In joy and sorrow my home's in your arms. di LadyDanger (/viewuser.php?uid=162126)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Not Forgotten ***
Capitolo 2: *** There is no cure for the pain. ***
Capitolo 3: *** All our tears wipe away. ***
Capitolo 4: *** People you've hurt. Friends that you've lied to. ***
Capitolo 1 *** Not Forgotten ***
Bloodstream
DISCLAIMER
Tutti i personaggi sono frutto della mia fantasia, solo il nome
corrisponde a realtà. Questa storia non vuole in nessun modo
offendere i protagonisti.
Stava seduta a quel tavolo ogni venerdì sera, il solito drink, la solita giacca, la solita faccia. Sembrava
che qualcuno l'avesse appena pugnalata alla schiena, aveva gli occhi
che fissavano costantamente le assi del vecchio parquet del Nevo's Bar.
Un locale come tanti, nel vecchio sobborgo nel quale Eva viveva. La
ragione per cui se ne stava seduta tutta sola era che Lara lavorava
lì e lei il venerdì sera andava a farle compagnia, per
non farla sentire sola. Il sabato e la domenica lavorava come
badante e non poteva accontentare l'amica e alleggerirle la pesantezza
che quel locale trasmetteva. Non aspettatevi orde di gente in fila per
un cocktail o per assistere ad un concerto. L'età media si
aggirava sui 65 e ogni sera aspiranti Jazzisti tentavano di conquistare
il pubblico con serenate improvvisate.
«Ti porto qualcos'altro?» le disse Lara, che aveva un tono
di voce sempre al limite tra il materno e il compassionevole che Eva
non riusciva mai a distinguere.
«Credo di aver
bevuto a sufficienza per stasera: i dispiaceri li ricordo a
stento.» le rispose Eva, il cui tono di voce, invece, era
irremovibile dall'essere totalmente rassegnato.
«Le cose
andranno meglio, vedrai.» Mentre Lara tentava di rassicurarla
dalla porta principale entrò l'unica persona che Eva aveva
pregato di non dover mai più incontrare. A Lara venne
spontaneo sussultare e la sua schiena fu percorsa da un brivido che le
arrivò fino alla testa. Si girò fulminea verso Eva che
fissava l'individuo impassibile con gli occhi di chi ne ha avuto a
sufficienza ma evidemente non abbastanza.
«Io.. posso farlo sbattere fuori se vuoi. Davvero.»
«Lara..»
«E' la prima volta che lo vedo girare in zona, te lo avrei detto, lo sai..»
«Lara! Basta. So
cavarmela da sola, ti ringrazio.» l'amica si allontanò
voltandosi un paio di volte per controllare che Eva fosse ancora seduta
al solito tavolo prima di raggiungere il lungo bancone di marmo dove il
ragazzo si era accomodato, appoggiando i gomiti.
Non lo raggiunse subito: lavò qualche bicchiere, anche se erano
perfettamente puliti, sistemò gli alcolici e asciugò dei
piatti perfettamente asciutti.
Trascorsero circa 10 minuti quando lui stanco le fece un fischio.
«Non penso di essere invisibile. Vorrei ordinare.»
«Cosa
vuoi.» Questa volta il tono di voce di Lara fu chiaramente
privo di qualsiasi tipo di dolcezza e sembrò più una minaccia che una domanda.
Era chiaramente nervosa, le mani che stringevano continuamente il grembiule ne erano una prova inconfutabile.
«Wishky e un po' di gentilezza, se possibile.»
Il tono sarcastico era palese e a Lara non fece particolamente piacere,
anche se no lo diede a vedere e resse il gioco dell'uomo
di fronte a lei.
«Perché sei qui? Sai benissimo che non sei gradito.»
«Non mi pare di aver visto nessun cartello che vietasse il mio accesso. Sbaglio?»
«Senti, non tirare la corda. Cosa diavolo ci fai qui dentro?»
«Ho bisogno di parlarle. Ora posso avere il mio wishky?»
«Non avrai un bel niente. Vattene. Le hai procurato abbastanza guai. Anzi, tutti voi glieli avete procurati.»
«Hey bambola, non è colpa mia se si è innamorata della persona sbagliata. Chiaro?»
Lara lanciò letteramente il bicchiera di wishky addosso al
ragazzo che per poco non se lo trovò sulla maglietta. Non era
solita avere questo tipo di comportamento, soprattutto se stava
lavorando e il locale era discretamente pieno. Ma non riuscì a
trattenersi.
«Hai 5 minuti per uscire da qui prima che io chiami la sicurezza.»
«Me li
farò bastare. Tu conta, mi raccomando.» Sul viso del
ragazzo spuntò un ghigno che fece tendere i nervi di Lara ancora
più di quanto non lo fossero già.
Afferrò lo spesso bicchiere di vetro e d'istinto le venne di
alzare il braccio pronta a lanciarlo contro la testa dell'uomo che si
stava ormai allontanando, diretto verso il tavolo di Eva.
Sul piccolo palco allestito era appena salito un uomo sulla quarantina
che indossava un cappello grigio di lanetta e un impermeabile color
cammello macchiato sul fondo che si mise al pianoforte e iniziò
a suonare una musica malinconica e melensa.
«Dio, ci mancava
solo questo.. » disse Eva fra sè e sè, mentre dava
l'ultimo tiro alla Marlboro per spegnere poi il mozzicone nel
portacenere in acciaio al centro del tavolo.
«Pare che al peggio non ci sia mai fine. Non trovi?»
«Haner, forse è il caso di tornare da dove sei venuto.»
Il ragazzo si fermò a qualche passo da lei, con un sigaro spento
in una mano e il cellulare nell'altra. La fissava.
Indiscretamente, violentemente, maleducamente. La squadrava come se
fosse un poster appeso al muro. Forse per non tradire l'agitazione che
ormai aveva preso possesso del suo sistema nervoso o forse per cercare
di farla innervosire ancora di più e farla cedere alla sua
indifferenza.
«Ho solo 5
minuti, quindi cercherò di essere breve. Mi dispiace che le cose
siano andate oltre i limiti previsti ma..»
«Oltre i limiti?
Oltre? Ci sono stati due feriti. Uno ha anche rischiato di mo..»
Eva si guardò intorno e controllò che nessuno li stesse
osservando o stesse ascoltando la loro conversazione, soprattutto Lara,
alla quale aveva omesso diversi particolari.
«Uno ha anche rischiato di morire! E secondo te le cose sono andate solo
oltre i limiti?» Disse tutto d'un fiato e bisbigliando, sperando
che nessuno avesse letto il suo labbiale o avesse sentito le parole che
erano uscite dalla sua bocca.
«Parla con lui, ti prego.»
«E rischiare di essere pestata a sangue anche io solo perché non sa controllare la sua rabbia? No, grazie!»
«Non ti farebbe mai, mai del male. Lo sai questo. Lo conosci.»
Proprio nel momento in cui Eva stava per rispondere, Lara arrivò
tra i due con il buttafuori alle sue spalle che fece segno a Brian di
seguirlo.
«Chiamalo. Ti prego.»
Lara scosse la testa, guardando Hubert che portava fuori il ragazzo che
camminava girandosi continuamente verso la direzione delle due ragazze.
Eva riabbassò la testa non appena lui fu uscito dalla vecchia
porta di legno e vetro. Non riusciva a tenere ferma la gamba, che
trotterellava incontrollata.
Non sapeva cosa fare, se alzare lo sguardo e dire tutto a Lara o se
continuare a fare la parte di chi ha superato egregiamente la cosa.
Nell'indecisione sfilò dalla tasca posteriore dei jeans il cellulare ma la mano dell'amica la fermò.
«Sei impazzita?»
«Non posso lasciarti fare una stronzata del genere. Non lo chiamerai.»
«Lara voglio solo guardare che ore sono!»
Lara, mortificata, le ridiede il cellulare e si sedette al suo fianco,
nella vecchia sedia di legno vuota accanto a quella di Eva.
Si sistemò il grembiule e giocò con i lacci che le
penzolavano sul davanti, segno della sua magrezza. Si sistemò i
capelli, di un nero corvino, e la frangia portata di lato.
«Promettimi che non lo farai. Non voglio vederti soffrire ancora.»
«Non lo farò.»
Mentì. Mentì mentre stringeva la mano della cara amica, perché con l'altra
inviò un messaggio scritto fulmineamente per non essere scoperto
da Lara.
"Sunset Beach. 18:00. Domani."
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A chi ama talmente tanto da accettare il dolore.
A chi ama talmente tanto da odiare.
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Capitolo 2 *** There is no cure for the pain. ***
Bloodstram 2
Non chiuse occhio quella
notte, si rigirò nelle lenzuola continuamente. Nella testa le
giravano milioni di pensieri che andavano, però, tutti in
un'unica direzione.
Erano le 4:23 quando guardò la sveglia per la settima volta e si
rigirò per l'ennesima. Chiuse gli occhi pregando di riuscire a
dormire quel poco che le bastava per sopportare la giornata che le si
prospettava davanti. L'unica cosa che riusciva a fare ad occhi chiusi
era pregare, scongiurare di dimenticare di tutto, di avere una perdita
di memoria improvvisa che le cancellasse tutti i ricordi degli ultimi
tre anni.
Pregava di dimenticare il giorno in cui lo aveva incontrato in
spiaggia, il momento in cui le aveva offerto quella birra, il viso di
cui non era riuscita a dimenticare neanche il minimo particolare.
Cercava di capire cosa fosse andato storto, cosa non avesse capito di
quell'uomo che le aveva rubato ogni più piccolo pezzo di anima
che le restava.
Le 4:37. Si alzò, stanca di rimanere in un letto nel quale
sembrava ci fossero centinaia di piccoli spilli che le trafiggevano la
schiena. Si infilò un paio di pantaloni, un maglietta, si
allacciò la felpa, si mise le scarpe e uscì facendo
attenzione di chiudere la porta talmente piano da non svegliare la
madre e il fratello.
Camminò avanti e indietro davanti al piccolo vialetto di casa
per una mezz'ora pentendosi del messaggio inviato poche ore prima, al
quale non aveva, tra l'altro, ricevuto risposta. Fece a pugni prima con
la sua mente, poi con il suo cuore.
Prese il cellulare dalla tasca della felpa nera, ormai sbiadita, e lo
fissò cercando di trovare chissà quale risposta che lei
stessa non riusciva a darsi.
Riguardò foto su foto e le venne da sorridere e piangere allo stesso tempo.
In quel momento sentì una mani che le si poggiava sulla spalla ed ebbe un sussulto presa dalla paura che fosse lui.
Girò la testa il giusto per scorgere la mano che riconobbe immediatamente.
«Trevor! Mi hai spaventata!»
Il fratello di Eva l'aveva probabilmente vista uscire dalla finestra di
camera sua, che dava esattamente sul vialetto. Forse lei sperava nella
complicità del vecchio salice che oscurava parte della vista ma
così non fu.
Si confidava spesso con lui, prima. Da qualche tempo non riusciva
più a farlo, senza un motivo apparente. Sentiva un blocco in
gola quando stava per raccontargli qualcosa e finiva con il dire
semplicemente "sto bene, solo un po' di stanchezza".
«Vieni, ti faccio vedere una cosa.»
Lo amava tantissimo, lo guardava con gli occhi di chi sa che
avrà sempre qualcuno al proprio fianco ma proprio non riusciva
più ad aprirgli il suo cuore e questo la distruggeva.
Lo seguì per
circa un migliaio di metri, stava sempre qualche passo indietro
rispetto a lui con l'instinto costante di girare i tacchi e andare via.
Si bloccò diverse volte prima di costringersi a non farlo.
Arrivarono vicino all'entrata di un piccolo boschetto che le era
familiare ma non riusciva a collocarlo nella linea temporale dei suoi
ricordi.
Era ancora buio e solo all'orizzonte si intravedere un'effimero
chiarore che saliva dalla cittadina in lontananza. I lampioni
all'entrata del bosco avevano una luce debole e gialla. Le ricordarono un
vecchio film che Lara le aveva fatto vedere una notte di Halloween
diversi anni prima.
Gli alberi e gli
arbusti si diradavano man mano che i due proseguivano e così i
lampioni. Percorsero ancora qualche decina di metri per arrivare poi ad
un laghetto sormontato da un ponte che la lasciò a bocca aperta.
I lampioni non erano più come quelli visti qualche minuto prima:
erano di un ferro scurissimo, quasi nero, e avevano delle delizione
incisioni. Le ricordarono Parigi.
«Te lo ricordi?» le chiese Trevor indicando il ponticello sul quale si stava incamminando.
Eva scosse la testa, in segno di negazione. Era affascinata dal posto
ma per quanto si sforzasse non riusciva a capire dove e con chi ci
fosse già stata.
A passi lenti seguì suo fratello, passando vicino ad una
panchina sulla quale passò una mano accarezzando il legno che,
inaspettatamente, non era ruvido come se lo aspettava. L'erba era
curata e c'erano aiuole con fiorellini bianchi e rosa di tanto in tanto e il rumore dei grilli accompagnava i loro passi.
Eva raggiunse Trevor,
che era fermo da qualche minuto a metà del ponticello con la
testa che fissava lo specchio d'acqua e i gomiti appoggiati sulla
balaustra di legno scuro.
«Quando eravamo piccoli venivamo qui tutti i sabati pomeriggio.. con papà.»
Quando il fratello nominò il padre una morsa agganciò lo
stomaco di Eva che si portò una mano sulla pancia, quasi per
farlo passare.
Abbassò gli occhi e appoggiò la testa alla spalla di
Trevor mettendo il braccio intorno al suo, vizio che aveva da
sempre.
«Portavamo
sempre un sacchettino con le briciole di pane per buttarle agli
anatroccoli e ai pesciolini. Volevi sempre tenerlo in mano tu e
papà doveva convincerti a farlo tenere un po' anche a me. Mi
manca tanto quella Eva.»
Sentì le lacrime che spingevano per uscire e una strana
malinconia invaderla. Il cielo iniziava a schiarirsi e la luna spariva
poco a poco. L'acqua del lago era mossa dalla leggera brezza che
spostava anche i suoi capelli biondi.
Involontariamente la
sua mano strinse la spessa felpa del fratello e le lacrime
silenziosamente iniziarono a scendere e bagnarle il collo della
maglietta.
«So che hai
qualcosa, lo vedo da come entri in casa quando torni dal lavoro. Non
voglio obbligarti a parlare, solo che..»
Trevor fece una pausa di
qualche secondo, quasi per prendere coraggio o, meglio, per darsi
conforto dalla rassegnazione che provava.
Tamburellò con le dita sul parapetto rovinato da incisioni e
graffi lasciati dal tempo e da amori o amicizie passate di lì.
Poi la guardò e vide una fragilità che lo
terrorizzò, una debolezza che non le aveva mai visto addosso.
«Vorrei poterti
aiutare, vorrei allegerirti da questo macigno che ti porti dentro anche
se non so di cosa sia fatto. A volte ti guardo e mi viene voglia di
accarezzarti la testa e spettinarti i capelli come facevo quando
avevamo 10 anni. Finisco sempre con il ripetermi che non cambierebbe
niente, però. »
Le parole di Trevor si insidiarono del cuore di Eva come delle schegge
che le sfiorarono punti e ricordi che credeva non sarebbe più
riuscita a ricordare.
Si scostò leggermente da lui, lasciandogli il braccio, per
asciugarsi gli occhi con un fazzolettino che probabilmente aveva da
giorni della tasca dei vecchi pantaloni grigi.
Eva cercò le
parole giuste da pronunciare, qualcosa che dimotrasse che niente era
cambiato, che tutto non era che un grande equivoco.
Non sapeva nemmeno lei di cosa fosse fatto quel macigno, sapeva solo
che le schiacciava talmente tanto i polmoni che a volte non riusciva
nemmeno a respirare.
Una piccola anatra nuotava verso il ponte, sola e determinata. Lo
sguardo di Eva seguì il tragitto del piccolo volatile e Trevor
scoppiò in una risata.
Lo guardò perplessa, non capendo cosa fosse successo in quei
pochi istanti di talmente buffo da far sì che potesse ridere
così.
«Arricciavi il naso in quel modo anche quando papà ci
portava qui. Lo facevi quando ti prendeva il sacchetto dalle mani per
darlo a me e mostravi a tutti la tua linguaccia.»
Eva si chiese come potesse ricordare tutto questo, tutti quei
particolari. Poi un senso di colpa le invase la testa: come poteva lei
non ricordare? Come poteva la sua mente aver oscurato quei ricordi
saturi di felicità?
Si sentì in colpa e si sentì come se avesse tradito il padre, scomparso quando lei aveva solo 16 anni.
«Vorrei tornare a quel giorno a volte e..»
«Salvarlo?» chiese Eva, che conosceva bene il punto nel quale Trevor sarebbe andato a parare.
Si era sentito colpevole da quel giorno, dalle 13:45 di quel 10 agosto
quando la polizia aveva chiamato per comunicare la disgrazia. Non aveva
più smesso di ripetere la sua colpevolezza, il suo non aver
fatto niente, il non aver insistito per andare con lui. E lei e la
madre non sapevano cosa fare per dissuaderlo dalla convinzione che
ormai aveva preso piede nella sua mente.
«Non
avresti potuto. Nessuno avrebbe potuto. Hai visto com'era l'auto. L'hai
vista! Non avresti potuto! E io non avrei sopportato di perdere anche
te! » singhiozzò Eva, mentre gli occhi di Trevor la
guardavano disperati e grati allo stesso tempo.
Si abbracciarono. Si abbracciarono come due persone perdute che si
ritrovano all'improvviso. Strinse la felpa del fratello talmente forte
che ebbe paura di avergliela strappata.
«A
volte mi sembra di vederlo in mezzo alle persone. Un'ombra, un
riflesso, un sospiro che arriva al mio orecchio. Lo cerco ma lui non
c'è.»
«Lui è sempre qui, Trevor. Gli assomigli più di quanto credi.»
Si sentì orgoglioso, onorato al suono di quelle parole. Il
pensiero di somigliare a qualcuno che aveva amato così tanto lo
rendeva fiero e responsabile, di sua sorella e di sua madre. Si
guardarono e sorrisero, dopo tanto tempo.
«Se
un giorno ti sentirai pronta a parlarmi di ciò che ti fa stare
così.. io ci sarò. Ci sarò sempre, qualsiasi cosa
mi dirai. Sarò qui per te.»
Si spaventò di fronte a quelle parole. Era felice e spaventata
al tempo stesso. Le faceva paura anche solo ricordare ciò che
aveva visto. Le faceva paura vedere quanto una persona può
diventare bestia.
«Ho paura.»
«Di cosa hai paura, Eva?»
«Di prendere la decisione sbagliata. Ho paura di non riuscire a salvarmi.»
Trevor cercava di capire ma ciò che Eva gli diceva non era altro
se non ciò che lui aveva già visto nei suoi occhi. Le
accarezzò la schiena, cercò di tranquillizzarla, di
metterla a suo agio.
Lei chiuse gli occhi, cercando una briciola di coraggio nascosto dentro
a tutta quella paura. Scavò nella sua anima in cerca di qualcosa
che le facesse dire quelle parole. Ebbe paura di non riuscire
più ad uscire da quel vortice di ansia e disperazione che aveva
dentro.
Ripensò al passato: a sua madre che le pettinava i capelli prima
di andare a scuola, a Trevor che le diceva sempre di comportarsi bene e
a suo padre, che la prendeva in braccio e la faceva volare con un
uccellino nelle lunghe giornate estive.
Non riuscì a dire nulla. Le labbra non le si aprivano e le
parole le morivano in gola. Diede un pugno al parapetto e si
piantò, così, una scheggia.
«Cazzo!»
«Sei impazzita?! Dammi la mano..»
Trevor cercò di levarle la scheggia che per sua fortuna era
piuttosto spessa e non era andata in profondità. Si leccò
via il sangue che usciva e con il fazzoletto di prima premette contro
la mano per alleviare il dolore.
«Andiamo a casa, devi disinfettarla.»
Eva lo seguì: ripercorsero il bosco, i lampioni erano ormai
spenti, la gente che aveva abitudine di fare jogging iniziava a
popolare il luogo.
Arrivarono davanti a casa poco prima che la madre entrasse in auto per
andare al lavoro. La salutarono e le diedero un bacio sulla guancia.
Trevor salì le scale del porticato e si girò verso Eva che non era neppure sul primo gradino.
«Cos'hai?»
Lei, nuovamente, non rispose. Restarono immobili qualche secondo, che
sembrarono interminabili minuti. La gente alle loro spalle usciva per
recarsi chi al lavoro e chi a scuola.
«Eva?»
«Qualche mese fa ero con Matt e gli altri, dopo uno dei loro concerti.»
Prese fiato e inspirò forte, fortissimo. Poi bisbigliò.
«Abbiamo quasi ucciso un uomo.»
"Oh girl we are the same
We are strong and blessed and so brave
With souls to be saved
And faith regained
All our tears wipe away."
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Capitolo 3 *** All our tears wipe away. ***
Bloodstream 3.1
"Cretina"
continuava a ripetersi Eva, dopo aver ceduto al suo istinto e aver
confessato. Si sentì mancare il respiro per i due minuti
successivi e le parve che il tempo non trascorresse più. Trevor
non si era mosso dalla posizione in cui si era fermato, non era
cambiata neanche l'espressione che aveva in volto.
Una parte di lei sapeva di aver fatto la cosa giusta, l'altra sapeva
che ora avrebbe dovuto affrontare tutto alla luce del sole.
Eva fissò suo fratello sperando che non avesse capito, che il
suo tono di voce non fosse stato sufficientemente alto o che si fosse solo
immaginata il tutto.
Trevor chiuse la porta dietro di sé e si avviò verso di
lei. I battiti del cuore di Eva accelerarono vertiginosamente facendole
venire le palpitazioni e il fiatone.
Si sedette sul primo gradino e le fece segno di venire ad accomodarsi
accanto a lui. Lei esitò, in un primo momento, poi titubante lo
raggiunse sedendosi a parecchi centimetri di distanza. Trevor si
passò una mano tra i capelli castani e si massaggiò, poi,
il collo. A tratti rideva e scuoteva la testa poi tornava subito
serio.
«Pensavi di portarti dentro questo peso per tutta la vita? Come se non fosse mai successo niente?»
Eva ascoltò attentamente il tono di voce del fratello,
più che le parole che disse. Cercava di autoconvincersi che
fosse preoccupato, invece sapeva benissimo che era il tono di una
persona delusa.
«Non è come credi, Trevor. Davvero.»
Cercò di giustificarsi, per quanto una persona nella sua
situazione possa farlo, ma senza ottenere grandi risultati. Se anche
avesse spiegato, cosa ci sarebbe stato da spiegare? Non sapeva neanche
lei darsi una motivazione al perché dell'accaduto. Sapeva solo
che quando lui le aveva chiesto una mano, lei non era riuscita a dirgli
altro che "Sì, sono con te", senza pensare alle conseguenze che ci sarebbero state, senza pensare a come avrebbe cambiato il corso della sua vita.
«Se solo tu potessi capire..»
«Cosa c'è
da capire, esattamente, Eva? Perché non riesco proprio a trovare
nessuna buona ragione per il quale qualcuno possa arrivare ad essere
tanto violento da ridurre qualcuno in fin di vita. Non ci riesco. Non
voglio neanche provare, forse, a pensarci perché mi vengono i
brividi al solo pensiero.»
Eva non rispose questa volta, la risposta del fratello la
ammutolì. Si sentì abbandonata, da una parte.
Ripensò a quando Trevor, neanche 3 ore prima, le disse che ci
sarebbe sempre stato per lei. Poi pensò che, però, questo
doveva essere decisamente oltre i limiti del "esserci" per qualcuno, anche se lei quei limiti non aveva indugiato a oltrepassarli.
«Dimmi solo che Sanders non c'entra.»
Eva abbassò gli occhi rassegnata e colpevole. Erano a malapena
le 9 del mattino e le sembrava che fossero trascorse decine di ore.
Sentì un nodo stringersi dentro la gola e lo stomaco farle male.
«Non potevo abbandonarlo..»
sussurrò con un filo quasi impercettibile di voce. Trevor
allora si alzò e nervosamente entrò in casa sbattendo
forte la porta d'ingresso che rimbalzò senza chiudersi. Eva si
tappò le orecchie e nascose il viso tra le braccia.
Sperò di sparire, di dissolversi nel vento, di non lasciare
alcuna traccia di sè. Era divisa in mille parti diverse
appartenenti ad altrettante persone che non potevano coestistere, a
quanto pare.
Trevor le passò accanto qualche istante dopo, sfrecciando verso
il vecchio pick-up parcheggiato davanti al vialetto di casa.
«Dove stai andando?»
Eva si alzò e lo rincorse con il fiatone dato dalla corsa e dall'ansia.
«Non avere così tanta premura di preoccuparti per me adesso. Vado a fare la spesa.»
Trevor entrò in macchina rumorosamente e accese la radio alzando
il volume tanto da rendere partecipe il vicinato dei suoi gusti
musicali. Eva si fermò a pochi metri dalla strada guardando il
pick-up nero del fratello sfrecciare via in direzione del centro.
Non aveva tutti i torti nel dirle di non preoccuparsi visto che non lo
aveva fatto neanche prima. Era una cosa che le veniva rimproverata
spesso, il fatto di non preoccuparsi mai per nessuno se non per se
stessa o, in questo caso, per Matthew Sanders. Non le importava degli
altri se non quando finiva nei guai, allora iniziava la metamorfosi e
diventava premurosa e attenta verso chi le stava intorno.
Le successive 9 ore le passò chiusa in camera, stesa sul letto
con le gambe contro il muro, contornata da cibo cinese e fazzoletti.
Chiunque fosse entrato avrebbe giurato di avere di fronte una ragazza
appena mollata dal proprio fidanzato. La tragedia le era sempre
piaciuta molto, anche se in quel caso il teatrino era più
realistico di quanto potesse sembrare.
Guardò l'orologio, appeso qualche centimentro sopra i suoi
piedi, alle 17:39. Chiuse gli occhi e nella sua testa si creò
una specie di guerra tra il voler andare e il voler chiamare Brian
inventando qualche stupida scusa che la giustificasse del fatto che
aveva avuto un contrattempo random.
Il cellulare squillò in quel momento.
Matt.
Spostò il dito su "Rifiuta" ma..
«Eva? Pronto?»
Continuò a rimanere in silenzio con il telefono appoggiato all'orecchio e gli immancabili occhi serrati.
«Volevo solo dirti che ti sto aspettando.»
Chiuse la chiamata e lanciò il telefono sul tappeto a qualche
metro da lei. Con i piedi si diede una spinta e scese dal letto con una
capriola, altro vizio che le veniva sempre rimproverato, questa volta
dalla madre.
Si infilò le vecchie vans che le aveva regalato il padre, si
mise qualche decina di dollari in tasca e si diresse verso l'ingresso.
Vide che le chiavi di Trevor sul tavolo della cucina, vicino alla spesa,
ma lui non c'era. Incrociò la madre che stava pulendo il
soggiorno ed uscì. Montò sulla bici e si diresse verso
Sunset Beach, che distava qualche manciata di minuti da casa sua.
Il sole stava già tramontando e il cielo era rosso come il fuoco, pieno di stormi di gabbiani strillanti.
La spieggia era deserta. Il sole stava sparendo via via nel mare,
colorandolo di un rosso sangue. Eva buttò la bici contro un
albero sul viale che antecedeva l'inizio della distesa di sabbia. Si
tolse le scarpe e a camminò fino al bagnasciuga, con i piedi
nudi che sprofondavano nella sabbia.
L'acqua dell'oceano era gelida ma la sensazione che si provava quando i
piedi entravano in contatto con la sabbia umida era impagabile per lei.
«Hey.»
Si girò. A qualche metro da lei c'era Matt, dietro di lui, molto più lontano, tutti gli altri.
«Ti sei portato la scorta?»
Matt alzò le spalle e si girò a guardarli, poi tornò a guardare i profondi occhi ambrati che aveva davanti.
Eva lo guardava con
gli occhi di chi odia e ama, al tempo stesso, qualcosa, qualcuno. Lui
le aveva portato tanti guai: un paio di risse con Valary DiBenedetto,
mollata da Matt, e qualche problema con la polizia locale, tutti
però risolti. Eppure lui riusciva a toccarle il punto in cui il
suo cuore provava piacere e al contempo un dolore insostenibile. Non
sapeva resistergli. Le sembrava la persona migliore del mondo
nonostante un carattere ingestibile se non con le cattive. Era
incatenata a quegli occhi, a quella dolcezza che le infondeva, a quella
fragilità che era riuscita a scovare dentro di lui. Le era
mancato. Troppo per poterlo spiegare a parole. Le era mancato al punto
da non sapere in quale direzione andare, da non riuscire a fare a meno
di mentire per paura che Matt potesse sparire per sempre dalla sua vita
portato via dai casini che lui stesso si creava.
Si abbracciarono, si
inglobarono a vicenda, si fusero come succede solo a chi ama
incondizionatamente. Si sentiva al sicuro, nonostante la costante paura
che quella parte di lui riemergesse all'improvviso, senza un motivo che
lei potesse capire. Le sue braccia l'avvolgevano come una coperta nel
pieno dell'inverno, come un lenzuolo che sei convinta tenga lontani
tutti i demoni nascosti sotto il letto.
Si godette quel momento che sperò non dovesse finire, che
sperò potesse sostituire la realtà nel quale erano
immersi.
Le baciò la fronte, premendo più che potè le sue labbra contro la fredda pelle di Eva, che non si mosse.
Eva sentì il calore delle labbra di Matt e le vennero i brividi, come ogni volta che lui la sfiorava.
Non riusciva a capire, però, se quei brividi pendevano di
più verso l'amore o, se invece, verso l'odio che provava.
"We are young and lost and so afraid
There?s no cure for the pain
No shelter from the rain
All our prayers seem to fail"
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Capitolo 4 *** People you've hurt. Friends that you've lied to. ***
44444
La testa di Eva era
appoggiata al petto di Matt Sanders e l'unica cosa che riusciva a
vedere da quella posizione era l'oceano. Le onde si scioglievano sulla
battigia, barche che rientravano e in lontananza la sagoma del Pier di
Seal Beach prendeva forma. L'aria si era fatta più fredda e il
vento più presente. Non riusciva a pensare a niente, non
riusciva a connettere i pensieri tra di loro. L'unica cosa alla quale
riusciva a pensare, in quell'esatto istante, era il profumo di Matt.
Che profumo vi aspettereste da un uomo alto quasi 1.90m, pieno di tatuaggi
e sempre vestito di nero? Non sapeva mai spiegarlo, quando ne faceva
parola con qualcuno. Le sembrava di essere stesa su un lenzuolo appena
lavato. La prima volta credette di essere pazza ma la sensazione non
smise mai di esserci. Era un profumo delicato, leggero, dolce.
«Hai sempre lo stesso profumo» gli disse Eva con lo sguardo fisso all'orizzonte.
Eva si staccò, voleva guardarlo come per paura di non
poterlo fare, poi, più. Gli occhi di Eva lo interrogavano
indirettamente, lo scrutavano centimetro per centimetro, lo
accarezzavano. Matt rimase impassibile, sotto uno sguardo che aveva
imparato a reggere nonostante l'istinto di cedervi. Era spaventato,
anche più di lei. Sapeva di vivere su un terreno instabile e
aveva costantemente paura di vederla sprofondare senza riuscire a
salvarla in tempo. Un carattere così nessuno è disposto a
gestirlo, neanche lui stesso lo era stato tempo addietro. In lei aveva
trovato la forza di un mare in tempesta pronto a contrastare qualsiasi
cosa avesse cercato di turbarli, qualsiasi cosa avesse cercato di
portarle via l'uomo che aveva aspettato per una vita intera.
Erano diversi ma sapevano adattarsi l'uno all'altra come l'acqua si
adatta al contenitore nella quale viene messa. Sapevano completarsi.
Avrebbe voluto entrare
nella testa di Eva e leggere ogni suo pensiero, per capire cosa
pensasse di lui, cosa la turbasse, cosa la facesse sempre esitare. Non
è facile sostenere gli occhi di qualcuno che amiamo ma abbiamo
deluso. Vogliamo sempre il perdono anche quando non siamo disposti a
pentirci di ciò che abbiamo fatto. Crediamo che essere perdonati
significhi alleggerirsi di un peso. La verità è che il
perdono è il più grande peso che può gravarci
sulle spalle, a volte addirittura sulla coscienza.
Quando andò a parlarle lo fece per gioco, perché erano
fatti così, tutti loro. Da sempre. La serietà non era un
prerogativa che volevano. Non perché la vita non fosse degna di
essere presa sul serio, anzi, spesso e volentieri si erano resi conto
di quanto tutta quella realtà nel quale ogni giorno camminavano
non sorridesse a nessuno, volevano solo sdrammatizzare tutti quei musi
lunghi che vedevano, tutti quegli occhi persi che non sapevano dove
appigliarsi, tutte quelle idee che non portavano da nessuna parte se non
nel più profondo baratro che la mente ospita. Non volevano
essere come loro. Volevano non dover mai guardarsi l'un l'altro e non
sapere cosa dire per via della tristezza di uno di loro. Si erano
promessi di vivere insieme e di vivere nel migliore dei modi possibili
e lo stavano facendo. Questo a grandi linea era ciò che attirava
tutti i guai che loro, ovviamente, non rifiutavano mai.
C'erano promesse che si erano fatti che non avrebbe infranto per niente al mondo.
Un fischio richiamò all'attenzione i due, che con la mente erano
lontani anni luce dai loro corpi. Jimmy faceva segno a Matt di
raggiungerli.
Si incamminarono lentamente, non guardandosi mai ma con l'istinto di volerlo fare ogni secondo che passava.
«Mi sembrava una scena di Beatiful» sentenziò Brian
con il cinismo di chi è convinto che a lui una scena del
genere non sarebbe mai capitata.
«Devi guardarlo spesso allora..»
rispose Eva che non vedeva l'ora di stuzzicare Haner. Lui come un
pesce abboccò, iniziando con una serie di lamentele e discorsi
su quanto lei fosse terribilmente fastidiosa, inutile, ingombrante
nelle loro vite, etc, etc, etc.
«Risparmia le energie, Gates.»
Jimmy era abituato ad essere giudice di pace, per tutti. Non che fosse
l'antipatico della situazione ma a chi piace sentire due adulti
litigare come bambini di cinque anni? Faceva del suo meglio per tenere
a bada lo spirito infantile di Brian che accennava continuamente ad
uscire. Voleva farsi sentire, voleva prevalere sul resto. Questo in una
persona con pieno autocontrollo e piena consapevolezza di se stessa non
avrebbe inciso granché; stiamo, però, parlando di
Synyster Gates e questo la dice lunga, molto lunga, sulla situazione.
Jimmy fumava una sigaretta, apparentemente indifferente al tutto.
Chissà cosa pensava, si chiedeva Eva. Se lo chiedeva ogni volta
che lo vedeva o che aveva occasione di parlarci. Credo fosse l'effetto
che faceva un po' a tutti quelli che si rapportavano con lui. Era
presente ma una parte di lui era costantemente lontana, dispersa
chissà dove, con chissà chi. Una persona curiosa,
particolare, un tipo. Eva era affascinata da quel suo modo di fare
sempre gentile ma mai scontato. Non avevano avuto troppe conversazioni
ma quelle che c'erano state l'aveva fatta sempre lasciata un po'
sorpresa.
«Io avrei fame.»
Zachary Baker non era un tipo singolare, con quell'alone di mistero che
lo circondava. No, no. Aveva sempre, comunque, indipendentemente fame.
Forse l'agitazione, lo stress delle situazioni nel quale si ritrovava.
C'è da dire che la tensione sapeva tagliarla bene e non solo
quella.
«Ve lo
immaginate un mondo senza questo cotechino vivente?»
domandò Brian con tutta la delicatezza che era riuscito a
raccimolare. C'era sempre questa sottile competizione tra i due, una
gara a non-si-sa-cosa. L'umorismo di Haner era tutto da capire, era
rimasto bloccato probabilmente all'età adolescenziale, quella
dove per far colpo sfottevi un po' chi ti stava attorno. Lo amavano
comunqe così com'era e soprattutto lo sopportavano, così
com'era.
Zacky gli lanciò un'occhiata carica di disprezzo, avrebbe voluto
fosse carica anche di pugni pronti a rovinargli quel bel faccino di cui
tanto si vantava ma su quello doveva lavorarci ancora un po'. Jimmy
girò lentamente lo sguardo verso Haner e non ci fu
bisogno di altro per fargli capire come la situazione si sarebbe dovuta
evolvere. Johnny li guardava tutti ammutolito, chiedendosi, come
sempre, come facesse a convivere con dei folli e ad essere comunque
sano di mente. Annuiva per farli contenti e dentro di sè
commentava ogni cosa che dicevano. Lui ed Eva avevano legato da subito,
forse perché entrambi sapevano cosa voleva dire essere "l'ultimo
arrivato" della situazione. Si intendevano con uno sguardo e se la
ridevano alle loro spalle, ignari di ogni tipo di commento.
Matt era qualche passo dietro di lei. Osservava la sua sagoma e cercava
di memorizzarne i lineamenti. Era particolarmente serio, a tratti cupo,
in volto. Pensieri turbavano la sua mente che invece sarebbe dovuta
essere libera in vista del concerto che avrebbero tenuto qualche ora
più tardi.
«Credo sia
meglio andare. Dobbiamo essere sul posto almeno quattro ore
prima.» Ricordò loro Brian, che quando si trattava di
musica diventava improvvisamente serio e devoto. Jimmy diede un ultimo
tiro alla sigaretta, dopodiché buttò a terra il mozzicone
e ci piantò la punta del piede sopra spegnendolo del tutto.
«Ragazzaccio!»
gli disse Haner sogghignando. Jimmy ruotò gli occhi nella
direzione di Brian e gli fece l'occhiolino, accompagnato da un ghigno
malizioso.
«Vieni con noi?» chiese Jimmy ad Eva.
«Credo che vi raggiungerò poco prima dell'inizio del concerto. Ho un paio di cose da sbrigare.»
«Sicura? Non
sarà comodo entrare con tutta la calca.» le chiese Matt,
mentre le stampava l'ennesimo bacio sulla tempia.
«Ho i miei assi
nella manica» lo tranquillizzò lei, come quasi tutte le
volte in cui lui mostrava palesemente la sua preoccupazione.
Era particolarmente premuroso, da sempre. Eva non ricordava una
sola volta in cui lui l'avesse lasciata fare senza metter bocca. Da un
lato le faceva piacere ricevere quelle attenzioni, dall'altro si
sentiva continuamente sotto osservazione.
Salirono su una vecchia Cadillac che velocemente sparì, lasciando Eva immobile per qualche secondo.
Tornò a casa e trovò Trevor e Lara all'inizio del
vialetto che conduceva al portico d'ingresso. I polmoni si ridussero a
due noccioline e il cuore le salì in gola determinato ad uscirle
dalla bocca.
Era troppo vicina per invertire la direzione ed entrare dal retro
così proseguì fino a che Lara non la notò arrivare
e le rivolse la peggiore delle espressioni che riuscì a fare.
A quel punto il cuore di Eva era sul punto di esplodere, letteralmente.
Scese dalla bici con le mani che le si erano improvvisamente gelate, sia per la
temperatura che era notevolmente calata che per la paura che l'aveva
invasa.
Eva vide Lara
incamminarsi dentro casa con un'andatura che rispecchiava perfettamente
lo stato d'animo nel quale era immersa. Trevor rimase fermo dov'era,
pronto sicuramente a dire qualcosa.
«Credevo che
mentire a me fosse plausibile, sotto certi aspetti. Sì, sono tuo
fratello, c'è un imbarazzo di fondo che credevo comunque
avessimo superato. Ma mentire alla tua migliore amica?»
Eva chinò il capo in segno di disagio e mortificazione. Avrebbe
voluto dire qualcosa ma la gola era totalmente occupata dai suoi sensi
di colpi che bloccavano il flusso delle parole.
«Entra. Avete tanto di cui parlare.»
«Trevor mi..»
«Ti dispiace. Lo so. Ti dispiace sempre dopo che rovini qualcosa. Peccato non accorgesene prima, no?»
Sperare nella
comprensione del fratello era forse chiedere troppo in quella
situazione ma era una cosa alla quale non sapeva dire di no, la
sparenza.
Al suono di quelle
parole Eva non rispose più di sè e istintivamente si
buttò addosso al fratello, abbracciandolo e affondando il viso
rigato di lacrime nel suo petto. Lo strinse sperando che le parole che
non era riuscita a far uscire dalla bocca passassero dal suo corpo a
quello del fratello. Le braccio di Trevor la avvolsero e la scaldarono.
Era ferito ma rimaneva comunque la persona che la amava di più
al mondo.
Eva si staccò
ed entrò in casa, dove trovò la madre, con la quale non
aveva il rapporto che avrebbe desiderato, intenta a leggere una rivista
in cucina e a cucinare patate e arrosto. La salutò con bacio
sulla guancia. Una madre, per quanto possa non rispecchiare la figura
che abbiamo in mente, rimane comunque chi ti ha messo al mondo.
Renèè guardò il volto della figlia e capì
immediamente che qualcosa in lei era cambiato e che per ovvi, o meno,
motivi lei non era stata scelta per essere parte di quel cambiamento.
Si limitò quindi ad accarezzare la guancia ancora umida della
figlia e successivamente ad accarezzargli la spalla.
Eva salì le scale come farebbe qualcuno diretto alla gogna. Aprì con la mano sinistra la porta della sua camera:
trovò le solite pareti rosse, i soliti poster, la grande
libreria colma di libri usurati e il suo letto con seduta sopra Lara
con le mani in grembo.
Si tolse la giacca in pelle che appoggiò alla maniglia della
porta, mise le scarpe al solito posto e si mise a
sedere al fianco di Lara.
Le sembrò di rivevere la stessa scena vissuta ore prima con il
fratello. Lara alzò lo sguardo e la fissò determinata ad
ottenere la verità, cosa che Eva le aveva negato fino a quel
momento.
«Pensavi non mi
potessi meritare di sapere cosa stesse succedendo realmente con Matt?
Non so, forse mi credevi troppo pudica? Troppo suscettibile? Troppo
ingenua?»
«Avrei voluto
dirti tutto. Ho provato tante volte, tante. Non volevo coinvolgerti in
una storia così, in una situazione surreale.»
Lara emise un suono
che somigliò vagamente ad un'accenno di risata, mentre scuoteva
la testa. Sciolse le mani e si massaggiò il collo, poi le
posò sulle cosce.
«Sei sempre
stata ribelle, rivoluzionaria, impertinente. Ti sei imposta spesso su
regole che non accettavi e volevi a tutti i costi cambiare. Hai fatto
cazzate che non credevo saresti stata capace di fare. Ma arrivare a
coprire qualcuno che ha quasi ammazzato un uomo, Eva. Io.. pensavo di
conoscerti. Non credo di sapere più chi ho davanti ora.»
Eva spalancò gli occhi e strinse le mani in due pugni.
«Sono sempre io.. »
«No. No. No. Non
lo sei. Non lo avresti mai fatto prima. Non lo avresti fatto per
nessuno. Hai sempre avuto un minimo di raziocigno nonostante tutto. Non
sei la Eva che conosco da una vita.»
«Non potevo
abbandonarlo. Vorrei poter spiegarti, vorrei darti motivazioni
convincenti che ti faccessero ricredere. So che qualsiasi cosa
dirò non sarà abbastanza. Lo amo. Amo Matt come non credo
si possa amare altro se non la vita stessa. Avrei sconvolto la vita di
chiunque pur di non perderlo. Credevo di potervi tenere fuori da tutto,
non pensavo che un giorno come questo sarebbe arrivato.»
«Hai pensato, anche solo per un fottuto momento, che quell'uomo può sporgere denuncia per tentato omicidio?»
Ad Eva si gelò il sangue. Per quanto avesse affrontato il
ricordo di quella notte, non lo aveva fatto invece con le conseguenze
che quell'uomo avrebbe potuto provocare alle loro vite. Credeva sarebbe
finita come una delle tante risse alle quali aveva assistito. Uno le
dà, l'altro le prende. Questa volta si era arrivati quasi al
limite ultimo. Lo sapava ma forse non ne era abbastanza coscente.
«Hai pensato che potresti essere coinvolta se qualcuno, oltre a voi, avesse assistito alla scena?»
«Non c'era nessuno, era tutti ubriachi e assuefatti dall'alcool e dal concerto al quale avevano assistito e p..»
«NON PUOI
SAPERLO! CAZZO!» la voce di Lara si alzò di parecchi toni,
tanto che Eva le tirò un polso chidendole indirettamente di
abbassarla.
«Perché
sei così stupida Eva, perchè! Ti ha fottuto il cervello
quel pezzente! Non ti ha causato che problemi! Sei stata il suo
giocattolo per mesi, ti sei fatta soggiogare da un paio di occhi verdi
e qualche tatuaggio.. Dio..»
«Hai mai amato qualcuno al punto di non riuscire a respirare al pensiero di non averlo più accanto?»
«No e spero non accada mai se ciò dovesse significare fare del male a chi amo e a chi mi ama.»
«Sono stata con lui, poco fa. Lo rivedo stasera.»
«Vengo con te. Non mi fido di lui, tanto meno di te ora come ora.»
Lara si stese sul
letto, si mise su un fianco e chiuse gli occhi sperando di
addormentarsi. Eva rimase seduta nella stessa posizione con lo sguardo
fisso sul muro rosso davanti a lei.
Passarono circa due
ore dalla loro discussione a quando furono sedute nella macchina di
Lara dirette verso Long Beach, dove il concerto sarebbe iniziato tra
poco più di 3 ore.
Lara guidava con lo sguardo irremovibile dalla strada, Eva aveva le
ginocchia al petto e la testa appoggiata al finestrino. I suoi occhi
scrutavano il buio che aveva avvolto tutto. Si addormentò,
mentre alla radio qualcuno dedicò una canzone a
tutte quelle persone incapaci di resistere ai desideri del proprio
cuore.
"There's nothing you say
and nothing you try
can change time."
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