Insostenibilmente Giù

di suni
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. Eva ***
Capitolo 3: *** II. Fra' ***
Capitolo 4: *** III. L'ultima fila ***
Capitolo 5: *** IV. Stef ***
Capitolo 6: *** V. La banda ***
Capitolo 7: *** VI. Marco ***
Capitolo 8: *** VII: Il Proiettile di Fuoco ***
Capitolo 9: *** VIII. Daftpunk ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

 

Gentili lettori,

è con trepidazione che vi vengo a sottoporre l’inizio del mio primo racconto a capitoli originale.

Mi sembra ancora impossibile di essere riuscita nell’impresa di iniziare qualcosa di lungo – senza quantificare cosa lungo stia ad indicare, ma non temete, non sono Tolkien – che si disegni con relativa chiarezza su carta e si prospetti definito già dal principio.

Dunque, questo è un racconto poco serio e senza pretese. L’ho scritto ripensando ad anni che ormai non sto più vivendo e che ricordo con affetto, gioia e anche con un po’ di pena. La mia adolescenza è stata, a posteriori, estremamente bella, ma so benissimo che viverla non è stata sempre una favola. C’è dell’ironia verso quell’età in queste pagine, ma è un’ironia molto affettuosa.

Non è assolutamente un racconto autobiografico e nessuno dei personaggi che compaiono è reale, come non lo é la maggior parte delle vicende narrate. Ogni riferimento a persone realmente esistenti e fatti accaduti è puramente casuale.

Con questo, vi auguro una buona lettura.

suni

 

 

 

 

INSOSTENIBILMENTE GIU’

 

 

 

 

Giuseppina riteneva fermamente che nella vita non ci fosse nulla di peggiore del trasferirsi da una città all’altra durante l’adolescenza.

Niente a parte chiamarsi Giuseppina, naturalmente: nell’anno domini 2003 ritrovarsi con un nome proprio del genere costituiva la vergogna più grande che un essere umano potesse provare, se non si superavano le sessantacinque primavere. Erano gli inconveniente dell’avere una madre retrograda e svanita, persa negli anni trenta e del tutto priva di qualunque senso del gusto: non per niente si chiamava Serafina, lo zio Agenore e la nonna Immacolata. I nomi imbarazzanti costituivano una consolidata tradizione familiare dal lato materno e infatti il papà, un banalissimo Marco, passava ogni anno il pranzo di Natale a sbellicarsi dalle risate stringendo la mano dei vari prozii Agamennone e cugine Ermenegilda della moglie.

Conseguentemente, Giuseppina aveva optato per il farsi chiamare con un sonoro Giù per gli amici occasionali o un intimo Pi per gli affezionati, e già questo faceva parte del problema: cambiando città avrebbe cambiato anche i suddetti amici e questo significava dover sopportare di sopravvivere a chissà quanti drammatici mesi sentendosi chiamare Giusy o – sommo orrore – Pina prima che la gente capisse quanto avrebbe preferito un’infibulazione all’onta di ricevere soprannomi del genere.

Ad ogni modo Giù effettivamente si era appena trasferita in una nuova città. E questo era appena meno peggio di chiamarsi Giuseppina.

Aveva letto una quantità di libri e visto chissà quanti film in cui la protagonista liceale si vedeva sradicare come un geranio e trasportare da un angolo all’altro del mondo al seguito di genitori gretti ed egoisti che non ricordavano più cosa volesse dire doversi costruire una vita sociale. Sapeva perfettamente che il trauma poteva essere anche insormontabile e che spesso alla malcapitata avveniva di trovarsi investita di poteri spiacevoli e circondata da persone inquietanti come era successo anche a quella mentecatta di Buffy. Che sì, poi aveva incontrato quel gran figliolo di Angel, ma comunque.

Quella seconda parte della storia, quella in cui lei si faceva valere e trovava un ragazzo secondo di poco in bellezza a Johnny Depp arrivando a conquistarsi la stima di tutti e diventando eroina nazionale, Giù lo sapeva, era prerogativa soltanto delle storie di fantasia, libri e film appunto.

A lei, nella realtà, sarebbe spettato unicamente il trauma.

Anche perché oggettivamente Giù non era figa come Buffy e non portava il suo stesso tipo di minigonne, non aveva un carattere vulcanico come Pippi Calzelunghe né il fascino etereo di Isabella Swan e porco Giuda, prima di fare amicizia con qualcuno ci metteva una vita, anche perché era piuttosto selettiva e aveva passatempi magari non particolarmente comuni.

Giù era quel genere di diciassettenne che per presa di posizione si sforzava di non uniformarsi. Al tempo stesso, non le interessava sbandierare nessuna presunta diversità. Non voleva mettersi gli occhiali D&G ma nemmeno vestirsi di nero e tagliuzzarsi le vene, oppure sfoggiare camicioni colorati di cotone nepalese ingombranti come impalcature. La sua intera personalità seguiva in ogni ambito quel desiderio di anonimo individualismo e di conseguenza la sventurata sviluppava ciclicamente lievi problemi d’identità cui sicuramente un trasferimento traumatico non avrebbe giovato. Per giunta il suo completo disinteresse per ogni forma di moda e la sua deliberata mancanza di cura per l’estetica la portavano a compiere sbalzi anche inquietanti, ché non era raro vederla presentarsi in classe conciata accidentalmente come un cyberpunk un giorno e appallottolata in un’innocua mise di braghe in tela e golfino sdrucito l’indomani.

Quello e il fatto che fosse poco interessata agli svaghi di massa la rendevano leggermente isolata già in ambienti che frequentava dalla nascita: non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe stato presentarsi in una nuova scuola, dove nessuno la conosceva, e per di più ad anno iniziato.

La catastrofe.

Era quella la ragione per cui, in quel grigio mattino d’inizio inverno, esitava davanti allo specchio scrutando torva la propria immagine riflessa, rischiando di presentarsi in ritardo in classe al primo giorno. Quella e il fatto di non essere molto sicura di voler comparire davanti ai suoi nuovi compagni prima di aver subito un’operazione di chirurgia plastica che la rendesse completamente irriconoscibile, anche se poteva sembrare inutile dal momento che quelle persone non la conoscevano nemmeno con il suo aspetto autentico, ma dopo l’operazione lei avrebbe saputo che loro non potevano riconoscerla comunque e si sarebbe sentita in pace con se stessa.

Qualcosa del genere, insomma.

Era la prima volta da quando andava a scuola che trascorreva più di quattro minuti a vestirsi. Aveva spulciato tutto il suo guardaroba, ancora parzialmente ammonticchiato negli scatoloni del trasloco, nel tentativo di trovare degli abiti che non le facessero attirare l’attenzione e impedissero la formulazione di qualunque giudizio approssimativo sulla sua persona. Resasi conto che quest’ultima speranza era tragicamente vana aveva stabilito di cercare almeno di non sembrare un panda con la criniera da leone: cosa che tendeva ad avvenire quando si lasciava andare a se stessa – cioè sempre - per via dei capelli crespi e tiziani e delle occhiaie clamorose che la accompagnavano dalla tenera età di dodici anni, per ragioni su cui nemmeno il suo medico curante aveva saputo fornire spiegazioni convincenti.

Dunque si era messa un filo di matita nera sugli occhi, che erano di un bel verde rugginoso e costituivano uno dei pochi attributi di se stessa che non la disgustasse particolarmente. Aveva trascorso un quarto d’ora a spazzolarsi i capelli, tirandoli come se avesse dovuto staccarseli tutti senza eccezioni, e al momento quelli aveva un’accettabile conformazione che seguiva più o meno quella della sua nuca e che con un po’ di fortuna avrebbe tenuto almeno fino a dopo l’intervallo senza l’ausilio di gel e lacca, che andavano contro i suoi principi. Per l’uscita da scuola aveva anche pensato a mettere nello zaino un berretto nero – esitando sulla scelta di un più pratico passamontagna - così da poter nascondere eventuali rigonfiamenti della capigliatura al momento di sfilare fuori dalle porte.

Si era infilata un paio di jeans chiari e non stretti, un maglione verde e il suo cappotto vintage ma non troppo – nel senso che gliel’aveva passato sua madre in memoria della gioventù e che non vantava pretese particolari. A concludere aveva infilato guanti lanosi, sciarpa formato lenzuola e gli stivaloni neri da Marines che la accompagnavano dalle medie, indispensabili per sopravvivere ai marciapiedi ghiacciati senza rimediare fratture composite settimanali.

Del resto ne sapevano, i Marines: avevano fatto il Vietnam, che non era proprio come una passeggiata sul lungomare.

Fatti loro, comunque.

“Giuuuuuù! Muoviti, è tardiiiii!”

La voce di sua madre risuonava come una sirena dei pompieri, ricordandole l’infausto destino che l’attendeva. Giù era una ragazza mediamente coraggiosa e fornita di un certo fatalismo, dunque si gettò un’ultima occhiata dolente, fece alla propria immagine una linguaccia propiziatoria e scattò fuori trotterellando giù per le scale, senza aver fatto colazione, senza sigarette e senza avere idea di quale fosse il numero del suo autobus.

Merda.

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Capitolo 2
*** I. Eva ***


Bene, bene…altra settimana, altro capitolo.

Ringrazio caramente chi ha letto, chi ha preferito e, a fondo pagina, chi ha commentato.

Spero vorrete avere la bontà di fornirmi un’opinione. In caso contrario, spero almeno che vi divertiate.

suni

 

 

I. EVA

 

 

Nonostante l’inconveniente dell’autobus Giù riuscì a farsi spiegare da una pensionata con la sporta della spesa come raggiungere il liceo linguistico Italo Calvino, che scoprì poi distare appena dodici minuti, ovvero cinque fermate. Sull’autobus c’era una calca di altri studenti che lei finse di non vedere – era bravissima in quell’attività - rimpiangendo di non avere con sé un cane per ciechi che potesse trarli in inganno. Prese nota di procurarsene uno per la prossima volta in cui avesse cambiato scuola e puntò uno sguardo rarefatto e sonnolento sul finestrino davanti a lei, rimanendo perfettamente immobile nella posizione yoga della Montagna, cioè piedi divaricati a larghezza spalle e braccia tese lungo i fianchi, finché la prima frenata non la mandò dritta nell’abbraccio involontario di un liceale ignoto sul cui piede atterrò con le suole carrarmato di entrambi gli stivali e che non osò nemmeno guardare in faccia: violacea, gli porse inintelligibile scuse. A quel punto la sua posizione mutò in Montagna-modificata-con-braccio-alzato-per-reggersi-alla-maniglia-apposita e Giù continuò il suo viaggio estraniandosi completamente dal mondo circostante, immersa in un mistico torpore.

“Mi fai scendere?”

La voce la riscosse d’improvviso facendole fare un palese saltello e, di nuovo arrossendo, registrò grazie al colore della giacca – un improbabile arancione – che a parlare era stato il tizio cui era volata addosso poco prima. Terrorizzata, si fissò i piedi e gli fece largo biascicando chissà cosa.

“Tu non ti fermi qui?” chiese il tizio quando fu arrivato alla porta. “Non vai al Calvino?”

E Giù si rese conto di non aver fatto caso a quale fosse la sua fermata. Imprecò mentalmente contro se stessa e lo sguardo le si fece appannato per l’agitazione mentre, se possibile, diventava ancor più rossa. Si scaraventò giù al seguito del tizio e a quel punto, suo malgrado, si trovò costretta allo spiacevole gesto di doverlo guardare in faccia per ringraziarlo e quando i suoi occhi si sollevarono sul suo viso mancò poco che un ictus la cogliesse.

Perché Tizio era, come da regolamento, quanto di più simile a una creatura ultraterrena che la sua mente potesse concepire.

Aveva immensi occhi di un azzurro cristallino e un sorriso simpatico corredato di fossette, qualche leggerissima lentiggine intorno al naso e lineamenti marcati, ma armoniosi. Sfoggiava una chioma di media lunghezza, un po’ arruffata e di un biondo cinereo e luminoso che sembrava fatto con Photoshop.

G-grazie,” gracchiò Giù, incrociando gli occhi come una strabica nel tentativo eroico di non crollare svenuta.

Tizio sorrise ancor più meravigliosamente e le fece un piccolo cenno di saluto con una mano divina che sembrava presa dalle fotografie di Doisneau, quello de Il Bacio. Giù meditò di staccargliela e tenerla come reliquia, ma Tizio si stava già voltando per mollarla lì - perfetto, doveva probabilmente ritenere di aver compiuto la sua buona azione quotidiana soccorrendo una ritardata - e lei rimase a bocca aperta con lo sguardo da trota in decomposizione.

Giù negava fermamente l’esistenza dei colpi di fulmine, eppure in quel momento seppe con totale e ineluttabile certezza di averne appena subito uno, e di quelli tosti. Centrata in pieno sulla via di Damasco, o quel che era, dalla più potente folgorazione mai provata in vita sua, per un Tizio ignoto.

Lo guardò camminare verso l’ingresso dell’istituto, intorno a cui gravitava già una folla di studenti, per poi fermarsi sul lato della piazzetta accanto a due altri ragazzi molto meno impressionanti che lo accolsero con amichevoli pacche. Uno dei due gli porse un pacchetto di sigarette aperto e Tizio ne accettò una sorridendo in maniera sempre più sfolgorante.

A quel punto Giù rammentò di essere a sua volta una fumatrice e si riscosse riluttante, spostando intorno uno sguardo dubbioso per scoprire se per caso da quelle parti o in qualche via laterale si trovasse un tabaccaio, ma ovviamente la realtà la disilluse.

Si guardò ancora intorno, meditando sul da farsi. Piuttosto che rivolgere di propria iniziativa la parola a qualcuno per chiedere una paglia si sarebbe fumata la matita: sapeva che presto o tardi inevitabilmente avrebbe dovuto interagire con qualcuna di quelle persone, ma desiderava rimandare il più possibile quello sciagurato momento.

Sicuramente sarebbe riuscita a fare una figura di merda appena aperta la bocca.

Sospirò tristemente tra sé, avvilita. Avrebbe dovuto rimandare la sigaretta al pomeriggio.

A quel punto tanto valeva avventurarsi alla ricerca della Presidenza, operazione che sospettava le avrebbe portato via ingenti quantità di tempo visto il suo senso dell’orientamento non pervenuto. Con un sospiro atto  farsi forza strinse la presa sulle bretelle dello zaino e serrò gli occhi per un istante, poi sollevò la testa e varcò a passo quasi militare la soglia del suo nuovo liceo.

La sua ultima speranza – cioè che l’universo avesse fine ed esplodesse con un secondo Big Bang in quel preciso momento - non si avverò e Giù si trovò nell’atrio scalcagnato e poco luminoso, con pareti di un ocra vagamente vomitoso, di quella che pareva una normalissima scuola, in cui altri allievi già bighellonavano e cercavano la propria classe studiando i numeri sulle porte lungo i due corridoi laterali. Giù gettò l’ennesimo sguardo spaurito intorno a sé prima di decidere che, gerarchicamente, la Presidenza non poteva che trovarsi il più in alto possibile e prese quindi a salire le scale verso i piani superiori, che scoprì essere tre.

Ma della Presidenza non c’era traccia.

“Porco di quel cazzo di vacca,” ringhiò Giù tra sé, scrutando risentita un anonimo corridoio lungo il quale si susseguivano le aule, già popolato di alcuni studenti particolarmente mattutini che vagabondavano senza scopo.

“Come fa una vacca ad averlo, scusami?”

La svagata voce femminile proveniente dalla sua destra le provocò il secondo cardiopalma della mattinata e Giù si voltò di scatto, incontrando miti occhi marroni che la scrutavano placidi dietro le lenti di un paio d’occhialini rotondi alla John Lennon. La ragazza che le aveva parlato era avvolta in un lungo paltò nero, aveva i capelli lunghi e castani perfettamente lisci e la osservava educatamente.

“E’ un OGM,” borbottò imbarazzata. Poi, visto che la straniera le aveva parlato per prima, si fece coraggio. “Sai dirmi dov’è la Presidenza?” chiese velocemente, come sgravandosi di un infausto fardello.

“Sei nuova?” rispose l’altra, curiosa.

Giù annuì senza parlare, timida e a disagio.

“Che classe fai?” chiese ancora la ragazza, cordiale.

“Quarta. C,” rispose Giù, ripetendo l’unica informazione utile in suo possesso.

La ragazza sorrise, apparentemente entusiasta.

“Siamo compagne,” annunciò allegramente. “La nostra classe è questa,” proseguì, indicando la porta a due metri da loro su cui, effettivamente, troneggiava la scritta IV C. “La Presidenza invece è a piano terra, corridoio a destra, ultima porta a sinistra dopo la Segreteria.”

E ti pareva.

“Grazie,” bofonchiò Giù, facendo istantaneamente inversione.

“Ci vediamo in aula!” la salutò la sua nuova compagna sventolando soavemente la mano.

Giù annuì gravemente, prima di tornare velocemente sui propri passi nella speranza di riuscire a non tardare troppo. Le indicazioni si rivelarono esatte e in capo a tre minuti il preside Anselmi la accoglieva con un pomposo discorso di benvenuto, le forniva le sommarie indicazioni sul banalissimo e universalissimo regolamento di un normale liceo e la affidava ad una bidella bassa e tarchiata incaricata di scortarla nell’aula da cui era appena arrivata.

Ovviamente la campanella era già suonata e le porte chiuse, compresa la sua. La bidella bussò sbrigativa e un sonoro “avanti” sancì la sua condanna. Giù si fece avanti al seguito della donna, sbattendo nello sguardo paziente di un professore affascinante sui trentacinque anni e successivamente in una quarantina di ignoti occhi curiosi che la osservavano dai banchi.

“La nuova allieva, professor Ventura,” annunciò la bidella con noncuranza.

“Vieni, vieni… Corioli Giuseppina, giusto?” la accolse l’uomo disponibile dopo aver gettato un’occhiata al registro, facendole cenno di avanzare mentre lei, nell’udire il proprio nome completo, sbiancava e poi si accendeva come un semaforo rosso. “Siediti pure, benvenuta. Salutate, su, bestie,” intimò quindi l’insegnante bonariamente. Un coro svogliato di ciao si levò dall’aula e poi Giù registrò i gesti frenetici della ragazza del corridoio che, dal secondo banco lato finestra, le indicava il posto libero al proprio fianco. Giù, sorpresa, vi si diresse come un naufrago verso la zattera, sorridendo timidamente agli astanti.

“Io sono Michele Ventura, il professore di storia dell’arte,” attaccò amichevolmente il docente non appena si fu sfilata il cappotto. “Sono consapevole dell’inutilità sociale della mia materia, ciononostante mi premurerò di rifilarti solenni quattro quando ti troverò impreparata. Domande?”

Giù scosse diligentemente la testa schiarendosi la voce. Desiderando ardentemente di diventare invisibile prese ad estrarre dallo zaino astuccio, diario e quaderni a caso.

“Bene, allora passerò a riprendere per sommi capi il programma al punto in cui siamo arrivati, mentre vi svegliate tutti,” fece il professore, magnanimamente, senza porle altri quesiti.

Non appena lui ebbe iniziato a parlare, la ragazza accanto a Giù prese a scrivere freneticamente su un quaderno immacolato e lei ritenne, senza possibilità d’errore, di essersi appena seduta accanto alla secchiona.

Poteva andarle peggio, considerò saggiamente. Avrebbe potuto finire accanto alla cheerleader, se fosse stata in America. Meglio così, se non altro la secchiona non avrebbe preteso di fare conversazione.

Invece al cambio d’ora la sua nuova vicina alzò lo sguardo verso di lei con un altro sorriso, pacifica.

“Ce l’hai fatta, allora,” commentò eccitata, come se lei si fosse appena districata in un’esplorazione della foresta amazzonica. “Io sono Eva.”

Giù strinse debolmente la sua mano tesa, con un sorriso di circostanza.

“Giù. Tanto piacere,” smozzicò ritrosa.

“Giuseppina, no? Posso chiamarti Pi?” chiese schiettamente Eva.

Lei la guardò con nuova sorpresa, mentre il primo sorriso sincero le si dipingeva da sé sulle labbra.

“Certo,” confermò, piacevolmente colpita.

Poi un paio di altre ragazze si avvicinarono a fare da comitato d’accoglienza, insieme a un ragazzone alto e nerboruto dalla voce tonante che si presentò come Francesco e le rifilò una pacca cameratesca. Nel giro di cinque minuti, il tempo libero tra una lezione e l’altra, tutti sapevano già che si era trasferita da Trento perché suo padre aveva ricevuto una promozione con dislocazione annessa, che abitava in via Perugia, che preferiva essere chiamata Giù e non Giusy, che era figlia unica, che fumava e che ascoltava musica rock.

L’ora successiva era di matematica e Giù scoprì immediatamente che il secchionismo di Eva era settoriale, perché dopo i primi venti secondi la sconosciuta prese a sussurrare sommessamente. Venne a sapere quindi che quel Francesco Turco della pacca era il migliore amico della sua compagna di banco, che faceva ridere da matti ed era buono come il pane, gli piaceva il cinema e voleva fare lo sceneggiatore. Inoltre la ragazza nel primo banco accanto alla porta, Clara Andreoli, era la leccapiedi della IV C e tutti meditavano di farle lo scalpo, la bionda in terza fila col le tette da urlo, Michela Deninotti, era la figa riconosciuta della scuola e le due ragazze con piercings in fondo e il brunetto magro accanto a loro, capelli lunghi e arruffati in faccia, erano gli ‘alternativi’ della situazione e i compagni preferiti di Eva dopo Francesco, e che gli altri indistintamente erano grossomodo sterco.

Alla faccia dell’innocua secchiona.

“E tu?” sussurrò Giù a quel punto, già più bendisposta. La ragazza pareva avere le idee chiare, se non altro.

Eva la osservò vacua con la sua espressione di benevola illuminazione.

“Io che?”

“Boh,” biascicò Giù, stringendosi nelle spalle. “Che ne so…”

“Io sto qui per studiare il francese. Voglio andare a Parigi a fare l’Accademia delle belle Arti e prendo corsi intensivi di pittura da quando ero in seconda,” iniziò pensosamente Eva, come non sapendo bene che dire.

Giù sentì di amarla.

“Perché non hai fatto l’artistico?” chiese, perplessa.

Eva si strinse nelle spalle, noncurante.

“I miei rompevano. Comunque non è male, sai. Mi piace studiare le lingue e le materie umanistiche, letteratura, filosofia e quella roba lì.”

Giù annui beata, ancora incredula.

Era fantastico. Al suo primo giorno di scuola era riuscita a incontrare l’uomo della sua vita e a trovare una vicina di banco piacevole.

Era molto più di quanto avrebbe mai potuto sognare.

Doveva esserci qualcosa sotto.

 

 

 

 

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     Aglaia: Ahm…ehehehe-glomp. Urk. (Eccetera). Eeehm. Dunque. Andiamo con ordine. Tu sai quanto amo Sirius. Tuttavia in questo periodo ho questa lieve fissazione maniacale per Naruto. Non è colpa mia, è che ci sono un paio di personaggi che si amano in modi che non dirti e un paio d’altri che sono troppo belli e… Insomma. Non è che abbia abbandonato i miei pulciosi, non lo farei mai. Ecco. E, beh, wow, sono contenta che ti sia piaciuto l’inizio di questa originale, mi hai scritto delle cose carinissime – e non sono così brava, ma grazie comunque per averlo scritto ^__^ - e ovviamente sono molto felice che Giù ti piaccia. Qui abbiamo conosciuto Eva – e Tizio, ma non si può parlare di vera conoscenza. Che dire, mi auguro sia altrettanto gradevole. Thanks.

   Yottu_ecco: che simpatico coglionazzo. Bravo, però, sei stato in grado di lasciare una recensione. (Anzi TRE. TRE.) Hai visto che quando vuoi ci arrivi alle cose? Grazie, tato, non solo per questo.

   Little jewel: grazie! Mi fa piacere che l’inizio ti abbia interessata… L’ironia della vita, beh, quella ci va per forza, altrimenti non si va avanti. Mi auguro che il prosieguo ti piacerà ugualmente, e grazie per volermi seguire.

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Capitolo 3
*** II. Fra' ***


Ahm…

Il Natale e il torpore post-banchetti mi hanno un tantino rallentata, ma eccomi di ritorno per la vistra…bah…gioia.

Buona lettura.

suni

 

 

II. FRA’

 

Giù continuò a chiacchierare con Eva per entrambe le ore di matematica. O meglio, ascoltò il ciarlare leggero e spumeggiante della sua nuova amica che la informava su quanto di immancabile occorreva sapere del loro liceo, sulle attività ricreative e serali più interessanti che la città forniva e sui suoi personaggi di maggior spicco.

Giù pensò di chiederle informazioni sul misterioso e bellissimo Tizio che l’aveva abbagliata alla discesa dall’autobus, ma non le riuscì di trovare il coraggio per riferire l’episodio. Poi, appena suonata la campanella dell’intervallo di metà mattinata, Eva si volatilizzò in uno sventolio di capelli abbandonandola nelle mani di Francesco.

“Allora, Giù,” inizio amichevolmente il ragazzo facendole strada verso la macchinetta del caffè. “Cosa fai di bello fuori da scuola?”

Per un secondo lei ebbe il terrore che le stesse chiedendo di uscire come esordio, poi realizzò di aver leggermente travisato e le sfuggì un sorriso. Come se chiunque potesse avere l’idea di innamorarsi di lei semplicemente vedendola, con quei capelli allucinanti e le borse agli occhi e la sua goffaggine innata. Ridicolo.

“Non so,” iniziò, incerta. Non era affatto facile parlare di sé, ma Francesco la guardava senza pressioni, camminando mani in tasca, e la cosa la rilassò. “Veramente, niente di speciale. Mi piace stare con gli amici, fare cose normali tipo andare ai concerti oppure al cinema…”

“Ti piace il cinema?” la interruppe lui, illuminandosi.

Passarono il resto dell’intervallo a parlare dei loro film preferiti. Giù quasi urlò di entusiasmo quando seppe che anche lui da bambino aveva visto cento volte Labyrinth anche se era un film vecchissimo e che aveva all’attivo anche innumerevoli visioni di Lèon perché Gary Oldman era spaziale. Aveva guardato anche lui tutti i film con Johnny Depp, nonostante fosse un maschio eterosessuale, perché lo riteneva un attore straordinario e infine gli piacevano i Monty Python.

Giù decise che Eva aveva buon gusto in fatto di amici.

“Ma dov’è andata quell’altra?” chiese a quel punto, guardandosi intorno mentre Francesco gettava via il bicchierino del caffè ormai vuoto.

“Eva, dici?” chiese Francesco con sorrisetto paziente, stringendosi nella spalle. “Sarà andata a cercare Stef,” commentò distrattamente.

Stef?” ripeté Giù, incuriosita.

Francesco sogghignò, saputo.

“Il suo principe sul pisello,” spiegò scherzoso, con un sospiro melodrammatico. “E’ il suo nuovo straordinario ragazzo e non riesce a staccarsene per più di tre ore consecutive. Fa sempre così ma tanto poi li molla. Greg dice che questo non regge fino a Natale,” concluse grave, annuendo tra sé.

Greg, considerò lei facendo mente locale, era il bruno coi capelli in faccia dell’ultima fila.

“Ma a me sembra che Stefano le piaccia più degli altri. Magari se lo tiene fino a Carnevale.”

Giù scoppiò spontaneamente a ridere a quell’ultima affermazione buttata lì casualmente, mentre la campanella sanciva la fine dell’intervallo. Seguì Francesco verso l’aula con un insolito senso di ottimismo, perché aveva immaginato quella mattinata infinitamente più catastrofica di quanto si stesse rivelando.

“E tu non hai lasciato un principe a Trento?” chiese svogliatamente lui, salendo le scale.

Giù scosse la testa.

“Lui ha scaricato me, ma prima che saltasse fuori del trasferimento. E tu?” si affrettò a concludere, per non attardarsi sul pensiero malinconico di Paolo che le aveva spezzato il cuore a metà e ci aveva giocato a freccette.

Francesco si grattò pensosamente il mento, vago.

“Ci sto lavorando,” borbottò indeciso. “Ti farò sapere, all’occorrenza.”

Eva era già in classe e sorrideva radiosa. Francesco le fece un occhiolino e lei rispose con un artefatto sospiro sognante, portandosi melodrammaticamente la mano alla fronte.

Nell’ora successiva Giù le rese noto di essere venuta a conoscenza dell’esistenza di tale Stef e Eva si dilungò nell’illustrarle della festa di Halloween durante la quale era riuscita ad accalappiare l’ambita preda, che quella storica sera suonava il basso nella sua band scalcinata, quindi passò ad illustrare senza troppe cerimonie le sue interessanti prestazioni sessuali delle ultime due settimane e finirono per farsi rimproverare entrambe dalla professoressa di chimica, perché ridevano leziosamente con strombettii soffocati.

Nel cambio d’ora Eva raggiunse i tre ragazzi in fondo e Francesco tornò a sostituirla.

“Ci scommetto che so di cosa parlavate quando la prof vi ha cazziate,” esordì ridendo, e Giù sorrise colpevolmente.

“Di principi sul pisello,” ammise divertita.

Francesco le sganciò un occhiolino, malizioso.

“Ne dobbiamo trovare uno anche a te?” chiese, con fare losco.

Giù esitò, prima di lanciarsi in un inusuale slancio di confidenza.

“Credo di aver visto l’uomo dei miei sogni sull’autobus. L’ho guardato in faccia e nel mio cervello è partito il coro dell’Angelus della messa di San Pietro,” annunciò rapita, ricordando il meraviglioso sorriso di Tizio, le sue fossette e le sue dita affusolate.

“Però…C’era il dolby surround?” s’informò lui interessato.

Giù annuì solennemente e il ragazzo emise un fischio ammirato.

“Cazzo. Allora è Amore Vero,” commentò grave.

Scoppiarono a ridere in coro. Quando la professoressa di inglese entrò in classe e Eva tornò al suo posto stavano ancora sghignazzando come deficienti.

All’uscita da scuola Giù aveva stabilito definitivamente che la sua proverbiale sfiga l’aveva abbandonata, forse per non fare ritorno. Non c’era altra spiegazione al fatto che le due persone che le camminavano accanto le fossero simpatiche, che la sua sedia non si fosse rotta per ragioni ignote capottandola in terra ed esponendola al ludibrio dell’intera classe, come le era successo il primo giorno del primo anno di liceo, che il suo zaino non si fosse rotto riversando il proprio contenuto per le scale e che nessuno avesse commesso atti di bullismo nei suoi confronti.

Oppure, come una vocina savia continuava a sussurrarle nell’orecchio, c’era una madornale fregatura che l’aspettava perfidamente. Ricordati che sei Giù, ribadiva la vocetta, malvagia, e se sei giù non puoi essere su.

“Ci vediamo domani, Pi,” la riscosse Eva, sfiorandole il braccio, quando ebbero oltrepassato il portone d’ingresso nella calca degli studenti in uscita.

“Io…” mormorò lei, interrompendosi quando la mano di Francesco fece comparire magicamente nel suo campo visivo un pacchetto di sigarette. “Grazie!” trillò sollevata.

Il ragazzo si era sistemato accanto alla parete, per togliersi dal passaggio, ed Eva stava piantata accanto a lui. Giù li imitò, cavando fuori l’accendino dalla tasca del cappotto e rischiando poi di dar fuoco alla propria sciarpa.

Per qualche secondo nessuno dei tre parlò, quindi lei si calcò meglio il berretto sulla testa. I suoi capelli cominciavano a sembrare spaventosamente afro.

“Io vi ringrazio,” iniziò, di slancio. “Ero terrorizzata dal primo giorno di scuola perché sono sempre stata una sfigata cronica,” illustrò con una smorfia.

“Ti aspettavi un tormento?” chiese Eva, divertita.

Giù annuì, stringendosi nelle spalle.

“Pensavo che come minimo un gruppo di skinhead mi avrebbe appesa per le mutande al lampadario e invece tu mi hai persino offerto il caffè,” specificò, con un cenno del capo verso Francesco.

“Capirai, per trenta centesimi,” bofonchiò lui, palesemente lusingato.

Giù sorrise un po’ impacciata, stringendosi nelle spalle per ripararsi dal freddo. Eva continuava a guardarsi intorno con febbrile aspettativa e Francesco lanciò alla nuova amica un’occhiata d’intesa, cui Giù rispose con un ghigno malefico mentre il suo piede s’incastrava da solo in una crepa del marciapiede. Si aggrappò prontamente al ragazzo per evitare un capitombolo e quasi lo strangolò con il collo dell’eskimo.

Forse la sua nuova fortuna era strettamente circoscritta al perimetro interno del liceo Calvino.

“Allora, il tuo principe?” interloquì, recuperando l’equilibrio mentre Francesco tossicchiava.

Eva sbuffò pazientemente, scrollando la testa.

“La quinta b esce sempre per ultima e Stef è l’ultimo degli ultimi. È lento come la fila alla cassa della Coop,” illustrò rassegnata.

L’autobus numero 64 veleggiò in quel momento verso la fermata e Giù lanciò uno strillo, riconoscendolo.

“Il mio autobus!” ragliò allarmata, lanciando via la sigaretta che mancò di poco il cappuccio di un estraneo sfortunato. “Devo correre!”

“A domani!” la salutò Francesco, mentre Eva sventolava la mano sul suo scatto da velocista. Giù caracollò di corsa verso l’automezzo con lo zaino che rimbalzava sulla schiena, travolse due ragazzini del primo o secondo anno e si spappolò una tibia contro un idrante. Balzò sull’autobus all’ultimo secondo sventolando le braccia come pale di mulino, perse il berretto appena messo piede a bordo e la foresta dei suoi capelli esplose libera.

Ansimò, abbandonandosi contro il finestrino, mentre tentava di recuperare il fiato e si guardava cautamente intorno, speranzosa. Esaminò attentamente tutti gli altri passeggeri ma purtroppo non c’erano tracce di Tizio, della sua giacca raccapricciante e del suo sorriso da denuncia per molestie.

Peccato.

Sua madre la aspettava impeccabile con un piatto di maccheroni al sugo e un trancio di torta sacher grosso come un comodino. Era una fanatica della buona cucina e tra le mille attività cui si dedicava c’era quella di preparare leccornie per tutta la famiglia. Era quel genere di cuoca che ama preparare prelibatezze anche per se stessa e Giù non capiva come mai non fosse grassa come un porcello, ma questo le dava buone speranze per il futuro. Dopotutto le somigliava molto: da lei aveva preso i capelli a bomba atomica, i piedi a papera e la faccia tondeggiante, anche se disgraziatamente non possedeva un’oncia del suo carisma vulcanico e della sua grazia naturale.

“Allora, Pi, questa nuova scuola?” chiese Serafina, speranzosa.

La ragazza si sfilò il cappotto con espressione pensosa, emise uno sbuffo depresso e infine si aprì ad un sorriso luminoso.

“Ho due amici,” annunciò, ancora sorpresa lei stessa per quel felice evento.

Trascorse le due ore successive spiegando a Serafina tutto quello che le riuscì di descrivere di Eva, Fra’, il professor Ventura, la bidella, il Preside, la macchinetta del caffè, il suo banco verde e la corsa alla fermata. Quando smise di parlare le faceva male la gola e si sentiva contenta come non aveva pensato di poter mai essere nella nuova città.

Era dannatamente strano.

Forse stava diventando Buffy..?

 

 

 

 

 

 

 

___________________________________

 

 

 

 

Nunichan: Oh, grazie! Ahm, ammetto che al momento non so nemmeno bene io dove andrò a parare, la trama ha già subito tre modifiche sostanziali ma a grandi linee il fulcro continua a rimanere il medesimo. Quanto a Tizio… ^__^ L’effetto voluto era un po’ quello lì. Mi fa piacere che tu voglia seguire la storia, spero davvero di non deluderti.

Sky88: Certo che puoi chiamarla Pi, anzi, a lei fa molto piacere. Non ti azzardare ad uscirtene con Giusy o ti sfranteca la faccia. ^__^ Che altro dire…speriamo bene. Mi auguro di riuscire a mantenere la storia interessante. Grazie, alla prossima.

Aglaia: tesoro, tu mi commuovi. “Pasticcino”, awww! Lo so che mi sei fedele, e non sai quanto ti sono grata per questo. Davvero. Quanto alla nostalgia del liceo…bah. Per certe cose forse sì, ma la vita da universitaria mi calzava molto di più. Che altro…ah sì. La battuta, vedi, Giù se la fa anche da sola…^__^ Apresto, besos.

linduzz: Grazie! Ti somiglia? Beh, almeno vorrà dire che è un pochino realistica, il che mi conforta. Spero il resto della storia ti aggraderà altrettanto, alla prossima.

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Capitolo 4
*** III. L'ultima fila ***


III: L’ULTIMA FILA

 

L’indomani mattina Giù riuscì a non sentire la sveglia per tre volte di fila ed emerse dal groviglio delle coperte soltanto quando sua madre andò a prenderla a cuscinate. Ovviamente era di nuovo in ritardo, ma non stava più per affrontare il suo primo giorno di scuola quindi se ne strafregò della matita agli occhi, dei capelli a cespuglio, dei vestiti abbinati a pugni in faccia e dei calzini spaiati. Soltanto quando si fu gettata fuori dalla porta di casa, e una folata di gelido vento invernale le ebbe scosso il cervello intorpidito, ricordò la possibilità di incontrare Tizio sull’autobus e apparirgli in tutto il suo splendore di larva pesta e sgarrupata. 

Troppo tardi, considerò mesta zompettando in strada.

Una volta a bordo ebbe a malapena il tempo di osservarsi nel riflesso del finestrino e verificare con attonita rassegnazione la propria somiglianza con la copia troppo magra e bianca di Aretha Franklin in pigiama e cappotto, che un formicolio alla base della nuca la costrinse a spostare uno sguardo vacuo a lato. La sua mano tremò sulla sbarra cui era aggrappata e il cuore prese a galopparle in patto quando incrociò le pozze cerulee delle iridi di Tizio, distrattamente fisse su di lei in una sorta di catalessi soporifera.

Porco Giuda e Diavolo canterino, era assolutamente bello da far scricchiolare le ginocchia.

Quel mattino Tizio non era solo. Accanto a lui un ragazzo grassoccio e bruno blaterava enfaticamente, senza che Tizio sembrasse riuscire a seguire l’incatenarsi delle frasi. Persa nella contemplazione amorevole del suo mento magnificamente virile Giù considerò che doveva avere anche lui qualche problema con la sveglia mattutina, a giudicare dal modo in cui quelle palpebre dispettose si ostinavano a coprire parzialmente i suoi bellissimi occhi.

Tizio sbadigliò apertamente, spalancando le fauci come un ghepardo sotto il sole della Savana.

Sempre che i ghepardi vivessero nella savana. Forse quelli erano i leoni.

Adorabile, comunque.

Giù si concesse il lusso di esaminarlo più attentamente. Aveva già scannerizzato la giacca di pessimo gusto arancione quasi fosforescente, le lentiggini, i bei capelli chiari che scivolavano verso le spalle, dondolando qualche centimetro sotto le orecchie e spettinandosi, più in alto, in ciuffi un po’ più corti. Inoltre, scoprì, Tizio era parecchio alto. La giacca era aperta – niente di strano, su quel bus sembrava di stare in un forno pronto per cuocere la pizza – e lei poté venire a sapere con gran gaudio che lui aveva un bel fisico snello e mediamente atletico, da quel che si poteva capire tra il maglione grigio e slabbrato e i pantaloni neri cadenti.

Sospirò tra sé, ammaliata.

L’uomo della sua vita prendeva il suo stesso autobus. Tu guarda a volte i casi, si poteva ben dire.

Il suo sguardo adorante dovette risultare alla lunga un tantino invasivo, perché alla fermata numero due Tizio si riscosse sbattendo delicatamente le palpebre e sembrò riemergere da un lungo sonno: raddrizzò il busto, strizzò gli occhi un paio di volte e infine la vide.

Non che fosse in qualche modo difficile notare una psicopatica appesa a un sbarra a bocca aperta, con la testa sporta verso di lui e  l’espressione di chi sta assistendo a una performance live dei Rolling Stones a proprio esclusivo beneficio. Mancava solo un filo di bava al lato delle labbra, gemette Giù nei propri pensieri distogliendo vergognosamente lo sguardo. Avvampò come un furgone dei vigili del fuoco fissando vacua il cartellino dei posti per gli handicappati. Con un po’ di fortuna Tizio le avrebbe rivolto la parola, solo per suggerirle di accomodarsi lì.

Invece, quando si azzardò a spostare nuovamente uno sguardo cauto verso di lui, lo scoprì completamente indifferente e intento a chiacchierare col grassoccio. Tese l’orecchio per riuscire a captare quale fosse il contenuto della conversazione e fu così che udì una bella voce profonda e leggermente rauca esclamare un soave “porco cazzo”.

Intimamente gioì. Aveva anche il suo stesso lessico raffinato.

Poi l’autobus sferragliò fermandosi davanti al liceo Calvino e Giù balzò a terra cercando di prendere tempo e trattenersi in mezzo al passaggio, di modo da costringere Tizio a chiederle di nuovo di passare. Invece lo vide incamminarsi verso l’ingresso della scuola poco lontano da lei.

Era passato dalla porta dietro.

Giuuù-ù!” la raggiunse in quel momento un ruggito sonoro.

Francesco stava più o meno rotolando giù dalla via che si arrampicava verso il quartiere collinare, con un casco al braccio e l’eskimo sventolante. Fendeva la calca dei compagni di scuola dall’alto del suo metro e novanta o giù di lì, sorridendo beato nella sua direzione.

Giù si sentì contenta senza una ragione particolare, soltanto perché era il suo secondo giorno di scuola e c’era già una persona che sembrava davvero felice di vederla. Lo aspettò senza sentirsi troppo intimidita da tutte le persone sconosciute che le camminavano intorno e Francesco la raggiunse con un’altra delle sue pacche.

“Hai rivisto il tipo dell’Angelus?” esordì allegro, accendendosi una sigaretta.

Giù sospiro estasiata, annuendo ripetutamente.

“Proprio ora. Bello come un putto del Botticelli,” affermò gravemente.

“Dai, indicamelo che ti dico tutto quel che c’è da sapere. A parte me i begli uomini son quattro gatti, in questa scuola,” la incalzò lui, scrutando vivacemente la piazzola affollata. Giù trovava stupefacente tanta elettrica vitalità alle otto meno dieci del mattino.

“Come fai ad essere così sveglio?” chiese, con genuina ammirazione.

Francesco si strinse nella spalle, modesto.

“Sono venuto in motorino. Senza guanti.”

Giù rabbrividì al pensiero, cercando attentamente la sagoma di Tizio tra quelle degli altri allievi del Calvino, ma del suo colpo di fulmine non c’era più traccia.

Dev’essere già entrato,” borbottò delusa.

Vabbè, dai,” commentò Francesco accomodante. “Nell’intervallo lo rintracciamo. Com’è fatto?”

Giù esitò, persa nella mistica ricostruzione della perfezione dell’amato.

“E’ bello,” rispose, sintetica e precisa.

“Ah, ho capito chi dici,” osservò Francesco sarcastico, levando lo sguardo al cielo.

Lei ridacchio ebete, prendendo fiato.

“E’ alto e affascinante e si veste da cani,” aggiunse, più esaustiva.

Francesco aggrottò la fronte, sospettoso.

“Sarà mica quel grandissimo coglione di Mattia Galleani?”

Un coglione. Perfetto. Considerata la sua spiccata propensione ad invaghirsi del classico pirla della situazione, il suo colpo di fulmine non poteva che essere il re delle teste di cazzo. Aveva un senso.

“Probabilmente,” mugugnò Giù fatalista. “Non ne ho idea.”

Francesco fece per parlare nuovamente, fraterno.

“Ciao Franz,” intervenne invece Gregorio detto Greg, avvicinandosi con passo ciondolante. Giù sorrise timidamente al compagno di classe, accennando un saluto, mentre Francesco lo accoglieva con un’altra pacca, stavolta virile, e Giù ritenne che non potesse che aver frantumato qualche costola al ragazzo, di costituzione piuttosto mingherlina.

“Ehilà, biondo,” esclamò il gigante ignaro. Greg sorrise dietro la coltre di capelli corvini, poi mosse il capo verso la nuova allieva.

“Ciao…Giù,” salutò dopo una leggera esitazione.

Era avvolto in un maglione di lana grezza, grosso quanto due omini Michelin e contornato di sciarpine colorate di sapore tibetano. Nonostante questo riusciva a sembrare minuto accanto alla massa muscolosa di Francesco nel suo eskimo peloso.

“La squinzia l’hai nascosta?” domandò questi, sparpagliando cenere come se stesse nevicando.

“E’ andata con Patty a comprarsi la brioche,” rispose Greg, mite. Giù ricordò le informazioni avute il giorno prima da Eva: Gregorio, vicino di banco di Francesco, usciva con Laura detta Lalla, a sua volta vicina di Patrizia aka Patty. Insieme, i quattro costituivano lo zoccolo duro dell’ultima fila settore est; a sinistra, insomma. Tutto tornava, in fin dei conti.

“Oggi mi sgama di filo,” continuò Greg tristemente, portando alle labbra una sigaretta di trinciato che, dall’odore, Giù riconobbe immediatamente non essere tale. L’aroma di erba si spandeva leggero, con grazia discreta. Considerato che si trovavano a quattro metri dall’ingresso del liceo e che un insegnante era appena passato al loro fianco, lei ne dedusse che Greg non doveva essere particolarmente intimidito dall’autorità costituita.

“Chi è l’ultimo che abbiamo studiato?” s’informò Francesco distrattamente.

“Cartesio. Credo,” rispose Greg, non senza incertezza.

Giù non poté reprimere un risolino, proprio mentre la campanella suonava l’inizio delle lezioni. Francesco e Greg lanciarono via le loro paglie in sincrono avviandosi all’interno e quest’ultimo espulse l’ultima sostanziosa boccata di fumo già nell’atrio, tossicchiando delicatamente. La bidella lo scrutò con odio atavico e profondo e Gregorio replicò con un angelico sorriso. Giù scoppiò a ridere apertamente, seguendo i due compagni verso il terzo piano.

Durante l’interrogazione di Greg della seconda ora l’astuccio di Giù si ribaltò in terra, seminando penne, matite, pennarelli, biglietti ingrigiti, scontrini, biglie, linguette di lattine, clips e rimasugli di gomma per cancellare fino al fondo dell’aula. Arrossendo nuovamente la fanciulla si mise in caccia di resti, tra i sorrisi amichevoli o pietosi di qualche generoso che le porgeva i pezzi. Ad allungarle il prezioso tappo della prima birra che si era comprata alla tenera età di tredici anni fu appunto Patty, nell’ultimo banco coté finestra. Si scambiarono un cortese sorriso e nulla più, perciò Giù fu piuttosto sorpresa di vedere le due ragazze appropinquarsi al suo posto allo scoccare dell’intervallo, quando Eva scomparve di nuovo come se l’avessero sparata via dalla sedia con un cannone.

“Come va?” le chiese Patty, con l’espressione di chi porge le condoglianze ad una vedova fresca di lutto. Giù ingoiò la timidezza e si ravviò nervosamente i capelli. La sua mano restò incastrata in un nodo e mancò poco che si staccasse tutta la ciocca.

Ahio. Meglio prima,” borbottò dolorante.

Patty rise, di una bella risata cristallina ed acuta. Accanto a lei Lalla giocherellava col piercing al labbro e sorrideva leggermente, assorta nella contemplazione di Greg che si contendeva un pacchetto di patatine con Fra’ a colpi di righello.

“Mi piacciono i tuoi capelli,” continuò candidamente Patty. Giù sgranò gli occhi e la guardò allibita, puntandosi istintivamente il dito contro nell’insicurezza che parlasse davvero a lei. Patty annuì spiccia. “Sono creativi,” aggiunse a mo’ di spiegazione.

Creativi.

Beh, quello era il complimento più creativo che le fosse mai stato fatto.

“Grazie,” mugugnò perplessa.

“Patrizia si colora i capelli una volta al mese e se li arriccia, se li spunta, li tortura da anni,” intervenne Lalla noncurante, spostando finalmente uno sguardo pacifico dal suo ragazzo. “Ignorala.”

“Sei una stronza. Lo sai, sì?” la rimbeccò l’amica con un spintone.

Giù le osservò educatamente mentre prendevano scherzosamente a darsele, finché Greg si intromise distribuendo amichevoli schiaffoni con una mansuetudine spiazzante. L’arrivo di Francesco, che con una singola spintarella scaraventò quasi Patty contro la parete, sancì la fine della lotta.

“Sei il solito vitello sovrappeso, Turco,” commentò Lalla rassegnata.

“E tu sei una…”

“Zitto lì, che poi devo cercare di menarti e mi rovini,” s’intromise Greg pazientemente, allungando furtivo una mano e rubando qualche patatina dal pacchetto che l’amico gli aveva sottratto.

Giù continuava a guardarli. Le sarebbe piaciuto intervenire e dire qualcosa di divertente, ma aveva paura che invece le sarebbe uscita una frase stupida e sciapa e finì per tacere. Ma Francesco si voltò verso di lei e le sorrise radioso.

“Non mi hai ancora dato il tuo numero di cellulare, Giù,” osservò bonario, come rimproverandole una leggera mancanza.

“Porco,” sentenziò Lalla truce, e Patty scoppiò di nuovo a ridere.

“Tre volte scema!” ribatté lui piccato, mimando uno sganassone. “E’ appena arrivata e non conosce nessuno, per quello le ho chiesto il numero,” aggiunse altezzoso, sollevando il mento all’aria.

“Oh, anch’io devo darti il mio, Pi,” piovve la voce trasognata e composta di Eva, che si sporse il quel momento a scavalcare il banco.

“Già qui? L’hai scaricato?” ghignò Francesco.

“Ti piacerebbe, eh?” replicò lei con fare superiore, sventolando i capelli con movenze da vamp.

“Come no, non vedi quanto patisco la gelosia?” replicò lui melodrammatico.

“Mi pareva, in effetti. Ti ho visto subito un po’ gracile e sciupato,” commentò Giù gravemente, scribacchiando il proprio numero di cellulare su un bigliettino. Eva scoppiò a ridere e Francesco storse comicamente il naso, mentre Greg scoppiava in un ridacchiare asmatico da malato di tisi.

Al suono della campanella sciamarono tutti ai loro posti e fu mentre la professoressa di francese entrava in classe che Eva si voltò verso di lei, con espressione assorta e pensierosa, e la guardò seria.

“Lo so che non mi conosci e che quindi non ti sembrerà particolarmente strana come informazione,” iniziò, quieta, “ma penso di essere innamorata.”

Giù spalancò gli occhi e la guardò incerta, senza sapere se congratularsi o esprimerle tutto il suo più sentito cordoglio. Dall’espressione della sua faccia sembra non saperlo nemmeno Eva, se fosse una notizia positiva o meno.

Allora sorrise, ironica.

“Buona fortuna,” augurò.

Con un po’ di fortuna anche per lei – un po’ tanta, magari, ma perché porre limiti alla Provvidenza che al momento le sembrava amica – entro qualche settimana avrebbe potuto dire la stessa cosa di sé e Tizio. Wow.

Eva ridacchiò e la professoressa iniziò a spiegare.

Le lezioni finirono proprio quando Giù cominciava a credere che non avrebbe potuto fare a meno di addormentarsi e mentre si avviava all’esterno con i suoi nuovi amici, o qualcosa del genere, realizzò di cominciare a credere che la sua nuova vita fosse addirittura migliore della precedente e l’ipotesi le sembrò trovare inoppugnabile conferma quando, ferma sulla piazzola ad accendersi una sigaretta col gruppetto di nuovi compagni, vide Tizio emergere dalla porta dell’istituto. Individuò a colpo d’occhio l’arancione della sua giacca, poi ritrovò il sorriso, le fossette, le ciocche dorate che accarezzavano il collo e infine il cielo primaverile degli occhi che, per una sorta di miracolo divino, dardeggiavano splendenti proprio nella sua direzione.

Tizio avanzò verso di lei con andatura ferma e morbida, le mani cacciate in tasca. Dopo un paio di passi scosse leggermente la testa per scostare un ciuffo di capelli dal viso e Giù non seppe trattenere un sospiro estatico degno del testimone di una comparsa della Vergine Beata.

Era troppo bello per essere vero. Stava venendo proprio verso di lei.

Non poteva essere.

E infatti in quel momento Eva si mosse accanto a lei, si slanciò in avanti con entusiasmo e spiccò un saltello atterrando con precisione tra le braccia di Tizio che, invece di gettarla a terra come Giù egoisticamente sperò per un istante, piegò il collo per andare a depositare le sue labbra da film porno per casalinghe su quelle della sua vicina di banco.

Giù sentì distintamente il suono lugubre dei propri polmoni che scoppiavano con lacerazione di mucosa e le gambe cederle malamente, mentre i suoi occhi si sgranavano con orrore e la salivazione le si azzerava completamente. Realizzò immediatamente la triste, drammatica realtà dei fatti.

Tizio era Stef.

 

 

 

 

 

 

 

__________________________________

 

 

Ahm.

Devo a tutti delle scuse per questa immonda lentezza nell’aggiornare. Purtroppo ho iniziato, ahinoi, a lavorare e devo ancora organizzare bene le mie ore libere, il che mi ha portata a poter postare soltanto un paio di fic cortissime e altre due (una e mezza) vecchie che avevo lì.

C’è un pezzo di questa storia già pronto e poi è da continuare, ma sto cercando di non finire subito di sottoporvi la parte già scritta, così avanzo pian piano a passo con la stesura.

Ciò detto.

 

_sefiri_: Mille grazie! Spero l’opinione si sia mantenuta invariata con questo nuovo capitolo. Alla prossima!

Little Jewel: …Ho il sospetto che il tuo sospetto abbia trovato conferma. No? Inoltre sì, ho rifilato a Fra’ alcune delle mie passioni cinematografiche (i Monty Python, aaaah! Che ridere, cielo!) Che altro, grazie mille per i complimenti e spero il seguito non deluda le aspettative. A presto.

fog: WOOOOOOW! TU! TU, TU! Oh, che bello, che gioia, che bello! Guarda, mi dispiaceva aver cambiato momentaneamente fandom specialmente perché sapevo che non ci saresti stato…ed eccoti qui sulla mia originale. Dunque, che dire. Come al solito le tue entusiastiche recensioni a fiume mi toccano tantissimo, come al solito mi lusinghi e come al solito quell’altro gelosino (ciao!) farà bene a rassegnarsi al nostro mistico e arcano legame psicologico-mentale(-patologico?). quanto a Giù e la strada da fare, come vedi gli esordi non promettono molto. Chissà. Un abbraccio, nel frattempo.

kry333: Grazie. Dunque, penso di averti accontentata. Per cominciare, ecco svelata l’identità di Tizio. Per il resto, chi vivrà vedrà…^__^

linduzz: ^__^ Grazie! Fra’’ è un personaggio per me importante sotto parecchi punti di vista, sono contenta che abbia catturato qualche simpatia. Speriamo bene per il resto… Alla prossima!

Urdi: oh, chi si vede. Ho visto che sei tornata e spero tu stia meglio e vada tutto bene – nei limiti del possibile. Quanto alla recensione, sono molto contenta del tuo parere positivo e spero di mantenerlo invariato con il resto della storia. Vero che è strano, anche a me sembra essere passato molto meno tempo di quanto è, dall’epoca dei miei diciotto anni. Sarà che la maturità non è poi molto aumentata…^__^ Con questo, passo e chiudo. A presto!  

 

Saluti a tutti

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Capitolo 5
*** IV. Stef ***


Capitolo di una certa importanza, che vi sottopongo con trepidazione.

Avrete modo di conoscere ben due personaggi che mi sono piuttosto cari, ma ovviamente il più importante è colui che dà il titolo al capitolo. Finalmente facciamo una breve panoramica su Stef, o Tizio che dir si voglia.

Aspetto le vostre impressioni…?
Buona lettura.
suni

 

 

 

 

IV. STEF

 

 

Giù rimase a guardare atterrita Eva che baciava con entusiasmo il suo uomo dei sogni, avvertendo una sensazione fisica non del tutto dissimile ad una violenta badilata nello stomaco. Rimase immobile per quel che le parve un centinaio di anni, senza riuscire nemmeno a sbattere le palpebre, poi finalmente Eva prese fiato e si voltò indietro raggiante, allacciando la mano a quella del ragazzo.

“Ti ho parlato della mia nuova vicina di banco, Pi. Pi, questo è Stefano,” annunciò pomposa, con l’aria di stare facendo le presentazioni tra il Presidente degli Stati Uniti e la Regina d’Inghilterra.

Giù tento disperatamente di trovare la voce o almeno l’aria per parlare, ma tutto quello che le riusciva di fare era guardare gli occhi di Tizio – Stef, era Stef – e il suo sorriso luminoso, amichevolmente rivolto a lei. Un guizzo acuto delle iridi cerulee le fece intuire che lui l’avesse riconosciuta come la strana persona mentalmente instabile dell’autobus, ma comunque fosse il ragazzo si limitò a tenderle la mano con un gesto spontaneo e deciso.

“Ciao, Pi.”

Per qualche inspiegabile fenomeno la sua voce grave e profonda modulava quelle due semplici lettere, p e i, come nessun’altra mai. Giù tese un braccio con fatica disumana e abbandonò stremata la propria mano in quella di lui.

“Ciao,” squittì, tentando malamente di celare la disperazione.

“Ciao, Landolfi,” intervenne Fra’ svagato sovrastando l’interlocutore, con quello che a Giù parve deliberato compiacimento, di quasi tutta la testa. Lei continuava a lasciare la mano inerme nella presa sempre più incerta di Stefano, con un’espressione distratta e il più possibile innocente. Forse se avesse fatto finta di nulla abbastanza a lungo lui avrebbe smesso di badarci e l’avrebbe portata via con sé senza rendersene conto.

“Ciao, Franz,” rispose il ragazzo con lo stesso tono distaccato, ritraendo il braccio.

Giù, nel panico più assoluto, sfuggì lo sguardo di Eva, sperò di non stare arrossendo un’altra volta e dopo esserselo sfilato dalle spalle istericamente cacciò la testa nello zaino quasi per intero, fingendo di cercare le sigarette. Ovviamente non erano lì e lo sapeva, ma borbottò comunque qualche sillaba casuale che voleva suonare come una lamentela prima di alzare lo sguardo ad occhi sgranati, ritenendosi somigliante a qualcuno che ha appena avuto un’illuminazione improvvisa o alternativamente che è passato sulla sedia nella prigione statale del Texas.

“Vuoi per caso una siga?” chiese Stef, cavando fuori come un prestigiatore un portasigarette di metallo da boss mafioso che non ci azzeccava nemmeno lontanamente con la giacca, i capelli e tutto il resto. Giù pensò di rispondere che si era ‘appena ricordata’ di avere il suo pacchetto in tasca ma poi tornò a guardarlo e l’unica risposta che le venne di dare era e tu vuoi per caso sposarmi? Ritenendo tuttavia che il tenero sorriso che Eva stava tributando al suo uomo e alla sua compagna di banca osservandoli commossa mentre interagivano, come se fossero stati due oranghi allo zoo, avrebbe potuto trasformarsi in una smorfia omicida, si limitò ad annuire con un gorgoglio di asfissia, come un lavandino otturato.

Francesco si era rimesso a ciarlare con Greg e il suo vocione le risuonava da qualche parte vicino all’orecchio, senza che le sue parole avessero per lei un senso compiuto. Percepì invece perfettamente la successiva frase di Stefano.

“Allora, Pi, quant’è che sei arrivata in città?”

Era difficile non perdere la cognizione del tempo davanti a un viso del genere e Giù rifletté febbrilmente per qualche secondo: una settimana? Dieci anni?

“Mercoledì scorso,” rispose la sua voce per lei, in un pigolio orrendo.

“Ma è venuta a scuola solo ieri perché è una lavativa,” precisò Francesco con nonchalance.

Giù si voltò a guardarlo come se fino ad allora non si fosse resa conto di averlo accanto, e fu così che vide di nuovo l’autobus 64, stavolta già drammaticamente giunto alla fermata e sul punto di ripartire.

“Oh cazzo!” trillò enfatica. “Il mio minchia di autobus mi lascia qui!”

Scorse gli occhi di Lalla farsi compassionevoli e Greg grattarsi la testa con leggera perplessità.

“Ne passa un altro tra cinque minuti,” la informò Stef distrattamente.

Effettivamente aveva una logica. Era piuttosto raro che un autobus di linea passasse due volte al giorno, avrebbe potuto pensarci da sola.

“Oh. Eh. Beh, già,” articolò imbarazzata.

“Possiamo prenderlo insieme,” continuò gentilmente il ragazzo.

A Giù tremarono persino i piedi.

“Certo,” cinguettò atterrita.

Francesco la stava fissando vagamente ebete, in silenzio. Soltanto Lalla e Patty confabulavano sottovoce e Greg fingeva di girarsi una sigaretta con delle briciole di hashish talmente grosse, sparse tra il trinciato, che sembravano quadretti di cioccolato Novi. Eva, invece, continuava a stringere le dita di Stefano come se lasciandole il ragazzo avesse potuto precipitare da un dirupo.

“Allora vengo a cena da te?” chiese poi, radiosa.

Stefano annuì, rivolgendole un sorriso che avrebbe avuto ragione anche di Adolf Hitler.

E Francesco, percepì Giù, la stava ancora fissando.

“Oh, Pi!” esclamò poi la ragazza, entusiasta. “Potrei venire a casa tua nel pomeriggio, prima di andare da Stef. Tanto abiti a cinque minuti da lui!”

Francesco sgranò gli occhi, strafulminato dalla comprensione della realtà, ma Giù non se ne accorse, spalancando a sua volta i propri. Primariamente per la scoperta struggente di sapere ex-Tizio come suo vicino, quindi per l’idea di Eva a casa sua. Come un’amica vera. Qualcosa le scattò dentro annullando per un momento il pensiero del ragazzo e un sorriso spontaneo e smagliante le arcuò le labbra. Eva. A casa sua.

D-dici?” chiese, svanita.

“Se ti va,” confermò Eva annuendo.

“Sì. Sì, certo che mi va!” E rise, sentendosi immensamente stupida agli occhi di chiunque. Ma rise lo stesso, infischiandosene.

“Vengo anch’io?” propose Patty titubante. Giù si voltò come se l’avessero caricata con la molla, la bocca semiaperta e lo sguardo da triglia.

“Sì!” belò esaltata. “Sì, certo!”

“Perfetto,” commentò Stef soddisfatto, nemmeno lui c’entrasse qualche cosa. “Andiamo, Pi?”

Anche in Messico, se vuoi, e dire che detesto i deserti, pensò Giù con fervore. Invece tacque mentre lui coinvolgeva Eva in un bacio che si affrettò a non guardare, girandosi di scatto verso Greg, che stava leccando la cartina per chiuderla. Il ragazzo rimase immobile, con la punta della lingua sporgente tra le labbra socchiuse.

“Devi dirmi qualche cosa?” biascicò disponibile. Giù arrossì e scosse energicamente la testa.

“Beh, io faccio quello che si leva dai coglioni,” annunciò Fra’, mostrando il casco. “Ci si vede, pueblo,” salutò genericamente, mantenendo lo sguardo fisso su di lei per un paio di secondi.

“Mi porti?” chiese Patty soave.

“Comprati un casco, Traversi!” la sfotté lui, incamminandosi con le sue falcate elefantesche.

La ragazza gli mostrò fieramente il dito medio e sospirò melodrammatica, sistemandosi lo zaino.

“A domani, e a dopo!” salutò, sventolando la mano prima di incamminarsi verso l’altra fermata.

“Portami il cd a scuola!” le strillò Lalla mettendo le mani ad imbuto.

“Pronti?” risuonò calda la voce di Stefano.

V-via,” balbettò Giù esitante.

Pronti era una parola grossa. In sua presenza si sentiva pronta giusto ad arrossire.

Eva si fece dare l’indirizzo esatto, assicurò che l’avrebbe trasmesso a Patty e slacciò finalmente la mano da quella di Stef. Era tempo, perché l’autobus arrivava cigolando.

“Muoversi, soldato!” esclamò lui incamminandosi rapido. Giù gli andò dietro trasognata, lo imitò quando lo vide lanciarsi in una corsetta leggera ed ovviamente all’ultimo riuscì a centrare in pieno lo scalino del marciapiede, perdendo l’equilibrio. Atterrò contro il suo zaino e lo scaraventò in avanti. Stefano si schiantò contro la fiancata dell’autobus con un rumore di medusa spiaccicata sulle rocce.

“Merda! Cazzo, cazzo, scusami!” gemette Giù avvilita, zoppicando verso la porta.

“Sali, dai,” replicò lui impassibile, spintonandola a bordo e saltando su a sua volta.

“Mi dispiace da morire, io…” farfugliò lei, di nuovo violacea e congestionata.

“Non fa niente. Dopo che ieri mi hai frantumato il fottuto mignolino, mi aspetto di tutto,” rispose lui noncurante.

Mignolino?” ripeté Giù, senza capire. Stefano annuì col suo quieto e perfetto sorriso da Monna Lisa, poi afferrò il suo polso – la colorazione delle guance di Giù, a quel punto, poteva ricordare soltanto una stanga di tungsteno incandescente – e la portò ad aggrapparsi alla sbarra con inaspettata previdenza.

“Quando mi sei precipitata sui piedi con le tue pantofoline da legione straniera,” le ricordò ameno.

Giù desiderò vivamente morire subito.

“Oh…i-io non…ti chiedo sc…” mormorò mortificata.

“Non stare a scusarti continuamente,” la interruppe Stef tastandosi cautamente il naso, forse nel timore che l’urto contro il bus l’avesse danneggiato.

Giù annuì docilmente, silenziosa e affascinata. Stefano smise di toccarsi il naso e lo arricciò un po’, quindi parve decidere che era incolume e sorrise senza ragioni particolari. Giù ne fu felice come se fosse stato Natale, perché quel sorriso era indescrivibilmente bello.

Decise che doveva dire qualcosa, tanto perché non rimanessero entrambi in silenzio a fissare i finestrini. Si schiarì la voce emettendo un raschio sgradevole, conseguentemente arrossì e infine gemette sillabe casuali.

“Eh?” fece Stef perplesso.

“E’…molto tempo che prendi questo autobus?”

Pose la prima, stupida domanda che le passò in mente e appena l’ebbe pronunciata si rese conto che si trattava di una solenne idiozia. Quello era l’autobus per andare a scuola, ovvio che lo prendesse da anni. Pensò per qualche secondo di sbattere la testa contro lo spigolo di un sedile abbastanza forte da schizzare sangue tutt’intorno, ma Stef aveva spalancato leggermente gli occhi con aria assorta e si grattava il mento.

“Sai che è strano?” replicò soave. “In realtà, no. Ho la macchina dal meccanico, di solito vado con quella,” spiegò spiccio. “Cazzo, come hai indovinato?” continuò curioso.

Giù spalancò la bocca, incredula. Era partita dicendo una cagata clamorosa e invece stava ancora passando per quella connessa mentalmente o qualcosa del genere. La nuova città le faceva veramente bene.

“A-ah io…non so,” borbottò spaesata.

Stefano annuì svagato, poi si strinse nella spalle, sfregando inavvertitamente lo zaino contro la faccia di un bambino per mano alla madre.

“La riprendo la settimana prossima. Potrò portarti alla porca scuola io, tutti i giorni,” osservò contento.

Il fisico di Giù ebbe uno strano tipo di reazione incontrollata: il fiato smise completamente di raggiungerle i polmoni, un brivido di gelo le percorse la schiena e poi un gran calore la fece avvampare da capo a piedi, mentre i suo cervello lanciava un grido incomprensibile.

F-forte,” boccheggiò stridula.

Non seppe mai se lui la pensasse nello stesso modo, perché in quel momento il grassoccio della mattina e un altro tizio allampanato si avvicinarono salutando calorosamente Stef. Lui la presentò immediatamente a tali Jack e Max rispettivamente, poi Giù rimase in religioso silenzio mentre chiacchieravano tra loro, scoprendo nell’ordine che:

- Stef diceva parolacce del tutto a caso ed esclusivamente fuori contesto, senza valide ragioni al fine della conversazione.

- Aveva un che di ingenuo ed innocente che la mandava completamente in orbita e sembrava essere appena piovuto sulla Terra dritto da Urano o qualche altro pianeta ultraterreno, con le sue maniere placide da giovane Buddha e i suoi occhioni larghi, serafici.

- si sarebbe sicuramente innamorata di lui entro massimo tre settimane; due, se avesse iniziato veramente a portarla  a scuola.

“La tua fermata, Pi,” la riscosse lui chissà quando. Giù fece appena in tempo a riconoscere l’angolo della sua via prima che le mani uscenti dalla giacca arancione la spintonassero verso la terraferma, ove planò investendo un tredicenne.

“Salutami Eva,” si congedò Stef, subito prima che la porta si richiudesse tra loro. Giù poté soltanto sollevare debolmente la mano in un saluto estatico e disperato. Eva. Già, Eva.

Giù sospirò tristemente, incamminandosi mogia verso il portone di casa. Quando giunse sulla soglia del suo alloggio aveva già sviluppato la drammatica certezza che sarebbe rimasta innamorata di Stefano a vita e che lui avrebbe sposato Eva, che a sua volta avrebbe voluto proprio lei come testimone di nozze, e Giù sarebbe morta senza mai rivelare il suo grande amore segreto, zitella e circondata da otto cani, unici fedeli compagni della sua vita.

“Tutto bene, Jo?”

Sorrise debolmente a suo padre, affacciato in ciabatte dalla soglia dello studio.

Marco Corioli era l’esatta dimostrazione del fatto che la genetica è un’opinione, nell’ottica di Giù. Altrimenti non si sarebbe potuto spiegare come mai suo padre possedesse una chioma lucida e corvina, naturalmente serica, un volto smaliziato da Indiana Jones e un sorriso da squalo d’acqua dolce che faceva tremare le gambe a tutte le sue colleghe. La mamma minacciava a cadenza settimanale di presentarsi in ufficio armata di una sacca colma di molotov e una di dinamite, ma Marco rideva e la abbracciava stretta, finché sua moglie non gli mollava una gomitata in direzione inguinale borbottando ingiurie velenose verso il resto del genere femminile che non fossero lei, sua madre e sua figlia. La suocera non costituiva eccezione, in quanto Serafina aveva altre ragioni valide per includerla tra gli oggetti del proprio odio.

“Sì, papà,” biascicò Giù senza convinzione.

“Jo?” insistette lui sollevando un sopracciglio.

Giù lo guardò in faccia. Tutto quel che avrebbe potuto dire era qualcosa come: ho incontrato il ragazzo dei miei sogni e me lo mangerei con tanto di giacca ma lui esce con la mia nuova amica, che è adorabile, e io voglio uccidermi perché sono entrambi così carini con me e sento che sarà un lungo martirio. Poteva dirlo, in realtà. Suo padre avrebbe capito e una volta lei gliene avrebbe parlato davvero. Fino a tre mesi prima era il suo confidente prediletto, sapeva più cose di lei della mamma, con cui pure aveva un grande dialogo.

Quando Giuseppina era nata sua madre aveva diciotto anni e suo padre diciannove, e forse era stata la scarsa differenza di età a mantenerli vicini e in sintonia con lei anche durante la tempestosa adolescenza della figlioletta; Giuseppina in origine ovviamente era stata un “incidente”, anche se la sola volta che aveva usato quella parola riferendosi a se stessa, in uno sciocco litigio – voi non mi capite, non v’importa di me, sono solo un incidente, erano state le sue testuali parole – Marco le aveva rifilato l’unico schiaffone della sua vita.

Era successo a settembre, quando le avevano annunciato del trasferimento. Quello schiaffo e quella notizia erano rimasti tra lei e suo padre come un muro di cemento e nemmeno Serafina aveva potuto farci nulla.

Giuseppina aveva quasi smesso di parlargli, da allora. Aveva smesso di sorridere quando lui la chiamava Jo – come la Josephine March di Piccole Donne, il libro che le leggeva sempre da piccola per farla dormire – e di raccontargli cosa le succedeva, e lui doveva aver avuto paura di peggiorare le cose.

Quindi Giuseppina non gli spiegò la situazione. Non era il caso, dopotutto.

“Scusa. È solo…strano,” borbottò invece, vaga.

Lui espirò lungamente, avvicinandosi di un paio di passi.

“Jo, so che ce l’hai con me. Ti capisco. Avevi tutti i tuoi amici e quel ragazzo a Trento e ho rovinato tutto. Ma vedi…”

“Lascia perdere,” lo interruppe lei nervosamente. “Oggi…oggi vengono due mie compagne a casa,” biascicò atona.

Il sorriso sfolgorante che si disegnò sul volto del padre le fece quasi male agli occhi, da quanto era il sollievo che esprimeva. Giù ne accennò timidamente un altro in risposta e Marco le indicò la cucina.

“La mamma non c’è, andava a un colloquio per un lavoro. Io ho preso il pomeriggio libero. Ho preparato i tacos.”

Giù annuì, sfilandosi il cappotto.

Eva arrivò alle quattro in punto, scampanellando al ritmo di Yellow Submarine. Aveva un sacchetto colmo di croissant e sorrideva curiosa. Giù non fece in tempo a farla accomodare che Marco si catapultò nell’ingresso con la mano tesa e per venticinque minuti chiacchierò così amabilmente con la ragazzina che Giù venne a sapere una quantità di cose a lei ignote su Eva: abitava  in collina, nella zona residenziale; non era figlia unica, aveva due fratellini di tredici anni, gemelli, Simone e Samuele; era nata a Praga e sua mamma era ceca; le piaceva il tè e sì, sarebbe stata ben lieta di berne una tazza.

“Che simpatico,” commentò leggiadra quando Giù riuscì a trascinarla in camera, abbandonando il genitore all’incombenza del bollitore.

“Lo fa solo perché lo odio,” mugugnò lei chiudendosi la porta alle spalle.

Eva sgranò gli occhi, stupita.

“Tu? Perché?” chiese, guardandosi intorno.

La stanza era chiara, luminosa e ancora un po’ spoglia. Erano rimaste delle scatole da disfare e c’era parecchio caos, ma a Giù piacevano il grande letto in ferro battuto in cui dormiva da sempre e il suo largo armadio di legno di noce in stile liberty, e anche Eva sembrò apprezzare.

“Carino,” commentò schietta. “Sai cosa dovremmo fare? Comprare qualche poster e delle fotografie. Ti posso portare in un bel negozietto che so io, un pomeriggio,” propose cortese.

Giù sorrise sollevata, sentendo crescere l’entusiasmo.

“Sarebbe fico,” concordò contenta.

“E’ per il suo lavoro che vi siete trasferiti, mi pare?” indagò ancora Eva, sedendosi cautamente sull’angolo del suo materasso.

Giù annuì in silenzio, arricciando il naso.

Si sentì improvvisamente una ragazzina stupida intestardita nel bisticciare col padre – cosa che in effetti, a ben guardare, poteva sembrare – e si domandò se non fosse così che la vedeva Eva. Si mordicchiò un labbro e sognò nuovamente il passamontagna, la chirurgia e il cane per ciechi.

“Beh, ma è una cosa buona. Ora conosci me e Fra’ e i ragazzi e Stef,” continuò Eva, radiosa.

E Giù sorrise con lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

_________________________________________________________

 

 

 

_sefiri_: Oh, grazie. Pi è commossa dalla tua partecipazione ai suoi drammi e dalla tua comprensione. ^__^ Che dire, penso che momenti del genere siano capitati a tutte, prima o poi. Ed ecco, ora l’hai vista interagire con lui... Alla prossima.

Hipatya: oooh, che bello vederti qui! Che dire, mi ha molto lusingata e inorgoglita la tua recensione. Sono rimasta lì come una scema con un gran sorriso e il cuoricino un po’ accelerato. Ah, sì, per giunta: viva Calvino! Il nome del liceo non è scelto a caso, non avrebbe potuto essere altri che Lui. So che si sta disperando per essere finito coinvolto in questa scemata di storiella, ma spero non la prenda troppo male. E quanto all’incontrare anche tu un Tizio beh…spero che sia successo. E che non fosse il ragazzo della tua vicina di banco… *-*. Grazie davvero, a presto.

kry333: Hehehe, sono contenta che la cosa non fosse troppo scontata. E quanto al resto…leggere per sapere.  Ho aggiornato prima possibile, con i miei tempi ovviamente. Il che vuol dire lentamente, lo so. E ancora mi sono spicciata! A presto, grazie.

Aglaia: sante parole. Ogni volta che mi capita questa mistica intesa con un estraneo mi sembra che il mondo brilli. Ho voluto regalare questa piacevole sensazione a Giù, che essendo mia creatura è un po’ maltrattata. Lietissima di averti fatta ridere, ovviamente, ma già lo sai. A presto, e sempre grazie per le tue incursioni.

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Capitolo 6
*** V. La banda ***


V. LA BANDA

 

 

Il resto della settimana di Giù fu forse il più strano che avesse mai vissuto. Dopo il pomeriggio trascorso insieme ad Eva e, in parte, a Patty, che era passata più tardi, le sembrò di aver trovato qualcosa che confusamente cercava da un sacco di tempo. La sua nuova amica era diversa da tutte le precedenti, e anche se non avrebbe forse mai raggiunto l’intimità che Giù poteva condividere con Laura, accanto alla quale era cresciuta dalla nascita, di certo vi si avvicinava più di chiunque altro.

Giù notò che ridevano per lo stesso tipo di cose grottesche e senza senso e che, con vergogna, amavano entrambe Paperissima per quello stesso motivo. Eva era capace di stare dritta sulla testa senza usare le braccia e sapeva far roteare tre pallette come i giocolieri, cosa che le dimostrò grazie a tre mele gentilmente fornite dal signor Marco, come lo denominò immediatamente. Passava tutte le estati a Praga e parlava un po’ il ceco, ascoltavano la stessa musica e riuscivano a dirsi qualunque cosa con una facilità sconcertante.

Inoltre Fra’ diventò strano. Giù non era proprio sicura che non lo fosse già prima, visto che non lo conosceva, ma nei primi due giorni di scuola le era sembrato diverso da dopo. La fissava sospettoso – Giù era relativamente sicura che non se lo stava immaginando e che il suo stadio di demenza non contemplasse ancora le manie di persecuzione – e persino Eva ne sembrava perplessa.

Inoltre, Giù ogni mattina si svegliava mentalmente, ché il mero risveglio fisico all’uscita del letto non poteva definirsi un autentico ritorno alla vita, nel momento in cui il bus le sferragliava davanti e la prima cosa che vedeva coscientemente nelle sue giornate era il sorriso sfolgorante e lentigginoso di Stef al di sopra della giacca arancione. Questo la lasciava un po’ scombussolata fino a sera, se con scombussolata si poteva indicare una persona completamente persa in elucubrazioni arcane, con una curiosa espressione facciale da foca morta e la prontezza di spirito di un bradipo in decomposizione. Giù si rendeva conto di essere imbarazzante ma questo non la portava che ad arrossire più della sua media.

Stef comunque sembrava vivere con paraocchi fatati che lo catapultavano nelle specie di realtà parallela che era il suo mondo mentale, e non pareva minimamente accorgersene. Non che non sapesse di essere discretamente attraente – Giù lo riteneva di gran lunga l’essere umano più bello mai esistito, ma aveva notato che non tutti condividevano quell’opinione tanto definitiva – e una volta le allungò una cameratesca gomitata indicando con un cenno del capo una ragazza intenta a venerarlo in silenzio. Le fece l’occhiolino con intesa e Giù pensò seriamente di ricorrere seduta stante a un pacemaker, prima che un’aritmia cardiaca la stroncasse anzitempo. 

Però Stef non si accorgeva di come lei lo guardava. E nemmeno Eva lo notava; d’altra parte Giù tendeva a smettere di rivolgergli la parola in presenza di lei, temendo di tradirsi con uno dei leggeri sospiri che le sfuggivano tra una frase e l’altra quando gli parlava – e che lui palesemente non percepiva.

Sì, era patetica. Sospirava quando gli parlava. Quel pensiero faceva calare il suo livello già scarso di autostima nella Fossa delle Marianne.

“Oggi pomeriggio vado a riprendere la macchina,” le annunciò in quel momento Stef, attirando la sua attenzione. Giù sbatté gli occhi un paio di volte, ricordando a se stessa che per sopravvivere era bene respirare.

Di solito non ritornavano con lo stesso bus, tranne in quella prima occasione dopo essersi presentati: come le aveva anticipato Eva quando ancora l’identità del suo principe sul pisello le era ignota, Stefano era davvero lento come la fila alla cassa della Coop; usciva da scuola praticamente per ultimo, quando Giù era già a metà strada verso casa. Quindi non sapeva bene come mai quel sabato avesse cambiato la sua abitudine ma non riuscì in ogni caso a dispiacersene.

“Oh. Basta autobus, insomma,” commentò dispiaciuta. Non credeva affatto che lui avesse veramente l’intenzione di portarla a scuola, invece il ragazzo le sorrise allegro e poggiò una delle sue magnifiche mani dalla perfetta proporzione leonardesca sulla sua spalla.

“Già Da lunedì avrai l’autista, merda,” e annunciò lieto.

Fortunatamente la frenata cigolante del 64 coprì il suo rantolo di estatica disperazione. Giù si aggrappò al corrimano per calare a terra, instabile sulle gambe tremanti, e Stef la spintonò bonariamente.

“Ci vediamo luned…aspetta!” esclamò lui, di getto. Giù aveva già un piede a terra e nel girarsi indietro di scatto inciampò nel gradino, rovinando verso terra. Stef saltò giù per soccorrerla e magicamente la recuperò al volo: l’unico inconveniente fu che gli scarponi da marines di lei spappolarono nuovamente il suo piede. Miagolò piano senza la minima acredine e Giù osservò perplessa l’autobus ripartire senza di lui.

“Ma così sei rimasto a piedi,” commentò incerta.

Stef osservò il veicolo allontanarsi con serenità.

“Già,” confermò incurante, prima di stringersi nelle spalle. “Tanto sto qui vicino. È solo che non so se Eva te l’ha detto…dove merda è già che abiti?” domandò guardandosi intorno.

Giù deglutì faticosamente, indicando con difficoltà la propria via. Lui annuì e s’incamminò in quella direzione, attendendosi evidentemente di essere seguito. Non c’erano problemi in quel senso: lei gli sarebbe andata tranquillamente appresso anche se lui avesse annunciando di voler raggiungere la Groenlandia in infradito e costume da bagno.

“Dicevi?” squittì nervosamente.

Stef sbatté gli occhi, parendo quasi confuso, quindi sorrise ancora.

“Sì. Eva ti ha detto di stasera?”

Giù inclinò la testa, incerta: Eva le aveva accennato qualcosa sul fatto che sarebbero usciti tutti insieme quella sera e che doveva assolutamente essere anche lei della partita, promettendo di chiamarla subito dopo pranzo per accordarsi. Non era stata più precisa, però.

“Mi ha invitata a uscire con voi, credo,” borbottò vaga.

“Suono con il mio gruppo. Non è che siamo i Doors ma comunque…” Il commento fu borbottato sottovoce con inaspettata mestizia, subito annullata da un altro sorridere luminoso. “Vieni?”

Giù rischiò di inciampare nel vuoto per la sorpresa, la gioia e la disperazione. Ecco l’uomo dei suoi sogni che la invitata al suo concerto insieme alla di lui fidanzata. Fantastico.

O-oh…io…” farfugliò senza fiato.

“Hai da fare?”

Qualcosa di meglio di te? Starai scherzando, spero. Fortunatamente la sua lingua evitò di formulare la frase pensata e Giù scosse ripetutamente la testa, violacea. Fissò intensamente il vuoto mentre percorreva gli ultimi metri che la separavano dal portone di casa e si schiarì la voce fingendo di stare per parlare. Non riuscendovi, si arrestò e scrutò Stef con velato terrore.

Lui osservò il portone con interesse.

“Abiti qui,” affermò, con mirabile arguzia. Lei, tanto per cambiare, annuì ancora – di quel passo l’avrebbe convinto ciecamente che era definitivamente stupida, ma non riusciva a fare molto altro – e Stefano si passò la mano tra i capelli. Giù seguì il gesto con spasmodica devozione e si domandò terrorizzata cosa mai ci facesse ancora lì.

“Andrei a mangiare,” borbottò a malincuore.

“Certo. Sai…” confermò lui, perso dietro il filo dei propri pensieri. “Eva…è una persona un po’ strana. Lei non ha molte amiche intime e in questi giorni mi parla sempre di te. Sono contento che tu sia la sua vicina di banco, cazzo.”

Giù spalancò bocca e occhi come le ante di un largo armadio. Si fece pallida, scarlatta e tutta la serie di solite nuances che odiava a morte e sfiatò un raglio leggero. A quel punto le riuscì di deglutire – grazie al cielo, o il suo sabato si sarebbe concluso al pronto soccorso – e si fissò le temibili punte delle scarpe con estremo interesse.

M-ma veramente sono io che sono contenta…di aver conosciuto Eva,” balbettò imbarazzata. Era vero: se non ci fosse stato quel piccolo dettaglio che era la ragazza di lui, tutto sarebbe stato così assolutamente perfetto da far sfigurare Buffy e tutta quella congrega di oche televisive.

Stef la osservò attento.

“Già. Beh, sai…nemmeno io ho molte amiche,” aggiunse vago.

Giù cessò nuovamente di respirare. Seriamente, considerò atterrita tra sé, di quel passo l’avrebbe uccisa in tempi brevissimi.

C-come?” trillò, sperando vivamente di non aver capito.

Stef si strinse nelle spalle.

“Le ragazze sono sempre un po’ strane con me,” spiegò, con un tono fatalista che sottintendeva un genuino stupore per il fatto in questione. Giù si disse che sapeva perfettamente perché le ragazze erano strane con lui. Quello che non capiva era come mai lui non si accorgesse che lo era anche lei. O forse trovava normali le sue variazioni coloristiche degne di un’insegna di Las Vegas?

“Allora, stasera ci sei?” continuò il ragazzo, all’improvviso quasi serio.

E Giù si accorse che assolutamente non poteva dire di no. Non che ne avesse avuto seriamente l’intenzione, ma davanti agli occhi azzurrissimi di Stefano e alla sua profferta di amicizia così candida non poté che annuire. Sapeva che con quel gesto sanciva da sola la propria condanna a una lunga, tormentosa agonia, eppure annuì. Si sentì completamente idiota e un applauso sbeffeggiante risuonò nelle sua testa, insieme a una pernacchia. Le parve di intravedere anche uno striscione recante la scritta Giù, somma masochista e le sfuggì un sorriso insensato.

“Sicuro. Dopo mi metto d’accordo con Eva.”

Stefano si era appena cacciato una sigaretta tra le labbra e la accese contento, riponendo il suo assurdo portasigarette.

“A dopo,” terminò, voltandole le spalle.

Giù si scagliò oltre il portone e lo sbatté alle proprie spalle, accasciandovisi contro.

Urgeva trovare una soluzione, perché il suo povero cuore non avrebbe retto a lungo. Oltretutto, se non ricordava male, sua nonna soffriva di una notevole aritmia cardiaca e probabilmente il fenomeno era ereditario: non era prudente sottoporre il proprio sistema cardiovascolare a simili stress emotivi.

Nelle successive quattro ore, durante le quali riuscì a parlare con Eva e organizzare la serata, raggiunse differenti e contraddittorie risoluzioni per risolvere lo spinoso problema.

- Soluzione numero uno: mantenere le distanze da Stefano, spiegargli che le piaceva andare a scuola in autobus, che non amava i concerti, che era allergica all’arancione e che avere Fra’ come amico maschio le era sufficiente.

- Soluzione numero due: dimenticarsi quel ridicolo colpo di fulmine e piantarla con i castelli da imbecille romantica, ficcarsi in testa che Stef era il ragazzo di Eva e che tra loro due poteva esserci una bella amicizia e lanciarsi su quella strada forte della razionalità ritrovata.

Peccato che della suddetta razionalità, invece, non vi fossero tracce. Sconfortata, Giù passò quindi oltre.

- Soluzione numero tre: trovarsi velocemente un ragazzo per dimenticare Stefano e poter così attuare serenamente la numero due.

- Soluzione numero quattro: suggerire a suo padre che forse il trasferimento che gli avevano assegnato non era sufficiente per una persona meritevole come lui; proporgli quindi di fare pressione per essere nuovamente spostato. In un altro continente.

- Soluzione numero cinque: suicidarsi.

L’ultima, se ne rendeva conto, era un tantinello melodrammatica, ma indubbiamente efficace. Drastica, forse, ma dopotutto Giù era una persona determinata. Beh, qualcosa del genere.

Studiò il proprio riflesso nello specchio con una smorfia, scuotendo la testa.

Si era lavata i capelli, in un momento di puro autolesionismo: forse quando lo facevano le persone normali le loro chiome diventavano soffici e lucenti, ma a lei serviva soltanto per avere capelli voluminosi come le attrici dei telefilm anni Ottanta, gonfi come nubi in tempesta e esenti dall’effetto della legge di gravità. Inoltre si era messa una gonna blu stracciosa che arrivava sotto le ginocchia, calze floreali nere, una maglietta a righe verdi e rosse ed un maglioncino azzurro. Ai piedi, ovviamente, gli stivaloni regolamentari.

Sembrava appena fuggita da una casa di cura.

Quantomeno, concluse edificante, nessuno l’avrebbe potuta accusare di voler sembrare qualcuno che non era.

Non si sarebbe truccata, perché non mirava a fare colpo su nessuno. Assolutamente no. Stava andando con la sua amica Eva a prendere un aperitivo e poi in un locale a sentire il concerto del suo amico Stef, dove le avrebbero raggiunte gli amici Fra’ e Patty. Tutto perfettamente amichevole.

Esatto. Quindi niente trucco.

“Tesoro, sei in ritardo!”

Giù gettò un’occhiata in tralice alla schermata del cellulare, verificando che le parole di sua madre erano drammaticamente esatte. Si tuffò malamente nel cappotto, riemergendone dopo una strenua lotta, agguantò la sua borsa nera informe e si lanciò fuori di casa seguita da raccomandazioni canoniche.

Aveva appuntamento con Eva in centro. Miracolosamente, nonostante un cambio d’autobus alla fermata sbagliata con conseguente corsa forsennata per beccare la corrispondenza, arrivò in ritardo di soli tredici minuti, sudata come un maiale e stordita dai ripetuti sbalzi termici.

Eva la aspettava sul predellino sorridendo contenta. Non aveva gli occhiali e nemmeno il cappottone nero, ma una bella giacca di velluto e una vaporosa coda fermata in alto sulla nuca. Giù si accorse solo in quel momento che era semplicemente bella.

“Scusascusascusamaicapellienonsapevocomevestirmiehosbagliatofermat…” mitragliò ansiosa.

Eva rise divertita e la condusse a consumare chiacchierando e sghignazzando la prima di una serie di birre piccole a causa delle quali alle nove e mezza, mentre entrava nel Piccolo Buco Nero, il locale preferito di Eva e casualmente quello in cui era solito suonare il gruppo di Stef, a Giù sembrava di camminare su un tappeto morbido di cotone e di avvertire la rotazione della terra con molta più precisione del solito. Sorrideva come una beota e naturalmente urtò un paio di estranei appena varcato l’uscio, poi s’immobilizzò come un mimo con la gamba a mezz’aria e la bocca semiaperta mentre Eva al suo fianco si arrestava con un sorriso appagato.

Stef era già sul palco: niente giacca arancione, soltanto i suoi jeans frusti e un maglione scuro. Stava appollaiato su uno sgabello in un angolo e strimpellava pianissimo sul suo basso ovviamente arancione fiammante, la sigaretta accesa penzolante dalle labbra e le ciocche bionde che sfioravano le ciglia. Accanto a lui c’era il cicciottello Jack, che guarda caso parlava a macchinetta, mentre altri due ragazzi che Giù non conosceva armeggiavano con gli spinotti dell’amplificatore. Sopra il bancone i volantini pubblicizzavano il concerto dei MediasRes.

Mentre Giù digeriva la visione paradisiaca dell’amato senza l’orrendo giaccone Eva si era già proiettata verso il palco e in mezzo secondo stava facendo ciao con la manina al principe sul pisello: Stef mollò basso, capra e cavoli e le rivolse un sorriso talmente radioso che Giù pensò di vomitare. Quindi lui saltò giù dallo sgabello e scese tra i comuni mortali per accogliere Eva come le si confaceva – ovvero con una solenne pomiciata. Quando le riserve di ossigeno di entrambi furono esaurite e Giù cominciava a meditare di scappare in Cambogia Eva sussurrò qualcosa e subito gli occhi di Stef corsero lungo la sala fino a trovarla.

Giù non poté che congratularsi con se stessa nel trovare la forza di alzare un braccio con noncuranza in un saluto distratto. Subito dopo, tutta via, allungò quello stesso braccio alla cieca e strappò via la birra di mano a un perfetto estraneo.

“Ehi!” protestò quello, indignato. “Tipa, ma sei scema?”

Normalmente Giù sarebbe sprofondata nel sottosuolo per la vergogna e non ne sarebbe riemersa se non dopo mesi. Si sarebbe scusata, umiliata, e avrebbe giurato che non sapeva cosa le fosse preso e che era costernata, doveva aver bevuto troppo. Normalmente, se non fosse stato per due dettagli: il primo era che la sua ubriachezza cominciava a farsi consistente; il secondo che tra le innumerevoli cose che odiava nel mondo, come i cacciatori di balene e il presidente Bush passando per il gelato al caffè, nulla la mandava in bestia più dell’appellativo tipa.

“Ehi, tipo, vuoi un cazzotto?” rispose rissosa.

Il ragazzo spalancò sorpreso due esterrefatti occhi neri, gonfiò il petto come un tacchino di Natale e spalancò la bocca pronto a vomitarle addosso fiumi di insulti o ad azzannarla alla gola. Non fece mai nessuna delle due cose.

“Oh, hai conosciuto Pi. Pi, questo è Mattia, il nostro batterista,”

La voce svagata di Stef piovve loro addosso come una coperta. Mattia rimase fermo e rigido e assottigliò gli occhi fissandola con odio. Giù gli restituì uno sguardo bellicoso e trangugiò a sfregio una lunga sorsata dal boccale.

“Mi ha fregato la birra,” affermò il ragazzo, stizzito.

“Mi ha chiamata tipa!” berciò Giù dopo aver deglutito.

Stef annuì compreso.

“Direi che siete pari,” concluse pacifico. Eva, allacciata al suo braccio, rise candida.

Poi Fra’ fece irruzione nel locale, rischiando di tirare giù un lampadario con la testa e trascinandosi dietro Patty, che al suo fianco sembrava un bonsai umano. A malapena si poterono tutto salutare e quindi i ragazzi montarono sul palco.

Giù scoprì che il cantante era proprio Jack, e così poté spiegarsi la sua logorrea: era allenato ad usare molto la voce. Non aveva mai visto il chitarrista e decise immediatamente che il batterista, Mattia, era la persona più antipatica tra tutti i presenti. Poi la musica – un rock dal sapore giamaicano - la catturò e si trovò a scatenarsi tra il pubblico, rimbalzando tra i tre amici.

Alle undici era decisamente ubriaca e a mezzanotte meno venti, quando cessò la musica, si reggeva al braccio sinistro di Fra’ come Patty al destro.

“Tra due ore massimo devo essere a casa,” sentenziò garrula.

“Prosit!” replicò Stef, materializzandosi davanti a lei nel porgerle un nuovo bicchiere.

“Grazie,” accettò Giù con nonchalance. “Ehi, tu suoni la chitarra,” aggiunse, puntando subito la bevanda contro l’estraneo al fianco del ragazzo. Quello – media statura, lunghi capelli castani e sorriso sghimbescio - annuì distrattamente.

“Lui è quello stronzo di Beppe. Beppe, Pi,” li presentò Stef contento.

“Attento che non ti freghi il bicchiere,” intervenne Mattia freddamente.

Galleani,” interloquì Fra’, raddrizzando la testa. Sembrava ancora più enorme.

“Turco,” rispose l’altro con tono aspro.

Sembravano due cowboy in attesa di sfoderare le pistole.

“Qualcuno vuole del merda di punch?” chiese Stef, soave.

“Sì, grazie,” replicò Beppe, soddisfatto del diversivo.

Giù non badò molto a quel che successe poi. Si sedettero tutti insieme e cominciò a chiacchierare a macchinetta con Beppe, partendo dai complimenti per la performance per arrivare a Jeff Buckley e quindi, tramite una serie di arditi passaggi, alle vacanze estive in Croazia. Ogni tanto il suo sguardo si posava su Stefano e rimaneva fisso e vacuo, sicché dopo qualche secondo si trovava costretta a chiedere all’interlocutore di ripetere l’ultima frase. Eva se ne andò all’una, perché sua madre stava rientrando da una cena di lavoro e la passava a prendere, e all’una e venti Giù si accorse, emergendo per qualche istante dalle nebbie dell’alcol, di essere in ritardo e appiedata. Ergo, fottuta alla grande.

“Ti porto a casa,” stabilì Stef placido.

Francesco le posò la mano sulla spalla e fece per parlare, ma l’altro le aveva già preso un polso con la mano e Giù gli piroettò accanto con un sorriso di miele.

Oookay,” trillò, inciampandogli nella gamba.

Poi Stef la cacciò in macchina a forza, mentre lei quasi si addormentava. Al terzo incrocio Giù sentì lo stomaco arrotolarsi e si rizzò di scatto. Fortunatamente Stef aveva i riflessi pronti ed accostò appena in tempo perché lei spalancasse la portiera e, cacciata fuori la testa, rigettasse nello scolo del marciapiede.

Quando sollevò faticosamente il capo lo scoprì chinato fuori dalla macchina, intento a sorreggerla perché non finisse a mollo nel suo stesso vomito.

“Prendo le cazzo di curve un po’ strette,” affermò lui, come se quella fosse l’unica ragione da addurre al malessere di Giù.

“Credo di stare per morire,” gemette lei, fievole.

“Mi sembra improbabile,” osservò Stef composto.

Giù ridacchiò scioccamente, penzolante nella sua presa.

“Sei gentile,” affermò accorata.

“Certo. E anche molto intelligente, affascinante ed estremamente simpatico. Se hai finito con le minchiate potresti vomitare ancora un po’ e poi ti riporto a casa.”

“Non devo più vomitare,” rispose lei bofonchiando.

Lui sembrò valutare la cosa per qualche secondo, quindi dovette – erroneamente – decidere che gli stava bene e la spinse indietro per farla rimettere a sedere. Disgraziatamente il movimento non giovò allo stomaco di Giù e mentre Stef si sporgeva per farla allungare contro lo schienale lei ebbe un nuovo violento conato.

Quando Giù riaprì gli occhi Stefano li aveva chiusi, era immobile e una colata di vomito gli adornava la giacca arancione.

“Oh, Cristo,” bofonchiò agghiacciata.

Lui non si mosse ancora per qualche secondo. Non respirava neanche. Quindi arretrò, si rizzò in piedi e, usando le punte di quattro sole dita, si slacciò la giacca e la levò, tenendola tra l’indice e il pollice.

“Cazzo. Cazzo, Stef, io…”

Stava per piangere. Lo sapeva, stava per piangere. Gli aveva vomitato addosso. Non le avrebbe parlato mai più e avrebbe ordinato a Eva di tenerla a distanza e lei avrebbe sofferto per sempre.

“Stai meglio?”

Stef aveva gettato la giacca sul sedile posteriore. Accennava un sorriso leggermente forzato e teneva ancora la sua portiera semiaperta, come temendo il peggio.

“Sì, adesso sì,” sussurrò Giù avvilita, lottando con le lacrime.

“Ottimo. Per favore, se devi vomitare ancora fallo pure addosso a me, ma non sul fottuto sedile. Va bene?” chiese lui mite.

Giù lo guardò incerta. Non sembrava arrabbiato e nemmeno sprezzante. Annuì debolmente e mormorò ancora una scusa che lui troncò sul nascere, prima di rimettersi alla guida. Giù si addormentò immediatamente ed era ancora parzialmente incosciente quando Stef le chiese le sue chiavi di casa, chissà quanto tempo dopo. Poi le sembrò di ondeggiare e sentì un persistente rumore di passi, un tintinnio metallico e quindi cominciò a girare, ancora intorpidita. Fu soltanto quando ad un nuovo tintinnio seguì una luce improvvisa che recuperò un minimo di lucidità.

La porta del suo alloggio era spalancata, le luci accese. Stefano aveva ancora il braccio proteso per infilare la chiave, ma ad aprire non era stato lui bensì Serafina, alle cui spalle sbucava la testa di Marco.

“Sei in ritardo di almeno…” tuonò feroce sua madre, interrompendosi nel vederla cinerea ed abbarbicata ad un perfetto estraneo.

Giù annaspò terrorizzata, emise un gorgoglio di panico e cercò qualcosa di intelligente da dire per evitare il linciaggio, ma il suo cervello era troppo ottenebrato e la cosa le risultava ancor più difficile del solito. Fu in quel momento – lei boccheggiava, sua madre aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata e suo padre studiava lo sconosciuto con aria sconcertata – che Stef le restituì le chiavi e tese la mano in avanti.

“Buonasera. Mi chiamo Stefano Landolfi e temo di aver accidentalmente ubriacato vostra figlia, al mio concerto di stasera.”

La mandibola di Marco precipitò verso il basso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

___________________________________________

 

 

kry333: Eggià eggià i fidanzatini… Sì, Stef è un po’ strano. L’ho immaginato pazzo fin dall’inizio, era la sua caratteristica peculiare quando ancora tutto il resto rimaneva da definirsi. Ebbene, spero che questo nuovo epico momento ti sia gradito…Grazie!

Hypatia: Eh, è quello! Devi prendere l’autobus e pestare forte i piedi alla gente o bloccare le porte. Ce li hai degli anfibi carrarmato? Comprali! Altrimenti il Tizio mica lo trovi… Comunque. Ahm, tornando a noi…ma no! Povera Eva, che male ha mai fatto? Sì, adoro Calvino. Devo aver letto Il cavaliere Inesistente qualcosa come sessanta volte senza esagerare - Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez…senza andare a controllare il nome eh! ^__^ (e voglio farti notare…Agilulfo Emoemo! EMO, capisci? Calvino era troppo avanti e ha creato un personaggio ancor più scassacocones del teme. Che smacco, Saskè, sei secondo) - e Se una notte d’inverno un viaggiatore è una delle cose che hanno più segnato il mio modo di scrivere (con risultati scarsi, ma vabbè), per non parlare di Marcovaldo che è il nucleo della mia visione tragicomica della vita… Per sintetizzare e non spendere due pagine, sì, amo Calvino. Immensamente.

Portinaia: caspita…recensioni così aprono il cuore. Che dire, sentitamente e schiettamente grazie. Piangerei, se non fossi intenta a cercare di disincrostarmi dai denti una briciola di crosta di pane del brunch che mi fa penare e contemporaneamente a scrivere. Dunque, sono commossa. Quanto al resto…anche io ho la tendenza a innamorarmi di gente che assolutamente non posso avere. Il meglio finora è stato quando mi presi una cotta devastante per un mio coinquilino. Fidanzato con l’allora vicina del piano di sopra. Non sto scherzando.^__^ Ma sento che posso migliorare e innamorarmi in modo ancor più imbecille e masochista, ho fiducia nella mia idiozia. Ah, niente muffa e pane stantio, ma vino rosso e taralli: sennò che piacere è?

Liz85: donna mia! Che onore averti qui, stella. È bellissimo che una cara amica si prenda la briga di venirmi a commentare…smontandomi. ^________^ Hihi. Ovviamente non posso esporti tutti tutti i piani per il futuro della storia nemmeno in pvt anche se un po’ l’ho fatto, e di certo non qui. Ma…hai ragione, ovviamente, devo fare attenzione. Sto cercando di contenermi per non partir en tous les sens e darmi dei limiti, che come sai bene è un mio annoso problema non solo scrivendo. Vedremo se funziona, ma sentiti libera di allertarmi se qualcosa non va. Grazie zucchero, biscottina e nuvola di miele. ^__^

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Capitolo 7
*** VI. Marco ***


VI. MARCO

 

 

L’indomani Giù si svegliò all’ora di pranzo, con lo stomaco strizzato e la testa un po’ pesante. Impiegò un quarto d’ora per tirarsi in piedi e si recò in cucina con l’espressione avvilita di un cane preso a randellate.

Di sua madre non c’era traccia e soltanto Marco girellava intorno al tavolo apparecchiando lentamente.

“Ciao,” salutò atono.

Ao,” borbottò Giù guardando il perimetro di una piastrella accanto al suo piede sinistro.

La notte prima, dopo l’estemporanea presentazione, Stef si era trattenuto per spiegare ai suoi genitori che era il ragazzo della sua vicina di banco e che aveva appena suonato con il suo gruppo amatoriale, non era un criminale e non adescava compagne di scuola con dosi massicce di superalcolici. Tutto questo mentre Giù, nel bagno, si dedicava a un’ultima sessione di espulsione dell’alcol in eccesso. Quando era tornata in salotto, un po’ più lucida, Stef stringeva tra le mani una tazza di tè caldo, Serafina mangiucchiava biscottini alle mandorle e Marco osservava il ragazzo con aria ancora estremamente sospettosa.

“Come stai?” le aveva chiesto sua madre, inghiottendo un biscotto intero.

“Meglio,” aveva ronzato lei intorpidita.

“Grazie per avercela riportata,” aveva borbottato Marco senza troppa enfasi.

“Si figuri,” aveva risposto Stef leggiadro. Sembrava non badare al fatto che i due adulti di fronte a lui fossero in pigiama e avessero un’aria piuttosto sconvolta e sorseggiava il suo tè serafico. “Volevo essere sicuro che non vi arrabbiaste con lei. Le ho servito troppo punch.”

Falso. Giù ricordava perfettamente fiumi di birra e del rhum e cola ingurgitati ben prima che lui iniziasse a riempirle il bicchiere.

A quel punto Serafina si era lanciata in un interrogatorio senza vie di scampo. Dove viveva, cosa facevano i suoi genitori, andava bene a scuola – Stef, candido, aveva allora confessato di aver ripetuto la terza liceo e di non cavarsela troppo bene con le materie scientifiche – beveva spesso – no, assolutamente, soltanto un bicchierino il sabato. A quel punto Marco era intervenuto chiedendo a sproposito se cambiasse spesso ragazza e Stef aveva risposto di no senza sembrare minimamente allarmato da tutti quei quesiti a tappeto.

Poi aveva posato la tazza vuota e si era defilato abbagliandola con un ultimo occhiolino. Dalla sua espressione sembrava ridersela sotto i baffi e Giù si era domandata se non fosse completamente matto.

I suoi l’avevano spedita immediatamente a dormire senza fare commenti ed ora eccola qui, pesta e intontita.

“Ti sei divertita, ieri sera?”

Suo padre non sembrava ironico né velenoso, soltanto un po’ nervoso.

Giù annuì in silenzio. Effettivamente fino al momento del vomito si era divertita moltissimo, aveva chiacchierato molto – anche se non ricordava più bene a proposito di cosa – e riso come una iena.

Marco annuì di rimando, poggiandosi al bordo del tavolo.

“Jo, senti,” iniziò incerto, “so anche io che a diciotto anni capita di ubriacarsi. Non è grave se non succede sempre. È solo che siamo qui da nemmeno due settimane e tu ti prendi questa sbronza colossale. Io…io non volevo che tu fossi infelice, Jo. Vorrei non aver accettato il trasferimento.”

Lei sollevò lo sguardo e lo guardò fisso. Sembrava sconsolato e persino un po’ più vecchio e Giù pensò irrazionalmente che un giorno sarebbe invecchiato davvero, come tutti quanti, e lei non avrebbe potuto farci niente anche se gli doveva tutto e lui alla sua età stava per diventare padre, aveva dovuto farsi un culo triplo per mantenere una famiglia e fare l’università, darle tutto quello di cui aveva bisogno e permettere alla mamma di coltivare a sua volta dei progetti personali.

Suo padre meritava quel nuovo lavoro. E la città non era poi così male.

“Non mi sono accorta che bevevo così tanto. Mi stavo divertendo,” mormorò colpevolmente.

Marco la guardò fisso.

“Davvero?”

Giù annuì con convinzione.

“I miei nuovi amici sono molto simpatici,” continuò sorridendo.

Marco sospirò sollevato, poi accennò il suo sorrisetto predatore.

“Stefano è molto gentile,” commentò vago.

“Oh, sì,” rispose Giù con enfasi, abboccando come una trota da allevamento. “E’ gentile e molto in gamba.”

“E piuttosto carino,” continuò il padre avviandosi ai fornelli.

Già trovò che la definizione non rendesse onore alla bellezza di Stef e lo seguì esaltata, dimentica delle settimane di silenzio, dello schiaffo e di tutto il resto.

“L’hai notato? Hai visto che begli occhi, pa’?” continuò, nell’impellenza di rendere giustizia alla grazia dell’amato.

“Molto belli. Anche il sorriso,” confermò lui come se niente fosse. Spense il gas sotto la pentola, afferrò una presina e si voltò sornione. “E’ il ragazzo di Eva, giusto? Anche lei mi piace molto,” aggiunse candido.

Giù arrossì immediatamente, comprendendo infine le intenzioni paterne. Ovviamente era stata stupida a credere che suo padre non si sarebbe accorto della sua cotta titanica semplicemente guardandola in faccia in presenza di Stef, nonostante il torpore e l’ubriachezza. Raggelata, glissò fissando la pentola.

“Certo. Sono molto carini insieme,” rispose meccanicamente.

“Meglio così,” fece Marco svagato.

Lei sospirò tra sé, sollevò la testa e fece per rispondere una banalità qualunque, ma l’espressione saputa di suo padre la fece invece scoppiare a ridere suo malgrado.

“Oh, ti odio! Come hai fatto?” brontolò risentita.

“Quando ti ha fatto l’occhiolino sei diventata color porpora. Conosco il mio pollo,” rise Marco poggiandole la mano sulla spalla. “Inoltre ti piace complicarti la vita, sei uguale a tua madre.”

Giù s’imbronciò, oltraggiata per il paragone, ma la porta si aprì in quel momento e Serafina fece il suo ingresso con alcune buste in mano. Il suo sguardo corse tra il marito e la figlia, dovette registrare la loro ritrovata intesa e sorrise contenta.

“L’ubriacona si è svegliata, vedo,” commentò ironica.

“Non sono un’alcolizzata!” protestò Giù piccata, prima di chinare la testa. “Mi dispiace.”

“Almeno ho conosciuto anche io un tuo amico, visto che non c’ero l’altro pomeriggio. Papà mi ha detto che le ragazze sono molto graziose,” rispose sua madre bonaria. “E sabato prossimo non puoi uscire,” aggiunse con noncuranza.

Giù si strinse nelle spalle, perché lo prevedeva. Sicuramente papà avrebbe finito per portarle a mangiare la pizza: i suoi genitori erano del tutto incapaci di punirla.

Si sedettero a mangiare e Giù si sorprese nello scoprire quanto aveva avuto nostalgia di quei pranzi ciarlieri con i suoi genitori. L’argomento principale della conversazione fu ovviamente il “bell’autista biondo” che l’aveva scortata a casa, come lo definì Serafina. Giù finalmente narrò della folgorazione sull’autobus e del rammarico per il fatto che fosse proprio il fidanzato di Eva, sua madre s’intenerì assicurandole che ne avrebbe trovato presto un altro e Marco sentenziò che comunque non avrebbe accettato un genero con le lentiggini.

“Guastano la perfetta bellezza canonica. Solo il meglio per te, Jo,” affermò ridacchiando.

Stavano spiluccando gli avanzi di crostata quando il suo telefonino prese a suonare e Giù balzò su da tavola correndo in camera, e travolse en passant la sedia, lussandosi probabilmente l’anca: era Eva.

“Ciao!” salutò di slancio, rispondendo nonostante il dolore atroce.

“Ciao, vomitina,” replicò l’amica, scoppiando a ridere. “Stef mi ha detto della giacca.”

La giacca. Gesù, la giacca. Giù avvampò di vergogna in differita, schiarendosi la voce.

“Mi dispiace. Quanto è disgustato?”

“Disgustato? Credo stia ancora sghignazzando. Finché non gli tocchi il proiettile di fuoco puoi anche ricoprirlo di cacca.”

“Il proiettile di fuoco?” ripeté Giù perplessa-

“Ma sì, la macchina. È l’unica cosa che lo offende, hai fatto bene a non criticarla. ”

Giù non se la ricordava nemmeno, la macchina. A malapena sapeva di esserci salita, ma soltanto perché se si trovava in casa propria era accaduto per forza.

“Ce ne sarebbe stato motivo?” chiese incerta.

Eva rise.

“Si vede che non ti ricordi. Vedrai che trabiccolo,” rispose misteriosa. “Comunque era molto divertito. Certifico invece che Mat ti odia.”

Giusto, Mattia, l’odioso batterista. Giù ricordò la sua antipatia e la sua assurda pretesa di non farsi rubare il bicchiere e si chiese obiettiva come mai non l’avesse presa a schiaffoni.

“E’ una cosa reciproca,” biascicò vergognosa.

Eva sospirò.

“Ti pareva. Fra’ sarà contento.”

Il cervello di Giù scricchiolò sinistramente mentre ricordava l’avversità dimostrata dall’amico nel trovarsi davanti il ragazzo, il modo in cui aveva pronunciato il suo cognome, Galleani…in quel momento ritornò indietro con la memoria a giorni prima, al mattino in cui Fra’  le aveva chiesto del tipo dell’Angelus commentando poi sarà mica quel grandissimo coglione di Mattia Galleani?

Tutto tornava.

“Come mai?” chiese curiosa.

Ed Eva si lanciò in uno dei suoi racconti frenetici e confusionari, riferendole una storia di ragazze contese, corna e gelosie. Giù se la godette come una tazza fumante di cioccolata calda con panna. Quando la narrazione fu giunta a termine sapeva che il pomo della discordia consisteva in tale Marta Anselmi, quarta A, che aveva rimbalzato dall’uno altro dei pretendenti per mesi tre scaricando entrambi quando si erano presi a cazzotti, e ridacchiò deliziata.

“Però si tollerano,” commentò pacifica.

“Per forza. Fra’ è il mio migliore amico e Stef e Mattia si conoscono dall’asilo,” fece Eva soave. “Qualcuno dovrebbe darmi un nobel per la pace,” aggiunse con un sospiro.

“Ti candiderò immediatamente,” rise Giù.

Quando la telefonata fu conclusa ed Eva ebbe riso di lei un altro po’ Giù stabilì che avrebbe almeno tentato di studiare prima che la sonnolenza la cogliesse nuovamente. Funzionò per quaranta minuti, poi la sua testa precipitò sul tavolo con un tonfo attutito e decise che quel giorno concentrarsi era facile quanto una scalata dell’Everest in ciabatte, quindi lasciò perdere. Scrisse invece un paio di lunghe ed esaustive mail agli amici a Trento finché Serafina non si presentò in camera sua con un sorriso e un frullato.

“Disturbo?”

Giù scosse la testa, girando la sedia.

“Papà mi ha detto che non sei disperata. È vero?”

La ragazza sorrise confermando quell’ipotesi e Serafina s’illuminò di contentezza. Quindi si sedette sul suo letto e le allungò il bicchiere.

“Stavo ripensando a questo Stefano,” affermò poi, assorta. “Vedrai, ti passerà presto. Sai, mi ha fatto effetto. Ci credi che mi ricorda papà?”

Giù si raggelò, allibita. Ci mancava soltanto il complesso di Elettra da aggiungere alla lunga lista delle sue psicosi. L’idea che le piacesse qualcuno che ricordava suo padre le dispiacque oltremodo, poi considerò che papà aveva i capelli neri e gli occhi scuri e che Stef era biondo e celeste e sua madre una sciroccata. Tutto regolare.

“Dovresti portare gli occhiali,” commentò condiscendente.

Serafina ridacchiò, somministrandole un lieve scappellotto.

“Scema,” esclamò divertita.

 

 

 

 

 

 

______________________________________

 

 

gengy: Oooh, grazie. Recensione sintetica e che m’inorgoglisce alquanto…speriamo che duri, la tua adorazione! ^__^ Ti ringrazio, alla prossima.

Levsky: Salve! Sì, il batterista antipatico si chiama Mattia, e qui abbiamo scoperto qual cosina in più su di lui. Quanto alla reazione in famiglia, come vedi, anche se i genitori di Giù non hanno nulla a che vedere con i miei ho deciso di affibbiare loro il medesimo spirito anarcoide quanto a orari e ubriachezza…niente botte, dunque. ^__^ Spero continuerai ad apprezzare e grazie, sentitamente.

liz_85: ergh-aaak…tu non mi puoi fare i complimenti! Se TU mi fai i complimenti allora poi sì che mi monto la testa, perdincibacco! Che dire, tata…avrai notato e noterai che di riferimenti più o meno vaghi alla nostra adolescenza ce ne sono, sparsi qua e là, e non pochi. Infatti certe volte mentre scrivo sghignazzo da sola perché mi vengono in mente cose (tipo certe lettere mattutine…^__^). Orbene, sono contenta che l’immaginazione resti “aperta”, e sì, il fil rouge è quello lì. Fattene una ragione, caramellina, tortellina e granella di sole.

kry333: Mi colmi di gioia quando dici che Stef fa ridere. Era uno dei miei primari obiettivi. Ora, dunque, posso morire contenta e appagata. Marco, poverino, fa quello che può. Noterai che ha un certo self control, comunque. Grazie molto, a presto.

VavvyMalfoy91: Un po’ me l’aspettavo ma mi ha stupita lo stesso che tu abbia tirato in ballo Naruto, però è vero che cromaticamente – l’arancione, gli occhi azzurri, i capelli biondi – gli somiglia, ma per il resto non ha niente a che vedere. Per dirne una, Stef è un bel ragazzo… ^__^ grazie mille, alla prossima. (Ma non mi dare del genio che poi chiedo dei soldi. Hihi.)

 

 

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Capitolo 8
*** VII: Il Proiettile di Fuoco ***


Ahm.

Lo so. Sono ripugnante, ho accumulato un ritardo vergognoso. E per giunta non è nemmeno dovuto a un calo d’ispirazione, sono solo…pigra.

Ma rasserenatevi (o spaventatevi, semmai): Giù, Eva, Stef e gli altri non vi lasceranno molto presto.

suni

 

 

VII. IL PROIETTILE DI FUOCO

 

 

 

Il lunedì mattina era storicamente il momento più faticoso della settimana di Giù. Apriva gli occhi, realizzava che la attendevano sei giorni di scuola e un peso insostenibile le comprimeva i polmoni, impedendole per qualche minuto anche i movimenti più semplici.

Quel particolare lunedì mattina non fu diverso, salvo che per festeggiare la ritrovata armonia Marco la estirpò personalmente dal piumone caldo portandola in spalle come un sacco fino al tavolo da pranzo, per poi precipitarsi in ufficio uscendo dalla porta di casa con una scarpa ancora in mano: la puntualità ineccepibile non era un punto di forza di nessuno dei membri del nucleo familiare Corioli.

Giù trafficò con la sua tazza di cereali fino a tramutarli in una pappetta ripugnante che ingurgitò direttamente dalla tazza, sbrodolandosi il pigiama. Completamente intronata si diresse in bagno, si lavò la faccia, mise dei vestiti a caso e barcollò giù dalle scale gemendo un saluto alla madre. Rischiò di addormentarsi contro il portone e solo un immenso sforzo di volontà le permise di spalancarlo e avventurarsi nel gelido dicembre esterno; non faceva freddo come a Trento, ma comunque.

Zampettò per qualche passo verso la fermata, finché tre colpi di clacson in rapida successione non la fecero sussultare tanto che rischiò di capottarsi. Si voltò indietro intontita e fu così che vide quel che doveva vedere e le parole di Eva le furono perfettamente chiare.

Era verde, per cominciare. Una Clio scassata color verde pisello coi parafango stortignaccoli e uno specchietto sbilenco che sembrava ammiccare. Al di là del parabrezza Stef sorrideva sventolando una mano. Non aveva accostato e dietro di lui si stava formando una discreta coda ma lui non badò né a quello né al coro di clacson che seguì, sicché Giù pensò di doversi gettare sul sedile accanto a lui prima che il grosso conducente del fuoristrada due macchine dietro scendesse e facesse polpette stefaniche.

“Ciao!” l’accolse Stef non appena la vide aprire la portiera – non senza un certo sforzo, ché era difettosa. “Monta, soldato.”

“Ciao,” squittì Giù sedendosi di schianto. Dimenticò di avere lo zaino in spalle e poco ci mancò che rimbalzasse di naso contro il cruscotto.

“Come stai? Spero che i tuoi non fossero incazzati,” attaccò Stef partendo con una sgommata. “E che cazzo di fretta hai, cazzone del cazzo,” aggiunse senza alcuna aggressività gettando lo sguardo indietro, verso l’automobilista che oltre a sommergerli di colpi di clacson stava anche smadonnando alla grande. “Questa testa di cazzo…allora, i tuoi?”

E sorrideva pacifico.

“Non erano incazzati. Cazzo, no,” rispose lei con enfasi, giusto per non cambiare registro linguistico. “Sono in punizione sabato prossimo, ma tanto papà non tiene,” aggiunse più precisamente. Pensò di concludere con un ultimo cazzo, ma forse era meglio non strafare.

Stef svoltò a destra con andatura da crociera, tamburellando le dita sul volante.

“Ehi, guarda,” esclamò d’improvviso, svagato. “Sul sedile dietro, vedi?”

Giù voltò la testa incuriosita. Tra il marasma di cd, bottiglie vuote, felpe, varie ed eventuali troneggiava lo zaino nero di Stef. Giù lo scrutò perplessa, prima di individuare a cosa il ragazzo si riferisse: il montgomery blu scuro arrotolato accanto ad esso.

“Ho messo il mio stronzo giaccone a lavare,” ridacchiò Stef, improvvisamente sornione.

Lei avvampò, purpurea.

“Gesù,” abbaiò imbarazzata.

“Sì, beh, tu puoi chiamarmi Stef,” rispose lui magnanimo. “E poi te l’ho detto, Pi, non fa niente: basta che risparmi la macchina.”

Giù ricordò l’avvertimento di Eva ed esitò, cauta.

“E’ molto speciale?” chiese con prudenza.

“Cazzo, sì!” rispose Stef di slancio, ingranando la marcia come se fosse stato alla guida di un autosnodato da otto tonnellate. “Questo fottuto gioiello è nella mia famiglia da tempo immemore. Io l’ho ereditato da mio fratello maggiore. A lui non serviva più, sai,” aggiunse distrattamente, fissando la strada.

“Si è fatto la macchina nuova?” chiese lei, ciarliera.

Stef le gettò un’occhiata sbilenca, remotamente sorpresa. Storse le labbra nel primo sorriso men che abbagliante che lei gli avesse visto fare e scrollò la testa.

“Credevo che Eva te l’avesse detto,” commentò noncurante.

“Detto cosa?” lo incalzò lei sorpresa.

Lo sguardo di Stef s’illuminò di nuovo all’improvviso, voltato verso il lato del palazzo.

“Ehi, quella è la miglior panetteria della città!” esclamò, mettendo repentinamente la freccia. “Devi assolutamente provarla, merda. Adesso per festeggiare il nostro primo viaggio insieme ci compriamo due stronze brioches.”

Giù fissò il vuoto stordita.

Il nostro primo viaggio insieme.

La sua mente partì da sola, e del tutto contro la sua volontà, visualizzando una lunga carrellata di immagini on the road, con zaini in spalla, accampamenti di fortuna, romantici tramonti sul mare e aeroporti affollati in cui si addentravano mano nella mano. Nemmeno si accorse del parcheggio estemporaneo, in obliquo tra due cassoni della spazzatura, e soltanto quando Stef le picchiettò un dito sulla spalla ritornò malvolentieri alla realtà.

“Scendi?”

Annuì con estrema fatica, abbandonando senza entusiasmo il sedile.

Finirono per ingoiare tre brioches a testa, Giù rigorosamente al cioccolato perché erano le sue preferite e Stefano sbizzarrendosi tra una ripiena alla crema, una con mele e cannella e un gigantesco bombolone colmo di marmellata di mirtilli. Le brioches, spiegò con un grosso baffo violetto sulla guancia, erano in assoluto il suo alimento preferito.

A quel punto dovettero schizzare come matti in mezzo al traffico – Stef era bravissimo a sorpassare in corsia unica, ma anche a non imbroccare nemmeno per sbaglio i sensi unici nella giusta direzione – per non arrivare a scuola con troppo ritardo. Si separarono a tutta birra appena oltrepassata la soglia dell’istituto, perché la quinta A era a piano terra, ma Giù per un soffio non inciampò immediatamente nel primo gradino, nel sentire la mano di Stef sfiorare i suoi capelli in una carezza dispettosa prima che l’interezza di lui sparisse nel corridoio.

Fortunatamente la prima ora del lunedì, come quella del mercoledì, era tenuta dal professor Ventura, che la accolse con uno sguardo placido e vagamente ironico sventolando bonariamente nella sua direzione il gessetto con cui stava schematizzando alla lavagna la cronologia di vita di Filippo Brunelleschi.

Corioli, sono contentissimo che tu abbia deciso di passare a salutarmi,” osservò indifferente.

Giù si fece nuovamente purpurea, esitando nel raggiungere il banco.

M-mi scusi, professore, ho…c’era traffico e…posso restare, vero?” pigolò incerta.

ci mancava solo che la buttasse fuori perché non aveva la giustificazione per il ritardo. Come lo spiegava a Serafina che dopo averla ricondotta in casa ubriaca e vomitante Stefano l’aveva fatta arrivare a scuola venti minuti dopo l’orario prestabilito?

“Naturalmente, Corioli,” confermò il docente, dando un’occhiata al libro di testo per riprendere il filo. “Come non credere, del resto, ad una scusa così ben congegnata?” proseguì riprendendo a scrivere. Eva scoppiò rumorosamente a ridere e numerose altre risatine trattenute risuonarono alle loro spalle. “Che sia la prima e ultima volta, Corioli,” l’ammonì ancora il professore, ma sul suo volto c’era un vago sorriso che si aprì immediatamente anche su quello di Giù, mentre prendeva posto.

“Grazie, professore,” mormorò riconoscente, lui annuì sbrigativo e riprese a spiegare.

Giù nell’intervallo spiegò ad Eva delle brioches e lei si lasciò andare ad entusiastici commenti sull’effettiva prelibatezza di tutti i prodotti dolciari de Il Piccolo Forno di Manuela, la panetteria in cui l’aveva portata Stef.

“Che non succeda sempre, però, o diventerò gelosa,” rise scherzosa, beatamente ignara.

Fu nel cambio d’ora di mezzogiorno meno cinque che Francesco si avvicinò con fare losco, mentre Eva ciarlava con Lalla. Il ragazzo si guardò intorno circospetto e si chinò accanto a lei, poggiando i gomiti sul suo banco.

“Pi?” borbottò piano, col vocione cupo.

“Dimmi, Fra’,” replicò distrattamente lei, copiando la parte di schema che aveva mancato all’inizio dell’ora di storia dell’arte.

Francesco storse il naso, impacciato, e si passò una manona tra i capelli ad istrice.

“Sono dalle tue parti, nel pomeriggio,” attaccò, con tono che tratteneva malamente un qualche genere di urgenza. “Sarei libero, diciamo, intorno alle quattro e mezza. Ti va se passo da te, oppure di scendere a bere un caffè?” propose, fissandola intensamente.

Giù sbatté le palpebre, voltandosi finalmente a guardarlo con vago terrore. Cercò sul viso dell’amico qualche traccia di malizia o di intenti lontanamente romantici, e non trovandone si rilassò.

“Ma certo!” trillò contenta. “Vieni pure a casa mia, i miei non vedono l’ora di conoscere chiunque mi rivolga la parola in questa città,” puntualizzò, sospirando rassegnata.

Francesco sembrò improvvisamente rasserenarsi, sorridendo contento. Giù scribacchiò il suo indirizzo esatto su una pagina bianca di quaderno che strappò via con inconsulta ferocia, porgendogliela lieve.

Alla campanella di fine scuola si riversarono all’esterno con la solita grazia di bufali in carica. Raggiunsero la postazione all’angolo della piazza con Francesco in testa che apriva la strada a suon di leggiadre spallate, mentre Greg dietro di lui rollava la cannetta del buon pomeriggio senza nemmeno guardare dove stesse mettendo i piedi. Sembrava quasi che il suo corpo fosse geneticamente predisposto a quell’atto, ne concluse Giù guardandolo di sottecchi mentre scavalcava istintivamente uno zaino mollato in terra.

Fosse stava lei, si sarebbe ribaltata dopo il primo metro.

“Peccato che non siate venuti sabato sera,” stava blaterando Patty alla coppia di amici. “E’ stato molto divertente.”

“Sicuro. Dovevate vedere la nostra Pi com’era sbronza,” confermò Fra’ tutto serio, accendendosi una sigaretta.

Eva scoppiò a ridere, scuotendo le lunghe chiome.

“Purtroppo mi sono persa l’ultimo round, accidenti a mia madre,” commentò con rammarico.

“Noi eravamo a cena con Sonia e Luca,” spiegò Lalla senza troppo entusiasmo.

“Due palle come due…” borbottò Greg pacifico.

“Non è vero,” lo interruppe la ragazza con finta severità, prima di voltarsi verso gli altri. “E’ che hanno litigato tutta la sera,” aggiunse sbuffando.

“Appunto,” concluse Greg, sbuffando fuori una prima sostanziosa boccata di fumo.

“Chi è che ha litigato? Sei stata tu vero, Pi?”

Nell’udire quella voce solare e intimamente serena le dita dei piedi di Giù si arricciarono di scatto, mentre si voltava giusto in tempo per vedere Stef che chinava la testa per dare un bacio ad Eva.

“Hai fatto arrivare Pi in ritardo a lezione!” lo ammonì poi lei, dandogli un colpetto sulla spalla.

“Hanno fatto problemi?” s’informò lui, allacciandole il braccio intorno alla vita.

Naaa, c’era Ventura,” rispose Eva poggiando la testa contro la sua spalla. Giù distolse lo sguardo, interiormente affranta. Erano così maledettamente innamorati da far venire il voltastomaco.

“Altrimenti che avresti fatto, saresti andato dal prof a dirgli che sei Stefano Landolfi e mi hai accidentalmente ingozzata di brioches dopo il tuo concerto?” affermò istintivamente, più secca e tagliente di quanto avrebbe voluto – sempre posto che avesse avuto realmente l’intenzione di parlare, cosa non del tutto esatta.

Stef sgranò per un istante gli occhioni azzurri, prima di scoppiare in una celestiale risata scrosciante e un po’ roca.

“I tuoi mi odiano, vero?” chiese attento, subito dopo.

“No,” bofonchiò Giù senza guardarlo. “Ti trovano carino.”

Stef sorrise ancora, gongolante.

“Tutti mi trovano carino,” commentò, con tale candida innocenza che Giù pensò di liquefarsi sull’asfalto in un’estasi di tenerezza.

“Tutti chi?” fece Fra’, sarcastico.

“Io ti trovo carino,” sussurrò Eva suadente, avvolgendo le braccia intorno alla vita di Stef.

“Ah sì?” mormorò lui. Lei ridacchiò e il ragazzo la sollevò leggermente da terra, riprendendo a baciarla. Giù si voltò verso Fra’ domandandosi se fosse il caso di chiedergli di colpirla sulla testa col casco abbastanza forte da spaccare il suo cranio in due perfette metà e risparmiarle quell’angoscia.

“Cos’è questa storia di Landolfi e del concerto?” s’informò Greg pacato, passando il tizzo a Fra’. Questi esitò per un paio di secondi, coscienzioso, prima di prenderlo con una scrollata di spalle e portarselo alle labbra, allungandogli in cambio la sigaretta.

Giù prese un lungo respiro, iniziando a raccontare stentatamente del concerto, del viaggio in macchina – scoppiarono tutti a ridere come iene, al momento del vomito sulla giacca, e persino Stef si staccò per qualche secondo dalla bocca di Eva per commentare che quell’arancione non sarebbe mai più stato lo stesso – e dell’improvvisata con i suoi genitori.

“Tuo padre dev’essere andato fuori di testa,” osservò Lalla impressionata. “Il mio mi ucciderebbe.”

Giù ci pensò su per qualche secondo, scettica. Il commento più negativo di Marco era stato che non voleva un genero con le fossette, ma sospettava non fosse il caso di parlarne.

“Lui è piuttosto permissivo,” borbottò vaga.

“Oh, piantatela,” tuonò Fra’ d’improvviso, esasperato. “Siete rivoltanti, colombelle,” sentenziò, facendo sì che le labbra di Stef e quelle di Eva si staccassero definitivamente.

“Tranquillo, Franz, te la restituisco intera,” assicurò il ragazzo con fare responsabile.

“Non sono un pacco!” protestò Eva con finta indignazione.

Stef e Fra’ si scambiarono una virile e scherzosa occhiata d’intesa e quest’ultimo distolse lo sguardo, trattenendo le risa. Stef gli piaceva, decise Giù all’istante; gli piaceva, ma non voleva ammetterlo perché era il miglior amico di Mattia Galleani.

Poteva capirlo: se avesse conosciuto prima Galleani e poi Stef lo avrebbe immediatamente detestato. E forse la sua vita sarebbe stata molto migliore, ponderò tristemente.

“Turco,” intervenne improvvisamente Patty, sogghignando. Giù notò in quel momento il casco che teneva in mano, e che al momento sventolava con una smorfia vittoriosa piuttosto inquietante.

“Maledizione,” ruminò il ragazzo funereo. “Ancora non ci credo che ti sei veramente procurata un casco.”

Patty ridacchiò trionfalmente, improvvisando una camminata da vamp.

“Lo sai cosa sei? Una persecuzione,” continuò Fra’, caricando meglio lo zaino in spalle. “Ne parlerò a Norimberga.”

Vaffanculo, Turco!” protestò Patty, colpendolo senza tanti complimenti. Lui scosse pazientemente la testa e si mise in marcia, sventolando la mano. Nemmeno era finito il successivo coro di saluti che Stef le picchiettò la spalla, costringendo Giù a voltarsi con un sussulto.

“Andiamo, Pi?”

E certo, che domanda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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kry333: Eccoti Stef in tutta la sua grazia linguistica. Spero di averti accontentata… Beh, grazie per l’apprezzamento anche a Marco e Serafina, e spero la storia continui a piacerti. Alla prossima!

Levsky: Oh, grazie! Ti ringrazio, e anche Marco ti ringrazia. Hihihi…occhio però, che Serafina è una moglie molto gelosa (e come non esserlo, fortunella). Quanto a Giù e Mattia, tutto quel che posso dire è che sì, li si vedrà ancora interagire. Suoi come e i perché, lasciamo il mistero. ^__^ A presto.

VavvyMalfoy91: ahm…la sintesi è l’Arte Suprema…? Hihi. Beh, presto capitoli più linghi. Buona lettura!

liz-85: gioia, luce e faro della mia vita, involtina primavera mia…non somigliano ai miei genitori! Sono giovani e sghignazzanti e…va bene, mia madre sghignazza, ma Runnerman mica tanto…^__^ E smettila di sputtanarmi! Comunque tu non avresti potuto scrivere il capitolo: non sai usare le virgole. :P Baci, mia rilucente cometa.

lilyjuve: Ma no! Ce ne sono tante e tali di ben migliori… Ma ti ringrazio lo stesso, sono toccata. Spero davvero che quanto seguirà sia all’altezza e continui ad appassionarti. E non ti preoccupare per il blocco, non è nei miei piani. Alla prossima.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** VIII. Daftpunk ***


 

Sì, lo so, è passato qualche eone e mi vergogno come una ladra, anche perché il capitolo era lì pronto da tre mesi. Abbiate la bontà di perdonarmi.

 

 

 

 

VIII: DAFTPUNK

 

 

Giù dovette tormentosamente aspettare che i due piccioncini si salutassero come di dovere, ma fortunatamente Greg e Lalla si trattennero a chiacchierare con lei durante la sessione di pomiciata che ne seguì. Poi, finalmente, Stef sembrò decidere che le sue riserve eviche gli avrebbero permesso di sopravvivere per le ore successive e arpionò graziosamente lo zaino di Giù.

“Buon pomeriggio,” salutò, tirandosela appresso.

Cia-a-ao,” mugolò lei, mentre Eva le sorrideva solare sventolando la mano.

Giù si sedette di schianto in macchina sentendo l’immediata agitazione che l’invadeva puntualmente quando si trovavano soli. Stef scelse quel preciso istante per far partire la musica ad un volume spropositato, mettendo allegramente in moto.

Daftpunk,” annunciò, sovrastando la musica assordante. “Mi mettono energia,” sbraitò ancora, sognante.

Giù annui completamente ebete, vuoi per lo shock auditivo, vuoi per la realizzazione folgorante che il giaccone blu, a Stef, stava da dio. Richiamava perfettamente quelle microscopiche screziature appena un po’ più scure nell’azzurro dei suoi occhi, e…

“Mi apri una lattina?” berciò Stef, svoltando col semaforo giallo.

Giù sbatté più volte le palpebre e lo guardò confusa, riemergendo dalle fantasie cromatiche.

“Dietro il tuo stronzo sedile c’è un pacco di birre,” puntualizzò Stef serafico, rendendosi evidentemente conto di non averle fornito informazioni sufficienti. Riusciva a sembrare angelico anche strillando come un condor. “Me ne apri una?”

Giù eseguì meccanicamente la richiesta, si torse indietro con l’elasticità di un armadio a tre ante e annaspò artigliando il vuoto fino a riuscire nel delicato compito di afferrare il pacco ed estrarne una lattina. Stremata, fece saltare la linguetta e gliela porse, senza commenti.

Erano usciti da scuola da ben dieci minuti, dopo tutto. Non c’era niente di male nel fatto che Stef si facesse una birra. E poi doveva guidare per un tragitto molto breve.

“Hai…ehm…sete, eh?” borbottò, nella convinzione che lui tanto non l’avrebbe sentita.

“Cazzo, sì,” rispose Stef prendendo una sorsata. “Serviti pure, eh. Mi cañas tu cañas.”

Quell’ultima parte della sua affermazione le risultò pesantemente oscura, ma fece finta di nulla ed annuì compresa.

“Sì, grazie,” confermò, sentendosi improvvisamente prendere da una straordinaria leggerezza. Avrebbe bevuto una birra con Stef tornando a casa da scuola, sì, perché no? Sarebbe stato un momento unico da conservare nella memoria per farsi forza nei tempi bui, o qualcosa del genere.

Il Calvino le faceva male, ne concluse sardonica, mentre compiva una seconda volta le mirabolanti acrobazie necessarie a procurarsi una birra.

“Sei di fretta, Pi?”

Stefano aveva abbassato un po’ il volume, registrò di soprassalto. Continuava a fissare noncurante la strada, ma aveva voltato leggermente la testa verso di lei. Giù ci pensò su. A casa c’erano:

-          un probabile bigliettino lasciato al mattino da suo padre che riferiva qualche aneddoto sicuramente idiota con cui augurarle il bentornata a casa,

-          un probabile biglietto lasciato al mattino da sua madre in cui si faceva un ‘in bocca al lupo’ da sola per il primo giorno del nuovo lavoro,

-          un pranzo da preparare.

“No, affatto,” rispose di slancio.

Stef sorrise, provocandole il solito attacco tachicardico.

“Ti va una focaccia?” propose svagato.

“Certo,” rispose Giù prima ancora di capire che le sue labbra si stavano muovendo.

Mentre Stef la conduceva nella miglior focacceria del fottuto mondo, a sentir lui, Giù si rese conto con una massiccia dose di inquietudine che le sue sinapsi erano teatro di strani fenomeni in presenza di Stef. Non che di solo brillassero di innata magnificenza, ma le pareva di sfiorare la totale inanità in quei particolari frangenti.

E poi era accoccolata su una panchina del Belvedere cittadino, più lontana da casa di quand’era uscita dal Calvino e con una focaccia fumante stretta tra le mani infreddolite. Davanti a lei Stef stava appollaiato sul muretto, mangiando avidamente. I raggi bianchi di sole invernale creavano sfuggenti riflessi nel biondo dei suoi capelli e Giù rimase per un po’ senza parlare, limitandosi a mangiare e lanciargli qualche occhiata discreta, o così sperava.

Stef si succhiava l’olio dalle dita, osservando assorto il panorama. Aveva incrociato le gambe sul muretto e la fedele lattina di birra riluceva accanto al suo piede.

Infine Giù si schiarì la voce, più preoccupata di sembrare muta che infastidita da quel prolungato silenzio: non la stava disturbando – stranamente, considerata la sua costanza nel sentirsi imbarazzata.

“Bello, qui. Non c’ero ancora venuta,” esordì, voltando la testa intorno con un mezzo sorriso. C’erano passeggiatori variegati, cani piscianti e bambini mugolanti, ma c’erano anche piante spoglie battute dal sole, cespugli sempreverde e una fontanella che scrosciava cristallina.

Stef imitò la sua panoramica esplorativa e poi annuì vago, puntando l’azzurro delle iridi in quello più tenue del cielo. Giù preparò un sospiro adorante, ma lui in quel momento spostò la gamba ed urtò la lattina e la birra si versò in terra in un tripudio di schiuma.

“Porco cazzo,” sbottò, contrariato.

E il sospiro di Giù diventò una risata spontanea, vagamente asinina.

Splendido, riuscì a pensare tra sé, sembrava Lucignolo nel Paese dei Balocchi.

Stef si alzò per raccogliere la lattina e Giù seppe per qualche ragione che era ora di andare. Ritornarono verso la macchina di nuovo senza parlare, ma ora a Giù sembrava ci fosse uno strano genere di urgenza nell’aria, qualcosa che Stef emanava attraverso i movimenti, che pure erano sempre morbidi e rilassati. Ma lui rimase distratto e svaporato per tutto il tragitto, fece ripartire la musica e canticchiò persino qualche nota sottovoce.

Lei aveva già i piedi a terra e la mano sulla maniglia, pronta a lanciarsi verso il portone di casa prima che qualcuno tamponasse il proiettile di fuoco, quando Stef sporse leggermente la testa verso di lei.

“Pi, senti,” iniziò, con tono leggero, “ci pensavo, e, cioè cazzo, per quello che dicevo prima della macchina che è importante, e di Michele…”

“Michele?” intervenne Giù, individuando con la coda dell’occhio un’automobile che si avvicinava rallentando per via della Clio che ostruiva il traffico.

“Michele, sì, mio fratello,” spiegò Stef con un sorriso paziente.

“Oh, quello che te l’ha passata di mano,” confermò Giù, soddisfatta di essere riuscita a cogliere il nocciolo del discorso. Si rammentò della spiegazione sul veicolo, dell’accenno al fratello maggiore e del brusco cambio d’argomento dovuto alle brioches. “Ah, sì. Cos’è che Eva non mi ha detto?” chiese, prendendo coraggio. Una seconda macchina si fermò in coda.

Stef annuì leggiadro. I suoi occhi azzurri continuarono ad essere tersi e sereni quando riprese a parlare.

“Che mio fratello è morto, quando ero in terza liceo. La prima volta che ero in terza fottuta liceo, intendo.”

Giù spalancò la bocca e sgranò gli occhi, smettendo per un paio di secondi di respirare. Le parole le affollarono la gola e minacciarono di straripare in uno dei soliti flussi demenziali e incoerenti cui era sovente soggetta, ma in quel momento il terzo automobilista si produsse in una fantasiosa performance musicale pigiando il clacson come i tasti di un saxofono.

“Ci vediamo domani mattina, eh.”

Stef allungò il braccio e chiuse la portiera che Giù stringeva ancora convulsamente. Le lanciò un cenno e un ultimo sorriso, prima di mollare il freno e ripartire fluido.

L’automobilista del concerto per fiato solo le passò accanto con uno sguardo fiammeggiante odio, abbassando rapido il finestrino.

“Ragazzini del cazzo!” inveì, prima di sgommare via con furia.

Che pessimo inizio di pomeriggio.

Entrando in casa Giù si trovò a pensare che avrebbe potuto solo peggiorare. L’appartamento era deserto, immerso nella penombra, le tapparelle abbassate e come se non fosse stato sufficiente le arrivò un messaggio nell’istante stesso in cui si chiudeva la porta alle spalle, ancora incapace di assorbire del tutto la confessione finale di Stef.

In realtà ti vorrei parlare di una cosa precisa oggi pomeriggio. Penso di aver capito chi è il tizio dell’Angelus, sai.

Era Fra’.

Giù si abbandonò contro la porta, spossata. La focaccia le rimbalzava nello stomaco con insistenza, le ginocchia le tremavano e la prospettiva di vedere Fra’ improvvisamente la terrorizzava oltre ogni dire.

“Gesù,” mugugnò, lasciandosi scivolare a terra.

Non si stupì di non ricevere risposta: ci provava da anni, ma nessuno lassù se la filava mai.

Scrutò lo schermo del cellulare con profonda avversione, rimuginando sulle possibili risposte.

- opzione uno: Fra’, mi dispiace, un commando di afgani mi ha rapita per tenermi in ostaggio a Kabul, sono insaccata in un burka e non vedo i tasti. Ti richiamo tra qualche mese, se mi lasciano tenere la testa.

- opzione due: Ho avuto un attacco di appendicite fulminante, mi hanno portata in ospedale in elicottero e sto lottando tra la vita e la morte. Messaggio autogenerato da Vodaphone.

- opzione tre: Non è vero, stai mentendo, non potrai mai dimostrarlo.

Ne parliamo dopo, digitò, sospirando lugubre.

Era in gravissimo pericolo. Non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto se Fra’ avesse detto ad Eva delle sue brillanti conclusioni, sempre che fossero esatte. Probabilmente Eva l’avrebbe minacciata di morte oppure l’avrebbe sfidata a duello e ovviamente lei avrebbe perso, perché sarebbe rimasta incastrata nelle briglie del cavallo cadendo rovinosamente e tutti l’avrebbero schifata. Di nuovo, sarebbe rimasta sola con i suoi otto cani, sempre lì si tornava.

Accidenti. Non riusciva proprio a capire come Fra’ ci fosse riuscito. Certo non poteva averla tradita il fatto di assumere tutte le sfumature di viola e rosso acceso riconosciute dal sistema RGB quand’era con Stef, né il fatto che tendesse a balbettare come un’ultracentenaria in fase acuta del Parkinson…

Giù si portò una mano alla fronte, sconsolata.

E Stef, per giunta. Come gli era saltato in mente di dirle una cosa del genere in mezzo alla strada, prima di sgommare via, Giù non lo capiva. Divenne bordeaux in ritardo al pensiero dell’orrenda figura mattutina, quando gli aveva chiesto se suo fratello avesse cambiato macchina. Certo che no, non gli serviva più: ora correva senza provare stanchezza nelle verdi praterie celesti, o qualcosa del genere.

Ci pensò su, mentre si preparava una tisana alla camomilla atta a scongiurare il sempre presente pericolo dell’apoplessia ereditaria. Lei non aveva mai perso nessuno: i suoi nonni erano tutti vivi, come zii, cugini e parenti tutti, e di fratelli non ne aveva mai avuti.

Ma soprattutto si chiedeva perché mai Stef non ne avesse parlato prima, dandole il tempo di avere una reazione più intelligente che guardarlo ad occhi sgranati. Sapeva di assumere un aspetto orrendamente affine a quello di un piccolo di allocco quando aveva quell’espressione.

E poi si ricordò dei Daftpunk a tutto volume per darsi energia, della birra e del lungo silenzio al Belvedere. Le balzò chiaro agli occhi che probabilmente Stef aveva avuto intenzione di parlarle di suo fratello prima. Probabilmente le aveva proposto la focaccia apposta in quella prospettiva, ma poi non c’era riuscito.

Ecco, mentre lei si beava del sole e dei cespugli verdi, lui pensava a come dirle che suo fratello era morto.

Quella sì che era sintonia.

Il citofono suonò esattamente mentre Giù ingollava l’ultimo sorso di tisana, facendola sussultare. Le tornò in mente Fra’ e il panico la invase, repentino. Si guardò rapidamente intorno, ma niente: quel bonaccione di suo padre non aveva nemmeno pensato a installare in casa un’uscita secondaria per sfuggire ad eventuali creditori né una scala antincendio che la depositasse direttamente accanto ad una moto nuova fiammante per fuggire lontana. Era incastrata.

A Buffy non sarebbe successo.

Nemmeno a Paperino, e questo suonava molto più umiliante.

“Sì?” squittì rassegnata afferrando l’interfono.

“Sono Fra’!” tuonò un vocione inconfondibile.

Giù gli aprì, massaggiandosi l’orecchio perforato dai decibel in eccesso. Tempo qualche secondo e udì una serie di potenti tonfi in avvicinamento, che andando per esclusione intuì essere i passi dell’amico su per le scale. Aprì la porta con un sorriso che voleva essere cordiale e che sapeva essere molto più simile a una smorfia di paura degna di Shining.

“Ehilà, Pi,” attaccò Fra’, impalato sul pianerottolo.

“Ciao, quanto tempo,” replicò lei scherzosa, cercando di darsi un tono. Le riuscì bene e ne fu soddisfatta, sicché raddrizzò le spalle finora incassate con una certa baldanza mentre lui entrava in casa incuriosito.

“Stefano Landolfi,” scandì Fra’ di soprassalto, voltandosi a fissarla sicuro.

Le spalle di Giù si rattrappirono come tutta la sua persona, mentre tratteneva a viva forza una contrazione terrorizzata del viso, sentendo le guance ustionare in modo significativo. Inspirò a vuoto, rantolando. Doveva fare ben pena, decise contrita.

Negare, intimò un voce impersonale che sgorgava dal suo profondo inconscio, da istinti radicatisi col passare dei secoli nella coscienza collettiva del suo popolo. Negare sempre, negare tutto.

“Stefano Landolfi cosa?” squittì ad ultrasuoni.

“Eh?” fece Fra’, abbandonando per un attimo l’espressione saputa in favore di uno sguardo perplesso.

“Ho detto, Stef che?” gracchiò Giù, rassegnata: la sua abile mossa disorientante non aveva funzionato, stranamente.

Francesco si fece serio, aggrottò la fronte.

“Il tuo colpo di fulmine. È lui,” affermò grave.

N-no!” cinguettò Giù stridula, la pelle color brace ardente. “Ma come ti salta in mente?”

“Come a parte il colore della tua faccia, intendi?” ribatté lui, condiscendente.

L-la mia faccia non è affatto…” iniziò lei piccata, portandosi la mano al viso. “Gesù, devo avere quaranta di febbre,” commentò, stupida dalla temperatura emanata dalla sua pelle.

“E’ veramente lui?” insistette Fra’, sovrastandola con la sua mole elefantiaca.

“No! No, certo che no!” esclamò Giù con foga, gesticolando per farsi aria. “Non è assolutamente…cazzo, sì,” bofonchiò, inchiodata dallo sguardo scettico di Fra’.

“Oh, porca troia,” mugghiò lui, incupendosi.

Giù si afflosciò sulla sedia più vicina, avvilita. Curiosamente le venne in mente che avrebbe avuto proprio bisogno dei Daftpunk, in quel momento.

O di una calibro venti puntata alla tempia.

“Ma non è grave!” esalò, cercando di sembrare rilassata e risultando più simile a un condannato nel corridoio verde. “Mi sta già passando,” mentì, spudorata.

“Come no,” sfiatò Fra’ lugubre, abbandonando il casco a terra. “L’altra sera quando ti ha presa per portarti a casa sembrava ti avesse proposto un viaggio ai Tropici tutto pagato,” osservò sedendosi a sua volta. Sospirò pesantemente, scrollando la testa. “E ora che faccio?” borbottò esitante.

Giù sgranò gli occhi, agghiacciata.

“In che senso?” rantolò, sporgendosi in avanti tanto da rischiare di cadere.

Fra’ spalancò le immense braccia, stizzito, evitando d’un soffio di tirarle una manata.

“Dovrei dirlo a Eva!” tuonò irritato, e a Giù si ghiacciò il sangue nelle vene. “Sono il suo migliore amico, non posso fingere di non sapere una cosa del genere! Però così tu…”

“Non è necessario!” squittì Giù afferrando la sua mano, con sguardo da invasata. “Io…mi sta già passando, Fra’, e comunque non farei mai nulla, te lo giuro! Stef non lo sa e mai lo saprà e io adoro Eva! Non sai quanto…non sai quanto sono contenta di essere la sua vicina di banco,” terminò in uno schietto, contrito pigolio.

Fra’ sbuffò rumorosamente, con l’impetuosa forza di una locomotiva, e si grattò la testa con aria sconcertata.

“Che cazzo, però. Quasi quasi era meglio se fosse stato Galleani per davvero,” brontolò cupo.

Giù annuì compresa, senza particolare slancio. Dopo diciotto anni di convivenza con se stessa non riusciva più a stupirsi particolarmente della propria spiccata attitudine a tuffarsi in piscine di sterco fumante e cacciare spontaneamente la testa sotto.

“Allora non lo dirai ad Eva?” cinguettò con voce fremente.

Fra’ si accigliò ancora, distolse lo sguardo, inspirò a fondo e scrollò le spalle.

“No. Credo di no, per il momento.”

Giù avvertì il proprio peso svanire e pensò che avrebbe levitato verso il soffitto come un palloncino gonfiato ad elio. Commossa, fece per rispondere profondendosi in marcati inchini e ringraziamenti celebrativi, quando il suo cellulare squillò segnalando la ricezione di un messaggio.

“Scusa,” bofonchiò perplessa. Qualcun altro voleva farle sapere che conosceva un suo segreto, il KGB era sulle sue tracce?

Mi dispiace per prima, cazzo. Non so mai bene come parlarne alle persone. Era Stef.

“Giù, perché sei diventata fucsia?” chiese Fra’, sospettoso.

Lei prese fiato ripetutamente, si mordicchiò le labbra ed emise un rantolo rassegnato.

“Va bene, è lui…ma non pensare male!”esclamò con veemenza, vedendolo farsi arcigno. “Lui…lui vuole essere mio amico e…e anche io. Cioè, è molto meglio di niente. Se riesco a farmi passare questa cosa e vederlo innocentemente come…io credo sarebbe una bella amicizia e…capisci, Fra’?” farfugliò tremula.

“Ti stai facendo delle illusioni, Giù. Se lui ti piace, come…?”

“Beh, tanto non c’è alternativa!” ragliò lei, vagamente isterica, tanto che Fra’, ancorché grosso il doppio di lei e massiccio come un armadio a tre ante, si ritrasse leggermente. “Quindi ci devo riuscire!”

Lui scosse la testa sconsolato, con l’ennesimo sospirone.

“Okay. Vedrò di darti una mano, va bene?”

E Giù, in qualche inspiegabile modo, si sentì molto meglio. La sfiga la perseguitava invariata, ma almeno non era più sola a fronteggiarla.

Prese un lungo respiro incerto, lo guardò dritto negli occhi – Fra’ le restituì un’occhiata cauta in risposta – e facendosi coraggio gli fece cenno di sedersi.

“Metto su l’acqua per il tè,” bofonchiò nervosamente. “Intanto…senti, Fra’, cos’è successo esattamente a Michele Landolfi?”

Lui sgranò lievemente gli occhi preso in contropiede, storse il naso ed affondò sulla sedia.

 

 

 

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