Zodiak di SagaFrirry (/viewuser.php?uid=819857)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***
Capitolo 1 *** intro ***
Siete
mai caduti in basso? Vi siete mai ritrovati schiacciati da un peso
così grande
da dover sprofondare in ginocchio, incapaci di rialzarvi? Avete mai
provato la
sensazione orribile di essere spenti, vuoti, dimenticati, sperduti?
Quell’oppressione che ti fa riflettere su ciò che
sei stato, su ciò che sarai e
sul perché trovarsi in quel luogo in quel momento, la
conosco bene. Io mi
chiamo Antares ed ero una stella. E non una stella del cinema o della
musica,
ma una stella vera, la stella più luminosa della
costellazione dello Scorpione.
Ed ora? Ora sono un semplice essere umano, depredato di ogni cosa e
senza più
luce. Dalle stelle alle stalle…ma qui non ci sono stalle,
solo nuda terra.
Guardando il cielo, mi accorgo dell’assenza mia e dei miei
compagni. Come mai
nessun Uomo si è accorto della mia, della nostra, scomparsa?
Risposta semplice:
dalla maggior parte dei luoghi della Terra è
pressoché impossibile guardare le
stelle. Perché? Inquinamento luminoso. Fra fari, lampadine,
lampioni ed abbaglianti,
il cielo è decisamente difficile da notare. Inoltre, la
popolazione terrestre
ha sempre meno voglia di alzare gli occhi al cielo, impegnata
com’è a guardare
se stessa e le scemenze artificiali che la circondano. Altrimenti come
non
potrebbe accorgersi dello scempio avvenuto nella volta celeste? E come
non
accorgersi del respiro affannato che percepisco fare alla Terra? I
pochi che
ancora ricercano lo spettacolo delle costellazioni, e possono
permettersi il
lusso di vivere in un luogo in cui la notte si mostra per quello che
dovrebbe
essere, verrebbero presi per pazzi se dicessero che alcune di noi,
stelle
fisse, non ci sono più. Oppure, essendo del tutto ignoranti
in materia, non
notano la differenza fra i “puntini bianchi” che
han sopra la testa. Ed i ricercatori
spaziali? Gli astronomi? Troppo concentrati sulla ricerca di nuovi
pianeti da
rovinare, immagino.
Chissà
che cosa mi accadrà ora… So solo che mi devo
alzare da qui, nonostante sia
ancora dolorante e stordito dalla caduta e dalla battaglia precedente,
e
cercare i miei compagni. Devo staccare il mio corpo da questa terra,
martoriata
dai solchi provocati da un’eccessiva scarsità di
pioggia, e far sì che noi,
dodici stelle cadute, possiamo ritrovarci. Non sarà di certo
un piccolo pianeta
come questo a tenerci lontani! Siamo abituati
all’immensità dell’universo!
Spero di riuscire a mantenere una certa dose di ottimismo ed energia
perché
questa è una questione di massima importanza. Le stelle
dovranno tornare in
cielo prima dell’avvento dell’Era
dell’Acquario. Attualmente, il giorno
dell’equinozio di primavera, il sole sorge in un punto
preciso, ad est fra i
Pesci e l’Acquario. Ogni anno, per effetto di un movimento
impercettibile
chiamato “precessione”, questo punto si sposta
leggermente in direzione dell’Acquario.
Fra pochissimo, meno di due anni, vi sarà il
“passaggio di consegne” fra questi
due segni. Terminerà l’Era dei Pesci ed
inizierà quella dell’Acquario. Meno di
due anni…un’inezia, se si pensa che ogni Era dura
2160 anni! Il giorno in cui
questo “passaggio di consegne” avverrà,
non potranno mancare nelle loro case le
stelle rappresentanti i due segni coinvolti. Perché? Per lo
stesso motivo per
cui si dà una corona, uno scettro, una fascia tricolore, o
qualsiasi altro
segno distintivo a qualcuno. Perché serve un ordine, una
gerarchia, un capo.
Serve qualcuno che faccia girare la ruota del cielo nel modo corretto e
che
abbia un potere leggermente superiore rispetto agli altri. Serve che
l’Acquario
dia una spinta a questa ruota, impedendole di fermarsi una volta
esaurita la
carica datele dai Pesci all’inizio della sua Era. Se
ciò non dovesse avvenire,
l’immobilità assoluta regnerebbe nei cieli.
Facendo un esempio banale, il Mondo
non ruoterebbe più. Niente stagioni, niente anni, niente
giorno e notte… Non
credo possa essere una bella situazione! Per questo, è una
questione di massima
importanza che ora mi alzi e vada alla ricerca dei miei compagni. Mi
chiedo
come potrò ritrovarli. L’unica cosa rimasta del
mio ruolo e del mio potere è un
tatuaggio, solamente un tatuaggio! Uno Scorpione sulla spalla destra,
con ogni
stella in evidenza, ed io, Antares, la più luminosa, sono
una gemma di topazio
incastonata nella pelle nuda. Solo questo mi è rimasto. Ora
il peso della
gravità mi schiaccia, le domande mi perseguitano e,
soprattutto, presto
sperimenterò tutti i problemi relativi all’essere
mortale, come la fame o il
freddo. Spero che i miei compagni non siano lontani. E spero che a
nessuno di
loro sia successo qualcosa di irreparabile. Non ho nemmeno idea su dove
io sia
esattamente caduto…come farò a trovare gli
altri?! Ma, suvvia, non dovrebbe
essere così difficile! Mi basterà concentrarmi e
li troverò! Chiudendo gli
occhi, ancora sento tutte le loro voci e riesco a vederli, splendenti
nel buio
dell’infinito… Mi chiedo se anche il nostro capo
ha subito la stessa sorte. Se
è caduto, si è spento, ha perso ogni potere e
forza, oppure se è ancora in
cielo, unico posto in cui dovrebbe risiedere.
Avere
un corpo fisico è orribile. Mi fa male tutto…ma
devo resistere ed alzarmi!
Prima, però, credo sia meglio riordinarmi un po’
le idee riguardo gli
accadimenti che han portato alla nostra caduta e sconfitta…
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Capitolo 2 *** 1 ***
II
L’immenso
palazzo sorgeva al centro dell’Universo. Sospeso nel vuoto
cosmico, riluceva
come una stella. Il lato ovest ed il lato est non avevano punti di
incontro, se
non uno stretto corridoio centrale, lucido, terminante con un
terrazzino
semicircolare che dava sullo spazio tempestato di infiniti punti
brillanti.
L’intero edificio si ergeva su due piani, provvisti sulle due
facciate opposte
di aree aperte affacciate sull’immensità. Una
coppia di torri gemelle si
innalzava agli antipodi della struttura, una ad est ed una ad ovest.
Altissime,
terminavano ognuna con un ripido tetto spiovente sormontato da una
lunga asta.
Questa, una sorta di freccia dorata, faceva da perno ad un disco
movente con
sopra incisi i simboli appartenenti agli abitanti di quel luogo.
Kosmos,
il padrone e regnante del lato ovest, era una delle creature
più belle e
potenti dell’Universo, e ne era perfettamente consapevole.
Seduto, con le gambe
allungate sul tavolo, guardava fuori dalle finestre ad arco che
circondavano la
torre occidentale. Raramente vi scendeva, non ne aveva bisogno. Aveva
tutto
sotto controllo. I suoi occhi, scintillanti di punti
d’argento, scrutavano il
nero dello spazio infinito. Solo di sfuggita notò la torre
orientale e vide la
sua occupante, Kuruma, che si era affacciata per sospirare alle stelle.
Kosmos
non ci badò più di tanto. Scostò un
ciuffo di lunghi capelli blu dal viso
pallido. Erano mossi e ribelli, ingabbiati in un singolare sistema di
spuntoni
di vari colori, che sfioravano il volto e le labbra color oltremare del
loro
padrone. Quella sorta di armatura, le cui propaggini sottili
d’argento
ricoprivano parte del viso di Kosmos e una notevole area del suo corpo,
lo
aiutava a mantenere sempre sotto controllo il suo potere, anche se lui
era
fermamente convinto di non averne bisogno. Sul capo indossava una
specie di
corona composta da due cerchi dorati, tenuti assieme da sottili fili
dello
stesso colore, ed un altro ornamento, sempre d’oro, ma ricco
di eleganti
riccioli. Sferette d’argento contornavano le sottili
sopracciglia, il mento ed
il petto di quella creatura e portava due spessi anelli alle orecchie,
che erano
a punta ed in parte coperte dai capelli. Sbatté le palpebre,
mentre vide
crearsi un buco nero a migliaia di anni luce. Quegli occhi, azzurri,
erano
contornati di rosso, a formare un disegno simile ad una maschera o ad
un fiore.
Pure lui, come la torre in cui viveva, portava un’asta
d’argento, con dettagli
rossi e turchese, che fungeva da perno e da freccia sul disco che lo
sovrastava. Simile ad una grossa aureola, era diviso in dodici spicchi
regolari
di colore diverso. Rappresentava i dodici segni zodiacali e ne portava
i
simboli, gli stessi incisi sul disco che sormontava la torre
d’ovest. In quel
momento, la freccia di entrambi puntava sul segno dello scorpione ma
già
lentamente si muoveva verso il segno successivo, il sagittario. Kosmos
portava
al collo un disco più piccolo, con gli stessi segni degli
altri, con la freccia
ormai prossima ed entrare nel quadrante dell’acquario, stando
sul bordo dei
pesci. Aveva un moto molto più lento. Ci metteva circa 2160
anni per passare da
un simbolo all’altro mentre agli altri due congegni bastavano
circa trenta
giorni. Il padrone della torre si alzò, dopo aver riposto
uno delle migliaia di
libri contenuti in quel luogo, e si affacciò ad una delle
finestre, fra una
colonna ed un’altra. Guardò in alto,
distrattamente, e la sua sagoma si notò
chiaramente dalla torre orientale.
Kuruma,
affacciata a sua volta, puntò gli occhi verso ovest. Kosmos
non la degnò di uno
sguardo con quei suadenti occhi azzurri. Lei si morse il labbro
inferiore,
infastidita da come il suo “coinquilino” riuscisse
sempre ad ignorarla. Si
voltò e si allontanò dalla vista esterna.
Tentò di rilassarsi sfogliando
distrattamente un libro. Quei volumi, come tutti quelli
dell’edificio,
provenivano da varie parti dell’Universo. Erano di tutti i
generi, di ogni
scrittura e grandezza. Particolari creature, chiamate dai loro padroni
col nome
di “procacciatori”, volavano per i pianeti e ne
portavano sempre di nuovi agli
abitanti del palazzo. Kuruma e Kosmos ne avevano uno ciascuno di questi
“procacciatori” e, in quel momento, erano entrambi
in cerca di nuove pagine
scritte. Oltre a leggere, sulle torri si dipingeva, si cantava, si
suonava ma,
principalmente, si controllava ogni singolo movimento di ciascun corpo
celeste,
attenti a non farne andare nessuno fuori posto. E si creavano stelle,
pianeti,
buchi neri, galassie e comete. Kuruma quel giorno non era
dell’umore adatto per
fare nulla di tutto questo. Tornò a girare il capo verso
l’esterno. La sagoma
di Kosmos era ancora lì. A lei venne spontaneo chiedersi se
il suo dannato
vicino lo facesse apposta ad irritarla. Si sentì spiata e si
voltò di scatto.
Fu tentata di aprire la porta scorrevole che la divideva dalle scale,
ma
preferì sospirare e distendersi sul letto, in cerca di
ispirazione.
L’architettura
e l’arredamento delle due torri erano molto diversi. Quella
occidentale era in
pietra grigia, con i sassi in vista. Aveva finestre ad arco,
sottolineate da
delle colonne, e mobili in legno scuro, con tavoli e sedie alti e
riccamente
decorati, incisi. Kosmos sedeva sempre su una sedia a dondolo di legno
massiccio, color blu scuro, realizzata con materiali provenienti da un
pianeta
lontano, ovviamente dello stesso colore. Una massiccia porta
scricchiolante
separava la sala della torre dalle scale, che conducevano ai piani
inferiori.
Il letto della parte occidentale aveva un alto baldacchino con un
pesante
tendaggio scuro, con su ricamati dettagli in argento e perle lucenti.
Sparsi un
po’ qua e là, i fogli scritti e scarabocchiati dal
proprietario frusciavano sotto
i piedi. Alle pareti vi erano dei ritratti e delle immagini realizzate
da un
paio dei coinquilini occidentali. Tappeti di varia fattura coprivano in
parte
il pavimento nero. Il soffitto era affrescato e svettante verso la
punta in
cima al tetto. Le tende cupe erano sorrette da grossi anelli lucenti e
regolari. Un grosso specchio ovale, decorato ed eccessivamente
riccioluto,
stava sopra ad un piccolo armadio d’ebano contenente tutto il
necessario per la
maniacale cura che Kosmos riservava ai suoi capelli. C’era
una stupenda
vetrata, rappresentante lo zodiaco e le sue stelle, a dividere il
piccolo
spazio che la torre riservava alla doccia per il suo padrone,
semitrasparente e
piuttosto esibizionistica. In un altro armadio, arcuato e alto fino a
quasi il
soffitto, erano riposti i ricchi abiti ed i molti accessori di Kosmos,
assieme
a vari strumenti musicali e riproduttori audio di vario genere. Non
c’erano
lampadari ma solo qualche piccola candela, inutile perché
era la pelle del
padrone di casa ad illuminare l’ambiente senza sforzo.
Nessuno degli abitanti
di quel luogo necessitava cibi o bevande, e quindi non era presente la
cucina o
alcun luogo adibito agli alimenti.
La
torre orientale era più chiara, con un’elegante
carta da parati color pastello.
Una porta scorrevole, leggera e circondata di listelli in legno crema e
carta
velina, la divideva dal resto dell’edificio. Sul soffitto
erano appese piccole
lanterne rosse. I mobili erano tutti bassi, dai colori tenui. I vari
libri
erano riposti su mensole sospese, coperte in parte da tende leggere.
Numerosi
vasi dipinti decoravano la sala, assieme a disegni, miniature e puzzle,
che Kuruma
stessa aveva realizzato, o altri abitanti del lato orientale. Il letto
era
basso, semplice, con un elegante tendaggio colorato appeso al soffitto.
Il
pavimento era in legno lucido ed un bello specchio tondo stava accanto
ad una
delle finestre rettangolari, sopra un mobiletto pieno di creme, oli
profumati e
tutto l’occorrente per la cura della persona. Accanto al
letto stava un piccolo
telaio su cui la signora realizzava vari lavori, che poi donava ai suoi
colleghi orientali o indossava lei stessa. Alle pareti, oltre alle
pitture, si
potevano notare delle affascinanti spade dalla lama sottile, regalo
dell’abitante
orientale che le realizzava. In piedi sulle alte scarpe in legno,
Kuruma si
guardò allo specchio. Aveva piccole labbra, dipinte di nero,
la pelle quasi
bianca e grandi occhi rosso fuoco con puntine dorate, fin troppo spesso
accigliati. I capelli neri, dritti e lunghi, li portava semiraccolti in
una
crocchia. Due grandi orecchini, simili a dei soli, le pendevano dalle
orecchie,
avvolte dai capelli corvini. Un velo scuro e rilucente le ricadeva fino
a metà
della schiena. Attorno
al suo sguardo e
sul viso aveva decisi disegni blu e anche lei, come Kosmos, conteneva
il suo
potere con una specie di armatura, perlopiù fatta
d’anelli d’oro. Fra le mani
stringeva un ventaglio color argento, di metallo, con un lungo nastro
sul
manico e piccoli anelli lungo l’arco d’apertura. Ne
aveva cinque: uno verde,
uno rosso, uno marrone, uno blu e, appunto, uno argento. Legno, fuoco,
terra,
acqua e metallo, ovvero i cinque elementi legati
all’astrologia che governava.
Sul capo portava anche lei una piccola corona terminante con un diadema
centrale
luminosissimo e l’armatura andava a formarle due strane corna
dietro la nuca,
protese verso il cielo. Pure lei, come l’abitante del lato
occidentale, aveva
una lunga freccia ed un disco movente che la sovrastava. Sopra di esso
erano
incisi dodici simboli e, al momento, era fermo
sull’ideogramma “Tù”, la
lepre.
A differenza di Kosmos, lei non portava lo stesso disco anche al collo.
Kuruma
sospirò. Il suo disco ci metteva circa 348 giorni per
passare da un simbolo ad
un altro e, in quella circostanza, a lei parve così noioso
ed inutile starlo ad
osservare. Vide che il suo collega occidentale si stava ancora
affacciando.
Forse poteva provare a parlargli… annoiarsi, avendo avanti a
sé l’infinito e
l’eternità, è altamente sconsigliabile.
“Kosmos!”
lo chiamò, con voce decisa, sporgendosi leggermente dalla
finestra.
“Kuruma…”
rispose lui, facendo solo un lieve cenno con la testa.
“Posso
parlarti?” riprese lei, decisa come non mai a riempirsi la
giornata.
“Non
lo stai già facendo?” borbottò Kosmos,
come infastidito.
“No…io
intendevo lungo il corridoio, o sul terrazzino…”.
“Che
cosa vuoi?”.
“Niente
di particolare…solo passare un po’ il
tempo…”.
Kosmos
sospirò, come se spostarsi dalla torre gli costasse
un’enorme fatica, ed annuì.
“Veramente io il tempo lo passo benissimo, anche senza il tuo
aiuto” mormorò a
bassa voce, storcendo la bocca, e si avviò verso la porta
che dava sulle scale.
Il
corridoio centrale in comune fra est e ovest era collegato direttamente
alle
torri tramite una ripida scalinata in pietra. Altri due accessi erano
raggiungibili, sempre tramite una scala, dai saloni del piano terra e
del primo
piano. Kosmos scese i gradini con indicibile lentezza, e piedi scalzi,
con i
capelli spettinati e gli abiti stropicciati di chi avrebbe voluto fare
di
tutto, tranne che alzarsi dal letto. Fra le mani stringeva un lungo
bastone
d’argento, da cui non si separava mai, terminante con una
curiosa forma
attorcigliata. Trascinando dietro di sé un lungo mantello
nero, aprì la pesante
porta e si affacciò sul corridoio lucido, sormontato da una
cupola trasparente.
Ad attenderlo, con aria lievemente spazientita, stava Kuruma. Era
vestita di
rosso con decori luminosi, in un abito di seta piuttosto aderente, con
il
colletto ed un generoso spacco. Un manto d’oro copriva parte
dell’armatura.
Elegantissima, chiuse il ventaglio e fece cenno al collega di seguirla
sul
terrazzino. Kosmos non aprì bocca e la seguì,
lentamente.
“Allora,
Kosmos, come stai?” iniziò lei, appoggiandosi al
balcone.
“Come
sempre. Come altro dovrei stare?” rispose lui, con tono
neutro.
“Io
sono un po’…stanca, ultimamente”
continuò Kuruma, guardando le stelle.
“Ed
io invece sto benissimo” ghignò Kosmos, lasciando
intendere che della sua
collega poco gli importava.
“Sono
stanca e sai perché? Perché mi sento poco
importante. Intendo dire…fra poco
inizierà la famosa Era dell’Acquario, ma non
avrà niente a che fare con me e
con i miei dodici segni”.
“E
allora? Che vuoi farci…è la vita!”.
“Allora
mi chiedevo: dato che per miliardi e miliardi di anni il potere delle
Ere è
stato in mano tua, perché, per una volta, non lasci che sia
io a controllarlo
questo potere? Dopotutto, si tratta di soli 2160 anni…cosa
vuoi che sia?!”.
“Scherzi,
Kuruma?” scoppiò a ridere Kosmos “Lo sai
che la cosa non è possibile e, anche
se lo fosse, non darei mai quel potere a te!”.
“Perché
non è possibile? Nessuno te lo vieta! E perché
non lo faresti? Perché non mi
daresti quel potere?”.
“Perché
è evidente che non saresti all’altezza, piccolina.
Non saresti in grado di
gestirlo. Io sono molto più potente di te”.
“Ed
arrogante!”.
“Dico
solo quello che penso…”.
“Beh,
fammi provare! Solo qualche anno! Se fallisco, ti ridarò
subito il comando”.
“Non
se ne parla!”.
“E
dai!! Mancano meno di due anni e non mostri nemmeno un pizzico di
emozione o di
ansia, non te ne frega niente!”.
“Capirai!
Sai quanti cambi di Ere ho vissuto fin ora? Quanti cambi di Ere ho
vissuto?”.
“Gli
stessi che ho vissuto io, genio. Ti rammento che siamo apparsi nello
stesso
istante…”.
“Appunto.
È sempre la stessa menata. Sempre la stessa
routine”.
“Cambiamola!
Fai provare me!”.
“Senti,
bella, occupati degli anni e delle tue bestioline, che io penso alle
Ere e ai
mesi, intesi?”.
La
voce di Kosmos era divertita, ironica, strafottente.
“Io
non credo che tu sia più forte di me…”
mormorò lei.
“Smettila
di farti strane idee e torna in te. Rilassati…ad ognuno il
suo destino!”.
“E
se io ti dimostrassi che sono più forte di te? Se ci
riuscissi, mi lasceresti
al comando di un’Era? Una soltanto! Se
io…”.
“Non
potrai mai dimostrarmi di essere più forte di me
perché non lo sei, rassegnati!
Torna dai tuoi animaletti a giocare e lascia fare i lavori importanti a
chi li
sa fare!”.
“Ti
odio” sibilò Kuruma, incrociando le braccia e
lanciando un’occhiataccia da far
rabbrividire.
“Lo
so che non è vero!” le sorrise Kosmos, lasciando
la terrazza e tornando alla
sua torre.
Rukbat
si svegliò di colpo. Un altro incubo. Nonostante tutti i
suoi libri e gli studi
da lui compiuti, ancora non riusciva a capirne il significato.
Sicuramente
erano il presagio di qualcosa di terribile, di negativo, nel futuro. O
forse
no? Scosse la testa. Non poteva farsi influenzare da simili scemenze!
Non
riuscendo a prendere di nuovo sonno, decise di alzarsi.
Sbatté i luminosissimi
occhi d’argento in cerca di qualcosa di interessante da
leggere. Fu quasi
tentato di andar a raggiungere il suo capo, Kosmos, chiedendogli
qualche volume
nuovo, ma lasciò perdere. Appassionato di storia e
mitologia, aprì un grosso
volume cremisi e si stese sul letto. La specie di criniera nera che
portava in
testa era solo leggermente spettinata. Sentì bussare alla
porta.
“Rukbat,
sei sveglio?” parlò una voce maschile.
“Sì,
entra pure” rispose, con tono profondo.
Entrò
Al Risha, rappresentante della costellazione dei Pesci.
“Ciao,
Sagittario” salutò, stiracchiandosi leggermente e
sorridendo “Ti scoccia se ti
chiedo di passare un po’ di tempo con me?”.
“No,
per niente. Qualcosa non va?”.
“Tutto
ok. Sentito il capo, prima?”.
“Dormivo.
Che è successo?”.
“Ha
litigato di nuovo con Kuruma, mi pare. Lei era furiosa”.
“Ed
io me lo sono perso, peccato…”.
“Avrai
altre occasioni!”.
I
due si sorrisero. Al Risha aveva grandi occhi azzurri e lunghi capelli
blu
elettrico, dritti e lucenti. Il suo vestito era dello stesso colore,
quasi
accecante.
“Le
ragazze sopra che fanno?” domandò Rukbat, rizzando
le orecchie a punta.
“E
io che ne so?! Potremmo andare su a scoprirlo…”.
“No,
grazie. L’ultima volta che sono salito le ho sentite da Hamal
e Adhafera…ma
soprattutto da Astrea!”.
“Astrea
protesta tanto, ma alla fine è contenta di vederti,
fidati!”.
“Quella
è la donna più complicata che io abbia mai
conosciuto in tutta la mia vita!”.
“Capirai….qui
a palazzo ce ne sono sei!”.
“Intendevo
prima di divenire ciò che sono ora…”.
“I
tempi cambiano, amico mio…”.
Sagittario
si sporse dalla finestra e guardò verso l’alto. La
stanza di Astrea stava
proprio sopra la sua e, a volte, riusciva a scorgerla quando si
affacciava.
“Chi
è sveglio?” domandò, dopo un
po’, Rukbat.
“Credo
Antares…”.
La
reazione a quel nome fu una smorfia da parte del Sagittario. Non
correva buon
sangue fra lui e lo Scorpione Antares.
“Gli
altri credo stiano ancora dormendo…”
continuò Al Risha “…le ragazze non so.
Io
non le spio!”.
“Allora
vado fuori ad esercitarmi un po’” tagliò
corto Rukbat, uscendo dalla finestra.
Pesci
scosse il capo divertito, quando vide il suo collega allontanarsi con
l’arco e
le frecce, da lanciare fra le stelle, fluttuando a mezz’aria.
“Esibizionista…”
commentò Astrea, notando Rukbat nei suoi esercizi.
Sadalmelik,
la coinquilina rappresentante dell’Acquario a cui stava
pettinando i capelli,
le sorrise.
“Guardo
che lo so che ti piace…” ghignò,
facendo arrossire Astrea.
“Ma
che dici?!” si sentì rispondere “Quello
è solo un pomposo egoista troppo
concentrato su se stesso per notare
qualcos’altro…”.
“Però,
se notasse te…”.
“Io
sono la Vergine…anche se fosse, ho un ruolo da rispettare.
Non posso fare certe
cose”.
“Sono
certa che il capo chiuderebbe un occhio…”.
“Cambiamo
argomento?”.
“D’accordo…”
sospirò Sadalmelik, guardandosi allo specchio.
Le
due donne si erano appena alzate e si stavano pettinando a vicenda i
capelli.
Astrea li aveva lunghi e scuri, raccolti in una treccia che le si
appoggiava
sulla veste grigio chiaro che trascinava dietro di sé.
Sadalmelik li aveva
leggermente più corti e di colore verde scuro, mossi e molto
gonfi, in continuo
movimento. Le sfioravano i piedi scalzi, che spuntavano da sotto la
semplice
veste zaffiro. Aveva occhi viola e labbra in tinta con il vestito.
Astrea,
invece, aveva scintillanti occhi dorati e labbra nere, che spiccavano
sulla
pelle solo leggermente abbronzata della Vergine. Quando furono pronte,
uscirono
dalla camera per dirigersi verso il salone assieme alle altre quattro
donne
occupanti il primo piano del lato ovest del palazzo.
Fra
loro e gli occupanti della parte orientale non vi erano quasi mai
contatti.
Nessuna finestra dava sul lato opposto, se non sulle due torri, dove a
loro era
limitato l’accesso. A volte si incontravano lungo il
corridoio centrale o sul
terrazzino in comune, ma piuttosto raramente. Anche perché
fra est ed ovest
preferivano evitarsi, o ignorarsi.
Nel
grande salone del primo piano, quattro donne erano impegnate in varie
attività.
Salutarono Astrea e Sadalmelik, appena entrate, e poi riportarono
l’attenzione
sugli affari propri. C’era Hamal, l’Ariete, vestita
con abiti larghi arancioni,
con due lunghe trecce castano chiaro arrotolate attorno alle orecchie
ed
accigliati occhi nocciola. Teneva la sedia inclinata e i piedi sul
tavolo
circolare. Borbottava sommessamente, affilando il piccolo pugnale da
cui non si
separava mai. Al suo fianco sedeva Acubens, il Cancro. Aveva un viso
giovane,
l’aria distratta, sognante, ed indossava una tunica corta
bianca come il latte.
La sua pettinatura era decisamente singolare: sei trecce di colore
rosso, non
molto lunghe, rassomiglianti a piccole zampette, le circondavano il
capo.
Portava il rossetto dello stesso colore e grandi occhi verde chiaro,
con
riflessi azzurri, distratti e sfuggenti. Stava raccontando i sogni che
aveva
appena fatto a Zubeneschamali, la Bilancia. Lei, con lunghi capelli
bianchi e
lisci ed occhi neri, la ascoltava attentamente e tentava di
interpretarli. Il
suo abito rosa era aderente e con ampie spalline. Sadalmelik ed Astrea
si erano
messe a leggere in silenzio. Adhafera, la rappresentante del Leone, era
all’esterno, spada alla mano, per esercitarsi a combattere.
Non aveva tempo,
diceva, di pettinarsi e di conseguenza i suoi capelli biondi se ne
stavano
disordinati e gonfi attorno alla sua testa, come una criniera. Nel buio
si
vedevano chiaramente i suoi occhi, verde scuro, brillanti e con pupille
sottili
e verticali come quelle dei gatti. Ed il suo abito giallo, aderente e
corto.
“Rukbat!”
chiamò Adhafera “Ti va di fare un po’ di
movimento con me?”.
“La
tua frase è
piuttosto equivoca ma,
dopotutto, non mi dispiace per niente. Accetto volentieri!”
rispose lui,
portando solo dei pantaloni granato con un’ampia cintura
viola scuro, per
favorire i movimenti.
“Mi
bastava un sì…” mormorò
Leone, prima di caricare il suo avversario per allenarsi.
Astrea
guardò entrambi di sfuggita e poi tornò a
concentrarsi sul volume che aveva fra
le mani.
“Sempre
il solito…” commentò Antares, vedendo
Rukbat e Adhafera affrontarsi ridendo.
Anche
lui, Scorpione, era un guerriero ma non si allenava mai con gli altri.
Un po’
perché era una cosa che non gradiva e un po’
perché soffriva di improvvisi
attacchi di rabbia incontrollata che potevano risultare piuttosto
pericolosi
per la salute altrui.
“La
tua è solo invidia” gli disse Mek, il volto di
sinistra del rappresentante dei
Gemelli.
“Taci!”
sibilò Antares, incrociando le braccia.
“Sei
sempre girato di balle…” rispose Buda, il volto di
destra.
Aldebaran,
il Toro, sorrise. Lui era il più calmo del gruppo ed il
più grosso. Con corti
capelli ricci, castani e con due piccoli ciuffi simili a corna, aveva
folte
basette e profondi occhi neri. Vestiva sempre di verde, in varie
tonalità, e
raramente alzava la sua profonda voce. Anche Mekbuda aveva i capelli
corti, per
metà mori e per metà biondi, ed il volto diviso
in due. Sulla sinistra, il lato
biondo, stava Mek, di certo il più irritabile, e sulla
destra vi era Buda,
quello un pochino più diplomatico. I due visi avevano
caratteri diametralmente
opposti. Mek prevaleva quando Gemelli era arrabbiato, triste,
infastidito. Al
contrario, Buda aveva la meglio quando provava sentimenti di gioia,
calma,
pazienza. In quel momento era Mek il più attivo, non si
sapeva bene per quale
motivo, ed i suoi occhi azzurri erano spalancati ed accigliati. Lo
sguardo
castano di Buda, invece, era come assente, socchiuso e silente. Portava
un
abito grigio scuro piuttosto semplice, che in parte celava la sua
doppia
natura, avendo il cappuccio.
“Fatti
gli affari tuoi!” sbottò Antares, con furiosi
occhi rossi.
Vestiva
dello stesso colore, in una sorta di tunica con ampie maniche ricamate.
Aveva
splendidi capelli neri che teneva raccolti in una treccia terminante
con una
specie di bulbo, simile alla coda del segno che rappresentava: lo
Scorpione.
“Non
iniziate a litigare, per favore…” parlò
Aldebaran, senza alzare gli occhi dal
foglio che stava dipingendo, iniziando ad essere un po’
stanco delle continue
risse insensate di Antares.
“Lascia
che litighino. Prima o poi si stufano…”.
A
parlare era stato Deneb Algiedi, detto Dabha, il Capricorno. Sembrava
il più
anziano della compagnia, con lunghissimi capelli grigi che lasciava un
po’
sciolti lungo la schiena ed un po’ raccolti in due trecce
arrotolate simili a
corna. Era leggermente inquietante, vestito interamente di nero, con un
alto
colletto, e gli occhi bianchi. Giocava a carte per conto suo, ignorando
gli
altri cinque colleghi. Al Risha, distratto e sognante come sempre,
guardava il
cielo dove Rukbat e Adhafera si stavano affrontando. Trovava la cosa
divertente
e ridacchiava, reggendosi la testa con le mani, con i gomiti appoggiati
alla
finestra senza vetri.
Kosmos
arrivò fra loro con uno strano sorriso.
“Di
buon umore oggi, Signore?” domandò Antares,
ghignando soddisfatto.
“Discreto
direi. Non mi posso lamentare. E voi? Tutto bene?”.
“Come
sempre, nei secoli dei secoli…” si
lamentò Mek.
“Amen”
ridacchiò Dabha, sottovoce.
“È
il mio ed il vostro scopo. La cosa non
cambierà…” gli rispose Kosmos, con un
tono neutro che non lasciava intendere se fosse ciò che
desiderava oppure no.
Nessuno
disse altro. Tornarono a concentrarsi sulle stelle che controllavano.
Pur
morendo di curiosità, i rappresentanti delle costellazioni
presenti non ebbero
il coraggio di domandare al loro capo che cosa fosse successo
esattamente fra
lui e la Signora del lato Orientale. Dal sorrisetto di Kosmos dedussero
che non
era nulla di irreparabile.
In
realtà Kuruma era furiosa, molto più di quanto
Kosmos fosse in grado di
immaginare. Lei per millenni aveva avuto pazienza ed aveva represso la
rabbia e
la frustrazione, optando per il quieto vivere, ma ora la calma
l’aveva
abbandonata ed era pronta ad esplodere.
“Come
si premette?! Come ha osato?!” sbraitava, continuando a
camminare
incessantemente per la torre d’oriente “Sono
miliardi di anni che me ne sto
buona, in silenzio, senza protestare, abbassando la testa…
Ma ora ha passato il
segno! Non può trattarmi così e prendermi in
giro! Cosa crede che io abbia meno
di lui?! Chi si crede di essere?! Gli farò vedere io!!!
Io…io…”.
“Cosa
succede, mia Signora?” parlò una vocina.
Kuruma
si guardò attorno e vide che a parlare era stata Shu, una
piccola topolina
grigio chiaro con vispi ed enormi occhi rossi.
“Oh,
Shu, sei tu!”.
Lei
sedette e la prese delicatamente fra le mani. La accarezzò e
le riassunse tutta
la conversazione con Kosmos, sforzandosi di non mostrare quanto le
dispiacesse.
“Io
credo, mia Signora…” iniziò Topo
“…che dovremmo dargli una prova tangibile
delle nostre capacità”.
“Hai
qualcosa in mente?”.
“Sì.
Datemi solo il tempo di elaborare per bene il piano”.
“Non
avevo dubbi! Il tuo magnifico cervello è una fonte
inesauribile di idee!
Anticipami qual cosina…”.
“Meglio
di no. Preferirei prima parlarne con qualche mio
collega…”.
“Prendetevi
pure tutto il tempo che vi serve”.
“Ne
verrà fuori un bello scherzo, Madama!”.
“Che
è proprio quello che ci vuole, per quel cretino esaltato,
sensibile come un
pachiderma egocentrico!”.
Shu
la guardò, inclinando la testa con aria interrogativa, e poi
se ne andò, dopo
un inchino. Uscì dalla torre ed attraversò il
corridoio, raggiunse il salone al
piano terra, dove sapeva che stava l’aiuto di cui aveva
bisogno. L’aiuto si
chiamava Hòu, la Scimmia, abilissima con le mani e con il
cervello. Assieme,
non ebbero difficoltà ad elaborare un piano nei dettagli.
Kuruma aveva dato
loro carta bianca: era esattamente il momento che stavano aspettando!
Agirono
non appena notarono che la luce sulla torre ovest non si vedeva, segno
che il
suo proprietario non era in quel luogo oppure dormiva profondamente,
spegnendo
la luminescenza della propria pelle. Hòu
attraversò agilmente la cupola
trasparente che sovrastava il corridoio centrale
dell’edificio e si diresse in
fretta verso la sua meta: la torre occidentale. Vi si
arrampicò velocemente,
fino a raggiungere una delle finestre sulla cima. Entrò, con
Shu saldamente
aggrappata ai peli della sua schiena marrone scuro.
“Fai
piano, amica mia” sussurrò Topo.
“Sarò
silenziosissima!” lo rassicurò Scimmia.
Entrarono
da una finestra e si guardarono attorno, nel buio. Il loro scopo era
sottrarre
a Kosmos qualcosa di prezioso, di cui di certo avrebbe sentito la
mancanza, e
fargli notare quanto facilmente il furto fosse avvenuto. Il tutto per
smorzare
il suo ego smisurato. Non avevano un’idea chiara su quale
oggetto portar via ma
poi lo videro… Il lungo bastone d’argento! Con la
sua strana punta leggermente
attorcigliata, se ne stava là, contro la parete, emanando
solamente un leggero
bagliore. Quello ero il furto perfetto! Sapevano bene che Kosmos non si
separava mai da quell’affare. Scimmia e Topo si fissarono,
costatando con
soddisfazione di aver avuto la stessa idea, e si sorrisero. Con un
cenno del
capo, Hòu lo afferrò fra le mani. Doveva stare
attenta. Se quel coso era lì,
voleva dire che il suo padrone non era lontano. Lo strinse e lo mosse,
leggermente. Questi, inaspettatamente, tintinnò. La punta
ricurva aveva piccoli
anellini dorati su di essa che risuonarono quando furono spostati. La
stanza si
inondò di luce azzurra, segno che il Signore Occidentale si
era svegliato. Hòu
e Shu si consigliarono mentalmente di nascondersi dietro la pesante
tenda che
copriva la finestra da cui erano entrati.
“Speriamo
non ci trovi…” trasmise a Scimmia il Topo.
“Stiamo
immobili…” rispose, sempre mentalmente, Scimmia.
“Chi
c’è? Chi è là?”
sbottò Kosmos, mettendosi a sedere sull’alto letto
e scostando
il tendaggio del baldacchino.
La
sua inconfondibile luce azzurra pulsava, infastidita. Il padrone della
torre si
alzò lentamente, andando verso il bastone. Sembrava tutto in
ordine. Lo prese
fra le mani, osservandolo da vicino, e poi lo ripose. Si guardo
attorno,
circospetto.
“Chi
c’è?” domandò di nuovo e poi
sorrise “Chi vuoi che ci sia, coglione?” si
rimproverò “Hai solo tu accesso a questa
torre!”.
Tornò
a letto, borbottando un “Me lo sarò
immaginato” prima di distendersi. Non era
stanco, non aveva bisogno di dormire, ma gli piaceva sognare. Chiuse
gli occhi
e, lentamente, la sua luce iniziò ad affievolirsi fino a
spegnersi del tutto.
Topo
e Scimmia attesero il ritorno del buio totale per muoversi. Uscirono,
furtive,
dal loro nascondiglio. C’era mancato davvero poco!
Fortunatamente a Kosmos non
era passato nemmeno per la testa di scostare la tenda accanto al
bastone!
Rabbrividirono solo all’idea di che cosa sarebbe successo se
le avesse scoperte!
“Facciamo
in fretta!” squittì Shu.
“In
un baleno!” rispose Hòu, afferrando il bastone per
i cerchietti, impedendogli
di suonare.
Dopodiché
balzò giù dalla finestra, raccomandando Topo di
tenersi forte, atterrò sulla
cupola e tornò alla torre della sua padrona, senza che
nessuno la notasse.
Kuruma
fu entusiasta della loro impresa. Strinse il bastone fra le mani e
sorrise,
soddisfatta.
“Ottimo
lavoro!” disse, orgogliosa.
“Non
è ancora finita, mia Signora!” si
affrettò a spiegare Shu “Quel bastone è
quello che permette al suo proprietario di ricaricare il meccanismo di
rotazione della sua porzione di cielo ed è simbolo del suo
potere. Ma c’è un
altro simbolo che loro possiedono…”.
“Lo
Scettro delle Ere! Quello che ora ha in custodia il controllore dei
Pesci!”
spalancò gli occhi Kuruma.
“Precisamente.
E ora andremo a prendere pure quello. Senza quei simboli, Madama,
dovranno per
forza riconoscerle la degna importanza ed il giusto rispetto”.
La
Signora Orientale continuò a rigirarsi il bastone fra le
mani, mentre Topo e
Scimmia si avviavano verso le stanze di Al Risha. Non aveva alcuna
intenzione
di nasconderlo. Non vedeva l’ora di avere entrambi gli
oggetti fra le mani e
chiamare Kosmos, per sfotterlo un po’.
Quell’esaltato avrebbe dovuto
riconoscere le sue capacità, o sarebbe stato peggio per lui!
“La
casa dei Pesci è al pianterreno, la prima dopo la
torre” spiegò Shu, mentre Hòu
tornava ad attraversare la cupola trasparente, attenta che non vi fosse
nessuno.
Rimpianse
il fatto di non aver abbastanza forza nelle mani, o avrebbero potuto
sottrarre
entrambi gli oggetti in una volta! Controllarono che Acquario, che
aveva la
residenza sopra a quella di Pesci, non fosse presente e ridiscesero,
sfruttando
il suo balcone. Udirono la risata di Al Risha ma non proveniva dalla
sua stanza
bensì da quella accanto, quella di Capricorno. Entrarono
senza problemi e
sottrassero lo scettro, lasciato incustodito, e tornarono in fretta
alla loro
torre.
Kuruma,
con entrambi gli oggetti fra le mani, scoppiò a ridere.
“Splendido
lavoro, saprò come ricompensarvi” disse, rivolta a
Shu e Hòu.
Sempre
ridendo, si affacciò alla finestra. Il suo collega ancora
dormiva. Avrebbe
atteso un po’ prima di svelargli l’accaduto!
“Se
è uno scherzo, è di pessimo gusto!”
tuonò Kosmos, piombando nel salone dove i
maschi della casa stavano seduti.
I
sei si fissarono con aria interrogativa. Antares smise di esercitarsi
con la
lunga spada, Deneb Algiedi ed Aldebaran ignorarono i rispettivi lavori
di
pittura che stavano realizzando, Rukbat depose il libro che stava
leggendo,
Mekbuda smise di insultarsi da solo e Al Risha scese dalle nuvole,
smettendo di
guardare fuori dalla finestra in cerca di chissà che cosa.
“Chi
di voi sei piccoli stronzi cerca di farmi fesso?”
ringhiò di nuovo Kosmos, con
un’inquietante luce rossastra negli occhi.
“Piccoli
stronzi?!” sibilò Antares, non nascondendo di
essersi irritato nel sentirsi
definire così.
“Cosa
è successo?” parlò Aldebaran, tentando
di riportare la calma.
“La
Chiave!” urlò Kosmos
“Dov’è la chiave della porta del
cielo?!”.
“Vi
riferite a quella specie di cavatappi gigante che vi portate sempre
dietro?”
domandò Rukbat.
“Proprio
quello. Dove sta?”.
“Perché
dovremmo averlo noi? Che ce ne facciamo?” sbottò
Antares.
“In
effetti…” mormorò Al Risha.
“Qui
non c’è, Signore. Avete provato fra le
ragazze?” propose Buda “Loro sono più
infime di quanto possiate pensare!” concluse Mek.
“Prima
voglio essere certo che non sia stato uno di voi a prenderlo. Pretendo
ed esigo
vedere le vostre stanze, immediatamente!” ordinò
il padrone del lato ovest.
“Non
è che semplicemente lo avete perso?”
azzardò Antares.
“Come
faccio ad averlo perso, inutile parassita del mio sistema
nervoso?” fu la
risposta .
“Non
lo so e non me ne frega un cazzo! Quello che so è che
nessuno può accusarmi di
essere un ladro!”. Scorpione ormai aveva perso del tutto la
pazienza ed il suo
sguardo rosso ne era un chiaro segnale.
“Uno
di voi dodici dev’essere stato!” riprese Kosmos
“Lui, il mio bastone, non se ne
va di certo in giro da solo! Perciò…”.
“Ma
noi alla torre non abbiamo accesso!” interruppe Rukbat.
“Sarete
entrati dalla finestra, che ne so! So che non c’è
più!”.
“Avete
guardato bene nella torre, Signore?” sorrise Al Risha, con lo
sguardo ancora
perso nel vuoto delle sue fantasticherie ad occhi aperti.
Kosmos,
decisamente fuori di sé, lo afferrò per i
capelli, lo sollevò e lo guardò in
viso.
“Ok…”
gemette Pesci, consapevole della forza che poteva richiamare il suo
padrone
“…evidentemente avete guardato
benissimo!”.
“Dov’è
lo Scettro delle Ere, Al Risha? Non dovresti lasciarlo
mai…” sibilò Kosmos,
rimettendo lentamente a terra il suo sottoposto.
“Vado
subito a prenderlo, capo…”.
Pesci
se ne andò per qualche minuto per poi ricomparire,
leggermente pallido.
“È
sparito!” mormorò, aspettandosi una reazione
esplosiva da parte di Kosmos.
Questi,
inaspettatamente, rimase calmo.
“Noi
sei siamo rimasti qui nel salone per un sacco di
tempo…” iniziò Aldebaran,
mostrando il complesso quadro che stava dipingendo e che ormai era
quasi
completo.
“Mi
spiace allora constatare che sono state le ragazze”
sospirò il padrone
“Peccato. Speravo che i delinquenti, qui, foste solo voi.
Dai, andiamo…”.
“Andiamo
dove?” si incuriosì Mekbuda.
“Di
sopra, genio!” sbottò Kosmos, dando le spalle ai
sei ed avviandosi spedito
verso la scala che conduceva al piano superiore.
“Nelle
case delle donne? Possiamo?” si stupì Al Risha.
“Per
stavolta sì. Non fatene un’abitudine,
però. Vi avviso: vi romperò il cazzo
finché il colpevole non confesserà, statene
certi!”.
Il
capo occidentale entrò nel salone femminile senza ritegno,
sbattendo la porta.
Le donne presenti sobbalzarono e lo fissarono sconcertate, specie
notando i sei
uomini del piano inferiore dietro di lui.
“Vi
voglio tutte a rapporto qui, immediatamente!”
ordinò, sbraitando, Kosmos.
“Ma…”
iniziò Hamal, l’Ariete.
“Niente
ma! Tutte qui, ora!”.
Dopo
qualche istante di proteste e corse lungo il corridoio, le sei furono
in fila,
a rapporto davanti al loro capo. Sadalmelik, l’Acquario, era
coperta solamente
da un asciugamano, non molto grande. Stava facendo il bagno ed era
decisamente
infastidita da quell’interruzione. Dentro di sé
sperò che fosse davvero
urgente. Adhafera, Leone, rientrò in sala dalla finestra. Si
stava esercitando
e ringhiò infuriata dall’impossibilità
di continuare.
“Spero
sia una cosa di vitale importanza…”
sbottò Hamal.
“Credo
proprio di sì…” le sussurrò
Zubeneschamali, Bilancia “…hai visto che rabbia ha
Kosmos negli occhi? Fa paura…”.
“E
poi si è portato dietro gli uomini…”
aggiunse Acubens, Cancro.
“La
Chiave del Cielo e lo Scettro delle Ere mi sono stati
sottratti” parlò il capo
occidentale “Chi di voi li ha rubati? Fuori il colpevole,
all’istante, e vedrò
di non ucciderlo…”.
“Io
no. Che me ne faccio?!” si affrettò a dire Hamal.
“Io
neppure. Non mi sono mossa da qui” aggiunse Acubens.
“Vero.
È stata tutto il tempo accanto a me”
confermò Zubeneschamali.
“Io,
come vedete, ero impegnata in altre attività”
sbuffò Sadalmelik, gocciolante.
“Pure
io ero impegnata in altre attività”
ringhiò Adhafera.
“Logicamente
parlando…” iniziò Astrea, dato che
tutti la fissavano “…non avrebbe senso per
noi sottrarre lo Scettro delle Ere, dato che spetterà a noi
donne gestirlo fra
meno di due anni…” e guardò Acquario,
che annuì, non potendole dare torto.
“E
per quanto riguarda la Chiave?” chiese Kosmos, incrociando le
braccia, per
niente convinto.
“Un
oggetto del genere non può essere nascosto facilmente. Lo
cerchi pure. Se lo ha
preso una di noi, salterà fuori di sicuro” rispose
Vergine, rimanendo seria ed
incredibilmente calma.
“Benissimo!
Ragazzi…pensateci voi!” ordinò il capo
“Uno per stanza e ricordatevi che lo
noto subito se mentite. Non costringetemi a punirvi
tutti…”.
I
sei maschi, con evidente imbarazzo, si fecero portare ognuno ad una
stanza
diversa.
“Potete
cercare quanto volete” parlò Astrea, rivolta
all’ispettore della sua stanza,
Rukbat “Non troverete da nessuna di noi quegli
affari!”.
“Da
qualche parte devono essere, no?” rispose Sagittario, aprendo
tutti i cassetti
della camera d’Astrea.
Lei
ne osservò tutti i movimenti a braccia incrociate,
appoggiata alla porta.
Ovviamente
gli oggetti non furono trovati. Kosmos era sempre più
alterato dal fatto che,
uno dopo l’altro, nessuno trovò ciò che
cercava. L’ultimo a dare responso fu
Aldebaran, sempre piuttosto lento, dalla stanza di Hamal.
“Qui
non c’è niente, Signore”
parlò, chinando il capo.
“Qualcuno
mente, è ovvio! Oppure siete ciechi, impediti,
rincoglioniti, e non vi siete
accorti della Chiave e dello Scettro in una delle stanze!”
affermò, convinto,
il signore del lato ovest.
“Un
momento…e se fossero loro, gli uomini, a nascondere quei
cosi?” domandò Hamal.
“Infatti…”
annuì Astrea.
“State
dando la colpa a noi?!” si arrabbiò, come sempre,
Antares.
“E
a chi se no? Ad un buco nero?!” rispose l’Ariete.
“Che
faccia tosta…” ghignò Rukbat.
“Da
che pulpito!” sbottò Vergine.
Sagittario,
punto nell’orgoglio, girò le orecchie a punta
all’indietro e la fissò, senza
parlare, con aria minacciosa. Astrea incrociò le braccia e
sostenne quello
sguardo in silenzio.
“Noi
siamo innocenti!” affermò Al Risha.
“E
come credervi?” domandò Sadalmelik.
“Qualcuno
dev’essere stato!” quasi urlò Kosmos.
“Ma
taci!” lo zittì Antares
“L’avrai tu in camera ma, dato che sei rintronato,
non
te ne sei accorto!”.
“Ma
come ti permetti, inutile ammasso di stelline
sopravvalutate?!”.
Nel
giro di qualche istante, fu rissa. Tutti contro tutti, in un insieme di
urla,
insulti e percosse più o meno forti. Ci fu pure qualche
morso.
“Caspita…basta
così poco per farvi litigare…”
parlò una voce, femminile, dopo qualche minuto.
“Kuruma!”
sbottò Kosmos “Cosa vuoi?! Non ti è
permesso entrare qui!”.
Con
un gesto della mano, il padrone del lato ovest fermò i suoi
dodici sottoposti,
che smisero di picchiarsi, anche se qualche insulto e pernacchia ancora
si
sentì.
“Piantatela!
State buoni!” ordinò il capo e fu silenzio.
“Non
ho resistito” spiegò Kuruma “Volevo
vedere la tua faccia davanti alla realtà,
Kosmy!”.
“Kosmy?!”
ridacchiò Antares e ricevette un’occhiataccia
terribile dal suo padrone.
“Quale
realtà?” domandò Kosmos, pronto a
ricominciare a litigare.
La
signora orientale fece un cenno con la testa ed apparve Hòu,
Scimmia, porgendo
la Chiave del Cielo alla sua padrona.
“L’avevi
tu, stupida femmina!” sibilò il proprietario
dell’oggetto.
“Attento
a come parli!” lo minacciò lei, stringendo il
lungo bastone fra le mani.
“Anche
lo scettro lo avete voi?” domandò Al Risha.
“In
questo momento, ci stanno giocando Shu e Long” fu la risposta.
“Come
sarebbe a dire che ci stanno giocando?!” si
allarmò Kosmos.
“Rilassati!
Non lo rompono mica!”.
“Li
rivoglio! Rivoglio Scettro e Chiave!” si lagnò il
signore occidentale, con un atteggiamento
decisamente infantile che stupì i suoi sottoposti.
“Io
te li rendo solo se ammetti che il mio potere è pari al
tuo”.
“Questo
mai. Io non dico balle!”.
“Non
è una balla! Io sono potente tanto quanto te!”.
“Non
farmi ridere! Tu possiedi solo il misero Scettro degli Anni. Se
permetti, si
capisce che i miei oggetti sono molto più potenti ed
importanti!”.
“Solo
perché tu sei in possesso di gingilli simili, non significa
che tu sia migliore
di me…”.
“Sei
proprio una femmina testarda”.
“E
tu un misogino esaltato!”.
“Patetica
creatura!”.
“Pomposo
pagliaccio!”.
“Irritante
nanerottola!”.
“Sanguisuga
nullafacente!”.
“Sei
noiosa come una coda in autostrada o una zanzara nelle
orecchie!”.
“E
tu sei irritante come le tasse e la pubblicità messe
assieme!”.
In
quello scambio di insulti, i dodici abitanti delle case
dell’ovest si fissarono
con sempre maggiore preoccupazione.
“Cos’è
un’autostrada?” mormorò Antares.
“E
la pubblicità?” gli rispose Hamal.
Nessuno
di loro usciva da quel palazzo da millenni e non gli erano chiari
parecchi dei
termini di paragone usati dai loro padroni. Non avevano mai visto i
loro
signori insultarsi in quel modo. Solitamente si ignoravano, oppure si
limitavano a qualche parola tanto per passare il tempo.
“Perché
arrivare ad un gesto così stupido, Kuruma?”
“Perché
tu mi ignori, qualsiasi cosa faccia, e non mi consideri
all’altezza. Almeno
così posso dimostrarti che sono più forte e sei
costretto a vederlo!”.
“Quindi
tutto questo è solo un esagerato modo di attirare
l’attenzione?!”.
“Solo
un esagerato modo di farti abbassare un po’ la cresta e farti
accorgere che
esistiamo anche noi d’Oriente. Che, ovviamente, valiamo tanto
quanto voi
d’Occidente!”.
“Patetico…”.
Kosmos
ora sghignazzava, probabilmente convinto che fosse tutto uno scherzo.
Hòu
guardava la padrona e capiva che la sua era rabbia e frustrazione
autentica,
nei confronti di un uomo che aveva rispetto e considerazione solamente
per se
stesso.
“Signora…”
provò a dire, ma Kuruma la zittì, con un gesto
della mano.
“Portami
lo Scettro delle Ere” disse, senza guardare negli occhi
l’animale, che corse
via in fretta.
“Me
lo rendi?” sorrise Kosmos “Bene! Vedo che, in
fondo, sai anche ragionare. Del
resto…cosa te ne fai tu dello Scettro delle Ere?!”.
Scimmia
riapparve e porse lo scettro a Kuruma.
“Vieni
fuori con me, Kosmos” parlò la signora orientale,
ostentando una calma
innaturale.
I
due uscirono sul terrazzino, dopo aver attraversato il corridoio in
comune. I
dodici dell’Ovest guardarono entrambi con preoccupazione.
Anche i dodici
dell’Est si erano affacciati lungo il tratto comune
dell’edificio, allarmati
dal volto teso di Hòu. Così erano in
ventiquattro, uno vicino all’altro, a
circondare l’ingresso del terrazzino e ad osservare i due
signori. Da un lato
Ariete Hamal, Toro Aldebaran, Gemelli Mekbuda, Cancro Acubens, Leone
Adhafera,
Vergine Astrea, Bilancia Zubeneschamali, Scorpione Antares, Sagittario
Rukbat,
Capricorno Deneb Algiedi, Acquario Sadalmelik e Pesci Al Risha. Dal
lato
opposto Topo Shu, Bue Niu, Tigre Hu, Lepre Tù, Drago Long,
Serpente Shè,
Cavallo Ma, Capra Yang, Scimmia Hòu, Gallo Ji, Cane Gou e
Maiale Zhu.
“Sono
pronto a farmi rendere ciò che mi appartiene e ricevere le
tue scuse” disse
Kosmos, una volta che entrambi ebbero raggiunto la terrazza
semicircolare.
Di
tutta risposta, Kuruma afferrò lo Scettro delle Ere e glielo
sbatté in faccia,
con rabbia e forza.
“Era
da miliardi di anni che sognavo di farlo!” mormorò
lei, soddisfatta, mentre lui
si premeva il viso fra le mani, gemendo incredulo e bestemmiando.
“Ho
fra le mani i simboli del tuo potere, Kosmos! Inchinati, ammetti di non
essermi
superiore, e non ti farò alcun male!”
parlò la signora orientale, spalancando
le braccia con un oggetto magico per mano.
“Ma
sei impazzita?!” biascicò l’occidentale
“Vai a farti curare e stai lontana da
me!!”.
“Perché
ti è così difficile dire che le nostre forze si
equivalgono?! Perché ti è
impossibile ammettere che pure io esisto? Che pure io ho un
senso?”.
“Non
so che senso tu abbia, sinceramente. Per quanto riguarda il fatto che
tu esista,
non ho dubbi al riguardo! Mi hai appena spaccato la faccia con il MIO
scettro!!”.
“E
per quanto riguarda l’equivalenza
dei
nostri poteri?”.
“Piantala
con questa storia assurda! Ridammi ciò che mi appartiene e
torna al tuo posto,
insolente torturatrice della mia ormai misera pazienza!”.
“Long!”
gridò Kuruma “Portami subito il ventaglio
rosso!”.
“Cosa
pensi di fare?!” ghignò Kosmos, mentre Drago
porgeva alla sua padrona ciò che
gli era stato chiesto.
“Hi!”
urlò l’orientale, evocando il fuoco.
Aprì
di colpo il ventaglio, lasciando temporaneamente lo scettro fra le mani
incredule di Drago, e le fiamme iniziarono ad espandersi a spirale
verso
Kosmos.
“Non
puoi fare sul serio…” mormorò lui fino
all’ultimo momento, quando schivò solo
in parte il colpo.
“Signore!”
si allarmò Sadalmelik, avanzando d’istinto di un
passo.
“State
fermi dove siete, tutti quanti!” ordinò il padrone
d’occidente, rivolto ai suoi
dodici sottoposti.
“Kinzoku!”
riprese Kuruma, evocando il metallo del ventaglio che aveva tenuto
legato alla cintura.
Una
fila di acuminate punte argentee si diresse rapide verso Kosmos, che le
respinse spalancando gli occhi ed espandendo la sua luce. Alcune
riuscirono a
colpirlo di striscio e la cosa lo irritò parecchio.
“Vuoi
proprio giocare, a quanto pare!” ringhiò
“Ho perso del tutto la pazienza,
bambina. Ora vedrai cosa è in grado di fare il signore
più potente
dell’universo creato!”.
“Pomposo
cretino!” fu la risposta, per nulla turbata, della signora
d’oriente, che
ricambiò la provocazione con un attacco combinato dei due
ventagli.
Lui
si librò in aria, schivandoli, e si apprestò ad
attaccare. Non potendo
utilizzare la forza della Chiave del Cielo o i poteri dello scettro,
girò gli
occhi verso Antares, che trattenne il respiro sapendo bene cosa lo
attendeva. Un
vento gelido avvolse il rappresentante della costellazione e poi
andò verso il
suo padrone, che ne acquisì le capacità. Una
grossa coda da scorpione spuntò da
Kosmos e con lei il suo mortale veleno. Kuruma lo fissò,
soddisfatta del fatto
che prendesse finalmente la cosa sul serio. Di risposta, lei
acquisì i poteri
di Shè, Serpente.
“Veleno
con veleno…divertente!” ghignò lui.
“Presto
scoprirai quel’è il più
mortale!” sibilò lei, con la lingua biforcuta ed
un
paio di denti affilati ben in evidenza, pronti ad attaccare.
Kosmos
mosse rapidamente la coda ma Kuruma fu più veloce e il colpo
trafisse il
pavimento della terrazza, lasciandoci un bel buco.
“Io
voto per rientrare in casa alla svelta…” propose
Mek.
“No!
Noi non ci muoviamo di qua!” lo fermò Buda, e
Gemelli riprese a litigare da
solo.
“Non
li ho mai visti fare così. E sì che son qua da un
sacco di tempo…” commentò
Deneb Algiedi.
“A
chi lo dici!” gli rispose Hamal “Ma ci han detto di
non intervenire…”.
Si
susseguirono una lunga serie di attacchi da parte del signore
d’occidente, che
però non riuscirono ad andare a segno, per
l’impressionante velocità della
signora d’oriente, e lasciavano solo segni devastanti
sull’architettura
dell’edificio. Con un balzo, Kuruma fu addosso a Kosmos e lo
strinse con le braccia
e le gambe, sempre più forte.
“Non
costringermi a morderti! Arrenditi!” sibilò.
“Mai!”
gemette lui, tentando invano di liberarsi.
Lei
non lasciò la presa. Kosmos cadde in ginocchio, avvertendo
il fatto che lei
stava assorbendo la sua energia e lo stava sfinendo. I dodici
già si
mobilitavano per intervenire, ma lui li fermò di nuovo,
colpito da
un’improvvisa idea. Mutò, lasciando Antares
sfinito, ed acquisì Aldebaran,
Toro. Questo fece sì che il suo corpo divenisse
più grosso e massiccio e
Kuruma fu costretta a lasciare la presa. Pure
lei cambiò acquisizione, scegliendo Niu il Bue. Divenuta
altrettanto grossa e
pesante, i due ripresero ad affrontarsi in una sorta di strana lotta
libera.
Approfittando delle maggiori dimensioni, Kosmos riuscì, dopo
un po’, ad avere
la meglio.
“Arrenditi!”
ansimò, tenendola bloccata con il pesante corpo.
Lei,
di risposta, gli ringhiò in faccia, assimilando i poteri di
Hu, Tigre.
“Fottiti,
stupida donna!” ringhiò a sua volta lui, divenendo
in parte Adhafera, Leone.
“Prima
tu, irritante mongolfiera di autocelebrazione!”.
La
lotta fra i due ora era più aspra, fatta di graffi e morsi,
fra un ruggito ed
un altro. La furia della tigre, accentuata dalla rabbia che provava
Kuruma in
quel momento, fece sì che il Leone Kosmos finisse a terra,
con la mano
artigliata della signora d’oriente che gli premeva la gola
sempre più forte,
ridacchiando. Lui, ovviamente, non si diede per vinto.
Lasciò che il viso di
lei si avvicinasse, nel tenerlo ancorato al pavimento del terrazzino, e
le diede
una testata, emettendo uno strano verso simile ad un belato. Aveva ora
dentro
di sé il potere di Hamal, Ariete. Kuruma lo
lasciò andare temporaneamente e poi
rispose con lo stesso attacco, sfruttando le capacità di
Yang, Capra. Il loro
scontro a testate fece sorridere più di qualcuno dei
presenti. Sfortunatamente
per la signora orientale, era impossibile avere la testa più
dura di quella di
Kosmos e, dopo qualche colpo ben assestato, lei finì
scaraventata lontano. Lui
si alzò, tutto orgoglioso e convinto della sua vittoria,
incrociando le braccia
e ghignando soddisfatto. Lei non si vedeva, essendo finita oltre la
balaustra
della terrazza.
“Bene,
bene. Possiamo tornare a farci i fatti nostri, come sempre!”
parlò il signore
occidentale.
“Non
ancora!” si sentì dire, e lei tornò al
galoppo, sottoforma di centauro, avendo
in parte Ma il Cavallo dentro di sé.
Kosmos
fu rapidissimo ed assimilò Rukbat, divenendo a sua volta un
bellissimo centauro
blu.
“A
noi due, signorina!” rise, nitrendo.
“Fatti
sotto, pony!” ribatté la signora
d’oriente.
Iniziò
una scazzottata senza esclusione di colpi con tanto di calci a
zoccolate. Le
loro forze, però, si equiparavano e lo scontro non giungeva
ad una conclusione.
Chiave e Scettro erano abbandonati in terra.
Kosmos,
riuscendo temporaneamente a spingere la sua avversaria sufficientemente
distante, allungò la mano verso il bastone, ma una fiammata
improvvisa gli
bruciò la mano. La ritrasse d’istinto e
un’ombra inquietante oscurò parte delle
stelle. Il signore
occidentale alzò lo sguardo
e abbassò le orecchie a punta. Kuruma era diventata enorme e
sputava fuoco,
sfruttando il potere di Long, Drago.
Preso
dal panico, il signore d’occidente non sapeva con cosa
controbattere. Forse le
ali di Astrea…
“Sei
più fastidiosa di un’ape nelle mutande!”
gridò contro la sua avversaria,
ignorando il fatto che questa continuava ad aumentare di dimensioni a
dismisura.
“Io
ti ci infilo un intero alveare nelle mutande, microbo dai capelli
blu!” ruggì
lei, afferrando la Chiave del Cielo,decisa ad usarla.
La
punta attorcigliata dell’oggetto si illuminò e
tutti furono costretti a serrare
momentaneamente gli occhi. Quando li riaprirono, Kuruma occupava tutta
la
visuale, con i lunghi capelli neri che si erano sciolti e si
arricciavano,
mossi da un vento invisibile, e la splendida veste rossa che si muoveva
dolcemente. Con l’affusolata mano, teneva sospeso a
mezz’aria Kosmos, minuscolo
in paragone con le dimensioni attuali di lei. Nessuno ebbe il coraggio
di
parlare. La Chiave si era adeguata alle dimensioni della signora
orientale e
pulsava, come un cuore vivo.
“Sarà
il Cielo a decidere qual è il tuo posto”
mormorò Kuruma, dolcemente.
Con
un sorriso, serrò il pugno e lui ne rimase intrappolato. I
dodici d’occidente
si allarmarono e corsero verso quel pugno, volando mossi dai loro
poteri
astrali.
“Che
volete voi, moscerini?” si stizzì Kuruma.
“Lascialo
andare!” le gridò Hamal, tentando di avere
un’aria minacciosa.
“È
quello che ho intenzione di fare, ma levatevi dalla
traiettoria!” ringhiò la
signora.
“Quale
traiettoria?!” cadde dalle nuvole Al Risha.
“Come
volete…” alzò le spalle Kuruma,
spalancando la mano e racchiudendo all’interno
anche i dodici segni d’occidente senza difficoltà.
Iniziò
ad agitare il pugno come a lanciare un dado.
“Ultima
possibilità, Kosmy. Ammetti che i nostri poteri sono pari e
farò finta che
nulla sia successo. Torneremo ognuno al nostro posto e via
così, per millenni e
millenni…”.
“Scordatelo,
arrampicatrice sociale imbrogliona!” biascicò
Kosmos, sballottato contro i suoi
sottoposti all’interno del pugno della donna a capo del lato
orientale.
Lei
non capì del tutto quell’insulto, ma comprese che
il suo collega non si
arrendeva. Strinse più forte fra le mani la Chiave del
Cielo, richiamandone
l’energia.
“L’hai
voluto tu!” ringhiò.
“Signore…io
credo che sarebbe saggio ammettere che lei…”
iniziò Aldebaran, ma il suo
superiore lo zittì subito, impedendogli di tentare di farlo
ragionare.
“Che
cosa ha intenzione di fare?” sussurrò
Tù, Lepre.
“Niente
di buono, spero!” sghignazzò Ji, Gallo.
Kuruma
alzò il braccio e lasciò la presa, lanciandone il
contenuto lontano, fra
l’universo di stelle e pianeti lontani e fra lo stupore
generale. Kosmos,
resosi conto della situazione, tentò di frenare la caduta ed
indirizzare quella
degli altri, in modo che non finissero dispersi
nell’eternità. Cadevano
rapidamente, allontanandosi l’uno dall’altro. Il
signore occidentale,
raccogliendo le ultime forze, espanse la sua luce ed avvolse
l’intero gruppo.
Antares, ancora stanco a causa della battaglia in cui il suo padrone
aveva
sfruttato l’energia dello scorpione, chiuse di nuovo gli
occhi, accecato.
Quando li riaprì, era a terra, da solo, nel buio di un
pianeta, lontano dalla
sua casa e senza più una sola briciola di forza magica.
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Capitolo 3 *** 2 ***
III
Quando
si svegliò, Antares gemette. Era tutto indolenzito e con la
bocca impastata
dalla sete. Quanto tempo era rimasto privo di sensi? Ricordava di
essere caduto
e di essere rimasto disteso, a riflettere, ma poi le forze lo avevano
abbandonato e si era addormentato, o forse era svenuto.
Tentò di muoversi, ma
notò subito di non riuscirci. Si agitò invano e
costatò di aver le mani legate
dietro la schiena. Dimenandosi nel buio, non riusciva a capire dove
fosse.
C’era una finestra quadrata, senza vetri, dalla quale poteva
vedere il cielo.
La Luna. Era da tempo che non la vedeva così da vicino.
Sorrise. Almeno aveva
capito in che pianeta era caduto! Ma chi aveva osato legarlo come un
salame?!
Fuori vedeva lampi simili a quelli provocati da un temporale, ma il
cielo era
limpido. Eppure il frastuono era lo stesso… Si chiese cosa
potesse essere, ma
non trovò risposta. Sentì una voce.
C’era qualcuno oltre la porta di quella
spoglia stanza quadrata, dove era stato gettato. Tentò di
capire le parole che
pronunciava. Che lingua era? Arabo? Ringraziò il fatto che,
volenti o nolenti,
tutti loro dodici compagni avevano imparato le lingue
dell’universo grazie ai
libri del loro capo. Antares non era mai stato molto bravo
nell’imparare certe
cose ma, in migliaia di anni, anche il più idiota degli
idioti era in grado di
memorizzare qualcosa. Erano due, o tre, voci e riusciva a comprenderle
quasi
del tutto. Decise di rimanere in silenzio, per riuscire a carpire
più
informazioni possibili sulle creature che lo volevano tenere
prigioniero.
“Dove
lo hai trovato?” parlò la prima voce.
“Sull’altipiano.
Questi stupidi turisti se ne vanno in giro così e pretendono
che non gli
succeda niente!” rispose la seconda.
“Sicuro
sia un turista?”.
“E
che altro dovrebbe essere? È vestito come un cretino ed
è evidente che è stato
derubato, non ha niente con sé. Si sarà perso. O
forse è uno di quei
giornalisti dementi che stan fermi a guardare mentre gli
sparano”.
“Dici
sia ricco?”.
“Assolutamente!
Sulla schiena ha una pietra preziosa, che però non siamo
riusciti a togliergli.
Uno che ha una cosa del genere addosso, deve nuotare
nell’oro!”.
“Bene,
diamogli un’occhiata…”.
Tre
uomini, in passamontagna e lungo abito scuro, entrarono nella stanzetta
vuota,
imbracciando dei fucili. Antares fissò loro, e gli oggetti
che impugnavano, con
curiosità. Non aveva idea di cosa fossero.
“Io
non sono vestito come un cretino!” sbottò, nella
lingua dei tre ma con un
accento particolare che non poteva fare a meno di avere.
“Parli
la mia lingua” ghignò il primo uomo,
inginocchiandosi e rigirandolo, per vedere
la pietra preziosa di cui gli avevano parlato
“Americano?”.
“Cos’è
un Americano?” rispose lo Scorpione.
“Stai
scherzando?! Europeo? Inglese? Italiano? Uno di quei piccoli idioti che
viene a
far le gite da queste parti?” insistette un terzo uomo, con
voce infastidita e
spazientita.
“Nessuno
di questi!”.
“E
allora da dove vieni? Sei curdo?”.
“Sono
chi mi pare e da dove vengo non vi interessa!”.
Il
primo uomo gli puntò il fucile alla testa “Sai che
bel buco ti fa in faccia
questo? Ti conviene parlare!” minacciò, senza
alzare la voce.
“Veramente,
non so cosa sia la cosa che hai fra le mani…”
ammise Antares.
“Mi
prendi per il culo?!” si agitò il secondo uomo.
Il
terzo sparò un colpo in aria, bucando il soffitto di
quell’edificio
malconcio. Il
prigioniero deglutì,
capendo all’istante in che guaio era finito.
“Cosa
volete da me?” domandò, tentando di non farsi
prendere dal panico.
“Sei
un ostaggio, razza di fesso. Chiederemo un riscatto”.
“Un
riscatto?”.
“Sì!
Soldi dalla tua famiglia di ricconi”.
Antares
rimase in silenzio. Come spiegargli che lui non aveva una famiglia di
ricconi a
cui rivolgersi? Ricordò di aver perso i poteri e, di
conseguenza, di essere
mortale. Non aveva più luce e i suoi occhi, un tempo rossi e
brillanti, ora
erano scuri e opachi. Non sapeva cosa fare. Lo avrebbero
ucciso…
“A
che vi servono i soldi? Non state bene così?”
chiese, rendendosi conto da solo
che era una domanda molto stupida quella che aveva appena fatto.
“Ma
da dove vieni tu?! Da un altro pianeta?!”
sghignazzò uno dei tre sequestratori.
“Guarda
fuori!” continuò un altro, prendendo la faccia di
Antares e girandogliela con
la forza verso la finestra “Siamo in guerra! Quei lampi
laggiù non sono fuochi
d’artificio ma bombe! In guerra, vince chi ha soldi, sciocco
cristiano”.
“Io
non sono cristiano!” non riuscì a fare a meno di
dire lo Scorpione.
“E
allora cosa sei?”.
“Io…hem…voi
cosa siete?” temporeggiò il sequestrato, non
sapendo cosa dire.
“Basta
giocare!” parlò il primo entrato nella stanza,
rivolto al suo compagno che si
sforzava di conversare con l’ostaggio “Venite
fuori. Lasciatelo pure qui da
solo che pensi alle conseguenze di sue altre domande stupide e senza
senso!”.
Antares
rimase in silenzio, mentre i tre uscivano.
“Comincio
a pensare che sia una spia. Non è possibile che sia un
semplice turista. Sta
cercando di imbrogliarci. Stiamo allerta e non facciamoci fregare. Ci
vuole una
guardia alla porta. Se sarà così idiota da uscire
dalla finestra, data la
situazione, saran solo affari suoi!” parlò, una
volta uscito, il primo degli
uomini.
“Resto
io di guardia qua. Voi, nel frattempo, cercate più
informazioni possibili. Se è
un turista, di certo sarà arrivato con qualche aereo o
altro, e qualcuno si
sarà accorto che è sparito!” concluse
il secondo.
Poi
fu di nuovo silenzio, interrotto solamente dal bubbolio delle bombe e
dai colpi
di mortaio esterni. Stava albeggiando. Doveva riuscire a fuggire. Ma
come? Era
legato e sorvegliato! Sbuffò. Forse quel pianeta meritava di
fermarsi per
sempre!
₪₪₪
Luci
intermittenti in lontananza ed un gran mal di testa furono le prime
sensazioni
che il caduto percepì. Si scosse, rialzandosi a fatica. Si
guardò attorno.
“Mek!”
esclamò, guardando in terra.
“Buda…”
gli rispose l’altro, rimanendo disteso sulla pancia e gemendo
per la botta ricevuta
all’impatto con il suolo.
“Ci
siamo separati!” riprese Mek, biondo e con chiarissimi occhi
azzurri.
“A
quanto pare…” mormorò Buda, moro e con
occhi scurissimi, mettendosi a sedere
“Dove siamo?”.
“E
a me lo chiedi? Sei tu quello che sa sempre tutto!”.
“Ma
che stai dicendo?!”.
“Dei
due, sei tu quello sapientone, pomposo e
saccente…”.
“Non
ti picchio solo perché, data la situazione, direi che non
è il caso di
litigare”.
“Non
riusciresti mai a picchiarmi. Se tu sei la mente, io di certo sono il
corpo!”
ghignò Mek, stringendo i pugni tentando di mostrare i
muscoli, che non si
notavano un granché.
Buda
scosse la testa, ruotando gli occhi al cielo. I gemelli fissarono
quelle strane
luci intermittenti con curiosità, chiedendosi cosa fossero.
Il sole stava tramontando
e si facevano sempre più forti. Si fissarono a vicenda. Le
loro vesti grigie
erano stracciate in più punti ed erano interamente ricoperti
di graffi e
lividi.
“Ma
dove stracazzo siamo caduti?!” protestò Mek.
“Siete
nel Nevada” gli rispose una voce.
“Il
Nevada?! E sarebbe?!” domandò il biondo dei
Gemelli, senza voltarsi ma
cambiando la lingua con cui si esprimeva, senza nemmeno pensarci.
“In
America occidentale!” parlò di nuovo la voce.
“Continuo
a non avere presente e, comunque…” riprese Mek,
girandosi e vedendo un
gruppetto di individui che fissava lui e suo fratello
“…voi chi cazzo siete?!”.
“Benvenuti,
visitatori dello spazio! Noto con piacere che parlate la nostra
lingua!” si
fece avanti uno dei membri del gruppetto di curiosi.
Mek
e Buda si fissarono con aria interrogativa.
“La
scia della vostra discesa era ben visibile nel cielo e
l’abbiamo seguita. Come
i re magi guidati dalla cometa, ora noi siamo giunti a Voi,
extraterrestri”.
“Questi
sono tuonati! Andiamocene!” sussurrò Mek, nella
lingua che solo Buda poteva
comprendere.
“E
dove credi di andare?! Tu hai idea di dove stia l’America
nell’Universo?! Io
no, perciò suggerirei di farci dare una mano da questi
stramboidi”.
“È
un’idea pessima, e folle!”.
“Ne
hai forse un’altra?!”.
Mek
chinò il capo, rassegnato, e tornò a girare la
testa verso coloro che
continuavano a fissarli con adorazione e curiosità.
“Assomigliate
molto a noi terrestri” notò uno di loro.
“In
base a cosa avete stabilito che siamo extraterrestri?!” volle
sapere Buda.
“Non
sapete nemmeno dov’è l’America! Tutti
sulla Terra sanno dov’è
l’America!”.
“Da
dove venite? E cosa vi è successo?
Dov’è la vostra astronave?”
iniziò una
donna.
“Sei
ancora convinto di volerti far aiutare da loro?” gemette Mek.
“Assolutamente.
E adesso rispondi alle domande…”.
“Noi
non abbiamo nessuna astronave, è inutile che vi spieghi da
dove veniamo, perché
non lo capireste, e cosa ci è successo è troppo
lungo e complicato da
raccontare” sbuffò il gemello biondo.
“Fortunatamente
vi abbiamo trovati noi prima del governo. Così ora nessuno
potrà darci ancora
dei folli, nessuno potrà più nascondervi alla
gente e tutti sapranno che
esistete!”.
Mek
sospirò, chiedendosi se effettivamente era stata una fortuna
essere trovato da
quel gruppo di schizzati invece che dal governo.
“Non
mi sembra una buona idea!” intervenne Buda
“Avvertire tutti, intendo. Noi siamo
qui ma ci sono altri nostri compagni caduti, sempre su questo pianeta,
spero,
ed è fondamentale per noi ritrovarli. Se tante persone
sapessero del nostro
arrivo, noi…”.
“Noi
verremmo localizzati dalla creatura malvagia che ci ha spediti qui e
rischieremmo la morte. Capite?” concluse Mek, salvando Buda
da un silenzio
imbarazzante.
“Ballista”
ridacchiò il gemello, nella loro lingua.
“Una
guerra intergalattica?! Grandioso! Allora cosa possiamo fare per
voi?” esclamò
l’apparente capo del gruppo, saltellando come un bambino
davanti ad un nuovo
giocattolo.
“Aiutateci
a ritrovare i nostri compagni. Quando saremo tutti riuniti, potrete
dire al
mondo intero che noi ci siamo, perché saremo più
forti ed in grado di
difenderci dai nostri nemici” ordinò Mek.
“Saremo
pienamente al vostro servizio, abitanti dell’Universo
infinito!” si inchinò il
capo.
“Una
volta riuniti, tornerete sul vostro pianeta? Tornerete a
casa?” domandò una
donna.
“Non
lo sappiamo” ammise Buda, resosi conto di non avere
più una sola briciola di
potere nelle vene.
“E
quel tatuaggio che portate, identico, sulla spalla, è una
cosa in comune a
tutto il vostro popolo?” insistette la donna, indicando la
costellazione che i
due portavano sulla pelle, con due cristalli incastonati in
corrispondenza
delle due stelle gemelle, uno ciascuno “Quella è
la costellazione dei gemelli.
Lo so perché è il mio segno zodiacale. Venite da
lì?” .
Mek
e Buda guardarono quel disegno, girando la testa, e non seppero che
cosa
rispondere.
“Ci
spiegherete ogni cosa con calma. Ora, se me ne concedete
l’onore, vi ospito in
casa mia. E tutti noi ci mobiliteremo per aiutarvi a ritrovare i vostri
compagni. Seguiteci”.
“Tanto
per la cronaca…io sono Buda” si
presentò il gemello moro, quando il gruppetto
iniziò a muoversi, dandogli le spalle.
“Buddha?!”
spalancò gli occhi un ragazzo.
“No!
Non Buddha! Buda, con una D soltanto e senza H!”.
“E
io sono Mek” si unì il gemello biondo.
“Mekbuda
è una delle stelle più luminose della
costellazione dei Gemelli!” esclamò la
donna di quel segno.
“Lo
sappiamo…” risposero, in coro, i due fratelli.
“Piacere
di conoscervi” parlò di nuovo il capo, colui che
gli aveva offerto ospitalità
“Io mi chiamo Thomas. Potete chiamarmi Tom. E loro sono,
nell’ordine, Mark,
Jonathan, Danielle, Patrick, la mia fidanzata Lisa ed il mio fratellino
Nicolas”.
Fecero
tutti “ciao” con la mano e si apprestarono a
riprendere il cammino.
“Hem…Tom,
giusto per sapere…” iniziò Mek,
fermandosi ed indicando le luci alle sue spalle
“…quelle cose, che cosa sono?”.
“Sono
le luci di Las Vegas!” spiegò Tom
“E
sarebbe?” inclinò la testa Buda.
“Venite
con noi. Non avete vissuto, se non siete passati almeno una volta a Las
Vegas!”.
₪₪₪
Hamal
aprì gli occhi, percependo un profumino delizioso
nell’aria. Il suo stomaco
brontolò.
“Merda!”
esclamò “Non sono più una
stella!”.
I
suoi poteri erano scomparsi, così come la
possibilità per lei di fare a meno di
mangiare e bere.
Era
pieno giorno, si sentì subito stordita dal sole che
picchiava. Si toccò la
spalla, sentendola pizzicare, e percepì la costellazione
dell’Ariete tatuata,
con un’ametista in corrispondenza della stella di cui portava
il nome. Chissà
dov’era finita! Spinta dalla fame, decise di rischiare, pur
sentendosi a
disagio disarmata, ed avvicinarsi alle case non molto lontane. Le
strade erano
deserte, probabilmente erano tutti a pranzo. Seguendo un sentierino
leggermente
in salita, Hamal si fermò davanti ad una ripida scalinata
che spariva fra gli
alberi, ricoperta dalle foglie rosse delle piante che la costeggiavano.
Mossa
dalla curiosità, iniziò a salire. Che strana
sensazione camminare con la forza
di gravità! Si domandò dove stesse andando. Le
statue che vedeva sembravano molto
antiche, anche se ben tenute. Erano tutte differenti e, ai loro piedi,
c’erano
fiori e candele. Giunse in cima senza affanno, abituata
com’era a fare
quotidianamente allenamento. Attraversò l’ingresso
e sorrise. Il posto era
piuttosto affascinante. Attorno ad un ampio spiazzo, con sassi e sabbia
bianca
a disegni regolari, vedeva un edificio a forma di ferro di cavallo. In
realtà,
la struttura era più complessa, rassomigliando
più ad una A squadrata, con un
giardino interno con laghetto e ninfee. Racchiusa fra gli alberi,
quell’abitazione ispirò subito fiducia ad Hamal,
che si avviò verso quella che
presupponeva fosse la porta d’ingresso. Il legno di cui era
fatto il corridoio
esterno, rialzato e collegato a tutte le porte del ferro di cavallo,
scricchiolò
leggermente mentre lei ne risaliva i pochi scalini che lo dividevano da
terra.
“Chi
state cercando?” si sentì dire, prima che
sfiorasse la porta scorrevole.
“Io?”
ripose lei, guardandosi in giro per cercare
di capire chi avesse parlato.
“Sì.
Chi siete? Non credo di avervi mai vista…”.
Finalmente
la stella caduta capì chi le stava parlando. C’era
un uomo, non molto alto, con
lunghi capelli neri avvolti in una singolare pettinatura, che la
fissava dal
giardino, in parte celato dagli alberi. Lo vide avvicinarsi. Era
vestito con
ampie vesti e, al fianco, portava una lunga spada sottile.
“Una
Katana!” esclamò l’Ariete
“Siete un guerriero?”.
“Sono
il maestro a capo di questo dojo, signorina. Sono Toheru. Con chi ho
l’onore di
parlare?”.
“Io
mi chiamo Hamal” entusiasta dalle informazioni che aveva
appena ricevuto.
Aveva
letto spesso sull’argomento ed ora aveva la
possibilità di vedere ogni cosa dal
vero!
“Siete
un Samurai?” domandò lei.
“Mia
cara, i Samurai non ci sono in Giappone da un sacco di
tempo…ma diciamo che
quelli come me ci vanno vicino. Se volete, potete seguire la prossima
sessione
di allenamento. Inizia fra circa
un’ora…”.
“Mi
piacerebbe molto ma, prima, avrei davvero tanta
fame…” ammise Hamal,
stringendosi lo stomaco con le mani e sentendolo borbottare.
“Ma
cosa Vi è successo? Le vostre vesti sono tutte stracciate e
non avete niente,
nemmeno una piccola borsetta con Voi. Vi hanno derubata?”.
“Diciamo
che potrebbe essere un’interpretazione della
cosa…”.
“Ho
capito. Venite con me. Un pasto in più
c’è sempre da queste parti”.
L’uomo
le indicò il lato opposto dell’edificio, con un
piccolo inchino. Lei lo seguì,
stando attenta a seguire il sentierino di sassi che divideva il
giardino zen,
senza calpestarne la sabbia e rovinarne il disegno.
“Da
dove venite?” domandò Toheru.
“Da
molto lontano…”.
“Io
ho girato il Mondo. Sia più precisa…”.
“Non
so se sarebbe in grado di credermi. Io…vengo dal
cielo!”.
Lui
la fissò in modo decisamente strano e non chiese altro.
Aprì la porta
scorrevole, lasciando i sandali all’ingresso. Hamal, scalza,
lo seguì senza
esitare, ormai mossa dallo stomaco e non dal cervello. Un profumino
irresistibile
l’aveva avvolta appena entrata. Gli altri occupanti della
casa, inginocchiati
attorno ad un basso tavolino rettangolare, stavano pranzando e
fissarono
l’intrusa con curiosità.
“Questa
è la mia famiglia” spiegò Toheru
“Mia moglie Sizuji, mio figlio Toji e mia
figlia Samji, con i rispettivi consorti. Più tardi, se
verrete ad assistere gli
allenamenti, conoscerete il figlio di mia sorella, Erik. Lui
è solo per metà
giapponese, ma vedrete come sa combattere!”.
Hamal
annuì, mentre il padrone di casa la presentava alla famiglia.
“Dove
l’hai trovata?” sussurrò la moglie al
marito.
“Era
nel nostro giardino. Dice cose senza senso e guarda come è
ridotta! Dev’esserle
successo qualcosa. Cercherò di scoprire il più
possibile, nel frattempo
trattiamola come una qualsiasi ospite. Un buon pasto e dei vestiti
decenti.
Poveretta…non ha nemmeno le scarpe!”.
“Sei
troppo fiducioso nei confronti delle persone. Potrebbe essere una
drogata o una
pazza!”.
“Lo
scopriremo. Nel frattempo, siate cortesi”.
Hamal
si inginocchiò accanto alla più giovane della
famiglia, Samji, una donna quasi
trentenne, che le sorrise, porgendole una tazza di riso.
L’Ariete, dopo qualche
problema con le bacchette, iniziò a mangiare di gusto. Solo
dopo notò il drago
dipinto sulla parete e rabbrividì.
“Devo
trovare i miei compagni…” mormorò.
₪₪₪
Adhafera
riprese conoscenza nel buio. I suoi occhi verdi si abituarono
facilmente, anche
perché capì subito di essere finita nel bel mezzo
di un centro abitato. Forti
luci e rumori la circondavano. Un ubriaco la fissava, a bocca
spalancata e la
faccia da fesso, dal lato opposto della strada. Leone, togliendo la
polvere e
lo sporco dalla sua veste gialla, lo fissò a sua volta, con
fastidio e sfida.
“Quella
donna è caduta dal cielo!” biascicò
l’uomo, rivolgendosi ad un altro, ubriaco
quanto lui.
“Che
bello! Magari è la volta che, finalmente, mi trovo una
femmina” fu la risposta.
Adhafera,
storcendo la bocca, si allontanò in fretta. Dovette
constatare però, nel giro
di qualche minuto, che tutti quelli che incrociava per strada non erano
messi
meglio dei primi due. Grida, versi, risate isteriche, pianti insensati
e frasi
dettate dall’alcol erano le uniche cose che sentiva. Lungo i
marciapiedi, un
sacco di ragazzini barcollanti che tentavano di accoppiarsi in pubblico
oppure che
vomitavano. Leone accelerò il passo, chiedendosi in che
razza di posto era
andata a finire. A forza di camminare, stava iniziando ad essere
piuttosto
stanca e voleva trovare un posto per dormire. Ma dove? Una macchina la
sfiorò,
a tutta velocità, e lei si spaventò. Non aveva
mai visto una cosa del genere.
Si addentrò lungo una strada di sassi, dove alle auto era
proibito entrare. Un
cinese le fece una foto, convinto che fosse un’attrazione del
luogo. Adhafera,
momentaneamente accecata dal flash, camminò lungo un
colonnato. Desiderosa di
trovare un posto tranquillo dove schiacciare un pisolino, decise di
arrampicarvici sopra, richiamando in parte l’istinto
dell’animale che
rappresentava. Non ebbe alcuna difficoltà e tentò
di raggiungere il punto più
in alto possibile, dove si sarebbe finalmente sentita al sicuro.
Silenziosamente, arrivò su una superficie curva che sopra di
sé aveva solo il
cielo. Rilassata, si stese. Si rattristò, notando le stelle
che mancavano, ma
poi venne sopraffatta dalla stanchezza e si addormentò,
ancora dolorante per la
caduta.
Si
risvegliò al suono incessante delle campane, un suono a cui
non era di certo
abituata. Era l’alba. Decise di rimanere dov’era
ancora per un po’. Da lì
poteva ammirare un panorama straordinario e nessuno poteva disturbarla,
salvo
qualche piccione curioso. Si sfiorò la spalla e solo in quel
momento notò il
tatuaggio della sua costellazione, con un rubino incastonato. Si chiese
dove
fossero finiti i suoi compagni e quanto fosse stupido il suo capo, su
una scala
da uno a dieci. Stabilì che dodici era l’indice
più appropriato. Probabilmente
si riaddormentò perché, quando riaprì
gli occhi, era mattino inoltrato. Sentiva
una voce parlare in italiano, ma con un accento terrificante, e una
gran
confusione che solo una folla numerosa poteva fare. Si sporse dalla
cupola dove
si era appisolata. Uno strano tizio vestito di bianco parlava alla
piazza
sottostante, affacciato ad una finestra. Per Adhafera stava dicendo
cose senza
senso, ma preferì non commentare. Decise di provare a
scendere dalla cupola, approfittando
della concentrazione del pubblico presente rivolta esclusivamente a
quel
vecchio strambo.
“Guardate
lassù!” gridò, ad un tratto, una donna
travestita da pinguino, in mezzo a molti
altri pinguini.
“Oh
mio Dio! Vuole buttarsi di sotto!” sbraitò una
signora, facendosi il segno
della croce.
“Vuole
attentare alla vita del Papa!” ringhiò, invece, un
uomo con un ridicolo
cappello.
Un
paio di suore, i pinguini di prima, svennero e una di loro
impugnò il rosario,
come se fosse utile a sventare chissà che colpo di stato.
“E
chi è il Papa?!” storse la bocca Adhafera, capendo
che non sarebbe potuta
scendere da quel lato della cupola, anche perché un branco
di buffoni vestiti a
strisce le puntavano contro le alabarde.
Scese
dal lato opposto alla piazza, mentre il tizio vestito di bianco veniva
portato
dentro, al sicuro. Giunta in terra, con una certa
difficoltà, decise che la
cosa più saggia da fare era allontanarsi alla svelta, ma non
ci riuscì. Una
folla inferocita, che aveva seguito la vicenda alla televisione, la
blocco. Lei
tentò di difendersi, ma erano in troppi. Con un gran urlare
di sirene, si
ritrovò ammanettata e perquisita.
“La
dichiaro in arresto, per aver causato il panico e per aver attentato
alla vita
del pontefice” le disse uno dei poliziotti accorsi sul luogo.
“Ma
chi è il pontefice?! Veramente, io non lo conosco! Cosa
volete che me ne freghi
di ucciderlo?! Lasciatemi andare!!”.
Adhafera,
sbraitante, fu trascinata in cella, mentre su tutti i telegiornali si
diffondeva la notizia dello sventato attacco, con tanto di immagini e
filmati
dell’eroico arresto.
₪₪₪
“Che
freddo” fu il primo pensiero di Al Risha, quando
riaprì gli occhi nel buio
della notte.
Perduti
i poteri, si accorse subito, tristemente, che i suoi lunghi capelli blu
elettrico erano diventati grigi, spenti e ribelli. E fastidiosamente
ricoperti
di sabbia. Questo perché Pesci era caduto nel deserto. Si
alzò a fatica,
ricordando con una certa inquietudine ciò che sapeva sui
deserti. Ora stava
gelando ma, al sorgere del sole, la situazione si sarebbe ribaltata con
esiti
disastrosi, specie per lui, abituato a non allontanarsi mai troppo
dall’acqua.
Iniziò subito a camminare, desideroso di trovare riparo
prima dell’alba. Guardò
in alto. Se c’era una cosa che sapeva fare bene, era
orientarsi con le stelle.
Si diresse verso est, sentendo dentro di sé che
l’acqua era più vicina seguendo
quella direzione. Sospirò. Chissà
dov’erano finiti i suoi compagni!
Rabbrividendo, affondò i piedi nella sabbia, in cerca di un
po’ di calore, ma
diede solamente fastidio agli scorpioni. La veste stracciata non lo
aiutava di
certo. Sentiva ancora la spalla pulsare a causa del piccolo corallo che
ora
aveva incastonato, lungo la costellazione disegnata.
“Se
muoio qui, quel coglione di Kosmos cosa si ritroverà a
fare?” pensò,
domandandosi poi se davvero la cosa avesse importanza.
Probabilmente
anche il suo capo era caduto. In quel caso, non sarebbe stato semplice
tornare
in cielo, sempre se la cosa fosse effettivamente possibile. Si scosse.
Cielo o
non cielo, lui ci teneva a sopravvivere! Si arrampicò fra le
dune per diverse
ore, attento a non farsi sopraffare dalla stanchezza, dalla fame e,
soprattutto, dalla sete.
“Maledetto
corpo mortale!” mormorò, nel silenzio.
Osservò
con curiosità un serpente che risaliva la duna, strisciando
incurvando il
corpo, e rizzò le orecchie. Il silenzio non era
più totale ma un rumore cupo,
simile al bubbolio di un temporale, riempiva l’aria. Al Risha
non percepiva
umidità e poi, si disse, era in mezzo al deserto e un
temporale era fuori
discussione! Allora cos’era? Era sempre più forte
e si avvicinava. Il cielo
parve appannarsi, il vento si alzò e Pesci capì
che stava per essere travolto
da una tempesta di sabbia. Si mise a correre, non sapendo che altro
fare. Era
decisamente fuori di sé dalla paura, perché non
ci teneva affatto a morire, e
dalla rabbia, perché consapevole di trovarsi in quel luogo
per colpa di quel
cretino del suo capo. Chiuse gli occhi, procedendo alla cieca, e si
tappò naso
e orecchie con un pezzo della sua veste. Maledisse quel pianeta e tutto
ciò che
gli venne in mente, avanzando a fatica, senza vedere niente e
respirando
sabbia. Non poteva fermarsi, o sarebbe stato sepolto. Non
poté sapere quanto
tempo rimase intrappolato in quel turbine di vento e sabbia. Quando il
vento
iniziò a calare, tirò un sospiro di sollievo. La
pelle bruciava in vari punti,
per colpa dei graffi che la tempesta gli aveva provocato. Con immenso
fastidio,
notò che il sole era sorto e il caldo si faceva rapidamente
insopportabile.
“Odio
questo pianeta!” gridò, ormai senza più
né forza né coraggio.
₪₪₪
Quando
sentì l’erbetta morbida sotto di sé,
Aldebaran ne fu decisamente lieto. Era
notte, sentiva il canto dei grilli. Quelli se li ricordava! Riconobbe
anche una
civetta, o un gufo, non seppe dirlo nell’oscurità.
Decise che, finché non si
fosse fatto giorno, non era il caso di gironzolare a vuoto e si
acquatto sotto
un cespuglio, una siepe, in attesa dell’alba. Grosso
com’era, non era certo
facile che riuscisse a nascondersi ma, non avvertendo pericoli
immediati, si
rilassò e decise che schiacciare un pisolino fosse la cosa
migliore. Fu
svegliato da una voce, non molto distante.
“Hai
visto? Hanno sventato un attentato al Papa. Mostrano adesso le immagini
per tv.
Pazzesco…c’era una tipa vestita di stracci gialli
con i capelli da pazza
arrampicata sulla cupola. Come ha fatto ad arrivarci lassù
poi…”.
Stracci
gialli e capelli da pazza? Che fosse…? Toro si
alzò in piedi, deciso a saperne di
più. Magari se riusciva a vedere le immagini di cui parlava
quell’uomo… Camminò
e si accorse subito di essere all’interno di un ampio
giardino, circondato da
una siepe. Si diresse verso la casa, a passi lenti ed impacciati, con
la veste
verde piuttosto rovinata ed i muscoli tutti indolenziti. Non resistette
alla
tentazione di inginocchiarsi e prendere un sorso d’acqua da
quello specchio che
si ritrovò davanti. Immediatamente la sputò,
imprecando, avvertendone il
saporaccio.
“Ma
che fai, idiota? Bevi dalla mia piscina?” si sentì
dire, quando ancora si
scuoteva per il disgusto.
“Papà!”
riprese la voce “Questo amante del cloro è amico
tuo?”.
Aldebaran
non aveva idea di cosa fosse il cloro e fissò chi aveva
davanti con un certo
timore, non sapendo se considerarlo un amico o un nemico. Rimase in
ginocchio,
davanti alla piscina. Colui che aveva di fronte doveva avere circa
trent’anni,
piuttosto alto, con lunghissimi capelli rossi e occhi verdi. Era in
costume da
bagno, dai colori sgargianti.
“Sei
parente di Acubens?” domandò Toro, notandone la
somiglianza e adattandosi
linguisticamente alle frasi che aveva udito in precedenza.
“Credimi,
straniero, io di parenti ne ho un sacco, ma nessuno di loro ha un nome
così
assurdo!” fu la risposta, mentre dalla grande portafinestra
usciva un altro
uomo, più alto del primo e più anziano.
“Chi
è questo, un amico tuo?” domandò il
secondo arrivato.
Questi
portava i capelli legati in una lunga treccia bianca ed i suoi occhi
erano come
il ghiaccio.
“Mai
visto prima…da dove sei entrato? I cancelli hanno
l’allarme e, visto quanto sei
ciccione, dubito tu ti sia intrufolato attraverso la
siepe…”.
Aldebaran
storse il viso, non amando essere definito un ciccione. Non lo era! Era
grosso
ma la maggior parte di lui era coperto dai muscoli, non dal grasso!
“Io…ecco…mi
è difficile spiegare da dove sono
venuto…” iniziò Toro.
“Provaci.
Sei piuttosto malconcio…non sarai mica caduto da qualche
aereo? O sei uno di
quegli imbecilli che si buttano senza paracadute perché han
un insensato
desiderio di sfidare la morte?” parlò il
più anziano.
“Beh…vengo
dall’alto, in effetti… E, scusate, non per essere
scortese, ma ho una gran
sete!”.
“Che
dici? Lo facciamo entrare?” mormorò quello con i
capelli bianchi.
“Perché
no? Credo che, in due, riusciremmo a tenergli testa, nel caso avesse
strane
intenzioni. Non mi sembra armato…” rispose il
più giovane.
In
effetti, il più alto dei due aveva ampie spalle e una spanna
di altezza in più
rispetto ad Aldebaran. Il secondo, quello con i capelli rossi, era
più
longilineo ma mostrava delle braccia che indicavano la sua indiscussa
capacità
di difendersi.
“Entra,
piovuto dal cielo” ridacchiò il più
giovane, entrando in casa ed invitando Toro
a fare lo stesso.
Attorno
ad un tavolino in legno, gli fu offerto da bere. Si guardò
attorno. La casa era
piuttosto pittoresca, con quadri appesi, sculture ed oggetti curiosi.
L’ospite,
essendo molto attratto dall’arte, rimase incantato ad
osservare certi dipinti,
fra un sorso di birra ed un altro.
“Allora…”
ripartì il più anziano
“…vuoi dirci qualcosa di te, o ti piace il gioco
del
silenzio?”.
“Io
mi chiamo Aldebaran e…”.
“E
sei del segno del Toro” interruppe il più giovane.
“Come
lo sai?!”.
“Hai
quel segno tatuato sulla spalla, con tanto di pietra incastonata.
Figo…”.
Aldebaran
si toccò la spalla, sentendo l’agata che vi era
spuntata.
“Io
sono Mikael” si presentò il giovane con i capelli
rossi “E lui è mio padre
Scott” proseguì, indicando l’altro uomo,
che salutò con la mano. Toro la trovò
esageratamente grande.
Guardandoli
meglio, si notavano le somiglianze fra i due. La forma del viso, lunga
e
affusolata, il taglio degli occhi, il sorriso…
Aldebaran
si distrasse, vedendo la televisione. Non aveva mai visto un oggetto
simile.
Era accesa e mostrava le immagini dell’attentato a Roma.
“Adhafera!”
esclamò, riconoscendo l’attentatrice.
“Chi?!”
alzò un sopracciglio Scott.
“La
conosci?” sorrise Mikael, trovando affascinanti i folli.
“Devo
andare da lei! Dobbiamo ricongiungerci, assieme a tutti i nostri
compagni!”.
Padre
e figlio si fissarono con aria interrogativa.
“Come
posso andare da lei?” incalzò Toro.
“Di
certo non tanto facilmente. Questa è l’Irlanda,
bello mio, e la tua amichetta è
in Italia! Non so se ti è chiara la distanza… Ti
attende un lungo viaggio fino
all’aeroporto e poi almeno due ore d’aereo. Senza
contare che, se l’hanno
arrestata, non ti sarà concesso vederla”
parlò il figlio.
“Da
che parte è questo aeroporto?” insistette
Aldebaran.
“Di
là” rispose il padre, indicando l’est
“Ma non mi sembra che tu abbia alcunché
con te. Come credi di pagarti il viaggio? Da dove tirerai fuori i
soldi?”.
“Soldi?
Come mi posso procurare questi soldi?”.
“Papà…”
mormorò Mikael, dopo un colpo di tosse
“…questo è scappato di certo da qualche
casa di cura. È completamente suonato! E, se non
è pazzo, è amico per davvero
di una terrorista! Non so quale sia peggio, fra le due
ipotesi”.
Scott
annuì, non sapendo come dargli torto.
“Ma
non pericoloso…”
riprese il padre.
“Ma
è convinto di conoscere una criminale ed è
evidente che non sa stare a questo
mondo”.
“Voi
potete darmeli questi soldi?” continuò Aldebaran,
ignorando i sussurri dei due.
“Te
li devi guadagnare!” sbottò il giovane.
“Se
volete che lavori, io lavoro. Farò tutto quello che volete.
In cambio, vi
chiedo soltanto di darmi la possibilità di andare a
Roma”.
Mikael
e Scott si fissarono, indecisi sul da farsi.
“Scusaci
un secondo” disse il padre, trascinando il figlio nella
stanza accanto,
chiudendo la porta dietro di sé.
“Cosa
facciamo? È pazzo da legare!” esclamò
il giovane.
“Anche
tu, eppure ti tengo sotto il mio stesso tetto!”.
“Non
dire idiozie, papà. Questa è una questione
leggermente diversa”.
“Io
non ho mai cacciato nessuno, ho sempre offerto ospitalità e
riparo a chi la
richiedeva. L’hai detto anche tu che in due riusciamo a
tenerlo a bada, in caso
avesse strane intenzioni. È evidente che ha dei problemi.
Teniamolo qui con noi
per un po’. Se, come dici tu, viene da una casa di cura,
qualcuno verrà a
cercarlo. Prima che si meriti i soldi necessari per un volo fino a
Roma, dovrà
lavorare parecchio. Nel frattempo avremo la possibilità di
conoscerlo meglio e
decidere il da farsi”.
“Come
vuoi, vecchio. La responsabilità è tua,
però”.
“Come
sempre. Tu sei incapace di prenderti
responsabilità!”.
Mikael
fissò il padre con odio, come accadeva piuttosto spesso, ma
non ribatté.
Preferì uscire in giardino, immergendosi in piscina,
nonostante il clima non
fosse esattamente caldo. Scott rientrò nella cucina, dove
stava seduto,
pazientemente, Aldebaran. Gli sorrise.
“Io
e mio figlio abbiamo deciso di ospitarti e farti lavorare per noi,
così da
guadagnarti il viaggio fino a Roma. Ti avviso, però, che ci
vogliono un sacco
di soldi per prendere un aereo…”.
“Lavorerò
giorno e notte, se sarà necessario. Ve ne sarò
eternamente grato!”.
“Bene.
In questo caso, vieni con me. Ti mostro la stanza degli ospiti dove
alloggerai”.
“Ma
non è necessario. Io…”.
“Vuoi
dormire in giardino?! Non se ne parla! Vieni con me. Forse qualcuno dei
miei
abiti ti va bene, altrimenti manderò Mikael in
città a prendertene qualcuno. La
cucina è a tua disposizione, mangia pure quello che vuoi,
l’importante è che ci
avvisi se qualcosa finisce”.
I
due salirono una scala in legno scricchiolante. Le camere erano tutte
al primo
piano.
“Questo
è il bagno degli ospiti” spiegò Scott,
indicando una porta “All’interno
troverai già asciugamani, saponi, shampoo…tutto
ciò che serve, insomma. Come ho
detto a mio figlio, io son sempre stato piuttosto ospitale, anche
perché ho una
famiglia molto numerosa i cui membri passano spesso a farmi visita,
quasi
sempre senza avvisare. Per questo, ho sempre un paio di camere arredate
e
pronte. Questa è la tua”.
Scott
aprì una camera che dava sulla piscina e aveva un piccolo
terrazzino. Era quasi
tutta in tinte verdi, che a Toro piacquero un sacco. Anche
lì c’erano dei
quadri alle pareti.
“Belli
i dipinti” mormorò Aldebaran, non trovando altro
da dire.
“Li
facciamo io e mio figlio” rispose il padrone di casa.
“Complimenti…”.
“Grazie.
Ora rilassati, fai una doccia e vedi se qualcuno dei vestiti
nell’armadio ti va
bene. Domani ti farò sapere quali saranno i tuoi
compiti”.
“Grazie
mille…”.
“Prego,
Aldebaran, giusto? È un nome singolare, ma che ho
già sentito…”.
“È
la stella principale della costellazione del Toro”.
“Ah…i
tuoi genitori sì che hanno avuto un’idea
originale” ridacchiò Scott, prima di
lasciare la stanza, chiudendo la porta, e lasciando Toro seduto sul
letto, da
solo.
₪₪₪
“Venite, presto!
C’è una donna qui!” gridò
qualcuno.
“Poverina!
È quasi del tutto congelata!” rispose qualcun
altro, andando a cercare delle
coperte nell’accampamento poco distante.
“Coraggio!
Fatti forza! Apri gli occhi!”.
Sadalmelik
si scosse, tentando di riprendere del tutto conoscenza. Persi pure lei
i
poteri, si sentì debole e confusa. Girò gli occhi
viola in tutte le direzioni,
cercando di capire dove si trovasse e cosa fosse successo.
“Si
riprende!” sentì.
Non
riusciva a focalizzare chi aveva davanti. Vedeva solamente una bandiera
rossa,
con una croce blu e bianca. Poi arrivò il freddo e lei,
coperta solamente da
quel che rimaneva del suo vestito, rabbrividì. Si strinse
con le braccia e
sentì lo zaffiro che le era spuntato sulla spalla destra.
“Cosa
ci faccio qui? Dove sono?” domandò.
“Speravamo
che la tua provenienza ce la sapessi dire tu” sorrise uno
degli uomini presenti
“Ti trovi vicino a Capo Nord, in Norvegia. Facciamo spola da
qui alle isole
Svalbard”.
“Come
mai? Non vi piace stare fermi?”.
“No”
ridacchiò lo sconosciuto “Noi siamo ricercatori e
siamo qui per studiare la
vita sottomarina di queste zone. Come ti chiami?”.
Acquario
ci pensò qualche istante, smarrita. Non ne aveva idea! Non
sapeva il suo nome,
non ricordava come era giunta fino a lì, da dove
venisse…niente! Solo gli
istanti successivi a quando aveva ripreso conoscenza. La cosa la
spaventò ed
iniziò ad agitarsi.
“Sta
tranquilla!” si sentì dire
“Probabilmente hai avuto un incidente in mare, o in
aereo. È normale, per lo shock, non ricordare. Vedrai che
tutto ti verrà in
mente. Ora prova ad alzarti. Vieni con noi nel nostro accampamento.
Lì sarai al
sicuro”.
“Al
sicuro? Da cosa?” si allarmò ulteriormente
Sadalmelik.
“Dalle
bestie feroci e dal freddo. Vieni”.
Acquario
fece fatica ad alzarsi ma ci riuscì, sostenuta dai due
uomini che l’avevano
trovata.
“Andrà
tutto bene. Vedrai che presto ricorderai tutto o, in caso contrario, ti
aiuteremo noi!” la rassicurò uno dei due,
sorridendole.
Lei
si fece condurre all’interno, dove stavano altre tre persone,
davanti a monitor
e schermi di computer. Il suo salvatore sulla destra abbassò
il cappuccio, che
fin ora gli aveva coperto in parte il volto, e le mostrò i
capelli chiarissimi,
biondi. Lei sorrise. Ora che lo guardava meglio, con quegli occhi verdi
e quel
viso chiaro, lo trovò molto affascinante e fu felice di
essere stata salvata
proprio da lui. Da loro, perché subito capì che
anche l’altro uomo non era
affatto male. Fu fatta sedere e, avvolta da una coperta, le diedero da
bere
qualcosa di caldo.
“Dirama
un comunicato. Non può essere venuta dal nulla”
parlò il biondo, capo della
spedizione, appena Sadalmelik si fu addormentata nella sua cuccetta.
₪₪₪
Lo
sciabordio incessante di un fiume fu la sua sveglia. Aprì
gli occhi neri con
circospezione e, davanti a sé, trovò ad
osservarla un paio di occhi bianchi.
Spalancò i suoi e si rizzò a sedere, cosa che
fece anche la persona che aveva
di fronte.
“Chi
sei tu?” si domandarono, all’unisono.
“Zubeneschamali”
e “Zubenelgenubi” furono le risposte.
Le
due donne erano identiche, se non per i colori di occhi e capelli che
erano
invertiti. Zubeneschamali aveva capelli bianchi e occhi neri,
Zubenelgenubi era
l’opposto. Entrambe avevano, sulla spalla, il tatuaggio della
Bilancia, ma le
pietre incastonate, dei piccoli diamanti, erano poste in due zone
diverse.
“Io
sono Zubeneschamali, la stella più splendente della
Bilancia, posta al centro
del suo piatto settentrionale” spiegò la prima.
“Ed
io sono Zubenelgenubi, colei che sta al centro, fra i due
piatti”.
“Ma
fai sempre parte della mia costellazione! Perché ci hanno
divise?”.
“Non
ne ho idea. Piuttosto…dove ci troviamo?”.
Entrambe
si alzarono lentamente e si guardarono attorno. Il paesaggio non era
male, c’erano
erba e terreno fertile tutt’attorno, anche se
nell’aria potevano percepire il
caratteristico odore delle paludi. Il fiume che sentivano era vicino al
mare e
scorreva lento ormai, in prossimità della foce. Il sole
stava tramontando e non
fu difficile per loro arrivare alla medesima constatazione: dovevano
trovare riparo
prima della notte.
“Colorado.
Qui c’è scritto che questo fiume è il
fiume Colorado” disse Zubenelgenubi.
“Bene.
Allora muoviamoci verso nord, abbiamo più
possibilità di incontrare centri
abitati”.
“Come
lo sai?”.
“Chiamalo
intuito. Comunque, da quel che ricordo, il Rio Colorado si trova in
Argentina e
la parte più abitata dell’Argentina è a
nord”.
“Argentina?!
E dove sarebbe?!”.
“A
quanto pare…sulla Terra”.
“Ma…non
c’era questa "Argentina" quando ci stavamo noi”.
“Da
quel che ne so, è stata scoperta dopo. Ma non siamo qui per
imparare la storia!
Dobbiamo trovare un riparo, del cibo e, magari, qualche informazione
sui nostri
compagni”.
Insieme,
si incamminarono oltre le paludi, nelle quali avanzarono con un certo
disgusto,
scacciando zanzare ed altri insetti molesti. Decisero di seguire la
costa, una
volta che l’ebbero trovata, e non passò molto
tempo prima che si ritrovassero
fra i turisti in costume da bagno. Continuarono ad andare avanti,
desiderose di
trovare un centro abitato e non solamente dei ragazzini ubriachi. Era
passata
l’alba quando videro dei grandi palazzi che davano sulla
spiaggia. Tenendosi
per mano, si addentrarono fra la folla. La temperatura era mite, quasi
estiva
e, nonostante il vento, il bagnasciuga era parecchio affollato. In
molti le
schivarono, come disgustati nel vederle, così malridotte
come due poveracce.
“Scusi…dove
ci troviamo?” domandò
Zubeneschamali ad un uomo, sperando di non vederlo andar via.
“A
Bahia” si sentì rispondere, mentre sul volto di
chi aveva di fronte si creava un’espressione
decisamente interrogativa e incuriosita.
“A
Bahia?!” ripeté Zubenelgenubi.
“Sì,
Bahia Blanca. Vi siete perse?” continuò il
turista, leccando il suo gelato.
“Sì,
si può dire di sì…abbiamo bisogno di
un riparo, acqua, cibo…” iniziò
Zubeneschamali.
“Ma
che vi è capitato?!” esclamò una donna,
notando le vesti stracciate delle due,
sporche del fango delle paludi e che non riuscivano a coprire i piedi
scalzi,
pieni di tagli per la lunga camminata.
Le
cadute non sapevano cosa rispondere. Chinarono gli occhi.
“Se
avete fame, io ho un panino con me. Non è molto
ma…” iniziò la donna, prima di
venir interrotta da un uomo piuttosto corpulento che guardò
il gruppetto con
rimprovero.
“È
vietato chiedere l’elemosina in spiaggia!”
tuonò, rivolto alle due stelle.
“Ma
noi non stavamo chiedendo l’elemosina.
Noi…stavamo…” balbettò
Zubenelgenubi,
non trovando una giustificazione o una definizione valida.
“Venite
con me. Fuori da qui. Smettetela di infastidire i turisti!”
continuò la
guardia.
“Non
ci stavano infastidendo, davvero…”
parlò la donna, ma non ci fu nulla da fare.
L’agente
afferrò saldamente per il braccio entrambe le cadute ed
iniziò a tirarle verso
l’uscita. Zubeneschamali però, un po’
per la stanchezza e un po’ per la paura,
non riuscì a stare al passo con chi la stava trascinando e
cadde in terra, fra
l’indifferenza generale.
“Sorella!”
la chiamò Zubenelgenubi.
Le
due si guardarono negli occhi e poi Zubeneschamali li chiuse, svenendo.
₪₪₪
Deneb
Algiedi gironzolava tranquillo per la strada battuta, come se per lui
fosse la
cosa più naturale del mondo. Aveva rubato uno degli abiti
del luogo,
imprudentemente lasciato incustodito ad asciugare, ed ora si stava
dirigendo
verso il grande mercato. I suoi occhi bianchi creavano qualche
inquietudine
nella gente che incrociava, che però preferiva non indagare
ulteriormente su
quello strano essere dai capelli grigi. Capricorno aveva coperto con
cura il
tatuaggio con la sua pietra onice, per non destare ulteriore
curiosità da parte
di ladri e ficcanaso. Aveva una gran fame, l’ora di pranzo
era passata già da
un pezzo, e non sapeva bene come procurarsi un po’ di cibo.
Sperò con tutto il
cuore che, da quelle parti, funzionasse ancora il caro vecchio sistema
del
baratto. Anche se non sapeva bene cosa barattare. La sua veste nera era
praticamente da buttare, anche se la teneva stretta fra le braccia,
avvolta a
creare un fagotto. Il suo unico pensiero, al momento, era sopravvivere
a fame e
sete. Non gli importava minimamente dei suoi compagni e del resto del
cielo,
certo di non poterci più tornare. Era finito in India, e la
cosa non gli
dispiaceva. Sembrava un posto carino, anche se decisamente
sovrappopolato.
Camminò fra le stradine, sgomitando per passare, assordato
dalle urla dei
mercanti. Passandosi una mano fra i capelli, capì cosa
poteva barattare: i due fermagli
che creavano la sua pettinatura. Erano d’argento. A
malincuore, tolse quello di
destra, facendosi una coda unica con quello rimasto.
Sospirò. Non voleva
separarsene, ci era affezionato, ma non poteva morire di fame. E
rubare, in
mezzo a tutta quella gente, non gli pareva una gran bella idea. Anche
se…avrebbe potuto tentare… Scacciò
quel pensiero dalla testa, ricordando la
legge che prevedeva il taglio della mano che vigeva dalle sue parti, ai
suoi
tempi. Preferiva non scoprire se anche lì ci fosse un
sistema di regolazione
dei conti simile. Con l’oggetto d’argento fra le
mani, andò verso un banchetto
che vendeva gioielli di pietre dure e piccoli monili preziosi. Si
avvicinò,
circospetto, mentre il mercante sfoggiava il suo migliore sorriso.
“Volete
fare un bel regalo alla vostra signora?” gli
domandò il venditore.
“Veramente
no. Vorrei mostrarle una cosa, mi serve un parere
d’esperto” rispose Deneb
Algiedi.
Capricorno
mostrò il fermacapelli, attento a non avvicinarlo troppo al
suo interlocutore,
la prudenza non era mai troppa! L’indiano fissò
l’oggetto con ammirazione.
“È
uno splendido gingillo. Roba di famiglia?”
commentò.
“Più
o meno. Quanto può valere?”.
“Volete
venderlo?!”.
“Valutarlo”.
“Beh…sembra
piuttosto pesante. È tutto in argento?”.
“Tutto
quanto. E le pietre non sono vetri laccati ma gemme
autentiche”.
“Vedo.
So riconoscerli i falsi, io. In questo caso, mio caro signore, posso
dirle che
un affare del genere è qualcosa di più unico che
raro, di valore indiscusso.
Non vorrei scompormi ma…varrà milioni di
Rupie!”.
“Quante,
per l’esattezza?”.
“Non
saprei. Non vorrei fare stime azzardate”.
“Azzarda
pure! Non verrò ad ucciderti, nel caso la tua stima fosse
sbagliata”.
Il
mercante lo fissò con un leggero timore, non capendo
esattamente se lo
straniero che aveva di fronte fosse pazzo o in vena di scherzi.
“Non
volendo usare termini monetari…” riprese Deneb
Algiedi “…tu cosa saresti
disposto a dare in cambio? Di concreto, intendo. Stoffe, cibo,
bestie…quello
che vuoi!”.
“Signore,
io ho i miei fornitori e in genere non do cose in cambio di altre cose.
Preferisco i contanti. Ma so dove può andare, specie se
ciò che mi avete
mostrato è rubato…”.
“Non
è rubato!”.
“Che
lo sia o no, lei mi sembra uno di quelli a cui non piace dare troppo
nell’occhio e uno scambio con chi dico io sarà
discreto, evitandole il fastidio
che la plebe potrebbe arrecarvi, notando ciò che
possedete”.
Capricorno
attese qualche istante, prima di annuire e farsi spiegare dove poteva
fare
buoni affari, promettendo di dividere una parte del ricavato con il
mercante
informatore. Non fu facile avanzare fra la folla, specie con lo stomaco
che brontolava
da ore senza pietà, ma alla fine raggiunse un piccolo locale
sulla sinistra,
coperto da una tenda leggera e con un uomo davanti alla porta, come a
far la
guardia. Entrò senza farsi troppi problemi, agitando la mano
per dissipare il
fumo dall’odore pungente che vi era all’interno.
All’inizio pensò di aver
sbagliato posto, dato che quello sembrava un normalissimo negozio di
tessuti e
spezie. Si guardò attorno, osservando le statue di varie
divinità sparse un po’
ovunque.
“Benvenuto,
elegante signore” si sentì dire.
“Sono
qui per concludere un affare. Ho dell’argento da
scambiare”.
“Io
non tratto argento” rispose, seccamente, il mercante, avvolto
dai fumi
dell’incenso.
Era
un omino basso, tarchiato, con occhi scuri e un turbante bianco sporco
a
coprirgli il capo.
“Immaginavo
di aver sbagliato porta…” mormorò
Capricorno, chinando leggermente la testa per
scusarsi.
“Però,
dato che ormai siete entrato, potrei dare un’occhiata a
questo argento?”.
Deneb
Algiedi mostrò il fermacapelli. Il proprietario del negozio
spalancò gli occhi,
sorridendo, e si alzò dalla sedia di legno che aveva dietro
al bancone.
“Dove
lo avete trovato?” domandò.
“Da
quel che ne so, è sempre stato mio…”.
“Capisco.
Beh, con un gioiellino come quello, non posso mascherare il mio
interesse. Mi
segua sul retro”.
L’uomo
a guardia della porta entrò, prendendo il posto
dell’uomo con il turbante.
Capricorno e mercante scesero lungo una piccola scaletta ed entrarono
in
un’altra stanza, buia e con un odore di muffa.
All’interno c’erano altri due
uomini, decisamente grossi e con l’aria minacciosa. Deneb
Algiedi cominciò a
pentirsi della sua idea. Strinse i pugni e decise che, dato che ormai
era
giunto fino a lì, doveva avere il coraggio di andare avanti.
Dopotutto, la
perseveranza era una delle sue doti!
“Bene.
Mostratemi meglio ciò che mi avete portato”
parlò il mercante, sedendosi dietro
ad una cassa di legno malconcio, che scricchiolò.
Capricorno
si chiese cosa contenesse, ma fu abbastanza furbo da non chiederlo.
Mostrò di
nuovo l’oggetto, senza però lasciarlo andare.
“Come
faccio a stimarne il valore, se non posso tenerlo fra le
mani?” sbottò chi
aveva di fronte.
“Perdonatemi,
ma dalle mie parti la prudenza non è mai troppa”
rispose Deneb Algiedi,
rimanendo fermo.
“Quanto
vuoi, straniero?”.
“Il
giusto”.
“E
il giusto, secondo te, quale sarebbe?”.
“Più
di quanto pensate di propormi”.
I
tre indiani si fissarono, quasi ammirati da quella risposta. Il
proprietario
del negozio sorrise di nuovo, prima di estrarre da una sacca che aveva
al
fianco dei dollari.
“Forse
per te, straniero, il dollaro è meglio. No?”.
“Mi
è del tutto indifferente. Mi basta avere una valuta, o una
merce di scambio,
che mi permetta di fare a meno di rubare nei prossimi giorni”.
“Brutalmente
sincero”.
“Lo
sono sempre stato”.
“Con
chi sei qui? Moglie, figli, fidanzata, mamma?”.
“Con
nessuno. Solo con me stesso”.
“E
chi sa che sei qui?”.
“Immagino
solo la mia ombra”.
Dopo
qualche attimo di silenzio, l’indiano porse a Capricorno una
mazzetta di
dollari.
“Sono
quasi duemila dollari, sono stato fin troppo generoso. Con quelli sarai
in
grado di fare ciò che vuoi per un tempo piuttosto
lungo”.
Deneb
Algiedi lasciò andare il suo fermacapelli, a malincuore, ed
afferrò svelto i
soldi. Voleva uscire al più presto da quel posto ed andare a
mangiare. Lasciò
lo stanzino e rientrò nel negozio, dove ad attenderlo stava
la guardia della
porta. I due si fissarono, qualche istante, prima che
l’indiano scattasse in
avanti, tentando di aggredire Capricorno con un coltello. Deneb
Algiedi,
abituato all’addestramento continuo con Antares e Rukbat, si
difese e riuscì a
mandarlo in terra, dopo un ruzzolo sugli scalini.
“Ma
che scherzo è questo?!” sbottò, quando
anche i due uomini dello stanzino si
scagliarono contro di lui.
Inaspettatamente
per gli aggressori, lo straniero riuscì a batterli e
disarmarli, dopo essere
balzato sul bancone e aver ribaltato un bel po’ di roba. Si
sentì afferrare per
il collo. Il primo si era ripreso e, approfittando della momentanea
distrazione
dell’aggredito, lo aveva preso alle spalle. Deneb Algiedi si
dimenò, senza
respiro, e riuscì ad allentare la presa dell’altro
con una poderosa testata.
L’aggressore indietreggio di qualche passo e, stavolta, fu
Capricorno a partire
all’attacco. Lo caricò e lo sbatté
contro il bancone, riempiendolo di cazzotti
e ributtandolo in terra.
“Lo
vuoi capire o no che devi stare giù?!”
sibilò, passandosi il dorso della mano
sul labbro spaccato.
Sentendo
il rumore, altri sicari entrarono nel locale, ma il proprietario li
fermò.
“Devo
congratularmi con te, straniero. Mai nessuno era riuscito ad atterrare
i miei
ragazzi. Dove hai imparato a combattere?”.
“Me
lo hanno insegnato degli amici” rispose Deneb Algiedi, con un
velo di
malinconia nello sguardo, come ormai certo che non li avrebbe
più rivisti.
“Militari?”.
“No.
Guerrieri”.
“E
la differenza dove sta fra questi due termini?”.
“Che
un guerriero combatte per se stesso”.
“Hai
detto che sei qui da solo e che nessuno sa che sei qui. La tua famiglia
dove
l’hai lasciata?”.
“Non
ho famiglia”.
“In
questo caso…ti piacerebbe unirti alla nostra? Faresti
qualche lavoretto per me?
Ti pagherei bene…”.
“Di
che lavoretti si tratta?”.
“Niente
di legale, se vuoi proprio saperlo”.
“Non
mi è mai fregato più di tanto se una cosa
è legale oppure no”.
“Bene.
In questo caso, dopo aver controllato che su di te non ci siano
microfoni,
ricetrasmittenti o altre scempiaggini, ti do il benvenuto nel magico
mondo del
contrabbando”.
“Contrabbando
di cosa?”.
“Di
qualsiasi cosa. Droga, armi, merce rubata, oggetti non vendibili sul
mercato…
Principalmente trattiamo con Americani e Cinesi. Sei dei
nostri?”.
“Qual
è il mio primo incarico, capo?” sorrise Capricorno.
“Ridammi
i miei soldi” sogghignò il mercante, lanciandogli
il fermacapelli “E datti una
sistemata. Ad uno come te, ci vuole un primo incarico
speciale”.
Deneb
Algiedi annuì.
“E
rimettimi a posto il negozio. Guarda che casino hai fatto!”
concluse il capo,
prima di tornare sul retro.
₪₪₪
Cominciava
davvero ad odiare canguri, koala e qualsiasi altra bestiaccia
australiana che
incrociava. Appostato su un albero enorme d’acacia, guardava
verso il basso in
cerca di qualche preda. Si era costruito un rudimentale arco con delle
frecce,
congratulandosi con se stesso per essere ancora in grado di farlo.
Sbadigliò.
La giornata era soleggiata e calda. Ad un tratto, un movimento fra i
cespugli
lo ridestò dal torpore in cui era piombato. Vide che un
grosso coniglio si
stava allegramente pappando alcuni arbusti. Preparò il suo
arco, sorridendo ai
coloni che si erano portati dietro simili creature dalle
capacità riproduttive
pari a quelle dei parassiti. Si apprestò a scoccare la
freccia, quando uno
strano oggetto ad arco gli portò via la cena. O meglio, gli
spaventò la cena
perché lasciò andare la mano e la sua arma
colpì quell’affare in legno.
“Dannati
boomerang” ringhiò, scendendo
dall’albero per andare a riprendersi la freccia.
Stranamente,
nessun indigeno venne a reclamarlo. Trovò la cosa sospetta e
si guardò
parecchio in giro. D’un tratto una risata ed un rumore lo
fece girare. Si
avvicinò convinto ad un arbusto ed afferrò per il
codino un ragazzino che vi si
nascondeva dietro. Altri due, un bambino ed una bambina, riuscirono a
sfuggirgli.
“Lasciami
andare!” protestò il prigioniero.
“Dovrei
mangiarti, così impari a farmi scappare gli spuntini con i
tuoi giocattoli!”.
“Lascialo
andare!” gridarono i due fuggitivi, iniziando a lanciare
pietre e bastoni.
“Quanto
siete noiosi!” sbuffò il cacciatore, lasciando
andare il ragazzino.
“Io
sono il figlio maggiore del capo villaggio! Ti pentirai amaramente di
ciò che
hai fatto!”.
“Ed
io un tempo ero una costellazione. Che vuoi da me?! Credi di farmi
paura?!”.
“Una
costellazione? Quale costellazione?”.
“Cosa
ti importa?! Dubito che tu le conosca…”.
“Mio
padre ha notato la caduta delle costellazioni. Se riesci a provare che
sei una
di loro, forse non ti ucciderà per avermi tirato i
capelli”.
Stava
calando la sera, e le prime stelle già si intravedevano. Non
passò molto tempo
prima che un gruppo di adulti venisse a controllare dove fossero finiti
i
bambini. La stella caduta non fece in tempo ad andarsene. I tre
piccoli,
parlando velocemente, raccontarono la tirata di capelli e il fatto che
lui
avesse detto di essere una costellazione caduta. A quanto pare, gli
adulti
diedero molta più importanza al fatto che
quell’individuo bianco e vestito in
modo imbarazzante avesse alzato le mani su uno dei loro bambini.
Puntarono le
lance contro il forestiero, che alzò le mani al cielo in
segno di resa, senza
però lasciare andare l’arco e la freccia. Ne aveva
altre con sé, dietro la
schiena. Non gli furono tolte ma gli fu impedito di abbassare le
braccia.
Raggiunto il villaggio, notò gli sguardi stupiti dei
presenti. Fu spiegata la
ragione per cui era stato condotto lì e immediatamente venne
legato e
disarmato. Il capo villaggio non tardò molto ad arrivare.
Incuteva un certo
timore, con il volto dipinto e la muscolatura in evidenza.
“Senta…chiedo
perdono per aver preso per i capelli il suo pupillo, ma questa
pagliacciata mi
sembra eccessiva per una cosa del genere!”.
“Come
conosci la nostra lingua? E cosa facevi nel nostro terreno di
caccia?”.
“Io
conosco tutte le lingue e stavo cacciando, attività lecita
in un "terreno
di caccia", direi!”.
Era
scesa la notte nel frattempo e tutti alzarono gli occhi al cielo.
“Le
stelle non sono ancora tornate…”
mormorò una donna.
“Lui
ha detto di essere una costellazione!” squittì il
bambino catturato.
Il
capo ridacchiò e lo osservò da vicino.
“E
che costellazione saresti?” domandò, senza
ricevere risposta.
Con
un cenno, venne avvicinata una donna, una specie di sciamana.
“Scopri
se dice il vero” ordinò il capo “E
tienilo d’occhio. Non mi piace per niente”.
“Neanche
tu mi piaci per niente!” sibilò la stella, prima
che la donna lo zittisse
semplicemente sfiorandolo con una mano, grazie a chissà
quale potere magico, o
chimico dovuto a qualche pianta strana. Nel frattempo, il resto del
villaggio
iniziò a riunirsi attorno al fuoco, prendendo parte ad una
strana danza.
“Tu
chi sei?” domandò la sciamana, tenendo il volto
della stella fra le mani.
“Io
sono Rukbat” fu la risposta.
“E
da dove vieni?”.
“Dal
cielo” ammise Sagittario, completamente ipnotizzato o sotto
l’effetto di
qualche droga.
“Da
dove?”.
“Dal
centro del cielo”.
“Sei
una costellazione?”.
“Sì.
Io sono la stella Alpha del Sagittario”.
“Dimostramelo!”.
Rukbat
si alzò in piedi, facendosi slegare. Ancora in trance, si
avvicinò al gruppo di
danzanti. Stavano eseguendo la “danza delle
stelle”, un complesso sistema di
passi che veniva svolto dai loro antenati per dare luce agli astri.
Chiuse gli
occhi, riuscendo inspiegabilmente ad eseguirne ogni passaggio, fra lo
stupore
generale dei nativi, che mai ad un bianco l’avevano mostrata.
Probabilmente, se
fosse stato cosciente, Rukbat stesso si sarebbe stupito di quelle sue
mosse,
essendo normalmente poco propenso a movimenti simili. Quando
riaprì gli occhi,
essi non erano più spenti ma argento vivo, luminosi come
quando era una stella.
Avvertì una grande energia dentro di sé e, per un
attimo, la sua costellazione
riapparve in cielo. Fu solo per qualche secondo, ma tutti i presenti lo
notarono e fissarono quello straniero con aria interrogativa e stupita.
Rukbat,
nel frattempo, spense la luce del suo sguardo lentamente.
L’energia della danza
lo stava abbandonando e lui stava iniziano a riprendere il controllo.
Quando i
suoi occhi furono di nuovo grigi spenti, cadde in terra, in ginocchio,
appoggiando le mani al terreno e guardando verso il basso. Per un
istante, era
stato in grado di vedere i suoi compagni, sparsi per il Mondo. Il
sollievo di
vederli vivi era stato subito sostituito dallo sconforto. Non era mai
stato
particolarmente ottimista e, al momento, non vedeva davvero come fosse
possibile un loro ritorno al cielo. Sarebbe rimasto per sempre un
mortale, con
semplicemente quel tatuaggio con pietra granata a ricordargli che non
era
sempre stato così.
“Se
sei una costellazione, allora devi tornare in cielo”
affermò un bambino.
“E
come, piccolo genio?” sbottò, sarcastico, Rukbat.
“Sei
nato come stella?” domandò una bambina.
“No.
Sono divenuto una costellazione dopo aver vendicato Orione e ucciso
quel
deficiente di Scorpione Antares. Ero in Grecia…”.
“Credo
allora che, per tornare lassù, tu debba tornare nel luogo
d’origine” suggerì la
sciamana.
“E
uccidere un’altra volta Antares?
Divertente…” sghignazzò Sagittario.
“Non
intendevo questo…”.
“L’avevo
capito. Ad ogni modo, non ho niente da perdere. Devo ricongiungermi ai
miei
compagni e, forse, proprio in Grecia scoprirò come tornare a
casa”.
“O,
forse, dato che sei nato là, scoprirai che è
quella la tua casa…” aggiunse il
capo.
“Ne
dubito. Non credo proprio che la Grecia sia rimasta bella come la
ricordavo. Ad
ogni modo…come la raggiungo? Qualche idea?”.
“Da
qui all’Europa, l’unico mezzo è
l’aereo. Che costa parecchio. Noi non abbiamo
denaro, viviamo di caccia, pesca e raccolto. Non saprei come
aiutarti” ammise
il capo.
“Ho
capito. Dovrò usare i miei metodi…potrei riavere
il mio arco? Credo di aver
avuto un’idea…” ghignò
Rukbat, incrociando le braccia ed alzando la testa verso
il cielo.
₪₪₪
“Ok…va
tutto bene…nessuno vuole farti del male, piccolina. Io meno
che mai. Stai
tranquilla…” mormorava Acubens, immobile,
svegliata faccia a faccia con una
leonessa.
Terrorizzata,
la rappresentante del Cancro indietreggiò lentamente,
rimanendo stesa sulla
schiena ed aiutandosi con i gomiti. La bestia si limitava ad annusarla,
incuriosita, senza alcun segno di aggressività. Forse era
pasciuta. Acubens lo
sperava, con tutto il cuore. Senza fare movimenti bruschi,
riuscì a mettersi
seduta. Si guardò attorno e notò subito di essere
circondata. Almeno cinque
leonesse la stavano osservando e, in lontananza, un grosso leone
controllava la
sua famiglia. Evidentemente, Cancro era caduta proprio in mezzo a dove
si
riuniva il branco. Vari leoncini giocavano fra l’erba secca.
Acubens sospirò.
Cosa poteva fare? Arrampicarsi era fuori discussione e sarebbe stato
inutile,
scappare era lo stesso. Forse poteva tentare di
spaventarli…ma erano
decisamente troppi! Sorrise, presa da un attimo di pura follia. Trovava
quelle creature
molto carine e non ne aveva paura, ora che aveva notato che nessuna di
loro era
aggressiva nei suoi confronti. Restando calma, si alzò in
piedi. Questo allarmò
le bestie, che iniziarono ad agitare le code e ringhiare. Subito
Acubens tornò
ad accucciarsi, chinando il capo come a voler mostrare che si
sottometteva. Un
paio di leonesse si avvicinarono, annusandone la veste bianca.
Fortunatamente
non aveva ferite aperte, solo qualche botta, e lo smeraldo che portava
sulla
spalla non le aveva provocato sanguinamento.
“Non
potete essere più terribili di Adhafera”
mormorò Cancro, respirando lentamente.
Iniziava
a sentire un forte caldo. Sentiva i nasi umidi di quegli animali sulla
pelle e
ridacchiò, per il solletico. Mai si sarebbe immaginata di
vivere una situazione
del genere! Dolcemente, girò il capo verso una delle
leonesse e provò a
sfiorarla con la mano. Questa si ritrasse subito, ma non si
allontanò molto.
“Come
ti chiami? Io sono Acubens, e sono qui tutta sola, senza più
le mie amiche
vicino” parlò Cancro, non aspettandosi una
risposta ma avendo desiderio di
liberare se stessa dalla brutta sensazione che la opprimeva.
“Sei
una leonessa bellissima…” riprese
“…e anche tu lo sei!” rivolta ad
un’altra di
quelle creature “Siete tutte bellissime, come bellissimi sono
i vostri cuccioli
e stupendo è il vostro compagno, il fiero e un po’
snob leone che si limita a
fissarmi da lontano. Non ho cattive intenzioni, non voglio farvi alcun
male”.
Sorrise,
mentre osservava due piccoli intenti a giocare.
“Chissà
dove sono gli altri come me…” disse, rimanendo poi
in silenzio.
Uno
sparo ruppe quel silenzio e le leonesse subito si mossero per difendere
i loro
piccoli, ignorando Acubens. Cancro si alzò. Degli uomini con
un grosso fucile
avevano appena tentato d’abbattere il leone. Lei non sapeva
che suono fosse ma,
dall’allarme che vide sui musi degli animali,
intuì che non fosse nulla di
positivo. Erano in pericolo.
“Che
state facendo?!” gridò la stella caduta, nella sua
lingua, a chi aveva sparato.
“E
quella chi è?!” riuscì a sentire, di
rimando, e capì in che idioma esprimersi.
“Andatevene!
Non fate dal male a queste meravigliose bestie!”.
“Io
non so chi tu sia, ragazzina…” le rispose uno
degli uomini “…ma, se non vuoi
finire pure tu venduta al mercato nero, ti conviene farti gli affari
tuoi”.
“Andate
via! Li spaventate!”.
“Ma
chi sei?! Una di quei cretini di Greenpeace che si fan ammazzare per
salvare le
balene?!”.
“Non
so chi siano quelli di Greenpeace ma, se ne avessi
l’occasione, credo che
anch’io arriverei a gesti estremi per salvare chi
è innocente da esseri immondi
come voi”.
Di
certo ai bracconieri non piacque per niente sentirsi definire
“esseri immondi”
e non nascosero il loro disappunto, caricando i fucili. Erano in mezzo
al nulla
e, anche se avessero sparato a quella ragazzina, non ci sarebbero stati
testimoni, se non un branco di gatti giganti. Acubens, non sapendo cosa
fosse
quel fucile che le stavano puntando contro, non reagì nel
modo appropriato.
Spalancò le braccia, come a coprire tutti gli animali che le
stavano alle
spalle.
“Sei
impazzito?! Non vorrai mica spararle?!” parlò uno
degli uomini, forse l’unico
vagamente sano di mente.
“Perché
no?! Hai forse un’idea migliore per levarcela dai
piedi?!”.
“Non
mi sembra molto forte…”
“Dici
che sia meglio riempirla di botte?”.
Ancora
confabulavano sul da farsi quando un ruggito li interruppe. Un giovane
leone,
non appartenente a quel branco, infastidito dal rumore, aveva aggredito
uno dei
bracconieri, il più stupido perché rimasto
isolato in mezzo ad una situazione
del genere. Gli altri tre si girarono ma non fecero in tempo ad
imbracciare il
fucile. Il giovane maschio, con ancora la criniera piuttosto
spelacchiata,
corse verso di loro e ne aggredì un altro.
Contemporaneamente, Acubens aveva
impugnato un grosso bastone e, con tutta la forza che aveva, era
riuscita a
tramortire i due rimasti. Soddisfatta, gettò immediatamente
l’arma a terra,
quando vide che il leone la fissava, con aria piuttosto minacciosa.
Cancro
indietreggiò di qualche passo.
“Io
non sono una di loro! Io non voglio farvi del male!” si
affrettò a dire,
sperando di farsi comprendere.
Fu
il capobranco a salvarla, non che, ovviamente, fosse quella la sua
intenzione.
Il leone più anziano preferì mettere le cose
subito in chiaro con quel
giovanotto impudente e lo allontanò dalle sue femmine con un
potente ruggito. L’aggressore
di cacciatori se ne andò. Il maschio alfa gli concesse di
pasteggiare con il
bracconiere caduto in terra per primo, l’idiota. Gli altri
tre se li divisero
fra loro, membri del branco, sotto lo sguardo piuttosto schifato di
Cancro.
₪₪₪
“Si
sta riprendendo!”.
“Meno
male! Sarà stato il caldo…”.
Astrea
aprì gli occhi, una volta dorati ora marroni, e si scosse.
Guardò chi tentava
di farla rinvenire. Era una donna, che indossava una lunga veste
candida.
“Sei
una vestale?” domandò Vergine, ancora piuttosto
confusa.
“Anche
tu sei una di noi? Non ti ho mai visto prima. Sei una figurante
nuova?”.
“Figurante?”
borbottò Astrea, mettendosi seduta e reggendosi la testa.
Era
caduta sulla pietra, e la cosa non le aveva fatto un granché
bene. Guardò in
alto. Quello in cui stava aveva tutta l’aria di essere un
tempio greco. Ma dove
erano i colori, le statue, i decori, i fuochi, i fedeli…?
“Dove
mi trovo?” mormorò, senza capire.
“Nell’antico
tempio di Vesta. Il caldo deve averti fatto proprio male. Siediti un
attimo,
bevi un po’ d’acqua e vedrai che tutto ti
sarà più chiaro. Cosa ti è capitato?
Il tuo vestito è a brandelli!”.
Astrea
seguì il consiglio. Era circondata da ragazze vestite in
modo molto simile a
lei, non fosse che il suo abito era piuttosto rovinato. Fece una
smorfia,
sfiorando la pietra di diaspro che le accentuava la costellazione sulla
spalla.
Iniziò a ricordare e chinò la testa. Era mortale
ora. Ma, forse, era finita in
un luogo familiare. Tornò a guardare in alto. Decisamente
quello era uno di
quei templi che ben conosceva fin da bambina, anche se era piuttosto
differente
da ciò che ricordava.
“Meglio
adesso?” le domandò una delle soccorritrici
“Ti hanno aggredita?”.
“No”
si affrettò a dire Vergine “Ma ne ho passate
decisamente troppe”.
“Sei
una delle nuove figuranti al tempio?”.
“No,
non proprio. Diciamo, però, che lo conosco piuttosto
bene…”.
Si
alzò in piedi. Camminò con sicurezza, muovendosi
come era abituata a fare in un
luogo che ancora considerava sacro. Le sue salvatrici la fissavano con
curiosità, specie quando fu giunta all’esterno e
spiegò loro com’era la
configurazione della città più di duemila anni
prima.
“Sei
una studiosa di storia?” le domandò una delle
figuranti.
“Si
può dire di sì…”.
“E
conosci il greco antico?”.
“Certo”.
“Ti
piacerebbe fare la figurante come noi? Una in più non fa mai
male e un paio di
noi fra poco devono tornare all’università a tempo
pieno”.
“Che
dovrei fare?”.
“Niente
di diverso da ciò che hai fatto fin ora. Passeggiare su e
giù, rispondere alle
domande dei turisti, fingere di essere una vera vestale… Non
pagano moltissimo,
ma è pur sempre un lavoro”.
Astrea
fece un paio di conti. Ora era mortale e doveva sopravvivere in qualche
modo.
Di certo un lavoro era un buon punto di partenza.
“Va
bene. Quando inizio?” rispose.
“Anche
subito. Prima, però, devo darti una veste nuova. Ma davvero
non sei una
figurante? Allora come mai porti quello strano vestito?”.
Vergine
non sapeva cosa rispondere. Per lei quel vestito non era affatto
strano. Le
false vestali sorrisero, capendo che era meglio non parlarne.
“Dove
abiti? Sei di Atene?” domandarono, dopo che Astrea si fu
cambiata.
“Sono
appena arrivata qui. Al momento non abito da nessuna parte”
rispose lei,
sistemando l’abito senza bisogno di aiuto.
“Ti
sta benissimo. Sembra fatto appositamente per te. Per quanto riguarda
l’alloggio…perfetto! Io ho bisogno di un piccolo
aiuto con il greco antico ed
il latino. Se mi aiuti, puoi stare in stanza con me. Sono in una
residenza per
studenti assieme ad un’altra figurante, Maia, che oggi ha
turno di riposo. C’è
un letto libero. Ti sta bene? L’affitto e tutto il resto ce
lo dividiamo in
parti uguali”.
“Benissimo”.
“Non
ti ho ancora chiesto come ti chiami…”.
“Astrea”.
“L’antica
Dea della Giustizia? Carino come nome… Io sono
Alìs, piacere. Alla fine del
turno, verso le sei di stasera, andiamo a casa assieme. La mia macchina
è
piuttosto scassata, chiedo scusa, ma non ho di meglio con
l’università che mi
risucchia ogni spicciolo che riesco a mettere da parte!”.
Astrea
sorrise. Non aveva idea di cosa fosse una macchina. Guardò
Atene in lontananza.
Era decisamente cambiata parecchio e anche i greci non erano da meno.
Del
resto, doveva aspettarselo. In più di due millenni, ne
passano parecchi di
mortali!
₪₪₪
Che
strana sensazione provò, quando si ritrovò
immerso nell’oceano. La massa
d’acqua lo avvolse, impedendogli di perdere i sensi. Gli
parve, per qualche
istante, di essere di nuovo in cielo, sospeso e galleggiante
com’era quando non
voleva fare la fatica di controllare la gravità nei paraggi.
Capì subito che
non era la stessa cosa. E se ne rese conto non appena tentò
di respirare in
quello strano liquido e a muoversi. Era tutto molto più
faticoso. Non era mai
vissuto in un pianeta dove c’era una gravità
fissa, non aveva mai nuotato prima,
non aveva mai provato il desiderio bruciante di dover respirare.
Riuscì a
raggiungere la superficie con estrema difficoltà. Alte onde
non facevano che
tornare ad immergerlo. Sputacchiò, scalciando alla bene e
meglio, nel tentativo
di riuscire almeno a respirare, ogni tanto. Dov’era finito?
Cos’era tutta
quell’acqua? Strizzò gli occhi. Il sole era alto
nel cielo e lui, ad una luce
del genere, non era abituato. Capì subito che, se non avesse
trovato una
soluzione, non si sarebbe salvato. Ma che soluzione trovare? Stava
affogando!
Combatté contro le onde ancora per un po’,
tentando in ogni modo di non farsi
ricacciare nelle profondità da cui era riuscito a
riemergere. Sospirò. La sua
era una battaglia persa in partenza. Tentò di mettersi a
pancia all’aria.
Magari, galleggiando, sarebbe arrivato più lontano, ma le
onde gli impedivano
di rimanere in quella posizione per più di qualche minuto.
“Ragazzi!”
chiamò “Ragazzi, dove siete? Hamal, Antares,
Rukbat, Adhafera, e tutti gli
altri con i vostri nomi assurdi e complicati! Qualcuno può
sentirmi?”.
Era
da solo. Sperò di esserlo sempre stato e che non fossero
già annegati da tempo,
come avrebbe fatto presto lui. Che ironia…il signore a capo
del cielo che muore
in mezzo all’acqua. Era quasi buffo. Guardò in
alto, chiedendosi dove si
trovasse esattamente casa sua. Si risvegliò dal suo sognare
ad occhi aperti
quando qualcosa gli afferrò la gamba. Pensò
subito a qualche bestia feroce ma,
notando con sollievo che il suo arto veniva solo trattenuto e non
tranciato, intuì
che, forse, era qualcos’altro. Tornò a
preoccuparsi quando si sentì trascinare
verso il basso. Ritrovandosi immerso di nuovo completamente,
iniziò a dimenarsi
a caso, sempre più circondato da pesci di vario tipo.
Tentò invano di ritrovare
l’aria ma non ci riuscì. Solo l’acqua
del mare riempì i suoi polmoni,
facendogli perdere i sensi.
“Sei
il pesce più strano che io abbia mai pescato” fu
la prima cosa che sentì,
quando si riprese.
“Che?!”
riuscì a biascicare, tossendo per liberarsi da mezzo oceano.
Era
fradicio, stanco, circondato da pesci e decisamente confuso. La forza
di
gravità gli provocava un gran mal di testa e la mancanza
d’ossigeno precedente
gli aveva appannato la mente.
“Come
ti chiami, sirenetto, e cosa ci facevi in mezzo
all’oceano?” si sentì
domandare.
Troppe
domande in una volta, si disse il naufrago, scuotendo il capo per
riprendersi.
“Kosmos”
rispose, dopo attimi di silenzio.
“Come?”.
“Io
mi chiamo Kosmos”.
“Che
nome originale. I tuoi genitori devono essere parecchio
strani…”.
“Genitori?!”
sussurrò Kosmos, senza farsi sentire.
“Io
sono Hanne e questo è il mio peschereccio
sull’Atlantico. Se ci riesci, togliti
da lì che dobbiamo pulire il pesce”.
Kosmos
si alzò immediatamente, schifato dal viscidume che
sentì sotto le mani. Ancora
confuso e debole, barcollò e la donna a capo
dell’enorme barca lo sorresse. Era
piuttosto grossa di corporatura e muscolosa, non ebbe
difficoltà a tenere in
piedi il naufrago.
“Ti
accompagno alla tua cabina, strana creatura piovuta dal cielo! Questa
imbarcazione starà per mare ancora qualche giorno. Nel
frattempo, stattene
buono e non darmi problemi, ok? Alzi, quando ti sentirai meglio,
potresti darci
una mano”.
Kosmos
annuì, sedendosi lentamente sul letto e pensando dentro di
sé che non si
sarebbe mai abbassato a svolgere lavori manuali, specie con il
puzzolente e
umidiccio pesce!
Vide
che c’erano altre due brande, altri pescatori che in quel
momento erano alle
prese con il pescato. Lo stavano pulendo ed imballando nel ghiaccio.
Hanne
lasciò il naufrago da solo. Il caduto signore delle
costellazioni si fissò allo
specchio, che era piuttosto sporco ed incrinato. Trasalì,
vedendo come si era
trasformato. I capelli erano diventati bianchi, gli occhi avevano perso
la loro
luce e il disegno rosso che avevano attorno. Senza armatura, si sentiva
quasi
nudo. Gli erano rimaste solo le palline metalliche sul viso pallido e
sul
busto. Era privo di ogni cosa. Niente più disco movente con
i segni zodiacali,
niente più imbracature per la magia e senza corona. Ora era
un semplice umano
mortale, con qualche piercing e un tatuaggio sulla schiena. Lo
notò dopo
qualche ora, quando iniziò a pizzicare. Era uguale, nei
simboli, al disco che,
una volta, aveva attorno alla testa. Era in rilievo e con le stelle
colorate.
Il mal di testa non lo abbandonava. Essere mortale faceva davvero
schifo. Ma,
dopotutto, non poteva rimanere a lungo lì! Quella fallita di
Kuruma doveva per
forza richiamarlo in cielo! Non era di certo in grado di governare
l’Universo
da sola! Si distese sul letto, tentando di rilassarsi. Era sicuro che
quella
femmina pazza lo avrebbe riportato a casa, perciò era
inutile stare a
preoccuparsi troppo.
₪₪₪
“Un
brindisi! A Kosmos e la sua stupidità!” propose
Hòu, Scimmia.
Gli
altri undici occupanti del lato orientale sorrisero a quel suggerimento
e,
ognuno a modo suo, si concesse qualche sorso in onore del caduto
Signore
Occidentale. L’intruglio che bevvero divenne subito magia,
ristorandoli dalla
fatica della battaglia e rendendoli un po’ brilli.
Kuruma
rimase in silenzio, ancora incredula e piuttosto confusa. Stringeva lo
Scettro
delle Ere fra le mani e la Chiave del Cielo accanto a sé,
appoggiata al tavolo.
Poteva essere vero? Poteva aver cacciato la sua controparte, e tutti i
dodici
segni d’ovest, così facilmente? E ora dove erano
finiti? Li aveva uccisi?
“Qualcosa
non va, Signora?” le domandò Yang, Capra.
“Tutto
bene. Continuate pure…” rispose la Signora
Orientale.
Long,
Drago, era quello più scatenato nei festeggiamenti. I suoi
occhi rossi
brillavano e le scaglie di cui era ricoperto, principalmente di colore
blu e
verde, riflettevano le fiamme delle lanterne appese alla parete del
salone
principale. Anche Shu, Maiale, era pieno d’entusiasmo e lo
stava dimostrando
ingozzandosi e ridendo. Hu, Tigre, era orgoglioso di come la sua
padrona era
stata in grado di usare le proprie capacità per cacciare
quel pallone gonfiato
e la sua allegra ciurmaglia. Hu era uno splendido esemplare, con occhi
verdi
lucentissimi ed il pelo a strisce ben curato. Assieme a Long,
Shè e Ma, era il
guerriero del lato est. Ovviamente ci teneva moltissimo a far
sì che tutti i
suoi colleghi lo ricordassero bene, mostrandosi sempre piuttosto
aggressivo.
Shè, Serpente, era rapida, astuta ed agile. Il suo veleno
era qualcosa di
temuto perfino dalle immortali stelle, perché paralizzava.
Sensuale e
sfuggente, guardava i festeggiamenti con minacciosi occhi gialli. La
sua pelle
verde scuro non si notava molto, messa accanto a quella di Long. Ma,
Cavallo,
faceva parte del gruppo dei combattenti ma non era perennemente
incazzato come
Tigre o subdolo come Serpente. Era irrequieto, come Hòu o Ji. Non stava mai fermo,
non ne era capace.
Era Sauro, la sua criniera era a sfumature che andavano dal nocciola al
marrone
scuro, così come la sua lunga coda, e il manto
anch’esso marrone, lucido. Ji,
Gallo, era l’artista ed il più vanitoso della
compagnia. Con tutto l’insieme di
colori sgargianti che aveva fra le penne, non perdeva mai
l’occasione di
mettersi in mostra. Gou, Cane, non capiva quel suo comportamento. Cane
era un esemplare
femmina, di taglia media, color crema. Obbediva a ciò che
Kuruma le ordinava,
senza contraddirla mai, anche se spesso non ne capiva i ragionamenti.
Questo
perché, spesso, nemmeno Kuruma capiva i suoi stessi
ragionamenti! Anche Niu,
Bue, e Tù, Lepre, erano piuttosto tranquilli. Niu era un
instancabile
lavoratore. Riordinava, puliva, organizzava le giornate e amava tentare
di
avere un qualche tipo di controllo sui passatempi degli altri. Questo
lo
rendeva particolarmente irritante, a volte. Aveva il pelo bianco ed era
enorme,
massiccio, con profondi occhi scuri. Tù, Lepre, era
completamente nera, con
chiarissimi occhi grigi, quasi bianchi. Era una creatura molto strana,
solitaria e misteriosa. Stava quasi sempre per conto suo e, in quel
momento,
stava mostrando il suo totale disinteresse alla caduta del Signore
Occidentale
ed i suoi amichetti. Yang, Capra, al contrario, mostrava tutta la sua
contentezza sbattendo le corna a cavatappi contro il muro. Era di color
grigio
scuro ed era piuttosto timida. Collezionava ogni cosa, che la sua
padrona le
permetteva di farsi portare dal suo procacciatore. La stanza di Yang
era un
ammasso informe di roba varia, di cui solo lei capiva la logica, o
forse
neppure lei.
Kuruma
si allontanò dal salone principale. Solamente Shu, la
topolina, lo notò e
decise di seguirla. La sua signora non la rimproverò ed
insieme risalirono
lungo la torre orientale, portando appresso gli oggetti appartenuti a
Kosmos.
“Cosa
vi preoccupa?” domandò Shu.
“Niente.
È solo che…non mi aspettavo che quello stupido si
comportasse così! E non
pensavo di riuscire ad avere sufficiente energia da cacciarli via
tutti, non so
dove…”.
“Ma
perché non provate a cercarli? Intendo dire, con i poteri di
Scettro e Chiave,
sommati agli oggetti in suo possesso, immagino che potreste facilmente
scoprire
dove sono caduti tutti quanti”.
“E
se sono ancora vivi…”.
“Dite
che potrebbero non essere sopravvissuti alla caduta?”.
Kuruma
non rispose. Guardò il cielo dalla finestra, sospirando per
le luci mancanti.
Afferrò lo Scettro fra le mani, fissandone il grosso globo
che vi stava in
cima.
“Mostrami
dove sta il tuo padrone!” ordinò la Signora
Orientale.
L’oggetto
si illuminò e la sfera iniziò a mostrare delle
immagini. Kuruma vide Kosmos in
procinto di annegare, una volta divenuto mortale, e i vari posti in cui
erano
precipitati i dodici segni.
“Sono
ancora in vita, ma sono mortali. Cosa pensate di fare?” volle
sapere Shu.
“Sono
mortali, è vero, ma posso farli tornare in cielo. Sempre e
solo ad una
condizione, però. Staremo a vedere. Per ora, lascia che quel
mammalucco di
Kosmos si sporchi un po’ le mani e si renda conto di che
significa mangiare la
polvere!”.
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Capitolo 4 *** 3 ***
IV
In
groppa ad un maestoso cavallo bianco, forse un pochino troppo vistoso,
Rukbat
percorreva le vie di Sidney. Abituato all’ambiente
precristiano, credeva che un
mezzo di trasporto del genere non avrebbe dato troppo
nell’occhio. Si accorse
di sbagliare ma, del resto, non poteva certo muoversi a piedi! Aveva
capito al
volo che in quel mondo moderno senza soldi non si sarebbe potuto
permettere
niente. Quell’animale l’aveva
“gentilmente preso in prestito” da un allevamento
non molto distante da dove aveva assistito alla danza delle stelle.
Fortunatamente una parte di sangue da centauro era rimasto in lui e,
nonostante
i millenni trascorsi, era riuscito a farsi obbedire facilmente dalla
bestia. Si
era fatto spiegare con esattezza dove si trovasse l’aeroporto
ma non era il suo
obbiettivo primario. Pur non essendo mai salito su un aereo, e non
sapendo
nemmeno bene come fosse fatto, era a conoscenza di due metodi per
salirvi e
raggiungere la meta prefissata: pagare una cospicua somma di denaro per
acquistare un biglietto, oppure dirottarlo. Probabilmente
c’erano anche altri
possibili rimedi, ma al momento non gli venivano in mente. Rimase
sconcertato
quando capì che la legge del più forte vigeva
ancora, perfino in quella società
che si considerava tanto evoluta. Meglio così! Gli bastavano
un po’ di armi e
avrebbe ottenuto qualsiasi cosa. Sorrise, imboccando un vicolo senza
uscita,
dove lasciò il cavallo. Aveva vagamente intuito che, forse,
dava troppo
nell’occhio e poi aveva individuato ciò di cui
aveva bisogno. In un piccolo
locale, nascosto in parte dietro al giornale, c’era un agente
della polizia
Australiana. Nonostante la temperatura gradevole, portava un lungo
cappotto
nero sopra la divisa d’ordinanza, di colore scuro coordinata
con un paio di
stivali ed i pantaloni infilati all’interno. Il suo sguardo
era celato da un
paio di occhiali a specchio. Sorseggiava, distrattamente, un
caffè in tazza
grande. Rukbat, sempre con l’arco appresso, ghignò
e fermò un ragazzino in
bicicletta.
“Te
lo regalo” gli disse, indicando proprio l’arco
“Se fai una piccola cosa per
me”.
“Con
le frecce?” si informò il ragazzetto, circospetto.
“Quasi
tutte…”.
“Affare
fatto”.
Sagittario
lo vide attraversare la strada, avvicinarsi al tavolino dove stava
seduto
l’agente e “inavvertitamente” far
sì che parte del caffè che questi stava
bevendo gli si ribaltasse sulla camicia d’ordinanza. Si
sentì una potente
imprecazione ed un tentativo vano d’afferrare il ragazzino,
che scappò di
corsa, sparendo nel vicolo in cui lo attendeva Rukbat.
“Ottimo
lavoro, piccolo” si complimentò Sagittario,
mantenendo il patto e donandogli
l’arco, assieme a quasi tutte le frecce.
“È
stato un vero piacere” ridacchiò il bambino,
allontanandosi.
“Un’ultima
cosa, ragazzino!” lo fermò Rukbat, prima di
vederlo sparire fra la folla “Non
dare confidenza agli sconosciuti. Specie se gli sconosciuti sono gente
strana
come me”.
Il
bambino alzò le spalle e corse via, lungo il marciapiede.
Sagittario attraversò
la strada, trovando allucinanti i mezzi di trasporto moderni che
sfrecciavano
in entrambe le direzioni, e cercò la finestra del bagno del
locale. Vi si
affacciò, con una certa difficoltà, e vide
l’agente accanto al lavandino, che
tentava invano di pulire quella macchia marrone. Rukbat
frugò nella piccola
borsa che i suoi nuovi amici australiani gli avevano donato e ne
estrasse una
rudimentale cerbottana. Grazie alla sua mira, riuscì con
estrema facilità a
colpire il bersaglio con un dardo soporifero. In pochi secondi
l’uomo cadde in
terra. Sagittario entrò dalla finestra e lo raggiunse,
chiudendo a chiave la
porta dei bagni perché non vi entrasse nessuno.
Una
volta scambiati i propri abiti con quelli dell’agente, ed
essersi osservato per
bene allo specchio trovandosi decisamente uno schianto, uscì
lasciando
l’addormentato seduto dentro ad uno dei bagni. Ci avrebbe
messo un po’ a
svegliarsi.
“Scusi…”
lo fermò la banconiera, e Rukbat pensò al peggio.
“Sì?”
mormorò, senza girarsi.
“Se
se ne va, mi deve pagare il caffè!”.
“Ah,
sì, giusto. Che sbadato, mi scusi!”.
Iniziò
a cercare nelle varie tasche. Trovò delle chiavi, una
pistola, due cellulari,
il tesserino, un’altra pistola, la custodia degli occhiali da
sole, un lettore
mp3, fogli vari…
“Tenga
il resto” mormorò un uomo, sorridendo alla donna
che lo salutò cordialmente e
lo lasciò uscire dal bar.
Finalmente
il portafoglio! Lo aprì, non avendo la ben che minima idea
di quanto valessero
le carte che conteneva. Ne allungò una alla cassiera, una a
caso, di valore
decisamente eccessivo per una colazione, tentando di abbozzare un
sorriso che
non assomigliasse ad un ghigno malefico.
“Tenga
il resto” disse, credendo che fosse la prassi normale.
“Grazie…”
balbettò, incredula, la banconiera, mentre Rukbat si
allontanava in fretta.
Nelle
tasche dell’agente aveva trovato un foglietto con
l’indirizzo della centrale di
polizia di Sidney. Sul distintivo era riportata un’altra
città: Canberra.
“Perfetto.
Quel fesso non è di queste parti”
ridacchiò Sagittario, insoddisfatto di avere
con sé solamente due pistole, senza proiettili di ricambio,
fra l’altro!
Domandò
dove fosse il posto indicato sul foglietto e come arrivarci. La strada
era
lunga. A piedi rischiava di perdere un’intera giornata.
Fischiettando, risalì
in groppa al cavallo e si allontanò. Dopotutto ora era un
poliziotto…chi poteva
fermarlo? Trovò la centrale e vi entrò, legando
il suo destriero ad un lampione
davanti alla porta. Mostrò il tesserino, con una foto che
non gli assomigliava
particolarmente.
“Benvenuto”
lo salutò il collega all’ingresso “Siete
pronto per la missione?”.
“Certo”
mentì Rukbat “E, a proposito della missione, credo
che avrò bisogno di altre
armi”.
“Quelle
che avete richiesto sono già pronte nelle valigette, come
specificato”.
“Posso
vederle?”.
“Certamente”.
Sagittario
sogghignò. Aveva a disposizione due valigette strapiene di
armamenti vari.
“Perfetto…”
mormorò.
“La
partenza è fissata per questa sera, agente
Carlyle” parlò quello che aveva
tutta l’aria di essere il capo lì dentro.
“Voi
siete l’agente Carlyle?!” si stupì uno
dei giovani poliziotti all’interno.
“A
quanto pare…” biascicò Rukbat,
ricordando vagamente il nome riportato sul
tesserino.
“Quel
Carlyle?! Il migliore in tutta l’Australia nelle missioni di
spionaggio da
infiltrato?! Siete un mito per me! Sappiate che è un onore
conoscerla!”.
Sagittario
si fece stringere la mano, chiedendosi fra sé che, se quello
che aveva
addormentato era il migliore, cosa fossero in grado di fare gli altri.
“La
squadra che vi è stata assegnata è pronta ad
eseguire i suoi ordini. È nella
stanza qui a fianco, se volete scambiarci quattro parole. Fra
un’ora vi sarà il
trasferimento in aeroporto” disse il capo.
“Bene”
borbottò Rukbat, non sapendo che altro dire.
La
sua idea era arrivare proprio in aeroporto, ma non con una squadra al
seguito!
Una mossa sbagliata e lo avrebbero scoperto…
Sospirò. Avrebbe avuto un’idea
strada facendo. Si fece condurre nella stanza, dove stavano i suoi
nuovi
colleghi. Erano una decina, che si alzarono in piedi quando lo videro
entrare.
Tutti rimasero in silenzio, osservandosi. Erano quasi tutti armati, con
il
giubbotto antiproiettile che stavano coprendo sotto la camicia.
“Sono
gli uomini migliori, come richiesto dalle forze speciali
internazionali” spiegò
il capo “I migliori cecchini, i migliori disinnescatori, i
migliori
combattenti. Credo che non avrà alcun problema con la
missione, grazie a
ragazzi del loro calibro. Lui è Harrison, il suo equivalente
di Sidney, agente
Carlyle. Sarete partner, come stabilito. Cercate di non fare le prime
donne e
buona fortuna. Attendo un rapporto giornaliero,
ricordatevelo”.
“Sì,
capo” rispose Harrison.
Tornò
il silenzio, dopo che la porta della stanza fu chiusa e il capo uscito.
Rukbat
si morse il labbro. Si era cacciato in un bel guaio. Come svignarsela?
“Problemi,
agente Carlyle?” si sentì dire.
Era
decisamente nei casini, e con un nome orrendo! Quale genitore insano
chiama il
proprio figlio Roland Carlyle?!
“Tutto
bene, agente Harrison” mentì.
Attese
qualche minuto, prima di riprendere a parlare “A quanto pare,
sarò il vostro
capo per un po’. Vi avviso subito che, a volte, i miei metodi
non saranno
proprio da manuale ma dovrete fidarvi di me ed eseguire gli ordini che
vi darò.
Non siamo qui per giocare…”
“In
territorio di guerra no di certo…” lo interruppe
Harrison “Del resto, la nostra
missione è fermare un traffico d’armi
internazionale. Saremo fra fuoco
incrociato, una volta lasciato l’est della Turchia. Il minimo
errore significherà
far fallire la missione e, probabilmente, morire”.
“Quanto
parli, Harrison” sbottò Rukbat, pensando a dove si
trovasse la Turchia.
Quando
finalmente riuscì a visualizzarlo, sorrise. Era
sufficientemente vicina alla
sua meta. Poteva farsi portare fino a lì e poi trovare il
modo di svignarsela.
Perfetto. Più o meno…
“Siete
pronti? Si parte per l’aeroporto” parlò
un collega dall’esterno della stanza.
“Buona
fortuna, ragazzi” ripeté il capo, mentre il gruppo
entrava in un camioncino
scuro.
“Date
da mangiare al mio cavallo” rispose Rukbat, chiudendo lo
sportello.
₪₪₪
Stava
bestemmiando a gran voce quando una violenta esplosione fece saltare la
parete
contro cui era appoggiato. Finì con la schiena a terra, mani
legate e occhi al
cielo sereno. Tossendo, per i detriti sollevati, Antares
riuscì a mettersi
seduto. Senza pensarsi, si alzò in piedi e si mise a correre
verso una meta
imprecisata, sempre con i polsi bloccati dietro la schiena.
Pensò a quanto
fosse ridicola come scena ma poi si disse che era meglio salvarsi la
pelle
piuttosto che farsi problemi del genere. Corse per un lungo tratto,
schivando
per pura fortuna i colpi di arma da fuoco che sfrecciarono a pochi
centimetri
da lui. Si gettò in terra, riparandosi dietro una parete.
Sobbalzò quando si
accorse di avere a fianco una donna con il proprio figlio in braccio.
Si
fissarono, spaventati all’idea che l’altro potesse
essere armato e pericoloso.
“Sono
disarmato. Sto solo tentando di aver salva la vita” disse,
tentando di
mostrarle le mani legate.
Lei
annuì. Non si riusciva a capire la sua espressione, coperta
com’era da quella
pesante veste scura che ne lasciava scoperti solo gli occhi, che
però non
volevano incrociare quelli dello straniero. Il bambino piangeva.
“Puoi
slegarmi?” domandò Scorpione.
“Chi
ti ha legato?”.
“Un
gruppetto di tizi. Per favore…”.
“Io
non voglio problemi”.
“Ok.
Allora…da che parte devo andare per uscire dalla zona di
guerra?”.
La
donna non seppe cosa rispondere. Rifletté qualche istante,
poi rispose: “Da
nessuna parte. Qui tutto è guerra, tutto il mondo
è in guerra”.
Antares,
spiazzato da quelle frasi, cominciò a pensare che quel
pianeta non meritasse
altro che la morte, lenta e dolorosa. Poi incrociò lo
sguardo del bambino, che
non smetteva di piangere, e sospirò. Non aveva mai amato
particolarmente gli
umani ma ora, volente o nolente, era uno di loro e, se non avesse
trovato una
soluzione, lo sarebbe rimasto per sempre.
“Slegatemi.
Io vi posso aiutare! Sono un guerriero, posso portarvi via dalla zona
degli
spari!”.
“Anche
se ci porti via da questa zona, ce ne sarà
un’altra poco distante!”.
“Lei
sprizza ottimismo da tutte le parti! Mi liberi, per favore!”.
La
donna non si mosse. Antares sbuffò. I colpi si facevano
sempre più vicini e
presto il gruppo armato li avrebbe trovati. Si girò
un’ultima volta verso madre
e figlio, si alzò e, gridando, si rimise a correre.
“Perché lo sto
facendo?” si chiese “Perché
tento di allontanare il pericolo da due sconosciuti, che nemmeno
han tentato d’aiutarmi, mettendo a rischio la mia sacra
incolumità?” Non
trovò risposte ma nessuno badò alla donna con il
suo bambino, una volta che
videro lui e la sua stravagante fuga. Percorse sufficiente strada da
giungere
quasi alla fine di quel piccolo villaggio. Già sorrideva,
convinto forse che il
confine del paese segnasse la fine del gioco, quando fu colpito
violentemente
alla testa dal calcio di un fucile e cadde in terra.
“Americano?”
fu la prima cosa che sentì, quando rinvenne.
“No”
biascicò, scuotendo il capo per riprendersi.
“Europeo?”.
“Ma
basta! Ancora sta storia?! Non sono Americano, non sono Europeo, non
sono Curdo,
non sono niente di niente! Io sono una costellazione e voglio tornare a
casa!”.
I
presenti si guardarono fra loro. Uno fece segno all’altro che
quell’uomo era
pazzo, con l’indice.
“Da
che parte stai?”.
“Dalla
mia!”.
Scorpione
quasi ringhiò quell’ultima risposta, stanco e
ancora intontito.
“Da
dove vieni?”.
“Non
sono affari tuoi! E, comunque, un’altra botta in testa che
ricevo e non me lo
ricorderò più, grazie tante! Da queste parti
siete sempre così ospitali?”.
“Guarda
che non siamo in vacanza! Non siamo qui per divertirci!”.
“Ne
siete sicuri? A me pare che a voi terrestri piaccia tanto odiarvi a
vicenda”.
“Terrestri?!
Ti ho dato una botta troppo forte, mi sa…
Slegatelo”.
Antares
si stupì di sentirsi dire che era libero.
“Puoi
andartene” spiegò uno degli uomini che lo
circondavano “Per quel che mi
riguarda, non sei una minaccia. Vattene. Scegli tu da che parte. Senza
schierarti, da solo, non andrai avanti a lungo”.
“Vorrà
dire che morirò. Pazienza”.
“Ammiro
il tuo coraggio, o la tua incoscienza. Avrei bisogno di un uomo come te
fra i
miei ranghi. Che ne dici? Lavorare per me ti assicurerebbe una certa
sicurezza,
avresti le spalle coperte…”.
“Sarei
comunque in guerra…”.
“Quello
è inevitabile”.
“Ma
io non voglio fare la guerra!”.
“Se
vuoi uscire da questo territorio, in cui personalmente non riesco a
comprendere
che ci sei venuto a fare, e come ci sei arrivato, possiamo darti una
mano. Ma
nessuno dà niente in cambio di niente, non so se mi
spiego…”.
“Che
cosa vuoi? Non sono ricco, come i tuoi amichetti nella casa scassata
pensavano”.
“Questo
lo avevo intuito. Ad ogni modo, c’è un lavoretto
che dovresti fare per me, al
di fuori del territorio del conflitto”.
“Al
di fuori del territorio di OGNI conflitto?”.
“Sì.
Io ti farò portare fino a lì assicurandoti
l’incolumità quasi totale, qualche
ferita potresti procurartela, tu farai questo lavoretto per me e poi
sarai
libero”.
“E
se io non svolgessi questo lavoretto per te?”.
“Sarai
eliminato. Se non ti unirai a noi, da qualche altro gruppo armato. Se,
invece,
ti farai condurre fino a là e poi non rispetterai i patti,
da noi stessi”.
“Quante
alternative…”.
“Sono
fin troppo generoso con te. Scegli”.
“Chi
mi assicura che, una volta fatto il lavoretto per voi, mi lascerai per
davvero
libero?”.
“Nessuno,
ma puoi fidarti. La mia parola è parola
d’onore”.
Antares
fissò quell’individuo con sospetto. Non aveva
alcuna intenzione di dargli
fiducia ma, se ne rese conto subito, non sarebbe sopravvissuto a lungo
da solo
in quell’inferno. Chinò la testa.
“E
va bene” disse “Affare fatto. A quanto pare, mi
toccherà fare uno sforzo di
fiducia”.
“Ottima
scelta, signor…?”.
“Chiamatemi
Antares”.
“Antares?
Perfetto nome in codice…”.
“Già.
Nome in codice…”.
₪₪₪
Deneb
Algiedi non si stupì più di tanto della sua
capacità di adattamento. Nel giro
di qualche settimana, era diventato un perfetto contrabbandiere. Stare
sulla
Terra non era poi così male, come all’inizio aveva
creduto. Trovava la specie
umana alquanto singolare. Era sempre alla ricerca di quello che non
poteva
avere e lui era lì proprio per questo: fornire le cose che
non era concesso
avere! Ed erano davvero tante. In quel breve lasso di tempo, oltre ad
imparare
qualche cosetta sugli umani, aveva appreso ben di più sulle
umane. Nel gruppo
di cui ora faceva parte ce ne erano di due tipi: le puttane e le
stronze.
Ovvero quelle che passavano da un uomo all’altro come se
niente fosse e quelle
che se provavi a sfiorare ti ritrovavi faccia a terra a leccare la
polvere del
pavimento. Anche i suoi colleghi li aveva facilmente divisi in pervertiti e
rincoglioniti. I primi pensavano
solo ad una cosa ed i secondi non coglievano certe occasioni nemmeno se
piovevano dal cielo. Capricorno era da davvero tanto che non aveva a
che fare
con la chimica fra sessi opposti. Nel palazzo dove viveva, al centro
del cielo,
maschi e femmine erano divisi e certi pensieri erano andati scemando
con i
secoli. Fu ben lieto di sentirli riapparire alla vista di certune
creature terrestri.
“Deneb!”
si sentì chiamare.
“Sì,
capo” rispose, tornando alla realtà con la testa.
“Hai
fatto un ottimo lavoro con i russi. Sono proprio felice di averti
scelto come
mio collaboratore. Gli affari vanno bene e ho ricevuto molte note
positive
dagli uomini che ti avevo messo accanto per valutarti e controllarti.
Sei
pronto per il prossimo affare?”.
“Certo.
Di che si tratta?”.
“Un
grosso carico per gli americani”.
“Ma…io
pensavo che gli americani non…”.
“Non
avessero a che fare con gente come noi? Ti sbagli. Ci aspettano fra
dieci
giorni sul confine col Pakistan e voglio che sia tutto perfetto, niente
errori.
Quelli sono degli spacca cazzi. Te la senti, Algiedi? Non
sarà una
passeggiata”.
“Assolutamente.
Voglio questo lavoro”.
“Bene.
Voglio che ti occupi del ritiro della merce e della sua consegna.
Ovviamente
non sarai da solo, ma voglio affidarti un po’ più
di responsabilità, per vedere
se te la meriti la mia fiducia. Avrai un paio di uomini su mia scelta,
gli
altri fai come ti pare. Ormai li conosci”.
“Dov’è
il punto di ritiro e quello di consegna?”.
“Avrai
notizie più dettagliate con il tempo. Per ora preparati, ti
aspetta un lungo
viaggio”.
₪₪₪
Ad
Adhafera era stato affidato un avvocato d’ufficio, non avendo
lei la minima
idea di cosa fosse un avvocato e a che cosa servisse. Dopo un breve
colloquio,
si era subito stabilito che fosse necessaria una perizia psichiatrica.
Ci volle
un bel po’ prima che la pratica procedesse, essendo la
giustizia di quel Paese
famosa per i suoi tempi biblici. Leone però, mostrandosi
particolarmente
aggressiva e fuori di testa, convinse i giudici che fosse meglio agire
il più
in fretta possibile, per poterla affidare alle cure di cui
evidentemente aveva
bisogno.
“Dica
il suo nome” le disse lo specialista, mentre lei stava
distesa su un divanetto.
“Il
nome di chi?” rispose.
“Il
tuo! Come ti chiami?”.
“Adhafera”.
“Nome
completo. Nome e cognome”.
“Cos’è
un cognome?”.
“Il
nome di famiglia!”.
“Io
non ho nome di famiglia. Ho tanti nomi, però. Regolo,
Algieba, Denebola, Ras
Elased…”.
“Va
bene, Adhafera…quanti anni hai?”.
“Difficile
dirlo. Non lo so con esattezza. So di essere nata a Nemea e che un
certo Ercole
mi ha ucciso. Ero un magnifico leone all’epoca. Poi son
diventata una stella”.
“Una
stella?”.
“Sì.
Il mio lavoro”.
“Il
tuo lavoro è fare la stella?”.
“Era,
purtroppo. Io ed i miei colleghi, assieme al mio capo, siamo stati
cacciati dal
cielo da quella che comanda il lato orientale, ma di certo non
è stata solo
colpa sua. Intendo dire che Kosmos, il mio capo, è stato
proprio stronzo ed era
inevitabile che prima o poi qualcosa accadesse fra quei due. Insomma,
il cielo
è grande ma non si può trattare una donna in quel
modo”.
“Siete
stati cacciati? Quindi siete senza casa?”.
“Esatto.
E la cosa mi rattrista davvero molto”.
“E
dove stava questa casa?”.
“Nel
centro del cielo”.
“Intendi
dire nei pressi della Stella Polare?”.
“No.
Quella è al centro del VOSTRO cielo, quello terrestre e
boreale. Il mio capo
governa, governava, il cielo intero. L’Universo,
capisci?”.
“E
quindi immagino che i tuoi compagni siano tutte le altre
costellazioni…”.
“Non
tutte. In effetti non saprei spiegare perché ci stiamo solo
noi in quel
palazzo…”.
“Solo
voi, chi?”.
“I
dodici zodiacali. Immagino sia dipeso dalle divinità
dell’epoca. Quelle sì che
lavoravano! Poi non so, può darsi che ci siano altri palazzi
come quello in cui
stavo io, dove troverebbero dimora tutte le altre costellazioni, ma non
saprei
dirglielo con certezza. Forse noi dodici eravamo lì
perché, dicono, abbiamo
maggiore influenza sui vari esseri viventi degli universi, in
particolare su di
voi terrestri. Dopotutto, da quel che ne so, noi dodici venivamo tutti
da
questo pianeta…”.
“E
tu che costellazione sei?”.
“Leone.
Io sono, o ero, non so se potrò tornare ad esserlo, il
Leone. Ora sono qui, con
tutte le conseguenze che comporta questo fatto”.
“E
che conseguenze porta il fatto che tu non sia più in
cielo?”.
“Tanto
per cominciare, le stelle del segno che governo non si vedono
più. Poi non
so…immagino manchi l’influenza sulle nascite e
tutte quelle palle lì…”.
Lo
psichiatra storse il naso, ricordando vagamente di aver visto, qualche
giorno
prima, un servizio su un programma televisivo che ipotizzava il
rapimento delle
stelle da parte degli alieni, evento predetto dai Maya e che i templari
avevano
tentato di sventare. Scosse il capo. Ecco dove portava guardare certe
cose! La
ragazza che aveva di fronte era completamente fuori di testa, convinta
di
essere per davvero una stella!
“Quindi,
da quel che ho capito, non sei nata come stella…”.
“No.
Io ero un leone. Sono stati gli Dèi a premiarmi e mettermi
in cielo”.
“Gli
Dèi?”.
“All’epoca
ne bazzicavano troppi per poter sapere chi sia stato esattamente. Credo
Zeus. È
stato il suo figliolo ad accopparmi…magari ha voluto che
l’impresa venisse
ricordata…”.
“E
cosa mi sai dire sulla donna che vi ha fatti cadere? Chi
è?”.
“Kuruma.
Governa il Cielo Orientale”.
“Anche
lei ha delle costellazioni al suo servizio?”.
“No.
Lei ha dodici bestioline a cui ognuna è stato assegnato un
anno. Quelle son
state mandate lì come premio per aver risposto ad un
richiamo. Le prime dodici
sono state premiate”.
“E
Kuruma chi è? È colei che le ha
richiamate?”.
“No.
Per la verità, Kosmos e Kuruma sono un po’
difficili da inserire in un
contesto. Ricordo che, quando sono arrivata, il palazzo era quasi
vuoto. C’era
Hamal, l’Ariete, arrivata per prima. Poi Mekbuda, i Gemelli,
e Aldebaran. Gli
altri son arrivati dopo. Kosmos non ci calcolava più di
tanto. Era come se ci
ignorasse. Ha iniziato a trattarci con un certo interesse quando sono
arrivati
gli ultimi cinque, tutti assieme. Non ho mai saputo da dove lui
venisse, cosa
avesse fatto prima del nostro arrivo o qualsiasi altra cosa sul suo
conto. Non
ha mai voluto parlarne. Stessa cosa per Kuruma. Dei dodici al suo
servizio si
sanno delle cose, da dove vengono eccetera, ma di lei niente”.
“Li
possiamo definire delle divinità?”.
“Credo
di sì. Non so. Io mi son limitata a svolgere il mio ruolo
finché ho potuto”.
“Capisco…
e come mai ti trovi a Roma?”.
“Perché
sono caduta. Siamo stati tutti divisi ed io mi sono ritrovata
qui”.
“E
cosa sei andata a fare sulla cupola?”.
“Dormire!
E la folla mi ha svegliata”.
“Quindi
tu non hai idea del perché sei stata arrestata?”.
“Assolutamente
no. Credimi, io non so nemmeno cosa sia un papa. Ai miei tempi non
c’era e non
son stata tanto a studiare come Rukbat!”.
“Quindi
non volevi attentare alla vita del Santo Padre?”.
“Ma
padre di chi?! No, no e poi no! Io ero lì per starmene in
pace, dormire un po’
e schiarirmi le idee. Cosa ne avrei ricavano nell’uccidere un
vecchio
delirante?!”.
“Se
vieni da così lontano, nel tempo e nello spazio, come sai la
mia lingua?”.
“Dalle
mie parti ci si annoia parecchio a volte e così si passa il
tempo leggendo. C’è
chi lo fa quasi sempre e chi, come me, solo ogni tanto ma, spero tu
riesca a
capirlo, in millenni il termine "ogni tanto" comporta comunque un
sacco di ore. Ovviamente, per leggere, devi sapere la lingua in cui
è scritto
ciò che hai davanti. Noi dodici sappiamo tutte le
lingue”.
“E
quelle non scritte?”.
“Quelle
dipende. Ad ognuno di noi è stata affidata una zona con
maggiore influenza. Se
una lingua non scritta rientra in quella zona, allora capiamo anche
quella.
Altrimenti non credo…non so…”.
“E
anche il tuo capo sa tutte le lingue?”.
“Ovvio”.
“Quindi,
se io ora ti chiedessi di parlare e scrivere in cinese o in arabo,
saresti in
grado di farlo?”.
“Io
ho imparato le lingue, ma non so che nomi abbiano. Se mi fai vedere un
testo
scritto, te lo leggo e te lo traduco. Altrimenti dovresti dirmi un paio
di
parole nella lingua che vuoi, così che io possa
collegarla”.
“Interessante.
Tornando alla faccenda della stella…che cosa pensi di fare
adesso? Ora che sei
caduta, quali sono i tuoi progetti?”.
“Vorrei
tornare a casa, ma non so se la cosa sarà possibile. La mia
idea è cercare i
miei compagni. Di certo ce ne sono di molto più intelligenti
di me e magari
hanno un piano per risolvere la faccenda. Da sola, non saprei
proprio…”.
“Da
sola non sapresti cosa fare?”.
“Ma
la smetti di ripetere quello che ti dico?! Non era quello
ciò che intendevo. Da
sola me la so cavare. Ma io voglio tornare a casa e per farlo mi serve
aiuto”.
“Hai
idea di come trovare i tuoi compagni?”.
“No.
Ma io sono una creatura testarda e non mi arrenderò fino a
quando non li avrò
ritrovati”.
“Avere
delle certezze è una buona cosa. Io non ho altre domande per
te, Adhafera. Se
tu non hai qualche domanda per me, possiamo salutarci”.
“Solo
una: adesso mi riporteranno in quell’orrenda gabbia dove son
stata rinchiusa
fin ora?”.
“Temo
proprio di sì. Ma, sta tranquilla, posso assicurarti che non
ci resterai a
lungo!”.
“Lo
spero. Non sono un’amante dei luoghi
chiusi…”.
₪₪₪
“Sei
brava a combattere” le disse Erik.
“Grazie”
sorrise Hamal.
Dopo
aver assistito ad un paio d’ore d’allenamento,
Ariete aveva voluto provare.
Erik, il nipote di colei che le aveva dato da mangiare, si era offerto
di farle
da sfidante e insieme si erano divertiti. Ormai erano settimane che
stava in
quel luogo, ripagando l’ospitalità aiutando in
casa e negli allenamenti,
assistendo i maestri con gli allievi più giovani.
“Dove
hai imparato?” riprese lui, quando si furono fermati e seduti
a terra, per riprendere
fiato.
“Ho
avuto tanto tempo per imparare”.
“Chi
ti ha insegnato?”.
“Colleghi”.
“Fai
i complimenti pure a loro. Sei ad un ottimo livello”.
“Quanti
complimenti…posso dire lo stesso di te! Sei bravo”.
“Io
ho iniziato da bambino. Avevo quattro anni!”.
Erik
si rialzò. Fuori si stava facendo buio. Invitò
Hamal a fare altrettanto, per
raggiungere l’alloggio dove sarebbe stata ospitata.
“Sei
stata fortunata. Non tutti sono cortesi come mio zio da queste
parti” disse
l’uomo e Ariete annuì, consapevole di aver
ottenuto fin troppo.
Lui
allungò la mano per aiutarla a mettersi in piedi ma lei
rifiutò, preferendo far
tutto da sola. Fissò quell’uomo negli occhi e
sorrise. Si assomigliavano.
Avevano gli occhi dello stesso colore e un modo di fare con molti punti
in
comune. Di sfuggita, notò che portava una lepre tatuata
sulla spalla.
“Sei
uno degli amici di Kuruma?” domandò lei, facendosi
diffidente.
“Di
chi?!”.
“Perché
hai quella lepre tatuata?”.
“Perché
è il mio segno. Sono nato nell’anno della
lepre”.
“Ah.
Scusa…è che divento subito sospettosa”.
“Pure
io. E tu che cosa porti disegnato? È una
costellazione?”.
“L’ariete”.
“Anch’io
son dell’ariete! Che giorno sei nata?”.
“Io…ecco…non
sono dell’ariete inteso come segno
zodiacale…”.
“Ok,
scusa. Dai, andiamo a cena. Si sta facendo tardi ed il mio stomaco
brontola”.
“Grazie
mille per l’ospitalità di tutti e per la cortesia
che mi riservi, evitando di
riempirmi di domande sul mio conto”.
“Io
mi faccio sempre gli affari miei. Si vive più a lungo
così”.
“Teoria
interessante…”.
Insieme
uscirono dal dojo e si avviarono verso casa. Subito il profumino della
cena li
avvolse. Hamal, nell’attesa di poter mangiare,
osservò i quadri appesi alle
pareti. Rappresentavano scene varie tipicamente giapponesi ed i dodici
segni
orientali. Si fermò davanti agli ultimi due quadri.
Lì erano raffigurate due
coppie, una per dipinto.
“Quelli
sono Izanagi e sua moglie Izanami” spiegò Erik,
indicando quella di destra
“Secondo un mito di questo Paese, essi sono i primi due
Dèi nati dal caos, che
crearono il Giappone e diedero vita a trentacinque Dèi,
ognuno dei quali prese
controllo su un elemento naturale. Mancava il fuoco, così
marito e moglie
decisero di metterlo al mondo. Alla nascita, però, il
bambino bruciò la madre
che finì nel regno degli inferi. Izanagi, sentendo la
mancanza della compagna,
andò a cercarla ma, quando la trovò, si
spaventò perché nel frattempo era
divenuta uno spettro dall’aspetto sgradevole.
Fuggì e lei, dopo averlo
rincorso, giurò di uccidere ogni giorno mille umani, che
insieme i due avevano
contribuito a generare. Lui, di risposta, giurò di farne
nascere mille e
cinquecento. Ecco perché, stando al mito, ogni giorno
nascono e muoiono tanti
uomini”.
“Bello…”
sorrise Hamal “…e l’altra
coppia?”.
“Quelli
sono Amaterasu con il fratello Sosano-wo. Lei è la Dea del
sole e lui quello
della tempesta. Un giorno, dopo l’ennesimo litigio, lei si
nascose in una
grotta e vi portò dietro il sole. Solo dopo svariati
tentativi gli Dèi
riuscirono a farla uscire, riportando la luce sulla Terra. Perfino i
loro
discendenti si scontrarono e vinsero quelli di Amaterasu, dando il via
alla
famiglia imperiale giapponese. Certo, sono miti e ci si può
credere oppure
no…”.
Hamal
sorrise, ritrovando in quelle coppie i battibecchi fra Kosmos e Kuruma.
Sospirò.
Chissà se anche quei loro litigi avrebbero portato a
qualcosa di buono…
“Ti
piacciono?” le domandò Erik, notando con che
sguardo lei li fissava.
“Molto.
Mi ricordano persone che conosco”.
“Quelli
che ti hanno insegnato a combattere?”.
“No.
Quelli no…ma non si può avere tutto!”
ridacchiò Hamal.
Dopo
cena, Erik andò davanti al computer. La sua famiglia era in
Italia e, tramite
internet, lesse e guardò le notizie dei telegiornali di quel
Paese. Si soffermò
sul punto in cui vi era scritto che l’attentatrice del papa
era stata
rilasciata. In seguito era riportata la perizia dello psichiatra e vari
pettegolezzi
giornalistici, fra cui una frase in cui la ragazza affermava di essere
una
costellazione e di venire dal cielo. Anche Hamal aveva raccontato una
cosa del
genere il primo giorno. Che stava succedendo al mondo? Guardando la
foto di
Adhafera, non poté fare a meno di notare la somiglianza nel
modo di vestire fra
la sua ospite e l’attentatrice. Che cosa significava? Ariete,
passando per di
lì per caso, incrociò la foto di sfuggita.
“Adhafera!”
disse.
“Chi?!”.
“È
il nome di quella donna”.
“La
conosci?”.
“Sì.
Dove si trova?”.
“A
Roma. In Italia”.
“È
tanto distante da qui?”.
“Direi
di sì”.
“Come
ci posso andare?”.
“Devi
prendere l’aereo. È un viaggio molto
lungo”.
“Ma
io come faccio? Come si prende un aereo?”.
Erik
sospirò e guardò suo zio, piuttosto indeciso sul
da farsi.
“Senti…”
disse, dopo un po’ “…io vivo in Italia.
Resterò qui ancora un paio di
settimane, dopodiché tornerò a casa. Se vuoi,
puoi venire con me. Il mio aereo
arriva giusto a Roma. Se avete un modo per
contattarvi…perché Roma è davvero
grande!!”.
“Non
so come contattarla. Però devo andare là. Mi ci
porti davvero?”.
“Non
credo sia una buona idea” si intromise Toheru
“Andare fino in Italia alla ricerca
di una donna che secondo te è una tua amica, ma nessuno ti
da la certezza che
sia lei, in una capitale così
affollata…è un azzardo!”.
“Preferisci
resti qui all’infinito?” sbottò Erik
“Ci penso io a lei. L’accompagno io. Se
trova la sua amica bene, altrimenti starà da me
finché non si trova un’altra
soluzione”.
“Se
te ne prendi tu la responsabilità…”.
“Direi
che sono grande abbastanza per farlo, no? Non ti fidi?”.
“Nipote
mio, tu sei così testardo che so bene come andrà
a finire. Quando ti metti in
testa una cosa, non c’è verso di farti cambiare
idea. Perciò fai ciò che
credi”.
“Bene”
concluse Erik.
“Quindi
mi ci porti?” domandò Hamal.
“Sì,
ti ci porto. Ma fra due settimane…”.
“Grazie!”
sorrise Ariete, abbracciando l’uomo, che non gradiva molto il
contatto umano ma
che non disdegnò quel segno di gratitudine.
₪₪₪
“Ho
vinto!” esclamò Mek, quando la pallina delle
roulette si fermò sul numero
cinque.
“Amico,
hai una fortuna sfacciata!” commentò chi sedeva
accanto a lui al tavolo.
In
effetti, nel giro di poche ore, Mek era riuscito a moltiplicare per
svariate
volte l’irrisoria cifra che aveva ricevuto in prestito dal
terrestre Thomas. I
due gemelli erano stati portati fra le molte attrazioni di Las Vegas
con lo
scopo di “farli divertire un pochino” ma, dopo aver
visto come la fortuna di
Mek li stesse arricchendo, avevano deciso di restare un po’
più a lungo del
previsto.
Buda,
piuttosto accigliato, fissava con una certa gelosia il fratello. Lui,
la mente,
aveva tentato di usare dei metodi che andassero oltre la mera fortuna
per
vincere, ma aveva perso. Al contrario di Mek che, invece, giocava del
tutto a
caso e vinceva. La cosa mandava in bestia Buda ma, notando la
felicità negli
occhi degli umani che li avevano trovati, non protestò.
Decise però che era inutile
stare lì fermo a rodersi il fegato guardando il fratello
mentre si sommergeva
di simpatici dischetti colorati. Perché poi gli umani
provassero tanto
entusiasmo nell’accumulare dischetti colorati non gli era
dato comprenderlo. Si
strinse nelle spalle e, drink alla mano, iniziò a girellare
per il casinò
“Panteon”, scelto dai gemelli.
All’ingresso, un enorme Zeus di pietra e
plexiglass ti fissava minaccioso, fulmine a neon e led fra le mani,
mentre una
schiera di belle donne vestite da Dee ti invitava ad entrare.
All’interno vi
erano numerosi figuranti vestiti da divinità greche e romane
e alle pareti
erano raffigurate scene mitiche. Buda si soffermò davanti ad
un maestoso cigno,
con una bellissima donna a fianco.
“Leda”
mormorò il gemello dai capelli scuri, ricordandola.
Non
pensava a lei da tanto, come non pensava a molte altre cose che gli
erano
successe, abituato com’era alla sua condizione di stella. Si
girò verso il
gemello. Chissà se pure lui ricordava, paraculato figlio
presunto di Zeus e da
sempre immortale! Di certo lui non si era scordato della loro ascesa al
cielo,
della loro morte e della famiglia che li aveva allevati. Ricordava
Leda, la
loro madre, e Clitennestra, la loro sorella, bella quanto Elena, la
loro
parente più famosa, sorellastra nata da un uovo.
Provò un brivido di rabbia
quando riportò alla mente il momento in cui lui, Castore,
era stato ucciso. A
causa di una stupida rissa per una mandria di buoi, scatenata molto
probabilmente dal gemello in vena di scherzi, lui era caduto.
Mandò giù il
liquore che aveva nel bicchiere tutto d’un fiato. Era morto
per colpa di quel
deficiente che ora vinceva senza ritegno poco più in
là! Respirò lentamente,
tentando di ritrovare la calma, quando si sentì sfiorare la
spalla.
“Che
hai, Buda?”.
Era
Mek, con un ghigno soddisfatto.
“Niente.
Stavo ripensando a come sono morto a causa tua”.
“Ancora
con questa storia?! È successo più di due
millenni fa!”.
“Non
importa…”.
“Resta
il fatto che è merito mio se siamo divenuti
stelle”.
“Ah
sì?”.
“Se
tu avessi letto qualcuno dei libri di mitologia che avevamo a palazzo,
lo
sapresti. Ma hai schivato la nostra epoca come se fosse velenosa e hai
passato
tutto questo tempo a farti del male da solo. Prova a chiedere in giro
com’è
andata, prima di guardarmi con tanto odio!”.
“Tu
sei sempre stato un privilegiato. Tu sei nato immortale, le hai avute
tutte
vinte, fino alla fine. Tu mi trascinavi in avventure impossibili, come
la
ricerca di quell’inutile vello d’oro assieme ai
tuoi amichetti ed al loro
capo…come si chiamava? Aspetta…”.
“Giasone.
Ed i miei amichetti erano gli Argonauti” borbottò
Mek, incrociando le braccia.
“Quelli!
Missioni impossibili e pericolose, perché tanto tu eri
immortale, che
differenza poteva fare?! Tu non potevi morire e chissenefrega se il tuo
povero
gemellino mortale ci lasciava le penne! Il povero fratellino mortale
poteva
pure morire, tanto non contava niente!”.
“Come
puoi dirmi una cosa tanto crudele?! Io e te siamo sempre stati
inseparabili e
abbiamo deciso insieme ogni cosa. Non ti ho mai trascinato da nessuna
parte!”.
“Sono
morto a causa tua!”.
“Sei
morto perché davi per scontato che ti salvassi ma io avevo
il mio bel da fare
in quel momento, se ricordi bene. Ho fatto il possibile!”.
“Balle!”.
“La
verità è che tu non sai combattere. Non
l’hai mai saputo fare. Hai sempre
aspettato che io venissi a pararti il culo”.
“Rimangiati
subito quello che hai detto!”.
“Mai!
Questa è la verità, mi spiace per te!”.
“Sparisci
dalla mia vista!”.
“Con
piacere!”.
I
due gemelli si separarono, fra la delusione della folla che si era
creata
attorno a loro che sperava in una vera rissa con scazzottata. Mek, con
tutto
quello che aveva vinto in poche ore, se ne andò assieme ai
mortali, che
ovviamente stettero dalla sua parte. Non avevano capito il
perché del litigio,
ma a tutti quei soldi non potevano rinunciare. Buda, rimasto da solo,
uscì dal
casinò. Per la prima volta nella sua vita era senza il
fratello accanto.
Strinse i pugni. D’ora in poi sarebbe stato sempre
così! Cominciò a vagare per
Las Vegas, senza una meta precisa. Aveva fame ed era stanco, stufo di
quelle
luci continue e di tutta quella confusione. Ma che fare?
Tutt’attorno c’era
solo il deserto! Doveva fare un tentativo. Al massimo sarebbe morto,
cosa che
aveva già provato. Non sarebbe stato niente di che, nulla di
nuovo.
₪₪₪
Aldebaran
aveva appena finito i lavori in giardino ed ora era in cucina, in cerca
di
qualcosa di fresco da bere. La casa era momentaneamente vuota e, dato
che tutto
ciò che gli era stato detto di fare lo aveva terminato con
largo anticipo, si
concesse un po’ di relax seduto in poltrona. Era stanco ma
soddisfatto. Guardò
i quadri appesi in salotto. Era da molto tempo che non dipingeva.
Iniziò a
vagare per casa, in cerca di qualcosa su cui disegnare.
Trovò un foglio bianco
vicino al telefono. Era leggermente spiegazzato ma poteva andare bene
lo
stesso. Non vedendo matite nei paraggi, si accontentò di una
penna a sfera.
Schizzò velocemente quello che aveva in mente di fare,
sentendosi un po’
limitato. Era abituato a grandi tele e ampie aree da riempire. Era
talmente
concentrato sul suo lavoro che non si accorse della porta che si
apriva.
“Carino”
si sentì dire alle spalle.
Si
girò e sobbalzò. Mikael lo fissava, leggermente
chino su di lui.
“Da
quanto tempo sei lì dietro?” domandò
Toro.
“Un
paio di minuti. Dammi una mano a mettere a posto la spesa”.
Aldebaran
si alzò ed iniziò a riordinare le varie cose
contenute nelle due sporte che
Mikael aveva portato in casa. L’uomo, nel frattempo, si era
aperto una lattina
di birra ed era andato all’esterno, stiracchiandosi.
“Ha
lasciato tutto il lavoro a te?” domandò Scott,
entrando in cucina con un altro
sacchetto della spesa e notando che solo Toro stava facendo qualcosa di
utile.
“Mi
pagate per questo” rispose Toro.
“A
che punto sei con il giardino?”.
“Finito”.
“E
il garage?”.
“Già
fatto”.
“Così
in fretta? Wow…sei spettacolare! Puoi prenderti un
pomeriggio libero allora”.
“Non
avete nient’altro da farmi fare?”.
“Al
momento no. Se mi verrà in mente te lo farò
sapere”.
Entrambi
iniziarono a riordinare quando gli occhi di Scott caddero sul disegno a
penna.
“Lo
hai fatto tu?” domandò.
Aldebaran
annuì, aggiungendo che era solo uno schizzo fatto di corsa,
niente di speciale.
“Mi
piace molto. Potresti rifarlo in grande? Intendo su una tela come
quelle appese
al muro. Mi piacerebbe mostrare le tue abilità ad un
amico”.
“Va
bene. Non c’è problema”.
“Allora
hai trovato cosa fare questo pomeriggio. Dopo pranzo ti
fornirò tutto il
necessario”.
“Grazie
mille”.
“Ma
figurati. Quando uno ha un talento, bisogna che lo sfrutti!”.
₪₪₪
Quella
gita ad Atene si era mostrata più divertente di quanto
avesse immaginato. Alìs
e Maia, le sue due coinquiline, erano uno spasso, molto disponibili e
gentili.
L’avevano obbligata a venire con loro. Astrea si era buttata
a capofitto in tutto
il lavoro possibile, per impegnare la mente. Non voleva pensare a
ciò che era
stato, a cosa aveva perso, a chi aveva perso… Per far tacere
la memoria, faceva
tutti i turni possibili al tempio e ripetizioni alle suo colleghe in
ogni
pausa. Essendo un part-time, non si sentiva ancora soddisfatta e quindi
Alìs le
aveva trovato, grazie all’appoggio di uno dei suoi professori
universitari, un
impiego come guida al museo della capitale. In questo modo si era
riempita
totalmente le giornate, tranne la domenica. Quel giorno il museo era
chiuso e,
anche se le capitava il turno da figurante, era solo per mezza
giornata. Quel
pomeriggio, lavorando tutte le ragazze con gli stessi orari, avevano un
po’ di
ore libere e avevano deciso di portare la loro nuova amica fuori.
Doveva
decisamente svagarsi! Astrea aveva opposto resistenza
all’inizio ma poi aveva
ceduto, non sapendo che fare a casa. Ovviamente Atene di domenica era
affollatissima di turisti. Vergine si guardava attorno, ricordando come
quel
luogo si presentasse un tempo. Preferì non pensarci e
tentò di fare come le sue
compagne, che spiaccicavano il naso su ogni vetrina, in cerca
dell’occasione da
cogliere al volo.
“Guarda
che bello che è quel vestito!!” le
sentì commentare “Stupendo!! Peccato che io
non ci entrerò mai…sono troppo
cicciona!”.
“Ma
dove cicciona?! Dai, va dentro e provalo!”.
“Anche
tu!”.
“Perché
non andiamo tutte dentro a provarlo?”.
Senza
ben capire come, Astrea si ritrovò all’interno del
negozio, con la commessa che
chiedeva in che modo poteva aiutarle.
“Vogliamo
provare quel vestito” rispose Alìs, indicandolo.
“Quel
modello è disponibile in diversi colori. Bianco, nero,
arancione, azzurro,
verde, crema, rosa e blu” sorrise la commessa, invitando il
trio a seguirla.
Mostrò
loro i colori e chiese quale preferissero. Era un modello primaverile,
con
sottili spalline intrecciate, una scollatura non troppo vistosa e la
gonna a
frange fino ai piedi. Il tutto decorato con piccole perle e ricami, con
una
cintura semplice che si allacciava in vita
“Io
propongo di provarne uno ciascuno, che ne dite?” propose
Maia.
“A
me sta bene. Tu che ne pensi, Astrea?”.
Vergine
rimase un attimo in silenzio. Con il primo stipendio nel borsello,
guardò la
veste con interesse, ma non voleva fare qualcosa di avventato.
“Dai,
su. Non costa tanto. Provalo almeno!” insistette Maia.
Astrea
sospirò ed annuì, indicando il modello di colore
nero. Maia scelse il rosa e
Alìs il verde. Entrarono nei camerini. Uscirono quasi
contemporaneamente,
sorridendosi a vicenda. Stavano bene e, a quanto pare, anche Astrea si
era
decisa a spendere un po’.
“Ma
come fai?” le domandò Maia, dopo che tutte e tre,
soddisfatte dello shopping,
si erano sedute al tavolino di un bar.
Stavano
sorseggiando frullati al cioccolato e guardando la gente di passaggio.
“Come
faccio cosa?” si stupì Astrea.
“A
volerti riempire le giornate in questo modo. Non hai mai tempo per te
stessa!”.
“A
che mi serve il tempo per me stessa? Non saprei cosa farmene”.
“Rilassarti
un po’, dedicarti a qualche hobby, uscire con
qualcuno…”.
“Esco
con voi quel che basta, no?”.
“Intendo
uscire con qualche uomo. Non hai tempo nemmeno per queste
cose?”.
“Non
mi interessano”.
“Come
sarebbe a dire?! Non c’è proprio nessuno che ti
piace?”.
“No.
Perché fate queste domande? Parliamo
d’altro!”.
“Se
sei felice così…”.
“Lo
sono”.
Vergine
concluse la conversazione con decisione. Aveva dimenticato
cos’era l’amore da
millenni e non aveva alcuna intenzione di ricordarlo.
₪₪₪
“Stupido
turista” ridacchiò una voce.
Al
Risha riaprì gli occhi. Sbuffò. Sperava fosse
stato tutto un incubo ed invece
era ancora lì, circondato da tanta fastidiosissima sabbia. E
che caldo faceva!
Si alzò a sedere e solo allora notò
l’uomo sul cammello che gli aveva parlato
prima.
“Ciao”
lo salutò Pesci, alzandosi e scuotendosi.
“Come
parli la mia lingua?”.
“Io
parlo tutte le lingue, ciccio”.
“Quella
che io parlo è conosciuta solo dalla mia
gente…”.
“E
pazienza. Io conosco anche quella. Ora potresti dirmi cortesemente dove
sono e
come faccio a raggiungere un posto vivibile? O questo inutile pianeta
è fatto
tutto così?”.
“Ma
tu chi sei?”.
“A
te che importa? E, ad ogni modo, potrei farti la stessa
domanda”.
Al
Risha, di solito piuttosto educato, si era innervosito fin troppo fra
sabbia,
vento, caldo e bestie del deserto e ora si stava sfogando su quello
straniero
sconosciuto.
“Io
ed i miei compagni ti abbiamo trovato in pieno deserto. Mi sono offerto
di
accompagnarti fino a qui, dove ti è facile raggiungere
luoghi un po’ più adatti
alla sopravvivenza”.
“Ah,
ok. Grazie di tutto. Ora che faccio?”.
“Quello
alle tue spalle è il Nilo. Seguilo e ti condurrà
alle città”.
“Da
che parte lo devo seguire?!”.
“La
parte che vuoi. Fa lo stesso, se non vuoi raggiungere un centro abitato
preciso”.
“No,
mi è indifferente”.
Al
Risha si incamminò verso il fiume e vi immerse le mani.
“Non
berrei quell’acqua se fossi in te…”
suggerì il suo salvatore.
“Senti,
Tuareg, fatti i cazzi tuoi!”.
“Era
solo un suggerimento da amico. Il limo non è proprio un
toccasana”.
“Sparisci!”.
“Come
vuoi. Ubriacati. È tutta salute. Buona fortuna”.
Dopo
aver dato un colpetto al dorso del cammello, il salvatore si
allontanò dal
salvato, che continuò a bere finché
poté. Quando finalmente fu soddisfatto, Al
Risha si alzò ed iniziò a seguire il fiume.
Decise di andare verso la foce,
seguendo la corrente. Nonostante il forte caldo, ora si sentiva
più tranquillo.
Iniziava a vedere qualche persona, piccole case e spiazzi di verde. Era
salvo!
Era sopravvissuto al deserto e si stava dirigendo a grandi passi verso
gli
umani, sperando di ricevere qualche notizia sui suoi compagni o su come
tornare
a casa. Decise di non pensarci troppo, meglio non alimentare illusioni.
Giunse
in vista di quella che, a occhio, pareva una grande città
con una fame da lupi,
lo stomaco brontolante ed un gran mal di pancia.
₪₪₪
Dopo
quasi due settimane, Sadalmelik era ancora priva di memoria. Si
sforzava di
ricordare ma la sua mente pareva come sigillata e svogliata. Sperava
almeno di poter
sapere il suo nome! Ora la spedizione era ferma sull’Isola
degli Orsi e in
pochi erano rimasti al campo. Piuttosto afflitta, e sentendosi inutile,
Acquario tentava in ogni modo di non essere un peso. Preparava i pasti,
riordinava i letti e rimaneva in silenzio, per non interferire con le
ricerche
della compagnia. Erano un gruppetto di varie nazionalità e
culture che, dopo
mesi di lavoro insieme, avevano imparato a sopportarsi e conoscersi.
Anche per
questo Sadalmelik si sentiva fuori posto. Loro erano uniti come una
famiglia
mentre lei era un’intrusa, con fra l’altro nessuna
nozione scientifica del
luogo che dovevano esplorare. I comunicati diramati dal centro non
avevano
ricevuto risposta, e la cosa lasciava perplesso il capo della
spedizione.
“È
come se fosse apparsa nel nulla” commentò una
sera, dopo l’ennesimo giorno di
ricerche negative “E questo non è possibile! Ci
dev’essere una nave, un aereo,
un’astronave, una balena bianca insomma…qualcosa!
Qualcosa che l’ha portata
fino a qui! Ma nel giro di miglia e miglia non è stato
segnalato nessun
incidente o imprevisto che possa giustificare la sua presenza. E
nessuno ha
denunciato la sua scomparsa. Un fantasma”.
“Parla
molto bene tutte le lingue del campo. Forse faceva parte del personale
di
qualche crociera…” propose uno dei compagni.
“Se
fosse così, la nave da cui è caduta
l’avrebbe segnalata!”.
“E
se non fosse caduta? Se fosse semplicemente stata lasciata a terra e
lei,
confusa per non si sa bene che cosa, è caduta in mare e si
è ritrovata qui?”.
“Questa
è un’ipotesi irrealistica e
impossibile!”.
“E
allora che alternative proponi?”.
“Non
lo so. Spero che le torni la memoria. Presto la missione
finirà e allora non
avrà un posto dove stare, se nessuno la verrà a
reclamare”.
“Non
è un pacco postale! Ce ne occuperemo noi, finché
potremo. La porteremo alla
polizia, al limite. Lì sarà al sicuro”.
Mentre
i ricercatori discutevano fra di loro, Sadalmelik era
all’esterno, sfidando il
freddo, avvolta in un alto collare di pelo ed un pesante cappotto.
Guardava le stelle.
C’era qualcosa che la spingeva a farlo, a fissare incantata
quei puntini
luminosi.
“Vieni
dentro!” si sentì chiamare “Fa troppo
freddo!”.
“Guarda!”
rispose Acquario “Cassiopea! E Perseo, Andromeda,
Drago!”.
“Parli
delle costellazioni? Io so riconoscere solo la stella polare,
l’Orsa minore e
maggiore e poche altre. Le indispensabili per orientarmi”.
“Io
invece le ricordo tutte. Credo sia una delle pochissime cose che
ricordo”.
“È
un inizio”.
“Però
manca qualcosa. Non hai anche tu l’impressione che ci siano
degli spazi vuoti?
Dei buchi?”.
“Cosa
intendi dire?”.
“Manca
qualcosa al cielo…”.
Non
ricevette risposta, se non l’invito di rientrare alla svelta
per non congelare.
L’inverno si stava avvicinando, per questo la spedizione si
stava per
concludere. Sadalmelik rientrò mestamente, chiedendosi
perché ricordava le
stelle ma non il suo nome. Trovava la cosa parecchio frustrante.
Sospirò.
Doveva aiutare a preparare i bagagli, il gruppo stava per iniziare a
smantellare il campo e tornare verso casa.
₪₪₪
Acubens,
seguendo il detto “se non puoi sconfiggerli, unisciti a
loro”, si era abituata
al modo di vivere dei leoni. Non era tanto male, dopotutto. Si era
creata delle
armi rudimentali per aiutare le leonesse nella caccia, nascondendo i
fucili per
le situazioni d’emergenza, e si procurava il cibo da sola. Ai
leoni questo non
dispiaceva, avendo l’occasione di mangiarsi ciò
che Cancro lasciava. Non ci
mise molto ad abituarsi alla carne cruda e imparò in fretta
come non farsi
scoprire dalle prede. Pensò che questo suo strano istinto
fosse rimasto latente
dentro di lei da quando ancora non era una stella, quando
cioè era un semplice
granchiolino ucciso dal piedone spocchioso di Ercole. Non
capì come collegare
l’istinto di un granchio e quello di un leone ma non si
creò molti problemi. Il
pomeriggio, nelle ore più calde, quando era impossibile
cacciare, se ne stava
spaparanzata nella poca ombra della savana e riposava, preferendo
girare di
notte o nelle ore dove il clima era più permissivo. Il
problema maggiore fu il
sole, che scottava facilmente la sua pelle non abituata.
Un
giorno, durante uno di quei pomeriggi assolati, si svegliò
di soprassalto,
avvertendo un rumore. Era un rombo continuo e si avvicinava. Allarmata,
e
notando l’agitazione delle leonesse, andò a
prendere il fucile, pronta a
difendersi. Il rumore era dovuto ad una grossa jeep con due uomini a
bordo.
Quello che non guidava stava osservando il circondario con un pesante
binocolo.
Non appena lo puntò verso il gruppo di felini, fece segno al
suo collega di
girare e proseguire verso quella direzione. Il mezzo cambiò
strada e corse
verso gli animali che, impauriti, iniziarono a sparpagliarsi. Acubens
imbracciò
il fucile e rimase immobile, decisa a difendere i cuccioli.
“Ragazza,
sta tranquilla! Andrà tutto bene” gridò
uno degli uomini.
“Se
ve ne andrete sì, andrà tutto bene”
rispose lei.
“Non
avere paura, sei in salvo. Vieni con noi. Ti hanno ferita?”.
“Chi
avrebbe dovuto ferirmi? Sparite!”.
“Metti
giù quel fucile, non è più necessario.
Ti portiamo al sicuro”.
“Vi
consiglio di portarvi da soli al sicuro, se non volete ritrovarvi con
un buco
nelle chiappe!”.
“Non
essere sciocca! Noi siamo amici e siamo qui per salvarti”.
“Salvarmi
da chi?”.
“Dai
leoni!”.
“E
perché? Io sto bene qui con loro. Andatevene! Lasciateli in
pace!”.
“Metti
giù il fucile!”.
“Andate
via!”.
Ormai
la conversazione era diventata un grido continuo e terminò
con uno sparo in
aria del fucile, che Acubens stringeva con convinzione e sguardo
minaccioso.
“Questa
è pazza…” mormorò il
guidatore.
“Andiamocene,
o ci ammazza!” rispose, quasi in rima, l’altro uomo.
La
jeep fece rapidamente retromarcia e Cancro sorrise. Si
apprestò a gettare in
terra il fucile, per non spaventare ulteriormente i felini suoi amici,
e
sedette fra loro.
“Siete
al sicuro” disse, accarezzando la testa di un paio di
leonesse “Nessuno vi farà
più del male, perché penserò io a
voi!”.
La
voce si sparse piuttosto in fretta, come il più curioso dei
pettegolezzi, e ben
presto si iniziò a narrare la storia della “donna
leone” o della “leonessa
umana”.
₪₪₪
Zubeneschamali
riaprì gli occhi e vide, vagamente, un uomo vestito di
bianco che la toccava.
D’istinto, gli tirò un poderoso calcio e lo fece
allontanare.
“Dottore!”
sentì gridare una donna.
“Dottore?!”
ripeté Bilancia, piuttosto confusa.
L’uomo
si stava reggendo il ventre, colpito dal calcio di lei.
“Scusi…”
sussurrò la paziente, in imbarazzo.
“Stia
tranquilla” bofonchiò il medico “Sono
cose che capitano. È ancora sotto shock.
Si è ripresa, molto bene. Fra poco potrà anche
vedere sua sorella”.
“Mia
sorella?” si stupì Zubeneschamali e poi
ricordò di Zubenelgenubi e annuì.
“Come
si sente? Le fa male da qualche parte?” domandò
l’infermiera.
“Solo
i piedi. Dove mi trovo? Cosa è successo?”.
“È
svenuta in spiaggia ed è stata portata qui,
all’Ospedale di Bahia”.
“E
mia sorella?”.
“Sta
benissimo. Le abbiamo dato da bere ed è qua fuori che
aspetta di poter
entrare”.
“Ok…grazie
per l’aiuto”.
“Da
dove venite? Vostra sorella non è stata molto chiara. Quanta
strada avete fatto
a piedi?”.
“Non
lo so quanta strada abbiamo percorso, non lo ricordo, e per quanto
riguarda da
dove veniamo beh…è piuttosto complicato da
spiegare! Da molto, molto, molto
lontano!”.
“Però
parlate bene la nostra lingua”.
“Almeno
quello…”.
“Avete
il numero di qualche parente da avvisare, che vi venga a
prendere?”.
“Veramente
no, siamo solo noi due”.
Medico
ed infermiera si fissarono.
“Ora
faccio entrare sua sorella” riprese lui, dopo qualche attimo
di silenzio “E
stasera verrà dimessa. Spero abbiate un posto dove
andare”.
“No…ma
ci arrangeremo”.
“Vi
daremo un indirizzo a cui rivolgervi”.
Zubeneschamali
annuì mentre Zubenelgenubi entrava nella stanza, felice nel
vederla sveglia e
in salute. Sedette accanto al letto ed iniziarono a discutere sul da
farsi.
₪₪₪
“Che
puzza insopportabile di pesce!” si lagnò Kosmos,
disteso sulla sua branda con
le mani incrociate dietro la testa.
La
giornata stava per concludersi e il pescato imballato veniva spostato
nelle
celle frigorifere. Ovviamente Kosmos non aveva mai mosso un dito per
aiutare e
questo faceva imbestialire la capitana, che non faceva altro che
ripetergli che
un giorno di questi lo avrebbe ributtato in mare. Sbadigliando, il
pigro
scroccone voleva schiacciare un pisolino, quando una luce abbagliante
lo infastidì
e lo costrinse a rimanere sveglio. Coprendosi il viso con le mani, vide
che in
mezzo a tutto quel bagliore c’era una figura.
“Chi
sei? Cosa vuoi?” sibilò, scocciato.
“Suvvia,
Kosmuccio, non mi riconosci nemmeno più?”.
“Kuruma?!”.
“In
persona”.
Kosmos
attese che la luce di lei si affievolisse e la fissò, con
fastidio. Poi la sua
espressione, per un attimo, mutò. Non si era mai reso conto
di quanto lei fosse
bella, avvolta da quella veste rossa come il fuoco e con quei capelli
mossi da
un vento invisibile. Si scosse. Era tutta soggezione. Lui ora era
mortale e
quindi era naturale che una Dea gli facesse questo effetto.
“Era
ora che mi venissi a prendere, stupida femmina. Ti sei accorta che
senza di me
non funziona niente? Ti arrendi all’evidenza che sei
più debole?”.
“A
dir la verità, le cose stanno andando benissimo anche senza
di te, stronzo”.
“Bada
a come parli!”.
“Bada
tu a come parli! Sei solo un misero mortale destinato a perire fra
breve, dato
che tu il culo non hai proprio intenzione di
muoverlo…”.
Kosmos,
ridacchiando, dimenò il sedere facendole notare che, in
realtà, il culo sapeva
muoverlo benissimo.
“Non
prendermi in giro, larva dalla miserrima possibilità di
sopravvivenza!” tuonò
Kuruma.
“Larva?!
Aspetta solo che torni ad avere i miei poteri e poi staremo a vedere,
razza di
scassatrice delle mie parti riproduttive!”.
“Lombrico!
Leccherai la polvere prima che io ti consenta di tornare in
cielo!”.
“Si
dice mangiare la polvere, non leccare!”.
“Fa
lo stesso, parassita spaziale!”.
“Se
devi fare l’esaltata, almeno usa la terminologia
corretta” ghignò Kosmos,
abbassando il tono della voce e tornando a rilassarsi sulla branda
“Allora, mia
cara, quando torno a casa?”.
“Ero
venuta a prenderti, convinta che avessi capito il tuo
errore…”.
“Errore?
Quale errore?”.
“Ecco,
appunto. Ero venuta, ma tu non hai capito proprio un cazzo e quindi non
meriti
la mia grazia”.
“Hei,
frena un momento! Io non ho bisogno della tua grazia!”.
“Quello
è l’unico modo che tu hai di ritornare in
cielo”.
“L’unico?!
Non dire scemate! Il mio posto è quello e ci
tornerò. Confido nel fatto che
prima o poi vedrai di non riuscire a gestire la situazione.
Diciamocelo…non sei
molto portata al comando”.
“Ricordati
che tu, ora, sei un mortale. Un piccolo, inutile, debole e antipatico
umano. Potrei
disintegrarti con uno schiocco di dita”.
“Ma
non lo farai…perché tu in realtà vuoi
scoparmi, e disintegrandomi non ci
riusciresti”.
“Allora
vorrà dire che prima ti scoperò e poi ti
disintegrerò”.
“Simpatica”.
“Coglione”.
“Allora,
vostra cielità, che devo fare per rientrare nelle vostre
grazie?”.
“Lo
sai già”.
“E
tu lo sai che io non ammetterò MAI di essere alla pari di
te. Qual è l’opzione
numero due?”.
“Non
c’è nessuna opzione numero due, testa
grotta!”.
“Testa
grotta?!”.
“Hai
le stalagmiti nel cranio invece del cervello!”.
“Ah,
in quel senso! Carina come immagine…”.
“Non
cambierai mai…”.
“E
che ti aspetti?! Son più vecchio del pianeta dove ci
troviamo adesso e vuoi che
cambi ora perché a te girano le palle di
cambiarmi?”.
“Ti
comporti come uno spocchioso ragazzino viziato”.
“E
tu come una befana zitella con gli sbalzi ormonali”.
“Mi
sa che resterai su questo pianeta fino alla fine dei tuoi giorni che,
essendo
ora mortale, non saranno molti”.
“Oh,
sto tremando! Che minaccia! Non dire scemate, fammi tornare in
cielo!”.
“NO!
Non accadrà fino a quando non la smetterai”.
“Smetterò
cosa?!”.
“Di
irritarmi!!”.
“La
cosa è impossibile, tu ti irriti per qualsiasi
stronzata!”.
“Sai
una cosa? Io ero venuta qui con le migliori intenzioni. Credevo che
cadere e
ritrovarsi mortale, in una situazione del genere, ti avesse fatto
capire delle
cose. Bastava che mi chiedessi scusa, e ti avrei riammesso a
palazzo”.
“Chiedere
scusa?! Io?! Bella, se qui c’è qualcuno che deve
chiedere scusa quella sei tu!
Ho rischiato di annegare, sai?!”.
“Ci
sono dei momenti in cui ho sperato che la cosa fosse
avvenuta”.
“Volevi
che io morissi?! Brutta baldracca orientale io ti…”
Kosmos
fece per alzarsi ma Kuruma lo bloccò sulla branda, senza
nemmeno muovere un
dito.
“I
dodici zodiacali possono tornare al loro posto anche senza il mio
aiuto, come
hanno fatto la prima volta che son diventati stelle. Ma tu no, tu hai
bisogno
dei miei poteri perché non sei mai stato mortale. Senza di
me, resterai un
semplice umano per sempre. È questo che vuoi?”.
“L’alternativa
è chiedere scusa?”.
“Esatto”.
“Allora
preferisco restare mortale, ciccina. Tanto lo so bene che verrai a
cercarmi fra
poco, quando dovrai inaugurare l’era dell’Acquario.
Non sai nemmeno da che
parte iniziare…”.
“Io
sono certa che, per quel giorno, i tuoi dodici ex sottoposti saranno
stati
abbastanza intelligenti da tornare in cielo. Resterai solo tu
qui”.
“Non
credo proprio, vedrai”.
“Quindi
la tua scelta, umano, è restare qui…”.
“Esatto.
E ora vattene!”.
“Parlare
in questo modo ad una Dea non è una cosa molto furba,
sai?”.
“Bla,
bla, bla…quanto parli! Sparisci, ho sonno”.
“Come
vuoi. Dai, però, una mano a questi poveretti che, oltre a
lavorare, devono pure
sopportarti”.
“Anche
questa è una cosa che non accadrà mai.
Dileguati!”.
“La
scelta è tua però ricordati: merda sei e merda
ritornerai!”.
“Polvere
è la parola, ignorante!”.
“Fa
lo stesso”.
Kuruma
scomparve e Kosmos sorrise. Ora poteva dormire in pace.
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Capitolo 5 *** 4 ***
V
“Impara
a guidare, impedito!” sbraitò Kosmos, quando un
violento scossone lo risvegliò
dal pisolino in cui era sprofondato.
Sentiva
gridare e la nave pareva impazzita, sballottata di qua e di
là. Cadde dal suo
giaciglio, imprecando verso non sapeva bene chi.
“Hei,
tu!” si sentì chiamare, con tono piuttosto
scocciato, dalla capitana “Muovi il
tuo culo pallido e vieni a dare una mano di sopra!”.
“Ti
ho già detto che non ho nessuna intenzione di
farlo!”.
“Senti,
parassita, siamo finiti in mezzo ad una tempesta!”.
“E
allora?! La cosa non mi riguarda!”.
“Ti
riguarda, se andiamo a fondo!”.
“E
che dovrei fare, secondo te?! Fermare la tempesta?! Mi spiace, ma far
questo
non è mai rientrato fra le mie mansioni!”.
“Vieni
ad aiutarci o giuro che ti rigetto nell’oceano!”.
Kosmos,
piuttosto infastidito, si alzò in piedi a fatica e
tornò a sedersi, deciso a
ricominciare a dormire. Già si era voltato con il viso verso
la parete quando
un suo compagno di stanza venne a prendere la capitana.
“Lasciatelo
perdere quello” disse, rivolto ad Hanne “Sarebbe
del tutto inutile di sopra.
Non è abbastanza uomo da affrontare una tempesta!”.
Kosmos
spalancò gli occhi, d’improvviso furioso. Si
alzò di scatto, deciso ad
avventarsi contro colui che lo aveva offeso, ma il movimento della nave
glielo
impedì e cadde in terra in malo modo. Il marinaio
ridacchiò, riuscendo a stare perfettamente
in equilibrio.
“Visto?
È un imbranato. Lasciatelo qui”.
“Te
lo faccio vedere io l’imbranato, razza di nullità
fatta di carbonio
deperibile!”.
“Perché,
tu di cosa saresti fatto?” ghignò
l’uomo, con disprezzo.
“Io…tu
non puoi capire. Nessuno di voi può. Non ne avete le
capacità mentali”.
“Posso
ributtarlo in mare?” domandò il marinaio.
“In
effetti, in mezzo alla tempesta, nessuno potrebbe accusarci. Potremmo
dire che
è caduto da solo…o potremmo non dire nulla.
Nessuno sa che è qui…”.
“Cosa?!”
si allarmò Kosmos.
“Scherzo.
Io non sono una persona disgustosa come te. Goditi il viaggio disteso
sul
letto…”.
“Io
non sono una persona disgustosa! Io sono Kosmos e non potete nemmeno
immaginare
chi fossi prima di finire qui, in questo buco malfermo e
puzzolente!”.
“Non
possiamo immaginarlo? Dimostracelo, grand’uomo!”.
Kosmos,
ferito nell’orgoglio e in molte altre parti del corpo dopo il
ruzzolone
imbarazzante che aveva fatto prima, si avviò lungo la
scalinata che portava al
ponte. Incespicò più volte e trovò la
cosa davvero fastidiosa. Lui, che era
abituato a controllare la gravità e levitare nel cielo
infinito, ora
ballonzolava come il più imbranato dei pinguini!
Un’onda schizzò e lo bagnò,
mentre un fulmine illuminò per un istante l’intera
ciurma, impegnata ritirare
le reti per poter andare al largo, dove la tempesta non avrebbe agitato
tanto
le onde. Purtroppo erano sulla rotta del ritorno e non in pieno oceano
come
qualche giorno prima.
“Questa
perturbazione non era prevista da nessuna parte! Dannazione!”
gridò la
capitana, correndo ai comandi, dove un marinaio stava litigando con gli
strumenti di navigazione impazziti.
Kosmos
si avvicinò agli altri, che lo fissarono con stupore per
qualche istante, prima
di urlargli di afferrare la rete e dare una mano a tirarla su. Il
meccanismo
che la ritirava in automatico si era danneggiato. L’ex
Signore Occidentale
obbedì, convinto a dimostrare che non era
l’inutile bimbo capriccioso che gli
altri credevano che fosse. Purtroppo per lui, l’operazione
richiedeva più forza
di quanto pensasse e per poco non cadde in acqua, trascinato dalla
rete.
“Non
facciamo prima a tagliarla?” era tentato di proporre, ma non
voleva fare la
parte della lagna deboluccia.
Lampi
e tuoni si succedevano fra le onde, sempre più alte, mentre
la ciurma faceva
fatica a mantenere l’equilibrio.
“Tagliatela!
Al diavolo anche la rete!” ordinò, ad un tratto,
la capitana.
“Vaffanculo…senza
questo carico, saremmo costretti a farci mandare una rete nuova e
tornare in
mezzo al nulla perché non ne abbiamo abbastanza di quel
cazzo di pesce!”
protestò qualcuno, quasi ringhiando.
“Senza
rientrare al porto?” gridò, di rimando, Kosmos,
tentando di farsi sentire nel
vento.
“No.
Ci aspettano altri giorni di palloso monopanorama! Ma il capo ha detto
di
tagliare…”.
“Aspettate!
Dai, proviamo ancora!” incoraggiò Kosmos, schifato
solo all’idea di passare
tempo in più fra la puzza e lo schifo del pesce.
Tirò
più forte, mentre l’ennesimo lampo gli diede
l’impressione di mostrargli un
volto fra le nubi.
“Kuruma!
Vuoi uccidermi?!” urlò, mentre lei appariva
completamente.
Kuruma
rise. Kosmos avvertì quella risata ma agli altri sulla nave
sembrò solo un
tuono molto forte.
“Lo
trovi divertente?!”.
“Molto,
Kosmuccio. È uno spasso vederti lavorare!”.
“Come
hai la forza di fare una cosa del genere?!”.
“Ti
riferisci al fatto che ho generato una tempesta? In realtà,
fra scettro e
chiave, i miei poteri sono notevolmente aumentati e mi è
tutto più semplice”.
“Puttana…”
mormorò Kosmos, ormai stremato e fradicio.
“Smettila
di metterti in imbarazzo davanti agli uomini veri che stanno su
quell’aggeggio
galleggiante. Loro non sentono la mia voce e credono tu stia parlando
ai
tuoni”.
“Che
credano quello che vogliono…”.
“Potresti
far finire tutto questo quando vuoi, sai come!”.
“Sparisci!”.
Kosmos
aveva ricominciato a gridare, tirando la rete con più voga.
Kuruma continuava a
ridere ma poi smise, quando si accorse che quella massa di mortali
stava
riuscendo nell’intento. Con un ultimo sforzo, la rete fu
completamente ritirata.
Ansimando, Kosmos si distese in terra, stanchissimo ma soddisfatto.
Alzò il
dito medio al cielo.
“Ho
vinto io, stronza!” ridacchiò.
Kuruma
lanciò gli ultimi fulmini e poi si dissolse, avvolgendosi
nelle vesti di
nuvole. La tempesta iniziò a placarsi.
“Fantastico,
ragazzi! Ci siamo riusciti!” si sentì gridare.
“Bravo.
Forse i tuoi genitori non hanno commesso poi un grande errore
nell’educarti”
mormorò la capitana, rivolto a Kosmos.
“I
miei genitori?” sussurrò lui, seduto in terra
strizzandosi i capelli e i
vestiti.
Si
guardò attorno. Erano tutti figli di madre. Tutti i presenti
avevano dei
genitori. Erano tutti nati da qualcuno, da un uomo e da una donna.
Tutti tranne
lui. Era la prima volta che sentiva di avere qualcosa in meno rispetto
a coloro
che lo circondavano.
₪₪₪
Adhafera
camminava tranquillamente per strada, dopo essere stata rilasciata per
“incapacità di intendere e volere”. Non
aveva ben idea di dove andare ma, a
quanto pare, in quel Paese a pochi importava del destino degli
innocenti. Ad un
tratto percepì una strana sensazione, come un presentimento.
Era seguita, ne
era certa. Tentò di cambiare strada, infilandosi in una
stradina laterale.
Nonostante questo, avvertiva ancora quella spiacevole sensazione di
avere
qualcuno alle calcagna. Si voltò di scatto, afferrando chi
la stava seguendo e
buttandolo in terra.
“Tu
chi sei e che vuoi?” sibilò.
“Non
farmi del male! Sono Roberto Giacobbo. Voglio intervistarti!”.
“Roberto
chi?! E che cos’è che vuoi farmi?!”.
“Roberto
Giacobbo…non mi conosci? Sono famoso!”.
“Mai
sentito nominare”.
“Conduco
"Voyager!"”.
“Cos’è
un Voyager? E dove lo conduci?”.
“Io
credo alla tua storia e voglio fare un servizio su di te. Andrai in
onda in tv.
Ti va?”.
“Io…”.
“Non
starlo a sentire!” interruppe la conversazione un altro
individuo.
Adhafera
rimase ferma dov’era, mentre Giacobbo si rialzava e guardava
con fastidio quel
tizio che l’aveva zittito.
“Sparisci!”
protestò “Lei è mia!”.
“Scordatelo,
quattrocchi! Fatti da parte!”.
“Mai!
Torna da dove sei venuto!”.
“Hem…”
borbottò Adhafera “Tu chi saresti?”.
“Io
sono Marco Berry e conduco "Mistero", altro che quella scemata di
"Voyager!"”.
Leone
rinunciò a capire cosa volesse dire
“condurre” secondo loro.
“"Voyager"
non è una scemata! "Mistero" lo è!”.
“Vai
al diavolo!”.
“Buttati
sotto un treno!”.
“Sparati!”.
“Fatti
rapire dagli alieni!”.
“Ma
vai a cercare i Templari, che è meglio!”.
“Va
a contare i cerchi nel grano!”.
“Buffone!”.
“Migra
altrove, testa pelata!”.
“Potete
smetterla, per favore?” fermò il tutto Adhafera
“Che cosa volete da me?”.
“Voglio
intervistarti!”.
“Pure
io!”.
“Non
ascoltarlo! Il mio programma è il migliore!”.
“No,
il mio è il migliore! Lui è un bugiardo! Crede
ancora a Babbo Natale!”.
“E lui a Moth man!”
“Moth Man esiste!”.
“Certo
che no! E ormai dovresti saperlo!”.
“Io
l’ho visto!”.
“Ma
tu davvero credi nelle stronzate che porti nel tuo
programma?!”.
“E
tu in quelle che presenti tu?!”.
“Basta,
finitela!” urlò Leone, decisamente stufa
“Se non volete che vi tramortisca
entrambi e festa finita! Cos’è
un’intervista?”.
“Tu
parli di te e poi finisci in televisione. Ti vedranno tutti”.
Adhafera
rifletté un attimo. Se l’avessero vista davvero
tutti, allora sarebbe stato
semplice contattare i suoi compagni caduti. Poteva
funzionare…
“Non
sembra una cattiva idea” disse, dopo qualche minuto, in cui i
due presentatori
non fecero altro che azzuffarsi e insultarsi.
“Bene,
allora ti intervisterò!” si affrettò a
dire Giacobbo.
“No!
La intervisterò io! Tu fatti da parte!”
ringhiò Berry.
“Ma
non potete intervistarmi entrambi?” propose Adhafera.
“Benissimo.
Prima io!”.
“No!
Io!”.
“Che
due coglioni…” tagliò corto Leone,
schivandoli e riprendendo il suo cammino.
“No,
aspetta! Aspetta, stella caduta!” la supplicò
Giacobbo.
“Non
andar via! Parla con noi!” aggiunse Berry.
E
Leone camminò ore per Roma, con alle spalle due pazzi che
per tutto il tempo la
supplicarono di concederle un’intervista, fra un insulto e un
altro fra loro.
₪₪₪
“Non
ho bisogno di lui per sopravvivere. Che passi pure il suo breve tempo
mortale a
buttare i soldi alle slot! Saprò cavarmela benissimo da
solo” borbottò Buda,
zigzagando fra la folla di Las Vegas.
C’era
chi lo spintonava e chi lo fissava come se fosse una strana attrazione.
Camminava pensando a cosa fare. Chissà se qualcuno dei suoi
compagni aveva
capito il modo per poter tornare a casa… Ne aveva nostalgia,
non gli era mai
piaciuto il mondo mortale. Passò davanti a diversi
casinò, chiedendosi che cosa
ci trovasse di divertente la gente all’interno. Una coppia di
sposi ubriachi
vestiti da Elvis lo spinse, cantando in malo modo.
“Se
gli umani si sono ridotti in questo modo, allora forse converrebbe
davvero a
tutti se si estinguessero” commentò, piuttosto
confuso.
Sedette,
sotto una fontana raffigurante una sirena prosperosa e sorridente,
sospirando.
“Brutta
serata, eh?” si sentì dire.
“Già”
rispose, senza alzare lo sguardo dal pavimento.
“Pure
la mia non è un granché. Ho perso un sacco di
soldi e ho litigato con mio
figlio. Quel ragazzo a volte sa essere una vera disgrazia!”.
“Pure
io ho perso soldi. E ho litigato di brutto con mio fratello”.
“Una
seratina niente male per entrambi, insomma. Da dove venite tu e tuo
fratello?”.
“Da
un posto in cui non sappiamo se potremo tornare”.
“Siete
scappati di casa?”.
“No.
Siamo stati cacciati di casa”.
“E
siete venuti a Las Vegas?!”.
“Mio
fratello è bravo a fare amicizia e si è fatto
portare qui…”.
“Poi
lui se ne è andato con i suoi nuovi amici, lasciandoti in
disparte?”.
“Più
o meno. Lui ha sempre avuto tutte le fortune”.
“Fratello
più piccolo? Cocco di mamma?”.
“Fratello
gemello. Cocco di papà”.
“Capisco”.
“E
tu e tuo figlio da dove venite?”.
“Dalla
California. Siamo qui perché lui non va particolarmente bene
a scuola”.
“E
siete venuti a Las Vegas?!”.
“Sì.
Assurdo, vero? È che mi ha detto di volersi svagare un
po’e, avvicinandosi il
Natale, ho pensato che qualche giorno di luci colorate e divertimento
potessero
fargli bene”.
Buda
annuì, fingendo di sapere cosa fosse il Natale.
“Perché
non va bene a scuola?” domandò poi, sentendosi un
po’ solo e volendo fare
conversazione.
“Ha
problemi con la storia. Quello zuccone ha scelto "storia europea" e
la letteratura di quelle parti come indirizzo, dicendo che la storia e
la letteratura
americane lo annoiavano, e ora si è incasinato fra egizi,
greci, romani,
vichinghi e mitologia varia. Un disastro!”.
“Beh,
se volete, io sono abbastanza ferrato sull’argomento. Potrei
aiutare…”.
“Sul
serio? Ne sai qualcosa per davvero?”.
“Come
se ci fossi nato nel mezzo!”.
L’uomo
e la stella caduta si fissarono, per la prima volta in tutta la
conversazione,
e Buda sorrise. Chi aveva di fronte indossava un enorme cappello da cow
boy con
l’abito a tema. Il gemello moro lo trovò piuttosto
buffo ma, pensò, doveva
esserlo pure lui andando in giro con una sorta di tunica malconcia e
bruciacchiata.
“Saresti
disposto a dare lezioni a quella testa vuota di mio figlio?”.
“Non
ho mai fatto l’insegnante prima d’ora ma posso
provarci”.
L’uomo
si alzò. Si vedeva che era piuttosto ricco. Sfoggiava
numerosi gingilli in oro.
Respirò a fondo, portando al limite della sopportazione i
bottoni della propria
camicia, data la sua pancia piuttosto prominente, e si voltò
verso Buda.
“Allora
affare fatto. Tu non hai un posto dove andare e di certo mi costerai
meno di
quell’incompetente d’insegnante privato che ho
assunto anni fa. Un periodo di
studio intensivo, con il maestro sempre a fianco, non gli
farà di certo male!
Accetti, signor…non ti ho chiesto come ti
chiami…”.
“Buda,
mi chiamo Buda”.
“Che
nome singolare. Io sono Jerald Jonson. Chiamami Jer, o J.J., come fanno
tutti”.
“Ok…”.
“Ora
andiamo a riprendere mio figlio. È ora di tornare a
casa”.
Buda
lo seguì senza dire nulla. Che strambi che erano gli esseri
umani di quel tempo!
Una voce familiare lo fece voltare. Suo fratello Mek, completamente
ubriaco,
stava dando spettacolo. Cantava, assieme agli “scova
alieni”, e guardava il
gemello con un largo sorriso.
“Dove
vai, principino?” biascicò.
“Via,
come avevo promesso” rispose, serio, Buda.
“Non
essere ridicolo! Non sopravvivresti un giorno senza di me!”.
“Vedrai
che me la saprò cavare”.
Il
gemello moro aveva voltato le spalle all’altro e si era
incamminato dietro
all’enorme signor Jonson, che apriva la folla come se niente
fosse.
“Hei!
Aspetta! Non puoi dire sul serio!” gridò Mek.
“Sono
serissimo!” urlò, di rimando, Buda.
“Benissimo!
Se la metti così, vai pure! Io non ho bisogno di
te!”.
“Nemmeno
io!”.
“Bene!”.
“Benissimo!”.
Separati
ormai dalla gente e dalle auto, i gemelli non poterono più
parlare e, con un
sospiro non manifesto, presero due strade diverse.
₪₪₪
Giunto
al confine con il Pakistan, come gli era stato ordinato, Deneb Algiedi
attendeva il compratore, seduto su una cassa di legno. Alle sue spalle,
la
grossa jeep con cui era arrivato fino a lì era carica di
altra merce da vendere
e guardata a vista da due omoni armati. Con la sigaretta di sbieco fra
le
labbra, aveva preso anche quel vizio, fissava il cielo sereno tenendo
le
braccia incrociate. Che strano destino lo aveva condotto fino a
lì, a svolgere
quel ruolo nella sua nuova vita mortale. Guardò gli sgherri
che lo
controllavano.
“Sono
in ritardo” commentò, riferendosi ai loro
compratori.
“Aspettiamo
solo qualche minuto, dopodiché contattiamo il capo e
vediamo. Non siamo pagati
per giocare e i comodi degli altri non ci interessano”.
“Benissimo”
alzò le spalle Capricorno, tornando a rilassarsi appoggiato
alla jeep.
Dopo
poco vide alzarsi una nube di polvere in lontananza. Un’altra
jeep si stava
avvicinando, a grande velocità.
“Eccoli”
esclamò uno degli omoni, scendendo dal mezzo ed affiancando
Deneb.
L’auto
si fermò. La polvere la ricopriva ed era difficile dire
quante persone vi
fossero al suo interno.
“Siete
in ritardo” sbottò Algiedi.
“Problemi
alla dogana. Ultimamente è sempre più difficile
passare i confini”.
“Avete
i soldi?”.
“Avete
la merce?”.
“Tutto
quello che avete chiesto”.
“Siete
più cari dell’altra volta…”.
“Ci
avete richiesto un Remington, mica noccioline! Rintracciarlo non
è stato
facile”.
“Spero
sia l’M 24, come concordato”.
“Ovvio.
Se vuoi vederlo, è nella cassa più
piccola”.
“Se
permetti, meglio non fidarsi troppo. Voglio vederlo”.
“Come
vuoi. Ragazzi, mostrate a questo malfidente quello che gli abbiamo
procurato”.
“Chiama
il pivellino, sarà compito suo usarlo”.
Mentre
la cassa con il fucile da cecchino veniva aperta, dalla jeep
impolverata era
trascinato fuori un uomo, che non amava particolarmente essere trattato
in quel
modo.
“Antares?”
esclamò Capricorno, alzando gli occhi dalla cassa.
“Dabih!
Deneb…sei tu?” rispose Scorpione, ancora
trattenuto dai suoi aguzzini.
“Non
ci posso credere…”.
“Chi
è quell’uomo, Algiedi?”
domandò un indiano sospettoso.
“Lui
è…mio fratello”.
“Non
vi assomigliate”.
“Non
fratelli di sangue. Compagni di avventure, e sventure. Colleghi di
lavoro”.
“Guarda
questo fucile, Antares…” interruppe uno dei
compratori, non interessato alle
vicende personali “Il lavoretto che dovrai fare per noi
sarà con questo
giocattolo. Poi sarai libero, come promesso, e ciò che ti
accadrà sarà affar
tuo”.
“Che
dovrei farci con quello?”.
“Sparare,
mi sembra ovvio!”.
“A
chi?”.
“Ogni
cosa a suo tempo…”.
“E
poi sarò libero? In zona di pace?”.
“Pace…che
parola grossa! Diciamo che non sarai più fra i
bombardamenti”.
“Mi
basta…”.
Antares
fissò Deneb, mentre venditori e compratori si scambiavano
merce e denaro.
“Posso
parlare un attimo con lui?” domandò Algiedi.
Ottenuto
il premesso, le due stelle cadute si allontanarono di qualche passo.
“Ti
comporti come se fossi un criminale da sempre…”
commentò Scorpione, usando il
linguaggio del palazzo occidentale.
“Diciamo
che mi sono trovato bene. E tu? Che mi combini? Ti fai
schiavizzare?”.
“Ho
dovuto. Mi sono ritrovato in mezzo ad una guerra. È
già tanto che sia vivo!”.
“Brutta
storia…”.
“Già.
E ora devo ammazzare qualcuno per ottenere la
libertà”.
“Sei
sicuro che poi la libertà ti verrà concessa per
davvero?”.
“No.
Non mi fido un granché”.
“Ti
sei cacciato in un bel guaio…”.
“Credi
che non lo sappia?! Comunque, tornando ad argomenti più
leggeri, hai visto
qualcun altro di noi in giro?”.
“Solo
te, fin ora”.
“Ti
sono mancato?” ridacchiò Antares.
“Vuoi
un abbraccio?! Senti…tornando al discorso del fucile da
cecchino…”.
“Gli
ho mentito. Ho detto che sono bravo a sparare, ma non ho mai sparato in
vita
mia!”.
“Sei
un vero coglione!”.
“Grazie…”.
“Ma
è vero! Sei una testa di cazzo! Se manchi il bersaglio, sei
nella merda!”.
“Tu
sai come si usano quei cosi?”.
“Sto
imparando, ma non posso giudicarmi un esperto”.
“Di
certo te la cavi meglio di me”.
“E
che cosa credi possa fare?”.
“Vieni
con me. Non lasciarmi in mano a quelli…”.
“Sei
impazzito?! Guarda che non posso fare quello che mi pare con loro. Ho
degli
ordini”.
Scorpione
sospirò.
“Non
fare quella faccia…” lo ammonì
Capricorno, incrociando le braccia “…te le sei
andate a cercare le tue rogne! E ora trova il modo di
uscirne!”.
“E
per tornare in cielo che si fa?”.
“Vuoi
tornare in cielo?”.
“Questo
pianeta mi irrita…”.
“Non
posso aiutarti nemmeno in questo caso. Forse
Rukbat…”.
“Non
lo nominare. Sai che mi sta sulle palle quel
semiequino…”.
“Ma
è lui il saccentone del gruppo. Se c’è
qualcuno che può avere una vaga idea di
come tornare, quello è lui”.
“Allora
rimarrò qui, in questo inutile mondo”.
“Come
vuoi…”.
Deneb
fu richiamato da uno dei suoi. Era tempo di andare, ora che la
trattativa e lo
scambio erano conclusi. Antares lo vide allontanarsi e, sospirando,
tornò pure
lui alla jeep. Capricorno e Scorpione si scambiarono un ultimo sguardo.
“Sentite,
ragazzi…” parlò Algiedi, appoggiato
alla portiera “…quelli tengono in ostaggio
mio fratello. Non c’è un sistema per farlo uscire
dai casini?”.
“Non
possiamo creare problemi a causa del tuo
fratellino…”.
“Posso
andare con loro? Hanno promesso di rilasciarlo in zona di
pace…vorrei
verificare che la cosa avvenga per davvero…”.
“Deve
deciderlo il capo”.
“E
allora contattatelo! Avete voi il numero…”.
Dopo
una telefonata piuttosto breve, l’omone avvicinò
Deneb al viso, parlandogli
all’orecchio.
“Il
capo dice che puoi andare, ma che ti tiene d’occhio. Se ci
stai prendendo per
il culo, sei morto. Inoltre, ti raccomanda di scoprire il
più possibile sui
traffici nelle loro zone. Se c’è la
possibilità di espanderci ulteriormente,
ovviamente dovrai cogliere l’occasione. Non ci
deludere”.
Deneb
annuì e si avvicinò alla jeep dei compratori, che
nel frattempo stava
sistemando la merce. Antares, chiuso dentro il mezzo, osservava la
scena con
curiosità.
“Vengo
con voi” esclamò Capricorno, mostrando di
conoscere perfettamente la loro
lingua.
“E
a che scopo?” si insospettì l’autista.
“Devo
tenere d’occhio il mio fratellino e poi ci sono dei nostri
uomini alle dogane,
vi aiuterò a passarle senza problemi”.
“Se
me lo assicuri, allora sali. Se hai in mente altro, ti consiglio di
girare al
largo. Non mi piacciono quelli della tua cerchia”.
“Quelli
della mia cerchia tengono in piedi la vostra guerriglia”.
“Sali.
E vedi di non fare scherzi”.
Deneb
salì, sedendosi accanto ad Antares che sorrise come un
bambino. Algiedi gli
lanciò un’occhiataccia decisamente minacciosa.
Avrebbe preferito di gran lunga
starsene al proprio posto fra i contrabbandieri indiani! Girandosi,
vide che
aveva una pistola puntata alla testa.
“Sei
armato, sicuramente. Consegnami tutto, senza fiatare, ed io ti
lascerò in
vita”.
Capricorno
sospirò, consegnando pistola e coltelli.
“Scusa…”
mormorò Scorpione.
“Benissimo.
Era da tanto che speravo di avere uno degli indiani fra le mani. Da te
avrò un
sacco di informazioni utili! E guai a te se mi racconti
balle”.
“Sei
contento adesso?” sibilò Deneb ad Antares.
La
jeep ripartì a velocità sostenuta, con Capricorno
che per tutto il viaggio non
fece altro che chiedersi perché aveva fatto una stronzata
così grossa.
₪₪₪
“Mia
signora…” chiamò dolcemente Shu, la
topolina del palazzo Orientale.
“Andatevene!
Andatevene tutti! Non voglio parlare con nessuno!” rispose
Kuruma.
Rinchiusa
nella torre da giorni, non faceva altro che mandare via i suoi
sottoposti in
malo modo e camminare su e giù per le stanze. I dodici
occupanti dell’ala
orientale erano piuttosto preoccupati da questo suo atteggiamento e
tentavano
di farla ragionare.
“Signora!
Ci sono delle cose importanti di cui vorrei parlarle!”.
“Vattene!”.
“Ma
è davvero importante. Sono preoccupata”.
“Dimmelo
attraverso la porta, poi sparisci”.
“Stavo
pensando…Kosmos non è mai stato mortale prima
d’ora”.
“No”.
“A
differenza di noi dodici e dei suoi dodici segni occidentali, non ha un
fisico
abituato a ciò che c’è sulla terra. Non
è…diciamo "temprato" per un
ambiente come la Terra”.
“Che
si tempri, allora!”.
“Quello
che intendo è che lui è sempre vissuto qui, in
un’atmosfera stabile, senza
vento, pioggia, sbalzi di temperatura e cose del genere. Non ha difese
contro
gli agenti esterni. Non sa come affrontare le malattie. Non ha un
sistema
immunitario adatto a vivere sulla Terra”.
“Che
se lo faccia!”.
“Non
so se questo è possibile. Intendo dire…un
semplice raffreddore potrebbe essere
un bel problema per lui”.
“Affari
suoi!”.
“Ma
Signora…morirà!”.
Ci
fu silenzio. Kuruma aprì la porta della torre, dopo qualche
istante.
“Morirà?”
mormorò.
Sembrava
dispiaciuta, per un attimo, poi si scosse, quasi ringhiando.
“È
mortale e lo ha voluto lui. È ovvio che
morirà!” affermò.
“È
destinato ad una vita molto breve”.
“Breve
quanto?”.
“Non
saprei ma lei capirà che senza difese non andrà
molto lontano…”.
“Ed
io che dovrei fare secondo te?! Quell’essere è
così odioso…”.
“Deve
tornare qui…”.
“Lui
non vuole. È il più grosso testardo che abbia mai
conosciuto”.
“Forse,
se gli altri dodici tornano in cielo, capirà che
è il caso di fare
altrettanto”.
“Intendi
dire dare una mano ai dodici a tornare, così da fargli
capire che deve smettere
di fare il pirla galattico?”.
“Beh…sarebbe
un’idea. O no?”.
“Non
lo so, Shu. Non vorrei che lo interpretasse come un mio segno di
debolezza”.
“Io
non posso prendere decisioni per conto vostro”.
Kuruma
chinò la testa, fissando la piccola topolina, ed
iniziò a scendere le scale
della torre, diretta verso il salone orientale. Lì i suoi
segni erano riuniti e
le sorrisero, con sollievo, quando la videro entrare. Lei sedette,
facendo
segno ai dodici di andarle vicino.
“Ho
bisogno del vostro consiglio” disse.
“Al
vostro servizio!” rispose, prontamente, Gou il Cane.
Kuruma
spiegò in fretta la questione e chiese il parere del gruppo.
“Un
po’ mi mancano quelli di là”
iniziò Long, Drago, indicando l’ovest
“Ma Kosmos
non mi è mai piaciuto. È sempre stato
così altezzoso…”.
“Non
lo è sempre stato. Purtroppo con i millenni è
peggiorato…” sospirò la Signora
Orientale.
“Potremmo
riportare qui chi se lo merita dei dodici, e chi non lo merita lo
lasciamo là.
Possiamo cavarcela benissimo anche senza, giusto?” propose
Yang, Capra.
“E
chi lo merita? In base a cosa si decide?” domandò
Niu, Bue.
“Kosmos
non lo merita. Si è comportato male!”
affermò Hòu, Scimmia.
“Non
siamo bambini! Non possiamo offenderci e condannare qualcuno a morte
solo
perché è uno stronzo!” parlò
Tù, Lepre.
“Perché
no?” ridacchiò Hu, Tigre.
“Già,
perché no? Ora il potere lo abbiamo noi e, se loro non lo
capiscono, abbiamo il
pieno diritto di fare ciò che ci pare!”
annuì Ji, Gallo.
“Che
ragionamenti! Insomma, senza di loro ci si annoia!” si
lagnò Ma, Cavallo.
“Io
non ho rubato lo scettro per sconfiggere Kosmos, distruggerlo, e poi
vederlo
tornare!” protestò Hòu, incrociando le
braccia e mettendo il broncio.
“Distruggerlo
non era il nostro scopo!” puntualizzò Shu.
“Ma
che dovremmo fare noi?” domandò Shè,
Serpente.
“Niente,
spero!” fu la risposta di Zhu, Maiale.
“Dobbiamo
andare ad aiutarli” affermò, convinta, Gou.
“Stupida
cagna schiava!” la insultò Ji.
“Mettiamola
ai voti…” mormorò Shu, quasi intimorita
dall’atmosfera che si stava accendendo.
“Giusto”
concordò Kuruma “Io posso riportare in cielo i
dodici ma dovrebbero trovarsi
tutti nello stesso posto, anche se credo siano in grado di tornare da
soli in
qualche modo. Kosmos non lo posso aiutare, non lo voglio aiutare,
finché non
farà ciò che dico, ma, forse, vedendo che tutti
tornano a casa, avrà voglia di
muovere le chiappe e aprire gli occhi. Io lo avviserò del
pericolo che corre,
vediamo se inizia a ragionare…”.
“Nel
frattempo la mettiamo ai voti e vediamo che fare. Allora…chi
è favorevole ad
aiutare i caduti? Contiamo…”.
Topo,
Cane, Bue, Drago e Cavallo diedero subito il consenso. Serpente
andò vicino a
Scimmia, Gallo e Tigre e pure loro diedero il consenso, fra lo stupore
generale
degli altri. Lepre e Capra rimasero neutrali, la cosa gli lasciava del
tutto
indifferenti. Maiale protestò, non volendo fare fatica.
“La
maggioranza vince. Interveniamo” sorrise Shu.
“Preparatevi.
Andrete sulla Terra” parlò Kuruma
“Ricordatevi che, una volta che vi avrò
trasformato in umani e portati a destinazione, dovrò usare
tutto il mio potere
per il controllo del cielo, perché rimarrò qui da
sola, perciò non potrò
aiutarvi ulteriormente. Parte delle vostre capacità
rimarranno, non essendo voi
stati cacciati, quindi non avrete difficoltà a comunicare
fra di voi e
ritrovarvi. Fateli congiungere tutti nello stesso punto, poi si
vedrà”.
“Sissignora”
risposero in coro, più o meno convinti.
“Quale
punto?” domandò Gou.
“Forse
Rukbat ci ha visto giusto. Portateli in Grecia. Da lì sono
saliti al cielo la
maggior parte di loro, quindi credo sia la soluzione migliore. Buona
fortuna”.
I
dodici si fissarono un’ultima volta, prima che una luce
fortissima li
avvolgesse e li allontanasse dal palazzo Orientale, mutandoli
fisicamente e
riducendone i poteri.
₪₪₪
Hamal
era fuori di sé dalla gioia e dall’agitazione.
Stava per partire! Stava andando
a Roma! Ancora non lo credeva possibile. Erik stava rientrando per
Natale e, come
promesso, aveva portato Ariete con sé.
Con un piccolo zaino, tutto ciò che aveva,
Hamal si ritrovò decisamente
spaesata fra la folla dell’aeroporto. Erik, trascinandosi
dietro un trolley
piuttosto voluminoso, le raccomandò di non allontanarsi o
rischiava di
perdersi. Hamal seguì il consiglio e non lo perse di vista
un attimo. Le partenze
erano molte in quei giorni e la coda per l’imbarco lunga e
lenta.
“Non
ho mai preso un aereo prima d’ora” ammise Ariete.
“Tranquilla,
non è niente di ché. Ti
piacerà” la rassicurò Erik,
ridacchiando.
“Tu
l’hai preso altre volte?”.
“Moltissime.
La mia famiglia è giramondo e mi sposto spesso. Per questo
ti dico che non c’è
niente di cui preoccuparsi. Ho viaggiato tante di quelle volte in
aereo…”.
“È
divertente?”.
“Dipende
dai punti di vista. Lo scoprirai…”.
Saliti
a bordo, lui le suggerì di prendere il posto accanto al
finestrino.
“Non
dovresti aver paura dell’altezza. Sei o non sei una stella
caduta?” la prese un
po’ in giro Erik.
Hamal
non capì la presa in giro e sorrise, annuendo convinta e
dicendo che doveva
essere per forza così. Quando l’aereo
iniziò a rollare e prendere velocità,
Ariete si sentì un po’ a disagio. Tutto quel
rumore, gli scossoni e le poco
rassicuranti parole dell’Hostess non l’aiutavano a
rilassarsi. Ma poi prese
quota e lei sorrise. Vide il terreno allontanarsi in fretta si
ritrovò fra le
nuvole.
“Bello!”
commentò.
“Te
l’avevo detto. Ora puoi rilassarti per un po’. Il
viaggio è lungo”.
In
effetti, prima di arrivare a Roma, ci vollero più di otto
ore, in cui lei si
alzò spesso, non riuscendo a stare ferma nello stesso posto
per più di cinque
minuti.
“Hamal!
Siediti! Fra poco inizia la procedura
d’atterraggio!” la chiamò Erik,
riponendo
al sicuro il sacchetto di patatine che stava svuotando.
Ariete
obbedì, tornò a sedersi ed allacciò la
cintura. Le nuvole si erano diradate e
poté vedere la capitale d’Italia
dall’alto con precisione. Un po’ si
spaventò
quando il terreno si avvicinò, ricordando in modo spiacevole
la sua caduta, ma
sorrise: andava tutto bene e presto avrebbe rivisto Adhafera! Ne era
sicura!
Scese quasi saltando dalla scaletta e trascinò Erik per un
braccio, piena di
entusiasmo insensato.
“Stai
calma! Devo ritirare il bagaglio!” tentò di
tranquillizzarla l’uomo, ma senza
successo.
“Dov’è
la tua famiglia?” domandò lei.
“Non
è di Roma. La devo raggiungere con il treno”.
“Ma…io
credevo che fossi venuto qua per loro!”.
“Certo.
Ma non si può arrivare direttamente dove abito io. Ti
aiuterò a trovare la tua
amica. Se la troverai, starai con lei ed io me ne andrò per
la mia strada. In
caso contrario, verrai con me e vedremo di trovare un’altra
soluzione”.
Hamal
annuì. I bagagli ci misero un bel po’ ad arrivare
ma, alla fine,
straordinariamente, Erik recuperò la sua valigia.
“Meno
male, non è andata persa…”
commentò.
“Perché?
A volte le perdono?”.
“Non
sai quante volte mi è successo!”.
“E
come mai?”.
“Preferisco
non saperlo, né dove vanno a finire quando non vengono
ritrovate…”.
Con
l’autobus dall’aeroporto arrivarono alla stazione
dei treni, dove Erik lasciò
in custodia il trolley, non avendo alcuna intenzione di trascinarselo
per ore in
giro per Roma.
“Evviva!
Siamo a Roma!” urlò Hamal, una volta uscita dalla
stazione.
Quasi
correndo, iniziò a chiamare Adhafera a gran voce. Erik prima
ridacchiò e poi
sospirò. Qualcosa gli diceva che non sarebbero passati di
certo inosservati…
₪₪₪
Sadalmelik
ancora non ricordava nulla quando il campo fu smontato ed
iniziò il viaggio di
ritorno. Il capo della spedizione era piuttosto preoccupato. Nessuno
aveva
ancora risposto agli appelli riguardanti la smemorata che aveva a bordo
e
presto non avrebbe saputo come occuparsene. Una della compagnia si era
offerta
di ospitarla per un po’ ma era una situazione temporanea, non
avrebbe potuto
prendersene cura per sempre.
“Siete
stati molto gentili con me” salutò Acquario,
quando furono tutti riuniti
davanti alla stazione di Oslo, pronti a partire ognuno per la sua
strada.
“Mica
ti abbandoniamo!” sorrise uno di loro.
“Non
voglio arrecare altro disturbo. Me la caverò da sola,
grazie”.
“Non
se ne parla! Da sola, senza nulla, non te ne vai! Vieni a casa con
me!” propose
una donna.
“Ma…io…”.
“Sorella!”
interruppe la conversazione una voce maschile.
Il
gruppo si girò. Un uomo sulla trentina, con singolari
capelli neri e arancio ed
una strana barba praticamente a strisce, fissava la compagnia. Portava
una
veste rossa con ampie maniche e pantaloni scuri, piuttosto stretti.
“Sorella
mia, finalmente ti ho ritrovato!” parlò di nuovo.
Si
avvicinò a Sadalmelik e l’abbracciò,
anche se lei si dimenò con forza perché
non conosceva assolutamente chi aveva di fronte.
“Chi
siete? Che volete?” gemette, allontanando con uno spintone
l’uomo.
“Ma
come sorellina, non mi riconosci? Sono io! Sono il tuo fratellone, non
ricordi?
Eravamo usciti in barca quando la tempesta ci ha sorpresi e tu sei
caduta in
mare. Ti ho tanto cercata…”.
“Tu
sei mio fratello?”.
“Sì,
sono tuo fratello”.
Acquario,
con i suoi grandi occhi viola, guardò quelli verde chiaro di
chi aveva di
fronte. Quello sguardo, simile a giada, lo aveva già visto
da altre parti.
Forse era vero. Forse lui era davvero suo fratello…
“Perdonami,
ma io non ricordo niente. Non so nemmeno chi sono”.
“Ti
aiuterò a ricordare. Vedrai che, una volta giunta a casa,
andrà tutto bene”.
I
membri della spedizione sorrisero, forse la loro naufraga aveva trovato
di
nuovo il suo posto.
“Qualcosa
nei tuoi occhi mi è familiare…” ammise
Sadalmelik.
“Certo.
Sono gli occhi del tuo fratello maggiore. Dai, andiamo a casa. Vedrai
che andrà
tutto bene!”.
Acquario
annuì, lasciandosi prendere sottobraccio da
quell’individuo che, sperava,
l’avrebbe aiutata a ricordare e che presto avrebbe riavuto in
mente.
“Buona
fortuna!” la salutarono i ricercatori “ E chiamaci,
ogni tanto!”.
₪₪₪
“Avvisami
quando hai finito di fare l’idiota”
sbottò una voce di donna.
Al
Risha scoppiò a ridere. Vedeva fosco e non capiva
più niente. Era arrivato in
città e si era fatto tentare da un individuo poco
raccomandabile. Ora se ne
stava, in preda alle allucinazioni da non si sa bene quale droga,
disteso in
terra a fissare il nulla. Continuava a ridere, senza capire chi gli
stesse
parlando. Fu sollevato e preso a schiaffi.
“Riprenditi,
imbecille!” gridava la donna, mollandogli altri ceffoni.
“Ma
tu chi sei? Cosa vuoi?” biascicò Al Risha.
“Sono
una che è stata spedita qui per salvarti il culo,
drogato!”.
“Ma
non rompermi i coglioni!”.
“Quella
roba che hai appena preso ti uccide il cervello!”.
“Io
non ce l’ho un cervello, mai avuto, e poi non ho niente da
perdere!”.
Dopo
l’ulteriore ceffone, tentò di reagire ma non ci
riuscì, rimbambito com’era.
Voleva solo ridere a caso e vomitare in santa pace.
“Vedi
di riprenderti. Devo portarti dai tuoi undici amichetti. Datti una
ripulita e
alzati”.
“Chi
sei? Va via…”.
“Io
sono Tù, Lepre, e devi venire con me”.
“Tu
sei Tu? Buon per te. E io sono io! Sei una nemica! Non mi
toccare!”.
“Si
pronuncia Tù, con l’accento, e non sono una
nemica!! Una nemica?! Senti, bello,
io non ci volevo venire qui, ok? Non mi interessa niente della vostra
stirpe
occidentale, chiaro? Ma mi hanno costretta, quindi sono qua”.
Al
Risha iniziava a mettere a fuoco di nuovo. La donna che aveva davanti
aveva
lunghi capelli neri, raccolti in due codini giusto sopra le orecchie, e
vispi
occhi grigio chiaro, quasi bianchi.
“Cos’è
questa storia che devi portarmi dagli altri?”
domandò Pesci.
“Mi
hanno dato questo compito. Quando vi ritroverete tutti assieme, la mia
Signora
potrà riportarvi in cielo…”.
“Perché
ci ha cacciati per poi riportarci su?”.
“Smettila
di fare domande stupide! Vuoi tornare a casa o no? Se non vuoi, basta
dirlo. Ti
lascio in pace, arrangiati da solo”.
“No,
non mi piace questo mondo. Però…lasciami
riprendere, ti prego. Sto malissimo”.
“Io
ti avevo avvisato…”.
Pesci
non disse nient’altro, in preda alla nausea ed allo
stordimento, e tornò a
stendersi a terra. Sospirando, Tù gli si sedette a fianco,
capendo che non
sarebbe stata una missione semplice.
₪₪₪
“Mi
scusi…non può toccare le opere! Faccia un passo
indietro, per favore!” mormorò
Astrea, avvicinandosi ad un punk con i capelli variopinti e la cresta.
Questi
non rispose. Le sorrise e si allontanò di qualche passo.
Astrea, al lavoro al
museo, ringraziò e tornò dal gruppo a cui stava
facendo da guida. Era felice di
ciò che faceva, anche se a volte provava una forte nostalgia
di casa. Terminò
il giro verso le sei di sera. Il suo turno era finito e poteva tornare
all’appartamento. Doveva prendere due autobus per poterci
arrivare e quella
settimana toccava a lei la spesa. Si affrettò verso
l’uscita, salutando tutti i
colleghi. Scese i pochi scalini che la conducevano alla strada quando,
con la
coda dell’occhio, vide una cresta variopinta dietro
l’angolo. Non potevano
esserci tante persone al mondo con quella pettinatura. Il punk la
fissava, come
se la stesse aspettando. Lei lo ignorò, dicendosi che era la
cosa più
intelligente da fare. Affrettò ulteriormente il passo, per
raggiungere la
fermata del bus, ma si accorse subito di essere seguita. Decise che
avrebbe
preso il primo mezzo che le capitava, anche se l’avesse
portata dall’altra
parte della città. Non si allontanò di molto
prima di sentirsi afferrare per il
braccio. D’istinto gridò e il punk la
lasciò subito.
“Ciao,
Astrea” la salutò e lei si girò.
“Chi
sei? Come sai il mio nome?” domandò, con aria
interrogativa.
“Sono
un amico, rilassati”.
“Se
avessi un amico con dei capelli del genere me lo ricorderei,
credimi!”.
“Sono
Ji, non mi riconosci?”.
“Ji?
Il Gallo? Non capisco…tu sei…”.
“Umano?
Diciamo che per lo scopo che mi è stato affidato non era il
caso di presentarsi
sotto forma di pollo colorato”.
“Scopo?
Quale scopo? Che cosa vuoi?”.
“Io
non voglio che voialtri ritorniate in cielo e farò tutto il
possibile affinché
ciò non avvenga”.
“Quanti
paroloni per dire che non ci volete con voi. Beh, è inutile
che vieni qui a
rompermi le palle. Io non ho idea di come tornare in cielo e quindi
è l’ultimo
dei miei pensieri”.
“Meglio
essere previdenti, no?”.
“Che
vuoi fare?” si insospettì Astrea, indietreggiando
di alcuni passi.
“Altri
miei colleghi sono per il Mondo a fare ciò che ho intenzione
di fare io.
Vogliamo eliminarvi. Il cielo è nostro, e voi ve ne dovete
andare!”.
“Ce
ne siamo già andati…”.
“Uccidendoti
avrei la certezza che non ti vedrò sbucare nel lato
occidentale fra qualche
mese…”.
“Te
l’ho già spiegato: io non so come tornare in
cielo! Non potrei sbucare fra
qualche mese!”.
“Magari
qualche tuo amichetto ti aiuta. Meglio evitare!”.
Astrea,
vedendo che Ji faceva sul serio, si girò e si mise a
correre, rientrando nel
museo. Lì sapeva che avrebbe trovato le guardie.
“Aiuto!
C’è un pazzo che vuole uccidermi!”
gridò, entrando.
Subito
le guardie all’ingresso le andarono vicino e, quando
entrò Ji, gli puntarono la
pistola contro.
“Vada
fuori, per cortesia. Non ci costringa ad usare la forza” lo
minacciarono.
“Quanta
scena per un’inutile stellina caduta! Suvvia, sono questioni
personali fra me
ed Astrea, non immischiatevi e sparite!” ghignò
Gallo, sempre piuttosto sicuro
di sé.
Continuava
ad avvicinarsi. Le guardie avevano fatto scudo davanti a Vergine, che
sperava
in una fuga di Ji. Ma Gallo non fuggì, continuò
ad avvicinarsi. Fino a quando
si beccò una pallottola d’avvertimento alla
spalla. Gemette e la strinse con la
mano. Era da troppo tempo che non provava il dolore.
“Me
la pagherai questa, zitella spaziale! È una
promessa!” ringhiò, uscendo dal
museo.
Solo
Astrea notò che la ferita si stava già
rimarginando, dopo pochi secondi.
“Ha
ancora i suoi poteri lui…” constatò,
parlando sottovoce.
“Tutto
bene?” le domandò una guardia.
“Sì,
grazie a voi”.
“Meglio
che ti portiamo a casa noi stasera. Quello non mi pare voglia
arrendersi…”.
“Vi
ringrazio”.
Alla
chiusura del museo, quando arrivarono le guardie notturne, fu
accompagnata a
casa in macchina da uno dei sorveglianti diurni, con ancora addosso
l’abito di
ordinanza e la pistola, per precauzione. Astrea si sentiva abbastanza
tranquilla con quell’uomo armato vicino ma sapeva di non
poter contare su una
difesa simile sempre. Doveva trovare un’altra soluzione.
Scese davanti alla
porta dell’appartamento, ringraziando ancora. Una voce le
giunse all’orecchio.
Era Ji e stava cantando.
“Non
potrai scapparmi per sempre, Astrea. Basta una mossa falsa e sarai mia.
Non
rivedrai mai più le stelle, non sarai mai più una
di loro!”.
Vergine
si affrettò a chiudere la porta a chiave pur consapevole
che, dato che lui
aveva mantenuto i poteri, avrebbe potuto passarci attraverso o entrare
dalla
finestra. Sentì davvero la mancanza dei suoi compagni
guerrieri. Hamal,
Adhafera, Antares, Rukbat, Deneb Algiedi… Avrebbero saputo
come difendersi.
“Rukbat…”
mormorò, ricordando come stupidamente gli aveva dato
dell’esibizionista e
quante volte aveva ripetuto che in mezzo al cielo non serviva saper
combattere.
Ora
voleva aver avuto voglia di imparare anche lei, voleva essersi fatta
insegnare
da colui che da mortale aveva addestrato Dèi ed eroi, voleva
averlo vicino.
₪₪₪
“Ben
svegliato, agente Carlyle” si sentì dire.
Rukbat,
dopo qualche istante di silenzio in cui realizzò chi fosse
l’agente Carlyle,
mosse il capo e si scosse. Che sogno strano aveva
fatto…Astrea inseguita da uno
strano punk psicotico.
“Fra
poche ore saremo in Turchia. Pronto?” ridacchio Harrison.
“Non
vedo l’ora” mentì.
Dopo
settimane di addestramento in un’isoletta sperduta
nell’oceano, per affinare la
squadra che mai prima d’ora aveva lavorato assieme, ora
finalmente si stavano
spostando verso l’obbiettivo. Fortunatamente spettava a lui,
Roland Carlyle,
ricevere le comunicazioni e fare rapporto, così giungevano
solo al suo orecchio
i pressanti avvertimenti dall’Australia in cui si diceva che
il vero agente
Carlyle era stato ritrovato legato sulla tazza del cesso di un bar. A
quegli
allarmi aveva risposto che era tutto sotto controllo, che Harrison
aveva preso
il comando e che la missione procedeva come stabilito. Era riuscito a
mantenere
la sua copertura, ma per quanto tempo? Non vedeva l’ora di
arrivare in Turchia
e darsela a gambe!
“Siete
un ottimo tiratore, Carlyle. Non tradisce le aspettative”.
“Grazie,
Harrison”.
Rukbat
sorrise. Si era divertito un sacco a sparare alle sagome con un Barrett
argento
che subito gli aveva ispirato vivo interesse e fiducia. Era nato per
sparare
alla gente… Si chiese che armi avessero le altre forze
speciali dal Mondo che
avrebbero incontrato alla meta. Un’azione congiunta. Tanti
umani armati che
cercano di fermare altrettanti umani armati per far sì che
non diano più armi
ad altri umani. Trovava la cosa piuttosto buffa.
“Fatto
rapporto al capo oggi?” domandò Harrison.
“Sì.
Altrimenti quello chiama come farebbe una mamma apprensiva”.
“È
dura lavorare così. Non poter chiamare a casa fino al
ritorno per mantenere la
missione segreta… Spero che il capo abbia detto a mia moglie
che sta andando
tutto bene…”.
Rukbat
non rispose. Continuò a guardare fuori dal finestrino
dell’aereo. L’altezza non
l’aveva mai particolarmente amata.
“Voi
siete sposato, Carlyle?”.
“Lo
ero…” mormorò, senza girare la testa.
“Tipico
divorzio? A quanto pare noi poliziotti non siamo fatti per avere
matrimoni
duraturi”.
“No,
nessun divorzio”.
“Cosa
è successo?”.
“Dobbiamo
proprio parlarne?!” sbottò Rukbat.
“Ok.
Non credevo fosse un argomento delicato. Mi spiace”.
Scese
il silenzio fra i due. Il resto della squadra sembrava di buon umore e
parlottava tranquillamente del più e del meno, fra una
risata ed un’altra.
“Lei
è morta” disse, dopo un po’, Rukbat.
“Come?!”.
“Lei
è morta”.
“Mi
dispiace davvero molto, non lo sapevo! Cazzo, non entravo in argomento
se…”.
“È
successo tanto tempo fa, tranquillo”.
“Ma
come mai? Se mi è permesso saperlo…”.
“Me
l’hanno uccisa in guerra”.
“Era
nelle forze speciali pure lei?”.
“Era
una guerriera. E l’hanno ammazzata a pochi passi da me. Io
sono stato ferito al
ginocchio, che ancora adesso a volte si fa
sentire…”.
“Che
brutta storia. Non avevate figli, vero?”.
“No,
per fortuna. Non ancora…”.
Harrison
rimase in silenzio, non sapendo che altro dire. Rukbat
sospirò. Perché aveva
parlato di ciò che era stato con quel mortale? Nemmeno i
suoi colleghi stellati
sapevano che gli era capitato. Ci ripensò dopo millenni. Lui
a quel tempo era
un maestoso centauro, figlio di Crono e Filira, quindi tecnicamente
fratellastro di Zeus, e si chiamava Chirone. Addestrava eroi e
semidivinità.
Viveva sul monte Pelio, in Tessaglia, assieme agli altri centauri.
Quando
scoppiò la guerra voluta da Ercole, in cui quasi tutti i
suoi simili furono
uccisi, fu ferito da una freccia avvelenata al ginocchio. Essendo
immortale,
non poteva morire ma il dolore era così forte, specie dopo
aver visto spirare
la moglie, che supplicò di non esserlo più.
Quando si risvegliò era nel palazzo
del cielo occidentale, con una grossa cicatrice alla gamba ed al cuore.
Si
alzò di scatto, facendo sobbalzare Harrison, ed
andò a chiudersi nel bagno
dell’aereo. Si guardò allo specchio. Quasi non era
in grado di riconoscersi.
Tutti quegli anni passati in cielo gli avevano fatto dimenticare molte
cose che
ora, una dopo l’altra, riaffioravano. Voleva una lacrima
soltanto, per la donna
che aveva amato e protetto ma che non era riuscito a salvare. Solo che
erano
secoli che non riusciva più a piangere.
₪₪₪
Come
mai quella donna continuava insistentemente a fissarlo? Si sentiva a
disagio, e
lo fece notare a Mikael, che scoppiò a ridere.
“Che
problema c’è se una bella donna ti
fissa?” domandò, sghignazzando.
“Non
lo so. È che…”.
“Rilassati.
Non può mica mangiarti!”.
Aldebaran,
assieme a Mikael e Scott, erano a Dublino per una mostra
d’arte. Toro
apprezzava molto esposizioni del genere, anche perché
c’erano dei dipinti di coloro
che l’ospitavano e pure uno dei suoi. Quella era la sera
dell’inaugurazione e
stavano tutti, bicchiere alla mano, parlottando fra loro,
congratulandosi con i
vari autori. Più di qualcuno aveva fatto i complimenti ad
Aldebaran, che
stringeva mani imbarazzato, con le guance rosse
dall’emozione. Scott e Mikael
erano molto più a loro agio, come se per loro fosse una cosa
del tutto normale
sentirsi dire continuamente di essere dei talenti. Toro
sospirò. Aveva sempre
sognato, fin da quando era diventato una stella, di sentirsi apprezzato
per la
sua vena artistica. Ora, in poco più di mezz’ora,
i suoi lavori erano stati
visti da almeno dieci volte tanto le persone che fin ora le avevano
ammirate in
centinaia di anni. La cosa lo metteva decisamente di buon umore, ma
c’era
quella donna. Era vestita di verde scuro, in un abito lungo fino ai
piedi molto
aderente e lucido, senza maniche. I capelli li aveva lisci, molto
lunghi e di
un colore simile a quello del vestito. La sua pelle nera pareva
brillare alla
luce dei neon che illuminavano le stanze. Sorrideva a Toro e rimaneva
immobile
a guardarlo. Aldebaran, spinto da Mikael e stanco di essere fissato, le
si
avvicinò.
“Posso
fare qualcosa per lei?” domandò, tentando di non
mostrare il suo fastidio.
“Lei
è un bravo artista” rispose la donna, con una
singolare esse sibilante “Mi
piacerebbe conoscerla meglio…che ne dice?”.
“Beh…ecco…io…”
balbettò Aldebaran, non sapendo che dire.
Si
girò verso Mikael, che lo fissò come a dire
“Che fai, stupido?! Muoviti!”.
Quando
Toro tornò a girare la testa, la donna era sulla porta, che
gli faceva segno di
seguirlo. Fuori era buio ormai ma lui non fece fatica a seguirla, dato
il
riverbero che faceva il vestito di lei.
“Dove
mi state portando?” domandò, piuttosto
ingenuamente.
“Dove
nessuno potrà interromperci”.
“Interromperci
dal fare cosa?”.
Lei
si fermò e si girò, puntando le mani sui fianchi.
“Sei
già diventato troppo umano, Aldebaran?”
commentò, quasi stizzita “Sei già
diventato come la maggior parte di loro, incapaci di cogliere
un’occasione
quando gli viene offerta?”.
“Ma
tu chi sei e di che occasione parli?”.
Lei
alzò una gamba, grazie allo spacco vertiginoso,
dimostrandosi decisamente
sinuosa. Poi si avvicinò e mise le braccia attorno al collo
di Aldebaran, che
rimase immobile a fissarla. Aveva ipnotici occhi gialli, con pupille
sottilissime. Quella donna non era umana. Ma allora cos’era?
“Cosa
c’è, Toro? Non sono abbastanza per te?”
si sentì domandare.
“Ma
chi, o cosa, sei? E cosa vuoi?”.
Lei
sorrise, mostrando piccoli denti a punta. Lui sobbalzò ma
lei era già scattata
in avanti e l’aveva morso sul collo.
“Io
sono Shè, Serpente, e ora sei in mio potere!”
mormorò, mentre Aldebaran perdeva
lentamente la capacità di reagire e ragionare con la propria
testa.
₪₪₪
Era
da diverso tempo che ormai vivevano nel centro d’accoglienza
che gli era stato
indicato dall’ospedale. Si trovavano bene, anche se
continuavano a sentirsi in
imbarazzo perché non sapevano come ripagare il cibo ed il
tetto che veniva loro
fornito. Zubeneschamali e Zubenelgenubi tentavano di rendersi utili e
passavano
le giornate a cercare qualche piccolo lavoretto da fare. A volte
avevano
fortuna, altre volte no. Erano state accolte molto bene e trattate con
gentilezza, ma non volevano rimanere troppo a lungo in quel luogo.
Stavano
aiutando ad allestire gli addobbi per Natale, quando Gou
entrò dalla porta. Da
umana, Cane aveva capelli chiari, raccolti in due piccoli codini, e
occhi
marrone, molto grandi e profondi. Ovviamente le due Bilancia non la
riconobbero
e continuarono con le loro faccende. Vestivano vecchi abiti dati in
beneficenza, sistemati alla bene e meglio, che a loro parevano tanto
assurdi
quanto per i mortali dell’epoca risultavano assurde le vesti
che indossavano da
cadute. Sorrisero. Pur non capendo bene cosa fosse il Natale, quegli
addobbi
verdi con le luci le mettevano di buon umore. Uno dei volontari del
posto non
capiva il loro entusiasmo. Per lui il Natale era solo
l’ennesimo giorno di
festa in cui sarebbe stato lì a lavorare invece che altrove
a festeggiare.
Guardò Gou, sempre ferma sulla porta, e chiese se poteva
aiutarla in qualche
modo.
“Sì.
Sono venuta a trovare le mie amiche” rispose lei, indicando
le gemelle.
Zubeneschamali
e Zubenelgenubi si fissarono perplesse. Erano certe di non averla mai
vista
prima. Lei però sembrava davvero convinta.
“Siete
in due adesso” commentò, usando il linguaggio del
palazzo del cielo.
“Come
sai la nostra lingua?” parlarono, in coro, le due Bilancia.
“Io
sono Gou, Cane, e mi manda Kuruma”.
“Ti
ha mandato per ucciderci?”.
“No,
al contrario. Mi ha mandato per aiutarvi”.
“Aiutarci?
E in che modo?”.
“Lei
vuole riportarvi in cielo e per farlo dovreste trovarvi tutti nello
stesso
posto, in Grecia”.
“In
Grecia? Non sembra tanto vicina da qui…”.
“Non
lo è, per niente, ma troveremo il modo di
arrivarci”.
“Perché
vuole aiutarci? A che gioco sta giocando?”.
“Nessun
gioco. Semplicemente si è resa conto che non meritate di
essere condannati per
colpa di Kosmos. Voi meritate di stare a palazzo”.
“E
Kosmos no?”.
“Beh…diciamo
non proprio. Ma quelli sono affari che sbrigherà la mia
padrona, se ne avrà
voglia”.
“Davvero
possiamo tornare in cielo?”.
“Sì.
Fidatevi di me. I miei colleghi sono già in cerca degli
altri undici segni”.
“Gli
altri stanno bene? E Kosmos?”.
“State
tutti più o meno bene. Vi siete sparpagliati per la Terra
ma, grazie al fatto
che ho ancora parte dei miei poteri, non è difficile
localizzarvi”.
“Chi
di noi è il più vicino a dove siamo
ora?”.
“Mek
e Buda. Sono in America del nord”.
“Mek
e Buda? Si sono divisi pure loro?”.
“Quello
era ovvio. Non credo sia normale un mortale a due
teste…”.
“Cos’hai
in mente per farci riunire?”.
“Purtroppo
i miei poteri sono troppo limitati per potervi portare alla meta
direttamente,
mi spiace, ma troveremo un modo. L’importante è
che vi fidiate di me”.
“Anche
Kosmos verrà in Grecia?”.
“Dipende
da lui. Quello deve fare tutto da solo, Kuruma non può
riportarlo dov’era”.
“Perché?”.
“Perché
la mia Signora è disposta a riammetterlo a palazzo solo a
determinate
condizioni”.
“Condizioni?!
Vuole schiavizzarlo?”.
“Al
contrario. Vuole che ammetta l’equivalersi dei loro poteri e
che lui possa
portarle il rispetto che merita, entrambe cose che il vostro capo non
vuole
assolutamente fare”.
“Lui
è fatto così…”
“Ma ora è Kuruma ad avere il potere. Se lui non
è in grado di accettarlo,
allora verrà cacciato definitivamente da palazzo da colei
che ora lo possiede
interamente. Non vuole la sottomissione di Kosmos, semplicemente essere
riconosciuta sua pari”.
“Mi
sa che resterà sulla terra in eterno…”.
“Finché
non morirà. È un mortale ora, come
voi…”.
“Kosmos
un mortale? Da non crederci…”.
“Eppure
ora lo è, e se non tornerà in cielo
morirà. La scelta è solo sua. Noi non
possiamo fare proprio niente per lui. Possiamo, però, andare
in Grecia e tornare
in cielo, il nostro posto”.
“Parli
come se tu fossi una nostra alleata. Siamo nemiche!”.
“Io
non ho nulla contro di voi, perché considerarci
nemici?”.
“Perché
Kuruma ci ha buttate di sotto, assieme a tutti gli altri!”.
Gou
rimase in silenzio. Zubeneschamali e Zubenelgenubi si fissarono fra
loro,
iniziando a sussurrare, in modo da non farsi sentire da Cane.
“Dici
che possiamo fidarci di lei?” domandò
Zubeneschamali.
“Non lo so. Quella
è mandata da Kuruma…”
rispose Zubenelgenubi.
“Vero.
Però io voglio tornare a casa. Cosa abbiamo da
perdere?”.
“Non
ti piace stare qui?”.
“Per
sempre?! No, grazie! Voglio tornare al mio palazzo
occidentale…”.
“E
se fosse una trappola?”.
“Potrebbe
essere…”.
“Però
un tentativo vuoi farlo lo stesso…”.
“Tu
no?”.
“Non
lo so…”.
“Fidatevi
di me” interruppe Gou “Vi do la mia parola che non
vi farò alcun male e che
nessuno ve ne farà. Sono qui per aiutarvi e sono al vostro
servizio. Fidatevi”.
“La
tua parola?! Come possiamo fidarci della tua parola?”.
“Non
potete ma, ve ne prego, venite con me. La mia Signora vuole solo
riavervi in
cielo…e salvare Kosmos dal destino che lo
attende!”.
“Alla
malora Kosmos e la sua cocciutaggine! A quest’ora potevamo
stare belle felici a
palazzo e non qui a preparare addobbi per una festa che non
conosciamo!”.
“Ma
lui morirà se non torna in cielo”.
“Pure
noi. Siamo tutti mortali!”.
“Non
intendevo dire che con il tempo morirà. Morirà
presto, se non torna nella sua
casa”.
“In
che senso?”.
Dopo
una breve spiegazione di ciò che Gou aveva capito sui
discorsi di Shu, le due
Bilancia parvero molto più convinte a seguirla. Per quanto
il loro padrone
fosse odioso, non volevano farlo morire.
“E
così lei ci riporterà tutti in cielo per fargli
capire che anche lui deve
tornare?”.
“L’idea
è quella. Poi spetta a lui. Potrebbe anche scegliere di
suicidarsi…”.
“Peggio
per lui. Andiamo…mi mancano tutti i colleghi!”.
Le
tre uscirono dal centro d’accoglienza. Le gemelle della
bilancia iniziarono a
seguire Gou, che pareva sapere dove andare.
“Spero
che sappia che noi dobbiamo mangiare, dormire, eccetera… Non
abbiamo più i
poteri come lei, che può permettersi il lusso di schivare
certe necessità!”
borbottò Zubenelgenubi.
“Lo
saprà. Oppure glielo faremo notare
noi…” concluse Zubeneschamali.
₪₪₪
Acubens
se ne stava spaparanzata al sole, a pancia piena, quando Yang la
trovò. Sulle
prime non ci fece troppo caso, pensando ad una povera scema che girava
documentari e che presto sarebbe stata sbranata dal maschio alfa, ma
poi notò
che gli animali non erano allarmati dalla sua presenza.
Trovò la cosa piuttosto
strana e la fissò con sospetto, mentre si avvicinava. Chi
era? E perché i leoni
parevano ignorarla? Si alzò e, lentamente, si
andò a sedere accanto a dove
aveva nascosto i fucili, fra le cavità del tronco di un
enorme baobab.
“Chi
sei?” urlò alla straniera.
“Una
semplice conoscente” fu la risposta.
“Non
mi pare di conoscerti…”.
“Questo
perché non sei abituata a vedermi in questa forma”.
Quella
bizzarra donna, con capelli grigio scuro raccolti in strane crocchie a
lato
della testa, passò accanto ai leoni senza che questi si
muovessero.
“Sei
anche tu una donna che vive fra loro? Perché non ti
attaccano?”.
“Io
non vivo fra i leoni. Fra le bestie sì, lo ammetto, ma non
fra i leoni. Non mi
attaccano perché ho mantenuto i miei poteri e faccio in modo
di tenerli buoni”.
“Poteri?
Quali poteri?”.
“Io
sono Yang, Capra, a servizio di Kuruma, e sono qui per
aiutarti”.
“Kuruma?
Quella donna che ci ha scaraventati su questo pianeta come se niente
fosse? Non
ho bisogno dell’aiuto di uno dei suoi vili
sottoposti!”.
“Io
sto solo obbedendo a degli ordini. Fosse per me, potreste rimanere
tutti qui a
crepare”.
“Troppo
gentile”.
“È
la verità”.
“Non
ti avvicinare! Torna da dove sei venuta!” minacciò
Acubens, estraendo il fucile
dal suo nascondiglio e puntandolo contro Yang.
“Che
roba è quella?” inclinò la testa Capra,
non avendo mai visto un’arma.
“Credo
tu non voglia scoprirlo davvero. Allontanati”.
“Non
posso. Son stata mandata qui per portarti in Grecia”.
Yang
provò ad avvicinarsi, allungando un braccio verso Acubens,
che le sparò in
pieno petto. Capra e Cancro furono sbalzate all’indietro dal
colpo e dal
contraccolpo. La colpita lanciò un grido e svanì,
distruggendosi in tante
piccole stelle. Rialzandosi, Acubens sorrise. Le piaceva sempre di
più sparare
alla gente!
“Alzati”
parlò una voce, dolce ma decisa.
“Dove
sono?” mormorò Yang, gemendo per il dolore che
ancora provava.
“Sei
a casa”.
Di
fronte aveva Kuruma, che la stava aiutando ad alzarsi. Tossendo e
tremando,
Capra si rimise in piedi, respirando piano, ancora in forma umana.
“Ho
fallito” ammise, chinando il capo.
“Riposati
un attimo. Tornerai da lei”.
“Cosa?!
Io non ci voglio tornare da quella pazza! Avete visto cosa mi ha
fatto?!”.
“Mi
spiace, ma dovrai trovare il modo di farla andare in Grecia”.
Solo
in quel momento Yang guardò negli occhi la sua Signora.
Erano stanchi e lei era
pallida, più del solito. Qualcosa non andava.
“Non
state bene, padrona?”.
“Sono
stanca, Yang. Devo pensare a tutto io ora. Il cielo Orientale e quello
Occidentale dipendono interamente da me e non credo di farcela ancora a
lungo.
Presto dovrò iniziare a concentrarmi solo su un numero
limitato di oggetti
celesti e so che questo non porterà a niente di buono.
Tornate presto, è molto
importante”.
“E
se, nonostante tutto, Kosmos non volesse tornare?”.
“Di
Kosmos me ne sbatto. Con il vostro aiuto, e i dodici segni occidentali
che si
arrangiano da soli, la situazione sarebbe perfettamente sotto
controllo, con o
senza di lui. Anche se non voglio che muoia, se sarà quello
il suo desiderio
ultimo, che faccia pure!”.
Alle
spalle della Signora Orientale vi era ancora una piccola luce
azzurrina, segno
che aveva aperto un varco per la Terra ed aveva tentato di parlare
ancora una
volta con Kosmos per farlo ragionare. Ma il Signore Occidentale ancora
non si
era reso conto del pericolo che correva, oppure non gli importava.
Stringendo
fra le mani la chiave del cielo, Kuruma recuperò forza poi
fissò Yang e,
spalancando gli occhi, la rimandò sulla Terra.
“Se
vuoi crepare, allora crepa, brutto coglione! Ma
non riuscirai a farmi sentire in colpa di una cosa del
genere!” sibilò la
Signora del Cielo, tornando a chiudersi nella torre Orientale
|
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Capitolo 6 *** 5 ***
V
I
“Roma
è una città enorme. Hai qualche idea di dove
potremmo trovare la tua amica?”
domandò Erik, notando che Hamal stava girando a casaccio per
le vie.
“Non
ne ho idea…”.
“Non
so…le piace la musica? Magari è in qualche
locale. O le piace fare spese e
quindi è in qualche negozio. Teatro, cinema,
antichità…dove potrebbe essere?”.
“Non
l’ho mai vista particolarmente appassionata a niente, se non
a pestarsi con
Rukbat o con chi le ispirava. Ma non credo ci siano posti per picchiare
la
gente…”.
“No,
in effetti no. Cosa è venuta a fare a Roma?”.
“Non
ha scelto lei dove cadere, esattamente come me. Siamo capitate in modo
del
tutto casuale in questi luoghi”.
Erik
non capì quel discorso ma annuì, non volendo
approfondire. Ricordava le
immagini che aveva visto sul computer. Era piazza san Pietro quella
sullo
sfondo, ma di certo in tutto quel tempo l’amica si era
spostata. Forse aveva
anche lasciato la città.
“Un
tempo qui vi erano leoni ed altre bestie feroci, contro cui i
gladiatori
combattevano” stava spiegando la guida.
Adhafera,
sfruttando la generosità dei due presentatori televisivi che
continuavano ad
inseguirla, era entrata nel Colosseo, dopo essersi rifocillata e
abbigliata in
modo più appropriato. Se si concentrava, riusciva a sentire
ancora l’odore
delle bestie, nonostante il tempo passato. Si stupì di
questo. Dopo tutto quel
tempo, l’istinto non l’aveva abbandonata. Sorrise
ad un grosso gatto che
sonnecchiava fra le rovine e proseguì il giro, dietro ad una
giovane guida che
aveva qualche difficoltà con due bambini parecchio
maleducati. A Leone non
importava particolarmente vedere un posto del genere, ma doveva trovare
il modo
di temporeggiare, sperando di avere un’idea per liberarsi dei
due parassiti che
la stavano seguendo da non ricordava nemmeno lei quanto.
Uscendo,
pensò in fretta a quale altra scusa inventarsi per impegnare
la giornata.
Arrabbiarsi con quei due era inutile, parevano non capire. Ed un
“no” come
risposta proprio non la capivano. Iniziò a guardarsi attorno
quando
all’orecchio le giunse una voce familiare.
Ringraziò non sapeva chi di averle
lasciato l’udito da leone e tentò di capire da
dove provenisse e di chi fosse.
Chiuse gli occhi e poi si voltò. Fra la folla non capiva chi
parlasse ma ne
aveva intuito la posizione. Passò accanto ad un paio di
figuranti travestiti da
centurioni e sorrise.
“Hamal!”
urlò.
Ariete
smise di discutere con Erik e si girò verso la voce.
“Adhafera!”
gridò, di rimando, e si mise a correre.
Si
abbracciarono, ridendo, incredule di essersi ritrovate.
“Sei
davvero tu?” parlò Hamal.
“Ancora
non ci credo…”.
Si
fissarono. Leone era vestita interamente in giallo, cosa che la rendeva
decisamente individuabile fra la folla, mentre Ariete era in rosso e
arancione.
“Lei
è la tua amica?” domandò Erik,
raggiungendo le due.
“Sì,
Adhafera” rispose Hamal, presentandoli.
“Che
carino…” le bisbigliò Leone e Ariete le
fece segno di fare silenzio.
Il
gruppo fu raggiunto da Giacobbo e Berry, che fissarono la nuova ragazza
con
vivo interesse.
“Un’altra
stella?” domandarono, quasi in coro.
“Lei
è Ariete” rispose, candidamente, Adhafera.
Gli
occhi dei due presentatori parvero illuminarsi
dall’entusiasmo. Ora avevano una
stella ciascuno! Potevano avere entrambi la loro esclusiva, senza
più litigare.
“Chi
sono questi due?” volle sapere Hamal, non capendone lo
sguardo assatanato.
“Due
pazzi. Ma han detto che vogliono mandarmi per televisione, dove tutti
mi
vedranno. Ho pensato che fosse un bel modo per contattare gli
altri…”.
“Vero!
Io ho visto che eri a Roma grazie alla televisione, vero
Erik?”.
Erik
annuì, capendo di essere l’unico vagamente sano di
mente in quel gruppetto.
“Gli
altri?! Quanti siete?!” spalancò gli occhi
Giacobbo.
“Dodici.
Più il nostro capo” fu la risposta, detta con un
tono piatto e distaccato, come
se la cosa fosse ovvia e scontata.
“Dodici?!”.
Giacobbo
e Berry si fissarono e si misero a ridere, entusiasti. Avevano fra le
mani
materiale sensazionale, e senza nemmeno dover lavorare troppo con la
fantasia!
Hamal
abbracciò Erik, consapevole che per lui era tempo di andare.
“Se
hai bisogno di me, questo è il mio numero” rispose
lui, porgendogli un
foglietto “Sono certo che mister Voyager and co. sapranno
spiegarti come fare
una telefonata. Sono ansioso di vederti per tv…sei davvero
una stella
caduta?!”.
“Credi
quello che preferisci. Non potrò mai smettere di
ringraziarti di avermi
ricondotto dalla mia amica. Ti chiamerò
senz’altro! Buon viaggio”.
Erik
lanciò un’occhiata ai due presentatori, che si
erano presi a braccetto e
giravano in tondo, festeggiando per lo scoop. Storse la bocca e
fissò di nuovo
Hamal.
“Sul
serio…” ripeté
“…se c’è qualche problema,
chiamami!”
“Tranquillo!
Ora c’è Adhafera con me!”.
“Non
è di lei che mi preoccupo, ma di quei due deficienti che fan
la danza dei pirla
alle tue spalle… Non sembrano molto
raccomandabili!”.
“Penserò
io a lei” lo tranquillizzò Leone “In
quanto a loro due…sono facilmente
gestibili, una volta che capisci come funziona il loro cervello avvolto
da
misteri inesistenti”.
Si
separarono, mandandosi ancora saluti e raccomandazioni, quando ormai si
stava
facendo buio. Hamal, stanca per il lungo viaggiò,
sbadigliò in modo piuttosto
evidente.
“Vieni.
Ti accompagno all’albergo. Questi due fessi, non sapendo
decidersi con chi dei
due avrei dovuto dividere la stanza, mi han pagato una camera.
Riposati, che
dovremmo iniziare a pensare all’intervista. Così i
nostri compagni ci vedranno!
E magari troveranno il modo di farci tornare in cielo! Sempre se lo
desideri
pure tu…”.
“Non
mi sono trovata male ma, sinceramente, sto molto meglio a
palazzo!”.
“Allora
è deciso. Stanotte dormi da me e domattina vedremo con
questi due come
organizzare il tutto. Sono molto felice di rivederti…per
alcuni istanti avevo
temuto di essere rimasta da sola!”.
“Nemmeno
tu hai avuto contatti con altri?”.
“No.
Nessuna traccia. Ma confido in questa intervista. Come hai saputo
raggiungermi
tu, dovrebbero riuscirci pure gli altri!”.
Giunsero
all’albergo ridendo e spettegolando sui non presenti,
ignorando del tutto
Voyager man e mister Mistero. La loro stanza era molto bella e dava su
un
meraviglioso parco di pini. Hamal si distese sul letto matrimoniale,
mentre
Adhafera si apprestava ad ordinare la cena tramite il servizio in
camera. Non
passò molto tempo prima che due camerieri venissero a
servirle, un uomo ed una
donna. La donna, che entrò nella stanza con il carrello
della cena, sorrise a
Leone. Aveva capelli a spazzola quasi neri e tondi occhi nocciola. Era
velocissima con le mani e ci mise un attimo a servire i piatti, aprire
le
bottiglie e sistemare la cena. L’uomo rimase sulla porta,
come a controllare la
situazione. Hamal trovò divertenti i suoi baffi, lunghi e
sottili, e ammirò la
singolarità dei suoi capelli. Erano lunghi, mossi e di un
colore variabile fra
il verde ed il blu. Lui la guardò e le sorrise. Per lei non
fu strano notare
che aveva le iridi rosse.
“Dai
troppo nell’occhio, Long!” sbottò la
cameriera, una volta che si furono
allontananti dalla stanza di Leone e Ariete.
“Che
problema c’è? Con i nostri poteri ancora attivi,
qui son tutti convinti che
lavoriamo all’albergo da anni!”.
“Non
so quanto sia saggio usare tanta magia”.
“Rilassati,
Hòu! Presto saremo fuori di qui, lontani e diretti verso la
Grecia, senza aver
bisogno di usare ulteriore potere”.
Scimmia
non parve convita ma sospirò e seguì
l’immancabile entusiasmo di Drago,
pensando al modo migliore per portare a termine la missione.
₪₪₪
“E
tu chi saresti?” domandò Buda, uscendo in giardino.
Ormai
era da qualche settimana a servizio della famiglia Jonson, come
insegnante
privato. Stava uscendo per fare un po’ di surf insieme al suo
allievo quando
aveva notato quell’uomo sul ciglio della strada. Era
irrequieto, muoveva
continuamente braccia e gambe, e guardava insistentemente verso la sua
direzione. Buda, osservandolo meglio, vide che aveva una pettinatura
molto
simile a quella di Rukbat, simile ad una criniera, e la coda di cavallo
fatta
con i capelli mori.
“Chi
stai cercando? Non compriamo niente!” sbottò il
ragazzo californiano,
desideroso di andare in spiaggia e poter finalmente spegnere il
cervello.
“Ciao,
Buda” salutò l’uomo.
“Ti
conosco?”.
“Sono
Ma”.
“Ma?
In che senso "ma"?”.
“Mi
chiamo così. Sono Cavallo, del palazzo Orientale”.
“E
cosa ci sei venuto a fare qui?”.
“Sono
venuto a riportarti a casa. Devi seguirmi in Grecia, dove ci riuniremo
tutti, e
potrete tornare al palazzo Occidentale”.
“E
perché dovrei? Io mi trovo bene qui”.
“Io
eseguo degli ordini”.
“E
io i miei desideri. Voglio restare qui”.
“E
tuo fratello?”.
“Cazzi
suoi. Se vuol tornare, che faccia pure. Io, ripeto, sto bene qui e non
ho
alcuna intenzione di tornare fra quelle quattro mura”.
Camminando,
surf sottobraccio, insegnante ed allievo avevano raggiunto la spiaggia.
Cavallo
li seguì, deciso a far cambiare idea al moro dei Gemelli.
Quando vide quanto i
due si divertissero fra le onde, sorridendo a procaci e ricchissime
figlie di
papà, sospirò. La sua missione sarebbe stata
più difficoltosa del previsto. Ed
in più a lui spettavano due fessi da recuperare! Usando i
suoi poteri, sparì
dalla spiaggia californiana per apparire all’interno
dell’appartamento del
gruppo di ragazzi che aveva “raccolto” Mek. Questi,
ovviamente, si spaventarono
vedendolo apparire dal nulla ma Cavallo non ci fece più di
tanto caso. Andò
vicino a Mek, disteso sul letto con il braccio a penzoloni, e lo
chiamò. Il
gemello biondo gemette, supplicandolo di non gridare.
“Sei
sbronzo?!” si stupì Ma.
“Completamente!
E adesso vattene, chiunque tu sia!”.
“Io
sono Ma”.
“Va
bene, mamma. Sparisci!”.
“Alzati!
Dobbiamo tornare a casa!”.
“A
casa? Io non posso tornare a casa. Sono stato cacciato via”.
“Ora
hai la possibilità di tornarci”.
“No.
Non potrei mai rimettere piede là dentro e dover sopportare
di passare
l’eternità con mio fratello! Mai e poi
mai!”.
“Castore,
ti prego…”.
“Io
sono Polluce! O meglio…lo ero! Ora sono Mek”.
“Devi
tornare in cielo!”.
“Ah
sì? E che pensi di fare? Costringermi?”.
Cavallo
storse la bocca. Perché era tutto così
complicato? Si era immaginato una brava
coppia di gemelli che, tutta felice, diceva che non vedeva
l’ora di tornare a
casa. Invece niente. Si ritrovava con due litiganti lagnosi.
“Vedrai.
Presto vorrai il mio aiuto per tornare al tuo posto!” disse
Ma, incrociando le
braccia.
“Credici!
E adesso vattene, lasciami rincoglionire ancora un po’ con
questo schifio
americano”.
Cavallo
non disse più nulla e tornò a sparire, avvolto da
una nuvoletta luminosa.
Ovviamente il gruppetto di “amici degli alieni”
avrebbero voluto avere
informazioni a riguardo ma Mek tornò a sprofondare la testa
nel cuscino e non
parlò con nessuno, se non alla bottiglia di Rum.
₪₪₪
Cane
fissava le due gemelle con rimprovero. Le aveva appena sorprese a
rubare in un
negozio di alimentari. Incrociando le braccia, aspettava delle
spiegazioni ma
non ne ebbe.
“Noi
non abbiamo i poteri, come te!” sbottò
Zubenelgenubi “E abbiamo fame! Da due
giorni camminiamo! Si può sapere dove ci stai
portando?”.
“All’aeroporto.
Lì, grazie alla mia magia, potrò farvi avere i
biglietti per la Grecia. Ma
dobbiamo arrivare fino là e non posso rischiare di usare la
mia magia per
ottenere passaggi o usare altri mezzi di trasporto, non sapendo quanta
ne ho a
disposizione e quanta me ne servirà per farci
partire”.
“Questo
non è un motivo valido per farci morire di fame”
sbottò Zubeneschamali.
“Credevo
che poteste resistere per un paio di giorni!”.
“Ti
sbagli. Adesso taci, mentre noi mangiamo”.
Gou
girò gli occhi al cielo. Non poteva far altro che aspettare,
cercando di stare
attenta. Doveva evitare che le due venissero arrestate per furto con
scasso.
Non si aspettava che l’aeroporto fosse così
lontano e che un umano mortale
potesse fare così poca strada autonomamente.
Ripresero
il cammino fra le luci colorate della città, pronta a
festeggiare il Natale. La
gente per strada fissava lo strano gruppetto con distacco, prendendone
le
distanze. Cane notò, con una certa tristezza, che le due
gemelle non erano le
sole ad andare in giro con gli stracci dati in beneficienza e lo
stomaco
brontolante. Incrociarono spesso ragazzini che chiedevano la
carità o persone
che trascinavano per la via le poche cose che possedevano. Giungendo
vicino
alla meta, Gou capì che avrebbe dovuto dare una sistemata
alle due Bilancia, o
non sarebbero mai state credibili in aereo e avrebbe dovuto usare la
magia per
tutto il viaggio.
“Aspettatemi
qui” disse loro, entrando in un negozio di souvenir e abiti.
“Posso
aiutarla?” domandò una commessa.
“Cerco
dei vestiti. Devo fare un regalo a due mie amiche gemelle”.
“Che
taglia portano?”.
Cane
rifletté un pochino. Le due ragazze erano magre ma anche
piuttosto alte.
“Più
o meno quella che porta lei, credo” rispose, abbastanza
convinta.
Le
furono proposte diverse opzioni, Gou scelse, comprese due paia di
scarpe e,
andando alla cassa, usò i suoi poteri per convincere la
commessa che stava
pagando. L’addetta al negozio aprì la cassa e vi
ripose dei soldi immaginari,
dando lo scontrino a Cane e salutandola con un gran sorriso. Uscita,
trascinò
Zubeneschamali e Zubenelgenubi al bagno, dove le fece cambiare e
sistemare.
“Siete
bellissime” disse, quando furono presentabili.
Le
due Bilancia arrossirono.
“Adesso
venite con me. Manca l’ultima parte”.
Le
tre si diressero verso la biglietteria, fra la calca dei turisti e di
chi stava
rientrando a casa.
“Ci
servirebbero tre biglietti per la Grecia” domandò
Cane, risparmiando magia.
“Diretti
non ce ne sono qua. Dovrete fare scalo a New York e poi da
lì partire per
Atene”.
“Allora
mi dia tre biglietti per New York”.
“Solo
andata?”.
“Sì”.
“Avete
bagagli con voi?”.
“No”.
Dopo
aver giocherellato un po’ con il PC, i biglietti furono
stampati e consegnati.
Ovviamente Cane li “pagò” alla stessa
maniera usata nel negozio di vestiti.
La
partenza era prevista fra quattro ore. Si rilassarono. Era giunto il
momento di
mangiare un boccone e fingere di essere tre turiste normali.
₪₪₪
Aldebaran
lasciò tutti sconcertati quando disse che se ne andava.
All’inizio, Mikael e
Scott pensarono ad uno scherzo ma poi notarono quanto convinto fosse
quell’uomo
a seguire la sua decisione improvvisa.
“Sei
sicuro? E a Roma come ci arrivi?” domandò Scott.
“Non
mi interessa più andare a Roma. Sto bene qui e ora ho pure
la possibilità di
non essere più un peso per voi, che siete stati
così gentili con me” rispose
Toro, mettendo in un sacco i vestiti che si era comprato nel frattempo.
“Ti
sei preso una bella sbandata, amico” sorrise Mikael.
“Andare
a vivere con una donna dopo così poco
tempo…” mormorò Scott, dubbioso.
“Tu
hai fatto cose peggiori. Hai avuto certi colpi di
testa…” ridacchiò il figlio.
“Non
credo siano cose che ti riguardino!” sibilò il
padre.
“Certo
che mi riguardano! Da uno di quei colpi di testa sono nato
io!”.
“Ho
deciso di vivere da lei. Shè mi ha trovato un buon lavoro e
staremo bene
assieme” continuò Aldebaran, sempre più
convinto.
“Se
ne sei sicuro, io non sono nessuno per poterti impedire di farlo. Ti
auguro
buona fortuna” sospirò Scott “Anche se
mi meraviglia il fatto che tu voglia
rinunciare a Roma. Fino alla settimana scorsa ne eri così
sicuro! Lavoravi ben
oltre gli orari prestabiliti per poterci andare al più
presto, e ora cambi idea
così…”.
“Sono
cose che succedono, papà. Potrà sempre tornare
qui, nel caso non si trovasse
così bene come crede dalla bella nera dagli occhi
inquietanti”.
Toro
sorrise, pronto a partire. Fuori c’era Shè,
Serpente, ad attenderlo. Scott
rabbrividì. Quella donna lo spaventava. Aveva qualcosa di
decisamente strano, a
prescindere dai capelli verdi e gli occhi gialli. Si
rassegnò però al fatto che
non poteva costringere Aldebaran a rimanere con lui e suo figlio. Era
un uomo
adulto, libero di seguire le sue scelte come meglio credeva. Dopo
avergli dato
l’ultima paga, lo accompagnò
all’ingresso. Fuori faceva freddo, forse stava per
nevicare, e tirava vento. Shè pareva non farci troppo caso e
attendeva Toro
appoggiata ad una macchina sportiva di lusso, regalino che aveva
ottenuto
grazie ai suoi poteri.
“Allora…ci
salutiamo” parlò Scott, stringendo la mano ad
Aldebaran.
“Non
mi dimenticherò mai della disponibilità che mi
avete dimostrato” rispose Toro.
“Come
ha detto Mikael, se un giorno vorrai tornare da noi, sappi che le
nostre porte
saranno sempre aperte per te. Sei una brava persona, con un grande
talento ed
un’enorme volontà”.
“Grazie”.
Mikael
era rimasto in casa e salutò con la mano, con scarso
entusiasmo, mentre l’auto
si allontanava dal vialetto a velocità sostenuta.
“Tu
pensi davvero che abbia fatto la cosa giusta, Mikael?”
domandò Scott,
rientrando.
“Giusta
o sbagliata, io non sono la sua balia. È abbastanza grande e
grosso da
sapersela cavare”.
“Non
so. Sembra una persona così buona.
Ingenua…”.
“Allora
questo non potrà che dargli una svegliata, papà.
Adesso chiudi la porta, che
entra freddo, e smettila di tormentarti per lui”.
“Pronto
per la tua nuova vita, tesoro?” sibilò
Shè.
“Certo.
Dove andremo a vivere?”.
“In
una bella casetta alla periferia di Dublino. Lì sarai di
certo ispirato e
potrai realizzare quadri stupendi. Inoltre lavorerai come gallerista
nella
capitale. Ti piacerà”.
“Ne
sono certo, anche se non capisco perché tu faccia tutto
questo per me…”.
“Perché
sei il mio tesoro, ecco perché!”.
Aldebaran
sorrise, stordito dal veleno di Serpente, e non fece obiezioni di alcun
tipo.
₪₪₪
“Dimmi
la verità…cosa ti è
successo?” domandò Hanne.
Kosmos
non rispose. Erano rientrati e, dopo aver scaricato il pescato, si
godevano un
paio di mesi di pausa. Non avendo un posto dove stare, Kosmos era stato
ospitato da Hanne in un paesino francese non lontano da Parigi.
“E
tu, dimmi la verità, com’è che vivi qua
da sola, senza marito, figli o altre
cose del genere?”.
“Non
mi sono mai interessate cose del genere. E tu? Niente donne o cose del
genere?”.
“No”.
“Avanti.
Sei mio ospite a tempo indeterminato…voglio sapere qualcosa
di te. Come sei
finito in mezzo all’oceano? E cosa hai fatto fin ora? Avrai
vissuto in qualche
modo…casa tua dove sta?”.
“Non
vedo perché dovrei dirtelo…”.
“Sai
un sacco di lingue. Hai fatto l’interprete?”.
“Pure
tu ne sai un sacco. Parlavi con i marinai di Paesi diversi del
tuo”.
“Io
so solo le cose di base, quelle per dare ordini, ma tu al contrario
parlavi con
tutti fluentemente. Come fai? Non sembri avere tanti anni, devi aver
cominciato
da piccolo a studiarle”.
“No,
veramente no”.
“Sei
uno di quelli che han ottenuto un dono dal cielo, allora!”.
“Può
essere…”.
“Ma
davvero non hai mai lavorato nell’ambito delle
lingue?”.
“No.
Io mi occupavo di altri settori”.
“Tipo?”.
“Beh…diciamo
astronomia”.
“Bello!
Sei uno di quelli a caccia di comete o cose del genere?”.
“Preferisco
i buchi neri. Da casa mia si vedeva l’intero
universo!”.
“E
poi cos’è successo? Sei scappato?”.
“Sono
stato buttato fuori dalla donna che viveva con me”.
“Lo
sapevo! Lo sapevo che c’era una donna in tutta questa storia!
Carina?”.
“Chi?!
Kuruma?!”.
“Che
nome originale…come il tuo! Allora, questa Kuruma
com’è? Carina?”.
“Non
ci ho mai fatto caso ma, ora che me lo chiedi, direi di sì.
Solo che ha un
carattere orribile. È spocchiosa, rompiscatole,
vendicativa…”.
“Come
te, insomma. Buffo. Disprezzi ciò che avete in
comune”.
“Ma
che stai dicendo?!”.
“Nessuno
ti ha mai detto che hai un pessimo carattere?”.
“Veramente
no. Ma io non ho un pessimo carattere”.
“E
allora perché non hai nemmeno un amico che ti
cerca?”.
Kosmos
rimase in silenzio, fissando Hanne con l’aria di chi ha
appena ricevuto una
botta in testa.
“Scusa.
Non volevo essere sgarbata…” mormorò la
capitana “…penso che, in fondo, tu sia
una brava persona”.
“Davvero
ho un carattere simile a quello di Kuruma?”.
“Vuoi
la verità? Sei un vero stronzo. Ma dentro di te
c’è qualcosa di buono, e questo
chi ti sta vicino lo sa. Perciò, credo lo sappia anche
questa Kuruma. Avrà
perso la pazienza, come quando io volevo buttarti dalla
barca!”.
“Chissà
se anche i dodici segni la pensano come te…”.
“Chi
sono i dodici segni? Amici tuoi?”.
“Sono
sparsi per il mondo…”.
“Ecco
perché sai tante lingue!”.
“Non
proprio…ma son stufo di parlare di questo”.
“Come
vuoi. Ma non potrò mantenerti troppo a lungo, sai? Dovresti
cercarti un
lavoro”.
“Puoi
darmi una mano? Fin ora non ho avuto bisogno di occuparmi di cose del
genere…”.
“Certo.
Per prima cosa, dobbiamo preparare un curriculum. Non è
difficile, son sicura
che qualcosa da farti fare la trovo. Se poi vorrai tornare a bordo
della mia
nave, non ti caccerò via”.
Kosmos
storse il naso. Aveva ancora addosso la puzza di pesce.
Sospirò. Non sapeva
cosa fosse un curriculum ma quella mortale aveva detto che era
fondamentale per
trovare lavoro. Hanne accese il computer, pronta a scriverlo per lui.
Kosmos le
andò accanto, dopo qualche colpo di tosse. Lei lo
fissò, quasi preoccupata.
“Che
brutta tosse che hai. Dovresti farti vedere da qualcuno”.
“Nessuno
è mai morto per un po’ di tosse. Facciamo sto
curriculum”.
Fuori
era notte ormai. Kosmos, sul terrazzino, lasciava che il vento gli
scompigliasse i capelli e teneva lo sguardo perso fra le stelle.
“Non
dovresti stare fuori con questo freddo. Chiudi la finestra”
lo sgridò Hannaliz.
“Non
fa freddo!” protestò Kosmos, abituato alle
temperature di lunga inferiori dello
spazio.
“Non
ti fa bene il vento d’inverno. Vieni dentro e rispondi alle
domande che mi
servono per il tuo curriculum. È per il tuo bene”.
Kosmos
non si mosse da dove stava, tenendo le mani dietro la schiena, e la
incoraggiò
a fargli quelle benedette domande.
“Tanto
per cominciare, mi serve il tuo nome completo e i tuoi dati personali:
data e
luogo di nascita. Come recapiti useremo i miei per
ora…”.
“Inizi
già con le domande difficili…”.
“Come
sarebbe a dire? Non sai dirmi quanto sei nato e dove? Saprai quanti
anni hai,
no?”.
“Veramente…ho
smesso di contarli da tempo”.
“Mi
prendi per il culo? Cerca di essere sincero! Che sei, un agente della
CIA
dall’identità segreta o uno di quelli del
programma protezione testimoni?”.
“Se
fossi una di queste due cose, avrebbe un senso che io non ti sappia
dire la
maggior parte di ciò che vuoi sapere?”.
“Sì…”.
“Allora
sono uno di quelle due cose”.
“Balle!”.
“Già…”.
“Adesso
basta. Basta bugie, storielle inventate e scuse senza senso. Dimmi la
verità,
Kosmos”.
Kosmos,
continuando a fissare il cielo notturno, sorrise, ghignò.
“Vuoi
davvero sapere la verità?” ridacchiò
“Non mi crederai mai ma, se ci tieni
tanto, eccola: io mi chiamo Kosmos, non ho un cognome perché
non ho genitori,
sono nato il giorno in cui si è creato questo universo
cioè,
approssimativamente, 15miliardi dei vostri insulsi anni. Permetterai
che non
ricordi il giorno esatto. Conosco tutte le lingue perché in
tutto questo tempo
ho avuto modo di leggere un sacco e, anche se ho iniziato ad occuparvi
di voi
terrestri solo dopo l’arrivo dei miei sottoposti, in quasi
tremila anni non è
stato difficile imparare. Ho controllato da solo tutte le galassie e i
corpi
celesti assieme a Kuruma, mia collega, fino a quando sono arrivate le
costellazioni, le personificazioni delle costellazioni, che sarebbero
state
destinate a rimanere dov’erano ben più a lungo
della morte di questo giovane
pianetucolo che verrà inglobato dal vostro sole. Purtroppo
per noi, per me e
per le mie stelle, Kuruma voleva fare tutto da sola e ci ha cacciati,
sottraendomi tutti i miei poteri. Fra meno di un anno, dovrò
usare lo scettro
delle Ere per poter farvi entrare nell’epoca
dell’Acquario ma, essendo bloccato
qui, non so se questo avverrà. Non tornando in cielo, e non
facendo partire
l’Era successiva, i moti dello spazio sono destinati a
bloccarsi. Non mi aspetto
che tu capisca cosa questo comporti, ma è questa la
verità”.
Annali,
sconcertata da quel monologo, rimase qualche istante in silenzio, a
bocca
aperta, indecisa se mollargli un ceffone per la cazzata che si era
appena
sentita dire o se preoccuparsi.
“Mi
stai dicendo…” mormorò, dopo un
po’ “…che sei una specie di
divinità spaziale?
E ti aspetti pure che ti creda?”.
“Io
ti avevo avvisato che non mi avresti creduto, ma ci tenevi tanto a
sapere la
verità…”.
“Quindi
che dovrei scrivere sul tuo curriculum?! Fra i precedenti impieghi
dovrei
scriverci "dio"?! Mi hai preso per una stupida?!”.
“No.
Io non penso che tu sia stupida. Semplicemente non credo che qualcuno
di voi
mortali possa comprendere, ed è del tutto normale
aggiungerei”.
Hannaliz
rimase immobile, mangiucchiando la penna che aveva fra le mani. Attese
che
Kosmos si mettesse a ridere come un pazzo, dicendole che era tutto uno
scherzo,
ma non fece nulla del genere.
“Sei
completamente pazzo” arrivò alla conclusione
“Meglio che te ne vai da questa
casa al più presto! Se non vuoi darmi i tuoi dati, li
inventerò io. Vedrai che
qualche lavoretto te lo trovo, così potrai raccontare le tue
belle storie a
qualcun altro”.
Kosmos
non parve avere reazioni a quelle frasi e alzò le spalle.
“Allora…”
riprese Hannaliz “…mettiamo che hai
all’incirca trent’anni. Dimmi un
numero…”.
“Settecentotrentasei”.
“Speravo
in qualcosa di più piccolo ma va bene lo
stesso…dimmene un altro”.
“Cinquemiladuecentoquarantuno”.
La
capitana sospirò, assumendo un’espressione di
rassegnazione decisamente comica,
se qualcuno avesse avuto modo di vederla.
“Pensi
in grande tu… comunque sei nato il sedici
dicembre”.
“In
base a cosa l’hai deciso?”.
“Numerologia.
Sette + tre + sei fa sedici. Avrei potuto fare anche uno + sei
e farti nascere
il sette, se preferisci…”.
“Sedici
dicembre va benissimo”.
“Altrimenti
sette marzo…la somma del secondo numero dà
dodici. Uno + due fa tre”.
“Ripeto:
sedici dicembre va benissimo”.
“Ora
mi serve un luogo di nascita. Se sai davvero tutte le lingue, uno vale
l’altro.
Che stato ti piace? Scegline uno prestigioso, così il
curriculum vale di più”.
“Che
vuol dire?! In base a cosa uno stato è
prestigioso?!”.
“Noi
mortali abbiamo molti pregiudizi. Facciamo che sei un cittadino
francese ma che
hai compiuto numerosi studi all’estero nell’ambito
dell’astronomia. Che dici?”.
“Sei
tu l’esperta…”.
“In
cosa? In ballistica?! Quello sei tu, ciccio!”.
“Cos’è
la ballistica?”.
“La
scienza del raccontar balle!”.
Kosmos
non disse altro, continuando a non capire cosa servisse compilare un
foglio
pieno di falsità.
“Come
interessi che ci mettiamo? Cosa ti piace?”.
“Mi
piace la pizza. Ho avuto modo di assaggiarla
ultimamente…”.
“Kosmos!
Cerca di essere serio! Il fatto di mangiare pizza non rientra negli
interessi
utili per un curriculum! Hai detto che hai letto un
sacco…diciamo che hai fatto
il volontario in una biblioteca. Sai usare il computer?”.
“Che
roba è? Si mangia?”.
“No.
Sorvoliamo… Cos’è che sai
fare?”.
“Salvo
buchi neri, supernove e cose del genere?”.
“Esatto…”.
“Io…so
dipingere. E suono”.
“Davvero?
Bene. Aggiungo interessi creativi e nessuna difficoltà ad
immaginare cose nuove.
Fantasia da vendere. Fra le esperienze aggiungo anche il fatto di
essere stato
sulla mia nave per un periodo, così da lasciar intendere che
sei capace anche
di sporcarti le mani”.
“Per
essere capace ne sono capace, ma non mi piace un
granché…”.
“Disposto
a lavorare in gruppo o singolarmente, buone capacità di
comando”.
“In
gruppo? Solo se comando io…”.
“Infine
dimmi: in che ambito vorresti lavorare? Insomma…che
obbiettivi hai?”.
“Ti
piace farmi domande difficili!”.
“Dovrò
sapere che genere di lavoro ti piacerebbe fare! Altrimenti a chi porti
sta
roba?!”.
“Non
lo so. Vedi tu”.
“Un
posto dove non devi fare fatica, dove non devi obbedire agli ordini e
in cui le
tue rispostacce non vengano giudicate offensive…”.
“Perfetto.
E aggiungi anche "senza puzza di pesce"”.
“Ah
sì, visto che ci siamo…buon anno, Kosmos. Buon
2012”.
Lui
non capì da subito quella frase. Sobbalzò, quando
scoccò la mezzanotte e i
fuochi artificiali riempirono la sua visuale. Che modo esagerato che
avevano i
mortali di festeggiare!
₪₪₪
“Ti
prego non uccidermi!” supplicò Yang, una volta
ricomparsa davanti ad Acubens.
“E
perché non dovrei?” sbottò Cancro.
“Perché
sono qui con le migliori intenzioni, non voglio farti del
male”.
“Non
ti credo”.
Capra
gemette. Temeva proprio che chi aveva di fronte non le credesse e
decidesse di
farle del male. Ma perché si era lasciata trasportare di
nuovo davanti a colei
che le aveva sparato?
“La
mia signora ti rivuole in cielo. Vi rivuole tutti quanti. E non
perché non
riesca a gestire la situazione, ma perché non trova giusto
che voi siate caduti
per colpa di Kosmos”.
“Kosmos,
stando ai suoi piani, non tornerà in cielo?”.
“Lei
ci prova a convincerlo, ma il vostro capo, diciamocelo, è un
deficiente”.
“Anche
la vostra padrona, a volte…”.
“Non
siamo qui per discutere di questo. Sono stata mandata qui per portarti
nel
luogo d’incontro prestabilito, in modo che possiate ritornare
a palazzo.
Magari, vedendo questo, a Kosmos passa la voglia di fare pirlate e
torna in
sé”.
“Io
credo che non sia mai stato fuori di sé. Ma
perché dovrei fidarmi?”.
“Altri
miei colleghi stanno facendo la stessa cosa, sparsi per il
mondo”.
“Tu
sai dove sono gli altri miei compagni?”.
“Più
o meno. Il più vicino è Al Risha, che dovrebbe
essere in Egitto, ma Tù è già
sulle sue tracce e, spero, si sposterà presto verso
nord”.
“Prima
di partire, voglio avere la certezza che mi stai dicendo la
verità. Tu hai
ancora i tuoi poteri, altrimenti non saresti ricomparsa,
perciò contatta la tua
collega Tù e dammi conferma che le cose stanno come
dici”.
“Come
preferisci, malfidente costellazione pignola!”.
Yang
si concentrò, chiudendo gli occhi, chiamando Lepre per nome.
Dopo qualche
istante, comparve davanti alle due donne l’immagine di
Tù, in piedi a braccia
incrociate.
“Ti
ascolto, problemi? Perché usi questa metodologia per parlare
con me? Rischi di
usare troppa magia” parlò Lepre.
“Tranquilla,
è tutto sotto controllo. Ti chiamo perché la
mortale che mi è toccato riportare
non vuole collaborare e vuole una prova tangibile che pure tu stai
portando il
suo collega in Grecia”.
“Diciamo
che sto facendo del mio meglio. Ma quest’uomo è
più stupido di quanto
pensassi”.
“In
che senso?”.
“Abbiamo
fatto pochissima strada finora. Appena può si tuffa fra
alcol, droga o altre
porcherie. Sono stufa di fargli da balia…”.
“Mostramelo!”
ordinò Acubens.
“Come
vuoi…ti avverto però che non è un
bello spettacolo”.
Lepre
fece un gesto con la mano e Pesci fu visibile. Stava ridendo da solo,
con fra
le mani una lunga sigaretta arrotolata che fumava in modo eccessivo.
“Al
Risha!” lo chiamò Cancro, con
un’evidente nota di rimprovero nella voce.
“E
non l’hai visto quando si attaccava al
narghilè!” sbottò Tù.
“Non
ci posso credere! Hai il diritto di prenderlo a sberle da parte
mia!”.
“L’ho
fatto, diverse volte, ma non fa altro che riempirmi d’insulti
e fare quello che
gli pare. Non posso trascinarlo!”.
Lepre
era piuttosto minuta e, nonostante i poteri, non poteva pretendere di
portar
fino in Grecia di peso un uomo che non aveva alcuna intenzione di
muoversi come
Al Risha.
“Lui
non può sentirmi?” domandò Acubens.
“In
teoria potrebbe. Ma credo sia troppo in balla per usare le sinapsi
necessarie
ad un’azione del genere. Hai qualche messaggio da
riferirgli?”.
“Sì,
di smetterla di farsi del male da solo!”.
“Bella
frase, ma temo di avergliela ripetuta fino allo sfinimento”.
Cancro
si girò verso Capra, che nel frattempo si era soffermata sui
vari sassolini che
vedeva in terra, in cerca di nuovi pezzi per la sua collezione di cose
inutili.
“Possiamo
raggiungerli?” domandò Acubens.
“In
Egitto? Certo, non è un problema” rispose Yang
“Ma perché lo vuoi fare? Ci
penserà Tù al tuo compare, non ti
preoccupare”.
“Forse
mi ascolterà e riuscirò a farlo ragionare. Un
tentativo lo possiamo fare, no?”.
“E
se non dovesse funzionare?”.
“In
quel caso saremmo in tre per poterlo trascinare fino in
Grecia”.
“Quindi
hai deciso di seguirmi fino là?”.
“Solo
se posso portarmi dietro il fucile. Ancora non mi fido di
te…non si sa mai!”.
Capra
e Lepre si scambiarono le indicazioni per potersi ritrovare in un luogo
preciso,
mentre Cancro salutava i suoi cari amici leoni e caricava i fucili. Si
trovava
bene nella savana ma il palazzo era il suo posto, come il cielo era il
luogo
che spettava alla costellazione che rappresentava. Non si fidava di
colei che
aveva di fronte, sicario di Kuruma, ma non poteva fare troppo la
schizzinosa.
Inoltre, quel cretino di Al Risha aveva bisogno di una bella strigliata
e lei
sarebbe stata ben lieta di dargliela. Senza ulteriori indugi, fucile in
spalla,
fece segno a Yang che era pronta a seguirla.
₪₪₪
“Hai
intenzione di rimanere lì ancora a lungo?”
domandò Astrea, guardando dalla
finestra.
Gallo
era ancora lì, in attesa che scendesse.
“Ho
tutto il tempo del mondo, stellina caduta.
L’eternità è dalla mia
parte!”
rispose, con un ghigno.
“Chiama
la polizia! Quello è un maniaco!”
suggerì Maia.
“Non
serve. Ieri sera mi ha riportato a casa una guardia giurata. Non si
spaventa di
certo nel vedere un poliziotto! E poi è piuttosto
violento…”.
“E
loro hanno le pistole! Io la chiamo!”.
Senza
voler sentir ragioni, Maia chiamò il numero
d’emergenza e spiegò la situazione:
c’era un pazzo dai capelli assurdi che voleva fare del male
ad un gruppo di
indifese ragazze.
A
sirene spiegate, arrivò un’auto in meno di dieci
minuti.
“Può
fornirmi i documenti, prego?” domandò il
poliziotto a Ji, che non si mosse.
“Le
sto chiedendo i documenti…” incalzò
l’uomo, ma Gallo lo ignorò.
“La
prego di allontanarsi da questa casa al più presto, se non
vuole essere
arrestato”.
“E
io la prego di allontanarsi da me, se non vuole essere
ucciso!”.
“Come?!”.
Gallo
si girò di scatto, afferrando il poliziotto per il collo ad
una velocità tale
da impedirgli di reagire. Il collega uscì
dall’auto, puntando la pistola.
“Ti
consiglio di rimettere a posto quel giocattolo, se non vuoi che usi
questo inutile
mortale come scudo” ringhiò Ji.
“Scendi,
Astrea!” riprese Gallo, sempre con l’ostaggio
stretto fra le mani “Oppure lo
uccido!”.
“Rinforzi!
Ci servono rinforzi!” continuava a ripetere il collega,
rientrato in macchina.
Nel
giro di qualche minuto, Ji fu circondato. La cosa non parve spaventarlo
più di
tanto. Fissò i suoi avversari e, lasciando andare
l’ostaggio, scoppiò a ridere.
“Potete
venire anche il doppio di quanti siete ora. Non potete sconfiggermi!
Non
crediate di esserne in grado, pezzenti!”.
Tutti
gli stavano puntando le pistole contro, pronti a colpire nel caso ce ne
fosse
stato bisogno. Gallo, quasi divertito, alzò la testa ed
emise uno strano suono,
che qualcuno interpretò come un
“chicchirichì”, prima di iniziare ad
affrontare
i poliziotti. Erano in molti ma lui era molto veloce e i colpi parevano
passargli attraverso, come se fosse etereo. Astrea capì
subito che stava usando
i suoi poteri al massimo. L’unico modo per batterlo era
sperare che
quell’energia si esaurisse, ma non sembrava possibile in quel
momento.
“Ma
come fa?!” esclamò, spaventata, Maia.
“Chiama
Alìs, dille di restare lontano da casa finché
può. Evitale tutto questo
casino…” suggerì Astrea, vedendo che
c’erano sempre più curiosi che si
accalcavano per la strada.
“Esci
fuori, Vergine! O finirò per ammazzarli tutti!”
gridava Ji.
“Oh,
per Zeus! Vai a farti cucinare, razza di pollo esaltato!”
rispose Astrea,
scervellandosi per riuscire a trovare una soluzione.
“Cosa
farebbero i miei colleghi rissaioli?” si chiese, guardandosi
attorno.
D’un
tratto sorrise. Afferrò un grosso libro, probabilmente un
vocabolario, e lo
lanciò dalla finestra, sperando di avere almeno un minimo di
mira. Dal primo
piano in cui stava, colpì in testa Ji, che gemette e si
voltò. In quei pochi
secondi di distrazione, la polizia lo crivellò di colpi,
facendolo cadere in
ginocchio. Gridando, Gallo scomparve in migliaia di piccole luci,
lasciando
tutti piuttosto perplessi e spaventati.
“Ma
dove è andato?! Come ha fatto?!” gridò
Maia.
Nel
frattempo i curiosi, radunati attorno alla scena, non avevano molto ben
compreso ciò che era avvenuto. Non avendo assistito alla
presa per il collo
dell’ostaggio, pensarono fosse solo un ragazzo rifiutato
dalla sua donna e che,
mostrandosi solo leggermente aggressivo, la polizia lo avesse
ammazzato. Pur
non capendo dove fosse andato a finire il corpo, bastò
quell’idea per scatenare
la folla che attendeva solo un pretesto.
“Wow…una
rivolta per causa tua…che onore…”
mormorò Maia, tirando le tendine e chiudendo
la finestra, per evitare di assistere ad ulteriori stranezze.
“Me
ne devo andare…” disse Astrea.
“Perché?
Quello strano tizio è morto. Non so dove sia andato a
finire, ma è morto”.
“Non
è morto, credimi. Tornerà, e non posso rischiare
di mettervi in pericolo”.
“Ma
che stai dicendo?! È morto, gli hanno sparato in
quaranta!”.
“Ci
sono cose che non posso spiegarti, Maia”.
Astrea
stava preparando un piccolo zaino con le poche cose che si era
comprata,
ignorando le proteste della sua coinquilina.
“Resta.
È tutto finito, non fare stupidaggini! Dove credi di andare?
A dormire sotto i
ponti?”.
“Troverò
una soluzione, come ho sempre fatto. E, se credi sia tutto finito,
guarda un
po’ fuori e ti renderai conto che non è
così. Credi che voglia peggiorare la
situazione? No, non lo voglio”.
“Vittimista.
E che racconto ad Alìs?”.
“Dille
che me ne sono andata, semplicemente. Non vedo dove sia il
problema”.
Con
lo zaino sulla spalla, Vergine si avviò verso la porta.
“Ci
rivedremo a lavoro…” mormorò Maia.
“Non
lo so. Per ora vi ringrazio di tutto. Senza di voi non so dove sarei
ora. Ve ne
sarò sempre grata. Per quel che riguarda il
futuro…staremo a vedere”.
Maia,
senza dire altro, abbracciò l’amica, senza volerla
lasciar andare. Dove pensava
di andare, in inverno, da sola, senza un posto dove andare?
Tentò ancora di
farle cambiare idea ma lo sguardo di Astrea era deciso, anche se
triste. La
stella caduta era consapevole di cosa fosse in grado di fare Ji per
ottenere
qualcosa e non poteva rischiare che facesse del male a chi
l’aveva aiutata.
Infilò il cappotto ed uscì, passando per la porta
laterale, ancora lontana
dagli scontri fra polizia e curiosi.
₪₪₪
Tigre
doveva stare attento. Non voleva di certo che a Sadalmelik tornasse la
memoria!
Se avesse ricordato la verità, sarebbe fallito il suo piano.
Acquario non
doveva recuperare la memoria. Non doveva tornare in cielo.
Così facendo, la sua
Era non potrebbe mai iniziare ed il controllo resterebbe in mano agli
Orientali. Sapeva bene che la maggior parte dei suoi colleghi la
pensavano
diversamente, ma lui non era disposto a sentirsi inferiore a nessuno,
specie a
quella femmina dagli occhi color prugna! La questione era semplice:
doveva
solamente tenerla d’occhio fino alla data della fine
dell’Era, dopodiché poteva
pure andarsene, fregandosene dell’eventuale destino della
stella. Mancava meno
di un anno…avrebbe saputo resistere! Grazie ai suoi poteri,
era riuscito ad
ottenere una casetta sulla Senna, lontana da grandi città e
da stimoli
eccessivi. Lì Sadalmelik aveva modo di stare
all’aperto, curare le piante e
qualche animaletto, senza stare a pensare all’oroscopo.
L’aveva convinta di
essere francese, di aver intrapreso un viaggio con lui ma di essere
stati
sorpresi dalla tempesta ed essersi separati, di non avere genitori e di
essere
in cerca di impiego dopo l’università a Parigi.
Lui invece ufficialmente
lavorava in banca, nonostante la tinta a strisce della sua
capigliatura, e si
prodigava a mantenere la sorella finché non fosse stata
indipendente.
“Manuelle”
lo chiamò Sadalmelik, il nome che le aveva detto di avere.
“Dimmi,
Marie” rispose.
“Stavo
pensando…se ho studiato a Parigi, forse se ci andassi
ricorderei qualcosa,
no?”.
“Splendida
idea, sorellina. Ma Parigi è orrenda in inverno, ti
suggerisco di aspettare la
primavera”.
“E
nel frattempo che faccio?!”.
“Marie,
io ci sto provando! Ti ho mostrato le foto di mamma e papà,
ti ho portato dove
passavamo il tempo da piccoli, la nostra vecchia casa, la
scuola…non so che
altro fare!”.
“Hai
ragione, scusami. È che è così
frustrante…sento di avere i ricordi qui, da
qualche parte, e manca davvero un soffio perché escano ma
niente, non ne
vogliono sapere!”.
“Vedrai
che, prima o poi, il soffio giusto arriverà”.
Sadalmelik
lo abbracciò, cosa che Hu non apprezzò molto ma
si trattenne dal farlo notare,
per non destare sospetti.
“Meno
male che ci sei tu, fratellone! Che farei senza te?”.
“Vorrei
fare di più, ma non posso. Appena farà un
po’ più caldo ti porterò a Parigi,
ok? Così magari ricorderai. Andrà tutto a
posto”.
“Sarebbe
strano non ricordarsi della famiglia ma
dell’università…”.
“Sarebbe
un inizio. Poi gli altri ricordi arriveranno. Dicono che basti
sbloccarne uno
per far tornare tutto in mente”.
“E
potrò finalmente ricordare tutti i bei momenti passati
assieme che mi hai
raccontato! Non vedo l’ora! Le gite, i giochi, le feste,
mamma e papà…”.
“Devi
solo avere pazienza. Ricordati che io ci tengo a te e ti
aiuterò in ogni modo”.
“Anch’io
tengo tanto a te, tienilo sempre in mente!”.
“Grazie”.
Tigre
ghignò. Era fiero del rapporto fittizio che era riuscito a
creare fra lui e
quella femmina. L’unico rammarico che aveva era quello di non
averle raccontato
che erano fidanzati, invece che fratelli. Magari, fra una cazzata ed
un’altra,
poteva scapparci anche qualche bella scopata. Ma si era lasciato
prendere
dall’irruenza tipica del suo carattere ed aveva detto la
prima cosa che gli era
venuta in mente. Sperava che pure Serpente, Scimmia e Gallo fossero
riusciti
nelle loro missioni di sabotaggio. Che gli altri faticassero pure per
riportarli tutti in Grecia! Qualcuno di certo non sarebbe arrivato alla
meta! A
volte gli era passata per la testa l’idea di ucciderla ma
l’aveva scartata. La
violenza insensata non rientrava nel suo stile! Meglio una balla ben
raccontata. I giochetti psicologici erano il suo forte.
“Sorellina…oggi
la giornata al lavoro è stata molto stressante. Ti
dispiacerebbe venire qui a
far rilassare un po’ il tuo fratellone, come fai
sempre?”.
“Ma
certo!”.
Acquario
iniziò a massaggiargli le spalle. Tigre si
rilassò, sorseggiando una birra
davanti alla televisione, dicendosi che poteva anche abituarsi ad una
vita
così.
₪₪₪
Il
grosso elicottero privato atterrò alla periferia di Ankara,
in una zona
disabitata. Rukbat scese, già armato, e si guardò
attorno. Molte forze speciali
di altri paesi si erano riunite in quel luogo. Montarono le tende,
preparando
un avamposto simile a quello delle esercitazioni militari degli
autoctoni,
credendo evidentemente che il nemico fosse fesso o cieco, per non
notare la
quantità eccessiva d’agenti e di mezzi. Sagittario
non commentò quella
strategia discutibile ed aiutò a montare il campo, assieme a
quelli che ormai
erano diventati i suoi colleghi di lavoro. Tirava vento e questo
rendeva
decisamente meno ridicolo il lungo cappotto dal quale non si era
separato.
Inoltre, gli occhiali da sole lo proteggevano dalla sabbia. Una volta
arrivate
tutte le squadre, si sarebbero addentrati in territorio nemico e questo
Rukbat
sperava di evitarlo, perciò doveva sparire prima
dell’arrivo di Italiani,
Francesi e Americani, i soliti ritardatari paraculati. I suoi colleghi
ammirarono la sua straordinaria capacità di comunicare con
tutti i presenti, in
qualsiasi lingua.
“Sarai
fondamentale per questa missione” gli disse un russo
“Almeno saremo certi di
capirci”.
Continuando
ad allestire il campo, si guardava attorno in cerca di una via di fuga.
Scosse
il capo. Non molto lontano dalle tende, c’era una piccola
altura. Sarebbe stato
un ottimo nascondiglio, non solo per lui ma anche per i nemici. Che
razza di
squadre speciali…
“Vuoi
andare all’esplorazione, Carlyle?”
domandò Harrison, aiutandolo con
dell’attrezzatura.
“Mi
piacerebbe, in effetti. Tanto c’è ancora tempo
prima che le ultime squadre ci
raggiungano”.
“Da
soli non è saggio muoversi, e mai girovagare dopo il
tramonto. Non sappiamo chi
possa esserci ad aspettarci. Ma questo credo tu lo sappia
già”.
“Non
preoccuparti troppo per me. Ho lasciato la gonna di mamma da un sacco
di
tempo”.
Harrison
ridacchiò, finendo di sistemare le ultime cose.
“Vuoi
che venga con te? Nemmeno a me dispiacerebbe fare un
giretto…” propose.
“Non
è necessario. Non credo che per oggi avanzi molto tempo per
girovagare. Il
tramonto è vicino” sbottò Rukbat,
sperando di far desistere il collega.
“Signore…fossi
in voi mi sposterei” mormorò un soldato, piuttosto
piccolo di statura, andando
accanto a Sagittario.
“Come?!
Che hai detto?!” domandò lui, non avendo capito.
“Non
siete al sicuro qui” sbottò il soldatino, dandogli
una spinta.
Rukbat,
non spostandosi per un’azione del genere compiuta da un
esserino tanto piccolo,
si spostò di scatto, pronto a reagire, quando qualcosa
bucò la tenda a pochi
centimetri dietro di lui, esattamente dove aveva la testa prima.
“Cecchini!
Al riparo!” gridò Harrison.
Tutti
si gettarono in terra, cercando riparo. Sagittario si
acquattò dentro la tenda,
riparandosi dietro alle casse di metallo delle armi.
“Chi
sei? E come facevi a sapere che stavano per spararmi?”
domandò al piccolo
soldato.
“Io
so molte cose” rispose questo, mostrando il volto e gli occhi
rossi.
“Sei
una donna!” esclamò
Rukbat “E…quegli
occhi…”.
“Sono
Shu”.
“La
topa orientale?”.
“Detta
così è piuttosto offensiva la frase. Sono Topo,
dal palazzo Orientale, e devo
scortarti fino in Grecia, se non ti dispiace”.
“Non
mi dispiace per niente, era proprio quello il mio obbiettivo. Il
problema è che
mi sono incasinato in sta faccenda…”.
“Ti
aiuterò io. Fidati di me”.
“Potrei
distruggerti con una mano, sei alta un metro ed una lattina di birra!
Anche se
provassi a fare qualche cazzata, non ci riusciresti”.
“Parole
sensate”.
“Agente
Carlyle! Tutto bene?!” lo chiamò Harrison.
“Tutto
bene” rispose Sagittario, uscendo dalla tenda assieme a Shu.
“Abbiamo
catturato i cecchini. Vuoi occupartene tu?”.
Rukbat
li fissò.
“Con
piacere” rispose, puntando le mani sui fianchi e mostrando le
pistole.
“Ricordati
che sei in terra straniera. Diciamo che tutto ti è
concesso” ghignò il suo
collega, facendo segno di portare i prigionieri in una delle tende.
“Me
ne ricorderò” ghignò a sua volta Rukbat.
Entrato
nella tenda, con il Barrett appoggiato alla spalla, quasi
ringhiò a chi aveva
di fronte.
“Dovrei
spararvi in mezzo alla fronte, avrei la facoltà di
farlo…” mormorò, assumendo
un’espressione truce da poliziotto cattivo.
₪₪₪
“Hei,
non guardare me! Io ho tentato di fermarlo!”
protestò Deneb Algiedi, legato
come un salame ed ammanettato davanti ad un tavolino
d’acciaio decisamente
spigoloso.
“Adesso
ditemi un po’ come faccio a rimediare al casino che avete
creato?!” sbraitò
Rukbat, sbattendo entrambi le mani sul tavolo.
Dall’esterno,
non capendo nessuno in che lingua stesse parlando, sorrisero,
soddisfatti dai
metodi poco ortodossi del mitico agente Carlyle.
“Liberaci.
E torniamo ognuno al proprio posto” rispose, con calma
serafica, Antares.
“Tu
hai provato ad uccidermi! E dovrei lasciarti
così?!”.
“Tu
mi hai ucciso quando ero uno scorpione, saremmo stati pari!”.
“Io
gli avevo detto che era una cazzata, ma sai che Antares non ascolta
nessuno…”
si intromise Deneb Algiedi, tentando invano un modo per farsi slegare.
“Chiudi
la bocca, Capro! Chi sono questi due con voi?”
domandò Rukbat, riferendosi agli
altri due uomini catturati con le due stelle cadute.
“Sono
amici del capo di Antares. Lui ti vuole morto. Dice che sei una
minaccia…”.
“Sarà
una minaccia per lui il vero agente Carlyle, non certo io. Che me ne
frega del
suo capo…”.
“Cosa
me ne frega se nel tempo libero ti travesti da poliziotto! Colpa
tua!” sbottò
Antares.
“Non
sei nella posizione per dire una cosa del genere!”.
“Smettila
di fare il figo! Sei solo un finto agente. Liberaci e festa
finita”.
“E
come lo spiego a quelli là fuori?!”.
“Dì
loro che eravamo troppo forti per te e che ti abbiamo
sconfitto…”.
L’espressione
di Rukbat, un misto fra lo scettico e lo scocciato, fece chiudere la
bocca a
tutti i presenti. Sagittario sospirò, chinando la testa. Non
era ancora ora di
far cadere la sua copertura.
“Ok.
Ora vi libero. Dirò loro che siete solo dei sicari e che mi
avete detto il nome
del vostro capo, che cattureremo durante
l’operazione”.
“Che
sparaballe professionista che sei” ridacchiò
Capricorno.
“O
così, o vi sparo in testa”.
“Non
ho mai obbiettato al fatto che ci liberassi!”.
Senza
più manette e corde, i quattro furono scortati fuori da
Rukbat, che si bloccò
dopo qualche passo, notando subito che qualcosa non andava.
“Ops”
si limitò a dire.
“Che
c’è?” borbottò Antares,
già pronto a sparire per i fatti suoi.
“Quello
che mi sta indicando è il vero agente Carlyle”.
“Ahah,
figo! E adesso spiegami un po’ come farai a rimediare al
casino che hai
combinato?” lo sfotté Capricorno.
“Non
è divertente! Questi sono pazzi, ci faranno giustiziare
tutti quanti!”.
Senza
attendere altro, imbracciò la sua arma e si mise a correre
verso la presunta
libertà.
“Prendetelo!”
sbraitò il vero agente australiano.
“Quante
storie per un cappotto ed un paio di gingilli…”
mormorò Sagittario, sparando a
caso per farsi strada fra coloro che cercavano di bloccarlo.
“Ma
io credevo che avessi preso il posto di un agente morto, o che
previdentemente
avevi fatto fuori…questo dove lo avevi lasciato?”
protestò Antares.
“Sulla
tazza del cesso”.
“Sei
un coglione, lo sai?!”.
“Mai
quanto te, razza di killer di colleghi di lavoro!”.
“Da
che pulpito!”.
“Prendetevi
delle armi, cretini, e cercate di non farvi ammazzare!”
gridò Rukbat alle
stelle cadute, ignorando Antares e i due sconosciuti, che parevano i
più
tranquilli.
“Seguitemi!
Conosco un sentiero!” si sentirono dire.
“Shu!
Sei tu? Mostraci la strada!”.
Topo
zigzagò fra le tende, schivando gli spari.
“Perché
tu, stupido russo, spari contro di me?!” sbottò un
americano, arrivato da poco.
“Sei
tu, sciocco americano, che sei sempre fra i piedi!” fu la
risposta.
“Non
siamo qua per litigare fra noi! È il finto Carlyle il nostro
obbiettivo!” fece
notare un tedesco, che fu mandato al diavolo da entrambi i litiganti,
intimandolo a farsi gli affari suoi.
Il
tedesco, offeso, sparò prima al russo e poi
all’americano. Rukbat afferrò tutte
le armi che gli capitavano a tiro, così come facevano gli
altri.
“Nei
film i caricatori durano di più!”
protestò Deneb Algiedi.
“L’ho
notato anch’io” ansimò Antares, urlando
a caso e mitragliando a random.
Il
gruppetto continuò a fuggire, sfruttando il fatto che le
nazioni riunite
stavano iniziando a spararsi fra loro, ignorando accordi e diplomazia.
“Certo
che gli umani sono proprio stupidi…”
ridacchiò Scorpione.
“Non
parlarmi proprio tu di stupidità, per favore!” lo
zittì Sagittario.
“Perché?
Del gruppo il più stupido sei tu!”
ringhiò Antares.
“Zitti
e correte!” gridò Deneb Algiedi, mostrandosi
piuttosto convincente.
Fortunatamente
Shu conosceva un sentiero che spariva fra la vegetazione e i fuggitivi
riuscirono a nascondersi. Una volta scampato il pericolo e dopo aver
ripreso
fiato, si fissarono fra di loro.
“Prima
che tu dica qualsiasi cosa, Rukbat, ci tengo a dirti che vestito
così sei
proprio figo” iniziò Antares, sfoggiando un
sorriso decisamente strano.
“Grazie.
Ma il lecchinaggio non ti servirà. Mi dovete delle
spiegazioni”.
“Il
capo mi ammazzerà…” gemette Deneb
Algiedi.
“Ora
che ci penso, pure il mio!” constatò Scorpione,
piuttosto scocciato.
“Siamo
tutti ricercati?!” esclamò Sagittario.
“TU
sei ricercato! Da tutta la polizia del pianeta, fra l’altro.
Noi abbiamo solo
qualche malavitoso che tenta di ucciderci…”.
“Fantastico…”.
“Seguitemi,
andremo in Grecia e tutto si risolverà”
cercò di calmare gli animi Shu.
“E
tu chi sei?! Chi ti conosce?!” sibilò Antares.
“Io
sono Shu, Topo, e sono venuta ad aiutare Rukbat. E quei due dietro di
voi sono
Niu e Zhu, Bue e Maiale, che hanno lo stesso scopo” si
presentò, puntando i due
che erano stati presentati come “amici del capo di
Antares”.
“Io
sono stanco, potete arrangiarvi senza di me” parlò
Zhu, incrociando le braccia.
“Solito
scansafatiche!” sbottò Niu.
“Come
possiamo fidarci di voi tre, amichetti di Kuruma?”
domandò Antares.
“E
io come faccio a fidarmi di te? Hai tentato di uccidermi!”
sibilò Rukbat.
“Come
hai fatto tu, tempo fa, ricordi?!” si sentì
rispondere.
“E
non vedo l’ora di farlo di nuovo!”.
Deneb
Algiedi finse di non conoscerli, mentre Sagittario e Scorpione si
riempivano di
botte.
“Vi
ci dovete abituare, se d’ora in poi viaggerete con
noi” disse agli abitanti del palazzo Orientale
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Capitolo 7 *** 6 ***
VII
“Avete
mai viaggiato in aereo?” domandò Gou alle Bilancia.
“No,
mai. E tu?”.
“Nemmeno.
Sarà divertente, spero…”.
“Non
può essere tanto terribile, se tanta gente lo usa per
spostarsi!”.
“Giusto!”.
Zubenelgenubi,
Zubeneschamali e Gou erano sedute in aereo, su dei sedili che si
fronteggiavano, di fronte. Le rappresentanti della costellazione si
fissavano e
Cane era messa vicino a Zubenelgenubi, la gemella dai capelli neri e
gli occhi
bianchi. Zubeneschamali invece era accanto al finestrino e alla sua
destra
stava una sconosciuta con cui avevano stretto subito amicizia.
“Come
mai andate a New York?” domandò la sconosciuta.
“Dobbiamo
andare in Grecia per raggiungere degli amici. E tu?” rispose
Gou.
“Io
vivo là. E ci lavoro. Ero in vacanza, per Natale e
Capodanno, ma ora è tempo di
tornare a rimboccarsi le maniche”.
“Che
lavoro fai?”.
“Ho
un ristorante, assieme a mio fratello. Mi mancheranno la spiaggia, il
sole e il
relax…a voi no?”.
“Non
particolarmente. Questi ultimi mesi sono stati piuttosto
stressanti!” commentò
Zubenelgenubi.
“Non
vi siete divertite?”.
“A
tratti. Diciamo che non vediamo l’ora di tornare a
casa!”.
“Casa
vostra è in Grecia?”.
“No,
ma la raggiungeremo da lì” sorrise Zubeneschamali.
“Forse”
ci tenne a precisare Zubenelgenubi.
L’aereo
era alto e il cielo limpido, lasciando ai passeggeri la
possibilità di guardare
l’oceano e la terra sottostante. Le due Bilancia erano
piuttosto estasiate da
quello spettacolo, mentre Gou preferiva di gran lunga concentrarsi
sulla
rivista che aveva trovato a bordo.
“Chissà
come se la passano gli altri, se sono già in viaggio come
noi…” mormorò la
gemella dai capelli bianchi.
“Già.
Chissà se ancora son tutti vivi!” le rispose la
gemella dai capelli neri.
“Quanto
sei pessimista!”.
“Scusa,
è un’ipotesi plausibile, se ci pensi”.
“Ma
son sicura che non è morto nessuno!”.
“Ha
ragione lei, non è morto nessuno!” le
zittì Cane “E adesso godetevi il
viaggio”.
Il
volo era piuttosto lungo e fu servito il pranzo a bordo, che le
Bilancia
consumarono con una certa soddisfazione, abituate ai pasti del centro
d’accoglienza.
“Si
pregano i signori passeggeri di allacciare le cinture. Presto
inizieranno le
manovre d’atterraggio” si sentì.
Tutti
obbedirono, lieti che presto avrebbero di nuovo avuto la terra sotto i
piedi.
Purtroppo per loro, si accorsero quasi subito che la cosa non sarebbe
stata
semplice come credevano. Appena prima di New York, grossi nuvoloni neri
si
erano addensati di colpo, cogliendo tutti di sorpresa.
“Anche
oggi le previsioni non ci hanno azzeccato”
commentò una Hostess “Una
tempesta…”.
“E
i radar? Perché non l’hanno rivelata? È
sbucata dal nulla?” rispose un suo collega.
“Si
vede che è il 2012” sorrise la donna, scuotendo il
capo.
Il
mezzo volante iniziò a sballottare in modo piuttosto
violento, mentre il
capitano tentava una manovra d’aggiramento della massa di
nuvole. La gente a
bordo cominciò ad agitarsi, specie quando l’aereo
si inclinò in modo pauroso.
Le Bilancia e Cane non capivano quanto questo fosse normale ma, dalla
reazione
degli altri passeggeri, intuirono vagamente che qualcosa non andava. Si
vide un
lampo, che nessuno volle interpretare, e il velivolo iniziò
a precipitare. Fu
il panico, fra urla, telefonate disperate, preghiere a tutto
ciò che passava
per la mente e pianti isterici.
“Cosa
facciamo?!” esclamò Zubeneschamali, stringendosi
forte al sedile.
“Moriamo!”
sorrise Zubenelgenubi “Peccato, avrei voluto vedere altre
cose”.
Gou
tentò di rassicurarle, espandendo la sua luce magica.
“Aiuto!”
gridarono le due gemelle, mentre Cane le abbracciava per avvolgerle
nell’energia che emanava e chiudeva gli occhi, preparandosi
all’impatto.
₪₪₪
“Riprenditi!”
sbottò Acubens, tirando un calcio ad Al Risha, steso a terra
con gli occhi
persi nel nulla.
“Ancora
un minutino”.
“Abbiamo
aspettato anche troppo. Muoviti!”.
Pesci
si alzò a sedere e scosse la testa, ancora piuttosto
confuso. Fissò la sua
collega con curiosità, non avendo sufficienti connessioni
celebrali attive per
capire cose ci facesse lì, e scoppiò a ridere.
“Cazzo
hai da ridere?!” chiese Tù, ormai convinta che
l’unico modo per farlo muovere
fosse tramortirlo e trasportarlo di peso.
“Niente.
È che…è tutto così
buffo!”.
“Cosa
c’è di buffo?!” riprese Lepre.
“Tutto.
Il fatto di essere qui e non in cielo, il fatto che ci siate voi stelle
Orientali a riprenderci e il fatto che Acubens vada in giro con un
fucile
dietro la schiena”.
“Se
non vuoi che lo usi contro il tuo sedere, credo ti convenga
alzarti” borbottò
Cancro.
“Quanto
siete violente, ragazze! Rilassatevi! Io sono calmissimo e felice,
anche perché
voi tre siete piuttosto carine. Che ne dite di una bella uscita
romantica tutti
assieme? E lasciare alla notte il compito di donarci la magia
necessaria per
divenire una cosa sola, se capite cosa intendo…”.
“L’unica
cosa che capisco è che ti devi muovere, altrimenti le
prendi!” concluse Tù.
Al
Risha sbuffò, passandosi una mano fra i capelli disordinati.
“Come
ti procuri i soldi per comprare tante porcherie?” lo
rimproverò Cancro, notando
la borsa di Pesci, ricolma di sostanze proibite.
“Rubo,
che domande. I turisti sono dei fessi. O faccio
l’elemosina”.
“E
la cosa non ti fa vergognare? Alzati in piedi, riprenditi un pizzico di
dignità
e partiamo. Gli altri saranno già da un pezzo in viaggio per
la Grecia, mentre
noi siamo ancora qui a tentare di convincerti che strisciare per terra
non è un
bello spettacolo”.
“Ma
che vuoi, Acubens? Non sono tuo figlio, tuo marito o il tuo amante.
Fatti gli
affari tuoi!”.
“Sei
pelle e ossa, vestito di stracci, con un aspetto orribile e il cervello
in
pappa! Mi preoccupo per la tua costellazione, idiota. Deve tornare in
cielo!”.
“Rilassati.
Ci tornerà, se è destino che accada”.
“Hai
appena detto una stronzata. Se non fai nulla perché qualcosa
accada, nulla
otterrai. Non è che le cose che desideri piovano dalle
nuvole!”.
“Se
desiderassi la pioggia…”.
“Piantala!”.
Pasci
si alzò, barcollando, spalancando le braccia come a dire
“ecco, sei
contenta?!”. Scosse la testa, tentando di tornare alla
lucidità, anche se non
lo desiderava per niente. Lui era sempre stato un sognatore e fuggire
dalla
realtà era il suo sogno, specie ora che la sua
realtà era quella di una misera
vita mortale.
“Bene.
Muoviamoci” incitò Lepre.
“Quanto
tempo ci vorrà?” domandò Cancro.
“Dipende
da quanto sarà in grado di stare in piedi lui!”
ridacchiò Capra.
“Chi
abbiamo di vicino dei nostri, adesso?” volle sapere Acubens,
mettendosi in
cammino.
Tù,
quella con al momento più magia, chiuse gli occhi quasi
bianchi per un instante
e poi rispose: “In Turchia ce ne sono tre, ma si muovono
rapidamente”.
“Anche
loro vanno verso la Grecia?”.
“Spero
di sì…non ho capacità di predizione
del futuro!”.
“Chi
sono?”.
“Sagittario,
Capricorno e Scorpione”.
“Quei
tre in gruppo?! Notevole…sono stati davvero bravi a mettere
da parte le loro
divergenze per poter viaggiare assieme!”.
₪₪₪
“Giuro
che prima dell’alba ti sparo nel culo se non la smetti di
fischiettare!” sibilò
Deneb Algiedi, rivolto ad Antares che camminava tranquillo con le mani
in
tasca.
“Rilassati
un po’. Non può sentirci nessuno!”
sbottò Scorpione.
“E
come puoi esserne certo?!”.
“Fate
silenzio tutti e due!” minacciò Rukbat,
guardandosi attorno.
Era
piena notte ed i sei, le tre costellazioni ed i tre segni orientali, da
giorni
si muovevano solo dopo il tramonto, per tentare in ogni modo di evitare
i
controlli e la gente che li cercava.
“E
tu muoviti! Non eri un grande guerriero?! Com’è
che sei così lento?! Molla un
po’ di artiglieria, se ti appesantisce tanto” gli
rispose Antares.
“Il
ginocchio non mi da pace, specie dopo tutte le corse che abbiamo
fatto”.
“Sai
che i cavalli azzoppati vanno abbattuti?”.
“E
sai che gli scorpioni vanno presi a ciabattate finché non si
spiaccicano per
bene?”.
“Vuoi
che ci fermiamo per un po’, Sagittario?”
domandò Shu, voltandosi indietro.
“No.
Ce la faccio benissimo!” protestò Rukbat,
sentendosi offeso nel venir trattato
come il più debole del gruppo.
In
realtà, ad ogni passo vedeva le stelle, molte più
stelle rispetto a quelle che
era abituato a vedere nel palazzo Occidentale. Quel ginocchio era
quello che
era stato colpito quando era divenuto una costellazione: che avesse
ancora del
veleno in circolazione? Possibile che solo lui provasse un dolore
sempre più
forte nel punto che era stata la causa della sua ascesa fra le
costellazioni?
Antares non soffriva per la freccia che lo aveva trapassato? Non poteva
credere
di essere davvero lui l’unico con dei problemi.
Guardò il cielo. Era sereno e
stellato. Sorrise. Kuruma, dopotutto, era perfettamente in grado di
fare un
ottimo lavoro, nonostante i corpi celesti mancanti. Aveva perso il
conto di
quanti giorni avevano trascorso in fuga. Doveva essere gennaio, o forse
già
l’inizio di febbraio. Dovendo stare costantemente
all’erta, schivando ogni
anima viva, era difficile e lungo il loro cammino.
“Questa
è tutta colpa tua, Rukbat! Se ci cercassero solo i
delinquenti, potremmo
rivolgerci alla polizia, chiedendo protezione. Ma tu sei ricercato da
tutte le
forze dell’ordine della Terra!” protestò
Scorpione, dando un calcio ad un
sassolino innocente.
“E
se voi non foste andati ad impegolarvi con la malavita, a
quest’ora potremmo
chiedere protezione a lei, essendo io una specie terrorista per i
mortali!”
rispose Sagittario, tirandogli in testa il fratello un po’
più grande del
sassolino innocente di prima “E ringrazia il fatto che ho
usato un sasso, e non
il lanciagranate che mi porto dietro”.
“Litigare
non giova a nessuno” sospirò Zhu, già
irritato dal fatto di dover camminare.
“A
me giova. Aiuta a non addormentarmi con il buio” furono le
parole di Deneb
Algiedi.
“Ma
voi siete tutti suonati!”.
“Parla
quello che va in giro fra i mortali con i capelli viola e spera di
passare
inosservato!” ridacchiò Sagittario, riferendosi
alla pettinatura di Maiale.
“Hei!
Non offendere l’Orientale che è venuto a prendermi
e pensa alla nana che si
deve occupare di te!” lo difese Scorpione.
“Ma…sono
sempre così?” domandò Bue a Capricorno.
“Quasi
sempre. Si odiano. E a me piace inserirmi nella conversazione tanto per
passare
il tempo”.
“Capisco…”.
“Voi
al palazzo Orientale non litigate mai?”.
“Non
in modo così vistoso”.
“Siete
dei repressi, insomma”.
“Questo
non è un problema tuo, anche se fosse!”.
“Vuoi
litigare pure tu con me?”.
Niu
e Deneb Algiedi si fissarono male per qualche istante, prima di
decidere che
era più divertente guardare Rukbat e Antares litigare, senza
fare fatica.
₪₪₪
“Fate
silenzio, sottoposti, e copiate lo schema!” sbottò
Kosmos, comodamente seduto
in modo decisamente poco consono sulla cattedra.
Con
i capelli legati e gli occhiali, aveva scoperto di non vederci un
granché da
vicino, aveva davvero un’aria da intellettuale.
Guardò in alto. L’aula era
tipicamente universitaria, con i tavolini minuscoli, le sedie scomode e
le
gradinate a scalare verso la lavagna. Le prime file erano
così in alto da
rimanere al buio. I ragazzi stavano ricopiando i tipi spettrali delle
sette
stelle usate convenzionalmente.
“Scusi,
Mintaka si trova nella costellazione di Orion?”
domandò uno studente.
“Sì.
Come Rigel e Betelgeuse. Aldebaran, Capella, Procione e Sirio, le altre
stelle
presenti nello schema, sono rispettivamente in Taurus, Auriga, Canis
Minor e
Canis Major” rispose Kosmos, come se saperlo fosse la cosa
più normale del
mondo.
Al
muro era appesa un’enorme mappa delle stelle. Kosmos si
stupiva di come le
conoscenze approfondite degli umani si limitassero alla loro galassia
ed alla
loro sfera celeste. Meglio così. Non aveva nemmeno aperto un
libro per passare
a punteggio massimo il concorso che lo aveva inserito fra il personale
della
facoltà di astrofisica e astronomia di Parigi. Aveva finto
di non notare gli
sguardi d’invidia di chi era più ignorante di lui,
ma del resto non poteva
proprio farci niente! Sorrise ripensando alla faccia di Hanne, quando
le aveva
detto che impiego si era procurato.
“Forse
sei davvero un dio” aveva commentato, ridendo “O
hai corrotto qualcuno…”.
Per
lei quel settore era impossibile e complicatissimo, mentre per Kosmos,
ovviamente, era tutto così semplice che doveva a stento
trattenere il suo
stupore davanti all’ignoranza mortale. Non voleva rivelare
loro niente di
nuovo, che scoprissero le cose da soli! Dopotutto lui non è
che non avesse
fatto fatica nel crearle tutte! Ammetteva di aver fatto un
po’ di confusione,
all’inizio, quando era bambino… Da quanto tempo
non pensava a quando era
bambino! Rimase quasi stupito nel ricordarsi. Era passata letteralmente
un’eternità! Ma ora si vedeva, o meglio vedeva
l’universo di pochi milioni di
anni, quando iniziavano a formarsi le prime forme celesti fra le masse
insensate. Lui era così piccolo…e anche Kuruma!
La ricordava, mentre ridendo
nuotava fra gli enormi ammassi di giovane materia. Quando ancora gli
sorrideva…quando ancora rideva felice! E il loro palazzo,
enorme agli occhi di
un bimbo e con tante stanze di cui non capì
l’utilità fino all’arrivo delle
costellazioni, in quei tempi era come un parco giochi.
L’intero universo era il
loro parco giochi! Solo quando iniziarono a crescere incominciarono a
stabilizzare le leggi che potevano governarlo, e la cosa si era fatta
molto
meno divertente. Specie dopo la venuta di altri esseri senzienti, non
solo
terrestri, perché i due Signori divennero per loro delle
entità misteriose e,
Kosmos lo ammetteva, avevano fatto sì che si montassero la
testa. Dalla venuta
dei mortali, fra Kosmos e Kuruma era cambiato tutto, dando inizio una
competizione assurda per il predominio sui vari pianeti con creature
viventi.
Sfide a chi era stato in grado di crearne di più e metterli
in condizione di
durare un periodo di tempo pressoché rilevante, scommesse su
chi dei due fosse
più venerato o considerato importante, litigi per stabilire
chi avesse generato
la cosa più bella. Crearono i procacciatori, gli uccelli che
vagavano per i
mondi in cerca di oggetti che dimostrassero all’avversario di
aver dato vita
alle creature perfette. Chiusi nelle loro torri, avevano iniziato ad
evitarsi e
considerarsi due entità opposte. Quando arrivò la
prima costellazione, Hamal, e
la prima creatura Orientale, Shu, il palazzo era già
nettamente diviso. Kuruma
fu entusiasta dell’arrivo di Topo, che accolse come piacevole
compagnia, così
come accolse a braccia aperte tutte le altre creature, sentendosi
tremendamente
sola da quando lei e Kosmos fingevano di ignorarsi. Kosmos, al
contrario, non
calcolò i nuovi arrivati fino a quando non furono
sufficientemente rumorosi da
rendere impossibile
fingere che non ci
fossero. Ricordava quando aveva udito una voce di donna,
dall’alto della torre,
ed era sceso a controllare chi potesse essere. Si stupì nel
vedere una
sconosciuta in mezzo al salone del piano superiore. Era confusa,
impaurita, e
coperta solamente da un piccolo velo splendente. Kosmos
pensò che, forse, era
uno scherzo del suo procacciatore. I due si erano guardati, senza
parlarsi, e
poi lui era tornato da dove era venuto, ignorando il fatto che Hamal lo
chiamasse. Dopo di lei erano arrivati Mekbuda, Aldebaran, Adhafera,
Acubens,
Antares e Rukbat. Kosmos continuò a fingere di non sentirli,
apparendo solo
raramente al di fuori della torre, più che altro per
verificare che non
stessero facendo danni. Credeva fossero mortali, portati lì
dal procacciatore
per fargli compagnia, ma con l’andar del tempo aveva capito
che non era così.
Nonostante questo, continuò ad ignorarli. Fu Sadalmelik a
farlo cambiare, anche
se solo leggermente. Lei arrivò assieme a Deneb Algiedi, Al
Risha, Astrea e
Zubeneschamali. Erano giunti tutti in gruppo e il casino che fece
Capricorno lo
costrinse a scendere dalla torre. Fecero silenzio, vedendolo comparire
sulla
porta del salone dove tutti si erano riuniti per salutare i nuovi
arrivati.
Sadalmelik fu la prima a parlare, sfidando quello sguardo infastidito e
la
soggezione che creava negli altri. Si inginocchiò e
chinò la testa, aprendo le
braccia.
“Io
un tempo facevo sì che la coppa degli Dèi della
mia gente non fosse mai vuota.
Quel tempo oramai è passato, alcuni Dèi sono qui
e altri sono svaniti per
sempre. Adesso il mio ruolo è diverso e sarà un
onore per me servire Voi,
Signore dello Zodiaco”.
Kosmos
rimase sconcertato da quelle parole e non seppe come rispondere. Scese
il
silenzio, in cui si udì un rumore simile a quello che si
può percepire in uno
zoo, proveniente dal palazzo Orientale.
“Signore
dello Zodiaco…” aveva ripetuto, senza capire
più di tanto.
Alzando
lo sguardo da quella donna prostrata, vide che anche gli altri presenti
si
stavano inginocchiando, con più o meno convinzione.
Sadalmelik aveva alzato gli
occhi ed aveva incrociato quelli azzurri del suo nuovo signore. Lui,
non
sapendo bene che fare, si era limitato a fare segno a tutti di alzarsi.
Non
aveva fatto alcun discorso né presentazione, ma da quel
giorno aveva trovato
meno fastidiosi quegli esseri. Tornando sulla torre e guardando lo
scettro
delle Ere, aveva capito che avrebbero potuto alleggerire i suoi compiti.
“Posso
chiederle a che ora riceve gli studenti?” si sentì
domandare, e fu costretto a
tornare bruscamente alla realtà.
L’aula
si stava svuotando, una volta finita la lezione. Solo un gruppetto di
studenti
era rimasto, fissandolo in attesa di una risposta.
“Devo
ancora organizzarmi con gli orari. Ve lo farò sapere
domani”.
“Grazie
mille”.
“Perché
volete vedermi dopo le lezioni? Non capite qualcosa?”.
“No,
è che vorremo sapere se è disposto a seguirci per
la tesi”.
“Proprio
io?”.
“Come
spiegate Voi, è molto più semplice rispetto ai
professori che abbiamo avuto
finora. Loro fan sembrare tutto impossibile mentre con Voi sembra la
cosa più
facile della Terra. Non ci mettete in soggezione come quegli strani
vecchi…”.
“Non
vi infastidisce il fatto che vi definisca miei sottoposti o cose del
genere?”.
“Tutti
i professori si ritengono superiori al mondo intero, almeno Voi lo
mostrate
chiaramente!”.
“Ho
capito” ridacchiò Kosmos “Ci vedremo nel
mio ufficio appena vi saprò dire
quando mi sarà possibile, anche se sappiate che questo
impiego è temporaneo. Io
sono qui per sostituire un collega che al momento è
all’estero per una ricerca.
A domani”.
Rientrando
a casa una frase spuntò nella mente del neoprofessore: lo
scettro e la chiave
erano sue creazioni, ma il palazzo no. Chi aveva costruito la casa dove
era
cresciuto? Perché in quindici miliardi di anni questa cosa
non se l’era mai chiesta?
Ebbe un attimo di smarrimento e panico. Era la prima volta che capiva
di non
avere tutte le risposte fra le mani.
₪₪₪
“Siamo
qui stasera con voi in un’edizione straordinaria e unica,
irripetibile, dei due
programmi che svelano interrogativi fondamentali per
l’umanità e indagano
nell’ignoto. Solo per stasera, gli studi di Voyager e Mistero
saranno in
comunicazione, in diretta ed in via eccezionale entrambi da Roma, per
rispondere alle mille domande che ormai sono nella testa di tutti: il
2012 è arrivato,
è davvero la fine? Noi crediamo di sì. Le Stelle
stanno cadendo. E ora ne
abbiamo le prove”.
Nello
studio di Voyager si fece buio, lasciando illuminata solo la scritta
senza
senso che campeggiava costantemente dietro il presentatore. Su entrambi
i canali
dei due programmi partirono i titoli di testa, il riassunto di
ciò che
avrebbero visto nel corso della puntata.
“Una
donna dice di aver visto lo Yeti per le strade di Manhattan: il
surriscaldamento globale sta scombinando le abitudini delle creature
immaginarie?” diceva Voyager, con tanto di immagini della
donna in questione e
di un termometro che segnava una temperatura sempre più alta.
“Da
sempre ci sono dei Misteri che ci accompagnano, da sempre
l’uomo è tormentato
da domande a cui non sa trovare risposta. Questa sera noi indagheremo
su una di
queste domande: perché c’è sempre un
calzino spaiato? E dove va il calzino
mancante?” era il primo servizio di Mistero.
“Dalle
profondità dello spazio, gli spiriti dei Templari ci
parlano: incredibili
testimonianze su cosa dicono” rispondeva Voyager con immagini
di birre, giostre
e risse in parlamento.
“I
truzzi: un mistero irrisolvibile su cui noi tenteremo di fare luce.
Perché sono
così idioti? E come si sono salvati dalla selezione
naturale? Come hanno fatto
a non estinguersi? Che l’essere umano sia destinato ad
evolversi in una
creatura sempre più stupida e dai pessimi gusti
musicali?”.
“L’immortalità
dei parlamentari. Da cosa dipende? Un’antica setta massonica
potrebbe aiutarci
a capire perché non si sono ancora sgretolati come vecchie
mummie. Che il Santo
Graal si trovi a casa del capo del governo?”.
“Cosa
si nasconde dietro la frase "uno, due, tre, stella"? Forse un antico
codice per aiutare gli extraterrestri a localizzarci?”.
“E
se il cielo ci cadesse in testa? Tutte le possibili
soluzioni”.
“Le
stelle stanno cadendo e una è qui con noi, nel nostro
studio, disposta a
rilasciarci un’intervista. Presto potrete conoscere Hamal, la
costellazione
dell’Ariete. Com'è giunta fino a qui? Chi la
manda? Qual è la sua missione?
Presto anche questo mistero verrà risolto”.
“Adhafera,
la costellazione del Leone, si è incarnata ed è
qui sulla Terra. Un oscuro
avvertimento da parte di civiltà superiori? È
venuta per sottometterci? Che
intenzioni ha? Lo scopriremo”.
“Perché
stanotte Berry ha sognato dei tacchini ballerini? Cosa significa per
l’umanità
un tale presagio? Che i tacchini siano la prossima specie dominante
sulla
Terra?”.
“Disastri
aerei, terremoti, tempeste impreviste e improvvise, stelle cadenti,
campi
magnetici stravolti e tempeste solari: che sta succedendo?
Perché ancora c’è
qualcuno al mondo che non crede alle nostre previsioni sul 2012?
Perché i
professori francesi e di francese si credono tutti degli
Dèi? E perché questo
in particolare si crede il Dio del cielo?”.
“I
maya avevano ragione o erano solo dei gran burloni, che verranno a
sfotterci
dall’oltretomba il 22 dicembre?”.
In
entrambi gli studi si fece buio e, dopo la pubblicità, le
trasmissioni
iniziarono. Dopo il servizio sullo yeti, sugli spiriti dei templari,
l’immortalità dei parlamentari e le soluzioni per
sopravvivere alla caduta del
cielo, Giacobbo era pronto ad intervistare la sua stella.
Allo
stesso tempo, Berry aveva concluso il servizio sui segnali
extraterrestri ed
era pronto a mostrare al mondo la costellazione che stava seduta in
studio.
Alle spalle di entrambi i presentatori apparve uno schermo gigante che
faceva
sì che si potessero vedere a vicenda.
“Ciao,
Hamal” salutò Adhafera, vedendo la sua collega.
Erano
state vestite entrambe in modo assurdo, per rendere più
“credibile” il fatto
che provenissero dalle profondità dello spazio.
“Allora,
Adhafera, è vero che per il mondo ce ne sono altre come
voi?” iniziò Giacobbo.
“Sì,
altri ed altre. Siamo i dodici segni zodiacali”.
“Su
quale pianeta siete nati?”.
“Su
questo. Poi, diventando stelle, ci siamo trasferite”.
Entrambe
le interviste proseguirono per ore, con tanto di telefonate da casa,
lettura di
e-mail e scoop immaginari sul ritrovamento del punto in cui erano
cadute, foto
di quando erano terrestri e lettere lasciate dalle loro famiglie
passate.
“Ricordate:
ce ne sono altre per il mondo. Cercate le stelle cadute!”.
“Pensate
a che mega desiderio possono esaudire per voi…”.
Leone
e Ariete si fissarono attraverso lo schermo, intuendo che si trovavano
nelle
mani di due pazzi. Però si sorrisero. Chissà
quali altri loro compagni le
avevano viste!
“Prima
di salutarci, un ultimo collegamento per queste due magnifiche
stelle”.
Le
costellazioni sospirarono, pronte all’ennesima cazzata.
Inaspettatamente, sullo
schermo apparve Kosmos, con l’aria da intellettuale,
comodamente seduto dietro
una scrivania.
“Kosmos!”
esclamarono entrambe le ragazze, in coro, lasciando stupiti perfino i
due
presentatori, probabilmente convinti di stare per mandare in onda
l’ennesimo
collegamento inutile.
“Buonasera,
bambine” le salutò lui, congiungendo i
polpastrelli di entrambe le mani davanti
alle labbra, rimaste leggermente azzurrognole.
“Sei
davvero tu?! Che piacere vederti. Mamma mia…hai un aspetto
orribile!” disse
Hamal, riferendosi ai capelli non più azzurri del suo
padrone, la mancanza
dell’armatura e di molte altre cose che lo rendevano una
delle creature più
belle del cielo, senza contare l’aria stanca e provata che
aveva l’uomo, dopo
mesi di acciacchi vari.
“Ah,
grazie!” sbottò Kosmos, storcendo la bocca ed
incrociando le braccia.
“Sei
mortale pure te?” domandò Adhafera.
“Da
quando avete smesso di darmi del Voi? Ad ogni modo, sì. Sono
mortale pure io”.
Le
due costellazioni parvero sconvolte a quella frase.
“Gli
altri stanno andando in Grecia. Lì Kuruma li
riporterà in cielo” spiegò Kosmos
“Se volete raggiungerli, vi conviene iniziare a
muovervi”.
“E
tu? Tu non torni in cielo?”.
“Per
me è tutto più complicato. Non lo so”.
Ariete
e Leone spalancarono gli occhi per un instante. Non avevano mai sentito
dire
“non lo so” dal loro Signore.
“Ma
come facciamo a tornare in cielo senza di te? Tu sei il nostro capo,
sei tu
quello che ci governa a regola l’universo, tu sei
indispensabile, lo hai sempre
detto!”.
“Mi
sbagliavo. Il cielo va avanti anche senza la mia guida. Kuruma
è perfettamente
in grado di gestire l’intero Universo e tutte voi
costellazioni. Voi non avete
bisogno di me”.
“Ma…Kosmos…”.
Le
costellazioni volevano iniziare a protestare ma il collegamento era
stato
interrotto, dopo l’inizio dell’ennesima crisi di
tosse dell'ex Signore
Occidentale.
Tutta
la conversazione fra i tre si era svolta nel linguaggio del palazzo al
centro
dell’universo, perciò nessuno ci aveva capito
nulla. Prontamente, però,
entrambi i programmi avevano iniziato a metterci dei sottotitoli a
casaccio.
Una
volta terminate le trasmissioni, le due costellazioni si ritrovarono e
si
guardarono, capendo subito di avere entrambe la stessa cosa in mente.
“Dobbiamo
raggiungere tutti gli altri. Il nostro posto è il
cielo” parlò per prima
Ariete.
“E
con Kosmos che facciamo?” domandò Leone.
“Troveremo
una soluzione. In dodici si ragiona meglio” sorrise Hamal ed
assieme tornarono
verso l’albergo, per preparare le poche cose che possedevano
e partire.
₪₪₪
Tigre
ridacchiò. Quella stupida trasmissione sugli alieni e le
stelle cadute era
andata in onda sulle reti italiane, che la sua televisione poteva
mostrare ma
non sui canali principali. Così facendo, Sadalmelik non
l’aveva incrociata e
non aveva corso il rischio di ricordare.
“Cosa
guardi, fratellone?” domandò Acquario, dalla
cucina.
“Niente
di particolare” rispose Hu, spaparanzato sul divano.
Era
quasi ora di cena e Tigre annusava l’aria, tentando di capire
cosa stesse
cucinando la “sorella”.
“Sai,
fratellone…a volte, guardando il cielo, ho come
l’impressione che potrei
trovare fra le stelle le risposte che cerco, le memorie che ho
perso”.
“Che
stupidata. Come possono dei puntini luccicosi darti delle
risposte?”.
“Sì,
è una cosa stupida, vero? Però, ci sono delle
sere in cui non riesco a staccare
gli occhi dai disegni che compongono, ricordandoli e
ammirandoli”.
“Fin
da bambina ti son sempre piaciute le stelle” cercò
di tagliar corto Tigre.
“Anche
a te?”.
“Anche
a me, cosa?”.
“Anche
a te son sempre piaciute le stelle?”.
“Non
come a te”.
“Le
guardavano mai assieme?”.
“Ogni
tanto”.
“Stanotte
le guardi con me?”.
Hu
rimase un attimo in silenzio e poi annuì. Dopo cena,
entrambi uscirono in
terrazza, ben coperti data la temperatura sotto lo zero. Uno accanto
all’altro,
guardarono il cielo.
“Sono
bellissime” mormorò Acquario, prendendo
sottobraccio il “fratello”.
Tigre
sussultò e la fissò. Ma perché le
aveva detto che era suo fratello?! Illuminata
dalla luna, con gli occhi risplendenti di stelle ed il sorriso di chi
ha la mente
persa nei sogni, trovava Sadalmelik estremamente bella. Le
accarezzò i capelli.
Non gli era mai successo prima. Tigre era sempre stato distante da
certi
sentimenti e sensazioni, eppure ora, in quel momento, non poteva
pensare ad
altro. Lei continuava a fissare le stelle, spiegandogli le
costellazioni che
riconosceva.
“Hei…”
mormorò lui, girandosi verso di lei ed abbracciandola
“Ti voglio bene” le
sussurrò.
Lei
si lasciò abbracciare, piuttosto confusa, e
contraccambiò l’abbraccio,
appoggiando la testa sulla spalla di colui che credeva fosse il
fratello. Si
sentiva protetta, desiderata e felice. Guardò Hu negli
occhi, sorridendogli.
“Quante
volte ti hanno detto che hai degli occhi bellissimi? Sembrano quelli di
un
gatto” gli disse.
“Miao”
rispose lui, senza lasciarla andare.
Sorrideva,
per la prima volta sinceramente. Scosse la testa. Non gli importava
più nulla
del cielo, delle costellazioni, della missione che aveva, di Kuruma o
di
qualsiasi altra cosa. Si avvicinò ancora di più e
la baciò, ripetendosi dentro
la testa che se ne fregava altamente se lei avesse ricordato la
verità o se si
fosse fatta una marea di inutili domande. Lei, inaspettatamente, non si
ribellò.
“Ora
capisco” mormorò, tornando ad appoggiarsi alla
spalla di Hu “Perché siamo qui
da soli, io e te. Io e te ci siamo sempre amati, ma fra fratelli non si
può,
vero? Perciò ci siamo nascosti qui, lontani da tutti,
distanti perfino dai
nostri stessi parenti. È perché ci siamo sempre
amati, vero?”.
“Sempre
amati?”.
“Sì.
Io ho come l’impressione di conoscerti da sempre. Come se io
fossi te e tu
fossi me. Da sempre. È così, vero?”.
Tigre
sorrise, affondando entrambe le mani nei lunghissimi capelli di
Sadalmelik.
Rimasero così alla luce della luna per un po’,
senza parlare.
“Mi
porterai a Parigi?” domandò lei.
“Farò
qualsiasi cosa vorrai” rispose lui, alzando gli occhi al
cielo e chiedendosi se
in quel momento Kuruma lo stesse sentendo.
₪₪₪
Shè
non fu fortunata come Tigre. Aldebaran riuscì a guardare il
programma con le
stelle cadute e l’effetto del veleno di Serpente
iniziò a non riuscire a tenere
a bada la mente di Toro.
“Che
significa?” domandò, dopo essere riuscito a
riorganizzarsi le idee.
“Che
significa? Che significa cosa?!” alzò un
sopracciglio Shè, senza capire cosa
fosse accaduto.
“Cosa
ci faccio qui? Chi sei tu?”.
“Che
domande fai, tesoruccio?”.
“Tesoruccio?!
Ti sei bevuta il cervello?!”.
“Ma…”.
“Niente
ma! Rispondimi!”.
“Io…”.
“Ricordo
la mostra di quadri e poi…poi che è successo? Che
mi hai fatto?!”.
“Niente!”.
“Come
niente?! E cosa ci faccio qui? Io dovevo andare a Roma!”.
“Per
fare cosa? Non stai bene qui? In una bella casa, la
possibilità di fare il
lavoro che ti piace, senza preoccupazioni e…”.
“Starò
anche bene, lo ammetto, ma questo non è il mio posto! Il mio
posto è fra le
stelle, assieme ai miei compagni”.
“Ad
annoiarti? Non hai mai pensato che non fosse un granché
quella vita?”.
“Non
credo che questi siano affari suoi”.
“Ma
prova a riflettere. Non sei entusiasta dell’idea di poter
mettere in mostra e
vendere i tuoi capolavori? Non fa parte di quel mucchio di cose che hai
sempre
sognato e non hai mai potuto fare? Vale davvero la pena?”.
“Ma…il
mio posto non è qui”.
“Cosa
ne sai di qual è il tuo posto? Il tuo destino non
è scritto, lo crei tu!”.
Aldebaran
non rispose. Si fermò un attimo a riflettere. Quella donna,
nonostante fosse
una sottoposta di Kuruma, forse non aveva tutti i torti. In tutta la
sua vita
era sempre stato al servizio di ciò che gli altri
desideravano, senza mai
seguire i suoi veri sogni. Alla fine aveva sempre desiderato essere
apprezzato
per quel che faceva. Era stato scelto da Zeus per sedurre Europa ma
poi, una
volta ottenuto ciò che voleva, l’aveva tramutato
in costellazione. Non l’aveva
mai voluto. Una volta giunto al palazzo Occidentale, in forma umana per
la
prima volta, aveva scoperto le sue doti artistiche ma, oltre ai suoi
colleghi,
nessuno poteva ammirarlo. Le altre stelle non erano molte e questo
restringeva
il campo di chi avrebbe potuto apprezzare le sue creazioni. Si scosse.
“Io
sono Aldebaran. Sono una costellazione e devo tornare al mio posto, che
questo
mi piaccia oppure no”.
“Non
pensi mai a ciò che desideri realmente?”.
“Non
ha importanza. Se scegliessi di restare qui, mi sentirei in colpa per
sempre
perché avrei abbandonato il mio lavoro e le mie
responsabilità”.
“E
non avresti rimpianti?”.
“Questa
è una questione di minore importanza”.
“Non
direi. È la tua vita. Ti fa così
schifo?”.
“Non
ho mai detto questo. Hai sentito cosa ha detto il mio capo Kosmos per
televisione? Stanno andando tutti in Grecia ed è
là che io andrò”.
“Mi
sforzo di capirti, ma non ci riesco”.
“Non
è necessario che tu mi capisca”.
“E
come credi di poterci arrivare? Sei solo, senza
poteri…”.
“Venderò
i miei dipinti”.
“Sei
ottimista…senza il mio aiuto, non hai alcuna
speranza”.
“Chiudi
la bocca, viscido serpente!”.
Shè,
offesa da quelle parole, sibilò. Quell’insulso
mortale osava offenderla!
Spalancò la bocca, mostrando i denti aguzzi.
“Che
c’è? Vuoi batterti, per caso? Sono più
grosso di te, rettile!”.
“Ma
sei senza alcuna forma magica, sciocco e ciccione di un mammifero. Ti
sconfiggerò in un attimo, senza alcun problema”.
Toro
non le rispose ma strinse i pugni, con sfida.
“Tu
non sai combattere, Aldebaran!” ridacchiò
Shè.
“Scopri
se è davvero così”.
₪₪₪
Forse
non era quello il metodo giusto, stava iniziando a dirsi Ma, Cavallo,
osservando da lontano Mek. I due fratelli continuavano a mostrarsi
più testardi
del previsto. Convincerli ad andare d’accordi di nuovo e
muoversi verso la
Grecia sembrava davvero una missione impossibile. Buda trascorreva le
sue
giornate fra insegnamenti e surf, mentre Mek era quasi sempre ubriaco e
passava
da una festa all’altra con entusiasmo insensato. Cavallo non
sapeva che cosa
fare. Più volte aveva tentato di farli incontrare, senza
successo, e ora
l’unica idea che gli veniva in mente era tramortirli e
trascinarli in Grecia,
ma non aveva sufficiente magia per fare una cosa del genere.
Pensò che non
fosse giusto che proprio a lui toccasse stare dietro a due creature,
per giunta
così antipatiche.
Mek
lo fissò. A volte lo riconosceva e altre volte no. In quel
caso lo riconobbe e
gli fece il dito medio, mostrando la lingua. Cavallo sbuffò.
Desiderava tanto
spaccargli la faccia!
“Fottiti,
stronzo” mormorò, ripetendosi che avrebbe avuto
occasione per vendicarsi.
Il
gemello biondo era seguito dal branco di umani scemi che lo avevano
trovato
che, pendendo dalle sue labbra, facevano tutto quello che la
costellazione
caduta diceva. Andavano verso la spiaggia. Cavallo sorrise. Anche Buda
era in
spiaggia e Mek sembrava abbastanza sobrio da affrontare una
conversazione
intelligente. Come mai era in California? Forse gli umani scemi
cercavano di
farli ricongiungere…forse non erano così tanto
scemi, dopotutto. Buda,
spaparanzato comodamente sotto un ombrellone, con occhiali da sole e
bibita
ghiacciata, ignorava temporaneamente il suo allievo che era a caccia di
belle
ragazze. Mek, senza pensarci, corse verso il mare, ridendo. Buda
riconobbe
quella risata ed alzò gli occhiali, notando il gemello
biondo fra le onde. Non
disse nulla, non trovandolo necessario.
“Non
sai nuotare, coglione” borbottò, tornando a
mettersi gli occhiali scuri e
ricominciando a sonnecchiare pacifico.
Mek,
schizzando gli umani che lo seguivano, era felice. Si sentiva libero e
senza
pensieri, cosa che non gli dispiaceva per niente. Passarono parecchie
ore prima
che si decidesse ad uscire dall’acqua. Scuotendosi i capelli
con l’asciugamano,
udì una voce familiare.
“È
ora di rientrare. Fra poco il sole tramonterà”
diceva.
Era
Buda, rivolto al suo giovane allievo, piuttosto ustionato
perché non era da
macho mettersi la crema protettiva. Mek rimase immobile a guardare
entrambi. Lo
infastidiva vedere come suo fratello fingesse di essere sempre il serio
e il
giudizioso della situazione. Non sapeva divertirsi e per questo era
tremendamente frustrato e scassacazzi. Buda alzò gli occhi e
gli sguardi dei
gemelli si incrociarono. Mek lo fissò con sufficienza e Buda
finse di averlo
notato solo in quel momento.
“Che
fai? Mi pedini?” sbottò Mek.
“Direi
il contrario. Io vengo in questa spiaggia da mesi” rispose
Buda.
“Se
lo avessi saputo prima, di certo non ci avrei messo piede!”.
“Poverino.
Hai paura che ti sgridi?”.
“Ti
senti tanto superiore? Guarda che ero io il gemello immortale, non
tu!”.
“La
cosa non mi ha mai suscitato alcun interesse. E poi ora siamo mortali
entrambi.
L’unico modo che hai per essere di nuovo immortale e tornare
fra le stelle”.
“E
chi ti dice che io non voglia farlo?”.
“Fai
pure. Ma credo che saresti già in viaggio, dato che sono
sicuro che Cavallo sia
venuto anche da te per convincerti ad andare in Grecia. Io credo che,
come
sempre, tu stia cazzeggiando a vanvera”.
“Io
non sto cazzeggiando a vanvera!”.
“E
allora cosa stai facendo? Sentiamo…”.
“I
cazzi miei, ecco cosa sto facendo!”.
“Buon
per te”.
Mek
incrociò le braccia e fece segno agli umani amanti degli
alieni di seguirlo.
Buda scosse il capo, finendo di chiudere l’ombrellone e
raccogliendo le sue
cose. Assieme al suo allievo, si avviò lungo il sentierino
che portava fuori
dalla spiaggia.
“Adesso
pure mi segui?” gli gridò contro Mek, di poco
più avanti.
“Devo
tornare a casa pure io. Non me ne frega niente di ciò che
fai tu e dove sei
diretto”.
“Lasciami
in pace! Vattene! Io non ho bisogno di te!”.
“Ma
fai quello che ti pare, paranoico! L’America è
grande, sai? Possiamo benissimo
evitare di incontrarci, basta un pizzico di organizzazione”.
“Basta
solo che tu mi lasci in pace, chiaro?”.
“E
chi ti vuole?! Vai per la tua strada, starò meglio senza di
te”.
“Pure
io”.
“Almeno
su una cosa siamo d’accordo”.
Mek
avanzava camminando all’indietro, per non dare le spalle a
colui che vedeva
come uno spione rompiscatole che avrebbe potuto fargli
chissà che cosa se si
fosse girato. Così facendo, però, Buda era molto
più veloce e non faceva altro
che accentuare la sua paranoia.
“Lo
vedi che mi stai seguendo?!”.
“Quello
su cui sei, gambero ossigenato, è il sentiero più
vicino che porta fuori dalla
spiaggia. Non ho certo intenzione di fare più strada per
te!”.
“Io
sto bene senza di te, chiaro? Non mi servi, e non ti devi preoccupare
per me”.
“E
chi si preoccupa? Sei grande abbastanza per fare quello che ti
pare”.
Ora
Mek era uscito dal litorale ed era sul marciapiede, sempre continuando
a
camminare all’indietro.
“Faresti
meglio a fermarti” suggerì Buda.
“E
perché dovrei?”.
“Sarebbe
una cosa intelligente”.
“Tieni
per te le cose intelligenti, io scelgo quelle divertenti. Io sto bene,
chiaro?
Bene! Benissimo!!” gridò Mek, pochi secondi prima
di essere investito da un
camion.
₪₪₪
Astrea
guardò la cartina con aria interrogativa. Non era mai stata
pratica di cose del
genere. Il suo obbiettivo era l’Olimpo, antica dimora degli
Dèi di cui lei
stessa faceva parte. Era certa che lassù avrebbe trovato
delle risposte. Il suo
posto era il cielo e voleva sapere se c’era un modo per
tornarci. Inoltre,
Gallo continuava a seguirla ed aveva bisogno di un posto sicuro. Quel
monte lo
conosceva sufficientemente bene da potersi sentire in grado di
sopravvivergli.
Di certo avrebbe trovato un luogo diverso da come lo ricordava, avendo
gli
esseri umani modificato la maggior parte dei paesaggi che fin ora aveva
incrociato, ma di sicuro non avevano spianato una montagna!
Evitava paesi e centri
abitati, per non creare
problemi alla gente che ci abitava, essendo Gallo decisamente poco
controllabile. Dormiva dove capitava e mangiava quello che trovava.
Vide
il monte, dalla base piuttosto larga, come sempre con la cima coperta
da un fitto
strato di nubi. Si chiese se davvero era in grado di arrivare fino alla
sommità. Guardò in su e decise che almeno un
tentativo doveva farlo.
“Devo
stare attenta a non farmi male, o rischio di ritrovarmi in un grosso
guaio” si
disse, guardando bene dove metteva i piedi.
Dopo
qualche giorno di cammino, si ritrovò davanti a quello che
sembrava un rifugio
abbandonato. Era piuttosto malconcio, ma lei era certa di riuscire a
dargli
un’aria decente, o perlomeno stabile. Vi entrò con
cautela. Le ragnatele erano
ovunque e l’aria era densa di polvere e muffa.
Spalancò tutte le finestre. Non
era malaccio come posto. C’era una stanza con un paio di
sedie ed un tavolino,
in legno malconcio e tarlato, e altre due stanzette. Una con il bagno e
l’altra
con quella che aveva l’aria di una brandina dove ci aveva
dormito un esercito
almeno un secolo prima. In una cassa di metallo ruggine
trovò degli attrezzi,
ruggini anch’essi ma non del tutto inutilizzabili. Il
pavimento scricchiolava
ed il tetto era pieno di buchi, le finestre spaccate e di certo
l’acqua
corrente e l’elettricità mancavano. Astrea non si
creò problemi al riguardo.
Non aveva mai amato l’elettricità e il fiume era
poco distante. Il gas per
cucinare non le serviva, fare il fuoco non era mai stato un atto
così complicato
per lei. Sarebbe sopravvissuta benissimo. Sorrise. La cima non era
lontana e
avrebbe potuto sistemarsi e riposare qualche giorno lì
dentro, senza dare
fastidio a nessuno, bastava dare una pulita.
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Capitolo 8 *** 7 ***
VIII
“Non
mi piace fare del male alle donne!” sbottò
Aldebaran.
“Io
sono un rettile, ricordi?” sibilò Shè,
schivando tutti i colpi dell’avversario
senza alcun problema.
“Perché
Kuruma ci vuole morti?”.
“Non
è Kuruma a volervi morti. Sono io a volere questo”.
Toro,
senza capire, tentava di colpirla ma senza risultato. Serpente aveva
ragione:
era troppo lento per sperare di sconfiggerla, specie perché
lei era carica di
magia.
“Io
non ti ho mai fatto del male, come nessuno dei miei compagni, da quel
che ne
so. Perché vuoi ucciderci?”.
“Non
devi necessariamente aver fatto del male a qualcuno per aver qualcuno
che
desidera ucciderti. La verità è che voi pomposi
Occidentali pensate di avere
tutte le risposte e il potere, ignorando noi che abbiamo altrettanti
diritti”.
“Io
non vi ho mai considerato inferiori. Credo, anzi, che finiremo per
distruggerci
a vicenda se non la smettiamo di combattere fra noi, Occidentali contro
Orientali. Proviamo a collaborare. Dopotutto il cielo è di
entrambe le fazioni,
no?”.
“Che
bel discorso, Aldebaran. Peccato che ormai sia tardi, non
trovi?”.
“In
che senso?”.
“La
mia padrona è da sola a governare l’universo e,
come avrai potuto notare, non
le riesce particolarmente bene. Il potere richiesto per fare una cosa
del
genere è troppo grande e, senza il supporto di noi creature
Orientali, è
destinata a soccombere. Ormai è tardi per rimediare. Era
tempo che tutto
finisse, evidentemente”.
“E
allora perché vuoi uccidermi, se per te è tutto
finito?”.
“Meglio
non correre rischi inutili. E poi ho voglia di divertirmi un
pochino”.
Toro
parò un colpo di Serpente ribaltando il grosso tavolo e
nascondendocisi dietro.
Quella donna era velocissima, velenosa e piena di rabbia insensata. Le
tirò una
sedia, che lei schivò, e smise di tentare di farla
ragionare. Era impossibile.
L’aveva messo all’angolo, senza
possibilità di fuga, e si apprestava a dargli
il colpo di grazia, quando il campanello suonò. Distratta ed
infastidita da
quel suono, Shè scosse la testa e Aldebaran ne
approfittò per uscire
all’aperto. Davanti all’enorme cancello della sua
nuova casa, stava Mikael, con
il sorriso di chi moriva dalla voglia di mangiare qualche biscotto a
sbaffo.
“Ciao,
amico. Son venuto a trovarti” salutò, non capendo
perché Aldebaran stesse
correndo verso di lui con tanta foga.
Mikael
ridacchiò. Il suo amico era piuttosto rotondetto, ridicolo
quando correva.
Smise di ridere quando vide uscire Shè furiosa, con un
grosso vaso fra le mani.
“Hem…è
un brutto momento?” balbettò l’ospite.
“Non
sono mai stato così contento di vederti, Miky! Sei in
macchina?” gridò Toro,
raggiungendo il cancello e tentando di aprirlo il più in
fretta possibile.
“Certo
che sono in macchina ma…perché? Cosa
succede?”.
“Portami
lontano di qui, poi ti spiegherò ogni cosa”.
Mikael
annuì, mentre Toro correva verso la macchina. Girandosi vide
Shè che, dopo aver
sfiorato Aldebaran con il vaso appena tirato, lo fissava con
inquietanti occhi
luminosi.
“Dove
credi di andare, insulso mortale? Non puoi sfuggirmi!”
gridò la rettile.
“Corri
più in fretta che puoi” ordinò Toro a
Mikael, che schiacciò profondamente
l’acceleratore e si mise a correre.
“Qualche
idea su dove andare?” domandò.
“Intanto
corri”.
“È
a piedi. Non può raggiungerci”.
“Guarda
dietro di te. Direi che non è a piedi!”.
Mikael
guardò nello specchietto. Serpente li stava inseguendo a
tutta velocità sulla
sua auto sportiva, che l’irlandese trovava stupenda.
Rabbrividiva all’idea che
si potesse rovinare. Evidentemente quella donna non aveva alcun
rispetto per
quel genere di macchine!
“Non
riuscirò mai a seminarla!” protestò
Mikael “Hai visto che razza di macchina
ha?! La mia è uno scassone imbarazzante!”.
“Tu
corri. Mi verrà in mente qualcosa…”.
“Spero
in fretta, grazie”.
Correndo,
avevano raggiunto la città vicina e ora zigzagavano fra le
vie trafficate.
“Giuro
che se mi gioco la patente per colpa tua e della tua amichetta, te la
farò
pagare” sbottò Mikael, ignorando un semaforo rosso.
Aveva
capito che preferiva tentare ogni mezzo possibile per non essere
colpito da
Shè, che giocava al tiro al piattello con una pistola che
teneva in macchina.
L’auto sportiva di lei era capottabile e le rendeva
più facile usare l’arma.
“Senti,
da che stato vieni?” domandò Mikael ad Aldebaran,
fra un’imprecazione ed
un’altra.
“Te
l’ho già spiegato da dove
vengo…”.
“Bello,
dubito che esista l’ambasciata intergalattica
perciò vedi di ricordarti in
quale stato terrestre sei nato!”.
“Dove
sono nato? In Grecia…”.
“In
Grecia? Benissimo. Forse so come salvarci le chiappe”.
“Ma…questo
paese non ha un aeroporto?”.
“Mi
stai chiedendo se Dublino ha un aeroporto? Scherzi, vero?! Certo che ce
l’ha, e
non è un paese ma una grande città”.
“Allora
non puoi portarmi là?”.
“E
a che scopo? Credi che per salire su un aereo ci vogliano pochi minuti?
Fidati
di me, ho un’idea. Reggiti, sto per fare una
cazzata”.
Aldebaran
si resse mentre Mikael girava la macchina con il freno a mano e
prendeva una
stradina che affiancava un parco.
“Dove
stai andando?”.
“Al
consolato greco. Lì dovresti essere al sicuro”.
“E
tu?”.
“Vuole
uccidere te, se non sbaglio. Io sono solo il povero coglione di
passaggio che
resta coinvolto negli inutili casini degli altri!”.
L’edifico
con la bandiera greca si mostrò davanti a loro.
“Tu
entra, alla svelta, io arrivo subito” ordinò
l’irlandese, facendo scendere Toro
al volo, che si precipitò lungo le scale.
Fu
fatto entrare in tutta fretta, quando notarono la donna con la pistola
sbucare
da dietro l’angolo.
“Vogliono
uccidermi” ansimò Aldebaran, entrando.
“Siete
un cittadino greco?”.
“Sono
nato là” rispose, in greco.
“Allora
è nel posto giusto” lo rassicurò un
uomo.
Fuori
intanto era in corso una sparatoria fra guardie, Shè e
passanti ubriachi.
La
tasca di Aldebaran vibrò e lui sobbalzò. Mikael
doveva avergli infilato il
cellulare nei pantaloni.
“Pronto?”
rispose.
L’irlandese
gli ordinò di ascoltarlo per bene e di stare attento. Gli
fornì tutta una serie
di dati e poi buttò giù, probabilmente desideroso
di allontanarsi dagli spari.
“Può
fornirmi qualche dato, signor…?” iniziò
l’uomo alla scrivania, davanti al
computer.
“Dato?”.
“Come
si chiama, dove è nato…per accertarci che
è compito nostro occuparci di lei”.
Aldebaran
intuì al volo che doveva ripetere i dati che Mikael gli
aveva fornito,
specificando che, nella fuga, aveva perso i documenti. L’uomo
annuì e sorrise.
“Bene.
Ora immagino voglia essere rimpatriato”.
“In
Grecia? Assolutamente. Non voglio rischiare uno sparo in
testa!”.
Mentre
in tutto il mondo si diffondeva la notizia di un incidente diplomatico
fra
Irlanda e Grecia, Aldebaran richiamava Mikael per ringraziarlo.
“Di
niente” ridacchiò l’irlandese.
“Ma
come hai fatto?”.
“Diciamo
che al computer me la cavo”.
“Grazie”.
Dopo
che pure l’esercito irlandese fu intervenuto per sedare la
donna, che rinacque
un paio di volte ma poi sparì in modo definitivo, le acque
si fecero
sufficientemente tranquille perché l’auto con
bandiera greca si avviasse verso
l’aeroporto. Aldebaran intravide Mikael, preso
dall’entusiasmo e facente parte
del gruppo di curiosi che intonava cori da stadio a vanvera.
L’irlandese guardò
dentro l’auto e, nonostante i vetri oscurati, fece segno con
la mano all’amico
di tenersi in contatto, seguito dal simbolo molto simile del metal.
₪₪₪
“Sei
pronta?” domandò Hamal.
“Prontissima”
rispose Adhafera, con la piccola valigia accanto.
Presero
l’autobus che le condusse all’aeroporto e si misero
in coda per prendere i
biglietti per la Grecia. Nel frattempo persero tempo chiacchierando del
più e
del meno. Quando fu il loro turno, Adhafera si fece avanti, con i soldi
fra le
mani, gentile “omaggio” di Giacobbo e Berry.
“Posso
avere un vostro documento, prego?” domandò la
donna dietro al bancone.
“Un
documento?”.
“Sì.
La carta d’identità”.
“Noi
non l’abbiamo…”
“La
patente? Il libretto sanitario?”.
“No…”.
“Non
posso farvi il biglietto senza un documento!”.
“Chiedo
scusa, mia sorella è un po’ sbadata” si
intromise una voce maschile, che
allungò verso la donna un pezzetto di carta bianca
“Si era dimenticata che i
documenti di tutti li ho io”.
Come
se il foglio fosse una carta d’identità, la donna
copiò i dati e fece i
biglietti. Leone ed Ariete si fissarono, piuttosto perplesse. Una volta
fuori
dalla coda, l’uomo sconosciuto porse loro la carta
d’imbarco, come se niente
fosse.
“Ma
tu chi sei?” domandò Adhafera.
“Sei
il cameriere dell’albergo” rispose Hamal,
guardandolo meglio da sotto il
cappuccio della felpa.
L’uomo
sorrise, mostrando i capelli variopinti.
“Come
hai fatto?” riprese Leone “Sei una specie di
prestigiatore?”.
“No.
Sono Long, Drago, della cerchia di Kuruma. E sono qui per riportarvi a
casa. Vi
accompagnerò in Grecia, dove si stanno dirigendo
tutti”.
“Drago?!
Quello i cui poteri hanno fatto sì che il nostro Signore
cadesse?”.
“Quello
il cui anno attuale è dedicato. Andiamo? L’aereo
parte fra qualche ora,
mangiate qualcosa prima e state tranquille”.
“Davvero
sei qui per aiutarci?”.
“Se
volete farvela tutta a piedi fino in Grecia, fate pure! Ma vi avviso
che non
sarà una cosa semplice, bellezze. Altrimenti finitela di
fare le sospettose e
seguitemi”.
“Sei
molto fashion con quei capelli” si limitò a dire
Hamal, partendo per i
distributori di schifezze zuccherose che aveva visto.
Drago
la guardò allontanarsi, mentre Leone le diceva che loro
sarebbero rimasti lì,
nella zona d’attesa per la chiamata d’imbarco.
“Come
posso fidarmi di te?” domandò a Long la
sospettosissima Adhafera.
“Non
hai l’obbligo di farlo, ma io ti devo portare in Grecia. O
meglio, io dovrei
portare Hamal, mentre di te dovrebbe occuparsi Scimmia, ma non so dove
sia
andata a finire e, dato che detesto le perdite di tempo, penso io ad
entrambe”.
“Capisco…”
borbottò Leone, per niente convinta.
Nel
frattempo, Ariete litigava con una banconota da cinque euro,
perché si
rifiutava di farsi accettare dal distributore di bibite e merendine.
“Serve
una mano?” domandò una donna.
“Ho
fame, e questo affare non accetta i miei soldi!”.
“Lascia,
ci penso io” la rassicurò la giovane,
avvicinandosi.
Ariete
non si voltò nemmeno e fu un errore, perché la
donna la tramortì e in un baleno
la portò fuori dall’aeroporto, usando i suoi
poteri magici per non farsi
notare.
“Dov’è
andata a finire la tua amichetta?” sbottò Drago,
dopo un quarto d’ora
abbondante.
“Sarà
andata in bagno” rispose Leone, sfogliando giornaletti
scandalistici.
“Vado
a cercarla”.
“E
se è in bagno cosa credi di fare? Entrare nel cesso delle
donne schermandoti
con la magia? Nemmeno con tutta la tua forza potresti far credere a
qualcuno
che quei baffi da saggio cinese siano quelli di una femmina!”.
“Allora
va tu a vedere dov’è! Fra poco chiameranno il
nostro volo!”.
Adhafera
sospirò ed obbedì. Dopo averla cercata a lungo
entrambi, arrivarono alla
conclusione che era sparita.
“Deve
centrare qualcosa quella pazza di Scimmia” azzardò
Long.
“In
che senso? Lei non era d’accordo di farci tornare in
Grecia?”.
“Non
esattamente. Spero non le abbia fatto del male…”.
“Dobbiamo
trovarla!”.
“Posso
localizzare la mia collega”.
Drago
chiuse gli occhi e la cercò. La trovò a fatica,
perché stava usando la magia
per nascondersi.
“Hamal
è con Hòu. È svenuta ma mi sembra stia
bene”.
“Dove
si trovano?”.
“Su
un taxi. Non posso sapere dove sono dirette”.
“Cosa
facciamo?”.
“Tu
devi andare in Grecia. Non ti preoccupare, gli altri miei colleghi ti
troveranno e ti riunirai alle altre costellazioni”.
“E
tu vai a prendere Hamal? Da solo?”.
“Certo!”.
“Non
ti serve una mano?”.
“Anche
se fosse, tu sei senza alcun potere magico. Non potresti far nulla
contro Hòu.
Fidati di me, riporterò Ariete sana e salva fra di
voi”.
“Come
posso fidarmi di uno degli schiavetti di Kuruma? Scimmia è
una tua compagna e
di certo, se dovessi scegliere fra lei e la mia amica, sceglieresti
lei”.
“Senti…se
non ti fidi di me, allora vai in Grecia, trova chiunque dei tuoi o dei
miei e
avvisali su cosa sta succedendo. Ma, per carità, sali su
quell’aereo e vai ad
Atene!”.
Leone
ci pensò un attimo e poi annuì.
“Dove
li trovo gli altri miei compagni?”.
“Astrea
è sul monte Olimpo, in un rifugio abbandonato. Toro
è in viaggio, anche se non
so dove atterrerà. Altri sono vicini allo stato dove sei
diretta. Li troverai”.
“Ci
rivediamo presto allora”.
“Lo
spero”.
I
due si separarono, nonostante Leone fosse piuttosto preoccupata e per
niente
convinta che quell’essere dai capelli bicolore potesse
effettivamente aiutare
la sua collega. Si appoggiò una mano sul collo. Ultimamente
le faceva male ed
il respiro le mancava.
Dopo
aver preso a sua volta un taxi, Drago usò al massimo le sue
capacità per
rintracciare Scimmia. Roma, purtroppo per lui, aveva moltissime strade
e dare
indicazioni all’autista si mostrò molto
più difficile del previsto. Quando
finalmente il mezzo della fuggitiva si arrestò, Drago
balzò sul sedile,
indicando con il dito la direzione da prendere e sbraitando insulti al
cielo.
Il tassista preferì non fare domande e si
apprestò a raggiungere il luogo
indicato, per liberarsi di quel pazzo scatenato. Drago scese al volo e
si mise
a correre. Scimmia aveva portato Ariete alla fontana di Trevi, dove
l’aveva
fatta sedere, ridacchiando e dicendo a tutti che era un po’
ubriaca.
“Dannato
primate pulcioso!” le gridò Drago,
dall’altra parte della grata che divideva la
strada dalla fontana.
“Ciao,
irascibile animale immaginario” sorrise Hòu.
“Te
lo faccio vedere io quanto sono immaginario” rispose Drago,
scendendo i pochi
scalini che lo portavano a dove le due donne stavano.
“Che
hai intenzione di fare? Sei in mezzo alla gente…”
sorrise Scimmia.
“E
tu che intenzioni hai? Vuoi mangiartela? Dove intendi
nasconderla?”.
“Mi
basta tenerla lontana dai suoi amichetti. Non è difficile,
dato che è senza
forza magica. La controllo perfettamente”.
“E
chi ti dice che io non possa usare la stessa magia per fare in modo che
nessuno
di loro veda cosa ho intenzione di farti?”.
“Non
puoi farmi del male. Kuruma non lo gradirebbe”.
“Sei
pronta a scommettere?”.
Scimmia
storse il naso, forse notando lo sguardo irato del suo collega.
Lasciò andare
Ariete, che si appoggio al marmo della fontana, ancora confusa ed
incapace di
reagire, e si mise a correre. Drago non la fece allontanare e la
inseguì. I
loro salti e le loro mosse ai turisti sembrarono una nuova idea per
attirare la
folla ed applaudirono, specie perché non erano in grado di
capire che si
stavano facendo del male per davvero. Balzando in aria, saltando fra i
muri,
erano seguiti da un gruppo sempre più nutrito di persone
curiose ed estasiate
da ciò che stavano guardando. Non si allarmarono nemmeno
quando Long iniziò a
sputare fuoco.
“Sono
troppo veloce per te, baffone!” ridacchiò Scimmia.
“Staremo
a vedere!” ringhiò Drago, lanciando
un’altra fiammata, che colpì un palazzo.
“Stai
attento, rischi di perdere la forma umana!”.
“Pensa
per te, so badare a me stesso!”.
Scimmia
mostrò la lingua e saltò, passando da una
terrazza a quella che si trovava nel
palazzo di fronte, una cosa che nessun umano sarebbe mai stato capace
di fare.
La folla applaudì. Hòu fece un piccolo inchino,
rimanendo appesa con una mano.
Drago ne approfittò per scattare verso Hamal. La
afferrò fra le braccia e si
sollevò da terra, ignorando il fatto che i terrestri lo
trovassero strano. Con
suo grande sollievo, per i turisti faceva tutto parte dello spettacolo.
Si
chiesero che trucco usasse ed applaudirono di nuovo, mentre Long
prendeva quota
rapidamente.
“Torna
subito qui!” gridò scimmia, non potendo volare
avendo la magia derivante
dall’animale che era stata.
Ma
poteva saltare molto in alto… Ghignando, prese la rincorsa
e, ruotando sulla
sbarra di un terrazzino, si sollevò di parecchi metri,
arrivando ad agganciarsi
alle gambe di Drago. Long si dimenò, sapendo di non poter
tenere tutti e tre in
aria. Hamal, ormai del tutto ripresa, tenendosi stretta alle spalle di
Drago,
lanciò un calcione sulla faccia di Scimmia, che non
poté far altro che lasciar
andare la presa. Atterrò agilmente su un tetto.
“Non
mi sfuggirai, esibizionista!” minacciò, mente Long
si allontanava in fretta.
“Cosa
pensi di fare per seminarla?” domandò Ariete, un
po’ inquietata a guardare giù.
“Basta
prendere il mare. Voglio proprio vedere su cosa salterà, in
mezzo all’acqua!”
rise Drago, seguendo il corso del Tevere ed arrivando al mare
“Ora ci basterà
circumnavigare la penisola dalla parte sud ed arriveremo in
Grecia” spiegò.
“E
Adhafera?”.
“È
già in viaggio. Ci ritroveremo là”.
Ariete
rise, cominciando a trovare divertente il fatto di volare sul mare. Il
vento le
muoveva i capelli e faceva librare i lunghi baffi di Long in un modo
che lei
trovò davvero buffo.
“Sei
un grande, Drago. Com’è che non siamo mai
diventati amici?”.
“Forse
lo diventeremo, una volta tornati a casa”.
“Non
vedo l’ora!”.
₪₪₪
“Non
puoi fare niente per lui, stramaledetto equino?”
gridò Buda, fuori dalla stanza
d’ospedale dove Mek era stato ricoverato.
“Non
parlarmi in questo modo, tanto per iniziare…”
sbuffò Cavallo “…e abbassa la
voce”.
“Perché?!
Qui son tutti in coma! Cosa gli cambia anche se grido?!”.
“Buda,
calmati! Posso aiutarvi”.
“Puoi
farlo svegliare?” spalancò gli occhi Buda.
“Certo.
Per chi mi hai preso, per un cavallo qualsiasi? Io sono Ma, il mitico
Cavallo
Orientale, il settimo giunto al palazzo! Posso svegliarlo dal coma
irreversibile ma prima devo sapere una cosa: avete intenzione di
tornare in
cielo? Intendo dire...se lo salvo, poi verrete con me in
Grecia?”.
“Se
gli salvi la vita, io verrò ovunque vorrai, anche fra le
fauci di Cerbero in
Ade!”.
“Che
esagerazione…ad ogni modo, mi basta. Immagino che vada bene
anche se c’è uno
solo di voi a controllare la costellazione”.
“Ora
però fallo svegliare! Ti prego!”.
Cavallo
attese che l’infermiera fosse uscita poi entrò
nella stanza assieme a Buda. Mek
era intubato e monitorato, collegato alle macchine per respirare e per
far
lavorare il cuore. Cavallo prese un bel respiro e poi
appoggiò entrambe le mani
sul petto del gemello biondo. Subito queste iniziarono a brillare,
facendo
sollevare i lunghi capelli di Ma in aria e riempiendo di scintille
l’atmosfera.
Buda si guardò attorno, allarmato.
“Fai
il palo. Controlla che non entri nessuno” gli
ordinò Cavallo.
Buda
annuì e si mise sulla porta, attento ad ogni movimento.
L’Orientale chiuse gli
occhi, convogliando le sue energie, e avvolse Mek con una forte luce
aranciata.
Cavallo gridò, cosa che allarmò le infermiere.
“Muoviti,
stai attirando troppo l’attenzione”
mormorò Buda, notando che stavano venendo
verso la camera, chiedendosi cosa ci fosse da urlare in quel modo.
L’Orientale
si rilassò, respirando piano, mentre le luci andavano
diradandosi. Mek sussultò
e spalancò gli occhi, andando nel panico per i tubi e gli
aggeggi a cui si
trovò attaccato. Le infermiere entrarono correndo,
meravigliate da ciò che
stava accadendo. Lo staccarono da tutti i macchinari, verificando che
era in
grado di respirare autonomamente e che il cuore gli pompava alla grande.
“Un
miracolo!” disse una di loro.
Buda,
con le lacrime agli occhi, guardò Cavallo senza sapere cosa
dire. Mek cercò con
lo sguardo il fratello e allungò il braccio sano,
sull’altro aveva il gesso, in
cerca di un abbraccio che ottenne.
₪₪₪
“Siamo
arrivati! Si vede la costa!” esclamò Acubens,
guardando l’orizzonte.
“Bene.
Non vedo l’ora di rimettere i piedi a terra”
borbottò Yang.
Erano
partite dall’Egitto per mare, assieme ad Al Risha e
Tù, alla volta di Creta,
dove stavano per attraccare. Per Pesci e Cancro era stato un viaggio
piuttosto
piacevole ma per Lepre e Capra era molto meglio camminare piuttosto che
ondeggiare continuamente su una bagnarola scricchiolante e piena di
gente
sconosciuta. Al Risha, in piena crisi d’astinenza,
fissò le onde come
ipnotizzato.
“Riprenditi!”
gli ordinò Acubens “Presto scendiamo”.
“La
fai facile tu…”.
“Potevi
fare a meno di imbottirti di porcherie. Avanti…”.
Una
volta a terra, tutti i quattro non poterono fare a meno di notare
quanto bella
fosse quell’isola. Rimasero ad ascoltare il rumore delle onde
per un po’, prima
di decidere cosa fare.
“Gli
altri si stanno radunando sulla penisola. Dobbiamo trovare il modo di
trovare
un passaggio da quest’isola
all’entroterra” spiegò Tù.
“Dall’altro
lato ci dev’essere per forza un modo per raggiungere la meta.
Mettiamoci in
cammino” sorrise Acubens, sistemandosi lo zaino che aveva
sulle spalle,
contenente il fucile da cui non aveva voluto separarsi.
“Dei
nostri non c’è nessun’altro qui
vicino?” domandò Yang.
“No”
rispose Lepre, dopo qualche istante di silenzio
“Però…percepisco uno di loro”.
“Uno
di noi?” gioì Cancro.
“Sì.
Non è lontano”.
“Raggiungiamolo!”.
“Come
preferite. Magari saprà dirci come muoverci”.
Non
fecero molta strada prima che intravedessero una sagoma familiare,
inconfondibile ed interamente vestita di verde.
“Aldebaran!”
gridò Acubens, mettendosi a correre ed abbracciando forte
Toro, che era rimasto
sulla riva del mare, meditando sul modo per raggiungere la penisola.
“Acubens?!
Sei proprio tu?! Che sorpresa…cosa ci fai qui? Sei caduta a
Cipro?”.
“No.
Son caduta ben più lontano, ma pian piano son arrivata fino
a qui”.
Al
Risha e le due Orientali raggiunsero le costellazioni con calma,
sorridendo.
“Chi
sono queste due?” domandò, sospettoso, Toro.
“Sono
Yang e Tù, Capra e Lepre, della tribù di
Kuruma” spiegò Pesci, ridacchiando
sulla parola “tribù” e ciondolando la
testa, ancora stordito.
“L’avete
narcotizzato? E vi fidate di queste due? Shè ha tentato di
uccidermi!”.
“Shè
ha tentato di ucciderti?! Kuruma le farà un culo
così quando torna al palazzo
Orientale…” esclamò Lepre, incrociando
le braccia.
“Per
quanto culo possa avere un serpente” mormorò Pesci.
“Quella
doppiogiochista…spero che a nessun’altro di noi
sia saltato in mente di tentare
di farvi fuori. Di noi ti puoi fidare, vogliamo solo farvi ritornare in
cielo”.
“Veramente?
Perché la vostra amichetta per un pelo ammazzava me ed il
mio amico…”.
“Riferiremo
alla nostra Signora questo suo comportamento. Vedrete che verranno
presi
provvedimenti quanto prima”.
“Direi
che ora che ci siamo chiariti possiamo anche andare verso la costa
opposta,
così da raggiungere la meta” propose Cancro.
“A
piedi?” sospirò Pesci.
“Useremo
già molti dei nostri poteri per il cibo e per trovarvi dei
posti decenti dove
dormire, non possiamo permetterci anche di pensare ai
trasporti!” sbottò Lepre,
stanca delle pretese di Al Risha.
“Allora
sarà meglio metterci subito in marcia” sorrise
Aldebaran, indicando la
direzione.
₪₪₪
Pioveva
a dirotto. Kosmos procedeva con le mani in tasca per le vie di Parigi,
senza
ombrello e a capo chino. Era fradicio, ma pareva non farci caso.
“Primavera
fasulla” borbottò, chiedendosi perché
quel posto grigio fosse definito così
romantico.
Sistemò
meglio la sciarpa che aveva al collo, regalo di Hanne perché
stanca di sentirlo
sempre tossire, e continuò la sua strada verso
l’Università. Una macchina,
sfrecciandogli accanto, lo schizzò da capo a piedi.
“Frena,
pezzo di merda, che ti insegno io l’educazione!”
sbraitò Kosmos, per un istante
con gli occhi di nuovo di colore acceso “A te, ai tuoi
antenati e a tutti i
tuoi discendenti!”.
Le
sue grida furono accompagnate da un poderoso tuono, che lo fece
sobbalzare.
Stava così bene in cielo, all’asciutto e
circondato da rumori familiari!
“Arrenditi,
stupido. Non potrai mai tornare in quel posto” si disse
“Ma, ad ogni modo,
consolati che tanto, visto come stanno andando le cose, non durerai a
lungo”
sussurrò, riflettendo sulle sue sempre più
precarie condizioni di salute.
Alzando
lo sguardo, sulla porta ad arco dell’Università,
vide un viso familiare. Lei si
voltò ma tornò a girarsi, ignorandolo.
“Sadalmelik”
chiamò Kosmos, senza ottenere risultati.
Decise
allora di avvicinarsi, fino a sfiorarla con la mano. Subito lei si
ritrasse,
andando a coprirsi in parte dietro all’uomo che le stava
accanto.
“Sadalmelik!
Sono io, non mi riconosci?”.
“Credo
che abbia sbagliato persona. Io sono Marie e non la conosco”.
“Per
tutti i Parsec, ti sei bevuta il cervello?! Tu sei Sadalmelik, la
costellazione
dell’Acquario, e sei caduta sulla Terra assieme ai tuoi
compagni e a me”.
“Io
credo che lei, caro signore, abbia problemi seri. Farebbe bene a farsi
vedere
da qualcuno in grado di aiutarla. Andiamo, fratellone”.
“Fratellone?!”
sbottò Kosmos, dando peso solo in quel momento
all’uomo che l’accompagnava “Tu
non hai fratelli! E lui è…tu sei Hu, Tigre!
Riconoscerei quegli occhi
ovunque!”.
“Lei
è pazzo!” tagliò corto Sadalmelik,
tirando Tigre per il braccio e dando le
spalle a Kosmos.
“Kuruma!
A che gioco stai giocando?! Tu sei Sadalmelik, la stella fortunata del
re. Ti
sei dimenticata tutto?”.
Acquario
continuò a camminare, trascinando Hu. Kosmos, sconcertato,
non sapeva cosa
fare. Sotto la pioggia, spalancò le braccia e
cantò. C’era una musica nel
palazzo Occidentale e sperava che lei potesse ricordarsela. Quel canto
fece
fermare Sadalmelik, di scatto, assieme a molte altre persone incantate
da
quella voce, e smise di piovere. Kosmos fu illuminato dal sole e
Acquario si
girò.
“Kosmos”
mormorò, con le lacrime agli occhi “Sei
tu?”.
Corse
ad abbracciarlo, senza pensarci, e il caduto Signore Occidentale rimase
immobile, non ricordando altri abbracci in tutta la sua vita.
“Ma…cosa
è successo? Come ho potuto dimenticare? Dimenticare i miei
compagni, la mia
casa, il mio Signore, il mio compito?” domandò,
confusa.
“Immagino
che sia una possibile conseguenza della caduta. Ma ora è
tutto passato. Ora
ricordi, e sei pronta a tornare in cielo”.
“Tornare
in cielo? Posso davvero?”.
“Gli
altri si stanno radunando in Grecia. Devi andarci anche tu”.
“Ma…come
faccio? Da sola…”.
“Ti
ci porto io” interruppe Hu.
“Tu!
Tu mi hai solo mentito…” sibilò
Sadalmelik.
“No.
Non è vero. All’inizio sì, ma poi ho
solo cercato di proteggerti. Tu sei colei
che dovrà reggere lo scettro delle Ere fra meno di un anno e
per questo molti
dei miei compagni tenteranno di eliminarti. Vogliono mantenere quel
potere”.
“Se
torno in cielo, non avranno mai quel potere. Bastava che mi aiutassi a
tornare…”.
“Non
volevo perderti”.
“Perdermi?!”.
“Sì.
Io e te stiamo in due zone diverse del palazzo e, inoltre, io non ho un
corpo
umano per davvero. Io sono una tigre, che non può
amarti”.
Sadalmelik
rimase in silenzio, notando che Hu aveva chinato il capo e abbandonato
le
braccia lungo il corpo.
“Ora
non ti fiderai più di me, ed hai perfettamente
ragione” riprese Hu “All’inizio
avevo pessime intenzioni, lo ammetto, ma poi tutto è
cambiato ed ora vorrei
solo esaudire ogni tuo desiderio. Ti accompagnerò in Grecia
e torneremo in
cielo. Ti guarderò con i miei occhi di giada mentre passerai
per il corridoio e
ricorderò ogni giorno passato con te, tornando al mio
aspetto normale”.
Acquario
si avvicinò e gli prese le mani.
“Guardami”
gli sussurrò e Tigre obbedì “Voglio
fidarmi di te. Accompagnami in Grecia. Farò
in modo di vivere ogni istante che ci verrà
concesso”.
“Ma
allora tu…”.
Sadalmelik
gli diede un piccolo bacio e gli sorrise.
“A
quanto pare hai trovato il tuo accompagnatore. Ti ricongiungerai agli
altri
senza correre troppi rischi” commentò Kosmos,
girandosi per entrare a scuola.
“E
tu? Non vieni con noi?” domandò Acquario.
“Non
posso tornare in cielo come voi. E Kuruma non mi ascolta
più. L’ho tanto
chiamata ma non mi risponde. Sono destinato a rimanere qui”.
“Kuruma
non può rispondere” spiegò Tigre
“In questo momento, sta controllando l’intero
universo, senza l’aiuto di nessuno di noi, che ha mandato
sulla Terra per
recuperare le costellazioni. Immagino che le sia estremamente
complicato poter
fare altro”.
“Sta
controllando l’intero universo da sola?” si
stupì Kosmos.
“Sì.
In attesa del vostro ritorno”.
“Allora
non c’è bisogno di me. Lei è molto
più forte e perfettamente in grado di
gestire ogni cosa. Sarei di troppo, inutile”.
“Come
puoi dire una cosa del genere?!” disse Sadalmelik,
afferrandolo per le braccia
“Tu sei Kosmos, non un povero pirla qualsiasi! Sei il Signore
del cielo
Occidentale! Come puoi definirti inutile?! Quello è il tuo
ruolo ed il tuo
posto!”.
“E
questo chi lo ha stabilito? Magari il mio posto è stare qui
a fare
l’insegnante”.
Sadalmelik
gli tirò uno schiaffo e pure questo fu una novità
per il Signore caduto.
“Ma
non hai visto che cosa è successo quando cantavi? Ha smesso
di piovere!”.
“Coincidenza.
Non ho più i miei poteri. Ora, scusatemi, ma ho una lezione
da fare. Mandate i
saluti a Kuruma ed all’intera combriccola da parte
mia”.
“Ma…Kosmos…”.
“Niente
proteste! Fai come ti dico, per l’ultima volta”.
“No.
Tu ora vieni con noi. Troveremo il modo per farti tornare al giusto
posto”.
Kosmos
la fissò. La donna che aveva di fronte aveva uno sguardo
così convinto e fermo
nelle sue decisioni che capì subito che sarebbe stato molto
difficile fuggire
alle sue scelte.
“Posso
accompagnarvi entrambi. Con i miei poteri potremmo passare facilmente i
confini, trovare riparo e cibo. Sarebbe per me un onore”
parlò Tigre, con un
piccolo inchino.
“Conosci
il mio punto debole, ragazzo” borbottò Kosmos,
incrociando le braccia e
sorridendo “Non posso opporre resistenza quando vengo
adulato”.
“Allora
verrai con noi?” esclamò Sadalmelik, con occhi
sognanti.
“Va
bene. Dovete promettermi una cosa però”.
“Prego…”.
“Io
sto male. Nessuna medicina mi aiuta e non so come questa cosa possa
andare
avanti in futuro. Dovete promettermi che, nel caso dovessi peggiorare e
non
riuscissi più ad andare avanti, mi lascerete indietro senza
farvi problemi.
Intesi?”.
“Shu
aveva previsto la possibilità che potesse succedere una cosa
del genere” annuì
Tigre.
“Bene.
Allora promettetemi che mi lascerete indietro, se dovessi peggiorare e
rallentarvi troppo”.
“Non
posso promettere una cosa del genere!” protestò
Sadalmelik.
“Devi
farlo. Tu sei la custode della prossima Era. È fondamentale
che sia in cielo
entro il 21 dicembre di quest’anno. Non potete correre il
rischio di restare
qui per aiutare me, chiaro?”.
Tigre
annuì.
“Pensa
prima di tutto a lei, Hu. Lei è più importante di
me”.
Sadalmelik
protestò, non capendo come si potesse definire una persona
più importante di
un’altra, ma non venne ascoltata. Tigre e Kosmos si strinsero
la mano, altro
evento straordinario.
“Mi
concedete di salutare i miei allievi?” sorrise il caduto
Signore ed entrò
all’università, uscendovi dopo qualche minuto,
seguito da un branco di studenti
pieni di domande a cui non ricevettero risposta, perché il
loro maestro si
stava allontanando.
“Troverò
il modo di aiutarvi per la tesi, ragazzi” furono le ultime
parole di Kosmos,
prima di voltare l’angolo e sparire alla vista dei giovani
futuri astrofisici.
₪₪₪
“Pronto
per il dodici” gridò la cuoca.
“Ci
penso io” rispose Zubeneschamali.
Uscì
con i piatti verso il tavolo dodici, quando un giornalista si
alzò in piedi ed
iniziò ad inseguirla.
“Voi
siete una delle quattro donne che miracolosamente si è
salvata dal disastro
aereo di due mesi fa” le diceva, inseguendola con il
microfono.
“Sto
lavorando. Mi lasci in pace” sbottò Bilancia,
servendo altri tavoli.
“Vorremmo
solo sapere come è andata”.
“L’ho
già raccontato. Sparite!”.
Andò
in cucina dove la proprietaria, la sconosciuta seduta accanto a lei in
aereo,
scosse il capo.
“Non
ci lasciano ancora in pace?” disse.
“Magari.
Non fanno che inseguirmi con radioline e microfoni per sentirmi dire
sempre le
stesse cose. Non si annoiano?”.
“Quest’anno
sono tutti fissati con il mistero ed il miracolo, per via di quella
profezia
sulla fine del mondo. Si stancheranno”.
“Lo
spero!”.
Gou
stava alla cassa e faceva i caffè. Zubeneschamali e
Zubenelgenubi facevano da
cameriere. Quando l’aereo era precipitato, la magia di Cane
aveva protetto
tutte e quattro da una morte certa ma, così facendo, aveva
consumato
praticamente tutto il suo potere ed ora le ragazze non avevano modo di
arrivare
in Grecia, senza soldi né documenti. Per riprendersi, la
quarta superstite le
aveva assunte nel suo locale, almeno per dar loro la
possibilità di mangiare ed
avere un tetto. Era certa che fosse merito loro se era ancora viva, e
quello
era l’unico modo che conosceva per ringraziarle.
All’inizio aveva offerto loro
vitto ed alloggio gratis ma le tre si erano rifiutate di fare una cosa
del
genere e così ora lavoravano. Le due Bilancia sembrava se la
cavassero
facilmente con piatti e portate, probabilmente perché la
Bilancia è formata da
due piatti, mentre Cane era sempre gentile e servizievole. La loro
sopravvivenza era assicurata, ma come avrebbero fatto ad andare in
Grecia? Non
potevano attendere sette anni per poter avere la cittadinanza e i
documenti in
regola. Gou aveva contattato Ma, che però non era messo
meglio di lei. Aveva
ancora potere, ma uno dei Gemelli era in condizioni non proprio adatte
a muoversi
ed avrebbe dovuto aspettare che stesse meglio, prima di proseguire il
viaggio.
Nel frattempo, sperava Cane, forse entrambi avrebbero recuperato forze.
Si
chiese se, magari, poteva riuscire a parlare con altri suoi colleghi,
ma
risultavano tutti troppo distanti e le sue energie ormai erano quasi
del tutto
prosciugate. Preferì tenerle in serbo per poter comunicare
con Cavallo, nel
caso decidesse di aiutarle. Nel frattempo, i giorni scorrevano ma
perlomeno
erano al sicuro, con un letto ed i pasti assicurati. La primavera dava
i suoi
primi segnali e nessuna delle tre aveva alcuna intenzione di perdere la
speranza.
₪₪₪
“Ma
perché proprio sull’Olimpo è
andata?” sbuffò Zhu, incespicando per la salita.
“Lei
era una Dea. Credo che la sua sia la decisione giusta”
spiegò Rukbat,
appoggiandosi ad un bastone improvvisato, fatto con un ramo secco.
“Se
lo dici tu…personalmente sono stufo di camminare”
borbottò Deneb Algiedi.
“Ormai
non è lontana. Manca poco” tentò di
rassicurarli Shu, senza troppo successo.
“Dai,
Rukbat, accelera! Ci stiamo mettendo una vita!” disse
Antares, camminando molto
più velocemente degli altri.
Rukbat
non sprecò fiato per rispondergli. Sentì lo
sciabordio di un fiume poco
distante e propose di fare una pausa. Aveva bisogno di riposare e di
bere un
po’. Si avvicinò al corso d’acqua,
ignorando il fatto che il resto del gruppo
non era molto d’accordo. Immerse le mani nell’acqua
cristallina e bevve un
lungo sorso.
“Rukbat?”
si sentì chiamare.
Alzò
gli occhi, con aria interrogativa. Controluce non capiva bene chi lo
avesse
chiamato.
“Come
sei conciato?”.
Sagittario
si alzò, coprendosi il viso con il dorso della mano.
“Astrea?
Sei tu?”.
“E
chi altro dovrei essere? Mi sembra di essere sempre rimasta
uguale”.
“Ti
abbiamo trovato, finalmente!”.
“Mi
cercavi?”.
Rukbat
lasciò che lei si avvicinasse. Era con i piedi a mollo
nell’acqua fresca, con
addosso l’abito da figurante che, bagnato, lasciava ben poco
spazio
all’immaginazione.
“Cos’è
quella cosa che ti porti legata dietro la schiena?”
domandò la donna.
“Un’arma”.
“E
a che ti serve?!”.
“Lunga
storia…te la racconterò. Ora vieni, ci sono altri
di noi assieme a me”.
Astrea
annuì e fece qualche passo, ma poi si fermò,
alzando la testa verso gli alberi.
“Cosa
c’è?” borbottò Rukbat, troppo
stanco per dare importanza anche ai rumori
prodotti dal vento.
“Ji”.
“Gallo?
È lui l’Orientale che ti aiuta?”.
“Aiuta
sto cazzo! Cerca di uccidermi!”.
“Non
essere ridicola! Kuruma ha detto che…”.
Non
finì la frase perché Gallo piombò fra
i due, soddisfatto della situazione che
si era creata. Si alzò in piedi con aria tronfia e
fissò Rukbat, che si limitò
a rispondere a quello sguardo con sufficienza.
“Ti
ucciderò con le mie mani” ghignò Ji
“Dicono che la carne di cavallo sia molto
nutriente…”.
“E
la carne di pollo con le patate è la fine del
mondo…” rispose Sagittario,
imbracciando l’M16 che si portava dietro.
“I
proiettili non gli fanno nulla! Inutile combattere con quello.
È carico di
magia” disse Astrea.
“Non
cercare di sminuire le mie capacità, per favore!”
sbottò Rukbat “Intanto, se
non ti dispiace, potresti chiamare gli altri?”.
“Dirò
loro che hai bisogno di una mano…”.
“Non
usare proprio quelle parole…”.
“Quanto
sei noioso!”.
Ji
sbuffò, stanco di chiacchiericci inutili, e balzò
in aria, scalciando e
spalancando le braccia. Rukbat sparò un paio di colpi,
allontanando
l’avversario quel che bastava da dare spazio ad Astrea per
allontanarsi.
Ovviamente Gallo non aveva intenzione di permettere una cosa del genere
e
scattò, afferrando Vergine per i lunghi capelli scuri e
tirandola a sé.
“Avete
sentito? Spari” disse Shu, sentendoli poco lontani.
“Sarà
Rukbat che spara alle rane. Quell’uomo è
paranoico” mormorò Antares, accendendo
una delle sigarette che gli aveva passato Deneb Algiedi.
“Non
sarebbe meglio andare a controllare?”.
“Se
la cava da solo”.
Topo
fece per alzarsi ma i suoi due colleghi Orientali le fecero segno di
stare
ferma dov’era. Avevano tutti bisogno di riposo e, non
sentendo richieste
d’aiuto, non poteva essere niente di rilevante, dopotutto.
“Lasciala
andare, pennuto esaltato!” minacciò Rukbat,
togliendosi il lungo cappotto nero
per muoversi meglio.
“Lei
è roba mia. Tu torna da dove sei venuto e fatti gli affari
tuoi!” sibilò Gallo,
stringendo Astrea per il collo.
Vergine
si dimenava con una ferocia che Sagittario non si sarebbe mai
aspettato. Corse
verso il tuo avversario. Aveva capito che le sue ferite si
rimarginavano
subito. Per ucciderlo doveva trovare un altro sistema.
“Annegalo”
gemette Astrea, continuando a scalciare.
Rukbat
sorrise. Era un’ottima idea. Ma prima doveva fargli lasciare
la sua collega!
Sperò che si sarebbe liberato di lei se avesse dovuto
combattere e quindi
iniziò a colpirlo a calci e pugni. Gallo faceva fatica a
parare ma non mollava
la sua “preda”. Mosse leggermente il braccio verso
il viso di Astrea, che non
perse tempo e lo morse, con tutta la forza che aveva. Ji, non
aspettandosi una
cosa del genere, lanciò un grido e allentò la
presa. Vergine si divincolò e
riuscì a liberarsi, mentre Gallo si prendeva un potente
pugno in pieno viso.
“Dannata
femmina!” gridò Ji “E maledetto incrocio
mitologico! Vi ammazzerò entrambi!”.
Rukbat
supplicò Astrea di allontanarsi ma lei non si mosse, stanca
di fuggire da
quell’animale fastidioso e canterino. Sagittario
lanciò un grido, sentendosi di
nuovo, per un attimo, in guerra assieme ai suoi fratelli della stessa
specie, e
si lanciò contro Gallo. Vergine si guardò attorno
e si arrangiò come poteva.
Non aveva la stessa capacità combattiva di Sagittario, ma
era altrettanto
determinata. Usò bastoni e sassi per far sì che
Ji trovasse il più difficoltoso
possibile contrattaccare e parare i colpi della costellazione. Alla
fine, colta
da un’improvvisa idea folle, afferrò il lungo
cappotto in pelle di Rukbat e si
lanciò contro Gallo, ora che entrambi i contendenti erano
finiti in terra,
avvolti dal basso flusso del fiume. Sagittario stava sbattendo la testa
del suo
avversario contro un masso, quando Ji gli sferrò un poderoso
calcio sul
ginocchio malato. Rukbat lanciò un grido allucinante e
dovette fermarsi. Fu in quel
momento che Vergine usò il cappotto, avvolgendo la testa
dell’avversario
all’interno della stoffa nera. Gallo si alzò in
piedi e Astrea rimase
saldamente attaccata, circondandone il collo. Sagittario strinse i
denti per
non svenire, specie vedendo cosa stava combinando la sua collega matta
da
legare, e si sforzò di rialzarsi.
“Astrea!
Cosa stai facendo?! Così ti farai ammazzare!”
riuscì a dire.
Poi
vide le lunghe maniche del cappotto a penzoloni ed ebbe
un’idea. Richiamando la
poca forza di volontà che gli era rimasta, si mise a correre
verso Gallo e lo
mandò contro un albero.
“Presto,
Astrea! Le maniche!” ansimò.
Vergine
capì al volo e legò le maniche al tronco,
impedendo a Gallo di vedere e di
fuggire.
“Scappiamo
adesso. Con la magia non ci metterà molto a
riprendersi!” ordinò Sagittario.
“Cosa
succede?!” parlò Topo, piombando fra i due con una
velocità sorprendente “Ho
sentito gridare…”.
“Il
tuo amichetto pollo cerca di uccidere la mia collega”
spiegò Rukbat, mordendosi
le labbra per cercare di non pensare alle lancinanti stilettate di
dolore che
gli lanciava il ginocchio.
“Ji?!
Adesso ci penso io. Voi state in disparte. Zhu! Niu! Ho bisogno di
voi!” chiamò
Shu, avvicinandosi a Gallo e appoggiandogli una mano sul petto.
I
due Orientali arrivarono con tutta la calma possibile e fissarono Topo
con aria
scocciata.
“Aiutatemi.
Ji è contro il piano della nostra Signora. Dobbiamo
impedirgli di interferire
ulteriormente”.
“Intendi
un trasferimento di energia?” mormorò Niu.
Topo
annuì e tutti e tre gli Orientali appoggiarono la mano sul
corpo di Ji.
Chiusero gli occhi e borbottarono una strana formula. Il corpo di Gallo
si
illuminò e poi quella luce si trasferì, in modo
uniforme, sui Bue, Topo e
Maiale. Una volta che la luce si fu spenta, Shu slegò Ji,
restituendo il
cappotto a Rukbat.
“Ma
che fai?! Lo lascia andare?! Sai quanta fatica abbiamo fatto
per…” protestò
Sagittario.
“Ora
è senza magia. Non potrà nuocervi in alcun modo.
Lo porteremo con noi e, quando
sarà al cospetto di Kuruma, faremo in modo che venga
punito” spiegò Topo.
Gallo
protestò animatamente, specie quando Niu, sfruttando le sue
notevoli
dimensioni, lo afferrò saldamente e se lo caricò
sulle spalle.
“Venite.
Io sto in un rifugio abbandonato poco distante” disse Astrea,
porgendo la mano
a Rukbat, perché si alzasse, cercando di incoraggiarlo.
Sagittario,
orgoglioso com’era, non si fece aiutare da nessuno e riprese
la strada,
rifiutando di appoggiarsi a Zhu o a chiunque altro.
“Alla
buon ora!” sbottò Antares, vedendoli ricomparire
“Oh, madama Astrea! E quello
strano punk lagnoso sulla spalla di Niu chi cazzo è? Non lo
voglio sapere…”.
“Venite
con me. Non ho molto da offrirvi, ma almeno sarete sotto un tetto e con
qualcosa nello stomaco” disse Vergine, camminando e facendo
segno a tutti di
seguirla.
Non
ci misero molto a raggiungere il rifugio. Astrea aveva fatto un buon
lavoro e
lo aveva sistemato per bene. Ora non pioveva più dentro, era
senza spifferi e
non puzzava più di muffa e marcio.
“Mi
ero rifugiata qui, con l’idea di restarci solo qualche giorno
e poi proseguire
verso la cima. Ma poi, fra il maltempo e Gallo, ero sempre costretta a
tornare
indietro. Così, alla fine, mi son sistemata, in attesa della
bella stagione.
Ora la bella stagione è arrivata e speravo di riprendere da
dove avevo lasciato…”
spiegò, facendo entrare la compagnia “Purtroppo
c’è una branda soltanto. Ci
dovremo arrangiare…”.
“Non
è un problema. Noi con potenziale magico non abbiamo bisogno
di dormire”
rassicurò Shu “E non soffriamo freddo, caldo,
fame…”.
“Ma
noi sì. Ho lo stomaco che piange” si
lamentò Antares.
“Ho
qualcosa per voi. Non è molto, ma per oggi dovreste averne
abbastanza” rispose
Vergine, offrendo al gruppo frutta e altro cibo raccolto nel bosco.
“Io,
se non vi dispiace, preferirei farmi una dormita”
mormorò Rukbat.
Astrea
gli indicò la branda, mentre Antares e Deneb Algiedi si
avvicinavano al cibo
che era appoggiato sul tavolo.
Sagittario
non se lo fece ripetere e si stese, sfinito e dolorante. Vergine gli
sorrise.
“Perché
mi fissi così?” borbottò Rukbat,
socchiudendo gli occhi.
“Mi
hai salvato la vita…”.
“Non
è proprio così, direi. Ti sei salvata da
sola…”.
“Vedila
come vuoi. Buon riposo” tagliò corto Vergine,
notando quanto indifeso sembrasse
quell’esaltato una volta rannicchiato e addormentato
“Bene. Adesso spiegatemi
un po’ cosa avete fatto tutto questo tempo” disse
poi, al gruppo di colleghi
attorno al tavolo.
“Mi
state dicendo che siete diventati tutti dei delinquenti?” fu
il commento di
Astrea, quando Scorpione e Capricorno smisero di raccontare.
“Era
l’unico modo di sopravvivere!” sbottò
Antares.
“Non
è vero! Io non sono diventata una fuorilegge e sono ancora
viva!”.
“Tu
sei tu…”.
“Diciamo
che avete scelto la via più facile”.
“Esatto.
Perché complicarci la vita?”.
“E
hai tentato di eliminare Rukbat!”.
“Lui
mi ha ucciso, facendomi divenire una stella, ricordi?”.
“Era
per vendicare Orione”.
“Orione
voleva scoparsi la tua sorellina Artemide, la verginella
dell’Olimpo! L’ho
punto per preservare la virtù di quella divinità
e per ricompensa son stato
ammazzato. Ti sembra giusto?”.
“Io
ero la Dea della giustizia. Parlarmi di giusto e sbagliato mi sembra un
po’
azzardato”.
“Quindi
adesso che facciamo? Aspettiamo che gli altri ci
raggiungano?” si intromise
Capricorno, tentando di calmare gli animi.
“Credo
sia la scelta migliore. Anche perché non arriveremo mai in
cima con due donne e
mister ginocchio marcio!” sibilò Antares.
Shu
ed Astrea guardarono molto male Scorpione, offese perché di
certo non si
ritenevano in alcun modo inferiori a lui.
“E
del punkettone traditore che ne facciamo?” domandò
Deneb Algiedi.
“Non
credo che potrà darci più fastidio. Ora
è mortale, come voi” spiegò Niu.
Gallo
era stato legato stretto ad un albero subito fuori il rifugio e fissava
il
gruppetto riunito con odio, non trovando insulti abbastanza pesanti per
esprimere quello che aveva in mente.
“Perché
pensate che Rukbat abbia problemi con il ginocchio? È una
ferita risalente a
prima che divenisse una stella…”
domandò Astrea.
“Quella
è la ferita che lo ha fatto diventare una stella”
rispose Deneb Algiedi,
marcando le parole più importanti “Credo che tutti
coloro che han subito eventi
del genere ne risentiranno, prima o poi. Io e te, mia cara, eravamo
divinità ed
è stata una nostra scelta. Per altri non è stato
così, vero Antares? Smentiscimi,
se ne hai il coraggio…”.
“Non
ti smentisco. Ammetto di avere qualche problema ogni tanto nel punto in
cui
l’arciere che nitrisce mi ha colpito”.
“Credete
che la cosa peggiorerà?” si preoccupò
Topo.
“Spero
di no! Non mi va per niente di morire di nuovo!”
esclamò Antares.
“Ma
forse è questo il nostro destino. Per tornare in cielo,
dobbiamo fare le stesse
cose che abbiamo fatto quando siamo divenuti stelle la prima
volta” azzardò
Astrea.
“Intendi
dire che devo farmi ammazzare da Rukbat di nuovo?!”.
“Vedremo.
Per ora rilassiamoci…che facciamo mentre
aspettiamo?” sorrise Deneb Algiedi,
allungando i piedi e stiracchiandosi.
“Una
partita a carte?” propose Vergine, aprendo un cassetto di
legno.
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Capitolo 9 *** 8 ***
IX
“Tu
vuoi andare dove?! Sei impazzito?! A piedi?!”
sbraitò Hannaliz.
“Non
so ancora se la faremo tutta a piedi. È una questione di
potere magico, ma
penso che andremo proprio a piedi. Tigre ha già usato molta
energia fin ora”
rispose, candidamente, Kosmos.
“Cosa
ti sei fumato?! Ma ti sei visto?! Non stai mica tanto bene, sai? E la
strada da
qui alla Grecia è lunga. Hai presente quanti stati dovrai
attraversare?!”.
“Punto
primo: non sarò da solo. Punto secondo: non sono affari
tuoi. Punto terzo:
rilassati. Andrà tutto benissimo e così facendo
non sarò più un problema per te”.
Hanne
sospirò, vedendo Kosmos preparare una piccola borsa in tutta
fretta.
“Non
andremo a piedi, signora, stia tranquilla” sorrise Tigre,
appoggiato allo
stipite della porta.
“Volevo
ben dire!” sbottò la pescatrice “Aereo,
spero”.
“Se
la cosa sarà possibile, era quello che progettavamo. Oppure
in treno fino a
Berlino e poi in aereo. Dipende dalle partenze. Dobbiamo muoverci il
più in
fretta possibile”.
Kosmos
non commentò la cosa.
“Ma
perché dovete proprio andare in Grecia? Cosa
c’è di così urgente in quel
posto?” domandò Hannaliz, incrociando le braccia.
“Riguarda
la faccenda delle stelle di cui ti ho tanto parlato e di cui tu non hai
creduto
ad una sola parola” tagliò corto Kosmos, prendendo
il bagaglio su una spalla e
facendo segno a Tigre di uscire.
“Grazie
di tutto, Hanne” disse, rivolto alla donna che non lo
guardava “Non so che
avrei fatto senza il tuo aiuto. Ora è tempo per me di
andare. Stammi bene e non
preoccuparti troppo per me”.
Lei
non gli rispose, rimanendo con gli occhi puntati fuori dalla finestra.
Lui si
voltò ed uscì, chiudendo la porta. Hannaliz vide
i tre viaggiatori al piano
terra mentre si allontanavano per la stradina lastricata e scomparivano
dietro
un angolo. Si disse che, un giorno, si sarebbe convinta di aver sognato
tutto.
“Dobbiamo
raggiungere l’aeroporto di Parigi e scoprire a che ora
possiamo partire” disse
Hu, procedendo a passo svelto.
“Non
sarebbe più pratico il treno? Ci sono meno controlli, ho
soldi sufficienti per
fare i biglietti ed è più comodo, a mio
avviso” commentò Kosmos.
“A
te non va di prendere l’aereo, non è
così?” ridacchiò Tigre.
“No,
non mi va per niente” ammise il caduto Signore Occidentale
“Devo essere io a
controllare la gravità che mi circonda, non un mortale che
non conosco”.
“Ci
metteremo un po’ di più, ma per dicembre saremo di
certo in Grecia, con ampio
anticipo. Possiamo permettercelo” si intromise Sadalmelik.
“Come
volete. Che treno sia” si arrese Hu, salendo
sull’autobus che portava in centro
a Parigi, alla stazione ferroviaria.
Kosmos
lanciò un’ultima occhiata al piccolo paesino che
lo aveva accolto per mesi e
quasi provò nostalgia. Poi si riprese. Aveva molta
più nostalgia del palazzo,
se mai fosse riuscito a tornarci!
“Kuruma
non si fa sentire nemmeno con te?” domandò Kosmos,
rivolto a Tigre, seduto
accanto al finestrino del bus con aria distratta.
“No,
ma aveva avvisato che non lo avrebbe fatto. Deve concentrare le sue
energie”.
“E
se tu…provassi a contattarla? Sarebbe possibile?”.
“In
linea di massima, credo di sì. Ma questo comporterebbe un
grosso uso di forza
magica da parte mia e preferirei conservarne fino alla meta”.
“Capisco”.
“Volevate
parlarle?”.
Kosmos
non disse più nulla e Hu non domandò altro.
Arrivarono alla stazione dei treni
di Parigi in poco tempo e subito andarono a cercare il centro
informazioni per
farsi un’idea di quante fermate avrebbero dovuto fare per
raggiungere Atene.
“Il
diretto per Berlino, tanto per incominciare” rispose
l’addetto “Poi da lì
potete scegliere se andare verso Varsavia o verso Budapest. Di certo
dovrete
cambiare almeno tre treni. Un bel viaggio…”.
“Intanto
andiamo a Berlino, poi là decideremo”
borbottò Hu, sempre più convinto che in
aereo si faceva molto prima.
“Non
lamentarti sempre, gattone a strisce! Allora prendiamo tre biglietti
solo
andata per Berlino” lo zittì Kosmos, pagando per
tutti.
Il
treno per la capitale tedesca era lussuoso e veloce, molto comodo. Il
Signore
Occidentale lo apprezzò parecchio, accomodandosi nel suo
posto numerato e
rilassandosi.
“Ragazzi…”
mormorò, dopo un po’, senza guardare gli altri due
passeggeri “…voi che mi
conoscete da un periodo di tempo relativamente lungo, pensate che io
abbia un
carattere odioso? Rispondetemi pure con tutta la sincerità
necessaria, non
posso farvi del male…”.
Tigre
e Acquario si fissarono, piuttosto imbarazzati e stupiti da quella
domanda.
“Beh,
ecco…” iniziò Sadalmelik.
“Assolutamente
sì” rispose, secco, Hu.
“Non
sempre!” si affrettò ad aggiungere lei
“A volte sì, davvero insopportabile, ma
a volte siete diverso. Come tutti, in fondo. Ognuno di noi ha un lato
socievole
e uno…”.
“Da
perfetto stronzo” concluse Tigre.
“Hu!”
lo sgridò lei.
“Cosa?
Ha detto di essere sinceri e, sinceramente, penso che fra lui e Kuruma
non so
davvero chi abbia il carattere peggiore. Ma immagino derivi dal fatto
che per
tutta la loro vita son stati da soli a crogiolarsi nel nulla e ad
autocelebrarsi”.
“Sono
stato troppo severo con voi, Sadalmelik? Mi riferisco al gruppo
Occidentale,
l’Orientale non è affar mio”
domandò Kosmos.
“Non
siete stato severo, affatto. Siete stato…ecco…non
trovo le parole…siete
stato…”.
“Quello
che sto dicendo io dall’inizio: stronzo!”
ridacchiò Tigre “Del resto, io gli
Dèi me li sono sempre immaginati così”.
“Stronzo?
Cioè? Che ho fatto?” insistette Kosmos.
“Le
manie di grandezza, le rispostacce, questa pomposa voglia di dimostrare
continuamente di sapere ogni cosa, il fatto di trattare tutti come
degli idioti
di nessun valore…cose del genere, insomma. Ma, ripeto, gli
Dèi me li sono
sempre immaginati così e, lo devo ammettere, se fossi un
Dio, probabilmente
pure io mi comporterei così” concluse Tigre.
Kosmos
annuì. Aveva capito cosa intendeva dire, ma non trovava
parole per riprendere
il discorso, per scusarsi o per far cessare quel silenzio che era sceso
fra i
tre. Guardò i primi alberi fioriti dal finestrino,
sbadigliando fino ad
addormentarsi, perché talmente stanco da non riuscire a
tenere gli occhi
aperti. Sadalmelik lo fissò quasi con tenerezza. Aveva
davvero un’espressione
triste. Doveva essere tutto così strano per lui…
Lei, Acquario, era esistita anche
come mortale e quindi aveva vissuto molte delle situazioni che ora per
Kosmos
erano del tutto nuove, come il cambio delle stagioni, gli eventi
atmosferici,
il rumore della folla, il caldo, il freddo, la fame…era come
uno strano
bambino, che aveva letto del Mondo ma che non lo aveva mai visto. Aveva
uno
sguardo così meravigliato davanti a Notre Dame che
lasciò stupita perfino lei.
Era orgoglioso. Orgoglioso del fatto che le creature che aveva
contribuito a
creare fossero in grado di realizzare cose simili. Era orgoglioso di
quanto
bella fosse la natura e di come sapesse adattarsi ad ogni situazione.
Era
orgoglioso degli animali e di ogni essere vivente. Sadalmelik
sperò che la sua
idea quasi fanciullesca non cambiasse e che non avesse mai la
possibilità di
vedere di persona il vero volto degli umani. Purtroppo per lei, Kosmos
aveva
ben chiaro come fossero in realtà in mortali. Con Hannaliz
aveva avuto modo di
visitare vari musei e, fra questi, anche quelli sulla guerra. Questo lo
aveva
molto deluso. Sperava che le informazioni che aveva su simili massacri
fossero
solo esagerazioni dei libri che possedeva, ma aveva oramai capito che
non era
così. Si era chiesto come potessero, avendo queste creature
la possibilità di
creare cose magnifiche come quelle che aveva visto al Louvre, concepire
un’azione tanto distruttiva come la guerra. E come potessero
disprezzare così
tanto il bel pianeta su cui stavano. Kosmos trovava la guerra qualcosa
di
inconcepibile. Litigava con Kuruma, ma mai gli sarebbe passato per la
testa di
ucciderla. Si sentì in colpa. Quegli umani avevano nel loro
cervello il germe
di odio che portava pure lui dentro di sé, e non
c’era modo di curarli. Tutti
coloro che seguivano una via più pacifica ed armoniosa,
assieme al resto della
natura, venivano annientati da chi faceva il contrario. Immagini del
male che
l’uomo poteva fare riecheggiavano nella mente di Kosmos
quando questi sognava,
come ad aumentare la colpa che già sentiva. Si era chiesto
se anche gli altri
mondi abitati fossero così. Sperò di no e, ad
ogni modo, questa piccola pallina
su cui ora stava aveva bisogno di una bella regolata. A quanto vedeva,
la
natura stessa ci stava pensando, forse percependo il desiderio nascosto
del suo
creatore, con tempeste, terremoti, eruzioni ed altri eventi. E
cos’erano tutti
quei loro discorsi sulla fine del mondo nel 2012? Se era un desiderio,
sperava
di accontentarli una volta tornato in cielo. Aveva deciso che ben pochi
umani
meritavano rispetto. La maggior parte di loro era diventata
così simile ad un
parassita fastidioso da non potere meritare di ritenersi della stessa
specie di
molti grandi del passato. Ma, del resto, si ritrovò a
riflettere Kosmos una
sera, pure lui non era che l’ombra di ciò che era
stato. Era
cambiato, Kuruma aveva ragione, si era
incattivito, impigrito e distaccato sempre di più da ogni
cosa. Aveva
dimenticato ciò che aveva creato, lasciando che divenisse
qualcosa di malato, a
cui non sapeva come porre rimedio. Aveva ignorato le tante piccole
creature
sparse per l’universo, che un tempo lo veneravano e che lui
ascoltava, e
queste, come orfani privi di genitori a controllarli, han fatto quello
che
preferivano. Per questo ora lui era su quel treno. Si era ripromesso
che, se
mai fosse riuscito a tornare in cielo, d’ora in poi si
sarebbe comportato in
modo ben diverso. Se mai fosse riuscito a tornare…
₪₪₪
“Non
dovresti allontanarti da sola. È pericoloso” la
rimproverò Rukbat.
“Pericoloso?
E perché?” rispose Astrea, piuttosto scocciata.
Non
aveva mai amato particolarmente il fatto di essere pedinata.
Guardò Sagittario,
mostrandogli che era andata a prendere l’acqua al fiume.
“Lascia.
Te la porto io” allungò la mano lui.
Lei
ritrasse il contenitore lucido che stringeva fra le mani e lo
fissò con
sospetto.
“Che
ti prende, Chirone?” domandò.
“Da
quanto tempo nessuno mi chiamava così…”
sorrise Rukbat “Che ti prende potrei
chiedertelo io! Non voglio farti niente e non ho intenzione di mangiare
il
secchio dell’acqua o fare altro di stupido. Fidati di
me”.
“Ti
hanno mai detto che sei molto strano?”.
“Un
sacco di volte. E per motivi diversi. Tu perché lo
pensi?”.
“Perché
a volte sei un vero coglione e a volte il contrario. Tu dici che devo
fidarmi
di te, ma come credi che possa fare? Sei
così…altalenante!”.
“Altalenante?
Carino come aggettivo, mi piace. Lo userò nel presentarmi
d’ora in poi”.
Astrea
sorrise e Rukbat ne fu soddisfatto. Far sorridere Vergine era davvero
difficile.
“Approfittane
ora, che sono il contrario del lato coglione, e fatti
aiutare” riprese,
allungando di nuovo la mano verso la donna.
“E
il tuo ginocchio?”.
“Sta
molto meglio da quando lo hai fasciato tu. Cosa ci hai messo
sopra?”.
“Niente
di speciale. Delle piante”.
“Non
mi fa più male”.
“Questo
non significa che sia guarito. Devi stare a riposo”.
“Più
riposo di quello che stiamo facendo qui, non so proprio che altro ci
sia.
Tranquilla, ce la faccio a portare quel secchiello”.
“Come
vuoi. Se ti piace fare fatica…”.
“Non
vorrei che ti si rovinasse quel bel vestito…”.
“Sì,
come no. Cammina”.
“Perché
sei così cattiva con me?”.
“E
tu perché fai lo stupido?”.
Rukbat
non rispose.
“Hai
nostalgia di casa?” gli domandò Vergine, dopo un
po’.
“Del
palazzo del cielo intendi? Sì. Questo pianeta non
è bello come quando ci vivevo
da centauro. Per sopravvivere devi essere cattivo e stanca essere
sempre
cattivo”.
“Quindi
tu sei convinto di voler tornare lassù?”.
“Certo.
Tu no?”.
“Non
lo so. Io ero una Dea, è stata una mia scelta quella di
custodire una
costellazione, ma forse ora è giunto il momento che se ne
occupi qualcun altro,
non trovi?”.
“Ti
piace stare qui?”.
“Non
l’ho mai detto. Ma nemmeno mi piace l’idea di
tornare a palazzo, a far sempre
le stesse cose per tutta l’eternità
all’infinito, senza più vedere un albero, o
un fiore, o una delle creature che popolano questi boschi”.
“E
la tua costellazione? A chi andrebbe?”.
“Non
lo so, ma immagino che una soluzione per una cosa del genere si
troverebbe. Non
sto dicendo che sono sicura di non voler tornare in
cielo…diciamo che ci sto
pensando”.
“Anche
a me era passato per la testa di rimanere qui ma non mi piacciono i
ricordi che
nascono fra queste terre. Spero vivamente di poter tornare a
palazzo”.
“Te
lo auguro”.
“Ed
io ti auguro di prendere una decisione”.
“Credo
che mi adatterò, come sempre. Se nessuno potrà
prendere il mio posto, non avrò
nulla su cui star a riflettere: dovrò tornare e
basta”.
“Allora
ti auguro di avere davanti a te un’alternativa e che tu
faccia la scelta la
migliore”.
“Grazie”.
Assieme,
i due tornarono al piccolo rifugio. Antares rivolse ad entrambi uno
strano
sorriso, prima di tornare a concentrarsi sulla partita di poker con
Capricorno
e gli Orientali.
Sagittario
non voleva abbandonare la sua missione di tormentatore e insisteva a
seguire
Vergine, in tutto ciò che faceva. Astrea fu tentata dapprima
di riempirlo
d’insulti, poi di colpirlo con una padella in testa e infine
di sparargli. Si
trattenne solo sull’ultimo punto.
“Mi
hai fatto male!” protestò Rukbat, massaggiandosi
la testa colpita dalla
pentola.
“Scusa…”
mormorò Astrea, tornando a cucinare.
“Non
mi pare che tu sia dispiaciuta…”.
“Te
ne vai?! Mi lasci spazio vitale?! Che cosa vuoi?!”
sbraitò Vergine.
“Te
lo hanno mai detto che sei tremendamente acida?”.
“E
a te l’han mai detto che sei un rompicoglioni?”.
Sagittario,
con la sua espressione da offeso migliore sul viso, uscì dal
rifugio. Gli altri
finsero indifferenza, in realtà lo stavano fissando di
sottecchi, aspettandosi
una reazione di un qualche tipo. Ma Rukbat non fece nulla di
particolarmente
strano, se non quello di chiedere cosa doveva comprare in paese. Era
desideroso
di fare un giro, e il gruppo aveva ancora dei soldi da parte da
spendere per
concedersi qualche lusso. Il gruppetto di case era piuttosto distante,
tre ore
buone di cammino, ma Sagittario non lo considerava un problema.
Indossò il
lungo cappotto, nonostante la temperatura gradevole di metà
primavera, e partì.
“Quell’uomo
ha seri problemi” borbottò Antares, pescando una
carta.
“Ho
sempre pensato che fosse un po’ autolesionista”
sorrise Deneb Algiedi.
Passò
meno di un’ora quando Astrea chiamò il gruppo a
tavola. Grazie al fornelletto
che avevano comprato, collegato alla bombola abbandonata al rifugio,
poteva
cucinare senza problemi.
“Dov’è
Rukbat?” domandò, portando i piatti in tavola e
notando subito che mancava
qualcuno.
“Ha
deciso di andare in paese” rispose Zhu.
“Adesso?
All’ora di pranzo? E con quel ginocchio?”
esclamò Vergine, decisamente
innervosita.
“A
quanto pare…” si sentì rispondere da
Capricorno.
“Spero
per lui che poi non venga a lamentarsi che ha tanta fame, che ha male e
che
solo lui, poverino, si deve sacrificare a fare cose del genere,
perché lo
prendo a calci!”.
“Più
volte noi ci siamo detti che per quell’uomo sarebbe la cura
migliore” sorrise
Antares, assaggiando il piatto di verdure che aveva davanti.
Era
sceso il buio, e ancora Sagittario non si vedeva. Solamente Vergine
pareva
farsi problemi a proposito. Gli altri continuavano a inventarsi giochi
nuovi
con quel che trovavano. Erano passate quasi dodici ore. Dove era andato
a
finire? E se gli fosse successo qualcosa? Era ferito, dopotutto. Se fosse stato in piena
salute, non si
sarebbe fatta alcun problema. Era davvero arrabbiata con
quell’uomo. Come
poteva essere così incosciente? Solo nel buio totale, Rukbat
riapparve sul
sentiero disastrato che portava al rifugio. Astrea lo fissò
con rabbia, il
resto del gruppo con indifferenza. A braccia incrociate, lei attendeva
almeno
una spiegazione. Sagittario non disse nulla, ovviamente, e la
ignorò.
“Ti
sembra questa l’ora di arrivare?” sibilò
Vergine.
“Come,
scusa?” si sentì rispondere.
“Mi
hai sentito benissimo”.
“Direi
che sono abbastanza grande per fare quello che mi pare, no?”.
“No,
se sei ferito e nessuno sa dove sei. Sai che ore sono e da quanto sei
via?”.
“Non
ti riguarda”.
“E
la tua ferita? Avrebbe potuto farti male di nuovo. Come ci avresti
raggiunti,
in quel caso?”.
“Non
ti riguarda neppure questo”.
Sagittario
la spostò dalla porta ed entrò, appoggiando la
borsa della spesa sul tavolo ed
iniziando a svuotarla. Aveva comprato principalmente del cibo, le
sigarette per
i tabagisti del gruppo, alcolici e un piccolo aggeggio ad energia
solare per
poter ricaricare l’mp3 che aveva rubato al poliziotto di cui
ancora indossava
il cappotto. Altre volte si erano presi vestiti, coperte, sacchi a
pelo,
attrezzi per sistemare la casa e medicinali di primo soccorso come
garze e
cerotti.
“Dove
sei stato fin adesso?” insistette Astrea.
“Scusa,
sei mia madre per caso? O mia moglie? O chiunque altro che avrebbe un
qualche
minimo diritto di sapere una cosa del genere? Non mi sembra”.
“Non
sono tua amica?”.
Rukbat
non rispose, continuando a sistemare la roba del sacchetto.
“Ho
capito” mormorò Vergine, mandandolo al diavolo e
andando a raggomitolarsi nel
suo sacco a pelo, non volendo sentire altro per quella notte.
Sagittario,
con un barattolo di sugo fra le mani, sospirò.
Andò dove lei dormiva, muovendo
lievemente un braccio verso quella direzione, con
l’intenzione di parlare, ma
poi non lo aprì bocca. Fece ricadere l’arto,
notando che lei non lo voleva
nemmeno guardare. Non sapeva nemmeno cosa dire.
“Buonanotte”
si limitò a sussurrare, tornando verso l’esterno.
Alzò
la testa verso il cielo. Chissà Kuruma quante risate si
stava facendo alle loro
spalle…
₪₪₪
Volando
sul mare, Hamal rideva. Si stava divertendo un sacco.
“Siamo
quasi arrivati” le disse Long.
“Peccato”.
“Potremmo
fare altri viaggi in futuro, non trovi?”.
“Assolutamente!
Lo sai…anche quando ero mortale, prima di divenire una
stella, abitavo nella
Colchide, sorvegliata da un Drago. Ero un bellissimo ariete dal vello
dorato”.
“E
poi cos’è successo?”.
“Non
lo so esattamente. Immagino che per Zeus fossi qualcosa di talmente
prezioso da
meritare il cielo, forse. Non me lo sono mai chiesta”.
Drago
sorrise ed accelerò, fino a quando videro la terra.
“Vedi?
Quella laggiù e la Grecia. Passeremo fra Creta e Cerigo,
rimanendo sull’acqua,
così da non farci vedere” spiegò Long.
“Possiamo
scendere un po’?”.
“Ok,
ma non troppo. Se ci vedono, avremo qualche problema”.
Scendendo,
passarono molto vicini ad una città chiamata
Kanìa, sulla costa di Creta.
“Aspetta!”
esclamò Hamal “Probabilmente mi sarò
sbagliata, ma mi pare che laggiù ci sia
qualcuno che conosco”.
Drago
si fermò e scese, fino ad atterrare in uno spiazzo
disabitato poco lontano
dalla città. Ariete si mise a correre, raggiungendo la
costa. Da lì partivano i
traghetti per Atene.
“Eccoli!”
urlò ad un tratto, indicando la folla.
Aveva
individuato Aldebaran, Al Risha e Acubens, assieme alle Orientali che
li
accompagnavano. Purtroppo, loro non potevano né vederla
né sentirla, ammassati
alla gente che doveva partire per mare. Ariete si sbracciò e
saltò, urlando, ma
non la udirono.
“Come
attiriamo la loro attenzione?” domandò Hamal a
Long.
“Avvicinandoci?”
borbottò Drago, prima di capire che bastava avvisare le sue
colleghe.
Chiuse
gli occhi e lanciò un messaggio, sperando che una delle due
le percepisse.
“Sono
qui!” esclamò Tù, alzando la testa e
guardandosi attorno.
“Chi?”
biascicò Al Risha.
“Drago.
È assieme all’Ariete”.
“Dove
sono?” volle sapere Acubens, rizzandosi sulla punta dei piedi
per cercare di
vederli.
“Fuori
dalla coda” spiegò Lepre.
“Dì
loro di raggiungerci!”.
“E
come? Non possono mica materializzarsi qui in mezzo!”.
“Possono
salire sul nostro stesso traghetto”.
Drago,
percepito il messaggio di Tù, si mise in coda assieme ad
Ariete.
“Chi
è la più leggera fra di voi?”
domandò Aldebaran.
“Non
è educazione chiedere il peso alle signore” lo
rimproverò Pesci.
“Credo
Acubens” suggerì Tù.
In
realtà, molto probabilmente, era lei la più
leggera della compagnia ma preferì
non dirlo. Toro, senza dare spiegazioni, prese Cancro sulle spalle.
“Li
vedi?” le domandò.
Lei
si guardò attorno per un po’, prima di esclamare
di sì. Anche Drago aveva avuto
la stessa idea e portava Hamal sulle spalle. Cancro ed Ariete si
salutarono,
piene di entusiasmo. Non riuscivano a sentirsi, ma sapersi
così vicine le
riempiva di gioia.
Una
volta sul traghetto, erano riusciti a rincontrarsi tutti quanti. Fra
abbracci e
pugni al braccio, si raccontarono varie cose, mentre lentamente
navigavano
verso Atene. Gli Orientali, preoccupati nel sapere che c’era
un gruppetto di
loro con intenzioni poco amichevoli nei confronti degli Occidentali,
discutevano su come rimediare ad un simile ammutinamento. Sapevano che,
una
volta giunti ad Atene, dovevano correre a recuperare Adhafera, avvisata
mentalmente
da Drago di attendere il gruppo in aeroporto.
“Finalmente
si inizia a ragionare! Siamo di nuovo un gruppo!”
esclamò Cancro.
“E
una volta recuperata Adhafera, che facciamo?”
domandò Pesci, con lo sguardo
perso nel vuoto.
“Un
gruppetto di voi è sul monte Olimpo. Direi di raggiungerli,
mi sembra un ottimo
posto per chiamare la nostra Signora. È isolato dai mortali
e senza
inquinamento luminoso” rispose Capra.
“E
come ci arriviamo fin lì?” insistette Pesci.
“Fino
ad un certo punto possiamo usare il treno, o qualche altro mezzo, ma un
pezzo è
inevitabile farlo a piedi” disse Lepre.
Al
Risha annuì, finalmente soddisfatto, e si
appoggiò alla nave, con lo sguardo
verso il mare.
Leone,
tranquillamente seduta su una panchina in sala d’aspetto, si
guardava attorno
curiosamente. L’aeroporto di Atene era grande e molta gente
andava e veniva.
Lei, l’unico con un piccolo zaino e non con una valigia
enorme, guardava tutti,
cercando di capirne qualche caratteristica. Per passare il tempo, si
inventò
per ognuno degli occupanti della sala una storia interessante.
Sbadigliò. Il
viaggio era stato stancante e voleva solo dormire un po’.
Sapeva, però, di non
poterlo fare. Doveva stare all’erta. Scimmia poteva aver
intuito la sua meta.
Iniziò ad agitarsi. E se l’avesse trovata prima
lei dei suoi compagni? Per
quanto fosse brava a combattere, senza magia non aveva speranza.
Fortunatamente, non passò molto tempo prima che sentisse una
voce familiare
poco lontano.
“Hamal!”
chiamò, alzandosi in piedi e facendo sobbalzare tutti i
presenti.
“Adhafera!”
rispose Ariete, correndo nella direzione della voce.
Ora
il gruppo era riunito. C’era Aldebaran, il più
grosso di tutti, vestito di
verde e senza alcun oggetto con sé, c’era Acubens,
con il fucile celato dalla
magia dell’Orientale che si occupava di lei, ovvero Yang.
Lepre non staccava
gli occhi da Al Risha, ancora intontito e desideroso di sostanze
stupefacenti,
e Drago girava la testa continuamente, in cerca di qualche segnale di
pericolo.
“Muoviamoci.
Saremo più al sicuro lontano di qui” disse,
trovando l’approvazione di buona
parte del gruppo.
Solo
Pesci non annuì, ma quello non era in grado né di
annuire né tantomeno di fare
qualsiasi altra cosa in quel momento. Il suo cervello era ben lontano,
e non
aveva lasciato detto quando sarebbe tornato.
Il
gruppo si fermò in un albergo per la notte. Gli Orientali
avevano notato che le
costellazioni cadute erano stanchissime dopo tutti quei viaggi, e
decisero che
era di certo meglio ripartire dopo un po’ di riposo. Nel
frattempo loro, non
avendo bisogno di dormire, avrebbero fatto la guardia, nel caso
qualcuno dei
disertori si fosse ripresentato.
₪₪₪
“Mi
senti? Gou, mi senti?” chiamava Cavallo.
“Ti
sento” rispose Cane, dopo qualche tentativo.
“Come
stai? I tuoi poteri si ricaricano?”.
“Purtroppo
no”.
“Cosa
pensi di fare?”.
“Io
non posso lasciare l’America senza alcun potere, ma tu non so
se ne hai a
sufficienza per farci muovere tutti quanti”.
“Dopo
il risveglio dell’ubriacone biondo, non ne ho molto in
effetti. Ma ci dobbiamo
arrangiare con quello che abbiamo. Sicura che non esista un rituale per
ricaricarsi?”.
“Io
non ne conosco”.
“Senti,
l’importante è che le costellazioni raggiungano la
Grecia entro il tempo
stabilito. Noi possiamo anche fare a meno di partire. Se riusciamo ad
incontrarci,
possiamo far partire loro su un aereo e questo basterebbe. Sono in
quattro,
dovrebbero cavarsela benissimo!”.
“Sei
riuscito a convincere entrambi i gemelli a seguirti?”.
“Son
tornati ad essere i gemellini inseparabili di un tempo”.
“Sei
in rado di venire qui a New York?”.
“Non
è un problema quello. Il gruppo di deficienti che ha trovato
Gemelli fa tutto
quello che Mek gli dice. Già ci han detto che saranno
onorati di portare le
stelle ovunque lo desiderino. Purtroppo, non hanno abbastanza soldi per
pagarci
il viaggio verso Atene”.
“Se
riusciamo a far partire i quattro, avremmo svolto il nostro compito.
Poi si
vedrà. Forse ci verranno a prendere i nostri
compagni”.
“Ce
la faremo. Non resteremo sulla Terra, vedrai”.
“Piuttosto
mi butto in mare…”.
Cavallo
sghignazzò, prima di interrompere il collegamento con Cane,
perché Buda si era
svegliato e lo stava fissando con aria interrogativa.
“Dobbiamo
andare a New York, il più presto possibile” disse
Ma.
“Non
mi sembra una meta tanto vicina…”.
“Ma
dai…ci sarà un motivo per cui ho specificato che
ci dobbiamo muovere il più
presto possibile, no? Dobbiamo raggiungere Bilancia e Cane”.
“Perché?”.
“Perché
Gou è rimasta quasi senza magia e non può far
rientrare in Grecia Bilancia”.
“E
allora? Cosa c’entriamo noi?”.
“Domanda
idiota. Le costellazioni devono essere tutte nello stesso posto per
tornare in
cielo”.
“Capito.
Ma non c’è nessun’altro che
può passare a prenderle?”.
“In
questo momento, noi siamo il gruppo più indietro. Quattro di
voi sono già
sull’Olimpo e cinque li stanno per raggiungere. I restanti
son in viaggio e non
gli manca molto. Mentre noi siamo qua, dall’altra parte della
Terra!”.
Buda
capì la situazione e svegliò Mek. Il fratello era
ancora un po’ debole ma era
perfettamente guarito, dopo diversi mesi di riabilitazione.
“Cosa
c’è?” mugolò.
“Devi
chiedere ai tuoi amichetti se ci portano a New York”.
“Chiediglielo
tu”.
“Non
mi ascoltano. Sei tu il loro preferito”.
Mek,
sbadigliando, uscì dal letto molto lentamente. Sperava che
la faccenda di
tornare in cielo si rivelasse molto meno complicata.
“Ragazzi,
me la date una mano?” biascicò, rivolto al gruppo
di cacciatori di alieni, che
fissavano il cielo in cerca di dischi volanti.
“Certo,
o viaggiatore dello spazio. Cosa ti serve?”.
“Dobbiamo
andare a New York”.
“Non
c’è problema. Abbiamo due jeep”.
“Quanto
tempo ci vorrà?”.
“Ad
attraversare tutti gli Stati Uniti? Un bel po’, ma non
abbiamo altri mezzi”.
“Un
bel po’ che significa? Circa…”.
“Un
paio di mesi, almeno”.
Mek
e Buda si fissarono. Era primavera, quasi estate. Dovevano essere in
Grecia per
l’inizio dell’inverno. Poteva starci come
tempistica…
“Altrimenti
potete andare a rubare. Così facendo vi procurereste
abbastanza soldi da
potervi permettere mezzi più rapidi”
suggerì uno dei caccialieni.
“E
farci arrestare? In jeep andrà benissimo”
sbottò Cavallo, invitandoli a
vestirsi e preparare le valige, per poter partire immediatamente ed
alla
svelta.
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Capitolo 10 *** 9 ***
X
Dopo
aver caricato le jeep con viveri e tutto ciò che, secondo
loro, poteva
risultare utile durante il viaggio, il gruppo si apprestava a partire.
Mek,
ancora un po’ provato dallo scontro diretto con il camion,
sedette comodamente
sui sedili posteriori, pronto a schiacciare un pisolino. Buda
consultava la
mappa degli Stati Uniti, calcolando quale fosse la via più
rapida per
raggiungere New York. Cavallo, piuttosto impaziente, incitava i
cacciatori di
alieni a darsi una mossa e partire.
“Mi
auguro che queste carrette reggano fino alla fine del viaggio, e non si
scassino a metà” borbottò, salendo ed
allacciandosi la cintura.
“Hanno
una certa età, ma vedrete che andrà tutto
bene” rispose un amante di alieni,
sorridendo in modo idiota.
Cavallo
guardò verso il cielo, augurandosi che qualcuno gli desse
una mano. Viaggiando
su due mezzi. Sul primo stavano seduti Gemelli, Cavallo e il
proprietario della
Jeep, che di certo sapeva guidare meglio di Ma, Mek e Buda.
Sull’altra auto, li
seguivano altri amici degli alieni, assieme a buona parte delle
provviste.
Cavallo si chiese se, nel caso si fosse rotta una delle due jeep, come
avrebbero fatto ad andare avanti tutti quanti. Probabilmente avrebbero
lasciato
il superfluo a terra, concluse, ghignando soddisfatto verso quel branco
di
malati di mente.
“Siamo
tutti pronti?” domandò una donna,
dall’auto in coda.
“Già
da un pezzo…” brontolò Cavallo, odiando
i temporeggiamenti.
Partendo
da una cittadina non lontano da Las Vegas, non ci misero molto ad
attraversare
lo stato del Nevada, raggiungendo l’Arizona seguendo il corso
del fiume
Colorado. Ovviamente, come Ma temeva, per i simpatizzanti degli
extraterrestri
quella era una specie di gita e non facevano che fermarsi per scattare
foto,
mangiare e dormire. Dopo il gran canyon, deviarono fino ad un cratere
meteoritico ai confini della foresta, accanto al quale decisero che
potevano
fermare le auto e riposare per la notte. Cavallo provò a
protestare, ma poi
notò lo sguardo stanco dei Gemelli e non disse altro. Non
capiva perché i
mortali avessero tanto bisogno di dormire, mangiare, andare in
bagno… Era
proprio felice di non essere come loro. Steso in terra, con gli altri
addormentati nelle jeep, guardava il cielo. Chissà come se
la stava passando
Kuruma… E gli altri suoi colleghi erano riusciti a portare
le costellazioni in
Grecia o ce ne erano ancora di sparse per il Mondo? Decise che doveva
risparmiare le forze magiche e che non era il caso di mettersi a
cercarli.
Però, nel buio e nel silenzio, contattò Gou,
Cane, che non rispose subito.
Cavallo insistette, fino a quando l’immagine della sua
collega non gli apparve
davanti.
“È
piena notte!” protestò Cane “Cosa
c’è?”.
“Come
piena notte?! Il sole è appena tramontato!”.
“Ben
lì da te. Si chiama fuso orario”.
“Beh
ma tanto che problema c’è? Mica
dormi…”.
“Da
quando i miei poteri si sono ridotti, ogni tanto mi capita di voler
dormire”.
“Ti
ho svegliata?”.
“Già…”.
“Mi
spiace”.
“Ormai
sono in piedi. Dimmi, dove siete? Siete partiti?”.
“Sì,
stamattina, ma prevedo un viaggio piuttosto lungo e fastidioso. Quelli
che
guidano sono dei pelandroni e non fanno altro che fermarsi,
chiacchierare, andare
piano e cazzeggiare”.
“Abbiamo
ancora tempo”.
“Preferirei
andare sul sicuro, sinceramente…”.
“Lo
so, tutti noi lo vorremmo, ma devi avere pazienza”.
“Non
ne ho mai avuta!”.
“Altra
cosa che so”.
“Stiamo
arrivando, comunque. Aspettateci”.
“Non
abbiamo alternative. Nel frattempo stiamo mettendo da parte un
po’ di soldi,
così da rendere il viaggio più semplice da
gestire, anche dal punto di vista
magico”.
“Ottimo.
Qui il più organizzato sono io…pensa
ciò che significa!”.
“Mi
vengono i brividi solo a pensarci. Beh, buon viaggio. Ora io torno a
dormire”.
“Buona
notte. Avvisami se ci sono novità”.
“Idem”.
“Sperando
di non dover mai dare notizie negative”.
Cane
sorrise, chiudendo il collegamento con Cavallo, che sospirò,
mangiucchiando una
spiga. Fosse stato per lui, non ci sarebbero state soste ma sapeva bene
che per
i mortali fare una cosa del genere era del tutto impossibile.
Sbadigliò.
Chissà…forse farsi una dormita non era poi
così male…
₪₪₪
Chi
era quell’uomo che vedeva davanti a sé? Aveva
un’aria familiare ma non riusciva
a riconoscerlo. Si muoveva nell’ombra, con lunghi capelli
neri lasciati liberi
al vento e brillanti occhi rossi, come due stelle nel buio. Lo stava
guardando,
ne era sicuro. Ma cosa voleva? Non parlava, nessuno dei due diceva una
parola,
e rimanevano immobili a fissarsi. Il contesto in cui si trovavano non
era
chiaro. Si vedevano solo nebbia e ombre, contorni indefiniti di quello
che
doveva essere uno spazio aperto che si perdeva a vista
d’occhio.
“Chi
sei?” riuscì a domandare.
L’uomo
non rispose. Allungò una mano davanti a sé e lo
scenario cambiò. C’era un treno
che procedeva rapido sui binari quando, ad un tratto, si udiva un botto
e il
mezzo deragliava. Si alzava un gran polverone, si sentivano grida,
sbattere di
lamiere, sirene e scoppi, provocati dalle fiamme che avvolgevano gli
scompartimenti colpiti. Chi poteva, correva. Chi era rimasto
intrappolato
gridava aiuto oppure giaceva inerme lungo i binari e i vagoni
squarciati.
“Sadalmelik!”
si sentì urlare fra la folla in fuga, ma lei non poteva
rispondere perché, poco
più in là, stava in terra con il corpo tranciato
di netto da una lamiera.
Kosmos
urlò, nel sogno e nella realtà, e
tornò a voltarsi verso l’uomo che gli aveva
mostrato quelle cose, chiedendogli chi fosse. Nemmeno stavolta
l’essere rispose
ma si avvicinò al caduto Signore Occidentale. Era parecchio
più alto di Kosmos
e questi si sentì decisamente intimorito. La creatura
sorrise, seppur in modo
inquietante, e gli sfiorò il viso.
“Svegliati”
gli mormorò, prima di sparire in un turbinio di particelle
luminose.
“Svegliati!”
gli stava dicendo pure Sadalmelik, quando riaprì gli occhi.
Kosmos
si guardò attorno, piuttosto agitato, sforzandosi di tornare
a rilassarsi.
Chiuse gli occhi, respirando piano, quando il sobbalzare del treno lo
fece
allarmare nuovamente.
“Dobbiamo
andarcene da qui. Il treno deraglierà” disse.
“Cosa?!
Era solo un sogno, Kosmos. Non ti accadrà niente, sta
tranquillo” tentò di
calmarlo Hu.
“Io
l’ho visto. Ho visto cosa accadrà e quali
conseguenze avrà!” insistette il
sognatore.
“Era
solo un sogno” ripeté Tigre, scandendo ogni
singola parola.
“No,
non era solo un sogno! C’era un uomo che… Dovete
fidarmi di me!”.
“E
cosa pensi di fare?”.
“Ci
dobbiamo spostare. Andare verso altri scompartimenti. Lo dobbiamo
fare!”.
“Ma
siamo quasi arrivati!”.
“Cosa
ci costa?” disse Acquario “Ci sgranchiamo un
po’ le gambe e lui sarà più
tranquillo”.
“Gliele
dai sempre tutte vinte!” borbottò Tigre, alzandosi
controvoglia.
Kosmos
partì spedito lungo il vagone, trascinando Sadalmelik con
sé. Hu protestò,
trovando la cosa inutile e continuando a domandare scusa agli altri
passeggeri
con frasi del tipo “Scusatelo, è matto! State
tranquilli”. Il Signore del cielo
non si sentì tranquillo fino a quando non
attraversò due vagoni per intero e
raggiunse il terzo, giusto in tempo prima che lo scomparto in cui
stavano
venisse sbalzato verso l’esterno da una forza poco chiara.
L’intero treno vibrò
e si mosse di colpo, gettando a terra i tre passeggeri inquieti e
inclinandosi.
“Cazzo,
è deragliato sul serio” mormorò Tigre,
ancora steso e dolorante.
Kosmos
non disse nulla. Si voltò verso Sadalmelik, accertandosi che
stesse bene.
Sorrise, quando vide che lei fu la prima di loro a riuscire ad alzarsi
in
piedi. Uscirono dalle finestre distrutte, dando una mano anche agli
altri
passeggeri.
“Tutto
bene?” domandò Tigre, avvolto da una lieve luce
rossastra che ne stava guarendo
le ferite.
“Io
sto bene. Solo qualche graffio” rispose Acquario.
“Anche
io tutto ok. Ho solo botte, ma non dovrei avere nulla di
rotto” mormorò Kosmos,
tossendo per la polvere e il fumo.
Il
trio diresse lo sguardo verso il vagone dove stavano seduti in
precedenza. Era
completamente distrutto, come se contro gli fosse stata lanciata una
granata o
una palla di cannone.
“Beh,
a quanto pare ci hai salvato la pelle” commentò
Tigre.
Kosmos
non rispose, ancora terrorizzato dal sogno e da quanto era appena
successo.
“E
adesso cosa facciamo?” domandò Sadalmelik.
“Propongo
di dare una mano. Ci saranno sicuramente dei feriti. Poi vedremo. Una
soluzione
la troveremo” rispose Tigre, rimboccandosi le maniche ed
andando verso il punto
centrale dell’incidente.
“Potrebbe
esplodere” disse Kosmos.
“Solo
nei film succedono cose del genere” ghignò Hu.
Sadalmelik,
quella che aveva subito meno conseguenze dal botto, perché
protetta sia da
Tigre che da Kosmos, seguì Hu con convinzione. Sentiva
gridare la gente e la
cosa non le piaceva. Il caduto Signore, non vedendo altra soluzione,
camminò
dietro i due con lentezza. Era tutto indolenzito e zoppicava.
Sospirò. Chissà
quante botte blu si sarebbe ritrovato sulla pelle fra poco! Si scosse,
dicendosi che là in mezzo c’erano delle persone
che stavano molto peggio di lui
e che avevano bisogno del suo aiuto! Guardò sulla cima del
vagone ribaltato e
rimase decisamente stupito da ciò che vide. C’era
una donna nera, vestita di
verde, tranquillamente in piedi su di esso, senza nemmeno un graffio.
Capì
subito che ci fosse qualcosa che non andava. Prima quello strano uomo
nel suo
sogno e ora quella donna dal sorriso inquietante…decisamente
troppo da
affrontare in una volta sola. Decise di ignorare l’uomo del
sogno e si
concentrò sulla donna, sforzandosi di correre verso Tigre.
Probabilmente la sua
caviglia era slogata, a causa dell’impatto con altri
passeggeri e valige che
erano cadute quando il treno si era ribaltato sul fianco. Le mani, con
cui si
era riparato la testa e trattenuto Sadalmelik, sanguinavano ma non ci
fece
caso.
“Hu!”
lo chiamò, tentando di farsi sentire fra la folla.
Capì
che era una cosa impossibile. Vide Sadalmelik avvicinarsi al vagone,
che
sembrava esploso dall’interno. Si era accovacciata per
aiutare una donna ad
uscire. La maggior parte degli occupanti di quello scompartimento erano
morti.
Tutti gridavano, dicendo che era stato un attacco terroristico. Kosmos,
spostando alcune lamiere, vide muoversi la donna nera verso Acquario.
La cosa
non gli piacque ma, con sollievo, vide che pure Tigre aveva notato la
cosa e si
avvicinava per proteggerla.
“Traditore!”
gridò la donna in verde, avventandosi contro Hu, che si era
contrapposto fra
lei e Sadalmelik, ringhiando.
Scaraventò
Tigre lontano, contro un albero. Kosmos, cercando di capirci qualcosa,
corse
verso lo scaraventato, sperando che non si fosse fatto troppo male. La
donna,
con un balzo soltanto, aveva portato via con sé Sadalmelik.
Doveva fare
qualcosa, ma cosa? Tanto per cominciare, far rinvenire Tigre! Lo scosse
con
forza, chiamandolo. Hu riaprì gli occhi, gemendo.
“Ha
preso Sadalmelik!” riuscì a dire.
“Era
una delle tue amichette, vero?” chiese conferma Kosmos.
“Shè.
Serpente”.
“Capisco.
E perché ti ha dato del traditore?”.
“Perché
in principio io, lei ed altri Orientali non eravamo d’accordo
di farvi
rientrare al cielo e quindi avevamo stabilito che vi avremo impedito di
arrivare in Grecia”.
“Ah,
buono a sapersi!” sbottò Kosmos, piuttosto
accigliato.
“Ma
io ho cambiato idea. E vi sto aiutando”.
“Le
spiegazioni potresti rimandarle? Lei ha preso Sadalmelik! La
ucciderà!”.
“Non
la ucciderà. Se lo facesse, Kuruma lo verrebbe a sapere e la
punirebbe in un
modo che non mi è concesso nemmeno immaginare. La nostra
missione era quella di
tenervi lontano dalla Grecia fino al giorno in cui sarebbe stato troppo
tardi.
Dopodiché, qualsiasi cosa fosse successa dopo, non sarebbe
stato un nostro
problema”.
“Quindi
non la ucciderà?”.
“No.
E tu ora te ne devi andare. Shè, una volta messa al sicuro
Sadalmelik, verrà di
certo a prendermi. L’ho visto nei suoi occhi che fremeva
dall’idea di farmela
pagare. Tornerà qui e non ti deve trovare. Non ti ha
riconosciuto, altrimenti
ti avrebbe fatto a pezzi, perciò…”.
“Hei,
un momento! Mi hai detto che non volete ucciderci!”.
“Quello
riguarda le costellazioni. Kuruma ha specificato di non fare del male a
quelle,
su di te non ha detto niente”.
“Che
bella notizia” borbottò Kosmos, decisamente
sarcastico “Cosa facciamo? Andiamo
a riprenderci Sadalmelik o restiamo qui a grattarci?”.
“Non
puoi venire con me. Ci penso io a lei”.
“Ma
posso darti una mano! Non ti lascio da solo!”.
“No,
non puoi darmi una mano! Sei senza magia, Shè è
spietata e pericolosa. Ti
ucciderà appena capirà chi sei,
credimi!”.
“E
a te non farà del male, scusa?”.
“Lei
non mi ha mai battuto”.
“E
allora perché sei steso a terra, con la testa contro un
albero?”.
“Mi
ha preso alla sprovvista”.
“Sì…come
no…”.
“Devi
andare via, Kosmos. Scappa, nasconditi, c’è una
foresta poco lontano. Aspettami
lì. Ti verrò a prendere, quando avrò
recuperato Sadalmelik”.
“Sicuro
di non volere il mio aiuto?”.
“Sicuro
che davvero mi serva a qualcosa il tuo aiuto, mortale?”.
Kosmos
attese qualche istante prima di ricominciare a parlare: “Mi
verrai a
prendere?”.
“Certo.
Fidati. E se dovessi metterci troppo, va avanti verso la
Grecia”.
“Da
solo? E come credi che possa farlo? Tutta la mia roba è
rimasta sul treno!”.
“Lo
so. Cerca di andarci il più vicino possibile, poi
verrò io ad aiutarti,
tranquillo”.
“E
se muori?”.
“Mamma,
quanto sei pessimista! Non posso morire, Kuruma mi rimanderebbe qui.
Scappa,
allontanati, corri!”.
“Ma…da
solo…nel bosco…”.
“Mi
sembri un bambino capriccioso! Muoviti, prima che torni”.
Kosmos
continuò a lamentarsi ma Tigre lo ignorò,
mettendosi in piedi e allontanandosi
a balzi verso dove aveva visto sparire Shè. Il Signore
Occidentale si sedette
in terra, storcendo la bocca.
“Vattene!
Muoviti!” gridò Tigre.
Proprio
in quel momento, parte del treno che aveva preso fuoco praticamente
esplose,
con un boato assordante. Kosmos, senza pensarci nemmeno un secondo,
convinto
che fosse un segno del ritorno di Shè, si mise a correre
verso la foresta.
Doveva trovare un buon nascondiglio, ignorando il dolore che provava un
po’
ovunque, prima che Serpente lo trovasse. Corse, cadendo ed incespicando
lungo
una salita fra gli alberi. Si stava facendo buio. Ormai nel cuore della
foresta
che ricopriva la montagna, decise che era meglio fermarsi e trovare un
posto
sicuro. Lo trovò dentro il tronco cavo di un enorme abete
ormai secco. Si
rintanò lì dentro, dolorante. Doveva aspettare
Tigre. Avere fiducia ed
aspettare Tigre, assieme a Sadalmelik. Per quella notte sarebbe rimasto
tranquillo, senza dare nell’occhio, per evitare problemi. Con
la venuta del
giorno avrebbe tentato di trovare qualcosa da mangiare e sistemarsi le
ferite.
Aveva il viso e buona parte del corpo sporco di terra, dopo le cadute,
e
sangue. Si sentiva malissimo ed era piuttosto preoccupato, ma si
sforzò di
rilassarsi quel che bastava per non tremare e dormire qualche ora.
Doveva
recuperare le forze, nel caso fosse stata necessaria un’altra
fuga o un lungo
viaggio in solitaria verso la Grecia.
“Voglio
tornare a casa” mormorò, rannicchiandosi e
sprofondando la testa fra le
ginocchia.
₪₪₪
“Che
state combinando?!” spalancò gli occhi Astrea,
rientrando al rifugio.
I
tre Orientali si erano allontanati per recuperare parte del gruppo che,
da quel
che si era capito, era arrivato ad Atene. Da soli, avrebbero avuto
qualche
difficoltà a trovare il rifugio e così, di comune
accordo, gli Orientali erano
partiti per andare a riprenderli, sicuri che le costellazioni fossero
perfettamente in grado di pensare a loro stesse. L’unico
rimasto era Gallo, che
però era legato all’esterno e non poteva far altro
che guardare, imbavagliato.
Vergine era uscita per lavare un po’ di roba al fiume e, al
ritorno, aveva
trovato l’allegra compagnia in preda a non capiva quale
follia che cantava e
gridava cazzate. Tutti la ignorarono, continuando a fare casino. Lei li
guardò
e poi vide che, al centro della stanza, seduto sul tavolo,
c’era Rukbat con una
bottiglia verde scuro in mano. Accigliata, gli si avvicinò e
gliela strappò
dalle mani.
“Ma
siete impazziti tutti quanti?!” gridò
“Dare del vino ad un centauro?! Ma che vi
dice il cervello?! Possibile che avete ancora bisogno della babysitter
alla
vostra età?!”.
“Perché?
Che problema c’è?” domandò
Antares, senza capire.
“Intanto
Rukbat non regge l’alcol, come puoi
vedere…” rispose Astrea, indicando
Sagittario ondeggiante sul tavolino “…e poi questa
roba lo rende perverso e
violento. È una cosa che ogni abitante della Grecia antica
sa”.
Guardando
male Capricorno e Scorpione, Vergine tentò di requisire
tutto l’alcol ma vide
subito che era impossibile. Inoltre, usando il suo cellulare, avevano
contattato le ex coinquiline di Astrea, per fare un po’ di
festa.
“Vado
via mezz’ora e guardate qua che…”
riprese a protestare.
“Ma
datti una calmata!” sbottò Antares “Fai
venire il mal di testa! Non c’è niente
di male in quello che stiamo facendo”.
“Perché
non ci hai detto subito che i tuoi amici sono così
carini?” biascicò Maia,
abbracciando Scorpione in preda ai fumi dell’alcol.
“A
saperlo prima, ti avremmo seguito ovunque!”
ridacchiò Alìs, sorridendo a Deneb
Algiedi.
Rukbat
vaneggiava, dicendo cose senza senso e frasi sconnesse. Astrea lo prese
a
sberle, con l’intento di farlo tornare in sé.
“Siete
un branco di cretini. Riprenditi, idiota!”.
Antares
sbuffò.
“Possibile
che non vi rendiate conto di quanto siate imbarazzanti? A che
età inizierete a
fare le persone adulte?” continuava a protestare Astrea,
togliendo di mano a
Sagittario le bottiglie di vino man mano che lui se le procurava e le
apriva.
“Rukbat”
lo chiamò Scorpione “Falla stare zitta, per
favore!” sibilò.
Sagittario
guardò il vuoto per qualche istante, prima di afferrare
saldamente Vergine per
le braccia. Lei, ricordando quanto i centauri potessero divenire
violenti, si
spaventò ed iniziò a dimenarsi, per farsi
lasciare.
“Mi
fai male! Lasciami!” ringhiò Astrea.
“Chiudile
la bocca!” insistette Scorpione.
Rukbat
sorrise e la tenne stretta, facendola avvicinare e mettendola a tacere
con un
bacio.
“Non
era proprio quello che avevo in mente…” ammise
Antares “…ma suppongo che vada
bene lo stesso. Divertitevi…”.
Vergine
rimase sconcertata da quel gesto, non aspettandoselo minimamente e non
sapendo
in che modo reagire. La musica dell’mp3 dell’agente
Carlyle, attaccato a delle
casse che avevano portato le due ragazze ospiti, era molto forte e
Capricorno
l’alzò ulteriormente, abbracciando
Alìs. Rukbat, senza lasciare andare Astrea,
continuò a sorriderle. Lei smise di dimenarsi, riflettendo
su alcune cose.
Doveva prendere una decisione. Sapeva che i suoi due colleghi, Antares
e Deneb
Algiedi, erano andati a divertirsi con le sue ex coinquiline e che ora,
in
quella piccola stanza, c’erano solo lei e Sagittario, che
aveva la stessa
espressione di Bambi quando si perdeva fra le nuvole. Rukbat non
notò né il suo
tentativo di fuga precedente né il suo tentennamento attuale
e riprese a baciarla.
Lentamente, scese dal tavolo e la tirò a sé,
facendo in modo che entrambi si
ritrovassero distesi sul pavimento. La guardò, stupito dal
silenzio di lei, che
chiuse gli occhi.
“Ciao”
le sussurrò, non trovando altre parole in quel momento e
ricominciando a darle
baci dove capitava, stringendola.
Lei
non rispose, ma sorrise. Aveva preso la sua decisione.
Guardò negli occhi
argento Rukbat, afferrandogli il viso fra le mani, e fu lei stavolta a
baciarlo, dando così il permesso silente che Sagittario
poteva farle ciò che
voleva. Ovviamente Rukbat sapeva bene quello che voleva e lo ottenne,
gemendo,
prima dell’alba.
₪₪₪
Hamal
stava saltando sul letto dell’albergo, con entusiasmo
insensato, quando il
telefono della stanza suonò. Rispose Aldebaran, rimanendo
steso sul
matrimoniale in cui aveva dormito. Quando riattaccò,
guardò gli altri suoi
compagni.
“C’è
qualcuno che vuole vederci alla reception” disse.
“Vado
io a controllare” rispose Drago, sospettoso.
Adhafera,
uscendo dalla doccia asciugandosi i capelli, sorrise nel vedere Al
Risha
abbandonato sul letto, addormentato, con l’aria di chi sta
facendo un
bellissimo sogno.
Lepre
e Capra stavano giocando a carte, attendendo notizie di Drago. Erano da
giorni
in quell’albergo, in cerca di relax e riposo. Grazie a
massaggi e servizio in
camera, ora stavano tutti molto meglio, compreso Pesci che si stava
riprendendo
dall’abuso di droga ed aveva trovato
nell’idromassaggio un ottimo sostituto
all’eroina.
“Ragazzi,
di sotto ci sono Shu, Niu e Zhu” sorrise Long, rientrando in
stanza “Ci
aspettano per accompagnarci dove stanno le altre costellazioni, sul
monte
Olimpo”.
“Fantastico!”
esclamò Tù “Preparate tutta la vostra
roba, che andiamo!”.
“Andiamo
dove?” domandò Leone, non avendo sentito buona
parte della conversazione a causa
del phon acceso.
“Andiamo
dagli altri!” rise Hamal, continuando a saltare.
“Manca
poco ormai. Presto sarete a casa” sorrise Yang.
“Non
vedo l’ora!” commentò Acubens,
trattenendosi dallo sparare in aria con l’ormai
inseparabile fucile.
“Andiamo.
Ci aspettano di sotto” incitò Drago.
All’ingresso,
trovarono Topo, Bue e Maiale ad attenderli.
“Dove
sono i nostri colleghi?” domandò Leone.
“Al
rifugio. In un paio di giorni saremo là” ripose
Shu.
“Voi
chi di noi guidate?” volle sapere Acubens.
“Io,
Topo, mi occupo di Rukbat. Niu di Deneb Algiedi e Zhu di
Antares”.
“Cioè
mi stai dicendo che in questo momento, da soli, avete lasciato
Sagittario,
Capricorno e Scorpione?! Spero abbiate previsto le
conseguenze…” ghignò Al
Risha.
“C’è
Astrea con loro” rassicurò Niu.
“Allora
sono già più tranquillo. Quella è in
grado di tenerli a bada…più o
meno…”.
“Non
hanno litigato fra di loro? I tre maschi, intendo” insistette
Adhafera.
“Continuamente.
Non fanno che rinfacciarsi tentativi di omicidio, specie Antares e
Rukbat, mentre
Deneb Algiedi se ne sta lì, tutto divertito, ad ascoltare la
conversazione e
scommettere su chi verrà prima alle mani”
mormorò Zhu “Anche per questo siamo
venuti qui tutti assieme. Non ne potevamo più delle loro
continue lagne, beghe
e risse. Ma come fate a sopportarli tutto il giorno al palazzo
Occidentale? Non
impazzite?”.
“Siamo
in tanti. Riusciamo a tenerli separati. Inoltre, quando siamo tutti
assieme,
hanno valvole di sfogo. Antares, ad esempio, va a far visita a Bilancia
e
potete immaginare cosa ci faccia il segno più affascinante
dello zodiaco con
lei. Rukbat si allena con varia gente, scaricando la tensione e la
rabbia.
Deneb Algiedi a palazzo ha molte altre attività da svolgere
senza dover stare a
guardare due che litigano e fare il tifo” spiegò
Aldebaran.
“Capisco…”
finse di comprendere Zhu.
“Non
ditemi che fra gli Orientali non litigate mai!”
sbottò Adhafera.
“Non
in modo così esplosivo…”.
Lepre,
incitando il gruppo a proseguire la conversazione in un altro momento,
fece
partire il viaggio della compagnia. Per non sfruttare ulteriormente la
loro
magia, gli Orientali decisero che il modo migliore per raggiungere la
meta
fosse quello di prendere il treno fino a Larisa e poi da lì
proseguire a piedi.
Faceva molto caldo, se ne rendevano conto, ma non potevano rischiare di
usare
ulteriori poteri. Forse Kuruma ne avrebbe avuto bisogno per farli
rientrare o
forse sarebbero serviti per motivi più urgenti. Ignorando le
proteste dei
mortali, i sei Orientali li condussero fino alla stazione dei treni.
Lì furono
Ariete e Leone a pagare il viaggio, con i soldi rimasti dalle
interviste in
Italia. Erano tutti decisamente stufi di viaggiare e non vedevano
l’ora di
tornare a casa e riposare per un paio di millenni.
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Capitolo 11 *** 10 ***
XI
“Certo
che…fa caldo da queste parti!” commentò
Yang, sventolandosi il viso con gli
enormi biglietti del treno che stringeva fra le mani.
Nonostante
l’aria condizionata, sul mezzo l’afa si faceva
sentire a causa della calca e
dei problemi sulla linea, dovuti a scioperi e proteste scoppiate in
tutto il
paese per motivi poco chiari agli abitanti del palazzo del cielo.
“Ti
do ragione” rispose Acubens “Spero che dalle parti
dell’Olimpo, dove si trovano
gli altri, faccia un po’ più di fresco!”.
“E
speriamo abbiano un sacco di roba da bere!” aggiunse Al
Risha, trovando
particolarmente fastidiosa la disidratazione.
“E
una volta là? Che faremo?” domandò
Aldebaran.
“Attenderemo
che tutte le costellazioni siano presenti, dopodiché
chiameremo la nostra
Signora, che ci riporterà tutti quanti in cielo”
rispose Shu.
“Sì,
e nel frattempo? Mentre gli aspettiamo, che facciamo?”
insistette Toro.
“Non
lo so. Avrete un modo per divertirvi, voialtri! O passavate le giornate
a
grattarvi i maroni?” sbottò Zhu, parecchio
infastidito da tutta quella strada
che lo costringevano a fare.
“Intendi
dire che saremo in…quanti? Non lo so…in
tanti…in un rifugio minuscolo ad
aspettare i soliti ritardatari? Che chi sono, tanto per
intenderci…” borbottò
Adhafera.
“Gemelli,
Bilancia e Acquario non son ancora in Grecia”
mormorò Niu, guardando fuori dal
finestrino con aria assente.
“E
che stanno facendo? Festini?” ridacchiò Pesci.
“E
Kosmos?” aggiunse Hamal.
“Kosmos
non ci è concesso vederlo. Non sappiamo né dove
sia né come stia” fece sapere
Topo.
“Quindi
potrebbe essere morto?”.
“Può
essere. Non so” fu la risposta di Shu, con tono piatto e
staccato.
“Noi
lo abbiamo visto da poco!” informarono Ariete e Leone.
“Di
persona?”.
“No.
Per televisione”.
“Giusto!”
confermò Aldebaran, ricordando il programma.
“E
stava bene?” si informò Shu.
“Più
o meno. Era più pallido del solito ed aveva una tosse
inquietante. Sembrava
stanco, scoraggiato. Si è definito una creatura
inutile”.
“Temevo
potesse succedere una cosa del genere. Non ha il sistema immunitario
per
sopravvivere a lungo a questo pianeta”.
“Credi
che sia peggiorato?”.
“Quanto
tempo fa lo avete visto?”.
“Alcuni
mesi”.
“Sarà
sicuramente peggiorato”.
“Speriamo
che almeno si sia mosso verso la Grecia…”.
Hamal
ed Adhafera si fissarono, un po’ preoccupate. Avrebbero
voluto insistere con il
loro signore, riuscire a convincerlo che non si doveva arrendere, ma
non ne
avevano avuto il tempo.
“Topo”
parlò Aldebaran “Cosa succederebbe se noi dodici
dovessimo tornare in cielo e
Kosmos no? Cosa succederebbe se il nostro signore non riuscisse ad
essere dei
nostri?”.
“Non
te lo so dire. Immagino che Kuruma dovrebbe prendersi la
responsabilità di
entrambi i cieli e coordinarci tutti e ventiquattro, dodici Orientali
più
dodici Occidentali”.
“È
possibile?”.
“In
linea di massima, suppongo di sì. Comporterebbe uno sforzo
da parte della
nostra signora ma, immagino, con la collaborazione di
tutti…”.
“È
quello il punto! Shè ha tentato di uccidermi, come Scimmia
ha tentato di far
fuori Ariete e Leone. Non siamo tutti uniti, non può esserci
la collaborazione
di tutti”.
“Ma
che vuoi da me, Toro? Io non sono una Dea, non so che dirti.
Indubbiamente chi
ha interferito con la missione verrà punito severamente da
Kuruma, te lo posso
garantire”.
“E
se lei non avrà una punizione adeguata, ci penseremo
noi!” concluse Drago,
ghignando.
“Tutto
questo non ci porterà da nessuna
parte…” sbottò Aldebaran.
“Piantala
di fare il saccentone!” esclamò Niu, irritato da
quell’atteggiamento.
“Siamo
qui, caduti e incasinati, per colpa di un litigio e non è
litigando che
possiamo risolvere le cose!” ribatté Toro, con
decisione.
“Siamo
qui perché il vostro signore è una testa di cazzo
e la nostra signora una
zitella acida. Metti assieme le due cose ed ottieni queste minchiate,
che non
dovrebbero mai succedere ma, purtroppo, senza il cervello non si
può arrivare
da soli alle possibili conseguenze! Se qualcuno li avesse presi a
sberle da
piccoli, probabilmente a quest’ora non staremo in sto
casino” quasi urlò Long.
“E
chi vuoi che possa averli presi a sberle quelli da piccoli?! Son vecchi
come
l’universo!”.
“Già!
Questo lo so pure io!”.
“La
piantate di gridare?!” li zittì Ariete
“Ci sta guardando tutto il vagone!”.
“Non
ha senso litigare” aggiunse Pesci “Siamo tutti
nella stessa barca, e la colpa è
per metà Occidentale e metà Orientale, mi sembra.
Perciò è inutile discutere.
Ci stiamo aiutando, torneremo a casa e d’ora in poi ci
preoccuperemo affinché
un simile casino non si ripeta. Kosmos non è il tipo di
arrendersi con così
poco. Sono certo che in questo momento sarà in cammino verso
la Grecia e lo incontreremo
presto”.
Tutto
il gruppo rimase in silenzio, non sapendo che altro dire. Di certo, una
volta
tornati, sarebbero cambiate molte cose, soprattutto fra loro. Ma
chissà se fra
Kosmos e Kuruma si poteva creare un’alleanza, o perlomeno una
tregua. E se, una
volta risolto tutto, se si fosse risolto, avessero ricominciato tutto
da capo?
In che modo loro avrebbero potuto fermarli? Di certo i poteri dei due
signori
erano notevolmente superiori alla somma di quelli dei loro sottoposti.
“Che
cosa stanno facendo, secondo te, in questo momento, i nostri colleghi
al
rifugio? Credi che stiano litigando?” domandò
Adhafera, rivolta a Topo.
“Se
questa domanda mi fosse stata rivolta qualche mese fa, ti avrei detto
di sì. Ti
avrei detto che, sicuramente, i tuoi colleghi si stavano azzuffando. Ma
ora,
dopo il tempo che han dovuto passare in stretta vicinanza, sono molto
ottimista. Hanno imparato a collaborare e, ne sono sicura, in questo
istante
non stan facendo proprio nulla di stupido. Sono una squadra, ormai.
Vedrete cosa
intendo quando li vedrete! Da esserne orgogliosi!”.
Topo
sorrise, convinta di quello che stava dicendo, e si rilassò,
mentre il treno
strisciava verso la meta, ad una velocità quasi nulla.
₪₪₪
Rukbat
si svegliò e, sbadigliando, realizzò in poco
tempo di essere steso sul
pavimento della cucina. La cosa la dedusse sentendo il legno sotto il
corpo,
avvolto solamente dal lungo cappotto usato a mo di coperta, sentendo
nell’aria
l’odore del caffè e, girando la testa, vedendo il
tavolo attorno al quale
Antares e Deneb Algiedi stavano mangiando.
“Guarda
un po’ chi si è svegliato”
ridacchiò Scorpione, addentando un biscotto.
“Che
cosa è successo?” borbottò Sagittario,
tenendosi la testa e notando come i suoi
vestiti fossero sparsi attorno a lui.
“Come
che cosa è successo?! Non dirmi che non ricordi
niente!” ghignò Capricorno.
“Sono
in post sbornia, questo è certo. La mia sapienza, al
momento, finisce qui”
gemette Rukbat, dimenandosi per raggiungere i pantaloni.
“Non
ricordi che hai fatto stanotte?” si stupì Antares.
“Dèi,
vi prego, non ditemi che ho ballato nudo con voi o fatto altre cose con
voi che
sommino la vostra presenza e la mia nudità”.
“Buongiorno
a tutti” sbadigliarono le due ex coinquiline di Astrea,
uscendo dalla stanzetta
in cui si erano messe a dormire.
“Sono
andato a letto con te ieri sera?” domandò
Sagittario, indicando Maia senza
alcun ritegno.
La
ragazza scosse la testa, ridacchiando. Rukbat rivolse la stessa domanda
ad
Alìs, ricevendo la stessa risposta.
“Non
ditemi che sono stato con uno di voi due!” gemette, indicando
Scorpione e
Capricorno, che quasi sputarono il caffè.
“Certo
che no, che schifo!” esclamò Antares.
“E
allora con chi?”.
“Chi
manca qui? Vuoi un altro aiutino?”.
Rukbat
si guardò attorno.
“Manca
solo Astrea. E i tre Occidentali” disse.
“I
tre Occidentali sono ancora via, perciò resta solo una
persona” si limitò a
dire Deneb Algiedi.
“Chi?
Astrea? Ma quella è acida e fredda come un pesce morto da
giorni!”.
“Pensaci
bene…”.
Rukbat
rimase in silenzio qualche istante. Non lo ricordava, e lui ricordava
sempre
quello che faceva quando era ubriaco! Poi, ad un tratto, guardando di
nuovo il
pavimento, nella sua mente apparve un’immagine. Poteva essere
solo un sogno?
Credeva di sì ma, era evidente, non lo era.
Lanciò un grido. Non poteva credere
di averlo fatto per davvero! E poi Vergine era impossibile che fosse
consenziente. Che aveva combinato?!
“Kosmos
ti prenderà a calci” rise Antares “Con
mia somma soddisfazione”.
“Lui?
Lui dubito che sappia la differenza fra maschi e femmine, figuriamoci
se
capisce che…”.
“Lo
capisce. Mai sentite le voci di lui che allegramente fa festa con le
varie
sacerdotesse dedite al suo culto, sparse per
l’universo?” commentò Capricorno.
“Davvero?
Non lo sapevo…” ammise Rukbat.
“Questo
perché tu sei troppo concentrato su di te per accorgerti di
quello che gli
altri fanno. Avresti potuto avere Astrea tanto tempo fa, e non dirmi
che la
cosa non ti interessava!”.
“Ma
lei è la costellazione della Vergine!”.
“E
tu del Sagittario. Sono ruoli i nostri, non è che sei
rimasto mezzo cavallo!
Come io non sono mezza capra e mezzo pesce o Antares non è
uno scorpione. Lei
era la Dea della giustizia, la verginità l’ha
salutata millenni fa!”.
“Voi
vi comportate a caso e ragionate a caso, come sempre!”
protestò Sagittario.
“Hei,
ferma un momento! Sei tu quello che si fa tanti
problemi…”.
Astrea,
senza far rumore, era rientrata in cucina e stava alle spalle di
Rukbat. Lui si
girò e sobbalzò, fissandola senza sapere cosa
dire.
“Che
c’è? Hai visto un fantasma?”
domandò Vergine, con un’espressione piuttosto
indifferente.
“Io…ecco…”.
“Antares
ti ha mangiato la lingua?”.
“No…è
che…possiamo andare un attimo fuori? Vorrei
parlarti”.
“Io
non ho niente da dirti, personalmente. È successo quel che
è successo e spero
che tu non stia cercando risvolti sentimentali, perché a me
non interessano”.
Rukbat
spalancò la bocca, cercando le parole, e non le
trovò. Richiuse la bocca.
“È
stata una scelta mia, Sagittario”.
“Quindi
non ti ho costretta a fare niente contro la tua
volontà?”.
“Certo
che no. Se lo avessi fatto, o anche se ci avessi provato, a
quest’ora ti
ritroveresti con un gingillo di meno…e immagino tu possa
capire da solo di che
gingillo si tratti!”.
Rukbat
deglutì, andando in automatico a toccare il gingillo a cui
teneva tanto.
Antares e Deneb Algiedi ridacchiarono.
“Quindi…va
tutto bene?” incalzò Sagittario.
“Certo.
Perché? Per te non è così?”.
“Ma
no, anche per me non c’è alcun problema”.
“E
allora perché ne stiamo ancora parlando?”.
I
due si separarono, andando lui verso il fiume e lei verso la corda per
appendere i vestiti lavati. Scorpione e Capricorno si fissarono, senza
capire i
comportamenti dei loro due coinquilini.
“Davvero
va tutto bene?” domandò di nuovo Rukbat, quando fu
tornato dal fiume.
“Sì”
sbottò Astrea, semidistesa sotto un albero.
“Davvero?”.
“Sì!
La smetti?! Sei paranoico! Perché ti preoccupi
tanto?”.
“Io
non mi preoccupo! E non sono paranoico! È che…mi
dispiacerebbe farti del male”.
“Non
ne saresti capace”.
Sagittario
non seppe che rispondere, essendo un pochino intimorito da Astrea, pur
non
volendo ammetterlo. In fondo, riflettendoci, facevano parte della
stessa
famiglia e sangue non mente. Tecnicamente, essendo Rukbat il figlio di
Crono,
fratello di Zeus, padre di Astrea, i due erano zio e nipote. E la
stessa cosa
valeva per Deneb Algiedi e per le altre divinità divenute
stelle. La cosa non
lo preoccupava. Nella sua famiglia allargata, tutti andavano a letto
con tutti
appena potevano.
“Chirone…”.
“Dimmi,
Astrea”.
“Hai
mai pensato di andare nei luoghi dove vivevi prima di divenire una
stella?”.
“Ci
ho pensato, ma non credo sia una buona idea”.
“Perché?”.
“Non
voglio pensare a ciò che ero prima. Io ora sono una
costellazione”.
“Ora
sei un mortale!”.
“Non
per molto. Vedrai che torneremo in cielo”.
“Se
è quello che desideri, ti auguro che accada”.
“Quello
è l’unico posto che mi compete. Pur divertendomi a
fare l’agente, il ruolo di
Sagittario lo preferisco di gran lunga”.
Astrea
sorrise, alzandosi.
“Fra
poco è ora di pranzo. Ho affidato ad Antares e Deneb il
compito di cucinare ma
meglio non fidarsi troppo. Vado a controllare…”.
“Ti
do perfettamente ragione. Scorpione è capace di
avvelenarmi”.
“Sbrigati.
E levati quel cappotto, ci sono più di trenta
gradi!”.
“Ma…mi
piace tanto!”.
Rukbat
era scalzo, con lunghi pantaloni neri e una canottiera leggermente
troppo
piccola. Faceva caldo, era estate, ma indossava sempre quel cappotto,
trovandolo troppo stiloso per toglierlo, se non per lavarlo.
₪₪₪
Non
sapeva quanti giorni erano passati, aveva perso il conto da tempo.
Sapeva che,
seguendo le indicazioni di Tigre, avrebbe dovuto muoversi verso la
Grecia ma,
guardandosi attorno, non ne trovava né il coraggio
né la forza. Avvolto da quel
tronco cavo, Kosmos usciva molto raramente e solo quando era
strettamente
necessario. Tremava di freddo, nonostante l’estate, ed era
decisamente
demoralizzato. Scattava ad ogni minimo rumore, spaventato che
Shè potesse
trovarlo. Odiava la vita sulla Terra ma, non sapeva perché,
non amava per
niente l’idea che fosse Serpente a farlo fuori. Svegliato da
qualsiasi suono,
dormiva sempre di meno ed era sempre più teso ed agitato.
Non
poteva andare avanti così, continuava a ripetersi, ma non
vedeva soluzione. Non
poteva rischiare di allontanarsi per poi non trovare un altro rifugio.
Senza
contare che giurava di aver sentito l’ululare dei lupi
qualche notte prima…
Tentava
invano di addormentarsi quando qualcosa scricchiolò. Era
molto vicino. Kosmos
si irrigidì, trattenendo il respiro. Il rumore proveniva
dall’albero in cui si
era rintanato, ne era certo, ed era qualcosa di grosso a produrlo.
Dentro di sé
pregò che fosse Tigre, che successivamente avrebbe picchiato
per averlo
spaventato in quel modo. Riuscì a trattenere il respiro per
un po’ ma poi,
inevitabilmente, dovette espirare e il rumore, che prima era cessato,
ricominciò, più forte di prima. C’era
qualcosa sull’albero, che non aveva
intenzione di andarsene. Kosmos chiuse gli occhi, cercando di calmarsi,
quando
un oggetto che non identificò cadde a poca distanza dal
tronco. Questo fece
trasalire il caduto signore Occidentale, che non ebbe per un bel
po’ il
coraggio di guardare fuori, anche perché era buio e temeva
di poter dare
interpretazioni sbagliate. Quello che vide lo lasciò
piuttosto sconcertato. Era
una piramide, una piccola piramide dorata con su incisi dei simboli
che, al
momento, non riusciva a riconoscere. Aveva un’aria familiare
ma, come per
l’uomo del sogno, non sapeva in quale cassetto della memoria
cercare per capire
cosa fosse. Mosso da un attacco di coraggio improvviso,
allungò la mano di
scatto ed afferrò l’oggetto, tornando a rintanarsi
al sicuro nel tronco. Guardò
la piramide da vicino, che gli illuminava in parte il viso
perché rilucente di
luce propria. Se la rigirò fra le mani, cercando di capire
la sua utilità.
Purtroppo per lui, quell’oggetto astruso non aveva alcun
biglietto di
istruzioni. Era tutto concentrato su quella cosa, quando un verso
assordante
riempì la foresta. Sorridendo, Kosmos sbucò dal
suo nascondiglio e guardò verso
l’alto.
“Sei
tu!” disse, raggiante, e il suo procacciatore scese
dall’albero, andando a
salutare il suo padrone.
“Dove
sei stato? E questa cosa dove l’hai trovata?”
domandò il padrone ma l’animale
non rispose, limitandosi a dargli piccole testate per ricevere qualche
carezza.
“Non
immagini quanto sia felice di vederti!” esclamò
Kosmos, abbracciandolo.
Il
procacciatore era un uccello molto grosso, grande quasi quanto il suo
padrone,
innaturale per la Terra, ed era di migliaia di colori.
“Dove
hai preso questa?” insistette l’Occidentale.
L’animale
si limitò ad allungare il becco verso l’alto.
Kosmos alzò la testa. Il cielo
stellato era sopra di loro, assieme ad una Luna quasi piena.
Ignorò le proteste
della sua creatura ed iniziò a salire sull’abete
che fin ora lo aveva ospitato.
In parte era secco ma Kosmos riuscì ad individuare i rami
buoni e salire, senza
rischiare che questi cedessero sotto il suo peso. Arrivò in
cima. Sorrise. Da
lassù si vedeva tutta la foresta ed il terreno intorno.
Guardò in alto,
intravedendo una stella cadente. Il procacciatore gli andò
vicino, volando.
“Il
mio posto è avvolto dalle stelle e dall’universo.
Non posso restare qui”
mormorò Kosmos.
Il
vento mosse leggermente gli alberi, producendo un fruscio simile ad un
canto.
“Mi
hai sentito, Kuruma?” gridò il caduto Signore
Occidentale “Tornerò al mio
posto, vedi di non metterti troppo comoda o rovinare la mia roba.
Arrivo!”.
Una
volta a terra, rigirando ancora la piramide fra le mani,
guardò il suo
procacciatore, accarezzandogli la testa.
“Ho
un favore da chiederti, piccolo mio. Mi accompagneresti in Grecia? Io
non so
nemmeno da che parte sta! E poi mi sarebbe di grande aiuto averti
accanto, mi
sentirei più sicuro dai pericoli”.
L’animale
emise uno strano verso e spalancò le ali, come a dire
“Io sono pronto, quando
si parte?”. Kosmos gli sorrise, aprendo le braccia ed
imitando quel verso.
Nonostante si sentisse debole, a causa della tosse e della febbre,
d’improvviso
era di nuovo desideroso di continuare il suo cammino, sperando che
Tigre e
Acquario stessero bene. E poi, ne era certo, prima o poi avrebbe capito
che
diamine fosse quella caspita di piramide luccicante. E quei simboli che
aveva
sopra cos’erano? Lui sapeva tutte le lingue e tutte le
scritture dell’universo,
eppure quella al momento non la ricordava. Forse iniziava a farsi
sentire la
vecchiaia, si disse, mettendosela nella tasca della giacca. Forse era
come una
volta aveva detto Hannaliz: “Se hai quindici miliardi di
anni, è normale che qualcosa
te la dimentichi. Un cervello non può ricordare
tutto!”. Forse era così…anche
se solo da quando era nella Terra, si era reso conto di perdere colpi.
Probabilmente perché il cervello mortale non era
all’altezza di ciò che era
colui che lo possedeva in quel momento. Si era dato una sistemata e,
specchiandosi nel fiume, si era trovato piuttosto ridicolo con i
capelli
legati, la giacca e la cravatta ma non aveva alternative.
“Sei
tu la mia guida, ora. Sono pronto a seguirti”.
Il
procacciatore spiccò il volo, attento ad andare ad una
velocità ideale per il
suo padrone. Kosmos lo seguì, inciampando qualche volta e
maledicendo le scarpe
laccate, spaventosamente rigide ed inadatte alla foresta. Si sentiva
molto più
sicuro ora che aveva il suo adorato procacciatore a fargli da scorta,
oltre che
da guida. Era in grado di avvisarlo in tempo e difenderlo, nel caso
fosse
arrivato qualche Orientale ad aggredirlo. Era un adolescente quando lo
aveva
creato, prendendosi cura di un uovo stellato, e di lui si fidava.
Sapeva che lo
considerava una specie di padre, o madre probabilmente, e di certo
Kosmos non
ci teneva a stare a spiegargli complicate questioni sulla genetica. Lo
aveva
visto nascere e questo aveva creato il legame che gli umani chiamano
imprinting, probabilmente reciproco perché padrone ed
animale erano molto
legati l’uno all’altro, anche se in quel momento il
padrone si sentiva un po’
in colpa per averlo fatto tanto girare per lo spazio. Del resto, lo
aveva
creato per quello, si disse per togliersi certi pensieri dalla testa.
Gli aveva
perfino dato un nome, cosa che non aveva mai fatto per nessuna delle
sue
creature. Il nome era Squeak, derivante dal verso disumano che emise
quando
uscì dall’uovo, assordando momentaneamente chi
aveva di fronte. Non sapeva che
nome avesse il procacciatore di Kuruma, probabilmente uno di quelli
aulici e
poetici, epici ed artistici. Altro che “Squeak”! Ma
il nome “Squeak”, ne era
sicuro, era di certo più bello e più gradito
dalla creatura alata che stava
sopra di lui. Pure lui aveva un nome più bello. Kosmos
suonava meglio di Kuruma
che, nonostante ne conoscesse il significato, continuava a suonargli
come
qualcosa di vegetale, un ortaggio o qualcosa di simile.
Sghignazzò. Avevano
ragione Hannaliz e Hu: lui era e rimaneva uno stronzo, e ne andava
anche
piuttosto fiero.
₪₪₪
“La
finiamo di cazzeggiare, per favore?” sbottò
Cavallo, incitando il gruppo a
proseguire.
Si
era fermati tutti ad ammirare sassi. Normalmente Ma avrebbe gradito
molto
l’idea di passare ore a guardare sassi ma non in quel
momento. Aveva fretta,
voleva arrivare al più presto alla meta.
“Rilassati,
amico! Siamo ancora perfettamente all’interno del piano di
marcia!” tentò di
tranquillizzarlo uno dei cacciatori di alieni, tentativo del tutto
fallito per
far calmare Cavallo era come cercare di tenere a bada una scolaresca
delle
elementari davanti ad un bancone che regala giocattoli.
“Ah
sì? In base a cosa lo hai deciso?”
protestò Ma.
“Datti
una calmata. Questo tuo atteggiamento non fa altro che danneggiarti la
salute”.
“Vuoi
che ti mostri un bel modo per danneggiare la salute, Dio lupo delle
favole che
si mangia i cacciatori?”.
Il
gruppo si guardò con aria perplessa davanti a quella strana
bestemmia, e
riprese a fotografare le Rocky Mountains con enfasi, dallo stato del
New
Mexico.
“Ma
che avete tanto da fotografare?! Siamo in mezzo al nulla!”
continuò Cavallo.
“Hai
mai fatto sport estremi, Ma?” domandò Buda,
osservando in lontananza con un
binocolo.
“Mi
sarebbe piaciuto ma, al momento, non mi
interessa…”.
“Peccato,
perché laggiù stan facendo parapendio,
arrampicata e altre cose…”.
Cavallo
guardò in quella direzione. Aveva sempre sognato di far
arrampicata, ma come
cavallo gli era sempre risultato piuttosto difficile.
“Che
dici? Proviamo?” sorrise Mek.
Cavallo
sorrise, all’improvviso fidandosi della tabella di marcia dei
fan dell’area 51.
Nel
giro di meno di mezzora, l’intera compagnia era pronta a
saltare nel vuoto con
i piedi legati con un elastico. Avevano deciso di scegliere quella come
prima
attività dopo una votazione piuttosto blanda, in cui Cavallo
sospettò brogli
elettorali e corruzione, avendo Mek offerto il suo voto in cambio di
una
ciambella glassata. Cavallo, ripetendosi che stavano perdendo un sacco
di
tempo, continuò a divertirsi, provando tutte le altre
attività che gli vennero
proposte. Nell’arrampicata, il gruppo decise di scommettere
su chi per primo
avesse raggiunto la cima della parete. Nessuno di loro aveva mai
provato quello
sport e quindi parvero tutti piuttosto ridicoli e goffi.
“Ti
batterò!” disse Mek, superando Buda.
“Non
sentirti troppo sicuro di questo!” ridacchiò il
gemello, recuperando terreno.
“Siete
dei falliti!” li sfotté Cavallo, soddisfatto del
fatto di essere il più veloce.
Con il vento fra quella specie di criniera che aveva in testa, si era
momentaneamente “dimenticato” della fretta che
aveva in precedenza. Nessuno
degli altri, ovviamente, si pose il problema di ricordargli la
missione.
Solamente
Buda, ogni tanto, apriva bocca. Ed era prontamente zittito dagli altri.
Dopotutto avevano ancora parecchi mesi prima che scadesse il loro tempo!
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Capitolo 12 *** 11 ***
XII
“Hei!
Rallenta!” supplicò Kosmos.
Il
suo procacciatore si fermò, appollaiandosi su un albero
mezzo morto.
“Vai
troppo in fretta” ansimò il caduto Signore
Occidentale, appoggiandosi ad una
pianta e riposando qualche istante.
In
realtà, l’uccello che lo guidava andava pianissimo
ma le condizioni del padrone
erano notevolmente peggiorate, dato anche il graduale ritorno della
stagione
fredda. Ormai erano alle porte dell’autunno e, nella zona
dove si trovavano in
quel momento, il vento freddo già iniziava ad essere
piuttosto fastidioso. Il
procacciatore aveva guidato il suo signore lungo la via che riteneva
più
sicura, lontano da grossi centri abitati e al riparo fra gli alberi.
Stavano
per uscire dai Carpazi, quando Kosmos fu costretto a fermarsi. Sentiva
di non
avere più forze e di doversi riposare ben più a
lungo di mezza giornata, come
faceva da qualche mese. Sapeva anche, però, che la cosa non
era affatto
possibile e che doveva sforzarsi di raggiungere la Grecia quanto prima.
Illuminato solo vagamente dalla luna, il sentiero su cui procedeva era
dissestato e decisamente inquietante. Rabbrividì, dopo
l’ennesimo ululato
lupesco che percepì.
“Per
oggi basta, Squeak. Non ce la faccio più. Riprenderemo il
cammino domani”
gemette il padrone, non sentendosi quasi più le gambe.
Trovato
rifugio fra i rami di un albero, entrambi si riposarono. Il
procacciatore
rimase di guardia, mentre il suo signore dormiva, in preda agli incubi.
Ripartirono
la sera seguente, sfidando il maltempo.
“Chissà
come se la passano gli altri” si chiese Kosmos, preoccupato
soprattutto per
Sadalmelik.
Il
procacciatore lo incitò a proseguire e non pensarci troppo.
Il caduto signore
cercò di seguire il consiglio ma, specie su quel sentiero
avvolto dal buio
della notte, non poteva fare a meno di riflettere e la cosa lo
infastidiva
molto spesso. Lui non era mai stato il tipo che si faceva simili
problemi,
eppure ora non riusciva a far a meno di sentirsi in colpa per tutta una
serie
di motivi. Camminava, rigirando la piramide fra le mani, accuratamente
riposta
in tasca. Ci giocherellava distrattamente, quando questa
iniziò ad illuminarsi
più forte, scaldandosi. Sentendola bruciare, Kosmos la
estrasse e la fissò,
vedendola aprire ed emettere una strana melodia. Era una musica molto
simile a
quella che suonava sempre nel palazzo Occidentale, ma con alcuni
passaggi
diversi. Inoltre quello strano oggetto proiettava disegni di stelle che
Kosmos
non riconobbe. Arrivò alla conclusione che fossero del tutto
inventati, perché
lui conosceva tutte le stelle e la loro disposizione fin
dall’alba
dell’Universo. Il procacciatore fissò la piramide
con curiosità pari a quella
del suo padrone, fino a quando questi non riprese a parlare,
distraendolo.
“La
ricordo questa musica” mormorò Kosmos, sfiorando
le stelle che venivano
proiettate nell’aria “Anche se non so dire dove
l’abbia già sentita…”.
I
due smisero di concentrarsi su quella specie di carillon quando udirono
un
rumore alle loro spalle. Il procacciatore si alzò in volo,
incitando il suo
padrone a correre. I lupi erano sulle loro tracce. Kosmos, richiudendo
in
fretta e furia la piramide, la rimise in tasca e si mise a correre.
C’era un
vento gelido lungo la via, ma al momento riusciva a non pensarci,
concentrandosi
sulla necessità di salvarsi dai predatori notturni.
Sfortunatamente per lui,
quei mammiferi usavano tecniche ben collaudate per cacciare e
sfruttavano la
forza del branco. Non ci volle molto prima che il caduto Signore si
ritrovasse
davanti un gruppetto di loro, ringhiante e pronto ad attaccare. Il
procacciatore intervenne, ferendone un paio e tentando di spaventare
gli altri.
Kosmos, afferrando un bastone, lo agitò con l’idea
di farli allontanare. Fu un
altro rumore a spaventare il branco. Qualcosa di non identificato, che
produceva un suono sinistro e fastidiosissimo per le orecchie di quelle
creature, stava arrivando dal cuore della foresta. Non attesero di
sapere che
cosa fosse e si dileguarono. Kosmos, senza fiato per la corsa e la
paura, non trovò
altrettanta forza e rimase immobile, attendendo di scoprire cosa
emettesse quel
suono. Era una donna, con in mano un lungo bastone, adornato in modo
tale da
produrre un suono quasi inquietante. Il caduto, non capendo che
intenzioni
avesse quella femmina, retrocesse di qualche passo ma le sue gambe
cedettero e
cadde in terra. Voleva gridare, per il dolore e per protesta, ma non ci
riuscì.
Si appoggiò ad un tronco e leggermente si
accasciò, mentre la donna gli si
avvicinava. Invano tentò di sfuggirle.
“Stai
tremando!” disse lei, con la voce più bella che
Kosmos avesse mai sentito “E
bruci di febbre. Non puoi continuare il tuo cammino così.
Rilassati, non ho
intenzione di farti del male”.
Dopo
queste frasi, la donna tolse il mantello in cui era avvolta e
coprì Kosmos. Lui
la intravide, fra il buio e lo stordimento dovuto alle sue pessime
condizioni
di salute, e non oppose resistenza. Non aveva alternative, non era
più in grado
di fare nulla. Si rilassò e si addormentò, fra le
braccia di quella sconosciuta
di cui non aveva compreso le intenzioni.
₪₪₪
“Non
ditemi che siamo gli ultimi!” disse Hamal, arrivando di corsa
al rifugio.
“No,
ma quasi” rispose Deneb Algiedi, seduto all’aperto
con la solita sigaretta di
sbieco fra le labbra e le braccia incrociate.
“Tutto
bene qui, senza di noi?” domandò Topo, sorridente,
notando con gioia che Gallo stava
ancora legato ad un grosso albero, fuori dalla casetta.
“Tutto
bene” ridacchiò Antares “Anche troppo.
Vero, Rukbat?” urlò l’ultima parte della
frase, ricevendo un “Fatti i cazzi tuoi” da dentro
il rifugio da parte di
Sagittario.
“Che
è successo?” si allarmò Shu.
“Io
l’avevo detto che da soli avrebbero combinato solo
danni” commentò Niu.
“Nessun
danno, amico! Rilassati!” continuò a sorridere in
modo ebete Scorpione “Diciamo
solo che c’è stato un’affinarsi delle
relazioni interpersonali. Vero, Rukbat?”.
Sagittario
uscì e afferrò il braccio di Antares,
torcendoglielo dietro alla schiena. La
vittima continuò a ridere, fino a quando uno strano
scricchiolio costrinse
l’inizio di una serie di messaggi di supplica.
“Smettila
di rompere i coglioni!” sibilò Rukbat, scandendo
ogni parola.
I
nuovi arrivati, ovvero Adhafera, Hamal, Al Risha, Acubens ed Aldebaran,
con i
rispettivi aiuti Orientali, si fissarono fra loro con aria
interrogativa e non
chiesero altro.
“Dobbiamo
stare tutti quanti qui in questa microcasetta?”
domandò Ariete.
“Fino
a quando non arrivano i pochi che mancano…”
borbottò Capricorno, scocciato
anche lui dall’idea di doversi stringere ancora per poter
stare tutti al
coperto.
“E
chi manca?” domandò Leone.
“Sadalmelik,
Mekbuda e Zubeneschamali” rispose Sagittario.
“Acquario,
Gemelli e Bilancia. E Kosmos?” si informò Drago.
“Dovrei
saperlo? Da queste parti non si è
visto…”.
Shu
annuì, mostrando una certa preoccupazione, ed
invitò il gruppo ad entrare tutti
al rifugio, notando che stava calando il buio. In quindici, fra
Orientali ed
Occidentali, si accalcarono nella piccola cucina. Le costellazioni si
riunirono
ed iniziarono a raccontarsi il viaggio, soprattutto i tratti in cui
avevano
rischiato la vita o il salto dei nervi. Gli occupanti del palazzo ad
est,
invece, cercarono di capire quanta energia avessero ancora e tentarono
una
stima su quanto potesse durare.
“Dove
sono quelli che mancano?” domandò Shu, chiudendo
gli occhi per visualizzarne
qualcuno “Speriamo stiano tutti bene…”.
“E
intanto che arrivano? Che facciamo?” domandò Long
“Ci grattiamo in compagnia?”.
“Hai
forse qualche alternativa?”.
Rimasero
qualche istante in silenzio, prima che qualcosa attirasse la loro
attenzione.
“Parla
pure, Ma” dissero in coro.
₪₪₪
“Ragazzi!
Siete già in Grecia?” domandò Cavallo.
“Non
tutti, ma quasi. Tu e la tua costellazione dove siete?”
rispose Lepre.
“Siamo
a New York, assieme a Gou ed alla Bilancia”.
“Vi
siete riuniti? Bene. Fra quanto vi muoverete verso
l’Europa?”.
“Anche
subito…se potessimo! Ma non possiamo”.
“Che
succede?!”.
“A
causa di tutta una serie di eventi, al momento né io
né Cane abbiamo energia
sufficiente per permettere alle costellazioni di prendere
l’aereo e venire da
voi. Pensavamo di riuscirci, ma il viaggio è stato
più lungo del previsto e la
magia di Gou non si è ricaricata nel frattempo”.
“Vi
serve una mano?”.
“Se
qualcuno di voi ha abbastanza energia da portarci via da
qui…siamo in sei”.
“Come
sarebbe a dire in sei?!”.
“Bilancia
e Gemelli si son sdoppiati nella caduta. Son due coppie di
gemelli”.
“Che
palle…”.
“Sapessi
noi a tenerne a bada due tutto questo tempo! Dateci una
mano!”.
“Fateci
trovare un accordo. Anche le nostre energie son state messe a dura
prova. Vi
faremo sapere al più presto, intanto provate a vedere se
riuscite a trovare una
soluzione alternativa”.
“Intendi
rubare dei biglietti, farci documenti falsi e dirottare un
aereo?”.
Lepre
non disse altro ed il collegamento si interruppe. Cavallo, un
po’ sconcertato
nel vedere la sua collega in giacca e cravatta, guardò Gou e
sorrise.
“Vedrai
che verranno a prenderci” le disse.
“Speriamo.
Altrimenti non so che possiamo inventarci…”.
“Non
ci abbandoneranno qui”.
“Spero
abbiano abbastanza energia”.
“Me
lo auguro”.
“Cambiando
argomento…come avete fatto a metterci tutti ‘sti
mesi per arrivare a New
York?”.
“Chiedilo
ai cacciatori di alieni! Si fermavano continuamente, a far foto ad ogni
cosa.
Ho tentato di farli accelerare!”.
“Sicuro
di non esserti distratto lungo la strada?”.
“Mai!”.
“Ne
sei sicuro?”.
“Assolutamente!”.
“Ci
vengono a prendere?” domandò Buda, interrompendo
la discussione.
“Forse”
ripose Cane.
“Come
forse?!”.
“Sì,
lo faranno” rassicurò Cavallo.
“Quando?”.
“Quando
avran voglia di farlo…”.
“Non
mi aiuti dicendo così…”.
“Nemmeno
tu aiuti me facendo il pedante in questo modo!”.
“E
allora che dovrei fare, secondo te?”.
₪₪₪
“Allora?
Cosa facciamo?” domandò Shu.
“Molti
di noi hanno usato la maggior parte della nostra energia, fra voli,
combattimento, spostamenti e altro. Non so chi abbia la potenza
necessaria per
spostare sei persone” commentò Niu, incrociando le
braccia.
“Uno
da solo non può, infatti” sbottò Lepre.
“Possiamo
andare tutti!” propose Capra.
“Inutile.
Anche perché alcuni di noi, come Drago dopo il volo sul
Mediterraneo, rischiano
di consumare tutta la loro energia e aggravare la situazione”
tagliò corto Zhu.
“Io
ho ancora molta energia, grazie anche alla magia che abbiamo sottratto
a Gallo”
affermò Niu.
“Bene.
Mettiamola ai voti. Chi se la sente di andare? Chi sente di poterlo
fare?”
disse Topo, facendo la diplomatica come sempre.
Niu,
Bue, si apprestò a dare la sua disponibilità,
così come Lepre. Drago concordò
con i compagni che non aveva magia a sufficienza, così come
Yang, Capra, specie
dopo lo sparo di Hamal. Zhu incrociò le braccia, stanco di
agitarsi e sprecare
tempo per le costellazioni.
“Allora
siamo in tre” concluse Topo, includendosi nella conta
“Saremo più che
sufficienti”.
“Siamo
sicuri? Ci toccano due persone a testa da trasportare per letteralmente
mezzo
mondo” commentò Lepre.
“Hai
forse qualche alternativa?” borbottò Bue.
“Zhu,
ad esempio, potrebbe muovere le chiappe. Ha abbastanza energia
per…”.
“Costringerlo,
per poi vederlo diventare un peso, è
controproducente” esclamò Shu, facendo
scendere il silenzio.
“Andiamo”
riprese, dopo un po’, con uno scatto delle braccia
“Long, Yang e Zhu rimarranno
qui a controllare Gallo ed eventuali altri traditori che potrebbero
arrivare.
Inoltre, faranno da guida a Tigre, Kosmos o chiunque altro
cercherà di
raggiungere la Grecia. Spero non sia successo niente di male al felino
della
compagnia, perché è da tempo che non abbiamo sue
notizie…”.
“Sissignora”
ghignò Drago, trovando quasi divertente il modo di fare di
Topo e lanciando uno
sguardo al bosco ormai quasi del tutto spoglio che circondava il
rifugio.
₪₪₪
“Riesci
ad andare più veloce di così?”
gridò Tigre saltando ed aggrappandosi ad una
grondaia.
“No,
mi spiace” gemette Sadalmelik, cercando di stare al passo con
Hu.
Shè
li inseguiva, furiosa. Tigre, dopo essere riuscito a rintracciare lei e
Acquario, aveva avuto un aspro combattimento con la sua collega
Orientale ed
era riuscito a liberare Sadalmelik. Purtroppo non aveva calcolato la
testardaggine di Serpente, che continuava seguirli e scovarli da mesi.
Si
trovavano ora a correre per le strade di Budapest, fra la folla
incredula e le
grida di minaccia di Shè.
“Hu!
Non ce la faccio, aspettami!” supplicò Sadalmelik,
inciampando lungo il
ciottolato.
Lui
si voltò e la afferrò per la vita, saltando per
cercare di nascondersi grazie
ad un terrazzino chiuso.
“Ho
paura. Sono stanca” mormorò Acquario.
“Non
parlare. Potrebbe sentirci”.
“Quanto
tempo dovremo andare avanti così?”.
“Presto
saremo al sicuro. Ora, però, non parlare
più”.
Rimasero
immobili, senza fiatare e respirando appena. Serpente si
fermò. Annusò l’aria
e, ghignando, si girò verso i due.
“Tana
per Tigre!” gridò e saltò.
Hu
fu veloce e riuscì a schivare il colpo che Shè
aveva sferrato. Gemette. Per
quanto tempo quella testarda aveva intenzione di andare avanti
così? Da tempo
tentava di mettersi in contatto con Kuruma, per informarla della
situazione, ma
non aveva ricevuto alcuna risposta. L’unica altra soluzione
era richiamare
qualcuno dei suoi compagni, che magari erano già arrivati
alla meta.
“Traditore
bastardo! Ti ucciderò con le mie mani! Te e la tua amichetta
dello Scettro
delle Ere!” urlò Serpente.
Tigre,
sempre con Sadalmelik per mano, continuava a correre, costeggiando il
fiume che
divideva in due la città.
“Che
cosa facciamo, Hu?” ansimò Acquario, non
sentendosi più i piedi.
“Devo
trovarti un posto sicuro. Dopodiché ci penserò io
a quel rettile fastidioso”.
Ormai
erano fuori Budapest, circondati solo dalla vegetazione. Tigre,
girandosi di
colpo, colpì Shè, che finì poco
distante ma stordita abbastanza da permettere a
Sadalmelik di nascondersi.
“A
noi due, Shè!” disse lui, richiamando la propria
magia.
“Sei
patetico. Fai tutto questo perché ti sei innamorato di
quella femmina. Non è da
te, Tigre, io ti conosco bene. Cosa stai tramando in
realtà?”.
“Nulla.
Cerco di proteggerla e portare a termine la missione che la mia Signora
mi ha
affidato”.
“La
tua Signora?! Da quando obbedisci?!”.
“Non
sono affari tuoi. Se non hai intenzione di lasciarmi fare
ciò che mi son
prefissato, allora combatti e smettila di parlare!”.
Shè,
accigliandosi, guardò il suo avversario come a dire
“l’hai voluto tu, ora
vedrai!”. Iniziarono ad affrontarsi richiamando la loro
energia, fra scintille
e grida di odio.
“Credevo
che tu fossi mio alleato!” sibilò Serpente.
Tigre
non rispose, troppo impegnato a seguire tutti i movimenti della donna e
trovando difficile fare due cose assieme. Sadalmelik, sobbalzando ad
ogni
colpo, osservava la scena imponendosi di non urlare e pregando per la
salvezza
del suo protettore. L’energia che i due stavano usando
iniziava a mutare il
loro aspetto. I corpi umani, non adatti a certe cose, stavano divenendo
più
consoni all’uso della magia. Lei, Serpente, si stava tingendo
di verde in certi
punti, con piccole squame e riflessi argentei. Lui stava divenendo
aranciato,
con strisce scure sempre più evidenti.
“Come
porterai la tua bella in Grecia in quello stato?” lo derise
Serpente.
“Tu
devi smetterla di farti gli affari degli altri e pensare per te stessa,
viscida!”.
Shè,
non sopportando si essere definita viscida, spalancò la
bocca, dove erano
apparsi due enormi denti affilati. Tigre fece lo stesso, con un
ruggito. Le
loro forze si equiparavano e lo scontro sarebbe durato ancora molto a
lungo se
non fosse stato per Drago. Cercando il suo collega Tigre in modo
telepatico,
aveva capito subito qual’era la situazione e, volando, era
atterrato fra i due.
Sapeva bene che non gli rimaneva molta energia ma non poteva rischiare
che il
suo collega venisse ucciso o che Acquario non tornasse in cielo.
“Cosa
vuoi, Long?” lo apostrofò Shè
“Non sono affari che ti riguardano, fatti da
parte”.
“Shè,
mia cara, sei rimasta da sola. A Ji è stata sottratta tutta
la magia ed è
legato come un salame ad un albero da mesi. Scimmia l’ho
sconfitta io stesso e
tutti gli altri stanno facendo del loro meglio per riportare a casa gli
Occidentali. Arrenditi, e vedremo di non riservarti lo stesso
trattamento che è
toccato a Gallo”.
“Gallo
è un debole, troppo concentrato su se stesso e convinto di
essere il migliore
per difendersi. Io non sono come lui, non riuscirete mai a catturarmi
ed avere
i miei poteri!”.
Drago,
percependo quelle parole come una sfida, fissò Tigre per un
istante e poi pure
lui iniziò ad attaccarla. Due uomini contro una donna, Long
pensò che non fosse
molto corretto ma la donna in questione era Shè, veloce,
intelligente e
potente. Non sarebbe stata una passeggiata! Lei schivava ogni attacco
con
agilità impareggiabile e contrattaccava con una
rapidità che lasciava
sconcertati i due maschi Orientali.
“Non
riuscirete mai a fermarmi!” sibilò, pronta a
colpirli di nuovo, quando una
violenta botta in testa la fece cadere in terra, svenuta.
Drago
e Tigre si fissarono, senza capire, quando dal buio fra gli alberi
spuntò
Sadalmelik, con un grosso tronco stretto fra le mani. Hu le sorrise e
lei gli
andò vicino, controllando se fosse ferito in modo grave.
Fortunatamente, sia
Drago che Tigre, avevano solo graffi e tagli superficiali.
“Hu,
dobbiamo toglierle la magia, prima che si riprenda”
mormorò Long, quasi
imbarazzato nell’interrompere il loro scambio di sguardi.
Tigre
annuì e poggiò la mano su Shè. Drago
fece lo stesso e l’energia della donna si
trasferì da lei ai due uomini. Così facendo, Long
recuperò energie e Hu si
rimpossessò del suo aspetto umano.
“E
adesso? Cosa facciamo?” domandò Acquario, mentre
Serpente veniva immobilizzata
da Drago con i lacci che aveva fra i capelli.
“La
Grecia è vicina. Proseguiamo” disse Tigre, pronto
a partire.
“E
Kosmos? Dov’è Kosmos?”.
“Non
ne ho idea. Long, per caso tu lo hai visto?”.
“Io
ero al rifugio greco, dove tutti ci stiamo radunando e non
l’ho visto” rispose
Drago “Voi lo avete incrociato?”.
“Sì,
ma mesi fa. Ci siamo separati quando Shè ha rapito
Sadalmelik. Stava venendo in
Grecia”.
“E
allora sarà per strada. È un Dio dopotutto,
saprà cavarsela meglio di noi,
no?”.
“Ne
dubito…”.
“Allora
che Kuruma abbia pietà di lui”.
Senza
aggiungere altro, il gruppo, con Serpente tenuta stretta per un
braccio,
ripartì verso la meta. Decisero di continuare a piedi, nella
speranza di
incrociare Kosmos lungo la strada come erano d’accordo ed
evitando di sprecare
altra magia, che sarebbe potuta risultare utile in altre occasioni.
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Capitolo 13 *** 12 ***
XIII
“Sto
iniziando ad odiare gli aeroporti!” commentò
Zubeneschamali.
“Coraggio.
Spero che questo sia l’ultimo in cui ci tocca
andare” ridacchiò Cane.
“Aeroporto?
E a che ci serve?” domandò Lepre.
“Perché?
Non volete farci volare fino in Europa? Progettate un viaggio in
nave?” si
stupì Mek.
“Certo
che vogliamo farvi volare ma vi portiamo noi. Abbiamo sufficiente
energia per
trasportarvi dall’altra parte dell’Oceano,
schivando controlli e fuffa inutile.
Una volta arrivati sull’altro continente, ci
basterà prendere un treno”.
“Sicuri
di avere abbastanza energia per portarci di là?”
domandò Gou.
“Fino
al continente, non fino in Grecia. Due ciascuno” sorrise Topo.
“Mi
piace. Io voglio viaggiare con la ganza vestita da becchina”
rise Mek,
indicando Lepre.
Tù
alzò le spalle, come a voler dire che per lei era del tutto
indifferente chi
avesse viaggiato con lei.
“Io
propongo di dividere i due Orientali, che hanno ancora un po’
di energia
magica” propose Topo.
“Basta
che ci diamo una mossa, che la fine del Mondo è
vicina” borbottò Buda, ormai
saturo di tutti quei discorsi sul 2012.
“Allora…
Mek e Gou vanno con Tù. Buda e Cavallo vengono con me e le
due Bilancia con
Bue, che di noi è quello con più energia al
momento” ordinò Shu.
“Perfetto!”
ridacchiò Mek, abbracciando Lepre che con lo
incenerì con lo sguardo.
“Andiamo”
annuì Niu, facendo segno alle Bilancia di avvicinarsi.
“Ci
vediamo in Spagna, ragazzi. Mi raccomando! Abbiamo concordato il
luogo” parlò
Topo, prendendo per mano Buda e Ma.
In
una massa di piccole luci, il gruppo scomparve, fra lo stupore generale
dei
cacciatori di alieni che erano rimasti dietro alla porta di quella
stanza di
albergo dove il gruppo si era ritrovato. Avevano provato a fare delle
foto, ma
la loro mano tramante non era riuscita a fare un granché.
Una
volta in Spagna, la comitiva sapeva bene qual’era la mossa
successiva. Erano
riapparsi in una zona poco frequentata e in piena notte, evitando
inutili
mortali scocciatori. Dovevano raggiungere Madrid, cosa semplice essendo
poco
lontana, e poi prendere il treno. Non potevano sperare in un diretto,
ma l’alta
velocità ispirava loro abbastanza fiducia. Purtroppo per
loro, una volta
raggiunta la stazione di Madrid, si resero subito conto che qualcosa
non
andava. Perché tutti quei treni cancellati?
“Scusi”
domandò Topo, in perfetto spagnolo “Che cosa
succede? Perché tutti questi
ritardi e annullamenti?”.
“C’è
sciopero, non lo sapeva?” rispose il Madrileno, quasi con
disprezzo.
“Facevamo
meglio ad atterrare in Italia…”
borbottò Niu.
“Là
è sempre sciopero quando serve, per l’amor del
cielo!” lo zittì Lepre.
“E
allora cosa facciamo?” domandò Zubenelgenubi.
“Aspettiamo.
Non durerà mica per sempre sto sciopero, no?”
rispose Topo.
“Intanto
proporrei una piccola pausa panino” si intromise Mek,
indicando il McDonald.
“Vuoi
ucciderci tutti?” sbottò Tù, sentendo
fin lì la puzza della roba che ci veniva
cucinata all’interno.
“Suvvia,
io e Buda è da più di un anno che mangiamo
porcherie Americane e siamo ancora
vivi!”.
“Io
preferirei parlare con il tuo fegato, prima di entrare là
dentro. Per me, in
questo momento, sta supplicando pietà e vuole
suicidarsi”.
“Suvvia,
friggono solo le patatine con lo stesso olio per tutto il
giorno!”.
“Olio
per motore!”.
“Non
esagerare…”.
“Carne
di topo”.
“Adesso
mi pare un po’ eccessivo…”.
“E
salse mortali!”.
“Catastrofista”.
“Fai
a meno di mangiare, Lepre” tagliò corto Topo
“Puoi permettertelo. Quel posto
costa poco e i mortali hanno fame. Sarebbe meglio anche per noi mettere
qualcosa nello stomaco, siamo deboli”.
“Mettere
qualcosa nello stomaco mi sta bene, ma non quella cosa”
protestò Tù, che
preferì prendersi una fetta di pizza nel locale a fianco,
con pomodorini e
altre verdure “Poi non venite a piangere da me se vi viene
mal di pancia!”.
₪₪₪
Kosmos
riaprì gli occhi alla luce del giorno, che filtrava fra gli
alberi. Si alzò,
intravedendo il suo procacciatore poco distante. Si
stiracchiò, quando una voce
lo fece sobbalzare.
“Come
ti senti?” gli chiese qualcuno.
“Io…”
rifletté un attimo “Sto bene. Sto bene per
davvero. Non ho più la febbre,
respiro bene e non mi fa più male nulla. Ma…come
avete fatto? Ho provato tante
di quelle medicine che…”.
“Ho
i miei metodi. Lieta di vederti star meglio”.
“Grazie”.
“Di
niente, ragazzo”.
Kosmos,
sentendosi di nuovo pieno di energia, era pronto a ripartire. Si
girò verso la
donna, che lo aveva prima salvato dai lupi e poi curato, non sapendo
che cosa
poter fare per lei.
“Come
posso sdebitarmi? Sono uno sconosciuto e mi avete salvato la vita due
volte!”.
“Se
cercassi ricompense nelle buone azioni, non sarebbero più
buone azioni. Vuoi
ripartire subito?”.
“Sì.
Devo arrivare in Grecia prima dell’inizio
dell’inverno e, dalla temperatura,
direi che non manca molto”.
“No,
non manca molto. Ti conviene affrettarti. Segui questo sentiero, ti
condurrà
rapidamente alla meta, senza troppi intoppi”.
“Conoscete
la strada?”.
“Sì,
vuoi che ti accompagni?”.
“Lo
fareste?”.
“Solo
se inizi a darmi del tu”.
“Non
posso pretendere che percorriate tutta questa strada. È
lunga, faticosa, pericolosa
e vi porterà distante da casa”.
“Credimi,
ho affrontato cose ben più lunghe, faticose, pericolose di
questa. E sono già
ora molto distante da casa. Perciò non preoccuparti,
caro”.
Kosmos
la guardò. Aveva un viso giovane, non superava di certo la
quarantina, nonostante
fosse incorniciato da lunghi capelli bianchi, e occhi azzurri, molto
luminosi.
Vestiva di scuro, con un cappuccio che la copriva in parte, e stringeva
un
lungo bastone pieno di gingilli tintinnanti fra le mani. Al collo
portava una
collana piena di simboli. Guardandola, Kosmos ebbe come un flash e si
appoggiò
la mano sul lato della fronte.
“Cosa
c’è?” domandò la donna,
alzandosi dal sasso su cui si era seduta.
“Niente.
Solo un po’ di mal di testa”.
“Se
vuoi, possiamo andare”.
Il
caduto Signore Occidentale annuì, guardando incuriosito i
piccoli oggetti che
la donna aveva creato con i bastoncini trovati nel bosco. Riordinando,
senza
motivo, lei canticchiava e Kosmos trovò che avesse una voce
bellissima.
“Mi
piace la canzone che cantate” commentò,
sorridendole.
“Se
la smetti di darmi del Lei o del Voi, te la
insegnerò”.
“Va
bene. Allora…io mi chiamo Kosmos. Tu come ti
chiami?”.
“Chiamami
Signora Seth, ok? O semplicemente Seth”.
“Seth?
Benissimo…”.
Kosmos
richiamò il suo procacciatore, che iniziò a
seguire i due mentre si
incamminavano lungo il sentiero, per la prima volta alla luce del
giorno.
Parlare con quella strana donna lo faceva sentire pieno di energia e
voglia di
proseguire, carico come non era mai stato da millenni. Non si chiese il
perché,
non aveva importanza, e lasciò che gli insegnasse quel brano
che continuava a
canticchiare. Parlava di un ragazzo che cercava un fiore argento nel
prato
scuro e, una volta trovato, era stato rubato da una ragazza.
All’inizio il
protagonista del canto era arrabbiato e disperato, ma poi la ragazza
metteva
quel fiore fra i capelli, che le illuminava il viso, e la rabbia
spariva perché
il giovane d’improvviso aveva visto cosa c’era
oltre l’oggetto conteso. Kosmos
sospirò. Quella storia gli ricordava molto il furto di
Kuruma, la rabbia di
entrambi e ora il fatto che sperava tanto di rivederla, pronto a
concederle di
tenere pure la Chiave e lo Scettro, se ci teneva tanto,
purché non lo
allontanasse più dal palazzo.
“Pensi
alla tua bella, Kosmos?” sorrise Seth.
“Non
è la mia bella. È più una collega di
lavoro, a cui io non ho mai portato
rispetto. Del resto, è stata una cosa reciproca. Ma
ora…”.
“Ora
stai tornando da lei”.
“Lo
spero. Non so se mi rivorrà accanto”.
“E
perché non dovrebbe?”.
“Perché
ho fatto e detto delle cose orribili”.
“Anch’io,
tanti anni fa, ho litigato con una persona e temevo di non poterla
più
rivedere. Mi aveva allontanato, con tutte le sue buone ragioni. Quella
volta,
però, ho imparato una cosa: se fra due persone
c’è un legame, prima o poi si
riavvicineranno. Sono certa che lei ora sta pensando a te. Siete
entrambi
pentiti e vi rivedrete”.
“Come
puoi dirlo? Non immagini quanto stronzo possa essere”.
“Mai
come la persona che ho in mente io. Puoi essere stronzo quanto vuoi ma,
se le
parlerai sinceramente, sono sicura che ti
perdonerà”.
“Perdonarmi?!
Voleva uccidermi!”.
“Ucciderti…che
parola grossa!”.
“Voleva
uccidermi!”.
“E
perché non lo ha fatto?”.
Kosmos
rimase in silenzio. In effetti, si disse, lui era solo un mortale
mentre Kuruma
era una Dea. Avrebbe potuto distruggerlo in un istante, ma non
l’aveva fatto.
Come mai?
“Kosmos,
non puoi sfuggire al destino. Nessuno può. Per quanto potere
un individuo possa
avere, ci sono delle cose che accadono e basta”.
“E
se lei non mi rivolesse vicino?”.
“Spetterà
a te convincerla”.
“E
se non ci riesco?”.
“Ci
sono tre miliardi e mezzo di donne su questo pianeta, se lei non ti
rivuole
allora guardati attorno”.
“Ma…io
e Kuruma non siamo amanti! Non è una donna che mi
serve…”.
“Sei
sicuro?”.
Kosmos
rimase sconcertato dalla capacità di quella femmina di farlo
rimanere senza
parole. Non sapeva cos’altro dire e quindi si
limitò a storcere il naso.
₪₪₪
“Rukbat!
Posa il fucile!” quasi gridò Astrea.
Sagittario
e Scorpione stavano uno di fronte all’altro fissandosi,
puntandosi a vicenda
un’arma in faccia, senza dire una parola.
“Ho
detto: posa quel fucile!” insistette Vergine.
“Ha
iniziato lui” protestò Rukbat, senza abbassare
l’arma.
“Non
mi interessa chi ha iniziato. Obbedisci”.
Sagittario,
sospirando, abbassò il Barrett e lo stesso fece Scorpione
con il Remington.
“Possibile
che ancora vogliate uccidervi? Dopo tutto quello che abbiamo
passato?” domandò
Astrea, sconcertata.
“È
una questione che dubito si risolverà mai”
commentò Antares.
“Beh,
vedete invece di risolverla, se non volete che a risolverla siamo
noialtri”
sbottò Vergine, alludendo agli altri segni zodiacali
presenti.
“Sì!
Vi leghiamo come Gallo!” ridacchiò Hamal.
“Usa
le tue energie in modo più costruttivo, Rukbat”
aggiunse Vergine.
“Come
per esempio?” domandò lui, storcendo la bocca.
“Tipo
spaccare la legna per stasera”.
Sagittario
sospirò. Guardò gli alberi poco lontani e decise
che dopotutto non gli
dispiaceva fare casino con la motosega che c’era al rifugio.
“Ti
fai comandare a bacchetta da quella femmina. Lodevole”
ridacchiò Antares, poco
prima di essere colpito da un cartone in piena faccia con il calcio del
fucile
di Rukbat.
“Dicevi?”
sibilò questi.
“Ragazzi!
Basta!” tornò a riprenderli Vergine
“Rukbat, fila nel bosco e tu Antares
afferra quei secchi e vola a prendere l’acqua, prima che
faccia buio. Muovete
quelle chiappe, scansafatiche!”.
“Che
pigna in culo che sei” protestò Scorpione, prima
di ricevere un altro colpo in
faccia, stavolta dal manico di scopa che stringeva Adhafera.
“Dicevi?”
ridacchiò lei e lui gemette, sconfitto.
“Stanotte
è in arrivo il maltempo, dobbiamo organizzarci al
meglio” iniziò Aldebaran
“Dividiamoci i compiti e anche questa sera fredda
passerà senza problemi.
Deneb, tu darai una mano a Rukbat. Lui taglierà e tu la
porterai, sai che con
quel ginocchio non può spostare grossi pesi”.
“Cosa?!
Io vicino al pazzo psicopatico con la motosega?! Cosa ti sei
fumato?!” protestò
Capricorno.
“Niente
proteste. Al Risha ed Hamal andranno sul tetto a sistemarlo. Con il
vento che
si sta alzando, è meglio rafforzarlo. Zhu e Adhafera mi
aiuteranno con le travi
attorno alla casa, non si può pretendere di non avere
spifferi ma almeno non
rabbrividiremo tutta la notte. Astrea e Acubens si occuperanno degli
interni,
sistemando le finestre e le coperte. Yang preparerà la cena
e Ji, caro
prigioniero, canta quanto sta per calare il sole”.
“Fottiti”
si sentì da parte di Gallo ma nessun’altro
protestò, andando ognuno a svolgere
il compito assegnato.
Intanto
nel cielo si accalcavano sempre più grosse nuvole nere e il
vento si alzava. Si
avvicinava dicembre e pareva che il Mondo tentasse di farlo notare in
ogni
modo.
₪₪₪
“Tempo
di merda!” protestò Long, coprendosi il viso dal
forte vento e continuando a
tenere stretta Serpente, che non si dimenava un granché con
il freddo.
“Puoi
dirlo” confermò Hu, per mano a Sadalmelik
“Ma non manca molto”.
“Non
vedo l’ora di tornare a casa, dove Kuruma ci
attenderà tutta felice, il palazzo
sarà bello comodo, senza vento, pioggia, neve o altro, e
potrò finalmente
tornare a stendermi nel mio bel letto e fare quello che mi
pare” parlò Drago.
Tigre
non disse nulla e Long intuì che fosse per il fatto che, una
volta tornato a
palazzo, sarebbe tornato in forma animale e Acquario non avrebbe
più di certo
potuto tenerle per mano.
“Dici
che arriveremo per tempo?” domandò Sadalmelik.
“Ma
certo, guarda! Quel cartello indica che mancano pochi chilometri al
confine con
la Grecia” la rassicurò Hu.
“Saremo
gli ultimi, secondo voi?”.
“Lo
scopriremo. Io son pronto a fare scommesse” sorrise Drago.
“Oh,
sì! Pure io. Scommetto che gli ultimi ad arrivare saranno
Cavallo ed i suoi”
esclamò Tigre.
“Ci
sto! Io invece dico che saremo proprio noi gli ultimi, visto che siamo
stupidi
ed andiamo a piedi!” rispose Long.
“Bene.
Cosa scommettiamo?”.
“Il
riordino del salone principale dopo la grande festa che faremo una
volta
tornati a casa. Chi perde, dovrà farlo tutto da
solo”.
“Qua
la mano! E tu, Sadalmelik, scommetti?”.
“Preferirei
di no”.
“E
la nostra cara Serpente che dice? Lei potrebbe scommettere su cosa le
farà
Kuruma quando torneremo a palazzo…”.
“Se
tornerete a palazzo…” precisò
Shè, ghignando e beccandosi uno scappellotto
sulla testa da parte di Drago, che l’accusò di
portare sfiga.
“E
Kosmos?” mormorò Acquario.
“Non
preoccuparti per lui. Se la sa cavare” tentò di
calmarla Tigre.
“Sei
sicuro? A me è sembrato un po’ tanto impedito come
mortale” rise Serpente.
“Davvero?”
si incuriosì Long.
“Sì”
confermò Shè “Sembrava un bambino.
Tutto impaurito dal Mondo. Direi patetico…”.
“Tu
sei patetica!” sbottò Sadalmelik, anche se gli
altri della compagnia
ammettevano in silenzio che Shè aveva ragione.
“Vedrai
che torneremo tutti a palazzo, il tuo capo compreso”
parlò Tigre, quasi
sorridendo vedendo quanto si era offesa Acquario
“È evidente che lo conosci più
di noi, perciò immagino che tu abbia molta più
fiducia in lui di quanta non ne
possiamo avere noi”.
“Tu
credi che lui non possa farcela?” si allarmò
Sadalmelik.
“Mai
detta una cosa del genere. Dico solo che la Terra non fa per
lui”.
“Ma
è stato lui a crearla!”.
“E
con questo? Ha anche creato i buchi neri, non è che va a
farci le jinkane nel
mezzo!”.
“Veramente
sì…”.
“Oh…che
strano uomo”.
“Lui
è il mio capo e lo sarà ancora. Non mi piacerebbe
l’idea di dover essere
comandata da Kuruma”.
“Perché?”.
“Non
so. Mi mette a disagio…”.
“E
poi Kosmos è carino, ammettilo”.
“Sei
geloso di uno di 15miliardi di anni, per caso?”.
“Dico
solo che quando sarò tornato una tigre, lui
potrebbe…”.
“Potrebbe
niente! Che ti salta in mente?!”.
Hu
e Sadalmelik si fissarono qualche istante, prima che Tigre chinasse la
testa.
“Scusami”
mormorò “È che l’idea che tu
mi vedrai come una specie di grosso micio per la
prossima eternità mi mette a disagio”.
“Non
ti vedrò mai come un grosso micio! Tu sei Hu, colui che mi
ha salvata e che io
amo…per la prossima eternità”.
“Quasi
quasi mi commuovo” ghignò Drago, sarcastico.
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Capitolo 14 *** 13 ***
XIV
“Ben
arrivati!” disse Hamal, quando il gruppo raggiunse il rifugio.
Drago,
Tigre, Acquario e Serpente avevano incrociato Bilancia, Gemelli, Cane,
Cavallo,
Bue, Topo e Lepre lungo la strada ed erano arrivati assieme al rifugio,
annullando le scommesse di Long e Hu.
“Ci
siamo tutti, adesso?” domandò Shu.
“Manca
Kosmos” ripose Deneb.
“Ma
come? Non è arrivato?” mormorò
Sadalmelik “Lo dobbiamo aspettare…”.
“Non
sappiamo nemmeno se è ancora in vita! Perché
aspettarlo?” protestò Zhu.
“E
Scimmia? Nemmeno lei c’è”
commentò Tigre.
“Lei
ha cercato di uccidermi. Può anche restare qui”
sbottò Hamal.
“Nessuno
resterà qui! Mancano solo Hòu e
Kosmos?” parlò Ma.
Ci
furono diversi cenni d’assenso.
“E
Acubens dov’è?” insistette Cavallo.
“Lei
è arrivata già da un po’ ma adesso
è a fare un giro, rientrerà fra poco, il
sole sta per tramontare” rispose Aldebaran.
“Beh,
possiamo concedere ancora qualche giorno ai due mancanti prima di
chiamare
Kuruma, ma non più di qualche giorno…”
concluse Topo “...e loro chi sono?”
aggiunse, dopo aver visto le ex coinquiline di Astrea.
“Amiche
nostre” sorrise Capricorno.
“Benissimo,
e ora…” iniziò Antares, ma fu
interrotto dal grido di Acubens.
₪₪₪
“Siamo
quasi arrivati!” esclamò Kosmos, con una certa
soddisfazione “Mi sento pieno di
energia. Ho solo un po’ di mal di testa…ma sono
sicuro che passerà appena sarò
a palazzo. Tutto merito tuo, Seth. Non finirò mai di
ringraziarti!”.
“Dovere”
si limitò a dire lei, sorridendo nel vederlo saltellare
lungo il sentiero.
Canticchiando,
i due ormai camminavano per il monte Olimpo.
“Vedrai,
Seth, che faccia faranno tutti quando mi vedranno arrivare!”.
“Posso
solo immaginarla”.
“Ti
farò conoscere coloro che…” si
interruppe Kosmos, sentendo un grido.
“Acubens!”
esclamò, mettendosi a correre in direzione della voce.
La
vide accanto al fiume, avvolta da un asciugamano bianco candido, che
fissava un
punto fra gli alberi con aria terrorizzata. Kosmos attese qualche
istante,
prima di intravedere un paio di occhi rossi brillare nella penombra.
Subito
corse a frapporsi fra Cancro e quegli occhi.
“Stai
lontano da lei!” esclamò, noncurante del fatto che
molto probabilmente Acubens
non lo aveva riconosciuto con i capelli bianchi e l’abito
umano.
Dal
buio un uomo si mostrò ai due, serio e per nulla spaventato
dall’aria
minacciosa di Kosmos.
“Tu!
Tu sei l’uomo del sogno!” disse ancora il caduto
Signore Occidentale.
L’uomo
sorrise, senza parlare. Aveva lunghissimi capelli neri, come nero era
il suo
lungo abito, con dettagli d’argento.
“Come
facevi a sapere del treno?”.
Occhi
rossi continuò a non rispondere.
“Ci
sono solo due modi per sapere una cosa del genere: conoscere chi sta
per
compiere un gesto simile o essere proprio colui che lo mette in atto.
Tu in
quale delle due categorie ti inserisci? Sei stato tu a far deragliare
il
treno?”.
“Perché
avrei dovuto avvertirti, sciocco?” sbottò
l’uomo, con voce profonda ed
inquietante.
Kosmos
non rispose a quella domanda.
“Ti
ha mandato Kuruma? Non sei di questo pianeta, non con quello sguardo.
Da quale
sistema Orientale provieni?”.
“Hai
ragione, non sono un terrestre, ma non mi ha mandato Kuruma
qui”.
“Quindi
ci sei venuto fin qui da solo ad uccidermi…”.
“Errato.
Sei ancora vivo, mi sembra…”.
“Allora
qual è il tuo scopo? Sei una specie di spia
doppiogiochista?”.
“Ma
come ti vengono certe idee, Kosmos?”.
“Come
sai il mio nome?”.
“Piantala
di urlare. Mi irriti”.
“Cos’è
successo, Acubens?” domandò Rukbat, arrivando di
corsa seguito dalla parte del
gruppo più veloce.
Cancro
si limitò ad indicare l’uomo dagli occhi rossi e
l’Occidentale.
“E
quelli chi sono? Scott degli x-man e Lady Oscar?”
esclamò Sagittario, alludendo
agli occhi rossi del primo e ai lunghi capelli molto mossi del secondo.
“Lady
Oscar?!” esclamò Kosmos e Rukbat
mormorò uno “scusi capo” imbarazzato.
“Sono
arrivati i tuoi altri amichetti” commentò
l’uomo in nero.
“Non
osare pensare di fare loro del male!” minacciò
Kosmos, spalancando le braccia
nel vano tentativo di coprire l’intera compagnia.
“Da
quando in qua il capo fa cose del genere?”
sussurrò Rukbat.
“Ti
ho sentito!” gli sibilò l’Occidentale.
“Hai
intenzione di restare in quella posa ancora a lungo?” riprese
l’uomo dagli
occhi rossi “Spaventi solo i passeri…”.
“Tu
non sai con chi hai a che fare, stupido”.
“Credo
che la cosa sia reciproca. E non ti è stato insegnato che si
porta rispetto
alle persone con più anni di te?”.
“Ah,
bello mio, dubito ampliamente che tu abbia più anni di
me!” ghignò Kosmos.
“E
come ne puoi essere così sicuro?”.
“Perché
nessuno è più vecchio di me!”.
L’uomo
scoppiò a ridere, una risata che ne agitò i
capelli in modo innaturale e fece
accucciare la compagnia dietro l’Occidentale.
“Che
carino che sei, quasi tenero, con tutte le tue belle certezze davanti a
te che
ti coprono gli occhi come tante bende sovrapposte e
multicolore!” commentò, una
volta finito di ridere.
“Sparagli”
mormorò Hamal, rivolta a Rukbat che stringeva il fucile fra
le mani.
Sagittario
annuì e, con la solita mira infallibile, mirò
alla fronte. L’uomo si limitò a
girare gli occhi ed il proiettile si disintegrò.
“Che
razza di fucile di merda hai?!” sbottò Antares.
“Non
è il fucile! Questo funziona benissimo!”.
“Allora
sono i proiettili che fanno cagare! Hai visto che è
successo?”.
“Non
me lo so spiegare…”.
“Non
osare nemmeno guardarli!” sibilò Kosmos, notando
che l’attenzione di chi aveva
di fronte si concentrava sulla compagnia di costellazioni.
Gli
occhi rossi brillarono, incredibilmente più di quanto non
avessero fatto fino a
quel momento.
“Non
lo fare!” gridò una donna.
“Seth!”
esclamò Kosmos, allarmato.
“Alfa”
mormorò lo sconosciuto, limitandosi ad alzare un
sopracciglio.
“Che
mi sono perso?” ansimò Deneb Algiedi, arrivando
alle spalle di Sagittario ed
accucciandosi con il resto del gruppo “Chi sono questi
tre?”.
“Quello
vestito da pinguino è Kosmos. Gli altri due, non ne ho idea.
Lei mi pare si
chiami Alfa”.
“E
l’altro?”.
“Boh…Romeo?”.
“Di
battute stupide te ne ho sentite dire un sacco ma questa, credimi,
è la
peggiore!”.
“Ne
dubito…ad ogni modo, quello distrugge i
proiettili”.
“Fa
cosa?!”.
“C’è
un motivo per cui siamo tutti accucciati per terra, non ti
pare?!”.
“Seth?
Che nomignolo interessante” commentò
l’uomo.
“Non
eri tu quello che diceva che non si doveva interferire?”
sbottò la donna.
“Esatto,
mia cara. Io non ho interferito con la vita di Kosmos. Ho salvato la
portatrice
del prossimo scettro delle Ere”.
“Lo
hai salvato dal deragliamento del treno!”.
“E
tu lo hai guarito”.
“Come
sapete dello scettro delle Ere?” domandò
l’Occidentale.
“Zitto,
quando i grandi parlano!” sibilò l’uomo
e Kosmos si ritrovò senza voce.
“Piantala
di fare il bambino!” sbottò la donna, e con un suo
gesto il muto tornò a
parlare.
I
due iniziarono ad insultarsi e Kosmos, notando che non avevano occhi
che per
chi avevano di fronte, si voltò verso le costellazioni,
facendogli segno di
andarsene.
“Via,
allontaniamoci adesso che possiamo!” disse.
“Ma…”
protestò Rukbat.
“Cos’è
che non capisci, equino? Vuoi per caso un calcio nel culo per
muoverti?!”.
“Nossignore!”.
Una
volta giunti al rifugio, che Kosmos fissò come chi fissa un
modellino
semidistrutto e poco riconoscibile, i presenti iniziarono a raccontare
l’accaduto
a quelli rimasti nell’edificio, scatenando reazioni diverse
ma in genere
d’allarme.
“È
bello rivederti, Kosmos” commentò Tigre,
salutandolo con una stretta di mano.
“Lo
stesso per me, anche se avevi detto che mi venivi a
prendere…”.
Hu
arrossì leggermente e girò la testa.
“Capo…”
iniziò Sagittario, imbarazzato “…mi
spiace per prima, non era mia intenzione
offendere Solo che non l’ho riconosciuta senza i capelli blu,
l’armatura, il
megacerchio con le costellazioni e tutto il
resto…”.
“Tranquillo,
sottoposto, nemmeno io a momenti ti riconoscevo con quei capelli
imbarazzanti e
il cappotto da film horror”.
“Touché”.
“Ci
siamo tutti?” riprese Kosmos, sbottonandosi la camicia
iniziando a sentire un
gran caldo.
“Manca
solo Hòu” rispose Topo.
“Chi?!”.
“Scimmia”.
“Ah…e
come mai?”.
“Perché
ha tentato di uccidermi” rispose Ariete.
“Ok,
perfetto, direi che è compito di Kuruma andarsela a
riprendere!”.
“Non
avete freddo? È dicembre…”
rabbrividì Acubens.
“Tu
facevi il bagno nel fiume!” sbottò
l’Occidentale.
“Non
abbiamo alternative. Ma Voi la camicia potete tenervela
stretta”.
“Ho
caldo. Mi manca la temperatura dell’Universo”
tagliò corto Kosmos, offrendole
la camicia se aveva tanto bisogno di scaldarsi.
“E
vi muovete sospeso da terra…” aggiunse Hamal.
“Ah
sì? Cioè…no!! Non va bene!”.
“Perché?
Vuol dire che Vi sta tornando la magia” non capì
Ariete.
“Infatti,
e questo non va bene! Senza la mia armatura io non sono in grado di
controllarmi!”.
“Allora
torniamo ai piani alti” sorrise Topo.
Gli
Orientali si guardarono ad annuirono.
“Chiameremo
Kuruma e tutto si risolverà”.
Concentrando
la loro energia, chiamarono la loro Signora. Attesero qualche istante,
ma non
ottennero nessuna risposta.
“Beh?!”
sbottò Kosmos “Che succede?! Problemi sulla
linea?!”.
“Non
lo so” gemette Topo, non aspettandosi una cosa del genere.
Il
caduto Signore Occidentale respirò a fondo, passandosi una
mano fra i capelli.
“Forse
ho un’idea” mormorò, guardando fuori
dalla finestra “Squeak, vieni qui!”
chiamò
il procacciatore, provocando espressioni assurde per
l’assurdo nome
dell’assurdo animale.
La
creatura volò e, entrando nel rifugio, si
appollaiò sulla spalla del suo
padrone.
“Vola
da Kuruma e dalle il nostro messaggio” gli disse, prima di
farlo volare di
nuovo verso il palazzo al centro del cielo “Forse la vostra
magia non è
sufficiente per avvertirla”.
“Può
essere…” mormorò Yang, poco convinta.
“E
se le fosse successo qualcosa?” commentò
Zubenelgenubi.
“Io
non so chi sei, tanto per cominciare, e poi cosa potrebbe esserle
successo? Non
essere ridicola…” la interruppe Kosmos.
“E
con l’x-man come la mettiamo?” domandò
Sagittario.
“Dormiamoci
su” propose Capricorno.
“Io
sono d’accordo. Dopo il viaggio siamo esauste!”
gemettero le Bilancia.
Il
giorno dopo, il procacciatore riapparve, in compagnia della creatura di
Kuruma.
“Hei!
Guarda che io ieri non ti ho ordinato "vai a prendere la tua
amichetta" ma "avvisa Kuruma"” protestò Kosmos,
fissando
entrambi “Che ci fa la pennuta qui? Sempre che sia una
femmina…non ho mai
verificato…”.
Il
procacciatore iniziò ad emettere degli strani versi, a cui
il padrone
rispondeva a parole.
“Ma
tu sai proprio tutte le lingue” commentò,
affascinata, Alìs, mescolando la
tazza di tè che aveva davanti al viso.
“Le
ho create io” si limitò a rispondere il caduto
Occidentale.
“Davvero?
E come mai ne hai create così tante?”.
“Mi
divertiva…”.
Lui
si sforzava di ignorarla, trovandola anche piuttosto irritante, e lei
insisteva
nel ronzargli attorno in cerca di uno sguardo d’attenzione.
“Cosa
vuoi?” si arrese, ad un certo punto, Kosmos, probabilmente
ricordando che la
lite con Kuruma era nata dal fatto che lui la ignorava.
“Voglio
solo dirti che penso che tu sia bellissimo”.
“Buon
per te” fu la risposta, mentre il procacciatore continuava a
raccontare cose
chiare solamente a pochi nell’universo.
Alìs
sospirò, con il poco cervello rimasto avvolto da
un’ovatta rosa a cuoricini, e
seguì Kosmos con lo sguardo, mentre questi cambiava stanza
per parlare
tranquillamente con la sua creatura.
“Le
è successo qualcosa? Per questo non risponde alle chiamate
dei suoi
sottoposti?”.
Al
senso d’assenso, l’Occidentale si morse il labbro.
Che poteva fare? Senza la
Chiave del Cielo non era in grado di tornare a casa ed i due
procacciatori non
potevano toccare quell’oggetto a causa
dell’eccessiva carica magica in esso
contenuto.
“Problemi,
capo?” domandò Rukbat, con mezzo caffè
nella tazzina ancora da sorseggiare.
Kosmos
non rispose, si limitò a sedersi a terra, schiena contro il
muro, sospirando.
“Cosa
c’è che non và?” insistette
Sagittario.
“Niente”.
“Non
siete bravo a raccontare balle, ve lo dice un vero esperto in
materia”.
“Lo
so”.
“Allora…cosa
c’è?”
“Tu
sei bravo a torturare la gente?”.
“Domanda
strana ma…devo ammettere che me la cavo.
Perché?”.
“Promettimi
che, nel caso fosse successo qualcosa di grave a Kuruma, tu mi
affliggerai le
più tremende torture che ti vengono in mente. Le
più atroci, dolorose,
estenuanti e terribili che conosci. Inventane di più sadiche
solo per me, se
necessario”.
Rukbat
fissò il suo capo come farebbe una qualsiasi creatura nel
vedersi spuntare di
colpo un fungo dal palmo della mano.
“Ok”
rispose, allungando la prima lettera “Non conoscevo questo
suo lato
masochistico, Signore”.
“Non
è masochistico! È giusto. Se a lei è
successo qualcosa di male per colpa
mia, allora voglio che sia tu ad occuparti di
me. So per certo che l’empatia non rientra fra le tue
qualità e quindi sono
sicuro che le tue torture andranno avanti finché
sarà necessario”.
“Non
sono l’unico, però, con simili
caratteristiche…”.
“So
anche questo. Sarà la prima volta in cui tu ed Antares
farete qualcosa di buono
assieme”.
“Buono?!”.
“Quello
che vuoi che sia”.
Rukbat
andò in cucina, quando si accorse che Kosmos non voleva
più parlare. Fissò i
suoi colleghi, che risposero a quello sguardo.
“Ragazzi…”
iniziò Sagittario, a bassa voce, sicuro che comunque il suo
Signore lo avrebbe
sentito “…ce lo siamo giocato! La vita da mortale
lo ha svalvolato del tutto!”.
Al
calar del buio, avendo perduto la necessità di dormire
grazie al graduale
ritorno della sua magia, Kosmos volle provare ad uscire
all’aperto. Svicolò
abilmente dalle domande idiote delle coinquiline di Astrea che volevano
sapere
come si era fatto tutti quei piercing, domanda a cui, fra
l’altro, non aveva
risposta, e come poteva salire su un aereo o fare i raggi con tutta
quella
ferraglia addosso. Ignorando le frasi tipo “Quanto sei
carino” e “Non dirmi che
c’è una signora Kosmos da qualche
parte…” chiuse la porta del rifugio dietro di
sé e si allontanò.
“Non
riuscirete mai a tornare in cielo così”
tuonò una voce, nel buio.
“Tu
cosa ne sai?” rispose il caduto Signore.
“Perché
non dovrei saperlo? E perché tu sei così sicuro
di riuscire a tornare a casa?”.
“E
tu perché continui a rispondere alle mie domande con altre
domande?”.
“Perché
non dovrei?”.
“Sei
irritante!”.
“Pure
tu”.
L’uomo
era appollaiato su un albero e guardava giù, mantenendo
sempre un tono di voce
ed un atteggiamento calmo e distaccato.
“Chi
sei?” insistette Kosmos.
“Credi
abbia davvero così tanta importanza?”.
“Smettila
di rispondere con un’altra domanda!”.
Lo
sconosciuto ridacchiò, mentre Kosmos quasi ringhiava per il
fastidio.
“Come
sai la lingua che stai usando in questo momento?”
ricominciò a chiedere il
caduto.
“E
tu perché continui a fare domande, se sai che rispondo
irritantemente con
un’altra domanda?” ghignò di gusto
l’uomo.
“Non
ho tempo da perdere, sai?! Se sai come farci tornare in cielo, dimmelo,
altrimenti sparisci”.
Lo
sconosciuto sorrise, quasi con tenerezza, e scese
dall’albero. L’Occidentale
non si mosse ma strinse i pugni, lanciando un chiaro segnale a chi
aveva ora di
fronte.
“Vuoi
tornare a casa?” domandò l’uomo.
“Sì.
Una persona ha bisogno di me ed io non posso perdere ancora tempo qui.
Sai come
tornare? Parla! Altrimenti chiudi la bocca e non farti più
vedere”.
“Mi
piace il tuo atteggiamento, mi ricorda tanto quello che avevo io da
giovane”.
“Piantiamola
di discutere di stronzate. Dimmi se sai come tornare in
cielo”.
“Io?
Io so come posso tornare in cielo. Per quanto riguarda te, assieme a
tutti i
tuoi amichetti, la situazione è diversa, un po’
più complicata”.
“Ma
è possibile, anche senza l’aiuto di Kuruma e la
Chiave del Cielo?”.
“Certo”.
“E
come si fa?”.
“Non
posso dirtelo io”.
“E
chi può dirmelo?”.
“Nessuno”.
Kosmos
si trattenne a fatica dal tirargli un pugno in faccia e si
sforzò di riprendere
a respirare in modo regolare.
“Mi
stai prendendo in giro, vero? Sei stato mandato qui per farmi
impazzire, ne
sono sicuro! Per aiutarmi no di certo, dato che ho un mal di testa che
mi fa
venir voglia di spararmi in fronte e tu insisti a dirmi cose senza
senso!”.
“Kosmos,
io non sono stato mandato qui. Io sono qui perché volevo
esserci, e dovevo
esserci, come tu ci sarai per chi affronterà tutto questo
dopo di te”.
“Che
stai dicendo?”.
“Forse
dobbiamo dirglielo, spiegargli come si torna in cielo”
parlò una voce
femminile.
“No,
Alfa” rispose l’uomo “Deve cavarsela da
solo, lo sai che dev’essere così”.
“Ma…forse
lui non…”.
“Smettila
di vederlo come un bambino! Non lo è! È un uomo,
ed è tempo che lo dimostri!”.
Kosmos
guardava entrambi con aria smarrita, sempre più confuso da
quel tremendo mal di
testa che iniziava ad essere insopportabile. Sentiva il cuore pulsare
fra le tempie
e la vista per un attimo gli si appannò, con un capogiro.
Cadde sulle ginocchia
senza nemmeno accorgersene. Alfa, Seth, fece uno scatto per soccorrerlo
ma
l’uomo la bloccò, scuotendo la testa. Sentendo
urlare il loro capo, le
costellazioni aprirono la porta del rifugio ma non riuscirono ad
uscirne,
spaventati dall’insieme di luci e scintille che videro
nell’aria.
“Kosmos.
Mi senti? Alzati” parlò dolcemente Alfa.
Lui
aprì gli occhi e vide colei che lui chiamava Seth davanti a
sé. Era sfuocata,
perché al momento lui vedeva tutto sfuocato.
“Che
rapporti hai con quell’uomo?” mormorò,
cercando di rialzarsi.
“Lui
è mio marito, il padre dei miei figli, e mio
fratello”.
Kosmos
tirò fuori la lingua e si girò su un fianco,
incespicando e ondeggiando
confuso.
“Ti
sei fatto male?” domandò lei, apprensiva.
“Signora,
la prego! Mi tolga le mani di dosso! Non sono mica
un’infante, e che diamine!”.
“Che
diamine?!”.
“E
che cazzo!”.
“Già
meglio…”.
Non
fu lui ad alzarsi, ma la magia stessa lo sollevò e lo tenne
sospeso. Lui chiuse
gli occhi e lasciò che questa fluisse lentamente,
circondandolo. Era una bella
sensazione e si rendeva conto di riuscire a controllarla. Le sue vesti
mortali
scomparvero, anche perché lui riprese le sue dimensioni
solite, eccessive per
un essere umano, e furono sostituite da altre. Kosmos, rimanendo a
braccia
spalancate e lo sguardo rivolto verso l’alto, sorrise per il
solletico. Delle
linee dorate gli si stavano disegnando sul petto e sulla fronte,
contornando le
sferette di metallo che aveva sul corpo. I capelli, divenuti bianchi
con la
caduta, ripresero il loro solito colore, azzurro scuro ed intenso,
quasi blu,
mentre gli occhi chiari ripresero a brillare. La corona a fili sottili,
che
portava a palazzo, riprese il suo posto. Sulle spalle riapparve il suo
solito
mantello nero ma non più sostenuto dall’armatura,
bensì da due coprispalla
dorati e molto elaborati, uniti da un ampio collare decorato a mosaico
color
del cielo al cui centro spiccava il cerchio che segnava il segno
zodiacale
dell’Era corrente ed ai cui lati partivano due coppie di
catene argento e
quattro fili d’oro a circondare il busto scoperto del Signore
del Cielo
Occidentale. I fili dorati ne decorarono anche le braccia fino ai
polsini, che
coprivano anche il dorso della mano e avevano lo stesso decoro e colore
dei
coprispalla. Un’ampia cintura molto elaborata, riprendente i
motivi che ne
reggevano il mantello, separava il petto quasi del tutto scoperto da un
elaborato intreccio di veli, che rendeva difficile capire se formassero
un paio
di pantaloni o una gonna. Di colore blu scuro, con brillanti dettagli
in
argento, facevano solo intravedere i piedi scalzi, con i fili dorati
che li
decoravano. Atterrò sulle punte, delicato come se non avesse
peso. Sorrise. Ora
le sue labbra erano di nuovo blu, come era abituato, e perfino la sua
pelle
aveva acquisito un leggero colorito azzurino. Dietro al suo capo era
riapparso
il cerchio con i segni zodiacali, sospeso a mezz’aria. Ora,
però, ad indicare
il segno corrente, non vi era più lo spuntone
dell’armatura ma il motivo del
suo insistente mal di testa: una specie di corno argento di cui
però Kosmos non
si accorse subito.
Girandosi
verso Alfa ed Occhi Rossi, vide che anche loro erano cambiati. Erano
cresciuti
entrambi. Lui era divenuto quasi del tutto nero, come nero era il suo
vestito
con tutti i dettagli argento. Aveva un ampio ed alto colletto, con
bordo
brillante e una cintura grigio-argentata stretta in vita. Indossava i
guanti,
sempre d’argento e alle sue spalle era apparso un cerchio con
quattordici
simboli, che Kosmos ammise di non conoscere, segnati dal corno di lui,
rosso ed
attorcigliato. Anche lei aveva un cerchio alle spalle, pure quello con
simboli
sconosciuti, segnati con due corna argentate che si piegavano fino
quasi a
congiungersi. Alfa era vestita di bianco, con tanti dettagli in oro, e
magnifici capelli molto mossi dello stesso colore di quelli di Kosmos,
come
dello stesso colore dell’Occidentale aveva gli occhi.
inoltre, la sua pelle era
candida e le labbra blu.
“Ora
hai capito chi hai davanti?” mormorò lei.
Kosmos
guardò entrambi piuttosto confuso, mentre Alfa lo
abbracciava. Ora era più
piccola di lui, gli arrivava alla spalla. Girò solo gli
occhi verso Occhi Rossi,
ancora di due spanne più alto di lui. Kosmos non si
lasciò intimorire
dall’altezza di quell’essere e gli sorrise.
L’uomo rispose, pur mantenendo le
braccia incrociate.
“Come
ti senti adesso, piccolo mio?” riprese Alfa, accarezzando il
volto
dell’Occidentale.
“Piccolo
mio?! Non esageriamo…”.
“Sei
piccolo. Noi abbiamo il doppio della tua età!”
ridacchiò l’uomo.
“Quindi
voi due siete…” parlò Kosmos,
lentamente e senza azzardare ipotesi.
“La
tua mamma ed il tuo papà, tesorino mio” sorrise
Alfa.
“Signora…”
iniziò Kosmos, avvolgendosi in parte dal mantello per
sfuggire dalla stretta
della donna “…pur essendo mia madre, lo posso
dedurre dai tratti somatici in
comune, non rientra fra le mie priorità e fra i miei
interessi farmi chiamare
"piccolo mio"”.
“Giusto,
donna! Kosmos è un uomo adesso, dico bene?”
esclamò Occhi Rossi, dandogli una
poderosa pacca sulla spalla.
“Già”
confermò l’Occidentale “E ora mi
è chiaro da chi ho preso il fatto di essere un
grandissimo stronzo!”.
“Grazie”
ghignò l’uomo in nero, soddisfatto.
“Tu
ti chiami Alfa, ok. E tu? "Tizio dagli occhi rossi" è un
po’ lungo…”.
“Io
sono Omega. Ma anche T.D.O.R. può andare”.
“T.D.O.R.?!”.
“Tizio
Dagli Occhi Rossi”.
Kosmos
si mise a ridere. Forse era tutto un sogno, si disse.
“Quindi…quello
creato da me non è l’unico
universo…” iniziò a riflettere
“Quelli che avete sulle
spalle sono indicatori di costellazioni e segni del vostro
cielo”.
“Esatto.
E frena un momento con le parole "creato da me", ragazzo”
specificò
il padre “Tu lo hai modellato ma la materia prima del tuo
universo è stata
creata da me, come quella del mio universo mi è stata data
da mio padre e via
dicendo”.
“Ma
quanti universi ci sono?!”.
“Boh.
Non ho mai avuto troppo tempo libero per stare a contarli”.
“E
il primo come è iniziato? Insomma…chi ha fornito
la materia prima?”.
“Tu
fai troppe domande. Ti do un consiglio: smettila, e vivrai molto
meglio!”.
“Agli
ordini…papà”.
“Bravo
il mio ragazzo…”.
“Quindi
io ho anche dei nonni, dei bisnonni…”.
“E
dei prozii. C’è stata una volta in cui sono nate
due coppie di gemelli, che han
dato vita a due universi distinti contemporaneamente. Ma è
un fatto accaduto
una volta soltanto”.
“Wow.
E un giorno potrò conoscerli?”.
“Vuoi
una riunione di famiglia? Beh…si potrebbe fare quando
nasceranno i tuoi figli”.
“I
miei figli?!”.
“Certo.
Funziona così: nascono due gemelli, un maschio ed una
femmina, fanno casino,
evolvono e poi fanno altri due gemelli, che assumono il comando di un
altro
universo. Eccetera. Chiaro?”.
“Non
molto…”.
“Tu
e Kuruma siete gemelli, figli nostri, ed un giorno avrete dei figli fra
di voi,
due gemelli, un maschio ed una femmina, a cui affiderete un nuovo
universo di
cui tu fornirai la materia”.
“Io
e Kuruma siamo fratelli?!”.
“Sì,
e avrete due figli che si odieranno a morte fino al punto di andare
vicini alla
fine del proprio universo. Se superano la cosa, si ritroveranno e il
cerchio si
ripeterà. Altrimenti fine dei giochi”.
“E
questo come lo sai?”.
“Perché
è così da tempo infinito. Fra 15miliardi di anni,
la storia si ripeterà e tu
dovrai fare il discorso che sto io facendo a te a tuo figlio. E Kuruma
lo stesso”.
“Kuruma?!
Ma io sto qui a discutere mentre lei ha bisogno di me! Devo tornare in
cielo,
ditemi come si fa!”.
“Tu
lo sai già. Pensaci”.
“Non
mi serve la Chiave del Cielo?”.
“Quello
è solo un simbolo. La tua energia non ha più
bisogno di essere guidata da
un’armatura o da degli oggetti. Ora sei tu la Chiave del
Cielo”.
Kosmos
annuì, poco convinto. Si girò verso il rifugio,
dove le costellazioni e gli Orientali
lo fissavano senza capire. Un violento scossone fece sobbalzare e quasi
cadere
tutti quanti.
“Cosa
è stato?” esclamò Kosmos.
“Il
cielo si sta fermando” spiegò Omega.
“Devo
tornare a casa…”.
“È
ora. Sai che giorno è oggi?”.
L’Occidentale
scosse la testa.
“Oggi,
figlio mio, è il 21 dicembre 2012”.
“Venite
fuori. Si torna a casa” disse il caduto Signore, capendo qual
era la soluzione.
Il
cerchio delle Ere che portava sul petto segnava l’Acquario ed
era ora che
Acquario andasse a prendere il suo posto, così come gli
altri.
I
dodici segni uscirono, alcuni timorosi ed altri con un sorriso da parte
a parte,
e si misero in cerchio attorno al loro padrone. Alfa ed Omega, quasi
abbracciati, si distanziarono leggermente, osservando la scena da una
distanza
tale da non dare fastidio. Gli Orientali si misero alle spalle di
coloro che
avevano aiutato a giungere fino a lì, o che avevano tentato
di uccidere.
“E
Scimmia?” domandò Shu.
“Scimmia
è fra gli alberi, è sempre stata lì.
Attendeva il momento giusto…” sorrise
Kosmos, facendo un gesto con la mano.
Hòu
si ritrovò fra Yang e Ji, alle spalle di Adhafera.
“Siamo
pronti!” ghignò Kosmos, spalancando le braccia e
sollevandosi da terra.
Partendo
dal primo segno, Hamal l’Ariete, le costellazioni iniziarono
ad illuminarsi e
con loro gli Orientali. Per qualche istante, tutti mostrarono
l’aspetto che
avevano prima di divenire stelle. Animali, Dèi, oggetti. Poi
ridivennero come
erano al palazzo, ed i loro occhi ripresero a brillare. Toro si
illuminò di
verde. Mek e Buda si riunirono. Acubens si dovette separare dal fucile
che
aveva usato per aiutare i leoni. Adhafera ringhiò, tornando
ad avere i soliti
denti affilati. Tutti gli occhi erano fissati su Astrea, che
però non si
illuminò. Al suo posto, di luce argentea, si
ricoprì Zubenelgenubi.
“Che
succede? Astrea, che hai?” si preoccupò Kosmos.
“Ho
fatto la mia scelta. Come, millenni fa, scelsi di divenire una
costellazione
perché mi rendevo conto che gli esseri umani non avevano
più rispetto per la
divinità che ero, mesi fa ho deciso che il mio periodo da
stella è terminato,
venendo meno al giuramento che avevo fatto quando ascesi”.
“Capisco”
sorrise l’Occidentale.
“Di
che giuramento parli?” domandò Rukbat, guardandola
in modo interrogativo.
“Concedendomi
a te, quella notte, ho scelto volutamente di rinunciare al simbolo
della
verginità che rappresentava la costellazione di cui prendevo
il controllo”.
“Ma
tu non eri di certo vergine quando sei diventata una stella!”.
“No,
ma ho scelto la castità successiva. Rinunciandovi, ho
rinunciato al mio essere
la Vergine”.
“Resti
sulla Terra, dunque?” domandò Kosmos.
“Sì.
Come mortale”.
“Ti
auguro ogni bene, mia cara. Spero di avere tue notizie in
futuro”.
“Anche
a voi auguro ogni bene”.
Detto
questo, Astrea fece un passo indietro, lasciando che Zubenelgenubi
prendesse il
suo posto. Zubeneschamali, illuminata dalla luce rosa della Bilancia,
provò a
protestare, ma venne zittita. Il cerchio si completò senza
altre interruzioni e
Kosmos aprì una specie di tunnel luminoso sopra il gruppo.
Astrea guardò solo
per un istante Rukbat, che le diede le spalle e si sollevò
da terra assieme
agli altri. In quella colonna di luce, visibile da praticamente tutto
il
pianeta, Orientali ed Occidentali, guidati da Kosmos e seguiti da Alfa
ed
Omega, svanirono e tornò il buio.
“Ci
sei riuscito” commentò Hannaliz, vedendo quel
segno nel cielo.
“Siete tornati a casa,
viaggiatori dello spazio”
brindarono i cacciatori di alieni.
“Buon
viaggio” sorrisero Mikael e Scott.
“Cazzo,
ma allora era vero!” si stupirono Giacobbo e Berry.
“Eri
davvero una stella!” sorrisero i ricercatori norvegesi.
“Sempre
il solito esagerato, agente Carlyle” commentò il
vero agente Carlyle.
“Mandami
una cartolina” ridacchiò Erik dal Giappone.
“Grazie”
salutò la proprietaria del ristorante che aveva ospitato
Cane e Bilancia.
“Oddio,
la fine del Mondo!” urlò la maggior parte della
gente.
“Addio”
sussurrò Astrea, versando solo una lacrima, e ricevendo
l’abbraccio delle sue
coinquiline.
₪₪₪
“Kuruma!
Dove sei?” gridò Kosmos, appena arrivato nel
palazzo.
Si
accorse subito che qualcosa non andava. Era buio, i cerchi con i segni
zodiacali sulle sue torri non brillavano come di consueto e
c’era uno strano
silenzio.
“Kuruma!”
la chiamò di nuovo.
Poi
si girò verso i segni zodiacali e gli Orientali.
“Dividiamoci
e cerchiamola”.
Tutti
annuirono e si divisero, iniziando a guardare in tutte le stanze.
Kosmos andò
subito sulla torre di lei, senza trovarla. Ovunque rimbombavano le voci
che
ripetevano il nome della Signora Orientale quando
l’Occidentale la vide. Era
stesa sul terrazzino, con fra le mani Scettro e Chiave.
“Kuruma!”
gridò lui e corse da lei, più in fretta che
poté.
Appoggiando
le mani sul pavimento lucido, si chinò di lei e
continuò a chiamarla, senza
ottenere risposta. Era pallida, molto più del solito.
Iniziò a scuoterla per
svegliarla, urlando sempre più forte.
“Kuruma!
Svegliati! Cosa ti succede? Parlami! Dì qualcosa!”.
“È
svenuta?” domandò Shu, arrivando assieme agli
altri sul terrazzino.
“Non
mi risponde!” gemette Kosmos “Non…fa
niente! Non respira e il suo cuore…”.
“È
tutta colpa tua!” gridò Alfa rivolta ad Omega
“Tu e la tua regola stupida del
non interferire! Ora la mia bambina è morta!”.
“Colpa
mia?!” si stupì Omega.
“Ti
odio! Siamo arrivati troppo tardi e la mia bambina non ce
l’ha fatta!”.
“Kuruma
è anche la mia bambina, come puoi darmi la colpa?”.
“Avremmo
potuto intervenire prima e non sarebbe successo!”.
“Non
interferire è la regola di base dall’inizio degli
universi, non potevamo fare
noi il lavoro loro. Lo sai che dovevano intraprendere un
percorso!”.
“Era
così che doveva finire il percorso?!”.
“Finitela!”
li zittì Kosmos “La colpa è solo ed
esclusivamente mia”.
“Ma
cosa dici, tesorino?” lo guardò con tristezza Alfa.
“Niente
tesorino! Non sono un tesorino, sono un idiota! Uno stupido, che non ha
capito
cosa stava facendo in tempo ed ora è tardi. Oh, Kuruma,
perdonami! Se solo
potessi sentirmi, ti chiederei scusa un milione di volte e mi
inginocchierei
davanti a te supplicandoti di dare una seconda possibilità a
questo imbecille
che porta il nome di Kosmos”.
Orientali
ed Occidentali cominciarono a capire la situazione e si agitarono,
specie dopo
che un altro violento scossone fecero quasi cadere tutto il gruppo.
“Il
cielo si sta fermando del tutto! Devi farlo ripartire con la Chiave e
dare lo
Scettro a Sadalmelik” disse Omega, ostentando una calma
insolita.
“Non
me ne frega un cazzo del cielo, delle Ere e di qualsiasi altra cosa!
Che si
fermi pure!” rispose Kosmos, appoggiandosi a Kuruma.
“Sei
impazzito?! Spero tu sia consapevole delle possibili
conseguenze!”.
“Me
ne sbatto!”.
“Cosa?!”.
Il
Signore Occidentale risollevò la testa e guardò
il padre con rabbia.
“Sei
sconvolto adesso, Kosmos, e lo capisco, ma non hai ancora imparato a
guardare
oltre all’immediato. Non puoi distruggere il tuo
universo!”.
“E
perché no?!”.
Una
sberla poderosa lo fece tornare alla realtà.
“Perché
ti ammazzo con le mie mani se osi farlo!” sbottò
una voce.
Kosmos
ribaltò la testa all’indietro, coprendosi il viso
e mugugnando.
“Kuruma!”
esclamarono in coro i presenti, mentre lei si sollevava e si metteva
seduta.
L’Occidentale
continuò ad imprecare per un po’ e
l’Orientale lo lasciò fare, prima di
abbracciarlo e farlo calmare.
“Mi
sei mancato!” mormorò.
Lui,
togliendosi la mano dal viso, la allontanò e si
alzò in piedi. Il gruppo di
costellazioni e sottoposti iniziò a fissarsi con
preoccupazione.
“Alzati”
ordinò Kosmos, serio.
Kuruma
si rabbuiò e girò il capo, visibilmente delusa.
“Vuoi
una mano?” sorrise, ad un tratto, Kosmos, sollevandola da
terra e prendendola
in braccio.
Guardandola
negli occhi, continuò a sorriderle.
“Sei
cambiato” commentò lei, notando il colorito, il
corno, il vestito e tutto il
resto.
“Anche
tu” rispose lui.
Kuruma
aveva perduto l’armatura e sul capo le erano spuntate due
corna di colore
rosso, che quasi si toccavano, esattamente come quelle di sua madre.
Anche la
veste era cambiata, divenendo più ampia e morbida, come una
preziosa gonna di
seta di uno sgargiante color rosso, con dettagli in oro.
“Sei
bellissima”.
“Anche
tu”.
Quasi
si baciarono ma Kosmos spostò indietro la testa.
“Tu…sei
mia sorella, te lo devo dire prima di questo”.
“Lo
so” ridacchiò lei.
“Davvero?
E come lo sai?”.
“Me
lo ha detto lei” muovendo il capo verso la madre
“Un po’ di tempo fa, quando
ero tutta sola in questo grande palazzo”.
“Sai
tutto?!”.
“È
un problema?”.
“No…”
ghignò Kosmos, notando che pure Kuruma rispondeva ad una
domanda con un’altra
domanda, come Omega.
Sorridendosi,
si diedero un lungo abbraccio, fra i sorrisi di tutti i presenti.
Kosmos notò
la cosa e, rimettendo delicatamente a terra Kuruma, batté le
mani.
“Lo
spettacolo è finito ragazzi, è ora di lavorare!
Sciò!” esclamò, illuminando con
un gesto della mano tutto il palazzo.
Afferrò
la Chiave e Scettro e fissò la Signora Occidentale. Le porse
la Chiave del
Cielo.
“A
lei l’onore, mia Signora. Io mi occupo dello
Scettro”.
Lei
fece un piccolo inchino, stringendolo e sorridendo. Kosmos
andò verso
Sadalmelik e lei chinò la testa, in segno di rispetto.
“Smettila
con queste cerimonie, Acquario. Questo è per te, mia cara.
Tuo il compito di
custodirlo fino alla prossima Era, quella del Capricorno”
passò l’oggetto il
padrone alla donna.
Sadalmelik
annuì, mentre insieme i due Signori facevano ripartire il
moto regolare del
cielo.
“Allora
è finita? Possiamo festeggiare?”
domandò Drago e ci fu più di un segno
d’assenso.
“Non
ci posso credere. La mia camera! Un letto decente, tutto per me! Il mio
spazio
personale e la mia privacy di nuovo in mio possesso!”
esclamò Deneb Algiedi,
raggiante.
“La
doccia! Evviva!” quasi gridò Acquario.
Tutti
erano visibilmente felici, solamente Zubenelgenubi, Acquario e
Sagittario
restavano piuttosto silenziosi, quasi storditi.
“Zuben”
chiamò Kosmos “Posso chiamarti
così?”.
“Certo,
Signore”.
“Ti
sei illuminata come Vergine e ora sei qui per questo. Te la
senti?”.
“Io
e Zubeneschamali eravamo, un tempo, i due piatti della bilancia della
Dea della
giustizia, Astrea, perciò per me sarà un onore
avere quel ruolo”.
“Se
te la senti, il posto è vacante”
ridacchiò Kosmos e Zubenelgenubi gli porse la
mano, come per suggellare un patto.
“Zuben
uno e Zuben due” rise Antares, forse deluso perché
sperava di divertirsi con le
due gemelle, come si divertiva con Zubeneschamali.
“Rukbat”
riprese Kosmos “Se vuoi, posso farti andare da lei. Troveremo
qualcuno che
possa prendere il tuo posto, se è questo che
desideri”.
“Da
lei? Da lei, chi?” fece finta di nulla Sagittario.
“Da
Astrea. Se vuoi andare da lei, basta chiedere”.
“No,
grazie. Lei ha fatto la sua scelta, ed io la mia. Grazie,
comunque”.
“Se
dovessi cambiare idea…”.
“Non
la cambierò” tagliò corto Rukbat e si
allontanò dal gruppo.
“Quell’uomo
è davvero molto più strano di quanto
credessi” commentò Antares.
“Basta
che non venga da me a lamentarsi” storse il naso Kosmos e poi
notò lo sguardo
triste di Sadalmelik, con lo scettro abbandonato fra le mani.
Le
si avvicinò e le chiese se, per caso, era preoccupato per il
suo nuovo ruolo.
“No,
non è per questo, Signore. È
che…è possibile far tornare Hu in forma
umana?”.
Kosmos
e Kuruma si fissarono.
“Se
è quello che vuole pure Hu…” rispose la
Signora Occidentale.
Tigre,
andando ad accoccolarsi accanto a Sadalmelik, mostrò che era
proprio ciò che desiderava.
Kuruma sorrise e, con un gesto, Hu riconquistò il suo
aspetto umano, con tutti
i poteri da Tigre. Acquario, quasi piangendo, lo abbracciò
forte.
“C’è
qualche altro casino da risolvere?” gridò Kosmos,
rivolto a tutti i presenti.
Nessuno
disse nulla.
“Sicuri?”
insistette il Signore Occidentale.
Di
nuovo nessuno fiatò.
“Dico
sul serio, parlate ora o chiudete la bocca per i prossimi due o tre
secoli, ok?
Qualcun altro vuole cambiare forma?”.
Si
sentì un coro di “no”, soprattutto da
parte di Ariete che stava a cavalcioni di
Drago, ridendo come una pazza.
“Possiamo
mettere la parola fine a tutto questo?” urlò
Kosmos.
“Sì!”
gridò il gruppo.
“Oh,
grazie a chiunque possa ringraziare! Facciamo casino!”.
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Capitolo 15 *** 14 ***
XV
Era
passato un po’ di tempo dalla piccola avventura sulla Terra.
Definirla piccola
era scontato, cosa potevano essere un anno e pochi mesi per chi vive da
millenni o da miliardi di anni? Nonostante tutto, la maggior parte di
loro la
ricordava come un’esperienza unica, di cui avere quasi
nostalgia, sottolineando
il “quasi”. Kosmos non era fra coloro che avevano
nostalgia della Terra, di
quello era certo. Aveva aiutato i suoi studenti con la tesi usando i
sogni,
così come aveva parlato con Hannaliz e con chiunque lo
avesse aiutato. Alcune
costellazioni ed alcuni animali Orientali avevano espresso il desiderio
di
tornare sulla Terra, ogni tanto, ed erano stati accontentati. Una sorta
di
“vacanza premio” di qualche giorno terrestre per
divertirsi come meglio
credevano. Fra questi non rientrava il nome di Rukbat, che preferiva
evitare di
pensare ad ogni cosa riguardante il passato, ignorando i costanti
rimproveri
che si doveva sorbire dall’intera compagnia. Non mandava
nemmeno a salutare
Astrea, quando Bilancia andava a trovarla. I rapporti fra Orientali ed
Occidentali era di molto migliorato e passavano parecchio tempo nei
saloni
principali, ridacchiando e passando i giorni come volevano. Hamal,
Ariete, era
sempre più legata a Long, Drago, ed amava volare assieme a
lui a spasso per il
cielo. Aldebaran, Toro, aveva ripreso a disegnare, trovando negli
Orientali
degli ottimi ammiratori. Mekbuda, Gemelli, non litigava troppo con se
stesso,
cosa che il resto del gruppo gradiva parecchio, ad aveva insegnato agli
altri a
giocare d’azzardo. Acubens, Cancro, scoperta la sua nuova
passione per i leoni,
aveva approfondito l’amicizia con Adhafera, Leone, che le
stava insegnando a
combattere senza usare il fucile. Zubenelgenubi, la nuova Vergine, non
ci aveva
messo molto per ambientarsi e stringere amicizia con buona parte della
compagnia, anche se non con tutti. Zubeneschamali, Bilancia, ed
Antares,
Scorpione, avevano deciso di pensare seriamente alla loro strana
relazione, decidendo
di comportarsi in modo più serio. Insomma, si erano
ufficialmente fidanzati,
come direbbe facebook. Rukbat, Sagittario, la pigna del gruppo, fra una
rissa
ed un’altra con Antares, girellava per il palazzo con il
cappottone nero che
aveva voluto tenere ed aveva trovato in Shè, Serpente, una
nuova e valida
avversaria per i suoi allenamenti pressoché inutili, che
però svolgeva sempre
più raramente, divenendo sempre più una specie di
topo di biblioteca
perennemente rinchiuso nella sua stanza. Deneb Algiedi, Capricorno, non
aveva
abbandonato la sua dipendenza dalla nicotina ed aveva scoperto un
inaspettato
talento nel bricolage, riempiendo il palazzo di strane costruzioni
fatte con
ciò che trovava. Sadalmelik, Acquario, ormai profondamente
legata a Tigre, si
occupava dello scettro delle Ere con diligenza quasi maniacale. Al
Risha,
abbandonati i trip da droga, si era dato alla scrittura,
così da dare sempre
nuovo materiale assurdo al suo capo per passare il tempo quando il
tedio
prendeva il sopravvento. Shu, Topo, era l’unica che riusciva
a conversare con
Rukbat senza farsi mandare a fanculo, potendo permettersi di discutere
di libri
che la costellazione riteneva “alla sua altezza”.
Niu, Bue, ormai il migliore
amico di Aldebaran, aiutava volentieri Capricorno nei suoi lavori,
specie
quelli più pesanti. Insieme avevano costruito un magnifico
tavolo intagliato,
che era stato messo al centro della nuova sala voluta da Kosmos e
Kuruma: una
stanza immensa, in comune fra i due lati dell’edificio. Hu,
Tigre, oltre ad
amoreggiare costantemente con Sadalmelik, litigava con Rukbat, cosa
strana
avendo i due lo stesso insopportabile carattere, e si allenava con
Adhafera:
fra gatti giganti si capivano. Tù, Lepre, era la
più grande fan dei libri di Al
Risha e si era messa a scrivere a sua volta, rivelando un lato che
nessuno del
palazzo si sarebbe aspettato. Long, Drago, era quello che
più spesso tornava
sulla Terra, assieme ad Hamal, principalmente per far festa e scoprire
posti
che fin ora non aveva mai visto. Shè, Serpente, dopo essere
stata punita da
Kuruma con l’obbligo di ripulire l’intero palazzo,
lasciato un po’ andare in
malora nel periodo in cui la Signora Orientale era rimasta da sola,
aveva fatto
amicizia con Mekbuda, trovando interessante la sua doppia
personalità, ed aveva
iniziato a sfogare la propria rabbia repressa con la danza. Ma,
Cavallo, fra
una corsa ed un’altra per l’universo, amava giovare
d’azzardo con gli
Occidentali e sfidare Rukbat, l’unico con cui si sentiva
libero di nitrire in
libertà, facendo Sagittario lo stesso. Yang, Capra, aveva
ricominciato a
collezionare stupidaggini, inclusi i modellini di Deneb Algiedi,
apprezzandoli
molto, principalmente perché erano senza senso.
Hòu, Scimmia, anche lei punita
rimanendo rinchiusa nella sua stanza per un bel pezzo, aveva deciso che
la
ginnastica era l’unico modo per non impazzire in quel posto.
Ji, Gallo, era
divenuto un ottimo assistente di Aldebaran, essendo molto creativo ed
amando
l’arte, mostrando che dopotutto aveva un buon motivo per
tirarsela tanto. Gou,
Cane, si divertiva a cucinare assieme a Zubeneschamali e Zubenelgenubi,
riscuotendo molto successo, soprattutto da parte di Zhu, Maiale, che
passava le
intere giornate mangiando e dormendo.
“Non
lo trovate strano il capo, ultimamente?” domandò
Antares, controllando le
quattro carte che aveva in mano e storcendo la bocca, dubbioso.
“Mi
sembra che sia sempre stato strano” rispose Deneb Algiedi,
poco convinto ma
decisamente più felice di Scorpione delle carte che aveva
fra le mani.
“Ma
ultimamente lo è di più…”
insistette Antares, notandolo con la coda dell’occhio
sul terrazzino.
Stava
camminando incessantemente su e giù, con scintille di
energia fra le mani che
guizzavano come impazzite.
“In
effetti…è più, come
dire…carico, del solito” commentò
Mekbuda.
“Sì,
ed è più blu” aggiunse Gallo, ghignando
per la scala reale.
“Vero.
Gli si è scurita la pelle” confermò
Antares.
“Si
sarà abbronzato!” sbottò Deneb Algiedi.
“Ma
dai, non lo vedi? Ultimamente è più nervoso di
Rukbat, il che è tutto dire!”
esclamò Cavallo.
“Non
avrà mica ricominciato a litigare con Kuruma?” si
preoccupò Aldebaran,
chiamando due carte e gettandone altrettante.
“Ora
che mi ci fai pensare…quei graffi che ha sulla schiena non
sono recenti” storse
il naso Antares.
“E
questo cosa c’entra? Direi che è
un’ottima cosa se lei non lo graffia!”
sbottò
Toro.
“Quelli,
mio caro, fidati dell’esperto, non sono graffi
d’odio” sorrise Antares,
maliziosamente “Quei due sono peggio dei conigli, senza
offesa Tù!”.
“Nessuna
offesa, io sono una Lepre” rispose Tù.
“Però
lei è da un po’ che non si
vede…” mormorò Sadalmelik.
“Tranquilli!
Sta bene” sorrise Shu.
“L’hai
vista di recente?” domandò Hu.
“No,
ma le ho parlato, dalla porta della torre. È felice, e sta
preparando una
sorpresa per noi, per quello non esce dalle sue stanze. Sta
lavorando”.
“Di
che parlate?” domandò Kosmos, entrato nella stanza
silenziosamente e
spaventando, con la sua voce, i presenti che non se lo aspettavano.
“Di
niente in particolare, come va?” si affrettò a
dire Antares.
“Che
fate?” fu la riposta del Signore Occidentale, segno che pure
lui aveva imparato
a rispondere ad una domanda con un’altra domanda, come suo
padre.
“Giochiamo
a poker. Vuole unirsi alla compagnia? Ci siamo tutti, tranne quella
pigna in
culo di Rukbat!” propose Scorpione.
“No,
grazie. Non ho la concentrazione mentale necessaria per fare una cosa
del
genere”.
“Nemmeno
noi!”.
Kosmos
era molto agitato, lo si vedeva chiaramente, ma ostentava indifferenza.
Con le
mani dietro la schiena, forse per nascondere le scariche di magia che
emanava,
quasi saltellava sul posto.
“Tutto
bene, capo?” domandò Aldebaran.
“Sì,
certo. Perché?”.
“Vi
vediamo un po’ più agitato del solito”.
“Colpa
della mia magia. Ancora non sono abituato a non avere
l’armatura di
contenimento e a volte va fuori dal mio controllo. La cosa mi
infastidisce e mi
rende nervoso”.
“Niente
di negativo, insomma…”.
“Assolutamente
nulla. Ragazzi, non vi preoccupate!”.
“Ehilà!”
esclamò Omega, entrando di volata ed afferrando il figlio
alle spalle.
Kosmos
sobbalzò e lanciò un piccolo grido.
“Non
farlo mai più!” ringhiò, mentre il
padre ridacchiava.
“Sei
troppo nervoso, piccolo mio! Vieni, andiamo a fare un giro”.
“Non
ora papà. Un’altra volta”.
“Non
è un invito, è un ordine!”.
“Ho
detto di no”.
“Vuoi
che ti prenda per i capelli? Non farmi diventare
violento…”.
“Vale
lo stesso con me. Se divento cattivo, non sono piacevole e, credimi, se
insiti
ancora, ci metterò un attimo a diventare cattivo”.
“Credi
di spaventarmi?”.
“Credi
che non possa riuscirci?”.
“Assolutamente
no”.
Kosmos
non disse più nulla, muovendosi per andarsene, con il lungo
mantello e la veste
che si trascinavano per un pezzo dietro ai suoi piedi, come uno
strascico, che
il padre calpestò per fermare il suo bambino in fuga.
“Tu
ora vieni con me, Kosmos. Abbiamo una cosa importante da fare, tu sai
di cosa
parlo”.
“Proprio
adesso? Non domani?”.
“Deve
essere proprio adesso. Muoviti”.
Il
Signore Occidentale provò a protestare ancora, ma
capì che era tutto inutile.
“Resta
tua madre qui a palazzo, rilassati, e seguimi”
sbottò il padre, sollevandosi da
terra.
Appena
i due furono usciti, l’intera compagnia si fissò
negli occhi, sorridendo.
Perfino Rukbat, riemerso dalla sua stanza sentendo il baccano prodotto
dalla
discussione padre-figlio.
“Quei
due hanno in mente qualcosa di spettacolare, ne sono sicuro. Voglio
seguirli!”
esclamò Antares, alzandosi dal tavolo.
“Sono
con te” si unì Drago, seguito da Ariete, Leone e
Cavallo.
“Perché?”
domandò Rukbat, con le mani in tasca e la barba incolta.
“Non
ti incuriosisce la cosa? Potrebbe succedere qualcosa di
straordinario!”.
“Non
mi incuriosisce, non mi interessa”.
“Ma…potrebbero
essere andati a creare qualcosa. Potremmo assistere alla nascita di una
nuova
galassia, una stella o che ne so che altro!”.
“In
effetti…non ho ma assistito ad una cosa del genere. Ma, come
facciamo a
seguirli? Sono già lontani, data la velocità con
cui volano!”.
“Ci
aiuterà il procacciatore. Vero, Squeak?”.
La
creatura di Kosmos spalancò le ali con entusiasmo e
mostrò tutto la sua
disponibilità. Grazie a lui, l’intero gruppo di
Orientali ed Occidentali si
ritrovò a volare per lo spazio, inseguendo padre e figlio,
curiosi come dei
bambini.
“Dove
mi hai portato? Io ora dovrei essere a palazzo, accanto a Kuruma, non
qui ai
confini del mio universo!” protestò Kosmos.
“Sei
qui a fare il tuo lavoro. Tutta l’energia che hai dentro di
te non è lì per
farti il solletico e le luci dalle mani” sbottò
Omega.
“Ma
perché oggi? Perché adesso?”.
“Perché
la materia a cui darai vita esploderà nel momento stesso in
cui i tuoi figli
verranno alla luce, che ti piaccia oppure no!”.
“Com’è
possibile? Sono due gemelli, non possono nascere nello stesso
istante!”.
“Non
fare il puntiglioso, non lo sopporto. Diventi troppo simile a tua
nonna!”.
“Ma
io voglio essere accanto a Kuruma quando nasceranno!”.
“Non
puoi. Il ruolo di Kuruma è quello di far nascere i gemelli
ed il tuo fornire la
materia per l’universo che un giorno loro
controlleranno”.
“Io
non voglio separarmi da loro. Voglio che i miei figli rimangano a
palazzo con
me”.
“Non
si può”.
“Così
poco tempo resteranno con me…”.
“Finché
non impareranno a volare”.
“Ma
noi impariamo a volare prima ancora di gattonare!”.
“Esatto.
E questo avverrà fra qualche migliaio di anni,
perciò rilassati e crea sta
materia”.
“Non
so se…”.
“Vedila
così: stai per dar vita al parco giochi in cui si
divertiranno gli eredi”.
“Beh…io…”.
“Senti,
ragazzino…”.
“Smettila
di chiamarmi ragazzino! Sono un uomo!”.
“Dimostramelo.
Crea la materia per il nuovo universo. In questo momento Kuruma sta
partorendo
le tue creature e tu Kosmos devi dar il via al nuovo big
bang!”.
Kosmos,
decisamente agitato, respirò a fondo e chiuse gli occhi.
“Convoglia
tutta la tua energia” ordinò Omega.
“Tutta?”.
“Tutta.
Ci sono io qui con te, non ti preoccupare. E non pensare a Kuruma.
C’è tua
madre con lei, andrà tutto bene”.
Il
Signore Occidentale sorrise, avvertendo la magia formicolare lungo
tutto il suo
corpo. Era una sensazione molto strana, a volte dolorosa. Non voleva
confessare
al padre di essere spaventato ma, evidentemente, anche Omega aveva
provato le
stesse sensazioni perché lo rassicurava. Nel frattempo, il
gruppo di curiosi si
era fermato a debita distanza e osservava il tutto senza capire bene
cosa
stesse succedendo. Kosmos si stava illuminando di luce sempre
più intensa, gridando
a volte perché la magia gli mandava scosse sempre
più intense. Puoi tutto
divenne buio, perfino le stelle si spensero per un istante. Silenzio
totale,
immobilità e nessuna luce.
“Che
succede?” mormorò Sadalmelik, afferrando per il
braccio Tigre.
Il
silenzio divenne un assordante boato e la luce si espanse con un lampo
accecante. La compagnia si coprì il viso. Quando
riaprì gli occhi, Kosmos e suo
padre erano fluttuanti uno accanto all’altro, con lo sguardo
rivolto verso una
specie di palla sospesa aldilà dell’universo. Si
espandeva, mandando scintille.
“Carino.
Mi piace” commentò Omega.
“Non
credevo di riuscirci. Pensavo fosse troppo
presto…” ammise Kosmos.
“Quando
sarà abbastanza ampio, darai vita al palazzo dove vivranno e
loro sapranno come
plasmare ciò che hai fatto”.
“Da
soli. Non sentiranno la mancanza di mamma e papà?”.
“Tu
hai sentito la mancanza di me e mamma?”.
“No”.
“Bene.
Ti sei risposto da solo. Ora torniamo…”.
“Kuruma!
Devo andare da Kuruma!” esclamò Kosmos e,
sfruttando gli ultimi attimi di
energia che gli erano rimasti, si girò e sfrecciò
verso il palazzo.
“Fermati,
stupido! Sei senza forze!” lo rimproverò il padre,
sapendo che era tutto
inutile.
Il
Signore Occidentale ansimava per la fatica, con la pelle imperlata di
sudore, e
a volte aveva l’impressione di stare per svenire ma non si
fermò nemmeno un
secondo. Omega, le costellazioni e gli Orientali non ne seguirono il
passo ed
arrivarono a palazzo molto dopo di lui.
“Questo
è il pianto di un bambino!” sorrise Yang, quando
entrò nell’edificio.
“Se
è un bambino ciò a cui Kuruma stava lavorando,
è giustificata la sua assenza!”
ridacchiò Niu.
Tutti,
capitanati da Omega, salirono le scale della torre Orientale. La porta
era
socchiusa ed all’interno si intravedeva una lieve luce
soffusa. Cercarono di
sbirciare all’interno senza farsi notare, in silenzio per
sentire ogni rumore
sospetto.
“Com’è
stato creare un universo, tesoro?” mormorava Kuruma
“Hai un’aria stravolta, più
della mia…”.
“Questo
perché non ti sei vista allo specchio, amore”
rispose lui, disteso di pancia
sul letto accanto a lei, che gli accarezzava la testa.
Kuruma
sorrideva, appoggiata e sorretta da diversi cuscini. I due Signori del
palazzo
si guardavano con tenerezza, anche se entrambi erano sfiniti. I gemelli
neonati
non piangevano più, cullati da nonna Alfa.
“Sono
bellissimi!” esclamò Hamal, spingendo Omega dentro
la stanza e avvicinandosi ai
piccoli.
“Son
arrivati. Evviva la privacy” mormorò Kosmos,
chiudendo gli occhi grazie ai
grattini di Kuruma sul suo capo.
“Sembri
un gatto così” rise Kuruma.
“Ron
Ron” commentò lui, senza aprire gli occhi.
“Posso
prenderli in braccio?” domandò Sadalmelik.
Alfa
porse le creature ad Acquario e l’intero gruppo si
accalcò attorno ai nuovi
arrivati per poterli ammirare da vicino. La femmina aveva i capelli
neri, come
sua madre, ma erano molto mossi, come quelli del padre, e aveva anche
gli occhi
di lui. La piccola bocca già si tingeva di nero e lungo
tutto il corpicino si
intravedevano le prime sferette dorate incastonate.
L’armatura, che lentamente
si stava formando grazie alla magia della piccola, era argento come
quella che
aveva del padre. Il maschio aveva lo sguardo della madre, rosso vivo,
ed i
capelli blu di Kosmos, dritti come quelli di Kuruma. Anche in lui le
sferette
iniziavano a intravedersi, di colore argento, mentre
l’armatura che si stava
creando era d’oro.
“Qual
è il maschio?” domandò Rukbat.
“Verificalo.
Anatomicamente, io e te siamo uguali lì sotto,
genio” mormorò Kosmos “Comunque
è quello con gli occhi di sua madre”.
“Bellissimi”
continuava a ripetere Sadalmelik, cullandoli.
Alfa
ed Omega si erano seduti uno accanto all’altro, sorridendosi
orgogliosi.
“I
padroni di casa devono riposare adesso” mormorò la
nuova nonna, vedendo che
Kuruma, come Kosmos, aveva chiuso gli occhi.
“Come
li chiamerete?” domandò Long.
“Non
lo so. Non ci ho pensato” ammise Kuruma “Kosmos,
tesoro, come li chiamiamo?”.
Kosmos
non parlò, lanciò un lungo gemito che significava
“Non ho voglia di usare il
cervello adesso, fatemi dormire”.
“Passameli
mamma, un momento” sussurrò la Signora Orientale,
allungando le mani.
Con
i gemelli fra le braccia, lei li guardò in viso per un
po’, sorridendo felice.
“Astar”
disse, dopo un po’ “La mia bimba si chiama Astar. E
lui…” guardò il maschio,
cullandolo “…lui è Algar. Cosa ne pensi
Kosmos?”.
Kosmos
sorrise, senza aprire gli occhi, segno che era soddisfatto
dall’idea.
“Allora
è deciso” esclamò Alfa, mettendo i
bimbi nella stessa culla.
La
compagnia dei sottoposti lasciò la stanza, il più
silenziosamente possibile, e
Alfa tornò alla propria casa assieme ad Omega. Kuruma e
Kosmos si fissarono,
per qualche istante, prima di addormentarsi. Erano rimasti da soli,
loro due,
assieme ai loro gemelli, che già si guardavano male.
FINE
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