Zodiak

di SagaFrirry
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** intro ***
Capitolo 2: *** 1 ***
Capitolo 3: *** 2 ***
Capitolo 4: *** 3 ***
Capitolo 5: *** 4 ***
Capitolo 6: *** 5 ***
Capitolo 7: *** 6 ***
Capitolo 8: *** 7 ***
Capitolo 9: *** 8 ***
Capitolo 10: *** 9 ***
Capitolo 11: *** 10 ***
Capitolo 12: *** 11 ***
Capitolo 13: *** 12 ***
Capitolo 14: *** 13 ***
Capitolo 15: *** 14 ***



Capitolo 1
*** intro ***


Siete mai caduti in basso? Vi siete mai ritrovati schiacciati da un peso così grande da dover sprofondare in ginocchio, incapaci di rialzarvi? Avete mai provato la sensazione orribile di essere spenti, vuoti, dimenticati, sperduti? Quell’oppressione che ti fa riflettere su ciò che sei stato, su ciò che sarai e sul perché trovarsi in quel luogo in quel momento, la conosco bene. Io mi chiamo Antares ed ero una stella. E non una stella del cinema o della musica, ma una stella vera, la stella più luminosa della costellazione dello Scorpione. Ed ora? Ora sono un semplice essere umano, depredato di ogni cosa e senza più luce. Dalle stelle alle stalle…ma qui non ci sono stalle, solo nuda terra. Guardando il cielo, mi accorgo dell’assenza mia e dei miei compagni. Come mai nessun Uomo si è accorto della mia, della nostra, scomparsa? Risposta semplice: dalla maggior parte dei luoghi della Terra è pressoché impossibile guardare le stelle. Perché? Inquinamento luminoso. Fra fari, lampadine, lampioni ed abbaglianti, il cielo è decisamente difficile da notare. Inoltre, la popolazione terrestre ha sempre meno voglia di alzare gli occhi al cielo, impegnata com’è a guardare se stessa e le scemenze artificiali che la circondano. Altrimenti come non potrebbe accorgersi dello scempio avvenuto nella volta celeste? E come non accorgersi del respiro affannato che percepisco fare alla Terra? I pochi che ancora ricercano lo spettacolo delle costellazioni, e possono permettersi il lusso di vivere in un luogo in cui la notte si mostra per quello che dovrebbe essere, verrebbero presi per pazzi se dicessero che alcune di noi, stelle fisse, non ci sono più. Oppure, essendo del tutto ignoranti in materia, non notano la differenza fra i “puntini bianchi” che han sopra la testa. Ed i ricercatori spaziali? Gli astronomi? Troppo concentrati sulla ricerca di nuovi pianeti da rovinare, immagino.

Chissà che cosa mi accadrà ora… So solo che mi devo alzare da qui, nonostante sia ancora dolorante e stordito dalla caduta e dalla battaglia precedente, e cercare i miei compagni. Devo staccare il mio corpo da questa terra, martoriata dai solchi provocati da un’eccessiva scarsità di pioggia, e far sì che noi, dodici stelle cadute, possiamo ritrovarci. Non sarà di certo un piccolo pianeta come questo a tenerci lontani! Siamo abituati all’immensità dell’universo! Spero di riuscire a mantenere una certa dose di ottimismo ed energia perché questa è una questione di massima importanza. Le stelle dovranno tornare in cielo prima dell’avvento dell’Era dell’Acquario. Attualmente, il giorno dell’equinozio di primavera, il sole sorge in un punto preciso, ad est fra i Pesci e l’Acquario. Ogni anno, per effetto di un movimento impercettibile chiamato “precessione”, questo punto si sposta leggermente in direzione dell’Acquario. Fra pochissimo, meno di due anni, vi sarà il “passaggio di consegne” fra questi due segni. Terminerà l’Era dei Pesci ed inizierà quella dell’Acquario. Meno di due anni…un’inezia, se si pensa che ogni Era dura 2160 anni! Il giorno in cui questo “passaggio di consegne” avverrà, non potranno mancare nelle loro case le stelle rappresentanti i due segni coinvolti. Perché? Per lo stesso motivo per cui si dà una corona, uno scettro, una fascia tricolore, o qualsiasi altro segno distintivo a qualcuno. Perché serve un ordine, una gerarchia, un capo. Serve qualcuno che faccia girare la ruota del cielo nel modo corretto e che abbia un potere leggermente superiore rispetto agli altri. Serve che l’Acquario dia una spinta a questa ruota, impedendole di fermarsi una volta esaurita la carica datele dai Pesci all’inizio della sua Era. Se ciò non dovesse avvenire, l’immobilità assoluta regnerebbe nei cieli. Facendo un esempio banale, il Mondo non ruoterebbe più. Niente stagioni, niente anni, niente giorno e notte… Non credo possa essere una bella situazione! Per questo, è una questione di massima importanza che ora mi alzi e vada alla ricerca dei miei compagni. Mi chiedo come potrò ritrovarli. L’unica cosa rimasta del mio ruolo e del mio potere è un tatuaggio, solamente un tatuaggio! Uno Scorpione sulla spalla destra, con ogni stella in evidenza, ed io, Antares, la più luminosa, sono una gemma di topazio incastonata nella pelle nuda. Solo questo mi è rimasto. Ora il peso della gravità mi schiaccia, le domande mi perseguitano e, soprattutto, presto sperimenterò tutti i problemi relativi all’essere mortale, come la fame o il freddo. Spero che i miei compagni non siano lontani. E spero che a nessuno di loro sia successo qualcosa di irreparabile. Non ho nemmeno idea su dove io sia esattamente caduto…come farò a trovare gli altri?! Ma, suvvia, non dovrebbe essere così difficile! Mi basterà concentrarmi e li troverò! Chiudendo gli occhi, ancora sento tutte le loro voci e riesco a vederli, splendenti nel buio dell’infinito… Mi chiedo se anche il nostro capo ha subito la stessa sorte. Se è caduto, si è spento, ha perso ogni potere e forza, oppure se è ancora in cielo, unico posto in cui dovrebbe risiedere.

Avere un corpo fisico è orribile. Mi fa male tutto…ma devo resistere ed alzarmi! Prima, però, credo sia meglio riordinarmi un po’ le idee riguardo gli accadimenti che han portato alla nostra caduta e sconfitta…

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Capitolo 2
*** 1 ***


II

 

 

L’immenso palazzo sorgeva al centro dell’Universo. Sospeso nel vuoto cosmico, riluceva come una stella. Il lato ovest ed il lato est non avevano punti di incontro, se non uno stretto corridoio centrale, lucido, terminante con un terrazzino semicircolare che dava sullo spazio tempestato di infiniti punti brillanti. L’intero edificio si ergeva su due piani, provvisti sulle due facciate opposte di aree aperte affacciate sull’immensità. Una coppia di torri gemelle si innalzava agli antipodi della struttura, una ad est ed una ad ovest. Altissime, terminavano ognuna con un ripido tetto spiovente sormontato da una lunga asta. Questa, una sorta di freccia dorata, faceva da perno ad un disco movente con sopra incisi i simboli appartenenti agli abitanti di quel luogo.

Kosmos, il padrone e regnante del lato ovest, era una delle creature più belle e potenti dell’Universo, e ne era perfettamente consapevole. Seduto, con le gambe allungate sul tavolo, guardava fuori dalle finestre ad arco che circondavano la torre occidentale. Raramente vi scendeva, non ne aveva bisogno. Aveva tutto sotto controllo. I suoi occhi, scintillanti di punti d’argento, scrutavano il nero dello spazio infinito. Solo di sfuggita notò la torre orientale e vide la sua occupante, Kuruma, che si era affacciata per sospirare alle stelle. Kosmos non ci badò più di tanto. Scostò un ciuffo di lunghi capelli blu dal viso pallido. Erano mossi e ribelli, ingabbiati in un singolare sistema di spuntoni di vari colori, che sfioravano il volto e le labbra color oltremare del loro padrone. Quella sorta di armatura, le cui propaggini sottili d’argento ricoprivano parte del viso di Kosmos e una notevole area del suo corpo, lo aiutava a mantenere sempre sotto controllo il suo potere, anche se lui era fermamente convinto di non averne bisogno. Sul capo indossava una specie di corona composta da due cerchi dorati, tenuti assieme da sottili fili dello stesso colore, ed un altro ornamento, sempre d’oro, ma ricco di eleganti riccioli. Sferette d’argento contornavano le sottili sopracciglia, il mento ed il petto di quella creatura e portava due spessi anelli alle orecchie, che erano a punta ed in parte coperte dai capelli. Sbatté le palpebre, mentre vide crearsi un buco nero a migliaia di anni luce. Quegli occhi, azzurri, erano contornati di rosso, a formare un disegno simile ad una maschera o ad un fiore. Pure lui, come la torre in cui viveva, portava un’asta d’argento, con dettagli rossi e turchese, che fungeva da perno e da freccia sul disco che lo sovrastava. Simile ad una grossa aureola, era diviso in dodici spicchi regolari di colore diverso. Rappresentava i dodici segni zodiacali e ne portava i simboli, gli stessi incisi sul disco che sormontava la torre d’ovest. In quel momento, la freccia di entrambi puntava sul segno dello scorpione ma già lentamente si muoveva verso il segno successivo, il sagittario. Kosmos portava al collo un disco più piccolo, con gli stessi segni degli altri, con la freccia ormai prossima ed entrare nel quadrante dell’acquario, stando sul bordo dei pesci. Aveva un moto molto più lento. Ci metteva circa 2160 anni per passare da un simbolo all’altro mentre agli altri due congegni bastavano circa trenta giorni. Il padrone della torre si alzò, dopo aver riposto uno delle migliaia di libri contenuti in quel luogo, e si affacciò ad una delle finestre, fra una colonna ed un’altra. Guardò in alto, distrattamente, e la sua sagoma si notò chiaramente dalla torre orientale.

Kuruma, affacciata a sua volta, puntò gli occhi verso ovest. Kosmos non la degnò di uno sguardo con quei suadenti occhi azzurri. Lei si morse il labbro inferiore, infastidita da come il suo “coinquilino” riuscisse sempre ad ignorarla. Si voltò e si allontanò dalla vista esterna. Tentò di rilassarsi sfogliando distrattamente un libro. Quei volumi, come tutti quelli dell’edificio, provenivano da varie parti dell’Universo. Erano di tutti i generi, di ogni scrittura e grandezza. Particolari creature, chiamate dai loro padroni col nome di “procacciatori”, volavano per i pianeti e ne portavano sempre di nuovi agli abitanti del palazzo. Kuruma e Kosmos ne avevano uno ciascuno di questi “procacciatori” e, in quel momento, erano entrambi in cerca di nuove pagine scritte. Oltre a leggere, sulle torri si dipingeva, si cantava, si suonava ma, principalmente, si controllava ogni singolo movimento di ciascun corpo celeste, attenti a non farne andare nessuno fuori posto. E si creavano stelle, pianeti, buchi neri, galassie e comete. Kuruma quel giorno non era dell’umore adatto per fare nulla di tutto questo. Tornò a girare il capo verso l’esterno. La sagoma di Kosmos era ancora lì. A lei venne spontaneo chiedersi se il suo dannato vicino lo facesse apposta ad irritarla. Si sentì spiata e si voltò di scatto. Fu tentata di aprire la porta scorrevole che la divideva dalle scale, ma preferì sospirare e distendersi sul letto, in cerca di ispirazione.

L’architettura e l’arredamento delle due torri erano molto diversi. Quella occidentale era in pietra grigia, con i sassi in vista. Aveva finestre ad arco, sottolineate da delle colonne, e mobili in legno scuro, con tavoli e sedie alti e riccamente decorati, incisi. Kosmos sedeva sempre su una sedia a dondolo di legno massiccio, color blu scuro, realizzata con materiali provenienti da un pianeta lontano, ovviamente dello stesso colore. Una massiccia porta scricchiolante separava la sala della torre dalle scale, che conducevano ai piani inferiori. Il letto della parte occidentale aveva un alto baldacchino con un pesante tendaggio scuro, con su ricamati dettagli in argento e perle lucenti. Sparsi un po’ qua e là, i fogli scritti e scarabocchiati dal proprietario frusciavano sotto i piedi. Alle pareti vi erano dei ritratti e delle immagini realizzate da un paio dei coinquilini occidentali. Tappeti di varia fattura coprivano in parte il pavimento nero. Il soffitto era affrescato e svettante verso la punta in cima al tetto. Le tende cupe erano sorrette da grossi anelli lucenti e regolari. Un grosso specchio ovale, decorato ed eccessivamente riccioluto, stava sopra ad un piccolo armadio d’ebano contenente tutto il necessario per la maniacale cura che Kosmos riservava ai suoi capelli. C’era una stupenda vetrata, rappresentante lo zodiaco e le sue stelle, a dividere il piccolo spazio che la torre riservava alla doccia per il suo padrone, semitrasparente e piuttosto esibizionistica. In un altro armadio, arcuato e alto fino a quasi il soffitto, erano riposti i ricchi abiti ed i molti accessori di Kosmos, assieme a vari strumenti musicali e riproduttori audio di vario genere. Non c’erano lampadari ma solo qualche piccola candela, inutile perché era la pelle del padrone di casa ad illuminare l’ambiente senza sforzo. Nessuno degli abitanti di quel luogo necessitava cibi o bevande, e quindi non era presente la cucina o alcun luogo adibito agli alimenti.

La torre orientale era più chiara, con un’elegante carta da parati color pastello. Una porta scorrevole, leggera e circondata di listelli in legno crema e carta velina, la divideva dal resto dell’edificio. Sul soffitto erano appese piccole lanterne rosse. I mobili erano tutti bassi, dai colori tenui. I vari libri erano riposti su mensole sospese, coperte in parte da tende leggere. Numerosi vasi dipinti decoravano la sala, assieme a disegni, miniature e puzzle, che Kuruma stessa aveva realizzato, o altri abitanti del lato orientale. Il letto era basso, semplice, con un elegante tendaggio colorato appeso al soffitto. Il pavimento era in legno lucido ed un bello specchio tondo stava accanto ad una delle finestre rettangolari, sopra un mobiletto pieno di creme, oli profumati e tutto l’occorrente per la cura della persona. Accanto al letto stava un piccolo telaio su cui la signora realizzava vari lavori, che poi donava ai suoi colleghi orientali o indossava lei stessa. Alle pareti, oltre alle pitture, si potevano notare delle affascinanti spade dalla lama sottile, regalo dell’abitante orientale che le realizzava. In piedi sulle alte scarpe in legno, Kuruma si guardò allo specchio. Aveva piccole labbra, dipinte di nero, la pelle quasi bianca e grandi occhi rosso fuoco con puntine dorate, fin troppo spesso accigliati. I capelli neri, dritti e lunghi, li portava semiraccolti in una crocchia. Due grandi orecchini, simili a dei soli, le pendevano dalle orecchie, avvolte dai capelli corvini. Un velo scuro e rilucente le ricadeva fino a metà della schiena.  Attorno al suo sguardo e sul viso aveva decisi disegni blu e anche lei, come Kosmos, conteneva il suo potere con una specie di armatura, perlopiù fatta d’anelli d’oro. Fra le mani stringeva un ventaglio color argento, di metallo, con un lungo nastro sul manico e piccoli anelli lungo l’arco d’apertura. Ne aveva cinque: uno verde, uno rosso, uno marrone, uno blu e, appunto, uno argento. Legno, fuoco, terra, acqua e metallo, ovvero i cinque elementi legati all’astrologia che governava. Sul capo portava anche lei una piccola corona terminante con un diadema centrale luminosissimo e l’armatura andava a formarle due strane corna dietro la nuca, protese verso il cielo. Pure lei, come l’abitante del lato occidentale, aveva una lunga freccia ed un disco movente che la sovrastava. Sopra di esso erano incisi dodici simboli e, al momento, era fermo sull’ideogramma “Tù”, la lepre. A differenza di Kosmos, lei non portava lo stesso disco anche al collo. Kuruma sospirò. Il suo disco ci metteva circa 348 giorni per passare da un simbolo ad un altro e, in quella circostanza, a lei parve così noioso ed inutile starlo ad osservare. Vide che il suo collega occidentale si stava ancora affacciando. Forse poteva provare a parlargli… annoiarsi, avendo avanti a sé l’infinito e l’eternità, è altamente sconsigliabile.

“Kosmos!” lo chiamò, con voce decisa, sporgendosi leggermente dalla finestra.

“Kuruma…” rispose lui, facendo solo un lieve cenno con la testa.

“Posso parlarti?” riprese lei, decisa come non mai a riempirsi la giornata.

“Non lo stai già facendo?” borbottò Kosmos, come infastidito.

“No…io intendevo lungo il corridoio, o sul terrazzino…”.

“Che cosa vuoi?”.

“Niente di particolare…solo passare un po’ il tempo…”.

Kosmos sospirò, come se spostarsi dalla torre gli costasse un’enorme fatica, ed annuì. “Veramente io il tempo lo passo benissimo, anche senza il tuo aiuto” mormorò a bassa voce, storcendo la bocca, e si avviò verso la porta che dava sulle scale.

Il corridoio centrale in comune fra est e ovest era collegato direttamente alle torri tramite una ripida scalinata in pietra. Altri due accessi erano raggiungibili, sempre tramite una scala, dai saloni del piano terra e del primo piano. Kosmos scese i gradini con indicibile lentezza, e piedi scalzi, con i capelli spettinati e gli abiti stropicciati di chi avrebbe voluto fare di tutto, tranne che alzarsi dal letto. Fra le mani stringeva un lungo bastone d’argento, da cui non si separava mai, terminante con una curiosa forma attorcigliata. Trascinando dietro di sé un lungo mantello nero, aprì la pesante porta e si affacciò sul corridoio lucido, sormontato da una cupola trasparente. Ad attenderlo, con aria lievemente spazientita, stava Kuruma. Era vestita di rosso con decori luminosi, in un abito di seta piuttosto aderente, con il colletto ed un generoso spacco. Un manto d’oro copriva parte dell’armatura. Elegantissima, chiuse il ventaglio e fece cenno al collega di seguirla sul terrazzino. Kosmos non aprì bocca e la seguì, lentamente.

“Allora, Kosmos, come stai?” iniziò lei, appoggiandosi al balcone.

“Come sempre. Come altro dovrei stare?” rispose lui, con tono neutro.

“Io sono un po’…stanca, ultimamente” continuò Kuruma, guardando le stelle.

“Ed io invece sto benissimo” ghignò Kosmos, lasciando intendere che della sua collega poco gli importava.

“Sono stanca e sai perché? Perché mi sento poco importante. Intendo dire…fra poco inizierà la famosa Era dell’Acquario, ma non avrà niente a che fare con me e con i miei dodici segni”.

“E allora? Che vuoi farci…è la vita!”.

“Allora mi chiedevo: dato che per miliardi e miliardi di anni il potere delle Ere è stato in mano tua, perché, per una volta, non lasci che sia io a controllarlo questo potere? Dopotutto, si tratta di soli 2160 anni…cosa vuoi che sia?!”.

“Scherzi, Kuruma?” scoppiò a ridere Kosmos “Lo sai che la cosa non è possibile e, anche se lo fosse, non darei mai quel potere a te!”.

“Perché non è possibile? Nessuno te lo vieta! E perché non lo faresti? Perché non mi daresti quel potere?”.

“Perché è evidente che non saresti all’altezza, piccolina. Non saresti in grado di gestirlo. Io sono molto più potente di te”.

“Ed arrogante!”.

“Dico solo quello che penso…”.

“Beh, fammi provare! Solo qualche anno! Se fallisco, ti ridarò subito il comando”.

“Non se ne parla!”.

“E dai!! Mancano meno di due anni e non mostri nemmeno un pizzico di emozione o di ansia, non te ne frega niente!”.

“Capirai! Sai quanti cambi di Ere ho vissuto fin ora? Quanti cambi di Ere ho vissuto?”.

“Gli stessi che ho vissuto io, genio. Ti rammento che siamo apparsi nello stesso istante…”.

“Appunto. È sempre la stessa menata. Sempre la stessa routine”.

“Cambiamola! Fai provare me!”.

“Senti, bella, occupati degli anni e delle tue bestioline, che io penso alle Ere e ai mesi, intesi?”.

La voce di Kosmos era divertita, ironica, strafottente.

“Io non credo che tu sia più forte di me…” mormorò lei.

“Smettila di farti strane idee e torna in te. Rilassati…ad ognuno il suo destino!”.

“E se io ti dimostrassi che sono più forte di te? Se ci riuscissi, mi lasceresti al comando di un’Era? Una soltanto! Se io…”.

“Non potrai mai dimostrarmi di essere più forte di me perché non lo sei, rassegnati! Torna dai tuoi animaletti a giocare e lascia fare i lavori importanti a chi li sa fare!”.

“Ti odio” sibilò Kuruma, incrociando le braccia e lanciando un’occhiataccia da far rabbrividire.

“Lo so che non è vero!” le sorrise Kosmos, lasciando la terrazza e tornando alla sua torre.

 

Rukbat si svegliò di colpo. Un altro incubo. Nonostante tutti i suoi libri e gli studi da lui compiuti, ancora non riusciva a capirne il significato. Sicuramente erano il presagio di qualcosa di terribile, di negativo, nel futuro. O forse no? Scosse la testa. Non poteva farsi influenzare da simili scemenze! Non riuscendo a prendere di nuovo sonno, decise di alzarsi. Sbatté i luminosissimi occhi d’argento in cerca di qualcosa di interessante da leggere. Fu quasi tentato di andar a raggiungere il suo capo, Kosmos, chiedendogli qualche volume nuovo, ma lasciò perdere. Appassionato di storia e mitologia, aprì un grosso volume cremisi e si stese sul letto. La specie di criniera nera che portava in testa era solo leggermente spettinata. Sentì bussare alla porta.

“Rukbat, sei sveglio?” parlò una voce maschile.

“Sì, entra pure” rispose, con tono profondo.

Entrò Al Risha, rappresentante della costellazione dei Pesci.

“Ciao, Sagittario” salutò, stiracchiandosi leggermente e sorridendo “Ti scoccia se ti chiedo di passare un po’ di tempo con me?”.

“No, per niente. Qualcosa non va?”.

“Tutto ok. Sentito il capo, prima?”.

“Dormivo. Che è successo?”.

“Ha litigato di nuovo con Kuruma, mi pare. Lei era furiosa”.

“Ed io me lo sono perso, peccato…”.

“Avrai altre occasioni!”.

I due si sorrisero. Al Risha aveva grandi occhi azzurri e lunghi capelli blu elettrico, dritti e lucenti. Il suo vestito era dello stesso colore, quasi accecante.

“Le ragazze sopra che fanno?” domandò Rukbat, rizzando le orecchie a punta.

“E io che ne so?! Potremmo andare su a scoprirlo…”.

“No, grazie. L’ultima volta che sono salito le ho sentite da Hamal e Adhafera…ma soprattutto da Astrea!”.

“Astrea protesta tanto, ma alla fine è contenta di vederti, fidati!”.

“Quella è la donna più complicata che io abbia mai conosciuto in tutta la mia vita!”.

“Capirai….qui a palazzo ce ne sono sei!”.

“Intendevo prima di divenire ciò che sono ora…”.

“I tempi cambiano, amico mio…”.

Sagittario si sporse dalla finestra e guardò verso l’alto. La stanza di Astrea stava proprio sopra la sua e, a volte, riusciva a scorgerla quando si affacciava.

“Chi è sveglio?” domandò, dopo un po’, Rukbat.

“Credo Antares…”.

La reazione a quel nome fu una smorfia da parte del Sagittario. Non correva buon sangue fra lui e lo Scorpione Antares.

“Gli altri credo stiano ancora dormendo…” continuò Al Risha “…le ragazze non so. Io non le spio!”.

“Allora vado fuori ad esercitarmi un po’” tagliò corto Rukbat, uscendo dalla finestra.

Pesci scosse il capo divertito, quando vide il suo collega allontanarsi con l’arco e le frecce, da lanciare fra le stelle, fluttuando a mezz’aria.

 

“Esibizionista…” commentò Astrea, notando Rukbat nei suoi esercizi.

Sadalmelik, la coinquilina rappresentante dell’Acquario a cui stava pettinando i capelli, le sorrise.

“Guardo che lo so che ti piace…” ghignò, facendo arrossire Astrea.

“Ma che dici?!” si sentì rispondere “Quello è solo un pomposo egoista troppo concentrato su se stesso per notare qualcos’altro…”.

“Però, se notasse te…”.

“Io sono la Vergine…anche se fosse, ho un ruolo da rispettare. Non posso fare certe cose”.

“Sono certa che il capo chiuderebbe un occhio…”.

“Cambiamo argomento?”.

“D’accordo…” sospirò Sadalmelik, guardandosi allo specchio.

Le due donne si erano appena alzate e si stavano pettinando a vicenda i capelli. Astrea li aveva lunghi e scuri, raccolti in una treccia che le si appoggiava sulla veste grigio chiaro che trascinava dietro di sé. Sadalmelik li aveva leggermente più corti e di colore verde scuro, mossi e molto gonfi, in continuo movimento. Le sfioravano i piedi scalzi, che spuntavano da sotto la semplice veste zaffiro. Aveva occhi viola e labbra in tinta con il vestito. Astrea, invece, aveva scintillanti occhi dorati e labbra nere, che spiccavano sulla pelle solo leggermente abbronzata della Vergine. Quando furono pronte, uscirono dalla camera per dirigersi verso il salone assieme alle altre quattro donne occupanti il primo piano del lato ovest del palazzo.

Fra loro e gli occupanti della parte orientale non vi erano quasi mai contatti. Nessuna finestra dava sul lato opposto, se non sulle due torri, dove a loro era limitato l’accesso. A volte si incontravano lungo il corridoio centrale o sul terrazzino in comune, ma piuttosto raramente. Anche perché fra est ed ovest preferivano evitarsi, o ignorarsi.

Nel grande salone del primo piano, quattro donne erano impegnate in varie attività. Salutarono Astrea e Sadalmelik, appena entrate, e poi riportarono l’attenzione sugli affari propri. C’era Hamal, l’Ariete, vestita con abiti larghi arancioni, con due lunghe trecce castano chiaro arrotolate attorno alle orecchie ed accigliati occhi nocciola. Teneva la sedia inclinata e i piedi sul tavolo circolare. Borbottava sommessamente, affilando il piccolo pugnale da cui non si separava mai. Al suo fianco sedeva Acubens, il Cancro. Aveva un viso giovane, l’aria distratta, sognante, ed indossava una tunica corta bianca come il latte. La sua pettinatura era decisamente singolare: sei trecce di colore rosso, non molto lunghe, rassomiglianti a piccole zampette, le circondavano il capo. Portava il rossetto dello stesso colore e grandi occhi verde chiaro, con riflessi azzurri, distratti e sfuggenti. Stava raccontando i sogni che aveva appena fatto a Zubeneschamali, la Bilancia. Lei, con lunghi capelli bianchi e lisci ed occhi neri, la ascoltava attentamente e tentava di interpretarli. Il suo abito rosa era aderente e con ampie spalline. Sadalmelik ed Astrea si erano messe a leggere in silenzio. Adhafera, la rappresentante del Leone, era all’esterno, spada alla mano, per esercitarsi a combattere. Non aveva tempo, diceva, di pettinarsi e di conseguenza i suoi capelli biondi se ne stavano disordinati e gonfi attorno alla sua testa, come una criniera. Nel buio si vedevano chiaramente i suoi occhi, verde scuro, brillanti e con pupille sottili e verticali come quelle dei gatti. Ed il suo abito giallo, aderente e corto.

“Rukbat!” chiamò Adhafera “Ti va di fare un po’ di movimento con me?”.

“La tua frase  è piuttosto equivoca ma, dopotutto, non mi dispiace per niente. Accetto volentieri!” rispose lui, portando solo dei pantaloni granato con un’ampia cintura viola scuro, per favorire i movimenti.

“Mi bastava un sì…” mormorò Leone, prima di caricare il suo avversario per allenarsi.

Astrea guardò entrambi di sfuggita e poi tornò a concentrarsi sul volume che aveva fra le mani.

 

“Sempre il solito…” commentò Antares, vedendo Rukbat e Adhafera affrontarsi ridendo.

Anche lui, Scorpione, era un guerriero ma non si allenava mai con gli altri. Un po’ perché era una cosa che non gradiva e un po’ perché soffriva di improvvisi attacchi di rabbia incontrollata che potevano risultare piuttosto pericolosi per la salute altrui.

“La tua è solo invidia” gli disse Mek, il volto di sinistra del rappresentante dei Gemelli.

“Taci!” sibilò Antares, incrociando le braccia.

“Sei sempre girato di balle…” rispose Buda, il volto di destra.

Aldebaran, il Toro, sorrise. Lui era il più calmo del gruppo ed il più grosso. Con corti capelli ricci, castani e con due piccoli ciuffi simili a corna, aveva folte basette e profondi occhi neri. Vestiva sempre di verde, in varie tonalità, e raramente alzava la sua profonda voce. Anche Mekbuda aveva i capelli corti, per metà mori e per metà biondi, ed il volto diviso in due. Sulla sinistra, il lato biondo, stava Mek, di certo il più irritabile, e sulla destra vi era Buda, quello un pochino più diplomatico. I due visi avevano caratteri diametralmente opposti. Mek prevaleva quando Gemelli era arrabbiato, triste, infastidito. Al contrario, Buda aveva la meglio quando provava sentimenti di gioia, calma, pazienza. In quel momento era Mek il più attivo, non si sapeva bene per quale motivo, ed i suoi occhi azzurri erano spalancati ed accigliati. Lo sguardo castano di Buda, invece, era come assente, socchiuso e silente. Portava un abito grigio scuro piuttosto semplice, che in parte celava la sua doppia natura, avendo il cappuccio.

“Fatti gli affari tuoi!” sbottò Antares, con furiosi occhi rossi.

Vestiva dello stesso colore, in una sorta di tunica con ampie maniche ricamate. Aveva splendidi capelli neri che teneva raccolti in una treccia terminante con una specie di bulbo, simile alla coda del segno che rappresentava: lo Scorpione.

“Non iniziate a litigare, per favore…” parlò Aldebaran, senza alzare gli occhi dal foglio che stava dipingendo, iniziando ad essere un po’ stanco delle continue risse insensate di Antares.

“Lascia che litighino. Prima o poi si stufano…”.

A parlare era stato Deneb Algiedi, detto Dabha, il Capricorno. Sembrava il più anziano della compagnia, con lunghissimi capelli grigi che lasciava un po’ sciolti lungo la schiena ed un po’ raccolti in due trecce arrotolate simili a corna. Era leggermente inquietante, vestito interamente di nero, con un alto colletto, e gli occhi bianchi. Giocava a carte per conto suo, ignorando gli altri cinque colleghi. Al Risha, distratto e sognante come sempre, guardava il cielo dove Rukbat e Adhafera si stavano affrontando. Trovava la cosa divertente e ridacchiava, reggendosi la testa con le mani, con i gomiti appoggiati alla finestra senza vetri.

Kosmos arrivò fra loro con uno strano sorriso.

“Di buon umore oggi, Signore?” domandò Antares, ghignando soddisfatto.

“Discreto direi. Non mi posso lamentare. E voi? Tutto bene?”.

“Come sempre, nei secoli dei secoli…” si lamentò Mek.

“Amen” ridacchiò Dabha, sottovoce.

“È il mio ed il vostro scopo. La cosa non cambierà…” gli rispose Kosmos, con un tono neutro che non lasciava intendere se fosse ciò che desiderava oppure no.

Nessuno disse altro. Tornarono a concentrarsi sulle stelle che controllavano. Pur morendo di curiosità, i rappresentanti delle costellazioni presenti non ebbero il coraggio di domandare al loro capo che cosa fosse successo esattamente fra lui e la Signora del lato Orientale. Dal sorrisetto di Kosmos dedussero che non era nulla di irreparabile.

 

In realtà Kuruma era furiosa, molto più di quanto Kosmos fosse in grado di immaginare. Lei per millenni aveva avuto pazienza ed aveva represso la rabbia e la frustrazione, optando per il quieto vivere, ma ora la calma l’aveva abbandonata ed era pronta ad esplodere.

“Come si premette?! Come ha osato?!” sbraitava, continuando a camminare incessantemente per la torre d’oriente “Sono miliardi di anni che me ne sto buona, in silenzio, senza protestare, abbassando la testa… Ma ora ha passato il segno! Non può trattarmi così e prendermi in giro! Cosa crede che io abbia meno di lui?! Chi si crede di essere?! Gli farò vedere io!!! Io…io…”.

“Cosa succede, mia Signora?” parlò una vocina.

Kuruma si guardò attorno e vide che a parlare era stata Shu, una piccola topolina grigio chiaro con vispi ed enormi occhi rossi.

“Oh, Shu, sei tu!”.

Lei sedette e la prese delicatamente fra le mani. La accarezzò e le riassunse tutta la conversazione con Kosmos, sforzandosi di non mostrare quanto le dispiacesse.

“Io credo, mia Signora…” iniziò Topo “…che dovremmo dargli una prova tangibile delle nostre capacità”.

“Hai qualcosa in mente?”.

“Sì. Datemi solo il tempo di elaborare per bene il piano”.

“Non avevo dubbi! Il tuo magnifico cervello è una fonte inesauribile di idee! Anticipami qual cosina…”.

“Meglio di no. Preferirei prima parlarne con qualche mio collega…”.

“Prendetevi pure tutto il tempo che vi serve”.

“Ne verrà fuori un bello scherzo, Madama!”.

“Che è proprio quello che ci vuole, per quel cretino esaltato, sensibile come un pachiderma egocentrico!”.

Shu la guardò, inclinando la testa con aria interrogativa, e poi se ne andò, dopo un inchino. Uscì dalla torre ed attraversò il corridoio, raggiunse il salone al piano terra, dove sapeva che stava l’aiuto di cui aveva bisogno. L’aiuto si chiamava Hòu, la Scimmia, abilissima con le mani e con il cervello. Assieme, non ebbero difficoltà ad elaborare un piano nei dettagli. Kuruma aveva dato loro carta bianca: era esattamente il momento che stavano aspettando!

Agirono non appena notarono che la luce sulla torre ovest non si vedeva, segno che il suo proprietario non era in quel luogo oppure dormiva profondamente, spegnendo la luminescenza della propria pelle. Hòu attraversò agilmente la cupola trasparente che sovrastava il corridoio centrale dell’edificio e si diresse in fretta verso la sua meta: la torre occidentale. Vi si arrampicò velocemente, fino a raggiungere una delle finestre sulla cima. Entrò, con Shu saldamente aggrappata ai peli della sua schiena marrone scuro.

“Fai piano, amica mia” sussurrò Topo.

“Sarò silenziosissima!” lo rassicurò Scimmia.

Entrarono da una finestra e si guardarono attorno, nel buio. Il loro scopo era sottrarre a Kosmos qualcosa di prezioso, di cui di certo avrebbe sentito la mancanza, e fargli notare quanto facilmente il furto fosse avvenuto. Il tutto per smorzare il suo ego smisurato. Non avevano un’idea chiara su quale oggetto portar via ma poi lo videro… Il lungo bastone d’argento! Con la sua strana punta leggermente attorcigliata, se ne stava là, contro la parete, emanando solamente un leggero bagliore. Quello ero il furto perfetto! Sapevano bene che Kosmos non si separava mai da quell’affare. Scimmia e Topo si fissarono, costatando con soddisfazione di aver avuto la stessa idea, e si sorrisero. Con un cenno del capo, Hòu lo afferrò fra le mani. Doveva stare attenta. Se quel coso era lì, voleva dire che il suo padrone non era lontano. Lo strinse e lo mosse, leggermente. Questi, inaspettatamente, tintinnò. La punta ricurva aveva piccoli anellini dorati su di essa che risuonarono quando furono spostati. La stanza si inondò di luce azzurra, segno che il Signore Occidentale si era svegliato. Hòu e Shu si consigliarono mentalmente di nascondersi dietro la pesante tenda che copriva la finestra da cui erano entrati.

“Speriamo non ci trovi…” trasmise a Scimmia il Topo.

“Stiamo immobili…” rispose, sempre mentalmente, Scimmia.

“Chi c’è? Chi è là?” sbottò Kosmos, mettendosi a sedere sull’alto letto e scostando il tendaggio del baldacchino.

La sua inconfondibile luce azzurra pulsava, infastidita. Il padrone della torre si alzò lentamente, andando verso il bastone. Sembrava tutto in ordine. Lo prese fra le mani, osservandolo da vicino, e poi lo ripose. Si guardo attorno, circospetto.

“Chi c’è?” domandò di nuovo e poi sorrise “Chi vuoi che ci sia, coglione?” si rimproverò “Hai solo tu accesso a questa torre!”.

Tornò a letto, borbottando un “Me lo sarò immaginato” prima di distendersi. Non era stanco, non aveva bisogno di dormire, ma gli piaceva sognare. Chiuse gli occhi e, lentamente, la sua luce iniziò ad affievolirsi fino a spegnersi del tutto.

Topo e Scimmia attesero il ritorno del buio totale per muoversi. Uscirono, furtive, dal loro nascondiglio. C’era mancato davvero poco! Fortunatamente a Kosmos non era passato nemmeno per la testa di scostare la tenda accanto al bastone! Rabbrividirono solo all’idea di che cosa sarebbe successo se le avesse scoperte!

“Facciamo in fretta!” squittì Shu.

“In un baleno!” rispose Hòu, afferrando il bastone per i cerchietti, impedendogli di suonare.

Dopodiché balzò giù dalla finestra, raccomandando Topo di tenersi forte, atterrò sulla cupola e tornò alla torre della sua padrona, senza che nessuno la notasse.

Kuruma fu entusiasta della loro impresa. Strinse il bastone fra le mani e sorrise, soddisfatta.

“Ottimo lavoro!” disse, orgogliosa.

“Non è ancora finita, mia Signora!” si affrettò a spiegare Shu “Quel bastone è quello che permette al suo proprietario di ricaricare il meccanismo di rotazione della sua porzione di cielo ed è simbolo del suo potere. Ma c’è un altro simbolo che loro possiedono…”.

“Lo Scettro delle Ere! Quello che ora ha in custodia il controllore dei Pesci!” spalancò gli occhi Kuruma.

“Precisamente. E ora andremo a prendere pure quello. Senza quei simboli, Madama, dovranno per forza riconoscerle la degna importanza ed il giusto rispetto”.

La Signora Orientale continuò a rigirarsi il bastone fra le mani, mentre Topo e Scimmia si avviavano verso le stanze di Al Risha. Non aveva alcuna intenzione di nasconderlo. Non vedeva l’ora di avere entrambi gli oggetti fra le mani e chiamare Kosmos, per sfotterlo un po’. Quell’esaltato avrebbe dovuto riconoscere le sue capacità, o sarebbe stato peggio per lui!

“La casa dei Pesci è al pianterreno, la prima dopo la torre” spiegò Shu, mentre Hòu tornava ad attraversare la cupola trasparente, attenta che non vi fosse nessuno.

Rimpianse il fatto di non aver abbastanza forza nelle mani, o avrebbero potuto sottrarre entrambi gli oggetti in una volta! Controllarono che Acquario, che aveva la residenza sopra a quella di Pesci, non fosse presente e ridiscesero, sfruttando il suo balcone. Udirono la risata di Al Risha ma non proveniva dalla sua stanza bensì da quella accanto, quella di Capricorno. Entrarono senza problemi e sottrassero lo scettro, lasciato incustodito, e tornarono in fretta alla loro torre.

Kuruma, con entrambi gli oggetti fra le mani, scoppiò a ridere.

“Splendido lavoro, saprò come ricompensarvi” disse, rivolta a Shu e Hòu.

Sempre ridendo, si affacciò alla finestra. Il suo collega ancora dormiva. Avrebbe atteso un po’ prima di svelargli l’accaduto!

 

“Se è uno scherzo, è di pessimo gusto!” tuonò Kosmos, piombando nel salone dove i maschi della casa stavano seduti.

I sei si fissarono con aria interrogativa. Antares smise di esercitarsi con la lunga spada, Deneb Algiedi ed Aldebaran ignorarono i rispettivi lavori di pittura che stavano realizzando, Rukbat depose il libro che stava leggendo, Mekbuda smise di insultarsi da solo e Al Risha scese dalle nuvole, smettendo di guardare fuori dalla finestra in cerca di chissà che cosa.

“Chi di voi sei piccoli stronzi cerca di farmi fesso?” ringhiò di nuovo Kosmos, con un’inquietante luce rossastra negli occhi.

“Piccoli stronzi?!” sibilò Antares, non nascondendo di essersi irritato nel sentirsi definire così.

“Cosa è successo?” parlò Aldebaran, tentando di riportare la calma.

“La Chiave!” urlò Kosmos “Dov’è la chiave della porta del cielo?!”.

“Vi riferite a quella specie di cavatappi gigante che vi portate sempre dietro?” domandò Rukbat.

“Proprio quello. Dove sta?”.

“Perché dovremmo averlo noi? Che ce ne facciamo?” sbottò Antares.

“In effetti…” mormorò Al Risha.

“Qui non c’è, Signore. Avete provato fra le ragazze?” propose Buda “Loro sono più infime di quanto possiate pensare!” concluse Mek.

“Prima voglio essere certo che non sia stato uno di voi a prenderlo. Pretendo ed esigo vedere le vostre stanze, immediatamente!” ordinò il padrone del lato ovest.

“Non è che semplicemente lo avete perso?” azzardò Antares.

“Come faccio ad averlo perso, inutile parassita del mio sistema nervoso?” fu la risposta .

“Non lo so e non me ne frega un cazzo! Quello che so è che nessuno può accusarmi di essere un ladro!”. Scorpione ormai aveva perso del tutto la pazienza ed il suo sguardo rosso ne era un chiaro segnale.

“Uno di voi dodici dev’essere stato!” riprese Kosmos “Lui, il mio bastone, non se ne va di certo in giro da solo! Perciò…”.

“Ma noi alla torre non abbiamo accesso!” interruppe Rukbat.

“Sarete entrati dalla finestra, che ne so! So che non c’è più!”.

“Avete guardato bene nella torre, Signore?” sorrise Al Risha, con lo sguardo ancora perso nel vuoto delle sue fantasticherie ad occhi aperti.

Kosmos, decisamente fuori di sé, lo afferrò per i capelli, lo sollevò e lo guardò in viso.

“Ok…” gemette Pesci, consapevole della forza che poteva richiamare il suo padrone “…evidentemente avete guardato benissimo!”.

“Dov’è lo Scettro delle Ere, Al Risha? Non dovresti lasciarlo mai…” sibilò Kosmos, rimettendo lentamente a terra il suo sottoposto.

“Vado subito a prenderlo, capo…”.

Pesci se ne andò per qualche minuto per poi ricomparire, leggermente pallido.

“È sparito!” mormorò, aspettandosi una reazione esplosiva da parte di Kosmos.

Questi, inaspettatamente, rimase calmo.

“Noi sei siamo rimasti qui nel salone per un sacco di tempo…” iniziò Aldebaran, mostrando il complesso quadro che stava dipingendo e che ormai era quasi completo.

“Mi spiace allora constatare che sono state le ragazze” sospirò il padrone “Peccato. Speravo che i delinquenti, qui, foste solo voi. Dai, andiamo…”.

“Andiamo dove?” si incuriosì Mekbuda.

“Di sopra, genio!” sbottò Kosmos, dando le spalle ai sei ed avviandosi spedito verso la scala che conduceva al piano superiore.

“Nelle case delle donne? Possiamo?” si stupì Al Risha.

“Per stavolta sì. Non fatene un’abitudine, però. Vi avviso: vi romperò il cazzo finché il colpevole non confesserà, statene certi!”.

Il capo occidentale entrò nel salone femminile senza ritegno, sbattendo la porta. Le donne presenti sobbalzarono e lo fissarono sconcertate, specie notando i sei uomini del piano inferiore dietro di lui.

“Vi voglio tutte a rapporto qui, immediatamente!” ordinò, sbraitando, Kosmos.

“Ma…” iniziò Hamal, l’Ariete.

“Niente ma! Tutte qui, ora!”.

Dopo qualche istante di proteste e corse lungo il corridoio, le sei furono in fila, a rapporto davanti al loro capo. Sadalmelik, l’Acquario, era coperta solamente da un asciugamano, non molto grande. Stava facendo il bagno ed era decisamente infastidita da quell’interruzione. Dentro di sé sperò che fosse davvero urgente. Adhafera, Leone, rientrò in sala dalla finestra. Si stava esercitando e ringhiò infuriata dall’impossibilità di continuare.

“Spero sia una cosa di vitale importanza…” sbottò Hamal.

“Credo proprio di sì…” le sussurrò Zubeneschamali, Bilancia “…hai visto che rabbia ha Kosmos negli occhi? Fa paura…”.

“E poi si è portato dietro gli uomini…” aggiunse Acubens, Cancro.

“La Chiave del Cielo e lo Scettro delle Ere mi sono stati sottratti” parlò il capo occidentale “Chi di voi li ha rubati? Fuori il colpevole, all’istante, e vedrò di non ucciderlo…”.

“Io no. Che me ne faccio?!” si affrettò a dire Hamal.

“Io neppure. Non mi sono mossa da qui” aggiunse Acubens.

“Vero. È stata tutto il tempo accanto a me” confermò Zubeneschamali.

“Io, come vedete, ero impegnata in altre attività” sbuffò Sadalmelik, gocciolante.

“Pure io ero impegnata in altre attività” ringhiò Adhafera.

“Logicamente parlando…” iniziò Astrea, dato che tutti la fissavano “…non avrebbe senso per noi sottrarre lo Scettro delle Ere, dato che spetterà a noi donne gestirlo fra meno di due anni…” e guardò Acquario, che annuì, non potendole dare torto.

“E per quanto riguarda la Chiave?” chiese Kosmos, incrociando le braccia, per niente convinto.

“Un oggetto del genere non può essere nascosto facilmente. Lo cerchi pure. Se lo ha preso una di noi, salterà fuori di sicuro” rispose Vergine, rimanendo seria ed incredibilmente calma.

“Benissimo! Ragazzi…pensateci voi!” ordinò il capo “Uno per stanza e ricordatevi che lo noto subito se mentite. Non costringetemi a punirvi tutti…”.

I sei maschi, con evidente imbarazzo, si fecero portare ognuno ad una stanza diversa.

“Potete cercare quanto volete” parlò Astrea, rivolta all’ispettore della sua stanza, Rukbat “Non troverete da nessuna di noi quegli affari!”.

“Da qualche parte devono essere, no?” rispose Sagittario, aprendo tutti i cassetti della camera d’Astrea.

Lei ne osservò tutti i movimenti a braccia incrociate, appoggiata alla porta.

Ovviamente gli oggetti non furono trovati. Kosmos era sempre più alterato dal fatto che, uno dopo l’altro, nessuno trovò ciò che cercava. L’ultimo a dare responso fu Aldebaran, sempre piuttosto lento, dalla stanza di Hamal.

“Qui non c’è niente, Signore” parlò, chinando il capo.

“Qualcuno mente, è ovvio! Oppure siete ciechi, impediti, rincoglioniti, e non vi siete accorti della Chiave e dello Scettro in una delle stanze!” affermò, convinto, il signore del lato ovest.

“Un momento…e se fossero loro, gli uomini, a nascondere quei cosi?” domandò Hamal.

“Infatti…” annuì Astrea.

“State dando la colpa a noi?!” si arrabbiò, come sempre, Antares.

“E a chi se no? Ad un buco nero?!” rispose l’Ariete.

“Che faccia tosta…” ghignò Rukbat.

“Da che pulpito!” sbottò Vergine.

Sagittario, punto nell’orgoglio, girò le orecchie a punta all’indietro e la fissò, senza parlare, con aria minacciosa. Astrea incrociò le braccia e sostenne quello sguardo in silenzio.

“Noi siamo innocenti!” affermò Al Risha.

“E come credervi?” domandò Sadalmelik.

“Qualcuno dev’essere stato!” quasi urlò Kosmos.

“Ma taci!” lo zittì Antares “L’avrai tu in camera ma, dato che sei rintronato, non te ne sei accorto!”.

“Ma come ti permetti, inutile ammasso di stelline sopravvalutate?!”.

Nel giro di qualche istante, fu rissa. Tutti contro tutti, in un insieme di urla, insulti e percosse più o meno forti. Ci fu pure qualche morso.

 

“Caspita…basta così poco per farvi litigare…” parlò una voce, femminile, dopo qualche minuto.

“Kuruma!” sbottò Kosmos “Cosa vuoi?! Non ti è permesso entrare qui!”.

Con un gesto della mano, il padrone del lato ovest fermò i suoi dodici sottoposti, che smisero di picchiarsi, anche se qualche insulto e pernacchia ancora si sentì.

“Piantatela! State buoni!” ordinò il capo e fu silenzio.

“Non ho resistito” spiegò Kuruma “Volevo vedere la tua faccia davanti alla realtà, Kosmy!”.

“Kosmy?!” ridacchiò Antares e ricevette un’occhiataccia terribile dal suo padrone.

“Quale realtà?” domandò Kosmos, pronto a ricominciare a litigare.

La signora orientale fece un cenno con la testa ed apparve Hòu, Scimmia, porgendo la Chiave del Cielo alla sua padrona.

“L’avevi tu, stupida femmina!” sibilò il proprietario dell’oggetto.

“Attento a come parli!” lo minacciò lei, stringendo il lungo bastone fra le mani.

“Anche lo scettro lo avete voi?” domandò Al Risha.

“In questo momento, ci stanno giocando Shu e Long” fu la risposta.

“Come sarebbe a dire che ci stanno giocando?!” si allarmò Kosmos.

“Rilassati! Non lo rompono mica!”.

“Li rivoglio! Rivoglio Scettro e Chiave!” si lagnò il signore occidentale, con un atteggiamento decisamente infantile che stupì i suoi sottoposti.

“Io te li rendo solo se ammetti che il mio potere è pari al tuo”.

“Questo mai. Io non dico balle!”.

“Non è una balla! Io sono potente tanto quanto te!”.

“Non farmi ridere! Tu possiedi solo il misero Scettro degli Anni. Se permetti, si capisce che i miei oggetti sono molto più potenti ed importanti!”.

“Solo perché tu sei in possesso di gingilli simili, non significa che tu sia migliore di me…”.

“Sei proprio una femmina testarda”.

“E tu un misogino esaltato!”.

“Patetica creatura!”.

“Pomposo pagliaccio!”.

“Irritante nanerottola!”.

“Sanguisuga nullafacente!”.

“Sei noiosa come una coda in autostrada o una zanzara nelle orecchie!”.

“E tu sei irritante come le tasse e la pubblicità messe assieme!”.

In quello scambio di insulti, i dodici abitanti delle case dell’ovest si fissarono con sempre maggiore preoccupazione.

“Cos’è un’autostrada?” mormorò Antares.

“E la pubblicità?” gli rispose Hamal.

Nessuno di loro usciva da quel palazzo da millenni e non gli erano chiari parecchi dei termini di paragone usati dai loro padroni. Non avevano mai visto i loro signori insultarsi in quel modo. Solitamente si ignoravano, oppure si limitavano a qualche parola tanto per passare il tempo.

“Perché arrivare ad un gesto così stupido, Kuruma?”

“Perché tu mi ignori, qualsiasi cosa faccia, e non mi consideri all’altezza. Almeno così posso dimostrarti che sono più forte e sei costretto a vederlo!”.

“Quindi tutto questo è solo un esagerato modo di attirare l’attenzione?!”.

“Solo un esagerato modo di farti abbassare un po’ la cresta e farti accorgere che esistiamo anche noi d’Oriente. Che, ovviamente, valiamo tanto quanto voi d’Occidente!”.

“Patetico…”.

Kosmos ora sghignazzava, probabilmente convinto che fosse tutto uno scherzo. Hòu guardava la padrona e capiva che la sua era rabbia e frustrazione autentica, nei confronti di un uomo che aveva rispetto e considerazione solamente per se stesso.

“Signora…” provò a dire, ma Kuruma la zittì, con un gesto della mano.

“Portami lo Scettro delle Ere” disse, senza guardare negli occhi l’animale, che corse via in fretta.

“Me lo rendi?” sorrise Kosmos “Bene! Vedo che, in fondo, sai anche ragionare. Del resto…cosa te ne fai tu dello Scettro delle Ere?!”.

Scimmia riapparve e porse lo scettro a Kuruma.

“Vieni fuori con me, Kosmos” parlò la signora orientale, ostentando una calma innaturale.

I due uscirono sul terrazzino, dopo aver attraversato il corridoio in comune. I dodici dell’Ovest guardarono entrambi con preoccupazione. Anche i dodici dell’Est si erano affacciati lungo il tratto comune dell’edificio, allarmati dal volto teso di Hòu. Così erano in ventiquattro, uno vicino all’altro, a circondare l’ingresso del terrazzino e ad osservare i due signori. Da un lato Ariete Hamal, Toro Aldebaran, Gemelli Mekbuda, Cancro Acubens, Leone Adhafera, Vergine Astrea, Bilancia Zubeneschamali, Scorpione Antares, Sagittario Rukbat, Capricorno Deneb Algiedi, Acquario Sadalmelik e Pesci Al Risha. Dal lato opposto Topo Shu, Bue Niu, Tigre Hu, Lepre Tù, Drago Long, Serpente Shè, Cavallo Ma, Capra Yang, Scimmia Hòu, Gallo Ji, Cane Gou e Maiale Zhu.

“Sono pronto a farmi rendere ciò che mi appartiene e ricevere le tue scuse” disse Kosmos, una volta che entrambi ebbero raggiunto la terrazza semicircolare.

Di tutta risposta, Kuruma afferrò lo Scettro delle Ere e glielo sbatté in faccia, con rabbia e forza.

“Era da miliardi di anni che sognavo di farlo!” mormorò lei, soddisfatta, mentre lui si premeva il viso fra le mani, gemendo incredulo e bestemmiando.

“Ho fra le mani i simboli del tuo potere, Kosmos! Inchinati, ammetti di non essermi superiore, e non ti farò alcun male!” parlò la signora orientale, spalancando le braccia con un oggetto magico per mano.

“Ma sei impazzita?!” biascicò l’occidentale “Vai a farti curare e stai lontana da me!!”.

“Perché ti è così difficile dire che le nostre forze si equivalgono?! Perché ti è impossibile ammettere che pure io esisto? Che pure io ho un senso?”.

“Non so che senso tu abbia, sinceramente. Per quanto riguarda il fatto che tu esista, non ho dubbi al riguardo! Mi hai appena spaccato la faccia con il MIO scettro!!”.

“E per quanto riguarda  l’equivalenza dei nostri poteri?”.

“Piantala con questa storia assurda! Ridammi ciò che mi appartiene e torna al tuo posto, insolente torturatrice della mia ormai misera pazienza!”.

“Long!” gridò Kuruma “Portami subito il ventaglio rosso!”.

“Cosa pensi di fare?!” ghignò Kosmos, mentre Drago porgeva alla sua padrona ciò che gli era stato chiesto.

“Hi!” urlò l’orientale, evocando il fuoco.

Aprì di colpo il ventaglio, lasciando temporaneamente lo scettro fra le mani incredule di Drago, e le fiamme iniziarono ad espandersi a spirale verso Kosmos.

“Non puoi fare sul serio…” mormorò lui fino all’ultimo momento, quando schivò solo in parte il colpo.

“Signore!” si allarmò Sadalmelik, avanzando d’istinto di un passo.

“State fermi dove siete, tutti quanti!” ordinò il padrone d’occidente, rivolto ai suoi dodici sottoposti.

“Kinzoku!” riprese Kuruma, evocando il metallo del ventaglio che aveva tenuto legato alla cintura.

Una fila di acuminate punte argentee si diresse rapide verso Kosmos, che le respinse spalancando gli occhi ed espandendo la sua luce. Alcune riuscirono a colpirlo di striscio e la cosa lo irritò parecchio.

“Vuoi proprio giocare, a quanto pare!” ringhiò “Ho perso del tutto la pazienza, bambina. Ora vedrai cosa è in grado di fare il signore più potente dell’universo creato!”.

“Pomposo cretino!” fu la risposta, per nulla turbata, della signora d’oriente, che ricambiò la provocazione con un attacco combinato dei due ventagli.

Lui si librò in aria, schivandoli, e si apprestò ad attaccare. Non potendo utilizzare la forza della Chiave del Cielo o i poteri dello scettro, girò gli occhi verso Antares, che trattenne il respiro sapendo bene cosa lo attendeva. Un vento gelido avvolse il rappresentante della costellazione e poi andò verso il suo padrone, che ne acquisì le capacità. Una grossa coda da scorpione spuntò da Kosmos e con lei il suo mortale veleno. Kuruma lo fissò, soddisfatta del fatto che prendesse finalmente la cosa sul serio. Di risposta, lei acquisì i poteri di Shè, Serpente.

“Veleno con veleno…divertente!” ghignò lui.

“Presto scoprirai quel’è il più mortale!” sibilò lei, con la lingua biforcuta ed un paio di denti affilati ben in evidenza, pronti ad attaccare.

Kosmos mosse rapidamente la coda ma Kuruma fu più veloce e il colpo trafisse il pavimento della terrazza, lasciandoci un bel buco.

“Io voto per rientrare in casa alla svelta…” propose Mek.

“No! Noi non ci muoviamo di qua!” lo fermò Buda, e Gemelli riprese a litigare da solo.

“Non li ho mai visti fare così. E sì che son qua da un sacco di tempo…” commentò Deneb Algiedi.

“A chi lo dici!” gli rispose Hamal “Ma ci han detto di non intervenire…”.

Si susseguirono una lunga serie di attacchi da parte del signore d’occidente, che però non riuscirono ad andare a segno, per l’impressionante velocità della signora d’oriente, e lasciavano solo segni devastanti sull’architettura dell’edificio. Con un balzo, Kuruma fu addosso a Kosmos e lo strinse con le braccia e le gambe, sempre più forte.

“Non costringermi a morderti! Arrenditi!” sibilò.

“Mai!” gemette lui, tentando invano di liberarsi.

Lei non lasciò la presa. Kosmos cadde in ginocchio, avvertendo il fatto che lei stava assorbendo la sua energia e lo stava sfinendo. I dodici già si mobilitavano per intervenire, ma lui li fermò di nuovo, colpito da un’improvvisa idea. Mutò, lasciando Antares sfinito, ed acquisì Aldebaran, Toro. Questo fece sì che il suo corpo divenisse più grosso e massiccio e  Kuruma fu costretta a lasciare la presa. Pure lei cambiò acquisizione, scegliendo Niu il Bue. Divenuta altrettanto grossa e pesante, i due ripresero ad affrontarsi in una sorta di strana lotta libera. Approfittando delle maggiori dimensioni, Kosmos riuscì, dopo un po’, ad avere la meglio.

“Arrenditi!” ansimò, tenendola bloccata con il pesante corpo.

Lei, di risposta, gli ringhiò in faccia, assimilando i poteri di Hu, Tigre.

“Fottiti, stupida donna!” ringhiò a sua volta lui, divenendo in parte Adhafera, Leone.

“Prima tu, irritante mongolfiera di autocelebrazione!”.

La lotta fra i due ora era più aspra, fatta di graffi e morsi, fra un ruggito ed un altro. La furia della tigre, accentuata dalla rabbia che provava Kuruma in quel momento, fece sì che il Leone Kosmos finisse a terra, con la mano artigliata della signora d’oriente che gli premeva la gola sempre più forte, ridacchiando. Lui, ovviamente, non si diede per vinto. Lasciò che il viso di lei si avvicinasse, nel tenerlo ancorato al pavimento del terrazzino, e le diede una testata, emettendo uno strano verso simile ad un belato. Aveva ora dentro di sé il potere di Hamal, Ariete. Kuruma lo lasciò andare temporaneamente e poi rispose con lo stesso attacco, sfruttando le capacità di Yang, Capra. Il loro scontro a testate fece sorridere più di qualcuno dei presenti. Sfortunatamente per la signora orientale, era impossibile avere la testa più dura di quella di Kosmos e, dopo qualche colpo ben assestato, lei finì scaraventata lontano. Lui si alzò, tutto orgoglioso e convinto della sua vittoria, incrociando le braccia e ghignando soddisfatto. Lei non si vedeva, essendo finita oltre la balaustra della terrazza.

“Bene, bene. Possiamo tornare a farci i fatti nostri, come sempre!” parlò il signore occidentale.

“Non ancora!” si sentì dire, e lei tornò al galoppo, sottoforma di centauro, avendo in parte Ma il Cavallo dentro di sé.

Kosmos fu rapidissimo ed assimilò Rukbat, divenendo a sua volta un bellissimo centauro blu.

“A noi due, signorina!” rise, nitrendo.

“Fatti sotto, pony!” ribatté la signora d’oriente.

Iniziò una scazzottata senza esclusione di colpi con tanto di calci a zoccolate. Le loro forze, però, si equiparavano e lo scontro non giungeva ad una conclusione. Chiave e Scettro erano abbandonati in terra.

Kosmos, riuscendo temporaneamente a spingere la sua avversaria sufficientemente distante, allungò la mano verso il bastone, ma una fiammata improvvisa gli bruciò la mano. La ritrasse d’istinto e un’ombra inquietante oscurò parte delle stelle.  Il signore occidentale alzò lo sguardo e abbassò le orecchie a punta. Kuruma era diventata enorme e sputava fuoco, sfruttando il potere di Long, Drago.

Preso dal panico, il signore d’occidente non sapeva con cosa controbattere. Forse le ali di Astrea…

“Sei più fastidiosa di un’ape nelle mutande!” gridò contro la sua avversaria, ignorando il fatto che questa continuava ad aumentare di dimensioni a dismisura.

“Io ti ci infilo un intero alveare nelle mutande, microbo dai capelli blu!” ruggì lei, afferrando la Chiave del Cielo,decisa ad usarla.

La punta attorcigliata dell’oggetto si illuminò e tutti furono costretti a serrare momentaneamente gli occhi. Quando li riaprirono, Kuruma occupava tutta la visuale, con i lunghi capelli neri che si erano sciolti e si arricciavano, mossi da un vento invisibile, e la splendida veste rossa che si muoveva dolcemente. Con l’affusolata mano, teneva sospeso a mezz’aria Kosmos, minuscolo in paragone con le dimensioni attuali di lei. Nessuno ebbe il coraggio di parlare. La Chiave si era adeguata alle dimensioni della signora orientale e pulsava, come un cuore vivo.

“Sarà il Cielo a decidere qual è il tuo posto” mormorò Kuruma, dolcemente.

Con un sorriso, serrò il pugno e lui ne rimase intrappolato. I dodici d’occidente si allarmarono e corsero verso quel pugno, volando mossi dai loro poteri astrali.

“Che volete voi, moscerini?” si stizzì Kuruma.

“Lascialo andare!” le gridò Hamal, tentando di avere un’aria minacciosa.

“È quello che ho intenzione di fare, ma levatevi dalla traiettoria!” ringhiò la signora.

“Quale traiettoria?!” cadde dalle nuvole Al Risha.

“Come volete…” alzò le spalle Kuruma, spalancando la mano e racchiudendo all’interno anche i dodici segni d’occidente senza difficoltà.

Iniziò ad agitare il pugno come a lanciare un dado.

“Ultima possibilità, Kosmy. Ammetti che i nostri poteri sono pari e farò finta che nulla sia successo. Torneremo ognuno al nostro posto e via così, per millenni e millenni…”.

“Scordatelo, arrampicatrice sociale imbrogliona!” biascicò Kosmos, sballottato contro i suoi sottoposti all’interno del pugno della donna a capo del lato orientale.

Lei non capì del tutto quell’insulto, ma comprese che il suo collega non si arrendeva. Strinse più forte fra le mani la Chiave del Cielo, richiamandone l’energia.

“L’hai voluto tu!” ringhiò.

“Signore…io credo che sarebbe saggio ammettere che lei…” iniziò Aldebaran, ma il suo superiore lo zittì subito, impedendogli di tentare di farlo ragionare.

“Che cosa ha intenzione di fare?” sussurrò Tù, Lepre.

“Niente di buono, spero!” sghignazzò Ji, Gallo.

Kuruma alzò il braccio e lasciò la presa, lanciandone il contenuto lontano, fra l’universo di stelle e pianeti lontani e fra lo stupore generale. Kosmos, resosi conto della situazione, tentò di frenare la caduta ed indirizzare quella degli altri, in modo che non finissero dispersi nell’eternità. Cadevano rapidamente, allontanandosi l’uno dall’altro. Il signore occidentale, raccogliendo le ultime forze, espanse la sua luce ed avvolse l’intero gruppo. Antares, ancora stanco a causa della battaglia in cui il suo padrone aveva sfruttato l’energia dello scorpione, chiuse di nuovo gli occhi, accecato. Quando li riaprì, era a terra, da solo, nel buio di un pianeta, lontano dalla sua casa e senza più una sola briciola di forza magica.

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Capitolo 3
*** 2 ***


III

 

 

Quando si svegliò, Antares gemette. Era tutto indolenzito e con la bocca impastata dalla sete. Quanto tempo era rimasto privo di sensi? Ricordava di essere caduto e di essere rimasto disteso, a riflettere, ma poi le forze lo avevano abbandonato e si era addormentato, o forse era svenuto. Tentò di muoversi, ma notò subito di non riuscirci. Si agitò invano e costatò di aver le mani legate dietro la schiena. Dimenandosi nel buio, non riusciva a capire dove fosse. C’era una finestra quadrata, senza vetri, dalla quale poteva vedere il cielo. La Luna. Era da tempo che non la vedeva così da vicino. Sorrise. Almeno aveva capito in che pianeta era caduto! Ma chi aveva osato legarlo come un salame?! Fuori vedeva lampi simili a quelli provocati da un temporale, ma il cielo era limpido. Eppure il frastuono era lo stesso… Si chiese cosa potesse essere, ma non trovò risposta. Sentì una voce. C’era qualcuno oltre la porta di quella spoglia stanza quadrata, dove era stato gettato. Tentò di capire le parole che pronunciava. Che lingua era? Arabo? Ringraziò il fatto che, volenti o nolenti, tutti loro dodici compagni avevano imparato le lingue dell’universo grazie ai libri del loro capo. Antares non era mai stato molto bravo nell’imparare certe cose ma, in migliaia di anni, anche il più idiota degli idioti era in grado di memorizzare qualcosa. Erano due, o tre, voci e riusciva a comprenderle quasi del tutto. Decise di rimanere in silenzio, per riuscire a carpire più informazioni possibili sulle creature che lo volevano tenere prigioniero.

“Dove lo hai trovato?” parlò la prima voce.

“Sull’altipiano. Questi stupidi turisti se ne vanno in giro così e pretendono che non gli succeda niente!” rispose la seconda.

“Sicuro sia un turista?”.

“E che altro dovrebbe essere? È vestito come un cretino ed è evidente che è stato derubato, non ha niente con sé. Si sarà perso. O forse è uno di quei giornalisti dementi che stan fermi a guardare mentre gli sparano”.

“Dici sia ricco?”.

“Assolutamente! Sulla schiena ha una pietra preziosa, che però non siamo riusciti a togliergli. Uno che ha una cosa del genere addosso, deve nuotare nell’oro!”.

“Bene, diamogli un’occhiata…”.

Tre uomini, in passamontagna e lungo abito scuro, entrarono nella stanzetta vuota, imbracciando dei fucili. Antares fissò loro, e gli oggetti che impugnavano, con curiosità. Non aveva idea di cosa fossero.

“Io non sono vestito come un cretino!” sbottò, nella lingua dei tre ma con un accento particolare che non poteva fare a meno di avere.

“Parli la mia lingua” ghignò il primo uomo, inginocchiandosi e rigirandolo, per vedere la pietra preziosa di cui gli avevano parlato “Americano?”.

“Cos’è un Americano?” rispose lo Scorpione.

“Stai scherzando?! Europeo? Inglese? Italiano? Uno di quei piccoli idioti che viene a far le gite da queste parti?” insistette un terzo uomo, con voce infastidita e spazientita.

“Nessuno di questi!”.

“E allora da dove vieni? Sei curdo?”.

“Sono chi mi pare e da dove vengo non vi interessa!”.

Il primo uomo gli puntò il fucile alla testa “Sai che bel buco ti fa in faccia questo? Ti conviene parlare!” minacciò, senza alzare la voce.

“Veramente, non so cosa sia la cosa che hai fra le mani…” ammise Antares.

“Mi prendi per il culo?!” si agitò il secondo uomo.

Il terzo sparò un colpo in aria, bucando il soffitto di quell’edificio malconcio.  Il prigioniero deglutì, capendo all’istante in che guaio era finito.

“Cosa volete da me?” domandò, tentando di non farsi prendere dal panico.

“Sei un ostaggio, razza di fesso. Chiederemo un riscatto”.

“Un riscatto?”.

“Sì! Soldi dalla tua famiglia di ricconi”.

Antares rimase in silenzio. Come spiegargli che lui non aveva una famiglia di ricconi a cui rivolgersi? Ricordò di aver perso i poteri e, di conseguenza, di essere mortale. Non aveva più luce e i suoi occhi, un tempo rossi e brillanti, ora erano scuri e opachi. Non sapeva cosa fare. Lo avrebbero ucciso…

“A che vi servono i soldi? Non state bene così?” chiese, rendendosi conto da solo che era una domanda molto stupida quella che aveva appena fatto.

“Ma da dove vieni tu?! Da un altro pianeta?!” sghignazzò uno dei tre sequestratori.

“Guarda fuori!” continuò un altro, prendendo la faccia di Antares e girandogliela con la forza verso la finestra “Siamo in guerra! Quei lampi laggiù non sono fuochi d’artificio ma bombe! In guerra, vince chi ha soldi, sciocco cristiano”.

“Io non sono cristiano!” non riuscì a fare a meno di dire lo Scorpione.

“E allora cosa sei?”.

“Io…hem…voi cosa siete?” temporeggiò il sequestrato, non sapendo cosa dire.

“Basta giocare!” parlò il primo entrato nella stanza, rivolto al suo compagno che si sforzava di conversare con l’ostaggio “Venite fuori. Lasciatelo pure qui da solo che pensi alle conseguenze di sue altre domande stupide e senza senso!”.

Antares rimase in silenzio, mentre i tre uscivano.

“Comincio a pensare che sia una spia. Non è possibile che sia un semplice turista. Sta cercando di imbrogliarci. Stiamo allerta e non facciamoci fregare. Ci vuole una guardia alla porta. Se sarà così idiota da uscire dalla finestra, data la situazione, saran solo affari suoi!” parlò, una volta uscito, il primo degli uomini.

“Resto io di guardia qua. Voi, nel frattempo, cercate più informazioni possibili. Se è un turista, di certo sarà arrivato con qualche aereo o altro, e qualcuno si sarà accorto che è sparito!” concluse il secondo.

Poi fu di nuovo silenzio, interrotto solamente dal bubbolio delle bombe e dai colpi di mortaio esterni. Stava albeggiando. Doveva riuscire a fuggire. Ma come? Era legato e sorvegliato! Sbuffò. Forse quel pianeta meritava di fermarsi per sempre!

 

₪₪₪

 

Luci intermittenti in lontananza ed un gran mal di testa furono le prime sensazioni che il caduto percepì. Si scosse, rialzandosi a fatica. Si guardò attorno.

“Mek!” esclamò, guardando in terra.

“Buda…” gli rispose l’altro, rimanendo disteso sulla pancia e gemendo per la botta ricevuta all’impatto con il suolo.

“Ci siamo separati!” riprese Mek, biondo e con chiarissimi occhi azzurri.

“A quanto pare…” mormorò Buda, moro e con occhi scurissimi, mettendosi a sedere “Dove siamo?”.

“E a me lo chiedi? Sei tu quello che sa sempre tutto!”.

“Ma che stai dicendo?!”.

“Dei due, sei tu quello sapientone, pomposo e saccente…”.

“Non ti picchio solo perché, data la situazione, direi che non è il caso di litigare”.

“Non riusciresti mai a picchiarmi. Se tu sei la mente, io di certo sono il corpo!” ghignò Mek, stringendo i pugni tentando di mostrare i muscoli, che non si notavano un granché.

Buda scosse la testa, ruotando gli occhi al cielo. I gemelli fissarono quelle strane luci intermittenti con curiosità, chiedendosi cosa fossero. Il sole stava tramontando e si facevano sempre più forti. Si fissarono a vicenda. Le loro vesti grigie erano stracciate in più punti ed erano interamente ricoperti di graffi e lividi.

“Ma dove stracazzo siamo caduti?!” protestò Mek.

“Siete nel Nevada” gli rispose una voce.

“Il Nevada?! E sarebbe?!” domandò il biondo dei Gemelli, senza voltarsi ma cambiando la lingua con cui si esprimeva, senza nemmeno pensarci.

“In America occidentale!” parlò di nuovo la voce.

“Continuo a non avere presente e, comunque…” riprese Mek, girandosi e vedendo un gruppetto di individui che fissava lui e suo fratello “…voi chi cazzo siete?!”.

“Benvenuti, visitatori dello spazio! Noto con piacere che parlate la nostra lingua!” si fece avanti uno dei membri del gruppetto di curiosi.

Mek e Buda si fissarono con aria interrogativa.

“La scia della vostra discesa era ben visibile nel cielo e l’abbiamo seguita. Come i re magi guidati dalla cometa, ora noi siamo giunti a Voi, extraterrestri”.

“Questi sono tuonati! Andiamocene!” sussurrò Mek, nella lingua che solo Buda poteva comprendere.

“E dove credi di andare?! Tu hai idea di dove stia l’America nell’Universo?! Io no, perciò suggerirei di farci dare una mano da questi stramboidi”.

“È un’idea pessima, e folle!”.

“Ne hai forse un’altra?!”.

Mek chinò il capo, rassegnato, e tornò a girare la testa verso coloro che continuavano a fissarli con adorazione e curiosità.

“Assomigliate molto a noi terrestri” notò uno di loro.

“In base a cosa avete stabilito che siamo extraterrestri?!” volle sapere Buda.

“Non sapete nemmeno dov’è l’America! Tutti sulla Terra sanno dov’è l’America!”.

“Da dove venite? E cosa vi è successo? Dov’è la vostra astronave?” iniziò una donna.

“Sei ancora convinto di volerti far aiutare da loro?” gemette Mek.

“Assolutamente. E adesso rispondi alle domande…”.

“Noi non abbiamo nessuna astronave, è inutile che vi spieghi da dove veniamo, perché non lo capireste, e cosa ci è successo è troppo lungo e complicato da raccontare” sbuffò il gemello biondo.

“Fortunatamente vi abbiamo trovati noi prima del governo. Così ora nessuno potrà darci ancora dei folli, nessuno potrà più nascondervi alla gente e tutti sapranno che esistete!”.

Mek sospirò, chiedendosi se effettivamente era stata una fortuna essere trovato da quel gruppo di schizzati invece che dal governo.

“Non mi sembra una buona idea!” intervenne Buda “Avvertire tutti, intendo. Noi siamo qui ma ci sono altri nostri compagni caduti, sempre su questo pianeta, spero, ed è fondamentale per noi ritrovarli. Se tante persone sapessero del nostro arrivo, noi…”.

“Noi verremmo localizzati dalla creatura malvagia che ci ha spediti qui e rischieremmo la morte. Capite?” concluse Mek, salvando Buda da un silenzio imbarazzante.

“Ballista” ridacchiò il gemello, nella loro lingua.

“Una guerra intergalattica?! Grandioso! Allora cosa possiamo fare per voi?” esclamò l’apparente capo del gruppo, saltellando come un bambino davanti ad un nuovo giocattolo.

“Aiutateci a ritrovare i nostri compagni. Quando saremo tutti riuniti, potrete dire al mondo intero che noi ci siamo, perché saremo più forti ed in grado di difenderci dai nostri nemici” ordinò Mek.

“Saremo pienamente al vostro servizio, abitanti dell’Universo infinito!” si inchinò il capo.

“Una volta riuniti, tornerete sul vostro pianeta? Tornerete a casa?” domandò una donna.

“Non lo sappiamo” ammise Buda, resosi conto di non avere più una sola briciola di potere nelle vene.

“E quel tatuaggio che portate, identico, sulla spalla, è una cosa in comune a tutto il vostro popolo?” insistette la donna, indicando la costellazione che i due portavano sulla pelle, con due cristalli incastonati in corrispondenza delle due stelle gemelle, uno ciascuno “Quella è la costellazione dei gemelli. Lo so perché è il mio segno zodiacale. Venite da lì?” .

Mek e Buda guardarono quel disegno, girando la testa, e non seppero che cosa rispondere.

“Ci spiegherete ogni cosa con calma. Ora, se me ne concedete l’onore, vi ospito in casa mia. E tutti noi ci mobiliteremo per aiutarvi a ritrovare i vostri compagni. Seguiteci”.

“Tanto per la cronaca…io sono Buda” si presentò il gemello moro, quando il gruppetto iniziò a muoversi, dandogli le spalle.

“Buddha?!” spalancò gli occhi un ragazzo.

“No! Non Buddha! Buda, con una D soltanto e senza H!”.

“E io sono Mek” si unì il gemello biondo.

“Mekbuda è una delle stelle più luminose della costellazione dei Gemelli!” esclamò la donna di quel segno.

“Lo sappiamo…” risposero, in coro, i due fratelli.

“Piacere di conoscervi” parlò di nuovo il capo, colui che gli aveva offerto ospitalità “Io mi chiamo Thomas. Potete chiamarmi Tom. E loro sono, nell’ordine, Mark, Jonathan, Danielle, Patrick, la mia fidanzata Lisa ed il mio fratellino Nicolas”.

Fecero tutti “ciao” con la mano e si apprestarono a riprendere il cammino.

“Hem…Tom, giusto per sapere…” iniziò Mek, fermandosi ed indicando le luci alle sue spalle “…quelle cose, che cosa sono?”.

“Sono le luci di Las Vegas!” spiegò Tom

“E sarebbe?” inclinò la testa Buda.

“Venite con noi. Non avete vissuto, se non siete passati almeno una volta a Las Vegas!”.

 

₪₪₪

 

Hamal aprì gli occhi, percependo un profumino delizioso nell’aria. Il suo stomaco brontolò.

“Merda!” esclamò “Non sono più una stella!”.

I suoi poteri erano scomparsi, così come la possibilità per lei di fare a meno di mangiare e bere.

Era pieno giorno, si sentì subito stordita dal sole che picchiava. Si toccò la spalla, sentendola pizzicare, e percepì la costellazione dell’Ariete tatuata, con un’ametista in corrispondenza della stella di cui portava il nome. Chissà dov’era finita! Spinta dalla fame, decise di rischiare, pur sentendosi a disagio disarmata, ed avvicinarsi alle case non molto lontane. Le strade erano deserte, probabilmente erano tutti a pranzo. Seguendo un sentierino leggermente in salita, Hamal si fermò davanti ad una ripida scalinata che spariva fra gli alberi, ricoperta dalle foglie rosse delle piante che la costeggiavano. Mossa dalla curiosità, iniziò a salire. Che strana sensazione camminare con la forza di gravità! Si domandò dove stesse andando. Le statue che vedeva sembravano molto antiche, anche se ben tenute. Erano tutte differenti e, ai loro piedi, c’erano fiori e candele. Giunse in cima senza affanno, abituata com’era a fare quotidianamente allenamento. Attraversò l’ingresso e sorrise. Il posto era piuttosto affascinante. Attorno ad un ampio spiazzo, con sassi e sabbia bianca a disegni regolari, vedeva un edificio a forma di ferro di cavallo. In realtà, la struttura era più complessa, rassomigliando più ad una A squadrata, con un giardino interno con laghetto e ninfee. Racchiusa fra gli alberi, quell’abitazione ispirò subito fiducia ad Hamal, che si avviò verso quella che presupponeva fosse la porta d’ingresso. Il legno di cui era fatto il corridoio esterno, rialzato e collegato a tutte le porte del ferro di cavallo, scricchiolò leggermente mentre lei ne risaliva i pochi scalini che lo dividevano da terra.

“Chi state cercando?” si sentì dire, prima che sfiorasse la porta scorrevole.

“Io?” ripose lei, guardandosi in giro per cercare  di capire chi avesse parlato.

“Sì. Chi siete? Non credo di avervi mai vista…”.

Finalmente la stella caduta capì chi le stava parlando. C’era un uomo, non molto alto, con lunghi capelli neri avvolti in una singolare pettinatura, che la fissava dal giardino, in parte celato dagli alberi. Lo vide avvicinarsi. Era vestito con ampie vesti e, al fianco, portava una lunga spada sottile.

“Una Katana!” esclamò l’Ariete “Siete un guerriero?”.

“Sono il maestro a capo di questo dojo, signorina. Sono Toheru. Con chi ho l’onore di parlare?”.

“Io mi chiamo Hamal” entusiasta dalle informazioni che aveva appena ricevuto.

Aveva letto spesso sull’argomento ed ora aveva la possibilità di vedere ogni cosa dal vero!

“Siete un Samurai?” domandò lei.

“Mia cara, i Samurai non ci sono in Giappone da un sacco di tempo…ma diciamo che quelli come me ci vanno vicino. Se volete, potete seguire la prossima sessione di allenamento. Inizia fra circa un’ora…”.

“Mi piacerebbe molto ma, prima, avrei davvero tanta fame…” ammise Hamal, stringendosi lo stomaco con le mani e sentendolo borbottare.

“Ma cosa Vi è successo? Le vostre vesti sono tutte stracciate e non avete niente, nemmeno una piccola borsetta con Voi. Vi hanno derubata?”.

“Diciamo che potrebbe essere un’interpretazione della cosa…”.

“Ho capito. Venite con me. Un pasto in più c’è sempre da queste parti”.

L’uomo le indicò il lato opposto dell’edificio, con un piccolo inchino. Lei lo seguì, stando attenta a seguire il sentierino di sassi che divideva il giardino zen, senza calpestarne la sabbia e rovinarne il disegno.

“Da dove venite?” domandò Toheru.

“Da molto lontano…”.

“Io ho girato il Mondo. Sia più precisa…”.

“Non so se sarebbe in grado di credermi. Io…vengo dal cielo!”.

Lui la fissò in modo decisamente strano e non chiese altro. Aprì la porta scorrevole, lasciando i sandali all’ingresso. Hamal, scalza, lo seguì senza esitare, ormai mossa dallo stomaco e non dal cervello. Un profumino irresistibile l’aveva avvolta appena entrata. Gli altri occupanti della casa, inginocchiati attorno ad un basso tavolino rettangolare, stavano pranzando e fissarono l’intrusa con curiosità.

“Questa è la mia famiglia” spiegò Toheru “Mia moglie Sizuji, mio figlio Toji e mia figlia Samji, con i rispettivi consorti. Più tardi, se verrete ad assistere gli allenamenti, conoscerete il figlio di mia sorella, Erik. Lui è solo per metà giapponese, ma vedrete come sa combattere!”.

Hamal annuì, mentre il padrone di casa la presentava alla famiglia.

“Dove l’hai trovata?” sussurrò la moglie al marito.

“Era nel nostro giardino. Dice cose senza senso e guarda come è ridotta! Dev’esserle successo qualcosa. Cercherò di scoprire il più possibile, nel frattempo trattiamola come una qualsiasi ospite. Un buon pasto e dei vestiti decenti. Poveretta…non ha nemmeno le scarpe!”.

“Sei troppo fiducioso nei confronti delle persone. Potrebbe essere una drogata o una pazza!”.

“Lo scopriremo. Nel frattempo, siate cortesi”.

Hamal si inginocchiò accanto alla più giovane della famiglia, Samji, una donna quasi trentenne, che le sorrise, porgendole una tazza di riso. L’Ariete, dopo qualche problema con le bacchette, iniziò a mangiare di gusto. Solo dopo notò il drago dipinto sulla parete e rabbrividì.

“Devo trovare i miei compagni…” mormorò.

 

₪₪₪

 

Adhafera riprese conoscenza nel buio. I suoi occhi verdi si abituarono facilmente, anche perché capì subito di essere finita nel bel mezzo di un centro abitato. Forti luci e rumori la circondavano. Un ubriaco la fissava, a bocca spalancata e la faccia da fesso, dal lato opposto della strada. Leone, togliendo la polvere e lo sporco dalla sua veste gialla, lo fissò a sua volta, con fastidio e sfida.

“Quella donna è caduta dal cielo!” biascicò l’uomo, rivolgendosi ad un altro, ubriaco quanto lui.

“Che bello! Magari è la volta che, finalmente, mi trovo una femmina” fu la risposta.

Adhafera, storcendo la bocca, si allontanò in fretta. Dovette constatare però, nel giro di qualche minuto, che tutti quelli che incrociava per strada non erano messi meglio dei primi due. Grida, versi, risate isteriche, pianti insensati e frasi dettate dall’alcol erano le uniche cose che sentiva. Lungo i marciapiedi, un sacco di ragazzini barcollanti che tentavano di accoppiarsi in pubblico oppure che vomitavano. Leone accelerò il passo, chiedendosi in che razza di posto era andata a finire. A forza di camminare, stava iniziando ad essere piuttosto stanca e voleva trovare un posto per dormire. Ma dove? Una macchina la sfiorò, a tutta velocità, e lei si spaventò. Non aveva mai visto una cosa del genere. Si addentrò lungo una strada di sassi, dove alle auto era proibito entrare. Un cinese le fece una foto, convinto che fosse un’attrazione del luogo. Adhafera, momentaneamente accecata dal flash, camminò lungo un colonnato. Desiderosa di trovare un posto tranquillo dove schiacciare un pisolino, decise di arrampicarvici sopra, richiamando in parte l’istinto dell’animale che rappresentava. Non ebbe alcuna difficoltà e tentò di raggiungere il punto più in alto possibile, dove si sarebbe finalmente sentita al sicuro. Silenziosamente, arrivò su una superficie curva che sopra di sé aveva solo il cielo. Rilassata, si stese. Si rattristò, notando le stelle che mancavano, ma poi venne sopraffatta dalla stanchezza e si addormentò, ancora dolorante per la caduta.

Si risvegliò al suono incessante delle campane, un suono a cui non era di certo abituata. Era l’alba. Decise di rimanere dov’era ancora per un po’. Da lì poteva ammirare un panorama straordinario e nessuno poteva disturbarla, salvo qualche piccione curioso. Si sfiorò la spalla e solo in quel momento notò il tatuaggio della sua costellazione, con un rubino incastonato. Si chiese dove fossero finiti i suoi compagni e quanto fosse stupido il suo capo, su una scala da uno a dieci. Stabilì che dodici era l’indice più appropriato. Probabilmente si riaddormentò perché, quando riaprì gli occhi, era mattino inoltrato. Sentiva una voce parlare in italiano, ma con un accento terrificante, e una gran confusione che solo una folla numerosa poteva fare. Si sporse dalla cupola dove si era appisolata. Uno strano tizio vestito di bianco parlava alla piazza sottostante, affacciato ad una finestra. Per Adhafera stava dicendo cose senza senso, ma preferì non commentare. Decise di provare a scendere dalla cupola, approfittando della concentrazione del pubblico presente rivolta esclusivamente a quel vecchio strambo.

“Guardate lassù!” gridò, ad un tratto, una donna travestita da pinguino, in mezzo a molti altri pinguini.

“Oh mio Dio! Vuole buttarsi di sotto!” sbraitò una signora, facendosi il segno della croce.

“Vuole attentare alla vita del Papa!” ringhiò, invece, un uomo con un ridicolo cappello.

Un paio di suore, i pinguini di prima, svennero e una di loro impugnò il rosario, come se fosse utile a sventare chissà che colpo di stato.

“E chi è il Papa?!” storse la bocca Adhafera, capendo che non sarebbe potuta scendere da quel lato della cupola, anche perché un branco di buffoni vestiti a strisce le puntavano contro le alabarde.

Scese dal lato opposto alla piazza, mentre il tizio vestito di bianco veniva portato dentro, al sicuro. Giunta in terra, con una certa difficoltà, decise che la cosa più saggia da fare era allontanarsi alla svelta, ma non ci riuscì. Una folla inferocita, che aveva seguito la vicenda alla televisione, la blocco. Lei tentò di difendersi, ma erano in troppi. Con un gran urlare di sirene, si ritrovò ammanettata e perquisita.

“La dichiaro in arresto, per aver causato il panico e per aver attentato alla vita del pontefice” le disse uno dei poliziotti accorsi sul luogo.

“Ma chi è il pontefice?! Veramente, io non lo conosco! Cosa volete che me ne freghi di ucciderlo?! Lasciatemi andare!!”.

Adhafera, sbraitante, fu trascinata in cella, mentre su tutti i telegiornali si diffondeva la notizia dello sventato attacco, con tanto di immagini e filmati dell’eroico arresto.

 

₪₪₪

 

“Che freddo” fu il primo pensiero di Al Risha, quando riaprì gli occhi nel buio della notte.

Perduti i poteri, si accorse subito, tristemente, che i suoi lunghi capelli blu elettrico erano diventati grigi, spenti e ribelli. E fastidiosamente ricoperti di sabbia. Questo perché Pesci era caduto nel deserto. Si alzò a fatica, ricordando con una certa inquietudine ciò che sapeva sui deserti. Ora stava gelando ma, al sorgere del sole, la situazione si sarebbe ribaltata con esiti disastrosi, specie per lui, abituato a non allontanarsi mai troppo dall’acqua. Iniziò subito a camminare, desideroso di trovare riparo prima dell’alba. Guardò in alto. Se c’era una cosa che sapeva fare bene, era orientarsi con le stelle. Si diresse verso est, sentendo dentro di sé che l’acqua era più vicina seguendo quella direzione. Sospirò. Chissà dov’erano finiti i suoi compagni! Rabbrividendo, affondò i piedi nella sabbia, in cerca di un po’ di calore, ma diede solamente fastidio agli scorpioni. La veste stracciata non lo aiutava di certo. Sentiva ancora la spalla pulsare a causa del piccolo corallo che ora aveva incastonato, lungo la costellazione disegnata.

“Se muoio qui, quel coglione di Kosmos cosa si ritroverà a fare?” pensò, domandandosi poi se davvero la cosa avesse importanza.

Probabilmente anche il suo capo era caduto. In quel caso, non sarebbe stato semplice tornare in cielo, sempre se la cosa fosse effettivamente possibile. Si scosse. Cielo o non cielo, lui ci teneva a sopravvivere! Si arrampicò fra le dune per diverse ore, attento a non farsi sopraffare dalla stanchezza, dalla fame e, soprattutto, dalla sete.

“Maledetto corpo mortale!” mormorò, nel silenzio.

Osservò con curiosità un serpente che risaliva la duna, strisciando incurvando il corpo, e rizzò le orecchie. Il silenzio non era più totale ma un rumore cupo, simile al bubbolio di un temporale, riempiva l’aria. Al Risha non percepiva umidità e poi, si disse, era in mezzo al deserto e un temporale era fuori discussione! Allora cos’era? Era sempre più forte e si avvicinava. Il cielo parve appannarsi, il vento si alzò e Pesci capì che stava per essere travolto da una tempesta di sabbia. Si mise a correre, non sapendo che altro fare. Era decisamente fuori di sé dalla paura, perché non ci teneva affatto a morire, e dalla rabbia, perché consapevole di trovarsi in quel luogo per colpa di quel cretino del suo capo. Chiuse gli occhi, procedendo alla cieca, e si tappò naso e orecchie con un pezzo della sua veste. Maledisse quel pianeta e tutto ciò che gli venne in mente, avanzando a fatica, senza vedere niente e respirando sabbia. Non poteva fermarsi, o sarebbe stato sepolto. Non poté sapere quanto tempo rimase intrappolato in quel turbine di vento e sabbia. Quando il vento iniziò a calare, tirò un sospiro di sollievo. La pelle bruciava in vari punti, per colpa dei graffi che la tempesta gli aveva provocato. Con immenso fastidio, notò che il sole era sorto e il caldo si faceva rapidamente insopportabile.

“Odio questo pianeta!” gridò, ormai senza più né forza né coraggio.

 

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Quando sentì l’erbetta morbida sotto di sé, Aldebaran ne fu decisamente lieto. Era notte, sentiva il canto dei grilli. Quelli se li ricordava! Riconobbe anche una civetta, o un gufo, non seppe dirlo nell’oscurità. Decise che, finché non si fosse fatto giorno, non era il caso di gironzolare a vuoto e si acquatto sotto un cespuglio, una siepe, in attesa dell’alba. Grosso com’era, non era certo facile che riuscisse a nascondersi ma, non avvertendo pericoli immediati, si rilassò e decise che schiacciare un pisolino fosse la cosa migliore. Fu svegliato da una voce, non molto distante.

“Hai visto? Hanno sventato un attentato al Papa. Mostrano adesso le immagini per tv. Pazzesco…c’era una tipa vestita di stracci gialli con i capelli da pazza arrampicata sulla cupola. Come ha fatto ad arrivarci lassù poi…”.

Stracci gialli e capelli da pazza? Che fosse…? Toro si alzò in piedi, deciso a saperne di più. Magari se riusciva a vedere le immagini di cui parlava quell’uomo… Camminò e si accorse subito di essere all’interno di un ampio giardino, circondato da una siepe. Si diresse verso la casa, a passi lenti ed impacciati, con la veste verde piuttosto rovinata ed i muscoli tutti indolenziti. Non resistette alla tentazione di inginocchiarsi e prendere un sorso d’acqua da quello specchio che si ritrovò davanti. Immediatamente la sputò, imprecando, avvertendone il saporaccio.

“Ma che fai, idiota? Bevi dalla mia piscina?” si sentì dire, quando ancora si scuoteva per il disgusto.

“Papà!” riprese la voce “Questo amante del cloro è amico tuo?”.

Aldebaran non aveva idea di cosa fosse il cloro e fissò chi aveva davanti con un certo timore, non sapendo se considerarlo un amico o un nemico. Rimase in ginocchio, davanti alla piscina. Colui che aveva di fronte doveva avere circa trent’anni, piuttosto alto, con lunghissimi capelli rossi e occhi verdi. Era in costume da bagno, dai colori sgargianti.

“Sei parente di Acubens?” domandò Toro, notandone la somiglianza e adattandosi linguisticamente alle frasi che aveva udito in precedenza.

“Credimi, straniero, io di parenti ne ho un sacco, ma nessuno di loro ha un nome così assurdo!” fu la risposta, mentre dalla grande portafinestra usciva un altro uomo, più alto del primo e più anziano.

“Chi è questo, un amico tuo?” domandò il secondo arrivato.

Questi portava i capelli legati in una lunga treccia bianca ed i suoi occhi erano come il ghiaccio.

“Mai visto prima…da dove sei entrato? I cancelli hanno l’allarme e, visto quanto sei ciccione, dubito tu ti sia intrufolato attraverso la siepe…”.

Aldebaran storse il viso, non amando essere definito un ciccione. Non lo era! Era grosso ma la maggior parte di lui era coperto dai muscoli, non dal grasso!

“Io…ecco…mi è difficile spiegare da dove sono venuto…” iniziò Toro.

“Provaci. Sei piuttosto malconcio…non sarai mica caduto da qualche aereo? O sei uno di quegli imbecilli che si buttano senza paracadute perché han un insensato desiderio di sfidare la morte?” parlò il più anziano.

“Beh…vengo dall’alto, in effetti… E, scusate, non per essere scortese, ma ho una gran sete!”.

“Che dici? Lo facciamo entrare?” mormorò quello con i capelli bianchi.

“Perché no? Credo che, in due, riusciremmo a tenergli testa, nel caso avesse strane intenzioni. Non mi sembra armato…” rispose il più giovane.

In effetti, il più alto dei due aveva ampie spalle e una spanna di altezza in più rispetto ad Aldebaran. Il secondo, quello con i capelli rossi, era più longilineo ma mostrava delle braccia che indicavano la sua indiscussa capacità di difendersi.

“Entra, piovuto dal cielo” ridacchiò il più giovane, entrando in casa ed invitando Toro a fare lo stesso.

Attorno ad un tavolino in legno, gli fu offerto da bere. Si guardò attorno. La casa era piuttosto pittoresca, con quadri appesi, sculture ed oggetti curiosi. L’ospite, essendo molto attratto dall’arte, rimase incantato ad osservare certi dipinti, fra un sorso di birra ed un altro.

“Allora…” ripartì il più anziano “…vuoi dirci qualcosa di te, o ti piace il gioco del silenzio?”.

“Io mi chiamo Aldebaran e…”.

“E sei del segno del Toro” interruppe il più giovane.

“Come lo sai?!”.

“Hai quel segno tatuato sulla spalla, con tanto di pietra incastonata. Figo…”.

Aldebaran si toccò la spalla, sentendo l’agata che vi era spuntata.

“Io sono Mikael” si presentò il giovane con i capelli rossi “E lui è mio padre Scott” proseguì, indicando l’altro uomo, che salutò con la mano. Toro la trovò esageratamente grande.

Guardandoli meglio, si notavano le somiglianze fra i due. La forma del viso, lunga e affusolata, il taglio degli occhi, il sorriso…

Aldebaran si distrasse, vedendo la televisione. Non aveva mai visto un oggetto simile. Era accesa e mostrava le immagini dell’attentato a Roma.

“Adhafera!” esclamò, riconoscendo l’attentatrice.

“Chi?!” alzò un sopracciglio Scott.

“La conosci?” sorrise Mikael, trovando affascinanti i folli.

“Devo andare da lei! Dobbiamo ricongiungerci, assieme a tutti i nostri compagni!”.

Padre e figlio si fissarono con aria interrogativa.

“Come posso andare da lei?” incalzò Toro.

“Di certo non tanto facilmente. Questa è l’Irlanda, bello mio, e la tua amichetta è in Italia! Non so se ti è chiara la distanza… Ti attende un lungo viaggio fino all’aeroporto e poi almeno due ore d’aereo. Senza contare che, se l’hanno arrestata, non ti sarà concesso vederla” parlò il figlio.

“Da che parte è questo aeroporto?” insistette Aldebaran.

“Di là” rispose il padre, indicando l’est “Ma non mi sembra che tu abbia alcunché con te. Come credi di pagarti il viaggio? Da dove tirerai fuori i soldi?”.

“Soldi? Come mi posso procurare questi soldi?”.

“Papà…” mormorò Mikael, dopo un colpo di tosse “…questo è scappato di certo da qualche casa di cura. È completamente suonato! E, se non è pazzo, è amico per davvero di una terrorista! Non so quale sia peggio, fra le due ipotesi”.

Scott annuì, non sapendo come dargli torto.

“Ma non  pericoloso…” riprese il padre.

“Ma è convinto di conoscere una criminale ed è evidente che non sa stare a questo mondo”.

“Voi potete darmeli questi soldi?” continuò Aldebaran, ignorando i sussurri dei due.

“Te li devi guadagnare!” sbottò il giovane.

“Se volete che lavori, io lavoro. Farò tutto quello che volete. In cambio, vi chiedo soltanto di darmi la possibilità di andare a Roma”.

Mikael e Scott si fissarono, indecisi sul da farsi.

“Scusaci un secondo” disse il padre, trascinando il figlio nella stanza accanto, chiudendo la porta dietro di sé.

“Cosa facciamo? È pazzo da legare!” esclamò il giovane.

“Anche tu, eppure ti tengo sotto il mio stesso tetto!”.

“Non dire idiozie, papà. Questa è una questione leggermente diversa”.

“Io non ho mai cacciato nessuno, ho sempre offerto ospitalità e riparo a chi la richiedeva. L’hai detto anche tu che in due riusciamo a tenerlo a bada, in caso avesse strane intenzioni. È evidente che ha dei problemi. Teniamolo qui con noi per un po’. Se, come dici tu, viene da una casa di cura, qualcuno verrà a cercarlo. Prima che si meriti i soldi necessari per un volo fino a Roma, dovrà lavorare parecchio. Nel frattempo avremo la possibilità di conoscerlo meglio e decidere il da farsi”.

“Come vuoi, vecchio. La responsabilità è tua, però”.

“Come sempre. Tu sei incapace di prenderti responsabilità!”.

Mikael fissò il padre con odio, come accadeva piuttosto spesso, ma non ribatté. Preferì uscire in giardino, immergendosi in piscina, nonostante il clima non fosse esattamente caldo. Scott rientrò nella cucina, dove stava seduto, pazientemente, Aldebaran. Gli sorrise.

“Io e mio figlio abbiamo deciso di ospitarti e farti lavorare per noi, così da guadagnarti il viaggio fino a Roma. Ti avviso, però, che ci vogliono un sacco di soldi per prendere un aereo…”.

“Lavorerò giorno e notte, se sarà necessario. Ve ne sarò eternamente grato!”.

“Bene. In questo caso, vieni con me. Ti mostro la stanza degli ospiti dove alloggerai”.

“Ma non è necessario. Io…”.

“Vuoi dormire in giardino?! Non se ne parla! Vieni con me. Forse qualcuno dei miei abiti ti va bene, altrimenti manderò Mikael in città a prendertene qualcuno. La cucina è a tua disposizione, mangia pure quello che vuoi, l’importante è che ci avvisi se qualcosa finisce”.

I due salirono una scala in legno scricchiolante. Le camere erano tutte al primo piano.

“Questo è il bagno degli ospiti” spiegò Scott, indicando una porta “All’interno troverai già asciugamani, saponi, shampoo…tutto ciò che serve, insomma. Come ho detto a mio figlio, io son sempre stato piuttosto ospitale, anche perché ho una famiglia molto numerosa i cui membri passano spesso a farmi visita, quasi sempre senza avvisare. Per questo, ho sempre un paio di camere arredate e pronte. Questa è la tua”.

Scott aprì una camera che dava sulla piscina e aveva un piccolo terrazzino. Era quasi tutta in tinte verdi, che a Toro piacquero un sacco. Anche lì c’erano dei quadri alle pareti.

“Belli i dipinti” mormorò Aldebaran, non trovando altro da dire.

“Li facciamo io e mio figlio” rispose il padrone di casa.

“Complimenti…”.

“Grazie. Ora rilassati, fai una doccia e vedi se qualcuno dei vestiti nell’armadio ti va bene. Domani ti farò sapere quali saranno i tuoi compiti”.

“Grazie mille…”.

“Prego, Aldebaran, giusto? È un nome singolare, ma che ho già sentito…”.

“È la stella principale della costellazione del Toro”.

“Ah…i tuoi genitori sì che hanno avuto un’idea originale” ridacchiò Scott, prima di lasciare la stanza, chiudendo la porta, e lasciando Toro seduto sul letto, da solo.

 

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 “Venite, presto! C’è una donna qui!” gridò qualcuno.

“Poverina! È quasi del tutto congelata!” rispose qualcun altro, andando a cercare delle coperte nell’accampamento poco distante.

“Coraggio! Fatti forza! Apri gli occhi!”.

Sadalmelik si scosse, tentando di riprendere del tutto conoscenza. Persi pure lei i poteri, si sentì debole e confusa. Girò gli occhi viola in tutte le direzioni, cercando di capire dove si trovasse e cosa fosse successo.

“Si riprende!” sentì.

Non riusciva a focalizzare chi aveva davanti. Vedeva solamente una bandiera rossa, con una croce blu e bianca. Poi arrivò il freddo e lei, coperta solamente da quel che rimaneva del suo vestito, rabbrividì. Si strinse con le braccia e sentì lo zaffiro che le era spuntato sulla spalla destra.

“Cosa ci faccio qui? Dove sono?” domandò.

“Speravamo che la tua provenienza ce la sapessi dire tu” sorrise uno degli uomini presenti “Ti trovi vicino a Capo Nord, in Norvegia. Facciamo spola da qui alle isole Svalbard”.

“Come mai? Non vi piace stare fermi?”.

“No” ridacchiò lo sconosciuto “Noi siamo ricercatori e siamo qui per studiare la vita sottomarina di queste zone. Come ti chiami?”.

Acquario ci pensò qualche istante, smarrita. Non ne aveva idea! Non sapeva il suo nome, non ricordava come era giunta fino a lì, da dove venisse…niente! Solo gli istanti successivi a quando aveva ripreso conoscenza. La cosa la spaventò ed iniziò ad agitarsi.

“Sta tranquilla!” si sentì dire “Probabilmente hai avuto un incidente in mare, o in aereo. È normale, per lo shock, non ricordare. Vedrai che tutto ti verrà in mente. Ora prova ad alzarti. Vieni con noi nel nostro accampamento. Lì sarai al sicuro”.

“Al sicuro? Da cosa?” si allarmò ulteriormente Sadalmelik.

“Dalle bestie feroci e dal freddo. Vieni”.

Acquario fece fatica ad alzarsi ma ci riuscì, sostenuta dai due uomini che l’avevano trovata.

“Andrà tutto bene. Vedrai che presto ricorderai tutto o, in caso contrario, ti aiuteremo noi!” la rassicurò uno dei due, sorridendole.

Lei si fece condurre all’interno, dove stavano altre tre persone, davanti a monitor e schermi di computer. Il suo salvatore sulla destra abbassò il cappuccio, che fin ora gli aveva coperto in parte il volto, e le mostrò i capelli chiarissimi, biondi. Lei sorrise. Ora che lo guardava meglio, con quegli occhi verdi e quel viso chiaro, lo trovò molto affascinante e fu felice di essere stata salvata proprio da lui. Da loro, perché subito capì che anche l’altro uomo non era affatto male. Fu fatta sedere e, avvolta da una coperta, le diedero da bere qualcosa di caldo.

“Dirama un comunicato. Non può essere venuta dal nulla” parlò il biondo, capo della spedizione, appena Sadalmelik si fu addormentata nella sua cuccetta.

 

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Lo sciabordio incessante di un fiume fu la sua sveglia. Aprì gli occhi neri con circospezione e, davanti a sé, trovò ad osservarla un paio di occhi bianchi. Spalancò i suoi e si rizzò a sedere, cosa che fece anche la persona che aveva di fronte.

“Chi sei tu?” si domandarono, all’unisono.

“Zubeneschamali” e “Zubenelgenubi” furono le risposte.

Le due donne erano identiche, se non per i colori di occhi e capelli che erano invertiti. Zubeneschamali aveva capelli bianchi e occhi neri, Zubenelgenubi era l’opposto. Entrambe avevano, sulla spalla, il tatuaggio della Bilancia, ma le pietre incastonate, dei piccoli diamanti, erano poste in due zone diverse.

“Io sono Zubeneschamali, la stella più splendente della Bilancia, posta al centro del suo piatto settentrionale” spiegò la prima.

“Ed io sono Zubenelgenubi, colei che sta al centro, fra i due piatti”.

“Ma fai sempre parte della mia costellazione! Perché ci hanno divise?”.

“Non ne ho idea. Piuttosto…dove ci troviamo?”.

Entrambe si alzarono lentamente e si guardarono attorno. Il paesaggio non era male, c’erano erba e terreno fertile tutt’attorno, anche se nell’aria potevano percepire il caratteristico odore delle paludi. Il fiume che sentivano era vicino al mare e scorreva lento ormai, in prossimità della foce. Il sole stava tramontando e non fu difficile per loro arrivare alla medesima constatazione: dovevano trovare riparo prima della notte.

“Colorado. Qui c’è scritto che questo fiume è il fiume Colorado” disse Zubenelgenubi.

“Bene. Allora muoviamoci verso nord, abbiamo più possibilità di incontrare centri abitati”.

“Come lo sai?”.

“Chiamalo intuito. Comunque, da quel che ricordo, il Rio Colorado si trova in Argentina e la parte più abitata dell’Argentina è a nord”.

“Argentina?! E dove sarebbe?!”.

“A quanto pare…sulla Terra”.

“Ma…non c’era questa "Argentina" quando ci stavamo noi”.

“Da quel che ne so, è stata scoperta dopo. Ma non siamo qui per imparare la storia! Dobbiamo trovare un riparo, del cibo e, magari, qualche informazione sui nostri compagni”.

Insieme, si incamminarono oltre le paludi, nelle quali avanzarono con un certo disgusto, scacciando zanzare ed altri insetti molesti. Decisero di seguire la costa, una volta che l’ebbero trovata, e non passò molto tempo prima che si ritrovassero fra i turisti in costume da bagno. Continuarono ad andare avanti, desiderose di trovare un centro abitato e non solamente dei ragazzini ubriachi. Era passata l’alba quando videro dei grandi palazzi che davano sulla spiaggia. Tenendosi per mano, si addentrarono fra la folla. La temperatura era mite, quasi estiva e, nonostante il vento, il bagnasciuga era parecchio affollato. In molti le schivarono, come disgustati nel vederle, così malridotte come due poveracce.

 “Scusi…dove ci troviamo?” domandò Zubeneschamali ad un uomo, sperando di non vederlo andar via.

“A Bahia” si sentì rispondere, mentre sul volto di chi aveva di fronte si creava un’espressione decisamente interrogativa e incuriosita.

“A Bahia?!” ripeté Zubenelgenubi.

“Sì, Bahia Blanca. Vi siete perse?” continuò il turista, leccando il suo gelato.

“Sì, si può dire di sì…abbiamo bisogno di un riparo, acqua, cibo…” iniziò Zubeneschamali.

“Ma che vi è capitato?!” esclamò una donna, notando le vesti stracciate delle due, sporche del fango delle paludi e che non riuscivano a coprire i piedi scalzi, pieni di tagli per la lunga camminata.

Le cadute non sapevano cosa rispondere. Chinarono gli occhi.

“Se avete fame, io ho un panino con me. Non è molto ma…” iniziò la donna, prima di venir interrotta da un uomo piuttosto corpulento che guardò il gruppetto con rimprovero.

“È vietato chiedere l’elemosina in spiaggia!” tuonò, rivolto alle due stelle.

“Ma noi non stavamo chiedendo l’elemosina. Noi…stavamo…” balbettò Zubenelgenubi, non trovando una giustificazione o una definizione valida.

“Venite con me. Fuori da qui. Smettetela di infastidire i turisti!” continuò la guardia.

“Non ci stavano infastidendo, davvero…” parlò la donna, ma non ci fu nulla da fare.

L’agente afferrò saldamente per il braccio entrambe le cadute ed iniziò a tirarle verso l’uscita. Zubeneschamali però, un po’ per la stanchezza e un po’ per la paura, non riuscì a stare al passo con chi la stava trascinando e cadde in terra, fra l’indifferenza generale.

“Sorella!” la chiamò Zubenelgenubi.

Le due si guardarono negli occhi e poi Zubeneschamali li chiuse, svenendo.

 

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Deneb Algiedi gironzolava tranquillo per la strada battuta, come se per lui fosse la cosa più naturale del mondo. Aveva rubato uno degli abiti del luogo, imprudentemente lasciato incustodito ad asciugare, ed ora si stava dirigendo verso il grande mercato. I suoi occhi bianchi creavano qualche inquietudine nella gente che incrociava, che però preferiva non indagare ulteriormente su quello strano essere dai capelli grigi. Capricorno aveva coperto con cura il tatuaggio con la sua pietra onice, per non destare ulteriore curiosità da parte di ladri e ficcanaso. Aveva una gran fame, l’ora di pranzo era passata già da un pezzo, e non sapeva bene come procurarsi un po’ di cibo. Sperò con tutto il cuore che, da quelle parti, funzionasse ancora il caro vecchio sistema del baratto. Anche se non sapeva bene cosa barattare. La sua veste nera era praticamente da buttare, anche se la teneva stretta fra le braccia, avvolta a creare un fagotto. Il suo unico pensiero, al momento, era sopravvivere a fame e sete. Non gli importava minimamente dei suoi compagni e del resto del cielo, certo di non poterci più tornare. Era finito in India, e la cosa non gli dispiaceva. Sembrava un posto carino, anche se decisamente sovrappopolato. Camminò fra le stradine, sgomitando per passare, assordato dalle urla dei mercanti. Passandosi una mano fra i capelli, capì cosa poteva barattare: i due fermagli che creavano la sua pettinatura. Erano d’argento. A malincuore, tolse quello di destra, facendosi una coda unica con quello rimasto. Sospirò. Non voleva separarsene, ci era affezionato, ma non poteva morire di fame. E rubare, in mezzo a tutta quella gente, non gli pareva una gran bella idea. Anche se…avrebbe potuto tentare… Scacciò quel pensiero dalla testa, ricordando la legge che prevedeva il taglio della mano che vigeva dalle sue parti, ai suoi tempi. Preferiva non scoprire se anche lì ci fosse un sistema di regolazione dei conti simile. Con l’oggetto d’argento fra le mani, andò verso un banchetto che vendeva gioielli di pietre dure e piccoli monili preziosi. Si avvicinò, circospetto, mentre il mercante sfoggiava il suo migliore sorriso.

“Volete fare un bel regalo alla vostra signora?” gli domandò il venditore.

“Veramente no. Vorrei mostrarle una cosa, mi serve un parere d’esperto” rispose Deneb Algiedi.

Capricorno mostrò il fermacapelli, attento a non avvicinarlo troppo al suo interlocutore, la prudenza non era mai troppa! L’indiano fissò l’oggetto con ammirazione.

“È uno splendido gingillo. Roba di famiglia?” commentò.

“Più o meno. Quanto può valere?”.

“Volete venderlo?!”.

“Valutarlo”.

“Beh…sembra piuttosto pesante. È tutto in argento?”.

“Tutto quanto. E le pietre non sono vetri laccati ma gemme autentiche”.

“Vedo. So riconoscerli i falsi, io. In questo caso, mio caro signore, posso dirle che un affare del genere è qualcosa di più unico che raro, di valore indiscusso. Non vorrei scompormi ma…varrà milioni di Rupie!”.

“Quante, per l’esattezza?”.

“Non saprei. Non vorrei fare stime azzardate”.

“Azzarda pure! Non verrò ad ucciderti, nel caso la tua stima fosse sbagliata”.

Il mercante lo fissò con un leggero timore, non capendo esattamente se lo straniero che aveva di fronte fosse pazzo o in vena di scherzi.

“Non volendo usare termini monetari…” riprese Deneb Algiedi “…tu cosa saresti disposto a dare in cambio? Di concreto, intendo. Stoffe, cibo, bestie…quello che vuoi!”.

“Signore, io ho i miei fornitori e in genere non do cose in cambio di altre cose. Preferisco i contanti. Ma so dove può andare, specie se ciò che mi avete mostrato è rubato…”.

“Non è rubato!”.

“Che lo sia o no, lei mi sembra uno di quelli a cui non piace dare troppo nell’occhio e uno scambio con chi dico io sarà discreto, evitandole il fastidio che la plebe potrebbe arrecarvi, notando ciò che possedete”.

Capricorno attese qualche istante, prima di annuire e farsi spiegare dove poteva fare buoni affari, promettendo di dividere una parte del ricavato con il mercante informatore. Non fu facile avanzare fra la folla, specie con lo stomaco che brontolava da ore senza pietà, ma alla fine raggiunse un piccolo locale sulla sinistra, coperto da una tenda leggera e con un uomo davanti alla porta, come a far la guardia. Entrò senza farsi troppi problemi, agitando la mano per dissipare il fumo dall’odore pungente che vi era all’interno. All’inizio pensò di aver sbagliato posto, dato che quello sembrava un normalissimo negozio di tessuti e spezie. Si guardò attorno, osservando le statue di varie divinità sparse un po’ ovunque.

“Benvenuto, elegante signore” si sentì dire.

“Sono qui per concludere un affare. Ho dell’argento da scambiare”.

“Io non tratto argento” rispose, seccamente, il mercante, avvolto dai fumi dell’incenso.

Era un omino basso, tarchiato, con occhi scuri e un turbante bianco sporco a coprirgli il capo.

“Immaginavo di aver sbagliato porta…” mormorò Capricorno, chinando leggermente la testa per scusarsi.

“Però, dato che ormai siete entrato, potrei dare un’occhiata a questo argento?”.

Deneb Algiedi mostrò il fermacapelli. Il proprietario del negozio spalancò gli occhi, sorridendo, e si alzò dalla sedia di legno che aveva dietro al bancone.

“Dove lo avete trovato?” domandò.

“Da quel che ne so, è sempre stato mio…”.

“Capisco. Beh, con un gioiellino come quello, non posso mascherare il mio interesse. Mi segua sul retro”.

L’uomo a guardia della porta entrò, prendendo il posto dell’uomo con il turbante. Capricorno e mercante scesero lungo una piccola scaletta ed entrarono in un’altra stanza, buia e con un odore di muffa. All’interno c’erano altri due uomini, decisamente grossi e con l’aria minacciosa. Deneb Algiedi cominciò a pentirsi della sua idea. Strinse i pugni e decise che, dato che ormai era giunto fino a lì, doveva avere il coraggio di andare avanti. Dopotutto, la perseveranza era una delle sue doti!

“Bene. Mostratemi meglio ciò che mi avete portato” parlò il mercante, sedendosi dietro ad una cassa di legno malconcio, che scricchiolò.

Capricorno si chiese cosa contenesse, ma fu abbastanza furbo da non chiederlo. Mostrò di nuovo l’oggetto, senza però lasciarlo andare.

“Come faccio a stimarne il valore, se non posso tenerlo fra le mani?” sbottò chi aveva di fronte.

“Perdonatemi, ma dalle mie parti la prudenza non è mai troppa” rispose Deneb Algiedi, rimanendo fermo.

“Quanto vuoi, straniero?”.

“Il giusto”.

“E il giusto, secondo te, quale sarebbe?”.

“Più di quanto pensate di propormi”.

I tre indiani si fissarono, quasi ammirati da quella risposta. Il proprietario del negozio sorrise di nuovo, prima di estrarre da una sacca che aveva al fianco dei dollari.

“Forse per te, straniero, il dollaro è meglio. No?”.

“Mi è del tutto indifferente. Mi basta avere una valuta, o una merce di scambio, che mi permetta di fare a meno di rubare nei prossimi giorni”.

“Brutalmente sincero”.

“Lo sono sempre stato”.

“Con chi sei qui? Moglie, figli, fidanzata, mamma?”.

“Con nessuno. Solo con me stesso”.

“E chi sa che sei qui?”.

“Immagino solo la mia ombra”.

Dopo qualche attimo di silenzio, l’indiano porse a Capricorno una mazzetta di dollari.

“Sono quasi duemila dollari, sono stato fin troppo generoso. Con quelli sarai in grado di fare ciò che vuoi per un tempo piuttosto lungo”.

Deneb Algiedi lasciò andare il suo fermacapelli, a malincuore, ed afferrò svelto i soldi. Voleva uscire al più presto da quel posto ed andare a mangiare. Lasciò lo stanzino e rientrò nel negozio, dove ad attenderlo stava la guardia della porta. I due si fissarono, qualche istante, prima che l’indiano scattasse in avanti, tentando di aggredire Capricorno con un coltello. Deneb Algiedi, abituato all’addestramento continuo con Antares e Rukbat, si difese e riuscì a mandarlo in terra, dopo un ruzzolo sugli scalini.

“Ma che scherzo è questo?!” sbottò, quando anche i due uomini dello stanzino si scagliarono contro di lui.

Inaspettatamente per gli aggressori, lo straniero riuscì a batterli e disarmarli, dopo essere balzato sul bancone e aver ribaltato un bel po’ di roba. Si sentì afferrare per il collo. Il primo si era ripreso e, approfittando della momentanea distrazione dell’aggredito, lo aveva preso alle spalle. Deneb Algiedi si dimenò, senza respiro, e riuscì ad allentare la presa dell’altro con una poderosa testata. L’aggressore indietreggio di qualche passo e, stavolta, fu Capricorno a partire all’attacco. Lo caricò e lo sbatté contro il bancone, riempiendolo di cazzotti e ributtandolo in terra.

“Lo vuoi capire o no che devi stare giù?!” sibilò, passandosi il dorso della mano sul labbro spaccato.

Sentendo il rumore, altri sicari entrarono nel locale, ma il proprietario li fermò.

“Devo congratularmi con te, straniero. Mai nessuno era riuscito ad atterrare i miei ragazzi. Dove hai imparato a combattere?”.

“Me lo hanno insegnato degli amici” rispose Deneb Algiedi, con un velo di malinconia nello sguardo, come ormai certo che non li avrebbe più rivisti.

“Militari?”.

“No. Guerrieri”.

“E la differenza dove sta fra questi due termini?”.

“Che un guerriero combatte per se stesso”.

“Hai detto che sei qui da solo e che nessuno sa che sei qui. La tua famiglia dove l’hai lasciata?”.

“Non ho famiglia”.

“In questo caso…ti piacerebbe unirti alla nostra? Faresti qualche lavoretto per me? Ti pagherei bene…”.

“Di che lavoretti si tratta?”.

“Niente di legale, se vuoi proprio saperlo”.

“Non mi è mai fregato più di tanto se una cosa è legale oppure no”.

“Bene. In questo caso, dopo aver controllato che su di te non ci siano microfoni, ricetrasmittenti o altre scempiaggini, ti do il benvenuto nel magico mondo del contrabbando”.

“Contrabbando di cosa?”.

“Di qualsiasi cosa. Droga, armi, merce rubata, oggetti non vendibili sul mercato… Principalmente trattiamo con Americani e Cinesi. Sei dei nostri?”.

“Qual è il mio primo incarico, capo?” sorrise Capricorno.

“Ridammi i miei soldi” sogghignò il mercante, lanciandogli il fermacapelli “E datti una sistemata. Ad uno come te, ci vuole un primo incarico speciale”.

Deneb Algiedi annuì.

“E rimettimi a posto il negozio. Guarda che casino hai fatto!” concluse il capo, prima di tornare sul retro.

 

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Cominciava davvero ad odiare canguri, koala e qualsiasi altra bestiaccia australiana che incrociava. Appostato su un albero enorme d’acacia, guardava verso il basso in cerca di qualche preda. Si era costruito un rudimentale arco con delle frecce, congratulandosi con se stesso per essere ancora in grado di farlo. Sbadigliò. La giornata era soleggiata e calda. Ad un tratto, un movimento fra i cespugli lo ridestò dal torpore in cui era piombato. Vide che un grosso coniglio si stava allegramente pappando alcuni arbusti. Preparò il suo arco, sorridendo ai coloni che si erano portati dietro simili creature dalle capacità riproduttive pari a quelle dei parassiti. Si apprestò a scoccare la freccia, quando uno strano oggetto ad arco gli portò via la cena. O meglio, gli spaventò la cena perché lasciò andare la mano e la sua arma colpì quell’affare in legno.

“Dannati boomerang” ringhiò, scendendo dall’albero per andare a riprendersi la freccia.

Stranamente, nessun indigeno venne a reclamarlo. Trovò la cosa sospetta e si guardò parecchio in giro. D’un tratto una risata ed un rumore lo fece girare. Si avvicinò convinto ad un arbusto ed afferrò per il codino un ragazzino che vi si nascondeva dietro. Altri due, un bambino ed una bambina, riuscirono a sfuggirgli.

“Lasciami andare!” protestò il prigioniero.

“Dovrei mangiarti, così impari a farmi scappare gli spuntini con i tuoi giocattoli!”.

“Lascialo andare!” gridarono i due fuggitivi, iniziando a lanciare pietre e bastoni.

“Quanto siete noiosi!” sbuffò il cacciatore, lasciando andare il ragazzino.

“Io sono il figlio maggiore del capo villaggio! Ti pentirai amaramente di ciò che hai fatto!”.

“Ed io un tempo ero una costellazione. Che vuoi da me?! Credi di farmi paura?!”.

“Una costellazione? Quale costellazione?”.

“Cosa ti importa?! Dubito che tu le conosca…”.

“Mio padre ha notato la caduta delle costellazioni. Se riesci a provare che sei una di loro, forse non ti ucciderà per avermi tirato i capelli”.

Stava calando la sera, e le prime stelle già si intravedevano. Non passò molto tempo prima che un gruppo di adulti venisse a controllare dove fossero finiti i bambini. La stella caduta non fece in tempo ad andarsene. I tre piccoli, parlando velocemente, raccontarono la tirata di capelli e il fatto che lui avesse detto di essere una costellazione caduta. A quanto pare, gli adulti diedero molta più importanza al fatto che quell’individuo bianco e vestito in modo imbarazzante avesse alzato le mani su uno dei loro bambini. Puntarono le lance contro il forestiero, che alzò le mani al cielo in segno di resa, senza però lasciare andare l’arco e la freccia. Ne aveva altre con sé, dietro la schiena. Non gli furono tolte ma gli fu impedito di abbassare le braccia. Raggiunto il villaggio, notò gli sguardi stupiti dei presenti. Fu spiegata la ragione per cui era stato condotto lì e immediatamente venne legato e disarmato. Il capo villaggio non tardò molto ad arrivare. Incuteva un certo timore, con il volto dipinto e la muscolatura in evidenza.

“Senta…chiedo perdono per aver preso per i capelli il suo pupillo, ma questa pagliacciata mi sembra eccessiva per una cosa del genere!”.

“Come conosci la nostra lingua? E cosa facevi nel nostro terreno di caccia?”.

“Io conosco tutte le lingue e stavo cacciando, attività lecita in un "terreno di caccia", direi!”.

Era scesa la notte nel frattempo e tutti alzarono gli occhi al cielo.

“Le stelle non sono ancora tornate…” mormorò una donna.

“Lui ha detto di essere una costellazione!” squittì il bambino catturato.

Il capo ridacchiò e lo osservò da vicino.

“E che costellazione saresti?” domandò, senza ricevere risposta.

Con un cenno, venne avvicinata una donna, una specie di sciamana.

“Scopri se dice il vero” ordinò il capo “E tienilo d’occhio. Non mi piace per niente”.

“Neanche tu mi piaci per niente!” sibilò la stella, prima che la donna lo zittisse semplicemente sfiorandolo con una mano, grazie a chissà quale potere magico, o chimico dovuto a qualche pianta strana. Nel frattempo, il resto del villaggio iniziò a riunirsi attorno al fuoco, prendendo parte ad una strana danza.

“Tu chi sei?” domandò la sciamana, tenendo il volto della stella fra le mani.

“Io sono Rukbat” fu la risposta.

“E da dove vieni?”.

“Dal cielo” ammise Sagittario, completamente ipnotizzato o sotto l’effetto di qualche droga.

“Da dove?”.

“Dal centro del cielo”.

“Sei una costellazione?”.

“Sì. Io sono la stella Alpha del Sagittario”.

“Dimostramelo!”.

Rukbat si alzò in piedi, facendosi slegare. Ancora in trance, si avvicinò al gruppo di danzanti. Stavano eseguendo la “danza delle stelle”, un complesso sistema di passi che veniva svolto dai loro antenati per dare luce agli astri. Chiuse gli occhi, riuscendo inspiegabilmente ad eseguirne ogni passaggio, fra lo stupore generale dei nativi, che mai ad un bianco l’avevano mostrata. Probabilmente, se fosse stato cosciente, Rukbat stesso si sarebbe stupito di quelle sue mosse, essendo normalmente poco propenso a movimenti simili. Quando riaprì gli occhi, essi non erano più spenti ma argento vivo, luminosi come quando era una stella. Avvertì una grande energia dentro di sé e, per un attimo, la sua costellazione riapparve in cielo. Fu solo per qualche secondo, ma tutti i presenti lo notarono e fissarono quello straniero con aria interrogativa e stupita. Rukbat, nel frattempo, spense la luce del suo sguardo lentamente. L’energia della danza lo stava abbandonando e lui stava iniziano a riprendere il controllo. Quando i suoi occhi furono di nuovo grigi spenti, cadde in terra, in ginocchio, appoggiando le mani al terreno e guardando verso il basso. Per un istante, era stato in grado di vedere i suoi compagni, sparsi per il Mondo. Il sollievo di vederli vivi era stato subito sostituito dallo sconforto. Non era mai stato particolarmente ottimista e, al momento, non vedeva davvero come fosse possibile un loro ritorno al cielo. Sarebbe rimasto per sempre un mortale, con semplicemente quel tatuaggio con pietra granata a ricordargli che non era sempre stato così.

“Se sei una costellazione, allora devi tornare in cielo” affermò un bambino.

“E come, piccolo genio?” sbottò, sarcastico, Rukbat.

“Sei nato come stella?” domandò una bambina.

“No. Sono divenuto una costellazione dopo aver vendicato Orione e ucciso quel deficiente di Scorpione Antares. Ero in Grecia…”.

“Credo allora che, per tornare lassù, tu debba tornare nel luogo d’origine” suggerì la sciamana.

“E uccidere un’altra volta Antares? Divertente…” sghignazzò Sagittario.

“Non intendevo questo…”.

“L’avevo capito. Ad ogni modo, non ho niente da perdere. Devo ricongiungermi ai miei compagni e, forse, proprio in Grecia scoprirò come tornare a casa”.

“O, forse, dato che sei nato là, scoprirai che è quella la tua casa…” aggiunse il capo.

“Ne dubito. Non credo proprio che la Grecia sia rimasta bella come la ricordavo. Ad ogni modo…come la raggiungo? Qualche idea?”.

“Da qui all’Europa, l’unico mezzo è l’aereo. Che costa parecchio. Noi non abbiamo denaro, viviamo di caccia, pesca e raccolto. Non saprei come aiutarti” ammise il capo.

“Ho capito. Dovrò usare i miei metodi…potrei riavere il mio arco? Credo di aver avuto un’idea…” ghignò Rukbat, incrociando le braccia ed alzando la testa verso il cielo.

 

 

₪₪₪

 

“Ok…va tutto bene…nessuno vuole farti del male, piccolina. Io meno che mai. Stai tranquilla…” mormorava Acubens, immobile, svegliata faccia a faccia con una leonessa.

Terrorizzata, la rappresentante del Cancro indietreggiò lentamente, rimanendo stesa sulla schiena ed aiutandosi con i gomiti. La bestia si limitava ad annusarla, incuriosita, senza alcun segno di aggressività. Forse era pasciuta. Acubens lo sperava, con tutto il cuore. Senza fare movimenti bruschi, riuscì a mettersi seduta. Si guardò attorno e notò subito di essere circondata. Almeno cinque leonesse la stavano osservando e, in lontananza, un grosso leone controllava la sua famiglia. Evidentemente, Cancro era caduta proprio in mezzo a dove si riuniva il branco. Vari leoncini giocavano fra l’erba secca. Acubens sospirò. Cosa poteva fare? Arrampicarsi era fuori discussione e sarebbe stato inutile, scappare era lo stesso. Forse poteva tentare di spaventarli…ma erano decisamente troppi! Sorrise, presa da un attimo di pura follia. Trovava quelle creature molto carine e non ne aveva paura, ora che aveva notato che nessuna di loro era aggressiva nei suoi confronti. Restando calma, si alzò in piedi. Questo allarmò le bestie, che iniziarono ad agitare le code e ringhiare. Subito Acubens tornò ad accucciarsi, chinando il capo come a voler mostrare che si sottometteva. Un paio di leonesse si avvicinarono, annusandone la veste bianca. Fortunatamente non aveva ferite aperte, solo qualche botta, e lo smeraldo che portava sulla spalla non le aveva provocato sanguinamento.

“Non potete essere più terribili di Adhafera” mormorò Cancro, respirando lentamente.

Iniziava a sentire un forte caldo. Sentiva i nasi umidi di quegli animali sulla pelle e ridacchiò, per il solletico. Mai si sarebbe immaginata di vivere una situazione del genere! Dolcemente, girò il capo verso una delle leonesse e provò a sfiorarla con la mano. Questa si ritrasse subito, ma non si allontanò molto.

“Come ti chiami? Io sono Acubens, e sono qui tutta sola, senza più le mie amiche vicino” parlò Cancro, non aspettandosi una risposta ma avendo desiderio di liberare se stessa dalla brutta sensazione che la opprimeva.

“Sei una leonessa bellissima…” riprese “…e anche tu lo sei!” rivolta ad un’altra di quelle creature “Siete tutte bellissime, come bellissimi sono i vostri cuccioli e stupendo è il vostro compagno, il fiero e un po’ snob leone che si limita a fissarmi da lontano. Non ho cattive intenzioni, non voglio farvi alcun male”.

Sorrise, mentre osservava due piccoli intenti a giocare.

“Chissà dove sono gli altri come me…” disse, rimanendo poi in silenzio.

Uno sparo ruppe quel silenzio e le leonesse subito si mossero per difendere i loro piccoli, ignorando Acubens. Cancro si alzò. Degli uomini con un grosso fucile avevano appena tentato d’abbattere il leone. Lei non sapeva che suono fosse ma, dall’allarme che vide sui musi degli animali, intuì che non fosse nulla di positivo. Erano in pericolo.

“Che state facendo?!” gridò la stella caduta, nella sua lingua, a chi aveva sparato.

“E quella chi è?!” riuscì a sentire, di rimando, e capì in che idioma esprimersi.

“Andatevene! Non fate dal male a queste meravigliose bestie!”.

“Io non so chi tu sia, ragazzina…” le rispose uno degli uomini “…ma, se non vuoi finire pure tu venduta al mercato nero, ti conviene farti gli affari tuoi”.

“Andate via! Li spaventate!”.

“Ma chi sei?! Una di quei cretini di Greenpeace che si fan ammazzare per salvare le balene?!”.

“Non so chi siano quelli di Greenpeace ma, se ne avessi l’occasione, credo che anch’io arriverei a gesti estremi per salvare chi è innocente da esseri immondi come voi”.

Di certo ai bracconieri non piacque per niente sentirsi definire “esseri immondi” e non nascosero il loro disappunto, caricando i fucili. Erano in mezzo al nulla e, anche se avessero sparato a quella ragazzina, non ci sarebbero stati testimoni, se non un branco di gatti giganti. Acubens, non sapendo cosa fosse quel fucile che le stavano puntando contro, non reagì nel modo appropriato. Spalancò le braccia, come a coprire tutti gli animali che le stavano alle spalle.

“Sei impazzito?! Non vorrai mica spararle?!” parlò uno degli uomini, forse l’unico vagamente sano di mente.

“Perché no?! Hai forse un’idea migliore per levarcela dai piedi?!”.

“Non mi sembra molto forte…”

“Dici che sia meglio riempirla di botte?”.

Ancora confabulavano sul da farsi quando un ruggito li interruppe. Un giovane leone, non appartenente a quel branco, infastidito dal rumore, aveva aggredito uno dei bracconieri, il più stupido perché rimasto isolato in mezzo ad una situazione del genere. Gli altri tre si girarono ma non fecero in tempo ad imbracciare il fucile. Il giovane maschio, con ancora la criniera piuttosto spelacchiata, corse verso di loro e ne aggredì un altro. Contemporaneamente, Acubens aveva impugnato un grosso bastone e, con tutta la forza che aveva, era riuscita a tramortire i due rimasti. Soddisfatta, gettò immediatamente l’arma a terra, quando vide che il leone la fissava, con aria piuttosto minacciosa. Cancro indietreggiò di qualche passo.

“Io non sono una di loro! Io non voglio farvi del male!” si affrettò a dire, sperando di farsi comprendere.

Fu il capobranco a salvarla, non che, ovviamente, fosse quella la sua intenzione. Il leone più anziano preferì mettere le cose subito in chiaro con quel giovanotto impudente e lo allontanò dalle sue femmine con un potente ruggito. L’aggressore di cacciatori se ne andò. Il maschio alfa gli concesse di pasteggiare con il bracconiere caduto in terra per primo, l’idiota. Gli altri tre se li divisero fra loro, membri del branco, sotto lo sguardo piuttosto schifato di Cancro.

 

₪₪₪

 

“Si sta riprendendo!”.

“Meno male! Sarà stato il caldo…”.

Astrea aprì gli occhi, una volta dorati ora marroni, e si scosse. Guardò chi tentava di farla rinvenire. Era una donna, che indossava una lunga veste candida.

“Sei una vestale?” domandò Vergine, ancora piuttosto confusa.

“Anche tu sei una di noi? Non ti ho mai visto prima. Sei una figurante nuova?”.

“Figurante?” borbottò Astrea, mettendosi seduta e reggendosi la testa.

Era caduta sulla pietra, e la cosa non le aveva fatto un granché bene. Guardò in alto. Quello in cui stava aveva tutta l’aria di essere un tempio greco. Ma dove erano i colori, le statue, i decori, i fuochi, i fedeli…?

“Dove mi trovo?” mormorò, senza capire.

“Nell’antico tempio di Vesta. Il caldo deve averti fatto proprio male. Siediti un attimo, bevi un po’ d’acqua e vedrai che tutto ti sarà più chiaro. Cosa ti è capitato? Il tuo vestito è a brandelli!”.

Astrea seguì il consiglio. Era circondata da ragazze vestite in modo molto simile a lei, non fosse che il suo abito era piuttosto rovinato. Fece una smorfia, sfiorando la pietra di diaspro che le accentuava la costellazione sulla spalla. Iniziò a ricordare e chinò la testa. Era mortale ora. Ma, forse, era finita in un luogo familiare. Tornò a guardare in alto. Decisamente quello era uno di quei templi che ben conosceva fin da bambina, anche se era piuttosto differente da ciò che ricordava.

“Meglio adesso?” le domandò una delle soccorritrici “Ti hanno aggredita?”.

“No” si affrettò a dire Vergine “Ma ne ho passate decisamente troppe”.

“Sei una delle nuove figuranti al tempio?”.

“No, non proprio. Diciamo, però, che lo conosco piuttosto bene…”.

Si alzò in piedi. Camminò con sicurezza, muovendosi come era abituata a fare in un luogo che ancora considerava sacro. Le sue salvatrici la fissavano con curiosità, specie quando fu giunta all’esterno e spiegò loro com’era la configurazione della città più di duemila anni prima.

“Sei una studiosa di storia?” le domandò una delle figuranti.

“Si può dire di sì…”.

“E conosci il greco antico?”.

“Certo”.

“Ti piacerebbe fare la figurante come noi? Una in più non fa mai male e un paio di noi fra poco devono tornare all’università a tempo pieno”.

“Che dovrei fare?”.

“Niente di diverso da ciò che hai fatto fin ora. Passeggiare su e giù, rispondere alle domande dei turisti, fingere di essere una vera vestale… Non pagano moltissimo, ma è pur sempre un lavoro”.

Astrea fece un paio di conti. Ora era mortale e doveva sopravvivere in qualche modo. Di certo un lavoro era un buon punto di partenza.

“Va bene. Quando inizio?” rispose.

“Anche subito. Prima, però, devo darti una veste nuova. Ma davvero non sei una figurante? Allora come mai porti quello strano vestito?”.

Vergine non sapeva cosa rispondere. Per lei quel vestito non era affatto strano. Le false vestali sorrisero, capendo che era meglio non parlarne.

“Dove abiti? Sei di Atene?” domandarono, dopo che Astrea si fu cambiata.

“Sono appena arrivata qui. Al momento non abito da nessuna parte” rispose lei, sistemando l’abito senza bisogno di aiuto.

“Ti sta benissimo. Sembra fatto appositamente per te. Per quanto riguarda l’alloggio…perfetto! Io ho bisogno di un piccolo aiuto con il greco antico ed il latino. Se mi aiuti, puoi stare in stanza con me. Sono in una residenza per studenti assieme ad un’altra figurante, Maia, che oggi ha turno di riposo. C’è un letto libero. Ti sta bene? L’affitto e tutto il resto ce lo dividiamo in parti uguali”.

“Benissimo”.

“Non ti ho ancora chiesto come ti chiami…”.

“Astrea”.

“L’antica Dea della Giustizia? Carino come nome… Io sono Alìs, piacere. Alla fine del turno, verso le sei di stasera, andiamo a casa assieme. La mia macchina è piuttosto scassata, chiedo scusa, ma non ho di meglio con l’università che mi risucchia ogni spicciolo che riesco a mettere da parte!”.

Astrea sorrise. Non aveva idea di cosa fosse una macchina. Guardò Atene in lontananza. Era decisamente cambiata parecchio e anche i greci non erano da meno. Del resto, doveva aspettarselo. In più di due millenni, ne passano parecchi di mortali!

 

₪₪₪

 

Che strana sensazione provò, quando si ritrovò immerso nell’oceano. La massa d’acqua lo avvolse, impedendogli di perdere i sensi. Gli parve, per qualche istante, di essere di nuovo in cielo, sospeso e galleggiante com’era quando non voleva fare la fatica di controllare la gravità nei paraggi. Capì subito che non era la stessa cosa. E se ne rese conto non appena tentò di respirare in quello strano liquido e a muoversi. Era tutto molto più faticoso. Non era mai vissuto in un pianeta dove c’era una gravità fissa, non aveva mai nuotato prima, non aveva mai provato il desiderio bruciante di dover respirare. Riuscì a raggiungere la superficie con estrema difficoltà. Alte onde non facevano che tornare ad immergerlo. Sputacchiò, scalciando alla bene e meglio, nel tentativo di riuscire almeno a respirare, ogni tanto. Dov’era finito? Cos’era tutta quell’acqua? Strizzò gli occhi. Il sole era alto nel cielo e lui, ad una luce del genere, non era abituato. Capì subito che, se non avesse trovato una soluzione, non si sarebbe salvato. Ma che soluzione trovare? Stava affogando! Combatté contro le onde ancora per un po’, tentando in ogni modo di non farsi ricacciare nelle profondità da cui era riuscito a riemergere. Sospirò. La sua era una battaglia persa in partenza. Tentò di mettersi a pancia all’aria. Magari, galleggiando, sarebbe arrivato più lontano, ma le onde gli impedivano di rimanere in quella posizione per più di qualche minuto.

“Ragazzi!” chiamò “Ragazzi, dove siete? Hamal, Antares, Rukbat, Adhafera, e tutti gli altri con i vostri nomi assurdi e complicati! Qualcuno può sentirmi?”.

Era da solo. Sperò di esserlo sempre stato e che non fossero già annegati da tempo, come avrebbe fatto presto lui. Che ironia…il signore a capo del cielo che muore in mezzo all’acqua. Era quasi buffo. Guardò in alto, chiedendosi dove si trovasse esattamente casa sua. Si risvegliò dal suo sognare ad occhi aperti quando qualcosa gli afferrò la gamba. Pensò subito a qualche bestia feroce ma, notando con sollievo che il suo arto veniva solo trattenuto e non tranciato, intuì che, forse, era qualcos’altro. Tornò a preoccuparsi quando si sentì trascinare verso il basso. Ritrovandosi immerso di nuovo completamente, iniziò a dimenarsi a caso, sempre più circondato da pesci di vario tipo. Tentò invano di ritrovare l’aria ma non ci riuscì. Solo l’acqua del mare riempì i suoi polmoni, facendogli perdere i sensi.

“Sei il pesce più strano che io abbia mai pescato” fu la prima cosa che sentì, quando si riprese.

“Che?!” riuscì a biascicare, tossendo per liberarsi da mezzo oceano.

Era fradicio, stanco, circondato da pesci e decisamente confuso. La forza di gravità gli provocava un gran mal di testa e la mancanza d’ossigeno precedente gli aveva appannato la mente.

“Come ti chiami, sirenetto, e cosa ci facevi in mezzo all’oceano?” si sentì domandare.

Troppe domande in una volta, si disse il naufrago, scuotendo il capo per riprendersi.

“Kosmos” rispose, dopo attimi di silenzio.

“Come?”.

“Io mi chiamo Kosmos”.

“Che nome originale. I tuoi genitori devono essere parecchio strani…”.

“Genitori?!” sussurrò Kosmos, senza farsi sentire.

“Io sono Hanne e questo è il mio peschereccio sull’Atlantico. Se ci riesci, togliti da lì che dobbiamo pulire il pesce”.

Kosmos si alzò immediatamente, schifato dal viscidume che sentì sotto le mani. Ancora confuso e debole, barcollò e la donna a capo dell’enorme barca lo sorresse. Era piuttosto grossa di corporatura e muscolosa, non ebbe difficoltà a tenere in piedi il naufrago.

“Ti accompagno alla tua cabina, strana creatura piovuta dal cielo! Questa imbarcazione starà per mare ancora qualche giorno. Nel frattempo, stattene buono e non darmi problemi, ok? Alzi, quando ti sentirai meglio, potresti darci una mano”.

Kosmos annuì, sedendosi lentamente sul letto e pensando dentro di sé che non si sarebbe mai abbassato a svolgere lavori manuali, specie con il puzzolente e umidiccio pesce!

Vide che c’erano altre due brande, altri pescatori che in quel momento erano alle prese con il pescato. Lo stavano pulendo ed imballando nel ghiaccio. Hanne lasciò il naufrago da solo. Il caduto signore delle costellazioni si fissò allo specchio, che era piuttosto sporco ed incrinato. Trasalì, vedendo come si era trasformato. I capelli erano diventati bianchi, gli occhi avevano perso la loro luce e il disegno rosso che avevano attorno. Senza armatura, si sentiva quasi nudo. Gli erano rimaste solo le palline metalliche sul viso pallido e sul busto. Era privo di ogni cosa. Niente più disco movente con i segni zodiacali, niente più imbracature per la magia e senza corona. Ora era un semplice umano mortale, con qualche piercing e un tatuaggio sulla schiena. Lo notò dopo qualche ora, quando iniziò a pizzicare. Era uguale, nei simboli, al disco che, una volta, aveva attorno alla testa. Era in rilievo e con le stelle colorate. Il mal di testa non lo abbandonava. Essere mortale faceva davvero schifo. Ma, dopotutto, non poteva rimanere a lungo lì! Quella fallita di Kuruma doveva per forza richiamarlo in cielo! Non era di certo in grado di governare l’Universo da sola! Si distese sul letto, tentando di rilassarsi. Era sicuro che quella femmina pazza lo avrebbe riportato a casa, perciò era inutile stare a preoccuparsi troppo.

 

₪₪₪

 

“Un brindisi! A Kosmos e la sua stupidità!” propose Hòu, Scimmia.

Gli altri undici occupanti del lato orientale sorrisero a quel suggerimento e, ognuno a modo suo, si concesse qualche sorso in onore del caduto Signore Occidentale. L’intruglio che bevvero divenne subito magia, ristorandoli dalla fatica della battaglia e rendendoli un po’ brilli.

Kuruma rimase in silenzio, ancora incredula e piuttosto confusa. Stringeva lo Scettro delle Ere fra le mani e la Chiave del Cielo accanto a sé, appoggiata al tavolo. Poteva essere vero? Poteva aver cacciato la sua controparte, e tutti i dodici segni d’ovest, così facilmente? E ora dove erano finiti? Li aveva uccisi?

“Qualcosa non va, Signora?” le domandò Yang, Capra.

“Tutto bene. Continuate pure…” rispose la Signora Orientale.

Long, Drago, era quello più scatenato nei festeggiamenti. I suoi occhi rossi brillavano e le scaglie di cui era ricoperto, principalmente di colore blu e verde, riflettevano le fiamme delle lanterne appese alla parete del salone principale. Anche Shu, Maiale, era pieno d’entusiasmo e lo stava dimostrando ingozzandosi e ridendo. Hu, Tigre, era orgoglioso di come la sua padrona era stata in grado di usare le proprie capacità per cacciare quel pallone gonfiato e la sua allegra ciurmaglia. Hu era uno splendido esemplare, con occhi verdi lucentissimi ed il pelo a strisce ben curato. Assieme a Long, Shè e Ma, era il guerriero del lato est. Ovviamente ci teneva moltissimo a far sì che tutti i suoi colleghi lo ricordassero bene, mostrandosi sempre piuttosto aggressivo. Shè, Serpente, era rapida, astuta ed agile. Il suo veleno era qualcosa di temuto perfino dalle immortali stelle, perché paralizzava. Sensuale e sfuggente, guardava i festeggiamenti con minacciosi occhi gialli. La sua pelle verde scuro non si notava molto, messa accanto a quella di Long. Ma, Cavallo, faceva parte del gruppo dei combattenti ma non era perennemente incazzato come Tigre o subdolo come Serpente. Era irrequieto, come Hòu  o Ji. Non stava mai fermo, non ne era capace. Era Sauro, la sua criniera era a sfumature che andavano dal nocciola al marrone scuro, così come la sua lunga coda, e il manto anch’esso marrone, lucido. Ji, Gallo, era l’artista ed il più vanitoso della compagnia. Con tutto l’insieme di colori sgargianti che aveva fra le penne, non perdeva mai l’occasione di mettersi in mostra. Gou, Cane, non capiva quel suo comportamento. Cane era un esemplare femmina, di taglia media, color crema. Obbediva a ciò che Kuruma le ordinava, senza contraddirla mai, anche se spesso non ne capiva i ragionamenti. Questo perché, spesso, nemmeno Kuruma capiva i suoi stessi ragionamenti! Anche Niu, Bue, e Tù, Lepre, erano piuttosto tranquilli. Niu era un instancabile lavoratore. Riordinava, puliva, organizzava le giornate e amava tentare di avere un qualche tipo di controllo sui passatempi degli altri. Questo lo rendeva particolarmente irritante, a volte. Aveva il pelo bianco ed era enorme, massiccio, con profondi occhi scuri. Tù, Lepre, era completamente nera, con chiarissimi occhi grigi, quasi bianchi. Era una creatura molto strana, solitaria e misteriosa. Stava quasi sempre per conto suo e, in quel momento, stava mostrando il suo totale disinteresse alla caduta del Signore Occidentale ed i suoi amichetti. Yang, Capra, al contrario, mostrava tutta la sua contentezza sbattendo le corna a cavatappi contro il muro. Era di color grigio scuro ed era piuttosto timida. Collezionava ogni cosa, che la sua padrona le permetteva di farsi portare dal suo procacciatore. La stanza di Yang era un ammasso informe di roba varia, di cui solo lei capiva la logica, o forse neppure lei.

Kuruma si allontanò dal salone principale. Solamente Shu, la topolina, lo notò e decise di seguirla. La sua signora non la rimproverò ed insieme risalirono lungo la torre orientale, portando appresso gli oggetti appartenuti a Kosmos.

“Cosa vi preoccupa?” domandò Shu.

“Niente. È solo che…non mi aspettavo che quello stupido si comportasse così! E non pensavo di riuscire ad avere sufficiente energia da cacciarli via tutti, non so dove…”.

“Ma perché non provate a cercarli? Intendo dire, con i poteri di Scettro e Chiave, sommati agli oggetti in suo possesso, immagino che potreste facilmente scoprire dove sono caduti tutti quanti”.

“E se sono ancora vivi…”.

“Dite che potrebbero non essere sopravvissuti alla caduta?”.

Kuruma non rispose. Guardò il cielo dalla finestra, sospirando per le luci mancanti. Afferrò lo Scettro fra le mani, fissandone il grosso globo che vi stava in cima.

“Mostrami dove sta il tuo padrone!” ordinò la Signora Orientale.

L’oggetto si illuminò e la sfera iniziò a mostrare delle immagini. Kuruma vide Kosmos in procinto di annegare, una volta divenuto mortale, e i vari posti in cui erano precipitati i dodici segni.

“Sono ancora in vita, ma sono mortali. Cosa pensate di fare?” volle sapere Shu.

“Sono mortali, è vero, ma posso farli tornare in cielo. Sempre e solo ad una condizione, però. Staremo a vedere. Per ora, lascia che quel mammalucco di Kosmos si sporchi un po’ le mani e si renda conto di che significa mangiare la polvere!”.

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Capitolo 4
*** 3 ***


IV

 

 

In groppa ad un maestoso cavallo bianco, forse un pochino troppo vistoso, Rukbat percorreva le vie di Sidney. Abituato all’ambiente precristiano, credeva che un mezzo di trasporto del genere non avrebbe dato troppo nell’occhio. Si accorse di sbagliare ma, del resto, non poteva certo muoversi a piedi! Aveva capito al volo che in quel mondo moderno senza soldi non si sarebbe potuto permettere niente. Quell’animale l’aveva “gentilmente preso in prestito” da un allevamento non molto distante da dove aveva assistito alla danza delle stelle. Fortunatamente una parte di sangue da centauro era rimasto in lui e, nonostante i millenni trascorsi, era riuscito a farsi obbedire facilmente dalla bestia. Si era fatto spiegare con esattezza dove si trovasse l’aeroporto ma non era il suo obbiettivo primario. Pur non essendo mai salito su un aereo, e non sapendo nemmeno bene come fosse fatto, era a conoscenza di due metodi per salirvi e raggiungere la meta prefissata: pagare una cospicua somma di denaro per acquistare un biglietto, oppure dirottarlo. Probabilmente c’erano anche altri possibili rimedi, ma al momento non gli venivano in mente. Rimase sconcertato quando capì che la legge del più forte vigeva ancora, perfino in quella società che si considerava tanto evoluta. Meglio così! Gli bastavano un po’ di armi e avrebbe ottenuto qualsiasi cosa. Sorrise, imboccando un vicolo senza uscita, dove lasciò il cavallo. Aveva vagamente intuito che, forse, dava troppo nell’occhio e poi aveva individuato ciò di cui aveva bisogno. In un piccolo locale, nascosto in parte dietro al giornale, c’era un agente della polizia Australiana. Nonostante la temperatura gradevole, portava un lungo cappotto nero sopra la divisa d’ordinanza, di colore scuro coordinata con un paio di stivali ed i pantaloni infilati all’interno. Il suo sguardo era celato da un paio di occhiali a specchio. Sorseggiava, distrattamente, un caffè in tazza grande. Rukbat, sempre con l’arco appresso, ghignò e fermò un ragazzino in bicicletta.

“Te lo regalo” gli disse, indicando proprio l’arco “Se fai una piccola cosa per me”.

“Con le frecce?” si informò il ragazzetto, circospetto.

“Quasi tutte…”.

“Affare fatto”.

Sagittario lo vide attraversare la strada, avvicinarsi al tavolino dove stava seduto l’agente e “inavvertitamente” far sì che parte del caffè che questi stava bevendo gli si ribaltasse sulla camicia d’ordinanza. Si sentì una potente imprecazione ed un tentativo vano d’afferrare il ragazzino, che scappò di corsa, sparendo nel vicolo in cui lo attendeva Rukbat.

“Ottimo lavoro, piccolo” si complimentò Sagittario, mantenendo il patto e donandogli l’arco, assieme a quasi tutte le frecce.

“È stato un vero piacere” ridacchiò il bambino, allontanandosi.

“Un’ultima cosa, ragazzino!” lo fermò Rukbat, prima di vederlo sparire fra la folla “Non dare confidenza agli sconosciuti. Specie se gli sconosciuti sono gente strana come me”.

Il bambino alzò le spalle e corse via, lungo il marciapiede. Sagittario attraversò la strada, trovando allucinanti i mezzi di trasporto moderni che sfrecciavano in entrambe le direzioni, e cercò la finestra del bagno del locale. Vi si affacciò, con una certa difficoltà, e vide l’agente accanto al lavandino, che tentava invano di pulire quella macchia marrone. Rukbat frugò nella piccola borsa che i suoi nuovi amici australiani gli avevano donato e ne estrasse una rudimentale cerbottana. Grazie alla sua mira, riuscì con estrema facilità a colpire il bersaglio con un dardo soporifero. In pochi secondi l’uomo cadde in terra. Sagittario entrò dalla finestra e lo raggiunse, chiudendo a chiave la porta dei bagni perché non vi entrasse nessuno.

Una volta scambiati i propri abiti con quelli dell’agente, ed essersi osservato per bene allo specchio trovandosi decisamente uno schianto, uscì lasciando l’addormentato seduto dentro ad uno dei bagni. Ci avrebbe messo un po’ a svegliarsi.

“Scusi…” lo fermò la banconiera, e Rukbat pensò al peggio.

“Sì?” mormorò, senza girarsi.

“Se se ne va, mi deve pagare il caffè!”.

“Ah, sì, giusto. Che sbadato, mi scusi!”.

Iniziò a cercare nelle varie tasche. Trovò delle chiavi, una pistola, due cellulari, il tesserino, un’altra pistola, la custodia degli occhiali da sole, un lettore mp3, fogli vari…

“Tenga il resto” mormorò un uomo, sorridendo alla donna che lo salutò cordialmente e lo lasciò uscire dal bar.

Finalmente il portafoglio! Lo aprì, non avendo la ben che minima idea di quanto valessero le carte che conteneva. Ne allungò una alla cassiera, una a caso, di valore decisamente eccessivo per una colazione, tentando di abbozzare un sorriso che non assomigliasse ad un ghigno malefico.

“Tenga il resto” disse, credendo che fosse la prassi normale.

“Grazie…” balbettò, incredula, la banconiera, mentre Rukbat si allontanava in fretta.

Nelle tasche dell’agente aveva trovato un foglietto con l’indirizzo della centrale di polizia di Sidney. Sul distintivo era riportata un’altra città: Canberra.

“Perfetto. Quel fesso non è di queste parti” ridacchiò Sagittario, insoddisfatto di avere con sé solamente due pistole, senza proiettili di ricambio, fra l’altro!

Domandò dove fosse il posto indicato sul foglietto e come arrivarci. La strada era lunga. A piedi rischiava di perdere un’intera giornata. Fischiettando, risalì in groppa al cavallo e si allontanò. Dopotutto ora era un poliziotto…chi poteva fermarlo? Trovò la centrale e vi entrò, legando il suo destriero ad un lampione davanti alla porta. Mostrò il tesserino, con una foto che non gli assomigliava particolarmente.

“Benvenuto” lo salutò il collega all’ingresso “Siete pronto per la missione?”.

“Certo” mentì Rukbat “E, a proposito della missione, credo che avrò bisogno di altre armi”.

“Quelle che avete richiesto sono già pronte nelle valigette, come specificato”.

“Posso vederle?”.

“Certamente”.

Sagittario sogghignò. Aveva a disposizione due valigette strapiene di armamenti vari.

“Perfetto…” mormorò.

“La partenza è fissata per questa sera, agente Carlyle” parlò quello che aveva tutta l’aria di essere il capo lì dentro.

“Voi siete l’agente Carlyle?!” si stupì uno dei giovani poliziotti all’interno.

“A quanto pare…” biascicò Rukbat, ricordando vagamente il nome riportato sul tesserino.

“Quel Carlyle?! Il migliore in tutta l’Australia nelle missioni di spionaggio da infiltrato?! Siete un mito per me! Sappiate che è un onore conoscerla!”.

Sagittario si fece stringere la mano, chiedendosi fra sé che, se quello che aveva addormentato era il migliore, cosa fossero in grado di fare gli altri.

“La squadra che vi è stata assegnata è pronta ad eseguire i suoi ordini. È nella stanza qui a fianco, se volete scambiarci quattro parole. Fra un’ora vi sarà il trasferimento in aeroporto” disse il capo.

“Bene” borbottò Rukbat, non sapendo che altro dire.

La sua idea era arrivare proprio in aeroporto, ma non con una squadra al seguito! Una mossa sbagliata e lo avrebbero scoperto… Sospirò. Avrebbe avuto un’idea strada facendo. Si fece condurre nella stanza, dove stavano i suoi nuovi colleghi. Erano una decina, che si alzarono in piedi quando lo videro entrare. Tutti rimasero in silenzio, osservandosi. Erano quasi tutti armati, con il giubbotto antiproiettile che stavano coprendo sotto la camicia.

“Sono gli uomini migliori, come richiesto dalle forze speciali internazionali” spiegò il capo “I migliori cecchini, i migliori disinnescatori, i migliori combattenti. Credo che non avrà alcun problema con la missione, grazie a ragazzi del loro calibro. Lui è Harrison, il suo equivalente di Sidney, agente Carlyle. Sarete partner, come stabilito. Cercate di non fare le prime donne e buona fortuna. Attendo un rapporto giornaliero, ricordatevelo”.

“Sì, capo” rispose Harrison.

Tornò il silenzio, dopo che la porta della stanza fu chiusa e il capo uscito. Rukbat si morse il labbro. Si era cacciato in un bel guaio. Come svignarsela?

“Problemi, agente Carlyle?” si sentì dire.

Era decisamente nei casini, e con un nome orrendo! Quale genitore insano chiama il proprio figlio Roland Carlyle?!

“Tutto bene, agente Harrison” mentì.

Attese qualche minuto, prima di riprendere a parlare “A quanto pare, sarò il vostro capo per un po’. Vi avviso subito che, a volte, i miei metodi non saranno proprio da manuale ma dovrete fidarvi di me ed eseguire gli ordini che vi darò. Non siamo qui per giocare…”

“In territorio di guerra no di certo…” lo interruppe Harrison “Del resto, la nostra missione è fermare un traffico d’armi internazionale. Saremo fra fuoco incrociato, una volta lasciato l’est della Turchia. Il minimo errore significherà far fallire la missione e, probabilmente, morire”.

“Quanto parli, Harrison” sbottò Rukbat, pensando a dove si trovasse la Turchia.

Quando finalmente riuscì a visualizzarlo, sorrise. Era sufficientemente vicina alla sua meta. Poteva farsi portare fino a lì e poi trovare il modo di svignarsela. Perfetto. Più o meno…

“Siete pronti? Si parte per l’aeroporto” parlò un collega dall’esterno della stanza.

“Buona fortuna, ragazzi” ripeté il capo, mentre il gruppo entrava in un camioncino scuro.

“Date da mangiare al mio cavallo” rispose Rukbat, chiudendo lo sportello.

 

₪₪₪

 

Stava bestemmiando a gran voce quando una violenta esplosione fece saltare la parete contro cui era appoggiato. Finì con la schiena a terra, mani legate e occhi al cielo sereno. Tossendo, per i detriti sollevati, Antares riuscì a mettersi seduto. Senza pensarsi, si alzò in piedi e si mise a correre verso una meta imprecisata, sempre con i polsi bloccati dietro la schiena. Pensò a quanto fosse ridicola come scena ma poi si disse che era meglio salvarsi la pelle piuttosto che farsi problemi del genere. Corse per un lungo tratto, schivando per pura fortuna i colpi di arma da fuoco che sfrecciarono a pochi centimetri da lui. Si gettò in terra, riparandosi dietro una parete. Sobbalzò quando si accorse di avere a fianco una donna con il proprio figlio in braccio. Si fissarono, spaventati all’idea che l’altro potesse essere armato e pericoloso.

“Sono disarmato. Sto solo tentando di aver salva la vita” disse, tentando di mostrarle le mani legate.

Lei annuì. Non si riusciva a capire la sua espressione, coperta com’era da quella pesante veste scura che ne lasciava scoperti solo gli occhi, che però non volevano incrociare quelli dello straniero. Il bambino piangeva.

“Puoi slegarmi?” domandò Scorpione.

“Chi ti ha legato?”.

“Un gruppetto di tizi. Per favore…”.

“Io non voglio problemi”.

“Ok. Allora…da che parte devo andare per uscire dalla zona di guerra?”.

La donna non seppe cosa rispondere. Rifletté qualche istante, poi rispose: “Da nessuna parte. Qui tutto è guerra, tutto il mondo è in guerra”.

Antares, spiazzato da quelle frasi, cominciò a pensare che quel pianeta non meritasse altro che la morte, lenta e dolorosa. Poi incrociò lo sguardo del bambino, che non smetteva di piangere, e sospirò. Non aveva mai amato particolarmente gli umani ma ora, volente o nolente, era uno di loro e, se non avesse trovato una soluzione, lo sarebbe rimasto per sempre.

“Slegatemi. Io vi posso aiutare! Sono un guerriero, posso portarvi via dalla zona degli spari!”.

“Anche se ci porti via da questa zona, ce ne sarà un’altra poco distante!”.

“Lei sprizza ottimismo da tutte le parti! Mi liberi, per favore!”.

La donna non si mosse. Antares sbuffò. I colpi si facevano sempre più vicini e presto il gruppo armato li avrebbe trovati. Si girò un’ultima volta verso madre e figlio, si alzò e, gridando, si rimise a correre. “Perché lo sto facendo?” si chiese “Perché tento di allontanare il pericolo da due sconosciuti, che nemmeno han tentato d’aiutarmi, mettendo a rischio la mia sacra incolumità?” Non trovò risposte ma nessuno badò alla donna con il suo bambino, una volta che videro lui e la sua stravagante fuga. Percorse sufficiente strada da giungere quasi alla fine di quel piccolo villaggio. Già sorrideva, convinto forse che il confine del paese segnasse la fine del gioco, quando fu colpito violentemente alla testa dal calcio di un fucile e cadde in terra.

 

“Americano?” fu la prima cosa che sentì, quando rinvenne.

“No” biascicò, scuotendo il capo per riprendersi.

“Europeo?”.

“Ma basta! Ancora sta storia?! Non sono Americano, non sono Europeo, non sono Curdo, non sono niente di niente! Io sono una costellazione e voglio tornare a casa!”.

I presenti si guardarono fra loro. Uno fece segno all’altro che quell’uomo era pazzo, con l’indice.

“Da che parte stai?”.

“Dalla mia!”.

Scorpione quasi ringhiò quell’ultima risposta, stanco e ancora intontito.

“Da dove vieni?”.

“Non sono affari tuoi! E, comunque, un’altra botta in testa che ricevo e non me lo ricorderò più, grazie tante! Da queste parti siete sempre così ospitali?”.

“Guarda che non siamo in vacanza! Non siamo qui per divertirci!”.

“Ne siete sicuri? A me pare che a voi terrestri piaccia tanto odiarvi a vicenda”.

“Terrestri?! Ti ho dato una botta troppo forte, mi sa… Slegatelo”.

Antares si stupì di sentirsi dire che era libero.

“Puoi andartene” spiegò uno degli uomini che lo circondavano “Per quel che mi riguarda, non sei una minaccia. Vattene. Scegli tu da che parte. Senza schierarti, da solo, non andrai avanti a lungo”.

“Vorrà dire che morirò. Pazienza”.

“Ammiro il tuo coraggio, o la tua incoscienza. Avrei bisogno di un uomo come te fra i miei ranghi. Che ne dici? Lavorare per me ti assicurerebbe una certa sicurezza, avresti le spalle coperte…”.

“Sarei comunque in guerra…”.

“Quello è inevitabile”.

“Ma io non voglio fare la guerra!”.

“Se vuoi uscire da questo territorio, in cui personalmente non riesco a comprendere che ci sei venuto a fare, e come ci sei arrivato, possiamo darti una mano. Ma nessuno dà niente in cambio di niente, non so se mi spiego…”.

“Che cosa vuoi? Non sono ricco, come i tuoi amichetti nella casa scassata pensavano”.

“Questo lo avevo intuito. Ad ogni modo, c’è un lavoretto che dovresti fare per me, al di fuori del territorio del conflitto”.

“Al di fuori del territorio di OGNI conflitto?”.

“Sì. Io ti farò portare fino a lì assicurandoti l’incolumità quasi totale, qualche ferita potresti procurartela, tu farai questo lavoretto per me e poi sarai libero”.

“E se io non svolgessi questo lavoretto per te?”.

“Sarai eliminato. Se non ti unirai a noi, da qualche altro gruppo armato. Se, invece, ti farai condurre fino a là e poi non rispetterai i patti, da noi stessi”.

“Quante alternative…”.

“Sono fin troppo generoso con te. Scegli”.

“Chi mi assicura che, una volta fatto il lavoretto per voi, mi lascerai per davvero libero?”.

“Nessuno, ma puoi fidarti. La mia parola è parola d’onore”.

Antares fissò quell’individuo con sospetto. Non aveva alcuna intenzione di dargli fiducia ma, se ne rese conto subito, non sarebbe sopravvissuto a lungo da solo in quell’inferno. Chinò la testa.

“E va bene” disse “Affare fatto. A quanto pare, mi toccherà fare uno sforzo di fiducia”.

“Ottima scelta, signor…?”.

“Chiamatemi Antares”.

“Antares? Perfetto nome in codice…”.

“Già. Nome in codice…”.

 

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Deneb Algiedi non si stupì più di tanto della sua capacità di adattamento. Nel giro di qualche settimana, era diventato un perfetto contrabbandiere. Stare sulla Terra non era poi così male, come all’inizio aveva creduto. Trovava la specie umana alquanto singolare. Era sempre alla ricerca di quello che non poteva avere e lui era lì proprio per questo: fornire le cose che non era concesso avere! Ed erano davvero tante. In quel breve lasso di tempo, oltre ad imparare qualche cosetta sugli umani, aveva appreso ben di più sulle umane. Nel gruppo di cui ora faceva parte ce ne erano di due tipi: le puttane e le stronze. Ovvero quelle che passavano da un uomo all’altro come se niente fosse e quelle che se provavi a sfiorare ti ritrovavi faccia a terra a leccare la polvere del pavimento. Anche i suoi colleghi li aveva facilmente divisi in  pervertiti e rincoglioniti. I primi pensavano solo ad una cosa ed i secondi non coglievano certe occasioni nemmeno se piovevano dal cielo. Capricorno era da davvero tanto che non aveva a che fare con la chimica fra sessi opposti. Nel palazzo dove viveva, al centro del cielo, maschi e femmine erano divisi e certi pensieri erano andati scemando con i secoli. Fu ben lieto di sentirli riapparire alla vista di certune creature terrestri.

“Deneb!” si sentì chiamare.

“Sì, capo” rispose, tornando alla realtà con la testa.

“Hai fatto un ottimo lavoro con i russi. Sono proprio felice di averti scelto come mio collaboratore. Gli affari vanno bene e ho ricevuto molte note positive dagli uomini che ti avevo messo accanto per valutarti e controllarti. Sei pronto per il prossimo affare?”.

“Certo. Di che si tratta?”.

“Un grosso carico per gli americani”.

“Ma…io pensavo che gli americani non…”.

“Non avessero a che fare con gente come noi? Ti sbagli. Ci aspettano fra dieci giorni sul confine col Pakistan e voglio che sia tutto perfetto, niente errori. Quelli sono degli spacca cazzi. Te la senti, Algiedi? Non sarà una passeggiata”.

“Assolutamente. Voglio questo lavoro”.

“Bene. Voglio che ti occupi del ritiro della merce e della sua consegna. Ovviamente non sarai da solo, ma voglio affidarti un po’ più di responsabilità, per vedere se te la meriti la mia fiducia. Avrai un paio di uomini su mia scelta, gli altri fai come ti pare. Ormai li conosci”.

“Dov’è il punto di ritiro e quello di consegna?”.

“Avrai notizie più dettagliate con il tempo. Per ora preparati, ti aspetta un lungo viaggio”.

 

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Ad Adhafera era stato affidato un avvocato d’ufficio, non avendo lei la minima idea di cosa fosse un avvocato e a che cosa servisse. Dopo un breve colloquio, si era subito stabilito che fosse necessaria una perizia psichiatrica. Ci volle un bel po’ prima che la pratica procedesse, essendo la giustizia di quel Paese famosa per i suoi tempi biblici. Leone però, mostrandosi particolarmente aggressiva e fuori di testa, convinse i giudici che fosse meglio agire il più in fretta possibile, per poterla affidare alle cure di cui evidentemente aveva bisogno.

“Dica il suo nome” le disse lo specialista, mentre lei stava distesa su un divanetto.

“Il nome di chi?” rispose.

“Il tuo! Come ti chiami?”.

“Adhafera”.

“Nome completo. Nome e cognome”.

“Cos’è un cognome?”.

“Il nome di famiglia!”.

“Io non ho nome di famiglia. Ho tanti nomi, però. Regolo, Algieba, Denebola, Ras Elased…”.

“Va bene, Adhafera…quanti anni hai?”.

“Difficile dirlo. Non lo so con esattezza. So di essere nata a Nemea e che un certo Ercole mi ha ucciso. Ero un magnifico leone all’epoca. Poi son diventata una stella”.

“Una stella?”.

“Sì. Il mio lavoro”.

“Il tuo lavoro è fare la stella?”.

“Era, purtroppo. Io ed i miei colleghi, assieme al mio capo, siamo stati cacciati dal cielo da quella che comanda il lato orientale, ma di certo non è stata solo colpa sua. Intendo dire che Kosmos, il mio capo, è stato proprio stronzo ed era inevitabile che prima o poi qualcosa accadesse fra quei due. Insomma, il cielo è grande ma non si può trattare una donna in quel modo”.

“Siete stati cacciati? Quindi siete senza casa?”.

“Esatto. E la cosa mi rattrista davvero molto”.

“E dove stava questa casa?”.

“Nel centro del cielo”.

“Intendi dire nei pressi della Stella Polare?”.

“No. Quella è al centro del VOSTRO cielo, quello terrestre e boreale. Il mio capo governa, governava, il cielo intero. L’Universo, capisci?”.

“E quindi immagino che i tuoi compagni siano tutte le altre costellazioni…”.

“Non tutte. In effetti non saprei spiegare perché ci stiamo solo noi in quel palazzo…”.

“Solo voi, chi?”.

“I dodici zodiacali. Immagino sia dipeso dalle divinità dell’epoca. Quelle sì che lavoravano! Poi non so, può darsi che ci siano altri palazzi come quello in cui stavo io, dove troverebbero dimora tutte le altre costellazioni, ma non saprei dirglielo con certezza. Forse noi dodici eravamo lì perché, dicono, abbiamo maggiore influenza sui vari esseri viventi degli universi, in particolare su di voi terrestri. Dopotutto, da quel che ne so, noi dodici venivamo tutti da questo pianeta…”.

“E tu che costellazione sei?”.

“Leone. Io sono, o ero, non so se potrò tornare ad esserlo, il Leone. Ora sono qui, con tutte le conseguenze che comporta questo fatto”.

“E che conseguenze porta il fatto che tu non sia più in cielo?”.

“Tanto per cominciare, le stelle del segno che governo non si vedono più. Poi non so…immagino manchi l’influenza sulle nascite e tutte quelle palle lì…”.

Lo psichiatra storse il naso, ricordando vagamente di aver visto, qualche giorno prima, un servizio su un programma televisivo che ipotizzava il rapimento delle stelle da parte degli alieni, evento predetto dai Maya e che i templari avevano tentato di sventare. Scosse il capo. Ecco dove portava guardare certe cose! La ragazza che aveva di fronte era completamente fuori di testa, convinta di essere per davvero una stella!

“Quindi, da quel che ho capito, non sei nata come stella…”.

“No. Io ero un leone. Sono stati gli Dèi a premiarmi e mettermi in cielo”.

“Gli Dèi?”.

“All’epoca ne bazzicavano troppi per poter sapere chi sia stato esattamente. Credo Zeus. È stato il suo figliolo ad accopparmi…magari ha voluto che l’impresa venisse ricordata…”.

“E cosa mi sai dire sulla donna che vi ha fatti cadere? Chi è?”.

“Kuruma. Governa il Cielo Orientale”.

“Anche lei ha delle costellazioni al suo servizio?”.

“No. Lei ha dodici bestioline a cui ognuna è stato assegnato un anno. Quelle son state mandate lì come premio per aver risposto ad un richiamo. Le prime dodici sono state premiate”.

“E Kuruma chi è? È colei che le ha richiamate?”.

“No. Per la verità, Kosmos e Kuruma sono un po’ difficili da inserire in un contesto. Ricordo che, quando sono arrivata, il palazzo era quasi vuoto. C’era Hamal, l’Ariete, arrivata per prima. Poi Mekbuda, i Gemelli, e Aldebaran. Gli altri son arrivati dopo. Kosmos non ci calcolava più di tanto. Era come se ci ignorasse. Ha iniziato a trattarci con un certo interesse quando sono arrivati gli ultimi cinque, tutti assieme. Non ho mai saputo da dove lui venisse, cosa avesse fatto prima del nostro arrivo o qualsiasi altra cosa sul suo conto. Non ha mai voluto parlarne. Stessa cosa per Kuruma. Dei dodici al suo servizio si sanno delle cose, da dove vengono eccetera, ma di lei niente”.

“Li possiamo definire delle divinità?”.

“Credo di sì. Non so. Io mi son limitata a svolgere il mio ruolo finché ho potuto”.

“Capisco… e come mai ti trovi a Roma?”.

“Perché sono caduta. Siamo stati tutti divisi ed io mi sono ritrovata qui”.

“E cosa sei andata a fare sulla cupola?”.

“Dormire! E la folla mi ha svegliata”.

“Quindi tu non hai idea del perché sei stata arrestata?”.

“Assolutamente no. Credimi, io non so nemmeno cosa sia un papa. Ai miei tempi non c’era e non son stata tanto a studiare come Rukbat!”.

“Quindi non volevi attentare alla vita del Santo Padre?”.

“Ma padre di chi?! No, no e poi no! Io ero lì per starmene in pace, dormire un po’ e schiarirmi le idee. Cosa ne avrei ricavano nell’uccidere un vecchio delirante?!”.

“Se vieni da così lontano, nel tempo e nello spazio, come sai la mia lingua?”.

“Dalle mie parti ci si annoia parecchio a volte e così si passa il tempo leggendo. C’è chi lo fa quasi sempre e chi, come me, solo ogni tanto ma, spero tu riesca a capirlo, in millenni il termine "ogni tanto" comporta comunque un sacco di ore. Ovviamente, per leggere, devi sapere la lingua in cui è scritto ciò che hai davanti. Noi dodici sappiamo tutte le lingue”.

“E quelle non scritte?”.

“Quelle dipende. Ad ognuno di noi è stata affidata una zona con maggiore influenza. Se una lingua non scritta rientra in quella zona, allora capiamo anche quella. Altrimenti non credo…non so…”.

“E anche il tuo capo sa tutte le lingue?”.

“Ovvio”.

“Quindi, se io ora ti chiedessi di parlare e scrivere in cinese o in arabo, saresti in grado di farlo?”.

“Io ho imparato le lingue, ma non so che nomi abbiano. Se mi fai vedere un testo scritto, te lo leggo e te lo traduco. Altrimenti dovresti dirmi un paio di parole nella lingua che vuoi, così che io possa collegarla”.

“Interessante. Tornando alla faccenda della stella…che cosa pensi di fare adesso? Ora che sei caduta, quali sono i tuoi progetti?”.

“Vorrei tornare a casa, ma non so se la cosa sarà possibile. La mia idea è cercare i miei compagni. Di certo ce ne sono di molto più intelligenti di me e magari hanno un piano per risolvere la faccenda. Da sola, non saprei proprio…”.

“Da sola non sapresti cosa fare?”.

“Ma la smetti di ripetere quello che ti dico?! Non era quello ciò che intendevo. Da sola me la so cavare. Ma io voglio tornare a casa e per farlo mi serve aiuto”.

“Hai idea di come trovare i tuoi compagni?”.

“No. Ma io sono una creatura testarda e non mi arrenderò fino a quando non li avrò ritrovati”.

“Avere delle certezze è una buona cosa. Io non ho altre domande per te, Adhafera. Se tu non hai qualche domanda per me, possiamo salutarci”.

“Solo una: adesso mi riporteranno in quell’orrenda gabbia dove son stata rinchiusa fin ora?”.

“Temo proprio di sì. Ma, sta tranquilla, posso assicurarti che non ci resterai a lungo!”.

“Lo spero. Non sono un’amante dei luoghi chiusi…”.

 

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“Sei brava a combattere” le disse Erik.

“Grazie” sorrise Hamal.

Dopo aver assistito ad un paio d’ore d’allenamento, Ariete aveva voluto provare. Erik, il nipote di colei che le aveva dato da mangiare, si era offerto di farle da sfidante e insieme si erano divertiti. Ormai erano settimane che stava in quel luogo, ripagando l’ospitalità aiutando in casa e negli allenamenti, assistendo i maestri con gli allievi più giovani.

“Dove hai imparato?” riprese lui, quando si furono fermati e seduti a terra, per riprendere fiato.

“Ho avuto tanto tempo per imparare”.

“Chi ti ha insegnato?”.

“Colleghi”.

“Fai i complimenti pure a loro. Sei ad un ottimo livello”.

“Quanti complimenti…posso dire lo stesso di te! Sei bravo”.

“Io ho iniziato da bambino. Avevo quattro anni!”.

Erik si rialzò. Fuori si stava facendo buio. Invitò Hamal a fare altrettanto, per raggiungere l’alloggio dove sarebbe stata ospitata.

“Sei stata fortunata. Non tutti sono cortesi come mio zio da queste parti” disse l’uomo e Ariete annuì, consapevole di aver ottenuto fin troppo.

Lui allungò la mano per aiutarla a mettersi in piedi ma lei rifiutò, preferendo far tutto da sola. Fissò quell’uomo negli occhi e sorrise. Si assomigliavano. Avevano gli occhi dello stesso colore e un modo di fare con molti punti in comune. Di sfuggita, notò che portava una lepre tatuata sulla spalla.

“Sei uno degli amici di Kuruma?” domandò lei, facendosi diffidente.

“Di chi?!”.

“Perché hai quella lepre tatuata?”.

“Perché è il mio segno. Sono nato nell’anno della lepre”.

“Ah. Scusa…è che divento subito sospettosa”.

“Pure io. E tu che cosa porti disegnato? È una costellazione?”.

“L’ariete”.

“Anch’io son dell’ariete! Che giorno sei nata?”.

“Io…ecco…non sono dell’ariete inteso come segno zodiacale…”.

“Ok, scusa. Dai, andiamo a cena. Si sta facendo tardi ed il mio stomaco brontola”.

“Grazie mille per l’ospitalità di tutti e per la cortesia che mi riservi, evitando di riempirmi di domande sul mio conto”.

“Io mi faccio sempre gli affari miei. Si vive più a lungo così”.

“Teoria interessante…”.

Insieme uscirono dal dojo e si avviarono verso casa. Subito il profumino della cena li avvolse. Hamal, nell’attesa di poter mangiare, osservò i quadri appesi alle pareti. Rappresentavano scene varie tipicamente giapponesi ed i dodici segni orientali. Si fermò davanti agli ultimi due quadri. Lì erano raffigurate due coppie, una per dipinto.

“Quelli sono Izanagi e sua moglie Izanami” spiegò Erik, indicando quella di destra “Secondo un mito di questo Paese, essi sono i primi due Dèi nati dal caos, che crearono il Giappone e diedero vita a trentacinque Dèi, ognuno dei quali prese controllo su un elemento naturale. Mancava il fuoco, così marito e moglie decisero di metterlo al mondo. Alla nascita, però, il bambino bruciò la madre che finì nel regno degli inferi. Izanagi, sentendo la mancanza della compagna, andò a cercarla ma, quando la trovò, si spaventò perché nel frattempo era divenuta uno spettro dall’aspetto sgradevole. Fuggì e lei, dopo averlo rincorso, giurò di uccidere ogni giorno mille umani, che insieme i due avevano contribuito a generare. Lui, di risposta, giurò di farne nascere mille e cinquecento. Ecco perché, stando al mito, ogni giorno nascono e muoiono tanti uomini”.

“Bello…” sorrise Hamal “…e l’altra coppia?”.

“Quelli sono Amaterasu con il fratello Sosano-wo. Lei è la Dea del sole e lui quello della tempesta. Un giorno, dopo l’ennesimo litigio, lei si nascose in una grotta e vi portò dietro il sole. Solo dopo svariati tentativi gli Dèi riuscirono a farla uscire, riportando la luce sulla Terra. Perfino i loro discendenti si scontrarono e vinsero quelli di Amaterasu, dando il via alla famiglia imperiale giapponese. Certo, sono miti e ci si può credere oppure no…”.

Hamal sorrise, ritrovando in quelle coppie i battibecchi fra Kosmos e Kuruma. Sospirò. Chissà se anche quei loro litigi avrebbero portato a qualcosa di buono…

“Ti piacciono?” le domandò Erik, notando con che sguardo lei li fissava.

“Molto. Mi ricordano persone che conosco”.

“Quelli che ti hanno insegnato a combattere?”.

“No. Quelli no…ma non si può avere tutto!” ridacchiò Hamal.

Dopo cena, Erik andò davanti al computer. La sua famiglia era in Italia e, tramite internet, lesse e guardò le notizie dei telegiornali di quel Paese. Si soffermò sul punto in cui vi era scritto che l’attentatrice del papa era stata rilasciata. In seguito era riportata la perizia dello psichiatra e vari pettegolezzi giornalistici, fra cui una frase in cui la ragazza affermava di essere una costellazione e di venire dal cielo. Anche Hamal aveva raccontato una cosa del genere il primo giorno. Che stava succedendo al mondo? Guardando la foto di Adhafera, non poté fare a meno di notare la somiglianza nel modo di vestire fra la sua ospite e l’attentatrice. Che cosa significava? Ariete, passando per di lì per caso, incrociò la foto di sfuggita.

“Adhafera!” disse.

“Chi?!”.

“È il nome di quella donna”.

“La conosci?”.

“Sì. Dove si trova?”.

“A Roma. In Italia”.

“È tanto distante da qui?”.

“Direi di sì”.

“Come ci posso andare?”.

“Devi prendere l’aereo. È un viaggio molto lungo”.

“Ma io come faccio? Come si prende un aereo?”.

Erik sospirò e guardò suo zio, piuttosto indeciso sul da farsi.

“Senti…” disse, dopo un po’ “…io vivo in Italia. Resterò qui ancora un paio di settimane, dopodiché tornerò a casa. Se vuoi, puoi venire con me. Il mio aereo arriva giusto a Roma. Se avete un modo per contattarvi…perché Roma è davvero grande!!”.

“Non so come contattarla. Però devo andare là. Mi ci porti davvero?”.

“Non credo sia una buona idea” si intromise Toheru “Andare fino in Italia alla ricerca di una donna che secondo te è una tua amica, ma nessuno ti da la certezza che sia lei, in una capitale così affollata…è un azzardo!”.

“Preferisci resti qui all’infinito?” sbottò Erik “Ci penso io a lei. L’accompagno io. Se trova la sua amica bene, altrimenti starà da me finché non si trova un’altra soluzione”.

“Se te ne prendi tu la responsabilità…”.

“Direi che sono grande abbastanza per farlo, no? Non ti fidi?”.

“Nipote mio, tu sei così testardo che so bene come andrà a finire. Quando ti metti in testa una cosa, non c’è verso di farti cambiare idea. Perciò fai ciò che credi”.

“Bene” concluse Erik.

“Quindi mi ci porti?” domandò Hamal.

“Sì, ti ci porto. Ma fra due settimane…”.

“Grazie!” sorrise Ariete, abbracciando l’uomo, che non gradiva molto il contatto umano ma che non disdegnò quel segno di gratitudine.

 

₪₪₪

 

“Ho vinto!” esclamò Mek, quando la pallina delle roulette si fermò sul numero cinque.

“Amico, hai una fortuna sfacciata!” commentò chi sedeva accanto a lui al tavolo.

In effetti, nel giro di poche ore, Mek era riuscito a moltiplicare per svariate volte l’irrisoria cifra che aveva ricevuto in prestito dal terrestre Thomas. I due gemelli erano stati portati fra le molte attrazioni di Las Vegas con lo scopo di “farli divertire un pochino” ma, dopo aver visto come la fortuna di Mek li stesse arricchendo, avevano deciso di restare un po’ più a lungo del previsto.

Buda, piuttosto accigliato, fissava con una certa gelosia il fratello. Lui, la mente, aveva tentato di usare dei metodi che andassero oltre la mera fortuna per vincere, ma aveva perso. Al contrario di Mek che, invece, giocava del tutto a caso e vinceva. La cosa mandava in bestia Buda ma, notando la felicità negli occhi degli umani che li avevano trovati, non protestò. Decise però che era inutile stare lì fermo a rodersi il fegato guardando il fratello mentre si sommergeva di simpatici dischetti colorati. Perché poi gli umani provassero tanto entusiasmo nell’accumulare dischetti colorati non gli era dato comprenderlo. Si strinse nelle spalle e, drink alla mano, iniziò a girellare per il casinò “Panteon”, scelto dai gemelli. All’ingresso, un enorme Zeus di pietra e plexiglass ti fissava minaccioso, fulmine a neon e led fra le mani, mentre una schiera di belle donne vestite da Dee ti invitava ad entrare. All’interno vi erano numerosi figuranti vestiti da divinità greche e romane e alle pareti erano raffigurate scene mitiche. Buda si soffermò davanti ad un maestoso cigno, con una bellissima donna a fianco.

“Leda” mormorò il gemello dai capelli scuri, ricordandola.

Non pensava a lei da tanto, come non pensava a molte altre cose che gli erano successe, abituato com’era alla sua condizione di stella. Si girò verso il gemello. Chissà se pure lui ricordava, paraculato figlio presunto di Zeus e da sempre immortale! Di certo lui non si era scordato della loro ascesa al cielo, della loro morte e della famiglia che li aveva allevati. Ricordava Leda, la loro madre, e Clitennestra, la loro sorella, bella quanto Elena, la loro parente più famosa, sorellastra nata da un uovo. Provò un brivido di rabbia quando riportò alla mente il momento in cui lui, Castore, era stato ucciso. A causa di una stupida rissa per una mandria di buoi, scatenata molto probabilmente dal gemello in vena di scherzi, lui era caduto. Mandò giù il liquore che aveva nel bicchiere tutto d’un fiato. Era morto per colpa di quel deficiente che ora vinceva senza ritegno poco più in là! Respirò lentamente, tentando di ritrovare la calma, quando si sentì sfiorare la spalla.

“Che hai, Buda?”.

Era Mek, con un ghigno soddisfatto.

“Niente. Stavo ripensando a come sono morto a causa tua”.

“Ancora con questa storia?! È successo più di due millenni fa!”.

“Non importa…”.

“Resta il fatto che è merito mio se siamo divenuti stelle”.

“Ah sì?”.

“Se tu avessi letto qualcuno dei libri di mitologia che avevamo a palazzo, lo sapresti. Ma hai schivato la nostra epoca come se fosse velenosa e hai passato tutto questo tempo a farti del male da solo. Prova a chiedere in giro com’è andata, prima di guardarmi con tanto odio!”.

“Tu sei sempre stato un privilegiato. Tu sei nato immortale, le hai avute tutte vinte, fino alla fine. Tu mi trascinavi in avventure impossibili, come la ricerca di quell’inutile vello d’oro assieme ai tuoi amichetti ed al loro capo…come si chiamava? Aspetta…”.

“Giasone. Ed i miei amichetti erano gli Argonauti” borbottò Mek, incrociando le braccia.

“Quelli! Missioni impossibili e pericolose, perché tanto tu eri immortale, che differenza poteva fare?! Tu non potevi morire e chissenefrega se il tuo povero gemellino mortale ci lasciava le penne! Il povero fratellino mortale poteva pure morire, tanto non contava niente!”.

“Come puoi dirmi una cosa tanto crudele?! Io e te siamo sempre stati inseparabili e abbiamo deciso insieme ogni cosa. Non ti ho mai trascinato da nessuna parte!”.

“Sono morto a causa tua!”.

“Sei morto perché davi per scontato che ti salvassi ma io avevo il mio bel da fare in quel momento, se ricordi bene. Ho fatto il possibile!”.

“Balle!”.

“La verità è che tu non sai combattere. Non l’hai mai saputo fare. Hai sempre aspettato che io venissi a pararti il culo”.

“Rimangiati subito quello che hai detto!”.

“Mai! Questa è la verità, mi spiace per te!”.

“Sparisci dalla mia vista!”.

“Con piacere!”.

I due gemelli si separarono, fra la delusione della folla che si era creata attorno a loro che sperava in una vera rissa con scazzottata. Mek, con tutto quello che aveva vinto in poche ore, se ne andò assieme ai mortali, che ovviamente stettero dalla sua parte. Non avevano capito il perché del litigio, ma a tutti quei soldi non potevano rinunciare. Buda, rimasto da solo, uscì dal casinò. Per la prima volta nella sua vita era senza il fratello accanto. Strinse i pugni. D’ora in poi sarebbe stato sempre così! Cominciò a vagare per Las Vegas, senza una meta precisa. Aveva fame ed era stanco, stufo di quelle luci continue e di tutta quella confusione. Ma che fare? Tutt’attorno c’era solo il deserto! Doveva fare un tentativo. Al massimo sarebbe morto, cosa che aveva già provato. Non sarebbe stato niente di che, nulla di nuovo.

 

₪₪₪

 

Aldebaran aveva appena finito i lavori in giardino ed ora era in cucina, in cerca di qualcosa di fresco da bere. La casa era momentaneamente vuota e, dato che tutto ciò che gli era stato detto di fare lo aveva terminato con largo anticipo, si concesse un po’ di relax seduto in poltrona. Era stanco ma soddisfatto. Guardò i quadri appesi in salotto. Era da molto tempo che non dipingeva. Iniziò a vagare per casa, in cerca di qualcosa su cui disegnare. Trovò un foglio bianco vicino al telefono. Era leggermente spiegazzato ma poteva andare bene lo stesso. Non vedendo matite nei paraggi, si accontentò di una penna a sfera. Schizzò velocemente quello che aveva in mente di fare, sentendosi un po’ limitato. Era abituato a grandi tele e ampie aree da riempire. Era talmente concentrato sul suo lavoro che non si accorse della porta che si apriva.

“Carino” si sentì dire alle spalle.

Si girò e sobbalzò. Mikael lo fissava, leggermente chino su di lui.

“Da quanto tempo sei lì dietro?” domandò Toro.

“Un paio di minuti. Dammi una mano a mettere a posto la spesa”.

Aldebaran si alzò ed iniziò a riordinare le varie cose contenute nelle due sporte che Mikael aveva portato in casa. L’uomo, nel frattempo, si era aperto una lattina di birra ed era andato all’esterno, stiracchiandosi.

“Ha lasciato tutto il lavoro a te?” domandò Scott, entrando in cucina con un altro sacchetto della spesa e notando che solo Toro stava facendo qualcosa di utile.

“Mi pagate per questo” rispose Toro.

“A che punto sei con il giardino?”.

“Finito”.

“E il garage?”.

“Già fatto”.

“Così in fretta? Wow…sei spettacolare! Puoi prenderti un pomeriggio libero allora”.

“Non avete nient’altro da farmi fare?”.

“Al momento no. Se mi verrà in mente te lo farò sapere”.

Entrambi iniziarono a riordinare quando gli occhi di Scott caddero sul disegno a penna.

“Lo hai fatto tu?” domandò.

Aldebaran annuì, aggiungendo che era solo uno schizzo fatto di corsa, niente di speciale.

“Mi piace molto. Potresti rifarlo in grande? Intendo su una tela come quelle appese al muro. Mi piacerebbe mostrare le tue abilità ad un amico”.

“Va bene. Non c’è problema”.

“Allora hai trovato cosa fare questo pomeriggio. Dopo pranzo ti fornirò tutto il necessario”.

“Grazie mille”.

“Ma figurati. Quando uno ha un talento, bisogna che lo sfrutti!”.

 

₪₪₪

 

Quella gita ad Atene si era mostrata più divertente di quanto avesse immaginato. Alìs e Maia, le sue due coinquiline, erano uno spasso, molto disponibili e gentili. L’avevano obbligata a venire con loro. Astrea si era buttata a capofitto in tutto il lavoro possibile, per impegnare la mente. Non voleva pensare a ciò che era stato, a cosa aveva perso, a chi aveva perso… Per far tacere la memoria, faceva tutti i turni possibili al tempio e ripetizioni alle suo colleghe in ogni pausa. Essendo un part-time, non si sentiva ancora soddisfatta e quindi Alìs le aveva trovato, grazie all’appoggio di uno dei suoi professori universitari, un impiego come guida al museo della capitale. In questo modo si era riempita totalmente le giornate, tranne la domenica. Quel giorno il museo era chiuso e, anche se le capitava il turno da figurante, era solo per mezza giornata. Quel pomeriggio, lavorando tutte le ragazze con gli stessi orari, avevano un po’ di ore libere e avevano deciso di portare la loro nuova amica fuori. Doveva decisamente svagarsi! Astrea aveva opposto resistenza all’inizio ma poi aveva ceduto, non sapendo che fare a casa. Ovviamente Atene di domenica era affollatissima di turisti. Vergine si guardava attorno, ricordando come quel luogo si presentasse un tempo. Preferì non pensarci e tentò di fare come le sue compagne, che spiaccicavano il naso su ogni vetrina, in cerca dell’occasione da cogliere al volo.

“Guarda che bello che è quel vestito!!” le sentì commentare “Stupendo!! Peccato che io non ci entrerò mai…sono troppo cicciona!”.

“Ma dove cicciona?! Dai, va dentro e provalo!”.

“Anche tu!”.

“Perché non andiamo tutte dentro a provarlo?”.

Senza ben capire come, Astrea si ritrovò all’interno del negozio, con la commessa che chiedeva in che modo poteva aiutarle.

“Vogliamo provare quel vestito” rispose Alìs, indicandolo.

“Quel modello è disponibile in diversi colori. Bianco, nero, arancione, azzurro, verde, crema, rosa e blu” sorrise la commessa, invitando il trio a seguirla.

Mostrò loro i colori e chiese quale preferissero. Era un modello primaverile, con sottili spalline intrecciate, una scollatura non troppo vistosa e la gonna a frange fino ai piedi. Il tutto decorato con piccole perle e ricami, con una cintura semplice che si allacciava in vita

“Io propongo di provarne uno ciascuno, che ne dite?” propose Maia.

“A me sta bene. Tu che ne pensi, Astrea?”.

Vergine rimase un attimo in silenzio. Con il primo stipendio nel borsello, guardò la veste con interesse, ma non voleva fare qualcosa di avventato.

“Dai, su. Non costa tanto. Provalo almeno!” insistette Maia.

Astrea sospirò ed annuì, indicando il modello di colore nero. Maia scelse il rosa e Alìs il verde. Entrarono nei camerini. Uscirono quasi contemporaneamente, sorridendosi a vicenda. Stavano bene e, a quanto pare, anche Astrea si era decisa a spendere un po’.

“Ma come fai?” le domandò Maia, dopo che tutte e tre, soddisfatte dello shopping, si erano sedute al tavolino di un bar.

Stavano sorseggiando frullati al cioccolato e guardando la gente di passaggio.

“Come faccio cosa?” si stupì Astrea.

“A volerti riempire le giornate in questo modo. Non hai mai tempo per te stessa!”.

“A che mi serve il tempo per me stessa? Non saprei cosa farmene”.

“Rilassarti un po’, dedicarti a qualche hobby, uscire con qualcuno…”.

“Esco con voi quel che basta, no?”.

“Intendo uscire con qualche uomo. Non hai tempo nemmeno per queste cose?”.

“Non mi interessano”.

“Come sarebbe a dire?! Non c’è proprio nessuno che ti piace?”.

“No. Perché fate queste domande? Parliamo d’altro!”.

“Se sei felice così…”.

“Lo sono”.

Vergine concluse la conversazione con decisione. Aveva dimenticato cos’era l’amore da millenni e non aveva alcuna intenzione di ricordarlo.

 

₪₪₪

 

“Stupido turista” ridacchiò una voce.

Al Risha riaprì gli occhi. Sbuffò. Sperava fosse stato tutto un incubo ed invece era ancora lì, circondato da tanta fastidiosissima sabbia. E che caldo faceva! Si alzò a sedere e solo allora notò l’uomo sul cammello che gli aveva parlato prima.

“Ciao” lo salutò Pesci, alzandosi e scuotendosi.

“Come parli la mia lingua?”.

“Io parlo tutte le lingue, ciccio”.

“Quella che io parlo è conosciuta solo dalla mia gente…”.

“E pazienza. Io conosco anche quella. Ora potresti dirmi cortesemente dove sono e come faccio a raggiungere un posto vivibile? O questo inutile pianeta è fatto tutto così?”.

“Ma tu chi sei?”.

“A te che importa? E, ad ogni modo, potrei farti la stessa domanda”.

Al Risha, di solito piuttosto educato, si era innervosito fin troppo fra sabbia, vento, caldo e bestie del deserto e ora si stava sfogando su quello straniero sconosciuto.

“Io ed i miei compagni ti abbiamo trovato in pieno deserto. Mi sono offerto di accompagnarti fino a qui, dove ti è facile raggiungere luoghi un po’ più adatti alla sopravvivenza”.

“Ah, ok. Grazie di tutto. Ora che faccio?”.

“Quello alle tue spalle è il Nilo. Seguilo e ti condurrà alle città”.

“Da che parte lo devo seguire?!”.

“La parte che vuoi. Fa lo stesso, se non vuoi raggiungere un centro abitato preciso”.

“No, mi è indifferente”.

Al Risha si incamminò verso il fiume e vi immerse le mani.

“Non berrei quell’acqua se fossi in te…” suggerì il suo salvatore.

“Senti, Tuareg, fatti i cazzi tuoi!”.

“Era solo un suggerimento da amico. Il limo non è proprio un toccasana”.

“Sparisci!”.

“Come vuoi. Ubriacati. È tutta salute. Buona fortuna”.

Dopo aver dato un colpetto al dorso del cammello, il salvatore si allontanò dal salvato, che continuò a bere finché poté. Quando finalmente fu soddisfatto, Al Risha si alzò ed iniziò a seguire il fiume. Decise di andare verso la foce, seguendo la corrente. Nonostante il forte caldo, ora si sentiva più tranquillo. Iniziava a vedere qualche persona, piccole case e spiazzi di verde. Era salvo! Era sopravvissuto al deserto e si stava dirigendo a grandi passi verso gli umani, sperando di ricevere qualche notizia sui suoi compagni o su come tornare a casa. Decise di non pensarci troppo, meglio non alimentare illusioni. Giunse in vista di quella che, a occhio, pareva una grande città con una fame da lupi, lo stomaco brontolante ed un gran mal di pancia.

 

₪₪₪

 

Dopo quasi due settimane, Sadalmelik era ancora priva di memoria. Si sforzava di ricordare ma la sua mente pareva come sigillata e svogliata. Sperava almeno di poter sapere il suo nome! Ora la spedizione era ferma sull’Isola degli Orsi e in pochi erano rimasti al campo. Piuttosto afflitta, e sentendosi inutile, Acquario tentava in ogni modo di non essere un peso. Preparava i pasti, riordinava i letti e rimaneva in silenzio, per non interferire con le ricerche della compagnia. Erano un gruppetto di varie nazionalità e culture che, dopo mesi di lavoro insieme, avevano imparato a sopportarsi e conoscersi. Anche per questo Sadalmelik si sentiva fuori posto. Loro erano uniti come una famiglia mentre lei era un’intrusa, con fra l’altro nessuna nozione scientifica del luogo che dovevano esplorare. I comunicati diramati dal centro non avevano ricevuto risposta, e la cosa lasciava perplesso il capo della spedizione.

“È come se fosse apparsa nel nulla” commentò una sera, dopo l’ennesimo giorno di ricerche negative “E questo non è possibile! Ci dev’essere una nave, un aereo, un’astronave, una balena bianca insomma…qualcosa! Qualcosa che l’ha portata fino a qui! Ma nel giro di miglia e miglia non è stato segnalato nessun incidente o imprevisto che possa giustificare la sua presenza. E nessuno ha denunciato la sua scomparsa. Un fantasma”.

“Parla molto bene tutte le lingue del campo. Forse faceva parte del personale di qualche crociera…” propose uno dei compagni.

“Se fosse così, la nave da cui è caduta l’avrebbe segnalata!”.

“E se non fosse caduta? Se fosse semplicemente stata lasciata a terra e lei, confusa per non si sa bene che cosa, è caduta in mare e si è ritrovata qui?”.

“Questa è un’ipotesi irrealistica e impossibile!”.

“E allora che alternative proponi?”.

“Non lo so. Spero che le torni la memoria. Presto la missione finirà e allora non avrà un posto dove stare, se nessuno la verrà a reclamare”.

“Non è un pacco postale! Ce ne occuperemo noi, finché potremo. La porteremo alla polizia, al limite. Lì sarà al sicuro”.

Mentre i ricercatori discutevano fra di loro, Sadalmelik era all’esterno, sfidando il freddo, avvolta in un alto collare di pelo ed un pesante cappotto. Guardava le stelle. C’era qualcosa che la spingeva a farlo, a fissare incantata quei puntini luminosi.

“Vieni dentro!” si sentì chiamare “Fa troppo freddo!”.

“Guarda!” rispose Acquario “Cassiopea! E Perseo, Andromeda, Drago!”.

“Parli delle costellazioni? Io so riconoscere solo la stella polare, l’Orsa minore e maggiore e poche altre. Le indispensabili per orientarmi”.

“Io invece le ricordo tutte. Credo sia una delle pochissime cose che ricordo”.

“È un inizio”.

“Però manca qualcosa. Non hai anche tu l’impressione che ci siano degli spazi vuoti? Dei buchi?”.

“Cosa intendi dire?”.

“Manca qualcosa al cielo…”.

Non ricevette risposta, se non l’invito di rientrare alla svelta per non congelare. L’inverno si stava avvicinando, per questo la spedizione si stava per concludere. Sadalmelik rientrò mestamente, chiedendosi perché ricordava le stelle ma non il suo nome. Trovava la cosa parecchio frustrante. Sospirò. Doveva aiutare a preparare i bagagli, il gruppo stava per iniziare a smantellare il campo e tornare verso casa.

 

₪₪₪

 

Acubens, seguendo il detto “se non puoi sconfiggerli, unisciti a loro”, si era abituata al modo di vivere dei leoni. Non era tanto male, dopotutto. Si era creata delle armi rudimentali per aiutare le leonesse nella caccia, nascondendo i fucili per le situazioni d’emergenza, e si procurava il cibo da sola. Ai leoni questo non dispiaceva, avendo l’occasione di mangiarsi ciò che Cancro lasciava. Non ci mise molto ad abituarsi alla carne cruda e imparò in fretta come non farsi scoprire dalle prede. Pensò che questo suo strano istinto fosse rimasto latente dentro di lei da quando ancora non era una stella, quando cioè era un semplice granchiolino ucciso dal piedone spocchioso di Ercole. Non capì come collegare l’istinto di un granchio e quello di un leone ma non si creò molti problemi. Il pomeriggio, nelle ore più calde, quando era impossibile cacciare, se ne stava spaparanzata nella poca ombra della savana e riposava, preferendo girare di notte o nelle ore dove il clima era più permissivo. Il problema maggiore fu il sole, che scottava facilmente la sua pelle non abituata.

Un giorno, durante uno di quei pomeriggi assolati, si svegliò di soprassalto, avvertendo un rumore. Era un rombo continuo e si avvicinava. Allarmata, e notando l’agitazione delle leonesse, andò a prendere il fucile, pronta a difendersi. Il rumore era dovuto ad una grossa jeep con due uomini a bordo. Quello che non guidava stava osservando il circondario con un pesante binocolo. Non appena lo puntò verso il gruppo di felini, fece segno al suo collega di girare e proseguire verso quella direzione. Il mezzo cambiò strada e corse verso gli animali che, impauriti, iniziarono a sparpagliarsi. Acubens imbracciò il fucile e rimase immobile, decisa a difendere i cuccioli.

“Ragazza, sta tranquilla! Andrà tutto bene” gridò uno degli uomini.

“Se ve ne andrete sì, andrà tutto bene” rispose lei.

“Non avere paura, sei in salvo. Vieni con noi. Ti hanno ferita?”.

“Chi avrebbe dovuto ferirmi? Sparite!”.

“Metti giù quel fucile, non è più necessario. Ti portiamo al sicuro”.

“Vi consiglio di portarvi da soli al sicuro, se non volete ritrovarvi con un buco nelle chiappe!”.

“Non essere sciocca! Noi siamo amici e siamo qui per salvarti”.

“Salvarmi da chi?”.

“Dai leoni!”.

“E perché? Io sto bene qui con loro. Andatevene! Lasciateli in pace!”.

“Metti giù il fucile!”.

“Andate via!”.

Ormai la conversazione era diventata un grido continuo e terminò con uno sparo in aria del fucile, che Acubens stringeva con convinzione e sguardo minaccioso.

“Questa è pazza…” mormorò il guidatore.

“Andiamocene, o ci ammazza!” rispose, quasi in rima, l’altro uomo.

La jeep fece rapidamente retromarcia e Cancro sorrise. Si apprestò a gettare in terra il fucile, per non spaventare ulteriormente i felini suoi amici, e sedette fra loro.

“Siete al sicuro” disse, accarezzando la testa di un paio di leonesse “Nessuno vi farà più del male, perché penserò io a voi!”.

La voce si sparse piuttosto in fretta, come il più curioso dei pettegolezzi, e ben presto si iniziò a narrare la storia della “donna leone” o della “leonessa umana”.

 

₪₪₪

 

Zubeneschamali riaprì gli occhi e vide, vagamente, un uomo vestito di bianco che la toccava. D’istinto, gli tirò un poderoso calcio e lo fece allontanare.

“Dottore!” sentì gridare una donna.

“Dottore?!” ripeté Bilancia, piuttosto confusa.

L’uomo si stava reggendo il ventre, colpito dal calcio di lei.

“Scusi…” sussurrò la paziente, in imbarazzo.

“Stia tranquilla” bofonchiò il medico “Sono cose che capitano. È ancora sotto shock. Si è ripresa, molto bene. Fra poco potrà anche vedere sua sorella”.

“Mia sorella?” si stupì Zubeneschamali e poi ricordò di Zubenelgenubi e annuì.

“Come si sente? Le fa male da qualche parte?” domandò l’infermiera.

“Solo i piedi. Dove mi trovo? Cosa è successo?”.

“È svenuta in spiaggia ed è stata portata qui, all’Ospedale di Bahia”.

“E mia sorella?”.

“Sta benissimo. Le abbiamo dato da bere ed è qua fuori che aspetta di poter entrare”.

“Ok…grazie per l’aiuto”.

“Da dove venite? Vostra sorella non è stata molto chiara. Quanta strada avete fatto a piedi?”.

“Non lo so quanta strada abbiamo percorso, non lo ricordo, e per quanto riguarda da dove veniamo beh…è piuttosto complicato da spiegare! Da molto, molto, molto lontano!”.

“Però parlate bene la nostra lingua”.

“Almeno quello…”.

“Avete il numero di qualche parente da avvisare, che vi venga a prendere?”.

“Veramente no, siamo solo noi due”.

Medico ed infermiera si fissarono.

“Ora faccio entrare sua sorella” riprese lui, dopo qualche attimo di silenzio “E stasera verrà dimessa. Spero abbiate un posto dove andare”.

“No…ma ci arrangeremo”.

“Vi daremo un indirizzo a cui rivolgervi”.

Zubeneschamali annuì mentre Zubenelgenubi entrava nella stanza, felice nel vederla sveglia e in salute. Sedette accanto al letto ed iniziarono a discutere sul da farsi.

 

₪₪₪

 

“Che puzza insopportabile di pesce!” si lagnò Kosmos, disteso sulla sua branda con le mani incrociate dietro la testa.

La giornata stava per concludersi e il pescato imballato veniva spostato nelle celle frigorifere. Ovviamente Kosmos non aveva mai mosso un dito per aiutare e questo faceva imbestialire la capitana, che non faceva altro che ripetergli che un giorno di questi lo avrebbe ributtato in mare. Sbadigliando, il pigro scroccone voleva schiacciare un pisolino, quando una luce abbagliante lo infastidì e lo costrinse a rimanere sveglio. Coprendosi il viso con le mani, vide che in mezzo a tutto quel bagliore c’era una figura.

“Chi sei? Cosa vuoi?” sibilò, scocciato.

“Suvvia, Kosmuccio, non mi riconosci nemmeno più?”.

“Kuruma?!”.

“In persona”.

Kosmos attese che la luce di lei si affievolisse e la fissò, con fastidio. Poi la sua espressione, per un attimo, mutò. Non si era mai reso conto di quanto lei fosse bella, avvolta da quella veste rossa come il fuoco e con quei capelli mossi da un vento invisibile. Si scosse. Era tutta soggezione. Lui ora era mortale e quindi era naturale che una Dea gli facesse questo effetto.

“Era ora che mi venissi a prendere, stupida femmina. Ti sei accorta che senza di me non funziona niente? Ti arrendi all’evidenza che sei più debole?”.

“A dir la verità, le cose stanno andando benissimo anche senza di te, stronzo”.

“Bada a come parli!”.

“Bada tu a come parli! Sei solo un misero mortale destinato a perire fra breve, dato che tu il culo non hai proprio intenzione di muoverlo…”.

Kosmos, ridacchiando, dimenò il sedere facendole notare che, in realtà, il culo sapeva muoverlo benissimo.

“Non prendermi in giro, larva dalla miserrima possibilità di sopravvivenza!” tuonò Kuruma.

“Larva?! Aspetta solo che torni ad avere i miei poteri e poi staremo a vedere, razza di scassatrice delle mie parti riproduttive!”.

“Lombrico! Leccherai la polvere prima che io ti consenta di tornare in cielo!”.

“Si dice mangiare la polvere, non leccare!”.

“Fa lo stesso, parassita spaziale!”.

“Se devi fare l’esaltata, almeno usa la terminologia corretta” ghignò Kosmos, abbassando il tono della voce e tornando a rilassarsi sulla branda “Allora, mia cara, quando torno a casa?”.

“Ero venuta a prenderti, convinta che avessi capito il tuo errore…”.

“Errore? Quale errore?”.

“Ecco, appunto. Ero venuta, ma tu non hai capito proprio un cazzo e quindi non meriti la mia grazia”.

“Hei, frena un momento! Io non ho bisogno della tua grazia!”.

“Quello è l’unico modo che tu hai di ritornare in cielo”.

“L’unico?! Non dire scemate! Il mio posto è quello e ci tornerò. Confido nel fatto che prima o poi vedrai di non riuscire a gestire la situazione. Diciamocelo…non sei molto portata al comando”.

“Ricordati che tu, ora, sei un mortale. Un piccolo, inutile, debole e antipatico umano. Potrei disintegrarti con uno schiocco di dita”.

“Ma non lo farai…perché tu in realtà vuoi scoparmi, e disintegrandomi non ci riusciresti”.

“Allora vorrà dire che prima ti scoperò e poi ti disintegrerò”.

“Simpatica”.

“Coglione”.

“Allora, vostra cielità, che devo fare per rientrare nelle vostre grazie?”.

“Lo sai già”.

“E tu lo sai che io non ammetterò MAI di essere alla pari di te. Qual è l’opzione numero due?”.

“Non c’è nessuna opzione numero due, testa grotta!”.

“Testa grotta?!”.

“Hai le stalagmiti nel cranio invece del cervello!”.

“Ah, in quel senso! Carina come immagine…”.

“Non cambierai mai…”.

“E che ti aspetti?! Son più vecchio del pianeta dove ci troviamo adesso e vuoi che cambi ora perché a te girano le palle di cambiarmi?”.

“Ti comporti come uno spocchioso ragazzino viziato”.

“E tu come una befana zitella con gli sbalzi ormonali”.

“Mi sa che resterai su questo pianeta fino alla fine dei tuoi giorni che, essendo ora mortale, non saranno molti”.

“Oh, sto tremando! Che minaccia! Non dire scemate, fammi tornare in cielo!”.

“NO! Non accadrà fino a quando non la smetterai”.

“Smetterò cosa?!”.

“Di irritarmi!!”.

“La cosa è impossibile, tu ti irriti per qualsiasi stronzata!”.

“Sai una cosa? Io ero venuta qui con le migliori intenzioni. Credevo che cadere e ritrovarsi mortale, in una situazione del genere, ti avesse fatto capire delle cose. Bastava che mi chiedessi scusa, e ti avrei riammesso a palazzo”.

“Chiedere scusa?! Io?! Bella, se qui c’è qualcuno che deve chiedere scusa quella sei tu! Ho rischiato di annegare, sai?!”.

“Ci sono dei momenti in cui ho sperato che la cosa fosse avvenuta”.

“Volevi che io morissi?! Brutta baldracca orientale io ti…”

Kosmos fece per alzarsi ma Kuruma lo bloccò sulla branda, senza nemmeno muovere un dito.

“I dodici zodiacali possono tornare al loro posto anche senza il mio aiuto, come hanno fatto la prima volta che son diventati stelle. Ma tu no, tu hai bisogno dei miei poteri perché non sei mai stato mortale. Senza di me, resterai un semplice umano per sempre. È questo che vuoi?”.

“L’alternativa è chiedere scusa?”.

“Esatto”.

“Allora preferisco restare mortale, ciccina. Tanto lo so bene che verrai a cercarmi fra poco, quando dovrai inaugurare l’era dell’Acquario. Non sai nemmeno da che parte iniziare…”.

“Io sono certa che, per quel giorno, i tuoi dodici ex sottoposti saranno stati abbastanza intelligenti da tornare in cielo. Resterai solo tu qui”.

“Non credo proprio, vedrai”.

“Quindi la tua scelta, umano, è restare qui…”.

“Esatto. E ora vattene!”.

“Parlare in questo modo ad una Dea non è una cosa molto furba, sai?”.

“Bla, bla, bla…quanto parli! Sparisci, ho sonno”.

“Come vuoi. Dai, però, una mano a questi poveretti che, oltre a lavorare, devono pure sopportarti”.

“Anche questa è una cosa che non accadrà mai. Dileguati!”.

“La scelta è tua però ricordati: merda sei e merda ritornerai!”.

“Polvere è la parola, ignorante!”.

“Fa lo stesso”.

Kuruma scomparve e Kosmos sorrise. Ora poteva dormire in pace.

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Capitolo 5
*** 4 ***


V

 

 

“Impara a guidare, impedito!” sbraitò Kosmos, quando un violento scossone lo risvegliò dal pisolino in cui era sprofondato.

Sentiva gridare e la nave pareva impazzita, sballottata di qua e di là. Cadde dal suo giaciglio, imprecando verso non sapeva bene chi.

“Hei, tu!” si sentì chiamare, con tono piuttosto scocciato, dalla capitana “Muovi il tuo culo pallido e vieni a dare una mano di sopra!”.

“Ti ho già detto che non ho nessuna intenzione di farlo!”.

“Senti, parassita, siamo finiti in mezzo ad una tempesta!”.

“E allora?! La cosa non mi riguarda!”.

“Ti riguarda, se andiamo a fondo!”.

“E che dovrei fare, secondo te?! Fermare la tempesta?! Mi spiace, ma far questo non è mai rientrato fra le mie mansioni!”.

“Vieni ad aiutarci o giuro che ti rigetto nell’oceano!”.

Kosmos, piuttosto infastidito, si alzò in piedi a fatica e tornò a sedersi, deciso a ricominciare a dormire. Già si era voltato con il viso verso la parete quando un suo compagno di stanza venne a prendere la capitana.

“Lasciatelo perdere quello” disse, rivolto ad Hanne “Sarebbe del tutto inutile di sopra. Non è abbastanza uomo da affrontare una tempesta!”.

Kosmos spalancò gli occhi, d’improvviso furioso. Si alzò di scatto, deciso ad avventarsi contro colui che lo aveva offeso, ma il movimento della nave glielo impedì e cadde in terra in malo modo. Il marinaio ridacchiò, riuscendo a stare perfettamente in equilibrio.

“Visto? È un imbranato. Lasciatelo qui”.

“Te lo faccio vedere io l’imbranato, razza di nullità fatta di carbonio deperibile!”.

“Perché, tu di cosa saresti fatto?” ghignò l’uomo, con disprezzo.

“Io…tu non puoi capire. Nessuno di voi può. Non ne avete le capacità mentali”.

“Posso ributtarlo in mare?” domandò il marinaio.

“In effetti, in mezzo alla tempesta, nessuno potrebbe accusarci. Potremmo dire che è caduto da solo…o potremmo non dire nulla. Nessuno sa che è qui…”.

“Cosa?!” si allarmò Kosmos.

“Scherzo. Io non sono una persona disgustosa come te. Goditi il viaggio disteso sul letto…”.

“Io non sono una persona disgustosa! Io sono Kosmos e non potete nemmeno immaginare chi fossi prima di finire qui, in questo buco malfermo e puzzolente!”.

“Non possiamo immaginarlo? Dimostracelo, grand’uomo!”.

Kosmos, ferito nell’orgoglio e in molte altre parti del corpo dopo il ruzzolone imbarazzante che aveva fatto prima, si avviò lungo la scalinata che portava al ponte. Incespicò più volte e trovò la cosa davvero fastidiosa. Lui, che era abituato a controllare la gravità e levitare nel cielo infinito, ora ballonzolava come il più imbranato dei pinguini! Un’onda schizzò e lo bagnò, mentre un fulmine illuminò per un istante l’intera ciurma, impegnata ritirare le reti per poter andare al largo, dove la tempesta non avrebbe agitato tanto le onde. Purtroppo erano sulla rotta del ritorno e non in pieno oceano come qualche giorno prima.

“Questa perturbazione non era prevista da nessuna parte! Dannazione!” gridò la capitana, correndo ai comandi, dove un marinaio stava litigando con gli strumenti di navigazione impazziti.

Kosmos si avvicinò agli altri, che lo fissarono con stupore per qualche istante, prima di urlargli di afferrare la rete e dare una mano a tirarla su. Il meccanismo che la ritirava in automatico si era danneggiato. L’ex Signore Occidentale obbedì, convinto a dimostrare che non era l’inutile bimbo capriccioso che gli altri credevano che fosse. Purtroppo per lui, l’operazione richiedeva più forza di quanto pensasse e per poco non cadde in acqua, trascinato dalla rete.

“Non facciamo prima a tagliarla?” era tentato di proporre, ma non voleva fare la parte della lagna deboluccia.

Lampi e tuoni si succedevano fra le onde, sempre più alte, mentre la ciurma faceva fatica a mantenere l’equilibrio.

“Tagliatela! Al diavolo anche la rete!” ordinò, ad un tratto, la capitana.

“Vaffanculo…senza questo carico, saremmo costretti a farci mandare una rete nuova e tornare in mezzo al nulla perché non ne abbiamo abbastanza di quel cazzo di pesce!” protestò qualcuno, quasi ringhiando.

“Senza rientrare al porto?” gridò, di rimando, Kosmos, tentando di farsi sentire nel vento.

“No. Ci aspettano altri giorni di palloso monopanorama! Ma il capo ha detto di tagliare…”.

“Aspettate! Dai, proviamo ancora!” incoraggiò Kosmos, schifato solo all’idea di passare tempo in più fra la puzza e lo schifo del pesce.

Tirò più forte, mentre l’ennesimo lampo gli diede l’impressione di mostrargli un volto fra le nubi.

“Kuruma! Vuoi uccidermi?!” urlò, mentre lei appariva completamente.

Kuruma rise. Kosmos avvertì quella risata ma agli altri sulla nave sembrò solo un tuono molto forte.

“Lo trovi divertente?!”.

“Molto, Kosmuccio. È uno spasso vederti lavorare!”.

“Come hai la forza di fare una cosa del genere?!”.

“Ti riferisci al fatto che ho generato una tempesta? In realtà, fra scettro e chiave, i miei poteri sono notevolmente aumentati e mi è tutto più semplice”.

“Puttana…” mormorò Kosmos, ormai stremato e fradicio.

“Smettila di metterti in imbarazzo davanti agli uomini veri che stanno su quell’aggeggio galleggiante. Loro non sentono la mia voce e credono tu stia parlando ai tuoni”.

“Che credano quello che vogliono…”.

“Potresti far finire tutto questo quando vuoi, sai come!”.

“Sparisci!”.

Kosmos aveva ricominciato a gridare, tirando la rete con più voga. Kuruma continuava a ridere ma poi smise, quando si accorse che quella massa di mortali stava riuscendo nell’intento. Con un ultimo sforzo, la rete fu completamente ritirata. Ansimando, Kosmos si distese in terra, stanchissimo ma soddisfatto. Alzò il dito medio al cielo.

“Ho vinto io, stronza!” ridacchiò.

Kuruma lanciò gli ultimi fulmini e poi si dissolse, avvolgendosi nelle vesti di nuvole. La tempesta iniziò a placarsi.

“Fantastico, ragazzi! Ci siamo riusciti!” si sentì gridare.

“Bravo. Forse i tuoi genitori non hanno commesso poi un grande errore nell’educarti” mormorò la capitana, rivolto a Kosmos.

“I miei genitori?” sussurrò lui, seduto in terra strizzandosi i capelli e i vestiti.

Si guardò attorno. Erano tutti figli di madre. Tutti i presenti avevano dei genitori. Erano tutti nati da qualcuno, da un uomo e da una donna. Tutti tranne lui. Era la prima volta che sentiva di avere qualcosa in meno rispetto a coloro che lo circondavano.

 

₪₪₪

 

Adhafera camminava tranquillamente per strada, dopo essere stata rilasciata per “incapacità di intendere e volere”. Non aveva ben idea di dove andare ma, a quanto pare, in quel Paese a pochi importava del destino degli innocenti. Ad un tratto percepì una strana sensazione, come un presentimento. Era seguita, ne era certa. Tentò di cambiare strada, infilandosi in una stradina laterale. Nonostante questo, avvertiva ancora quella spiacevole sensazione di avere qualcuno alle calcagna. Si voltò di scatto, afferrando chi la stava seguendo e buttandolo in terra.

“Tu chi sei e che vuoi?” sibilò.

“Non farmi del male! Sono Roberto Giacobbo. Voglio intervistarti!”.

“Roberto chi?! E che cos’è che vuoi farmi?!”.

“Roberto Giacobbo…non mi conosci? Sono famoso!”.

“Mai sentito nominare”.

“Conduco "Voyager!"”.

“Cos’è un Voyager? E dove lo conduci?”.

“Io credo alla tua storia e voglio fare un servizio su di te. Andrai in onda in tv. Ti va?”.

“Io…”.

“Non starlo a sentire!” interruppe la conversazione un altro individuo.

Adhafera rimase ferma dov’era, mentre Giacobbo si rialzava e guardava con fastidio quel tizio che l’aveva zittito.

“Sparisci!” protestò “Lei è mia!”.

“Scordatelo, quattrocchi! Fatti da parte!”.

“Mai! Torna da dove sei venuto!”.

“Hem…” borbottò Adhafera “Tu chi saresti?”.

“Io sono Marco Berry e conduco "Mistero", altro che quella scemata di "Voyager!"”.

Leone rinunciò a capire cosa volesse dire “condurre” secondo loro.

“"Voyager" non è una scemata! "Mistero" lo è!”.

“Vai al diavolo!”.

“Buttati sotto un treno!”.

“Sparati!”.

“Fatti rapire dagli alieni!”.

“Ma vai a cercare i Templari, che è meglio!”.

“Va a contare i cerchi nel grano!”.

“Buffone!”.

“Migra altrove, testa pelata!”.

“Potete smetterla, per favore?” fermò il tutto Adhafera “Che cosa volete da me?”.

“Voglio intervistarti!”.

“Pure io!”.

“Non ascoltarlo! Il mio programma è il migliore!”.

“No, il mio è il migliore! Lui è un bugiardo! Crede ancora a Babbo Natale!”.

“E lui a Moth man!”

“Moth Man esiste!”.

“Certo che no! E ormai dovresti saperlo!”.

“Io l’ho visto!”.

“Ma tu davvero credi nelle stronzate che porti nel tuo programma?!”.

“E tu in quelle che presenti tu?!”.

“Basta, finitela!” urlò Leone, decisamente stufa “Se non volete che vi tramortisca entrambi e festa finita! Cos’è un’intervista?”.

“Tu parli di te e poi finisci in televisione. Ti vedranno tutti”.

Adhafera rifletté un attimo. Se l’avessero vista davvero tutti, allora sarebbe stato semplice contattare i suoi compagni caduti. Poteva funzionare…

“Non sembra una cattiva idea” disse, dopo qualche minuto, in cui i due presentatori non fecero altro che azzuffarsi e insultarsi.

“Bene, allora ti intervisterò!” si affrettò a dire Giacobbo.

“No! La intervisterò io! Tu fatti da parte!” ringhiò Berry.

“Ma non potete intervistarmi entrambi?” propose Adhafera.

“Benissimo. Prima io!”.

“No! Io!”.

“Che due coglioni…” tagliò corto Leone, schivandoli e riprendendo il suo cammino.

“No, aspetta! Aspetta, stella caduta!” la supplicò Giacobbo.

“Non andar via! Parla con noi!” aggiunse Berry.

E Leone camminò ore per Roma, con alle spalle due pazzi che per tutto il tempo la supplicarono di concederle un’intervista, fra un insulto e un altro fra loro.

 

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“Non ho bisogno di lui per sopravvivere. Che passi pure il suo breve tempo mortale a buttare i soldi alle slot! Saprò cavarmela benissimo da solo” borbottò Buda, zigzagando fra la folla di Las Vegas.

C’era chi lo spintonava e chi lo fissava come se fosse una strana attrazione. Camminava pensando a cosa fare. Chissà se qualcuno dei suoi compagni aveva capito il modo per poter tornare a casa… Ne aveva nostalgia, non gli era mai piaciuto il mondo mortale. Passò davanti a diversi casinò, chiedendosi che cosa ci trovasse di divertente la gente all’interno. Una coppia di sposi ubriachi vestiti da Elvis lo spinse, cantando in malo modo.

“Se gli umani si sono ridotti in questo modo, allora forse converrebbe davvero a tutti se si estinguessero” commentò, piuttosto confuso.

Sedette, sotto una fontana raffigurante una sirena prosperosa e sorridente, sospirando.

“Brutta serata, eh?” si sentì dire.

“Già” rispose, senza alzare lo sguardo dal pavimento.

“Pure la mia non è un granché. Ho perso un sacco di soldi e ho litigato con mio figlio. Quel ragazzo a volte sa essere una vera disgrazia!”.

“Pure io ho perso soldi. E ho litigato di brutto con mio fratello”.

“Una seratina niente male per entrambi, insomma. Da dove venite tu e tuo fratello?”.

“Da un posto in cui non sappiamo se potremo tornare”.

“Siete scappati di casa?”.

“No. Siamo stati cacciati di casa”.

“E siete venuti a Las Vegas?!”.

“Mio fratello è bravo a fare amicizia e si è fatto portare qui…”.

“Poi lui se ne è andato con i suoi nuovi amici, lasciandoti in disparte?”.

“Più o meno. Lui ha sempre avuto tutte le fortune”.

“Fratello più piccolo? Cocco di mamma?”.

“Fratello gemello. Cocco di papà”.

“Capisco”.

“E tu e tuo figlio da dove venite?”.

“Dalla California. Siamo qui perché lui non va particolarmente bene a scuola”.

“E siete venuti a Las Vegas?!”.

“Sì. Assurdo, vero? È che mi ha detto di volersi svagare un po’e, avvicinandosi il Natale, ho pensato che qualche giorno di luci colorate e divertimento potessero fargli bene”.

Buda annuì, fingendo di sapere cosa fosse il Natale.

“Perché non va bene a scuola?” domandò poi, sentendosi un po’ solo e volendo fare conversazione.

“Ha problemi con la storia. Quello zuccone ha scelto "storia europea" e la letteratura di quelle parti come indirizzo, dicendo che la storia e la letteratura americane lo annoiavano, e ora si è incasinato fra egizi, greci, romani, vichinghi e mitologia varia. Un disastro!”.

“Beh, se volete, io sono abbastanza ferrato sull’argomento. Potrei aiutare…”.

“Sul serio? Ne sai qualcosa per davvero?”.

“Come se ci fossi nato nel mezzo!”.

L’uomo e la stella caduta si fissarono, per la prima volta in tutta la conversazione, e Buda sorrise. Chi aveva di fronte indossava un enorme cappello da cow boy con l’abito a tema. Il gemello moro lo trovò piuttosto buffo ma, pensò, doveva esserlo pure lui andando in giro con una sorta di tunica malconcia e bruciacchiata.

“Saresti disposto a dare lezioni a quella testa vuota di mio figlio?”.

“Non ho mai fatto l’insegnante prima d’ora ma posso provarci”.

L’uomo si alzò. Si vedeva che era piuttosto ricco. Sfoggiava numerosi gingilli in oro. Respirò a fondo, portando al limite della sopportazione i bottoni della propria camicia, data la sua pancia piuttosto prominente, e si voltò verso Buda.

“Allora affare fatto. Tu non hai un posto dove andare e di certo mi costerai meno di quell’incompetente d’insegnante privato che ho assunto anni fa. Un periodo di studio intensivo, con il maestro sempre a fianco, non gli farà di certo male! Accetti, signor…non ti ho chiesto come ti chiami…”.

“Buda, mi chiamo Buda”.

“Che nome singolare. Io sono Jerald Jonson. Chiamami Jer, o J.J., come fanno tutti”.

“Ok…”.

“Ora andiamo a riprendere mio figlio. È ora di tornare a casa”.

Buda lo seguì senza dire nulla. Che strambi che erano gli esseri umani di quel tempo! Una voce familiare lo fece voltare. Suo fratello Mek, completamente ubriaco, stava dando spettacolo. Cantava, assieme agli “scova alieni”, e guardava il gemello con un largo sorriso.

“Dove vai, principino?” biascicò.

“Via, come avevo promesso” rispose, serio, Buda.

“Non essere ridicolo! Non sopravvivresti un giorno senza di me!”.

“Vedrai che me la saprò cavare”.

Il gemello moro aveva voltato le spalle all’altro e si era incamminato dietro all’enorme signor Jonson, che apriva la folla come se niente fosse.

“Hei! Aspetta! Non puoi dire sul serio!” gridò Mek.

“Sono serissimo!” urlò, di rimando, Buda.

“Benissimo! Se la metti così, vai pure! Io non ho bisogno di te!”.

“Nemmeno io!”.

“Bene!”.

“Benissimo!”.

Separati ormai dalla gente e dalle auto, i gemelli non poterono più parlare e, con un sospiro non manifesto, presero due strade diverse.

 

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Giunto al confine con il Pakistan, come gli era stato ordinato, Deneb Algiedi attendeva il compratore, seduto su una cassa di legno. Alle sue spalle, la grossa jeep con cui era arrivato fino a lì era carica di altra merce da vendere e guardata a vista da due omoni armati. Con la sigaretta di sbieco fra le labbra, aveva preso anche quel vizio, fissava il cielo sereno tenendo le braccia incrociate. Che strano destino lo aveva condotto fino a lì, a svolgere quel ruolo nella sua nuova vita mortale. Guardò gli sgherri che lo controllavano.

“Sono in ritardo” commentò, riferendosi ai loro compratori.

“Aspettiamo solo qualche minuto, dopodiché contattiamo il capo e vediamo. Non siamo pagati per giocare e i comodi degli altri non ci interessano”.

“Benissimo” alzò le spalle Capricorno, tornando a rilassarsi appoggiato alla jeep.

Dopo poco vide alzarsi una nube di polvere in lontananza. Un’altra jeep si stava avvicinando, a grande velocità.

“Eccoli” esclamò uno degli omoni, scendendo dal mezzo ed affiancando Deneb.

L’auto si fermò. La polvere la ricopriva ed era difficile dire quante persone vi fossero al suo interno.

“Siete in ritardo” sbottò Algiedi.

“Problemi alla dogana. Ultimamente è sempre più difficile passare i confini”.

“Avete i soldi?”.

“Avete la merce?”.

“Tutto quello che avete chiesto”.

“Siete più cari dell’altra volta…”.

“Ci avete richiesto un Remington, mica noccioline! Rintracciarlo non è stato facile”.

“Spero sia l’M 24, come concordato”.

“Ovvio. Se vuoi vederlo, è nella cassa più piccola”.

“Se permetti, meglio non fidarsi troppo. Voglio vederlo”.

“Come vuoi. Ragazzi, mostrate a questo malfidente quello che gli abbiamo procurato”.

“Chiama il pivellino, sarà compito suo usarlo”.

Mentre la cassa con il fucile da cecchino veniva aperta, dalla jeep impolverata era trascinato fuori un uomo, che non amava particolarmente essere trattato in quel modo.

“Antares?” esclamò Capricorno, alzando gli occhi dalla cassa.

“Dabih! Deneb…sei tu?” rispose Scorpione, ancora trattenuto dai suoi aguzzini.

“Non ci posso credere…”.

“Chi è quell’uomo, Algiedi?” domandò un indiano sospettoso.

“Lui è…mio fratello”.

“Non vi assomigliate”.

“Non fratelli di sangue. Compagni di avventure, e sventure. Colleghi di lavoro”.

“Guarda questo fucile, Antares…” interruppe uno dei compratori, non interessato alle vicende personali “Il lavoretto che dovrai fare per noi sarà con questo giocattolo. Poi sarai libero, come promesso, e ciò che ti accadrà sarà affar tuo”.

“Che dovrei farci con quello?”.

“Sparare, mi sembra ovvio!”.

“A chi?”.

“Ogni cosa a suo tempo…”.

“E poi sarò libero? In zona di pace?”.

“Pace…che parola grossa! Diciamo che non sarai più fra i bombardamenti”.

“Mi basta…”.

Antares fissò Deneb, mentre venditori e compratori si scambiavano merce e denaro.

“Posso parlare un attimo con lui?” domandò Algiedi.

Ottenuto il premesso, le due stelle cadute si allontanarono di qualche passo.

“Ti comporti come se fossi un criminale da sempre…” commentò Scorpione, usando il linguaggio del palazzo occidentale.

“Diciamo che mi sono trovato bene. E tu? Che mi combini? Ti fai schiavizzare?”.

“Ho dovuto. Mi sono ritrovato in mezzo ad una guerra. È già tanto che sia vivo!”.

“Brutta storia…”.

“Già. E ora devo ammazzare qualcuno per ottenere la libertà”.

“Sei sicuro che poi la libertà ti verrà concessa per davvero?”.

“No. Non mi fido un granché”.

“Ti sei cacciato in un bel guaio…”.

“Credi che non lo sappia?! Comunque, tornando ad argomenti più leggeri, hai visto qualcun altro di noi in giro?”.

“Solo te, fin ora”.

“Ti sono mancato?” ridacchiò Antares.

“Vuoi un abbraccio?! Senti…tornando al discorso del fucile da cecchino…”.

“Gli ho mentito. Ho detto che sono bravo a sparare, ma non ho mai sparato in vita mia!”.

“Sei un vero coglione!”.

“Grazie…”.

“Ma è vero! Sei una testa di cazzo! Se manchi il bersaglio, sei nella merda!”.

“Tu sai come si usano quei cosi?”.

“Sto imparando, ma non posso giudicarmi un esperto”.

“Di certo te la cavi meglio di me”.

“E che cosa credi possa fare?”.

“Vieni con me. Non lasciarmi in mano a quelli…”.

“Sei impazzito?! Guarda che non posso fare quello che mi pare con loro. Ho degli ordini”.

Scorpione sospirò.

“Non fare quella faccia…” lo ammonì Capricorno, incrociando le braccia “…te le sei andate a cercare le tue rogne! E ora trova il modo di uscirne!”.

“E per tornare in cielo che si fa?”.

“Vuoi tornare in cielo?”.

“Questo pianeta mi irrita…”.

“Non posso aiutarti nemmeno in questo caso. Forse Rukbat…”.

“Non lo nominare. Sai che mi sta sulle palle quel semiequino…”.

“Ma è lui il saccentone del gruppo. Se c’è qualcuno che può avere una vaga idea di come tornare, quello è lui”.

“Allora rimarrò qui, in questo inutile mondo”.

“Come vuoi…”.

Deneb fu richiamato da uno dei suoi. Era tempo di andare, ora che la trattativa e lo scambio erano conclusi. Antares lo vide allontanarsi e, sospirando, tornò pure lui alla jeep. Capricorno e Scorpione si scambiarono un ultimo sguardo.

“Sentite, ragazzi…” parlò Algiedi, appoggiato alla portiera “…quelli tengono in ostaggio mio fratello. Non c’è un sistema per farlo uscire dai casini?”.

“Non possiamo creare problemi a causa del tuo fratellino…”.

“Posso andare con loro? Hanno promesso di rilasciarlo in zona di pace…vorrei verificare che la cosa avvenga per davvero…”.

“Deve deciderlo il capo”.

“E allora contattatelo! Avete voi il numero…”.

Dopo una telefonata piuttosto breve, l’omone avvicinò Deneb al viso, parlandogli all’orecchio.

“Il capo dice che puoi andare, ma che ti tiene d’occhio. Se ci stai prendendo per il culo, sei morto. Inoltre, ti raccomanda di scoprire il più possibile sui traffici nelle loro zone. Se c’è la possibilità di espanderci ulteriormente, ovviamente dovrai cogliere l’occasione. Non ci deludere”.

Deneb annuì e si avvicinò alla jeep dei compratori, che nel frattempo stava sistemando la merce. Antares, chiuso dentro il mezzo, osservava la scena con curiosità.

“Vengo con voi” esclamò Capricorno, mostrando di conoscere perfettamente la loro lingua.

“E a che scopo?” si insospettì l’autista.

“Devo tenere d’occhio il mio fratellino e poi ci sono dei nostri uomini alle dogane, vi aiuterò a passarle senza problemi”.

“Se me lo assicuri, allora sali. Se hai in mente altro, ti consiglio di girare al largo. Non mi piacciono quelli della tua cerchia”.

“Quelli della mia cerchia tengono in piedi la vostra guerriglia”.

“Sali. E vedi di non fare scherzi”.

Deneb salì, sedendosi accanto ad Antares che sorrise come un bambino. Algiedi gli lanciò un’occhiataccia decisamente minacciosa. Avrebbe preferito di gran lunga starsene al proprio posto fra i contrabbandieri indiani! Girandosi, vide che aveva una pistola puntata alla testa.

“Sei armato, sicuramente. Consegnami tutto, senza fiatare, ed io ti lascerò in vita”.

Capricorno sospirò, consegnando pistola e coltelli.

“Scusa…” mormorò Scorpione.

“Benissimo. Era da tanto che speravo di avere uno degli indiani fra le mani. Da te avrò un sacco di informazioni utili! E guai a te se mi racconti balle”.

“Sei contento adesso?” sibilò Deneb ad Antares.

La jeep ripartì a velocità sostenuta, con Capricorno che per tutto il viaggio non fece altro che chiedersi perché aveva fatto una stronzata così grossa.

 

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“Mia signora…” chiamò dolcemente Shu, la topolina del palazzo Orientale.

“Andatevene! Andatevene tutti! Non voglio parlare con nessuno!” rispose Kuruma.

Rinchiusa nella torre da giorni, non faceva altro che mandare via i suoi sottoposti in malo modo e camminare su e giù per le stanze. I dodici occupanti dell’ala orientale erano piuttosto preoccupati da questo suo atteggiamento e tentavano di farla ragionare.

“Signora! Ci sono delle cose importanti di cui vorrei parlarle!”.

“Vattene!”.

“Ma è davvero importante. Sono preoccupata”.

“Dimmelo attraverso la porta, poi sparisci”.

“Stavo pensando…Kosmos non è mai stato mortale prima d’ora”.

“No”.

“A differenza di noi dodici e dei suoi dodici segni occidentali, non ha un fisico abituato a ciò che c’è sulla terra. Non è…diciamo "temprato" per un ambiente come la Terra”.

“Che si tempri, allora!”.

“Quello che intendo è che lui è sempre vissuto qui, in un’atmosfera stabile, senza vento, pioggia, sbalzi di temperatura e cose del genere. Non ha difese contro gli agenti esterni. Non sa come affrontare le malattie. Non ha un sistema immunitario adatto a vivere sulla Terra”.

“Che se lo faccia!”.

“Non so se questo è possibile. Intendo dire…un semplice raffreddore potrebbe essere un bel problema per lui”.

“Affari suoi!”.

“Ma Signora…morirà!”.

Ci fu silenzio. Kuruma aprì la porta della torre, dopo qualche istante.

“Morirà?” mormorò.

Sembrava dispiaciuta, per un attimo, poi si scosse, quasi ringhiando.

“È mortale e lo ha voluto lui. È ovvio che morirà!” affermò.

“È destinato ad una vita molto breve”.

“Breve quanto?”.

“Non saprei ma lei capirà che senza difese non andrà molto lontano…”.

“Ed io che dovrei fare secondo te?! Quell’essere è così odioso…”.

“Deve tornare qui…”.

“Lui non vuole. È il più grosso testardo che abbia mai conosciuto”.

“Forse, se gli altri dodici tornano in cielo, capirà che è il caso di fare altrettanto”.

“Intendi dire dare una mano ai dodici a tornare, così da fargli capire che deve smettere di fare il pirla galattico?”.

“Beh…sarebbe un’idea. O no?”.

“Non lo so, Shu. Non vorrei che lo interpretasse come un mio segno di debolezza”.

“Io non posso prendere decisioni per conto vostro”.

Kuruma chinò la testa, fissando la piccola topolina, ed iniziò a scendere le scale della torre, diretta verso il salone orientale. Lì i suoi segni erano riuniti e le sorrisero, con sollievo, quando la videro entrare. Lei sedette, facendo segno ai dodici di andarle vicino.

“Ho bisogno del vostro consiglio” disse.

“Al vostro servizio!” rispose, prontamente, Gou il Cane.

Kuruma spiegò in fretta la questione e chiese il parere del gruppo.

“Un po’ mi mancano quelli di là” iniziò Long, Drago, indicando l’ovest “Ma Kosmos non mi è mai piaciuto. È sempre stato così altezzoso…”.

“Non lo è sempre stato. Purtroppo con i millenni è peggiorato…” sospirò la Signora Orientale.

“Potremmo riportare qui chi se lo merita dei dodici, e chi non lo merita lo lasciamo là. Possiamo cavarcela benissimo anche senza, giusto?” propose Yang, Capra.

“E chi lo merita? In base a cosa si decide?” domandò Niu, Bue.

“Kosmos non lo merita. Si è comportato male!” affermò Hòu, Scimmia.

“Non siamo bambini! Non possiamo offenderci e condannare qualcuno a morte solo perché è uno stronzo!” parlò Tù, Lepre.

“Perché no?” ridacchiò Hu, Tigre.

“Già, perché no? Ora il potere lo abbiamo noi e, se loro non lo capiscono, abbiamo il pieno diritto di fare ciò che ci pare!” annuì Ji, Gallo.

“Che ragionamenti! Insomma, senza di loro ci si annoia!” si lagnò Ma, Cavallo.

“Io non ho rubato lo scettro per sconfiggere Kosmos, distruggerlo, e poi vederlo tornare!” protestò Hòu, incrociando le braccia e mettendo il broncio.

“Distruggerlo non era il nostro scopo!” puntualizzò Shu.

“Ma che dovremmo fare noi?” domandò Shè, Serpente.

“Niente, spero!” fu la risposta di Zhu, Maiale.

“Dobbiamo andare ad aiutarli” affermò, convinta, Gou.

“Stupida cagna schiava!” la insultò Ji.

“Mettiamola ai voti…” mormorò Shu, quasi intimorita dall’atmosfera che si stava accendendo.

“Giusto” concordò Kuruma “Io posso riportare in cielo i dodici ma dovrebbero trovarsi tutti nello stesso posto, anche se credo siano in grado di tornare da soli in qualche modo. Kosmos non lo posso aiutare, non lo voglio aiutare, finché non farà ciò che dico, ma, forse, vedendo che tutti tornano a casa, avrà voglia di muovere le chiappe e aprire gli occhi. Io lo avviserò del pericolo che corre, vediamo se inizia a ragionare…”.

“Nel frattempo la mettiamo ai voti e vediamo che fare. Allora…chi è favorevole ad aiutare i caduti? Contiamo…”.

Topo, Cane, Bue, Drago e Cavallo diedero subito il consenso. Serpente andò vicino a Scimmia, Gallo e Tigre e pure loro diedero il consenso, fra lo stupore generale degli altri. Lepre e Capra rimasero neutrali, la cosa gli lasciava del tutto indifferenti. Maiale protestò, non volendo fare fatica.

“La maggioranza vince. Interveniamo” sorrise Shu.

“Preparatevi. Andrete sulla Terra” parlò Kuruma “Ricordatevi che, una volta che vi avrò trasformato in umani e portati a destinazione, dovrò usare tutto il mio potere per il controllo del cielo, perché rimarrò qui da sola, perciò non potrò aiutarvi ulteriormente. Parte delle vostre capacità rimarranno, non essendo voi stati cacciati, quindi non avrete difficoltà a comunicare fra di voi e ritrovarvi. Fateli congiungere tutti nello stesso punto, poi si vedrà”.

“Sissignora” risposero in coro, più o meno convinti.

“Quale punto?” domandò Gou.

“Forse Rukbat ci ha visto giusto. Portateli in Grecia. Da lì sono saliti al cielo la maggior parte di loro, quindi credo sia la soluzione migliore. Buona fortuna”.

I dodici si fissarono un’ultima volta, prima che una luce fortissima li avvolgesse e li allontanasse dal palazzo Orientale, mutandoli fisicamente e riducendone i poteri.

 

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Hamal era fuori di sé dalla gioia e dall’agitazione. Stava per partire! Stava andando a Roma! Ancora non lo credeva possibile. Erik stava rientrando per Natale e, come promesso, aveva portato Ariete con sé.  Con un piccolo zaino, tutto ciò che aveva, Hamal si ritrovò decisamente spaesata fra la folla dell’aeroporto. Erik, trascinandosi dietro un trolley piuttosto voluminoso, le raccomandò di non allontanarsi o rischiava di perdersi. Hamal seguì il consiglio e non lo perse di vista un attimo. Le partenze erano molte in quei giorni e la coda per l’imbarco lunga e lenta.

“Non ho mai preso un aereo prima d’ora” ammise Ariete.

“Tranquilla, non è niente di ché. Ti piacerà” la rassicurò Erik, ridacchiando.

“Tu l’hai preso altre volte?”.

“Moltissime. La mia famiglia è giramondo e mi sposto spesso. Per questo ti dico che non c’è niente di cui preoccuparsi. Ho viaggiato tante di quelle volte in aereo…”.

“È divertente?”.

“Dipende dai punti di vista. Lo scoprirai…”.

Saliti a bordo, lui le suggerì di prendere il posto accanto al finestrino.

“Non dovresti aver paura dell’altezza. Sei o non sei una stella caduta?” la prese un po’ in giro Erik.

Hamal non capì la presa in giro e sorrise, annuendo convinta e dicendo che doveva essere per forza così. Quando l’aereo iniziò a rollare e prendere velocità, Ariete si sentì un po’ a disagio. Tutto quel rumore, gli scossoni e le poco rassicuranti parole dell’Hostess non l’aiutavano a rilassarsi. Ma poi prese quota e lei sorrise. Vide il terreno allontanarsi in fretta si ritrovò fra le nuvole.

“Bello!” commentò.

“Te l’avevo detto. Ora puoi rilassarti per un po’. Il viaggio è lungo”.

In effetti, prima di arrivare a Roma, ci vollero più di otto ore, in cui lei si alzò spesso, non riuscendo a stare ferma nello stesso posto per più di cinque minuti.

“Hamal! Siediti! Fra poco inizia la procedura d’atterraggio!” la chiamò Erik, riponendo al sicuro il sacchetto di patatine che stava svuotando.

Ariete obbedì, tornò a sedersi ed allacciò la cintura. Le nuvole si erano diradate e poté vedere la capitale d’Italia dall’alto con precisione. Un po’ si spaventò quando il terreno si avvicinò, ricordando in modo spiacevole la sua caduta, ma sorrise: andava tutto bene e presto avrebbe rivisto Adhafera! Ne era sicura! Scese quasi saltando dalla scaletta e trascinò Erik per un braccio, piena di entusiasmo insensato.

“Stai calma! Devo ritirare il bagaglio!” tentò di tranquillizzarla l’uomo, ma senza successo.

“Dov’è la tua famiglia?” domandò lei.

“Non è di Roma. La devo raggiungere con il treno”.

“Ma…io credevo che fossi venuto qua per loro!”.

“Certo. Ma non si può arrivare direttamente dove abito io. Ti aiuterò a trovare la tua amica. Se la troverai, starai con lei ed io me ne andrò per la mia strada. In caso contrario, verrai con me e vedremo di trovare un’altra soluzione”.

Hamal annuì. I bagagli ci misero un bel po’ ad arrivare ma, alla fine, straordinariamente, Erik recuperò la sua valigia.

“Meno male, non è andata persa…” commentò.

“Perché? A volte le perdono?”.

“Non sai quante volte mi è successo!”.

“E come mai?”.

“Preferisco non saperlo, né dove vanno a finire quando non vengono ritrovate…”.

Con l’autobus dall’aeroporto arrivarono alla stazione dei treni, dove Erik lasciò in custodia il trolley, non avendo alcuna intenzione di trascinarselo per ore in giro per Roma.

“Evviva! Siamo a Roma!” urlò Hamal, una volta uscita dalla stazione.

Quasi correndo, iniziò a chiamare Adhafera a gran voce. Erik prima ridacchiò e poi sospirò. Qualcosa gli diceva che non sarebbero passati di certo inosservati…

 

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Sadalmelik ancora non ricordava nulla quando il campo fu smontato ed iniziò il viaggio di ritorno. Il capo della spedizione era piuttosto preoccupato. Nessuno aveva ancora risposto agli appelli riguardanti la smemorata che aveva a bordo e presto non avrebbe saputo come occuparsene. Una della compagnia si era offerta di ospitarla per un po’ ma era una situazione temporanea, non avrebbe potuto prendersene cura per sempre.

“Siete stati molto gentili con me” salutò Acquario, quando furono tutti riuniti davanti alla stazione di Oslo, pronti a partire ognuno per la sua strada.

“Mica ti abbandoniamo!” sorrise uno di loro.

“Non voglio arrecare altro disturbo. Me la caverò da sola, grazie”.

“Non se ne parla! Da sola, senza nulla, non te ne vai! Vieni a casa con me!” propose una donna.

“Ma…io…”.

“Sorella!” interruppe la conversazione una voce maschile.

Il gruppo si girò. Un uomo sulla trentina, con singolari capelli neri e arancio ed una strana barba praticamente a strisce, fissava la compagnia. Portava una veste rossa con ampie maniche e pantaloni scuri, piuttosto stretti.

“Sorella mia, finalmente ti ho ritrovato!” parlò di nuovo.

Si avvicinò a Sadalmelik e l’abbracciò, anche se lei si dimenò con forza perché non conosceva assolutamente chi aveva di fronte.

“Chi siete? Che volete?” gemette, allontanando con uno spintone l’uomo.

“Ma come sorellina, non mi riconosci? Sono io! Sono il tuo fratellone, non ricordi? Eravamo usciti in barca quando la tempesta ci ha sorpresi e tu sei caduta in mare. Ti ho tanto cercata…”.

“Tu sei mio fratello?”.

“Sì, sono tuo fratello”.

Acquario, con i suoi grandi occhi viola, guardò quelli verde chiaro di chi aveva di fronte. Quello sguardo, simile a giada, lo aveva già visto da altre parti. Forse era vero. Forse lui era davvero suo fratello…

“Perdonami, ma io non ricordo niente. Non so nemmeno chi sono”.

“Ti aiuterò a ricordare. Vedrai che, una volta giunta a casa, andrà tutto bene”.

I membri della spedizione sorrisero, forse la loro naufraga aveva trovato di nuovo il suo posto.

“Qualcosa nei tuoi occhi mi è familiare…” ammise Sadalmelik.

“Certo. Sono gli occhi del tuo fratello maggiore. Dai, andiamo a casa. Vedrai che andrà tutto bene!”.

Acquario annuì, lasciandosi prendere sottobraccio da quell’individuo che, sperava, l’avrebbe aiutata a ricordare e che presto avrebbe riavuto in mente.

“Buona fortuna!” la salutarono i ricercatori “ E chiamaci, ogni tanto!”.

 

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“Avvisami quando hai finito di fare l’idiota” sbottò una voce di donna.

Al Risha scoppiò a ridere. Vedeva fosco e non capiva più niente. Era arrivato in città e si era fatto tentare da un individuo poco raccomandabile. Ora se ne stava, in preda alle allucinazioni da non si sa bene quale droga, disteso in terra a fissare il nulla. Continuava a ridere, senza capire chi gli stesse parlando. Fu sollevato e preso a schiaffi.

“Riprenditi, imbecille!” gridava la donna, mollandogli altri ceffoni.

“Ma tu chi sei? Cosa vuoi?” biascicò Al Risha.

“Sono una che è stata spedita qui per salvarti il culo, drogato!”.

“Ma non rompermi i coglioni!”.

“Quella roba che hai appena preso ti uccide il cervello!”.

“Io non ce l’ho un cervello, mai avuto, e poi non ho niente da perdere!”.

Dopo l’ulteriore ceffone, tentò di reagire ma non ci riuscì, rimbambito com’era. Voleva solo ridere a caso e vomitare in santa pace.

“Vedi di riprenderti. Devo portarti dai tuoi undici amichetti. Datti una ripulita e alzati”.

“Chi sei? Va via…”.

“Io sono Tù, Lepre, e devi venire con me”.

“Tu sei Tu? Buon per te. E io sono io! Sei una nemica! Non mi toccare!”.

“Si pronuncia Tù, con l’accento, e non sono una nemica!! Una nemica?! Senti, bello, io non ci volevo venire qui, ok? Non mi interessa niente della vostra stirpe occidentale, chiaro? Ma mi hanno costretta, quindi sono qua”.

Al Risha iniziava a mettere a fuoco di nuovo. La donna che aveva davanti aveva lunghi capelli neri, raccolti in due codini giusto sopra le orecchie, e vispi occhi grigio chiaro, quasi bianchi.

“Cos’è questa storia che devi portarmi dagli altri?” domandò Pesci.

“Mi hanno dato questo compito. Quando vi ritroverete tutti assieme, la mia Signora potrà riportarvi in cielo…”.

“Perché ci ha cacciati per poi riportarci su?”.

“Smettila di fare domande stupide! Vuoi tornare a casa o no? Se non vuoi, basta dirlo. Ti lascio in pace, arrangiati da solo”.

“No, non mi piace questo mondo. Però…lasciami riprendere, ti prego. Sto malissimo”.

“Io ti avevo avvisato…”.

Pesci non disse nient’altro, in preda alla nausea ed allo stordimento, e tornò a stendersi a terra. Sospirando, Tù gli si sedette a fianco, capendo che non sarebbe stata una missione semplice.

 

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“Mi scusi…non può toccare le opere! Faccia un passo indietro, per favore!” mormorò Astrea, avvicinandosi ad un punk con i capelli variopinti e la cresta.

Questi non rispose. Le sorrise e si allontanò di qualche passo. Astrea, al lavoro al museo, ringraziò e tornò dal gruppo a cui stava facendo da guida. Era felice di ciò che faceva, anche se a volte provava una forte nostalgia di casa. Terminò il giro verso le sei di sera. Il suo turno era finito e poteva tornare all’appartamento. Doveva prendere due autobus per poterci arrivare e quella settimana toccava a lei la spesa. Si affrettò verso l’uscita, salutando tutti i colleghi. Scese i pochi scalini che la conducevano alla strada quando, con la coda dell’occhio, vide una cresta variopinta dietro l’angolo. Non potevano esserci tante persone al mondo con quella pettinatura. Il punk la fissava, come se la stesse aspettando. Lei lo ignorò, dicendosi che era la cosa più intelligente da fare. Affrettò ulteriormente il passo, per raggiungere la fermata del bus, ma si accorse subito di essere seguita. Decise che avrebbe preso il primo mezzo che le capitava, anche se l’avesse portata dall’altra parte della città. Non si allontanò di molto prima di sentirsi afferrare per il braccio. D’istinto gridò e il punk la lasciò subito.

“Ciao, Astrea” la salutò e lei si girò.

“Chi sei? Come sai il mio nome?” domandò, con aria interrogativa.

“Sono un amico, rilassati”.

“Se avessi un amico con dei capelli del genere me lo ricorderei, credimi!”.

“Sono Ji, non mi riconosci?”.

“Ji? Il Gallo? Non capisco…tu sei…”.

“Umano? Diciamo che per lo scopo che mi è stato affidato non era il caso di presentarsi sotto forma di pollo colorato”.

“Scopo? Quale scopo? Che cosa vuoi?”.

“Io non voglio che voialtri ritorniate in cielo e farò tutto il possibile affinché ciò non avvenga”.

“Quanti paroloni per dire che non ci volete con voi. Beh, è inutile che vieni qui a rompermi le palle. Io non ho idea di come tornare in cielo e quindi è l’ultimo dei miei pensieri”.

“Meglio essere previdenti, no?”.

“Che vuoi fare?” si insospettì Astrea, indietreggiando di alcuni passi.

“Altri miei colleghi sono per il Mondo a fare ciò che ho intenzione di fare io. Vogliamo eliminarvi. Il cielo è nostro, e voi ve ne dovete andare!”.

“Ce ne siamo già andati…”.

“Uccidendoti avrei la certezza che non ti vedrò sbucare nel lato occidentale fra qualche mese…”.

“Te l’ho già spiegato: io non so come tornare in cielo! Non potrei sbucare fra qualche mese!”.

“Magari qualche tuo amichetto ti aiuta. Meglio evitare!”.

Astrea, vedendo che Ji faceva sul serio, si girò e si mise a correre, rientrando nel museo. Lì sapeva che avrebbe trovato le guardie.

“Aiuto! C’è un pazzo che vuole uccidermi!” gridò, entrando.

Subito le guardie all’ingresso le andarono vicino e, quando entrò Ji, gli puntarono la pistola contro.

“Vada fuori, per cortesia. Non ci costringa ad usare la forza” lo minacciarono.

“Quanta scena per un’inutile stellina caduta! Suvvia, sono questioni personali fra me ed Astrea, non immischiatevi e sparite!” ghignò Gallo, sempre piuttosto sicuro di sé.

Continuava ad avvicinarsi. Le guardie avevano fatto scudo davanti a Vergine, che sperava in una fuga di Ji. Ma Gallo non fuggì, continuò ad avvicinarsi. Fino a quando si beccò una pallottola d’avvertimento alla spalla. Gemette e la strinse con la mano. Era da troppo tempo che non provava il dolore.

“Me la pagherai questa, zitella spaziale! È una promessa!” ringhiò, uscendo dal museo.

Solo Astrea notò che la ferita si stava già rimarginando, dopo pochi secondi.

“Ha ancora i suoi poteri lui…” constatò, parlando sottovoce.

“Tutto bene?” le domandò una guardia.

“Sì, grazie a voi”.

“Meglio che ti portiamo a casa noi stasera. Quello non mi pare voglia arrendersi…”.

“Vi ringrazio”.

Alla chiusura del museo, quando arrivarono le guardie notturne, fu accompagnata a casa in macchina da uno dei sorveglianti diurni, con ancora addosso l’abito di ordinanza e la pistola, per precauzione. Astrea si sentiva abbastanza tranquilla con quell’uomo armato vicino ma sapeva di non poter contare su una difesa simile sempre. Doveva trovare un’altra soluzione. Scese davanti alla porta dell’appartamento, ringraziando ancora. Una voce le giunse all’orecchio. Era Ji e stava cantando.

“Non potrai scapparmi per sempre, Astrea. Basta una mossa falsa e sarai mia. Non rivedrai mai più le stelle, non sarai mai più una di loro!”.

Vergine si affrettò a chiudere la porta a chiave pur consapevole che, dato che lui aveva mantenuto i poteri, avrebbe potuto passarci attraverso o entrare dalla finestra. Sentì davvero la mancanza dei suoi compagni guerrieri. Hamal, Adhafera, Antares, Rukbat, Deneb Algiedi… Avrebbero saputo come difendersi.

“Rukbat…” mormorò, ricordando come stupidamente gli aveva dato dell’esibizionista e quante volte aveva ripetuto che in mezzo al cielo non serviva saper combattere.

Ora voleva aver avuto voglia di imparare anche lei, voleva essersi fatta insegnare da colui che da mortale aveva addestrato Dèi ed eroi, voleva averlo vicino.

 

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“Ben svegliato, agente Carlyle” si sentì dire.

Rukbat, dopo qualche istante di silenzio in cui realizzò chi fosse l’agente Carlyle, mosse il capo e si scosse. Che sogno strano aveva fatto…Astrea inseguita da uno strano punk psicotico.

“Fra poche ore saremo in Turchia. Pronto?” ridacchio Harrison.

“Non vedo l’ora” mentì.

Dopo settimane di addestramento in un’isoletta sperduta nell’oceano, per affinare la squadra che mai prima d’ora aveva lavorato assieme, ora finalmente si stavano spostando verso l’obbiettivo. Fortunatamente spettava a lui, Roland Carlyle, ricevere le comunicazioni e fare rapporto, così giungevano solo al suo orecchio i pressanti avvertimenti dall’Australia in cui si diceva che il vero agente Carlyle era stato ritrovato legato sulla tazza del cesso di un bar. A quegli allarmi aveva risposto che era tutto sotto controllo, che Harrison aveva preso il comando e che la missione procedeva come stabilito. Era riuscito a mantenere la sua copertura, ma per quanto tempo? Non vedeva l’ora di arrivare in Turchia e darsela a gambe!

“Siete un ottimo tiratore, Carlyle. Non tradisce le aspettative”.

“Grazie, Harrison”.

Rukbat sorrise. Si era divertito un sacco a sparare alle sagome con un Barrett argento che subito gli aveva ispirato vivo interesse e fiducia. Era nato per sparare alla gente… Si chiese che armi avessero le altre forze speciali dal Mondo che avrebbero incontrato alla meta. Un’azione congiunta. Tanti umani armati che cercano di fermare altrettanti umani armati per far sì che non diano più armi ad altri umani. Trovava la cosa piuttosto buffa.

“Fatto rapporto al capo oggi?” domandò Harrison.

“Sì. Altrimenti quello chiama come farebbe una mamma apprensiva”.

“È dura lavorare così. Non poter chiamare a casa fino al ritorno per mantenere la missione segreta… Spero che il capo abbia detto a mia moglie che sta andando tutto bene…”.

Rukbat non rispose. Continuò a guardare fuori dal finestrino dell’aereo. L’altezza non l’aveva mai particolarmente amata.

“Voi siete sposato, Carlyle?”.

“Lo ero…” mormorò, senza girare la testa.

“Tipico divorzio? A quanto pare noi poliziotti non siamo fatti per avere matrimoni duraturi”.

“No, nessun divorzio”.

“Cosa è successo?”.

“Dobbiamo proprio parlarne?!” sbottò Rukbat.

“Ok. Non credevo fosse un argomento delicato. Mi spiace”.

Scese il silenzio fra i due. Il resto della squadra sembrava di buon umore e parlottava tranquillamente del più e del meno, fra una risata ed un’altra.

“Lei è morta” disse, dopo un po’, Rukbat.

“Come?!”.

“Lei è morta”.

“Mi dispiace davvero molto, non lo sapevo! Cazzo, non entravo in argomento se…”.

“È successo tanto tempo fa, tranquillo”.

“Ma come mai? Se mi è permesso saperlo…”.

“Me l’hanno uccisa in guerra”.

“Era nelle forze speciali pure lei?”.

“Era una guerriera. E l’hanno ammazzata a pochi passi da me. Io sono stato ferito al ginocchio, che ancora adesso a volte si fa sentire…”.

“Che brutta storia. Non avevate figli, vero?”.

“No, per fortuna. Non ancora…”.

Harrison rimase in silenzio, non sapendo che altro dire. Rukbat sospirò. Perché aveva parlato di ciò che era stato con quel mortale? Nemmeno i suoi colleghi stellati sapevano che gli era capitato. Ci ripensò dopo millenni. Lui a quel tempo era un maestoso centauro, figlio di Crono e Filira, quindi tecnicamente fratellastro di Zeus, e si chiamava Chirone. Addestrava eroi e semidivinità. Viveva sul monte Pelio, in Tessaglia, assieme agli altri centauri. Quando scoppiò la guerra voluta da Ercole, in cui quasi tutti i suoi simili furono uccisi, fu ferito da una freccia avvelenata al ginocchio. Essendo immortale, non poteva morire ma il dolore era così forte, specie dopo aver visto spirare la moglie, che supplicò di non esserlo più. Quando si risvegliò era nel palazzo del cielo occidentale, con una grossa cicatrice alla gamba ed al cuore.

Si alzò di scatto, facendo sobbalzare Harrison, ed andò a chiudersi nel bagno dell’aereo. Si guardò allo specchio. Quasi non era in grado di riconoscersi. Tutti quegli anni passati in cielo gli avevano fatto dimenticare molte cose che ora, una dopo l’altra, riaffioravano. Voleva una lacrima soltanto, per la donna che aveva amato e protetto ma che non era riuscito a salvare. Solo che erano secoli che non riusciva più a piangere.

 

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Come mai quella donna continuava insistentemente a fissarlo? Si sentiva a disagio, e lo fece notare a Mikael, che scoppiò a ridere.

“Che problema c’è se una bella donna ti fissa?” domandò, sghignazzando.

“Non lo so. È che…”.

“Rilassati. Non può mica mangiarti!”.

Aldebaran, assieme a Mikael e Scott, erano a Dublino per una mostra d’arte. Toro apprezzava molto esposizioni del genere, anche perché c’erano dei dipinti di coloro che l’ospitavano e pure uno dei suoi. Quella era la sera dell’inaugurazione e stavano tutti, bicchiere alla mano, parlottando fra loro, congratulandosi con i vari autori. Più di qualcuno aveva fatto i complimenti ad Aldebaran, che stringeva mani imbarazzato, con le guance rosse dall’emozione. Scott e Mikael erano molto più a loro agio, come se per loro fosse una cosa del tutto normale sentirsi dire continuamente di essere dei talenti. Toro sospirò. Aveva sempre sognato, fin da quando era diventato una stella, di sentirsi apprezzato per la sua vena artistica. Ora, in poco più di mezz’ora, i suoi lavori erano stati visti da almeno dieci volte tanto le persone che fin ora le avevano ammirate in centinaia di anni. La cosa lo metteva decisamente di buon umore, ma c’era quella donna. Era vestita di verde scuro, in un abito lungo fino ai piedi molto aderente e lucido, senza maniche. I capelli li aveva lisci, molto lunghi e di un colore simile a quello del vestito. La sua pelle nera pareva brillare alla luce dei neon che illuminavano le stanze. Sorrideva a Toro e rimaneva immobile a guardarlo. Aldebaran, spinto da Mikael e stanco di essere fissato, le si avvicinò.

“Posso fare qualcosa per lei?” domandò, tentando di non mostrare il suo fastidio.

“Lei è un bravo artista” rispose la donna, con una singolare esse sibilante “Mi piacerebbe conoscerla meglio…che ne dice?”.

“Beh…ecco…io…” balbettò Aldebaran, non sapendo che dire.

Si girò verso Mikael, che lo fissò come a dire “Che fai, stupido?! Muoviti!”.

Quando Toro tornò a girare la testa, la donna era sulla porta, che gli faceva segno di seguirlo. Fuori era buio ormai ma lui non fece fatica a seguirla, dato il riverbero che faceva il vestito di lei.

“Dove mi state portando?” domandò, piuttosto ingenuamente.

“Dove nessuno potrà interromperci”.

“Interromperci dal fare cosa?”.

Lei si fermò e si girò, puntando le mani sui fianchi.

“Sei già diventato troppo umano, Aldebaran?” commentò, quasi stizzita “Sei già diventato come la maggior parte di loro, incapaci di cogliere un’occasione quando gli viene offerta?”.

“Ma tu chi sei e di che occasione parli?”.

Lei alzò una gamba, grazie allo spacco vertiginoso, dimostrandosi decisamente sinuosa. Poi si avvicinò e mise le braccia attorno al collo di Aldebaran, che rimase immobile a fissarla. Aveva ipnotici occhi gialli, con pupille sottilissime. Quella donna non era umana. Ma allora cos’era?

“Cosa c’è, Toro? Non sono abbastanza per te?” si sentì domandare.

“Ma chi, o cosa, sei? E cosa vuoi?”.

Lei sorrise, mostrando piccoli denti a punta. Lui sobbalzò ma lei era già scattata in avanti e l’aveva morso sul collo.

“Io sono Shè, Serpente, e ora sei in mio potere!” mormorò, mentre Aldebaran perdeva lentamente la capacità di reagire e ragionare con la propria testa.

 

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Era da diverso tempo che ormai vivevano nel centro d’accoglienza che gli era stato indicato dall’ospedale. Si trovavano bene, anche se continuavano a sentirsi in imbarazzo perché non sapevano come ripagare il cibo ed il tetto che veniva loro fornito. Zubeneschamali e Zubenelgenubi tentavano di rendersi utili e passavano le giornate a cercare qualche piccolo lavoretto da fare. A volte avevano fortuna, altre volte no. Erano state accolte molto bene e trattate con gentilezza, ma non volevano rimanere troppo a lungo in quel luogo. Stavano aiutando ad allestire gli addobbi per Natale, quando Gou entrò dalla porta. Da umana, Cane aveva capelli chiari, raccolti in due piccoli codini, e occhi marrone, molto grandi e profondi. Ovviamente le due Bilancia non la riconobbero e continuarono con le loro faccende. Vestivano vecchi abiti dati in beneficenza, sistemati alla bene e meglio, che a loro parevano tanto assurdi quanto per i mortali dell’epoca risultavano assurde le vesti che indossavano da cadute. Sorrisero. Pur non capendo bene cosa fosse il Natale, quegli addobbi verdi con le luci le mettevano di buon umore. Uno dei volontari del posto non capiva il loro entusiasmo. Per lui il Natale era solo l’ennesimo giorno di festa in cui sarebbe stato lì a lavorare invece che altrove a festeggiare. Guardò Gou, sempre ferma sulla porta, e chiese se poteva aiutarla in qualche modo.

“Sì. Sono venuta a trovare le mie amiche” rispose lei, indicando le gemelle.

Zubeneschamali e Zubenelgenubi si fissarono perplesse. Erano certe di non averla mai vista prima. Lei però sembrava davvero convinta.

“Siete in due adesso” commentò, usando il linguaggio del palazzo del cielo.

“Come sai la nostra lingua?” parlarono, in coro, le due Bilancia.

“Io sono Gou, Cane, e mi manda Kuruma”.

“Ti ha mandato per ucciderci?”.

“No, al contrario. Mi ha mandato per aiutarvi”.

“Aiutarci? E in che modo?”.

“Lei vuole riportarvi in cielo e per farlo dovreste trovarvi tutti nello stesso posto, in Grecia”.

“In Grecia? Non sembra tanto vicina da qui…”.

“Non lo è, per niente, ma troveremo il modo di arrivarci”.

“Perché vuole aiutarci? A che gioco sta giocando?”.

“Nessun gioco. Semplicemente si è resa conto che non meritate di essere condannati per colpa di Kosmos. Voi meritate di stare a palazzo”.

“E Kosmos no?”.

“Beh…diciamo non proprio. Ma quelli sono affari che sbrigherà la mia padrona, se ne avrà voglia”.

“Davvero possiamo tornare in cielo?”.

“Sì. Fidatevi di me. I miei colleghi sono già in cerca degli altri undici segni”.

“Gli altri stanno bene? E Kosmos?”.

“State tutti più o meno bene. Vi siete sparpagliati per la Terra ma, grazie al fatto che ho ancora parte dei miei poteri, non è difficile localizzarvi”.

“Chi di noi è il più vicino a dove siamo ora?”.

“Mek e Buda. Sono in America del nord”.

“Mek e Buda? Si sono divisi pure loro?”.

“Quello era ovvio. Non credo sia normale un mortale a due teste…”.

“Cos’hai in mente per farci riunire?”.

“Purtroppo i miei poteri sono troppo limitati per potervi portare alla meta direttamente, mi spiace, ma troveremo un modo. L’importante è che vi fidiate di me”.

“Anche Kosmos verrà in Grecia?”.

“Dipende da lui. Quello deve fare tutto da solo, Kuruma non può riportarlo dov’era”.

“Perché?”.

“Perché la mia Signora è disposta a riammetterlo a palazzo solo a determinate condizioni”.

“Condizioni?! Vuole schiavizzarlo?”.

“Al contrario. Vuole che ammetta l’equivalersi dei loro poteri e che lui possa portarle il rispetto che merita, entrambe cose che il vostro capo non vuole assolutamente fare”.

“Lui è fatto così…”
“Ma ora è Kuruma ad avere il potere. Se lui non è in grado di accettarlo, allora verrà cacciato definitivamente da palazzo da colei che ora lo possiede interamente. Non vuole la sottomissione di Kosmos, semplicemente essere riconosciuta sua pari”.

“Mi sa che resterà sulla terra in eterno…”.

“Finché non morirà. È un mortale ora, come voi…”.

“Kosmos un mortale? Da non crederci…”.

“Eppure ora lo è, e se non tornerà in cielo morirà. La scelta è solo sua. Noi non possiamo fare proprio niente per lui. Possiamo, però, andare in Grecia e tornare in cielo, il nostro posto”.

“Parli come se tu fossi una nostra alleata. Siamo nemiche!”.

“Io non ho nulla contro di voi, perché considerarci nemici?”.

“Perché Kuruma ci ha buttate di sotto, assieme a tutti gli altri!”.

Gou rimase in silenzio. Zubeneschamali e Zubenelgenubi si fissarono fra loro, iniziando a sussurrare, in modo da non farsi sentire da Cane.

“Dici che possiamo fidarci di lei?” domandò Zubeneschamali.

 “Non lo so. Quella è mandata da Kuruma…” rispose Zubenelgenubi.

“Vero. Però io voglio tornare a casa. Cosa abbiamo da perdere?”.

“Non ti piace stare qui?”.

“Per sempre?! No, grazie! Voglio tornare al mio palazzo occidentale…”.

“E se fosse una trappola?”.

“Potrebbe essere…”.

“Però un tentativo vuoi farlo lo stesso…”.

“Tu no?”.

“Non lo so…”.

“Fidatevi di me” interruppe Gou “Vi do la mia parola che non vi farò alcun male e che nessuno ve ne farà. Sono qui per aiutarvi e sono al vostro servizio. Fidatevi”.

“La tua parola?! Come possiamo fidarci della tua parola?”.

“Non potete ma, ve ne prego, venite con me. La mia Signora vuole solo riavervi in cielo…e salvare Kosmos dal destino che lo attende!”.

“Alla malora Kosmos e la sua cocciutaggine! A quest’ora potevamo stare belle felici a palazzo e non qui a preparare addobbi per una festa che non conosciamo!”.

“Ma lui morirà se non torna in cielo”.

“Pure noi. Siamo tutti mortali!”.

“Non intendevo dire che con il tempo morirà. Morirà presto, se non torna nella sua casa”.

“In che senso?”.

Dopo una breve spiegazione di ciò che Gou aveva capito sui discorsi di Shu, le due Bilancia parvero molto più convinte a seguirla. Per quanto il loro padrone fosse odioso, non volevano farlo morire.

“E così lei ci riporterà tutti in cielo per fargli capire che anche lui deve tornare?”.

“L’idea è quella. Poi spetta a lui. Potrebbe anche scegliere di suicidarsi…”.

“Peggio per lui. Andiamo…mi mancano tutti i colleghi!”.

Le tre uscirono dal centro d’accoglienza. Le gemelle della bilancia iniziarono a seguire Gou, che pareva sapere dove andare.

“Spero che sappia che noi dobbiamo mangiare, dormire, eccetera… Non abbiamo più i poteri come lei, che può permettersi il lusso di schivare certe necessità!” borbottò Zubenelgenubi.

“Lo saprà. Oppure glielo faremo notare noi…” concluse Zubeneschamali.

 

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Acubens se ne stava spaparanzata al sole, a pancia piena, quando Yang la trovò. Sulle prime non ci fece troppo caso, pensando ad una povera scema che girava documentari e che presto sarebbe stata sbranata dal maschio alfa, ma poi notò che gli animali non erano allarmati dalla sua presenza. Trovò la cosa piuttosto strana e la fissò con sospetto, mentre si avvicinava. Chi era? E perché i leoni parevano ignorarla? Si alzò e, lentamente, si andò a sedere accanto a dove aveva nascosto i fucili, fra le cavità del tronco di un enorme baobab.

“Chi sei?” urlò alla straniera.

“Una semplice conoscente” fu la risposta.

“Non mi pare di conoscerti…”.

“Questo perché non sei abituata a vedermi in questa forma”.

Quella bizzarra donna, con capelli grigio scuro raccolti in strane crocchie a lato della testa, passò accanto ai leoni senza che questi si muovessero.

“Sei anche tu una donna che vive fra loro? Perché non ti attaccano?”.

“Io non vivo fra i leoni. Fra le bestie sì, lo ammetto, ma non fra i leoni. Non mi attaccano perché ho mantenuto i miei poteri e faccio in modo di tenerli buoni”.

“Poteri? Quali poteri?”.

“Io sono Yang, Capra, a servizio di Kuruma, e sono qui per aiutarti”.

“Kuruma? Quella donna che ci ha scaraventati su questo pianeta come se niente fosse? Non ho bisogno dell’aiuto di uno dei suoi vili sottoposti!”.

“Io sto solo obbedendo a degli ordini. Fosse per me, potreste rimanere tutti qui a crepare”.

“Troppo gentile”.

“È la verità”.

“Non ti avvicinare! Torna da dove sei venuta!” minacciò Acubens, estraendo il fucile dal suo nascondiglio e puntandolo contro Yang.

“Che roba è quella?” inclinò la testa Capra, non avendo mai visto un’arma.

“Credo tu non voglia scoprirlo davvero. Allontanati”.

“Non posso. Son stata mandata qui per portarti in Grecia”.

Yang provò ad avvicinarsi, allungando un braccio verso Acubens, che le sparò in pieno petto. Capra e Cancro furono sbalzate all’indietro dal colpo e dal contraccolpo. La colpita lanciò un grido e svanì, distruggendosi in tante piccole stelle. Rialzandosi, Acubens sorrise. Le piaceva sempre di più sparare alla gente!

 

“Alzati” parlò una voce, dolce ma decisa.

“Dove sono?” mormorò Yang, gemendo per il dolore che ancora provava.

“Sei a casa”.

Di fronte aveva Kuruma, che la stava aiutando ad alzarsi. Tossendo e tremando, Capra si rimise in piedi, respirando piano, ancora in forma umana.

“Ho fallito” ammise, chinando il capo.

“Riposati un attimo. Tornerai da lei”.

“Cosa?! Io non ci voglio tornare da quella pazza! Avete visto cosa mi ha fatto?!”.

“Mi spiace, ma dovrai trovare il modo di farla andare in Grecia”.

Solo in quel momento Yang guardò negli occhi la sua Signora. Erano stanchi e lei era pallida, più del solito. Qualcosa non andava.

“Non state bene, padrona?”.

“Sono stanca, Yang. Devo pensare a tutto io ora. Il cielo Orientale e quello Occidentale dipendono interamente da me e non credo di farcela ancora a lungo. Presto dovrò iniziare a concentrarmi solo su un numero limitato di oggetti celesti e so che questo non porterà a niente di buono. Tornate presto, è molto importante”.

“E se, nonostante tutto, Kosmos non volesse tornare?”.

“Di Kosmos me ne sbatto. Con il vostro aiuto, e i dodici segni occidentali che si arrangiano da soli, la situazione sarebbe perfettamente sotto controllo, con o senza di lui. Anche se non voglio che muoia, se sarà quello il suo desiderio ultimo, che faccia pure!”.

Alle spalle della Signora Orientale vi era ancora una piccola luce azzurrina, segno che aveva aperto un varco per la Terra ed aveva tentato di parlare ancora una volta con Kosmos per farlo ragionare. Ma il Signore Occidentale ancora non si era reso conto del pericolo che correva, oppure non gli importava. Stringendo fra le mani la chiave del cielo, Kuruma recuperò forza poi fissò Yang e, spalancando gli occhi, la rimandò sulla Terra.

“Se vuoi crepare, allora crepa, brutto coglione! Ma non riuscirai a farmi sentire in colpa di una cosa del genere!” sibilò la Signora del Cielo, tornando a chiudersi nella torre Orientale

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Capitolo 6
*** 5 ***


V I

 

“Roma è una città enorme. Hai qualche idea di dove potremmo trovare la tua amica?” domandò Erik, notando che Hamal stava girando a casaccio per le vie.

“Non ne ho idea…”.

“Non so…le piace la musica? Magari è in qualche locale. O le piace fare spese e quindi è in qualche negozio. Teatro, cinema, antichità…dove potrebbe essere?”.

“Non l’ho mai vista particolarmente appassionata a niente, se non a pestarsi con Rukbat o con chi le ispirava. Ma non credo ci siano posti per picchiare la gente…”.

“No, in effetti no. Cosa è venuta a fare a Roma?”.

“Non ha scelto lei dove cadere, esattamente come me. Siamo capitate in modo del tutto casuale in questi luoghi”.

Erik non capì quel discorso ma annuì, non volendo approfondire. Ricordava le immagini che aveva visto sul computer. Era piazza san Pietro quella sullo sfondo, ma di certo in tutto quel tempo l’amica si era spostata. Forse aveva anche lasciato la città.

 

“Un tempo qui vi erano leoni ed altre bestie feroci, contro cui i gladiatori combattevano” stava spiegando la guida.

Adhafera, sfruttando la generosità dei due presentatori televisivi che continuavano ad inseguirla, era entrata nel Colosseo, dopo essersi rifocillata e abbigliata in modo più appropriato. Se si concentrava, riusciva a sentire ancora l’odore delle bestie, nonostante il tempo passato. Si stupì di questo. Dopo tutto quel tempo, l’istinto non l’aveva abbandonata. Sorrise ad un grosso gatto che sonnecchiava fra le rovine e proseguì il giro, dietro ad una giovane guida che aveva qualche difficoltà con due bambini parecchio maleducati. A Leone non importava particolarmente vedere un posto del genere, ma doveva trovare il modo di temporeggiare, sperando di avere un’idea per liberarsi dei due parassiti che la stavano seguendo da non ricordava nemmeno lei quanto.

Uscendo, pensò in fretta a quale altra scusa inventarsi per impegnare la giornata. Arrabbiarsi con quei due era inutile, parevano non capire. Ed un “no” come risposta proprio non la capivano. Iniziò a guardarsi attorno quando all’orecchio le giunse una voce familiare. Ringraziò non sapeva chi di averle lasciato l’udito da leone e tentò di capire da dove provenisse e di chi fosse. Chiuse gli occhi e poi si voltò. Fra la folla non capiva chi parlasse ma ne aveva intuito la posizione. Passò accanto ad un paio di figuranti travestiti da centurioni e sorrise.

“Hamal!” urlò.

Ariete smise di discutere con Erik e si girò verso la voce.

“Adhafera!” gridò, di rimando, e si mise a correre.

Si abbracciarono, ridendo, incredule di essersi ritrovate.

“Sei davvero tu?” parlò Hamal.

“Ancora non ci credo…”.

Si fissarono. Leone era vestita interamente in giallo, cosa che la rendeva decisamente individuabile fra la folla, mentre Ariete era in rosso e arancione.

“Lei è la tua amica?” domandò Erik, raggiungendo le due.

“Sì, Adhafera” rispose Hamal, presentandoli.

“Che carino…” le bisbigliò Leone e Ariete le fece segno di fare silenzio.

Il gruppo fu raggiunto da Giacobbo e Berry, che fissarono la nuova ragazza con vivo interesse.

“Un’altra stella?” domandarono, quasi in coro.

“Lei è Ariete” rispose, candidamente, Adhafera.

Gli occhi dei due presentatori parvero illuminarsi dall’entusiasmo. Ora avevano una stella ciascuno! Potevano avere entrambi la loro esclusiva, senza più litigare.

“Chi sono questi due?” volle sapere Hamal, non capendone lo sguardo assatanato.

“Due pazzi. Ma han detto che vogliono mandarmi per televisione, dove tutti mi vedranno. Ho pensato che fosse un bel modo per contattare gli altri…”.

“Vero! Io ho visto che eri a Roma grazie alla televisione, vero Erik?”.

Erik annuì, capendo di essere l’unico vagamente sano di mente in quel gruppetto.

“Gli altri?! Quanti siete?!” spalancò gli occhi Giacobbo.

“Dodici. Più il nostro capo” fu la risposta, detta con un tono piatto e distaccato, come se la cosa fosse ovvia e scontata.

“Dodici?!”.

Giacobbo e Berry si fissarono e si misero a ridere, entusiasti. Avevano fra le mani materiale sensazionale, e senza nemmeno dover lavorare troppo con la fantasia!

Hamal abbracciò Erik, consapevole che per lui era tempo di andare.

“Se hai bisogno di me, questo è il mio numero” rispose lui, porgendogli un foglietto “Sono certo che mister Voyager and co. sapranno spiegarti come fare una telefonata. Sono ansioso di vederti per tv…sei davvero una stella caduta?!”.

“Credi quello che preferisci. Non potrò mai smettere di ringraziarti di avermi ricondotto dalla mia amica. Ti chiamerò senz’altro! Buon viaggio”.

Erik lanciò un’occhiata ai due presentatori, che si erano presi a braccetto e giravano in tondo, festeggiando per lo scoop. Storse la bocca e fissò di nuovo Hamal.

“Sul serio…” ripeté “…se c’è qualche problema, chiamami!”

“Tranquillo! Ora c’è Adhafera con me!”.

“Non è di lei che mi preoccupo, ma di quei due deficienti che fan la danza dei pirla alle tue spalle… Non sembrano molto raccomandabili!”.

“Penserò io a lei” lo tranquillizzò Leone “In quanto a loro due…sono facilmente gestibili, una volta che capisci come funziona il loro cervello avvolto da misteri inesistenti”.

Si separarono, mandandosi ancora saluti e raccomandazioni, quando ormai si stava facendo buio. Hamal, stanca per il lungo viaggiò, sbadigliò in modo piuttosto evidente.

“Vieni. Ti accompagno all’albergo. Questi due fessi, non sapendo decidersi con chi dei due avrei dovuto dividere la stanza, mi han pagato una camera. Riposati, che dovremmo iniziare a pensare all’intervista. Così i nostri compagni ci vedranno! E magari troveranno il modo di farci tornare in cielo! Sempre se lo desideri pure tu…”.

“Non mi sono trovata male ma, sinceramente, sto molto meglio a palazzo!”.

“Allora è deciso. Stanotte dormi da me e domattina vedremo con questi due come organizzare il tutto. Sono molto felice di rivederti…per alcuni istanti avevo temuto di essere rimasta da sola!”.

“Nemmeno tu hai avuto contatti con altri?”.

“No. Nessuna traccia. Ma confido in questa intervista. Come hai saputo raggiungermi tu, dovrebbero riuscirci pure gli altri!”.

 

Giunsero all’albergo ridendo e spettegolando sui non presenti, ignorando del tutto Voyager man e mister Mistero. La loro stanza era molto bella e dava su un meraviglioso parco di pini. Hamal si distese sul letto matrimoniale, mentre Adhafera si apprestava ad ordinare la cena tramite il servizio in camera. Non passò molto tempo prima che due camerieri venissero a servirle, un uomo ed una donna. La donna, che entrò nella stanza con il carrello della cena, sorrise a Leone. Aveva capelli a spazzola quasi neri e tondi occhi nocciola. Era velocissima con le mani e ci mise un attimo a servire i piatti, aprire le bottiglie e sistemare la cena. L’uomo rimase sulla porta, come a controllare la situazione. Hamal trovò divertenti i suoi baffi, lunghi e sottili, e ammirò la singolarità dei suoi capelli. Erano lunghi, mossi e di un colore variabile fra il verde ed il blu. Lui la guardò e le sorrise. Per lei non fu strano notare che aveva le iridi rosse.

 

“Dai troppo nell’occhio, Long!” sbottò la cameriera, una volta che si furono allontananti dalla stanza di Leone e Ariete.

“Che problema c’è? Con i nostri poteri ancora attivi, qui son tutti convinti che lavoriamo all’albergo da anni!”.

“Non so quanto sia saggio usare tanta magia”.

“Rilassati, Hòu! Presto saremo fuori di qui, lontani e diretti verso la Grecia, senza aver bisogno di usare ulteriore potere”.

Scimmia non parve convita ma sospirò e seguì l’immancabile entusiasmo di Drago, pensando al modo migliore per portare a termine la missione.

 

₪₪₪

 

“E tu chi saresti?” domandò Buda, uscendo in giardino.

Ormai era da qualche settimana a servizio della famiglia Jonson, come insegnante privato. Stava uscendo per fare un po’ di surf insieme al suo allievo quando aveva notato quell’uomo sul ciglio della strada. Era irrequieto, muoveva continuamente braccia e gambe, e guardava insistentemente verso la sua direzione. Buda, osservandolo meglio, vide che aveva una pettinatura molto simile a quella di Rukbat, simile ad una criniera, e la coda di cavallo fatta con i capelli mori.

“Chi stai cercando? Non compriamo niente!” sbottò il ragazzo californiano, desideroso di andare in spiaggia e poter finalmente spegnere il cervello.

“Ciao, Buda” salutò l’uomo.

“Ti conosco?”.

“Sono Ma”.

“Ma? In che senso "ma"?”.

“Mi chiamo così. Sono Cavallo, del palazzo Orientale”.

“E cosa ci sei venuto a fare qui?”.

“Sono venuto a riportarti a casa. Devi seguirmi in Grecia, dove ci riuniremo tutti, e potrete tornare al palazzo Occidentale”.

“E perché dovrei? Io mi trovo bene qui”.

“Io eseguo degli ordini”.

“E io i miei desideri. Voglio restare qui”.

“E tuo fratello?”.

“Cazzi suoi. Se vuol tornare, che faccia pure. Io, ripeto, sto bene qui e non ho alcuna intenzione di tornare fra quelle quattro mura”.

Camminando, surf sottobraccio, insegnante ed allievo avevano raggiunto la spiaggia. Cavallo li seguì, deciso a far cambiare idea al moro dei Gemelli. Quando vide quanto i due si divertissero fra le onde, sorridendo a procaci e ricchissime figlie di papà, sospirò. La sua missione sarebbe stata più difficoltosa del previsto. Ed in più a lui spettavano due fessi da recuperare! Usando i suoi poteri, sparì dalla spiaggia californiana per apparire all’interno dell’appartamento del gruppo di ragazzi che aveva “raccolto” Mek. Questi, ovviamente, si spaventarono vedendolo apparire dal nulla ma Cavallo non ci fece più di tanto caso. Andò vicino a Mek, disteso sul letto con il braccio a penzoloni, e lo chiamò. Il gemello biondo gemette, supplicandolo di non gridare.

“Sei sbronzo?!” si stupì Ma.

“Completamente! E adesso vattene, chiunque tu sia!”.

“Io sono Ma”.

“Va bene, mamma. Sparisci!”.

“Alzati! Dobbiamo tornare a casa!”.

“A casa? Io non posso tornare a casa. Sono stato cacciato via”.

“Ora hai la possibilità di tornarci”.

“No. Non potrei mai rimettere piede là dentro e dover sopportare di passare l’eternità con mio fratello! Mai e poi mai!”.

“Castore, ti prego…”.

“Io sono Polluce! O meglio…lo ero! Ora sono Mek”.

“Devi tornare in cielo!”.

“Ah sì? E che pensi di fare? Costringermi?”.

Cavallo storse la bocca. Perché era tutto così complicato? Si era immaginato una brava coppia di gemelli che, tutta felice, diceva che non vedeva l’ora di tornare a casa. Invece niente. Si ritrovava con due litiganti lagnosi.

“Vedrai. Presto vorrai il mio aiuto per tornare al tuo posto!” disse Ma, incrociando le braccia.

“Credici! E adesso vattene, lasciami rincoglionire ancora un po’ con questo schifio americano”.

Cavallo non disse più nulla e tornò a sparire, avvolto da una nuvoletta luminosa. Ovviamente il gruppetto di “amici degli alieni” avrebbero voluto avere informazioni a riguardo ma Mek tornò a sprofondare la testa nel cuscino e non parlò con nessuno, se non alla bottiglia di Rum.

 

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Cane fissava le due gemelle con rimprovero. Le aveva appena sorprese a rubare in un negozio di alimentari. Incrociando le braccia, aspettava delle spiegazioni ma non ne ebbe.

“Noi non abbiamo i poteri, come te!” sbottò Zubenelgenubi “E abbiamo fame! Da due giorni camminiamo! Si può sapere dove ci stai portando?”.

“All’aeroporto. Lì, grazie alla mia magia, potrò farvi avere i biglietti per la Grecia. Ma dobbiamo arrivare fino là e non posso rischiare di usare la mia magia per ottenere passaggi o usare altri mezzi di trasporto, non sapendo quanta ne ho a disposizione e quanta me ne servirà per farci partire”.

“Questo non è un motivo valido per farci morire di fame” sbottò Zubeneschamali.

“Credevo che poteste resistere per un paio di giorni!”.

“Ti sbagli. Adesso taci, mentre noi mangiamo”.

Gou girò gli occhi al cielo. Non poteva far altro che aspettare, cercando di stare attenta. Doveva evitare che le due venissero arrestate per furto con scasso. Non si aspettava che l’aeroporto fosse così lontano e che un umano mortale potesse fare così poca strada autonomamente.

Ripresero il cammino fra le luci colorate della città, pronta a festeggiare il Natale. La gente per strada fissava lo strano gruppetto con distacco, prendendone le distanze. Cane notò, con una certa tristezza, che le due gemelle non erano le sole ad andare in giro con gli stracci dati in beneficienza e lo stomaco brontolante. Incrociarono spesso ragazzini che chiedevano la carità o persone che trascinavano per la via le poche cose che possedevano. Giungendo vicino alla meta, Gou capì che avrebbe dovuto dare una sistemata alle due Bilancia, o non sarebbero mai state credibili in aereo e avrebbe dovuto usare la magia per tutto il viaggio.

“Aspettatemi qui” disse loro, entrando in un negozio di souvenir e abiti.

“Posso aiutarla?” domandò una commessa.

“Cerco dei vestiti. Devo fare un regalo a due mie amiche gemelle”.

“Che taglia portano?”.

Cane rifletté un pochino. Le due ragazze erano magre ma anche piuttosto alte.

“Più o meno quella che porta lei, credo” rispose, abbastanza convinta.

Le furono proposte diverse opzioni, Gou scelse, comprese due paia di scarpe e, andando alla cassa, usò i suoi poteri per convincere la commessa che stava pagando. L’addetta al negozio aprì la cassa e vi ripose dei soldi immaginari, dando lo scontrino a Cane e salutandola con un gran sorriso. Uscita, trascinò Zubeneschamali e Zubenelgenubi al bagno, dove le fece cambiare e sistemare.

“Siete bellissime” disse, quando furono presentabili.

Le due Bilancia arrossirono.

“Adesso venite con me. Manca l’ultima parte”.

Le tre si diressero verso la biglietteria, fra la calca dei turisti e di chi stava rientrando a casa.

“Ci servirebbero tre biglietti per la Grecia” domandò Cane, risparmiando magia.

“Diretti non ce ne sono qua. Dovrete fare scalo a New York e poi da lì partire per Atene”.

“Allora mi dia tre biglietti per New York”.

“Solo andata?”.

“Sì”.

“Avete bagagli con voi?”.

“No”.

Dopo aver giocherellato un po’ con il PC, i biglietti furono stampati e consegnati. Ovviamente Cane li “pagò” alla stessa maniera usata nel negozio di vestiti.

La partenza era prevista fra quattro ore. Si rilassarono. Era giunto il momento di mangiare un boccone e fingere di essere tre turiste normali.

 

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Aldebaran lasciò tutti sconcertati quando disse che se ne andava. All’inizio, Mikael e Scott pensarono ad uno scherzo ma poi notarono quanto convinto fosse quell’uomo a seguire la sua decisione improvvisa.

“Sei sicuro? E a Roma come ci arrivi?” domandò Scott.

“Non mi interessa più andare a Roma. Sto bene qui e ora ho pure la possibilità di non essere più un peso per voi, che siete stati così gentili con me” rispose Toro, mettendo in un sacco i vestiti che si era comprato nel frattempo.

“Ti sei preso una bella sbandata, amico” sorrise Mikael.

“Andare a vivere con una donna dopo così poco tempo…” mormorò Scott, dubbioso.

“Tu hai fatto cose peggiori. Hai avuto certi colpi di testa…” ridacchiò il figlio.

“Non credo siano cose che ti riguardino!” sibilò il padre.

“Certo che mi riguardano! Da uno di quei colpi di testa sono nato io!”.

“Ho deciso di vivere da lei. Shè mi ha trovato un buon lavoro e staremo bene assieme” continuò Aldebaran, sempre più convinto.

“Se ne sei sicuro, io non sono nessuno per poterti impedire di farlo. Ti auguro buona fortuna” sospirò Scott “Anche se mi meraviglia il fatto che tu voglia rinunciare a Roma. Fino alla settimana scorsa ne eri così sicuro! Lavoravi ben oltre gli orari prestabiliti per poterci andare al più presto, e ora cambi idea così…”.

“Sono cose che succedono, papà. Potrà sempre tornare qui, nel caso non si trovasse così bene come crede dalla bella nera dagli occhi inquietanti”.

Toro sorrise, pronto a partire. Fuori c’era Shè, Serpente, ad attenderlo. Scott rabbrividì. Quella donna lo spaventava. Aveva qualcosa di decisamente strano, a prescindere dai capelli verdi e gli occhi gialli. Si rassegnò però al fatto che non poteva costringere Aldebaran a rimanere con lui e suo figlio. Era un uomo adulto, libero di seguire le sue scelte come meglio credeva. Dopo avergli dato l’ultima paga, lo accompagnò all’ingresso. Fuori faceva freddo, forse stava per nevicare, e tirava vento. Shè pareva non farci troppo caso e attendeva Toro appoggiata ad una macchina sportiva di lusso, regalino che aveva ottenuto grazie ai suoi poteri.

“Allora…ci salutiamo” parlò Scott, stringendo la mano ad Aldebaran.

“Non mi dimenticherò mai della disponibilità che mi avete dimostrato” rispose Toro.

“Come ha detto Mikael, se un giorno vorrai tornare da noi, sappi che le nostre porte saranno sempre aperte per te. Sei una brava persona, con un grande talento ed un’enorme volontà”.

“Grazie”.

Mikael era rimasto in casa e salutò con la mano, con scarso entusiasmo, mentre l’auto si allontanava dal vialetto a velocità sostenuta.

“Tu pensi davvero che abbia fatto la cosa giusta, Mikael?” domandò Scott, rientrando.

“Giusta o sbagliata, io non sono la sua balia. È abbastanza grande e grosso da sapersela cavare”.

“Non so. Sembra una persona così buona. Ingenua…”.

“Allora questo non potrà che dargli una svegliata, papà. Adesso chiudi la porta, che entra freddo, e smettila di tormentarti per lui”.

 

“Pronto per la tua nuova vita, tesoro?” sibilò Shè.

“Certo. Dove andremo a vivere?”.

“In una bella casetta alla periferia di Dublino. Lì sarai di certo ispirato e potrai realizzare quadri stupendi. Inoltre lavorerai come gallerista nella capitale. Ti piacerà”.

“Ne sono certo, anche se non capisco perché tu faccia tutto questo per me…”.

“Perché sei il mio tesoro, ecco perché!”.

Aldebaran sorrise, stordito dal veleno di Serpente, e non fece obiezioni di alcun tipo.

 

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“Dimmi la verità…cosa ti è successo?” domandò Hanne.

Kosmos non rispose. Erano rientrati e, dopo aver scaricato il pescato, si godevano un paio di mesi di pausa. Non avendo un posto dove stare, Kosmos era stato ospitato da Hanne in un paesino francese non lontano da Parigi.

“E tu, dimmi la verità, com’è che vivi qua da sola, senza marito, figli o altre cose del genere?”.

“Non mi sono mai interessate cose del genere. E tu? Niente donne o cose del genere?”.

“No”.

“Avanti. Sei mio ospite a tempo indeterminato…voglio sapere qualcosa di te. Come sei finito in mezzo all’oceano? E cosa hai fatto fin ora? Avrai vissuto in qualche modo…casa tua dove sta?”.

“Non vedo perché dovrei dirtelo…”.

“Sai un sacco di lingue. Hai fatto l’interprete?”.

“Pure tu ne sai un sacco. Parlavi con i marinai di Paesi diversi del tuo”.

“Io so solo le cose di base, quelle per dare ordini, ma tu al contrario parlavi con tutti fluentemente. Come fai? Non sembri avere tanti anni, devi aver cominciato da piccolo a studiarle”.

“No, veramente no”.

“Sei uno di quelli che han ottenuto un dono dal cielo, allora!”.

“Può essere…”.

“Ma davvero non hai mai lavorato nell’ambito delle lingue?”.

“No. Io mi occupavo di altri settori”.

“Tipo?”.

“Beh…diciamo astronomia”.

“Bello! Sei uno di quelli a caccia di comete o cose del genere?”.

“Preferisco i buchi neri. Da casa mia si vedeva l’intero universo!”.

“E poi cos’è successo? Sei scappato?”.

“Sono stato buttato fuori dalla donna che viveva con me”.

“Lo sapevo! Lo sapevo che c’era una donna in tutta questa storia! Carina?”.

“Chi?! Kuruma?!”.

“Che nome originale…come il tuo! Allora, questa Kuruma com’è? Carina?”.

“Non ci ho mai fatto caso ma, ora che me lo chiedi, direi di sì. Solo che ha un carattere orribile. È spocchiosa, rompiscatole, vendicativa…”.

“Come te, insomma. Buffo. Disprezzi ciò che avete in comune”.

“Ma che stai dicendo?!”.

“Nessuno ti ha mai detto che hai un pessimo carattere?”.

“Veramente no. Ma io non ho un pessimo carattere”.

“E allora perché non hai nemmeno un amico che ti cerca?”.

Kosmos rimase in silenzio, fissando Hanne con l’aria di chi ha appena ricevuto una botta in testa.

“Scusa. Non volevo essere sgarbata…” mormorò la capitana “…penso che, in fondo, tu sia una brava persona”.

“Davvero ho un carattere simile a quello di Kuruma?”.

“Vuoi la verità? Sei un vero stronzo. Ma dentro di te c’è qualcosa di buono, e questo chi ti sta vicino lo sa. Perciò, credo lo sappia anche questa Kuruma. Avrà perso la pazienza, come quando io volevo buttarti dalla barca!”.

“Chissà se anche i dodici segni la pensano come te…”.

“Chi sono i dodici segni? Amici tuoi?”.

“Sono sparsi per il mondo…”.

“Ecco perché sai tante lingue!”.

“Non proprio…ma son stufo di parlare di questo”.

“Come vuoi. Ma non potrò mantenerti troppo a lungo, sai? Dovresti cercarti un lavoro”.

“Puoi darmi una mano? Fin ora non ho avuto bisogno di occuparmi di cose del genere…”.

“Certo. Per prima cosa, dobbiamo preparare un curriculum. Non è difficile, son sicura che qualcosa da farti fare la trovo. Se poi vorrai tornare a bordo della mia nave, non ti caccerò via”.

Kosmos storse il naso. Aveva ancora addosso la puzza di pesce. Sospirò. Non sapeva cosa fosse un curriculum ma quella mortale aveva detto che era fondamentale per trovare lavoro. Hanne accese il computer, pronta a scriverlo per lui. Kosmos le andò accanto, dopo qualche colpo di tosse. Lei lo fissò, quasi preoccupata.

“Che brutta tosse che hai. Dovresti farti vedere da qualcuno”.

“Nessuno è mai morto per un po’ di tosse. Facciamo sto curriculum”.

 

Fuori era notte ormai. Kosmos, sul terrazzino, lasciava che il vento gli scompigliasse i capelli e teneva lo sguardo perso fra le stelle.

“Non dovresti stare fuori con questo freddo. Chiudi la finestra” lo sgridò Hannaliz.

“Non fa freddo!” protestò Kosmos, abituato alle temperature di lunga inferiori dello spazio.

“Non ti fa bene il vento d’inverno. Vieni dentro e rispondi alle domande che mi servono per il tuo curriculum. È per il tuo bene”.

Kosmos non si mosse da dove stava, tenendo le mani dietro la schiena, e la incoraggiò a fargli quelle benedette domande.

“Tanto per cominciare, mi serve il tuo nome completo e i tuoi dati personali: data e luogo di nascita. Come recapiti useremo i miei per ora…”.

“Inizi già con le domande difficili…”.

“Come sarebbe a dire? Non sai dirmi quanto sei nato e dove? Saprai quanti anni hai, no?”.

“Veramente…ho smesso di contarli da tempo”.

“Mi prendi per il culo? Cerca di essere sincero! Che sei, un agente della CIA dall’identità segreta o uno di quelli del programma protezione testimoni?”.

“Se fossi una di queste due cose, avrebbe un senso che io non ti sappia dire la maggior parte di ciò che vuoi sapere?”.

“Sì…”.

“Allora sono uno di quelle due cose”.

“Balle!”.

“Già…”.

“Adesso basta. Basta bugie, storielle inventate e scuse senza senso. Dimmi la verità, Kosmos”.

Kosmos, continuando a fissare il cielo notturno, sorrise, ghignò.

“Vuoi davvero sapere la verità?” ridacchiò “Non mi crederai mai ma, se ci tieni tanto, eccola: io mi chiamo Kosmos, non ho un cognome perché non ho genitori, sono nato il giorno in cui si è creato questo universo cioè, approssimativamente, 15miliardi dei vostri insulsi anni. Permetterai che non ricordi il giorno esatto. Conosco tutte le lingue perché in tutto questo tempo ho avuto modo di leggere un sacco e, anche se ho iniziato ad occuparvi di voi terrestri solo dopo l’arrivo dei miei sottoposti, in quasi tremila anni non è stato difficile imparare. Ho controllato da solo tutte le galassie e i corpi celesti assieme a Kuruma, mia collega, fino a quando sono arrivate le costellazioni, le personificazioni delle costellazioni, che sarebbero state destinate a rimanere dov’erano ben più a lungo della morte di questo giovane pianetucolo che verrà inglobato dal vostro sole. Purtroppo per noi, per me e per le mie stelle, Kuruma voleva fare tutto da sola e ci ha cacciati, sottraendomi tutti i miei poteri. Fra meno di un anno, dovrò usare lo scettro delle Ere per poter farvi entrare nell’epoca dell’Acquario ma, essendo bloccato qui, non so se questo avverrà. Non tornando in cielo, e non facendo partire l’Era successiva, i moti dello spazio sono destinati a bloccarsi. Non mi aspetto che tu capisca cosa questo comporti, ma è questa la verità”.

Annali, sconcertata da quel monologo, rimase qualche istante in silenzio, a bocca aperta, indecisa se mollargli un ceffone per la cazzata che si era appena sentita dire o se preoccuparsi.

“Mi stai dicendo…” mormorò, dopo un po’ “…che sei una specie di divinità spaziale? E ti aspetti pure che ti creda?”.

“Io ti avevo avvisato che non mi avresti creduto, ma ci tenevi tanto a sapere la verità…”.

“Quindi che dovrei scrivere sul tuo curriculum?! Fra i precedenti impieghi dovrei scriverci "dio"?! Mi hai preso per una stupida?!”.

“No. Io non penso che tu sia stupida. Semplicemente non credo che qualcuno di voi mortali possa comprendere, ed è del tutto normale aggiungerei”.

Hannaliz rimase immobile, mangiucchiando la penna che aveva fra le mani. Attese che Kosmos si mettesse a ridere come un pazzo, dicendole che era tutto uno scherzo, ma non fece nulla del genere.

“Sei completamente pazzo” arrivò alla conclusione “Meglio che te ne vai da questa casa al più presto! Se non vuoi darmi i tuoi dati, li inventerò io. Vedrai che qualche lavoretto te lo trovo, così potrai raccontare le tue belle storie a qualcun altro”.

Kosmos non parve avere reazioni a quelle frasi e alzò le spalle.

“Allora…” riprese Hannaliz “…mettiamo che hai all’incirca trent’anni. Dimmi un numero…”.

“Settecentotrentasei”.

“Speravo in qualcosa di più piccolo ma va bene lo stesso…dimmene un altro”.

“Cinquemiladuecentoquarantuno”.

La capitana sospirò, assumendo un’espressione di rassegnazione decisamente comica, se qualcuno avesse avuto modo di vederla.

“Pensi in grande tu… comunque sei nato il sedici dicembre”.

“In base a cosa l’hai deciso?”.

“Numerologia. Sette ­+ tre + sei fa sedici. Avrei potuto fare anche uno + sei e farti nascere il sette, se preferisci…”.

“Sedici dicembre va benissimo”.

“Altrimenti sette marzo…la somma del secondo numero dà dodici. Uno + due fa tre”.

“Ripeto: sedici dicembre va benissimo”.

“Ora mi serve un luogo di nascita. Se sai davvero tutte le lingue, uno vale l’altro. Che stato ti piace? Scegline uno prestigioso, così il curriculum vale di più”.

“Che vuol dire?! In base a cosa uno stato è prestigioso?!”.

“Noi mortali abbiamo molti pregiudizi. Facciamo che sei un cittadino francese ma che hai compiuto numerosi studi all’estero nell’ambito dell’astronomia. Che dici?”.

“Sei tu l’esperta…”.

“In cosa? In ballistica?! Quello sei tu, ciccio!”.

“Cos’è la ballistica?”.

“La scienza del raccontar balle!”.

Kosmos non disse altro, continuando a non capire cosa servisse compilare un foglio pieno di falsità.

“Come interessi che ci mettiamo? Cosa ti piace?”.

“Mi piace la pizza. Ho avuto modo di assaggiarla ultimamente…”.

“Kosmos! Cerca di essere serio! Il fatto di mangiare pizza non rientra negli interessi utili per un curriculum! Hai detto che hai letto un sacco…diciamo che hai fatto il volontario in una biblioteca. Sai usare il computer?”.

“Che roba è? Si mangia?”.

“No. Sorvoliamo… Cos’è che sai fare?”.

“Salvo buchi neri, supernove e cose del genere?”.

“Esatto…”.

“Io…so dipingere. E suono”.

“Davvero? Bene. Aggiungo interessi creativi e nessuna difficoltà ad immaginare cose nuove. Fantasia da vendere. Fra le esperienze aggiungo anche il fatto di essere stato sulla mia nave per un periodo, così da lasciar intendere che sei capace anche di sporcarti le mani”.

“Per essere capace ne sono capace, ma non mi piace un granché…”.

“Disposto a lavorare in gruppo o singolarmente, buone capacità di comando”.

“In gruppo? Solo se comando io…”.

“Infine dimmi: in che ambito vorresti lavorare? Insomma…che obbiettivi hai?”.

“Ti piace farmi domande difficili!”.

“Dovrò sapere che genere di lavoro ti piacerebbe fare! Altrimenti a chi porti sta roba?!”.

“Non lo so. Vedi tu”.

“Un posto dove non devi fare fatica, dove non devi obbedire agli ordini e in cui le tue rispostacce non vengano giudicate offensive…”.

“Perfetto. E aggiungi anche "senza puzza di pesce"”.

“Ah sì, visto che ci siamo…buon anno, Kosmos. Buon 2012”.

Lui non capì da subito quella frase. Sobbalzò, quando scoccò la mezzanotte e i fuochi artificiali riempirono la sua visuale. Che modo esagerato che avevano i mortali di festeggiare!

 

₪₪₪

 

“Ti prego non uccidermi!” supplicò Yang, una volta ricomparsa davanti ad Acubens.

“E perché non dovrei?” sbottò Cancro.

“Perché sono qui con le migliori intenzioni, non voglio farti del male”.

“Non ti credo”.

Capra gemette. Temeva proprio che chi aveva di fronte non le credesse e decidesse di farle del male. Ma perché si era lasciata trasportare di nuovo davanti a colei che le aveva sparato?

“La mia signora ti rivuole in cielo. Vi rivuole tutti quanti. E non perché non riesca a gestire la situazione, ma perché non trova giusto che voi siate caduti per colpa di Kosmos”.

“Kosmos, stando ai suoi piani, non tornerà in cielo?”.

“Lei ci prova a convincerlo, ma il vostro capo, diciamocelo, è un deficiente”.

“Anche la vostra padrona, a volte…”.

“Non siamo qui per discutere di questo. Sono stata mandata qui per portarti nel luogo d’incontro prestabilito, in modo che possiate ritornare a palazzo. Magari, vedendo questo, a Kosmos passa la voglia di fare pirlate e torna in sé”.

“Io credo che non sia mai stato fuori di sé. Ma perché dovrei fidarmi?”.

“Altri miei colleghi stanno facendo la stessa cosa, sparsi per il mondo”.

“Tu sai dove sono gli altri miei compagni?”.

“Più o meno. Il più vicino è Al Risha, che dovrebbe essere in Egitto, ma Tù è già sulle sue tracce e, spero, si sposterà presto verso nord”.

“Prima di partire, voglio avere la certezza che mi stai dicendo la verità. Tu hai ancora i tuoi poteri, altrimenti non saresti ricomparsa, perciò contatta la tua collega Tù e dammi conferma che le cose stanno come dici”.

“Come preferisci, malfidente costellazione pignola!”.

Yang si concentrò, chiudendo gli occhi, chiamando Lepre per nome. Dopo qualche istante, comparve davanti alle due donne l’immagine di Tù, in piedi a braccia incrociate.

“Ti ascolto, problemi? Perché usi questa metodologia per parlare con me? Rischi di usare troppa magia” parlò Lepre.

“Tranquilla, è tutto sotto controllo. Ti chiamo perché la mortale che mi è toccato riportare non vuole collaborare e vuole una prova tangibile che pure tu stai portando il suo collega in Grecia”.

“Diciamo che sto facendo del mio meglio. Ma quest’uomo è più stupido di quanto pensassi”.

“In che senso?”.

“Abbiamo fatto pochissima strada finora. Appena può si tuffa fra alcol, droga o altre porcherie. Sono stufa di fargli da balia…”.

“Mostramelo!” ordinò Acubens.

“Come vuoi…ti avverto però che non è un bello spettacolo”.

Lepre fece un gesto con la mano e Pesci fu visibile. Stava ridendo da solo, con fra le mani una lunga sigaretta arrotolata che fumava in modo eccessivo.

“Al Risha!” lo chiamò Cancro, con un’evidente nota di rimprovero nella voce.

“E non l’hai visto quando si attaccava al narghilè!” sbottò Tù.

“Non ci posso credere! Hai il diritto di prenderlo a sberle da parte mia!”.

“L’ho fatto, diverse volte, ma non fa altro che riempirmi d’insulti e fare quello che gli pare. Non posso trascinarlo!”.

Lepre era piuttosto minuta e, nonostante i poteri, non poteva pretendere di portar fino in Grecia di peso un uomo che non aveva alcuna intenzione di muoversi come Al Risha.

“Lui non può sentirmi?” domandò Acubens.

“In teoria potrebbe. Ma credo sia troppo in balla per usare le sinapsi necessarie ad un’azione del genere. Hai qualche messaggio da riferirgli?”.

“Sì, di smetterla di farsi del male da solo!”.

“Bella frase, ma temo di avergliela ripetuta fino allo sfinimento”.

Cancro si girò verso Capra, che nel frattempo si era soffermata sui vari sassolini che vedeva in terra, in cerca di nuovi pezzi per la sua collezione di cose inutili.

“Possiamo raggiungerli?” domandò Acubens.

“In Egitto? Certo, non è un problema” rispose Yang “Ma perché lo vuoi fare? Ci penserà Tù al tuo compare, non ti preoccupare”.

“Forse mi ascolterà e riuscirò a farlo ragionare. Un tentativo lo possiamo fare, no?”.

“E se non dovesse funzionare?”.

“In quel caso saremmo in tre per poterlo trascinare fino in Grecia”.

“Quindi hai deciso di seguirmi fino là?”.

“Solo se posso portarmi dietro il fucile. Ancora non mi fido di te…non si sa mai!”.

Capra e Lepre si scambiarono le indicazioni per potersi ritrovare in un luogo preciso, mentre Cancro salutava i suoi cari amici leoni e caricava i fucili. Si trovava bene nella savana ma il palazzo era il suo posto, come il cielo era il luogo che spettava alla costellazione che rappresentava. Non si fidava di colei che aveva di fronte, sicario di Kuruma, ma non poteva fare troppo la schizzinosa. Inoltre, quel cretino di Al Risha aveva bisogno di una bella strigliata e lei sarebbe stata ben lieta di dargliela. Senza ulteriori indugi, fucile in spalla, fece segno a Yang che era pronta a seguirla.

 

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“Hai intenzione di rimanere lì ancora a lungo?” domandò Astrea, guardando dalla finestra.

Gallo era ancora lì, in attesa che scendesse.

“Ho tutto il tempo del mondo, stellina caduta. L’eternità è dalla mia parte!” rispose, con un ghigno.

“Chiama la polizia! Quello è un maniaco!” suggerì Maia.

“Non serve. Ieri sera mi ha riportato a casa una guardia giurata. Non si spaventa di certo nel vedere un poliziotto! E poi è piuttosto violento…”.

“E loro hanno le pistole! Io la chiamo!”.

Senza voler sentir ragioni, Maia chiamò il numero d’emergenza e spiegò la situazione: c’era un pazzo dai capelli assurdi che voleva fare del male ad un gruppo di indifese ragazze.

A sirene spiegate, arrivò un’auto in meno di dieci minuti.

“Può fornirmi i documenti, prego?” domandò il poliziotto a Ji, che non si mosse.

“Le sto chiedendo i documenti…” incalzò l’uomo, ma Gallo lo ignorò.

“La prego di allontanarsi da questa casa al più presto, se non vuole essere arrestato”.

“E io la prego di allontanarsi da me, se non vuole essere ucciso!”.

“Come?!”.

Gallo si girò di scatto, afferrando il poliziotto per il collo ad una velocità tale da impedirgli di reagire. Il collega uscì dall’auto, puntando la pistola.

“Ti consiglio di rimettere a posto quel giocattolo, se non vuoi che usi questo inutile mortale come scudo” ringhiò Ji.

“Scendi, Astrea!” riprese Gallo, sempre con l’ostaggio stretto fra le mani “Oppure lo uccido!”.

“Rinforzi! Ci servono rinforzi!” continuava a ripetere il collega, rientrato in macchina.

Nel giro di qualche minuto, Ji fu circondato. La cosa non parve spaventarlo più di tanto. Fissò i suoi avversari e, lasciando andare l’ostaggio, scoppiò a ridere.

“Potete venire anche il doppio di quanti siete ora. Non potete sconfiggermi! Non crediate di esserne in grado, pezzenti!”.

Tutti gli stavano puntando le pistole contro, pronti a colpire nel caso ce ne fosse stato bisogno. Gallo, quasi divertito, alzò la testa ed emise uno strano suono, che qualcuno interpretò come un “chicchirichì”, prima di iniziare ad affrontare i poliziotti. Erano in molti ma lui era molto veloce e i colpi parevano passargli attraverso, come se fosse etereo. Astrea capì subito che stava usando i suoi poteri al massimo. L’unico modo per batterlo era sperare che quell’energia si esaurisse, ma non sembrava possibile in quel momento.

“Ma come fa?!” esclamò, spaventata, Maia.

“Chiama Alìs, dille di restare lontano da casa finché può. Evitale tutto questo casino…” suggerì Astrea, vedendo che c’erano sempre più curiosi che si accalcavano per la strada.

“Esci fuori, Vergine! O finirò per ammazzarli tutti!” gridava Ji.

“Oh, per Zeus! Vai a farti cucinare, razza di pollo esaltato!” rispose Astrea, scervellandosi per riuscire a trovare una soluzione.

“Cosa farebbero i miei colleghi rissaioli?” si chiese, guardandosi attorno.

D’un tratto sorrise. Afferrò un grosso libro, probabilmente un vocabolario, e lo lanciò dalla finestra, sperando di avere almeno un minimo di mira. Dal primo piano in cui stava, colpì in testa Ji, che gemette e si voltò. In quei pochi secondi di distrazione, la polizia lo crivellò di colpi, facendolo cadere in ginocchio. Gridando, Gallo scomparve in migliaia di piccole luci, lasciando tutti piuttosto perplessi e spaventati.

“Ma dove è andato?! Come ha fatto?!” gridò Maia.

Nel frattempo i curiosi, radunati attorno alla scena, non avevano molto ben compreso ciò che era avvenuto. Non avendo assistito alla presa per il collo dell’ostaggio, pensarono fosse solo un ragazzo rifiutato dalla sua donna e che, mostrandosi solo leggermente aggressivo, la polizia lo avesse ammazzato. Pur non capendo dove fosse andato a finire il corpo, bastò quell’idea per scatenare la folla che attendeva solo un pretesto.

“Wow…una rivolta per causa tua…che onore…” mormorò Maia, tirando le tendine e chiudendo la finestra, per evitare di assistere ad ulteriori stranezze.

“Me ne devo andare…” disse Astrea.

“Perché? Quello strano tizio è morto. Non so dove sia andato a finire, ma è morto”.

“Non è morto, credimi. Tornerà, e non posso rischiare di mettervi in pericolo”.

“Ma che stai dicendo?! È morto, gli hanno sparato in quaranta!”.

“Ci sono cose che non posso spiegarti, Maia”.

Astrea stava preparando un piccolo zaino con le poche cose che si era comprata, ignorando le proteste della sua coinquilina.

“Resta. È tutto finito, non fare stupidaggini! Dove credi di andare? A dormire sotto i ponti?”.

“Troverò una soluzione, come ho sempre fatto. E, se credi sia tutto finito, guarda un po’ fuori e ti renderai conto che non è così. Credi che voglia peggiorare la situazione? No, non lo voglio”.

“Vittimista. E che racconto ad Alìs?”.

“Dille che me ne sono andata, semplicemente. Non vedo dove sia il problema”.

Con lo zaino sulla spalla, Vergine si avviò verso la porta.

“Ci rivedremo a lavoro…” mormorò Maia.

“Non lo so. Per ora vi ringrazio di tutto. Senza di voi non so dove sarei ora. Ve ne sarò sempre grata. Per quel che riguarda il futuro…staremo a vedere”.

Maia, senza dire altro, abbracciò l’amica, senza volerla lasciar andare. Dove pensava di andare, in inverno, da sola, senza un posto dove andare? Tentò ancora di farle cambiare idea ma lo sguardo di Astrea era deciso, anche se triste. La stella caduta era consapevole di cosa fosse in grado di fare Ji per ottenere qualcosa e non poteva rischiare che facesse del male a chi l’aveva aiutata. Infilò il cappotto ed uscì, passando per la porta laterale, ancora lontana dagli scontri fra polizia e curiosi.

 

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Tigre doveva stare attento. Non voleva di certo che a Sadalmelik tornasse la memoria! Se avesse ricordato la verità, sarebbe fallito il suo piano. Acquario non doveva recuperare la memoria. Non doveva tornare in cielo. Così facendo, la sua Era non potrebbe mai iniziare ed il controllo resterebbe in mano agli Orientali. Sapeva bene che la maggior parte dei suoi colleghi la pensavano diversamente, ma lui non era disposto a sentirsi inferiore a nessuno, specie a quella femmina dagli occhi color prugna! La questione era semplice: doveva solamente tenerla d’occhio fino alla data della fine dell’Era, dopodiché poteva pure andarsene, fregandosene dell’eventuale destino della stella. Mancava meno di un anno…avrebbe saputo resistere! Grazie ai suoi poteri, era riuscito ad ottenere una casetta sulla Senna, lontana da grandi città e da stimoli eccessivi. Lì Sadalmelik aveva modo di stare all’aperto, curare le piante e qualche animaletto, senza stare a pensare all’oroscopo. L’aveva convinta di essere francese, di aver intrapreso un viaggio con lui ma di essere stati sorpresi dalla tempesta ed essersi separati, di non avere genitori e di essere in cerca di impiego dopo l’università a Parigi. Lui invece ufficialmente lavorava in banca, nonostante la tinta a strisce della sua capigliatura, e si prodigava a mantenere la sorella finché non fosse stata indipendente.

“Manuelle” lo chiamò Sadalmelik, il nome che le aveva detto di avere.

“Dimmi, Marie” rispose.

“Stavo pensando…se ho studiato a Parigi, forse se ci andassi ricorderei qualcosa, no?”.

“Splendida idea, sorellina. Ma Parigi è orrenda in inverno, ti suggerisco di aspettare la primavera”.

“E nel frattempo che faccio?!”.

“Marie, io ci sto provando! Ti ho mostrato le foto di mamma e papà, ti ho portato dove passavamo il tempo da piccoli, la nostra vecchia casa, la scuola…non so che altro fare!”.

“Hai ragione, scusami. È che è così frustrante…sento di avere i ricordi qui, da qualche parte, e manca davvero un soffio perché escano ma niente, non ne vogliono sapere!”.

“Vedrai che, prima o poi, il soffio giusto arriverà”.

Sadalmelik lo abbracciò, cosa che Hu non apprezzò molto ma si trattenne dal farlo notare, per non destare sospetti.

“Meno male che ci sei tu, fratellone! Che farei senza te?”.

“Vorrei fare di più, ma non posso. Appena farà un po’ più caldo ti porterò a Parigi, ok? Così magari ricorderai. Andrà tutto a posto”.

“Sarebbe strano non ricordarsi della famiglia ma dell’università…”.

“Sarebbe un inizio. Poi gli altri ricordi arriveranno. Dicono che basti sbloccarne uno per far tornare tutto in mente”.

“E potrò finalmente ricordare tutti i bei momenti passati assieme che mi hai raccontato! Non vedo l’ora! Le gite, i giochi, le feste, mamma e papà…”.

“Devi solo avere pazienza. Ricordati che io ci tengo a te e ti aiuterò in ogni modo”.

“Anch’io tengo tanto a te, tienilo sempre in mente!”.

“Grazie”.

Tigre ghignò. Era fiero del rapporto fittizio che era riuscito a creare fra lui e quella femmina. L’unico rammarico che aveva era quello di non averle raccontato che erano fidanzati, invece che fratelli. Magari, fra una cazzata ed un’altra, poteva scapparci anche qualche bella scopata. Ma si era lasciato prendere dall’irruenza tipica del suo carattere ed aveva detto la prima cosa che gli era venuta in mente. Sperava che pure Serpente, Scimmia e Gallo fossero riusciti nelle loro missioni di sabotaggio. Che gli altri faticassero pure per riportarli tutti in Grecia! Qualcuno di certo non sarebbe arrivato alla meta! A volte gli era passata per la testa l’idea di ucciderla ma l’aveva scartata. La violenza insensata non rientrava nel suo stile! Meglio una balla ben raccontata. I giochetti psicologici erano il suo forte.

“Sorellina…oggi la giornata al lavoro è stata molto stressante. Ti dispiacerebbe venire qui a far rilassare un po’ il tuo fratellone, come fai sempre?”.

“Ma certo!”.

Acquario iniziò a massaggiargli le spalle. Tigre si rilassò, sorseggiando una birra davanti alla televisione, dicendosi che poteva anche abituarsi ad una vita così.

 

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Il grosso elicottero privato atterrò alla periferia di Ankara, in una zona disabitata. Rukbat scese, già armato, e si guardò attorno. Molte forze speciali di altri paesi si erano riunite in quel luogo. Montarono le tende, preparando un avamposto simile a quello delle esercitazioni militari degli autoctoni, credendo evidentemente che il nemico fosse fesso o cieco, per non notare la quantità eccessiva d’agenti e di mezzi. Sagittario non commentò quella strategia discutibile ed aiutò a montare il campo, assieme a quelli che ormai erano diventati i suoi colleghi di lavoro. Tirava vento e questo rendeva decisamente meno ridicolo il lungo cappotto dal quale non si era separato. Inoltre, gli occhiali da sole lo proteggevano dalla sabbia. Una volta arrivate tutte le squadre, si sarebbero addentrati in territorio nemico e questo Rukbat sperava di evitarlo, perciò doveva sparire prima dell’arrivo di Italiani, Francesi e Americani, i soliti ritardatari paraculati. I suoi colleghi ammirarono la sua straordinaria capacità di comunicare con tutti i presenti, in qualsiasi lingua.

“Sarai fondamentale per questa missione” gli disse un russo “Almeno saremo certi di capirci”.

Continuando ad allestire il campo, si guardava attorno in cerca di una via di fuga. Scosse il capo. Non molto lontano dalle tende, c’era una piccola altura. Sarebbe stato un ottimo nascondiglio, non solo per lui ma anche per i nemici. Che razza di squadre speciali…

“Vuoi andare all’esplorazione, Carlyle?” domandò Harrison, aiutandolo con dell’attrezzatura.

“Mi piacerebbe, in effetti. Tanto c’è ancora tempo prima che le ultime squadre ci raggiungano”.

“Da soli non è saggio muoversi, e mai girovagare dopo il tramonto. Non sappiamo chi possa esserci ad aspettarci. Ma questo credo tu lo sappia già”.

“Non preoccuparti troppo per me. Ho lasciato la gonna di mamma da un sacco di tempo”.

Harrison ridacchiò, finendo di sistemare le ultime cose.

“Vuoi che venga con te? Nemmeno a me dispiacerebbe fare un giretto…” propose.

“Non è necessario. Non credo che per oggi avanzi molto tempo per girovagare. Il tramonto è vicino” sbottò Rukbat, sperando di far desistere il collega.

“Signore…fossi in voi mi sposterei” mormorò un soldato, piuttosto piccolo di statura, andando accanto a Sagittario.

“Come?! Che hai detto?!” domandò lui, non avendo capito.

“Non siete al sicuro qui” sbottò il soldatino, dandogli una spinta.

Rukbat, non spostandosi per un’azione del genere compiuta da un esserino tanto piccolo, si spostò di scatto, pronto a reagire, quando qualcosa bucò la tenda a pochi centimetri dietro di lui, esattamente dove aveva la testa prima.

“Cecchini! Al riparo!” gridò Harrison.

Tutti si gettarono in terra, cercando riparo. Sagittario si acquattò dentro la tenda, riparandosi dietro alle casse di metallo delle armi.

“Chi sei? E come facevi a sapere che stavano per spararmi?” domandò al piccolo soldato.

“Io so molte cose” rispose questo, mostrando il volto e gli occhi rossi.

“Sei una donna!”  esclamò Rukbat “E…quegli occhi…”.

“Sono Shu”.

“La topa orientale?”.

“Detta così è piuttosto offensiva la frase. Sono Topo, dal palazzo Orientale, e devo scortarti fino in Grecia, se non ti dispiace”.

“Non mi dispiace per niente, era proprio quello il mio obbiettivo. Il problema è che mi sono incasinato in sta faccenda…”.

“Ti aiuterò io. Fidati di me”.

“Potrei distruggerti con una mano, sei alta un metro ed una lattina di birra! Anche se provassi a fare qualche cazzata, non ci riusciresti”.

“Parole sensate”.

“Agente Carlyle! Tutto bene?!” lo chiamò Harrison.

“Tutto bene” rispose Sagittario, uscendo dalla tenda assieme a Shu.

“Abbiamo catturato i cecchini. Vuoi occupartene tu?”.

Rukbat li fissò.

“Con piacere” rispose, puntando le mani sui fianchi e mostrando le pistole.

“Ricordati che sei in terra straniera. Diciamo che tutto ti è concesso” ghignò il suo collega, facendo segno di portare i prigionieri in una delle tende.

“Me ne ricorderò” ghignò a sua volta Rukbat.

Entrato nella tenda, con il Barrett appoggiato alla spalla, quasi ringhiò a chi aveva di fronte.

“Dovrei spararvi in mezzo alla fronte, avrei la facoltà di farlo…” mormorò, assumendo un’espressione truce da poliziotto cattivo.

 

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“Hei, non guardare me! Io ho tentato di fermarlo!” protestò Deneb Algiedi, legato come un salame ed ammanettato davanti ad un tavolino d’acciaio decisamente spigoloso.

“Adesso ditemi un po’ come faccio a rimediare al casino che avete creato?!” sbraitò Rukbat, sbattendo entrambi le mani sul tavolo.

Dall’esterno, non capendo nessuno in che lingua stesse parlando, sorrisero, soddisfatti dai metodi poco ortodossi del mitico agente Carlyle.

“Liberaci. E torniamo ognuno al proprio posto” rispose, con calma serafica, Antares.

“Tu hai provato ad uccidermi! E dovrei lasciarti così?!”.

“Tu mi hai ucciso quando ero uno scorpione, saremmo stati pari!”.

“Io gli avevo detto che era una cazzata, ma sai che Antares non ascolta nessuno…” si intromise Deneb Algiedi, tentando invano un modo per farsi slegare.

“Chiudi la bocca, Capro! Chi sono questi due con voi?” domandò Rukbat, riferendosi agli altri due uomini catturati con le due stelle cadute.

“Sono amici del capo di Antares. Lui ti vuole morto. Dice che sei una minaccia…”.

“Sarà una minaccia per lui il vero agente Carlyle, non certo io. Che me ne frega del suo capo…”.

“Cosa me ne frega se nel tempo libero ti travesti da poliziotto! Colpa tua!” sbottò Antares.

“Non sei nella posizione per dire una cosa del genere!”.

“Smettila di fare il figo! Sei solo un finto agente. Liberaci e festa finita”.

“E come lo spiego a quelli là fuori?!”.

“Dì loro che eravamo troppo forti per te e che ti abbiamo sconfitto…”.

L’espressione di Rukbat, un misto fra lo scettico e lo scocciato, fece chiudere la bocca a tutti i presenti. Sagittario sospirò, chinando la testa. Non era ancora ora di far cadere la sua copertura.

“Ok. Ora vi libero. Dirò loro che siete solo dei sicari e che mi avete detto il nome del vostro capo, che cattureremo durante l’operazione”.

“Che sparaballe professionista che sei” ridacchiò Capricorno.

“O così, o vi sparo in testa”.

“Non ho mai obbiettato al fatto che ci liberassi!”.

Senza più manette e corde, i quattro furono scortati fuori da Rukbat, che si bloccò dopo qualche passo, notando subito che qualcosa non andava.

“Ops” si limitò a dire.

“Che c’è?” borbottò Antares, già pronto a sparire per i fatti suoi.

“Quello che mi sta indicando è il vero agente Carlyle”.

“Ahah, figo! E adesso spiegami un po’ come farai a rimediare al casino che hai combinato?” lo sfotté Capricorno.

“Non è divertente! Questi sono pazzi, ci faranno giustiziare tutti quanti!”.

Senza attendere altro, imbracciò la sua arma e si mise a correre verso la presunta libertà.

“Prendetelo!” sbraitò il vero agente australiano.

“Quante storie per un cappotto ed un paio di gingilli…” mormorò Sagittario, sparando a caso per farsi strada fra coloro che cercavano di bloccarlo.

“Ma io credevo che avessi preso il posto di un agente morto, o che previdentemente avevi fatto fuori…questo dove lo avevi lasciato?” protestò Antares.

“Sulla tazza del cesso”.

“Sei un coglione, lo sai?!”.

“Mai quanto te, razza di killer di colleghi di lavoro!”.

“Da che pulpito!”.

“Prendetevi delle armi, cretini, e cercate di non farvi ammazzare!” gridò Rukbat alle stelle cadute, ignorando Antares e i due sconosciuti, che parevano i più tranquilli.

“Seguitemi! Conosco un sentiero!” si sentirono dire.

“Shu! Sei tu? Mostraci la strada!”.

Topo zigzagò fra le tende, schivando gli spari.

“Perché tu, stupido russo, spari contro di me?!” sbottò un americano, arrivato da poco.

“Sei tu, sciocco americano, che sei sempre fra i piedi!” fu la risposta.

“Non siamo qua per litigare fra noi! È il finto Carlyle il nostro obbiettivo!” fece notare un tedesco, che fu mandato al diavolo da entrambi i litiganti, intimandolo a farsi gli affari suoi.

Il tedesco, offeso, sparò prima al russo e poi all’americano. Rukbat afferrò tutte le armi che gli capitavano a tiro, così come facevano gli altri.

“Nei film i caricatori durano di più!” protestò Deneb Algiedi.

“L’ho notato anch’io” ansimò Antares, urlando a caso e mitragliando a random.

Il gruppetto continuò a fuggire, sfruttando il fatto che le nazioni riunite stavano iniziando a spararsi fra loro, ignorando accordi e diplomazia.

“Certo che gli umani sono proprio stupidi…” ridacchiò Scorpione.

“Non parlarmi proprio tu di stupidità, per favore!” lo zittì Sagittario.

“Perché? Del gruppo il più stupido sei tu!” ringhiò Antares.

“Zitti e correte!” gridò Deneb Algiedi, mostrandosi piuttosto convincente.

 

Fortunatamente Shu conosceva un sentiero che spariva fra la vegetazione e i fuggitivi riuscirono a nascondersi. Una volta scampato il pericolo e dopo aver ripreso fiato, si fissarono fra di loro.

“Prima che tu dica qualsiasi cosa, Rukbat, ci tengo a dirti che vestito così sei proprio figo” iniziò Antares, sfoggiando un sorriso decisamente strano.

“Grazie. Ma il lecchinaggio non ti servirà. Mi dovete delle spiegazioni”.

“Il capo mi ammazzerà…” gemette Deneb Algiedi.

“Ora che ci penso, pure il mio!” constatò Scorpione, piuttosto scocciato.

“Siamo tutti ricercati?!” esclamò Sagittario.

“TU sei ricercato! Da tutta la polizia del pianeta, fra l’altro. Noi abbiamo solo qualche malavitoso che tenta di ucciderci…”.

“Fantastico…”.

“Seguitemi, andremo in Grecia e tutto si risolverà” cercò di calmare gli animi Shu.

“E tu chi sei?! Chi ti conosce?!” sibilò Antares.

“Io sono Shu, Topo, e sono venuta ad aiutare Rukbat. E quei due dietro di voi sono Niu e Zhu, Bue e Maiale, che hanno lo stesso scopo” si presentò, puntando i due che erano stati presentati come “amici del capo di Antares”.

“Io sono stanco, potete arrangiarvi senza di me” parlò Zhu, incrociando le braccia.

“Solito scansafatiche!” sbottò Niu.

“Come possiamo fidarci di voi tre, amichetti di Kuruma?” domandò Antares.

“E io come faccio a fidarmi di te? Hai tentato di uccidermi!” sibilò Rukbat.

“Come hai fatto tu, tempo fa, ricordi?!” si sentì rispondere.

“E non vedo l’ora di farlo di nuovo!”.

Deneb Algiedi finse di non conoscerli, mentre Sagittario e Scorpione si riempivano di botte.

“Vi ci dovete abituare, se d’ora in poi viaggerete con noi” disse agli abitanti del palazzo Orientale

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Capitolo 7
*** 6 ***


VII

 

“Avete mai viaggiato in aereo?” domandò Gou alle Bilancia.

“No, mai. E tu?”.

“Nemmeno. Sarà divertente, spero…”.

“Non può essere tanto terribile, se tanta gente lo usa per spostarsi!”.

“Giusto!”.

Zubenelgenubi, Zubeneschamali e Gou erano sedute in aereo, su dei sedili che si fronteggiavano, di fronte. Le rappresentanti della costellazione si fissavano e Cane era messa vicino a Zubenelgenubi, la gemella dai capelli neri e gli occhi bianchi. Zubeneschamali invece era accanto al finestrino e alla sua destra stava una sconosciuta con cui avevano stretto subito amicizia.

“Come mai andate a New York?” domandò la sconosciuta.

“Dobbiamo andare in Grecia per raggiungere degli amici. E tu?” rispose Gou.

“Io vivo là. E ci lavoro. Ero in vacanza, per Natale e Capodanno, ma ora è tempo di tornare a rimboccarsi le maniche”.

“Che lavoro fai?”.

“Ho un ristorante, assieme a mio fratello. Mi mancheranno la spiaggia, il sole e il relax…a voi no?”.

“Non particolarmente. Questi ultimi mesi sono stati piuttosto stressanti!” commentò Zubenelgenubi.

“Non vi siete divertite?”.

“A tratti. Diciamo che non vediamo l’ora di tornare a casa!”.

“Casa vostra è in Grecia?”.

“No, ma la raggiungeremo da lì” sorrise Zubeneschamali.

“Forse” ci tenne a precisare Zubenelgenubi.

L’aereo era alto e il cielo limpido, lasciando ai passeggeri la possibilità di guardare l’oceano e la terra sottostante. Le due Bilancia erano piuttosto estasiate da quello spettacolo, mentre Gou preferiva di gran lunga concentrarsi sulla rivista che aveva trovato a bordo.

“Chissà come se la passano gli altri, se sono già in viaggio come noi…” mormorò la gemella dai capelli bianchi.

“Già. Chissà se ancora son tutti vivi!” le rispose la gemella dai capelli neri.

“Quanto sei pessimista!”.

“Scusa, è un’ipotesi plausibile, se ci pensi”.

“Ma son sicura che non è morto nessuno!”.

“Ha ragione lei, non è morto nessuno!” le zittì Cane “E adesso godetevi il viaggio”.

Il volo era piuttosto lungo e fu servito il pranzo a bordo, che le Bilancia consumarono con una certa soddisfazione, abituate ai pasti del centro d’accoglienza.

“Si pregano i signori passeggeri di allacciare le cinture. Presto inizieranno le manovre d’atterraggio” si sentì.

Tutti obbedirono, lieti che presto avrebbero di nuovo avuto la terra sotto i piedi. Purtroppo per loro, si accorsero quasi subito che la cosa non sarebbe stata semplice come credevano. Appena prima di New York, grossi nuvoloni neri si erano addensati di colpo, cogliendo tutti di sorpresa.

“Anche oggi le previsioni non ci hanno azzeccato” commentò una Hostess “Una tempesta…”.

“E i radar? Perché non l’hanno rivelata? È sbucata dal nulla?” rispose un suo collega.

“Si vede che è il 2012” sorrise la donna, scuotendo il capo.

Il mezzo volante iniziò a sballottare in modo piuttosto violento, mentre il capitano tentava una manovra d’aggiramento della massa di nuvole. La gente a bordo cominciò ad agitarsi, specie quando l’aereo si inclinò in modo pauroso. Le Bilancia e Cane non capivano quanto questo fosse normale ma, dalla reazione degli altri passeggeri, intuirono vagamente che qualcosa non andava. Si vide un lampo, che nessuno volle interpretare, e il velivolo iniziò a precipitare. Fu il panico, fra urla, telefonate disperate, preghiere a tutto ciò che passava per la mente e pianti isterici.

“Cosa facciamo?!” esclamò Zubeneschamali, stringendosi forte al sedile.

“Moriamo!” sorrise Zubenelgenubi “Peccato, avrei voluto vedere altre cose”.

Gou tentò di rassicurarle, espandendo la sua luce magica.

“Aiuto!” gridarono le due gemelle, mentre Cane le abbracciava per avvolgerle nell’energia che emanava e chiudeva gli occhi, preparandosi all’impatto.

 

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“Riprenditi!” sbottò Acubens, tirando un calcio ad Al Risha, steso a terra con gli occhi persi nel nulla.

“Ancora un minutino”.

“Abbiamo aspettato anche troppo. Muoviti!”.

Pesci si alzò a sedere e scosse la testa, ancora piuttosto confuso. Fissò la sua collega con curiosità, non avendo sufficienti connessioni celebrali attive per capire cose ci facesse lì, e scoppiò a ridere.

“Cazzo hai da ridere?!” chiese Tù, ormai convinta che l’unico modo per farlo muovere fosse tramortirlo e trasportarlo di peso.

“Niente. È che…è tutto così buffo!”.

“Cosa c’è di buffo?!” riprese Lepre.

“Tutto. Il fatto di essere qui e non in cielo, il fatto che ci siate voi stelle Orientali a riprenderci e il fatto che Acubens vada in giro con un fucile dietro la schiena”.

“Se non vuoi che lo usi contro il tuo sedere, credo ti convenga alzarti” borbottò Cancro.

“Quanto siete violente, ragazze! Rilassatevi! Io sono calmissimo e felice, anche perché voi tre siete piuttosto carine. Che ne dite di una bella uscita romantica tutti assieme? E lasciare alla notte il compito di donarci la magia necessaria per divenire una cosa sola, se capite cosa intendo…”.

“L’unica cosa che capisco è che ti devi muovere, altrimenti le prendi!” concluse Tù.

Al Risha sbuffò, passandosi una mano fra i capelli disordinati.

“Come ti procuri i soldi per comprare tante porcherie?” lo rimproverò Cancro, notando la borsa di Pesci, ricolma di sostanze proibite.

“Rubo, che domande. I turisti sono dei fessi. O faccio l’elemosina”.

“E la cosa non ti fa vergognare? Alzati in piedi, riprenditi un pizzico di dignità e partiamo. Gli altri saranno già da un pezzo in viaggio per la Grecia, mentre noi siamo ancora qui a tentare di convincerti che strisciare per terra non è un bello spettacolo”.

“Ma che vuoi, Acubens? Non sono tuo figlio, tuo marito o il tuo amante. Fatti gli affari tuoi!”.

“Sei pelle e ossa, vestito di stracci, con un aspetto orribile e il cervello in pappa! Mi preoccupo per la tua costellazione, idiota. Deve tornare in cielo!”.

“Rilassati. Ci tornerà, se è destino che accada”.

“Hai appena detto una stronzata. Se non fai nulla perché qualcosa accada, nulla otterrai. Non è che le cose che desideri piovano dalle nuvole!”.

“Se desiderassi la pioggia…”.

“Piantala!”.

Pasci si alzò, barcollando, spalancando le braccia come a dire “ecco, sei contenta?!”. Scosse la testa, tentando di tornare alla lucidità, anche se non lo desiderava per niente. Lui era sempre stato un sognatore e fuggire dalla realtà era il suo sogno, specie ora che la sua realtà era quella di una misera vita mortale.

“Bene. Muoviamoci” incitò Lepre.

“Quanto tempo ci vorrà?” domandò Cancro.

“Dipende da quanto sarà in grado di stare in piedi lui!” ridacchiò Capra.

“Chi abbiamo di vicino dei nostri, adesso?” volle sapere Acubens, mettendosi in cammino.

Tù, quella con al momento più magia, chiuse gli occhi quasi bianchi per un instante e poi rispose: “In Turchia ce ne sono tre, ma si muovono rapidamente”.

“Anche loro vanno verso la Grecia?”.

“Spero di sì…non ho capacità di predizione del futuro!”.

“Chi sono?”.

“Sagittario, Capricorno e Scorpione”.

“Quei tre in gruppo?! Notevole…sono stati davvero bravi a mettere da parte le loro divergenze per poter viaggiare assieme!”.

 

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“Giuro che prima dell’alba ti sparo nel culo se non la smetti di fischiettare!” sibilò Deneb Algiedi, rivolto ad Antares che camminava tranquillo con le mani in tasca.

“Rilassati un po’. Non può sentirci nessuno!” sbottò Scorpione.

“E come puoi esserne certo?!”.

“Fate silenzio tutti e due!” minacciò Rukbat, guardandosi attorno.

Era piena notte ed i sei, le tre costellazioni ed i tre segni orientali, da giorni si muovevano solo dopo il tramonto, per tentare in ogni modo di evitare i controlli e la gente che li cercava.

“E tu muoviti! Non eri un grande guerriero?! Com’è che sei così lento?! Molla un po’ di artiglieria, se ti appesantisce tanto” gli rispose Antares.

“Il ginocchio non mi da pace, specie dopo tutte le corse che abbiamo fatto”.

“Sai che i cavalli azzoppati vanno abbattuti?”.

“E sai che gli scorpioni vanno presi a ciabattate finché non si spiaccicano per bene?”.

“Vuoi che ci fermiamo per un po’, Sagittario?” domandò Shu, voltandosi indietro.

“No. Ce la faccio benissimo!” protestò Rukbat, sentendosi offeso nel venir trattato come il più debole del gruppo.

In realtà, ad ogni passo vedeva le stelle, molte più stelle rispetto a quelle che era abituato a vedere nel palazzo Occidentale. Quel ginocchio era quello che era stato colpito quando era divenuto una costellazione: che avesse ancora del veleno in circolazione? Possibile che solo lui provasse un dolore sempre più forte nel punto che era stata la causa della sua ascesa fra le costellazioni? Antares non soffriva per la freccia che lo aveva trapassato? Non poteva credere di essere davvero lui l’unico con dei problemi. Guardò il cielo. Era sereno e stellato. Sorrise. Kuruma, dopotutto, era perfettamente in grado di fare un ottimo lavoro, nonostante i corpi celesti mancanti. Aveva perso il conto di quanti giorni avevano trascorso in fuga. Doveva essere gennaio, o forse già l’inizio di febbraio. Dovendo stare costantemente all’erta, schivando ogni anima viva, era difficile e lungo il loro cammino.

“Questa è tutta colpa tua, Rukbat! Se ci cercassero solo i delinquenti, potremmo rivolgerci alla polizia, chiedendo protezione. Ma tu sei ricercato da tutte le forze dell’ordine della Terra!” protestò Scorpione, dando un calcio ad un sassolino innocente.

“E se voi non foste andati ad impegolarvi con la malavita, a quest’ora potremmo chiedere protezione a lei, essendo io una specie terrorista per i mortali!” rispose Sagittario, tirandogli in testa il fratello un po’ più grande del sassolino innocente di prima “E ringrazia il fatto che ho usato un sasso, e non il lanciagranate che mi porto dietro”.

“Litigare non giova a nessuno” sospirò Zhu, già irritato dal fatto di dover camminare.

“A me giova. Aiuta a non addormentarmi con il buio” furono le parole di Deneb Algiedi.

“Ma voi siete tutti suonati!”.

“Parla quello che va in giro fra i mortali con i capelli viola e spera di passare inosservato!” ridacchiò Sagittario, riferendosi alla pettinatura di Maiale.

“Hei! Non offendere l’Orientale che è venuto a prendermi e pensa alla nana che si deve occupare di te!” lo difese Scorpione.

“Ma…sono sempre così?” domandò Bue a Capricorno.

“Quasi sempre. Si odiano. E a me piace inserirmi nella conversazione tanto per passare il tempo”.

“Capisco…”.

“Voi al palazzo Orientale non litigate mai?”.

“Non in modo così vistoso”.

“Siete dei repressi, insomma”.

“Questo non è un problema tuo, anche se fosse!”.

“Vuoi litigare pure tu con me?”.

Niu e Deneb Algiedi si fissarono male per qualche istante, prima di decidere che era più divertente guardare Rukbat e Antares litigare, senza fare fatica.

 

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“Fate silenzio, sottoposti, e copiate lo schema!” sbottò Kosmos, comodamente seduto in modo decisamente poco consono sulla cattedra.

Con i capelli legati e gli occhiali, aveva scoperto di non vederci un granché da vicino, aveva davvero un’aria da intellettuale. Guardò in alto. L’aula era tipicamente universitaria, con i tavolini minuscoli, le sedie scomode e le gradinate a scalare verso la lavagna. Le prime file erano così in alto da rimanere al buio. I ragazzi stavano ricopiando i tipi spettrali delle sette stelle usate convenzionalmente.

“Scusi, Mintaka si trova nella costellazione di Orion?” domandò uno studente.

“Sì. Come Rigel e Betelgeuse. Aldebaran, Capella, Procione e Sirio, le altre stelle presenti nello schema, sono rispettivamente in Taurus, Auriga, Canis Minor e Canis Major” rispose Kosmos, come se saperlo fosse la cosa più normale del mondo.

Al muro era appesa un’enorme mappa delle stelle. Kosmos si stupiva di come le conoscenze approfondite degli umani si limitassero alla loro galassia ed alla loro sfera celeste. Meglio così. Non aveva nemmeno aperto un libro per passare a punteggio massimo il concorso che lo aveva inserito fra il personale della facoltà di astrofisica e astronomia di Parigi. Aveva finto di non notare gli sguardi d’invidia di chi era più ignorante di lui, ma del resto non poteva proprio farci niente! Sorrise ripensando alla faccia di Hanne, quando le aveva detto che impiego si era procurato.

“Forse sei davvero un dio” aveva commentato, ridendo “O hai corrotto qualcuno…”.

Per lei quel settore era impossibile e complicatissimo, mentre per Kosmos, ovviamente, era tutto così semplice che doveva a stento trattenere il suo stupore davanti all’ignoranza mortale. Non voleva rivelare loro niente di nuovo, che scoprissero le cose da soli! Dopotutto lui non è che non avesse fatto fatica nel crearle tutte! Ammetteva di aver fatto un po’ di confusione, all’inizio, quando era bambino… Da quanto tempo non pensava a quando era bambino! Rimase quasi stupito nel ricordarsi. Era passata letteralmente un’eternità! Ma ora si vedeva, o meglio vedeva l’universo di pochi milioni di anni, quando iniziavano a formarsi le prime forme celesti fra le masse insensate. Lui era così piccolo…e anche Kuruma! La ricordava, mentre ridendo nuotava fra gli enormi ammassi di giovane materia. Quando ancora gli sorrideva…quando ancora rideva felice! E il loro palazzo, enorme agli occhi di un bimbo e con tante stanze di cui non capì l’utilità fino all’arrivo delle costellazioni, in quei tempi era come un parco giochi. L’intero universo era il loro parco giochi! Solo quando iniziarono a crescere incominciarono a stabilizzare le leggi che potevano governarlo, e la cosa si era fatta molto meno divertente. Specie dopo la venuta di altri esseri senzienti, non solo terrestri, perché i due Signori divennero per loro delle entità misteriose e, Kosmos lo ammetteva, avevano fatto sì che si montassero la testa. Dalla venuta dei mortali, fra Kosmos e Kuruma era cambiato tutto, dando inizio una competizione assurda per il predominio sui vari pianeti con creature viventi. Sfide a chi era stato in grado di crearne di più e metterli in condizione di durare un periodo di tempo pressoché rilevante, scommesse su chi dei due fosse più venerato o considerato importante, litigi per stabilire chi avesse generato la cosa più bella. Crearono i procacciatori, gli uccelli che vagavano per i mondi in cerca di oggetti che dimostrassero all’avversario di aver dato vita alle creature perfette. Chiusi nelle loro torri, avevano iniziato ad evitarsi e considerarsi due entità opposte. Quando arrivò la prima costellazione, Hamal, e la prima creatura Orientale, Shu, il palazzo era già nettamente diviso. Kuruma fu entusiasta dell’arrivo di Topo, che accolse come piacevole compagnia, così come accolse a braccia aperte tutte le altre creature, sentendosi tremendamente sola da quando lei e Kosmos fingevano di ignorarsi. Kosmos, al contrario, non calcolò i nuovi arrivati fino a quando non furono sufficientemente rumorosi da rendere  impossibile fingere che non ci fossero. Ricordava quando aveva udito una voce di donna, dall’alto della torre, ed era sceso a controllare chi potesse essere. Si stupì nel vedere una sconosciuta in mezzo al salone del piano superiore. Era confusa, impaurita, e coperta solamente da un piccolo velo splendente. Kosmos pensò che, forse, era uno scherzo del suo procacciatore. I due si erano guardati, senza parlarsi, e poi lui era tornato da dove era venuto, ignorando il fatto che Hamal lo chiamasse. Dopo di lei erano arrivati Mekbuda, Aldebaran, Adhafera, Acubens, Antares e Rukbat. Kosmos continuò a fingere di non sentirli, apparendo solo raramente al di fuori della torre, più che altro per verificare che non stessero facendo danni. Credeva fossero mortali, portati lì dal procacciatore per fargli compagnia, ma con l’andar del tempo aveva capito che non era così. Nonostante questo, continuò ad ignorarli. Fu Sadalmelik a farlo cambiare, anche se solo leggermente. Lei arrivò assieme a Deneb Algiedi, Al Risha, Astrea e Zubeneschamali. Erano giunti tutti in gruppo e il casino che fece Capricorno lo costrinse a scendere dalla torre. Fecero silenzio, vedendolo comparire sulla porta del salone dove tutti si erano riuniti per salutare i nuovi arrivati. Sadalmelik fu la prima a parlare, sfidando quello sguardo infastidito e la soggezione che creava negli altri. Si inginocchiò e chinò la testa, aprendo le braccia.

“Io un tempo facevo sì che la coppa degli Dèi della mia gente non fosse mai vuota. Quel tempo oramai è passato, alcuni Dèi sono qui e altri sono svaniti per sempre. Adesso il mio ruolo è diverso e sarà un onore per me servire Voi, Signore dello Zodiaco”.

Kosmos rimase sconcertato da quelle parole e non seppe come rispondere. Scese il silenzio, in cui si udì un rumore simile a quello che si può percepire in uno zoo, proveniente dal palazzo Orientale.

“Signore dello Zodiaco…” aveva ripetuto, senza capire più di tanto.

Alzando lo sguardo da quella donna prostrata, vide che anche gli altri presenti si stavano inginocchiando, con più o meno convinzione. Sadalmelik aveva alzato gli occhi ed aveva incrociato quelli azzurri del suo nuovo signore. Lui, non sapendo bene che fare, si era limitato a fare segno a tutti di alzarsi. Non aveva fatto alcun discorso né presentazione, ma da quel giorno aveva trovato meno fastidiosi quegli esseri. Tornando sulla torre e guardando lo scettro delle Ere, aveva capito che avrebbero potuto alleggerire i suoi compiti.

“Posso chiederle a che ora riceve gli studenti?” si sentì domandare, e fu costretto a tornare bruscamente alla realtà.

L’aula si stava svuotando, una volta finita la lezione. Solo un gruppetto di studenti era rimasto, fissandolo in attesa di una risposta.

“Devo ancora organizzarmi con gli orari. Ve lo farò sapere domani”.

“Grazie mille”.

“Perché volete vedermi dopo le lezioni? Non capite qualcosa?”.

“No, è che vorremo sapere se è disposto a seguirci per la tesi”.

“Proprio io?”.

“Come spiegate Voi, è molto più semplice rispetto ai professori che abbiamo avuto finora. Loro fan sembrare tutto impossibile mentre con Voi sembra la cosa più facile della Terra. Non ci mettete in soggezione come quegli strani vecchi…”.

“Non vi infastidisce il fatto che vi definisca miei sottoposti o cose del genere?”.

“Tutti i professori si ritengono superiori al mondo intero, almeno Voi lo mostrate chiaramente!”.

“Ho capito” ridacchiò Kosmos “Ci vedremo nel mio ufficio appena vi saprò dire quando mi sarà possibile, anche se sappiate che questo impiego è temporaneo. Io sono qui per sostituire un collega che al momento è all’estero per una ricerca. A domani”.

Rientrando a casa una frase spuntò nella mente del neoprofessore: lo scettro e la chiave erano sue creazioni, ma il palazzo no. Chi aveva costruito la casa dove era cresciuto? Perché in quindici miliardi di anni questa cosa non se l’era mai chiesta? Ebbe un attimo di smarrimento e panico. Era la prima volta che capiva di non avere tutte le risposte fra le mani.

 

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“Siamo qui stasera con voi in un’edizione straordinaria e unica, irripetibile, dei due programmi che svelano interrogativi fondamentali per l’umanità e indagano nell’ignoto. Solo per stasera, gli studi di Voyager e Mistero saranno in comunicazione, in diretta ed in via eccezionale entrambi da Roma, per rispondere alle mille domande che ormai sono nella testa di tutti: il 2012 è arrivato, è davvero la fine? Noi crediamo di sì. Le Stelle stanno cadendo. E ora ne abbiamo le prove”.

Nello studio di Voyager si fece buio, lasciando illuminata solo la scritta senza senso che campeggiava costantemente dietro il presentatore. Su entrambi i canali dei due programmi partirono i titoli di testa, il riassunto di ciò che avrebbero visto nel corso della puntata.

“Una donna dice di aver visto lo Yeti per le strade di Manhattan: il surriscaldamento globale sta scombinando le abitudini delle creature immaginarie?” diceva Voyager, con tanto di immagini della donna in questione e di un termometro che segnava una temperatura sempre più alta.

“Da sempre ci sono dei Misteri che ci accompagnano, da sempre l’uomo è tormentato da domande a cui non sa trovare risposta. Questa sera noi indagheremo su una di queste domande: perché c’è sempre un calzino spaiato? E dove va il calzino mancante?” era il primo servizio di Mistero.

“Dalle profondità dello spazio, gli spiriti dei Templari ci parlano: incredibili testimonianze su cosa dicono” rispondeva Voyager con immagini di birre, giostre e risse in parlamento.

“I truzzi: un mistero irrisolvibile su cui noi tenteremo di fare luce. Perché sono così idioti? E come si sono salvati dalla selezione naturale? Come hanno fatto a non estinguersi? Che l’essere umano sia destinato ad evolversi in una creatura sempre più stupida e dai pessimi gusti musicali?”.

“L’immortalità dei parlamentari. Da cosa dipende? Un’antica setta massonica potrebbe aiutarci a capire perché non si sono ancora sgretolati come vecchie mummie. Che il Santo Graal si trovi a casa del capo del governo?”.

“Cosa si nasconde dietro la frase "uno, due, tre, stella"? Forse un antico codice per aiutare gli extraterrestri a localizzarci?”.

“E se il cielo ci cadesse in testa? Tutte le possibili soluzioni”.

“Le stelle stanno cadendo e una è qui con noi, nel nostro studio, disposta a rilasciarci un’intervista. Presto potrete conoscere Hamal, la costellazione dell’Ariete. Com'è giunta fino a qui? Chi la manda? Qual è la sua missione? Presto anche questo mistero verrà risolto”.

“Adhafera, la costellazione del Leone, si è incarnata ed è qui sulla Terra. Un oscuro avvertimento da parte di civiltà superiori? È venuta per sottometterci? Che intenzioni ha? Lo scopriremo”.

“Perché stanotte Berry ha sognato dei tacchini ballerini? Cosa significa per l’umanità un tale presagio? Che i tacchini siano la prossima specie dominante sulla Terra?”.

“Disastri aerei, terremoti, tempeste impreviste e improvvise, stelle cadenti, campi magnetici stravolti e tempeste solari: che sta succedendo? Perché ancora c’è qualcuno al mondo che non crede alle nostre previsioni sul 2012? Perché i professori francesi e di francese si credono tutti degli Dèi? E perché questo in particolare si crede il Dio del cielo?”.

“I maya avevano ragione o erano solo dei gran burloni, che verranno a sfotterci dall’oltretomba il 22 dicembre?”.

In entrambi gli studi si fece buio e, dopo la pubblicità, le trasmissioni iniziarono. Dopo il servizio sullo yeti, sugli spiriti dei templari, l’immortalità dei parlamentari e le soluzioni per sopravvivere alla caduta del cielo, Giacobbo era pronto ad intervistare la sua stella.

Allo stesso tempo, Berry aveva concluso il servizio sui segnali extraterrestri ed era pronto a mostrare al mondo la costellazione che stava seduta in studio. Alle spalle di entrambi i presentatori apparve uno schermo gigante che faceva sì che si potessero vedere a vicenda.

“Ciao, Hamal” salutò Adhafera, vedendo la sua collega.

Erano state vestite entrambe in modo assurdo, per rendere più “credibile” il fatto che provenissero dalle profondità dello spazio.

“Allora, Adhafera, è vero che per il mondo ce ne sono altre come voi?” iniziò Giacobbo.

“Sì, altri ed altre. Siamo i dodici segni zodiacali”.

“Su quale pianeta siete nati?”.

“Su questo. Poi, diventando stelle, ci siamo trasferite”.

Entrambe le interviste proseguirono per ore, con tanto di telefonate da casa, lettura di e-mail e scoop immaginari sul ritrovamento del punto in cui erano cadute, foto di quando erano terrestri e lettere lasciate dalle loro famiglie passate.

“Ricordate: ce ne sono altre per il mondo. Cercate le stelle cadute!”.

“Pensate a che mega desiderio possono esaudire per voi…”.

Leone e Ariete si fissarono attraverso lo schermo, intuendo che si trovavano nelle mani di due pazzi. Però si sorrisero. Chissà quali altri loro compagni le avevano viste!

“Prima di salutarci, un ultimo collegamento per queste due magnifiche stelle”.

Le costellazioni sospirarono, pronte all’ennesima cazzata. Inaspettatamente, sullo schermo apparve Kosmos, con l’aria da intellettuale, comodamente seduto dietro una scrivania.

“Kosmos!” esclamarono entrambe le ragazze, in coro, lasciando stupiti perfino i due presentatori, probabilmente convinti di stare per mandare in onda l’ennesimo collegamento inutile.

“Buonasera, bambine” le salutò lui, congiungendo i polpastrelli di entrambe le mani davanti alle labbra, rimaste leggermente azzurrognole.

“Sei davvero tu?! Che piacere vederti. Mamma mia…hai un aspetto orribile!” disse Hamal, riferendosi ai capelli non più azzurri del suo padrone, la mancanza dell’armatura e di molte altre cose che lo rendevano una delle creature più belle del cielo, senza contare l’aria stanca e provata che aveva l’uomo, dopo mesi di acciacchi vari.

“Ah, grazie!” sbottò Kosmos, storcendo la bocca ed incrociando le braccia.

“Sei mortale pure te?” domandò Adhafera.

“Da quando avete smesso di darmi del Voi? Ad ogni modo, sì. Sono mortale pure io”.

Le due costellazioni parvero sconvolte a quella frase.

“Gli altri stanno andando in Grecia. Lì Kuruma li riporterà in cielo” spiegò Kosmos “Se volete raggiungerli, vi conviene iniziare a muovervi”.

“E tu? Tu non torni in cielo?”.

“Per me è tutto più complicato. Non lo so”.

Ariete e Leone spalancarono gli occhi per un instante. Non avevano mai sentito dire “non lo so” dal loro Signore.

“Ma come facciamo a tornare in cielo senza di te? Tu sei il nostro capo, sei tu quello che ci governa a regola l’universo, tu sei indispensabile, lo hai sempre detto!”.

“Mi sbagliavo. Il cielo va avanti anche senza la mia guida. Kuruma è perfettamente in grado di gestire l’intero Universo e tutte voi costellazioni. Voi non avete bisogno di me”.

“Ma…Kosmos…”.

Le costellazioni volevano iniziare a protestare ma il collegamento era stato interrotto, dopo l’inizio dell’ennesima crisi di tosse dell'ex Signore Occidentale.

Tutta la conversazione fra i tre si era svolta nel linguaggio del palazzo al centro dell’universo, perciò nessuno ci aveva capito nulla. Prontamente, però, entrambi i programmi avevano iniziato a metterci dei sottotitoli a casaccio.

Una volta terminate le trasmissioni, le due costellazioni si ritrovarono e si guardarono, capendo subito di avere entrambe la stessa cosa in mente.

“Dobbiamo raggiungere tutti gli altri. Il nostro posto è il cielo” parlò per prima Ariete.

“E con Kosmos che facciamo?” domandò Leone.

“Troveremo una soluzione. In dodici si ragiona meglio” sorrise Hamal ed assieme tornarono verso l’albergo, per preparare le poche cose che possedevano e partire.

 

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Tigre ridacchiò. Quella stupida trasmissione sugli alieni e le stelle cadute era andata in onda sulle reti italiane, che la sua televisione poteva mostrare ma non sui canali principali. Così facendo, Sadalmelik non l’aveva incrociata e non aveva corso il rischio di ricordare.

“Cosa guardi, fratellone?” domandò Acquario, dalla cucina.

“Niente di particolare” rispose Hu, spaparanzato sul divano.

Era quasi ora di cena e Tigre annusava l’aria, tentando di capire cosa stesse cucinando la “sorella”.

“Sai, fratellone…a volte, guardando il cielo, ho come l’impressione che potrei trovare fra le stelle le risposte che cerco, le memorie che ho perso”.

“Che stupidata. Come possono dei puntini luccicosi darti delle risposte?”.

“Sì, è una cosa stupida, vero? Però, ci sono delle sere in cui non riesco a staccare gli occhi dai disegni che compongono, ricordandoli e ammirandoli”.

“Fin da bambina ti son sempre piaciute le stelle” cercò di tagliar corto Tigre.

“Anche a te?”.

“Anche a me, cosa?”.

“Anche a te son sempre piaciute le stelle?”.

“Non come a te”.

“Le guardavano mai assieme?”.

“Ogni tanto”.

“Stanotte le guardi con me?”.

Hu rimase un attimo in silenzio e poi annuì. Dopo cena, entrambi uscirono in terrazza, ben coperti data la temperatura sotto lo zero. Uno accanto all’altro, guardarono il cielo.

“Sono bellissime” mormorò Acquario, prendendo sottobraccio il “fratello”.

Tigre sussultò e la fissò. Ma perché le aveva detto che era suo fratello?! Illuminata dalla luna, con gli occhi risplendenti di stelle ed il sorriso di chi ha la mente persa nei sogni, trovava Sadalmelik estremamente bella. Le accarezzò i capelli. Non gli era mai successo prima. Tigre era sempre stato distante da certi sentimenti e sensazioni, eppure ora, in quel momento, non poteva pensare ad altro. Lei continuava a fissare le stelle, spiegandogli le costellazioni che riconosceva.

“Hei…” mormorò lui, girandosi verso di lei ed abbracciandola “Ti voglio bene” le sussurrò.

Lei si lasciò abbracciare, piuttosto confusa, e contraccambiò l’abbraccio, appoggiando la testa sulla spalla di colui che credeva fosse il fratello. Si sentiva protetta, desiderata e felice. Guardò Hu negli occhi, sorridendogli.

“Quante volte ti hanno detto che hai degli occhi bellissimi? Sembrano quelli di un gatto” gli disse.

“Miao” rispose lui, senza lasciarla andare.

Sorrideva, per la prima volta sinceramente. Scosse la testa. Non gli importava più nulla del cielo, delle costellazioni, della missione che aveva, di Kuruma o di qualsiasi altra cosa. Si avvicinò ancora di più e la baciò, ripetendosi dentro la testa che se ne fregava altamente se lei avesse ricordato la verità o se si fosse fatta una marea di inutili domande. Lei, inaspettatamente, non si ribellò.

“Ora capisco” mormorò, tornando ad appoggiarsi alla spalla di Hu “Perché siamo qui da soli, io e te. Io e te ci siamo sempre amati, ma fra fratelli non si può, vero? Perciò ci siamo nascosti qui, lontani da tutti, distanti perfino dai nostri stessi parenti. È perché ci siamo sempre amati, vero?”.

“Sempre amati?”.

“Sì. Io ho come l’impressione di conoscerti da sempre. Come se io fossi te e tu fossi me. Da sempre. È così, vero?”.

Tigre sorrise, affondando entrambe le mani nei lunghissimi capelli di Sadalmelik. Rimasero così alla luce della luna per un po’, senza parlare.

“Mi porterai a Parigi?” domandò lei.

“Farò qualsiasi cosa vorrai” rispose lui, alzando gli occhi al cielo e chiedendosi se in quel momento Kuruma lo stesse sentendo.

 

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Shè non fu fortunata come Tigre. Aldebaran riuscì a guardare il programma con le stelle cadute e l’effetto del veleno di Serpente iniziò a non riuscire a tenere a bada la mente di Toro.

“Che significa?” domandò, dopo essere riuscito a riorganizzarsi le idee.

“Che significa? Che significa cosa?!” alzò un sopracciglio Shè, senza capire cosa fosse accaduto.

“Cosa ci faccio qui? Chi sei tu?”.

“Che domande fai, tesoruccio?”.

“Tesoruccio?! Ti sei bevuta il cervello?!”.

“Ma…”.

“Niente ma! Rispondimi!”.

“Io…”.

“Ricordo la mostra di quadri e poi…poi che è successo? Che mi hai fatto?!”.

“Niente!”.

“Come niente?! E cosa ci faccio qui? Io dovevo andare a Roma!”.

“Per fare cosa? Non stai bene qui? In una bella casa, la possibilità di fare il lavoro che ti piace, senza preoccupazioni e…”.

“Starò anche bene, lo ammetto, ma questo non è il mio posto! Il mio posto è fra le stelle, assieme ai miei compagni”.

“Ad annoiarti? Non hai mai pensato che non fosse un granché quella vita?”.

“Non credo che questi siano affari suoi”.

“Ma prova a riflettere. Non sei entusiasta dell’idea di poter mettere in mostra e vendere i tuoi capolavori? Non fa parte di quel mucchio di cose che hai sempre sognato e non hai mai potuto fare? Vale davvero la pena?”.

“Ma…il mio posto non è qui”.

“Cosa ne sai di qual è il tuo posto? Il tuo destino non è scritto, lo crei tu!”.

Aldebaran non rispose. Si fermò un attimo a riflettere. Quella donna, nonostante fosse una sottoposta di Kuruma, forse non aveva tutti i torti. In tutta la sua vita era sempre stato al servizio di ciò che gli altri desideravano, senza mai seguire i suoi veri sogni. Alla fine aveva sempre desiderato essere apprezzato per quel che faceva. Era stato scelto da Zeus per sedurre Europa ma poi, una volta ottenuto ciò che voleva, l’aveva tramutato in costellazione. Non l’aveva mai voluto. Una volta giunto al palazzo Occidentale, in forma umana per la prima volta, aveva scoperto le sue doti artistiche ma, oltre ai suoi colleghi, nessuno poteva ammirarlo. Le altre stelle non erano molte e questo restringeva il campo di chi avrebbe potuto apprezzare le sue creazioni. Si scosse.

“Io sono Aldebaran. Sono una costellazione e devo tornare al mio posto, che questo mi piaccia oppure no”.

“Non pensi mai a ciò che desideri realmente?”.

“Non ha importanza. Se scegliessi di restare qui, mi sentirei in colpa per sempre perché avrei abbandonato il mio lavoro e le mie responsabilità”.

“E non avresti rimpianti?”.

“Questa è una questione di minore importanza”.

“Non direi. È la tua vita. Ti fa così schifo?”.

“Non ho mai detto questo. Hai sentito cosa ha detto il mio capo Kosmos per televisione? Stanno andando tutti in Grecia ed è là che io andrò”.

“Mi sforzo di capirti, ma non ci riesco”.

“Non è necessario che tu mi capisca”.

“E come credi di poterci arrivare? Sei solo, senza poteri…”.

“Venderò i miei dipinti”.

“Sei ottimista…senza il mio aiuto, non hai alcuna speranza”.

“Chiudi la bocca, viscido serpente!”.

Shè, offesa da quelle parole, sibilò. Quell’insulso mortale osava offenderla! Spalancò la bocca, mostrando i denti aguzzi.

“Che c’è? Vuoi batterti, per caso? Sono più grosso di te, rettile!”.

“Ma sei senza alcuna forma magica, sciocco e ciccione di un mammifero. Ti sconfiggerò in un attimo, senza alcun problema”.

Toro non le rispose ma strinse i pugni, con sfida.

“Tu non sai combattere, Aldebaran!” ridacchiò Shè.

“Scopri se è davvero così”.

 

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Forse non era quello il metodo giusto, stava iniziando a dirsi Ma, Cavallo, osservando da lontano Mek. I due fratelli continuavano a mostrarsi più testardi del previsto. Convincerli ad andare d’accordi di nuovo e muoversi verso la Grecia sembrava davvero una missione impossibile. Buda trascorreva le sue giornate fra insegnamenti e surf, mentre Mek era quasi sempre ubriaco e passava da una festa all’altra con entusiasmo insensato. Cavallo non sapeva che cosa fare. Più volte aveva tentato di farli incontrare, senza successo, e ora l’unica idea che gli veniva in mente era tramortirli e trascinarli in Grecia, ma non aveva sufficiente magia per fare una cosa del genere. Pensò che non fosse giusto che proprio a lui toccasse stare dietro a due creature, per giunta così antipatiche.

Mek lo fissò. A volte lo riconosceva e altre volte no. In quel caso lo riconobbe e gli fece il dito medio, mostrando la lingua. Cavallo sbuffò. Desiderava tanto spaccargli la faccia!

“Fottiti, stronzo” mormorò, ripetendosi che avrebbe avuto occasione per vendicarsi.

Il gemello biondo era seguito dal branco di umani scemi che lo avevano trovato che, pendendo dalle sue labbra, facevano tutto quello che la costellazione caduta diceva. Andavano verso la spiaggia. Cavallo sorrise. Anche Buda era in spiaggia e Mek sembrava abbastanza sobrio da affrontare una conversazione intelligente. Come mai era in California? Forse gli umani scemi cercavano di farli ricongiungere…forse non erano così tanto scemi, dopotutto. Buda, spaparanzato comodamente sotto un ombrellone, con occhiali da sole e bibita ghiacciata, ignorava temporaneamente il suo allievo che era a caccia di belle ragazze. Mek, senza pensarci, corse verso il mare, ridendo. Buda riconobbe quella risata ed alzò gli occhiali, notando il gemello biondo fra le onde. Non disse nulla, non trovandolo necessario.

“Non sai nuotare, coglione” borbottò, tornando a mettersi gli occhiali scuri e ricominciando a sonnecchiare pacifico.

Mek, schizzando gli umani che lo seguivano, era felice. Si sentiva libero e senza pensieri, cosa che non gli dispiaceva per niente. Passarono parecchie ore prima che si decidesse ad uscire dall’acqua. Scuotendosi i capelli con l’asciugamano, udì una voce familiare.

“È ora di rientrare. Fra poco il sole tramonterà” diceva.

Era Buda, rivolto al suo giovane allievo, piuttosto ustionato perché non era da macho mettersi la crema protettiva. Mek rimase immobile a guardare entrambi. Lo infastidiva vedere come suo fratello fingesse di essere sempre il serio e il giudizioso della situazione. Non sapeva divertirsi e per questo era tremendamente frustrato e scassacazzi. Buda alzò gli occhi e gli sguardi dei gemelli si incrociarono. Mek lo fissò con sufficienza e Buda finse di averlo notato solo in quel momento.

“Che fai? Mi pedini?” sbottò Mek.

“Direi il contrario. Io vengo in questa spiaggia da mesi” rispose Buda.

“Se lo avessi saputo prima, di certo non ci avrei messo piede!”.

“Poverino. Hai paura che ti sgridi?”.

“Ti senti tanto superiore? Guarda che ero io il gemello immortale, non tu!”.

“La cosa non mi ha mai suscitato alcun interesse. E poi ora siamo mortali entrambi. L’unico modo che hai per essere di nuovo immortale e tornare fra le stelle”.

“E chi ti dice che io non voglia farlo?”.

“Fai pure. Ma credo che saresti già in viaggio, dato che sono sicuro che Cavallo sia venuto anche da te per convincerti ad andare in Grecia. Io credo che, come sempre, tu stia cazzeggiando a vanvera”.

“Io non sto cazzeggiando a vanvera!”.

“E allora cosa stai facendo?  Sentiamo…”.

“I cazzi miei, ecco cosa sto facendo!”.

“Buon per te”.

Mek incrociò le braccia e fece segno agli umani amanti degli alieni di seguirlo. Buda scosse il capo, finendo di chiudere l’ombrellone e raccogliendo le sue cose. Assieme al suo allievo, si avviò lungo il sentierino che portava fuori dalla spiaggia.

“Adesso pure mi segui?” gli gridò contro Mek, di poco più avanti.

“Devo tornare a casa pure io. Non me ne frega niente di ciò che fai tu e dove sei diretto”.

“Lasciami in pace! Vattene! Io non ho bisogno di te!”.

“Ma fai quello che ti pare, paranoico! L’America è grande, sai? Possiamo benissimo evitare di incontrarci, basta un pizzico di organizzazione”.

“Basta solo che tu mi lasci in pace, chiaro?”.

“E chi ti vuole?! Vai per la tua strada, starò meglio senza di te”.

“Pure io”.

“Almeno su una cosa siamo d’accordo”.

Mek avanzava camminando all’indietro, per non dare le spalle a colui che vedeva come uno spione rompiscatole che avrebbe potuto fargli chissà che cosa se si fosse girato. Così facendo, però, Buda era molto più veloce e non faceva altro che accentuare la sua paranoia.

“Lo vedi che mi stai seguendo?!”.

“Quello su cui sei, gambero ossigenato, è il sentiero più vicino che porta fuori dalla spiaggia. Non ho certo intenzione di fare più strada per te!”.

“Io sto bene senza di te, chiaro? Non mi servi, e non ti devi preoccupare per me”.

“E chi si preoccupa? Sei grande abbastanza per fare quello che ti pare”.

Ora Mek era uscito dal litorale ed era sul marciapiede, sempre continuando a camminare all’indietro.

“Faresti meglio a fermarti” suggerì Buda.

“E perché dovrei?”.

“Sarebbe una cosa intelligente”.

“Tieni per te le cose intelligenti, io scelgo quelle divertenti. Io sto bene, chiaro? Bene! Benissimo!!” gridò Mek, pochi secondi prima di essere investito da un camion.

 

₪₪₪

 

Astrea guardò la cartina con aria interrogativa. Non era mai stata pratica di cose del genere. Il suo obbiettivo era l’Olimpo, antica dimora degli Dèi di cui lei stessa faceva parte. Era certa che lassù avrebbe trovato delle risposte. Il suo posto era il cielo e voleva sapere se c’era un modo per tornarci. Inoltre, Gallo continuava a seguirla ed aveva bisogno di un posto sicuro. Quel monte lo conosceva sufficientemente bene da potersi sentire in grado di sopravvivergli. Di certo avrebbe trovato un luogo diverso da come lo ricordava, avendo gli esseri umani modificato la maggior parte dei paesaggi che fin ora aveva incrociato, ma di sicuro non avevano spianato una montagna!

 Evitava paesi e centri abitati, per non creare problemi alla gente che ci abitava, essendo Gallo decisamente poco controllabile. Dormiva dove capitava e mangiava quello che trovava.

Vide il monte, dalla base piuttosto larga, come sempre con la cima coperta da un fitto strato di nubi. Si chiese se davvero era in grado di arrivare fino alla sommità. Guardò in su e decise che almeno un tentativo doveva farlo.

“Devo stare attenta a non farmi male, o rischio di ritrovarmi in un grosso guaio” si disse, guardando bene dove metteva i piedi.

Dopo qualche giorno di cammino, si ritrovò davanti a quello che sembrava un rifugio abbandonato. Era piuttosto malconcio, ma lei era certa di riuscire a dargli un’aria decente, o perlomeno stabile. Vi entrò con cautela. Le ragnatele erano ovunque e l’aria era densa di polvere e muffa. Spalancò tutte le finestre. Non era malaccio come posto. C’era una stanza con un paio di sedie ed un tavolino, in legno malconcio e tarlato, e altre due stanzette. Una con il bagno e l’altra con quella che aveva l’aria di una brandina dove ci aveva dormito un esercito almeno un secolo prima. In una cassa di metallo ruggine trovò degli attrezzi, ruggini anch’essi ma non del tutto inutilizzabili. Il pavimento scricchiolava ed il tetto era pieno di buchi, le finestre spaccate e di certo l’acqua corrente e l’elettricità mancavano. Astrea non si creò problemi al riguardo. Non aveva mai amato l’elettricità e il fiume era poco distante. Il gas per cucinare non le serviva, fare il fuoco non era mai stato un atto così complicato per lei. Sarebbe sopravvissuta benissimo. Sorrise. La cima non era lontana e avrebbe potuto sistemarsi e riposare qualche giorno lì dentro, senza dare fastidio a nessuno, bastava dare una pulita.

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Capitolo 8
*** 7 ***


VIII

 

“Non mi piace fare del male alle donne!” sbottò Aldebaran.

“Io sono un rettile, ricordi?” sibilò Shè, schivando tutti i colpi dell’avversario senza alcun problema.

“Perché Kuruma ci vuole morti?”.

“Non è Kuruma a volervi morti. Sono io a volere questo”.

Toro, senza capire, tentava di colpirla ma senza risultato. Serpente aveva ragione: era troppo lento per sperare di sconfiggerla, specie perché lei era carica di magia.

“Io non ti ho mai fatto del male, come nessuno dei miei compagni, da quel che ne so. Perché vuoi ucciderci?”.

“Non devi necessariamente aver fatto del male a qualcuno per aver qualcuno che desidera ucciderti. La verità è che voi pomposi Occidentali pensate di avere tutte le risposte e il potere, ignorando noi che abbiamo altrettanti diritti”.

“Io non vi ho mai considerato inferiori. Credo, anzi, che finiremo per distruggerci a vicenda se non la smettiamo di combattere fra noi, Occidentali contro Orientali. Proviamo a collaborare. Dopotutto il cielo è di entrambe le fazioni, no?”.

“Che bel discorso, Aldebaran. Peccato che ormai sia tardi, non trovi?”.

“In che senso?”.

“La mia padrona è da sola a governare l’universo e, come avrai potuto notare, non le riesce particolarmente bene. Il potere richiesto per fare una cosa del genere è troppo grande e, senza il supporto di noi creature Orientali, è destinata a soccombere. Ormai è tardi per rimediare. Era tempo che tutto finisse, evidentemente”.

“E allora perché vuoi uccidermi, se per te è tutto finito?”.

“Meglio non correre rischi inutili. E poi ho voglia di divertirmi un pochino”.

Toro parò un colpo di Serpente ribaltando il grosso tavolo e nascondendocisi dietro. Quella donna era velocissima, velenosa e piena di rabbia insensata. Le tirò una sedia, che lei schivò, e smise di tentare di farla ragionare. Era impossibile. L’aveva messo all’angolo, senza possibilità di fuga, e si apprestava a dargli il colpo di grazia, quando il campanello suonò. Distratta ed infastidita da quel suono, Shè scosse la testa e Aldebaran ne approfittò per uscire all’aperto. Davanti all’enorme cancello della sua nuova casa, stava Mikael, con il sorriso di chi moriva dalla voglia di mangiare qualche biscotto a sbaffo.

“Ciao, amico. Son venuto a trovarti” salutò, non capendo perché Aldebaran stesse correndo verso di lui con tanta foga.

Mikael ridacchiò. Il suo amico era piuttosto rotondetto, ridicolo quando correva. Smise di ridere quando vide uscire Shè furiosa, con un grosso vaso fra le mani.

“Hem…è un brutto momento?” balbettò l’ospite.

“Non sono mai stato così contento di vederti, Miky! Sei in macchina?” gridò Toro, raggiungendo il cancello e tentando di aprirlo il più in fretta possibile.

“Certo che sono in macchina ma…perché? Cosa succede?”.

“Portami lontano di qui, poi ti spiegherò ogni cosa”.

Mikael annuì, mentre Toro correva verso la macchina. Girandosi vide Shè che, dopo aver sfiorato Aldebaran con il vaso appena tirato, lo fissava con inquietanti occhi luminosi.

“Dove credi di andare, insulso mortale? Non puoi sfuggirmi!” gridò la rettile.

“Corri più in fretta che puoi” ordinò Toro a Mikael, che schiacciò profondamente l’acceleratore e si mise a correre.

“Qualche idea su dove andare?” domandò.

“Intanto corri”.

“È a piedi. Non può raggiungerci”.

“Guarda dietro di te. Direi che non è a piedi!”.

Mikael guardò nello specchietto. Serpente li stava inseguendo a tutta velocità sulla sua auto sportiva, che l’irlandese trovava stupenda. Rabbrividiva all’idea che si potesse rovinare. Evidentemente quella donna non aveva alcun rispetto per quel genere di macchine!

“Non riuscirò mai a seminarla!” protestò Mikael “Hai visto che razza di macchina ha?! La mia è uno scassone imbarazzante!”.

“Tu corri. Mi verrà in mente qualcosa…”.

“Spero in fretta, grazie”.

Correndo, avevano raggiunto la città vicina e ora zigzagavano fra le vie trafficate.

“Giuro che se mi gioco la patente per colpa tua e della tua amichetta, te la farò pagare” sbottò Mikael, ignorando un semaforo rosso.

Aveva capito che preferiva tentare ogni mezzo possibile per non essere colpito da Shè, che giocava al tiro al piattello con una pistola che teneva in macchina. L’auto sportiva di lei era capottabile e le rendeva più facile usare l’arma.

“Senti, da che stato vieni?” domandò Mikael ad Aldebaran, fra un’imprecazione ed un’altra.

“Te l’ho già spiegato da dove vengo…”.

“Bello, dubito che esista l’ambasciata intergalattica perciò vedi di ricordarti in quale stato terrestre sei nato!”.

“Dove sono nato? In Grecia…”.

“In Grecia? Benissimo. Forse so come salvarci le chiappe”.

“Ma…questo paese non ha un aeroporto?”.

“Mi stai chiedendo se Dublino ha un aeroporto? Scherzi, vero?! Certo che ce l’ha, e non è un paese ma una grande città”.

“Allora non puoi portarmi là?”.

“E a che scopo? Credi che per salire su un aereo ci vogliano pochi minuti? Fidati di me, ho un’idea. Reggiti, sto per fare una cazzata”.

Aldebaran si resse mentre Mikael girava la macchina con il freno a mano e prendeva una stradina che affiancava un parco.

“Dove stai andando?”.

“Al consolato greco. Lì dovresti essere al sicuro”.

“E tu?”.

“Vuole uccidere te, se non sbaglio. Io sono solo il povero coglione di passaggio che resta coinvolto negli inutili casini degli altri!”.

L’edifico con la bandiera greca si mostrò davanti a loro.

“Tu entra, alla svelta, io arrivo subito” ordinò l’irlandese, facendo scendere Toro al volo, che si precipitò lungo le scale.

Fu fatto entrare in tutta fretta, quando notarono la donna con la pistola sbucare da dietro l’angolo.

“Vogliono uccidermi” ansimò Aldebaran, entrando.

“Siete un cittadino greco?”.

“Sono nato là” rispose, in greco.

“Allora è nel posto giusto” lo rassicurò un uomo.

Fuori intanto era in corso una sparatoria fra guardie, Shè e passanti ubriachi.

La tasca di Aldebaran vibrò e lui sobbalzò. Mikael doveva avergli infilato il cellulare nei pantaloni.

“Pronto?” rispose.

L’irlandese gli ordinò di ascoltarlo per bene e di stare attento. Gli fornì tutta una serie di dati e poi buttò giù, probabilmente desideroso di allontanarsi dagli spari.

“Può fornirmi qualche dato, signor…?” iniziò l’uomo alla scrivania, davanti al computer.

“Dato?”.

“Come si chiama, dove è nato…per accertarci che è compito nostro occuparci di lei”.

Aldebaran intuì al volo che doveva ripetere i dati che Mikael gli aveva fornito, specificando che, nella fuga, aveva perso i documenti. L’uomo annuì e sorrise.

“Bene. Ora immagino voglia essere rimpatriato”.

“In Grecia? Assolutamente. Non voglio rischiare uno sparo in testa!”.

Mentre in tutto il mondo si diffondeva la notizia di un incidente diplomatico fra Irlanda e Grecia, Aldebaran richiamava Mikael per ringraziarlo.

“Di niente” ridacchiò l’irlandese.

“Ma come hai fatto?”.

“Diciamo che al computer me la cavo”.

“Grazie”.

Dopo che pure l’esercito irlandese fu intervenuto per sedare la donna, che rinacque un paio di volte ma poi sparì in modo definitivo, le acque si fecero sufficientemente tranquille perché l’auto con bandiera greca si avviasse verso l’aeroporto. Aldebaran intravide Mikael, preso dall’entusiasmo e facente parte del gruppo di curiosi che intonava cori da stadio a vanvera. L’irlandese guardò dentro l’auto e, nonostante i vetri oscurati, fece segno con la mano all’amico di tenersi in contatto, seguito dal simbolo molto simile del metal.

 

₪₪₪

 

“Sei pronta?” domandò Hamal.

“Prontissima” rispose Adhafera, con la piccola valigia accanto.

Presero l’autobus che le condusse all’aeroporto e si misero in coda per prendere i biglietti per la Grecia. Nel frattempo persero tempo chiacchierando del più e del meno. Quando fu il loro turno, Adhafera si fece avanti, con i soldi fra le mani, gentile “omaggio” di Giacobbo e Berry.

“Posso avere un vostro documento, prego?” domandò la donna dietro al bancone.

“Un documento?”.

“Sì. La carta d’identità”.

“Noi non l’abbiamo…”

“La patente? Il libretto sanitario?”.

“No…”.

“Non posso farvi il biglietto senza un documento!”.

“Chiedo scusa, mia sorella è un po’ sbadata” si intromise una voce maschile, che allungò verso la donna un pezzetto di carta bianca “Si era dimenticata che i documenti di tutti li ho io”.

Come se il foglio fosse una carta d’identità, la donna copiò i dati e fece i biglietti. Leone ed Ariete si fissarono, piuttosto perplesse. Una volta fuori dalla coda, l’uomo sconosciuto porse loro la carta d’imbarco, come se niente fosse.

“Ma tu chi sei?” domandò Adhafera.

“Sei il cameriere dell’albergo” rispose Hamal, guardandolo meglio da sotto il cappuccio della felpa.

L’uomo sorrise, mostrando i capelli variopinti.

“Come hai fatto?” riprese Leone “Sei una specie di prestigiatore?”.

“No. Sono Long, Drago, della cerchia di Kuruma. E sono qui per riportarvi a casa. Vi accompagnerò in Grecia, dove si stanno dirigendo tutti”.

“Drago?! Quello i cui poteri hanno fatto sì che il nostro Signore cadesse?”.

“Quello il cui anno attuale è dedicato. Andiamo? L’aereo parte fra qualche ora, mangiate qualcosa prima e state tranquille”.

“Davvero sei qui per aiutarci?”.

“Se volete farvela tutta a piedi fino in Grecia, fate pure! Ma vi avviso che non sarà una cosa semplice, bellezze. Altrimenti finitela di fare le sospettose e seguitemi”.

“Sei molto fashion con quei capelli” si limitò a dire Hamal, partendo per i distributori di schifezze zuccherose che aveva visto.

Drago la guardò allontanarsi, mentre Leone le diceva che loro sarebbero rimasti lì, nella zona d’attesa per la chiamata d’imbarco.

“Come posso fidarmi di te?” domandò a Long la sospettosissima Adhafera.

“Non hai l’obbligo di farlo, ma io ti devo portare in Grecia. O meglio, io dovrei portare Hamal, mentre di te dovrebbe occuparsi Scimmia, ma non so dove sia andata a finire e, dato che detesto le perdite di tempo, penso io ad entrambe”.

“Capisco…” borbottò Leone, per niente convinta.

Nel frattempo, Ariete litigava con una banconota da cinque euro, perché si rifiutava di farsi accettare dal distributore di bibite e merendine.

“Serve una mano?” domandò una donna.

“Ho fame, e questo affare non accetta i miei soldi!”.

“Lascia, ci penso io” la rassicurò la giovane, avvicinandosi.

Ariete non si voltò nemmeno e fu un errore, perché la donna la tramortì e in un baleno la portò fuori dall’aeroporto, usando i suoi poteri magici per non farsi notare.

 

“Dov’è andata a finire la tua amichetta?” sbottò Drago, dopo un quarto d’ora abbondante.

“Sarà andata in bagno” rispose Leone, sfogliando giornaletti scandalistici.

“Vado a cercarla”.

“E se è in bagno cosa credi di fare? Entrare nel cesso delle donne schermandoti con la magia? Nemmeno con tutta la tua forza potresti far credere a qualcuno che quei baffi da saggio cinese siano quelli di una femmina!”.

“Allora va tu a vedere dov’è! Fra poco chiameranno il nostro volo!”.

Adhafera sospirò ed obbedì. Dopo averla cercata a lungo entrambi, arrivarono alla conclusione che era sparita.

“Deve centrare qualcosa quella pazza di Scimmia” azzardò Long.

“In che senso? Lei non era d’accordo di farci tornare in Grecia?”.

“Non esattamente. Spero non le abbia fatto del male…”.

“Dobbiamo trovarla!”.

“Posso localizzare la mia collega”.

Drago chiuse gli occhi e la cercò. La trovò a fatica, perché stava usando la magia per nascondersi.

“Hamal è con Hòu. È svenuta ma mi sembra stia bene”.

“Dove si trovano?”.

“Su un taxi. Non posso sapere dove sono dirette”.

“Cosa facciamo?”.

“Tu devi andare in Grecia. Non ti preoccupare, gli altri miei colleghi ti troveranno e ti riunirai alle altre costellazioni”.

“E tu vai a prendere Hamal? Da solo?”.

“Certo!”.

“Non ti serve una mano?”.

“Anche se fosse, tu sei senza alcun potere magico. Non potresti far nulla contro Hòu. Fidati di me, riporterò Ariete sana e salva fra di voi”.

“Come posso fidarmi di uno degli schiavetti di Kuruma? Scimmia è una tua compagna e di certo, se dovessi scegliere fra lei e la mia amica, sceglieresti lei”.

“Senti…se non ti fidi di me, allora vai in Grecia, trova chiunque dei tuoi o dei miei e avvisali su cosa sta succedendo. Ma, per carità, sali su quell’aereo e vai ad Atene!”.

Leone ci pensò un attimo e poi annuì.

“Dove li trovo gli altri miei compagni?”.

“Astrea è sul monte Olimpo, in un rifugio abbandonato. Toro è in viaggio, anche se non so dove atterrerà. Altri sono vicini allo stato dove sei diretta. Li troverai”.

“Ci rivediamo presto allora”.

“Lo spero”.

I due si separarono, nonostante Leone fosse piuttosto preoccupata e per niente convinta che quell’essere dai capelli bicolore potesse effettivamente aiutare la sua collega. Si appoggiò una mano sul collo. Ultimamente le faceva male ed il respiro le mancava.

 

Dopo aver preso a sua volta un taxi, Drago usò al massimo le sue capacità per rintracciare Scimmia. Roma, purtroppo per lui, aveva moltissime strade e dare indicazioni all’autista si mostrò molto più difficile del previsto. Quando finalmente il mezzo della fuggitiva si arrestò, Drago balzò sul sedile, indicando con il dito la direzione da prendere e sbraitando insulti al cielo. Il tassista preferì non fare domande e si apprestò a raggiungere il luogo indicato, per liberarsi di quel pazzo scatenato. Drago scese al volo e si mise a correre. Scimmia aveva portato Ariete alla fontana di Trevi, dove l’aveva fatta sedere, ridacchiando e dicendo a tutti che era un po’ ubriaca.

“Dannato primate pulcioso!” le gridò Drago, dall’altra parte della grata che divideva la strada dalla fontana.

“Ciao, irascibile animale immaginario” sorrise Hòu.

“Te lo faccio vedere io quanto sono immaginario” rispose Drago, scendendo i pochi scalini che lo portavano a dove le due donne stavano.

“Che hai intenzione di fare? Sei in mezzo alla gente…” sorrise Scimmia.

“E tu che intenzioni hai? Vuoi mangiartela? Dove intendi nasconderla?”.

“Mi basta tenerla lontana dai suoi amichetti. Non è difficile, dato che è senza forza magica. La controllo perfettamente”.

“E chi ti dice che io non possa usare la stessa magia per fare in modo che nessuno di loro veda cosa ho intenzione di farti?”.

“Non puoi farmi del male. Kuruma non lo gradirebbe”.

“Sei pronta a scommettere?”.

Scimmia storse il naso, forse notando lo sguardo irato del suo collega. Lasciò andare Ariete, che si appoggio al marmo della fontana, ancora confusa ed incapace di reagire, e si mise a correre. Drago non la fece allontanare e la inseguì. I loro salti e le loro mosse ai turisti sembrarono una nuova idea per attirare la folla ed applaudirono, specie perché non erano in grado di capire che si stavano facendo del male per davvero. Balzando in aria, saltando fra i muri, erano seguiti da un gruppo sempre più nutrito di persone curiose ed estasiate da ciò che stavano guardando. Non si allarmarono nemmeno quando Long iniziò a sputare fuoco.

“Sono troppo veloce per te, baffone!” ridacchiò Scimmia.

“Staremo a vedere!” ringhiò Drago, lanciando un’altra fiammata, che colpì un palazzo.

“Stai attento, rischi di perdere la forma umana!”.

“Pensa per te, so badare a me stesso!”.

Scimmia mostrò la lingua e saltò, passando da una terrazza a quella che si trovava nel palazzo di fronte, una cosa che nessun umano sarebbe mai stato capace di fare. La folla applaudì. Hòu fece un piccolo inchino, rimanendo appesa con una mano. Drago ne approfittò per scattare verso Hamal. La afferrò fra le braccia e si sollevò da terra, ignorando il fatto che i terrestri lo trovassero strano. Con suo grande sollievo, per i turisti faceva tutto parte dello spettacolo. Si chiesero che trucco usasse ed applaudirono di nuovo, mentre Long prendeva quota rapidamente.

“Torna subito qui!” gridò scimmia, non potendo volare avendo la magia derivante dall’animale che era stata.

Ma poteva saltare molto in alto… Ghignando, prese la rincorsa e, ruotando sulla sbarra di un terrazzino, si sollevò di parecchi metri, arrivando ad agganciarsi alle gambe di Drago. Long si dimenò, sapendo di non poter tenere tutti e tre in aria. Hamal, ormai del tutto ripresa, tenendosi stretta alle spalle di Drago, lanciò un calcione sulla faccia di Scimmia, che non poté far altro che lasciar andare la presa. Atterrò agilmente su un tetto.

“Non mi sfuggirai, esibizionista!” minacciò, mente Long si allontanava in fretta.

“Cosa pensi di fare per seminarla?” domandò Ariete, un po’ inquietata a guardare giù.

“Basta prendere il mare. Voglio proprio vedere su cosa salterà, in mezzo all’acqua!” rise Drago, seguendo il corso del Tevere ed arrivando al mare “Ora ci basterà circumnavigare la penisola dalla parte sud ed arriveremo in Grecia” spiegò.

“E Adhafera?”.

“È già in viaggio. Ci ritroveremo là”.

Ariete rise, cominciando a trovare divertente il fatto di volare sul mare. Il vento le muoveva i capelli e faceva librare i lunghi baffi di Long in un modo che lei trovò davvero buffo.

“Sei un grande, Drago. Com’è che non siamo mai diventati amici?”.

“Forse lo diventeremo, una volta tornati a casa”.

“Non vedo l’ora!”.

 

 

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“Non puoi fare niente per lui, stramaledetto equino?” gridò Buda, fuori dalla stanza d’ospedale dove Mek era stato ricoverato.

“Non parlarmi in questo modo, tanto per iniziare…” sbuffò Cavallo “…e abbassa la voce”.

“Perché?! Qui son tutti in coma! Cosa gli cambia anche se grido?!”.

“Buda, calmati! Posso aiutarvi”.

“Puoi farlo svegliare?” spalancò gli occhi Buda.

“Certo. Per chi mi hai preso, per un cavallo qualsiasi? Io sono Ma, il mitico Cavallo Orientale, il settimo giunto al palazzo! Posso svegliarlo dal coma irreversibile ma prima devo sapere una cosa: avete intenzione di tornare in cielo? Intendo dire...se lo salvo, poi verrete con me in Grecia?”.

“Se gli salvi la vita, io verrò ovunque vorrai, anche fra le fauci di Cerbero in Ade!”.

“Che esagerazione…ad ogni modo, mi basta. Immagino che vada bene anche se c’è uno solo di voi a controllare la costellazione”.

“Ora però fallo svegliare! Ti prego!”.

Cavallo attese che l’infermiera fosse uscita poi entrò nella stanza assieme a Buda. Mek era intubato e monitorato, collegato alle macchine per respirare e per far lavorare il cuore. Cavallo prese un bel respiro e poi appoggiò entrambe le mani sul petto del gemello biondo. Subito queste iniziarono a brillare, facendo sollevare i lunghi capelli di Ma in aria e riempiendo di scintille l’atmosfera. Buda si guardò attorno, allarmato.

“Fai il palo. Controlla che non entri nessuno” gli ordinò Cavallo.

Buda annuì e si mise sulla porta, attento ad ogni movimento. L’Orientale chiuse gli occhi, convogliando le sue energie, e avvolse Mek con una forte luce aranciata. Cavallo gridò, cosa che allarmò le infermiere.

“Muoviti, stai attirando troppo l’attenzione” mormorò Buda, notando che stavano venendo verso la camera, chiedendosi cosa ci fosse da urlare in quel modo.

L’Orientale si rilassò, respirando piano, mentre le luci andavano diradandosi. Mek sussultò e spalancò gli occhi, andando nel panico per i tubi e gli aggeggi a cui si trovò attaccato. Le infermiere entrarono correndo, meravigliate da ciò che stava accadendo. Lo staccarono da tutti i macchinari, verificando che era in grado di respirare autonomamente e che il cuore gli pompava alla grande.

“Un miracolo!” disse una di loro.

Buda, con le lacrime agli occhi, guardò Cavallo senza sapere cosa dire. Mek cercò con lo sguardo il fratello e allungò il braccio sano, sull’altro aveva il gesso, in cerca di un abbraccio che ottenne.

 

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“Siamo arrivati! Si vede la costa!” esclamò Acubens, guardando l’orizzonte.

“Bene. Non vedo l’ora di rimettere i piedi a terra” borbottò Yang.

Erano partite dall’Egitto per mare, assieme ad Al Risha e Tù, alla volta di Creta, dove stavano per attraccare. Per Pesci e Cancro era stato un viaggio piuttosto piacevole ma per Lepre e Capra era molto meglio camminare piuttosto che ondeggiare continuamente su una bagnarola scricchiolante e piena di gente sconosciuta. Al Risha, in piena crisi d’astinenza, fissò le onde come ipnotizzato.

“Riprenditi!” gli ordinò Acubens “Presto scendiamo”.

“La fai facile tu…”.

“Potevi fare a meno di imbottirti di porcherie. Avanti…”.

Una volta a terra, tutti i quattro non poterono fare a meno di notare quanto bella fosse quell’isola. Rimasero ad ascoltare il rumore delle onde per un po’, prima di decidere cosa fare.

“Gli altri si stanno radunando sulla penisola. Dobbiamo trovare il modo di trovare un passaggio da quest’isola all’entroterra” spiegò Tù.

“Dall’altro lato ci dev’essere per forza un modo per raggiungere la meta. Mettiamoci in cammino” sorrise Acubens, sistemandosi lo zaino che aveva sulle spalle, contenente il fucile da cui non aveva voluto separarsi.

“Dei nostri non c’è nessun’altro qui vicino?” domandò Yang.

“No” rispose Lepre, dopo qualche istante di silenzio “Però…percepisco uno di loro”.

“Uno di noi?” gioì Cancro.

“Sì. Non è lontano”.

“Raggiungiamolo!”.

“Come preferite. Magari saprà dirci come muoverci”.

Non fecero molta strada prima che intravedessero una sagoma familiare, inconfondibile ed interamente vestita di verde.

“Aldebaran!” gridò Acubens, mettendosi a correre ed abbracciando forte Toro, che era rimasto sulla riva del mare, meditando sul modo per raggiungere la penisola.

“Acubens?! Sei proprio tu?! Che sorpresa…cosa ci fai qui? Sei caduta a Cipro?”.

“No. Son caduta ben più lontano, ma pian piano son arrivata fino a qui”.

Al Risha e le due Orientali raggiunsero le costellazioni con calma, sorridendo.

“Chi sono queste due?” domandò, sospettoso, Toro.

“Sono Yang e Tù, Capra e Lepre, della tribù di Kuruma” spiegò Pesci, ridacchiando sulla parola “tribù” e ciondolando la testa, ancora stordito.

“L’avete narcotizzato? E vi fidate di queste due? Shè ha tentato di uccidermi!”.

“Shè ha tentato di ucciderti?! Kuruma le farà un culo così quando torna al palazzo Orientale…” esclamò Lepre, incrociando le braccia.

“Per quanto culo possa avere un serpente” mormorò Pesci.

“Quella doppiogiochista…spero che a nessun’altro di noi sia saltato in mente di tentare di farvi fuori. Di noi ti puoi fidare, vogliamo solo farvi ritornare in cielo”.

“Veramente? Perché la vostra amichetta per un pelo ammazzava me ed il mio amico…”.

“Riferiremo alla nostra Signora questo suo comportamento. Vedrete che verranno presi provvedimenti quanto prima”.

“Direi che ora che ci siamo chiariti possiamo anche andare verso la costa opposta, così da raggiungere la meta” propose Cancro.

“A piedi?” sospirò Pesci.

“Useremo già molti dei nostri poteri per il cibo e per trovarvi dei posti decenti dove dormire, non possiamo permetterci anche di pensare ai trasporti!” sbottò Lepre, stanca delle pretese di Al Risha.

“Allora sarà meglio metterci subito in marcia” sorrise Aldebaran, indicando la direzione.

 

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Pioveva a dirotto. Kosmos procedeva con le mani in tasca per le vie di Parigi, senza ombrello e a capo chino. Era fradicio, ma pareva non farci caso.

“Primavera fasulla” borbottò, chiedendosi perché quel posto grigio fosse definito così romantico.

Sistemò meglio la sciarpa che aveva al collo, regalo di Hanne perché stanca di sentirlo sempre tossire, e continuò la sua strada verso l’Università. Una macchina, sfrecciandogli accanto, lo schizzò da capo a piedi.

“Frena, pezzo di merda, che ti insegno io l’educazione!” sbraitò Kosmos, per un istante con gli occhi di nuovo di colore acceso “A te, ai tuoi antenati e a tutti i tuoi discendenti!”.

Le sue grida furono accompagnate da un poderoso tuono, che lo fece sobbalzare. Stava così bene in cielo, all’asciutto e circondato da rumori familiari!

“Arrenditi, stupido. Non potrai mai tornare in quel posto” si disse “Ma, ad ogni modo, consolati che tanto, visto come stanno andando le cose, non durerai a lungo” sussurrò, riflettendo sulle sue sempre più precarie condizioni di salute.

Alzando lo sguardo, sulla porta ad arco dell’Università, vide un viso familiare. Lei si voltò ma tornò a girarsi, ignorandolo.

“Sadalmelik” chiamò Kosmos, senza ottenere risultati.

Decise allora di avvicinarsi, fino a sfiorarla con la mano. Subito lei si ritrasse, andando a coprirsi in parte dietro all’uomo che le stava accanto.

“Sadalmelik! Sono io, non mi riconosci?”.

“Credo che abbia sbagliato persona. Io sono Marie e non la conosco”.

“Per tutti i Parsec, ti sei bevuta il cervello?! Tu sei Sadalmelik, la costellazione dell’Acquario, e sei caduta sulla Terra assieme ai tuoi compagni e a me”.

“Io credo che lei, caro signore, abbia problemi seri. Farebbe bene a farsi vedere da qualcuno in grado di aiutarla. Andiamo, fratellone”.

“Fratellone?!” sbottò Kosmos, dando peso solo in quel momento all’uomo che l’accompagnava “Tu non hai fratelli! E lui è…tu sei Hu, Tigre! Riconoscerei quegli occhi ovunque!”.

“Lei è pazzo!” tagliò corto Sadalmelik, tirando Tigre per il braccio e dando le spalle a Kosmos.

“Kuruma! A che gioco stai giocando?! Tu sei Sadalmelik, la stella fortunata del re. Ti sei dimenticata tutto?”.

Acquario continuò a camminare, trascinando Hu. Kosmos, sconcertato, non sapeva cosa fare. Sotto la pioggia, spalancò le braccia e cantò. C’era una musica nel palazzo Occidentale e sperava che lei potesse ricordarsela. Quel canto fece fermare Sadalmelik, di scatto, assieme a molte altre persone incantate da quella voce, e smise di piovere. Kosmos fu illuminato dal sole e Acquario si girò.

“Kosmos” mormorò, con le lacrime agli occhi “Sei tu?”.

Corse ad abbracciarlo, senza pensarci, e il caduto Signore Occidentale rimase immobile, non ricordando altri abbracci in tutta la sua vita.

“Ma…cosa è successo? Come ho potuto dimenticare? Dimenticare i miei compagni, la mia casa, il mio Signore, il mio compito?” domandò, confusa.

“Immagino che sia una possibile conseguenza della caduta. Ma ora è tutto passato. Ora ricordi, e sei pronta a tornare in cielo”.

“Tornare in cielo? Posso davvero?”.

“Gli altri si stanno radunando in Grecia. Devi andarci anche tu”.

“Ma…come faccio? Da sola…”.

“Ti ci porto io” interruppe Hu.

“Tu! Tu mi hai solo mentito…” sibilò Sadalmelik.

“No. Non è vero. All’inizio sì, ma poi ho solo cercato di proteggerti. Tu sei colei che dovrà reggere lo scettro delle Ere fra meno di un anno e per questo molti dei miei compagni tenteranno di eliminarti. Vogliono mantenere quel potere”.

“Se torno in cielo, non avranno mai quel potere. Bastava che mi aiutassi a tornare…”.

“Non volevo perderti”.

“Perdermi?!”.

“Sì. Io e te stiamo in due zone diverse del palazzo e, inoltre, io non ho un corpo umano per davvero. Io sono una tigre, che non può amarti”.

Sadalmelik rimase in silenzio, notando che Hu aveva chinato il capo e abbandonato le braccia lungo il corpo.

“Ora non ti fiderai più di me, ed hai perfettamente ragione” riprese Hu “All’inizio avevo pessime intenzioni, lo ammetto, ma poi tutto è cambiato ed ora vorrei solo esaudire ogni tuo desiderio. Ti accompagnerò in Grecia e torneremo in cielo. Ti guarderò con i miei occhi di giada mentre passerai per il corridoio e ricorderò ogni giorno passato con te, tornando al mio aspetto normale”.

Acquario si avvicinò e gli prese le mani.

“Guardami” gli sussurrò e Tigre obbedì “Voglio fidarmi di te. Accompagnami in Grecia. Farò in modo di vivere ogni istante che ci verrà concesso”.

“Ma allora tu…”.

Sadalmelik gli diede un piccolo bacio e gli sorrise.

“A quanto pare hai trovato il tuo accompagnatore. Ti ricongiungerai agli altri senza correre troppi rischi” commentò Kosmos, girandosi per entrare a scuola.

“E tu? Non vieni con noi?” domandò Acquario.

“Non posso tornare in cielo come voi. E Kuruma non mi ascolta più. L’ho tanto chiamata ma non mi risponde. Sono destinato a rimanere qui”.

“Kuruma non può rispondere” spiegò Tigre “In questo momento, sta controllando l’intero universo, senza l’aiuto di nessuno di noi, che ha mandato sulla Terra per recuperare le costellazioni. Immagino che le sia estremamente complicato poter fare altro”.

“Sta controllando l’intero universo da sola?” si stupì Kosmos.

“Sì. In attesa del vostro ritorno”.

“Allora non c’è bisogno di me. Lei è molto più forte e perfettamente in grado di gestire ogni cosa. Sarei di troppo, inutile”.

“Come puoi dire una cosa del genere?!” disse Sadalmelik, afferrandolo per le braccia “Tu sei Kosmos, non un povero pirla qualsiasi! Sei il Signore del cielo Occidentale! Come puoi definirti inutile?! Quello è il tuo ruolo ed il tuo posto!”.

“E questo chi lo ha stabilito? Magari il mio posto è stare qui a fare l’insegnante”.

Sadalmelik gli tirò uno schiaffo e pure questo fu una novità per il Signore caduto.

“Ma non hai visto che cosa è successo quando cantavi? Ha smesso di piovere!”.

“Coincidenza. Non ho più i miei poteri. Ora, scusatemi, ma ho una lezione da fare. Mandate i saluti a Kuruma ed all’intera combriccola da parte mia”.

“Ma…Kosmos…”.

“Niente proteste! Fai come ti dico, per l’ultima volta”.

“No. Tu ora vieni con noi. Troveremo il modo per farti tornare al giusto posto”.

Kosmos la fissò. La donna che aveva di fronte aveva uno sguardo così convinto e fermo nelle sue decisioni che capì subito che sarebbe stato molto difficile fuggire alle sue scelte.

“Posso accompagnarvi entrambi. Con i miei poteri potremmo passare facilmente i confini, trovare riparo e cibo. Sarebbe per me un onore” parlò Tigre, con un piccolo inchino.

“Conosci il mio punto debole, ragazzo” borbottò Kosmos, incrociando le braccia e sorridendo “Non posso opporre resistenza quando vengo adulato”.

“Allora verrai con noi?” esclamò Sadalmelik, con occhi sognanti.

“Va bene. Dovete promettermi una cosa però”.

“Prego…”.

“Io sto male. Nessuna medicina mi aiuta e non so come questa cosa possa andare avanti in futuro. Dovete promettermi che, nel caso dovessi peggiorare e non riuscissi più ad andare avanti, mi lascerete indietro senza farvi problemi. Intesi?”.

“Shu aveva previsto la possibilità che potesse succedere una cosa del genere” annuì Tigre.

“Bene. Allora promettetemi che mi lascerete indietro, se dovessi peggiorare e rallentarvi troppo”.

“Non posso promettere una cosa del genere!” protestò Sadalmelik.

“Devi farlo. Tu sei la custode della prossima Era. È fondamentale che sia in cielo entro il 21 dicembre di quest’anno. Non potete correre il rischio di restare qui per aiutare me, chiaro?”.

Tigre annuì.

“Pensa prima di tutto a lei, Hu. Lei è più importante di me”.

Sadalmelik protestò, non capendo come si potesse definire una persona più importante di un’altra, ma non venne ascoltata. Tigre e Kosmos si strinsero la mano, altro evento straordinario.

“Mi concedete di salutare i miei allievi?” sorrise il caduto Signore ed entrò all’università, uscendovi dopo qualche minuto, seguito da un branco di studenti pieni di domande a cui non ricevettero risposta, perché il loro maestro si stava allontanando.

“Troverò il modo di aiutarvi per la tesi, ragazzi” furono le ultime parole di Kosmos, prima di voltare l’angolo e sparire alla vista dei giovani futuri astrofisici.

 

₪₪₪

 

“Pronto per il dodici” gridò la cuoca.

“Ci penso io” rispose Zubeneschamali.

Uscì con i piatti verso il tavolo dodici, quando un giornalista si alzò in piedi ed iniziò ad inseguirla.

“Voi siete una delle quattro donne che miracolosamente si è salvata dal disastro aereo di due mesi fa” le diceva, inseguendola con il microfono.

“Sto lavorando. Mi lasci in pace” sbottò Bilancia, servendo altri tavoli.

“Vorremmo solo sapere come è andata”.

“L’ho già raccontato. Sparite!”.

Andò in cucina dove la proprietaria, la sconosciuta seduta accanto a lei in aereo, scosse il capo.

“Non ci lasciano ancora in pace?” disse.

“Magari. Non fanno che inseguirmi con radioline e microfoni per sentirmi dire sempre le stesse cose. Non si annoiano?”.

“Quest’anno sono tutti fissati con il mistero ed il miracolo, per via di quella profezia sulla fine del mondo. Si stancheranno”.

“Lo spero!”.

Gou stava alla cassa e faceva i caffè. Zubeneschamali e Zubenelgenubi facevano da cameriere. Quando l’aereo era precipitato, la magia di Cane aveva protetto tutte e quattro da una morte certa ma, così facendo, aveva consumato praticamente tutto il suo potere ed ora le ragazze non avevano modo di arrivare in Grecia, senza soldi né documenti. Per riprendersi, la quarta superstite le aveva assunte nel suo locale, almeno per dar loro la possibilità di mangiare ed avere un tetto. Era certa che fosse merito loro se era ancora viva, e quello era l’unico modo che conosceva per ringraziarle. All’inizio aveva offerto loro vitto ed alloggio gratis ma le tre si erano rifiutate di fare una cosa del genere e così ora lavoravano. Le due Bilancia sembrava se la cavassero facilmente con piatti e portate, probabilmente perché la Bilancia è formata da due piatti, mentre Cane era sempre gentile e servizievole. La loro sopravvivenza era assicurata, ma come avrebbero fatto ad andare in Grecia? Non potevano attendere sette anni per poter avere la cittadinanza e i documenti in regola. Gou aveva contattato Ma, che però non era messo meglio di lei. Aveva ancora potere, ma uno dei Gemelli era in condizioni non proprio adatte a muoversi ed avrebbe dovuto aspettare che stesse meglio, prima di proseguire il viaggio. Nel frattempo, sperava Cane, forse entrambi avrebbero recuperato forze. Si chiese se, magari, poteva riuscire a parlare con altri suoi colleghi, ma risultavano tutti troppo distanti e le sue energie ormai erano quasi del tutto prosciugate. Preferì tenerle in serbo per poter comunicare con Cavallo, nel caso decidesse di aiutarle. Nel frattempo, i giorni scorrevano ma perlomeno erano al sicuro, con un letto ed i pasti assicurati. La primavera dava i suoi primi segnali e nessuna delle tre aveva alcuna intenzione di perdere la speranza.

 

₪₪₪

 

“Ma perché proprio sull’Olimpo è andata?” sbuffò Zhu, incespicando per la salita.

“Lei era una Dea. Credo che la sua sia la decisione giusta” spiegò Rukbat, appoggiandosi ad un bastone improvvisato, fatto con un ramo secco.

“Se lo dici tu…personalmente sono stufo di camminare” borbottò Deneb Algiedi.

“Ormai non è lontana. Manca poco” tentò di rassicurarli Shu, senza troppo successo.

“Dai, Rukbat, accelera! Ci stiamo mettendo una vita!” disse Antares, camminando molto più velocemente degli altri.

Rukbat non sprecò fiato per rispondergli. Sentì lo sciabordio di un fiume poco distante e propose di fare una pausa. Aveva bisogno di riposare e di bere un po’. Si avvicinò al corso d’acqua, ignorando il fatto che il resto del gruppo non era molto d’accordo. Immerse le mani nell’acqua cristallina e bevve un lungo sorso.

“Rukbat?” si sentì chiamare.

Alzò gli occhi, con aria interrogativa. Controluce non capiva bene chi lo avesse chiamato.

“Come sei conciato?”.

Sagittario si alzò, coprendosi il viso con il dorso della mano.

“Astrea? Sei tu?”.

“E chi altro dovrei essere? Mi sembra di essere sempre rimasta uguale”.

“Ti abbiamo trovato, finalmente!”.

“Mi cercavi?”.

Rukbat lasciò che lei si avvicinasse. Era con i piedi a mollo nell’acqua fresca, con addosso l’abito da figurante che, bagnato, lasciava ben poco spazio all’immaginazione.

“Cos’è quella cosa che ti porti legata dietro la schiena?” domandò la donna.

“Un’arma”.

“E a che ti serve?!”.

“Lunga storia…te la racconterò. Ora vieni, ci sono altri di noi assieme a me”.

Astrea annuì e fece qualche passo, ma poi si fermò, alzando la testa verso gli alberi.

“Cosa c’è?” borbottò Rukbat, troppo stanco per dare importanza anche ai rumori prodotti dal vento.

“Ji”.

“Gallo? È lui l’Orientale che ti aiuta?”.

“Aiuta sto cazzo! Cerca di uccidermi!”.

“Non essere ridicola! Kuruma ha detto che…”.

Non finì la frase perché Gallo piombò fra i due, soddisfatto della situazione che si era creata. Si alzò in piedi con aria tronfia e fissò Rukbat, che si limitò a rispondere a quello sguardo con sufficienza.

“Ti ucciderò con le mie mani” ghignò Ji “Dicono che la carne di cavallo sia molto nutriente…”.

“E la carne di pollo con le patate è la fine del mondo…” rispose Sagittario, imbracciando l’M16 che si portava dietro.

“I proiettili non gli fanno nulla! Inutile combattere con quello. È carico di magia” disse Astrea.

“Non cercare di sminuire le mie capacità, per favore!” sbottò Rukbat “Intanto, se non ti dispiace, potresti chiamare gli altri?”.

“Dirò loro che hai bisogno di una mano…”.

“Non usare proprio quelle parole…”.

“Quanto sei noioso!”.

Ji sbuffò, stanco di chiacchiericci inutili, e balzò in aria, scalciando e spalancando le braccia. Rukbat sparò un paio di colpi, allontanando l’avversario quel che bastava da dare spazio ad Astrea per allontanarsi. Ovviamente Gallo non aveva intenzione di permettere una cosa del genere e scattò, afferrando Vergine per i lunghi capelli scuri e tirandola a sé.

 

“Avete sentito? Spari” disse Shu, sentendoli poco lontani.

“Sarà Rukbat che spara alle rane. Quell’uomo è paranoico” mormorò Antares, accendendo una delle sigarette che gli aveva passato Deneb Algiedi.

“Non sarebbe meglio andare a controllare?”.

“Se la cava da solo”.

Topo fece per alzarsi ma i suoi due colleghi Orientali le fecero segno di stare ferma dov’era. Avevano tutti bisogno di riposo e, non sentendo richieste d’aiuto, non poteva essere niente di rilevante, dopotutto.

 

“Lasciala andare, pennuto esaltato!” minacciò Rukbat, togliendosi il lungo cappotto nero per muoversi meglio.

“Lei è roba mia. Tu torna da dove sei venuto e fatti gli affari tuoi!” sibilò Gallo, stringendo Astrea per il collo.

Vergine si dimenava con una ferocia che Sagittario non si sarebbe mai aspettato. Corse verso il tuo avversario. Aveva capito che le sue ferite si rimarginavano subito. Per ucciderlo doveva trovare un altro sistema.

“Annegalo” gemette Astrea, continuando a scalciare.

Rukbat sorrise. Era un’ottima idea. Ma prima doveva fargli lasciare la sua collega! Sperò che si sarebbe liberato di lei se avesse dovuto combattere e quindi iniziò a colpirlo a calci e pugni. Gallo faceva fatica a parare ma non mollava la sua “preda”. Mosse leggermente il braccio verso il viso di Astrea, che non perse tempo e lo morse, con tutta la forza che aveva. Ji, non aspettandosi una cosa del genere, lanciò un grido e allentò la presa. Vergine si divincolò e riuscì a liberarsi, mentre Gallo si prendeva un potente pugno in pieno viso.

“Dannata femmina!” gridò Ji “E maledetto incrocio mitologico! Vi ammazzerò entrambi!”.

Rukbat supplicò Astrea di allontanarsi ma lei non si mosse, stanca di fuggire da quell’animale fastidioso e canterino. Sagittario lanciò un grido, sentendosi di nuovo, per un attimo, in guerra assieme ai suoi fratelli della stessa specie, e si lanciò contro Gallo. Vergine si guardò attorno e si arrangiò come poteva. Non aveva la stessa capacità combattiva di Sagittario, ma era altrettanto determinata. Usò bastoni e sassi per far sì che Ji trovasse il più difficoltoso possibile contrattaccare e parare i colpi della costellazione. Alla fine, colta da un’improvvisa idea folle, afferrò il lungo cappotto in pelle di Rukbat e si lanciò contro Gallo, ora che entrambi i contendenti erano finiti in terra, avvolti dal basso flusso del fiume. Sagittario stava sbattendo la testa del suo avversario contro un masso, quando Ji gli sferrò un poderoso calcio sul ginocchio malato. Rukbat lanciò un grido allucinante e dovette fermarsi. Fu in quel momento che Vergine usò il cappotto, avvolgendo la testa dell’avversario all’interno della stoffa nera. Gallo si alzò in piedi e Astrea rimase saldamente attaccata, circondandone il collo. Sagittario strinse i denti per non svenire, specie vedendo cosa stava combinando la sua collega matta da legare, e si sforzò di rialzarsi.

“Astrea! Cosa stai facendo?! Così ti farai ammazzare!” riuscì a dire.

Poi vide le lunghe maniche del cappotto a penzoloni ed ebbe un’idea. Richiamando la poca forza di volontà che gli era rimasta, si mise a correre verso Gallo e lo mandò contro un albero.

“Presto, Astrea! Le maniche!” ansimò.

Vergine capì al volo e legò le maniche al tronco, impedendo a Gallo di vedere e di fuggire.

“Scappiamo adesso. Con la magia non ci metterà molto a riprendersi!” ordinò Sagittario.

“Cosa succede?!” parlò Topo, piombando fra i due con una velocità sorprendente “Ho sentito gridare…”.

“Il tuo amichetto pollo cerca di uccidere la mia collega” spiegò Rukbat, mordendosi le labbra per cercare di non pensare alle lancinanti stilettate di dolore che gli lanciava il ginocchio.

“Ji?! Adesso ci penso io. Voi state in disparte. Zhu! Niu! Ho bisogno di voi!” chiamò Shu, avvicinandosi a Gallo e appoggiandogli una mano sul petto.

I due Orientali arrivarono con tutta la calma possibile e fissarono Topo con aria scocciata.

“Aiutatemi. Ji è contro il piano della nostra Signora. Dobbiamo impedirgli di interferire ulteriormente”.

“Intendi un trasferimento di energia?” mormorò Niu.

Topo annuì e tutti e tre gli Orientali appoggiarono la mano sul corpo di Ji. Chiusero gli occhi e borbottarono una strana formula. Il corpo di Gallo si illuminò e poi quella luce si trasferì, in modo uniforme, sui Bue, Topo e Maiale. Una volta che la luce si fu spenta, Shu slegò Ji, restituendo il cappotto a Rukbat.

“Ma che fai?! Lo lascia andare?! Sai quanta fatica abbiamo fatto per…” protestò Sagittario.

“Ora è senza magia. Non potrà nuocervi in alcun modo. Lo porteremo con noi e, quando sarà al cospetto di Kuruma, faremo in modo che venga punito” spiegò Topo.

Gallo protestò animatamente, specie quando Niu, sfruttando le sue notevoli dimensioni, lo afferrò saldamente e se lo caricò sulle spalle.

“Venite. Io sto in un rifugio abbandonato poco distante” disse Astrea, porgendo la mano a Rukbat, perché si alzasse, cercando di incoraggiarlo.

Sagittario, orgoglioso com’era, non si fece aiutare da nessuno e riprese la strada, rifiutando di appoggiarsi a Zhu o a chiunque altro.

“Alla buon ora!” sbottò Antares, vedendoli ricomparire “Oh, madama Astrea! E quello strano punk lagnoso sulla spalla di Niu chi cazzo è? Non lo voglio sapere…”.

“Venite con me. Non ho molto da offrirvi, ma almeno sarete sotto un tetto e con qualcosa nello stomaco” disse Vergine, camminando e facendo segno a tutti di seguirla.

Non ci misero molto a raggiungere il rifugio. Astrea aveva fatto un buon lavoro e lo aveva sistemato per bene. Ora non pioveva più dentro, era senza spifferi e non puzzava più di muffa e marcio.

“Mi ero rifugiata qui, con l’idea di restarci solo qualche giorno e poi proseguire verso la cima. Ma poi, fra il maltempo e Gallo, ero sempre costretta a tornare indietro. Così, alla fine, mi son sistemata, in attesa della bella stagione. Ora la bella stagione è arrivata e speravo di riprendere da dove avevo lasciato…” spiegò, facendo entrare la compagnia “Purtroppo c’è una branda soltanto. Ci dovremo arrangiare…”.

“Non è un problema. Noi con potenziale magico non abbiamo bisogno di dormire” rassicurò Shu “E non soffriamo freddo, caldo, fame…”.

“Ma noi sì. Ho lo stomaco che piange” si lamentò Antares.

“Ho qualcosa per voi. Non è molto, ma per oggi dovreste averne abbastanza” rispose Vergine, offrendo al gruppo frutta e altro cibo raccolto nel bosco.

“Io, se non vi dispiace, preferirei farmi una dormita” mormorò Rukbat.

Astrea gli indicò la branda, mentre Antares e Deneb Algiedi si avvicinavano al cibo che era appoggiato sul tavolo.

Sagittario non se lo fece ripetere e si stese, sfinito e dolorante. Vergine gli sorrise.

“Perché mi fissi così?” borbottò Rukbat, socchiudendo gli occhi.

“Mi hai salvato la vita…”.

“Non è proprio così, direi. Ti sei salvata da sola…”.

“Vedila come vuoi. Buon riposo” tagliò corto Vergine, notando quanto indifeso sembrasse quell’esaltato una volta rannicchiato e addormentato “Bene. Adesso spiegatemi un po’ cosa avete fatto tutto questo tempo” disse poi, al gruppo di colleghi attorno al tavolo.

 

“Mi state dicendo che siete diventati tutti dei delinquenti?” fu il commento di Astrea, quando Scorpione e Capricorno smisero di raccontare.

“Era l’unico modo di sopravvivere!” sbottò Antares.

“Non è vero! Io non sono diventata una fuorilegge e sono ancora viva!”.

“Tu sei tu…”.

“Diciamo che avete scelto la via più facile”.

“Esatto. Perché complicarci la vita?”.

“E hai tentato di eliminare Rukbat!”.

“Lui mi ha ucciso, facendomi divenire una stella, ricordi?”.

“Era per vendicare Orione”.

“Orione voleva scoparsi la tua sorellina Artemide, la verginella dell’Olimpo! L’ho punto per preservare la virtù di quella divinità e per ricompensa son stato ammazzato. Ti sembra giusto?”.

“Io ero la Dea della giustizia. Parlarmi di giusto e sbagliato mi sembra un po’ azzardato”.

“Quindi adesso che facciamo? Aspettiamo che gli altri ci raggiungano?” si intromise Capricorno, tentando di calmare gli animi.

“Credo sia la scelta migliore. Anche perché non arriveremo mai in cima con due donne e mister ginocchio marcio!” sibilò Antares.

Shu ed Astrea guardarono molto male Scorpione, offese perché di certo non si ritenevano in alcun modo inferiori a lui.

“E del punkettone traditore che ne facciamo?” domandò Deneb Algiedi.

“Non credo che potrà darci più fastidio. Ora è mortale, come voi” spiegò Niu.

Gallo era stato legato stretto ad un albero subito fuori il rifugio e fissava il gruppetto riunito con odio, non trovando insulti abbastanza pesanti per esprimere quello che aveva in mente.

“Perché pensate che Rukbat abbia problemi con il ginocchio? È una ferita risalente a prima che divenisse una stella…” domandò Astrea.

“Quella è la ferita che lo ha fatto diventare una stella” rispose Deneb Algiedi, marcando le parole più importanti “Credo che tutti coloro che han subito eventi del genere ne risentiranno, prima o poi. Io e te, mia cara, eravamo divinità ed è stata una nostra scelta. Per altri non è stato così, vero Antares? Smentiscimi, se ne hai il coraggio…”.

“Non ti smentisco. Ammetto di avere qualche problema ogni tanto nel punto in cui l’arciere che nitrisce mi ha colpito”.

“Credete che la cosa peggiorerà?” si preoccupò Topo.

“Spero di no! Non mi va per niente di morire di nuovo!” esclamò Antares.

“Ma forse è questo il nostro destino. Per tornare in cielo, dobbiamo fare le stesse cose che abbiamo fatto quando siamo divenuti stelle la prima volta” azzardò Astrea.

“Intendi dire che devo farmi ammazzare da Rukbat di nuovo?!”.

“Vedremo. Per ora rilassiamoci…che facciamo mentre aspettiamo?” sorrise Deneb Algiedi, allungando i piedi e stiracchiandosi.

“Una partita a carte?” propose Vergine, aprendo un cassetto di legno.

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Capitolo 9
*** 8 ***


IX

 

“Tu vuoi andare dove?! Sei impazzito?! A piedi?!” sbraitò Hannaliz.

“Non so ancora se la faremo tutta a piedi. È una questione di potere magico, ma penso che andremo proprio a piedi. Tigre ha già usato molta energia fin ora” rispose, candidamente, Kosmos.

“Cosa ti sei fumato?! Ma ti sei visto?! Non stai mica tanto bene, sai? E la strada da qui alla Grecia è lunga. Hai presente quanti stati dovrai attraversare?!”.

“Punto primo: non sarò da solo. Punto secondo: non sono affari tuoi. Punto terzo: rilassati. Andrà tutto benissimo e così facendo non sarò più un problema per te”.

Hanne sospirò, vedendo Kosmos preparare una piccola borsa in tutta fretta.

“Non andremo a piedi, signora, stia tranquilla” sorrise Tigre, appoggiato allo stipite della porta.

“Volevo ben dire!” sbottò la pescatrice “Aereo, spero”.

“Se la cosa sarà possibile, era quello che progettavamo. Oppure in treno fino a Berlino e poi in aereo. Dipende dalle partenze. Dobbiamo muoverci il più in fretta possibile”.

Kosmos non commentò la cosa.

“Ma perché dovete proprio andare in Grecia? Cosa c’è di così urgente in quel posto?” domandò Hannaliz, incrociando le braccia.

“Riguarda la faccenda delle stelle di cui ti ho tanto parlato e di cui tu non hai creduto ad una sola parola” tagliò corto Kosmos, prendendo il bagaglio su una spalla e facendo segno a Tigre di uscire.

“Grazie di tutto, Hanne” disse, rivolto alla donna che non lo guardava “Non so che avrei fatto senza il tuo aiuto. Ora è tempo per me di andare. Stammi bene e non preoccuparti troppo per me”.

Lei non gli rispose, rimanendo con gli occhi puntati fuori dalla finestra. Lui si voltò ed uscì, chiudendo la porta. Hannaliz vide i tre viaggiatori al piano terra mentre si allontanavano per la stradina lastricata e scomparivano dietro un angolo. Si disse che, un giorno, si sarebbe convinta di aver sognato tutto.

 

“Dobbiamo raggiungere l’aeroporto di Parigi e scoprire a che ora possiamo partire” disse Hu, procedendo a passo svelto.

“Non sarebbe più pratico il treno? Ci sono meno controlli, ho soldi sufficienti per fare i biglietti ed è più comodo, a mio avviso” commentò Kosmos.

“A te non va di prendere l’aereo, non è così?” ridacchiò Tigre.

“No, non mi va per niente” ammise il caduto Signore Occidentale “Devo essere io a controllare la gravità che mi circonda, non un mortale che non conosco”.

“Ci metteremo un po’ di più, ma per dicembre saremo di certo in Grecia, con ampio anticipo. Possiamo permettercelo” si intromise Sadalmelik.

“Come volete. Che treno sia” si arrese Hu, salendo sull’autobus che portava in centro a Parigi, alla stazione ferroviaria.

Kosmos lanciò un’ultima occhiata al piccolo paesino che lo aveva accolto per mesi e quasi provò nostalgia. Poi si riprese. Aveva molta più nostalgia del palazzo, se mai fosse riuscito a tornarci!

“Kuruma non si fa sentire nemmeno con te?” domandò Kosmos, rivolto a Tigre, seduto accanto al finestrino del bus con aria distratta.

“No, ma aveva avvisato che non lo avrebbe fatto. Deve concentrare le sue energie”.

“E se tu…provassi a contattarla? Sarebbe possibile?”.

“In linea di massima, credo di sì. Ma questo comporterebbe un grosso uso di forza magica da parte mia e preferirei conservarne fino alla meta”.

“Capisco”.

“Volevate parlarle?”.

Kosmos non disse più nulla e Hu non domandò altro. Arrivarono alla stazione dei treni di Parigi in poco tempo e subito andarono a cercare il centro informazioni per farsi un’idea di quante fermate avrebbero dovuto fare per raggiungere Atene.

“Il diretto per Berlino, tanto per incominciare” rispose l’addetto “Poi da lì potete scegliere se andare verso Varsavia o verso Budapest. Di certo dovrete cambiare almeno tre treni. Un bel viaggio…”.

“Intanto andiamo a Berlino, poi là decideremo” borbottò Hu, sempre più convinto che in aereo si faceva molto prima.

“Non lamentarti sempre, gattone a strisce! Allora prendiamo tre biglietti solo andata per Berlino” lo zittì Kosmos, pagando per tutti.

Il treno per la capitale tedesca era lussuoso e veloce, molto comodo. Il Signore Occidentale lo apprezzò parecchio, accomodandosi nel suo posto numerato e rilassandosi.

“Ragazzi…” mormorò, dopo un po’, senza guardare gli altri due passeggeri “…voi che mi conoscete da un periodo di tempo relativamente lungo, pensate che io abbia un carattere odioso? Rispondetemi pure con tutta la sincerità necessaria, non posso farvi del male…”.

Tigre e Acquario si fissarono, piuttosto imbarazzati e stupiti da quella domanda.

“Beh, ecco…” iniziò Sadalmelik.

“Assolutamente sì” rispose, secco, Hu.

“Non sempre!” si affrettò ad aggiungere lei “A volte sì, davvero insopportabile, ma a volte siete diverso. Come tutti, in fondo. Ognuno di noi ha un lato socievole e uno…”.

“Da perfetto stronzo” concluse Tigre.

“Hu!” lo sgridò lei.

“Cosa? Ha detto di essere sinceri e, sinceramente, penso che fra lui e Kuruma non so davvero chi abbia il carattere peggiore. Ma immagino derivi dal fatto che per tutta la loro vita son stati da soli a crogiolarsi nel nulla e ad autocelebrarsi”.

“Sono stato troppo severo con voi, Sadalmelik? Mi riferisco al gruppo Occidentale, l’Orientale non è affar mio” domandò Kosmos.

“Non siete stato severo, affatto. Siete stato…ecco…non trovo le parole…siete stato…”.

“Quello che sto dicendo io dall’inizio: stronzo!” ridacchiò Tigre “Del resto, io gli Dèi me li sono sempre immaginati così”.

“Stronzo? Cioè? Che ho fatto?” insistette Kosmos.

“Le manie di grandezza, le rispostacce, questa pomposa voglia di dimostrare continuamente di sapere ogni cosa, il fatto di trattare tutti come degli idioti di nessun valore…cose del genere, insomma. Ma, ripeto, gli Dèi me li sono sempre immaginati così e, lo devo ammettere, se fossi un Dio, probabilmente pure io mi comporterei così” concluse Tigre.

Kosmos annuì. Aveva capito cosa intendeva dire, ma non trovava parole per riprendere il discorso, per scusarsi o per far cessare quel silenzio che era sceso fra i tre. Guardò i primi alberi fioriti dal finestrino, sbadigliando fino ad addormentarsi, perché talmente stanco da non riuscire a tenere gli occhi aperti. Sadalmelik lo fissò quasi con tenerezza. Aveva davvero un’espressione triste. Doveva essere tutto così strano per lui… Lei, Acquario, era esistita anche come mortale e quindi aveva vissuto molte delle situazioni che ora per Kosmos erano del tutto nuove, come il cambio delle stagioni, gli eventi atmosferici, il rumore della folla, il caldo, il freddo, la fame…era come uno strano bambino, che aveva letto del Mondo ma che non lo aveva mai visto. Aveva uno sguardo così meravigliato davanti a Notre Dame che lasciò stupita perfino lei. Era orgoglioso. Orgoglioso del fatto che le creature che aveva contribuito a creare fossero in grado di realizzare cose simili. Era orgoglioso di quanto bella fosse la natura e di come sapesse adattarsi ad ogni situazione. Era orgoglioso degli animali e di ogni essere vivente. Sadalmelik sperò che la sua idea quasi fanciullesca non cambiasse e che non avesse mai la possibilità di vedere di persona il vero volto degli umani. Purtroppo per lei, Kosmos aveva ben chiaro come fossero in realtà in mortali. Con Hannaliz aveva avuto modo di visitare vari musei e, fra questi, anche quelli sulla guerra. Questo lo aveva molto deluso. Sperava che le informazioni che aveva su simili massacri fossero solo esagerazioni dei libri che possedeva, ma aveva oramai capito che non era così. Si era chiesto come potessero, avendo queste creature la possibilità di creare cose magnifiche come quelle che aveva visto al Louvre, concepire un’azione tanto distruttiva come la guerra. E come potessero disprezzare così tanto il bel pianeta su cui stavano. Kosmos trovava la guerra qualcosa di inconcepibile. Litigava con Kuruma, ma mai gli sarebbe passato per la testa di ucciderla. Si sentì in colpa. Quegli umani avevano nel loro cervello il germe di odio che portava pure lui dentro di sé, e non c’era modo di curarli. Tutti coloro che seguivano una via più pacifica ed armoniosa, assieme al resto della natura, venivano annientati da chi faceva il contrario. Immagini del male che l’uomo poteva fare riecheggiavano nella mente di Kosmos quando questi sognava, come ad aumentare la colpa che già sentiva. Si era chiesto se anche gli altri mondi abitati fossero così. Sperò di no e, ad ogni modo, questa piccola pallina su cui ora stava aveva bisogno di una bella regolata. A quanto vedeva, la natura stessa ci stava pensando, forse percependo il desiderio nascosto del suo creatore, con tempeste, terremoti, eruzioni ed altri eventi. E cos’erano tutti quei loro discorsi sulla fine del mondo nel 2012? Se era un desiderio, sperava di accontentarli una volta tornato in cielo. Aveva deciso che ben pochi umani meritavano rispetto. La maggior parte di loro era diventata così simile ad un parassita fastidioso da non potere meritare di ritenersi della stessa specie di molti grandi del passato. Ma, del resto, si ritrovò a riflettere Kosmos una sera, pure lui non era che l’ombra di ciò che era stato.  Era cambiato, Kuruma aveva ragione, si era incattivito, impigrito e distaccato sempre di più da ogni cosa. Aveva dimenticato ciò che aveva creato, lasciando che divenisse qualcosa di malato, a cui non sapeva come porre rimedio. Aveva ignorato le tante piccole creature sparse per l’universo, che un tempo lo veneravano e che lui ascoltava, e queste, come orfani privi di genitori a controllarli, han fatto quello che preferivano. Per questo ora lui era su quel treno. Si era ripromesso che, se mai fosse riuscito a tornare in cielo, d’ora in poi si sarebbe comportato in modo ben diverso. Se mai fosse riuscito a tornare…

 

₪₪₪

 

“Non dovresti allontanarti da sola. È pericoloso” la rimproverò Rukbat.

“Pericoloso? E perché?” rispose Astrea, piuttosto scocciata.

Non aveva mai amato particolarmente il fatto di essere pedinata. Guardò Sagittario, mostrandogli che era andata a prendere l’acqua al fiume.

“Lascia. Te la porto io” allungò la mano lui.

Lei ritrasse il contenitore lucido che stringeva fra le mani e lo fissò con sospetto.

“Che ti prende, Chirone?” domandò.

“Da quanto tempo nessuno mi chiamava così…” sorrise Rukbat “Che ti prende potrei chiedertelo io! Non voglio farti niente e non ho intenzione di mangiare il secchio dell’acqua o fare altro di stupido. Fidati di me”.

“Ti hanno mai detto che sei molto strano?”.

“Un sacco di volte. E per motivi diversi. Tu perché lo pensi?”.

“Perché a volte sei un vero coglione e a volte il contrario. Tu dici che devo fidarmi di te, ma come credi che possa fare? Sei così…altalenante!”.

“Altalenante? Carino come aggettivo, mi piace. Lo userò nel presentarmi d’ora in poi”.

Astrea sorrise e Rukbat ne fu soddisfatto. Far sorridere Vergine era davvero difficile.

“Approfittane ora, che sono il contrario del lato coglione, e fatti aiutare” riprese, allungando di nuovo la mano verso la donna.

“E il tuo ginocchio?”.

“Sta molto meglio da quando lo hai fasciato tu. Cosa ci hai messo sopra?”.

“Niente di speciale. Delle piante”.

“Non mi fa più male”.

“Questo non significa che sia guarito. Devi stare a riposo”.

“Più riposo di quello che stiamo facendo qui, non so proprio che altro ci sia. Tranquilla, ce la faccio a portare quel secchiello”.

“Come vuoi. Se ti piace fare fatica…”.

“Non vorrei che ti si rovinasse quel bel vestito…”.

“Sì, come no. Cammina”.

“Perché sei così cattiva con me?”.

“E tu perché fai lo stupido?”.

Rukbat non rispose.

“Hai nostalgia di casa?” gli domandò Vergine, dopo un po’.

“Del palazzo del cielo intendi? Sì. Questo pianeta non è bello come quando ci vivevo da centauro. Per sopravvivere devi essere cattivo e stanca essere sempre cattivo”.

“Quindi tu sei convinto di voler tornare lassù?”.

“Certo. Tu no?”.

“Non lo so. Io ero una Dea, è stata una mia scelta quella di custodire una costellazione, ma forse ora è giunto il momento che se ne occupi qualcun altro, non trovi?”.

“Ti piace stare qui?”.

“Non l’ho mai detto. Ma nemmeno mi piace l’idea di tornare a palazzo, a far sempre le stesse cose per tutta l’eternità all’infinito, senza più vedere un albero, o un fiore, o una delle creature che popolano questi boschi”.

“E la tua costellazione? A chi andrebbe?”.

“Non lo so, ma immagino che una soluzione per una cosa del genere si troverebbe. Non sto dicendo che sono sicura di non voler tornare in cielo…diciamo che ci sto pensando”.

“Anche a me era passato per la testa di rimanere qui ma non mi piacciono i ricordi che nascono fra queste terre. Spero vivamente di poter tornare a palazzo”.

“Te lo auguro”.

“Ed io ti auguro di prendere una decisione”.

“Credo che mi adatterò, come sempre. Se nessuno potrà prendere il mio posto, non avrò nulla su cui star a riflettere: dovrò tornare e basta”.

“Allora ti auguro di avere davanti a te un’alternativa e che tu faccia la scelta la migliore”.

“Grazie”.

Assieme, i due tornarono al piccolo rifugio. Antares rivolse ad entrambi uno strano sorriso, prima di tornare a concentrarsi sulla partita di poker con Capricorno e gli Orientali.

Sagittario non voleva abbandonare la sua missione di tormentatore e insisteva a seguire Vergine, in tutto ciò che faceva. Astrea fu tentata dapprima di riempirlo d’insulti, poi di colpirlo con una padella in testa e infine di sparargli. Si trattenne solo sull’ultimo punto.

“Mi hai fatto male!” protestò Rukbat, massaggiandosi la testa colpita dalla pentola.

“Scusa…” mormorò Astrea, tornando a cucinare.

“Non mi pare che tu sia dispiaciuta…”.

“Te ne vai?! Mi lasci spazio vitale?! Che cosa vuoi?!” sbraitò Vergine.

“Te lo hanno mai detto che sei tremendamente acida?”.

“E a te l’han mai detto che sei un rompicoglioni?”.

Sagittario, con la sua espressione da offeso migliore sul viso, uscì dal rifugio. Gli altri finsero indifferenza, in realtà lo stavano fissando di sottecchi, aspettandosi una reazione di un qualche tipo. Ma Rukbat non fece nulla di particolarmente strano, se non quello di chiedere cosa doveva comprare in paese. Era desideroso di fare un giro, e il gruppo aveva ancora dei soldi da parte da spendere per concedersi qualche lusso. Il gruppetto di case era piuttosto distante, tre ore buone di cammino, ma Sagittario non lo considerava un problema. Indossò il lungo cappotto, nonostante la temperatura gradevole di metà primavera, e partì.

“Quell’uomo ha seri problemi” borbottò Antares, pescando una carta.

“Ho sempre pensato che fosse un po’ autolesionista” sorrise Deneb Algiedi.

Passò meno di un’ora quando Astrea chiamò il gruppo a tavola. Grazie al fornelletto che avevano comprato, collegato alla bombola abbandonata al rifugio, poteva cucinare senza problemi.

“Dov’è Rukbat?” domandò, portando i piatti in tavola e notando subito che mancava qualcuno.

“Ha deciso di andare in paese” rispose Zhu.

“Adesso? All’ora di pranzo? E con quel ginocchio?” esclamò Vergine, decisamente innervosita.

“A quanto pare…” si sentì rispondere da Capricorno.

“Spero per lui che poi non venga a lamentarsi che ha tanta fame, che ha male e che solo lui, poverino, si deve sacrificare a fare cose del genere, perché lo prendo a calci!”.

“Più volte noi ci siamo detti che per quell’uomo sarebbe la cura migliore” sorrise Antares, assaggiando il piatto di verdure che aveva davanti.

 

Era sceso il buio, e ancora Sagittario non si vedeva. Solamente Vergine pareva farsi problemi a proposito. Gli altri continuavano a inventarsi giochi nuovi con quel che trovavano. Erano passate quasi dodici ore. Dove era andato a finire? E se gli fosse successo qualcosa? Era ferito, dopotutto.  Se fosse stato in piena salute, non si sarebbe fatta alcun problema. Era davvero arrabbiata con quell’uomo. Come poteva essere così incosciente? Solo nel buio totale, Rukbat riapparve sul sentiero disastrato che portava al rifugio. Astrea lo fissò con rabbia, il resto del gruppo con indifferenza. A braccia incrociate, lei attendeva almeno una spiegazione. Sagittario non disse nulla, ovviamente, e la ignorò.

“Ti sembra questa l’ora di arrivare?” sibilò Vergine.

“Come, scusa?” si sentì rispondere.

“Mi hai sentito benissimo”.

“Direi che sono abbastanza grande per fare quello che mi pare, no?”.

“No, se sei ferito e nessuno sa dove sei. Sai che ore sono e da quanto sei via?”.

“Non ti riguarda”.

“E la tua ferita? Avrebbe potuto farti male di nuovo. Come ci avresti raggiunti, in quel caso?”.

“Non ti riguarda neppure questo”.

Sagittario la spostò dalla porta ed entrò, appoggiando la borsa della spesa sul tavolo ed iniziando a svuotarla. Aveva comprato principalmente del cibo, le sigarette per i tabagisti del gruppo, alcolici e un piccolo aggeggio ad energia solare per poter ricaricare l’mp3 che aveva rubato al poliziotto di cui ancora indossava il cappotto. Altre volte si erano presi vestiti, coperte, sacchi a pelo, attrezzi per sistemare la casa e medicinali di primo soccorso come garze e cerotti.

“Dove sei stato fin adesso?” insistette Astrea.

“Scusa, sei mia madre per caso? O mia moglie? O chiunque altro che avrebbe un qualche minimo diritto di sapere una cosa del genere? Non mi sembra”.

“Non sono tua amica?”.

Rukbat non rispose, continuando a sistemare la roba del sacchetto.

“Ho capito” mormorò Vergine, mandandolo al diavolo e andando a raggomitolarsi nel suo sacco a pelo, non volendo sentire altro per quella notte.

Sagittario, con un barattolo di sugo fra le mani, sospirò. Andò dove lei dormiva, muovendo lievemente un braccio verso quella direzione, con l’intenzione di parlare, ma poi non lo aprì bocca. Fece ricadere l’arto, notando che lei non lo voleva nemmeno guardare. Non sapeva nemmeno cosa dire.

“Buonanotte” si limitò a sussurrare, tornando verso l’esterno.

Alzò la testa verso il cielo. Chissà Kuruma quante risate si stava facendo alle loro spalle…

 

₪₪₪

 

Volando sul mare, Hamal rideva. Si stava divertendo un sacco.

“Siamo quasi arrivati” le disse Long.

“Peccato”.

“Potremmo fare altri viaggi in futuro, non trovi?”.

“Assolutamente! Lo sai…anche quando ero mortale, prima di divenire una stella, abitavo nella Colchide, sorvegliata da un Drago. Ero un bellissimo ariete dal vello dorato”.

“E poi cos’è successo?”.

“Non lo so esattamente. Immagino che per Zeus fossi qualcosa di talmente prezioso da meritare il cielo, forse. Non me lo sono mai chiesta”.

Drago sorrise ed accelerò, fino a quando videro la terra.

“Vedi? Quella laggiù e la Grecia. Passeremo fra Creta e Cerigo, rimanendo sull’acqua, così da non farci vedere” spiegò Long.

“Possiamo scendere un po’?”.

“Ok, ma non troppo. Se ci vedono, avremo qualche problema”.

Scendendo, passarono molto vicini ad una città chiamata Kanìa, sulla costa di Creta.

“Aspetta!” esclamò Hamal “Probabilmente mi sarò sbagliata, ma mi pare che laggiù ci sia qualcuno che conosco”.

Drago si fermò e scese, fino ad atterrare in uno spiazzo disabitato poco lontano dalla città. Ariete si mise a correre, raggiungendo la costa. Da lì partivano i traghetti per Atene.

“Eccoli!” urlò ad un tratto, indicando la folla.

Aveva individuato Aldebaran, Al Risha e Acubens, assieme alle Orientali che li accompagnavano. Purtroppo, loro non potevano né vederla né sentirla, ammassati alla gente che doveva partire per mare. Ariete si sbracciò e saltò, urlando, ma non la udirono.

“Come attiriamo la loro attenzione?” domandò Hamal a Long.

“Avvicinandoci?” borbottò Drago, prima di capire che bastava avvisare le sue colleghe.

Chiuse gli occhi e lanciò un messaggio, sperando che una delle due le percepisse.

 

“Sono qui!” esclamò Tù, alzando la testa e guardandosi attorno.

“Chi?” biascicò Al Risha.

“Drago. È assieme all’Ariete”.

“Dove sono?” volle sapere Acubens, rizzandosi sulla punta dei piedi per cercare di vederli.

“Fuori dalla coda” spiegò Lepre.

“Dì loro di raggiungerci!”.

“E come? Non possono mica materializzarsi qui in mezzo!”.

“Possono salire sul nostro stesso traghetto”.

Drago, percepito il messaggio di Tù, si mise in coda assieme ad Ariete.

“Chi è la più leggera fra di voi?” domandò Aldebaran.

“Non è educazione chiedere il peso alle signore” lo rimproverò Pesci.

“Credo Acubens” suggerì Tù.

In realtà, molto probabilmente, era lei la più leggera della compagnia ma preferì non dirlo. Toro, senza dare spiegazioni, prese Cancro sulle spalle.

“Li vedi?” le domandò.

Lei si guardò attorno per un po’, prima di esclamare di sì. Anche Drago aveva avuto la stessa idea e portava Hamal sulle spalle. Cancro ed Ariete si salutarono, piene di entusiasmo. Non riuscivano a sentirsi, ma sapersi così vicine le riempiva di gioia.

Una volta sul traghetto, erano riusciti a rincontrarsi tutti quanti. Fra abbracci e pugni al braccio, si raccontarono varie cose, mentre lentamente navigavano verso Atene. Gli Orientali, preoccupati nel sapere che c’era un gruppetto di loro con intenzioni poco amichevoli nei confronti degli Occidentali, discutevano su come rimediare ad un simile ammutinamento. Sapevano che, una volta giunti ad Atene, dovevano correre a recuperare Adhafera, avvisata mentalmente da Drago di attendere il gruppo in aeroporto.

“Finalmente si inizia a ragionare! Siamo di nuovo un gruppo!” esclamò Cancro.

“E una volta recuperata Adhafera, che facciamo?” domandò Pesci, con lo sguardo perso nel vuoto.

“Un gruppetto di voi è sul monte Olimpo. Direi di raggiungerli, mi sembra un ottimo posto per chiamare la nostra Signora. È isolato dai mortali e senza inquinamento luminoso” rispose Capra.

“E come ci arriviamo fin lì?” insistette Pesci.

“Fino ad un certo punto possiamo usare il treno, o qualche altro mezzo, ma un pezzo è inevitabile farlo a piedi” disse Lepre.

Al Risha annuì, finalmente soddisfatto, e si appoggiò alla nave, con lo sguardo verso il mare.

 

Leone, tranquillamente seduta su una panchina in sala d’aspetto, si guardava attorno curiosamente. L’aeroporto di Atene era grande e molta gente andava e veniva. Lei, l’unico con un piccolo zaino e non con una valigia enorme, guardava tutti, cercando di capirne qualche caratteristica. Per passare il tempo, si inventò per ognuno degli occupanti della sala una storia interessante. Sbadigliò. Il viaggio era stato stancante e voleva solo dormire un po’. Sapeva, però, di non poterlo fare. Doveva stare all’erta. Scimmia poteva aver intuito la sua meta. Iniziò ad agitarsi. E se l’avesse trovata prima lei dei suoi compagni? Per quanto fosse brava a combattere, senza magia non aveva speranza. Fortunatamente, non passò molto tempo prima che sentisse una voce familiare poco lontano.

“Hamal!” chiamò, alzandosi in piedi e facendo sobbalzare tutti i presenti.

“Adhafera!” rispose Ariete, correndo nella direzione della voce.

Ora il gruppo era riunito. C’era Aldebaran, il più grosso di tutti, vestito di verde e senza alcun oggetto con sé, c’era Acubens, con il fucile celato dalla magia dell’Orientale che si occupava di lei, ovvero Yang. Lepre non staccava gli occhi da Al Risha, ancora intontito e desideroso di sostanze stupefacenti, e Drago girava la testa continuamente, in cerca di qualche segnale di pericolo.

“Muoviamoci. Saremo più al sicuro lontano di qui” disse, trovando l’approvazione di buona parte del gruppo.

Solo Pesci non annuì, ma quello non era in grado né di annuire né tantomeno di fare qualsiasi altra cosa in quel momento. Il suo cervello era ben lontano, e non aveva lasciato detto quando sarebbe tornato.

 

Il gruppo si fermò in un albergo per la notte. Gli Orientali avevano notato che le costellazioni cadute erano stanchissime dopo tutti quei viaggi, e decisero che era di certo meglio ripartire dopo un po’ di riposo. Nel frattempo loro, non avendo bisogno di dormire, avrebbero fatto la guardia, nel caso qualcuno dei disertori si fosse ripresentato.

 

₪₪₪

 

“Mi senti? Gou, mi senti?” chiamava Cavallo.

“Ti sento” rispose Cane, dopo qualche tentativo.

“Come stai? I tuoi poteri si ricaricano?”.

“Purtroppo no”.

“Cosa pensi di fare?”.

“Io non posso lasciare l’America senza alcun potere, ma tu non so se ne hai a sufficienza per farci muovere tutti quanti”.

“Dopo il risveglio dell’ubriacone biondo, non ne ho molto in effetti. Ma ci dobbiamo arrangiare con quello che abbiamo. Sicura che non esista un rituale per ricaricarsi?”.

“Io non ne conosco”.

“Senti, l’importante è che le costellazioni raggiungano la Grecia entro il tempo stabilito. Noi possiamo anche fare a meno di partire. Se riusciamo ad incontrarci, possiamo far partire loro su un aereo e questo basterebbe. Sono in quattro, dovrebbero cavarsela benissimo!”.

“Sei riuscito a convincere entrambi i gemelli a seguirti?”.

“Son tornati ad essere i gemellini inseparabili di un tempo”.

“Sei in rado di venire qui a New York?”.

“Non è un problema quello. Il gruppo di deficienti che ha trovato Gemelli fa tutto quello che Mek gli dice. Già ci han detto che saranno onorati di portare le stelle ovunque lo desiderino. Purtroppo, non hanno abbastanza soldi per pagarci il viaggio verso Atene”.

“Se riusciamo a far partire i quattro, avremmo svolto il nostro compito. Poi si vedrà. Forse ci verranno a prendere i nostri compagni”.

“Ce la faremo. Non resteremo sulla Terra, vedrai”.

“Piuttosto mi butto in mare…”.

Cavallo sghignazzò, prima di interrompere il collegamento con Cane, perché Buda si era svegliato e lo stava fissando con aria interrogativa.

“Dobbiamo andare a New York, il più presto possibile” disse Ma.

“Non mi sembra una meta tanto vicina…”.

“Ma dai…ci sarà un motivo per cui ho specificato che ci dobbiamo muovere il più presto possibile, no? Dobbiamo raggiungere Bilancia e Cane”.

“Perché?”.

“Perché Gou è rimasta quasi senza magia e non può far rientrare in Grecia Bilancia”.

“E allora? Cosa c’entriamo noi?”.

“Domanda idiota. Le costellazioni devono essere tutte nello stesso posto per tornare in cielo”.

“Capito. Ma non c’è nessun’altro che può passare a prenderle?”.

“In questo momento, noi siamo il gruppo più indietro. Quattro di voi sono già sull’Olimpo e cinque li stanno per raggiungere. I restanti son in viaggio e non gli manca molto. Mentre noi siamo qua, dall’altra parte della Terra!”.

Buda capì la situazione e svegliò Mek. Il fratello era ancora un po’ debole ma era perfettamente guarito, dopo diversi mesi di riabilitazione.

“Cosa c’è?” mugolò.

“Devi chiedere ai tuoi amichetti se ci portano a New York”.

“Chiediglielo tu”.

“Non mi ascoltano. Sei tu il loro preferito”.

Mek, sbadigliando, uscì dal letto molto lentamente. Sperava che la faccenda di tornare in cielo si rivelasse molto meno complicata.

“Ragazzi, me la date una mano?” biascicò, rivolto al gruppo di cacciatori di alieni, che fissavano il cielo in cerca di dischi volanti.

“Certo, o viaggiatore dello spazio. Cosa ti serve?”.

“Dobbiamo andare a New York”.

“Non c’è problema. Abbiamo due jeep”.

“Quanto tempo ci vorrà?”.

“Ad attraversare tutti gli Stati Uniti? Un bel po’, ma non abbiamo altri mezzi”.

“Un bel po’ che significa? Circa…”.

“Un paio di mesi, almeno”.

Mek e Buda si fissarono. Era primavera, quasi estate. Dovevano essere in Grecia per l’inizio dell’inverno. Poteva starci come tempistica…

“Altrimenti potete andare a rubare. Così facendo vi procurereste abbastanza soldi da potervi permettere mezzi più rapidi” suggerì uno dei caccialieni.

“E farci arrestare? In jeep andrà benissimo” sbottò Cavallo, invitandoli a vestirsi e preparare le valige, per poter partire immediatamente ed alla svelta.  

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Capitolo 10
*** 9 ***


X

 

Dopo aver caricato le jeep con viveri e tutto ciò che, secondo loro, poteva risultare utile durante il viaggio, il gruppo si apprestava a partire. Mek, ancora un po’ provato dallo scontro diretto con il camion, sedette comodamente sui sedili posteriori, pronto a schiacciare un pisolino. Buda consultava la mappa degli Stati Uniti, calcolando quale fosse la via più rapida per raggiungere New York. Cavallo, piuttosto impaziente, incitava i cacciatori di alieni a darsi una mossa e partire.

“Mi auguro che queste carrette reggano fino alla fine del viaggio, e non si scassino a metà” borbottò, salendo ed allacciandosi la cintura.

“Hanno una certa età, ma vedrete che andrà tutto bene” rispose un amante di alieni, sorridendo in modo idiota.

Cavallo guardò verso il cielo, augurandosi che qualcuno gli desse una mano. Viaggiando su due mezzi. Sul primo stavano seduti Gemelli, Cavallo e il proprietario della Jeep, che di certo sapeva guidare meglio di Ma, Mek e Buda. Sull’altra auto, li seguivano altri amici degli alieni, assieme a buona parte delle provviste. Cavallo si chiese se, nel caso si fosse rotta una delle due jeep, come avrebbero fatto ad andare avanti tutti quanti. Probabilmente avrebbero lasciato il superfluo a terra, concluse, ghignando soddisfatto verso quel branco di malati di mente.

“Siamo tutti pronti?” domandò una donna, dall’auto in coda.

“Già da un pezzo…” brontolò Cavallo, odiando i temporeggiamenti.

Partendo da una cittadina non lontano da Las Vegas, non ci misero molto ad attraversare lo stato del Nevada, raggiungendo l’Arizona seguendo il corso del fiume Colorado. Ovviamente, come Ma temeva, per i simpatizzanti degli extraterrestri quella era una specie di gita e non facevano che fermarsi per scattare foto, mangiare e dormire. Dopo il gran canyon, deviarono fino ad un cratere meteoritico ai confini della foresta, accanto al quale decisero che potevano fermare le auto e riposare per la notte. Cavallo provò a protestare, ma poi notò lo sguardo stanco dei Gemelli e non disse altro. Non capiva perché i mortali avessero tanto bisogno di dormire, mangiare, andare in bagno… Era proprio felice di non essere come loro. Steso in terra, con gli altri addormentati nelle jeep, guardava il cielo. Chissà come se la stava passando Kuruma… E gli altri suoi colleghi erano riusciti a portare le costellazioni in Grecia o ce ne erano ancora di sparse per il Mondo? Decise che doveva risparmiare le forze magiche e che non era il caso di mettersi a cercarli. Però, nel buio e nel silenzio, contattò Gou, Cane, che non rispose subito. Cavallo insistette, fino a quando l’immagine della sua collega non gli apparve davanti.

“È piena notte!” protestò Cane “Cosa c’è?”.

“Come piena notte?! Il sole è appena tramontato!”.

“Ben lì da te. Si chiama fuso orario”.

“Beh ma tanto che problema c’è? Mica dormi…”.

“Da quando i miei poteri si sono ridotti, ogni tanto mi capita di voler dormire”.

“Ti ho svegliata?”.

“Già…”.

“Mi spiace”.

“Ormai sono in piedi. Dimmi, dove siete? Siete partiti?”.

“Sì, stamattina, ma prevedo un viaggio piuttosto lungo e fastidioso. Quelli che guidano sono dei pelandroni e non fanno altro che fermarsi, chiacchierare, andare piano e cazzeggiare”.

“Abbiamo ancora tempo”.

“Preferirei andare sul sicuro, sinceramente…”.

“Lo so, tutti noi lo vorremmo, ma devi avere pazienza”.

“Non ne ho mai avuta!”.

“Altra cosa che so”.

“Stiamo arrivando, comunque. Aspettateci”.

“Non abbiamo alternative. Nel frattempo stiamo mettendo da parte un po’ di soldi, così da rendere il viaggio più semplice da gestire, anche dal punto di vista magico”.

“Ottimo. Qui il più organizzato sono io…pensa ciò che significa!”.

“Mi vengono i brividi solo a pensarci. Beh, buon viaggio. Ora io torno a dormire”.

“Buona notte. Avvisami se ci sono novità”.

“Idem”.

“Sperando di non dover mai dare notizie negative”.

Cane sorrise, chiudendo il collegamento con Cavallo, che sospirò, mangiucchiando una spiga. Fosse stato per lui, non ci sarebbero state soste ma sapeva bene che per i mortali fare una cosa del genere era del tutto impossibile. Sbadigliò. Chissà…forse farsi una dormita non era poi così male…

 

₪₪₪

 

Chi era quell’uomo che vedeva davanti a sé? Aveva un’aria familiare ma non riusciva a riconoscerlo. Si muoveva nell’ombra, con lunghi capelli neri lasciati liberi al vento e brillanti occhi rossi, come due stelle nel buio. Lo stava guardando, ne era sicuro. Ma cosa voleva? Non parlava, nessuno dei due diceva una parola, e rimanevano immobili a fissarsi. Il contesto in cui si trovavano non era chiaro. Si vedevano solo nebbia e ombre, contorni indefiniti di quello che doveva essere uno spazio aperto che si perdeva a vista d’occhio.

“Chi sei?” riuscì a domandare.

L’uomo non rispose. Allungò una mano davanti a sé e lo scenario cambiò. C’era un treno che procedeva rapido sui binari quando, ad un tratto, si udiva un botto e il mezzo deragliava. Si alzava un gran polverone, si sentivano grida, sbattere di lamiere, sirene e scoppi, provocati dalle fiamme che avvolgevano gli scompartimenti colpiti. Chi poteva, correva. Chi era rimasto intrappolato gridava aiuto oppure giaceva inerme lungo i binari e i vagoni squarciati.

“Sadalmelik!” si sentì urlare fra la folla in fuga, ma lei non poteva rispondere perché, poco più in là, stava in terra con il corpo tranciato di netto da una lamiera.

Kosmos urlò, nel sogno e nella realtà, e tornò a voltarsi verso l’uomo che gli aveva mostrato quelle cose, chiedendogli chi fosse. Nemmeno stavolta l’essere rispose ma si avvicinò al caduto Signore Occidentale. Era parecchio più alto di Kosmos e questi si sentì decisamente intimorito. La creatura sorrise, seppur in modo inquietante, e gli sfiorò il viso.

“Svegliati” gli mormorò, prima di sparire in un turbinio di particelle luminose.

“Svegliati!” gli stava dicendo pure Sadalmelik, quando riaprì gli occhi.

Kosmos si guardò attorno, piuttosto agitato, sforzandosi di tornare a rilassarsi. Chiuse gli occhi, respirando piano, quando il sobbalzare del treno lo fece allarmare nuovamente.

“Dobbiamo andarcene da qui. Il treno deraglierà” disse.

“Cosa?! Era solo un sogno, Kosmos. Non ti accadrà niente, sta tranquillo” tentò di calmarlo Hu.

“Io l’ho visto. Ho visto cosa accadrà e quali conseguenze avrà!” insistette il sognatore.

“Era solo un sogno” ripeté Tigre, scandendo ogni singola parola.

“No, non era solo un sogno! C’era un uomo che… Dovete fidarmi di me!”.

“E cosa pensi di fare?”.

“Ci dobbiamo spostare. Andare verso altri scompartimenti. Lo dobbiamo fare!”.

“Ma siamo quasi arrivati!”.

“Cosa ci costa?” disse Acquario “Ci sgranchiamo un po’ le gambe e lui sarà più tranquillo”.

“Gliele dai sempre tutte vinte!” borbottò Tigre, alzandosi controvoglia.

Kosmos partì spedito lungo il vagone, trascinando Sadalmelik con sé. Hu protestò, trovando la cosa inutile e continuando a domandare scusa agli altri passeggeri con frasi del tipo “Scusatelo, è matto! State tranquilli”. Il Signore del cielo non si sentì tranquillo fino a quando non attraversò due vagoni per intero e raggiunse il terzo, giusto in tempo prima che lo scomparto in cui stavano venisse sbalzato verso l’esterno da una forza poco chiara. L’intero treno vibrò e si mosse di colpo, gettando a terra i tre passeggeri inquieti e inclinandosi.

“Cazzo, è deragliato sul serio” mormorò Tigre, ancora steso e dolorante.

Kosmos non disse nulla. Si voltò verso Sadalmelik, accertandosi che stesse bene. Sorrise, quando vide che lei fu la prima di loro a riuscire ad alzarsi in piedi. Uscirono dalle finestre distrutte, dando una mano anche agli altri passeggeri.

“Tutto bene?” domandò Tigre, avvolto da una lieve luce rossastra che ne stava guarendo le ferite.

“Io sto bene. Solo qualche graffio” rispose Acquario.

“Anche io tutto ok. Ho solo botte, ma non dovrei avere nulla di rotto” mormorò Kosmos, tossendo per la polvere e il fumo.

Il trio diresse lo sguardo verso il vagone dove stavano seduti in precedenza. Era completamente distrutto, come se contro gli fosse stata lanciata una granata o una palla di cannone.

“Beh, a quanto pare ci hai salvato la pelle” commentò Tigre.

Kosmos non rispose, ancora terrorizzato dal sogno e da quanto era appena successo.

“E adesso cosa facciamo?” domandò Sadalmelik.

“Propongo di dare una mano. Ci saranno sicuramente dei feriti. Poi vedremo. Una soluzione la troveremo” rispose Tigre, rimboccandosi le maniche ed andando verso il punto centrale dell’incidente.

“Potrebbe esplodere” disse Kosmos.

“Solo nei film succedono cose del genere” ghignò Hu.

Sadalmelik, quella che aveva subito meno conseguenze dal botto, perché protetta sia da Tigre che da Kosmos, seguì Hu con convinzione. Sentiva gridare la gente e la cosa non le piaceva. Il caduto Signore, non vedendo altra soluzione, camminò dietro i due con lentezza. Era tutto indolenzito e zoppicava. Sospirò. Chissà quante botte blu si sarebbe ritrovato sulla pelle fra poco! Si scosse, dicendosi che là in mezzo c’erano delle persone che stavano molto peggio di lui e che avevano bisogno del suo aiuto! Guardò sulla cima del vagone ribaltato e rimase decisamente stupito da ciò che vide. C’era una donna nera, vestita di verde, tranquillamente in piedi su di esso, senza nemmeno un graffio. Capì subito che ci fosse qualcosa che non andava. Prima quello strano uomo nel suo sogno e ora quella donna dal sorriso inquietante…decisamente troppo da affrontare in una volta sola. Decise di ignorare l’uomo del sogno e si concentrò sulla donna, sforzandosi di correre verso Tigre. Probabilmente la sua caviglia era slogata, a causa dell’impatto con altri passeggeri e valige che erano cadute quando il treno si era ribaltato sul fianco. Le mani, con cui si era riparato la testa e trattenuto Sadalmelik, sanguinavano ma non ci fece caso.

“Hu!” lo chiamò, tentando di farsi sentire fra la folla.

Capì che era una cosa impossibile. Vide Sadalmelik avvicinarsi al vagone, che sembrava esploso dall’interno. Si era accovacciata per aiutare una donna ad uscire. La maggior parte degli occupanti di quello scompartimento erano morti. Tutti gridavano, dicendo che era stato un attacco terroristico. Kosmos, spostando alcune lamiere, vide muoversi la donna nera verso Acquario. La cosa non gli piacque ma, con sollievo, vide che pure Tigre aveva notato la cosa e si avvicinava per proteggerla.

“Traditore!” gridò la donna in verde, avventandosi contro Hu, che si era contrapposto fra lei e Sadalmelik, ringhiando.

Scaraventò Tigre lontano, contro un albero. Kosmos, cercando di capirci qualcosa, corse verso lo scaraventato, sperando che non si fosse fatto troppo male. La donna, con un balzo soltanto, aveva portato via con sé Sadalmelik. Doveva fare qualcosa, ma cosa? Tanto per cominciare, far rinvenire Tigre! Lo scosse con forza, chiamandolo. Hu riaprì gli occhi, gemendo.

“Ha preso Sadalmelik!” riuscì a dire.

“Era una delle tue amichette, vero?” chiese conferma Kosmos.

“Shè. Serpente”.

“Capisco. E perché ti ha dato del traditore?”.

“Perché in principio io, lei ed altri Orientali non eravamo d’accordo di farvi rientrare al cielo e quindi avevamo stabilito che vi avremo impedito di arrivare in Grecia”.

“Ah, buono a sapersi!” sbottò Kosmos, piuttosto accigliato.

“Ma io ho cambiato idea. E vi sto aiutando”.

“Le spiegazioni potresti rimandarle? Lei ha preso Sadalmelik! La ucciderà!”.

“Non la ucciderà. Se lo facesse, Kuruma lo verrebbe a sapere e la punirebbe in un modo che non mi è concesso nemmeno immaginare. La nostra missione era quella di tenervi lontano dalla Grecia fino al giorno in cui sarebbe stato troppo tardi. Dopodiché, qualsiasi cosa fosse successa dopo, non sarebbe stato un nostro problema”.

“Quindi non la ucciderà?”.

“No. E tu ora te ne devi andare. Shè, una volta messa al sicuro Sadalmelik, verrà di certo a prendermi. L’ho visto nei suoi occhi che fremeva dall’idea di farmela pagare. Tornerà qui e non ti deve trovare. Non ti ha riconosciuto, altrimenti ti avrebbe fatto a pezzi, perciò…”.

“Hei, un momento! Mi hai detto che non volete ucciderci!”.

“Quello riguarda le costellazioni. Kuruma ha specificato di non fare del male a quelle, su di te non ha detto niente”.

“Che bella notizia” borbottò Kosmos, decisamente sarcastico “Cosa facciamo? Andiamo a riprenderci Sadalmelik o restiamo qui a grattarci?”.

“Non puoi venire con me. Ci penso io a lei”.

“Ma posso darti una mano! Non ti lascio da solo!”.

“No, non puoi darmi una mano! Sei senza magia, Shè è spietata e pericolosa. Ti ucciderà appena capirà chi sei, credimi!”.

“E a te non farà del male, scusa?”.

“Lei non mi ha mai battuto”.

“E allora perché sei steso a terra, con la testa contro un albero?”.

“Mi ha preso alla sprovvista”.

“Sì…come no…”.

“Devi andare via, Kosmos. Scappa, nasconditi, c’è una foresta poco lontano. Aspettami lì. Ti verrò a prendere, quando avrò recuperato Sadalmelik”.

“Sicuro di non volere il mio aiuto?”.

“Sicuro che davvero mi serva a qualcosa il tuo aiuto, mortale?”.

Kosmos attese qualche istante prima di ricominciare a parlare: “Mi verrai a prendere?”.

“Certo. Fidati. E se dovessi metterci troppo, va avanti verso la Grecia”.

“Da solo? E come credi che possa farlo? Tutta la mia roba è rimasta sul treno!”.

“Lo so. Cerca di andarci il più vicino possibile, poi verrò io ad aiutarti, tranquillo”.

“E se muori?”.

“Mamma, quanto sei pessimista! Non posso morire, Kuruma mi rimanderebbe qui. Scappa, allontanati, corri!”.

“Ma…da solo…nel bosco…”.

“Mi sembri un bambino capriccioso! Muoviti, prima che torni”.

Kosmos continuò a lamentarsi ma Tigre lo ignorò, mettendosi in piedi e allontanandosi a balzi verso dove aveva visto sparire Shè. Il Signore Occidentale si sedette in terra, storcendo la bocca.

“Vattene! Muoviti!” gridò Tigre.

Proprio in quel momento, parte del treno che aveva preso fuoco praticamente esplose, con un boato assordante. Kosmos, senza pensarci nemmeno un secondo, convinto che fosse un segno del ritorno di Shè, si mise a correre verso la foresta. Doveva trovare un buon nascondiglio, ignorando il dolore che provava un po’ ovunque, prima che Serpente lo trovasse. Corse, cadendo ed incespicando lungo una salita fra gli alberi. Si stava facendo buio. Ormai nel cuore della foresta che ricopriva la montagna, decise che era meglio fermarsi e trovare un posto sicuro. Lo trovò dentro il tronco cavo di un enorme abete ormai secco. Si rintanò lì dentro, dolorante. Doveva aspettare Tigre. Avere fiducia ed aspettare Tigre, assieme a Sadalmelik. Per quella notte sarebbe rimasto tranquillo, senza dare nell’occhio, per evitare problemi. Con la venuta del giorno avrebbe tentato di trovare qualcosa da mangiare e sistemarsi le ferite. Aveva il viso e buona parte del corpo sporco di terra, dopo le cadute, e sangue. Si sentiva malissimo ed era piuttosto preoccupato, ma si sforzò di rilassarsi quel che bastava per non tremare e dormire qualche ora. Doveva recuperare le forze, nel caso fosse stata necessaria un’altra fuga o un lungo viaggio in solitaria verso la Grecia.

“Voglio tornare a casa” mormorò, rannicchiandosi e sprofondando la testa fra le ginocchia.

 

₪₪₪

 

“Che state combinando?!” spalancò gli occhi Astrea, rientrando al rifugio.

I tre Orientali si erano allontanati per recuperare parte del gruppo che, da quel che si era capito, era arrivato ad Atene. Da soli, avrebbero avuto qualche difficoltà a trovare il rifugio e così, di comune accordo, gli Orientali erano partiti per andare a riprenderli, sicuri che le costellazioni fossero perfettamente in grado di pensare a loro stesse. L’unico rimasto era Gallo, che però era legato all’esterno e non poteva far altro che guardare, imbavagliato. Vergine era uscita per lavare un po’ di roba al fiume e, al ritorno, aveva trovato l’allegra compagnia in preda a non capiva quale follia che cantava e gridava cazzate. Tutti la ignorarono, continuando a fare casino. Lei li guardò e poi vide che, al centro della stanza, seduto sul tavolo, c’era Rukbat con una bottiglia verde scuro in mano. Accigliata, gli si avvicinò e gliela strappò dalle mani.

“Ma siete impazziti tutti quanti?!” gridò “Dare del vino ad un centauro?! Ma che vi dice il cervello?! Possibile che avete ancora bisogno della babysitter alla vostra età?!”.

“Perché? Che problema c’è?” domandò Antares, senza capire.

“Intanto Rukbat non regge l’alcol, come puoi vedere…” rispose Astrea, indicando Sagittario ondeggiante sul tavolino “…e poi questa roba lo rende perverso e violento. È una cosa che ogni abitante della Grecia antica sa”.

Guardando male Capricorno e Scorpione, Vergine tentò di requisire tutto l’alcol ma vide subito che era impossibile. Inoltre, usando il suo cellulare, avevano contattato le ex coinquiline di Astrea, per fare un po’ di festa.

“Vado via mezz’ora e guardate qua che…” riprese a protestare.

“Ma datti una calmata!” sbottò Antares “Fai venire il mal di testa! Non c’è niente di male in quello che stiamo facendo”.

“Perché non ci hai detto subito che i tuoi amici sono così carini?” biascicò Maia, abbracciando Scorpione in preda ai fumi dell’alcol.

“A saperlo prima, ti avremmo seguito ovunque!” ridacchiò Alìs, sorridendo a Deneb Algiedi.

Rukbat vaneggiava, dicendo cose senza senso e frasi sconnesse. Astrea lo prese a sberle, con l’intento di farlo tornare in sé.

“Siete un branco di cretini. Riprenditi, idiota!”.

Antares sbuffò.

“Possibile che non vi rendiate conto di quanto siate imbarazzanti? A che età inizierete a fare le persone adulte?” continuava a protestare Astrea, togliendo di mano a Sagittario le bottiglie di vino man mano che lui se le procurava e le apriva.

“Rukbat” lo chiamò Scorpione “Falla stare zitta, per favore!” sibilò.

Sagittario guardò il vuoto per qualche istante, prima di afferrare saldamente Vergine per le braccia. Lei, ricordando quanto i centauri potessero divenire violenti, si spaventò ed iniziò a dimenarsi, per farsi lasciare.

“Mi fai male! Lasciami!” ringhiò Astrea.

“Chiudile la bocca!” insistette Scorpione.

Rukbat sorrise e la tenne stretta, facendola avvicinare e mettendola a tacere con un bacio.

“Non era proprio quello che avevo in mente…” ammise Antares “…ma suppongo che vada bene lo stesso. Divertitevi…”.

Vergine rimase sconcertata da quel gesto, non aspettandoselo minimamente e non sapendo in che modo reagire. La musica dell’mp3 dell’agente Carlyle, attaccato a delle casse che avevano portato le due ragazze ospiti, era molto forte e Capricorno l’alzò ulteriormente, abbracciando Alìs. Rukbat, senza lasciare andare Astrea, continuò a sorriderle. Lei smise di dimenarsi, riflettendo su alcune cose. Doveva prendere una decisione. Sapeva che i suoi due colleghi, Antares e Deneb Algiedi, erano andati a divertirsi con le sue ex coinquiline e che ora, in quella piccola stanza, c’erano solo lei e Sagittario, che aveva la stessa espressione di Bambi quando si perdeva fra le nuvole. Rukbat non notò né il suo tentativo di fuga precedente né il suo tentennamento attuale e riprese a baciarla. Lentamente, scese dal tavolo e la tirò a sé, facendo in modo che entrambi si ritrovassero distesi sul pavimento. La guardò, stupito dal silenzio di lei, che chiuse gli occhi.

“Ciao” le sussurrò, non trovando altre parole in quel momento e ricominciando a darle baci dove capitava, stringendola.

Lei non rispose, ma sorrise. Aveva preso la sua decisione. Guardò negli occhi argento Rukbat, afferrandogli il viso fra le mani, e fu lei stavolta a baciarlo, dando così il permesso silente che Sagittario poteva farle ciò che voleva. Ovviamente Rukbat sapeva bene quello che voleva e lo ottenne, gemendo, prima dell’alba.

 

₪₪₪

 

Hamal stava saltando sul letto dell’albergo, con entusiasmo insensato, quando il telefono della stanza suonò. Rispose Aldebaran, rimanendo steso sul matrimoniale in cui aveva dormito. Quando riattaccò, guardò gli altri suoi compagni.

“C’è qualcuno che vuole vederci alla reception” disse.

“Vado io a controllare” rispose Drago, sospettoso.

Adhafera, uscendo dalla doccia asciugandosi i capelli, sorrise nel vedere Al Risha abbandonato sul letto, addormentato, con l’aria di chi sta facendo un bellissimo sogno.

Lepre e Capra stavano giocando a carte, attendendo notizie di Drago. Erano da giorni in quell’albergo, in cerca di relax e riposo. Grazie a massaggi e servizio in camera, ora stavano tutti molto meglio, compreso Pesci che si stava riprendendo dall’abuso di droga ed aveva trovato nell’idromassaggio un ottimo sostituto all’eroina.

“Ragazzi, di sotto ci sono Shu, Niu e Zhu” sorrise Long, rientrando in stanza “Ci aspettano per accompagnarci dove stanno le altre costellazioni, sul monte Olimpo”.

“Fantastico!” esclamò Tù “Preparate tutta la vostra roba, che andiamo!”.

“Andiamo dove?” domandò Leone, non avendo sentito buona parte della conversazione a causa del phon acceso.

“Andiamo dagli altri!” rise Hamal, continuando a saltare.

“Manca poco ormai. Presto sarete a casa” sorrise Yang.

“Non vedo l’ora!” commentò Acubens, trattenendosi dallo sparare in aria con l’ormai inseparabile fucile.

“Andiamo. Ci aspettano di sotto” incitò Drago.

All’ingresso, trovarono Topo, Bue e Maiale ad attenderli.

“Dove sono i nostri colleghi?” domandò Leone.

“Al rifugio. In un paio di giorni saremo là” ripose Shu.

“Voi chi di noi guidate?” volle sapere Acubens.

“Io, Topo, mi occupo di Rukbat. Niu di Deneb Algiedi e Zhu di Antares”.

“Cioè mi stai dicendo che in questo momento, da soli, avete lasciato Sagittario, Capricorno e Scorpione?! Spero abbiate previsto le conseguenze…” ghignò Al Risha.

“C’è Astrea con loro” rassicurò Niu.

“Allora sono già più tranquillo. Quella è in grado di tenerli a bada…più o meno…”.

“Non hanno litigato fra di loro? I tre maschi, intendo” insistette Adhafera.

“Continuamente. Non fanno che rinfacciarsi tentativi di omicidio, specie Antares e Rukbat, mentre Deneb Algiedi se ne sta lì, tutto divertito, ad ascoltare la conversazione e scommettere su chi verrà prima alle mani” mormorò Zhu “Anche per questo siamo venuti qui tutti assieme. Non ne potevamo più delle loro continue lagne, beghe e risse. Ma come fate a sopportarli tutto il giorno al palazzo Occidentale? Non impazzite?”.

“Siamo in tanti. Riusciamo a tenerli separati. Inoltre, quando siamo tutti assieme, hanno valvole di sfogo. Antares, ad esempio, va a far visita a Bilancia e potete immaginare cosa ci faccia il segno più affascinante dello zodiaco con lei. Rukbat si allena con varia gente, scaricando la tensione e la rabbia. Deneb Algiedi a palazzo ha molte altre attività da svolgere senza dover stare a guardare due che litigano e fare il tifo” spiegò Aldebaran.

“Capisco…” finse di comprendere Zhu.

“Non ditemi che fra gli Orientali non litigate mai!” sbottò Adhafera.

“Non in modo così esplosivo…”.

Lepre, incitando il gruppo a proseguire la conversazione in un altro momento, fece partire il viaggio della compagnia. Per non sfruttare ulteriormente la loro magia, gli Orientali decisero che il modo migliore per raggiungere la meta fosse quello di prendere il treno fino a Larisa e poi da lì proseguire a piedi. Faceva molto caldo, se ne rendevano conto, ma non potevano rischiare di usare ulteriori poteri. Forse Kuruma ne avrebbe avuto bisogno per farli rientrare o forse sarebbero serviti per motivi più urgenti. Ignorando le proteste dei mortali, i sei Orientali li condussero fino alla stazione dei treni. Lì furono Ariete e Leone a pagare il viaggio, con i soldi rimasti dalle interviste in Italia. Erano tutti decisamente stufi di viaggiare e non vedevano l’ora di tornare a casa e riposare per un paio di millenni.

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Capitolo 11
*** 10 ***


XI

 

“Certo che…fa caldo da queste parti!” commentò Yang, sventolandosi il viso con gli enormi biglietti del treno che stringeva fra le mani.

Nonostante l’aria condizionata, sul mezzo l’afa si faceva sentire a causa della calca e dei problemi sulla linea, dovuti a scioperi e proteste scoppiate in tutto il paese per motivi poco chiari agli abitanti del palazzo del cielo.

“Ti do ragione” rispose Acubens “Spero che dalle parti dell’Olimpo, dove si trovano gli altri, faccia un po’ più di fresco!”.

“E speriamo abbiano un sacco di roba da bere!” aggiunse Al Risha, trovando particolarmente fastidiosa la disidratazione.

“E una volta là? Che faremo?” domandò Aldebaran.

“Attenderemo che tutte le costellazioni siano presenti, dopodiché chiameremo la nostra Signora, che ci riporterà tutti quanti in cielo” rispose Shu.

“Sì, e nel frattempo? Mentre gli aspettiamo, che facciamo?” insistette Toro.

“Non lo so. Avrete un modo per divertirvi, voialtri! O passavate le giornate a grattarvi i maroni?” sbottò Zhu, parecchio infastidito da tutta quella strada che lo costringevano a fare.

“Intendi dire che saremo in…quanti? Non lo so…in tanti…in un rifugio minuscolo ad aspettare i soliti ritardatari? Che chi sono, tanto per intenderci…” borbottò Adhafera.

“Gemelli, Bilancia e Acquario non son ancora in Grecia” mormorò Niu, guardando fuori dal finestrino con aria assente.

“E che stanno facendo? Festini?” ridacchiò Pesci.

“E Kosmos?” aggiunse Hamal.

“Kosmos non ci è concesso vederlo. Non sappiamo né dove sia né come stia” fece sapere Topo.

“Quindi potrebbe essere morto?”.

“Può essere. Non so” fu la risposta di Shu, con tono piatto e staccato.

“Noi lo abbiamo visto da poco!” informarono Ariete e Leone.

“Di persona?”.

“No. Per televisione”.

“Giusto!” confermò Aldebaran, ricordando il programma.

“E stava bene?” si informò Shu.

“Più o meno. Era più pallido del solito ed aveva una tosse inquietante. Sembrava stanco, scoraggiato. Si è definito una creatura inutile”.

“Temevo potesse succedere una cosa del genere. Non ha il sistema immunitario per sopravvivere a lungo a questo pianeta”.

“Credi che sia peggiorato?”.

“Quanto tempo fa lo avete visto?”.

“Alcuni mesi”.

“Sarà sicuramente peggiorato”.

“Speriamo che almeno si sia mosso verso la Grecia…”.

Hamal ed Adhafera si fissarono, un po’ preoccupate. Avrebbero voluto insistere con il loro signore, riuscire a convincerlo che non si doveva arrendere, ma non ne avevano avuto il tempo.

“Topo” parlò Aldebaran “Cosa succederebbe se noi dodici dovessimo tornare in cielo e Kosmos no? Cosa succederebbe se il nostro signore non riuscisse ad essere dei nostri?”.

“Non te lo so dire. Immagino che Kuruma dovrebbe prendersi la responsabilità di entrambi i cieli e coordinarci tutti e ventiquattro, dodici Orientali più dodici Occidentali”.

“È possibile?”.

“In linea di massima, suppongo di sì. Comporterebbe uno sforzo da parte della nostra signora ma, immagino, con la collaborazione di tutti…”.

“È quello il punto! Shè ha tentato di uccidermi, come Scimmia ha tentato di far fuori Ariete e Leone. Non siamo tutti uniti, non può esserci la collaborazione di tutti”.

“Ma che vuoi da me, Toro? Io non sono una Dea, non so che dirti. Indubbiamente chi ha interferito con la missione verrà punito severamente da Kuruma, te lo posso garantire”.

“E se lei non avrà una punizione adeguata, ci penseremo noi!” concluse Drago, ghignando.

“Tutto questo non ci porterà da nessuna parte…” sbottò Aldebaran.

“Piantala di fare il saccentone!” esclamò Niu, irritato da quell’atteggiamento.

“Siamo qui, caduti e incasinati, per colpa di un litigio e non è litigando che possiamo risolvere le cose!” ribatté Toro, con decisione.

“Siamo qui perché il vostro signore è una testa di cazzo e la nostra signora una zitella acida. Metti assieme le due cose ed ottieni queste minchiate, che non dovrebbero mai succedere ma, purtroppo, senza il cervello non si può arrivare da soli alle possibili conseguenze! Se qualcuno li avesse presi a sberle da piccoli, probabilmente a quest’ora non staremo in sto casino” quasi urlò Long.

“E chi vuoi che possa averli presi a sberle quelli da piccoli?! Son vecchi come l’universo!”.

“Già! Questo lo so pure io!”.

“La piantate di gridare?!” li zittì Ariete “Ci sta guardando tutto il vagone!”.

“Non ha senso litigare” aggiunse Pesci “Siamo tutti nella stessa barca, e la colpa è per metà Occidentale e metà Orientale, mi sembra. Perciò è inutile discutere. Ci stiamo aiutando, torneremo a casa e d’ora in poi ci preoccuperemo affinché un simile casino non si ripeta. Kosmos non è il tipo di arrendersi con così poco. Sono certo che in questo momento sarà in cammino verso la Grecia e lo incontreremo presto”.

Tutto il gruppo rimase in silenzio, non sapendo che altro dire. Di certo, una volta tornati, sarebbero cambiate molte cose, soprattutto fra loro. Ma chissà se fra Kosmos e Kuruma si poteva creare un’alleanza, o perlomeno una tregua. E se, una volta risolto tutto, se si fosse risolto, avessero ricominciato tutto da capo? In che modo loro avrebbero potuto fermarli? Di certo i poteri dei due signori erano notevolmente superiori alla somma di quelli dei loro sottoposti.

“Che cosa stanno facendo, secondo te, in questo momento, i nostri colleghi al rifugio? Credi che stiano litigando?” domandò Adhafera, rivolta a Topo.

“Se questa domanda mi fosse stata rivolta qualche mese fa, ti avrei detto di sì. Ti avrei detto che, sicuramente, i tuoi colleghi si stavano azzuffando. Ma ora, dopo il tempo che han dovuto passare in stretta vicinanza, sono molto ottimista. Hanno imparato a collaborare e, ne sono sicura, in questo istante non stan facendo proprio nulla di stupido. Sono una squadra, ormai. Vedrete cosa intendo quando li vedrete! Da esserne orgogliosi!”.

Topo sorrise, convinta di quello che stava dicendo, e si rilassò, mentre il treno strisciava verso la meta, ad una velocità quasi nulla.

 

₪₪₪

 

Rukbat si svegliò e, sbadigliando, realizzò in poco tempo di essere steso sul pavimento della cucina. La cosa la dedusse sentendo il legno sotto il corpo, avvolto solamente dal lungo cappotto usato a mo di coperta, sentendo nell’aria l’odore del caffè e, girando la testa, vedendo il tavolo attorno al quale Antares e Deneb Algiedi stavano mangiando.

“Guarda un po’ chi si è svegliato” ridacchiò Scorpione, addentando un biscotto.

“Che cosa è successo?” borbottò Sagittario, tenendosi la testa e notando come i suoi vestiti fossero sparsi attorno a lui.

“Come che cosa è successo?! Non dirmi che non ricordi niente!” ghignò Capricorno.

“Sono in post sbornia, questo è certo. La mia sapienza, al momento, finisce qui” gemette Rukbat, dimenandosi per raggiungere i pantaloni.

“Non ricordi che hai fatto stanotte?” si stupì Antares.

“Dèi, vi prego, non ditemi che ho ballato nudo con voi o fatto altre cose con voi che sommino la vostra presenza e la mia nudità”.

“Buongiorno a tutti” sbadigliarono le due ex coinquiline di Astrea, uscendo dalla stanzetta in cui si erano messe a dormire.

“Sono andato a letto con te ieri sera?” domandò Sagittario, indicando Maia senza alcun ritegno.

La ragazza scosse la testa, ridacchiando. Rukbat rivolse la stessa domanda ad Alìs, ricevendo la stessa risposta.

“Non ditemi che sono stato con uno di voi due!” gemette, indicando Scorpione e Capricorno, che quasi sputarono il caffè.

“Certo che no, che schifo!” esclamò Antares.

“E allora con chi?”.

“Chi manca qui? Vuoi un altro aiutino?”.

Rukbat si guardò attorno.

“Manca solo Astrea. E i tre Occidentali” disse.

“I tre Occidentali sono ancora via, perciò resta solo una persona” si limitò a dire Deneb Algiedi.

“Chi? Astrea? Ma quella è acida e fredda come un pesce morto da giorni!”.

“Pensaci bene…”.

Rukbat rimase in silenzio qualche istante. Non lo ricordava, e lui ricordava sempre quello che faceva quando era ubriaco! Poi, ad un tratto, guardando di nuovo il pavimento, nella sua mente apparve un’immagine. Poteva essere solo un sogno? Credeva di sì ma, era evidente, non lo era. Lanciò un grido. Non poteva credere di averlo fatto per davvero! E poi Vergine era impossibile che fosse consenziente. Che aveva combinato?!

“Kosmos ti prenderà a calci” rise Antares “Con mia somma soddisfazione”.

“Lui? Lui dubito che sappia la differenza fra maschi e femmine, figuriamoci se capisce che…”.

“Lo capisce. Mai sentite le voci di lui che allegramente fa festa con le varie sacerdotesse dedite al suo culto, sparse per l’universo?” commentò Capricorno.

“Davvero? Non lo sapevo…” ammise Rukbat.

“Questo perché tu sei troppo concentrato su di te per accorgerti di quello che gli altri fanno. Avresti potuto avere Astrea tanto tempo fa, e non dirmi che la cosa non ti interessava!”.

“Ma lei è la costellazione della Vergine!”.

“E tu del Sagittario. Sono ruoli i nostri, non è che sei rimasto mezzo cavallo! Come io non sono mezza capra e mezzo pesce o Antares non è uno scorpione. Lei era la Dea della giustizia, la verginità l’ha salutata millenni fa!”.

“Voi vi comportate a caso e ragionate a caso, come sempre!” protestò Sagittario.

“Hei, ferma un momento! Sei tu quello che si fa tanti problemi…”.

Astrea, senza far rumore, era rientrata in cucina e stava alle spalle di Rukbat. Lui si girò e sobbalzò, fissandola senza sapere cosa dire.

“Che c’è? Hai visto un fantasma?” domandò Vergine, con un’espressione piuttosto indifferente.

“Io…ecco…”.

“Antares ti ha mangiato la lingua?”.

“No…è che…possiamo andare un attimo fuori? Vorrei parlarti”.

“Io non ho niente da dirti, personalmente. È successo quel che è successo e spero che tu non stia cercando risvolti sentimentali, perché a me non interessano”.

Rukbat spalancò la bocca, cercando le parole, e non le trovò. Richiuse la bocca.

“È stata una scelta mia, Sagittario”.

“Quindi non ti ho costretta a fare niente contro la tua volontà?”.

“Certo che no. Se lo avessi fatto, o anche se ci avessi provato, a quest’ora ti ritroveresti con un gingillo di meno…e immagino tu possa capire da solo di che gingillo si tratti!”.

Rukbat deglutì, andando in automatico a toccare il gingillo a cui teneva tanto. Antares e Deneb Algiedi ridacchiarono.

“Quindi…va tutto bene?” incalzò Sagittario.

“Certo. Perché? Per te non è così?”.

“Ma no, anche per me non c’è alcun problema”.

“E allora perché ne stiamo ancora parlando?”.

I due si separarono, andando lui verso il fiume e lei verso la corda per appendere i vestiti lavati. Scorpione e Capricorno si fissarono, senza capire i comportamenti dei loro due coinquilini.

“Davvero va tutto bene?” domandò di nuovo Rukbat, quando fu tornato dal fiume.

“Sì” sbottò Astrea, semidistesa sotto un albero.

“Davvero?”.

“Sì! La smetti?! Sei paranoico! Perché ti preoccupi tanto?”.

“Io non mi preoccupo! E non sono paranoico! È che…mi dispiacerebbe farti del male”.

“Non ne saresti capace”.

Sagittario non seppe che rispondere, essendo un pochino intimorito da Astrea, pur non volendo ammetterlo. In fondo, riflettendoci, facevano parte della stessa famiglia e sangue non mente. Tecnicamente, essendo Rukbat il figlio di Crono, fratello di Zeus, padre di Astrea, i due erano zio e nipote. E la stessa cosa valeva per Deneb Algiedi e per le altre divinità divenute stelle. La cosa non lo preoccupava. Nella sua famiglia allargata, tutti andavano a letto con tutti appena potevano.

“Chirone…”.

“Dimmi, Astrea”.

“Hai mai pensato di andare nei luoghi dove vivevi prima di divenire una stella?”.

“Ci ho pensato, ma non credo sia una buona idea”.

“Perché?”.

“Non voglio pensare a ciò che ero prima. Io ora sono una costellazione”.

“Ora sei un mortale!”.

“Non per molto. Vedrai che torneremo in cielo”.

“Se è quello che desideri, ti auguro che accada”.

“Quello è l’unico posto che mi compete. Pur divertendomi a fare l’agente, il ruolo di Sagittario lo preferisco di gran lunga”.

Astrea sorrise, alzandosi.

“Fra poco è ora di pranzo. Ho affidato ad Antares e Deneb il compito di cucinare ma meglio non fidarsi troppo. Vado a controllare…”.

“Ti do perfettamente ragione. Scorpione è capace di avvelenarmi”.

“Sbrigati. E levati quel cappotto, ci sono più di trenta gradi!”.

“Ma…mi piace tanto!”.

Rukbat era scalzo, con lunghi pantaloni neri e una canottiera leggermente troppo piccola. Faceva caldo, era estate, ma indossava sempre quel cappotto, trovandolo troppo stiloso per toglierlo, se non per lavarlo.

 

₪₪₪

 

Non sapeva quanti giorni erano passati, aveva perso il conto da tempo. Sapeva che, seguendo le indicazioni di Tigre, avrebbe dovuto muoversi verso la Grecia ma, guardandosi attorno, non ne trovava né il coraggio né la forza. Avvolto da quel tronco cavo, Kosmos usciva molto raramente e solo quando era strettamente necessario. Tremava di freddo, nonostante l’estate, ed era decisamente demoralizzato. Scattava ad ogni minimo rumore, spaventato che Shè potesse trovarlo. Odiava la vita sulla Terra ma, non sapeva perché, non amava per niente l’idea che fosse Serpente a farlo fuori. Svegliato da qualsiasi suono, dormiva sempre di meno ed era sempre più teso ed agitato.

Non poteva andare avanti così, continuava a ripetersi, ma non vedeva soluzione. Non poteva rischiare di allontanarsi per poi non trovare un altro rifugio. Senza contare che giurava di aver sentito l’ululare dei lupi qualche notte prima…

Tentava invano di addormentarsi quando qualcosa scricchiolò. Era molto vicino. Kosmos si irrigidì, trattenendo il respiro. Il rumore proveniva dall’albero in cui si era rintanato, ne era certo, ed era qualcosa di grosso a produrlo. Dentro di sé pregò che fosse Tigre, che successivamente avrebbe picchiato per averlo spaventato in quel modo. Riuscì a trattenere il respiro per un po’ ma poi, inevitabilmente, dovette espirare e il rumore, che prima era cessato, ricominciò, più forte di prima. C’era qualcosa sull’albero, che non aveva intenzione di andarsene. Kosmos chiuse gli occhi, cercando di calmarsi, quando un oggetto che non identificò cadde a poca distanza dal tronco. Questo fece trasalire il caduto signore Occidentale, che non ebbe per un bel po’ il coraggio di guardare fuori, anche perché era buio e temeva di poter dare interpretazioni sbagliate. Quello che vide lo lasciò piuttosto sconcertato. Era una piramide, una piccola piramide dorata con su incisi dei simboli che, al momento, non riusciva a riconoscere. Aveva un’aria familiare ma, come per l’uomo del sogno, non sapeva in quale cassetto della memoria cercare per capire cosa fosse. Mosso da un attacco di coraggio improvviso, allungò la mano di scatto ed afferrò l’oggetto, tornando a rintanarsi al sicuro nel tronco. Guardò la piramide da vicino, che gli illuminava in parte il viso perché rilucente di luce propria. Se la rigirò fra le mani, cercando di capire la sua utilità. Purtroppo per lui, quell’oggetto astruso non aveva alcun biglietto di istruzioni. Era tutto concentrato su quella cosa, quando un verso assordante riempì la foresta. Sorridendo, Kosmos sbucò dal suo nascondiglio e guardò verso l’alto.

“Sei tu!” disse, raggiante, e il suo procacciatore scese dall’albero, andando a salutare il suo padrone.

“Dove sei stato? E questa cosa dove l’hai trovata?” domandò il padrone ma l’animale non rispose, limitandosi a dargli piccole testate per ricevere qualche carezza.

“Non immagini quanto sia felice di vederti!” esclamò Kosmos, abbracciandolo.

Il procacciatore era un uccello molto grosso, grande quasi quanto il suo padrone, innaturale per la Terra, ed era di migliaia di colori.

“Dove hai preso questa?” insistette l’Occidentale.

L’animale si limitò ad allungare il becco verso l’alto. Kosmos alzò la testa. Il cielo stellato era sopra di loro, assieme ad una Luna quasi piena. Ignorò le proteste della sua creatura ed iniziò a salire sull’abete che fin ora lo aveva ospitato. In parte era secco ma Kosmos riuscì ad individuare i rami buoni e salire, senza rischiare che questi cedessero sotto il suo peso. Arrivò in cima. Sorrise. Da lassù si vedeva tutta la foresta ed il terreno intorno. Guardò in alto, intravedendo una stella cadente. Il procacciatore gli andò vicino, volando.

“Il mio posto è avvolto dalle stelle e dall’universo. Non posso restare qui” mormorò Kosmos.

Il vento mosse leggermente gli alberi, producendo un fruscio simile ad un canto.

“Mi hai sentito, Kuruma?” gridò il caduto Signore Occidentale “Tornerò al mio posto, vedi di non metterti troppo comoda o rovinare la mia roba. Arrivo!”.

Una volta a terra, rigirando ancora la piramide fra le mani, guardò il suo procacciatore, accarezzandogli la testa.

“Ho un favore da chiederti, piccolo mio. Mi accompagneresti in Grecia? Io non so nemmeno da che parte sta! E poi mi sarebbe di grande aiuto averti accanto, mi sentirei più sicuro dai pericoli”.

L’animale emise uno strano verso e spalancò le ali, come a dire “Io sono pronto, quando si parte?”. Kosmos gli sorrise, aprendo le braccia ed imitando quel verso. Nonostante si sentisse debole, a causa della tosse e della febbre, d’improvviso era di nuovo desideroso di continuare il suo cammino, sperando che Tigre e Acquario stessero bene. E poi, ne era certo, prima o poi avrebbe capito che diamine fosse quella caspita di piramide luccicante. E quei simboli che aveva sopra cos’erano? Lui sapeva tutte le lingue e tutte le scritture dell’universo, eppure quella al momento non la ricordava. Forse iniziava a farsi sentire la vecchiaia, si disse, mettendosela nella tasca della giacca. Forse era come una volta aveva detto Hannaliz: “Se hai quindici miliardi di anni, è normale che qualcosa te la dimentichi. Un cervello non può ricordare tutto!”. Forse era così…anche se solo da quando era nella Terra, si era reso conto di perdere colpi. Probabilmente perché il cervello mortale non era all’altezza di ciò che era colui che lo possedeva in quel momento. Si era dato una sistemata e, specchiandosi nel fiume, si era trovato piuttosto ridicolo con i capelli legati, la giacca e la cravatta ma non aveva alternative.

“Sei tu la mia guida, ora. Sono pronto a seguirti”.

Il procacciatore spiccò il volo, attento ad andare ad una velocità ideale per il suo padrone. Kosmos lo seguì, inciampando qualche volta e maledicendo le scarpe laccate, spaventosamente rigide ed inadatte alla foresta. Si sentiva molto più sicuro ora che aveva il suo adorato procacciatore a fargli da scorta, oltre che da guida. Era in grado di avvisarlo in tempo e difenderlo, nel caso fosse arrivato qualche Orientale ad aggredirlo. Era un adolescente quando lo aveva creato, prendendosi cura di un uovo stellato, e di lui si fidava. Sapeva che lo considerava una specie di padre, o madre probabilmente, e di certo Kosmos non ci teneva a stare a spiegargli complicate questioni sulla genetica. Lo aveva visto nascere e questo aveva creato il legame che gli umani chiamano imprinting, probabilmente reciproco perché padrone ed animale erano molto legati l’uno all’altro, anche se in quel momento il padrone si sentiva un po’ in colpa per averlo fatto tanto girare per lo spazio. Del resto, lo aveva creato per quello, si disse per togliersi certi pensieri dalla testa. Gli aveva perfino dato un nome, cosa che non aveva mai fatto per nessuna delle sue creature. Il nome era Squeak, derivante dal verso disumano che emise quando uscì dall’uovo, assordando momentaneamente chi aveva di fronte. Non sapeva che nome avesse il procacciatore di Kuruma, probabilmente uno di quelli aulici e poetici, epici ed artistici. Altro che “Squeak”! Ma il nome “Squeak”, ne era sicuro, era di certo più bello e più gradito dalla creatura alata che stava sopra di lui. Pure lui aveva un nome più bello. Kosmos suonava meglio di Kuruma che, nonostante ne conoscesse il significato, continuava a suonargli come qualcosa di vegetale, un ortaggio o qualcosa di simile. Sghignazzò. Avevano ragione Hannaliz e Hu: lui era e rimaneva uno stronzo, e ne andava anche piuttosto fiero.

 

₪₪₪

 

“La finiamo di cazzeggiare, per favore?” sbottò Cavallo, incitando il gruppo a proseguire.

Si era fermati tutti ad ammirare sassi. Normalmente Ma avrebbe gradito molto l’idea di passare ore a guardare sassi ma non in quel momento. Aveva fretta, voleva arrivare al più presto alla meta.

“Rilassati, amico! Siamo ancora perfettamente all’interno del piano di marcia!” tentò di tranquillizzarlo uno dei cacciatori di alieni, tentativo del tutto fallito per far calmare Cavallo era come cercare di tenere a bada una scolaresca delle elementari davanti ad un bancone che regala giocattoli.

“Ah sì? In base a cosa lo hai deciso?” protestò Ma.

“Datti una calmata. Questo tuo atteggiamento non fa altro che danneggiarti la salute”.

“Vuoi che ti mostri un bel modo per danneggiare la salute, Dio lupo delle favole che si mangia i cacciatori?”.

Il gruppo si guardò con aria perplessa davanti a quella strana bestemmia, e riprese a fotografare le Rocky Mountains con enfasi, dallo stato del New Mexico.

“Ma che avete tanto da fotografare?! Siamo in mezzo al nulla!” continuò Cavallo.

“Hai mai fatto sport estremi, Ma?” domandò Buda, osservando in lontananza con un binocolo.

“Mi sarebbe piaciuto ma, al momento, non mi interessa…”.

“Peccato, perché laggiù stan facendo parapendio, arrampicata e altre cose…”.

Cavallo guardò in quella direzione. Aveva sempre sognato di far arrampicata, ma come cavallo gli era sempre risultato piuttosto difficile.

“Che dici? Proviamo?” sorrise Mek.

Cavallo sorrise, all’improvviso fidandosi della tabella di marcia dei fan dell’area 51.

Nel giro di meno di mezzora, l’intera compagnia era pronta a saltare nel vuoto con i piedi legati con un elastico. Avevano deciso di scegliere quella come prima attività dopo una votazione piuttosto blanda, in cui Cavallo sospettò brogli elettorali e corruzione, avendo Mek offerto il suo voto in cambio di una ciambella glassata. Cavallo, ripetendosi che stavano perdendo un sacco di tempo, continuò a divertirsi, provando tutte le altre attività che gli vennero proposte. Nell’arrampicata, il gruppo decise di scommettere su chi per primo avesse raggiunto la cima della parete. Nessuno di loro aveva mai provato quello sport e quindi parvero tutti piuttosto ridicoli e goffi.

“Ti batterò!” disse Mek, superando Buda.

“Non sentirti troppo sicuro di questo!” ridacchiò il gemello, recuperando terreno.

“Siete dei falliti!” li sfotté Cavallo, soddisfatto del fatto di essere il più veloce. Con il vento fra quella specie di criniera che aveva in testa, si era momentaneamente “dimenticato” della fretta che aveva in precedenza. Nessuno degli altri, ovviamente, si pose il problema di ricordargli la missione.

Solamente Buda, ogni tanto, apriva bocca. Ed era prontamente zittito dagli altri. Dopotutto avevano ancora parecchi mesi prima che scadesse il loro tempo!

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Capitolo 12
*** 11 ***


XII

 

 

“Hei! Rallenta!” supplicò Kosmos.

Il suo procacciatore si fermò, appollaiandosi su un albero mezzo morto.

“Vai troppo in fretta” ansimò il caduto Signore Occidentale, appoggiandosi ad una pianta e riposando qualche istante.

In realtà, l’uccello che lo guidava andava pianissimo ma le condizioni del padrone erano notevolmente peggiorate, dato anche il graduale ritorno della stagione fredda. Ormai erano alle porte dell’autunno e, nella zona dove si trovavano in quel momento, il vento freddo già iniziava ad essere piuttosto fastidioso. Il procacciatore aveva guidato il suo signore lungo la via che riteneva più sicura, lontano da grossi centri abitati e al riparo fra gli alberi. Stavano per uscire dai Carpazi, quando Kosmos fu costretto a fermarsi. Sentiva di non avere più forze e di doversi riposare ben più a lungo di mezza giornata, come faceva da qualche mese. Sapeva anche, però, che la cosa non era affatto possibile e che doveva sforzarsi di raggiungere la Grecia quanto prima. Illuminato solo vagamente dalla luna, il sentiero su cui procedeva era dissestato e decisamente inquietante. Rabbrividì, dopo l’ennesimo ululato lupesco che percepì.

“Per oggi basta, Squeak. Non ce la faccio più. Riprenderemo il cammino domani” gemette il padrone, non sentendosi quasi più le gambe.

Trovato rifugio fra i rami di un albero, entrambi si riposarono. Il procacciatore rimase di guardia, mentre il suo signore dormiva, in preda agli incubi.

Ripartirono la sera seguente, sfidando il maltempo.

“Chissà come se la passano gli altri” si chiese Kosmos, preoccupato soprattutto per Sadalmelik.

Il procacciatore lo incitò a proseguire e non pensarci troppo. Il caduto signore cercò di seguire il consiglio ma, specie su quel sentiero avvolto dal buio della notte, non poteva fare a meno di riflettere e la cosa lo infastidiva molto spesso. Lui non era mai stato il tipo che si faceva simili problemi, eppure ora non riusciva a far a meno di sentirsi in colpa per tutta una serie di motivi. Camminava, rigirando la piramide fra le mani, accuratamente riposta in tasca. Ci giocherellava distrattamente, quando questa iniziò ad illuminarsi più forte, scaldandosi. Sentendola bruciare, Kosmos la estrasse e la fissò, vedendola aprire ed emettere una strana melodia. Era una musica molto simile a quella che suonava sempre nel palazzo Occidentale, ma con alcuni passaggi diversi. Inoltre quello strano oggetto proiettava disegni di stelle che Kosmos non riconobbe. Arrivò alla conclusione che fossero del tutto inventati, perché lui conosceva tutte le stelle e la loro disposizione fin dall’alba dell’Universo. Il procacciatore fissò la piramide con curiosità pari a quella del suo padrone, fino a quando questi non riprese a parlare, distraendolo.

“La ricordo questa musica” mormorò Kosmos, sfiorando le stelle che venivano proiettate nell’aria “Anche se non so dire dove l’abbia già sentita…”.

I due smisero di concentrarsi su quella specie di carillon quando udirono un rumore alle loro spalle. Il procacciatore si alzò in volo, incitando il suo padrone a correre. I lupi erano sulle loro tracce. Kosmos, richiudendo in fretta e furia la piramide, la rimise in tasca e si mise a correre. C’era un vento gelido lungo la via, ma al momento riusciva a non pensarci, concentrandosi sulla necessità di salvarsi dai predatori notturni. Sfortunatamente per lui, quei mammiferi usavano tecniche ben collaudate per cacciare e sfruttavano la forza del branco. Non ci volle molto prima che il caduto Signore si ritrovasse davanti un gruppetto di loro, ringhiante e pronto ad attaccare. Il procacciatore intervenne, ferendone un paio e tentando di spaventare gli altri. Kosmos, afferrando un bastone, lo agitò con l’idea di farli allontanare. Fu un altro rumore a spaventare il branco. Qualcosa di non identificato, che produceva un suono sinistro e fastidiosissimo per le orecchie di quelle creature, stava arrivando dal cuore della foresta. Non attesero di sapere che cosa fosse e si dileguarono. Kosmos, senza fiato per la corsa e la paura, non trovò altrettanta forza e rimase immobile, attendendo di scoprire cosa emettesse quel suono. Era una donna, con in mano un lungo bastone, adornato in modo tale da produrre un suono quasi inquietante. Il caduto, non capendo che intenzioni avesse quella femmina, retrocesse di qualche passo ma le sue gambe cedettero e cadde in terra. Voleva gridare, per il dolore e per protesta, ma non ci riuscì. Si appoggiò ad un tronco e leggermente si accasciò, mentre la donna gli si avvicinava. Invano tentò di sfuggirle.

“Stai tremando!” disse lei, con la voce più bella che Kosmos avesse mai sentito “E bruci di febbre. Non puoi continuare il tuo cammino così. Rilassati, non ho intenzione di farti del male”.

Dopo queste frasi, la donna tolse il mantello in cui era avvolta e coprì Kosmos. Lui la intravide, fra il buio e lo stordimento dovuto alle sue pessime condizioni di salute, e non oppose resistenza. Non aveva alternative, non era più in grado di fare nulla. Si rilassò e si addormentò, fra le braccia di quella sconosciuta di cui non aveva compreso le intenzioni.

 

₪₪₪

 

“Non ditemi che siamo gli ultimi!” disse Hamal, arrivando di corsa al rifugio.

“No, ma quasi” rispose Deneb Algiedi, seduto all’aperto con la solita sigaretta di sbieco fra le labbra e le braccia incrociate.

“Tutto bene qui, senza di noi?” domandò Topo, sorridente, notando con gioia che Gallo stava ancora legato ad un grosso albero, fuori dalla casetta.

“Tutto bene” ridacchiò Antares “Anche troppo. Vero, Rukbat?” urlò l’ultima parte della frase, ricevendo un “Fatti i cazzi tuoi” da dentro il rifugio da parte di Sagittario.

“Che è successo?” si allarmò Shu.

“Io l’avevo detto che da soli avrebbero combinato solo danni” commentò Niu.

“Nessun danno, amico! Rilassati!” continuò a sorridere in modo ebete Scorpione “Diciamo solo che c’è stato un’affinarsi delle relazioni interpersonali. Vero, Rukbat?”.

Sagittario uscì e afferrò il braccio di Antares, torcendoglielo dietro alla schiena. La vittima continuò a ridere, fino a quando uno strano scricchiolio costrinse l’inizio di una serie di messaggi di supplica.

“Smettila di rompere i coglioni!” sibilò Rukbat, scandendo ogni parola.

I nuovi arrivati, ovvero Adhafera, Hamal, Al Risha, Acubens ed Aldebaran, con i rispettivi aiuti Orientali, si fissarono fra loro con aria interrogativa e non chiesero altro.

“Dobbiamo stare tutti quanti qui in questa microcasetta?” domandò Ariete.

“Fino a quando non arrivano i pochi che mancano…” borbottò Capricorno, scocciato anche lui dall’idea di doversi stringere ancora per poter stare tutti al coperto.

“E chi manca?” domandò Leone.

“Sadalmelik, Mekbuda e Zubeneschamali” rispose Sagittario.

“Acquario, Gemelli e Bilancia. E Kosmos?” si informò Drago.

“Dovrei saperlo? Da queste parti non si è visto…”.

Shu annuì, mostrando una certa preoccupazione, ed invitò il gruppo ad entrare tutti al rifugio, notando che stava calando il buio. In quindici, fra Orientali ed Occidentali, si accalcarono nella piccola cucina. Le costellazioni si riunirono ed iniziarono a raccontarsi il viaggio, soprattutto i tratti in cui avevano rischiato la vita o il salto dei nervi. Gli occupanti del palazzo ad est, invece, cercarono di capire quanta energia avessero ancora e tentarono una stima su quanto potesse durare.

“Dove sono quelli che mancano?” domandò Shu, chiudendo gli occhi per visualizzarne qualcuno “Speriamo stiano tutti bene…”.

“E intanto che arrivano? Che facciamo?” domandò Long “Ci grattiamo in compagnia?”.

“Hai forse qualche alternativa?”.

Rimasero qualche istante in silenzio, prima che qualcosa attirasse la loro attenzione.

“Parla pure, Ma” dissero in coro.

 

₪₪₪

 

“Ragazzi! Siete già in Grecia?” domandò Cavallo.

“Non tutti, ma quasi. Tu e la tua costellazione dove siete?” rispose Lepre.

“Siamo a New York, assieme a Gou ed alla Bilancia”.

“Vi siete riuniti? Bene. Fra quanto vi muoverete verso l’Europa?”.

“Anche subito…se potessimo! Ma non possiamo”.

“Che succede?!”.

“A causa di tutta una serie di eventi, al momento né io né Cane abbiamo energia sufficiente per permettere alle costellazioni di prendere l’aereo e venire da voi. Pensavamo di riuscirci, ma il viaggio è stato più lungo del previsto e la magia di Gou non si è ricaricata nel frattempo”.

“Vi serve una mano?”.

“Se qualcuno di voi ha abbastanza energia da portarci via da qui…siamo in sei”.

“Come sarebbe a dire in sei?!”.

“Bilancia e Gemelli si son sdoppiati nella caduta. Son due coppie di gemelli”.

“Che palle…”.

“Sapessi noi a tenerne a bada due tutto questo tempo! Dateci una mano!”.

“Fateci trovare un accordo. Anche le nostre energie son state messe a dura prova. Vi faremo sapere al più presto, intanto provate a vedere se riuscite a trovare una soluzione alternativa”.

“Intendi rubare dei biglietti, farci documenti falsi e dirottare un aereo?”.

Lepre non disse altro ed il collegamento si interruppe. Cavallo, un po’ sconcertato nel vedere la sua collega in giacca e cravatta, guardò Gou e sorrise.

“Vedrai che verranno a prenderci” le disse.

“Speriamo. Altrimenti non so che possiamo inventarci…”.

“Non ci abbandoneranno qui”.

“Spero abbiano abbastanza energia”.

“Me lo auguro”.

“Cambiando argomento…come avete fatto a metterci tutti ‘sti mesi per arrivare a New York?”.

“Chiedilo ai cacciatori di alieni! Si fermavano continuamente, a far foto ad ogni cosa. Ho tentato di farli accelerare!”.

“Sicuro di non esserti distratto lungo la strada?”.

“Mai!”.

“Ne sei sicuro?”.

“Assolutamente!”.

“Ci vengono a prendere?” domandò Buda, interrompendo la discussione.

“Forse” ripose Cane.

“Come forse?!”.

“Sì, lo faranno” rassicurò Cavallo.

“Quando?”.

“Quando avran voglia di farlo…”.

“Non mi aiuti dicendo così…”.

“Nemmeno tu aiuti me facendo il pedante in questo modo!”.

“E allora che dovrei fare, secondo te?”.

 

₪₪₪

 

“Allora? Cosa facciamo?” domandò Shu.

“Molti di noi hanno usato la maggior parte della nostra energia, fra voli, combattimento, spostamenti e altro. Non so chi abbia la potenza necessaria per spostare sei persone” commentò Niu, incrociando le braccia.

“Uno da solo non può, infatti” sbottò Lepre.

“Possiamo andare tutti!” propose Capra.

“Inutile. Anche perché alcuni di noi, come Drago dopo il volo sul Mediterraneo, rischiano di consumare tutta la loro energia e aggravare la situazione” tagliò corto Zhu.

“Io ho ancora molta energia, grazie anche alla magia che abbiamo sottratto a Gallo” affermò Niu.

“Bene. Mettiamola ai voti. Chi se la sente di andare? Chi sente di poterlo fare?” disse Topo, facendo la diplomatica come sempre.

Niu, Bue, si apprestò a dare la sua disponibilità, così come Lepre. Drago concordò con i compagni che non aveva magia a sufficienza, così come Yang, Capra, specie dopo lo sparo di Hamal. Zhu incrociò le braccia, stanco di agitarsi e sprecare tempo per le costellazioni.

“Allora siamo in tre” concluse Topo, includendosi nella conta “Saremo più che sufficienti”.

“Siamo sicuri? Ci toccano due persone a testa da trasportare per letteralmente mezzo mondo” commentò Lepre.

“Hai forse qualche alternativa?” borbottò Bue.

“Zhu, ad esempio, potrebbe muovere le chiappe. Ha abbastanza energia per…”.

“Costringerlo, per poi vederlo diventare un peso, è controproducente” esclamò Shu, facendo scendere il silenzio.

“Andiamo” riprese, dopo un po’, con uno scatto delle braccia “Long, Yang e Zhu rimarranno qui a controllare Gallo ed eventuali altri traditori che potrebbero arrivare. Inoltre, faranno da guida a Tigre, Kosmos o chiunque altro cercherà di raggiungere la Grecia. Spero non sia successo niente di male al felino della compagnia, perché è da tempo che non abbiamo sue notizie…”.

“Sissignora” ghignò Drago, trovando quasi divertente il modo di fare di Topo e lanciando uno sguardo al bosco ormai quasi del tutto spoglio che circondava il rifugio.

 

₪₪₪

 

“Riesci ad andare più veloce di così?” gridò Tigre saltando ed aggrappandosi ad una grondaia.

“No, mi spiace” gemette Sadalmelik, cercando di stare al passo con Hu.

Shè li inseguiva, furiosa. Tigre, dopo essere riuscito a rintracciare lei e Acquario, aveva avuto un aspro combattimento con la sua collega Orientale ed era riuscito a liberare Sadalmelik. Purtroppo non aveva calcolato la testardaggine di Serpente, che continuava seguirli e scovarli da mesi. Si trovavano ora a correre per le strade di Budapest, fra la folla incredula e le grida di minaccia di Shè.

“Hu! Non ce la faccio, aspettami!” supplicò Sadalmelik, inciampando lungo il ciottolato.

Lui si voltò e la afferrò per la vita, saltando per cercare di nascondersi grazie ad un terrazzino chiuso.

“Ho paura. Sono stanca” mormorò Acquario.

“Non parlare. Potrebbe sentirci”.

“Quanto tempo dovremo andare avanti così?”.

“Presto saremo al sicuro. Ora, però, non parlare più”.

Rimasero immobili, senza fiatare e respirando appena. Serpente si fermò. Annusò l’aria e, ghignando, si girò verso i due.

“Tana per Tigre!” gridò e saltò.

Hu fu veloce e riuscì a schivare il colpo che Shè aveva sferrato. Gemette. Per quanto tempo quella testarda aveva intenzione di andare avanti così? Da tempo tentava di mettersi in contatto con Kuruma, per informarla della situazione, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. L’unica altra soluzione era richiamare qualcuno dei suoi compagni, che magari erano già arrivati alla meta.

“Traditore bastardo! Ti ucciderò con le mie mani! Te e la tua amichetta dello Scettro delle Ere!” urlò Serpente.

Tigre, sempre con Sadalmelik per mano, continuava a correre, costeggiando il fiume che divideva in due la città.

“Che cosa facciamo, Hu?” ansimò Acquario, non sentendosi più i piedi.

“Devo trovarti un posto sicuro. Dopodiché ci penserò io a quel rettile fastidioso”.

Ormai erano fuori Budapest, circondati solo dalla vegetazione. Tigre, girandosi di colpo, colpì Shè, che finì poco distante ma stordita abbastanza da permettere a Sadalmelik di nascondersi.

“A noi due, Shè!” disse lui, richiamando la propria magia.

“Sei patetico. Fai tutto questo perché ti sei innamorato di quella femmina. Non è da te, Tigre, io ti conosco bene. Cosa stai tramando in realtà?”.

“Nulla. Cerco di proteggerla e portare a termine la missione che la mia Signora mi ha affidato”.

“La tua Signora?! Da quando obbedisci?!”.

“Non sono affari tuoi. Se non hai intenzione di lasciarmi fare ciò che mi son prefissato, allora combatti e smettila di parlare!”.

Shè, accigliandosi, guardò il suo avversario come a dire “l’hai voluto tu, ora vedrai!”. Iniziarono ad affrontarsi richiamando la loro energia, fra scintille e grida di odio.

“Credevo che tu fossi mio alleato!” sibilò Serpente.

Tigre non rispose, troppo impegnato a seguire tutti i movimenti della donna e trovando difficile fare due cose assieme. Sadalmelik, sobbalzando ad ogni colpo, osservava la scena imponendosi di non urlare e pregando per la salvezza del suo protettore. L’energia che i due stavano usando iniziava a mutare il loro aspetto. I corpi umani, non adatti a certe cose, stavano divenendo più consoni all’uso della magia. Lei, Serpente, si stava tingendo di verde in certi punti, con piccole squame e riflessi argentei. Lui stava divenendo aranciato, con strisce scure sempre più evidenti.

“Come porterai la tua bella in Grecia in quello stato?” lo derise Serpente.

“Tu devi smetterla di farti gli affari degli altri e pensare per te stessa, viscida!”.

Shè, non sopportando si essere definita viscida, spalancò la bocca, dove erano apparsi due enormi denti affilati. Tigre fece lo stesso, con un ruggito. Le loro forze si equiparavano e lo scontro sarebbe durato ancora molto a lungo se non fosse stato per Drago. Cercando il suo collega Tigre in modo telepatico, aveva capito subito qual’era la situazione e, volando, era atterrato fra i due. Sapeva bene che non gli rimaneva molta energia ma non poteva rischiare che il suo collega venisse ucciso o che Acquario non tornasse in cielo.

“Cosa vuoi, Long?” lo apostrofò Shè “Non sono affari che ti riguardano, fatti da parte”.

“Shè, mia cara, sei rimasta da sola. A Ji è stata sottratta tutta la magia ed è legato come un salame ad un albero da mesi. Scimmia l’ho sconfitta io stesso e tutti gli altri stanno facendo del loro meglio per riportare a casa gli Occidentali. Arrenditi, e vedremo di non riservarti lo stesso trattamento che è toccato a Gallo”.

“Gallo è un debole, troppo concentrato su se stesso e convinto di essere il migliore per difendersi. Io non sono come lui, non riuscirete mai a catturarmi ed avere i miei poteri!”.

Drago, percependo quelle parole come una sfida, fissò Tigre per un istante e poi pure lui iniziò ad attaccarla. Due uomini contro una donna, Long pensò che non fosse molto corretto ma la donna in questione era Shè, veloce, intelligente e potente. Non sarebbe stata una passeggiata! Lei schivava ogni attacco con agilità impareggiabile e contrattaccava con una rapidità che lasciava sconcertati i due maschi Orientali.

“Non riuscirete mai a fermarmi!” sibilò, pronta a colpirli di nuovo, quando una violenta botta in testa la fece cadere in terra, svenuta.

Drago e Tigre si fissarono, senza capire, quando dal buio fra gli alberi spuntò Sadalmelik, con un grosso tronco stretto fra le mani. Hu le sorrise e lei gli andò vicino, controllando se fosse ferito in modo grave. Fortunatamente, sia Drago che Tigre, avevano solo graffi e tagli superficiali.

“Hu, dobbiamo toglierle la magia, prima che si riprenda” mormorò Long, quasi imbarazzato nell’interrompere il loro scambio di sguardi.

Tigre annuì e poggiò la mano su Shè. Drago fece lo stesso e l’energia della donna si trasferì da lei ai due uomini. Così facendo, Long recuperò energie e Hu si rimpossessò del suo aspetto umano.

“E adesso? Cosa facciamo?” domandò Acquario, mentre Serpente veniva immobilizzata da Drago con i lacci che aveva fra i capelli.

“La Grecia è vicina. Proseguiamo” disse Tigre, pronto a partire.

“E Kosmos? Dov’è Kosmos?”.

“Non ne ho idea. Long, per caso tu lo hai visto?”.

“Io ero al rifugio greco, dove tutti ci stiamo radunando e non l’ho visto” rispose Drago “Voi lo avete incrociato?”.

“Sì, ma mesi fa. Ci siamo separati quando Shè ha rapito Sadalmelik. Stava venendo in Grecia”.

“E allora sarà per strada. È un Dio dopotutto, saprà cavarsela meglio di noi, no?”.

“Ne dubito…”.

“Allora che Kuruma abbia pietà di lui”.

Senza aggiungere altro, il gruppo, con Serpente tenuta stretta per un braccio, ripartì verso la meta. Decisero di continuare a piedi, nella speranza di incrociare Kosmos lungo la strada come erano d’accordo ed evitando di sprecare altra magia, che sarebbe potuta risultare utile in altre occasioni.

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Capitolo 13
*** 12 ***


XIII

 

 

“Sto iniziando ad odiare gli aeroporti!” commentò Zubeneschamali.

“Coraggio. Spero che questo sia l’ultimo in cui ci tocca andare” ridacchiò Cane.

“Aeroporto? E a che ci serve?” domandò Lepre.

“Perché? Non volete farci volare fino in Europa? Progettate un viaggio in nave?” si stupì Mek.

“Certo che vogliamo farvi volare ma vi portiamo noi. Abbiamo sufficiente energia per trasportarvi dall’altra parte dell’Oceano, schivando controlli e fuffa inutile. Una volta arrivati sull’altro continente, ci basterà prendere un treno”.

“Sicuri di avere abbastanza energia per portarci di là?” domandò Gou.

“Fino al continente, non fino in Grecia. Due ciascuno” sorrise Topo.

“Mi piace. Io voglio viaggiare con la ganza vestita da becchina” rise Mek, indicando Lepre.

Tù alzò le spalle, come a voler dire che per lei era del tutto indifferente chi avesse viaggiato con lei.

“Io propongo di dividere i due Orientali, che hanno ancora un po’ di energia magica” propose Topo.

“Basta che ci diamo una mossa, che la fine del Mondo è vicina” borbottò Buda, ormai saturo di tutti quei discorsi sul 2012.

“Allora… Mek e Gou vanno con Tù. Buda e Cavallo vengono con me e le due Bilancia con Bue, che di noi è quello con più energia al momento” ordinò Shu.

“Perfetto!” ridacchiò Mek, abbracciando Lepre che con lo incenerì con lo sguardo.

“Andiamo” annuì Niu, facendo segno alle Bilancia di avvicinarsi.

“Ci vediamo in Spagna, ragazzi. Mi raccomando! Abbiamo concordato il luogo” parlò Topo, prendendo per mano Buda e Ma.

In una massa di piccole luci, il gruppo scomparve, fra lo stupore generale dei cacciatori di alieni che erano rimasti dietro alla porta di quella stanza di albergo dove il gruppo si era ritrovato. Avevano provato a fare delle foto, ma la loro mano tramante non era riuscita a fare un granché.

 

Una volta in Spagna, la comitiva sapeva bene qual’era la mossa successiva. Erano riapparsi in una zona poco frequentata e in piena notte, evitando inutili mortali scocciatori. Dovevano raggiungere Madrid, cosa semplice essendo poco lontana, e poi prendere il treno. Non potevano sperare in un diretto, ma l’alta velocità ispirava loro abbastanza fiducia. Purtroppo per loro, una volta raggiunta la stazione di Madrid, si resero subito conto che qualcosa non andava. Perché tutti quei treni cancellati?

“Scusi” domandò Topo, in perfetto spagnolo “Che cosa succede? Perché tutti questi ritardi e annullamenti?”.

“C’è sciopero, non lo sapeva?” rispose il Madrileno, quasi con disprezzo.

“Facevamo meglio ad atterrare in Italia…” borbottò Niu.

“Là è sempre sciopero quando serve, per l’amor del cielo!” lo zittì Lepre.

“E allora cosa facciamo?” domandò Zubenelgenubi.

“Aspettiamo. Non durerà mica per sempre sto sciopero, no?” rispose Topo.

“Intanto proporrei una piccola pausa panino” si intromise Mek, indicando il McDonald.

“Vuoi ucciderci tutti?” sbottò Tù, sentendo fin lì la puzza della roba che ci veniva cucinata all’interno.

“Suvvia, io e Buda è da più di un anno che mangiamo porcherie Americane e siamo ancora vivi!”.

“Io preferirei parlare con il tuo fegato, prima di entrare là dentro. Per me, in questo momento, sta supplicando pietà e vuole suicidarsi”.

“Suvvia, friggono solo le patatine con lo stesso olio per tutto il giorno!”.

“Olio per motore!”.

“Non esagerare…”.

“Carne di topo”.

“Adesso mi pare un po’ eccessivo…”.

“E salse mortali!”.

“Catastrofista”.

“Fai a meno di mangiare, Lepre” tagliò corto Topo “Puoi permettertelo. Quel posto costa poco e i mortali hanno fame. Sarebbe meglio anche per noi mettere qualcosa nello stomaco, siamo deboli”.

“Mettere qualcosa nello stomaco mi sta bene, ma non quella cosa” protestò Tù, che preferì prendersi una fetta di pizza nel locale a fianco, con pomodorini e altre verdure “Poi non venite a piangere da me se vi viene mal di pancia!”.

 

₪₪₪

 

Kosmos riaprì gli occhi alla luce del giorno, che filtrava fra gli alberi. Si alzò, intravedendo il suo procacciatore poco distante. Si stiracchiò, quando una voce lo fece sobbalzare.

“Come ti senti?” gli chiese qualcuno.

“Io…” rifletté un attimo “Sto bene. Sto bene per davvero. Non ho più la febbre, respiro bene e non mi fa più male nulla. Ma…come avete fatto? Ho provato tante di quelle medicine che…”.

“Ho i miei metodi. Lieta di vederti star meglio”.

“Grazie”.

“Di niente, ragazzo”.

Kosmos, sentendosi di nuovo pieno di energia, era pronto a ripartire. Si girò verso la donna, che lo aveva prima salvato dai lupi e poi curato, non sapendo che cosa poter fare per lei.

“Come posso sdebitarmi? Sono uno sconosciuto e mi avete salvato la vita due volte!”.

“Se cercassi ricompense nelle buone azioni, non sarebbero più buone azioni. Vuoi ripartire subito?”.

“Sì. Devo arrivare in Grecia prima dell’inizio dell’inverno e, dalla temperatura, direi che non manca molto”.

“No, non manca molto. Ti conviene affrettarti. Segui questo sentiero, ti condurrà rapidamente alla meta, senza troppi intoppi”.

“Conoscete la strada?”.

“Sì, vuoi che ti accompagni?”.

“Lo fareste?”.

“Solo se inizi a darmi del tu”.

“Non posso pretendere che percorriate tutta questa strada. È lunga, faticosa, pericolosa e vi porterà distante da casa”.

“Credimi, ho affrontato cose ben più lunghe, faticose, pericolose di questa. E sono già ora molto distante da casa. Perciò non preoccuparti, caro”.

Kosmos la guardò. Aveva un viso giovane, non superava di certo la quarantina, nonostante fosse incorniciato da lunghi capelli bianchi, e occhi azzurri, molto luminosi. Vestiva di scuro, con un cappuccio che la copriva in parte, e stringeva un lungo bastone pieno di gingilli tintinnanti fra le mani. Al collo portava una collana piena di simboli. Guardandola, Kosmos ebbe come un flash e si appoggiò la mano sul lato della fronte.

“Cosa c’è?” domandò la donna, alzandosi dal sasso su cui si era seduta.

“Niente. Solo un po’ di mal di testa”.

“Se vuoi, possiamo andare”.

Il caduto Signore Occidentale annuì, guardando incuriosito i piccoli oggetti che la donna aveva creato con i bastoncini trovati nel bosco. Riordinando, senza motivo, lei canticchiava e Kosmos trovò che avesse una voce bellissima.

“Mi piace la canzone che cantate” commentò, sorridendole.

“Se la smetti di darmi del Lei o del Voi, te la insegnerò”.

“Va bene. Allora…io mi chiamo Kosmos. Tu come ti chiami?”.

“Chiamami Signora Seth, ok? O semplicemente Seth”.

“Seth? Benissimo…”.

Kosmos richiamò il suo procacciatore, che iniziò a seguire i due mentre si incamminavano lungo il sentiero, per la prima volta alla luce del giorno. Parlare con quella strana donna lo faceva sentire pieno di energia e voglia di proseguire, carico come non era mai stato da millenni. Non si chiese il perché, non aveva importanza, e lasciò che gli insegnasse quel brano che continuava a canticchiare. Parlava di un ragazzo che cercava un fiore argento nel prato scuro e, una volta trovato, era stato rubato da una ragazza. All’inizio il protagonista del canto era arrabbiato e disperato, ma poi la ragazza metteva quel fiore fra i capelli, che le illuminava il viso, e la rabbia spariva perché il giovane d’improvviso aveva visto cosa c’era oltre l’oggetto conteso. Kosmos sospirò. Quella storia gli ricordava molto il furto di Kuruma, la rabbia di entrambi e ora il fatto che sperava tanto di rivederla, pronto a concederle di tenere pure la Chiave e lo Scettro, se ci teneva tanto, purché non lo allontanasse più dal palazzo.

“Pensi alla tua bella, Kosmos?” sorrise Seth.

“Non è la mia bella. È più una collega di lavoro, a cui io non ho mai portato rispetto. Del resto, è stata una cosa reciproca. Ma ora…”.

“Ora stai tornando da lei”.

“Lo spero. Non so se mi rivorrà accanto”.

“E perché non dovrebbe?”.

“Perché ho fatto e detto delle cose orribili”.

“Anch’io, tanti anni fa, ho litigato con una persona e temevo di non poterla più rivedere. Mi aveva allontanato, con tutte le sue buone ragioni. Quella volta, però, ho imparato una cosa: se fra due persone c’è un legame, prima o poi si riavvicineranno. Sono certa che lei ora sta pensando a te. Siete entrambi pentiti e vi rivedrete”.

“Come puoi dirlo? Non immagini quanto stronzo possa essere”.

“Mai come la persona che ho in mente io. Puoi essere stronzo quanto vuoi ma, se le parlerai sinceramente, sono sicura che ti perdonerà”.

“Perdonarmi?! Voleva uccidermi!”.

“Ucciderti…che parola grossa!”.

“Voleva uccidermi!”.

“E perché non lo ha fatto?”.

Kosmos rimase in silenzio. In effetti, si disse, lui era solo un mortale mentre Kuruma era una Dea. Avrebbe potuto distruggerlo in un istante, ma non l’aveva fatto. Come mai?

“Kosmos, non puoi sfuggire al destino. Nessuno può. Per quanto potere un individuo possa avere, ci sono delle cose che accadono e basta”.

“E se lei non mi rivolesse vicino?”.

“Spetterà a te convincerla”.

“E se non ci riesco?”.

“Ci sono tre miliardi e mezzo di donne su questo pianeta, se lei non ti rivuole allora guardati attorno”.

“Ma…io e Kuruma non siamo amanti! Non è una donna che mi serve…”.

“Sei sicuro?”.

Kosmos rimase sconcertato dalla capacità di quella femmina di farlo rimanere senza parole. Non sapeva cos’altro dire e quindi si limitò a storcere il naso.

 

₪₪₪

 

“Rukbat! Posa il fucile!” quasi gridò Astrea.

Sagittario e Scorpione stavano uno di fronte all’altro fissandosi, puntandosi a vicenda un’arma in faccia, senza dire una parola.

“Ho detto: posa quel fucile!” insistette Vergine.

“Ha iniziato lui” protestò Rukbat, senza abbassare l’arma.

“Non mi interessa chi ha iniziato. Obbedisci”.

Sagittario, sospirando, abbassò il Barrett e lo stesso fece Scorpione con il Remington.

“Possibile che ancora vogliate uccidervi? Dopo tutto quello che abbiamo passato?” domandò Astrea, sconcertata.

“È una questione che dubito si risolverà mai” commentò Antares.

“Beh, vedete invece di risolverla, se non volete che a risolverla siamo noialtri” sbottò Vergine, alludendo agli altri segni zodiacali presenti.

“Sì! Vi leghiamo come Gallo!” ridacchiò Hamal.

“Usa le tue energie in modo più costruttivo, Rukbat” aggiunse Vergine.

“Come per esempio?” domandò lui, storcendo la bocca.

“Tipo spaccare la legna per stasera”.

Sagittario sospirò. Guardò gli alberi poco lontani e decise che dopotutto non gli dispiaceva fare casino con la motosega che c’era al rifugio.

“Ti fai comandare a bacchetta da quella femmina. Lodevole” ridacchiò Antares, poco prima di essere colpito da un cartone in piena faccia con il calcio del fucile di Rukbat.

“Dicevi?” sibilò questi.

“Ragazzi! Basta!” tornò a riprenderli Vergine “Rukbat, fila nel bosco e tu Antares afferra quei secchi e vola a prendere l’acqua, prima che faccia buio. Muovete quelle chiappe, scansafatiche!”.

“Che pigna in culo che sei” protestò Scorpione, prima di ricevere un altro colpo in faccia, stavolta dal manico di scopa che stringeva Adhafera.

“Dicevi?” ridacchiò lei e lui gemette, sconfitto.

“Stanotte è in arrivo il maltempo, dobbiamo organizzarci al meglio” iniziò Aldebaran “Dividiamoci i compiti e anche questa sera fredda passerà senza problemi. Deneb, tu darai una mano a Rukbat. Lui taglierà e tu la porterai, sai che con quel ginocchio non può spostare grossi pesi”.

“Cosa?! Io vicino al pazzo psicopatico con la motosega?! Cosa ti sei fumato?!” protestò Capricorno.

“Niente proteste. Al Risha ed Hamal andranno sul tetto a sistemarlo. Con il vento che si sta alzando, è meglio rafforzarlo. Zhu e Adhafera mi aiuteranno con le travi attorno alla casa, non si può pretendere di non avere spifferi ma almeno non rabbrividiremo tutta la notte. Astrea e Acubens si occuperanno degli interni, sistemando le finestre e le coperte. Yang preparerà la cena e Ji, caro prigioniero, canta quanto sta per calare il sole”.

“Fottiti” si sentì da parte di Gallo ma nessun’altro protestò, andando ognuno a svolgere il compito assegnato.

Intanto nel cielo si accalcavano sempre più grosse nuvole nere e il vento si alzava. Si avvicinava dicembre e pareva che il Mondo tentasse di farlo notare in ogni modo.

 

₪₪₪

 

“Tempo di merda!” protestò Long, coprendosi il viso dal forte vento e continuando a tenere stretta Serpente, che non si dimenava un granché con il freddo.

“Puoi dirlo” confermò Hu, per mano a Sadalmelik “Ma non manca molto”.

“Non vedo l’ora di tornare a casa, dove Kuruma ci attenderà tutta felice, il palazzo sarà bello comodo, senza vento, pioggia, neve o altro, e potrò finalmente tornare a stendermi nel mio bel letto e fare quello che mi pare” parlò Drago.

Tigre non disse nulla e Long intuì che fosse per il fatto che, una volta tornato a palazzo, sarebbe tornato in forma animale e Acquario non avrebbe più di certo potuto tenerle per mano.

“Dici che arriveremo per tempo?” domandò Sadalmelik.

“Ma certo, guarda! Quel cartello indica che mancano pochi chilometri al confine con la Grecia” la rassicurò Hu.

“Saremo gli ultimi, secondo voi?”.

“Lo scopriremo. Io son pronto a fare scommesse” sorrise Drago.

“Oh, sì! Pure io. Scommetto che gli ultimi ad arrivare saranno Cavallo ed i suoi” esclamò Tigre.

“Ci sto! Io invece dico che saremo proprio noi gli ultimi, visto che siamo stupidi ed andiamo a piedi!” rispose Long.

“Bene. Cosa scommettiamo?”.

“Il riordino del salone principale dopo la grande festa che faremo una volta tornati a casa. Chi perde, dovrà farlo tutto da solo”.

“Qua la mano! E tu, Sadalmelik, scommetti?”.

“Preferirei di no”.

“E la nostra cara Serpente che dice? Lei potrebbe scommettere su cosa le farà Kuruma quando torneremo a palazzo…”.

“Se tornerete a palazzo…” precisò Shè, ghignando e beccandosi uno scappellotto sulla testa da parte di Drago, che l’accusò di portare sfiga.

“E Kosmos?” mormorò Acquario.

“Non preoccuparti per lui. Se la sa cavare” tentò di calmarla Tigre.

“Sei sicuro? A me è sembrato un po’ tanto impedito come mortale” rise Serpente.

“Davvero?” si incuriosì Long.

“Sì” confermò Shè “Sembrava un bambino. Tutto impaurito dal Mondo. Direi patetico…”.

“Tu sei patetica!” sbottò Sadalmelik, anche se gli altri della compagnia ammettevano in silenzio che Shè aveva ragione.

“Vedrai che torneremo tutti a palazzo, il tuo capo compreso” parlò Tigre, quasi sorridendo vedendo quanto si era offesa Acquario “È evidente che lo conosci più di noi, perciò immagino che tu abbia molta più fiducia in lui di quanta non ne possiamo avere noi”.

“Tu credi che lui non possa farcela?” si allarmò Sadalmelik.

“Mai detta una cosa del genere. Dico solo che la Terra non fa per lui”.

“Ma è stato lui a crearla!”.

“E con questo? Ha anche creato i buchi neri, non è che va a farci le jinkane nel mezzo!”.

“Veramente sì…”.

“Oh…che strano uomo”.

“Lui è il mio capo e lo sarà ancora. Non mi piacerebbe l’idea di dover essere comandata da Kuruma”.

“Perché?”.

“Non so. Mi mette a disagio…”.

“E poi Kosmos è carino, ammettilo”.

“Sei geloso di uno di 15miliardi di anni, per caso?”.

“Dico solo che quando sarò tornato una tigre, lui potrebbe…”.

“Potrebbe niente! Che ti salta in mente?!”.

Hu e Sadalmelik si fissarono qualche istante, prima che Tigre chinasse la testa.

“Scusami” mormorò “È che l’idea che tu mi vedrai come una specie di grosso micio per la prossima eternità mi mette a disagio”.

“Non ti vedrò mai come un grosso micio! Tu sei Hu, colui che mi ha salvata e che io amo…per la prossima eternità”.

“Quasi quasi mi commuovo” ghignò Drago, sarcastico.

 

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Capitolo 14
*** 13 ***


XIV

 

“Ben arrivati!” disse Hamal, quando il gruppo raggiunse il rifugio.

Drago, Tigre, Acquario e Serpente avevano incrociato Bilancia, Gemelli, Cane, Cavallo, Bue, Topo e Lepre lungo la strada ed erano arrivati assieme al rifugio, annullando le scommesse di Long e Hu.

“Ci siamo tutti, adesso?” domandò Shu.

“Manca Kosmos” ripose Deneb.

“Ma come? Non è arrivato?” mormorò Sadalmelik “Lo dobbiamo aspettare…”.

“Non sappiamo nemmeno se è ancora in vita! Perché aspettarlo?” protestò Zhu.

“E Scimmia? Nemmeno lei c’è” commentò Tigre.

“Lei ha cercato di uccidermi. Può anche restare qui” sbottò Hamal.

“Nessuno resterà qui! Mancano solo Hòu e Kosmos?” parlò Ma.

Ci furono diversi cenni d’assenso.

“E Acubens dov’è?” insistette Cavallo.

“Lei è arrivata già da un po’ ma adesso è a fare un giro, rientrerà fra poco, il sole sta per tramontare” rispose Aldebaran.

“Beh, possiamo concedere ancora qualche giorno ai due mancanti prima di chiamare Kuruma, ma non più di qualche giorno…” concluse Topo “...e loro chi sono?” aggiunse, dopo aver visto le ex coinquiline di Astrea.

“Amiche nostre” sorrise Capricorno.

“Benissimo, e ora…” iniziò Antares, ma fu interrotto dal grido di Acubens.

 

₪₪₪

 

“Siamo quasi arrivati!” esclamò Kosmos, con una certa soddisfazione “Mi sento pieno di energia. Ho solo un po’ di mal di testa…ma sono sicuro che passerà appena sarò a palazzo. Tutto merito tuo, Seth. Non finirò mai di ringraziarti!”.

“Dovere” si limitò a dire lei, sorridendo nel vederlo saltellare lungo il sentiero.

Canticchiando, i due ormai camminavano per il monte Olimpo.

“Vedrai, Seth, che faccia faranno tutti quando mi vedranno arrivare!”.

“Posso solo immaginarla”.

“Ti farò conoscere coloro che…” si interruppe Kosmos, sentendo un grido.

“Acubens!” esclamò, mettendosi a correre in direzione della voce.

La vide accanto al fiume, avvolta da un asciugamano bianco candido, che fissava un punto fra gli alberi con aria terrorizzata. Kosmos attese qualche istante, prima di intravedere un paio di occhi rossi brillare nella penombra. Subito corse a frapporsi fra Cancro e quegli occhi.

“Stai lontano da lei!” esclamò, noncurante del fatto che molto probabilmente Acubens non lo aveva riconosciuto con i capelli bianchi e l’abito umano.

Dal buio un uomo si mostrò ai due, serio e per nulla spaventato dall’aria minacciosa di Kosmos.

“Tu! Tu sei l’uomo del sogno!” disse ancora il caduto Signore Occidentale.

L’uomo sorrise, senza parlare. Aveva lunghissimi capelli neri, come nero era il suo lungo abito, con dettagli d’argento.

“Come facevi a sapere del treno?”.

Occhi rossi continuò a non rispondere.

“Ci sono solo due modi per sapere una cosa del genere: conoscere chi sta per compiere un gesto simile o essere proprio colui che lo mette in atto. Tu in quale delle due categorie ti inserisci? Sei stato tu a far deragliare il treno?”.

“Perché avrei dovuto avvertirti, sciocco?” sbottò l’uomo, con voce profonda ed inquietante.

Kosmos non rispose a quella domanda.

“Ti ha mandato Kuruma? Non sei di questo pianeta, non con quello sguardo. Da quale sistema Orientale provieni?”.

“Hai ragione, non sono un terrestre, ma non mi ha mandato Kuruma qui”.

“Quindi ci sei venuto fin qui da solo ad uccidermi…”.

“Errato. Sei ancora vivo, mi sembra…”.

“Allora qual è il tuo scopo? Sei una specie di spia doppiogiochista?”.

“Ma come ti vengono certe idee, Kosmos?”.

“Come sai il mio nome?”.

“Piantala di urlare. Mi irriti”.

 

“Cos’è successo, Acubens?” domandò Rukbat, arrivando di corsa seguito dalla parte del gruppo più veloce.

Cancro si limitò ad indicare l’uomo dagli occhi rossi e l’Occidentale.

“E quelli chi sono? Scott degli x-man e Lady Oscar?” esclamò Sagittario, alludendo agli occhi rossi del primo e ai lunghi capelli molto mossi del secondo.

“Lady Oscar?!” esclamò Kosmos e Rukbat mormorò uno “scusi capo” imbarazzato.

 

“Sono arrivati i tuoi altri amichetti” commentò l’uomo in nero.

“Non osare pensare di fare loro del male!” minacciò Kosmos, spalancando le braccia nel vano tentativo di coprire l’intera compagnia.

“Da quando in qua il capo fa cose del genere?” sussurrò Rukbat.

“Ti ho sentito!” gli sibilò l’Occidentale.

“Hai intenzione di restare in quella posa ancora a lungo?” riprese l’uomo dagli occhi rossi “Spaventi solo i passeri…”.

“Tu non sai con chi hai a che fare, stupido”.

“Credo che la cosa sia reciproca. E non ti è stato insegnato che si porta rispetto alle persone con più anni di te?”.

“Ah, bello mio, dubito ampliamente che tu abbia più anni di me!” ghignò Kosmos.

“E come ne puoi essere così sicuro?”.

“Perché nessuno è più vecchio di me!”.

L’uomo scoppiò a ridere, una risata che ne agitò i capelli in modo innaturale e fece accucciare la compagnia dietro l’Occidentale.

“Che carino che sei, quasi tenero, con tutte le tue belle certezze davanti a te che ti coprono gli occhi come tante bende sovrapposte e multicolore!” commentò, una volta finito di ridere.

 

“Sparagli” mormorò Hamal, rivolta a Rukbat che stringeva il fucile fra le mani.

Sagittario annuì e, con la solita mira infallibile, mirò alla fronte. L’uomo si limitò a girare gli occhi ed il proiettile si disintegrò.

“Che razza di fucile di merda hai?!” sbottò Antares.

“Non è il fucile! Questo funziona benissimo!”.

“Allora sono i proiettili che fanno cagare! Hai visto che è successo?”.

“Non me lo so spiegare…”.

 

“Non osare nemmeno guardarli!” sibilò Kosmos, notando che l’attenzione di chi aveva di fronte si concentrava sulla compagnia di costellazioni.

Gli occhi rossi brillarono, incredibilmente più di quanto non avessero fatto fino a quel momento.

“Non lo fare!” gridò una donna.

“Seth!” esclamò Kosmos, allarmato.

“Alfa” mormorò lo sconosciuto, limitandosi ad alzare un sopracciglio.

 

“Che mi sono perso?” ansimò Deneb Algiedi, arrivando alle spalle di Sagittario ed accucciandosi con il resto del gruppo “Chi sono questi tre?”.

“Quello vestito da pinguino è Kosmos. Gli altri due, non ne ho idea. Lei mi pare si chiami Alfa”.

“E l’altro?”.

“Boh…Romeo?”.

“Di battute stupide te ne ho sentite dire un sacco ma questa, credimi, è la peggiore!”.

“Ne dubito…ad ogni modo, quello distrugge i proiettili”.

“Fa cosa?!”.

“C’è un motivo per cui siamo tutti accucciati per terra, non ti pare?!”.

 

“Seth? Che nomignolo interessante” commentò l’uomo.

“Non eri tu quello che diceva che non si doveva interferire?” sbottò la donna.

“Esatto, mia cara. Io non ho interferito con la vita di Kosmos. Ho salvato la portatrice del prossimo scettro delle Ere”.

“Lo hai salvato dal deragliamento del treno!”.

“E tu lo hai guarito”.

“Come sapete dello scettro delle Ere?” domandò l’Occidentale.

“Zitto, quando i grandi parlano!” sibilò l’uomo e Kosmos si ritrovò senza voce.

“Piantala di fare il bambino!” sbottò la donna, e con un suo gesto il muto tornò a parlare.

I due iniziarono ad insultarsi e Kosmos, notando che non avevano occhi che per chi avevano di fronte, si voltò verso le costellazioni, facendogli segno di andarsene.

“Via, allontaniamoci adesso che possiamo!” disse.

“Ma…” protestò Rukbat.

“Cos’è che non capisci, equino? Vuoi per caso un calcio nel culo per muoverti?!”.

“Nossignore!”.

 

Una volta giunti al rifugio, che Kosmos fissò come chi fissa un modellino semidistrutto e poco riconoscibile, i presenti iniziarono a raccontare l’accaduto a quelli rimasti nell’edificio, scatenando reazioni diverse ma in genere d’allarme.

“È bello rivederti, Kosmos” commentò Tigre, salutandolo con una stretta di mano.

“Lo stesso per me, anche se avevi detto che mi venivi a prendere…”.

Hu arrossì leggermente e girò la testa.

“Capo…” iniziò Sagittario, imbarazzato “…mi spiace per prima, non era mia intenzione offendere Solo che non l’ho riconosciuta senza i capelli blu, l’armatura, il megacerchio con le costellazioni e tutto il resto…”.

“Tranquillo, sottoposto, nemmeno io a momenti ti riconoscevo con quei capelli imbarazzanti e il cappotto da film horror”.

“Touché”.

“Ci siamo tutti?” riprese Kosmos, sbottonandosi la camicia iniziando a sentire un gran caldo.

“Manca solo Hòu” rispose Topo.

“Chi?!”.

“Scimmia”.

“Ah…e come mai?”.

“Perché ha tentato di uccidermi” rispose Ariete.

“Ok, perfetto, direi che è compito di Kuruma andarsela a riprendere!”.

“Non avete freddo? È dicembre…” rabbrividì Acubens.

“Tu facevi il bagno nel fiume!” sbottò l’Occidentale.

“Non abbiamo alternative. Ma Voi la camicia potete tenervela stretta”.

“Ho caldo. Mi manca la temperatura dell’Universo” tagliò corto Kosmos, offrendole la camicia se aveva tanto bisogno di scaldarsi.

“E vi muovete sospeso da terra…” aggiunse Hamal.

“Ah sì? Cioè…no!! Non va bene!”.

“Perché? Vuol dire che Vi sta tornando la magia” non capì Ariete.

“Infatti, e questo non va bene! Senza la mia armatura io non sono in grado di controllarmi!”.

“Allora torniamo ai piani alti” sorrise Topo.

Gli Orientali si guardarono ad annuirono.

“Chiameremo Kuruma e tutto si risolverà”.

Concentrando la loro energia, chiamarono la loro Signora. Attesero qualche istante, ma non ottennero nessuna risposta.

“Beh?!” sbottò Kosmos “Che succede?! Problemi sulla linea?!”.

“Non lo so” gemette Topo, non aspettandosi una cosa del genere.

Il caduto Signore Occidentale respirò a fondo, passandosi una mano fra i capelli.

“Forse ho un’idea” mormorò, guardando fuori dalla finestra “Squeak, vieni qui!” chiamò il procacciatore, provocando espressioni assurde per l’assurdo nome dell’assurdo animale.

La creatura volò e, entrando nel rifugio, si appollaiò sulla spalla del suo padrone.

“Vola da Kuruma e dalle il nostro messaggio” gli disse, prima di farlo volare di nuovo verso il palazzo al centro del cielo “Forse la vostra magia non è sufficiente per avvertirla”.

“Può essere…” mormorò Yang, poco convinta.

“E se le fosse successo qualcosa?” commentò Zubenelgenubi.

“Io non so chi sei, tanto per cominciare, e poi cosa potrebbe esserle successo? Non essere ridicola…” la interruppe Kosmos.

“E con l’x-man come la mettiamo?” domandò Sagittario.

“Dormiamoci su” propose Capricorno.

“Io sono d’accordo. Dopo il viaggio siamo esauste!” gemettero le Bilancia.

 

Il giorno dopo, il procacciatore riapparve, in compagnia della creatura di Kuruma.

“Hei! Guarda che io ieri non ti ho ordinato "vai a prendere la tua amichetta" ma "avvisa Kuruma"” protestò Kosmos, fissando entrambi “Che ci fa la pennuta qui? Sempre che sia una femmina…non ho mai verificato…”.

Il procacciatore iniziò ad emettere degli strani versi, a cui il padrone rispondeva a parole.

“Ma tu sai proprio tutte le lingue” commentò, affascinata, Alìs, mescolando la tazza di tè che aveva davanti al viso.

“Le ho create io” si limitò a rispondere il caduto Occidentale.

“Davvero? E come mai ne hai create così tante?”.

“Mi divertiva…”.

Lui si sforzava di ignorarla, trovandola anche piuttosto irritante, e lei insisteva nel ronzargli attorno in cerca di uno sguardo d’attenzione.

“Cosa vuoi?” si arrese, ad un certo punto, Kosmos, probabilmente ricordando che la lite con Kuruma era nata dal fatto che lui la ignorava.

“Voglio solo dirti che penso che tu sia bellissimo”.

“Buon per te” fu la risposta, mentre il procacciatore continuava a raccontare cose chiare solamente a pochi nell’universo.

Alìs sospirò, con il poco cervello rimasto avvolto da un’ovatta rosa a cuoricini, e seguì Kosmos con lo sguardo, mentre questi cambiava stanza per parlare tranquillamente con la sua creatura.

“Le è successo qualcosa? Per questo non risponde alle chiamate dei suoi sottoposti?”.

Al senso d’assenso, l’Occidentale si morse il labbro. Che poteva fare? Senza la Chiave del Cielo non era in grado di tornare a casa ed i due procacciatori non potevano toccare quell’oggetto a causa dell’eccessiva carica magica in esso contenuto.

“Problemi, capo?” domandò Rukbat, con mezzo caffè nella tazzina ancora da sorseggiare.

Kosmos non rispose, si limitò a sedersi a terra, schiena contro il muro, sospirando.

“Cosa c’è che non và?” insistette Sagittario.

“Niente”.

“Non siete bravo a raccontare balle, ve lo dice un vero esperto in materia”.

“Lo so”.

“Allora…cosa c’è?”

“Tu sei bravo a torturare la gente?”.

“Domanda strana ma…devo ammettere che me la cavo. Perché?”.

“Promettimi che, nel caso fosse successo qualcosa di grave a Kuruma, tu mi affliggerai le più tremende torture che ti vengono in mente. Le più atroci, dolorose, estenuanti e terribili che conosci. Inventane di più sadiche solo per me, se necessario”.

Rukbat fissò il suo capo come farebbe una qualsiasi creatura nel vedersi spuntare di colpo un fungo dal palmo della mano.

“Ok” rispose, allungando la prima lettera “Non conoscevo questo suo lato masochistico, Signore”.

“Non è masochistico! È giusto. Se a lei è successo qualcosa di male per colpa  mia, allora voglio che sia tu ad occuparti di me. So per certo che l’empatia non rientra fra le tue qualità e quindi sono sicuro che le tue torture andranno avanti finché sarà necessario”.

“Non sono l’unico, però, con simili caratteristiche…”.

“So anche questo. Sarà la prima volta in cui tu ed Antares farete qualcosa di buono assieme”.

“Buono?!”.

“Quello che vuoi che sia”.

Rukbat andò in cucina, quando si accorse che Kosmos non voleva più parlare. Fissò i suoi colleghi, che risposero a quello sguardo.

“Ragazzi…” iniziò Sagittario, a bassa voce, sicuro che comunque il suo Signore lo avrebbe sentito “…ce lo siamo giocato! La vita da mortale lo ha svalvolato del tutto!”.

 

Al calar del buio, avendo perduto la necessità di dormire grazie al graduale ritorno della sua magia, Kosmos volle provare ad uscire all’aperto. Svicolò abilmente dalle domande idiote delle coinquiline di Astrea che volevano sapere come si era fatto tutti quei piercing, domanda a cui, fra l’altro, non aveva risposta, e come poteva salire su un aereo o fare i raggi con tutta quella ferraglia addosso. Ignorando le frasi tipo “Quanto sei carino” e “Non dirmi che c’è una signora Kosmos da qualche parte…” chiuse la porta del rifugio dietro di sé e si allontanò.

“Non riuscirete mai a tornare in cielo così” tuonò una voce, nel buio.

“Tu cosa ne sai?” rispose il caduto Signore.

“Perché non dovrei saperlo? E perché tu sei così sicuro di riuscire a tornare a casa?”.

“E tu perché continui a rispondere alle mie domande con altre domande?”.

“Perché non dovrei?”.

“Sei irritante!”.

“Pure tu”.

L’uomo era appollaiato su un albero e guardava giù, mantenendo sempre un tono di voce ed un atteggiamento calmo e distaccato.

“Chi sei?” insistette Kosmos.

“Credi abbia davvero così tanta importanza?”.

“Smettila di rispondere con un’altra domanda!”.

Lo sconosciuto ridacchiò, mentre Kosmos quasi ringhiava per il fastidio.

“Come sai la lingua che stai usando in questo momento?” ricominciò a chiedere il caduto.

“E tu perché continui a fare domande, se sai che rispondo irritantemente con un’altra domanda?” ghignò di gusto l’uomo.

“Non ho tempo da perdere, sai?! Se sai come farci tornare in cielo, dimmelo, altrimenti sparisci”.

Lo sconosciuto sorrise, quasi con tenerezza, e scese dall’albero. L’Occidentale non si mosse ma strinse i pugni, lanciando un chiaro segnale a chi aveva ora di fronte.

“Vuoi tornare a casa?” domandò l’uomo.

“Sì. Una persona ha bisogno di me ed io non posso perdere ancora tempo qui. Sai come tornare? Parla! Altrimenti chiudi la bocca e non farti più vedere”.

“Mi piace il tuo atteggiamento, mi ricorda tanto quello che avevo io da giovane”.

“Piantiamola di discutere di stronzate. Dimmi se sai come tornare in cielo”.

“Io? Io so come posso tornare in cielo. Per quanto riguarda te, assieme a tutti i tuoi amichetti, la situazione è diversa, un po’ più complicata”.

“Ma è possibile, anche senza l’aiuto di Kuruma e la Chiave del Cielo?”.

“Certo”.

“E come si fa?”.

“Non posso dirtelo io”.

“E chi può dirmelo?”.

“Nessuno”.

Kosmos si trattenne a fatica dal tirargli un pugno in faccia e si sforzò di riprendere a respirare in modo regolare.

“Mi stai prendendo in giro, vero? Sei stato mandato qui per farmi impazzire, ne sono sicuro! Per aiutarmi no di certo, dato che ho un mal di testa che mi fa venir voglia di spararmi in fronte e tu insisti a dirmi cose senza senso!”.

“Kosmos, io non sono stato mandato qui. Io sono qui perché volevo esserci, e dovevo esserci, come tu ci sarai per chi affronterà tutto questo dopo di te”.

“Che stai dicendo?”.

“Forse dobbiamo dirglielo, spiegargli come si torna in cielo” parlò una voce femminile.

“No, Alfa” rispose l’uomo “Deve cavarsela da solo, lo sai che dev’essere così”.

“Ma…forse lui non…”.

“Smettila di vederlo come un bambino! Non lo è! È un uomo, ed è tempo che lo dimostri!”.

Kosmos guardava entrambi con aria smarrita, sempre più confuso da quel tremendo mal di testa che iniziava ad essere insopportabile. Sentiva il cuore pulsare fra le tempie e la vista per un attimo gli si appannò, con un capogiro. Cadde sulle ginocchia senza nemmeno accorgersene. Alfa, Seth, fece uno scatto per soccorrerlo ma l’uomo la bloccò, scuotendo la testa. Sentendo urlare il loro capo, le costellazioni aprirono la porta del rifugio ma non riuscirono ad uscirne, spaventati dall’insieme di luci e scintille che videro nell’aria.

 

“Kosmos. Mi senti? Alzati” parlò dolcemente Alfa.

Lui aprì gli occhi e vide colei che lui chiamava Seth davanti a sé. Era sfuocata, perché al momento lui vedeva tutto sfuocato.

“Che rapporti hai con quell’uomo?” mormorò, cercando di rialzarsi.

“Lui è mio marito, il padre dei miei figli, e mio fratello”.

Kosmos tirò fuori la lingua e si girò su un fianco, incespicando e ondeggiando confuso.

“Ti sei fatto male?” domandò lei, apprensiva.

“Signora, la prego! Mi tolga le mani di dosso! Non sono mica un’infante, e che diamine!”.

“Che diamine?!”.

“E che cazzo!”.

“Già meglio…”.

Non fu lui ad alzarsi, ma la magia stessa lo sollevò e lo tenne sospeso. Lui chiuse gli occhi e lasciò che questa fluisse lentamente, circondandolo. Era una bella sensazione e si rendeva conto di riuscire a controllarla. Le sue vesti mortali scomparvero, anche perché lui riprese le sue dimensioni solite, eccessive per un essere umano, e furono sostituite da altre. Kosmos, rimanendo a braccia spalancate e lo sguardo rivolto verso l’alto, sorrise per il solletico. Delle linee dorate gli si stavano disegnando sul petto e sulla fronte, contornando le sferette di metallo che aveva sul corpo. I capelli, divenuti bianchi con la caduta, ripresero il loro solito colore, azzurro scuro ed intenso, quasi blu, mentre gli occhi chiari ripresero a brillare. La corona a fili sottili, che portava a palazzo, riprese il suo posto. Sulle spalle riapparve il suo solito mantello nero ma non più sostenuto dall’armatura, bensì da due coprispalla dorati e molto elaborati, uniti da un ampio collare decorato a mosaico color del cielo al cui centro spiccava il cerchio che segnava il segno zodiacale dell’Era corrente ed ai cui lati partivano due coppie di catene argento e quattro fili d’oro a circondare il busto scoperto del Signore del Cielo Occidentale. I fili dorati ne decorarono anche le braccia fino ai polsini, che coprivano anche il dorso della mano e avevano lo stesso decoro e colore dei coprispalla. Un’ampia cintura molto elaborata, riprendente i motivi che ne reggevano il mantello, separava il petto quasi del tutto scoperto da un elaborato intreccio di veli, che rendeva difficile capire se formassero un paio di pantaloni o una gonna. Di colore blu scuro, con brillanti dettagli in argento, facevano solo intravedere i piedi scalzi, con i fili dorati che li decoravano. Atterrò sulle punte, delicato come se non avesse peso. Sorrise. Ora le sue labbra erano di nuovo blu, come era abituato, e perfino la sua pelle aveva acquisito un leggero colorito azzurino. Dietro al suo capo era riapparso il cerchio con i segni zodiacali, sospeso a mezz’aria. Ora, però, ad indicare il segno corrente, non vi era più lo spuntone dell’armatura ma il motivo del suo insistente mal di testa: una specie di corno argento di cui però Kosmos non si accorse subito.

Girandosi verso Alfa ed Occhi Rossi, vide che anche loro erano cambiati. Erano cresciuti entrambi. Lui era divenuto quasi del tutto nero, come nero era il suo vestito con tutti i dettagli argento. Aveva un ampio ed alto colletto, con bordo brillante e una cintura grigio-argentata stretta in vita. Indossava i guanti, sempre d’argento e alle sue spalle era apparso un cerchio con quattordici simboli, che Kosmos ammise di non conoscere, segnati dal corno di lui, rosso ed attorcigliato. Anche lei aveva un cerchio alle spalle, pure quello con simboli sconosciuti, segnati con due corna argentate che si piegavano fino quasi a congiungersi. Alfa era vestita di bianco, con tanti dettagli in oro, e magnifici capelli molto mossi dello stesso colore di quelli di Kosmos, come dello stesso colore dell’Occidentale aveva gli occhi. inoltre, la sua pelle era candida e le labbra blu.

“Ora hai capito chi hai davanti?” mormorò lei.

Kosmos guardò entrambi piuttosto confuso, mentre Alfa lo abbracciava. Ora era più piccola di lui, gli arrivava alla spalla. Girò solo gli occhi verso Occhi Rossi, ancora di due spanne più alto di lui. Kosmos non si lasciò intimorire dall’altezza di quell’essere e gli sorrise. L’uomo rispose, pur mantenendo le braccia incrociate.

“Come ti senti adesso, piccolo mio?” riprese Alfa, accarezzando il volto dell’Occidentale.

“Piccolo mio?! Non esageriamo…”.

“Sei piccolo. Noi abbiamo il doppio della tua età!” ridacchiò l’uomo.

“Quindi voi due siete…” parlò Kosmos, lentamente e senza azzardare ipotesi.

“La tua mamma ed il tuo papà, tesorino mio” sorrise Alfa.

“Signora…” iniziò Kosmos, avvolgendosi in parte dal mantello per sfuggire dalla stretta della donna “…pur essendo mia madre, lo posso dedurre dai tratti somatici in comune, non rientra fra le mie priorità e fra i miei interessi farmi chiamare "piccolo mio"”.

“Giusto, donna! Kosmos è un uomo adesso, dico bene?” esclamò Occhi Rossi, dandogli una poderosa pacca sulla spalla.

“Già” confermò l’Occidentale “E ora mi è chiaro da chi ho preso il fatto di essere un grandissimo stronzo!”.

“Grazie” ghignò l’uomo in nero, soddisfatto.

“Tu ti chiami Alfa, ok. E tu? "Tizio dagli occhi rossi" è un po’ lungo…”.

“Io sono Omega. Ma anche T.D.O.R. può andare”.

“T.D.O.R.?!”.

“Tizio Dagli Occhi Rossi”.

Kosmos si mise a ridere. Forse era tutto un sogno, si disse.

“Quindi…quello creato da me non è l’unico universo…” iniziò a riflettere “Quelli che avete sulle spalle sono indicatori di costellazioni e segni del vostro cielo”.

“Esatto. E frena un momento con le parole "creato da me", ragazzo” specificò il padre “Tu lo hai modellato ma la materia prima del tuo universo è stata creata da me, come quella del mio universo mi è stata data da mio padre e via dicendo”.

“Ma quanti universi ci sono?!”.

“Boh. Non ho mai avuto troppo tempo libero per stare a contarli”.

“E il primo come è iniziato? Insomma…chi ha fornito la materia prima?”.

“Tu fai troppe domande. Ti do un consiglio: smettila, e vivrai molto meglio!”.

“Agli ordini…papà”.

“Bravo il mio ragazzo…”.

“Quindi io ho anche dei nonni, dei bisnonni…”.

“E dei prozii. C’è stata una volta in cui sono nate due coppie di gemelli, che han dato vita a due universi distinti contemporaneamente. Ma è un fatto accaduto una volta soltanto”.

“Wow. E un giorno potrò conoscerli?”.

“Vuoi una riunione di famiglia? Beh…si potrebbe fare quando nasceranno i tuoi figli”.

“I miei figli?!”.

“Certo. Funziona così: nascono due gemelli, un maschio ed una femmina, fanno casino, evolvono e poi fanno altri due gemelli, che assumono il comando di un altro universo. Eccetera. Chiaro?”.

“Non molto…”.

“Tu e Kuruma siete gemelli, figli nostri, ed un giorno avrete dei figli fra di voi, due gemelli, un maschio ed una femmina, a cui affiderete un nuovo universo di cui tu fornirai la materia”.

“Io e Kuruma siamo fratelli?!”.

“Sì, e avrete due figli che si odieranno a morte fino al punto di andare vicini alla fine del proprio universo. Se superano la cosa, si ritroveranno e il cerchio si ripeterà. Altrimenti fine dei giochi”.

“E questo come lo sai?”.

“Perché è così da tempo infinito. Fra 15miliardi di anni, la storia si ripeterà e tu dovrai fare il discorso che sto io facendo a te a tuo figlio. E Kuruma lo stesso”.

“Kuruma?! Ma io sto qui a discutere mentre lei ha bisogno di me! Devo tornare in cielo, ditemi come si fa!”.

“Tu lo sai già. Pensaci”.

“Non mi serve la Chiave del Cielo?”.

“Quello è solo un simbolo. La tua energia non ha più bisogno di essere guidata da un’armatura o da degli oggetti. Ora sei tu la Chiave del Cielo”.

Kosmos annuì, poco convinto. Si girò verso il rifugio, dove le costellazioni e gli Orientali lo fissavano senza capire. Un violento scossone fece sobbalzare e quasi cadere tutti quanti.

“Cosa è stato?” esclamò Kosmos.

“Il cielo si sta fermando” spiegò Omega.

“Devo tornare a casa…”.

“È ora. Sai che giorno è oggi?”.

L’Occidentale scosse la testa.

“Oggi, figlio mio, è il 21 dicembre 2012”.

 

“Venite fuori. Si torna a casa” disse il caduto Signore, capendo qual era la soluzione.

Il cerchio delle Ere che portava sul petto segnava l’Acquario ed era ora che Acquario andasse a prendere il suo posto, così come gli altri.

I dodici segni uscirono, alcuni timorosi ed altri con un sorriso da parte a parte, e si misero in cerchio attorno al loro padrone. Alfa ed Omega, quasi abbracciati, si distanziarono leggermente, osservando la scena da una distanza tale da non dare fastidio. Gli Orientali si misero alle spalle di coloro che avevano aiutato a giungere fino a lì, o che avevano tentato di uccidere.

“E Scimmia?” domandò Shu.

“Scimmia è fra gli alberi, è sempre stata lì. Attendeva il momento giusto…” sorrise Kosmos, facendo un gesto con la mano.

Hòu si ritrovò fra Yang e Ji, alle spalle di Adhafera.

“Siamo pronti!” ghignò Kosmos, spalancando le braccia e sollevandosi da terra.

Partendo dal primo segno, Hamal l’Ariete, le costellazioni iniziarono ad illuminarsi e con loro gli Orientali. Per qualche istante, tutti mostrarono l’aspetto che avevano prima di divenire stelle. Animali, Dèi, oggetti. Poi ridivennero come erano al palazzo, ed i loro occhi ripresero a brillare. Toro si illuminò di verde. Mek e Buda si riunirono. Acubens si dovette separare dal fucile che aveva usato per aiutare i leoni. Adhafera ringhiò, tornando ad avere i soliti denti affilati. Tutti gli occhi erano fissati su Astrea, che però non si illuminò. Al suo posto, di luce argentea, si ricoprì Zubenelgenubi.

“Che succede? Astrea, che hai?” si preoccupò Kosmos.

“Ho fatto la mia scelta. Come, millenni fa, scelsi di divenire una costellazione perché mi rendevo conto che gli esseri umani non avevano più rispetto per la divinità che ero, mesi fa ho deciso che il mio periodo da stella è terminato, venendo meno al giuramento che avevo fatto quando ascesi”.

“Capisco” sorrise l’Occidentale.

“Di che giuramento parli?” domandò Rukbat, guardandola in modo interrogativo.

“Concedendomi a te, quella notte, ho scelto volutamente di rinunciare al simbolo della verginità che rappresentava la costellazione di cui prendevo il controllo”.

“Ma tu non eri di certo vergine quando sei diventata una stella!”.

“No, ma ho scelto la castità successiva. Rinunciandovi, ho rinunciato al mio essere la Vergine”.

“Resti sulla Terra, dunque?” domandò Kosmos.

“Sì. Come mortale”.

“Ti auguro ogni bene, mia cara. Spero di avere tue notizie in futuro”.

“Anche a voi auguro ogni bene”.

Detto questo, Astrea fece un passo indietro, lasciando che Zubenelgenubi prendesse il suo posto. Zubeneschamali, illuminata dalla luce rosa della Bilancia, provò a protestare, ma venne zittita. Il cerchio si completò senza altre interruzioni e Kosmos aprì una specie di tunnel luminoso sopra il gruppo. Astrea guardò solo per un istante Rukbat, che le diede le spalle e si sollevò da terra assieme agli altri. In quella colonna di luce, visibile da praticamente tutto il pianeta, Orientali ed Occidentali, guidati da Kosmos e seguiti da Alfa ed Omega, svanirono e tornò il buio.

“Ci sei riuscito” commentò Hannaliz, vedendo quel segno nel cielo.

“Siete  tornati a casa, viaggiatori dello spazio” brindarono i cacciatori di alieni.

“Buon viaggio” sorrisero Mikael e Scott.

“Cazzo, ma allora era vero!” si stupirono Giacobbo e Berry.

“Eri davvero una stella!” sorrisero i ricercatori norvegesi.

“Sempre il solito esagerato, agente Carlyle” commentò il vero agente Carlyle.

“Mandami una cartolina” ridacchiò Erik dal Giappone.

“Grazie” salutò la proprietaria del ristorante che aveva ospitato Cane e Bilancia.

“Oddio, la fine del Mondo!” urlò la maggior parte della gente.

“Addio” sussurrò Astrea, versando solo una lacrima, e ricevendo l’abbraccio delle sue coinquiline.

 

₪₪₪

 

“Kuruma! Dove sei?” gridò Kosmos, appena arrivato nel palazzo.

Si accorse subito che qualcosa non andava. Era buio, i cerchi con i segni zodiacali sulle sue torri non brillavano come di consueto e c’era uno strano silenzio.

“Kuruma!” la chiamò di nuovo.

Poi si girò verso i segni zodiacali e gli Orientali.

“Dividiamoci e cerchiamola”.

Tutti annuirono e si divisero, iniziando a guardare in tutte le stanze. Kosmos andò subito sulla torre di lei, senza trovarla. Ovunque rimbombavano le voci che ripetevano il nome della Signora Orientale quando l’Occidentale la vide. Era stesa sul terrazzino, con fra le mani Scettro e Chiave.

“Kuruma!” gridò lui e corse da lei, più in fretta che poté.

Appoggiando le mani sul pavimento lucido, si chinò di lei e continuò a chiamarla, senza ottenere risposta. Era pallida, molto più del solito. Iniziò a scuoterla per svegliarla, urlando sempre più forte.

“Kuruma! Svegliati! Cosa ti succede? Parlami! Dì qualcosa!”.

“È svenuta?” domandò Shu, arrivando assieme agli altri sul terrazzino.

“Non mi risponde!” gemette Kosmos “Non…fa niente! Non respira e il suo cuore…”.

“È tutta colpa tua!” gridò Alfa rivolta ad Omega “Tu e la tua regola stupida del non interferire! Ora la mia bambina è morta!”.

“Colpa mia?!” si stupì Omega.

“Ti odio! Siamo arrivati troppo tardi e la mia bambina non ce l’ha fatta!”.

“Kuruma è anche la mia bambina, come puoi darmi la colpa?”.

“Avremmo potuto intervenire prima e non sarebbe successo!”.

“Non interferire è la regola di base dall’inizio degli universi, non potevamo fare noi il lavoro loro. Lo sai che dovevano intraprendere un percorso!”.

“Era così che doveva finire il percorso?!”.

“Finitela!” li zittì Kosmos “La colpa è solo ed esclusivamente mia”.

“Ma cosa dici, tesorino?” lo guardò con tristezza Alfa.

“Niente tesorino! Non sono un tesorino, sono un idiota! Uno stupido, che non ha capito cosa stava facendo in tempo ed ora è tardi. Oh, Kuruma, perdonami! Se solo potessi sentirmi, ti chiederei scusa un milione di volte e mi inginocchierei davanti a te supplicandoti di dare una seconda possibilità a questo imbecille che porta il nome di Kosmos”.

Orientali ed Occidentali cominciarono a capire la situazione e si agitarono, specie dopo che un altro violento scossone fecero quasi cadere tutto il gruppo.

“Il cielo si sta fermando del tutto! Devi farlo ripartire con la Chiave e dare lo Scettro a Sadalmelik” disse Omega, ostentando una calma insolita.

“Non me ne frega un cazzo del cielo, delle Ere e di qualsiasi altra cosa! Che si fermi pure!” rispose Kosmos, appoggiandosi a Kuruma.

“Sei impazzito?! Spero tu sia consapevole delle possibili conseguenze!”.

“Me ne sbatto!”.

“Cosa?!”.

Il Signore Occidentale risollevò la testa e guardò il padre con rabbia.

“Sei sconvolto adesso, Kosmos, e lo capisco, ma non hai ancora imparato a guardare oltre all’immediato. Non puoi distruggere il tuo universo!”.

“E perché no?!”.

Una sberla poderosa lo fece tornare alla realtà.

“Perché ti ammazzo con le mie mani se osi farlo!” sbottò una voce.

Kosmos ribaltò la testa all’indietro, coprendosi il viso e mugugnando.

“Kuruma!” esclamarono in coro i presenti, mentre lei si sollevava e si metteva seduta.

L’Occidentale continuò ad imprecare per un po’ e l’Orientale lo lasciò fare, prima di abbracciarlo e farlo calmare.

“Mi sei mancato!” mormorò.

Lui, togliendosi la mano dal viso, la allontanò e si alzò in piedi. Il gruppo di costellazioni e sottoposti iniziò a fissarsi con preoccupazione.

“Alzati” ordinò Kosmos, serio.

Kuruma si rabbuiò e girò il capo, visibilmente delusa.

“Vuoi una mano?” sorrise, ad un tratto, Kosmos, sollevandola da terra e prendendola in braccio.

Guardandola negli occhi, continuò a sorriderle.

“Sei cambiato” commentò lei, notando il colorito, il corno, il vestito e tutto il resto.

“Anche tu” rispose lui.

Kuruma aveva perduto l’armatura e sul capo le erano spuntate due corna di colore rosso, che quasi si toccavano, esattamente come quelle di sua madre. Anche la veste era cambiata, divenendo più ampia e morbida, come una preziosa gonna di seta di uno sgargiante color rosso, con dettagli in oro.

“Sei bellissima”.

“Anche tu”.

Quasi si baciarono ma Kosmos spostò indietro la testa.

“Tu…sei mia sorella, te lo devo dire prima di questo”.

“Lo so” ridacchiò lei.

“Davvero? E come lo sai?”.

“Me lo ha detto lei” muovendo il capo verso la madre “Un po’ di tempo fa, quando ero tutta sola in questo grande palazzo”.

“Sai tutto?!”.

“È un problema?”.

“No…” ghignò Kosmos, notando che pure Kuruma rispondeva ad una domanda con un’altra domanda, come Omega.

Sorridendosi, si diedero un lungo abbraccio, fra i sorrisi di tutti i presenti. Kosmos notò la cosa e, rimettendo delicatamente a terra Kuruma, batté le mani.

“Lo spettacolo è finito ragazzi, è ora di lavorare! Sciò!” esclamò, illuminando con un gesto della mano tutto il palazzo.

Afferrò la Chiave e Scettro e fissò la Signora Occidentale. Le porse la Chiave del Cielo.

“A lei l’onore, mia Signora. Io mi occupo dello Scettro”.

Lei fece un piccolo inchino, stringendolo e sorridendo. Kosmos andò verso Sadalmelik e lei chinò la testa, in segno di rispetto.

“Smettila con queste cerimonie, Acquario. Questo è per te, mia cara. Tuo il compito di custodirlo fino alla prossima Era, quella del Capricorno” passò l’oggetto il padrone alla donna.

Sadalmelik annuì, mentre insieme i due Signori facevano ripartire il moto regolare del cielo.

“Allora è finita? Possiamo festeggiare?” domandò Drago e ci fu più di un segno d’assenso.

 

“Non ci posso credere. La mia camera! Un letto decente, tutto per me! Il mio spazio personale e la mia privacy di nuovo in mio possesso!” esclamò Deneb Algiedi, raggiante.

“La doccia! Evviva!” quasi gridò Acquario.

Tutti erano visibilmente felici, solamente Zubenelgenubi, Acquario e Sagittario restavano piuttosto silenziosi, quasi storditi.

“Zuben” chiamò Kosmos “Posso chiamarti così?”.

“Certo, Signore”.

“Ti sei illuminata come Vergine e ora sei qui per questo. Te la senti?”.

“Io e Zubeneschamali eravamo, un tempo, i due piatti della bilancia della Dea della giustizia, Astrea, perciò per me sarà un onore avere quel ruolo”.

“Se te la senti, il posto è vacante” ridacchiò Kosmos e Zubenelgenubi gli porse la mano, come per suggellare un patto.

“Zuben uno e Zuben due” rise Antares, forse deluso perché sperava di divertirsi con le due gemelle, come si divertiva con Zubeneschamali.

“Rukbat” riprese Kosmos “Se vuoi, posso farti andare da lei. Troveremo qualcuno che possa prendere il tuo posto, se è questo che desideri”.

“Da lei? Da lei, chi?” fece finta di nulla Sagittario.

“Da Astrea. Se vuoi andare da lei, basta chiedere”.

“No, grazie. Lei ha fatto la sua scelta, ed io la mia. Grazie, comunque”.

“Se dovessi cambiare idea…”.

“Non la cambierò” tagliò corto Rukbat e si allontanò dal gruppo.

“Quell’uomo è davvero molto più strano di quanto credessi” commentò Antares.

“Basta che non venga da me a lamentarsi” storse il naso Kosmos e poi notò lo sguardo triste di Sadalmelik, con lo scettro abbandonato fra le mani.

Le si avvicinò e le chiese se, per caso, era preoccupato per il suo nuovo ruolo.

“No, non è per questo, Signore. È che…è possibile far tornare Hu in forma umana?”.

Kosmos e Kuruma si fissarono.

“Se è quello che vuole pure Hu…” rispose la Signora Occidentale.

Tigre, andando ad accoccolarsi accanto a Sadalmelik, mostrò che era proprio ciò che desiderava. Kuruma sorrise e, con un gesto, Hu riconquistò il suo aspetto umano, con tutti i poteri da Tigre. Acquario, quasi piangendo, lo abbracciò forte.

“C’è qualche altro casino da risolvere?” gridò Kosmos, rivolto a tutti i presenti.

Nessuno disse nulla.

“Sicuri?” insistette il Signore Occidentale.

Di nuovo nessuno fiatò.

“Dico sul serio, parlate ora o chiudete la bocca per i prossimi due o tre secoli, ok? Qualcun altro vuole cambiare forma?”.

Si sentì un coro di “no”, soprattutto da parte di Ariete che stava a cavalcioni di Drago, ridendo come una pazza.

“Possiamo mettere la parola fine a tutto questo?” urlò Kosmos.

“Sì!” gridò il gruppo.

“Oh, grazie a chiunque possa ringraziare! Facciamo casino!”.

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Capitolo 15
*** 14 ***


XV

 

Era passato un po’ di tempo dalla piccola avventura sulla Terra. Definirla piccola era scontato, cosa potevano essere un anno e pochi mesi per chi vive da millenni o da miliardi di anni? Nonostante tutto, la maggior parte di loro la ricordava come un’esperienza unica, di cui avere quasi nostalgia, sottolineando il “quasi”. Kosmos non era fra coloro che avevano nostalgia della Terra, di quello era certo. Aveva aiutato i suoi studenti con la tesi usando i sogni, così come aveva parlato con Hannaliz e con chiunque lo avesse aiutato. Alcune costellazioni ed alcuni animali Orientali avevano espresso il desiderio di tornare sulla Terra, ogni tanto, ed erano stati accontentati. Una sorta di “vacanza premio” di qualche giorno terrestre per divertirsi come meglio credevano. Fra questi non rientrava il nome di Rukbat, che preferiva evitare di pensare ad ogni cosa riguardante il passato, ignorando i costanti rimproveri che si doveva sorbire dall’intera compagnia. Non mandava nemmeno a salutare Astrea, quando Bilancia andava a trovarla. I rapporti fra Orientali ed Occidentali era di molto migliorato e passavano parecchio tempo nei saloni principali, ridacchiando e passando i giorni come volevano. Hamal, Ariete, era sempre più legata a Long, Drago, ed amava volare assieme a lui a spasso per il cielo. Aldebaran, Toro, aveva ripreso a disegnare, trovando negli Orientali degli ottimi ammiratori. Mekbuda, Gemelli, non litigava troppo con se stesso, cosa che il resto del gruppo gradiva parecchio, ad aveva insegnato agli altri a giocare d’azzardo. Acubens, Cancro, scoperta la sua nuova passione per i leoni, aveva approfondito l’amicizia con Adhafera, Leone, che le stava insegnando a combattere senza usare il fucile. Zubenelgenubi, la nuova Vergine, non ci aveva messo molto per ambientarsi e stringere amicizia con buona parte della compagnia, anche se non con tutti. Zubeneschamali, Bilancia, ed Antares, Scorpione, avevano deciso di pensare seriamente alla loro strana relazione, decidendo di comportarsi in modo più serio. Insomma, si erano ufficialmente fidanzati, come direbbe facebook. Rukbat, Sagittario, la pigna del gruppo, fra una rissa ed un’altra con Antares, girellava per il palazzo con il cappottone nero che aveva voluto tenere ed aveva trovato in Shè, Serpente, una nuova e valida avversaria per i suoi allenamenti pressoché inutili, che però svolgeva sempre più raramente, divenendo sempre più una specie di topo di biblioteca perennemente rinchiuso nella sua stanza. Deneb Algiedi, Capricorno, non aveva abbandonato la sua dipendenza dalla nicotina ed aveva scoperto un inaspettato talento nel bricolage, riempiendo il palazzo di strane costruzioni fatte con ciò che trovava. Sadalmelik, Acquario, ormai profondamente legata a Tigre, si occupava dello scettro delle Ere con diligenza quasi maniacale. Al Risha, abbandonati i trip da droga, si era dato alla scrittura, così da dare sempre nuovo materiale assurdo al suo capo per passare il tempo quando il tedio prendeva il sopravvento. Shu, Topo, era l’unica che riusciva a conversare con Rukbat senza farsi mandare a fanculo, potendo permettersi di discutere di libri che la costellazione riteneva “alla sua altezza”. Niu, Bue, ormai il migliore amico di Aldebaran, aiutava volentieri Capricorno nei suoi lavori, specie quelli più pesanti. Insieme avevano costruito un magnifico tavolo intagliato, che era stato messo al centro della nuova sala voluta da Kosmos e Kuruma: una stanza immensa, in comune fra i due lati dell’edificio. Hu, Tigre, oltre ad amoreggiare costantemente con Sadalmelik, litigava con Rukbat, cosa strana avendo i due lo stesso insopportabile carattere, e si allenava con Adhafera: fra gatti giganti si capivano. Tù, Lepre, era la più grande fan dei libri di Al Risha e si era messa a scrivere a sua volta, rivelando un lato che nessuno del palazzo si sarebbe aspettato. Long, Drago, era quello che più spesso tornava sulla Terra, assieme ad Hamal, principalmente per far festa e scoprire posti che fin ora non aveva mai visto. Shè, Serpente, dopo essere stata punita da Kuruma con l’obbligo di ripulire l’intero palazzo, lasciato un po’ andare in malora nel periodo in cui la Signora Orientale era rimasta da sola, aveva fatto amicizia con Mekbuda, trovando interessante la sua doppia personalità, ed aveva iniziato a sfogare la propria rabbia repressa con la danza. Ma, Cavallo, fra una corsa ed un’altra per l’universo, amava giovare d’azzardo con gli Occidentali e sfidare Rukbat, l’unico con cui si sentiva libero di nitrire in libertà, facendo Sagittario lo stesso. Yang, Capra, aveva ricominciato a collezionare stupidaggini, inclusi i modellini di Deneb Algiedi, apprezzandoli molto, principalmente perché erano senza senso. Hòu, Scimmia, anche lei punita rimanendo rinchiusa nella sua stanza per un bel pezzo, aveva deciso che la ginnastica era l’unico modo per non impazzire in quel posto. Ji, Gallo, era divenuto un ottimo assistente di Aldebaran, essendo molto creativo ed amando l’arte, mostrando che dopotutto aveva un buon motivo per tirarsela tanto. Gou, Cane, si divertiva a cucinare assieme a Zubeneschamali e Zubenelgenubi, riscuotendo molto successo, soprattutto da parte di Zhu, Maiale, che passava le intere giornate mangiando e dormendo.

 

“Non lo trovate strano il capo, ultimamente?” domandò Antares, controllando le quattro carte che aveva in mano e storcendo la bocca, dubbioso.

“Mi sembra che sia sempre stato strano” rispose Deneb Algiedi, poco convinto ma decisamente più felice di Scorpione delle carte che aveva fra le mani.

“Ma ultimamente lo è di più…” insistette Antares, notandolo con la coda dell’occhio sul terrazzino.

Stava camminando incessantemente su e giù, con scintille di energia fra le mani che guizzavano come impazzite.

“In effetti…è più, come dire…carico, del solito” commentò Mekbuda.

“Sì, ed è più blu” aggiunse Gallo, ghignando per la scala reale.

“Vero. Gli si è scurita la pelle” confermò Antares.

“Si sarà abbronzato!” sbottò Deneb Algiedi.

“Ma dai, non lo vedi? Ultimamente è più nervoso di Rukbat, il che è tutto dire!” esclamò Cavallo.

“Non avrà mica ricominciato a litigare con Kuruma?” si preoccupò Aldebaran, chiamando due carte e gettandone altrettante.

“Ora che mi ci fai pensare…quei graffi che ha sulla schiena non sono recenti” storse il naso Antares.

“E questo cosa c’entra? Direi che è un’ottima cosa se lei non lo graffia!” sbottò Toro.

“Quelli, mio caro, fidati dell’esperto, non sono graffi d’odio” sorrise Antares, maliziosamente “Quei due sono peggio dei conigli, senza offesa Tù!”.

“Nessuna offesa, io sono una Lepre” rispose Tù.

“Però lei è da un po’ che non si vede…” mormorò Sadalmelik.

“Tranquilli! Sta bene” sorrise Shu.

“L’hai vista di recente?” domandò Hu.

“No, ma le ho parlato, dalla porta della torre. È felice, e sta preparando una sorpresa per noi, per quello non esce dalle sue stanze. Sta lavorando”.

“Di che parlate?” domandò Kosmos, entrato nella stanza silenziosamente e spaventando, con la sua voce, i presenti che non se lo aspettavano.

“Di niente in particolare, come va?” si affrettò a dire Antares.

“Che fate?” fu la riposta del Signore Occidentale, segno che pure lui aveva imparato a rispondere ad una domanda con un’altra domanda, come suo padre.

“Giochiamo a poker. Vuole unirsi alla compagnia? Ci siamo tutti, tranne quella pigna in culo di Rukbat!” propose Scorpione.

“No, grazie. Non ho la concentrazione mentale necessaria per fare una cosa del genere”.

“Nemmeno noi!”.

Kosmos era molto agitato, lo si vedeva chiaramente, ma ostentava indifferenza. Con le mani dietro la schiena, forse per nascondere le scariche di magia che emanava, quasi saltellava sul posto.

“Tutto bene, capo?” domandò Aldebaran.

“Sì, certo. Perché?”.

“Vi vediamo un po’ più agitato del solito”.

“Colpa della mia magia. Ancora non sono abituato a non avere l’armatura di contenimento e a volte va fuori dal mio controllo. La cosa mi infastidisce e mi rende nervoso”.

“Niente di negativo, insomma…”.

“Assolutamente nulla. Ragazzi, non vi preoccupate!”.

“Ehilà!” esclamò Omega, entrando di volata ed afferrando il figlio alle spalle.

Kosmos sobbalzò e lanciò un piccolo grido.

“Non farlo mai più!” ringhiò, mentre il padre ridacchiava.

“Sei troppo nervoso, piccolo mio! Vieni, andiamo a fare un giro”.

“Non ora papà. Un’altra volta”.

“Non è un invito, è un ordine!”.

“Ho detto di no”.

“Vuoi che ti prenda per i capelli? Non farmi diventare violento…”.

“Vale lo stesso con me. Se divento cattivo, non sono piacevole e, credimi, se insiti ancora, ci metterò un attimo a diventare cattivo”.

“Credi di spaventarmi?”.

“Credi che non possa riuscirci?”.

“Assolutamente no”.

Kosmos non disse più nulla, muovendosi per andarsene, con il lungo mantello e la veste che si trascinavano per un pezzo dietro ai suoi piedi, come uno strascico, che il padre calpestò per fermare il suo bambino in fuga.

“Tu ora vieni con me, Kosmos. Abbiamo una cosa importante da fare, tu sai di cosa parlo”.

“Proprio adesso? Non domani?”.

“Deve essere proprio adesso. Muoviti”.

Il Signore Occidentale provò a protestare ancora, ma capì che era tutto inutile.

“Resta tua madre qui a palazzo, rilassati, e seguimi” sbottò il padre, sollevandosi da terra.

 

Appena i due furono usciti, l’intera compagnia si fissò negli occhi, sorridendo. Perfino Rukbat, riemerso dalla sua stanza sentendo il baccano prodotto dalla discussione padre-figlio.

“Quei due hanno in mente qualcosa di spettacolare, ne sono sicuro. Voglio seguirli!” esclamò Antares, alzandosi dal tavolo.

“Sono con te” si unì Drago, seguito da Ariete, Leone e Cavallo.

“Perché?” domandò Rukbat, con le mani in tasca e la barba incolta.

“Non ti incuriosisce la cosa? Potrebbe succedere qualcosa di straordinario!”.

“Non mi incuriosisce, non mi interessa”.

“Ma…potrebbero essere andati a creare qualcosa. Potremmo assistere alla nascita di una nuova galassia, una stella o che ne so che altro!”.

“In effetti…non ho ma assistito ad una cosa del genere. Ma, come facciamo a seguirli? Sono già lontani, data la velocità con cui volano!”.

“Ci aiuterà il procacciatore. Vero, Squeak?”.

La creatura di Kosmos spalancò le ali con entusiasmo e mostrò tutto la sua disponibilità. Grazie a lui, l’intero gruppo di Orientali ed Occidentali si ritrovò a volare per lo spazio, inseguendo padre e figlio, curiosi come dei bambini.

 

“Dove mi hai portato? Io ora dovrei essere a palazzo, accanto a Kuruma, non qui ai confini del mio universo!” protestò Kosmos.

“Sei qui a fare il tuo lavoro. Tutta l’energia che hai dentro di te non è lì per farti il solletico e le luci dalle mani” sbottò Omega.

“Ma perché oggi? Perché adesso?”.

“Perché la materia a cui darai vita esploderà nel momento stesso in cui i tuoi figli verranno alla luce, che ti piaccia oppure no!”.

“Com’è possibile? Sono due gemelli, non possono nascere nello stesso istante!”.

“Non fare il puntiglioso, non lo sopporto. Diventi troppo simile a tua nonna!”.

“Ma io voglio essere accanto a Kuruma quando nasceranno!”.

“Non puoi. Il ruolo di Kuruma è quello di far nascere i gemelli ed il tuo fornire la materia per l’universo che un giorno loro controlleranno”.

“Io non voglio separarmi da loro. Voglio che i miei figli rimangano a palazzo con me”.

“Non si può”.

“Così poco tempo resteranno con me…”.

“Finché non impareranno a volare”.

“Ma noi impariamo a volare prima ancora di gattonare!”.

“Esatto. E questo avverrà fra qualche migliaio di anni, perciò rilassati e crea sta materia”.

“Non so se…”.

“Vedila così: stai per dar vita al parco giochi in cui si divertiranno gli eredi”.

“Beh…io…”.

“Senti, ragazzino…”.

“Smettila di chiamarmi ragazzino! Sono un uomo!”.

“Dimostramelo. Crea la materia per il nuovo universo. In questo momento Kuruma sta partorendo le tue creature e tu Kosmos devi dar il via al nuovo big bang!”.

Kosmos, decisamente agitato, respirò a fondo e chiuse gli occhi.

“Convoglia tutta la tua energia” ordinò Omega.

“Tutta?”.

“Tutta. Ci sono io qui con te, non ti preoccupare. E non pensare a Kuruma. C’è tua madre con lei, andrà tutto bene”.

Il Signore Occidentale sorrise, avvertendo la magia formicolare lungo tutto il suo corpo. Era una sensazione molto strana, a volte dolorosa. Non voleva confessare al padre di essere spaventato ma, evidentemente, anche Omega aveva provato le stesse sensazioni perché lo rassicurava. Nel frattempo, il gruppo di curiosi si era fermato a debita distanza e osservava il tutto senza capire bene cosa stesse succedendo. Kosmos si stava illuminando di luce sempre più intensa, gridando a volte perché la magia gli mandava scosse sempre più intense. Puoi tutto divenne buio, perfino le stelle si spensero per un istante. Silenzio totale, immobilità e nessuna luce.

“Che succede?” mormorò Sadalmelik, afferrando per il braccio Tigre.

Il silenzio divenne un assordante boato e la luce si espanse con un lampo accecante. La compagnia si coprì il viso. Quando riaprì gli occhi, Kosmos e suo padre erano fluttuanti uno accanto all’altro, con lo sguardo rivolto verso una specie di palla sospesa aldilà dell’universo. Si espandeva, mandando scintille.

“Carino. Mi piace” commentò Omega.

“Non credevo di riuscirci. Pensavo fosse troppo presto…” ammise Kosmos.

“Quando sarà abbastanza ampio, darai vita al palazzo dove vivranno e loro sapranno come plasmare ciò che hai fatto”.

“Da soli. Non sentiranno la mancanza di mamma e papà?”.

“Tu hai sentito la mancanza di me e mamma?”.

“No”.

“Bene. Ti sei risposto da solo. Ora torniamo…”.

“Kuruma! Devo andare da Kuruma!” esclamò Kosmos e, sfruttando gli ultimi attimi di energia che gli erano rimasti, si girò e sfrecciò verso il palazzo.

“Fermati, stupido! Sei senza forze!” lo rimproverò il padre, sapendo che era tutto inutile.

Il Signore Occidentale ansimava per la fatica, con la pelle imperlata di sudore, e a volte aveva l’impressione di stare per svenire ma non si fermò nemmeno un secondo. Omega, le costellazioni e gli Orientali non ne seguirono il passo ed arrivarono a palazzo molto dopo di lui.

“Questo è il pianto di un bambino!” sorrise Yang, quando entrò nell’edificio.

“Se è un bambino ciò a cui Kuruma stava lavorando, è giustificata la sua assenza!” ridacchiò Niu.

Tutti, capitanati da Omega, salirono le scale della torre Orientale. La porta era socchiusa ed all’interno si intravedeva una lieve luce soffusa. Cercarono di sbirciare all’interno senza farsi notare, in silenzio per sentire ogni rumore sospetto.

“Com’è stato creare un universo, tesoro?” mormorava Kuruma “Hai un’aria stravolta, più della mia…”.

“Questo perché non ti sei vista allo specchio, amore” rispose lui, disteso di pancia sul letto accanto a lei, che gli accarezzava la testa.

Kuruma sorrideva, appoggiata e sorretta da diversi cuscini. I due Signori del palazzo si guardavano con tenerezza, anche se entrambi erano sfiniti. I gemelli neonati non piangevano più, cullati da nonna Alfa.

“Sono bellissimi!” esclamò Hamal, spingendo Omega dentro la stanza e avvicinandosi ai piccoli.

“Son arrivati. Evviva la privacy” mormorò Kosmos, chiudendo gli occhi grazie ai grattini di Kuruma sul suo capo.

“Sembri un gatto così” rise Kuruma.

“Ron Ron” commentò lui, senza aprire gli occhi.

“Posso prenderli in braccio?” domandò Sadalmelik.

Alfa porse le creature ad Acquario e l’intero gruppo si accalcò attorno ai nuovi arrivati per poterli ammirare da vicino. La femmina aveva i capelli neri, come sua madre, ma erano molto mossi, come quelli del padre, e aveva anche gli occhi di lui. La piccola bocca già si tingeva di nero e lungo tutto il corpicino si intravedevano le prime sferette dorate incastonate. L’armatura, che lentamente si stava formando grazie alla magia della piccola, era argento come quella che aveva del padre. Il maschio aveva lo sguardo della madre, rosso vivo, ed i capelli blu di Kosmos, dritti come quelli di Kuruma. Anche in lui le sferette iniziavano a intravedersi, di colore argento, mentre l’armatura che si stava creando era d’oro.

“Qual è il maschio?” domandò Rukbat.

“Verificalo. Anatomicamente, io e te siamo uguali lì sotto, genio” mormorò Kosmos “Comunque è quello con gli occhi di sua madre”.

“Bellissimi” continuava a ripetere Sadalmelik, cullandoli.

Alfa ed Omega si erano seduti uno accanto all’altro, sorridendosi orgogliosi.

“I padroni di casa devono riposare adesso” mormorò la nuova nonna, vedendo che Kuruma, come Kosmos, aveva chiuso gli occhi.

“Come li chiamerete?” domandò Long.

“Non lo so. Non ci ho pensato” ammise Kuruma “Kosmos, tesoro, come li chiamiamo?”.

Kosmos non parlò, lanciò un lungo gemito che significava “Non ho voglia di usare il cervello adesso, fatemi dormire”.

“Passameli mamma, un momento” sussurrò la Signora Orientale, allungando le mani.

Con i gemelli fra le braccia, lei li guardò in viso per un po’, sorridendo felice.

“Astar” disse, dopo un po’ “La mia bimba si chiama Astar. E lui…” guardò il maschio, cullandolo “…lui è Algar. Cosa ne pensi Kosmos?”.

Kosmos sorrise, senza aprire gli occhi, segno che era soddisfatto dall’idea.

“Allora è deciso” esclamò Alfa, mettendo i bimbi nella stessa culla.

La compagnia dei sottoposti lasciò la stanza, il più silenziosamente possibile, e Alfa tornò alla propria casa assieme ad Omega. Kuruma e Kosmos si fissarono, per qualche istante, prima di addormentarsi. Erano rimasti da soli, loro due, assieme ai loro gemelli, che già si guardavano male.

 

FINE

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