I'll have a song from you

di CupOfEternitea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tempo da lupi ***
Capitolo 2: *** Via ***
Capitolo 3: *** Fuga nel buio ***
Capitolo 4: *** Un vero cavaliere ***
Capitolo 5: *** Giochi di luce ***



Capitolo 1
*** Tempo da lupi ***


Un suono assordante la svegliò dai suoi sogni di pace, di silenzi nella neve. Rimase momentaneamente spaesata tra il sonno e la veglia, con la terribile sensazione che la Fortezza stesse crollando, che il soffitto sopra di lei si stesse sgretolando per seppellirla, pietra dopo pietra.
Morirò qui. Sarà questo il mio sepolcro. Non riposerò nelle cripte di Grande Inverno. Non ci sarà un metalupo di pietra a vegliare sul mio sonno, come per sua zia, Lyanna, tanto bella da scatenare una guerra.
Il caro muso di Lady le balenò, fugace, alla memoria, i suoi contorni indistinti, i dettagli fumosi. Gli occhi della lupa, al contrario, risultavano vividi, come se li avesse avuti davanti. Avrebbe potuto descriverne le sfumature, ogni singola pagliuzza dell’iride, lo sguardo dolce e mansueto della più docile della cucciolata. Aveva provato paura, la sua Lady, quando il lord suo padre si era avvicinato a lei? Aveva compreso che la morte si celava dietro le carezze dell’uomo? Si era sentita sola in quegli ultimi istanti?
Mio padre non lo avrebbe mai permesso.
No, era stata fortunata ad andarsene tra mani amiche, si rispose; un tenue barlume di fortuna in tutta quella sventura. Con tutta probabilità, si rassicurò, Lady non doveva aver avuto il tempo di conoscere il dolore, quello vero.
Ogni pensiero era nato e sfiorito in un battito di ciglia, senza che lei potesse appena afferrarne il senso, lasciandole solo sensazioni confuse e tracce di consapevolezza. La lucidità giunse assieme a un brivido gelido.
Una corrente d’aria fredda penetrava dalla finestra aperta, infiltrandosi al di sotto delle coltri scomposte sul suo corpo, attraverso le pieghe e le pellicce che avrebbero dovuto tenerla al riparo. La pioggia scrosciava con violenza, abbattendosi contro le pietre della Fortezza e rovesciandosi all’interno. Poteva sentirla gocciolare monotona sul pavimento, la stessa nota ripetuta ritmicamente in un suono delicato. Le ricordava Grande Inverno, il parco degli dèi dopo un acquazzone: le gocce, che scivolavano dalle foglie rosse dell’albero del cuore, rotolavano lungo le nervature e si tuffavano nella sorgente con un tintinnio argentino. Piccole gocce, minuscole, ma ognuna di esse produceva cerchi sulla superficie placida dello stagno che si infrangevano contro le rive e deformavano il suo riflesso.
Chiuse nuovamente gli occhi e provò a immaginare di essere ancora a casa, ma fingere non sembrava riuscirle più bene come una volta.
Con un breve sospiro, tornò a guardare la finestra aperta, avvolgendosi nelle coperte per ripararsi dal freddo. Avrebbe dovuto trovare il coraggio di alzarsi e richiuderla, ma il tepore del letto era troppo piacevole in confronto al gelido pavimento che l’avrebbe accolta. Tirò la coperta fin sotto il naso, in attesa che sopraggiungesse il coraggio a convincerla a rinunciare a quell’abbraccio confortevole.
Era una notte nuvolosa, nera come le ali di un corvo. Non sarebbe stata capace neanche di notare la pioggia, se non fosse stato per lo scroscio sonoro e per un tenue bagliore di qualche torcia in lontananza che le permetteva di coglierne qualche riflesso scintillante; troppo tenue per riuscire a illuminare la sua stanza; appena sufficiente a rischiarare i contorni del proprio corpo sotto le coltri.
Una volta, da bambina, aveva avuto paura del buio. Ricordava il giorno in cui Robb e Jon l’avevano spaventata, nelle cupe cripte di Grande Inverno: per qualche tempo aveva finito per temere l’ora di coricarsi, perché avrebbe voluto dire affrontare la notte e le cose che potevano nascondervisi.
Ora, però, quell’oscurità non le faceva più paura. La lady sua madre le aveva spiegato che le storie della vecchia Nan erano solo fantasiose leggende, che Grande Inverno era un luogo sicuro, protetto da suo padre e dai valenti uomini del Nord. Si era sentita al sicuro in quel mondo popolato da cavalieri e giuramenti d’onore, finché non aveva imparato che nella vita reale sono i mostri a sopravvivere e che gli eroi che tanto aveva ammirato non erano altro che bugiardi e adulatori. Le cose da temere non erano quelle nell’ombra, ma quelle visibili alla luce del sole.
Si rigirò nel letto nel momento in cui un lampo aggrediva la stanza con un’accecante luce azzurrina. Soffocando un gemito di spavento, si levò di scatto a sedere sul letto, le coperte tirate fino al mento, strette tra le dita: la luce non era durata che un istante, eppure le era sembrato di scorgere una figura umana, appoggiata al ricco mobilio di quella che era diventata la sua cella.
«C-chi… c’è qualcuno?»
Rimase immobile, in silenzio. La stanza era stata nuovamente inghiottita dal buio e nessuno aveva risposto alla sua voce. Avrebbe dovuto tornare sotto le coperte e smetterla di abbandonarsi alla propria immaginazione, eppure era certa che quella sagoma non fosse solo un mero frutto della sua fantasia. Tacque, decisa ad aguzzare l’udito per cogliere un segno della presenza di un intruso, ma tutto ciò che riusciva a udire erano il suono della pioggia e quello del proprio respiro spezzato dalla paura. Pensò di chiamare una delle servette, ma come avrebbe giustificato una simile chiamata a quell’ora tarda, se si fosse dimostrato tutto irreale? Erano spie della Regina, dopotutto: non avrebbe potuto contare sulla loro riservatezza e non aveva assolutamente intenzione di diventare argomento di conversazione nelle stanze reali: Joffrey non avrebbe rinunciato all’ennesima occasione per umiliarla e torturarla.
Tanto era concentrata, che il violento rombo del tuono le fece sfuggire uno squittio di terrore, soffocato subito tra le coperte. Riconobbe, in quel rumore, il suono che l’aveva svegliata e in cui le era parso di riconoscere il boato del crollo della Fortezza.
Stupida. Era solo un tuono, così come l’ombra sulla parete era sicuramente solo un gioco di luci creato dal mobilio. Doveva smettere di vedere nella realtà più di quanto i suoi sensi le dimostrassero. Le cose erano ciò che erano: la gentilezza che le veniva mostrata era solo una falsità, una crudele copertura dei piani in serbo per lei; i cavalieri che tanto aveva ammirato ai tornei erano solo uomini armati di lame, non importava quanto splendida fosse la loro armatura; Joffrey era solo un mostro. Ogni tentativo di vedere in lui il principe che aveva pensato di amare era ormai inutile e doloroso: come aveva potuto permettersi di non vedere la sua vera natura, continuava a ripetersi? Ma ogni ricordo, ogni rimprovero a se stessa serviva solo a riaprire le ferite inferte dal suo senso di colpa.
Raggelata da quei pensieri, si decise finalmente a scendere dal letto e ad affrontare il freddo di quell’orribile nottata. Abbandonò il tepore del letto e percorse rapidamente sulle punte dei piedi la distanza che separava il letto dalla finestra spalancata. Per un istante restò immobile, vestita solo della camicia da notte, stringendosi nelle braccia mentre le gocce di pioggia si abbattevano contro l’ostacolo costituito dal suo corpo.
In lontananza, la Baia delle Acque Nere si rendeva meritevole di quel nome. Ovunque il suo sguardo vagasse, quella notte, tutto ciò che vedeva era solo una vasta distesa di tenebre, il nulla attorno all’abisso. Non un solo posto in cui rifugiarsi, al di fuori del luogo in cui era prigioniera e che desiderava solo abbandonare.
Si concesse di lanciare un’occhiata sotto di sé. Quante volte aveva formulato questo pensiero, dalla morte di suo padre? Solo un salto. Un ultimo volo prima della libertà. Avrebbe fatto male?
Un brivido di freddo la riscosse, e con esso fuggì ogni pensiero di morte.
Voglio vivere!
Fece un passo indietro e con entrambe le mani sospinse il vetro della finestra contro la furia del temporale, a capo chino per evitare che la pioggia le sferzasse il volto.
Rialzò il viso per incontrare il proprio riflesso sul vetro, solo per essere terrorizzata da un’alta ombra scura riflessa alle spalle della Sansa che le stava di fronte e che ricambiava il suo sguardo con gli occhi sbarrati.
Si voltò di scatto urlando, scattando di lato per sfuggire all’intruso, ma questo fu più rapido di lei ad impedirle ogni via di fuga. Avvertì una grande mano premersi sulla sua bocca e soffocare le sue proteste, poi l’aggressore la trascinò verso il letto, intrappolandola sotto di sé .
Voglio vivere!
Ancora quel pensiero, ancora più violento, più prepotente dentro di sé. Ricominciò ad agitarsi, ora cercando di liberarsi della sua mano per poter gridare aiuto, ora tentando di colpirlo, di sfuggire all’infrangibile prigione del suo corpo. Continuava a gridare contro il palmo di quella mano calda, ma il suono ne usciva soffocato, debole come il corpo che lo aveva emesso. Finalmente, le parve che la sua ribellione fosse servita a qualcosa, quando avvertì il proprio ginocchio cozzare contro il corpo dell’uomo, forse al fianco. Lo sentì espirare rumorosamente l’aria, un gemito misto a un ringhio.
«Tempo da lupi, stanotte». Sansa si immobilizzò all’istante, non appena quella voce graffiante si sovrappose al rumore del temporale. Ora lo sentiva, inconfondibile e familiare: odore di vino e di ferro. O forse di sangue. L’odore è il medesimo. Lo aveva imparato sulla propria pelle: il sangue che sgorgava dai suoi graffi aveva lo stesso odore del duro guanto di ferro di Meryn Trant. «Ma tu sei un uccelletto. Che ci facevi sul davanzale? Non è la notte adatta per volare».

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Capitolo 2
*** Via ***


Anch’io sono un lupo.
Questo avrebbe voluto rispondergli con fierezza, ma sapeva già come lui avrebbe ribattuto. Un mastino non ti mentirà mai, le aveva detto una volta, e anche quella non era stata una menzogna: non l’aveva mai delusa. Anche stavolta Sandor Clegane si sarebbe preso gioco di lei e le avrebbe sbattuto in faccia l’ennesima verità: lei non era un lupo più di quanto Joffrey fosse un leone.
Non provò nemmeno a rispondere. Il fatto che lui continuasse a coprirle la bocca era sufficiente per capire che non era realmente una replica ciò che voleva da lei.
I respiri di Sansa si stavano lentamente regolarizzando, ma continuava a percepire il proprio cuore battere come un tamburo al di sotto del tessuto bagnato, ancora in preda al timore e al disorientamento. Di fronte a lei, l’enorme sagoma del Mastino oscurava la poca luce che trapelava attraverso i vetri della finestra flagellata dalla pioggia. Sansa poteva indovinarne le fattezze, la tragica devastazione che affliggeva metà del suo volto, gli occhi grigi, pieni di rabbia e di scherno.
Ringraziò segretamente l’oscurità. Per quanto la vista delle bruciature non le mettesse più soggezione, non avrebbe potuto dire lo stesso di quegli occhi feroci. Nonostante tutto ciò che egli aveva fatto per lei, il suo corpo tremava ancora sotto quello dell’uomo.
«Hai ancora paura di me», parve leggerle nel pensiero, probabilmente senza capirne la vera ragione. Non aveva paura di lui. Non realmente. Era intimorita, forse, ma non provava vero spavento, anche se non riusciva a comprendere per quale motivo si trovasse lì, ad Approdo del Re; nella sua stanza; ancora una volta sul suo letto. «Hai paura», ripeté lui.
No. Non è così. Ho tenuto il tuo mantello.
Sansa mugolò una protesta contro il palmo della sua mano. Si era sentita al sicuro, avvolta in quel drappo bianco che sapeva di lui e sapeva di morte e di sangue e della paura dei soldati durante la battaglia contro la flotta di Stannis Baratheon. Quella notte le aveva promesso che l’avrebbe riportata a casa, che l’avrebbe tenuta al sicuro; e lei aveva rifiutato la sua proposta, e solo gli dei sapevano quanto l’aveva rimpianto.
«Avresti preferito quel dannato Cavaliere di Fiori, di’ la verità!»
Un’altra voce si sovrappose a quella del Mastino, confondendosi con essa. E, al buio, sono il Cavaliere di Fiori. Tyrion Lannister. Suo marito aveva pronunciato quelle parole, la loro prima notte di nozze mai consumata. Avrebbe potuto davvero? Sapeva dar mostra di buone maniere e non era la gentilezza a mancargli. Fissò l’enorme ombra scura di fronte a lei, tentando di vedere oltre lo spesso muro delle tenebre. Sarebbe potuto valere anche per lui? Una domanda priva di senso da porsi in un momento simile e di cui non le interessava davvero la risposta. Non voleva che Sandor Clegane somigliasse a Loras Tyrell. Se fosse stato più cortese, sarebbe stata una menzogna. Sansa Stark non aveva bisogno di altre bugie, per quanto belle e consolanti potessero essere.
Sentì la pressione sulla sua bocca farsi meno serrata e l’aria trapelare tra le grandi dita, ma la mano ruvida del Mastino non abbandonò la sua posizione. Sansa dischiuse le labbra e prese a respirare dalla bocca, rapidamente, brevi sospiri accompagnati dal sollevarsi e dall’abbassarsi del suo petto.
Quando avvertì il pollice di lui sfregare contro la guancia, impiegò qualche momento  per riconoscervi qualcosa di simile a una carezza. Aveva la pelle ruvida, indurita dai calli da guerriero e il suo tocco non era affatto morbido: il pollice affondava nella pelle morbida della sua guancia come se tentasse di cancellarne lo strato superiore, come se scavasse per raggiungere chissà quale ricordo di lei. Presto la bocca di Sansa fu libera, solo per far sì che le dita di lui potessero percorrere il contorno delle sue labbra ansanti. Le sentì bruciare come nei suoi ricordi del bacio che lui le aveva rubato la notte della battaglia.
Avrebbe dovuto protestare, ordinargli di allontanarsi; di questo era consapevole, tuttavia ogni sua azione sembrava obbedire agli ordini di una persona diversa, a leggi di un diverso universo, a diversi valori morali.
Come aveva fatto quella notte lontana, allungò la mano in direzione della macchia scura che era il suo viso.
Non appena la punta delle dita sfiorarono le cicatrici dell’ustione, lo sentì ritrarsi di scatto e interrompere l’esplorazione del suo viso per bloccarle il polso contro il letto. Sansa singhiozzò, spaventata dalla brutalità del gesto. Le tornò in mente la notte del Torneo del Primo Cavaliere, quando il Mastino l’aveva scortata nella Fortezza e le aveva raccontato in che modo si fosse procurato quelle ferite. Anche allora si era ritratto nell’ombra: aveva spento la torcia e si era ritirato fuori dal suo campo visivo. A quel tempo le era parso minaccioso, ma solo ora riusciva a considerare quel gesto con maggior maturità: forse era stata lei a ferirlo e a ricacciarlo involontariamente nelle tenebre, rifuggendo la sua vista.
Lui non accennava a parlare. Se ne stava immobile, invisibile e senza volto come lo Straniero, altrettanto letale, eppure misericordioso. Respirava rumorosamente, nel silenzio.
Fu lei a sentirsi in dovere di spezzare quel vuoto che rischiava di inghiottirla. «Sei tornato…»
Nessuna risposta, solo quel respiro pesante, alcolico. Era quell’assenza di parole a metterla a disagio, più che la stretta sul suo polso. Era tornato per portarla via? Forse le veniva data un’altra occasione. Stavolta non avrebbe rifiutato. Tra tutte le persone che si erano mostrate solidali con lei, era quell’uomo rude e violento l’unico di cui avrebbe davvero potuto fidarsi, anche se aveva dovuto aspettare di averlo lontano per comprendere quanto avesse fatto per lei e quanto poco lei fosse stata riconoscente. «Sei qui per…»
«Come hai potuto?»
«Come?» Sansa impallidì nel buio.
Ancora quel respiro pesante. Ora finalmente capiva: era un respiro rabbioso, più simile a un ringhio che a un verso umano.
«Come hai potuto permetterlo?»
Era certa di non aver commesso alcun atto che potesse offenderlo e non trovava logico che lui fosse tornato dopo tutto quel tempo e si fosse introdotto nella Fortezza solo per rinfacciarle di non essere partita con lui quando ne aveva avuto l’occasione. Per quanto ne sapesse, non aveva mai fatto nulla contro il Mastino. Anzi, non aveva mai fatto del male a nessuno.
Vi era solo un crimine di cui si era macchiata, oltre alle menzogne di cui si era vestita giorno dopo giorno; all’improvviso, dopo molti secondi di silenzio da entrambe le parti, aveva compreso quale fosse.
«Che scelta avevo?» In che modo avrebbe potuto rifiutarsi di sposare Tyrion Lannister, se non andando incontro alla morte? Avrebbe potuto, certo: sarebbe stato più dignitoso, senza dubbio, e non avrebbe macchiato la memoria di suo padre rinunciando al suo nome per assumere quello del loro nemico. Non avrebbe dato ai Lannister l’opportunità di mettere le mani su Grande Inverno. Ma a cosa sarebbe servito? Non era rimasto più nessuno che potesse vergognarsi di lei e del suo testardo desiderio di sopravvivere.
«Una scelta ti era stata data!», abbaiò lui, stringendo la presa sul suo polso. L’altra mano era attorno alla sua spalla: l’aveva scossa violentemente, mentre le urlava contro, chino verso il suo volto, tanto vicino che l’odore di vino si mescolava al suo respiro spaventato.
«Eravamo sotto assedio. C-credevo che Stannis Baratheon…»
«Credevi… Credi a troppe cose e sono quasi tutte sbagliate!» Da qualche parte, nel cielo, delle nubi si stavano diradando. Non riuscivano ancora a vedersi chiaramente, ma Sansa iniziava a distinguere qualche dettaglio della parte del volto colpito dalla luce. Le ombre del dedalo di cicatrici della metà martoriata sembravano rendere quello sfregio ancora più intricato, profondo. Sentiva che se avesse continuato a fissarlo vi avrebbe perso il controllo di se stessa. Quel volto era la prova vivente della mostruosa esistenza di persone come Gregor Clegane. Quale mostro può fare una cosa simile a un bambino senza provare pietà o rimorso? E lei, quei mostri, li aveva adorati e idolatrati; aveva perfino creduto di amare uno di loro. Chiuse gli occhi, mentre la voce del Mastino le gettava in faccia quella nuova scarica di verità. «Avresti potuto essere lontana, quel giorno! Al sicuro, da qualcuno dei tuoi familiari, invece di permettere a quel nano di…». Si interruppe, soffocando la sua frustrazione in un ringhio che la fece rimpicciolire e stringere nelle spalle, alla ricerca di un riparo che non poteva trovare.
Non mi ha toccata. Non sono ancora diventata una Lannister.
Avrebbe voluto dirglielo, ma a cosa sarebbe servito? Cambiava forse la sua posizione alla Fortezza? La rendeva libera di andarsene e di avere la vita che aveva sempre sognato? Era per quegli stupidi sogni se ora si trovava in quel guaio. Era stata lei a insistere. Aveva desiderato Joffrey e Approdo del Re dal primo istante in cui la prospettiva di una vita di sole, canzoni e cavalleria le era stata offerta come un dolce particolarmente goloso. Ma tutta quella dolcezza, lo aveva scoperto troppo tardi, serviva a nascondere il veleno della politica.
«Sei venuto per portarmi via?», tentò ancora una volta con gentilezza e un filo di voce, sperando che questo placasse la sua rabbia e non suonasse come un’impertinenza, dopo il suo precedente irriconoscente rifiuto.
Perché non le rispondeva? Se ne stava immobile a fissarla, ora che il proprio viso era finalmente visibile al chiarore esterno, ma tutto ciò che lei riusciva a vedere era la metà deforme del suo viso. Non vi era espressione, in quella devastazione, solo un occhio grigio che la fissava, quasi senza vita.
«Se tu fossi qui per…»
«Non verresti».
Quella risposta la scioccò, tanto suonava assurda e beffarda. «Perché dici questo?»
Doveva essere una risata, la sua, ma nella voce di Clegane mancava ogni accento di divertimento. «Te l’ho già detto in passato, il perché. Sei solo un uccelletto ammaestrato, e gli uccelletti ammaestrati stanno troppo bene nella loro gabbia per volersene andare via. Ho già provato a lasciarla aperta e guarda dove ti ritrovi».
Era vero? Era quello il motivo per cui aveva scelto di restare ad Approdo del Re? Si era ripetuta tante volte di aver agito scegliendo le maggiori probabilità di sopravvivenza. Sapeva che suo padre era convinto che il trono spettasse di diritto a Stannis, per cui credeva che il nuovo re non avrebbe avuto motivo di farle del male: si trovava lì contro la propria volontà, dopotutto. Ma se avesse avuto ragione il Mastino? Se avesse preferito passare sotto la custodia di un nuovo padrone piuttosto che guadagnarsi la libertà in quel mondo esterno a lei sconosciuto, pieno di brutture e miseria? E che arma avrebbe avuto lei, per difendersi da quel mondo? Tra le mura della Fortezza Rossa era pur sempre Sansa Stark, un ostaggio di valore; tra la gente comune, in fuga sulle terre sconvolte dalla guerra, era solo una fanciulla con l’unica protezione di un soldato con una taglia sulla sua testa.
«Ho sbagliato. Se me lo chiederai, io…»
«Se te lo chiederò?» All’improvviso, Sandor Clegane si era alzato dal letto. Serrandole ancora il polso, l’aveva strattonata fino ad attirarla in piedi e trascinarla verso la finestra, dove entrambi avrebbero avuto abbastanza luce per potersi guardare in faccia senza finzioni, senza maschere di finta cortesia. Sansa aveva freddo, mentre percorreva a piedi nudi il gelido pavimento della camera da letto. Si ricordò solo in quel momento di indossare solo la camicia da notte, per di più bagnata dalla pioggia, ma era troppo spaventata dalla rudezza dell’uomo per preoccuparsene: già una volta, d’altronde, l’aveva vista in quelle condizioni poco decorose, appena dopo la morte del lord suo padre. «Io non ti chiederò un bel niente. Sei tu quella che deve chiedere. E sii convincente, o penserò che non te ne importi poi un granché».
Non poteva crederci. Di notte, con la possibilità di essere scoperti da qualcuno, lui riusciva a pensare solo a umiliarla costringendola a implorare? Era un atteggiamento sadico che si sarebbe aspettata da Joffrey, non da uno come lui.
Uno come lui… Come se potesse pretendere di conoscerlo davvero. Eppure era a lei che lui aveva confidato la pagina più nera del suo passato. Non poteva credere di essere la persona che più si potesse avvicinare a conoscere il vero Sandor Clegane? Ciò che aveva visto, una volta messo da parte il terrore che il suo aspetto le ispirava, non aveva niente a che vedere con l’ego di nobili e cavalieri: lui lasciava che lo chiamassero cane; portava quel soprannome come un riconoscimento.
Non poteva credere che volesse davvero quello, da lei.
Nonostante tutto, Sansa non tentennò a lungo. Era stata capace di mostrare il suo sorriso più dolce all’uomo che più detestava: pregare il Mastino di salvarla non sarebbe stato neanche lontanamente tanto umiliante.
Si inchinò garbatamente, tentando di immaginarsi in abiti più consoni a una lady. Prese una delle grandi mani dell’uomo mano tra le sue, stringendola e posando la fronte sul suo dorso. Doveva apparire ridicola, così conciata, a preoccuparsi tanto di risultare graziosa. Ma non era questo che le era stato insegnato? Se fosse apparsa ai suoi occhi educata e riconoscente non avrebbe avuto più possibilità di convincerlo? «Ti prego di scortarmi lontano da Approdo del Re. Se lo farai, il mio debito di riconoscenza nei tuoi confronti sarà difficile da saldare, ma farò in modo da ripagarti come potrò. Sono certa che anche i miei parenti sapranno come ricompensare un uomo tanto valoroso».
Aveva già implorato qualcuno, in passato. Era stata lei a tentare di intercedere presso Joffrey affinché fosse clemente con suo padre. Joffrey, orribile com’era, non le aveva fatto attendere una risposta, per quanto fasulla essa fosse in realtà.
Il Mastino, però, taceva.
Sansa attese a lungo, ma non una parola arrivò in risposta alla sua supplica.
Quando si concesse di sollevare il viso su di lui, per controllare quale fosse la sua reazione, lo trovò che la fissava.
«Che cos’era quello?»
«Ti… ho pregato».
«Ti sei limitata a recitare la tua parte: niente di diverso da ciò che hai sempre fatto, probabilmente da quando hai memoria».
«Io non…»
«Lo vedi, uccelletto? Sotto sotto, ti piace stare qui». Si liberò della sua mano con un gesto rude, quasi scrollandosela di dosso. Un lampo accecante illuminò la sua schiena mentre si voltava per lasciarla una seconda volta. Era tornato per lei, su questo non poteva mentirle. Come poteva lasciarla ancora una volta dopo averla illusa di avere una nuova occasione?
Si aggrappò disperatamente alla manica della sua tunica, le dita strette come artigli attorno al tessuto grezzo. Aveva gli occhi lucidi e non riusciva a mettere a fuoco la figura di fronte a lei. Il tuono risuonò mentre Sansa esclamava in un misto di rabbia e speranza: «Portami via di qui!»
Sandor Clegane si fermò sul posto. La parte sana del suo viso fece capolino da sopra l’alta spalla. Sorrideva, finalmente soddisfatto, studiandola dall’alto.
«Questa sì che è una canzone che mi piace».

N.d.A.:
Vorrei ringraziare le persone che hanno commentato il primo capitolo di questa storia. Avevo intenzione di non dilungarmi per più di tre capitoli, ma mi hanno fatta riflettere sull’eventualità di scrivere una storia più lunga. Spero di non aver deluso le aspettative. Nel caso l'avessi fatto… pietà di me!

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Capitolo 3
*** Fuga nel buio ***


Le aveva dato il tempo di indossare un abito. «Qualcosa di semplice. Non stai andando a una festa», le aveva raschiato nell’oscurità, mentre le dava le spalle per consentirle di disfarsi della camicia da notte e scivolare in un semplice abito grigio, allacciando meglio che poteva  i nastri sul fianco. Non era comodo come quegli abiti da selvaggia che sua sorella era solita scegliere, ma era l’unico che sarebbe riuscita a indossare senza l’aiuto di una serva e che non l’avrebbe intralciata troppo nei movimenti.
Sandor Clegane non attese il suo segnale, per voltarsi: senza degnarla di un’occhiata si impossessò di una coperta di medie dimensioni e gliela lanciò addosso senza alcuna delicatezza, prima di allontanarsi nuovamente.
«Mettici dentro quello che riesci a trovare. Gioielli, oggetti preziosi…» Sansa poteva vedere la sua sagoma accanto alla finestra, mentre scrutava il mondo esterno. Un enorme mastino nero di guardia.
Non era cambiato dalla notte della battaglia delle Acque Nere; le sembrava perfino che le macchie di sangue sul suo viso fossero le stesse, per quel poco che la luce le consentiva di vedere. Seguì istintivamente la linea del suo profilo scuro, la fronte alta, resa appena irregolare dalle cicatrici dell’altra metà del viso, il naso aquilino… A vederlo così, un profilo nella penombra, non sarebbe sembrato diverso da un qualunque altro uomo. All’improvviso, lui aveva voltato la testa e Sansa si era sentita infilzare da due occhi grigi che non poteva vedere, ma che riusciva comunque a percepire nel buio. «Ora! Non domani!», abbaiò a mezza voce, ma abbastanza deciso da convincerla a seguire i suoi ordini senza ulteriore indugio mentre lui restava a guardia della situazione.
Recuperò dal mobilio una coppa d’argento istoriato, e uno specchio e una spazzola decorati con perle di fiume e opali, le posate d’argento ancora sporche del suo ultimo pasto consumato nella solitudine della stanza e una cintura d’oro, dono del suo sposo Lannister. Svuotò il suo portagioie, ma nel far cadere nella coperta i doni di Joffrey e della Regina Cersei si sentì sporca come se li stesse rubando, nonostante essi ora le appartenessero.
Lo sguardo indugiò sulla bambola che suo padre le aveva regalato un giorno di un passato che sembrava non essere mai esistito, tanto le appariva semplice e luminoso. Stava per prenderla, quando si ricordò del modo in cui, in quell’occasione, aveva trattato suo padre: la sua ingratitudine di fronte a quel suo ingenuo tentativo di consolarla dalla morte di Lady. La sua mano indugiò a mezz’aria per qualche secondo, quindi ricadde.
Non voleva portare quel genere di ricordo con sé. Si sarebbe costruita nuovi ricordi, decise, più felici di quelli che aveva conservato nel Fortino di Maegor.
Si chinò sulla cassapanca per prendere un abito di riserva. Doveva averne uno color ametista che aveva utilizzato nei primi tempi della sua prigionia ad Approdo del Re, da indossare per cavalcare nel cortile, sotto lo sguardo vigile delle guardie della Regina. Dopo tutto quel tempo, doveva ormai essere finito sul fondo.
Affondò il braccio tra i flutti di sete e velluti, rovistando senza preoccuparsi del disordine che stava creando, il cuore che batteva a mille per la paura che qualcuno potesse entrare nella stanza e sorprenderli.
Scorse finalmente un ricamo familiare, riconoscibile perfino in quella semioscurità. Trovato!
Nel tirarlo via, qualcosa scivolò fuori dalla cassapanca, fuori da quel groviglio di abiti donatile dalla Regina.
Sansa lo strinse tra le mani, lanciando una rapida occhiata all’uomo accanto alla finestra. Ne fece, quindi, un unico malloppo che infilò rapidamente nella coperta, attorno agli oggetti preziosi, annodandone in fretta i lembi.
Era un fagotto più leggero di quello che avrebbe mai ritenuto adatto a una lady come lei, ma se lo sarebbe fatto bastare. Un giorno, rifletté mentre si posava un mantello pesante sulle spalle, avrebbe ripreso il posto che le spettava, riconquistato la sua dignità e la sua posizione. Allora l’unica privazione che avrebbe provato sarebbe stata quella della sua famiglia; ma, forse, sarebbe stata consolata dall’idea che anche i Lannister avrebbero pianto le loro perdite.
«Andiamo via di qui», mormorò a bassa voce, il fagotto stretto al petto.

La fuga era stata una corsa nel buio, esaltante e spaventosa. Per innumerevoli lune aveva pregato gli dei per quella possibilità, eppure, ora che il momento era giunto, si riscopriva preda di un timore che la faceva tremare di vergogna.
Tutto le faceva paura: rumori di orecchie posate dietro le porte del palazzo a spiare i loro movimenti; ombre nei corridoi che nella sua mente assumevano le sembianze delle guardie Lannister ; il clangore dell’armatura del Mastino risuonava così assordante al suo udito, che Sansa era certa che avrebbe richiamato l’attenzione della Regina su di loro.
Più di tutto, però, la cosa che davvero la terrorizzava era il pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere se fossero riusciti ad uscirne vivi. Aveva atteso così tanto perché quel momento arrivasse: se ne fosse rimasta delusa?
Erano strisciati nei corridoi della Fortezza rapidi come il vento del Nord, eppure a Sansa non era sembrato di essere realmente cosciente delle sue azioni. Rammentava appena di aver sorpassato il corpo di un soldato morto, il sangue che si allargava sulla sua cappa color porpora. Lo aveva scavalcato come avrebbe fatto con una pozzanghera, allungando il passo e sollevando la gonna per non sporcarla, come se tutto fosse irreale. La mano del Mastino stretta attorno al suo polso le faceva male, ma le impediva di inciampare nel buio o di perdere la via verso la salvezza.
Non sapeva che strada fosse quella. Le sembrava di riconoscere luoghi del Fortino, eppure ad essi si alternavano lunghi corridoi oscuri mai visti prima. Sandor Clegane non aveva alcuna torcia con sé, ma procedeva con un’incredibile sicurezza, mentre Sansa continuava a inciampare e a doversi appoggiare alle pareti umide per non perdere l’equilibrio. Avrebbero potuto farsi luce in qualche modo.
È a causa del fuoco? Lo terrorizza.
Ma non poteva essere così. Lo aveva visto impugnare torce, prima di quel momento. Quando Joffrey gli aveva ordinato di scortarla nel castello, ad esempio. Forse, semplicemente, non voleva dare nell’occhio, si rispose: era troppo impegnata a non rompersi l’osso del collo per districarsi tra le sue troppe domande.
Tra le ombre, orbite vuote spiavano i loro movimenti. Immobili e terribili, i draghi della dinastia Targaryen erano i muti testimoni della sua liberazione.
Arya. Arya parlava di questo luogo, ma io non avevo voluto ascoltarla. Ero troppo impegnata a vergognarmi di lei.
Credeva che fosse uno scherzo, un modo per attirare l’attenzione del lord loro padre e non farsi punire per il suo comportamento imbarazzante.
«Ti fanno paura, uccelletto?»
La voce di Clegane, dopo quel lungo silenzio, quasi le fece mancare un gradino dallo spavento. La presa sul suo polso si fece così stretta da strapparle un gemito, quindi sentì le dita allentarsi senza lasciarla. Sentiva la pelle bruciare nel punto in cui la circolazione riprendeva a scorrere in direzione delle dita formicolanti. «Hanno poco da fare paura, da morti. Dannate bestiacce».
«No… No, non mi fanno paura».
Il Mastino rise. «Già. Lo so io cosa ti fa paura».
Per il resto del tragitto le parve di camminare in bilico su una fune, come aveva visto fare a dei guitti durante una cena a corte. Joffrey, qualche giorno dopo, aveva proposto che alcuni postulanti provassero a ripetere il numero sulle mura della Fortezza, ma l’arrivo della Regina Reggente aveva fortunatamente impedito che la provocazione del Re si tramutasse in un ordine perentorio.
A Joffrey sarebbe piaciuto vederla camminare su una corda. Non cadere, quello no: la sua morte avrebbe significato la fine dei giochi, per lui. Vederla implorare, invece, piangere e pregare dalla paura: quello per lui sarebbe stato uno spettacolo imperdibile.
Non sarebbe caduta, però.
All’esterno, la pioggia batteva ancora copiosa e implacabile, anche se meno violenta rispetto al momento in cui l’aveva svegliata. Camminarono raso mura, all’ombra della Fortezza, il Mastino davanti a lei che la schermava da eventuali presenze ostili e Sansa china in avanti per ripararsi al meglio dall’acqua e proteggere il carico che stringeva al petto. Bagnato dal maltempo, il mantello le gravava pesante sulle spalle. Il cappuccio continuava a scivolarle davanti al viso.
Non vedeva niente. Il buio, la cortina di pioggia, il cappuccio, il grande corpo del Mastino: tutto sembrava volerle impedire di comprendere cosa stesse accadendo attorno a lei. Ripensò alla bambola che suo padre le aveva donato: anche lei si sentiva una bambola, strattonata e trasportata solo dalla volontà dell’uomo che ancora una volta la stava aiutando. Si sentiva pesante, goffa nei movimenti, ma la presa del suo salvatore era abbastanza forte per entrambi. Quanto avrebbe desiderato abbandonarsi finalmente a qualcuno, sentirsi di nuovo una bambina protetta dagli altri, sgravata da ogni responsabilità.
Solo per un po’.
Le sarebbe piaciuto essere portata di peso in quell’oscurità in cui non poteva vedere brutture e in cui ciò che la circondava poteva essere bello o orribile a seconda di ciò in cui sceglieva di credere. C’era stato un tempo in cui non avrebbe dovuto fare altro che obbedire alle regole e agli ordini della septa e dei suoi genitori. Se si fosse comportata bene, se fosse diventata la lady perfetta che tutti si aspettavano, avrebbe trovato un marito che si prendesse cura di lei, che l’avrebbe fatta vivere negli agi, circondata da bellezza e cortesia. Non avrebbe avuto preoccupazioni, né tutta quella paura di commettere errori: la sua vita non sarebbe mai dipesa dalle sue scelte. Era un’idea invitante, dopo tanta sofferenza, ora che le veniva offerta l’occasione di arrendersi.
No, devo andare avanti.
Si era ritrovata a sbattere contro la schiena del Mastino, cozzando contro la maglia in ferro.
«Sta’ attenta! Mica ti posso portare dalla tua famiglia tutta ammaccata! Come glielo spiego che non sono stato io?»
«Scusami», aveva bisbigliato così piano che anche lei aveva fatto fatica a udirsi. Non aveva una famiglia, avrebbe voluto aggiungere, ma quello era meglio tenerlo per sé.
Il Mastino la stava portando da degli estranei, ma quegli estranei erano anche le uniche persone che le fossero rimaste al mondo. Se le sarebbe fatte bastare. Non chiedeva altro che un po’ di gentilezza, dopotutto; magari guardare il viso dei suoi zii e ricercare delle somiglianze con sua madre, Lady Catelyn. Tutti le dicevano che le somigliava tanto, ma, quando si guardava allo specchio, Sansa vedeva ormai solo una fanciulla troppo pallida, troppo triste, troppo taciturna. Della forza di sua madre non riusciva a vedere nulla.
Il nitrito di un cavallo squarciò la notte. Un’ombra nera nel nero di quel luogo senza nome si avvicinò a loro con un rumore di zoccoli sul terreno battuto. Non riusciva a vederlo, ma Sandor Clegane non sembrava avere lo stesso problema. Avvertì la stretta delle sue dita sciogliersi dal suo polso, il freddo vento notturno che soffiava su quella pelle accaldata e sudata provocandole brividi che le correvano lungo tutto il corpo.
Straniero.
Non lo vedeva neanche ora che era così vicino da percepirne il calore e l’odore penetrante, eppure era certa che fosse lui dal modo in cui l’uomo l’aveva lasciata per rassicurare il cavallo.
Ricordava Straniero: un enorme destriero forte e feroce come il suo proprietario. Ricordava anche che a Grande Inverno, il giorno dell’arrivo di Robert Baratheon e della sua corte, i loro stallieri avevano faticato a occuparsi dell’animale: questo sembrava rispondere solo agli ordini del Mastino, per un qualche strano accordo di tacita fedeltà reciproca.
«Eccoti qua», lo salutò l’uomo, avvicinandosi di un passo all’enorme sagoma nera, lasciando che il vuoto e la pioggia riempissero lo spazio che fino a quell’istante aveva occupato.
Sansa non vedeva niente. Le sembrò di essere diventata cieca in un mondo pieno di insidie, con le orecchie piene dei rabbiosi sussurri della pioggia. Le gocce le sferzavano il viso, più piccole, ma rapide e dolorose, mentre tentava di ripararsi con il cappuccio e rabbrividiva per il freddo che l’assenza del calore umano del Mastino le provocava.
Le parve di non percepirlo più, un’ombra sovrapposta all’ombra di Straniero, confusa in tutto quel nulla attorno a lei. Spaventata, avanzò di due rapidi passi, brevi come i suoi respiri, finendogli addosso, le dita strette sulle maglia di ferro che gli avvolgeva il torace.
«Ti ho detto di stare attenta!», la rimproverò lui, la voce simile al suono che accompagnava suo padre intento ad affilare Ghiaccio nel parco degli dèi, freddo e rassicurante allo stesso tempo.
«Non lasciarmi». Doveva essere un ordine di Sansa Stark, erede di Grande Inverno, ma suonò molto più simile al lamento di una bambina spaventata.
Non lo vedeva, ma lo sentì voltarsi. Riusciva a sentire il suo fiato caldo sfiorarle la fronte e l’odore del vino che ne testimoniava la vicinanza. Strinse più forte il fagotto morbido che teneva tra le braccia. Come poteva spiegargli che, se si fosse allontanato, sentiva che non l’avrebbe più ritrovata, in quell’oscurità? L’avrebbe trattata ancora una volta da stupida, incapace di badare a se stessa senza qualcuno che la prendesse per mano. Non era così. Aveva percorso un lungo cammino potendosi fidare solo di se stessa: sapeva di poter trovare un modo per sopravvivere; solo che non voleva più farlo a quel prezzo.
Come se le avesse letto nel pensiero, il Mastino le rispose: «I cani sono bravi a ritrovare le persone». Le fece scivolare le mani sotto le braccia, sfacciate, eppure delicate come le mani che l’avevano difesa innumerevoli volte durante la sua prigionia. Erano mani che ricordava bene, mani grandi che avevano impugnato spade enormi e fatto a pezzi chissà quanti nemici. Avrebbe potuto spezzarla, con quelle mani. «E io riconosco il tuo odore», aveva concluso, in un modo che l’aveva imbarazzata.
Aveva tremato, stavolta non a causa del freddo. Le mani di Sandor Clegane erano calde attraverso i vestiti inumiditi dalla pioggia ed era anche certa che non fosse tornato ad Approdo del Re a rischio della propria vita solo per farle del male. Non era questo a intimorirla.
Aveva pensato che volesse baciarla ancora una volta, come la notte della battaglia; invece i suoi piedi si staccarono da terra e si ritrovò seduta sulla sella di Straniero.
«Reggiti. Con questo buio non credo di riuscire a recuperare tutti i pezzi, se dovessi cadere».

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Capitolo 4
*** Un vero cavaliere ***


Non aveva mai amato cavalcare, ma montare Straniero si era rivelata addirittura un’esperienza spaventosa. Era un animale più alto di tutti quelli da lei montati in precedenza, forte e nervoso, e per di più non sembrava gradire la sua presenza in sella, come dimostravano i suoi moti di ribellione prontamente sedati dal suo padrone.
Seduta davanti al Mastino, a cavalcioni, era impossibile impedire all’abito di sollevarsi scompostamente. Avvertiva la pioggia, ormai divenuta leggera, battere come tanti aghi sulle sue gambe nude e il vento frustare la sua pelle gelida. Ogni suo tentativo di sporgersi e coprirsi era stato vanificato dal braccio del suo compagno di viaggio che, puntuale, la attirava rudemente contro il suo petto.
«Vuoi stare ferma? Come se questa povera bestia non avesse già abbastanza grane».
«Ho freddo», si giustificò lei, a disagio. Aveva già avuto modo di montare in sella con l’uomo. Anche quel giorno lui l’aveva salvata e l’aveva portata al sicuro, ma sul docile cavallo che Sansa montava in occasione della rivolta del pane. Ricordava di essersi stretta alla sua ampia schiena, terrorizzata e sconvolta, il viso affondato contro di lui e gli occhi chiusi per non vedere quanto la gente disperata potesse essere feroce e ingiusta. La stessa ferocia che aborriva le aveva salvato la vita, non lo dimenticava.
Il temporale sembrava giungere al termine, ma la notte era fredda e il suo mantello era ormai fradicio. Continuava a tremare contro il petto del Mastino, l’unica fonte di calore su cui potesse ancora contare, sebbene fosse bagnato quanto lei.
L’uomo sbuffò. Era già accaduto in precedenza, durante il viaggio, quando Sansa aveva lamentato i primi segni della stanchezza. Non mi fermo finché non sono abbastanza lontano da quella merdosa città, aveva risposto, e con uno sbuffo aveva convinto Sansa a soffocare le proteste e le lamentele, finché lui non avesse deciso altrimenti. Avevano, quindi, continuato a cavalcare e cavalcare, finché, sfinita, non si era addormentata in sella, adagiata contro di lui. Ma ora non era solo la stanchezza a creare problemi: il freddo iniziava a essere intollerabile e rendeva più sensibili le sue membra affaticate dalla lunga marcia. Da quante ore non sgranchiva le gambe? Non riusciva più a sentire nulla, dal bacino in giù, ad eccezione del tocco acuminato della pioggia.
Neanche stavolta ottenne risposta. Sospirò appena, chinando il capo per posare lo sguardo sulle redini trattenute in quelle mani enormi. Una sola di quelle mani avrebbe potuto ucciderla in pochi istanti, rifletté.
Fu allora che lui sembrò ringhiare sommessamente, incitando Straniero con un colpo di speroni.
«Non sarà un guadagno se ti consegno malata. Non sembri molto resistente», bofonchiò, coperto dai rumori della pioggia e della foresta, ma Sansa lo udì lo stesso. Avrebbe voluto rispondergli per le rime, ricordargli che aveva resistito a ben più di una cavalcata sotto la pioggia, che era sopravvissuta a Joffrey Baratheon, ma non sarebbe stato cortese; il cavallo, d’altronde, aveva deviato dalla traiettoria diritta e monotona che aveva mantenuto fino a quel momento, inerpicandosi su una china adombrata dalla fitta vegetazione. L’animale sembrava non mostrare segni di fatica e stanchezza, nonostante il peso che gli gravava sul dorso massiccio, mentre si dirigeva verso una rientranza nella parete rocciosa che incombeva su di loro, costeggiando il boschetto che erano intenti ad attraversare. Non aveva idea di dove si trovassero, ma era più che certa che Clegane avesse ceduto alla sua tacita richiesta e avesse deciso di fare una pausa. Probabilmente era stanco anche lui, si disse, ma era troppo felice di quella deviazione per guastarsi l’umore con considerazioni negative. Era stato molto gentile a concederle quel riposo, e lei sarebbe stata altrettanto gentile con lui, nonostante le continue scortesie.
Fu lui a smontare per primo, per tenere fermo il destriero nero quasi impossibile da distinguere nelle ombre notturne.
Sansa provò a sollevare una delle gambe, ma queste non volevano saperne di collaborare. Con un borbottio incomprensibile, fu lui a tirarla giù di sella e a depositarla distrattamente sul suolo, distrattamente, ma con la strana rude delicatezza che era sempre stato solito riservarle. Lei non resistette che pochi istanti, crollando immediatamente sulle gambe, rossa di vergogna.
«Vedi di non romperti».
«Forse, se avessimo fatto una pausa prima…», provò lei, non con la gentilezza che si era imposta di dimostrargli.
«La stiamo facendo adesso. Fattela bastare». Ma neanche lui era gentile, quanto bastava a dissipare ogni senso di colpa che tentasse di affacciarsi alla coscienza di Sansa.
Si massaggiò le gambe, il fagotto ancora stretto al petto, dedicandogli appena un’occhiata sfuggente per essere certa che stesse legando Straniero al ramo di un albero poco lontano e che non la stesse lasciando lì, da sola. Si diede della stupida: perché mai avrebbe dovuto farlo, dopo essersi preso tanto disturbo per liberarla dalla sua prigionia? Eppure ogni volta che lo sentiva allontanarsi veniva sopraffatta dalla paura di vederlo sparire nuovamente. Era quello, che le avevano fatto ad Approdo del Re? Ricordava distintamente che un tempo era esistita una Sansa sorridente e spensierata, una Sansa che poteva permettersi di avere paura delle fiabe tetre della vecchia Nan perché consapevole che nulla avrebbe potuto farle realmente del male, tra le mura di Grande Inverno. Tutto, allora, era semplice e tutto poteva tramutarsi in qualcosa di meraviglioso e romantico, con un pizzico di fantasia. Ora, quella fantasia riusciva a generare solo scenari di abbandono e sofferenza.
Con un po’ di fatica, andò a rifugiarsi nella rientranza. Lì il terreno era asciutto e le pareti rocciose offrivano riparo dal vento che le aveva gelato le ossa. Si strinse nel mantello, nello sciocco tentativo di scaldarsi.
«Quello servirà a poco, bagnato com’è». La voce roca del Mastino la raggiunse nello stesso istante in cui lui rientrava nel suo campo visivo.
«Se accendessimo un fuoco, potrei asciugarmi».
«Bene. Accendine uno, allora».
Sansa restò immobile a fissarlo, le labbra dischiuse dalla sorpresa e il fagotto stretto tra le braccia come se avesse avuto paura che qualcuno nell’ombra potesse portarglielo via.
Non aveva idea di come accendere un fuoco. A Grande Inverno aveva sempre avuto attorno qualcuno che provvedesse ai suoi bisogni; ad Approdo del Re, questa sua condizione non era mutata. Nonostante la prigionia, la Regina le aveva fornito servette che potessero soddisfare tutte le sue necessità, anche se dava ordine che venissero cambiate ogni mese, per evitare che potessero legare troppo con lei.
Stava già per protestare, quando si ricordò della paura che il fuoco doveva incutere nel Mastino. Era a causa di questo terrore che era fuggito dalla battaglia, durante l’assedio di Stannis Baratheon. Non aveva avuto paura di offrirle la libertà, ma doveva temere davvero ciò che lei, al momento, desiderava tanto ardentemente.
Per questo motivo, senza dire una parola, affidò il loro bagaglio alla sua sorveglianza e si incamminò in direzione della boscaglia, alla ricerca di legna da ardere.
La notte schiariva appena, mentre le nubi lentamente si aprivano per far trapelare un po’ di luce stellare, quando Sansa fu di ritorno.
Teneva la gonna tesa, usandola come cestino, ma fu lesta a farla ricadere appena giunta a pochi passi da Clegane, in modo da nascondere alla sua vista le gambe nude. Una moltitudine di legnetti si riversò sul terreno. Sansa si inginocchiò, la fronte aggrottata per la concentrazione, mentre radunava il risultato della sua spedizione e ne ricavava un mucchietto compatto.
Sandor Clegane la osservava in silenzio, la schiena appoggiata contro la roccia e le braccia conserte, tanto immobile da sembrare addormentato. Di tanto in tanto, sembrava distorcere le sue labbra in una smorfia impossibile da decifrare. Avrebbe potuto essere un digrignare di denti, quanto avrebbe potuto essere una risata silenziosa. Allungò una mano per appropriarsi di uno dei rametti rotolati lontano da lei, mentre Sansa provava a strofinare due rami uno contro l’altro per generare calore. Se non altro, il movimento riusciva ad attenuare la sensazione di gelo. L’uomo portò il rametto al naso e lo annusò, quindi lo spezzò a metà, ma le parti non si separarono nettamente come previsto.
«Davvero pensi che questa roba possa prendere fuoco?»
Sansa si bloccò immediatamente, indecisa se chiedergli spiegazioni  o inveire contro di lui. Lei, per lo meno, stava tentando. Che diritto aveva di deriderla per qualcosa che era suo diritto non conoscere, lui che non ci stava neanche provando?
Il Mastino sospirò e si tirò in piedi. «Ci vuole legna secca», disse laconicamente, spolverandosi la polvere di dosso. Senza aggiungere un’altra parola, la superò senza degnarla di un’occhiata. In pochi istanti, la sua sagoma imponente venne assorbita dalle tenebre.


N.d.A.
Ehm... Ci ho messo un po' a proseguire e il capitolo è anche più breve dei precedenti, ma tra le feste e gli impegni diventa difficile trovare momenti per concentrarsi (soprattutto quando si vive in una casa affollata e rumorosa che complotta contro ogni tentativo di raccoglimento -.-).
Speriamo di non aver perso il filo del discorso e di aver mantenuto la stessa atmosfera dei capitoli precedenti.
Un ringraziamento a Erja e Nevaeh610 che hanno recensito l'ultimo capitolo e anche a chi ha letto e non ha avuto la possibilità di farlo. I vostri commenti mi hanno fatto davvero piacere e mi hanno anche stimolata a sistemare il capitolo che avevo iniziato a scrivere (sì, ho bisogno di qualcuno che mi punzecchi con un bastoncino appuntito per costringermi a concentrarmi).
Insomma, scusate per l'attesa e speriamo che vi piaccia!

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Capitolo 5
*** Giochi di luce ***


Clegane era tornato con un gran mucchio di legnetti secchi, cortecce, radici strappate da tronchi privi di vita. Con grande sorpresa di Sansa, non aveva perso tempo e si era subito messo all’opera, separando la legna troppo bagnata da quella che, miracolosamente, sembrava essere stata risparmiata dal temporale.
Sfregando i palmi uno contro l’altro, fece roteare un’estremità di un bastoncino contro l’incavo di una corteccia. A giudicare dall’espressione sulla metà illesa della sua faccia, sembrava sapere molto meglio di Sansa come procurarsi il calore necessario a superare la notte.
«Avevo una pietra focaia, un tempo», si lamentò tra i denti, chino sul mucchietto di legna.
Sansa ne approfittò per trarne uno spunto di conversazione. Si strinse il mantello bagnato sulle spalle, a disagio. «Cosa ne è stato?»
Fissava quelle mani grandi, callose: avrebbe potuto ucciderla, con quelle mani, eppure non riusciva a rammentare un solo episodio in cui esse l’avessero sfiorata per farle del male.
«Meglio non affezionarsi troppo alle cose, di questi tempi».
Già, questi tempi… La guerra, la fame, il sopraggiungere dell’inverno. Mentre lei combatteva la sua guerra personale, armata di sete e parole cortesi, fuori dalle mura della Fortezza Rossa c’era chi uccideva per un pezzo di pane, per proteggere il suo piccolo orto o la sua borsa da viaggio. Sansa gettò un’occhiata preoccupata al fagotto che conteneva il piccolo tesoro trafugato dalla vecchia prigione. Chissà se anche il Mastino aveva dovuto combattere simili vili battaglie... Aveva sempre immaginato che si fosse aggregato a qualche compagnia di mercenari o che avesse trovato un nuovo lord al quale offrire la sua spada; era la prima volta che si rendeva conto di non sapere nulla di ciò che gli era accaduto dalla notte della loro separazione. Sapeva solo che era vivo e che gli dei avevano ascoltato le sue preghiere, almeno in parte.
«Persa?», insistette, decisa a spezzare il silenzio di quel viaggio, ma esitò prima di proseguire. Aveva quasi paura a concludere la sua domanda, conscia dei sottintesi che implicava. Si sarebbe offeso? «O rubata?»
Le bastò pronunciare quella parola, perché le suonasse stupida. Non riusciva davvero ad immaginare il Mastino sopraffatto da qualcuno. Lo aveva visto battersi alla pari con suo fratello, Ser Gregor: un uomo tanto forte e sprezzante del pericolo non si sarebbe mai fatto battere da qualcuno meno valoroso di un vero eroe. Uno di quelli delle sue canzoni. Uno di quelli che non esistevano.
«Che importanza ha?» Nascosto dietro alla cortina di capelli neri riversi sulla metà devastata del suo viso, riusciva impossibile definire lo stato d’animo dell’uomo. Sansa attese che lui proseguisse, che le svelasse qualche dettaglio sulle sue avventure. Non era stata sorpresa di scoprire che lui fosse a conoscenza del suo matrimonio: immaginava che i Lannister avrebbero divulgato il più possibile la notizia, in modo da rendere note e incontrastabili le loro pretese su Grande Inverno.
Tutto ciò la faceva sentire vulnerabile, come nuda di fronte a un pubblico nascosto. Nuda di fronte a lui, celato dietro alla sua armatura e al muro dei suoi pensieri segreti.
Perché non mi racconta nulla di sé?
Sentì le gote andare in fiamme quando lui si voltò a guardarla, sorprendendola in immobile contemplazione, chissà con quale sciocca espressione di delusione sul viso.
«Vieni qui e soffia sul fuoco, invece di startene con le mani in mano», le ringhiò contro, facendola balzare in piedi, il cuore a mille per la paura. No, non paura: aveva smesso di incuterle spavento, eppure non poteva fare a meno di sentirsi stupida, quando si confrontava con lui. Non capiva nemmeno per quale motivo avrebbe dovuto preoccuparsene: alla Fortezza aveva basato la sua sopravvivenza sulla speranza che gli altri la reputassero stupida e sprovveduta; ma quello era un gioco di menzogne. Clegane le aveva sempre offerto la verità. Con lui giocava a carte scoperte.
I cani fiutano la menzogna.
Nel giocare il gioco della verità, non sopportava che lui la considerasse poco più di una bambina inetta.
Si chinò sulla legna, il viso a pochi centimetri dalle mani dell’uomo intente a sfregare il rametto.
Il Mastino aveva paura di avvicinarsi troppo al fuoco?
Che sciocchezza, rifletté mentre soffiava delicatamente sulla legna per alimentare la fiamma, stringendosi inutilmente nel proprio mantello bagnato.
Le parve di vedere le mani dell’uomo esitare, poi riprendere il lavoro con maggiore lena.
A pochi metri da loro, oltre il riparo offerto dalla roccia, una leggera pioggia continuava a battere nel bosco, sprigionando dal terreno profumi che Sansa credeva di aver dimenticato nel corso della sua cattività. Il parco degli dei di Grande Inverno aveva il medesimo odore, eppure, ogni volta che tentava di ricordarlo, le era impossibile scinderlo da quello di suo padre. Era lieta che quel bosco fosse così freddo, così distante dalle sorgenti termali della sua casa. Aveva quasi paura di rievocare l’immagine del Lord di Grande Inverno, di confonderlo, nelle sue fantasie, con la sagoma in ombra dell’uomo che la scortava.
Un altro pensiero stupido: Sandor Clegane e Ned Stark non avevano nulla in comune.
Sono entrambi assassini. Ma, stavolta, era la voce del Mastino che riecheggiava nella sua memoria, deridendo la sacra memoria di suo padre.
«Io… non ti ho ancora ringraziato». Lo osservava dal basso, scostandosi nervosamente dalla fronte le ciocche bagnate e le gocce di pioggia che le rotolavano sulle lunghe ciglia. «Non dimentico tutto quello che hai fatto per me. Non ho dimenticato nulla».
Lui taceva ancora, chino sul suo lavoro. La metà deforme del suo viso appariva immobile, nascosta dietro i lunghi capelli neri. Avrebbe voluto scostarli, costringerlo a voltarsi.
Sperava che accettasse i suoi ringraziamenti, o che le rivolgesse una delle solite battute ciniche e pungenti; invece, aveva l’impressione che le proprie parole si infrangessero contro una barriera di indifferenza che non era abituata ad affrontare. Sin dalla sua infanzia era stata abituata ad essere lusingata; ad Approdo del Re aveva dovuto confrontarsi quotidianamente con lo scherno e l’offesa. Non aveva idea di cosa volesse dire sentirsi invisibile.
Guardami, si sorprese a pensare.
Improvvisamente, la stoppa prese fuoco, facendola ritrarre dalla sorpresa. Sandor Clegane rimase saldo nella sua posizione, intento ad armeggiare con la legna per non far spegnere la fiamma.
Con un breve sospiro, Sansa si inginocchiò accanto al piccolo falò, allungando le mani per verso le piccole lingue rosse che salivano verso il soffitto roccioso e ricomponendo i frammenti del proprio orgoglio ferito. Poi, inaspettatamente, lui parlò.
«Era a quello che pensavi, durante la tua prima notte col nano? Ti davi della stupida per non aver accettato quando ne avevi la possibilità? Non ero l’eroe da ballata che ti aspettavi, vero?», raschiò nell’ombra.
Sansa si voltò di scatto a fissarlo, incredula. Rigida, a disagio, distolse lo sguardo da lui come se non ne sopportasse la vista.
Alla fine era andato dritto al punto, senza le sciocche e codarde deviazioni che avrebbe intrapreso lei, senza un velo della cortesia con cui lei le avrebbe accompagnate. Senza alcun tatto.
Provava una sciocca vergogna al pensiero di quella che sarebbe dovuta essere la sua prima notte di nozze. Non avrebbe dovuto. Non era più una bambina. Cersei Lannister le aveva spiegato chiaramente quanto sarebbe stato saggio, per lei, acquisire dimestichezza con le battaglie combattute tra le coltri; invece non riusciva neanche a sostenere lo sguardo del Mastino, a quell’insinuazione, neppure per smentirla. Rossa in viso, si strinse nelle braccia. «No. Non è quello che…»
«Preferivi quel tuo cazzo di giullare della canzone? Be’, bell’eroe che hai avuto, alla fine», la derise, riuscendo, come sempre, a ferirla con la semplice verità. Aveva rifiutato il suo aiuto; in cambio aveva ricevuto un mantello Lannister sulle sue spalle ancora gravate dal lutto.
Non era a lui che aveva pensato, nel ritrovarsi nel talamo con Tyrion Lannister, ma poteva forse negare di essersi pentita più volte di non essere fuggita con lui? Non poteva negarlo a se stessa e non lo avrebbe negato con lui; eppure ancora non riusciva a rispondere a quella brutale accusa.
Perché è sempre così pieno di risentimento?
Perché tornare per lei, solo per rinfacciarle il suo errore? Era per cancellare la macchia di quel rifiuto che la stava aiutando, forse?
Che stupida che era a sentirsi ferita solo all’idea che potesse essere questa, la soluzione! Cosa sarebbe cambiato, per lei? In un modo o nell’altro, era lontana da Approdo del Re. Con un po’ di fortuna, sarebbe stata da uno dei suoi zii al più presto, se fossero riusciti a evitare gli eserciti in guerra e i numerosi briganti e disertori. Il Mastino avrebbe avuto la sua ricompensa morale ed economica e lei sarebbe stata libera. Un giusto compromesso per entrambi.
Allora perché si sentiva così frustrata da quel muro di… cos’era? Disprezzo?
«Non sei diversa da come ti avevo lasciata. Di’, l’hai imparata subito la canzone dei Lannister, vero, uccellino? Che storie ti raccontavi, al buio, mentre aprivi le gambe a quel… Guardami, mentre ti parlo!», urlò oltre le fiamme.
«No! Tu, guardami!»
Sentiva le guance andarle in fiamme, ma non a causa del calore del fuoco.
Non sapeva neanche come quelle parole le fossero affiorate alle labbra, che ora tremavano di rabbia e di vergogna. Quale lady avrebbe mai osato gridare la sua rabbia all’eroe che l’aveva salvata? Aveva tanto sognato di crescere bella e cortese come le fanciulle delle leggende, e, invece, la sua vita sembrava somigliare sempre più a una ballata suonata da uno strumento scordato. Sua madre non si sarebbe mai comportata in quel modo avventato: quello era un atteggiamento che aveva sempre biasimato in Arya. Eppure, nel profondo, vi era qualcosa di spaventosamente liberatorio in quel grido. Lady, il suo metalupo, era stata sempre docile e silenziosa. Forse, si chiese, sarebbe stata ancora viva se avesse avuto un’indole più aggressiva? Forse avrebbe potuto rivoltarsi contro i suoi carcerieri, fuggire via.
No, devo smetterla. Non si può cambiare il passato. È stata tutta colpa di… di Joffrey. È stata colpa di Joffrey.
Il Mastino sembrava aver obbedito al suo ordine. La metà del viso risparmiata dal fuoco sembrava distorta dalla meraviglia, mentre i suoi occhi grigi indugiavano per la prima volta sul suo volto pallido.
Non ricordava di essere mai stata tanto maleducata e imperiosa con qualcuno: probabilmente la convivenza con Cersei Lannister aveva dato i suoi frutti amari, o forse era proprio lui a influenzarla con le sue cattive maniere. Un tempo avrebbe pianto, tanto i suoi nervi erano tesi, ma Sansa non aveva più lacrime da sprecare; solo un fiume di parole che attendeva da tempo di rompere gli argini. «Sei tu che non vuoi guardarmi. Da quando siamo fuggiti, sei stato bene attento a non posare lo sguardo su di me… a non rivolgermi quasi la parola. E quasi lo preferisco, se le uniche cose che hai da dirmi sono queste crudeltà.
Vuoi sapere se mi sono pentita di non averti seguito? Sì, l’ho fatto. Ogni giorno dopo la sconfitta di Stannis, ogni ora dopo essere stata costretta a quel matrimonio». Il suo tono si ammorbidì, mentre la sua voce tremava al solo pronunciare quella parola. «Ne ho pagato ogni conseguenza sulla mia pelle. Sei stato…». Si interruppe. Ogni gentilezza che aveva pensato di confessargli morì sulle sue labbra mentre lo osservava, attraverso le fiamme, voltare di nuovo la testa per evitare di guardarla.
«Avevi detto che un mastino mi avrebbe guardata dritta negli occhi, che non mi avrebbe mai mentito… Allora dimmi perché sei tornato, se non sopporti neanche la mia vista».
La pioggia aveva ricominciato a battere con violenza sul terreno circostante. Il destriero del Mastino scalpitava, alle spalle del suo padrone silenzioso, nonostante fosse anch’esso al riparo dalle intemperie. Di tanto in tanto, qualche goccia rimbalzava sulle rocce e si infrangeva sfrigolando sulle pietre che custodivano il loro fuoco, ma non vi era pericolo che la pioggia potesse spegnerlo. Ciò nonostante, Clegane si alzò senza aggiungere una sola parola e raggiunse la sella di Straniero. Armeggiò qualche minuto con le fibbie, finché non l’ebbe slacciata, e la sistemò accanto al fuoco. Sansa lo guardò posizionarla diritta, appoggiata a una bisaccia piena, in modo da non permetterle di cadere. Come paravento improvvisato, sembrava essere abbastanza funzionale.
Sansa rimase a fissare l’ampia schiena del Mastino, in attesa di una risposta.
Quando questa giunse, non era quella che si era aspettata.
«Avrei dovuto lasciare che ti uccidessero durante la sommossa del pane».

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