giuro che non mi sono mai sentito così!».

Lei gli racchiuse le mani tra le sue.

«Bellamy, calmati d’accordo? Raccontami cos’è successo».

«È… » quanta fatica per tirarsi fuori quelle parole di bocca. Sembrava che gli fossero rimaste incastrate in gola e il ragazzo dovette sforzarsi notevolmente per riuscire a parlare. «Si tratta di Clarke. Io… io davvero non lo so cosa mi stia succedendo, non riesco a pensare ad altro… ».

L’espressione di Octavia era palesemente sbalordita, ma qualche istante dopo si addolcì. Sorrise e gli posò una mano sulla guancia.

«Era così difficile?».

Bellamy si accigliò. A che cosa si stava riferendo?

«Di che stai parlando?».

«Dei tuoi sentimenti per Clarke. Era così difficile ammetterlo? Apri gli occhi, Bellamy».

Ok, ora cominciava a non capire.

Quando la ragazza si accorse della confusione di Bellamy proseguì: «Fratellone, ho capito che provavi qualcosa per lei la notte della morte di suo padre. Quando mi hai mandata fuori dalla tua stanza per restare da solo con lei. E forse allora non lo sapevi e magari non lo sapevi nemmeno fino a ieri, ma adesso… ora sembra che te ne sia finalmente reso conto e sì, forse hai avuto bisogno di sei anni per capirlo, ma la cosa che conta di più è che tu ci sia arrivato».

«Ma io… io so soltanto che penso a lei continuamente Octavia, potrebbe essere qualsiasi cosa!».

La ragazza rise, una risata cristallina che lui aveva sempre adorato.

«Stai negando a te stesso i sentimenti che provi nei suoi confronti perché hai paura, sei spaventato Bell, e io lo capisco fidati. La mamma è sempre stata il tuo punto di riferimento e poi è morta. Ti sei preso un’enorme responsabilità sulle spalle, prendendoti cura di me, assicurandoti che potessi avere un’istruzione e tutto ciò che, soltanto grazie a te, ho ottenuto. Non hai mai pensato a te. Ora è arrivato il momento di farlo».

Octavia fece un lungo respiro prima di riprendere: «Dici che non sai che cos’è, ma in realtà non è vero. Tu lo sai. È passione, è ossessione quello che senti dentro. È qualcosa di cui ormai non riusciresti più a fare a meno».

Bellamy rifletté su quelle parole. Era vero. Provò ad immaginare adesso di non rivedere mai più Clarke. Non riusciva neanche a pensarci.

«Che devo fare, O? A volte sembra che mi odi… » si stava comportando come un idiota adolescente, se ne rendeva conto e si sarebbe preso a pugni da solo.

La sorella sorrise, stringendogli le mani.

«Lei non ti odia, Bellamy. Ma ha sofferto, ha sofferto tantissimo e tu questo lo sai meglio di chiunque altro. Magari ha solo bisogno di più tempo per arrivarci, però di certo non ti odia. Dalle il tempo necessario, non metterle fretta, non farle pressione in alcun modo o scapperà. E non lo farebbe a causa tua, lo farebbe perché è abituata a scappare da sei anni. Clarke fa fatica a fidarsi di chiunque e dopo la storia bruciata con Finn, forse è ancora più diffidente nei confronti dei ragazzi».

Finn. Al solo sentire quel nome, a Bellamy ribollì il sangue nelle vene.

Aveva tradito Raven con Clarke, non dicendo niente a quest’ultima e facendole credere di essere l’unica. Aveva fatto soffrire, sostanzialmente, due delle persone alle quali teneva di più e, semmai lo avesse rivisto, era certo che avrebbe nuovamente fatto riaffiorare la bestia sopita in lui. Come ci era quasi riuscito Wells quando aveva baciato Clarke.

Il moro si prese il volto fra le mani e Octavia andò ad abbracciarlo. Grazie al cielo avrebbe sempre potuto contare su sua sorella, sarebbe stato perso senza di lei.

«Beh, sono contenta che incaricare Atom di fare la corte a Clarke in tua presenza abbia funzionato per farti finalmente aprire gli occhi».

«Aspetta… Atom cosa?!».

«Sì, sai… gli avevo chiesto di girarle un po’ attorno per vedere le tue reazioni e a quanto pare ha funzionato».

«OCTAVIA!».

Bellamy era senza parole. Come aveva potuto fargli una cosa del genere?!

In tutta risposta, la bruna scoppiò a ridere.

«Oh avanti fratellone… qualcuno doveva pur svegliarti da quello stato di apatia in cui ti eri rintanato».

«Mia sorella e il mio migliore amico che si coalizzano contro di me. Bene bene… stasera io e Atom dovremmo fare un discorsetto».

Octavia gli si avvicinò, posandogli un bacio sulla guancia.

«Non essere duro con lui. E poi ci siamo coalizzati per il tuo bene».

«Il mio bene? Ti sembra che io stia bene?! Sto impazzendo!».

«Beh, amore vuol dire anche questo fratellone».

«O, credo che parlare di amore sia ancora un po’ troppo precoce».

La sorella sorrise verso di lui, poi i due andarono avanti a parlare a lungo e, prima che Bellamy potesse rendersene conto, era già ora di cena.

«Perché non resti? Lincoln dovrebbe tornare a momenti, potremmo mangiare tutti insieme e poi tu potresti andare direttamente al lavoro».

Nonostante tutto, Bellamy non aveva ancora imparato a dire di no a sua sorella, dunque assentì e la aiutò ad apparecchiare la tavola e preparare la cena.

Quando Lincoln arrivò, tutto era pronto.

«Ciao piccola… ehi Bellamy! Sei dei nostri stasera?» lo salutò il ragazzo quando si accorse della sua presenza.

«La mia sorellina mi ha invitato e io non riesco ancora a dirle di no, quindi eccomi qui».

«Bene. Mi cambio e arrivo subito».

Detto questo, i fratelli Blake presero posto a intorno al tavolo.

«Allora… come va al lavoro? Ti ho intravisto l’altra notte mentre parlavi con Kane e il comandante War. Sai… l’incidente dei due ragazzi».

Una morsa gelida si strinse attorno al cuore di Bellamy.

«Sì, brutta storia. Non ti avevo visto».

«Stavo interrogando un testimone e quando ho finito eri già andato via con la squadra. Una brutta storia davvero. Il ragazzo alla guida dell’auto investita è morto verso mezzanotte».

«Già, l’ho saputo da Atom stamattina. È stato lui a tirarlo fuori dalla macchina e tra l’altro lo conosceva. Era il cugino di una sua amica».

Octavia fece un’espressione stupita. «Mi dispiace tanto» disse.

«Sì. Io mi sono occupato della ragazza, è stata portata all’Ark Medical Center. So che l’ha operata la dottoressa Griffin».

«Come si chiama? Se l’ha operata Abby dovrebbe essere ricoverata nel mio reparto… » intervenne la sorella.

«Si chiama Jenny, ma probabilmente è ancora in rianimazione».

«Immagino di sì, al momento non abbiamo nessuna Jenny in reparto».

«Le indagini come vanno? Avete capito perché l’altro li ha investiti?».

Lincoln sospirò pesantemente.

«La stradale ha escluso che fosse in sorpasso, ma… era ubriaco. E tra l’altro gli era stata ritirata la patente mesi fa. Ora di certo rimarrà in galera per almeno trent’anni e se la ragazza si aggrava potrebbe avere addirittura l’ergastolo».

«Figlio di puttana, se lo meriterebbe».

Spostarono la conversazione su toni più leggeri, dopodiché Bellamy guardò l’orologio appeso al muro e disse: «Ragazzi, devo scappare. Grazie mille per la cena» si chinò per dare un bacio sulla guancia a sua sorella e diede una pacca sulla spalla a Lincoln, risciacquò il piatto sotto l’acqua corrente e si avviò verso l’ingresso.

Era quasi arrivato alla macchina quando sentì la voce di Lincoln richiamarlo.

«Ehm Bellamy… ».

Lui si voltò. Era sorpreso, non aveva mai visto il ragazzo comportarsi in quel modo, era decisamente strano.

«Ehi, è tutto a posto? Non è che ci sono problemi tra te e mia sorella, vero?».

«Problemi?! Oh no, va tutto a gonfie vele e… proprio di questo volevo parlarti. Non ti ruberò molto tempo, te lo prometto, so che devi andare ancora al lavoro, ma… mi chiedevo… ».

Improvvisamente, in Bellamy scattò qualcosa. Sapeva perché fosse tanto strano. Sapeva cosa gli stava per chiedere e, dentro di sé, sorrise.

«Voglio chiedere a Octavia di sposarmi e insomma… spero che per te vada bene».

Ora il moro sorrise apertamente.

«Se stai chiedendo la mia benedizione ce l’hai. Lincoln, ormai ti considero uno di famiglia e so che non potrei lasciare la mia sorellina in mani migliori. So che il nostro rapporto all’inizio non è stato dei più rosei, ma… adesso so anche che uccideresti per difenderla, quindi… certo che per me va bene. E ti ringrazio per avermelo chiesto prima. So che è all’antica, ma l’ho davvero apprezzato».

A quelle parole Lincoln sorrise e stavolta fu lui a dargli una pacca sulla spalla.

«Non ti trattengo oltre e… grazie, Bellamy».

Rivolgendogli un ultimo sorriso, il maggiore dei Blake entrò in macchina.

Era felice. Felice perché sapeva che per Octavia sarebbe stato meraviglioso, che per lei, quello avrebbe significato tutto. Fin da bambina aveva sognato un matrimonio e una famiglia. Poi Melinda era morta, dalla ragazzina che era, aveva dovuto crescere ed ora finalmente poteva avere tutto ciò che aveva sempre desiderato. E Lincoln era la persona giusta.

Lei lo aveva amato fin dall’inizio, ma Bellamy non aveva capito. Era quasi arrivato a tenerla chiusa a casa e poi qualcosa era cambiato. Lincoln lo aveva affrontato di petto e gli aveva dimostrato quanto realmente tenesse a sua sorella. Da quel momento tutto era stato diverso, poi, dopo un violento litigio col padre, Bellamy gli aveva proposto di andare a stare da loro per qualche tempo, ma da quel momento la sistemazione era diventata permanente. E ora si sarebbero sposati, ne era certo, Octavia avrebbe subito detto di sì.

Lui la vedeva: ogni volta che guardava Lincoln era come se le brillasse una luce negli occhi, una luce che, dalla morte della madre, Bellamy non aveva più visto. Quella luce era tornata grazie a Lincoln e per questo, il ragazzo avrebbe sempre avuto un debito nei suoi confronti.

“Mia sorella è una mia responsabilità”, quello era sempre stato il suo motto, dal giorno in cui Octavia era venuta al mondo e sarebbe sempre stato così, semmai fosse accaduto qualcosa, Bellamy sarebbe stato un porto sicuro per lei. Adesso però poteva condividere quella responsabilità con Lincoln e forse, cominciare a pensare un po’ più a sé stesso, cosa che aveva smesso di fare dal giorno dell’incendio alla fabbrica.

Questo, lo riportò alla questione “Clarke”.

La conversazione con sua sorella in qualche modo gli era stata utile perché, aveva finalmente ammesso con sé stesso la realtà dei suoi sentimenti. Era come se improvvisamente la nebbia che aveva in testa si fosse diradata e lui aveva finalmente visto con chiarezza. Aveva visto Clarke.

Aveva detto ad Octavia della cena della sera dopo e lei gli aveva consigliato di iniziare a tastare il terreno, vedere le reazioni della ragazza, osservarla e cercare di capire se da parte sua vi fosse un interesse.

Certo, aveva omesso tutto ciò che era accaduto durante la notte, ma a lui non era sfuggito nulla: non gli era sfuggito di come Clarke avesse provato ad accostarsi a lui dopo che l’aveva svegliata a causa del suo incubo. Lui l’aveva presa tra le braccia, innanzitutto perché lo voleva, ma aveva avuto come l’impressione che era anche ciò che Clarke stava cercando in quel momento.

L’aveva stretta a sé e lei si era tranquillizzata, tanto da ripiombare subito in un sonno tranquillo. Si era risvegliato prima di lei e l’aveva guardata dormire. Era rilassata, sul suo viso sereno neanche l’ombra della tensione che la caratterizzava da sveglia.

Era bella e quella consapevolezza lo aveva folgorato sul posto. L’aveva osservata a lungo, aveva tracciato i suoi lineamenti, in modo lieve, con le dita. Avrebbe voluto baciarla, ma non poteva farlo mentre dormiva.

Innanzitutto, quello era il modo migliore per farsi prendere a schiaffi semmai si fosse svegliata e poi… lui voleva che Clarke ne fosse consapevole, voleva che fosse lei a volerlo. Si trovava proprio in un bel casino.

Arrivò in caserma e subito cercò Atom, non perché voleva spaccargli la faccia per il suo piccolo “complotto” con Octavia, ma per controllare che stesse bene. Che fosse in condizioni migliori rispetto a quella mattina. Poi magari gli avrebbe anche rotto il naso, ripensandoci.

Ad ogni modo non era ancora arrivato, così andò in spogliatoio a cambiarsi con calma. Mille pensieri gli affollavano la mente, tra i quali c’era anche il pensiero di Jenny, poi venne distratto da una voce alle sue spalle.

«Ehi Bell».

Ed ecco Atom.

«Ehi, come stai?» gli chiese subito.

«Meglio rispetto a stamattina. Tu? La febbre?».

«Non l’ho più misurata, ma mi sento rinato, quindi direi che è passata».

Per il momento preferì sorvolare su ciò che aveva saputo da sua sorella e preferì tenere d’occhio l’amico. Sì, il suo morale sembrava decisamente essersi risollevato, nonostante persistesse ancora un’ombra nei suoi occhi.

Ma Atom sapeva che Bellamy ci sarebbe stato se ne avesse avuto bisogno, dunque il ragazzo preferì non pressarlo e lasciare che venisse da solo, nel caso in cui avesse voluto. Dunque, tirò fuori dal suo armadietto il libro di esercitazione per il test da tenente e si mise seduto ad un tavolo a studiare.

Rimase lì fino alle quattro di mattina, quando ricevettero una chiamata per un incendio non distante da lì e partirono a sirene spiegate.

Fu semplice, la maggior parte degli inquilini del palazzo era già uscita e loro non incontrarono alcuna difficoltà, domando le fiamme in poco tempo.

Quando tornarono in caserma, Bellamy fece una doccia rapida e attese che arrivassero le sei. Non ci furono altre chiamate, niente di niente. Una notte decisamente più tranquilla rispetto alla precedente che aveva avuto.

Alle sei e un quarto era già a casa e subito si infilò a letto.

Era così stanco che crollò addormentato dopo pochi secondi. L’ultimo pensiero prima di dormire fu che, quella sera, Clarke sarebbe stata lì alle otto per la cena.

 

NOTE:

Salve a tutti! E rieccomi con il dodicesimo capitolo, avete visto? Ho fatto più in fretta rispetto alla volta scorsa. Chiedo ancora scusa per quel ritardo, ma mi ero proprio bloccata.

Ad ogni modo, come sempre, spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, direi che in quanto a eventi è stato piuttosto carico. Finalmente, abbiamo visto una parte in cui è stata Clarke a prendersi cura di Bellamy e non viceversa, anche se comunque anche Bell ci ha messo del suo quando l’ha svegliata dall’incubo e rassicurata.

“Anche se la metà delle volte ti comporti da stronzo… ti ho giudicato male” avete riconosciuto questa frase? Sì, che l’avete riconosciuta ammettetelo. Certo, l’ho modificata per le circostanze, ma era presa dalla 1x08, puntata che, tra parentesi, ho amato alla follia.

Anyway (sì, stasera mi sento multilingua, non fateci caso), lascio a voi i giudizi, fatemi sapere cosa ne pensate perché in certi punti io non ero proprio convinta, ahah.

Insomma, tutto il Bellarke che non c’era nel capitolo scorso lo avete visto in questo e prevedo che ce ne sarà anche nel prossimo. Poco a poco ci stiamo avvicinando sempre di più, Bellamy ormai se n’è completamente reso conto e Clarke ci sta arrivando nonostante ancora si ostini a non vedere.

Abbiamo visto, seppur in minima parte, anche un po’ della storia tra Lincoln e Octavia, cioè… sto gongolando io perché lui vuole chiederle di sposarlo, non so se rendo l’idea. Sono una causa persa, non fateci caso. Shippo come una pazza anche nelle mi stesse fan fiction, lasciamo stare.

Bene, dopo quest’epopea vi saluto e vi auguro una buona serata. Fatemi sapere i vostri pareri!

 

Patience – Take that. Clarke

I see the light – Mandy Moore & Zachary Levi. Bellamy (il brano è preso dal cartone della Disney “Rapunzel”, che ci volete fare? Mi sembrava adatto alla situazione)

Melody Blake, questo è il mio profilo facebook, se qualcuno avesse piacere di contattarmi per chiarimenti sulla storia o, semplicemente, fare due chiacchiere, sono sempre a disposizione.

Un abbraccio, ci sentiamo al prossimo capitolo!

Mel


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** The storm ***


13  





CAPITOLO 13: THE STORM

 

Once upon time
A few mistakes ago
I was in your sights
You got me alone
You found me
You found me
You bound me

I guess you didn’t care
And I guess I liked that
And when I fell hard
You took a step back
Without me, without me, without me

[…]

No apologies
He’ll never see you cry
Pretend he doesn’t know
That he’s the reason why
You’re drowning, you’re drowning, you’re drowning

And I heard you moved on
From whispers on the street
A new notch in your belt
Is all I’ll ever be
And now I see, now I see, now I see
He was long gone
When he met me
And I realize the joke is on me

I knew you were trouble when you walked in
So shame on me now

 

C’era una volta
Qualche errore fa
Tu mi hai vista
Tu mi hai afferrata, sola,
Mi hai trovata
Mi hai trovata
Mi hai legata a te

Immagino non ti importasse
E immagino mi piacesse
E quando mi sono innamorata profondamente
Hai fatto un passo indietro
Senza di me, senza di me, senza di me

[…]

Niente scuse
Lui non ti vedrà mai piangere
Finge di non sapere
Di esserne il motivo
Stai affondando, stai affondando, stai affondando

E ho sentito che sei andato avanti
Da un bisbiglio per le strade
Una nuova tacca sulla tua cintura
È l’unica cosa sarò mai per te
E ora capisco, ora capisco, ora capisco
Lui era così lontano
Quando mi ha incontrata
E realizzo che lo scherzo sono io

Perché sapevo che eri un guaio quando sei arrivato
Quindi peggio per me ora

 

Quella notte Clarke non aveva chiuso occhio. Aveva continuato a voltarsi e rivoltarsi nel letto in preda ad un’agitazione che non riusciva a spiegarsi.

O meglio… in realtà un’idea ce l’aveva, ma si rifiutava categoricamente di darvi credito. Che il suo stato fosse dovuto alla cena di quella sera?

“Oh avanti, Clarke. È solo una cena, dannazione!” sbottò tra sé quando ormai le lancette dell’orologio che portava al polso avevano passato le tre di mattina.

Si passò una mano tra i capelli, attorcigliandosi una ciocca intorno alle dita e lasciandola andare con fare nervoso.

Ripeté quel gesto per dieci minuti buoni, poi le tornò in mente la notte precedente. La sensazione delle braccia di Bellamy che la stringevano era riuscita a calmarla dai suoi incubi ed era certa che se adesso il ragazzo fosse stato lì, non avrebbe sicuramente avuto  tutte quelle difficoltà ad addormentarsi.

Inspirò ed espirò a fondo un paio di volte prima di riuscire a calmarsi.

Niente, non c’era nulla da fare: non sarebbe riuscita a dormire. Si alzò dal letto di scatto, facendo sobbalzare un addormentato Yeti, che le soffiò contro indignato.

«Scusa», disse grattandogli leggermente la testa. Ultimamente il gatto  era un po’ irrequieto. Tra l’inaspettato arrivo di Bellamy la sera prima e ora quello sembrava essersi innervosito.

Probabilmente ce l’aveva con lei, anche solo per aver permesso al ragazzo di aver dormito lì la notte precedente. La ragazza sbuffò divertita. Ci mancava poco che dovesse dare più spiegazioni al suo gatto che a sua madre.

Estrasse nuovamente i documenti di suo padre dalla scatola sotto il letto e li rilesse per l’ennesima volta. Aveva finalmente capito perché fossero tanto incomprensibili per lei: mancava qualcosa, adesso ne era certa. Le pagine non erano numerate in alcun modo, ma ad una lettura più attenta si era accorta di una sorta di stacco.

Ora tutto stava nel trovare i fogli mancanti e decise che sarebbe tornata nello studio di suo padre non appena Marcus e sua madre fossero nuovamente stati fuori per lavoro.

Aveva notato qualcosa di strano in quei due ultimamente: li aveva sorpresi a parlare sommessamente, come se non volessero farsi sentire e si interrompevano improvvisamente quando lei arrivava.

L’ultima volta che si erano comportati in quel modo era stato prima di annunciare la notizia del matrimonio. Ad ogni modo… ora Clarke aveva ben altre cose a cui pensare piuttosto che lo strano comportamento di sua madre e del suo patrigno.

Erano le sei di mattina passate quando rimise a posto la scatola sotto il suo letto e si sdraiò nuovamente.

Stavolta però, si addormentò nel giro di pochi minuti.

 

Il fastidioso e acuto trillo del campanello la fece ridestare quello che a lei parve solo un minuto dopo, ma, guardando l’orologio, si accorse che era ormai ora di pranzo.

Ancora mezza intontita scese dal letto quasi inciampando sul tappeto e si avviò con passo svogliato lungo le scale. Non si preoccupò del fatto che in quel momento indossava un paio di pantaloncini grigi praticamente inguinali e una canotta blu con una generosa scollatura; aveva ancora troppo sonno per curarsene.

Nonostante tutto, quando aprì la porta e si rese conto di chi aveva davanti, le si gelò il sangue nelle vene e improvvisamente fu del tutto sveglia.

«E tu che diavolo ci fai qui?».

Mai, come in quel momento, desiderò che ci fosse sua madre a casa. O Marcus. O chiunque altro dannazione, ma era da sola.

«Clarke, ti prego… »

«No! Senti, devi andartene ok?», esclamò quasi sbattendogli la porta in faccia.

Lui però la bloccò con un piede, facendo un passo in avanti e ritrovandosi nell’ingresso della villetta.

«Vattene» disse mandando uno sguardo glaciale in direzione degli occhi scuri di Finn.

«Clarke, ho fatto molta strada per arrivare fin qui, non vuoi neanche darmi un minuto?».

«Esatto, non voglio neanche darti un minuto e di certo non sono stata io a chiederti di fare tutta questa strada, perciò ora puoi anche sparire e tornartene da dove sei venuto, maledizione» la sua voce era fredda, il tono tagliente, tanto che il ragazzo rimase interdetto.

Girò le spalle per tornarsene in mansarda, ma lui la afferrò per un polso, bloccandola.

«Aspetta».

«Lasciami!» alzò la voce.

A quello scatto d’ira, Finn rimase immobile sul posto, non lasciando la presa.

«Clarke… ma che cosa ti è successo?».

Oh, cos’era successo… lui non ne aveva nemmeno la più vaga idea. Non c’era, quando Jake era morto. A causa del lavoro di suo padre, lui, sua madre ed Ellie, la sorellina di appena pochi mesi, si erano trasferiti nel Nebraska e da allora era svanito nel nulla. Non sapeva l’inferno che aveva dovuto attraversare Clarke in quegli anni, non sapeva della morte di suo padre, non sapeva niente di niente.

«Cosa mi è successo? Sono successe fin troppe cose, Finn. Ma tu non ne fai più parte, tu non sei più parte della mia vita».

L’amarezza nella voce della ragazza era tangibile e Finn fece un passo avanti, prendendole la mano.

«Dammi solo una possibilità, Clarke. Stasera, a cena. Lo so che mi sono comportato da stronzo, lo so che non merito niente, ma ti chiedo un’unica occasione. Ti prego».

Clarke lo guardò per un istante prima di rispondere.

«Mi hai spezzato il cuore».

«Lo so… e non faccio altro che rimpiangerlo da allora».

«Non posso Finn».

«Sarò al pub dei genitori di Monroe alle sette e mezza. Ti aspetterò».

«Allora aspetterai inutilmente».

Aleggiò qualche istante di silenzio prima che Clarke avesse il tempo di registrare la porta lasciata aperta spalancarsi e a quel punto una figura familiare entrare nel suo campo visivo.

«Clarke… è tutto a posto?».

«Atom? Che cosa… che ci fai qui?».

«Ho visto la porta aperta e… », ma quando il ragazzo si accorse di Finn e del fatto che la teneva bloccata per il polso parve allarmarsi.

«Collins. Non eri partito per il Nebraska o un posto da quelle parti?».

Finn sembrava confuso.

«Clarke… non dirmi che adesso ti frequenti con lui? Seriamente… uno della cerchia di Bellamy! Sai che razza di sbandati siano».

Quelle parole lasciarono interdetti sia la bionda sia l’ultimo arrivato.

«Collins… un avvertimento amichevole: fuori dai piedi se non vuoi avere guai» disse poi Atom, fronteggiando il ragazzo e incrociando le braccia al petto. Si vedeva che si stava trattenendo a stento  dal prenderlo a pugni.

Era esattamente come Bellamy: a volte, le tracce di ciò che erano stati in passato tornavano a galla.

«Lascia perdere, Atom. Finn stava andando via».

«Via è da quella parte» disse il moro indicando con un movimento della mano la porta alle sue spalle, ma senza schiodare gli occhi da quelli scuri dell’altro.

«Clarke, non ti lascio da sola con lui» disse poi Finn, con aria preoccupata.

«Lui è mio amico. E lo è anche Bellamy. Sono cambiati, Finn. E sono cambiata anch’io mentre tu sei scomparso».

«Sì. Lo vedo» detto questo, il ragazzo arretrò di qualche passo, voltando loro le spalle. Aveva fatto pochi passi verso l’uscita, quando ad un tratto si girò e disse: «Stasera alle sette e mezza. Ti aspetterò» e detto questo, sparì oltre la porta.

Quando quella si fu richiusa alle sue spalle, per un momento nell’ingresso di casa Griffin regnò un silenzio surreale.

«Cosa succede stasera alle sette e mezza?» chiese poi Atom.

«Mi ha chiesto di vederci, ma io non ci andrò».

«Certo che non ci andrai, Collins è un imbecille».

Poi Clarke parlò in tono duro: «Tieni per te quello che è successo, d’accordo?».

«Ma… ».

«Niente ma. Fallo e basta. Non dirlo a nessuno e specialmente non a Bellamy. Sono stata chiara?».

«Clarke, non posso mentirgli! È il mio migliore amico praticamente da una vita».

«Non ti chiedo di mentire, ma semplicemente di omettere il dettaglio. È meglio che lui non sappia che Finn è in città. E inoltre so che è tornata anche Raven».

«Caspita, questa situazione ha il sapore dei ricordi… ok scusa. Questa me la potevo risparmiare» aggiunse vedendo lo sguardo omicida della ragazza.

Clarke alzò gli occhi al cielo, poi guardò l’orologio. Avrebbe dovuto pranzare, ma non aveva fame e ad essere onesti non aveva nemmeno voglia di mettersi a cucinare.

«Senti, io vado adesso. Tu… non fare cazzate» disse poi il moro, sorprendendola. «E mi riferisco a stasera. Non incontrare Finn. Qualsiasi storia ti rifilerebbe sarebbe una balla. E tu lo sai».

Clarke fissò i suoi occhi chiari per un altro istante prima di distogliere lo sguardo.

«Buona giornata, Atom» disse solo.

«Buona giornata Principessa».

«Non cominciare anche tu!» urlò nel momento in cui lui usciva.

Mentre chiudeva la porta, Clarke sentì solo la risata limpida del ragazzo, smorzata dalla barriera tra di loro.

Rimase da sola nell’ingresso per qualche istante prima di riprendersi. Certo la mattinata non era cominciata come aveva immaginato.

Ancora più incredula che convinta di ciò che era appena accaduto, si avviò in cucina, tirando fuori da una credenza un’enorme tazza che riempì di yogurt e cereali.

Stava sudando, era ancora piuttosto scioccata e priva della minima voglia di preparare un pasto decente. Con un caldo simile, quello sarebbe andato più che bene.

Mangiò svogliatamente facendo un po’ di zapping e capitando per caso sulle repliche della terza stagione di “The Walking Dead”.

Quella serie le piaceva, nonostante avesse un lato decisamente raccapricciante.

Una volta terminato, lavò la tazza e la mise ad asciugare, poi, decise che avrebbe preparato qualcosa per quella sera. Non voleva presentarsi da Bellamy a mani vuote dopo che lui l’aveva invitata a cena.

Così, decise che avrebbe cucinato una torta, a casa aveva tutti gli ingredienti necessari. Estrasse da un mobiletto il suo vecchio quaderno con le ricette e, senza nemmeno farci caso, lo aprì alla pagina della torta di crema, vaniglia e fragole. Era la preferita di suo padre ed era dall’ultimo compleanno di lui che Clarke non la cucinava più.

Deglutì a vuoto prima di mettersi all’opera, dopodiché, tutto le venne estremamente naturale. Cucinare e disegnare per lei erano due cose molto simili: si trattava di creare armonia, nel disegno tra colori e sfumature e in cucina tra i vari ingredienti.

Tutto fu pronto dopo tre ore e, quando ebbe terminato, lasciò il dolce in frigo, altrimenti la crema si sarebbe rovinata.

Erano ancora le cinque di pomeriggio, dunque,  approfittando dell’assenza di sua madre e di Marcus, salì le scale e si diresse nello studio di suo padre. Era determinata a trovare le dannate pagine mancanti di quei documenti. Sapeva che solo allora sarebbe riuscita a capire su cosa Jake stesse lavorando prima di morire e aveva come l’impressione che quello sarebbe stato un punto di svolta.

Restò chiusa in quella stanza per ore, ma la sua ricerca risultò infruttuosa e, prima che potesse rendersene conto, erano già le sette di sera.

Aveva un’ora per prepararsi prima di vedere Bellamy e… mezz’ora, se voleva arrivare all’appuntamento con Finn. Per tutto il pomeriggio ci aveva riflettuto ed era arrivata alla conclusione che ci sarebbe passata, solo per qualche minuto. Voleva davvero sentire quale storia si fosse inventato, poi sarebbe andata via. Solo qualche minuto, niente di più. Non si sarebbe fatta impietosire e non ci sarebbe ricascata.

La prima volta le era bastata; lui le aveva spezzato il cuore, lei era innamorata davvero, ma per Finn era semplicemente stato un gioco. Jasper l’aveva messa in guardia dal fatto che Finn Collins sarebbe solo stato un guaio, ma Clarke non gli aveva dato retta e non aveva fatto altro che rimpiangerlo.

Si infilò di volata sotto la doccia, uscendo in tempo record. Asciugò i capelli velocemente e corse in camera sua, scegliendo un paio di shorts di jeans neri e un top rosso che non metteva da anni. Di solito lo indossava per le occasioni speciali, ora invece lo tirò fuori a caso dall’armadio, perché il colore risaltava e fu la prima cosa che vide appesa.

Non aveva fatto  caso alla scollatura un po’ troppo abbondante o al fatto che la facesse risplendere come se brillasse di luce propria.

Infilò un paio di scarpe che pescò dall’armadio e corse giù per le scale, passando  dalla cucina per prendere la torta e una borsa frigo. Non sapeva quanto si sarebbe trattenuta con Finn, ma il caldo era infernale e si sarebbe di certo rovinata se l’avesse lasciata in macchina. Poi uscì, afferrando la borsa e le chiavi dell’auto posate sul mobile dell’ingresso.

Erano le sette e trentacinque. Già in ritardo sulla sua tabella di marcia.

Fortunatamente impiegò poco per arrivare al pub e, una volta lì, Finn le fece un cenno con la mano, seduto a un tavolo.

«Clarke… wow. Stai davvero bene» disse il ragazzo. «Credevo che non saresti venuta» aggiunse poi.

«E infatti non dovevo nemmeno venire. Starò poco Finn, alle otto devo essere da un’altra parte».

«Ma mancano solo quindici minuti alle otto».

«Dunque parla in fretta» lo incalzò.

Finn sospirò pesantemente.

L’atmosfera era tesa, tanto che Clarke prese a tamburellare con fare nervoso sul tavolo e il fatto che Finn non si decidesse a parlare non fece che accrescere la sua agitazione.

Aveva sbagliato a venire, Atom aveva ragione. Che diavolo ci faceva lì mentre Bellamy probabilmente stava apparecchiando la tavola e la aspettava a momenti?

Era solo curiosa, si disse lei. Curiosa di sentire la storia che Finn si era inventato.

Lui interruppe i suoi pensieri bloccandole la mano, posandovi sopra la sua.

Clarke fissò le loro mani con aria imperturbabile, prima di ritrarre la sua, ma lui la trattenne.

«Ti prego Clarke, ho bisogno che tu mi creda. Ho bisogno… di avere una seconda occasione» fece una pausa «Con te».

La ragazza si impose di non ricaderci. Non di nuovo, dopo la prima esperienza che aveva avuto con lui. Quante notti aveva passato a bagnare il cuscino di lacrime prima di addormentarsi la sera, ancor prima che suo padre morisse.

Poi, beh, era successo quel che era successo e in tutto quell’inferno Finn non si era nemmeno degnato di farsi sentire. Probabilmente lui non ne sapeva nulla, ma Clarke non riusciva comunque a capacitarsi del fatto che per il ragazzo fosse stato tanto facile passare oltre.

Cos’era stata per lui? L’ennesimo trofeo sullo scaffale? L’ennesima tacca sulla cintura? Al diavolo, stava davvero perdendo tempo. L’unica cosa che Finn le aveva portato era un guaio. Ecco cos’era stato per lei.

Eppure sembrava così sincero…

Poi, improvvisamente si ricordò delle parole che una volta suo padre le aveva detto un giorno di tanti anni prima: “Ricordati Clarke, esistono due tipologie di bugiardi: nella prima categoria, rientrano tutte quelle persone che mentono per necessità e questo… beh, è capitato a tutti. Ma della seconda tipologia fanno parte le persone che mentono per abitudine o perché hanno qualcosa da nascondere ed è da loro che devi guardarti. Non ti fidare, piccola…”.

Suo padre aveva ragione.

Fece forza e riuscì a ritrarre la mano da quella di Finn.

«Sono cambiate troppe cose, io sono cambiata. Se pensavi che avresti trovato la stessa ragazzina che avevi lasciato e che ti avrei perdonato ti sbagli. Non sono più quella persona e non tornerò certo ad esserlo. Mi dispiace, sono in ritardo. Devo andare» e detto questo, la ragazza si alzò dal tavolo senza nemmeno dargli il tempo di proferir parola.

Corse fuori dal locale, erano le otto in punto e lei si poggiò alla parete del pub, respirando a fondo. Le serviva una sigaretta. Subito.

Infilò la mano a casaccio nella borsa e tastò l’interno. Dio, com’era possibile che non riuscisse mai a trovare nulla? Il dramma delle borse grandi: lei le adorava, non c’era niente da dire, ma prima di trovare ciò che le serviva impiegava almeno due minuti.

Infine estrasse un pacchetto ammaccato e tirò fuori una sigaretta, accendendola subito.

Non appena inspirò il primo tiro si sentì meglio o, se non altro, un po’ più rilassata.

Che stupida era stata ad andare fino a lì e ancora più stupida a credere che Finn fosse veramente cambiato. Nel profondo, una piccola parte di lei sperava che l’avesse fatto davvero. Era consapevole del fatto che era stata sul punto di ricaderci e sarebbe stato solo peggio per lei. Proprio com’era stato allora.

Ruotò il capo facendogli compiere un giro completo, rilassando la muscolatura tesa del collo. Paradossalmente le sembrava essere più tranquilla ad Harvard mentre era sottoposta alla pressione degli esami piuttosto che ora, che in teoria non avrebbe dovuto avere alcuna preoccupazione al mondo. La sua vita le si stendeva davanti, ricca di possibilità e piano piano stava cercando di riaprire la sua mente e il suo cuore, liberandolo di tutte le barriere che si era costruita intorno negli ultimi anni. Eppure era costantemente agitata per qualcosa.

Spense ciò che restava del mozzicone della sua sigaretta in un posacenere lì vicino e diede una veloce occhiata all’orologio di suo padre che portava al polso.

Le otto e dieci, maledizione. E lei odiava arrivare in ritardo.

Si avviò a passo svelto verso la macchina e mise in moto. Dopo un istante era già in strada e in cinque minuti arrivò davanti alla casa di Bellamy, che ormai le sembrava quasi più familiare della propria.

Prese la sua borsa e quella con la torta e scese, avviandosi verso la porta.

Bellamy arrivò ad aprirle gocciolante e alquanto trafelato, doveva essere appena uscito dalla doccia. Erano le otto e venti.

«Principessa… ti sei fatta attendere» disse con il suo solito mezzo sorriso sornione.

«Sì, scusami… ho avuto un contrattempo» disse a testa china.

«Nessun problema. Ehm… senti, diciamo che ho avuto un contrattempo anch’io e la cena non è ancora pronta».

«Non preoccuparti Bellamy, fammi mettere questa in frigo e ti do una mano».

«Principessa, non dovevi portare niente!».

«Blake… io ho anche un nome, sai? Usalo ogni tanto».

Il ragazzo si mise a ridere, poi si avviarono in cucina.

«Se vuoi nel frattempo posso fare degli antipasti» propose la bionda mentre posava la torta in frigorifero.

«D’accordo, vedi un po’ cosa c’è, non ho avuto molto tempo per fare la spesa ultimamente».

Dunque Clarke aprì il frigo e diede un’occhiata veloce, tirando fuori due carote, un sacchetto di bocconcini di mozzarella e delle olive verdi. C’erano anche quelle nere, ma a lei non piacevano. Dopodiché si mise all’opera.

Chiese a Bellamy dove fossero gli stuzzicadenti mentre lui era impegnato tra fornelli e pentole, poi cominciò a tagliare le olive e le carote. Aveva in testa qualcosa di ben preciso, sostanzialmente avrebbe dovuto essere un antipasto fatto a forma di pinguino.

Utilizzò un’oliva intera per fare la testa, passando un pezzo di carota all’interno come becco. Il corpo era la mozzarella e le ali laterali un’altra oliva tagliata a metà e mettendone ciascuna da una parte. Infine fece le zampe tagliando un altro pezzo di carota e fermò tutto con uno stuzzicadenti.

Ne fece sei in tutto, d’altra parte c’era altro da mangiare, ma l’effetto era carino.

Quando si spostò e Bellamy li vide, inarcò le sopracciglia, sorpreso, ma si riprese subito, sorridendo.

«Da quanto ho sentito i pinguini sono neri, non verdi… a meno che non esista qualche strana specie geneticamente modificata di cui ignoro l’esistenza».

«Con questo cosa vorresti dire?».

«Hai usato le olive verdi… dovevi usare quelle nere».

«Odio le olive nere».

«E se invece a me piacessero? Se odiassi quelle verdi?».

«In tal caso sarebbe un tuo problema».

«Ehi!» esclamò Bellamy puntandole scherzosamente contro il coltello con cui stava tagliando il pane in quel momento «Non insultarmi in casa mia!».

«Se vuoi possiamo uscire in strada e dare un po’ di spettacolo. E comunque non ti stavo insultando. Ad ogni modo, tornando alle olive, come hai gentilmente precisato, questa è casa tua, perciò se le hai comprate vorrà pur dire che ti piacciono», concluse la ragazza, soddisfatta del proprio ragionamento e convinta di averlo messo a tacere. Si sbagliava di grosso ovviamente.

«E se invece piacessero a mia sorella? Se le tenessi per quando viene a trovarmi?».

«E se invece tu la smettessi di essere così mostruosamente noioso e chiudessi la bocca?» gli rispose in tono serafico.

 «E se tu la smettessi di essere così mostruosamente irritante e trovassi un modo per farmela chiudere, la bocca?».

Gli occhi scuri di Bellamy e quelli chiari di Clarke rimasero incatenati per un lungo istante, i loro volti erano così vicini che le punte dei nasi potevano quasi sfiorarsi.

La ragazza fu investita dal profumo fresco di Bellamy, ormai non era più bagnato, a parte i capelli ancora leggermente umidi, però l’odore del bagnoschiuma si sentiva come se fosse uscito dalla doccia in quell’istante.

Si scansò per prima, interrompendo quel contatto di sguardi magnetico e voltando la testa dall’altra parte.

«Ho fame, Blake» disse cercando di dissimulare il tumulto dentro di lei.

Non si voltò per guardare il viso di Bellamy, era certa che se lo avesse fatto, avrebbe tradito la sua agitazione e non era certo quello che voleva.

Afferrò il piatto e lo mise in tavola proprio mentre Bellamy spegneva il gas dei fornelli.

Seduti entrambi attorno al tavolo, si osservarono per un momento senza dire una parola. C’era stato qualcosa, lei lo sapeva, ma non l’avrebbe mai ammesso. Sfiorò nervosamente l’orologio di suo padre mentre il pendolo nel salotto di casa Blake batteva le nove in punto.

Clarke trasalì e Bellamy non mancò di notarlo.

«Tutto bene, Principessa?».

«Io… sì, odio solo gli orologi a pendolo» disse quasi imbarazzata.

Il ragazzo corrugò le sopracciglia.

«È sempre stato lì anche tutte le altre volte in cui sei venuta».

Clarke scrollò le spalle.

«Forse non l’avevo notato».

«Clarke, so che probabilmente non sono affari miei, ma… posso farti una domanda?».

Lei lo osservò per un lungo istante.

«Tu chiedi, semmai posso sempre non rispondere».

Bellamy sbuffò divertito, ma poi tornò a farsi serio.

«Ho notato che fumi soprattutto quando sei nervosa. E le ultime volte che ci siamo visti non hai mai fumato. Credimi, con il lavoro che faccio è un odore a cui sono abituato e lo sento subito, quindi… non è che il contrattempo che hai avuto stasera ha a che vedere col fatto che sai di fumo in questo momento?».

Tra tutte le domande possibili, Clarke questa non se l’aspettava proprio.

«Atom te l’ha detto, vero?» disse lei, prima di mettere in bocca un’altra forchettata di pasta, che tra parentesi era davvero ottima.

Ora l’espressione di Bellamy parve confusa.

«Atom? Che cosa avrebbe dovuto dirmi?».

Clarke si sentì sbiancare. Dannazione.

«Niente, senti, lascia stare. Dimentica quello che ho detto».

Buttò giù un bicchiere d’acqua completamente pieno, rischiando di strozzarsi.

«Clarke… che cosa è successo tra te ed Atom?».

La ragazza si accorse che Bellamy aveva stretto più forte la forchetta.

«Tra me ed Atom non è successo proprio niente, è solo che… è passato da casa mia in un momento un po’… delicato».

Il moro sembrava sempre più confuso.

«E da quando Atom viene a casa tua?».

«Finn è in città» sputò fuori Clarke prima che potesse rendersene conto.

La forchetta che prima Bellamy stava quasi stritolando, ora cadde sul piatto emettendo un sonoro tintinnio.

«Stiamo parlando di quel Finn? Collins?».

«Sì, Bellamy. Mi aveva chiesto di vederci, stasera al pub dei genitori di Monroe. E io come l’ultima degli stupidi ci sono anche andata, ma sai… più lo guardavo e più la sua vista mi infastidiva. Credo di essere stata lì qualcosa tipo… due minuti, l’ho lasciato parlare a stento e sono andata via di corsa».

Il ragazzo deglutì a vuoto, poi parve tranquillizzarsi.

«Lo sai che è solo uno stronzo, vero?».

«Ci sono già passata, Bellamy. Non ho bisogno di un baby sitter».

Nonostante quelle parole però, Clarke notò negli occhi di Bellamy una scintilla molto simile alla gelosia.

 

Bring me home in a blinding dream,

through the secrets that I have seen

Wash the sorrow from off my skin

and show me how to be whole again

 

Because I'm only a crack in this castle of glass  

Hardly anything left for you to see

For you to see

 

Because I'm only a crack in this castle of glass

Hardly anything else I need to be

 

 

Portami a casa in un sogno che acceca

Attraverso i segreti che ho visto

Lava via il dolore dalla mia pelle

E mostrami come sentirmi di nuovo completo

 

Perché sono solo una crepa in questo castello di vetro

Non c’è quasi null'altro che tu riesca a vedere

Che tu riesca a vedere

 

Perché sono solo una crepa in questo castello di vetro  

Difficilmente avrò bisogno di essere qualcos'altro

 

 

E quindi Finn Collins era tornato in città. Come se non bastasse Atom lo sapeva e non gli aveva detto niente; ultimamente quel ragazzo stava accumulando velocemente punti a suo sfavore e se non fosse stato per il fatto che fosse ancora abbastanza giù di morale per via dell’incidente, Bellamy probabilmente gliene avrebbe dette quattro.

Quella giornata poi era andata male fin dal principio: si era svegliato con un terribile mal di testa, tanto che aveva dovuto prendere una delle tachipirine dalla scatola che Clarke gli aveva dato la notte in cui aveva avuto la febbre e solo diverse ore passate a poltrire sul divano si era ripreso.

In seguito gli si erano rotti dei tubi in bagno, che si era improvvisamente allagato e per di più Miller, che era quello che chiamava in caso di problemi idraulici, era in California con Harper.

Quasi tutti in caserma avevano, o se non altro avevano avuto un secondo lavoro.

Bellamy ricordava come se fosse ieri i tempi dell’accademia in cui, per pagarsi gli studi e al contempo mantenere Octavia, era riuscito ad incastrare anche quattro lavori diversi contemporaneamente.

Aveva fatto il cameriere, il cuoco, il barman, l’elettricista e perfino il giardiniere.

C’erano stati momenti in cui avrebbe voluto mandare tutto al diavolo, prendere sua sorella e partire insieme per qualche posto sperduto, ma all’epoca Octavia aveva bisogno di stabilità, non certo di essere sradicata da tutto ciò che conoscesse. Dunque lui aveva stretto i denti ed era andato avanti, sopportando qualsiasi cosa e mandando giù rospi su rospi.

Così per il bagno aveva dovuto arrangiarsi, alla fine ce l’aveva fatta, andando più che altro per tentativi, ma non era ancora del tutto a posto; quando Miller fosse tornato dalle ferie avrebbe dovuto chiamarlo.

Per questo quando Clarke era arrivata, con ben venti minuti di ritardo, era appena uscito dalla doccia.

Il fatto di aver saputo però che lei era andata all’appuntamento con quel cretino di Collins, in qualche modo lo infastidiva.

“Idiota” si disse tra sé. Tanto sapeva in ogni caso come sarebbe andata a finire: male, era inutile anche valutare l’alternativa. Eppure era un pensiero di cui non riusciva a liberarsi.

Sbuffò contrariato e Clarke gli lanciò una strana occhiata.

«È tutto a posto, Bellamy?».

«Sì, io… scusa, non ho mai avuto una gran simpatia per Finn Collins».

La bionda adesso sembrava in imbarazzo, così il moro cercò di smorzare la tensione buttandola sul ridere.

«Era uno stronzo, fin dall’asilo si prendeva sempre i giocattoli più belli e quando minacciavo di picchiarlo ero sempre io quello che finiva in castigo».

A quelle parole Clarke spalancò gli occhi sorpresa, prima di scoppiare a ridere. E anche Bellamy sorrise. Non l’aveva mai vista ridere in quel modo.

«Ti piace la cena?» chiese poi.

«Davvero ottima. Sai, se il giorno in cui ci siamo conosciuti mi avessero detto che sarebbe andata così, non ci avrei mai creduto».

Bellamy alzò un angolo della bocca.

«A chi lo dici, Principessa. Eri davvero insopportabile».

Clarke gli diede un calcio sotto il tavolo e lui fece un salto sulla sedia.

«Diamine! Ehi, non farlo mai più o ti insegno io come ci si comporta!».

«Tremo di paura, Blake».

«Beh, dovresti».

La  bionda ridacchiò.

«Mi spieghi perché poi hai cominciato a chiamarmi in quel modo?».

«Beh, quando eravamo piccoli io e mia sorella non avevamo un granché. Mia mamma si spezzava la schiena al lavoro e quello che guadagnava lo metteva da parte per permetterci di studiare, di sicuro non spendeva inutilmente per comprarci dei giocattoli. Le uniche cose che avevamo erano due soldatini per me e una vecchia bambola di pezza per Octavia. Quando lei aveva tre anni cominciò ad andare all’asilo e lì era pieno di bei giochi. Le piaceva tantissimo una barbie, era piuttosto consumata, ma la faceva impazzire, era comunque molto più nuova di quella che aveva a casa e sapeva che tutte le sue compagne ne avevano tante. Mia madre mi dava una paghetta ogni due settimane, era una somma minima, ma diceva che con quei soldi avrei potuto fare quello che volevo. Così, quando ne misi da parte abbastanza, andai in un negozio e le comprai una barbie nuova. Un po’ mi dispiacque perché avevo visto il modellino di un camion dei pompieri che mi piaceva davvero tanto, però il sorriso di Octavia quando tornai a casa mi ripagò di tutto. Ricordo che aveva un vestito verde, che era bionda con gli occhi azzurri e che Octavia la chiamava “Principessa”. Tu sei bionda, con gli occhi azzurri e il primo giorno che ti vidi indossavi un vestito verde. In pratica eri la versione di quella barbie fatta a persona. Perciò sostanzialmente devi prendertela con Octavia se adesso ti chiamo così. E poi sai… eri la classica insopportabile so-tutto-io, una dei privilegiati a scuola ed eri anche estremamente irritante. Quale nome più azzeccato di “Principessa” sarebbe stato adatto a te?».

Bellamy osservò Clarke, senza riuscire a capire se fosse indecisa tra il dargli un altro calcio o se fosse sul punto di dirgli qualcosa.

Infine rimase in silenzio, lo sguardo concentrato, e il padrone di casa avrebbe fatto di tutto per sapere a cosa stesse pensando in quel momento.

Continuarono a mangiare portando la conversazione su argomenti più leggeri e quando finirono, Clarke si alzò, avviandosi verso il frigo per prendere la torta.

Quando la mise in tavola, Bellamy la guardò ad occhi spalancati.

«Principessa, hai svaligiato una pasticceria per caso?».

«Pasticceria? Così mi offendi! Non l’ho comprata».

Bellamy impiegò qualche istante per registrare quelle parole.

«Aspetta… l’hai fatta tu?!».

«Certo!».

Il moro si alzò dalla sedia per prendere un coltello, e due piatti puliti.

«Ti assumo come cuoca personale. Sono anche disposto a pagarti. Quando puoi trasferirti?».

Quelle parole fecero ridere Clarke.

«Mmm… sono incorruttibile, mi dispiace».

«Maledizione. Va beh, io ci ho provato» rispose con un sorriso disteso.

La bionda scosse la testa con aria divertita.

«Credo che sia la cosa più buona che abbia mai mangiato in vita mia» disse Bellamy dopo averne assaggiato un pezzo.

«Era la torta preferita di mio padre»,

A quelle parole, il ragazzo quasi si strozzò.

Clarke non parlava mai di suo padre, ma ora, si accorse, stava sorridendo.

Finirono di mangiare le loro fette e poi il padrone di casa ripose il resto in frigo.

«Allora Principessa… cosa vuoi fare?».

«Potremmo vedere se in tv fanno qualcosa di decente».

«Aggiudicato».

Così si spostarono sul salotto, sedendosi sul divano.

Improvvisamente, Bellamy ricordò della notte in cui aveva dormito lì con Clarke. Della sensazione di tenerla tra le braccia. Si irrigidì quando lei prese posto al suo fianco, ma cercò di non far trapelare nulla.

Clarke sembrava a suo agio, non dava alcun segno di nervosismo e Bellamy, per cercare di ignorare il suo, accese la tv, concentrandosi su quella.

Fece un rapido giro dei canali, ma sembrava che non ci fosse nulla di interessante, quando ad un tratto la ragazza al suo fianco si drizzò a sedere esclamando: «Lascia qui!».

Solo dopo Bellamy si rese conto di essere finito su Harry Potter, non sapeva quale di preciso, non era mai stato un grande appassionato, ma Clarke non sembrava dello stesso avviso.

«Principessa… non ti sembra di essere un po’ troppo cresciuta per queste cose? Oh, taci babbano! Io sono un elfo libero».

Il moro la guardò con tanto d’occhi e lei scoppiò a ridere.

«Blake… guarda e fatti una cultura. Voglio dire… Harry Potter è Harry Potter, insomma… è un’istituzione!».

«Clarke, non so neanche quale stiamo guardando tra i mille che sono usciti».

«Veramente i film sono solo otto, i libri sette e questo mio caro, è il Calice di Fuoco» concluse con un’aria da saputella che gli ricordò la vecchia Clarke dei tempi del liceo.

Lui la osservò, prima di alzare un angolo della bocca in un sorriso che più che altro sembrava rassegnato.

«Come dici tu, Principessa».

La ragazza alzò gli occhi al cielo, poi si sistemò meglio contro lo schienale del divano, incollando gli occhi allo schermo della tv. Probabilmente lo sapeva a memoria, ipotizzò Bellamy, ma sembrava davvero rapita. Scosse leggermente la testa con aria divertita e provò a sua volta a seguire il film. Era già cominciato, quindi non aveva molto chiaro il quadro della situazione e aveva come l’impressione che se avesse chiesto qualcosa a Clarke, lei lo avrebbe zittito senza tante cerimonie, perciò incrociò le braccia al petto e restò in silenzio con aria assorta.

Le scene si susseguirono rapidamente sullo schermo e il ragazzo si rilassò, piegando lievemente la testa all’indietro e posandola sullo schienale dietro di sé.

Era ormai preso dal film quando ad un tratto sentì una strana pressione alla spalla. Si voltò leggermente, accorgendosi che Clarke si era poggiata a lui e per un attimo trattenne il respiro, dopodiché fece scivolare un braccio attorno alla spalla di lei, che si mosse leggermente contro il suo corpo.

Erano vicini… molto vicini. Sentiva il calore della ragazza su di sé e inoltre il suo profumo… quel profumo lo avrebbe fatto dannare. Un aroma di gelsomino arrivava ad ondate, riempiendogli i polmoni, ogni volta che avvicinava il volto ai capelli o al collo di Clarke e stava dando fondo a tutto l’autocontrollo di cui era capace per non prenderle il viso tra le mani in quel momento, girarlo verso di sé e baciarla. Ancora una volta, si chiese che sapore avrebbero avuto le sue labbra e deglutì a vuoto.

Clarke pareva davvero rilassata e non sembrava che la loro improvvisa vicinanza la turbasse o la mettesse a disagio, come invece era successo altre volte.

Dopo un po’ che erano in quella posizione, Bellamy provò a rischiare, cominciando ad accarezzarle i capelli con tocchi leggeri, giocherellando con le sue ciocche bionde.

«È la stessa cosa che hai fatto quella notte» disse a un certo punto la ragazza, così dal nulla.

«La stessa cosa?» ripeté lui senza capire.

«La notte in cui è morto mio padre, quando mi hai trovata» spiegò lei «… hai fatto la stessa cosa. Mi accarezzavi la testa e questo mi ha rilassata, mi ha calmata. Mi ha fatto sentire al sicuro».

«Clarke… lo sai che sei al sicuro, vero?».

«Sì, insomma… credo di sì. Allora però non lo sapevo. Quella notte mi hai aiutato Bellamy».

«Ho fatto solo ciò che dovevo… ».

Soltanto quando sentì il corpo di Clarke irrigidirsi contro il suo capì di aver detto un’enorme stronzata.

«Quello che dovevi?» ripeté lei con un tono tagliente come la lama di un rasoio.

Bellamy subito si sedette più indietro sul divano per osservarla meglio.

«Clarke, scusa, è stata una scelta molto infelice di parole. Non era ciò che intendevo».

«Ah no? Davvero? E cosa intendevi allora?» i suoi occhi erano fiammeggianti e lui si sentì trapassato da parte a parte.

La ragazza si alzò dal divano con uno scatto, avviandosi verso l’uscita e lui subito le fu dietro, inseguendola.

«Clarke, aspetta!» esclamò prendendola per un polso e costringendola a voltarsi.

«Lasciami!» alzò la voce lei, liberandosi dalla sua presa in un impeto di rabbia.

Il ragazzo restò basito per un attimo, ma si riprese subito, deciso a farsi valere.

«Ehi! Non ho scelto precisamente le parole migliori, ma non era ciò che hai capito tu che intendevo, quindi non partire come una furia scatenata e non urlare! Volevo solo dire che sì, era giusto che facessi quello che ho fatto, ma fondamentalmente l’ho fatto perché lo volevo. È chiaro?».

La bionda sembrava essersi un po’ calmata adesso. Sospirò.

«Forse è meglio che torni a casa, Bellamy. È tardi».

«Clarke… » stava per continuare, ma poi ci ripensò, sospirando a sua volta. «… d’accordo».

Lei chinò gli occhi, sembrava a disagio adesso.

«Buonanotte Bellamy e grazie per la cena. Era tutto molto buono».

Ed eccola. Riecco la Clarke fredda come il ghiaccio, sembrava proprio una principessa delle nevi: i capelli biondi e sottili, gli occhi chiari, le labbra tese in un’unica linea, lo sguardo imperscrutabile.

Era sempre così: quando gli sembrava di fare un passo avanti, era come se ne facesse altri due indietro.

La accompagnò alla porta e si scostò per farla passare.

«Guida piano» disse soltanto e lei fece un minimo cenno d’assenso con la testa.

«Buonanotte Bellamy».

«Buonanotte Clarke» e detto questo, la osservò allontanarsi finché non fu sparita lungo la strada, dopodiché chiuse la porta e ci si poggiò di peso con le spalle.

“Stupido idiota” pensò tra sé. La serata stava andando così bene e lui era riuscito a mandare tutto al diavolo con una sola frase. Complimenti Bellamy.

Sbuffò sonoramente, si avviò in cucina per mettere a posto tutto e quando guardò nuovamente l’orologio ormai era mezzanotte passata.

Stancamente si avviò in camera sua e crollò stremato sul letto.

Si addormentò in un istante.

 

Erano trascorsi quattro giorni dalla cena con Clarke, e Bellamy non l’aveva più vista né sentita da allora. Ad ogni modo non era quello il suo problema. Non quel giorno se non altro.

Il suo problema era quel fastidioso senso di chiusura alla bocca dello stomaco. Si era svegliato di soprassalto quella mattina, con i muscoli irrigiditi e il cuore che batteva talmente forte che sembrava stesse per esplodere da un momento all’altro. Succedeva sempre così.

Respirando affannosamente, si era messo a sedere sul letto, prendendo dei respiri profondi e cominciando a regolarizzare il ritmo.

Infine riuscì a calmarsi, chiuse gli occhi e si buttò a peso morto nuovamente all’indietro sul letto.

Maledizione. Era sempre la stessa storia, ogni anno. Ogni dannato 26 luglio, L’anniversario della morte di sua madre.

Guardò l’ora proiettata sul muro dalla radiosveglia: era ancora presto, ma il suo pensiero andò ad Octavia. Si svegliava agitata e urlando ogni anno, ma adesso che c’era Lincoln con lei, Bellamy si sentiva tranquillo.

Neanche a farlo di proposito, il suo cellulare squillò in quel momento, non aveva bisogno di guardare per sapere chi fosse.

«Ehi, O… sono solo le sei di mattina, cosa ci fai già sveglia?».

Domanda inutile, conosceva perfettamente la risposta.

«La stessa cosa che ci fai tu, probabilmente. Come stai Bell?» c’era preoccupazione nella voce di Octavia; Bellamy la conosceva troppo bene per non notarlo.

«Sto bene sorellina. Non devi preoccuparti per me».

«Certo che mi preoccupo per te».

Il ragazzo ridacchiò.

«Mi passi Lincoln un momento?».

«Lincoln? Certo… ».

«Ehi Bellamy» lo salutò lui, la voce  leggermente sorpresa. Dovevano essere ancora a letto se Octavia gli aveva passato il telefono tanto in fretta.

«Ciao. Senti, lo so che è una raccomandazione inutile dato che già lo fai, ma… tienimela d’occhio, d’accordo?».

«Stai tranquillo».

«Ti ringrazio».

Il moro parlò con sua sorella per qualche altro minuto, poi i due riagganciarono.

Sapeva che quella mattina non sarebbe riuscito a riaddormentarsi, quindi si alzò dal letto e decise di andare a correre.

Osservò il cielo fuori dalla finestra: era grigio, cupo. Il giorno precedente avevano dato un’allerta meteo, uno di quei temporali estivi che avrebbe scatenato il finimondo in un arco di tempo ridicolo, ma si erano raccomandati di non uscire da casa l’indomani, quando probabilmente si sarebbe abbattuto su Staten Island.

Bellamy già immaginava che avrebbero ricevuto continuamente chiamate al lavoro, succedeva ogni volta che capitava una tempesta simile. Incidenti d’auto, alberi abbattuti era sempre la solita solfa.

Perché la gente non si limitava a seguire il consiglio e restarsene a casa per un giorno? Sbuffò, dando un’altra rapida occhiata a quel cielo mattutino di fine luglio e uscì.

Nonostante l’allerta meteo l’aria era ancora calda e soffocante, per fortuna erano solo le sei di mattina.

Il ragazzo corse a lungo, le cuffie infilate nelle orecchie che mandavano a tutto volume una canzone dei Linkin Park che lui adorava e che attualmente rispecchiava anche il suo stato d’animo.

Because I'm only a crack in this castle of glass, hardly anything left for you to see… for you to see”

 Rientrò a casa che ormai erano quasi le otto di mattina e subito si infilò dentro la doccia. L’acqua scivolò fresca e piacevole sul suo corpo, rinfrancandolo, ma non poteva permettersi di attardarsi troppo. Doveva uscire di nuovo, c’era un posto in cui doveva andare.

Una volta fuori, lasciò i capelli bagnati e si vestì in fretta, avviandosi nuovamente verso la porta d’ingresso.

Prese la macchina e si avviò in direzione della stazione di polizia, svoltando a destra a un certo punto, fermandosi davanti ad un fioraio. Lì prese un mazzo di ortensie e risalì in auto. Guidò per un quarto d’ora prima di arrivare al cimitero di Fort Hill.

Il cuore iniziò a battergli più forte, succedeva sempre così e Bellamy deglutì a vuoto mentre percorreva a passi lenti e cadenzati il percorso di ghiaia fino alla tomba di sua madre.

Prese un respiro profondo prima di guardare la foto sulla lapide. Ogni volta, il ragazzo sentiva una morsa di ghiaccio serrarsi intorno al suo cuore, era un dolore feroce e lui dovette poggiarsi per un momento al marmo duro e freddo.

Quanto gli mancava…

All’epoca dei funerali, l’agenzia di pompe funebri gli aveva proposto di incidere  sulla pietra la scritta: “amata madre”. A Bellamy erano sembrate parole così stupide. Così scontate e prive di qualsiasi valore affettivo.

Aveva rifiutato, ed ora sulla lastra era scolpita la frase: “Fa che possiamo rincontrarci”.

Il moro posò il mazzo di fiori sulla tomba e rimase lì per qualche altro minuto, in silenzio. Se sua madre fosse stata con lui, ne era certo, avrebbe parlato a ruota libera, c’erano così tante cose che avrebbe voluto dirle. Eppure lì, davanti ad una pietra tombale, non gli usciva niente, era come se le parole fossero rimaste incastrate in gola e Bellamy si sentì soffocare.

Emise un rantolo strozzato prima di sentire un tocco lieve sulla spalla.

Si voltò, trovandosi davanti gli occhi chiari di Clarke.

Agì d’impulso, senza rifletterci un istante, cercò la sua mano e la strinse. Lei non si ritrasse, ricambiando il gesto e lui gliene fu grato.

«Ti ho visto dalla strada, stavo camminando» spiegò la ragazza come a voler giustificare la sua presenza lì.

Bellamy annuì, continuando a fissare la lapide.

«Stai bene?».

«Oggi sono sei anni».

Clarke gli strinse ulteriormente la mano.

«So come ti senti».

«Lo so. Come mai eri da queste parti? Ancora sono le otto e mezza e tu sei distante da casa. Sei a piedi?».

«Sì, io… sono fuori da un po’. Non riuscivo a dormire, credo sia anche a causa del temporale».

 Bellamy rimase in silenzio, aspettando che la ragazza continuasse e infatti poco dopo riprese parola.

«Una volta mi piaceva la pioggia, ma… c’era una tempesta la notte in cui mio padre è morto».

«Me lo ricordo».

Eccome se lo ricordava. Bellamy non avrebbe mai potuto dimenticare quella notte. Nel bene e nel male quel ricordo lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.

«Da allora i temporali mi hanno sempre messo in soggezione» stavolta fu Bellamy a rafforzare la stretta per un momento.

Avere le dita di Clarke intrecciate alle sue, in qualche modo lo fece sentire più sereno. Sereno per la prima volta in quel giorno dopo sei anni. Ricordava ancora come fosse stato ieri cos’aveva provato quando arrivò di corsa alla fabbrica e la trovò in fiamme, con la consapevolezza che non avrebbe rivisto Melinda mai più. Il dolore era stato straziante.

La ragazza al suo fianco parve leggergli nella mente.

«È passato Bellamy».

Lui la osservò per un lungo istante prima di dire: «Grazie, Clarke. Possiamo andare da tuo padre se vuoi».

La sentì irrigidirsi.

«Non vado a trovare mio padre dal giorno della sepoltura. Non posso».

Bellamy la osservò, sbalordito.

«Sono passati quasi sette anni, Clarke. Direi che è il momento».

A novembre sarebbero stati sette anni dalla morte di Jake Griffin; non riusciva a capacitarsi del fatto che dal giorno del  funerale Clarke non era mai stata sulla tomba di suo padre.

«Possiamo andarci adesso, se vuoi. Posso venire io con te» aggiunse, ma le sbarrò gli occhi, scuotendo la testa.

«No, Bellamy. Per favore» sembrava davvero agitata.

«D’accordo, d’accordo. Ti va di fare due passi?».

Lei annuì.

«E comunque le ortensie sono bellissime» disse poi la bionda.

Il ragazzo sorrise.

«Erano i fiori preferiti di mia madre».

Camminarono tra le tombe senza parlare, il silenzio era assoluto a parte per il rumore dei loro passi sul sentiero ghiaioso del cimitero. Nessuno dei due sciolse la presa dalla mano dell’altro.

Bellamy non sapeva dove fosse sepolto il padre di Clarke, ma la osservò con attenzione e lei non si guardò mai attorno, rimase con lo sguardo basso finché non furono usciti dai cancelli in ferro battuto.

Quel posto non era piacevole per nessuno dei due. Beh… probabilmente per nessuno in generale.

Dopo qualche altro momento di silenzio, la ragazza alzò gli occhi verso di lui e disse: «Mi dispiace per l’altra sera. Mi dispiace per il modo in cui ho reagito e per come me ne sono andata».

Bellamy alzò un angolo della bocca.

«Non preoccuparti, Principessa. Ho detto una frase stupida, avrei dovuto rifletterci meglio».

A quel punto anche sul viso di Clarke si aprì un sorriso, poi, lentamente, la ragazza sfilò la sua mano da quella di Bellamy e si stiracchiò. La sua stanchezza era evidente, probabilmente non aveva affatto dormito quella notte.

«Avanti Clarke… ti riporto a casa, cerca di riposare un po’».

Lei annuì con sguardo grato, così i due salirono in macchina e, insieme, si avviarono verso casa Griffin.

Quando arrivarono davanti la villetta, si accorse Bellamy, Clarke stava già dormendo.

«Principessa… siamo arrivati» disse lui scrollandole lievemente il braccio.

Poco a poco la ragazza si mosse, stiracchiandosi sul sedile.

«Grazie del passaggio. E scusa se mi sono addormentata in macchina».

Bellamy ridacchiò.

«Figurati. Ci vediamo in giro, Principessa. E resta a casa domani, d’accordo?».

Lei annuì. Lo salutò con un gesto della mano e scese dall’auto, avviandosi verso la porta.

Ormai erano le nove di mattina, il cielo era ancora grigio e Bellamy rimase fuori ancora qualche ora, sedendosi al parco. Si era messo vento, la tempesta si stava preparando. Per fortuna il giorno dopo sarebbe stato di riposo, mentre per oggi avrebbe coperto il turno di pomeriggio.

Rimase al parco fino all’ora di pranzo, poi preparò qualcosa di veloce e si avviò in caserma.

Atom non c’era, Miller era in ferie, ma finalmente riuscì a parlare con il comandante per il suo piano ferie, facendo in modo di programmarlo come aveva pensato per riuscire a prepararsi per l’esame da tenente.

Voleva passarlo a tutti i costi, in modo da restare alla 62.

Fu un turno tranquillo, non ci fu nessuna chiamata e la sera andò al pub dei genitori di Monroe. Atom lo aveva chiamato per chiedergli se gli andava una birra e lui aveva accettato.

La serata trascorse tranquilla, senza alcun intoppo e soprattutto senza che Atom facesse battute idiote su lui e Clarke.

Si salutarono verso mezzanotte, dopodiché Bellamy tornò a casa.

Quella notte si addormentò con il rumore del vento che fischiava all’esterno, avendo la vaga consapevolezza che il giorno dopo sarebbe stato un vero inferno.

 

Venne svegliato da un potente tuono che fece tremare le pareti di casa e, guardando l’ora proiettata sul muro dalla radiosveglia, si rese conto che aveva dormito ben quattordici ore filate: erano le due di pomeriggio. Non aveva mai dormito così tanto in una notte, probabilmente, ma se non altro si sentiva decisamente rinato.

Vide sul suo telefono diverse chiamate di Octavia e subito le ritelefonò, rassicurandola del fatto che no, non era spazzato via dalla tempesta, ma semplicemente aveva dormito come un ghiro fino a quell’ora.

Lei si stupì, poi si mise a ridere, rilassandosi.

La pioggia scrosciava come se venisse giù a secchiate, il cielo era plumbeo e intriso di nuvole ed elettricità, che veniva scaricata a terra attraverso lampi e tuoni che davvero lo fecero sobbalzare un paio di volte.

Lui ne approfittò per dedicarsi nuovamente alla manutenzione del bagno, aveva provato a chiedere ad un collega che si intendeva di idraulica e pensava di aver capito dove fosse il problema.

Erano le nove di sera quando sentì suonare alla porta.

Inizialmente non ci fece nemmeno caso, il frastuono provocato dalla tempesta era talmente assordante che pensò di aver sentito male, ma poi udì distintamente il campanello della porta d’ingresso e balzò in piedi immediatamente.

Chi diavolo poteva essere tanto fuori di testa da uscire di casa con un tempo simile?!

Si avviò a grandi passi verso l’entrata e spalancò la porta.

Clarke gli stava di fronte: grondate d’acqua dalla testa ai piedi, i capelli biondi resi più scuri dalla pioggia attaccati al viso e un’aria stravolta.

«Clarke! Che cos’è successo?».

«Mio padre non è morto in una rapina, Bellamy. È stato ucciso perché qualcuno lo voleva morto».

 

 


NOTE:

Salve a tutti! Non mi dilungherò molto in chiacchiere tranquilli! Devo ancora rivedere il capitolo e sistemarlo in certi punti. Dunque… Finn è entrato in scena e abbiamo visto quale sia stata la reazione non proprio felice di Clarke, eppure lei avrebbe voluto che fosse cambiato davvero, questo dovrebbe fare riflettere, anche il fatto che sia andata all’appuntamento è un indice di allarme.

La parte di Bellamy invece è molto incentrata sul suo rapporto sia con Octavia e sua madre, sia con Clarke. Il fatto che le abbia parlato della sua infanzia è un gran passo avanti considerando quanto sia chiuso e restio a parlare della sua famiglia con qualcuno che non ne faccia parte, inoltre anche la scena al cimitero è molto importante.

Per quanto riguarda la parte finale, posso solo dirvi che dal prossimo capitolo entreremo nel vivo di ciò che saranno poi le indagini di Clarke sulla morte di suo padre e fidatevi… rimpiangerete questi capitoli in cui bene o male la situazione era tranquilli e nostri cari Bellarke vivevano relativamente sereni.

Fidatevi del fatto che dal prossimo capitolo tutto sarà questa storia tranne che tranquilla.

Ci sentiamo alla prossima!

Mel

 

Antipasti: questo è come avrebbero dovuto essere gli antipasti preparati da Clarke, non so se mi sono spiegata bene XD

I knew you were trouble – Taylor Swift. Clarke

Castle of Glass – Linkin Park. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Brave Princess, Rebel King ***



CAPITOLO 14: BRAVE PRINCESS, REBEL KING




Hearing voices from miles away
Saying things, never said
Seeing shadows in the light of the day
Waging a war inside my head

Feeling strangers staring my way
Reading minds, never read
Tasting danger with each word I say
Waging a war inside my head



Ascoltando voci da lontano
Dicendo cose mai dette
Vedendo ombre nella luce del giorno
Conducendo una guerra nella mia mente

Sentendo estranei fissando la mia strada
Leggendo righe mai lette
Assaporando il pericolo con ogni parola che ho detto
Conducendo una guerra nella mia mente




Quando Clarke aveva trovato finalmente le pagine mancanti dei documenti di suo padre sepolte in un vecchio volume risalente agli anni in cui lui aveva frequentato il college, era rimasta a dir poco scioccata.

La documentazione non era ancora completa, ne era certa, però di sicuro aveva capito che un gruppo di medici dell’Ark Medical Center e un altro del Wallace General Hospital, stavano lavorando a qualcosa di indubbiamente illegale. Suo padre lo aveva scoperto e così aveva fatto la fine che aveva fatto.

Clarke era rimasta così sconvolta da non badare nemmeno alla tempesta che imperversava all’esterno, aveva preso l’auto, inzuppandosi da capo a piedi e si era diretta verso casa di Bellamy. Non sapeva neanche perché, ma era l’unica persona che volesse vedere in quel momento.

Si sentì stupida, ultimamente le sembrava di comportarsi come la classica damigella in difficoltà, cosa che lei non era mai stata e odiava sentirsi così, ma in qualche modo… Bellamy le aveva fatto provare quel senso di sicurezza che non sentiva più dalla morte di suo padre.

Guidò rapidamente anche se la pioggia torrenziale limitava di parecchio la visuale e arrivò a casa del ragazzo che ormai erano le nove di sera.

Lui venne ad aprirle con aria allarmata, probabilmente pensava che nessuno sano di mente sarebbe uscito con quella tempesta in corso e, a dirla tutta, Clarke in quel momento non si sentiva molto sana di mente. «Mio padre non è morto in una rapina, Bellamy. È stato ucciso perché qualcuno lo voleva morto» disse senza prima dargli nemmeno il tempo di aprire bocca. Lo sguardo del moro si fece vigile, lui si scostò dalla porta per lasciarla entrare e Clarke si fece avanti, grondando acqua sul parquet dell’ingresso. «Vieni in bagno, prima di prenderti un accidente» disse il padrone di casa in tono serio. Era teso, Clarke poteva capirlo dalla sua postura rigida, dalla mascella serrata e dai gesti meccanici con cui si muoveva. Lei annuì, avviandosi verso la stanza indicata da lui. «Togliti i vestiti e metti l’accappatoio appeso dietro la porta, è pulito. Io ti trovo qualcosa di asciutto intanto» e senza aggiungere altro sparì nella sua stanza da letto. Nel frattempo Clarke fece come gli aveva detto, tamponando i capelli bagnati con un asciugamano. Bellamy arrivò poco dopo, con in mano un paio di pantaloni e una maglietta che senza dubbio le sarebbero stati ridicolmente larghi, ma nessuno dei due sembrava preoccuparsene in quel momento. Il ragazzo si sedette sul bordo della vasca di fronte a lei e, guardandola negli occhi, disse: «Clarke… mi spieghi che cosa è successo?». Lei fece un bel respiro, cercando di trovare le parole più appropriate, ma nella sua testa la confusione era assoluta. Doveva riorganizzare i pensieri. «Ti avevo già parlato dei documenti che avevo trovato nello studio di mio padre, non è vero?». Bellamy annuì, lo sguardo grave. «Avevo capito che erano così incomprensibili perché mancavano delle pagine e… ne ho trovate alcune. Un gruppo di medici dell’Ark Medical Center e un gruppo del Wallace General Hospital, l’ospedale in cui lui è morto… beh, erano coinvolti in un progetto, qualcosa di illegale. Non so di preciso in che cosa, credo che manchino altre pagine, ma ne sono sicura, Bellamy: è stato ucciso perché volevano metterlo a tacere, era diventato troppo pericoloso». «Clarke… sei assolutamente sicura di quello che stai dicendo? Le tue sono accuse molto pesanti». «E non è più grave quello che mio padre aveva scoperto? Insomma… lui era un genetista e per essersi accorto della cosa, doveva per forza trattarsi di qualcosa a livello genetico. Bellamy, non so dove arrivino le tue conoscenze mediche, ma credimi, io sono del campo e la genetica è un ambito molto pericoloso da trattare. Incredibile e straordinario, si sono fatti passi da gigante nell’ultimo decennio, ma pericoloso. È qualcosa in cui non puoi permetterti di sbagliare, perché se sbagli uccidi e questo mio padre lo sapeva bene».

Ecco, adesso a parlare era stata la Clarke degli ultimi sei anni: pragmatica, priva di qualsiasi emozione o inflessione nella voce. Clarke il medico. Clarke: la ragazza chiusa in sé stessa e divorata dai demoni che ormai facevano parte di lei, demoni con i quali nel tempo aveva imparato a convivere, ma che nonostante tutto non era ancora riuscita a sconfiggere.

Vide Bellamy chiudere gli occhi e sospirare pesantemente.

«Che cosa hai intenzione di fare, Clarke?».

Già… che cosa aveva intenzione di fare adesso?

«Troverò le pagine mancanti, così scoprirò finalmente a cosa mio padre stesse lavorando e a quel punto tornerò dal comandante War. Non potrà di nuovo negarmi il suo aiuto, anche perché le porterò le prove di cui avrà bisogno per riaprire il caso dell’omicidio di mio padre. Hai detto che le sarebbero servite prove schiaccianti. Beh, sono convinta del fatto che sì, saranno schiaccianti».

«Ok, da dove vuoi iniziare allora?».

Clarke non fece caso all’interessamento di Bellamy, alla sua concentrazione, allo sguardo improvvisamente acceso.

«Tornerò subito a casa; mia madre è in ospedale per un turno da dodici ore e Marcus è fuori città per un paio di giorni. Non so di cosa si stia occupando di preciso, ma è partito per Dallas stamattina».

Bellamy annuì, dopodiché si alzò dalla vasca e disse: «Bene, allora vestiti e andiamo».

Clarke impiegò qualche istante di troppo per registrare le sue parole.

«Aspetta… andiamo? ».

«Ti presenti a casa mia nel bel mezzo di una tempesta e ti aspetti che, dopo una notizia del genere, ti lasci giocare da sola alla piccola detective? Scordatelo Clarke, tu stessa hai detto che è una storia pericolosa, quindi non ci provare neanche a tenermi fuori perché non te lo lascerò fare».

«Bellamy… »

«No» la interruppe lui «non ci pensare nemmeno. Avanti, vestiti e andiamo», ripeté.

Il tono del ragazzo era irremovibile.

«Io veramente volevo solo dirti grazie» disse la bionda e a quelle parole le parve che lui fosse leggermente imbarazzato.

«Oh beh… figurati Principessa» disse passandosi una mano tra i capelli con uno dei suoi soliti mezzi sorrisi.

Dopodiché uscì, lasciandola a cambiarsi nella sua privacy.

Nel frattempo però, la mente di Clarke lavorava, vagliando tutte le possibili ubicazioni delle pagine mancanti. Era come se si trovasse già nello studio di suo padre, cercando in ogni libro di ogni scaffale, ma non le veniva in mente nulla che non avesse controllato anche altre volte.

Uscì dal bagno e vide Bellamy già sulla porta d’ingresso che la aspettava con un ombrello in mano.

La bionda gli fece cenno di andare, così lui aprì e aspettò che uscisse prima di spegnere le luci e richiudersi la porta a chiave dietro le spalle.

Il vento ululava e la pioggia non accennava minimamente a diminuire, così cercarono di fare il più in fretta possibile per arrivare all’auto di Clarke.

«Quando vuoi ti riporto a casa, basta che tu me lo dica. Hai turno domani mattina?».

«No, sono di pomeriggio non ti preoccupare».

Impiegarono più del solito per arrivare fino a casa di Clarke, ma con quel tempo, aggiungendo anche il fatto che ormai era buio, la ragazza non voleva rischiare di finire contro un albero o dentro un fosso.

Arrivarono davanti casa Griffin e Clarke entrò in garage per evitare di prendere altra pioggia. Da lì, si avviarono verso le scale che portavano direttamente in casa.

Il buio era totale e, ad un certo punto, Clarke prese male un gradino e rischiò di cadere, cosa che avrebbe sicuramente fatto se non fosse stato per le braccia di Bellamy, che si avvolsero prontamente attorno ai suoi fianchi. D’istinto, lei gli posò le mani sulle spalle per restare in equilibrio, con il risultato di trovarsi tra il corrimano delle scale e il corpo di lui.

Il suo cuore perse un battito e sentiva anche il respiro affannoso di Bellamy sulla sua pelle, cosa che la fece agitare ulteriormente.

Deglutì a vuoto, non riusciva a vedere niente e trovarsi in quella posizione non aiutava di certo la sua parte razionale, che le stava urlando di staccarsi immediatamente dal corpo del ragazzo, ma lei sembrava non volerne sapere nulla.

«Fa’ attenzione, Principessa».

Bellamy soffiò quelle parole così vicino al suo viso che per un millesimo di secondo, le loro labbra si sfiorarono e quel misero contatto bastò per mandare in fibrillazione Clarke, che però sentì anche il corpo di lui irrigidirsi.

Era stato quasi nullo come tocco, una lieve carezza appena accennata, ma che racchiudeva la promessa di qualcosa di più e, semmai quel di più fosse arrivato, Clarke si chiese veramente come sarebbe stato se un contatto tanto lieve era riuscito a paralizzarla sul posto, provocandole una scarica di brividi lungo tutto il corpo, scuotendola nel profondo.

Le mani di Bellamy non si staccavano dai fianchi di Clarke, così come quelle di lei invece di allontanarsi salirono verso il collo di lui e, per un momento, la ragazza ebbe davvero come l’impressione che stesse per baciarla.

Desiderò che Bellamy la baciasse, per la prima volta e consapevolmente lo ammise a sé stessa. Lei voleva baciare Bellamy Blake e al diavolo Finn e il suo “Ho bisogno di avere una seconda possibilità con te”. Era sempre stata una persona dalle idee molto chiare, fin da piccola aveva sempre saputo chi era e cosa voleva diventare e i triangoli amorosi non facevano decisamente per lei. Le davano un senso di debolezza e insicurezza e di certo non si voleva trovare in mezzo ad uno di essi. Inoltre Finn l’aveva fatta soffrire, le aveva spezzato il cuore e glielo aveva calpestato, mentre Bellamy… beh, con lui era tutt’altra storia e, per la prima volta da quando era tornata a Fort Hill, si rendeva conto dei suoi sentimenti.

Già altre volte ne aveva avuto il vago sentore, ma aveva sempre soffocato la cosa in un angolo dimenticato dentro di sé.

Ora… ora sobbalzò a causa di un potente miagolio proveniente dal piano di sopra, lasciando la prese sul collo di Bellamy e allontanandosi dal corpo di lui, che a sua volta parve risvegliarsi improvvisamente da una sorta di torpore, facendo un passo indietro.

A tentoni, Clarke cercò l’interruttore della luce e lo premette, illuminando le scale. Quel bagliore repentino le ferì gli occhi e lei li chiuse per un istante. Aprì la porta che dava al piano terra e salì fino al primo piano, dal quale aveva sentito il miagolio di Yeti, sempre con Bellamy qualche passo dietro di lei.

Trovò il gatto con la schiena inarcata e il pelo irto sul davanzale di una finestra, a quanto pareva neanche a lui piacevano i temporali.

Clarke lo prese fra le braccia e lo accarezzò per qualche minuto finché non si fu calmato, poi lo depose nuovamente a terra e lui mandò un’occhiata di traverso in direzione di Bellamy.

«Te l’ho detto che il tuo gatto mi odia» disse lui restituendo al felino uno sguardo torvo.

A quella scena, Clarke si mise a ridere.

«E io te l’ho detto che odia tutti tranne me e la mia coinquilina del college. Vieni pure, lo studio di mio padre è da questa parte», disse guidandolo lungo il corridoio fino ad una porta in legno scuro e lucido.

Clarke l’aprì e accese la luce, rischiarando un ambiente piuttosto spazioso e ordinato. Le pareti erano quasi totalmente ricoperte da librerie, principalmente erano tomi di medicina, ma adesso c’era anche qualche volume sul codice civile e penale e un piccolo archivio vicino alla scrivania sulla quale suo padre aveva trascorso interi pomeriggi e nottate.

L’archivio l’aveva portato Marcus. Era lì che teneva i fascicoli dei casi a cui stava lavorando. Quando non ne poteva più di stare in ufficio si portava a casa il lavoro.

In un angolo invece c’era un’altra libreria, quella era più piccola; Jake l’aveva fatta mettere lì per Clarke l’anno dopo il loro arrivo a Fort Hill. Sapeva quanto la figlia amasse leggere e quanto amasse quella stanza, dunque l’aveva comprata proprio per lei.

Ciò che Clarke non gli aveva detto era il perché le fosse sempre piaciuta quella stanza: non era tanto per l’ambiente in sé quanto per il fatto che adorasse stare lì a guardare suo padre leggere e rileggere i nuovi trattati sulla genetica, studiare, tenersi sempre informato. Aveva scelto un campo in continua evoluzione e per questo gli servivano dei continui aggiornamenti. All’epoca Clarke sarebbe anche rimasta lì a guardarlo per ore, avere suo padre al suo fianco le metteva un senso di sicurezza che non aveva mai più provato fino… beh, fino a quando Bellamy non l’aveva tranquillizzata quella notte in cui si era svegliata urlando in preda agli incubi, sul suo divano.

Quella era stata la prima volta dopo la morte di suo padre in cui si fosse veramente sentita… non più sola. Non più persa.

Fu proprio la voce del ragazzo a riportarla alla realtà.

«Allora Principessa… da dove si comincia?».

Lei scosse leggermente la testa, tornando in sé.

«Vado a prendere tutti i documenti che ho trovato fin’ora, così potrai farti un’idea, dopodiché continueremo a cercare qui dentro ciò che manca».

Bellamy, che si era seduto sul divanetto addossato ad una delle pareti, alzò gli occhi su di lei.

«E tu come fai a sapere che le pagine mancanti sono in questa stanza?».

Clarke sospirò.

«Posso solo sperarlo. Tutto quello che ho trovato era qui, nascosto in posti diversi e se quello che stiamo cercando adesso fosse da un’altra parte… beh, non saprei davvero da dove cominciare».

«Ok… iniziamo da qui allora. Vai a prendere quei documenti, così posso dare un’occhiata».

Clarke annuì e si avviò al secondo piano, verso la sua stanza. Lì tirò fuori la scatola da sotto il letto e tornò nello studio, dove Bellamy la stava aspettando.

«Ecco. Leggili, io intanto provo a controllare di nuovo la stanza. E… scusa, non ti ho neanche chiesto se vuoi qualcosa da bere o altro».

«Sono a posto così, grazie. Se per una volta non mangio non morirò di fame, tranquilla».

«Non hai mangiato? Bellamy, mi dispiace».

«Ehi, ti ho detto di non preoccuparti, d’accordo? Avanti, mettiamoci al lavoro. La notte è lunga».

Detto fatto, l’istante dopo il ragazzo era già immerso nella lettura dei documenti che Clarke gli aveva appena portato mentre lei per l’ennesima volta passava al setaccio ogni singolo granello di polvere all’interno di quella stanza.

Trascorsero ore in silenzio; lui a leggere e lei a cercare, ma senza ottenere risultati. La stanchezza cominciava a farsi sentire, così come anche la frustrazione. Tutta quella situazione era maledettamente frustrante e ad un tratto, la ragazza afferrò un soprammobile da uno scaffale e lo scagliò con violenza contro il muro dall’altra parte della stanza, facendo sobbalzare Bellamy.

«Clarke!».

«È inutile, è tutto inutile! Non saprò mai cos’è successo a mio padre!».

Il moro si alzò da terra, andandole incontro e prendendola per le spalle.

«Ehi, sono le due di mattina, non puoi metterti ad urlare e a lanciare oggetti in giro per casa. Ti aiuterò, lo prometto. È già tanto che tu sia riuscita a trovare le altre pagine, sei stata brava. Pensaci bene Clarke: c’è un posto in cui non hai mai guardato?».

Clarke chiuse gli occhi, sospirando pesantemente. Le sembrava che la sua testa scoppiasse e stavolta neanche la vicinanza di Bellamy riusciva a calmarla.

Ad un tratto, fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida. Sbarrò gli occhi e trattenne il respiro.

«Clarke… Clarke, che succede?».

Il tono di Bellamy era preoccupato, si sentiva chiaramente, ma la ragazza nemmeno lo ascoltava.

Improvvisamente puntò gli occhi sulla piccola libreria che suo padre aveva comprato per lei e vi si avvicinò a grandi passi.

Con una foga quasi febbrile iniziò a rovistare tra i suoi vecchi libri che tanto aveva letto e riletto, in quella stanza, molti anni addietro. Aprì ogni libro, lo sfogliò rapidamente… nulla. Eppure quello era l’unico posto in cui ancora non avesse mai controllato.

Sconfitta, si lasciò scivolare per terra, prendendosi la testa fra le mani.

Non c’era più niente: nessun posto in cui cercare, nessuna verità da scoprire. Solo l’ineluttabile e tragica verità dei fatti: suo padre era morto, niente e nessuno glielo avrebbe mai restituito.

Lacrime amare le premevano contro le palpebre, facendole bruciare gli occhi, ma non voleva piangere. Non in quel momento, non davanti a Bellamy.

Poggiò la testa sulle sue ginocchia, stringendo le gambe al petto e rimase così per un paio di secondi, finché non sentì una mano di Bellamy posarsi sulla sua spalla.

Non disse niente, le parole non le sarebbero state di nessun conforto in quel momento, ma quel contatto invece la aiutò.

Passò qualche minuto, poi lei si ritrasse, alzandosi in piedi.

«Cerchiamo ancora».

Bellamy annuì, poi si alzò a sua volta e la aiutò, ma alle tre di mattina ancora nulla, così Clarke si sedette sul tappeto, posando la schiena contro il divanetto alle sue spalle e poco dopo fu imitata dal moro.

«Ti riporto a casa» disse dopo qualche minuto di silenzio.

Con la coda dell’occhio lo vide lanciarle uno strano sguardo, poi il moro disse: «C’è ancora il temporale. Dovresti di nuovo guidare da sola fino a qui e non mi va».

«Non ti lascio di sicuro tornare a casa a piedi».

«Clarke… resto qui per stanotte. Posso dormire sul divano se vuoi».

La ragazza si voltò ad osservarlo, si alzò e cominciò silenziosamente a rimettere a posto il disastro che avevano combinato in quella stanza. Quando tutto fu di nuovo in ordine, lo prese per mano, con sorpresa di lui, e lo condusse in mansarda, senza dire una parola.

Si tolse le scarpe, prese una canottiera e un paio di pantaloncini e andò in bagno, cambiandosi e piegando ordinatamente i vestiti che Bellamy le aveva prestato quando si era presentata in casa sua ore prima.

Tornò in camera e vide distintamente il pomo d’Adamo del ragazzo abbassarsi e poi rialzarsi. Posò i vestiti su una sedia e lo prese nuovamente per mano, facendolo sedere sul letto. Era strano, non aveva toccato un goccio d’alcol eppure si sentiva ubriaca, come se al posto del sangue avesse in circolo qualche super alcolico.

Bellamy era seduto sul bordo del letto, la postura rigida, le mani sulle ginocchia, e la fissava con occhi scintillanti mentre lei gli stava di fronte, in piedi, entrambe le mani posate sulle sue spalle larghe.

«Clarke… » deglutì nuovamente a vuoto.

«Sì?». «Sei… sei davvero molto stanca e lo sono anch’io. Dovremmo dormire».

Clarke ebbe come l’impressione che quelle parole gli fossero costate un immane sforzo.

«Sì. Sì, hai ragione».

Fece un passo indietro e si allontanò da lui, salendo a sua volta sul letto.

Spense la luce, dopodiché, nel buio, si avvicinò al ragazzo e gli diede un bacio sulla guancia, ma pur sempre ad un centimetro dalle sue labbra.

Sentì il corpo di Bellamy irrigidirsi.

«Buonanotte Bellamy».

«Buonanotte Clarke».

E detto ciò, prese nuovamente le distanze, allontanandosi da lui.

Il flash di un lampo illuminò a giorno la stanza, seguito subito dopo dal tremendo boato di un tuono, che li fece sobbalzare entrambi.

Clarke si rizzò a sedere sul letto, mentre Bellamy fece un salto, ma rimase disteso.

«Ehi… stai bene?» le chiese.

«Sì».

Ma la verità non era quella. Non stava bene e le sembrava di essere improvvisamente tornata indietro di sei anni. Alla notte in cui suo padre morì.

Il cuore le batteva all’impazzata e lei cercò di prendere qualche respiro profondo per calmarsi. Non voleva farsi vedere da Bellamy così agitata.

«Dimmi che hai».

Aveva come l’impressione che quel ragazzo stesse imparando a conoscerla meglio di quanto le piacesse ammettere e ormai difficilmente sarebbe riuscita a tenergli nascosto qualcosa.

«Niente, Bellamy. Torna a dormire, d’accordo?».

Con la coda dell’occhio lo vide tirarsi a sedere sul letto e lanciarle un’occhiata poco convinta.

«Clarke... ti puoi fidare di me, spero che ormai tu l’abbia capito».

Lei annuì, ma comunque non voleva parlarne. Non voleva dirgli che i temporali la riportavano così inesorabilmente a rivivere la notte peggiore della sua vita. Si era ripromessa che non l’avrebbe mai detto a nessuno, così dovette trovare una scappatoia a quella situazione.

Il cuore le batté più veloce nel petto e, nell’oscurità, posò le mani sul petto di lui, che parve irrigidirsi per un momento prima di prenderla per i polsi e attrarla a sé.

«Clarke… ».

La ragazza aveva notato che Bellamy non usava il solito nomignolo irritante “Principessa” chiamandola invece per nome quando era serio.
«Sssh… dormi» sussurrò ad un soffio dal suo orecchio.

Si stesero nuovamente sul materasso, vicini stavolta; Clarke posò la testa sul petto del ragazzo e, nel giro di qualche istante, si addormentarono entrambi.

Quando si svegliò, la mattina successiva, Bellamy ancora dormiva. Clarke si alzò piano dal letto senza svegliarlo e guardò l’orologio. Erano le otto passate e prima delle nove sua madre sarebbe stata a casa, non poteva certo trovarli a dormire insieme.

Si avvicinò a lui e gli posò una mano sulla spalla, scrollandolo leggermente.

«Bellamy… ».

Lui mugugnò e si voltò dall’altra parte.

Clarke sorrise divertita. «Bellamy, devi svegliarti. Mia madre sarà qui presto».

Il ragazzo sembrò non allarmarsi particolarmente.

«E chi se ne importa, lasciami dormire Griffin».

La ragazza rise.

«Avanti, alzati».

Bellamy sbuffò, infilando la testa sotto il cuscino.

«Maledizione a te e al tuo sadismo».

Con aria ancora addormentata, il ragazzo si alzò dal letto, infilando le scarpe.

«Sei in debito con me, Principessa» ed ecco che riaffiorava il solito ghigno arrogante.

«Ma davvero? E dimmi Blake, come dovrei sdebitarmi?» chiese lei facendo un passo avanti e incrociando le braccia al petto con aria divertita.

A quel punto anche lui si fece avanti, sorridendo.

«Sicuramente penserò a qualcosa. Ci vediamo, Principessa» e detto ciò le voltò le spalle e si avviò verso le scale.

Clarke lo accompagnò fino alla porta d’ingresso, poi lo osservò andare via.

Andò in cucina e cercò di fare colazione, il cervello diviso a metà: da una parte non riusciva a non pensare a suo padre, a ciò che quei documenti potevano significare e alla frustrazione per non aver trovato ciò che cercava.

Dall’altra parte poi c’era Bellamy. Bellamy e quei sentimenti che, si rendeva sempre più conto, non riusciva a reprimere nei suoi confronti.

Si prese la testa fra le mani, nella confusione più totale, sembrava che ci fosse in corso una guerra nella sua mente e proprio in quel momento sentì la porta d’ingresso aprirsi.

Cercò di darsi un contegno, si sistemò i capelli e continuò a mangiare, giusto per far credere a sua madre che stesse davvero facendo colazione.

Ma la ragazza si accorse non appena lei mise piede in cucina che c’era qualcosa che non andava.

La donna infatti aveva un’espressione tirata e stanca. E nervosa.

«Mamma… che succede?».

Abby si avvicinò, sedendosi pesantemente al suo fianco.

«Sai che Marcus è andato in Texas, vero Clarke?».

Lei annuì, aveva un brutto presentimento.

«È stato convocato lì per lavoro. Il vecchio comandante è rimasto ucciso e… gli è stato chiesto di prendere il suo posto. Ci trasferiamo a Dallas, Clarke».



Where are we?
What the hell is going on?

Crop circles in the carpet
Sinking feeling
Spin me around again and rub my eyes
This can't be happening
When busy streets
A mess with people
Would stop to hold their heads heavy

Hide and seek
Trains and sewing machines
All those years they were here first
Oily marks appear on walls
Where pleasure moments hung before
The takeover
The sweeping insensitivity of this
Still life
Hide and seek
Trains and sewing machines

(You won't catch me around here)
Blood and tears
They were here first
Mm, what'd you say?
Mm, that you only meant well
Well of course you did
Mm, what'd you say?
Mm, that it's all for the best
Of course it is
Mm, what'd you say?
Mm, that it's just what we need
You decided this
Mm, what'd you say?
Mm, what did she say?



Dove siamo?
Cosa diavolo sta succedendo?
La polvere ha appena iniziato a formare
Cerchi di grano sul tappeto, affondando sentimenti
Fammi girare ancora e stropicciami gli occhi
Non può essere che stia davvero accadendo
Quando le strade sono affollate
E c'è una confusione di persone che
Sono stanche di tenere le loro teste pesanti

Nascondi e cerca
Treni e macchine da cucire
Tutti questi anni loro erano qui prima
Macchie oleose appaiono sui muri, dove i momenti
Piacevoli stavano appesi prima di essere portati via,
Prima della radicale insensibilità di questa vita statica.

Nascondi e cerca
Treni e macchine da cucire
Non mi troverai qui intorno
Sangue e lacrime erano qui prima

Mmh, cosa hai detto?
Che avevi solo buone intenzioni?
Beh, certo che le avevi
Mmh, cosa hai detto?
Che va tutto per il meglio?
Certo che è così.
Mmh, cosa hai detto?
Che è proprio ciò di cui abbiamo bisogno?
Tu l’hai deciso.
Cosa hai detto? Cosa ha detto lei?



La colazione di Bellamy fu l’intero contenuto del suo frigorifero che fosse ancora commestibile.

Erano state ore completamente assurde: da quando Clarke si era presentata in casa sua rivelandogli la verità su suo padre, su quei documenti… lui non aveva più capito nulla. O meglio… aveva preferito non capire perché ciò che avrebbero potuto scoprire era davvero inconcepibile.

Perché erano dovuti arrivare a scoprirlo? Che diavolo stava succedendo? In cosa era rimasto invischiato il padre di Clarke? Medici dell’Ark Medical Center e del Wallace General Hospital… era tutto così confuso. A Bellamy sembrava di trovarsi all’interno di una vecchia casa, in cui più cerchi più ne scopri i difetti: i tappeti consunti, le macchie sui muri. Una sorta di macabro nascondino in cui più vai a fondo più resti intrappolato. Era la stessa identica cosa: ogni volta che scoprivano qualcosa di nuovo, invece che avere risposte ottenevano solo mille altre domande e lui era preoccupato per Clarke, perché era certo del fatto che quella che ci avrebbe rimesso di più, alla fine dei giochi, sarebbe stata lei.

Lui aveva conosciuto il dottor Griffin, era stato amico di sua madre, lo sapeva. Melinda non glielo aveva mai detto, ma Bellamy lo aveva capito dalla reazione che lei aveva avuto apprendendo la notizia della sua morte.

Ad ogni modo, era una persona buona ed estremamente portata all’altruismo. Com’era possibile che fosse coinvolto in una cosa del genere? Non sapeva ancora di cosa si trattasse precisamente, ma Clarke era stata chiara: esperimenti genetici.

Lui non lo avrebbe mai fatto, ne era certo.

Si arrovellò per tutta la mattina ma nulla, e ben presto arrivò il momento di prepararsi per andare al lavoro.

Dannazione, il tempo gli stava sfuggendo via dalle mani ad una velocità spaventosa. Ben presto l’estate sarebbe finita e lui quasi non si era accorto di nulla. Gli bastava pensare al fatto che era già trascorso più di un mese da quando Clarke era tornata a Fort Hill, erano successe un mucchio di cose e a lui sembrava che fossero passati appena pochi giorni. Chiuse gli occhi per un momento e respirò a fondo.

Altra cosa che lo preoccupava era l’esame da tenente.

Tra appena più di un mese avrebbe scoperto l’esito del test e quel test avrebbe deciso la sua carriera. Perché se non lo avesse passato sì, avrebbe potuto ripeterlo, ma nel frattempo un altro tenente avrebbe preso il posto del tenente Clarence e Bellamy a quel punto, se avesse ripetuto l’esame e lo avesse passato, sarebbe stato costretto a cambiare caserma.

Non riusciva nemmeno a pensarci. Non lavorare più con Atom, con Miller… quei ragazzi erano la sua famiglia.

Sospirò e uscì di casa per andare al lavoro.

Il cielo era tornato sereno e limpido dopo la tempesta di quella notte e, come aveva previsto, i danni non erano mancati.

C’era ancora disordine per le strade, persone in difficoltà, edifici allagati. Sapeva che avrebbero avuto il loro da fare quel giorno, così, sospirando, lasciò il veicolo nel parcheggio della caserma e scese dall’auto, avviandosi verso l’ingresso.

Trovò i colleghi del turno della mattina distrutti, chi stravaccato sul divano, chi seduto sulle sedie con la testa poggiata sul tavolo. Le premesse non erano esattamente delle migliori, pensò il ragazzo.

Atom entrò in stanza gocciolante, probabilmente aveva appena fatto una doccia, con l’aria di uno zombie in punto di morte: il viso pallido, gli occhi cerchiati da ombre scure, la schiena leggermente incurvata.

Da che avesse memoria, Bellamy non ricordava di averlo mai visto in uno stato tanto pietoso.

«Sai… hai davvero un aspetto orribile» lo prese in giro sedendosi sullo schienale del divano sul quale l’amico si era appena lasciato cadere a peso morto.

«Fottiti, Bellamy».

Il ragazzo scoppiò a ridere.

«Si può sapere cos’è successo stamattina?».

«Siamo stati fuori sempre. Tutta la mattinata. Non facevamo nemmeno in tempo a tornare in caserma che sul camion eravamo già sommersi di chiamate. Roma e Antonio stavano seriamente andando fuori di testa, così come anche noi. Non ci siamo fermati un solo istante, Bell. Adesso voglio solo andarmene a casa».

Bellamy gli diede una pacca sulla spalla.

«Beh, il tuo turno è finito. Puoi andare adesso».

«Se mi mettessi a guidare ora credo che finirei contro un albero, perciò, se a voi ragazzi non dispiace, me ne andrò a dormire in una delle brandine nella stanza qui accanto a riposare un po’ prima di prendere la macchina».

«Vai pure, penso che il povero albero ne risentirebbe se ci andasse a sbattere contro la tua testa dura».

«Hai mangiato pane e simpatia stamattina, Bell?».

Il ragazzo rise.

«Veramente stamattina ho mangiato tipo… qualunque cosa. E intendo veramente qualunque cosa».

«Sono troppo intontito per riflettere sul significato di questa frase, perciò me ne andrò a dormire e non osate neanche svegliarmi, è chiaro?».

«Dio, quanto sei permaloso».

Scuotendo la testa con l’aria di uno che non sapeva nemmeno il perché si trovasse lì, Atom si avviò verso la porta che dava al corridoio, in direzione della stanza che loro avevano soprannominato “il dormitorio”.

Come ormai sempre più spesso gli capitava di fare, Bellamy tirò fuori il libro in preparazione all’esame del mese successivo e cominciò a studiare.

Non ebbe però molto tempo a disposizione perché la solita voce femminile annunciò: «Camion 62, autopompa 22, squadra 9, ambulanza 52. Edificio in fiamme al 577 di Brighton Avenue».

Subito la squadra partì e in pochi minuti giunsero sul posto. Atom e gli altri ragazzi che avevano fatto la mattina li avevano informati che molti edifici avevano preso fuoco a causa di corti circuiti dovuti alla tempesta del giorno e la notte precedente. Bellamy sapeva che per tutto il pomeriggio non avrebbero fatto che ricevere chiamate e per fortuna lui il giorno prima era rimasto a casa.

Spegnere quell’incendio fu più complicato di quanto pensassero in un primo momento: erano rimaste ancora parecchie persone all’interno della struttura e le due squadre, quella del tenente Jordan e quella del tenente Clarence, dovettero faticare non poco per portare fuori tutti sani e salvi.

Bellamy rischiò di restare intrappolato sotto una trave nel tentativo di portare via una bambina e solo l’intervento all’ultimo secondo di Bloom lo impedì. Per fortuna nemmeno il suo collega rimase ferito.

Respirando affannosamente e ancora con la bambina tra le braccia, Bellamy e i pochi vigili del fuoco rimasti all’interno dell’edificio, corsero fuori pochi minuti prima che crollasse.

Stanchi, tornarono in caserma per compilare i loro verbali. Sì, decisamente la parte burocratica era quella che più detestava nel suo lavoro. Quando ebbe finito andò a fare una doccia veloce e poi controllò nel dormitorio che Atom fosse ancora lì.

Sì, quel ragazzo aveva bisogno di dormire, doveva essere stato un turno estenuante quello della mattina.

Tornò nel salone principale e riprese a studiare anche se la sua concentrazione sembrava essere calata rispetto a prima di uscire. Si accorse che doveva rileggere le frasi due o tre volte prima di capirle completamente e questo lo fece innervosire. Che diamine, ai tempi dell’accademia riusciva a studiare mantenendo anche quattro lavori contemporaneamente e badando a sua sorella.

Ora non aveva nessuno a cui badare e solo un lavoro, eppure la sua mente era totalmente persa in altri pensieri.

Primo fra tutti: il mistero del dottor Griffin. Una voce remota nella sua testa gli diceva di tenersi alla larga e farsi gli affari suoi, che tutta quella situazione gli avrebbe solo portato un sacco di guai, eppure adesso non riusciva a non pensarci e la sola idea che Clarke potesse imbarcarsi in un affare tanto pericoloso da sola non lo faceva stare tranquillo.

Perché ne era certo: anche se lui non l’avesse aiutata, Clarke sarebbe andata per la sua strada con il rischio di finire in grossi guai. Scosse la testa sbuffando. Quella ragazza lo avrebbe mandato al manicomio.

Si passò le mani sul volto e si alzò per bere qualcosa.

Senza che nemmeno se ne rendesse conto erano già le sei di pomeriggio e, poco dopo, ricevettero una chiamata per un albero caduto nel “Greenbelt National Park”.

Greenbelt National Park? Pensò Bellamy… e lui che aveva sempre chiamato quel posto “Staten Island Greenbelt”. In effetti così aveva più senso.

Aveva sempre amato quel parco, gli trasmetteva un senso di pace e tranquillità e ogni volta che aveva bisogno di riflettere, di staccare dal resto del mondo, si recava lì.

Era talmente grande che non era ancora mai riuscito a visitarlo tutto, prima o poi si ripromise che lo avrebbe fatto.

Salì sul camion e partirono a sirene spiegate, impiegarono una decina di minuti per arrivare al grande parco e lì uno dei custodi li attendeva all’uscita ovest, conducendoli sul luogo in cui l’albero era crollato.

Fortunatamente fu un lavoro semplice e grazie al cielo non c’erano stati feriti, dunque si limitarono a sgombrare la zona e a tornare in caserma.

Una volta rientrati, Bellamy andò nuovamente a controllare Atom, notando che il ragazzo non c’era più. Probabilmente si era svegliato e non vedendo nessuno se n’era tornato a casa.

Prima della fine del turno ricevettero altre tre chiamate, poi, esausti, aspettarono i ragazzi del turno della notte e infine ognuno si riavviò a casa propria.

Bellamy stava guidando quando si accorse di una sagoma seduta sul marciapiede alla sua sinistra, il viso nascosto dalle braccia e le mani infilate tra i capelli biondi.

Inchiodò, lasciò la macchina ad un lato della strada e scese dopo averla spenta, avvicinandosi alla figura.

«Clarke?».

Lei alzò gli occhi.

«Bellamy… che ci fai qui?».

«Io stavo tornando a casa. Tu piuttosto… che ci fai a quest’ora così lontana dal palazzo?».

Lei gli lanciò un’occhiataccia.

«Non voglio neanche tornarci, penso che potrei mettermi a lanciare qualcosa di contundente contro mia madre».

A quelle parole il ragazzo inarcò le sopracciglia. Non aveva detto che stava cercando di recuperare il rapporto?

«Cos’è successo?».

Vide la bionda giocherellare con l’orologio al suo polso prima di accorgersi della sua mano sinistra arrossata e ustionata.

«Clarke! Che ti è successo?!».

Lei si osservò la mano, come se non si fosse accorta di nulla, poi sbuffò con aria stanca.

«Hai presente la lampada a cera sulla mia scrivania?».

Lui le fece un cenno affermativo con il capo, lo sguardo serio.

«Era accesa da diverse ore e… l’ho presa in mano e lanciata contro un muro. Non l’ho fatto di proposito, o meglio… sì, l’ho fatto di proposito, ma volevo solo lanciare qualcosa in quel momento e quella lampada era la prima cosa che mi è capitata sotto mano. Mi piaceva anche… » spiegò.

Bellamy chiuse gli occhi per un istante.

«Clarke… vuoi spiegarmi cos’è successo? E sei andata al pronto soccorso?».

Lei gli rivolse uno sguardo di traverso.

«Ma ti pare?».

«Clarke… ».

«Bellamy?».

«Vieni, direi che non sono un medico, ma di ustioni ne so abbastanza anch’io».

«Non sono una damigella in difficoltà e tu non sei il mio cavaliere dalla scintillante quello che è».

Lui sbuffò divertito.

«So perfettamente entrambe le cose. Infatti tu sei una Principessa, non una damigella in difficoltà. Muoviti adesso» disse alzandosi dal marciapiede e porgendole una mano per aiutarla ad mettersi in piedi a sua volta.

Lei lo fulminò con uno sguardo che, se avesse potuto uccidere, in quel momento Bellamy sarebbe stato per terra senza vita, ignorò la sua mano e si alzò da sola, facendolo ridere.

«Che caratterino».

Clarke lo ignorò, passando oltre la sua macchina.

«Si può sapere che diavolo fai?».

«Andrò da Jasper».

«Principessa, ci si mette quaranta minuti in macchina per arrivare da lui, saresti lì domattina».

«Da Monty allora».

A quel punto Bellamy le si piazzò davanti, incrociando le braccia al petto e sovrastandola.

«Clarke… sali in macchina» disse con sguardo serio.

«No. Non ci penso neanche».

Qualcosa si agitò in Bellamy. Dio, quella ragazza lo avrebbe fatto impazzire e in quel momento sarebbe veramente stato capace di prenderla e baciarla. Gli occhi chiari di Clarke erano puntati dritti nei suoi ed era certo che fino ad un mese prima la bionda avrebbe evitato quel contatto, mentre ora reggeva il suo sguardo, lo stava sfidando. E… beh, si sapeva: Bellamy Blake aveva sempre amato le sfide.

«Sali in macchina» ripeté con un tono autoritario che non ammetteva repliche.

Stranamente, anche lui in quel momento era completamente lucido, nonostante la vicinanza a lei e nonostante il suo profumo che lo pervadeva ed era come se lo invitasse ad assaggiarla lì sul posto, in mezzo alla strada.

«Togliti di mezzo, Blake».

Lui alzò un angolo della bocca in uno dei suoi mezzi sorrisi strafottenti che sapeva perfettamente quanto la mandassero in bestia, facendo un passo avanti senza staccare gli occhi dai suoi.

«Coraggiosa la Principessa».

Accadde nel giro di un secondo: il ragazzo piegò le ginocchia, afferrando le gambe di lei e buttandosela in spalla.

«Blake! Mettimi giù immediatamente!» strepitò lei, cominciando a tempestarlo di pugni sulla schiena e facendolo ridere apertamente.

«Troppo tardi, Principessa».

Il moro aprì la macchina, infilando di peso Clarke all’interno, sistemandola sul sedile del passeggero e allacciandole la cintura, dopodiché prese posto a sua volta e mise in moto il veicolo prima che Clarke potesse pensare di lanciarsi fuori.

«Ti odio» disse lei incrociando le braccia al petto e mettendo un broncio infantile che sì, lo divertì, ma anche gli fece venire ancora più voglia di baciarla.

In silenzio arrivarono a casa Blake, ormai erano quasi le undici di sera. Clarke scese dall’auto sbattendo lo sportello e Bellamy la osservò, cercando di capire se se la fosse realmente presa o se stesse mettendo in scena tutta una farsa per cercare di farlo sentire in colpa. Comunque, anche se l’intento della ragazza fosse stato quello, non stava funzionando.

Si avvicinò alla porta d’ingresso tirando fuori le chiavi e aprì, facendosi da parte per farla passare.

«Comincia ad andare in bagno, ti raggiungo subito» le disse e lei obbedì, sempre senza dire una parola.

Bellamy chiuse la porta e si fermò in cucina a bere un bicchiere d’acqua, poi ne riempì un altro e lo portò a Clarke.

«Hai sete?».

Per un momento la ragazza lo guardò storto, poi annuì, prendendo il bicchiere dalla sua mano.

Mentre beveva, Bellamy si avvicinò ad un mobiletto in cui teneva farmaci e un po’ di materiale per le medicazioni, estraendo una pomata e un paio di garze, poi aprì un rubinetto.

«Da quanto hai la mano in quelle condizioni?» le chiese.

«Stamattina. Poco dopo che sei andato via».

«Clarke, diamine!» esclamò lui sgranando gli occhi.

«Non ho bisogno di una paternale Blake, quindi risparmiatela».

Lui sbuffò pesantemente, lanciandole uno sguardo torvo.

«Mi vuoi dire che è successo?» le chiese facendole cenno di alzarsi dal bordo della vasca sulla quale si era seduta e mettere la mano sotto il getto di acqua fredda.

La ragazza emise un lieve gemito di dolore al contatto con l’acqua, che a Bellamy non sfuggì, anche se lei si affrettò a soffocarlo.

Il padrone di casa prese una sedia, posizionandola di fronte alla vasca ed entrambi ripresero posto.

«Si tratta di mia madre… e di Marcus».

Bellamy spremette un po’ di pomata sul palmo della mano di Clarke, le prese un polso e con l’altra mano iniziò a spalmarla con gesti lenti e circolari.

«Ci sono problemi fra di loro?».

Clarke rise, ma era una risata priva di allegria.

«Oh no… no, anzi tra di loro le cose vanno talmente bene che se ne sono fregati di qualsiasi altra cosa non consultandomi minimamente per prendere una decisione che riguarda anche la mia vita».

«E di cosa si tratta?» chiese quando ebbe finito di stendere la pomata sulla mano di lei. A quel punto vi posò sopra una garza e cominciò a fasciare la sua mano partendo dal polso.

«Sostanzialmente Marcus ha ricevuto un incarico come comandante in Texas e… beh, hanno deciso di trasferirsi lì senza dirmi niente. Mia madre avrebbe un ruolo di prestigio, forse a livello dirigenziale in un ospedale di Dallas, non lo so, non ho capito. Non mi sono fermata ad ascoltarla, in quel momento avrei solo voluto che stesse zitta. Non lascerò la casa in cui ho trascorso gli ultimi anni di vita di mio padre e sai qual è stata la cosa più divertente? Si parte tra due giorni. Due giorni! Voglio dire… non hanno avuto nemmeno il minimo riguardo per ciò che pensavo io!».

Clarke era furiosa, Bellamy poteva capirlo chiaramente e, da parte sua, lui era rimasto congelato sul posto, la fasciatura a mezz’aria.

Clarke sarebbe partita. Si sarebbe trasferita in Texas e lui non l’avrebbe più rivista. Deglutì a vuoto una volta prima di riprendersi, poi, un’idea parve balenargli in testa.

«Aspetta… a settembre tu avrai l’esame per la specialistica in chirurgia, giusto?» lei lo osservò, l’espressione confusa.

«Sì, e con questo?».

«Con questo, mi hai detto che chi rientrerà nei primi cinque posti potrà avere la possibilità di scegliere in quale ospedale fare il tirocinio e se rientri in quei posti, potresti decidere di fare l’internato nell’Ark Medical Center. Tua madre a quel punto non potrà dirti niente».

A quel punto vide con chiarezza gli occhi della bionda illuminarsi, dopodiché lo osservò con sguardo divertito prima di dire: «Allora non sei così stupido come credevo, Blake».

«Ehi!» esclamò lui pizzicandole un fianco e facendola saltare sul bordo della vasca. «Ricordi la mia famosa maglietta? Io sono il tuo re, quindi porta rispetto».

La bionda scoppiò a ridere.

«Tu sei solo il re delle trasgressioni».

Il ragazzo le lanciò uno sguardo di traverso.

«Sono un re ribelle. E allora?».

Lei scosse la testa divertita.

«Mmm… certo. Dunque io sarei una principessa coraggiosa e tu un re ribelle?».

«Certo! Hai visto che squadra?».

«Oh, Gesù» disse lei prendendosi la testa tra le mani.

La ragazza alzò nuovamente lo sguardo e per un momento, a Bellamy parve di perdersi in quegli occhi chiari.

«Avanti Principessa… ti riporto al castello» disse infine.

Così si avviarono insieme nuovamente verso l’ingresso, salendo in macchina.

Clarke era più rilassata, Bellamy riusciva a capirlo dalla sua postura e quando arrivarono la vide dirigersi verso il melo vicino alla sua finestra.

Alzando gli occhi al cielo, scese a sua volta dalla macchina, rincorrendola.

«Clarke maledizione, hai una mano ustionata! Non vorrai mica arrampicarti su quell’albero».

Lei lo osservò.

«Aiutami allora. Non ho intenzione di passare per la porta e vedere mia madre».

Il ragazzo inarcò le sopracciglia, sorpreso del fatto che lei gli avesse appena chiesto aiuto.

«Bene, allora fai prima salire me, tu vienimi dietro e ti darò una mano».

Impiegarono un po’ più del solito per arrivare, ma alla fine riuscirono ad arrivare in camera. Come sempre, Yeti soffiò contro Bellamy, che si spaventò a morte e involontariamente fece cadere un piccolo portagioie da uno scaffale piuttosto in alto di una libreria, che si aprì, rovesciando il contenuto sul pavimento.

«Ucciderò il tuo gatto, dannazione».

Ma Clarke non lo stava ascoltando.

Si era chinata per terra per raccogliere ciò che si era sparpagliato in giro e solo allora lui si accorse di cosa avesse in mano la ragazza.

«Bellamy, questa è… » disse alzandosi e lui le prese dalle mani il piccolo oggetto scintillante.

«La chiave di una cassetta di sicurezza» completò al posto suo .




NOTE:





Hola a todos! Rieccomi con il quattordicesimo capitolo (sì, non vi libererete di me tanto facilmente, sarò il vostro tormento ancora per un po’).

Dunque dunque… anche questo è stato un capitolo bello denso di eventi. Onestamente sto cercando di far trascorrere meno tempo insieme a quei due, ma è inutile, non ce la faccio. Più avanti recupererò, ma per adesso mi servono ancora insieme XD

Allora, abbiamo più o meno capito di cosa Jake si stesse occupando prima di morire, ma ancora non c’è nulla di certo ed ora che Abby e Kane hanno deciso di trasferirsi, chissà che piega prenderanno le indagini di Clarke, soprattutto ora che ha trovato questa misteriosa chiave e il suo rapporto con Bellamy.

Bene, vi lascio andare con l’anticipazione che nel prossimo capitolo Atom ne combinerà una delle sue portando lo scompiglio nel gruppo, ma fidatevi: ne succederanno delle belle e questo forse farà sì che i nostri due testoni si rendano ancora più conto dei loro sentimenti reciproci.

Alla prossima!

Mel



War inside my head – Within Temptation. Clarke

Hide and seek – Imogen Heap. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Let's play ***



CAPITOLO 15: LET’S PLAY
Take a breath, take it deep
Calm yourself, he says to me
If you play, you play the key
Take the gun, and count to three
I'm sweating now, I'm moving slow
No time to think, my turn to go

And you can see my heart, beating,
You can see it through my chest
I'm terrified but I'm not leaving, no
I know that I must pass this test
So just pull the trigger



Prendi fiato,
fallo profondamente
calmati, mi dice lui
se giochi, fallo sul serio
prendi una pistola,
e conta fino a tre
sto sudando adesso,
mi muovo lentamente
non ho tempo per pensare,
tocca a me andare...

e puoi vedere il mio cuore che batte
puoi vederlo attraverso il mio petto
ho detto che sono terrorizzata
ma non me ne sto andando...
so che devo assolutamente
riuscire in questa prova
quindi premi il grilletto




Quando sua madre le aveva dato la notizia di quel trasferimento, per un momento Clarke si era congelata sul posto.

Era impazzita? La stava prendendo in giro? Beh, in ogni caso non era divertente ed era stato ancor meno divertente quando la ragazza aveva capito che non c’era nessuno scherzo: Abby non era mai stata tanto seria.

Come avevano potuto, lei e Marcus, prendere una decisione del genere senza consultarla? Quando poi le aveva comunicato che sarebbero partiti entro due giorni e che c’era qualcuno già interessato alla casa, Clarke era veramente esplosa.

Con furia aveva salito le tre rampe di scale che portavano fino alla mansarda, sbattendo con veemenza la porta alle sue spalle.

Ora poteva capire cosa avesse provato la vecchia nonna di Wells: rabbia, dolore, frustrazione, tradimento. Non riusciva ad immaginare come sua madre potesse anche solo prenderlo in considerazione. Era davvero così semplice per lei? Perché per Clarke non era così. Sì, era andata a vivere al campus, ma era una cosa totalmente diversa: sapeva che quando fosse tornata a Fort Hill, quella casa sarebbe stata lì ad aspettarla.

Quella casa così piena di ricordi degli ultimi anni di vita di suo padre. Ricordi di momenti felici che Clarke aveva vissuto con spensieratezza, consapevole del fatto di essere ancora una ragazzina e di potersi comportare come tale. In realtà Jake le aveva detto mille volte che per la sua età era fin troppo matura, che avrebbe dovuto pensare più a sé stessa, divertirsi, uscire, mentre lei era così concentrata sulla scuola e sul suo futuro. Un’autentica secchiona, su questo non poteva dare torto a Bellamy.

Ad ogni modo lei non aveva la minima intenzione di lasciare quella casa, non l’avrebbe fatto nemmeno se sua madre l’avesse trascinata fuori di lì a forza.

Per un po’ le era parso come se le cose tra di loro stessero migliorando, si era illusa di poter ricostruire la perfetta famiglia che erano prima. Sì, prima. Quando Jake era ancora vivo. Ma Marcus non era Jake e lei sapeva bene che se in diciassette anni lei e sua madre erano andate d’accordo, era stato solo per via di suo padre. Era lui il collante di quella famiglia, era a lui che toccava l’arduo compito di tenere gli animi delle due donne acquietati e quando lui era mancato, si era creata una spaccatura.

Clarke si era allontanata, Abby aveva provato varie volte un approccio nei suoi confronti, ma non c’era stato verso. Clarke era sempre stata inavvicinabile nei confronti di chiunque. Poi era arrivata Thalia e allora la ragazza aveva cominciato a riaprirsi al mondo.

Adesso però tutto era stato di nuovo rovinato e Clarke non sapeva se stavolta sarebbe riuscita a perdonarla: metterla davanti a cose fatte le aveva provocato una tale furia da farla addirittura tremare.

Con rabbia, Clarke aveva afferrato il primo oggetto che le era capitato tra le mani. Sfortunatamente per lei, la scelta era ricaduta sulla lampada a cera che teneva sulla scrivania, accesa da diverse ore, lanciandola e facendole attraversare la stanza.

Aveva imprecato per il dolore dell’ustione che si era procurata nel momento in cui l’oggetto si era frantumato al suolo, spargendo il contenuto liquido e la cera bollenti sul pavimento, creando una macchia che bruciò irrimediabilmente il parquet.

«Cazzo!» aveva esclamato, guardando la sua mano rossa e bruciante. Era corsa in bagno e aveva aperto il getto di acqua fredda, dando sollievo a quel dolore insopportabile.

Era uscita dalla finestra della sua stanza, non voleva vedere sua madre e per tutto il resto del giorno non aveva fatto altro che camminare e camminare. Verso sera si era fermata al pub dei genitori di Monroe, giusto per mettere qualcosa nello stomaco e infine era nuovamente uscita. Ancora non voleva tornare a casa, dunque si era fermata lungo la strada, non sapeva nemmeno dove di preciso, sedendosi su un marciapiede.

Lì aveva incontrato Bellamy, o meglio… lui le si era materializzato davanti dal nulla e, brevemente, la ragazza gli aveva fatto il punto della situazione.

Il moro l’aveva portata a casa sua per medicarla dopo aver notato la sua mano ustionata, dopodiché si era offerto di riaccompagnarla a casa.

Si erano arrampicati insieme fino alla sua stanza, sempre servendosi dell’albero e, una volta dentro, Yeti aveva spaventato a morte il ragazzo, emettendo un potente miagolio alquanto rabbioso. Sembrava che al gatto Bellamy non andasse per niente a genio.

Ora però Clarke non vi badò particolarmente, perché qualcosa aveva attirato la sua attenzione: un oggetto caduto dal portagioie che era finito per terra dopo il brusco scatto di Bellamy.

La ragazza lo raccolse, analizzando la piccola chiave con aria attenta e sconcertata. Un piccolo numero era inciso su uno dei lati: 21.

«Bellamy, questa è… ».

«La chiave di una cassetta di sicurezza» la interruppe lui, altrettanto interessato.

Clarke deglutì a vuoto, poi sentì dei passi lungo le scale, infilò la chiave in tasca e si rivolse nuovamente al ragazzo: «Va’ via prima che mia madre ti trovi qui».

«E come facciamo per questo?» disse lui indicando la tasca dei suoi pantaloncini.

Clarke scarabocchiò velocemente qualcosa su un pezzo di carta che poi gli porse.

«Questo è il mio numero di telefono, ci sentiamo, ma ora vai! Muoviti!».

Lui afferrò il foglio che la bionda gli porgeva e sgusciò via pochi istanti prima che la porta della stanza si aprisse.

«Non si bussa più?» chiese lei in tono duro.

«Clarke… » il tono di sua madre era accondiscendente e questo forse la fece irritare ancor di più.

«No. Senti… tu e Marcus potete fare quello che diavolo volete, ma io… io non verrò con voi. Resterò qui, mi preparerò per il test d’ingresso a chirurgia e sceglierò l’Ark Medical Center come ospedale per l’internato. Perciò non provarci neanche a vendere questa casa».

Sua madre sembrava frastornata.

«E da quando avresti preso questa decisione?».

Da quando Bellamy mi ha dato l’idea, pensò.

«Da circa un’ora».

«Clarke, possiamo parlarne… ».

«Parlarne?! Come tu e Marcus avete parlato con me di questa vostra intenzione?! No, non esiste. Andate, non dico di no. Giocate pure alla coppia felice come avete fatto negli ultimi cinque anni, non sarò certo io a fermarvi, ma lasciatemi fuori da questa farsa. Così sarà meglio per tutti».

Fece una pausa, poi continuò: «Mamma, è inutile prendersi in giro… l’unica cosa che ci faceva andare d’accordo era papà, senza di lui… noi non funzioniamo bene. Possiamo vederci durante le feste, ai compleanni, a Natale. Ma vivere sotto lo stesso tetto? No, non fa per noi. Finiamo solo per distruggere quel poco che resta, quindi… è meglio così, credimi. Ognuno per la sua strada, com’è stato in questi anni».

Abby era pallida, la bocca semiaperta e gli occhi vuoti. Probabilmente non credeva a ciò che la figlia aveva appena detto e, per un attimo, Clarke si sentì in colpa, ma fu solo un momento.

Senza dire una parola, la donna si voltò, uscendo dalla stanza della figlia.

Clarke sospirò pesantemente, lasciandosi cadere sul letto, i gomiti piantati nelle ginocchia e il volto fra le mani.

Non seppe quanto tempo passò prima che il suo telefono vibrasse.

Clarke lo afferrò e aprì il messaggio, proveniente da un numero che non aveva salvato in rubrica.

Tutto bene Principessa?” suo malgrado, Clarke sorrise, capendo immediatamente di chi si trattasse.

“Ho detto a mia madre che non mi trasferirò. Non l’ha presa molto bene, credo di aver fatto abbastanza la stronza”.

La risposta di Bellamy non tardò ad arrivare.

È una decisione per il tuo futuro, Clarke. E il tuo futuro riguarda te, non sei più una bambina, hai il diritto di decidere della tua vita”.

Lei sorrise.

Grazie Bellamy” era incredibile come, con poche parole, quel ragazzo fosse in grado di renderle tutto più facile, di farla sentire meno in colpa.

Figurati, Principessa. Dunque… come hai intenzione di muoverti riguardo a quella chiave?”.

La ragazza ci rifletté. In effetti quello era un bel rompicapo. Non aveva la minima idea di cosa fare.

Probabilmente so in che banca si trovi quella cassetta, mio padre andava sempre nella stessa. Ma credo di dovermi procurare il suo certificato di morte per averne accesso”.

D’accordo. Ma senti…. Non fare niente da sola, ok? Tutta questa storia comincia a sembrarmi un po’ troppo strana”.

Nonostante tutto, leggendo quelle parole, un tenue sorriso si aprì sul suo volto.

Cos’è Blake? Ti preoccupi per me?”.

Vai al diavolo, Griffin”.

Ora la ragazza rise apertamente.

Buonanotte Blake”.

Buonanotte Principessa”.

Clarke salvò subito il numero e poi si alzò dal letto, cominciando a prepararsi per andare a dormire.

Una volta uscita dal bagno, Yeti saltò sul materasso, andando ad accoccolarsi al suo fianco e Clarke lo grattò un po’ dietro le orecchie prima di sprofondare nel sonno.

Quando si svegliò il sole era alto nel cielo e lei schizzò giù dal letto, affamata. Fece colazione rapidamente e poi tornò in camera a cambiarsi.

Quella mattina decise che si sarebbe recata al comune per fare richiesta del certificato di morte di suo padre. Si trovava su un terreno sconosciuto, non aveva veramente la minima idea di come funzionassero quelle cose e lei voleva prendere tutte le precauzioni necessarie.

Aveva appeso la chiave ad una catenina che ora portava legata al collo, sotto la maglietta, il metallo freddo a contatto con la pelle. Era una sensazione sgradevole, come se improvvisamente si fosse caricata di qualcosa più grande di lei ed era come se quella piccola, innocua chiave, pesasse al suo collo come una gogna. Come se fosse una condannata a morte e quello le metteva un certo senso d’inquietudine.

Bellamy le aveva detto di non muoversi da sola, ma non voleva disturbarlo di mattina, non sapeva nemmeno se fosse al lavoro o meno e poi andare in comune per fare quella richiesta era certa che non le avrebbe procurato nessun guaio. D’altra parte era sua figlia, che cosa poteva esserci di male? O di sospetto?

Prese la macchina e si avviò verso il comune, era piuttosto lontano da casa sua.

Una volta lì, trovò una gran confusione; in effetti forse sarebbe stato meglio chiamare e prendere un appuntamento, non era neanche detto che riuscissero a vederla in giornata. Così, armandosi di pazienza, la ragazza si mise a sedere di fronte agli uffici aperti al pubblico e attese. Attese per almeno quattro ore prima che una donna minuta di mezza età e piuttosto in carne la chiamasse per entrare. Clarke ormai aveva quasi perso le speranze.

La donna la salutò cortesemente, chiedendole di cosa avesse bisogno.

«Vorrei ritirare il certificato di morte di Jake Griffin» disse la ragazza senza tanti preamboli.

L’impiegata infilò gli occhiali e fece una breve ricerca a computer.

«Mi dispiace signorina, qui mi risulta che soltanto Clarke Griffin possa ritirare quel certificato. È stata una specifica del defunto».

Clarke fu leggermente sorpresa della cosa, ma tirò fuori il portafogli, estraendo la sua carta d’identità.

«Sono io. Jake Griffin era mio padre».

La donna prese il documento e sorrise.

«Inoltro subito la sua richiesta allora. Mi servono solo un paio di firme, di solito ci vuole qualche giorno per queste cose. Le manderemo a casa un avviso quando potrà venire a ritirare il certificato».

«La ringrazio» disse Clarke sorridendo. Firmò i tre documenti che la donna le porse e si alzò, salutandola nuovamente e dirigendosi verso l’uscita.

Quattro ore di attesa per sbrigarsi in dieci minuti.

Si riavviò verso casa e, una volta scesa dall’auto, si sentì chiamare.

Wells la osservava dalla veranda di casa sua, si fece avanti e la raggiunse sul marciapiede.

«Ehi… ».

«Ehi…» lo salutò lei, leggermente imbarazzata.

Era ormai da due settimane che non si vedevano più, da quando… beh, da quando Wells l’aveva baciata al parco proprio davanti agli occhi di Bellamy.

«Ti va di entrare?».

Lui annuì, sembrava a disagio almeno quanto lei.

Clarke estrasse le chiavi di casa e aprì la porta. Sua madre doveva essere lì da qualche parte, quel giorno non sarebbe andata al lavoro, ma non ci teneva a vederla.

«Andiamo su» disse lei, cominciando a salire le scale.

Una volta giunti in mansarda la bionda chiuse la porta e si sedette sul letto, non sapendo di preciso cosa dire.

Poi vide Wells sgranare gli occhi e correrle in contro con aria preoccupata.

«Clarke, che cosa ti è successo?!» chiese prendendole il polso della mano fasciata con delicatezza.

«Oh… ehm… non è niente, solo un’ustione».

Lui la osservò con aria allarmata, ma non disse nulla, sedendosi invece al suo fianco sul letto«.

«Ho saputo da mio padre che tua madre vuole mettere in vendita la casa… che partite per il Texas… ».

Per un attimo Clarke si chiese come diavolo facesse a saperlo, prima di ricordarsi che Thelonius Jaha era uno dei più noti imprenditori edili della zona e aveva spesso a che fare con agenzie immobiliari e simili.

«Sì, cioè… mia madre e Marcus si trasferiranno. Io resterò qui, non voglio andare via».

A quelle parole, Wells parve rianimarsi.

«È fantastico! Insomma… il fatto che resterai qui» disse abbracciandola e Clarke si irrigidì per un momento.

Wells non mancò di notarlo e si tirò indietro.

«Scusami. Io… non sopportavo l’idea che partissi».

«Sei sparito nelle ultime settimane».

«Sì, io… lo so. Mi dispiace, è solo che… dopo l’ultima volta che ci siamo visti non ho più avuto il coraggio di farmi vedere».

Un silenzio imbarazzato aleggiò nella stanza per qualche istante, prima che Wells si voltasse verso di lei dicendo: «Che cosa c’è fra te e Bellamy?».

Già… che cosa c’era tra lei e Bellamy? Clarke non lo sapeva, ma aveva come l’impressione che qualcosa ci fosse davvero… o che almeno stesse iniziando.

«Non lo so. Non lo so Wells, è complicato. Lui mi sta aiutando molto».

«Perché non sei venuta da me, Clarke? Sono il tuo migliore amico, perché sei andata da lui?».

«È questo il punto: non sono stata io ad andare da lui o lui a venire da me. Semplicemente… ci siamo trovati, è qualcosa che non riesco a spiegare, ma credo che sia iniziata tanti anni fa».

Wells sospirò sconfitto, e Clarke rimase sorpresa dalle sue stesse parole. Perché in una semplice frase era riuscita ad esprimere come fossero davvero andate le cose tra lei e Bellamy ed in effetti era stato proprio così: nessuno era mai andato in cerca dell’altro, ma per via di una serie di circostanze fortuite le loro strade avevano continuato ad incrociarsi fino a portarli al punto in cui si trovavano ora.

Scosse la testa, tornando alla realtà, quando vide il ragazzo alzarsi, torreggiando sopra di lei. Wells era sempre stato alto e guardarlo da seduta la fece sentire ancor più piccola del solito. Si alzò anche lei e insieme si avviarono nuovamente verso l’ingresso.

«Beh… sono contento che resti, Clarke».

Lei sfoderò un sorriso di circostanza.

«A presto Wells» e, con un ultimo cenno, il ragazzo sparì oltre la porta.

In quel momento sua madre sbucò fuori dalla cucina.

«Avete fatto pace?».

Clarke la guardò confusa.

«Clarke, sono tua madre, me ne accorgo di quando le cose non vanno con qualcuno e Wells è uno dei tuoi più vecchi amici. Era chiaro che tra voi le cose non andassero molto bene».

«Credo che abbiamo fatto pace, sì».

«Lui è un bravo ragazzo. E poi tiene molto a te… ».

«E con questo cosa vorresti dire?».

«Niente, solo che… è da molto che non frequenti più un ragazzo. Da… Finn?».

Clarke sospirò. Sua madre aveva scelto proprio il momento sbagliato per iniziare a comportarsi come tale.

«Non c’è niente tra me e Wells e non ci sarà mai niente in quel senso».

Wells era esattamente il tipo di ragazzo che sua madre avrebbe voluto per lei: assennato, con la testa sulle spalle… il genere di ragazzo che coccola il tuo gatto e fa il carino con i tuoi genitori.

Poi pensò a Bellamy. Lui era tutto il contrario di ciò che Abby avrebbe voluto le girasse intorno. Se avesse potuto avrebbe dato fuoco a Yeti e di certo non perdeva tempo a fare il simpatico solo per ingraziarsi qualcuno. Anzi… di solito otteneva il risultato opposto.

Abby annuì e la fissò per un momento.

«Dove sei stata stamattina?».

«Ho fatto una passeggiata» tagliò corto lei, non voleva dare alcuna spiegazione.

Per un momento le due donne si fissarono, poi Clarke voltò le spalle a sua madre e tornò in camera.

Per il resto della giornata non combinò molto se non cercare su internet qualche informazione riguardo alle cassette di sicurezza e Clarke si chiese che cosa suo padre avesse potuto nascondere all’interno della cassetta numero 21. Tutta quella storia stava prendendo una piega davvero assurda e lei ne era sempre più ossessionata.

A sera si buttò a letto a guardare un film e anche il giorno dopo non fece un granché.

L’unica cosa, fu che sua madre sarebbe andata via, trasferendosi in Texas insieme a Marcus.

L’uomo era tornato per prendere alcune cose e per salutare Clarke, si era detto dispiaciuto del fatto che non andasse con loro, ma dal canto suo avrebbe anche potuto aspettarselo dopo averla messa davanti a cose fatte.

Il camion dei traslochi arrivò presto e sua madre e il suo patrigno dissero ai traslocatori cosa portare via. Così, Clarke vide l’archivio sparire dal vecchio studio di suo padre, che adesso era tornato esattamente com’era ai tempi in cui era Jake a chiudersi lì dentro per ore.

Quando la casa fu nuovamente silenziosa, la ragazza si sedette sul divano del salotto, quasi confusa. Era strano non avere più nessuno intorno con la consapevolezza che Abby e Marcus non sarebbero tornati a casa per cena, dopo il lavoro. Si erano trasferiti, lei adesso abitava lì da sola.

Era successo così in fretta che non aveva nemmeno avuto il tempo di metabolizzarlo, ma dopotutto la cosa non le dispiaceva.

D’altra parte… la solitudine faceva parte di lei da molti anni ormai, si era sempre trovata bene con sé stessa.

Erano le sette di sera quando il suo cellulare squillò, facendola sorridere quando la ragazza vide il nome sul display.

«Ehi, Jasper!».

«Ciao ragazza! Come stai? È da un pezzo che non ci sentiamo».

«Lo so, scusami! Sono successe un mucchio di cose… » tentò di giustificarsi lei.

«Hai da fare stasera? Perché io e Monty andiamo al pub dei genitori di Monroe, ci ha invitato lei e quindi, se magari non hai niente da fare, puoi aggiungerti a noi!».

Uscire era esattamente ciò di cui aveva bisogno Clarke in quel momento.

«Ma certo, mi unisco volentieri. A che ora?».

«Facciamo per le nove?».

«Affare fatto. A dopo Jasper!».

«A più tardi!».

Clarke riagganciò e decise di farsi una doccia prima di uscire per la serata.

In un’ora fu pronta, si preparò qualcosa di veloce per cena e alle nove meno un quarto era già in macchina pronta per partire.

Era venerdì sera e il pub era strapieno, dunque faticò sia per trovare parcheggio, sia per raggiungere il bancone.

Monty, Jasper e Monroe la stavano aspettando, quasi urlando per sovrastare il frastuono della musica.

La bionda venne abbracciata da Jasper e Monty e salutata dalla ragazza.

Cercarono di chiacchierare un po’, ma la musica e il vociare della gente sembravano essere ancor più forti del solito e, dopo più di un’ora che erano lì, una voce familiare attirò la loro attenzione.

Clarke si voltò, restando gelata sul posto: era Finn.

Il ragazzo le andò vicino, salutandola, ma lei restò rigida e priva di qualsiasi inflessione nella voce.

Jasper era un po’ allarmato, così come anche Monty, mentre Monroe sembrava serena, ma d’altra parte lei era sempre andata d’accordo con Finn. Dopo circa venti minuti dall’arrivo del ragazzo, un’altra voce li fece voltare.

«Bene bene… è qui la festa?».

Atom. Ma non era solo. Dietro di lui c’erano Octavia, Lincoln, Bellamy, Roma, Raven e un ragazzo che Clarke non aveva mai visto. La situazione cominciava a surriscaldarsi, facendosi imbarazzante.

Clarke non poté fare a meno di notare lo sguardo di fuoco che Bellamy riservò a Finn e nemmeno quello di Raven era tanto amichevole.

Atom si avvicinò a Monroe e dovette quasi urlare per farsi sentire dalla ragazza.

«Perché non ci porti in un posto un po’ più tranquillo?».

Così, lei si fece avanti, aprendo la strada a tutto il gruppo, li portò oltre la saletta e dovettero quasi spintonare per arrivare fino ad una porta nascosta da una tenda. Monroe l’aprì, scendendo una rampa di scale che portava in una sorta di seminterrato.

«Oh caspita… ora sì che inizia la festa!» esclamò a quel punto il moro e, dalle centinaia di bottiglie riposte ordinatamente sugli scaffali, Clarke non ci mise molto per capire che si trovavano nel deposito dei super alcolici.

L’ultima ad entrare fu Roma, che richiuse la porta dietro di sé e un silenzio irreale calò nel seminterrato.

Giusto per interrompere quel clima teso, Octavia andò ad abbracciare Clarke, dandole due baci sulle guance.

«Questa sì che è una rimpatriata come si deve!» riprese Atom a quel punto e Clarke notò lo sguardo omicida che Bellamy gli lanciò in quell’istante. Avrebbe potuto fulminarlo.

Dal canto suo, la ragazza cominciava a sentirsi notevolmente a disagio e, per cercare di smorzare un po’ la tensione, si avvicinò a Raven. A parte la brutta situazione in cui erano rimaste coinvolte a causa di Finn, Clarke non aveva mai avuto nulla contro di lei, anzi, l’aveva sempre reputata una persona molto intelligente.

La salutò con cortesia e lei ricambiò, presentandole il suo fidanzato, un certo Kyle Wick. Era lui il ragazzo che Clarke non aveva mai visto prima. Parlarono per un po’, sembrava simpatico, dopodiché la loro attenzione venne nuovamente attirata da Atom.

«Mi è venuta un’idea!» esclamò.

«Qualunque cosa sia, noi non la vogliamo sapere» rispose prontamente Bellamy, con un altro sguardo di traverso.

«E piantala di fare il rompicoglioni, Bell» a quelle parole Octavia e Raven risero, mentre l’interessato alzò gli occhi al cielo e serrò la mascella, probabilmente trattenendosi a stento dal prendere a pugni il suo migliore amico.

«Giochiamo al gioco della bottiglia» propose a quel punto.

Fra tutte le cose che Clarke avrebbe potuto immaginare, quella era la meno probabile. Come diavolo potevano venirgli certe idee malsane?

«Non se ne parla».

Disse subito Bellamy.

«Oh avanti! Sarà divertente!» esclamò Octavia con un sorriso.

Clarke vide chiaramente l’espressione stupita del maggiore dei Blake, sembrava che non potesse contrastare il volere della sorella, anche perché, apparentemente, l’unico contrariato sembrava essere lui, dunque avrebbe dovuto mettersi il cuore in pace.

Nemmeno Clarke impazziva all’idea, ma non poteva neanche negare il brivido che le era corso lungo la schiena.

«Io non lo farò» ripeté lui.

«Cos’è, Blake… ti mancano le palle?» a sorpresa di tutti, era stata proprio Clarke a parlare e, per la prima volta in quella sera, i suoi occhi e quelli del moro si incrociarono, creando una certa elettricità.
Octavia emise un’esclamazione sbalordita e Atom proruppe in una risata.

«La Principessa ha parlato, signori! Allora…? Rispondi, amico… ti mancano le palle?».

«Fottiti Atom».

«Magari più tardi, ora ho proprio voglia di fare questo gioco».

Bellamy lo osservò per un altro istante prima di puntare nuovamente i suoi occhi su Clarke.

«Bene, allora. Giochiamo».

Così, presero tutti posto per terra, formando un cerchio.

«Sembriamo un gruppo di recupero degli alcolisti anonimi» commentò Bellamy con aria notevolmente scocciata.

«Ciao a tutti, io sono Atom e non bevo da circa trenta secondi» disse alzando in alto la bottiglia di birra ormai vuota che aveva in mano e scatenando l’ilarità generale.

«Sì, e si vedono i risultati» rispose a tono il suo migliore amico con un’altra occhiataccia.

Atom posò al centro la bottiglia, la afferrò saldamente e disse: «Il primo giro è per chi comincia» e così la fece ruotare rapidamente. L’oggetto puntò su Octavia, seduta fra Bellamy e Lincoln.

«A te il gioco, sorellina» disse Atom con un sorrisetto.

Una sorta di trepidante attesa parve crescere nel gruppo nel momento in cui la piccola di casa Blake afferrò la bottiglia, facendola girare.
Quella ruotò su sé stessa un paio di volte prima di fermarsi su Jasper.

«Dannazione Octavia, il tuo bacio è arrivato con sei anni di ritardo» commentò lui, facendole l’occhiolino.

Clarke sapeva benissimo che si stava riferendo alla cotta che aveva preso per Octavia tanti anni addietro. Aveva dovuto dissuaderlo dal provarci con lei per via di Bellamy. Temeva che se lo avesse scoperto, avrebbe potuto ucciderlo.

«Beh, meglio tardi che mai no?» rispose lei, ma, prima di avvicinarsi al moro, lanciò uno sguardo a Lincoln, come se volesse accertarsi che lui non se la sarebbe presa per ciò che stava per succedere.

Il suo ragazzo scosse la testa con aria divertita. Era solo un gioco in fin dei conti e questo era ciò di cui cercava di convincersi anche Clarke.

Era solo un gioco. D’altra parte… era stata lei a sfidare Bellamy, non poteva tentennare adesso che avevano iniziato.

Così, la ragazza si avvicinò a Jasper, facendo aderire le loro labbra e chiudendo gli occhi.

Rimasero in quel modo per qualche istante, Clarke osservò Bellamy: le braccia incrociate al petto, la mascella serrata e un sopracciglio inarcato. Dio, sembrava fin più geloso di Lincoln.

Lo trovò adorabile.

Quando si staccarono, nel gruppo si creò un po’ di confusione: chi rise, chi batté le mani e chi lanciò urletti compiaciuti.

La bottiglia a quel punto venne presa in mano da Lincoln, seduto al fianco della sua fidanzata. Tutti rimasero a fissarla mentre girava, fino a che non si puntò su Raven.

Sembravano entrambi un po’ imbarazzati a dire il vero, Clarke immaginò che non dovessero conoscersi poi così bene in fin dei conti. Dopotutto… Lincoln non aveva frequentato il liceo insieme a loro e quando si era trasferito, Raven probabilmente era ancora in giro per l’America perciò quella doveva essere una delle prime volte che si vedevano.

Si baciarono anche loro, poi tornarono al proprio posto, Raven leggermente accaldata e rossa in volto e Lincoln a testa china.

Dopo di loro toccò a Monroe, che sorteggiò Lincoln e poi a Jasper, a cui capitò Roma.

A quel punto la bottiglia passò nelle mani di Raven, che la prese saldamente e la fece ruotare.

La scelta ricadde su Bellamy e Clarke sentì una strana fitta allo stomaco, soprattutto quando vide che sul viso della ragazza si aprì un sorriso a metà tra il sollevato e il beffardo e che si diresse con sicurezza verso Bellamy.

Lui era in piedi di fronte a lei e, prima di baciarlo, la bruna si voltò verso il suo ragazzo.

«Sai che ti amo e che nulla potrà mai cambiare questa cosa, perciò non essere geloso, soprattutto dal momento in cui Bellamy per me è come un fratello».

«Fa’ quello che devi, tu mi porterai dritto al manicomio» disse lui con un sorriso, ma voltò la testa dall’altra parte subito dopo.

Raven si alzò in punta di piedi, prendendo il volto di Bellamy fra le mani e attirandolo a sé. Lui le cinse i fianchi con le braccia e, anche se Clarke avrebbe tanto voluto distogliere lo sguardo proprio come aveva fatto Wick, non ci riuscì.

Non riusciva a staccare gli occhi dai loro corpi attaccati, dalle labbra di Bellamy che si muovevano su quelle di Raven, dalle sue braccia che la avvolgevano in quel modo e, quando si staccarono, fu come se riuscisse a respirare di nuovo.

«E questa, mio caro, sarà l’ultima volta che ti bacerò. Ritieniti onorato» disse lei in tono scherzoso, facendo ridere la maggior parte dei presenti.

Lui le pizzicò entrambi i fianchi e Raven saltò indietro con uno strillo.

«Sparisci, Reyes», ma anche sul volto di lui c’era un sorriso e questo servì solo ad irritare ulteriormente Clarke.

A quel punto fu il turno di Atom, che si alzò con aria baldanzosa.

«Molto presto farò felice qualcuno» disse con aria strafottente.

Clarke vide Bellamy alzare gli occhi al cielo, mentre Octavia rise, scuotendo la testa. La mano di Lincoln stretta nella sua.

Atom afferrò la bottiglia, facendola girare. Peccato che quella finì proprio su Bellamy.

Il ragazzo sgranò gli occhi e gli lanciò uno sguardo assassino.

«Prova solo a pensare di baciarmi e ti infilo la testa nel cesso, Atom».

A quelle parole tutti scoppiarono a ridere, compresa Clarke, che avrebbe proprio voluto vedere la reazione di Bellamy se Atom lo avesse baciato.

A quel punto intervenne Octavia, per acquietare gli animi.

«D’accordo, d’accordo. Allora… direi che in caso di morte imminente si può fare uno strappo alla regola e rifare il lancio, altrimenti temo per l’incolumità di Atom».

«Beh amico… non sai che ti sei perso» rise lui, con il chiaro intento di prenderlo in giro.

«Tu ringrazia solo di esserti perso un pugno nell’occhio».

Clarke non credeva di aver mai assistito ad una scena tanto esilarante in vita sua, doveva ammetterlo: Atom e Bellamy erano uno spasso alle volte.

Sorridendo, incrociò le braccia al petto e osservò Atom far ruotare di nuovo la bottiglia prima di rendersi conto che undici paia di occhi si erano puntati su di lei.

Improvvisamente si fece seria e guardò Atom. Poi osservò la bottiglia, che puntava dritta su di lei.

Il suo cuore perse un battito e alzò nuovamente lo sguardo verso Atom, che le porse una mano per farla alzare.

Clarke la afferrò senza nemmeno rendersene conto, mettendosi in piedi e, involontariamente, i suoi occhi scivolarono su Bellamy, che sembrava essersi congelato sul posto, la postura rigida e l’espressione statuaria. Sembrava essere improvvisamente diventato di granito, assumendone anche il colore grigiastro.

Perfino Octavia sembrava essersi allarmata.

«Sto per realizzare i tuoi sogni, Principessa».

Clarke non osò nemmeno voltarsi ad osservare Bellamy in quel momento. Era certa che, qualsiasi cosa avesse visto, non le sarebbe piaciuta.

Non ebbe il tempo di pensarci, perché una mano del moro si posò sul suo collo avvicinandola a sé e con l’altro braccio le cinse la vita.

Quando le loro labbra si incontrarono, Clarke sussultò, spalancando gli occhi e poi chiudendoli subito. Inaspettatamente non fu così male come aveva pensato e si ritrovò a rispondere a quel bacio senza nemmeno rendersene conto, le venne istintivo, posando le mani sull’addome del ragazzo, sentendo il profilo degli addominali sotto la t-shirt scura.

Atom schiuse le labbra, approfondendo quel contatto già così intimo e, involontariamente, Clarke strinse il tessuto della sua maglietta, trattenendolo a sé, poi, poco a poco, si allontanarono l’uno dall’altra.

Clarke deglutì, il respiro ancora affannoso e gli occhi puntati in quelli chiari del ragazzo di fronte a sé, ansante anche lui.

Nel seminterrato il silenzio era totale, la tensione avrebbe potuto tagliarsi con un coltello e fu Raven ad interromperlo.

«Ragazzi… questo sì che era un bacio!» esclamò e solo allora i più del gruppo si aprirono in una risata.

Non tutti però.

Con un ultimo sorriso, Atom si rivolse a Clarke: «Quando vuoi, Principessa» disse facendole l’occhiolino e tornando al suo posto.

Clarke invece rimase al centro della stanza. Toccava a lei. Così, si chinò e fece ruotare l’oggetto ai suoi piedi.

La bottiglia iniziò a rallentare verso Octavia, scivolò oltre Bellamy e, con un ultimo, tenue scatto, si fermò su Finn.

Dio, pensò la ragazza. Avrebbe di gran lunga preferito baciare Octavia.



I think I'm drowning
Asphyxiated
I wanna break this spell
That you've created

You're something beautiful
A contradiction
I wanna play the game
I want the friction
You will be the death of me
Yeah, you will be the death of me

Bury it
I won't let you bury it
I won't let you smother it
I won't let you murder it

Our time is running out
Our time is running out
You can't push it underground
You can't stop it screaming out

I wanted freedom
Bound and restricted
I tried to give you up
But I'm addicted

Now that you know I'm trapped
Sense of elation
You'd never dream of
Breaking this fixation
You will squeeze the life out of me



Credo di star affogando
Asfissiato
Voglio rompere questo incantesimo
Che hai creato

Sei qualcosa di stupendo
Una contraddizione
Voglio stare al gioco
Voglio il conflitto

Tu sarai la mia morte
Si, tu sarai la mia morte

Seppelliscilo
Non ti lascerò seppellirlo
Non ti lascerò affogarlo
Non ti lascerò ucciderlo

Il nostro tempo sta per scadere
Il nostro tempo sta per scadere
Non puoi spingerlo sottoterra
Non puoi fermarlo urlando

Volevo la libertà
legato e costretto
Ho provato a lasciarti perdere
Ma sono ossessionato

Ora che tu sai che sono intrappolato
Un senso di esultanza
Che tu non avevi mai sognato
Rompendo questa ossessione

Tu spremerai la vita al di fuori di me



Il sangue di Bellamy si gelò nelle vene non appena vide su chi si era fermata la bottiglia lanciata da Clarke. Non poteva essere.
O il cosmo ce l’aveva con lui, o qualcosa era profondamente sbagliato, oppure, in alternativa, la sua sfortuna aveva raggiunto livelli epici.

Prima Atom, che tra parentesi aveva baciato Clarke come se fosse sul punto di sbatterla contro un muro e strapparle di dosso i vestiti, e ora quell’essere immondo di Finn.

Quella sera qualcuno si sarebbe fatto molto male, ne era certo.

Vide come a rallentatore Finn alzarsi dal pavimento e dirigersi al centro della stanza, dove Clarke era ferma come una statua di ghiaccio.

La ragazza deglutì, compiendo un mezzo giro su sé stessa per trovarsi faccia a faccia con lui.

Probabilmente quello stronzo non aspettava altro.

Subito le circondò la vita con le braccia e la attrasse a sé quasi con uno strattone e Bellamy strinse i pugni talmente forte che le nocche gli divennero bianche. Se non altro Atom era stato più delicato, aveva aspettato i tempi di lei e aveva cercato di capire le sue reazioni, agendo poi di conseguenza.

Finn invece l’aveva presa di forza e le aveva infilato la lingua in bocca senza tante cerimonie, si capiva anche così.

Fu quando Clarke cercò di spingerlo via che non riuscì a trattenersi oltre e sia lui sia Atom scattarono in piedi.

«Collins… basta» sibilò Bellamy.

Il ragazzo si allontanò, passando i suoi occhi da quelli scuri e minacciosi di Bellamy a quelli chiari di Atom, che lo osservava come se stesse guardando un insetto.

Nella stanza l’aria era elettrica e alla minima scintilla lì dentro avrebbe potuto scoppiare il finimondo.

Finn tornò a sedersi, lanciando un’ultima lunga occhiata a Clarke, dopodiché si fece avanti Roma, che conoscendo bene entrambi lavorando insieme ormai da anni, aveva capito che se non avesse fermato subito i suoi colleghi, sarebbe potuta finire molto male per Finn. Bellamy gliene fu grato.

«Tocca a me» disse la ragazza e così Bellamy tornò al suo posto, imitato da Atom.

Lei fece ruotare la bottiglia, che si puntò su Monty e il ragazzo si fece avanti.

Dopo di loro fu il turno di Wick, a cui, neanche a farlo a posta, capitò Raven e lei quasi gli saltò addosso. La solita esibizionista, pensò Bellamy divertito.

L’atmosfera aveva nuovamente cominciato a distendersi all’interno del seminterrato e, a quel punto, fu la volta di Monty, che dovette baciare Monroe e, a dirla tutta, Bellamy ebbe come l’impressione che al ragazzo non dispiacesse più di tanto.

A quel punto fu il suo turno, così il ragazzo camminò verso il centro, chinandosi per lanciare la bottiglia.

In cuor suo, sperò che si fermasse su una persona in particolare, ma quella sera qualcuno si stava divertendo a giocare a dadi con lui a quanto pareva e così, la bottiglia si fermò su Roma. In fin dei conti sarebbe potuta andargli peggio.

La ragazza gli si avvicinò sorridendo.

«Questo non comprometterà i nostri rapporti di lavoro, vero Bellamy?» lo prese in giro lei.

Lui alzò un angolo della bocca, divertito.

«Assolutamente no» detto questo, le cinse la vita con le braccia e la attrasse a sé, facendo aderire i loro corpi.

Fu un bacio leggero, non gli dispiacque e non fu nulla di straordinario al contempo. Quando si staccarono sorridevano entrambi e Bellamy notò sul viso di Clarke un’espressione strana, che si affrettò a farsi passare non appena si accorse che lui la stava osservando.

Ora mancava solo quell’idiota di Collins. Se la bottiglia si fosse fermata su Clarke, lui sarebbe veramente stato capace di ucciderlo. Ma l’oggetto passò oltre… arrestandosi invece su Octavia.

Ma seriamente?! No, lì c’era davvero qualcuno che lo stava prendendo in giro.

Quando Octavia si alzò e si diresse verso di lui, Bellamy non guardò neanche, si rifiutava categoricamente di restare a fissarli, altrimenti lo avrebbe veramente preso a pugni. Sua sorella e la sua Principessa?!

Ok… la sua Principessa? Non era la prima volta che Bellamy si era sorpreso a pensare a Clarke in quei termini e stava davvero cominciando a preoccuparsi. Beh, al diavolo, ormai c’era poco di cui preoccuparsi, era irrimediabilmente fottuto e consapevole del fatto di ciò che provava per Clarke. Bastava vedere come aveva reagito, oltre che ai baci di quella sera, anche alla notizia della partenza di lei, anche se poi non era più andata in Texas con sua madre e con Kane. Quando però Clarke glielo aveva detto, il suo cuore per un momento si era fermato.

Quando Finn e Octavia si furono staccati, tornò a guardare di fronte a sé.

Sospirò pesantemente e si alzò in piedi. Il gioco era finito.

Poco poco, le voci cominciarono a farsi più alte, in certi momenti quella sera la tensione e l’eccitazione generali erano stati alle stelle ed ora sembrava che tutti dovessero sfogarsi. Lui invece aveva solo bisogno di una birra e di prendere aria.

Si riavviarono lungo le scale che conducevano nuovamente all’interno della saletta del pub e andarono al bancone. Lui ordinò una birra e solo in quel momento si accorse dell’assenza di Clarke.

La cercò con lo sguardo, ma non la trovò da nessuna parte e, infine, credendo che fosse andata via senza salutare nessuno, si avviò verso l’uscita per prendere una boccata d’aria fresca.

Fu lì che vide la bionda poggiata contro il muro, gli occhi chiusi e una sigaretta tra le labbra.

Per un momento, gli sembrò di essere tornato indietro di un mese, alla sera della festa che Jasper e Monty avevano dato in onore del suo ritorno a Fort Hill.

Bellamy le si avvicinò.

«Stai bene?».

Lei improvvisamente aprì gli occhi, osservandolo per un lungo istante prima di rispondere.

«Benissimo».

«Però stai fumando».

«È stata una serata… intensa».

«Si poteva anche evitare. Ma qualcuno mi ha accusato di non avere le palle per farlo… ».

Vide un sorrisetto malizioso aprirsi sul volto di Clarke e si chiese come avrebbe reagito la ragazza se glielo avesse fatto sparire baciandola. Visto che ormai la serata andava così…

«Quando partono tua madre e Kane?» chiese per cambiare discorso e cercare di non pensare a quanto in realtà avesse voglia di baciarla davvero.

«Sono partiti stamattina» rispose lei, atona.

Per qualche strana ragione, il fatto di saperla da sola in quella grande casa gli provocò un senso di inquietudine, ma anche una strana scarica di adrenalina.

«Sei qui con Jasper e Monty?».

«No, sono venuta per conto mio. Tu?».

«Octavia e Lincoln. Anzi, è meglio che vada a cercarli prima che mi lascino a piedi».

«Posso darti un passaggio io se vuoi» si offrì la ragazza con una scrollata di spalle.

Bellamy rimase sorpreso, poi acconsentì e andò dentro a salutare gli altri, mentre Clarke si avviò alla macchina, aspettandolo lì.

Il ragazzo trovò la sorella e il resto del gruppo ancora al bancone e disse ad Octavia che sarebbe tornato a casa con Clarke. Lei gli rivolse un sorrisetto compiaciuto, poi gli diede un bacio sulla guancia.

Le voltò le spalle per tornare verso l’uscita quando sentì la voce familiare della sua migliore amica dietro di sé.

«Allora è Clarke la ragazza misteriosa… »

«Ma di che diavolo stai parlando?» le chiese lui voltandosi, anche se sapeva perfettamente a cosa Raven si stesse riferendo.

«Bellamy… ho visto come hai reagito quando Finn l’ha baciata. Mi era già venuto il sospetto con Atom, ma quando ho visto come ti sei comportato quando Finn non la lasciava più andare, allora ho capito. E fidati… era chiaro come il sole».

Lui le lanciò uno sguardo di traverso.

«Clarke non è male! Insomma… l’ho detestata, ma in realtà la colpa era di Finn. Lei mi sembra una a posto, e poi… non ti avevo mai visto perdere così il controllo per una ragazza che non fosse tua sorella, quindi deve avere per forza qualcosa di speciale» disse con un sorriso smagliante, mordendosi il labbro inferiore.

«Raven… perché non pensi un po’ agli affari tuoi?» cercò di restare serio, ma in realtà si sforzava per non sorridere.

La ragazza scosse la testa divertita, poi aggiunse: «E non prendertela con Atom, lo ha fatto solo per divertirsi e per farti ingelosire un po’».

«Ingelosire? Ma hai visto come l’ha baciata?».

«Oddio, sei proprio cotto! Pensavo che non avrei mai visto questo giorno e soprattutto non credevo che sarebbe successo con Clarke».

«Oh, ma taci. Buonanotte, Reyes».

«Notte Bell» e con un ultimo sorriso radioso, la ragazza si diresse nuovamente nella folla, alla ricerca probabilmente di Wick.

Bellamy tornò all’esterno, individuando Clarke seduta in macchina ad aspettarlo, l’aria assorta di chi è lì fisicamente ma lontano mille miglia con la testa.

Salì in auto e subito una musica lo avvolse. A Bellamy sembrò estremamente malinconica e meravigliosa al contempo.

«Cos’è?» chiese a Clarke.

La ragazza aveva gli occhi chiusi.

«Beethoven. Sonata al chiaro di luna».

«C’è la luna piena stanotte» disse lui indicando fuori dal finestrino.

«Lo so» rispose lei aprendo gli occhi, voltando la testa verso di lui e abbozzando un sorriso.

«È… ».

«Sssh… ascolta».

Restarono in silenzio, ammaliati finché la melodia non si dissolse e il silenzio tra di loro saturò l’aria fino a diventare talmente rumoroso che Bellamy dovette interromperlo.

«Clarke?».

«Mhm?».

«Io… » cosa poteva dirle? Che non aveva mai provato una gelosia tanto lacerante come quella sera in tutta la vita? Che la voleva? Che avrebbe voluto portarla a casa sua e farle Dio solo sapeva cosa?

Deglutì.

«Andiamo a casa» disse invece e lei non capì cosa intendesse veramente, perché mise in moto la macchina con tranquillità e partì piano.

Dannato codardo si ritrovò a pensare. Lei gli aveva lanciato una sfida, eppure era stato lui a perderla, nonostante avesse fatto di tutto per evitarlo.

Aveva perso. E Clarke? Cosa provava Clarke? Che cosa turbinava nella sua testa? Di certo non sentiva le stesse cose che sentiva lui, probabilmente era troppo presa dalla faccenda di suo padre per curarsi anche di questo.

Arrivarono presto a casa di Bellamy e lui studiò per un momento la ragazza seduta accanto a sé. Non sembrava intenzionata ad uscire dall’auto. Lei si voltò a guardarlo.

Occhi chiari come il cielo e scuri come l’ossidiana si incontrarono, scontrandosi, in un’esplosione in cui Bellamy smise di capire dove si trovasse, cosa stesse facendo. Smise di ragionare.

Poi qualcosa, una lieve pressione sulla sua guancia. La mano di Clarke era premuta sul suo viso e lui vi posò sopra la propria, stringendola.

E pensò, forse, in fin dei conti, non aveva completamente perso.



Erano trascorsi due giorni da quella folle serata. Il suo ultimo giorno di lavoro e poi sarebbe andato in ferie, così da potersi preparare a dovere per il tanto atteso esame da tenente.

L’ultimo turno sarebbe stato un pomeriggio, Atom non c’era, in compenso rivide Miller, che era tornato dalle ferie da un pezzo ormai, ma stranamente non aveva più avuto turni con lui.

Grazie al cielo fu un pomeriggio tranquillo, non aveva la minima voglia di correre come un pazzo il suo ultimo giorno. Stava cominciando ad entrare nell’ottica delle ferie, diventando pigro.

Si mise in macchina, sentendosi leggero e prima di mettere in moto diede un’occhiata al cellulare. C’erano una chiamata persa da parte di Clarke e un suo messaggio in cui gli diceva di raggiungerla non appena lo avesse letto.

Teso, guidò fino all’abitazione della ragazza, avendo già un brutto presentimento.

Spense l’auto e si avviò a passi svelti verso l’ingresso. Ora che la madre di Clarke e Kane erano partiti non avrebbe più dovuto arrampicarsi ogni volta sul dannato albero fuori dalla finestra della stanza della ragazza, finalmente. Quando però arrivò davanti alla porta, la trovò accostata.

Il suo cuore perse un battito e si fiondò all’interno chiamando il nome di Clarke.

Silenzio. Non c’era nessun rumore, niente di niente, nemmeno il miagolio di quel gatto psicopatico.

«Clarke!» esclamò nuovamente, alzando la voce via via che ripeteva il suo nome.

Il panico cominciò ad impadronirsi di lui, soffocandolo in una morsa d’acciaio. Passò in rassegna tutte le stanze del piano terra e poi salì quasi volando le due rampe di scale che portavano alla mansarda. La ragazza non era neanche lì e nemmeno in bagno. Tornò di sotto, controllando il primo piano.

Una volta arrivato nello studio, l’aria riempì nuovamente i suoi polmoni, l’ossigeno parve tornare al cervello. Clarke era lì: seduta per terra, le gambe incrociate e la testa china su qualcosa.

«Maledizione! Vuoi dirmi perché non hai risposto, ho appena perso dieci anni di vita, Clarke!» adesso era arrabbiato, ma si accorse che la ragazza sembrava non averlo nemmeno sentito, continuando a guardare qualcosa per terra.

Solo allora Bellamy si rese conto dei fogli sparsi sul pavimento e, una nuova fitta gelida lo colpì al cuore. Si avvicinò con calma, chinandosi al fianco della ragazza e scrollandole leggermente una spalla.

«Clarke?».

Allora seguì il suo sguardo e subito non capì, poi il sangue gli si congelò nelle vene, trattenne il respiro e sbarrò gli occhi.

Sul primo foglio capeggiava una scritta in rosso scuro a caratteri cubitali: “ESPERIMENTO 100”.

Ma, la cosa peggiore, fu vedere la firma del chirurgo che aveva dato il consenso perché lì, nero su bianco, era ben leggibile il nome di Abigail Griffin.




NOTE:

Zan zan zaaaan! Ok, la smetto.

Lo avevo detto che questo capitolo sarebbe stato esplosivo, no? E quindi eccoci qui, l’ho scritto praticamente in due giorni, ma ho aspettato un po’ a pubblicarlo perché volevo sistemarlo per bene, insieme ad una serie di altre cosine.

Passando al capitolo… beh, che dire? Spero che vi sia piaciuto, io mi sono divertita un mondo a scriverlo. Scusate per le parolacce, di solito preferisco non usarle, ma nel contesto ci stavano, anche per rendere tutto un po’ più divertente, soprattutto nella parte della serata al pub.

Attendo i vostri commenti in cui mi maledirete per non aver fatto baciare Bellamy e Clarke al gioco della bottiglia facendo baciare invece lei e Finn, ma questo è stato il passo finale grazie al quale entrambi si sono resi pienamente conto di ciò che provano l’uno per l’altra.

Beh… direi che da qui inizierà la lenta ma inesorabile discesa verso l’inferno, diciamo che questa è un po’ la conclusione della prima parte della storia e vorrei ringraziarvi tutti per essere arrivati fin qui insieme a me, Bellamy e Clarke. Un grazie di cuore a chiunque abbia letto, inserito Demons fra le preferite e le seguite e, soprattutto, a coloro che spendono parte del loro tempo per lasciare un commento. Veramente, siete fantastici ed è anche grazie a voi che vado avanti.

Lascio come sempre i link dei brani e, per chi volesse, anche il link di “Stay or leave?”, che per chi non lo sapesse è un’altra OS Bellarke che ho scritto tempo fa.

Buona serata a tutti e ci risentiamo alla prossima!

P.s. per chi volesse mi trovate anche su Facebook (Melody Blake)

Un abbraccio,

Mel



Russian Roulette – Rihanna. Clarke

Time is running out – Muse. Bellamy

Moonlight Sonata (sonata al chiaro di luna) – Beethoven.

“Stay or leave?”

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Out of control ***



CAPITOLO 16: OUT OF CONTROL




Crawling in my skin
These wounds, they will not heal
Fear is how I fall
Confusing what is real

There's something inside me that pulls beneath the surface
Consuming, confusing
This lack of self control I fear is never ending
Controlling
I can't seem
To find myself again
My walls are closing in



Strisciando dentro la mia pelle
Queste ferite non guariranno
Sono caduta per paura
Confondendo ciò che è reale
Dentro di me, sotto la superficie c'è qualcosa che preme
Consumando, confondendo

Temo che questa assenza di autocontrollo sia senza fine
Controllando, non mi sembra di ritrovare me stessa
Le mie pareti mi stanno intrappolando







Clarke sentiva una voce, da qualche parte in un angolo remoto della sua mente, ma era solo un’eco lontana. Un rimbombo distante, appartenente ad un’altra vita, la sua vita precedente prima di cadere nel limbo in cui era rimasta intrappolata.

Non sapeva a chi appartenesse, era come se fosse bloccata nella sua pelle, non riusciva a muoversi e non riusciva a pensare.

Poi per qualche istante, o forse qualche ora, o magari anni, la voce si interruppe e un silenzio assordante rimbombò nelle sue orecchie, dilatandosi all’infinito e confondendola.

Sentì una stretta sulle braccia, ma non riusciva a tornare in sé, fino a quando un volto vagamente familiare entrò nel suo campo visivo e lei impiegò qualche istante per riconoscerlo.

Bellamy.

«Clarke… Clarke, per favore… guardami. Clarke!».

Poco a poco, prese più consapevolezza di ciò che le stava accadendo, era una cosa che aveva imparato a conoscere fin troppo bene negli ultimi anni in cui aveva studiato medicina ad Harvard.

La definizione medica era: stato di sofferenza dei tessuti dovuto alla mancanza di ossigeno che, se protratto, può portare a un danneggiamento irreversibile dell’organismo. In altre parole… shock.

Questo stato, aveva tre classificazioni: ipovolemico, dato da una perdita di liquidi, ma non era quello il suo caso.

Cardiogeno, dato dalla diminuzione della forza del muscolo cardiaco, ma il suo stato attuale non era dovuto neanche a quello.

Infine, c’era lo shock distributivo, seguito da una dilatazione dei vasi sanguigni che poteva essere dovuto a malattie o lesioni del midollo spinale, ad anafilassi, a setticemia, a dolori intensi o, nel suo caso, a forti emozioni. Nello specifico, prendeva il nome di shock psicogeno.

I sintomi, a loro volta, si dividevano in tre fasi.

La prima era lo shock compensato, caratterizzata dall’aumento della frequenza cardiaca, altrimenti nota come tachicardia e polso arterioso rapido. Ne facevano parte iniziali alterazioni dello stato di coscienza, che potevano andare da una sensazione di irrequietezza sino ad un modesto stato confusionale, ossia ciò che Clarke provava proprio in quel momento. In quella fase, solitamente la cute era pallida e le estremità delle dita fredde.

Poi si passava alla seconda fase, ossia la fase dello shock scompensato, in cui si aveva una diminuzione della pressione arteriosa, polso arterioso sempre più rapido e quasi impercettibile, respirazione difficoltosa, frequente e superficiale e alterazioni dello stato di coscienza che potevano evolvere dalla confusione mentale alla sonnolenza fino all’instaurarsi di una condizione d’incoscienza, comunemente conosciuta come coma.

La terza fase era quella dello shock irreversibile, nella quale ormai il danno agli organi nobili (cervello e cuore) era talmente grave che qualsiasi supporto sanitario sarebbe risultato inutile.

Clarke era pienamente consapevole di ciò che le stava accadendo e, proprio per questo, doveva cercare di tirarsene fuori, doveva trovare qualcosa a cui aggrapparsi per strapparsi da quello stato di torpore in cui era precipitata dopo aver visto il nome di sua madre nero su bianco su quella pagina.

Sua madre. Aveva preso parte a quell’esperimento. Come aveva potuto?! Lavorava per le persone che avevano ucciso suo padre, dunque?

«Clarke!».

Ed ecco di nuovo la voce di Bellamy. Sembrava avere una nota disperata.

Riuscì finalmente a tornare in sé e a quel punto fissò gli occhi in quelli del moro che, sollevato, sospirò, prendendole il volto tra le mani e poggiando la fronte sulla sua.

Clarke deglutì, posando le mani sui fianchi del ragazzo.

Bellamy espirò, mano a mano il suo respiro si faceva più regolare.

Restarono in silenzio, in quella posizione per diversi minuti, poi il moro spostò lo sguardo su quei fogli sparsi per terra.

«Che cos’è questa roba, Clarke?».

«Il contenuto della cassetta 21».

«Aspetta… cosa?! E quando saresti andata a prenderla?».

«Stamattina» rispose lei con semplicità.

«Clarke, non ti avevo detto di non muoverti da sola in questa storia?!» si tirò indietro, interrompendo quel contatto e guardandola dritto negli occhi, sembrava arrabbiato.

Seguì qualche istante di silenzio, poi…

«Bellamy?».

«Cosa c’è?».

«Mia madre ha ucciso mio padre» quella non era una domanda.

L’espressione di lui adesso parve ammorbidirsi. La afferrò dalle ascelle e la aiutò a mettersi in piedi.

«Non saltare a conclusioni affrettate, non possiamo saperlo con certezza».

«Non possiamo saperlo con certezza?! Bellamy, è il nome di mia madre quello! Lei ne faceva parte, faceva parte di quell’esperimento e ha lasciato che per questo uccidessero mio padre! Mi ha mentito per anni!» la sua voce si era fatta più alta adesso. E piena di rabbia.

Il cuore di Clarke aveva iniziato a pompare nel petto, un rombo sordo di sangue ribollente le invase le orecchie e la ragazza ebbe come l’impressione di svenire. Non poteva reggere anche questa.

Mise una mano su un tavolino poco distante per restare in equilibrio, ma ottenne solo il risultato di rovesciarlo, mandando in frantumi l’abat-jour che vi stava sopra e facendo piombare la stanza nel buio.

Sentiva le lacrime premerle contro le palpebre e stavolta non sapeva se sarebbe riuscita a trattenersi. Non voleva trattenersi. Troppo a lungo lo aveva fatto in quegli anni, troppo a lungo aveva soppresso tutti i pianti che avrebbe voluto soffocare la notte nel cuscino, ma che non erano mai stati versati.

Per orgoglio non aveva pianto, o forse perché sapeva di essere sola, che nessuno era lì per lei. Ora però forse le cose erano cambiate, perché, nel momento del bisogno, Bellamy sembrava essere sempre lì.

E si lasciò andare, prorompendo in un singhiozzo che sembrò spaccarla a metà, esattamente come la notte dell’omicidio di suo padre.

Prontamente, sentì due braccia afferrarla. Con tutta la forza che aveva si aggrappò alla maglietta di Bellamy, la strinse e lo strattonò, graffiandolo, prendendolo a pugni, soffocando le urla contro il suo petto. Stava perdendo il controllo, anzi, lo aveva già perso. Era fuori controllo.

Il ragazzo non diceva niente, se ne stava lì, stringendola forte, lasciando che lei si sfogasse sul suo corpo, lui che le era stato accanto nei suoi momenti peggiori.

E poi non ce la fece più, così si accasciò e Bellamy la sorresse, proprio come aveva sempre fatto. La sollevò, portandola al piano di sopra, facendola sdraiare sul suo letto e poi rialzandosi, ma Clarke non voleva che andasse via, voleva che restasse, ne aveva bisogno.

Lo afferrò per l’orlo della maglietta e lo trascinò di nuovo su di sé.

«Ma che… ?».

«Resta. Ho bisogno di te» disse solo e stavolta fu lei a stringerlo.

Per un momento le parve come se fosse rimasto bloccato, sorpreso di quelle parole che di certo da lei non si sarebbe aspettato, poi le sue braccia le restituirono la stretta e lui sospirò tra i suoi capelli.

«Sono qui».

E solo allora la ragazza cadde in un sonno profondo.



Quella notte sognò suo padre su un tavolo operatorio, sveglio e terrorizzato, con la consapevolezza che qualcosa di terribile stava per accadergli.

Gli occhi spalancati iniettati di sangue, un tubo infilato in gola che non gli permetteva di parlare, polsi e caviglie bloccati al letto da robuste fasce di cuoio. Cercò di urlare, ma era tutto inutile.

Poi qualcosa, o meglio, qualcuno attirò la sua attenzione: un medico era entrato nella stanza, un chirurgo probabilmente.

Si avvicinò al tavolo sul quale suo padre si trovava disteso e soltanto quando si tolse la mascherina Clarke riuscì a vederlo bene in faccia. O meglio… vederla. Sua madre se ne stava lì in piedi, con un ghigno beffardo e occhi spietati, un bisturi in mano.

«Avresti dovuto farti gli affari tuoi, Jake» e, detto ciò, incise il torace di suo padre, che sgranò ulteriormente gli occhi e lanciò un grido che, se fosse stato in grado di emettere un suono comprensibile, probabilmente si sarebbe sentito a distanza di isolati.



Clarke si svegliò urlando e in un bagno di sudore.

«Clarke! Clarke! Ehi, è tutto a posto, è tutto a posto. Ci sono qui io, calmati».

La voce rassicurante di Bellamy emerse da qualche parte in quell’oscurità.

«Bellamy… ».

Lo cercò nel buio, lui le prese una mano.

«Stavolta è troppo. Non ce la faccio».

«Sì, Clarke. Sì che ce la fai, sei la persona più forte che io conosca e… se non ce la farai da sola… ce la faremo insieme. Te lo prometto, non ti lascerò affrontare questa cosa da sola».

«Resti con me?».

«Ho detto insieme. Certo che resto con te. Era sempre il solito incubo?».

«No… no. Stavolta era diverso. Stavolta era molto peggio» così, brevemente, la ragazza gli raccontò cosa aveva visto.

«Clarke, tua madre potrà anche essere implicata in questa storia, ma di certo non ha fatto una cosa del genere a tuo padre, credimi. Non lo avrebbe mai fatto. Il tuo incubo è solo il risultato di ciò che hai scoperto stasera ed è normale, credimi. Chiunque avrebbe fatto un brutto sogno simile nella tua situazione, ma non devi aver paura, ok? Io sono qui e non permetterò che ti accada qualcosa di brutto, hai capito? Te lo prometto».

Lei annuì, abbracciandolo e posando la testa nell’incavo del suo collo.

«Grazie, Bellamy».

«Cerca di dormire, Principessa. Io sono qui».

La bionda annuì, poi tornò a sdraiarsi, imitata da lui e nel giro di pochi istanti si addormentò di nuovo.

Quando riaprì gli occhi, una tenue luce filtrava dalla tenda, doveva essere ancora presto. Si voltò nel letto, convinta del fatto che avrebbe trovato Bellamy al suo fianco, ma tutto ciò che vide fu il lenzuolo disordinato e il materasso vuoto.

Uno strano senso di freddo la pervase.

Si alzò dal letto, avviandosi al piano inferiore e vide la porta dello studio di suo padre accostata, così si avvicinò e la spinse, trovando il ragazzo seduto alla scrivania che per tanti anni era stata occupata prima da suo padre, poi da Marcus. Aveva lo sguardo assorto di una persona che non si sarebbe nemmeno accorta se un aereo fosse precipitato sul tetto di casa, il viso pallido e gli occhi cerchiati.

«Bellamy?» un senso d’inquietudine serpeggiò in Clarke quando si accorse del fatto che il ragazzo stava leggendo i documenti che la sera precedente avevano lasciato lì. Quegli stessi documenti che lei non aveva letto perché era piombata in una sorta di stato di catatonia non appena aveva visto la firma di sua madre.

In un primo momento il moro non parve neanche sentirla, poi, lentamente, alzò lo sguardo.

«Hai letto questa roba?».

Clarke fece cenno di diniego con la testa.

«Dovresti farlo allora perché sono tutte cose mediche e io non ci capisco nulla».

La bionda abbozzò un sorriso, poi prese in mano i documenti che Bellamy le porgeva.

Ad una scorsa veloce sembrava lo studio per un nuovo farmaco, ma non era un’esperta in materia, non poteva esserne certa.

«Di che si tratta?» chiese il ragazzo dopo un po’.

«Credo che stessero lavorando ad un farmaco di nuova generazione, o forse un vaccino, le informazioni sono ridotte al minimo e io non ho assolutamente esperienza nel campo, non saprei dirlo con certezza».

«Posso chiederti una cosa?» prese parola lui dopo qualche altro minuto.

«Te l’ho già detto una volta, Bellamy: tu chiedi, io semmai ti mando al diavolo».

Il ragazzo sfoderò un mezzo sorrisetto, poi disse: «Pensi che le parlerai? Che le chiederai spiegazioni?».

«Di che stai parlando?».

«Di tua madre, naturalmente».

La bionda emise una mezza risata priva di qualunque allegria.

«Secondo te cosa potrei chiederle Bellamy? Ciao mamma, per caso sei coinvolta nella morte di papà? No. Lei non parlerebbe mai».

«Dovrà pur dirti qualcosa!».

E solo in quel momento Clarke si ricordò di un dettaglio che le era sfuggito, che le era sembrato strano sì, ma a cui non aveva dato troppo peso.

«La mattina al comune… » disse solo e non fece caso all’espressione interrogativa di Bellamy.

«Di che stai parlando?».

«La mattina in cui sono andata al comune per richiedere il certificato di morte di mio padre, l’impiegata ha detto che solo io avrei potuto ritirarlo e che questa era stata una sua richiesta specifica. Non ti sembra strano? Da quanto ne so io è un documento che dovrebbe essere accessibile a chiunque, mentre lui non ha voluto. Lui sapeva del coinvolgimento di mia madre in questa storia, forse l’ha scoperto all’ultimo e ha capito di essere nei guai. Non si fidava più di mia madre».

L’espressione del ragazzo di fronte a sé era cupa, le braccia incrociate al petto e la mascella serrata.

«Clarke, questa storia non mi piace affatto, dobbiamo andarci cauti e dobbiamo coinvolgere la polizia. Ne parlerò con Lincoln».

«Arresterebbero mia madre. Lei è un pezzo grosso e se non fosse l’unica ad essere coinvolta? La polizia di Brooklyn all’epoca non mosse un dito per indagare sul caso, se anche loro ne fossero al corrente? Se fosse coinvolto Kane? All’epoca dell’omicidio lui lavorava al Dipartimento di Brooklyn».

«Clarke, mettiti bene in testa una cosa: io non rischierò la tua vita per questo».

A quelle parole, la ragazza rimase immobile per un momento, osservando il ragazzo come se lo vedesse per la prima volta.

«Ma Bellamy… si tratta di mio padre! Dopo quasi sette anni posso finalmente scoprire cosa gli è successo davvero!».

«Lo so Clarke, ma per quanto sia orribile da dire, lui ormai non c’è più. Tu invece sei proprio qui e sei così viva. Se ti succedesse qualcosa? Se rimanessi ferita o peggio? Credi che tuo padre avrebbe voluto una cosa del genere? Credi che vorrebbe che mettessi in pericolo la tua vita per questo?».

Bellamy sembrava sul punto di dire qualcos’altro, ma poi parve ripensarci e Clarke sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla fronte.

«Non lo so Bellamy. Io non lo so. So soltanto che deve esserci un motivo per cui ha voluto che io, e solo io, potessi richiedere quel maledetto certificato».

Il moro chiuse gli occhi e annuì.

«Sei la persona più dannatamente testarda che io abbia mai conosciuto, ma va bene. Se proprio non hai intenzione di lasciar perdere questa cosa, la faremo insieme. Quindi non provare più a fare qualcosa per conto tuo e avvertimi, la prossima volta. Anche se è qualcosa di stupido come andare a richiedere un certificato di morte o andare a ritirare la cassetta di sicurezza. È chiaro?».

«D’accordo. E… Bellamy?».

«Sì?».

«Grazie».

Lui annuì nuovamente.

Seguì qualche istante di silenzio prima che Clarke riprendesse parola.

«Se su quei documenti c’era il nome di mia madre, deve esserci anche quello degli altri medici coinvolti, aiutami a controllare, ok?».

Così, i due si misero alla ricerca. Passarono almeno mezz’ora con i nasi tra quei fogli, finché Bellamy non alzò un foglio dicendo: «Trovato!».

Clarke gli si avvicinò immediatamente, sbirciando da sopra la sua spalla. C’era una lista di nomi suddivisa in due colonne, non era molto lunga, più o meno una dozzina di nomi in tutto, ma fu uno in particolare a colpire l’attenzione di Clarke: Dottoressa Lorelei Tsing.

La ragazza cercò di concentrarsi… perché quel nome le suonava tanto familiare? D’un tratto spalancò gli occhi, trattenendo il respiro.

«Clarke! Che cosa succede?».

La voce di Bellamy sembrava preoccupata.

Un rapido flashback passò nella testa di lei, riportandola alla notte in cui suo padre era morto.

*Una donna alta e magra uscì dal blocco delle sale operatorie, la carnagione olivastra e gli occhi scuri, i capelli raccolti nascosti da una cuffia da chirurgo erano neri, l’espressione fredda.

«Salve. Lei è la signorina Griffin?» le chiese con un tono privo di qualsiasi inflessione.

Clarke, pallida e con gli occhi arrossati annuì, tremando all’idea di ciò che la donna stava per dirle. Quando era bambina, sua madre la portava spesso al lavoro perché non sapeva a chi lasciarla e molte volte le aveva visto quell’espressione dopo aver perso un paziente, al momento di comunicarlo alla famiglia.

«Io sono la dottoressa Tsing. Mi dispiace terribilmente Clarke, ma… tuo padre non ce l’ha fatta. Abbiamo tentato tutto ciò che era umanamente possibile, ma non c’è stato nulla da fare. L’entità della ferita riportata era troppo grave. Non c’è più»
*.

Con quelle parole, il mondo che Clarke conosceva era finito. “Tutto ciò che era umanamente possibile”. Aveva sempre detestato quella frase. L’aveva sentita spesso nei film e nelle serie tv mediche e poi era stata rivolta a lei. E lei l’aveva davvero odiata.

Solo allora la ragazza poté finalmente rendersi conto di quanto quella storia era stata magistralmente montata in modo che tutto sembrasse casuale, uno sfortunato incidente. Adesso che però ogni pezzo del puzzle stava tornando al suo posto, le cose poco a poco si facevano sempre più chiare.

Chiaro come molte persone di cui avrebbe dovuto fidarsi fossero coinvolte nell’omicidio dell’unica persona a cui fosse stata veramente legata nella sua vita. Chiaro come suo padre fosse stato lasciato morire su quel tavolo operatorio.

Quella scoperta le provocò un tale senso di nausea e una tale rabbia, che Clarke non riuscì a capire se aveva bisogno di vomitare o di distruggere qualcosa.

Di nuovo, fu la voce di Bellamy che la riportò indietro dai suoi pensieri.

«Clarke!».

«Lei era lì… ».

«Di che stai parlando?».

«Questa… questa dottoressa Tsing… è stata lei ad operare mio padre la notte in cui è morto. È stata lei a dirmi che non ce l’aveva fatta».

A quelle parole Bellamy parve immobilizzarsi sul posto.

«Dobbiamo scoprire la verità, Bellamy. Dobbiamo sapere chi altro era in sala operatoria quella notte e capire com’è andata davvero».

Il ragazzo la guardò dritto negli occhi e annuì.

«C’è solo una cosa che non mi torna e io sono totalmente ignorante in materia per cui se sto per dire una stronzata fermami, ma… se stavano lavorando ad un nuovo farmaco… quale bisogno c’era di avere dei chirurghi in équipe?».

Quella domanda lasciò Clarke interdetta per qualche istante, poi, un’ipotesi tanto improbabile quanto orribile cominciò a farsi strada nella sua mente.

«Questo dipende. Bellamy… ho un’idea, ma è così orribile che non voglio neanche pensarci».

Lui la osservò con sguardo intenso e attese che continuasse.

«Non stavano testando il nuovo farmaco su qualcosa… lo stavano testando su qualcuno».

Seguì qualche istante di silenzio teso prima che Bellamy riprendesse parola.

«Me ne occuperò io Clarke, tu non farlo».

Per un momento, la ragazza rimase interdetta.

«Bellamy, il tuo volermi proteggere è molto bello, ma… questa cosa riguarda me, la mia famiglia. Non puoi proteggermi da questo».

«Posso, invece. Mi porto via i documenti, me ne occuperò mentre sono in ferie» disse alzandosi dalla sedia e raccogliendo i fogli sparsi sulla scrivania, ma Clarke gli si piazzò davanti.

«No. Non esiste. Non farmi pentire di averti coinvolto. Hai detto insieme, no? Quindi lo faremo insieme».

Un vago lampo di rabbia misto a rassegnazione passò negli occhi del moro.

La ragazza lesse con più attenzione quei documenti e allora, poco a poco, riuscì a dare un senso e a mettere insieme tutto ciò che aveva trovato fino a quel momento. I test genetici erano stati fatti per arrivare fino a quel farmaco. Avere delle cavie umane era più attendibile di qualche topo da laboratorio e più immediato, meno dispendioso. C’erano meno tentativi da fare e sembrava che su certe persone avesse maggiore effetto che su altre.

Più andava avanti più le veniva la pelle d’oca e Clarke nemmeno si accorse della presenza di Bellamy, figura imponente in piedi al suo fianco. Non si rendeva conto di nulla se non di quelle parole così crudeli e così inequivocabili stampate nero su bianco.

Irrisorie, era come se le dicessero: “Ecco qui, ecco qual era la tua famiglia perfetta, ecco come la tua intera vita è stata costruita sopra una bugia. Un castello di carte crollato non appena la prima è venuta a mancare”.

Clarke credeva che quelle parole l’avrebbero paralizzata lì sul posto, su quel divano, esattamente com’era successo il giorno prima quando aveva visto la firma di sua madre.

Ma ora? Ora una rabbia folle iniziò a montarle dentro, violenta e inarrestabile, dilagante, facendole venire voglia di mettersi nuovamente a lanciare oggetti in giro per casa. In quel momento sarebbe stata capace di demolire quella casa mattone dopo mattone, lo sguardo vuoto puntato dinnanzi a sé, le braccia cominciarono a tremare.

«Clarke?».

La voce di Bellamy, che prima per lei era stato un balsamo, adesso le urtò i nervi, come un fischio fastidioso di cui non riesci a liberarti. In cuor suo sapeva che lui era stato l’unico a non averla mai tradita, a non averla mai delusa, ma forse proprio per questo in quel momento doveva allontanarsi da lui.

Allora dove poteva andare? Perché aveva perso, aveva perso tutto.

E improvvisamente fu come se la nebbia nella sua mente si diradasse, facendo tornare tutto estremamente chiaro e solo allora seppe. Seppe cosa doveva fare, finalmente era pronta.

Scattò in piedi e, più velocemente di quanto credesse possibile, si ritrovò sulla porta e poi giù lungo le scale e infine in macchina, prima di rendersene conto.

Partì, e Bellamy ben presto divenne solo un punto sfocato e lontano sul ciglio della strada.



Era stata lì solo una volta, ma i suoi piedi la guidarono in mezzo alle tombe, su quel sentiero ghiaioso come se ci fosse andata ogni giorno negli ultimi sei anni.

Suo padre sorrideva sulla foto scelta da sua madre per l’epigrafe e quel sorriso la ferì, facendola sanguinare all’interno.

Cadde in ginocchio dinnanzi alla lapide e calde lacrime iniziarono a sgorgarle inesorabili dagli occhi, brucianti. Solo allora si rese pienamente conto di quanto Jake le mancasse. E fece male. Fece così male. Il dolore ben presto divenne fisico e lei si piegò in due, tenendosi l’addome, mentre tutto ciò che avrebbe voluto dire a suo padre sfociò in quelle lacrime, che caddero sulla sua tomba e così lei sperò che in qualche modo potessero arrivare anche a lui.

Non seppe quanto tempo passò, ma ad un certo punto non ebbe più neanche la forza per piangere, dunque percorse la strada inversa, tornando alla macchina e chiudendo gli occhi, abbandonandosi contro il sedile per qualche minuto.

Quando si fu ripresa mise in moto la macchina, dirigendosi nuovamente verso casa. Non sapeva quanto tempo fosse stata via, poi vide che ormai era quasi mezzogiorno. Impiegò un quarto d’ora per tornare e, quando mise piede nell’ingresso, vide Bellamy seduto sulle scale che portavano al piano superiore, lo sguardo fisso davanti a sé, che spostò su di lei non appena la vide.

«Sei ancora qui… » constatò lei.

«Ti sei calmata?».

La bionda annuì e lui si alzò.

«Sto preparando il pranzo» disse come se fosse la cosa più naturale del mondo, quando in realtà quella situazione di naturale non aveva proprio nulla.

Così, si avviarono in cucina, senza parlarsi né guardarsi.

A Clarke non sembrò strano nemmeno il fatto che Bellamy si fosse messo ad armeggiare tra pentole e padelle nella sua cucina, ma ormai poteva dire che sì, in qualche strano modo il loro rapporto era arrivato a quella confidenza, anche se nessuno dei due lo avrebbe mai ammesso. Erano entrambi troppo testardi e orgogliosi.

Finirono di preparare senza parlare, poi si sedettero al tavolo e cominciarono a mangiare.

Clarke sperava che Bellamy dicesse qualcosa, quel silenzio tra di loro non le piaceva e cominciava a farsi un po’ troppo pesante, ma sapeva anche che era colpa sua e che quindi toccava a lei fare il primo passo.

«Mi dispiace» disse più rivolta al piatto che a lui, ma Bellamy smise di mangiare e alzò gli occhi.

«Ora vuoi dirmi cos’è successo?».

«Non ci ho più visto, Bellamy. Non dovevo scappare in quel modo, lo so, ma è stata l’unica cosa che mi sia venuta in mente, l’unica cosa che potessi fare, credimi. Era meglio che tu non mi vedessi in quello stato».

«Forse non hai ancora capito una cosa, Clarke: io posso sopportarlo. Posso sopportare ogni tuo stato d’animo, indipendentemente che tu sia arrabbiata, a pezzi o dilaniata dal dolore. Posso farlo. Ma se non mi parli e scappi… allora non so cosa fare. Non capisco perché non riesci a fidarti completamente di me, non so più come convincerti del fatto che sono dalla tua parte, che non ti lascerò affrontare questa cosa da sola».

A quelle parole, Clarke si sentì in colpa. Era vero: Bellamy non le aveva mai dato ragione di dubitare di lui. Il problema era lei: lei e il fatto che, semplicemente, dubitava di tutti e si aspettava di essere pugnalata alle spalle o delusa da chiunque in qualsiasi momento.

«Scusa» ripeté.

Bellamy le lanciò un altro sguardo intenso, poi sospirò.

«Va bene. Ma la prossima volta che scappi, per favore… dimmi dove vai».

A quelle parole Clarke abbozzò un sorriso e così fece lui.

L’atmosfera tornò a farsi distesa e quando finirono lavarono i piatti, rimettendo tutto in ordine, dopodiché tornarono nello studio.

Finalmente tutto stava cominciando a quadrare, ma c’erano ancora tante cose da scoprire e, il primo passo, sarebbe stato arrivare a tutte le persone che si trovavano nella sala operatoria in cui suo padre era morto.

Ora, costi quel che costi, Clarke era più decisa che mai a scoprire la verità.



Maybe it was all too much
Too much for a man to take
Everything's bound to break
Sooner or later, sooner or later

[…]
When it all falls, when it all falls down
I'll be your fire when the lights go out
When there's no one, no one else around
We'll be two souls in a ghost town

[…]
Tell me how we got this far
Every man for himself
Everything's gone to hell
We gotta stay strong, we're gonna hold on



Forse è stato tutto troppo
Troppo da chiedere a un solo uomo
Tutto è destinato a spezzarsi
Prima o poi, presto o tardi
[…]

Quando tutto cade, quando tutto crolla
Sarò il tuo fuoco quando le luci si spengono
Quando non c'è nessuno, nessun altro intorno
Saremo due anime in una città fantasma
[…]

Dimmi come siamo arrivati a questo punto
Ogni uomo per se stesso
Tutto è andato all'inferno
Dobbiamo rimanere forti, dobbiamo resistere







Se dieci anni prima avessero detto a Bellamy che si sarebbe trovato a quel punto, non ci avrebbe mai creduto, eppure adesso era lì: chiuso nello studio di casa Griffin a cercare informazioni completamente assurde. Con Clarke al suo fianco.

Quella ragazza era diventata poco a poco una presenza costante nella sua vita e lui non riusciva ad immaginare adesso come sarebbe potuto essere non averla più accanto a sé.

Era pienamente consapevole dei sentimenti che provava nei suoi confronti, specialmente dopo la serata al pub dei genitori di Monroe. Quando Atom l’aveva baciata, senza parlare di quel reietto di Finn poi… aveva veramente avuto voglia di rompere il naso ad entrambi, non gli importava se uno di essi era il suo migliore amico.

E quando era stato il suo turno di baciare qualcuno, avrebbe voluto che quella persona fosse Clarke, anche se era andata diversamente.

Ora si trovavano lì, in quello studio, cercando qualsiasi informazione che potesse aiutarli a scoprire finalmente tutta la verità sulla morte del dottor Griffin.

Dopo aver scoperto del coinvolgimento di Abby Griffin, Bellamy aveva visto Clarke crollare. Aveva perso il controllo, riversando su di lui tutta la sua rabbia e il dolore che fino a quel momento aveva cercato di reprimere e lui li aveva accolti… li aveva accolti perché sapeva che questo l’avrebbe fatta sentire meglio, l’avrebbe scaricata da tutta quella tensione che aveva accumulato.

Era stato il suo porto sicuro, qualcuno su cui contare mentre tutto intorno a lei crollava, persino le poche certezze che ormai le erano rimaste. E lui si era reso conto che voleva essere quella persona, che, in fin dei conti, loro erano molto simili, ognuno con i propri demoni da fronteggiare e il loro dolore. Come se fossero due anime perdute in un mondo troppo crudele per essere affrontato da solo.

Adesso guardò Clarke mentre non staccava gli occhi dai documenti trovati nella cassetta 21 e si rese conto di quanto veramente fosse stanca.

Erano le sei di pomeriggio ormai, erano stati rinchiusi lì dentro tutto il giorno e avevano bisogno di staccare un po’ entrambi.

Così, il moro le si avvicinò, posandole una mano sulla spalla e lei distolse l’attenzione, portandola su di lui.

«Basta così, Clarke. Direi che per questi due giorni abbiamo scoperto abbastanza. Devi riposare».

«Ma… ».

«Niente ma. E per essere sicuro che davvero non starai con il naso infilato lì dentro fino a domattina, questi me li porto via io» disse cominciando a raccogliere i documenti.

«Bellamy aspetta. Tu puoi andare se sei stanco, ma lascia che io continui».

«No, Clarke. Il punto è proprio questo: hai bisogno di riposare, quindi non fare storie. Io adesso me ne torno a casa portando via tutta questa roba, mentre tu vai a farti una bella doccia, mangi qualcosa e poi te ne vai a letto. Sei distrutta, si capisce benissimo».

Lei sospirò, passandosi una mano tra i capelli.

«Va bene. Grazie Bellamy».

Il ragazzo sorrise.

«Ci sentiamo domani, d’accordo Principessa?».

Clarke gli lanciò un’occhiataccia.

«Piantala».

«Non lo farò mai, rassegnati».

La bionda sbuffò divertita.

«Sei odioso».

«Però ti faccio ridere. Buona serata» e detto questo, uscì dallo studio avviandosi lungo le scale che portavano al piano inferiore.

Riprese la sua auto, rimasta lì dalla sera precedente e si riavviò a casa.

Tutto era buio e immobile esattamente come lo aveva lasciato e subito il ragazzo si diresse in camera sua, portando con sé il plico di documenti e chiudendolo a chiave in un cassetto della sua scrivania.

Non sapeva di preciso perché lo avesse chiuso a chiave, d’altra parte viveva lì da solo e nessun altro a parte Clarke era a conoscenza di quei documenti, ad ogni modo volle prendere quella misura di sicurezza.

Mentre era lì prese dei vestiti puliti e si diresse in bagno. Aveva veramente bisogno di una doccia.

L’acqua scivolò sulla sua pelle in rivoli che si inseguirono tra i solchi dei suoi muscoli, in uno strano gioco che rimase a fissare affascinato per qualche minuto.

Gli piaceva la sensazione dell’acqua tiepida sul suo corpo, lo rilassava incredibilmente.

Quando sentì che i suoi muscoli erano un po’ più sciolti uscì dalla cabina, avvolgendosi un asciugamano intorno alla vita.

In quel momento suonò il campanello e lui andò ad aprire, chiedendosi chi potesse essere.

«Per l’amor di Dio, mettiti qualcosa addosso».

Atom, il solito idiota.

Bellamy gli rivolse il suo classico mezzo sorriso arrogante e si scostò per lasciarlo entrare.

«Come mai da queste parti?» gli chiese.

«Non posso venire a rompere le scatole al mio migliore amico ogni volta che ne ho voglia?».

«Mmm… fammici riflettere un secondo. No» disse infine, ma fece una certa fatica per non mettersi a ridere a sua volta.

Atom entrò come se fosse a casa propria, d’altra parte il rapporto che aveva con Bellamy era quello: erano come fratelli e Bellamy non si comportava diversamente quando andava a trovare l’amico.

«Piuttosto Bell… non è che ti disturbo?».

Il padrone di casa lanciò una strana occhiata al ragazzo.

«Ti sembra che stessi facendo qualcosa di importante?».

«No, ma magari… sai, mi chiedevo se fossi in compagnia».

Bellamy impiegò qualche istante prima di recepire il reale messaggio che Atom gli stava mandando e subito cambiò atteggiamento, fulminandolo con uno sguardo.

«Ma quanto sei stronzo… ».

A quelle parole, Atom si mise a ridere.

«Oh, ma per favore. Se prima ne avevo solo il sospetto, dopo la serata al pub ne ho avuto la conferma, Bellamy: ti sei preso veramente una bella cotta per la Principessa. Chi l’avrebbe mai detto?».

Bellamy incrociò le braccia al petto con sguardo torvo, dopodiché, visto che non spiccicava parola, fu di nuovo Atom ad interrompere il silenzio.

«Sai una cosa? Devo ammettere che Clarke bacia davvero bene» disse con un sorrisetto furbo.

Ogni accenno di sorriso ora però era sparito dal viso di Bellamy, che invece sembrava essere diventato di marmo, freddo e immobile. La mascella serrata, gli occhi lievemente sgranati gli lanciarono uno sguardo omicida.

«E questo dovrebbe essere disinteresse? Amico… sei ridicolo».

Bellamy non disse niente e si avviò di nuovo in bagno per vestirsi.

Lo avrebbe ucciso. Una strana morsa gelida intanto gli aveva avvolto il cuore e finalmente ammise a sé stesso che non poteva trattarsi di altro se non gelosia e, quando fece ritorno in cucina, Atom era ancora lì, poggiato contro il tavolo, le braccia incrociate al petto ad osservarlo con aria vittoriosa.

«Ammettilo. Ammettilo e ti lascerò in pace. Ammettilo e potrei addirittura aiutarti con la tua bella».

«Sparisci» sputò il padrone di casa fuori dai denti, facendo scoppiare l’altro in una fragorosa risata.

A quel punto, Atom alzò le mani in segno di resa.

«D’accordo, d’accordo. Non c’è bisogno di scaldarsi tanto, ma lascia che te lo dica: sei un idiota e dovresti davvero parlare con Clarke, quella ragazza potrebbe sorprenderti. Adesso vado perché io, a differenza di qualcun altro, devo lavorare».

Bellamy gli diede una pacca sulla spalla, forse un po’ più forte di quanto avrebbe dovuto, poi seguì l’amico all’ingresso e si salutarono.

«Ricorda le mie parole Bell: Clarke potrebbe sorprenderti!» e, detto ciò, gli voltò le spalle e si avviò lungo il vialetto.

Rimasto nuovamente solo, Bellamy tornò in casa, era quasi ora di cena, ma non aveva molta fame, così andò in camera sua e tirò nuovamente fuori i documenti dal cassetto.

Rilesse tutto, prestando maggiore attenzione ai fogli che Clarke aveva trovato all’interno della cassetta di sicurezza e solo allora si accorse di qualcosa che prima nessuno dei due aveva notato: una parola, scritta a mano e cerchiata con una penna rossa: “TIMELESS”.


Prese il cellulare, pronto per chiamare Clarke, ma, quando stava per premere il pulsante verde sullo schermo, ritrasse nuovamente la mano. Era andato via per darle la possibilità di riposare, ne aveva bisogno; sapeva che lei lo avrebbe raggiunto senza pensarci due volte se l’avesse chiamata e quel pensiero lo fece desistere.

Dunque accese il suo portatile e provò a digitare quella parola sul motore di ricerca. Subito una sfilza di risultati riempì la pagina: un album musicale, una fabbrica, un ristorante, un negozio di orologi, la cover band di un gruppo rock. Nulla che lo aiutasse a capire.

Provò ad ampliare le sue vedute. A cos’altro avrebbe potuto riferirsi quella parola? Una password? Poteva anche essere, ma aveva bisogno dell’aiuto di Clarke per questo, lei di sicuro conosceva suo padre molto meglio di lui e forse, se quella parola le avesse detto qualcosa, avrebbe potuto metterli sulla strada giusta.

Ad ogni modo, quella sera non aveva intenzione di disturbarla, così decise di concentrarsi su altro, per esempio sulla dottoressa Lorelei Tsing e sull’ équipe che la notte della morte di Jake Griffin si trovava in sala operatoria con lei.

Ciò che Clarke gli aveva detto era inconcepibile per lui. In che modo un gruppo di medici potevano aver usato altre persone come cavie umane? Che diavolo, erano forse tornati nel Medioevo? Come poteva essere compiuta al giorno d’oggi una tale barbarie?

Bellamy sospirò pesantemente e si mise al lavoro, anche se non sapeva da dove partire. Se solo avesse avuto qualcuno all’interno dell’ospedale che lo avesse aiutato avrebbe potuto… un’illuminazione parve folgorarlo. Octavia.

Lei lavorava in un ospedale, forse era a conoscenza di dove fossero reperibili quelle informazioni, ma poi ci pensò su un momento. Voleva davvero mettere Octavia in mezzo ad un affare simile? No, non doveva permetterlo, per lui sua sorella era troppo importante.

Però nulla gli impediva di sondare il terreno senza dare troppo nell’occhio e decise che avrebbe fatto così. Prese le chiavi della macchina e si avviò verso casa della sorella, sperando solo che lei non fosse in turno in ospedale.

Suonò il campanello e la ragazza venne ad aprire la porta dopo qualche istante.

«Ehi, fratellone! Come stai?» disse lei buttandogli le braccia al collo, abbracciandolo.

Lui restituì la stretta, poi si allontanò sorridendo e le scompigliò giocosamente i capelli.

«Vieni, entra pure» disse la ragazza scostandosi per lasciarlo passare.

Si sedettero entrambi sul divano del salotto e chiacchierarono un po’ del più e del meno, fino a quando Octavia disse: «Ehi, sai cosa? In reparto è arrivata dalla rianimazione una certa Jenny, ha ventun anni e ha avuto un incidente stradale. Credo sia la ragazza che hai tirato fuori dalla macchina».

A quelle parole, Bellamy si illuminò.

«Sta bene?!».

«Bene è una parola grossa, ha parecchie fratture, anche brutte e ha perso il suo migliore amico. Diciamo che è viva. Però è molto positiva».

Lui sospirò.

«Salutamela tanto» a quel punto provò a sondare il terreno, il vero motivo per cui era andato lì.

«Senti O… tu sai per quanto restano registrate le équipe operatorie negli schedari dell’ospedale?».

«Mmm… se non sbaglio sono sette anni, almeno da noi all’Ark Medical. Come mai ti interessa?».

«Curiosità» disse lui sfoderando un sorrisetto che sperava l’avrebbe convinta e sua sorella non fece domande, quindi immaginò di essere riuscito nell’intento.

Sette anni. Sarebbero scattati a novembre di quell’anno, era arrivato giusto in tempo e doveva scoprirlo entro allora, altrimenti sarebbe andato tutto distrutto.

Non sapeva dove fossero conservati quei documenti, ma era meglio fermarsi lì per non insospettire Octavia, aveva già attirato abbastanza l’attenzione con la prima domanda e lei certamente non era stupida. Avrebbe capito che qualcosa non andava, che le sue domande erano mirate ad un fine.

Avrebbe sempre potuto chiedere a Clarke, tanto di certo lei avrebbe potuto aiutarlo in questo.

Spostò la conversazione per non destare sospetti in sua sorella e restarono a chiacchierare del più e del meno per un’altra ora circa.

Octavia non gli accennò nulla su Lincoln e non portava alcun anello al dito, dunque lui non le aveva ancora fatto la proposta. Bellamy si chiese cosa stesse aspettando, prima di ricordare che a breve sarebbe stato il loro anniversario e tra sé sorrise. Era proprio felice per la sua sorellina.

Si congedò quando ormai erano le dieci di sera e salutò Octavia con un bacio sulla guancia prima di rimettersi in macchina e tornare a casa.

Tutta la stanchezza accumulata in quei giorni si fece sentire all’improvviso ed ebbe appena il tempo di cambiarsi e lasciarsi cadere a peso morto sul letto prima di sprofondare in un sonno profondo e tranquillo.



La mattina seguente si svegliò carico e rinvigorito e saltò giù dal letto senza perdere tempo. Prese in mano il cellulare e trovò una chiamata persa da Clarke, così la richiamò subito.

«Principessa! Che succede? Non puoi fare a meno di me? Sentivi già la mia mancanza?».

«Taci Blake».

Ma Bellamy capì dal suo tono che probabilmente stava sorridendo. Anche lei sembrava di buon umore e questo fece ulteriormente allargare il suo sorriso.

Fu di nuovo Clarke a riprendere parola.

«Io mi sono riposata, perciò possiamo anche riprendere da dove eravamo rimasti. Ti raggiungo?».

Bellamy lanciò un’occhiata all’orologio.

«No, vengo io da te. Prendo i documenti e arrivo».

«D’accordo. Ti aspetto allora».

«A tra poco Principessa».

«Ciao Blake» disse lei in tono divertito e, subito dopo, riattaccò.

Dopo cinque minuti Bellamy era di nuovo in macchina, con il plico di fogli sul sedile del passeggero accanto a sé.

Non impiegò molto per arrivare davanti casa Griffin e, prima ancora di arrivare alla veranda, la porta si aprì, rivelando l’ingresso che ormai aveva imparato a conoscere.

«Principessa».

«Blake» si salutarono i due, non riuscendo poi a trattenere un sorriso divertito.

«Hai riposato?».

«Sì, grazie per l’interessamento. Ora però riprendiamo da dove eravamo rimasti».

«Io in realtà credo di aver trovato qualcosa, ma ho bisogno del tuo aiuto».

Subito l’espressione di Clarke mutò, facendosi seria e attenta.

«Dimmi tutto» e, detto ciò, si avviarono al piano di sopra, nello studio. Ormai quello sembrava essere diventato il loro quartier generale.

Bellamy tirò fuori i documenti, in particolare il foglio in cui era scritta quella parola.

«“Timeless”… non saprei a cosa potrebbe riferirsi, però l’ha cerchiata in rosso… sembrerebbe importante».

«Sono certo del fatto che se riusciamo a capire a cosa si riferisce arriveremo a un punto di svolta. A te non viene in mente nulla?».

«No, niente».

«Ho provato a cercare su internet, i risultati erano veramente infiniti. Un mucchio di posti tra ristoranti, fabbriche, un negozio di orologi, ma proprio non saprei a cosa collegarlo. Dobbiamo cercare di restringere il campo».

«D’accordo. Vado un momento in camera a prendere il mio portatile. Torno subito».

Bellamy annuì e nel frattempo avvicinò una poltrona alla scrivania, in modo che potessero sedersi entrambi, poi prese posto.

Ad un tratto una fitta acuta alla mano lo fece trasalire e lui fece un salto sulla sedia.

«Ma che cazz… ?!».

«Bellamy! Che succede?» la voce preoccupata di Clarke arrivò dalle scale e solo in quel momento lui si accorse della palla di pelo bianca che sfrecciò fuori dalla stanza a tutta velocità.

«Il tuo fottuto gatto! Ecco che succede!» tuonò adirato.

Controllò la mano, che sanguinava dove Yeti lo aveva graffiato.

La bionda fece il suo ingresso qualche istante dopo e gli andò subito vicino posando il pc sulla scrivania.

Gli prese la mano e la osservò con occhio clinico.

«Quante storie per un graffio, Blake» lo canzonò e lui la osservò stupito.

«Quel coso è un essere infernale!».

A quelle parole la ragazza scoppiò a ridere.

«Vieni in bagno… Principessa» lo prese in giro ulteriormente e Bellamy sgranò gli occhi, colto alla sorpresa.

«Attenta a quello che dici, Clarke».

Ma lei rise di nuovo e lo portò in bagno. Fece andare l’acqua fredda sulla ferita ed estrasse il disinfettante e una garza. Lasciò cadere un po’ di disinfettante sul taglio e poi disse a Bellamy di tenere la garza premuta finché non avesse smesso di sanguinare, poi i due tornarono nello studio, mettendosi al lavoro.

Bellamy si mise al computer e Clarke prese posto al suo fianco.

Il moro digitò nuovamente quella parola sul motore di ricerca e di nuovo una sfilza di risultati comparve sulla pagina.

Restringendo il campo, videro che a Staten Island con quel nome c’erano un negozio di orologi, un ristorante e una fabbrica, che però era stata chiusa da almeno dieci anni.

«Che dici Principessa? Potremmo cominciare dal negozio… ».

Lei annuì e così decisero di andare subito, giusto per togliersi il dubbio.

Bellamy capì dal suo sguardo che non credeva avrebbero davvero trovato qualcosa, ma andare per tentativi era tutto ciò che potevano fare.

Guidò per almeno mezz’ora con Clarke al suo fianco prima di arrivare a destinazione.

Il negozio sembrava uno di quei classici posti da film che sembrava essere, proprio come diceva il nome, senza tempo e quando entrarono, rimasero entrambi sbalorditi sull’ingresso.

Gli orologi tappezzavano ogni centimetro delle quattro pareti della stanza e il ticchettio era assordante, tanto che Clarke trasalì. Bellamy ricordava di quando la ragazza gli aveva detto che odiava il ticchettio degli orologi e di quanto la mettesse a disagio.

Le posò una mano alla base della schiena, sospingendola in avanti, verso il bancone.

Una ragazza mora fasciata da un abito rosso li accolse con un sorriso.

«Buongiorno, io sono Alie. Posso esservi d’aiuto?».

Prima di farsi avanti, Clarke gli lanciò uno sguardo strano e Bellamy capì che tutto ciò che voleva fare era uscire alla svelta da quel posto.

«Salve… » probabilmente la sua voce sarebbe risultata calma ad un estraneo, ma Bellamy, che aveva imparato a conoscerla bene in quel periodo, capì che era nervosa e fece scivolare la mano su un fianco di lei, dandole una lieve stretta.

«Mi chiedevo se conosceste per caso quest’uomo» disse tirando fuori una foto di suo padre dal portafogli. «Si chiamava Jake Griffin» continuò.

La ragazza al bancone la osservò attentamente.

«Ricordo ogni cliente che ha varcato quella soglia, signorina e mi creda: quest’uomo non ha mai messo piede al negozio».

Clarke sospirò pesantemente.

«D’accordo. Grazie per il suo aiuto».

Alie rivolse loro un sorriso di circostanza e li salutò cordialmente.

C’era qualcosa in quel posto e in quella ragazza che aveva fatto venire la pelle d’oca a Bellamy e Clarke parve notevolmente sollevata quando tornarono all’aria aperta.

«È stato un buco nell’acqua» disse.

«Abbiamo solo cercato nel posto sbagliato, Principessa. Avanti, torniamo da te e riprendiamo le ricerche».

Lei annuì e, detto fatto, erano di nuovo in macchina.

Il viaggio di ritorno fu silenzioso. Bellamy lanciò spesso sguardi fugaci alla ragazza seduta al suo fianco e dall’espressione assorta e concentrata di lei poté capire quanto si stesse arrovellando per cercare una soluzione.

«Clarke… il tuo cervello andrà in autocombustione se continui ad assillarti».

A differenza di quanto potesse immaginarsi, la bionda si lasciò andare in una risata.

Piuttosto si sarebbe aspettato una delle sue solite risposte acide, ma non di certo una risata. Poi ripensò alle parole di Atom, sorprendendosi nel constatare che erano vere: Clarke lo stupiva, dunque rivalutò il discorso fatto dall’amico. E se avesse provato a parlarle di quello che, ormai innegabilmente, provava nei suoi confronti?

Scosse la testa. Bellamy Blake e le dichiarazioni d’amore non andavano sulla stessa lunghezza d’onda. Accantonò subito l’idea sentendosi un idiota per averci solo pensato e sospirò.

«Va tutto bene?» la voce incuriosita di Clarke lo riportò alla realtà.

«Certo Principessa» nascose il suo disagio con uno dei soliti sorrisetti arroganti che ormai per lui erano un marchio di fabbrica e continuò a guidare in direzione di casa Griffin.

Erano le quattro di pomeriggio passate da quasi mezz’ora e nel giro di dieci minuti arrivarono a destinazione. Senza perdere tempo dunque, salirono le scale che portavano al primo piano e si misero nuovamente al lavoro.

Bellamy se ne stava davanti allo schermo del computer, il mouse che si muoveva rapidamente tra un link e l’altro, ma, ad un tratto, una zaffata al profumo di gelsomino lo distolse dai suoi pensieri e lui si voltò, trovando il collo di Clarke a pochi centimetri dal suo viso.

La ragazza infatti si era alzata in piedi, era alle sue spalle, la schiena incurvata in avanti e le braccia posate sulla scrivania a sostenerla.

Bellamy deglutì a vuoto. La tenera pelle scoperta del collo di Clarke era un richiamo quasi impossibile da respingere per lui, diafana come la porcellana e profumata come un campo di fiori.

Il ritmico pulsare della sua carotide scandiva gli immaginari rintocchi di un tempo che a lui parve dilatato all’infinito, intrappolandolo in un istante cristallizzato del qui e ora, di tutto quello che avrebbe potuto succedere se solo lui si fosse avvicinato a quel collo candido, posandovi sopra le labbra, cosa che avrebbe voluto fare più di ogni altra cosa.

«Bellamy?» la voce di lei, lontana anni luce, lo richiamò all’ordine e i suoi pensieri s’infransero come un’onda che collide su uno scoglio, frantumandosi in mille schegge salate di acqua e schiuma.

Il ragazzo strizzò gli occhi e scosse la testa per scacciare quell’immagine dalla sua mente, riprendendosi e deglutendo un’altra volta.

«Scusa Principessa… mi ero bloccato».

Lei ridacchiò.

«Sì, lo avevo notato».

Sembrava non essersi accorta di nulla e onestamente non sapeva se fosse un bene o un male. Dopotutto… come poteva anche solo pensare di provare il tutto per tutto se lei non faceva neanche caso alla loro vicinanza?

Di nuovo, mandò tutto al diavolo e si concentrò nuovamente sullo schermo del portatile.

Aprì a caso un link che indicava “Timeless” come nome di un ristorante lì a Staten Island e ci cliccò sopra.

Clarke a quel punto prese nuovamente posto e si avvicinò a sua volta per leggere meglio.

Era un locale non poi così distante dal porto, l’esterno era incantevole, circondato da un enorme parco con al centro una fontana a forma di orologio che mandava zampilli d’acqua in ogni direzione, dando l’impressione che segnasse qualsiasi orario.

«Sembra uno di quei posti in cui per mangiare dovrei lasciarci uno stipendio» commentò lui sovrappensiero.

«Andrò per conto mio, non ti preoccupare. Mio padre mi ha lasciato dei soldi, che ancora non ho toccato. Non sapevo cosa farmene, ora ho deciso che li userò per ogni spesa che servirà per fare chiarezza su questa storia».

«Principessa… ti ho detto già più di una volta che non ti permetterò di giocare per conto tuo a Sherlock Holmes. Dunque… io ora me ne vado a casa. Passo a prenderti alle sette e mezza».

«È un invito a cena, Blake?» chiese lei con un sorriso malizioso che fece battere il suo cuore un po’ più veloce.

«Può darsi… ».




NOTE:

E rieccomi! Scusate, sono consapevole del fatto di avervi fatto attendere un po’ più del solito (ma neanche tanto rispetto ad altri capitoli), ad ogni modo io e il nuovo capitolo siamo di nuovo qui ad assillarvi.

Dunque… direi che anche in questo capitolo di cose ne abbiamo viste tra l’ESPERIMENTO 100 e tutto ciò che ne consegue.

Ora per di più è saltata fuori anche questa parola “Timeless”.

Sono davvero curiosa di sapere cosa vi state immaginando, cosa vi potreste aspettare, dunque, se non vi rompe, avrei piacere se nelle recensioni, chi di voi recensirà, potrebbe lasciarmi qualche ipotesi. Non so se si è capito quello che ho detto ma capitemi, please. Ho fatto tutto il fine settimana a lavorare in ospedale, dunque non c’è stato riposo per me e se capita che ci metta di più ad aggiornare, probabilmente è anche per questo dal momento che cinque giorni su sette lavoro in ospedale otto ore al giorno, tre pomeriggi sono a lezione e due volte in palestra. Come potete vedere, sono un po’ full ultimamente, quindi abbiate pietà e se mi sfuggono degli strafalcioni mostruosi nei capitoli non prendete paura, è semplicemente stanchezza, ma voi in caso segnalatemelo, anche se spero vivamente che non accada.

Tra l’altro mi scuso per l’epopea infinita sullo stato di shock, ma in quel momento serviva per comprendere la situazione, spero solo di non avervi confuso ulteriormente.

Che altro dire? Come si è capito, amo profondamente inserire qualche citazione dalla serie e di certo “I need you” e “Together” non potevano mancare.

Non vi anticipo nulla sul prossimo capitolo, a grandi linee è già definito, ma MOLTO a grandi linee, dunque non saprei nemmeno che dirvi.

Bene. Vi saluto e come sempre mi auguro che il capitolo sia stato di vostro gradimento e all’altezza delle aspettative.

Un bacio a tutti!

Mel



Ah, dimenticavo!

I brani per questo capitolo sono…

Crawling – Linkin Park. Clarke

Ghost Town – Madonna. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** If you dare, come a little closer ***



CAPITOLO 17: IF YOU DARE, COME A LITTLE CLOSER




Little do you know
How I’m breaking while you fall asleep
Little do you know
I’m still haunted by the memories
Little do you know
I’m trying to pick myself up piece by piece
Little do you know
I need a little more time
Underneath it all I’m held captive by the hole inside
I’ve been holding back for the fear that you might change your mind
I’m ready to forgive you but forgetting is a harder fight
Little do you know
I need a little more time



Non hai idea
Di quanto mi senta spezzata mentre dormi
Non hai idea
Di quanto sia ancora tormentata dai ricordi
Non hai idea
Sto ancora cercando di raccogliermi pezzo dopo pezzo
Non hai idea
Ho bisogno di un altro po’ di tempo
Sotto la superficie sono tenuta prigioniera da tutto ciò che ho dentro
Sono stata trattenuta dalla paura che tu potessi cambiare idea
Sono pronta a perdonarti ma perdonare è una battaglia difficile
Non hai idea
Ho bisogno di un altro po’ di tempo



Clarke non sapeva di preciso da quanto tempo non andasse a comprare un vestito come quello. Probabilmente dall’ultimo ballo della scuola a cui aveva partecipato, prima della morte di suo padre.

Adesso però un abito nuovo era necessario, perché a quanto aveva visto con Bellamy, il “Timeless Restaurant” era uno di quei posti che richiedeva un certo tipo di abbigliamento. Un po’ era una doppia fregatura, avrebbe dovuto spendere una montagna di soldi per un vestito che probabilmente non avrebbe più usato e un’altra somma non indifferente per la cena.

Ad ogni modo avrebbe pagato lei, non voleva che Bellamy buttasse al vento tutti quei soldi per darle una mano in quella storia.

Dopo un giro per i negozi di Staten Island, optò per un tubino nero che le arrivava appena sopra il ginocchio con scollo a V e bretelle in pizzo. Di scarpe ne aveva un paio che sarebbero state perfette.

Erano quasi le sette quando tornò a casa e questo voleva dire appena mezz’ora per farsi la doccia e truccarsi. Non ce l’avrebbe mai fatta.

Cercò di impiegare il minor tempo possibile, ma quando vide che mancavano solo cinque minuti e lei era appena uscita dal box doccia, mandò un messaggio a Bellamy dicendogli di prendere le chiavi di riserva che teneva in un sottovaso in giardino ed aspettarla in salotto.

Si truccò in fretta e furia, facendo il meglio che poté e poi scappò in camera dove aveva lasciato scarpe e vestito, infilandoli al volo.

Raccolse i capelli con un fermaglio, faceva davvero troppo caldo per lasciarli sciolti sulle spalle, era pur sempre un’estate caldissima.

Scese le scale alle otto meno un quarto e, quando arrivò in salotto, trovò un Bellamy tutto intento ad osservare lo schermo del suo cellulare, con i pantaloni di un completo neri e una camicia bianca. Il cuore di Clarke perse un battito, stava davvero benissimo.

Lui non si era accorto del suo arrivo e, quando alzò lo sguardo, lo vide spalancare leggermente gli occhi, deglutire e irrigidirsi sul divano.

«Caspita Clarke… sei davvero… stupenda» disse e la ragazza pensò che non dovesse essere in pieno possesso delle sue facoltà mentali, perché una frase del genere non era decisamente da Bellamy Blake.

Lei gli si avvicinò.

«Grazie. Anche tu non sei male» disse cercando di usare un tono leggero per smorzare quella tensione che si era venuta a creare e il moro si aprì in un sorriso.

Lui le porse un braccio.

«Andiamo» e, detto ciò, i due si avviarono all’auto di Bellamy.

Un certo nervosismo riempiva l’abitacolo e Clarke continuava a sistemarsi il vestito già perfetto in preda ad un attacco ossessivo-compulsivo.

«Principessa, finirai con sgualcire quel povero abito se continui a tormentarlo in quel modo».

La verità era che la sua agitazione stava raggiungendo livelli ridicoli e non era certa che la colpa fosse da attribuire solo alla loro indagine.

La presenza di Bellamy al suo fianco la innervosiva, forse per il fatto che, in qualche strano modo, quella era la loro prima cena fuori senza che tra di loro ci fosse realmente qualcosa, forse perché, ora come ora, aveva paura di lasciarsi andare, di cosa quella cena voleva dire veramente.

Bellamy guidò per quasi un’ora, passarono davanti al porto e lei si perse nell’osservare i riflessi argentei mandati dalla luna a rispecchiarsi su quella tavola nero pece che era l’acqua. Calma, immobile.

Quell’immagine la acquietò e lei finalmente riuscì a prendere un respiro profondo. Doveva concentrarsi, non pensare a Bellamy e focalizzare la sua attenzione sul vero motivo per cui erano andati lì quella sera. Le loro ricerche. Suo padre. “Timeless”, qualsiasi cosa volesse dire. Cosa voleva dire?

Passando davanti al porto aveva avuto una strana sensazione, come un ricordo. Oppure il ricordo di un ricordo, appartenente ad un tempo che sembrava di un’altra vita.

Pensa Clarke… pensa.

“Timeless”.

Un luogo? Una password? Un codice? Maledizione.

Strizzò gli occhi colpendosi un paio di volte la fronte con la mano.

«Clarke… che ti prende?».

La voce di Bellamy arrivò alle sue orecchie chiara e nitida, distraendola. Probabilmente doveva sembrargli pazza.

«Non lo so. Si tratta di “Timeless”, credo che mi ricordi qualcosa, ma non so cosa. È così frustrante».

Il ragazzo si fece interessato e a Clarke parve anche leggermente sollevato, come se quel cambio d’attenzione in qualche modo lo avesse aiutato.

«Ti suona familiare?».

«Penso di averlo già sentito, ma non saprei a cosa collegarlo».

«Tuo padre. Concentrati su tuo padre, Clarke».

Lei chiuse gli occhi, schiacciando la testa contro il sedile. Cosa poteva significare? Cosa?

E poi d’un tratto tutto sfumò, quella sensazione, quel presentimento. E fu di nuovo al punto di partenza.

«Merda».

«Questo sì che è parlare da Principessa» cercò di alleggerire la tensione Bellamy, ma Clarke lo fulminò con un’occhiataccia.

«Mi diceva qualcosa, ma è come se avessi un blocco. Non riesco a ricordare».

«Non preoccuparti Clarke… se è qualcosa che ha a che vedere con il ristorante lo scopriremo».

«E se non c’entrasse nulla? Se fosse un colossale buco nell’acqua?».

«Beh… in tal caso avremo messo qualcosa nello stomaco e alleggerito il portafogli».

«Bellamy… ti ho detto che pagherò io con i soldi che mi ha lasciato mio padre. Non li ho toccati per quasi sette anni. Credo che il modo giusto per spenderli sia finanziare queste indagini, perciò il tuo portafogli resterà esattamente com’è adesso, d’accordo?».

Lui non rispose.

«D’accordo?» ripeté lei. Il moro le lanciò uno sguardo obliquo, riportando poi gli occhi sulla strada e annuì.

Finalmente, arrivarono davanti ad un cancello in ferro battuto che dava sul grande parco che avevano visto sul monitor del computer appena poche ore prima. Ormai erano quasi le nove di sera e lo stomaco di Clarke cominciava a reclamare cibo.

Quella giornata si stava rivelando infinitamente lunga.

Un uomo vestito elegante si fece avanti, indicando loro il parcheggio e, quando smontarono dall’auto, Bellamy gli lasciò una mancia.

«Permettimi almeno questo, Principessa» la anticipò quando vide che stava per protestare. Dopodiché le porse nuovamente il braccio e si avviarono all’interno.

Camminarono lungo un sentiero lastricato immerso nel verde e, nel mezzo, videro la spettacolare fontana ad orologio che avevano già notato in foto qualche ora prima.

La parte più infondo del parco, quella vicina all’ingresso del ristorante, era occupata da gazebi ordinati sotto i quali venivano serviti gli antipasti, la cena vera e propria si sarebbe svolta dentro.

All’interno, una ragazza in completo scuro li accolse, chiedendo se avessero una prenotazione.

Clarke stava per rispondere che no, non ce l’avevano, quando Bellamy prese parola dicendo: «Sì, ho telefonato qualche ora fa. A nome Blake».

Lei lo osservò leggermente sorpresa e il ragazzo le fece l’occhiolino, seguendo la giovane che li guidò in una saletta più piccola rispetto alle altre.

L’ambiente circostante era un trionfo di bianco e celeste, su ognuna delle quattro pareti era appeso un orologio che segnava un orario diverso, nessuno dei quali corrispondeva all’ora esatta e, dal soffitto, pendeva un lampadario di cristallo che avrebbe fatto invidia a quello di una reggia francese.

In tutto quello sfarzo Clarke si sentì quasi soffocare e, a giudicare dall’espressione di Bellamy, per lui non doveva essere tanto diverso.

Prese un respiro profondo e si sedette al tavolo da due con sopra il biglietto con scritto “Blake”, imitata dal moro.

Quando la ragazza si fu allontanata, Bellamy si sporse verso di lei, chiedendo a bassa voce: «Credi davvero che tuo padre potesse avere a che fare con tutto questo?».

Lei si strinse nelle spalle.

«Non saprei. Ma devo ammettere che in un posto del genere non avrei neanche idea da dove cominciare a cercare. E soprattutto non so cosa stiamo effettivamente cercando».

Lui sospirò e, qualche minuto dopo, un ragazzo alto e biondo a sua volta vestito di scuro consegnò loro i menù, dicendo che per l’antipasto avrebbero dovuto andare fuori, sotto i gazebi.

Passando, Clarke aveva dato una rapida scorsa, pensando che soltanto con la quantità di cibo che si trovava su quelle tre tavolate si sarebbe potuta saziare tranquillamente.

Lei ordinò un primo, mentre Bellamy primo e secondo, accompagnati da un vino bianco dal momento che il ristorante puntava sul pesce, essendo anche vicino al porto.

Si alzarono per andare a prendere gli antipasti e si misero in coda, chiacchierando del più e del meno nel frattempo. Adesso la tensione che si era creata in macchina sembrava allentata e i due risero e scherzarono mentre la fila scorreva rapidamente e loro presero ciò che capitava dai piatti, senza esagerare. O meglio… Clarke non esagerò, Bellamy fu in grado di riempirsi il piatto sistemando il cibo in modo così strategico che riuscì ad incastrarlo anche dove Clarke non credeva che riuscisse ad entrarcene oltre.

Sarebbe davvero riuscito a mangiare tutta la roba che aveva preso? Quel ragazzo era un tritarifiuti umano.

Quando tornarono al tavolo, il vino era già versato in parte nei loro calici, mentre la bottiglia era stata posata in un secchio pieno di ghiaccio alla sinistra di Bellamy, che le stava seduto di fronte.

«Sarà meglio che vada ad ordinare dell’acqua per me».

Fece per alzarsi, ma Bellamy posò una mano sulla sua, bloccandola.

«Mi assicurerò che tu non ci vada giù pesante Principessa, ma per una sera puoi fare uno strappo alla regola. Non ti lascerò perdere il controllo, fidati di me».

Clarke lo osservò intensamente per un lungo istante prima di annuire. Sì, si sarebbe fidata. Si sarebbe fidata perché si trattava di Bellamy e sapeva che di lui poteva fidarsi. Forse era l’unico, soprattutto dopo i recenti sviluppi, ma decise che fidarsi, per quella sera, era la scelta migliore che potesse fare.

Il moro alzò il calice, osservandola a sua volta.

«A questa serata, Principessa… e che possa portarci a qualcosa di buono».

Lei gli lanciò uno strano sguardo e accantonò l’improbabile impressione che aveva avuto, pensando che quelle parole fossero semplicemente riferite alle loro indagini. Dovevano riferirsi alle loro indagini. Ricambiò il gesto e i loro calici tintinnarono, cozzando leggermente, poi portò il suo alle labbra, bagnandole appena. Non voleva cominciare a bere fin da subito, soprattutto essendo a stomaco vuoto.

Chiacchierarono, cominciando a mangiare i loro antipasti e, quando ebbero finito, Clarke si alzò per andare in bagno.

Approfittò del momento per cominciare a darsi un’occhiata intorno, ma tutto ciò che saltava agli occhi era il portentoso splendore di quel posto, con i tavoli adornati di tovaglie ricamate e intonse e i centrotavola sistemati con cura maniacale. Una candela bianca e oro era posata nel mezzo esatto di ogni tavolo e mandava un leggero aroma di vaniglia. Il profumo era appena accennato e dava quell’effetto piacevole che sarebbe scivolato nel fastidioso se fosse stato più accentuato.

Tutto sembrava essere studiato nei minimi dettagli e Clarke cominciò ad essere assalita dallo sconforto. Non era certo lì che avrebbe trovato le sue risposte.

A passo svelto si avviò verso la porta con scritto “Toilette” e la oltrepassò.

Le piastrelle del bagno erano in marmo bianco, mentre i lavandini, dello stesso materiale, erano di un nero ossidiana, con i rubinetti intagliati e impreziositi di decorazioni argentee.

Clarke credeva che nulla avrebbe mai potuto superare lo splendore di casa Jordan, ma quel posto la fece ricredere ed ebbe paura di quanto effettivamente quella cena lì le sarebbe costata.

Si lavò le mani e rinfrescò i polsi ed il collo. Anche con il climatizzatore comunque era caldo, poi tornò al tavolo.

I piatti degli antipasti erano stati portati via e Bellamy era seduto con le spalle contro lo schienale della sedia, le gambe allungate sotto il tavolo e l’aria rilassata di chi stava davvero cominciando a godersi la serata, forse aiutato anche dal vino.

Sorrise quando lei riprese posto e Clarke cercò di ricambiare.

«Che succede Principessa?» si accorse subito che qualcosa in lei non andava e Clarke ebbe come l’impressione che quel ragazzo stesse imparando a conoscerla più di quanto le piacesse ammettere.

Da quando aveva eretto la sua barriera, aveva permesso soltanto a Thalia di valicarla e neanche completamente. Le aveva lasciato vedere giusto il necessario per poter arrivare a chiamarla “amica”.

Ma Bellamy… con lui era tutta un’altra cosa e non sapeva nemmeno spiegarsi come fosse riuscito ad entrarle così nel profondo. Prima che potesse rendersene conto, quel ragazzo l’aveva spogliata poco a poco di tutte le sue protezioni, di tutte le barriere che aveva eretto contro il mondo e in qualche modo le era entrato dentro.

Era dalla morte di suo padre che non sentiva un tale senso di protezione, di sicurezza. Aveva imparato a proteggersi da sola negli ultimi sei anni, aveva dovuto imparare per forza di cose a bastare a sé stessa, a restare forte, a non crollare. Ora però Bellamy le aveva dimostrato che, se ne avesse avuto bisogno, poteva crollare. Che ci sarebbe stato per aiutarla a rialzarsi. E lei si sentiva debole da una parte, ma sollevata dall’altra.

Finalmente dopo sei anni aveva qualcuno su cui contare, anche se doveva ancora capire se quel fatto le piacesse davvero o no. Senza alcun dubbio avere qualcuno con cui parlare apertamente senza dover pesare precisamente tutto ciò che diceva era bello, ma a volte si sentiva sul serio come una principessa in difficoltà e questo le piaceva molto meno.

Si era chiusa a riccio per anni, riaprirsi adesso era molto più difficile.

«Niente… » disse infine, cercando di apparire naturale.

Ecco che stava di nuovo scappando e questo fatto la fece ridere amaramente dentro di sé. A chi voleva darla a bere? Chi voleva prendere in giro? Di sicuro non Bellamy, che la osservò dubbioso con un sopracciglio inarcato.

«Piantala di dirmi balle» ora sembrava molto meno rilassato rispetto a prima, anzi, era quasi seccato. E lei lo capiva; quel ragazzo le aveva detto mille volte che avrebbe potuto fidarsi di lui e Clarke voleva farlo, ma sentiva come se ci fosse un ultimo freno tra di loro, qualcosa che non sapeva spiegarsi, ma che la tratteneva.

Sospirò.

«Non lo so. Bellamy, mi dispiace. Mi dispiace di averti coinvolto, mi dispiace di averti trascinato fin qui, è stato tutto maledettamente inutile e… ».

Lui allungò le mani sul tavolo fino a prendere le sue.

«Clarke… calmati. Non mi pare che tu mi abbia costretto con una pistola puntata alla tempia, io sono qui perché volevo esserci. Di mia iniziativa, è chiaro? E non ho intenzione di ripeterlo altre volte, quindi ora smettila di fare la paranoica e dimmi cosa succede».

«Semplicemente… credo che questa serata sia stata totalmente inutile. E non so da dove partire, non so cosa cercare e…».

Bellamy le strinse nuovamente le mani.

«Prendi aria. Un passo alla volta, Clarke. D’accordo? Ok, forse questo non era il posto giusto in cui cercare, ma insomma… guardati intorno. Credi di aver veramente buttato via la serata?».

Suo malgrado, Clarke sorrise. Un sorriso genuino finalmente.

«Ecco qui la mia Principessa».

A quelle parole Clarke sgranò gli occhi… e anche Bellamy. Come se si fosse reso conto con un attimo di ritardo delle parole che aveva pronunciato.

Fortunatamente, quel momento di imbarazzo venne interrotto dall’arrivo di un cameriere che portò i loro primi ed entrambi si avventarono sul cibo per evitare di accennare a ciò che era appena successo. Tutti e due preferivano ignorarlo.

Beh, pensò Clarke non appena mise in bocca il primo boccone, qualunque conto le avessero messo davanti a fine serata probabilmente sarebbe stato accettabile se comparato ad una simile qualità. Era squisito e a giudicare dall’espressione soddisfatta di Bellamy per lui doveva valere la stessa cosa.

La tensione si sciolse, probabilmente anche grazie al vino, che Bellamy le versava di tanto in tanto con una certa moderazione. Non mentiva a inizio serata quando aveva detto che non le avrebbe permesso di perdere il controllo. Clarke aveva fatto attenzione, aveva notato come, in qualche modo, la controllava e quanto misurasse ogni bicchiere che le versava. Quel fatto la tranquillizzò, ulteriore prova che non aveva motivo per non fidarsi di lui.

La serata trascorse fra chiacchiere e risate e, quando la cena giunse al termine, si alzarono sazi e leggermente assonnati per la quantità industriale di cibo.

Stavolta fu Bellamy ad andare in bagno, mentre Clarke si avvicinò alla cassa per pagare e, esattamente come aveva calcolato, la spesa fu alta sì, ma alla portata della somma lasciata da suo padre.

Quando il ragazzo tornò, salutarono con cortesia i camerieri che erano stati così gentili con loro e si riavviarono al parcheggio.

Bellamy le aprì la portiera dell’auto e Clarke rimase sorpresa da quel gesto, ringraziandolo. L’unico che lo avesse mai fatto prima di allora era stato Wells.

Nell’abitacolo della macchina, il clima era molto più disteso rispetto a quello dell’andata e Clarke si rilassò contro il sedile. Spostò lo sguardo fuori dal finestrino: le ombre illanguidivano la notte, velandola con la loro trapunta scura illuminata dalle stelle e dalla luna, che mandavano bagliori opachi e argentei, in un gioco di luci e oscurità. Clarke in quel momento desiderò avere un foglio bianco e un carboncino.

La notte le era sempre piaciuta, in qualche strano modo la faceva sentire al sicuro, nascosta tra quelle ombre, poteva quasi diventare invisibile. O almeno così le piaceva credere. Si era sempre sentita un animale notturno.

Si voltò ad osservare Bellamy, concentrato sulla strada davanti a sé. Un raggio di luna filtrava dal finestrino, illuminando il suo incarnato e rendendolo perlaceo, facendo risaltare i suoi occhi bui proprio come quella notte, penetranti.

Lui le lanciò un’occhiata fugace.

«Perché mi fissi Principessa?».

Lei distolse subito lo sguardo, imbarazzata di essere stata colta in flagrante.

«Non starai mica arrossendo?» un angolo della bocca di Bellamy era inarcato in uno dei suoi soliti sorrisetti arroganti e Clarke pensò che avrebbe voluto farglielo sparire volentieri… sul modo era combattuta.

In ogni caso, finché il ragazzo era impegnato nella guida era meglio evitare.

Era quasi mezzanotte quando Bellamy imboccò Sloane Avenue, la via di Clarke, fermandosi al numero 119.

La ragazza allungò le gambe per sgranchirle un po’ prima di aprire lo sportello dell’auto.

«Ti accompagno alla porta» disse lui, scendendo a sua volta dalla macchina.

Clarke cercò di soffocare il sorriso che stava per nascerle sulle labbra, che ad ogni modo morì quando vide un’ombra muoversi sulla sua veranda.

Le luci erano spente, non riusciva a vedere chi fosse e il cuore le balzò in gola, lei s’irrigidì.

«Ehi, stai bene?» Bellamy non doveva essersi accorto di nulla.

«C’è qualcuno» mormorò tirandolo lievemente per la camicia.

Il ragazzo si fece immediatamente vigile, facendo un passo avanti a lei.

«Resta dietro di me».

«Bellamy… non sono una dannata principessa!».

Ma lui la zittì. Il silenzio regnò sovrano per qualche istante, poi una voce.

«Clarke? Sei tu?».

Quella voce era così familiare e, quando capì, Clarke divenne un blocco di marmo.

Finn.

Che diamine ci faceva Finn davanti alla sua porta a quell’ora?

Bellamy cercò di trattenerla, ma lei gli passò oltre, andando ad accendere le luci del portico e trovandosi faccia a faccia con il nuovo arrivato.

Lui la squadrò da capo a piedi con uno sguardo che non le piacque neanche un po’, si sentì nuda e a disagio.

«Clarke… sei un incanto».

Poi però la sua attenzione venne attirata anche da chi la stava accompagnando.

«Bellamy? Che cosa ci fai qui?».

La tensione sul viso di Bellamy era ben evidente, o almeno lo era per Clarke e per un momento ebbe paura che potesse fare qualcosa di stupido.

«Dovrei essere io a farti questa domanda… Spacewalker».

La ragazza ricordava il nomignolo che Bellamy aveva affibbiato a Finn ancora ai tempi dei liceo, ma non riusciva a ricordarne il motivo. Probabilmente quel soprannome esisteva da prima che lei arrivasse a Fort Hill.

Osservò i due guardarsi in cagnesco per qualche istante, sempre più convinta del fatto che se non fosse intervenuta sarebbero stati perfettamente capaci di arrivare alle mani, quindi si mise in mezzo.

«Finn, perché sei qui?».

«Perché sono qui? Clarke, ti volevo parlare, sai… dopo l’altra sera. Ma tu… insomma, esci con lui?».

«Con chi esco non sono affari tuoi. Tu non sei più un affare mio. Torna a casa Finn… per favore. Semplificherai le cose a tutti».

Il ragazzo la guardò con gli occhi sgranati.

«Ma Clarke… ».

«Hai sentito che cosa ha detto. Sparisci Collins».

«Mi dispiace Finn, ma io non ho più nulla da dirti» concluse lei, cercando di mantenere un tono freddo e distaccato.

Lui le lanciò un ultimo sguardo confuso prima di allontanarsi senza aggiungere altro.

Dopo che il ragazzo si fu allontanato, sulla veranda di casa Griffin aleggiò il silenzio per qualche istante prima che Clarke lo interrompesse, voltandosi a guardare Bellamy.

«Vuoi entrare?».

Il moro rimase fermo per un istante senza dire nulla, poi annuì. A quel punto Clarke ripescò le chiavi di casa dalla borsa e le infilò nella toppa.

La casa era immersa nell’oscurità e nel silenzio e la bionda si avviò verso la cucina per controllare le ciotole di Yeti. Accese una luce e Bellamy la seguì.

«Spero tanto che quel mostriciattolo assatanato sia uscito per la caccia notturna».

«Ehi! Non parlare così del mio gatto Blake!» disse lei colpendolo con il cartone del latte.

Lui si aprì in una risata, la prima da quando avevano visto Finn. L’astio fra quei due era percettibile come una nuvola scura e densa carica di pioggia; da quanto ne sapeva Clarke, era sempre stato così.

«Posso offrirti qualcosa?».

«Principessa, abbiamo mangiato fino a scoppiare e mi offri qualcosa?».

Lei gli si piazzò davanti, puntandogli minacciosamente un dito contro il petto.

«Senti Blake… devi davvero smetterla con questo diavolo di soprannome. Hai capito?».

Sorpreso, lui scoppiò a ridere, facendo un passo avanti e squadrandola dall’alto della sua statura.

«Altrimenti… Principessa?».

«Altrimenti… » e qui anche lei avanzò di un passo «… ti ritroverai davvero in un mare di guai».

«Sto tremando di paura» la canzonò lui con un sorriso strafottente.

Per un momento, Clarke non parlò, poi riprese: «Dimmi la verità, Blake… si può sapere qual è il tuo problema?».

Bellamy allargò il suo ghigno che tanto la mandavano in bestia.

«La verità è che io ho un grosso problema con te, Principessa» il moro le stava proprio di fronte, tanto che Clarke poteva sentire il suo respiro fresco sulla pelle del collo lasciata scoperta dai capelli raccolti.

«Che genere di problema?» fece lei guardandolo dritto negli occhi con una determinazione di cui quasi si sorprese lei stessa.

Bellamy prese delicatamente il suo mento tra pollice e indice, costringendola ad alzare lo sguardo.

«Un problema che non so davvero come risolvere, forse più una tentazione che un vero e proprio problema».

Ormai probabilmente c’era meno di un metro a separarli. Clarke si trovava fra il bancone della cucina ed il ragazzo, la mente di una lucidità quasi impossibile e il cuore che batteva più velocemente del normale.

«Una tentazione?» ripeté lei, continuando a guardarlo intensamente.

Gli occhi di Bellamy erano lucidi, quasi liquidi, accesi di una luce che la ragazza non gli aveva mai visto prima e, notò lei, quegli occhi scivolarono senza neanche tanta discrezione sulle sue labbra.

«Sì, una tentazione» si spostò in avanti di un altro passo e a quel punto accorciò ulteriormente la distanza tra i loro corpi.

«Beh, chi è stato a dire che l’unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi?».

Ci fu un attimo di pausa.

«L’ha detto Wilde».

Lei lo osservò sorpresa e lui sorrise.

«Te l’ho detto… non sono un ignorante».

Altro momento di pausa.

«Mmm… e a questo punto cosa dovremmo fare Blake?». Un nuovo passo in avanti.

«Beh Principessa… io un’idea ce l’avrei».

Clarke deglutì.

«Certo… questo sempre a condizione che tu abbia abbastanza coraggio per farlo».

Il ghigno di Bellamy si allargò.

«Mi sembra che già una volta tu mi abbia accusato di non avere le palle e sappiamo entrambi com’è andata a finire».

Una sorta di trepidante attesa mista a panico s’impadronì di Clarke, che deglutì a vuoto e fissò gli occhi di Bellamy, che la guardavano di rimando.

«Principessa… ».

«Mhm?».

«Che cosa vuoi che faccia?».

Lei gli posò una mano sul petto, proprio al centro, sulla linea che separava i suoi pettorali.

«Se osi, vieni un po’ più vicino».

A quel punto Bellamy annullò qualsiasi distanza tra di loro, racchiudendole la nuca con una mano e posando la fronte sulla sua.

«Finalmente… Clarke».

E allora Clarke seppe. Seppe che quella era l’ultima difesa, che quello era il perdono di cui aveva bisogno, per sé stessa e per il resto del mondo dal quale era fuggita in quegli ultimi anni. E si lasciò sommergere da quel tumulto di sentimenti che le scoppiavano nel petto.



I’m not bullet proof when it comes to you
Maybe I’ll crash into you
Maybe we would open up these wounds
We’re only alive if we bruise
So I lay down this armor
I will surrender tonight
Before we both lose this fight
Take my defenses
All my defenses
I lay down this armor
I lay down this armor
I lay down this armor
I do what it takes to make this right



Non sono a prova di proiettile quando viene verso di te
Forse mi infrangerò in te
Forse riapriremo queste ferite
Ma siamo vivi se bruciamo
Quindi lascerò cadere la mia armatura
Mi arrenderò stanotte
Prima che entrambi perdiamo questa battaglia
Prendi le mie difese
Tutte le mie difese
Lascio cadere la mia armatura
Lascio cadere la mia armatura
Lascio cadere la mia armatura
Farò ciò che è necessario per renderlo giusto



Quando Bellamy premette le labbra su quelle di Clarke, il corpo della ragazza ebbe un tremito, prima di afferrarlo per il bavero della camicia bianca e schiacciarlo ulteriormente contro di sé. Lui le circondò la vita con le braccia e schiuse le labbra per approfondire quel bacio che prima di allora aveva tanto immaginato. Con sua sorpresa, pensò in un ultimo momento di lucidità, la realtà ebbe nettamente la meglio sulla fantasia.

Sospirò sulle labbra di lei, come se si fosse improvvisamente liberato di un peso e sentì Clarke sorridere sulle sue labbra.

Per un istante, un lungo e intenso istante, si guardarono dritto negli occhi, poi fu lui a prendere parola.

«Allora… c’è altro di cui vorresti mettermi alla prova, Prin… Clarke?».

Ma invece di rispondere, Clarke si alzò sulle punte dei piedi, baciandolo di nuovo e Bellamy rispose con irruenza, ma anche con gentilezza, stringendola a sé ma non tanto da farle male. Sfogò in lei qualsiasi cosa. Il desiderio che aveva cercato di soffocare nelle ultime settimane, l’angoscia per quella situazione in cui stavano andando a cacciarsi senza sapere come sarebbe andata a finire, il dolore.

Sì, in qualche modo Clarke lo aiutò ad alleviare quel dolore che negli ultimi anni aveva imparato a nascondere al mondo, perfino a sé stesso, tanto che a volte si illudeva che non esistesse nemmeno, eppure c’era.

Sapeva che con Clarke poteva far cadere quell’armatura che si era cucito addosso come se fosse una seconda pelle, perché anche lei conosceva quel dolore, che sordo non lasciava scampo, non gli permetteva di respirare. Era il loro fardello, ma adesso potevano condividerlo.

La baciò con passione, facendo scivolare le sue mani sulla schiena, a palmo aperto e schiacciandola contro il tuo torace.

Voleva di più, avrebbe voluto tutto, ma sapeva che non poteva.

Scese, affondò il viso nell’incavo del collo di lei, posandovi le labbra, lasciando una scia di baci su quella pelle morbida e inspirando a fondo il suo profumo, e Clarke inarcò la schiena, premendo ulteriormente il suo corpo contro quello di lui. Bellamy fremette.

Era vero, era stato con tante ragazze, soprattutto durante gli anni della sua adolescenza, ma una tale passione, una tale eccitazione… quelli non li aveva mai provati prima di allora.

«Bellamy… » ansimò lei affondando le unghie nel tessuto leggero della sua camicia, sulla schiena.

Il ragazzo tornò sulle sue labbra, baciandola di nuovo e sospingendola un po’ più indietro, contro il bancone in mogano alle spalle di lei.

Intrecciò le mani fra i suoi capelli, sciogliendoli da quel fermaglio e lasciandoli ricadere in morbide onde chiare sulle sue spalle.

Era bellissima.

Quella sera, appena poche ore prima quando era entrata nel salotto, aveva creduto che il suo cuore per un momento si fosse fermato. Non si era reso conto di ciò che le aveva detto e poi fu troppo tardi per rimangiarsi quelle parole, ma… a quale scopo? Aveva detto che era stupenda ed era esattamente ciò che pensava.

Doveva fermarsi. Doveva fermarsi, altrimenti avrebbe finito col prenderla lì e non poteva farlo. Teneva troppo a Clarke per rovinare tutto con il sesso; lei non sarebbe diventata una delle sue avventure.

Si staccarono, ansanti e lei gli posò una mano sul viso.

«A meno che la cosa non sia nel mio interesse… non credo che mi convenga metterti alla prova un’altra volta» disse sorridendo, ancora accaldata.

«Vuoi dire che questo non è stato nel tuo interesse?» rispose a tono, incrociando le braccia al petto e inarcando un sopracciglio con aria divertita.

Lei gli rivolse un sorrisetto che la diceva lunga.

«Ti sembra ancora inutile questa serata?».

La bionda scosse la testa.

»Direi proprio di no».

«Lo spero bene».

A quel punto il ragazzo guardò l’orologio, che ormai segnava l’una meno venti.

«È meglio che adesso vada. Chiuditi a chiave e fila a letto, è tardi. E domani riprenderemo le ricerche. Porto via i documenti, vieni tu da me. Ti aspetto dopo pranzo».

«Dopo pranzo?! Sprecheremo tutta la mattinata!».

«Clarke, devo essere io a ricordarti che tra appena un mese avrai l’esame di ammissione alla specialistica? Tu devi entrare a chirurgia per poter fare l’internato all’Ark Medical Center e io invece devo preparare l’esame da tenente, che fra parentesi è tra meno di venti giorni. Ci vediamo dopo pranzo».

A quelle parole, lei annuì.

«Hai ragione. Buonanotte» disse accompagnandolo alla porta.

«Buonanotte» e, detto ciò, si sporse verso di lei per darle un bacio leggero sulle labbra, che lei ricambiò.

Era incredibile… ora che aveva cominciato, era come se non riuscisse più a smettere e la cosa lo elettrizzò.

Uscì di casa senza voltarsi a guardarla, altrimenti temeva che potesse caricarsela in spalla e portarla in camera da letto senza tante esitazioni.

Salì nuovamente in macchina e guidò rilassato fino a al numero 11 di Manor Road, quando arrivò si avviò subito in camera sua, togliendosi di dosso quei vestiti e lasciandoli su una sedia, chiuse a chiave i documenti nel solito cassetto e, dopodiché, andò in bagno per sistemarsi prima di andare a letto.

La stanchezza gli piombò addosso come una coperta accogliente che lo avvolse, facendolo scivolare in pochi istanti in un sonno profondo, la mente annebbiata e il profumo di Clarke ancora addosso.



Quando la mattina dopo si svegliò, si accorse di essere rilassato come poche altre volte gli era capitato negli ultimi anni.

Si stiracchiò sopra il lenzuolo e saltò giù dal letto, avviandosi in cucina per fare colazione. Preparò il caffè e tirò fuori dalla dispensa un pacco di biscotti da mezzo chilo, dopodiché andò in salotto dove aveva lasciato il libro per la preparazione al test e lo portò in cucina.

Cominciò a leggere con la tazza di caffè tra le mani e lo sguardo perso e assorto tra quelle righe. Tornare a studiare gli fece uno strano effetto, in qualche modo gli ricordò i primi tempi all’accademia e… non era certamente stato un periodo semplice per lui, quello. Ciò che era accaduto a sua madre all’epoca era ancora troppo fresco, soprattutto per il fatto che Melinda era morta in un incendio; adesso invece riusciva ad affrontare la cosa con più serenità e senza quell’opprimente senso di responsabilità che provava nei confronti di Octavia ora che la ragazza si era fatta una sua vita ed era indipendente.

Bevve il caffè con lentezza, sgranocchiando un biscotto di tanto in tanto e, verso le undici, sua sorella gli scrisse per chiedergli se avesse voglia di andare a pranzo da lei e Lincoln. Il ragazzo accettò di buon grado e si alzò per prepararsi.

Stava per uscire di casa quando il suo telefono prese a squillare.

«Ehi Atom!» salutò l’amico quando vide il suo nome comparire sul display.

«Ciao Bell! Come stai?».

«Tutto a posto, grazie. Tu?».

«Non mi lamento a parte il fatto che non vedo l’ora di andare in ferie anch’io. Volevo chiederti… hai da fare stasera?».

«Stasera? No, direi di no».

«Bene! Che ne dici allora di una birra al pub verso le nove?».

«Ci sto. A stasera allora!».

«Buona giornata amico».

Non sapeva a che ora avrebbe finito con Clarke, ma credeva che un pomeriggio intero per quel giorno sarebbe stato sufficiente.

Poi pensò alla ragazza e la consapevolezza di vederla tra poche ore lo elettrizzò.

Patetico. Si comportava come un liceale al primo appuntamento.

Uscì spensierato e, quando arrivò davanti casa della sorella, non fece nemmeno in tempo a scendere dall’auto che un turbinio di capelli scuri e un groviglio di braccia gli furono addosso, lasciandolo interdetto.

«Octavia?» disse cercando di allontanarsi per osservarla in volto e capire cosa stesse succedendo, ma la stretta era così ferrea che non gli permise di muoversi, poi la ragazza parlò, o meglio… urlò.

«Ci sposiamo! Lincoln mi ha chiesto di sposarlo!».

Bellamy rifletté un momento… era il 5 agosto, non si era sbagliato. Quello era il loro anniversario.

Più rilassato, strinse a sé la sorella e uno strano senso di orgoglio, ma anche di malinconia si impadronì di lui. Era veramente arrivato il momento di lasciarla andare, di lasciare che vivesse appieno la sua vita, di lasciare che camminasse sulle sue gambe senza più tenerla per mano.

Ci sarebbe sempre stato per sua sorella, questo era ovvio, ma adesso sarebbe stato tutto un po’ diverso.

Posò le labbra sulla guancia della sorella, dandole un lungo bacio. Era così fiero di lei.

Lincoln li raggiunse poco dopo, dandogli un pacca sulla spalla.

«Congratulazioni ragazzi e, Lincoln… ti reputavo già uno di famiglia, ma ora lo diventerai a tutti gli effetti. E vedi di trattarmela bene, perché sono sempre capace di tagliarti le gambe» a quelle parole risero tutti e tre.

«Lincoln mi ha detto che è venuto prima da te, per… beh, diciamo per chiedere la tua benedizione. Grazie fratellone».

Lui le sorrise, dandole un buffetto sulla guancia.

«Qualunque cosa per rendere felice la mia sorellina».

Lei lo abbracciò di nuovo, poi si avviarono tutti in casa.

Il pranzo ormai era pronto e la tavola apparecchiata, Bellamy vedeva la gioia in ogni sguardo di sua sorella e quel fatto gli scaldò il cuore.

Avrebbe voluto dirle di cosa era successo la sera precedente con Clarke, ma preferì aspettare. Quel giorno era solo di Octavia e Lincoln e nulla avrebbe dovuto attirare l’attenzione su altro.

«Allora ragazzi… avete già deciso una data?».

La sorella sorrise radiosa.

«Pensiamo in primavera, verso maggio».

«E tu ovviamente dovrai farmi da testimone» disse Lincoln con un gran sorriso, che Bellamy ricambiò.

«Sarà un vero piacere».

Per l’intera durata del pranzo fu quello l’argomento principale, poi, ad un tratto, Lincoln disse: «Ehi, sai chi ha scontato la sua pena ed è stato scarcerato, Bell?».

Lui lo osservò incuriosito.

«Una tua vecchia conoscenza: John Murphy».

Bellamy alzò un angolo della bocca.

«Murphy… saranno anni ormai che non lo vedo. Era stato messo dentro per spaccio?».

«Sì. Ora è in libertà vigilata».

«Conoscendolo non gli piacerà».

«Questo senza dubbio. È un tipo a cui di rado va bene qualcosa».

«Un vero idiota» prese parola Octavia.

Quando finirono di mangiare, Bellamy si alzò.

«Scusate ragazzi, devo andare. Ho preso un altro impegno per oggi pomeriggio, ma ci vediamo presto, ok? E Octavia… io ti voglio bene, ma ora non fare impazzire Lincoln con i preparativi per il matrimonio e tutto il resto, d’accordo?».

Gli altri due risero.

«Buon pomeriggio Bell» e, detto questo, il moro salutò sua sorella con un bacio sulla guancia e riprese la via di casa.

Non appena giunse a destinazione, fece una doccia veloce prima dell’arrivo di Clarke e recuperò i documenti dal cassetto nella sua stanza, portandoli in salotto. Ormai non doveva mancare molto all’arrivo della ragazza e infatti, dopo qualche minuto, si udì suonare alla porta.

Andò ad aprire già con una certa elettricità in corpo e, quando vide la ragazza sorridente sulla veranda, non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.

«Ciao Principessa».

«Bellamy… » rispose lei e, notò il moro, quella era una delle poche volte in cui non lo aveva chiamato per cognome. Avrebbe quasi potuto farci l’abitudine, pensò.

Clarke avanzò, entrando in casa e passandogli di fianco con quella che a lui parve una lentezza esasperante.

«Ehi» disse bloccandola per un polso e facendola voltare. «Non si saluta più?».

Lei sfoderò un sorrisetto furbo.

«Non mi pare di averti ignorato».

Bellamy le lanciò uno sguardo che poteva solo dire attenta-a-quello-che-dici e il sorriso di Clarke si allargò, ma ci pensò lui a farglielo sparire ben presto avvicinandola a sé e posando le labbra sulle sue.

«Vedo che ti sei svegliato rinvigorito stamattina» disse lei con gli occhi che le brillavano.

«Ho ricevuto una bella notizia» disse lui con un sorrisetto, continuando a stringere la ragazza fra le sue braccia.

«Una bella notizia?» gli fece eco lei, guardandolo incuriosita.

«Già… » decise che avrebbe giocato un po’, giusto per farla vacillare e infatti ottenne proprio l’effetto sperato.

Clarke lo scrollò per la maglietta, richiamandolo all’ordine.

«E quale sarebbe questa bella notizia?».

Sembrava proprio una bambina desiderosa di sapere e lui si divertì a tenerla sulle spine.

«Non so se ho voglia di dirtelo».

L’espressione di lei fu talmente buffa che Bellamy non riuscì a trattenere una risata, ma Clarke si riprese subito e lo osservò con occhi profondi come pozze di un oceano in cui il moro rischiò di perdersi.

«Devo farti parlare a modo mio, Blake?».

Ecco che era tornata al cognome, ma quella camuffata minaccia gli fece correre un brivido lungo la schiena, dunque decise di assecondarla.

«Mmm… la cosa si fa interessante».

Prima che potesse rendersene conto, si ritrovò spalle al muro e con le labbra di Clarke al collo, le sue mani sui fianchi, sotto la maglietta.

Oddio, pensò.

Quella ragazza era sempre capace di stupirlo, così come la sua intraprendenza e Bellamy rischiò di perdere tutta la sua lucidità.

Atom aveva ragione sul fatto che riuscisse a sorprenderlo continuamente e anche… beh, anche sull’argomento “baci” il suo amico non si era sbagliato. Di nuovo, gli venne voglia di spaccargli la faccia per averla baciata quella sera al pub, ma poi il tocco vellutato delle labbra di lei sulla sua carotide lo riportarono alla realtà, o meglio… lo mandarono in un limbo in cui tempo e spazio non esistevano, ma esistevano soltanto loro due e quella sensazione di caldo al cuore che non aveva mai provato in vita sua.

Poi Clarke si staccò e il freddo gli piombò addosso.

«Allora… adesso me lo vuoi dire?».

Cosa… cosa doveva dirle? Quell’intermezzo passionale gli aveva tolto ogni facoltà di pensiero.

«Tu giochi sporco» disse per guadagnare tempo, ma lei gli rivolse un sorrisetto ammaliatore e soddisfatto al contempo.

«Quando l’occasione lo richiede».

«Octavia… si tratta di Octavia» disse poi, cominciando a tornare ad una certa razionalità. «Lincoln le ha chiesto di sposarlo, stanno pensando a maggio».

Gli occhi di Clarke si illuminarono.

«Ma è fantastico! Octavia se lo merita proprio».

Adesso, notò Bellamy, era tornata bambina. Una bambina il giorno di Natale e quel pensiero lo fece sorridere.

«Avanti Principessa… direi che è ora di mettersi al lavoro».

Improvvisamente lei si fece seria ed annuì, seguendolo in salotto.

Presero posto intorno al tavolo, ora entrambi estremamente concentrati e, per il momento, decisero di abbandonare qualsiasi tipo di ricerca legato a “Timeless”, qualsiasi cosa fosse.

Non avevano nulla di concreto da cui partire, dunque per il momento decisero di focalizzare la loro attenzione su come scoprire chi fosse in sala operatoria la notte della morte del dottor Griffin e vedere se, oltre la dottoressa Tsing, fosse presente qualcun altro coinvolto nell’Esperimento 100.

Fu Clarke a prendere parola dopo diverse ore.

«Così è impossibile Bellamy, non arriveremo a nulla».

«Clarke, qui l’esperta sei tu, io non so come funzionino queste cose».

«Octavia ha detto bene: i dati restano in archivio per sette anni, ma è una cosa che possiamo scoprire solo dall’interno dell’ospedale. Oppure ci serve un bravo hacker. E la cosa diventerebbe illegale».

Ma a quelle parole una lampadina si accese nella mente di Bellamy.

«Un hacker hai detto?».

«Sì. Perché, ne conosci uno?» chiese lei stancamente.

Il ragazzo però si era già mosso verso l’ingresso, recuperando le chiavi dell’auto.

«Vieni con me o no, Principessa?» urlò già sulla porta.

Lei non se lo fece ripetere due volte e in un attimo gli fu dietro.

Bellamy guidò velocemente lungo strade che non percorreva da anni, ma che conosceva bene, a differenza di Clarke che, a giudicare dalla sua espressione, non aveva idea di dove stessero andando.

«Aspetta… » prese parola lei a un certo punto. «Ci stiamo avvicinando al “Projects”?».

«Sì, Principessa. Ti porto nei bassifondi o almeno… in quelli che voi super ricchi di Fort Hill ritenete i bassifondi».

La zona comunemente chiamata Projects era infatti abitata per lo più da popolazione di varie etnie, con pochissimi nativi americani e persone per lo più di colore o ispano-americane.

C’era sempre stato un certo divario, tenuto nascosto da palate e palate di ipocrisia e perbenismo. Bellamy lo aveva sempre odiato, anche perché se doveva dirla tutta, si era sentito molto più uno del Projects piuttosto che di Fort Hill.

Se non fosse che Melinda si era spezzata la schiena lavorando come una schiava per tutta la sua vita e per la piccola somma lasciatale dai genitori, i nonni materni di Bellamy e Octavia, sicuramente anche loro avrebbero vissuto lì.

Alle sue parole, Clarke gli lanciò un’occhiataccia.

«Io non considero proprio niente» disse con acidità e Bellamy le lanciò uno sguardo veloce, sembrava arrabbiata.

Il resto del viaggio trascorse nel silenzio, finché, dopo una mezz’ora buona, arrivarono in prossimità di un’abitazione alquanto decadente.

«Resta in macchina e chiuditi dentro. Non è un bel quartiere».

La ragazza però lo ignorò, sganciando la cintura di sicurezza e facendo per uscire, ma lui la bloccò, fissandola negli occhi con sguardo penetrante, tanto che anche lei parve vacillare.

«Clarke. Hai sempre fatto di testa tua, ma stavolta dico sul serio. Non muoverti da questa macchina, è chiaro?».

La bionda sbuffò scocciata e riallacciò la cintura.

Così, scese dall’auto e si avviò verso quella casa in rovina.

Suonò al campanello ma quello non funzionava, così bussò.

Attese. Un minuto. Due. Niente.

Colpì la porta con più forza e, dopo quella che a lui parve un’ora, udì un rumore dall’altra parte delle mura, lo scattare della serratura e, infine, si aprì uno spiraglio, anche se dall’interno la porta era bloccata da una catena.

Bellamy riconobbe subito quegli occhi chiari.

«Ma guarda un po’ chi si è fatto vedere dopo cinque anni… Bellamy Blake. Cos’è, sei diventato un cittadino modello adesso?».

L’interessato sorrise, ma era un sorriso che non prometteva nulla di buono. «Ciao Murphy… ».




NOTE:




Ciao a tutti! Oh mannaggia, non avete idea di che razza di parto sia stato questo capitolo e temo che i prossimi saranno ben peggiori.

Ad ogni modo, sono qui finalmente e beh… E BELLARKE SIA!

Ahahahah, sì, ciò che avete visto non era un miraggio, alla fine abbiamo avuto un bacio, un bacio vero e sembra che i due siano abbastanza presi l’uno dall’altra.

Insomma, di cose in questo capitolo ce ne sono state e spero che come sempre sia stato all’altezza delle vostre aspettative, non so cosa vi foste immaginate per il loro primo bacio, sarei curiosa di saperlo, ma mi auguro solo che non vi abbia deluso.

Poi va beh, il fatto che neanche un giorno e Clarke sia già arrabbiata con Bellamy è tutto nella norma conoscendoli, ahah XD

Ma belli i miei bambini <3

Ok, la smetto.

Poi ci sono anche Lincoln e Octavia che si sposano e adesso l’introduzione di Murphy, anche lui si rivelerà un personaggio abbastanza importante nelle indagini.

P.S. scusate le possibili imprecisioni delle traduzioni dei brani di questo capitolo, ma siccome su internet non ne ho trovate che mi soddisfacessero, sono praticamente scritte di mio pugno ^.^’

Detto questo, passo e chiudo, ci riaggiorniamo al prossimo capitol!

Sempre vostra,

Mel



Little do you know – Alex and Sierra. Clarke

Armor – Landon Austin. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Let it burn ***



CAPITOLO 18: LET IT BURN




Your light is inside of me
Like a raging roar
Like an ocean born
You're in my veins
Your voice is serenity
When the Sun goes down
And the strength I've found
Is in my veins

You're never far from where I am
Like a lighthouse, bring me home
You're never far from me
Let your spirit glow



La tua luce è dentro di me
Come un ruggito furioso
Come un oceano nato
Sei nelle mie vene
La tua voce è la serenità
Quando il sole cala
E la forza che ho trovato
È nelle mie vene

Non sei mai lontano da dove mi trovo
Come un faro, portami a casa
Non sei mai lontano da me
Lascia che il tuo spirito brilli



Seduta in quella macchina, Clarke cominciava ad innervosirsi. Bellamy l’aveva innervosita. Che diavolo voleva dire con la frase di poco prima? La credeva davvero tanto frivola? Forse si era sbagliata, forse per lui era tutto un gioco. Forse non gli importava poi così tanto.

Spazientita dall’assenza del ragazzo, che ormai era scomparso in quella casa da un quarto d’ora buono, decise di uscire dall’auto e fare un giro in quella zona. Non c’era mai stata e voleva tenersi occupata in qualche modo. Magari avrebbe trovato qualcosa di interessante.

Tolse la sicura allo sportello e balzò fuori, osservandosi intorno.

Tutto attorno a lei sembrava essere triste e grigio, in completo decadimento e la cosa la inquietò. Ogni cosa era immobile e le parve di essere finita nella scena iniziale di un film dell’orrore. Non si vedevano animali, un parco giochi abbandonato distava pochi metri, ma non c’era alcun bambino, non si vedeva nessuno per le strade. Eppure era comunque il 5 agosto di una caldissima estate a New York, una calma del genere era totalmente anormale. Sembrava di essere in una città fantasma.

Non si rese conto di essere andata tanto lontano fino a che, voltandosi, non vide più l’auto scura di Bellamy, né trovò qualche punto di riferimento che la aiutasse a trovare la via del ritorno.

Camminò, fino a quando un movimento repentino alle sue spalle le fece balzare il cuore in gola e, dopo un attimo, una sagoma scura le si avventò contro, facendola cadere per terra.

Per la sorpresa Clarke urlò, ma subito qualcosa di freddo e appuntito le si posò sulla gola, paralizzandola. Un coltello.

«Non ti conviene urlare biondina».

La voce era fredda quasi quanto quella lama che, dolorosa, premeva proprio sulla sua carotide, ma, a differenza di quanto Clarke si sarebbe immaginata, improvvisamente riprese il controllo del suo corpo, scrollandosi di dosso il malintenzionato con uno scatto potente delle gambe e delle spalle, rotolando di lato.

Lui però non si fece sorprendere troppo a lungo e, coltello alla mano, si scagliò nuovamente verso di lei, puntando proprio allo stomaco.

Riuscì a scansarlo e quello cadde rovinosamente a terra, calciò il coltello distante e iniziò a correre nella direzione opposta, bruciando tutto il fiato che aveva in corpo. Corse fino a che non le fece male la milza, senza sapere dove stesse andando, poi andò a sbattere contro… Bellamy, che inizialmente le circondò la vita con un braccio, poi la spinse dietro il suo corpo imponente, proprio mentre lo sconosciuto, che aveva inseguito Clarke, si lanciava verso di loro tenendo nuovamente in alto il coltello.

Per la sorpresa, Bellamy non riuscì a schivarlo in tempo e lui lo prese di striscio ad un fianco. Subito uno squarcio gli si aprì sulla maglietta e il sangue iniziò a colare impregnandogli gli abiti. Clarke sgranò gli occhi, raggelandosi a quella vista.

Accadde in un istante: il ragazzo al suo fianco divenne solo una sagoma scura, travolgendo l’estraneo con la forza di un uragano. I due cozzarono, rotolando sull’asfalto per qualche metro, in un groviglio di gambe e braccia e solo quando si furono fermati Clarke riuscì a distinguere Bellamy, con un’espressione più minacciosa di quanto lo avesse mai visto fino a quel momento.

In un attimo disarmò lo sconosciuto, facendo scivolare il coltello a parecchi metri di distanza, dopodiché gli assestò un pugno talmente potente sulla mandibola, che quello rimase fermo immobile, svenuto.

Il moro prese un profondo respiro e puntò gli occhi neri come l’ossidiana in quelli di Clarke. Non aveva mai visto tanta furia in quegli occhi fino a quel momento e la ragazza indietreggiò di un passo.

Bellamy chiuse gli occhi sospirando pesantemente, poi le voltò le spalle.

«Andiamo» disse solo e il tuo tono intimidatorio le fece capire che non avrebbe accettato nessun tipo di replica, così si limitò a seguirlo, quasi correndo per tenere il suo passo.

Arrivarono alla macchina e lui sbatté lo sportello con ferocia, partendo subito a velocità folle.

Ci impiegarono la metà del tempo per tornare a casa e, quando furono lì, Bellamy non la aspettò, scendendo subito e avviandosi verso la porta.

Solo in quel momento Clarke si accorse del suo braccio sanguinante laddove la pelle aveva sfregato sull’asfalto, sentendosi terribilmente in colpa, oltre che per la ferita del coltello. Se avesse fatto come lui le aveva detto, restando all’interno dell’auto, niente di tutto quello sarebbe successo.

Saltò giù, percorrendo di corsa il vialetto di casa Blake fino ad arrivare alla veranda, anche se il moro le sbatté quasi la porta in faccia.

«Bellamy fermati!» gli urlò contro ad un certo punto e lui si arrestò così di colpo che per poco lei non gli andò addosso un’altra volta.

«Ti avevo detto di restare in macchina» più che parlare ringhiò.

«Mi dispiace».

«Ti dispiace?! Clarke, potevi farti ammazzare!» alzò la voce lui, sembrava fuori di sé, tanto che, di nuovo, lei indietreggiò. Quella versione di Bellamy non le piaceva affatto, era come tornare indietro nel tempo, a quando lui era ancora il bullo del quartiere e tutti gli stavano alla larga e cambiavano strada non appena lo incrociavano.

Lui chiuse gli occhi, passandosi una mano prima sul volto e poi tra i capelli.

«Perché devi fare sempre di testa tua? Eh Clarke? Si può sapere?!».

Lei si strinse nelle spalle.

«Ero arrabbiata».

A quelle parole, lui sgranò gli occhi.

«Eri arrabbiata?! Eri…? Santo Dio, stava per ucciderti!».

«Lo so! Lo so Bellamy, che cosa vuoi che ti dica?».

«Niente! Voglio che tu stia zitta e non parli più!».

«Ma…!».

«Clarke!».

«Sei ferito! Dobbiamo andare in ospedale» disse con fermezza.

Solo a quel punto Bellamy si diede un’occhiata al fianco e al braccio. Il fianco sanguinava ancora, mentre sul braccio il sangue era ormai incrostato.

«Non è grave, niente ospedale» rispose risoluto lui, come se niente fosse.

«Bellamy Blake!» tuonò Clarke a quel punto, posizionandosi dinnanzi a lui con le braccia minacciosamente puntate sui fianchi.

I due si fronteggiarono per un momento, poi Bellamy sospirò pesantemente.

«Bene… Principessa, ma niente ospedale. Sei un medico no? Fa’ qualcosa da medico senza che debba perdere l’intera giornata al pronto soccorso».

La ragazza lo osservò di traverso, poi annuì.

«Bene. Però allora dobbiamo spostarci a casa mia».

Detto fatto, in un attimo erano di nuovo in macchina, chiusi per la seconda volta in un mutismo reciproco assoluto.

Quando arrivarono, scesero dall’auto e si diressero verso l’ingresso principale.

Clarke lanciò uno sguardo fugace a Bellamy prima di aprire la porta; il ragazzo sembrava di granito, doveva essere parecchio arrabbiato e lei, in fin dei conti, non poteva biasimarlo.

Entrarono nell’atrio di casa Griffin, bagnato dalla luce estiva di un inizio agosto newyorkese e la ragazza fece cenno all’altro di seguirla lungo le scale, fino a trovarsi nel bagno della sua stanza.

«Togliti la maglietta, Bellamy» disse cercando di nascondere il tremito nella sua voce.

Per un momento, le parve come se il ragazzo la osservasse un po’ più a lungo, gli occhi ridotti a due fessure, poi obbedì al suo ordine e il cuore di Clarke perse un battito.

Maledizione, perché doveva reagire sempre così? Era semplicemente Bellamy e sì, si erano anche baciati, quindi teoricamente ormai l’imbarazzo avrebbe dovuto diminuire, no?

«Qualche problema, Principessa?».

La voce di lui la richiamò all’ordine e lei si maledisse.

Lo aveva baciato, aveva accarezzato quegli addominali pelle contro pelle, allora perché continuava a farle un tale effetto?

Osservando meglio la sua espressione però, Clarke notò che qualcosa era cambiato: adesso negli occhi scuri del ragazzo era apparsa una scintilla divertita.

«Nessun problema, Blake».

Innanzitutto prese delle garze, con le quali tamponò la ferita al fianco, poi disse a lui di fare pressione mentre lei si occupava dell’escoriazione al braccio.

«Mi dispiace Bellamy, ma questa brucerà» disse versando sulla ferita dell’acqua ossigenata.

Vide lo sguardo di lui indurirsi, ma non disse nulla e, quando ebbe completato il tutto, lo medicò e poi esaminò con occhio clinico il taglio sul fianco.

«Credo sia meglio se ti sdrai, vieni in camera, e distenditi sul letto».

Così la ragazza estrasse un ampio asciugamano da un mobile e lo posizionò sul materasso, in modo da non dover cambiare tutta la biancheria del letto se si fosse sporcata di sangue.

«Mi dispiace, devo darti qualche punto».

«Accomodati» disse lui con le braccia incrociate dietro la nuca, come se la cosa non lo toccasse particolarmente.

«Prima ti faccio un po’ di anestesia locale, ma farà un po’ male anche quella».

Bellamy scrollò le spalle.

«Come mai tieni tutta questa roba a casa? Anestesia, filo da sutura, bisturi… ».

Clarke inarcò un angolo della bocca.

«Siamo una famiglia di medici, Bellamy… mia madre, mio pa… » ma s’interruppe bruscamente.

Era strano. Nel tempo che trascorreva insieme a quel ragazzo, era come se dimenticasse il resto. Come se dimenticasse i suoi problemi. Come se dimenticasse che suo padre fosse morto e che sua madre era probabilmente coinvolta nel suo omicidio.

Dopo quella mezza frase lasciata in sospeso, il silenzio aleggiò per qualche istante all’interno della stanza.

Clarke tamponò e ripulì la ferita di Bellamy, sempre con gesti delicati, ma al contempo esperti, cercando di fargli meno male possibile.

Era colpa sua se adesso il ragazzo si trovava in quello stato.

Prese una siringa per iniettargli l’anestesia intorno alla zona ferita, poi lo avvertì.

«Come dicevo anche prima, darà un certo fastidio. Fermami se dovesse essere insopportabile, ma cerca di resistere perché non c’è altro modo e darti i punti senza sarebbe molto peggio».

Iniettò la prima dose e sentì Bellamy irrigidirsi e trattenere il respiro.

«Lo so che è una frase stupida e che probabilmente avresti voglia di darmi un pugno, ma cerca di restare rilassato».

Bellamy emise una mezza risata, ma non disse niente.

Clarke dovette ripetere l’operazione altre tre volte prima di poter cominciare a suturare il taglio e ogni volta lui trattenne il respiro. Si sentiva tremendamente in colpa.

«Cosa senti?» chiese la ragazza mentre ricuciva la sua ferita.

«Non lo so… non è dolore… né fastidio, non saprei, è una sensazione strana».

Clarke sorrise.

«Bene, vuol dire che l’anestesia ha fatto effetto. Potresti restare un po’ intontito per il resto della giornata, basta macchina per oggi».

«Niente macchina? E io come ci torno a casa?».

«Posso sempre riaccompagnarti io… oppure potresti restare qui… ».

Bellamy la osservò tra il divertito e l’incuriosito.

«Perché stai arrossendo, Principessa?».

Clarke, che ormai aveva finito, tagliò il filo, finì di medicarlo e poi gli diede un leggero pizzicotto sull’altro fianco.

«Taci Blake».

A quelle parole il ragazzo scoppiò a ridere, ma se ne pentì ben presto, portandosi una mano al fianco ferito.

«Maledizione».

«Ecco, questa è una cosa che io chiamo “punizione divina”».

Bellamy la osservò corrucciato prima di afferrarla per un polso e trascinarla su di sé.

«Ma davvero?» disse a meno di un centimetro dal volto di lei.

«Ehi, aspetta, così ti faccio male».

«Non mi fai proprio niente Principessa. E adesso smettila di parlare» e, con quella frase, le afferrò la nuca con una mano, azzerando la distanza tra loro due e baciandola.

Fu un bacio lungo e carico di passione, alla fine del quale entrambi si guardarono ansimando.

«Quindi non sei più arrabbiato?» disse lei fissandolo dritto negli occhi.

«Tu mi fai sempre infuriare Clarke. O perché ti metti nei guai rischiando di farti male, o perché non mi dai retta o perché sei dannatamente testarda… ma non saresti tu se non fossi così, quindi… » lasciò in sospeso la frase, sporgendosi a baciarla di nuovo e lei si lasciò andare a quel contatto.

Le labbra di Bellamy erano fuoco puro sulle sue e le sue mani le afferrarono i fianchi con fermezza, ma senza farle male.

Sentiva il desiderio dipanarsi tra i loro corpi, era qualcosa di tangibile e incredibilmente reale. Qualcosa che con Finn non aveva mai provato.

Una mano di Bellamy si insinuò sotto la sua canotta e Clarke trasalì. Quella sua reazione parve surriscaldare maggiormente il ragazzo, che la baciò con maggior trasporto e lei accarezzò il petto, sentendo ben distintamente le linee scolpite dei suoi muscoli, scendendo poi verso gli addominali… e la cintura.

In quel momento il telefono della ragazza prese a squillare facendoli sobbalzare entrambi.

Bellamy imprecò, a Clarke balzò il cuore in gola più di quanto già non fosse.

Il nome di Jasper capeggiava sul display.

«Pronto!» rispose subito e si accorse di quanto la sua voce suonasse affannosa e alterata.

«Ehi Clarke! Ehm… è tutto a posto? Mi sembri un po’ strana… ».

Meraviglioso… appena il tempo di rispondere al telefono e già si era accorto che era… impegnata in altre attività.

«No, Jasper! Tranquillo, va tutto bene».

Al solo sentire quel nome, la ragazza vide Bellamy alzare gli occhi al cielo e quasi le venne da ridere.

«Volevo chiederti se magari non ti andava di venire da me… in serata visto che ormai sono le cinque di pomeriggio o insomma… quando vuoi. È un po’ che non ci vediamo e pensavo che potremmo organizzare qualcosa io, te e Monty… proprio come ai vecchi tempi. So che sei molto impegnata con la preparazione per l’esame di ammissione a medicina, ma se vuoi puoi portarti i libri per studiare! In realtà devo preparare un esame anch’io, quindi potremmo dividere la serata e fare prima studio e poi quello che ci pare. Come al solito i miei sono fuori città e Denise, ti ricordi la nostra domestica? Non fa altro che chiedermi di te da quando ha saputo che sei tornata a Fort Hill! Poi ovviamente vi fermereste a dormire da me».

Ma Clarke era distratta… distratta dal petto di Bellamy che premeva contro la sua schiena, dalle sue mani intorno ai suoi fianchi e dalle sue labbra sul suo collo.

«Mhm… direi… direi che è un ottimo programma!» esclamò lei cercando di mascherare il tumulto dentro di sé.

«Clarke, sei sicura che vada tutto bene?».

«Sì! Non ti preoccupare, è tutto a posto» ma il suo parlare con un tono di un ottava più alto del necessario era un chiaro segnale del fatto che non era tutto così a posto come voleva lasciar credere all’amico.

«Allora come facciamo? Ti va magari… questa sera? Prima di cena si studia e poi possiamo mangiare a base di schifezze e serie tv, proprio come ai tempi del liceo. Sai, è uscita una nuova serie proprio pazzesca e Monty mi sta assillando, quindi potremmo iniziarla!».

Ma Clarke capì dal ringhio di Bellamy e da come si era avventato sul suo collo e le stava stringendo i fianchi che era alquanto contrariato da quella proposta. Era così vicino da aver sentito ogni parola di Jasper.

«Che cos’era quel rumore? Ti sei presa anche un cane adesso?».

La bionda sentì il corpo del ragazzo irrigidirsi contro il suo e quasi scoppiò a ridere, ma cercò di mantenere una certa serietà.

«Mmm… Jasper, che ne dici di fare domani? Per la serata ho preso un altro impegno… e poi così domani potrei dedicarvi tutta la giornata! Posso venire la mattina, in modo da studiare più a lungo e la sera… beh, quello che hai detto tu».

«Nessun problema! Allora avverto Monty, sarà certamente entusiasta!».

«Ottimo!» quasi strillò quando Bellamy le mordicchiò la carne tenera dietro l’orecchio. «Allora a domani Jasper, fammi sapere l’orario!» e detto questo riagganciò senza nemmeno dare all’amico la possibilità di replicare.

Gettò il telefono sul letto e si voltò di scatto per fronteggiare Bellamy, il cuore che batteva a mille.

«Ma sei impazzito?! Mi dici che ti è preso?».

Lui la osservò con il ghigno strafottente che tanto la mandava in bestia.

«A me? Nulla Principessa, è che… semplicemente non mi piace dividere le mie cose con gli altri… ».

«Le tue cose? Quindi io per te cosa sarei di preciso? Un soprammobile?».

Il ragazzo ricoprì la distanza che li separava, prendendo il mento di lei tra pollice e indice e facendole alzare lo sguardo.

«Sai cosa intendevo Clarke, quindi non cominciare a fare la rompipalle. E poi sapevo che dovevo uccidere Jordan quando ne ho avuto l’occasione».

Lei stava per replicare quando lui la zittì con l’ennesimo bacio, facendola sciogliere contro il suo petto ancora nudo, passando poi ad accarezzare i muscoli della sua schiena.

Fu con uno sforzo non da poco che si staccò da lui.

«Bellamy… dobbiamo proseguire le nostre ricerche. Devi dirmi di cosa è successo stamattina. Chi sei andato a trovare in quella casa fatiscente? Chi è il nostro hacker?».

«Prendi fiato Principessa. La sua identità non ha importanza, ha detto che ci aiuterà. Gli ho lasciato qualcosa su cui lavorare, mi richiamerà non appena avrà qualcosa di certo in mano».

«La sua identità ha importanza per me, Bellamy» adesso la bionda si era fatta più seria.

«Senti… fidati di me, d’accordo? È tutto ciò che ti chiedo» detto questo, il ragazzo le posò un bacio sulla fronte e recuperò la sua t-shirt dal letto.

«Non vorrai mica rimetterti quella? È strappata e sporca di sangue, così come lo sono anche i pantaloni. Ho ancora io i vestiti che mi avevi prestato l’altra notte, quando mi sono presentata da te durante la tempesta. Indossa quelli» e, così dicendo, la ragazza tirò fuori dall’armadio gli abiti che Bellamy le aveva prestato qualche sera prima.

Lui andò a cambiarsi nel bagno mentre Clarke ripulì il letto da tutto il materiale che aveva usato per medicare il vigile del fuoco.

La bionda guardò l’orologio: erano le cinque di pomeriggio passate ormai e lei sentì tutta la stanchezza accumulata piombarle addosso improvvisamente. Le notti insonni, le continue ricerche e lo studio serrato ormai la stavano sfinendo. Scese le scale fino al piano inferiore per controllare le ciotole di Yeti e riempì quella dell’acqua… del suo gatto non c’era traccia.

Sentì dei passi sulle scale e, qualche istante dopo, Bellamy le fu davanti, cambiato e ripulito.

«Ho approfittato del tuo bagno per darmi una sciacquata, ero in condizioni pessime, spero che non ti dispiaccia».

«Hai fatto benissimo e… Bellamy?».

«Sì?».

«Mi dispiace davvero, è stata colpa mia».

«Lascia stare Clarke, come vedi sto benissimo».

«Per fortuna sei in ferie, altrimenti andare al lavoro sarebbe stato un problema».

«Non pensarci adesso. Allora… prendiamo i documenti? Vuoi che cerchiamo qualcosa che possa aiutarci visto che è ancora presto per la cena?».

Clarke chinò il capo, grattandosi la testa… era imbarazzata.

«Ad essere sincera… sono davvero stanca Bellamy. Per oggi vorrei prendermi una pausa, se per te va bene».

Il moro inarcò le sopracciglia con aria sorpresa, ma si ricompose ben presto, andandole vicino.

«In realtà aspettavo che me lo chiedessi. Una pausa è proprio quello che ti serve Clarke, sei esausta ormai e hai proprio bisogno di rilassarti. Tv e divano?».

Lei sorrise. Era un sorriso stanco, ma genuino.

«Direi che è un ottimo programma».

Clarke registrò con un attimo di ritardo le dita di Bellamy che si intrecciavano alle sue, guidandola verso il salotto. Ormai il ragazzo aveva imparato a muoversi in quella casa come se fosse sua e Clarke, pur sorpresa, non respinse quel contatto.

Era una cosa che dal vecchio Bellamy non si sarebbe mai aspettata, ma questa nuova versione di lui la stupiva spesso e lei… beh, lei stava davvero iniziando ad abituarsi alla cosa.

Sapeva che certamente per il ragazzo non doveva essere semplice, così come non era semplice per lei, ma aveva come l’impressione che poco alla volta entrambi stessero imparando a spogliarsi degli strati e delle barriere che si erano costruiti intorno per evitare di soffrire. Sotto questo punto di vista erano molto simili. Bellamy era diventato una sorta di punto saldo per lei: un faro che in qualche modo non la faceva mai sentire persa, ma sempre al sicuro… ormai era entrato a far parte di lei.

Il ragazzo prese posto sul divano, poi le fece cenno di sedersi al suo fianco e lei lo fece senza esitazione. Dopo un po’ di zapping, il ragazzo trovò un canale che trasmetteva serie tv a ripetizione, capitando proprio su “The Walking Dead”.

«Adoro questa serie» disse mettendosi comodo.

«Sì, piace molto anche a me».

Lui la osservò tra il divertito e lo stupito per un momento, poi le passò un braccio intorno alle spalle e i due iniziarono a guardare l’episodio, doveva essere la quarta stagione, pensò Clarke.

Tuttavia, dopo un po’ la stanchezza prese il sopravvento e la ragazza si accucciò contro il corpo di Bellamy, posando la testa sul suo petto. Lo sentì sospirare tra i suoi capelli, dopodiché venne avvolta da uno stato di torpore che nel giro di poco la fece scivolare in un sonno tranquillo.



«Principessa? Principessa? Clarke?».

Una voce familiare s’insinuò poco a poco nella sua mente, ridestandola da quel sonno piacevole. La ragazza alzò la testa, trovandosi il volto di Bellamy a pochi centimetri dal suo; le braccia del ragazzo la avvolgevano, dandole una piacevole sensazione di calore e conforto… una sensazione che solo suo padre era riuscito a darle prima di allora.

«Scusa… mi sono addormentata».

Il moro posò le sue labbra sulle sue e Clarke lo afferrò per l’orlo della t-shirt, cercando di aumentare quel contatto.

Nel giro di un istante la ragazza si ritrovò supina sul divano, sovrastata dal corpo di lui.

«Cristo Principessa… tu mi manderai dritto all’inferno» Bellamy ansimava.

Clarke sorrise, poi si sporse a baciarlo un’altra volta.

«Direi che il sonnellino ti ha rigenerata» riprese quando si separarono nuovamente.

Lei sorrise con aria maliziosa, poi tornò a sedersi, imitata da lui.

«Caspita, sono quasi le nove di sera! Bellamy, avresti dovuto svegliarmi prima».

«Perché? Dormivi così bene… ti ho svegliata quando ho cominciato ad avere i crampi allo stomaco per la fame».

Lei rise di gusto, scompigliandogli i capelli.

«Allora andiamo a preparare la cena».

«Questa mi sembra un’ottima idea».

Per tutto il tempo non fecero altro che punzecchiarsi, divertendosi entrambi, come se avessero dimenticato ciò di cui realmente dovevano occuparsi. Nessuno dei due fece parola dell’omicidio del padre di Clarke e forse quella era la prima volta in assoluto che ad entrambi non venne neanche in mente.

Parlarono di tutt’altro, come se fossero due qualsiasi ragazzi con problemi comuni. Nessun omicidio, niente tristezza né solitudine… c’erano solo loro due e quel senso di spensieratezza che ormai non li coglieva da tempo.

Il clima all’interno della cucina di casa Griffin era leggero e, nel bel mezzo della cena, Yeti decise di degnarli della sua presenza.

«Guarda un po’… è arrivato Psycho» disse Bellamy divertito, beccandosi un calcio sotto il tavolo da Clarke.

«Maledizione! Sei violenta!».

«Mi sembra di averti detto già più di qualche volta di smetterla di insultare il mio gatto».

«Gatto? Quel coso è l’ottava piaga d’Egitto! E mi ha anche lasciato una cicatrice come ricordo» disse lui alzando il braccio che Yeti gli aveva graffiato qualche sera prima.

A quelle parole, Clarke sbuffò divertita.

«Quanto ti lamenti Blake».

Lui lasciò cadere l’argomento, con l’accenno di un sorriso.

«Avanti, sistemiamo qui e poi ti accompagno di sopra, mi sembri ancora stanca».

«Mi accompagni? Perché, tu dove hai intenzione di andare?».

«Beh, a casa».

«Bellamy, se non ricordo male… e non ricordo male, ti avevo detto niente macchina per oggi, è chiaro?».

«Clarke, l’anestesia non mi darà nessun fastidio, stai tranquilla d’accordo? Ormai sta anche passando l’effetto perché comincia a fare male, quindi non hai di che preoccuparti, non sbanderò mentre torno a casa».

«Potresti sbandare proprio perché ti fa male».

Ci fu un momento di pausa, dopodiché il ragazzo la guardò con espressione strana, quasi divertita.

«Cos’hai Blake?».

«Com’è che ho come l’impressione che tu stia cercando di tenermi qui in tutti i modi?».

A quelle parole Clarke si fece seria.

«Sono più tranquilla quando so che sei qui intorno. Sai, dopo tutta questa storia, non lo so… ultimamente sono un po’ inquieta, non riesco a dormire bene».

Adesso anche il ragazzo aveva un’espressione attenta. Le si avvicinò, posandole le mani sulle spalle.

«Clarke… perché non me lo hai detto prima?».

La padrona di casa sembrava imbarazzata e lui lo notò immediatamente, avvicinandola a sé e stringendola.

«Tranquilla, resto qui. E posso restare quando vuoi, se fai fatica a dormire. Io potrei addormentarmi anche su un sasso, ormai mi conosci».

Lei sorrise debolmente.

«Grazie Bellamy».

Tornarono in salotto a guardare un altro po’ di tv, dopodiché, quando la stanchezza tornò a farsi sentire, Clarke disse a Bellamy che cominciava a prepararsi per andare a letto, aggiungendo che lui poteva anche restare a finire di guardare il film che avevano cominciato.

Andò in bagno con calma, sistemandosi e tirando fuori la sua camicia da notte, poi la guardò meglio: era la stessa con cui Bellamy l’aveva trovata quella sera in cui si era presentato nella sua stanza entrando dalla finestra e insomma… sapeva che il ragazzo aveva un certo autocontrollo, ma dubitava ne possedesse così tanto.

Così, estrasse dall’armadio un paio di pantaloncini e una canottiera e indossò quelli.

Guardò il suo letto e le sembrò che non avesse mai avuto un aspetto tanto invitante prima di allora… era davvero sfinita.

Si infilò sotto il lenzuolo, che sicuramente avrebbe calciato via durante la notte a causa del caldo, e crollò seduta stante.



Si risvegliò sentendo il letto piegarsi sotto il peso di qualcuno. Dapprima il cuore le balzò in gola, poi si rilassò, ricordando chi aveva invitato a restare.

Bellamy.

Si voltò dall’altra parte, cercando il ragazzo nell’oscurità.

«Scusa, non volevo svegliarti. Torna a dormire Clarke… è appena mezzanotte».

Disse la voce del ragazzo da qualche parte in quel buio totale.

Clarke annuì, poi tornò a voltarsi e dopo qualche istante sentì le braccia di Bellamy avvolgersi intorno alla sua vita, facendo aderire la schiena di Clarke al suo torace.

Lui le lasciò un bacio lieve sulla tempia, dopodiché posò la testa sul cuscino accanto a lei e a Clarke parve che si fosse subito addormentato.

In ogni caso non si concentrò particolarmente sul respiro di Bellamy, perché qualche istante dopo anche lei risprofondò nel sonno.



Quando riaprì gli occhi il sole ormai era alto nel cielo. Aveva fatto, per l’ennesima volta, lo stesso incubo su suo padre, ma a differenza del solito, non si era svegliata urlando nel cuore della notte e aveva la vaga impressione che dipendesse dalla presenza di Bellamy al suo fianco.

Il ragazzo stava ancora dormendo tranquillamente e lei si perse ad osservarlo.

Si chiese come diavolo fossero arrivati a quel punto, in fin dei conti, quando quell’estate aveva fatto ritorno a Fort Hill, la diffidenza era ancora tanta, ma era consapevole del fatto che quella notte di quasi sette anni prima, qualcosa tra loro era irrimediabilmente cambiato e questo era innegabile.

Lo scrutò meglio: i capelli scuri ricadevano scompostamente sul viso, l’espressione era completamente rilassata. Lo aveva osservato talmente tante volte che ormai avrebbe quasi potuto disegnarlo ad occhi chiusi.

«Smettila di fissarmi, Principessa» disse lui, continuando a tenere gli occhi chiusi.

Clarke sorrise.

«Da che pulpito».

«Non farmi arrabbiare di prima mattina».

Lei si lasciò sfuggire una risata leggera.

«Allora rimettiti a dormire in modo che io possa continuare a guardarti».

«Sto dormendo».

«Davvero? Mmm… lasciatelo dire: hai proprio uno strano modo di dormire, signor Blake».

Un sorriso si allargò anche sul volto di Bellamy, poi, senza aprire gli occhi, allungò le braccia nella sua direzione e la trascinò vicino a sé, baciandola.

«Se tutte le mattine cominciassero così, vedrei il mondo decisamente in un’altra prospettiva».

«Addirittura? Bellamy Blake, mi sorprendi».

Lui la mise a tacere con un altro bacio, poi furono interrotti nuovamente dalla suoneria del cellulare di Clarke.

«Giuro su mia sorella che se quel coso ci disturba un’altra volta lo faccio volare dalla finestra».

«Non ci provare neanche».

«Ho giurato su Octavia, quindi è un giuramento sacro».

Clarke lo fulminò con un’occhiataccia, alzandosi dal letto e avviandosi verso il suo telefono. Come pensava, era di nuovo Jasper, dovevano mettersi d’accordo per quella mattina.

«Jasper!».

Nell’udire di nuovo quel nome, Bellamy si sollevò facendo leva sui gomiti con aria incredula e scocciata, come a volerla rimproverare di aver risposto.

La voce dell’amico, all’altro capo del telefono, risuonò forte e chiara.

«Ehi Clarke! Facciamo da me per le dieci stamattina?».

«Perfetto! Ci vediamo dopo!».

«Ottimo! A più tardi allora» e detto questo riagganciò.

«E poi non dovrei uccidere Jasper Jordan? Che diavolo voleva stavolta?».

«La stessa cosa che voleva ieri, Bellamy. Vado da lui alle dieci. Cos’è… non sarai mica geloso?».

«Geloso di lui? Ma fammi il piacere… ».

«Bene, allora piantala di comportarti come un bambino e vieni a fare colazione».

Clarke non riuscì a trattenersi e scoppiò a ridere vedendo l’espressione stupita sul volto di Bellamy.

«Questa me la paghi Principessa».

«Sto tremando».

Bellamy la fulminò con uno sguardo omicida, poi scattò fuori dal letto e, prima che Clarke riuscisse a rendersene conto, si trovava già caricata sulla spalla del moro, mentre lui camminava lungo le scale che portavano al piano di sotto.

«Bellamy Blake, mettimi giù immediatamente!».

«Non ci penso neanche».

Soltanto quando furono giunti in cucina il ragazzo la mise a sedere, e neanche tanto delicatamente, su una sedia intorno al tavolo.

Fecero colazione in silenzio, Clarke guardandolo in cagnesco e Bellamy sforzandosi di rimanere serio, dopodiché lui fece il giro del tavolo e la baciò. Anche se dapprima lei lo respinse, al secondo tentativo non poté fare a meno di cedere, rispondendo al bacio.

«Torniamo di sopra, rifaccio la medicazione al fianco e do un’occhiata al braccio, poi però devo andare da Jasper, sai quanto sia lontana casa sua».

Lui annuì poco convinto, ma fece ciò che la ragazza gli aveva detto.

Alle nove la ragazza era già in macchina pronta a partire e impiegò la solita ora prima di arrivare a casa dell’amico.

«Bionda!» la accolse Jasper non appena la vide. Monty era già lì.

«Ciao ragazzi» li salutò lei con un gran sorriso. Era dalla sera in cui al pub avevano giocato al gioco della bottiglia che non si vedevano più e, nonostante non fosse passato poi così tanto tempo, di cose ne erano cambiate parecchie.

Clarke abbracciò i suoi amici, dopodiché entrò nel grande e sontuoso atrio di casa Jordan, il che la riportò indietro nel tempo, pensando al periodo del liceo in cui la ragazza aveva vissuto più lì che a casa sua.

Si sistemarono nel salone con i loro libri, ma prima di cominciare, l’attenzione di Clarke venne richiamata dalla voce di Jasper.

«Ehi Clarke, si può sapere cosa stavi combinando ieri mentre eravamo al telefono?».

Immediatamente la ragazza sgranò gli occhi, ma cercò subito di mascherare la sua sorpresa.

«Cosa?! Niente!».

Adesso anche Monty la osservava piuttosto interrogativo.

«Sei sicura? Perché avevi una voce davvero strana… e poi a un certo punto c’è stato quel verso… un verso molto simile a quello che ho sentito fare ad una persona soltanto e quella persona era Bellamy Blake».

«Eri con Bellamy Blake ieri sera?!» asserì Monty a quel punto.

«Voi due comari dovreste veramente smetterla di farvi gli affari miei!».

I due ragazzi si lanciarono uno sguardo d’intesa.

«Paga bello!» esclamò allora Jasper all’indirizzo dell’altro, che tirò fuori dalla tasca una banconota da dieci dollari con aria scocciata.

Clarke era a dir poco esterrefatta.

«Non ci posso credere… avete scommesso!».

«Tu non hai negato… » disse Jasper con espressione maliziosa.

La ragazza a quel punto non aveva più dubbi… sarebbe stata una giornata molto lunga.



With our backs to the wall, the darkness will fall
We never quite thought we could lose it all
Ready, aim, fire, ready, aim, fire
An empire's fall in just one day
You close your eyes and the glory fades
Ready, aim, fire, ready, aim, fire away (fire!)
Ready, aim, fire, ready, aim, fire away

Back in the casing, shaking and pacing
This is the tunnel's light
Blood in the writing, stuck in the fighting
Look through the rifle's sight
How come I've never seen your face 'round here?
I know every single face 'round here
Here in the heckle, holding the shackle
I was never welcome here

We don't have a choice to stay
We'd rather die than do it your way



Con le nostre schiene al muro, cadrà l'oscurità
Mai avremmo potuto pensare di perdere tutto questo
Pronti, mirate, fuoco, pronti, mirate, fuoco...
Un impero cade in appena un giorno
Chiudi i tuoi occhi e la gloria svanisce
Pronti, mirate, fuoco, pronti, mirate, fuoco...
Pronti, mirate, fuoco, pronti, mirate, fuoco..



Indietro in un bossolo, agitando e ritmando
Questa è la luce del tunnel
Sangue nella scrittura, bloccato nel combattimento
Guarda attraverso la vista del fucile
Come mai non ho mai visto la tua faccia qui intorno?
Conosco ogni singola faccia qui intorno
Qui nel disturbo, tenendo il grilletto
Non sono mai stato il benvenuto qui

Non abbiamo deciso noi di restare
Avremmo preferito morire che fare a modo tuo



Non appena arrivò a casa, Bellamy riaccese il telefono che aveva spento la sera precedente e, come una doccia gelata, vide le quattro chiamate perse da Atom, oltre che i sei messaggi.

Cazzo. Solo in quel momento si ricordò che la sera prima dovevano vedersi al pub dei genitori di Monroe.

Dannato imbecille. Era sicuro del fatto che il suo migliore amico adesso non lo avrebbe mollato un secondo e tra l’altro era la prima volta che gli dava buca, così senza preavviso. Si sentiva in colpa.

Dato che era ancora relativamente presto e che il sole non batteva così forte, voleva andare a fare una corsetta, magari lo avrebbe distratto, ma poi ricordò della ferita al fianco, quindi forse non era esattamente un’idea geniale.

Sbuffò, non sapendo cosa fare a quel punto. Clarke era a casa di quell’idiota di Jordan, sua sorella era al lavoro e lui in ferie.

Proprio in quel momento il suo telefono squillò, ma, a dispetto di quanto immaginasse, non era Atom, bensì un numero sconosciuto, anche se immaginava benissimo chi potesse essere.

«Murphy?» rispose subito.

«Ho la lista che mi hai chiesto» fu la sua risposta, senza neanche salutare.

«Come hai fatto in così poco tempo?».

«I miei metodi non ti devono riguardare, la vuoi o no?».

«Certo».

«Bene, vieni a prendertela allora. Uso programmi criptati per lavoretti del genere, ma so per certo che la mia mail è tenuta sotto controllo dagli sbirri e che al minimo passo falso quegli stronzi saranno felici di sbattermi dentro un’altra volta».

Ecco, Bellamy aveva appena trovato che cosa fare.

«Bene. Il tempo della strada e sono da te».

E, senza un’altra parola, l’altro riagganciò.

Ben presto avrebbe avuto in mano la lista completa del personale sanitario che si trovava in sala operatoria la notte della morte del dottor Griffin e… dopodiché? Quale sarebbe stato il passo successivo?

Beh, innanzitutto non appena possibile avrebbe dovuto parlarne con Clarke. Già… Clarke. Quella ragazza gli stava veramente facendo perdere qualsiasi tipo di controllo. Il giorno precedente, quando si stavano baciando lì sul letto e lei lo accarezzava in quel modo… era arrivata alla cintura quando Jordan aveva chiamato. Se non fosse stato per quell’interruzione, Bellamy non sapeva fin dove si sarebbe spinto. Dio, era certo che la Principessa gli avrebbe fatto perdere la ragione. Questo non andava bene, non andava bene per niente.

Aveva bisogno di restare concentrato. Concentrato per la loro indagine e concentrato per il maledetto esame, ma tutto di Clarke lo faceva impazzire: dal suo aspetto al suo carattere, per non parlare del suo profumo. Quel profumo gli avrebbe procurato un biglietto di sola andata per l’inferno.

Con il cuore che batteva già più veloce passò di volata in bagno per darsi una rinfrescata e cercare di togliersi dalla mente le immagini e le sensazioni provate il giorno prima su quel letto, poi si mise nuovamente in macchina e ripartì alla volta del Projects.

Inspirò a fondo mentre metteva in moto l’auto, immettendosi nella corsia con fare tranquillo. D’altra parte… non aveva nessuna fretta. Avrebbe recuperato quei documenti, avrebbe dato a Murphy la cifra accordata e sarebbe tornato a casa a studiare.

L’autoradio mandava un brano degli Imagine Dragons “Ready aim fire”. A Bellamy piaceva molto quella canzone, tanto che si mise a tamburellare a ritmo contro il volante, sovrappensiero.

Percorse rapidamente la strada che lo separava dalla sua destinazione e arrivò dopo circa mezz’ora. Voleva fare in fretta, onde evitare spiacevoli incontri come il giorno precedente, dunque si avviò a passo spedito verso la porta dell’appartamento di Murphy e bussò con decisione.

Attese per quasi un minuto prima che il suo ormai ex compagno di liceo si degnasse di aprire, tanto che pensava non ci fosse.

La porta si aprì di uno spiraglio, poi si richiuse, sentì Murphy armeggiare con una catena e dopodiché si ritrovò di fronte l’ingresso. Il padrone di casa si scostò per lasciarlo passare e Bellamy avanzò in quell’ambiente spoglio e fatiscente.

Era lampante come non fosse il benvenuto in quella casa, Bellamy se ne rendeva conto perfettamente e, per quanto poco gli piacesse, doveva stare alle regole di Murphy in quella situazione.

«Hai portato i soldi?» fu la prima cosa che gli chiese.

«Certo che li ho portati, ma prima voglio la lista».

«Come funzionano le cose lo decido io, Bellamy».

L’interessato sbuffò con aria scocciata, dopodiché estrasse una busta che aveva compresso nella tasca posteriore dei jeans, lanciandola in malo modo su un tavolo che sembrava non venisse pulito da anni.

«Sono tutti, contali se vuoi, adesso dammi quella dannata lista».

Un angolo della bocca di Murphy si alzò in un ghigno che a Bellamy non piacque affatto e lui puntò i suoi occhi in quelli glaciali dell’altro.

«Murphy, se scopro che stai cercando di fregarmi, sarò io farti sbattere dentro per la seconda volta, è chiaro?».

Bellamy ebbe come l’impressione che il suo lato oscuro stesse tornando a galla… il lato che aveva preso il sopravvento per la gran parte della sua adolescenza, quando lui e Murphy se ne andavano in giro come grandi amici a combinare casini per tutta Fort Hill. Quella ormai era una fase della sua vita che aveva superato, diventando un uomo migliore e poi… adesso c’era Clarke.

«Calma cowboy, non c’è bisogno di scaldarsi tanto. Non sto cercando di fregare nessuno, solo di ritrovare un posto in questa fottuta società, ma senza un soldo è difficile. Vedila come un’opera di bene, ormai dovresti esserci abituato. Sei cambiato Bellamy… ».

«A differenza di te… ».

Murphy emise una risata a metà tra l’amaro e il divertito.

«Io non avevo nessuno a pararmi il culo, lo sai. Sono sempre stato solo, mentre tu avevi mammina che… » ma a quelle parole Bellamy scattò prima di rendersene conto, afferrando il suo interlocutore per l’orlo della maglietta e sbattendolo con rabbia contro il muro.

«Non osare nemmeno parlare di mia madre» ringhiò a pochi centimetri dal suo volto e, sul viso di Murphy, adesso spuntò un sorriso soddisfatto.

«Forse non sei poi così cambiato… ».

Restarono in quella posizione per qualche altro secondo, poi Bellamy si impose di calmarsi, lasciando andare il ragazzo e fu a quel punto che Murphy sparì in un’altra stanza, tornando dopo qualche istante con una sottile busta di carta in mano.

«Qui dentro c’è la tua preziosa lista. Toglimi una curiosità, Bellamy… come mai sei tanto interessato al dottor Griffin?».

Lui si limitò a lanciargli un’occhiata di traverso.

«Questi sono affari miei».

Murphy alzò le mani in segno di resa.

«Come preferisci».

E, senza aggiungere un’altra parola, Bellamy si avviò fuori alla stessa velocità con cui era arrivato. Nonostante fosse pieno giorno, all’interno della casa c’era una penombra soffocante e ritrovarsi di nuovo alla luce del sole lo acquietò, togliendogli parte di quella rabbia che si era insinuata dentro di lui.

Voleva andarsene da lì al più presto, dunque controllò soltanto che ci fossero effettivamente i documenti richiesti all’interno della busta, ma poi non perse tempo a leggerli e partì a tavoletta.

Quando finalmente il paesaggio familiare di Fort Hill tornò a circondarlo si sentì molto più rilassato. Arrivò a casa, prese la busta e si diresse verso l’ingresso, se non che quando giunse sulla veranda…

«Atom!».

«Credo davvero che tu mi debba delle spiegazioni, amico».

Il senso di colpa tornò a farsi sentire in Bellamy; lui ed Atom erano sempre stati quel tipo di amici che si dicevano che tra di loro le cose non sarebbero mai cambiate con l’arrivo di una donna. Lui e Clarke non stavano nemmeno insieme “ufficialmente” e gli aveva già dato buca.

«Senti, mi dispiace, ieri ho veramente perso la cognizione del tempo e… ».

«Bellamy… piantala con le stronzate. Ieri sera sono passato davanti alla casa di Clarke e ho visto la tua macchina. Poi ci sono passato anche stamattina e la tua macchina era ancora lì, quindi risparmia le scuse».

Ecco, questo davvero non se lo aspettava.

«Ad ogni modo quando ieri ho notato la tua auto lì, ero già quasi certo del fatto che non saresti venuto, ma ritrovarla ancora lì stamattina… caspita! Mi sorprendi!».

Più che arrabbiato, il suo migliore amico sembrava compiaciuto. Se avesse continuato con quel sorrisetto idiota Bellamy glielo avrebbe fatto sparire a suon di pugni.

«Allora… avevo ragione sulla Principessa? Bacia davvero bene, no?».

A quelle parole un moto involontario gli fece serrare la mascella e il pugno non impegnato a tenere la busta. Lo avrebbe sicuramente ucciso, ma quella sua reazione parve divertire l’altro, che si mise a ridere come un cretino.

«L’hai baciata davvero, eh? Bell, ti sei dato una svegliata! E soprattutto… era ora! Ormai è un mese che vi rincorrete senza rendervene conto e… ci saranno anche voluti dieci anni per capirlo, ma finalmente!».

«Atom… taci».

La sua reazione fece ridere ulteriormente l’amico. «D’accordo, per questa volta sei perdonato, ma se mi tiri pacco un’altra volta andrò a rinfrescarle la memoria su cosa vuol dire baciare me».

Bellamy credette di non aver sentito bene le sue parole ed era sicuro del fatto che in quel momento avrebbe veramente potuto prendere a pugni Atom, ma poi le parole dell’altro lo riportarono alla realtà, distraendolo dal suo intento omicida.

«Chiaramente sto scherzando, non ti porterei mai via la ragazza, però vedi di non darmi buca un’altra volta, eh?».

Il respiro di Bellamy tornò poco a poco a regolarizzarsi. «E comunque Clarke non è la mia ragazza» disse burbero.

«Ah no? Davvero? Allora non dovrebbe darti così fastidio se ci provassi davvero con lei».

«Azzardati a farlo e ti taglio la gola mentre dormi».

«Credo che tu ti sia risposto da solo, amico».

Il padrone di casa sbuffò sonoramente.

«E dimmi… dov’è la Principessa adesso?».

«A casa di quell’idiota di Jordan a studiare con lui e Monty» il suo tono lasciava chiaramente intendere quanto fosse contrariato dalla cosa.

«Mi stupisci! Non credevo che le avresti permesso una cosa del genere».

«Cos’avrei dovuto fare? Non è una mia proprietà».

«Lasciatelo dire amico: sei cambiato, il vecchio te non l’avrebbe pensata allo stesso modo».

«Il vecchio me non sarebbe stato capace di provare legami più profondi di una scopata e via» disse con un’alzata di spalle.

Atom incrociò le braccia al petto con un sorriso che la diceva lunga e questo fece ulteriormente innervosire Bellamy.

«E adesso cos’hai?» sbottò.

«Nulla, se non il fatto che hai praticamente confessato di provare dei sentimenti veri per quella ragazza. Non credevo che sarebbe mai arrivato quel giorno».

«Da che pulpito… tu sì che avresti bisogno di una ragazza».

«Io sto benissimo così, ma grazie per l’interessamento». Il silenzio aleggiò per qualche istante, poi Atom riprese parola: «E stasera pensi di passarla con la tua bella oppure vieni a farti una birra con il tuo amico a cui ormai non dai più corda?».

«Clarke si ferma a dormire lì» disse con espressione corrucciata.

«Ottimo! Allora ci vediamo al pub. E la birra me la offri tu».

Se non avesse conosciuto Atom sarebbe rimasto stupito dalla sua sfacciataggine, ma si conoscevano da troppi anni e ormai nulla dell’amico avrebbe potuto sorprenderlo, così si limitò a scuotere la testa con aria divertita. Quel ragazzo non sarebbe mai cambiato e Bellamy riusciva a figurarsi loro due fra cinquant’anni, quando sarebbero stati quasi due ottantenni a prendersi in giro ed insultarsi proprio come facevano adesso. Sì, in fin dei conti era profondamente convinto del fatto che la loro fosse proprio quel tipo di amicizia.

Gli ci volle qualche istante per rendersi conto del fatto che stava ancora stringendo in mano la busta con la lista di nomi che Murphy gli aveva consegnato, dunque si avviò nel salotto e la aprì.

Scorse rapidamente i nomi, ma non c’era nulla che potesse essergli d’aiuto in quel momento. Forse Clarke avrebbe avuto più fortuna di lui, ma adesso non voleva distrarla dai suoi studi e pensò che fosse il caso di mettersi sui libri a sua volta visto che la data dell’esame si avvicinava inesorabilmente. Poco più di due settimane e il tanto atteso giorno sarebbe arrivato.

Trascorse il resto della mattinata a studiare, pranzò velocemente e poi riprese, facendo scivolare via anche il resto del pomeriggio, tanto che, quando rialzò la testa, si rese conto che ormai erano le otto di sera e che il cielo iniziava ad imbrunirsi.

Così lasciò tutto lì com’era e iniziò a preparare la cena. Alle nove avrebbe dovuto vedersi con Atom e non era decisamente il caso di dargli buca un’altra volta, altrimenti glielo avrebbe rinfacciato per tutto il resto della vita.

Mangiò con la solita voracità che lo contraddistingueva e si cambiò prima di recarsi al pub.

Atom era lì che lo aspettava e con lui c’era anche Miller.

«Ehi Bell!» lo salutò quest’ultimo quando riuscì a farsi strada tra la ressa di avventori.

«Nate! Come va?».

«Bene! E tu? Come si sta in ferie?».

«Sotto pressione per l’esame in realtà».

«Oh avanti, sei sempre andato bene ai test! Sei solo un po’ fuori allenamento, ma vedrai che prima dell’esame riprendi il ritmo e lo passerai senza problemi come sempre» lo rassicurò Atom.

I tre ragazzi ordinarono delle birre, chiacchierando e scherzando come spesso facevano. Era bello ritrovarsi lì con Atom e Miller, erano davvero un’ottima compagnia e a Bellamy faceva sempre piacere passare del tempo con loro, tranne quando Atom faceva l’idiota.

«Ehi Bell, sei tu quello che si intende di problemi elettrici, vero?» disse Miller ad un certo punto.

L’interessato, che anni addietro aveva trovato lavoro anche come elettricista per pagarsi l’accademia per vigili del fuoco, annuì.

«Sì, c’è qualche problema?».

«In realtà in caserma abbiamo qualche difficoltà con un quadro elettrico e nessuno di noi sa dove mettere le mani, ti dispiacerebbe fare un salto quando hai tempo?».

«Assolutamente no! Penso di riuscire a passare domani in serata se il problema non è imminente… il giorno preferirei studiare».

«Tranquillo e anzi… grazie mille».

«Scherzi? La caserma 62 praticamente è la mia seconda casa».

«Bene! Tra l’altro domani sera dovremmo essere entrambi in turno, vero Atom?».

«Eh sì! Domani sera ci si diverte!».

Alle parole del suo migliore amico Bellamy sbuffò divertito, mandando giù un altro sorso di birra.

«Allora… » iniziò Nathan dopo qualche istante di silenzio «… tu e Clarke, eh? E chi l’avrebbe mai detto?».

Ora il ragazzo quasi ci si strozzò con la birra, fulminando immediatamente Atom con un’occhiata assassina.

«Ma gli affari tuoi una volta tanto sei capace di farteli?».

«Sì, ma come hai detto tu una volta tanto. Per il resto sono bravissimo a farmi quelli degli altri, specialmente i tuoi».

A quella scena Miller scoppiò a ridere, rivolgendosi poi a Bellamy.

«Avanti, è una bella cosa!».

«Hai sentito Bell? Lo dice Miller che è una bella cosa» rincarò l’altro.

«Tu faresti solo meglio a chiudere la bocca prima che ci pensi io».

«Basta solo che non sia nello stesso modo in cui lo fai con Clarke».

«ATOM!».

Ma adesso gli altri due ridevano senza più ritegno. Bellamy sbuffò, roteando gli occhi al cielo.

«Rettifica: si sta decisamente bene in ferie senza essere costretto a vedere le vostre brutte facce più spesso di quanto mi piaccia».

«Sii più carino Bell».

«Sii più carino al massimo puoi dirlo al cane che non hai» questa frase non fece che aumentare l’ilarità tra i due. «E comunque siete due stronzi. Siatene consapevoli».

«Bell, non c’è niente di male! Anzi, è bello che tu abbia trovato qualcuno, solo… che nessuno di noi si sarebbe aspettato che quel qualcuno sarebbe stata Clarke, insomma, ammettilo: voi due potevate a stento stare nella stessa stanza senza che scoppiasse il pandemonio».

«Bene, adesso possiamo per favore cambiare argomento?».

I suoi due amici si scambiarono una rapida occhiata prima di annuire.

«Fantastico, vi ringrazio».

Così, la discussione si spostò su altri toni e Bellamy si acquietò.

Il resto della serata trascorse senza tante polemiche e, quando fu il momento di tornare a casa, i tre si salutarono senza particolari minacce di morte da parte di Bellamy agli altri due. In fin dei conti erano state delle ore piacevoli.

Quando il ragazzo fu di nuovo a casa guardò l’orologio, era quasi mezzanotte ormai e si accorse di una chiamata persa da Clarke di quasi un’ora prima.

Maledizione.

Data l’ora tarda non sapeva se richiamarla o meno, poi decise di tentare. Il telefono squillò a vuoto un paio di volte prima che la familiare voce di Clarke rispondesse.

«Bellamy?».

«Ehi Clarke… è tutto a posto?».

«Sì, io… resto qui da Jasper per stanotte. Volevo solo sapere com’è andata la giornata e come sta il fianco» a quelle parole Bellamy sorrise.

«È stata tranquilla. Ho studiato e stasera mi sono visto con Atom e Miller al pub, per questo non ti ho risposto. Sai quanto casino ci sia in quel posto, non ho proprio sentito la suoneria. Il fianco va meglio. E la tua giornata?».

«Studio forsennato. Jasper deve preparare l’ultimo esame prima della laurea e Monty è nella stessa situazione. Poco prima di sera, quando ormai i nostri cervelli fumavano e non ne potevano più di stare sui libri abbiamo cominciato a guardare quella nuova serie di cui parlava ieri Jasper e abbiamo continuato ad oltranza. È davvero pazzesca, parla dell’FBI e insomma… niente, è veramente bella, adesso andiamo avanti e poi si dorme».

«Come si intitola la serie?».

«Quantico».

«Non la conosco… » rispose lui scrollando le spalle.

«Beh, allora dovrai guardarla».

Lui rise.

«Bene, sarà fatto. Adesso ti lascio andare e non fare troppo tardi, Principessa».

«Neanche tu. Buonanotte Bellamy».

«Buonanotte Clarke».

E detto questo riagganciò.

Non si era ancora abituato a sentirsi chiamare per nome da Clarke, di solito lo chiamava per cognome, ma si scoprì ad apprezzare particolarmente la cosa.

Sereno, si avviò in bagno per prepararsi prima di andare a letto e quando fu pronto più che altro si limitò a tuffarcisi sopra cadendovi di peso.

Il caldo era infernale nonostante avesse solo i boxer addosso e il suo climatizzatore aveva anche iniziato a fare i capricci, ma per quella sera grazie al cielo gli stava facendo la grazia di funzionare.

Si addormentò nel giro di poco, con una strana sensazione addosso.



Quando riaprì gli occhi il cielo era ancora buio, così guardò la radiosveglia, che segnava solo le tre e mezza di mattina. Non era decisamente da lui svegliarsi durante la notte, eppure era inquieto. Non gli era mai successa una cosa del genere, ma non riusciva a stare tranquillo… era come avere un presentimento, un brutto presentimento.

Si mise a sedere sul letto, era sudato e aveva un insolito e fastidioso mal di testa.

Così, nonostante non fossero nemmeno le quattro di mattina, decise di andare a fare una corsa. Sperava che lo aiutasse a liberarsi di quella sensazione.

Indossò qualcosa preso a caso dal mucchio che si era formato sulla sedia accanto all’armadio e, senza pensarci due volte, afferrò Ipod e chiavi di casa e, con la musica sparata nelle orecchie, uscì percorrendo il vialetto.

Le strade erano semideserte. Sebbene fossero pur sempre a New York, gli standard di Fort Hill erano piuttosto tranquilli. Quelli costantemente chiassosi erano Brooklyn, Manhattan e il Bronx.

Corse a lungo, ma non riuscì a liberarsi di quel fastidioso senso d’inquietudine con cui si era svegliato.

Erano quasi le cinque quando tornò a casa e, nonostante la stanchezza, si costrinse a fare una doccia prima di tornare a letto, era troppo sudato. Dannata umidità, era quella che lo uccideva più del caldo vero e proprio.

Quando si ritenne soddisfatto uscì e tornò a letto… inutile dire che crollò sfinito qualche istante dopo che la sua testa ebbe toccato il cuscino.

La seconda volta che riaprì gli occhi, la luce inondava la stanza. Doveva essere molto tardi e l’ora proiettata sul muro dalla radiosveglia gliene diede la conferma: era quasi mezzogiorno e lui si sentiva tutto scombussolato.

Non hai più l’età per le corsette notturne, Bellamy. Ormai sei più vicino ai trenta che ai venti, dovette ricordarsi.

Pranzò con una tazza di latte e biscotti, il mal di testa non era sparito come avrebbe voluto e, dato che quella sera avrebbe dovuto andare a sistemare il quadro elettrico in caserma, decise che se non si fosse sentito meglio entro un paio di ore, avrebbe preso qualcosa. Di solito evitava i farmaci se poteva, ma dato che si era preso quell’impegno, era meglio andarci con una certa lucidità e consapevolezza di ciò che stava facendo.

In quel momento suonarono alla porta e si avviò con passo svogliato, sperando che non fosse uno dei tanti boyscout che tentava di vendergli l’ennesimo pacco di biscotti.

Ma decisamente non era un boyscout.

«Clarke!» la ragazza sorrise, aveva un’aria stanca… e lui aveva dimenticato di essere ancora in boxer.

«Bellamy…? Non dirmi che ti sei appena alzato dal letto» disse squadrandolo.

«A dire il vero sì».

Lei lo sospinse di nuovo all’interno, entrando a sua volta e puntando gli occhi dritti nei suoi.

«Ti senti bene? Non hai una bella cera».

«Sì, io… ho dormito male. Non lo so che mi prende. Stanotte sono andato anche a correre per cercare di riprendermi, ma non è servito a molto a quanto pare».

«Stanotte?» gli fece eco lei.

«Sì, te l’ho detto: non riuscivo a dormire. Di solito correre mi calma, ma stavolta non ho avuto grandi risultati».

Lei lo osservò piuttosto contrariata.

«Ero passata per rifarti la medicazione. Sai che non dovresti correre con una ferita al fianco, vero?».

«È quello che mi sono detto ieri, ma pensavo che stamattina mi avrebbe davvero aiutato».

«Sì, e scommetto che adesso ti fa anche male il fianco».

«Un po’» ammise.

“Un po’” in realtà era un eufemismo, ma non poteva certo dirle che a volte gli partivano delle fitte quasi insopportabili, lo avrebbe preso, e anche giustamente, per un idiota.

Clarke gli lanciò un’occhiataccia e gli ordinò di andare a sdraiarsi in camera.

«Sono passata da casa per prendere tutto il materiale per la medicazione e, per tua fortuna, ho portato anche degli antidolorifici».

In quel momento avrebbe voluto baciarla e, dato che adesso poteva anche permettersi di farlo, lo fece.

«Non cercare di comprarmi con i baci Bellamy, sei stato un incosciente, avresti potuto sentirti male o strapparti i punti».

«Ci vuole qualcosa di più di una corsa per mettermi a tappeto Principessa».

«Comunque i punti avrebbero potuto strapparsi. Ecco, vedi? La medicazione è sporca di sangue» sbuffò.

«Sei carina quando ti preoccupi, lo sai?» di nuovo lei lo guardò di traverso, poi si concentrò sulla medicazione e Bellamy pensò che con quell’aria da dottoressa sexy le sarebbe volentieri saltato addosso.

Una volta terminato, si rialzarono entrambi e Clarke prese parola: «Io torno a casa, stanotte non sei stato il solo ad aver dormito male. Ci vediamo stasera?».

Lui scosse la testa.

«Mi dispiace, stasera devo andare in caserma a sistemare un problema con un quadro elettrico. Facciamo domani».

La ragazza annuì, poi si alzò in punta di piedi per baciarlo e lui la trattenne a sé, avvolgendole la vita con le braccia.

«Ciao Clarke».

«Ciao Bellamy» sorrise lei sulle sue labbra, dopodiché si allontanò.

Fu quando la vide oltrepassare la soglia di casa sua che un brivido gelido gli corse lungo la schiena e lui si chiese che diavolo gli prendesse, perché non riusciva a togliersi di dosso quella sensazione sgradevole.

Cercò di tenersi occupato per tutto il resto del pomeriggio fino all’ora di cena e, dopo mangiato, andò in caserma come promesso ad Atom e Miller. Ora si sentiva decisamente meglio, nonostante quella strana inquietudine si ostinasse a permanere.

I suoi colleghi lo accolsero calorosamente come al solito e qualcuno non mancò scherzosamente di fargli notare quanto sembrasse rilassato adesso che era in ferie mentre loro lavoravano con quel caldo infernale.

Atom lo portò al quadro elettrico che dava problemi e lui così ebbe modo di rispolverare le sue vecchie nozioni da elettricista. Impiegò poco meno di un’ora per risolvere il problema; una volta probabilmente lo avrebbe fatto in meno tempo, ma adesso era un po’ arrugginito.

Erano quasi le undici ormai e lui si fermò a chiacchierare un po’ con i suoi colleghi quando ad un tratto una chiamata li interruppe, facendo suonare la familiare sirena che ormai Bellamy aveva imparato a conoscere fin troppo bene e, subito dopo, udirono la solita voce femminile annunciare: «Camion 62, autopompa 22, squadra 9, ambulanza 52. Edificio in fiamme al numero 119 di Sloane Avenue».

Le due squadre di mossero simultaneamente come un’unica entità e anche Bellamy scattò in piedi, più per abitudine che per altro, ma poi fu come se fosse travolto da un’ondata d’acqua gelida e sentì lo stomaco precipitargli verso il basso.

Fu solo allora che si seppe spiegare l’angoscia dell’intera giornata: quello era l’indirizzo di Clarke.




NOTE:
Ebbene sì, sono tornata e mi scuso immensamente per il ritardo. Davvero, mi dispiace, ma con tutti gli impegni che ho avuto nell’ultimo mese non sono riuscita a fare altro.

Ad ogni modo, in questo capitolo mi sembra di aver messo una buona dose di Bellarke, perciò spero che mi perdonerete (forse di Bellarke ce n’è stato anche troppo, per questo il capitolo si è concluso come si è concluso). Ok, sono sadica, ma tutto fa parte di un progetto più grande, abbiate fede. Oddio, mi sento un prete in questo momento.

Va beh, comunque… bando alle ciance o ciancio alle bande è lo stesso, non fate caso a me. Sto scrivendo queste righe quasi a mezzanotte, quindi abbiate pietà e, nonostante il ritardo, spero che mi facciate sapere quali sono state le vostre opinioni su questo capitolo.

Scusate, ma la tentazione di inserire “The Walking Dead” e “Quantico” è stata troppo forte, sono due serie che amo e che consiglierei a tutto il mondo, perciò se ancora non l’avete fatto guardatele XD

Dunque, io ora vi lascio e ci risentiamo al prossimo capitolo (che vi prometto, arriverà prima di quanto non abbia fatto questo).

Alla prossima!

Mel



Lionheart – Demi Lovato. Clarke

Ready! Aim! Fire! – Imagine Dragons. Bellamy

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Fire and Flames ***



CAPITOLO 19: FIRE AND FLAMES




Is anybody out there?
Is anybody listening?
Does anybody really know?
If it's the end or the beginning,
A cry, a rush from one breath
Is all we're waiting for
Sometimes the one we're taking
Changes every one before

It's everything you wanted, it's everything you don't
It's one door swinging open and one door swinging closed
Some prayers find an answer
Some prayers never know
We're holding on and letting go



C’è qualcuno lì fuori?
Qualcuno sta ascoltando?
Qualcuno davvero sa
se è la fine dell’inizio?
Un pianto, un impeto scaturito da un respiro
È tutto ciò che stiamo aspettando
Certe volte quello che stiamo scegliendo
Cambia ogni cosa precedente

È tutto ciò che volevi, è tutto ciò che non vuoi
È una porta che si apre e una che si chiude
Alcune preghiere trovano risposta
Altre non la conosceranno mai
Ci stiamo stringendo e lasciando andare



Dopo essere rientrata da casa di Bellamy, Clarke si era velocemente preparata qualcosa da mangiare. La notte trascorsa a guardare quella serie tv con Jasper e Monty era stata intensa e adesso aveva soltanto voglia di dormire un po’, così, subito dopo pranzo, era andata in camera sua e si era buttata a letto, piombando subito in un sonno tranquillo.

Si era risvegliata solo verso le cinque di pomeriggio e a quel punto, visto che aveva lasciato i libri a casa di Jasper e i documenti che riguardavano le indagini di suo padre da Bellamy, decise di andare a fare una passeggiata fuori.

Lungo la strada, ad un tratto vide alla sua destra un distributore di sigarette e si rese conto del fatto che erano ormai parecchi giorni che non fumava, che non le era nemmeno passato per la mente a dire il vero. Da quando Bellamy era con lei, da quando aveva fatto cadere tutte le sue barriere e si era lasciata guardare da lui per com’era davvero, non ne aveva più sentito il bisogno. Non aveva più sentito l’ansia che l’assaliva o il nervosismo costante delle indagini su suo padre.

Suo malgrado sorrise, d’altra parte… credeva che non sarebbe più stata capace di aprirsi con qualcuno nel modo in cui si apriva con Bellamy. Eppure lui era lì e non sembrava spaventato, ma anzi… del tutto intenzionato a restare.

Con un accenno di sorriso, Clarke continuò a camminare, fino a che non si trovò a gironzolare nei pressi di quella che era stata la vecchia casa dei Blake e che ancora ospitava la minore dei due.

Così, senza pensarci, si avviò in quella direzione e suonò alla porta, sperando di trovare la sua amica. Qualche istante dopo infatti la porta si aprì e la figura minuta di Octavia comparve sull’ingresso, radiosa come sempre.

«Clarke!» esclamò la ragazza ampliando ulteriormente il suo sorriso.

La bionda sorrise a sua volta, abbracciandola.

«Bellamy mi ha dato la bella notizia… sono così felice per te, Octavia! Te lo meriti davvero».

Gli occhi della piccola Blake brillavano di gioia e questo a Clarke era assolutamente chiaro. Quella ragazza aveva sofferto così tanto nella sua vita, ne aveva passate troppe e finalmente aveva trovato la felicità che si era guadagnata.

«Grazie Clarke. Vieni, entra pure! Ti scioglierai con questo caldo» le disse sempre mantenendo un gran sorriso.

«Grazie».

«Posso offrirti qualcosa? Avevo appena fatto la limonata».

«Andrà benissimo».

La ragazza tornò dopo meno di un minuto con due bicchieri di limonata ghiacciata in mano.

«Grazie».

«Allora… come mai eri da queste parti?».

«In realtà ero semplicemente uscita per una passeggiata, mi sono ritrovata da queste parti e ho ricordato di quello che Bellamy mi aveva detto».

Ci fu un momento di silenzio, durante il quale Octavia le lanciò una lunga occhiata.

«Tu e mio fratello… passate molto tempo insieme mi sembra».

Clarke fu colta alla sprovvista da quelle parole.

«Cosa?! Ma che dici?».

Octavia ridacchiò divertita.

«Va bene Clarke, come preferisci. Siete proprio due testoni voi due… ».

La conversazione si spostò su altri argomenti e le due ragazze continuarono a parlare a lungo prima che Clarke si rendesse conto che ormai erano quasi le otto di sera.

«Adesso è meglio che vada. Grazie di tutto Octavia».

«Grazie a te per la visita. Io adesso preparo la cena, Lincoln tornerà a momenti e poi ho il turno di notte in ospedale. Ci sentiamo presto, d’accordo?».

«Certo» sorrise lei abbracciandola e, subito dopo, si allontanò in direzione della porta.

Tornò verso casa pensando che avrebbe dovuto chiamare Jasper dato che aveva lasciato i libri da lui. Il giorno dopo infatti avevano deciso di studiare di nuovo insieme, ma non si erano accordati su un orario e inoltre anche le indagini su suo padre stavano andando a rilento. Non aveva più chiesto a Bellamy se il suo contatto gli avesse fornito la lista, infatti negli ultimi giorni i due erano stati assorbiti da… altro.

Sospirò e, una volta a casa, preparò qualcosa di veloce da mangiare. La stanchezza era tornata e voleva soltanto andare a letto in quel momento.

Così, subito dopo cena riempì le ciotole di Yeti e si avviò al piano superiore diretta in camera sua. A differenza del solito, le bastò posare la testa sul cuscino per addormentarsi.



Qualcosa non andava. Che diavolo stava succedendo? C’era un caldo d’inferno, Clarke aprì gli occhi e… fuoco.

Il fuoco era ovunque, lambiva le pareti e la soffocava. Terrorizzata, la ragazza urlò, saltando fuori dal letto. Che diavolo stava succedendo?! Aveva lasciato qualcosa acceso? Il gas? No, se così fosse stato sarebbe saltato tutto in aria. Una candela? No, non aveva acceso nulla.

Spaventata a morte, Clarke iniziò a tossire, cercando di allontanarsi il più possibile dalle fiamme che si avvicinavano inesorabili. Il suo telefono… dov’era il suo telefono? Doveva chiamare i soccorsi e in fretta, ma poi ricordò di averlo lasciato al piano di sotto, così provò ad avvicinarsi alla porta, ma lì il fuoco bruciava con maggior ferocia e, ad un tratto, una trave della mansarda crollò, bloccandole il passaggio.

Così la ragazza corse verso la finestra, era la sua unica possibilità di uscire viva da quell’inferno. Spalancò la vetrata e iniziò a chiamare il nome di Wells con quanto più fiato aveva in corpo. Le imposte del suo amico erano chiuse, doveva essere tardi, ma in realtà non ne aveva idea.

Quando stava per arrampicarsi sul melo proprio di fianco alla villa, le finestre della camera di Wells si aprirono e il ragazzo si irrigidì.

«CLARKE! Vieni via!» urlò il ragazzo, negli occhi un’espressione agghiacciata.

Lei gettò le gambe oltre il davanzale della finestra, aggrappandosi al primo ramo che trovò. Aveva fatto quel procedimento mille volte, ma adesso l’adrenalina le stava mandando in tilt il cervello.

Era arrivata a metà dell’albero quando ad un tratto udì un miagolio straziante provenire dall’interno della casa.

«Yeti!» gridò lasciando improvvisamente la presa e precipitando al suolo. Una fitta le travolse immediatamente la caviglia destra che, nell’atterraggio, si era storta dolorosamente, ma la ragazza cercò di correre il più velocemente possibile verso la veranda, rientrando nell’inferno che era diventata.

«Yeti! Yeti!» provò a chiamare con tutto il fiato che aveva in corpo.

«Clarke! Esci!» la voce terrorizzata di Wells le arrivava solo come un’eco lontana.

Clarke sentiva di stare per impazzire. Il caldo era atroce, il fumo soffocante e le faceva lacrimare gli occhi.

«Yeti!» riprovò.

Il miagolio, adesso più debole, proveniva dal primo piano, così cercò di salire le scale, zoppicando e tentando di tenersi il più lontana possibile dalle fiamme.

Ogni passo era una stilettata per la sua caviglia dolente e bruciava esattamente come tutto ciò che le stava intorno, ma doveva trovare Yeti e doveva trovarlo in fretta. Come diamine aveva potuto scoppiare un incendio del genere?

Più avanzava più si sentiva soffocare, non vedeva quasi nulla, ormai si basava solo sul miagolio di Yeti, che si faceva sempre più debole. La ragazza si diresse verso lo studio di suo padre, il suono sembrava provenire da lì.

Spinse la porta, ma ritrasse immediatamente la mano, bruciava da morire, così riuscì ad aprirla con un calcio e ce la mise tutta per guardarsi intorno, fino a che non intravide una palla di pelo bianca rannicchiata sotto la scrivania. Si avviò in quella direzione e prese il suo gatto fra le braccia, tirando un sospiro di sollievo quando constatò che ancora respirava.

Lo strinse a sé, cercando di coprirlo con il suo corpo e lui emise un rantolo strozzato.

«Andrà tutto bene, vedrai… ci sono qui io… » disse accarezzandogli la testa, ma la verità era che il fuoco stava letteralmente divorando la stanza e Clarke non era poi così convinta del fatto che sarebbe andato tutto bene anzi, al contrario, iniziò a pensare che sarebbe morta lì. Sarebbe morta in mezzo a fuoco e fiamme, senza avere la possibilità di salutare le persone a cui voleva bene, senza riuscire a portare a termine ciò che si era prefissata in memoria di suo padre.

Ad un tratto, le parve di udire delle sirene in lontananza, forse i soccorsi stavano arrivando. I vigili del fuoco, ma non sarebbero arrivati in tempo… le fiamme erano vicine e il calore si faceva sempre più insopportabile.

Clarke annaspò, cercando di tirare quanta più aria possibile nei suoi polmoni, ma era come se avesse il fuoco fin dentro la gola a bruciarle la trachea, a bruciarle ogni organo.

Non arriveranno mai in tempo…

Cadde in uno stato di semi coscienza e solo quando sentì delle voci concitate da qualche parte non troppo distante da lei riuscì a riaprire gli occhi.

«Clarke!».

«Qui è libero!».

«Passiamo alla prossima stanza, dividiamoci! Miller, Boots, Atom! Controllate il piano di sopra! Andrews, O’Brien! Il garage! Il resto con me!».

«Clarke!».

«Blake, tu non dovresti neanche essere qui! Dovresti essere in ferie! Se il comandante lo scopre, fa il culo a tutta la squadra!».

Blake? Bellamy!

«Clarke! Rispondi!» sì, quella voce terrorizzata era la sua.

«Sono… sono qui… » ma quello che le uscì era appena un sussurro arrochito da tutto quel fumo.

Ad un tratto, con un gran fragore, la porta venne abbattuta e una voce maschile e profonda esclamò: «È qui! Al primo piano, terza stanza a destra!».

Ci fu un gran vociare e poi due braccia la afferrarono, voltandola.

Qualcuno portò Yeti via dalle sue braccia e lei provò debolmente a protestare, ma una voce familiare e al contempo preoccupata le disse: «Clarke, ehi… è tutto a posto, ti porto fuori di qui, d’accordo?».

La ragazza cercò di osservare il volto che aveva parlato dietro quella strana maschera, scorgendovi il viso di Bellamy, sfigurato dalla paura. Annuì debolmente e si adagiò contro il corpo di lui, allacciandogli le braccia al collo e lasciando che la portasse fuori da quell’inferno.

Giunti in giardino, l’aria fresca fu un balsamo che la investì piacevolmente e lei venne fatta stendere su una barella; i lampeggianti dell’ambulanza illuminavano il viale con la loro strana luce bluastra. Solo a quel punto Bellamy si sfilò la maschera, prendendole il volto tra le mani.

«Clarke! Clarke, come stai? Sei ferita?».

Ma due paramedici lo fecero allontanare e la squadrarono con occhio clinico. Uno di loro le infilò immediatamente gli occhialini per l’ossigeno, mentre l’altro le prendeva la pressione, dopodiché fu caricata all’interno dell’ambulanza, la quale partì a sirene spiegate e ben presto Bellamy, Wells e tutti gli altri divennero solo un punto lontano.



Quando riaprì gli occhi, la prima cosa che provò, fu un dolorosissimo raschiare alla gola. Provò a parlare, ma ogni tentativo era come se si sentisse andare a fuoco.

La seconda cosa di cui si rese conto invece, era il fastidiosi bip-bip di un macchinario dell’ospedale. Si trovava ancora in ospedale, dunque. Quanto tempo era passato?

«Clarke, ehi… è tutto a posto, non devi preoccuparti».

Clarke provò a parlare, ma venne subito interrotta.

«Tranquilla, non ti agitare, se provi a parlare farai solo peggio» la voce dolce di Octavia arrivò alle sue orecchie e lei osservò l’amica: aveva i capelli legati in una treccia che lasciava ricadere sulla spalla sinistra e indossava la divisa bianca da infermiera.

Dovevano essere passate solo poche ore dunque, se lei era ancora in turno, ma allora… Octavia lavorava in chirurgia d’urgenza, perché si trovava lì?

«Oc… ».

«Sssh, Clarke… non parlare, peggiorerai solo le cose. Mio fratello mi ha chiamato subito dopo averti tirato fuori dalla casa, così sono venuta immediatamente al pronto soccorso e ho aspettato la tua ambulanza. Siamo ancora qui al pronto soccorso Clarke, ti hanno fatto tutti gli accertamenti, hai solo una distorsione alla caviglia e hai respirato davvero tanto fumo. Ci hai fatto prendere un brutto spavento, ma stai bene. Mio fratello sta arrivando, doveva sbrigare delle cose in caserma e alla centrale di polizia, poi verrà subito, d’accordo? Mi ha telefonato quando è partito, sarà qui a momenti».

A quelle parole, la ragazza si acquietò. Voltò la testa di lato e sprofondò nuovamente nel sonno.

Quando riprese conoscenza, la prima cosa che sentì fu qualcosa di caldo che le stringeva la mano. Si girò, vedendo Bellamy seduto su una sedia in fianco al suo letto, con la testa posata sul materasso e una mano nella sua. Stava dormendo e Clarke decise di lasciarlo riposare, anche lui doveva essere stremato. Guardò l’orologio appeso ad una delle pareti: erano le cinque di mattina.

Ad un tratto la porta si aprì piano e Clarke cercò di sporgersi leggermente per cercare di capire chi fosse, finché la familiare sagoma di Atom non fece capolino nella stanza e lei sorrise debolmente.

«Sei sveglia… ».

«Ciao… » disse lei con una voce così roca che non riconobbe nemmeno come propria.

«Ehi, i medici dicono che non devi parlare, ok?».

Lei annuì.

«Stavolta ci hai veramente fatto prendere un colpo, Principessa. Soprattutto a lui» disse indicando Bellamy, che ancora dormiva al suo fianco.

«Atom… ».

«Che cosa ti ho appena detto? Allora ha ragione a dire che fai sempre di testa tua!».

«Ascoltami per favore, poi starò zitta… » disse con una certa fatica.

Lui sospirò pesantemente.

«Dimmi… ».

«Quando… quando eravate in casa mia e mi stavate cercando… ho sentito che qualcuno diceva a Bellamy che non avrebbe dovuto esserci e che si sarebbe messo nei guai. Si è messo nei guai al lavoro per colpa mia?».

L’altro la fissò con sguardo penetrante.

«Diciamo che se l’è cavata… ».

«Atom!».

«Ok ok… non ti agitare. Abbiamo tutti spiegato la situazione al comandante e lui ha capito, ma non poteva lasciar passare così la cosa; Bellamy si è quasi giocato l’esame da tenente, ma alla fine glielo lasceranno fare. Comunque si è beccato un richiamo scritto, una volta ripreso a lavorare lo terranno sotto stretto controllo per due settimane, poi sarà di nuovo a posto».

La bionda sospirò, affranta.

«Clarke, senti… la cosa più importante è che tu stia bene e lui non è certo un tipo che si lascia scoraggiare da un richiamo, per non dire che se ne frega proprio, quindi dimentica la questione, è finita bene per tutti, ok?».

Lei annuì.

«Ma tu non dovresti ancora essere in caserma?».

Atom roteò gli occhi al cielo.

«E tu non avevi detto che saresti stata zitta? Comunque no, hanno fatto un’eccezione e dopo essere andati via dalla centrale di polizia ci hanno fatto andare a casa, anche perché ci è voluto un pezzo per spegnere l’incendio e avevano già chiamato i nostri colleghi per rimpiazzarci in caserma. Abbiamo perso un bel po’ di tempo e abbiamo passato il caso all’Ufficio Incendi Dolosi».

A quelle parole, Clarke rimase stranita.

«Incendi dolosi?».

«Bellamy ti spiegherà tutto Clarke, l’importante adesso è che tu ti riprenda, quindi è meglio se smetti di parlare, altrimenti il tuo fidanzato lì farà in modo che io non possa farlo mai più strappandomi la lingua».

«Lui non è il mio fidanzato» rispose subito con aria imbronciata.

«Se… e lui lo sa? Tu non l’hai visto Clarke, non hai visto com’era quando pensava che fossi morta, quando siamo arrivati davanti casa tua e siamo scesi dal camion. Non l’avevo mai visto così, sembrava impazzito».

A quelle parole, la ragazza provò una stretta al cuore.

«Adesso me ne vado a casa, credo proprio di aver bisogno di dormire anch’io. Riposati, ok? Passo a trovarti in giornata».

Lei annuì, poi Atom si chinò a darle un bacio tra i capelli e uscì senza fare rumore.

Di nuovo avvolta dal silenzio interrotto solo dal ronzio dei macchinari e del respiro sommesso di Bellamy; Clarke voltò nuovamente la testa verso di lui. Dio, si sentiva così in colpa… se solo avesse perso l’esame a causa sua probabilmente non avrebbe nemmeno più avuto il coraggio di stargli vicino, ma per fortuna la cosa si era risolta bene.

Si era risolta bene e lei stava bene, proprio come aveva detto Atom… doveva concentrarsi solo su quello.

Accarezzò lievemente la mano che Bellamy teneva intrecciata alla sua, dopodiché la fece scivolare, sciogliendo quella presa e scostando dal viso del ragazzo alcune ciocche di capelli che gli ricadevano scompostamente davanti agli occhi.

Bellamy aveva rischiato di giocarsi la carriera, che per lui contava veramente tanto, per salvarle la vita.

Su quel letto d’ospedale, Clarke sospirò pesantemente osservando il ragazzo con maggiore attenzione e in quel momento il ricordo del loro primo incontro tornò ad affacciarsi nella sua mente.

*«Clarke, ti prego, ho bisogno che mi spieghi la riproduzione cellulare, non ci capisco davvero nulla e i ragazzi più grandi mi hanno detto che l’esame di biologia di inizio semestre è davvero tosto!».

La ragazza sorrise vedendo l’espressione disperata sul viso di Jasper.

«Avanti Jazz, non è difficile! Si tratta solo di… ».

«Bene bene bene… guarda un po’ chi c’è qui. Jordan! E… la Principessa».

Clarke si voltò verso il proprietario di quella voce bassa e sgradevole, ritrovandosi davanti un ragazzo alto dai capelli e gli occhi scuri. E quello chi cavolo era?

«Come mi hai chiamata scusa?» chiese con un tono raggelante.

«Hai sentito benissimo» rispose lui con un mezzo sorriso irritante che le fece venire voglia di prenderlo a schiaffi.

«Beh, ti interesserà sapere che ho un nome».

«Certo che ce l’hai! Il tuo nome è Principessa, ma è il tuo giorno fortunato e non sono qui per dare il tormento a te. Piuttosto… Jordan, hai fatto quello che ti avevo chiesto?».

Clarke lanciò uno sguardo sorpreso e al contempo confuso all’amico al suo fianco. Ma che accidenti stava succedendo tra quei due?

Osservò Jasper, che sembrava insieme preoccupato e imbarazzato e deglutì a vuoto una volta prima di annuire e passare una busta a… chiunque fosse quel tipo estremamente fastidioso. Che modi poi! Non si era nemmeno presentato.

Il ragazzo dagli occhi scuri fece un sorriso soddisfatto, voltando loro le spalle.

«Ci si vede in giro ragazzi. Jordan… Principessa… ».

Ma a quel comportamento arrogante Clarke non riuscì a trattenersi, urlandogli contro: «E tu comunque chi diavolo saresti?».

Il moro arrestò la sua camminata e voltò leggermente la testa, senza nemmeno degnarla di uno sguardo.

«Chissà… magari un giorno lo scoprirai… »*.


E Clarke lo aveva scoperto. Erano trascorsi quasi dieci anni da quel giorno, ci aveva impiegato quasi dieci anni, ma alla fine aveva capito chi era Bellamy Blake. Aveva scoperto quale incredibile persona si celasse dietro quell’atteggiamento da gradasso.

Sospirò, accarezzandogli i capelli, ma un’altra fitta le travolse la gola e lei fece un verso dolorante, che ebbe solo l’effetto di svegliarlo.

«Clarke! Clarke, che succede? Stai male?».

Lei però si sforzò di sorridere, posando una mano sulla sua e facendo un cenno negativo con la testa.

«Mi dispiace, non ti volevo svegliare» quelle parole le costarono fatica e dolore e lui subito cercò di zittirla.

«Non parlare, ok? I medici hanno detto che la tua gola si riprenderà più in fretta se non parli. Se hai bisogno di qualcosa puoi scrivere, ok? Hanno lasciato dei fogli e una penna».

La ragazza annuì di nuovo prima di ricordare una cosa che le fece sgranare gli occhi e stringere con più forza la mano di Bellamy.

«Yeti! Dov’è Yeti?!».

«Ma che cosa ti ho appena detto?» le rispose esasperato.

«Bellamy… ?» ma il tono di lei probabilmente lasciava trapelare la sua preoccupazione perché l’espressione del ragazzo si ammorbidì.

«È dal veterinario, ma credo che stia bene. Insomma… avevo lasciato il mio numero dicendo loro di chiamarmi se ci fosse stato qualcosa di grave e… nessuna chiamata, quindi stai tranquilla, d’accordo?».

Clarke assentì e lo osservò intensamente, poi però si spaventò quando lo vide crollare nuovamente sulla sedia con la testa tra le mani e subito gli posò una mano sul braccio.

«Credevo che fossi morta. Quando sono arrivato e ho visto la casa… Clarke… credevo che fossi morta. Morta in un incendio proprio come mia madre, se solo… se solo fossimo arrivati qualche minuto dopo… » ma a quelle parole lei gli fece rialzare il capo, posando una mano sotto il mento di lui e facendo forza per fargli alzare la testa.

«Ascoltami, è andato tutto bene. Tu mi hai salvato la vita Bellamy Blake, d’accordo? Il resto non conta» disse quelle parole a stento e con una certa dose di dolore, ma dato che lui annuì con espressione sollevata, Clarke pensò che ne fosse valsa la pena.

«Adesso però smettila di parlare e se vuoi dirmi qualcosa, usa quei fogli, d’accordo? Così ti riprenderai più in fretta e ti dimetteranno».

A quelle parole, un domanda sorse spontanea in Clarke, dunque afferrò i fogli e la penna e scrisse velocemente “La mia casa è distrutta”.

Bellamy sospirò, poi la osservò dritta negli occhi e disse: «Beh, credevo fosse chiaro che verrai a stare da me… ».

Allora Clarke provò a parlare, ma lui le posò un dito sulle labbra per zittirla e riprese: «Senti… non ti lascerò andare da nessun’altra parte, è chiaro? Starai da me e senza storie. In questo modo potrò tenerti d’occhio e noi due continueremo ad indagare sull’omicidio di tuo padre, d’accordo?».

La ragazza gli lanciò uno sguardo talmente penetrante che perfino lui parve essere in imbarazzo, poi si concentrò nuovamente sul foglio che teneva ancora in mano e scrisse una parola soltanto: “Baciami”.

Nel leggerla, Bellamy si aprì in uno dei suoi sorrisetti furbi.

«Agli ordini, Principessa», dopodiché, si sporse verso di lei, baciandola intensamente.

Quando si separarono, Clarke posò di nuovo la penna sul foglio.

“Adesso però vai a casa, fa’ una doccia e dormi un po’, d’accordo? Io sarò ancora qui quando tornerai”.

«Sarà meglio» rispose lui non appena vide quelle parole, ma poi si avvicinò per darle un bacio sulla fronte e si allontanò, dopo averle rivolto un’ultima lunga occhiata.

«A più tardi Clarke».

Lei sorrise, salutandolo con un cenno della mano.

Era ancora così stanca, che pochi minuti dopo che Bellamy si fu allontanato, ricadde in un sonno profondo.



Si accorse della presenza di qualcuno all’interno della stanza ancor prima di riaprire gli occhi, sentendo dei bisbigli sommessi e, dopo qualche istante, mise a fuoco le familiari figure di Jasper e Monty.

«Ehi Bella Addormentata! Ti sei svegliata finalmente!» la salutò il primo con un sorriso che gli andava da orecchio a orecchio.

Lei ricambiò, salutandoli a sua volta senza parlare.

I due ragazzi, che si trovavano vicino alla porta probabilmente per non svegliarla, adesso si avvicinarono, sedendosi al suo fianco e ognuno le prese una mano.

«Stavolta l’hai davvero fatta grossa Clarke… ci siamo presi un bello spavento» asserì Monty a quel punto.

A quelle parole Clarke alzò le spalle e, prendendo in mano uno dei fogli rimasti sul suo comodino scrisse “Lo avrei evitato volentieri anch’io”.

«Già, non ne dubito» disse Jasper con un sorriso che in realtà mascherava ancora un’espressione preoccupata.

Dopo un po’, la ragazza si accorse di un mazzo di fiori posato sul suo comodino, così le bastò osservare i suoi due amici con aria interrogativa perché loro capissero che volava sapere chi li aveva mandati e non le sfuggì la rapida occhiata che si scambiarono.

«In realtà… è passato Finn. Li ha portati lui. Era qui quando siamo arrivati e gli abbiamo detto che sarebbe stato meglio se non si fosse fatto trovare una volta sveglia, quindi lo abbiamo convinto ad andare via. Anche perché non avevamo idea di quando sarebbe tornato Bellamy e abbiamo pensato che lui sarebbe stato ancor meno felice del fatto che ti ronzasse intorno».

A quelle parole, Clarke li osservò con aria stupita.

«Oh avanti, Clarke! Se prima avevamo solo il sospetto, adesso ne abbiamo la certezza. La storia tra te e il tenebroso vigile del fuoco non è più un segreto per nessuno dopo quello che è successo e il suo comportamento da “ammazzerò chiunque si avvicini a lei” ne dà la conferma».

A quelle parole, Clarke si coprì il viso con le mani.

«E dai! Eri single da troppo tempo, è bello che tu abbia qualcuno dopo… beh insomma… dopo tutto ciò che ti è capitato in questi anni».

“Ancora non so bene neanch’io cosa c’è tra me e Bellamy” si affrettò a scrivere la ragazza.

«Beh, invece lui a quanto pare ne ha un’idea molto chiara» le rispose Jasper con un sorrisetto furbo.

In quel momento però si udì un leggero bussare alla porta e, dopo un istante, Atom fece il suo ingresso.

«Ehi Principessa! Sei in compagnia, se vuoi ripasso più tardi», ma a quelle parole Jasper e Monty si alzarono dalle loro sedie, dicendo che stavano andando via.

«Oh d’accordo, allora mi fermo qui per un po’».

Clarke sorrise a quelle parole e salutò i due amici, che le posarono un bacio sulla guancia ciascuno e poi salutarono Atom con un cenno.

Non appena la porta si fu richiusa alle spalle del nuovo arrivato, lui sorrise in direzione della ragazza.

«Allora… come stai?».

Lei gli fece un cenno positivo alzando il pollice e il moro si mise a ridere.

«Molto bene, mi fa piacere. Pensavo di passare con Bellamy, ma quando sono andato a casa sua ho trovato Lincoln e mi ha detto che stava ancora dormendo, quindi intanto eccomi qui, il Principe Azzurro arriverà più tardi».

A quelle parole Clarke si mise a ridere e scrisse: “L’unica cosa di azzurro che ha Bellamy probabilmente sono i jeans” e questa volta fu Atom ad aprirsi in una risata.

In un certo senso era vero… quel ragazzo era probabilmente la cosa di più lontana ad un principe azzurro, insomma… Bellamy Blake era praticamente l’anti-principe-azzurro, ma a Clarke non importava. Non le importava quando si perdeva nei suoi occhi ed era bellissima l'oscurità vissuta tra le sue braccia. E voleva tutto ciò che non aveva più sognato, insieme alla persona sbagliata per tutti, ma giusta per lei. Perché era questo che provava quando stava insieme a Bellamy. Quel tumulto dirompente che sentiva nel petto ogni volta che lui la guardava, che la sfiorava o la baciava. Quando la prendeva tra le braccia e lei si sentiva di nuovo a casa, anche se era ben consapevole, ora più che mai, di non avere più una casa.

Quel posto era andato distrutto, quel luogo al quale era così morbosamente legata, che non aveva voluto lasciare per via dell’attaccamento che ancora sentiva con suo padre, come se non lasciando quel posto, lui in qualche modo avesse potuto tornare, nonostante si rendesse perfettamente conto del fatto che non sarebbe tornato. Che era morto e mai nessuno glielo avrebbe restituito.

«E quei fiori?» disse poi Atom, distraendola dai suoi pensieri. «Devo prendere a pugni qualcuno Principessa? Perché sai, in quanto migliore amico di Bellamy tu sostanzialmente sei mia sorella, quindi devo proteggerti».

Clarke scrisse il nome di Finn su un foglio e Atom alzò un sopracciglio in un’espressione a metà tra l’annoiato e il disgustato.

«Devo decisamente prendere a pugni qualcuno allora».

Lei sorrise divertita, dandogli uno schiaffetto sulla mano, dopodiché i due rimasero a parlare ancora a lungo, fino a che Atom guardò l’orologio e vide che ormai erano quasi le sei di sera.

«Adesso vado Principessa, ho di nuovo il turno di notte oggi e tu stai qui buona e tranquilla, più tardi Bellamy verrà a trovarti. Tornerò non appena posso, ma tu cerca di farti dimettere perché gli ospedali non mi piacciono. Intesi?».

La ragazza annuì, poi lui le scompigliò i capelli e le voltò le spalle, diretto verso l’uscita.

Rimasta un’altra volta da sola, la stanchezza la colse nuovamente e dopo qualche istante si lasciò avvolgere dalle braccia accoglienti del sonno.



You're not alone
Together we stand
I'll be by your side
You know I'll take your hand
When it gets cold

And it feels like the end
There's no place to go
You know I won't give in
No, I won't give in

Keep holding on
'Cause you know we'll make it through
We'll make it through
Just stay strong
'Cause you know I'm here for you
I'm here for you
There's nothing you could say
Nothing you could do
There's no other way when it comes to the truth
So keep holding on
'Cause you know we'll make it through
We'll make it through



Non sei sola
Siamo insieme
Sarò al tuo fianco
Sai che prenderò la tua mano
Quando si raffredderà

Ed è come se fosse arrivata la fine
Non c’è alcun posto in cui possiamo andare
Sai che non mi arrenderò
No, non lo farò

Tieni duro
Perché ce la faremo
Ce la faremo
Sii forte
Perché sai che sono qui per te
Sono qui per te
Non c’è niente che tu possa dire
Niente che tu possa fare
Non c’è un altro modo quando si arriva alla verità
Quindi resisti
Perché ce la faremo
Ce la faremo



Erano ormai le sette e mezza di sera quando Bellamy riaprì gli occhi e, lanciando uno sguardo al pendolo del salotto, scattò a sedere sul divano su cui era crollato dopo aver fatto la doccia.

Era tardi! Aveva trascorso l’intera giornata a dormire e Clarke era in ospedale.

Corse in cucina e lì trovò Lincoln, che proprio in quel momento stava servendo degli hamburger in due piatti.

«Ehi Bell! Sapevo che l’odore del cibo ti avrebbe svegliato» lo salutò con un sorriso.

«È tardi! Devo andare da Clarke. Si può sapere perché non mi hai svegliato prima?».

«Ho ricevuto ordini molto severi e restrittivi da tua sorella; Octavia mi ha detto di lasciarti dormire e di farti mangiare, quindi mi dispiace, ma prima di andare a trovare la tua bella dovrai mettere qualcosa nello stomaco perché non farai un figurone se sverrai davanti ai suoi occhi».

«Io non svengo» rispose lui in tono contrariato.

A quelle parole Lincoln si mise a ridere prima di mettere in tavola i due piatti.

«Però devi mangiare davvero. Ti assicuro che Clarke non è rimasta da sola, oggi ha ricevuto molte visite e Octavia, che è in turno proprio adesso, è andata a trovarla spesso».

Bellamy osservò l’amico, poco convinto, ma doveva assolutamente mangiare perché altrimenti temeva che davvero avrebbe potuto svenire e il ruggito del suo stomaco glielo confermò.

Ad ogni modo, ripulì il suo piatto con la solita rapidità con cui era abituato a mangiare e, dopo neanche cinque minuti, scattò in piedi, osservando Lincoln a metà tra l’impaziente e il colpevole.

«Vai pure, tua sorella mi ha dato la sua copia delle chiavi, chiudo io quando me ne vado».

«Ti ringrazio» detto ciò, si avviò a passi svelti verso l’ingresso e afferrò le chiavi della macchina e quelle di casa.

Bellamy impiegò venti minuti prima di arrivare all’Ark Medical Center, dopodiché si diresse direttamente al terzo piano, dove sapeva che avrebbe trovato Clarke, aveva sentito sua sorella mentre andava lì.

Si incamminò rapidamente verso la stanza 13 e, una volta lì, scorse la testa bionda di Clarke voltata verso la finestra, il suo respiro era profondo e regolare… stava dormendo.

Sospirò, sedendosi al suo fianco. In quel momento si accorse dei fiori posati sul comodino della ragazza, così allungò una mano per prenderli e quando lesse il nome di Finn sul biglietto non riuscì a trattenersi dal roteare gli occhi al cielo.

Dunque quell’idiota era stato lì… non aveva capito? Il suo piccolo cervello inutile non era arrivato al fatto che adesso Clarke stava con lui? Un momento… stava davvero con lui? Insomma… non avevano mai chiarito cosa fossero l’uno per l’altra, ma quella fastidiosa fitta di gelo dentro al petto gli fece perfettamente capire quanto la presenza di Finn fosse sgradita. Provava una tale gelosia che avrebbe volentieri gettato i fiori dentro la spazzatura e Finn sotto la sua macchina, ma erano entrambe cose da evitare… non poteva essere così drastico, quella era una parte di lui che apparteneva al passato. Un lato del suo carattere che aveva deciso di accantonare per diventare l’uomo che era adesso… anche se dargli almeno un pugno non gli sarebbe dispiaciuto. Scosse la testa, come per scrollarsi di dosso quei pensieri.

Era andato lì a mani vuote, forse anche lui avrebbe dovuto portarle qualcosa, insomma… perfino quell’idiota di Collins le aveva portato un mazzo di fiori. Il fatto è che lui non era proprio abituato a questo genere di cose. Non era certo mai stato un tipo da fiori o cazzate simili, il suo pensiero era stato Clarke, semplicemente lei e così si era precipitato direttamente lì non appena aveva riaperto gli occhi. Voleva solo vederla.

Guardarla in quel momento gli procurò quasi un dolore fisico… sembrava così fragile, ma lui sapeva bene quale forza si nascondeva dietro quei lineamenti rilassati. Le sue palpebre tremolarono come se stesse sognando qualcosa e, temendo potesse trattarsi del suo solito incubo, Bellamy le prese una mano tra le sue.

«Va tutto bene Clarke, ci sono qui io» sussurrò a bassa voce.

In quel momento gli occhi della ragazza si aprirono.

«Ehi… » disse lei con un accenno di sorriso e l’aria ancora intorpidita dal sonno.

«Ehi… » rispose Bellamy trattenendo a stento un sospiro di sollievo. C’erano stati momenti in cui aveva creduto e temuto che non avrebbe mai più rivisto quegli occhi azzurri.

Il panico iniziale della chiamata alla caserma si era tramutato ben presto in orrore quando era giunto, insieme alla squadra, dinnanzi all’abitazione della ragazza e realizzato che lei si trovava effettivamente lì dentro. Quel posto nel quale era stato così spesso negli ultimi tempi era diventato l’inferno in terra e a lui era parso di essere catapultato nel passato, al giorno dell’incendio alla fabbrica in cui sua madre lavorava.

Quella voragine al posto del cuore, il senso di chiusura alla bocca dello stomaco, gli arti tremanti e deboli… tutto era stato come quel giorno. Solo che stavolta non era crollato a terra, ma aveva indossato la sua divisa, che aveva agguantato al volo prima di uscire dalla caserma, ed era entrato insieme ai suoi compagni, nonostante le loro svariate proteste dato che tecnicamente lui avrebbe dovuto essere in ferie.

Non gliene importava nulla, la cosa che in quel momento contava di più era Clarke, ma soprattutto era tirarla fuori da lì.

Di fronte alla casa avevano trovato un Wells paralizzato dalla paura e il ragazzo aveva brevemente spiegato loro che Clarke era riuscita ad uscire, ma che poi era rientrata per recuperare Yeti. Avrebbe dovuto ammazzare quel gatto quando ne aveva avuto la possibilità, se per colpa di quel dannato felino fosse successo qualcosa a lei sarebbe andato nella clinica veterinaria in cui era stato portato e lo avrebbe scuoiato con le sue mani. Grazie al cielo però erano riusciti a tirarli fuori in tempo.

«Ho saputo che hai avuto problemi sul lavoro… » disse lei con fatica e con aria colpevole, ma Bellamy aumentò la stretta sulle sue mani e le sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Clarke, non ti devi preoccupare di questo, è tutto risolto. E poi non devi parlare, ricordi? Io starò qui con te e andrà tutto bene, questo è quanto».

La ragazza annuì, poi Bellamy riprese parola.

«Oggi appena sono tornato a casa mi ha chiamato il veterinario di Yeti, ha detto che sta bene e che domani posso andare a prenderlo. Preferisce tenerlo d’occhio un’altra notte, ma ha detto che è per togliersi ogni scrupolo. Quel coso ha la pelle dura».

A quelle parole Clarke si illuminò, ma allo stesso tempo gli diede un pizzicotto sul fianco prima di rendersi conto che quello era il fianco ferito del ragazzo e sgranare gli occhi.

Lui, vedendo la sua reazione, si avvicinò tranquillizzandola.

«Clarke, sto bene d’accordo? Mi sono fatto dare un’occhiata al pronto soccorso e hanno detto che la ferita è a posto. Hai visto? Sei un ottimo chirurgo e all’esame andrai alla grande. Ora devi solo riposare e rilassarti».

A quelle parole l’espressione di Clarke si tranquillizzò e lei gli accarezzò la mano.

Per un lungo istante i due si guardarono intensamente, poi Bellamy iniziò a parlare del più e del meno, come se la situazione fosse assolutamente normale e lei rimase ad ascoltarlo, facendo di tanto in tanto qualche cenno con la testa. Finalmente sembrava aver capito che doveva stare zitta se avesse voluto uscire da lì più velocemente.

Poi ad un tratto gli venne in mente la lista che Murphy gli aveva dato e il fatto che con tutto ciò che era successo, non ne avesse più parlato con Clarke… le loro indagini stavano andando a rilento ultimamente, ma adesso voleva soltanto assicurarsi che lei stesse bene e riportarla a casa. Casa sua.

Ad ogni modo pensò che sarebbe stato giusto informarla della cosa.

«Clarke, ti ricordi dell’hacker da cui siamo andati un paio di giorni fa?».

Subito l’espressione di lei si fece vigile e Bellamy capì che lo stava invitando a continuare.

«Mi ha dato la lista dei medici che si trovavano in sala operatoria la notte in cui morì tuo padre. Ricominceremo a lavorarci una volta che ti dimetteranno, d’accordo?».

Dopo un momento di esitazione, la ragazza annuì. Conoscendola avrebbe voluto dirgli che voleva iniziare subito, di portare lì i documenti, ma un ospedale non era esattamente il luogo più sicuro in cui lavorare a certe cose.

Passarono altri venti minuti prima che un’infermiera lo avvisasse che l’orario delle visite era terminato, così, a malincuore, il ragazzo si avvicinò per baciarla lievemente sulle labbra prima di andare via.

Una volta arrivato a casa non aveva ancora sonno, d’altra parte aveva dormito quasi tutto il giorno, dunque si mise a studiare in vista dell’esame e solo quando l’orologio a pendolo nel suo salotto batté le due di notte si rese conto di quanto fosse tardi, perciò chiuse il libro e si avviò in camera.

Si addormentò dopo pochi istanti che la sua testa ebbe toccato il cuscino.

Riaprì gli occhi quando un raggio di sole lo colpì dritto in volto e si stiracchiò lentamente prima di vedere che erano ancora le sette di mattina, dunque decise di andare a fare una corsa. Il fianco stava meglio ormai non gli dava più fastidio, perciò non avrebbe avuto problemi.

Correre gli faceva sempre bene, lo aiutava a scaricare la tensione e acquietare il suo stato d’animo, che in quel momento era davvero in tumulto… era un periodo difficile, insomma… prima tutto ciò che era successo con Clarke, l’inizio così improvviso della loro relazione o qualsiasi altra cosa stessero vivendo e poi l’aver quasi rischiato di perderla nello stesso modo in cui aveva perso sua madre. Il karma era davvero un bastardo.

Ad ogni modo, ora non ci doveva pensare; lei era viva e stava bene, tutto sarebbe andato per il meglio.

Corse a lungo prima di fermarsi improvvisamente… senza rendersene conto era arrivato davanti alla casa della ragazza, o almeno… a ciò che ne rimaneva. Il perimetro era delimitato dai nastri gialli della polizia e lui deglutì a vuoto nel trovarsi davanti a quella scena.

Chi aveva potuto fare una cosa del genere? Perché si trattava di un incendio doloso e questo era certo.

Proprio in quel momento il suo telefono prese a squillare… un numero che non aveva salvato.

«Pronto?».

«Ehi Bellamy… sono io».

Quella era la voce di Murphy… ma perché il ragazzo lo aveva chiamato? Aveva fatto tutto ciò che gli aveva chiesto dopotutto… «Murphy… » la sua voce tradiva una certa nota sorpresa.

«Ho sentito di cos’è successo in casa Griffin l’altra notte e… diciamo che ho fatto una piccola ricerca. Ti conviene raggiungermi se vuoi sapere cosa sta succedendo».

A quelle parole Bellamy rimase basito, stava per chiedergli qualche spiegazione prima di rendersi conto che il ragazzo aveva già riattaccato.

Come prima cosa salvò il suo numero di cellulare, dopodiché senza perdere tanto tempo corse nuovamente verso casa, velocemente entrò per recuperare le chiavi della macchina e partì.

Che diavolo voleva dire quella strana telefonata? Ripensò alle parole di Murphy… se vuoi sapere cosa sta succedendo. Beh, il fatto che stesse succedendo qualcosa era lampante; adesso si trattava solo di capire cosa. E chi. Chi aveva appiccato il fuoco? Forse quella visita al suo vecchio compagno di scuola e di guai lo avrebbe aiutato a trovare qualche risposta alle mille domande che gli frullavano nella testa.

Una volta davanti alla ormai familiare casa del ragazzo, smontò dall’auto e bussò forte. Murphy venne ad aprire dopo qualche istante.

«Quella porta mi serve Bellamy, vedi di non buttarla giù» fu il suo saluto.

«Taglia corto e arriva al dunque» nemmeno lui si perse in convenevoli.

«Beh, sai… la tua richiesta sul dottor Griffin mi ha incuriosito e poi ho sentito quello che è successo, così diciamo che ho fatto una piccola ricerca per conto mio e sai che cosa è venuto fuori?».

L’intento di Murphy a quanto pare era di tenerlo sulle spine, ma lui non era proprio in vena di giochetti e il suo atteggiamento spazientito non passò inosservato, tanto che il padrone di casa si lasciò sfuggire una risata ironica.

«Parla in fretta, ho da fare».

«Oh, se per caso questo qualcosa ha a che fare con Clarke Griffin prevedo che ben presto ne avrai molto di più per cercare di salvare la vita a quella ragazza».

Quelle parole provocarono un gelo improvviso nel cuore di Bellamy.

«Di che diavolo parli?».

«A quanto mi risulta la Principessa è andata al comune per fare richiesta del certificato di morte di suo padre non molto tempo fa, dico bene?».

«Come fai a saperlo?» la confusione nella sua testa era sempre più totale.

«Perché nel momento in cui il nome di Jake Griffin è stato digitato nel browser è scattato qualcos’altro. Una sorta di allarme, che ha inviato un messaggio ad un altro computer».

Murphy dovette accorgersi della sua faccia perplessa perché roteò gli occhi al cielo come se stesse spiegando perché due più due fa quattro a un bambino di prima elementare e continuò. «Per spiegartelo in parole semplici è come una sorta di virus, soltanto che invece di infettarti il pc, invia un segnale e se qualcuno lo ha creato, vuol dire che molto probabilmente non è felice del fatto che qualcuno stia facendo delle ricerche sul dottor Griffin. Ergo, significa che vogliono insabbiare cosa gli è successo e che, chiunque sia stato, non ha gradito il fatto che Clarke abbia voluto giocare alla piccola detective. Se hai un qualche legame con quella ragazza, ti conviene portarla via al più presto dall’ospedale, sai… durante il periodo trascorso in prigione ho imparato che per i criminali è uno dei luoghi più facili in cui far fuori qualcuno e passare inosservati».

Quelle parole gli fecero lo stesso effetto di una doccia gelata e, senza perdere altro tempo, quasi volando Bellamy uscì da casa di Murphy e prima di rendersene conto aveva già rimesso in moto l’auto, diretto verso l’Ark Medical Center.

La sua testa sembrava scoppiare di informazioni e di voci che si rincorrevano dicendogli che doveva fermare Clarke, doveva mettere fine a quella follia prima che qualcuno si facesse male davvero.

Il cuore pompava nel petto come se stesse per esplodere e il giovane impiegò la metà del tempo che ci sarebbe voluta per arrivare se solo avesse rispettato i limiti di velocità.

Infilò la macchina in un parcheggio vuoto e s’incamminò verso l’ingresso dell’edificio, quasi correndo lungo le scale che portavano ai piani superiori e, una volta arrivato in camera di Clarke, fu come se al posto del cuore avesse un cubo di ghiaccio pesante come un macigno.

Il letto era sfatto, ma vuoto, la camera silenziosa.

«Clarke?» la chiamò una volta, magari era nel bagno, ma non ricevette alcuna risposta.

Sempre più agitato uscì dalla stanza, bloccando la prima infermiera che vide passare e chiedendole se sapesse dov’era andata a finire.

«L’ho vista allontanarsi con un uomo e un ragazzo».

«Un uomo e un ragazzo? Li ha visti? Chi… » ma in quel momento una voce metallica informò di un’emergenza e l’infermiera si dileguò prima che lui potesse finire la frase.

«Maledizione!» esclamò nel bel mezzo del corridoio, tanto che si beccò un’occhiata di traverso da un’anziana signora che passava lì in quel momento.

Si passò una mano tra i capelli e prese nuovamente le scale, stavolta per scendere, dopodiché si avviò verso il cortile e lì, riuscì a respirare nuovamente.

Clarke era lì, sorrideva insieme a Thelonius e Wells Jaha.

Si impose di calmarsi prima di precipitarsi lì e fare il diavolo a quattro, ma poi Clarke parve notarlo perché il suo sorriso si allargò ulteriormente e lei si alzò dalla panchina con un po’ di fatica, prendendo le stampelle e avviandosi nella sua direzione dopo aver detto qualcosa ai due.

Non aveva fatto in tempo a dire niente che si ritrovò circondato dalle braccia della ragazza e il suo cuore accelerò per un momento. Bellamy assaporò quell’istante, inspirando a fondo il profumo di Clarke e accarezzandole i capelli.

«Sei contenta Principessa?» disse senza riuscire a trattenere un sorriso, dimenticando persino la paura vissuta fino ad un istante prima.

«Mi dimettono oggi pomeriggio».

La sua voce era ancora roca, ma si vedeva bene che stava meglio e questo lo sollevò. Continuò a stringerla a sé finché una voce familiare interruppe quel momento perfetto.

«Bellamy… ».

Il ragazzo alzò gli occhi fino ad incontrare quelli di Wells.

Gli fece un cenno con il capo, senza dire niente, poi guardò oltre, per salutare suo padre poco dietro di lui. Solo in quel momento si rese pienamente conto che, nonostante la presenza di altre persone, Clarke non sembrava minimamente intenzionata a scostarsi da lui e questa cosa gli fece provare un calore inaspettato.

«Noi andiamo. Clarke… se dovessi avere bisogno di qualsiasi cosa, non esitare a chiamare, mi raccomando».

La ragazza lì salutò educatamente, dopodiché alzò il volto per fissarlo in quello di Bellamy.

«Sei sicuro che posso stare da te? Insomma… ».

«Sicuro. Niente storie Principessa, non andrai da nessuna parte senza di me e ti ci vorrà di più per liberarti dalla mia presenza fastidiosa».

«E chi ha mai detto di volerlo fare?» disse lei con un sorriso, avvicinando le labbra a quelle del ragazzo e baciandolo con trasporto.

Bellamy cercò di avvicinarla ancora di più a sé schiacciandola contro il suo corpo. Erano incredibili gli effetti che quella ragazza aveva su di lui, proprio come una droga… gli sembrava di volerne sempre di più.

Quando si staccarono si fissarono per un lungo istante, ancora col respiro affannoso.

«Sei andato a prendere Yeti?» chiese lei dopo qualche istante di pausa, forse per smorzare quella strana tensione che si era creata.

Cazzo.

Lo aveva completamente dimenticato.

«Non ancora… ho avuto un po’ da fare stamattina».

L’espressione della ragazza si fece indagatoria.

«Del tipo?». «Del tipo di cose di cui parleremo una volta a casa. I medici ti hanno detto verso che ora passeranno per le dimissioni?».

«Metà pomeriggio più o meno. Dai, vai a prendere Yeti! Ho voglia di vederlo».

«Io onestamente ho molta più voglia di restare qui con te».

A quelle parole l’espressione di Clarke si ammorbidì.

«Io non vado da nessuna parte».

«Ti conviene Principessa».

Andarono a sedersi su una panchina nel cortile e restarono lì a chiacchierare per un po’ prima che Bellamy si alzasse.

«Ti riaccompagno in camera, vado a recuperare il tuo amico peloso e poi torno a prenderti per andare a casa, ok?».

«Puoi venire direttamente verso le quattro Bellamy».

Ma dopo ciò che Murphy gli aveva detto quella mattina, non si fidava a lasciarla da sola nemmeno per un istante, dunque non appena ebbe lasciato Clarke nella sua stanza, estrasse il cellulare e chiamò Atom.

«Ehi Bell!» rispose il suo amico dopo qualche squillo.

«Ehi! Sei al lavoro?».

«No, in realtà sono a casa troppo morto di caldo per uscire… e in più il mio climatizzatore si è rotto. So che ne stanno saltando parecchi in zona, quest’anno è terribile».

«Beh, in ospedale funzionano bene, quindi che ne dici di andare a fare compagnia a Clarke mentre io sbrigo un paio di cose?».

«Questa mi sembra davvero un’ottima idea! Mi faccio una doccia veloce e vado a trovarla!».

«Mi fai un favore, amico».

«Ma è tutto a posto? Le è successo qualcosa?» la voce dell’altro adesso sembrava allarmata e, se da una parte l’affetto che si era creato tra Atom e Clarke gli faceva piacere, dall’altro lo infastidì leggermente, anche se non lo avrebbe mai ammesso neanche con una pistola puntata alla tempia.

«Sta bene. Vorrei solo che non restasse da sola».

«Non c’è problema, Bell. Il suo Principe Azzurro, cioè io, sarà da lei a breve».

Ecco che cominciava a fare l’idiota.

«Atom… ti faccio lo scalpo».

Una risata riempì le sue orecchie all’altro capo del telefono.

«Ciao ciao fratello!».

Bellamy scosse la testa a metà tra il divertito e l’esasperato.

Una volta o l’altra avrebbe dovuto picchiare Atom tanto per il gusto di farlo.

Guidò fino alla clinica veterinaria dove Yeti era stato portato e subito si imbatté in un giovane ragazzo, forse un tirocinante, che lo accompagnò nell’ambulatorio del medico che aveva preso in cura il gatto.

«Abbiamo fatto tutti gli accertamenti possibili, il suo gatto sta benissimo».

«Non è proprio il mio… » ma s’interruppe, lasciando cadere il discorso. «Beh… grazie» disse poi. Non sapeva cosa fare, non si era mai trovato in una situazione del genere, così si limitò a prendere la cuccetta con Yeti e riavviarsi verso l’auto.

Quando giunse a casa liberò il felino, che vedeva già piuttosto sull’agitato e quello subito schizzò via, infilandosi nella sua stanza. Dio, ci mancava soltanto che quel coso decidesse di mettere residenza lì in pianta stabile.

Sbuffò. Presumibilmente avrebbe dovuto dargli qualcosa da mangiare, ma non aveva cibo per gatti, così per il momento si limitò a riempire una ciotola d’acqua e una di latte, erano le uniche cose che poteva offrirgli… per fortuna Clarke sarebbe tornata quel pomeriggio stesso.

Solo allora parve realizzarlo… Clrke si stava per trasferire effettivamente da lui. Che cosa avrebbe comportato? Averla intorno tutto il giorno era una cosa a cui non aveva mai pensato fino ad ora, o meglio, in realtà, soprattutto da quando si erano baciati, ogni momento lontano da lei era stato una sofferenza ed ora che avrebbero convissuto sotto lo stesso tetto ventiquattro ore su ventiquattro… chi poteva dire che cosa sarebbe successo?

Ok Bellamy… rilassati e fai un respiro profondo. Dopotutto è soltanto una ragazza.

Soltanto una ragazza… ma chi voleva prendere in giro? Non ci credeva nemmeno lui. Se poche ore prima in un posto affollato come il cortile dell’Ark Medical Center c’era stata una tensione quasi fino alle stelle, non osava immaginare come sarebbe stato adesso.

Ancora preso da quei pensieri, decise che la cosa migliore sarebbe stato andare in ospedale a prenderla. Ormai alle quattro mancava poco e nonostante sapesse che Atom era con lei, non si sentiva tranquillo, non dopo quella mattina. D’altra parte… si era rivolto al suo migliore amico per un motivo ben preciso: nonostante a volte quel ragazzo si comportasse da idiota, sapeva bene che nutriva un affetto per Clarke e, specialmente ora, non avrebbe mai permesso che le accadesse qualcosa. Inoltre era l’unico al quale avrebbe affidato la vita di Clarke, anzi, a dirla tutta… era l’unico al quale avrebbe affidato anche la sua stessa vita o quella di Octavia. Certo, per quanto riguardava sua sorella avrebbe potuto contare anche su Lincoln, ma Atom… beh, era come un fratello per lui, non importava se non era il sangue ad unirli. Era una scelta e forse questo era un legame ancor più profondo.

Alle volte avrebbe voluto spaccargli la faccia, era vero, ma era altrettanto vero che avrebbe ucciso per difenderlo.

Arrivò in ospedale e si diresse verso la stanza di Clarke, trovandola a ridere insieme al suo amico.

«Ehi Bell!» lo salutò lui non appena lo vide.

«Mi sono perso una festa?».

«Oh no… stavo solo raccontando a Clarke della recita dell’asilo in cui hai dovuto interpretare un albero e Collins, che era il protagonista, continuava a prenderti in giro e lo hai picchiato davanti a tutti».

A quelle parole il ragazzo inarcò le sopracciglia.

«Atom… sappi che uno di questi giorni verrò a strangolarti nel sonno».

Poi i suoi occhi si spostarono sul viso di Clarke, che aveva ancora un’espressione divertita per l’aneddoto non troppo felice che il suo migliore amico aveva deciso di raccontarle.

«Atom ha detto che ha davvero un mucchio di storielle da raccontarmi sulla vostra infanzia».

«E invece gli conviene stare zitto se non vuole ritrovarsi con un cappio al collo».

«Oh no, forse ti stai confondendo con Murphy!» disse con una scintilla negli occhi.

«Murphy? Un momento… ma di che state parlando voi due?».

«Niente! Atom… taci».

Ma a quelle parole l’altro non riuscì a trattenersi dal ridere ancora, mentre Clarke continuava a lanciare occhiate dall’uno all’altro senza capire.

«Non ascoltarlo Clarke».

«Io veramente sarei interessata» protestò quasi imbronciata e Bellamy non riuscì a trattenersi dal baciare quelle labbra leggermente increspate in un broncio da bambina offesa. Fu più forte di lui.

«Oh mio Dio! Pensavo che questo giorno non sarebbe mai arrivato. Volete un po’ di privacy? Se volete vado via, dopotutto già c’è il letto… ».

Ma l’occhiata omicida che Bellamy rivolse all’amico fu sufficiente a zittirlo.

«Come non detto».

Chiacchierarono tutti e tre per qualche altro minuto prima che un medico entrasse nella stanza con i documenti per la dimissione di Clarke e, una volta che fu andato via, i ragazzi presero le sue cose e la aiutarono ad uscire.

«Sei una ragazza fortunata! Hai visto? Hai anche due fattorini» disse Atom, facendola ridere.

«Per quanto dovrai camminare con le stampelle?» s’informò invece Bellamy.

«È solo una distorsione. L’ortopedico ha detto che in una settimana e con un po’ di riposo non dovrei più averne bisogno».

«Bene».

Bellamy li guidò fino alla sua auto e Atom caricò il borsone che Clarke aveva con sé in ospedale nel bagagliaio. Per lo più erano abiti che Monroe le aveva prestato dal momento in cui tutto ciò che Clarke possedeva era andato distrutto nell’incendio.

«D’accordo ragazzi, io vi saluto adesso. Ho un paio di cose da fare prima di stasera».

«Va bene. Grazie per la compagnia Atom» disse la ragazza abbracciandolo e lui ricambiò.

«Mi raccomando, fatti servire e riverire e soprattutto fa’ in modo che impazzisca» disse poi facendole l’occhiolino.

Lei rise debolmente, poi salì al posto del passeggero mentre Bellamy richiudeva lo sportello dal suo lato e girò intorno al veicolo per mettersi alla guida.

«Ci vediamo in giro idiota».

«È sempre un piacere Bell!» esclamò l’altro con un sorriso strafottente.

Il tragitto fino a casa fu tranquillo, nonostante tutto però, Bellamy riusciva a scorgere la stanchezza negli occhi di Clarke… doveva essere ancora piuttosto provata.

«Ascolta… so che l’incendio è stato appiccato di proposito. Tu ne sai qualcosa?».

Bellamy le lanciò un’occhiata fugace.

«Una volta a casa ti spiegherò tutto».

Detto ciò tornò a chiudersi nel silenzio. Come avrebbe potuto spiegarle quella situazione? L’avrebbe spaventata a morte. Dannazione, tutto era un maledetto casino.

Non impiegò molto per arrivare, dopodiché spense il motore e tirò fuori il borsone dal bagagliaio. Fece strada, ma sempre tenendola d'occhio date le stampelle, poi aprì la porta e si fece da parte per permetterle di passare.

«Eccoci arrivati Principessa. Non è il palazzo, ma è qualcosa».

Non seppe decifrare lo sguardo che la ragazza gli lanciò, poi disse: «Andrà benissimo e… Bellamy? Ancora una volta… ti ringrazio».

«Non dirlo nemmeno».

Andò in camera sua per posare il borsone e Yeti sfrecciò fuori.

«Yeti!» esclamò Clarke, che nel frattempo si era seduta sul divano in salotto.

Al solo udire la sua voce, il felino prese la rincorsa e atterrò sulle gambe della ragazza. Lei lo accarezzò sorridendo e Bellamy rimase lì ad osservare la scena. A volte non sembrava poi così psicopatico.

Clarke lo accarezzò dietro le orecchie e lui cominciò a fare le fusa; poco dopo Bellamy prese posto al suo fianco, passando a sua volta una mano tra il pelo morbido e candido del felino.

Restarono in silenzio per qualche minuto, poi Yeti saltò di nuovo giù dal divano, diretto verso le due ciotole che Bellamy gli aveva preparato.

Una volta che i due furono rimasti da soli, il ragazzo spostò il suo sguardo su Clarke e lei lo osservò di rimando. Conosceva quello sguardo: gli stava silenziosamente chiedendo di spiegarle, finalmente, che cosa stava succedendo e, per quanto lui avesse cercato di rimandare la cosa, era arrivato il momento della verità. Doveva essere sincero, non importavano le conseguenze… la verità sarebbe sempre stata la scelta migliore. E lui ci sarebbe stato, in ogni caso, era lì per restare, non sarebbe scappato per l’ennesima volta dai sentimenti che ormai chiaramente provava. E Clarke sarebbe stata forte, lui lo sapeva, ormai aveva imparato a conoscerla.

«Vieni qui» le disse facendole cenno di avvicinarsi e prendendola tra le braccia. La strinse a sé per qualche minuto, dopodiché iniziò a raccontarle tutto, dalla mattina in cui erano andati da Murphy per la prima volta fino a quel giorno.

La ragazza lo lasciò parlare senza interromperlo fino a quando non ebbe finito.

«Questo è tutto».

Clarke rimase silenziosa per un paio di istanti, poi alzò lo sguardo verso di lui.

«Posso vedere la lista?».

Tra tutte le domande che Bellamy si sarebbe aspettato, di certo quella non era contemplata, ma non fece obiezioni.

«Vado a prenderla».

Una volta tornato in salotto gliela porse e Clarke la sfogliò con attenzione, tanto che Bellamy quasi si aspettò di vedere del fumo uscirle dalla testa per la concentrazione.

«C’è qualche nome familiare?» le chiese dopo un po’, le braccia incrociate.

«Non di familiare, ma forse… di utile. Sai Bellamy, in queste situazioni ci sono sempre due versioni della stessa storia. Si tratta semplicemente di scoprire quale sia quella vera o, se non altro, quella che si avvicina maggiormente a come siano realmente andati i fatti e, a questo punto… credo ci sia soltanto una persona che possa aiutarci. Lo specializzando che quella notte assistette all’intervento: Jackson Sahel».




NOTE:


Lo so, avevo detto che ci avrei impiegato di meno ad aggiornare, ma tra feste, esami e cose varie alla fine mi sono ridotta all’ultimo come sempre.

Per non parlare del fatto che la settimana prossima ho l’esame finale, quindi sarò in clausura per i prossimi giorni, ma dopodiché sarò libera e spensierata (ahah, sembra vero).

No, comunque… spero che il capitolo vi sia piaciuto, i tempi biblici per l’aggiornamento sono dovuti anche al fatto che scriverlo è stato proprio un parto. Mi succede sempre di bloccarmi per un sacco di tempo e poi di scrivere più di metà del capitolo in due giorni ed effettivamente è andata così anche stavolta.

Ad ogni modo, scusate ancora per il ritardo e mi auguro di avervi tolto un peso adesso che abbiamo visto che Clarke sta bene. Certo, qualcuno vuole pur sempre ucciderla, almeno a detta di Murphy, ma intanto sta bene.

Dunque dunque… come sempre sono andata in crisi per cercare due lyrics che si adattassero alla situazione e vorrei spiegarvi innanzitutto quella di Clarke. L’ho scelta più che altro per le parti in cui viene detto “Qualcuno davvero sa se è la fine dell’inizio?” e “È una porta che si apre e una che si chiude” questi due estratti in particolare rispecchiano la natura del capitolo perché in un certo senso è davvero la fine dell’inizio. Da qui ci sarà il declino, la fine del “periodo felice” dei nostri protagonisti, dopodiché chi può dirlo?

Ah, ultima cosa… siccome non avevo voglia di inventarmi cognomi a caso per i personaggi che nella serie non li hanno, ho deciso di usare i veri cognomi degli attori (Sahel per esempio è il cognome dell’attore che interpreta Jackson). Ho adottato questo metodo perché così io per prima me li ricorderò più facilmente, scusate, sono una frana XD

Bene, adesso è meglio se la smetto e vi lascio in pace.

Come sempre, vi ringrazio per il sostegno, vi lascio i due brani e mando un bacio a tutti.



Holding on and letting go – Ross Copperman. Clarke

Keep holding on and letting go – L’originale sarebbe di Avril Lavigne, ma ho optato per una versione maschile di cui in realtà non conosco l’artista. Bellamy



Detto ciò, auguro una buona serata a tutti!

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** It's about trust ***



CAPITOLO 20: IT’S ABOUT TRUST




If I lay here
If I just lay here
Would you lie with me
And just forget the world?

Forget what we're told
Before we get too old
Show me a garden
That's bursting into life

All that I am
All that I ever was
Is here in your perfect eyes
They're all I can see

I don't know where
Confused about how as well
Just know that these things
Will never change for us at all



Se mi stendessi qui, se solo mi stendessi qui
Ti stenderesti con me e dimenticheresti il mondo?

Dimentica quello che ci è stato detto
Prima che diventiamo troppo vecchi
Mostrami un giardino dove esplode la vita

Tutto quello che sono
Tutto quello che sono sempre stata
È qui nei tuoi occhi perfetti,
Che sono tutto ciò che posso vedere

Non so dove
Sono confusa anche sul come
So solo che queste cose
Non cambieranno mai per tutti noi



Due giorni dopo la dimissione, Clarke si sentiva già molto meglio o forse era solo il fatto di avere Bellamy sempre intorno, non se lo sapeva ancora spiegare.

Ad ogni modo, insieme avevano ripreso le indagini a pieno ritmo, ma ancora né la polizia né nessun altro aveva idea di chi avesse potuto dare fuoco alla casa. La notizia ovviamente era arrivata anche ad Abby e la donna aveva preso il primo aereo per tornare a New York e convincere in tutti i modi la figlia a trasferirsi in Texas insieme a lei e Marcus, ma Clarke era stata irremovibile, restando ferma sulle sue decisioni.

Inoltre l’idea di non vedere più Bellamy non riusciva nemmeno a considerarla.

Il destino a volte sapeva essere davvero buffo. All’inizio si odiavano, poi l’odio si era tramutato in una civile diffidenza, che a sua volta si era evoluta in una fiducia cieca sfociata in un sentimento che nessuno dei due sapeva controllare e che entrambi avevano tentato in tutti i modi di reprimere. Fino ad arrendersi all’evidenza dei fatti e cedere a ciò che realmente provavano.

Vivere sotto lo stesso tetto adesso era… strano. Inutile dire come sua madre non l’avesse presa bene non appena aveva scoperto che si era trasferita da Bellamy e non da uno dei suoi amici come Wells o Jasper, ma Clarke non si era fatta illusioni.

Bellamy Blake non era di certo il tipo di ragazzo che sua madre avrebbe voluto per lei, perché d’altra parte… Abby non lo conosceva affatto. Credeva che fosse ancora il tipo scapestrato dei tempi del liceo, mentre in realtà era totalmente cambiato.

Ad ogni modo a Clarke non importava perché era lei a conoscerlo davvero. Era lei a sapere attraverso cosa fosse dovuto passare per arrivare fino a quel punto e questo le piaceva. E le piaceva l’idea di essere la prima alla quale Bellamy ne avesse mai parlato, era come se in quel modo la fiducia già instaurata in precedenza si fosse definitivamente consolidata.

Inoltre, non lo avrebbe ammesso neanche sotto tortura, adorava averlo vicino, adesso che era in ferie poi erano sempre chiusi a casa, anche perché il caldo soffocante di quell’estate era inclemente e non permetteva loro di uscire a fare qualche passeggiata se non di sera quando ormai il sole era calato.

In ogni caso con le attuali condizioni della caviglia di Clarke non si mettevano certo a fare grandi camminate, anche se comunque stava meglio.

Bellamy la obbligava al riposo forzato, le aveva sistemato vicino al letto un piccolo tavolo sul quale poggiare i libri dell’università che Jasper le aveva riportato dopo che era rimasta lì la notte in cui era stata a studiare da lui. La notte prima dell’incendio.

L’incendio… e tutto ciò che comportava.

La ragazza era ben consapevole del fatto che, una qualsiasi altra persona, probabilmente avrebbe avuto una paura terribile, specialmente dopo ciò che aveva detto Murphy, ma lei invece era tranquilla e determinata più che mai a scoprire la verità sull’omicidio di suo padre. Glielo doveva.

Studiava per il test d’ingresso alla specialistica di chirurgia tutta la mattina e il pomeriggio invece la sera lei e Bellamy andavano avanti con le loro indagini, mentre il giorno anche lui si preparava per l’esame da tenente.

Erano una buona squadra dopotutto… funzionavano come una macchina ben oliata.

Purtroppo non erano ancora riusciti a scoprire un granché però… Murphy aveva detto che per risalire al computer a cui il segnale era stato inviato tramite la richiesta del certificato di morte di Jake Griffin, ci sarebbe voluta un’attrezzatura che costava svariate migliaia di dollari.

Clarke avrebbe potuto mettere insieme la somma grazie ai soldi che suo padre le aveva lasciato se solo non fossero bruciati anche quelli nell’incendio. Decisamente la fortuna non era dalla loro parte.

Come se già quella situazione non fosse sufficiente, Clarke era nuovamente tornata a fissarsi sull’argomento “Timeless”, qualsiasi cosa volesse dire. Non sapeva cosa fosse, non sapeva cosa o dove cercare, ma era certa che una volta scoperto qualcosa su quella parola, allora sarebbe cambiato tutto. Ne aveva la certezza, ma il fatto di trovarsi completamente spaesata la faceva solo innervosire. Eppure le diceva qualcosa, se lo sentiva. Qualcosa di collegato a suo padre, come se fosse avvenuto quella che a lei pareva una vita prima.

Strinse a tal punto la matita che aveva in mano che quella si spezzò con uno schiocco sordo e una delle due metà saltò via dalla sua mano atterrando sul tappeto, senza il minimo rumore.

«Si può sapere che cosa ti ha fatto quella matita?» la voce di Bellamy arrivò alle sue orecchie con una nota divertita e Clarke scosse la testa come a riscuotersi da quei pensieri.

«Io… niente, stavo pensando».

«Sì, questo lo avevo capito. Clarke… cerca di rilassarti, d’accordo? Ne verremo a capo, te lo prometto».

«Ha a che vedere con “Timeless”, ne sono sicura! Però proprio non mi viene in mente ed è così frustrante».

«Ehi» a quel punto Bellamy si sedette accanto a lei sul letto, posandole le mani sulle spalle.

«Non pensarci adesso, concentrati sullo studio per ora. Clarke… per una volta lascia che sia io ad insegnarti qualcosa ed è una cosa che ho imparato a fare dopo… dopo mia madre, quando avevo la responsabilità di Octavia sulle mie spalle ed ero ancora un idiota immaturo che aveva capito ben poco della vita. Affronta le cose un passo per volta, non lasciare che ti sommergano, datti degli obiettivi. Va bene? Solo così riuscirai ad andare avanti senza impazzire e credimi che so esattamente quello che sto dicendo. Passo dopo passo e io sarò qui al tuo fianco. Siamo arrivati insieme fino a questo punto e lo finiremo insieme».

Nel parlare, probabilmente senza rendersene conto, Bellamy le aveva preso una mano e lei la strinse di rimando, poi sorrise.

«Grazie Bellamy».

Detto ciò, fece come il ragazzo le aveva suggerito e riprese a studiare, adesso un po’ più rilassata. Fu solo verso sera che si alzò dal letto per dirigersi verso la cucina. Voleva preparare qualcosa per Bellamy dato che in quei giorni si stava occupando lui praticamente di qualsiasi cosa, dunque ne approfittò mentre il ragazzo era sotto la doccia, anche se con la sua caviglia si ritrovò a saltellare per la stanza, una volta anche rischiando di finire per terra. Avere le stampelle era fastidioso e non vedeva l’ora che quella dannata settimana passasse.

Il moro la raggiunse mentre cercava di asciugarsi i capelli ancora umidi con un asciugamano.

«Ehi! Che stai facendo?».

«Preparo la cena, ovviamente».

«Clarke, ti avevo detto di… ».

«Senti Blake… » lo interruppe lei in tono perentorio e puntandogli contro il coltello con il quale stava affettando le verdure con aria fintamente minacciosa «… ho bisogno di fare qualcosa, non ne posso più di stare a letto e se proprio ti vuoi rendere utile… beh, puoi sempre apparecchiare la tavola».

Bellamy la squadrò con aria sorpresa.

«D’accordo Principessa, ai tuoi ordini» ma il suo sorrisetto tradiva un certo divertimento.

Quando tutto fu pronto Clarke prese posto mentre Bellamy portava il cibo in tavola.

«Pensavo che dovremmo cercare qualche informazione riguardo a quello specializzando… Jackson Sahel. Scoprire dove abita, andare a parlargli» disse Clarke nel bel mezzo della cena.

«Sì, in realtà lo avevo preso in considerazione anch’io».

«Ma…? Perché sento che sta per arrivare un ma… ».

«Ma non mi convince. E credo che la polizia non si stia dando abbastanza da fare per scoprire chi diavolo è stato ad appiccare l’incendio in casa tua. Quella Lexa non lo so… non mi convince nemmeno lei».

A quel punto la ragazza sospirò divertita.

«Dimmi un po’ signor Blake… c’è qualcosa di cui sei convinto?».

«Tu. Tu sei l’unica cosa di cui sono convinto. Tu e il fatto di volerti tenere al sicuro. È questione di fiducia Clarke e io diffido di qualunque altra cosa o persona eccetto te».

Quelle parole lasciarono Clarke interdetta per un momento e, non sapendo cosa fare, si limitò ad allungare una mano sul tavolo fino a prendere quella di Bellamy.

«Ehi… io sto bene. E sono certa del fatto che la polizia stia facendo tutto il possibile».

«Sì, stai bene perché Wells Jaha è stato tempestivo nell’avvisare il 911, altrimenti non saresti stata affatto bene. E uno di questi giorni dobbiamo andare a comprarti un cellulare nuovo».

«Non ne ho bisogno Bellamy».

«Stai scherzando spero. Clarke… lo capisci che qualcuno ha appiccato il fuoco in casa tua di proposito? Se dovesse succederti qualcos’altro?!».

Clarke capì dalla postura improvvisamente rigida del ragazzo e dal fatto che avesse alzato la voce che stava cominciando ad agitarsi.

«Bellamy, passiamo insieme ventiquattr’ore su ventiquattro, quindi a meno che tu non cerchi di soffocarmi nel sonno, e ti capirei, dubito che possa succedermi qualcosa visto che non mi hai mollata un attimo da quando sono tornata dall’ospedale… in senso buono».

Il padrone di casa mandò giù l’ultimo boccone rimasto nel piatto. Sembrava che volesse dire qualcosa, come se insieme a quell’ultimo pezzo di cena avesse ingoiato anche il suo orgoglio e Clarke ne ebbe conferma poco dopo quando lui parlò nuovamente.

«Sono morto di paura, Clarke. Ok? Quando ho realizzato che quell’indirizzo era il tuo indirizzo… ho creduto di averti persa. E ho pensato a mia madre e al fatto che avresti potuto morire come lei e ho detto “Ecco, ci siamo… l’hai persa Bellamy. L’hai persa perché non sei stato capace di proteggerla. Proprio come tua madre”».

Uno strano silenzio aleggiò nella stanza, interrotto poi dal tintinnio della forchetta che Clarke aveva lasciato cadere sul piatto prima di alzarsi dalla sedia e saltellare su un piede solo fino all’altra parte del tavolo, per poi sedersi in braccio a Bellamy, che la avvolse tra le sue braccia a livello della vita.

La bionda lo guardò intensamente prima di spostargli una ciocca ribelle di capelli che gli ricadeva davanti agli occhi.

«Non mi hai persa ed è inutile rimuginarci ancora sopra, d’accordo? E ciò che è accaduto a tua madre… è stato orribile sì, ma non è successo perché tu non sei stato capace di proteggerla. Bellamy… » voleva dirgli qualcosa di rassicurante, qualcosa che potesse aiutarlo a rendersi conto di che persona straordinaria fosse realmente, perché forse nemmeno lui lo capiva fino in fondo… ma lo era. Quel ragazzo era veramente magnifico e lei doveva proteggerlo. A qualsiasi costo.

Gli prese il volto tra le mani e lo baciò. Lo baciò sul serio, con trasporto, forse come non aveva mai fatto prima… quello era un bacio diverso dal solito, non dettato dall’impulsività o dalla carica elettrica di attrazione che, palesemente, c’era tra i due. Piuttosto, era un bacio pieno di promesse, di frasi non dette, di gesti che parlavano per loro, che facevano capire quanto realmente tenessero e significassero l’uno per l’altra.

Quando si staccarono, Clarke osservò gli occhi di Bellamy: neri come l’ossidiana, profondi come pozzi dei quali non si riusciva a scorgere la fine, tanto che per un momento ebbe l’impressione di perdervisi dentro.

Posò la sua fronte contro quella di lui e rimasero così per un minuto o due, poi fu il ragazzo a staccarsi per osservarla.

«Non voglio perderti».

«Non succederà. Te lo prometto».

Era già capitato, di rado, ma era capitato che Bellamy esternasse così apertamente i suoi sentimenti, tuttavia non in questo modo e Clarke era certa del fatto che non gli fosse costato poco. Proprio come lei per prima aveva fatto, anche Bellamy si era chiuso a riccio per via di ciò che la vita gli aveva riservato, eppure adesso aveva veramente dato un calcio al suo scudo, e forse anche al suo ego, dicendole quelle cose e lei non poté far altro che stringerlo a sé, una mano tra i suoi capelli e la testa di lui nell’incavo del suo collo.

Fu un momento perfetto, poi Clarke si rialzò.

«Ti do una mano a sistemare la cucina».

«Clarke, sei su una gamba sola, me ne occupo io. Tu potresti cominciare ad accendere il computer e cercare qualcosa su quel Jackson, che ne dici?».

A quelle parole annuì, ma d’altra parte sapeva che provare a convincerlo a farsi aiutare era una battaglia persa in partenza, dunque si avviò verso il portatile che avevano lasciato sul divano del salotto e fece ciò che Bellamy aveva suggerito.

Cercò su internet il nome del ragazzo, ma non venne fuori poi molto, nemmeno un indirizzo di riferimento, maledizione.

«Trovato qualcosa di interessante?».

«Niente di che… Jackson Sahel, nato ad Albuquerque, laureato a Stanford. Non molto altro e assolutamente niente che ci possa ricondurre a dove trovarlo adesso, sembra quasi che non voglia essere trovato».

«E magari è proprio così… ».

«Dici? Non lo so… sembra che sia tutto in regola».

«Forse devo chiamare il mio hacker per forzare un po’ le indagini… ».

A quel punto Clarke si voltò completamente verso di lui.

«Mi dirai mai l’identità di questo misterioso hacker?».

«Semplicemente non credo che saperla potrebbe aiutarti in qualche modo».

«Oh avanti, sono curiosa! Lo conosco?».

«Sei proprio testarda tu, eh?».

Clarke sfoderò il suo miglior sorriso angelico.

«Mi farai impazzire».

«Stai sviando il discorso, il che vuol dire che lo conosco».

«Dimmi un po’ Principessa… tu sei andata alla scuola di medicina o all’accademia di polizia? Perché negli interrogatori sembri piuttosto brava e anche a tuo agio, mettendo invece molto in difficoltà il malcapitato che metti sotto torchio».

Quelle parole fecero ridere la ragazza.

«Allora non sarebbe molto più facile per entrambi se me lo dicessi e basta?».

Bellamy alzò gli occhi al cielo.

«D’accordo, hai vinto» disse alzando le mani in segno di resa. «Si tratta di Murphy».

«Murphy. Aspetta… stiamo parlando di quel Murphy? John Murphy? Quello in galera per spaccio?».

«Proprio lui. Comunque è uscito di prigione e con i computer è sempre stato bravo».

«Sì, mi ricordo che ai tempi del liceo andava in aula informatica per hackerare i siti porno durante le lezioni che reputava troppo noiose per la sua attenzione… ossia quasi tutte a parte ginnastica, che immaginavo frequentasse così assiduamente per guardare le ragazze sculettare giocando a pallavolo».

A quelle parole Bellamy si mise a ridere.

«Avevo dimenticato questo dettaglio. È stato lui ad avvertirmi del segnale inviato dal computer del comune non appena il nome di tuo padre è stato digitato nel browser… è stato lui a mettermi in guardia. Credo che sia davvero cambiato, o almeno… non è più tanto stronzo com’era una volta».

«Mmm… questa storia mi sembra di averla già sentita… ».

Bellamy le lanciò una strana occhiata.

«Insinui qualcosa, Principessa?».

«Chi, io? Bellamy Blake, come puoi mai dubitare di me?» disse portandosi una mano al cuore col chiaro intento di prenderlo in giro.

«Se non avessi la caviglia in quelle condizioni, probabilmente adesso ti starei rincorrendo per tutta la casa».

«Sì, anche questa è una situazione che mi pare di aver già vissuto… dopo averti buttato giù dal divano una mattina perché mi facevi troppo caldo».

«Oh, intendi quella mattina in cui ti ho intrappolata nella doccia e ho aperto l’acqua?».

«Sì, proprio quella mattina… in cui dopo che sostanzialmente non mi era rimasto molto addosso da potermi coprire è arrivato il tuo migliore amico».

L’espressione divertita e maliziosa di Bellamy scomparve all’istante, sostituita subito da uno sguardo di traverso.

«Quello non è stato divertente».

«Ma non mi dire… e io che pensavo di sì».

Di nuovo, si beccò un’occhiataccia dal padrone di casa, che in un attimo aveva già posato il computer per terra e adesso la sovrastava.

«Il mio concetto di divertente è qualcosa di molto diverso dal mio migliore amico che ti vede mezza nuda. Avrei voluto rompergli il naso per essersi presentato per l’ennesima volta a casa mia senza avvisare».

«Beh, allora tu dovresti davvero imparare a chiudere la porta, mio caro» rispose Clarke fissandolo con un misto di divertimento e sfida negli occhi.

«Griffin?».

«Sì?».

«Sta’ un po’ zitta» e detto questo si chinò a baciarla.

«Bellamy… dovremmo continuare a cercare informazioni» disse mentre lui cercava di zittirla tra un bacio e l’altro.

«Veramente adesso sono impegnato di qualcosa che preferisco decisamente di più».

«Ma… ».

«Sssh».

Alla ragazza non rimase che cedere e non vi fu mai resa più dolce. Le labbra di Bellamy sulle sue erano un incastro meraviglioso, tutto, quando lui la baciava, sembrava perfetto anche se Clarke sapeva benissimo che in quella situazione c’era ben poco di perfetto, ma se non altro, in quei brevi momenti, tutti i problemi sembravano sparire.

Furono interrotti dal sonoro squillo del telefono fisso, ma Bellamy lo ignorò, continuando a baciarla, finché quel trillo fastidioso non cessò. Purtroppo, non ebbero fortuna perché ricominciò subito dopo e lui si staccò con un verso contrariato per andare a rispondere.

Clarke lo osservò mentre si allontanava, con sguardo assorto.

«Pronto?» lo sentì dire come se fosse molto più lontano di quanto era in realtà.

Lui annuì un paio di volte per poi avvicinarsi e passarle il telefono.

«È tua madre».

La ragazza sgranò gli occhi, poi si ricordò che le avevano lasciato il numero di casa dato che il suo cellulare era bruciato insieme a… beh… praticamente insieme a tutto il resto.

Era una vera fortuna che quella notte Clarke avesse lasciato i documenti da Bellamy e i libri di studio da Jasper, se fossero bruciati anche quelli sarebbe stata persa.

I documenti per via delle indagini e i libri…beh, avrebbe perso gli ultimi sei anni della sua vita tra appunti e manuali, non poteva neanche pensarci. Per fortuna, nella disgrazia, almeno in parte le era andata bene.

«Mamma?» rispose cercando di non far trapelare il suo tono stranito e contrariato al contempo per aver chiamato proprio in quel momento.

«Clarke! Finalmente… ».

«Cosa c’è? È successo qualcosa?».

«È successo qualcosa? A parte casa nostra che è bruciata con te dentro intendi? Beh, no, a parte quello direi che volevo soltanto controllare che stessi bene dato che oltre che essere scampata alla morte per un soffio hai deciso di trasferirti a casa di un teppista!».

«Mamma!» esclamò con stizza, sperando che Bellamy, poggiato con una spalla allo stipite della porta, non avesse sentito il tono alterato di sua madre.

«Senti Clarke, perché non puoi semplicemente andare da Jasper? Lui ti vuole bene e non avrebbe certo problemi di spazio».

La ragazza si massaggiò le tempie con aria stanca, lanciando poi un’occhiata incerta a Bellamy.

«Io sto bene qui» tagliò corto e, prima che sua madre potesse aggiungere qualcosa continuò: «E adesso scusa, ma Bellamy e io abbiamo da fare. Buona serata, salutami Marcus» detto ciò, premette il pulsante di fine chiamata.

«C’è qualche problema Principessa?».

«È mia madre il problema. Pare che abbia deciso di diventare una mamma premurosa con qualche anno di ritardo. Senza contare che probabilmente è direttamente coinvolta nell’omicidio di mio padre».

Lei sbuffò sonoramente e Bellamy prese di nuovo posto al suo fianco.

«Ne verremo a capo Clarke. Te lo prometto, ok? Anzi, adesso sento Murphy e gli dico di cercare qualcosa su Sahel. Torno subito».

Così Clarke attese, la testa tra le mani e ancora la rabbia nelle vene per le parole di sua madre. Bellamy tornò qualche minuto dopo.

«Murphy si metterà al lavoro domani».

«D’accordo» rispose lei in tono piatto.

«Clarke? Se il tuo malumore è dovuto a qualcosa che tua madre ti ha detto su di me lascia stare, ok? Davvero, lei può pensare quello che vuole, a me non importa. Mi interessa soltanto di quello che pensi tu».

«Beh, importa a me! Non voglio che ti veda come un criminale».

«La mia Principessa ha tirato fuori gli artigli, eh?» disse passandole un braccio intorno alle spalle con un sorriso. «Avanti, non farne un dramma. Forse prima o poi cambierà idea».

La ragazza sospirò pesantemente.

«Ci vorrebbe un vero miracolo per farle cambiare idea. Dovresti… non lo so, compiere un gesto eroico o qualcosa di simile».

«Non me ne credi capace? Un giorno ti sorprenderò».

«Io sì, lei è il problema».

«Allora un giorno sorprenderò anche lei».

Solo a quel punto Clarke riuscì a sorridere.

«Avanti, riprendiamo a controllare quei documenti, mi mancano poche pagine da vedere ormai».

«Sissignora».

Così i due ragazzi ricominciarono da dove avevano lasciato, quando ad un tratto Clarke aggrottò la fronte, confusa.

«Ehi… trovato qualcosa?» la voce di Bellamy la distrasse.

«È… non lo so, non capisco. Ti ricordi quando ti avevo detto che probabilmente si trattava di una sperimentazione per un nuovo farmaco?».

«Sì».

«Non ne sono più tanto sicura. Ci sono parecchi dati genetici, studi del genoma, mi sembra troppo… incentrato sul DNA per essere un lavoro su un nuovo tipo di farmaco».

«Principessa… questo è il tuo campo, io ammetto la mia ignoranza in materia. Ti posso aiutare, ma non sono la persona giusta a cui chiedere conferme o meno. Forse Octavia potrebbe… ».

«Assolutamente no Bellamy. Non per Octavia, io mi fido di lei, ma non voglio coinvolgerla. Non voglio metterla in pericolo inutilmente come ho fatto con te».

«Tu non mi hai messo in pericolo».

«L’ho fatto eccome invece e tutta questa situazione lo dimostra. Bellamy, tu mi sei d’aiuto e non potrò mai ringraziarti abbastanza per tutto ciò che hai fatto per me, ma non puoi negare che sia pericoloso. Lo è e lo sai benissimo anche tu. Fidati, meno persone sanno di questa storia, meglio sarà per tutti».

«Sì, hai ragione, però così non so proprio come aiutarti».

La bionda si passò una mano tra i capelli.

«Nemmeno io ad essere onesti. Di genetica ne so poco, mio padre… lui era un vero genio, tutto quello che so fare io è… tagliare, riparare quello che non funziona e ricucire».

«E ti sembra poco? Tu puoi salvare vite Clarke. Non tutti possono dire di saper fare una cosa del genere».

«Tu lo fai».

«È diverso».

«No, per niente. Tu hai salvato me».

Un silenzio elettrico aleggiò nella stanza per qualche istante prima che Clarke posasse una mano sul volto di Bellamy, lanciandogli uno sguardo carico di significato.

«Allora Clarke… cosa facciamo adesso? Hai un’idea di cosa potesse essere se non lo studio di un farmaco?».

«Beh… i dati provengono senza alcun dubbio da DNA umano. Forse una mutazione, ma non lo posso dire con certezza. Avrei dovuto stare più attenta durante le lezioni di genetica» disse con uno sbuffo.

«Attenta a non farti scoppiare il cervello però, eh Principessa?».

«Al momento il mio cervello è totalmente inutile».

«Clarke? Piantala. E poi… » ma il ragazzo venne interrotto da una palla di pelo bianco che sfrecciò tra di loro con un sonoro miagolio.

«Dannazione. È tornato ad essere uno psicopatico adesso, un giorno o l’altro finirà o con me che morirò d’infarto o con lui nel mio forno».

A quelle parole Clarke si mise a ridere, accarezzando con leggerezza il pelo di Yeti.

«Non dargli dello psicopatico, altrimenti si offende».

Bellamy la guardò come se improvvisamente fosse impazzita e forse lo era anche. Sentiva come se quella situazione la stesse davvero per portare alla follia e per un momento si rabbuiò, ma non voleva farlo capire al ragazzo che le stava accanto, dunque si stampò in fretta un sorriso in faccia e fece finta di niente.

«È tutto a posto Principessa?».

«Tutto bene sì» come al solito Bellamy si era accorto però che qualcosa non andava. «È solo… frustrante. Insomma, non riesco a capirne il senso, non ho le informazioni che mi servono! E ora che ho capito che si tratta di qualcosa più a livello genetico piuttosto che farmacologico avrei potuto consultare i libri di mio padre… se solo non fossero andati distrutti insieme a tutto il resto. Vorrei semplicemente parlare con qualcuno che ne sa più di me» la ragazza emise uno sbuffo, sul volto un sorriso triste. «Vorrei parlare con mio padre».

Bellamy le prese una mano.

«Lo so Clarke. Credimi, anch’io penso tutti i giorni a mia madre e penso che vorrei vederla almeno un’ultima volta, avere l’occasione di salutarla, di dirle quanto fosse importante per me, ma purtroppo la vita è così e per quanto ci piaccia credere il contrario, non ne avremo mai il pieno controllo. È tutto un insieme di avvenimenti, di momenti che non solo vengono definiti da noi, ma anche dagli altri. Persone che magari non conosciamo nemmeno, ma che in un momento possono ribaltare il corso della nostra vita. È una spirale e noi siamo presi dentro, possiamo controllare la direzione forse, però se succede un incidente… non c’è poi molto che si possa fare a parte contenere il danno, se possibile. Non dico di lasciarsi trasportare dalla corrente per inerzia, ma… essere dei maniaci del controllo di certo non aiuta e non serve a niente».

«Bellamy Blake… da quando sei diventato un filosofo?» chiese Clarke dopo un momento di silenzio e lui si aprì in un sorriso rilassato.

«Oh sai… ogni tanto capita anche a me di dire qualcosa di sensato».

Ora sorrise anche lei, poi si alzò.

«Direi che per stasera non faremo più molto, non prima di avere le informazioni da Murphy… che ne dici di andare al pub?».

Bellamy la guardò sorpreso.

«Davvero? Vuoi andare al pub? Ma la tua caviglia… ».

«Bellamy, sto bene! Non è neanche rotta, è soltanto una distorsione che in un paio di giorni passerà e poi ho le stampelle. Non ho proposto di andare a fare una scalata in montagna. È da quando sono stata dimessa che praticamente non esco di casa e mi annoio a morte, insomma… tra lo studio e le indagini non faccio altro praticamente. Ho solo bisogno di distrarmi un po’».

A quelle parole lui le sorrise. «D’accordo allora. Vai a prepararti Principessa, io metto via qui e andiamo».

«Perfetto!».

Clarke si diresse il più velocemente che poteva verso la stanza di Bellamy per cambiarsi. A dire il vero avrebbe anche dovuto andare a comprare dei vestiti nuovi dal momento che quelli che aveva adesso erano di Monroe, ma per ora andavano bene.

Bellamy le aveva promesso un pomeriggio di shopping non appena si fosse rimessa del tutto.

Così indossò una camicetta a quadri con le mezze maniche e un paio di shorts prima di tornare in salotto dove lui la stava aspettando e dopo un minuto erano già in macchina diretti al pub.

Il locale era affollato come sempre e i due dovettero sgomitare un po’ prima di arrivare al bancone. Bellamy le cingeva la vita con un braccio e un tipo solitario seduto a bere una birra, dopo aver lanciato uno sguardo alle sue stampelle, le lasciò lo sgabello sul quale era seduto. Clarke gli sorrise e Bellamy gli rivolse un cenno di ringraziamento con il capo mentre quello spariva tra la folla.

«Ogni tanto qualcuno di gentile si trova ancora a quanto pare» disse Clarke prendendo posto.

«Già, ancora capita».

«Mi dispiace che tu sia rimasto in piedi però».

«Non è un problema, non ti preoccupare per me».

«Ciao ragazzi!» una voce alle loro spalle richiamò la loro attenzione.

«Raven!».

Bellamy andò ad abbracciare l’amica mentre Clarke le rivolse un sorriso cortese. Kyle era poco dietro di lei e li salutò riuscendo a sovrastare il fragore della musica.

Lei adorava quel pub, ma davvero se avessero tenuto il volume un po’ più basso non sarebbe stato affatto male.

I quattro ragazzi ordinarono da bere e Clarke rimase stupita nel vedere quanto fosse bella e sincera l’amicizia che legava Bellamy e Raven. I due continuavano a insultarsi e mandare frecciatine velenose l’uno all’altra, ma lo facevano in modo così disarmante che non potevi fare altro che guardarli e sorridere.

Era felice del fatto che Bellamy avesse avuto qualcuno di esterno alla sua famiglia in tutti quegli anni. Certo, c’era stato anche Atom, ma per qualche ragione era convinta del fatto che con Raven fosse diverso.

Sapeva che anche lei non aveva avuto una vita facile, sebbene non conoscesse i dettagli, poi c’era stato Finn che sì, l’aveva amata, ma poi l’aveva anche tradita. Aveva tradito entrambe, ferendole e dileguandosi.

Non erano state molte le volte in cui aveva visto Raven sorridere, ma adesso stava sorridendo davvero, insieme a Bellamy e vederli le scaldò il cuore. Aveva provato una fitta di gelosia nei confronti della ragazza, quella sera quando si erano messi a giocare al gioco della bottiglia nel magazzino del pub, ma adesso aveva capito che non c’era nulla di cui essere gelosi. Il loro sentimento era forte, era vero, ma non andava oltre l’amicizia e questo lo capiva.

Fece due chiacchiere con Kyle e scoprì che anche lui, proprio come Raven, era un ingegnere. Era molto intelligente e simpatico e parlargli fu davvero piacevole.

I quattro si salutarono verso mezzanotte, tornando ognuno sulla propria strada.

«Scusa se ti ho un po’ trascurata stasera, ma era davvero un pezzo che non passavo una serata con Raven, spero che… ».

«Ehi, è tutto a posto» lo interruppe Clarke. «Non devi giustificarti con me e capisco cosa voglia dire non vedere i tuoi più vecchi amici da tempo. Per me è stato così quando sono tornata da Harvard, quindi davvero… tranquillo».

Lui le sorrise, prendendole una mano e stringendola anche nonostante dovesse cambiare le marce dell’auto. Le teneva la mano sulla leva del cambio, un gesto spontaneo per lui, ma che la stupì. O più che altro fu la naturalezza con cui lo fece che la sorprese.

La ragazza si lasciò andare più rilassata contro il sedile e dopo un po’ arrivarono a casa.

La stanchezza adesso cominciava a sentirsi e Clarke andò direttamente in bagno per prepararsi per andare a dormire.

Quando arrivò in camera, Bellamy era sdraiato a letto, a petto nudo e con un paio di pantaloni larghi che gli arrivavano al ginocchio.

Clarke deglutì, nonostante tutto il suo corpo continuava a farle quell’effetto.

«Non essere timida Principessa e comunque dovresti ringraziarmi, di solito dormo in boxer, ho messo i pantaloni solo per decenza nei tuoi confronti».

A quelle parole la ragazza sentì il viso andarle a fuoco e si maledisse.

«Io non ho detto niente Blake».

«Beh… diciamo che la tua faccia parla da sé».

Lei lo fulminò.

Bellamy aveva dormito sul divano nelle ultime due sere, da quando lei era stata dimessa dall’ospedale, ma si era sentita troppo in colpa per continuare, dunque lo aveva praticamente minacciato che se non fosse tornato a dormire a letto si sarebbe trasferita da Jasper, cosa che Bellamy non aveva preso affatto bene.

Ad ogni modo ormai era fatta e non avrebbe più potuto tirarsi indietro.

Prese un profondo respiro e si avvicinò, scostando il lenzuolo e distendendosi sul materasso.

Anche da quella distanza riusciva a sentire il calore del corpo di Bellamy. Che diavolo, non era la prima volta che dormivano insieme, era successo anche quando lui si era presentato a casa sua febbricitante, o la sera in cui avevano dormito entrambi sul divano, eppure adesso aveva la tachicardia.

Si distese su un fianco e osservò il ragazzo dritto negli occhi.

«C’è qualcosa che mi vuoi dire Principessa?».

«Smettila di chiamarmi “principessa”» disse con un’occhiataccia.

«Mai».

Clarke sbuffò, mettendosi a pancia in su con aria seccata.

«Sei proprio un idiota».

«Ehi!».

Bellamy si vendicò dandole un pizzicotto su un fianco e facendola saltare.

«Dannazione!».

La sua esclamazione stizzita lo fece scoppiare a ridere.

«È ora di dormire adesso».

«Bellamy, non ho due anni».

«Ma i medici hanno detto che devi riposare se vuoi recuperare più in fretta, quindi… niente storie e dormi».

Lei sbuffò nel momento in cui il ragazzo spense la luce.

Il silenzio aleggiò per qualche momento e Clarke deglutì di nuovo a vuoto. Sentiva Bellamy accanto a sé e la sua presenza era così reale da travolgerla con la potenza di un treno. Se ne stupiva continuamente, ma lui era lì per lei e nonostante tutto lo scombussolamento che gli aveva portato nella vita, non sembrava volersene andare.

La ragazza fece l’unica cosa che le venne in mente in quel momento: cercò la sua mano e la strinse. Nel buio, sentì la testa di Bellamy voltarsi verso di lei.

«È tutto a posto Clarke. Ci sono qui io».

Lei annuì.

«Lo so».

Clarke sentì il materasso cedere sotto il peso del corpo di Bellamy che si sporgeva verso di lei, poi una delle sue mani trovò il suo mento e lo sollevò leggermente, finché le loro labbra si sfiorarono.

Il contatto, dapprima lieve, si fece ben presto più intenso finché il corpo di Bellamy quasi non si ritrovò completamente sopra il suo e una mano di lui s’insinuò sotto la sua canottiera.

Clarke lo strinse a sé con forza, continuando a baciarlo con passione e, si rese conto, non erano mai stati così vicini e così svestiti prima di allora. Affondò una mano tra i capelli del ragazzo, tirandolo maggiormente a sé e lui si arpionò ai suoi fianchi; Clarke riusciva a sentire quanto si stesse trattenendo, infatti, poco dopo, il ragazzo si staccò quasi con violenza.

«Dio… Clarke, è davvero meglio che mi fermi prima che non risponda più delle mie azioni».

Lei, ancora scombussolata e ansante, si tirò un po’ più su sul letto.

«Forse è meglio che ci dorma io sul divano».

«No. Senti, posso trattenermi, non preoccuparti di questo. Devo solo… non baciarti».

La ragazza emise una mezza risata sommessa.

«Non posso garantire io però di riuscire a non baciare te».

«Principessa… » e qui Clarke riuscì a sentire tutta la malizia nella sua voce. «… pensavo di essere io il depravato nella coppia».

Un momento… coppia? Quella parola era veramente uscita dalle sue labbra?

Anche Bellamy parve rendersene conto con un attimo di ritardo perché Clarke lo sentì irrigidirsi al suo fianco.

«Io… ».

«Bellamy… » i due cominciarono contemporaneamente, interrompendosi poi con un sorriso, finché non fu lui a riprendere parola.

«Possiamo essere quello che vogliamo Clarke, non è necessario che definiamo cosa essere in modo che sia ufficiale, passami il termine, non so se stai capendo quello che voglio dire. La cosa che conta, almeno per me, è ciò che provo, per il resto… beh, quando saremo pronti con il tempo verrà. Io so cosa sento e questo basta».

Nel buio Clarke sorrise e si avvicinò maggiormente al ragazzo, posando la testa contro il suo petto. Era perfetto, così distesa al suo fianco, nonostante tutto, sembrava che i suoi problemi fossero svaniti.

Lui la circondò poco dopo con le sue braccia e Clarke si lasciò andare, sprofondando in una dimensione che non aveva tempo, fluttuando nel vuoto.

Quella notte si addormentò così: la mente sgombra da qualsiasi pensiero e il battito del cuore di Bellamy nelle orecchie.



Never opened myself this way
Life is ours, we live it our way
All these words I don't just say
And nothing else matters

Trust I seek and I find in you
Every day for us something new
Open mind for a different view
And nothing else matters



Non mi sono mai aperto in questo modo
La vita è nostra, la viviamo a modo nostro
Non è solo per dire tutte queste parole
E non importa nient'altro

Fidati, io cerco e trovo in te
Ogni giorno per noi è qualcosa di nuovo
Mente aperta per un modo diverso di vedere le cose
E non importa nient'altro



La mattina dopo, quando Bellamy riaprì gli occhi, Clarke era ancora stretta a lui, nella stessa posizione in cui si era addormentata e le sue braccia le cingevano ancora il corpo. Quella notte non aveva avuto alcun incubo, altrimenti lui se ne sarebbe accorto.

Sorrise, sospirando tra i suoi capelli e accarezzandoli lievemente, poi, per non svegliarla, si sfilò silenzioso e agile come un gatto, lanciando uno sguardo alla radiosveglia: le nove passate da pochi minuti. I negozi dovevano già essere aperti a quell’ora e un’idea balenò nella sua mente.

Il ragazzo non perse tempo e si vestì in fretta, infilò il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni e si diresse rapidamente verso l’ingresso, chiudendo la porta dietro di sé. Non voleva stare via molto e soprattutto voleva tornare prima che Clarke si svegliasse.

Percorse a passo svelto un paio di isolati fino ad arrivare di fronte ad un negozio che vendeva articoli da cartoleria e da disegno e comprò un blocco immacolato e carboncini per Clarke.

Dato che la sera prima la ragazza aveva detto che non riusciva a fare qualcosa che le piacesse dal momento in cui era totalmente assorbita dallo studio e dalle indagini, in quel modo avrebbe almeno potuto distrarsi un po’ facendo qualcosa che amava.

Pagò tutto e tornò sui suoi passi, dirigendosi nuovamente verso casa. Una volta arrivato, constatò che Clarke stava dormendo; nonostante tutto doveva essere ancora stanca sebbene cercasse di nasconderlo.

Lasciò gli acquisti sul cuscino accanto a quello della ragazza e scarabocchiò velocemente un biglietto: “Per quando avrai voglia di dimenticarti del mondo”, dopodiché uscì dalla stanza richiudendosi la porta alle spalle.

Aveva fame, ma voleva aspettare che Clarke si svegliasse prima di fare colazione, non che avesse problemi a farla due volte, ma nel frattempo decise che era meglio usare il tempo per studiare e prepararsi all’esame. Gli sembrava di avere la testa piena di informazioni, ma al contempo di non sapere abbastanza. Dio, il periodo di preparazione all’accademia non gli era mancato affatto, odiava gli esami. Come diavolo aveva fatto Clarke a sopportare sei anni di stress universitario? Lui non ci sarebbe mai riuscito.

Da una parte studiare gli piaceva, anzi, la cosa era diversa: gli piaceva imparare sempre di più riguardo al suo lavoro, quello che detestava era l’ansia da esami. Che diavolo di senso aveva? Si era sempre ritenuto bravo nel suo mestiere, non aveva mai fatto casini, ma capiva che per diventare tenente questo non sarebbe bastato. Avrebbe avuto la responsabilità di una squadra e non poteva permettersi il minimo errore.

Rimase concentrato con la testa china sul libro finché non venne distratto da qualcosa di morbido sul suo collo. Clarke. O meglio… le sue labbra.

Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, lasciandosi andare contro lo schienale della sedia.

«Buongiorno» mormorò la ragazza sulla sua pelle.

«A te Principessa» rispose lui con un sorriso idiota stampato in volto. «Ti è piaciuto il mio regalo? Non è molto, ma è qualcosa».

«Lo adoro, non dovevi disturbarti».

«Nessun disturbo. Che ne dici di fare colazione? Io sto morendo di fame e se non metto qualcosa nello stomaco potrei finire col mangiare te».

Clarke gli lanciò uno sguardo che non seppe come decifrare.

«Chissà… potrebbe anche essere divertente» rispose facendogli l’occhiolino e lui sgranò gli occhi, colto alla sprovvista.

«Clarke… non mi provocare».

Lei gli rivolse un’occhiata così penetrante che lo stomaco di Bellamy sprofondò in basso, aggrovigliandosi.

«Come vuoi signor Futuro Tenente».

«Senti signora Futuro Chirurgo… io sto cercando di comportarmi bene. Non mi rendere il lavoro difficile».

Il sorriso che si aprì sul volto di Clarke stavolta era genuino e la ragazza gli porse una mano.

«Allora andiamo a fare colazione».

Bellamy l’afferrò e la seguì in cucina. La ragazza zoppicava ancora, ma lui non disse niente, era preoccupato, ma non voleva nemmeno risultare pressante. Sapeva quanto Clarke tenesse alla sua indipendenza e capiva che quella situazione per lei doveva essere frustrante, soprattutto se aggiunta ai pochi risultati che stavano avendo sulle indagini. Riguardo a questo poi erano molto simili… anche lui detestava farsi male e detestava la gente che di conseguenza gli stava troppo addosso.

In cucina mangiarono chiacchierando con leggerezza e una volta tanto fu bello dimenticarsi di tutta quella situazione. La cosa cambiò quando il ragazzo udì il suo cellulare squillare. Era Murphy.

«Pronto?».

«L’unica cosa che sono riuscito a trovare è stato l’indirizzo di Jackson Sahel di quasi sette anni fa, ora so per certo che non abita più lì» disse senza prendersi nemmeno il disturbo di salutare.

Bellamy fece mente locale per un secondo… quasi sette anni prima coincideva più o meno con il periodo della morte di Jake e quello se non altro era pur sempre un tentativo invece che restarsene con le mani in mano. Per quel giorno avrebbe rimandato lo studio.

«Aspettami, sto arrivando» e detto questo riagganciò.

«Era Murphy?» chiese subito Clarke.

«Sì. Andiamo a vestirci Principessa, ha un indirizzo. È un po’ vecchio, ma è l’ultimo in cui sa per certo che abbia vissuto».

La ragazza annuì e si alzò dalla sedia.

Dopo dieci minuti erano già in macchina pronti a partire.

«Speriamo che non sia l’ennesimo buco nell’acqua» disse Clarke lasciandosi andare contro lo schienale del sedile.

Bellamy posò una mano sulla sua, senza dire nulla, poi mise in moto la macchina e partì silenziosamente.

La casa di Murphy era ancora fatiscente e apparentemente abbandonata come sembrava l’ultima volta, a quanto pareva il padrone non sembrava molto interessato a renderla un po’ più accogliente, ma Bellamy non se ne curò.

Attese che Clarke scendesse dall’auto e si incamminarono insieme verso l’ingresso, la porta era già aperta e il ragazzo non se ne stupì. Di certo a nessuno sano di mente sarebbe passato per la testa di andare a rubare in un posto del genere.

«Murphy?» chiamò entrando.

«Accomodati pure» disse lui con il suo solito sogghigno spuntando da una stanza sulla sinistra. «E guarda un po’… la principessa in persona!».

Bellamy serrò i pugni. Se solo l’avesse guardata in un modo che a lui non piaceva, gli avrebbe tirato un destro dritto nell’occhio.

Lanciò uno sguardo fugace a Clarke, che non sembrava particolarmente colpita da Murphy o dalla sua frase e dentro di sé Bellamy sorrise, consapevole del fatto che ci sarebbe voluto qualcosa di più per scalfirla.

«Ce l’hai o no qualcosa per noi?» con sua sorpresa, era stata proprio la bionda a parlare.

«Caspita… a te non piace proprio perdere tempo, eh? Mi ero dimenticato di questo lato del tuo carattere».

Bellamy serrò la mascella. Sì, lo avrebbe volentieri preso a pugni.

«Murphy… dacci quel dannato indirizzo».

L’altro gli lanciò uno strano sguardo di traverso, a metà tra l’irritato e il divertito, poi gli passò un biglietto con un indirizzo scarabocchiato sopra.

«È a Manhattan, su di lui non ho trovato nient’altro e inoltre ho come l’impressione che non voglia essere trovato. Non so cosa abbiate in mente di fare voi due, ma se fossi nei vostri panni non tirerei troppo la corda».

Quell’avvertimento lasciato in sospeso provocò uno strano brivido lungo la schiena di Bellamy.

«Grazie per il consiglio, lo terrò a mente» disse in tono sarcastico.

Per qualche istante aleggiò il silenzio prima che Murphy riprendesse parola.

«Cos’è allora? Voi due state insieme adesso?».

«Limitati a farti gli affari tuoi».

«Oh avanti! Sono curioso, davvero. L’ultima volta che ci siamo visti voi due riuscivate a malapena a stare nella stessa stanza senza saltarvi alla gola e adesso giocate a fare i piccoli detective? È un bel passo avanti».

Bellamy sbuffò rumorosamente, scuotendo la testa, poi voltò le spalle all’altro e fece cenno a Clarke di seguirlo.

«Ci sentiamo Murphy».

«Ehi! Mi aspettavo almeno un grazie!» gli urlò dietro lui, ma il tono era divertito.

Bellamy si affrettò ad uscire da lì, la testa immersa nei suoi pensieri e solo quando udì il passo vacillante di Clarke alle sue spalle si fermò di colpo, rischiando di farla sbattere contro la sua schiena.

«Scusami. Murphy possiede l’innato dono di farmi saltare i nervi dopo due secondi che stiamo nella stessa stanza».

«Mmm… più o meno come facevo io una volta. Non è che tra qualche anno mi dirai che hai cambiato sponda?».

A quelle parole, il moro le lanciò un’occhiata fulminante.

«Per questo faremo i conti quando torneremo a casa. Ora monta in macchina… si va a Manhattan».

Il viaggio fino a Manhattan fu tranquillo, impiegarono un paio d’ore per arrivare fino all’indirizzo segnato sul biglietto che Murphy gli aveva consegnato e fu solo quando Bellamy spense il motore che iniziò a pensare a come affrontare la cosa. Insomma… adesso probabilmente ci viveva qualcun altro lì; sarebbero semplicemente piombati in casa facendo domande sul precedente inquilino?

Si passò una mano tra i capelli, andando ad aprire la portiera di Clarke.

«Andiamo Principessa».

«Vuoi piantarla?!».

«No, dal momento in cui tu metti in dubbio la mia sessualità».

Quelle parole fecero scappare a Clarke una risata divertita, che Bellamy non apprezzò, poi si incamminarono verso il portone d’ingresso.

L’edificio era alto e ben tenuto, il parquet dell’ingresso tirato a lucido e la carta da parati che ricopriva le pareti contribuiva ad illuminare l’ambiente circostante, già immerso nella luce esterna che passava dalle vetrate.

Murphy aveva segnato anche il numero dell’appartamento, che facendo un paio di calcoli doveva trovarsi circa a metà dell’edificio, che aveva dodici piani in tutto.

I due ragazzi si diressero verso l’ascensore e Clarke schiacciò il pulsante con il numero 6 mentre un uomo sui trent’anni dall’aria distinta in un completo elegante bloccava le porte con la valigetta che teneva in una mano per entrare.

«Scusate» disse rivolgendo un sorriso a Clarke e, di riflesso, Bellamy le posò una mano sulla spalla.

L’uomo premette il pulsante con il numero 12 e posò momentaneamente a terra la sua valigetta, si sfilò la giacca nera e arrotolò fino al gomito le maniche della camicia che portava sotto, accaldato.

Bellamy si chiese come diavolo facesse a non essersi già sciolto con un caldo infernale come quello; lui era con una maglietta a mezze maniche e già sudava. Se non altro almeno nell’edificio c’erano i climatizzatori accesi.

L’ascensore emise un suono come di un campanello e lanciando una veloce occhiata al piccolo monitor che stava sopra la tastiera con i pulsanti dei piani, vide che erano arrivati a destinazione, dunque rivolse un breve cenno del capo all’uomo elegante e, circondando le spalle di Clarke con un braccio, fece qualche passo fino a trovarsi sul pianerottolo, ma, dopo averlo percorso sia a destra sia a sinistra, constatò che erano al livello sbagliato. Dovevano nuovamente scendere, probabilmente un piano sarebbe bastato.

Dovettero aspettare che l’ascensore arrivasse fino al dodicesimo piano prima di poterlo nuovamente chiamare; Bellamy non avrebbe avuto problemi a fare un piano di scale a piedi, ma la caviglia di Clarke non era dello stesso avviso. Quel giorno la ragazza aveva avuto la malaugurata idea di uscire senza stampelle visto che ormai era passata quasi una settimana da quando si era fatta male e lui non era riuscito a convincerla del contrario.

Fu Clarke a bussare quando arrivarono davanti alla porta giusta e attesero una decina di secondi prima di sentire dei passi avvicinarsi.

«Ciao».

Gradi occhi verdi, capelli ricci di un rosso mogano e corpo decisamente prosperoso, la ragazza che aprì doveva essere più o meno coetanea di Bellamy, forse pochi anni più grande e lui non mancò di notare l’occhiata interessata che gli lanciò non appena lo vide, cosa che parve infastidire Clarke, che si irrigidì al suo fianco.

«Ciao» ricambiò lui, scegliendo di usare lo stesso tono informale. «Ehm… stiamo cercando un certo Jackson Sahel, è un mio vecchio amico del college e questo è l’ultimo suo indirizzo a cui sono riuscito a risalire, ma… a quanto pare non vive più qui».

«Direi di no, io ormai vivo in questo posto da più di sei anni. Quando mi sono trasferita ho trovato qualcosa del vecchio affittuario, ma ai tempi consegnai tutto al proprietario dell’appartamento. Lo trovi al dodicesimo piano, interno 317, forse ti saprà dire qualcosa di più».

«Grazie per l’aiuto».

«Quando vuoi» disse facendogli l’occhiolino, lo sguardo lascivo.

Per qualche istante aleggiò il silenzio prima che la voce di Clarke lo interrompesse.

«Altri due minuti e ti avrebbe invitato a entrare».

Il suo tono, notò Bellamy, era gelido.

«Cosa c’è Clarke? Sei gelosa?».

«No» la risposta arrivò secca.

«Sicura?».

«Sì».

«Allora perché non mi dai un bacio?».

«Bussa di nuovo e fattelo dare da quella stronza tettona, sono convinta che ne sarebbe più che felice».

A quelle parole il ragazzo scoppiò a ridere.

«Vedo che non sei gelosa, proprio per niente» disse con un lieve ghigno che ancora gli increspava le labbra, cingendo la vita di Clarke e avvicinandosi per darle un bacio. Dapprima lei voltò la testa con aria offesa, poi Bellamy le prese il mento tra le dita per tenerla ferma e a quel punto la ragazza non ebbe più via di scampo, rilassandosi contro il petto di lui e ricambiando il bacio ad occhi chiusi. «E comunque ci sono due cose che dovresti sapere: innanzitutto le rosse non sono il mio tipo… e in secondo luogo, dici che lei è una tettona ma direi decisamente che tu non ti puoi certo lamentare» aggiunse poi.

In tutta risposta, lei lo colpì alla spalla con un pugno.

«Taci Blake… e andiamo al dodicesimo piano».

Il ragazzo preferì non ribattere e con un sorriso ancora divertito si incamminò nuovamente verso l’ascensore con un’imbronciata Clarke al suo fianco.

Non appena giunsero davanti l’appartamento 317 bussarono e, con loro sorpresa, fu l’uomo dell’ascensore ad aprire la porta, ma adesso era gocciolante e aveva un asciugamano legato in vita.

Di nuovo, l’individuo guardò Clarke con una strana intensità che a Bellamy non piacque e il ragazzo le si piazzò alle spalle con il chiaro intento di far intendere all’uomo che era già off limits.

«Posso aiutarvi?» chiese lui, che sembrava altrettanto stupito.

«Ehm… stiamo cercando un certo Jackson Sahel, viveva qui più o meno sei anni fa e un’inquilina del quinto piano ha detto che lei è il proprietario dell’appartamento» spiegò brevemente Clarke.

«Dovete chiedere a mio padre, abita nell’appartamento 319. Scusate, si confondono tutti».

«No… ci scusi lei per il disturbo».

«Nessun disturbo» disse lui con un ultimo sguardo carico di significato, prima che Bellamy trascinasse via Clarke senza un’altra parola.

«Ehi, chi è il geloso adesso?».

«Proprio nessuno» disse lui in tono gelido e, con la coda dell’occhio, vide Clarke reprimere a stento un sorriso. Probabilmente in quel momento stava pensando “così impari”, ma lui si sforzò di scacciare quel pensiero.

Di nuovo, bussarono alla porta, e stavolta fu un signore abbastanza avanti con gli anni ad aprire. Brevemente, gli spiegarono la situazione e lui rispose che sì, ricordava Jackson, dicendo poi di aspettare e che sarebbe andato a recuperare le scatole con i suoi effetti personali portate dall’attuale inquilina.

«Era un bravo ragazzo. Uno studente di medicina se non sbaglio, sempre educato e puntuale con l’affitto, non creava problemi. E poi da un giorno all’altro mi ha detto che se ne andava. Era il 19 novembre. Me lo ricordo perché quel giorno è il compleanno di mia figlia. Da allora non ne ho più saputo niente, non mi ha detto dove sarebbe andato».

Bellamy lanciò una veloce occhiata a Clarke e riuscì a capire dal suo sguardo che le stava frullando in testa qualcosa.

I due ragazzi ringraziarono l’uomo e tornarono verso l’ascensore, Bellamy reggendo tra le braccia i due scatoloni.

«A che pensi Principessa?».

«Alla data… il 19 novembre è due giorni dopo la morte di mio padre. A quanto pare se l’è filata via alla svelta».

«Credi che sia coinvolto?».

«Beh, di certo deve aver avuto una parte… era in sala operatoria quella notte e due giorni dopo lascia l’appartamento e sparisce? No, c’è sotto qualcosa».

Bellamy sospirò.

«Allora direi di portare questa roba in macchina e andare a casa. Magari tra queste cose potremo trovare un indizio che ci dica dove sia andato».

Clarke annuì.

«D’accordo».

Il caldo asfissiante dell’esterno li soffocò non appena uscirono dall’edificio e Bellamy boccheggiò, sarebbe volentieri tornato dentro.

Caricò le due scatole nel bagagliaio dell’auto e prese posto alla guida. Lanciò una rapida occhiata all’orologio, ormai erano quasi le due di pomeriggio e il suo stomaco reclamava.

«Ci fermiamo a mangiare qualcosa?».

«Muoio di fame» rispose lei con un sorriso.

«Sai di cosa ho voglia?».

«Qualunque cosa sia commestibile?» lo canzonò lei e a quelle parole il ragazzo le lanciò uno sguardo di traverso.

«Spiritosa. No, veramente ho voglia di sushi».

Gli occhi di Clarke si illuminarono.

«È una vita che non lo mangio!».

Vedendola in quel modo Bellamy si mise a ridere.

«E allora vada per il sushi».

Un quarto d’ora dopo lasciò l’auto davanti ad un locale orientale di cui Clarke aveva trovato l’indirizzo su internet durante il tragitto. Nessuno dei due conosceva molto bene la zona di Manhattan, dunque impiegarono un po’ per arrivare.

Non appena mise piede all’interno del ristorante, Bellamy si sentì subito rinfrancato dal fresco proveniente dai climatizzatori e respirò a fondo. Inoltre, il profumo proveniente dalla cucina lo investì, provocandogli una contrazione allo stomaco, stava davvero morendo di fame.

Clarke, al suo fianco, cercò la sua mano quasi sovrappensiero e lui la strinse automaticamente, tirandola un po’ più vicino a sé.

Il locale era pieno nonostante l’ora tarda e i due vennero accolti da una sorridente ragazza asiatica che si presentò, ma di cui Bellamy non capì il nome e li accompagnò verso un tavolo appartato, lasciando subito due listini da consultare.

«Questo posto è fantastico» disse Clarke guardandosi intorno con aria assorta e in effetti lui non poteva certo darle torto.

Il grande salone era in pieno stile orientale, dal mobilio ai quadri appesi alle pareti che ritraevano palazzi in piena architettura giapponese e scorci di paesaggi davvero suggestivi.

Ordinarono poco dopo e, aspettando, si ritrovarono a parlare di quella strana giornata.

«Pensi che troveremo qualcosa di utile tra le cose di Jackson?».

«Onestamente? Non lo so Clarke. Sarebbe troppo facile e poi non credo che quel tizio abbia lasciato qualcosa che possa farci capire dove potrebbe essere adesso, soprattutto dal momento in cui sembra proprio che non voglia essere rintracciato», vedendo l’espressione scoraggiata della ragazza però aggiunse: «Ma non fasciamoci la testa prima di romperla, ok? Finché non diamo un’occhiata non possiamo saperne nulla e ad ogni modo… non pensarci adesso. Siamo qui, è una splendida giornata… goditi il posto, il cibo e il piacere della mia compagnia!».

Non riuscì a capire se lo sguardo che Clarke gli lanciò era più divertito, rassegnato o esasperato, ad ogni modo le rivolse un occhiolino e si mise a ridere, facendo ridere anche lei.

«Bellamy Blake… certo che se non esistessi avrebbero dovuto inventarti».

«Non sarebbero riusciti a creare qualcosa di così perfetto in ogni caso».

La ragazza si coprì il volto con le mani.

«Evviva la modestia insomma».

«Hai qualcosa da ridire, Principessa?».

«Meglio se non mi esprimo».

«Attenta a come parli signorina!» esclamò lui in tono stizzito.

In quel momento il suo cellulare squillò. Era Atom.

«Ehi!» rispose allegro.

«Ciao fratello! Allora sei ancora vivo!».

«Non dovrei?» chiese lui, costernato.

«È tutto il giorno che provo a chiamarti a casa, ma non risponde nessuno. Cos’è? Hai passato tutto il giorno a letto con la tua bella?».

«Tu se non mi fai incazzare almeno una volta al giorno non sei contento, vero?» ma riusciva a stento a trattenere un sorriso. «Comunque no, siamo a Manhattan».

«E che diavolo ci fate a Manhattan?».

«I turisti» improvvisò con la prima scusa che gli venne in mente. «E adesso siamo in un ristorante giapponese che promette davvero bene».

«Allora sei proprio un bastardo. Sono mesi che voglio andare a mangiare sushi!».

A quelle parole Bellamy non riuscì a trattenere una risata.

«D’accordo, allora ti prometto che ci andremo anche noi, adesso non cominciare a fare l’offeso».

«Sei comunque un bastardo».

«Sì beh… detto da te non mi tocca particolarmente».

All’altro capo del telefono, sentì il suo migliore amico sbuffare.

«Bene, allora ti lascio con la principessa. Buon pomeriggio e non divertitevi troppo voi due».

«Lo vedremo».

La sua attenzione fu distratta da Clarke che gesticolava seduta di fronte a lui.

«Salutamelo!» bisbigliò.

«Clarke ti saluta» riferì.

«Ricambia!» rispose in tono allegro.

«Ci sentiamo allora, magari una di queste sere andiamo a prenderci una birra al pub».

«Ci conto!».

«Ciao Atom» e detto questo riagganciò.

Lui e Clarke ripresero a parlare fino a quando un cameriere arrivò con i loro piatti e a quel punto furono troppo impegnati dal cibo per continuare la conversazione. Era tutto davvero ottimo, Bellamy avrebbe dovuto ricordarsi quel posto.

Mangiò con la sua solita voracità, fermandosi solo quando davvero fu sul punto di scoppiare.

«Beh… adesso sono davvero sazio».

Clarke lo guardò con tanto d’occhi.

«Non credevo possibile per un essere umano ingurgitare una tale quantità di cibo. Bellamy, sei un tritarifiuti».

Avrebbe riso se solo non avesse avuto paura di vomitare tutto ciò che aveva appena mangiato.

«Andiamo Principessa. Sono le quattro di pomeriggio e abbiamo un paio d’ore di strada prima di arrivare a casa. Anzi… visto che ci siamo, tornando verso Fort Hill ci fermiamo a comprarti un cellulare».

«Bellamy ti ho detto che… ».

«E io ti ho detto come la penso, quindi lascia stare perché perdi in partenza».

Clarke alzò le mani in segno di resa.

«Vada per il cellulare».

Lui le rivolse un sorriso soddisfatto, poi si alzò dal tavolo, convinto di essere ingrassato di almeno due chili.

Si avvicinarono al bancone per pagare, anche Clarke tirò fuori il portamonete, ma nonostante l’occhiataccia che le lanciò, la ragazza non volle sentire ragioni, così divisero il conto.

«Avevo visto un negozio di elettronica venendo qui, non è distante, ti va di andare a piedi? Come va la caviglia?».

«Bene, non ti preoccupare».

Non persero molto tempo, Clarke aveva le idee molto chiare e non era una di quelle persone che passavano pomeriggi interi in un negozio per decidere cosa comprare, un quarto d’ora dopo erano di nuovo in macchina.

«Metti la scheda e salvati subito il mio numero».

«Bellamy, non essere paranoico. E poi adesso è completamente scarico».

Il ragazzo sbuffò, ma non disse nulla.

Accese la radio, non a volume troppo alto e si concentrò sulla strada. Fu dopo un’ora circa che si accorse che Clarke si era addormentata e le lanciò una rapida occhiata: i capelli biondi le ricadevano mossi sulla schiena e sul viso, la testa era leggermente reclinata verso il finestrino e lui moriva dalla voglia di baciarla, ma dal momento in cui stava guidando non era proprio il caso.

Si costrinse a resistere alla tentazione e tornò a concentrarsi, guardando fisso davanti a sé, anche perché era decisamente meglio distogliere l’attenzione da Clarke. Ogni volta che la osservava, qualcosa in lui scattava. Un brivido gli attraversava la schiena e lui era quasi schiacciato dal desiderio di averla tra le braccia, stringerla, baciarla.

Deglutì a vuoto e alzò leggermente il volume. Dio, era certo del fatto che le reazioni che gli provocava non potevano essere normali, non si era mai sentito così prima di allora.

Guidò fino a che non si ritrovò davanti casa propria e fu quando l’auto si fermò che la ragazza al suo fianco riaprì gli occhi.

«Ben svegliata» la salutò con un sorriso.

«Scusami… non volevo addormentarmi».

«Tranquilla Principessa. E poi con il pranzo di oggi sarebbe stato strano se non ti addormentassi. Tieni le chiavi, comincia ad entrare. Io prendo la roba di Jackson e arrivo».

Clarke annuì e smontò dall’auto, avviandosi verso la porta principale. Lui la raggiunse poco dopo, lasciando le scatole sul pavimento del salotto. Si misero seduti sul parquet tirato a lucido e ognuno prese una scatola.

Bellamy frugò per qualche minuto e stava quasi per gettare la spugna quando, proprio sul fondo, trovò una foto. Ritraeva Jackson in camice insieme ad un altro gruppo di medici ed, esaminandola con calma, un dettaglio gli saltò all’occhio.

«Clarke, ma questa non è… » cominciò porgendole la foto.

«Mia madre» concluse lei.

La ragazza voltò l’oggetto e sul retro vide scritta una data. Risaliva all’anno prima della morte del dottor Griffin.

«Quindi non solo Jackson Sahel si trovava in sala operatoria la notte in cui morì mio padre, ma conosceva anche mia madre? Che guarda caso, è in qualche modo coinvolta?».

Bellamy annuì pesantemente. Quella situazione non aveva senso, ma non riuscì a soffermarsi più di tanto, perché poco dopo furono interrotti dal campanello della porta d’ingresso. Erano ormai le otto di sera, chi poteva essere?

Il ragazzo si alzò ed andò ad aprire e ciò, o meglio, chi si ritrovò davanti non gli fece presagire nulla di buono.

«Comandante… ».

Gli occhi gelidi di Lexa War lo trapassarono da parte a parte. E ora che diavolo era successo?




NOTE:


Non è un miraggio, dopo più di due mesi sono tornata davvero! Perdonate, come sempre, l’immane ritardo, ma tra studio, esami e l’aver finalmente trovato un lavoro che devo ammettere, mi tiene davvero impegnata, trovo il tempo che trovo (per non parlare di tutte le serie tv arretrate, ma quello è un altro discorso).

Ebbene, adesso sono qui e spero che il capitolo vi sia piaciuto! Confesso che sì, a un certo punto mi ero anche un po’ bloccata ed è stato da poco che l’ho ripreso in mano, ma l’importante è questo, no?

Comunque eccoci qui; Bellamy e Clarke sono tornati nel pieno delle loro indagini e, come dicevo anche alla fine del capitolo precedente, da qui sarà il caos. Succederanno tante cose, preparatevi psicologicamente ve lo dico già. Decisioni sulle sorti di questa storia le ho prese da un pezzo, tutto stava solo su come arrivarci e adesso sono sulla strada giusta. Decisioni che ho preso non a cuor leggero, ma che saranno necessarie per lo svolgimento, quindi spero che arrivati ad un certo punto non mi odierete e in caso doveste farlo, lo capirei, ad ogni modo non vi anticipo nulla e, di nuovo, mi auguro che intanto questo capitolo possa esservi piaciuto.

Detto ciò vi lascio, sempre in trepidante attesa delle vostre opinioni/consigli/quant’altro.

Alla prossima, vi abbraccio tutti e come sempre ringrazio chiunque legga/segua/abbia inserito tra le preferite e le sante anime che dedicano un po’ del loro tempo a recensire.

Come al solito, vi lascio i link dei due brani di questo capitolo.



Chasing Cars – Snow Patrol. Clarke

Nothing else matters – Metallica. Bellamy



A presto!

Mel

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** I want you ***



CAPITOLO 21: I WANT YOU




'Cause every time we touch, I get this feeling
And every time we kiss I swear I could fly
Can't you feel my heart beat fast,
I want this to last
Need you by my side

'Cause every time we touch, I feel the static
And every time we kiss I reach for the sky
Can't you hear my heart beat so
I can't let you go
Want you in my life

Your arms are my castle
Your heart is my sky
They wipe away tears that I cry
The good and the bad times
We've been through them all
You make me rise when I fall



Perchè ogni volta che ci tocchiamo, ho questa sensazione
e ogni volta che ci baciamo, giuro di riuscire a volare
non riesci a sentire il mio cuore che batte così veloce?
voglio che questo duri
ho bisogno che tu sia accanto a me

perchè ogni volta che ci tocchiamo, sento la staticità
e ogni volta che ci baciamo, raggiungo il cielo
non riesci a sentire il mio cuore che batte così?
non posso lasciarti andare.
Ti voglio nella mia vita

Le tue braccia sono il mio castello, il tuo cuore è il mio cielo
loro asciugano le mie lacrime
i bei tempi e quelli brutti, li abbiamo attraversati tutti
mi hai fatto rialzare quando ero a terra



Clarke udì dal divano la voce di Bellamy, apparentemente ferma ma in cui lei parve riconoscere un’incrinatura incerta.

«Comandante…».

«Blake…».

«Posso fare qualcosa per lei?».

«Clarke Griffin si è trasferita qui, vero?».

A quel punto la ragazza non sentì più parlare, ma dei passi si avvicinarono velocemente e lei si raddrizzò meglio sul divano, finché la sagoma sottile e slanciata di Lexa War non fece ingresso nel salotto.

«Ciao Clarke… ».

«Comandante War? Come mai è qui?».

Clarke lanciò una rapida occhiata a Bellamy, che era rimasto con una spalla appoggiata allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto. La sua espressione poteva sembrare tesa, ma più che altro, la ragazza riconobbe una nota scocciata, come se la presenza del comandante lì lo infastidisse.

«Clarke… sono qui per chiederti di passare in centrale in questi giorni. Avrei bisogno di farti alcune domande riguardo alla sera dell’incendio».

La ragazza rimase sorpresa a quelle parole. Tutto ciò che era successo lo aveva riferito a Bellamy che a sua volta ne aveva parlato con Lincoln e da lui la sua testimonianza era arrivata all’ufficio incendi dolosi. Che poi in realtà c’era ben poco da dire dal momento in cui lei stava dormendo quando l’incendio era iniziato.

«Comandante, è tutto nel rapporto consegnato in centrale da Atom Ward, non è stata tralasciata una virgola. Non credo che sia necessario per Clarke recarsi in commissariato, i medici sono stati chiari: niente stress e riposo assoluto» prese parola Bellamy in quel momento, ma Clarke non mancò di notare lo sguardo tagliente che gli rivolse il comandante. Era evidente che tra i due dovevano esserci attriti.

«Non mi sembra di averla interpellata, signor Blake».

Clarke stessa rimase raggelata da quelle parole, ma cercò di mantenere un certo contegno nonostante la risposta l’avesse turbata. D’altra parte Bellamy stava semplicemente cercando di proteggerla… come faceva sempre dopotutto. Gli lanciò un rapido sguardo e vide che lui non sembrava granché scalfito dalla risposta tagliente del comandante War. In quel momento lo ammirò per la sua capacità di incassare il colpo, probabilmente se le situazioni fossero state invertite lei non sarebbe stata capace di rimanere zitta, nonostante fosse consapevole che era la cosa migliore.

A dire il vero, se le situazioni fossero state invertite, questo avrebbe comportato che sarebbe dovuto succedere qualcosa di brutto a Bellamy e non ci voleva neanche pensare, probabilmente sarebbe andata fuori di testa.

Deglutì una volta, poi tornò a fissare gli occhi in quelli verdi del comandante.

«Immagino di doverlo fare se non c’è alternativa. Ad ogni modo, come diceva Bellamy, non ho molto da aggiungere rispetto a ciò che è stato riportato sul verbale da Atom Ward».

«Dobbiamo avere la versione ufficiale. Basta che ti presenti in centrale domattina alle 09.30» e, detto ciò, la donna si alzò e, con un ultimo saluto rivolto ad entrambi, si diresse da sola verso l’ingresso. D’altra parte Bellamy non si prese nemmeno la briga di accompagnarla.

«Che modi» commentò Clarke non appena udì la porta richiudersi.

«Non farci caso, io ormai ho avuto abbastanza a che fare con lei da imparare a non prendermela. Anche Lincoln dice che è piuttosto… dura».

«Sarà, ma secondo me ha tutto a che fare con l’educazione e il rispetto, che non mi pare di aver visto».

Bellamy scrollò leggermente le spalle e tornò a sedersi al suo fianco.

«Ti accompagnerò in commissariato domattina. Dubito che mi lasceranno entrare, ma cerca di ricordare il più possibile di quello che hai riferito ad Atom per il rapporto, ok?».

«Certo, ma come ho detto anche al comandante stavo dormendo quando tutto è iniziato, perciò posso solo riferire cosa è successo da quando mi sono svegliata in poi».

«E quello dovranno farsi bastare. In effetti ti dirò che mi sembra un po’ strana come richiesta, ma se serve a non fare infuriare quella donna è meglio non contraddirla; Lexa War è già una rottura normalmente, figurati se la si fa innervosire».

Clarke emise una risata leggera, poi di nuovo abbassò il capo verso lo scatolone che stavano esaminando poco prima dell’arrivo del comandante War, prendendo nuovamente tra le mani la foto di Jackson Sahel con un gruppo di altri medici, inclusa sua madre.

«E se le inviassimo per e-mail la foto da un indirizzo anonimo? Murphy potrebbe farlo, è un hacker… ».

«Principessa… vuoi davvero fare terrorismo psicologico a tua madre?».

La ragazza sbuffò.

«È lei che ne sta facendo a me da quando ho scoperto che è invischiata in questo casino. Non riesco a pensare ad altro, maledizione».

«Capisco che sia frustrante, ma cerca di rilassarti, d’accordo? Lo so che te l’ho già detto un milione di volte e che sono ripetitivo e noioso, ma ne verremo fuori, ok? Te lo prometto».

A quel punto Clarke sorrise in modo più rilassato.

«Non sei né ripetitivo né noioso. E se non fosse stato per te probabilmente adesso sarei già impazzita da un pezzo… o sottoterra dal momento in cui mi hai salvato la vita due volte».

«Due volte?».

«Beh, la prima quando non ti ho dato retta a casa di Murphy e per questo ti sei anche beccato una coltellata, mentre la seconda… l’incendio, lo sai benissimo».

Bellamy per un momento parve rabbuiarsi, poi parlò nuovamente.

«Clarke… ce l’avresti fatta anche senza di me. Inoltre se io in primis non ti avessi portata lì, non ci sarebbe stato bisogno di difendersi da un pazzo armato».

«Sì, e se io non ti avessi coinvolto in questa storia a quest’ora tu saresti spensierato e con molti problemi in meno ai quali pensare».

«Io sono rimasto coinvolto la notte del 17 novembre di sei anni fa, il resto è stata una mia scelta. È stato allora che le cose sono cambiate, che io sono cambiato… e che i miei sentimenti sono cambiati, nonostante non lo abbia capito fino al tuo ritorno qui. E adesso basta parlarne Principessa, perché tutto questo parlare di sentimenti mi sta facendo venire il diabete, ok? Tu sai cosa importa».

Clarke rise, ma non poteva negare di esserne rimasta sorpresa. Quella era la cosa di più simile ad una dichiarazione che mai avrebbe potuto ottenere da Bellamy Blake.

Senza dire un’altra parola, lasciò nuovamente scivolare la foto nella scatola e prese il volto del ragazzo tra le mani, baciandolo.

Lui parve stupito per un istante, nel quale restò fermo immobile, poi le sue braccia la avvolsero e lui ricambiò con trasporto.

Clarke adorava le braccia di Bellamy e adorava quando lui la stringeva in quel modo, si sentiva rinchiusa e protetta in un mondo in cui nulla avrebbe potuto toccarla, perché quel mondo era creato e composto soltanto da Bellamy e questo la faceva sentire al sicuro.

Sospirò sulle sue labbra e lui ebbe un tremito, un segnale che Clarke aveva imparato a riconoscere e che le faceva capire quanto il ragazzo si stesse trattenendo. Dunque si staccò dal suo corpo e lo guardò negli occhi.

«Sai Clarke, dovresti avvertirmi prima di passare a questi intermezzi passionali, in modo che possa prepararmi psicologicamente… e fisicamente».

Lei sorrise con una certa malizia, che ebbe come l’impressione che non gli fosse sfuggita.

«Coglierti di sorpresa è divertente» disse senza staccare per un secondo gli occhi da quelli scuri e profondi di Bellamy.

«Lo vedremo, il giorno in cui deciderò di dare ascolto al mio corpo invece che alla mia testa».

A quelle parole Clarke si mise a ridere apertamente, mentre lui scuoteva il capo, seppur con un sorriso sulle labbra.

«Ormai ho perso il conto di tutte le volte in cui te l’ho già detto, ma tu… mi manderai all’inferno, Principessa».

«Fa caldo all’inferno… » soffiò lei a mezzo centimetro dal suo collo, giocherellando con l’orlo della sua maglietta.

Lo sentì irrigidirsi e sospirare pesantemente.

«Mi vuoi proprio morto, vero?».

La ragazza si allontanò quel tanto che bastava per guardarlo in faccia e constatare che aveva chiuso gli occhi.

«Mai» disse soltanto, stampandogli un breve bacio sulle labbra.

Fu allora che lui riaprì gli occhi, scuotendo la testa.

«Sì, è ufficiale: tu mi ucciderai», ma sorrise nel dirlo e sorrise anche Clarke, seduta sulle ginocchia di fronte a lui.

«Allora… » riprese poi la ragazza dopo qualche attimo di silenzio «… che si fa?».

«Sotto quale fronte, Principessa? Perché se ti riferisci alle indagini dobbiamo pensare a qualcosa, mentre se parli di qualcos’altro… » Bellamy lasciò in sospeso la frase, ma a Clarke non sfuggirono i sottointesi che implicava.

«Mi sto riferendo proprio alle indagini».

«Maledizione. Beh, in tal caso penso che innanzitutto domani ti dovrò accompagnare in centrale per risolvere questa faccenda con il comandante. Una volta eliminato questo avremo già un grosso pensiero in meno».

«Già, se non altro Lexa War smetterà di ronzarci intorno».

Bellamy le diede un buffetto sulla guancia.

«Come mai ti infastidisce tanto?».

Clarke parve imbarazzata.

«Non mi è piaciuto il modo in cui ti ha trattato».

A quelle parole il ragazzo sorrise.

«Ehi… a me non importa niente di cosa dice quella donna, ok? Non voglio parlare di lei, non voglio crearmi pensieri a causa sua, perciò, come ti ho già detto… affrontiamo un pensiero alla volta, d’accordo? Lei è il primo e domani lo risolveremo, per il resto… riconosci qualcuno di questi medici? Chiaramente oltre Sahel e tua madre… qualcuno con cui potremmo parlare… ti viene in mente qualcosa?».

Clarke prese la foto dalle mani del ragazzo e la osservò attentamente, fino ad individuare un uomo dall’aria familiare che poteva essere sulla sessantina.

«Il dottor Roden!» esclamò indicandolo e a quelle parole anche Bellamy si fece più vicino.

«Non mi dice nulla».

«Era amico dei miei genitori, ricordo che veniva a trovarci di tanto in tanto quando ancora abitavamo in Alabama. Si trasferì qui a New York prima ancora di noi, credo che fu lui a mettersi in contatto con mia madre per quel posto da primario all’Ark Medical Center».

«Sai se ci lavora ancora?».

«Credo che ormai sia in pensione, ma dovrebbe vivere qui nei dintorni».

«Bene, allora abbiamo trovato come impiegare la giornata di domani, Principessa».

«Mi dispiace Bellamy, ho come l’impressione di farti perdere tutto il tempo che hai a disposizione per prepararti al tuo esame. Potremmo fare dopo quella data».

«Clarke, tornerei operativo dopo pochi giorni, mi sembra inutile perdere questo tempo inutilmente. Non ti preoccupare per me, io riuscirò a sostenere l’esame in ogni caso, d’accordo?».

Lei annuì.

«Va bene».

«Allora è deciso. Avanti Principessa» disse poi prendendola tra le braccia e stringendola a sé per un momento «Adesso è l’ora di andare a letto».

«Ma Bellamy, è ancora presto!».

«Ho detto che è l’ora di andare a letto, non di dormire. Comincia a pensare a un bel film da vedere».

Clarke gli lanciò una strana occhiata.

«Ma la tv è qui!».

«Non è inchiodata al pavimento e la presa è anche in camera, la posso spostare».

Clarke lo guardò come non lo aveva mai guardato prima di allora e solo in quel momento seppe. Seppe di essere completamente persa ormai.

Si alzò dal divano e aveva fatto appena pochi passi quando si sentì sollevare da terra con quella che le parve un’estrema facilità.

«Bellamy! Mettimi subito giù, sono perfettamente capace di camminare!» esclamò tentando di mantenere un tono autoritario, ma che a quanto pare, il ragazzo non prese affatto seriamente perché il sorriso divertito che si aprì sul suo volto parlava da sé.

«Principessa… stai un po’ zitta» e detto ciò, si diresse in camera sua con un angolo della bocca leggermente incurvato verso l’alto, così alla ragazza non rimase che cedere e si lasciò andare contro il suo corpo.

Bellamy la depose sul letto, poi disse: «Sposto la televisione e sono subito da te».

Clarke annuì, ma prima di lasciarlo andare lo attirò a sé per l’orlo della maglietta e lo baciò intensamente per qualche istante, facendolo sospirare sulle sue labbra. Lei adorava quando lo faceva, perché in quei momenti si lasciava andare.

«Non vorrei metterti in allarme Clarke, ma dovresti davvero pensarci molto bene prima di fare certe cose perché io cerco di controllarmi… ma a tutto c’è un limite».

Una risposta le balenò in testa e decise di azzardare prima di stare troppo a rifletterci. Puntò i suoi occhi dritti in quelli scuri di lui e, con il bavero della sua maglietta ancora stretto tra le dita, lo avvicinò ulteriormente a sé e sussurrò al suo orecchio: «Forse è semplicemente arrivato il momento di smettere di trattenersi».

Sentì il corpo di lui irrigidirsi al suo fiancò e udì distintamente il suo deglutire a vuoto. Bellamy si scostò leggermente, giusto quanto bastava per osservarla meglio, alcune ciocche di capelli corvini gli ricadevano sul viso, poi Clarke registrò con un attimo di ritardo la lieve carezza nel suo interno coscia, lasciato scoperto dai pantaloncini di jeans che indossava e trattenne improvvisamente il respiro.

«Attenta Clarke» sospirò lui, e l’istante dopo era già sparito oltre la porta.

La ragazza rimase pietrificata esattamente nella stessa posizione per svariati secondi, sentiva appena vagamente Bellamy armeggiare nell’altra stanza per portare la televisione in camera.

Il suo cuore batteva forte e velocemente, il respiro mozzato e superficiale. Com’era possibile che le facesse un tale effetto? All’inizio si chiedeva come sarebbe stato baciarlo, se appena un lieve sfiorarsi delle loro labbra le aveva provocato una scarica di brividi lungo la spina dorsale. Ed ora… mio Dio, non riusciva neanche a pensare a come si sarebbero potute evolvere le cose.

Le occorse qualche istante prima di tornare a regolarizzare il respiro, dopodiché dovette riprendersi per forza perché Bellamy tornò reggendo tra le braccia il televisore e lo posizionò su un cassettone di fronte al letto.

«Ti serve una mano?» chiese Clarke, giusto per ridarsi un contegno, ma lui le rivolse un sorrisetto.

«Tranquilla, devo solo attaccare il cavo e poi è a posto».

Lei annuì e si mise più comoda sul letto; Bellamy la raggiunse qualche istante dopo.

«Allora… hai pensato a cosa vedere?».

«Mmm… non mi viene in mente molto in realtà. Proviamo a fare un po’ di zapping?».

«D’accordo» rispose lui cominciando a cambiare i vari canali.

Ne passarono in rassegna un paio prima che lui esclamasse: «Questo non è male! Tra l’altro è basato su una storia vera».

«Che cos’è?».

«American Sniper. Non so se è nel tuo genere, è un film di guerra».

«Mi piacciono i film di guerra, non ti preoccupare. Li guardavo sempre con mio padre» disse sorridendo e, si rese conto, non era un sorriso triste o nostalgico. Non riusciva a spiegarsi il perché, ma da quando Bellamy era con lei, era come se fosse più serena.

A quel punto anche lui si sistemò meglio con la schiena contro la testiera del letto, circondandole le spalle con un braccio e lei si rannicchiò contro il suo petto.

Per un po’ seguì il film con vero interesse, ma poi, quando Bellamy iniziò ad accarezzarle i capelli con il dorso della mano, la sua concentrazione allo schermo venne meno.

Cercò di resistere e per un po’ ci riuscì, anche perché lui sembrava veramente preso dalle immagini che rapide si susseguivano una dopo l’altra, ma ad un tratto fu come se dentro avesse avuto un timer, che era esploso improvvisamente.

«Bellamy» lo richiamò e il suo tono tradiva una certa urgenza, tanto che il ragazzo la fissò con una nota di preoccupazione negli occhi.

«Stai bene?» le chiese smettendo di accarezzarle i capelli e allontanandosi appena per riuscire a guardarla meglio negli occhi.

Bene. E adesso che cosa poteva dirgli? Avrebbe fatto la figura della ninfomane perché quelle due parole intrappolate nel fondo della sua gola non si decidevano ad uscire.

Ti voglio, avrebbe voluto dirgli più di ogni altra cosa, ma invece di parlare, decise di passare ai fatti. Si spostò sopra di lui, gli prese il volto tra le mani e lo baciò con passione.

Lo stupore di lui fu palese perché sgranò gli occhi e si irrigidì, ma recuperò ben presto, afferrandole la vita con fermezza e rispondendo con trasporto a quel bacio dirompente.

Clarke ansimò sulle sue labbra e non poté fare a meno di notare che questo provocò un brivido lungo la schiena di Bellamy, che serrò ulteriormente la presa e in realtà quella non fu l’unica parte del corpo di lui ad avere una reazione perché la ragazza non poté fare a meno di notare il rigonfiamento che si era formato all’altezza del cavallo dei suoi pantaloni.

Incoraggiata da quella reazione, spostò le mani sotto la maglietta di lui, accarezzando i suoi muscoli tesi e forti.

Con una sorta di ringhio proveniente dal fondo della gola, Bellamy ribaltò le posizioni, spostandosi sopra di lei.

«Principessa… te le vai proprio a cercare allora».

Il suo tono ansante le fece capire quanto fosse carico di desiderio.

«Sta’ zitto» annaspò lei un attimo prima di sfilargli la maglietta e lui le facilitò il compito, lanciando poi l’indumento da qualche parte alla rinfusa.

Ormai Clarke sentiva solo di sottofondo il sommesso ronzio della televisione, tutto ciò che esisteva in quel momento erano Bellamy, lei, e i loro corpi preda di una passione che mai aveva provato prima.

Lui impiegò mezzo secondo per liberarsi della canottiera di Clarke e per un breve istante interruppe quel frenetico susseguirsi di baci e carezze per osservarla.

«Sei… oddio Clarke, tu mi vuoi morto».

Disse poggiando per un istante la fronte contro la sua spalla.

«No, per niente. Ti voglio vivo, Bellamy. Ti voglio vivo come non lo sei mai stato prima» e, dicendo questo, le sue mani corsero all’elastico dei pantaloni da jogging che indossava, spingendoli verso il basso e lui se ne liberò con un calcio, mandandoli a volare da qualche parte sul pavimento e poco dopo anche gli shorts di Clarke fecero la stessa fine.

Il cuore della ragazza batteva come impazzito, ormai non riusciva più a mettere insieme un pensiero logico perché il corpo caldo di Bellamy era tutto ciò che esisteva e che voleva in quel momento.

Posò le labbra sul collo di lui, iniziando a lasciarvi una scia di baci bollenti e il ragazzo le fece arpionare le gambe intorno alla sua vita.

Yeti cominciò a miagolare dietro la porta, probabilmente contrariato dal fatto di essere stato chiuso fuori, ma per questa volta Clarke non se ne curò minimamente, poteva miagolare per tutto il resto della notte, lei non si sarebbe certo alzata da lì per aprirgli.

Come se le avesse letto nel pensiero, la voce di Bellamy offuscata dalla passione, arrivò alle sue orecchie.

«Non ci pensare neanche, Clarke», ma lei lo attrasse a sé, riportandogli le labbra sulle sue e le loro lingue si inseguirono per qualche altro istante prima che Bellamy iniziasse la sua discesa.

Baciò il suo petto, accarezzandola sopra la biancheria in pizzo che portava e Clarke sussultò, inarcando la schiena, poi ancora giù, a baciarle il ventre piatto, fino ad arrivare alla coscia.

La ragazza ansimò mentre lui le sfiorava appena l’elastico degli slip, ma poi… uno stridio di ruote sull’asfalto, una brusca sterzata e un gran boato: uno sparo.

Clarke trasalì, tirandosi a sedere sul letto e così anche Bellamy.

«Resta qui» disse lui in tono deciso, mentre già raccoglieva da terra i suoi vestiti.

«Bellamy, aspetta!» esclamò con i sensi ancora annebbiati, ma dopo un attimo lui era già sparito oltre la porta e Yeti si era appropriato del suo lato del letto.

Ancora confusa e con il cuore che le martellava nel petto, Clarke iniziò a rivestirsi e raggiunse Bellamy sulla veranda. Anche i vicini si erano radunati e osservavano la via deserta cercando di capire cosa fosse successo, ma gli unici indizi lampanti erano i segni degli pneumatici che voltavano bruscamente a destra all’incrocio più vicino e un penetrante odore di gomma bruciata.

«Torna dentro… » le disse Bellamy riparando il corpo della ragazza con un braccio.

«Ma Bellamy… ».

«Clarke, qualcuno ha sparato. Per favore… torna dentro».

Così la ragazza annuì e fece come le aveva detto. Già una volta non aveva dato retta ad una richiesta del genere da parte di Bellamy ed era finita con lui che si era beccato una coltellata. Decisamente, non voleva ripetere l’esperienza.

Andò in cucina e si versò un grosso bicchiere d’acqua dal momento in cui era ancora parecchio accaldata per via di ciò che lei e Bellamy stavano facendo prima di essere interrotti.

Il ragazzo tornò dentro dopo una decina di minuti.

«Sembra che nessuno abbia visto molto, soltanto l’uomo della casa di fronte afferma che una macchina scura era parcheggiata qui davanti da un paio d’ore e che se la sia filata alla svelta a un certo punto. Mi dispiace, Clarke».

«Per cosa?».

Bellamy chiuse gli occhi per un momento, passandosi una mano tra i capelli.

«Ho come l’impressione di non riuscire a tenerti al sicuro nemmeno in casa nostra».

Quelle parole a Clarke non sfuggirono. Casa nostra. Ormai era come se per Bellamy fosse quasi scontata la sua presenza costante lì, mentre lei quasi non riusciva a capacitarsene, ma era elettrizzata. Gli si avvicinò, allacciando le braccia intorno al suo collo.

«Io sono al sicuro, Bellamy. Non ti devi preoccupare, è chiaro?».

Lui sospirò contro il suo collo e poi la baciò.

«Avanti… torniamo a letto adesso».

La ragazza annuì e, prendendolo per mano, lo guidò nuovamente in camera.

Si richiuse la porta alle spalle e tornò a sdraiarsi sul letto, dopo aver sostituito gli shorts di jeans con un paio in cotone leggero, mentre Bellamy si limitò a restare in boxer.

I climatizzatori avevano cominciato a fare capricci e Clarke sperò soltanto che non saltassero com’era successo già a parecchi in città, se si fossero rotti era certa che quel caldo esasperante l’avrebbe uccisa.

Si sdraiò sopra il lenzuolo disordinato che aveva lasciato poco prima con Bellamy e lui spense la televisione rimasta accesa, ma ormai non aveva più senso perché entrambi avevano smesso di seguire il film già da un pezzo.

Il ragazzo era sdraiato a pancia in su, l’aria assorta di chi è lì solo fisicamente.

«Bell?».

La sua attenzione fu catturata subito e la osservò con sguardo strano.

«Perché mi fissi in quel modo?» gli chiese allora e sul viso di lui comparve l’ombra di un sorriso.

«È la prima volta che mi chiami così».

Solo allora Clarke se ne rese conto. Era vero, prima di allora non lo aveva mai chiamato con quel diminutivo e non poté fare a meno di sorridere a sua volta.

«A cosa stavi pensando? Sembravi perso chissà dove».

Lui scrollò il capo.

«Riflettevo su… beh, su quello che sta succedendo. I vicini hanno chiamato la polizia, hanno detto che faranno dei sopralluoghi per cercare di capire cosa sia successo, chi ha sparato».

Clarke annuì e si girò su un fianco per guardarlo meglio in faccia.

«Non devi ossessionarti, sai?».

«Cosa?» l’espressione di lui adesso era alquanto interrogativa.

«Lo so come sei, Bellamy Blake. C’è voluto un po’, ma adesso ho imparato a conoscerti e so che proteggeresti le persone a cui tieni facendo loro da scudo con il tuo corpo, ma non è quello che voglio. Voglio che tu sia sereno, quando sei con me e non che vivi con l’ansia costante che possa succedermi qualcosa».

A quelle parole il ragazzo la attrasse a sé, sospirando tra i suoi capelli.

«Mi dispiace, ma preoccuparmi credo che faccia parte della mia natura. Dopo mia madre… io non posso perdere nessun altro».

«E lo capisco, credimi».

«Lo so».

«Ma noi affronteremo tutto questo insieme, è chiaro? Senza che tu ti faccia mille paranoie, altrimenti mi farai pentire di averti coinvolto», ma a quelle parole la stretta di Bellamy attorno al suo corpo si serrò.

«No» disse lui, immerso nei suoi capelli.

«E allora non ti tormentare. Sono qui e sto bene, no? È questo ciò che conta».

Lui annuì, poi Clarke racchiuse il suo collo tra le mani e lo baciò con intensità, stringendosi poi al suo torace.

«Adesso dormi, Clarke, domani ti aspetta quella deposizione alla centrale di polizia».

Lei annuì e poco dopo si sistemò meglio contro il corpo di lui prima di cadere in un sonno profondo.



Il buio era ancora totale quando riaprì gli occhi, ma sentiva il corpo caldo di Bellamy vicino al suo e il suo respiro tranquillo e ritmato, segno che stava dormendo profondamente e questo la rassicurò.

Lei però non aveva sonno per niente, così, con calma, sgusciò via dalla presa di Bellamy e tirò fuori dal cassetto del suo comodino il blocco da disegno e il carboncino che il ragazzo le aveva regalato.

Adorava ritrarlo mentre dormiva, beh, in realtà adorava ritrarlo in generale, ma i primi due disegni che gli aveva fatto erano andati distrutti nell’incendio, quindi decise di approfittarne.

Poco alla volta, cominciò a tracciare i lineamenti del suo viso, la forma leggermente allungata degli occhi, quella spruzzata di lentiggini sulle guance, la fossetta sul mento che lei tanto adorava… dopo un’ora rimirò la sua opera, ritenendosi soddisfatta del suo lavoro.

Il caldo però era atroce, uscì dalla stanza e poté constatare che il climatizzatore aveva definitivamente smesso di funzionare.

Dannazione.

Si avviò in cucina per prendere un bicchiere di acqua ghiacciata, quando sentì dei rumori provenire dalla stanza da letto e la voce, ancora piuttosto assonnata, di Bellamy chiamarla.

«Sono in cucina!» esclamò.

«Ehi… » lui spuntò dopo qualche istante. Gli occhi erano ancora annebbiati per via del sonno e il suo corpo appiccicaticcio a causa del sudore.

«Da quanto sei sveglia?».

«Un po’. Avevo sete, il climatizzatore è ufficialmente andato, sarà da morire finché questo caldo non si placa».

Bellamy sbuffò, passandosi una mano tra i capelli umidi.

«Sì, sarà terribile. Ormai ne stanno saltando parecchi, Atom è nella stessa situazione».

Con un sospiro, Clarke gli offrì il bicchiere dal quale stava bevendo poco prima e Bellamy mandò giù l’acqua fresca con sollievo.

«Grazie. Torniamo a letto?».

La ragazza sorrise e annuì.

Si distesero nuovamente sopra le lenzuola, ma, nonostante il caldo, Clarke si strinse comunque al corpo di Bellamy e lui non la rifiutò anche se Clarke era perfettamente consapevole di quanto stesse soffrendo per via di quella temperatura.

«Buonanotte, Bell» disse poco prima di risprofondare nel sonno e, per qualche motivo, ebbe come l’impressione che il ragazzo stesse sorridendo.

«Buonanotte, Clarke».



La mattina dopo, quando Clarke riaprì gli occhi, il sole splendeva alto nel cielo e Bellamy era ancora immobile, le dava le spalle. Erano appena le otto, si sarebbe dovuta presentare in centrale tra più di un’ora, quindi decise che poteva starsene a poltrire a letto ancora un po’.

Osservò il ragazzo, perdendosi ad ammirare la sua schiena ampia e muscolosa; lei adorava la schiena di Bellamy e per un istante si fermò a pensare che prima o poi avrebbe dovuto ritrarre anche quella parte di lui.

Ad ogni modo, ora gli scostò appena i capelli dal collo, cominciando a baciare quella pelle morbida. Lo sentì muoversi poco a poco contro il suo corpo, finché sostituì i baci ed iniziò a mordicchiarlo teneramente.

«Griffin, sei proprio sicura di quello che stai facendo?» e, nonostante la sua voce fosse ancora assonnata, la ragazza riuscì distinguere anche una nota di divertimento e qualcos’altro… di molto simile al desiderio.

La ragazza sorrise sul suo collo prima di risalire a mordere leggermente il suo lobo e a quel punto lui si voltò di scatto, intrappolandola tra le sue braccia.

«Ti piace giocare col fuoco, vero, Principessa?».

«Non sai quanto» rispose, praticamente sulle sue labbra.

«Dio, come devo fare con te?» e detto questo fece aderire completamente le loro labbra, baciandola con trasporto.

Clarke sospirò, tirandosi un po’ più indietro per osservarlo bene.

«Già, mi chiedo proprio come farai con me», detto questo scivolò via dalle sue braccia, osservandolo con aria maliziosa.

«Dove credi di andare adesso?» chiese lui, piuttosto contrariato dalla sua improvvisa lontananza.

«A farmi una doccia. Non posso certo presentarmi alla centrale in queste condizioni».

«Beh, anch’io ho bisogno di una doccia, direi che possiamo risparmiare acqua».

«Ti piacerebbe» disse poi con espressione furba.

«A dire il vero sì. Molto».

A quelle parole, Clarke non poté fare a meno di ridere, dopodiché prese un cambio di vestiti e si avviò verso il bagno, ma udì distintamente le parole di Bellamy quando disse: «Mi ucciderai, donna» e non riuscì a non sorridere.

Non impiegò molto a farsi la doccia, anche perché appunto, ne aveva bisogno anche Bellamy, dunque dopo dieci minuti era già fuori, avvolta da un asciugamano e completamente gocciolante.

«Clarke, sappi che nelle ultime ventiquattro ore… anzi, possiamo anche dire nelle ultime dodici, hai messo a durissima prova la mia pazienza e il mio autocontrollo» disse Bellamy non appena la vide uscire.

«Mmm… davvero interessante» disse lei guardandosi allo specchio e spazzolandosi con vigore i capelli ancora bagnati.

«Interessante? Davvero? Perché io… », ma Clarke lo mise a tacere con un bacio e lo sospinse verso il bagno.

«Muoviti, sono quasi le otto e mezza e tu devi ancora lavarti e dobbiamo fare colazione» gli disse dandogli una lieve pacca sul sedere. Lui si voltò a guardarla con aria fintamente scandalizzata prima di mettersi a ridere e avviarsi in bagno.

Quando si fu richiuso la porta alle spalle, Clarke legò i capelli bagnati in una treccia laterale e indossò gli shorts di jeans della sera precedente e una camicetta leggera. Forse non era l’abbigliamento più adatto per presentarsi in un centrale di polizia, ma il caldo era davvero troppo opprimente.

Bellamy uscì dal bagno gocciolante e con un asciugamano legato in vita circa dieci minuti dopo, quando Clarke aveva appena messo la moka del caffè sui fornelli e tirato fuori dal frigo un barattolo da mezzo chilo di yogurt.

«Come va la tua caviglia oggi?» si informò lui una volta vestito e che l’ebbe raggiunta in cucina.

«Direi che ormai è a posto».

«Bene» rispose lui con un sorriso, versando nella tazza di yogurt una quantità inverosimile di cereali.

Quando il caffè fu pronto, Clarke lo divise tra di loro e fecero colazione in tranquillità.

Erano ormai le nove quando si alzarono dal tavolo e Clarke lavò rapidamente tutto quanto prima di uscire, mentre Bellamy cambiava l’acqua nella ciotola di Yeti.

«Sembrate andare più d’accordo voi due» disse lei con un sorriso.

«Sono ancora fermamente convinto del fatto che sia la reincarnazione di Satana, ma se non altro ha smesso di farmi agguati ogni mezzo secondo».

Quelle parole fecero ridere Clarke, che rimise a posto l’ultima tazza prima di chiudere la credenza.

«Ormai ho perso le speranze».

«È colpa sua, è lui lo psicopatico».

La bionda gli diede un leggero schiaffo sulla spalla e lui le posò un bacio sulle labbra.

«Andiamo, Principessa. Prima chiudiamo questa cosa, prima ti riporto a casa. E oggi pomeriggio potremmo dedicarci a quel pomeriggio di shopping che ti avevo promesso dato che tu non hai più vestiti e che la tua caviglia va meglio. Lo cercheremo domani quel dottor… Roden».

«Bellamy Blake, tu sì che sai come conquistare una donna».

«Davvero? Perché non mi sembri la classica shopping-dipendente. Anche se certo… potrei portarti in libreria».

A quelle parole, gli occhi della ragazza si illuminarono.

«Sei una delle persone più fantastiche che abbia mai conosciuto» disse lei, facendolo ridere.

«Beh, meno male allora, perché voglio che passiamo insieme ancora molto molto tempo. E adesso andiamo, prima che ti rapisca».

Così, con il sorriso ancora stampato in volto, la ragazza lo seguì fuori di casa e Bellamy si mise alla guida in direzione della centrale di polizia.

Impiegarono circa un quarto d’ora per arrivare e, appena entrati, incrociarono subito Lincoln.

«Ehi!» li salutò lui con un gran sorriso.

«Lincoln!».

«Come va, ragazzi? Bellamy, ho saputo della sparatoria davanti casa vostra. Tua sorella era preoccupatissima».

«Sì, noi… stavamo guardando un film quando è successo, abbiamo solo sentito la macchina e uno sparo. Avete scoperto qualcosa?».

«Non molto. Uno dei tuoi vicini ha detto che una macchina scura era appostata da diverse ore lì davanti, ha visto un uomo scendere e avvicinarsi verso casa tua appunto, ma poi un altro è spuntato fuori di corsa. Il primo se l’è data a gambe e l’altro ha sparato verso la macchina, che sembra essere scomparsa nel nulla».

«Verso casa mia, davvero?».

«Già, ad ogni modo… il comandante ti aspetta nel suo ufficio, Clarke, avrà sicuramente qualcosa da dirti».

Lei annuì, dopodiché, lanciando un ultimo sguardo a Bellamy, si avviò da sola verso l’ufficio che ormai aveva imparato a conoscere.

Bussò due volte, piano, e la voce fredda e chiara del comandante le disse di entrare.

«Clarke… accomodati» disse la giovane donna dall’altra parte della scrivania.

La ragazza prese posto e rimase in silenzio, aspettando che fosse il comandante a parlare per primo.

«Ho sentito quello che è successo ieri sera di fronte casa di Bellamy Blake… stai bene?».
La sua preoccupazione la metteva quasi a disagio, specialmente dopo la sua entrata in scena della sera prima, ancora non le piaceva il modo in cui aveva trattato Bellamy, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco, in modo da poter andare via di lì alla svelta.

«Sto bene, grazie. Dunque… è necessario che le spieghi cosa è successo la sera dell’incendio? Certo, sempre dal momento in cui mi sono svegliata e mi sono resa conto di cosa stava succedendo».

Il comandante annuì.

Così, brevemente la ragazza spiegò che dopo la notte passata da Jasper, aveva trascorso gran parte della giornata a dormire e che semplicemente, quando ormai era sera tarda, si era svegliata per via di un insolito caldo. Quando aveva aperto gli occhi, aveva visto che casa sua bruciava, dopodiché Wells era stato tempestivo nel chiamare i soccorsi, ma lei era tornata dentro per recuperare Yeti. Il resto non aveva bisogno di alcuna spiegazione.

Lexa War annuì.

«Clarke… non vorrei metterti troppo in allarme, ma pensiamo che ciò che sia accaduto ieri sera davanti casa di Bellamy Blake, possa essere collegato all’incendio».

«Sta dicendo che la persona che ha appiccato l’incendio a casa mia, potrebbe essere la stessa che ha sparato ieri sera?».

La ragazza fece un cenno appena percettibile di assenso con il capo.

«Potrebbe essere».

Clarke si lasciò andare contro lo schienale della sedia e sospirò pesantemente.

«Quindi che si fa adesso?».

«Metteremo un agente in borghese davanti casa vostra per un paio di giorni, tanto per cominciare. E vediamo se intanto succede qualcosa, dopodiché, decideremo cosa fare».

A Clarke quell’idea non piaceva e immaginava che sarebbe piaciuta ancor meno a Bellamy. Si sentì in colpa. Se non fosse stato per lei, lui non sarebbe finito in mezzo a tutti quei guai.

Non le restò che annuire, ancora piuttosto scettica, ma aveva come l’impressione che protestare sarebbe stato inutile, perciò decise semplicemente di lasciar correre e si alzò dalla sedia, dopo aver stretto la mano del comandante.

«Mi raccomando, Clarke… fa’ attenzione» e, con quest’ultima frase, la bionda aprì la porta e si ritrovò nuovamente in corridoio.

Bellamy la aspettava seduto nell’ingresso, Lincoln era sparito. Non appena la vide scattò subito in piedi.

«Allora? È tutto a posto?».

Lei lo prese per mano.

«Vieni, ti spiegherò tutto mentre torniamo a casa» e, mano nella mano, uscirono alla svelta dalla centrale di polizia.



Get out your guns, battles begun
Are you a saint, or a sinner?
If loves a fight, than I shall die
With my heart on a trigger

They say before you start a war
You better know what you're fighting for
Well baby, you are all that I adore
If love is what you need, a soldier I will be

I'm an angel with a shotgun
Fighting til' the wars won
I don't care if heaven won't take me back
I'll throw away my faith, babe, just to keep you safe
Don't you know you're everything I have?
And I, wanna live, not just survive, tonight



Tira fuori le tue pistole, la battaglia inizia
sei un santo, o un peccatore?
Se l'amore è una lotta, allora dovrei morire
con il mio cuore sul grilletto.

Dicono che prima di iniziare una guerra
è meglio che tu sappia ciò per cui stai combattendo.
Beh piccola, tu sei tutto quello che adoro
se l'amore è quello di cui hai bisogno, sarò un soldato.
Sono un angelo con un fucile a pompa
combatterò finché la guerra non sarà vinta
Non mi importa se il paradiso non mi rivorrà indietro.
Butterò via la mia fede, piccola, solo per tenerti al sicuro.
Non lo sai che sei tutto quello che ho?
E io voglio vivere, non solo sopravvivere, stanotte.



In poche semplici frasi, Clarke gli aveva spiegato le intenzioni della polizia, in altre parole: controllarli.

No Bellamy, stanno solo cercando di proteggere Clarke, datti una calmata, è per la sua sicurezza, si costrinse a pensare, ma era inutile fingere che la cosa non gli desse un certo fastidio. Forse era semplicemente perché non gli piaceva l’idea che qualche agente stesse incollato alla porta di casa sua ventiquattr’ore su ventiquattro, o forse perché, semplicemente, non gli piaceva quel comandante. Non sapeva neanche lui il motivo, ma gli dava una strana sensazione e proprio non riusciva a fidarsi.

Ad ogni modo, se era per il bene di Clarke, se ne sarebbe rimasto zitto e buono; la ragazza al suo fianco gli aveva assicurato che non si sarebbero nemmeno accorti della presenza degli agenti, le era stato garantito dal comandante stesso.

La macchina entrò silenziosa nel vialetto di casa sua e lui la parcheggiò senza difficoltà, spegnendo poi il motore.

«Allora Principessa… direi di aspettare il pomeriggio per fare quel giro di shopping che ti avevo promesso, il sole adesso picchia forte e onestamente non mi va di grondare di sudore per le vie del centro con questo caldo infernale».

«Dici? Sei sexy quando sei sudato».

Ed ecco che quel lato di Clarke tornava a galla. Prima o poi lo avrebbe ucciso, ne era certo. Per un momento ripensò alla sera prima, quando lei sostanzialmente gli era saltata addosso e aveva iniziato a baciarlo e spogliarlo. Dio, se non fosse stato per quella macchina e quello sparo, era sicuro del fatto che non avrebbe avuto la forza di volontà di fermarsi e, se non altro quella volta, probabilmente neanche Clarke. Almeno si augurò che non ne avrebbe avuto la crudeltà, perché se fosse venuta meno senza quell’intervento di forza maggiore, lui probabilmente avrebbe perso la testa.

Cercò di calmare i bollori, distogliendo lo sguardo dalla ragazza.

«Che succede, Bellamy Blake? Non ti avrò mica messo a disagio… ».

A quelle parole, gli occhi del ragazzo tornarono su di lei.

«Dovrai impegnarti di più per mettermi a disagio, mi dispiace».

Quella frase fece ridere Clarke, che si sporse a dargli un lieve bacio sulle labbra e poi si avviò in camera, forse per cambiarsi.

Quando sentì la porta della stanza richiudersi, si prese la testa tra le mani.

< Maledizione.

Sì. Maledizione a lei che era così dannatamente sexy e che si divertiva a provocarlo di proposito, maledizione a lui che non era capace di gestire i suoi fottutissimi ormoni manco avesse quindici anni e maledizione a quella situazione che lo avrebbe mandato fuori di testa.

Perché, semplicemente, per una volta la sua vita non poteva avere una parvenza di normalità? Non si lamentava della sua vita fino a quel punto, insomma… di certo non era stata facile, ma non era nemmeno stata una brutta vita.

Era stata movimentata da alti e bassi, forse più bassi che alti, ma lui aveva conosciuto l’amore. Quello puro e incondizionato di Octavia. L’amore senza fine che sua madre gli aveva dato senza chiedere nulla in cambio, nonostante fosse stato un adolescente difficile. E, a suo modo, anche lui le aveva amate e avrebbe continuato ad amare e proteggere sua sorella fino alla fine dei suoi giorni.

Chiuse gli occhi, prese un profondo sospiro e lo lasciò andare, ma un attimo dopo fu investito dall’ormai familiare profumo di Clarke e sentì le sue braccia avvolgergli il torace.

«Stai bene?» chiese lei, posandogli la testa su una spalla.

«Sì, Clarke. Sto bene» rispose rilassandosi contro il corpo di lei.

Quella ragazza aveva un’innata capacità di passare da una versione di sé stessa provocante e maliziosa, ad una estremamente semplice e dolce con una naturalezza disarmante. E questa era un’altra delle cose che adorava in lei.

Si voltò, per riuscire a far sì che fossero petto contro petto e le avvolse la schiena con le braccia.

«Sai una cosa, Bellamy Blake?» disse lei, alzando la testa per poterlo osservare bene in faccia.

«Che cosa?».

«Le tue braccia sono il posto in cui mi piace stare di più al mondo».

Forse non avrebbe dovuto, ma quelle parole lo sorpresero ugualmente. Clarke non era esattamente il tipo di ragazza che si lasciava andare a dichiarazioni del genere, come anche lui non era solito fare grandi discorsi sui suoi sentimenti, ma ad ogni modo non riuscì a trattenersi dal sorridere.

«Beh, allora meglio così perché ho intenzione di tenerti fra queste braccia ancora per molto tempo» e detto questo chinò il capo fino a far combaciare le loro labbra.

Non sapeva spiegarsi come, ma quell’incastro era sempre qualcosa di perfetto e quando baciava Clarke… tutto si annullava. I problemi, le preoccupazioni, ogni cosa spariva dalla sua mente e tutto ciò che esisteva erano loro due e i brividi che gli correvano lungo il corpo.

Le accarezzò i fianchi, l’addome, tutto ciò che riusciva a raggiungere in quella posizione, e come sempre, non riuscì a capire quanto fosse passato quando si staccarono.

Avrebbe voluto dire qualcosa, ma non gli veniva in mente nulla di abbastanza significativo da farle capire cosa provasse per lei, così si limitò a stamparle un bacio sulla fronte, gli occhi ancora chiusi e la sentì stringersi al suo petto.

«È forse questo, Bellamy?» adesso anche il tono di lei era serio.

«Che cosa?».

«Dopo tutto il dolore e la sofferenza che abbiamo passato, dopo le persone che abbiamo perso, ciò che abbiamo dovuto affrontare. È questa la ricompensa?».

Un sorrisetto a metà si aprì sul volto del ragazzo.

«Beh, in tal caso Clarke, se fosse questa la ricompensa… direi che me la farò bastare».

A quelle parole anche lei sorrise e si sporse a baciarlo un’altra volta.

Bellamy la strinse a sé per un’ultima volta prima di scostarsi bruscamente.

«Ok, Principessa. Adesso direi di darci una calmata, perché seriamente… tra ieri e oggi potrei davvero non rispondere più delle mie azioni. C’è un limite a tutto e noi dobbiamo studiare e restare concentrati, ricordi?».

«Sai Bellamy, ai tempi del liceo non avrei mai detto che fossi un tipo così dedito allo studio».

«Sono cambiate tante cose da allora» rispose lui con un sorrisetto furbo.

Dio, com’erano cambiate le cose.

Ad ogni modo Clarke non se lo fece ripetere due volte e si avviò in salotto, dove sul tavolo erano posati i suoi libri e appunti di medicina. Aveva così tanta roba che Bellamy dovette restare in cucina perché lui e il suo libro non sarebbero mai entrati in mezzo a tutto quel macello.

Dunque si sedette attorno al tavolo e aprì il manuale.

Le pagine erano scarabocchiate da appunti disordinati in una grafia spigolosa, Octavia gli aveva sempre detto che scriveva in modo terribile, ma non le aveva mai dato retta.

La sua mente si perse tra quei paragrafi, pagina dopo pagina assimilava ogni nozione, ogni singolo dettaglio che lo avrebbe aiutato a superare quel test. Voleva passarlo a tutti i costi. Voleva con tutte le sue forze poter restare nella caserma 62 per continuare a lavorare con quei ragazzi che, ormai, erano diventati la sua famiglia.

In quel libro c’era veramente di tutto: dalle attrezzature, al primo soccorso, alle procedure… ogni cosa e francamente non gli dispiacque rispolverare la parte teorica, si rese conto che, nonostante avesse sempre messo in pratica tutto ciò che aveva imparato ai tempi dell’accademia, certe cose erano andate dimenticate nei recessi della sua mente. Senza alcun dubbio tutto quello gli sarebbe tornato utile, specialmente perché di esperienza sul campo, da allora, ne aveva accumulata parecchia.

Era ormai mezzogiorno passato quando la sua concentrazione venne meno e lui chiuse il libro. Era sempre stato così: non riusciva mai a passare pomeriggi interi con la testa tra i libri e restare concentrato per tutto il tempo. Non era come Clarke; piuttosto preferiva fare sessioni di studio brevi e frequenti, ma mai più di due o tre ore consecutive. Inoltre la fame cominciava a farsi sentire.

Fece capolino in salotto, giusto per controllare Clarke e capì dalla sua espressione attenta e concentrata e dalla piccola ruga che si era formata tra le sue sopracciglia che era del tutto presa dallo studio in quel momento, dunque decise di non interromperla.

Si avviò in cucina, cominciando ad armeggiare tra pentole e fornelli. Apparecchiò la tavola e, dopo circa mezz’ora, fu tutto pronto, dunque si riavviò in salotto, dove adesso Clarke era intenta a sottolineare qualcosa sul libro con un evidenziatore azzurro.

Il ragazzo si chinò dietro di lei per posarle un bacio su una spalla nuda e lei rabbrividì.

«Non ti ho sentito arrivare» disse interrompendo la sua attività e voltandosi a guardarlo con un sorriso.

«Sì, ho notato la tua concentrazione. Vieni in cucina, è pronto il pranzo».

Lei non riuscì a non lasciarsi sfuggire un’espressione stupita, poi sbuffò divertita.

«Non mi sono davvero accorta di nulla. Scusa, ti avrei dato una mano».

«Eri così assorta che non ti volevo disturbare».

«Beh, la prossima volta disturbami. Mi piace quando cuciniamo insieme» disse dopo un momento di pausa.

Si fissarono per un momento, poi Bellamy la baciò e si sorprese di quanto quell’azione per lui fosse diventata così spontanea e naturale nel giro di così poco tempo. Dopotutto… erano trascorsi meno di dieci giorni dalla famosa cena al ristorante “Timeless”. Meno di dieci giorni da quando l’aveva baciata per la prima volta e… Dio, com’era stato intenso.

Era stato come togliersi un peso dallo stomaco, ma in senso buono. Una vera e propria liberazione quando le sue labbra avevano toccato quelle di Clarke e lui aveva finalmente trovato un senso perfino a quel casino in cui erano andati a cacciarsi. Sembrava quasi come se tutta quell’assurda situazione li avesse condotti a quella sera, a quel bacio e nonostante tutto… non se ne sarebbe mai pentito.

Mangiarono in un’atmosfera distesa, nonostante Bellamy avesse notato quell’auto scura parcheggiata fuori dalla sua abitazione. Dentro un agente della polizia che aveva già visto qualche volta, durante il corso del suo lavoro, un certo Aaron McClay non molti anni più grande di lui che, quando si era affacciato dalla finestra e lo aveva notato, sembrava tutto intento nella lettura della pagina sportiva del “Times”.

Bellamy aveva sospirato, ma, ancora una volta, si era costretto a pensare che tutto quello fosse per la sicurezza di Clarke e, nonostante fosse convinto che ora che poteva tenerla d’occhio costantemente, non sarebbe potuto accaderle nulla di male, avere un paio d’occhi in più non sarebbe guastato.

Quando finirono di mangiare la ragazza lo aiutò a sparecchiare, ormai la sua caviglia si era completamente ripresa, non aveva più bisogno delle stampelle e sembrava che camminare per periodi prolungati non la infastidisse come invece accadeva prima.

Di nuovo, Bellamy tornò con la mente alla sera dell’incendio e per un momento si rabbuiò. Se solo la chiamata di Wells Jaha fosse arrivata due minuti dopo…

Scosse la testa, costringendosi a non pensarci e aprì l’acqua del lavandino per mettere a bagno le stoviglie sporche, dopodiché prese Clarke in spalla, che emise un’esclamazione sorpresa e si lasciò cadere sul divano, con la ragazza tra le braccia.

«Bellamy, lasciami, devo tornare a studiare», disse lei, cercando di rimanere seria, ma in vano.

«No. Tanto è inutile studiare subito dopo i pasti, anzi, è addirittura controproducente».

«Mmm… davvero? Ma non mi dire».

«Sì, adesso hai proprio bisogno di un po’ di relax, Principessa… e tecnicamente sei ancora in convalescenza, perciò non ti muoverai da questo divano. È chiaro?».

Bellamy la tenne stretta per la vita, impedendole di muoversi dalle sue gambe, ma francamente non sembrava che a Clarke la cosa dispiacesse molto.

«Credo di non avere molte altre alternative in ogni caso» rispose lei sorridendo.

«No, infatti» la avvicinò ulteriormente a sé stringendola ancora un po’ e lei lo attrasse per la nuca, finché le loro labbra non si incontrarono.

Bellamy sospirò, non riusciva proprio a trattenersi dal farlo ogni volta che Clarke lo baciava ed era perfettamente consapevole del fatto che lei avesse capito che quello era un segnale di quanto avesse imparato a lasciarsi andare, ma al tempo stesso di quanto si stesse trattenendo dal volerle fare cose molto peggiori di un semplice, innocente bacio. Anche se effettivamente non tutti i baci erano stati esattamente innocenti, anzi, c’erano state volte in cui un bacio era stato molto più significativo di qualsiasi altro gesto o parola.

Avvertì le dita sottili e affusolate di Clarke insinuarsi sotto la sua maglietta e, nonostante il caldo, non poté fare a meno di rabbrividire.

La strinse così forte che per un momento ebbe paura di sentire qualche costola scricchiolare, poi allentò la presa e, piano, si staccò da lei, riaprendo gli occhi.

Era bellissima nonostante i capelli scarmigliati e lo sguardo vagamente ubriaco di chi si è appena svegliato da un sogno che non avrebbe voluto interrompere.

«Bellamy Blake, tu mi ucciderai».

«Strano Principessa… è la stessa cosa che stavo pensando io in questo momento».

Lei sorrise ad occhi chiusi e Bellamy rimase a fissarla. Amava quel sorriso, amava l’espressione rilassata di Clarke quando sembrava che niente di brutto stesse accadendo intorno a loro, nonostante la realtà fosse tutt’altra cosa.

Si sdraiò sul divano, trascinando la ragazza su di sé e restarono così per un po’, lui a passarle le dita tra i capelli a lei a respirare piano nell’incavo del suo collo. Ci volle un po’ prima che Bellamy si rendesse conto che si era addormentata.

Forse, nonostante tutto, doveva ancora risentire della stanchezza.

La strinse a sé un po’ di più, circondandole il torace con le braccia e le posò un lieve bacio tra i capelli, poi, chiuse gli occhi a sua volta e si rilassò.



Si risvegliò per via del caldo. Grondava di sudore e adesso che il climatizzatore era rotto era veramente un problema. Non voleva svegliare Clarke, ma per lui la temperatura stava diventando davvero insopportabile, il corpo della ragazza sopra il suo sembrava bruciare.

Cercò di mettersi più comodo e si costrinse a regolarizzare il respiro. Clarke aveva bisogno di riposare, non aveva nessuna intenzione di svegliarla.

Provò a pensare ad altro, si concentrò, contò fino a dieci. Nulla.

Poi Clarke si mosse. Poco dapprima, ma poi una delle sue mani si strinse sulla sua canottiera madida di sudore, finché non alzò la testa fino ad incontrare il suo sguardo.

Inizialmente sorrise, poi assunse un’espressione leggermente preoccupata. Bellamy non doveva essere in buone condizioni, se ne rendeva conto anche da solo.

«Ehi, Principessa… mi chiedevo se mi avresti fatto morire annegato nel mio stesso sudore» cercò di sdrammatizzare e, non appena Clarke mise a fuoco la situazione, si scostò da lui tempestivamente.

«Perché non mi hai svegliata?!» sembrava quasi arrabbiata.

«Dormivi così bene. E poi hai ancora bisogno di riposo».

«Al diavolo, sembra che tu sia sul punto di andare in autocombustione da un momento all’altro!» strillò e questa sua reazione lo fece quasi ridere.

«Nulla che non si possa risolvere con una bella doccia, Principessa. E, se per te non è un problema, ci andrei subito» disse poi alzandosi.

Le lanciò uno sguardo fugace, scorgendo un sottile velo di senso di colpa nei suoi occhi chiari, così si chinò per osservarla bene.

«È tutto a posto, Clarke».

In tutta risposta lei gli prese il volto tra le mani e lo baciò con impeto, prendendolo alla sprovvista e rischiando di fargli perdere l’equilibrio, ma lui riuscì a mantenerlo poggiandosi contro il divano, poi le mise le mani sulle ginocchia.

«Principessa… attenta, o potrei trascinarti sotto la doccia con me».

«Beh, non sarebbe la prima volta» disse lei con una punta di malizia negli occhi e Bellamy non riuscì a trattenere un sorriso.

«Già… è stato divertente, no?».

«Mmm… mi hai inzuppata di acqua gelida. Non molto in realtà».

«Sei stata tu per prima a farlo. Dovevo passare al contrattacco».

«Beh, no ovviamente. Avresti solo dovuto lasciarmi fare».

«Subire e basta? No, non è da me, Principessa, mi dispiace. E poi ho la vaga impressione che non piacerebbe neanche a te».

«Potresti avere ragione, Blake» disse poco prima di stampargli un altro bacio sulle labbra.

«Adesso ho proprio bisogno di quella doccia. Non ci metterò molto, tu comincia a vestirti se vuoi, ti ho promesso un pomeriggio di shopping ed è quello che avrai».

Gli occhi di lei si illuminarono e Bellamy pensò che non doveva tanto essere dovuto allo shopping, Clarke non era quel genere di ragazza, quanto al fatto di uscire di casa, cosa che tra la caviglia malmessa di lei e il caldo infernale di quell’estate, avevano fatto molto poco ultimamente.

Bellamy prese a caso dei vestiti puliti dall’armadio, poi andò in bagno e rapidamente si svestì e si infilò dentro la doccia. Subito l’acqua fresca lo rinfrancò e lui si godé il momento prima di cominciare ad insaponarsi.

Adorava la sensazione dell’acqua scivolare sulla sua pelle, gli scioglieva i muscoli e lo rilassava.

Uscì dalla cabina dopo meno di dieci minuti, si asciugò velocemente il corpo e infilò al volo i vestiti, lasciando i capelli gocciolanti sulla fronte, tanto probabilmente sarebbero stati asciutti nel giro di poco una volta fuori per via di quelle temperature elevate.

Quando arrivò in salotto, Clarke era pronta, un paio di pantaloncini beige, una canottiera rossa e un gran sorriso stampato in volto non appena lo vide. Yeti era disteso al suo fianco che faceva le fusa mentre lei gli grattava la testa.

«Bene, Clarke… possiamo andare».

Lei si mise in piedi e lo seguì dopo un’ultima carezza al suo fedele gatto, che però sembrò alquanto contrariato quando la vide allontanarsi da lui.

«Psyco non sembrava molto contento quando sei andata via».

A quelle parole Clarke non riuscì a trattenere un sorriso, ma al contempo lo colpì bonariamente sulla nuca.

«Vuoi piantarla di chiamarlo così?».

«Non ci penso neanche».

«Ma ha anche smesso di soffiarti contro ogni volta che ti vede!».

«A volte lo fa ancora e comunque continua a guardarmi sempre storto».

Lei sbuffò, alzando le mani.

«Io mi arrendo».

Salirono in macchina e Bellamy accese subito la radio. Ormai per lui era diventato un gesto automatico non appena prendeva posto in auto, era come se non riuscisse più a guidare senza musica e, a giudicare da come Clarke si mise a battere il piede a ritmo, anche a lei non doveva dispiacere.

Percorse con sicurezza quelle strade che ormai aveva imparato a conoscere così bene, finché il familiare paesaggio di Manhattan non cominciò a stagliarsi davanti ai loro occhi.

«Siamo arrivati, Principessa» annunciò entrando nel parcheggio di un enorme centro commerciale.

Lei sorrise e scese dall’auto non appena Bellamy spense il motore.

«Non sono mai stata qui».

«Oh… beh, ci ho portato mia sorella qualche volta da ragazzina, quando mi chiedeva di fare da tassista a lei e qualche sua amica, ma se preferisci andare in qualche posto che conosci basta che tu me lo dica».

«Non ti chiederò di farmi da tassista, Bellamy. E poi sono sempre curiosa di provare posti nuovi. Chissà, magari trovo qualcosa di interessante» rispose lei con un sorriso.

«Beh… vediamo, allora. Sarà meglio che trovi anche qualcosa per Atom».

«Atom?».

«Sì, il 6 settembre è il suo compleanno. Mi conviene cogliere l’occasione adesso che sono in ferie perché tra la preparazione per l’esame da tenente e il ritorno al lavoro, dubito che avrò altre occasioni per trovare qualcosa».

«Vi fate i regali di compleanno? Che carini» lo prese in giro lei, beccandosi un’occhiataccia dal ragazzo.

«È una cosa che abbiamo sempre fatto. Lui, Octavia, e Raven sono gli unici a cui prenda qualcosa nelle ricorrenze. Tra l’altro negli ultimi anni avevo anche smesso con Raven dal momento che difficilmente tornava a casa, ma insomma… lei è la mia migliore amica».

«E Lincoln?».

Lui scosse la testa.

«Non abbiamo mai avuto quel tipo di rapporto. È il ragazzo di mia sorella, anzi, il suo fidanzato adesso, e lo considero uno di famiglia, ma non lo so… non saprei neanche che cosa prendergli onestamente, lo so che è ridicolo».

Clarke scrollò le spalle.

«Perché dovrebbe essere ridicolo?».

Lui si mise le mani in tasca e alzò le spalle, senza rispondere, allora fu Clarke a prendere parola: «L’unico a cui io abbia mai preso regali era mio padre. Non ne ho mai comprati neanche per mia madre o per Thalia».

«La tua coinquilina di Harvard?».

«Già. E praticamente la considero la mia migliore amica. È un po’ triste, vero?».

A quelle parole, Bellamy la prese per mano, intrecciando le loro dita.

«Immagino che ognuno faccia ciò che si sente».

«Già, suppongo sia così».

«Sai, Clarke… noi ci siamo ricostruiti da zero. Non so bene come spiegarmi, ma, almeno io, dopo la morte di mia madre diciamo che ero un po’ squilibrato. Non squilibrato nel senso di essere pazzo, ma nel senso letterale della parola: avevo perso il mio equilibrio. Lei era l’unica figura genitoriale che avessi mai avuto, sono cresciuto senza mio padre e i miei ricordi di lui sono molto vaghi, Octavia non lo ha neanche mai conosciuto, se l’è filata quando mia madre gli ha detto che era incinta di mia sorella, dunque probabilmente è stato meglio così. Non lo rimpiango, ecco, ma così il mio unico punto di riferimento fisso è sempre stata lei. E quando se n’è andata, mi sono sentito come se il terreno mi fosse stato strappato da sotto i piedi, immagino che sia stato qualcosa del genere anche per te, specialmente dal momento in cui almeno io avevo mia sorella, mentre tu… beh, diciamo che il rapporto con tua madre è sempre stato un po’ complicato».

A quelle parole lei emise un mezzo sbuffo divertito.

«Diciamo anche che è sempre stato molto complicato».

«Sì. Quello che cerco di dire è che nel momento in cui queste persone così importanti per noi sono venute a mancare, è vacillato anche l’equilibrio che in qualche modo ci eravamo costruiti, ma nonostante tutto abbiamo trovato il modo e la forza di rialzarci, ci siamo rimboccati le maniche e, pezzo dopo pezzo, ci siamo rimessi insieme dal nulla. Noi ce l’abbiamo fatta Clarke e questo… io ne vado fiero. Lo so che ci sono persone molto più realizzate di me, magari persino più giovani, che hanno avuto risultati migliori dei miei, ma io… sono riuscito a rimettermi in carreggiata dopo una sbandata tremenda e sono riuscito a garantire a mia sorella ciò a cui voleva arrivare. Ed ora lei e felice e io sono felice… » nel dire questo aumentò la pressione delle loro dita intrecciate per un momento… «… e va bene così» concluse.

Clarke alzò la testa e lo osservò meglio per un momento.

«Sei una persona speciale, Bellamy Blake. Non lo dimenticare mai. Octavia è stata fortunata ad avere un fratello come te, sei stato fantastico con lei. Te ne sei preso cura come una figlia».



Lui accennò un sorriso, guardando dritto di fronte a sé e fece passare un braccio attorno alle spalle della ragazza nel momento in cui varcavano l’ingresso del centro commerciale.

Subito l’aria dei climatizzatori sparati a mille li investì e lui tirò un sospiro di sollievo per quel fresco improvviso, avrebbe dovuto chiamare qualcuno per farsi sistemare quello a casa sua il primo possibile, non sapeva quanto avrebbe resistito altrimenti senza stare male.

Fin da bambino aveva avuto problemi con il troppo caldo, quand’era all’asilo era perfino svenuto dopo aver iniziato a perdere sangue dal naso.

Le maestre avevano chiamato immediatamente il 911 e sua madre, che era arrivata di corsa in ospedale, spaventata a morte.

In ogni caso, da allora non aveva mai più avuto problemi del genere, anzi… le volte in cui si era ammalato potevano contarsi sulle dita di una mano, ma aveva sempre sofferto tremendamente il caldo, gli faceva calare la pressione a picco.

«Mia sorella è sempre stata il punto focale della mia vita. Il prendermi cura di lei mi ha reso la persona che sono adesso. Mi ha aiutato a crescere».

Lei sorrise, poi iniziò a guardarsi intorno per vedere di trovare qualcosa che potesse interessarle.

Erano dentro da quasi dieci minuti quando qualcosa catturò la sua attenzione.

«Che ne dici?».

«Dico che siamo qui per te Clarke, se trovi qualcosa che ti piace provalo», così, Bellamy la seguì all’interno del negozio.

Il ragazzo si sedette su una poltrona mentre lei prendeva con sicurezza ciò che le piaceva senza perdere tempo ad aggirarsi inutilmente per il negozio.

Era certo del fatto che Octavia lo avrebbe tenuto lì per ore, mentre dopo cinque minuti Clarke era già in camerino a provare ciò che aveva scelto, mentre lui leggeva la pagina economica del Wall Street Journal, abbandonato su uno dei tavolini bassi vicino l’ingresso.

Clarke uscì qualche minuto dopo rimirandosi nel grande specchio posato contro il muro mentre indossava una sgargiante canottiera verde con un originale intreccio sulla parte più alta della schiena, abbinata a degli shorts neri. Bellamy doveva ammettere che stava davvero bene, ma riflettendoci meglio, per com’era preso ormai da lei, gli sarebbe sembrata bellissima anche con un sacco di nylon addosso.

«Che ne dici?».

«Ti stanno bene» rispose tentando di limitarsi, mentre avrebbe voluto trascinarla dentro quel camerino e toglierle tutto di dosso.

Lei sorrise a quella risposta.

«Bellamy, ti ringrazio per tutto ciò che stai facendo per me, ma non ti obbligherò ad un pomeriggio dentro e fuori dai negozi solo per seguirmi, vai pure a farti un giro per conto tuo intanto, va bene? Quando ho finito ci sentiamo» disse sventolandogli davanti alla faccia il cellulare che lui stesso le aveva comprato.

«D’accordo, allora ti lascio questa» disse estraendo dalla tasca posteriore dei pantaloni il suo portafogli e tirando fuori la carta di credito.

«Sei consapevole di ciò che stai facendo, vero?».

«Mi preoccuperei se la stessi dando a mia sorella, ma non a te Clarke. Da quanto ho visto, e se ho capito qualcosa di te, non sei quel tipo di donna».

Clarke sorrise di nuovo, prendendo la carta.

«Molto bene signor Blake… ci vediamo più tardi allora».

«A dopo» e si chinò su di lei per baciarla.

Così uscì dalla piccola boutique, guardandosi un po’ in giro, cercando di individuare un negozio in cui avrebbe potuto trovare qualcosa per Atom, ma non aveva grandi idee in realtà.

Era un appassionato di motori e di elettronica, finché non gli venne in mente che una volta, in quel centro commerciale, aveva visto un negozio in cui vendevano biglietti per dei giri in pista con delle macchine da corsa. Per il suo migliore amico quella avrebbe potuto essere una buona idea.

Così si avviò in quella direzione, sperando di trovarlo ancora e con sollievo constatò di sì.

Si informò con un commesso alto e muscoloso e lui gli illustrò ciò che avevano attualmente in negozio.

Alla fine Bellamy optò per prendere un biglietto sfruttabile entro sei mesi in uno dei più grandi circuiti del circondario ed uscì, con il portafogli decisamente più leggero, ma se non altro consapevole del fatto che Atom lo avrebbe adorato.

Per un po’ girò osservando le vetrine, entrando ed uscendo da vari negozi senza troppo interesse, finché non arrivò davanti ad un negozio di animali.

Decise di entrare e subito venne attorniato da sei cuccioli di cane di diverse razze. Sorrise, chinandosi ad accarezzarli mentre la proprietaria del negozio li rimproverava bonariamente.

Ad un tratto però l’attenzione del ragazzo venne attirata da un settimo cucciolo rimasto in disparte, che lo fissava con due profondi occhi azzurri: un husky.

«Ehi ciao… » disse piano mentre allungava una mano nella sua direzione per accarezzarlo.

Il cucciolo abbassò le testa e poi, timidamente, iniziò ad avvicinarsi, dapprima annusandogli un po’ la mano.

«Caspita, le devi piacere molto. Non si è mai fatta avvicinare da nessuno fino ad ora».

«È bellissima».

A Bellamy i cani erano sempre piaciuti, ma gli husky… ne aveva visto uno da bambino e se ne era perdutamente innamorato. Avrebbe tanto voluto chiedere ai suoi genitori se ne potessero prendere uno, ma da che avesse memoria, era sempre stato consapevole della loro condizione economica, dunque prendersi cura anche di un cane sarebbe stato impossibile. Tra l’altro era certo del fatto che suo padre sarebbe andato su tutte le furie e lui era una persona che decisamente era meglio non infastidire, mentre per quanto riguardava sua madre, non voleva darle altri pensieri. Poi era arrivata Octavia e le cose si erano complicate ulteriormente, specialmente dopo l’abbandono di suo padre.

«Gli husky sono una razza molto elegante ed estremamente intelligente, ma bisogna saperli prendere. Una volta conquistata la loro fiducia, con il padrone instaurano un legame di assoluta fedeltà per tutta la loro vita».

Bellamy sorrise, continuando ad accarezzare la cagnolina. Aveva un pelo morbidissimo, il muso e la pancia erano bianchi, mentre il dorso grigio chiaro.

Si perse ad accarezzarla e non si rese più conto del tempo finché non udì una voce alle sue spalle.

«Vedo che hai fatto amicizia».

Si voltò, anche se sapeva già a chi appartenesse quella voce.

«Clarke».

Non mancò di notare che la ragazza teneva tra le mani due borse belle piene e un pacchettino un po’ più piccolo.

«Dammi pure, ti aiuto a portarle».

«Possiamo stare ancora un po’ se vuoi, ti vedevo molto preso».

«Da quanto sei qui?».

«Un po’. Stavo ancora dando un’occhiata in giro quando mi sono accorta che eri dentro. Non sapevo che i cani ti piacessero tanto».

Il ragazzo si grattò la testa.

«Sì, io… mi sono sempre piaciuti molto. Gli husky in particolar modo».

A questo punto anche lei si chinò per accarezzare la cagnetta.

«E tu chi sei?» disse grattandole la testa dietro le orecchie.

Bellamy notò che la padrona del negozio li osservava con interesse.

«È davvero strano, solitamente è molto schiva con gli estranei, sembra che voi due l’abbiate proprio catturata».

I due sorrisero.

«Se vuoi possiamo andare, Clarke. Ti avevo promesso un giro in libreria, no?» a quelle parole gli occhi di lei si illuminarono, così salutarono la proprietaria e, dopo un’ultima carezza al cucciolo, uscirono dal negozio, ma quando Bellamy si voltò un’ultima volta per osservarla, notò che lei aveva inclinato la testa da un lato e li guardava con occhi tristi mentre andavano via. Gli si strinse il cuore per un momento.

«Tutto bene?» gli chiese Clarke, che forse aveva notato qualcosa.

«Sì, io… non lo so, quel cane mi piaceva davvero».

Clarke sorrise.

«Sì, era molto bella».

Bellamy non seppe perché, ma le raccontò la storia dell’husky che aveva visto da piccolo e di quanto ne avesse sempre voluto uno.

«Non hai mai pensato di prenderne uno?».

Lui fece un respiro profondo.

«Avevo Octavia a cui pensare e poi c’è stata l’accademia per entrare nei vigili del fuoco, il lavoro, i turni… certo che ne avrei tanto voluto prendere uno, specialmente da quando vivo da solo, ma è complicato. Sono consapevole dell’impegno che rappresenterebbe, in particolar modo un cane del genere. Ok ho un giardino spazioso, ma sono dell’idea che prendere un cane per mollarlo in giardino tutto il giorno non è una cosa molto responsabile».

Clarke annuì.

«Hai trovato qualcosa per Atom?».

«Sì, alla fine sì. Parlando di compleanni… lo sai che non so nemmeno quando è il tuo, Principessa?».

Lei sbuffò divertita.

«24 ottobre. E il tuo?».

«20 dicembre».

I due chiacchierarono fino a trovarsi davanti ad una libreria, dopodiché Clarke mollò a Bellamy anche il pacchetto più piccolo, lui l’aveva praticamente obbligata a fargli portare le due borse più grandi, e sparì all’interno del negozio.

In effetti anche lui avrebbe potuto dare un’occhiata dentro, dunque decise di raggiungerla, dando una rapida scorsa tra gli scaffali.

Non si rese conto di quanto tempo persero lì dentro, ma alla fine seppe solo che stava tenendo in mano un’altra busta, molto più pesante delle altre due e uno dei libri era suo, mentre il resto era di Clarke.

Risalirono in macchina che ormai erano le sette passate e impiegarono un po’ prima di giungere a casa.

Bellamy aveva fatto spazio nel suo armadio in modo da liberare del posto per le cose di Clarke e, quando la ragazza ebbe messo tutto in ordine, andò in salotto e si lasciò cadere esausta sul divano.

Forse quel giorno si era stancata troppo, si preoccupò Bellamy.

Si sedette accanto a lei e la prese tra le braccia.

«Hai fame? Posso prepararti qualcosa, ormai sono le nove».

Lei scosse la testa mugugnando.

«No. Voglio che restiamo qui».

Bellamy le baciò i capelli, poggiando la testa contro la sua.

«Come vuoi».

Il ragazzo la osservò mentre lei chiudeva gli occhi, fino a che non poggiò la testa contro il suo petto e il respiro si fece più profondo.

La guardò, la vide.

Qualche minuto dopo la sollevò tra le braccia e la portò in camera.




NOTE:




Ebbene sì, non è un miracolo, ma ho davvero aggiornato.

Chiedervi scusa per l’immane ritardo penso sia inutile, ma scusatemi, ho davvero avuto un blocco pazzesco, in compenso questo capitolo è pieno pieno di Bellarke, no? Mi sono fatta perdonare?

Ad ogni modo, spero che il capitolo vi sia piaciuto, ormai siamo quasi al punto di svolta, devo ancora decidere se accadrà già nel prossimo capitolo o se me ne prenderò un altro, ma non posso garantirvi nulla, si vedrà nel momento in cui lo scriverò.

Teorie? Fatemi sapere. Mi auguro che vi siate goduti il capitolo e che vi sia piaciuto.

Per quanto riguarda i brani abbiamo “Everytime we touch” di Cascada dal punto di vista di Clarke e “Angel with a Shotgun”, The Cab per Bellamy.

Everytime we touch – Cascada. Clarke

Angel with a shotgun – The Cab. Bellamy

Alla prossima!

Mel

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3030766