Daddy Eddy

di Elizabeth_Keats
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** Pianoforte e marmellata ***
Capitolo 3: *** Non è quel che sembra... ***
Capitolo 4: *** Notturno ***
Capitolo 5: *** Principe Azzurro... forse ***
Capitolo 6: *** Tic tac, tic tac ***
Capitolo 7: *** Ritorno ***
Capitolo 8: *** Sfida ***
Capitolo 9: *** Chiudi la porta ***
Capitolo 10: *** Animale ***
Capitolo 11: *** Primo giorno di scuola ***
Capitolo 12: *** Scusa ***
Capitolo 13: *** Genitore adolescente ***
Capitolo 14: *** Sempre la stessa storia ***
Capitolo 15: *** Prima o poi i figli crescono ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Daddy Eddy

 

Lunedì pomeriggio. Casa Cullen. All’esterno un fine pioggerellina contribuiva ad allargare ancor di più le pozzanghere che invadevano Forks: normale. Temperatura atmosferica 15°C: normale. Atmosfera tranquilla e silenziosa: normale. Io, Edward Cullen, in casa da solo: …strano. No, aspettate, non sono stato abbastanza preciso; non ero proprio in casa solo soletto, ma era come se lo fossi. Il solito clima pacato che soleva caratterizzare quella che chiamavo “casa dolce casa” era più statico del solito e quel silenzio di tomba mi tappava le orecchie come dei batuffoli di cotone. Infine l’assoluta assenza del ben che minimo movimento d’aria mi dava ai nervi. Carlisle, Esme, Alice e Jasper si erano allontanati  qualche giorno per una lunga e rigenerante battuta di caccia, dopo il digiuno causato dai recenti avvenimenti: probabilmente a quell’ora avevano già superato il confine canadese. Anche Rosalie ed Emmett si sentivano stressati e, come avevano detto, avevano bisogno di una “pausa”: l’isola Esme era di certo il luogo ideale per passare un paio di settimane di tranquillità lontano dalle preoccupazioni quotidiane (e poi, detto tra noi, c’era ancora un buon pezzo di testiera intatto…). La mia Bella, invece, mi aveva informato proprio quella mattina, mettendomi davanti al fatto compiuto, che si sarebbe trattenuta qualche giorno a casa di Charlie, per aiutare Sue a traslocare da loro (finalmente il buon vecchio capo della polizia si era deciso a chiudere col passato e col capitolo Reneè per ricominciare daccapo!). E, naturalmente, ci sarebbe stato anche Jacob ad aiutarli… e la cosa m’innervosiva. Ok, ok, dopo tutto l’aiuto che lui e il suo branco aveva dato alla mia famiglia, devo ammetterlo, Jacob stava iniziando a piacermi; anche se non avevo ancora digerito del tutto la faccenda dell’imprinting con Renesmee: ma è meglio un lupo mannaro grande e forte che un drogato martoriato da piercing per la propria figlia, no? Vabbè, fatto sta che dopo tutto quel tempo di contesa con lui per Bella mi ci voleva ancora un po’ per abituarmi all’idea che non costituisse più un pericolo di tal sorta. Forse sarei potuto andare io ad aiutare Bella coi traslochi: mah…

Come dicevo, non ero del tutto solo. Avevo davanti la prospettiva di passare tre intense giornate con uno dei miei due più grandi amori e, al tempo stesso, la mia maggiore preoccupazione: mia figlia. Insomma, non ero come Bella, come Esme o Rosalie o perfino come Jacob: non avevo idea di cosa fosse l’istinto paterno. E la sola idea di dover mettermi a fare il padre premuroso, bè, mi terrorizzava a morte. L’avevo detto a Bella, implorandola di non lasciarmi solo su una zattera in mezzo all’oceano. Ma lei l’aveva presa subito a ridere (ovviamente) e, uscendo di casa, aveva borbottato qualcosa del tipo che ognuno aveva un suo “padre interiore”, la sua parte più affettuosa, e che dovevo solo scoprirla. Inoltre, secondo lei, stare qualche giorno tete-à-tete con Nessie mi avrebbe giovato più di quanto credessi. Ok, amo pazzamente mia figlia, adoro il suo visetto dolce, i suoi boccoli bronzei e i suoi occhioni color cioccolato: venero  ogni cosa di lei. Non avrei mai creduto che una cosa del genere potesse mai diventare realtà e soprattutto che quella cosa potesse essere mia figlia, ma… Mi sentivo irrimediabilmente, sconsideratamente inadeguato e terrorizzato. Insomma, come si fa il padre? Da dove dovevo cominciare? Esisteva forse un manuale a riguardo?

Con un sospiro di sconforto scesi gli ultimi scalini con un passo fluido e mi ritrovai nel salotto illuminato debolmente dalla luce che filtrava grigiastra tra le nubi. Nessun vampiro si aggirava, a differenza del solito, tra quelle pareti immacolate. Ma un rumore ritmico, un debole ticchettio simile a quello di un orologio, proveniva dal divano e, mentre mi avvicinavo, un dolce odore mi solleticò l’olfatto scendendo a raschiarmi la gola. Una piccola testa, grande si e no come il palmo della mia mano, ricoperta da riccioli color bronzo, si poteva intravedere al di là dello schienale del divano. Renesmee sembrava troppo presa dai suoi giocattoli per accorgersi della mia volatile presenza. Nella mano destra reggeva una piccola bambola di pezza dai capelli dorati che le aveva regalato Alice e nell’altra un peluche a forma di lupo (un caso?). Mi avvicinai ancora di più, fino a poter quasi sfiorare il bordo del divano: il mio piccolo angelo. Era così bella quando giocava serena; assomigliava quasi a una qualsiasi di quelle bambine umane, anche se lei del tutto umana non lo era. E di certo non sarei stato io ad interrompere quel suo spensierato momento di gioco. Con un solo movimento fulmineo, che mi costò si e no un millesimo di secondo, mi accomodai sul divano dalla parte opposta rispetto a dove stava giocando mia figlia. E con svogliatezza e il telecomando tenuto mollemente in mano iniziai un’oziosa operazione di zapping. Incappai in un paio di partite di baseball, in una di quelle soap-opera lagnose che piacciono tanto a Rosalie, gli ultimi aggiornamenti del telegiornale e il meteo (che naturalmente prevedeva pioggia). Dopo un quarto d’ora conclusi che non c’era nulla di interessante e che quella giornata sarebbe stata una delle più noiose della mia lunga esistenza.

Poi ad un certo punto mi colpì una strana sensazione: un fastidiosissimo prurito dietro la nuca e l’opprimente sensazione di essere osservato. Mi voltai con cautela ed incrociai un paio di profondi occhi color cioccolato. Nessie aveva lasciato da parte i suoi giocattoli per concentrare tutta la sua attenzione su di me e la sua espressione apparentemente vuota ed enigmatica sembrava volermi chieder qualcosa.

«Che c’è, Nessie?» chiesi con tono controllato e in un certo senso timoroso.

Cosa pretendeva che facessi adesso?

Ma lei si limitò a scuotere il capo, abbassare lo sguardo sulla bambola per poi ritornare a fissarmi. Sembrava indecisa, come se stesse valutando le possibilità di riuscita delle sue intenzioni.

«Ti va di giocare?» domandò in un sussurro, quasi arrossendo, e ancora un volta mi sembrò una qualsiasi bambina umana.

Rimasi per un attimo senza fiato: mia figlia mi chiedeva di giocare… con lei? A un padre sarebbe sembrata la cosa più normale del mondo, ma… dove si è mai visto un vampiro giocare con le bambole? Dovevo avere un’espressione parecchio strabiliata visto che Renesme prese la sua bambola e me la sventolò davanti agli occhi, come se stesse parlando con un ritardato mentale.

«Giocare, papà!» esclamò.

Papà. Come un flash improvviso mi ritornarono in mente le parole di Bella: “vedrai che sarai più che capace di fare il papà, ne sono sicura. E vedrai che ti divertirai anche!”.

«Sì, tesoro…» dissi con tono vacuo.

Nessie mi guardò in attesa che prendessi in mano il peluche e iniziassi a interpretare qualche buffo personaggio. Doveva essere la cosa più semplice del mondo, ma mi ero come bloccato e non sapevo più da che parte prendere, da dove cominciare. Poi mi venne un’idea.

«Vieni, Nessie, papà conosce un gioco molto più bello».




Come già detto, anche se dall'introduzione (forse un po' troppo lunga) non sembra, questa storia sarà una raccolta di one-shot, quindi una specie di album fotografico di Edward e Renesmee. Infatti, visto che la mia ispirazione va e viene come pare a lei e che, una volta iniziata una storia, mi stufo subito della trama e la lascio incompiuta (ebbene sì sono alla ricerca della trama perfetta che mi coinvolga al 101%), ho deciso di optare per una serie di piccole scenette anche divertenti, invece che per una storia vera propria. Recensite, ve ne prego davvero,  HO TANTO BISOGNO DI RECENSIONI  per valutare e migliorare il mio stile. E dopotutto non vi costa niente cliccare qua in basso e scrivere due righe (anche solo per dire: "ma che schifo!"). Quindi vede un po' di far muovere quelle dita sulla vostra tastiera!
A presto (spero)!

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Capitolo 2
*** Pianoforte e marmellata ***


2.   Pianoforte e marmellata

 

Mi. Fa. Sol. La, Si… Una dolce melodia di levò nell’aria, all’inizio lieve come una farfalla per poi crescere d’intensità finché le mie orecchie non ne furono piene e non riuscii a udire altro all’infuori di quel suono celestiale. Le mie dita si muovevano veloci e con un movimento naturale sulla tastiera del mio pianoforte a coda, seguendo un crescendo di note che avevo accuratamente incise nella mente. Conoscevo a memoria quella melodia, tanto che non avevo bisogno di guardare i tasti bianchi e neri per essere sicuro di non sbagliarmi. Quella dolce ninna nanna, la ninna nanna che avevo composto per Bella tempo addietro, riassumeva tutto quello che provavo per lei, era la sintesi del mio amore, del mio respiro, del flusso dei miei pensieri, del rumore che faceva il mio cuore un tempo… Perciò era praticamente impossibile che saltassi anche solo una nota, che sbagliassi anche solo un passaggio complicato. Perché quella musica era parte di me, ero io quella ninna nanna… Eseguirla con quella naturalezza era la stessa cosa che rispondere alla domanda “come ti chiami?”: qualcosa di innato, assolutamente spontaneo e impossibile da sbagliare. Do. La. Mi. Do. E ancora daccapo. Le note che si susseguivano concatenate l’una all’altra come trasportate dal vento, sussurrando una dolce storia d’amore al nulla…

BANG!

All’improvviso un suono duro e straziante in confronto alla mia ninna nanna echeggiò nella stanza con la delicatezza di una valanga, simile a una cacofonia di pentole sbattute le une sulle altre. Sobbalzai per la sorpresa e la mano destra mi sfuggì di lato aggiungendo una nota fuori luogo in quell’armonia perfetta. Accidenti: il primo errore in una vita d’impeccabilità. Un po’ contrariato mi voltai in direzione della fonte di tutto quel chiasso: Nessie, che sedeva sullo sgabello accanto a me, aveva posato con delicatezza la mano sulla tastiera, schiacciando due o tre tasti contemporaneamente e interrompendo così con quel fracasso la mia esecuzione. Dopo essere riuscita ad attirare la mia attenzione mi guardò con un sorrisetto furbo e uno strano luccichio negli occhi: aveva in mente qualcosa.

«Adesso tocca me suonare!» esclamò battendo ancora una volta il palmo sulla tastiera del mio povero pianoforte, riproducendo quell’orribile rumore.

«Ma credevo che ti piacesse…» dissi sulla difensiva. «Fammi almeno finire, no?».

Visto che ero più che certo che il mio approccio con le bambole sarebbe stato un completo fallimento su tutta la linea, avevo deciso di giocare su un terreno sicuro e in cui non potevo fallire. Così avevo trascinato mia figlia al mio prezioso pianoforte a coda, a cui nessuno poteva avvicinarsi senza il mio permesso. E avevo iniziato a suonare per tenerla occupata, in attesa che mi fosse venuto in mente qualcosa di meglio da fare. Ma Renesmee si era stancata prima del previsto…

All’inizio Nessie sembrò pensarci su due volte poi, mettendo su il broncio, rispose: «No, suoni sempre quella roba per la mamma, la sento sempre quando dormiamo qua e voi due rimanete qui giù da soli…».

Sì… ehm… come dire… Be’, non sono affari vostri di quello che facciamo io e Bella di notte in salotto col pianoforte!

«Mi sono stufata» continuò lei. «Adesso suono io qualcosa di meglio!».

E senza tanta delicatezza si avvicinò a me sullo sgabello, allungando le manine sui tasti e allontanando le mie senza troppa cura. Io la lasciai fare (non avevo intenzione di vedermi subito alla prova con una fontana al posto di mia figlia… avevo ancora parecchio da imparare prima di saper arginare catastrofi del genere), anche se l’idea che qualcuno che non fossi io mettesse le mani sul MIO pianoforte a coda non mi entusiasmava proprio. Amavo la mia famiglia, amavo Bella, amavo immensamente Renesmee… ma il pianoforte era una cosa a parte!

Come previsto la melodia, o meglio il baccano, che nacque non appena la mia piccola si mise all’opera non aveva niente a che fare con la ninna nanna di Bella; assomigliava più a qualcosa a metà tra una marcia funebre e la trasposizione musicale del giudizio universale. Mi trattenni dal tapparmi le orecchie e dallo scappare di filata in cucina: dopotutto era mia figlia e dovevo incoraggiarla, no? In fondo non si è mai visto un buon padre (e io ero un buon padre) che, guardando uno dei primi disegni, o meglio schizzi, del proprio pargolo, abbia mai detto: “ma che schifo!”, anche se l’opera assomigliava tremendamente a un Picasso. Quella mus… quella roba proveniva dalla genialità della mia bella bambina alle prime armi col mondo e doveva piacermi (anche perché cosa si può pretendere da una bimba?). Perciò cercai di stamparmi in faccia un bel sorriso a trentadue denti, uno di quelli raggianti da papà in carriera, e tra un frastuono e l’altro mi concessi di mormorare qualche tirato: “ma che brava!”. Nessie ovviamente non era così stupida da bersela e capì immediatamente che stavo bluffando, ma la cosa non sembrò toccarla: al momento sembrava interessarla solo fare casino.

Poi, ad un certo punto, uno strano suono, ancora più agghiacciante degli altri, simile al raschiare di unghie su una lavagna, mi fece accapponare la pelle e subito un bruttissimo presentimento affiorò sul mio viso, trasformando il mio sorriso tirato in un’espressione d’orrore. No, ti prego, dimmi che non è vero, dimmi che quello stridio che ho sentito faceva parte della sinfonia di Renesmee… Dimmi che… NESSIE NON HA APPENA ROTTO UNA DELLE CORDE DEL MIO PREZIOSISSIMO, BELLISSIMO, AMATISSIMO, ECCEZIONALE PIANOFORTE A CODA CHE HO PAGATO UN’OCCHIO DELLA TESTA!!!!!!!!!

«Oops» fu il commento della bambina mentre continuava a schiacciare il tasto bianco che, ormai passato a miglior vita, non produceva più il suo limpido La.

Quindi con una scrollata di spalle scese con un balzo dallo sgabello, recuperando in fretta e furia la bambola e il suo peluche e correndo a nascondersi in cucina: era perfettamente consapevole di quanto venerassi quel pianoforte e del danno che aveva appena combinato. Quindi era meglio starmi alla larga… almeno per il momento. D’altro canto io rimasi lì, seduto immobile sullo sgabello, senza respirare e con il cervello che lanciava SOS a destra e manca. La mia visuale si ridusse a quell’unico tasto che aveva ormai perso la sua magnifica voce. Il mio pianoforte… il mio povero povero pianoforte… Ero sicuro che se fossi stato ancora umano, primo mi sarebbero venuti i lucciconi agli occhi, secondo avrei smesso di respirare e mi sarebbe servita una respirazione bocca a bocca.

Poi, in un ultimo lampo di raziocinio e capacità di intendere e volere, la mia voce alzata di parecchie ottave e potente e minacciosa come solo quella di un vampiro sa essere rimbombò per tutta la casa.

«Renesmee Carlie Cullen vieni immediatamente qui!».

 

Le 4. In una comune casa umana per i bambini quella era l’ora della merenda. E visto che volevo a tutti i costi fare assomigliare casa mia a una casa umana e comune, anche a casa Cullen le 4 doveva essere l’ora della merenda.

«Dai, Nessie, ti scongiuro, solo un boccone! Poi ti prometto che giochiamo a quello che vuoi tu…» dissi per la millesima volta e la mia voce assunse un leggero tono spazientito.

C’era voluto tutto l’autocontrollo del mondo per resistere alla tentazione del sangue di Bella quando era ancora umana, ma per stare dietro a mia figlia ce ne voleva ancora di più. Aggiunto a una pressoché infinita dose di pazienza.

Eravamo in cucina, Renesmee seduta al tavolo e io in piedi accanto a lei intento a spalmare su una fetta di pane dell’abbondante marmellata alle prugne, che avevo recuperato da un angolo sconosciuto della credenza. Appena avevo aperto il vasetto un intenso odore di prugne mi era arrivato alle narici, facendomi arricciare il naso: bleah. Accidenti, ma come fanno gli umani a mangiare una roba del genere? Molto meglio il sangue di puma… E, a quanto pare, Nessie la pensava allo stesso modo. Ma lei, a differenza di me, era per metà umana… quindi avrebbe dovuto avere una vita umana in tutto e per tutto, marmellata compresa.

«Ma fa schifo!» esclamò lei, allontanando da sé il piatto dove avevo messo le due fette di pane con la marmellata. «Zia Rosalie non mi fa mangiare questa roba! No, non la voglio, non mi piace…».

Sospirai e alzai gli occhi al cielo: maledetta Rosalie. Anche lei, come del resto tutti gli altri componenti della mia famiglia, aveva cercato di abituare Renesmee a una dieta umana, ma, costatando che alla piccola piaceva molto di più il sangue (di animale sia ben chiaro… io non do il cattivo esempio a mia figlia!), l’aveva viziata con quella roba, tanto per guadagnarsi la sua simpatia. Capivo che, in effetti, gli omogeneizzati per neonati avevano un aspetto tutt’altro che invitante… ma visto che ora Nessie poteva usufruire di una dieta molto più ampia, be’, le avrei imposto la mia decisione (e di Bella).

«No, carissima, adesso la mangi eccome “questa roba”! Su, avanti…».

Nessie non osò aggiungere altro, capendo che, dopo la tragedia del pianoforte (che avevo dovuto perdonarle, ma non senza una bella ramanzina, se non volevo ritrovarmi tutti gli altri Cullen addosso), era meglio non contraddirmi. Prese con mani esitanti la prima fetta di pane e marmellata e la fiutò con espressione schifata, che guarda caso assomigliava molto a quella di Jacob, e mimò il gesto di sputarci su.

«Nessie…» sussurrai fulminandola con lo sguardo e assumendo un’espressione così seria che, se mi fossi guardato allo specchio, mi sarei fatto paura da solo.

«Sìsì» borbottò lei. «Niente storie».

All’improvviso giunse dall’ingresso lo squillo del telefono. Senza neanche pensarci mi fiondai fuori dalla cucina, lasciando da sola mia figlia con la sua merenda.

«Pronto?».

«Ciao, amore! Tutto bene? Come procede l’apprendistato da papà?».

La voce di Bella mi giunse dall’altro capo del telefono armoniosa e squillante come sempre.

«Ehm… sì, bene… Cioè potrebbe andare meglio, ma diciamo che non c’è neanche male…».

Per il momento decisi che era meglio sorvolare sul melodramma del pianoforte.

«Oh, meraviglioso!» esclamò lei ancora più gioiosa. «Quindi vuol dire che la mia piccola brontolona ha fatto la brava…».

«Sì, certo… un angelo…». Mai sfatare le leggende che le madri si fanno sui loro figli, mai.

«Bene, bene. Sono contenta che ti stia divertendo…», perché avevo forse detto che mi stavo divertendo?, «…e che finalmente tu abbia fatto qualche progresso. Visto? Non era poi così difficile come credevi».

«Sì, certo… Lì come procede?». Traduzione: quando torni a casa?

«Be’, c’è ancora parecchio lavoro da fare… sai, tutti gli scatoloni eccettera… ma grazie a Jacob e ai ragazzi siamo già a buon punto…», oh, sì, ringraziamo sempre Jacob… tanto chissenefrega del povero Edward che si sta dilaniando i nervi, eh?, «…comunque non credo che tornerò a casa a dormire stanotte, così almeno domattina sarò già qui pronta per continuare il lavoro. Ok?».

«Ok, non ti preoccupare. Ci penso io a nostra figlia». Rassegnazione, tremenda rassegnazione.

«Ok, grazie amore. Sai che ti amo, vero? A proposito mi potresti passare Nessie? Così la saluto…».

In meno di un nanosecondo fui sulla porta della cucina.

«Nessie! C’è la mamma al telefono che ti vuole sal…».

Mi bloccai. O. Mio. Dio. Prima di reagire ebbi almeno la premura di premere il cordless contro la mia felpa, in modo che Bella non sentisse niente. Il resto mi sfuggì.

«PORCA TROIA! Ma… ma… che hai fatto?!? Ti pare il modo di trattare il cibo?!? Accidenti, non posso lasciarti un secondo da sola che tu…».

Passi per le bambole a cui non sapevo giocare, passi per il risentimento verso gli altri che mi avevano abbandonato, passi anche per la corda del pianoforte, ma il muro imbrattato di marmellata di prugne che mia figlia aveva usato a mo’ di vernice per scrivere (sì, sapeva già scrivere): NESSIE+JACOB= ♥… No, andava oltre ogni limite di sopportazione. Indeciso se mettermi a urlare oppure lasciarmi cadere a terra fingendomi morto (che sciocchezza, ero già morto!), guardai Nessie con uno sguardo che sottintendeva molte cose. E lei era ancora lì seduta al tavolo, con le mani e la bocca sporche di marmellata, che rideva come una pazza della mia espressione a cui non si poteva dare una definizione. Come prima con il pianoforte. Ma dico, si era forse messa in testa di farmi morire? Infondo ero suo padre! Suo padre! Non il primo baby-sitter passato di lì a cui si può fare di tutto…

«Ehi, Edward, tutto bene? Me la vuoi passare si o no?».

Mordendomi le labbra per non iniziare ad urlare, porsi il telefono alla bambina… ma lei fu più veloce: sapeva benissimo su che cosa giocare. Prima che le sue manine appiccicaticce riuscissero a toccare il cordless, urlò con tutto il fiato che aveva nei suoi piccoli polmoni: «PORCA TROIA!», imitando alla perfezione il mio tono di poco prima.

Inorridii ancora di più: se Bella non aveva udito la mia imprecazione, questa l’aveva sentita di certo… e probabilmente aveva anche riconosciuto di chi era la voce. E tutti a casa Cullen sapevano quanto lei fosse intransigente sulle parolacce dette di fronte alla bambina (e dico io, tanto prima o poi le avrebbe imparate da sola…). Come previsto il tono di mia moglie al telefono cambiò repentinamente, passando dal dolce e controllato all’irato.

Merda.

«Edward? Edward! Sbaglio o quella era… co-come hai potuto?!? Arrgh… aspetta che torni a casa e ti farò rimangiare tutto quello che avrai detto davanti a lei in mia assenza… se solo…».

Quello che seguì, mentre Renesmee rideva di gusto spanciandosi e io impallidivo sempre di più (se mai un vampiro può impallidire), fu soltanto una serie di suoni indecifrabili che, però, lasciavano ben intendere l’umore di Bella. Senza neanche tentare di porre freno alla sua ira, interruppi la chiamata: avrei pensato a quella faccenda una volta che fosse tornata a casa.

«Visto che ho mangiato la marmellata…» intervenne Renesmee che intanto aveva smesso di ridere, «… secondo i patti tocca a me decidere a cosa giocare adesso».

Guardai fisso nei profondi occhi color cioccolato di mia figlia per cercare di carpire le sue intenzioni… e da quel momento ebbi davvero paura.

Ok, capitolo lungo questa volta... e dedicato a tutti coloro che pensavano che Renesmee fosse una docile creaturina innocente XD Vi avverto che so essere molto cattiva con i miei sventurati personaggi, eh sì, e prima che gliene vada bene qualcuna dovranno sudare eccome! Povero Edward... mi fa così pena il mio bel vampiro! Vabbè, comunque ho l'onore di annunnciarvi che ho cambiato idea e che, per quanto mi sia possibile (e si ritorna sempre alla faccenda della ricerca della trama perfetta...), questa non sarà una raccolta di one-shot come avevo programmato, ma una ff in piena regola (anche se non prometto una continuità della storia, cioè potrei fare dei salti di tempo... devo vedere). Ok, spero di riuscire ad aggiornare presto, anche se questi giorni sono piuttosto impegnativi per umore, impegni e tanto altro. 
Ringrazio tutti coloro che hanno saputo sfruttare a dovere le loro dita e la loro tastiera lasciando delle magnifiche recensioni (che mi scaldano tanto tanto il cuore), con la speranza che questa volta siano altrettanto generosi. Per questa volta non li cito tutti (ma voi sapete chi siete) perchè non ne ho propria voglia di star qui a scrivere ancora. A presto!

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Capitolo 3
*** Non è quel che sembra... ***


1.   3.    Non è quel che sembra…

 

Meglio di quanto credessi. Be’, almeno dal mio punto di vista… Se fossi stato nei panni di Alice di sicuro non avrei reagito tanto bene. Ma, dopo tutto quello che avevo passato, dovevo pur vendicarmi, no? Sì, anche il povero Edward Cullen aveva bisogno di una sua valvola di sfogo e, proprio per sfogare il suo istinto animale e di vampiro (che gli diceva di farla pagare al mondo per i suoi miseri nervi distrutti), si era ritrovato complice di Nessie. Chissà se Alice, grazie al suo dono portentoso, stava vedendo quello che stavano facendo… Be’, se anche così fosse stato non mi sarebbe dispiaciuto per niente: così avrebbero imparato ad abbandonarmi a casa così su due piedi! Mphf, vampiri ingrati…

Eravamo appena entrati nella camera che Alice condivideva con Jasper e, mentre io mi guardavo attorno (non che avessi avuto molte occasioni di visitare quel posto, anche se faceva parte di casa mia: Alice è famosa per il suo senso di territorialità…), Renesmee si fiondava sicura sull’enorme guardaroba. Be’, non so se si può definirlo semplicemente “enorme”; diciamo che a confronto l’armadio che porta a Narnia ha la capienza di sì e no uno sgabuzzino delle scope. Sì, perché quello di Alice era un mondo intero di vestiti, di certo più ampio e variegato di quello di Lewis… e il leone che vi regnava era lei. Sorrisi sotto i baffi mentre mia figlia apriva a caso le ante bianche dell’armadio che ricopriva l’intera parete e che costituiva solo la punta dell’iceberg di tutto il guardaroba, che probabilmente aveva le sue radici giù in cantina. Appena Nessie mi aveva spifferato le sue intenzioni all’orecchio avevo accettato senza riserve: l’idea di mettere le mani sui vestiti di Alice senza il suo permesso e, magari, mentre lei assisteva telepaticamente al tutto, mi sembrava una vendetta abbastanza degna e mi elettrizzava oltre ogni immaginazione. Per la prima volta ero d’accordo con Nessie: quel gioco mi sarebbe di certo piaciuto. Dopotutto, visto che la mia sorellina era in grado di prevedere praticamente qualsiasi cosa, era impossibile farle alcun tipo di scherzo, ma visto che al momento era lontana lontana… Mi sfregai le mani per l’eccitazione e probabilmente uno strano luccichio mi illuminò gli occhi, dando al mio volto una sfumatura maligna, mentre mi univo a mia figlia nel nostro nuovo gioco.

Non ebbi molto da fare, visto che Nessie aveva già tirato fuori dall’”armadio” e ammucchiato sul letto gran parte dei vestiti a una velocità decisamente anormale. Ormai il piccolo letto matrimoniale con il copriletto color zaffiro non si riconosceva quasi più sotto la montagna di pezzi unici di Valentino, Armani, Gucci, Dolce&Gabbana e tutta la combriccola. Di sicuro Alice sarebbe inorridita se avesse visto mia figlia trattare con così poco riguardo i suoi gioielli… così li riempiva di pieghe insomma! Mi venne ancora da sorridere… E più abiti uscivano da quel mostro fatto di assi di legno, più mi sorgeva un dubbio: ma se quelli erano tutti vestiti di Alice, quelli di Jasper dov’erano? Sotto il letto mi sembrò un buon posto in cui guardare, ma al momento non mi interessava più di tanto. Quando ebbe gettato senza tante premure un lungo vestito di satin nero sul letto, la mi piccola sbuffò esausta; le sue morbide guanciotte avevano assunto quella delicata sfumatura color porpora che mi ricordava tanto la Bella che avevo visto per la prima volta. Mi guardò e nei suoi occhi brillava quella stessa eccitazione che aveva animato i miei poco prima.

«Sai che zia Alice si arrabbierà quando lo verrà a sapere, vero?» dissi.

Accidenti, sembravamo proprio due bambini che progettano lo scherzo del secolo con fare cospiratorio… e la cosa mi piaceva da morire.

Nessie fece spallucce.

«Insiste sempre per mettermi tutti quei vestiti che fanno schifo e continua a dire che non ho gusto…».

Vero: in questo mia figlia aveva preso da Bella.

«Quindi potrò sempre dirle che ho deciso di interessarmi di moda».

Geniale la piccola. E diabolica. Ma davvero era mia figlia?

«Fantastico» commentai. «Ma adesso che si fa? A che scopo abbiamo tirato fuori tutta questa roba?».

Gli occhi castani e profondi del mio cucciolo brillarono ancora una volta di quella strana luce eccitata.

«È qui che inizia il gioco…».

 

Mezz’ora dopo…

 

«Come mi sta?».

Nessie fece un giro su se stessa mentre un sorriso a trentadue denti le si apriva sul visetto arrossato. Si era infilata uno dei tanti abiti da sera che aveva trovato: lungo, di seta leggera color ametista con le maniche a sbuffo e dei brillantini sul davanti. Le andava decisamente largo e lungo (l’orlo che normalmente sarebbe dovuto arrivare appena sotto al ginocchio per lei era diventato lo strascico), ma, be’, era comunque bellissima: la mia piccola principessa. Ad adornare i fluenti riccioli color bronzo aveva messo un piccolo diadema che aveva trovato non so bene dove. Rimasi quasi senza fiato quando la vidi: era di certo la cosa più bella che fosse mai esistita al mondo… ed era mia.

«Be-benissimo» balbettai.

E in quel momento sentii una strana fitta al petto: era gelosia. Gelosia nei confronti Jacob che si era permesso di poggiare i suoi occhiacci da lupo sul mio fiore più bello. E sentii crescere forte più che mai nel mio cuore l’istinto di proteggere quel piccolo giglio, come avevo protetto mia moglie, e di tenerlo solo per me, solo per me. Era forse quello l’istinto paterno di cui aveva parlato Bella?

Nessie mi lanciò un sorrisetto dolce, ben diverso da quello beffardo di poco prima. Anche se dimostrava poco meno di un anno mi sembrava già di avere davanti agli occhi un’adolescente timida e impacciata, ma bellissima, che sfoggia il suo primo vestito per il primo ballo. E presto la sarebbe venuta a prendere il suo accompagnatore (Jacob… grrrr). E io non avrei più potuto dire niente di niente.

«Anche tu sei carino».

Ehm, sì. Grazie.

Qualsiasi aggettivo sarebbe stato adatto per descrivermi in quel momento (stupido, buffo, orripilante, ridicolo, ecc.), ma MAI carino. Non ricordo un altro momento in tutta la mia lunghissima e stranissima vita di vampiro in cui mi fossi sentito più cretino di quanto mi sentissi ora. Ovviamente, secondo la logica di Nessie, non sarebbe stato abbastanza divertente se a usufruire delle gioie di Alice fosse stata solo lei: dopotutto anche io partecipavo al gioco, no? E così eccomi lì nel mio attillato vestito rosa shocking con uno spacco vertiginoso lungo il fianco (decisamente troppo vertiginoso), una scollatura che mi arrivava fino all’ombelico (ma completamente inutile visto che lì davanti non ero adeguatamente accessoriato) e speculare a quella sulla schiena. Le spalline di quel vestito assolutamente osé erano adorne di piccole pietre preziose che mi pesavano sulle spalle e avevano lasciato il segno sulla mia pelle dura. Naturalmente, come me del resto, anche Renesmee aveva notato che quell’abito era un po’ troppo “aperto”, quindi aveva rimediato con un coprispalle  di piume di struzzo, ovviamente in tinta. Senza che potessi dire bau, mi aveva infilato ai piedi un paio di sandali tacco dodici e ora ero lì che, come un equilibrista inesperto, cercavo di rimanere in piedi su quei trampoli, mentre il mio nuovo vestito mi stringeva come un boa in una morsa mortale. Non mi ero mai sentito così… così… così stupido in vita mia: ma pur di far felice Nessie questo e altro. Insomma, ero un vampiro affascinante e misterioso, bevitore di sangue tra i più pericolosi del pianeta… non mi si può mettere addosso un affare del genere! Sarebbe stato come far indossare il tutù a Lestat o il bikini a Dracula!

«Ehm, Nessie? Era proprio necessario tutto questo?» chiesi esasperato.

Mia figlia mi guardò con compassione e rispose: «Ma dai! Stai benissimo! E poi è tanto per fare qualcosa di diverso, no?».

E senza degnarmi di un solo sguardo in più si mise a frugare in un cassetto finché non trovò quello che stava cercando: una pesante collana d’argento con un rubino grande quanto un uovo di quaglia (un regalo di Jasper per Alice… decisamente orrendo e pacchiano), che mi mise prontamente al collo. Ecco fatto: così sembravo proprio una drag-queen fatta e finita! Feci un instabile passo in avanti verso lo specchio: sì, non mi sbagliavo. Potevo già sentire le voci che sarebbero circolate per tutta Forks nel caso che qualcuno mi avesse visto conciato così: “Ehi, la sai l’ultima? Hai presente Edward Cullen? Sì, quello strafigo che sta con Isabella Swan… be’, pare che sia passato all’altra sponda! È proprio vero che gli uomini migliori o sono sposati o sono gay!”.

Mi passai una mano sul volto: quando sarebbe finita quella giornata? Ma fui presto riscosso da mia figlia che batteva le mani tutta esaltata e annunciava: «Benissimo! Ora passiamo al trucco!».

 «Eh?».

Sobbalzai all’improvviso, come se mi avessero fatto esplodere un petardo sotto i piedi: no, il trucco no! Dovevo uscire immediatamente da quel coso e battere la ritirata: quello era troppo! Mi precipitai verso la porta con un muto grido di terrore intrappolato in gola, ma non giunsi nemmeno a toccare la maniglia che inciampai nel vestito e caddi bocconi sul pavimento con un tonfo sonoro, mentre stelline rosse e verdi mi danzavano davanti agli occhi. Merda. Che male. Non so per quanto tempo rimasi così inerme ed indifeso sul parquet, ma di certo quel tanto che permise a Nessie di afferrare cipria e rossetto e dirigersi verso di me con in sottofondo il suono del giudizio universale. Quando… Dlin dlon!

Uno squillo lungo a prolungato giunse dal piano di sotto attirando l’attenzione di mia figlia che, prima che io potessi rendermi conto del significato di quel suono, si precipitò fuori dalla porta e giù dalle scale non senza un frettoloso: «Apro io!».

Apro io… mmm… aprire… aprire… cosa? Il mio cervello si stava lentamente riprendendo dal trauma della caduta (ero caduto? Ma i vampiri non cadono! Mah…) e tentava non senza sforzo di districarsi dall’universo del nonsense con tutte quelle stelline, cercando di ritornare allo spazio logico-temporale in cui mi trovavo. Aprire… aprire… forse una porta? Sì, aprire la porta… ma che vuol dire? Perché Nessie era andata ad aprire la porta? Ah, forse perché qualcuno aveva appena suonato. Giusto! Che genio che sei Edward! No, aspetta un attimo. Se qualcuno aveva appena suonato il campanello, voleva dire che qualcuno di esterno stava per entrare in casa mia e che questo qualcuno mi avrebbe sicuramente visto conciato in quel modo e avrebbe raccontato il tutto ad altri qualcuno: la mia reputazione era in pericolo. Mi rialzai di botto e per prima cosa tentai di districarmi dal coprispalle di piume di struzzo rosa confetto: cosa semplice all’apparenza… ma solo all’apparenza, ripeto. E così nel divincolarmi disperato, mentre dal piano di sotto provenivano voci che però per il terrore non riuscii a riconoscere, persi di nuovo l’equilibrio su quei tacchi assassini e questa volta finii contro la porta, che si aprì di botto, e venni catapultato brutalmente in corridoio. Atterrai poco prima del primo gradino con un tonfo dieci volte più rumoroso del primo. E altre stelline e lucine multicolore iniziarono a balenarmi attorno. Di sicuro chi sostava di sotto aveva sentito tutto quel trambusto. Cazzo.

«Ma che diavolo…?».

Quella era una voce familiare, che fu subito seguita da un altro coro concitato di voci altrettanto note. Non udii neanche i loro passi precipitarsi di corsa su per le scale tanto ero intontito dalla seconda botta, ma riuscii soltanto a distinguere il risolino divertito di Renesmee mentre due ombre scure si chinavano su di me e oscuravano la volta di stelline luminose che avevo davanti agli occhi. Le loro voci e i loro pensieri, che potevo udire distintamente, riempirono il vuoto oscuro in cui ballava il mio cervello.

«Edward? Ma… ma… Edward!». Che cavolo ha combinato questa volta?!?

«Oh, mio Dio, che hai fatto? Cosa…?». Ahahah… Rosa! Tutto rosa! Sembra una Barbie… Ehi, baby, dove hai lasciato Ken?

Con una smorfia aprii gli occhi, pregando di stare sognando: se fossi stato ancora umano di sicuro mi sarei rotto qualcosa. Accidenti, ma che mi era preso quel giorno? Non si era mai visto un vampiro così sbadato. La prima cosa che vidi fu il visetto divertito di Nessie chino su di me che, tra un risolino e l’altro, disse: «Papà?». Risposi con un grugnito incomprensibile. E appena si scostò potei vedere in faccia i due nuovi arrivati: oh… no. Emmett si teneva la pancia dal gran ridere e si era quasi ficcato un pugno in bocca per porre un freno alle sue risa sguaiate: di sicuro di lì a poco avrebbe iniziato a rotolarsi per terra. Rosalie, invece, era accanto a Nessie, una mano sulla sua piccola spalla, e mi guardava con un’espressione a metà tra il meravigliato e il disgustato: la bocca aperta per lo stupore tanto che la mascella poteva quasi toccare terra.

«Oh, mamma Dracula, Edward! Non mi sarei mai immaginato che tu… Ahahahah… Accidenti, non mi sembravi proprio il tipo e invece… Ahahah… Dio, quando lo verrà a sapere Bella!». Emmett continuava a ridere smodatamente e per un attimo mi sentii quasi come se stessi arrossendo. Che vergogna.

Rosalie, d’altro canto, continuava a rimanere immobile e stupefatta: un mito era appena stato sfatato. Mi guardava disgustata, come si guarda una lumaca bavosa, guardandosi bene dall’aiutarmi a rimettermi in piedi. Io intanto cercavo disperato le parole per porre fine a quell’equivoco, ma con quel ronzio che continuava a riempirmi la testa non riuscivo a concentrarmi. Accidenti, cosa avrebbero pensato tutti gli altri quando lo sarebbero venuti a sapere? Vergogna, vergogna, vergogna. Non era come sembrava: NON ero GAY!

«Emmett, piantala!». Il mio ruggito risuonò minaccioso nella tromba delle scale.

Mio fratello riuscì a stento a porre un freno ai suoi ululati, anche se sembrava sul punto di asfissiare, mentre udivo un mormorio provenire dai pensieri di Rosalie: che schifo! Mio fratello gay… Ma come, come ha potuto nascondermi questo? Dopo tutta la faccenda di Bella e… e… Oh, mio Dio!

«Non sono gay, Rosalie! Piantala anche tu!». Ero ormai sull’orlo delle lacrime.

Ma Emmett continuava: figo il vestitino! Devo ammettere, però, che almeno ha gusto: ha anche abbinato i colori! Ma che cariiiiiiino! Chissà se…

E senza neanche pensarci scattai come una molla e mi buttai su Emmett, le mani strette in una morsa d’acciaio attorno al suo collo a reprimere un ringhio di sorpresa: adesso basta, mi ero proprio stufato. Lui, dopo aver improvvisamente smesso di ridere, cercò di divincolarsi con la sua forza da orso: precipitammo rotolando giù dalle scale con in sottofondo un sonoro crack! Il mio vestito doveva aver ceduto… pazienza.

Accidenti, non male per una femminuccia!, i pensieri di mio fratello continuavano ad avere una sfumatura irrisoria.

«Femminuccia a chi?!?» esclamai, ormai preso completamente dall’ira e mantenendo salda la stretta sul suo collo. «Adesso ti faccio vedere io, caro Koda fratello orso!».

 

Ed eccomi di nuovo qui con un altro chap! Mah, non so, non credo che mi sia venuto un granchè questo... però sta a voi giudicare. Prometto che nel prossimo capitolo darò un po' di tregua al nostro Edward (magari gli prenoto pure una seduta dallo psicologo XD), anche se devo ammettere che mi sono divertita un mondo a tormentarlo così (ahah come sono sadica!). Sì, comunque dicevo... visto che è Natale, nel prossimo capitolo sarò mooooooooooolto più buona e cercherò i sciogliere i vostri cuoricini con una bella accoppiata papà-figlia più dolce che posso: dopotutto Nessie non è solo scherzi eh? Ok, passiamo ai ringraziamenti:

ilesnape: sì, la cara Nessie è proprio una peste e proprio per questo l'adoro. Il pianoforte... vabbè, sono cose che capitano XD (si aggiusterà presto, tranquilla!)

Cassidy14:  no, non morire! Sennò poi mi denunciano per tentato omicidio con uso improprio di risate!

Lithia del Sud: sì, il pianoforte è la vera vittima incompresa! XD comunque anche a me Edward fa un po' pena... però per una volta tanto mi piaceva vederlo scendere dal suo trono di bellezza e perfezione, così almeno sembra un po' più umano, no?

eika: sbaglio o qui siete tutti più preoccupati per il pianoforte che per Eddy?

Padfoot_07:  visto? ecco il mio regalo di Natale! Comunque se continuerai a leggere vedrai che il caro Ed farà dei progressi, garantito!

MimiMiaotwilight4e: bel nick davvero! Sìsì Nessie DOMINA!

Maka_Envy: carina xk scrive quella roba sul muro?!?!? Mah, suppongo che tu sia una fan di Jacob... mah, mah, mah...

Deb: sì, anche a me piace un sacco vedere (e immaginare) Edward così UMANO, quando invece nel libro è descritto come un dio assolutamente perfetto. Dopotutto anche lui deve avere qualche punto debole e difetto, no?

Ringrazio anche tutti coloro che hanno messo questa ff tra i preferiti. Recensite ancora in tanti mi raccomando! A presto!

E BUON NATALE A TUTTI, VAMPIRI E LICANTROPI XD

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Capitolo 4
*** Notturno ***


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4.   Notturno

 

«Quindi, fatemi capire bene: siete tornati indietro dall’isola Esme perché Rosalie aveva dimenticato il suo costume rosso?».

Ammutolii di sorpresa quando Emmett annuì in silenzio, continuando a massaggiarsi la mascella contusa.

«Be’, non proprio dall’isola Esme» precisò, «stavamo facendo scalo a New York quando Rosalie mi ha chiesto se potevamo tornare indietro un attimo a prendere una cosa che aveva dimenticato a casa».

«Ah». Ovvio. Quando il padrone comanda il fido Emmett obbedisce. Se fossi stato al suo posto mi sarei categoricamente rifiutato di perdere il volo prenotato per uno stupido costume o, come minimo, avrei parcheggiato il mio didietro nella sala d’attesa dell’aeroporto aspettando che la mia lei trovasse una soluzione più logica. Ma si sa, Rosalie sa essere molto convincente, soprattutto quando si tratta di persuadere il suo adorato orso da circo.

Io e Emmett eravamo ora seduti sul divano in salotto, mentre Rosalie correva da una parte all’altra della casa recuperando oggetti vari (evidentemente il costume dimenticato era solo una scusa per recuperare l’altra metà dei suoi vestiti da strafiga). Nessie, invece, era lì accanto a noi seduta sul tappeto: si era tolta di dosso l’elegante vestito di Alice e ora era tornata a giocare pacata con la sua bambola. Proprio in quel momento le stava infilando un grazioso vestito da sposa tutto pizzi e volant: rabbrividii alla sola vista. Be’, meglio lei che io, no?

Finalmente dopo un abbondante quarto d’ora di strilla, insulti e botte la pace era ritornata a regnare in casa Cullen. La lotta tra la “femminuccia”, cioè il sottoscritto, e l’orso si era rivelata più accesa del previsto. Mentre Rosalie e Renesmee ci guardavano basite dal pianerottolo del secondo piano, io e Emmett avevamo messo a soqquadro mezzo salotto: lui ne era uscito con la maglietta leggermente sdrucita e la mascella dolorante, io con qualche capello in meno (il mio avversario mi aveva prontamente afferrato per i capelli mentre tentavo di rifugiarmi in cucina). Se fossimo stati semplici esseri umani probabilmente al momento saremmo stati neri di lividi e pieni di graffi e morsi di ogni sorta. Ma fortunatamente tutto si era risolto con il pronto intervento di Rosalie e un paio di schiaffi al mio indirizzo, ovviamente, ed eravamo riusciti a chiarire la faccenda da vampiri civili.  Avevo spiegato il perché di quel mio nuovo look alquanto eccentrico, sottolineando più volte la mia assoluta estraneità a certe particolari affinità e specificando che non c’era nessun Ken nella mia vita. Infine avevo fatto giurare loro di non dirlo a nessuno: non che avessi nulla da nascondere, visto che era soltanto un malinteso, ma non mi andava che si sapesse in giro che avessi sperimentato il brivido, in senso stretto, di camminare su un paio di tacchi. Loro promisero che nulla sarebbe trapelato dalle loro labbra, o menti, ma tanto sapevo già che Emmett era affidabile quanto un alcolista alla guida di un autobus e che, magari anche tra un secolo, la cosa sarebbe ritornata a galla in qualche litigio.

«Non ti preoccupare, ripartiremo non appena Rose avrà finito con la sua roba» disse Emmett e sul suo volto apparve un’espressione leggermente scocciata.

Io, invece, in risposta lo fissai con uno sguardo affranto, di quelli da cane abbandonato o Bambi triste che fanno tanta pena. Lo stavo silenziosamente implorando di non abbandonarmi di nuovo, di non lasciarmi ancora una volta solo in quella grande casa con la mia più grande paura (anche se mi aveva quasi ammazzato di botte e insultato, dopotutto era sempre il mio Emm-Emm). Ma non ebbi il coraggio di esprimere ad alta voce le mia paura: probabilmente sarei davvero passato per una femminuccia. Accidenti, se mio fratello fosse stato in grado di leggere nella mente altrui come facevo io! Ma al momento i suoi pensieri erano lontani miglia dalla mia ben misera situazione: una spiaggia, tanti delfini e pesci colorati, sole, palme, Rose… Rose… ehm, Rose… lui… Rose e lui che… No, alt! Sospirai affranto: non avrebbero potuto aiutarmi. Però forse…

«Ehm, Emmett?».

«Sì?». Si voltò verso di me riemergendo dai suoi filmini mentali con un’espressione interrogativa.

«Ehm… sì, io… vorrei chiederti… insomma, se magari…».

«Oh, cazzo!» esclamò lui scattando all’improvviso mentre guardava l’orologio a muro impiccato sulla parete di fronte che segnava le sei. E senza perdere un secondo di più recuperò con la sua sorprendente velocità da vampiro il telecomando e si sintonizzò con un’eccitazione quasi palpabile sul canale sportivo. La partita della sua squadra di baseball preferita era appena iniziata. E addio a richiesta d’aiuto.

Mezz’ora dopo Rosalie aveva finito di raccogliere in giro per la casa tutto ciò che poteva tornarle utile nel rilassante viaggetto con il suo amoruccio (tanta da occupare un’altra valigia) e aveva scollato con un tono imperioso Emmett dalla tv. Ora erano già alla porta e io tra poco mi sarei ritrovato di nuovo da solo di fronte alle mie paure. I saluti furono molto sbrigativi visto che probabilmente i due non vedevano l’ora di abbandonare una volta per tutte l’umidità di Forks per approdare alla calura dei tropici. Rose si attardò solo qualche secondo di più per salutare Nessie, stringendola forte al suo petto e ricoprendola di baci. Ma poco prima che i due piccioncini raggiungessero i loro bagagli sulla BMW rossa fiammante di Rose, Emmett mi si avvicinò e inizio a bisbigliarmi qualcosa all’orecchio.

«Edward, senti, per quella cosa di prima…».

Cosa cosa? Non riuscivo a credere alle mie orecchie: forse che Emmett avesse captato la mia silenziosa richiesta d’aiuto? Gli occhi iniziarono a brillarmi di speranza a stento repressa: finalmente qualcuno aveva compreso il mio disperato SOS. Grazie, grazie, grazie!

«Allora, stammi bene a sentire…» continuò il mio fratello-orso.

«Sììììììììì?».

«Dunque… domanic’èlafinalenonèchemelapotrestiregistrarevero? Tipregotipregotiprego!».

«Eh?». Smisi di respirare.

«Ti scongiuro! Credo che sarò un po’ occupato con Rose, ma non posso assolutamente perdermela! Ho scommesso dieci bigliettoni con Jazz! Ti prego, Eddy-Teddy! Io lo farei per te».

Avevo cantato vittoria troppo presto.

Mi venne una voglia improvvisa di mettermi a urlare come un matto, prenderlo di nuovo alla gola e ripetere la scenetta violenta di prima. E poi… Eddy-Teddy?!? Da quando in qua mi chiamava con quel nomignolo assurdo? Ma alla fine, forse per mancanza di fegato o perché ero veramente masochista, non potei fare altro che mormorare un incerto: «V-va bene».

«Oh, grazie, grazie mille!». Emmett mi abbracciò con la sua delicata stretta da orso. «Vedrai, sarai adeguatamente ricompensato!».

 

Erano ormai passate più di un paio d’ore da quando Emmett e Rosalie si erano lasciati alle spalle casa Cullen e i miei crucci e il buio era ormai calato sulla foresta circostante. Finalmente la fine di una giornata d’inferno. Sospirai chiudendomi la porta della mia camera alla spalle: Renesmee non mi aveva serbato altri scherzi di cattivo gusto e avevamo passato una serata relativamente tranquilla in salotto a giocare con i suoi peluche. Era stato più facile di quanto pensassi, tanto che per una buona mezz’ora tutti i miei sensi erano stati in massima all’erta in attesa di cogliere qualche anomalia. Invece no, Nessie almeno per quella sera aveva fatto la brava bambina, forse perché ormai era stanca dalla lunga giornata e non aveva altri trucchetti malefici da rifilarmi: ci sarebbe stato tempo il giorno dopo. Alla fine la mia piccola si era addormentata e io avevo finalmente tirato un sospiro di sollievo. Ora dormiva tranquilla nel lettino nella camera a fianco, che avevamo sistemato apposta per lei in vista delle notti che avremmo passate lontano dalla nostra fiabesca casetta nella foresta. Finalmente un po’ di pace per un povero vampiro, pensai.

Mi avvicinai al mio impianto stereo ultima generazione, alla sola luce della luna iniziai a scartabellare tra i numerosi cd sparsi sul ripiano e ne presi uno a caso. Premetti il tasto PLAY, abbassando il volume quasi al minimo (ma per il mio udito da vampiro era più che sufficiente) in modo da non svegliare Renesmee. E subito nel piccolo ambiente si diffusero le dolci e lente note di un notturno di Chopin. Mi lasciai trascinare dalle note, immaginando le mie dita sui tasti bianchi e neri del pianoforte, e chiusi gli occhi per lasciare andare i miei pensieri alla deriva nell’infinito della mia mente.

La musica scorreva dentro di me come acqua, riempiendo ogni fessura, attutendo ogni rumore con il suo lento sciabordio e quasi fermando il tempo sommergendo ogni cosa con la sua superficie lucida e piatta. Per un  breve secondo i miei pensieri indugiarono sui fatti di quel giorno, l’inadeguatezza e l’esasperazione, ma in quel momento mi sembrarono cose lontane mille miglia, quasi appartenenti a un’altra vita. Mi beavo di naufragare finalmente in quel vuoto di melodia. Riaprii gli occhi e mi diressi silenziosamente alla vetrata che occupava il lato sud della mia camera. L’intera stanza era invasa dalla luce azzurrognola e argentata della luna, che gettava strane ombre sui vari oggetti sparsi sul divano e sul pavimento. Ma lo spettacolo all’esterno era decisamente migliore. Aprii la finestra e mi appoggiai con i gomiti al davanzale, sporgendo fuori la testa per assaporare la fragrante aria notturna. Un refolo di vento fresco mi scompigliò i capelli, portando con sé l’odore umido della foresta e della pioggia che aveva appena smesso di cadere. Il gufare lontano di una civetta provenne attutito dal profondo degli alberi insieme allo scrosciare regolare del fiume. Tutto, dal prato al vialetto ai muri della casa risplendeva di una vellutata luce argentata, che sembrava stendere su tutto ciò uno strato di prezioso platino. La foresta, poi, sembrava il gioiello più prezioso di un famoso orafo; con la mia vista acuta potevo vedere il bagliore lunare frangersi su ogni foglia, riflettendosi in mille altre sfumature. Istintivamente guardai verso l’altro, mentre la musica continuava il suo andamento sognante da dentro la stanza, e rimasi senza fiato.

Fatto più unico che raro per Forks, le numi avevano lasciato il cielo completamente sgombro e la luna piena risaltava nel cielo blu scuro, incoronata da una miriade di piccole stelle. All’improvviso mi sentii terribilmente piccolo e insignificante di fronte a tanta bellezza e per la prima volta in tutta quella giornata stressante il mio pensiero andò a Bella. Chissà se anche lei stava guardando quel cielo blu trapunto di polvere d’oro? Quasi istintivamente, come se i vari pensieri fossero indissolubilmente concatenati, mi ritrovai a pensare alle innumerevoli notti passate nella sua camera a guardarla dormire, sognare, mentre il suo respiro regolare era di tanto in tanto interrotto da un sussurro. Come se fossi ritornato a quei giorni, potevo quasi sentire il suo profumo dolce e invitante, l’odore denso del suo sangue che mi chiamava, che stuzzicava la mia parte più brutale. E per un momento rimpiansi quel tempo, in cui vedevo Bella come il mio piccolo cucciolo terribilmente fragile e costantemente minacciato, che dovevo proteggere a costo della vita dalle insidie del mondo. Ma adesso era diverso. Da quando il mio cucciolo, il mio cerbiatto dagli occhi dolci era diventato un essere fenomenale e leggendario come me la necessità di proteggerla costantemente era cambiata. Non si era dissolta, ma si era soltanto spostata: ora la cosa da difendere di trovava nella stanza accanto e sognava tranquilla.

Feci un altro lungo respiro e di nuovo l’aria notturna umida e pulita mi riempì i polmoni. Il suono del pianoforte continuava la sua esecuzione, indifferente ai miei pensieri. E per la prima volta da non so quando, forse da quando avevo visto Bella per la prima volta, mi sentii completo: non c’erano più vuoti o punti oscuri nella mia anima, nessun strano solco nel mio cuore che ogni tanto gli faceva saltare qualche battito, nessuna landa senza significato tra i miei pensieri. Mi sentivo tutt’uno, senza pezze e senza scuciture, intero e saldo come non lo ero mai stato. In poche parole: realizzato. Avevo Bella, avevo Renesmee, avevo una casa e una famiglia che mi sosteneva. Non ero un mostro, non rubavo la vita agli altri per sostentare la mia. Non guardavo impassibile lo scorrere degli anni, prendendo atto con noncuranza delle persone che venivano, sostavano e se ne andavano di nuovo. Non mi crucciavo giorno e notte su cosa ero o cosa non ero per poi liquidare il tutto con un “non posso farci niente”. Ero io: Edward Cullen. Non ero un vampiro qualsiasi, con il sangue nelle iridi rosse e nei pensieri violenti. Era qualcuno, una persona, che amava sua moglie, sua figlia, la sua famiglia e i suoi amici, a cui piaceva la dolce sensazione del vento sulla pelle, il tocco dell’erba appena spuntata, la frescura dell’acqua e il canto degli uccelli. Non ero un cadavere che girava e che per caso si comportava come un essere umano, fabbricando idee e compiendo azioni, ma rimanendo pur sempre qualcosa di morto e distaccato dal contesto. Prima mi si poteva mettere dappertutto: nulla cambiava. Ora se mi avessero allontanato da Bella sarei morto, se mi avessero tolto la mia casa sarei rimasto turbato, se mi avessero tolto la mia identità… E finalmente, pur avendo provata quella strana sensazione di leggerezza e di stupore già altre volte, sapevo cosa significa essere felici. Sentirsi in pace col mondo e parte di esso.

Questi pensieri sereni si andarono immediatamente a legare alla musica, che li trasportò in ogni fibra del mio essere, facendole vibrare di felicità. Senza che me ne accorgessi i miei lineamenti si distesero del tutto e non mi importava se quel giorno non avevo saputo tener testa a una bambinetta. Non importava che fino ad allora mi fossi rivelato un completo fallimento come padre: avrei potuto recuperare, ce n’era tutto il tempo. Trasportato da non so quali pensieri lasciai la finestra e mi diressi nella stanza in cui dormiva Renesmee, per ammirarla sognare un’altra volta. E probabilmente sarei rimasto lì tutta la notte a vegliarla, come avevo fatto innumerevoli volte con Bella, mentre la musica nella stanza accanto passava alla traccia successiva del cd e Für Elise di Beethoven riempiva quella notte senza nubi…

Ok, ok, premetto che non me ne intendo di musica classica, non è proprio il mio genere, quindi scusatemi se le scelte musicali non erano propriamente adeguante. Ah, naturalmente la citazione di Fur Elise nel finale è un riferimento del tutto casuale alla sottoscritta (FORSE). Vabbè... Dunque, come avete visto (e come avevo promesso) in questo breve chap ho dato un po' di tregua al nostro Eddy. E credo che la fase sdolcinata andrà avanti ancora per un po'... quindi sopportatemi. Ok, non ho molto altro da dire, a parte che spero che questo capitolo vi piaccia e di essere riuscita a calarmi bene nei pensieri di Edward interpretando correttamente la sua bella mente (cosa che mi affascina assai!). Ah, dimenticavo, non sono ancora sicura della trama dei capitoli successivi, perciò se avete suggerimenti di qualsiasi genere sono ben accetti! Passiamo ai ringraziamenti:

Deb: tranquilla, sei perdonata! Ma per questo chap mi aspetto una recensione coi fiocchi!

Kagome19: in effetti mi è piaciuto giocare con la sua personalità... e, sì, stravolgerla un po', vederla sotto una luce diversa. Come ripeterò spesso, anche Edward Cullen, pur bello quanto volete, non è perfetto...

eika: non ti preoccupare, Rose ed Emm non sono così bastardi... almeno per il momento. Comunque credo che Edward dovrà stare attento in futuro a non far arrabbiare Emmett se non vuole essere "vilmente" riccattato XD

MartinaCullen: auguri anche a te! anche se il Natale è ormai passato... be', Happy New Year!

Cassidy14: be', se l'è cavata piuttosto bene la femminuccia eh? E in questo chap io lo trovo così tenero... così introspettivo... spero ti piaccia!

MimiMiaotwilight4e: eh, sì.... perchè Edward in rosa vale!

Ah, piccola nota per quelli che recensiscono (che sarete in molti molti molti veeeeeeero???), non scrivete solo "questa ff mi piace aggiorna", così almeno vi posso rispondere adeguatamente! Ok, non picchiatemi!
Ciao!

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Capitolo 5
*** Principe Azzurro... forse ***


5.   Principe Azzurro… forse

 

Be’, come avrete già notato a casa Cullen, al quartier generale come lo chiamavo io, non c’era granché da fare e in quel momento, sinceramente, stare lì a fare il cane da guardia in attesa del ritorno dei padroni era l’ultimo dei miei desideri. Così la mattina dopo, sul tardi, portai Nessie nella nostra casetta nella foresta, con la speranza che quella pacata atmosfera da Hasel e Gretel riuscisse a risollevarmi il morale almeno un po’. Ma ben presto, dopo aver rimesso in ordine la casa e bighellonato qua e là, mentre mia figlia era impegnata a combinare qualche altro pasticcio (preferivo non sapere di che sorta) in camera sua, scoprii con un certo disappunto che anche lì di cose da fare non ce n’erano. Che noia. Se almeno ci fossero stati gli altri… Sbuffai e presi seriamente in considerazione l’idea di piantare baracca e burattini e scappare a casa di Charlie da Bella. Ma sapevo benissimo quale sarebbe stata la reazione di mia moglie: “…e hai lasciato Nessie da sola?!”. Perciò non mi rimaneva altro da fare che… annoiarmi, sì. Per un nanosecondo sperai perfino che Renesmee mi tendesse una trappola delle sue: che so, disseminare il pavimento di bucce di banana o imbrattare la mia Volvo di fango. Così, tanto per rompere quella dannata routine. Ma al momento la piccola sembrava troppo presa dai suoi giochi solitari per badare a me.

Non so come, ma alla fine mi ritrovai nella camera che dividevo con Bella, seduto sul nostro letto immacolato a fissare immobile la libreria davanti a me con tutti i libri di mia moglie. Quella giornata non sarebbe finita più, lo sapevo. All’improvviso il mio sguardo cadde su un libro fuori posto, incastrato frettolosamente tra le file ordinate degli altri. Mi alzai dal letto per metterlo a posto e, quando l’ebbi tra le mani, lo riconobbi. Non era molto spesso e potevo sentire sotto i polpastrelli la sottile filigrana della copertina ricoperta da un pesante tessuto blu scuro decorato da ghirigori dorati. Era il libro di fiabe preferito di mia figlia, che Bella le leggeva tutte le sere prima che si addormentasse. Più di una volta mi ero soffermato sulla soglia della cameretta di Nessie ad ammirare quella scenetta tremendamente dolce: Bella seduta di fianco a quel lettino piccino che, alla luce soffusa di una lampada, sussurrava a mia figlia avvincenti storie di principesse, eroi, streghe e draghi. Senza rendersi conto che noi stessi eravamo una favola… Sfogliai lentamente le pagine del libro ricche di illustrazioni colorate e ormai consunte dal frequente utilizzo. L’odore intenso della carta e quello pungente dell’inchiostro mi invasero come un potente calmante, mentre con la mia vista acuta potevo scorgere ogni singola sbavatura nella parole stampate sommariamente. Poi sentii qualcosa, come un ago appuntito, pungermi dietro la nuca, causandomi un prurito fastidioso. Mi voltai e non mi stupii di vedere Nessie ferma sulla soglia che studiava attentamente ogni mio singolo movimento.

«Che fai?» chiese.

Domanda superflua: mi sembrava evidente. «Leggo, no?».

Non mi rispose, ma in compenso mi rivolse una strana espressione che non seppi decifrare e che forse stava per un “ah, già”, per poi saltare con un balzo felino sul letto matrimoniale e cingersi le ginocchia con le braccia. Il suo sguardo furbo sempre attaccato a me e al libro che avevo in mano.

«Mi annoio» borbottò alla fine.

«Anch’io» confessai, sedendomi accanto a lei.

«Quando tornano gli altri?».

«Non lo so. Be’, zio Emmett e zia Rosalie sono appena partiti. Gli altri presto… credo».

«E la mamma?».

Sospirai per la milionesima volta: me lo chiedevo pure io. Quella casa senza Bella era diversa, più silenziosa, più cupa e triste.

«C’è molto da fare a casa di nonno Charlie, lo sai, no?».

Nessie annuì, arresa, e tornò a poggiare il mento sulle ginocchia. Sapevo benissimo cosa provava: dopotutto chi glielo faceva fare di rimanere chiusa in casa con un incapace che sosteneva di essere suo padre? Mi guardai attorno in cerca di qualcosa che potesse divertire la bambina, far passare un po’ di tempo e, magari, farmi riguadagnare qualche punto. E mi ricordai del libro di favole che avevo in grembo.

«Ti va di ascoltare una favola?» sussurrai timidamente.

 Con mia grande sorpresa mia figlia mi guardò stupita e un accenno di sorriso le illuminò il viso, contagiandomi.

«Va bene» disse raggiante. Perfetto, finalmente ne avevo azzeccata una!

«…e così il principe del Nord salvò la bella principessa dalle trecce d’oro dopo aver confitto il malvagio re dei topi. I due si sposarono e il castello dell’Alba si popolò di tanti bei bambini. E vissero per sempre felici e contenti».

La mia voce si spense dolcemente mentre mi soffermavo a osservare l’illustrazione alla fine della storia: il principe e la principessa in una grande sala della loro reggia che ballavano abbracciati teneramente; la principessa era davvero bellissima nel suo vestito rosso intenso.

«Mmmm» mugugnò Renesmee.

Ormai doveva aver sentito quella storia almeno un centinaio di volte, pensai. «Allora?» domandai. «Sono abbastanza bravo a raccontare fiabe?». Ti prego di’ di sì, dammi almeno questa soddisfazione!

«Sì…» mormorò Nessie, ma il suo tono era incerto. Un’espressione preoccupata s’impadronì del mio volto: doveva avevo sbagliato quella volta?

«No, no, sei bravo, davvero!» esclamò poi accorgendosi del mio volto. «Solo che… be’… la storia è sempre quella. Non ne avresti qualcuna nuova?».

C’era da immaginarselo. Mi misi a pensare freneticamente a tutte le fiabe o cose simili che avevo sentito nella mia lunga vita, nel disperato tentativo di rimettere insieme i pezzi e costruire qualcosa di decente. Ma, be’, i vampiri non sono dei grandi appassionati di favole, quindi le uniche storie a cui la mia memoria poteva risalire erano quelle che avevo udito durante la mia breve esistenza da umano. Però era ormai passato tanto tempo e mi rimanevano solo dei ricordi sbiaditi e pezzi ammuffiti sparsi qua e là, decisamente insufficienti per costruire una trama. E di certo molto più scadenti delle fiabe che poteva proporre il libro di Nessie. Stavo per rispondere che no, non conoscevo nessuna storia migliore di quelle, con la delusione dipinta in faccia, quando mi venne un colpo di genio. Ma certo! Quale racconto era più avvincente e ricco di particolari di quello?

«Sì, ne ho una che potrebbe piacerti».

Presi un profondo respiro e, assumendo un tono di voce profondo e intrigante, iniziai.

«C’era una volta in un paese lontano lontano una piccola città felice, dove tutti si conoscevano e non si curavano delle crudeltà del mondo esterno. A capo di questa città c’era un vecchio re buono, a cui però le ingiustizie della vita avevano sottratto la moglie, lasciandogli una sola figlia. La principessa era la più bella del paese e, probabilmente, del mondo intero. I sudditi la lodavano per la sua dolcezza, la sua gentilezza e il suo coraggio ed era ben vista da tutti. Però la ragazza non era del tutto felice, infatti sentiva che le mancava qualcosa per rendere la sua vita piena e perfetta. Un giorno nella piccola città arrivò un gruppo di stranieri: erano molto strani e non passarono di certo inosservati. Questi stranieri non erano come gli altri, difatti possedevano dei poteri magici sensazionali e per questo la gente del luogo li temeva e girava alla larga da loro. Vagavano per il mondo in cerca di una terra dove stabilirsi e vivere in pace e tra loro c’era un giovane principe bellissimo: appena lo videro subito tutte le ragazze del paese caddero ai suoi piedi. Ma lui non desiderava spasimanti o ricchezze, bensì era in cerca della propria identità, che aveva perduto quando era stato esiliato dalla sua patria per via delle sue anomalie. Con i suoi straordinari poteri aveva compiuto gesta eroiche e si era guadagnato l’affetto e la stima dei suoi compagni, che ormai erano diventati la sua famiglia. Eppure si sentiva vuoto, proprio come la principessa. Gli stranieri andarono dal re per chiedergli di poter dimorare nel suo regno e il buon sovrano li accolse benevolmente. In quell’occasione il principe senza terra vide per la prima volta la principessa e se ne innamorò follemente a prima vista: finalmente aveva trovato quello che andava cercando da tanto tempo nei suoi vagabondaggi. Anche la dolce principessa notò il principe e rimase colpita dalla sua rara bellezza, ma il mistero che avvolgeva la strana compagnia la turbava. Per il periodo in cui visse in quella città felice il principe non riuscì a darsi pace: il suo amore era troppo forte e gli provocava un dolore immenso. Si recava spesso a palazzo di nascosto per vedere la sua bella e nel paese s’iniziava a vociferare; al popolo non piacevano granché quei forestieri, ma non osavano contraddire la decisione del re. Pian  piano la principessa si accorse delle pene del giovane e il suo cuore si riempì di amore per quel poveretto. Sapeva benissimo che suo padre non avrebbe mai acconsentito a darla in sposa a uno sconosciuto venuto da chissà dove e senza niente in tasca. Tuttavia l’amore era più forte di qualsiasi convenzione e la principessa, ormai innamorata persa, sentiva di non provare il timore reverenziale dei suoi concittadini nei confronti di quei singolari individui e dei loro poteri magici. Purtroppo un brutto giorno il re di un regno confinante, senza scrupoli e assetato di potere e di ricchezza, decise di invadere il piccolo paese felice. All’arrivo del terribile esercito il cielo fu oscurato da dense nubi nere e il sorriso scomparve dai volti degli abitanti. La principessa era quella che soffriva di più per quella triste condizione e, durante l’assedio, decise di consegnarsi al nemico per porre fine alla guerra e alla sofferenze del popolo. Il malvagio re stava per ucciderla, quando il principe intervenne prontamente in soccorso della sua amata. Inscenò un duello all’ultimo sangue con il perfido tiranno, ricorrendo a tutti i suoi strabilianti poteri magici. Ma non gli servirono a molto, visto che anche il re cattivo sapeva usare la magia. Però alla fine il principe, non senza l’aiuto dei suoi fedeli compagni, spinto dal profondo amore per la principessa, ebbe la meglio e uccise il nemico. Così la pace e la felicità tornarono a regnare nel piccolo paese, il principe e i suoi amici furono lodati e acclamati come eroi dalla gente e non furono più temuti. Anche la principessa era felice di poter riabbracciare il suo amato e suo padre, vedendo la gioia negli occhi della figlia, acconsentì al matrimonio. Così i due si giurarono eterno amore davanti a tutti e vivono ancora insieme nel grande palazzo reale. Felici. Per sempre».

Conclusi con una leggera flessione della voce e non potei fare a meno di fissare rapito Renesmee. Non l’avevo mai vista così, almeno non fino a quel momento. Sembrava basita, stupefatta, come se avesse appena udito la cosa più bella del mondo. Era letteralmente rimasta senza fiato, immobile come pietrificata, gli occhi spalancati con fare sognante. Non c’era che dire: ero riuscito a colpirla.

«Ma… ma… ma è bellissima!» balbettò ancora senza fiato.

Sorrisi, estremamente compiaciuto: avevo appena trovato la mia vocazione naturale.

«Sembra così vera!».

Be’, non era stato difficile prendere una pezzo della storia delle vicissitudini mie e di Bella e rielaborarle in chiave fiabesca. Così Forks era diventata il piccolo paese felice, Charlie il vecchio re buono, Bella la principessa, la mia famiglia il gruppo di misteriosi stranieri, James il re cattivo e io… be’, il principe. Non che mi andasse molto a genio quel paragone (io il principe azzurro? Mpfh), ma era solo per esigenze di copione. Ovviamente Nessie non conosceva tutta la storia d’amore dei suoi genitori, anzi sapeva solo che un vampiro anomalo si era innamorato di una comune umana e l’aveva trasformata subito dopo che lei era nata. Così tutta questa roba suonava completamente nuova alle orecchie della mia bambina… e tremendamente romantica alle mie.

«Grazie» risposi e, se fossi stato ancora umano, sarei di sicuro arrossito.

«Sul serio, non è come le altre fiabe che mi racconta sempre la mamma!». Nessie era ancora tutta eccitata. «E il principe… oh! È stupendo, così diverso! Non è come gli altri, tutti perfetti, belli e ricchi: ha qualcosa di strano. Insomma, all’inizio non sapeva bene chi era e… e c’era oscurità e solitudine nei suoi pensieri. Aveva paura e gli altri principi non hanno mai paura… e non sono mai tristi. Loro sono già perfetti così come sono, ma invece a lui mancava un pezzo. E quando ha incontrato la principessa… anche lei non era come tutte le altre, belle, superficiali e sempre sorridenti. Anche lei, come il principe, si sentiva incompleta e aveva paura di essere innamorata, perché sapeva che non sarebbe stato visto di buon occhio dagli altri questo suo sentimento. Tutti e due non erano sicuri di se stessi come gli altri personaggi delle fiabe! E, in particolare il principe, alla fine capisce qual è il suo posto nel mondo e… trova se stesso».

Rimasi letteralmente senza parole: ma era una bambina quella che avevo davanti o un critico letterario plurilaureato? Sempre più spesso Nessie riusciva a sorprendermi come nessun altro; aveva una mente quasi adulta intrappolata in un corpo ancora infantile. Accidenti, neanche io avevo visto sotto quell’ottica la mia mezza favoletta; mi ero solo preoccupato che rispettasse i canoni letterari imposti dal genere e che fosse abbastanza fedele alla realtà, punto.

«Be’, sei proprio sicura che questo principe ti piaccia? Dopotutto non è davvero un principe, infatti, come hai detto tu, aveva paura… e i veri principi azzurri non hanno mai paura. E poi non ha un regno, neanche un cavallo bianco! Nessuno sa chi sia ed è, be’, piuttosto strambo con quei poteri magici. I principi azzurri sono ammirati dalla gente, non temuti! E… e il mio principe ha una parte oscura nella sua anima». Non sapevo bene perché ma sentivo di non meritare quella lode, anche se indiretta: non ero mai stato un eroe e neanche la mia brutta copia fiabesca poteva esserlo.

«Ma alla fine si mostra com’è veramente: buono e coraggioso. Ama tantissimo la principessa… questo non è a suo favore? Quando vuoi davvero bene a qualcuno… basta quello. Non importa il passato e con le sue “stranezze” ha salvato il paese, no? E poi non importa: è un principe nuovo e mi piace! Gli altri sono noiosi… e poco reali». Nessie non demordeva e il dibattito si prospettava acceso.

«Hai ragione» concessi, «ma quella che ti ho raccontato era una favola e i principi delle favole sono coraggiosi e perfetti. Nella realtà è un’altra cosa…».

Non rispose e mise su un muso lungo, continuando a guardarmi con fare di sfida. Non era stata una grande idea demoralizzare così il suo principe, pensai. Ecco, mi ero appena guadagnato altri due scherzetti. Cosa preferisci, Edward? Le rane nel letto o i vestiti sbrindellati?

«Sì, nella realtà non esistono i principi azzurri, questo lo so» borbottò lei alla fine, senza però abbandonare il suo tono arcigno. «Per lo meno non i principi azzurri della altre favole… Ma principi come quello di prima sì!».

«Ah sì?». Che avesse scoperto la mia messa inscena? Improbabile…

«Sì! Anzi sono perfino meglio del tuo principe… perché non hanno bisogno di vagare per il mondo per trovare quello che può completarli; ce l’hanno già».

Trattenni a stento un sorriso. Mmm, non ce lo vedevo molto Jacob nei panni di un principe azzurro, vestito di tutto punto con la calzamaglia e il cappello con la piuma. Ahahahah!

«Tipo?» chiesi.

«Be’, io il mio principe l’ho già trovato. Sei tu».

Rimasi per un attimo senza fiato, sicuro di aver sentito male. Io? Non Jacob? Cos’era questa storia?

«E perché? Perché io e non Jacob, per esempio? Sai che ti vuole molto bene, vero? E credo che abbia un debole per le belle bambine…». Mmm no, messa così suonava da pedofili… vabbè.

«Ok, Jacob mi piace e tutto ma… Alla fine sei sempre tu che mi salvi, papà, anche se ti faccio arrabbiare tanto. Sei sempre in prima fila quando si tratta di me, forse anche prima della mamma. Quella volta con i Volturi… se ce ne fosse stata la necessità saresti stato anche più bravo del principe».

Oddio… davvero? Non riuscivo a credere alle mie orecchie. Gli occhi iniziarono a prudermi; forse era una reminiscenza delle lacrime che non potevo concepire che spingevano per poter essere versate. Deglutii per attutire quello che avrebbe potuto benissimo essere un singhiozzo, se accompagnato dal pianto. Ero… commosso. Commosso, sì. Sapevo benissimo che Bella mi amava alla pazzia, quindi non mi sorprendevo più del dovuto quando diceva di amarmi. Ma Renesmee… Fino a cinque minuti prima avevo creduto che mi ritenesse un incapace, un completo fallimento. Credevo che si vergognasse, perfino, ad avere un padre come me. In fondo cosa potevo darle? Non sapevo niente, non avevo idea di cosa fosse un padre, a cosa potevo aggrapparmi? Aveva un’altra decina di persone che potevano benissimo sostituirmi: di certo loro erano più interessanti. Aveva Bella, che sembrava fosse nata per proteggere quella piccola creatura, e Jacob, che si sarebbe sdraiato nel fango per lei. Io ero solo una figura utile per la nostra finzione di coppietta felice con neonata a carico. Qualcosa che compariva nelle fotografie, che la osservava ammirato e si domandava come stesse… per poi scappare sempre alla prima occasione per non dover render conto dei suoi doveri. Proprio come il principe avevo paura di capire chi ero davvero. Non mi sarei mai e poi mai immaginato che Nessie mi vedesse sotto quella luce o che anche solo vedesse in me una figura paterna in grado di proteggerla da tutto e da tutti.

Senza che un comando preciso partisse dal mio cervello, mi allungai in avanti e l’abbracciai con delicatezza, come facevo con Bella quando era ancora umana, affondando il volto nei suoi boccoli bronzei, che mi ricordavano vagamente il meraviglioso profumo di mia moglie.

«Grazie» le sussurrai all’orecchio. Poteva sembrare banale, ma in quella semplice parola era rinchiusa tutta la riconoscenza di questo mondo: finalmente avevo trovato la mia (seconda) principessa e avevo capito la strada da seguire. Non avrei saputo dire chi era il bambino…

«Questo però non vuol dire che la smetterò con gli scherzi» rispose lei e la sua voce, ora così vicina al mio orecchio, assomigliava al tintinnio di campanelle.

Mi staccai da Renesmee con un sorriso radioso: poteva farmi tutti i dispetti che voleva, li avrei accettati di buon grado. Mi alzai dal letto e andai ad aprire la finestra; aveva ricominciato a piovere e ciò significava che, mentre il mio cuore era in subbuglio, il mondo esterno continuava il suo normale corso. Inspirai profondamente l’aria fredda e umida: ero un principe e azzurro per di più! Però mi mancava il cavallo bianco. Be’, pensai con un altro sorriso, potevo sempre usare Emmett. Ero talmente felice che mi sarei lanciato fuori dalla finestra e avrei iniziato a correre velocissimo tra la foresta, finché non fosse sopraggiunta la notte. Ma mi trattenni e la vocina di mia figlia mi riportò alla realtà.

«Papà, posso chiederti una cosa?».

«Sì, tutto quello che vuoi». Ormai non poteva turbarmi più nulla.

Notai che Renesmee sembrava imbarazzata, mentre si stropicciava le manine candide e, arrossendo, abbassava lo sguardo.

«Non c’entra molto, però… è un po’ che me lo chiedo. Ma come nascono i bambini?».

E rieccomi finalmente con un altro capitolo del filone sentimentale-stucchevole-commovente-diabetico, di cui, mi dispiace, troverete ancora qualche strascico nel prossimo cap (credo), visto che avevo scritto anche un'altra scena che all'inizio doveva andare qui ma che ho dovuto spostare per ragioni di lunghezza. Be', vi toccherà sopportarmi, perchè in questo periodo mi sento proprio romantica sìsì. Vabbè, passiamo subito ai ringraziamenti:

Deb: Sì, Eddy-Teddy mwahahah mi è venuto fuori di getto. Vabbè, no Emm-emm ha già la sua Barbie (Rose), quindi mi dispiace deluderti. Poi... gli scherzetti di Nessie torneranno appena mi sarà passata la febbre romantica (presto, tranquilla). Per quanto riguarda la domanda... No, Bella non ha un amante (per fortuna... sennò non sarebbe ancora viva XD) e non va da Eddy la notte semplicemente perchè, be', anche Charlie è un padre e ha piacere avere un po' con sè sua figlia! E poi magari Bella di notte continua a mettere a posto, no?

Lady Patfood e Cassidy14: grazie mille per i complimenti... spero che mi rimarrete fedeli, ne'?

MimiMiaotwilight4e: no, Emmett non è folle... è solo sottomesso! Come già detto Rose sa essere molto convincente (e fare mooooolta paura quando si arrabbia). E poi magari gli ha promesso qualcosa in cambio... sennò secondo te perchè Emm non può vedere la partita????

Kagome19: quoto pienamente! Sì, in Twilight può sembrare il tipico idolo delle ragazzine (ma lo amo lo stesso!). Negli altri libri... mi è piaciuto in particolare un casino quando dopo tutta la faccenda di Volterra Ed ammette di essersi sbagliato a interpretare certi sentimenti di Bella e a fare certe azioni (vedi: lasciarla)

Padfoot07: mi hai tolto le parole di bocca: è stata proprio con l'intenzione di tappare questo "buco" che mi sono messa a scrivere. Grazie per la stupenda recensione! Mi fa piacere che ti sia piaciuto molto anche l'Eddy introspettivo (oltre che quello imbranato XD). Avevo già in mente di inserire Jacob nei prossimi capitoli e di far tornare presto Bella (non so se riuscirò a fare entrare tutto nel prossimo però eh). Grazie ancora!

eika: giàààààààààà! Infatti devo confessare che ci sono rimasta un po' male quando è diventata una vampira: mi mancheranno le sue cadute T_T

ilesnape: grazie anche a te! Non ti preoccupare, Edward rimarrà sempre un mito... anche con i tacchi a spillo XD

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Capitolo 6
*** Tic tac, tic tac ***


6.   Tic tac, tic tac

 

«Co-come?».

Alt, errore Edward: nulla poteva più turbarmi tranne quello. Accidenti, avrei dovuto aspettarmelo. Anzi, no, non così presto. Ok che Nessie aveva un’intelligenza e una complessità di pensiero decisamente fuori dalla norma per la sua età, però… era ancora una bambina! Insomma, non potevo certo dirle che io e Bella… ehm… sull’isola Esme… e poi… No, no, no, NO! Dovevo inventarmi qualcosa. In fondo tutti genitori all’inizio raccontano balle su balle ai propri figli su quella cosa lì, no? Ecco, ma il problema era che, semplicemente, la mia mente “acuta” non aveva ancora formulato una tesi abbastanza soddisfacente e allo stesso tempo innocente su quell’argomento. In poche parole, ero stato preso alla sprovvista.

Nessie, nel vedermi esitare, arrossì ancora di più e mi lanciò una veloce occhiata supplicante, forse per chiedermi di non farle ripetere la domanda, visto che probabilmente le c’era voluto tutto il coraggio di una vita per formularla. E poi sapeva benissimo che con il mio udito acuto avevo recepito più che bene il senso di quelle parole.

«Be’, è una cosa piuttosto complicata… e… e… forse sei ancora un po’ troppo piccola… io…». Dannazione, Edward pensa a qualcosa! Inventati una cavolata qualunque tanto per tenere a bada la sua curiosità! Intanto gli occhi di Nessie continuavano ad andare dal pavimento a me, che mi stavo evidentemente impantanando nelle mie stesse parole. Forse si stava rimangiando quello che aveva appena detto.

«Be’…» intervenne alla fine venendo in mio aiuto. «Avevo già chiesto a zio Jasper e zio Emmett e…».

Un brivido mi corse lungo la schiena: cosa aveva fatto?!? O mio Dio, chissà cosa le avevano raccontato i miei fratelli, in particolare quel pervertito di Emmett, che non vedeva l’ora di vedere mia figlia strabuzzare gli occhi davanti a una strana e tutt’altro innocente realtà. Se non fossi stato freddo come il ghiaccio, di certo avrei iniziato a sudare per l’ansia.

«E cosa ti hanno detto?» domandai con una nota di timore nella voce.

Intanto speravo che per una volta nella vita, o meglio nell’eternità, quei due avessero usato quella minima percentuale di buonsenso e serietà che forse possedevano in qualche remota parte del loro cervello. Renesmee trovò il coraggio di tornare a guardarmi in faccia e rispose: «Zio Jasper ha detto che i bambini li portano le cicogne».

Sospirai di sollievo: oh, grazie Jazz!

«Però secondo me non è vero. Insomma, come fa la cicogna, poverina, a portare tanti bambini in tante parti del mondo? E poi magari questo è vero per i bambini umani, ma io sono speciale, sono mezza vampira, no?».

«Giusto. Quindi?».

«Quindi ho chiesto a zio Emmett…».

Tipregotipregotipregotipregotiprego, fai che almeno per una volta quell’orso abbia applicato il suo unico neurone in modo corretto.

«…e la sua storia mi sembrava già un po’ più convincente. Ha detto che una sera tu e la mamma vi annoiavate e…».

Oddiooddiooddiooddiooddio, cosa? Non è vero, non ci stavamo annoiando! È solo che era la nostra prima notte di luna di miele e Bella… No, no, no, dai non poteva averle detto proprio quella cosa lì! A quel punto fui sicuro di stare sudando freddo. Aiuto.

«…e quindi avete deciso di andare a fare shopping. Poi la mamma mi ha visto nella vetrina di un negozio e le sono subito piaciuta tanto, così tu mi hai comprata per farle un regalo».

Shopping? Ahahah! Per poco non scoppiai a ridere. Possibile che davvero Nessie si fosse bevuta quella fandonia? Con Alice che insisteva sempre per portarla in giro per centri commerciali e negozi vari avrebbe già dovuto notare da sé che non esistevano rivenditori di bambini e, men che meno, di bambini mezzi umani e mezzi vampiri. Be’, mi dissi, però sempre meglio lo shopping sfrenato che quella cosa lì. Dovevo ricordarmi di ringraziare Emmett.

«Però c’era qualcosa che non mi convinceva. Così ho deciso di chiedere a nonno Carlisle. Visto che lui è un medico dovrebbe saperlo, no?».

Ecco, ero curioso di sapere cosa il mio padre acquisito aveva rifilato a mia figlia. Per un attimo mi tranquillizzai, tanto sapevo benissimo che di Carlisle mi potevo fidare ciecamente e che non era certo il tipo, con la sua pacatezza da medico, da inculcare strane idee nei bambini.

«E cosa ti ha detto?» chiesi incuriosito.

«Niente».

«Come niente?».

«Ha detto che era una faccenda abbastanza complicata e che era meglio che chiedessi a te o alla mamma. E dato che la mamma adesso non c’è…».

Ma porc…! Secondo errore, Edward: non ti puoi fidare ciecamente di nessuno, neanche di colui che ti ha dato una nuova vita, salvandoti da morte certa, e ti ha aiutato a sentirti in pace con la tua coscienza. Strano, ancora dopo quasi un secolo di convivenza mi ritrovavo a scoprire un nuovo lato della personalità di mio “padre”: quello che gli diceva che era meglio scaricare certe incombenze sulle spalle di qualcun altro. Vedi: me. E grazie tante.

«Quindi se me lo puoi spiegare tu per favore…». Gli occhi di Nessie si fecero se possibile ancora più ampi e dolci, assomigliando a quelli di un cerbiattino spaurito.

Ripeto: grazie tante. Come prima con la storia, anche adesso non sapevo che inventarmi, ma con una piccola differenza; se prima si trattava di una semplice favola con lieto fine, qui invece stavo mettendo in gioco, oltre alla mia dignità (non so come, ma in qualche modo c’entrava), nonché l’educazione di mia figlia. Non avevo mai affrontato l’argomento “come nascono i bambini” con nessuno, o almeno con nessuno che ricordassi, ovviamente. Ce lo vedo proprio il piccolo Edward umano che, arrossendo come Nessie, poneva la fatidica domanda a sua madre. Avrei dovuto parlarne prima con Bella, anche solo per accordarci sulla versione da dare, ma non c’era tempo. Rispondere o morire (e visto che la seconda opzione mi era negata, fare una bruttissima figura). Poi mi riscossi. Maledizione, ero un principe azzurro, come aveva appena affermato Renesmee, che combatteva i nemici cattivi, dovevo pur saper rispondere a quella semplice domanda, no? Presi un profondo respiro per cercare di calmarmi e con un movimento fluido e repentino abbandonai la finestra aperta per tornare a sedermi sul letto accanto a Nessie, che aspettava pazientemente una risposta. Intanto inizia a parlare (magari senza pensare all’isola Esme e a tutti gli annessi e connessi), mi dissi, e vedrai che qualcosa ne verrà fuori.

«Vedi, per far sì che nasca un bambino bisogna innanzitutto che due persone si vogliano molto molto bene. Ma non bene come potresti volere a un amico, ma che si amino proprio, come il principe e la principessa della storia, e che vogliano vivere per sempre insieme felici e contenti. E se c’è pure un bel castello è anche meglio» cominciai a blaterare tanto per prendere tempo.

Nessie annuì attenta. «Un po’ come te e la mamma».

«Esatto. Proprio come me e la mamma, sì». Ecco, e adesso?

Chiusi un attimo gli occhi per concentrarmi, cercando di non badare allo sguardo quasi famelico della bambina al mio fianco. Senza un motivo preciso mi ritornarono in mente tutte le notti che avevo passato in camera di Bella, quando lei ancora non sapeva cosa ero, a guardarla dormire, ad assaporare il suo profumo paradisiaco e ad ascoltare rapito il battito del suo cuore. Se mi concentravo a fondo potevo perfino sentire ancora una volta quel flebile ticchettio rimbombarmi nelle orecchie con ritmo cadenzato. Tic tac, tic tac. Così, proprio come un orologio. Ero sempre rimasto affascinato da quel rumore così strano eppure così dolce, a cui bastava così poco per trasformarsi in un violento rullo di tamburi e ancora meno per essere messo a tacere. Avevo cercato di riprodurre quel suono melodioso nella ninna nanna per mia moglie, ma era niente in confronto all’originale. E tutto per me, almeno finché la mia amata era ancora umana, si era fondato su quel ticchettio; lo cercavo ossessivamente tra una miriade di altri suoni stonati per sapere che il mio tesoro stava bene, che era ancora qui per me. Che battesse per me e che pompasse amore in ogni fibra del suo corpo. Ero geloso di quel battito e altrettanto triste di non poter rispondergli con un suono adeguato del mio cuore morto e silenzioso. Il mio cuore ormai non batteva più da un secolo, ma in qualche modo trovava conforto in ogni singolo rintocco di quello di Bella. Ehi, e se forse… Riaprii gli occhi e, sempre con quel rumore nelle orecchie, risposi ora più sicuro.

«Come dicevo, bisogna volere tanto bene a quest’altra persona, così tanto da riuscire a tenere il conto dei battiti del suo cuore per un giorno intero. Non sembra, ma in realtà è molto difficile, infatti ci sono battiti talmente lievi che sono difficoltosi da cogliere. Ma se ci riesci, se riesci a tenere il conto senza mai sbagliare, puoi esprimere un desiderio e questo si avvererà di certo».

«E tu cos’hai chiesto?».

«Be’, mi sembra ovvio. Altrimenti non sarei qui a parlarne con te». Le scompigliai dolcemente i capelli ritrovando finalmente il sorriso e la calma. Non sapevo come mi fosse venuto in mente, ma quella mi sembrava la risposta migliore da dare. E, anche se non potrebbe sembrare, la più vera: amavo talmente tanto Bella non solo da riuscire a tenere il conto dei battiti del suo cuore per un giorno, ma anche per anni se necessario. Se ero riuscito in quell’impresa voleva dire che amavo davvero mia moglie, alla follia e di più. E quando vuoi così bene a qualcuno, questa forza è così grande da far sì che tutto diventi possibile. Se per me è stato possibile amare Bella fino a questo punto, be’, allora anche tutto il resto era possibile, ogni desiderio si poteva avverare. E, infatti, Nessie era al mio fianco ora.

«Ed è per questo che appena sono nata la mamma era ancora umana? Perché così il suo cuore batteva e potevi contare i suoi battiti… mentre il cuore di un vampiro…».

«… non batte, sì».

Non batte. Certo, perché morto. Ha ormai cessato il suo dolce canto da tanto tempo che nel petto non ne rimane nemmeno una vaga eco. Quel particolare, il fatto che quel piccolo ingranaggio sulla sinistra fosse ormai silenzioso, aveva costituito un punto a favore della mia teoria secondo la quale i vampiri sono dei mostri. Avevo sempre pensato che un cuore pulsante significasse tutto, che racchiudesse non solo la vita ma anche l’identità di una persona. Il cuore, secondo la concezione comune, è la sede dei sentimenti, delle emozioni più forti e irrazionali e, quando cessava il suo ritmo regolare, finivano i pensieri e le passioni. E se il mio cuore era fermo dal 1918 significava che non potevo provare rabbia, gioia, tristezza, affetto… amore. E un essere che non prova amore, ma continua a vivere, è un mostro. Nessie doveva aver intuito i miei pensieri, visto che, con un’espressione mesta, mi strinse dolcemente una mano e disse: «Secondo me anche il tuo cuore batte. Dopotutto vuoi bene alla mamma, no? Sì e se la ami tanto, ed è così, vuol dire che il tuo cuore batte. Quando si vuole tanto bene a qualcuno il cuore batte fortissimo e tutte le emozioni vengono da lì, come anche il bene che vuoi alla mamma… e a me».

Senza alzare lo sguardo dalla sua piccola mano calda poggiata sulla mia, pallida e fredda, la presi con delicatezza e poggiai il suo morbido palmo sul mio petto, proprio lì dove doveva essere il cuore. E come anche lei poté costatare, non c’era niente che batteva lì sotto le costole, ma solo silenzio e un cuore morto che esisteva per puro scherzo. Nessun ticchettio vitale e confortante.

«Eppure qui non c’è niente. Lo puoi sentire anche tu». La mia voce fu di nuovo spezzata da quella specie di singhiozzo di poco prima. Il mio cuore non aveva senso. Perché non potevo averne uno caldo e vivo come mia figlia? E ora l’avevo rubato anche a mia moglie… Nessie si morse il labbro inferiore, costatando la terribile verità, ma continuava a guardarmi con quei due occhi da cerbiatto che facevano trasparire un’immensa compassione.

«Secondo me il tuo non è un battito che si può sentire. Non è qualcosa di fisico, ma di più profondo. Non so come spiegarlo, ma rimane il fatto che vuoi tanto bene a me, alla mamma e agli altri e quindi ci deve essere un cuore che batte. Diciamo che il tuo è un battito più… spirituale, ecco».

La fissai attento, bevendo ogni sua parola, e un velo, accompagnato dal fastidioso prurito di poco prima, mi annebbiò la vista. Dio, stavo diventando una femminuccia: che vampiro rammollito!

«Sul serio?» sussurrai e qualcosa nel mio tono suonava timoroso. Forse perché avevo paura di scoprire che tutte le orribili idee che avevo associato alla mia figura leggendaria non erano altro che insensati castelli di carte.

«Certo. Ti fidi di me?».

Nessie riportò la sua manina candida sul mio petto dove l’avevo posata poco prima e improvvisamente un flusso di immagini colorate mi sbocciò davanti agli occhi. Tutti i ricordi di mia figlia che mi stava trasmettendo tramite il suo potere speciale per avvalorare la sua tesi: io che stringevo Bella tra le mie braccia e la baciavo piano, tutte le carezze che davo a Renesmee quando per lei era ormai ora di andare a dormire e tutt’un altro ventaglio di immagini che non potevano dimostrare altro che la mia capacità di… amare.

«Sì» risposi sicuro.

Il mio petto all’apparenza era ancora silenzioso, ma all’improvviso, scavando più a fondo, riuscii a sentire qualcosa, come un piccolo tonfo, al mio interno anche se non seppi dir bene dove. E quel qualcosa, dapprima lentamente e poi sempre più veloce, iniziò a pulsare proprio come un cuore vero. E, soprattutto, vivo. Ero un principe azzurro, no? Sì, e un principe azzurro che si rispetti ama la sua principessa e il suo cuore batte follemente per lei.

 

Il suo profumo era ottimo, come sempre. Un misto di fresia, lavanda, gelsomino… zucchero filato, forse. Un bouquet unico e originale, che però a chiunque altro sarebbe sembrato banale, uguale a mille altri odori. Ma per me aveva una nota diversa. Avrei potuto riconoscere quel profumo inebriante tra mille, a mille chilometri di distanza. E ora che era così vicino a me, che tutti i miei sensi erano rivolti verso la sua fonte, totalmente ubriaco di quella fragranza quasi da perdere me stesso, ero del tutto incapace di formulare un qualsiasi pensiero anche solo lontanamente razionale. Non importava l’ambiente attorno, non importavano gli sguardi curiosi della gente… importava solo quel profumo, che era affiorato così spesso nei miei pensieri. Che era stato il centro della mia esistenza per un certo periodo, la mia dannazione, la mia esasperazione, il mio peccato che colpiva senza pietà là dove avevo la mia costola staccata e il cuore scoperto. Ma molto più importante era la sorgente di quella fragranza tentatrice. Un paio di occhi castani, dalle iridi vellutate e profonde, mi fissavano intensamente, esprimendo troppe e troppo complicate emozioni per essere elencate o anche solo decifrate. Ondulati capelli dello stesso colore, acconciati elegantemente per l’occasione, accarezzavano con grazia il suo viso sottile e pallido a ogni movimento. Le sue labbra rosee e invitanti, morbide alla sola vista, erano inarcate in un sorriso divertito, che spandeva nell’ambiente la felicità proveniente direttamente dal suo cuore. E dal mio. Le mie braccia fredde la stringevano con un’attenzione accurata, quasi maniacale, come se tra le mani avessi un prezioso oggetto di vetro pregiato. Delicatissimo. Bellissimo. Il nostro volteggiare tranquillo e lento era sottolineato dal fruscio del suo vestito blu scuro, che andava al ritmo della delicata musica di sottofondo, probabilmente un pezzo soul, non so.  Se non fosse stato per quei due insignificanti elementi e gli sguardi che continuavano a lanciarci gli altri ragazzi, avrei potuto benissimo trovarmi in un mondo fatato. Magari anche in paradiso: tutto era così meraviglioso…

«Sei bellissima».

Fu tutto ciò che riuscì a uscire dalle mie labbra secche con un tono di voce arido, annientato da tale splendore. Bella sorrise e un lieve rossore si allargò sulle sue guance e, mentre abbassava lo sguardo imbarazzata, una ciocca di capelli le scivolò davanti al viso. Allungai una mano per rimettergliela a posto dietro all’orecchio e i nostri volti si avvicinarono ancora di più. La mia mano si fermò a mezz’aria come paralizzata: ormai il mio cervello aveva dato forfait. Ma chissenefrega… E senza che me ne rendessi conto, sfiorai dolcemente la sua guancia morbida come una pesca: freddo e caldo si fusero in un tepore invitante. Forse quel gesto innocente fece sbiadire l’imbarazzo di poco prima, fatto sta che i suoi occhi trovarono il coraggio di tornare a fissarsi nei miei. Ora fui io a sorridere. Che sensazione strana. Eppure mi sentivo così bene… e così stupido… ma pur sempre così bene. Tutto il resto continuava attorno a noi con il suo ritmo consueto, indifferente al nostro piccolo paradiso privato. Ora il volto di Bella, pieno di un’innocenza tale che poteva avere solo quando era ancora umana al ballo di fine anno, si avvicinò al mio orecchio e con voce melodiosa sussurrò: « Anche tu sei bellissimo. Perfetto». Mi discostai un poco per guardarla ancora una volta negli occhi. Nessuna cosa aveva mai emanato così tanto amore come quello sguardo acceso e luccicante e me ne compiacqui. Così bella e dolce… eppure così fragile e indifesa. Il mondo era troppo difficile, crudele, per una creatura così sensibile.

«Tutto è perfetto ora» dissi. E nulla mi sembrò più vero.

La distanza tra noi due si ridusse a zero e finalmente potei assaporare la sue labbra zuccherate. Un’ondata di calore indescrivibile mi trapassò da parte a parte, invadendomi dalla punta dei capelli a quella dei piedi. Per un momento mi sembrò perfino che il mio cuore morto avesse ricominciato a battere velocissimo, forse per recuperare i battiti di un secolo intero. Mi sentii svuotato, riempito di nuovo di non so bene cosa e poi squarciato ancora. Il tutto con immenso piacere. Le sue labbra non davano segno di volersi staccare dalle mie e anche quando l’avrebbero fatto il sogno non si sarebbe interrotto. Per una volta il sogno era realtà. Era davvero tutto perfetto.

«Papà?».

Una vocina cristallina e familiare mi risuonò nelle orecchie, facendomi voltare e guardarmi attorno, ma intorno a me vedevo solo una sala da ballo e Bella che sorrideva tra le mie braccia.

«Papàààààà?!?».

La voce continuò, ora con una sfumatura scocciata. Poi qualcosa di caldo mi sfiorò al guancia, ma Bella adesso non c’entrava, e mi fece correre un brivido lungo al schiena. E con uno strappo prepotente la scena del ballo sparì davanti ai miei occhi, per essere prepotentemente sostituita dall’immagine di una bambina dai riccioli bronzei, gli occhi color cioccolato che risplendevano di una strana luce, le braccia incrociate, di fianco a quello che sembrava un corpo morto accasciato su un letto: ehm… io. Quasi come se mi avessero strattonato e spinto senza tanti complimenti, ripiombai nella realtà con un balzo sul letto matrimoniale su cui ero sdraiato fino a un attimo prima. Renesmee ritirò la sua mano calda dalla mia guancia (ricordai la strana sensazione di poco prima) e mi fissò scuotendo il capo.

«Credevo che i vampiri non dormissero» disse.

«Ehi!» esclamai scattando in piedi. «Io non stavo dormendo!».

Oppure sì? Mi fermai per un attimo: mi era appena sorto un dubbio. In quasi un secolo di costante vigilanza non mi era ami capitata una cosa del genere. Eppure i vampiri non dormono, e quindi non sognano, accidenti! Anche se, forse… All’improvviso il mio cervello si mise a rovistare tra montagne di scartoffie e alla fine ne tirò fuori una probabile risposta: me ne aveva parlato Carlisle tempo fa, credo. Non si trattava proprio di dormire  sognare, era una specie di stato catatonico in cui i vampiri potevano cadere, una forma di semi-veglia a occhi aperti che poteva presentarsi, anche se raramente, quando si è sottoposti a una forte dose di stress (e sapevo benissimo quale al momento era la mia principale fonte di apprensione). Quindi mettiamola così: il mio cervello era andato in stand-by e mi ero immaginato (o meglio, avevo rielaborato, ricordato) tutta la scena di io e Bella al ballo studentesco. Per un attimo mi sentii deluso: se solo quel sogno fosse stato vero… Anche se si era allontanata da casa da solo… mmm… un paio di giorni? neanche… be’, mia moglie mi mancava già da morire.

«Sì, e io sono un licantropo!».

L’esclamazione di Nessie mi punse la mente indispettita, intrufolandosi senza tante smancerie tra le mie riflessioni. Ma tanto sapevo già di partenza che in qualunque dibattito l’avrebbe avuta vinta lei. Non ricordavo bene cosa era successo; dopo quel profondo discorso su “come nascono i bambini” io e mia figlia eravamo rimasti a chiacchierare del più e del meno ancora per molto, finché lei era scena in cucina a fare non so bene cosa (ah, già, probabilmente a raccattare qualcosa da mangiare) e io mi ero sdraiato sul letto. Sì, doveva essere stato lì che mi ero “addormentato”. Ah, basta, mi serviva proprio una vacanza! Mi scompigliai ancora i di più i capelli, sbattei le palpebre e la guardai più attentamente. Nessie sembrava tutta eccitata e si vedeva lontano un miglio che si stava trattenendo dal mettersi a saltellare qua e là e a strillare. Che diavolo era mai successo? Ebbi subito la riposta.

«Vieni, dai! La mamma è tornata! E c’è anche Jacob!».

 

Ok capitolo lungo... e orrendo. No, davvero, mi è venuto un po' così (e mi vorrete perdonare). Non mi convince granchè. Vabbè se non altro è finita la fase sentimentale-lagnosa-zuccherosa. Però come potete notare l'argomento di sta ampliando, ora non si parla più solo del rapporto Ed/Nessie ma anche delle paure e dell'io interiore del nostro bel vampiri. Scusate ma non posso resistere alla tentazione di analizzare la sua mente straordinariamente complessa: l'adoro! Il prossimo sarà un po' più in stile Nessie, anche se non so bene con che cosa andare avanti, non ho idee. Perciò SONO GRADITISSIMI SUGGERIMENTI DI OGNI TIPO PER LA CONTINUAZIONE DELLA TRAMA (anche idioti, ma non troppo), voglio un po' vedere cosa vi viene in mente. Poi ringraziamenti:

Deb, ilesnape, eika, fantasia: grazie 1000000000000000000000000 davvero non mi stancherò mai di dirlo! :) e scusate per il ritardo, ma sono un essere tremendamente pigro XD

Padfoot_07: le tue recensioni mi piacciono davvero tanto: mi fanno sentire importante! Hai proprio colto nel segno nella distinzione tra Jacob ed Edward: una cosa è l'amore della propria vita, quello che diventerà il compagno di Nessie, un'altra è suo padre (che ovviamente adesso ha la precedenza!). Vabbè poi il resto l'hai già detto tu XD non è che sei qualcosa tipo un critico letterario eh?

Maka_Envy: spero di non averti deluso con questo capitolo! grazie anche a te!

pinkgirl: Be', credo che Eddy se la sia cavata piuttosto bene no? E sì, questa ff è fondata soprattutto sulle sue insicurezze, personificate da Nessie

MimiMiaotwilight4e: spero di aver soddisfatto anche te con questo cap! Se non altro a descrivere le scene dolci e stucchevoli sono brava no? grazie

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Capitolo 7
*** Ritorno ***


style="">7.   Ritorno

 

Non seppi con precisione quale fu il primo pensiero che mi attraversò la mente, se era di gioia o di sorpresa, fatto sta che, non so bene come, mi ritrovai in un baleno nel nostro piccolo e confortevole salotto con Nessie tra le braccia. E non rimasi per niente deluso: proprio lì, infatti, in piedi davanti alla finestra, mi aspettava Bella, raggiante e bellissima come sempre. Mi sembrava di non averla vista da un secolo da tanto che mi era mancata e riassaporai il suo dolce profilo, le sue labbra rossastre, i suoi capelli vellutati che le scendevano come un’onda di cioccolato lungo la schiena e quegli occhi brillanti dalle iridi color topazio che sembravano risplendere nel buio. Rimasi per un attimo senza fiato, ammirandola come avevo fatto la prima volta tanto tempo prima: possibile che mi fosse toccata in sorte una tale creatura? Chi ero io per vestire i panni dell’amore della sua vita? Ero rimasto talmente incantato dal sorriso smagliante di mia moglie da non notare, seduto (o meglio stravaccato) molto comodamente su una delle poltrone, un individuo che ben conoscevo.

«Jacob!» strillò mia figlia liberandosi dalle mie braccia per correre incontro la suo caro amico licantropo.

«Ehi, Nessie! Quanto mi sei mancata! Sbaglio o sei cresciuta ancora?» esclamò Jacob prendendo la piccola sulle sue ginocchia con una risata cristallina. Ma che bel quadretto. Senza farlo apposta mi ritrovai a pensare che… sì, insomma, Jacob sembrava così naturalmente a suo agio con mia figlia in braccio, sembrava così bravo a farle da padre. Mentre io… Oh, ecco che ci risiamo Edward! Ricominciamo con questa storia? Dopotutto ha detto che sei TU il suo principe azzurro e non Jacob, giusto? Sì, ma in ogni caso lui mi sembrava così adatto, così migliore di me. Sarebbe dovuto essere lui il padre di Renesmee non io, non io. Lui la conosceva davvero, io avevo solo aperto la prima pagina di un lungo libro. Nell’osservare quella piccola scenetta spensierata mi si formò un intricato garbuglio di emozioni nel petto, che mi premette sui polmoni fino a farmi soffocare.

«Edward?».

Una voce melodiosa mi giunse all’orecchio e il sentirla pronunciare in un sussurro così dolce il mio nome mi fece correre un brivido lungo la schiena. Mi ero quasi dimenticato di Bella tanto i miei pensieri si erano focalizzati su Nessie e Jacob. Non fu necessario voltarmi per costatare che ora si trovava al mio fianco; potevo sentire chiaramente il suo respiro regolare sulla mia guancia. Istintivamente socchiusi gli occhi per assaporare ogni singola nota di quella voce celestiale e un lieve sorriso si allargò sul mio volto.

«Mi sei mancato. Tanto».

«Anche tu. E non immagini neanche lontanamente quanto. È stata una tortura non averti qui per tutto questo tempo».

«Ma si è trattato solanto di un paio di giorni». La sua risata mi giunse squillante.

«Un paio di giorni d’inferno, allora».

Allungai un braccio per cingere la sua vita sottile e stringerla contro di me: quanto mi era mancato quel contatto così confortante. E in men che non si dica, senza nemmeno sapere bene come, le mie labbra furono sulle sue e poterono finalmente assaporare ancora una volta il loro sapore zuccherato e tremendamente invitante, che era latte e miele per me.

«Immagino» sussurrò ancora, quando si fu allontanata da me. «Soprattutto quando si tratta di fare il baby sitter».

Sorrisi ancora, ma questa volta si trattava di un sorriso ironico.

«No, è stato interessante stare con Nessie. E anche istruttivo, sì».

«Be’, allora spero di avere al più presto l’onore di ascoltare le mirabolanti avventure di Messer Edward Cullen…».

Ecco, un’ulteriore conferma: ero davvero un principe o no?

«Non mancherò» risposi e, mentre mia (anzi, nostra) figlia era ancora alle prese col suo animaletto preferito, le mie labbra incontrarono ancora quelle di Bella. Per un attimo pensai allo strano “sogno” di poco prima e conclusi che quell’accozzaglia di immagini non era minimamente all’altezza dell’originale, che nessun sogno poteva mai eguagliare quello che stavo provando in quel momento.

Quello era in assoluto l’istante migliore della mia vita, o almeno della mia vita da due giorni a questa parte. Ed eccomi lì, in quel salotto dall’atmosfera così calda e accogliente, circondato da persone che mi volevano bene e alle quali volevo bene (ok, lo ammetto, provo un po’ di affetto anche per il cucciolo). E, cosa più importante di tutte, avevo di nuovo Bella al mio fianco e ciò non faceva altro che aumentare la mia forza e la mia autostima. Il vago dubbio di non essere all’altezza che mi aveva colpito poco prima era crollato all’istante non appena avevo rivisto il centro del mio piccolo universo, la risposta a tutti i miei perché e per come. Sorrisi ancora, ma sentivo che per quante volte avessi costretto i muscoli facciali in quella posa nessun sorriso sarebbe andato sprecato. Stavo per dire qualcosa a Bella quando sentii qualcosa vibrare nella tasca dei miei jeans: il mio cellulare. Risposi senza esitare e senza nemmeno guardare il numero.

«Pronto?».

«Spero che tu abbia rimesso tutto a posto. E quando dico tutto intendo proprio tutto!».

Merda. Conoscevo benissimo quella voce e ancora meglio il tono leggermente irritato e minaccioso con cui aveva pronunciato quelle parole. Feci una smorfia, indeciso sulla scusa migliore da dare, e Bella mi guardò con un cipiglio interrogativo. Sicuramente si stava chiedendo con chi stessi mai parlando.

«Ehm, veramente io… ti giuro, non era mia intenzione…».

«No, no, caro. Non voglio le tue scuse…».

Feci un breve sospiro di sollievo.

«…appena torno mi aspetto qualcosa di più. Molto di più, oh, sì. Come minimo dovrai rotolarti per terra strappandoti i capelli e pregandomi in aramaico di perdonarti» continuò la voce, ora con una nota divertita.

Peccato, pensai, il mio repertorio di lingue straniere non includeva l’aramaico. Andava bene lo stesso l’arabo?

«Vabbè, comunque non ti ho chiamato per dirti questo».

«Ah, no? Cavolo, avrei giurato il contrario!».

Una breve risatina sciolse per un attimo quel tono freddo. «No, avrò tutto il tempo di torturarti, insultarti, minacciarti e umiliarti appena saremo tornati».

«Tornati? Come…?».

«Sì, hai sentito benissimo: ora ci troviamo dalle parti di Vancouver e Carlisle pensa che per domani mattina, al massimo nel pomeriggio, saremo di nuovo a casa».

«Oh, non dirmi! Non vedo l’ora!», feci una smorfia a metà tra il contento e il preoccupato, «Be’, allora salutami tutti».

«Certo. Fai altrettanto. A presto, fratellino!». E chiuse la comunicazione.

Non sapevo bene il perché, ma quel “a presto” celava qualcosa di inquietante: un’evidente minaccia, una prolessi di ciò che mi sarebbe capitato di lì a poco. Alzai gli occhi dal cellulare e, come avevo previsto, incontrai gli sguardi incuriositi di Bella, Nessie e Jacob, che probabilmente erano stati fissi su di me per tutta la durata della telefonata.

«Era Alice» annunciai mentre ancora la sua voce musicale mi risuonava nelle orecchie. «Ha detto che lei, Jasper, Carlisle ed Esme torneranno entro domani mattina, tutt’al più nel pomeriggio».

Jacob scosse la testa, sospirò e mormorò tra i denti qualcosa che doveva suonare come un “vampiri” (la sua vena ironica contro gli individui della nostra specie era dura a essere estirpata), Nessie saltò giù dalla poltrona e, emettendo strilletti di gioia, si mise a saltellare in giro per la stanza e Bella mi sorrise ancora un volta.

Tutto stava tornando alla normalità, a quanto pareva.

Per chi per caso se lo fosse chiesto, ebbeno no non sono morta e non ho smesso di scrivere. Lo so è un'era che non aggiorno e di questo mi vergogno profondamente; ma credetemi avevo i miei buoni motivi (nelle ultime settimane non ricordo di aver fatto qualcosa di diverso a parte studiare, studiare e... mmm, sì, studiare). Quindi mi vorrete perdonare e spero anche che per questo interminabile ritardo non mi avrete abbandonato, verooooo? Mi vergogno anche per questo capitolo così corto e così orrendo: ma si tratta di un capitolo di passaggio! (a dir la verità, non avevo molte altre idee su cosa scrivere, così... eh, sì mi sono bloccata un po'). Be', comunque aspettate e state certe che nel prossimo chap non vi deluderò!

Deb: no, Edward non ha dormiro. Come ho già detto il suo cervello è andato momentaneamente in stand-by (diciamo che si è andato in oca, ecco) e ha "rivisto" la scena del ballo descritta in Twilight (modificata, ovvio). Grazie per la recensione! Continua a leggermi!

MimiMiaotwilight4e: contenta che ti sia piaciuto. Sì, anche Eddy sa essere originale: dopotutto non è così imbranato eh? Grazie anche a te!

Maka_Envy: ecco il prossimo capitolo con un po' ritardo (scusa!). Grazie per i complimenti e, ti prego, non metterti più a piangere!

Padfoot_07: sìsì' continua a sproloquire: lo adoro! *_* spero di aver "fatto centro" anche questa volta (forse). Ma i prossimi chap saranno di certo più interessanti per la tua critica. Ps: no, dai, Eddy li porta bene i suoi 110 anni o giù di lì

Lady Padfoot: in effetti il mio intento era quello di scoprire il suo lato più umano, mettere in risalto le sue paure e le sue debolezze, far vedere che non è il diointerra presentato nel libro... Be', comunque non mi metto certo al livello della Meyer. Grazie tante!

See you soon, guys!

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Capitolo 8
*** Sfida ***


8.   Sfida

Evidentemente non ero l’unico ad essere contento del ritorno di Bella, visto che quella mattina anche il sole sembrava volerle dare il suo benvenuto. Un disco giallognolo e anche un po’ smorto faceva ogni tanto capolino tra le nubi biancastre: questa era per Forks una classica giornata assolata. Eravamo tornati alla “base” e Bella, dopo avermi lanciato un’occhiata a metà tra l’esasperato e il sorpreso, aveva concentrato tutta la sua attenzione sui muri della cucina che ovviamente avevo dimenticato di pulire. E senza tanti complimenti aveva liquidato me, Nessie e Jacob in giardino “a giocare”, mentre lei si armava di detergenti, stracci e diavolerie del genere.

L’erba era ancora bagnata dalla recente pioggia e qua e là si aprivano come piccoli laghetti tante pozzanghere piene di fango: il luogo migliore dove divertirsi senza tornare a casa imbrattati da capo a piedi. L’aria era frizzante e l’umidità rendeva il respiro pesante come al solito; potevo sentire l’umidità condensarsi in tante piccole goccioline sulla mia pelle fredda. Mentre io cercavo lo scroscio familiare del fiume, Jacob e Nessie, senza neanche pensarci due volte e non badando affatto al fango e all’erba bagnata, si erano lanciati in una corsa sfrenata attraverso il prato. La loro risata cristallina mi punse le orecchie, facendomi corrugare la fronte, mentre osservavo Jacob che cercava di prendere la bambina, che però sgusciava subito via tra le sue mani come un pesce. Per un attimo mi venne da deridere la goffaggine con cui il licantropo stava dietro a mia figlia, ben diversa dai movimenti aggraziati e fluidi di noi vampiri.

Ma poi mi accorsi di una cosa: loro si stavano divertendo e ridevano, io ero ancora lì fermo, impalato e solo. Nessie giocava con Jacob. Non con me. Nessie rideva con Jacob. Non con me. Nessie… mi ignorava del tutto ora che la persona a cui voleva più bene al mondo era tornata a farle compagnia. Mi sentivo umiliato, rifiutato, ignorato. Messo da parte. Era come se non fossi neanche lì: era come tutte le altre volte. Sì, perché io per lei, per quel genere di cose non c’ero mai stato. Ero sempre scappato. Non avevo mai voluto provare, non avevo mai voluto accettare la sfida; e ora ne pagavo le conseguenze. Per un paio di giorni mi ero illuso di potercela fare, che in fondo ero nato per quello. Ma ora che vedevo Jacob giocare con il mio (anzi, il suo) cucciolo, be’, tutto mi stava crollando addosso come un castello di carte mal costruito. E questa volta non si trattava di un piccolo attimo di insicurezza, come quello in cui ero rimasto impigliato poco prima davanti al mio rivale di sempre. No, in quel momento seppi. Ebbi la certezza che non sarei mai stato migliore di Jacob, che non sarei mai stato in grado di sostituirlo nel posto che occupava nel cuore di mia figlia. Anzi, non sarei mai stato migliore, ma probabilmente non sarei mai stato nemmeno peggiore. Forse era soltanto per consolarmi, ma constatai che io e Jacob eravamo completamente diversi e che, quindi, anche il ruolo che avremmo avuto nella vita di Renesmee sarebbe stato differente. Non potevano essere paragonati i sentimenti di Nessie nei nostri confronti. Era un po’ come se avessi domandato a Bella se amava di più me o sua figlia. Sospirai. Però rimaneva il fatto che Jacob era una figura calda (in tutti i sensi) e pulsante di affetto per Nessie: si era guadagnato il suo amore e ogni giorno lo coltivava come un giardino rigoglioso. Io ero legato a lei per un obbligo: anche se mi avesse odiato per tutta la vita sarei rimasto in ogni caso suo padre. Ero soltanto un simbolo freddo e distaccato. Mossi qualche passo verso di loro, imbarazzato e incerto su cosa fare. Forse mi aspettavo che si accorgessero di me e mi invitassero a giocare con loro, proprio come un bambino timido e impacciato. Peccato che avevo ormai più di cento anni e avrei dovuto avere una certa esperienza della vita.

Ero stato talmente preso dalle mie elucubrazioni da non notare che ora stavano giocando con un pallone spuntato da chissà dove. Rimasi lì immobile ancora qualche minuto ad osservare attentamente ogni loro singolo movimento, poi mi arresi ed andai a sedermi su una panchina lì vicino. Sospirai di nuovo e presi una decisione: sarei rimasto lì a fare presenza ancora cinque minuti poi avrei battuto la ritirata in casa (come sempre). Altre risate e un urletto di Nessie accompagnato da un’esclamazione divertita. Avrei tanto voluto tapparmi le orecchie e mettermi ad urlare a squarciagola pur di evitare quel suono che mi pungeva come un ago i timpani. Mi concentrai sulla pozzanghera davanti a me, analizzando con cura il colore grigiastro dell’acqua sporca e le leggere increspature che un leggero alito di vento disegnava sulla sua superficie. Il tutto per evitare di posare la mia attenzione sull’ambiente circostante e ciò che lo animava. Poi all’improvviso qualcosa di troppo veloce da poter essere identificato all’istante entrò nel mio campo visivo e fu subito accompagnato da uno spruzzo dell’acqua della pozzanghera, che mi bagnò e imbrattò di fango i jeans e mi fece sussultare. E mentre ancora il mio sguardo andava a intermittenza dal pallone nella pozzanghera ai miei pantaloni sporchi, una voce baritonale mi raggiunse alle spalle.

«Oops. Scusa tanto, Ed», e fu subito seguita da una risatina.

Mi voltai e incontrai il sorriso divertito di Jacob, i cui occhi, come i miei poco prima, scrutavano il luogo del misfatto. Una frazione di secondo dopo arrivò Nessie di corsa e, aggrappandosi alla maglietta del licantropo, mi guardò anch’essa cercando di soffocare una risata.

«Ma, papà, che hai fatto? La mamma di arrabbierà!»m esclamò tutta sorridente e si nascose il volto tra le mani per non far vedere che stava ridendo. Che stava ridendo di suo padre.

«Fa niente. Non ti preoccupare» dissi e la mia voce mi suonò dura e acida.

Mi irrigidii e una profonda vergogna mi colò addosso, ricoprendomi da capo a piedi, facendomi venir voglia di diventare invisibile. Abbassai di nuovo il mio sguardo sui jeans: l’onda d’acqua e fango alzata dalla pallonata mi aveva investito in pieno e dal ginocchio in giù i pantaloni erano completamente fradici e inzaccherati, mentre qualche goccia era perfino riuscita ad arrivarmi fino alla cintola. Wow. E all’improvviso, mentre la rabbia mi saliva al cervello come il mercurio in un termometro messo sul termosifone, strinsi i pugni e cominciai a sentire caldo. Ignorando mia figlia che continuava a ridersela, squadrai Jacob, certo al cento per cento che la pallonata l’aveva tirata lui (e magari anche di proposito) e cercai di mettere in quello sguardo tutto l’odio che potevo. Evidentemente l’altro se ne accorse, visto che in un nanosecondo il suo sorriso idiota fu cancellato dal suo volto, anche se i suoi lineamenti continuavano a trasudare una certa soddisfazione, forse un qualche ignoto senso di superiorità. Forse lo stesso che animava i bulletti che se la prendevano con il bambino timido e impacciato.

«Vabbè…» esordì poi il licantropo, battendo in ritirata, «…scusami tanto, non era mia intenzione di… Forse è meglio se vai dentro a darti una ripulita».

«Sì, certo» risposi in un sussurrò ancora più acido. «Forse è meglio». Anche perché sennò ti appenderei subito a un albero.

Mi alzai con movimenti misurati e sentii i jeans bagnati aderire alla pelle. Feci per dirigermi verso la casa, cercando di ignorare mia figlia, che continuava a ridere di quella situazione che per lei era soltanto una situazione comica, quando invece per me significava ben altro. Mi sentivo sfidato, messo in ridicolo da Jacob, che aveva appena palesato quanto facessi “ridere”, in tutti i sensi, come padre. O forse ero solo io che stavo diventando una checca isterica che trova congiure in ogni cavolata?

«Ehm, Jacob?». Mi voltai: avevo un idea.

«Sì?» rispose quello sorpreso.

«Stavo pensando… Ti andrebbe di fare una gara? Visto che non abbiamo niente di meglio da fare qui…».

Sentendo queste parole prese un cipiglio perplesso: probabilmente si era aspettato che lo richiamassi per dirgliene quattro. Ma, no, la mia strategia di rivincita era molto più fine: così forse anche Nessie si sarebbe accorta che non valevo meno di quel randagio pulcioso. Ci eravamo già sfidati in precedenza più volta per Bella, ma ora c’era in ballo l’affetto e l’ammirazione di mia figlia per me. Insomma, in qualche modo dovevo far valere la mia autorità.

«Ehm… sì, ok, come vuoi» disse Jacob ancora scettico e facendo spallucce. «Ma che genere di sfida?».

«Non ti preoccupare. A quello penso io».

E sorrisi.

 

Era stupido, lo sapevo. Infantile. E per un comune essere umano anche molto pericoloso, per non dire potenzialmente mortale. Il fiume ruggiva minaccioso sotto i nostri occhi. Le sue acque scure erano rese torbide e minacciose dalle recenti precipitazioni, più abbondanti del solito in questo periodo. La corrente era molto forte e gli argini trattenevano a stento la sua impetuosità, minacciando di straripare da un momento all’altro. Tra i flutti che portavano via residui di ogni genere, da sassi e sabbia a tronchi di alberi interi, facevano qua e là capolino gli spuntoni di grosse rocce affilate, segno che il fondale del fiume era parecchio dissestato. Qualsiasi persona normale si sarebbe ben guardata da quella specie di bomba ad orologeria, di catastrofe naturale pronta a scatenarsi. Ma un fiume in piena per un vampiro e un licantropo non era più pericoloso di uno stagno, visto che nessuno dei due poteva morire. Io perché ero già morto da almeno un secolo, e poi Jacob e i suoi amici si divertivano a buttarsi dalle scogliere! Nessie ci aspettava dall’altra parte del fiume, seduta su un grosso masso nei pressi della riva, e la sfida consisteva nell’attraversare a nuoto il fiume. Il primo che raggiungeva la bambina avrebbe vinto. Le regole erano chiare, cioè che non c’erano regole, a parte il fatto che bisognava nuotare e non superare il fiume in altri modi (altrimenti mi sarebbe stato troppo facile con un semplice salto). Jacob aveva accettato di buon grado, non tenendo conto che io, a differenza di lui, potevo benissimo stare sott’acqua senza respirare per un tempo indefinito: vabbè, particolari. Quasi sicuramente il lupo non aveva capito i fini di tutta questa messa in scena, ma aveva comunque accettato di mettersi alla prova: forse anche lui voleva dimostrare di essere il migliore per Nessie. Peccato, perché avrebbe perso di certo.

«Pronto?» dissi voltandomi verso di lui, al mio fianco sulla riva.

«Mai stato più pronto in vita mia» rispose con quel solito sorrisetto di sfida che odiavo tanto.

«Bene. Allora che vinca il migliore».

«Contaci».

«Al mio tre. Uno… Due…».

«Tre!».

Scattai in avanti come un lampo e quasi non mi accorsi del lupo bruno che correva di fianco a me. Ma in poco lo distanziai e mi tuffai nell’acqua gelida e impetuosa. Un semplice essere umano sarebbe immediatamente morto di freddo, mentre per me quell’acqua era soltanto tiepida. In un attimo fui sott’acqua, i miei vestiti appesantiti dall’acqua che mi limitavano un po’ nei movimenti: peccato, avrei fatto meglio a togliermeli. Tenni gli occhi chiusi, tanto sapevo che aprirli sarebbe stato inutile, visto che l’acqua era troppo torbida per poterci vedere attraverso, anche per la mia vista acuta. Così continuai a nuotare in linea retta, puntando verso l’altra sponda del fiume. Tenevo le braccia in avanti, nel caso avessi trovato qualche ostacolo, un masso o un tronco d’albero. L’aria non era un problema: potevo benissimo farne meno. E questo era un gran vantaggio, visto che, non dovendo risalire in superficie, innanzitutto non avrei perso tempo e poi non avrei corso il rischio di rimanere intrappolato nella risalita in qualche corrente avversa. Non che fosse un ostacolo insormontabile: infatti la mia forza riusciva benissimo a tener testa alla corrente che mi strattonava di qua e di là. Cercai di nuotare sempre più veloce; incontrai un masso e lo aggirai prima di proseguire spedito verso la riva: era un gioco da ragazzi. Non avevo idea di come se la stesse cavando il cane, ma sinceramente non me ne importava granché. Sentivo già il dolce suono della vittoria. Con il mio udito acuto sentii un tonfo alla mia destra e mi spostai di scatto, prima di venire travolto da un grosso tronco trasportato dal fiume come un fuscello. Per un pelo. Poi, man mano che avanzavo sempre dritto, notai che la profondità iniziava a diminuire: perfetto. Ancora qualche metro e la mia testa infranse la superficie, l’aria fresca mi punse il viso e penetrò in un’ondata nei miei polmoni, che si gonfiarono con piacere: ero troppo abituato a respirare per non sentirne la mancanza. Senza quasi accorgermene toccai la riva sassosa. Subito scattai in piedi, scostandomi i capelli fradici dagli occhi, anche se il peso dei vestiti bagnati mi impacciò per un attimo. La prima cosa che vidi appena aprii gli occhi fu Nessie. In un nanosecondo fu accanto a lei e, saltando con un balzo sulla roccia sulla quale sedeva, le presi la mano, urlando a squarciagola: «Primo!».

Ma la mia voce tonante non fu l’unica a sovrastare il rombo impetuoso del fiume. Insieme alla mia voce, allo stesso tempo, si era levato un alto ululato, accompagnato da un ringhio profondo. Lo seppi senza nemmeno voltarmi: Jacob, ancora in forma di lupo, un ruscello d’acqua che scorreva dalla sua folta pelliccia, era accanto a me e aveva il muso appoggiato in grembo a Nessie.

«Pari» dichiarò mia figlia, mentre io, come poco prima, mi irrigidivo per la rabbia. Non era possibile. Non era possibile che quel cagnaccio pidocchioso fosse riuscito ad eguagliarmi. Un basso sibilo mi vibrò in gola. Ero quasi sul punto di saltare addosso al lupo per rispedirlo in acqua, quando un grido familiare raggiunse le orecchie di tutti quanti.

«Ehi, voi! Ma si può sapere che cavolo state facendo lì?».

Bella si sbracciava sull’altra riva, chiamandoci a squarciagola.

Eccomi con un nuovo capitolo. Per tutti quelli che speravano di veder tornare Alice e gli altri mi dispiace ma dovrete aspettare il prossimo capitolo. E scusatemi per il ritardo (ormai è superfluo che lo dica, visto che non aggiorno comunque con regolarità). E scusatemi ancora di più se non sto qui a commentare di più il capitolo e non ringrazio tutte quelle brave persone che hanno recensito, soprattuto le nuove reclute (grazie davvero, i vostri commenti sono sempre fantastici!), ma aggiorno di corsa. La prossima volta avrò più tempo per i ringraziamenti come si deve, promesso.

Sperando che vi sia piaciuto anche questo chap, see you soon guys!

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Capitolo 9
*** Chiudi la porta ***


9.   Chiudi la porta

 

«Ma dico io… e per fortuna dovreste essere delle persone adulte e responsabili! Non posso credere che tu abbia osato trascinare Renesmee in una situazione del genere! E se fosse caduta in acqua? Eh? Mio Dio, non voglio neanche pensarci! Voi e le vostre dannate scaramucce da ragazzini!».

Mentre Bella continuava a inveire contro il mio comportamento così poco responsabile, io annuivo senza nemmeno ascoltare: il pareggio mi bruciava ancora troppo nel petto. Sentivo mia moglie andare avanti a lamentarsi, a infierire e lanciare esclamazioni e imprecazioni ancora tutta su di giri, mentre ritornavamo a passo spedito verso casa, con il mio avversario e mia figlia che ci seguivano, e ogni singola parola (seguita da parecchi punti esclamativi e domande retoriche) di Bella mi entrava da un orecchio e usciva dall’altro. Intanto io meditavo vendetta, la mia dolce vendetta. Lanciai un’occhiata alle mie spalle e vidi Jacob, fradicio quanto me, portare sulle spalle Nessie, che giocherellava distrattamente con i suoi capelli zuppi. Ovviamente anche lui si era subito una bella ramanzina da parte di Bella per avermi fatto da complice nella mia “condotta assolutamente indisciplinata”, ma tanto l’idea era stata mia (cosa che lui non aveva esitato a sottolineare), quindi sarebbe toccato a me sorbirmi l’altra parte di quella tiritera. Ma, come dicevo, il mio cervello continuava a macchinare diabolico, e ancora una volta mi sentii il povero bambino bistrattato che pianifica in un angolo il suo piano oscuro contro i bulli che lo hanno pestato. Ma probabilmente il suo rancore non l’avrebbe portato oltre la fase progettuale. Puntine sulla sedia? Nah, troppo semplice e patetico… Lassativo nelle crocchette del randagio? Un sorriso perverso mi si dipinse in volto e, se avessi avuto la possibilità di esprimere la mia risata da cattivo, sarei di certo apparso come un perfetto vampiro da film horror che medita di succhiare il sangue di qualche innocente vittima. Ma in fondo io non stavo facendo niente di così terribile, no? Si trattava solo di fargliela pagare con qualche scherzetto, roba così. Era una cosa così innocente e…

«…infantile! Sul serio, sembravate due ragazzini di dodici anni che si accalappiano per un nonnulla. Santo cielo, ma chi ho sposato?».

Le parole di Bella furono sottolineate da un risolino alle mie spalle e, senza neanche pensarci, guardai di traverso Jacob, che si zittì all’istante. E ascoltare i suoi insulsi pensieri irrisori mi fece innervosire ancora di più.

«Scommetto che Nessie avrebbe molto più buonsenso di voi due messi insieme».

Intanto, tra pensieri di vendetta e rimproveri, eravamo arrivati a casa e, proseguendo lungo un breve tratto di vialetto, non potei non notare la macchina di Carlisle parcheggiata lì davanti e un certo movimento all’interno. Erano arrivati: ecco perché mia moglie era venuta a cercarci. Subito un brivido insensato mi corse lungo la schiena e cercai di prepararmi qualche scusa decente per Alice, ma ormai eravamo già sulla soglia. Jacob fece per aprire la porta, ma qualcuno da dentro lo precedette e, senza nemmeno che mi fossi preparato psicologicamente all’evento, mi trovai davanti il folletto pestifero.

«Ma chi si vede…» disse squadrandomi da capo a piedi e non potendo fare a meno di trattenere un sorrisetto.

«Non credevo che sareste arrivati così presto» riposi passandomi una mano tra i capelli bagnati e cercando di renderli un tantino presentabili.

Continuò a squadrarmi attentamente senza dir niente, forse per cercare quale fosse la causa del mio aspetto così inconsueto… dopo avermi “visto” vestito da donna.

«Possiamo entrare? Sai, fa un po’ freddo qua fuori» intervenne Jacob.

Alice spostò repentinamente il suo sguardo da me al licantropo, guardando molto attentamente anche lui e notando gli abiti non molto asciutti che ci accomunavano. Poi arricciò il naso e con una faccia disgustata disse: «Puzzi di cane bagnato».

Quindi fu il mio turno ridere sommessamente e quello di Jacob assumere un’espressione turbata e offesa. Detto ciò, il mio piccolo folletto scomparve in casa come un fulmine, lasciando l’entrata libera per noi altri. Entrai senza curarmi del ruscello d’acqua che mi gocciolava ancora dai panni fradici e lasciando dietro di me una sottile scia bagnata sul parquet, mentre sentivo Bella accanto a me reprimere un grugnito di disappunto. Erano tutti lì, seduti comodamente sul divano in salotto. Appena ci vide entrare, Esme si fiondò su di me per abbracciarmi, mentre tutti gli altri si alzavano per accoglierci, ma si fermò subito quando mi vide tutto inzuppato, limitandosi a un veloce bacio sulla guancia. Intanto Jacob aveva fatto scendere Nessie dalle sue spalle e subito la bambina si era fiondata in braccio alla zia, che continuava a ricoprirla di baci e abbracci come un bombolotto.

«Accidenti, tesoro, ma che hai combinato?» domandò mia madre tutta premurosa come sempre. Oltre le sue spalle potei scorgere Carlisle che scuoteva il capo e Jasper che si copriva il viso per nascondere un risolino: di sicuro avrebbe immediatamente informato Emmett e da quella faccenda ne sarebbe uscita un’altra scommessa idiota: quanta acqua può trattenere Edward?

«Immersione fluviale con un licantropo» rispose Alice al mio posto, continuando a vezzeggiare mia figlia. «Anche se il tempo non è dei migliori… e il motivo del tutto stupido».

Esme mi guardò confusa, mentre io, se fossi stato umano, di certo sarei arrossito per la vergogna: avevo voglia di strappare via le assi del parquet e sotterrami. Aprii bocca cercando di balbettare qualche scusa decente e che, magari, mi rendesse meno ridicolo di quello che già parevo ai loro occhi (visto che, di sicuro, Alice aveva già parlato loro della faccenda del vestito), ma non ne venne fuori niente se non un borbottio incomprensibile e tartagliante. Per fortuna la mia Bella arrivò prontamente in mio aiuto.

«Stavano giocando con Renesmee e… be’, Jacob è accidentalmente caduto nel fiume, così Edward si è tuffato per tirarlo fuori».

Sgranai gli occhi e guardai sbalordito mia moglie. “Accidentalmente”, be’, mi avrebbe di certo fatto più piacere se fosse stato “per colpa di Edward”. Ihihih. Anche Jacob parve offeso da quella spiegazione così apparentemente eroica e guardò Bella di traverso, non gradendo affatto essere messo nei panni dello sbadato che “accidentalmente” cade nel fiume, la quale, in effetti, era la classica parte dello scemo del villaggio. Vidi Alice, che, invece, grazie ai suoi poteri, conosceva quella spiacevole verità, alzare un sopracciglio e posare Nessie a terra. Mi aspettai di vederla scoppiare a ridere da un momento all’altro, ma per fortuna non lo fece. Esme, Carlisle e Jasper, invece, si guardarono l’un l’altro poco convinti, ma, nonostante tutto, preferirono non indagare, mentre un gelo insolito seguiva le parole di Bella per invadere tutto il salotto.

«Ah, che bello essere ancora tutti insieme!» esclamò Esme con un sorriso, interropendo quel silenzio imbarazzante. «Ci siete mancati tanto, davvero».

Anche se cercò di coprire quella frase con un colpo di tosse, riuscii lo stesso a sentire Jacob. «Una pacchia quando non c’è di mezzo la bionda». Raccolsi l’ennesima occasione per fulminarlo con lo sguardo.

«Già… sì… anche voi» sussurrai a disagio: ormai i vestiti mi si erano attaccati fastidiosamente alla pelle come sacchetti di plastica sotto vuoto. Tutti i vestiti.

«Allora, Edward,» intervenne Jasper, lasciandosi cadere di nuovo sul divano, «settimana rilassante senza nessuno tra i piedi?». Ovviamente non mancò il solito sorrisino di circostanza.

Finsi di pensarci su un attimo. «Mmm, sì, soprattutto quando non ci siete tu ed Emmett a scommettere su quanti respiri profondi farò in un ora».

«O se ti dona di più il rosa o il giallo». All’improvviso mi ritrovai davanti Alice, con le braccia incrociate sul petto e un’espressione seria dipinta in volto. Ecco il fatidico momento.

«Ecco… io veramente… ti ho già detto che non era mia intenzione, che non è stata colpa mia… non oserei mai e poi mai…».

Mentre blateravo insensato, vidi Nessie fare capolino dietro ad Alice ed aggrapparsi alle sue ginocchia, guardandomi con lo stesso fare divertito di poco prima in giardino e facendomi la linguaccia. Maledetta mocciosetta! Repressi l’istinto di scattare in avanti a rincorrere mia figlia per tutta la stanza, deglutii e tornai a guardare negli occhi il mio nemico numero uno.

«Lei mi ha costretto!» dissi puntando il dito contro la bambina: che gesto ignobile per un padre.

Bella e Jacob mi guardavano straniti, non capendo a cosa si stesse riferendo Alice e cosa mai stessi cercando di giustificare, mentre gli altri erano tornati a farsi i fatti loro, discutendo del tempo e della loro breve gita nei pressi di Vancouver.

«Certo che no!» ribatté Alice, cingendo mia figlia con le braccia come a volerla proteggere. «Nessie sa benissimo quanto tengo a quei vestiti e, poi, stando a quel che ho visto, scusa tanto ma ha molto più senso dello stile di quello che hai dimostrato tu».

Ero finito. Mi sentivo intrappolato tra due scogli, tra i quali continuavo a dibattermi invano come un pesce fuor d’acqua. Lanciai uno sguardo disperato a Bella in cerca di aiuto, che però questa volta non riuscì a darmi. Vedendomi dunque solo di fronte a quella terribile forza della natura, feci l’unica cosa che mi rimaneva da fare. Mi misi in ginocchio davanti a lei con le mani giunte davanti al petto, con la conseguenza di schizzare altra acqua sul pavimento, e misi in atto il piano B, cioè Basta-darle-tutto-quello-che-vuole.

«Alice…» esordii assumendo un’espressione da cerbiatto ferito e abbassando la voce fino a farla risultare stridula e quasi lagnosa. «…ma tu mi vuoi bene, vero?».

Quella mi fissò di sotto in su come aveva fatto poco prima, ma questa volta con una sfumatura di dichiarato disgusto chiaramente leggibile in faccia. Ma che vuole fare quest’imbecille?, il suo pensiero mi diede il via libera per proseguire.

«Perché io te ne voglio tanto, sul serio. Ti ho mai detto che tu sei come una sorella vera per me? Non sopporterei mai l’idea di farti soffrire né quella di vederti triste o arrabbiata con me», cercai di rendermi ancora più pietoso e sbattei le palpebre con fare languido. «Morirei se solo sapessi di averti causato un dispiacere così grande».

Non puoi morire, idiota, pesò lei e la sua faccia trasudava biasimo e disgusto.

«Ma visto che non posso morire…», ripresi ritrovando un po’ di vigore, «…voglio farti un regalo».

Al solo sentire il dolce suono di quella semplice parola al mio folletto si illuminarono gli occhi neanche se Natale fosse arrivato in anticipo. Io sorrisi e andai avanti con il mio piano infallibile.

«Un… un regalo?» balbettò quella colta alla sprovvista.

«Ma certo! Quale modo migliore per farmi perdonare?» risposi io sfoderando uno dei miei migliori sorrisi.

«E che tipo di… regalo?».

Feci una breve pausa teatrale per creare un po’ di pathos, poi proseguii. «Hai presente quel vestito di Chanel che avevi visto a Seattle e che ti piaceva tanto?».

«Sìììììììììììì???». Ora i suoi occhi brillavano come le lucine sull’albero di Natale e la sua espressione si era addolcita all’istante, raggiungendo quasi una sfumatura ebete.

Mantenendo sempre un fare molto plateale, tirai fuori dalla tasca dei jeans fradici il mio portafoglio, anch’esso tutto bagnato, e da quello espressi il libretto degli assegni, che, a discapito di ogni mia aspettativa, era solo leggermente umido. Recuperai in un lampo una penna e le firmai un assegno da duemila dollari, che feci sventolare sotto il suo naso con fare trionfante: era un po’ come dare al cane il suo osso preferito. E a quel punto credei fermamente che a mia sorella stesse per prendere un infarto. Prese quel piccolo pezzo di carta con mani tremanti e contemplò ciò che vi era scritto su come un fedele estremista legge il suo testo sacro. Solo quando si accorse che tutto ciò era reale, dopo aver ammirato il tutto con fiato sospeso, si fiondò su di me gettandomi le braccia al collo e stringendomi forte.

«Oh, grazie grazie grazie grazie grazie grazie mille volte mille! E scusa se sono stata così dura con te, in fondo erano solo un paio di vestiti da nulla, tra l’altro neanche firmati! D’ora in poi se avrai voglia di provartene altri il mio armadio sarà sempre aperto per te!».

E mi stampò un grosso bacio sulla guancia, intanto che io cercavo di liberarmi dalla sua stretta soffocante. Dopo di che, senza aggiungere altro e senza degnare di uno sguardo gli altri presenti, men che meno Jasper (dato che ormai non aveva occhi che per il suo benefattore, ovvero io), si slanciò verso la porta, evidentemente desiderosa di fare subito buon uso di quell’assegno. Ma prima di varcare la soglia si voltò, ancora tutta raggiante, e mi rivolse un altro sorriso enorme e il suo ultimo pensiero che udii prima che scomparisse fu: comunque ti dona di più il rosa.

Rimasi lì e scossi la testa, gustandomi quel magnifico momento di vittoria, ubriaco di un’ebrezza che raramente avevo provato, quando sentii la mano di Bella sulla mia spalla.

«Io direi che forse è il caso di mettersi dei vestiti asciutti…».

 

Mi tolsi di dosso la camicia fradicia e la gettai con noncuranza sul divano della mia vecchia camera, rimanendo con addosso solo i jeans. Mi passai velocemente sui capelli un asciugamano che avevo appena recuperato in bagno, facendo scorrere tante piccole goccioline sul mio volto. Non trovando nelle vicinanze qualcosa che potesse assomigliare vagamente a un pettine, mi misi a posto i capelli alla bell’e e meglio con le mani, scostandoli da davanti la fronte, e diedi un occhiata al mio aspetto nello specchio. Anche se ero un vampiro con i superpoteri mi sentivo comunque strano, avrei osato dire stanco. Di certo tutti quegli eventi concentrati in così poco tempo (tutta la faccenda di Nessie e i trip mentali, il ritorno di Bella, la sfida al fiume e la corruzione di Alice) mi avevano lasciato ben poco tempo per pensare a me in senso stretto, per prendere le cose con un po’ di tranquillità. Mi sentivo la mente sovraffollata di pensieri e cose da fare, ansie e preoccupazioni da sbrogliare. Tirai un sospiro, fissando attentamente i miei occhi riflessi nello specchio. L’oro delle iridi stava pian piano sbiadendo per lasciar posto a qualche striatura nerastra: avevo assolutamente bisogno di andare a caccia. Forse era anche per quello che mi sentivo così… spossato; non trovai termine migliore. E poi tutta l’acqua che avevo assorbito, un bel po’, non aveva certo giovato alla situazione. Mi passai una mano sul volto, assaporando finalmente il silenzio che regnava in quella stanza e dirigendomi verso la vetrata che si affacciava a sud. Mi persi per qualche secondo ad osservare le nubi plumbee che, come al solito, ricoprivano la cittadina di Forks e all’improvviso provai un forte desiderio di buttarmi lì sul mio divano e rimanerci per ore in catalessi, magari ascoltando uno dei miei vecchi cd. Chiusi gli occhi per sgombrare la mente da ogni pensiero e sentii un brivido percorrermi la schiena quando qualcosa di soffice e vellutato mi sfiorò delicatamente la pelle. Poi un altro tocco leggero mi lambì la spalla e sentii un respiro profumato e regolare accarezzarmi il mento, facendomi rabbrividire ancora una volta. Braccia esili ma forti mi cinsero la vita e, voltando leggermente la testa verso destra, poi respirare abbondantemente l’odore di gelsomino che emanavano i suoi capelli setosi. Continuai a tenere gli occhi chiusi e costatai che era da tanto tempo che non mi sentivo così bene. E in un attimo mi sentii riscaldato da quella presenza alle mie spalle, che mi stringeva sé con delicatezza, facendomi sentire in una dolce prigione e facendo scorrere sul mio petto piccole dita affusolate, come sui tasti di un pianoforte. Tremai ancora, ma non per il freddo, visto che chi mi stringeva non era più gelido di me.

«Ti ho portato una camicia asciutta».

La voce di Bella mi giunse alle orecchie come una tenera ninnananna, insieme al suo fiato caldo. Le sue labbra erano vicinissime e sentii che se solo mi fossi mosso di mezzo millimetro avrebbero lambito la mia guancia. Un rumore indistinto mi sorse dal profondo della gola, forse simile al grugnito di chi non vuole alzarsi da letto anche dopo il suono della sveglia, bramando di ritornare al torpore del sonno e ai suoi rosei sogni. E io non volevo di certo svegliarmi da quel sogno. Il più lentamente che potei ruotai su me stesso, per trovarmi di fronte all’oggetto dei miei desideri. Le cinsi i fianchi con cautela, attirandola a me finché i nostri corpi non aderirono quasi del tutto e, sempre con una lentezza incredibile, poiché volevo assaporare ogni singolo istante, aprii gli occhi. Era lì davanti a me che mi sorrideva quasi divertita e, a dire la verità, per un attimo rimpiansi un poco il rossore che in una situazione del genere le avrebbe colorato le gote se fosse stata ancora umana. Potevo scorgere una certa elettricità nei suoi occhi color del miele e improvvisamente mi resi conto che per i miei gusti c’era un po’ troppa stoffa a dividerci.

«Camicia?» sussurrai sfoderando uno dei miei migliori sorrisi sghembi.

Anche lei sorrise. «Sì, sai, l’altra era tutta bagnata».

Presi le sue mani tra le mie e le portai sul mio petto, stringendole finché non mi sbiancarono le nocche. Per un secondo mi tornò in mente l’isola Esme, che sembrava appartenere a un’era fa, e ripensai all’imbarazzo e a tutta quella frenesia maldestra. Riuscii perfino a rivedere quella magica spiaggia, sentire l’acqua calda dell’oceano lambirmi i fianchi, la presenza luminosa e vigile della luna piena e… lei. Poi, all’improvviso, qualcosa mi riportò bruscamente alla realtà. Avvertii subito le labbra in fiamme, mentre un altro paio, vive e pulsanti di ebbrezza, vi si pigiavano contro quasi con violenza. Mi riscossi all'istante e ricambiai il bacio con lo stesso ardore, infilando le mani tra i capelli di Bella e attorcigliandoli attorno alle mie dita frementi. Dopo non molto venne quasi a mancarmi il fiato, ma nonostante tutto non demorsi, e continuai a cercare le sue labbra carnose quasi volessi cavarne il sangue. Una potente scarica elettrica mi percorse da capo a piedi quando Bella mi gettò le braccia al collo e riprese a baciarmi con avidità sempre crescente, per poi far scorrere le sue labbra bramose sulla mia gola, su e giù lungo la giugulare.

«Non credo che la camicia serva più a molto» sussurrai con un tono non molto sicuro a causa dell’emozione.

Lei si fermò un attimo a guardarmi e riuscii a scorgere un lampo di malizia nei suoi occhi, mentre io giocavo con l’etichetta della sua maglietta. Non ci fu bisogno di altre parole. Un attimo dopo il cigolio delle molle del divano accompagnò la caduta dei nostri corpi aggrovigliati. E poco dopo il resto dei vestiti andò a far compagnia alla mia camicia bagnata sul pavimento.

Ma, sfortunatamente, avevo trascurato un particolare…

 

Avevo sempre pensato che i famosi cartelli delle stanze d’albergo con su scritto “do not disturb” da appendere fuori dalla porta fossero una delle cose più stupide mai inventate. Credevo che la buona creanza di bussare prima di entrare bastasse a evitare spiacevoli inconvenienti e che, se proprio non si voleva vedere anima viva in giro, un giro di chiave avrebbe risolto qualunque problema. Ma quel giorno capii che, quando si tratta di privacy, la precauzione non è mai troppa, soprattutto quando ci si abbandona a certi atteggiamenti senza nemmeno avere l’accortezza di chiudere bene la porta.

La mia mente correva alta tra le nuvole, saltando oltre i cirri e scivolando sulla foschia. E ridevo come uno scemo nella mia corsa sfrenata, quando qualcosa di molesto iniziò a ronzarmi attorno al capo, facendomi aggrottare la fronte. Cercai di scacciare quella mosca fastidiosa, ma quella continuava persistere come una nube nera e minacciosa sul mio piccolo paradiso. Poi udii un suono brusco, come lo sbattere secco di una porta, e mi domandai se in quel paradiso ci fossero porte e soprattutto se le mosche fossero in grado di sbatterle. Quindi il confortante calore che mi avvolgeva sparì di botto e allungai le mani per cercarlo, sbandato da quel freddo improvviso. Socchiusi gli occhi appena in tempo per vedere Bella rivestirsi in tutta fretta, con un’espressione sgomenta, per poi sfrecciare fuori dalla porta, come se stesse rincorrendo qualcuno, e sbraitare: «Nessie! Nessie, tesoro! Vieni qui, ti prego!».

Un terribile sospetto mi prese: oh, cazzo.

E RIECCOMIIIIIIIIIII FINALMENTEEEEEEE con un nuovo chap che aspettavate in molti. Lo so lo so ho dato buca a questa ff per un bel po' (mea culpa) per vari motivi che non sto qui ad elencare. Però l'importante è che sia tornata ad aggiornare no? Quindi ecco qui per voi un nuovo capitolo... be' sta a voi giudicare. Spero vivamente che vi piaccia e che con questo sia riuscita a farmi perdonare la mia luuuuuunga assenza. Ringrazio (in netto ritardo):

Hikary_a18: grazie per i complimenti e continua a seguirmi!

Flockkitten: be' questo chap posso quasi dire di averlo partorito. Non proprio presto ma eccolo qui!

pinkgirl: grazie anche a te 100000 volte! Sì, in effetti la differenza tra Edward e Jacob è netta e fondamentale e per saperne di più continua a seguire la storia (che spero ora di aggiornare con più regolarità)

Padfoot_07: be' che dire? hai già detto tutto tu! E, sì, come ho già detto in altre occasioni questa ff è nata proprio per ovviare alla mancanza di scene di "quotidianità paterna" del nostro Eddy. Mi dispiace, ma Ed non poteva vincere nella gara, proprio perchè la parità simboleggia l'amore di Nessie nei confronti dei due personaggi: vuole loro bene allo stesso modo anche se di un bene completamente diverso, quindi, diciamo così, sono sullo stesso piano. Comunque Ed avrà occasione di rifarsi in futuro, tranquilla. Spero che ti piaccia anche questo chap e spero pure in un'altra bella recensione!

Ringrazio anche tutti coloro che hanno messo questa storia tra i preferiti, sperando che in questo lasso di tempo non si siano dimenticati di me!

E come al solito: recensite in tanti!

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Capitolo 10
*** Animale ***


10.   Animale

 

Era ormai sera inoltrata quando scesi al piano di sotto. Nonostante mi fossi fatto una doccia per cercare di rilassarmi, mi tremavano ancora le gambe per l’ansia. Avevo paura di sapere nei minimi dettagli ciò che era successo, di sapere cosa di preciso aveva visto Nessie, dato che in tutta la confusione che era seguita non mi ero ben reso conto della situazione. Mi sentivo uno schifo, anzi mi facevo schifo. Mi terrorizzava a morte ciò che avrebbe pensato Nessie e allo stesso tempo mi ero già maledetto centinaia di volte per non aver avuto l’accortezza di chiudere quella dannata porta. Oddio, magari l’avevo traumatizzata, anche se probabilmente non aveva capito quello che aveva visto. Imprecai contro la mia sbadataggine per l’ennesima volta. Entrai nella cucina silenziosa (la quiete dopo la tempesta, mi ritrovai a pensare con una punta di umorismo nero) e vi trovai Carlisle, intento a leggere il giornale, e Jasper, che guardava fuori dalla finestra appoggiato al davanzale con aria assorta. Alice era probabilmente ancora tutta presa dal suo vestito nuovo per preoccuparsi di quella faccenda così imbarazzante, con Esme che continuava a tessere lodi a destra e a manca. Bella, invece… Era ormai quasi da un’ora chiusa nella cameretta di mia figlia con lei a cercare di dare un senso, o meglio a giustificare, il misfatto.

Mi sedetti al tavolo, cercando di far finta di niente, quando, invece, mi sarei volentieri sotterrato per la vergogna. Nessuno dei due sembrava essersi accorto subito della mia presenza, anche se avevo notato uno sguardo particolarmente eloquente di Carlisle, lo stesso di quando io e Bella eravamo tornati dall’isola Esme. Potevo avvertire quasi concretamente il biasimo e, forse, la delusione, colare dai suoi occhi e scorrermi sulla pelle, facendomi venire i brividi.

«A quanto pare il debito pubblico è più grave del previsto» sbottò all’improvviso Jasper con un tono secco e aspro.

Alzai di scatto la testa e lo vidi nella stessa posizione di quando ero entrato nella stanza: di certo quando ero arrivato aveva percepito il mio disagio, anche se continuava a fissare il buio ingoiare il giardino fuori dalla finestra, senza degnarmi di una sola occhiata. Perciò fu difficile per me, non potendo vederlo in faccia, capire se quell’intervento fosse dettato dalla semplice beffa o da una più radicata disapprovazione. In ogni caso, mi sentii subito avvampare, strinsi i pugni e mi morsi il labbro inferiore: non bastava il fatto che mi sentissi uno schifo già di mio?

«Evidentemente i problemi sono ormai di casa da queste parti… Ma d’altronde che vuoi farci? L’irresponsabilità è una calamita per queste cose…» continuò perentorio.

Strinsi ancora di più i pugni, fino a farmi sbiancare le nocche e producendo un sottile scricchiolio. Improvvisamente desiderai con tutta la mia forza di tapparmi le orecchie e mettermi ad urlare per non sentire più le accuse di Jasper, dardi infuocati che mi stava scagliando con spietata precisione e iniziavano già a bruciarmi ogni singolo brano di pelle. Poi potei cogliere qualcosa, come il ringhio di una bestia in gabbia, rimbombare dal buio di cavità profonde, reclamando la sua libertà. A quel punto non potei più reggerlo. Scattai in piedi e feci cadere la sedia per terra con un pesante tonfo.

«Ti ci metti anche tu adesso?!?» urlai. «Non credere di essere l’unico a sottolineare la mia… scarsa competenza! La vedo già da me! E guardami almeno in faccia quando mi parli!».

Ma Jasper continuava a trovare più interessante la finestra e ciò che c’era fuori rispetto alle mie scuse traballanti. Carlisle, invece, abbandonato con cautela il giornale, spostava lo sguardo da uno all’altro, come se stesse seguendo un’avvincente partita di tennis, restandosene in silenzio, ma rimanendo pur sempre pronto a intervenire. Presi fiato per gettare addosso al biondo altre frasi ardenti, quando fui colto alla sprovvista dall’entrata in scena di Bella. Rimasi lì inerme con la bocca aperta e le parole perdute da qualche parte non ben definita a metà tra le gola e la lingua, intanto che lei, senza fare caso a me o agli altri presenti, si fiondava sul frigorifero per prendere il cartone del latte e versarne un po’ in un bicchiere. Di certo per Nessie, pensai. La guardai senza battere ciglio, in attesa che fosse lei a parlare per prima; ma la sua espressione era dura e concentrata sui suoi gesti, come se la cucina fosse vuota o credesse di essere diventata invisibile e prestare attenzione agli altri, e in particolare a me, fosse solo una clausola scritta in piccolo in fondo al foglio. Così mi vidi costretto a intervenire.

«Come…?». Fu il massimo che riuscii a cavare dal mio ristretto vocabolario.

Bella, nell’udire quel debole suono, si fermò di botto e si voltò meccanicamente verso di me, la fronte aggrottata e gli occhi duri come il diamante.

«Va tutto bene» rispose a denti stretti.

E quella risposta fu un’altra fitta al cuore, centomila volte più forte delle frecciatine acide di Jasper, che mi lasciò agonizzante e con il respiro mozzo. Non potevo sopportare che mia moglie fosse arrabbiata con me per quella noncuranza, per qualcosa che avrei potuto facilmente evitare. Lei recuperò un vassoio da uno sportello della credenza e fece per uscire, quando la fermai prendendola per un polso: pretendevo delle spiegazioni.

«Ti prego…» riuscii a stento a sussurrarle, mostrandole attraverso la mia espressione afflitta tutto il dolore che mi logorava dentro, come un gran fuoco che bruciava senza pietà e in un nanosecondo una foglia secca e tremante.

«Ho detto che va tutto bene» ripeté lei, ora con una nota spazientita.

Mi guardò direttamente negli occhi, con le sopracciglia aggrottate e un ruga profonda che le divideva; le labbra erano diventate sottilissime, quasi invisibili, simili a due righe dure e dritte tirate con violenza sotto il naso. Per un attimo pensai perfino che se l’avessi toccata avrei potuto sentire la fredda durezza della viva roccia. Poi con un movimento fluido ma deciso si liberò dalla mia stretta e fuggì via prima che potessi aggiungere altro. Rimasi per un attimo lì immobile, con le dita ancora strette attorno a un braccio invisibile e protese verso il mio idolo di pietra. Poi quella specie di stasi, nella quale avevo avuto modo di elaborare la situazione, si dissolse pian piano, una sottile crepa corse lungo la superficie della bolla di vetro che mi circondava, subito seguita da un’infinità di altre. E i miei demoni in tumulto sprizzarono fuori da quelle catene infrante, esplodendo come fuochi d’artificio e liberando il ringhio bestiale che avevo udito poco prima. Senza neanche pensarci, tirai un potente calcio alla sedia che avevo di fianco e che avevo rovesciato poco prima e corsi fuori dalla cucina come un ciclone. Mentre varcavo la soglia alle mie orecchie giunse il sinistro scricchiolio della sedia che andava in frantumi.

Inutile dire che mi vergognavo come un cane.

 

Non avevo la più pallida idea di dove fossi diretto, ma per me in quel momento l’unica cosa importante era correre. Correre via da tutto quel caos. Era vile, era folle… e non m’importava. All’esterno era già buio e non c’erano nemmeno le stelle a illuminarmi la strada, bensì il cielo era coperto dal solito spesso strato di nubi, che coloravano la notte di una deprimente sfumatura di grigi cupi: proprio i colori che si addicevano al mio stato d’animo. Ormai non pensavo più a quello che facevo, il mio corpo si muoveva da sé, mettendo un piede dietro l’altro. Sembrava sul punto di scoppiare un forte temporale e il mio cervello, di certo agendo spinto da un impulso dettato dall’abitudine, prima che mi fiondassi fuori dalla porta, trovò opportuno infilarsi la giacca. Non ricordavo neanche le mie mani che prendevano il giubbotto; ormai agivo come in un sogno, o come un robot guidato da un cocktail di emozioni ruvide e brucianti. O, semplicemente, era la parte istintiva che aveva soverchiato quella razionale. Fatto sta che mi ritrovai fuori nel giardino e mezzo secondo dopo mi vedevo già abbandonare il familiare vialetto, varcare il cancello e inoltrarmi tra gli alberi fitti. Di certo chiunque mi avesse visto in quel frangente avrebbe di certo creduto di trovarsi faccia a faccia con una figura appena spuntata dagli inferi. Non controllavo più la mia mimica facciale, anche se ero più che sicuro che fosse contorta e compressa dal dolore e dalla rabbia, una faccia completamente stravolta, simile ad uno di quegli strani quadri moderni. Riuscivo quasi a vedermi avanzare con passo cadenzato e da automa tra le sterpaglie, con le iridi ormai completamente nere e noncurante dei rovi che mi si attaccavano ai vestiti, come se stessi guardando un film, e, per la prima volta da tantissimo tempo, mi sentii un vero vampiro. L’animale, il cui ruggito aveva accompagnato la mia fuga, imperava. E mi sentivo davvero una bestia selvaggia tra la foresta, pronta a fare piazza pulita di qualsiasi preda avesse incontrato sul suo cammino, animata da una furia innaturale e famelica. Ero ritornato alle origini, mi era bastato qualche secondo e qualche frase di troppo per distruggere con un colpo solo, proprio come avevo fatto con la sedia, il fragile castello di carte dove abitavano la razionalità e l’autocontrollo, che avevo costruito con così tanta fatica. Tanto lavoro per niente. Mi rivedevo vagare tra quegli alberi ricoperti di muschio e l’umidità che aleggiava nell’aria come avevo fatto tanti anni prima tra i vicoli oscuri e malfamati di qualche città sconosciuta, fiutando come un segugio i criminali e piombando su di loro all’improvviso. A un certo punto, quando un ramo spinoso mi accarezzò con la sua falsa delicatezza il dorso della mano tracciando sulla pelle marmorea un paio di righe quasi invisibili, potei perfino rievocare il fuoco, quel grande falò che aveva segnato la fine della mia vita e l’inizio di un’altra era. E adesso, come quasi un secolo fa, avvampava distruttivo nel mio petto, asciugandomi i polmoni con il suo calore e rinsecchendomi il cuore con la sua furia. Non guardava in faccia a nessuno e pian piano arrivò a bruciare i pensieri positivi e ordinati, scaraventandoli giù dai loro scaffali come un ladro sgraziato in una libreria antica. Era alleato della bestia, le faceva strada e ruggiva con lei. Presi a correre più velocemente e vedevo il mio respiro rantolante e spezzato condensarsi davanti alla mia faccia in tante piccole nuvolette, che andavo ad azzannare nella mia corsa sregolata, accompagnata da nessun altro rumore se non quello del mio cuore devastato e carbonizzato che ancora si contorceva, supplicando a gran voce qualche goccia di razionalità, relegata, però, in un angolo oscuro e appesa per i piedi su un tavolo di tortura.

Corsi instancabilmente per quasi mezz’ora, inoltrandomi nel fitto della foresta, finché persi quasi del tutto l’orientamento, non capendo più, frastornato da tutto quel turbinio, da che parte fosse il nord. Di un’unica cosa ero sicuro: il temporale era ormai alle porte, potevo chiaramente capirlo dai lampi e dai tuoni che si alternavano sempre più frequentemente sulla mia testa, baluginando e rumoreggiando tra le chiome degli alberi. Pazienza, pensai, mi sarei bagnato un’altra volta. Evidentemente quel nonsense era stato molto gradito dall’animale, visto che subito una risata roca e dissonante riecheggiò tra i tronchi ricamati di licheni e le radici nodose. Con stupore e disgusto mi accorsi che quella risata era la mia, ma che non potevo in alcun modo frenarla. Continuavo a ridere come un pazzo e probabilmente lo sarei diventato di certo, tanto che non so come caddi a terra sul soffice tappeto di foglie morte e humus, ancora umido per la recente pioggia. Rimasi  lì a dimenarmi come un invasato per non so quanto tempo e per un attimo quasi dimenticai il turbamento e l’ira che mi avevano condotto fin lì. Ma alla fine anche quell’orribile suono si spense e in sottofondo non rimanevano altro che il ghigno chioccio dell’animale selvaggio. Chiusi gli occhi ed espirai a fondo l’aria umida che portava con se l’odore di pioggia imminente, ma mi pentii subito. Infatti, così facendo, era come se avessi dato fiato a tutto ciò che mi aveva tormentato prima di quell’attacco isterico. In un flash lancinante rividi tutto: la silenziosa delusione di Carlisle, i rimproveri acidi di Jasper, la chiusura ermetica di Bella, il petto squarciato con una mannaia, le frecce intinte nel veleno che mi trapassavano la pelle, il fuoco che mi bruciava tutti gli organi interni, il mio cuore disidratato e rinsecchito, i pensieri mescolati e sconvolti come un mazzo di carte gettato al vento. E la bestia: l’animale mitologico che avevo cercato di sfuggire per tanto tempo, che mi ero illuso di poter dominare quando avevo incontrato l’amore della mia vita. Ma invece era sempre lì, si nascondeva aspettando l’ora propizia per tornare all’assalto. Non potevo negare la mia natura: ero pur sempre un vampiro e i vampiri si nutrono di sangue e omicidi. Carlisle aveva sfidato la nostra identità, aveva cercato di nascondere se non cancellare ciò che era scritto nel nostro DNA mutato, imponendo il lume della ragione al re della foresta. Ma il re della foresta non si sarebbe mai piegato così facilmente al nuovo conquistatore; aveva ancora i suoi momenti di rivalsa. E in quei momenti era meglio che stessi lontano da chiunque.

Avvertii qualcosa di bagnato toccarmi il volto e mi accorsi che una goccia di pioggia mi stava rotolando sulla guancia destra. Fu subito seguita da un’altra, che si posò vicino all’occhio, ironica imitazione delle lacrime di rabbia che avrei voluto versare per purgarmi almeno in parte di quel veleno. In poco tempo le gocce si fecero sempre più numerose, fino a formare una nugolo di api inferocite che mi pungevano con insistenza la faccia. Ma nemmeno un acquazzone poteva distogliermi da quella posizione: ero come un cadavere abbandonato da tutti e da tutto, ero solo. Anzi, non proprio solo, perché c’era sempre la feroce presenza dell’animale a farmi ombra. Finalmente decisi che continuare a stare lì esposto alla pioggia non era una grande idea e mi alzai lentamente, con lentezza e sentendo cigolare le giunture come gli ingranaggi arrugginiti di una vecchia macchina. Con un balzo saltai sull’albero più vicino, un grande platano dal tronco del diametro di tre o quattro metri. Mi appollaiai su un ramo a mezza altezza e mi sentii come una pantera acquattata in attesa della sua preda. Dietro la nuca potevo udire il gocciolio ritmico della pioggia sulle foglie, che, insieme allo scroscio più lontano e allo scorrere dell’acqua sulla corteggia ruvida e grigiastra, creava una sinfonia insolita. Fossi stato in un’altra condizione d’animo di certo sarei rimasto meravigliato davanti a quella splendida amalgama di suoni armoniosi e mi sarei chiesto se ne avrei magari potuto prendere spunto per qualche mia composizione. Ma in quel momento tutto ciò che riguardava la mia vita normale, la mia apparenza umana, era lontana anni luce: nella giungla non c’è spazio per vialetti ordinati e giardini ben curati. Mi misi a cavalcioni del ramo, con la schiena appoggiata contro il tronco e tirai un altro sospiro profondo. Voltando leggermente la testa scorsi una lunga fila di formiche che procedevano ordinatamente una dietro l’altra dalla base del fusto fino alla cima e contemplai, scuotendo al testa, quell’ordine così maniacale: che senso aveva darsi degli schemi così fissi? Dopotutto non era ben più naturale affidarsi al caos?

Caos. Il caos era inevitabile, in qualsiasi situazione, anche nell’ordine e nella razionalità calcolata e precisa. Non l’avevo forse dimostrato io stesso? Mi sovvenne un altro brevissimo flash della mia casa, della cucina… di Bella. Le emozioni sono caos, poiché non si possono controllare, e tutto ciò che non si può controllare sovverte qualsiasi schema prestabilito che predichi la normalità (anche solo apparente) e l’autocontrollo. Mi ero lasciato andare alle mie passioni e quella era stata la causa di tutto quel tumulto: caos. Mi ero lasciato prendere ancora una volta dall’istinto e dall’ira, rispondendo in maniera goffa e insensata ai problemi che mi si erano presentati: altro caos. Alla fine giunsi alla conclusione che non potevano coesistere emozioni e ordine. O forse sì? Dopotutto più di un vecchio saggio professava che il mondo è fatto di contrari che si completano tra loro: il bianco e il nero, il giorno e la notte, il Bene e il Male… il razionale e l’irrazionale. Il tutto per completare un mondo che, se andasse in un'unica direzione, non potrebbe esistere. Ognuno doveva essere composto da due emisferi contrapposti. Percepii ancora una volta la bestia accovacciata accanto a me sul ramo, intenta a lisciarsi il pelo con la lingua e emettendo ancora quel gorgoglio soddisfatto dal profondo della gola. Rabbrividii. Per ora era calma, aveva trovato un bonaccia in quel grande oceano in tumulto per riprendere fiato, ma poteva tornare all’attacco in qualsiasi momento. Però, no, era tutto sbagliato, la faccenda dei due opposti per fare un uno completo, intendo. Appoggiai la fronte alle ginocchia e mi strinsi le braccia al petto. Mi sentivo solo e l’unica parte con cui potevo comunicare era quell’orrenda fiera, il mio opposto con cui ero costretto a convivere, perché parte di me come l’Edward che fino a poco prima abbracciava dolcemente la sua Bella. No, doveva essere lei la mia metà, non quel mostro. Avrei tanto voluto scacciare quella bestiaccia come si fa con un animale insolente e molesto, ma sapevo benissimo che non ci sarei riuscito, senza contare che avevo una paura pazzesca di qualche ritorsione: ero nella gabbia dei leoni o no?

Bella, pensa a Bella. La tua metà, la tua vera metà. Perché tra metà ci si completa, vero? Sì. La metà dell’animale non avrebbe mai potuto completarmi, solo distruggermi. Bella invece mi aveva reso un uomo migliore in tutti i sensi. Solo che in quel momento non potevo avere la mia metà preferita, dovevo per forza convivere con il mio pezzo d’anima annerito. Avrei dovuto tenere stretto con una mano il collare dell’animale e protendermi con l’altra verso la luce del mio angelo. Ma quell’angelo era volato via e ora c’era solo buio, pioggia, freddo e… io. Stavo male, questo era più che ovvio, ma in ogni male che avevo affrontato c’era sempre stata lei al mio fianco a cingermi le spalle con un braccio e scoccarmi un bacio sulla guancia. Ora no. L’avevo delusa, delusa, delusa. Rievocai il suo sguardo di pietra e pensai che mai da quando l’avevo conosciuta mi aveva guardato in quel modo. La mia mente era ormai lontana anni luce dai futili dubbi da adolescente in crisi riguardanti Nessie e il dilemma di se fossi o meno un buon padre: quello ora costituiva solo la cornice. Era ancora un problema, sì, ma per il momento solo marginale. Ora a dominare su tutto c’era la mia dea di pietra: Bella. Mi ero fidato ciecamente di lei, sempre, come di Jasper e Carlisle, e ora li vedevo rivoltarsi contro di me, puntarmi il dito contro senza possibilità di espiazione da quell’atto peccaminoso. L’accaduto in sé a occhi esterni poteva non sembrare esattamente una tragedia, ma era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Avevo tentato e ritentato, ma il risultato era sempre stato lo stesso: non ci si poteva fidare di me. I semi della cosa erano stati piantati quando mi ero innamorato di Bella, un vampiro che si illude di vivere con un’umana: patetico. E per la prima volta da un’eternità sentii una crepa avvicinarsi all’alcova più confortevole del mio cuore, quella riservata a lei. Era una crepa sottile e ramificata, ma che si stava inspessendo a vista d’occhio mano a mano che passavano i secondi. Avevo sempre visto il nostro amore come un monolito che non sarebbe mai potuto essere intaccato dal tempo, dalle intemperie o da qualsiasi altra cosa. Invece mi sbagliavo: era bastato così poco. In quel breve incontro scontro in cucina non avevo mai sentito mia moglie così distante da me. Forse è vero quello che dicono, cioè che l’Amore non è mai per sempre e che le grandi storie d’amore dei romanzi non esistono e non potranno mai esistere. Esiste un’unica storia, quella della realtà, dove disillusioni del genere sono all’ordine del giorno. Ebbi subito una paura mai provata, mi sentii sopraffatto e frastornato nel trovarmi così all’improvviso di fronte a un tale abisso, a una possibilità così catastrofica. No, io e Bella eravamo nati per stare insieme e nulla avrebbe mai potuto dividerci. Senza accorgermene avevo iniziato a tremare e mi strinsi ancora di più le ginocchia contro al petto. Così facendo sentii qualcosa di duro premermi contro la pancia e notai uno strano rigonfiamento nella tasca della giacca. Con mai tremanti ne tirai fuori il mio Ipod, che avevo sbadatamente dimenticato nella giacca, e feci scorrere le dita sulla sua superficie liscia. Istintivamente mi infilai gli auricolari e senza guardare selezionai un brano a caso: tutto andava bene pur di portare la mente lontano da quel precipizio senza fondo. Casualmente avevo scelto un brano che si adattava benissimo al ritmo dolce e cadenzato delle pioggia che continuava a cadere tra le fronde folte, in un duetto improvvisato con in sottofondo sempre il mio adorato piano. Le parole scorrevano sulle note con brevi intercalari e l’alternanza di una voce maschile a volte interrotta da una femminile. Sulle prime non badai molto al senso del testo, ma cercai di fissare la mia mente sui binari delle note, allontanandola il più possibile da quella puzza di selvatico (la belva sonnecchiava docile sempre allo stesso posto). Ma poi fui colto alla sprovvista e rischiai di perdere l’equilibrio e di svegliare l’animale quando le due voci attaccarono insieme il ritornello. 

 

One day lovers will dream of this undying kiss
Not of Romeo or Juliet
Stories told our love will never die

 

Il mio cuore ustionato batté un colpo e mi sentii mancare il fiato e girare la testa. L’animale si era alzato in piedi con le orecchie dritte e si guardava attorno con fare circospetto e attento, scoprendo le zanne bianche e rizzando il pelo sulla schiena. Mi rannicchiai contro il trono, temendo un attacco quando la vidi acquattarsi, ma mi avevano fatto molta più impressione quella parole, che mi avevano scaraventato di nuovo sull’orlo del burrone. Potevo vedere il volto indurito di Bella riflesso nella miriade di gocce d’acqua. Mi strappai gli auricolari dalle orecchie, rischiando di romperli, e ricacciai il tutto in tasca alla bell’e meglio. Ma l’animale era ancora all’erta e pian piano, come una nube soporifera, la sua eccitazione si disciolse nel mio animo. E riecco quella brusca e inebriante sensazione di selvaggio riprendere il controllo, attizzata come prima da quella forte emozione che aveva rievocato il caos, permettendo di nuovo la rivoluzione. Mi acquattai sul ramo in posizione d’attacco e notai qualcosa che si muoveva alle radici dell’albero: scorsi il pelo maculato di una lince confondersi tra il fogliame bruno. Portava qualcosa in bocca, che però non riuscii a riconoscere, probabilmente la sua preda e si era fermata lì sotto credendolo un posto abbastanza sicuro e riparato dalla pioggia per consumare il suo pasto in pace. Ma si sbagliava. L’animale emise un forte ruggito e in men che non si dica ero addosso alla lince, stringendo tra i denti il suo pelo soffice.

 

Non era stata affatto una caccia pulita, come era di solito. Niente ordine questa volta, avevo lasciato che il caos mi dominasse. Il sangue ancora caldo mi imbrattava la giacca ed era schizzato pure sui pantaloni e ora, mentre camminavo a passo spedito tra le felci, si mescolava con la pioggia, che continuava a cadere, sebbene con meno impeto di prima; ora assomigliava più a un docile scroscio estivo. Avevo ancora le pupille dilatate per l’eccitazione che tutto quel sangue aveva portato con sé. Era stato come ritornare ai primordi: pensiero razionale zero, solo istinto assoluto. Ero stato travolto da un’inondazione di emozioni contrastanti che sulle prime mi aveva lasciato esterrefatto, per poi lasciarmi trasportare inesorabilmente. Il sapore aromatico del sangue aveva fatto sì che la parte istintiva abbattesse con un dito le barricate della ragione e invadesse la città della mente esultando di vittoria. Ma, se non altro, questa volta il tutto non era sfociato nella’anarchia. Avevo saputo riprendere la belva per il collare e rimetterla al suo posto, ma ciò non toglieva che io fossi ancora terrorizzato da quel nuovo lato appena riscoperto della mia personalità. Avrei dovuto imparare a conviverci.

Continuando a camminare senza meta, per caso arrivai al fiume e, attraversatolo con un balzo, in breve fui di nuovo davanti a casa. Ero stato via di sicuro parecchie ore e ormai l’alba doveva essere imminente. Ero tutto sporco, di sangue e di fango, e bagnato e di sicuro, a confronto con quella civiltà ordinata, dovevo sembrare un indigeno appena uscito dalla savana. Mi leccai le labbra, lavando via gli ultimi rimasugli di sangue rappreso. Guardai verso la casa e notai che solo una luce era ancora accesa, quella sotto la veranda. Di nuovo l’animale drizzò le orecchie e provai un senso di repulsione nel ritrovarmi lì, dove ero stato additato come non gradito e incapace. Un ringhio accompagnò la rabbia che iniziò a formicolarmi dalla punta delle dita fin su per tutto il braccio, ma fu subito smorzato dal dolore che avevo provato anche in cima all’albero, ascoltando quella canzone, ed ebbi paura di incrociare ancora una volta quello sguardo impenetrabile. Temevo di sentirmi dire qualcosa che aggravasse ancora di più quella crepa nel mio cuore e mi facesse sentire indesiderato, costretto a rifugiarmi nella foresta della mia mente e abbandonarmi all’oblio della selvatichezza. Ma mi feci coraggio e in men che non si dica fui sotto la veranda.

Lì c’era qualcuno ad aspettarmi. La mia piccola Nessie era seduta sul prima gradito, in pigiama e con stretto al petto il suo orsacchiotto, tutta infreddolita e assonnata: chissà da quanto tempo era lì ad aspettarmi... Appena mi vide comparire sobbalzò e strinse più forte il pupazzo al petto; ciò era del tutto comprensibile visto che in quello stato dovevo sembrare un po’ l’uomo nero. Mi guardò con occhi accessi e sospirò di sollievo quando mi riconobbe. Ma sul suo visetto d’angelo non scorgevo segni di turbamento per l’accaduto, bensì il sollievo nel vedermi finalmente tornare a casa. Di certo se non avessi avuto un aspetto così inquietante e non fossi stato ricoperto di sangue mi sarebbe venuta incontro per abbracciarmi.

«Papà…» mormorò quasi timidamente.

Ma io troncai di netto ogni sua possibile domanda. «Perché non sei a letto?».

Nessie abbassò lo sguardo sull’orsacchiotto e arrossì leggermente, messa a disagio dal mio tono freddo e ruvido; anche lei si era accorda che in quel momento non recitavo affatto la parte del padre amorevole.

«Io…» tentò di rispondere, ma non le venne fuori nient’altro.

Arrossì più violentemente e riuscii a distinguere il suo respiro accelerato e il battito tambureggiante del suo cuore. Il suo cuore… che pompava sangue caldo in ogni parte del suo corpicino così indifeso. Potevo sentirlo scorrere nelle vene e picchiare contro le pareti delle arterie con ritmo, proprio come la pioggia sulle foglie. Mi sovvenne insieme a quel dolce suono un profumo squisito di gelsomino e lillà, decisamente migliore rispetto all’odore ferino della lince. Quel bouquet appetibile mi solleticò la gola invitante e l’animale dietro di me emise delle fusa incuriosite, macchinando per raggiungere la soddisfazione dei sensi così stimolati. Desiderio, desiderio di sentire quel sangue scorrere lungo la gola e placare quella sete morbosa, affogando così la rabbia e il dolore. Anche il mio respiro accelerò, ma sul più bello, quando i miei tendini già si tendevano pronti al balzo, un briciolo di razionalità sgusciò fuori dalla prigione. Fu così che mi vidi come ero davvero: un mostro. Quello stesso mostro che avevo cercato di soffocare lungo molti anni. Era ciò che più odiavo, ciò che mi aveva creato non pochi problemi con Bella, che non mi abbandonava mai… che mi disgustava. La mia parte oscura che stava prendendo il sopravvento sull’altra, rompendo l’equilibrio. Cosa stavo facendo?

Corsi sulle per le scale e oltrepassai Nessie senza guardarla e trattenendo il respiro, mentre quella assumeva un’espressione interrogativa. Mi fiondai in casa sbattendo la porta e salii al piano di sopra fino alla mia camera. Lontano da lei, lontano da lei, mostro!

Capitolo lungo e diverso. Non so, magari vi ho deluso, ma per questa volta ho deciso di tralasciare l'Edward gentiluomo e riscoprire la sua parte più emotiva, il suo inconscio: di certo ho tastato un terreno scarsamente battuto. Per questo spero che questa novità vi sia gradita: comunque non spaventatevi, tutto tornerà alla normalità! E intanto i problemi si moltiplicano; ora non c'è più solo Nessie ma anche Bella: sono perfida eh con il nostro Ed? Comunque come al solito sta a voi commentare (in molti s'intende). Ringrazio: ledyang e shadowmoon (no, Nessie di riprenderà presto, tranquille!), Flockkitten (questo nuovo chap dimostra più dell'altro cosa succede quando lo stress di accumula XD), LOVA, mazza e Faby hale (tutti i ringraziamenti di questo mondo non bastano!), Vale Pattz e Hikary_a18 (questo chap è un po' una parentesi, per le risposte alla faccenda amletica aspettate il prossimo chap, che di certo sarà più leggero). Un ringraziamento speciale a Padfoot_07 (grazie mille! Brava, hai colto un aspetto di Ed che non avevo calcolato, ma che in un certo senso anticipa questo chap, cioè il contrasto tra le varie parti della sua personalità, la parte matura e immatura come quella razionale e istintiva. Ti faccio i complimenti! Ti ricordo che comunque lui appare come un adolescente e x certi versi si comporta ancora come tale. Quindi speriamo in un'evoluzione!).

a PRESTO!

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Capitolo 11
*** Primo giorno di scuola ***


11.    Primo giorno di scuola

 

Dove sono finite le ultime settimane? Mi sembrano passati secoli come un giorno solo da quella fatidica notte. È un po’ come se il tempo, dopo essersi fermato, fosse andato avanti a velocità triplicata, spostando in avanti le lancette dell’orologio e strappando le pagine del calendario. Così, anche se ben poche cose erano cambiate nel mio animo come nella mia casa, settembre era già alle porte. Le giornate si erano fatte man mano più corte e meno calde, preparandosi per l’avvento dell’autunno. Renesmee, sorridente come sempre e ormai dimentica dell’accaduto, continuava a giocare con Jacob, Alice continuava a spendere e Jasper a sopportarla, Carlisle continuava a lavorare assiduamente in ospedale ed Esme ad accudire tutti noi con la sua solita dolcezza. Emmett e Rosalie erano tornati dalla loro vacanza e, una volta messi al corrente dell’accaduto, dopo aver ovviamente mostrato il loro rammarico e aver sostenuto Bella nelle sue motivazioni contro di me, erano tornati alle loro solite attività. Io, invece, ero sempre lì a rimescolare la solita minestra, mentre Bella… be’, lei rimaneva un punto interrogativo. All’apparenza si comportava normalmente, anche se io avevo notato che sorrideva e parlava di meno; insomma era diventata più fredda e distaccata nei modi come nei discorsi. Più intransigente. Inoltre tutti potevano notare chiaramente la strana luce che le brillava negli occhi. Vi potevo leggere una forte dose di delusione e disappunto: era indubbio che qualcosa fosse ormai cambiato tra di noi. E io non riuscivo ancora a venirne a capo: avevo provato più volte a mettere in piedi discorsi e scuse, ma non ero mai approdato a qualcosa di concreto. Discutere con lei di argomenti che non fossero prettamente pratici era in effetti impossibile, poiché ogni volta che mi mettevo di impegno nel balbettare qualche scusa o anche solo affrontavo l’argomento lei usciva dalla stanza di volata. Quindi tutta la buona volontà non sarebbe riuscita ad appianare quel dissidio. La sentivo dura e spigolosa nei pochissimi abbracci che riuscivo a strapparle con l’inganno, mentre i baci sembravano essere spariti dal suo vocabolario. Era irritata e delusa come non l’avevo mai vista e dire che insieme di faccende poco spiacevoli in cui lei avrebbe potuto addossarmi la colpa ne avevamo passate parecchie… E già sul mio orizzonte si delineavano le prima avvisaglie di una tosta “crisi matrimoniale”, come la chiamano alcuni. Il tutto per quella mia dannata noncuranza: la goccia che aveva fatto traboccare il vaso.

E tutto questo, ovviamente, non giovava al mio animo come sempre tormentato: ora oltre al problema di essere o meno un padre degno di questo nome si aggiungeva al peso che già gravava sulla mia groppa quel litigio con Bella. Litigio che non poteva neanche essere definito tale, visto che ci limitavano ad ignorarci con fredda determinazione (almeno da parte sua) e a rivolgerci la parola solo se strettamente necessario. Anche gli altri Cullen avevano notato questa guerra fredda, ma tutti concordavano che erano faccende che dovevamo sbrigare tra noi, perciò mi ritrovai ben presto solo con un fiume in piena di pensieri preoccupati. Avevo provato a parlarne ad Alice, ma ne avevo ricevuto in cambio solo un silenzio abbattuto e qualche pacca d’incoraggiamento sulle spalle. Loro non sapevano come aiutarmi e io non sapevo che passo fare. Avevo sperato che con il tempo la cosa si sarebbe risolta da sola, ma mi sbagliavo, visto che due settimane dopo eravamo ancora al punto di partenza. E le paure che mi avevano assalito e soffocato quella notte in cima all’albero mi apparivano via via più concrete. Ma io non ero ancora pronto ad abbandonare il mio caldo nido.

Ma se io e il mio ginepraio di guai eravamo in standby, tutto il resto continuava a muoversi con il suo solito ritmo. Anzi c’erano delle novità, grosse novità. Come tutti i genitori umani sanno, a settembre inizia la scuola e Nessie, sebbene compisse appena un anno, ne dimostrava già sei e a un occhio esterno poteva benissimo apparire una graziosa bambina in età scolare. Noi ovviamente non volevamo che a Forks iniziassero a circolare strane voci su di lei, anche se il fatto che nessuno ancora parlasse dell’ultima arrivata dei Cullen causa la sua crescita inspiegabile ed anormale era già in sé un miracolo. Questo perché, da quando era nata un anno prima (accidenti, già un anno, mi ritrovai a pensare), Nessie non aveva frequentato molto la piccola cittadina e i suoi abitanti. Ma d’ora in avanti di certo, crescendo, avrebbe trascorso sempre più tempo fuori dalle sicure mura domestiche e gli abitanti di Forks, vedendola sempre più spesso, avrebbero iniziato a farsi delle domande. Quindi avevamo optato per iscriverla alla scuola elementare cittadina, tanto per dare una nota in più di normalità alla nostra famiglia, che su quest’apparenza fondava la sua intera esistenza. Sapevamo benissimo che sarebbe stato difficile spiegare agli altri genitori, una volta che fosse iniziato il secondo anno, come mai mia figlia, a differenza dei loro, dimostrasse già dieci anni, ma quella era una questione che avremmo discusso a tempo debito, trovando qualche scusa accettabile. Intanto avremmo detto che Nessie era figlia di un mio parente ritrovato e tristemente deceduto e che era stata affidata a me e a Bella, in quanto coppia sposata e gli ultimi parenti rimastile. Era sottointeso che io e Bella avevamo rinunciato all’università per prenderci cura della nostra nuova figlia adottiva, che amavamo neanche fosse davvero nostra. Ovviamente il paese non sarebbe stato entusiasta alla notizia che due adolescenti come noi facessero i genitori, ma quello era l’ultimo dei nostri problemi. Intanto Nessie sarebbe andata a scuola e avrebbe imparato a leggere, scrivere e tante altre cose, anche se la sua intelligenza era nettamente superiore al livello elementare, senza contare che sarebbe così potuta venire in contatto con bambini della sua età (apparente) e quindi crearsi una scenografia di normalità attorno a sé. Inutile dire che mia figlia era più che esaltata dalla novità e contava i giorni che la separavano dal fatidico inizio della prima elementare. Alice e Rosalie le avevano procurato tutto il necessario, senza di certo tralasciare il guardaroba, che straboccava di tanti bei vestiti da brava bambina e studentessa modello: ogni occasione era buona per riempire mia figlia di fiocchi e abitini colorati. Per un caso fortunato, o forse dovrei dire sfortunato, qualche entità superiore aveva deciso che sarei stato io ad accompagnarla a scuola quel giorno. Non poteva capitarmi occasione migliore per calarmi nella parte di papà perfetto e premuroso… proprio ciò che non ero, pensai con una certa ironia.

Alla mattina presto trovai Nessie che mi aspettava nell’ingresso già vestita di tutto punto. Si era svegliata presto, mi disse Bella a denti stretti, e aveva insistito per vestirsi, far colazione e partire il prima possibile nonostante le lezioni non iniziassero prima delle otto. Così, a causa delle richieste pressanti della bambina che fremeva visivamente e cercava di liberarsi da Alice che, invece, insisteva a metterle a posto le pieghe del vestitino blu pervinca che indossava, partimmo subito. Non erano neanche le sette e mezza e già la mia Volvo sfrecciava silenziosa sulla strada provinciale. Nessie prima di salire tutta contenta in macchina aveva abbracciato forte Bella, che le aveva ripetuto tutte le raccomandazioni di rito, e ora guardava estasiata fuori dal finestrino sul sedile al mio fianco, probabilmente vedendo il mondo sotto una nuova luce mille volte più bella. Non parlammo molto durante il viaggio, più che altro a risuonare nell’abitacolo dell’auto erano le esclamazioni di gioia di mia figlia. Io mi limitavo a stare zitto con gli occhi fissi sulla strada. Quando Nessie aveva abbracciato mia moglie avevo avvertito uno strano vuoto nel mio petto, come se quel quadretto così dolce fosse lontano mille miglia da me, come se non mi riguardasse. Era il primo giorno di scuola di mia figlia, una passaggio importante della sua vita a cui avrei dovuto partecipare attivamente, ma al quale mi sentivo totalmente estraneo. Forse per ciò che era accaduto, in particolare per come avevo reagito di fronte a Nessie una volta tornato a casa (ripensare a quel che sarebbe potuto succedere mi faceva venire i brividi tutt’ora), sentivo che era meglio che le stessi lontano e mi limitassi ad accompagnarla senza farmi coinvolgere. Nessuno sapeva di quel particolare tranne me e lei e sapevo bene quanto la faccenda tra me e Bella si sarebbe aggravata se lo fosse venuto a sapere. Anche se per un nanosecondo, avevo pensato di mangiare la mia bambina: non c’erano giustificazioni per questo. Diciamo solo che mi limitavo a non pensarci.

La Fork’s Elementary School non era lontana dal vecchio liceo che frequentavamo io e Bella e anche come struttura gli assomigliava molto. Stesso edificio di mattoni rossi, anche se con grandi finestre e una scalinata d’accesso. Mi fermai nel parcheggio ancora vuoto; non c’era ancora anima viva in giro e nel costatare ciò emisi uno sbuffo scocciato: non avevo voglia di aspettare. Nessie invece non pareva preoccupata dalla lunga attesa che ci aspettava, dato il sorriso a trentadue denti che le illuminava il visetto dalle gote arrossate.

«Visto?» sussurrai cercando di non far trasparire il mio tono scocciato. «Avevi paura di arrivare in ritardo e non c’è ancora nessuno… Forse sarebbe stato meglio partire un po’ più tardi…».

Lei mi fisso con i suoi grandi occhi nocciola e fece spallucce.

«Be’, almeno saremo i primi ad entrare!» esclamò ancora tutta contenta.

Bella consolazione, mi dissi. Non vedevo l’ora di tornare a casa ed eclissarmi da qualche parte fuori dalla portata di qualunque essere che avrebbe potuto alzare su di me uno sguardo inquisitorio. Come avevo fatto nelle ultime settimane a questa parte. Corrugai la fronte e sbuffai di nuovo. L’orologio segnava appena le sette e trentacinque: Dio santo, come andava lento il tempo!

«Dai, non fare quella faccia!» mi riprese Nessie. «Se sapevo così allora chiedevo a Jacob di accompagnarmi».

Eh, no, anche tu adesso a fare paragoni e a giudicare? Perché Jacob fa questo, perché Jacob è così, perché Jacob dice, pensa, gioca, ride… Perché Jacob è simpatico, divertente, disponibile, responsabile, serio quando deve, sveglio… L’avevo capito che anche l’ultimo dei cani randagi sarebbe stato migliore di me come padre e che senza dubbio il cagnaccio rappresentava il prototipo più alto e perfetto della figura paterna, su cui non avevo ancora avuto la rivincita. Però io avevo dei diritti da rivendicare: la mia ultima arma.

Mi voltai per guardarla direttamente in faccia e dissi: «Stammi bene a sentire, signorina. Si da il caso che io sia tuo padre e che questo sia…».

«…compito tuo?» completò Nessie.

«Esattamente. Quindi non fare commenti sulla mia faccia».

Dettò ciò tornai a guardare il marciapiede vuoto e per un attimo dubitai perfino che quel dannato paese fosse abitato.

«Be’, se la mamma può fare commenti sulla tua faccia posso farli anch’io, no?».

«Come?».

«Hai sentito».

Strinsi forte il volante fino a farmi sbiancare le nocche delle mani e mi morsi il labbro inferiore. Cosa aveva detto Bella sul mio conto? Che era stufa di un individuo che all’inizio le si era presentato come la perfezione fatta persona per poi rivelarsi, invece, tutto il contrario? Rimasi profondamente turbato.

«Cosa ti ha detto la mamma?» domandai esitante. Una piccola parte del mio cuore, quella ancora integra, aveva paura di sapere cosa mia moglie pensava di me.

«Tante cose».

«Su…?».

«Su quella cosa».

«Ah, giusto».

In tutto quel tempo mi ero dimenticato di informarmi sulla versione che Bella aveva dato a nostra figlia a proposito di quello che aveva visto. Ora però ne provavo una certa curiosità.

«E posso sapere cosa ti ha raccontato?». Vediamo quale balla le aveva affibbiato mia moglie.

«Mi ha detto che, per quanto mi possa sembrare strano quello che ho visto, è una cosa normale per le persone grandi che si amano. E che quando sarò più grande capirò».

Accennai un sorriso: che scusa banale e così mal costruita! Rispondere a una domanda con un nulla di fatto. Almeno io per la faccenda dei bambini mi ero inventato una storia più avvincente e romantica…

«Tutto qui?» dissi, cercando di trattenere quel sorriso amaro.

«Sì» sussurrò, però sembrava indecisa. «Anzi, no… Mi ha detto anche delle altre cose. Su di te».

Come l’avevo vista fare più volte quando doveva rivelarmi qualcosa che in qualche modo l’imbarazzava, si misi a torturare l’orlo del suo vestito, con gli occhi bassi e i riccioli bronzei che le sfioravano le guance color pesca. Poi alzò lo sguardo e quando incontrò il mio le sue gote si colorarono della solita sfumatura vermiglia. In un rapido flash mi sovvenne quella sera selvaggia, durante la quale il mio alter ego bestiale aveva bramato di impossessarsi di quel rossore invitante. Ma ora quella belva feroce era debitamente incatenata nella parte più profonda del mio animo e per il resto non rimaneva che il biasimo per quei pensieri immondi. Mostro…

Si morse le labbra prima di proseguire. «Ha detto che anche se è una cosa normale non va… ehm, sbandierata ai quattro venti», arrossì ancora di più, «perché è una cosa che deve rimanere tra le due persone. Quindi è molto delusa che tu abbia lasciato la porta aperta e crede, diciamo così, che non ti importi di tenere intima quella cosa. E ha paura che tu non le voglia più bene come prima».

Ovviamente Bella aveva tralasciato di dire che c’era anche lei in quella stanza. Però, guarda caso, ero stato io l’irresponsabile che non chiude mai la porta, quando, invece, era stata anche colpa sua. E poi quello che mi stava dicendo Nessie era la versione riadattata per bambini dell’accaduto. A nessuno sarebbe mai e poi mai venuto in mente di dire a una bambina che mamma è arrabbiata con papà perché crede che sia stata colpa sua se loro figlia li ha visti mentre… be’, mentre, provocando magari uno sconvolgimento psicologico del suddetto pargolo.

«È per questo che la mamma è così arrabbiata con te allora?».

Feci una strana smorfia, che a mio parere doveva assomigliare a un sorriso.

«Credo di sì» sospirai alla fine.

Nessie abbassò lo sguardo e la felicità che l’aveva animata fino a un attimo prima ora sembrava lontana anni luce.

«Vedi…» continuai, «papà ultimamente ha combinato un po’ di casini. Non ha saputo comportarsi come una persona adulta e prendersi le sue responsabilità. Doveva occuparsi di alcune cose, o almeno imparare a occuparsene… ma ha saputo fare solo pasticci. La mamma non è veramente arrabbiata con me… è solo un po’ delusa perché credeva in me».

Presi le chiavi della macchina e iniziai a giocherellarci distrattamente. Dovevo tenermi assolutamente occupato se non volevo impazzire: quella ferita era ancora troppo aperta.

«Se ti stai riferendo alla solita questione su quanto vali come papà… be’, sai benissimo come la penso al riguardo».

All’improvviso sentii qualcosa di caldo sfiorarmi la mano e, preso alla sprovvista, lasciai cadere le chiavi. Quindi strinsi a mia volta la manina candida che mi porgeva mia figlia e il sollievo fu immediato, come disciogliere una medicina nell’acqua.

«Lo pensi davvero? Anche dopo tutti i pasticci che ho combinato?» chiesi con una nota di insicurezza.

«Ma certo!» esclamò Nessie e si slanciò verso di me per abbracciarmi. «Te l’ho già detto un migliaio di volte. Per quanto tu possa sembrare sbadato sarai sempre il mio papà. E non ti dovrai mai preoccupare della concorrenza!».

Nel sentire quelle parole mi si illuminarono gli occhi.

«Quindi niente Jacob e robe varie?».

«Papà…». Nessie si staccò da me ed alzò gli occhi al cielo.

«Ok, ok, ho capito: basta farsi problemi su questa roba» risposi ora più convinto.

«Ecco» convenne lei e mi allungò un affettuoso bacio a stampo sulla guancia.

E quel gesto fu come il cancellino sulla lavagna della mia mente, ultimamente troppo affollata di scritte, punti interrogativi e strane operazioni matematiche. Anche se dubbi del genere si erano sempre guadagnati il podio tra le mie preoccupazioni, in fondo in fondo avevo sempre conosciuto l’alto conto in cui mi teneva Nessie. Però era bello sentirselo ripetere: mi faceva sentire più sicuro di me e leggero.

«Quindi almeno tu mi hai perdonato per quella famosa faccenda…» azzardai.

Lei, inaspettatamente, si mise a ridere e tra le risate fragorose che risuonarono nell’abitacolo dell’auto riuscì a stento a rispondermi.

«Sì, perdonato a pieno titolo!».

«Perciò non sei rimasta tipo traumatizzata o roba del genere, eh?».

«Traumatizzata? Perché dovrei esserlo?».

«Niente, niente. Era tanto per dire» risposi e intanto tra me e me saltavo di gioia. Se non altro le mie azioni poco ponderate non avevano avuto influenze negative sul mio angioletto. Inoltre avevo appena conosciuto una nuova qualità di mia figlia: una grande capacità di perdonare.

«Grazie, tesoro. Ti voglio bene» sussurrai e le scompigliai dolcemente i capelli.

«Anch’io» rispose, ma abbassò subito lo sguardo e fece una lunga pausa prima di parlare di nuovo. «Però mi prometti una cosa?».

«Cosa?». Avrei fatto qualunque cosa per lei.

«Vorrai sempre bene anche alla mamma?».

All’apparenza era una domanda semplice ed innocente, che di sicuro ogni genitore sulla terra si sarà sentito porre. E chiunque avrebbe risposto con un sorriso, scuotendo la testa davanti all’insensatezza di tale quesito. Io, invece, rimasi sbigottito e di pietra, confuso sulla risposta come sui miei sentimenti. Certo che avrei amato Bella per l’eternità e oltre: dopotutto non era stata la mia luce nella notte, il mio miracolo nella malattia? Non c’era vita dove non c’era lei a parimenti dell’acqua. Ma la cosa sarebbe stata reciproca… per sempre? Vedevo già la siccità avvicinarsi al mio piccolo paradiso terrestre.

«Vi amerete per sempre come il principe e la principessa della storia, vero?» rincarò Nessie esortandomi a rispondere.

Tirai un lungo sospiro cercando le parole adatte. «Sì, Nessie. Io amo la mamma più di ogni altra cosa al mondo, come il principe amava la sua principessa. Però, vedi, anche loro come noi hanno avuto le loro disavventure. Ma passerà, te lo prometto. Adesso la mamma è un po’ arrabbiata, ma sono sicuro che nonostante tutto mi vuole ancora bene. Eh, certo, sennò che famiglia saremmo? Bisogna solo avere pazienza e tutto andrà a posto».

Stupido, Edward, stupido. E illuso. Le stavo solo ripetendo le traballanti rassicurazioni che il mio cervello produceva in continuazione e mi somministrava come droga in grandi quantità per tenere a bada la mia ansia e la mai preoccupazione crescente. In realtà, almeno per come la vedevo io, la situazione era più seria. Non era detto che avrebbe avuto un triste epilogo, perché l’assoluta assenza di dialogo tra me e mia moglie e la stasi della situazione mi impedivano di far previsioni di ogni sorta. Però quella non era certo al favola della buonanotte che mi ero immaginato.

«Parlale» intervenne all’improvviso Nessie distogliendomi dai miei pensieri.

«Come?».

«Parlale. Discutetene e risolvete la questione».

«Non è così facile, Nessie. Sai bene quanto alla mamma non piaccia… parlare di certe cose in questo periodo» risposi amareggiato.

Lei fece una breve pausa, mordendosi il labbro inferiore e corrugando la fronte mentre rifletteva su come aiutarmi.

«Regalale dei fiori. Alla mamma piacciono tanto i fiori» disse alla fine battendo le mani e in quel gesto mi ricordò molto Alice quando tentava di darmi una mano nei miei crucci.

«Dici?» ribattei dubbioso.

«Sono sicura che le piaceranno. Così potrai dimostrarle che le vuoi ancora tanto bene e lei sarà disposta ad ascoltarti!» esclamò tutta sorridente.

E nemmeno io potei fare a meno di sorridere, questa volta un vero sorriso di nome e di fatto. Parola mia, quella bambina era un genio! Come avevo fatto a non pensarci prima, ai fiori? Dopo giorni, anzi settimane di elucubrazioni non ero riuscito ad arrivare a una soluzione così ovvia. Sì, adesso sarei andato dritto dritto dal primo fioraio e avrei comprato il più bello e il più grande mazzo di fiori esistente sulla terra. Poi l’avrei costretta ad ascoltarmi e avrei messo fine a quel tormento. Piano preciso, pulito, semplice. Come poteva non funzionare?

«Grazie ancora, pulcino mio» dissi e la baciai sui riccioli morbidi. «Davvero non hai idea di quanto mi sei stata d’aiuto oggi».

«Figurati. Ci tengo tantissimo a rivedere te e la mamma felici come una volta. E poi immagino quanto debba essere difficile fare i grandi…».

«Non sai quanto» risposi con un sospiro. Già, era piuttosto difficile vestire quotidianamente i panni di un normale essere umano di età adulta, figurarsi quelli di un vampiro centenario che però dimostra ancora diciassette anni con moglie e figlia a carico, nonché tutti gli annessi e connessi del caso.

«Però tu sei ancora una bambina!» le ricordai scompigliandole i capelli. Senza farlo apposta mi cadde l’occhio sull’orologio che segnava le otto meno cinque. Accidenti, com’era volato il tempo! Infatti all’esterno della scuola elementare si era già riunita una piccola folla.

«…e per le brave bambine questa è l’ora di andare a scuola» aggiunsi con un altro sorriso sghembo dei miei.

L’adrenalina di poco prima di miei figlia, nell’udire quelle parole, sembrò ridestarsi improvvisamente e subito gli occhi le brillarono come stelle per l’entusiasmo. Lanciò un gridolino e si precipitò giù dalla macchina, sbattendo la portiera e lasciandomi lì a scuotere la testa e a ridere sommessamente. Era già arrivata di corsa all’entrata quando io scesi dalla mia Volvo e m’incamminai con passo tranquillo verso l’edificio.

Eccomi! Dopo un'altra lunga attesa (eddai ancora!) dovuta allo studio massacrante che mi ha vista protagonista in questo periodo torno a postare un nuovo chap. Finalmente direte voi (veeeeeeeeeeeeeeeeeeeeero che lo dite, eh? XD). Be', il chap parla da sè quindi non commento. Ringrazio (oltre a tutti quelli che seguono questa ff e l'hanno messa tra i preferiti):

Flockkitten: sta riuscendo a farsi perdonare abbastanza bene secondo te? Be' lo vedrai meglio nel prossimo chap! Sperando ovviamente che Bella non lo uccida Xd Grazie per i complimenti!

Vale Pattz: sì, in effetti per Eddy proporrei un bel psicanalista e tanta ma tanta yoga! A presto e Grazie :)

lory_lost_in_her_dreams: Mi fa piacere che la storia ti piaccia =) Continua a seguirla mi raccomando!

Faby hale: Oh, ma lo sai vero che io ADORO i tuoi commenti? Vivo per leggerli ormai Xd sì, in effetti in quel chap (come già detto) ho voluto mettere in risalto la parte meno esplorata del nostro caro vampiro. Che altro dire? Grazie 1000 volte 1000 per i tuoi complimenti sempre fantastici! Spero che recensirai così bene anche questo chap!

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Capitolo 12
*** Scusa ***


12.    Scusa

 

La stessa canzone, prima in classifica da ormai ben due settimane, risuonava ad alto volume nell’abitacolo della mia Volvo, mentre sfrecciavo a velocità moderata per il centro cittadino. Le dita ticchettavano sul volante al ritmo della musica e lo sguardo andava fulmineo da un lato all’altro della strada in cerca della fatidica insegna. Ed eccola lì, finalmente, all’angolo del primo incrocio: Il Giardino Incantato - Fiorista. Un piccolo negozietto più simile a un ripostiglio per le scope che a un’attività commerciale, che però annegava tra vasi di fiori e piante verdi: proprio quello di cui avevo bisogno. Parcheggiai alla bell’e meglio sul lato della strada a ridosso del marciapiede (e per di più in divieto di sosta, ma era solo un particolare). Non mi ci volle molto prima di trovare ciò che cercavo. Proprio lì, tra un cumulo di anemoni coloratissimi e gigli e iris profumati, spiccava un grosso mazzo di rose rosse. Il tipo di fiore decisamente più banale da regalare alla propria innamorata, ma la mia attenzione era caduta subito su quei petali vermigli perché mi ricordavano tremendamente il rossore che ricopriva le gote di Bella ogni volta che, quando era ancora umana, la facevo arrossire.

«Scusi» dissi attirando l’attenzione di una docile vecchietta, probabilmente la proprietaria, intenta ad innaffiare un cascante vaso di lillà. Quella, notandomi e mettendo giù l’innaffiatoio, mi si avvicinò con un sorriso.

«Mi servirebbero un paio di queste» continuai indicando le rose.

«Le metto qualche fiocco, giovanotto?» rispose quella con voce trillante e un altro mezzo sorriso le distese il viso rugoso.

«Sì, grazie». Giovanotto? Be’, di certo avevo più anni di lei! Ma appena la signora ebbe pescato dal vaso due o tre rose, osservandolo con attenzione, il “mazzo” mi sembrò decisamente misero. Insomma, soltanto un paio di rose? Bella come minimo meritava tutti i fiori esistenti sulla terra…

«Aspetti!» esclamai. «Non è che… ehm… sì, insomma, non è che ne potrebbe aggiungere giusto qualcuna?». Se avessi potuto, ero sicuro che sarei arrossito violentemente.

Le vecchietta mi guardò con una strana luce divertita negli occhi e prese altre cinque rose fresche e profumate dal vaso. Ma a me sembrava che mancasse ancora qualcosa, accidenti! Non ero per niente soddisfatto. Forse se…

«Senta, facciamo così e non ne parliamo più». E così dicendo presi l’intero mazzo di fiori, una cinquantina almeno; con un regalo del genere mi sarei di certo assicurato l’attenzione di mia moglie. La signora rise ancora, questa volta più forte e con una risata chioccia, scuotendo la testa e prendendo un nastro bianco e della carta velina da uno scaffale.

«Quant’è?» domandai da dietro quella montagna di rose rosse.

«A occhio e croce direi… venticinque dollari». Acc…! Forse erano meglio le due rose e basta. Così tanto per dei dannati fiori destinati ad appassire?

«…ma giusto perché mi stai simpatico, facciamo venti». E per fortuna le ero sembrato simpatico:  se fossi stato scortese, invece?

Be’, mi dissi porgendo il mazzo alla vecchietta che iniziò ad infiocchettarlo mentre io tiravo fuori il portafoglio dalla tasca dei jeans, per Bella e il suo perdono questo e altro; probabilmente sarei stato disposto anche a fare debiti. In meno di due minuti il mio bouquet era pronto e, dovevo ammetterlo, anche a causa del prezzo, era il più bel mazzo di rose che avessi mai visto o comperato. Forse anche perché era fatto col cuore. In ogni caso, conclusi, mi sarei volentieri perdonato da solo se quelle rose fossero state per me. Mi stavo dirigendo a passo spedito verso l’auto, sperando di non trovarvi una bella multa, quando la vecchietta mi richiamò indietro. Magari ci aveva ripensato per il prezzo?

«Fossi in te m’inginocchierei, sai, fa più effetto» mi sussurrò con la sua solita espressione divertita. Ma sembravo davvero così impacciato?

«Come, scusi?».

«Be’, giovanotto, sicuramente quelle rose non le avrai prese tanto per bellezza».

«No… certo». Rimasi per un attimo sbigottito.

«Bene. E ricorda: spalle dritte, petto in fuori e arriva subito al sodo senza tanti giri di parole se vuoi che ti dica di sì. A noi donne non piacciono i perditempo e gli indecisi!».

«Va bene. Grazie per il consiglio, signora, e arrivederci».

Ma lei non mi ascoltava già più, visto che si era girata a spuntare con un paio di forbici una piantina d’edera lì vicino. Mmm, inginocchiarsi aveva detto, eh? Senza dubbio ci avrei fatto un pensierino…

 

Fu più difficile di quanto avessi mai creduto. Tornare a casa, intendo. Anche perché, non so bene come, ma c’era una specie di campo magnetico o roba del genere che si ostinava a tenermi lontano da casa e, in particolar modo, da Bella. O forse, più semplicemente, era il mio cuore indeciso e spaventato che preferiva rimanere nel limbo piuttosto che affrontare la situazione e far finire quell’agonia di un modo o nell’altro. Sì, perché avrebbe potuto perdonarmi… ma anche sbattermi la porta in faccia e, be’, una piccola parte della mia mente ansiosa preferiva quella tregua silenziosa a qualche frase secca sputata in faccia senza tanti complimenti. E chi non l’avrebbe preferito? Ma no, dai, Edward, sarebbe andato tutto bene!, continuavo a ripetermi mentre mi avvicinavo inesorabilmente a casa. Ci mancava giusto un po’ di musica d’atmosfera per rendere bene la suspense. Arrivai con passo accorto fin sotto la veranda, ben attento a non fare il benché minimo rumore e con il mio bel mazzo di rose debitamente stretto tra le mani, che avevano iniziato a tremarmi sempre di più man mano che mi avvicinavo alla porta. Dovevo suonare? Nah, meglio entrare di soppiatto. Nel cortile non c’era nessuna macchina, quindi ne dedussi che non ci dovesse essere nessuno in casa. Tranne… sì, tranne mia moglie. Ciò significava che, nel caso avesse tentato di aggredirmi, non avrei potuto chiamare nessuno in mio aiuto. Deglutii e girai la maniglia con circospezione. Il salone era vuoto come pure la cucina: non un rumore aleggiava nell’aria. Carlisle era al lavoro, Esme a fare la spesa con Alice, Rosalie ed Emmett imboscati da qualche parte (probabilmente nella loro “casetta”) oppure a fare shopping per lei, Jasper a caccia, Nessie a scuola… io nell’antro del lupo. La tentazione di lasciare lì i fiori insieme a un bigliettino in cui spiegavo le mie ragioni per poi scappare a nascondermi nella foresta era troppo forte… ma sapevo dove trovarla.

Sempre in punta di piedi e con tutti i sensi all’erta mi diressi verso il retro della casa, uscendo in giardino passando dalla porta della cucina. Recentemente in quel piccolo pezzo di prato, accanto a due salici piangenti, Esme aveva fatto istallare un piccolo gazebo in legno, con tanto di tavolino e sedie, sotto il quale d’estate ci riunivamo spesso per piccole festicciole. Tutto questo prima del grande uragano, ovviamente. Ed eccola là, seduta sulla sedia a dondolo preferita di Esme e avvolta in una delle mie pesanti giacche, che le stava decisamente larga, con una fumante tazza di tè posata sul tavolino a fianco e un libro aperto in grembo. Di sicuro, pensai, mi aveva visto arrivare in macchina, ma mi soffermai ben poco su quel pensiero troppo preso dalla stranezza della situazione. Insomma… un vampiro con una tazza di tè che non poteva nemmeno bere? Con addosso una giacca quando non ne aveva nemmeno bisogno, anche se l’umidità aleggiava nell’aria e la temperatura era decisamente calata? Aggrottai per un attimo la fronte, cercando di trovare un perché a quella situazione a dir poco singolare. Ma le mie gambe fremevano troppo e non riuscii a stare lì fermo a godermi lo spettacolo troppo a lungo. Mi diressi fino al gazebo quasi fluttuando sull’erba ancora bagnata di rugiada e resa scivolosa da quest’ultima. Fino ad allora non avevo fatto il benché minimo rumore e Bella non si era accorta della mia presenza, ancora tutta presa dal suo libro, ma appena misi piede sopra il pianale di legno del gazebo, questo scricchiolò fastidiosamente, tradendo la mia presenza e facendomi sobbalzare. Rimasi come congelato con il mazzo di rose accuratamente nascosto dietro alla schiena. Lei si voltò, ovviamente, ed alzò su di me uno sguardo sorpreso nel quale, però, non colsi alcun segno di rabbia o scocciatura.

«Ah, sei tu…» disse con un tono quasi deluso. «Ero convinta che fossero appena tornate Alice ed Esme».

«Ehm… no… Solo io» borbottai abbassando lo sguardo a terra. Dannato gazebo!

Lei sospirò e tornò al suo libro non degnandomi di un solo sguardo in più, neanche fossi diventato trasparente. E questo, di certo, non mi aiutava affatto, visto che mi ero ormai già bloccato. Come andare avanti? Urlarle addosso quello che dovevo senza tanti preamboli? Tossicchiai.

«A Renesmee sembra piacere la sua nuova scuola…».

«Ah sì? Mi fa piacere saperlo». Ma i suoi occhi erano ancora incollati alle pagine del volume che non riuscivo a scorgere e ticchettava con le dita della mano sinistra sul bracciolo della sedia, come se aspettasse impazientemente che me ne andassi. E forse era il caso che lo facessi, pensai.

«Ehm… Come mai la tazza di tè?» sussurrai indicando il tavolino di fianco a lei.

Ce la stavo mettendo tutta per sembrare gentile ed attirare la sua attenzione, ma questa volta Bella non si voltò neanche a guardarmi in faccia e rispose alla mia domanda con un alzata di spalle: il massimo del menefreghismo. A quel punto iniziai a spazientirmi: non ero venuto fin lì per essere trattato come una pezza da piedi!

«Bella… io…» dissi ora con un volume più alto e un tono più convinto, quasi indispettito.

«Tu cosa?». A quel punto mia moglie si voltò di scatto, rizzandosi sulla sedia e lasciando cadere il libro a terra. Ora sembrava davvero arrabbiata, irritata dalla mia stessa presenza. Gli occhi dorati avevano perso la loro abituale mitezza e gaiezza e mandavano lampi e fulmini nella mia direzione: ero sicuro che se quello sguardo fosse stato solido mi avrebbe potuto benissimo demolire. La sua espressione era dura e tirata e le rughe che le si erano formate sulla fronte e tra le sopracciglia la facevano sembrare molto più vecchia e stizzita. Le labbra erano contratte ed erano diventate talmente sottili quasi da scomparire e lasciar intravedere i denti appuntiti sottostanti. E per un attimo ebbi paura e fui quasi per indietreggiare con la coda tra le gambe.

«Devi dirmi qualcosa per caso?» continuò lei sempre con fare minaccioso.

Iniziai a sudare freddo. «No… io… no, non è niente».

Intanto il mio sguardo cadde sul libro aperto per terra. Non si trattava affatto di un banalissimo libro come avevo pensato fin da principio, bensì era un album di foto. E non un album a caso. Lo ricordo come se fosse ieri: nella prima pagina spiccava una mia foto di parecchio tempo addietro e un po’ sfocata nella cucina di Charlie. Ricordo ancora nitidamente la mia Bella nel giorno del suo diciottesimo compleanno che, contenta come una bambina a Natale, andava in giro a scattare foto con la macchina fotografica che le aveva regalato Charlie e con la quale aveva intenzione di riempire quell’album, regalo, invece, di Renée. Ricordo ancora la strana domanda che mi aveva fatto con un risolino divertito: “Se sviluppo questo rullino vi si vedrà nelle foto?”. Ricordo ancora quando avevo tolto quelle foto dal loro posto, sperando che mi dimenticasse e che continuasse a vivere la sua vita come se non fossi mai esistito, lasciando quelle pagine bianche e vuote e al posto della mia faccia sorridente solamente una scritta: Edward Cullen, cucina di Charlie, 13 settembre. Ma poi quelle foto erano tornate al loro posto: ma questo solo sulla carta o anche nel cuore di mia moglie?

«Anzi sì, ho qualcosa da dirti».

All’improvviso mi ritornarono in mente tutti d’un botto i consigli della vecchia signora gentile e con una determinazione che mi aveva preso ben poche volte nella vita m’inginocchiai davanti a lei, accompagnato ancora una volta dallo scricchiolio sgradevole del legno del pavimento. Vidi la sua espressione cambiare e accogliere con stupore impensabile il mazzo di rose rosse che tirai fuori con un gesto teatrale. I suoi occhi sbarrati mi chiedevano implicitamente se mai fossi diventato pazzo.

«Questi sono per te» dissi convinto ad arrivare subito al sodo.

Le misi il mazzo in grembo, dato che le sue mani, come le mie, avevano preso a tremare troppo per reggerlo saldamente. Il suo sguardo andava dai fiori a me e viceversa e a ogni secondo potevo scorgere in lei la confusione aumentare a ondate. Ero pronto a scommettere che non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere.

«Bella, io… volevo chiederti scusa. So di averti molto delusa in quest’ultimo periodo. Non ho saputo prendermi le mie responsabilità con Nessie… anzi, non ci ho nemmeno provato. Avevo paura di tutta questa nuova situazione, perché, sai, anche se ormai ho più di cento anni, non credevo di essere ancora pronto per fare il padre e, a dir la verità, non lo credo molto nemmeno adesso. Non ti nascondo che vedevo tutta questa cosa… la nostra famiglia, come un peso. Sì, un peso da cui sarei volentieri scappato. Ero letteralmente terrorizzato».

Feci una breve pausa per vedere l’effetto delle mie parole. L’espressione di Bella si poteva riassumere con un “cosa?” seguito da un numero periodico di punti interrogativi: ecco, ero riuscito a colpirla, anche se non sapevo ancora bene se in modo positivo o meno. Ora dovevo solo arrivare al suo cuore e sembrarle sinceramente pentito. Anche perché lo ero davvero; sentivo le parole sgorgarmi direttamente dall’anima e credo di non aver mai detto in vita mia cose più vere e sentite. Non pensavo nemmeno alle parole: venivano a galla da sole, a volte leggermente balbettate altre più coincise e dirette. Andai avanti.

«Ma adesso credo di aver capito. Erano paure stupide quelle da cui mi sono fatto prendere, che non facevano altro che annebbiarmi la mente e impedirmi di vedere ciò che avevo: la cosa più bella del mondo, una figlia, una moglie e una famiglia intera. Però, forse, l’ho capito troppo tardi. Tu non sai quante volte io mi sia biasimato… disgustato per la mia incapacità. Mi sono sentito inferiore a chiunque, una vera nullità: prima di deludere te ho deluso me stesso. E adesso che finalmente mi sono reso conto dei miei sbagli madornali, non voglio perdere tutto quello che mi sono faticosamente guadagnato. Non voglio perdere te… per una punizione che non credo di meritare».

Feci un’altra pausa e la fissai intensamente negli occhi, che ora avevano abbandonato lo sbalordimento e la sorpresa. Parevano neutri, intenti a vagliare le mie parole e a considerare attentamente ogni prospettiva.

«Ti prego, dammi un’altra opportunità!» implorai. «Io ti amo e tu sai meglio di me quanto. Quanto tu valga più della mia stessa vita e quanto tu sia indispensabile per la mia sopravvivenza. Non ci riesco più a vivere così, costretto ad osservarti da lontano e a girarti alla larga senza poterti abbracciare e baciare. Non è questo che voglio».

Oddio, questa sì che era una dichiarazione strappalacrime! Per fortuna che nessuno di noi due poteva piangere… Ma nonostante tutto sentii di aver colpito Bella, che continuava a guardarmi in silenzio con quell’espressione indecifrabile. Il suo sguardo era perso nel vuoto, come se davanti a lei stesse scorrendo un vecchio film: probabilmente, come aveva fatto poco prima con l’album di foto, stava rivedendo me… anzi, noi. E magari, sotto questa nuova luce, stava rivalutando le sue scelte e le sue azioni.

«Allora?» intervenni. «Me ne devo andare?».

Questa frase parve riscuoterla da quella specie di trance. Sobbalzò come spaventata e scattò per prendermi per un braccio ed avvicinarmi a lei, come se avesse paura che me ne andassi per davvero.

«No! Ti prego». Ora fu il mio turno a rimanere sorpreso.

Sentivo la sua stretta sul mio polso rafforzarsi di secondo in secondo ma non feci una piega. Era strano tutto quel contatto fisico, anche perché era passato parecchio tempo da quando ero stato così vicino a lei. Avevo quasi dimenticato quando fosse straordinario il profumo della sua pelle e luminoso il colorito del suo viso a forma di cuore.

«Io… Credo di doverti delle scuse anch’io».

Quelle parole furono per me come il rintocco di campane dorate accompagnate dal canto celestiale di angeli. Mi avvicinai di più a lei, fino a sentirne il respiro controllato, ed ebbi perfino l’ardire di cingerle la vita con mani tremanti.

«Forse sono stata troppo dura nel giudicarti così. Non avevo idea dei problemi che ti affliggevano: sono stata così egoista e superficiale! Credevo… Credevo che non te ne importasse nulla di noi e che quello che facevi, anzi che non facevi, lo sentissi come un’imposizione. Avevo sempre pensato che non ti stesse granché a cuore Nessie… e che non mi amassi più come prima».

Nel dire ciò abbassò lo sguardo per evitare il mio, che invece fu illuminato da una risata spontanea. Ma era a dir poco assurdo! In quale mondo non avrei potuto amare Bella ed adorare mia figlia? Risi ancora e più forte e quel suono mi sembrò strano, ma naturale ed armonioso, non come la risata distorta di quella notte nella foresta.

«Che vampira stupida!» esclamai scoccandole un bacio sulla punta del naso.

Anche lei sorrise e ora la sua espressione di pietra di poco prima pareva lontana ere. Mi gettò le braccia al collo, lasciando cadere il mazzo di rose, e mi baciò appassionatamente come raramente aveva fatto, come quella fatidica sera. Anzi, no, meglio, poiché mi fece sentire come se latte e miele mi scorressero nelle vene portando un’infinita dolcezza al cervello.

«Ti chiedo scusa» mi sussurrò infine a un orecchio. «Forse sarebbe utile anche a me poter leggere qualche volta nei pensieri degli altri».

Sorrisi a quell’affermazione. «Perciò sono perdonato?».

«Semmai dovrei essere io quella ad essere perdonata» rispose lei inarcando leggermente le sopracciglia.

«Be’, allora così sia» risposi e mi sentivo felice, felice, felice, tremendamente e maledettamente felice. «Ma posso chiederti una cosa? E questa volta prometti di rispondere».

Lei intrecciò le sue dita alle mie ed annuì.

«La tazza di tè ha un significato preciso? E l’album? È per caso una specie di revival dei vecchi tempi?».

«Sì, una specie». Ora anche i suoi occhi sorridevano e brillavano come piccole stelle luccicanti incorniciate dai suoi vellutati capelli color cioccolato. «È che sentivo un po’ di nostalgia della mia vita umana. No, no, non mi fraintendere, non in quel senso. Solo che, be’, dubitando del tuo affetto attuale (e scusami ancora per un così terribile e infondato dubbio) avevo bisogno, diciamo così, di rifugiarmi in un posto in cui tu fossi veramente e totalmente mio, come in passato».

«Ma io sono e sarò per sempre veramente e totalmente tuo».

«Ora lo so». E mi abbracciò ancora appoggiando la testa al mio petto.

Rimanemmo lì fermi e in silenzio per un tempo indefinito, forse anche più di un’ora. Alla fine mi staccai da lei e raccolsi le rose che precedentemente erano cadute a terra: erano ancora perfette, con i petali freschi e vellutati che emanavano una dolce fragranza.

«Ti sono piaciuti almeno queste?» domandai.

«E me lo chiedi?!?». Bella prese i fiori dalle mie mani con un gesto repentino, quasi avesse paura che reclamassi il regalo, e vi affondò il viso respirandone il profumo a pieni polmoni.

«Perfetto. Se non altro ne è valsa la pena…» borbottai tra me e me.

Ma Bella mi aveva sentito benissimo e saltò su dicendo: «Ne è valsa la pena di cosa?».

«No, niente, parlavo tra me e me» risposi mentre pensavo che ne era valsa la pena di seguire i consigli di mia figlia, spendere la bellezza di venti dollari, fare tesoro delle massime della vecchietta ed affrontare la mia fifa tremenda. Sì, ne era valsa decisamente la pena, conclusi mentre mi lasciavo alle spalle il gazebo con mia moglie mano nella mano. Nessie sarebbe stata fiera di me.

E finalmente quei due si sono decisi a fare pace: alleluja! Be', non ho molta voglia di commentare questo chap anche perchè, boh, non so bene perchè, ma non mi convince tanto, ho come l'impressione che gli manchi qualcosa. Comunque, come sempre, sta a voi giudicare! La prima parte (quella della fiorista) all'inizio mi sembrava superflua ma poi ho deciso di lasciarla perchè mi piaceva vedere questo Eddy diverso alle prese con un negozio umano e con faccende umane. Ora i ringraziamenti:

lory_lost_in_her_dreams: grazie per tutti i "bravissima" e gli "adoro". Spero che questo capitolo sia all'altezza degli altri... non c'è Nessie però c'è Bella =) Comunque intendevo farsi perdonare con entrambe...

Flockkitten: contenta adesso? Finalmente anche Bella ha avuto il suo mea culpa! E i fiori ti sono piaciuti? Avevo preso in considerazione tanti altri tipi di fiori ma alla fine ho optato per delle classiche rose rosse, forse anche perchè è il tipo di fiore che mi piacerebbe mi regalasse un mio eventuale Edward senza dire che è sempre il più romantico ^^

Vale Pattz: ...e le cose si sono risolte per il meglio, ovviamente. Che dici, ci sta una bella bottiglia di chapagne per festeggiare eh?

anna cullen: ooooh una nuova lettrice! Accidenti non credevo di diventare famosa attraverso i passaparola! Be', meglio così! Grazie mille per i complimenti per la scrittura e per la fantasia (il mio pane e la mia acqua quotidiani). Spero che anche questo chap sia di tuo gradimento ^^

_zafry_: e come hai visto da questo capitolo anche Bella alla fine si è presa le sue responsabilità, quindi non essere troppo dura con lei. Grazie dei complimenti!

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Capitolo 13
*** Genitore adolescente ***


13.   Genitore adolescente

 

La tensione e l’adrenalina si potevano tagliare col coltello, come la nebbia del resto. Non si vedeva a un palmo di naso e anche distinguere i propri piedi sul terreno risultava arduo. Ma il nemico era vicino, il suo tanfo infernale aleggiava nell’aria come un brutto presagio, mentre il corpo inerme del compagno giaceva a terra con gli occhi velati da un terrore reverenziale e simile a un sinistro monito. Un brivido di terrore mi percorse la schiena, facendomi quasi venire la pelle d’oca, mentre sentivo che di lì a poco il nemico avrebbe mostrato il suo ghigno crudele. Ed ecco, uno scricchiolio sulla sinistra, passi in avvicinamento. Però dal rumore attutito dall’erba umida del cimitero si poteva facilmente intuire che quello non sarebbe stato un incontro tête-à-tête con la creatura più malvagia che avesse mai osato calcare questa terra, bensì ci sarebbe stato pure un pubblico. Le cose si stavano mettendo male, anche perché questa volta non sarebbe bastata la solita fortuna a salvare la situazione.

«Eddy, tesoro!».

Eccolo, era proprio lì, dietro a quella lapide, dalla quale si levò una risata chioccia e degna del peggior cattivo. Poi la cortina di nebbia si dissolse come il sipario di un palcoscenico, mettendo così in risalto quelle due iridi rosse incastrate in un volto non più umano.

«Edward! Ma dove diavolo ti sei cacciato?!».

Il nemico avanzò con la lunga veste nera che ad ogni movimento s’increspava attorno al suo corpo pelle ossa. Lanciò un’occhiata al cadavere riverso a terra in una posizione innaturale e un ghigno contorse la sua espressione serpentina. E disse…

«Allora, Eddy, vieni ad aiutarmi sì o no?».

«Arrivo subito! Dammi solo un minuto!».

E, alzando la bacchetta con fare minaccioso e con la ben nota maledizione già sulle labbra contratte, disse: «Sei finito, Potter!».

«Era un minuto anche un quarto d’ora fa! Vieni qui immediatamente!».

La voce di Bella rimbombò come un tuono nella tromba delle scale. Sobbalzai e persi la presa sul libro che avevo in mano, il quale cadde a terra con un tonfo e si chiuse. Lanciai un urletto subito seguito da un gemito come di un cane bastonato: no, accidenti, avevo perso il segno! Mi alzai dal divano e raccolsi il volume dalla copertina color vino e il titolo, “Harry Potter e il calice di fuoco”, stampato in caratteri bronzei. Ma proprio nel punto cruciale della storia doveva chiamarmi Bella?, pensai con un certo rammarico. Avevo divorato quasi quattrocento pagine in meno di una settimana e mentre mi inoltravo nella scena di massima tensione, quella dello scontro tra Harry e Voldemort nel cimitero durante l’ultima prova del Torneo Tremaghi, venivo strappato così violentemente da quella fantasia. Almeno mi lasciasse digerire la morte di Cedric Diggory (anche se in fondo non me ne rattristavo così tanto)! Ma il dovere chiamava e, messa da parte la mia nuova Bibbia, mi diressi di sopra. Bella stava trafficando con palloncini, festoni e altre decorazioni varie e la nostra vecchia camera da letto ora assomigliava più che altro a un circo.

«Ecco, tieni questi e valli ad appendere giù in salotto» mi disse mettendomi tra le braccia una decina di ghirlande colorate e festoni di carta.

La guardai un po’ scettico sul buon gusto di tutto quel ciarpame, ma alla fine obbedii senza protestare. Avevo da poco riguadagnato la stima e l’affetto di mia moglie e non avevo la benché minima intenzione di ripiombare in cattive acque. Mentre scendevo con flemma le scale, scorsi attraverso la porta aperta della cucina un’enorme torta a tre piani decorata con smarties e fiorellini di zucchero. Era da più di un’ora che Esme e Rosalie si davano da fare attorno a quella montagna di zucchero e calorie, dopo aver finito con tanti pasticcini, sandwich e salatini sufficienti a sfamare un intero esercito per una settimana. E per fortuna che noi non mangiavamo! Mentre quelle due davano sfogo al loro estro culinario, io e Bella ci eravamo incaricati delle decorazioni interne. Ma io ero troppo preso dal mio nuovo beniamino, il maghetto più famoso del mondo, per pensare a fiocchi e palloncini. Anche perché approfittavo di ogni singolo istante d’assenza di Emmett e Jasper per proseguire con quella fantastica storia in tutta tranquillità. E visto che al momento i due erano fuori in giardino ad aiutare Carlisle a sistemare i tavoli e roba varia… Quale occasione migliore per eclissarsi in quel mirabolante mondo? Ma Bella la pensava diversamente sul mio adorato “libro per l’infanzia”, come lo definiva lei. Perciò... Con uno sbuffo iniziai ad appendere i festoni, anche se la mia mente continuava ad essere altrove.

Sicuramente qualcuno si starà chiedendo il come mai di tutti questi preparativi. Be’, il motivo non poteva essere più semplice. Proprio in quella giornata stranamente assolata, infatti, cadeva il primo compleanno di Renesmee e i preparativi fervevano febbrilmente per rendere quell’evento indimenticabile. Ovviamente mia figlia non sapeva nulla di quella festa a sorpresa ed Alice era fuori con lei da quella mattina proprio per impedirle di scoprire il tutto. Come già detto, Nessie ora andava a scuola e, sebbene fosse passato solo poco tempo dall’inizio del trimestre, si era già fatta parecchi amici. Tutti figli di gente di Forks e umani, s’intende. E come festeggiare un compleanno senza invitati? Era sottointeso che per i bambini invitati e le loro famiglie mia figlia avrebbe compiuto sei anni. Ma per Renesmee questa finzione non era un problema e ormai per lei era diventata quasi un’abitudine dichiarare cinque anni in più della sua reale età. Gettai un’occhiata all’orologio a muro, che segnava già le quattro del pomeriggio, e mi dissi che forse era il caso di sbrigarsi visto che di lì a poco sarebbe iniziata ad arrivare gente. Oltre la festeggiata, ovviamente. Dieci minuti dopo infatti, quando avevo appena terminato con le decorazioni del salotto e di tutto il piano terra che ora era un tripudio di colori, fiocchi e palloncini, suonò il campanello. E quel trillo era solo il primo di una lunga serie.

 

«Quando arriva Nessie?».

Il salotto ormai traboccava di persone, che iniziavano già ad affollarsi anche in giardino: sembrava che tutta Forks si fosse riunita lì a casa Cullen. Il chiacchiericcio cresceva viepiù d’intensità e tutti i manicaretti di Esme e Rosalie erano andati letteralmente a ruba.

«Presto, tranquilla» risposi alla bambina davanti a me.

Saba Horner, che nell’ultimo periodo sembrava essere stata eletta da mia figlia a sua migliore amica, mi fissò attentamente con i suoi grandi occhi blu pervinca ed annuì sommessamente, facendo oscillare i codini nero pece.

«Perché deve aprire il mio regalo per primo!» pigolò ancora arrossendo un poco.

Mi chinai un poco per trovarmi alla sua stessa altezza e le risposi: «Senti, facciamo così: appena arriva ti vengo a chiamare così le dai subito il regalo, ok? Adesso, però, vai a giocare con gli altri».

I suoi occhi scintillarono come stelle e si slanciò verso di me per scoccarmi un bacio sulla guancia, mormorando un timido “grazie”, anche se il timore che l’aveva colta prima sembrava ora evaporato. Sorrisi scuotendo il capo mentre raggiungeva di corsa gli altri bambini. Di sicuro, pensai, era una delle creature umane più dolci, fedeli ed affettuose che avessi mai conosciuto, senza contare che gli Horner, con la loro modesta attività di librai in città, erano sempre stati in buoni rapporti con i Cullen. Non credevano a tutte le dicerie che circolavano su di noi ed erano più propensi a farsi gli affari loro. Forse era stato il fatto di avere entrambe un nome singolare ad avvicinare le due bambine, fatto sta che io ero più che felice che Saba fosse diventata subito amica di Nessie. Però non potevo dire la stessa cosa di qualcun altro. Mi soffermai ad osservare Saba accanto a un bambino biondo, dalla pelle diafana e gli occhi grigi: Kodi Lesser. Avevo facilmente notato che ogni mattina davanti a scuola mia figlia non poteva fare a meno di arrossire ogni volta che incrociava lo sguardo di quel ragazzino e, facendo due più due, ero giunto alla conclusione che avesse una cotta per quel moccioso. E la cosa non mi piaceva affatto: quel tappetto, forse anche perché proveniente dalla famiglia più ricca di Forks, mi puzzava di orgoglio e testardaggine sfegatata, menefreghismo e un ostentato senso di superiorità. Proprio il classico ragazzino viziato e piagnone. Ma per fortuna che Jacob aveva avuto l’imprinting con Nessie e su quel fronte avevo le spalle coperte... Oddio, era davvero meglio un licantropo a Mr. Io-Sono-Perfezione? Mmm, forse sì. Continuai a guardarmi attorno ed incrociai sia facce conosciute che nuove. Tutti i membri della mia famiglia, prima fra tutti Bella, erano impegnati ad intrattenere gli ospiti. In un angolo c’erano Charlie e Sue che chiacchieravano con Billy Black e gli altri Quileute; erano venuti proprio tutti: Seth, Leah, Sam, Quil, Embry, Paul, Jared, Emily e Claire, sua nipote, che si era subito unita ai giochi degli altri bambini. Scorsi molti abitanti di Forks e genitori di compagni di scuola di mia figlia che conoscevo solo di vista e al tavolo dei salatini Renée e Phil, arrivati appositamente quella mattina da Jacksonville, parlavano con Esme e Carlisle. Anche se gli invitati umani e i loro figli non lo sapevano, tra di loro oltre ai licantropi c’erano pure dei vampiri. Sì, infatti anche il clan di Denali era stato invitato e Tanya, Kate e Garret, Carmen ed Eleazar facevano capannello per conto loro, visto che nessuno dei comuni mortali aveva abbastanza fegato per avvicinarsi a quei semi-dei.

«Ehi, attenti!» esclamai mentre un gruppetto di tre bambini e un cane mi passava accanto correndo e strillando.

Come minimo avrebbero finito per combinare qualche casino, pensai. Mentre assumevo un’espressione seria, riconobbi tra i tre monelli degli altri amichetti di Nessie. I due gemelli Wells, Ralph e Rosy, figli di un caro collega di Carlisle all’ospedale, con il loro nuovo botolo di pelo grigio e ululati stridenti, Dingo, e seguiti a ruota da Dusty Radford, i cui capelli ricci e arruffati mi ricordavano spiacevolmente Jessica Stanley. E non a caso, infatti la piccoletta era cugina dell’ex “amica” di mia moglie e non senza un certo rammarico dovevo dire che con Jessica oltre ai capelli aveva in comune anche il carattere ficcanaso, nonché la parlantina inarrestabile. Bene, mi dissi raggiungendo mia moglie intenta a parlare con i genitori di non so bene chi, ora mancava solo la festeggiata. Festeggiata che sarebbe dovuta essere scortata lì da Alice e Jacob ormai a momenti.

«Sì, speriamo che regga il tempo. Sarebbe davvero un peccato se si mettesse a piovere proprio adesso» stava dicendo Bella sistemandosi nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Era da più di un’ora che sorrideva e salutava tutti facendo gli onori di casa e potevo facilmente cogliere lo stress sotto la sua espressione forzatamente gioviale. Dopotutto metà della gente che c’era lì almeno una volta nella vita aveva pensato che la nostra famiglia avesse qualcosa di strano (e non a torto), fomentando le dicerie che circolavano tutt’ora in giro, e di sicuro un buon numero era lì solo per curiosità. Qualcosa del tipo “ehi, vediamo se i Cullen sono così strambi come dicono! Magari hanno anche una bara in salotto…”. Però noi avevamo sempre scelto la strada della non-violenza e la dottrina del “fai buon viso a cattivo gioco”.

«Ha proprio ragione» cinguettò la donna con cui stava parlando mia moglie.

Era talmente magra che ero sicuro che se si fosse messa di profilo sarebbe scomparsa. I capelli biondo chiarissimo facevano da cornice a un viso allungato, nel quale lampeggiavano come fari un paio di occhi celesti indagatori e furtivi. I lineamenti erano tirati ed affilati e le sopracciglia fini non facevano altro che sottolineare il suo sguardo pungente, mentre le labbra, anch’esse molto sottili, erano perennemente contratte in uno strano sorrisetto come di sfida. A prima vista, anche se non sapevo nemmeno chi fosse, quella donna non m’ispirava nulla di buono: probabilmente rientrava nella categoria dei curiosi. Oppure di quelli con la puzza perennemente sotto al naso.

«Ma dov’è la festeggiata?» disse ancora e nel suo tono colsi una nota fastidiosamente acuta.

«Oh, mia figlia arriverà tra breve» rispose Bella con il solito sorriso.

La signora in questione rimase un attimo perplessa nell’udire le parole “mia figlia” e le sue labbra si corrugarono in una ghigno che non seppi come interpretare. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma all’ultimo si trattenne e rivolse uno sguardo d’aquila all’uomo al suo fianco, che intuii dovesse essere suo marito.

«Jeff, caro, ti ricordi di Rosemay Cullen? Quella bambina in classe con Kodi?» trillò, mentre Bella la correggeva con un sussurrato “Renesmee” che si udì a stento.

Sfiorai leggermente la mano di mia moglie per incoraggiarla e non farsi intimorire da quei due. Kodi aveva detto l’arpia, eh? Be’, allora si spiegavano molte cose se quei due erano i genitori di quel marmocchio… Il signor Lesser alla domanda della moglie sobbalzò visibilmente, a significare che fino a quel momento la sua attenzione era stata ben lontana dalla festa. Si sistemò gli occhiali squadrati sul naso leggermente adunco, sormontato da un paio di occhietti piccoli e acquosi e un bel paio di folte sopracciglia che mi meravigliai che non gli coprissero la visuale.

«Eh, come hai detto, Kathy? Oh, sì, la piccola Cullen! Sembra una bambina così adorabile!» balbettò questo alla fine sempre sotto lo sguardo da falco della moglie, le cui labbra si contorsero ancora, ora leggermente disgustate. Evidentemente non le era andato molto a genio il commento del marito, valutai mentre il signor Lesser si faceva sempre più piccolo all’ombra inquietante della consorte. Io tossii per stemperare la tensione.

«Siamo contenti che Nessie e vostro figlio Kodi siano diventati amici… ehm, già» s’attentò Bella.

Io le lanciai un’occhiata che stava per “parla per te”, sperando di non essere visto dalla signora-avvoltoio, anche se mi sembrò che i suoi pensieri non fossero molto diversi dai miei.

«Nessie? Oh, sì… sì».

Ora anche le sue sopracciglia si erano corrugate insieme alle labbra, che pareva non riuscissero mai a trovare un’incurvatura stabile o che almeno non risultasse vagamente snob. Il mio piccolo Kodi con quella stramba bambina?! Non lo permetterei nemmeno per tutto l’oro del mondo!, colsi di sfuggita questo breve pensiero di Kathy Lesser, prima di chiudere in fretta e furia il flusso che legava la mia mente ai suoi pensieri: non valeva la pena di sentire altro. Ero indignato: come si poteva permettere di definire così il mio piccolo angelo?!? Chi gliel’aveva fatto fare di venire a quella festa? Ah, già, dimenticavo che eravamo un’attrazione turistica…

«Bella!!!».

Ci voltammo tutti e quattro contemporaneamente e scorgemmo Esme sulla porta della cucina che chiamava mia moglie a gran voce sventolando una mano in aria.

«Bella, potresti venire un attimo ad aiutarmi con la torta?» gridò ancora per sovrastare il brusio della gente.

«Arrivo!» rispose lei.

E, quasi ringraziando il cielo per averla liberata dalla compagnia dei Lesser, sparì tra gli invitati lasciandomi lì da solo, ma non senza avermi prima sussurrato all’orecchio un breve: «Pensaci tu. Torno subito». Pensarci io? Ah, ma era uno scherzo, vero? In quell’istante pensai seriamente di rivedere la mia dieta vegetariana. Mi rivolsi, quindi, alla simpatica signora con un’espressione sprezzante e altera, sperando di intimorirla almeno un po’ e mettere a cuccia tutti i suoi commenti e pensieri sconvenienti. Ma mi sbagliavo: infatti Kathy Lesser non aveva rivali in quanto a saper imporre la propria presenza e il povero Jeff, che non faceva nemmeno testo, ne era la prova lampante.

«Allora…» iniziò arraffando con le dita ad artiglio un bicchiere di limonata dal tavolo più vicino. Il marito la imitò per poi perdersi a guardarsi attorno, forse in cerca del figlio ma molto più probabilmente per non doverla stare a sentire. E rieccomi addosso quello sguardo color ghiaccio che mi analizzava centimetro per centimetro, facendomi sentire come senza vestiti addosso.

«Suppongo che lei sia il fratello maggiore di Rosem… Nessie».

Recuperai anch’io un bicchiere di limonata giusto per prendere tempo per la risposta. Ohoh, addirittura il fratello? Davvero sembravo così giovane? Feci finta di bere un sorso, anche se quella roba da umani mi fece salire la nausea appena l’odore dolciastro e insieme aspro mi passava sotto al naso.

«Ehm… non precisamente». Finsi di bere un altro sorso. «In realtà sarei il padre».

La reazione fu la stessa di quando Bella aveva balbettato quel timido “mia figlia”. Anzi, forse moltiplicata per dieci. Il suo viso si distorse così tanto da assomigliare a un Picasso; gli occhi ora ancora più indagatori si ridussero a due fessure, le sopracciglia si unirono a formare un’unica linea dritta e anche il naso s’arricciò. Mi venne quasi da ridere nell’osservare quella terribile trasformazione e dentro di me non invidiavo affatto il povero Jeff. In mezzo a tutto ciò, non potei frenare il flusso dei suoi pensieri, che mi travolsero e mi lasciarono senza fiato come un fiume in piena. Padre? O mio Dio, ma come può…? Quanti anni avrà? Diciotto, venti al massimo! Con una bambina di sei anni? Questo significa che… Ma che aberrazione è mai questa? E mentre io assumevo un’espressione divertita e ridevo tra me e me, la signora Lesser impallidiva e a un certo punto sembrò stesse per svenire davanti alla mia rivelazione shock. Ma alla fine si riebbe e sbatté le palpebre come un gufo.

«Scusi? Ha detto padre per caso?».

«Credo proprio di sì». Sorrisi beffardo e lei prese due profondi respiri.

«Ma… le sembrerò indiscreta, ma le posso chiedere quanti anni ha?».

Mi schiarii rumorosamente la voce con fare teatrale. «Diciassette».

I suoi occhi ora si spalancarono orribilmente, così tanto che alla fine somigliava in modo impressionante a un rospo che avesse per sbaglio mandato giù una mosca dal sapore insolito e sgradito. Per l’ennesima volta trattenni una risata fragorosa.

«Diciassette ha detto?».

«Sì, proprio diciassette». Qualche problema vecchia megera? Un po’ d’invidia per tutte le rughe in meno?

«Mmm… però!».

Per qualche secondo calò il silenzio e, guardandomi attorno, mi accorsi che il signor Lesser si era volatilizzato; magari al momento era rintanato in qualche angolino al sicuro: come lo capivo! Intanto il flusso di pensieri della signora Lesser continuava a mettere a dura prova la mia barriera protettiva. Non è assolutamente possibile! Diciassette anni! Un adolescente, un ragazzino e di più padre! Oddio, oddio! E trattenere le risate diventava sempre più difficile.

«Mi scusi ancora… Ma se lei ha solo diciassette anni e sua figlia sei… come…?». Ora sembrava sinceramente imbarazzata oltre che scandalizzata e la cosa mi fece un immenso piacere.

«Oh, no» risposi con fare ora vagamente rassicurante. «Io sono il padre adottivo».

Questa nuova informazione mise per un attimo a tacere le innumerevoli ansie che intanto si erano affollate nell’animo di Kathy Lesser, anche se il suo sconcerto era ben lontano dall’essere estinto del tutto. Dopotutto ero un genitore adolescente, cavoli! Già m’immaginavo come avrebbe reagito la cara signora se le avessi raccontato tutta la verità, cioè che io in realtà ero un vampiro e che Nessie, ebbene sì, era la mia figlia naturale e aveva solo un anno anche se ne dimostrava quasi sei a causa della sua crescita anormale. E anche se l’avessi fatto ero quasi certo che sarebbe rimasta scandalizzata non tanto per la faccenda dei vampiri quanto che ai miei diciassette anni (anche se solo apparenti) e ai diciotto (diciannove effettivi) di mia moglie fosse permesso di arrogarsi il titolo di genitori.

«Mi sembra un po’ curioso avere dei figli adottati a soli diciassette anni» continuò quella scolandosi tutta la limonata rimasta nel bicchiere. In breve sarebbe passata alla vodka, pensai.

«Oh, be’, è stato a causa di un problema familiare… Un parente defunto, sa com’è».

Nonostante avessi recitato come uno scolaretto zelante la mia montatura premeditata e comprovata, la signora Lesser non sembrava affatto convita. Ne dedussi che serbasse una profonda avversione per le (troppo) giovani coppie con figli.

«Mi dispiace per lei e la sua famiglia, ma… affidare una bambina a un adolescente? Non le sembra un po’ azzardato?».

«A una coppia di adolescenti, vorrà dire. Credo che io e mia moglie (sì, siamo sposati) siamo in grado di badare benissimo a Nessie».

Ed ecco ancora riapparire la strana espressione da rospo che ha appena inghiottito un boccone traditore ed è andato in apnea, indeciso se risputarlo o mandarlo giù in silenzio.

«Per quanto mi risulta gli adolescenti come lei… sedicenni, diciassettenni, diciottenni, come vuole… hanno altri interessi invece che preoccuparsi di una figlia e di una moglie». E il suo volto fu stirato da un sorrisino derisorio e subdolo, che mi consigliava di arrendermi e darle ragione.

«Che altri tipi di interessi?» domandai.

«Lei dovrebbe saperlo meglio di me».

«Be’, se mi trovo qui a parlare con lei di mia moglie e di mia figlia evidentemente non conosco questi “altri interessi” che dovrei avere. Quindi se vuole essere così gentile da elencarmeli».

«Non so, fare sport, ascoltare musica, uscire con gli amici e con le ragazze…».

Proprio quello che pensavo: avevo la risposta pronta. «Per quanto riguarda lo sport, be’, vede anche lei che di spazi verdi qua attorno ce ne sono parecchi e si prestano a qualsiasi attività. Per la musica, se vuole le posso mostrare la mia stanza e i duemilatrecentoquarantasette cd che ho, senza contare che so suonare il pianoforte. Poi, vede quel gruppetto là? Sì, proprio quello di quei ragazzi alti e grossi: be’, quelli sono i miei amici. Infine, per le ragazze non ne ho bisogno, perché ho mia moglie che è meglio di tutte le donne al mondo messe assieme. Le basta?».

Questa volta il sorrisetto snob della signora, che già prima si era visto in seria difficoltà, fu finalmente sconfitto dalle mie parole semplici e dirette. Non avrei permesso mai a nessuno di dire che mia figlia, mia moglie e la mia famiglia avevano qualcosa che non andava né che io, indipendentemente dall’età, non potessi essere un buon padre. Però questo la signora Lesser non voleva proprio capirlo e subito la sua espressione di rabbuiò, non potendo affatto sopportare una così vergognosa sconfitta.

«Lei potrà essere la persona più moralmente integra del mondo, ma rimane pur sempre un genitore adolescente!» esclamò e la sua voce si fece così acuta e stridente da perforare i timpani. «Il che equivale a dire un irresponsabile, uno sprovveduto e…».

All’improvviso mi sentii tirare per l’orlo della camicia e, non prestando ormai più attenzione alla mia interlocutrice, mi voltai e, abbassando lo sguardo, vidi davanti a me la piccola Saba, che saltellava tutta eccitata e con un sorriso a trentadue denti.

«È arrivata! È arrivata!» continuava ad esclamare.

Poi corse via, voltandosi solo una volta come per invitarmi a seguirla, e già gli altri invitati ave vano iniziato ad accalcarsi vicino alla porta d’ingresso, neanche fossero in attesa dell’arrivo di una famosa star di Hollywood. Tra la folla accalcata e il chiacchiericcio eccitato potei scorgere due figure molto diverse tra loro, una alta e tarchiata e l’altra minuta e leggiadra, che identificai con Jacob ed Alice. Se c’erano loro, mi dissi, voleva dire che era appena arrivata anche la festeggiata, la mia Nessie: ed ecco spiegata tutta l’agitazione di Saba. Mi voltai per un’ultima volta verso la signora Lesser, che ora era diventata viola di rabbia per essere stata ignorata con così poco riguardo. Ma a me non importava. Probabilmente ora Nessie, entrando di casa, si stava chiedendo cosa ci facesse lì tutta quella gente e il perché di tale trambusto, e io non volevo di certo perdermi il suo faccino meravigliato su cui di dipingeva gradualmente il suo più grande sorriso.

«Mi scusi, signora» dissi garbatamente. «Lei potrà avere tutte le ragioni del mondo per biasimare la mia età e la responsabilità che ho scelto di addossarmi, ma rimane pur sempre il fatto che oggi è il compleanno di mia figlia e di certo non sarei un buon padre se non fossi accanto a lei in un giorno importante come questo. Quindi mi dispiace dover interrompere la nostra interessante conversazione, ma proprio non posso venire meno ai miei doveri e sembrare un genitore adolescente sprovveduto e irresponsabile».

Lei non rispose nulla, forse anche perché era rimasta letteralmente a bocca aperta e senza parole; avrei scommesso qualsiasi cosa che non si aspettava una rimonta così insperata. Ma, ancora una volta, non m’importava un accidenti di quel rospo/arpia/strega/avvoltoio, del suo povero marito sfruttato ma pieno di soldi o del suo figlioletto che purtroppo aveva ereditato lo stesso acido DNA della madre. Mi voltai lasciando Kathy Lesser lì da sola impalata, per poi buttarmi a capofitto nella folla. Più tardi la vidi vagare per il salotto, probabilmente in cerca del marito e del figlio, decisa una volta per tutte a lasciare quella “dannata casa di matti”: be’, meglio così. Passai davanti a un gruppetto di bambini urlanti e mi feci strada tra licantropi, vampiri e altri umani di tutte le età. Alla fine, però, tra tutta quella marmaglia riuscii a scorgere una ciocca di ricci color bronzo e subito dopo un paio di occhi castani che scintillavano di commozione, accompagnati da una risata pura e cristallina che mi fece sentire al settimo cielo.

Potevo anche essere un vampiro centenario poco avvezzo alle cure parentali, un individuo insicuro e con l’autostima sotto i tacchi che non fa altro che combinare guai e capire le cose sbagliate, un’aspirante figura paterna che le provava tutte per raggiungere la perfezione, un genitore adolescente che ama ancora eclissarsi nella lettura di Harry Potter ma che sa anche far valere le ragioni della propria famiglia… ma dovevo dire che fare il papà mi stava davvero iniziando a piacere. Tanto.

Finalmente sono riuscita a richiamare a casa dalle vacanze l'ispirazione! XD Finalmente siamo tornati a dei toni un po' più rilassati e divertenti (voi di certo sottolineerete il finalmente). Mi sono proprio divertita a scrivere questo chap, che avevo in mente già da un po' di tempo; anche perchè il fatto di fare il genitore con un'età apparente di 17 anni non poteva passare inosservato, giusto? Anche la parte su Harry Potter mi è piciuta molto e spero che anche voi la gradiate (comunque non preoccupatevi, la passione di Ed per il maghetto tornerà a galla anche nel prossimo chap). Spero nelle vostre fantastiche e numerose recensioni come sempre! Ringrazio (oltre a tutti coloro che seguono questa storia e l'hanno messa tra i preferiti):

Flockkitten: eh, già, la vecchietta la sapeva lunga!XD Mi piacciono sempre le vecchiette strampalate e a volte rompiballe e anche se potrebbero sembrare dei cliché stanno bene con tutto. Grazie!

lory_lost_in_her_dreams: tutti i complimenti sono sempre ben graditi e neanche uno andrà sprecato! Mi fa piacere di averti fatta felice e che consideri così bella la mia ff. Be', spero di averti fatto ridere almeno un po' con questo chap!

_zafry_: grazie anche a te! Dalle recensioni mi sembra di capire che tu non sia l'unica ad essertela presa con Bella: comunque adesso è tornato tutto a posto per fortuna. Mi dispiace che tu non ci abbia potuto guadagnare un ragazzo di tutto rispetto (anche a me sarebbe piaciuto), però Bella non è così stronza

Vale Pattz: come tutti anche Eddy ha i suoi angeli custodi (Nessie e la vecchietta). Grazie e continua a seguirmi!

cloe cullen: mi dispiace come sempre per il ritardo, ma ormai è una cosa patologica. Forse perchè nei chap che scrivo metto tutta me stessa e quindi partorirne tanti in poco tempo risulterebbe piuttosto difficile e poi.... daiiiii, è vacanza! XD spero che ti piaccia anche questo!

anna cullen: non sarai mica sorella dell'altra eh? (stesso nick XD) vabbè... grazie a te e a tutti per farvi piacere anche i capitoli che io considero poco: questa nuova puntata la dedico a voi!

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Capitolo 14
*** Sempre la stessa storia ***


14.    Sempre la stessa storia

 

«Papàààààààààààààà! Vieni? Sta per iniziare!».

La vocina squillante di Nessie mi giunse dal piano di sotto della nostra piccola casetta, facendo affiorare un sorriso sulle mie labbra e correre un brivido d’eccitazione lungo la schiena. Finalmente!, pensai raggiante, chiudendo con un colpo sonoro l’ultima anta dell’armadio. O meglio, della casa-armadio che Alice aveva pensato per Bella, dove soltanto il due per cento dello spazio era stato destinato alle mie cose. Era una frizzante giornata di inizio autunno; l’aria aveva ormai abbandonato il caldo afoso tipico dell’estate e un venticello pungente aveva accompagnato quella mattina i primi tremuli raggi di sole. Aveva iniziato a piovere più abbondantemente del solito, anche perché se così non fosse stato quel luogo non lo si sarebbe potuto chiamare Forks. Spostai in un angolo della camera da letto mia e di Bella l’ultimo di una lunga serie di scatoloni zeppi di roba vecchia da buttare, soffermandomi ad osservare quel cumulo di cose ben ordinate parecchio soddisfatto di me: la cernita non era stata cosa facile, ma ora non rimaneva altro che disfarsi di tutta quella robaccia. Anche perché le pulizie prima o poi arrivano per tutti, no? E così liberato da tutte quegli oggetti vecchi, superflui e magari rotti mi sentivo decisamente più leggero, senza contare il grande orgoglio che mi gonfiava il petto nel sentirmi di essermi reso veramente utile una volta per tutte. Stavo proprio diventando una padre modello, pensai mettendo da parte la modestia. E magari anche una marito modello, aggiunsi mentalmente andando ad affacciarmi alla finestra per dare un’occhiatina di sotto. Proprio lì infatti una splendida Bella in tenuta da giardiniera con tanto di grembiule, stivali, guanti e cesoie s’affaccendava per ridare un po’ di ordine al nostro piccolo giardino delle fiabe, anche se ora sempre più spoglio a causa del sopraggiungere dell’inverno. Al momento era particolarmente presa a potare un ceppo di rose alquanto ribelle. Sorrisi ancora e mi dissi che in giornate come quella non potevo proprio farne a meno, di sorridere. Tutto sembrava perfetto, neanche fossi in una favola. Avevo fatto pace con mia moglie e dopo quel litigio il nostro amore sembrava aver ritrovato la freschezza di quando c’eravamo appena conosciuti. Avevo fatto pace pure con me stesso e ora ero molto più sicuro nei riguardi di Nessie, che consideravo in assoluto il tesoro migliore che mi potesse mai capitare. Avevo finito di leggere “Harry Potter e il Calice di Fuoco” ed ero a metà di “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”; e malgrado il fondo d’ansia e malinconia che mi aveva lasciato quel libro, non vedevo l’ora di mettermi a leggere gli altri due rimanenti libri della saga che mi aveva appena regalato Bella. Be’, in realtà erano stati un regalo per Nessie, ma visto che la bambina li aveva divorati in un batter d’occhio, li avevo ereditati io. E non vedevo prospettiva migliore di un tranquillo pomeriggio piovoso passato stravaccato sul divano a leggere delle mie avventure preferite. E avevo la netta sensazione che nulla potesse andare storto.

«Ehi! Mi hai sentito?!?».

La voce di Nessie rimbombò ora più forte lungo le scale, con una leggera sfumatura irritata. Potevo quasi vederla leggermente scura in volto e scocciata, con le braccia incrociate sul petto e la tipica espressione severa così simile a quella di Bella quando mi sgridava.

«Arrivo!» mi affrettai a rispondere prima di fiondarmi fuori dalla stanza.

Però il pomeriggio perfetto avrebbe dovuto aspettare per dare la precedenza a un altro ancora più sensazionale. Scesi le scale di volata e, come avrei dovuto aspettarmi, mi ritrovai davanti mia figlia con un’espressione di rimprovero dipinta in volto.

«Era ora!» esclamò e detto ciò si diresse verso il salotto con me alle calcagna.

L’adrenalina e la curiosità crescevano ogni secondo che passava e ormai non stavo più nella pelle dall’ansia: avevo aspettato quel momento da tutta la giornata. Mi sedetti sul comodo divano in pelle proprio davanti al televisore a schermo piatto ultima generazione, mentre Renesmee infilava un cd nel lettore dvd. Da circa una settimana a quella parte io e il mio piccolo angioletto ci ritiravamo tutti i pomeriggi a guardarci in santa pace tutti i film di Harry Potter. E per me quello era un piacere secondo solo a quello di leggere i libri, quindi potete ben immaginarvi il mio entusiasmo. Eravamo arrivati il giorno prima al quinto film, “Harry Potter e l’Ordine della Fenice”, e fino ad allora sapevo bene quel che sarebbe accaduto. Ma la mia lettura per il momento era arrivata a quel traguardo e quindi il film di quel pomeriggio, “Harry Potter e il Principe Mezzosangue”, era per me una totale novità. Non vedevo l’ora di vedere come proseguiva la storia e me ne infischiavo altamente dell’effetto sorpresa: la curiosità era troppa. Nessie con una risatina prese il telecomando e venne a sedersi sul divano, accoccolandosi come un gatto contro di me: quale modo migliore di passare del tempo con la propria figlia?

«Pronto?» chiese lei e ne seguì un altro risolino divertito.

«Assolutamente».

Le sue piccole dita premettero il tasto play sul telecomando e lo spettacolo ebbe inizio.

 

Poco dopo…

«Noooooooooooooooooooooo!!!!!! Bastardo!!!».

Un urlo selvaggio simile ad un ruggito rimbombò tra le pareti del salotto, accompagnato da una cascata di fazzoletti di carta mezzi fradici e mezzi stracciati che volava per aria, per poi ricadere tutt’attorno come un’abbondante nevicata. Intanto sullo schermo della televisione gli sgargianti colori rosso e oro abbandonavano la scena insieme agli urli e agli schiamazzi di gioia, per lasciar spazio a una scena in penombra e ben più silenziosa.

«Vile! Scemo! Sciagurato! Insensibile! Testa bacata d’un Ron! Come hai potuto fare questo a Hermione, eh?!? Alla tua migliore amica?!? Cretino!».

Imprecai ancora saltando sul divano come un invasato, mordicchiamo come assetato di sangue il pacchetto di clinex che avevo in mano, indeciso se affondarvi dentro per soffocare i singhiozzi di disperazione o scagliarlo contro la tv e dar sfogo alla mia rabbia.

«Ma, papà, è solo un film» mormorò Nessie guardandomi perplessa.

«Sssst!» la zittii propendendomi sempre più verso lo schermo. Lei scosse la testa, esasperata.

Hermione, seduta accanto ad una colonna in una stanza buia con i capelli scompigliati che le ricadevano sul volto, piangeva il suo amore evidentemente non corrisposto per uno dei suoi migliori amici, Ron, che aveva appena baciato in sua presenza un’altra ragazza, Lavanda. Piccoli canarini, apparsi grazie ad un incantesimo, svolazzavano in circolo sulla sua testa, formando una singolare aureola dorata, mentre Harry le si avvicinava cauto per consolarla.

«Un incantesimo. Mi sto esercitando» si giustificò lei con gli occhi che brillavano di lacrime sempre più copiose.

No, non potevo proprio sopportarlo! Fin dall’inizio avevo tifato perché loro due, dopo innumerevoli litigi ed altrettante disavventure, potessero finalmente stare assieme; ora, invece, mi vedevo quel cretino dai capelli rossi appiccicato a polipo a un’altra. No! Ron doveva stare con Hermione: punto e basta. Per questo ero saltato su tutte le furie, non rispondendo più delle mie azioni nonché del mio vocabolario, anche se sapevo benissimo che l’uso di certe parole davanti a Renesmee avrebbe significato una lenta e dolorosa tortura da parte di Bella. Ero sconvolto e turbato, mentre mia figlia pareva divertita da quella mia reazione.

«Cosa provi, Harry, quando vedi Dean con Ginny?».

Hermione, ponendo a fatica un freno a lacrime e singhiozzi, sollevò lo sguardo verso l’amico al suo fianco, che le cingeva le spalle con un braccio e rimase per un attimo interdetto.

«Lo so» continuò lei. «Vedo il modo in cui la guardi. Sei il mio migliore amico…».

A quel punto non potevo proprio più resistere. Senza che quasi me ne accorgessi, un lamento come di un cane bastonato mi risalì la gola, vibrando attorno alle corde vocali e anticipando un sonoro singulto, seguito subito da un brontolio basso e penoso. Anche se, essendo un vampiro, non potevo piangere vere e proprie lacrime, a giudicare dalla vista appannata, i miei occhi dovevano essere diventati lucidi. Tirai su con il naso, mentre mia figlia provvidenzialmente mi porgeva un fazzoletto di carta ancora intatto.

«Grazie» borbottai con la voce impastata da un’improvvisa crisi di sentimentalismo e prima di soffiarmi rumorosamente il naso.

Oddio, assomigliavo a una di quelle vecchie casalinghe zitelle che si trasformano in fontane davanti alla loro soap opera preferita. Mi facevo anche un po’ schifo: dov’era finito l’Edward Cullen sicuro di sé ed irreprensibile? Ma quelli erano Ron e Hermione, mi dissi, non potevo permettere che quel tenero amore adolescenziale fosse soffocato con così tanta leggerezza: che ingiustizia!

«Oops! Il posto è già occupato!».

Ed ecco che con la sua risatina da ragazzina non molto sveglia accompagnata da un sorriso a metà tra il sornione e il malizioso quella… ehm, ehm… Lavanda entrava di nuovo in scena, saltellando in modo disgustosamente allegro e trascinandosi dietro Ron. Il ragazzo da parte sua poteva sembrare forse euforico, anche se probabilmente non aveva ben colto la situazione con tutti i possibili risvolti: razza di testa vuota!

«Stupida oca giuliva!» ringhiai contro Lavanda.

Quindi morsi con maggiore violenza il fazzoletto umido e forse ne mandai giù pure qualche pezzo, mentre per tenere a freno i nervi mi ripetevo con insistenza che quello era soltanto un film, soltanto uno stupido film. Intanto vidi con la coda dell’occhio Nessie alzarsi dal divano ed allontanarsi. Mi chiesi per un attimo dove fosse diretta, ma la cosa a dir la verità non m’interessava più di tanto: magari doveva andare in bagno oppure a prendere da bere…

Quel brevissimo pensiero mi aveva distolto per un attimo dal film e quando riappiccicai gli occhi allo schermo i canarini si erano fiondati sul rosso evidentemente con intenzioni tutt’altro che pacifiche, cogliendolo stupito e frastornato prima di costringerlo alla fuga per salvarsi da quei becchi acuminati. Un ghigno m’illuminò l’espressione di una luce distorta e vendicativa: ben gli stava! Ma un altro singhiozzo di Hermione mi riportò alla malinconia di poco prima.

«Mi sento così» mormorò Harry, rimasto fin allora impassibile.

Ed entrambi sedettero sugli scalini l’uno accanto all’altra, condividendo il proprio dolore per i rispettivi amori messi in difficoltà già sul nascere e probabilmente senza futuro. Quell’ultima frase, insieme alla scena che si dissolveva con leggerezza nell’oscurità per lasciar posto a una veduta aerea del castello, mi colpì sul vivo. La vista mi s’appannò ancora di più, finché non riuscii più a riconoscere altro che indistinte macchie di colore, e il naso riprese a colarmi come un rubinetto, richiedendo così l’immediato intervento di un altro fazzoletto.

«Com’è crudele l’amore!» mugolai.

E non potei impedire che alcuni strani pensieri affiorassero nella mia mente. Bella che, totalmente immune al mio fascino misterioso e alle mie attenzioni, andava al ballo con Mike Newton, non sospettando minimamente che una famiglia di vampiri s’aggirasse per Forks. Bella che baciava Jacob… altro singulto… e sceglieva lui, l’amico che aveva saputo ridarle la voglia di vivere quando io ero stato soltanto capace di abbandonarla. E mi confessava il tutto, mi diceva di sentirsi un essere orribile… ma poi tornava a La Push… diceva che in ogni caso avrebbe scelto me: ormai appartenevo a lei… ma io non sapevo che pensare… mi fidavo, certo, ma la gelosia era sempre lì nascosta appena sotto la mia pelle, pronta a saltare fuori… e forse avrei dovuto pensare alla possibilità che, sì, che io non avrei potuto essere l’unico per la mia Bella… e mi maledivo per i miei errori… e mi disperavo… temendo di sentire quel classico scricchiolio, come di ceramica infranta, all’altezza del cuore, preludio di un grande dolore. Anzi, del Grande Dolore. Perché era così che mi ero sentito quando l’avevo lasciata, illudendomi di fare il suo bene: avevo sentito il mio povero cuore fermo ormai da tempo incrinarsi pin piano finché la sua superficie non era diventata un’intricata ragnatela di crepe. E poi era esploso in un tintinnio di pezzi e schegge che volavano da tutte le parti. Alla fine, però, l’avevo ritrovata, Bella, avevo riattaccato con la colla tutti quei pezzi, anche i più piccoli, ma la presenza di Jacob e la nuova insidia non avevano di certo contribuito a rendere solido quel restauro. Ancora alcuni pezzi incastrati a forza nel loro posto parevano tremare, spostarsi leggermente dalla loro sede, dando al tutto un aspetto sbilenco e creando delle imperfezioni sulla superficie. Ed ero sicuro che anche Hermione avesse sentito quella rottura…

Mi coprii la faccia con il mucchio di resti dei fazzoletti che avevo sparso in giro, soffocando un altro pigolio penoso. Sapevo benissimo che per me alla fine c’era stato un lieto fine, che Jacob era uscito dalla scena che ora era solamente mia e di Bella: il mio cuore era stato finalmente aggiustato. Non ero certo nelle condizioni disperate di Hermione, che tentava di raccogliere i cocci e fingere che tutto andasse bene per non rovinare quell’amicizia che portava avanti da anni, e non credevo nemmeno che Bella fosse così stupida come Ron da non capire quando soffrivo per causa sua. Ma il fatto di aver provato quel che si sente quando… be’, credo di non essere stato l’unico a cui hanno spezzato il cuore… in ogni caso non potevo sentirmi estraneo a quella scena, per quanto appartenesse a un semplice film. E nonostante tutto, speravo che anche per quei due ci potesse essere un lieto fine come per me, che Ron aprisse finalmente gli occhi, mandasse a quel paese quella brutta… ehm, Lavanda e si accorgesse, invece, dell’essere meraviglioso che aveva rischiato di perdere.

«Già, speriamo proprio» mi dissi. «Sennò lo impicco per le palle». Possibile che esistessero ragazzi così tonti e ciechi? Evidentemente sì.

Mi raddrizzai e calmai la mia emotività troppo provata, deciso a godermi il resto del film senza altri scossoni di quel tipo. Ma una risatina attirò la mia attenzione, mentre Harry e Hermione parlavano concitati di una festa. Mi voltai incuriosito ed aggrottando la fronte e dalla porta socchiusa vidi spuntare una ciocca di capelli rossicci e una manina che si appoggiava allo stipite. Intuii subito che mia figlia mi stava spiando, ma non riuscii a coglierne il motivo, così feci finta di non averla vista per scoprirne di più. Tornai a fissare la tv, ma rimanendo allerta e cercando di cogliere ogni rumore.

«No, mi dispiace, ma non erano questi i patti!» la sentii sussurrare appena al di là della soglia. Dal tono sommesso e leggermente irritato ne dedussi che doveva essere al telefono con qualcuno.

«Uff… Ma sei sordo o cosa? Avevamo detto venti non dieci!».

La sentii sbuffare decisamente seccata e, per udire meglio quella misteriosa conversazione con non so chi, abbassai di un poco il volume della tv: ecco, così andava meglio.

«Ah no? Be’, allora di’ allo zio Jasper che pure lui ha bisogno di controllarsi l’udito!».

Jasper? Mmm, qui gatta ci cova, pensai; aggrottai involontariamente le sopracciglia e corrugai la fronte. Ero più che sicuro che Nessie fosse al telefono con Emmett e la cosa mi risultava alquanto sospetta: chissà di che stavano discutendo.

«Va bene, allora te lo ripeterò un’altra volta, carissimo e sordissimo zio Emmett…», come volevasi dimostrare, «…avevamo scommesso venti dollari, sì, proprio venti, su papà. E non fare il finto tonto! Tu e zio Jasper avevate detto che si sarebbe messo a piangere dopo cinque minuti per quella cosa, mentre ha iniziato a tre minuti e quarantatre secondi. Sì, l’ho cronometrato, ok? E in più si è anche arrabbiato, proprio come dicevo io. Perciò, mi dispiace, ma ho stravinto io!».

Co-come? Mia figlia aveva… cosa? Emmett, Jasper… no, non era possibile. Mi girai per vedere meglio la porta al di là del divano e probabilmente avevo un’espressione parecchio perplessa e stupita. Nessie aveva…. scommesso su di me? Sul buon cuore di suo padre e sulla sua emotività?

«Quindi fate saltar subito fuori quei venti bigliettoni prima che papà lo scopra, sennò se la prenderebbe come una furia».

Altra pausa. Intanto io più shoccato che mai fissavo la porta socchiusa, come se attraverso la sua superficie di legno potessi vedere la piccola figura di Renesmee che parlava concitata al telefono. Il film, invece, non l’avevo più neanche in nota.

«E ricordatevi: venti non dieci! Intesi? Siate onesti per una volta, soprattutto quando vi fate “mettere i piedi in testa da una sciocca bambina”, come hai detto tu, no, zio Emmett?». Una piccola risata. «Va bene, a dopo. Ciao!».

Così si concluse quella breve telefonata. Mi sentivo schernito e messo in ridicolo ancora di più di quando di solito ero al centro di qualche scommessa di quelle due zucche vuote, cosa alla quale ormai ero abituato. Ma a quella novità non avevo certo intenzione di abituarmi. Accidenti, avevano coinvolto perfino mia figlia nei loro sporchi piani! La mia innocente Nessie che alla sua tenera età cominciava già a seguire cattivi esempi e a svilire in quel modo suo padre. E io che avevo creduto di aver finalmente guadagnato una certa autorità, bah! Come aveva potuto? Come aveva potuto scommettere così freddamente su qualcosa che mi piaceva davvero? Ma alla fine, ritornando alla mia posizione mezza sdraiata sul divano, mi dissi che avrei dovuto aspettarmelo. Avevo forse dimenticato il pianoforte rotto, la marmellata sul muro e quel vestito rosa tanto fashion? Era solo un altro dei suoi scherzetti. Avevo creduto che insieme a me anche lei si fosse evoluta un poco e avesse abbandonato certi atteggiamenti così infantili, invece no, rimaneva la Nessie un po’ dispettosa e birichina di sempre. Però questo non mi permetteva di non avercela a male almeno un po’, visto che dopotutto si trattava della mia reputazione, accidenti!

Con uno sbuffo feci volare per terra gli ultimi fazzoletti rimasti incastrati sotto al cuscino, nel quale affondai la faccia e sospirai. Intanto nel film, Harry inseguiva di nascosto Malfoy in un bagno, dove iniziava un duello all’ultimo incantesimo. Sbuffai ancora: proprio come quei due non avrebbero mai smesso di detestarsi a morte, così, credevo, la vena scherzosa di Nessie non sarebbe mai scolorita. Anche se per qualche tempo mi era sembrata una bambina cresciuta e decisamente maturata, dovevo accettare l’impossibilità di un cambiamento radicale. Quindi poteva essere dolce e tenera quanto voleva e il un padre modello, ma in fondo sarebbe sempre rimasta una piccola peste e io il suo bersaglio preferito. Ma sorprendentemente non me ne rammaricavo più di tanto, anche se sapevo benissimo che sarebbe stata sempre la stessa storia…

 

Anche se dovevo ricordarmi di farla pagare ad Emmett e Jasper.

Dopo tanto tempo (più del solito) aggiorno :) Finite le vacanze si ripendono le vecchie abitudini, proprio come ha fatto Nessie in questo chap, no? Be' a dir la verità questo episodio non ha un significato preciso... o forse sì. L'ho scritto principalmente perchè ormai siamo alla fine della ff e questo ahimè è il penultimo chap, mi dispiace annunciarvelo T_T Quindi volevo un po' ritornare alle origini della storia e riprendere la vecchia Nessie pestifera. Volevo anche far vedere un altro aspetto un po' comico e decisamente umano di Ed e, come promesso, approfondire la sua passione per Harry Potter (che, come avrete potuto notare, condivide con me XD). Infine, semplicemente, volevo che la ff avesse 15 chap tondi tondi. Spero che tutti voi siate andati al cinema a vedere Hp 6 (veeeero che ci siete andati?), ma anche se non siete appassionati di Harry Potter e non l'avete visto credo che il capitolo si possa capire bene lo stesso. Ovviamente, è inutile che lo dica, la scena citata è quella del famoso bacio Ron/Lav e il pianto di Hermione: amo quella scena <3 e amo Ron e Hermione <3333 Quindi così sono riuscita ad unire due cose che amo, no?
Sperando come al solito che vi piaccia questo penultimo chap, passo ai ringraziamenti:

Vale Pattz: se ti è piaciuto il riferimento a HP nel chap precedente... be', beccati questo. Spero di non aver confuso troppo le due storie però. Grazie!

Flockkitten: hai ragione! Non ci avevo pensato ad Alice! be' però a ripensarci meglio forse è meglio che sia andata con Nessie. Così il fatto che lei fosse via costituiva un sospetto in meno per la bambina (se Alice è fuori non po' organizzare feste), senza contare che per una volta i Cullen hanno potuto fare una festa normale senza troppi sfarzi. Ovviamente Alice ci è rimasta un po' male all'inizio, ma poi ha visto che in ogni caso gli altri hanno fatto un buon lavoro. Recensisci ancora mi raccomando!

Cullenuzza: mi fa davvero piacere che questa ff ti sia piaciuta così tanto! :) In effetti gli aggiornamenti hanno avuto un andamento un po' traballante ma alla fine vedi che torno sempre a scrivere: dipende dal tempo che ho e dall'ispirazione. Purtroppo non sono una scrittrice a tempo pieno (magari!) e mi devo adattare. Vedo che tu come molti altri hai lodato il fatto che ho approfondito un tema poco trattato dalla Meyer: questo mi fa un enorme piacere! Almeno posso dire di avere un briciolo di originalità, no? Mi dispiace che questo sia il penultimo aggironamento, ma prometto che l'ultimo chap arriverà presto! Continua a leggermi XD Grazie mille per i complimenti!

Quindi, ragazzi, ebbene sì, ci vediamo (speriamo presto) per l'ULTIMO capitolo. Recensite!

Ps: ringrazio tutti quelli che hanno recensito (e letto) l'ultimo chap dell'altra mia ff "Before". Sapete chi siete: un enorme grazie!

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Capitolo 15
*** Prima o poi i figli crescono ***


15.    Prima o poi i figli crescono

 

Inspirai per l’ennesima volta la fresca aria estiva, seduto su una panchina sotto a un grande abete, con lo sguardo che vagava ormai da più di mezz’ora sul giardino pieno di gente elegante. Il profumo della resina mi giungeva dagli abeti e dai pini tutt’attorno, pungente e frizzante, impedendo ai miei occhi di socchiudersi contro il riverbero aranciato del tramonto e lasciarmi andare a un tranquillo stato di dormiveglia. Era stata una giornata lunga ed impegnativa, pensai togliendo il bocciolo di rosa bianco dall’occhiello della mia giacca scura. Decisamente una delle giornate più importanti che avessi mai visto da parecchio tempo a quella parte, anche perché, nonostante le risate e le tante belle frasi, avrebbe segnato un punto di non ritorno. Questo lo sapevo bene, benissimo, e non potevo fare a meno di pensare ad altro da quando avevo avuto la fatidica notizia un paio di mesi prima.

Accarezzai i soffici petali della rosa, staccandone un paio tra quelli più esterni, che ormai avevano iniziato ad appassire, e ne assaporai il profumo talmente delicato da essere quasi inesistente. Mi ero allontanato con la scusa che ero ormai stanco di ballare e ora stavo seduto ricurvo e da solo su quella panchina, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e lo sguardo che ogni tanto s’alzava dal livello del terreno per dare un’occhiata veloce agli altri invitati. Non c’era dubbio, Alice e Tanya avevano fatto un ottimo lavoro con le decorazioni e tutto il resto. Il giardino era perfino più ordinato e festoso di quello di casa Cullen durante il mio matrimonio. Ovunque lo sguardo si posasse non poteva non incontrare grandi vasi ricolmi di fiori colorati di ogni tipo e fiocchi e luci. Una pioggia di lucine variopinte simili a gocce scendeva dalla cupola del gazebo sotto al quale erano stati allestiti la pista da ballo e un palco, dove da un paio d’ore si stava esibendo un piccolo complesso. E lì vicino non poteva certo mancare la tavolata con il buffet, anche se probabilmente soltanto un ospite su dieci aveva bisogno (ed era in grado) di mangiare cibo normale. Molti degli invitati erano ancora seduti ai numerosi tavoli rotondi ricoperti da tovaglie bianche ricamate, ridendo e scherzando tra un brindisi e l’altro, mentre i rimasugli dell’imponente e spettacolare torta a tre piani giacevano in disparte. Appena ero arrivato avevo quasi stentato a riconoscere il posto; dopotutto la casa del clan di Denali sembrava così diversa dall’ultima volta che c’ero stato. Avrei giurato che quella parte d’Alaska non avesse visto un evento del genere da anni o, più probabilmente, che non l’avesse mai visto del tutto. Tanya e gli altri erano stati molto gentili ad aiutarci e con mia grande sorpresa anche Bella aveva partecipato in modo attivo a tutta quella decorazione quasi faraonica: avrei giurato che quella sarebbe stata la prima e l’ultima volta che la vedevo così entusiasta per una festa. Be’, a dir la verità, ero io che continuavo a chiamarla festa, anche se il termine più appropriato sarebbe stato matrimonio. Ed era ovvio che Bella fosse entusiasta per il matrimonio di sua figlia.

«Edward, tesoro! Vieni, su!».

La voce di Bella mi chiamò dalle parti del gazebo, riscuotendomi da quello stato di apatia. L’avevo lasciata che ballava con Seth, mentre ora era intenta a parlare con Billy Black seduta a uno dei numerosi tavoli. Così, sebbene parecchio di malavoglia, mi alzai dalla mia panchina solitaria, rimettendo al suo posto il bocciolo di rosa. Billy, il cui sorriso a trentadue denti sfidava un’intricata ragnatela di rughe che il passare degli anni gli aveva fatto dono insieme a qualche capello bianco, parlava concitato con mia moglie, senza pensare che non molti anni prima era stato proprio lui uno dei primi ad opporsi alla nostra relazione. E ora, invece che uno dei miei nemici giurati, l’avrei dovuto chiamare consuocero. Eh, sì, e il suo caro figliolo da tre ore a quella parte aveva avuto il diritto ufficiale di chiamarmi “caro suocero”. Che parola terribile, pensai rabbrividendo. Mi dava molti più anni di quanti non ne avessi in realtà, senza contare che quella carica si adattava ben poco al mio fresco viso di diciassettenne. Poi, magari, in un futuro non troppo lontano, le mie orecchie avrebbero potuto perfino udire qualcosa del tipo “nonno Edward”. Ma speravo che fosse in un futuro abbastanza lontano: già quel nuovo passo avanti del matrimonio mi aveva lasciato più che stordito e stupefatto e contavo che mi ci sarebbe dovuto parecchio tempo per abituarmi all’idea di quella nuova realtà. Cioè quella di essere imparentato con Jacob Black.

«Allora…» mi disse Bella appoggiando la pochette tempestata di diamanti sul tavolo. «Non mi hai ancora detto cosa te ne pare del matrimonio».

E, come pure Billy, mi lanciò un lungo sorriso, splendida in quell’abito blu scuro, che faceva risaltare la sua carnagione chiara, e con i capelli raccolti in una complessa acconciatura opera di Alice. I suoi occhi brillavano come stelle dall’emozione e di certo erano diventati lucidi più di una volta quella sera. Tutto ciò mi fece ritornare in mente il nostro matrimonio a casa Cullen, con tutti i nostri amici e lei in assoluto la più bella creatura del creato in abito da sposa, che da quel momento era diventata mia. Ma in quel giorno era il turno di qualcun altro indossare il vestito bianco.

«Billy ha detto che non potevamo fare lavoro migliore e che anche l’ambientazione qui in Alaska nella foresta è stata un’idea molto azzeccata» disse ancora lei.

«Già» confermò Billy. «Tanya e i suoi sono stati davvero gentili a concederci di celebrare il matrimonio a casa loro».

Lanciai un mezzo sorriso al vecchio Quileute seduto sulla sua solita sedia a rotelle, rispondendo: «Senza dubbio. Il clan di Denali è da tempo amico di Carlisle e non poteva certo negargli un favore del genere. Anche se io continuo a rimanere del parere che a casa nostra…».

Ma non feci in tempo a completare la frase che Bella m’interruppe. «Oh, Edward, ancora con questa storia! Per casa nostra un matrimonio basta e avanza. E poi è il giorno di Jacob e Nessie: ormai sono adulti e vaccinati e credo abbiano il diritto di scegliere cosa è meglio per loro. E poi non c’è niente di male nel fare qualcosa di diverso, no?».

Io rimasi basito e, non trovando alcuna risposta adatta, abbassai lo sguardo ed annuii sommessamente. Era da quella mattina che mi chiedevo come mai fossero tutti in fibrillazione per il matrimonio, mentre io non vedevo l’ora che finisse per cavarmi al più presto quel dolore. Ma fortunatamente fui tolto dall’imbarazzo di dire qualcosa dall’arrivo di Charlie, con in mano il quarto bicchiere di champagne e decisamente un po’ alticcio.

«Ehi, Bells!» esclamò con un tono di voce abbastanza alto e caracollando su una sedia di fianco a Billy. «Grande giorno, eh? Accidenti, mi sembra ieri che la piccola si divertiva a disegnare sulle camice di Edward! E, invece, il giorno dopo… PAM! Eccola già là che si sposa!».

E, così, detto, si lasciò andare ad una specie di risata che però assomigliava più a un ululato, appoggiandosi non molto delicatamente contro il vecchio Billy. Tutti noi scuotemmo un poco la testa, senza però riuscire a nascondere un mezzo sorriso.

«Papà, non credi di aver bevuto abbastanza per stasera?» intervenne poi Bella strappandogli il bicchiere dalle grinfie.

«Oh, Bells!» borbottò un Charlie contrariato. «Mi stavo solo divertendo un po’!».

Quindi proruppe in un’altra risata sonora, riacchiappando con una mossa furtiva il bicchiere rubato.

«Pare proprio che i riflettori per una volta non siano puntati su di voi, vero, Edward?».

Io non risposi, ma continuai a fissarlo con muto assenso.

«Adesso sono quei due a far chiacchierare Forks. Eh, sì, Edward caro, la vita va avanti, i figli crescono… Comunque avevo sempre detto che quelli era fatti l’uno per l’altra. Non trovi, Billy, che stiano una favola insieme?».

Billy, che intanto come l’amico aveva recuperato un bicchiere di champagne, colto di sorpresa dalla domanda mentre stava bevendo, tossicchiò un po’ prima di rispondere con un mugolio strozzato che doveva suonare come un “sì, certo, Charlie”.

«Jacob è sempre stato un buon amico: sono felice che ora faccia ufficialmente parte della famiglia» aggiunse Bella con il solito luccichio negli occhi che l’aveva accompagnata tutto il giorno.

A quel punto, anche se quasi impercettibilmente, tutti gli occhi dei presenti si spostarono su di me, evidentemente in attesa che esprimessi pure io con qualche altra frase di circostanza tutta la gioia per quel fantastico evento. Ma io non avevo niente da dire, nessuna parola che mi sgorgasse direttamente dal cuore, forse perché anche quello era rimasto muto ed esterrefatto. Quindi feci finta di niente, guardandomi attorno per non incontrare i loro visi e torturando l’orlo della giacca del tight che indossavo. Tutti gli uomini, o almeno quelli della mia famiglia, erano in tight e io non potevo certo fare eccezione, anche se stavo iniziando ad odiare quella giacca troppo lunga e quel gilèt troppo stretto. Sembravo un damerino della peggior specie. Ma, pensandoci bene, probabilmente anche in frac o smoking non mi sarei sentito affatto a mio agio.

«Allora, Edward» interloquì alla fine Charlie, le gote e il naso arrossati. «Non… non sei contento?».

Anche se senza un motivo preciso, sentii il bisogno di sobbalzare, forse per fare un po’ di scena e fingere di non aver risposto subito per disattenzione. Quindi m’aggiustai il colletto della camicia, evidentemente a disagio, schiarendomi la voce per guadagnare tempo.

«Oh, sì. Sì, certo. Come no?».

Ma ovviamente la mia risposta non doveva sembrare troppo convincente, dato che sia Charlie che Billy mi lanciarono un’occhiata perplessa.

«È solo l’emozione» intervenne prontamente Bella. «Non riesce ancora a capacitarsi della cosa. Sapete com’è, considera Nessie ancora la sua piccola bambina e la storia del matrimonio è stata un po’ uno shock per lui».

Shock era un eufemismo. Diciamo solo che quando il cane aveva pronunciato le parole “io e Nessie” accanto a “matrimonio” ero stato colpito da una specie di infarto multiplo, accompagnato da un preoccupante stato di catalessi. Ero stato come svuotato e buttato giù da un dirupo. Terribile, davvero.

«Quanto ti capisco, ragazzo mio!» esclamò Charlie. La parola “ragazzo”, però, stonava parecchio in quel contesto: dopotutto ero pur sempre il padre della sposa! «Mi è capitata più o meno la stessa cosa quando vi siete sposati tu e Bella. È davvero terribile, ma poi passa. Assicurato!».

E tentò di darmi una pacca fraterna sulla schiena, tanto per solidarietà, ma dato che era troppo lontano, riuscì ad arrivare solo al mio ginocchio, che sotto la sua mano produsse uno scricchiolio inquietante.

«Bella, mi faresti l’onore di questo ballo?».

Phil si era avvicinato al nostro tavolo e ora tendeva la mano in direzione di mia moglie. Lei accettò e alzandosi disse con una risatina: «Mamma ha preso il volo, per caso?».

«Be’, sì» rispose Phil indicando alle sue spalle. «Credo che il fascino del lupo sia irresistibile».

Infatti Renée stava tenendo in scacco la pista da ballo con Embry ed insieme facevano invidia a tutte le altre coppie.

«Ah, che donna straordinaria quella!» fece Charlie, quella sera particolarmente loquace. «Attento, Phil, potresti essere spodestato da uno ben più giovane di te!».

Tutti i presenti risero di gusto e Bella si alzò, afferrando la mano del patrigno. In breve erano spariti tra la folla e la musica alta. Feci un sospiro, drizzandomi sulla sedia e tornando a fissare i piedi dei ballerini che si muovevano come trottole sulla pista lucida. Intanto Billy e Charlie avevano recuperato da non so dove un bottiglione di champagne e se lo stavano scolando a rotta di collo, ridendo come matti e dandosi a vicenda forti pacche sulla schiena. Io, dal canto mio, preferivo di gran lunga il mio angolo. Ma tutti, come loro, sembrava si stessero divertendo un mondo. C’era che rideva e beveva, chi ballava, cantava, chiacchierava, scherzava e si congratulava con gli sposi. Il sole era ormai scomparso oltre le alte fronde frastagliate degli alberi, lasciando dietro di sé soltanto un alone rosa sull’orizzonte, che colorava con l’ultima luce rimasta i ghiacciai che ricoprivano le cime innevate poco lontano. Di norma a quell’ora, quando le tenebre iniziavano a calare e le prime stelle spuntavano come gemme, quel quasi sperduto angolo d’Alaska non conosceva altro che il silenzio. Ma per quella sera la terra e gli animali avrebbero dovuto fare un’eccezione e stare ad osservare meravigliati tutte quelle luci e il cicaleccio caotico. E magari tra tutta quella strana gente elegante avrebbero notato una ragazza vestita di bianco. Sembrava proprio una principessa delle favole, con quel lungo strascico di seta color avorio, il corpetto stretto attorno alla vita sottile decorato di diamanti e la piccola tiara d’argento che prima teneva fermo il lungo velo bianco, ma che ora, senza quello, assomigliava a una piccola stella luminosa incastonata tra quei ricci color bronzo, intrecciati in un’acconciatura ricercata. Era veramente bellissima, con quegli occhi castani  e vellutati che diventavano sempre più luminosi insieme al sorriso che si allargava sempre di più a ogni giro sulla pista da ballo tra le braccia del suo principe. Lui di sicuro era il più consapevole della fortuna che gli stava passando per le mani. I suoi occhi non si staccavano un secondo dai suoi, i suoi passi erano perfettamente accordati con quelli di lei e probabilmente anche i loro respiri e i loro cuori andavano all’unisono, al ritmo della dolce canzone che stavano ballando. Lui in abito da sera scuro forse poteva sembrare un po’ goffo e fuori luogo e decisamente non era all’altezza della bella principessa. Ma pareva portarla in palmo di mano, mentre lei di divertiva a schernirlo per poi lanciargli un fuggevole bacio a fior di labbra.

Potevo sentire nitidamente i brividi che mi correvano lungo la schiena nel pensare che quella principessa era Renesmee, la mia bambina. Tutti quegli anni erano passati così velocemente che mi sembrava ieri quando, come quella sera, tutti i nostri amici e familiari si erano riuniti per festeggiare il suo compleanno. E pure quella volta avevano qualcosa da festeggiare in suo onore. Mi risultava tuttora difficile credere che quel tenero cucciolo che scorrazzava per casa mia con urla e gridolini, magari muovendo i primi passi o più probabilmente scappando a rifugiarsi dopo una bravata delle sue, con sotto braccio il suo peluche preferito e quel visetto rotondo e morbido come una pesca fosse diventato il cigno che avevo davanti. I suoi compleanni mi erano sempre sembrati troppo ravvicinati, la sua altezza in crescita inarrestabile e i suoi lineamenti che mutavano troppo velocemente e troppo radicalmente. E così, senza che neanche me ne accorgessi, accanto a me non vedevo più sedere la bambina dagli occhioni di cerbiatto che mi aveva sempre fatto dannare, bensì una donna sempre più simile a sua madre e sempre più indipendente dalla mia ala protettiva. Spesso mi ero lamentato di quella paternità, avevo spesso sottolineato il mio disappunto per i nervi sovraccarichi e la mente spossata e altrettanto spesso avevo desiderato che tutto ciò fosse lontano da me e mi fosse restituita la tranquillità di prima. Però, subito dopo che formulavo un pensiero del genere mi ricredevo, dandomi dello stupido anche solo per aver pensato una bestemmia tale. Anche se mi faceva dannare e metteva a dura prova la mia pazienza, avevo scoperto che, come con Bella, non potevo in alcun modo fare a meno di Nessie. Quando non c’era la cercavo, quando non mi rivolgeva la parola per un qualche litigio mi logoravo giorno e notte nel senso di colpa, quando pretendeva di essere più autonoma e di conquistare nuovi spazi ero sempre il più restio a lasciarla andare. Dovevo sempre sapere che stava bene ed era felice e, nel caso non lo fosse stata, non potevo fare a meno di sentire la sua preoccupazione o la sua tristezza come mia. Era una mia piccola copia e dovevo averne cura come me stesso. Ma, ora, ecco il momento fatale della separazione. Anche se mi sarebbe comunque rimasta vicina, sentivo che non sarebbe stata la stessa cosa di prima. Ora aveva Jacob, una casa nuova e probabilmente presto anche una famiglia nuova. Io appartenevo ormai a un infanzia trascorsa come un assolato pomeriggio di primavera prima che arrivasse l’estate della sua vita. Tutto ciò mi faceva nascere nel cuore un terrore e un dolore atroci: come avrei fatto a riprendere le fila della mia vita quando uno dei fulcri di essa se n’era andato per la sua strada? Come potevo permettere che il mio gioiello appartenesse a qualcun altro e che qualcun altro potesse godere del suo chiarore? Non potevo non vedere in Jacob il ladro di una parte del mio cuore.

Ma, come mi aveva ripetuto Bella più di una volta tentando di tranquillizzarmi, Nessie era felice così e io non volevo certo che non lo fosse, vero? Certo che no, rispondevo io, ma non potevo sopportare che d’ora in avanti la mia vita non fosse la sua in ogni singolo giorno, ora, minuto. Ma ciò era impossibile, me ne rendevo conto, anche perché Nessie non poteva rimanere una bambina per sempre. Così avevo accettato anche se a malincuore che la mia bambina iniziasse a camminare con le sue gambe sul sentiero della vita, lasciando la mia mano per prenderne un’altra. Avevo cercato di farmi partecipe della sua felicità, ma il mio cuore di padre mi aveva sempre frenato e ogni volta che m’immaginavo Nessie in abito bianco accanto a Jacob uno spasimo lo colpiva, facendolo singhiozzare. Mi ero trascinato per settimane in quello stato, senza lasciare che altri al di fuori di mia moglie se n’accorgessero, per non rovinare l’euforia generale. E alla fine il fatidico giorno era arrivato: vedere loro due all’altare a pronunciare il “sì” definitivo mi aveva fatto più male di quanto non immaginassi. Alla fine della cerimonia i singhiozzi mi salivano alle labbra non per la commozione come a tutti gli altri, ma perché sapevo che Nessie aveva varcato definitivamente la soglia di casa mia e degli anni in cui avevo potuto stringerla chiamandola teneramente “bambina mia”. Avevo paura che senza di me, anzi di noi, non sarebbe stata felice, che non si sarebbe sentita a suo agio e a casa, avevo paura dei pericoli, delle difficoltà e delle preoccupazioni con cui avrebbe potuto venire a contatto. Io, da parte mia, ne avevo viste fin troppe e non desideravo la stessa vita per mia figlia. Ma poi mi dicevo che, invece, sarebbe stata bene con Jacob, che l’adorava e sapeva essere un tipo affidabile; così ero sempre fermo allo stesso punto e non riuscivo a sorridere a quel lieto evento. Dopotutto mi ci era voluto così tanto tempo per imparare a fare il padre che non volevo che il mio incarico finisse proprio adesso.

Mi passai una mano tra i capelli, non riuscendo a staccare gli occhi da Nessie, e intanto pensavo al da farsi. L’avrei vista andar via insieme a suo marito (come strideva anche quella parola!) e basta, non l’avrei ostacolata in niente, ma anzi l’avrei sempre aiutata non appena mi avesse dato sentore che avesse bisogno di una mano, mentre io avrei fasciato il mio cuore dolorante e avrei tirato avanti in qualche modo. Non mi sarei sentito comunque a posto, ma quello che contava era la serenità di Nessie. Mentre i miei pensieri erano lontani chilometri dai festeggiamenti, qualcun altro, invece, non vedeva perché non dovessi divertirmi come tutti gli altri. Sorprendendomi alle spalle con un assordante “bu!”, per poco Alice non mi fece cadere dalla sedia.

«Ma dico, tu non hai nessuna cognizione!» brontolai parecchio stizzito e cercando di riprendermi dallo spavento.

Alice, invece, rise di gusto davanti alla mia reazione e aspettò che mi ridessi un tono prima di continuare a parlare. «Hai intenzione di venire a ballare con me o di rimanere lì tutta la sera con il muso lungo?».

«Mmm… non saprei… si sono appena portati via lo champagne».

Infatti Billy e Charlie erano scomparsi nel nulla, ma ero più che certo erano appartati da qualche parte con il loro caro bottiglione (e magari qualche altra scorta) a discutere di pesca e dell’ultimo campionato di baseball.

«Quindi non potresti proprio rifiutare un ballo a una graziosa ragazza senza cavaliere…».

Alice mi riservò un’occhiata imperativa e piuttosto eloquente, la stessa di quando chiedeva a qualcuno di accompagnarla a fare shopping, per poi sistemarsi con nonchalance la rosa di seta che aveva appuntata al petto sull’attillato vestito bordeaux, sicuramente frutto di una delle sue ultime cacce all’occasione.

«Non saprei» risposi con tono vago. «Sai, ultimamente pare che le donne abbiano acquistato una certa indipendenza e che possano perfino fare a meno del braccio di un cavaliere. E io non vorrei di certo svilire l’orgoglio femminista per questa nuova conquista guidandoti forzatamente laddove riusciresti benissimo da sola».

Lei sollevò un sopracciglio, perplessa dalla mia risposta fin troppo articolata, e disse: «Tradotto?».

«Be’, leggendo tra le righe direi… No».

Alice sbuffò e si lasciò cadere su una sedia di fianco a me, continuando a scuotere la testa nella mia direzione. «Edward, devi piantarla con questa storia. Non puoi farci niente ed è giusto che sia così, quindi credo sia ora che ti metta il cuore in pace. Bella ha ragione, sei testardo come un mulo. E poi continueresti a giocare con le bambole con lei anche quando avrà duecento anni?».

Io risi sommessamente e, facendo finta di prenderla in considerazione come una buona idea, risposi: «E perché no? Potremmo passare per compagni di stanza…».

La seconda occhiata di Alice fu perfino più eloquente della prima. «E magari ti spacceresti ancora per il suo fidanzato nel caso ci fosse qualche individuo appiccicoso e maniaco che le girasse attorno, eh?».

Io scrollai le spalle e risi ancora all’allusione di un divertente episodio di qualche anno prima, quando mia figlia frequentava il liceo. Un certo Josh Martin, uno del genere morto di… ehm, sfigato totale che crede di essere un gran fusto con le ragazze e non può fare a meno di provarci sempre con una vittima fresca, be’, non la smetteva di staccare i suoi occhi bavosi e sconci dal fondoschiena di mia figlia. Così per rimediare a quell’inconveniente, forte del mio aspetto fisico di adolescente, mi ero presentato come suo fidanzato e, adocchiando subito l’aura strana e non certo amichevole che mi accompagnava, il bel Josh aveva ritenuto opportuno fare subito marcia indietro.

«Edward, sul serio» continuò lei ora più seria. «Tu hai una vita, non ridurti a uno straccio per qualcosa che non puoi cambiare. Lasciala andare per la sua strada…».

«Lei è la mia vita, Alice» risposi con qualcosa nella voce che assomigliava a un ringhio.

«Così le stai facendo più male di quanto credi».

«La voglio soltanto proteggere».

«Oh, tu e le tue manie di protezione! Non ne abbiamo avuto abbastanza con Bella e adesso ti metti pure a fare il padre iper-protettivo?!? Nessie non po’ vivere per sempre sotto una campana di vetro. È… grande ormai».

«Lo so». Mi passai una mano sul volto per non dare a vedere che gli occhi mi ero diventati lucidi.

«Hai paura che non ti voglia più bene» constatò alla fine Alice con tono deciso.

«Come? Io…».

«Dai, piantala, non sono nata ieri. Ho già capito tutto».

«È solo che…». Sospirai non trovando le parole adatte. «All’inizio non volevo perché… sai, tutta quella faccenda sull’essere un buon padre… Ma adesso che ho capito che è la cosa più bella del mondo non voglio che finisca».

Alice tacque per qualche secondo, contemplando la mia espressione abbattuta, ma probabilmente leggendo molte altre cose oltre quella. Era proprio per questo che adoravo Alice: lei riusciva a leggere e capire i tormenti della mia anima senza che dovessi spiccicare parola. «Ma, Edward, credi che con il fatto che tua figlia è cresciuta allora tu smetterai di fare il padre? Credi che perché lei adesso ha orizzonti e prospettive più ampie non ti vorrà più bene come prima? Che non verrà più a piangere da te, a chiederti un qualunque consiglio o semplicemente un abbraccio e un bacio?».

Socchiusi le labbra per dare una risposta probabilmente vaga e traballante, una frase fatta che mi avrebbe permesso di difendere seppur debolmente il mio diritto di essere giù di corda, ma fui bruscamente interrotto. Senza che quasi me ne fossi accorto la coppietta di sposini si era avvicinata al tavolo che occupavamo io e Alice, ridendo e scherzando.

«Papà, perché noi vieni a ballare?» domandò Nessie ancora tutta raggiante.

«È quello che mi stavo chiedendo…» rincarò Alice con un’espressione vittoriosa nel vedermi alle strette.

Io temporeggiai un attimo. «Oh, no, Nessie, sto benone qui. Fidati».

«Ma dai!» continuò lei. Si aggrappò al braccio di Jacob, che le strinse forte la mano (altra fitta dolorosa per il mio cuore), mentre mi rivolgeva un’espressione corrucciata molto simile ai bronci che metteva su da piccola quando voleva fare i capricci. «Non vorrai mica fare il vampiro polveroso! Balla con me».

«Sì, Edward, vai a ballare con Nessie» le fece di nuovo eco Alice, sempre più sorniona.

«Ho già detto di no, grazie. E poi non sono un granché come ballerino…».

«Be’» intervenne Jacob. «Al tuo matrimonio non mi sembrava proprio e almeno che tu non ti sia arrugginito…».

Gli scoccai immediatamente uno sguardo di fuoco che se fosse stato solido lo avrebbe incenerito: sempre il solito cane!

«Ha perfettamente ragione!» disse Alice, che probabilmente aveva deciso di allearsi contro di me. «Ah, tra parentesi servirebbe anche a me un cavaliere… visto che questo poltrone non si smuove».

«Al suo servizio, madame» disse Jacob, porgendole il braccio e accennando un mezzo inchino che fece sorridere Alice e Nessie, ma che lo rese ancora più idiota ai miei occhi.

«Oh, questo sì che è parlare da uomo!». E senza aggiungere altro Alice si diresse verso la pista a sottobraccio del licantropo. Nel vederla allontanarsi, fui quasi certo che mi avesse fatto la linguaccia.

«Andiamo anche noi?» mi domandò poi Nessie, ora con tono decisamente più timido, mentre io mi ero perso a guardare quei due iniziare a ballare.

Sapevo che se mi fossi voltato a guardarla in faccia, avrei trovato un paio di occhi supplicanti che non mi avrebbero lasciato scampo, proprio quando da piccola mi pregava di comprarle quella bambola nuova che le piaceva così tanto. Così desistetti e, prendendola delicatamente per mano e facendo attenzione a non pestarle lo strascico del vestito, la condussi in mezzo alla folla. Appena i miei occhi si scontrarono con il bagliore quasi accecante di quella miriade di lucine, il complesso sul palco attaccò con una nuova canzone, questa volta un po’ più movimentata della prima, anche se pur sempre molto dolce sul sottofondo. Cinsi il fianco di Nessie, mentre lei si aggrappava alla mia spalla e, come quando ci divertivamo a ballare in salotto quando nessuno era nei paraggi, lei con i piedi appoggiati sui miei, iniziammo a volteggiare sulla pista. Io facevo di tutto pur di non guardarla dritta negli occhi, fissando prima le mie scarpe lucide e poi gli altri ballerini attorno a noi. Alice e Jacob erano poco distanti e sembravano divertirsi parecchio, mentre accanto a loro Esme e Seth avevano preferito un ritmo decisamente più lento.

«Non trovi che il vestito di Esme sia stupendo?» mi domandò Nessie notando che la stavo guardando.

Annuii in silenzio, contemplando il riflesso aranciato delle luci sul vestito color grigio perla con una gonna a palloncino di Esme, sobrio ma elegante, proprio nello stile di mia madre. Molto diverso da quello di Rosalie, mi dissi, che faceva coppia con Garret e il suo abito verde smeraldo con una stola decorata con lustrini dava sicuramente nell’occhio. Man mano che volteggiavamo tranquilli sulla pista io riconoscevo molti volti attorno a me tra tutti gli invitati alla festa. C’era Emmett impegnato a farsi notare con Zafrina, una dei vampiri del clan dell’Amazzonia, che quella sera forse sembrava avere un aspetto meno selvaggio del solito, mentre roteava tra le braccia del mio orso preferito. Poi c’erano Carlisle e Siobhan, del clan irlandese, Jasper e Charlotte, compagna del suo vecchio amico e vampiro nomade Peter. Erano stati ovviamente invitati tutti i licantropi e altri Quileute più o meno giovani, il clan di Denali che giocava in casa, altri vampiri amici dei Cullen provenienti dalle più svariate parti del mondo. Tra gli umani ovviamente non poteva mancare Saba, la migliore amica d’infanzia di Nessie, che l’aveva seguita passo passo per tutte le tappe di preparazione del matrimonio. C’erano tutti ed erano tutti felici. O quasi tutti.

«Come mai quella faccia?» mi sussurrò Nessie.

«Niente. I solito crucci di un padre. Ma oggi è il tuo giorno e devi divertirti, ok?».

Lei abbasso un attimo lo sguardo sui suoi piedi e seppi per certo che non sarebbe finita lì. «Posso essere felice solo se anche tu lo sei».

«Ma lo sono» mentii spudoratamente. «Stiamo ballando, no?».

A quel punto potei vedere nitidamente che i suoi occhi si erano fatti lucidi e i bagliori delle luci vi si riflettevano come torce. Mi morsi forte le labbra, dandomi dello stupido per averla fatta piangere il giorno del suo matrimonio. Alla fine, però, alzò lo sguardo per fissarlo nel mio e rimasi di sasso nel vedere una lacrima che le indugiava sulle ciglia.

«Dimmi la verità» disse con un tono che mi fece ghiacciare. «Perché te ne sei stato tutto il tempo in un angolo in silenzio? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Dimmelo, ti prego».

Sospirai, arrendendomi ormai ad ammettere l’evidenza delle cose. «No, tu non hai fatto assolutamente niente. Il problema sono io».

«In che senso?».

«Il problema sono io che ti voglio troppo bene e… non voglio che tu te ne vada».

Nessie rimase un attimo stupita e a bocca aperta, mentre il cantante ribadiva nel microfono il ritornello della canzone con viva convinzione.

 

Lonely finds me

One day you will come

But I’ll wait for love’s sake

One day to me, love

 

I will stay forever here until one day comes

Praying time will bring you near, I’ll wait for your love

 

«Sul serio credi che potrei mai lasciarti?».

«L’ho creduto, sì». Mi vergognavo quasi di quell’affermazione; era qualcosa di inaudito ed esecrabile anche solo da pensare. «Dopotutto adesso hai Jacob...».

«Ma Jacob non è mio padre, lo sai bene» ribadì lei con tono fermo e deciso. «Io voglio solo te come papà imbranato».

«Sì, ma adesso sei cresciuta e di certo non ti servirà più nessuno che ti racconti le favole… o indossi buffi vestiti». Risi sommessamente accompagnato dalla risata limpida di Renesmee.

«Stai dicendo un cumulo di idiozie, te ne rendi conto?».

«Ah, sì? Allora si vede che mi preoccupo per niente…».

«Come hai sempre fatto».

Strinsi più forte la sua mano e, rallentando così tanto il ritmo da sembrare quasi che fossi fermi, l’abbracciai con tutte le forze che avevo, mentre lei appoggiava delicatamente la sua testa sul mio petto e io mi dicevo che non l’avrei mai lasciata andare, mai.

«Ma rimane pur sempre il fatto che stasera, una volta che tutti se ne saranno andati e la festa sarà finita, tu te ne andrai con Jacob…».

«Ma, papà, non me ne vado mica dall’altra parte del mondo! Rimarrò sempre qui, in questa maledetta Forks, con te, la mamma e tutti gli altri…».

«…e Jacob» aggiunsi con una nota amara.

Uno sbuffo che doveva forse assomigliare una risata da parte di Nessie mi fece vibrare il petto. «Sei geloso, per caso?».

«Non sai quanto» ammisi con un sorriso. «Se penso che quel randagio ha messo le mani sui miei due tesori più preziosi… Credo si possa ritenere fortunato ad avere gli anni che ha».

Lei mi diede una piccolo schiaffo sulla spalla per mettermi a tacere e proseguì: «Quante volte dovrò ripeterti che tu rimarrai sempre al primo posto?».

«Probabilmente all’infinito. Vorrei che tu fossi ancora piccola, Nessie».

Appoggiai il mento sulla sua testa, inspirando il profumo dolce come il miele dei suoi capelli e compiendo un altro mezzo giro sulla pista, mentre desideravo che quell’abbraccio non finisse mai.

 

If I could change the currents of our lives

To make the river flow where it’s run dry

To be a prodigal of father time

Then I would see you tonight

 

«Anch’io». La risposta di mia figlia mi lasciò un attimo spiazzato e per un attimo dubitai perfino di aver sentito bene o che fosse stata lei a pronunciare quelle parole, finché non le ripeté con un tono di voce più alto e coinciso. «Anch’io».

«Vorrei che mi facessi ancora qualche scherzetto dei tuoi. Vorrei che fossi ancora la mia piccola bambina».

A quel punto Nessie alzò la testa dal mio petto, si raddrizzò e mi guardò dritto negli occhi, intanto che io mi scioglievo nella contemplazione di quelle profonde iridi color cioccolato, così simili a quelle di Bella.

«Anch’io lo vorrei. Come hai detto tu essere grandi è una gran seccatura. Però credo che per la “piccola bambina” si possa fare un’eccezione».

La guardai perplesso, ripetendomi mentalmente le sue parole per cercare di decifrarle, mentre una debole speranza nasceva nel mio cuore, anche se non sapevo bene per cosa avrei dovuto sperare. «In che senso?».

«Nel senso che io sarò sempre la tua piccola bambina» rispose Nessie e suoi occhi parevano sempre più dolci. «Anche quando avrò trecento anni voglio che tu sia al mio fianco a dirmi quanto e quando devo mangiare, quando devo andare a dormire, a sgridarmi perché sono in ritardo e a consolarmi perché qualcuno mi ha dato della bisbetica viziata, a farmi tanti regali e a sorvegliarmi perché non li apra prima del tempo. Voglio che tu sia sempre il mio papà, indipendentemente dall’età. Anche perché non ho voglia di crescere, non ora almeno».

A quel punto non potei più trattenermi e, con in uno slancio d’affetto, scoccai un caloroso bacio sulla guancia a mia figlia, per poi stringerla ancora più forte di prima, tanto che per un attimo temetti di farle male. Ed ecco che anche per quella volta il mio cuore era stato rassicurato e come sempre i miei dubbi amletici si erano dimostrati soltanto un insensato castello di carte. Oh, ero sempre il solito Edward ansioso!

«Mi prometti che ci sarai sempre? Perché io ci sarò» mormorò alla fine Nessie accanto al mio orecchio.

«E me lo chiedi?!?» esclamai per poi lasciarmi andare alla prima vera risata di quella sera.

Ero felice, felice, felice, felice come ben poche volte lo ero veramente stato in vita mia e ora finalmente anche per me quel giorno sarebbe stato indimenticabile e bellissimo. Sì, perché ora sapevo per certo che non l’avrei affatto persa, l’avrei solo ritrovata in una maniera diversa. E non importava che ci fosse un licantropo di mezzo, Nessie sarebbe sempre stata la mia bimba mezza umana e mezza vampira e me la sarei coccolata in eterno alla facciaccia di tutti. Finalmente sentii quella famosa adrenalina che aveva già preso tutti gli altri invitati e trascinai mia figlia in mezzo alla pista da ballo, impossessandomi del ritmo della musica e trasmettendolo ai miei piedi, trascinandomi dietro una Nessie che tra un po’ soffocava dalle risate. Ma non m’importava se potevo apparire forse ridicolo, fatto sta che il fuoco che mi ardeva dentro non poteva assolutamente essere fermato. Alla fine, dopo il terzo giro ci fermammo per un attimo di tregua. Nessie continuava a ridere come per un attacco isterico e la sua risata cristallina faceva tintinnare le lucine sopra le nostre teste.

«Be’? Cosa c’è da ridere così tanto?» domandai infine.

Lei scosse la testa e si mise una mano sulla bocca, nel vano tentativo di arginare un attimo quel flusso ininterrotto di risa, mentre io stavo lì impalato a guardarla perplesso, ripensando a se magari avessi detto o fatto qualcosa di stupido.

«Hai…» riuscì finalmente ad ansimare lei, per poi essere di nuovo interrotta.

«Ho cosa?».

Nessie si frenò per un attimo e alzò su di me uno dei suoi sguardi più divertiti, con un sorriso che le andava da orecchio a orecchio e le illuminava il viso come solo una luce divina avrebbe potuto fare, facendola assomigliare a un piccolo angelo in bianco. E per l’ennesima volta mi ripetei che era bellissima.

«Hai un buco nei pantaloni».

Capitolo straordinariamente lungo, come regalo visto che è anche l'ultimissimo di questa ff. Tanto per la cronaca la canzone che ballano Edward e Nessie è "One day" dei Trading Yesterday e la vicenda si svolge un po' di anni dopo il resto della ff. Per il resto non credo ci sia niente da dire su questo ultimo chap, anche perchè credo che parli da sé (e, ripeto, Edward non ce l'ha con Jacob, è solo geloso come la maggioranza dei padri). Questa ff è stata una dura sfida e devo confessare che pure io insieme ai miei personaggi credo di essere cresciuta un po' scrivendola. Di sicuro quando ho inziato a scriverla non pensavo di arrivare a questo punto ed altrettanto certamente è stata pane per i denti della mia attività di scrittura, che non ha potuto che affinarsi con questa nuova esperienza. E questo è stato confermato dal centinaio di preferiti, tutte le favolose recensioni e l'assiduità dei miei lettori, che non finirò di ringraziare mai abbastanza. Ringrazio francef80, Flockkitten, _zafry_ (davvero hai pianto dal ridere?) per le loro immancabili recensioni. Per finire spero che tutti i lettori che mi hanno resa orgogliosa di questa storia e hanno contribuito a farla crescere continuino a seguirmi anche nelle altre mie ff future.

Quindi dedico un enorme GRAZIE  a tutti coloro che hanno avuto l'ardire di leggere, perchè per chi scrive non c'è riconoscimento migliore di avere tanti lettori appassionati.

PS: dovete recensire anche questo chap, intesi?

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