Five Nights at GLaDOS' di Debby_Gatta_The_Best (/viewuser.php?uid=626735)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sopravvissuto ***
Capitolo 2: *** Un ultimo sguardo ***
Capitolo 3: *** Giornali ***
Capitolo 4: *** Solo un incidente ***
Capitolo 5: *** Nella discarica ***
Capitolo 6: *** Un vecchio incubo (parte prima) ***
Capitolo 7: *** GLaDOS ***
Capitolo 8: *** Cicatrici ***
Capitolo 9: *** Risveglio ***
Capitolo 10: *** Incubi d'oro ***
Capitolo 1 *** Sopravvissuto ***
AAA
Faceva
caldo. Molto caldo.
Un
grido lontano, il rumore assordante di un vetro infranto.
Troppo
caldo.
Il
braccio lo colpì, gettandolo in terra. Ansimava.
Te
l'avevo detto, non era un buon giorno per uscire fuori.
Erano
in due, le mani prive di articolazioni gli cingettero le braccia, il
collo. Cercò di gridare, ma ogni parola rimase bloccata nei polmoni.
Ma
tu non mi hai mai dato ascolto. Mai. Troppo preso dal tuo orgoglio
per badare a quello che dicevo.
Lo
stavano trascinando di peso. Lacrime di terrore iniziarono a
scendergli dagli occhi. Non riusciva a respirare, non poteva reagire.
Solo
che quella volta... quel giorno... avresti fatto meglio a darmi
ascolto, fratello.
Uno
stanzino buio, dall'aria intrisa di odori acri. Lo schiacciarono con
forza contro il muro, per un attimo si sentì mancare l'aria.
Perché...?
Cercò
di scalciare, fendette l'aria con le gambe, ma aveva troppa poca
forza, e loro erano tre.
Non
volevo morire.
Chica,
gli occhi viola scintillanti nel buio, vicinissima al suo volto.
Continuava a premerlo contro la parete.
Meritavo
più di te. Sei sempre stato egoista, io no.
Bonnie,
che fino a quel momento aveva osservato con occhi ardenti di odio,
gli afferrò le gambe, bloccando definitivamente.
Saresti
dovuto morire tu al posto mio.
Freddy,
gli occhi azzurri irriconoscibili, attraversati da lampi di furore
disumano, davanti a lui. Teneva in mano una maschera robotica.
Ma
la vita, si sa...
Avanzò
di qualche passo, gli attanagliò il mento con la mano sinistra e
iniziò ad alzare l'altra verso il suo volto.
...è
ingiusta.
Con
un movimento fulmineo, un cigolio sinistro di giunture, la mascotte
della pizzeria premette la maschera sul suo volto, e Mike poté
sentire i ferri che gli squarciavano la pelle, le protuberanze
affilate che laceravano il suo viso fino all'osso. Avrebbe voluto
gridare, avrebbe voluto piangere, ma non poteva far altro che fissare
con orrore il volto del suo assassino, un animatronic progettato per
intrattenere bambini.
Ma
non sempre, e non con tutti.
La
vista iniziò ad offuscarsi, il dolore si fece lancinante. Sentiva la
maschera schiacciargli le tempie, gli occhi sul punto di esplodere,
la fronte pulsare terribilmente. Dagli occhi della maschera riuscì a
intravedere il volto di Freddy. Questo socchiuse la bocca, lasciando
intravedere uno scintillio argenteo proveniente dalla gola:
l'endoscheletro. Mike rabbrividì, mentre le ultime forze evaporavano
dal suo corpo. Chica continuava a tenerlo fermo, ma Bonnie lasciò
cadere le gambe, che si afflosciarono come quelle di una bambola di
pezza. Aveva il setto nasale paurosamente schiacciato dalla maschera,
il sangue gli era colato fino alle narici e non aveva più
possibilità di respirare. Freddy emise un suono cupo, metallico, e
il ragazzo scorse le mascelle dentate dell'endoscheletro muoversi in
modo meccanico.
«Tu,
mostro»
Pronunciò
il robot. La vista gli si offuscò completamente, il suono del suo
stesso cuore, martellante fino a pochi istanti prima, iniziò a
svanire dalla testa di Mike. La sensazione dei capelli umidi
appiccicati alla testa si dissolse, la paura iniziò a
sfilacciarsi... stava perdendo coscienza. Gli ultimi suoi pensieri
andarono a sua madre, già vedeva il suo volto disperato su una
pagina di giornale, al cugino Jeremy, che più e più volte aveva
cercato di dissuaderlo da accettare l'offerta di quel lavoro, al suo
vecchio amico Fritz... per un attimo rivide le fronde degli alberi
della casa dei suoi nonni, dove passava le estati da piccolo, sentì
il vento sulla pelle, il cinguettio degli uccelli...
Poi
ci fu uno sparo.
«Fermateli,
fermateli!»
«Spegnete
quegli affari!»
«Salvate
il ragazzo, il ragazzo!»
Scesero
le tenebre più profonde. Ma solo per un secondo. Un attimo dopo, una
morsa veniva staccatagli dalla faccia. Un grande respiro, a pieni
polmoni, il corpo lasciato cadere verso due figure indistinte. Poi
tossì, più e più volte, sputando sangue. Gli animatronics
gridavano, urla raccapriccianti che si perdevano nei corridoi. Il
petto di Mike si alzava e si abbassava ad una velocità spaventosa,
il sangue che riprendeva a circolare nelle vene, la vista che
tornava, con il dolore del volto sfigurato. Qualcuno lo aveva
afferrato, lo aveva fatto sdraiare. Mike guardava il soffitto, le
piccole luci da poco accese che tremolavano incerte, una mano gli
passò nei capelli, dita affusolate che toccavano le ferite aperte.
«Lesioni
gravi alla cute e al volto, chiamate un'ambulanza»
La
dura voce di una donna che si perdeva nel buio. Perse i sensi.
Bianco.
La prima cosa che vide fu il bianco. Fu travolto dal bianco. Pareti
bianche, tende bianche, porte bianche... il cielo, al di fuori delle
finestre, pareva anch'esso bianco. O forse erano i suoi occhi a
percepire solo quel colore? Tossì. Poi cercò di portarsi seduto, ma
le forze non lo avevano ancora ritrovato. Si abbandonò sul cuscino e
si riaddormentò.
Si
svegliò più volte, sempre più cosciente, due quello stesso giorno
e una di notte, mentre una giovane dagli abiti candidi cambiava una
flebo ad un altro paziente. La quarta volta c'era sua madre ad
aspettarlo, che gli corse incontro ad abbracciarlo in quel modo
affettuoso, estremamente materno, che ogni volta aveva messo il
giovane in imbarazzo. L'anestesia tornò ad annebbiargli la mente, e
la quinta volta si svegliò solo per qualche istante, giusto per
notare la shilouette alta e slanciata di suo cugino camminare in
tondo, davanti al suo letto, discutendo a voce alta.
Si
riaddormentò.
Commento
E
rieccomi, piuttosto in anticipo rispetto a quello che avevo
progettato, per una nuova storia di Five Nights at Freddy's, questa
volta di una sfumatura più seria e coerente al gioco... più o meno.
Scoprirete ben presto perché! Questo era solo il prologo, spero
abbia stuzzicato la vostra attenzione! Vi aspetto al prossimo
capitolo!
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Capitolo 2 *** Un ultimo sguardo ***
AAA
Le
finestre erano sbarrate, nell'ingresso faceva un caldo soffocante.
Gli animatronics erano immobili, nelle loro consuete posizioni, e
fissavano punti lontani nello spazio. I loro occhi, inespressivi non
parevano cogliere il volto teso del proprietario.
«Dovevate
essere il mio successo... siete stati la mia rovina»
Un
bisbiglio che risuonò nella sala, rimbalzando sui muri e creando un
triste effetto.
«Perché?»
La
porta alle sue spalle si aprì, un fascio di luce si allungò sul
pavimento scivolando sui tavoli spogli e sulle pareti. Fred si voltò
lentamente, quasi con noncuranza, ma la mascella serrata e gli occhi
lucenti lasciavano trasparire il suo nervosismo.
«Un
ultimo sguardo, avevamo detto»
La
voce anticipò i due agenti in divisa che entrarono subito dopo la
luce.
«Un
ultimo... sguardo, sì»
Ripeté
Fred, ma la sua voce era roca, forzata. Con tre lunghi passi giunse
davanti al tendone viola ormai lacero. Lo aprì lentamente, facendo
cigolare appena gli anelli di ferro che lo sorreggevano. Al suo
interno giaceva un Foxy in disuso, con muso inclinato da una parte,
gli occhi finti che fissavano le mattonelle. Aveva le braccia piegate
all'altezza degli avambracci, come se stesse ancora reggendo un
tagliere per pizze come aveva fatto un tempo, da porgere ai bambini.
L'uncino era rivolto verso il basso, e solo quel particolare rendeva
la creatura di metallo ancora più malinconica.
Fred
fu restio dal richiudere le tende viola. In qualche modo si sentiva
responsabile della rabbia di Foxy, poiché tutto era partito da
quando aveva chiuso il Covo dei Pirati per la prima volta, nel '87.
Foxy, probabilmente il più popolare, addirittura più amato di
Freddy, era stata la causa principale della loro rovina. Da quando
aveva morso quella bambina... cosa aveva indotto la volpe pirata
ad agire in quel modo, nessuno lo aveva mai capito. Ma il pensiero
aveva tormentato molte notti del proprietario, che prima di riaprire
la pizzeria era giunto alla conclusione di dover disattivare Foxy.
Qualcosa gli aveva sempre suggerito che non era stata colpa sua –
in fondo erano animatronics programmati per eseguire certi gesti, per
dire certe cose e basta, certamente non dotati di volontà propria –
ma probabilmente di un cortocircuito o di una programmazione fatta
male.
Non
incolparlo... dietro a quel morso c'era un'altra persona
Eppure
in quell'incidente c'era stato qualcosa di strano, Fred aveva
assistito alla scena e poteva affermarlo con chiarezza. Mentre
parlava con una cliente, si era sentito un grido, soffocato subito
dopo da un verso ripugnante, disumano. Tutta i presenti si erano
voltati, trovandosi ad osservare una scena macabra, le mascelle di
Foxy coperte di sangue e brandelli di materia grigia, la bambina
accasciata a terra immersa in una pozza rossa che non faceva che
allargarsi. Il volto era irriconoscibile. Un urlo generale, persone
che scappavano, che portavano via i loro bambini. Fred aveva avuto le
vertigini, per un istante aveva creduto di svenire. Poi aveva
lasciato cadere il menù e il boccale di birra che aveva in mano,
aveva più volte cercato di tirar fuori la voce, ma più si era
sforzato più questa era venuta a mancare. Dopo un tempo
indeterminato riuscì a produrre poco più che un gemito trattenuto,
un mormorio che recitava “Foxy...!”. La volpe si era voltata
verso di lui, gli occhi gialli schizzati di sangue erano stati per un
attimo attraversati da un barlume di follia, odio profondo, per poi
assumere un'aria sorpresa, spaventata. Aveva allargato le fauci
lasciando cadere i pezzi di carne a terra, poi aveva uggiolato come
un cagnolino pentito. In quel momento Foxy era stato tanto orripilato
quanto Fred, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa o dire
qualsiasi cosa, Fawkes gli era piombato addosso, da dietro,
schiacciandolo a terra e aprendo a colpi di martello la schiena dove
erano posti i comandi. Dopodiché aveva battuto un pugno
sull'interruttore del robot, che subito si era accasciato a terra
come un rottame in disuso. Poi Fawkes si era alzato, aveva guardato
Fred negli occhi, e così si erano continuati ad osservare fino
all'arrivo della polizia, che aveva fatto evacuare i pochi curiosi
rimasti.
Era
stato inevitabile mettere in disuso la volpe pirata, per quanto
Fawkes avesse brontolato. Il vecchio amico di Fred era sempre stato
convinto che qualcuno avesse manomesso il suo favorito, qualcuno
contro la pizzeria, ma senza prove concrete gli altri non avevano
potuto dargli ascolto. Così Fred era stato costretto a chiudere
quelle tende, ed a collocare un cartello vicino al covo che recitasse
“Guasto”. Da quel giorno Fawkes stesso era cambiato, diventando
più nervoso e irascibile, passando sempre meno tempo con gli altri
tre. Nessuno se l'era sentito di gettare via Foxy, e questo era
rimasto chiuso per anni nella sua tenda, in attesa che qualcuno gli
permettesse di tornare in funzione. Fred era più che certo che Foxy
lo odiasse a morte, da quando aveva chiuso quelle tende porpora, e
questo aveva suscitato il suo odio verso gli umani... ma, cosa stava
pensando? Quelli erano solo animatronics, scatole di latta privi di
sentimento. Non potevano provare rancore. Eppure... gli ultimi tempi
erano apparsi più umani, forse per gli aggiornamenti dei loro
database. A volte sembravano comprendere lo staff, cercavano di
comunicare. La compagnia era stata entusiasta del progresso dei
robot, di come pian piano, con vari aggiornamenti, riuscissero ad
acquisire una certa intelligenza. Poi c'era stato l'attacco a Mike,
poche settimane prima. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare
il vaso.
La
pizzeria è maledetta dal '87, e ancor più maledetta da
quell'incidente, i bambini rapiti... te li ricordi, Fred?
«Sono
pronto»
Fred
si avvicinò ai due agenti, mostrando i polsi. La donna lo ammanettò
con un gesto rapido e fluido. Il proprietario guardò le manette
argentee con sguardo vago, come se non fossero state attanagliate ai
suoi polsi.
Ricordi
i loro volti?
L'uomo
lo afferrò bruscamente per un braccio, e lui non oppose resistenza.
Io
sì... io c'ero, quando è accaduto. E saprei dirti la verità.
Prima
di essere trascinato fuori, lanciò un'ultima occhiata a Freddy,
immobile nella stessa posizione, rimpiangendo il giorno in cui
l'aveva costruito.
Se
solo tu mi ascoltassi, una volta tanto, fratello.
Commento
Perdonate
il capitolo corto e privo di grande sostanza, intendevo scrivere
molto di più ma poi ho realizzato che mi ero soffermata troppo sui
ricordi di Fred per continuare con il vero argomento che inizialmente
doveva essere trattato in questo capitolo. Ancora non stiamo
guardando la scena attraverso gli occhi degli animatronics, ma ben
presto i capitoli prenderanno una svolta più leggera e allegra.
Spero continuerete a seguire la mia storia, a presto!
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Capitolo 3 *** Giornali ***
AAA
Il
cartello recitava in lettere cubitali “vietato fumare”. Questo
bastò a far contorcere in una smorfia il volto dell'uomo. Lasciò
cadere la sigaretta a terra pestandola col piede destro per
spegnerla, poi si aggiustò un attimo la divisa ed entrò. Il locale
era angusto, i tavolini stretti tra loro. Gli bastò un'occhiata per
trovare il collega. Attraversò la sala, a testa bassa come era
abituato a fare nel quotidiano, senza destare attenzione. Non degnò
nemmeno di uno sguardo il barista e in pochi secondi sii trovò a
spostare la sedia per mettersi seduto al tavolo.
«Novità?»
«Guarda
tu stesso»
Il
collega spinse lentamente il giornale che aveva in mano verso di lui,
che l'afferrò e guardò la prima pagina. Recitava: “IL FREDDY'S
CHIUDE SOMMERSO DAI DEBITI E DALLE ACCUSE. E DA UN TENTATO OMICIDIO”
Iniziò
a scorrere l'articolo, soffermandosi sui punti focali del discorso:
“...dopo
la sventurata avventura passata da Schmdit Mike, anni 23, risoltasi
miracolosamente per un intervento imprevisto della polizia che
indagava sulla pizzeria da tempo, il proprietario del ristorante,
Hudson Ferdinand, è stato arrestato questa mattina e e attualmente
si trova nel carcere di New Brinnin in attesa della sentenza. Le
accuse precedenti all'incidente della scorsa notte verso la Freddy
Fazbear's Pizzeria sono le seguenti...”
Continuava
così citando tutte le denunce avvenute negli anni. Lui non ci badò,
e spostò lo sguardo verso il basso.
“...gli
animatronics, presunti colpevoli dei vari incidenti per
malfunzionamento, saranno analizzati dalla polizia e successivamente
gettati nella discarica statale”.
Piegò
il giornale, restituendolo.
«Hai
visto quel Hudson? Che finaccia, la sua. Se qualcuno non paga la
cauzione, potrebbe restare lì a vita a marcire»
Lui
sospirò, come se avesse ancora la sigaretta in bocca e potesse
sbuffare fumo, poi piegò leggermente la testa da un lato.
«Non
penso lo faranno, la pizzeria è fallita, anche i suoi colleghi non
hanno soldi»
Continuò
il collega gettando da una parte il giornale e sorseggiando il suo
caffè espresso. Lui si limitò ad osservarlo per qualche minuto, poi
domandò:
«Non
ti sei neanche preso la briga di ordinare due caffè?»
«Subito»
Si
alzò e si diresse dal barista, a chiedere una seconda tazzina. Lui
rimase a contemplare il giornale gettato in un angolo con la mascella
contratta, quando si decise ad aprire lo zaino che teneva a tracolla.
Ne tirò fuori un altro pezzo di carta identico al primo, cambiava
solo il giorno.
«Vorrei
farti notare una cosa. Quel giornale è di ieri»
Gracchiò
quando il collega tornò con un altro espresso.
«Guarda
questo. 'Sta notte hanno cercato di aprirli. Ferita una tipa della
polizia»
Il
collega si ficcò un chewingum in bocca e iniziò a leggere:
“ROBOT
KILLER. FERITA GIOVANE SCIENZIATA DEL DIPARTIMENTO DI POLIZIA DI
BRINNIN. IL COMMISSARIO DICHIARA: TROPPO PERICOLOSI, VANNO SUBITO
ELIMINATI”
Era
un titolo piuttosto lungo. Il resto parlava di come, dopo aver spento
i robot, i ricercatori della polizia avevano cercato di smontarli,
quella notte, ma improvvisamente Foxy si era riattivato reagendo
male, mordendo e graffiando la ragazza che lo stava ispezionando.
L'articolo si concludeva affermando che quella sera stessa i robot
sarebbero stati trasportati alla discarica.
«Ispezionati
addirittura? Nemmeno fossero cadaveri»
«Sì,
ma il bello è che il loro sistema di sicurezza verso il loro
database funziona ancora alla perfezione. Sono lei potrebbe smontarli
e studiarli»
Il
sorriso sul volto del collega si dissolse.
«Ancora
a parlare di lei? Pensavo fosse una parentesi chiusa»
«Lo
era, fino a pochi giorni fa. Ma tu sai cosa si trova sotto la
discarica»
Sussurrò
questa frase come per non farsi sentire dagli altri clienti.
«Certo
che lo so. Ma... non crederai che sia ancora... viva?»
«Che
sia viva è un dato certo. Il problema è che potrebbe prenderne
possesso. Potrebbe accedere a quei dati, Louis»
«No,
non è possibile»
Lui
si alzò in piedi di scatto, squadrando Luois dall'alto in basso, con
occhi di fuoco:
«È
inutile negare l'evidenza. Lei si prende ciò che vuole. Si prese mia
moglie, tutti gli impiegati, è in possesso di tutti i dati di tutti
i computer. Come può non accedere al disco interno di quattro robot
primitivi?»
Il
collega non sapeva rispondere.
«E
noi non possiamo farci nulla»
«Nulla...
sicuro?»
«Sì,
fin troppo»
«Ma
cosa se ne farà dei dati?»
«Questo
è meglio non scoprirlo. È curiosa, programmata per studiare le
cose, per avanzare nella conoscenza. Come potrebbe restare
indifferente davanti a dei dati corrotti tanto succulenti?»
«Devi
recuperarli...»
«Dobbiamo
recuperarli. Questa sera, vicino all'autogrill fuori città. Alle
sette in punto»
Vincent
lasciò il bar senza pagare, lasciando il conto al collega.
Il
giornale del mattino dopo sfoggiava un grande titolo in grassetto:
MISTERIOSO
ASSASSINIO NEI PRESSI DELLA DISCARICA. MORTO HICKS LOUIS, 44 ANNI
Commento
Vorrei
chiedere perdono per due cose: la scarsità del capitolo (dovevo
inserirlo assolutamente prima di metterne altri più interessanti) e
il ritardo (ho davvero troppi impegni!). E... anche il fatto che per
il momento stiamo vedendo un sacco di punti vista eccetto quelli dei
robot! Comunque, tra poco entreremo per metà nel fandom di Portal,
quindi consiglio tutti coloro che non conoscono questo favoloso gioco
di informarsi (guardare qualche video, leggere la trama, GIOCARCI se
qualcuno può) perché non so se le spiegazioni che fornirò saranno
abbastanza per capire a pieno i personaggi di questo altro
videogioco....
Eccetto
questo, mi scuso ancora e vi prometto che il prossimo capitolo sarà
molto più interessante. Vi auguro una buona notte ^^
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Capitolo 4 *** Solo un incidente ***
AAA
La
cella era angusta, soffocante. Neanche una finestra dalla quale
affacciarsi, dalla quale trapelasse uno straccio di luce. Tutto era
immerso nell'ombra. Non una lampadina che perforasse l'angosciante
buio. Fred si stringeva nelle spalle seduto sul materasso ammuffito,
respirando lentamente. Non si muoveva, qualcuno avrebbe potuto dire
che si era addormentato rannicchiato in quell'angolo della stanza,
sopra quella materassa vecchia e quell'intelaiatura di legno marcio.
Ma i suoi occhi erano aperti, e fissavano un punto, là nel vuoto,
dove si sarebbe dovuta trovare la porta, e attendeva. Quanto tempo
ancora avrebbe dovuto attendere? Sentiva la mandibola pulsare di un
sordo dolore, dove il giorno prima era stato colpito con forza da
quello grosso. Per poco non ci aveva rimesso un dente. Per il resto,
gli altri lividi iniziavano a schiarire, e il gomito stava un po'
meglio. Dopo solo un giorno di prigione si era trovato col braccio
spezzato, un occhio nero e una caviglia slogata, ma anche quella
iniziava a guarire. L'avevano dovuto trasferire di cella, o i
bestioni l'avrebbero finito.
«Tu
sei il tipo della pizzeria»
L'avevano
accolto ringhiando come bestie fameliche il primo giorno di galera.
«Alla
fine ti ci hanno sbattuto, in gattabuia!»
Aveva
sputato un altro, in modo sprezzante.
Fred
si era trovato inerme di fronte agli altri carcerati. Non aveva
neppure opposto resistenza, un po' perché sapeva già che sarebbe
stato inutile, un po' perché nel profondo della sua coscienza,
annidato dietro quel briciolo di orgoglio che aveva ancora, sentiva
di meritarsele, quelle percosse.
Poi
aveva avuto la sfortuna di essere stato gettato nel covo capitanato
da un uomo del quale aveva fatto una sgradevole conoscenza, diversi
anni prima.
«Eccoti,
finalmente, Hudson»
Aveva
gracchiato costui. Fred l'aveva riconosciuto, nella penombra della
cella multipla.
«Ti
ricordi?»
Primo
colpo.
«Verme
schifoso»
Secondo
colpo.
«Te
lo meriti»
Terzo
colpo.
«So
che c'erano le tue bestiacce dietro a tutta quella storia»
Quarto
colpo, quinto colpo. Era caduto a terra, altri gli erano arrivati
addosso. Nonostante i suoi quarantuno anni e mezzo, si era sentito
inerme come un bambino, e per un solo, misero istante, un'idea
sciocca e macabra gli era sorvolata davanti agli occhi. Si era
sentito paragonato a Ricky. Era così che erano andate le cose? Ricky
era stato il figlio della montagna. Era stato uno dei cinque bambini
dispersi di qualche anno prima. Si era sentito così, quando era
stato catturato? Inerme di fronte a quattro, cinque ammassi di
muscoli come lui in quel momento? O peggio, si era sentito così di
fronte ai suoi... animatronics?
Un
rumore. Alzò il capo, che aveva affondato nelle ginocchia per
pensare. Una porta che si apriva, non la sua. Appoggiò la testa sul
muro umido e continuò a pensare.
Non
aveva mai voluto crede a quello che si vociferava. I cinque bambini
rapiti dai robot della pizzeria. “Assurdità!” aveva esclamato la
prima volta che lo avevano accusato. “Freddy non farebbe mai una
cosa simile, è buono”. E lui ne era stato convinto. Lo aveva
progettato lui stesso, come diamine avrebbe potuto essere cattivo?
Ne era stato convinto, certo, fino a quando, poche settimane prima,
Mike non era stato salvato per miracolo per mano della polizia da un
assalto dei robot. Non aveva più certezze, adesso. Gli animatronics
avrebbero potuto essere benissimo i rapitori, gli assassini dei
ragazzini. Ma a quale scopo? Lui e Bernard per mesi e mesi avevano
lavorato sull'IA degli animali meccanici, riuscendo a renderli
semi-coscienti. Chiamarli “intelligenti” era troppo, ma avevano
comunque una primitiva forma di coscienza, ed era questo che li
fermava, o che li avrebbe dovuti fermare, da commettere gravi
incidenti. Agivano per scopi precisi previsti dal programma
impostato, e in situazioni di leggero dubbio, riuscivano a
districarsi in maniera piuttosto agevole. Come quella volta che un
bambino aveva lasciato cadere il suo spicchio di pizza ai funghi per
terra. Freddy, che stava canticchiando una canzoncina per
intrattenere gli altri bambini, si era fermato un momento, aveva
squadrato il piccoletto per lunghi secondi ed alla fine aveva
provveduto a regalargli un altro spicchio di pizza – preso dal
tavolo di un altro cliente, che si era messo a ridere di gusto – .
Ma
quindi perché mai avrebbero dovuto agire in quel modo? Fred scosse
il capo, scacciando quei pensieri turpi, e respirò profondamente.
L'angoscia di quei ragionamenti non voleva mollarlo, e non fu facile
non pensare, per la centesima se non millesima volta nella sua vita,
al Morso dell'87, e a Foxy. Anche lui, perché...? Domande alle quali
non aveva mai trovato risposta. Dopo averlo disattivato, avevano
cercato di entrare nel suo hard disk, ma improvvisamente la volpe
robotica si era come risvegliata, aveva agitato la testa da un lato
all'altro e aveva minacciato di attaccare Bernard con il suo uncino.
Si era spenta pochi istanti dopo, dopo aver constatato che nessuno
avrebbe avuto l'intenzione di curiosare tra i suoi dati.
Fred
sentì un brivido percorrergli la spina dorsale, e in una frazione di
secondo ogni pensiero svanì. Sentì uno strano gelo penetrargli la
pelle, arrivare fino alle ossa, un'umidità innaturale calare su di
lui come una nube di nebbia. Il suo cuore accelerò, sentì la veste
sporca che indossava appiccicarglisi al petto. Avvertiva una
presenza, lì vicino, insieme a lui, in quell'angusta cella scura.
D'improvviso s'alzò in piedi, mosse meccanicamente il capo a destra
e a sinistra, cercando di scorgere una qualsiasi cosa nel mezzo di
tanta oscurità, ma per vari minuti rimase immobile senza riuscire a
vedere nulla. Eppure era
sicuro di non essere solo, sentiva la presenza di qualcosa di
familiare, che da così tanti anni non...
Ciao,
Fred
Un
sussurro. Se l'era immaginato?
Non
ignorarmi
«Ora
sento anche le voci. Fantastico»
Si
disse l'uomo, incerto.
Sono
qui
Una
luce bianca. Due luci bianche. Occhi? No, erano scomparsi.
«Ho
le allucinazioni»
Cercò
di convincersi Fred tornando seduto sulla matassa maleodorante,
prendendosi la testa tra le mani.
Non
sono un'allucinazione
«Finiscila,
chiunque tu sia!»
Urlò
Fred al buio, ma poi scosse la testa.
“Sto
impazzendo”
Pensò.
Ascoltami,
una volta tanto.
Fred
chiuse gli occhi, le mani premute sulle orecchie per non sentire.
Ti
prego...
Sapeva
di chi si trattava. Riconosceva la voce, anche se nessun altro
avrebbe potuto decifrare quel sussurro simile ad un sibilo. Ma... era
impossibile.
«I
fantasmi non esistono»
Dichiarò
Fred ancora ad occhi chiusi.
«Vattene»
No.
«Tu
sei morto»
Sì.
Per mano tua, assassino
«Non
sono stato io ad ucciderti»
Si
sentiva un sciocco. Stava parlando con delle voci nella sua testa.
Eppure sembravano così reali... Non gli era mai capitato di parlare
con il ricordo di suo fratello. Forse, una volta, dopo l'incidente...
forse due... bisbigli che si perdevano nell'aria, ne aveva sentiti
tanti. Ma qui non c'era aria, non c'era vento, non era uno spazio
aperto, luminoso. Era chiuso in quella cella minuscola, e lottava tra
la lucidità mentale e la pazzia. Qui i bisbigli echeggiavano
trasformandosi in boati assordanti, che non poteva più ignorare.
«Non
ti ho ucciso io»
Sentiva
le mani, premute sul volto, bagnate di lacrime. La gola secca.
«È
stato un incidente!»
Una
coperta nera sovrastava il tutto. Si estendeva fino ai confini del
suo sguardo, sembrava non finire mai. Era punteggiata da tantissime,
piccole luci. Alcune bianche, alcune gialle, rosse, e poi un grande,
imponente occhio, bianco come il latte, che pareva osservare tutto
dal lassù. Avvertiva la brutta sensazione di essere osservato.
Odiava sentirsi osservato. Ma allo stesso tempo, quell'occhio color
neve lo affascinava. Non aveva mai visto la luna...
Spiravano
rivoli di vento leggero. Era notte. Ma lui, come faceva a saperlo?
Non sentiva freddo, non provava nulla se non un forte senso di
malinconia.
Se
avesse avuto il senso dell'olfatto, sarebbe rimasto disgustato
dall'odore insopportabile della discarica. Ma come poteva rendersene
conto? Spostò la testa verso destra, producendo un rumore di
ingranaggi arrugginiti. Dalla posizione nella quale si trovava,
poteva scorgere, in lontananza, le cime delle collinette di rifiuti.
Rifiuti, rifiuti ovunque. Sotto la meraviglia del cielo stellato,
quel triste spettacolo avrebbe rattristito tutti. Non lui, era troppo
occupato a capire dove si trovasse per farsi toccare da quella vista
così deprimente.
«Discarica
statale di New Brinnin»
Riconobbe
la voce, voltò la testa verso destra, con un altro frastuono
cigolante.
Un
cartello lontano indicava il nome del luogo. Il corpo inerme di
Bonnie si trovava a qualche metro dal suo.
«Ci
hanno buttati. Ci hanno gettati via, come della spazzatura»
Sentì
gracidare. Foxy.
Freddy,
però, non aveva tempo per essere rammaricato dalla notizia. Riportò
il suo sguardo verso la coperta nera punteggiata di luci.
“Come
mai...?”
Ce
l'aveva quasi fatta, ad incastrare quel mostro.
“Quel
mostro... mostro...”
Gli
umani l'avevano punito per una cosa giusta?
“Che
strani, gli umani”
Eppure
era strano che anche degli esseri così stravaganti come quelli
punissero per giuste cause.
“Io
volevo solo... aiutare”
Sentì
Chica brontolare, da qualche parte alla sua destra.
“Quell'uomo
deve morire. Devo vendicare... i bambini...”
Il
problema era uno solo. Come?
Commento
Ed
eccomi tornata! Più in fretta, questa volta! Per compensare il
capitolo precedente, dove non dicevo praticamente NULLA, sono tornata
oggi con questo cap un po' più lungo, dove alla fine, per il piacere
dei miei lettori (spero xD) ho accennato ad una visuale da parte di
Freddy. Ho lasciato abbastanza cose in sospeso? Vi è piaciuto?
Lasciate un commento di come pensate stia venendo ^^
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Capitolo 5 *** Nella discarica ***
AAA
Il
piede di Bonnie colpì quel poco che rimaneva di un vecchio
televisore abbandonato, e inevitabilmente il suo corpo si sbilanciò,
provocandogli prima una perdita d'equilibrio e dopo una rovinosa
caduta dalla collinetta di rifiuti sulla quale gli animatronics si
erano ritrovati la mattina seguente.
«Bonnie,
sei un idiota»
Sentì
sbuffare Foxy dalla cima, mentre lui cercava di rimettersi in piedi.
«Non
è colpa mia, inciampo!»
Cercò
di protestare, ma non ricevette risposta. Era la terza volta che
scivolava già da quella collina artificiale, provocando ogni volta
una piccola valanga di spazzatura.
«Muovetevi,
dobbiamo trovare un modo per uscire di qui»
Incitò
per la ventesima volta il leader, arrancando per scendere dal pendio
opposto a quello da dove era scivolato il coniglio di metallo. Il suo
corpo era goffo, maledettamente goffo. Era un orso, un orso
grasso robotico, per metà rovinato dal tempo e dal volo che
gli avevano fatto fare per gettarlo nella discarica. E per aggiunta
si sentiva uno straccio. Come poteva provare sensazioni? Era solo un
ammasso rugginoso di cavi e bulloni, eppure...
«Di
qua»
Ruggì,
più forte di prima, seccato dall'idea che gli altri non lo stessero
ascoltando.
Era
tutta la mattina che, superato il problema di portarsi in piedi,
cercavano di scavalcare quella collina di spazzatura, per trovare una
qualche uscita da quel posto, senza risultati.
«Finiscila»
Sentì
gracchiare dietro di sé. Era la voce sferragliante e sarcastica di
Foxy.
«Come
prego? “Finiscila” di fare cosa?»
«Di
fare il ganzo, il capo che riesce a tirarci fuori di qui. Arrenditi
alla realtà, questa è la discarica, l'ultima tappa della vita di
noi robot. Siamo finiti. Lo sai meglio di me, quando – tra pochi
giorni – la nostra carica si sarà esaurita...»
Freddy
smise di ascoltare. Non si era mai sentito così... vivo prima di
allora. Vedere con i propri occhi il cielo, le stelle, il sole, la
luna, le nubi, le luci lontane della città, i cadaveri di quelli che
un tempo erano stati elettrodomestici all'avanguardia... era scattato
qualcosa in lui, che l'aveva reso quasi umano. Ed ora stava per
perdere la vita che aveva iniziato a fluire nel suo essere.
«Ci
deve essere una via d'uscita»
Ribatté,
senza esserne convinto.
Chica,
che era rimasta in silenzio per tutto il tempo, avanzò di un passo
verso Freddy, ma, con un fragoroso rimbombo, qualcosa all'interno
della collinetta – qualcosa di molto grosso come un frigorifero, o
un'auto probabilmente – cedette, e la montagnola crollò di
schianto. Nessuno di loro ebbe il tempo di urlare che si ritrovarono
per metà sepolti da chili di rottami cigolanti, compreso Bonnie, che
era riuscito in qualche modo a ritornare sulla sommità del rilievo.
«Favoloso»
Esclamò
con voce inespressiva.
Freddy
si dimenò, appellandosi a tutta la forza che riusciva a trovare nei
suoi ingranaggi, e, centimetro dopo centimetro, riuscì a uscire dal
suo sepolcro, aiutando di conseguenza gli altri.
«Be',
perlomeno siamo scesi...»
Si
bloccò, notando qualcosa di familiare sotto un gigantesco pneumatico
da trattore. Si avvicinò, cercando di piegarsi il più possibile per
vedere meglio, e per un attimo rimase sorpreso quando la cosa si
mosse.
«Goldie?»
Qualcosa
mugolò.
«Goldie»
Concluse.
«Aiutatemi
a tirarlo fuori da lì»
Chiamò
gli altri tre. Insieme spostarono lo pneumatico e tirarono fuori la
copia malridotta della star della Pizzeria Freddy Fazbear.
«Goldie,
anche tu?»
Chiese
Chica più per inerzia che per volontà.
Tranne Freddy, e in parte Foxy, non parevano rendersi conto di essere
autonomi, e si comportavano come si comportavano di solito alla
Pizzeria, seguendo Freddy.
Goldie,
ovvero la carcassa di quello che per un periodo era stato la vera
star della pizzeria, piegò leggermente la testa di lato.
«Sei
ridotto peggio di prima, fratello»
Commentò
Freddy, faticando a esprimersi. Sentiva che quella sensazione di
libertà che aveva avuto per qualche ora lo stava abbandonando, il
suo cervello – o meglio, il computer che lo comandava – stava per
calare nuovamente nella nebbia dell'incoscienza, e questo gli dava
fastidio. Odiava avere solo rari momenti di lucidità, e sentirsi,
per il resto del tempo, una marionetta stupida.
«Uh,
Freddy? Che succede?»
La
mandibola slogata di Golden non gli impediva di parlare: la voce
proveniva da un microfono posto nella gola del costume che copriva
l'endoscheletro dei robot. Il fratello non rispose. Non lo aveva
neanche sentito. Si era perso per qualche momento in un ricordo
lontano.
Un
grido, un suono viscido, una risata distorta.
“No,
non sono stato io”
«Hey,
ti sei perso nei tuoi pensieri?»
Chiese
Bonnie evidentemente preoccupato.
Freddy
mosse la testa verso di lui, provocando un fastidioso cigolio:
«Non
è niente, procediamo. Goldie, puoi camminare?»
«Uh,
be', forse...»
La
sua voce pareva assai calda per un robot. Quasi umana, e nonostante
tutte le acciaccature che presentava, pareva quello che stava meglio
di tutti. Cercò di alzarsi, barcollando un pochino, per poi ricadere
subito.
«No...»
Concluse
dopo il terzo tentativo. Freddy, che lottava per mantenere
l'autocontrollo, scosse la testa metallica per farsi
venire
un'idea, ma era un'impresa assai difficile.
“Sono
stupido!”
Di
tanto in tanto riusciva a rendersi conto di essere solo una macchina,
e questo lo frustrava in modo tremendo. Non era in grado di formulare
grandi pensieri, di stabilire cosa fosse giusto e cosa no, di provare
felicità o meno. L'unica cosa che sapeva per certo era...
“Non
sono stato io! È stato lui, quell'uomo... doveva morire!”
Aprì
leggermente la mascella, piegando la testa verso il basso, e
rabbrividì – come un essere vivente – dei suoi stessi ricordi.
Ricordi? Aveva dei ricordi? Riusciva a...
«Che
sono quelli!?»
Bonnie
aveva gridato, con una voce esageratamente acuta, comica, ma
palesemente in preda al panico. Freddy scacciò quei pochi pensieri
che gli assillavano la memoria interna, e si voltò, provando una
sorta di terrore controllato. Erano dieci, quindici forse, e
ne stavano arrivando altri. Carcasse di robot, più o meno vecchie,
tutte deturpate dagli anni e dal tempo atmosferico. Alcuni mancavano
di costume: non rimanevano che endoscheletri arrugginiti,
dall'aspetto poco amichevole. Erano dietro di loro, e stavano
lentamente avanzando in massa. Uno di loro – particolarmente
somigliante a Freddy, solo più grosso, dal colore più sbiadito e
dalla faccia mancante per metà, emise una specie di sibilo
acutissimo, gracchiando qualcosa che somigliava a “pezzi nuovi!”.
Gli altri robot-zombie si unirono al primo, dando vita ad un
fracassante coro recitante “pezzi nuovi, pezzi nuovi, pezzi nuovi”.
Bonnie indietreggiò, rischiando di inciampare nuovamente, e così
fecero gli altri, tranne Goldie, incapace di muoversi.
«Pezzi
nuovi, pezzi nuovi»
Il
coro stava prendendo una nota sinistra, contorta, sempre più
meccanica e inquietante. Freddy non sapeva che fare; provava, o
almeno credeva di provare, una primitiva forma di paura, che gli
pulsava dentro in modo assillante, e sapeva di dover fare qualcosa
per non finire per essere smontato pezzo per pezzo. Si guardò
velocemente intorno, poi ordinò:
«Scappiamo!»
Afferrando
il corpo inerme di Goldie tra le braccia.
Iniziarono
a correre come meglio potevano, Foxy in testa essendo il più veloce,
cercando di sfuggire a quei demoniaci automi assetati di nuove parti
di costume e di nuovi cavi.
La
corsa durò parecchi minuti, gli animatronics non riuscirono a
coprire una grande distanza inciampando sempre nei rottami e nei
rimasugli della varia immondizia, ma alla fine riuscirono a
arrampicarsi fino in cima ad una montagnola di rifuiti. Freddy guardò
in basso, osservando i suoi precedessori, che si muovevano zombie
lanciando urla agghiaccianti. Si chiese se avrebbe fatto anche lui
quella fine.
Poi,
la terra tremò, la spazzatura iniziò a rotolare verso il basso.
Chica lanciò un mezzo grido, prima di precipitare in una gigantesca
apertura che si era schiusa nel terreno. La montagna crollò, come
attratta dalla voragine, e con essa gli altri quattro animatronics.
Freddy non riuscì a formulare nessun pensiero mentre il suo corpo
cadeva in quello squarcio del suolo. Poco prima di giungere in fondo,
scorse una luce rossa: lo attendeva un mare di fiamme.
“L'inferno
dei robot!”
Concluse,
prima di essere inghiottito dall'inceneritore.
Commento
Vi
sono mancata? Perdonate la mia assenza, sono davvero troppo impegnata
in questi ultimi tempi.... ma state certi che, finita la scuola (se
non finisce anche l'ispirazione) tornerò a pubblicare regolarmente
(o quasi). Allora.... questo capitolo, come avrete notato, è
“arido”, privo di descrizioni e spiegazioni come i precedenti,
psicologicamente poco profondo e via dicendo. Chiedo perdono, ma mi
sono soffermata poco su questa parte poiché ritengo sia solo un
punto di passaggio tra una sequenza e l'altra. Tra poco, infatti,
introdurrò pienamente il personaggio di GlaDOS, ovvero il succo di
questa crossover (spero). In poche parole: questo piccolo capitolo è
solo una pausa, i prossimi saranno più ricchi. E poi... dal punto di
vista dell'attuale Freddy, il mondo non deve apparire molto
complesso... non so se mi spiego. Non vi anticipo altro e spero che
continuerete a seguirmi, al prossimo capitolo!
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Capitolo 6 *** Un vecchio incubo (parte prima) ***
AAA
L'oscurità
inghiottiva tutto, ormai da settimane. O era solo la sua
immaginazione? La solitudine lo opprimeva, ma non quanto la sinistra
compagnia della voce sussurrante che andava e veniva nella sua testa,
rimbombandogli nel cranio per minuti interi. Lui se ne stava seduto,
nella stessa posizione da ore. Passava ogni giorno incollato a
quell'angolo del muro, con la schiena premuta sul muro freddo, con la
testa racchiusa tra le braccia, sperando di morire velocemente. Aveva
più volte provato a non mangiare, ma dopo due giorni perdeva sempre
la scommessa e si gettava come un animale sull'ultima porzione di
cibo portata. Era troppo debole anche per tentare di lasciarsi
morire. Quel giorno, dopo un tempo che a lui era parso infinito,
però, successe qualcosa.
In
mezzo alla tanta oscurità, si schiuse, in un momento impreciso del
giorno, una lama di luce. Prima pallida, poi sempre più accecante.
Era normale, gli stavano portando da mangiare. O forse, finalmente,
dopo tanta attesa, stavano per trasferirlo nell'altro carcere –
quello per psicopatici al quale avevano più volte accennato
guardandolo parlare da solo – ma non si trattava né dell'una né
dell'altra cosa. Dietro la porta, la shilouette di un giovane uomo.
Gli parve di riconoscerne i contorni. Lo conosceva? Da quanto tempo
non lo vedeva? Alzò lentamente la testa, per scrutare meglio la
figura. A quella, se ne aggiunsero altre, una di donna, una più
robusta di uomo.
«Hey
Fred, ora va tutto bene, vieni via da questo posto orribile»
Era
la voce di Bernard.
Sì,
fratello, segui il tuo amico. Tanto ormai non potrai più liberarti
di me
Deglutì,
poi affondò nuovamente la faccia tra le braccia pensando di star
sognando tutto.
Trascinandolo
di peso, riuscirono a portarlo fuori dalla gattabuia. Aveva i capelli
unti e scompigliati, gli occhi iniettati di sangue, accentuati da due
grandi occhiaie scure appena al di sotto. Gli era cresciuta una
ruvida barbetta su tutto il mento, scura e arricciata, ed aveva il
corpo sudaticcio e i vestiti maleodoranti. Nessuno avrebbe detto che
quel Fred fosse lo stesso uomo pulito e profumato che fino a qualche
mese prima gestiva una delle pizzerie più famose di New Brinnin.
«No,
lasciatemi, no...»
Continuava
a borbottare cose strane.
«Fred,
calmati, dannazione!»
Sbraitò
Fawkes al terzo tentativo del collega di sottrarsi alla loro stretta
e di tornare in prigione.
«No,
io... no, lui... io... loro...»
Continuava
a balbettare cose senza senso, guardando un punto lontano, nel vuoto,
con volto sconvolto. La voce era rauca e gracchiante, non era rimasto
nulla della voce calda e profonda del vecchio Ferdinand Hudson.
«Che
diamine! Vuoi calmarti o no?»
Ruggì
questa volta con più rabbia Fawkes, ma Claire lo spinse via e
afferrò la mano di Fred:
«Su,
non fare così, o ti infileranno in un manicomio! Abbiamo pagato la
cauzione, ora puoi tornartene a casa a farti una bella doccia calda,
mangiare qualcosa di decente e vedrai che tra poco tutto questo sarà
solo un brutto ricordo...»
Parole
al vento. Fred non stava ascoltando.
«Voi...
voi non capite... lui... non mi lascerà, ha detto che... non lo
farà...»
«Dobbiamo
chiamare un dottore»
Concluse
Bernard mentre lo trascinavano all'aperto. L'aria fresca sembrò
scuotere un po' l'Ex proprietario del Freddy, che acquistò un po'
più di lucidità.
«Ragazzi,
io... grazie per... avermi tirato fuori di lì, io stavo
impazzendo... io sto impazzendo... aiuto, vi prego, chiedo aiuto...»
Riprese
a scuotere la testa.
«Ora
ti accompagniamo a casa tua. Tranquillo su, non stai impazzendo...»
Cercò
di tranquillizzarlo Claire, ma Fawkes scosse la testa.
Circa
un'ora dopo, Fred si stava radendo la barba e tagliando i capelli
troppo lunghi. Osservava la sua immagine distrutta allo specchio, che
nonostante il bagno e il pranzo, e l'idea di essere tornato a casa
sua, non pareva diversa da quella di poco prima. Aveva la pelle
bianchissima, pensava di essersi trasformato in un fantasma, e gli
occhi scavati da grossi solchi neri. Aveva un gran mal di testa.
Quanto era stato lì dentro? I suoi amici avevano detto all'incirca
due mesi e mezzo. A lui erano parsi anni interi.
Lo
stavano aspettando in sala, per scambiargli due parole. Lui si
osservò un'ultima volta, cercando di ricordarsi come fosse poco
tempo prima, ben curato e più in carne, con più colorito sul volto
e senza occhiaie. Non ci riuscì.
«Come
va?»
Chiese
Bernard appena lui ebbe messo piede in sala.
«Meglio
di questa mattina, dire a giudicare dall'aspetto»
Osservò
Fawkes, massaggiandosi il polso destro. Aveva affermato fosse un tic
che gli era preso da quando non indossava più l'uncino finto per
otto ore al giorno.
Fred
spostò una sedia e prese posto.
«Io...
non so come ripagarvi, ragazzi»
Iniziò,
ma Fawkes subito lo interruppe:
«Ripagarci?
Sei impazzito? Sempre a pensare ai soldi, tu! Siamo tuoi amici da una
vita, pensi ti lasceremo ripagarci?»
Fred
annuì con convinzione, ma Bernard si intromise ricordandogli:
«Ti
hanno infilato dentro per i debiti, non avevi un soldo prima di
questa mattina»
«Prima
di questa mattina?»
«Dovevamo
versare qualche soldo sul tuo conto, no? Oltre a quel milione e mezzo
che abbiamo dovuto pagare per salvarti la pellaccia»
Aggiunse
Fawkes, guardandolo duramente negli occhi.
«Valgo
così tanto?»
Doveva
essere una battuta, ma lui stesso non sorrise. Claire lo guardò
preoccupata:
«Abbiamo
messo insieme i soldi per farti uscire e per darti qualcosa per
sopravvivere. Ora però dovremo trovarci tutti un nuovo lavoro»
«Potremmo
fare le guardie notturne, che ne dite?»
Sghignazzò
Fawkes. Aveva l'aspetto di un vero pirata, l'aveva sempre avuto, e il
solito caratteraccio. E il solito pessimo gusto per le battute. Fred
non si sarebbe sorpreso se avesse scoperto che il suo tris-tris-tris
nonno era stato era stato il Capitan Barbanera.
«Finiscila,
siamo seri per una volta tanto!»
«Parla
il coniglio»
Una
lampadina si era accesa nella testa di Fred:
«Che
ne è stato di Freddy? E degli altri?»
Chiese
preoccupato. Gli altri s'incupirono:
«Sono
stati gettati, pensavamo lo sapessi. Nella discarica elettronica
fuori città»
Fred
si dispiacque molto, gli altri lo notarono, ma non dissero nulla.
Tutti sapevano bene che la maggior parte dei guai che stavano
passando erano stati causati dagli animatronics che loro stessi
avevano creato, ma in fondo ognuno era affezionato al proprio –
quello che ognuno aveva pensato e inventato.
«Hanno
gettato anche Golden?»
Chiese
alla fine, con uno strano tono di voce.
«Golden?»
Gli
fece eco Bernard, con voce grave.
«Il...
primo, che poi...?»
«Penso
di sì»
Concluse
in fretta Claire.
Fred
abbassò lo sguardo, poi ripensò alle parole inquietanti che lo
avevano tormentato incessantemente per quel periodo. Probabilmente se
le era solo immaginate, eppure...
Quella
notte, Fred non riusciva a prendere sonno. Erano successe troppe cose
in una sola giornata, era troppo sconvolto. E per di più, aveva
paura. Paura di rivedere il suo volto, pallido, dalla mascella
inclinata in un ghigno orribile, e gli occhi... gli occhi vuoto, due
cavità nere infossate nel cranio. I capelli, color oro,
gocciolanti d'oro. La sua voce...
Prima
di accorgersene, si addormentò.
Una
strada, una scuola. Tanti ragazzi. Un pullman giallo.
«Sbrigati!»
Ringhiò
il bambino di fronte a lui, dai tratti duri e dei folti capelli
castani.
«Idiota»
Aggiunse
sibilando, per poi afferrarlo per la manica e trascinarlo in avanti.
Lui evitò per un pelo di inciampare, poi mugolò, ma lo seguì.
«Io
sto male, Fred, mi sente qui»
Si
indicò la fronte, ma l'altro bambino digrignò i denti:
«Ne
hai sempre una, tu! Quante scuse! Sempre figuracce, mi fai fare...
perché non ti comporti da ragazzo maturo, una volta tanto?»
Gli
occhi blu bruciavano di rabbia, quasi quanto il sole sopra le loro
teste.
«Ma
io non mi sento...»
Sentì
uno schiaffo arrivargli in pieno viso, la pelle bruciare di dolore.
«Basta
fare l'idiota, farmi passare da... deficiente!»
Urlò
Fred, strattonandolo per il colletto. Gli parve di scorgere delle
lacrime negli occhi blu di suo fratello.
Eri...
sempre stato così cattivo con me...
Lui
non capiva perché fosse così arrabbiato. Non l'aveva mai capito.
«Sbrighiamoci!»
Urlò
nuovamente, il volto paonazzo, un grido acuto quanto quello di una
bimba.
Lo
trascinò verso il pulmino. La maestra stava finendo di fare
l'appello.
«Fred,
Gordon! Finitela di litigare e salite sul pullman!»
Brontolò,
dando loro una leggera spinta per farli salire. Loro ubbidirono.
Strada.
Una lunga strada. Interminabile. Qualche buca. Strada sterrata.
Campagna. Una grande distesa di spighe di grano.
Sentiva
Claire e Bernard chiacchierare dietro il suo sedile. Aveva la faccia
incollata al vetro, guardava fuori con distrazione.
Una
figura nera, contro il cielo azzurro. Una fabbrica.
I
bambini scesero, anche loro scesero.
Entrarono.
Te
lo ricordi, quel giugno torrido? Te la ricordi la vecchia raffineria?
Le spiegazioni della maestra?
Un
calcio, due, tre. Nella pancia, nelle costole, uno sulla faccia.
«Dov'è
tuo fratello, adesso, Gordon?»
Io
no. Io non ricordo molto... ricordo... il calore... ricordavo il
suono dei calci che s'infrangevano sul mio gracile corpo... – oh,
quando ancora avevo un corpo!
«Sei
troppo stupido per difenderti?»
Fred
arrivava sempre di corsa, prendendo a lottare contro quelli grandi.
Lo aveva sempre difeso. I corridoi sbiaditi della scuola...
Quella
volta però non lo aveva difeso. Era rimasto a guardare, confuso, a
debita distanza. Forse ridacchiava.
Già,
mi pare stessi sogghignando...
La
maestra li separò. Gordon venne accompagnato da una simpatica donna
a fasciarsi il braccio in una stanza adiacente. Facendo questo, passò
su un lungo ponte scuro, e vide la cosa più affascinante della sua
vita. Mentre si teneva il braccio, si affacciò su una distesa
gigantesca d'oro fuso...
«Non
credevo... che l'oro venisse fuso in gigantesche vasche»
Osservò
incuriosito. La donna cordiale si voltò:
«Oh,
ma allora ce l'hai la voce ragazzino! Iniziavo a temere ti avessero
rubato la lingua!»
«Mh.
Non ha ancora risposto alla mia domanda»
Lei
lo guardò, con una nuova espressione negli occhi.
«Non
mi hai posto una domanda. E... perché ti fingi meno... brillante con
i tuoi compagni?»
«Loro
non mi meritano»
Disse
semplicemente.
Dissi
semplicemente. Già.
Lei
lo osservò curiosa.
«Mi
piaci. Anche io ero come te alla tua età. Gli altri pensavano fossi
una stupida bambinetta senza alcun interesse... in realtà me ne
stavo semplicemente zitta per conto mio, senza dare noia a
nessuno...»
Lui
non rispose. La fissò a lungo negli occhi, ma non disse nulla. Il
braccio doleva, ma poteva aspettare.
«Mi
piaci – concluse la donna – ti dirò perché questo oro viene
fuso in vasche grandi quanto una stanza. Questo è un oro speciale,
destinato ad un laboratorio molto speciale! Viene fuso in
queste vasche per essere mischiato ad un materiale molto...»
«Speciale...»
Finì
lui. La donna annuì, poi lo prese per mano e lo condusse in una
cabina per medicargli il braccio.
Fred
sobbalzò nel letto. Madido di sudore, sentiva il cuore scoppiargli
in petto da quanto pompasse sangue all'impazzata. Un sogno. Solo un
sogno. Incompleto. Una vecchia gita scolastica, niente di più. Poche
settimane prima che suo fratello... una forte nausea lo prevalse.
Appoggiò la testa sul cuscino, cercando di schiarirsi la mente, ma
era troppo stanco. Erano le cinque del mattino, non aveva dormito per
così poco, eppure gli pareva di essersi svegliato due minuti dopo
aver chiuso occhio. Il cuore riprese il suo normale ritmo.
Cercò
di convincersi che quello fosse stato solo uno stupidissimo incubo,
eppure non ci riusciva.
Illuso.
Chiuse
gli occhi, scacciando ogni pensiero dalla mente.
Commento
Finalmente
aggiorno dopo poco tempo!
Vi
avevo dato false speranza, avrei dovuto spiegare più cose in questo
capitolo, ma alla fine ho deciso di inserire una parte che parlasse
solo di Fred e del fantasma di suo fratello che lo angoscia da anni.
Be', ho lasciato il sogno a metà, la prossima volta che
re-incontreremo il nostro amico vedrò di concludere xD
Tra
poco ritorneranno Freddy e company, non preoccupatevi, ma anche Mike,
Vincent... e molti altri.
Al
prossimo capitolo! Grazie ancora a tutti voi!
|
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Capitolo 7 *** GLaDOS ***
AAA
Silenzio.
Bianco. Rumore di passi. Deboli, forti. Si avvicinano.
-Arancione,
trovo futile il tuo tentativo di rimediare ai tuoi errori a questo
punto-
Due
androidi. Due portal-gun. Rumore di corsa.
-Blu,
continua così-
-Arancione,
fai pena-
P-body
inciampò in un pannello incastrato male – forse volutamente – e
cadde rovinosamente nella voragine.
Un
tonfo. Una piccola esplosione.
Atlas
si affacciò, cercando con l'unico occhio il compagno, senza
risultati.
Una
capsula di vetro. Dei bracci meccanici, tintinnii vari.
P-body,
perfettamente ricostruito, avanzò un passo incerto sul pavimento;
constatata la sua stabilità, uscì completamente dal cilindro di
vetro e alzò una mano per salutare Atlas.
-Arancione,
smettila subito-
Fu
il freddo commento. P-body obbedì.
-Per
il momento ho abbastanza dati, prendetevi un attimo di riposo-
Atlas
spostò il suo sguardo verso una delle telecamere bianche della
stanza, interrogandosi sul tempo che gli avrebbe concesso GLaDOS
prima di un altro test.
-Al
momento non trovo importante riferirvi le mie intenzioni-
Rispose,
intuendo la domanda del robot.
Atlas
scosse la testa, dando una leggera pacca al compare: probabilmente
quel “tempo di riposo” che GLaDOS stava concedendo loro pendeva
tra i 5 e i 6 minuti. Forse.
Rumore
di passi che se ne vanno. Silenzio.
GLaDOS
Risultati:
Analoghi ai precedenti. . .
Potenziamento
soggetti: Nullo. . .
.
. .
Risultato:
Mi sto annoiando.
GLaDOS
spostò l'attenzione dall'ultima analisi alle stanze non ancora
risistemate. Quel posto sarebbe crollato a pezzi se non si fosse data
da fare come stava facendo. Erbacce e terra, acqua e liquidi tossici
inondavano una gran parte delle camere di test – e GLaDOS ne aveva
già ristrutturate gran parte – e questo era l'unico passatempo che
il potentissimo computer poteva adottare per sfizio: riparare le
stanze distrutte.
Atlas
e P-Body, gli unici soggetti che disponeva, due robot mediamente
intelligenti che sapevano, a suo parere, a malapena reggere una
portal-gun, avevano iniziato ad annoiarla. Essendo programmata
per svolgere continuamente test per far progredire la scienza, la
forma di intelligenza artificiale s'impegnava ogni momento a
inventarsi altri test per ottenere dati di diverso tipo, per trarre,
dai test, un'analisi innovativa e, magari, divertente. E invece
niente, Atlas e P-Body si erano stabilizzati ad un certo livello –
probabilmente il loro limite massimo – e da lì non avevano fatto
altro che ripetere le stesse cose. Alla fine GLaDOS aveva solo
concluso che anche i computer possono annoiarsi.
Dette
una veloce ricontrollata alle varie stanze, soffermandosi un attimo
sulla grande voragine apertasi più o meno nel centro del vecchio
laboratorio e che ora fungeva da inceneritore gigante – per i
rifiuti, quei maledetti rifiuti che se non venivano smaltiti
rischiavano di sfondare la struttura e far collassare l'Aperture su
se stessa – . L'ultima volta che aveva bruciato un po' di
spazzatura era stata, all'incirca, 637 test addietro. Tradotto in
tempo “umano”, più o meno tre mesi prima. Tra 450 test avrebbe
dovuto, nuovamente, mettere in funzione l'inceneritore per evitare
ipotetici incidenti.
La
telecamera si spostava a destra e a sinistra, cercando di inquadrare
qualcosa di interessante, che strappasse il computer, per almeno
qualche minuto, dalla noia corrosiva che le stava rovinando il
sistema. Trovò quel qualcosa.
Erano
cinque. Rugginosi, corrosi dalle fiamme, tre mancavano di arti
inferiori, mentre gli altri due avevano perso rispettivamente un
orecchio e un altro completamente il volto. Cinque scheletri
articolati in modo primitivo di quelli che un tempo – forse neanche
troppo lontano – erano stati robot di basso livello. GLaDOS aveva
ordinato ad Atlas e P-Body di prelevarli dal resto delle scorie,
operazione che aveva richiesto almeno un test, e di portarli nella
sala di comando, il suo collocamento fisico. I due androidi erano
stati costretti ad ubbidire, come al solito, ma ne erano stati
felici: quelle cinque carcasse avevano stuzzicato la curiosità di
GLaDOS. Da quando svolgevano test, non era mai capitato.
Questo poteva significare solo una cosa, ovvero che per tutto il
tempo che il computer avrebbe passato dietro a quelle novità loro si
sarebbero potuti prendere una vacanza. GLaDOS non prendeva alla
leggera le analisi di anomalie varie, e avrebbe sicuramente impiegato
parecchi test, forse anche più di un mese.
Ora
si trovavano tutti e cinque di fronte a lei. O meglio, sotto di lei,
essendo lei fisicamente appesa al soffitto. Muoveva la testa da una
parte all'altra, scrutando con estrema curiosità gli ospiti. Il suo
corpo oscillava ad ogni suo movimento, e lei sentiva fremere la
voglia di scoprire. In fondo, era stata programmata per
scoprire più cose possibili.
-Interessante...
davvero interessante-
Anche
se non aveva mai avuto bisogno di parlare tra sé e sé, da parecchi
anni aveva iniziato a farlo. Atlas e P-body erano praticamente muti,
e Chell, la sua dolce Chell, quel mostro che l'aveva distrutta
e poi rimessa in funzione, ovvero l'ultimo soggetto umano con il
quale aveva avuto a che fare, era sparita da tempo. Ma, anche se
fosse stata lì con lei, non avrebbe fatto molta differenza: anche
lei non apriva mai bocca. Così GLaDOS si trovava spesso a parlare
da sola di cose all'estremo della banalità, solo per sentire
qualcosa che non fossero i passi dei due robot, il rumore dei
proiettili che fendevano l'aria e il suono dei portali alla loro
apertura.
-Molto
interessante, già-
Concluse.
Anche la più banale delle apparecchiature della Aperture superava
quei rifiuti metallici, ma era da talmente tanto tempo che GLaDOS non
trovava qualcosa di nuovo che anche un vaso di fiori le sarebbe
apparso interessante.
Dal
soffitto uno dei pannelli si staccò e si abbassò fino a rendere
possibile il passaggio di un lungo braccio meccanico, che scendendo
arrivò ad afferrare il primo endoscheletro. Un altro braccio
meccanico seguì il primo, e in due rigirarono più volte l'oggetto.
Lei lo osservava affascinata, come se non avesse mai visto un robot
in vita sua. Conosceva alla perfezione ogni singola attrezzatura
dell'Aperture, ma non aveva mai avuto a che fare con androidi tanto
barbari, eppure allo stesso tempo tanto interessanti. Una
protuberanza a forma di cacciavite sgusciò fuori dal braccio, che
iniziò ad svitare accuratamente uno dei bulloni posti dietro la
testa dell'endoscheletro. Un coperchio sottile e annerito dal fuoco
cadde, lasciando intravedere una piccola scatolina scura, percossa
continuamente da minuscole scosse elettriche blu. Il computer
l'estrasse con delicatezza utilizzando l'altro braccio, poi la
collegò ad uno dei suoi schermi. Prima tutto si oscurò, producendo
uno sgradevole suono, poi comparvero delle scritte e delle immagini.
Erano di scarsissima qualità e sembravano raffigurare una stanza
chiusa e dei minuscoli esseri umani.
-Oh,
guarda. Non si sono rovinati completamente...-
In
quel momento la scatola lanciò una scintilla più potente delle
altre e lo schermo si spense. GLaDOS riportò l'attenzione sugli
altri quattro.
-Mi
sembra di capire che ho parecchio su cui lavorare...-
L'idea
di poter ampliare i confini della sua conoscenza, finalmente,
l'eccitava. Altri bracci meccanici discesero lentamente dal
soffitto...
Analisi
in corso...
Allora,
l'hard disk è in parte illeso, anche se un buon pezzo è andato...
La
cpu... montano tutti un 8080? Ah, saranno sicuramente stupidi. Cosa
scontata se fossero stai messi in confronto a me, questo è ovvio. Ma
è vero che alla stupidità non c'è limite...
I
loro sensori di profondità sono distrutti completamente, ciò
significa che se avessero ancora la forza di camminare avanzerebbero
come il gatto ubriaco sul quale
effettuai la veridicità del test di Shrodinger.
Questo
qui? È diverso dagli altri. Sembrerebbe... uh, che roba è? Mai
visti tanti dati corrotti tutti assieme. E poi... dal programma
inseritogli, sembrerebbe nato con lo scopo di comportarsi come un
bambino...
L'analisi
continuò per ben 8 test, tradotti in poco più che un giorno umano.
Mentre immagazzinava dati, il super computer immaginava un numero
stratosferico di possibili nuovi test da far fare a quelle cose
appena fosse riuscita a rimetterle in sesto. Mentre lavorava, Atlas e
P-body osservavano da lontano, scambiandosi di tanto in tanto varie
occhiate. Non avevano la facoltà di poter parlare, ma in compenso in
tutti quegli anni avevano imparato a comunicare con un solo sguardo.
“Secondo
te andrà avanti ancora per molto?”
“Probabilmente.”
“Pensi
che ci lascerà in pace?”
“Non
credo.”
“Per
un po' sì, però, giusto?”
“Forse...”
“Cosa
saranno mai quegli affari?”
“Non
ne ho idea”
Continuarono
a guardarsi fino a quando un suono molto simile ad un campanello
risuonò per la stanza. GLaDOS aveva finito di accumulare dati.
Atlas
e P-body la guardarono esitare qualche secondo per decidere sul da
farsi, poi, inaspettatamente, allungò cinque bracci meccanici e tirò
su tutti e cinque i resti inanimati; senza il minimo accenno di
delicatezza, li lanciò con precisione in fondo ad un pozzo apertosi
a pochi metri di distanza: un altro inceneritore. Loro due si dettero
un'altra occhiata:
“Oh,
no! Ora ci toccherà... tornare a lavoro”
“Non
so, guarda”
GlaDOS
girò su se stessa un paio di volte, come per cercare qualcosa nella
stanza tondeggiante, poi mosse tutti i pannelli del soffitto e delle
pareti assieme, come per esultanza. Sui grandi schermi che fece
scivolare vicino a se iniziarono ad apparire disegni e progetti che
illustravano la possibile struttura corporea che avevano avuto i
robot in buone condizioni, e accanto ad essi iniziò a schizzare
diverse bozze che ricordavano vagamente le prime, solo molto più ben
definite e articolate.
-Arancione,
Blu, non statevene a fissarmi come stoccafissi, procuratemi
questi pezzi-
Una
scatola pallida simile ad una grossa telecamera uscì da un'apertura
nella parete, e collegata ad un braccio, si avvicinò agli occhi dei
due bot. Produsse un bip-bip
debole, accendendosi e proiettando un raggio di luce nell'occhio di
Atlas e di P-Body. Loro rimasero accecati per un istante, poi vari
schemi iniziarono a apparire di fronte a loro, illustrazioni di vari
pezzi che GLaDOS
non aveva il tempo di stare a cercare.
-E
sbrigatevi, che mi serviranno appena avrò finito-
Atlas
e il compagno annuirono all'unisono, e scomparvero per una porta alla
ricerca di quel che richiedeva il computer. GLaDOS, rimasta sola,
continuò il suo lavoro.
Passarono
giorni. Il continuo sferragliare dei bracci a lavoro riempiva
l'atmosfera. Lavorava incessantemente al suo progetto, ed ogni ora si
avvicinava sempre più velocemente al risultato. Aveva ideato degli
endoscheletri molto più complessi, studiandone accuratamente i
movimenti e le caratteristiche. Aveva dato un nomignolo banale a ogni
robot in lavorazione: Viola, Gialla, Marrone e Rosso. Era sua
consuetudine nominare i soggetti da test per colore. Non aveva ancora
deciso se chiamare Marrone 2 o Dorato l'ultimo androide, dal momento
che non aveva ancora stabilito, in base ai dati, se il precedente
animatronic avesse avuto un colore più simile al marrone sporco o al
dorato opaco. Non che gliene importasse più di tanto, perché alla
fine avrebbe deciso lei come colorarli. Solitamente, le più cose del
laboratorio (lei compresa) erano bianche, argentee o grigio metallo.
L'Aperture aveva sempre avuto poco interesse a tingere le proprie
opere.
Viola
era probabilmente stato basato su un coniglio, o su un qualche
animale molto simile, anche se, dai dati raccolti, la somiglianza non
doveva essere stata eccezionale. A lei piaceva fare le cose con
precisione, quindi raccolse dati riguardanti l'anatomia dei conigli e
concluse che Viola avrebbe dovuto avere orecchie sviluppate (lavorò
con cura sul suo sistema uditivo), gambe adatte a grandi balzi e una
dentatura da roditore. Non che avrebbe avuto bisogno di mangiare,
ovvio, solo per completare l'opera. Terminata la struttura interna,
si curò di fornire al futuro robot un'adatta rete di vene e
capillari sintetici che avrebbe
riempito in seguito, e che avrebbero garantito il funzionamento
perenne dei soggetti. Infine, installò la nuova memoria
dell'androide, così rielaborata:
Nome:
[inserire nome oggetto]
Caratteristiche
fisiche: Agile, buona facoltà di salto, udito sensibile.
Carattere:Allegro,
inappropriato, buffo, ingenuo, amichevole, burlone
(Non
ho idea di cosa verrà fuori, ma mi diverto a riempire questi affari
di sentimenti umani ...)
Completata
la base di Viola, la quale mancava soltanto di corpo esterno, che
Atlas e P-body stavano ancora mettendo a punto (lasciava i compiti
che richiedevano più delicatezza ai due bot, in quanto i suoi bracci
meccanici non erano l'esatto sinonimo di “delicati”), passò agli
altri quattro. Gialla era l'unico robot identificato con dati e voce
più femminili, quindi sarebbe stata progettata per essere femmina
anche da GLaDOS. Da quello che aveva ricavato, il robot era stato
basato su un pulcino di pollo o di papero, e dal momento che GLaDOS
non aveva una gran simpatia per le galline, optò per ricreare Gialla
sotto forma di pulcino di papera, quindi munì l'endoscheletro di
zampe palmate, becco piatto (che però sostituì in seguito con un
becco più piccolo e ricurvo per permetterle di aprire e chiudere la
bocca con più disinvoltura), mani che ricordavano vagamente delle
piume e si assicurò che fosse abbastanza leggera da poter
galleggiare in acqua. Finito di attrezzare l'endoscheletro, anche a
Gialla fornì una memoria riprogrammata e più sviluppata rispetto
alla precedente:
Nome:
[inserire nome oggetto]
Caratteristiche
fisiche: Leggera, adatta al nuoto
Carattere:Timida,
simpatica, ottimista,curiosa, sensibile, golosa
(Di
torte)
Anche
Gialla venne munita di un sistema complesso di vene. Il computer
passò al terzo soggetto, Rosso. Doveva assomigliare ad una volpe,
quindi modellò l'endoscheletro a formare un muso affilato munito di
denti da carnivoro, e allungò la colonna vertebrale in modo da farla
terminare come una lunga coda. Quel robot era un po' più complesso
rispetto agli altri, e il computer si chiedeva cosa fosse saltato in
mente agli umani che avevano incrociato un canide con un pirata.
Modellò un apposito uncino che avrebbe permesso a Rosso di afferrare
qualcosa (perlomeno un portal gun) grazie ad una forma a pinza, poi
si occupò di renderlo capace di correre per grandi distanze e di
compiere grandi scatti, dal momento che dai vecchi dati GLaDOS poteva
osservare che l'animatronic era stato il più veloce tra tutti.
Essendo un canide, decise di aumentargli la sensibilità agli odori
(cosa che di cui la stessa GLaDOS era priva ma che non richiedeva) e,
notando uno strano problema con i vecchi dati che riportava un bug di
sistema che aveva fatto avventare la volpe su un piccolo di umano
mordendolo, costruì la mascella particolarmente robusta.
I
dati e l'intelligenza che stava fornendo ai suoi progetti erano
approssimativi: li aveva infatti programmati per imparare e
potenziarsi per esperienza una volta accesi, e quindi si divertiva al
pensiero di quali dati assurdi avrebbe potuto registrare durante i
nuovi test. Infatti, anche per Rosso, si limitò a sottolineare solo
alcuni dei più basilari comportamenti che avrebbe avuto:
Nome:
[inserire nome oggetto]
Caratteristiche
fisiche: Agile, veloce, forte
Carattere:
Burbero, irascibile, insensibile, arrogante, coraggioso, furbo,
impulsivo
(La
mela marcia del gruppo... o forse no?)
Finalmente
si poté dedicare a quello che le interessava di più: Marrone. Dando
una rapida occhiata ai dati (che avrebbe finito di analizzare più
avanti con molta calma) aveva notato che dal principio era stato
l'animatronic più intelligente, complesso e umano di tutti,
anche se particolari inquietanti sorgevano qui e là nel suo
programma. Inoltre, era pieno di dati corrotti o indecifrabili, e
questo stuzzicava la curiosità di GLaDOS più di qualsiasi altra
cosa.
Basandosi
sull'aspetto fisico di un vero orso, decise di creare l'endoscheletro
di Marrone grosso, robusto e non troppo veloce, ma molto forte.
All'apparenza doveva apparire un po' tozzo, ma avrebbe avuto
dimestichezza con i movimenti come gli altri. Mentre riguardo alla
sfera psicologica, volendolo rendere superiore e a capo degli altri
come evidentemente era stato in precedenza, lavorò per molti test
solo al suo carattere, cercando di fondere il comportamento di un
gentleman inglese con quello di un sapientone superbo, dosando bene
la quantità di sentimenti ed emozioni che avrebbe dovuto provare.
Nome:
[inserire nome oggetto]
Caratteristiche
fisiche: Forte, robusto, pesante
Carattere:
Curioso, pensieroso, arrogante, presuntuoso, altruista, paziente
(E
molti altri. Certo che gli Umani sono complicati da copiare...)
Adesso
non mancava che l'ultimo. Fisicamente uguale a Marrone, Dorato aveva
un'intelligenza molto più limitata e un carattere... particolare:
Nome:
[inserire nome oggetto]
Caratteristiche
fisiche: Forte, robusto, pesante
Carattere:
Allegro, ottimista, curioso, amichevole, lunatico, inusuale, stupido
(Tenderei
a sottolineare l'ultima affermazione)
Completati,
anche per lui, i tubicini che avrebbero funto da apparato
circolatorio, GLaDOS.. dovette solo aspettare che Atlas e P-Body
finissero la rivestitura esterna, che lei avrebbe provveduto a
fissare al corpo per dar loro un aspetto meno “metallico” e
proteggere il fragile capolavoro che aveva creato. Mentre i due bot
finivano di lavorare al rivestimento, lei dette gli ultimi ritocchi:
impostò la voce ad ognuno, ovvero squillante per Viola, dolce per
Gialla, raschiante per Rosso e piuttosto bassa e profonda per
Marrone, nonché in falsetto per il suo gemello (senza un vero e
proprio motivo, il computer si stava divertendo a prendere in giro
Dorato in tutti i modi possibili), e colorò gli occhi (che al
contrario di quelli dei vecchi modelli non sarebbero stati sferici,
bensì dei piccoli monitor in grado di percepire perfettamente
l'ambiente circostante molto simili, come forma, a quelli dei due bot
e delle torrette) rispettivamente di fucsia per Viola, lilla per
Gialla, giallo-oro per Rosso e blu acceso per Marrone. Non riuscendo
bene a stabilire se Dorato gli avesse mai avuti, dal momento che non
risultava da nessuna parte che in origine fosse munito di occhi,
decise di invertire il colore dello schermo con quello della pupilla:
sarebbe apparso con la sclera nera e la pupilla bianca. GLaDOS
dovette dare più volte un'aggiustatina affinché apparisse così
solo esternamente, e che riuscisse a immagazzinare luce come gli
occhi degli altri.
Finalmente,
dopo una quantità estrema di test saltati, più di 500, il lavoro
era quasi completo.
-Arancione,
Blu, provvedete a fissare l'esoscheletro-
Il
computer ondeggiò un poco, osservando i suoi “servi” completare
l'opera. Fissarono con precisione la “pelle” dei robot, e a
bloccarla definitivamente pensò GLaDOS fondendo insieme varie
parti. Dovevano risultare tutt'uno con il corpo interno e lei non
poteva rischiare che i loro “costumi” si staccassero durante i
test. Finito ciò, passò uno sguardo su ognuno degli androidi:
Viola
assomigliava ad un coniglio molto più di quanto avesse dovuto
assomigliarvi in precedenza, era di un viola-blu lucente e la pancia
e il muso erano stati colorati di bianco. Al collo GLaDOS aveva
ordinato di legargli un papillon rosso fiammante uguale a quello che
aveva indossato secondo i dati e le immagini raccolte. Gialla
assomigliava adesso ad un incrocio tra una papera (per le zampe) e
una gallina (per il becco) ma non era una brutta fusione. Un bavaglio
bianco le copriva in parte il petto. GLaDOS aveva scoperto che il
bavaglio del vecchio modello aveva sfoggiato la scritta “let's
eat!” ma non ci trovava nulla di intelligente in quella frase.
Quindi decise di scriverci sopra un frase ad effetto “The Pizza is
a Lie” dal momento che quei robot provenivano da un ristorante
specializzato in pizze, o così almeno le era parso guardando le
immagini.
Rosso
aveva un rivestimento volutamente squarciato in alcuni punti, come
sul busto (la ferita assomigliava ad una cicatrice di guerra), e le
gambe mancavano completamente di rivestitura, così da dare un tocco
di classe in più e da renderlo più veloce. L'occhio destro era
tappato da una benda, ma funzionava alla perfezione. Marrone, infine,
appariva più come un robot simpatico che robusto e feroce come aveva
inizialmente pensato GLaDOS, ma l'aspetto calzava a pennello riguardo
al carattere che avrebbe dovuto avere: serio e responsabile ma non
impulsivo e feroce come il compare Rosso. Un fiocco nero legato al
collo gli dava l'aria di gentiluomo (o gentilrobot in questo
caso), così come la piccola tuba del medesimo colore poggiata sulla
testa.
Dorato
assomigliava molto al gemello, solo la tintura usata era
particolarmente lucente e questo gli dava un effetto “luccicante”.
Inoltre, la maschera modellata come un ciuffo di pelo sulla testa
(come gli altri) non era “liscia” come quella di Marrone, ma era
arricciolata, cosa che gli dava un aspetto “morbido” anche se era
fatto di metallo e non di vero pelo. Anche lui portava cappello e
fiocco, solo di un blu oltremare piuttosto scuro.
GLaDOS
era pronta ad iniettare nei corpi il carburante speciale che li
avrebbe fatti funzionare senza batterie o energia elettrica, in un
primo momento senza accendere loro il cervello sintetico in modo da
stabilire solo se gli arti funzionassero a dovere e in seguito
accendendoli definitivamente per poter iniziare i test di
intelligenza e molto altro; ma prima di ciò constatò che, dal
momento che sarebbero stati in grado di parlare e comunicare tra di
loro a parole, doveva dar loro i vecchi nomi (anche per attivare in
loro quel rimasuglio di vecchia memoria che lei aveva lasciato dentro
le loro intelligenze).
Controllò
velocemente i dati immagazzinati e poi rinominò ognuno:
Nome
soggetti:
[Viola]
Bonnie
[Gialla]
Chica
[Rosso]
Foxy
[Marrone]
Freddy
[Dorato]
… … … elaborazione in corso... Golden.
Fece
scivolare dei tubi collegati al Carburante verso il loro “cuore”
sintetico, unico punto rimasto scoperto che avrebbe sigillato appena
conclusa l'operazione.
Un
denso liquido viola scuro iniziò a scendere per i tubi
trasparenti...
Commento
Zan
zan! Eccomi nuovamente con un altro capitolo! Perdonatemi, ma avevo
iniziato a scrivere questo capitolo e mi ero bloccata; solo in questi
ultimi giorni sono riuscita a finirlo! È venuto più lungo del
solito, ma era necessario per introdurre GLaDOS! Certo, solo i fan di
Portal potranno capire a pieno questo personaggio già da questo
capitolo, ma non preoccupatevi, anche voialtri “meno esperti in
materia” verrete a conoscenza del vero ruolo di questo meraviglioso
“character” della Valve, che io stimo tantissimo (non la Valve,
GLaDOS)! Oltre che spiegare le vere origini del computer, sto
cercando di inserirla il più possibile nella storia di FNAF
collegandola a personaggi che nemmeno immaginate. Per il momento,
consiglio a tutti voi di cercare su internet dei video o
semplicemente andando su Wikipedia qualcosa in più su GLaDOS,
perché, ci crediate o no, è un personaggio complesso e difficile da
descrivere. Io mi trovo abbastanza in difficoltà nel cercare di
rendere la G della mia storia tale e quale quella di Portal, ovvero
un personaggio di ghiaccio dall'umorismo nero con passatempi
satanici, ma sto facendo del mio meglio...
Io
vi consiglierei addirittura di scaricare il gioco, non costa molto,
ma sono solo osservazioni!
Ringrazio
tutti quelli che mi stanno seguendo e in particolare Crax, che mi
aiuta con qualche termine tecnico che io non potrei neanche sognarmi.
Spero di non aver detto troppi strafalcioni informatici in questa
fiction!
Al
prossimo capitolo!
|
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Capitolo 8 *** Cicatrici ***
AAA
L'acqua
fredda risvegliò i suoi sensi ancora intorpiditi. Si passò una mano
sul volto, passando con l'indice su quella ragnatela di solchi che
gli adornava la faccia dall'incidente. Assomigliavano a graffi più o
meno profondi, erano pallidi rispetto al resto della pelle, e non
l'avrebbero più lasciato. Ogni giorno, ogni mattina, quel gesto di
accarezzarsi il volto con la mano tremante risvegliava il vivido
ricordo dell'incubo che aveva vissuto non molti mesi prima. Spostò
lo sguardo nello specchio e vide il fantasma di quello che un tempo
era stato un giovane robusto di bell'aspetto. Le cicatrici intricate
avevano rovinato la pelle del viso, un tempo brillante, adesso
spenta. La più profonda solcava l'occhio destro, appena sotto la
palpebra inferiore, formando una rientranza nello zigomo piuttosto
raccapricciante. Il resto non era altro che una serie di tagli sparsi
dalla fronte al mento, uno era più lungo e attraversava metà del
suo collo. Ma non era stata solo la pelle ad essere martoriata. Anche
gli occhi, dopo aver passato quei terribili giorni di continui
interventi, erano diventati opachi e da blu cielo erano passati a
grigio freddo, come se delle gocce di metallo avessero irrotto nelle
sue iridi e avessero iniziato a divorarne il colore. I capelli, prima
neri e lucenti, erano schiariti e seccati, come una pianta lasciata
troppo tempo sotto il solleone. Questo era quello che vedeva Mike
ogni mattina, dopo l'incidente alla pizzeria: un giovane uomo
distrutto da un'esperienza indescrivibile, che sembrava andare oltre
la realtà.
“Attentato
a guardia notturna durante il turno di lavoro, uomo di 23 anni
assalito da robot, salvato per miracolo da intervento della polizia”
Quel
giornale – uno dei tanti – che aveva annunciato l'incidente di
Mike, se ne stava ancora sul bracciolo della poltroncina, coperto di
polvere, da quasi un anno ormai. Gliel'aveva portato Fritz uno dei
suoi primi giorni coscienti all'ospedale dopo l'operazione, per
sottolineare quanto fosse stato fortunato ad essere ancora vivo.
«Quella
roba che ti hanno infilato in testa era coperta di ruggine, Mike! Hai
rischiato una grossa infezione!»
Aveva
annunciato, sventolando i fogli come una bandiera, attraversando il
corridoio dell'ospedale. Quei giorni Mike aveva ancora la mente
annebbiata e le orecchie ovattate, quindi aveva chiesto all'amico di
ripetersi.
«Hai
avuto fortuna a uscirne vivo, amico»
Aveva
tagliato corto l'altro, lanciandogli il giornale dopo essersi seduto
ai piedi del letto. Mike aveva letto l'articolo che parlava della sua
miracolosa fortuna che l'aveva strappato appena in tempo dalle
braccia della morte. Aveva sbuffato:
«Immagino
di essere diventato famoso per questo, eh?»
La
voce roca aveva prodotto un effetto sgradevole, simile al rauco
gracchiare di un rospo, ma Fritz aveva fatto finta di niente.
«Non
si parla d'altro in paese. Pensa che in quest'ultima settimana
l'affluenza turistica è aumentata»
«Solo
per vedere me?»
«Solo
per vedere gli animatronics, e per curiosare. Ovviamente, la polizia
non permette a nessuno né l'una ne l'altra cosa»
Alla
parola “animatronics” lo stomaco di Mike aveva avuto una
terribile contrazione e l'orrore di quei momenti era riaffiorato a
fior di pelle, tempestandolo con un tremendo senso di nausea.
«Non
parlarne più, ti prego»
Fritz
l'aveva guardato attraverso gli occhiali tondi. Gli occhi castano
intenso avevano squadrato il volto di Mike per molti minuti, e poi
l'amico aveva fatto un sospiro alzandosi dal letto:
«Be',
Mike, che dire? Spero ti rimetta presto. Io adesso devo tornare a
lavoro, sai com'è mio zio... mi ha dato il permesso di venirti a
trovare per non più di dieci minuti, e se dice dieci minuti, sta'
certo che ti viene a cercare se sfori anche di pochi secondi»
«Come
Fred»
Aveva
ridacchiato Mike, con la gola raschiata dalla risatina forzata. Ma
solo pronunciare quel nome aveva portato con sé un'altra ondata di
orrido malessere, e si era pentito subito di averlo pronunciato.
Fritz non l'aveva notato ed aveva risposto con una risata vera, poi
se n'era andato a corsa.
Mike
aveva conservato il giornale. Non sapeva il perché. Il ricordo di
quell'incubo era ben lungi dallo sfumare, ma quel giornale gli
ricordava non solo l'incidente, ma anche qualcosa di positivo. Era
sopravvissuto, era stato molto fortunato. Il suo volto aveva subito
sfregi irreparabili, diventando il simbolo dell'accaduto. Ma in
qualche modo era riuscito a sopravvivere, a sfuggire alla nera moira
ed adesso stava cercando di ricostruirsi una vita.
Con
scarsi risultati. Andò in cucina, ancora in pigiama, e afferrò la
scatola di biscotti che teneva a portata di mano sopra la mensola.
Erano grossi e a forma di osso.
«Sparky!»
Chiamò,
e trotterellando il suo fidato amico zampettò in cucina. Gli lanciò
il biscotto e lui balzò agilmente afferrandolo al volo. Iniziò a
sgranocchiare avidamente il suo premio, accucciandosi nel suo
angolino preferito. Mike gli diede un paio di carezze sul capo, e il
cane ringraziò scuotendo la coda.
«Oggi
vado al Commissariato, starai un po' da solo. Non combinare guai, va
bene?»
Il
cucciolone non lo degnò di molta attenzione, e continuò a
rosicchiare il suo osso. Mike tornò in camera sua e aprì l'armadio,
passando con lo sguardo su ogni vestito che aveva. Erano al massimo
una dozzina e i più erano maglioni o felpe, ma quel giorno doveva
presentarsi con qualcosa di decente. Afferrò una camicia con motivo
a righe e una giacca scura, poi indossò un paio di pantaloni blu
notte. Tornò a passi svelti in bagno, per darsi una veloce
spazzolata ai capelli smorti, poi davanti allo specchio gonfiò il
petto e cercò di apparire il più fiero possibile. Stava per
presentarsi al Commissariato di New Brinnin per la prova d'esame che
avrebbe decretato o no il suo primo passo da agente di polizia. Aveva
studiato legge e fin da bambino aveva avuto il sogno di diventare un
avvocato. Sogno che si era infranto quando aveva sbattuto contro la
realtà dei terribili esami dell'Università, che non era riuscito a
passare e che alla fine aveva abbandonato finendo a cercare lavoretti
vari per la città, lavorando d'estate come cameriere per gli
alberghi marittimi e d'inverno con quello che trovava. L'ultimo suo
lavoro si era rivelato quasi fatale, ma gli aveva anche fatto capire
una cosa fondamentale della sua vita. Dopo essere stato salvato dalla
polizia, era cresciuto in lui l'ardente desiderio di far parte del
corpo armato per ricambiare il favore a qualcun altro. Si sentiva in
debito, e ormai aveva deciso di unirsi al corpo armato dello Stato.
Prese un grande respiro, cercando di non guardare quelle orribili
cicatrici. A tutti i lavori a cui si era presentato dopo il suo
soggiorno in ospedale, era stato scacciato bruscamente. Forse alcuni
pensavano avrebbe portato sfortuna all'attività (la Fazbear's era
chiusa proprio a “causa” sua), o altri, lui ci scommetteva,
perché il suo volto era inguardabile. Mike si aggiustò la cravatta,
poi raddrizzando la schiena pronunciò:
«Agente
Schmdit, pronto per questa impresa»
Si
voltò, facendo un gran sospiro, poi si avviò verso l'uscio. Sentì
Sparky trottargli dietro e ansimare per il caldo dell'appartamento,
ma Mike non poteva portarlo con sé.
«Sparky,
non puoi venire. Dovrei lasciarti legato fuori la sede di polizia...»
L'uggiolio
da cucciolo del bastardino impietosì Mike, che non poté resistere e
alla fine afferrò il guinzaglio che teneva vicino all'uscita e lo
legò al collo del cane.
“Guarda
che gran forza d'animo che hai, Mike. Ti fai comandare da un cane.
Che gran bell'agente sarai, utilissimo alla patria, sì!”
Sparky
ringraziò scodinzolando allegramente, allargando la bocca come in un
gran sorriso. Mike gli rispose sorridendo e uscì dalla porta.
Le
strade erano quasi deserte, un debole vento gelido afferrava le
foglie e le accompagnava in una danza unica per i cieli di New
Brinnin. Mike camminava a testa bassa, con il volto affondato nella
camicia, rimpiangendo le volte in cui poteva nascondere il mento e la
bocca nel collo alto della felpa. Aveva iniziato a camminare cercando
di attirare meno attenzione possibile, ma cercare di non dare
nell'occhio aveva scaturito l'effetto contrario. Anche solo muoversi
tra la gente, azione che avrebbe svolto normalmente come qualsiasi
essere umano, era adesso un'impresa. Indossare cappucci o berretti
aiutava, ma nei giorni più caldi le felpe e i cappelli di lana erano
troppo da sopportare. Sgusciava tra le persone con movimenti rigidi,
innaturali, cercando di non incrociare lo sguardo di nessuno, e non
far caso a chi lo stesse guardando. Per fortuna l'appartamento dove
viveva si trovava piuttosto in periferia, in una zona poco affollata,
ma si trattava sempre della periferia di una città di medie
dimensioni, per di più piuttosto famosa come meta turistica,
specialmente durante l'estate per il mare, e quasi ogni giorno Mike
attirava gli sguardi di passanti curiosi su di se, come se fosse una
calamita. Il suo volto sfregiato l'avevano trasformato in un fenomeno
da baraccone che attirava a sé risatine maligne o occhiatacce
criticanti. Per fortuna, quel giorno di fine autunno in pochi erano
usciti di casa, i più erano già andati a lavoro e i pochi che ci
stavano andando erano troppo impegnati a correre per non perdere la
fermata del bus o ad affrettarsi in bici per notarlo.
Mike
camminò per diversi minuti, inforcando le strade meno affollate che
aveva scoperto in quel mezzo anno da incubo, alle quali prima non
aveva mai fatto caso. Sparky gli camminava a fianco, senza fermarsi
ad annusare in giro o iniziare a gironzolare per conto proprio. Era
un cane tranquillo, un meticcio di taglia media-grande che ricordava
un “labrador magro dal muso allungato, oppure un cane lupo
bruttino”, più o meno così l'aveva descritto suo cugino quando
gliel'aveva regalato. Il manto grigio chiaro e gli occhi vispi, color
ghiaccio, le orecchie piccole e flosce, come quelle di un cucciolo, e
la coda sempre in movimento avevano messo poco tempo a fare breccia
nel cuore ancora shockato di Mike, quasi un anno prima. A credersi
era difficile, ma Sparky aveva seriamente dato un gran contributo al
superamento dello shock del giovane.
«Non
si possono introdurre animali all'interno dell'ospedale!»
Aveva
schiamazzato un'anziana dottoressa, con il volto rugoso contratto in
una smorfia di rabbia. Jeremy aveva afferrato la scatola sotto il
braccio sinistro, col destro si era asciugato la fronte e dato una
veloce aggiustatina al ciuffo ribelle davanti agli occhi, poi aveva
schiarito la voce e si era giustificato:
«Laggiù
c'è mio cugino, è quasi morto soffocato da una maschera, è
completamente shockato e non c'è nessuno che possa venirlo a trovare
spesso. Non pensavo fosse un reato confortare un parente»
La
voce e i gesti di Jeremy avevano lasciato trapelare una forte
sicurezza personale che aveva indotto la vecchia donna a pensare che
quel rosso non si sarebbe arreso facilmente. Ma non aveva ceduto:
«È
inaccettabile! Quel cane potrebbe avere pulci, o peggio, essere
infetto. I globuli bianchi del paziente sono scesi vertiginosamente
durante le operazioni e in questo momento non può permettersi di
contrarre nessun genere di...»
Ma
Jeremy aveva sbuffato, aprendo la scatola e afferrando la palla di
pelo grigia per la collottola:
«Questo
cuccioletto non ha nessun tipo di malattia, infezione, e non morde! È
nato due mesi fa, e l'ho preso oggi stesso dal ricovero per animali,
dopo tutti i controlli veterinari. Non si fida? Lo guardi, su!»
Aveva
avvicinato il batuffolo mugolante al volto dell'anziana, che subito
era arretrata con impressa in faccia un'espressione ripugnata, ma
subito si era ricomposta:
«Le
regole sono regole, se non gira subito i tacchi e se ne va di qui, io
sarò costretta a...»
«Jeremy?»
Aveva
chiesto a quel punto lui, uscito dal dormiveglia. Jeremy si era
voltato, lasciando per un secondo trapelare un grande sorriso, che
puntualmente si era guardato dal reprimere per indossare
un'espressione seria e quasi scocciata, come ogni volta che
s'incontrava col cugino piccolo. Era avanzato verso il letto
ignorando la disapprovazione della dottoressa.
«Allora
Mike, ti sei fatto la plastica al viso, mi pare di capire»
Mike
si era limitato a squadrarlo con occhi pallidi, quasi inespressivi.
Il destro era gonfio e circondato da una grossa chiazza violacea.
Jeremy aveva afferrato con disinvoltura una sedia lì vicino, e si
era accomodato accanto al letto.
«Hai
quasi perso un occhio, vedo»
«Non
hai perso la lingua, vedo. E neanche il tuo sarcasmo»
Aveva
gracchiato con voce irriconoscibile Mike. Jeremy aveva abbozzato un
falso sorriso:
«Come
potrei stuzzicarti se perdessi la lingua?»
«Troveresti
comunque un modo, immagino»
«Credo
anche io, non potrei rinunciare al rompere al mio cugino preferito»
Aveva
mostrato la scatola, mentre la vecchiaccia si era avvicinata con
occhi colmi di furore, le mani strette in pugno.
«Le
ho detto...»
«Solo
un attimo!»
Aveva
ringhiato Jeremy, per poi riportare l'attenzione sul cugino.
«Lui...
pensavo avrebbe potuto piacerti»
Aveva
nuovamente infilato la mano nella scatola e tirato fuori il musetto
minuscolo di un cagnolino grigio perla. Mike aveva sgranato gli
occhi:
«Cos'è?»
«Un
tirannosauro. Adesso, secondo te? L'occhio l'hai perso davvero?»
Mike
aveva iniziato ad allungare la mano verso l'animaletto, ma la
dottoressa l'aveva fermato con un “her-emm!” e Mike aveva subito
ubbidito.
«Che
razza è?»
«Suvvia,
a caval donato non si guarda in bocca, screanzato di un cugino»
«Era...
solo per chiedere»
Jeremy
l'aveva fissato a lungo. Gli occhi dell'altro erano quasi bianchi, le
pupille vuote, l'espressione priva di vita. Aveva concluso che il
cugino non era in vena di scherzi.
«Un
bastardino. Penso sia... un labrador molto magro, o un cane lupo
molto, molto brutto, oppure un incrocio tra i due, probabilmente. Non
ho idea di che razza sia, so solo che è maschio ed è il più brutto
che sono riuscito a trovare, doveva assomigliarti»
Mike
aveva allargato un sorriso sarcastico, ma solo quel gesto aveva
provocato l'intenso bruciore di tutta l'epidermide della faccia.
Aveva
soffocato un grugnito, poi aveva continuato a fissare il cucciolo.
Dalla scatola scrutava la stanza d'ospedale con curiosità,
allungando il naso nero per annusare i dintorni.
«Non
so se potrò badare anche ad un cane»
Aveva
concluso Mike brusco.
«Sarà
lui a badare a te, credo. E comunque, non posso riportarlo indietro
quindi a questo punto te lo devi tenere»
Mike
aveva fatto una smorfia, poi aveva annuito sconfitto.
«E
va bene, troverò il modo di tenerlo. Immagino che dovrei
ringraziarti»
«Dovresti»
Aveva
risposto di rimando l'altro sorridendo. Mike aveva piegato un angolo
della bocca, poi aveva gracchiato un “grazie” appena accennato,
per poi chiudere gli occhi e appoggiare la testa sul cuscino.
«Ed
ora se ne vada!»
Il
ringhio della dottoressa aveva fatto sobbalzare Jeremy, che aveva
afferrato il suo pacco, salutando la donna con un inchino
provocatorio e trotterellando fuori dalla camera.
Da
quando era uscito dall'ospedale, quel cagnolino gli era sempre stato
accanto. I regali rifilati a forza dal cugino si erano rivelati il
più delle volte orribili o ingombranti – era il modo di Jeremy per
dar noia a Mike – ma Sparky era probabilmente il miglior regalo mai
ricevuto. Il cane gli teneva alto il morale, gli teneva compagnia e
soprattutto non reprimeva a forza espressioni schifate quando lo
guardava in faccia. Sempre allegro e scodinzolante, riusciva sempre a
strappargli un sorriso.
«Allora,
se non ho sbagliato strada... la stazione di Polizia dovrebbe
trovarsi...»
Sentì
lo stomaco serrarsi violentemente quando costatò che aveva sbagliato
strada. E si trovava molto lontano dalla stazione di Polizia.
Camminando sovrappensiero, non si era reso conto dell'errore e solo
adesso, poco più che 15 minuti prima delle prove generali, si
trovava completamente smarrito.
«No...
no! Questo non doveva accadere! Cosa faccio adesso?»
Parlava
più a se stesso che al suo cane, che comunque parve comprendere
l'agitazione del padrone ed iniziò ad agitarsi.
Poi
il suono del bus che si fermava poco lontano da lui attirò la sua
attenzione. Forse era ancora in tempo.
Sguardi.
Tanti sguardi posati su di lui. Troppi, mentre attraversava lo
stretto corridoio del pullman. Procedeva a testa bassa, cercando di
ignorare quella pressione posata sul suo essere, senza riuscirci.
Sparky lo seguiva diligente, strusciando la testa sulla sua gamba
mentre procedevano per andare nel retro del pullman, l'unico posto
dove gli animali erano consentiti senza gabbietta.
I
grandi pullman di New Brinnin potevano vantare ben due piani, con
tanto di “scompartimento” all'aperto per i passeggeri con grandi
animali. Mike cercò rifugio lì, e per sua grandissima fortuna trovò
quel posto vuoto. Inspirò l'aria fresca e si sedette su una delle
sedie in plastica fissate a quella parte di pullman scoperta. Sparky
si accucciò al suo fianco.
In
circa 10 minuti il bus l'avrebbe lasciato alla fermata più vicina
alla stazione, e lui avrebbe dovuto correre per qualche minuto per
arrivare in orario. Chiuse gli occhi, lasciandosi accarezzare dal
vento, e abbandonandosi ad un breve riposo senza pensieri.
Quando
quell'immagine riaffiorò. Occhi celesti, intrisi d'odio.
L'endoscheletro luccicante dentro il costume, la forte pressione sul
corpo, i cigolii, sempre più forti, vicini, assordanti.
Sobbalzò
attirando l'attenzione di Sparky che rizzò le orecchie in cerca del
pericolo. Davanti a lui c'era una giovane ragazza con un grosso gatto
in braccio. Sembrava grande almeno il doppio del più grande gatto
che Mike avesse visto. Il pelo fulvo, ispido, fu la cosa che però lo
colse maggiormente: era di un colore indefinibile, simile al blu o al
viola scuro, un colore che mai aveva visto in nessun animale. Grandi
occhi gialli lampeggiavano tra la folta pelliccia, risplendendo quasi
con innaturalezza in mezzo a tanto scuro come due piccole luci in una
notte senza luna. Mike rimase paralizzato per qualche secondo alla
vista di quel maestoso felino, che induceva fierezza e uno strano
senso di inquietudine allo stesso tempo. Solo in seguito portò
l'attenzione sulla ragazza che, a fatica, lo teneva in braccio. Era
vestita con un maglione lilla e con dei jeans azzurri, ma fu subito
il volto a suscitare la curiosità del giovane: la pelle era di
un'innaturale colore grigio pallido, quasi cadaverico, e gli occhi,
di un azzurro-violaceo insolito, sembravano privi di vita. Un
cappello di lana le copriva inoltre gran parte della fronte, e
l'intero occhio sinistro. Il ragazzo non riusciva a distogliere lo
sguardo da quel volto, e da quel berretto. Una forte angoscia lo
prevalse, e una viscida paura iniziò a scivolargli verso lo stomaco.
«Mi
scusi»
Pronunciò
improvvisamente la ragazza, con il tono di chi ha già fatto una
domanda ma non ha ottenuto risposta. Probabilmente Mike si era
appisolato qualche secondo e non l'aveva sentita.
«Oh,
perdonami, stavo... mi ero addormentato»
Istintivamente
Mike aveva rivolto lo sguardo verso il basso, vergognandosi per la
sua faccia.
«Il
mio gatto potrebbe darle problemi se mi sedessi qui vicino a lei?»
«Oh,
no, non preoccuparti, mi piacciono i gatti»
Era
strano sentirsi dare del “lei” da una ragazza poco più giovane
di lui. Mike iniziò a temere che quelle cicatrici lo invecchiassero.
Lei si voltò, dirigendosi verso l'altro sedile, quando Mike avvertì
nuovamente quel rumore, quel cigolio inquietante, che aveva ben
impresso nella memoria e che non avrebbe mai più dimenticato. Allora
balzò in piedi, con velocità felina, guardandosi attorno colto da
un'improvviso terrore.
«Si
sente bene?»
Chiese
preoccupata la giovane accarezzando delicatamente la testa del grande
gatto, che chiuse gli occhi e iniziò a fare le fusa.
«Oh,
sì, non è nulla. Pensavo di aver perso la fermata. La prossima è
la mia. Arrivederci»
Aveva
pronunciato quelle parole con una freddezza esagerata. Quella ragazza
lo metteva a disagio, anche se avrebbe voluto scoprire il perché, e
si vergognò a mostrarsi così rigido con una ragazzina tanto
educata. Chiamò Sparky con un gesto della mano, e il cane indugiò
un attimo, adocchiando per un secondo il grande gatto dal colore
della notte, per poi voltarsi e seguire il padrone.
Commento
Il
problema di questo capitolo? Penso sia venuto troppo lungo e troppo
poco ricco di informazioni. Comunque, è solo l'inizio, ben presto la
storia di Mike, di Fred e soprattutto degli animatronics (e di
GLaDOS) si farà molto più interessante! Spero di non avervi
annoiato troppo e... al prossimo capitolo!
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Capitolo 9 *** Risveglio ***
AAA
Buio.
Silenzio.
“Cosa
sta succedendo? Dove... dove sono?”
Calore.
Mente annebbiata.
“Io...
non ricordo nulla”
Avvertiva
una strana sensazione. Quello che sembrava un bollente liquido iniziò
a fluire nel suo corpo. Aveva un corpo. Mano a mano che
la sostanza si faceva largo nelle sue interiora, avvertiva strani
cambiamenti. La sua mente iniziò a farsi più chiara, e il grande
peso che l'opprimeva iniziò a disfarsi. Era come se un grosso masso
posto sul suo animo iniziasse, spinto da una forza esterna, a
disfarsi.
Animo.
Aveva un'anima?
“Cosa
mi sta succedendo?”
Il
liquido incandescente correva per le vene di tutto il suo corpo.
“Vene?”
Lo
sentiva. Lo sentiva spostarsi, inondare il suo essere. Ed al suo
passaggio lasciava una qualche forza dietro di sé, qualcosa che
donava una nuova forza al suo corpo.
“Ho
un corpo... è un buon inizio”
Provò
a muoversi. Sentì le dita della mano destra tremolare.
“Ho
una mano. Fantastico. Avrò anche l'altra”
Anche
la sinistra rispose, anche se solo per un attimo, al suo comando.
“Ho
un corpo. Ho una mente...”
Strinse
entrambe le mani in pugno, e questa volta le dita risposero
perfettamente. Il calore iniziò a diminuire, ma quel senso di
purificazione restava. Quella strana sensazione di completamento.
Poi, la sua mente fu nuovamente inghiottita dall'oblio.
Sussultò.
Sussultò sul posto, come se qualcuno gli avesse dato la scossa.
Sussultò, ed aprì gli occhi. All'inizio, una forte luce lo investì
in pieno, e istintivamente regolò lo scanner degli occhi in modo da
non rimanere accecato. Poi si guardò attorno.
Si
trovava dentro ad un cilindro di vetro azzurro. Oltre, intravedeva
poco più che una grande stanza bianca. Regolò meglio la visuale,
senza pensarci, e riuscì a mettere a fuoco ogni dettaglio. Il vetro
in cui era intrappolato era solcato da minuscole venature parallele
verticalmente, si estendeva dal soffitto fino al pavimento, e dentro
vi era intrappolato lui. Oltre, riuscì a scorgere il pavimento della
stanza bianca, composto da grandi mattonelle color bianco sporco,
mentre le pareti erano formate da grossi pannelli di un bianco
innaturale, quasi accecante. Riusciva a vedere, a muovere gli occhi e
la testa, ma un senso di vuoto incolmabile lo rendeva ancora
incosciente. Era come assistere ad uno spettacolo dal corpo di
qualcun altro. Eppure, il corpo rispondeva al suo comando. Mosse
entrambe le spalle, poi le braccia, ed infine le mani. Ma continuava
a non comprendere. A non capire, ad avvertire quel vuoto nel suo
ragionamento. Non riusciva a formulare un pensiero, e neanche a
rendersene conto per andare nel panico.
Poi
un lungo fischio di una sirena, in lontananza, lo scosse. Il grande
cilindro si spaccò in due parti precise, in larghezza, e entrambe le
metà iniziarono a sgusciare all'interno del pavimento e del
soffitto, risucchiate da delle cavità grandi precisamente come la
circonferenza dei cilindri. Un'ondata di aria fresca lo travolse. Non
poteva respirare, almeno così sembrava, eppure quell'aria lo
risvegliò completamente. Il vuoto scomparve nel nulla così come era
apparso, e il suo cervello prese il sopravvento. Un'inquietudine lo
colse improvvisamente:
«Dove
sono? Che posto è questo?»
Aveva
dato involontariamente voce ai suoi pensieri, avendo così modo di
ascoltare una voce profonda, seria e leggermente toccata dalla paura,
con un leggero timbro metallico. La sua voce. Era strano,
maledettamente strano non riconoscere la propria voce! Non aveva
nessun tipo di ricordo, e concluse ben presto che non era normale.
Svegliarsi così, un giorno, cosciente e in grado di ragionare, ma
senza ricordare il proprio passato.
“Chi
sono?”
Una
vocina nella sua testa lo convinse a non preoccuparsi troppo, a fare
un passo alla volta.
“Sì,
un passo alla volta. Ce la posso fare”
Decise
di organizzarsi. Solo l'aver deciso una cosa simile accese una spia
nella sua mente: una parte del suo carattere era legata
all'organizzazione, e non al caos totale. Questo lo rassicurò un
po', dopodiché organizzò mentalmente il da farsi.
“1.
Devo scoprire dove mi trovo.
-
Devo
scoprire chi sono e cosa faccio qui.
-
Devo
trovare un senso a tutto ciò”
A
dirsi, era facile, pensò. Prima di cadere nel panico, si dette da
fare e osservò meglio la stanza dove si trovava: il cilindro ormai
scomparso si era trovato nel centro, e adesso rimaneva solo una
piattaforma grigia ai suoi piedi. Lui scese, e osservò la parete
davanti a se. Era completamente ricoperta dai pannelli bianchi grandi
almeno il doppio di lui, e in alto a destra una piccola lucina
lampeggiava ad intermittenza. La fissò per qualche secondo, come in
trance. Era una telecamera, bianca come la parete, e quasi si
confondeva col muro. Era piccola e dalla forma ovale, ed era puntata
su di lui. Lo stava osservando, spiando. Qualcuno stava
seguendo ogni suo movimento. Un fremito, proveniente da chissà dove,
risvegliò un'antica sensazione: essere osservato non gli piaceva.
Anzi, gli dava sui nervi. Più il suo sguardo si focalizzava su quel
piccolo occhio nero attaccato al muro, più la sua agitazione saliva.
Spinto da questi sentimenti, digrignò i denti e strinse i pugni. Oh,
quanto odiava quella telecamera! Ma perché?
“Cosa
sto facendo?”
Scosse
la testa, poi distolse lo sguardo da quella malefica spia e si voltò.
“Odio
le telecamere... so di odiarle, ma non ricordo il motivo. Comunque,
se ci sono delle telecamere, significa anche che c'è qualcuno. Non
devo far altro che trovare quel qualcuno”
Dietro
di sé, un corridoio portava fuori dalla stanza bianca e procedeva a
perdita d'occhio. Dopo aver controllato velocemente che non ci fosse
altro d'interessante nella stanza, inforcò quella via.
Muoversi
fu doloroso, all'inizio. Sentiva il suo corpo cigolare leggermente,
ogni ingranaggio sussultare, le gambe reggere a malapena il suo
corpo. Era sempre stato così? Ma per fortuna durò poco. Dopo
qualche minuto, smise di sferragliare e di sentirsi debole, e
accelerò l'andatura. Il corridoio era lungo e sempre uguale. Le
pareti, al contrario di quelle della stanza, erano grigio scuro, ma
per il resto erano sempre costituite da quei grandi pannelli. Lui
procedette, approfittando di quella monotonia per osservare un po' il
corpo con cui non aveva familiarità: mani, gambe e busto apparivano
di un marrone scuro, tranne per la pancia e i palmi delle mani, un
po' più chiari. Le mani erano molto complesse, potevano ruotare sui
polsi quasi completamente e ognuna delle dita era perfettamente
articolata. Quelle mani avrebbero potuto afferrare qualunque cosa. I
piedi, invece, erano molto più grandi, a forma di zampa, con solo
tre dita ciascuno. Ma sembravano molto robusti e gli permettevano di
alzarsi sulla punta. Non era sicuro che il suo corpo, all'apparenza
così peso e robusto, potesse permettergli di correre o di saltare.
Per il momento si limitò a proseguire per il corridoio.
Dopo
diversi minuti, dei leggeri rumori di ingranaggi lo sorpresero, e nel
voltarsi fece appena in tempo a vedere alcuni pannelli in fondo al
corridoio staccarsi dalle pareti e ruotare, chiudendo completamente
l'accesso alla stanza da cui era arrivato. Rimase immobile per
qualche attimo, aspettandosi qualche altro cambiamento, ma a parte la
diminuzione della luce, non accadde nient'altro. Quindi fece per
proseguire nella stessa direzione quando quel rumore si ripeté, più
forte e violento. I pannelli in fondo al corridoio si stavano
chiudendo a muro... tutti quanti, velocemente. E più si
avvicinavano, più violentemente si pressavano assieme, come se
volessero schiacciare con forza qualsiasi cosa si trovasse in mezzo.
Decise che era il momento di scoprire se poteva correre.
Poteva!
Corse per il corridoio, quell'infinito corridoio, senza riuscire a
vederne ancora la fine, mentre i pannelli si schiantavano sempre più
velocemente alle sue spalle. Angoscia, paura e in seguito panico,
presero il sopravvento. Non era come con quella telecamera, non un
sentimento represso che tornava a galla dal suo subconscio. Si
trattava di un sentimento naturale che per la prima volta si
manifestava nel suo animo robotico. Era quasi sicuro di non aver mai
provato qualcosa di simile anche nel suo oscuro passato senza
memoria. Continuò a correre, implorando le gambe di lavorare più
velocemente, ma non ci riuscì. Forse non aveva ancora padronanza con
quel nuovo corpo, doveva ancora conoscerne i limiti e i punti di
forza, ma qualunque cosa fosse, sperò che quella non fosse la sua
velocità massima. Il rumore si fece più forte. Sentiva gli schianti
dietro di se essere sul punto di raggiungerlo. Aprì leggermente la
bocca, ansimando come un cane sotto un sole cocente.
“Perché
questo? Non ho bisogno di respirare...”
Eppure,
involontariamente stava cercando di riprendere fiato. O
qualcosa del genere. Sentì le gambe tremare sotto il suo corpo, e in
poco tempo le forze iniziarono a mancargli.
“Che
razza di corpo mi ritrovo? Sono un androide – realizzò a pieno
solo in quel momento – non dovrei stancarmi!”
Ma
le sue gambe non parevano coincidere con quel pensiero. Iniziò
inevitabilmente a rallentare, mentre due pannelli gli sfiorarono la
schiena. In fondo al suo campo visivo, una lontanissima luce pareva
annunciare la presenza di un'altra stanza, ma capì subito che non ce
l'avrebbe fatta. Sarebbe rimasto schiacciato tra quei pannelli e
bell'e finita quella nuova vita. Il suo piede destro perse la presa
col terreno, e lui scivolò in avanti, parandosi con le braccia
all'ormai prossimo schianto col terreno. Ma questo non avvenne.
Iniziò invece a cadere nel vuoto, senza capirne il motivo. Sopra di
lui i pannelli cessarono di chiudersi a muro, e realizzò solo in
quell'istante di essere inciampato per colpa di una delle mattonelle
su cui stava correndo. Questa si doveva essere ritratta
improvvisamente per creare un'apertura dal quale salvarlo. Nella sua
caduta, completamente al buio, urtò più volte quelli che parevano
tubi metallici, probabilmente i meccanismi che spostavano le
mattonelle e i pannelli alle pareti. Non sapeva a cosa sperare in
quel momento. In un morbido materasso ad aspettarlo in fondo a quella
caduta? Gli parve che chiunque lo stesse controllando si stesse
divertendo a trovare metodi assurdi per spaventarlo. Ma perlomeno
quel qualcuno sembrava volerlo vivo... per il momento. Atterrando,
non trovò nessun materasso ad attenderlo. Si schiantò violentemente
contro il freddo pavimento – poteva riconoscere il freddo al tatto!
– facendosi parecchio male – e sentiva dolore – ma sembrava
ancora tutto intero. Era rimasto indenne, nonostante provasse un
sordo dolore al volto e agli arti per il brusco atterraggio.
“Provo
dolore, percepisco il caldo ed il freddo e sono molto robusto”
Aggiunse
alla lista delle cose nuove che stava apprendendo di se stesso. Provò
ad alzarsi. Inizialmente le braccia non ressero il suo peso e lui
picchiò una forte musata in terra, ma al secondo tentativo riuscì a
mettersi seduto. Non vedeva un palmo dal naso, l'intera stanza,
ammesso fosse una stanza, era immersa nell'oscurità più totale.
Quella mancanza di visibilità alimentò quell'antica irritazione che
aveva dentro, che aveva manifestato contro la telecamera. Si alzò a
tentoni, riuscendo miracolosamente a reggersi ancora in piedi. Poi il
buio assunse un aspetto diverso. Quella forte irritazione si tramutò
in curiosità, quasi attrazione verso il buio. Non aveva idea da dove
venisse quel sentimento, anche se l'istinto gli suggeriva fosse uno
delle vecchie emozioni intrappolate da qualche parte nel suo essere,
assieme alla sua perduta memoria. Reagì in modo alquanto bizzarro:
lo scanner dei suoi occhi si accese, illuminando una vasta area di
fronte a lui di una fredda luce bluastra.
“Questo...
questo mi piace”
Concluse,
osservandosi intorno. Il pavimento era costituito dalle stesse
mattonelle grige del corridoio, e sopra la sua testa un enorme
intrico di bracci meccanici e protuberanze di metallo si estendevano
verso un altissimo soffitto. Solo guardando verso l'alto scorse una
fievolissima luce, proveniente da una finestra quadrata, che si
chiuse grazie allo spostamento di uno dei bracci.
“Ecco
da dove sono caduto”
Si
guardò nuovamente intorno, divertito da quell'effetto “lampadina”
che poteva attivare a suo piacimento. Si disse che quel corpo non era
poi così male, solo non riusciva ancora a ricordare nulla del suo
passato. Avanzò di un passo davanti a se, barcollando leggermente, e
poi fece per iniziare a camminare quando, a pochi metri di distanza,
scorse un piccolo cilindro scuro. Si avvicinò, curioso, e allungò
la mano per afferrarlo: era un piccolo cappello metallico, una tuba
nera con una striscia bianca alla base.
“Questo
è mio? Come ho fatto a non accorgermene prima? E come ha fatto a non
cadermi mentre correvo?”
Lo
avvicinò alla testa, e il finto cappello tremolò tra le sue dita,
poi si attaccò da solo alla sua testa.
“Oh,
una calamita piuttosto potente. Deve essermi caduto nel volo”
A
questo punto, sicuro di non aver lasciato altri cappelli o parti di
sé in giro, iniziò a proseguire nella direzione che più riteneva
giusta. Avanzando nella semioscurità, si ritrovò dopo qualche
minuto di fronte ad una porta di ferro. Sopra, un cartello giallo
raffigurava un omino stilizzato intento a correre, il quale sembrava
sbucare da un bizzarro cerchio a forma di obbiettivo. Un obbiettivo
in fase di apertura. Lo fissò per qualche secondo,
concentrandosi su quel simbolo, ma non riuscendo a ricavarne nulla
dalla memoria, si limitò a spingere la maniglia e ad entrare. Fu
nuovamente travolto dalla luce, e quindi “spense” gli occhi,
regolando la sensibilità delle pupille a quella nuova luminosità.
Un'altra stanza fatta di pannelli bianchi. Ebbe quasi paura che i
pannelli iniziassero a muoversi, ma non successe nulla. Al centro
della stanza, un piedistallo nero, simile ad una scatola, si ergeva
in contrasto con tutta la stanza. Sopra di esso, tre pulsanti di
colore diverso sembravano in attesa di essere premuti. Ognuno di essi
era collegato, tramite ad un'ingegnosa “presa” interamente
aderente con il piedistallo e il pavimento, alla parete opposta alla
sua, dove tre cartelli blu, segnanti una grossa X, giacevano spenti
in attesa di corrente. Accanto a quelli, una grossa porta circolare,
evidentemente alimentata a elettricità. Studiò quei pulsanti da
lontano, chiedendosi quale dei tre – perché in caso contrario
sarebbe stato troppo facile – attivasse la porta. Temeva, per
qualche motivo, che sbagliando a premere i bottoni potesse accadere
qualcosa di molto spiacevole. Avanzò dei passi incerti,
trattenendo le mani al grembo, allungando leggermente il collo verso
quei tre lucidi pulsanti. Tutto quello era assurdo, pensò. Perché
si trovava in una stanza con tre bottoni ed una porta?
-Premi
il pulsante rosso-
Cacciò
un mezzo urlo dallo spavento. Una voce, gelida e metallica, priva di
qualsiasi inclinazione sentimentale, piuttosto acuta, era risuonata
nella stanza, senza provenire da un punto preciso. Si guardò intorno
in cerca di un megafono, o di una grata, o da qualsiasi parte quella
voce potesse essere provenuta, ma nella stanza non si trovava altro
che il piedistallo, i pulsanti e la porta. E lui stesso.
-Premi
il pulsante rosso-
Ripeté
con un leggerissimo, quasi impercettibile tono irritato. Lui fissò
il soffitto, come se potesse ottenere informazioni solamente
guardandolo. Rimase immobile, domandandosi sul da farsi. Quei bottoni
– uno giallo, uno blu ed uno rosso – stavano ancora aspettando.
Ma lui non voleva cedere sotto il comando di una voce robotica
proveniente da chissà dove.
Poi
la vide: un'altra, odiosa, piccola e raccapricciante telecamera,
posta sopra la porta dalla quale era entrato, che lo stava fissando.
Sentì ribollire la rabbia, contrasse la mascella dal nervosismo, ma
facendosi forza riuscì a non crollare sotto quel senso di odio
profondo.
“Non
puoi lasciare che i sentimenti abbiano il sopravvento. Sta' calmo...
concentrati... scopri chi è quella voce”
«Hey!»
La
sua voce tremolò, toccata dall'incertezza.
«Hey,
tu!»
Riuscì
comunque a ripetere, guardando dritto in quell'occhio nero, meschino,
della telecamera.
«Devi
darmi delle spiegazioni! Che ci faccio qua? Cosa mi è successo? Chi
sei?»
La
voce non rispose. Si chiese se fosse stata una voce registrata,
eppure qualcosa lo convinse a scartare quell'ipotesi. Qualunque cosa
avesse parlato, non sembrava volergli dare la soddisfazione di una
risposta. Distolse lo sguardo dalla scatolina appesa al soffitto per
avvicinarsi ai pulsanti. Li fissò uno per uno, chiedendosi quale
fosse lo scopo di tutto ciò. Infine si decise a premere quel
fatidico pulsante rosso. Un suono cristallino risuonò per un attimo
nella stanza, e una dei tre cartelli blu appesi a fianco della porta
si accese di un brillante arancio, cambiando simbolo in una spunta.
La porta si aprì subito dopo. Lui, indugiando, avanzò, solo per
ritrovarsi in una stanza identica alla precedente.
«Che
scherzo è questo?»
Modulò
la voce affinché apparisse irritata ma ferma, mentre in verità
l'inquietudine aveva iniziato a roderlo dentro.
-Premi
il pulsante blu-
Disse
la voce, senza considerare le sue osservazioni. Concluse che doveva
stare al gioco, almeno finché non avesse trovato un modo per
mettersi in contatto con quella voce inflessibile. Appoggiò la mano
sul bottone blu acceso, che fece scattare la seconda porta. Avanzò,
sicuro di trovare una stanza identica. Ed infatti, il medesimo
piedistallo scuro si ergeva in mezzo a quella stanza fatta di solo
bianco.
«Fammi
scommettere, “premi il pulsante giallo”, vero?»
Chiese
con sarcasmo. La voce rispose, quasi divertita:
-Vedo
che hai sale in zucca-
Lui
non se l'aspettava, rimase sorpreso da quella risposta acida, ma
questo confermò l'idea che non si trattasse di una registrazione ma
di una qualche tipo di macchina che lo stava sorvegliando.
«Okay
– disse più a sé stesso che a quella misteriosa presenza che lo
stava monitorando – ora premo questo pulsante. È l'ultimo, giusto?
Ho premuto quello rosso, quello blu... adesso potrò capire dove mi
trovo?»
Con
una leggera pressione premette anche il pulsante giallo, e la porta
si aprì. Dall'altro lato, però, già riusciva a scorgere un altro
piedistallo.
“Ma
come...!”
Si
avviò a passo spedito verso l'altra stanza, innervosendosi non poco
alla vista di altri tre bottoni: uno arancione, uno verde ed uno
viola.
Commento
Ecco
che aggiorno! Cosa? In anticipo? Vi aspettavate un ritardo
spaventoso, vero? Questi giorni mi sono sentita piena di ispirazione,
e quindi ho continuato :D Inizialmente il capitolo doveva essere
molto, molto più lungo, ma ho deciso di dividerlo in due parti per
non appesantirlo troppo. Come forse avrete capito, al momento si
susseguirà un capitolo su Mike, Fred o altri personaggi umani ed uno
sugli animatronics, che da ora potremmo benissimo iniziare a chiamare
semplicemente“robot”. Quindi, prima di poter leggere la seconda
parte di questo capitolo, dovrete aspettare che aggiorni altre due
volte (eh sì, per il prossimo ho altri protagonisti da seguire).
Comunque, spero di avervi incuriosito! Spero che la storia vi piaccia
e che continuerete a seguirla! A presto (spero), ciao!
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Capitolo 10 *** Incubi d'oro ***
AAA
Quella
sera rientrò trascinandosi a stento sulle gambe. Appoggiandosi al
portone del palazzo per sorreggersi, infilò la mano nella tasca del
giaccone, tirandone fuori un mazzo di chiavi. Le osservò un attimo
sotto la luce del lampione sulla strada, rigirandole tra le dita, poi
scelse quella più grossa e la premette a forza nella serratura,
rigirandola senza energie. La porta si aprì di schianto, e lui cadde
in avanti, scivolando e finendo a terra con in mano la metà della
chiave.
«Dannazione!»
Sibilò
tra i denti. Rimase qualche secondo disteso, poi si alzò aiutandosi
con le braccia tremanti, imprecando silenziosamente contro la porta e
la chiave.
“Ci
penserò domani mattina”. Camminò al buio verso l'ascensore,
avanzando a tentoni per non sbattere da qualche parte, allungando la
mano destra, con ancora stretto il mazzo di chiavi, in cerca della
porta fredda dell'ascensore. Lo trovò e premette il pulsante che lo
apriva. Appena le porte si schiusero, Fred venne investito da una
forte luce calda, proveniente da una vecchia lampadina all'interno.
Con gli occhi socchiusi, doloranti, si spinse fin dentro alla
scatola, premendo il suo piano. Appoggiò la testa alla parete e
chiuse le palpebre, concedendosi un attimo di riposo, prima che
l'ascensore si fermasse bruscamente aprendosi sul suo piano. Fred
dovette lottare per uscire di lì, tanto si sentiva a pezzi dopo
quella tremenda giornata, e quando si trovò di fronte alla porta del
suo appartamento, si fece forza per tenere accesa la mente e aprire,
senza troncare una seconda chiave. Entrò, gettando da un lato il
giubbotto umido, richiudendo il pesante portone accompagnandolo con
un leggero calcio, e avanzò traballante verso la camera da letto. Si
lasciò cadere sul materasso soffice, che subito cullò membra e
nervi dell'ex proprietario del Freddy. Fred non fece neanche in tempo
a trascinarsi fino al cuscino, che già era sprofondato tra le
braccia di Morfeo.
«Fred»
Un
sussurro nel buio.
«Fred!»
Fred
si rigirò nel letto, mugolando.
«Fred,
devo parlarti! Fred!»
Fred
aprì un occhio, scrutando la stanza immersa nella penombra.
«Che..
che c'è...?»
«Fred,
non sai... cos'è successo oggi. In gita»
La
voce di Gordon era poco più che un sussurro, sopra la sua testa. Il
letto a castello cigolava, Gordon stava scendendo la scaletta di
legno.
«Non
mi interessa, lasciami dormire»
Fred
si voltò dall'altra parte, ma Gordon lo scosse con forza:
«Svegliati
Fred!»
«Cosa
c'è?»
Ringhiò
lui, con voce impastata dal sonno.
«Era
bellissimo, un mare d'oro! Dico sul serio, Fred! Credimi!»
«Torna
a dormire, Gordon!»
Lo
scacciò con la mano.
«Ti
prego, ascoltami! Devo raccontarti...»
«Ho
detto di lasciarmi dormire!»
Spingendolo
senza forza all'indietro, Fred scacciò il fratello e si abbandonò
sul cuscino, riaddormentandosi subito.
«Ma...»
Gordon
avanzò verso la finestra, da dove entravano sottili raggi di luna.
«Era
grande... e che caldo che faceva! Avresti dovuto vederla... una vasca
d'oro fuso! Anche se... l'oro fuso non dovrebbe essere più denso?
Scorreva come un fiume impetuoso... un oro speciale, ha detto quella
signora. Chissà cos'era, in realtà, ma era bellissimo!»
Parlava
da solo, al vento, alla luna. Ma in realtà parlava al fratello, che
lo ascoltava in silenzio, fingendo di dormire.
«Era
uno spettacolo!»
Ripeté
Gordon.
«Uff...
era una fonderia, dove fondono l'oro! Che cosa ci sarà mai di così
particolare?»
Gordon
si voltò verso di lui, i grandi occhi blu che brillavano sotto i
raggi lunari:
«Non
posso spiegartelo così, a parole! Dovevi vederlo!»
«Ti
sarai sognato tutto, come sempre. Immagini un sacco di cose stupide!»
Fred
cercò di riaddormentarsi, ma adesso i discorsi strambi del fratello
lo incuriosivano. Insieme al sonno iniziava a subentrare anche una
certa curiosità, l'insaziabile voglia di sapere che distingue uomini
da animali, e che brucia in modo particolarmente ardente nei bambini.
Ma una parte di lui gli sussurrava di ignorare quel sentimento. Fred
aveva sempre pensato che il fratello fosse un po' tocco, e
quest'ultimo si inventava un sacco di fandonie, spacciandole per vere
mentre probabilmente le aveva viste solo in sogno.
«Torna
a dormire! Se mamma ti trova sveglio, ti brontola!»
Cercò
di convincerlo per l'ultima volta, ma anche nella sua voce sentiva
una nota di dubbio. La curiosità stava avendo la meglio, e nella
voce di Gordon non c'era nota di menzogna.
«Uff...
Cosa ti sei sognato questa volta?»
Gordon
si voltò nuovamente, questa volta però furente di rabbia:
«Perché
non mi credi? Ho visto veramente una vasca d'oro fuso!»
«Se
l'avessi vista, me lo avresti detto appena tornati a scuola!»
Il
volto di Gordon si rabbuiò, la luce della luna sembrò
improvvisamente non colpire più il suo viso.
«Gli
altri... gli altri mi avrebbero preso in giro»
Iniziò
a fissare il pavimento, ammutolendosi.
Fred
era abituato a quegli strani scatti del fratello. Si arrabbiava, poi
si rattristava senza un motivo. E capitava che a volte non parlasse
per giorni. All'inizio, pensava lo facesse apposta, poi col tempo
aveva iniziato a pensare che fosse bacato in testa, come
dicevano i ragazzi più grandi.
«Tu
hai qualche problema»
Gli
fece notare Fred.
«Ed
ora dormi! Se mamma ci trova svegli, siamo nei guai!»
Detto
questo, risprofondò nel sonno.
La
mattina dopo, Fred trovò Gordon nella stessa, medesima posizione in
cui l'aveva lasciato, a fissare il pavimento con sguardo distante,
con due grandi occhiaie a deturpargli la faccia. Un misto di pena e
di irritazione si creò improvvisamente nello stomaco di Fred, che si
contrasse violentemente sotto un odioso senso di colpa.
«Non
puoi aver passato la notte in piedi!»
Gli
ruggì contro. Gordon si limitò ad alzare il pallido viso mostrando
gli occhi spenti, gonfi. Poi si trascinò a fatica verso la finestra,
lasciandosi cadere di colpo sul pavimento. In mezzo secondo era
addormentato, sotto la finestra, né seduto né sdraiato. Fred lo
ignorò e scese per la colazione.
Era
domenica. Faceva molto caldo.
Ed
ecco che il sogno di Fred inizia a distorcersi. Si fa confuso.
Parole, facce, suoni, odori, tutto si mescola. Fred da uno schiaffo a
Gordon. Gordon scappa, si nasconde dai ragazzi più grandi. Bernard e
Fred ridono alle sue spalle, a scuola. Claire cerca di consolarlo,
senza successo. La scuola, l'unico momento che Fred aveva per
divertirsi con i compagni, l'unico in cui Gordon aveva paura dei
compagni.
Il
paese, quella minuscola località inesistente sulla mappa, immersa
tra le campagne. Il paese... riusciva quasi ancora a sentirne
l'odore, sentiva la terra entrargli nelle scarpe, il caldo cocente...
in quel paese non c'era una scuola. I bambini dovevano prendere
l'autobus ogni mattina, sul presto, per andare a New Brinnin, nata da
poco più di due secoli, ma una tra le più moderne città nei
dintorni. La maggior parte dei loro compagni era di New Brinnin o di
altri paeselli vicini, lì nel suo paese c'erano pochi abitanti, e
ancor meno ragazzi della loro età. Il pullman passava alle 6.10, dal
centro del paese, e loro impiegavano una ventina di minuti per
arrivarci. Ogni mattina, anche nelle gelide giornate d'inverno,
dovevano avviarsi di buon ora per prendere l'autobus.
Ma
quel giorno era domenica.
Era
domenica. La scuola stava finendo. Il caldo opprimente già si faceva
sentire nelle prime ore del mattino.
Qualche
settimana dopo la gita, se ben ricordo.
Come
eravamo arrivati lì?
Non riesco a ricordare. Eravamo forse saliti su un autobus? Da soli?
Probabile, lo facevi spesso...
Caldo
soffocante. Mancava l'aria. Il respiro si bloccava nei polmoni.
Sudore, vestiti bagnati e appiccicosi.
Dolore.
Forte dolore.
«Su,
è questa? Dov'è? Voglio vederlo anche
io!»
Conati
di vomito. Spasimi di dolore.
Un
grido. Acutissimo, mostruoso.
Si
svegliò di colpo, tremava e sentiva lo stomaco stringersi e
dilatarsi in maniera innaturale. Il letto era zuppo del suo stesso
sudore, non c'era un centimetro della sua pelle che non fosse
bagnato. Sentiva i capelli fradici appiccicati alla testa ed al
collo. Rabbrividì. Il freddo della notte era penetrato all'interno
delle mura dell'appartamento, e il suo corpo madido di sudore
accusava di tutto quel freddo. Era stanco, ma sapeva che non avrebbe
più dormito quella notte. Si alzò, con l'urlo disumano che gli
echeggiava ancora nella testa, e barcollando raggiunse il corridoio.
Si trascinò a fatica fino alla cucina, dove afferrò un bicchiere e
lo riempì d'acqua, rovesciandone metà sul tavolo per la mano
tremante. L'acqua ridiede vita alla sua gola fiammante, secca. La
sentiva bruciare, non aveva voce. Probabilmente aveva urlato nel
sonno. Dopodiché, più sveglio di prima riuscì a raggiungere il
bagno e a farsi una doccia calda.
Mentre
le sue membra si rilassavano e la sua mente si faceva più nitida, lo
stress iniziò a roderlo.
“Lasciami...
lasciami in pace”
Diceva
a sé stesso. A chi stava parlando? Era solo, eppure non lo era mai
per davvero. Quella presenza...
“Lasciami
vivere in pace!”
Perché
dovrei? Tu non mi hai lasciato neanche vivere.
Di
nuovo, la voce. L'aveva sentita, c'avrebbe giurato. Aprì gli occhi,
ma era ancora da solo. Lui e l'acqua tiepida che sgorgava dalla
doccia. La richiuse, uscì vestendosi con un accappatoio, poi si
guardò in giro. Nessuno. Richiuse gli occhi, solo per un istante, e
l'urlo gli ruggì nelle orecchie.
-Ah!-
Si
ritrovò a fissarsi nello specchio. Le mani stringevano con forza i
bordi del lavandino, i suoi occhi iniettati di sangue fissavano
quelli del suo doppio. Un attimo, per solo un attimo gli parve di
vederlo nello specchio.
-NO!-
Urlò,
coprendosi il volto con una mano.
-No!
Non...-
Non
terminò che il suo stomaco ebbe una nuova contrazione, che sentì il
toast che aveva mangiato a lavoro tornargli a gola.
“No,
lasciami... no...”
Il
sangue gli ribolliva nelle vene, iniziò nuovamente a sudare. Questa
volta, anche la testa iniziò a girargli vorticosamente. Perse
l'equilibrio, scivolò, avvertì un forte dolore alla nuca.
Poi
buio.
Poi
luce. Oro. Una vasca ripiena di oro ribollente, sfavillante. Oro
fuso. Caldo. Gordon si sporge dalla ringhiera. Un impeto di rabbia,
un uomo che grida. L'impatto, il peso di Gordon. Gordon che cade in
avanti, il grido, il grido disumano di un corpo corroso dall'oro
bollente, occhi che lasciano il posto a due fori scuri. E poi viene
inghiottito dal mortale mare dorato.
Commento
Ritorno
dopo secoli! Sì, la storia di “5 Notti da Guardia Notturna 2: The
Prequel” mi ha rubato parecchio tempo, ma non preoccupatevi, non mi
sono dimenticata di questa storia! Perdonate il capitolo corto e un
po' scarso... spero di non avervi annoiato! E spero di aver chiarito
alcune cose, ma non troppe ;)
Al
prossimo capitolo!
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