Five Nights at GLaDOS'

di Debby_Gatta_The_Best
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sopravvissuto ***
Capitolo 2: *** Un ultimo sguardo ***
Capitolo 3: *** Giornali ***
Capitolo 4: *** Solo un incidente ***
Capitolo 5: *** Nella discarica ***
Capitolo 6: *** Un vecchio incubo (parte prima) ***
Capitolo 7: *** GLaDOS ***
Capitolo 8: *** Cicatrici ***
Capitolo 9: *** Risveglio ***
Capitolo 10: *** Incubi d'oro ***



Capitolo 1
*** Sopravvissuto ***


AAA

Faceva caldo. Molto caldo.

Un grido lontano, il rumore assordante di un vetro infranto.

Troppo caldo.

Il braccio lo colpì, gettandolo in terra. Ansimava.

Te l'avevo detto, non era un buon giorno per uscire fuori.

Erano in due, le mani prive di articolazioni gli cingettero le braccia, il collo. Cercò di gridare, ma ogni parola rimase bloccata nei polmoni.

Ma tu non mi hai mai dato ascolto. Mai. Troppo preso dal tuo orgoglio per badare a quello che dicevo.

Lo stavano trascinando di peso. Lacrime di terrore iniziarono a scendergli dagli occhi. Non riusciva a respirare, non poteva reagire.

Solo che quella volta... quel giorno... avresti fatto meglio a darmi ascolto, fratello.

Uno stanzino buio, dall'aria intrisa di odori acri. Lo schiacciarono con forza contro il muro, per un attimo si sentì mancare l'aria.

Perché...?

Cercò di scalciare, fendette l'aria con le gambe, ma aveva troppa poca forza, e loro erano tre.

Non volevo morire.

Chica, gli occhi viola scintillanti nel buio, vicinissima al suo volto. Continuava a premerlo contro la parete.

Meritavo più di te. Sei sempre stato egoista, io no.

Bonnie, che fino a quel momento aveva osservato con occhi ardenti di odio, gli afferrò le gambe, bloccando definitivamente.

Saresti dovuto morire tu al posto mio.

Freddy, gli occhi azzurri irriconoscibili, attraversati da lampi di furore disumano, davanti a lui. Teneva in mano una maschera robotica.

Ma la vita, si sa...

Avanzò di qualche passo, gli attanagliò il mento con la mano sinistra e iniziò ad alzare l'altra verso il suo volto.

...è ingiusta.

Con un movimento fulmineo, un cigolio sinistro di giunture, la mascotte della pizzeria premette la maschera sul suo volto, e Mike poté sentire i ferri che gli squarciavano la pelle, le protuberanze affilate che laceravano il suo viso fino all'osso. Avrebbe voluto gridare, avrebbe voluto piangere, ma non poteva far altro che fissare con orrore il volto del suo assassino, un animatronic progettato per intrattenere bambini.

Ma non sempre, e non con tutti.

La vista iniziò ad offuscarsi, il dolore si fece lancinante. Sentiva la maschera schiacciargli le tempie, gli occhi sul punto di esplodere, la fronte pulsare terribilmente. Dagli occhi della maschera riuscì a intravedere il volto di Freddy. Questo socchiuse la bocca, lasciando intravedere uno scintillio argenteo proveniente dalla gola: l'endoscheletro. Mike rabbrividì, mentre le ultime forze evaporavano dal suo corpo. Chica continuava a tenerlo fermo, ma Bonnie lasciò cadere le gambe, che si afflosciarono come quelle di una bambola di pezza. Aveva il setto nasale paurosamente schiacciato dalla maschera, il sangue gli era colato fino alle narici e non aveva più possibilità di respirare. Freddy emise un suono cupo, metallico, e il ragazzo scorse le mascelle dentate dell'endoscheletro muoversi in modo meccanico.

«Tu, mostro»

Pronunciò il robot. La vista gli si offuscò completamente, il suono del suo stesso cuore, martellante fino a pochi istanti prima, iniziò a svanire dalla testa di Mike. La sensazione dei capelli umidi appiccicati alla testa si dissolse, la paura iniziò a sfilacciarsi... stava perdendo coscienza. Gli ultimi suoi pensieri andarono a sua madre, già vedeva il suo volto disperato su una pagina di giornale, al cugino Jeremy, che più e più volte aveva cercato di dissuaderlo da accettare l'offerta di quel lavoro, al suo vecchio amico Fritz... per un attimo rivide le fronde degli alberi della casa dei suoi nonni, dove passava le estati da piccolo, sentì il vento sulla pelle, il cinguettio degli uccelli...

Poi ci fu uno sparo.

«Fermateli, fermateli!»

«Spegnete quegli affari!»

«Salvate il ragazzo, il ragazzo!»

Scesero le tenebre più profonde. Ma solo per un secondo. Un attimo dopo, una morsa veniva staccatagli dalla faccia. Un grande respiro, a pieni polmoni, il corpo lasciato cadere verso due figure indistinte. Poi tossì, più e più volte, sputando sangue. Gli animatronics gridavano, urla raccapriccianti che si perdevano nei corridoi. Il petto di Mike si alzava e si abbassava ad una velocità spaventosa, il sangue che riprendeva a circolare nelle vene, la vista che tornava, con il dolore del volto sfigurato. Qualcuno lo aveva afferrato, lo aveva fatto sdraiare. Mike guardava il soffitto, le piccole luci da poco accese che tremolavano incerte, una mano gli passò nei capelli, dita affusolate che toccavano le ferite aperte.

«Lesioni gravi alla cute e al volto, chiamate un'ambulanza»

La dura voce di una donna che si perdeva nel buio. Perse i sensi.


Bianco. La prima cosa che vide fu il bianco. Fu travolto dal bianco. Pareti bianche, tende bianche, porte bianche... il cielo, al di fuori delle finestre, pareva anch'esso bianco. O forse erano i suoi occhi a percepire solo quel colore? Tossì. Poi cercò di portarsi seduto, ma le forze non lo avevano ancora ritrovato. Si abbandonò sul cuscino e si riaddormentò.

Si svegliò più volte, sempre più cosciente, due quello stesso giorno e una di notte, mentre una giovane dagli abiti candidi cambiava una flebo ad un altro paziente. La quarta volta c'era sua madre ad aspettarlo, che gli corse incontro ad abbracciarlo in quel modo affettuoso, estremamente materno, che ogni volta aveva messo il giovane in imbarazzo. L'anestesia tornò ad annebbiargli la mente, e la quinta volta si svegliò solo per qualche istante, giusto per notare la shilouette alta e slanciata di suo cugino camminare in tondo, davanti al suo letto, discutendo a voce alta.

Si riaddormentò.




Commento

E rieccomi, piuttosto in anticipo rispetto a quello che avevo progettato, per una nuova storia di Five Nights at Freddy's, questa volta di una sfumatura più seria e coerente al gioco... più o meno. Scoprirete ben presto perché! Questo era solo il prologo, spero abbia stuzzicato la vostra attenzione! Vi aspetto al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Un ultimo sguardo ***


AAA

Le finestre erano sbarrate, nell'ingresso faceva un caldo soffocante. Gli animatronics erano immobili, nelle loro consuete posizioni, e fissavano punti lontani nello spazio. I loro occhi, inespressivi non parevano cogliere il volto teso del proprietario.

«Dovevate essere il mio successo... siete stati la mia rovina»

Un bisbiglio che risuonò nella sala, rimbalzando sui muri e creando un triste effetto.

«Perché?»

La porta alle sue spalle si aprì, un fascio di luce si allungò sul pavimento scivolando sui tavoli spogli e sulle pareti. Fred si voltò lentamente, quasi con noncuranza, ma la mascella serrata e gli occhi lucenti lasciavano trasparire il suo nervosismo.

«Un ultimo sguardo, avevamo detto»

La voce anticipò i due agenti in divisa che entrarono subito dopo la luce.

«Un ultimo... sguardo, sì»

Ripeté Fred, ma la sua voce era roca, forzata. Con tre lunghi passi giunse davanti al tendone viola ormai lacero. Lo aprì lentamente, facendo cigolare appena gli anelli di ferro che lo sorreggevano. Al suo interno giaceva un Foxy in disuso, con muso inclinato da una parte, gli occhi finti che fissavano le mattonelle. Aveva le braccia piegate all'altezza degli avambracci, come se stesse ancora reggendo un tagliere per pizze come aveva fatto un tempo, da porgere ai bambini. L'uncino era rivolto verso il basso, e solo quel particolare rendeva la creatura di metallo ancora più malinconica.

Fred fu restio dal richiudere le tende viola. In qualche modo si sentiva responsabile della rabbia di Foxy, poiché tutto era partito da quando aveva chiuso il Covo dei Pirati per la prima volta, nel '87. Foxy, probabilmente il più popolare, addirittura più amato di Freddy, era stata la causa principale della loro rovina. Da quando aveva morso quella bambina... cosa aveva indotto la volpe pirata ad agire in quel modo, nessuno lo aveva mai capito. Ma il pensiero aveva tormentato molte notti del proprietario, che prima di riaprire la pizzeria era giunto alla conclusione di dover disattivare Foxy. Qualcosa gli aveva sempre suggerito che non era stata colpa sua – in fondo erano animatronics programmati per eseguire certi gesti, per dire certe cose e basta, certamente non dotati di volontà propria – ma probabilmente di un cortocircuito o di una programmazione fatta male.

Non incolparlo... dietro a quel morso c'era un'altra persona

Eppure in quell'incidente c'era stato qualcosa di strano, Fred aveva assistito alla scena e poteva affermarlo con chiarezza. Mentre parlava con una cliente, si era sentito un grido, soffocato subito dopo da un verso ripugnante, disumano. Tutta i presenti si erano voltati, trovandosi ad osservare una scena macabra, le mascelle di Foxy coperte di sangue e brandelli di materia grigia, la bambina accasciata a terra immersa in una pozza rossa che non faceva che allargarsi. Il volto era irriconoscibile. Un urlo generale, persone che scappavano, che portavano via i loro bambini. Fred aveva avuto le vertigini, per un istante aveva creduto di svenire. Poi aveva lasciato cadere il menù e il boccale di birra che aveva in mano, aveva più volte cercato di tirar fuori la voce, ma più si era sforzato più questa era venuta a mancare. Dopo un tempo indeterminato riuscì a produrre poco più che un gemito trattenuto, un mormorio che recitava “Foxy...!”. La volpe si era voltata verso di lui, gli occhi gialli schizzati di sangue erano stati per un attimo attraversati da un barlume di follia, odio profondo, per poi assumere un'aria sorpresa, spaventata. Aveva allargato le fauci lasciando cadere i pezzi di carne a terra, poi aveva uggiolato come un cagnolino pentito. In quel momento Foxy era stato tanto orripilato quanto Fred, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa o dire qualsiasi cosa, Fawkes gli era piombato addosso, da dietro, schiacciandolo a terra e aprendo a colpi di martello la schiena dove erano posti i comandi. Dopodiché aveva battuto un pugno sull'interruttore del robot, che subito si era accasciato a terra come un rottame in disuso. Poi Fawkes si era alzato, aveva guardato Fred negli occhi, e così si erano continuati ad osservare fino all'arrivo della polizia, che aveva fatto evacuare i pochi curiosi rimasti.

Era stato inevitabile mettere in disuso la volpe pirata, per quanto Fawkes avesse brontolato. Il vecchio amico di Fred era sempre stato convinto che qualcuno avesse manomesso il suo favorito, qualcuno contro la pizzeria, ma senza prove concrete gli altri non avevano potuto dargli ascolto. Così Fred era stato costretto a chiudere quelle tende, ed a collocare un cartello vicino al covo che recitasse “Guasto”. Da quel giorno Fawkes stesso era cambiato, diventando più nervoso e irascibile, passando sempre meno tempo con gli altri tre. Nessuno se l'era sentito di gettare via Foxy, e questo era rimasto chiuso per anni nella sua tenda, in attesa che qualcuno gli permettesse di tornare in funzione. Fred era più che certo che Foxy lo odiasse a morte, da quando aveva chiuso quelle tende porpora, e questo aveva suscitato il suo odio verso gli umani... ma, cosa stava pensando? Quelli erano solo animatronics, scatole di latta privi di sentimento. Non potevano provare rancore. Eppure... gli ultimi tempi erano apparsi più umani, forse per gli aggiornamenti dei loro database. A volte sembravano comprendere lo staff, cercavano di comunicare. La compagnia era stata entusiasta del progresso dei robot, di come pian piano, con vari aggiornamenti, riuscissero ad acquisire una certa intelligenza. Poi c'era stato l'attacco a Mike, poche settimane prima. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

La pizzeria è maledetta dal '87, e ancor più maledetta da quell'incidente, i bambini rapiti... te li ricordi, Fred?

«Sono pronto»

Fred si avvicinò ai due agenti, mostrando i polsi. La donna lo ammanettò con un gesto rapido e fluido. Il proprietario guardò le manette argentee con sguardo vago, come se non fossero state attanagliate ai suoi polsi.

Ricordi i loro volti?

L'uomo lo afferrò bruscamente per un braccio, e lui non oppose resistenza.

Io sì... io c'ero, quando è accaduto. E saprei dirti la verità.

Prima di essere trascinato fuori, lanciò un'ultima occhiata a Freddy, immobile nella stessa posizione, rimpiangendo il giorno in cui l'aveva costruito.

Se solo tu mi ascoltassi, una volta tanto, fratello.




Commento

Perdonate il capitolo corto e privo di grande sostanza, intendevo scrivere molto di più ma poi ho realizzato che mi ero soffermata troppo sui ricordi di Fred per continuare con il vero argomento che inizialmente doveva essere trattato in questo capitolo. Ancora non stiamo guardando la scena attraverso gli occhi degli animatronics, ma ben presto i capitoli prenderanno una svolta più leggera e allegra. Spero continuerete a seguire la mia storia, a presto!

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Capitolo 3
*** Giornali ***


AAA

Il cartello recitava in lettere cubitali “vietato fumare”. Questo bastò a far contorcere in una smorfia il volto dell'uomo. Lasciò cadere la sigaretta a terra pestandola col piede destro per spegnerla, poi si aggiustò un attimo la divisa ed entrò. Il locale era angusto, i tavolini stretti tra loro. Gli bastò un'occhiata per trovare il collega. Attraversò la sala, a testa bassa come era abituato a fare nel quotidiano, senza destare attenzione. Non degnò nemmeno di uno sguardo il barista e in pochi secondi sii trovò a spostare la sedia per mettersi seduto al tavolo.

«Novità?»

«Guarda tu stesso»

Il collega spinse lentamente il giornale che aveva in mano verso di lui, che l'afferrò e guardò la prima pagina. Recitava: “IL FREDDY'S CHIUDE SOMMERSO DAI DEBITI E DALLE ACCUSE. E DA UN TENTATO OMICIDIO

Iniziò a scorrere l'articolo, soffermandosi sui punti focali del discorso:

...dopo la sventurata avventura passata da Schmdit Mike, anni 23, risoltasi miracolosamente per un intervento imprevisto della polizia che indagava sulla pizzeria da tempo, il proprietario del ristorante, Hudson Ferdinand, è stato arrestato questa mattina e e attualmente si trova nel carcere di New Brinnin in attesa della sentenza. Le accuse precedenti all'incidente della scorsa notte verso la Freddy Fazbear's Pizzeria sono le seguenti...”

Continuava così citando tutte le denunce avvenute negli anni. Lui non ci badò, e spostò lo sguardo verso il basso.

...gli animatronics, presunti colpevoli dei vari incidenti per malfunzionamento, saranno analizzati dalla polizia e successivamente gettati nella discarica statale”.

Piegò il giornale, restituendolo.

«Hai visto quel Hudson? Che finaccia, la sua. Se qualcuno non paga la cauzione, potrebbe restare lì a vita a marcire»

Lui sospirò, come se avesse ancora la sigaretta in bocca e potesse sbuffare fumo, poi piegò leggermente la testa da un lato.

«Non penso lo faranno, la pizzeria è fallita, anche i suoi colleghi non hanno soldi»

Continuò il collega gettando da una parte il giornale e sorseggiando il suo caffè espresso. Lui si limitò ad osservarlo per qualche minuto, poi domandò:

«Non ti sei neanche preso la briga di ordinare due caffè?»

«Subito»

Si alzò e si diresse dal barista, a chiedere una seconda tazzina. Lui rimase a contemplare il giornale gettato in un angolo con la mascella contratta, quando si decise ad aprire lo zaino che teneva a tracolla. Ne tirò fuori un altro pezzo di carta identico al primo, cambiava solo il giorno.

«Vorrei farti notare una cosa. Quel giornale è di ieri»

Gracchiò quando il collega tornò con un altro espresso.

«Guarda questo. 'Sta notte hanno cercato di aprirli. Ferita una tipa della polizia»

Il collega si ficcò un chewingum in bocca e iniziò a leggere:

ROBOT KILLER. FERITA GIOVANE SCIENZIATA DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI BRINNIN. IL COMMISSARIO DICHIARA: TROPPO PERICOLOSI, VANNO SUBITO ELIMINATI”

Era un titolo piuttosto lungo. Il resto parlava di come, dopo aver spento i robot, i ricercatori della polizia avevano cercato di smontarli, quella notte, ma improvvisamente Foxy si era riattivato reagendo male, mordendo e graffiando la ragazza che lo stava ispezionando. L'articolo si concludeva affermando che quella sera stessa i robot sarebbero stati trasportati alla discarica.

«Ispezionati addirittura? Nemmeno fossero cadaveri»

«Sì, ma il bello è che il loro sistema di sicurezza verso il loro database funziona ancora alla perfezione. Sono lei potrebbe smontarli e studiarli»

Il sorriso sul volto del collega si dissolse.

«Ancora a parlare di lei? Pensavo fosse una parentesi chiusa»

«Lo era, fino a pochi giorni fa. Ma tu sai cosa si trova sotto la discarica»

Sussurrò questa frase come per non farsi sentire dagli altri clienti.

«Certo che lo so. Ma... non crederai che sia ancora... viva?»

«Che sia viva è un dato certo. Il problema è che potrebbe prenderne possesso. Potrebbe accedere a quei dati, Louis»

«No, non è possibile»

Lui si alzò in piedi di scatto, squadrando Luois dall'alto in basso, con occhi di fuoco:

«È inutile negare l'evidenza. Lei si prende ciò che vuole. Si prese mia moglie, tutti gli impiegati, è in possesso di tutti i dati di tutti i computer. Come può non accedere al disco interno di quattro robot primitivi?»

Il collega non sapeva rispondere.

«E noi non possiamo farci nulla»

«Nulla... sicuro?»

«Sì, fin troppo»

«Ma cosa se ne farà dei dati?»

«Questo è meglio non scoprirlo. È curiosa, programmata per studiare le cose, per avanzare nella conoscenza. Come potrebbe restare indifferente davanti a dei dati corrotti tanto succulenti?»

«Devi recuperarli...»

«Dobbiamo recuperarli. Questa sera, vicino all'autogrill fuori città. Alle sette in punto»

Vincent lasciò il bar senza pagare, lasciando il conto al collega.


Il giornale del mattino dopo sfoggiava un grande titolo in grassetto: MISTERIOSO ASSASSINIO NEI PRESSI DELLA DISCARICA. MORTO HICKS LOUIS, 44 ANNI


Commento

Vorrei chiedere perdono per due cose: la scarsità del capitolo (dovevo inserirlo assolutamente prima di metterne altri più interessanti) e il ritardo (ho davvero troppi impegni!). E... anche il fatto che per il momento stiamo vedendo un sacco di punti vista eccetto quelli dei robot! Comunque, tra poco entreremo per metà nel fandom di Portal, quindi consiglio tutti coloro che non conoscono questo favoloso gioco di informarsi (guardare qualche video, leggere la trama, GIOCARCI se qualcuno può) perché non so se le spiegazioni che fornirò saranno abbastanza per capire a pieno i personaggi di questo altro videogioco....

Eccetto questo, mi scuso ancora e vi prometto che il prossimo capitolo sarà molto più interessante. Vi auguro una buona notte ^^

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Capitolo 4
*** Solo un incidente ***


AAA

La cella era angusta, soffocante. Neanche una finestra dalla quale affacciarsi, dalla quale trapelasse uno straccio di luce. Tutto era immerso nell'ombra. Non una lampadina che perforasse l'angosciante buio. Fred si stringeva nelle spalle seduto sul materasso ammuffito, respirando lentamente. Non si muoveva, qualcuno avrebbe potuto dire che si era addormentato rannicchiato in quell'angolo della stanza, sopra quella materassa vecchia e quell'intelaiatura di legno marcio. Ma i suoi occhi erano aperti, e fissavano un punto, là nel vuoto, dove si sarebbe dovuta trovare la porta, e attendeva. Quanto tempo ancora avrebbe dovuto attendere? Sentiva la mandibola pulsare di un sordo dolore, dove il giorno prima era stato colpito con forza da quello grosso. Per poco non ci aveva rimesso un dente. Per il resto, gli altri lividi iniziavano a schiarire, e il gomito stava un po' meglio. Dopo solo un giorno di prigione si era trovato col braccio spezzato, un occhio nero e una caviglia slogata, ma anche quella iniziava a guarire. L'avevano dovuto trasferire di cella, o i bestioni l'avrebbero finito.

«Tu sei il tipo della pizzeria»

L'avevano accolto ringhiando come bestie fameliche il primo giorno di galera.

«Alla fine ti ci hanno sbattuto, in gattabuia!»

Aveva sputato un altro, in modo sprezzante.

Fred si era trovato inerme di fronte agli altri carcerati. Non aveva neppure opposto resistenza, un po' perché sapeva già che sarebbe stato inutile, un po' perché nel profondo della sua coscienza, annidato dietro quel briciolo di orgoglio che aveva ancora, sentiva di meritarsele, quelle percosse.

Poi aveva avuto la sfortuna di essere stato gettato nel covo capitanato da un uomo del quale aveva fatto una sgradevole conoscenza, diversi anni prima.

«Eccoti, finalmente, Hudson»

Aveva gracchiato costui. Fred l'aveva riconosciuto, nella penombra della cella multipla.

«Ti ricordi?»

Primo colpo.

«Verme schifoso»

Secondo colpo.

«Te lo meriti»

Terzo colpo.

«So che c'erano le tue bestiacce dietro a tutta quella storia»

Quarto colpo, quinto colpo. Era caduto a terra, altri gli erano arrivati addosso. Nonostante i suoi quarantuno anni e mezzo, si era sentito inerme come un bambino, e per un solo, misero istante, un'idea sciocca e macabra gli era sorvolata davanti agli occhi. Si era sentito paragonato a Ricky. Era così che erano andate le cose? Ricky era stato il figlio della montagna. Era stato uno dei cinque bambini dispersi di qualche anno prima. Si era sentito così, quando era stato catturato? Inerme di fronte a quattro, cinque ammassi di muscoli come lui in quel momento? O peggio, si era sentito così di fronte ai suoi... animatronics?

Un rumore. Alzò il capo, che aveva affondato nelle ginocchia per pensare. Una porta che si apriva, non la sua. Appoggiò la testa sul muro umido e continuò a pensare.

Non aveva mai voluto crede a quello che si vociferava. I cinque bambini rapiti dai robot della pizzeria. “Assurdità!” aveva esclamato la prima volta che lo avevano accusato. “Freddy non farebbe mai una cosa simile, è buono”. E lui ne era stato convinto. Lo aveva progettato lui stesso, come diamine avrebbe potuto essere cattivo? Ne era stato convinto, certo, fino a quando, poche settimane prima, Mike non era stato salvato per miracolo per mano della polizia da un assalto dei robot. Non aveva più certezze, adesso. Gli animatronics avrebbero potuto essere benissimo i rapitori, gli assassini dei ragazzini. Ma a quale scopo? Lui e Bernard per mesi e mesi avevano lavorato sull'IA degli animali meccanici, riuscendo a renderli semi-coscienti. Chiamarli “intelligenti” era troppo, ma avevano comunque una primitiva forma di coscienza, ed era questo che li fermava, o che li avrebbe dovuti fermare, da commettere gravi incidenti. Agivano per scopi precisi previsti dal programma impostato, e in situazioni di leggero dubbio, riuscivano a districarsi in maniera piuttosto agevole. Come quella volta che un bambino aveva lasciato cadere il suo spicchio di pizza ai funghi per terra. Freddy, che stava canticchiando una canzoncina per intrattenere gli altri bambini, si era fermato un momento, aveva squadrato il piccoletto per lunghi secondi ed alla fine aveva provveduto a regalargli un altro spicchio di pizza – preso dal tavolo di un altro cliente, che si era messo a ridere di gusto – .

Ma quindi perché mai avrebbero dovuto agire in quel modo? Fred scosse il capo, scacciando quei pensieri turpi, e respirò profondamente. L'angoscia di quei ragionamenti non voleva mollarlo, e non fu facile non pensare, per la centesima se non millesima volta nella sua vita, al Morso dell'87, e a Foxy. Anche lui, perché...? Domande alle quali non aveva mai trovato risposta. Dopo averlo disattivato, avevano cercato di entrare nel suo hard disk, ma improvvisamente la volpe robotica si era come risvegliata, aveva agitato la testa da un lato all'altro e aveva minacciato di attaccare Bernard con il suo uncino. Si era spenta pochi istanti dopo, dopo aver constatato che nessuno avrebbe avuto l'intenzione di curiosare tra i suoi dati.

Fred sentì un brivido percorrergli la spina dorsale, e in una frazione di secondo ogni pensiero svanì. Sentì uno strano gelo penetrargli la pelle, arrivare fino alle ossa, un'umidità innaturale calare su di lui come una nube di nebbia. Il suo cuore accelerò, sentì la veste sporca che indossava appiccicarglisi al petto. Avvertiva una presenza, lì vicino, insieme a lui, in quell'angusta cella scura. D'improvviso s'alzò in piedi, mosse meccanicamente il capo a destra e a sinistra, cercando di scorgere una qualsiasi cosa nel mezzo di tanta oscurità, ma per vari minuti rimase immobile senza riuscire a vedere nulla. Eppure era sicuro di non essere solo, sentiva la presenza di qualcosa di familiare, che da così tanti anni non...

Ciao, Fred

Un sussurro. Se l'era immaginato?

Non ignorarmi

«Ora sento anche le voci. Fantastico»

Si disse l'uomo, incerto.

Sono qui

Una luce bianca. Due luci bianche. Occhi? No, erano scomparsi.

«Ho le allucinazioni»

Cercò di convincersi Fred tornando seduto sulla matassa maleodorante, prendendosi la testa tra le mani.

Non sono un'allucinazione

«Finiscila, chiunque tu sia!»

Urlò Fred al buio, ma poi scosse la testa.

Sto impazzendo”

Pensò.

Ascoltami, una volta tanto.

Fred chiuse gli occhi, le mani premute sulle orecchie per non sentire.

Ti prego...

Sapeva di chi si trattava. Riconosceva la voce, anche se nessun altro avrebbe potuto decifrare quel sussurro simile ad un sibilo. Ma... era impossibile.

«I fantasmi non esistono»

Dichiarò Fred ancora ad occhi chiusi.

«Vattene»

No.

«Tu sei morto»

Sì. Per mano tua, assassino

«Non sono stato io ad ucciderti»

Si sentiva un sciocco. Stava parlando con delle voci nella sua testa. Eppure sembravano così reali... Non gli era mai capitato di parlare con il ricordo di suo fratello. Forse, una volta, dopo l'incidente... forse due... bisbigli che si perdevano nell'aria, ne aveva sentiti tanti. Ma qui non c'era aria, non c'era vento, non era uno spazio aperto, luminoso. Era chiuso in quella cella minuscola, e lottava tra la lucidità mentale e la pazzia. Qui i bisbigli echeggiavano trasformandosi in boati assordanti, che non poteva più ignorare.

«Non ti ho ucciso io»

Sentiva le mani, premute sul volto, bagnate di lacrime. La gola secca.

«È stato un incidente!»



Una coperta nera sovrastava il tutto. Si estendeva fino ai confini del suo sguardo, sembrava non finire mai. Era punteggiata da tantissime, piccole luci. Alcune bianche, alcune gialle, rosse, e poi un grande, imponente occhio, bianco come il latte, che pareva osservare tutto dal lassù. Avvertiva la brutta sensazione di essere osservato. Odiava sentirsi osservato. Ma allo stesso tempo, quell'occhio color neve lo affascinava. Non aveva mai visto la luna...

Spiravano rivoli di vento leggero. Era notte. Ma lui, come faceva a saperlo? Non sentiva freddo, non provava nulla se non un forte senso di malinconia.

Se avesse avuto il senso dell'olfatto, sarebbe rimasto disgustato dall'odore insopportabile della discarica. Ma come poteva rendersene conto? Spostò la testa verso destra, producendo un rumore di ingranaggi arrugginiti. Dalla posizione nella quale si trovava, poteva scorgere, in lontananza, le cime delle collinette di rifiuti. Rifiuti, rifiuti ovunque. Sotto la meraviglia del cielo stellato, quel triste spettacolo avrebbe rattristito tutti. Non lui, era troppo occupato a capire dove si trovasse per farsi toccare da quella vista così deprimente.

«Discarica statale di New Brinnin»

Riconobbe la voce, voltò la testa verso destra, con un altro frastuono cigolante.

Un cartello lontano indicava il nome del luogo. Il corpo inerme di Bonnie si trovava a qualche metro dal suo.

«Ci hanno buttati. Ci hanno gettati via, come della spazzatura»

Sentì gracidare. Foxy.

Freddy, però, non aveva tempo per essere rammaricato dalla notizia. Riportò il suo sguardo verso la coperta nera punteggiata di luci.

Come mai...?”

Ce l'aveva quasi fatta, ad incastrare quel mostro.

Quel mostro... mostro...”

Gli umani l'avevano punito per una cosa giusta?

Che strani, gli umani”

Eppure era strano che anche degli esseri così stravaganti come quelli punissero per giuste cause.

Io volevo solo... aiutare”

Sentì Chica brontolare, da qualche parte alla sua destra.

Quell'uomo deve morire. Devo vendicare... i bambini...”

Il problema era uno solo. Come?




Commento

Ed eccomi tornata! Più in fretta, questa volta! Per compensare il capitolo precedente, dove non dicevo praticamente NULLA, sono tornata oggi con questo cap un po' più lungo, dove alla fine, per il piacere dei miei lettori (spero xD) ho accennato ad una visuale da parte di Freddy. Ho lasciato abbastanza cose in sospeso? Vi è piaciuto? Lasciate un commento di come pensate stia venendo ^^

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Capitolo 5
*** Nella discarica ***


AAA

Il piede di Bonnie colpì quel poco che rimaneva di un vecchio televisore abbandonato, e inevitabilmente il suo corpo si sbilanciò, provocandogli prima una perdita d'equilibrio e dopo una rovinosa caduta dalla collinetta di rifiuti sulla quale gli animatronics si erano ritrovati la mattina seguente.

«Bonnie, sei un idiota»

Sentì sbuffare Foxy dalla cima, mentre lui cercava di rimettersi in piedi.

«Non è colpa mia, inciampo!»

Cercò di protestare, ma non ricevette risposta. Era la terza volta che scivolava già da quella collina artificiale, provocando ogni volta una piccola valanga di spazzatura.

«Muovetevi, dobbiamo trovare un modo per uscire di qui»

Incitò per la ventesima volta il leader, arrancando per scendere dal pendio opposto a quello da dove era scivolato il coniglio di metallo. Il suo corpo era goffo, maledettamente goffo. Era un orso, un orso grasso robotico, per metà rovinato dal tempo e dal volo che gli avevano fatto fare per gettarlo nella discarica. E per aggiunta si sentiva uno straccio. Come poteva provare sensazioni? Era solo un ammasso rugginoso di cavi e bulloni, eppure...

«Di qua»

Ruggì, più forte di prima, seccato dall'idea che gli altri non lo stessero ascoltando.

Era tutta la mattina che, superato il problema di portarsi in piedi, cercavano di scavalcare quella collina di spazzatura, per trovare una qualche uscita da quel posto, senza risultati.

«Finiscila»

Sentì gracchiare dietro di sé. Era la voce sferragliante e sarcastica di Foxy.

«Come prego? “Finiscila” di fare cosa

«Di fare il ganzo, il capo che riesce a tirarci fuori di qui. Arrenditi alla realtà, questa è la discarica, l'ultima tappa della vita di noi robot. Siamo finiti. Lo sai meglio di me, quando – tra pochi giorni – la nostra carica si sarà esaurita...»

Freddy smise di ascoltare. Non si era mai sentito così... vivo prima di allora. Vedere con i propri occhi il cielo, le stelle, il sole, la luna, le nubi, le luci lontane della città, i cadaveri di quelli che un tempo erano stati elettrodomestici all'avanguardia... era scattato qualcosa in lui, che l'aveva reso quasi umano. Ed ora stava per perdere la vita che aveva iniziato a fluire nel suo essere.

«Ci deve essere una via d'uscita»

Ribatté, senza esserne convinto.

Chica, che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, avanzò di un passo verso Freddy, ma, con un fragoroso rimbombo, qualcosa all'interno della collinetta – qualcosa di molto grosso come un frigorifero, o un'auto probabilmente – cedette, e la montagnola crollò di schianto. Nessuno di loro ebbe il tempo di urlare che si ritrovarono per metà sepolti da chili di rottami cigolanti, compreso Bonnie, che era riuscito in qualche modo a ritornare sulla sommità del rilievo.

«Favoloso»

Esclamò con voce inespressiva.

Freddy si dimenò, appellandosi a tutta la forza che riusciva a trovare nei suoi ingranaggi, e, centimetro dopo centimetro, riuscì a uscire dal suo sepolcro, aiutando di conseguenza gli altri.

«Be', perlomeno siamo scesi...»

Si bloccò, notando qualcosa di familiare sotto un gigantesco pneumatico da trattore. Si avvicinò, cercando di piegarsi il più possibile per vedere meglio, e per un attimo rimase sorpreso quando la cosa si mosse.

«Goldie?»

Qualcosa mugolò.

«Goldie»

Concluse.

«Aiutatemi a tirarlo fuori da lì»

Chiamò gli altri tre. Insieme spostarono lo pneumatico e tirarono fuori la copia malridotta della star della Pizzeria Freddy Fazbear.

«Goldie, anche tu?»

Chiese Chica più per inerzia che per volontà. Tranne Freddy, e in parte Foxy, non parevano rendersi conto di essere autonomi, e si comportavano come si comportavano di solito alla Pizzeria, seguendo Freddy.

Goldie, ovvero la carcassa di quello che per un periodo era stato la vera star della pizzeria, piegò leggermente la testa di lato.

«Sei ridotto peggio di prima, fratello»

Commentò Freddy, faticando a esprimersi. Sentiva che quella sensazione di libertà che aveva avuto per qualche ora lo stava abbandonando, il suo cervello – o meglio, il computer che lo comandava – stava per calare nuovamente nella nebbia dell'incoscienza, e questo gli dava fastidio. Odiava avere solo rari momenti di lucidità, e sentirsi, per il resto del tempo, una marionetta stupida.

«Uh, Freddy? Che succede?»

La mandibola slogata di Golden non gli impediva di parlare: la voce proveniva da un microfono posto nella gola del costume che copriva l'endoscheletro dei robot. Il fratello non rispose. Non lo aveva neanche sentito. Si era perso per qualche momento in un ricordo lontano.

Un grido, un suono viscido, una risata distorta.

No, non sono stato io”

«Hey, ti sei perso nei tuoi pensieri?»

Chiese Bonnie evidentemente preoccupato.

Freddy mosse la testa verso di lui, provocando un fastidioso cigolio:

«Non è niente, procediamo. Goldie, puoi camminare?»

«Uh, be', forse...»

La sua voce pareva assai calda per un robot. Quasi umana, e nonostante tutte le acciaccature che presentava, pareva quello che stava meglio di tutti. Cercò di alzarsi, barcollando un pochino, per poi ricadere subito.

«No...»

Concluse dopo il terzo tentativo. Freddy, che lottava per mantenere l'autocontrollo, scosse la testa metallica per farsi

venire un'idea, ma era un'impresa assai difficile.

Sono stupido!”

Di tanto in tanto riusciva a rendersi conto di essere solo una macchina, e questo lo frustrava in modo tremendo. Non era in grado di formulare grandi pensieri, di stabilire cosa fosse giusto e cosa no, di provare felicità o meno. L'unica cosa che sapeva per certo era...

Non sono stato io! È stato lui, quell'uomo... doveva morire!”

Aprì leggermente la mascella, piegando la testa verso il basso, e rabbrividì – come un essere vivente – dei suoi stessi ricordi. Ricordi? Aveva dei ricordi? Riusciva a...

«Che sono quelli!?»

Bonnie aveva gridato, con una voce esageratamente acuta, comica, ma palesemente in preda al panico. Freddy scacciò quei pochi pensieri che gli assillavano la memoria interna, e si voltò, provando una sorta di terrore controllato. Erano dieci, quindici forse, e ne stavano arrivando altri. Carcasse di robot, più o meno vecchie, tutte deturpate dagli anni e dal tempo atmosferico. Alcuni mancavano di costume: non rimanevano che endoscheletri arrugginiti, dall'aspetto poco amichevole. Erano dietro di loro, e stavano lentamente avanzando in massa. Uno di loro – particolarmente somigliante a Freddy, solo più grosso, dal colore più sbiadito e dalla faccia mancante per metà, emise una specie di sibilo acutissimo, gracchiando qualcosa che somigliava a “pezzi nuovi!”. Gli altri robot-zombie si unirono al primo, dando vita ad un fracassante coro recitante “pezzi nuovi, pezzi nuovi, pezzi nuovi”. Bonnie indietreggiò, rischiando di inciampare nuovamente, e così fecero gli altri, tranne Goldie, incapace di muoversi.

«Pezzi nuovi, pezzi nuovi»

Il coro stava prendendo una nota sinistra, contorta, sempre più meccanica e inquietante. Freddy non sapeva che fare; provava, o almeno credeva di provare, una primitiva forma di paura, che gli pulsava dentro in modo assillante, e sapeva di dover fare qualcosa per non finire per essere smontato pezzo per pezzo. Si guardò velocemente intorno, poi ordinò:

«Scappiamo!»

Afferrando il corpo inerme di Goldie tra le braccia.

Iniziarono a correre come meglio potevano, Foxy in testa essendo il più veloce, cercando di sfuggire a quei demoniaci automi assetati di nuove parti di costume e di nuovi cavi.

La corsa durò parecchi minuti, gli animatronics non riuscirono a coprire una grande distanza inciampando sempre nei rottami e nei rimasugli della varia immondizia, ma alla fine riuscirono a arrampicarsi fino in cima ad una montagnola di rifuiti. Freddy guardò in basso, osservando i suoi precedessori, che si muovevano zombie lanciando urla agghiaccianti. Si chiese se avrebbe fatto anche lui quella fine.

Poi, la terra tremò, la spazzatura iniziò a rotolare verso il basso. Chica lanciò un mezzo grido, prima di precipitare in una gigantesca apertura che si era schiusa nel terreno. La montagna crollò, come attratta dalla voragine, e con essa gli altri quattro animatronics. Freddy non riuscì a formulare nessun pensiero mentre il suo corpo cadeva in quello squarcio del suolo. Poco prima di giungere in fondo, scorse una luce rossa: lo attendeva un mare di fiamme.

L'inferno dei robot!”

Concluse, prima di essere inghiottito dall'inceneritore.




Commento

Vi sono mancata? Perdonate la mia assenza, sono davvero troppo impegnata in questi ultimi tempi.... ma state certi che, finita la scuola (se non finisce anche l'ispirazione) tornerò a pubblicare regolarmente (o quasi). Allora.... questo capitolo, come avrete notato, è “arido”, privo di descrizioni e spiegazioni come i precedenti, psicologicamente poco profondo e via dicendo. Chiedo perdono, ma mi sono soffermata poco su questa parte poiché ritengo sia solo un punto di passaggio tra una sequenza e l'altra. Tra poco, infatti, introdurrò pienamente il personaggio di GlaDOS, ovvero il succo di questa crossover (spero). In poche parole: questo piccolo capitolo è solo una pausa, i prossimi saranno più ricchi. E poi... dal punto di vista dell'attuale Freddy, il mondo non deve apparire molto complesso... non so se mi spiego. Non vi anticipo altro e spero che continuerete a seguirmi, al prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Un vecchio incubo (parte prima) ***


AAA

L'oscurità inghiottiva tutto, ormai da settimane. O era solo la sua immaginazione? La solitudine lo opprimeva, ma non quanto la sinistra compagnia della voce sussurrante che andava e veniva nella sua testa, rimbombandogli nel cranio per minuti interi. Lui se ne stava seduto, nella stessa posizione da ore. Passava ogni giorno incollato a quell'angolo del muro, con la schiena premuta sul muro freddo, con la testa racchiusa tra le braccia, sperando di morire velocemente. Aveva più volte provato a non mangiare, ma dopo due giorni perdeva sempre la scommessa e si gettava come un animale sull'ultima porzione di cibo portata. Era troppo debole anche per tentare di lasciarsi morire. Quel giorno, dopo un tempo che a lui era parso infinito, però, successe qualcosa.

In mezzo alla tanta oscurità, si schiuse, in un momento impreciso del giorno, una lama di luce. Prima pallida, poi sempre più accecante. Era normale, gli stavano portando da mangiare. O forse, finalmente, dopo tanta attesa, stavano per trasferirlo nell'altro carcere – quello per psicopatici al quale avevano più volte accennato guardandolo parlare da solo – ma non si trattava né dell'una né dell'altra cosa. Dietro la porta, la shilouette di un giovane uomo. Gli parve di riconoscerne i contorni. Lo conosceva? Da quanto tempo non lo vedeva? Alzò lentamente la testa, per scrutare meglio la figura. A quella, se ne aggiunsero altre, una di donna, una più robusta di uomo.

«Hey Fred, ora va tutto bene, vieni via da questo posto orribile»

Era la voce di Bernard.

Sì, fratello, segui il tuo amico. Tanto ormai non potrai più liberarti di me

Deglutì, poi affondò nuovamente la faccia tra le braccia pensando di star sognando tutto.


Trascinandolo di peso, riuscirono a portarlo fuori dalla gattabuia. Aveva i capelli unti e scompigliati, gli occhi iniettati di sangue, accentuati da due grandi occhiaie scure appena al di sotto. Gli era cresciuta una ruvida barbetta su tutto il mento, scura e arricciata, ed aveva il corpo sudaticcio e i vestiti maleodoranti. Nessuno avrebbe detto che quel Fred fosse lo stesso uomo pulito e profumato che fino a qualche mese prima gestiva una delle pizzerie più famose di New Brinnin.

«No, lasciatemi, no...»

Continuava a borbottare cose strane.

«Fred, calmati, dannazione!»

Sbraitò Fawkes al terzo tentativo del collega di sottrarsi alla loro stretta e di tornare in prigione.

«No, io... no, lui... io... loro...»

Continuava a balbettare cose senza senso, guardando un punto lontano, nel vuoto, con volto sconvolto. La voce era rauca e gracchiante, non era rimasto nulla della voce calda e profonda del vecchio Ferdinand Hudson.

«Che diamine! Vuoi calmarti o no?»

Ruggì questa volta con più rabbia Fawkes, ma Claire lo spinse via e afferrò la mano di Fred:

«Su, non fare così, o ti infileranno in un manicomio! Abbiamo pagato la cauzione, ora puoi tornartene a casa a farti una bella doccia calda, mangiare qualcosa di decente e vedrai che tra poco tutto questo sarà solo un brutto ricordo...»

Parole al vento. Fred non stava ascoltando.

«Voi... voi non capite... lui... non mi lascerà, ha detto che... non lo farà...»

«Dobbiamo chiamare un dottore»

Concluse Bernard mentre lo trascinavano all'aperto. L'aria fresca sembrò scuotere un po' l'Ex proprietario del Freddy, che acquistò un po' più di lucidità.

«Ragazzi, io... grazie per... avermi tirato fuori di lì, io stavo impazzendo... io sto impazzendo... aiuto, vi prego, chiedo aiuto...»

Riprese a scuotere la testa.

«Ora ti accompagniamo a casa tua. Tranquillo su, non stai impazzendo...»

Cercò di tranquillizzarlo Claire, ma Fawkes scosse la testa.

Circa un'ora dopo, Fred si stava radendo la barba e tagliando i capelli troppo lunghi. Osservava la sua immagine distrutta allo specchio, che nonostante il bagno e il pranzo, e l'idea di essere tornato a casa sua, non pareva diversa da quella di poco prima. Aveva la pelle bianchissima, pensava di essersi trasformato in un fantasma, e gli occhi scavati da grossi solchi neri. Aveva un gran mal di testa. Quanto era stato lì dentro? I suoi amici avevano detto all'incirca due mesi e mezzo. A lui erano parsi anni interi.

Lo stavano aspettando in sala, per scambiargli due parole. Lui si osservò un'ultima volta, cercando di ricordarsi come fosse poco tempo prima, ben curato e più in carne, con più colorito sul volto e senza occhiaie. Non ci riuscì.

«Come va?»

Chiese Bernard appena lui ebbe messo piede in sala.

«Meglio di questa mattina, dire a giudicare dall'aspetto»

Osservò Fawkes, massaggiandosi il polso destro. Aveva affermato fosse un tic che gli era preso da quando non indossava più l'uncino finto per otto ore al giorno.

Fred spostò una sedia e prese posto.

«Io... non so come ripagarvi, ragazzi»

Iniziò, ma Fawkes subito lo interruppe:

«Ripagarci? Sei impazzito? Sempre a pensare ai soldi, tu! Siamo tuoi amici da una vita, pensi ti lasceremo ripagarci?»

Fred annuì con convinzione, ma Bernard si intromise ricordandogli:

«Ti hanno infilato dentro per i debiti, non avevi un soldo prima di questa mattina»

«Prima di questa mattina?»

«Dovevamo versare qualche soldo sul tuo conto, no? Oltre a quel milione e mezzo che abbiamo dovuto pagare per salvarti la pellaccia»

Aggiunse Fawkes, guardandolo duramente negli occhi.

«Valgo così tanto?»

Doveva essere una battuta, ma lui stesso non sorrise. Claire lo guardò preoccupata:

«Abbiamo messo insieme i soldi per farti uscire e per darti qualcosa per sopravvivere. Ora però dovremo trovarci tutti un nuovo lavoro»

«Potremmo fare le guardie notturne, che ne dite?»

Sghignazzò Fawkes. Aveva l'aspetto di un vero pirata, l'aveva sempre avuto, e il solito caratteraccio. E il solito pessimo gusto per le battute. Fred non si sarebbe sorpreso se avesse scoperto che il suo tris-tris-tris nonno era stato era stato il Capitan Barbanera.

«Finiscila, siamo seri per una volta tanto!»

«Parla il coniglio»

Una lampadina si era accesa nella testa di Fred:

«Che ne è stato di Freddy? E degli altri?»

Chiese preoccupato. Gli altri s'incupirono:

«Sono stati gettati, pensavamo lo sapessi. Nella discarica elettronica fuori città»

Fred si dispiacque molto, gli altri lo notarono, ma non dissero nulla. Tutti sapevano bene che la maggior parte dei guai che stavano passando erano stati causati dagli animatronics che loro stessi avevano creato, ma in fondo ognuno era affezionato al proprio – quello che ognuno aveva pensato e inventato.

«Hanno gettato anche Golden?»

Chiese alla fine, con uno strano tono di voce.

«Golden?»

Gli fece eco Bernard, con voce grave.

«Il... primo, che poi...?»

«Penso di sì»

Concluse in fretta Claire.

Fred abbassò lo sguardo, poi ripensò alle parole inquietanti che lo avevano tormentato incessantemente per quel periodo. Probabilmente se le era solo immaginate, eppure...


Quella notte, Fred non riusciva a prendere sonno. Erano successe troppe cose in una sola giornata, era troppo sconvolto. E per di più, aveva paura. Paura di rivedere il suo volto, pallido, dalla mascella inclinata in un ghigno orribile, e gli occhi... gli occhi vuoto, due cavità nere infossate nel cranio. I capelli, color oro, gocciolanti d'oro. La sua voce...

Prima di accorgersene, si addormentò.


Una strada, una scuola. Tanti ragazzi. Un pullman giallo.

«Sbrigati!»

Ringhiò il bambino di fronte a lui, dai tratti duri e dei folti capelli castani.

«Idiota»

Aggiunse sibilando, per poi afferrarlo per la manica e trascinarlo in avanti. Lui evitò per un pelo di inciampare, poi mugolò, ma lo seguì.

«Io sto male, Fred, mi sente qui»

Si indicò la fronte, ma l'altro bambino digrignò i denti:

«Ne hai sempre una, tu! Quante scuse! Sempre figuracce, mi fai fare... perché non ti comporti da ragazzo maturo, una volta tanto?»

Gli occhi blu bruciavano di rabbia, quasi quanto il sole sopra le loro teste.

«Ma io non mi sento...»

Sentì uno schiaffo arrivargli in pieno viso, la pelle bruciare di dolore.

«Basta fare l'idiota, farmi passare da... deficiente!»

Urlò Fred, strattonandolo per il colletto. Gli parve di scorgere delle lacrime negli occhi blu di suo fratello.

Eri... sempre stato così cattivo con me...

Lui non capiva perché fosse così arrabbiato. Non l'aveva mai capito.

«Sbrighiamoci!»

Urlò nuovamente, il volto paonazzo, un grido acuto quanto quello di una bimba.

Lo trascinò verso il pulmino. La maestra stava finendo di fare l'appello.

«Fred, Gordon! Finitela di litigare e salite sul pullman!»

Brontolò, dando loro una leggera spinta per farli salire. Loro ubbidirono.

Strada. Una lunga strada. Interminabile. Qualche buca. Strada sterrata. Campagna. Una grande distesa di spighe di grano.

Sentiva Claire e Bernard chiacchierare dietro il suo sedile. Aveva la faccia incollata al vetro, guardava fuori con distrazione.

Una figura nera, contro il cielo azzurro. Una fabbrica.

I bambini scesero, anche loro scesero.

Entrarono.

Te lo ricordi, quel giugno torrido? Te la ricordi la vecchia raffineria? Le spiegazioni della maestra?

Un calcio, due, tre. Nella pancia, nelle costole, uno sulla faccia.

«Dov'è tuo fratello, adesso, Gordon?»

Io no. Io non ricordo molto... ricordo... il calore... ricordavo il suono dei calci che s'infrangevano sul mio gracile corpo... – oh, quando ancora avevo un corpo!

«Sei troppo stupido per difenderti?»

Fred arrivava sempre di corsa, prendendo a lottare contro quelli grandi. Lo aveva sempre difeso. I corridoi sbiaditi della scuola...

Quella volta però non lo aveva difeso. Era rimasto a guardare, confuso, a debita distanza. Forse ridacchiava.

Già, mi pare stessi sogghignando...

La maestra li separò. Gordon venne accompagnato da una simpatica donna a fasciarsi il braccio in una stanza adiacente. Facendo questo, passò su un lungo ponte scuro, e vide la cosa più affascinante della sua vita. Mentre si teneva il braccio, si affacciò su una distesa gigantesca d'oro fuso...

«Non credevo... che l'oro venisse fuso in gigantesche vasche»

Osservò incuriosito. La donna cordiale si voltò:

«Oh, ma allora ce l'hai la voce ragazzino! Iniziavo a temere ti avessero rubato la lingua!»

«Mh. Non ha ancora risposto alla mia domanda»

Lei lo guardò, con una nuova espressione negli occhi.

«Non mi hai posto una domanda. E... perché ti fingi meno... brillante con i tuoi compagni?»

«Loro non mi meritano»

Disse semplicemente.

Dissi semplicemente. Già.

Lei lo osservò curiosa.

«Mi piaci. Anche io ero come te alla tua età. Gli altri pensavano fossi una stupida bambinetta senza alcun interesse... in realtà me ne stavo semplicemente zitta per conto mio, senza dare noia a nessuno...»

Lui non rispose. La fissò a lungo negli occhi, ma non disse nulla. Il braccio doleva, ma poteva aspettare.

«Mi piaci – concluse la donna – ti dirò perché questo oro viene fuso in vasche grandi quanto una stanza. Questo è un oro speciale, destinato ad un laboratorio molto speciale! Viene fuso in queste vasche per essere mischiato ad un materiale molto...»

«Speciale...»

Finì lui. La donna annuì, poi lo prese per mano e lo condusse in una cabina per medicargli il braccio.



Fred sobbalzò nel letto. Madido di sudore, sentiva il cuore scoppiargli in petto da quanto pompasse sangue all'impazzata. Un sogno. Solo un sogno. Incompleto. Una vecchia gita scolastica, niente di più. Poche settimane prima che suo fratello... una forte nausea lo prevalse. Appoggiò la testa sul cuscino, cercando di schiarirsi la mente, ma era troppo stanco. Erano le cinque del mattino, non aveva dormito per così poco, eppure gli pareva di essersi svegliato due minuti dopo aver chiuso occhio. Il cuore riprese il suo normale ritmo.

Cercò di convincersi che quello fosse stato solo uno stupidissimo incubo, eppure non ci riusciva.

Illuso.

Chiuse gli occhi, scacciando ogni pensiero dalla mente.




Commento

Finalmente aggiorno dopo poco tempo!

Vi avevo dato false speranza, avrei dovuto spiegare più cose in questo capitolo, ma alla fine ho deciso di inserire una parte che parlasse solo di Fred e del fantasma di suo fratello che lo angoscia da anni. Be', ho lasciato il sogno a metà, la prossima volta che re-incontreremo il nostro amico vedrò di concludere xD

Tra poco ritorneranno Freddy e company, non preoccupatevi, ma anche Mike, Vincent... e molti altri.

Al prossimo capitolo! Grazie ancora a tutti voi!

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Capitolo 7
*** GLaDOS ***


AAA

Silenzio. Bianco. Rumore di passi. Deboli, forti. Si avvicinano.

-Arancione, trovo futile il tuo tentativo di rimediare ai tuoi errori a questo punto-

Due androidi. Due portal-gun. Rumore di corsa.

-Blu, continua così-

-Arancione, fai pena-

P-body inciampò in un pannello incastrato male – forse volutamente – e cadde rovinosamente nella voragine.

Un tonfo. Una piccola esplosione.

Atlas si affacciò, cercando con l'unico occhio il compagno, senza risultati.

Una capsula di vetro. Dei bracci meccanici, tintinnii vari.

P-body, perfettamente ricostruito, avanzò un passo incerto sul pavimento; constatata la sua stabilità, uscì completamente dal cilindro di vetro e alzò una mano per salutare Atlas.

-Arancione, smettila subito-

Fu il freddo commento. P-body obbedì.

-Per il momento ho abbastanza dati, prendetevi un attimo di riposo-

Atlas spostò il suo sguardo verso una delle telecamere bianche della stanza, interrogandosi sul tempo che gli avrebbe concesso GLaDOS prima di un altro test.

-Al momento non trovo importante riferirvi le mie intenzioni-

Rispose, intuendo la domanda del robot.

Atlas scosse la testa, dando una leggera pacca al compare: probabilmente quel “tempo di riposo” che GLaDOS stava concedendo loro pendeva tra i 5 e i 6 minuti. Forse.

Rumore di passi che se ne vanno. Silenzio.

GLaDOS

Risultati: Analoghi ai precedenti. . .

Potenziamento soggetti: Nullo. . .

. . .

Risultato: Mi sto annoiando.


GLaDOS spostò l'attenzione dall'ultima analisi alle stanze non ancora risistemate. Quel posto sarebbe crollato a pezzi se non si fosse data da fare come stava facendo. Erbacce e terra, acqua e liquidi tossici inondavano una gran parte delle camere di test – e GLaDOS ne aveva già ristrutturate gran parte – e questo era l'unico passatempo che il potentissimo computer poteva adottare per sfizio: riparare le stanze distrutte.

Atlas e P-Body, gli unici soggetti che disponeva, due robot mediamente intelligenti che sapevano, a suo parere, a malapena reggere una portal-gun, avevano iniziato ad annoiarla. Essendo programmata per svolgere continuamente test per far progredire la scienza, la forma di intelligenza artificiale s'impegnava ogni momento a inventarsi altri test per ottenere dati di diverso tipo, per trarre, dai test, un'analisi innovativa e, magari, divertente. E invece niente, Atlas e P-Body si erano stabilizzati ad un certo livello – probabilmente il loro limite massimo – e da lì non avevano fatto altro che ripetere le stesse cose. Alla fine GLaDOS aveva solo concluso che anche i computer possono annoiarsi.

Dette una veloce ricontrollata alle varie stanze, soffermandosi un attimo sulla grande voragine apertasi più o meno nel centro del vecchio laboratorio e che ora fungeva da inceneritore gigante – per i rifiuti, quei maledetti rifiuti che se non venivano smaltiti rischiavano di sfondare la struttura e far collassare l'Aperture su se stessa – . L'ultima volta che aveva bruciato un po' di spazzatura era stata, all'incirca, 637 test addietro. Tradotto in tempo “umano”, più o meno tre mesi prima. Tra 450 test avrebbe dovuto, nuovamente, mettere in funzione l'inceneritore per evitare ipotetici incidenti.

La telecamera si spostava a destra e a sinistra, cercando di inquadrare qualcosa di interessante, che strappasse il computer, per almeno qualche minuto, dalla noia corrosiva che le stava rovinando il sistema. Trovò quel qualcosa.


Erano cinque. Rugginosi, corrosi dalle fiamme, tre mancavano di arti inferiori, mentre gli altri due avevano perso rispettivamente un orecchio e un altro completamente il volto. Cinque scheletri articolati in modo primitivo di quelli che un tempo – forse neanche troppo lontano – erano stati robot di basso livello. GLaDOS aveva ordinato ad Atlas e P-Body di prelevarli dal resto delle scorie, operazione che aveva richiesto almeno un test, e di portarli nella sala di comando, il suo collocamento fisico. I due androidi erano stati costretti ad ubbidire, come al solito, ma ne erano stati felici: quelle cinque carcasse avevano stuzzicato la curiosità di GLaDOS. Da quando svolgevano test, non era mai capitato. Questo poteva significare solo una cosa, ovvero che per tutto il tempo che il computer avrebbe passato dietro a quelle novità loro si sarebbero potuti prendere una vacanza. GLaDOS non prendeva alla leggera le analisi di anomalie varie, e avrebbe sicuramente impiegato parecchi test, forse anche più di un mese.

Ora si trovavano tutti e cinque di fronte a lei. O meglio, sotto di lei, essendo lei fisicamente appesa al soffitto. Muoveva la testa da una parte all'altra, scrutando con estrema curiosità gli ospiti. Il suo corpo oscillava ad ogni suo movimento, e lei sentiva fremere la voglia di scoprire. In fondo, era stata programmata per scoprire più cose possibili.

-Interessante... davvero interessante-

Anche se non aveva mai avuto bisogno di parlare tra sé e sé, da parecchi anni aveva iniziato a farlo. Atlas e P-body erano praticamente muti, e Chell, la sua dolce Chell, quel mostro che l'aveva distrutta e poi rimessa in funzione, ovvero l'ultimo soggetto umano con il quale aveva avuto a che fare, era sparita da tempo. Ma, anche se fosse stata lì con lei, non avrebbe fatto molta differenza: anche lei non apriva mai bocca. Così GLaDOS si trovava spesso a parlare da sola di cose all'estremo della banalità, solo per sentire qualcosa che non fossero i passi dei due robot, il rumore dei proiettili che fendevano l'aria e il suono dei portali alla loro apertura.

-Molto interessante, già-

Concluse. Anche la più banale delle apparecchiature della Aperture superava quei rifiuti metallici, ma era da talmente tanto tempo che GLaDOS non trovava qualcosa di nuovo che anche un vaso di fiori le sarebbe apparso interessante.

Dal soffitto uno dei pannelli si staccò e si abbassò fino a rendere possibile il passaggio di un lungo braccio meccanico, che scendendo arrivò ad afferrare il primo endoscheletro. Un altro braccio meccanico seguì il primo, e in due rigirarono più volte l'oggetto. Lei lo osservava affascinata, come se non avesse mai visto un robot in vita sua. Conosceva alla perfezione ogni singola attrezzatura dell'Aperture, ma non aveva mai avuto a che fare con androidi tanto barbari, eppure allo stesso tempo tanto interessanti. Una protuberanza a forma di cacciavite sgusciò fuori dal braccio, che iniziò ad svitare accuratamente uno dei bulloni posti dietro la testa dell'endoscheletro. Un coperchio sottile e annerito dal fuoco cadde, lasciando intravedere una piccola scatolina scura, percossa continuamente da minuscole scosse elettriche blu. Il computer l'estrasse con delicatezza utilizzando l'altro braccio, poi la collegò ad uno dei suoi schermi. Prima tutto si oscurò, producendo uno sgradevole suono, poi comparvero delle scritte e delle immagini. Erano di scarsissima qualità e sembravano raffigurare una stanza chiusa e dei minuscoli esseri umani.

-Oh, guarda. Non si sono rovinati completamente...-

In quel momento la scatola lanciò una scintilla più potente delle altre e lo schermo si spense. GLaDOS riportò l'attenzione sugli altri quattro.

-Mi sembra di capire che ho parecchio su cui lavorare...-

L'idea di poter ampliare i confini della sua conoscenza, finalmente, l'eccitava. Altri bracci meccanici discesero lentamente dal soffitto...


Analisi in corso...

Allora, l'hard disk è in parte illeso, anche se un buon pezzo è andato...

La cpu... montano tutti un 8080? Ah, saranno sicuramente stupidi. Cosa scontata se fossero stai messi in confronto a me, questo è ovvio. Ma è vero che alla stupidità non c'è limite...

I loro sensori di profondità sono distrutti completamente, ciò significa che se avessero ancora la forza di camminare avanzerebbero come il gatto ubriaco sul quale effettuai la veridicità del test di Shrodinger.

Questo qui? È diverso dagli altri. Sembrerebbe... uh, che roba è? Mai visti tanti dati corrotti tutti assieme. E poi... dal programma inseritogli, sembrerebbe nato con lo scopo di comportarsi come un bambino...


L'analisi continuò per ben 8 test, tradotti in poco più che un giorno umano. Mentre immagazzinava dati, il super computer immaginava un numero stratosferico di possibili nuovi test da far fare a quelle cose appena fosse riuscita a rimetterle in sesto. Mentre lavorava, Atlas e P-body osservavano da lontano, scambiandosi di tanto in tanto varie occhiate. Non avevano la facoltà di poter parlare, ma in compenso in tutti quegli anni avevano imparato a comunicare con un solo sguardo.

Secondo te andrà avanti ancora per molto?”

Probabilmente.”

Pensi che ci lascerà in pace?”

Non credo.”

Per un po' sì, però, giusto?”

Forse...”

Cosa saranno mai quegli affari?”

Non ne ho idea”

Continuarono a guardarsi fino a quando un suono molto simile ad un campanello risuonò per la stanza. GLaDOS aveva finito di accumulare dati.

Atlas e P-body la guardarono esitare qualche secondo per decidere sul da farsi, poi, inaspettatamente, allungò cinque bracci meccanici e tirò su tutti e cinque i resti inanimati; senza il minimo accenno di delicatezza, li lanciò con precisione in fondo ad un pozzo apertosi a pochi metri di distanza: un altro inceneritore. Loro due si dettero un'altra occhiata:

Oh, no! Ora ci toccherà... tornare a lavoro”

Non so, guarda”

GlaDOS girò su se stessa un paio di volte, come per cercare qualcosa nella stanza tondeggiante, poi mosse tutti i pannelli del soffitto e delle pareti assieme, come per esultanza. Sui grandi schermi che fece scivolare vicino a se iniziarono ad apparire disegni e progetti che illustravano la possibile struttura corporea che avevano avuto i robot in buone condizioni, e accanto ad essi iniziò a schizzare diverse bozze che ricordavano vagamente le prime, solo molto più ben definite e articolate.

-Arancione, Blu, non statevene a fissarmi come stoccafissi, procuratemi questi pezzi-

Una scatola pallida simile ad una grossa telecamera uscì da un'apertura nella parete, e collegata ad un braccio, si avvicinò agli occhi dei due bot. Produsse un bip-bip debole, accendendosi e proiettando un raggio di luce nell'occhio di Atlas e di P-Body. Loro rimasero accecati per un istante, poi vari schemi iniziarono a apparire di fronte a loro, illustrazioni di vari pezzi che GLaDOS non aveva il tempo di stare a cercare.

-E sbrigatevi, che mi serviranno appena avrò finito-

Atlas e il compagno annuirono all'unisono, e scomparvero per una porta alla ricerca di quel che richiedeva il computer. GLaDOS, rimasta sola, continuò il suo lavoro.


Passarono giorni. Il continuo sferragliare dei bracci a lavoro riempiva l'atmosfera. Lavorava incessantemente al suo progetto, ed ogni ora si avvicinava sempre più velocemente al risultato. Aveva ideato degli endoscheletri molto più complessi, studiandone accuratamente i movimenti e le caratteristiche. Aveva dato un nomignolo banale a ogni robot in lavorazione: Viola, Gialla, Marrone e Rosso. Era sua consuetudine nominare i soggetti da test per colore. Non aveva ancora deciso se chiamare Marrone 2 o Dorato l'ultimo androide, dal momento che non aveva ancora stabilito, in base ai dati, se il precedente animatronic avesse avuto un colore più simile al marrone sporco o al dorato opaco. Non che gliene importasse più di tanto, perché alla fine avrebbe deciso lei come colorarli. Solitamente, le più cose del laboratorio (lei compresa) erano bianche, argentee o grigio metallo. L'Aperture aveva sempre avuto poco interesse a tingere le proprie opere.

Viola era probabilmente stato basato su un coniglio, o su un qualche animale molto simile, anche se, dai dati raccolti, la somiglianza non doveva essere stata eccezionale. A lei piaceva fare le cose con precisione, quindi raccolse dati riguardanti l'anatomia dei conigli e concluse che Viola avrebbe dovuto avere orecchie sviluppate (lavorò con cura sul suo sistema uditivo), gambe adatte a grandi balzi e una dentatura da roditore. Non che avrebbe avuto bisogno di mangiare, ovvio, solo per completare l'opera. Terminata la struttura interna, si curò di fornire al futuro robot un'adatta rete di vene e capillari sintetici che avrebbe riempito in seguito, e che avrebbero garantito il funzionamento perenne dei soggetti. Infine, installò la nuova memoria dell'androide, così rielaborata:


Nome: [inserire nome oggetto]

Caratteristiche fisiche: Agile, buona facoltà di salto, udito sensibile.

Carattere:Allegro, inappropriato, buffo, ingenuo, amichevole, burlone

(Non ho idea di cosa verrà fuori, ma mi diverto a riempire questi affari di sentimenti umani ...)


Completata la base di Viola, la quale mancava soltanto di corpo esterno, che Atlas e P-body stavano ancora mettendo a punto (lasciava i compiti che richiedevano più delicatezza ai due bot, in quanto i suoi bracci meccanici non erano l'esatto sinonimo di “delicati”), passò agli altri quattro. Gialla era l'unico robot identificato con dati e voce più femminili, quindi sarebbe stata progettata per essere femmina anche da GLaDOS. Da quello che aveva ricavato, il robot era stato basato su un pulcino di pollo o di papero, e dal momento che GLaDOS non aveva una gran simpatia per le galline, optò per ricreare Gialla sotto forma di pulcino di papera, quindi munì l'endoscheletro di zampe palmate, becco piatto (che però sostituì in seguito con un becco più piccolo e ricurvo per permetterle di aprire e chiudere la bocca con più disinvoltura), mani che ricordavano vagamente delle piume e si assicurò che fosse abbastanza leggera da poter galleggiare in acqua. Finito di attrezzare l'endoscheletro, anche a Gialla fornì una memoria riprogrammata e più sviluppata rispetto alla precedente:


Nome: [inserire nome oggetto]

Caratteristiche fisiche: Leggera, adatta al nuoto

Carattere:Timida, simpatica, ottimista,curiosa, sensibile, golosa

(Di torte)


Anche Gialla venne munita di un sistema complesso di vene. Il computer passò al terzo soggetto, Rosso. Doveva assomigliare ad una volpe, quindi modellò l'endoscheletro a formare un muso affilato munito di denti da carnivoro, e allungò la colonna vertebrale in modo da farla terminare come una lunga coda. Quel robot era un po' più complesso rispetto agli altri, e il computer si chiedeva cosa fosse saltato in mente agli umani che avevano incrociato un canide con un pirata. Modellò un apposito uncino che avrebbe permesso a Rosso di afferrare qualcosa (perlomeno un portal gun) grazie ad una forma a pinza, poi si occupò di renderlo capace di correre per grandi distanze e di compiere grandi scatti, dal momento che dai vecchi dati GLaDOS poteva osservare che l'animatronic era stato il più veloce tra tutti. Essendo un canide, decise di aumentargli la sensibilità agli odori (cosa che di cui la stessa GLaDOS era priva ma che non richiedeva) e, notando uno strano problema con i vecchi dati che riportava un bug di sistema che aveva fatto avventare la volpe su un piccolo di umano mordendolo, costruì la mascella particolarmente robusta.

I dati e l'intelligenza che stava fornendo ai suoi progetti erano approssimativi: li aveva infatti programmati per imparare e potenziarsi per esperienza una volta accesi, e quindi si divertiva al pensiero di quali dati assurdi avrebbe potuto registrare durante i nuovi test. Infatti, anche per Rosso, si limitò a sottolineare solo alcuni dei più basilari comportamenti che avrebbe avuto:


Nome: [inserire nome oggetto]

Caratteristiche fisiche: Agile, veloce, forte

Carattere: Burbero, irascibile, insensibile, arrogante, coraggioso, furbo, impulsivo

(La mela marcia del gruppo... o forse no?)


Finalmente si poté dedicare a quello che le interessava di più: Marrone. Dando una rapida occhiata ai dati (che avrebbe finito di analizzare più avanti con molta calma) aveva notato che dal principio era stato l'animatronic più intelligente, complesso e umano di tutti, anche se particolari inquietanti sorgevano qui e là nel suo programma. Inoltre, era pieno di dati corrotti o indecifrabili, e questo stuzzicava la curiosità di GLaDOS più di qualsiasi altra cosa.

Basandosi sull'aspetto fisico di un vero orso, decise di creare l'endoscheletro di Marrone grosso, robusto e non troppo veloce, ma molto forte. All'apparenza doveva apparire un po' tozzo, ma avrebbe avuto dimestichezza con i movimenti come gli altri. Mentre riguardo alla sfera psicologica, volendolo rendere superiore e a capo degli altri come evidentemente era stato in precedenza, lavorò per molti test solo al suo carattere, cercando di fondere il comportamento di un gentleman inglese con quello di un sapientone superbo, dosando bene la quantità di sentimenti ed emozioni che avrebbe dovuto provare.


Nome: [inserire nome oggetto]

Caratteristiche fisiche: Forte, robusto, pesante

Carattere: Curioso, pensieroso, arrogante, presuntuoso, altruista, paziente

(E molti altri. Certo che gli Umani sono complicati da copiare...)


Adesso non mancava che l'ultimo. Fisicamente uguale a Marrone, Dorato aveva un'intelligenza molto più limitata e un carattere... particolare:


Nome: [inserire nome oggetto]

Caratteristiche fisiche: Forte, robusto, pesante

Carattere: Allegro, ottimista, curioso, amichevole, lunatico, inusuale, stupido

(Tenderei a sottolineare l'ultima affermazione)


Completati, anche per lui, i tubicini che avrebbero funto da apparato circolatorio, GLaDOS.. dovette solo aspettare che Atlas e P-Body finissero la rivestitura esterna, che lei avrebbe provveduto a fissare al corpo per dar loro un aspetto meno “metallico” e proteggere il fragile capolavoro che aveva creato. Mentre i due bot finivano di lavorare al rivestimento, lei dette gli ultimi ritocchi: impostò la voce ad ognuno, ovvero squillante per Viola, dolce per Gialla, raschiante per Rosso e piuttosto bassa e profonda per Marrone, nonché in falsetto per il suo gemello (senza un vero e proprio motivo, il computer si stava divertendo a prendere in giro Dorato in tutti i modi possibili), e colorò gli occhi (che al contrario di quelli dei vecchi modelli non sarebbero stati sferici, bensì dei piccoli monitor in grado di percepire perfettamente l'ambiente circostante molto simili, come forma, a quelli dei due bot e delle torrette) rispettivamente di fucsia per Viola, lilla per Gialla, giallo-oro per Rosso e blu acceso per Marrone. Non riuscendo bene a stabilire se Dorato gli avesse mai avuti, dal momento che non risultava da nessuna parte che in origine fosse munito di occhi, decise di invertire il colore dello schermo con quello della pupilla: sarebbe apparso con la sclera nera e la pupilla bianca. GLaDOS dovette dare più volte un'aggiustatina affinché apparisse così solo esternamente, e che riuscisse a immagazzinare luce come gli occhi degli altri.


Finalmente, dopo una quantità estrema di test saltati, più di 500, il lavoro era quasi completo.

-Arancione, Blu, provvedete a fissare l'esoscheletro-

Il computer ondeggiò un poco, osservando i suoi “servi” completare l'opera. Fissarono con precisione la “pelle” dei robot, e a bloccarla definitivamente pensò GLaDOS fondendo insieme varie parti. Dovevano risultare tutt'uno con il corpo interno e lei non poteva rischiare che i loro “costumi” si staccassero durante i test. Finito ciò, passò uno sguardo su ognuno degli androidi:

Viola assomigliava ad un coniglio molto più di quanto avesse dovuto assomigliarvi in precedenza, era di un viola-blu lucente e la pancia e il muso erano stati colorati di bianco. Al collo GLaDOS aveva ordinato di legargli un papillon rosso fiammante uguale a quello che aveva indossato secondo i dati e le immagini raccolte. Gialla assomigliava adesso ad un incrocio tra una papera (per le zampe) e una gallina (per il becco) ma non era una brutta fusione. Un bavaglio bianco le copriva in parte il petto. GLaDOS aveva scoperto che il bavaglio del vecchio modello aveva sfoggiato la scritta “let's eat!” ma non ci trovava nulla di intelligente in quella frase. Quindi decise di scriverci sopra un frase ad effetto “The Pizza is a Lie” dal momento che quei robot provenivano da un ristorante specializzato in pizze, o così almeno le era parso guardando le immagini.

Rosso aveva un rivestimento volutamente squarciato in alcuni punti, come sul busto (la ferita assomigliava ad una cicatrice di guerra), e le gambe mancavano completamente di rivestitura, così da dare un tocco di classe in più e da renderlo più veloce. L'occhio destro era tappato da una benda, ma funzionava alla perfezione. Marrone, infine, appariva più come un robot simpatico che robusto e feroce come aveva inizialmente pensato GLaDOS, ma l'aspetto calzava a pennello riguardo al carattere che avrebbe dovuto avere: serio e responsabile ma non impulsivo e feroce come il compare Rosso. Un fiocco nero legato al collo gli dava l'aria di gentiluomo (o gentilrobot in questo caso), così come la piccola tuba del medesimo colore poggiata sulla testa.

Dorato assomigliava molto al gemello, solo la tintura usata era particolarmente lucente e questo gli dava un effetto “luccicante”. Inoltre, la maschera modellata come un ciuffo di pelo sulla testa (come gli altri) non era “liscia” come quella di Marrone, ma era arricciolata, cosa che gli dava un aspetto “morbido” anche se era fatto di metallo e non di vero pelo. Anche lui portava cappello e fiocco, solo di un blu oltremare piuttosto scuro.

GLaDOS era pronta ad iniettare nei corpi il carburante speciale che li avrebbe fatti funzionare senza batterie o energia elettrica, in un primo momento senza accendere loro il cervello sintetico in modo da stabilire solo se gli arti funzionassero a dovere e in seguito accendendoli definitivamente per poter iniziare i test di intelligenza e molto altro; ma prima di ciò constatò che, dal momento che sarebbero stati in grado di parlare e comunicare tra di loro a parole, doveva dar loro i vecchi nomi (anche per attivare in loro quel rimasuglio di vecchia memoria che lei aveva lasciato dentro le loro intelligenze).

Controllò velocemente i dati immagazzinati e poi rinominò ognuno:


Nome soggetti:

[Viola] Bonnie

[Gialla] Chica

[Rosso] Foxy

[Marrone] Freddy

[Dorato] … … … elaborazione in corso... Golden.


Fece scivolare dei tubi collegati al Carburante verso il loro “cuore” sintetico, unico punto rimasto scoperto che avrebbe sigillato appena conclusa l'operazione.

Un denso liquido viola scuro iniziò a scendere per i tubi trasparenti...




Commento

Zan zan! Eccomi nuovamente con un altro capitolo! Perdonatemi, ma avevo iniziato a scrivere questo capitolo e mi ero bloccata; solo in questi ultimi giorni sono riuscita a finirlo! È venuto più lungo del solito, ma era necessario per introdurre GLaDOS! Certo, solo i fan di Portal potranno capire a pieno questo personaggio già da questo capitolo, ma non preoccupatevi, anche voialtri “meno esperti in materia” verrete a conoscenza del vero ruolo di questo meraviglioso “character” della Valve, che io stimo tantissimo (non la Valve, GLaDOS)! Oltre che spiegare le vere origini del computer, sto cercando di inserirla il più possibile nella storia di FNAF collegandola a personaggi che nemmeno immaginate. Per il momento, consiglio a tutti voi di cercare su internet dei video o semplicemente andando su Wikipedia qualcosa in più su GLaDOS, perché, ci crediate o no, è un personaggio complesso e difficile da descrivere. Io mi trovo abbastanza in difficoltà nel cercare di rendere la G della mia storia tale e quale quella di Portal, ovvero un personaggio di ghiaccio dall'umorismo nero con passatempi satanici, ma sto facendo del mio meglio...

Io vi consiglierei addirittura di scaricare il gioco, non costa molto, ma sono solo osservazioni!

Ringrazio tutti quelli che mi stanno seguendo e in particolare Crax, che mi aiuta con qualche termine tecnico che io non potrei neanche sognarmi. Spero di non aver detto troppi strafalcioni informatici in questa fiction!

Al prossimo capitolo!

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Capitolo 8
*** Cicatrici ***


AAA

L'acqua fredda risvegliò i suoi sensi ancora intorpiditi. Si passò una mano sul volto, passando con l'indice su quella ragnatela di solchi che gli adornava la faccia dall'incidente. Assomigliavano a graffi più o meno profondi, erano pallidi rispetto al resto della pelle, e non l'avrebbero più lasciato. Ogni giorno, ogni mattina, quel gesto di accarezzarsi il volto con la mano tremante risvegliava il vivido ricordo dell'incubo che aveva vissuto non molti mesi prima. Spostò lo sguardo nello specchio e vide il fantasma di quello che un tempo era stato un giovane robusto di bell'aspetto. Le cicatrici intricate avevano rovinato la pelle del viso, un tempo brillante, adesso spenta. La più profonda solcava l'occhio destro, appena sotto la palpebra inferiore, formando una rientranza nello zigomo piuttosto raccapricciante. Il resto non era altro che una serie di tagli sparsi dalla fronte al mento, uno era più lungo e attraversava metà del suo collo. Ma non era stata solo la pelle ad essere martoriata. Anche gli occhi, dopo aver passato quei terribili giorni di continui interventi, erano diventati opachi e da blu cielo erano passati a grigio freddo, come se delle gocce di metallo avessero irrotto nelle sue iridi e avessero iniziato a divorarne il colore. I capelli, prima neri e lucenti, erano schiariti e seccati, come una pianta lasciata troppo tempo sotto il solleone. Questo era quello che vedeva Mike ogni mattina, dopo l'incidente alla pizzeria: un giovane uomo distrutto da un'esperienza indescrivibile, che sembrava andare oltre la realtà.

Attentato a guardia notturna durante il turno di lavoro, uomo di 23 anni assalito da robot, salvato per miracolo da intervento della polizia”

Quel giornale – uno dei tanti – che aveva annunciato l'incidente di Mike, se ne stava ancora sul bracciolo della poltroncina, coperto di polvere, da quasi un anno ormai. Gliel'aveva portato Fritz uno dei suoi primi giorni coscienti all'ospedale dopo l'operazione, per sottolineare quanto fosse stato fortunato ad essere ancora vivo.


«Quella roba che ti hanno infilato in testa era coperta di ruggine, Mike! Hai rischiato una grossa infezione!»

Aveva annunciato, sventolando i fogli come una bandiera, attraversando il corridoio dell'ospedale. Quei giorni Mike aveva ancora la mente annebbiata e le orecchie ovattate, quindi aveva chiesto all'amico di ripetersi.

«Hai avuto fortuna a uscirne vivo, amico»

Aveva tagliato corto l'altro, lanciandogli il giornale dopo essersi seduto ai piedi del letto. Mike aveva letto l'articolo che parlava della sua miracolosa fortuna che l'aveva strappato appena in tempo dalle braccia della morte. Aveva sbuffato:

«Immagino di essere diventato famoso per questo, eh?»

La voce roca aveva prodotto un effetto sgradevole, simile al rauco gracchiare di un rospo, ma Fritz aveva fatto finta di niente.

«Non si parla d'altro in paese. Pensa che in quest'ultima settimana l'affluenza turistica è aumentata»

«Solo per vedere me?»

«Solo per vedere gli animatronics, e per curiosare. Ovviamente, la polizia non permette a nessuno né l'una ne l'altra cosa»

Alla parola “animatronics” lo stomaco di Mike aveva avuto una terribile contrazione e l'orrore di quei momenti era riaffiorato a fior di pelle, tempestandolo con un tremendo senso di nausea.

«Non parlarne più, ti prego»

Fritz l'aveva guardato attraverso gli occhiali tondi. Gli occhi castano intenso avevano squadrato il volto di Mike per molti minuti, e poi l'amico aveva fatto un sospiro alzandosi dal letto:

«Be', Mike, che dire? Spero ti rimetta presto. Io adesso devo tornare a lavoro, sai com'è mio zio... mi ha dato il permesso di venirti a trovare per non più di dieci minuti, e se dice dieci minuti, sta' certo che ti viene a cercare se sfori anche di pochi secondi»

«Come Fred»

Aveva ridacchiato Mike, con la gola raschiata dalla risatina forzata. Ma solo pronunciare quel nome aveva portato con sé un'altra ondata di orrido malessere, e si era pentito subito di averlo pronunciato. Fritz non l'aveva notato ed aveva risposto con una risata vera, poi se n'era andato a corsa.


Mike aveva conservato il giornale. Non sapeva il perché. Il ricordo di quell'incubo era ben lungi dallo sfumare, ma quel giornale gli ricordava non solo l'incidente, ma anche qualcosa di positivo. Era sopravvissuto, era stato molto fortunato. Il suo volto aveva subito sfregi irreparabili, diventando il simbolo dell'accaduto. Ma in qualche modo era riuscito a sopravvivere, a sfuggire alla nera moira ed adesso stava cercando di ricostruirsi una vita.

Con scarsi risultati. Andò in cucina, ancora in pigiama, e afferrò la scatola di biscotti che teneva a portata di mano sopra la mensola. Erano grossi e a forma di osso.

«Sparky!»

Chiamò, e trotterellando il suo fidato amico zampettò in cucina. Gli lanciò il biscotto e lui balzò agilmente afferrandolo al volo. Iniziò a sgranocchiare avidamente il suo premio, accucciandosi nel suo angolino preferito. Mike gli diede un paio di carezze sul capo, e il cane ringraziò scuotendo la coda.

«Oggi vado al Commissariato, starai un po' da solo. Non combinare guai, va bene?»

Il cucciolone non lo degnò di molta attenzione, e continuò a rosicchiare il suo osso. Mike tornò in camera sua e aprì l'armadio, passando con lo sguardo su ogni vestito che aveva. Erano al massimo una dozzina e i più erano maglioni o felpe, ma quel giorno doveva presentarsi con qualcosa di decente. Afferrò una camicia con motivo a righe e una giacca scura, poi indossò un paio di pantaloni blu notte. Tornò a passi svelti in bagno, per darsi una veloce spazzolata ai capelli smorti, poi davanti allo specchio gonfiò il petto e cercò di apparire il più fiero possibile. Stava per presentarsi al Commissariato di New Brinnin per la prova d'esame che avrebbe decretato o no il suo primo passo da agente di polizia. Aveva studiato legge e fin da bambino aveva avuto il sogno di diventare un avvocato. Sogno che si era infranto quando aveva sbattuto contro la realtà dei terribili esami dell'Università, che non era riuscito a passare e che alla fine aveva abbandonato finendo a cercare lavoretti vari per la città, lavorando d'estate come cameriere per gli alberghi marittimi e d'inverno con quello che trovava. L'ultimo suo lavoro si era rivelato quasi fatale, ma gli aveva anche fatto capire una cosa fondamentale della sua vita. Dopo essere stato salvato dalla polizia, era cresciuto in lui l'ardente desiderio di far parte del corpo armato per ricambiare il favore a qualcun altro. Si sentiva in debito, e ormai aveva deciso di unirsi al corpo armato dello Stato. Prese un grande respiro, cercando di non guardare quelle orribili cicatrici. A tutti i lavori a cui si era presentato dopo il suo soggiorno in ospedale, era stato scacciato bruscamente. Forse alcuni pensavano avrebbe portato sfortuna all'attività (la Fazbear's era chiusa proprio a “causa” sua), o altri, lui ci scommetteva, perché il suo volto era inguardabile. Mike si aggiustò la cravatta, poi raddrizzando la schiena pronunciò:

«Agente Schmdit, pronto per questa impresa»

Si voltò, facendo un gran sospiro, poi si avviò verso l'uscio. Sentì Sparky trottargli dietro e ansimare per il caldo dell'appartamento, ma Mike non poteva portarlo con sé.

«Sparky, non puoi venire. Dovrei lasciarti legato fuori la sede di polizia...»

L'uggiolio da cucciolo del bastardino impietosì Mike, che non poté resistere e alla fine afferrò il guinzaglio che teneva vicino all'uscita e lo legò al collo del cane.

Guarda che gran forza d'animo che hai, Mike. Ti fai comandare da un cane. Che gran bell'agente sarai, utilissimo alla patria, sì!”

Sparky ringraziò scodinzolando allegramente, allargando la bocca come in un gran sorriso. Mike gli rispose sorridendo e uscì dalla porta.


Le strade erano quasi deserte, un debole vento gelido afferrava le foglie e le accompagnava in una danza unica per i cieli di New Brinnin. Mike camminava a testa bassa, con il volto affondato nella camicia, rimpiangendo le volte in cui poteva nascondere il mento e la bocca nel collo alto della felpa. Aveva iniziato a camminare cercando di attirare meno attenzione possibile, ma cercare di non dare nell'occhio aveva scaturito l'effetto contrario. Anche solo muoversi tra la gente, azione che avrebbe svolto normalmente come qualsiasi essere umano, era adesso un'impresa. Indossare cappucci o berretti aiutava, ma nei giorni più caldi le felpe e i cappelli di lana erano troppo da sopportare. Sgusciava tra le persone con movimenti rigidi, innaturali, cercando di non incrociare lo sguardo di nessuno, e non far caso a chi lo stesse guardando. Per fortuna l'appartamento dove viveva si trovava piuttosto in periferia, in una zona poco affollata, ma si trattava sempre della periferia di una città di medie dimensioni, per di più piuttosto famosa come meta turistica, specialmente durante l'estate per il mare, e quasi ogni giorno Mike attirava gli sguardi di passanti curiosi su di se, come se fosse una calamita. Il suo volto sfregiato l'avevano trasformato in un fenomeno da baraccone che attirava a sé risatine maligne o occhiatacce criticanti. Per fortuna, quel giorno di fine autunno in pochi erano usciti di casa, i più erano già andati a lavoro e i pochi che ci stavano andando erano troppo impegnati a correre per non perdere la fermata del bus o ad affrettarsi in bici per notarlo.

Mike camminò per diversi minuti, inforcando le strade meno affollate che aveva scoperto in quel mezzo anno da incubo, alle quali prima non aveva mai fatto caso. Sparky gli camminava a fianco, senza fermarsi ad annusare in giro o iniziare a gironzolare per conto proprio. Era un cane tranquillo, un meticcio di taglia media-grande che ricordava un “labrador magro dal muso allungato, oppure un cane lupo bruttino”, più o meno così l'aveva descritto suo cugino quando gliel'aveva regalato. Il manto grigio chiaro e gli occhi vispi, color ghiaccio, le orecchie piccole e flosce, come quelle di un cucciolo, e la coda sempre in movimento avevano messo poco tempo a fare breccia nel cuore ancora shockato di Mike, quasi un anno prima. A credersi era difficile, ma Sparky aveva seriamente dato un gran contributo al superamento dello shock del giovane.


«Non si possono introdurre animali all'interno dell'ospedale!»

Aveva schiamazzato un'anziana dottoressa, con il volto rugoso contratto in una smorfia di rabbia. Jeremy aveva afferrato la scatola sotto il braccio sinistro, col destro si era asciugato la fronte e dato una veloce aggiustatina al ciuffo ribelle davanti agli occhi, poi aveva schiarito la voce e si era giustificato:

«Laggiù c'è mio cugino, è quasi morto soffocato da una maschera, è completamente shockato e non c'è nessuno che possa venirlo a trovare spesso. Non pensavo fosse un reato confortare un parente»

La voce e i gesti di Jeremy avevano lasciato trapelare una forte sicurezza personale che aveva indotto la vecchia donna a pensare che quel rosso non si sarebbe arreso facilmente. Ma non aveva ceduto:

«È inaccettabile! Quel cane potrebbe avere pulci, o peggio, essere infetto. I globuli bianchi del paziente sono scesi vertiginosamente durante le operazioni e in questo momento non può permettersi di contrarre nessun genere di...»

Ma Jeremy aveva sbuffato, aprendo la scatola e afferrando la palla di pelo grigia per la collottola:

«Questo cuccioletto non ha nessun tipo di malattia, infezione, e non morde! È nato due mesi fa, e l'ho preso oggi stesso dal ricovero per animali, dopo tutti i controlli veterinari. Non si fida? Lo guardi, su!»

Aveva avvicinato il batuffolo mugolante al volto dell'anziana, che subito era arretrata con impressa in faccia un'espressione ripugnata, ma subito si era ricomposta:

«Le regole sono regole, se non gira subito i tacchi e se ne va di qui, io sarò costretta a...»

«Jeremy?»

Aveva chiesto a quel punto lui, uscito dal dormiveglia. Jeremy si era voltato, lasciando per un secondo trapelare un grande sorriso, che puntualmente si era guardato dal reprimere per indossare un'espressione seria e quasi scocciata, come ogni volta che s'incontrava col cugino piccolo. Era avanzato verso il letto ignorando la disapprovazione della dottoressa.

«Allora Mike, ti sei fatto la plastica al viso, mi pare di capire»

Mike si era limitato a squadrarlo con occhi pallidi, quasi inespressivi. Il destro era gonfio e circondato da una grossa chiazza violacea. Jeremy aveva afferrato con disinvoltura una sedia lì vicino, e si era accomodato accanto al letto.

«Hai quasi perso un occhio, vedo»

«Non hai perso la lingua, vedo. E neanche il tuo sarcasmo»

Aveva gracchiato con voce irriconoscibile Mike. Jeremy aveva abbozzato un falso sorriso:

«Come potrei stuzzicarti se perdessi la lingua?»

«Troveresti comunque un modo, immagino»

«Credo anche io, non potrei rinunciare al rompere al mio cugino preferito»

Aveva mostrato la scatola, mentre la vecchiaccia si era avvicinata con occhi colmi di furore, le mani strette in pugno.

«Le ho detto...»

«Solo un attimo!»

Aveva ringhiato Jeremy, per poi riportare l'attenzione sul cugino.

«Lui... pensavo avrebbe potuto piacerti»

Aveva nuovamente infilato la mano nella scatola e tirato fuori il musetto minuscolo di un cagnolino grigio perla. Mike aveva sgranato gli occhi:

«Cos'è?»

«Un tirannosauro. Adesso, secondo te? L'occhio l'hai perso davvero?»

Mike aveva iniziato ad allungare la mano verso l'animaletto, ma la dottoressa l'aveva fermato con un “her-emm!” e Mike aveva subito ubbidito.

«Che razza è?»

«Suvvia, a caval donato non si guarda in bocca, screanzato di un cugino»

«Era... solo per chiedere»

Jeremy l'aveva fissato a lungo. Gli occhi dell'altro erano quasi bianchi, le pupille vuote, l'espressione priva di vita. Aveva concluso che il cugino non era in vena di scherzi.

«Un bastardino. Penso sia... un labrador molto magro, o un cane lupo molto, molto brutto, oppure un incrocio tra i due, probabilmente. Non ho idea di che razza sia, so solo che è maschio ed è il più brutto che sono riuscito a trovare, doveva assomigliarti»

Mike aveva allargato un sorriso sarcastico, ma solo quel gesto aveva provocato l'intenso bruciore di tutta l'epidermide della faccia.

Aveva soffocato un grugnito, poi aveva continuato a fissare il cucciolo. Dalla scatola scrutava la stanza d'ospedale con curiosità, allungando il naso nero per annusare i dintorni.

«Non so se potrò badare anche ad un cane»

Aveva concluso Mike brusco.

«Sarà lui a badare a te, credo. E comunque, non posso riportarlo indietro quindi a questo punto te lo devi tenere»

Mike aveva fatto una smorfia, poi aveva annuito sconfitto.

«E va bene, troverò il modo di tenerlo. Immagino che dovrei ringraziarti»

«Dovresti»

Aveva risposto di rimando l'altro sorridendo. Mike aveva piegato un angolo della bocca, poi aveva gracchiato un “grazie” appena accennato, per poi chiudere gli occhi e appoggiare la testa sul cuscino.

«Ed ora se ne vada!»

Il ringhio della dottoressa aveva fatto sobbalzare Jeremy, che aveva afferrato il suo pacco, salutando la donna con un inchino provocatorio e trotterellando fuori dalla camera.


Da quando era uscito dall'ospedale, quel cagnolino gli era sempre stato accanto. I regali rifilati a forza dal cugino si erano rivelati il più delle volte orribili o ingombranti – era il modo di Jeremy per dar noia a Mike – ma Sparky era probabilmente il miglior regalo mai ricevuto. Il cane gli teneva alto il morale, gli teneva compagnia e soprattutto non reprimeva a forza espressioni schifate quando lo guardava in faccia. Sempre allegro e scodinzolante, riusciva sempre a strappargli un sorriso.

«Allora, se non ho sbagliato strada... la stazione di Polizia dovrebbe trovarsi...»

Sentì lo stomaco serrarsi violentemente quando costatò che aveva sbagliato strada. E si trovava molto lontano dalla stazione di Polizia. Camminando sovrappensiero, non si era reso conto dell'errore e solo adesso, poco più che 15 minuti prima delle prove generali, si trovava completamente smarrito.

«No... no! Questo non doveva accadere! Cosa faccio adesso?»

Parlava più a se stesso che al suo cane, che comunque parve comprendere l'agitazione del padrone ed iniziò ad agitarsi.

Poi il suono del bus che si fermava poco lontano da lui attirò la sua attenzione. Forse era ancora in tempo.


Sguardi. Tanti sguardi posati su di lui. Troppi, mentre attraversava lo stretto corridoio del pullman. Procedeva a testa bassa, cercando di ignorare quella pressione posata sul suo essere, senza riuscirci. Sparky lo seguiva diligente, strusciando la testa sulla sua gamba mentre procedevano per andare nel retro del pullman, l'unico posto dove gli animali erano consentiti senza gabbietta.

I grandi pullman di New Brinnin potevano vantare ben due piani, con tanto di “scompartimento” all'aperto per i passeggeri con grandi animali. Mike cercò rifugio lì, e per sua grandissima fortuna trovò quel posto vuoto. Inspirò l'aria fresca e si sedette su una delle sedie in plastica fissate a quella parte di pullman scoperta. Sparky si accucciò al suo fianco.

In circa 10 minuti il bus l'avrebbe lasciato alla fermata più vicina alla stazione, e lui avrebbe dovuto correre per qualche minuto per arrivare in orario. Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare dal vento, e abbandonandosi ad un breve riposo senza pensieri.

Quando quell'immagine riaffiorò. Occhi celesti, intrisi d'odio. L'endoscheletro luccicante dentro il costume, la forte pressione sul corpo, i cigolii, sempre più forti, vicini, assordanti.

Sobbalzò attirando l'attenzione di Sparky che rizzò le orecchie in cerca del pericolo. Davanti a lui c'era una giovane ragazza con un grosso gatto in braccio. Sembrava grande almeno il doppio del più grande gatto che Mike avesse visto. Il pelo fulvo, ispido, fu la cosa che però lo colse maggiormente: era di un colore indefinibile, simile al blu o al viola scuro, un colore che mai aveva visto in nessun animale. Grandi occhi gialli lampeggiavano tra la folta pelliccia, risplendendo quasi con innaturalezza in mezzo a tanto scuro come due piccole luci in una notte senza luna. Mike rimase paralizzato per qualche secondo alla vista di quel maestoso felino, che induceva fierezza e uno strano senso di inquietudine allo stesso tempo. Solo in seguito portò l'attenzione sulla ragazza che, a fatica, lo teneva in braccio. Era vestita con un maglione lilla e con dei jeans azzurri, ma fu subito il volto a suscitare la curiosità del giovane: la pelle era di un'innaturale colore grigio pallido, quasi cadaverico, e gli occhi, di un azzurro-violaceo insolito, sembravano privi di vita. Un cappello di lana le copriva inoltre gran parte della fronte, e l'intero occhio sinistro. Il ragazzo non riusciva a distogliere lo sguardo da quel volto, e da quel berretto. Una forte angoscia lo prevalse, e una viscida paura iniziò a scivolargli verso lo stomaco.

«Mi scusi»

Pronunciò improvvisamente la ragazza, con il tono di chi ha già fatto una domanda ma non ha ottenuto risposta. Probabilmente Mike si era appisolato qualche secondo e non l'aveva sentita.

«Oh, perdonami, stavo... mi ero addormentato»

Istintivamente Mike aveva rivolto lo sguardo verso il basso, vergognandosi per la sua faccia.

«Il mio gatto potrebbe darle problemi se mi sedessi qui vicino a lei?»

«Oh, no, non preoccuparti, mi piacciono i gatti»

Era strano sentirsi dare del “lei” da una ragazza poco più giovane di lui. Mike iniziò a temere che quelle cicatrici lo invecchiassero. Lei si voltò, dirigendosi verso l'altro sedile, quando Mike avvertì nuovamente quel rumore, quel cigolio inquietante, che aveva ben impresso nella memoria e che non avrebbe mai più dimenticato. Allora balzò in piedi, con velocità felina, guardandosi attorno colto da un'improvviso terrore.

«Si sente bene?»

Chiese preoccupata la giovane accarezzando delicatamente la testa del grande gatto, che chiuse gli occhi e iniziò a fare le fusa.

«Oh, sì, non è nulla. Pensavo di aver perso la fermata. La prossima è la mia. Arrivederci»

Aveva pronunciato quelle parole con una freddezza esagerata. Quella ragazza lo metteva a disagio, anche se avrebbe voluto scoprire il perché, e si vergognò a mostrarsi così rigido con una ragazzina tanto educata. Chiamò Sparky con un gesto della mano, e il cane indugiò un attimo, adocchiando per un secondo il grande gatto dal colore della notte, per poi voltarsi e seguire il padrone.




Commento

Il problema di questo capitolo? Penso sia venuto troppo lungo e troppo poco ricco di informazioni. Comunque, è solo l'inizio, ben presto la storia di Mike, di Fred e soprattutto degli animatronics (e di GLaDOS) si farà molto più interessante! Spero di non avervi annoiato troppo e... al prossimo capitolo!


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Capitolo 9
*** Risveglio ***


AAA

Buio. Silenzio.

Cosa sta succedendo? Dove... dove sono?”

Calore. Mente annebbiata.

Io... non ricordo nulla”

Avvertiva una strana sensazione. Quello che sembrava un bollente liquido iniziò a fluire nel suo corpo. Aveva un corpo. Mano a mano che la sostanza si faceva largo nelle sue interiora, avvertiva strani cambiamenti. La sua mente iniziò a farsi più chiara, e il grande peso che l'opprimeva iniziò a disfarsi. Era come se un grosso masso posto sul suo animo iniziasse, spinto da una forza esterna, a disfarsi.

Animo. Aveva un'anima?

Cosa mi sta succedendo?”

Il liquido incandescente correva per le vene di tutto il suo corpo.

Vene?”

Lo sentiva. Lo sentiva spostarsi, inondare il suo essere. Ed al suo passaggio lasciava una qualche forza dietro di sé, qualcosa che donava una nuova forza al suo corpo.

Ho un corpo... è un buon inizio”

Provò a muoversi. Sentì le dita della mano destra tremolare.

Ho una mano. Fantastico. Avrò anche l'altra”

Anche la sinistra rispose, anche se solo per un attimo, al suo comando.

Ho un corpo. Ho una mente...”

Strinse entrambe le mani in pugno, e questa volta le dita risposero perfettamente. Il calore iniziò a diminuire, ma quel senso di purificazione restava. Quella strana sensazione di completamento. Poi, la sua mente fu nuovamente inghiottita dall'oblio.


Sussultò. Sussultò sul posto, come se qualcuno gli avesse dato la scossa. Sussultò, ed aprì gli occhi. All'inizio, una forte luce lo investì in pieno, e istintivamente regolò lo scanner degli occhi in modo da non rimanere accecato. Poi si guardò attorno.

Si trovava dentro ad un cilindro di vetro azzurro. Oltre, intravedeva poco più che una grande stanza bianca. Regolò meglio la visuale, senza pensarci, e riuscì a mettere a fuoco ogni dettaglio. Il vetro in cui era intrappolato era solcato da minuscole venature parallele verticalmente, si estendeva dal soffitto fino al pavimento, e dentro vi era intrappolato lui. Oltre, riuscì a scorgere il pavimento della stanza bianca, composto da grandi mattonelle color bianco sporco, mentre le pareti erano formate da grossi pannelli di un bianco innaturale, quasi accecante. Riusciva a vedere, a muovere gli occhi e la testa, ma un senso di vuoto incolmabile lo rendeva ancora incosciente. Era come assistere ad uno spettacolo dal corpo di qualcun altro. Eppure, il corpo rispondeva al suo comando. Mosse entrambe le spalle, poi le braccia, ed infine le mani. Ma continuava a non comprendere. A non capire, ad avvertire quel vuoto nel suo ragionamento. Non riusciva a formulare un pensiero, e neanche a rendersene conto per andare nel panico.

Poi un lungo fischio di una sirena, in lontananza, lo scosse. Il grande cilindro si spaccò in due parti precise, in larghezza, e entrambe le metà iniziarono a sgusciare all'interno del pavimento e del soffitto, risucchiate da delle cavità grandi precisamente come la circonferenza dei cilindri. Un'ondata di aria fresca lo travolse. Non poteva respirare, almeno così sembrava, eppure quell'aria lo risvegliò completamente. Il vuoto scomparve nel nulla così come era apparso, e il suo cervello prese il sopravvento. Un'inquietudine lo colse improvvisamente:

«Dove sono? Che posto è questo?»

Aveva dato involontariamente voce ai suoi pensieri, avendo così modo di ascoltare una voce profonda, seria e leggermente toccata dalla paura, con un leggero timbro metallico. La sua voce. Era strano, maledettamente strano non riconoscere la propria voce! Non aveva nessun tipo di ricordo, e concluse ben presto che non era normale. Svegliarsi così, un giorno, cosciente e in grado di ragionare, ma senza ricordare il proprio passato.

Chi sono?”

Una vocina nella sua testa lo convinse a non preoccuparsi troppo, a fare un passo alla volta.

Sì, un passo alla volta. Ce la posso fare”

Decise di organizzarsi. Solo l'aver deciso una cosa simile accese una spia nella sua mente: una parte del suo carattere era legata all'organizzazione, e non al caos totale. Questo lo rassicurò un po', dopodiché organizzò mentalmente il da farsi.

1. Devo scoprire dove mi trovo.

    1. Devo scoprire chi sono e cosa faccio qui.

    2. Devo trovare un senso a tutto ciò”

A dirsi, era facile, pensò. Prima di cadere nel panico, si dette da fare e osservò meglio la stanza dove si trovava: il cilindro ormai scomparso si era trovato nel centro, e adesso rimaneva solo una piattaforma grigia ai suoi piedi. Lui scese, e osservò la parete davanti a se. Era completamente ricoperta dai pannelli bianchi grandi almeno il doppio di lui, e in alto a destra una piccola lucina lampeggiava ad intermittenza. La fissò per qualche secondo, come in trance. Era una telecamera, bianca come la parete, e quasi si confondeva col muro. Era piccola e dalla forma ovale, ed era puntata su di lui. Lo stava osservando, spiando. Qualcuno stava seguendo ogni suo movimento. Un fremito, proveniente da chissà dove, risvegliò un'antica sensazione: essere osservato non gli piaceva. Anzi, gli dava sui nervi. Più il suo sguardo si focalizzava su quel piccolo occhio nero attaccato al muro, più la sua agitazione saliva. Spinto da questi sentimenti, digrignò i denti e strinse i pugni. Oh, quanto odiava quella telecamera! Ma perché?

Cosa sto facendo?”

Scosse la testa, poi distolse lo sguardo da quella malefica spia e si voltò.

Odio le telecamere... so di odiarle, ma non ricordo il motivo. Comunque, se ci sono delle telecamere, significa anche che c'è qualcuno. Non devo far altro che trovare quel qualcuno”

Dietro di sé, un corridoio portava fuori dalla stanza bianca e procedeva a perdita d'occhio. Dopo aver controllato velocemente che non ci fosse altro d'interessante nella stanza, inforcò quella via.

Muoversi fu doloroso, all'inizio. Sentiva il suo corpo cigolare leggermente, ogni ingranaggio sussultare, le gambe reggere a malapena il suo corpo. Era sempre stato così? Ma per fortuna durò poco. Dopo qualche minuto, smise di sferragliare e di sentirsi debole, e accelerò l'andatura. Il corridoio era lungo e sempre uguale. Le pareti, al contrario di quelle della stanza, erano grigio scuro, ma per il resto erano sempre costituite da quei grandi pannelli. Lui procedette, approfittando di quella monotonia per osservare un po' il corpo con cui non aveva familiarità: mani, gambe e busto apparivano di un marrone scuro, tranne per la pancia e i palmi delle mani, un po' più chiari. Le mani erano molto complesse, potevano ruotare sui polsi quasi completamente e ognuna delle dita era perfettamente articolata. Quelle mani avrebbero potuto afferrare qualunque cosa. I piedi, invece, erano molto più grandi, a forma di zampa, con solo tre dita ciascuno. Ma sembravano molto robusti e gli permettevano di alzarsi sulla punta. Non era sicuro che il suo corpo, all'apparenza così peso e robusto, potesse permettergli di correre o di saltare. Per il momento si limitò a proseguire per il corridoio.

Dopo diversi minuti, dei leggeri rumori di ingranaggi lo sorpresero, e nel voltarsi fece appena in tempo a vedere alcuni pannelli in fondo al corridoio staccarsi dalle pareti e ruotare, chiudendo completamente l'accesso alla stanza da cui era arrivato. Rimase immobile per qualche attimo, aspettandosi qualche altro cambiamento, ma a parte la diminuzione della luce, non accadde nient'altro. Quindi fece per proseguire nella stessa direzione quando quel rumore si ripeté, più forte e violento. I pannelli in fondo al corridoio si stavano chiudendo a muro... tutti quanti, velocemente. E più si avvicinavano, più violentemente si pressavano assieme, come se volessero schiacciare con forza qualsiasi cosa si trovasse in mezzo. Decise che era il momento di scoprire se poteva correre.

Poteva! Corse per il corridoio, quell'infinito corridoio, senza riuscire a vederne ancora la fine, mentre i pannelli si schiantavano sempre più velocemente alle sue spalle. Angoscia, paura e in seguito panico, presero il sopravvento. Non era come con quella telecamera, non un sentimento represso che tornava a galla dal suo subconscio. Si trattava di un sentimento naturale che per la prima volta si manifestava nel suo animo robotico. Era quasi sicuro di non aver mai provato qualcosa di simile anche nel suo oscuro passato senza memoria. Continuò a correre, implorando le gambe di lavorare più velocemente, ma non ci riuscì. Forse non aveva ancora padronanza con quel nuovo corpo, doveva ancora conoscerne i limiti e i punti di forza, ma qualunque cosa fosse, sperò che quella non fosse la sua velocità massima. Il rumore si fece più forte. Sentiva gli schianti dietro di se essere sul punto di raggiungerlo. Aprì leggermente la bocca, ansimando come un cane sotto un sole cocente.

Perché questo? Non ho bisogno di respirare...”

Eppure, involontariamente stava cercando di riprendere fiato. O qualcosa del genere. Sentì le gambe tremare sotto il suo corpo, e in poco tempo le forze iniziarono a mancargli.

Che razza di corpo mi ritrovo? Sono un androide – realizzò a pieno solo in quel momento – non dovrei stancarmi!”

Ma le sue gambe non parevano coincidere con quel pensiero. Iniziò inevitabilmente a rallentare, mentre due pannelli gli sfiorarono la schiena. In fondo al suo campo visivo, una lontanissima luce pareva annunciare la presenza di un'altra stanza, ma capì subito che non ce l'avrebbe fatta. Sarebbe rimasto schiacciato tra quei pannelli e bell'e finita quella nuova vita. Il suo piede destro perse la presa col terreno, e lui scivolò in avanti, parandosi con le braccia all'ormai prossimo schianto col terreno. Ma questo non avvenne. Iniziò invece a cadere nel vuoto, senza capirne il motivo. Sopra di lui i pannelli cessarono di chiudersi a muro, e realizzò solo in quell'istante di essere inciampato per colpa di una delle mattonelle su cui stava correndo. Questa si doveva essere ritratta improvvisamente per creare un'apertura dal quale salvarlo. Nella sua caduta, completamente al buio, urtò più volte quelli che parevano tubi metallici, probabilmente i meccanismi che spostavano le mattonelle e i pannelli alle pareti. Non sapeva a cosa sperare in quel momento. In un morbido materasso ad aspettarlo in fondo a quella caduta? Gli parve che chiunque lo stesse controllando si stesse divertendo a trovare metodi assurdi per spaventarlo. Ma perlomeno quel qualcuno sembrava volerlo vivo... per il momento. Atterrando, non trovò nessun materasso ad attenderlo. Si schiantò violentemente contro il freddo pavimento – poteva riconoscere il freddo al tatto! – facendosi parecchio male – e sentiva dolore – ma sembrava ancora tutto intero. Era rimasto indenne, nonostante provasse un sordo dolore al volto e agli arti per il brusco atterraggio.

Provo dolore, percepisco il caldo ed il freddo e sono molto robusto”

Aggiunse alla lista delle cose nuove che stava apprendendo di se stesso. Provò ad alzarsi. Inizialmente le braccia non ressero il suo peso e lui picchiò una forte musata in terra, ma al secondo tentativo riuscì a mettersi seduto. Non vedeva un palmo dal naso, l'intera stanza, ammesso fosse una stanza, era immersa nell'oscurità più totale. Quella mancanza di visibilità alimentò quell'antica irritazione che aveva dentro, che aveva manifestato contro la telecamera. Si alzò a tentoni, riuscendo miracolosamente a reggersi ancora in piedi. Poi il buio assunse un aspetto diverso. Quella forte irritazione si tramutò in curiosità, quasi attrazione verso il buio. Non aveva idea da dove venisse quel sentimento, anche se l'istinto gli suggeriva fosse uno delle vecchie emozioni intrappolate da qualche parte nel suo essere, assieme alla sua perduta memoria. Reagì in modo alquanto bizzarro: lo scanner dei suoi occhi si accese, illuminando una vasta area di fronte a lui di una fredda luce bluastra.

Questo... questo mi piace”

Concluse, osservandosi intorno. Il pavimento era costituito dalle stesse mattonelle grige del corridoio, e sopra la sua testa un enorme intrico di bracci meccanici e protuberanze di metallo si estendevano verso un altissimo soffitto. Solo guardando verso l'alto scorse una fievolissima luce, proveniente da una finestra quadrata, che si chiuse grazie allo spostamento di uno dei bracci.

Ecco da dove sono caduto”

Si guardò nuovamente intorno, divertito da quell'effetto “lampadina” che poteva attivare a suo piacimento. Si disse che quel corpo non era poi così male, solo non riusciva ancora a ricordare nulla del suo passato. Avanzò di un passo davanti a se, barcollando leggermente, e poi fece per iniziare a camminare quando, a pochi metri di distanza, scorse un piccolo cilindro scuro. Si avvicinò, curioso, e allungò la mano per afferrarlo: era un piccolo cappello metallico, una tuba nera con una striscia bianca alla base.

Questo è mio? Come ho fatto a non accorgermene prima? E come ha fatto a non cadermi mentre correvo?”

Lo avvicinò alla testa, e il finto cappello tremolò tra le sue dita, poi si attaccò da solo alla sua testa.

Oh, una calamita piuttosto potente. Deve essermi caduto nel volo”

A questo punto, sicuro di non aver lasciato altri cappelli o parti di sé in giro, iniziò a proseguire nella direzione che più riteneva giusta. Avanzando nella semioscurità, si ritrovò dopo qualche minuto di fronte ad una porta di ferro. Sopra, un cartello giallo raffigurava un omino stilizzato intento a correre, il quale sembrava sbucare da un bizzarro cerchio a forma di obbiettivo. Un obbiettivo in fase di apertura. Lo fissò per qualche secondo, concentrandosi su quel simbolo, ma non riuscendo a ricavarne nulla dalla memoria, si limitò a spingere la maniglia e ad entrare. Fu nuovamente travolto dalla luce, e quindi “spense” gli occhi, regolando la sensibilità delle pupille a quella nuova luminosità. Un'altra stanza fatta di pannelli bianchi. Ebbe quasi paura che i pannelli iniziassero a muoversi, ma non successe nulla. Al centro della stanza, un piedistallo nero, simile ad una scatola, si ergeva in contrasto con tutta la stanza. Sopra di esso, tre pulsanti di colore diverso sembravano in attesa di essere premuti. Ognuno di essi era collegato, tramite ad un'ingegnosa “presa” interamente aderente con il piedistallo e il pavimento, alla parete opposta alla sua, dove tre cartelli blu, segnanti una grossa X, giacevano spenti in attesa di corrente. Accanto a quelli, una grossa porta circolare, evidentemente alimentata a elettricità. Studiò quei pulsanti da lontano, chiedendosi quale dei tre – perché in caso contrario sarebbe stato troppo facile – attivasse la porta. Temeva, per qualche motivo, che sbagliando a premere i bottoni potesse accadere qualcosa di molto spiacevole. Avanzò dei passi incerti, trattenendo le mani al grembo, allungando leggermente il collo verso quei tre lucidi pulsanti. Tutto quello era assurdo, pensò. Perché si trovava in una stanza con tre bottoni ed una porta?

-Premi il pulsante rosso-

Cacciò un mezzo urlo dallo spavento. Una voce, gelida e metallica, priva di qualsiasi inclinazione sentimentale, piuttosto acuta, era risuonata nella stanza, senza provenire da un punto preciso. Si guardò intorno in cerca di un megafono, o di una grata, o da qualsiasi parte quella voce potesse essere provenuta, ma nella stanza non si trovava altro che il piedistallo, i pulsanti e la porta. E lui stesso.

-Premi il pulsante rosso-

Ripeté con un leggerissimo, quasi impercettibile tono irritato. Lui fissò il soffitto, come se potesse ottenere informazioni solamente guardandolo. Rimase immobile, domandandosi sul da farsi. Quei bottoni – uno giallo, uno blu ed uno rosso – stavano ancora aspettando. Ma lui non voleva cedere sotto il comando di una voce robotica proveniente da chissà dove.

Poi la vide: un'altra, odiosa, piccola e raccapricciante telecamera, posta sopra la porta dalla quale era entrato, che lo stava fissando. Sentì ribollire la rabbia, contrasse la mascella dal nervosismo, ma facendosi forza riuscì a non crollare sotto quel senso di odio profondo.

Non puoi lasciare che i sentimenti abbiano il sopravvento. Sta' calmo... concentrati... scopri chi è quella voce”

«Hey!»

La sua voce tremolò, toccata dall'incertezza.

«Hey, tu!»

Riuscì comunque a ripetere, guardando dritto in quell'occhio nero, meschino, della telecamera.

«Devi darmi delle spiegazioni! Che ci faccio qua? Cosa mi è successo? Chi sei?»

La voce non rispose. Si chiese se fosse stata una voce registrata, eppure qualcosa lo convinse a scartare quell'ipotesi. Qualunque cosa avesse parlato, non sembrava volergli dare la soddisfazione di una risposta. Distolse lo sguardo dalla scatolina appesa al soffitto per avvicinarsi ai pulsanti. Li fissò uno per uno, chiedendosi quale fosse lo scopo di tutto ciò. Infine si decise a premere quel fatidico pulsante rosso. Un suono cristallino risuonò per un attimo nella stanza, e una dei tre cartelli blu appesi a fianco della porta si accese di un brillante arancio, cambiando simbolo in una spunta. La porta si aprì subito dopo. Lui, indugiando, avanzò, solo per ritrovarsi in una stanza identica alla precedente.

«Che scherzo è questo?»

Modulò la voce affinché apparisse irritata ma ferma, mentre in verità l'inquietudine aveva iniziato a roderlo dentro.

-Premi il pulsante blu-

Disse la voce, senza considerare le sue osservazioni. Concluse che doveva stare al gioco, almeno finché non avesse trovato un modo per mettersi in contatto con quella voce inflessibile. Appoggiò la mano sul bottone blu acceso, che fece scattare la seconda porta. Avanzò, sicuro di trovare una stanza identica. Ed infatti, il medesimo piedistallo scuro si ergeva in mezzo a quella stanza fatta di solo bianco.

«Fammi scommettere, “premi il pulsante giallo”, vero?»

Chiese con sarcasmo. La voce rispose, quasi divertita:

-Vedo che hai sale in zucca-

Lui non se l'aspettava, rimase sorpreso da quella risposta acida, ma questo confermò l'idea che non si trattasse di una registrazione ma di una qualche tipo di macchina che lo stava sorvegliando.

«Okay – disse più a sé stesso che a quella misteriosa presenza che lo stava monitorando – ora premo questo pulsante. È l'ultimo, giusto? Ho premuto quello rosso, quello blu... adesso potrò capire dove mi trovo?»

Con una leggera pressione premette anche il pulsante giallo, e la porta si aprì. Dall'altro lato, però, già riusciva a scorgere un altro piedistallo.

Ma come...!”

Si avviò a passo spedito verso l'altra stanza, innervosendosi non poco alla vista di altri tre bottoni: uno arancione, uno verde ed uno viola.




Commento

Ecco che aggiorno! Cosa? In anticipo? Vi aspettavate un ritardo spaventoso, vero? Questi giorni mi sono sentita piena di ispirazione, e quindi ho continuato :D Inizialmente il capitolo doveva essere molto, molto più lungo, ma ho deciso di dividerlo in due parti per non appesantirlo troppo. Come forse avrete capito, al momento si susseguirà un capitolo su Mike, Fred o altri personaggi umani ed uno sugli animatronics, che da ora potremmo benissimo iniziare a chiamare semplicemente“robot”. Quindi, prima di poter leggere la seconda parte di questo capitolo, dovrete aspettare che aggiorni altre due volte (eh sì, per il prossimo ho altri protagonisti da seguire). Comunque, spero di avervi incuriosito! Spero che la storia vi piaccia e che continuerete a seguirla! A presto (spero), ciao!

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Capitolo 10
*** Incubi d'oro ***


AAA

Quella sera rientrò trascinandosi a stento sulle gambe. Appoggiandosi al portone del palazzo per sorreggersi, infilò la mano nella tasca del giaccone, tirandone fuori un mazzo di chiavi. Le osservò un attimo sotto la luce del lampione sulla strada, rigirandole tra le dita, poi scelse quella più grossa e la premette a forza nella serratura, rigirandola senza energie. La porta si aprì di schianto, e lui cadde in avanti, scivolando e finendo a terra con in mano la metà della chiave.

«Dannazione!»

Sibilò tra i denti. Rimase qualche secondo disteso, poi si alzò aiutandosi con le braccia tremanti, imprecando silenziosamente contro la porta e la chiave.

Ci penserò domani mattina”. Camminò al buio verso l'ascensore, avanzando a tentoni per non sbattere da qualche parte, allungando la mano destra, con ancora stretto il mazzo di chiavi, in cerca della porta fredda dell'ascensore. Lo trovò e premette il pulsante che lo apriva. Appena le porte si schiusero, Fred venne investito da una forte luce calda, proveniente da una vecchia lampadina all'interno. Con gli occhi socchiusi, doloranti, si spinse fin dentro alla scatola, premendo il suo piano. Appoggiò la testa alla parete e chiuse le palpebre, concedendosi un attimo di riposo, prima che l'ascensore si fermasse bruscamente aprendosi sul suo piano. Fred dovette lottare per uscire di lì, tanto si sentiva a pezzi dopo quella tremenda giornata, e quando si trovò di fronte alla porta del suo appartamento, si fece forza per tenere accesa la mente e aprire, senza troncare una seconda chiave. Entrò, gettando da un lato il giubbotto umido, richiudendo il pesante portone accompagnandolo con un leggero calcio, e avanzò traballante verso la camera da letto. Si lasciò cadere sul materasso soffice, che subito cullò membra e nervi dell'ex proprietario del Freddy. Fred non fece neanche in tempo a trascinarsi fino al cuscino, che già era sprofondato tra le braccia di Morfeo.



«Fred»

Un sussurro nel buio.

«Fred!»

Fred si rigirò nel letto, mugolando.

«Fred, devo parlarti! Fred!»

Fred aprì un occhio, scrutando la stanza immersa nella penombra.

«Che.. che c'è...?»

«Fred, non sai... cos'è successo oggi. In gita»

La voce di Gordon era poco più che un sussurro, sopra la sua testa. Il letto a castello cigolava, Gordon stava scendendo la scaletta di legno.

«Non mi interessa, lasciami dormire»

Fred si voltò dall'altra parte, ma Gordon lo scosse con forza:

«Svegliati Fred!»

«Cosa c'è?»

Ringhiò lui, con voce impastata dal sonno.

«Era bellissimo, un mare d'oro! Dico sul serio, Fred! Credimi!»

«Torna a dormire, Gordon!»

Lo scacciò con la mano.

«Ti prego, ascoltami! Devo raccontarti...»

«Ho detto di lasciarmi dormire!»

Spingendolo senza forza all'indietro, Fred scacciò il fratello e si abbandonò sul cuscino, riaddormentandosi subito.

«Ma...»

Gordon avanzò verso la finestra, da dove entravano sottili raggi di luna.

«Era grande... e che caldo che faceva! Avresti dovuto vederla... una vasca d'oro fuso! Anche se... l'oro fuso non dovrebbe essere più denso? Scorreva come un fiume impetuoso... un oro speciale, ha detto quella signora. Chissà cos'era, in realtà, ma era bellissimo!»

Parlava da solo, al vento, alla luna. Ma in realtà parlava al fratello, che lo ascoltava in silenzio, fingendo di dormire.

«Era uno spettacolo!»

Ripeté Gordon.

«Uff... era una fonderia, dove fondono l'oro! Che cosa ci sarà mai di così particolare?»

Gordon si voltò verso di lui, i grandi occhi blu che brillavano sotto i raggi lunari:

«Non posso spiegartelo così, a parole! Dovevi vederlo!»

«Ti sarai sognato tutto, come sempre. Immagini un sacco di cose stupide!»

Fred cercò di riaddormentarsi, ma adesso i discorsi strambi del fratello lo incuriosivano. Insieme al sonno iniziava a subentrare anche una certa curiosità, l'insaziabile voglia di sapere che distingue uomini da animali, e che brucia in modo particolarmente ardente nei bambini. Ma una parte di lui gli sussurrava di ignorare quel sentimento. Fred aveva sempre pensato che il fratello fosse un po' tocco, e quest'ultimo si inventava un sacco di fandonie, spacciandole per vere mentre probabilmente le aveva viste solo in sogno.

«Torna a dormire! Se mamma ti trova sveglio, ti brontola!»

Cercò di convincerlo per l'ultima volta, ma anche nella sua voce sentiva una nota di dubbio. La curiosità stava avendo la meglio, e nella voce di Gordon non c'era nota di menzogna.

«Uff... Cosa ti sei sognato questa volta?»

Gordon si voltò nuovamente, questa volta però furente di rabbia:

«Perché non mi credi? Ho visto veramente una vasca d'oro fuso!»

«Se l'avessi vista, me lo avresti detto appena tornati a scuola!»

Il volto di Gordon si rabbuiò, la luce della luna sembrò improvvisamente non colpire più il suo viso.

«Gli altri... gli altri mi avrebbero preso in giro»

Iniziò a fissare il pavimento, ammutolendosi.

Fred era abituato a quegli strani scatti del fratello. Si arrabbiava, poi si rattristava senza un motivo. E capitava che a volte non parlasse per giorni. All'inizio, pensava lo facesse apposta, poi col tempo aveva iniziato a pensare che fosse bacato in testa, come dicevano i ragazzi più grandi.

«Tu hai qualche problema»

Gli fece notare Fred.

«Ed ora dormi! Se mamma ci trova svegli, siamo nei guai!»

Detto questo, risprofondò nel sonno.


La mattina dopo, Fred trovò Gordon nella stessa, medesima posizione in cui l'aveva lasciato, a fissare il pavimento con sguardo distante, con due grandi occhiaie a deturpargli la faccia. Un misto di pena e di irritazione si creò improvvisamente nello stomaco di Fred, che si contrasse violentemente sotto un odioso senso di colpa.

«Non puoi aver passato la notte in piedi!»

Gli ruggì contro. Gordon si limitò ad alzare il pallido viso mostrando gli occhi spenti, gonfi. Poi si trascinò a fatica verso la finestra, lasciandosi cadere di colpo sul pavimento. In mezzo secondo era addormentato, sotto la finestra, né seduto né sdraiato. Fred lo ignorò e scese per la colazione.


Era domenica. Faceva molto caldo.


Ed ecco che il sogno di Fred inizia a distorcersi. Si fa confuso. Parole, facce, suoni, odori, tutto si mescola. Fred da uno schiaffo a Gordon. Gordon scappa, si nasconde dai ragazzi più grandi. Bernard e Fred ridono alle sue spalle, a scuola. Claire cerca di consolarlo, senza successo. La scuola, l'unico momento che Fred aveva per divertirsi con i compagni, l'unico in cui Gordon aveva paura dei compagni.

Il paese, quella minuscola località inesistente sulla mappa, immersa tra le campagne. Il paese... riusciva quasi ancora a sentirne l'odore, sentiva la terra entrargli nelle scarpe, il caldo cocente... in quel paese non c'era una scuola. I bambini dovevano prendere l'autobus ogni mattina, sul presto, per andare a New Brinnin, nata da poco più di due secoli, ma una tra le più moderne città nei dintorni. La maggior parte dei loro compagni era di New Brinnin o di altri paeselli vicini, lì nel suo paese c'erano pochi abitanti, e ancor meno ragazzi della loro età. Il pullman passava alle 6.10, dal centro del paese, e loro impiegavano una ventina di minuti per arrivarci. Ogni mattina, anche nelle gelide giornate d'inverno, dovevano avviarsi di buon ora per prendere l'autobus.

Ma quel giorno era domenica.

Era domenica. La scuola stava finendo. Il caldo opprimente già si faceva sentire nelle prime ore del mattino.

Qualche settimana dopo la gita, se ben ricordo.

Come eravamo arrivati lì? Non riesco a ricordare. Eravamo forse saliti su un autobus? Da soli? Probabile, lo facevi spesso...

Caldo soffocante. Mancava l'aria. Il respiro si bloccava nei polmoni. Sudore, vestiti bagnati e appiccicosi.

Dolore. Forte dolore.

«Su, è questa? Dov'è? Voglio vederlo anche io!»

Conati di vomito. Spasimi di dolore.

Un grido. Acutissimo, mostruoso.


Si svegliò di colpo, tremava e sentiva lo stomaco stringersi e dilatarsi in maniera innaturale. Il letto era zuppo del suo stesso sudore, non c'era un centimetro della sua pelle che non fosse bagnato. Sentiva i capelli fradici appiccicati alla testa ed al collo. Rabbrividì. Il freddo della notte era penetrato all'interno delle mura dell'appartamento, e il suo corpo madido di sudore accusava di tutto quel freddo. Era stanco, ma sapeva che non avrebbe più dormito quella notte. Si alzò, con l'urlo disumano che gli echeggiava ancora nella testa, e barcollando raggiunse il corridoio. Si trascinò a fatica fino alla cucina, dove afferrò un bicchiere e lo riempì d'acqua, rovesciandone metà sul tavolo per la mano tremante. L'acqua ridiede vita alla sua gola fiammante, secca. La sentiva bruciare, non aveva voce. Probabilmente aveva urlato nel sonno. Dopodiché, più sveglio di prima riuscì a raggiungere il bagno e a farsi una doccia calda.

Mentre le sue membra si rilassavano e la sua mente si faceva più nitida, lo stress iniziò a roderlo.

Lasciami... lasciami in pace”

Diceva a sé stesso. A chi stava parlando? Era solo, eppure non lo era mai per davvero. Quella presenza...

Lasciami vivere in pace!”

Perché dovrei? Tu non mi hai lasciato neanche vivere.

Di nuovo, la voce. L'aveva sentita, c'avrebbe giurato. Aprì gli occhi, ma era ancora da solo. Lui e l'acqua tiepida che sgorgava dalla doccia. La richiuse, uscì vestendosi con un accappatoio, poi si guardò in giro. Nessuno. Richiuse gli occhi, solo per un istante, e l'urlo gli ruggì nelle orecchie.

-Ah!-

Si ritrovò a fissarsi nello specchio. Le mani stringevano con forza i bordi del lavandino, i suoi occhi iniettati di sangue fissavano quelli del suo doppio. Un attimo, per solo un attimo gli parve di vederlo nello specchio.

-NO!-

Urlò, coprendosi il volto con una mano.

-No! Non...-

Non terminò che il suo stomaco ebbe una nuova contrazione, che sentì il toast che aveva mangiato a lavoro tornargli a gola.

No, lasciami... no...”

Il sangue gli ribolliva nelle vene, iniziò nuovamente a sudare. Questa volta, anche la testa iniziò a girargli vorticosamente. Perse l'equilibrio, scivolò, avvertì un forte dolore alla nuca.

Poi buio.


Poi luce. Oro. Una vasca ripiena di oro ribollente, sfavillante. Oro fuso. Caldo. Gordon si sporge dalla ringhiera. Un impeto di rabbia, un uomo che grida. L'impatto, il peso di Gordon. Gordon che cade in avanti, il grido, il grido disumano di un corpo corroso dall'oro bollente, occhi che lasciano il posto a due fori scuri. E poi viene inghiottito dal mortale mare dorato.




Commento

Ritorno dopo secoli! Sì, la storia di “5 Notti da Guardia Notturna 2: The Prequel” mi ha rubato parecchio tempo, ma non preoccupatevi, non mi sono dimenticata di questa storia! Perdonate il capitolo corto e un po' scarso... spero di non avervi annoiato! E spero di aver chiarito alcune cose, ma non troppe ;)

Al prossimo capitolo!

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