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Ben ritrovate n_n
sono tornata con una reituki/aoiha♥ la reituki sarà il pairing principale, mentre la aoiha
sarà trattata in modo più marginale, non è che possono sempre rubare tutto lo
spazio >_> doveva essere solo una reituki
questa! Comunque, questa ff tratterà di un argomento
un po’ particolare, potrà anche non essere di vostro gradimento e lo accetto,
ma come dico sempre: le mie storie sono già scritte lì da qualche parte nell’etere,
io devo solo leggerle e trascriverle. Dovevo
scrivere questa storia, è rimasta ferma per un anno intero e finalmente ha
visto una degna fine. Il romanticismo mi è, pian piano, scappato di mano e tutto si è trasformato in una enorme fluff .w.
buon per noi, ogni tanto piogge di cuori e arcobaleni non fanno male. Chi ha
letto In Blossom forse non mi riconoscerà neanche
nello stile, Sing for me
vuole essere una ff semplice, delicata, introspettiva
e quotidiana.
Mi scuso con tutti coloro che
potrebbero sentirsi ‘offesi’ o ‘urtati’ da questo argomento.
I capitoli sono tutti, ovviamente, già scritti ♥
Le parti in grassetto sono in JSL (JapaneseSign Language), cioè il Linguaggio dei Segni
Giapponese…avete già capito, vero? In realtà la situazione del personaggio in
questione (non voglio svelare nulla) è molto più complicata di come l’ho
descritta io in questa ff, me ne rendo conto, leggere
così facilmente il labiale non è affatto un dato ‘realistico’…ma
il bello delle ff è anche sognare e realizzare l’impossibile
♥
Non mi resta che augurarvi buona lettura e sperare di
farvi sognare o, almeno, farvi passare qualche minuto di relax
libero dall’ansia e dallo stress *^*
Spero di sentirvi presto,
ciao ciao ♥
Link FB: https://www.facebook.com/pages/HarLeQueen/540388639424945?hc_location=timeline
Sing
for me
Mi sono sempre chiesto che suono faccia
il vento quando agita le foglie degli alberi. Se quello di un cane che abbaia
rincorrendo un gatto sia tanto fastidioso quanto dicono,
o che suono abbia la mia voce. Mio fratello dice sempre che è un suono caldo
come i raggi del sole e che se potessi mangiarlo sarebbe
come il gelato al cioccolato: un gusto fresco, ma deciso e intenso. Io non ci
credo, ho paura che nonostante tutti i miei sforzi per nasconderlo sarà sempre dolorosamente ovvio che c’è qualcosa di strano.
È successo quando avevo sei anni, come
tutti i bambini sono stato a letto con una di quelle malattie che servono solo
a riempirti la faccia di bollicine, solo che è peggiorata così
tanto da far sprofondare il mio mondo nel silenzio; da allora non ho più
sentito niente, potrei piazzarmi ad un millimetro dalla fonte di rumore più
forte del mondo e non sentire neanche un ronzio. Così ho imparato a riempire il
vuoto che mi circondava, ad osservare attentamente le
espressioni delle persone per capire se sono arrabbiate, tristi o felici, a
seguire ciò che dicono le labbra con la massima attenzione e ho imparato a
comunicare con le mie mani; non lo faccio sempre, solo a mio fratello e alle
persone a me più care permetto di vivere la mia diversità, per il resto del
mondo io sono solo un normalissimo ragazzo di vent’anni che non vede l’ora di
spaccare il mondo e fare un bel botto.
Devo davvero tanto a mio fratello, senza
di lui non sarei cresciuto così pieno di vita e spensierato; lui ha sempre
cercato di riempire il vuoto lasciato dai suoni che non sento perché anch’io so
che il mondo ne è pieno, mi ha detto che alcuni sono bellissimi come lo
scrosciare dell’acqua nei giorni di pioggia e altri meno come le urla dei
vicini quando litigano per ore. Così il borbottio della caffettiera è diventato
il solletico sulla pancia, quello del vento le sue carezze leggere sulla pelle,
quello degli uccellini che rompono alle sei di mattina i suoi pizzicotti.
Ma c’è una cosa che non riuscirà mai a
spiegarmi, non importa quanto ci provi, so che non riuscirò mai a provare le
sensazioni che regala la musica.
Akira
era ancora avvolto tra le lenzuola quando sentì un fastidio insistente sul
braccio che sembrava non volersi arrendere tanto presto. «Mhm...» di solito, però, quando mugugnava in quel modo il mondo
ritornava alla sua solita pace; quella volta, invece, diventò più assillante e
così fu costretto ad aprire un occhio per scorgere la figura offuscata di Yuu,
stava gesticolando cercando di dirgli qualcosa, ma non era ancora abbastanza
lucido da capirlo. Si stropicciò gli occhi mettendo a
fuoco ciò che vedeva.
Muoviti o farai tardi, sto facendo il caffè.
Che ore sono?
Le sette.
Tentò
di rispondergli ma lasciò cadere il braccio sul letto con l’intenzione di
ritornare a dormire, ma il cuscino che gli precipitò in faccia lo fece svegliare
del tutto; Yuu era sempre il solito e non mancava mai di prenderlo in giro, o
stuzzicarlo quel tanto che bastava per risvegliare il suo carattere gioviale, e
di solito era un vulcano in eruzione, solo che alle sette di mattina non ci si
poteva certo aspettare un miracolo. Con uno slancio si buttò giù dal letto in
tempo per vedere la figura di suo fratello allontanarsi, dopo la solita tappa
in bagno lo raggiunse in cucina richiamato dal profumo del caffè. Ogni volta
che sentiva quel profumo gli veniva in mente il solletico
che Yuu gli faceva sulla pancia, per farlo svegliare diceva lui, ma non gli
aveva mai creduto; provava solo un gusto sadico nel torturarlo, ne era
convinto.
Finalmente!
Sei tu che vai di fretta.
Ah, non tu che sei lento?
No e muoviti a darmi quel caffè! Una tazza fumante gli si posò davanti non appena si
accomodò al piccolo tavolo addossato alla parete, vivevano in quella casa da
tre anni ormai, esattamente da quando i loro genitori erano partiti per un
viaggio da cui non avrebbero più fatto ritorno.
Oggi fino a che ora lavori? Yuu glielo chiese dopo aver richiamato la sua attenzione
sventolandogli una mano davanti al viso.
Le sei.
Io oggi non lavoro alla faccia tua,
quindi me ne starò tutto il giorno a far niente. L’affermazione fu accompagnata da un’espressione di
beatitudine celestiale, pur di tirare avanti aveva dovuto accontentarsi di un
anonimo posto da impiegato che lo costringeva in un grigio completo con giacca
e cravatta, così quando aveva un giorno libero era
praticamente capodanno.
Grazie tante eh! E un vaffanculo non glielo tolse nessuno.
Yuu
sorrise alzandosi per lasciare la sua tazza vuota nel lavandino, cercando di
sistemare i suoi ribelli capelli neri, erano cresciuti
in fretta e gli arrivavano già alle spalle. Cosa vuoi per cena?con Akira era sempre così,
prima lo provocava fingendo di prenderlo in giro e poi faceva qualcosa per dimostrargli
quanto in realtà gli volesse bene. Yuu amava profondamente suo fratello, sin
dal primo momento che aveva visto quel minuscolo fagotto azzurro
aveva avvertito un senso di protezione; a separarli c’erano soltanto due anni,
perciò era come se fossero cresciuti tenendosi per mano. Poi era successo. Loro
ci scherzavano su dicendo che si erano rotte le casse come in uno stereo
difettoso, solo che per quel bambino di sei anni erano i suoni del mondo intero
ad essere andati in pezzi. All’inizio Akira aveva
paura di tutto quel silenzio, si chiedeva perché fosse diventato così diverso
da tutti gli altri bambini e perché quando parlava con le sue mani quelli ridevano; aveva passato mesi a convincerlo che
non era lui ad essere sbagliato, ma gli altri che non vedevano quanto fosse
bello quando gli raccontava cosa aveva fatto a scuola senza dire una parola.
Così di giorno Yuu lo difendeva dai compagni di scuola, assecondava ogni suo
desiderio, lo convinceva ad esercitarsi con il suo
linguaggio dei segni e di sera gli raccontava una storia usando solo le sue
mani e una lampada per proiettarne le ombre sul muro. La sua ombra preferita
era la mamma elefante perché era così semplice che riusciva a
farla anche lui ma, con le sue piccole manine, riusciva solo a fare il
cucciolo.
A
volte Yuu si chiedeva se ci sarebbe mai stato qualcuno in grado di amarlo
quanto lo amava lui, qualcuno a cui il suo fratellino
avrebbe aperto il cuore senza esitazioni ed era un cuore pieno di cose
magnifiche; di sicuro sapeva che fino a quel giorno avrebbe vegliato su di lui
combattendo con le unghie e con i denti.
Visto che hai tutto il tempo
che vuoi, perché non mi prepari il sushi?
Ah, ti sei dato allo sfruttamento! Va bene avere tempo libero, ma non aveva messo in conto
di passarlo tutto in cucina.
Sei tu che ti sei proposto! Akira cercò di sfoderare il suo sguardo più dolce per
convincerlo a preparare il suo piatto preferito.
Quella faccia non ti è mai venuta bene
con me.
Oh dai!
Va bene ok, sushi! Non gli ci voleva poi molto ad arrendersi quando si
trattava di lui.
Mi vado a vestire. Akira si alzò pimpante, sottolineando
la sua vittoria con un sorriso, gli si avvicinò per ringraziarlo ma stavolta
però non fu per il solito bacio sulla guancia: prese tra le dita il bordo della
maglietta leggera che indossava suo fratello e la tirò su con forza fino a
coprirgli la testa. Scoppiò a ridere sonoramente nello stesso istante in cui
lasciò la presa.
Yuu
si liberò subito dalla trappola inaspettata. Il sushi te lo scordi stronzo! Inizia a
correre o sei morto!
Akira
scappò in bagno più veloce che poté lasciando Yuu in
cucina a brandire il piatto che minacciava di lanciargli, adorava giocare con
lui in questo modo, con lui era così facile dimenticare che gli mancasse
qualcosa e che fosse così diverso da tutti gli altri; con lui poteva essere se
stesso e non preoccuparsi degli sguardi curiosi della gente che fissava le sue
mani mentre si muovevano per comporre i suoi pensieri. Perché lui non
poteva esprimerli liberamente come facevano loro? Loro usavano la voce perché
potevano sentirla e non rischiare di urlare troppo, mentre lui usava le sue mani,
cosa c’era di tanto sbagliato? Mettendo da parte questi pensieri si infilò sotto la doccia godendo di quei pochi minuti di
pace prima che il suo inferno personale avesse inizio. Suo fratello diceva che
il rumore della doccia assomigliava a quello della pioggia, quindi era come le sue dita che sembravano suonare il pianoforte
sulla sua schiena. S’insaponò
velocemente non accorgendosi prima che, nel frattempo, Yuu era entrato in bagno
e si era accomodato proprio accanto alla doccia. «Aiuto!
Non voglio morire così giovane!» non credeva di urlato troppo, non gli piaceva
parlare e farlo era sempre una sofferenza, ma vi fu
costretto perché l’altro non avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Il
dito medio di Yuu non tardò ad incollarsi al vetro
scatenando le loro risate. «Mi passi lo shampoo? L’ho
dimenticato.» anche quello arrivò immediatamente e Yuu
ritornò al suo posto, rimase fermo per un po’ finché non posò il suo palmo
contro il vetro opaco; la mano di Akira andò a posarsi in corrispondenza di
quella in attesa rimanendo così per secondi che parvero anni. Yuu lo faceva
sempre ed era il suo modo di dirgli che per lui ci sarebbe sempre stato, che
anche attraverso un vetro appannato poteva infondergli la sua forza per
affrontare il mondo. Come siamo
sentimentali stamattina. Akira non si era lasciato scappare l’occasione di
prenderlo in giro non appena aveva aperto il box doccia e lo aveva visto poggiato
contro il lavandino.
Di tutta risposta il
moro gli lanciò addosso l’accappatoio. Copriti. Sei scandaloso.
Sei solo geloso!
Senza
troppa attenzione Akira compì le azioni che lo avrebbero portato fuori dalla
porta di casa vestito di tutto punto, dopo anni riusciva immediatamente a
distinguere una pessima giornata e, quando cominciava a ricercare con troppa
attenzione i suoni che lo circondavano, voleva dire
che il punto di rottura era vicino; avrebbe avuto una delle sue solite crisi di
rifiuto nonostante fossero passati quattordici anni. Non importava quello che
tutti continuavano a dirgli, non era facile accettare di dover passare tutta
una vita nel più completo silenzio. E ogni anno diventava sempre più difficile
perché c’erano sempre più cose che avrebbe voluto
ascoltare: una canzone su uno di quei canali di musica che Yuu guardava mentre
cucinava, la suoneria di un cellulare, i dialoghi dei film che era costretto a
guardare con i sottotitoli. Il mondo andava avanti e cresceva con i suoi suoni,
mentre lui restava indietro senza conoscere neanche la sua stessa voce.
Yuu
lo salutò con le solite raccomandazioni strappandolo dai suoi pensieri ed Akira percorse la solita strada per arrivare a lavoro,
allo studio aveva sempre preferito lavorare e si era accontentato di qualsiasi
mansione quando, nei mesi estivi, lavorava per racimolare qualche soldo e
comprare ciò che desiderava e che i suoi non potevano permettersi; era stato
allora che aveva conosciuto Komui lavorando nel suo
negozio di animali, aveva dichiarato il fallimento dopo due anni di attività e,
visto che suo fratello lavorava per una famosa casa discografica, ora si
ritrovava a portare il caffè a gente famosa che per lui valeva meno di niente.
Era una bella legge del paradosso per un sordo lavorare in un luogo in cui non
si faceva altro che musica, se Komui fosse stato a
conoscenza del suo piccolo segreto non lo avrebbe mai mandato lì, ma la paga
era buona e con i mesi si era conquistato la fama dello stronzo di turno troppo
preso da se stesso per rispondere a chi osava chiamarlo per i corridoi come un
cane da riporto. Meglio fargli credere questa stronzata che ammettere la
verità, lo avrebbero trattato tutti diversamente, compatendolo come se fosse
stata colpa loro. Se combinava qualche guaio in preda alla fretta di preparare
un caffè dopo l’altro, voleva essere sgridato come chiunque altro.
Fu
in divisa con dieci minuti di ritardo, ma il capo non disse nulla limitandosi a
lanciargli un’occhiata bonaria, era stato giovane anche lui e riconosceva il
volto di chi aveva passato la notte a giocare alla
play station cercando di battere un fratello troppo saccente. Ci aveva
guadagnato una settimana di schiavitù, anche se ora che ci pensava
non ne aveva approfittato quanto avrebbe potuto.«Akira, pronto?» la giornata aveva
inizio, era il momento di lasciare i pensieri in un angolo e concentrarsi su
ciò che gli dicevano.
«Prontissimo!»
«Allora comincia con le consegne.»
Il
ragazzo si avvicinò al piccolo carrello pieno di bicchieri da consegnare, due
volte a settimana se ne occupava lui e, puntualmente, rientrava a casa con un
mal di testa di quelli così forti per cui l’unica soluzione era immergersi nel
buio più assoluto e lui odiava il buio perché i suoi occhi erano le sue
orecchie ed era già abbastanza avere un solo senso fuori uso. Diventava davvero
difficile riuscire a leggere le labbra quando era circondato da una miriade di
persone che parlavano contemporaneamente, sembrava di seguire una partita di tennis
con migliaia di giocatori. Forse avrebbe dovuto arrendersi e rivelare il suo
segreto, a volte era così frustrante, ma poi gli tornavano in mente quegli
inutili sguardi impietositi e si convinceva di dover continuare a tenere duro.
Cominciò
dal primo piano dove i dirigenti si riunivano per
prendere le loro importanti decisioni, poi fu la volta dei gruppi del secondo e
terzo piano e, dopo più di un’ora, arrivò il momento di raggiungere i piani
alti e consegnare l’ultimo caffè ad un certo Ruki. Hoshi,
il suo capo, si era raccomandato tanto che fosse ben caldo, leggermente
zuccherato e macchiato al punto giusto, diceva che questo Ruki era un cantante
bravissimo di come ce n’erano pochi in Giappone, ma era esigente e
perfezionista. Che tradotto voleva dire solo che era
un grandissimo stronzo.
Quando
fu davanti alla porta si decise a bussare, era inutile
per lui attendere una risposta perciò abbassò la maniglia ed entrò, le opzioni
davanti a lui erano due: che qualcuno gli avesse effettivamente detto di
entrare, o sorbirsi l’ennesima ramanzina sulla privacy e l’educazione. Neanche
stesse portando un caffè al presidente degli Stati Uniti. Per sua grande
fortuna la stanza si rivelò essere vuota, così avanzò fino alla scrivania dove avrebbe preparato ciò che doveva, gli avrebbe
lasciato tutto lì e tanti cari saluti alla superstar isterica; si mise subito d’impegno
per seguire alla lettera le istruzioni che gli erano state date, ma la sua
schiena era rivolta alla porta e non si accorse quando questa si chiuse con un
tonfo.
«Chi
ti ha detto di entrare!?» ma, ovviamente, Akira
continuò ad occuparsi della sua mansione come se nulla fosse. «Hei, tu!» non ci fu alcuna risposta. «Cos’è?Sei sordo per caso?!»
Akira
si sentì strattonare all’improvviso e con una tale forza da non riuscire a
salvare il caffè che gli si versò addosso e andò a sporcare il pavimento, i
suoi occhi si posarono sulla figura di un ragazzo magrissimo e non troppo alto,
dai capelli biondi nascosti da un orribile cappello, il viso quasi oscurato
completamente da un paio di giganteschi occhiali da sole. Se quello scriciolo era il Ruki che tutti tanto adulavano, dovevano
proprio essere messi male. «Le ho portato il caffè.» professionalità prima di
tutto, ci teneva al suo posto di lavoro.
«Lo vedo. Chi ti ha
detto di entrare?»
«La
porta era aperta e non c’era nessun cartello fuori che dicesse il contrario.»
«Beh allora muoviti e fallo doppio! Mettici la panna e-» ed ovviamente si era voltato.
Se
c’era una cosa che Akira odiava era proprio quando la
gente si voltava impedendogli di leggere le loro parole, questo lo costringeva
a chiedere di ripetere e non sempre gli andava bene. «Come
ha detto, scusi? Panna e?»
«E cacao. Niente zucchero.» per fortuna la star si era voltata per mostrargli
tutto il suo inutile disappunto e questo gli aveva dato l’opportunità di
leggere le sue labbra. Che faccia di cazzo. Sembrava una forchetta che stride
sul piatto, non che l’avesse mai sentita, ma suo fratello odiava quel suono e
ogni volta metteva su una faccia che era tutto un
programma.
In
silenzio si dedicò al suo lavoro. Doppio, senza zucchero, con panna e cacao, che
caffè di merda. Quando fu pronto glielo mise davanti
poggiandolo sulla scrivania ingombra di fogli, ma Ruki non lo ringraziò neanche
e nascose il suo naso nel bicchiere in polistirolo, erano solo pochi minuti che
Akira si trovava in quella stanza e già non vedeva l’ora di mandare a fanculo
quel ragazzino troppo viziato e versargli addosso il tè rimasto nel thermos.
«Desidera altro?»
«Si, una ciambella al cioccolato.»
«Non
ne ho qui con me, ma posso portargliela.»
«D’accordo,
vai e non metterci troppo.»
Akira
si allontanò chiudendosi la porta alle spalle, magari poteva sputarci sulla
ciambella. O magari non ne valeva la pena e non si sarebbe abbassato a tanto.
Prima che raggiungesse il piano terra sentì il
telefono vibrare due volte per avvisarlo dell’arrivo di un sms, lo recuperò
immediatamente incuriosito da chi potesse essere a quell’ora. Yuu.
“Come va la giornata?”
Si
affrettò a rispondere prestando attenzione a dove metteva i piedi e, ogni tanto,
al display. Beato lui che era a casa a godersi il riposo. “Una merda.”
“Cosa è
successo?”
“Uno stronzo.” Digitò la sua risposta con una velocità esperta.
Il
telefono vibrò di nuovo. “Sarai simpatico
tu! Comunque ho una buona notizia: è tornato Yutaka e stasera
cena con noi”. Un sorriso illuminò il suo volto non appena lesse quel
nome: Yutaka era il suo migliore amico, lo aveva conosciuto ai tempi delle superiori
quando era stato costretto a frequentare una scuola per quelli come lui e non si era mai sentito tanto solo seppur
circondato da gente che avrebbe dovuto capirlo; un giorno, alla fermata dell’autobus,
era stato salvato dalle grinfie di un gruppo di teppistelli, ad aiutarlo era
stato un ragazzo dai capelli neri ed un sorriso tanto
dolce da scaldare il cuore. Da allora erano diventati inseparabili ed ancora oggi si amavano come fossero fratelli, ma erano anche
qualcosa di diverso e il mondo non aveva ancora inventato una parola per
descrivere la loro relazione, di certo non gli aveva mai fatto pesare la sua
sordità. Akira non fece in tempo
a rispondere al messaggio di Yuu che subito ne arrivò un altro. “E levati quel sorriso dalla faccia, sembri
un macaco!”
“E tu levati quel grembiulino rosa,
sembri un trans!” Non si lasciò
scappare l’occasione per controbattere.
Un’altra
vibrazione, ma stavolta si trattava di foto di Yuu con addosso
un imbarazzante grembiulino rosa con tanto di merletti. “Perché? Non mi sta da Dio?”
Akira
non riuscì a trattenersi e non se ne importò di richiamare l’attenzione degli
altri quando rise di cuore. Yuu era davvero impossibile quando ci si metteva e
riusciva sempre a trovare un modo per rendergli migliore una giornata
potenzialmente di merda, ma il sorriso si spense quando posò gli occhi sul
carrello delle vivande che spingeva con l’entusiasmo che ci avrebbe messo un
bambino che andava dal dentista: la ciambella. Forse avrebbe potuto convincere Yuko a portargliela, doveva
convincerla o avrebbe dovuto rivedere quello stronzo e temeva che avrebbe finito col mettergli le mani addosso.
Finalmente dopo ore infinite la giornata di lavoro
stava per giungere al termine, Akira chiuse l’armadietto con uno scatto e si
lanciò verso l’uscita augurando a tutti un buon fine settimana; lui l’avrebbe
passato nel riposo più assoluto, avrebbe mangiato fino a scoppiare e magari
avrebbe anche potuto sfidare Yutaka a battere il suo record al nuovo gioco per la play. Non che fosse facile per lui, era una schiappa,
doveva solo ammetterlo. E lui doveva ammettere che non vedeva l’ora di
rivederlo, era stato a Narita per una settimana
intera piena solo di duro lavoro e una routine sempre troppo scomoda. Decidendo
di non pensarci più Akira sospirò, proprio come se quei pensieri fossero stati
dei nuvoloni neri e fosse stato sufficiente soffiarci su per allontanarli,
affrettò il passo impaziente di arrivare alla fermata della metro più vicina e
non si accorse della macchina che era sbucata all’improvviso da una curva
troppo stretta. Fece appena in tempo a fare un salto
indietro, ma il paraurti colpì ugualmente il suo ginocchio, di sicuro quello
stupido al volante ora stava suonando il clacson come un matto lanciandogli
insulti di ogni genere. Poco male non poterlo sentire in quel momento.
Quando Akira alzò lo sguardo
si ritrovò davanti la star del caffè, nonché colui che aveva cercato di evitare
per tutto il giorno: Ruki. Era sceso dalla macchina gesticolando ed urlava così tanto che gli venne quasi da ridere, ai suoi
occhi quando le persone facevano così sembravano solo dei matti che cercavano
di scacciare mosche fastidiose, avevano delle espressioni così buffe e non se
ne accorgevano neanche.
«Vorresti anche avere ragione? Sei
fortunato che non chiami la polizia!» Akira fu costretto a parlare nonostante
avrebbe fatto volentieri finta di nulla ed indicò il
segnale di divieto di accesso all’angolo della strada. Era un’infrazione da
ritiro della patente. «Guarda dove vai la prossima
volta!» una cosa era certa: se l’avesse messo sotto avrebbe dovuto pagarlo oro
quanto pesava. Lo vide boccheggiare come un pesce rosso in una bolla di vetro e
lo lasciò lì, non c’era altro da dire e lui voleva solo tornare a casa il più
presto possibile. Il ginocchio gli faceva un po’ male, di sicuro gli sarebbe
uscito un bel livido, ma era la giusta conclusione di una giornata cominciata
col piede sbagliato.
Dopo pochi minuti si ritrovò all’interno della
stazione più vicina, con movimenti fluidi recuperò la tessera magnetica che gli
avrebbe permesso di entrare e raggiunse il binario affollato
dove sbuffò, inalando e esalando l’aria riscaldata dai condotti di areazione
e resa pesante da respiri e odori di tutte le persone che vi transitavano ogni
giorno. Si sentiva nervoso, infastidito e non riusciva a togliersi dalla testa
quello stupido di poco fa. Lui non capiva, nessuno capiva.
Quell’idiota sarebbe tornato a casa dimenticando
quello che era successo e concludendo la sua giornata
come se niente fosse, ma per lui equivaleva quasi ad una sconfitta personale
perché ce la metteva davvero tutta a colmare la sua mancanza, osservava tutto
sempre con maggiore attenzione rispetto agli altri e gli era bastato un solo
momento di distrazione per essere quasi investito. E tutto perché lui quella
macchina non l’aveva sentita arrivare. Avrebbe potuto evitarla se l’avesse
sentita? A volte Yuu gli diceva che capitava anche a chi sentiva di non
accorgersi di un rumore, ma questo non bastava a permettergli di mettersi il
cuore in pace. Aveva paragonato Ruki ad un pesce rosso
in una bolla, ma forse era lui ad esserlo e si sentiva proprio come se
osservasse la sua vita da dietro un vetro e l’acqua densa e trasparente
avvolgesse le sue orecchie in una carezza soffocante.
Yuu diceva anche che il silenzio ha un rumore, una specie di ronzio che diventa sempre più
forte quando cerchi di non ascoltarlo, ma Akira non sapeva neanche cosa fosse
un ronzio e, magari, un giorno avrebbe scoperto che nel suo silenzio non c’era
posto neanche per quello.
Quando fu sicuro di essere ben ancorato ad un palo e non cadere alla prima fermata recuperò il telefono
che aveva chiuso in una tasca della borsa, avrebbe dovuto avvisare suo
fratello; quando la sua mano strinse la plastica del cellulare, le sue dita si
attorcigliarono per caso intorno ad un filo. Incuriosito Akira
sbirciò nella tasca per scoprire che il filo apparteneva agli auricolari
collegati al lettore di Yuu, doveva averlo lasciato lì il giorno prima quando
aveva usato la sua borsa.
Per un po’ rimase a fissare quell’oggetto che lo aveva
sempre affascinato, sapeva che dentro ci si poteva mettere la musica, ma non
concepiva secondo quale legge fisica la musica potesse essere imprigionata in
un file elettronico. Forse se avesse saputo cos’era davvero la musica
avrebbe potuto capirlo, certo conosceva i principi fisici che si nascondevano
dietro alla propagazione e alla ricezione del suono, ma erano sempre rimaste
idee astratte per lui, se non addirittura impossibili. Come Babbo Natale o gli
gnomi in groppa agli unicorni.
Portare la musica sempre con sé e poterla ascoltare ovunque,
in qualsiasi momento: doveva essere un sogno. E così, più per istinto che
reale logica, districò il filo nero e si portò gli
auricolari fino alle orecchie dove trovarono uno spazio perfetto in cui
incastrarsi; sapeva quanto fosse stupido un gesto del genere, ma così la gente
avrebbe pensato che era la musica a distrarlo dal mondo esterno e non la sua
totale assenza di suono. Era bello fingere, anche solo per pochi minuti, di
essere un normale ragazzo che tornava a casa dopo una lunga giornata di lavoro
lasciandosi alleggerire dalle note graffianti di una
canzone rock; se avesse potuto sentire era sicuro che il suo genere preferito
sarebbe stato il rock perché adorava la cura che ci mettevano nel suonare i
loro strumenti, il loro abbigliamento, il significato che sceglievano per i
loro testi e la passione che mandava in estasi i loro volti persino nei video
che vedeva in tv.
Il suo sguardo si posò su altri ragazzi che, come lui,
si erano rifugiati dietro un paio di auricolari e per una frazione di secondo si sentì stupidamente come loro. Sapeva che tutto
quello non faceva altro che distruggere tutti gli sforzi fatti in quattordici
anni per adattarsi alla sua sordità, ma non riusciva a farne a meno. Doveva essere come gli altri. Doveva. O si sarebbe spinto
troppo in là per riuscire a tornare indietro.
All’improvviso si ricordò del cellulare, stava quasi
per dimenticarsene e non aveva nessuna intenzione di sorbirsi una ramanzina
senza fine, digitò velocemente il messaggio e tornò a concentrarsi sul mondo
intorno a sé, doveva fare attenzione e scendere alla fermata giusta. Per ora,
quella era l’unica cosa importante perché poteva fingere
quanto voleva, ma tanto lui sapeva che la musica non c’era e non ci sarebbe mai
stata.
*
Quando Akira girò le chiavi nella serratura, la porta
si spalancò aprendo la visuale sul salotto illuminato dalla tenue luce
artificiale della lampada sul piccolo tavolo all’ingresso. Si era aspettato di
vedere Yutaka corrergli incontro come faceva di solito, invece dovette
togliersi cappotto e scarpe e lasciare la borsa prima di raggiungere la cucina
e trovare quei due impiastri intenti ad arrotolare il riso intorno a sottili
strisce di salmone. Gli davano le spalle ed Akira notò
che la tv era accesa sul solito canale musicale, il volume doveva essere alle
stelle per questo non l’avevano sentito. Per qualche secondo accarezzò l’idea
di restare lì, con la spalla contro lo stipite, e vedere quanto ci avrebbero messo ad accorgersi di lui. Ma
poi, da bravo stronzo, decise che sarebbe stato molto più divertente farli
spaventare.
«E meno male che il sordo sono io!» e come previsto i
due idioti balzarono al suono della sua voce, Yutaka si voltò mostrando il suo
bellissimo sorriso e gli si avvicinò per abbracciarlo facendo attenzione a non
sporcarlo con le mani piene di riso. Quel sorriso valeva sempre più di mille
parole. Il suo profumo era sempre lo stesso e la sua euforia contagiosa, riuscì
quasi a sentirla sotto la pelle della braccia fino ai
polpastrelli quando ricambiò la sua stretta.
Come stai? Yutaka cercò di ripulirsi come
poteva prima di rivolgersi al suo migliore amico.
Bene, tu piuttosto devi
raccontarmi tutto.Il motivo principale del suo viaggio era un corso di aggiornamento sulle
ultime tecniche di realizzazione dei dolci che tanto amava fare, anche se lui non ne aveva affatto bisogno, il suo era un talento
naturale: riusciva a mescolare ciò che provava agli ingredienti, tanto che a
volte ti sembrava di mangiare un pezzo del suo sorriso.
Prima ci aiuti con il sushi?
Qualcuno…Sottolineando
volontariamente il gesto, Akira fissò suo fratello che nel frattempo si era
voltato. Avrebbe dovuto aver già
preparato tutto.
E dai, mi sono addormentato!
Che stronzo! Io a sgobbare e tu a
dormire! Con
un sospiro recuperò un grembiule dal cassetto in alto a destra e si sciacquò le mani sotto l’acqua fredda, non aveva intenzione
di ritrovarsi sui vestiti quegli stupidi chicchi appiccicosi. Yuu, da dove comincio? Non gli era mai
piaciuto il segno che convenzionalmente avrebbe dovuto usare per l’hiraganaYu, da bambino diceva che assomigliava ad
una forchetta, perciò ne aveva inventato uno per lui; gli era sembrata una cosa
molto divertente quando aveva sette anni, aveva immaginato di essere una spia
dei servizi segreti in missione e quel segno scambiato con suo fratello fosse
una sorta di codice che solo loro avrebbero potuto comprendere. Un segreto solo
per loro, un linguaggio solo per loro due.
Dal cetriolo che ti piace tanto. Ma poi
si chiedeva come aveva fatto a venir su così scemo.
Semmai da quello ci cominci tu e
so pure che devi farci. Quando,
però, il suddetto ortaggio gli finì in testa non gli
restò altro che cominciare a sbucciarlo. Avrebbe dovuto aspettare per parlare
con Yutaka, non era l’ideale gesticolare con le mani sporche rischiando di
spargere riso ovunque.
Ma Yutaka sembrò non pensarla come
lui e richiamò la sua attenzione con una lieve gomitata. Com’è andata a lavoro?
Come al
solito, anche se ho incontrato uno stronzo.
Chi
è? Stavolta
fu Yuu a parlargli.
Non so se lo conoscete, io non
avevo mai sentito il suo nome. Si chiama Ruki. I due sbarrarono gli occhi
increduli.
Ruki? Ruki il cantante?
Si
perché? È davvero famoso?
Si,
praticamente ovunque. Era
stato Yutaka a dirglielo, ma non fu sorpreso che lui non lo conoscesse, i
cantanti non erano di certo tra le sue preoccupazioni maggiori.
Per me è solo uno stronzo.
Stasera mi ha anche messo quasi sotto con la sua stupida macchina supercostosa!
Yuu lasciò andare il coltello con cui aveva appena
finito di tagliare il cilindro di riso e cominciò ad
ispezionarlo ovunque. Ti sei fatto male?
Dove? Il braccio? La gamba? Era diventato molto apprensivo con lui
ultimamente, eppure quando erano bambini era
completamente l’opposto; che si trattasse di un ginocchio sbucciato cadendo
dall’altalena o di un livido ricevuto come testimonianza della lite per
il possesso del giocattolo più bello dell’asilo, Yuu aveva sempre fatto finta
di niente persino quando correva da lui in lacrime. A distanza di anni capiva
che lo aveva fatto per farlo crescere, ma sembrava che
ora stesse recuperando tutti gli anni persi a non preoccuparsi.
Non è niente, ho sbattuto solo il
ginocchio, ma mi sono spostato in tempo.
Devi
fare attenzione Akira.
Non è mica colpa mia! E non capiva proprio perché
avrebbe dovuto esserla. Era lui a
guidare contromano!
Poi mettici qualcosa sul
ginocchio.
Si mamma!
Scemo! Yuu gli diede una piccola spinta non troppo energica, stava sorridendo, non era più
preoccupato.
Aki. Il suo migliore amico richiamò
nuovamente l’attenzione del coetaneo. È
così bello anche dal vivo?
Chi?
Come chi? Ruki.
A me non è sembrato un granché. È
basso e praticamente è un manico di scopa.
Un giorno di questi posso sostituirti a lavoro? A me è sempre piaciuto e poi è
bravissimo!
Lo ha
detto anche il mio capo. Akira
annuì per andare, subito dopo, a lavarsi le mani. Non aveva più voglia di
preparare sushi, già era un miracolo che non avesse il suo solito mal di testa,
l’ultima cosa di cui aveva bisogno era di un lavoro che richiedesse un’elevata
dose di concentrazione.
E si può sapere cosa ti ha fatto
per essere odiato così tanto? Fu Yuu a chiederlo incuriosito.
Mi ha trattato da schifo! E poi è
uno snob. E
lui odiava i ragazzini viziati.
Magari era solo nervoso.
Magari è stronzo e basta. Non capiva perché dovesse per
forza esserci una motivazione per la sua stronzaggine, certe persone lo erano e
basta senza appellarsi ad una giornata storta o al
mancato allineamento dei pianeti; quel Ruki lo era decisamente a prescindere.
O magari prepariamo la tavola
così non moriamo di fame!
Yuu s’intromise interrompendo la loro conversazione.
Ogni tanto una buona idea!
*
Non ancora mi hai raccontato com’è
andata.
Akira fece sparire il primo pezzo di sushi, sapeva che sarebbe stato seguito da
molti altri giusto per non farlo sentire troppo solo nel suo stomaco, magari
accompagnati da un pizzico di wasabi.
Perché non c’è molto da dire,
noioso come sempre.
Almeno fai quello che ti piace. Pensa
a me: tutto il giorno a servire caffè a montati del cazzo!
Dai, non possono essere tutti
cosi!
Non rientrata nella forma mentis del suo buonumore il concetto che il mondo
potesse essere un luogo senza luce, doveva per forza esserci un fiore in una
roccia da qualche parte.
Non sono mica tutti come te
Yutaka.
Lo so, prendi la moglie del capo
per esempio: non fa altro che maltrattare tutti, persino quel poverino di
Kouyou che non ha mai dato fastidio a nessuno.
Non lo avevano licenziato? Yuu intervenne prendendo un
pezzo di sushi al tonno.
Non potevano soltanto perché ha
rifiutato le avances della moglie del capo. È un tipo tranquillo, con la testa a
posto, ha voglia di imparare e poi non l’avrei mai permesso, è pur sempre il mio allievo.
Ormai sono mesi che parli di lui
e non ce lo hai ancora presentato, devo cominciare a
pensare che non esiste? Ad
Akira sembrò una giusta osservazione.
Esiste eccome, scemo!
E allora perché non lo fai venire
domani sera a cena, è sabato.
Non saprei, ma potrei
chiederglielo.
È gay
secondo te? E
Yuu se ne uscì così, tra un boccone e l’altro, senza un minimo di tatto.
Ma
che ne so! Non è di certo la prima cosa che chiedo: ciao, piacere Yutaka, sei gay?
Chiedevo soltanto, poteva essere
la volta buona.
Per te tutte le volte sono quelle
buone Yuu!
Akira avrebbe tanto voluto dargli anche uno scappellotto, non era possibile
illudersi tanto sul filo rosso che avrebbe dovuto semplificati la ricerca. Fosse
stato così sarebbe bastato tirare il filo per scorgere
chi c’era dall’altra parte ed invece troppo spesso il filo si logorava, si sfibrava
fino a spezzarsi.
Non è mica colpa mia se piaccio. Yuu assunse la posa sognante di
una di quelle star del pop troppo finte per poter
respirare davvero, magari di quelle che facevano strage di cuori tra le
ragazzine tredicenni.
Ed ecco a voi la stronzata delle
undici e venti!
È davvero così tardi? Yutaka sembrò risvegliarsi da un
sogno, stava così bene insieme agli altri due da
dimenticare che esistesse un concetto chiamato tempo. Devo scappare.
Resta dormire qui se così tardi. Non era certo la prima volta, a
volte dormiva sul divano e a volte nel letto insieme a
loro.
Domani lavoro,
attacco alle otto.
È tutta una scusa per non lavare
i piatti, di la verità.
Akira finse di essere scandalizzato dall’affermazione
di suo fratello. Avresti il coraggio di
farli lavare a lui?
Io avrei il coraggio anche di
farle lavare a te. E
lo disse con la naturalezza che avrebbe usato nel dire che il cielo è azzurro e
il mare blu.
Che faccia da culo! E di tutta risposta Yuu si alzò
dal tavolo sorridendo e mostrando soddisfatto il suo dito medio un po’ storto.
Si adoperò per recuperare un contenitore da uno dei pensili per
poter dare a Yutaka una bella porzione del sushi avanzato.
Nel frattempo Yutaka aveva recuperato tutti i suoi
averi e, dopo aver preso la sua cena e salutato Yuu con un sonoro bacio sulla
guancia, si era riavviato all’ingresso seguito da Akira. Allora vi aspettiamo domani a pranzo.
Lo trascinerò anche contro la sua
volontà!
Buonanotte. Akira gli
sorrise.
Notte. Yutaka sparì dietro le porte
specchiate dell’ascensore e Akira tornò in casa passandosi una mano tra i
capelli castani e cercando, con un bel respiro, di fare un po’ di posto nel suo
stomaco, come al solito non aveva saputo trattenersi
davanti al suo piatto preferito e ora rimpiangeva la sua ingordigia. Quando
arrivò in cucina venne colto da un brivido, la grande
finestra che dava sulla veranda era aperta facendo entrare il fresco della
sera, il suo cappotto lo aspettava sul tavolo proprio accanto ad una sigaretta.
Sorridendo recuperò tutto ed uscì in veranda, si
accomodò subito accanto a suo fratello sul piccolo divanetto imbottito, Yuu gli
passò l’accendino ed anche la sua sigaretta prese ad ardere.
Come mai qui fuori stasera? Per carità, era bello starsene
lì insieme, ma non lo facevano spesso.
Yuu fece spallucce. Volevo vedere le stelle, ce ne sono tante stasera.
Se volevi baciarmi
potevi anche evitare tutta questa messa in scena! Akira rise aspirando un’altra
dose di nicotina, era frustrante doversi voltare ogni volta per guardare ciò
che Yuu aveva da dirgli, se avesse dovuto racchiudere in una parola la sua sordità sarebbe stata proprio quella: frustrazione. Perché
non poteva guardare le stelle come tutti gli altri mentre ascoltava la voce di
suo fratello? Magari accompagnata dal rumore del vento, o del traffico in
strada.
Ma
quanto sei scemo! Anche
Yuu rise e si lasciò scivolare leggermente sul divanetto allungando le sue
gambe lunghe e incrociando i piedi.
Dopo qualche minuto Akira sospirò schiacciando ciò che
restava della sua sigaretta nel posacenere, piaceva anche a lui starsene lì
fuori a guardare le stelle, ma dopo un po’ cominciava a perdersi tra i suoi
pensieri e non tutti erano felici perciò quando richiamò l’attenzione di Yuu se ne pentì immediatamente, ma lui era troppo curioso
per lasciar stare.
Ora me lo dici, se no lo sai che
non dormo!
Esagerato!
Dai!
Akira prese un bel respiro. Pensi mai a Kaito? Erano mesi che non toccavano quell’argomento,
eppure qualcosa nel cielo gli aveva fatto ripensare a lui ed era stupido che
gli venisse in mente ora, dopo una serata a dir poco fantastica. Yuu sembrò
prendersi qualche attimo per riflettere e poi, lentamente, annuì.
Ma
non penso a lui come immagini tu.Penso a lui
per ricordarmi quanto possono essere stupide le persone e quanto lo sono stato
io a fidarmi di lui.
Io... Le mani di Akira si fermarono a
mezz’aria, sapeva che suo fratello l’avrebbe picchiato se avesse detto una cosa
del genere, ma sentiva di doverlo fare ugualmente. Mi dispiace che sia andata così.
Non è mica colpa tua.
Si che lo è.
Tu lo amavi e... E
lui lo aveva lasciato quando aveva scoperto che suo fratello era sordo. Non lo
biasimava per questo, tutti erano sempre pronti a lanciarsi contro le
discriminazioni dei più sfortunati, ma non erano altrettanto pronti ad
accettare la diversità quando gli era così vicino.
Akira, non voglio mai più sentire
una stronzata del genere, mi hai capito? Ora nei suoi occhi brillava una strana luce simile
alla rabbia. Se quel coglione mi ha
lasciato la colpa è solo del suo cervello grande come
quello di una gallina! Tu sei mio fratello e sei la persona più importante
della mia vita, chi non accetta te non accetta me.
Punto.
Io so solo che voglio vederti
felice e non voglio essere un peso per te. Potresti
vivere la tua vita e non sacrificarla per stare dietro a
me.
Vuoi davvero essere picchiato
stasera, dì la verità! Lo vuoi capire che io senza di te non vado da nessuna
parte? Noi siamo Akira e Yuu Shiroyama e non
permetterò a nessuno di mettersi tra di noi. Va bene? Akira si ritrovò ad annuire
stringendosi un po’ di più nel cappotto. E non a causa del freddo. E poi, in realtà, sei tu che ti prendi
cura di me. Effettivamente, la maggior parte delle volte, era lui ad occuparsi della cena, del bucato o delle pulizie, ma Akira
non avrebbe mai pensato che fosse lui a badare a suo fratello. Io faccio solo danni, ti ricordi quella
volta che ho tinto tutto il bucato di rosa? Akira scoppiò a ridere di
gusto, non era stata la cosa in sé a farlo ridere fino alle lacrime quella
volta, ma l’espressione di Yuu quando aveva tirato fuori il bucato dalla
lavatrice ed era stato costretto a girare per casa con delle ridicole mutandine
rosa finché non ne aveva comprate delle altre. Però tu poi tu sei scivolato sul pavimento bagnato! Ti sei fatto tutto il
corridoio! Quella volta Akira aveva usato troppo detersivo, un attimo prima
aveva posato il secchio e un attimo dopo si era ritrovato in camera
da letto dove Yuu lo aveva preso in giro per due ore intere.
Parli tu che eri convinto che il
forno a microonde potesse cuocere anche le uova.
Ma
può!
Ma
non col guscio!
Era bello ridere così spensieratamente, e lo era soprattutto non dover smettere per poter parlare, non
c’era neanche bisogno di riprendere fiato. Andarono avanti per quelle che
parvero ore, ma la luna era ancora alta quando decisero di andare a letto
scambiandosi soltanto un’occhiata complice.
Loro erano così: forti e spensierati come una risata.
Eccovi
qui fringuelline ♥ sono tornata con un nuovo
capitolo, a quanto pare la ff sta andando bene (o
comunque meglio di quanto mi aspettassi xD) quindi vi
ringrazio m( _ _)m ma vediamo come sarà l’ingresso in
scena di Kouyou *w* buona lettura~
Sing for me
Quella
mattina Yuu si era svegliato di ottimo umore. Aveva potuto dormire beatamente
finché non era stato risvegliato dal profumo del caffè ancora fumante che aveva
trovato sul comodino, aveva preso tutto il tempo che voleva per una doccia da
sogno ed aveva raggiunto il supermercato all’angolo.
Era una magnifica giornata di sole e la sua unica preoccupazione era stata
scegliere tra un vino italiano ed uno francese, alla
fine aveva comprato una bottiglia di profumato Chianti perché quel sabato
andava celebrato nella sua ventata di buonumore.
Quando girò l’angolo riuscì a malapena a fare due passi che
il suo nome gli giunse trasportato dal vento, si voltò per incontrare la figura
di Yutaka in dolce compagnia. Gli si avvicinarono quasi subito e non poté fare
a meno di notare la scatola rettangolare che stringeva in mano il moro e in cui
sicuramente si nascondeva una delle sue prelibatezza a
cui nessuno riusciva a rinunciare. Avrebbero mangiato così
tanto da star male, lo sapeva.
«Sempre il
solito!» Yuu indicò il misterioso dolce scatenando la sua ilarità.
«Anche tu.»
Il moro mise
in bella vista il suo acquisto. «Mi ci ha mandato Akira.»
«Lui è
Kouyou.» Yutaka gli presentò il ragazzo altissimo che gli stava vicino. «E lui
è Yuu.»
«Piacere.»
la sua voce era profonda e trasparente aldilà di ogni
previsione. I capelli ramati incorniciavano il viso dagli zigomi
leggermente sporgenti, i lineamenti erano armoniosi e abbastanza comuni, ma labbra così non ne aveva mai viste: quello superiore
era sporgente soltanto al centro, quasi fosse rimasto intrappolato in un bacio,
o ne chiedesse uno a gran voce e chi era lui per rifiutarsi?
«Piacere
mio.» ma si limitò soltanto a stringere la mano che gli porgeva e fu come
trovare un senso alla sua vita. Non aveva mai visto un
uomo così bello, poteva sembrare una vuotissima frase fatta, ma non riuscì a
pensare niente di più coerente; se gli avessero chiesto di descrivere la sua
bellezza in una parola, lui avrebbe fatto scena muta perché tutta quella
perfezione non poteva essere racchiusa in uno stupido ammasso di lettere. «Andiamo,
o Akira ci verrà a prendere di peso.» ma non trovando le chiavi che credeva di aver preso, si ritrovò costretto a bussare.
Akira lasciò
sul tavolo l’ultimo bicchiere e si precipitò al citofono non appena vide la
luce all’ingresso lampeggiare insistente, sollevò la cornetta ed attese che l’immagine nel display fosse abbastanza nitida
da scorgere l’espressione più idiota che suo fratello avesse mai potuto metter
su: il suo sopracciglio si alzava ritmicamente ammiccando con il suo occhio scuro
che, in quel momento, era l’unica cosa che riusciva a vedere del suo viso. Fece
scattare la serratura trattenendo a stento una risata, eppure credeva di aver
conosciuto il fondo della sua stupidità.
Aprendo la
porta Akira vide i tre percorrere il piccolo vialetto lastricato che portava ai
quattro gradini prima dell’ingresso, Yuu faceva strada
ridendo di ciò che Yutaka gli stava dicendo a giudicare dal suo gesticolare e a
chiudere la fila c’era un ragazzo altissimo che doveva essere Kouyou; era molto
diverso da come se l’era sempre immaginato grazie alle descrizioni di Yutaka
che non gli rendevano affatto giustizia.
Non appena
furono a destinazione, suo fratello gli passò davanti lasciando la solita scia
del suo profumo, Yutaka lo salutò con un bacio sulla guancia facendogli capire
subito dopo che il suo dolce non poteva più aspettare di essere messo al fresco.
«Tu devi essere Kouyou, piacere Akira.» non era il tipo da lasciarsi
imbarazzare da stupide formalità, perciò strinse subito energicamente la mano
lattea che l’altro gli porgeva.
«Kouyou,
piacere.»
«Vieni, accomodati.»
Lo vide
togliersi le scarpe ed avanzare guardandosi intorno
con aria curiosa, lo precedette per raggiungere la cucina dove Yutaka si stava
occupando della torta.
«Che hai fatto
stavolta?» il moro chiuse il frigo e si voltò sorpreso di aver udito la sua
voce, ma non accennò nulla a riguardo, ormai lo conosceva così bene da riuscire
a decifrare ogni suo comportamento. Doveva avere a che fare con Kouyou.
«Non te lo
dico.»
«Dai!»
Yuu scosse il capo sorridendo a quella scena e si allontanò per raggiungere il
tavolo dopo aver stappato una bottiglia del vino che aveva appena
comprato. «Porto i piatti in tavola!» Akira recuperò i piatti stracolmi che
aspettavano fermi sul ripiano della cucina che fingeva di essere marmo, non gli
era mai piaciuto ed ogni volta che lo vedeva gli
faceva crescere dentro una punta di irritazione che, però, svaniva subito dopo.
Lui odiava le finzioni, probabilmente perché lui stesso aveva basato la sua
vita su una menzogna che diventava sempre più grande, temeva che un giorno gli sarebbe sfuggita di mano.
«Ti aiuto?»
Kouyou si propose gentilmente, per fortuna si era voltato in tempo per vedere
ciò che aveva da dirgli.
«Puoi
prendere quel piatto, grazie.» chissà se Yutaka gli aveva detto del suo udito.
Gli sorrise mentre raggiungevano il
salotto dove una tavola imbandita creava un’atmosfera di casa, Yuu aveva già
pensato al resto dei piatti perciò i due ultimi arrivati non dovettero fare
altro che sedersi. «Avete notato che oggi stranamente caldo?» Yuu intavolò il
discorso per frantumare la brina che si era posata su di loro e che, altrimenti,
si sarebbe trasformata in ghiaccio.
«Sì, credevo
che il freddo sarebbe arrivato senza pietà, invece ritarda!» del resto era
normale in quel paese parlare del tempo prima di ogni altra cosa. «Almeno mette
di buonumore.» Yutaka sorrise illuminando l’intera stanza.
«Non fare
complimenti, prendi tutto quello che vuoi.» Yuu
cominciò a servirsi passando agli altri il piatto di portata pieno di invitanti verdure fritte.
Kouyou si
guardò intorno con l’espressione di un bambino in un negozio di caramelle:
indeciso, ma con la chiara intenzione di fare la scelta giusta; puntò i
gamberetti accanto ad Akira e lontano dalla sua portata. «Potrest-»
ma si fermò quando si rese conto che l’altro era concentrato altrove e non
avrebbe potuto vedere ciò che aveva da dirgli. Come se avesse sentito il suo sguardo
su di sé, Akira si voltò nella sua direzione. «Potresti passarmi i gamberi?» aveva
parlato molto lentamente, insicuro sulla giusta velocità che gli avrebbe
permesso di capire. Aveva fatto bene o era sembrato solo un idiota? Magari era
stato scortese, ma si sentiva un po’ a disagio all’idea che dall’altra parte ci
fosse qualcuno che viveva in un mondo ovattato che lui poteva solo sperare di
raggiungere dall’esterno.
Akira gli
passò subito ciò che gli aveva chiesto con un sorriso. «Puoi parlare
normalmente, so leggere benissimo le labbra.» Yutaka
gliene aveva parlato eccome e non poteva certo biasimarlo, era lui a volerlo
nascondere al resto del mondo, era lui non accettarlo per primo; per gli altri era
una cosa normale e faceva parte della sua natura, come se avesse avuto i capelli
neri invece che castani. Akira era alto, aveva gli occhi castani, era magro e
sordo. Niente di straordinario, ognuno è ciò che è.
«Scusa.» aveva
cominciato col piede sbagliato. Non che fosse una novità, probabilmente nella
sua vita non esisteva ancora qualcosa che aveva fatto nel modo giusto.
«Non
preoccuparti, di solito urlano convinti che sia una
questione di volume.» non c’era posto per una dose di tagliente ironia nella
sua voce, in realtà non avrebbe saputo coglierne la sfumatura per imitarla,
tutto ciò che poteva catturare sull’emozioni umane risiedeva solo nell’espressione
del viso.
Il nuovo
ospite parve tranquillizzarti cominciando a mangiare. «È davvero buono!» e non
lo diceva solo per essere gentile, non era il tipo di persona che si lanciava
in complimenti fini a se stessi.
«Grazie, ma sono
sicuro che non saranno mai buoni quanto i tuoi dolci.»
Akira aveva passato l’intero pomeriggio sui fornelli, mentre quello sfaticato
di suo fratello aveva pensato solo a fare da assaggiatore ufficiale, perché
qualcuno doveva pur fare da cavia per la scienza.
«Non so se
non siano poi così buoni.»
«Come no? Yutaka non fa che vantarti,
devo ammettere che mi ha riempito di curiosità.» intervenne
Yuu.
«Sei davvero
bravo, altrimenti non saresti nella mia pasticceria.» sentendosi chiamato in causa lo chef ci tenne a fare la sua precisazione.
«Allora devi
farci assaggiare qualcosa!»
«Volete
sentirvi male?!» una risata era sempre la miglior cosa
per condire un pomeriggio pieno di novità.
«Ops, non ho portato l’acqua!» Yuu si accorse della sua
mancanza guardando speranzoso suo fratello che,
lanciandogli uno sguardo annoiato, si allontanò per raggiungere la cucina
trascinando quasi piedi. Gliel’avrebbe fatta pagare,
quanto avrebbe goduto nel guardarlo lavare quella montagna di piatti che
avrebbe incrementato con ogni mezzo, a costo di usarli per appoggiarci l’aria.
«Spero non se
la sia presa per prima.» Kouyou era terrorizzato all’idea di aver, in qualche
modo, offeso Akira.
«No, tranquillo. È abituato a cose
peggiori.» Yuu riuscì chiaramente a vedere quanto
fosse limpido e cristallino il ragazzo che gli sedeva di fronte, sembrava fosse
un vetro trasparente oltre al quale leggere le sue emozioni; e poi se davvero
avesse fatto, o detto, qualcosa che avesse dato
fastidio al suo piccolo Akira, lo avrebbe sbattuto fuori casa senza esitazioni.
Neanche davanti a quel bellissimo viso. Akira ritornò con due bottiglie d’acqua
e la conversazione poté continuare. «E così, ti sei trasferito da poco?»
«Si, da Osaka.»
«Per forza
sei bravo in cucina allora!» non per niente quella città era conosciuta come la
capitale della buona tavola.
«Credo siano
più bravi in America, anche se gli ingredienti hanno sapore completamente
diverso lì.»
«Ci sei
stato?!» Yuu sbarrò gli occhi dalla sorpresa. Gli
sarebbe piaciuto lanciarsi in un viaggio di quella portata, raggiungere una
destinazione diametralmente opposta, così lontano da tutto e tutti per poter ricominciare senza che qualcuno si aspettasse
qualcosa da lui. «Ti piaceva vivere lì? Come mai sei
venuto a Tokyo?» Yuu aveva sempre avuto grandi sogni e grandi progetti per il
suo futuro, ma gli aveva sempre messi da parte perché,
come diceva lui: i sogni non pagano le bollette. Per lui lasciare il paese
delle mille opportunità doveva essere più o meno come
strappare una banconota da mille yen perché, in fondo, era solo carta. Una
pazzia. Akira si chiese, inevitabilmente, se i suoi sogni li avesse
messi da parte solo per stare con lui.
«New York è
davvero troppo caotica e io non abitavo neanche in una
zona movimentata, può sembrare un sogno, ma viverci giorno dopo giorno ti fa
pentire di averci anche solo pensato e poi il Giappone resta sempre la mia
casa. Bisogna cercare il proprio posto nel mondo, quello in cui ti senti a casa
e non era lì; almeno posso dire di averci provato.»
«Beh, dico
solo che lì sarebbe stato più facile diventare qualcuno, realizzare i propri
sogni perché se vali sanno aiutarti.»
«Potrei avere qui le stesse
opportunità e non saranno un lavoro o un conto in banca a rendermi qualcuno. Io
so già chi sono e cosa voglio.»
Akira
riconobbe all’istante la scintilla nello sguardo di suo fratello, ad innescarla era l’attimo in cui qualcuno lo contraddiceva
o se ne usciva con una frase che stuzzicava il suo interesse. «E chi sei?» in
quel momento gli sembrò davvero un gatto dispettoso che aveva appena puntato la
preda a cui avrebbe dato la caccia, non si sarebbe
fermato finché non l’avrebbe avuta tra le unghie, magari poi l’avrebbe lasciata
andare, ma niente sarebbe stato appagante quanto sapere di aver vinto.
«Non sono io
a doverlo dire.»
«Dovrei
scoprirlo da solo?» e Yuu ne sembrò divertito.
«Perché no?»
Akira alzò
lo sguardo su Yutaka aspettando che anche lui lo guardasse per comunicare con
lui e sussurrargli la sua richiesta d’aiuto. Si è trasformato in un appuntamento al buio! Mi si stanno staccando gli
occhi! Andava bene tutto, ma non guardare suo fratello flirtare
in quel modo indecente, non che gli desse così tanto fastidio, ma sentiva il
bisogno di allontanarsi per un attimo: per lui Yuu era dolce ed asessuato come
i putti dai riccioli castani che si scambiavano un bacio attraverso lo sguardo
innocente.
Yutaka gli sorrise mostrandogli le fossette in cui gli era sempre piaciuto
infilarci la punta dell’indice. Andiamo
a prendere gli altri piatti?
Akira annuì
e si alzò seguito dall’altro, nonostante fosse sicuro di aver fatto rumore
spostando la sedia quei due non gli prestarono la minima attenzione.
Gli venne quasi da ridere, e anche da piangere perché quando a Yuu piaceva qualcuno era la fine per tutti.
*
Se non
fosse stato per il messaggio ricevuto poco prima di mettersi a dormire, a quell’ora
Akira sarebbe stato nel suo letto a ronfare beatamente. Invece, da bravo amico
qual era, si ritrovava a montare il latte da aggiungere ai due cappuccini che
aspettavano solo di essere bevuti; non avrebbe dovuto essere lì quella domenica
mattina, a servire quei pochissimi pazzi che, presi dalle smanie di potenza, si
presentavano a lavoro anche quando non dovevano. Il suo amichetto Kenji avrebbe fatto meglio a procurarsi tutto l’occorrente
per costruirgli una bella statua tutta d’oro, magari grande come quella del Buddha
a Kamakoura. Spolverò un po’ di cacao nelle tazze
davanti a lui e sorrise agli strani ragazzi che le aspettavano, proprio come se
gli piacesse da matti servirli e fosse la sua massima aspirazione di vita; odiava
stare al banco, ma per fortuna quando dava le spalle ai clienti
c’era un enorme specchio dove riposavano le bottiglie che gli permetteva di
tenere tutto sotto controllo, poteva gestire la situazione con relativa calma
impedendo alla sua testa di gridare vendetta qualche ora più tardi. Con la coda
dell’occhio vide il suo capo rispondere al telefono, per fortuna non gli aveva
mai chiesto di farlo, o avrebbe dovuto inventare una scusa che non avrebbe mai
retto. Quando riagganciò gli andò incontro con un
biglietto in mano, qualcuno aveva fatto un ordine dai piani alti.
«Cercano
te.»
«Eh?» Akira
non fu sicuro di aver capito bene, Yuu gli aveva detto che di tanto in tanto lo
facevano anche quelli che avevano sentito bene, ma che si prendevano un po’ di
tempo per pensare alla giusta risposta.
«Gli è piaciuto così tanto quello che gli hai preparato ieri, che ha chiesto
espressamente di te. Vai, qui ci penso io.» il ragazzo
prese tra le dita il foglietto dell’ordine: cappuccino con cacao, panna a
parte. Ruki. Terzo piano. Quello stronzo aveva voglia di scherzare, doveva
averlo riconosciuto la sera precedente ed ora aveva
voglia di urlare contro di lui come una checca isterica, ma si sbagliava di
grosso se pensava di aver ragione. Si mise subito a lavoro, stavolta ci avrebbe
sputato nel cappuccino, o magari avrebbe sputato
direttamente sulla sua faccia da schiaffi. Mise tutto sul vassoio e si
precipitò verso l’ascensore, dopo cinque minuti si ritrovò a percorrere il
lungo corridoio isolato, quando arrivò a destinazione
trovò la porta già spalancata, ma prima di entrare bussò ugualmente. All’interno
scoprì che Ruki non era solo, era in compagnia di altre persone che non aveva
mai visto prima, uno di loro gli fece segno di avvicinarsi e di posare ciò che
aveva in mano sulla grande scrivania al centro della stanza. A quanto sembrava
erano intenti ad ascoltare qualcosa che li stava entusiasmando parecchio, lo
poteva facilmente dedurre dai movimenti delle loro dita che battevano il tempo
in sincronia con la testa del più anziano che annuiva contento.
«Tu non hai sentito niente
qui dentro, ragazzo!» un uomo robusto sulla quarantina gli si rivolse
continuando a sorridere.
«Assolutamente
niente.» ad Akira venne quasi da ridere, non sapevano quanto ciò che dicevamo
avesse del vero. Con la voglia di tornarsene dietro al suo adorato bancone,
avanzò reggendo in bilico il vassoio pieno di bicchieri di polistirolo su cui
campeggiavano i suoi kanji eleganti e sbilenchi, così
lui non avrebbe dovuto parlare più del dovuto e tutti avrebbero saputo quale
bicchiere prendere.
«Ah, ragazzo! Come ti chiami?» Akira vide un uomo che lo stava fissando quindi dedusse
che doveva avergli rivolto la parola.
«Akira.»
era difficile dedurre dalle espressioni ciò che avrebbe dovuto capire dal tono
di voce, dalla sfumatura di indecisione di una domanda
imbarazzante, dal tremore dell’insicurezza di una dichiarazione d’amore, per
lui le voci erano tutte uguali e avevano tutte il colore del silenzio. Ma riusciva a capire quando era solo il suo nome che gli
chiedevano.
«Akira, perfetto! Ci
prepareresti altri due cappuccini?»
«Certo.» si
mise subito all’opera ringraziando di aver portato con sé latte e caffè extra.
Versò con cura la bevanda scura e, successivamente, il
latte montato a schiuma con un solo
pensiero in mente: non doveva trovarsi lì, non in quella stanza in cui si
sentiva fuori posto. Avvertiva delle strane vibrazioni all’altezza del petto,
sicuramente dovevano avere il volume livelli inauditi. Non comprese le parole
che si scambiarono sorridendo, ma vide l’attenzione di tutti finire
intrappolata nelle immagini che si agitavano su uno schermo non troppo
distante. Neanche fosse una ragnatela psichedelica intessuta con cura da un
ragno velenoso. Osò guardare lo schermo solo per pentirsene nello stesso
istante: Ruki era proprio lì, seduto con noncuranza mentre rincorreva un
pensiero. Non indossava più quel vergognoso cappello del giorno prima, rivelando
dei capelli biondi tenuti in alto in una strana coda sbilenca mostrando addirittura
qualche centimetro di ricrescita. Le sue orecchie erano ricolme di anelli e c’era
persino in dilatatore al lobo destro che scintillò colpito dalla luce del neon,
ai suoi occhi non sfuggiva mai nulla: nemmeno la sfumatura di nocciola delle
iridi che lo fissavano incredulo. Akira poté quasi vederli i puntini che la sua
mente stava collegando, aveva riconosciuto l’esatto momento in cui l’altro
aveva capito chi si ritrovava davanti.
«Fate ripartire il video, guardiamolo ancora una volta.» e le luci
si abbassarono lasciando scendere un velo di terrore davanti ai suoi occhi
spalancati, odiava il buio perché nell’oscurità poteva nascondersi di tutto e
non avrebbe potuto sentire il pericolo arrivare alle sue spalle; di notte
dormiva sempre con una piccola luce accesa sul suo comodino, non avrebbe potuto
ugualmente sentire se qualcuno irrompeva in casa o se Yuu gli urlava di aver
bisogno di aiuto, ma tra un sogno e l’altro poteva rassicurarsi che tutto
andasse bene guardando suo fratello dormire beato al suo fianco. Nel frattempo lo schermo aveva cominciato a lampeggiare immagini
di Ruki che, ora, appariva come il più innocente degli angeli e l’attimo dopo
sembrava fissarti dritto negli occhi ordinandoti di saltargli addosso e
scoparlo come fosse l’ultimo dei tuoi giorni, ma Akira
continuava a fissarlo senza vederlo, si domandava solo come fosse finito in
quella situazione che aveva del ridicolo. Avvertiva solo delle vibrazioni
propagarsi attraverso il legno della scrivania su cui poggiava le mani inermi:
il basso e la batteria, questo lo ricordava, e forse anche la sua voce. Poteva
una voce umana creare le vibrazioni che sentiva
arrivargli impercettibilmente al petto? Tante volte aveva posato le dita sulla
gola di Yuu sentendo il formicolio sui polpastrelli mentre parlava, forse
cantare duplicava l’effetto, forse avrebbe sentito uno strano tremore posando
le dita su quella gola nascosta da una soffice sciarpa vaporosa. O forse
sarebbe dovuto semplicemente scappare il più lontano possibile da quel luogo di
tortura simile all’inferno, ma l’illuminazione tornò prima che potesse concretizzare quel pensiero, ora vedeva di nuovo tutti gli
occhi puntati su di lui come fosse la star ed invece era soltanto un cameriere
con indosso il suo grembiule macchiato di caffè. Non doveva essere lì, ma a
casa, nel suo letto, nel suo sogno.
«Prego.» senza
dire altro, lasciò i cappuccini sulla scrivania ed
uscì a corto di fiato. Aveva un nodo stretto intorno alla gola, una sensazione che
non provava da quando aveva otto anni e un bambino l’aveva preso in giro
davanti a tutta la classe per il modo in cui parlava. Per lui era difficile
articolare i suoni che non riusciva a sentire e si era
sentito così impotente perché non riusciva neanche a capire cosa facesse ridere,
così tanto, quello stupido idiota. Da allora era stato escluso e soprannominato
dokuzetsu
ma questo non l’aveva mai raccontato a Yuu. Da quel momento aveva faticato
tanto per capire al meglio cosa il mondo diceva
intorno a lui e, se non ci riusciva, lo immaginava; così come aveva immaginato
la sua voce o quella di suo fratello. Ma non riusciva ad
immaginare quella di Ruki. Cosa poteva mai esserci di
tanto meraviglioso da mandare in estasi tutti presenti in quella stanza? Le
aveva viste le loro facce e li aveva invidiati. Non sapevano neanche che grande
fortuna avessero e sicuramente la davano per scontata.
Aveva
soltanto bisogno di una pausa e di una sigaretta, perciò raggiunge di corsa il
tuo armadietto e rovistò nel fondo perché sapeva di avervi nascosto una
sigaretta per i casi di emergenza; non appena raggiunse la terrazza
aspirò la dose di nicotina come fosse un salvagente lanciato ad un uomo che sta
per annegare, in vita sua non gli era mai capitato di desiderare così tanto di
sentire o sapere come potesse suonare una voce. Perché doveva capitare in quel
momento? E perché la voce che aveva violentato la curiosità che aveva ucciso
durante tutti quegli anni, doveva essere proprio
quella di Ruki? Tutto quello non aveva senso, non un fottutissimo briciolo di senso. Lo aveva visto di sfuggita, lo aveva quasi investito
e ora non riusciva a sopportare l’idea di non sapere che voce avesse; l’aveva
visto muoversi con una tale lussuria che aveva immaginato fosse uno di quelli
che riescono a farti venire nelle mutande con una sola parola, figuriamoci
cantando. Doveva solo andarsene da lì, non era il lavoro giusto per lui, ne
avrebbe trovato un altro più adatto in cui non sarebbe stato circondato da
persone che gli ricordavano ogni giorno che cosa era costretto a rinunciare.
Schiacciando
ciò che restava della sigaretta sotto la suola, tornò indietro per recuperare i
suoi averi e tornare al suo nido sicuro.
Dokuzetsu: wickedtongue,
quindi malalingua direi òwo
un modo ‘carino’ per dirgli che parlava male, insomma u_ueeeh, a volte i bambini sanno essere davvero malefici
è_é povero piccolo pulcino indifeso twt *parla lei che gli ha inflitto queste sofferenze* xD ma veniamo al dunque: Kou e Yuu si sono conosciuti, Kou
ha fatto parecchie esperienza in giro per il mondo, ma nessun posto era come
casa…se no come avrebbe fatto a conoscere Yuu? >w> purtroppo non posso
darvi anticipazioni, ma posso solo dirvi STATE ATTENTE A_A non abbassate la
guardia mhauhuahuhauah~ Akira, invece, è sempre più
ossessionato da Ruki…come si dice: la lingua batte sempre dove il dente duole u.u *sadica* ha faticato così
tanto per abituarsi alla sua situazione e il primo pinco pallino che arriva
rovina tutto D: inconsapevolmente tra l’altro…ma chissà, chissà cosa accadrà *carezza
Aki* ç_ç beh, lascerò
crescere le vostre aspettative e vi lascerò fantasticare, così farete vostra la
storia *w* ♥
Rieccoci qui *-* sono ancora nella navicella madre, ma
sono riuscita ad accendere questo coccio di pc che 10
anni li avrà eccome òwo la storia deve pur proseguire
insomma u_u perciò buona lettura e grazie a tutte *^*
Singfor
me
Entrando
in casa notò solo le scarpe di Yuu dimenticate con
noncuranza accanto al portaombrelli, si tolse il cappotto lasciando cadere la
borsa dove più le piaceva, le scarpe finirono chissà dove e senza neanche
accorgersene si ritrovò a percorrere il corridoio. A metà strada tra il salotto
e la camera da letto, lo vide sdraiato sulle coperte assorto nella visione di
qualche demenziale programma pomeridiano, incrociò il suo sguardo per un decimo
di secondo che gli parve pregno di una muta domanda ovvia, ma non gli rispose
nemmeno con i suoi occhi scuri limitandosi a stendersi accanto a lui per
nascondere il viso nell’incavo che la sua spalla creava col cuscino. Non gli
serviva altro che il suo braccio intorno alle spalle che non tardò ad arrivare,
voleva solo non pensare, sentirsi di nuovo un bambino e credere che nulla al
mondo avrebbe potuto fargli del male.
Restarono
così per quelle che parvero ore, forse furono solo minuti. Akira
riemerse dal suo nascondiglio sicuro solo per incrociare il volto di Yuu che lo
stava guardando aspettando una spiegazione. Cos’hai? Ma sapeva che non gliel’avrebbe detto stavolta.
«Sono
solo stanco.» e Akira prese tra le sue una mano di suo fratello, grande e calda,
la tirò fino a sé per posizionarla sull’orecchio che non poggiava sul cuscino, gli
piaceva dormire in quel modo perché aveva l’impressione di non sentirci solo
per colpa di quella mano, così poteva concentrarsi sulle sue fantasie e sperare
di fare un bel sogno. Magari stavolta avrebbe sognato la sua voce.
*
Si era svegliato avvertendo il vuoto accanto a sé quando Yuu si era alzato,
per lui non c’era nulla di diverso: era solo un altro giorno come tutti gli
altri in cui avrebbe indossato il suo completo migliore sperando di arrivare a
sera senza aver combinato un disastro irreparabile. Akira si alzò con movimenti
stanchi e pesanti, non aveva dormito bene e si era svegliato più volte con la
sensazione che stesse succedendo qualcosa in casa: magari Yuu
non era riuscito a svegliarlo, magari era proprio lui ad essere in pericolo, o
magari si era trattato solo di incubi e lui era un paranoico del cazzo. Entrò
in cucina solo per trovarla vuota, non aveva voglia di caffè ma solo di latte
caldo, fuori pioveva e la pioggia aveva il potere di intristirlo
fino alle ossa. Yuu arrivò qualche minuto dopo, mentre lui era impegnato ai
fornelli senza realmente vederli, si sentì toccare una spalla in modo così
delicato che sembrava si fosse trattato di un gatto; di solito non si
spaventava in quel modo, eppure sobbalzò preso alla sprovvista. Così lo bruci. Yuu spense il gas versando
il latte fumante in una tazza con un cane troppo felice, usava quella da quando
era bambino. Tieni. Si sedettero uno
di fronte all’altro, il moro si era preparato un caffè prima di perdersi in
bagno ed ora era freddo ed imbevibile. Lo lasciò lì sul tavolo, come se fosse
la ragione per cui non si precipitasse ad indossare le scarpe per correre via. Oggi non vai al lavoro? Erano già le
sette e suo fratello era ancora in pigiama.
No. Akira verso un po’ di latte
freddo per stemperare quello troppo bollente. Esisteva qualcun altro al mondo
capace di capirlo come faceva suo fratello? Forse no. Forse l’intero animo
comprensivo del mondo si era condensato in un’unica persona e si trattava
proprio di suo fratello, in modo che crescesse con una guida forte nei primi
decenni della sua vita, ma un giorno avrebbe dovuto staccarsi da lui per percorrere
la sua strada e allora avrebbe dovuto imparare a farne a meno. Nessuno avrebbe
più capito cosa si nascondeva dietro al muro che aveva costruito giorno dopo
giorno, mattone dopo mattone.
Mi dici cosa
ti è successo? È da ieri che sei strano.
Ho avuto una
brutta giornata a lavoro. E in fondo era vero, non aveva mai vissuto una mattinata tanto spiacevole
da quando lavorava lì, soltanto da bambino, ma allora non aveva la consapevolezza
dei vent’anni.
Questo lo
dici a Yutaka per evitare le sue domande, a me cosa dici invece? Il suo viso era sereno, avrebbe
usato un tono dolce e delicato se avesse parlato.
Non credo di
riuscire a lavorare lì dentro ancora per molto. Tanto valeva essere sinceri, era
stanco di mentire e di provare ad essere ciò che non era; avrebbe voluto dire essere
considerato diverso da un mondo che non aveva nessun diritto di giudicarlo, ma
era davvero pronto a correre questo rischio e combattere?
Cos’è?
Qualcuno ti ha fatto qualcosa?
No, è solo
che non è il posto adatto a me. Lo so che me lo avevi detto, ma ora sta
diventando difficile stare in un posto pieno di... era difficile persino dirlo.
Di cose che
non puoi sentire. Yuu gli strinse il braccio con tutto l’amore che era in grado di provare,
lui era sempre quello che diceva ciò che lui non riusciva a dire, che prendeva
le decisioni che lui non riusciva a prendere. Non preoccuparti, troveremo un altro lavoro e tutto andrà bene.
Gliene era grato, ma prima o poi avrebbe dovuto imparare a combattere stando in
piedi con le proprie forze. Erano giovani si, ma presto Yuu si sarebbe
costruito una vita: la sua in cui lui
sarebbe stato una costante, ma non un’assoluta presenza ingombrante; non gli
avrebbe mai permesso di rinunciare a tutto solo per continuare a fare il
fratello maggiore.
Akira annuì semplicemente, come faceva
sempre quando Yuu gli diceva di non arrendersi. Farai tardi. Non era il momento di pensare ai suoi capricci, c’era
gente che avrebbe fatto di tutto per prendere il suo posto e Yuu aveva già i
suoi problemi, svegliarsi ogni mattina sapendo di dover fare qualcosa che non
hai scelto sapeva essere davvero frustrante.
Il mondo non
andrà in rovina per mezz’ora di ritardo. Ah, a proposito, oggi lavoro fino alle
tre, ci vediamo per il pranzo? Così magari facciamo un giro. Riuscivano raramente a star
insieme fuori casa e, quando succedeva, amavano girovagare per le strade
affollate osservando le vetrine, magari comprando qualche oggetto inutile solo
per prendersi in giro qualche mese dopo, o vagare per il parco alla ricerca
dell’angolo che gli facesse dimenticare di essere a Tokyo. Akira sarebbe andato
anche in capo al mondo con lui, perché tanto si sarebbe sentito sempre al
sicuro.
Si, ti
cucino il bento. Impegnare la sua mente con qualche nuova ricetta
sarebbe stato un buon modo per non pensare ai suoi problemi.
Mi fai i
polipetti?
Kanako, la loro dolce madre, glieli
nascondeva sempre sotto il riso in modo che fosse costretto a mangiarlo tutto
per liberare i pezzi di wurstel. Akira non aveva mai avuto il cuore di dirle
che il riso non lo mangiava Yuu ma lui che, in cambio, poteva liberarsi di
quelle cattivissime verdure amare che odiava. Era un patto tra fratelli e non
poteva certo infrangerlo, pena l’impiccagione del povero Bunny-chan:
il coniglio di peluche che gli teneva compagnia tutte le notti. Si, va bene!
Ecco come una giornata storta, in un attimo, poteva diventare
speciale.
*
Uova, formaggio e prosciutto per le omelette. Certo non sarebbero state buone
quanto quelle di Yutaka, ma ce l’avrebbe messa tutta potendo addurre come scusa
che qualsiasi cosa il suo migliore amico cucinasse, sembrava esser scesa dal
cielo. Di riso ce n’era in abbondanza in casa, quindi gli servivano solo gli ingredienti
per i famosi polpi felici, doveva solo trovarli in mezzo a quella miriade di
scaffali stracolmi; per colpa dei lavori di manutenzione alla strada che faceva
di solito, era stato costretto a cercare un supermercato nell’isolato più
vicino, trovandolo dopo mezz’ora di vagare incessante tra case e persone tutte
uguali. Se non fosse stato pieno giorno se ne sarebbe tornato a casa di corsa,
giusto per non far la fine del protagonista dell’ultimo film horror che aveva
visto. Per pura fortuna intercettò ciò che cercava non appena svoltò l’angolo
girando intorno allo scaffale del ramen, aveva appena
agguantato la sua preda quando si sentì strattonare per la giacca.
«Fai finta di parlarmi!»
Ovviamente non aveva capito una sola parola. «Cosa?!»
ritrovarsi davanti un ragazzo incappucciato, il viso coperto da un paio di
enormi occhiali da sole e l’aria guardinga non era certo roba da tutti i
giorni. Di sicuro stava spacciando droga, o aveva appena rubato la borsa ad una
vecchietta, lo avrebbero arrestato per favoreggiamento e cosa avrebbe detto poi
a Yuu? Che stava solo cercando gli ingredienti per il suo bento?
«Fai finta di parlarmi, non devono vedermi!» e in
effetti, basso com’era, stava cercando di usare la sua altezza per nascondersi.
«Ma chi?»
«Quelle pazze isteriche!» pazze che sbucarono dalla
corsia accanto, correndo come se stessero cercando l’ultimo paio di scarpe in
saldo. «Non guardarle!» il tipo sospetto le sentì avvicinarsi e dedicò tutta la
sua attenzione ad un barattolo di maionese pigramente esposto davanti a lui. «Mhm, questo ci starebbe benissimo con l’insalata, non
credi?»
«Ma che dici?!» eppure aveva qualcosa di familiare. Quegli
occhiali improponibili su quel viso minuto li aveva già visti, ma quando?
«Reggimi il gioco, ti prego!» Oddio. Era Ruki. Akira
non fece in tempo ad esternare tutto il suo disappunto che la famosa Star lo
lasciò dov’era, rimettendo a posto la maionese e migrando all’angolo dello
scaffale per sporgersi e verificare dove fossero le pazze che, evidentemente,
erano passate dietro di loro senza che lui se ne accorgesse. Mise ciò che aveva
ancora in mano nel cestino che pendeva dal suo braccio e si diresse
placidamente verso la cassa. «Dove stai andando?!» Ruki lo tirò per una manica.
«Si può sapere che vuoi? Se ne sono andate, ora
lasciami in pace!» aveva già fatto troppo per i suoi gusti.
«Ti sembra! Sono furbe, saranno ancora qui in giro.»
«Sono problemi tuoi, mica miei!»
«Ma se mi trovano sono finito, non sai chi sono!»
«Lo so e non mi interessa.» e dando un poderoso
strattone liberò la manica dalla presa dell’altro. Aveva già fatto troppi
incontri per quella mattina, era meglio pagare e tornarsene alla pace della sua
casa, preparare il bento per Yuu
e raggiungerlo a lavoro; tutto sarebbe andato bene, senza altri incidenti di
percorso. Alla cassa non c’era nessuno in fila, quindi si affrettò a sistemare
i suoi acquisti solo per rendersi conto che Ruki lo aveva seguito, davvero
irritante. Aveva ragione sul suo conto e l’aveva capito sin dal loro primo
incontro, per non parlare del secondo in cui aveva rischiato di rimanerci
stecchito; ma ora doveva solo concentrarsi sulla cassiera e capire quanto
avrebbe dovuto pagare.
Con il portafogli più leggero Akira fu libero di
riprendere aria e, soprattutto, di ritrovare la strada di casa senza metterci l’intera
giornata; voltandosi si accorse che Ruki era proprio dietro di lui, per fortuna
non poteva sentirlo perché lo aveva visto parlare senza sosta per tutto il
tempo e sarebbe impazzito altrimenti, almeno era bravo nell’ignorare le persone
e non era costretto a sentire discorsi inutili contro il suo volere. Una magra
consolazione. Ma quando vide che quel maledetto non voleva proprio saperne di
lasciarlo in pace, la sua esasperazione prese il sopravvento. «La smetti di
seguirmi?!» doveva averlo preso alla sprovvista, perché l’altro parve quasi
spaventato.
«Non ti sto seguendo, è che... sto cercando di capire
da che parte devo andare.» sembrava spaesato, come se si fosse addormentato a
casa sua e risvegliato da tutt’altra parte.
«Ti sei perso?»
«Non mi sono perso, è solo che se capissi dove mitrovo
sarebbe più semplice.»
«Non hai un telefono?»
«No.»
«E con tutto quello che si sente in tv, vai in giro
senza telefono?!»
«Beh, saranno affari miei!»
«Bene, allora resta qui. Sai che me ne importa!» e lui
che aveva persino pensato di aiutarlo, ma questo solo per una frazione di
secondo e prima che lo facesse pentire di avergli anche solo rivolto la parola.
Voltò l’angolo a passo spedito imponendosi di dimenticare quello spiacevole
incontro, ma non fece neanche dieci passi che una goccia gli cadde sul viso.
Quando era uscito di casa aveva visto i nuvoloni grigi in lontananza, perciò
aveva portato un piccolo ombrello con sé, ma non pensava che avrebbe dovuto
usarlo tanto presto. Pochi passi dopo quella che sembrava essere solo una
pioggia stagionale si trasformò in un vero è proprio temporale, fu inevitabile
pensare a quello scemo fermo sotto la pioggia, non gli sembrava di aver visto
ombrelli nelle sue tasche e per di più non aveva neanche un telefono. Ma perché
cavolo non imparava mai ad ignorare la gente? Sembrava facile visto che lo
facevano tutti, ma lui era troppo buono e la sua coscienza glielo avrebbe
rimproverato tutta la notte; era successo anche a lui di trovarsi in difficoltà
e, se non fosse stato per quelle poche persone gentili del mondo, chissà dove
sarebbe finito. E poi, pensandoci con razionalità, l’unica colpa che quel Ruki
aveva, oltre ad essere uno stronzo antipatico, era quella di sentire, di vivere
di musica, di ciò che lui non conosceva neanche ma che lo attirava più di ogni
altra cosa al mondo.
Con ritrovato orgoglio Akira tornò indietro trovando
Ruki sotto un pergolato sbilenco che non avrebbe protetto nemmeno una formica,
lo raggiunse coprendolo come meglio poteva per non bagnarsi a sua volta. «Allora,
dove devi andare?»
Ruki sembrò sul punto di rispondere, ma si limitò ad
estrarre un bigliettino dalla tasca della sua giacca in pelle ormai
completamente fradicia. Stessa prefettura, stesso quartiere, ma a quanto pareva
la loro destinazione si trovava sul lato opposto a quello in cui abitava lui.
«Abiti qui?»
«Non proprio, è una lunga storia. Lascia stare, se non
sai dov’è...»
«Muoviti, andiamo.» aveva pur sempre un navigatore a
portata di mano e stava facendo una buona azione, il karma lo avrebbe ripagato
un giorno.
Camminarono per qualche isolato cercando di
orientarsi. Gli indirizzi giapponesi erano un vero inferno, ogni volta si
ritrovava a maledire il genio del male che aveva avuto la brillante idea di
inventare quel sistema, ma all’improvviso si sentì tirare per un braccio per la
quinta volta nel giro di due ore. «Ho capito chi sei! Quello del caffè alla Psc!»
«Si quello che hai quasi investito.»
«Oh dai, era buio pesto!»
«Non è una giustificazione, mi hai quasi rotto un
ginocchio.»
«Io volevo portarti al pronto soccorso, non so quante
volte ti ho chiamato, ma tu continuavi ad ignorarmi.»
«Sono bravissimo a non sentire ciò che mi infastidisce.»
non sapeva neanche come gli era venuta fuori un’affermazione del genere,
proprio a lui che non riusciva a sentire neanche quello che voleva e ne aveva
un chiaro esempio esattamente davanti agli occhi. E Ruki gesticolava animatamente
guardando nella direzione opposta, sembrava anche un po’ imbronciato, ma non
riuscì a cogliere il senso del suo malcontento. Akira
guardò l’orologio solo per accorgersi di essere terribilmente in ritardo sulla
tabella di marcia. «Va bene, la strada è questa, il numero otto dovrebbe essere
in fondo.» c’era anche abbastanza spazio per correre sotto ai pergolati ed
evitare una polmonite. «Non perderti.» Questo voleva dire che lo avrebbe visto spesso
ora?
«Non sono mica così scemo!»
«Prego comunque.» e voltandosi si avviò diretto alle
strade periferiche del quartiere.
«Aspetta!» Ruki lo fermò tirandolo per un braccio,
aveva capito che altrimenti l’altro non l’avrebbe degnato della minima
attenzione. «Non so neanche il tuo nome.»
«Chiamami ragazzo del caffè.» entrare in confidenza
sarebbe stato un grave errore che non aveva intenzione di commettere. Stavolta
si allontanò quasi correndo mentre il ticchettio della pioggia sembrava quasi
suggerirgli di restare.
Bene u.u troviamo un Akira
sempre più incasinato e un Takanori sempre più
antipatico >w> o no? Mhm, chi lo sa uwu mi scuso per il capitolo troppo corto, rimedierò
postando presto il 5 *lancia cuori a tutti*
Ma ciaooofringuelline
** sono ritornata subito, come promesso ♥ vediamo un po’ come si mettono
le cose in questo capitolo e concentriamoci un po su Yuu, anche se in maniera marginale, anche lui
deve vivere la sua storia d’amore, no? E poi torniamo a vedere come se la
cavano Aki e Taka +w+ ammetto
di essere davvero cattiva, vi porto sulle montagne russe: prima scendiamo, poi
risaliamo e poi giù di nuovo xD ma arriverà tutto al
momento giusto, se no che gusto c’è **
Buona lettura, a prestissimo ^-^
Sing for me
Yuu non portava la cravatta e il colletto pendeva
pigramente sul petto, mostrando l’incavo in cui le clavicole cercano di
toccarsi senza riuscirci. «Signor Shiroyama, un po’
di contegno.» Akira si stava già preparando al loro solito scambio di battute,
ma suo fratello non parlò guardandolo con aria preoccupata. «Cosa c’è?»
«Andiamo.» ne avrebbero parlato in un luogo
tranquillo, magari mentre consumavano il bento al
loro solito tavolo in legno nascosto tra gli aceri
secolari, a ottobre le foglie avevano le sfumature del tramonto e sembravano
emanare calore nonostante l’aria fosse sempre più pungente. «Ce li hai messi i
polipetti!» Yuu aveva insistito per aprire il contenitore in
plastica ancor prima di stappare la birra che si erano fermati a comprare lungo
la strada.
«E non sai neanche che ho dovuto sopportare per colpa
loro.» ma Yuu sembrava non ascoltarlo nemmeno. «Insomma mi vuoi dire che è
successo?»
Un breve sospiro e poi la verità, senza stupidi giri
di parole perché tanto sarebbero stati inutili con lui che sapeva
leggere così bene nei suoi occhi. «Mi hanno licenziato.»
«Non è possibile!»
«Invece si. La società è
stata acquistata e non c’era posto per tutti, ero tra gli ultimi arrivati e non ho una famiglia da mantenere, perciò non è
stato difficile scegliere me.»
«Come facciamo ora? Io non
guadagno abbastanza.»
«Troverò una soluzione.»
«Lo dici sempre, ma stavolta-»
«Stavolta non sarà diversa dalle altre, ti ho mai
lasciato nella merda?»
«Non si tratta di me.»
«Invece si, visto che sarai
costretto a restare lì.»
«Lasciare il lavoro era solo un capriccio e sono
troppo grande per queste cose, ho la mia parte di responsabilità e dobbiamo
tirare avanti.»
«Mi dispiace Aki.»
«Non è mica colpa tua.» ma di qualcuno doveva pur
esserla. «Tanto la giornata è cominciata male, non poteva certo migliorare.»
«Perché?»
«Se ti racconto chi ho incontrato non ci credi.»
«Chi? Qualche persona famosa?» non
era inusuale trovare per la città accampamenti di
troupe televisive impegnate nelle riprese di qualche nuovo drama
per ragazzine, anche se doveva ammettere di averli visti anche lui di nascosto
qualche volta e di aver persino pianto come un idiota per la morte della protagonista
nascondendosi tra i cuscini del divano.
«Ho incontrato Ruki al
supermercato, si stava nascondendo dalle sue fans impazzite e voleva usare me
come diversivo. E quando siamo usciti, visto che pioveva e
io non imparo mai a pensare solo agli affari miei, l’ho accompagnato a casa
perché l’intelligente non aveva né ombrello né telefono.»
«E da dove arriva questo impulso
di gentilezza? Non avevi detto che non lo sopportavi?»
era un dubbio più che legittimo quello di Yuu.
«Infatti non ho cambiato idea,
ma il punto non è questo, il punto è dove abita: nel nostro isolato, a solo
qualche traversa da noi. Che bello.»
«Mi auguro che stavolta sia stato simpatico almeno.»
«Ammesso che, secondo me, quel tappo di bottiglia può
essere simpatico solo come un calcio nei coglioni, devo dire che è stato
abbastanza innocuo.»
Yuu quasi si strozzò con l’omelette cercando di
trattenere una risata. «Tappo di bottiglia?! Ha
parlato il monte Fuji!»
«Ma se mi arriva alla spalla!»
«Sei davvero stronzo con chi non sopporti,
eh? Attento a non finirci insieme.»
Akira lo guardò strabuzzando gli occhi, magari nel
tentativo di vedere meglio con quale faccia era stato capace di dire una cosa
del genere. «Che?! Piuttosto divento un monaco!»
«Non ti ci vedo pelato.» era così divertente prenderlo
in giro perché Akira se la prendeva davvero per ogni cosa, come quando a
tredici anni gli faceva credere di avere le orecchie a sventola. «Ma nei manga
dall’odio nasce sempre l’amore, sei sicuro di non-»
«Se non la smetti faccio
diventare te pelato! Te lo presento se ci tieni così tanto.»
«Sono già incasinato così grazie, non ho tempo per
nessuno.»
«Ma come, non ti piaceva
Kouyou?» ora era il suo turno di prendersi gioco di lui, il momento della sua
piccola vendetta personale.
«Ora non posso.» nel frattempo il bento
era finito e Yuu si era ritrovato a fissare gli scomparti vuoti del contenitore
blu senza realmente vederli.
Ma quando il vento si alzò
fece frinire le foglie ingiallite come fossero cicale in una notte di agosto,
gli scompigliarono i capelli neri quasi accarezzandoli e piantando il seme di
un idea che germogliò in pochi attimi, come se fosse sempre stata lì, come una
di quelle querce intorno a loro. «Sei un genio!»
«Finalmente te ne sei accorto!»
«Ma no! Ti ricordi che Yutaka ci
aveva detto del nuovo posto da cameriere?»
«Veramente no.» Yutaka diceva sempre un mare di cose e
non poteva certo ricordarle tutte, non ricordava
neanche cosa avesse mangiato il giorno prima.
«Ma come? Ora che hanno ampliato
il locale cercavano un nuovo cameriere, potrei chiedergli di mettere una buona
parola con il suo capo.»
«Sì potresti, lui lo farebbe.» era la cosa giusta da
fare, ma non era il momento di pensarci «Ma ora andiamo a prendere un gelato?»
«Poi non lamentarti quando diventerai obeso.» quando
faceva così Akira sembrava ancora il piccolo bambino mai cresciuto che era
stato a sei anni, quando ancora poteva sentire la voce del mondo che, ora,
urlava nel suo petto invece che nelle sue orecchie; ricordava ancora quando
andavano tutti insieme al parco e Akira non si dava
pace finché non aveva avuto il suo gelato prima di tornare a casa, anche in
pieno inverno. Minacciava di restare a vivere con le papere nel lago, perché
loro il gelato glielo avrebbero comprato. Che stupido
che era, ma per fortuna esisteva una persona come lui al mondo. Che posto
orrendo sarebbe stato altrimenti.
*
«Hai qualche esperienza come cameriere?» l’uomo
davanti a Yuu incuteva un certo timore con quei capelli radi che cercava di
moltiplicare con una strana pettinatura, alto, sulla cinquantina, con la
classica pancia da uomo divano.
«No, ma imparo in fretta»
«Meglio per te, perché ti darò due
giorni di prova e non voglio sentire un solo piatto in frantumi. Questo è un
locale di un certo livello, non un bar di periferia; se Takashima
è disposto a insegnarti è tutta una sua responsabilità.»
«Garantisco io per lui, signor Takana.»
«Fate come vi pare, a me serve
solo un cameriere. E ora a lavoro!» il proprietario
del locale si allontanò portando con sé una marea di scartoffie e tutto il suo
malumore.
«Un benvenuto caloroso, non c’è che dire.»
«È che si occupa raramente di queste cose.»
«Sei sicuro che a Kouyou stia bene?» Yuu si sentiva un
po’ in colpa: non aveva ancora parlato con lui, eppure doveva sobbarcarsi tutta
la responsabilità.
«Certo, gliene ho parlato ieri sera e, sapendo cosa
avrebbe detto Takana, ha accettato senza problemi.»
«Beh, è stato davvero gentile.»
«E poi sono io che comando.» e Yutaka lo disse con una
strana luce negli occhi.
«Non lo maltratterai mica?!»
«Solo quando non è alla mia altezza.» ora che ci
pensava, Yuu non aveva mai assistito al suo famoso cambio di personalità, ecco
perché in quel momento sembrava tanto spaesato. Ma quando si trattava di lavoro diventava un’altra persona, non c’era posto per la
minima distrazione. «Ma cominciamo, hai solo due giorni per imparare tutto.»
«E perché lo dici sorridendo?»
«Perché so quello che ti aspetta.»
«Oddio lo fai sembrare un
inferno, questo posto sembra così carino!» in perfetto stile occidentale,
sembrava quasi un ritrovo per signore pronte a spettegolare all’ora del tè.
«Non farti ingannare dall’aspetto rincuorante.» nel
frattempo Kouyou aveva fatto il suo ingresso nel locale sentendo l’ultimo stralcio
della loro conversazione.
«Oh, ciao.» Yuu si voltò in direzione della voce che
non avrebbe riconosciuto se quella sera non lo avesse colpito così tanto, da rivederlo una volta o due nei suoi sogni.
«Mi vado a cambiare e cominciamo.» erano solo le dieci
di mattina, ma tutti i dolci dovevano essere pronti prima dell’apertura al
pubblico prevista per le cinque di pomeriggio.
«Nel frattempo ti faccio fare
un giro.» Yutaka gli mostrò le tre salette interne destinate alla clientela più
riservata, la cucina, i bagni, il magazzino pieno di oggetti di cui Yuu non
sospettava neanche l’esistenza e qualche minuto più tardi si ritrovò al
cospetto di Kouyou, al centro del salone principale in attesa di scoprire quali
sarebbero state le sue mansioni.
«Dunque, cominciamo da qui.»
Kouyou indicò una vetrinetta piena di torte e pasticcini dall’aspetto invitante.
«Sai il francese?»
«Perché ti sembro uno che sa il francese?»
«No, ma tutti i nomi di questi
magnifici dolci sono francesi. Questa è una Charlotte
auxfraises et auchocolat, questo un Croquembouche,
queste delle Viennoiserie;
molto spesso i clienti chiederanno gli ingredienti, un tuo parere o, magari,
con quale bevanda accompagnarlo. Ce ne sono davvero tanti di indecisi,
a volte è solo gente che ha bisogno di provare qualcosa di diverso, a volte gente
che non è capace di far nessun tipo di scelta.»
«Caspita! Conosci bene queste cose.»
e a dir la verità si sentiva alquanto spaventato; era
già complicato prendere le sue decisioni, ci mancavano quelle degli eterni
indecisi.
«Beh si, prima di passare in
cucina ho fatto il cameriere qui per qualche mese, ma io ero avvantaggiato
perché già sapevo realizzare la maggior parte di questi dolci.»
«E come si finito “dall’altra parte”?»
«Quando ho saputo che Yutaka Uke
lavorava qui mi sono precipitato, non potevo perdere questa
occasione, dovevo assolutamente essere suo allievo. Purtroppo, però, lui non ne
voleva uno è così sono finito a fare il cameriere; non mi sono arreso e un
giorno gli ho fatto trovare la cucina invasa dai miei dolci, al che lui ha
dovuto assaggiarli per forza e da allora sono nella sua cucina.»
«Perché è così famoso?» Yuu stentava quasi a crederci,
lo conosceva da anni, ma non gli aveva mai dato modo di pensare che fosse qualcuno.
«Ma certo!» Kouyou sembrò
quasi scandalizzato.
«Lui non parla malto di queste cose, è molto modesto,
lo sai.»
«È proprio questo che mi piace di lui, sarebbe capace persino
di dire che i suoi dolci non sono niente di che.»
Che cos’era quella punta di disagio che Yuu sentì fermentare
nel petto? Aveva quasi sapore di una torta alla gelosia. «E i tuoi dolci invece?»
«Non sono così buoni da meritare l’attenzione
di qualcuno, sto ancora imparando e mi limito a fare quello che mi dice lo chef.
Mi fido di lui.»
«E lo chef continua a sentirvi! Perché
siete ancora lì?» Yutaka sbucò dal nulla provocando ad
entrambi un principio di infarto.
«Corriamo!» Kouyou doveva avere davvero tanta paura di
Yutaka, ma il timore era tanto quanto l’ammirazione che aveva per lui. Si
avvertiva chiaramente. Ora che ci pensava Yuu non aveva mai avuto un interesse tutto
suo, quella passione così forte da sfiorare l’ossessione; si era limitato a
vivere la vita che gli spettava senza chiedere di più: era andato a scuola,
aveva preso il suo sudatissimo diploma e si era imprigionato in un completo
grigio che aveva spento per sempre i suoi sogni e le sue aspettative.
Aveva vissuto per fare il fratello maggiore, per essere quello responsabile per
tutti e due quando, magari, Akira non gli avrebbe mai
chiesto un simile sacrificio. Ormai non erano più bambini, né adolescenti e il
suo fratellino sapeva badare benissimo a se stesso senza il suo aiuto. Era
giunto il momento per mamma chioccia di stare a guardare mentre il suo pulcino imparava
a volare, ma non era facile accettare di non essere più indispensabile come un
tempo. Aveva sempre avuto la passione per la musica e, in quella che sembrava
essere un’altra vita lontana, aveva anche preso lezioni di chitarra; non l’aveva
mai detto ad Akira per non ferire i suoi sentimenti, ma forse poteva ancora
rimediare, forse non era troppo tardi per accendere la luce e smetterla di
proseguire a tentoni.
*
Quel giorno non era cominciato nel migliore dei modi. Dopo aver portato il
caffè a letto a Yuu, aveva rovesciato la sua tazza e quando era uscito di casa si era ritrovato sotto il diluvio universale, ma il
problema non era neanche quello considerando che aveva sempre con sé un
ombrello. Il problema era che uno stronzo al volante aveva deciso di fargli un
bagno proprio mentre percorreva, a piedi, l’ultimo tratto tra la stazione della
metro e la casa discografica. E ora indossava degli stupidi pantaloni ridicoli
che teneva nel fondo dell’armadietto per le emergenze, perché la lavanderia non
gli aveva lavato quelli della divisa; e se Hoshi non
avesse accettato la sua proposta, si sarebbe buttato a terra lasciandosi
calpestare dalla folla.
«Volevo chiederti se posso restare al banco per un po’, di solito mi
lasciano qualche yen di mancia e ne avrei bisogno.» era sempre stato molto
sincero e, stavolta, non sarebbe stato diverso.
«C’è qualche problema?»
«È che Yuu è stato licenziato, quindi finché non troverà un altro lavoro…»
«Va bene, non devi aggiungere altro.» il suo capo era sempre stato molto paterno
nei suoi confronti. «Poi andare ai piani alti con quei pantaloni!» era
fantastico essere presi in giro da un uomo di cinquant’anni che indossava
camicie floreali, ma una risata non avrebbe fatto altro che consolarlo.
«Non vedo l’ora di rimettere i miei jeans.»
«Sarebbe meglio, ci parlo io con quelli della lavanderia. Ora a lavoro però!»
«Corro! Grazie, Hoshi.»
«Ah, sparisci!» non avrebbe mai capito la sua integrità che non si scomponeva
davanti a nessun sentimento, era comune a molti uomini essere impermeabili alle
emozioni, ma lui non voleva diventare un uomo che aveva paura di mostrare ciò
che sentiva.
Tornando al lavoro Akira non sapeva che, quando si pensa di aver raggiunto
il fondo e di non poter più andare oltre nella propria discesa, è lì che ci si
sbaglia perché il destino è sempre in agguato dietro l’angolo pronto a farti
ricredere. Aveva messo su la storia delle mance soprattutto per evitare di
incontrare di nuovo Ruki, ma come recitava un antico proverbio: Se Maometto non va alla montagna, la
montagna va da Maometto, proprio come l’amato beniamino desiderato ed acclamato da fans disposte a seguirlo al supermercato,
aveva deciso di degnarlo della sua presenza sistemandosi al tavolino più
appartato con una ragazza che di buono sembrava non promettere nulla. Da come era vestita sembrava appartenere anche lei al mondo
dello spettacolo, poteva facilmente immaginarsele tutte le sciatte oche giulive
che conoscevano il suo letto solo per una notte; vedendo il modo in cui Ruki
spostava una ciocca di capelli dal viso della bionda rifatta davanti a lui,
quella doveva essere la vittima della notte appena passata. Probabilmente le
stava facendo credere di essere stata la migliore, mentre pensava ad un modo per sbarazzarsi di lei; quante volte aveva visto
quella scena da quando lavorava lì, quindi perché stavolta si lasciava
infastidire come uno stupido?
Forse perché erano solo le otto di mattina e alle 10:00 in punto Ruki si presentò con una mora, alle 15:24 di nuovo con una
bionda e alle 19:52 con una rossa. E ogni volta aveva avuto un atteggiamento
diverso, a tratti disinteressato, tanto che alcune volte aveva guardato nella
sua direzione, ma Akira aveva fatto in modo di farsi
trovare sempre concentrato su ciò che stava facendo. Non erano affari suoi, il
mondo andava così e non avrebbe dovuto interessargli minimamente con chi Ruki andava a letto, ma continuò a pensarci mentre si
cambiava i vestiti e metteva al sicuro i tremila yen che di mancia che aveva
ricevuto in quella lunga giornata.
Qualche minuto dopo si trovava fuori meravigliandosi dell’umidità che era
calata dopo il tramonto e nella borsa aveva trovato una sigaretta,
probabilmente ce l’aveva messa Yuu perché sapeva
quanto gli piacesse fumare dopo il lavoro, l’accese chiedendo aiuto al primo
passante che vide e si avviò verso la stazione della metro. Amava passeggiare
dopo la pioggia, quando le strade erano piene di pozzanghere in cui si
riflettevano le luci, il cielo e i palazzi dalle mille luci, aveva sempre
creduto che quello fosse un mondo parallelo in cui tutto era capovolto e,
chissà, magari saltandoci dentro sarebbe potuto finire
dall’altra parte; forse era questo ad essergli accaduto da bambino, forse nell’altro
mondo poteva ancora sentire. Sarebbe bastato saltare nella grande pozza proprio
davanti a lui per scoprirlo e risolvere tutto, ma per evitare di bagnarsi di
nuovo i pantaloni ci mise solo un piede dentro,
aspettando che le increspature si fermassero. Alzò lo sguardo attratto dai fari
di un’auto che gli passò accanto e la seguì fino a vederla sparire dietro gli
alberi del parco che costeggia va la casa discografica,
a giudicare dal costo della macchina doveva trattarsi di un artista, magari un
manager, di certo non di un semplice barista come lui.
E proprio a pochi metri dal punto in cui aveva perso di vista la lussuosa
vettura, nella strada in cui aveva fatto il suo
incontro devastante on Ruki, c’era proprio lui in compagnia di un ragazzo dall’aspetto
eccentrico; lo aveva visto spesso in giro per i corridoi e ogni volta con un
look diverso: ora, per esempio, sfoggiava dei capelli verdi e rosa e il suo
atteggiamento non lasciava niente al caso. Vide chiaramente le sue labbra
quando spinse il suo bacino contro quello di Ruki
bloccandolo tra sé e lo sportello dell’auto scura dietro di loro. «Cos’è? Hai paura che qualcuno ci veda?»
a volte malediceva la sua dote così sviluppata.
«Lo sai che non me ne frega un cazzo di quello che pensa la gente!» e, poi,
accadde tutto in un attimo. In un secondo gli occhi di
Ruki saettarono in quelli di Akira, ancora fermo con un piede nella pozzanghera.
Il cantante sapeva di essere stato visto e lo salutò con un cenno del capo, prima
di salire in macchina con quel ragazzo e lasciarlo in compagnia di una strana
sensazione di vuoto.
E quindi Ruki non fa altro
che lasciargli occhiate…chissà perché? >w> lascio a voi la scelta che preferite
*perfida*
Al prossimo capitolo, mie
care, vi do un indizio: preparate i biscotti ♥
Buongiornoooo~ avete
preparato i biscotini? *w* bene, ora vediamo come li
preparano loro xD ci vediamo
giù ♥
Sing for me
«Dio mio! Datemi dei piedi nuovi!» Yuu entrò in
cucina lasciando che le porte ondeggiassero come in un bar del Far West. In un
certo senso quella sera aveva davvero duellato con i
clienti, i piatti dall’equilibrio precario, le scarpe strette e i pantaloni
scomodi.
«Se non sei sicuro di aver fatto tutto, non sederti, è un consiglio.» Kouyou stava sistemando i tegami che quel povero ragazzo
di Watase non avevo fatto altro che lavare.
«Credo di aver fatto tutto, si.»
«Allora riposati, te lo sei più che meritato, ma sappi che non ti rialzerai
facilmente da quella sedia.»
E quando Yuu avvertì la splendida sensazione che invase il suo corpo gli sembrò di rinascere, gli venne addirittura da
ridere e dovette far forza su se stesso per non lasciarsi scivolare fino al
pavimento e restarsene lì inerte. Yutaka era già andato via lasciandoli praticamente soli, in realtà non sapeva se credere del tutto
alla sua innocenza. «Che stai facendo?» riaprendo gli occhi aveva visto Kouyou
prendere della farina.
«Devo fare dei semplici biscotti di pasta frolla per domani.»
«Ma è tardi! Non ci torni mai a casa?»
«Resto sempre qui dopo l’orario di chiusura. Durante il giorno ci occupiamo
dei dolci più difficili, ma qualcuno deve pur fare quelli più semplici.»
«Non è facile star dietro a Yutaka, eh?»
«Per niente, ma mi piace creare dolci, anche solo dei semplici biscotti. Mi
sento capace di qualcosa, almeno una volta nella vita.»
«Ti darei volentieri una mano, ma non so da che parte cominciare. Sono bravo
a rompere le uova, anche se mio fratello ti direbbe che non rompo solo quelle!» la risata di Kouyou gli piaceva, era fresca e dolce come
il pezzetto di cioccolata che aveva rubato da una fetta di torta prima di
servirla.
«Vuoi provare?»
«Sicuro che non ti darei più problemi che aiuto?»
«No, saranno buonissimi e domani li serviremo con il tè e la cioccolata,
vedrai che sarà una bella soddisfazione.»
Ora che Yuu ci pensava con la dovuta attenzione, realizzò
che per tutto il giorno non aveva fatto altro che guardare i volti di donne e
uomini di ogni età deformati dall’estati che attraversavano quando davano il
primo morso al dolce che avevano ordinato. Eppure era sicuro che nessuno di
loro avesse pensato a quanto lavoro ci fosse dietro il miscuglio di ingredienti senza un apparente senso logico. «Avverto
Akira che farò tardi.» come gli aveva detto, rialzarsi fu una fatica che non si
aspettava, ma mandò un messaggio suo fratello, si lavo le mani e arrotolò le
maniche della camicia bianca fino ai gomiti. Il gilet nero poteva anche
lasciarlo da qualche parte. «Cosa faccio?»
«Allora, per prima cosa metti un grembiule, altrimenti ti ritroverai il pantalone un disastro. Poi prepariamo gli ingredienti: qui
ci sono zucchero e farina. Rompiamo sei uova e sciogliamo il burro.»
«Oui chef!» glielo aveva sentito dire a Yutaka in risposta ad un ordine che gli aveva appena impartito, un
ordine che lui ovviamente non aveva capito. Era lontano anni luce dal mondo di
Kouyou, ma vederlo all’opera lo affascinava incredibilmente, era come vedere un
artista che crea la sua opera d’arte dal bianco asettico di una tela. Quale
modo migliore per conoscerlo che mettere direttamente le mani in pasta? Avrebbe
toccato con mano gli ingredienti con cui costruiva le sue opere d’arte, magari avrebbe anche scoperto che cos’era questa grande
soddisfazione di cui parlava.
«Fai un buco nella farina, così.» Kouyou glielo mostrò immergendo la mano
nella polvere bianca. «Ora rompi le uova e comincia ad
impastare.» e detto così sembrava davvero essere una cosa estremamente semplice,
ma quando Yuu andò a distruggere la barriera di farina, il liquido cominciò ad
espandersi in tutte le direzioni.
«Oddio, sto facendo un disastro!»
«Calmo, non è nulla.» Kouyou gli sorrise prendendo
in giro la sua espressione di panico.
«Ma te non è successo!»
«Ti aiuto io.» e le loro mani finirono in pasta insieme, un tutt’uno con le
uova e la farina. Neanche fossero i protagonisti di quel film degli anni novanta
in cui finivano fare un vaso di argilla insieme, solo che Yuu si ritrovo a due
centimetri dal volto dell’altro che aveva un po’ di farina tra capelli raccolti
in un ciuffo che cerca in ogni modo di sembrare una coda. Quella che credeva
essere una guancia liscia, era coperta da un filo di barba quasi impercettibile,
ma quello che più di tutto lo colpì fu il suo odore: sapeva di buono, di una
crostata lasciate raffreddare tra le tendine svolazzanti di una giornata di
sole, di casa della nonna quando la domenica cucina i tuoi piatti preferiti costringendoti
a mangiare finché non respiri, di tutti quei sapori che sai di non poter più ritrovare
e così diventano ricordi preziosi.
Fu in quel momento che se ne innamorò, anche se Yuu ancora non lo sapeva.
*
Era stata una di quelle giornate che Yuu non avrebbe mai immaginato di
vivere, ritrovarsi ad impastare biscotti con un
ragazzo bellissimo che si conosce appena succedeva solo in tv e, soprattutto,
non succedeva a lui che era sempre stato mediocre in tutto, non a lui che era
gay in un paese in cui anche tenersi per mano poteva rischiare di essere troppo
intimo. Non a lui che era sempre stato un disastro nelle relazioni, che a volte
aveva paura di perdere l’orientamento, di girare troppo veloce su se stesso e
di non riuscire a ritrovare l’equilibrio; troppe volte aveva
dato la colpa all’altro e l’unica volta che aveva deciso di fidarsi era stata
quella in cui aveva ricevuto il colpo più duro.
Eppure Kouyou non gli comunicava nulla di tutto questo, anzi. Gli ispirava
sesso su una scrivania prima dell’orario di chiusura, quando c’era ancora il
rischio di essere scoperti, gli faceva immaginare una
fuga notturna, un gelato d’inverno, l’hanami e il
fumo che si alzava imprevedibile dalla sigaretta che aveva appena finito di
fumare. Sapeva che non avrebbe dovuto fare quel tipo di pensieri, in fondo lo conosceva appena e si sentiva così superficiale da farsi
schifo da solo, perché si sarebbe fatto volentieri una sega sotto la doccia
pensando a lui, a come poteva essere senza vestiti o sudato in un letto con le
lenzuola sfatte. Ed ecco che ritornava di nuovo al punto critico nel giro di
cinque secondi. Non scopava da troppo tempo.
Nel frattempo era arrivato alla porta con passo deciso senza far troppo
rumore, se Akira poteva benissimo continuare a dormire indisturbato, lo stesso
non valeva per i vicini che sapevano essere dei grandissimi stronzi quando
volevano. Entrando in salotto trovò abbastanza luce per
vedere dove lasciava scarpe e giacca, per non inciampare nel gradino dell’ingresso
e trovare Akira sul divano raggomitolato come un bambino, doveva essersi
addormentato guardando qualche noioso programma in tv, quelli senza sottotitoli
che non riusciva mai a capire e pieni di facce stupide. E conoscendolo, anche
sentendo freddo, non aveva avuto la forza di alzarsi per prendere una coperta,
o magari l’aveva fatto un paio di volte nella sua mente prima di addormentarsi
del tutto; non era proprio il caso di lasciarlo lì a congelare, perciò lo
svegliò il più delicatamente possibile, posandogli una mano sulla spalla e
cercando di penetrare fino agli strati più profondi del sonno in cui era
caduto. A volte lo invidiava perché lui, invece, si svegliava per il minimo
fruscio e passava le notti insonni ad ascoltare il frastuono della vita che
continuava in strada. Sua madre gli diceva sempre che lo faceva per istinto di
protezione verso Akira, perché se ci fosse stato un pericolo
lui non l’avrebbe sentito, ma ormai era cresciuto e non aveva più bisogno di
lui per svegliarsi al mattino, andare a lavoro, fare la spesa, o semplicemente
vivere la sua vita.
Akira lo guardò confuso e con la fronte corrucciata da un lieve fastidio
per essere stato svegliato, ma quando capì che Yuu gli stava dicendo di andare
in camera si lasciò sollevare senza opporre resistenza e, nell’intontimento del
sonno, si fece guidare fino a poggiare la testa sul suo morbido cuscino di cui
riconobbe la consistenza. Era vero quello che dicevano dei sensi, se ne manca
uno gli altri quattro fanno in modo di diventare di nuovo cinque, anzi se ne
può avere anche un sesto o un settimo se si conta la capacità di comprendere il
mondo meglio di chi è distratto dall’abitudine: quando
si nasce perfetti si dà per scontato e tutto ciò che si ha passa in secondo
piano, ma è quando qualcosa viene a mancare che non si può continuare senza ricordarlo
ad ogni respiro. Eppure ora non era il tempo di pensarci perché vedeva davanti
a sé suo fratello Yuu ed il suo migliore amico
placidamente rilassati sul divano in salotto, sembravano troppo presi dal
discorso per accorgersi di lui, ma Akira non aveva potuto fare a meno di notare
le loro espressioni rilassate e soddisfatte; ovviamente non riusciva a sentire
ciò che dicevano, ma capì ugualmente che stavano parlando di lui.
«Finalmente mi sono liberato, non sai che peso enorme ho dovuto sopportare
tutti questi anni!»
«Non hai idea di dove sia? Sei sicuro che non sia di là?»
Yutaka non parve neanche lontanamente preoccupato.
«No e non m’importa, tanto non ci sentirebbe lo stesso.»
Yuu sospirò. «Era solo un peso, un’inutile zavorra che
sono stato costretto a trascinarmi per anni! Ora potrò fare quello che voglio,
persino far venire Kouyou qui da me senza che ci sia
lui in giro a dar fastidio. Non ha ancora capito che le persone si sentono a disagio
quando c’è lui? Ah, e posso anche tornare con Kaito
se voglio. Sono libero finalmente, non mi sembra vero!»
Yuu socchiuse gli occhi godendosi quel momento di piacere.
«A dir la verità mi sento sollevato anch’io. È
sempre stato difficile stargli dietro, passare una serata tranquilla al cinema
o in un locale era un’impresa colossale. Forse era compassione quella che mi
teneva vicino a lui, continuavo a ripetermi che sarebbe stato da stronzi
accanirsi su chi è già sfortunato. Si, mi ha sempre
fatto pena.»
Akira non era riuscito a muovere un solo muscolo, la sua mente era più
attiva che mai, ma il suo corpo sembrava scollegato; il suo peggiore incubo si
era appena realizzato davanti ai suoi occhi e, l’unica cosa che riusciva a
fare, era cercare di controllare il respiro impazzito. Non voleva più restare
in quella stanza un minuto di più ora che tutti e due
lo fissavano inespressivi e senza accorgersene neanche si ritrovò davanti ad
una porta, non aveva niente di speciale, era una comunissima uscita di sicurezza;
gli venne quasi da ridere per il suo aiuto provvidenziale. Abbassò la maniglia
antipanico ritrovandosi avvolto in un turbinio di luci e corpi ammassati che si
dimenavano come rapiti da un’estasi mistica, gli bastò fare qualche passo per
vederlo in un completo di velluto rosso mentre sembrava urlare le sue
maledizioni ad un mondo che non lo capiva. Ruki era su
un palco luminoso e si era fermato solo per fissare le iridi artificiali che
riempivano il suo sguardo nelle sue, naturali e di un colore caldo e intenso.
Era così bello da sembrare irreale.
E adesso insieme a lui lo guardavano tutti,
additandolo e ridendo di lui, domandandosi cosa mai ci facesse un sordo in un
luogo come quello. Non riuscì a trovare una risposta perché si ritrovò nel suo
letto a fissare i numeri verdi della radiosveglia con il fiato corto: 06:32.
Ovviamente Yuu stava ancora dormendo e non era il caso di svegliarlo, visto
quanto fosse tornato tardi la scorsa notte, perciò scostò delicatamente le
coperte sapendo che sarebbe stato inutile cercare di tornare a dormire e si
diresse in cucina senza preoccuparsi di essere a piedi nudi. A quell’ora il
sole era ancora indeciso, ma presto avrebbe svegliato tutta Tokyo e lui avrebbe
dovuto affrontare un nuovo giorno nel mondo, l’ennesima estenuante lotta che
non era sicuro di riuscire a vincere dopo quel sogno. Si lasciava davvero
troppo influenzare dai suoi sogni, lo sapeva, ma quella spiacevole sensazione
era stata reale e non voleva saperne di abbandonarlo; ne sentiva ancora il
sapore amaro sulla lingua.
L’odore del caffè avrebbe cancellato ogni traccia della notte e, forse, sarebbe
stato meglio berne un po’ prima di sciogliere la tensione sotto la doccia;
facendo attenzione ai suoi movimenti preparò la moka ed
attese di vederla fumare come un treno a vapore, si addossò alla parete
raggomitolandosi su una sedia e stringendo tra le dita la sua tazza fumante.
Non si accorse che Yuu lo aveva raggiunto in cucina fino a che, questi, non gli
si piazzò davanti con un sorriso assonnato; per lui
era così facile perdersi tra i suoi pensieri, era isolato in un mondo da cui
non aveva scampo.
Buongiorno! Ti ho svegliato?
Yuu scosse il capo mentre si versava una dose di caffeina. Tu che ci fai sveglio a quest’ora?
Ieri sera sono crollato troppo
presto. Mentì, non gli andava di lanciarsi in una spiegazione che non avrebbe
portato a nulla.
Brutta cosa la vecchiaia!
Disse il sedicenne. Certo che suo fratello era
davvero un idiota, era impossibile portargli rancore o essere, in qualsiasi
modo, arrabbiato con lui. Oh, ma...quello non è un capello bianco! Mimando un’espressione
inorridita, lo ringraziò mentalmente per avergli fatto tornare il sorriso.
Non ci casco.
A proposito, ieri hai fatto le
ore piccole. C’è qualcosa che dovrei sapere?
Niente di quello che immagini tu,
ho solo aiutato Kouyou a fare dei biscotti.
Ah, allora è farina quella tra i
capelli!
Davvero?! Yuu si passò una mano nella
chioma scura, eppure non gli era sembrato di essere
stato così imbranato da portarsi della farina a casa.
No, a meno che
non vi siate rotolati sul tavolo! Akira rise di gusto mentre si avvicinava al lavandino
per sciacquare la sua tazza.
Magari!
Sei proprio vergognoso! Gli schizzi d’acqua non tardarono
a piovere sul volto di Yuu che, per vendicarsi, lo ricorre fino in bagno
minacciandolo di morte per soffocamento dovuto all’eccessiva dose di solletico a cui lo avrebbe condannato.
Tra le risate, il buonumore gli s’incollò addosso plasmandosi come cera
liquida, ma svanì del tutto quando Akira si ritrovò, qualche ora dopo, davanti
all’ingresso della casa discografica. Aveva la forza di affrontare un altro
giorno, ma presto si sarebbe esaurita anche quella, lasciandolo come un
involucro vuoto che continuava a muoversi come un automa senza emozioni.
«Buongiorno Akira, non ancora ti sei svegliato oggi?» il suo capo gli passò
accanto con un sorriso gioviale.
«Mi serve un altro caffè.» il ragazzo si decise a compiere il primo passo
che lo avrebbe portato in quella gabbia di matti. Era inutile far finta di
nulla: aveva paura di incontrarlo, di guardare quel volto che aveva visto in
sogno e scoprirvi la stessa espressione derisoria, ma tra un croissant e un
cappuccino, decise di non pensarci.
u.u chiedo
perdono, non succede praticamente nulla in questo capitolo >.< a parte la
preparazione dei biscotti apparentemente innocente, ma
ambigua *//////* continuiamo pure a shippare
Yuu/Akira ♥ li adoro come non mai, vi capisco *^* dite che incontrerà
Ruki a lavoro? O riuscirà ad evitarlo? >w>
secondo la mia scaletta………non posso dirvi nulla u_u
Ohohohohoh~ *ride come Babbo Natale*
al prossimo capitolo care ♥ vi ringrazio tutte
.w.
«Faccio venti minuti di pausa!» e, come sempre, la sua
pausa cominciava sempre dopo quella di tutti gli
altri, come se fosse un essere umano di serie B.
«Fanne anche quaranta se vuoi, non ci sarà molta gente
fino alle cinque.» quando l’ora della pausa pomeridiana sarebbe arrivata
puntuale come la mannaia di un boia.
«Grazie!» Akira si allontanò prima che Hoshi cambiasse idea, volò quasi per i corridoi rincorrendo
la sua piccola dose di libertà che lo avrebbe portato in terrazza. Gli piaceva
osservare la città da lassù, non ci andava mai nessuno e aveva cominciato a
ritenerlo il suo rifugio speciale. L’ultimo piano era deserto, come il resto
dei corridoi e, quando passò davanti allo studio di Ruki, il suo nome sulla
porta sembrò quasi un monito a girare alla larga; sperò vivamente di non
incontrarlo, aveva già abbastanza preoccupazioni per
dare retta anche a lui, ma non riuscì a raggiungere l’uscita di sicurezza. Una
figura gli si parò davanti all’improvviso, in tutta la sua arroganza e irritazione.
Ruki.
«Ciao.» sembrava estremamente
rilassato e pericolosamente sorridente. «Ah, ho trovato-»
Akira non riuscì a capire cosa stesse farfugliando finché non lo vide
ricomparire, subito dopo, con un oggetto tra le dita. «L’ho trovato
dopo che sei scappato via, credo sia tuo.»
Una piccola papera di gomma, gialla e dallo sguardo
lontano e trasognato, la portava agganciata al cellulare per poterlo
distinguere da quello di Yuu. «Si, è mia.»
«Ti ho chiamato per restituirtela, ma non ti sei
neanche girato.»
«Andavo di fretta e, poi, non era così importante.» in
realtà, non aveva nemmeno realizzato di averlo perso.
«Ok, ormai ho capito che non mi sopporti, volevo solo
ridartelo.» Ruki alzò le mani in segno di resa.
«Non è vero.» Akira se ne pentì nello stesso istante,
era stata una risposta istintiva; un conto è pensare di odiare qualcuno, un
altro è esserne sicuro mentre lo guardi dritto negli occhi accusatori da
cucciolo indifeso. Che diavolo stava combinando? Doveva solo andare fuori a
fumare, non dare confidenza all’ultima persona sulla faccia della terra a
meritarla. Avrebbe dovuto fargli credere che non sopportava la sua presenza,
così il loro rapporto sarebbe rimasto al livello di “reciproca sopportazione
sul luogo di lavoro”, niente di più. Niente di troppo pericoloso.
«Stai andando a fumare?»
«Pensavo di andare a raccogliere margherite, in
realtà.» cosa mai poteva fare, fermo lì, con una sigaretta che fremeva tra le
dita?
Ruki gli mostrò un sorriso luminoso. «Ti dispiace se
vengo con te?»
«Beh, la terrazza è di tutti.» non poteva certo
impedirgli di raggiungere un luogo comune, un luogo che apparteneva soltanto
alla casa discografica per essere precisi.
Si ritrovarono avvolti dall’aria frizzante
dell’autunno che stava sfumando velocemente nell’inverno, accompagnati dal
silenzio imbarazzato di quando si divide uno spazio angusto con un estraneo.
«Allora, da quanto lavori qui?»
Akira aspirò una dose generosa di tabacco
aggrappandosi alla rete metallica di protezione. «Qualche mese.»
«Io sono qui da due anni, mi chiedo come abbia fatto a
non vederti in giro.»
«Sono solo giù al bar.» non era degno
di nota o attenzione, sicuramente non tanto importante da catturare il
suo interesse. Probabilmente le loro strade si erano già incrociate, ma
entrambi erano troppo presi dalla loro vita per notarlo. O magari,
semplicemente, non era il momento giusto. «E comunque, neanche io ti avevo
notato prima.»
«Ma sapevi chi sono.»
«Sinceramente no.»
«Eppure lo sanno tutti.» che irritante affermazione di
modestia, eppure il suo sguardo era sembrato tutt’altro che pieno di
autocelebrazione. Sorpreso. A tratti compiaciuto.
«Cos’è che ti fa tanto ridere?» il suo tono non doveva essere stato affatto cordiale, Akira lo
riconobbe.
L’altro scosse la testa continuando a sorridere. «Devo
ringraziarti.»
«E di cosa?» era impazzito improvvisamente, non c’era
altra spiegazione possibile.
«Per avermi fatto sentire di nuovo uno qualunque,
anche se solo per cinque minuti.» Ruki spense ciò che
restava della sua sigaretta sotto lo stivale borchiato e se ne andò, silenzioso
come una foglia trasportata dal vento che si era alzato con l’avanzare della
sera.
«Che idiota!» Akira tornò a lavoro con la mente
intrappolata in un caos di pensieri incoerenti.
*
«Mi dispiace, ragazzo, ma non posso darti questo
lavoro.»
Yuu rimase inespressivo mentre una doccia ghiacciata
lavava via tutte le sue emozioni. «Ma non ho combinato nessun guaio, non ho
sbagliato neanche un ordine, non capisco.»
«Tu non c’entri, non ho abbastanza incassi per permettermi un altro dipendente. Forse tra qualche mese…»
«Ma io ho bisogno di questo
lavoro.»
«Come io ho bisogno di guadagnare per poterti pagare.»
«Daichi, potresti detrarre
la cifra dal mio stipendio, pareggeremo i conti quando
potrai.» Yutaka s’intromise nella conversazione, si sentiva in qualche modo
responsabile per la sorte di Yuu, in fondo gli aveva promesso qualcosa che non
era in suo potere.
«No Yutaka, è troppo, non posso
accettare.» nonostante tutto, il moro apprezzò la sua generosità, era parte di
lui senza bisogno della conferma in tali manifestazioni di altruismo.
«È una situazione difficile anche
per me, ragazzo. Mi spiace.» il signor Takana non era una cattiva persona, in fondo, ma saperlo
non rendeva la situazione meno critica.
«È un ottimo lavoratore Daichi, lo sai anche tu. Ha imparato in fretta e nessuno si
è lamentato del servizio, anzi. Potresti solo guadagnare con lui.» Kouyou non aveva potuto continuare a guardare restando in disparte
e tenendo per sé i suoi pensieri.
«Potremmo trovare un accordo: sei
disposto a lavorare senza paga per i primi mesi? In qualche modo ti ridarò
quello che ti sei guadagnato, mi impegno ad assumerti
regolarmente una volta che gli affari saranno decollati.»
Yuu si ritrovò ad annuire, ancora una volta era stato
schiacciato dalla morsa di un destino che aveva scelto per lui imponendogli una
strada difficile. Lavorare senza una paga: era un po’ come la vita, si vive
gratuitamente in previsione di ciò che poi, un giorno, si spera
ci verrà restituito. È ciò che ci spetta di diritto, ma questo non sembra mai
abbastanza. «Grazie, signor Takana.»
«Allora a lavoro, tra un’ora cominceranno ad arrivare
i primi clienti.»Daichi si
ritirò nel suo ufficio, portandosi dietro la sua camicia dal dubbio gusto.
«Prima ho bisogno d’aria.» Yuu si sentiva quasi
soffocare lì dentro, come se la pesantezza della conversazione appena conclusa
fosse rimasta a permeare l’aria.
«Vai pure, ci penso io qui.» Yutaka si mise subito a
lavoro indossando il suo grembiule, a volte sembrava un’armatura luccicante con
cui combatteva per far restare in vita il suo sogno minacciato dal drago
chiamato realtà.
«Yutaka…» Kouyou parlò quasi sottovoce, con tono
preoccupato e quasi supplichevole. Non conosceva bene Yuu, anzi non lo conosceva affatto, eppure nelle ore passate insieme
negli ultimi giorni aveva capito quanto fosse sensibile e premuroso, divertente
e speciale. Era piacevole stare in sua compagnia, tanto che ne risentiva quando
tornava al suo appartamento trovandovi solo silenzio.
«Vai.»
Kouyou raggiunse fuori il suo improvvisato aiutante,
trovandolo seduto su un muretto non troppo alto che delimitava i confini della
proprietà del locale. «Tieni.»
Yuu non l’aveva sentito arrivare, aveva visto soltanto
una sigaretta spuntare dal nulla come fosse manna caduta dal cielo. «Come lo
sapevi?»
«Riconosco una faccia che ne ha bisogno.»
«Grazie.» Yuu ne fu quasi commosso e quel
ringraziamento celò molto più di quanto fosse disposto ad ammettere.
«Non preoccuparti, si sistemerà
tutto. È solo un brutto periodo, ma passerà.»
«Spero tu abbia ragione, quei soldi mi servono.»
«Yutaka non ti lascerà nella merda e nemmeno io.»
Yuu si voltò sorpreso. «Ma
nemmeno mi conosci.» non si aveva un simile atteggiamento verso chi si conosce
appena, non di solito almeno. Cosa c’era dietro tutta quell’accondiscendenza?
«Credo molto nel mio istinto e,
stavolta, mi dice di fidarmi di te. Raramente le mie “prime impressioni” sono
sbagliate.»
«Beato te, le mie lo sono quasi
sempre e faccio puntualmente l’errore di fidarmi delle persone
sbagliate.» e neanche riuscì a finire, che una figura familiare si stagliò in
lontananza, illuminata dalla luce arancione del tramonto; sembrava che il
destino stesse lì nascosto da qualche parte ad origliare, pronto a giocare il
suo tiro mancino. «Tipo lui.» il ragazzo si avvicinò con la lentezza con cui si
dimentica il passato, peccato che sia altrettanto veloce a tornare nel momento
sbagliato.
«Yuu!»
«Ciao Kaito.» era l’ultima
persona gradita in quel momento di bilanci e sconfitte.
«Come stai?»
«Bene.»
«Lavori qui adesso?»
«Così pare.» di certo non era diventato un manager di
successo con indosso un grembiule da cameriere. Lo vide lanciare un’occhiata
anonima a Kouyou che era rimasto lì, in piedi, accanto a lui. «E tu che ci fai
da queste parti?» ricordava che il suo appartamento fosse dall’altra parte
della città.
«Abito qui vicino adesso, mi hanno assunto in uno
studio legale e mi sono trasferito.»
«Capisco.» forse era infantile provare invidia per il
successo di qualcun altro, forse un giorno il karma l’avrebbe punito, ma per
ora si limitò ad esternare indifferenza.
«Beh, io torno dentro.» Kouyou doveva essersi sentito
chiaramente a disagio ascoltando una conversazione di cui non faceva parte.
«Aspetta, rientro anche io.
Scusami Kaito, devo tornare a lavoro.» lo ringraziò mentalmente per avergli dato quella via di
fuga.
«Ma certo, vai pure.»
Yuu gli rivolse un cenno del capo, accompagnato da un
amaro sorriso, prima di seguire il pasticcere in cucina.
Ripresero a lavorare su una strana torta al cioccolato, ma Yuu sembrava stranamente silenzioso, la
cucina non era la stessa senza la voce del suo buonumore. «Tutto bene?» Kouyou
non sembrava allarmato, forse solo un po’ preoccupato.
«Si, scusami, è che non mi
aspettavo di rivedere il mio ex.»
«Oh, quindi sei…»
«Gay, si. Tu…no?» aveva paura della sua risposta, un terrore che si dimostrò
essere fondato.
«No.» Kouyou non notò lo sguardo sul volto di Yuu
perché lo nascose con maestria, era stato allenato dagli anni in cui, per
continuare a vivere una vita più normale possibile, aveva dovuto imparare a
dissimulare le sue vere emozioni. Aveva perso il lavoro, avrebbe dovuto
lavorare gratis per chissà quanto tempo e il ragazzo che gli piaceva era etero.
Cosa poteva peggiorare ancora quella giornata?
«Capisco che non è piacevole rivedere qualcuno che
credevi di aver dimenticato, se vuoi puoi tornare a
casa.» Yuu doveva aver vissuto un po’ troppe emozioni quel giorno.
«Cosa ti fa pensare che non l’abbia dimenticato?»
«A me non sembra. Ci sono passato anche io: stavo per sposare una donna che credevo mi amasse,
ma lei mi ha tradito poco prima del matrimonio. Con il senno di poi posso ringraziarla
per aver avuto la decenza di farlo prima che fosse troppo tardi per tornare
indietro, comunque avevamo un accordo prematrimoniale e ho dovuto rivederla
spesso per annullarlo. Allora l’amavo ancora, quindi
riconosco uno sguardo del genere.»
«Beh, stavolta il tuo istinto ha
sbagliato. È solo rancore ciò che provo per quello stronzo, stavamo bene
insieme ma mi ha lasciato perché non riusciva a vivere la sordità di mio
fratello. So che non è da biasimare, non tutti riescono a gestire qualcosa di così
diverso dal loro “piccolo mondo perfetto”, ma è più forte di me. Akira è una
parte importantissima della mia vita e Kaito ha fatto
soffrire soprattutto lui, per questo non lo perdonerò mai. Io l’ho sempre
protetto, vedo ogni giorno quanto lotti con se stesso
per adattarsi alla vita che non riesce ad accettare, io ho tutto, sto bene,
mentre lui è intrappolato in un mondo da cui io non posso tirarlo fuori. Non
sai quante volte ho dovuto fingere che tutto andasse bene, quante volte ho
dovuto reprimere la rabbia verso chi osava deriderlo proprio sotto i miei
occhi. Non lascerò che sia stato tutto invano. Non posso amare una persona come
Kaito, ma solo augurarmi che stia il più lontano
possibile dalle nostre vite.»
Kouyou era disorientato. «Scusami, non immaginavo
che…» che fosse tutto così complicato, che le sfumature d’ombra fossero così
tante in una vita che sembrava luminosamente perfetta.
«Ma no, scusami tu, davvero, non
avrei dovuto prendermela con te. Forse hai ragione, dovrei tornare a casa.»
«Ci penso io qui, vedrai che domani andrà meglio.»
«Già, scusami ancora.»
«Yuu, non preoccuparti. Ogni tanto
fa bene parlare con qualcuno, non dobbiamo sempre essere perfetti, o fare ciò
che gli altri si aspettano da noi. Puoi anche essere
un essere umano qualche volta.»
«Grazie Kou.» Yuu recuperò i suoi averi e si liberò
del grembiule scuro. «Ci vediamo domani.» ma prima che
potesse raggiungere la porta, Kouyou richiamò la sua attenzione.
«E comunque avevo ragione, il
mio istinto non sbaglia mai.»
«Riguardo a cosa?»
«A te. Sei una persona splendida.»
Con il cuore in subbuglio, Yuu si perse tra le strade
affollate.
*w* finalmente quei due hanno scambiato qualche parola in modo decente! Che
cosa avrà voluto dire Ruki così enigmatico? u_u non è chiaro se Akira ne sia meno irritato o
continui a non sopportarlo…come sono cattiva éwè ma
vedrete che quando le cose saranno maturate, mi ringrazierete per non aver
corso ♥
Povero piccolo Yuu *abbraccia* una tranvata dopo
l’altra T^T niente lavoro, incontra l’ex e Kou gli rivela di essere etero D: come
minimo ora si va a buttare da un ponte xD ma io vi
avevo detto di stare in guardia perché niente era quello che sembrava, ma NON
DISPERATE e abbiate fiducia in me ♥ non ve ne pentirete! Eppure Kou è
così ambiguo che dà i nervi, non trovate?! *lo picchia
con il mattarello*
Grazie a tutte voi che leggete e/o recensite ♥ al prossimo capitolo~
*lancia coriandoli*
«Anche
a te, Hoshi, a domani.» Akira mise finalmente fine
alla lunga giornata piena di aperitivi ed espressi. Non vedeva l’ora di essere a
casa con il suo caldo pigiama, sul divano, con la pancia piena mentre magari si
addormentava davanti alla tv. Quando lasciò l’edificio
non fu solo l’aria fredda a colpirlo: in strada c’erano alcune ragazze
particolarmente agitate, parvero addirittura essere molto deluse quando ad
uscire dalla casa discografica fu lui e non la Star dei loro sogni. Di solito
smontava dal lavoro prima delle sette, quindi era la prima volta che assisteva a
quello spettacolo che aveva dell’assurdo.
Cosa spingeva delle persone ad aspettare per ore al freddo, sperando
di riuscire a vedere qualcuno che non le avrebbe degnate di uno sguardo? E quel
qualcuno si rivelò essere, senza la dovuta sorpresa, proprio Ruki. Lo riconobbe
dalla camminata furtiva e dal modo in cui cercava di tirarsi su il cappuccio della
felpa nera, tutto sembrava uno stupido e assurdo déjà
vu. Capiva che per altri potesse essere molto importante, ma l’essere scortati
dalla sicurezza fino al furgoncino fermo in strada no, questo non lo concepiva.
Le fans seguirono di corsa il van quando partì a tutta velocità diretto chissà
dove. Era questo probabilmente ciò a cui si riferiva
prima in terrazza Ruki. Per lui era solo uno come
tanti, una persona comune, invece ora capiva che non poteva vivere senza che la
stampa, o orde di ragazzine urlanti, lo sapessero e lo soffocassero con la loro
presenza ingombrante. Non doveva essere quella che si chiama una situazione
piacevole, sicuramente c’erano cose peggiori nella vita, ma almeno se lui
avesse fallito o avesse avuto una giornata storta, non l’avrebbe
saputo il mondo intero.
Nonostante
tutto non riusciva a provare pietà nei suoi confronti, era stato lui a scegliere
quel genere di vita ed era l’unico da biasimare se ora non riusciva neanche a
raggiungere l’altro lato del marciapiede. Dovette farsi
strada a forza, un passo dopo l’altro, fino a raggiungere la piccola stradina
dove ancora una volta il destino decise di giocare con lui. Una monovolume gli
si parò davanti con fare minaccioso, il vetro scuro si abbassò piano fino a rivelare
il mago dei travestimenti: portava i suoi enormi occhiali da sole e una
mascherina bianca oscurava quasi completamente il suo viso; gli stava parlando
mentre gesticolava nervoso, non poteva certo immaginare che l’altro non l’avrebbe
mai sentito. Cosa ci faceva lì poi? L’aveva visto salire su quel van con i suoi
occhi.
«Non
parlo con chi non ha una faccia.» in qualche modo doveva pur risolvere quella
situazione. Visto da vicino, ora che si era avvicinato allo sportello, era
ancora più inquietante. Stava per andarsene quando vide Ruki liberarsi dal suo
travestimento di agente segreto in missione speciale.
«Così
va meglio?»
Akira
finse di pensarci su. «No, forse era meglio prima.»
Ruki
gli regalò un sorriso spontaneo e luminoso. «Dai sali, ti do un passaggio!»
«No
grazie, non disturbarti.» non era il caso di arrivare a quel tipo di confidenza
e stare insieme a lui nello stretto abitacolo di una
macchina.
«Ma quale disturbo, la strada è la stessa! Dai, prima
che mi vedano.»
Akira
si guardò intorno alla ricerca di una scusa qualunque, ma dentro di sé sapeva
di essere spacciato: faceva freddo, il cielo non prometteva una serata limpida e
le prime gocce di pioggia non tardarono ad arrivare. Aggirò la macchina e si beò
del calore che lo invase avvolgendolo con accoglienza. «Ti ho visto salire sul quel
van poco fa, cosa ci fai qui?»
«Sono costretto a ingannarle: una volta girato l’angolo,
recupero la mia macchina. Non mi riconosceranno.»
«Se
sta bene a te.» Akira sperò di non pentirsi di quella scelta pericolosa, non
riusciva a rilassarsi: restava nella costante paura che Ruki potesse parlargli,
quindi lo osservava furtivamente attraverso lo specchietto laterale e quello
retrovisore.
«È il
mio nuovo singolo, ti piace?» vide Ruki alzare il volume e sorridere
soddisfatto, quasi fosse un padre che mostrava con entusiasmo la fotografia
della sua primogenita.
«Mhm.» che altro avrebbe potuto dire in fondo? Che avvertiva
soltanto una tiepida eco lontana di ciò che doveva essere, in realtà, la sua musica?
Aveva l’impressione che fosse potente quanto la forza dell’acqua che lentamente
scava il suo percorso, purificatrice come il fuoco, invadente e impetuosa come
il vento e solida come la terra a cui aggrapparsi per
costruire le proprie certezze.
«Non
è il tuo genere eh?»
«No.»
la conversazione lo stava portando verso le sabbie mobili e, come gli eroi nei
fumetti, poteva soltanto proseguire il suo cammino a testa alta e affondare.
«Che
genere ti piace?»
Possibile
che con tanti argomenti di cui discorrere, Ruki avesse scelto proprio la
musica? Era un cantante, lo capiva, così come sapeva bene che era una delle
prime domande di cortesia con cui rompere il ghiaccio di una conversazione in
stallo. Probabilmente non voleva affatto saperlo, né
aveva intenzione di conoscerlo meglio, perché lui aveva sempre creduto che la
musica potesse dire davvero tanto sulle persone senza bisogno di spiegazioni o
vuote parole. «Metal.» lo aveva detto senza pensarci troppo, seguendo l’istinto
che finora lo aveva sempre salvato in caso di necessità. Non sapeva neanche che
genere di musica facesse Ruki, magari aveva appena fatto
la figuraccia del secolo.
«Oh, sei un tipo tosto allora! Più di me.»
«Così
dicono.» gli era andata bene anche stavolta, ma non avrebbe dovuto continuare a
sfidare la fortuna in quel modo sfacciato, prima o poi
gli avrebbe voltato le spalle lasciandolo a brancolare nel caos. Sul volto di
Akira, allora, comparve un sorriso carico di tensione: lo sguardo continuava a
saettare dallo specchietto al viso dell’altro, l’osservava
di sottecchi per paura che potesse parlare ancora trovandolo impreparato.
Perché diavolo aveva accettato quel passaggio? Anche se era una soluzione
alquanto confortevole, in quel momento avrebbe preferito essere un anonimo
passante delle strade affollate.
«Perché
mi guardi così?» Ruki aveva notato lo sguardo insistente del passeggero, era
quasi penetrante e sembrava pesargli sulla pelle come una carezza. Lesse una
sfumatura di panico negli occhi scuri dell’altro quando vi si perse dentro.
«Meglio
della strada.» non era certo ciò che poteva definirsi un complimento, né tanto
meno una risposta soddisfacente.
«Mhm sarà. Sei gay
vero?»
«Oh,
che domanda diretta!» nonostante Akira avesse una mentalità molto aperta, era
pur sempre un giapponese: c’erano argomenti assolutamente taboo.
«Strano,
di solito non sbaglio.»
«Chi
ti ha detto il contrario?» per un po’ scese il silenzio tra di loro, ci fu solo
uno strano gioco di sguardi indecifrabili. Probabilmente si stavano studiando
come avrebbero fatto due duellanti di un lontano passato, cercando di capire la
prossima mossa dell’avversario, di capire chi avessero davanti.
«Sai,
alcuni ucciderebbero per stare al tuo posto in questo momento e invece tu fai il
sostenuto.» ormai era diventata una questione di principio: non poteva credere
che quel ragazzo lo trattasse come uno sconosciuto qualunque. Tutti lo
adoravano quasi come una divinità, mentre lui lo ignorava completamente, anzi
sembrava che la sua presenza gli provocasse un fastidio latente. Improvvisamente
davanti a lui si aprì un ventaglio di possibilità e
tutte, allo stesso tempo, possibili. Avrebbe potuto cercare di conoscere meglio
quel ragazzo diffidente: finalmente qualcuno che non si aspettava niente da
lui, che non lo giudicasse dal suo involucro.
«Immagino,
se le tue fans sono tutte come quelle pazze del supermercato...»
«Beh,
solo alcune per fortuna.» merito della stessa dea bendata che aveva deciso di
giocare con i fili del destino dell’ignaro Akira, stringendoli tra le dita
aveva deciso di restare a guardare mentre la vettura scura si
incolonnava in un ingorgo senza apparente salvezza. «Comunque continui a
non dirmi il tuo nome.» Ruki si era messo comodo, stranamente
rassegnato a passare lì molto del suo tempo.
«Perché
continuo ad essere il ragazzo dei caffè.»
«Non fare il difficile. Io mi chiamo Takanori, ma non
dirlo in giro, sono in pochi a saperlo.» difendeva con
ferocia il suo nome. Ruki era la celebrità, Takanori era un ragazzo come tanti,
se stesso, il volto che guardava allo specchio ogni mattina. Non voleva essere
giudicato per questo, la gente guardava il suo riflesso e sceglieva la
personalità da indossare, lui indossava Ruki; era una parte
di lui, ma non lui.
«Ok.» «Ma...che irritante! Prima o poi
scoprirò come ti chiami, stanne certo.»
«E
non ti sarà difficile.» un timore del tutto fondato il suo, sicuramente avrebbe
scoperto altre verità sul suo conto e, allora, sarebbe sparito esattamente come
gli altri. Doveva distogliere la sua attenzione da quei dettagli
compromettenti. «Allora, da quanto abiti vicino casa?
Non mi sembra di averti visto in giro.»
«Solo
da un mese a dir la verità, avevo bisogno di un posto
calmo e isolato e questa casa era perfetta. Ma non li leggi i giornali!?»
«No.»
«Beh, sarai l’unico in tutta Tokyo a non saperlo. Non
molto tempo fa alcune fans hanno scoperto dove vivevo,
da allora non ho più avuto un attimo di tregua: erano lì, notte e giorno a
controllare ogni mia mossa, venivo letteralmente assalito quando osavo entrare
o uscire. Vivere lì era diventato un inferno.»
«E
poi osi dire che non sono pazze da internare!»
«Non tutte sono così. La fai sembrare qualcosa di
orribile, ci sono anche fans che sanno rispettare i
tuoi spazi e la tua persona.»
«Ma
quindi è vero quello che si dice delle Star? Che la vostra vita è complicata e
pericolosa a suo modo?»
«E anche stancante, non dimenticarlo. Come per
qualsiasi altro lavoro ci sono cose che fai volentieri e altre meno, ma l’ho
scelto consapevolmente e non posso assolutamente lamentarmi. Non è paragonabile
ai duri lavori di operai o donne di casa, ma spesso non si dorme, ci sono
scadenze da rispettare, persone da tenere in considerazione: persone che hanno
più potere di te e sono in grado di importi limiti e
scelte, perché senza i loro soldi diresti addio al tuo sogno.»
Avanzarono
di qualche metro prima che Akira si concedesse qualche attimo per valutare
quelle affermazioni con un giudizio adeguato: non si trattava della lamentela
di un ragazzino viziato, ma di un adulto consapevole che non siamo noi a
scegliere la strada giusta, ma è lei a scegliere noi e, spesso, si tratta di
quella più difficile. «Non è meglio essere un nessuno
qualunque? Un indipendente e anonimo passeggero della vita che fa le proprie
scelte tenendo conto solo del suo desiderio, senza che nessuno lo sappia e sia
lì pronto a giudicarti.»
«Tu riusciresti a rinunciare al tuo sogno una volta che
ci sei dentro? Si ingoiano tanti bocconi amari nella
vita, ma se riescono a farti realizzare il tuo sogno, saresti disposto a
divorarli. Non intendo soltanto riuscire a intravedere la meta, ma
raggiungerla, afferrarla e viverla. Nonostante tutto ammetto che può essere
pericoloso, perché una volta realizzato il progetto potrebbe non essere come l’hai
immaginato, oppure stancarti troppo presto.»
«E
il tuo è come ti aspettavi?»
«No. Molto meglio.»
«Ma
se lo hai realizzato, vuol dire che non hai più sogni ora, cosa ti spinge ad andare
avanti?»
«Non è vero che non ho più sogni. I sogni possono
essere anche molto piccoli, ma altrettanto importanti.»
Ruki sorrise bonariamente, i suoi occhi sembravano guardare aldilà del
parabrezza un po’ appannato, come se riuscissero a vedere un futuro perfetto. «E
cercarne uno nuovo è la parte migliore.»
«Per esempio? Quali sono i tuoi sogni adesso?»
«Non
posso dirtelo: i sogni sono i segreti dell’anima.»
*
«Allora… grazie del passaggio.» fermi davanti al cancello di casa Shiroyama, Akira non dimenticò la sua gratitudine e la sua
felicità per poter finalmente mettere fine a quella tortura psicologica.
«Di
niente, quando vuoi, anzi mi fa piacere non viaggiare da solo.»
Akira
non rispose, si limitò ad osservarlo cercando di
decifrare il suo sorriso, di solito gli occhi delle persone erano trasparenti,
uno specchio di emozioni in cui non aveva nessuna difficoltà a distinguere la
giusta sensazione; stavolta si ritrovò davanti uno sguardo difficile da
collocare, sembrava che i suoi veri pensieri fossero trincerati dietro un velo
di diffidenza. Il telefono vibrò nella sua tasca distogliendolo da quelle
preoccupazioni, quando lo recuperò lesse le parole di
Yuu: sarebbe tornato tardi a casa e gli chiedeva di occuparsi della cena.
«Merda!» tutto sommato la giornata non era andata poi
così male, quindi il pensiero di trovare il vuoto ad attenderlo al rientro non
lo allettava di certo, se poi si considerava la cena da preparare diventava un
vero disastro.
«Tutto
bene?»
«Si, devo correre a cucinare qualcosa. Meglio che mi muova.» ora come ora il pensiero di dover scendere da quella
macchina aveva perso dell’attrattiva che aveva conservato fino a qualche attimo
prima.
«Se non ne hai voglia, potremmo cenare insieme, io sono
solo stasera. Tu?»
«Aspetto
mio fratello.»
«Oh.»
«Perché? Sai cucinare?» ora
che prestava la dovuta attenzione alla piega della loro conversazione, si rese
conto di aver dato per scontato che un tipo come Ruki non fosse in grado di far
molto da solo.
«Cosa credi?! Potrei sorprenderti...e
in tutti i sensi.»
Ad
Akira non sfuggì la sfumatura maliziosa di quell’affermazione.
«Vado o non farò in tempo.»
«Ci
vediamo domani. Buonanotte.»
«Notte.»
sfidare il freddo umido non fu terribile quanto correre verso il cancello e
allontanarsi dalla luce dei fari che gli illuminavano il cammino. Akira non
riuscì a vedere in controluce oltre il vetro scuro, ma sapeva che Ruki lo stava
osservando, sentiva il suo sguardo pesargli addosso come un mantello. Quando
varcò la soglia del cancello in ferro battuto, se lo
chiuse alle spalle sperando di trincerare fuori quella strana sensazione che
non riusciva a decifrare e ad abbandonare. Cosa diavolo gli prendeva? Non
poteva permettersi di avvicinarsi così tanto a Ruki,
né a qualsiasi altro ragazzo; non poteva essere così egoista da trascinare
qualcun altro nel suo mondo silenzioso. A soffrire sarebbe stato sempre e solo
lui, intrappolato in un limbo che sprofondò nel buio quando Ruki si allontanò
portando con sé la sua luce.
*
Ti prego, dimmi che hai cucinato
qualcosa! Sto morendo di freddo e sarei capace di mangiarmi un bue intero! Yuu corse in cucina
grato nel vedere una pentola sui fornelli, allungò le mani lasciando che
il vapore gliele riscaldasse.
C’era solo del pollo in frigo. Se
mi avessi avvisato prima, avrei comprato qualcosa.
Ma va
benissimo qualsiasi cosa, preparo la tavola.
Come mai sei tornato così tardi
oggi?
C’era tanto da fare.
Capisco che è l’inizio e vuoi
impressionare il tuo capo, ma non dovresti lavorare così
tanto.
Infatti non stava lavorando, era stato tutto il giorno in
giro per la città e, quando il freddo era diventato troppo pungente, si era
rifugiato in un anonimo negozio di musica. Non
mi dispiace aiutare Kouyou. Si sentiva terribilmente in colpa, raramente
aveva mentito ad Akira e mai si era trattato di una bugia di quella portata. Per
una volta era grato che non potesse ascoltare la sua voce, o l’avrebbe colto in
fallo leggendo la paura nell’incrinatura della sua affermazione; si odiò all’istante
per quel pensiero.
Non
si nascondeva nulla di compromettente nella verità, ma non voleva parlare di
ciò che era successo: del suo incontro con Kaito,
della sua chiacchierata con Kouyou, di ciò che aveva provato quando le sue dita
avevano accarezzato le corde rigide e contratte sul legno lucido della
chitarra. L’aveva vista lì, adagiata in un angolo triste e
sola e si era sentito come lei. L’aveva imbracciata e, quando si era
seduto su quel piccolo sgabello e aveva cominciato a suonare si era sentito
improvvisamente libero, più che suonare si era limitato a mettere in fila note
senza ordine, ma era bastato per sentirsi sopraffatto da tutti gli anni passati
lontano da se stesso. Si era allontanato dallo Yuu che
era a sedici anni, da chi avrebbe voluto e potuto essere, per poi scegliere una
strada piena di responsabilità in cui, pian piano, il ragazzino ingenuo era
annegato scomparendo nell’oceano dei sogni. Ora sapeva che non era mai del
tutto scomparso, ma era rimasto lì in attesa di poter tornare a vivere. Ma ora mangiamo,
buon appetito! Era pronto ad accettarlo? Era pronto a dare spazio a se
stesso, ai propri sogni? Era pronto a vivere la sua vita invece che quella di
Akira? Si era sempre illuso di averlo fatto per lui, di aver fatto
un sacrificio per un bene superiore, ma forse lo aveva fatto solo per paura di
credere in se stesso e restarne deluso. Poteva quasi sentirla la chiamata del
destino.
Yuu, sei pronto?
Si.
*w* capite in che situazione siamo?? Perché hai
accettato il passaggio, Akira caro, se ti stava così antipatico??? >w> e come mai Ruki si è lanciato in discorsi così
profondi e personali?? uwu aspetto
con ansia le vostre riflessioni ♥ anche su Yuu che pian piano ‘sta
crescendo’, sta maturando e si sta staccando da Akira =w= mi sa che non è Akira
a dipendere da lui, ma il contrario ♥ *li ama* spero che il capitolo vi
sia piaciuto, alla prossima ne~ ♥v♥ *ama tutti*
«Ma dai! Son finite le
sigarette!» proprio ora che Akira ne avrebbe volentieri fumata una, aveva
dovuto fare i conti con la realtà.
Si,
scusami.
Yuu abbandonò sul divano il joystick che stava
passando un brutto quarto d’ora a causa dei nemici da sterminare. Ho fumato l’ultima stamattina.
E ovviamente lasci il pacchetto
vuoto sul tavolo.
Altrimenti come avrei fatto a
vedere quell’espressione sulla tua faccia?
Che stronzo!
Ti voglio bene anche
io!
Yuu riprese a giocare rivolgendo tutto il suo interesse ad
un passaggio particolarmente delicato. «Maledetti bastardi, vi ucciderò tutti!»
«Esco e vado a comprarle. Mi senti?»
Yuu
annuì distrattamente. «Ah, già che ci sei, mi compreresti qualcosa da mangiare?»
«Ti
compro una carota, così puoi infilar-» Akira non poté metter fine alla sua
rivendicazione perché venne attaccato da un cuscino
volante. Lasciando perdere la vendetta, si premurò di
indossare sciarpa, guanti e un bel cappotto pesante, ormai erano in pieno
inverno; dicevano fosse prevista una nevicata di almeno venti centimetri
durante la settimana di Natale. Una festività davvero inutile a suo parere, ma
come ogni anno avrebbero invitato Yutaka e mangiato fino a scoppiare. «Non
andare più avanti del sesto livello, aspettami!»
Ok!
Ciao.
Quando uscì di casa rabbrividì preso alla sprovvista
da una temperatura che non si aspettava così bassa, infilando le mani in
tasca si chiuse il cancello alle spalle e proseguì verso il supermercato più
vicino. Stava pensando che una busta di pop-corn
sarebbe andata più che bene per soddisfare la voglia di Yuu, quando voltato l’angolo
si scontrò con un passante affrettandosi a scusarsi con un profondo inchino.
«Mi scusi, non l’avevo vista.» ma quando rialzò lo sguardo
rimase quasi sconcertato. «Ma...sei tu!»
Takanori
massaggiava energicamente la fronte arrossata, dove sicuramente sarebbe
spuntato un bel bernoccolo; si trovava proprio all’altezza del suo mento,
doveva essere stato un bell’impatto. «Oh, ciao.»
«Mi
stai pedinando per caso?» non c’era davvero pace, era costretto ad incontrarlo persino di domenica. Non esistevano più i
giorni di riposo di una volta.
«Potrei
dire lo stesso di te.»
«Veramente
io sono ancora sotto casa mia.»
«E io stavo andando al supermercato e questa è la strada più
veloce.» sembravano due bambini che bisticciavano su chi dei due avesse diritto
di essere lì.
«Non
mi dire...»
«Cosa?»
«Sto
andando anche io al supermercato.» era una condanna,
triste, lenta ed atroce.
«Allora
andiamo insieme!» Takanori ne sembrò estremamente
contento e Akira sospettava avesse qualche subdolo piano in mente. Doveva far
presto e tornare a casa di corsa.
«Cosa hai cucinato di buono ieri sera?» il cantante sembrava
stranamente a suo agio tra gli ortaggi e la frutta di stagione. Jeans neri da
cui pendeva una catena, infilati in stretti anfibi borchiati, un maglione
bianco extra-large che urlava a chiunque leggesse che il proprietario era “nato
per essere un ribelle”; un cappotto nero imbottito incorniciava il look da
perfetta rock star, non potevano mancare occhiali da sole e il cappello di lana
nera che aveva visto spesso. Forse ci dormiva con quel cappello. Nonostante
tutto, era strano vederlo lì, tra quegli oggetti assurdamente quotidiani; lo
aveva sempre immaginato circondato da manager e fattorini maltrattati.
«Del semplice pollo. Tu cosa hai mangiato invece?» non
che gli interessasse davvero, ma di solito una conversazione sul più e il meno comportava partecipazione. Certe volte la gente aveva
proprio paura del silenzio, lo sapeva bene.
«Una
pizza.»
Poteva
quasi immaginarselo tutto solo mentre mangiava la sua pizza, magari appollaiato sul divano in compagnia di un film d’azione,
chissà se gli piacevano. Lui li odiava. «Mi serve del ramen
istantaneo per le emergenze, andiamo.» e uno dopo l’altro, i prodotti più
disparati andarono a saturare il carrello. «Tu le mangi le fragole?» una
crostata era in bella mostra davanti a loro, invitante come un peccato.
«Beh,
si, non mi hanno mai fatto nulla di male.»
«Io
le odio, da bambino ne ho fatto indigestione.» e sembrava essere un’informazione
di vitale importanza. «Le ciliegie?»
«Mangio
davvero tutto, Ruki.»
«Chiamami
Takanori.» e la torta finì a fare compagnia ai cereali e all’insalata. Se era tutto
un piano per scoprire il suo nome, Akira non ci sarebbe di certo cascato.
«Ma quanta roba stai comprando?»
«Tutta
quella che mi serve.» Akira ebbe un brutto presentimento quando arrivarono alla
cassa. Non l’aveva visto in auto. E le buste aumentavano in numero e volume.
«Mi aiuti?»
Lo
sapeva. «Se non ci fossi stato e avessi preso tutta
questa roba, come avresti fatto? Fai come se non ci fossi!»
«Ma l’ho presa proprio perché ci sei tu. Andiamo.» irritante, presuntuoso e provocatorio come un bambino. Lo
avrebbe volentieri lasciato lì, godendo nel vederlo annaspare per trasportare
tutta quella roba. Invece aveva preso due buste e si era incamminato verso l’uscita,
per fortuna all’ultimo minuto si era ricordato di lanciare tra la spesa dell’altro
le sue sigarette e un pacco di patatine per Yuu; quel Ruki riusciva davvero a
mandargli in fumo i pensieri, per poco non aveva rischiato di tornare a casa a
mani vuote.
«Sarà
meglio che mandi un messaggio a mio fratello, in teoria ero uscito soltanto per
le sigarette.» e si era ritrovato a fare la spesa per un mese. Neanche fosse
uno di quegli uomini che escono di casa con una scusa
banale, solo per non farvi più ritorno.
«Ce
la fai?» Takanori lo vedeva in difficoltà, era impossibile recuperare il
telefono in tasca e mantenere in equilibrio le buste precarie.
«Non
osare prendermi in giro, o ti lascio tutto qui in strada e me ne vado.»
«Su,
non essere così permaloso, siamo quasi arrivati.» e, appena dietro l’angolo,
apparve una villetta a schiera bianca e anonima. «Vieni.» all’interno l’arredamento
era spartano: un divano, un tappeto sotto un tavolino, una libreria stracolma e
una tv a schermo piatto. Nulla che potesse rivelare qualcosa sulla personalità
del padrone di casa, solo un buon profumo che accoglieva i visitatori, lo
stesso che aveva addosso Takanori. «Lascia pure le buste qui, poi ci penso io a
sistemare tutto.» nel frattempo si era liberato degli indumenti di troppo.
«Beh,
allora direi che posso andare ora.» Akira stava cercando di recuperare i suoi
acquisti, ma l’altro glielo impedì.
«Cosa? Credi davvero che ti lascerei andare così? Come
minimo ti devo un tè, o un caffè, o qualsiasi cosa preferisci.»
«Ma no, davvero, non preoccuparti.»
«Mi preoccupo eccome! Da bravo, togli questo cappotto.» e non fu semplicemente un suggerimento, ma un ordine. «Le pantofole le trovi qui. Avvisa tuo fratello che farai
più tardi del previsto, se vuoi puoi anche chiamarlo:
il telefono è lì. Ti aspetto in cucina.» recuperando
da una busta di carta la crostata alle ciliegie, Takanori sparì lasciandolo
confuso come dopo il passaggio devastante di un uragano. Era davvero un’impresa
riuscire a stargli dietro, parlava sempre a raffica senza dargli il tempo di realizzare ciò che aveva letto su quelle labbra piene ed
erotiche. Facendosi coraggio si liberò piano delle
scarpe, continuava a guardarsi intorno con sospetto, cosa diavolo ci faceva lì?
Ma ormai era in ballo, non poteva certo voltarsi e
scappare il più lontano possibile. Avanzò percorrendo il salotto fino ad
arrivare in cucina, era molto più piccola dell’ingresso, ma arredata con più
attenzione e molto accogliente, quasi intima; era una stanza vissuta. «Preferisci tè nero o verde? Un infuso ai frutti di bosco?
Una birra?»
«Il
tè nero va benissimo.»
«Bene,
lo preferisco anche io.» mentre Takanori si avvicinava
al lavandino per riempire il bollitore, si lasciò accarezzare da un pensiero:
forse non erano poi così tanto diversi, l’aveva riconosciuta l’indifferenza con
cui si rivestiva Akira perché era stata la sua compagna per molti anni. Come
lui teneva il mondo a distanza, come lui aveva paura che le situazioni
potessero sfuggirgli di mano e ne rimanesse intrappolato; con il tempo aveva
capito che l’unico modo per tirare fuori tutto il marcio che sentiva
dentro era attraverso la musica, se non l’avesse fatto a quest’ora ne sarebbe
stato soffocato. Probabilmente non sarebbe stato in quella cucina a preparare
del tè, ma qualche metro sotto terra. «Vieni, ti faccio fare un giro della casa. È un po’ spoglia
forse, ma ho fatto del mio meglio.»
Akira
seguì quel piccoletto troppo pimpante in salotto, a vederlo così a suo agio non
sembrava potesse fargli del male con la sua presenza, eppure si sentiva
minacciato da ciò che Takanori rappresentava: il mondo a cui
non era mai stato così vicino ora che davanti a sé riposava placida una sala di
registrazione. «Questo è il mio piccolo angolo di paradiso!» a Takanori quasi
brillavano gli occhi. «Passo qui la maggior parte del mio tempo, a volte mi
dimentico persino di mangiare!» il suo sorriso fu contagioso, non si poteva
restare indifferenti alle emozioni che si impadronivano
di quel viso, ti investivano in pieno prendendo possesso del tuo corpo, proprio
come se fossero sempre state lì. «Qui c’è un piccolo bagno, al piano di sopra
la mia camera e un armadio tutto mio, un lato positivo deve pur esserci nel
vivere da solo!» dentro di sé Akira preferì non salire al secondo piano,
sarebbe stato troppo intimo guardare il letto in cui dormiva ogni notte, in cui
faceva sesso.
«L’hai
sistemata proprio bene.»
«Grazie. Oh, il tè è pronto.» il bollitore doveva aver
smesso di borbottare, perciò si ritrovò seduto su un alto sgabello da bar, la
sua tazza fumante lo aspettava sulla penisola in legno
scuro al centro della stanza. Su un piatto, una fetta di crostata alle
ciliegie. Akira soffiò sul fumo che si innalzava dalla
sua tazza, dopo il freddo di dicembre era piacevole stringere qualcosa di caldo
tra le mani. Takanori venne distratto all’improvviso
da un rumore, perciò si diresse verso l’ingresso. «Maledetto telefono.» parlò
per quasi mezz’ora, nel frattempo il suo tè divenne freddo. «Scusa, era per
lavoro, sto organizzando un tour e c’è sempre qualcosa
da fare.»
«Oh
capisco.» una vuota frase di circostanza, in realtà non capiva minimamente di
cosa stesse parlando.
«La prima data è qui a Tokyo, ti va di venire a
vedermi? Ovviamente ti riserverò un posto vip, potrà non essere il tuo genere
ma potrei convincerti.»
«Di
cosa?»
«Di
essere bravo.»
«E
modesto, non dimenticarlo.»
Takanori
rise, punto nel vivo. Ora che ci faceva caso, i suoi denti erano molto piccoli,
sembravano delle piccole perle: bianche e candide,
disposte in una fila perfetta come quelle di un bracciale che ornava il polso
dei monaci buddisti. «È che amo quello che faccio.
Magari qualche canzone potrebbe anche piacerti, altrimenti avevi ragione tu e
non te lo chiederò più. Sarà comunque una serata diversa. Allora, ti va?»
Akira
non sapeva davvero cosa rispondere. Un concerto. Una volta ci era stato ad un concerto, aveva accompagnato suo fratello al parco di Ueno e aveva sentito delle vibrazioni nel petto così forti
da esserne quasi spaventato, Yuu gli aveva detto che quelli erano i bassi: i
tamburi della batteria e le corde del basso, quello con il manico più lungo
della chitarra. Forse le persone sentivano tutti i rumori in quel modo, li
sentivano fin dentro al petto come se entrando dalle
orecchie finissero fin dentro al corpo facendolo vibrare. Per sentirli meglio
magari. «Forse non è il caso...sarebbe meglio
destinare quel posto a qualcuno che ci tiene davvero. Non...»
«Ok va bene, se dovessi cambiare idea sai dove
trovarmi. È il venti gennaio, hai molto tempo per pensarci su.
Terrò un posto per te in ogni caso.»
*
«C’è un ordine da consegnare: due cappuccini e due ciambelle al terzo piano,
studio 46B.»
«Non
può andarci Yuko?»
«Yuko è già al secondo piano.»
«Vado
subito.» eppure c’era qualcosa che non tornava, il suo istinto gli diceva di
non andare: era una trappola. E più si avvicinava alla sua meta, più sentiva il
pericolo crescere come l’onda di uno tsunami. I numeri si susseguivano sotto al suo sguardo attento, crescevano e si duplicavano finché
non fu davanti alla porta che aveva cominciato a temere. Ruki era intento a
smanettare con i tasti di una consolle, completamente chino su un foglio, perso
in un dettaglio che sembrava rincorrere come un’idea; si accorse di lui solo
quando si schiarì la voce.
«Ciao
Akira.» anche non potendo sentire il
tono che aveva usato, non era difficile decifrare la sua espressione: un misto
di luminosità e soddisfazione.
«Ciao
Takanori.» più tardi avrebbe strozzato il suo capo, doveva essere stato lui a
rivelargli ingenuamente il suo nome. Lui e la sua maledetta bocca larga.
«Oh,
allora te lo ricordi?!»
«Certo,
non sono ancora rincoglionito.» Akira lasciò il vassoio sulla scrivania, lo
poggiò in malo modo rischiando di far esondare il cappuccino. «Buon lavoro.»
«Aspetta, dove corri? A quanto pare sei un po’ tonto,
sai?»
«Eh?»
aveva voglia di litigare forse?
«Io
sono solo qui in studio, eppure ho ordinato una colazione per due.»
«Quindi?»
«Per
chi credi che sia?»
«Non
sono affari miei.»
«Invece
lo sai.»
«Forse
una di quelle gallinelle sciatte che ti porti dietro?!»
«Siamo gelosi Shiroyama?» Takanori
ci stava quasi prendendo gusto a punzecchiarlo in quel modo, quella era stata
una reazione piacevolmente inaspettata.
«Perché
dovrei?»
«Non
lo so, ma dal tuo tono sembra che ti infastidisca pensare
a chi mi porto a letto.»
Akira
restò trincerato dietro un ostinato silenzio. «Dovrei tornare a lavoro.»
«Dai, facciamo pace: la colazione è per te. Sei sempre
così sfuggente che l’unico modo che ho per parlare un po’ con te è ordinare
qualcosa al bar, sperando che sia tu a portarmela.»
Non
gli piaceva che avesse quel potere su di lui, che ad
un suo capriccio fosse costretto ad assecondarlo. «Perché?»
«Sei
davvero così ingenuo?»
«A
volte preferirei esserlo.»
«Siediti.»
E
Akira lo fece.
*^* vi avevo avvisato che sarebbe stato un capitolo BOOM u.u interamente reituki
♥ perché sono i protagonisti, in teoria xD la
spesa insieme, l’invito al concerto…la colazione ♥v♥ quindi Akira,
finalmente hai capito chi hai davanti? Hai capito che Ruki è tanto caro e vuole
fare amicizia con te..pare
un bambino che rompe: e daaaai ascoltami, parla con
me e dai e dai e daaaiiiii *^* Sciogliti un po’ e
vedrai che tutto andrà bene =w= Aspetto con ansia la vostra opinione..chissà
perché mi aspetto una valanga di cuori e arcobaleni xD
A presto, ne~ ♥
«E tutto quello che riuscivo a fare era guardarlo come
se fosse un alieno! Ti giuro che non mi è mai capitata una situazione comica
come quella.»
Takanori
rise di gusto immaginandosi, con dovizie di particolari, la comicità della
scena che Akira gli aveva appena raccontato; avrebbe tanto voluto esserci per
vedere l’espressione dell’altro quando quell’uomo in strada si era abbassato i
pantaloni chiedendogli come gli stessero i suoi nuovi slip da donna. Era uno di
quei momenti da scolpire nella memoria e ripescare negli attimi tristi della
vita. «Non è possibile!»
«Tu ridi! Intanto io pensavo fosse uno scherzo di
qualche stupido programma televisivo. Non sapevo se ridere o picchiarlo!» Akira dedusse che Takanori non doveva avere una bella
risata, ogni volta si copriva il viso, quasi a voler nascondere il suono che ne
risultava. Chissà com’era la sua? Sgradevole o melodiosa? Magari rassicurante.
«Non l’ho mai scoperto, ma spero per quel povero uomo di non essere arrivato a
tali livelli di pazzia!» l’ascensore finalmente era arrivata
dopo minuti interminabili e Akira si era sentito spingere all’interno dello
stretto abitacolo.
«Scendo
con te, il capo mi cerca.» il cantante gli fu accanto premendo lo zero. Le
porte si chiusero, ma trascorse solo una manciata di
secondi prima che il mondo si bloccasse con un sobbalzo.
«Cosa
cazzo è successo?»
«No!»
Takanori inveì sui tasti, premendo quel che poteva: l’ascensore non dava segni
di vita, era irrimediabilmente bloccato. Potevano solo lanciare l’allarme e aspettare
che qualcuno li salvasse.
«Non può essere! Merda!» la luce si era offuscata, ora
solo un pannello luminoso alle loro spalle contribuiva a creare un ambiente raccolto, ma soffocante. «Aiuto! Qualcuno
mi sente?»
Akira
imprecò più di una volta, ma si arrese quando i secondi passarono inalterati.
Si voltò, l’altro era stranamente tranquillo.
«Soffri
di claustrofobia?»
«Cosa?»
non era riuscito a distinguere quella parola, perciò si spostò in modo che la
luce fosse alle sue spalle illuminando il volto dell’altro.
«Claustrofobia.»
«No.»
«Allora dobbiamo solo restare calmi, ho suonato l’allarme.
Qualcuno verrà a prenderci, agitarci ci toglierà solo aria preziosa.» Takanori si lasciò scivolare fino a sedersi a terra, con
le spalle contro la parete d’acciaio.
Akira
lo imitò, gli si accomodò di fronte invidiando la sua calma. Il destino aveva
un modo tutto suo di giocare, uno strano modo contorto e imprevedibile: più
cercava di evitare la compagnia dell’altro, più era costretto a starci insieme
in luoghi sempre più angusti e intimi. Lì dentro le loro gambe si sfioravano ad ogni movimento, i loro profumi si mischiavano con l’alzarsi
della temperatura. «Come fai ad essere così calmo?»
«Ho imparato a gestire lo stress. Almeno siamo in due,
pensa ad essere bloccati qui dentro da soli!»
«Hai
ragione.» ma era ugualmente una situazione paradossale. «Il telefono!» che
stupido era stato a non pensarci prima.
«Non
servirà, non c’è campo qui.»
Akira
guardò con sofferenza lo schermo su cui campeggiava la scritta “solo chiamate d’emergenza”.
«Ma di cosa sono fatte queste stupide ascensori?! Di
piombo?» in un impeto d’ira, gettò il cellulare
lontano da lui.
«Quello
è tuo fratello?» lo schermo, ancora illuminato,
mostrava un ragazzo dai capelli neri intento a stringere Akira in una morsa di
wrestling affettuosa. Takanori lo raccolse per analizzare meglio la complicità
che si nascondeva nei loro sguardi, quel momento comunicava una felicità senza
pari.
«Si, quello scemo di Yuu.»
«Non
vi somigliate molto, ma si vede che siete fratelli: avete lo stesso sguardo
profondo e delle labbra piene stupende.»
Akira
assomigliava a sua madre, mentre invece Yuu aveva
ereditato i tratti decisi del padre. «Anche tu hai delle labbra bellissime.»
era vero, aldilà di qualsiasi tecnica di difesa potesse attuare, doveva
dirglielo. «Devono averti detto un centinaio di volte quanto sei bello.» e dunque
la sua parola aveva il valore di urlo nel vento.
«Si, ma non ci ho mai creduto.»
Imbarazzo.
«E tu hai fratelli?» Akira preferì conversare d’altro, si era già spinto troppo
oltre.
«Lo avevo. Da quando la mia famiglia mi ha allontanato,
non ho più notizie di lui, eppure eravamo molto uniti.»
«Cosa è successo?» Akira non voleva essere invadente, ma
dovevano pur riempire quei minuti strappati alla vita quotidiana.
«Sono sempre stato troppo da gestire per i miei
genitori: troppo ribelle, troppo eccentrico, troppo esigente.» era buffo:
secondo lui era sempre stato troppo poco.«A mio padre non andava giù
l’idea che volessi cantare. “Mio figlio che va in giro vestito e truccato a quel modo! È inammissibile! Sei un uomo, non una
donna! Devi crescere, trovare un lavoro di tutto rispetto,
costruire una famiglia e vivere una vita normale!”.
Non gli dissi neanche di essere gay, penso mi avrebbe
ucciso altrimenti.»
Akira
ne fu sopraffatto. Come si poteva bandire un figlio per le sue scelte? Per il
suo modo di essere? Non doveva essere stato facile per lui sopravvivere a quegli anni difficili, da solo, perso, mentre lui aveva
sempre avuto Yuu al suo fianco. «Eppure ti ho visto con delle donne.»
«Mi crederesti se ti dicessi che ho avuto una storia
soltanto con una di loro? Alcuni pensano sia bisex, ma io mi sento
semplicemente attratto da ciò che mi piace. Fine della storia. Io odio le
“categorie”, il mondo non è come vogliono farci credere, ce
lo dipingono in un modo e si aspettano che tutti seguano quell’idea. Il
mondo non è bianco o nero.»
«Hai
ragione, è solo nero.»
«È nero perché ti convinci che lo sia. Può essere di
qualsiasi colore, anche di tutti i colori insieme. È
come vuoi vederlo tu, è questo a fare la differenza.»
«Per
quanto tu voglia cercare di credere a questa teoria, prima o
poi dovrai arrenderti. Il mondo fa schifo, è un brutto posto e noi
fingiamo di essere liberi. Rientrerai sempre in una categoria, che tu lo voglia
a no.»
«Non
e vero.»
«Si. In questo momento rientri in quella fatta da persone che
non vogliono appartenere ad una categoria. Ce ne sono
a centinaia come te.»
«Ma
non tutti quelli che vi appartengono sono uguali.»
«No, ma simili almeno. Le categorie esistono per
tenere sotto controllo il mondo, per capirlo, per essere sicuri che non ci
saranno sorprese. Altrimenti sarebbe tutto soltanto caos.»
«E
tu a quale categoria appartieni allora?»
Akira
ci mise un po’ a rispondere, non ci aveva mai pensato prima di allora. «A
quella di chi si accontenta.»
«Non dovresti. Cosa ti manca per essere chi vorresti?
Sei intelligente, testardo quanto basta e bellissimo.»
e lui ne sapeva certamente qualcosa sulla sua testardaggine.
Akira
abbassò il volto imbarazzato, se solo l’altro avesse saputo la verità. Gli
mancava tutto ciò di cui aveva bisogno per essere
completo. Si voltò guardando il suo riflesso nello specchio: era quello di un
ragazzo alla continua ricerca di se stesso. Probabilmente non si sarebbe mai
trovato. All’improvviso vide un movimento, tutto si svolse troppo velocemente
perché potesse capire che Takanori si era inginocchiato sporgendosi verso di
lui; le loro labbra si incontrarono per la prima volta
come due passanti che si lanciano un’occhiata furtiva in un giorno di pioggia. Lui continua per la sua strada pensando che
sarebbe bello fuggire dal suo matrimonio per imbattersi in quella ventata di
libertà che ha appena intravisto, lei si volta speranzosa ascoltando i suoi
passi che si confondono con la pioggia che scivola sul suo ombrello
rosso.
Il sapore è dolce, i fiati si
mescolano.
«Ancora non l’hai capito che mi piaci?» Takanori era in ginocchio, il viso a
qualche centimetro dal suo futuro.
«E
tu ancora non hai capito che non posso?»
«Perché?»
Solo
il silenzio rispose, quel silenzio pieno di parole
impossibili da dire. Quelle parole mai pronunciate per cui c’è una lacrima da
versare da qualche parte lì in fondo al cuore.
Con
uno scossone l’ascensore riprese la sua discesa, le luci illuminarono i loro
volti imbarazzati. Non si scambiarono una parola nei
minuti che trascorsero tra quel momento ultraterreno e il loro ritorno al
mondo. Ciò che era successo in quegli interminabili minuti sarebbe rimasto in
quell’ascensore, piano si sarebbe dissolto nel vociare della vita che
continuava imperterrita. «Ruki-san, tutto bene?» un ragazzo anonimo si avvicinò
al cantante, era visibilmente scosso. «Non sai che paura ho avuto quando ho
capito che c’eri tu lì dentro.»
«Non
preoccuparti Yamato, sto benissimo, per fortuna non
ero da solo.» ma quando si voltò per trovare conferma nella presenza di Akira, ad
attenderlo ci fu solo il vuoto. Era davvero uno strano ragazzo. «Torna pure a
lavoro, c’è tanto ancora da fare.» che voleva dire con
quel non posso? Non era una
giustificazione esaustiva. Non lo aveva respinto per il suo aspetto fisico, né
a causa del suo carattere a volte invadente, ne era sicuro. Si sarebbe
accontentato se gli avesse detto di non piacergli, ma così non aveva senso. Una
cosa era certa: aveva visto un piccolo barlume in fondo a quegli occhi
malinconici, una fievole speranza uccisa sul nascere con una forza brutale. C’era
una possibilità, lo sentiva, non si sarebbe arreso così facilmente.
*
«Ma questa torta è il paradiso!» se qualcuno avesse
fotografato Yuu in quel momento, la sua espressione sarebbe rientrata a pieno
titolo in uno di quei quadri in cui dubbi personaggi raggiungono un’estasi
mistica. «Metterò su almeno dieci chili, se continuo così!»
«E
allora non mangiare.» Kouyou continuava imperterrito a creare soffici fiocchi
di panna per la decorazione di un pandispagna al cioccolato, si muoveva con
velocità esperta, l’occhio vigile dietro gli occhiali dalla montatura nera. Sembrava
un chirurgo nel bel mezzo di un’operazione salvavita.
«E come faccio? Sei un Oni
venuto sulla terra per tentarmi, ormai l’ho capito.» non
poteva spiegarsi, altrimenti, il gusto raffinato delle sue creazioni.
Yutaka
entrò in cucina trafelato, non esisteva un solo attimo
di tranquillità per lui che doveva occuparsi di una cucina che sfornava almeno
venti chili di dolci al giorno. «Chi ti ha detto che potevi mangiarla?» sul
tavolo in marmo lasciò cadere un enorme sacco di
farina, lo squarciò con poca delicatezza per dividerne il contenuto in dosi più
maneggevoli. Maneggiava un coltello grosso e affilato, solo chi lo conosceva bene avrebbe potuto riconoscere quella sottile punta di
ironia nel retrogusto delle sue parole.
«Me la sono più che meritata! Tra quel branco di
studentesse e gli eterni indecisi, non so chi sia stato peggio.
Per non parlare di quelle due vecchie zitelle: credo abbiano
preso una doppia porzione solo per il mio culo.»
«Che
è da brividi, scommetto.»
«Lo puoi ben dire! Lo fissavano senza ritegno. Dovresti
ringraziarmi, invece di sgridarmi.»
«Beh, non guardarmi con quegli occhi da pesce lesso! Prendi
altri due piatti, non vorrai finirla tutta tu?»
«Oui Chef!»
Qualche
attimo dopo erano assorti nello strano silenzio in cui
si gustano meglio i sapori, Yutaka fu il primo a finire la sua porzione. «Che
programmi abbiamo quest’anno a Natale?» ovviamente, non c’era più bisogno di un
invito formale dopo tutti quegli anni.
«Sempre lo stesso. La cosa più natalizia che faremo,
sarà appendere una ghirlanda dietro la porta.»
«Povera
ghirlanda, le saranno rimaste sì e no dieci foglie.» sintetiche, tristi e
rinsecchite. «Ci penso io a voi.» certe volte si chiedeva
dove sarebbero finiti quei due senza le sue attenzioni.
Yuu
rispose con un’alzata di spalle, era del tutto disinteressato ad una festa religiosa; per lui ciò che contava era condurre
un giusto stile di vita e poteva essere una buona persona anche senza
appartenere ad un’istituzione che imponeva regole e dettami. «Tu cosa farai invece, Kouyou?»
«Niente
di particolare.»
«Nessun
impegno?» Yuu posò il piatto ormai vuoto sul bancone in
acciaio alle sue spalle, si spinse in avanti poggiando i gomiti sulle ginocchia
divaricate. Così gli sembrava di essere un duro, come gli uomini tutti di un
pezzo dei colossal americani, gli serviva coraggio per tramutare in parole il
pensiero balenato all’improvviso nella sua mente.
«No.»
«Perché
non lo passi con noi?» non poteva sopportare di saperlo tutto solo in un giorno
come quello. Con o senza uno scopo, bisognava stare insieme.
«Beh,
non saprei…»
«Stare
tutto solo è meglio che stare con noi?!»
«Non
volevo dire questo!» il ragazzo si affrettò a chiarire l’equivoco, imbarazzato
e incerto. «È che non vorrei essere di troppo.»
«Kouyou, tu non potresti mai esserlo. In nessun caso.» anzi, si chiedeva come avesse fatto a vivere senza la sua
presenza fino a quel momento in cui aveva stretto la sua mano. Ormai aveva
capito che i suoi sentimenti erano destinati a restare sterili come un campo
arido, sferzato dalla pioggia, ma spaccato da solchi
così profondi da riuscire ad intravedere il nulla. Non per questo, però,
sentiva di doversi privare della sua vicinanza: vederlo, parlargli, osservarlo
vivere era sufficiente per il momento e lo sarebbe stato finché il suo cuore
non avrebbe più retto. Allora avrebbe cercato riparo.
«Va
bene, mi farebbe molto piacere passare in Natale con voi.»
Kouyou sorrise, come a voler ricambiare l’improvvisa gentilezza inaspettata che
gli aveva riscaldato il cuore.
«La
KurisumasuKeki la faccio
io!» Yutaka si propose immediatamente, non era Natale senza quell’anonima torta
di panna guarnita con fragole e qualche strano pupazzo di zucchero.
*w* etoooo…quindi si sono baciati .w. beh, Ruki
si è lanciato sulla preda e Akira è ancora ben lontano dall’arrendersi
>_> ma Ruki non si arrenderà così facilmente, state tranquille =w= e
quindi, Kouyou passerà il natale con Yuu
♥v♥ i rapporti continuano a crescere e trasformarsi, chissà dove
andranno a finire xD credo proprio che il prossimo
capitolo sia di fondamentale importanza per lo sviluppo della storia, quindi
non vi farò aspettare troppo come al solito *^*
Posso
dire, ancora una volta, capitolo KABOOM? xD
credo che d’ora in poi saranno tutti capitolo kaboom
.w.
Sing for me
Takanori
era concentrato, il capo chino su un foglio bianco e maledettamente vuoto. Di
solito le parole sgorgavano dalla sua mente come se fosse una sorgente
sotterranea, fresca e limpida, non aveva nemmeno bisogno di rincorrerle: erano
semplicemente lì, galleggiavano nell’etere e a lui non restava che leggerle e
trascriverle. Stavolta c’era qualcosa che tormentava i suoi pensieri, un kanji lo fissava sfidandolo a continuare: ame. Pioggia. Quella che ora cadeva
incessante e incurante di tutto, a volte gli sarebbe piaciuto
essere come lei. Sciogliersi e ricomporsi altrove.
«Matsumoto-san.» non l’aveva neanche sentito arrivare, perso
com’era nei suoi pensieri ed era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare
in quel momento. Quando lui si muoveva di persona era
solo per decisioni importanti.
«Hajime-sama.» quello era il suo produttore, un uomo
apparentemente innocuo, capace di decidere le sorti del mondo della musica. Senza la sua approvazione niente poteva
raggiungere il mercato discografico, se decretava un pezzo un
successo, miracolosamente questo scalava le classifiche; aveva puntato tutto
sul suo primo singolo ben due anni prima e lo aveva reso un dio.
«Yamato mi ha detto che stai lavorando a qualcosa di nuovo.»
«Si, ma non è ancora pronto. Temo ci voglia ancora molto.» appena possibile avrebbe dato una bella strigliata al suo
assistente troppo chiacchierone.
«Io credo due settimane. Calcolando i tempi di
registrazione e promozione, dovremmo farcela per marzo.»
«Cercherò,
non prometto nulla, l’ispirazione non ha padroni.» glielo aveva detto decine di
volte e lui, puntualmente, fingeva di non averlo sentito. Non gli era mai
piaciuto quell’uomo. All’inizio si era fidato di lui, sembrava disponibile e
affabile, ma dopo il primo anno di guadagni si era rivelato per lo squallido opportunista che era. Lo aveva reso famoso e
ricco, ma gli aveva tolto la libertà; non era diventato un musicista per stare dietro alle richieste di un vecchio pazzo.
«Va bene, te ne concedo tre, ma solo perché si tratta
di te. Una ballad sarebbe perfetta, vendono molto in
questo periodo, sarà l’inverno che incupisce.»Hajime si alzò sistemandosi la cravatta. «Per
il Pv dovrebbe andar bene un look semplice, di
classe. Lascerò indicazioni a Yamato, a presto Matsumoto-san.» Takanori non si
mosse, in fondo volevano che fosse un burattino no? E ora non c’era più nessuno
a manovrarlo. Era stanco di tutto quello schifo, doveva fare qualcosa.
Guardò
di nuovo il foglio vuoto, la matita era ancora al suo posto, come attratta da
una calamita invisibile nascosta sotto la superficie bianca: stretta nella sua
mano, la mina spezzata dalla rabbia. Aveva bisogno d’aria, perciò prese il
cappotto e si diresse in terrazza. Si riparò sotto il pergolato, da lì la
pioggia sembrava un ruscello: scivolava sulle tegole e si schiantava al suolo a
fiumi. Sospirò pesantemente. Credeva di sapere cos’era a bloccare la sua
creatività in quel modo, ma non voleva accettare che quel ragazzo avesse tanto
potere su di lui. Aveva baciato Akira, si era esposto in quel modo per nulla e
ora il suo “non posso” lo tormentava come un tarlo.
«Giornataccia?»
Takanori non si voltò neanche, poteva essere solo lui a raggiungerlo in quel
posto.
«Da
cosa lo hai capito?»
«Come?»
ora lo aveva accanto, investito dal vento che portava il suo profumo.
«Da
cosa hai dedotto che la mia giornata non fosse delle migliori?» sorrise, dentro
di sé sperava di incontrarlo, per quello si era diretto lì.
«Dal
modo in cui hai schiacciato quella povera sigaretta, sembra che neanche lei sia
riuscita a calmarti.»
«Già.»
«Che brutta giornata oggi, mi mette tristezza. A te
piace la pioggia?»
«Qualche
volta, oggi si.» era incredibile il modo in cui faceva
finta di niente. Lo avrebbe volentieri picchiato in quel momento, così, giusto
per sfogarsi, ma ci fu una raffica di vento così gelata da reprimere qualsiasi
istinto. Si strinse ancora di più nel cappotto, avvolgendo il viso nella
sciarpa in lana in cerca di calore. «Tu almeno hai avuto una buona mattinata?»
le mani in tasca gli diedero un minimo sollievo.
L’altro
lo fissava in silenzio, lo sguardo un po’ teso, i
movimenti nervosi. Gli si avvicinò e insinuò l’indice tra la stoffa e la sua
bocca, tirò giù la sciarpa fissandolo dritto negli occhi. «Perché ti nascondi,
hai paura di me?»
«Paura? Ma se fa un freddo boia!» era impossibile non
sentirlo, a meno che non fosse fatto d’acciaio.
«Allora
dovresti tornare dentro, io vado a cominciare il mio
turno. Ci si vede in giro.» spense la sigaretta a metà
e scappò letteralmente via.
«Akira.»
ma lui continuò per la sua strada finché non fu alla porta. «Akira, aspetta!» se
la richiuse alle spalle con un tonfo. Takanori non si
arrese e scivolò dentro beandosi del calore che lo avvolse. «Ti devo parlare,
aspetta!» ma il castano sparì dalla sua vista dietro l’angolo.
«Ah, vaffanculo!» ma che problemi aveva quel deficiente? Ignorarlo a quel modo!
Neanche fosse un fantasma. Tornò in studio con l’umore più nero di una notte
senza luna, pensava che vederlo lo avrebbe aiutato, invece aveva solo
peggiorato la situazione; aveva bisogno di un parere esterno e disinteressato:
da mesi pensava di lasciare quella casa discografica e mettersi in proprio, era
una mossa rischiosa e lui non aveva amici con cui parlarne. C’erano solo
conoscenti nella sua vita: collaboratori, superiori, sciacalli pronti a mettere
le mani sulla piccola miniera d’oro che custodiva dentro la gola. Per loro la
sua voce era tutto ciò che era in grado di offrire, niente emozioni né
sensazioni, non era un essere umano come loro; solo una voce nel buio. Lo
stesso buio in cui avrebbe voluto rintanarsi in quel momento, ma tornò alla sua
scrivania indossando le cuffie e isolandosi dal resto di quel mondo sbagliato.
Doveva
assolutamente trovare le parole giuste per completare quella melodia che lo
tormentava da giorni, gli graffiava l’anima con unghie affilate e denti aguzzi per
uscire allo scoperto. C’era una promessa di mezzo, la promessa
che aveva fatto a se stesso quando aveva intrapreso quella strada: non si
sarebbe innamorato, non avrebbe avuto distrazioni, non avrebbe frammentato il
suo amore per la musica in tanti piccoli pezzi. Un frammento per
le sue labbra, uno per i suoi occhi, uno per le sue mani. Spesso gli
avevano detto di somigliare ad un temporale estivo,
sconvolgente e rinfrescante, ma dall’effetto temporaneo e volubile; ogni volta
scappava a gambe levate quando la situazione cominciava a farsi troppo seria.
Eppure, stavolta, sentiva qualcosa di diverso.
“Quella promessa che sembra annegare nella
pioggia incessante…” Da giorni gli sembrava di essere sospeso tra
immaginazione e realtà, tutto aveva perso i suoi confini. “Mi chiedo di chi sia questo sogno e per chi. Voglio vedere tutto di te, amarti tutto. Cosa c’è che non va?” Tutto e lui
era in un bel guaio.
Si
accorse della presenza di Yamato solo quando se lo
ritrovò davanti, lo sguardo rilassato e una mascherina a coprirne il volto.
Dovette interrompere il flusso dei suoi pensieri e togliersi le cuffie per
capire cosa gli stesse dicendo. «Cosa?»
«Ho
incontrato Hajime-sama, scusami se gli ho detto che
stavi componendo, lo sai com’è fatto.»
Non
valeva neanche la pena di prendersela con lui. «Non preoccuparti, lo so.»
tornò a trincerarsi nel suo mondo di musica, ma un pensiero colpì
improvvisamente la sua mente con la forza di un fulmine. Yamato gli aveva parlato, ma non l’aveva sentito
finché non aveva liberato le sue orecchie da quella prigione temporanea. Quella
sera in macchina, aveva parlato con Akira offrendogli un passaggio, lui gli
aveva chiesto di togliersi la mascherina e non aveva fatto altro che fissarlo.
Poco fa gli aveva abbassato la sciarpa, come se avesse bisogno di vedere le sue
labbra per poterlo comprendere. Ogni volta che aveva urlato il suo nome, non si
era voltato. Come se non lo avesse
sentito. Possibile? No. Cosa andava a pensare? Era
solo furioso perché lo aveva ignorato in quel modo indegno e cercava una scusa a cui appigliarsi. In realtà, però, non sapeva neanche
perché non dovesse essere un’opzione plausibile;
spiegava molti dei suoi comportamenti strani dando un senso ad ogni cosa. No,
era assurdo. Perché avrebbe dovuto nasconderlo poi? Non aveva un briciolo di
senso e lui era sempre troppo melodrammatico.
Avrebbe
dovuto fare più attenzione ai dettagli, prima di giungere a
conclusioni affrettate.
*
Rintanato in un angolo, le spalle al muro per sostenere
quella lunga giornata tediosa sfuggitagli di mano. Quando si era
svegliato, più di dieci ore prima, non aveva immaginato certo di passare, per
la terza volta, la sua pausa pomeridiana sorseggiando tè e cercando una
spiegazione al comportamento di Akira. Lo vedeva muoversi sicuro davanti a sé,
in quell’ambiente che conosceva bene; eppure, se la sua ipotesi era esatta,
come faceva a districare quel groviglio di persone e ordini? Sarebbe stato
impossibile tenere il passo, voltarsi per preparare un caffè e registrare l’ordine
per un croissant. Takanori lo osservò molto attentamente, finendo per perdersi
nell’eleganza e la precisione dei suoi gesti; erano letali e fluttuanti,
abbaglianti come la lama di una katana in controluce.
Armato
del suo fedele foglio bianco, era deciso a comporre la sua canzone osservando
direttamente la sua personale musa. In realtà non sapeva neanche perché si
trovasse lì, non aveva basi per la sua supposizione, l’idea era nata all’improvviso
dal nulla proprio come una delle sue canzoni. Akira era svelto, efficiente,
attento e capace, nulla avrebbe fatto pensare che in realtà non potesse
ascoltare il mondo intorno a sé. Ma quando qualcuno
gli rivolgeva la parola, il suo sguardo saettava dagli occhi alle labbra, poi
tornava di nuovo agli occhi per finire nuovamente al punto di partenza. Non era
un prova sufficiente, ma una cosa era certa: c’era
qualcosa che non andava. Era finito in un groviglio, in una matassa di lana di
cui non trovava il capo del filo che gli avrebbe permesso di scioglierla. Cosa poteva fare? Starsene lì ad
osservarlo? Non si erano neanche più parlati dopo quel giorno in terrazza.
«Ti
porto qualcos’altro?»
Takanori
trasalì, non si aspettava di trovarselo così vicino, senza accorgersene doveva
essersi perso in qualche pensiero che lo aveva portato lontano, in un luogo lontano
anche nel tempo. «No, va bene così.» ormai lo stomaco gli si era chiuso del
tutto.
«Posso
portarla via?»
La
tazza riposava vuota e gelida sul piccolo tavolo nero. «Si,
certo.» lo vide voltarsi per tornare al suo posto, troppo lontano da lui. C’era
una voce dentro di sé che gli diceva di non farlo, non era quello il modo
giusto, ma lui non l’ascoltò. «Akira…»
Niente.
Non si era voltato.
Sospirò.
Questo cambiava davvero molte cose.
Eppure,
allo stesso tempo, non cambiava assolutamente nulla. Non era certo di ciò che
aveva visto e quel ragazzo restava sempre Akira. C’era sempre il suo sguardo
gentile, così profondo da potersi perdere, il suo desiderio di essere toccato
da quelle mani, baciato da quelle labbra, spogliato da quello stesso sguardo. E
sapeva anche che per quel ragazzo non era lo stesso. La sua mente gli
sussurrava di lasciar stare, di arrendersi e andare avanti con la sua vita, ma
il suo cuore gli urlava di andare avanti a testa alta come aveva sempre fatto.
La matita scivolò leggera sul foglio macchiandolo di segni veloci e
disordinati. Era affascinato dal processo di trasformazione che avveniva
davanti ai suoi occhi: tutto partiva da un pensiero incorporeo, diventava una
parola che si incastrava in una melodia, il tutto per
comunicare un’emozione.
Takanori
continuò a fissare Akira. “Voglio amarti
finché non sentirò più il vuoto. Non sorridere in questo modo davanti a me.”
*
«Le
ho già detto che non dipende da me, mi dispiace.» da circa dieci minuti
quell’uomo lo stava tormentando, aveva visto Ruki passare un paio di volte e
lanciargli un’occhiata inquisitoria, ma al momento era più interessato a
liberarsi da quella tortura.
«Ma è impossibile!»
«Deve
parlare con il mio capo, non con me.» gli avrebbe rovesciato addosso del tè
bollente, se non fosse stato per l’aiuto provvidenziale che arrivò come acqua
rinfrescante.
«Akira-san, cercavo proprio te! Puoi
venire un attimo con me?» Ruki non attese la sua risposta, lo trascinò
semplicemente via e si fermò solo quando furono al sicuro dietro un angolo.
«Tutto bene?»
«Si! Non so come ringraziarti, davvero.» Akira era imbarazzato, erano giorni che evitava di restare
solo con lui. Dopo quel bacio sapeva che non sarebbe più stato lo stesso e il
problema era che avrebbe ceduto. Lo aveva visto arrivare al bar, ogni giorno
alla stessa ora, sedersi al solito tavolo ad
osservarlo. All’inizio lo aveva innervosito, poi si
era abituato a quella presenza, ma ora che lo osservava così da vicino sentiva
che, se lo avesse baciato di nuovo, stavolta avrebbe ceduto. Che diavolo gli
diceva la testa? Non poteva. Per orgoglio, coerenza e istinto di sopravvivenza.
Niente legami, quando avrebbe scoperto la verità, perché prima
o poi sarebbe accaduto, sarebbe stato troppo tardi per rimediare.
«E
allora non lo fare, non ce n’è bisogno.»
«Ma ho comunque un debito con te.» Akira sorrise. Cos’era
quella strana luce che gli vedeva negli occhi? Erano diversi, Takanori era
diverso: sembrava stanco, ma luminoso allo stesso
tempo e, forse, perché si era concesso di guardarlo davvero per la prima volta.
«Dimenticalo. Piuttosto, tra qualche giorno è Natale,
hai già impegni?»
«Lo passerò a casa con Yuu, come sempre. Tu?»
«Lavoro,
sono già in ritardo sulla tabella di marcia.»
«Ma
come, anche a Natale?!»
«Beh,
organizzare un tour non è una passeggiata.»
«Già.»
se ne era quasi dimenticato. Il tour a cui lo aveva
invitato, ci sarebbe stato un posto vacante nelle tribune del Budokan quella sera.
«Ti
stanno chiamando.» Takanori abbassò lo sguardo sui suoi anfibi consunti dal
tempo.
«Eh?»
il castano vide sbucare dal nulla Kenji, divideva con
lui il turno pomeridiano quel giorno.
«Eccoti
qua, finalmente ti ho trovato!» l’amico si avvicinò in tutta fretta.
«Dimmi,
Kenji.» ora era leggermente infastidito per essere
stato interrotto in quel modo.
«Hoshi-san ci vuole tutti nel suo ufficio, dice che è
importante.»
«Ok,
arrivo subito.» Akira si concentrò sul piccolo cantante davanti a sé.
«Scusami…»
«Ma figurati. Vai.»
«Ci
vediamo in giro.»
«Si.» Ruki annuì, ma sapeva che era una bugia.
Mhmmhm *si schiarisce la voce*
dunque i versi tra virgolette e in corsivo sono di CalmEnvy ♥ la traduzione non l’ho fatta io,
ringrazio VampAnnau.utiéxD
E…dopo giorni
passati a stalkerarlo, Ruki lo ha
finalmente capito u_u ma per ora se lo tiene per sé,
se Akira vuole nasconderlo non sarà di certo lui a sbandierarlo ai quattro
venti xD povero Rukinopatatino, incompreso della situazione °^° Akira sei una
cacca e non capisci niente è^è secondo te perché ti
ha chiesto quali erano i tuoi piani per Natale?! Merdina
>_> *si è lasciata prendere dalla situazione* xD
eppure pian piano Aki sta cedendo, ha capito che deve
starne ancora più lontano perché altrimenti non potrebbe resistere u.u *lancia ciabatta* ma vediamo
come si svilupperà la questione ♥v♥ fidatevi sempre di me *ama
tutti e tutte*
Al prossimo
capitolo ne~ ♥
P.s. come fate
a resistere e aspettare tra un capitolo e l’altro per me resta sempre un
mistero LOL
La neve aveva ricoperto
ogni cosa, era scesa durante la notte ferma e silenziosa e aveva avvolto la
città in una coperta bianca e soffice. Per le strade si aggiravano ancora i
soliti ritardatari che si affrettavano a rimediare gli ultimi acquisti, prima
di rintanarsi in casa e festeggiare una ricorrenza relativamente nuova per la
cultura orientale. Eppure il mondo correva a perdifiato verso la
globalizzazione, presto ci sarebbero stati persino il Giorno del Ringraziamento
e qualche altra scusa per incrementare le vendite.
Takanori aveva sempre
vissuto in maniera diversa il periodo natalizio, anche quando viveva ancora con
la sua famiglia, il massimo sforzo era mangiare una torta alla
panna ricoperta di fragole. Per questo non le mangiava, la storia dell’indigestione
era una bugia: le fragole gli ricordavano la sua famiglia e non voleva pensare
al modo in cui lo avevano cancellato dalla loro vita. Chissà cosa stavano
facendo in quel momento? Avrebbe potuto chiamarli, si diceva che il Natale
rendesse tutti più buoni, ma sapeva che questo non valeva per i suoi genitori,
né per suo fratello.
Il fulcro di tutto era
stato suo padre, un militare di vecchio stampo abituato a condurre una vita
tranquilla nel pieno rigore e nella normalità; poteva quasi immaginarselo ad imprecare contro la tv mentre scorrevano le immagini di
uno dei suoi video musicali, o di qualche intervista monotona. Non biasimava
sua madre, si era ritrovata divisa da una scelta: seguire l’uomo che aveva
sposato o suo figlio. Si diceva che i figli fossero frammenti di cuore, ma a
quanto sembrava lui non era stato un frammento abbastanza grande per lei.
Spesso l’aveva sentita litigare con suo marito per cercare di farlo ragionare,
ma in realtà ne aveva sempre avuto timore e aveva
ceduto alle sue minacce. Suo fratello, invece, aveva agito per gelosia, questo
lo aveva capito solo molto tempo dopo; lui era il primogenito e non gli era
stato permesso di costruire il suo futuro come più gli aggradava, gli avevano
imposto di seguire le orme del padre e a lui aveva sempre rinfacciato di non
aver avuto la sua libertà. Takanori non riusciva a
sentirsi in colpa, non era lui ad averlo obbligato, se c’era qualcuno a cui
avrebbe dovuto dare la colpa quello era se stesso: per non aversi saputo
imporre, per non aver saputo rischiare come aveva fatto lui.
Credeva che non avesse
avuto paura quando, di notte, si ritrovava solo in una stanza presa in affitto?
Quando quell’uomo gli aveva promesso il successo solo per cercare di
scoparselo? Sapevano quanto avesse sofferto per la fame? Quante volte era stato
sul punto di mollare? Ma ogni volta si era ricordato
di aver perso la sua famiglia per quel sogno e allora aveva continuato a
crederci e, alla fine, la fortuna gli aveva sorriso. Sospirando decise di non
pensarci più, non avrebbe risolto nulla standosene lì ad
osservare il suo riflesso in una vetrina piena di un’allegria che non avrebbe
più provato. Non gli restava che chiudersi in casa, al caldo, avrebbe mangiato
qualcosa e avrebbe fatto ciò che più gli piaceva: cantare. Non aveva bisogno di
altro, era un giorno come tutti gli altri. Continuò a ripeterselo mentre girava
le chiavi nella toppa ed entrava in una casa fredda e silenziosa.
*
«Lascia quel bastardo a me, non riuscirà a passare!» Yuu era concentrato,
armato di un pizzico di coraggio e la giusta dose di pazzia, proprio come se si
trattasse di una vera battaglia. Dopo l’abbondante pranzo natalizio, non c’era
stato bisogno di una votazione per decidere cosa fare: tre contro uno avevano optato per una gara ai videogiochi. «Vai
Kouyou! Ora!» ma il guerriero con l’armatura del dragone finì,
inesorabilmente, k.o. «No!»
«Te l’avevo detto che non sapevo
giocare.»
«Ah non importa, è solo un
gioco, ma dobbiamo recuperare. Possiamo ancora farcela.»
«Perché invece non facciamo
un due contro due, chi perde lava i piatti.» Yutaka
intervenne dal suo comodo posticino sul divano. Quando voleva, sapeva come
alzare la tensione e stimolare la competizione.
Yuu parve affilare lo
sguardo. «Kou, non possiamo perdere, schiaccia tutti i
tasti che puoi!»
«Ma
avevi detto che era solo un gio-»
«Non ho detto proprio nulla!
Tu hai sentito qualcosa Yutaka? E tu Akira?»
«No.» Akira ritornò dall’isolamento
del suo telefono giusto in tempo per assistere a quello scambio di battute. «Di
che stiamo parlando?» sì rivolse allo chef per avere delucidazioni.
Due contro due, chi perde lava i piatti.
Akira lasciò che la
soddisfazione piegasse le sue labbra in un sorriso diabolico. «Yuu, faresti
meglio ad indossare già il tuo grembiule! Quello rosa
con i merletti.» aveva Yutaka dalla sua parte, la
vittoria era sicura.
«Non mi farò intimidire!
Vai, Kou, so che puoi farcela.» massaggiò
vigorosamente le sue spalle mentre prendeva la sua posizione.
«Secondo me, Akira ha
ragione.»
«Non essere negativo!»
Schierati come in una gara dei centro metri, tutti e quattro aspettavano che il conto
alla rovescia gli desse la possibilità di farsi valere: Cigno e Andromeda,
contro Pegaso ed Dragone. La lotta fu delle più sanguinarie, Yutaka e Akira
faticarono ad imporsi, ma dopo le combinazioni di
tasti più complesse, la vittoria non poté che scegliere loro. «Era ovvio.» nella
voce di Yutaka non vi era neanche la giusta dose di soddisfazione, era stato
come sparare sulla croce rossa.
«E va bene!» Yuu lanciò il joystick sul divano alzandosi per sciogliere i muscoli in
tensione dovuti alla posizione tenuta troppo a lungo.
«Mi dispiace.» Kouyou non lo era davvero, le sue labbra trattenevano a stento il
sorriso nel vedere i due fratelli bisticciare.
«Tieni, c’è da lavare anche
questo.» Akira aveva recuperato il bicchiere in cui aveva versato solo dell’acqua.
Faceva volume, quello era l’importante.
«E questa invece no?» Yuu
strofinò energicamente i capelli di suo fratello, gli aveva bloccato la testa
contro il petto come quando, da piccoli, fingevano di lottare corpo a corpo.
«Non farci caso, sono
sempre così.» Yutaka aveva notato lo strano sguardo di Kouyou.
«Sono fantastici.» Yuu lo era, lo aveva capito subito. Ciò che non comprendeva,
però, era quella lieve vergogna che provava quando Yuu lo guardava. Non aveva
senso, né un motivo per sentire le sue guance arrossarsi, eppure gli sembrava
sempre di essere nudo davanti a quegli occhi neri e profondi. Cosa gli
prendeva?
«Andiamo?» Kouyou si
riscosse trovandosi Yuu davanti, gli aspettava una gran bella punizione, ma il
tempo sarebbe volato come sempre quando era con lui.
*
Vai.
Cosa? Yuu gli si era seduto accanto cogliendolo di sorpresa, Kouyou e
Yutaka erano in cucina alle prese con il caffè.
Ci hai pensato tutto il giorno, ti conosco. Non so chi è,
ma deve averti preso molto.
Davvero non avrebbe mai
potuto nascondergli nulla, a volte gli faceva paura. É la persona sbagliata.
Se lo fosse, non ti piacerebbe.
Lui...è...non lo so nemmeno io. Non poteva certo dirgli ciò
che neanche lui sapeva e neanche che si trattasse di Ruki, persona che aveva
ammesso ripetutamente di odiare.
Beh, magari puoi fargli capire che potete
essere solo amici. Per ora. Ma se ti piace Akira...
No, non posso.
Yuu posò una busta sul piccolo
tavolo davanti al divano. Nel caso dovessi
scegliere di andare da lui, ogni tanto lascia che le cose vadano da sole. Il
moro lo lasciò da solo raggiungendo gli altri in cucina. Era preoccupato per
Akira, ma anche felice che ci fosse qualcuno a rubargli i pensieri. Doveva
volare prima o poi e, ironia della sorte, doveva
essere proprio lui a spingerlo fuori dal nido.
*
Era impazzito. Perso senza possibilità di salvezza e ora
se ne stava davanti a quel cancello che era molto più di quello che sembrava.
Era ciò che lo divideva dal suo imminente futuro o dal suo sbaglio più grande,
ma ormai era lì e non gli restava che andare avanti. Non sapeva neanche se
Takanori fosse in casa, probabilmente era in giro per la città ad occuparsi del tour e lui, invece, stava soltanto
cercando scuse. Perché si trovava lì? Non era stato capace di ammettere la
verità neanche con se stesso, si era ostinato a mentire fingendo che quel
ragazzo gli fosse indifferente. Non si poteva restare inermi davanti ad uno come lui, si veniva
inevitabilmente risucchiati dal vortice e trascinati nella sua vita. Con un
sospiro rassegnato Akira bussò non sapendo, di preciso, in cosa sperare. Una
cosa era certa: se fosse andata male anche quella storia, almeno avrebbe potuto
dare la colpa solo a se stesso e alla sua mancanza di
determinazione. Vide il cancello aprirsi leggermente: Takanori era in casa e il
suo cuore cominciò a battere incontrollato. Lo vide sulla porta ancor prima di
percorrere il vialetto lastricato.
«Ciao.»
Ad Akira sembrò di avere un deserto al posto della lingua. «Ciao.
Ti ho disturbato? Magari stavi lavorando.»
«Ma no, entra. Mi fa piacere
che tu sia qui.»
Il ragazzo entrò
liberandosi dei vestiti che ora non gli servivano più. «Ti ho portato dei
dolci, il mio migliore amico è un pasticcere, quindi...»
«Ti sei preoccupato per me,
allora non ti sono del tutto indifferente.»
«Come se fosse possibile.»
«Oh, non devi fare per
forza il duro, ammettilo!»
«Non devo ammettere proprio
un bel niente!»
Takanori sorrise. «Vieni,
andiamo in cucina.» la stanza era sempre la stessa: accogliente e in un ordine maniacale, non vi era nessun odore particolare quindi non
doveva essere stata usata di recente. «Vuoi da bere?»
«No, grazie.» si limitò ad osservarlo mentre, con l’espressione di un bambino
monello, sbirciava nella busta di cartone e ne estraeva il contenuto con
un’espressione soddisfatta. Si sedette accanto al suo ospite, le gambe premute
contro il petto. Era così minuto che riusciva a starsene lì, rannicchiato su
quella sedia, come se fosse la cosa più naturale del mondo; lui riusciva a
stento ad allacciarsi le scarpe senza piegare le ginocchia.
«È buonissima! Fai i
complimenti al tuo amico, come si chiama?»
«Yutaka.» Akira lo disse
quasi con fierezza. «Che ho interrotto? Cosa facevi?»
«Stavo componendo, credo di
non aver fatto altro tutto il giorno.» e sembrava averlo realizzato in quel
momento. «Usciamo?»
«Ma
si gela fuori.»
«Oh, non fare il vecchio.
Sono stato chiuso lì dentro per ore, voglio uscire. Con te.»
Takanori corse all’ingresso, senza rinunciare alla fetta di torta che continuò
a divorare anche mentre indossava il cappotto. «Nevica?» si fermò dandosi dello
sciocco mentre indossava il secondo stivale, li sfilò e tornò in cucina dove Akira era ancora seduto non volendosi arrendere
all’idea di dover sfidare, di nuovo, la temperatura esterna. «Nevica?» ora si
che avrebbe potuto leggere le sue labbra.
«Non mi pare, almeno non
quando sono venuto qui.»
«E che ci fai ancora lì? Dai,
muoviti!»
Dopo pochi minuti si
ritrovavano in strada, a passeggiare sotto la neve che cadeva disordinata;
d’inverno la sera arrivava con troppa impazienza, ma avevano ancora un paio
d’ore prima dell’imbrunire. «Certo che ti basta poco per essere felice.»
«Si,
adoro la neve.» Takanori camminava rasente ai muri per poter
calpestare la neve intatta, lì dove nessun passante si era spinto, silenziosamente
li stava ringraziando per aver lasciato tutta quella neve per lui. Adorava
soprattutto il suono che faceva sotto le sue suole, quel crack compatto e sonoro, ma questo evitò di dirlo.
«Non mi dispiace, forse
perché quando nevica è tutto sempre stranamente
silenzioso.»
«Hai ragione, non ci avevo
mai pensato.» doveva essere stato suo fratello a dirglielo. Se lo immaginava Akira
a fare domande su questo e quello e Yuu che, prontamente, gli descriveva i
suoni in modo che anche lui potesse capirli. Avrebbe tanto voluto fargli capire
la musica di cui lui viveva, doveva trovare un modo.
«Si può sapere
dove stiamo andando?» erano già dieci minuti che camminavano.
«Lì.» un piccolo parco
dormicchiava indisturbato. «Non ci sono bambini in giro, quindi quella neve è
tutta per noi.» immacolata e intonsa. «Mettiti a lavoro, lo voglio bello grande.»
«Cosa?»
«Il pupazzo, no?»
«Ma
è roba da bambini!»
«Oh scusa,
nonno. Dai!» Takanori cominciò ad ammucchiare manciate
di neve.
«Ma
lo hai mai fatto un pupazzo?»
«Beh non tutti i giorni, signor ingegnere!» Takanori gli fece il verso, ma si
maledisse: con Akira non aveva davvero senso.
«Se cominci a rotolare una
piccola quantità, la neve si attaccherà da sola e tu non avrai fatto il minimo
sforzo. Guarda.» in breve un’enorme sfera era pronta ad
ospitare la testa del pupazzo. «È grande abbastanza?» Akira non riusciva ancora
a capire perché continuava a stargli dietro, in altre circostanze sapeva che
avrebbe mandato tutto a quel paese e sarebbe tornato a casa.
«Si,
ora la testa.» Takanori era davvero un bambino troppo cresciuto, anzi forse
neanche tanto. Era piacevole stare in sua compagnia, era una ventata di
vitalità incontaminata dalle brutture del mondo.
«Falla tu, io cerco
qualcosa per gli occhi e la bocca.» si allontanò alla ricerca di sassi e
foglie, dovette spingersi fino ai bordi delle aiuole dove
gli alberi tendevano al cielo i loro rami secchi e tristi.
«Akira!» Ruki si diede
dello stupido. Per giorni aveva evitato di pensarci, come se in quel modo fosse
stato meno reale, ma ormai ne era più che certo e non aveva potuto che provare
un’immensa rabbia. Non pietà, né tristezza, ma rabbia
per tutto quello che Akira non poteva sentire; simili ingiustizie non sarebbero
dovute esistere, era una crudeltà creare tanti suoni meravigliosi e privare
qualcuno della loro bellezza. «Akira!» stavolta si sbracciò per attirare
l’attenzione dell’altro che, nel frattempo, si era incamminato sulla via del
ritorno. Gli fece capire che al pupazzo servivano anche delle braccia e che,
quei rami che sporgevano proprio sulla sua testa, sarebbero stati perfetti.
«Tieni, sei tu l’artista.»
il castano consegnò il suo bottino indietreggiando di un passo per ammirare
meglio l’opera finita: un paio di sassi come occhi e naso, una foglia come
bocca. I rami tesi e rinsecchiti che puntavano in due direzioni diverse, sembrava quasi che stesse aspettando un abbraccio con un
sorriso sornione e poco intelligente.
«Allora?» di tutta
risposta, Akira annuì sorridendo. «Gli serve un nome: Yuki. Neve.»
«Che fantasia!»
«Allora trovalo tu!»
«Mh,
ha la faccia da fesso.»
«Quindi?»
«Quindi gli starebbe
benissimo il nome Takanori.»
«Come osi?!»
lì per lì non aveva realizzato ciò che l’affermazione di Akira implicasse, ma
un attimo dopo lo stava rincorrendo inciampando qua e là dove la neve era meno
compatta. «Non scappare!» ma l’altro era veloce, quando riusciva a sfiorarlo
con le dita scattava nella direzione opposta,
sfuggevole come il vento gelido che non sembrava tanto aggressivo ora che
cominciavano a riscaldarsi. «Preso!» quando riuscì a tirarlo per un braccio,
Akira si sbilanciò finendogli addosso.
«Scusa.» eppure non accennò
a rialzarsi. Se ne stava lì, il suo corpo per metà su quello di Takanori, per
non gravare troppo su quell’essere gracile dalla forza di mille vulcani. Non
riusciva a fare altro che fissarlo in quegli occhi magnetici, erano di un caldo
castano rossiccio, quasi luminoso. Le labbra piene e morbide, un po’ screpolate
per il freddo. Cosa sarebbe successo se lo avesse
baciato? Perché era quello che gli gridava il suo intero essere.
«Akira…» il respiro di
Takanori strozzato da mille aspettative.
«Si è fatto tardi.» la luce
stava sfumando nell’oscurità e, presto, non sarebbe riuscito a leggere con
chiarezza le sue parole. Si alzò con esasperante lentezza. «Ti accompagno a
casa.»
.w. avete tutto il diritto di
lanciarmi qualsiasi cosa abbiate a portata di mano, ma confido nella vostra
clemenza m(_ _)m *le arrivano addosso ortaggi e oggetti contundenti*
Torniamo a noi u.u ci ho tenuto a
sottolineare la differenza tra la solitudine di Takanori (povero pulcino
innocente é.è) e l’atmosfera calorosa e goliardica
che, invece, si è creata dall’altra parte >.< si son messi a giocare con
i Cavalieri (di cui ho rispettato l’otpCrystalxAndromedaxD), si *^* sono
stata influenzata dall’ultimissimo film di animazione che avevo appena visto e
poi li adoro sempre e comunque, anche se sono vecchia ♥ma…ma u.u
alla fine, nonostante 14587 pippe mentali Akira ha deciso di arrendersi *w* un
po’ spinto da Yuu un po’ dal pensiero che fosse da solo in casa a lavorare ç.ç ha il cuoricino tenero lui~ anche se cerca 8000
giustificazioni, poi cade come una pera cotta xD
personalmente ho trovato molto carino il modo in cui Takanori sa, ma finge di
non sapere per non ferirlo e si premura di essere sempre nella visuale di Aki ♥v♥ *parla come se non l’avesse scritta
lei* mi metto nei vostri panni xD e Yuu? Yuu deve
solo avere un attimo di pazienza, mi sto attrezzando anche per lui u.u
Ooh, ma ho scritto un papiro ò_o
vi saluto gioie care altrimenti che scrivo nelle risposte alle recensioni? xD Oh, vi saluta anche Takanori-pupazzo ♥
«Perché
non resti a cena?» Takanori lo guardava intensamente, fermo nell’imbarazzo di
un invito che poteva essere rifiutato. In piedi sulla porta di casa, un piede fuori, mentre tutto il resto lo invitava a seguirlo.
«Non
ci sono più i tuoi amichetti a tenerti compagnia?» uomini o donne non faceva alcuna differenza per lui, no? Non voleva essere
polemico, solo gli sembrava strano che ora lo chiedesse proprio a lui.
«Ora lo sto chiedendo a te Akira. Vuoi restare?» ormai aveva
capito che doveva metterlo alle strette per avere una risposta, o una qualsiasi
reazione. Poteva quasi capirlo, non sapeva molto di lui, del suo passato o del
suo presente; sapeva solo ciò che lui aveva deciso di svelare.
Di
tutta risposta il castano si mosse per raggiungerlo nel tepore del salotto, non
sapeva con precisione cosa sarebbe successo quella sera, ma ne aveva una vaga
idea. «Cosa ti va di mangiare?»
«Possiamo
ordinare del ramen, direi che abbiamo preso
abbastanza freddo oggi insieme a Takanori.»
«Non sei felice? C’è un tuo sosia a Tokyo.»
«Si, come no.» il cantante aspettava sorridendo con il
telefono in mano pronto a digitare il numero e fare il suo ordine. «Allora, ti piace il ramen? Ci
vuoi la carne?» aveva fatto molta attenzione a
rivolgergli la parola in modo che potesse comprenderlo.
«Certo.»
«Non
arriveranno prima di mezz’ora, c’è traffico e neve.» Takanori
riattaccò con impazienza, in realtà non aveva invitato Akira solo perché voleva
passare una piacevole serata con lui, ma per mostrargli ciò a
cui aveva lavorato febbrilmente in quei giorni. Forse stava per
commettere un grande errore, forse era il modo più sbagliato per fargli
comprendere ciò che sentiva per lui e ciò che non conosceva.
«Fantastico.»
«Già, perché questo vuol dire che abbiamo abbastanza tempo.
Vieni.» Takanori era visibilmente agitato mentre
aspettava che l’altro prendesse la mano che gli stava porgendo.
«Dove?»
«Fidati
di me.» quando entrarono nella sala registrazione lo
sentì irrigidirsi. C’era un buon odore lì dentro: di legno, di prodotti per
lucidare gli strumenti, di carta e di fumo. La sua vita. «Vorrei farti
ascoltare una canzone, non è ancora perfetta, ma tengo molto al tuo parere. In
realtà pensavo a te quando l’ho scritta.» Ruki non credeva
che sarebbe stato così facile ammetterlo, di solito faceva fatica persino a
guardare qualcuno negli occhi, invece con Akira la voglia di fargli sapere cosa
provasse superava la timidezza. Accese tutte le luci, anche se stavolta non avrebbe
avuto bisogno di quelle nella piccola cabina che ospitava il microfono, né di
cantare, gli serviva solo che l’impianto audio
diffondesse la canzone già completa in ogni dettaglio.
«Ok.»
in quel momento Akira si pentì amaramente di non avergli detto
prima la verità e ora, forse, era troppo tardi per gettare la maschera a cui si
era così tanto abituato da considerarla, ormai, il suo volto. Si preparò
a dire l’ennesima bugia, forse dolce e a fin di bene,
ma sempre una sporca menzogna. Stavolta gli avrebbe detto che era una canzone
bellissima, pregna di emozioni e perfetta. Meritava un po’ di soddisfazione per
il suo duro lavoro che doveva, sicuramente, essere impagabile.
«Grazie.»
quanto doveva essergli costata quella risposta? Akira non sapeva cosa avesse in
mente, quanto avesse lavorato per scoprire qualcosa in più sul modo in cui
viveva e comunicava. Aveva passato ore davanti ad un pc imparando i gesti che
gli avrebbero permesso di cantargli
la sua canzone, di fargliela ascoltare nella sua lingua, di renderlo partecipe
di qualcosa di assolutamente nuovo per lui.
La
musica partì leggera come un sospiro, sembrava una carezza sulla pelle, un
cielo illuminato piano dall’alba. Questa promessa sembra annegare nella
pioggia incessante, mi chiedo di chi sia questo sogno e per chi? Akira
rimase immobile. Frastornato. Cosa stava facendo
Takanori? Perché le sue mani eseguivano gesti che lui conosceva alla
perfezione? Aveva scoperto la verità.
Sentì il sangue defluire dal suo corpo, se avesse potuto
si sarebbe lasciato scivolare fino a toccare terra, le sue gambe non lo
avrebbero retto ancora a lungo.
Voglio
vedere tutto di te, amarti tutto. Cosa c’è che non va? La risposta annega in un
sorriso, continui a stringerla così forte che non può scomparire.Quelle mani che si muovevano
leggere erano ipnotizzanti, sembravano eseguire i
movimenti lenti e precisi di una danza da geisha; fluttuanti e incorporee come
il vento: un tempo quelle donne celavano il loro vero essere per diventare un’opera
d’arte vivente, Takanori invece stava mettendo da parte la sua arte per
mostrargli tutto ciò che era. Senza filtri né timore.
Voglio
amarti fino a quando non sentirò più il vuoto, non sorridere in questo modo
davanti a me. Lo
guardava dritto negli occhi, cercando di fargli capire quanto sentisse quelle
parole, gli erano sgorgate dal quel cuore che si era strappato dal petto e che
ora gli porgeva.
Non
abbandonarmi, o altrimenti* fai svanire la mia debole passione come il fumo di
una sigaretta. Quando
Ruki si fermò, Akira si accorse di aver dimenticato persino di respirare, era
stato completamente rapito da quella visione e colpito a fondo da quelle
parole. Takanori sapeva e aveva escogitato un modo per comunicare con lui, per fargliascoltare
quella canzone. Era la prima volta che qualcuno faceva qualcosa di simile per
lui, non riusciva a crederci.
«Che...che stavi facendo?» aveva provato le stesse emozioni dell’altro,
commuovendosi quasi per il trasporto che aveva visto sul suo viso, eppure non
doveva cedere.
«Non
hai più bisogno di fingere con me Akira, puoi essere te stesso.»
«Di
che stai parlando?» non era facile accettare che lo sapesse, che non avrebbe
più dovuto fingere con lui quando lo aveva fatto per tutta la vita.
«Smettila
Aki.»
«Smettila
tu.»
«Perché? Perché capivi benissimo ciò che stavo dicendo,
vero?»
Akira
sospirò a lungo e, nonostante i buoni propositi, capitolò con estrema
facilità. «Da quanto lo sai?» era improvvisamente stanco di quella vita e
sollevato, come se gli avessero tolto dalle spalle un mantello troppo pesante;
ora poteva respirare.
«Da
un po’.» ma lo sospettava da molto prima.
«Come
lo hai scoperto?»
«Per
me è una cosa così importante che prima o poi dovevo
accorgermene, mi è bastato osservarti attentamente.» ecco perché era andato al
bar in quei giorni, ora tutto trovava un senso. «Anche
se tu sei davvero bravo a dissimulare la verità. Mi chiedo se questa tua
bravura valga per ogni cosa che ti riguarda, magari anche il tempo che abbiamo
passato insieme...»
«No! Quello era autentico. La mia grande menzogna si
limita al mio udito.»
«Ne sei sicuro, Akira? Perché fingi di essere chi non
sei?» non poteva negare di essersi sentito preso in
giro all’inizio. Non si era fidato di lui, non gli aveva detto
la verità. Di che cosa aveva avuto paura?
«Io non fingo! Sentire o no, non incide sulla mia
personalità! E, sinceramente, non accetto una paternale da chi finge di essere
una rock star ribelle e anticonformista, quando invece è solo un ragazzino
sperduto.» attaccare per difendersi, bella strategia,
era sempre stato molto bravo in questo e stavolta non faceva eccezione. Anche
se, ora, aveva paura di perdere.
«Vorresti dire che siamo uguali? Le nostre menzogne non
sono paragonabili. Io indosso un abito e del trucco, ma quando li tolgo torno ad essere Takanori. Tu puoi dire lo stesso?»
«Dico
solo che siamo i primi a mentire perché non ci piace ciò che siamo, tu dovresti
capirmi più di chiunque altro.»
«Hai
ragione ed è proprio per questo che ti dico di smetterla con queste bugie, a lungo andare diventeranno sempre più grandi fino a
prendere il completo controllo della tua vita. Capisco che tu possa avere paura
del giudizio degli altri, gli esseri umani sanno essere come bestie senza
ragione, ma a me piace ciò che sei. Tutto. Perché non me lo hai detto? Perché
non ti sei fidato di me?»
«Non
saresti qui ora.»
«Non
mi hai dato la possibilità di dimostrarti il contrario, perché non proviamo ad essere sinceri l’un l’altro ora e stare a vedere quello
che succede?» in fondo, ormai, non avevano più nulla da nascondere.
«Adesso
dici così, ma prima o poi questa situazione ti
stancherà.»
«Non sono abituato a lasciare che gli altri decidano
per me, io scelgo te perché mi piaci e voglio provarci, ora sta a te fare la
tua scelta. Non cercare altre scuse: ti piaccio anch’io, oppure no?» gli sembrava che le parole della sua canzone fossero state
molto chiare a riguardo, era stanco di girarci intorno come una stupida falena
attorno ad una lampadina incandescente. Prima o poi si
sarebbe bruciato. Il loro incontro non era stato affatto
casuale, in questo credeva fermamente: lo aveva incontrato perché doveva. Come
recitava un saggio proverbio giapponese: anche gli incontri casuali sono opera
del destino.
Akira
ci pensò intensamente, ma non riuscì più a mentire, ormai la sua maschera
frantumata era irreparabile. «Il problema è proprio questo: anche tu mi piaci.»
e non riusciva a capire quando fosse accaduto. Quando l’odio si era trasformato
in qualcos’altro? E in cosa, poi? Aveva bisogno di rivederlo mentre si
perdeva in un linguaggio nuovo, doveva far ordine in tutto quel caos che
sentiva dentro di sé. «Perché non mi fai riascoltare la mia canzone?» da quando
provava quella strana attrazione nei suoi confronti? Bello da
impazzire, così gracile da volerlo protegger con tutte le proprie forze e, al
tempo stesso, così forte da devastarlo. Stava sbagliando tutto, ma non
riusciva a fermarsi.
«Tua?»
«Beh
l’hai composta pensando a me, quindi è mia.» Takanori
sorrise, stavolta non ebbe bisogno di alcuna musica,
la immaginò come aveva fatto decine di volte. Ogni gesto
studiato alla perfezione, ripetuto fino allo sfinimento solo per lui.
Aveva il diritto di far parte di quel mondo. «La mano deve essere più aperta,
il polso meno rigido.»
«Fa
molta differenza?» ma Takanori non stava ascoltando davvero la sua risposta, il
suo cuore si era fermato quando la mano di Akira aveva avvolto la sua. Era
grande e calda, calma come un nido sicuro e la consistenza della sua pelle
afrodisiaca.
«Sì,
in questo tipo di linguaggio la perfezione è tutto,
così come le espressioni fondamentali. Non hai altro modo per comunicare ciò
che senti...» se solo avesse saputo decifrare ciò che
provava in quel momento, sentiva il petto in subbuglio lì dove il cuore
minacciava di esplodere; avvertiva un’attrazione fuori dal comune e tutto ciò
che non aveva intenzione di fare stavolta era resisterle. Le loro labbra ci
misero poco più di un attimo ad incontrarsi, minuti
interi ad assaporarsi. Entrambi sembravano guidati da una forza estranea, una
passione mai provata prima in quella misura dirompente; non ci fu bisogno di
pensare oltre, Akira si sentì tirare dall’altro con una strana urgenza. Sapeva dove volesse condurlo e non vedeva l’ora di sapere
come sarebbe stato entrare dentro di lui, toccare la sua pelle arrossata da un
velo di sudore, respirare l’odore del sesso tra di loro.
Salirono
veloci, inciampando sui gradini rivestiti di moquette e raggiunsero la camera da letto raccolta e semplice come il resto della
casa: una mansarda dove c’erano solo una piccola scrivania, una libreria, un
comodino e un letto a due piazze. Tutto ciò che serviva. Takanori spinse l’altro
con foga e Akira si lasciò cadere sul materasso, rimbalzò finché non venne fermato dal suo stesso peso. Continuavano a baciarsi,
a guardarsi, a studiare i loro lineamenti con impazienza.
Fu
Takanori a spogliarsi per primo e a restare con addosso
soltanto gli slip, fece lo stesso all’altro, veloce e vorace come uno
sciacallo. Akira prese il sopravvento, ribaltò le posizioni salendo a cavalcioni sul suo stretto bacino, non poteva sentire il
suono del suo fiato, ma poteva avvertirlo accelerare contro le proprie labbra:
sembrava un caldo vento di scirocco, sapeva di lui, né di fumo né cibo,
soltanto di lui. Piano sfregò la sua erezione contro quella
dell’altro, stoffa contro stoffa e poi pelle contro pelle finché Takanori non
resistette più e si liberò da quella tortura. Era bravo a farlo impazzire, ma
lui aveva aspettato troppo. Non c’era bisogno di prepararlo né di perdere altro
tempo prezioso perché sapeva che entrambi erano pronti, perciò si contorse fino
a far coincidere la punta di Akira con la sua apertura. Non spinse oltre,
questo toccava a lui.
«Akira...» era impaziente e incredulo. Si sentì prendere per le
spalle e tirare giù verso il dolore e il piacere. Il castano gli alzò le gambe
portandosele sulle spalle e prese a spingere aggrappandosi alla testiera del
letto. Spingeva e ad ogni spinta lui gli andava
incontro, non si sarebbe di certo spaccato, lo avrebbe avuto solo più dentro,
giù fino al cuore. Era come salire al paradiso, ma restare a guardarlo dall’altra
parte dei cancelli dorati.
Si
baciarono ancora, lasciarono scie umide sulla loro pelle, i loro ansiti si
rincorsero più volte prima di fondersi. Akira poteva vedere chiaramente la sua
espressione e capire cosa gli stesse dando più
piacere, aumentò la stretta sul suo membro quando avvertì l’orgasmo arrivare.
Si liberò dentro di lui e Takanori, invece, tra i loro ventri piatti dalle vene
rese sporgenti per lo sforzo. Poteva giurare che avesse urlato, ma lui non
aveva sentito le sue grida. Un orgasmo senza urla era la stessa cosa? O restava
monco di piacere? Gli avevano detto che ascoltare i silenzi è fondamentale per
dare un senso alle parole che altrimenti risulterebbero
un ammasso di suoni, ma anche i suoni danno un senso al silenzio e, in quell’occasione
era troppo da sopportare.
Akira
fece per muoversi, ma Takanori lo fermò. «Resta ancora un po’.» rimase dentro
di lui così come gli aveva chiesto e quasi si addormentò, cullato dall’ondeggiare
del petto su cui aveva posato la fronte.
*
Sì svegliò quando la luce colpì i suoi occhi. Si guardò intorno confuso, ma all’istante
tutto gli affiorò alla mente: era in camera di Takanori che ora dormiva
beatamente alla sua sinistra e la notte precedente avevano fatto sesso. Merda.
Ne
era consapevole: si era trattato di un atto di pura passione e lussuria, c’era
stato trasporto si, ma di certo non amore. Non era un
ragazzino stupido ed innocente. Che cosa aveva fatto?
In che guaio si era cacciato? Aveva fatto tutto ciò che si era ripromesso di
non fare, cosa si sarebbe aspettato da lui ora il destino? Aveva troppa paura,
più si sarebbe esposto e più avrebbe sofferto poi.
Cercando
di non fare rumore, con movimenti delicati quanto quelli di un gatto, si alzò
cercando i suoi vestiti; erano finiti ai piedi del letto nella foga di
liberarsene, infilò velocemente la maglia e saltellò per entrare nei pantaloni.
Trovò due occhi enormi a fissarlo.
«Che
stai facendo?» Takanori lo guardava confuso, seduto a petto nudo, la pelle
increspata da un brivido. Non gli era sembrato affatto
restio qualche ora fa.
Akira
rispose al suo sguardo con un’espressione imbarazzata, aveva fatto un errore a
lasciare che l’altro entrasse nel suo mondo. «Scusami...»
scappò via racimolando le sue cose, non si voltò per scoprire se Takanori lo
stesse seguendo, non avrebbe mai saputo se l’avesse chiamato a squarciagola. In
ogni caso, non sarebbe tornato indietro.
*
Entrò a casa che erano le nove di mattina, Yuu era in cucina: guardava la TV
mentre sorseggiava la colazione. Ciao.
Ah, sei vivo.
Va bene l’indipendenza, ma potevi avvisare. Yuu non sembrava arrabbiato, svolgeva solo il suo
compito di fratello maggiore.
È stato un fuori programma... Akira si lasciò cadere su una sedia,
indeciso. Ho fatto una cazzata.
Cioè?
Ci sono andato da quel ragazzo,
in realtà ci ho passato tutta la notte.
E quindi? Non era certo la prima volta che
passava la notte fuori casa.
Ci sono finito a letto.
E ora? Quando mai è stato un
problema?
È la persona sbagliata per me.
Se lo fosse
non te lo saresti scopato, non pensarci troppo. Yuu lasciò la tazza vuota nel
lavandino alle sue spalle.
Yuu... Doveva dirglielo, o sarebbe scoppiato. Ma con quale coraggio? È
Ruki.
Cosa?!
Lo so.
È un cantante.
Lo so.
Che dicevi di odiare.
Lo so.
Sai tutte queste cose eppure...fa sul serio?
A quanto pare si,
ma sono io il problema.
Lo sa?
Si.
Il
problema non era Akira, ma il tempo: tra qualche mese si sarebbe stancato di
lui e lo avrebbe lasciato come facevano tutti. Non era neanche un comportamento
da biasimare. È una decisione che spetta
a te Aki, io posso solo dirti che per qualsiasi cosa
mi troverai sempre qui. Non poteva interferire così tanto
nella sua vita e nelle sue scelte. Puntualmente da bambino faceva i capricci
per andare a giocare sull’altalena, si sbucciava un ginocchio e tornava
piangendo da lui, ma non per questo gli aveva mai impedito di tornarci. Non pensarci ora,
una bella doccia ti sistemerà le idee. Ci sarebbe stato tempo per capire
come affrontare quella nuova situazione.
Akira
annuì, una doccia avrebbe rimesso tutto al suo legittimo posto. Il muro che
aveva costruito con così tanta fatica, tra lui e il resto del mondo, si era
appena intaccato ma non sarebbe crollato e lo avrebbe protetto ancora con
tenacia. Tutti avevano un muro intorno a sé, sceglievano di guardare e non
osservare, sentire e non ascoltare; lui invece poteva soltanto scandagliare
quello che vedeva perché era tutto ciò che gli era concesso attraverso il suo
muro di vetro.
E,
per quanto volesse negarlo, ora dall’altra parte vedeva soltanto Takanori.
*altrimenti l’ho aggiunto io per fare avere più senso alla frase in quel contesto: o resti e mi ami o te ne
vai u.u
Lo so, lo so u.u
sono perfida, cattiva e maledetta u.u ma andiamo con
ordine: la canzone che Taka dedica ad Aki è CalmEnvy ♥ l’ha scritta
nei capitoli precedenti e doveva fargliela “ascoltare” in tutti i modi
=w= solo perché è diverso, non è detto che questo modo sia sbagliato, no? *^* l’ho
trovata una cosa carinissima, anche se questo ha svelato “i giochi”: Taka ha
confessato di sapere u.u e Aki all’inizio insiste, ma poi si arrende sconfitto...si
arrende così tanto da finirci a letto insieme D: più che pentirsene, poi, è
spaventato dalla sua stessa debolezza per aver ceduto così pienamente °^° tutte
le sue barriere sono crollate in un colpo solo, e ora? Takanori dice che non è importante, maAki questa storia l’ha
sentita altre 1000 volte e sa come andrà a finire >.< Cosa
farà ora? Cederà tornando sui suoi passi? Capirà di aver fatto un grosso
errore? Gli chiederà perdono in ginocchio? D: mi dispiace lasciarvi languire
così, soprattutto ora che si avvicinano le vacanze di Pasqua e
io non ci sono fino al 7 aprile T^T ma nel frattempo potete stalkerarmi,
contattarmi ed insultarmi con tutto l’amore di cui siete capaci ♥ perciò
vi auguro Buona Pasqua, mangiate tanta cioccolata e fate le brave
♥3♥
È
corto, lo so, chiedo perdono m(_ _)m in tutto ne sono
19, quindi lentamente ci stiamo avvicinando alla fine °^° ma le cose procedono
come devono u_u buona lettura~ *0*
Sing for me
Osservando
Kouyou non si poteva che notare degli strani atteggiamenti ultimamente: era
lontano, rispondeva a monosillabi, sembrava che dormisse a malapena un paio d’ore
a notte e non toccasse cibo da giorni. Era un vero straccio. «Kouyou, sei
sicuro di stare bene?» che avesse l’influenza? Yuu cominciava
a preoccuparsi davvero.
«Sì,
certo.» puntualmente arrivava la stessa risposta.
«A
me non sembra, dovresti prendere un giorno di riposo.» non poteva certo dire di
conoscerlo bene, ma chiunque avrebbe capito che c’era qualcosa che non
andava.
«Non
posso, c’è sempre troppo da fare qui.» e questo, purtroppo per lui, era vero.
Gli affari stavano andando per il verso giusto e, continuando così, presto il
signor Takana avrebbe potuto assumerlo; finalmente la
fortuna cominciava a girare anche per lui. «Piuttosto, mi serve quella
planetaria lassù.»
Da
più di mezz’ora erano in magazzino a fare rifornimento, Yuu era stato ben lieto
di collaborare e recuperare tutto ciò che l’altro gli chiedeva. «Che cosa? Abbiamo un planetario qui dentro?» sì voltò stupito, cercando di restare un equilibrio sulla
scala precaria.
In
altre occasioni il lato permaloso del suo carattere lo avrebbe fatto saltare
come un gatto a cui pestano la coda, ma sentire la
risata spontanea di Kouyou dopo tutti quei giorni, fu un calmante naturale. «La planetaria, serve per impastare, è quella in acciaio con
la ciotola. Alla tua destra.»
«Oh,
questa!»
«Fai
attenzione, è pesante.» anche lui avrebbe dovuto fare attenzione, in realtà,
perché sentì il battito accelerare quando vide la camicia di Yuu sollevarsi escoprire un lembo di pelle. La
sua carnagione era leggermente scura, l’epidermide liscia e glabra, leggermente
increspata da un brivido improvviso. Che cosa diavolo gli stava succedendo? Non
lo capiva, per questo non dormiva da giorni e mangiava anche meno. Lui non era gay, né aveva mai provato interesse per un altro ragazzo,
quindi perché avvertiva quelle nuove sensazioni nei confronti di Yuu? Forse il
fatto di sapere che fosse gay lo aveva, in qualche
modo, influenzato? Non era una deduzione logica, non c’era niente di logico in
lui in quei giorni.
«Perché
cavolo dovevano metterla così in alto?!» Yuu riprese
fiato dopo l’ennesimo sforzo.
«Dai, manca solo un sacco di farina e abbiamo preso tutto.»
«Dovrai
ripagarmi per tutta questa fatica, non credere che sia gratis!» mentre si
arrampicava di nuovo sulla scala, gli vennero in mente
una decina di modi diversi in cui avrebbe potuto farlo e, tutti, non
prevedevano vestiti.
«Va bene, farò un tiramisù solo per te. Contento?»
«Cominciamo
a ragionare.» e magari dopo il tiramisù… Avrebbe fatto meglio a smettere di
pensare a certe cose, o avrebbe avuto un problemino più difficile da gestire di
una scala traballante. Finalmente la scalata era conclusa, mancavano soltanto
due pioli e avrebbe toccato di nuovo terra, ma secondo il fato aveva
cantato vittoria troppo presto: quando raggiunse l’ultimo passo, si sbilanciò
all’indietro scivolando sulla superficie di alluminio. Se non fosse stato per
il repentino intervento di Kouyou, sarebbe rovinato al suolo schiacciato dal
sacco di farina da cinque chili. «Oddio, grazie.» gli si aggrappò come un’ancora
di salvezza, stringendo le sue braccia e saggiandone la consistenza sotto le
maniche della divisa bianca. La nuvola di farina che li avvolse lo fece tossire,
ma non riuscì a distogliere lo sguardo: quel viso era troppo perfetto da
cogliere in un solo sguardo, con le sue particolari imperfezioni che lo
rendevano unico, con quelle labbra dalla forma come non ne aveva mai viste. Kouyou
sembrava quasi imbarazzato, gli occhi languidi e indecisi, ingoiò una saliva
sicuramente inesistente.
«Figurati.»
si allontanò fingendo che non fosse successo nulla, si caricò in spalla ciò per
cui si erano avventurati in magazzino e cercò di dimenticare l’euforia che gli
scorreva nel corpo come elettricità. Non l’aveva mai guardato così da vicino,
non aveva mai stretto quella vita sottile tra le sue braccia, non aveva mai
sentito il suo profumo invaderlo così violentemente. Era
tutto nuovo per lui e tutto completamente sbagliato; non ci si scopriva gay da
un giorno all’altro, eppure...
Sospirando
si impose di non pensarci più del dovuto, stava
lottando da solo contro mulini a vento e doveva soltanto ritrovare la ragione.
*
Akira
era davvero un idiota e lui un emerito coglione perché pensava ancora a lui, al
modo in cui i loro corpi si erano avvinghiati l’uno all’altro e come, poi, era
scappato. Erano passati cinque giorni dal loro ultimo incontro, da allora si
erano evitati a lavoro come fossero due ragazzini alle prime scenate di
gelosia: da parte sua aveva preferito non fare ordinazioni, ma era convinto che
qualora lo avesse fatto, a consegnarle sarebbe stato qualcun altro. Era un
comportamento davvero infantile, se Akira aveva qualcosa da dirgli preferiva
che lo facesse guardandolo in faccia e dimostrando di avere ancora un briciolo
di coraggio. Cosa c’era che non andava in lui? Era per la sua carriera? Il suo
carattere? Non lo sapeva e questo lo mandava in bestia. Lanciò con rabbia una
busta di mele nel carrello, fare la spesa gli aveva tenuto la mente occupata
solo per dieci minuti, non era efficace neanche cantare e non aveva tempo per
le distrazioni. La sua vita stava arrivando ad una
svolta, veloce come una macchina da corsa che affronta una curva pericolosa a cento
all’ora, si sarebbe schiantato o sarebbe andato oltre più forte di prima? Per
di più mancavano solo venti giorni prima che cominciasse il tour ed era la
vigilia di capodanno. Faceva bene a odiare quel periodo dell’anno.
«Carta
o plastica?» alla cassa c’era una ragazza molto carina e giovane che gli sorrideva imbarazzata, doveva averlo
riconosciuto.
«Plastica.»
fantastico. A questo si erano ridotte le decisioni della sua vita: a scegliere
una busta di plastica invece di quella di carta
perché, l’ultima volta, era stato Akira a portarla fino a casa sua.
«Questo
è il suo resto, grazie e buon anno nuovo.»
«Grazie.»
di quel passo non lo sarebbe stato di certo. Lo stesso passo che al ritorno lo
portò a percorrere la strada più breve che, inevitabilmente, lo condusse sotto
casa sua. La luce era accesa al secondo piano, qualcuno doveva essere in casa,
forse lui. Ma cosa ci faceva li? Era un masochista, ma
non riusciva ad arrendersi, aveva bisogno di una spiegazione. Si strinse di più
nel cappotto quando cominciò a nevicare e si perse ad
osservare il fumo denso che usciva dalle sue labbra, avrebbe aspettato ancora dieci
minuti e poi sarebbe tornato a casa chiudendo quella storia per sempre. Guardò
su, verso il cielo di uno strano rosso spento, sembrava che la neve comparisse
dal nulla invece che scendere da quelle nuvole a chilometri di distanza.
Ritornò subito alle sue scarpe, avrebbe dovuto indossare un paio più pesante.
Inaspettatamente
sentì dei passi e, speranzoso, alzò lo sguardo dall’asfalto che pian piano
stava diventando bianco, ma non trovò Akira; c’era un ragazzo dai capelli neri
che riconobbe all’istante: suo fratello. «Tu devi essere Yuu-san.» non aveva
senso far finta di nulla, ormai lo aveva visto e, magari, lo aveva anche
scambiato per un maniaco.
«Sì
e tu devi essere Ruki.»
Abbassò
lo sguardo come se fosse una colpa. «Si.»
«Non
fraintendermi: non mi piace intromettermi e non sarà nemmeno un terzo grado, ma
sai che devo parlarti.»
«Lo
immagino.»
«Sarò diretto e sincero: non hai idea in cosa ti stai
imbarcando, con lui non sarà una vita facile, non fomentare una storia che non
sai se riuscirai a gestire. Se nascosta, anche in un piccolissimo angolo, c’è l’idea
di non poterci riuscire, non farlo.» il suo tono era
calmo, quasi triste e rassegnato. «Akira è un bravo ragazzo e ha sofferto
molto, tu te ne tornerai a casa archiviando tutto come avrai fatto in passato
per altre storie, invece lui si spezzerà e sarò io a dover raccogliere i cocci.»
lo aveva fatto innumerevoli volte e il Kintsugi non funzionava anche sulle persone. Riparare un
oggetto frantumato con dell’oro gli dava sicuramente
più valore, ma le cicatrici sarebbero rimaste per sempre a ricordare il
passato, qualcuno avrebbe potuto scambiarle per sorrisi, ma erano e restavano
squarci dell’anima. «Non merita di essere ingannato.»
«Non
so che tipo di ragazzi abbia frequentato finora, ma il fatto che tu sia suo
fratello non ti da il diritto di parlarmi in questo
modo. Neanche tu sai come andrà a finire una storia finché non la vivi, quindi
perché mai dovrei rinunciare a quello che può succedere tra di noi?»
«Ti
sto solo chiedendo di non farlo soffrire.»
«Non ne ho intenzione e non voglio nemmeno rinunciare a
lui così facilmente. Perché dovrei poi?»
«Perché tu vivi di qualcosa che lui non ha più e che
non ha mai dimenticato: la musica. Ne è quasi ossessionato, soprattutto da
quando ti ha conosciuto.» lo aveva visto passare
giornate intere davanti al computer, ricercava febbrilmente informazioni su
Ruki, guardava i suoi video musicali, si torturava cercando di capire come
funzionasse un pianoforte o un violino. Si stava soltanto facendo del male, ma
non aveva voluto ascoltare i suoi rimproveri.
«Chi ti dice che non possa viverla anche lui? Può farlo
a modo suo, sarà pur diverso dal modo in cui lo faccio io, o tu e il resto del
mondo, ma chi ti dice che sia sbagliato?»
La
conversazione non poté continuare oltre, ad
interromperla fu proprio Akira, doveva averli visti dalla finestra e aveva
deciso di intervenire: se per difenderlo o infliggergli il colpo mortale non
poteva dirlo, ma presto lo avrebbe scoperto. «Yuu, è tutto ok.» lo vide
rientrare, non era convinto di lasciarlo solo con Ruki, ma alla fine si arrese
e rimasero da soli, faccia a faccia: era il momento
della verità. «Scusalo, lui vuole solo proteggermi e a volte è un po’ troppo
duro.»
«Lo capisco, è tuo fratello. Invece non capisco te,
perché sei scappato senza darmi spiegazioni? Non riesco a capire quale sia il
problema. Se non ti piaccio dimmelo chiaramente.» ma
Akira rimase chiuso nel suo silenzio, lo guardava con i suoi occhi dolci e
malinconici, con lo sguardo di chi ha così tanto da dire ma non trova le parole
per farlo. «Non ci riesci perché non è vero.»
«Io non sono come te Takanori, siamo troppo diversi. I
nostri mondi sono incompatibili.»
«Non è affatto vero, devi solo volerlo e io troverò un modo-»
«Un modo per cosa? Per guarirmi?» era già infastidito
per il tono di cui quella conversazione si stava tingendo, perciò si allontanò per poter rientrare in casa al sicuro, ma Ruki lo trattenne
costringendolo a voltarsi.
«No,
per fare in modo che non ti manchi più nulla, per-»
«È impossibile Taka! Se sei venuto per questo, hai fatto tanta strada per nulla.» ancora una volta provò a
scappare, da codardo qual era, ma ancora una volta non gli fu possibile. Era frustrante
litigare in quel modo, ma in qualche modo avrebbe dovuto provare ad odiare Takanori, così tutto sarebbe finito. «Smettila di parlarmi, smettila di urlare! Non ti sento e
non potrò mai sentirti! Sono sordo, Ruki! Tutto questo
non ha senso, non puoi stare con me. Non meriti qualcuno che non possa
apprezzare la tua musica, lei è ciò che sei ed una
parte di te che io non potrò mai cogliere nella sua abbagliante bellezza. Non
puoi voler stare con me, meriti di più!»
«Perché
credi di sapere ciò che voglio, o cosa sia giusto per
me? Sei sordo e allora? Questo non mi ha certo
impedito di innamorarmi di te.»
Innamorarsi?
«Te ne andrai, prima o poi ne avrai abbastanza come
tutti.» come tutti coloro che avevano detto di amarlo.
«Ancora con questa storia? Io non sono tutti, io sono Takanori, porca puttana!
Credi di sapere già quello che faranno le persone, credi di essere nella loro
testa o nel loro cuore: ti lasceranno per la tua sordità e tu potrai continuare
a dare la colpa a lei
invece che a te. Il problema è il tuo atteggiamento Akira, tra te e la tua
felicità ci sei solo tu.» era esausto, davvero stanco
di essere circondato da persone che gli dicessero chi essere, cosa pensare
e addirittura come agire. «Credo di sapere perché, come dici tu, tutti prima o poi se ne vanno: sono esasperati dal tuo
comportamento. Sei tu che non ti accetti per primo, come puoi pretendere che lo
facciano gli altri incondizionatamente? La tua sordità NON è un problema,
finché non lo capirai non ci sarà spazio che per lei
nella tua vita. Salvati Akira, o almeno permetti a qualcuno di farlo, ma ti
prego: salvati.» Takanori non attese oltre, si
allontanò con la stessa fretta con cui aveva deciso di andare lì in cerca di
una spiegazione. Doveva metterselo in testa una volta per
tutte: quella storia era finita ancor prima di cominciare, come dei semi
mai piantati, ricchi di vita e potenzialità ma sterili.
Buon anno Takanori, buon anno alla sua testardaggine,
buon anno anche ai suoi sentimenti calpestati e congelati dalla neve.
>w> bene…abbiamo
capito tutti cosa frulla nella testolina di Kou,
vero?! Voi non ci siete mai cascate in realtà xD è
una ffyaoi, ok, ma potevo
anche farlo etero Kou u.u
eppure il mio cuoricino non avrebbe retto altrimenti ♥ perciò il loro rapporto
continua a mutare e Kouyou è perso in 1000 pensieri, ora è il suo turno
>.< poveri reituki se no xD
ecco, loro danno sempre filo da torcere, ma non poteva essere altrimenti dopo quello che aveva fatto Akira è.é
personalmente ho amato la lite finale, il modo in cui Takanori cerca di
sistemare la cosa, ma si fa prendere da tutta la rabbia e la delusione repressa
e gli urla tutto in faccia. Qualcuno finalmente gli ha detto come stanno le
cose: il problema non è la sua sordità, ma il suo atteggiamento...gli fa comodo incolpare “lei” quando le cose vanno male, ma
lui ha mai fatto qualcosa per evitare che accada? u.u Come direbbe il caro Jack Sparrow:
Il problema non è il problema. Il
problema è il tuo atteggiamento rispetto al problema. Comprendi? Quando ha
ragione Takanori! L’ho amato tanto ♥v♥ so che il discorso fatto da
Yuu può sembrare invasivo e fuori luogo, ma è pur sempre lui ad aver cresciuto
Akira, ha vissuto per proteggerlo e ha curato le sue “ferite” ogni volta più
profonde, quindi lo capisco é_è nu? Ora non ci resta
che capire cosa farà ora Akira. Accetterà il “rimprovero” o attaccherà per
difendersi ancora una volta? U_U beh, non resta che attendere i prossimi capitoli~
Gnegnegne ♥v♥ più che
capitolo Boom, stavolta è capitolo Ansia + CuoriVolantiSugliArcobaleni~
♥
Buona
lettura –w-
Sing for me
Dieci
giorni di inedia, dieci giorni in cui il suo senso di
colpa era lievitato fino a prendere pieno possesso delle ore infinite. Non
faceva altro che ripensare alle parole che Takanori gli aveva urlato, era
rimasto lì minuti interi a fissare la strada ormai vuota dove lo aveva visto
sparire senza voltarsi. Non si era mosso finché Yuu non lo aveva riportato in
casa, erano andati a casa di Kouyou a festeggiare il
nuovo anno e la vita era ripartita con il ritmo di sempre. Tedioso e
inopportuno. All’inizio aveva provato tanta amarezza per il modo in cui erano
andate le cose, poi rabbia a causa della forza inesauribile di quelle parole
che, a distanza di giorni, ancora bruciavano come carboni ardenti. Infine, si
era arreso: Takanori aveva ragione. Era sempre stato lui il problema, aveva
sempre avuto troppa paura che la sua mancanza fosse un problema insormontabile;
quando cominciava una storia, aveva così paura di essere abbandonato che
diventava quella paura stessa, la riversava sugli altri e prima
o poi diventava realtà. Non perché fossero stanchi della sua sordità, ma
perché erano stanchi di lui, esasperati dal suo comportamento.
Eppure
non riusciva ad accettare ciò che gli era capitato, la
sua curiosità era sempre viva e vorace, forse sarebbe stato meglio non
conoscere affatto tutto quello che aveva perso; era difficile andare avanti
sentendo ancora la voce di persone che non erano più lì con lui, sentendo
ancora la canzoncina di quel cartone animato di cui si era innamorato a cinque
anni, la voce di Yuu stridula e immatura come solo quella di un bambino poteva
essere. Erano pochi i ricordi che custodiva ancora, il resto era stato eroso
dalle onde del tempo.
Se
per Takanori tutto quello non rappresentava un problema, per lui lo era ancora
e, forse, quel ragazzino testardo poteva essere la soluzione; avrebbe potuto insegnargli un modo per esplorare il suo mondo, per
farlo sentire parte di qualcosa che non avrebbe mai immaginato così vicina a
sé. Era stata un’idea difficile da metabolizzare, ma il seme aveva attecchito e
pian piano i primi germogli avevano visto la luce.
Ma era ancora in tempo? Takanori non era certo tenuto ad
aspettarlo, anzi non gli doveva proprio un bel niente, ma almeno sperava di
potergli parlare e chiarire quella situazione. Non gli piaceva sapere che ce l’avesse con lui, che lo avesse fatto soffrire a tal
punto da aspettarlo sotto la neve, il solo pensiero lo faceva star male, ma non
lo vedeva da una settimana: né in giro per il quartiere, né a lavoro. Era
sparito nel nulla, come se non fosse mai esistito, come se l’avesse solo
sognato. E, forse, era stato proprio così perché non avrebbe mai più incontrato
uno come lui.
Allora
aveva preso coraggio e si era fermato davanti al cancello che, ironia della
sorte, tante volte si era ripromesso di non varcare
più. Aveva bussato e aspettato, ma tutto era rimasto fermo com’era. Le tende chiuse, il vialetto pieno di neve e la porta chiusa, come
a volerlo tenere lontano dalla sua salvezza. Aveva riprovato due, tre
volte, ma forse trattandosi di lui Takanori aveva deciso di non aprirgli. O
magari aveva sbagliato la tempistica e, semplicemente, non era in casa; perciò
rimase lì ad aspettarlo per mezz’ora prima di tornare a casa con l’amaro nel
cuore.
Hei. Yuu stava preparando il pranzo,
il profumo dolce e speziato gli aveva augurato il bentornato con accoglienza. Tra dieci minuti è pronto.
Non ho molta fame, in realtà.
Yuu
posò le hashi
e si assicurò di essere ben in vista, prima di parlargli. Non fare il coglione! Tu adesso mangi, non hai fatto neanche colazione.
Cosa speri di risolvere facendo così?
Yuu, non esagerare, ho solo detto di non aver fame.
Ti ho cresciuto io, mio caro, se permetti ti conosco meglio di te stesso. Chi gli teneva la mano quando
faceva gli incubi? Chi sciugava le sue lacrime quando si sentiva inadatto ed
escluso? Non sapeva perché non corresse nell’abbraccio di sua madre, forse per
non farla preoccupare più del dovuto, o forse perché aveva sempre visto lui
come sua guida.
Quindi
cosa starei cercando di fare, secondo te?
Soffrire per una situazione che
tu stesso hai creato non porta a niente. Sapeva di essere eccessivamente
diretto, ma glielo doveva. Se proprio ci
tieni a sistemare le cose cercalo, trovalo, costringilo a parlarti e spiegagli
ciò che senti. Sai una cosa? Ruki aveva ragione.
Lo hai sentito?
Lo ha
sentito tutto il quartiere, se è per questo. Ha ragione nel dire che sei solo
tu il tuo problema, lui è sincero e tu non lo sei mai stato nemmeno con te
stesso.
Non voglio che il mondo mi
consideri diverso, ne abbiamo già parlato mille volte!
E per mille volte io ti ho
ripetuto che non c’è niente di diverso, se non nella tua testa Akira. Ti fai
del male e meriti una vita serena. Va da lui. Lo aveva realizzato all’istante: il suo fratellino si
era innamorato e combatteva una lotta interiore che doveva vincere, gli serviva
solo una piccola spinta per superare la paura
iniziale. Ruki poteva essere quello giusto nonostante tutto, sperava davvero
che con il suo aiuto Akira avrebbe imparato ad
accettarsi.
Fosse così facile. Non riesco a
trovarlo, sono andato a casa sua, ma nulla.
Beh, a lavoro sai
dove cercarlo, no?
Si.
E allora lascia stare quello che
ti dice la testa Aki, segui l’istinto e, se dovessi
farti male, un giorno potrai dire di aver fatto tutto il possibile.
Anche tu dovresti seguire il tuo
consiglio, sai?
Beh, la mia situazione è
leggermente più complessa, se non te ne sei accorto: Kouyou non è gay.
Era una sofferenza persino dirlo.
Non dirmi che non hai notato come
ti guarda!
E con questo? Non posso
fraintendere e perderlo come amico.
Come amico? Non sarà mai un amico
per te. E, poi, un giorno non vuoi poter dire di aver
fatto tutto il possibile?
Akira scimmiottò i gesti di Yuu con enfasi. Doveva stare attento: i consigli
potevano essere boomerang che, a volte, ritornavano indietro.
Ma tu
guarda che stronzetto irriconoscente! Fila a lavarti le mani e di corsa a
mangiare!
Bisognava sculacciarli da piccoli, così non sarebbero
diventati impertinenti da grandi, lo diceva sempre il loro caro vecchio nonno Koji.
Sorridendo
al suo ricordo, Yuu servì il pranzo, le cose dovevano solo maturare e al
momento giusto i fiori sarebbero sbocciati da soli; le consapevolezze non
arrivavano nel giro di una notte, ma per realizzarle bastava un solo battito di
cuore.
*
Aveva approfittato della sua pausa pomeridiana per avere più tempo a
disposizione, non aveva fatto altro che pensare al modo in cui organizzare il
discorso: poteva cominciare con una lunga lista di obiezioni a suo favore, o
dalla precisazione che fosse stato lui a cercarlo per primo, ma delle semplici
scuse sarebbero state più che sufficienti.
Arrivò
allo studio del terzo piano con il fiato corto, il cuore gli batteva così forte
da fargli quasi male; la porta era chiusa, bussò con timore ed entrò. La stanza
era deserta. Non c’erano neanche gli strumenti e i cavi che, di solito,
affollavano il pavimento. Niente fogli sparpagliati sulla
scrivania, niente sigaretta lasciata a consumarsi nel posacenere, niente
Takanori. Cosa diavolo era successo? Stava cominciando davvero a
preoccuparsi e l’ansia si velava pian piano di panico; non gli piaceva vedere
quella stanza vuota, gli dava una sensazione di mancanza difficile da gestire.
Per fortuna qualcuno venne in suo soccorso, un ragazzo che portava uno
scatolone vuoto, probabilmente da riempire con ciò che era rimasto ancora lì.
«Lei è? Come posso aiutarla?»
«Dov’è
Ta- Ruki-san?»
«A
casa con l’influenza.» un’ondata di sollievo lo invase come una doccia calda. «Eppure
sono passato a casa sua, ma-»
«Ha
traslocato.»
«Oh,
e non sai dove abita ora?»
«Mi
dispiace, non posso dare questo tipo di informazioni.»
«Capisco, grazie.» cosa si aspettava? In fondo lui non era
nessuno. Non un familiare, né un amico, solo un perfetto sconosciuto. Anzi, un
perfetto stronzo.
Cominciava a pensare che fosse il destino a non volere che lo trovasse. Era
troppo tardi per scusarsi, troppo tardi per sperare in una nuova vita; aveva
sbagliato e ora doveva pagarne le conseguenze. Gli restava solo un’opzione, la sua ultima chance per poter rimettere tutto al
suo posto, ma avrebbe dovuto fare appello a tutto il suo coraggio.
*
«Kou non guardarmi in quel modo.» spalle al muro, Yuu vibrava di attesa.
«Quale?»
lascivo, peccaminoso, più crudele di mille diavoli
infernali: se ne stava lì, a pochi centimetri dai suoi occhi, a incatenare le
sue iridi dorate alle sue. «Non capisco...»
«Così
come continui a fare adesso...» il respiro non resse e
si frantumò. «Perché io ci trovo qualcosa che non
esiste. Mi dispiace dirtelo e so che questo rovinerà tutto, ma mi piaci Kou.»
«Mi dispiace, Yuu. Mi dispiace che tu non me l’abbia
detto prima.» e Kouyou si avvicinò così tanto alle sue
labbra che la sensazione di euforia lo fece svegliare.
Ci
mise qualche momento a realizzare di stare fissando il soffitto della sua camera da letto, la debole luce dell’alba filtrava
attraverso le tende pesanti e Akira dormiva ancora beato accanto a lui. Era
stato di nuovo tutto un sogno, quando avrebbe imparato a distinguerli dalla
realtà? Si girò infastidito diverse volte e non si accorse di essersi
riaddormentato fino a quando non riaprì gli occhi, stavolta il sole era quasi
allo zenit. Ci mise un po’ a recuperare lucidità e si accorse che Akira non c’era.
Recuperò il cellulare per capire che ore fossero e notò di avere un messaggio
in entrata, lo lesse con il battito impazzito: “Ti va di pranzare da me?” Kouyou. Yuu non poté evitare di sorridere
come un idiota, magari il suo sogno era stato un avvertimento del destino. Non
poteva illudersi così, lo sapeva, ma sognare non costava nulla. “Certo.” Rispose senza pensarci per più
di un battuto di ciglia. “Ti passo a
prendere alle 12, a tra poco.” Non vedeva l’ora di
vederlo, di andare da lui e perdersi tra gli oggetti
di casa sua, magari scoprire la storia dietro ogni fotografia e suppellettile.
Ci era già stato per il capodanno, ma una sola notte non era bastata.
Fu
solo per caso che il suo sguardo si posò sui numeri in alto a destra dello
schermo, segnalavano stranamente le 11.28. Non poteva essere, questo voleva
dire che aveva soltanto mezz’ora per essere almeno presentabile. «Oh merda!» si
liberò delle coperte come se stesse combattendo con un
cobra gigantesco che si avviluppava alle sue membra, prese la rincorsa per
schivare l’angolo del letto, la poltrona accanto alla porta, la maniglia
innamorata delle sue maniche lunghe e arrivò in bagno trafelato. Cominciò
subito a spogliarsi, nonostante in doccia ci fosse già
Akira; era inutile urlargli che stava per entrare anche lui, aprì direttamente
le ante e lo colse di sorpresa.
«Oddio!»
Akira non l’aveva neanche visto arrivare, aveva visto
solo un’ombra comparirgli alle spalle, il primo istinto era stato quello di
allontanarsene, ma ci aveva guadagnato solo uno scontro tra la sua testa e una
sporgenza delle tubature. «Cazzo, che male! Ma che
vuoi?!» non poteva lasciarlo in pace neanche in
doccia?
Muoviti, passami lo shampoo!
Kouyou mi ha invitato a pranzo da lui e tra mezz’ora sarà qui. Non ho tempo!
«Oh
oh, un appuntamento
romantico!» Yuu stava già insaponando i capelli con lo shampoo che Akira aveva
recuperato per lui.
«Macché!»
«Già
mi ti immagino con gli occhi da cerbiatto: oh, Kouyou
questo tofu è buonissimo!» ed il tofu in questione, in quel momento, era la
spugna che gli stava passando.
Ma io
odio il tofu.
Non quello di Kouyou! E i pensieri di Yuu non furono
assolutamente casti in quel momento.
«Fai
meno lo spiritoso e pensa a Takanori tu.» Yuu si
risciacquò alla velocità della luce. Prendo
il tuo accappatoio, tu fai il bravo e buon lavoro. Augurami buona fortuna.
«Poi
riportami l’accappatoio!» non aveva nessuna voglia di gocciolare fino alla
porta o, peggio, fino in camera da letto perché era lì
che altrimenti lo avrebbe lasciato.
Con ritrovata pace Akira poté finalmente ritornare alla sua meritata doccia
rilassante, Yuu era davvero un maledetto ciclone e l’aveva stravolto nel giro
di cinque minuti, quando ce ne aveva messi almeno dieci per rilassarsi.
Sperava
vivamente che almeno per lui le cose sarebbero andate
nel verso giusto. Era una situazione difficile, non poteva negarlo, ma le
sorprese erano sempre dietro l’angolo. Ora doveva solo pensare al bouquet di
fiori che avrebbe fatto recapitare al Budokan.
*
«Vieni,
entra.» Yuu si fece avanti, riconoscendo all’istante quel profumo che aveva
cominciato a considerare familiare. Il viaggio in macchina era stato tranquillo:
avevano chiacchierato, inveito contro gli automobilisti incapaci e ascoltato un
po’ di musica, cantando sui vecchi successi che li avevano fatti sentire di
nuovo giovani. C’era il sole in quella mattina di gennaio, un sole che aveva
illuminato le loro vite per più di un fugace attimo, aveva guardato Kouyou con
attenzione mentre guidava sicuro nel traffico dell’ora di punta; i capelli che
risplendevano come fili di rame, gli occhi indecisi su quale sfumatura
adottare: l’ocra del deserto in tempesta, o quello della sabbia bagnata dalle
onde spumose? Vi si era perso dentro, nella profondità che aveva assunto
l’iride, nell’imbarazzo che vi ci leggeva. Sperava vivamente di non essersi
sbagliato. «Lascia pure tutto qui, andiamo in cucina.»
«Sento
già un buon odorino, non pensavo che avessi già cucinato.» allora aveva davvero
invitato soltanto lui, aveva temuto di trovare una presenza sgradita una volta lì.
«Certo,
spero che ti piaccia l’ebi-tendon.»
«Scherzi? È il mio piatto preferito!»
«Davvero?»
«Si.» e qualcosa gli diceva che non fosse una sorpresa, un
uccellino doveva aver cantato.
«Allora
mangiamoli subito.» furono subito al piccolo tavolino
in salotto, uno di fronte all’altro inginocchiati sugli zabuton. «Allora,
come va? Ti vedo meno abbattuto del solito in questi giorni.»
Yuu addentò un gamberetto sentendosi in paradiso.
«Va
decisamente meglio, si.» non era un mistero per Yuu,
più volte aveva notato i cambiamenti del suo umore, gli era dispiaciuto oltre
ogni dire farlo preoccupare, ma non aveva potuto evitarlo.
«Ne
sono felice.» lo era davvero, nel profondo.
«L’aiuto di Yutaka è stato fondamentale. C’erano molte
cose che non riuscivo a capire, che sfuggivano dal mio controllo, ma poi ho
capito di dover smettere di cercare di comprenderle.» gli era
sembrato di inseguire qualcosa di vitale importanza, non sapeva cosa fosse,
sapeva solo di dover correre per raggiungerla e correva a perdifiato senza
chiedersi neanche perché. E poi, all’improvviso, si era fermato e aveva capito.
«Sembrano
cose piuttosto importanti.»
«Si, lo sono. Potrà sembrarti strano così all’improvviso,
potrà stravolgerti, ma ho bisogno di parlartene.»
Yuu
si fece subito serio, posò le sue hashi concentrandosi sull’altro. «Dimmi Kouyou, qualsiasi
cosa sia io non ti giudicherò.» non sapeva cosa aspettarsi, davanti a lui
c’erano milioni di opzioni e lui, sicuramente, sperava
in quella sbagliata.
«Solo,
lasciami finire prima di...»
«Certo.»
Kouyou
ingoiò la sua paura, bevve un sorso di coraggio e lasciò che le parole
sgorgassero libere. «In questi mesi ho capito perché continuavo a collezionare
un fallimento dopo l’altro, perché non riuscivo a trovare l’altra parte di me
nonostante mi affannassi così tanto a cercarla: eri tu
Yuu e ti aveva proprio davanti ai miei occhi che si ostinavano a non vedere. Ci
pensavo notte e giorno, non ho dormito per giorni interi cercando di capire
perché una cosa del genere stesse capitando proprio a me, ma poi ho realizzato che per queste cose non serve pensare, bisogna
solo arrendersi e accettarle per ciò che sono.» insieme a quelle parole,
sentiva la tensione evaporare. «Sei sempre stato tu
Yuu e non capisco come abbia fatto a non capirlo prima, sentivo solo che il mio
cuore non era in pace e ora so il perché: mi sono sempre rifiutato di vedere, di conoscere me stesso fino in
fondo. E, beh, ora sono qui e spero che non sia troppo tardi.»
Doveva
dire qualcosa, lo sapeva, ma tutto quello che riusciva a fare era continuare a
fissarlo, a guardare i suoi contorni sciogliersi per colpa delle lacrime che
non era riuscito a controllare. Ci aveva sperato così tanto, ci aveva creduto fino all’ultimo istante, con
così tanta forza che ora non gli sembrava reale. «Kou…» aveva bisogno della sua
vicinanza, ma non aveva la forza per alzarsi e raggiungerlo, così fu l’altro a
farlo. «Per te non sarà mai troppo tardi.» baciarlo fu come diventare un fuoco
d’artificio esploso nel buio di una notte d’estate.
u_u su, un pochino mi sono fatta perdonare? @.@ la aoiha era di sfondo, ok, ma
meritava una giusta “fine” ♥ non potevo lasciarla così, nell’incertezza
dei sentimenti di Kou che ha passato davvero un momento terribile e decisivo
per la sua vita. Quante volte sentiamo storie di gente sposata e infelice che,
dopo il divorzio, si “riscopre” gay? La paura di
accettare se stessi a volte è troppo grande, così
enorme da costruire la propria vita su una bugia ed è un po’ quello che è
successo al mio Kou…non mi permetto di giudicare scelte e sentimenti così
personali, ho soltanto usato la “cosa” ai fini della ffxD visto che si era dichiarato un etero convinto,
dovevo pur trovare qualche modo per farlo accoppiare felicemente con Yuu e
questo non poteva avvenire dall’oggi al domani, ma soltanto attraverso un
profondo cambiamento (la κρίσις
–crisis- greca per intenderci) interiore u.u e vissero per sempre felici e contenti ♥ loro
sono sistemati ( *0*)/
All’appello mancano soltanto i reitukini
>_> la loro situazione è decisamente complicata
A_A dove sarà mai finito adesso Takanori?! Se ben vi ricordate, prima della
grande lite, Ruki aveva tentato in ogni modo di parlare con Akira che non lo
aveva calcolato minimamente >_> cosa voleva mai dirgli se non: sto lasciando
la casa discografica e quindi la mia casa momentanea, ciao
ciaou.u sciocco babbano
che non è altro, se solo avesse ascoltato quel povero pulcino a quest’ora non
si farebbe prendere dall’ansia di non trovarlo…ben ti sta è_é
e io non ti dico mica dov’è! Tsk >_> ci sta
tutto che ora Takanori sia incazzato con lui! Non ti
lascio neanche un biglietto, inutile sciocco! è___é Ma posso dirvi di aver fiducia in me, come sempre
*w* le cose si sistemeranno, ovviamente ♥ ma un po’ devono soffrire u.u anzi, ora è il turno di Akira di languire >w>
Mi scuso profondamente per non aver più risposto alle
recensioni T^T voi vi impegnate tanto per scriverle e
io devo fare altrettanto con le risposte, ma l’università è una sanguisuga di
tempo, voglia e denaro xD ho ripreso a scrivere
Inside Beast (l’ispirazione è tornata, si +w+) quindi
ho ancora meno tempo di prima D: cercherò in ogni modo, ma non vi prometto
nulla…spero mi perdoniate ç_ç
Non
vorrei fare la guastafeste, ma ricordate sempre che i capitoli sono 19, quindi stiamo per giungere alla fine T^T
P.s. preparate i cuori e
gli arcobaleni ♥
Sing for me
«Buongiorno Ruki-san.»
«Buongiorno Yamato.» Takanori salutò l’unica persona che aveva avuto il
coraggio di seguirlo in quella pazzia, aveva persino lasciato il suo posto
fisso alla casa discografica perché, come diceva lui, era prima di tutto un suo
fan. In realtà, però, quella non sarebbe stata affatto
una buona giornata: non aveva chiuso occhio sopraffatto da mille
preoccupazioni, da un pensiero costante che era rimasto lì a languire. Non
aveva tempo di pensare a lui, ora aveva troppe responsabilità e tutto dipendeva
da lui, dal minimo particolare all’effetto finale, non c’era più una potente
casa discografica a coprirgli le spalle e doveva avvalersi di collaboratori
capaci e volenterosi.
Le luci, gli strumenti, la
gestione delle fans, la vendita dei goods, il suo outfit e tutto ciò che gravitava intorno a quel tour era
sotto la sua diretta supervisione, come un’ape regina doveva assicurarsi che
ogni singolo operaio svolgesse il suo lavoro alla perfezione. Aveva scelto
persone altamente selezionate, alcuni con molta
esperienza e qualche ragazzo volenteroso e impaziente, perché il gruppo doveva
bilanciarsi. «Buongiorno a tutti.» entrò nella sala riunioni senza togliersi
neanche il cappotto. «Oggi è un giorno importante per tutti noi.» era il momento
di verificare se quella squadra fosse perfetta come aveva sperato. «C’è ancora
molto da fare, ma lavorando tutti insieme sono sicuro
che sarà un enorme successo. Confido in voi e so che non mi deluderete, date il
meglio di voi e migliaia di persone ve ne saranno grate.»
lui prima di tutte, avrebbero notevolmente alleggerito il peso che gravava
sulle sue deboli spalle. «Ora riguarderemo la setlist, alle 10:00 ci sarà la prova luci, alle 12:00 il soundcheck, alle 14:00 la pausa pranzo. Poi continueremo con
il make up
e la sartoria, alle 17 apriranno i cancelli, avremo due ore per far defluire la
folla e ci aspettiamo un affluenza di 12.000 persone. Alle 19:00 inizierà il
live e durerà fino alle 21:00. Questa tabella di marcia è indicativa, se
dovessero esserci problemi chiedete pure a me o a Yamato-kun. Grazie a tutti per il vostro impegno, gambarimasho!» doveva
mostrarsi concentrato e motivato, quegli uomini venivano
pagati, ma voleva che pero loro quello fosse un piacere più che un lavoro da
svolgere senza passione.
C’erano tutti lì con lui,
tranne l’unica persona che avrebbe voluto davvero al suo fianco in quel
momento, sapeva che era chiedergli molto, ma non poteva arrendersi al modo in
cui era andata: si era illuso che potesse vederlo senza filtri, che finalmente
avesse trovato qualcuno che lo amasse per ciò che era veramente, invece lo
aveva usato esattamente come tutti quelli che andavano a letto con Ruki e si
risvegliavano con Takanori*.
Doveva tenere la mente
occupata ad ogni costo, o di quel passo sarebbe impazzito e vi si impegnò così tanto che non si accorse di essere già
pronto per andare in scena, solo allora si era concesso un momento per fermarsi
a guardare il suo riflesso nello specchio. Gli restituiva un’immagine che non
riconosceva: eccessiva e provocatoria ed era esattamente ciò che doveva essere
per dimostrare, a tutti coloro che non avevano creduto
in lui, che era capace di farcela con le proprie forze. Che si trattasse di riempire
uno stadio, o raggiungere le vette delle classifiche, non gli importava, per
lui ciò che davvero contava era essere un faro di speranza nella vita di ognuna
delle persone che lo aspettavano lì fuori; le aveva
fatte piangere, sorridere, le aveva consolate, gli aveva infuso speranza.
Grazie a lui per un po’ non avrebbero pensato ai loro problemi, alle loro
paure, avrebbero dimenticato persino di esistere. Era così che si sentivano? Cosa provavano davvero quando le luci si spegnevano e il
sipario calava? Tutto finiva e diventava sfumato come in un sogno, o restava
impresso a fuoco nell’anima?
Pian piano una nuova
melodia si andava formando nella sua mente, ma non poté raggiungerla. «Ruki-san,
sono arrivati i bouquet.» Yamato era efficiente come
sempre, anche quando si trattava di salvarlo inconsapevolmente dai suoi
pensieri.
«Andiamo.» purtroppo le
formalità erano d’obbligo, era naturale in Giappone augurare buona fortuna con
una ricca composizione di fiori freschi, ma non ne aveva mai capito il motivo. Per
lui i fiori erano davvero troppo effimeri per comunicare un sentimento, o un’idea
destinata a sfidare il tempo.
«Questi sono da parte dei Diru, i Nokubura e i Lynch.» ce n’erano
almeno una ventina, in realtà, tutti contraddistinti da uno stile particolare.
«Prendi nota, dovrò mandargli
i miei ringraziamenti. Ma quelli? Da parte di chi sono?» il suo cuore aveva avuto un sussulto, aveva sperato
con tutto se stesso di aver avuto la giusta sensazione.
«Kiyoharu-sama.»
«Oh.» era solo uno stupido.
Quello era il suo idolo e, invece di toccare il cielo con un dito, ne era
rimasto deluso; il suo entusiasmo si era spento come un incendio domato dalla
forza irrispettosa dell’acqua, aggrinzito come un fiore sotto il sole di
agosto.
«E questi?» c’era un
bouquet più discreto degli altri, tanto delicato da rischiare di passare
inosservato; un manto di rose rosse così vellutate da sembrare finte e tra di
loro spiccava, proprio al centro, una camelia bianca. «Saranno di un mitomane,
c’è uno strano biglietto.»
Ma Ruki ne sapeva abbastanza
sull’Hanakotoba
da poter intuire il significato di quei fiori: amore e attesa. «Fammi vedere.»
la speranza aveva bisogno di un attimo per appassire, ma ancor meno per ricominciare
a vibrare. “Mi dispiace, perdonami se
puoi. Il ragazzo dei caffè.”
«Me ne libero subito, non
preoccuparti.»
«No, portali in camerino.»
«Non saranno mica da parte
di quel ragazzo della Psc? Quello che è venuto a
cercarti.» il ragazzo collegò gli avvenimenti come in
quegli stupidi giochi di enigmistica. Erano mesi che vedeva quel ragazzo
gravitare intorno a Ruki come una luna.
«Mi ha cercato?! Quando?»
«Sarà stato una decina di
giorni fa...»
«Perché non me l’hai detto?»
«Non pensavo fosse
importante.» era visibilmente dispiaciuto, ma non era certo
colpa di Yamato. Se non erano riusciti ad andare oltre le loro incomprensioni, la colpa
era solo del loro stupido orgoglio. Forse non era
troppo tardi, forse non tutto era perduto, ma non aveva tempo per pensarci.
«Va bene, ora vai in camerino e raggiungimi in sala per l’ultima
riunione.» doveva solo arrivare alla fine di quella giornata, soltanto allora
avrebbe potuto decidere il da farsi, ora non aveva spazio per i suoi
sentimenti, ora era soltanto Ruki.
*
«La smetti di ridere?!» Yuu era infastidito e
divertito allo stesso tempo, non avrebbe mai potuto essere davvero in collera
con l’amico di una vita.
«Scusami, ma non ce la
faccio!» Yutaka continuava a ridere come se non potesse fare altro. Era stato
lui a cominciare quella pantomima, lui a spiegare ad Akira cosa fosse successo
in quella casa piena di specchi e pericoli.
«D’ora in poi ti chiamerò
Venticello!» ovviamente Akira non avrebbe mai potuto astenersi dopo aver capito
perché avesse visto quella strana espressione sul volto di Yuu.
«È che non me lo
aspettavo!» Yuu protestò con un broncio adorabile. Per festeggiare
adeguatamente il suo compleanno, aveva deciso di passare una splendida serata
al parco divertimenti adiacente al Tokyo Dome; quando
aveva proposto di entrare nel labirinto di specchi, non si aspettava certo di
morire di paura per uno strano soffio d’aria, l’aveva colto completamente di
sorpresa e la sua espressione di panico era stata epica. «Kou,
aiutami! Almeno tu!» da allora quei due avevano
cominciato a ridere senza voler smettere e neanche lui sembrava essere dalla
sua parte.
«Mi dispiace, ma sei stato
troppo divertente!» la sua risata si stagliava contro le mille luci che
splendevano in quella piazza enorme, ma nessuna era luminosa quanto lui.
«Non puoi tradirmi anche tu,
sono il festeggiato e non potete trattarmi così! Ve lo tolgo io il sorriso
dalla faccia adesso: prossimo giro sulle montagne russe.»
il suo sguardo di sfida si trasformò in soddisfazione quando vide le loro facce
devastate dalla sorpresa.
«No, non puoi farci questo,
Venticello!» la serietà di Akira era durata solo il tempo di un respiro, era
grato a Yuu per avergli regalato quei minuti di distrazione, per tutta la sera
non aveva fatto altro che pensare a Takanori. Magari non aveva ricevuto i suoi
fiori, o forse ora giacevano spezzati in un cestino dei rifiuti. Ciò che lo
innervosiva maggiormente era non poterlo chiamare, doveva rincorrerlo come se
fossero ancora negli anni passati; ora si trovava a solo
venti minuti da lì e lui non poteva raggiungerlo. Anche se si fosse
presentato in quell’enorme stadio, non gli avrebbero mai permesso di entrare,
tantomeno di vedere Ruki.
«Ah ma allora le vuoi
prendere! Muoviti, andiamo a fare la fila.»
«Non vorrai andarci davvero?
No, dico, le hai viste?» Yutaka ora era serio, aveva
sempre avuto timore dell’altezza e quella diavoleria si arrampicava come edera
sui palazzi intorno a loro, saliva fino al cielo per lanciare i passeggeri
contro le proprie paure alla velocità della luce.
«Si,
mio caro. Anzi, ti voglio proprio accanto a me, cosi sentirò meglio le tue
urla.» per tutto il tempo dell’attesa Yuu non fece altro che stuzzicare la sua
ansia crescente, gli descrisse le acrobazie che avrebbero compiuto in volo, ma
gli diede il permesso di tenergli la mano. «Queste
montagne russe non sono affatto terrificanti, anzi,
roba da niente.»
«Peccato che non sentirò le
tue di urla, quanto avrei goduto!» Akira prese il suo posto accanto a Kouyou,
suo fratello e il povero Yutaka erano proprio davanti a loro.
«Non urlerò.»
«Invece si,
me lo dirà Kouyou. Vero?»
«Puoi contarci.»
E Yuu urlò, urlò eccome. Così come fece ogni passeggero di quell’attrazione
apparentemente innocua. Davanti a loro una salita ripidissima da far mancare il
fiato, un susseguirsi di curve, salite, giri vorticosi e discese vertiginose
fin quando non si ritrovarono al punto di partenza.
«È stato fantastico, vi
prego rifacciamolo!» Yutaka non si era mai sentito tanto libero dalla gravità,
dalla vita e dai pensieri di ogni giorno.
«Così non c’è gusto, però!»
Yuu aveva sperato nella sua occasione di rivincita, ma aveva dovuto abbandonare
i suoi propositi bellicosi davanti ad uno Yutaka
sorridente come un bambino.
«Voi piuttosto, non avete
fame?» Kouyou aveva urlato così forte da aver mal di
gola, si stava divertendo insieme a quei matti e a Yuu. Pian piano stava
scoprendo nuovi lati del suo carattere che amava da matti, come quando faceva
il gradasso per nascondere le sue paure e, in realtà, era così sensibile da
commuoversi per un film. Ma tutta quell’adrenalina aveva stuzzicato il suo
appetito, così optarono per il chiosco di yakitori e
promisero al miglior pasticcere di tutta Tokyo di fare un ultimo giro della
morte prima di tornare a casa.
Hei. Yuu richiamò l’attenzione
di Akira con una lieve gomitata, erano fermi tra la folla aspettando di
ordinare la loro cena.
«Mh?»
Vai.
«Dove?»
«Al Budokan.
Sono le nove, credo che tu faccia ancora in tempo.» non
era uno stupido e non voleva che suo fratello perdesse la sua occasione.
«Ma Yuu...»
per quanto desiderasse raggiungere Takanori, non aveva minimamente pensato di
lasciare tutti lì e, per una volta, fregarsene di tutto.
«Il mio compleanno capita
tutti gli anni e abbiamo passato insieme la vita intera, Takanori non sarà lì
ad aspettarti per sempre.» il moro strinse a sé quel ragazzo dalla vita stretta
e le spalle possenti, lo abbracciò con tutto l’amore che era in grado di
provare per lui ed era così tanto che, se lasciato
libero, era sicuro avrebbe inondato l’intera città. Quando si staccò da lui,
gli strinse le braccia in una presa rassicurante. «Corri.»
«Grazie Yuu.» Akira era
quasi commosso, gli voleva un bene dell’anima e non perché fosse suo fratello,
Yuu era davvero una persona fantastica.
Cominciò a correre come se
fosse inseguito da un mostro, ma in realtà a spingerlo ad aumentare l’andatura
era la paura di non arrivare in tempo, di non riuscire a vederlo, tanto meno
parlargli. Non aveva tempo di raggiungere la fermata della metro più vicina,
aspettare e rischiare di sbagliare direzione; correndo per le strade poté
seguire le indicazioni che lo portarono proprio davanti al caratteristico
edificio a forma di pagoda. Centinaia di ragazze si erano riversate nella
piazza antistante, era un buon segno: il concerto doveva essere finito da poco,
ma quando si avvicinò all’ingresso scoprì che le porte
erano già state chiuse. E adesso? Cosa poteva fare? Prima o poi Takanori sarebbe dovuto uscire, quindi poteva
aspettarlo sperando di scorgere la sua macchina o il van su cui si era nascosto
quella volta alla Psc. Doveva aspettare, a costo di
congelare sarebbe rimasto immobile al suo posto, non poteva perdere quell’occasione
nonostante la pioggia sottile che cominciò a cadere.
Passarono i primi venti
minuti e, pian piano, intorno a lui restarono solo poche decine di ragazze;
alcune piangevano ancora, altre mostravano fiere i loro acquisti. Possibile che
per loro Ruki fosse così importante? Se solo avessero saputo che lui era lì per
il loro idolo, che ci era andato a letto e che lo aveva conosciuto in un’intimità
che loro sognavano con ardore. Se solo avessero saputo che, per lui, non era
Ruki, ma solo Takanori. Eppure aveva osato ferire il suo animo gentile, dove
aveva trovato il coraggio per farlo?
Rimase da solo dopo più di
un’ora, ma di lui ancora nessuna traccia; stava cominciando a tremare per il
freddo che ormai era penetrato fin dentro le ossa, così decise di fare un giro
di perlustrazione, magari sarebbe uscito dal retro o avrebbe potuto chiedere
aiuto a qualcuno. Doveva pur esserci un assistente, un manager o un addetto
alla sicurezza da qualche parte e lui lo avrebbe trovato.
*
«Buonanotte Ruki-san, ci vediamo venerdì. Non lavorare
troppo in questi giorni.»
«Buonanotte.» Ruki sorrise
lasciandosi cadere sul divano in pelle nera, era
appena rientrato in camerino e si sentiva così stanco da non avere la forza di
pensare. «Lo stesso vale per te.» Yamato era davvero
un bravo ragazzo, aveva deciso di restare oltre l’orario prestabilito ed aiutarlo ad organizzare gli ultimi dettagli per la
prossima data al Saitama. Era solo l’inizio e pensare
che ne avrebbero avuto ancora per mesi.
Yamato lo salutò ancora lasciandolo solo, percorse
i corridoi già vuoti assicurandosi che non ci fosse più nessuno, passò nella
sala principale per controllare che gli operai stessero svolgendo al meglio il
proprio lavoro. Gli strumenti erano già al sicuro, così come tutto il resto,
mancavano soltanto gli ultimi cavi. Tornò indietro e si diresse all’uscita
posteriore, ad attenderlo trovò la sua fedele monovolume, l’aveva parcheggiata
non troppo lontano dal parco che costeggiava l’edificio. Stava per immettersi
sulla strada principale, quando notò una figura familiare: il ragazzo che aveva
cercato Ruki alla casa discografica, era fermo davanti al cancello del
parcheggio. Yamato si fermò, scese dalla macchina e
lo raggiunse, aveva paura che stavolta il suo capo non gli
avrebbe perdonato quell’errore; vide l’altro illuminarsi quando lo
riconobbe. «Ciao, tu sei Akira giusto?» era stato proprio Ruki a dirglielo: «Se dovessi vederlo, portalo qui. Si chiama
Akira, ha i capelli castani-»
«So bene com’è, ti gira intorno da mesi.»Ed
ora eccolo di nuovo lì.
«Sì. Senti, devo assolutamente
parlare con Takanori. Ti prego.»Yamato
trasalì, se lo aveva chiamato per nome, dovevano essere molto intimi. «Non so
come fare, l’ingresso è sbarrato, la sicurezza non ne ha voluto sapere-»
«Seguimi.»
«Davvero?!»
era difficile riuscire a leggere le labbra con quel buio, ma dalla postura
aveva dedotto il resto.
«Vieni.»
«Non so come ringraziarti.»
«Non preoccuparti.» ormai
ne era convinto, era stato quel ragazzo a mandare quel mazzo di rose per Ruki.
Se le aveva fatte portare in camerino, era sicuramente una questione
importante. «È la stanza 56H, in fondo a sinistra.» lo aveva guidato per i
corridoi labirintici e deserti, ora la sua presenza sarebbe stata del tutto
superflua perciò lo lasciò proseguire da solo.
«Grazie.» Akira lo vide
allontanarsi. Era giunto il momento di affrontare le sue paure, non aveva più
scuse per giustificare la sua mancanza di coraggio. Il primo passo fu quello
più difficile, ma subito lo seguì il secondo, se avesse potuto
era sicuro che avrebbe sentito i suoi passi riecheggiare in tutto quel silenzio
accompagnato dal suo respiro spezzato. Si fermò davanti al camerino solo per
prendere fiato e bussare. Sembrava tutto uno stupido dejà vu.
Ingoiando l’ansia aprì la
porta trovandosi davanti Ruki, era sorpreso e indossava ancora i vestiti di
scena: un completo estremamente vivace con una stampa
che riproduceva le fantastiche sfumature del manto di un pavone, due enormi
occhi da gufo lo fissavano minacciosi dal gilet dallo scollo profondo; quasi a
volerlo spogliare di tutti i suoi segreti e incolparlo dei peccati più oscuri.
I suoi capelli erano acconciati con cura, il trucco pesante gli dava un’aria di
arrogante bellezza. Era semplicemente splendido: il nero intorno agli occhi
sfumava fino al fucsia sulle tempie e il rossetto era
rosso sangue e vellutato come le rose che riposavano sul tavolo al centro della
stanza.
«Akira...»
Ruki era incredulo, aveva sperato fino all’ultimo istante che si trattasse di lui, ma vista l’ora tarda si era
convinto che fosse Yamato, aveva l’abitudine di
dimenticare sempre qualcosa di suo in giro.
«Ciao.» non lo vedeva da
settimane, lo aveva cercato fino in capo al mondo e ora, che finalmente lo
aveva trovato, era stata l’unica cosa che era riuscito a dire. I pensieri gli
si erano ammassati diventando confusi e irriconoscibili, Takanori aveva un
certo effetto su di lui, questo era stato chiaro sin dall’inizio.
«Vieni.» averlo nell’intimità
del suo camerino gli fece uno strano effetto, era felice che lo avesse
finalmente raggiunto. La sua presenza voleva significare soltanto una cosa, ma
non volle essere troppo affrettato anche solo nel pensarla; c’era sempre il
rischio di restare deluso. «Togli il cappotto o morirai di caldo.»
«In realtà sto benissimo
adesso, fuori si gela.» Akira si sentiva quasi a
disagio davanti a lui: non era il ragazzo timido e vivace che aveva imparato a
conoscere, ma quel Ruki era austero e sfrontato, padrone dei propri sentimenti
e Takanori sembrava indossarlo come un’armatura.
«Almeno siediti.» gli
creava tensione vederlo in piedi in preda ad emozioni contrastanti. Doveva aver
aspettato al freddo per ore, a giudicare dai capelli umidi e dal cappotto
striato dalla pioggia, il tempo non doveva essere stato dei migliori;
nonostante tutto, però, non sarebbe di certo bastato a fargli abbassare la
guardia, continuava a tenerla ben alta incrociando con forza le braccia al
petto.
«No.»
«E allora cosa sei venuto a
fare fin qui? Non ho molto tempo, sono stanco e vorrei tornare a casa.» voleva prenderlo ancora in giro? Stavolta si sarebbe
scontrato col muro della sua ostinatezza, non avrebbe ceduto davanti ad un
faccino tenero.
«Mi dispiace, io...ho così tanto da dire, che non so da dove cominciare.»
Akira sembrò prendere una decisione in quello stesso istante. «In realtà due
cose vorrei dirle subito: scusami, sono un coglione, avevi ragione tu.»
«Beh, queste sono tre cose e
una mi piace particolarmente.»
«Sono un coglione?» in
fondo se lo meritava.
«Anche.
Ma è meglio sapere che almeno un po’ ti dispiace per
ciò che hai fatto.» aveva mancato di rispetto principalmente a se stesso.
«È la verità. Dall’ultima
volta che ci siamo visti, ho avuto modo di pensare molto e sono giunto ad
alcune conclusioni che non sono state facili da accettare. Avevi ragione a dire
che la colpa è soltanto mia, avevo così paura di quello che sono da allontanare
tutti indistintamente, senza realizzare che c’erano
persone che volevano soltanto aiutarmi.» era diventato come un cane randagio
che, ormai, ha perso fiducia nell’uomo e morde anche la mano che gli porge del
cibo. «Ti ho cercato ovunque, casa tua era deserta e
il tuo studio completamente abbandonato. Tu non c’eri e ho avuto paura che ti
fosse capitato qualcosa, o che te ne fossi andato per sempre senza lasciare
traccia. Non mi è piaciuta la sensazione che ho provato: mi sono sentito
svuotato di ogni speranza, credevo fosse troppo tardi
per rimediare al mio sbaglio.» e poteva esserlo ancora, Takanori non era tenuto
a perdonarlo e a ricominciare. Gli si avvicinò con timore e prese la sua mano
calda e adornata da anelli maestosi, nella sua fredda e vuota. «Quindi, ti prego, dimmi che vuoi ancora salvarmi.» non era
mai stato tanto sincero in vita sua, in un’esistenza costruita su una menzogna,
instabile come un castello di carte.
Takanori
non poté continuare a fingere indifferenza davanti a quello sguardo, a quella
supplica disperata. La tensione accumulata si sciolse lasciando libere le
sue spalle e strinse la mano di Akira trovandola sorprendentemente grande e
accogliente. «Sei solo uno stupido.» sospirò pesantemente, quasi di sollievo. «Ti
aspettavo.» e ci aveva messo tutto quel tempo per trovarlo.
«Anche io.»
Akira gli si avvicinò ancora sentendosi avvolto con violenza dal suo profumo:
un misto tra Ruki, Takanori, il live appena concluso, la sua stanchezza e una
buona dose di arrendevolezza. «Da tutta una vita.» quando le loro labbra si
scontrarono, fu come se migliaia di farfalle avessero preso il volo nello
stesso istante, scappando da un giardino in cui erano prigioniere. Gli era mancato quel sapore dolce mischiato al tabacco,
quella sera sapeva anche di tutte le canzoni che aveva cantato e di tutte le
emozioni che gli erano state restituite dal pubblico.
«Ora sarà impossibile farti
uscire dal mio mondo.»
«E se io non
ne volessi uscire affatto?» Takanori aveva capito sin dall’inizio quanto
potesse essere abbagliante quel piccolo mondo silenzioso. Un mondo di cui, d’ora
in poi, avrebbe fatto parte.
«È quello che speravo.»
«Non aver paura, Akira.» non
era più il tempo dei pensieri, dei rimpianti o delle speranze, ora doveva solo
stringerlo a sé e cominciare ad essere felice.
* magari l’avessi inventata io questa frase xD
la disse Rita Hayworth… io ammetto la mia ignoranza,
personalmente non so chi sia, ma devo citare u.u
♥v♥ ve l’avevo detto di preparare i cuori e gli arcobaleni
no?! *v* non potevo resistere ancora per molto, anche
la reituki doveva capitolare ai piedi dell’amore ohohoh~ grazie mille Yuu ♥ lui è sempre il solito amore,
la spinta che serve ad Akira per affrontare ciò di cui
ha paura *ama* ma facciamo un applauso anche a Yamato:
una figura molto utile, creata solo per usarla in questo modo in questo
capitolo LoooL °0° bene, non so che altro dire..sono invasa dai cuori anche io ♥
u.u d’ora in poi solo
momenti cuoriciosi, eh *w* ♥
Sing for me
Akira si abbassò per
improvvisare un inventario di ciò che il frigo gli proponeva, il suo volto per
un attimo fu illuminato dalla luce fioca che si spense quando recuperò l’occorrente
per la colazione. Un succo d’arancia e qualche biscotto al cioccolato sarebbe stato sufficiente? In fondo non conosceva i suoi
gusti cosi bene da sapere cosa preferisse appena sveglio; magari del caffè
amaro, forse soltanto latte. Sicuramente non acquistava cibi che non fossero di
suo gradimento, ma il fatto di non sapere praticamente
nulla delle sue abitudini, lo lasciò spiazzato. Non gli piaceva quella
sensazione, gli sembrava di conoscere un estraneo e doveva assolutamente
rimediare, si ripromise di farlo mentre raggiungeva la camera
da letto e lo trovava ancora addormentato, avvolto tra le spire del
caldo piumone che gli era sembrato troppo ingombrante la sera prima. Takanori
si era addormentato quasi subito, la sua voglia di fare l’amore con lui era
evidente, ma la stanchezza aveva avuto la meglio.
Akira lasciò il vassoio al
sicuro e si stese accanto a lui sulla porzione di letto su cui aveva riposato
tutta la notte, cercò di far piano per non svegliarlo e rovinare, così, quel
momento di grande intimità; gli piaceva restare lì ad
osservare quel volto rilassato mentre la sua mente era persa in luoghi lontani,
gli occhi chiusi dalle ciglia lunghe e folte, il taglio di una perfetta
mandorla dolce; il naso leggermente schiacciato dava alle narici la forma di
una goccia. E le labbra. Potevano esistere al mondo labbra
tanto piene e raccolte quanto un bocciolo? Le aveva viste sorridere, piangere,
arrabbiarsi e ora aveva una gran voglia di baciarle, perciò si sporse fino a
toccarle con le sue. Fu allora che l’altro si svegliò, prendendo fiato e
stiracchiando i muscoli intorpiditi come un gattino. Gli
sorrise. «Ciao.» Takanori teneva ancora gli occhi
chiusi indeciso: era davvero sveglio o aveva soltanto sognato di vedere
Akira lì accanto a lui?
«Ciao, ti ho portato la
colazione.» Akira si alzò con il busto, lasciando che il peso della testa
gravasse sul gomito. «Non sapevo cosa preferisci mangiare...»
«Oh, mi va bene davvero
qualsiasi cosa, ho imparato ad adattarmi.» durante i suoi tour cambiava così
tanti alberghi e città che non poteva permettersi, di certo, stupide moine. «Però così mi vizi.» Takanori addentò un biscotto, recuperato
dal vassoio ai piedi del letto, e lo fece andar giù con un sorso di succo.
«Beh, sai, di solito è
quello che si fa con il proprio ragazzo.» era strano rivolgersi all’altro
pensandolo suo, ma ormai lo era. Certo, la loro storia era ancora agli inizi,
ma pian piano si sarebbe assestata e avrebbero capito se l’eterna ricerca fosse
finalmente finita. La vita stessa era una scommessa, figuriamoci l’amore.
«E quando sarò in tour?»
«Ci sarà il tuo assistente,
è lì per questo, no?»
«Ma
io voglio te.»
Akira lo vide mettere su un
broncio degno di un bambino a cui è stato detto che
non ci sono più caramelle. «Quanto starai via?»
«Almeno tre mesi.» sarebbe
stato un tour sfiancante, pianificato nei minimi dettagli per sfruttare al
massimo la pubblicità che ne sarebbe derivata; era solo ora
è aveva bisogno di gente che credesse in lui a tal punto di investire sulla sua
musica. Nella vita reale, il suo sogno aveva un costo davvero molto alto.
«È davvero un sacco di
tempo.» e separarsi così, ora che si erano appena ritrovati, era un supplizio
ingiusto.
«Per questo ti chiedo di
venire con me.»
«Intendi venire con te in
tour? Lasciare tutto? E il lavoro? Non posso lasciare Yuu nella merda, ci serve
quel poco che riesco a guadagnare.» era una di quelle scelte a
cui non si potrà mai essere pronti, avrebbe potuto passare anni a
rimuginarci sopra, ma la risposta non sarebbe cambiata: serviva solo un pizzico
di coraggio e una buona dose di follia e lui non ne aveva mai avuti. Era improvvisamente
spaventato.
«Se è una questione di
soldi, con me ne guadagneresti ancora di più. Potresti essere il mio
assistente, o l’addetto al catering, potrai occuparti di qualsiasi cosa tu
voglia. Vieni con me Akira.» ora sembrava una
supplica, più che una richiesta.
«Così mi sembra di
sfruttarti, non lo so...» il fidanzato famoso che
subito gli trovava un buon lavoro, una coincidenza davvero molto sospetta. Dall’esterno
lui avrebbe visto una relazione basata solo sull’interesse.
«Ma che dici?! Te lo sto chiedendo io, no? E mi pare che stia insistendo
parecchio, vista la tua testardaggine.»
Akira ci pensò su ancora
qualche attimo. «E, ammesso che dicessi di si, quando
dovremmo partire?»
«Dopodomani.»
«Cosa?!»
non aveva praticamente tempo di organizzare il tutto, preparare le sue cose o
parlarne con Yuu.
«Lo so, non è molto tempo
per una decisione del genere, ma penserò a tutto io. Tu devi solo dirmi di si.» i suoi occhi erano così pieni di speranza, sembravano
già vedere le loro mani unite davanti ad un futuro sfavillante.
Lo aveva già ferito una
volta, dove avrebbe potuto trovare il coraggio di farlo ancora? Allora Akira
sorrise, dentro di sé sentiva che era la scelta giusta
da fare, quella poteva essere l’occasione che aspettava da sempre, eppure
appena gli si era presentata aveva provato quella sensazione che conosceva
bene: paura. Ma aveva promesso o no a Takanori di non
averne più? «Ok, va bene.» doveva fidarsi di lui, lasciare che le cose
andassero da sole, a tutto il resto ci avrebbe pensato il destino. Lui lo
avrebbe salvato da se stesso.
«Ora vieni qui...» Takanori era al settimo cielo, visibilmente felice, così tanto da essere quasi fuori di sé. Si lanciò verso
Akira sbilanciandolo con il suo peso e, per la spinta
inaspettata, finirono stesi sul materasso che ancora troppo poco aveva visto di
loro. Il cantante prese a baciare quelle labbra carnose ed
invitanti quanto un peccato, non le conosceva bene, non le avrebbe riconosciute
ad occhi chiusi, ma sentiva che il loro sapore ogni volta nuovo gli avrebbe
fatto cambiare idea sull’esistenza del paradiso. Il contatto divenne più
intimo, i baci si moltiplicarono: percorsero il viso, volarono sul collo
diventando morsi, scesero sul torace fino ai capezzoli trovandoli già turgidi.
Akira gemeva, inerme nella
sua stretta, come prigioniero del piacere che scaturiva dai loro sessi che si
scontravano attraverso la stoffa sottile degli slip; era bello sentire la sua
voce piegarsi in quella nuova sfumatura, se avesse potuto
avrebbe sussurrato dolci parole all’orecchio che ora mordeva con enfasi e
voracità. Senza preavviso Akira invertì le posizioni prendendo il controllo di
quella che stava diventando una lotta per la supremazia del più forte, piano
insinuò la mano oltre l’elastico dell’unico indumento che indossavano, prese
subito a massaggiare l’erezione già calda trovando quel membro come lo
ricordava: piacevolmente ingombrante. Non ci pensò oltre, aveva voglia di
sentirlo dentro di sé, perciò prese la mano di Takanori, scelse l’indice e il
medio e li fece sparire nella sua bocca.
La pelle dei polpastrelli
era salata, ma morbida e vellutata allo stesso tempo;
leccò le sue dita piano assaporandole fino in fondo, inumidendole e lasciandole
sufficientemente lubrificate per permettergli un’intrusione non troppo
traumatica. Già soltanto guardare il volto di Takanori era stato sufficiente a
fargli divaricare le gambe e a portarsi a cavalcioni
sul suo bacino; i suoi occhi socchiusi lo guardavano attraverso un velo di
lussuria, la sua bocca leggermente aperta richiedeva baci a gran voce. Perciò
liberandosi dell’ingombro degli slip, Akira si chinò a baciarlo per
permettergli di raggiungere più facilmente la sua apertura; sentì il primo dito
entrare con difficoltà, ma si abituò presto a quell’intrusione prima che
arrivasse anche il secondo. «Mhm...»
quel diavolo di Takanori trovò subito la sua prostata e prese a massaggiarla
con vigore, i movimenti precisi e morbidi lo portarono ad allargare le gambe;
di più, ne voleva di più.
Takanori allora tolse le
sue dita per sostituirle con il suo pene, entrò incontrando una lieve
resistenza e rimase immobile per lasciare che l’altro si abituasse alla sua
presenza. Lo vide cominciare a muoversi lentamente su di lui, il solo pensiero
che a tirare la sua pelle fossero i muscoli interni di
Akira sarebbe stata sufficiente a fargli raggiungere l’orgasmo; per questo
aveva bisogno di spingere, di sfogare la forza del suo desiderio cercando di
entrargli sempre più dentro. Si mossero insieme, senza staccarsi, ritrovandosi
stesi ai piedi del letto, avvinghiati come in una lotta corpo
a corpo: Takanori spingeva e massaggiava l’erezione di Akira con la
stessa velocità con cui lo possedeva. Era alla sua completa mercé, indifeso
come un cucciolo, feroce come una tigre quando avvolse le sue gambe intorno al
suo stretto bacino; cercò i suoi baci e li ricevette insieme ai morsi che
lasciarono segni rossi sulla sua pelle. Il ritmo delle spinte
accelerò insieme allo schiaffeggiare del suo bacino contro le natiche dell’altro,
sempre più veloce fino a diventare un unico movimento convulso che si fermò con
un sussulto quando entrambi riversarono il loro piacere: Akira tra i loro
ventri piatti e Takanori dentro di lui. Rimasero fermi a lungo rincorrendo i
loro respiri fino a regolarizzarli.
«Direi che la giornata è
cominciata bene.»
Takanori rise di gusto. «E
andrà sempre meglio, andiamo a fare la doccia?»
La risposta di Akira fu un
dolce bacio che sapeva di promesse.
*
Quindi, fammi capire bene, vorresti lasciare
tutto e seguirlo? Yuu sorrideva quasi divertito, era contento che le cose
fossero andate per il verso giusto. Non gli avrebbe rinfacciato di aver previsto
tutto: dall’odio poteva nascere l’amore, succedeva negli shoujo manga e ora anche nella vita reale.
Può sembrare una pazzia, ma lavorerei per lui.
Non sei qui per chiedere il mio parere, in realtà tu hai
già deciso, non è vero? Non era arrabbiato, stava solo costatando un dato di
fatto. E poi sai bene che qualsiasi cosa
tu decida di fare io sarò sempre dalla tua parte, è
una tua decisione e sai a cosa andrai incontro.
Lo so, ma non posso restare lontano da lui per tutto quel
tempo, tre mesi passeranno veloci vedrai.
Tre mesi che spero diventeranno cinque, poi dieci, un
anno e poi due... Devi cominciare a vivere la tua vita
Akira. E questo avrebbe comportato lasciare il nido. E la tua vita con lui. Non pensare a
tornare, vai avanti e lasciami pure indietro, io sarò sempre qui. Il suo
sguardo era sereno, consapevole che il momento di crescere era finalmente
giunto, per lui e soprattutto per il suo fratellino. Era difficile da accettare
senza provare una stretta al petto, ma non era nulla paragonata alla felicità
per la vita che aveva cercato in ogni modo di costruire per lui. Doveva
smetterla di dar retta a quella vocina insistente che gli diceva di non
abbassare la guardia, era solo il solito stupido istinto di protezione.
E ti lascio in buone mani, a quanto pare!
Si,
per ora stiamo bene insieme, certo non sono sempre rose e fiori, ma ci
completiamo. Forse era questa la chiave di tutto, la formula della
felicità: trovare qualcuno che colmasse le lacune e valorizzasse i pregi.
Credo di capire cosa provi.
Già. Yuu parve essere colpito improvvisamente da un’idea. Come farai con il lavoro alla casa
discografica?
In realtà ho già parlato con Hoshi,
tutto ciò che mi ha risposto è stato: “Mi chiedevo
quando ti saresti deciso a lasciare finalmente questo posto, non fa per te,
meriti di più.”
L’avevano capito tutti tranne te, quindi.
Lo sai che sono sempre l’ultimo
a sapere le cose!
E anche a prepararti, non dovresti fare le valige?
Mi aiuti? C’era così tanto da
riordinare che gli veniva voglia di arrendersi al solo pensiero.
Sfruttatore senza pietà, dì la verità: sei tornato solo
per questo! Sapeva che non avrebbe mai potuto dirgli di no.
*
«Ah
basta, andiamo in pausa, vieni ragazzo.» il capo
squadra era un uomo sui quarant’anni, aveva moglie e due fantastiche bambine,
da ragazzo gli sarebbe piaciuto diventa una rock star ma ora si accontentava di
gestire l’allestimento degli stadi. Costruire la scenografia, assistere ai live e garantirne la riuscita per lui era più che
sufficiente.
«No, preferisco finire di
montare questo arnese!» Akira era stato sotto la sua
supervisione tutta la mattina rubando i segreti del mestiere e i suoi consigli;
ora si sentiva pronto a lanciarsi da solo in quella nuova avventura.
«Non stancarti troppo, dopo
il concerto ci sarà tanto da fare.»
«Non vedo l’ora.» in realtà
per lui ci sarebbe stata un’attività fisica aggiuntiva, ma questo di certo non
poteva saperlo nessun altro oltre a lui e Takanori.
Ma fu Ruki a raggiungerlo sul
palco dove era impegnato a montare i tamburi della batteria secondo lo schema
che gli era stato indicato, un bel diversivo dopo decine di cavi e bulloni. «Cercavo
proprio te.» Akira si accorse della presenza dell’altro solo quando comparve
nel suo campo visivo.
«Hei!»
ormai si era abituato a vederlo con quegli abiti di scena, ma
ogni volta la sua bellezza gli mozzava il fiato come se fosse la prima volta.
«Come va?» Ruki gli si
strinse al collo baciandolo nonostante il rossetto.
«Ma-»
«Se a qualcuno da fastidio,
può anche andarsene! Non ho intenzione di averti qui, così vicino a me, e non
baciarti.» ma non c’era nessuno lì, l’intera squadra
era in pausa pranzo.
«Sono l’amante del capo,
allora!» Akira lo tirò a sé, sollevandolo di peso per fargli compiere un mezzo
giro. Non resistette oltre e ricambiò il suo bacio. «Mi sei mancato.» lo
sussurrò a fior di labbra, come se fosse un segreto pericoloso.
«Anche tu. Ti piace star
qui?»
«Si,
pensavo peggio, invece mi piace.» far parte di uno spettacolo cosi grande era
appagante, poteva essere soltanto una piccola formica operaia per il resto del
mondo, ma nel suo piccolo lui si sentiva importante.
«Mi fa molto piacere.»
all’inizio aveva avuto paura che quella mansione fosse un azzardo per lui.
«Sei pronto per stasera?» Akira
non voleva saperne di sciogliere il loro abbraccio, continuava a tenerlo
stretto per paura che potesse scappare.
«Ho un po’ paura, hai visto
quanto è grande questo posto?!»
Il castano si guardò
intorno con aria sognante. «E sarà tutto pieno!»
«Questo non
aiuta affatto!»
«E non avranno occhi che
per te, sarai una loro proprietà per due ore, ma poi tornerai da me.»
«Sempre.»
«Ma ora devo finire di
montare questa batteria, o Kai-san non potrà fare il suondcheck.»
«L’hai preso proprio sul
serio questo lavoro!» e se gliel’avessero detto, non ci avrebbe creduto.
«Solo perché lo spettacolo
è tuo!» Akira avvitò un bullone che andò giù con facilità. «Comunque…quello è
il basso?» per tutto il giorno non aveva fatto altro che cercare di avvertire
qualche vibrazione, qualcosa che potesse fargli capire la natura degli
strumenti che vedeva intorno a sé.
«Questa è la chitarra,
quello il basso.»
«E che suono ha?»
«Beh...»
Ruki ci pensò su cercando le parole giuste per far capire cosa fosse una
chitarra a chi non ne aveva mai sentita una, avrebbe potuto concentrarsi sulle
sensazioni che dava o cercare dei paragoni adatti. «La chitarra è come i grossi felini: può ruggine come un leone, ma può
essere sinuosa come una pantera o dolce come un gattino. A volte avvolgente e
consolatrice, a volte aggressiva.»
Akira era quasi
ipnotizzato, ascoltava quelle parole come fossero una
rivelazione pari allo scopo della vita umana sulla Terra. «E il basso?»
«Il basso vibra fin dentro
lo stomaco, vieni.» Ruki si avvicinò allo strumento in
questione, lo sollevò dal suo piedistallo e lo imbracciò. Fece pressione sulle
corde e lasciò che l’altro vi posasse una mano per sentirne le vibrazioni. «Le senti? Poggia la mano sull’amplificatore.»
«Si,
le sento.» era una vibrazione continua e leggera, quasi come un vento leggero,
gli piaceva. «E quella invece?» ora che la sua curiosità trovava finalmente
pace, non poteva pensare di smettere; si sentiva come un assetato che
attraversa il deserto e scorge un’oasi in lontananza.
«La batteria invece è un
colpo secco al petto, ogni tamburo è un colpo più o meno
forte, i piatti sono come una rincorsa che finisce con una scivolata.»
Akira sorrise vedendo
Takanori mimare le azioni che gli descriveva, era
convinto che tutto ciò che gli stava dicendo fosse la pura e semplice verità. «Visti
così non fanno più tanta paura.» anzi, erano quasi familiari perché
riproducevano sensazioni che anche lui conosceva. Non si sentiva più escluso.
«Io non voglio assolutamente
criticare tuo fratello, né tantomeno giudicarlo, ma Yuu ti ha fatto nascere
una sorta di paura verso la musica. So che lo ha fatto
per proteggerti, ma ora sei cresciuto. Ora ci sono io e non dovrai più avere
paura di nulla.» Ruki prese il volto di Akira
avvolgendolo con le sue mani; avrebbe costruito un mondo soltanto per lui, un
mondo in cui vivere la musica attraverso il tatto, la vista, il gusto e
l’olfatto sarebbe stato considerato più che normale.
Glielo doveva, così come lo doveva un po’ anche a se
stesso.
«Credo proprio di amarti.»
glielo disse così, con una semplicità disarmante, come se avesse solamente preso
fiato.
Credevate che Rukino
sarebbe partito senza di lui, eeeeh? >w>
proprio ora che si sono ritrovati?!Impossibiru A_A so che può
sembrare una mossa azzardata per Akira, ma gli aveva promesso o no di non fare
più il fesso e lasciarsi salvare? Beh, lasciarsi salvare significa anche
fidarsi dell’altro al 100% ♥v♥ e dargli anche qualcos’altro u.u infatti la lemon
era d’obbligo *^* come al solito ci ho messo 3 vite per scriverla, ma
stranamente sono soddisfatta del risultato *w* Akira passivo attivo mi piace xD è un giusto compromesso :9 E, quindi, Yuu è sempre il
solito patatino, per lui abbiamo già versato fiumi di
arcobaleni xD
Rukino è un cuore rosa ♥v♥ lui ha subito trovato un modo per far vivere
la musica anche ad Aki che come poteva non
innamorarsi completamente di lui?? =w= eeeeh~
*sospira cuori* solo momenti felici d’ora in poi, tanti stralci di vita per
farvi capire come sono andate le cose poi ♥ resistetefringuelline, -2!
é_è il penultimo capitolo è giunto. Non vi fate
ingannare, c’è sempre una valanga di cuori dietro l’angolo ♥
Sing for me
Fu grazie ai suoi riflessi
pronti che si destreggiò con agilità evitando i suoi nuovi compagni di squadra,
stavano trasportando pesanti bauli e non avrebbero potuto evitare la
collisione. «Ciao Akira.»
«Ciao ragazzi!» a modo loro
erano tutti brave persone, si erano affiatati durante quelle tre settimane e
ormai gli bastava un cenno per capire dove fosse necessario il proprio
contributo. Non avevano compiti prestabiliti, c’era
così tanto da fare che l’aiuto di tutti era indispensabile; ora, per esempio,
lui stava portando balle di cavi da dieci metri su per l’enorme sala che presto
avrebbe ospitato la nona data del tour. Gli piaceva lavorare, occupare il corpo
e la mente tanto da non pensare a se stesso, quel ritmo era distruttivo e,
spesso, avevano dovuto rinunciare ad una notte di
sesso; eppure trovavano sempre il modo di incontrarsi furtivamente nei
corridoi, sfiorarsi inconsapevolmente, scambiarsi sguardi pieni di desiderio:
una volta avevano addirittura approfittato della pausa pranzo per una sveltina
in camerino. La loro assenza non era certo passata inosservata, ma tutti ormai
sembravano aver capito il tipo di legame che c’era tra loro; non aveva neanche
più senso nascondersi, ma era terribilmente eccitante.
«Dopo che hai lasciato quei
cavi, mi aiuteresti con gli amplificatori?»
«Certo.» quando il capo lo
richiamava all’ordine, non poteva certo rifiutarsi, ma prima doveva portare a
termine il suo compito principale. Passò distrattamente tra le sedie ancora
vuote e si guardò intorno cercando Ruki, lo vide in consolle mentre impartiva i
suoi ordini al tecnico delle luci, aveva un’espressione tesa che da parecchi
giorni non sembrava voler lasciare quel viso splendido. Ruki incrociò il suo
sguardo e gli rivolse un cenno senza colore.
Più volte gli aveva chiesto se stesse bene, ma la risposta non variava:
era solo stanchezza, avrebbe solo dovuto riposare di più. Eppure Akira sentiva
che c’era qualcosa dietro quella maschera stizzita,
qualcosa che non gli diceva, forse per non causargli inutili preoccupazioni e
in realtà era proprio quel non dirgli nulla ad incrementarle. In quel momento
non avrebbe potuto far nulla per lui, se non montare quei pesantissimi cavi
facendo attenzione al giusto colore delle entrate e delle uscite, di certo non
era un tecnico del suono ma quel lavoro avrebbe potuto svolgerlo anche un
bambino.
«Hai finito?» Masato lo
aveva raggiunto sul palco, era ora di occuparsi d’altro.
«Si.»
«Allora colleghiamo gli
amplificatori: io penso alla parte di destra.»
«Ok.» quindi a lui sarebbe
toccata la seconda chitarra, il basso e la batteria, perciò si mosse
immediatamente. Si accorse che Masato lo stava chiamando a gran voce, solo
quando si rialzò per passare al cavo successivo, gli venne quasi da ridere e si
avvicinò al caposquadra. «Masato-san, è inutile urlare con me, non potrò mai sentirti. In realtà, io sono sordo.» dirlo fu più facile di quanto avesse immaginato, ma sentì
un peso enorme sollevarsi dal suo petto, evaporare via come un sospiro
trattenuto troppo a lungo. Aveva sempre avuto paura di quella parola, più di
ogni altra cosa e aveva passato ore allo specchio ripetendo a se stesso una infinita litania: sono
sordo, aveva osservato le sue labbra mentre attraversavano quelle
consonanti e il mostro era cresciuto a dismisura. Eppure, era stato così
semplice da far quasi paura. Non voleva più nascondersi, era
stanco di mentire a se stesso e agli altri e doveva ringraziare Takanori: “Devi smetterla, devi essere te stesso e
imparare a prendere ciò che puoi dal mondo intorno a te, nulla di più. Dicendo la verità
nessuno si aspetterà da te ciò che non puoi, vivere non sarà più l’inferno che
è stato finora, te lo prometto.” Riusciva ancora a vedere il suo volto
poggiato sul morbido cuscino bianco e anonimo dell’ennesimo hotel in cui
avrebbero passato la notte, la luce dell’abat-jour
alle sue spalle lo faceva sembrare un angelo biondo ed evanescente.
«Akira, non si scherza su
queste cose!»
Il ragazzo sorrise appena.
«Ma non sto scherzando.»
«Non può essere, dai...» l’uomo era visibilmente incredulo e a buon ragione.
«Sono serio, Masato. Sono
sordo.» era una semplice verità, fin troppo semplice.
Forse era quell’atmosfera goliardica e frenetica a farlo sentire così bene
nonostante tutto, c’era un’aria carica di aspettativa e
soddisfazione cristallizzata nella possibilità di far felici migliaia di
persone con il loro lavoro. «So leggere benissimo il labiale, ma davvero urlare
non serve.» Akira vide la solita espressione di
circostanza, tinta dall’indecisione e da un lieve imbarazzo.
«Ma...allora
che ci fai qui?» la sua obiezione era più che legittima.
«Per amore. Inseguo il sogno
della persona che amo.»
Masato sorrise con la
saggezza degli anni, aveva visto molte cose nel corso della sua vita, alcune
incredibili altre straordinarie e aveva avuto modo di capire che forza
stravolgente avesse l’amore: migliorava le persone, cambiava il destino e
realizzava l’impossibile. «Allora torna a lavoro, o non riuscirai a
raggiungerlo.» con una pacca sulla spalla decretò la fine della conversazione.
«Ah, che volevi dirmi?»
L’uomo ci pensò su, ma
scosse la testa. «L’ho dimenticato!»
Akira sorrise tornando al
suo lavoro, si ripromise di raggiungere Ruki il prima
possibile o non sarebbe riuscito a sopportare altre nove ore lontano da lui.
*
«Ciao superstar!» Akira si affacciò in camerino, gli fu sufficiente sporgersi
per vedere Ruki alle prese con gli ultimi ritocchi all’acconciatura.
«Akira...»
cercò il suo sguardo nel riflesso dello specchio davanti a lui incatenandolo in
una muta richiesta, sembrava aver bisogno di lui, ma non erano soli: con loro c’era
Kaolu, il suo personale truccatore.
«Potremmo
restare un attimo da soli? Ti dispiace?» Akira sperava
di non aver usato un tono troppo duro, ma non riusciva a contenersi. Non gli
era piaciuto sin dalla prima volta che lo aveva visto, era un ragazzo dallo
strano look fuori dalle righe, palesemente gay e
riversava davvero troppe delle sue attenzioni sul suo uomo. Dove c’era lui,
trovava anche Kaolu, quando lui sorrideva
l’altro era pronto ad imitarlo. Non poteva continuare così, era ora di
cominciare a marcare il territorio.
«Si,
abbiamo quasi finito.»
«Vai
pure Kaolu, è tutto perfetto così, grazie.» fu solo
quando Ruki intervenne che il ragazzo uscì dalla stanza lanciando un ultimo
sguardo al ragazzo fermo sulla porta che ricambiò con un’occhiataccia poco
cordiale.
«Cosa c’è?»
«Ti gira intorno
uno po’ troppo per i miei gusti.» Akira guardò verso la porta per
assicurarsi che non ci fosse più anima viva oltre loro
due.
«È il mio make-up artist, se non te ne sei accorto, dovrebbe girarmi eccome
intorno.»
«E dovrebbe anche limitarsi
al suo lavoro.»
«Sei geloso?!» Ruki sorrideva di gusto, qualcosa che non faceva da
giorni ormai.
«Si.
Tu sei mio e non ho intenzione di dividerti con nessun altro.» poteva sembrare
l’affermazione di uno stupido bambino troppo possessivo nei confronti del suo
giocattolo preferito, ma Akira aveva davvero paura di
perderlo dopo aver sofferto così tanto per abbandonare il suo vecchio se
stesso. Lui era riuscito lì dove tutti avevano
fallito, non poteva abbandonarlo proprio ora.
«Non devi aver paura, io sono solo tuo.» Ruki si nascose nel suo abbraccio,
aveva bisogno di una presenza familiare, del profumo che lo aveva inebriato
nelle lunghe notti di sesso. Delle labbra che aveva cercato nella penombra
delle prime ore del mattino trovandole, poi, vogliose di lui. Chiuse gli
occhi per assaporare meglio quelle sensazioni, per far sì che gli entrassero dentro.
«Tutto bene?» Akira sentiva
che c’era qualcosa di strano, lo avvertiva sulla pelle che fremeva sotto il suo
tocco. «Come ti senti? Sei pronto per stasera?» probabilmente, anche vedendola con i propri occhi, nessuno
avrebbe creduto a tutta l’insicurezza che Ruki mostrava prima di un concerto.
Era un essere umano, un ragazzo come tanti, era normale che avesse paura.
«Si...»
il cantante si allontanò per tornare a guardarsi nello specchio, indossò la
giacca per completare il suo outfit e sistemò gli
ultimi dettagli già perfetti; ma continuava ad osservarsi senza realmente
vedersi.
«Andrà tutto bene, come
sempre. Se può aiutarti a calmarti, sappi che io sarò in fondo alla sala ad
aspettarti.» era fin troppo scontroso in quei giorni,
distante, perennemente irritato come se ci fosse sempre qualcosa che lo
infastidisse. Cosa poteva fare per lui? «Sei già perfetto Takanori, basta. Hei,
guardami.» gli prese il volto tra le mani,
costringendolo a voltarsi. «Va tutto bene, ora non pensare a niente.» Akira avanzò fino a poggiare la sua fronte su quella dell’altro
cercando di trasmettergli, come attraverso la telepatia, un po’ della sua
calma. Portò la sua mano fino al petto di Ruki e quella del cantante la fece
posare sul suo, magari sentire il ritmo lento e pacato
del suo cuore lo avrebbe aiutato a calmarsi.
«Ruki-san, è ora di andare.»
Yamato venne a fare il suo annuncio proprio un attimo
dopo il loro bacio.
«Arrivo.» fu così che si
separarono per quella che sembrò un’eternità.
*
Lo spettacolo era stato un successo. Akira era stato tutto il tempo in fondo
alla sala, la prima volta era accaduto tutto per puro
caso: doveva assicurarsi che le uscite di sicurezza fossero sgombre ed
accessibili e si era ritrovato intrappolato come un insetto nella tela di un
ragno. Più tentava di muoversi, più avvertiva i fili sottili e letali
stringersi intorno alle sue membra, era rimasto fermo lì rapito dallo
spettacolo che si apriva sotto i suoi occhi. Takanori si muoveva con una
sicurezza che, in realtà, non possedeva, sul palco si trasformava in Ruki:
sensuale come un Dio e peccaminoso come un demonio. Le luci erano abbaglianti,
avvolgenti, creavano giochi di ombre e figure così ipnotiche da sapere sin
dall’inizio che non ti sarebbero bastate. La scenografia alle sue spalle si
muoveva insieme alla musica, alle parole cantate con una forza tale da far
vibrare l’intero stadio, era questo ad aver sorpreso Akira: non riusciva
soltanto a sentire i tonfi e le vibrazioni della musica, ma anche quelle della
sua voce, era così potente da raggiungere persino la sua anima, ammaliarla e
convincerla a restare.
Ma ora tutto era di nuovo
silenzioso nel piccolo abitacolo immerso nel buio, una Mercedes scivolava
silenziosa per le strade mentre li conduceva all’albergo dove avrebbero dormito
ancora per una notte. Takanori aveva bisogno di riposare, perciò si era
lasciato andare abbandonando la testa contro la spalliera del sedile posteriore
mentre Akira gli sedeva accanto impossibilitato anche solo a capire cosa gli
accadesse intorno, se non fosse stato per le luci della città
avrebbe brancolato nel panico, preda della sua paura del buio. «Siamo
arrivati.» Takanori si riscosse scendendo dalla macchina e correndo al riparo
senza dargli nemmeno il tempo di realizzarlo, aveva liquidato il suo assistente
per quella sera, quindi dovette occuparsi lui della noiosa trafila alla
reception. C’era seriamente qualcosa che non andava, non era da Takanori
comportarsi in quel modo. Lo trovò ad aspettarlo agli ascensori, raggiunsero la
loro stanza in silenzio e, appena la porta si chiuse alle loro spalle, Akira
non resistette oltre. «Si può sapere che ti prende?!»
Takanori parve essere stato
preso alla sprovvista. «Non so di cosa parli.» aveva
cominciato a spogliarsi, la maglia e le scarpe giacevano già sul pavimento.
Akira sapeva come sarebbe
andata a finire: avrebbe fatto una doccia veloce, avrebbe detto di avere mal di testa mettendosi a letto per addormentarsi
quasi subito e lui avrebbe passato la notte a fissare la sua schiena. «Se ho
fatto qualcosa-»
«Ma
che dici!» il biondo si voltò per recuperare dei vestiti puliti dalla valigia.
«Non voltarti, guardami.
Takanori, guardami!» sapeva che in quel modo non
avrebbe potuto continuare quella conversazione, né tantomeno decifrare il suo
stato d’animo; aveva usato quello sporco trucco contro di lui ferendolo come
non mai. «Adesso tu mi dici cosa non va.»
«Cosa
vuoi che sia? Sono solo stanco…»
«Questa scusa non regge più!
Io ti ho seguito, ho lasciato tutto per te e ora non me ne starò con le mani in
mano quando hai bisogno di me!» perché ormai era
chiaro che qualcosa lo tormentasse più di un incubo, non voleva rinfacciargli
ciò che aveva fatto per lui, solo fargli capire quanto fosse importante. «Parlami
Taka.»
«Ti stai sbagliando, non
c’è niente che non vada.»
«Takanori Matsumoto, conto fino a tre…»
«Smettila!»
«No.» la prima piccola
crepa si era creata nel muro del suo silenzio, doveva soltanto insistere e
colpirlo con più forza. «Tu non ti sei arreso, hai
abbattuto tutte le mie barriere e mi hai salvato contro la mia volontà e ora
farò lo stesso con te. Parlami, non escludermi come il resto del mondo, non tu.»
Il biondo abbassò lo
sguardo sconfitto, poté quasi vederle le sue emozioni straripare e abbattere la
diga della sua ostinazione, fu allora che la prima
lacrima solitaria solcò la sua guancia pallida e perfetta. «Akira…io…»
«Dimmi, qualsiasi cosa sia,
dimmi tutto Taka.»
«Io…credo di essermi perso, Akira. Non so più chi sono, non so più cosa voglio.» ora le lacrime scendevano
copiose.
«Vieni qui,
siediti.» Akira lo fece sedere sul bordo del letto matrimoniale accomodandosi
accanto a lui. Con pazienza aspettò che tutte le lacrime fossero versate, tutti
i singhiozzi svaniti, tutte le paure dissipate.
«Ho sempre creduto di sapere
cosa volevo, ho sempre combattuto per arrivare dove sono ora, ma mi guardo
intorno e mi chiedo se sia davvero ciò che voglio. Per anni mi hanno detto cosa
fare, come vestirmi, come cantare e persino chi essere e li ho accontentati,
sono stato chi volevano che fossi.» era questo il
motivo per cui aveva lasciato la casa discografica rischiando tutto solo per se
stesso. «E mentre li lasciavo fare, non ho avuto il
tempo di capire chi c’era davvero sotto tutto quel trucco. Credevo di saperlo,
ma non è così. Sono sbagliato, completamente sbagliato…»
Akira lo strinse a sé
accarezzandogli i capelli dorati e sottili. «Non sei affatto
sbagliato, sei esattamente come tutti noi Takanori. Forse non basta una vita
intera per capire chi si è davvero, magari ci cerchiamo un posticino e, anche
se è stretto, cerchiamo di entrarci a tutti i costi convincendoci che sia
quello giusto.» proprio come i piccoli paguri nascosti sotto la sabbia
irrequieta del mare, scelgono d’istinto una conchiglia come loro casa e si
ostinano a trascinarsela dietro difendendola con tenacia, ma quando quella
casetta diventa troppo piccola sono pronti a cercarne
una più grande e abbracciano il cambiamento con naturalezza e sollievo. Gli
esseri umani avrebbero dovuto imparare da loro: cambiare sempre in meglio
cercando il posto più adatto alle proprie esigenze. Senza perdite né rimpianti.
«Il fatto è che cambieremo di continuo, la vita ci farà crescere e cambiare e
tutto quello che possiamo fare è adattarci e smettere
di combattere.» Akira lo aveva imparato col tempo, ci aveva provato per una vita intera e solo con Takanori aveva raggiunto
l’equilibrio necessario per arrendersi a ciò che era. «Vedrai che tutto ti sarà
chiaro quando meno te lo aspetti, arriverà un momento in cui capirai tutto.» accettare
con serenità quella persona che ci guarda dallo specchio ogni mattina è la cosa più difficile al mondo, a seconda di chi
guarda quel volto il risultato sarà sempre diverso fino ad avere personalità
completamente diverse che convivono nello stesso corpo, ma è la propria
opinione che conta: siamo la persona più importante per noi, aldilà del
rapporto con il resto del mondo, resteremo tutta la vita con noi stessi. «E io vedo solo uno splendido ragazzo che è riuscito a
realizzare il suo sogno, ma che ha soltanto troppa paura per credere che sia
vero. Non è il sogno sbagliato, tu sei nato per cantare, per essere Ruki e per
essere il mio Takanori: dolce, orgoglioso, testardo, irascibile…»
«Avrò pure qualche qualità?!»
«Certo, fammici pensare. Oh,
hai un pupazzo di neve come sosia!»
Takanori rise stemperando
l’atmosfera che si era troppo appesantita. «Che scemo!
Mi ero completamente dimenticato di Takanori.» quello
stupido pupazzo inutile di cui, ormai, restava soltanto un ricordo.
«Non devi!» asciugando la
sua ultima lacrima, ormai anche Akira poté tornare a respirare, la sua missione
era compiuta: far tornare il sorriso al suo uomo. «Io non ne ho uno, sono
geloso.»
«Ma
smettila e vieni sotto la doccia!» ora la malinconia e la paura sembravano più
distanti e meno minacciose, quasi come se a piangere solo pochi minuti fa fosse
stata un’altra persona. Aveva sempre creduto in lui, sin dall’inizio aveva
capito quanto fosse splendido Akira, lo aveva riconosciuto tra milioni di
persone ed ora era assolutamente convinto che fosse
lui la sua metà. Lo trascinò sotto l’acqua anche se
indossava ancora i suoi vestiti, lo baciò alzando lo sguardo verso il suo cielo
personale. «Grazie Akira, ti amo.»
*w* per noi sono passati 3 giorni, per loro 3
settimane xD quei due trombano furtivamente come
ricci, Akira si è ambientato, ha fatto coming out e
ha marcato il territorio A_A non che abbia dovuto scervellarmi più di tanto eh!
Quell’odiosissimo Kaolu, che io chiamo
affettuosamente (tanto affetto quanto verso una zanzara) KaoluBanana
sta sempre appiccicato a Ruki A__A è un continuo, gli
bomba tutte le foto, in ogni ripresa dove c’è Ruki c’è anche lui…nel WT la sua
presenza era così snervante che avrei messo volentieri un bollino sulla sua
faccia e ha osato chiamarci “le nostre fans” >_> non mi risulta che la
sesta componente del gruppo sia tu, cara Kathy, ma noi! Perciò ti dico io che
devi farci con i tuoi pennelli, %&”!?#§!!! *viene bippata*. Chiedo
scusa a tutte quelle che, invece, lo sopportano e magari lo amano, ma non ce la
faccio u.u probabilmente
anche Reita non ce la fa, vedendo questo nuovo intruso tra di loro è_é o forse non se ne preoccupa sicuro della sua posizione mmmhh A_A Rei-chan attento!
Ma torniamo alla ff: Rukino si è un po’ perso per
strada é_è povero cucciolino, ma probabilmente era
inevitabile dopo anni in cui gli hanno detto chi doveva essere. Fortunatamente
il nostro Takanorino ha Akiruccio bello con sé ♥ che subito, come un eroe
dei fumetti, lo mette in salvo ♥ è stato il turno di Akira, ora toccava a
lui salvare Takanori ne?! ♥v♥ lo avevo
detto che i cuori erano sempre pronti dietro l’angolo~ =w= amo questi due
piccioncini puppilini ♥ ma purtroppo manca solo
l’ultimo capitolo T^T sarà un trauma anche per me, ve lo assicuro ç_ç ma avete 3 giorni per
preparare l’anticarie (?) u.u
Lo so, sarà un capitolo dolce/amaro ç_ç
romantico come uno zucchero, ma resta sempre l’ultimo T^T facciamoci forza ♥
Sing for me
«Spostati, non riesco a
vederti!» Akira cercò di trovare la giusta posizione per permettere al segnale
di raggiungere il computer di Takanori, aveva fatto il suo accesso a Skype e ora dall’altra parte vedeva uno
Yuu congelato in un’espressione esilarante. «Ti faccio una screenshot,
non si sa mai!» l’avrebbe messa come sfondo del suo telefono prima
o poi, se lo sentiva, giusto per non perdere il ricordo di quella faccia
da fesso di suo fratello. Non che fosse possibile.
Ora?
«Sì.» decisamente
molto meglio, per forza di cose doveva assicurarsi che il video fosse di
qualità almeno mediocre per riuscire a capire cosa dicesse Yuu.
Che noioso! Spostati tu, no? Magari è il tuo segnale, non
il mio.
Non fare la vecchia bacucca lamentona!
Akira
sbuffò, con lui era sempre la solita storia.
Non ti inventare nuovi segni!
«Vecchia lamentona, te lo dico anche a voce.»
Disse colui che pensa di morire
con un raffreddore!
Che c’entra? Piuttosto dimmi come stai. Kouyou e Yutaka? Non li vedeva da più di un
mese e mezzo, ma la loro mancanza si era fatta avvertire immediatamente. Non
vedeva l’ora di tornare a casa, magari non proprio la casa in cui era cresciuto
con Yuu, ma la loro nuova casa:
quella che avrebbe costruito insieme a Takanori, avrebbero messo il letto
matrimoniale sotto la finestra, possibilmente di una mansarda da cui godersi il
cielo comodamentesdraiati,
doveva avere un grande giardino per il cane che avrebbero adottato, una stanza
abbastanza capiente per lo studio di registrazione di Takanori e una tv enorme
per i suoi videogiochi.
Stiamo tutti benissimo, in realtà c’è una cosa che dovrei
dirti.
Sei incinta? Non gli sarebbe dispiaciuto diventare zio, in realtà.
Beh, fossi stata una donna avrei partorito già settanta
bambini!
Non voglio sapere dei vostri giochetti erotici...
Giusto, stavo dicendo: io e Kouyou abbiamo intenzione di
andare a vivere insieme. Lui è in affitto, quindi la cosa migliore sarebbe che
si trasferisse qui da noi, tu sei d’accordo?
Ma
certo, avresti anche potuto non chiedermelo, lo sai che al mio ritorno non
tornerò a casa, si? Lo sapevano entrambi quella mattina, quando si erano
salutati con un lungo abbraccio. Yuu aveva anche versato qualche lacrima, ma
lui aveva finto di non vederla, era sempre stato lui quello più sensibile tra
loro due.
Lo so! Ma questa è anche casa tua e lo sarà sempre, poi
andartene a vivere da Takanori non vorrà dire che non mi avrai tra i piedi così tanto che dovrai prendermi a calci per avere un po’ di
privacy!
Non preoccuparti, faremo un letto a tre piazze. Invece della suocera, loro
avrebbero avuto il fratello invadente. O
al massimo, potrai dormire insieme a Koron.
Chi?
Il cane che adotteremo.
Ah fate già progetti?!Yuu rise di gusto, si
vedeva già tutto contento mentre portava a spasso il suo piccolo nipotino
peloso.
Facciamo quel che possiamo.
Dove siete ora?
A Niigata. Si trovava sulla
costa ovest del Giappone, una città abbastanza occidentalizzata famosa per le
sue risaie.
Andrete al matsuri?
Probabilmente.
Non provare ad andarci senza mandarmi video e foto!
Agli ordini!
«Ciao Yuu.» nessuno dei due
aveva visto né sentito arrivare Takanori, Akira lo aveva lasciato dormire
beatamente quando si era preso tutto lo spazio costringendolo in un angolo. Era
bellissimo anche appena sveglio: aveva insistito per indossare una sua maglia
come pigiama e il risultato era tenerissimo, gli andava troppo grande perché
potesse riempirla e le sue gambe sbucavano toniche dall’orlo che gli arrivava a
metà coscia; i capelli raccolti in una coda troppo alta da cui scappavano
alcune ciocche bionde che gli solleticavano il collo, gli occhi ancora un po’
gonfi dopo le ore di sonno.
«Ciao Takanori, stai facendo parlare molto di te in questi giorni, ne sono felice.» il suo successo stava diventando un
fenomeno nazionale, prima o poi avrebbe raccolto molto più di quanto aveva
seminato.
«Grazie, il merito è anche
di Akira.» il biondo si sedette in braccio al suo compagno, il corpo nella sua
direzione in modo che potesse vedere le sue labbra.
«Non so, io mi limito a
montare.» lo sguardo malizioso fece cogliere il doppio senso ad
entrambi i suoi interlocutori.
«Va bene, con questo direi che possiamo salutarci e risentirci tra
qualche giorno.»
«Non preoccuparti, mi
prenderò cura io di Akira.» ora Takanori era tornato serio, non aveva avuto più
occasione di parlare con Yuu dopo quella sera di dicembre, ma sapeva che era protettivo
come qualsiasi altro fratello maggiore, anche il suo lo era quando ancora
vivevano insieme.
«Sono sicuro di lasciarlo in buone mani! Vado a lavoro, mandatemi
qualche foto del matsuri.»
«Ciao.» la comunicazione Skype si chiuse con il solito suono distintivo e nella
stanza d’albergo scese un invitante silenzio.
«Buongiorno.» Akira baciò
le labbra del suo piccolo amore. Poteva anche avere una corporatura minuta, ma
per lui era un gigante coraggioso, era il suo eroe e si stava lentamente
riprendendo dalla crisi che lo aveva colpito solo due settimane prima. Pian
piano, grazie a lui, stava ricostruendo se stesso ripartendo dalle fondamenta;
ogni giorno si riscopriva per ritrovarsi sempre più innamorato di lui. Akira
era l’unica vera sicurezza della sua vita.
Takanori si nascose nel suo
abbraccio, nella naturale cavità formata dalla spalla che sale diventando
collo, per poi tornare a guardarlo negli occhi nocciola profondi e felini. «Lo sai? Sei bellissimo quando parli con il tuo linguaggio.»
Akira baciò quella fronte
liscia e, forse troppo alta, che amava alla follia.
Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere, facendolo sentire quasi fiero
di ciò che era. «Mi sento più a mio agio, non mi è mai piaciuto troppo parlare
e temo che col tempo mi riuscirà sempre più difficile.» aveva passato anni ad esercitarsi, anche se ora sentiva di non averne più
bisogno, avrebbe dovuto continuare ad adattarsi ad un mondo che era fatto da
persone che potevano sentire.
«Beh, tutto sembra tranne
che tu sia sordo.»
«Davvero non si sente?»
«Sembra solo un lievissimo
difetto di pronuncia come tanti altri.» Takanori
continuava ad osservarlo mentre spostava una ciocca
castana dietro il suo orecchio. Poteva capirlo, non doveva
essere affatto piacevole non poter sentire nemmeno la propria voce, aver
paura di urlare troppo, o troppo poco.
«E com’è la mia voce?» adorava
quando Takanori gli descriveva il mondo intorno a sé, ogni volta era sempre
stato pronto a placare la sua curiosità, mai troppo stanco né
irritato dalla sua insistenza.
«È come tornare a casa
mentre fuori diluvia e fa freddo e trovare calore, il profumo della cena e la
persona che ami che ti corre incontro perché gli sei mancato.»
«Non è poi così male.»
«Ma se non ami parlare, non
farlo allora. Insegnami il linguaggio dei segni, rendimi bello quanto te.»
Akira si sciolse in una
beatitudine celestiale. «A una sola condizione.»
«Cioè?»
«Solo se adesso verrai a
fare un bagno con me.» il castano si alzò portando con sé Takanori che si
aggrappò a lui come un koala al suo ramo preferito. Avvertì le vibrazioni della
sua risata contro la sua spalla e ne fu felice, ormai tutto ciò che riusciva a
percepire dal mondo esterno era prezioso come manna
caduta dal cielo e aveva cominciato a bastargli. L’acqua cominciò a riempire la
vasca, il sapone lievitò in una schiuma che prese ad assomigliare sempre di più
ad una nuvola, Akira si spogliò per primo e aspettò
che l’altro facesse lo stesso, lo raggiunse immediatamente e si immersero nell’acqua
calda che, subito, sciolse qualsiasi tensione. Erano uno di fronte all’altro o
non avrebbero potuto comunicare.
«Quindi ora sei il mio
piccolo allievo, potrei essere un insegnante davvero
molto severo.»
«Chissà se riuscirò a
corromperti, sensei.»
la punta del suo piede scivolò in avanti aiutata dall’acqua fino a raggiungere
l’inguine caldo di Akira, stuzzicò i suoi testicoli tonici godendo
della sua reazione.
«Concentrati e ti prometto
una ricompensa da sogno.»
«Ok, sono pronto.» alla
fine era stato lui a corromperlo, quindi con movimenti lenti lo vide comporre
una parola utilizzando le sillabe con maestria. «Cosa mi hai detto?» quello
poteva diventare un gioco davvero molto divertente che, sicuramente, sarebbe
degenerato in qualcos’altro.
Akira lo ripeté più
lentamente, stavolta aggiungendo la sua voce. «Ta-ka-no-ri.»
«Davvero è il mio nome? E il
tuo?»
Akira glielo mostrò, si
sentiva al settimo cielo, finalmente anche con lui si sarebbe sentito a suo
agio; lo avrebbe portato nel suo mondo silenzioso in cui la minima espressione
racchiudeva un torrente di parole in piena che non avrebbero
potuto essere espresse in nessun altro modo. Continuarono così per
svariati minuti, mentre passavano distrattamente una spugna sulla pelle dell’altro,
coccolandosi a vicenda in quel momento di serenità.
«Guardandoti ho appena
avuto l’ispirazione per una nuova canzone, devo correre a scriverla o la
perderò!» Takanori uscì dall’acqua ormai fredda, si avvolse nell’accappatoio e
corse in camera da letto. «Ci voglio violini e
pianoforte, no forse no, oddio mi sta sfuggendo!»
Akira gli si sedette
accanto lieto di quell’euforia ritrovata, erano mesi che non riusciva più a
comporre. «Se non me la descrivi, non potrò aiutarti.»
«Voglio parlare alle mie
fans, voglio chiedergli cosa provano quando finisce un concerto, cosa gli resta
dentro.»
«Posso dirti quello che
resta a me: mi sento come se avessi sognato. È tutto così incredibile e
surreale.»
«La scena perde colore, come se ti risvegliassi da un sogno...» Takanori cominciò a scrivere frettolosamente
aggiungendo qua e là le note di una melodia incerta. «Le luci prima infinite, subito svaniscono...»
«Ti va di andare in
spiaggia?» Akira si era perso nei suoi pensieri immaginando quella nuova
canzone che non avrebbe mai ascoltato, ma che sentiva di conoscere; guardando l’azzurro
dell’oceano in lontananza gli era venuta voglia di passeggiare insieme a lui sotto il sole, i piedi nudi accarezzati dalla sabbia,
la mano nella sua.
«Con te andrei ovunque.»
La spiaggia in questione
non era molto lontana, si estendeva a perdita d’occhio e la sabbia chiara
rifletteva la luce del tramonto. Dopo aver camminato per svariati minuti senza
incontrare anima viva, si erano seduti non troppo distanti dal bagnasciuga in
modo da assaporare la salsedine portata dal vento.
«Quindi mi stai dicendo che
fanno un fracasso insopportabile?!» non poteva essere
vero, per tutta la vita aveva creduto che le onde fossero il suono più bello da
ascoltare per calmare i tormenti dell’anima, non potevano avergli mentito.
«Beh quando il mare è
agitato come ora non sono poi così piacevoli, ma quando è calmo si, è rilassante, ti fanno sentire pieno e appagato. Come
quando facciamo l’amore e tu cerchi di entrarmi sempre più dentro.» glielo
aveva sussurrato nonostante fossero soli, gli sembrava qualcosa di troppo
intimo per dirlo così ad alta voce, e se Akira non avrebbe avvertito la differenza il vento lo avrebbe fatto di certo.
«Ed è quello che farei
proprio in questo momento.» non gli importava che qualcuno potesse vederli e
giudicare il loro amore, anzi che guardassero pure provando invidia verso quel
sentimento che giudicavano sbagliato e che alcuni di loro non avrebbero mai
provato con così tanta intensità; qualcosa di così forte non avrebbe
mai potuto essere sbagliato.
«Ti amo.» Takanori si
lasciò baciare arrendendosi completamente alla forza del sentimento che lo
avvolgeva come una coperta trapunta di stelle, le stesse che ora li guardavano
immobili nel cielo che si inscuriva sopra di loro.
*
Ruki era al centro del
palco, immobile mentre cercava di regolarizzare il respiro.
Era così concentrato da non sentire su di sé neanche lo sguardo delle migliaia
di persone che affollavano lo stadio; era stato un lungo percorso fin lì, a
volte piacevole e altre meno, ma era giunto alla fine e si sentiva una persona
nuova, più matura, completa e felice. «Oggi
stravolgerò la setlist, spero mi perdonerete. Non
canterò Miseinen,
ma una nuova canzone che ho scritto soltanto per voi, spero che ciò che provo vi arrivi senza riserve e vi ringrazio per l’amore che
non avete mai esitato a dimostrarmi.» a vederlo dall’esterno, nessuno avrebbe
riconosciuto l’ansia e la paura che gli si agitavano dentro, Akira aveva
tentato di rassicurarlo in mille modi diversi e sentiva ancora le sue parole
riecheggiare nella mente.
“Dici che gli piacerà?”
“La ameranno esattamente come la amo
io, non pensare ad altro e canta come sai fare tu. Canta per loro, canta per
me.” come quando decine e decine di volte, stesi a letto, gli aveva chiesto di intonare una canzone soltanto per lui;
allora Akira si emozionava ogni volta sentendo le vibrazioni sotto i suoi
polpastrelli poggiati contro la sua gola.
Ruki prese fiato, ora non
si trovava a letto con Akira, ora era Ruki. «Questa è per voi, To DazzlingDarkness.» e le prime note vibrarono nell’aria. «Ora, il sipario si chiude tra le luci, subito
ci trasformiamo in ombre e ci congiungiamo con loscurità.» il pubblico era
preda del silenzio, beveva le sue parole come i fiori facevano con la luce del
sole: alcune piangevano stringendo l’amica che l’aveva accompagnata in quella
follia, altre cercavano una consolazione nel loro silenzio, tra poco tutto
quello sarebbe finito per sempre. «Mi
chiedo cosa ti ho lasciato, amore, dolore, dispiacere,
rabbia, gioia. Cosa hai provato? Il tempo è fugace…» e passò inesorabile trasportato dalle note che si
susseguivano veloci. «Non c’è un futuro
certo, i fiori continuano ad appassire.» se avessero saputo a quale triste destino andavano incontro, quei fiori sarebbero nati lo
stesso così splendidi e così delicati, eppure così effimeri? Si,
esattamente come aveva fatto il loro amore, all’inizio non sapeva cosa ne
sarebbe stato, ma ora era convinto che la loro storia sarebbe durata in eterno
impressa nei versi delle sue canzoni, una parte di loro avrebbe sfidato il
tempo e la morte. «Facciamo diventare i
nostri cuori una cosa sola.»
Godendo
delle ovazioni del pubblico, Ruki ringraziò i suoi fan con un
inchino profondo ed impeccabile, lasciò il palco prima di essere travolto
dall’emozione. Si rifugiò dietro le quinte, lì dove
trovo ad attenderlo Akira, il suo sorriso valeva più di mille parole. Akira, gli è piaciuta.
Ti avevo detto che l’avrebbero amata. Akira lo strinse forte a
sé, forse per paura che svanisse come in un sogno.
Si.
E ora che è tutto finito possiamo pensare a noi. Takanori aveva studiato
tanto in quei mesi, aveva passato ogni momento libero ad
esercitare il suo stentato linguaggio dei segni, doveva impararlo a tutti i
costi e doveva farlo per lui. Lui il
cui solo pensiero era sufficiente a riempire i suoi occhi di stille di
felicità.
Facciamo diventare i nostri cuori una
cosa sola.
Lo sono già, non lo sapevi,
Akira?
Un sorriso. Un bacio. La
promessa di un per sempre. Alcune persone sono come meteore nella nostra vita,
passano veloci come stelle cadenti lasciando qualche frammento dietro di sé
oppure restano per un po’ a guardarci, altri vanno via un po’ prima, altri
troppo presto. Lui non sarebbe stato di passaggio nella vita di Takanori,
sarebbe stato una roccia solida a cui avrebbe potuto
aggrapparsi quando la corrente sarebbe stata troppo forte. Voglio essere la persona che ti conosce meglio di te stesso, quella a cui ti
rivolgi quando non sai cosa fare, quando non sai più chi sei. «Voglio
amarti fino alla fine del tempo.»
Fine
ç_çlosooooo~ *distribuisce fazzoletti gratis* con questo
capitolo l’intera ff si commenta da sola ♥ sto
soffrendo sapendo di dover lasciare la mia creatura al suo destino T^T ma non
possiamo fare altrimenti, son felice di averla scritta e averla condivisa con
voi ♥ vi ringrazio tutte, una ad una, per averla letta/recensita *w*
senza di voi tutto questo non sarebbe stato possibile =w= va bene che scrivo
per il piacere di farlo, ma avere un feedback positivo e così caloroso è sempre
stupendo ♥ non mi resta altro da fare che rintanarmi nel mio angolino
buio e segreto e lavorare su un’altra ff :3 restate
sintonizzate fringuelline, le sorprese sono sempre
dietro l’angolo~