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è
con trepidazione che vi vengo a sottoporre l’inizio del mio primo
racconto a capitoli originale.
Mi
sembra ancora impossibile di essere riuscita nell’impresa di iniziare
qualcosa di lungo – senza quantificare cosa lungo stia ad indicare, ma non temete, non sono Tolkien – che
si disegni con relativa chiarezza su carta e si prospetti definito già dal
principio.
Dunque,
questo è un racconto poco serio e senza pretese. L’ho scritto
ripensando ad anni che ormai non sto più vivendo e che ricordo con
affetto, gioia e anche con un po’ di pena. La mia adolescenza è
stata, a posteriori, estremamente bella, ma so benissimo che viverla non
è stata sempre una favola. C’è dell’ironia verso
quell’età in queste pagine, ma è un’ironia molto
affettuosa.
Non
è assolutamente un racconto autobiografico e nessuno dei personaggi che
compaiono è reale, come non lo é la maggior parte delle vicende
narrate. Ogni riferimento a persone realmente esistenti e fatti accaduti
è puramente casuale.
Con
questo, vi auguro una buona lettura.
suni
INSOSTENIBILMENTE
GIU’
Giuseppina riteneva
fermamente che nella vita non ci fosse nulla di peggiore del trasferirsi da una
città all’altra durante l’adolescenza.
Niente
a parte chiamarsi Giuseppina, naturalmente: nell’anno domini 2003 ritrovarsi
con un nome proprio del genere costituiva la vergogna più grande che un
essere umano potesse provare, se non si superavano le sessantacinque primavere.
Erano gli inconveniente dell’avere una madre retrograda e svanita, persa
negli anni trenta e del tutto priva di qualunque senso del gusto: non per
niente si chiamava Serafina, lo zio Agenore e la nonna Immacolata. I nomi
imbarazzanti costituivano una consolidata tradizione familiare dal lato materno
e infatti il papà, un banalissimo Marco, passava ogni anno il pranzo di
Natale a sbellicarsi dalle risate stringendo la mano dei vari prozii Agamennone
e cugine Ermenegilda della moglie.
Conseguentemente,
Giuseppina aveva optato per il farsi chiamare con un sonoro Giù per gli
amici occasionali o un intimo Pi per gli affezionati, e già questo
faceva parte del problema: cambiando città avrebbe cambiato anche i
suddetti amici e questo significava dover sopportare di sopravvivere a
chissà quanti drammatici mesi sentendosi chiamare Giusy o – sommo
orrore – Pina prima che la gente capisse quanto avrebbe preferito
un’infibulazione all’onta di ricevere soprannomi del genere.
Ad
ogni modo Giù effettivamente si era appena trasferita in una nuova
città. E questo era appena meno peggio di chiamarsi Giuseppina.
Aveva
letto una quantità di libri e visto chissà quanti film in cui la
protagonista liceale si vedeva sradicare come un geranio e trasportare da un
angolo all’altro del mondo al seguito di genitori gretti ed egoisti che
non ricordavano più cosa volesse dire doversi costruire una vita
sociale. Sapeva perfettamente che il trauma poteva essere anche insormontabile
e che spesso alla malcapitata avveniva di trovarsi investita di poteri
spiacevoli e circondata da persone inquietanti come era successo anche a quella
mentecatta di Buffy. Che sì, poi aveva incontrato quel gran figliolo di
Angel, ma comunque.
Quella
seconda parte della storia, quella in cui lei si faceva valere e trovava un
ragazzo secondo di poco in bellezza a Johnny Depp arrivando a conquistarsi la
stima di tutti e diventando eroina nazionale, Giù lo sapeva, era
prerogativa soltanto delle storie di fantasia, libri e film appunto.
A
lei, nella realtà, sarebbe spettato unicamente il trauma.
Anche
perché oggettivamente Giù non era figa come Buffy e non portava
il suo stesso tipo di minigonne, non aveva un carattere vulcanico come Pippi
Calzelunghe né il fascino etereo di Isabella Swan e porco Giuda, prima
di fare amicizia con qualcuno ci metteva una vita, anche perché era
piuttosto selettiva e aveva passatempi magari non particolarmente comuni.
Giù
era quel genere di diciassettenne che per presa di posizione si sforzava di non
uniformarsi. Al tempo stesso, non le interessava sbandierare nessuna presunta
diversità. Non voleva mettersi gli occhiali D&G ma nemmeno vestirsi
di nero e tagliuzzarsi le vene, oppure sfoggiare camicioni colorati di cotone
nepalese ingombranti come impalcature. La sua intera personalità seguiva
in ogni ambito quel desiderio di anonimo individualismo e di conseguenza la
sventurata sviluppava ciclicamente lievi problemi d’identità cui
sicuramente un trasferimento traumatico non avrebbe giovato. Per giunta il suo
completo disinteresse per ogni forma di moda e la sua deliberata mancanza di
cura per l’estetica la portavano a compiere sbalzi anche inquietanti,
ché non era raro vederla presentarsi in classe conciata accidentalmente
come un cyberpunk un giorno e appallottolata in un’innocua mise di braghe
in tela e golfino sdrucito l’indomani.
Quello
e il fatto che fosse poco interessata agli svaghi di massa la rendevano
leggermente isolata già in ambienti che frequentava dalla nascita: non
osava nemmeno pensare a cosa sarebbe stato presentarsi in una nuova scuola,
dove nessuno la conosceva, e per di più ad anno iniziato.
La
catastrofe.
Era
quella la ragione per cui, in quel grigio mattino d’inizio inverno,
esitava davanti allo specchio scrutando torva la propria immagine riflessa,
rischiando di presentarsi in ritardo in classe al primo giorno. Quella e il
fatto di non essere molto sicura di voler comparire davanti ai suoi nuovi
compagni prima di aver subito un’operazione di chirurgia plastica che la
rendesse completamente irriconoscibile, anche se poteva sembrare inutile dal
momento che quelle persone non la conoscevano nemmeno con il suo aspetto
autentico, ma dopo l’operazione lei
avrebbe saputo che loro non potevano riconoscerla comunque e si sarebbe
sentita in pace con se stessa.
Qualcosa
del genere, insomma.
Era
la prima volta da quando andava a scuola che trascorreva più di quattro
minuti a vestirsi. Aveva spulciato tutto il suo guardaroba, ancora parzialmente
ammonticchiato negli scatoloni del trasloco, nel tentativo di trovare degli
abiti che non le facessero attirare l’attenzione e impedissero la
formulazione di qualunque giudizio approssimativo sulla sua persona. Resasi
conto che quest’ultima speranza era tragicamente vana aveva stabilito di
cercare almeno di non sembrare un panda con la criniera da leone: cosa che
tendeva ad avvenire quando si lasciava andare a se stessa – cioè
sempre - per via dei capelli crespi e tiziani e delle occhiaie clamorose che la
accompagnavano dalla tenera età di dodici anni, per ragioni su cui
nemmeno il suo medico curante aveva saputo fornire spiegazioni convincenti.
Dunque
si era messa un filo di matita nera sugli occhi, che erano di un bel verde
rugginoso e costituivano uno dei pochi attributi di se stessa che non la
disgustasse particolarmente. Aveva trascorso un quarto d’ora a
spazzolarsi i capelli, tirandoli come se avesse dovuto staccarseli tutti senza
eccezioni, e al momento quelli aveva un’accettabile conformazione che
seguiva più o meno quella della sua nuca e che con un po’ di
fortuna avrebbe tenuto almeno fino a dopo l’intervallo senza
l’ausilio di gel e lacca, che andavano contro i suoi principi. Per
l’uscita da scuola aveva anche pensato a mettere nello zaino un berretto
nero – esitando sulla scelta di un più pratico passamontagna -
così da poter nascondere eventuali rigonfiamenti della capigliatura al
momento di sfilare fuori dalle porte.
Si
era infilata un paio di jeans chiari e non stretti, un maglione verde e il suo
cappotto vintage ma non troppo – nel senso che gliel’aveva passato
sua madre in memoria della gioventù e che non vantava pretese
particolari. A concludere aveva infilato guanti lanosi, sciarpa formato
lenzuola e gli stivaloni neri da Marines che la accompagnavano dalle medie,
indispensabili per sopravvivere ai marciapiedi ghiacciati senza rimediare
fratture composite settimanali.
Del
resto ne sapevano, i Marines: avevano fatto il Vietnam, che non era proprio
come una passeggiata sul lungomare.
Fatti
loro, comunque.
“Giuuuuuù!
Muoviti, è tardiiiii!”
La
voce di sua madre risuonava come una sirena dei pompieri, ricordandole
l’infausto destino che l’attendeva. Giù era una ragazza
mediamente coraggiosa e fornita di un certo fatalismo, dunque si gettò
un’ultima occhiata dolente, fece alla propria immagine una linguaccia
propiziatoria e scattò fuori trotterellando giù per le scale,
senza aver fatto colazione, senza sigarette e senza avere idea di quale fosse
il numero del suo autobus.
Ringrazio
caramente chi ha letto, chi ha preferito e, a fondo pagina, chi ha commentato.
Spero
vorrete avere la bontà di fornirmi un’opinione. In caso contrario,
spero almeno che vi divertiate.
suni
I. EVA
Nonostante
l’inconveniente dell’autobus Giù riuscì a farsi
spiegare da una pensionata con la sporta della spesa come raggiungere il liceo
linguistico Italo Calvino, che scoprì poi distare appena dodici minuti,
ovvero cinque fermate. Sull’autobus c’era una calca di altri
studenti che lei finse di non vedere – era bravissima in
quell’attività - rimpiangendo di non avere con sé un cane
per ciechi che potesse trarli in inganno. Prese nota di procurarsene uno per la
prossima volta in cui avesse cambiato scuola e puntò uno sguardo
rarefatto e sonnolento sul finestrino davanti a lei, rimanendo perfettamente
immobile nella posizione yoga della Montagna, cioè piedi divaricati a
larghezza spalle e braccia tese lungo i fianchi, finché la prima frenata
non la mandò dritta nell’abbraccio involontario di un liceale
ignoto sul cui piede atterrò con le suole carrarmato
di entrambi gli stivali e che non osò nemmeno guardare in faccia: violacea,
gli porse inintelligibile scuse. A quel punto la sua posizione mutò in
Montagna-modificata-con-braccio-alzato-per-reggersi-alla-maniglia-apposita e
Giù continuò il suo viaggio estraniandosi completamente dal mondo
circostante, immersa in un mistico torpore.
“Mi
fai scendere?”
La
voce la riscosse d’improvviso facendole fare un palese saltello e, di
nuovo arrossendo, registrò grazie al colore della giacca – un
improbabile arancione – che a parlare era stato il tizio cui era volata
addosso poco prima. Terrorizzata, si fissò i piedi e gli fece largo
biascicando chissà cosa.
“Tu
non ti fermi qui?” chiese il tizio quando fu arrivato alla porta. “Non
vai al Calvino?”
E
Giù si rese conto di non aver fatto caso a quale fosse la sua fermata.
Imprecò mentalmente contro se stessa e lo sguardo le si fece appannato
per l’agitazione mentre, se possibile, diventava ancor più rossa.
Si scaraventò giù al seguito del tizio e a quel punto, suo
malgrado, si trovò costretta allo spiacevole gesto di doverlo guardare
in faccia per ringraziarlo e quando i suoi occhi si sollevarono sul suo viso
mancò poco che un ictus la cogliesse.
Perché
Tizio era, come da regolamento, quanto di più simile a una creatura
ultraterrena che la sua mente potesse concepire.
Aveva
immensi occhi di un azzurro cristallino e un sorriso simpatico corredato di
fossette, qualche leggerissima lentiggine intorno al naso e lineamenti marcati,
ma armoniosi. Sfoggiava una chioma di media lunghezza, un po’ arruffata e
di un biondo cinereo e luminoso che sembrava fatto con Photoshop.
“G-grazie,” gracchiò Giù, incrociando
gli occhi come una strabica nel tentativo eroico di non crollare svenuta.
Tizio
sorrise ancor più meravigliosamente e le fece un piccolo cenno di saluto
con una mano divina che sembrava presa dalle fotografie di Doisneau,
quello de IlBacio. Giù meditò di staccargliela e tenerla come
reliquia, ma Tizio si stava già voltando per mollarla lì - perfetto,
doveva probabilmente ritenere di aver compiuto la sua buona azione quotidiana
soccorrendo una ritardata - e lei rimase a bocca aperta con lo sguardo da trota
in decomposizione.
Giù
negava fermamente l’esistenza dei colpi di fulmine, eppure in quel
momento seppe con totale e ineluttabile certezza di averne appena subito uno, e
di quelli tosti. Centrata in pieno sulla via di Damasco, o quel che era, dalla
più potente folgorazione mai provata in vita sua, per un Tizio ignoto.
Lo
guardò camminare verso l’ingresso dell’istituto, intorno a
cui gravitava già una folla di studenti, per poi fermarsi sul lato della
piazzetta accanto a due altri ragazzi molto meno impressionanti che lo
accolsero con amichevoli pacche. Uno dei due gli porse un pacchetto di sigarette
aperto e Tizio ne accettò una sorridendo in maniera sempre più
sfolgorante.
A
quel punto Giù rammentò di essere a sua volta una fumatrice e si
riscosse riluttante, spostando intorno uno sguardo dubbioso per scoprire se per
caso da quelle parti o in qualche via laterale si trovasse un tabaccaio, ma
ovviamente la realtà la disilluse.
Si
guardò ancora intorno, meditando sul da farsi. Piuttosto che rivolgere
di propria iniziativa la parola a qualcuno per chiedere una paglia si sarebbe
fumata la matita: sapeva che presto o tardi inevitabilmente avrebbe dovuto
interagire con qualcuna di quelle persone, ma desiderava rimandare il
più possibile quello sciagurato momento.
Sicuramente
sarebbe riuscita a fare una figura di merda appena aperta la bocca.
Sospirò
tristemente tra sé, avvilita. Avrebbe dovuto rimandare la sigaretta al
pomeriggio.
A
quel punto tanto valeva avventurarsi alla ricerca della Presidenza, operazione
che sospettava le avrebbe portato via ingenti quantità di tempo visto il
suo senso dell’orientamento non pervenuto. Con un sospiro attofarsi forza strinse la presa sulle
bretelle dello zaino e serrò gli occhi per un istante, poi
sollevò la testa e varcò a passo quasi militare la soglia del suo
nuovo liceo.
La
sua ultima speranza – cioè che l’universo avesse fine ed
esplodesse con un secondo Big Bang in quel preciso momento - non si
avverò e Giù si trovò nell’atrio scalcagnato e poco
luminoso, con pareti di un ocra vagamente vomitoso,
di quella che pareva una normalissima scuola, in cui altri allievi già
bighellonavano e cercavano la propria classe studiando i numeri sulle porte
lungo i due corridoi laterali. Giù gettò l’ennesimo sguardo
spaurito intorno a sé prima di decidere che, gerarchicamente, la
Presidenza non poteva che trovarsi il più in alto possibile e prese
quindi a salire le scale verso i piani superiori, che scoprì essere tre.
Ma
della Presidenza non c’era traccia.
“Porco
di quel cazzo di vacca,” ringhiò Giù tra sé,
scrutando risentita un anonimo corridoio lungo il quale si susseguivano le aule,
già popolato di alcuni studenti particolarmente mattutini che
vagabondavano senza scopo.
“Come
fa una vacca ad averlo, scusami?”
La
svagata voce femminile proveniente dalla sua destra le provocò il
secondo cardiopalma della mattinata e Giù si voltò di scatto,
incontrando miti occhi marroni che la scrutavano placidi dietro le lenti di un
paio d’occhialini rotondi alla John Lennon. La ragazza che le aveva
parlato era avvolta in un lungo paltò nero, aveva i capelli lunghi e
castani perfettamente lisci e la osservava educatamente.
“E’
un OGM,” borbottò imbarazzata. Poi, visto che la straniera le
aveva parlato per prima, si fece coraggio. “Sai dirmi dov’è
la Presidenza?” chiese velocemente, come sgravandosi di un infausto
fardello.
“Sei
nuova?” rispose l’altra, curiosa.
Giù
annuì senza parlare, timida e a disagio.
“Che
classe fai?” chiese ancora la ragazza, cordiale.
“Quarta.
C,” rispose Giù, ripetendo l’unica informazione utile in suo
possesso.
La
ragazza sorrise, apparentemente entusiasta.
“Siamo
compagne,” annunciò allegramente. “La nostra classe è
questa,” proseguì, indicando la porta a due metri da loro su cui,
effettivamente, troneggiava la scritta IV
C. “La Presidenza invece è a piano terra, corridoio a destra,
ultima porta a sinistra dopo la Segreteria.”
“Ci
vediamo in aula!” la salutò la sua nuova compagna sventolando
soavemente la mano.
Giù
annuì gravemente, prima di tornare velocemente sui propri passi nella
speranza di riuscire a non tardare troppo. Le indicazioni si rivelarono esatte
e in capo a tre minuti il preside Anselmi la accoglieva con un pomposo discorso
di benvenuto, le forniva le sommarie indicazioni sul banalissimo e universalissimo regolamento di un normale liceo e la
affidava ad una bidella bassa e tarchiata incaricata di scortarla
nell’aula da cui era appena arrivata.
Ovviamente
la campanella era già suonata e le porte chiuse, compresa la sua. La
bidella bussò sbrigativa e un sonoro “avanti” sancì
la sua condanna. Giù si fece avanti al seguito della donna, sbattendo
nello sguardo paziente di un professore affascinante sui trentacinque anni e
successivamente in una quarantina di ignoti occhi curiosi che la osservavano
dai banchi.
“La
nuova allieva, professor Ventura,” annunciò la bidella con
noncuranza.
“Vieni,
vieni… Corioli Giuseppina, giusto?” la
accolse l’uomo disponibile dopo aver gettato un’occhiata al
registro, facendole cenno di avanzare mentre lei, nell’udire il proprio
nome completo, sbiancava e poi si accendeva come un semaforo rosso.
“Siediti pure, benvenuta. Salutate, su, bestie,” intimò
quindi l’insegnante bonariamente. Un coro svogliato di ciao si levò dall’aula e
poi Giù registrò i gesti frenetici della ragazza del corridoio
che, dal secondo banco lato finestra, le indicava il posto libero al proprio
fianco. Giù, sorpresa, vi si diresse come un naufrago verso la zattera,
sorridendo timidamente agli astanti.
“Io
sono Michele Ventura, il professore di storia dell’arte,”
attaccò amichevolmente il docente non appena si fu sfilata il cappotto.
“Sono consapevole dell’inutilità sociale della mia materia,
ciononostante mi premurerò di rifilarti solenni quattro quando ti
troverò impreparata. Domande?”
Giù
scosse diligentemente la testa schiarendosi la voce. Desiderando ardentemente
di diventare invisibile prese ad estrarre dallo zaino astuccio, diario e
quaderni a caso.
“Bene,
allora passerò a riprendere per sommi capi il programma al punto in cui
siamo arrivati, mentre vi svegliate tutti,” fece il professore, magnanimamente,
senza porle altri quesiti.
Non
appena lui ebbe iniziato a parlare, la ragazza accanto a Giù prese a
scrivere freneticamente su un quaderno immacolato e lei ritenne, senza
possibilità d’errore, di essersi appena seduta accanto alla
secchiona.
Poteva
andarle peggio, considerò saggiamente. Avrebbe potuto finire accanto
alla cheerleader, se fosse stata in America. Meglio così, se non altro la
secchiona non avrebbe preteso di fare conversazione.
Invece
al cambio d’ora la sua nuova vicina alzò lo sguardo verso di lei
con un altro sorriso, pacifica.
“Ce
l’hai fatta, allora,” commentò eccitata, come se lei si
fosse appena districata in un’esplorazione della foresta amazzonica.
“Io sono Eva.”
Giù
strinse debolmente la sua mano tesa, con un sorriso di circostanza.
Lei
la guardò con nuova sorpresa, mentre il primo sorriso sincero le si
dipingeva da sé sulle labbra.
“Certo,”
confermò, piacevolmente colpita.
Poi
un paio di altre ragazze si avvicinarono a fare da comitato
d’accoglienza, insieme a un ragazzone alto e nerboruto dalla voce tonante
che si presentò come Francesco e le rifilò una pacca cameratesca.
Nel giro di cinque minuti, il tempo libero tra una lezione e l’altra,
tutti sapevano già che si era trasferita da Trento perché suo
padre aveva ricevuto una promozione con dislocazione annessa, che abitava in
via Perugia, che preferiva essere chiamata Giù e non Giusy, che era
figlia unica, che fumava e che ascoltava musica rock.
L’ora
successiva era di matematica e Giù scoprì immediatamente che il secchionismo di Eva era settoriale, perché dopo i
primi venti secondi la sconosciuta prese a sussurrare sommessamente. Venne a
sapere quindi che quel Francesco Turco della pacca era il migliore amico della
sua compagna di banco, che faceva ridere da matti ed era buono come il pane,
gli piaceva il cinema e voleva fare lo sceneggiatore. Inoltre la ragazza nel
primo banco accanto alla porta, Clara Andreoli, era
la leccapiedi della IV C e tutti meditavano di farle lo scalpo, la bionda in
terza fila col le tette da urlo, Michela Deninotti,
era la figa riconosciuta della scuola e le due ragazze con piercings
in fondo e il brunetto magro accanto a loro, capelli
lunghi e arruffati in faccia, erano gli ‘alternativi’ della
situazione e i compagni preferiti di Eva dopo Francesco, e che gli altri
indistintamente erano grossomodo sterco.
Alla
faccia dell’innocua secchiona.
“E
tu?” sussurrò Giù a quel punto, già più
bendisposta. La ragazza pareva avere le idee chiare, se non altro.
Eva
la osservò vacua con la sua espressione di benevola illuminazione.
“Io
che?”
“Boh,”
biascicò Giù, stringendosi nelle spalle. “Che ne
so…”
“Io
sto qui per studiare il francese. Voglio andare a Parigi a fare l’Accademia
delle belle Arti e prendo corsi intensivi di pittura da quando ero in
seconda,” iniziò pensosamente Eva, come non sapendo bene che dire.
Giù
sentì di amarla.
“Perché
non hai fatto l’artistico?” chiese, perplessa.
Eva
si strinse nelle spalle, noncurante.
“I
miei rompevano. Comunque non è male, sai. Mi piace studiare le lingue e
le materie umanistiche, letteratura, filosofia e quella roba lì.”
Giù
annui beata, ancora incredula.
Era
fantastico. Al suo primo giorno di scuola era riuscita a incontrare
l’uomo della sua vita e a trovare una vicina di banco piacevole.
Era
molto più di quanto avrebbe mai potuto sognare.
Doveva
esserci qualcosa sotto.
_________________________________________
Aglaia: Ahm…ehehehe-glomp.
Urk. (Eccetera). Eeehm. Dunque.
Andiamo con ordine. Tu sai quanto amo Sirius. Tuttavia in questo periodo ho questa
lieve fissazione maniacale per Naruto. Non è colpa mia, è che ci
sono un paio di personaggi che si amano in modi che non dirti e un paio d’altri
che sono troppo belli e… Insomma. Non è che abbia abbandonato i
miei pulciosi, non lo farei mai. Ecco. E, beh, wow, sono contenta che ti sia
piaciuto l’inizio di questa originale, mi hai scritto delle cose carinissime
– e non sono così brava, ma grazie comunque per averlo scritto
^__^ - e ovviamente sono molto felice che Giù ti piaccia. Qui abbiamo
conosciuto Eva – e Tizio, ma non si può parlare di vera
conoscenza. Che dire, mi auguro sia altrettanto gradevole. Thanks.
Yottu_ecco: che simpatico coglionazzo. Bravo, però, sei stato in grado di
lasciare una recensione. (Anzi TRE. TRE.) Hai visto che quando vuoi ci arrivi
alle cose? Grazie, tato, non solo per questo.
Little jewel: grazie! Mi fa piacere che l’inizio
ti abbia interessata… L’ironia della vita, beh, quella ci va per
forza, altrimenti non si va avanti. Mi auguro che il prosieguo ti
piacerà ugualmente, e grazie per volermi seguire.
Il
Natale e il torpore post-banchetti mi hanno un tantino rallentata, ma eccomi di
ritorno per la vistra…bah…gioia.
Buona
lettura.
suni
II. FRA’
Giù
continuò a chiacchierare con Eva per entrambe le ore di matematica. O
meglio, ascoltò il ciarlare leggero e spumeggiante della sua nuova amica
che la informava su quanto di immancabile occorreva sapere del loro liceo,
sulle attività ricreative e serali più interessanti che la
città forniva e sui suoi personaggi di maggior spicco.
Giù
pensò di chiederle informazioni sul misterioso e bellissimo Tizio che
l’aveva abbagliata alla discesa dall’autobus, ma non le
riuscì di trovare il coraggio per riferire l’episodio. Poi, appena
suonata la campanella dell’intervallo di metà mattinata, Eva si
volatilizzò in uno sventolio di capelli abbandonandola nelle mani di
Francesco.
“Allora,
Giù,” inizio amichevolmente il ragazzo facendole strada verso la
macchinetta del caffè. “Cosa fai di bello fuori da scuola?”
Per
un secondo lei ebbe il terrore che le stesse chiedendo di uscire come esordio,
poi realizzò di aver leggermente travisato e le sfuggì un
sorriso. Come se chiunque potesse avere l’idea di innamorarsi di lei
semplicemente vedendola, con quei capelli allucinanti e le borse agli occhi e
la sua goffaggine innata. Ridicolo.
“Non
so,” iniziò, incerta. Non era affatto facile parlare di sé,
ma Francesco la guardava senza pressioni, camminando mani in tasca, e la cosa
la rilassò. “Veramente, niente di speciale. Mi piace stare con gli
amici, fare cose normali tipo andare ai concerti oppure al cinema…”
“Ti
piace il cinema?” la interruppe lui, illuminandosi.
Passarono
il resto dell’intervallo a parlare dei loro film preferiti. Giù
quasi urlò di entusiasmo quando seppe che anche lui da bambino aveva
visto cento volte Labyrinth
anche se era un film vecchissimo e che aveva all’attivo anche
innumerevoli visioni di Lèon
perché Gary Oldman era spaziale. Aveva
guardato anche lui tutti i film con Johnny Depp, nonostante fosse un maschio
eterosessuale, perché lo riteneva un attore straordinario e infine gli
piacevano i MontyPython.
Giù
decise che Eva aveva buon gusto in fatto di amici.
“Ma
dov’è andata quell’altra?” chiese a quel punto,
guardandosi intorno mentre Francesco gettava via il bicchierino del
caffè ormai vuoto.
“Eva,
dici?” chiese Francesco con sorrisetto paziente, stringendosi nella
spalle. “Sarà andata a cercare Stef,”
commentò distrattamente.
“Stef?” ripeté Giù, incuriosita.
Francesco
sogghignò, saputo.
“Il
suo principe sul pisello,” spiegò scherzoso, con un sospiro
melodrammatico. “E’ il suo nuovo straordinario ragazzo e non riesce
a staccarsene per più di tre ore consecutive. Fa sempre così ma
tanto poi li molla. Greg dice che questo non regge fino a Natale,”
concluse grave, annuendo tra sé.
Greg,
considerò lei facendo mente locale, era il bruno coi capelli in faccia
dell’ultima fila.
“Ma
a me sembra che Stefano le piaccia più degli altri. Magari se lo tiene
fino a Carnevale.”
Giù
scoppiò spontaneamente a ridere a quell’ultima affermazione
buttata lì casualmente, mentre la campanella sanciva la fine
dell’intervallo. Seguì Francesco verso l’aula con un
insolito senso di ottimismo, perché aveva immaginato quella mattinata
infinitamente più catastrofica di quanto si stesse rivelando.
“E
tu non hai lasciato un principe a Trento?” chiese svogliatamente lui,
salendo le scale.
Giù
scosse la testa.
“Lui
ha scaricato me, ma prima che saltasse fuori del trasferimento. E tu?” si
affrettò a concludere, per non attardarsi sul pensiero malinconico di
Paolo che le aveva spezzato il cuore a metà e ci aveva giocato a
freccette.
Francesco
si grattò pensosamente il mento, vago.
“Ci
sto lavorando,” borbottò indeciso. “Ti farò sapere,
all’occorrenza.”
Eva
era già in classe e sorrideva radiosa. Francesco le fece un occhiolino e
lei rispose con un artefatto sospiro sognante, portandosi melodrammaticamente
la mano alla fronte.
Nell’ora
successiva Giù le rese noto di essere venuta a conoscenza
dell’esistenza di tale Stef e Eva si
dilungò nell’illustrarle della festa di Halloween durante la quale
era riuscita ad accalappiare l’ambita preda, che quella storica sera
suonava il basso nella sua band scalcinata, quindi passò ad illustrare
senza troppe cerimonie le sue interessanti prestazioni sessuali delle ultime
due settimane e finirono per farsi rimproverare entrambe dalla professoressa di
chimica, perché ridevano leziosamente con strombettii soffocati.
Nel
cambio d’ora Eva raggiunse i tre ragazzi in fondo e Francesco
tornò a sostituirla.
“Ci
scommetto che so di cosa parlavate quando la prof vi ha cazziate,”
esordì ridendo, e Giù sorrise colpevolmente.
“Di
principi sul pisello,” ammise divertita.
Francesco
le sganciò un occhiolino, malizioso.
“Ne
dobbiamo trovare uno anche a te?” chiese, con fare losco.
Giù
esitò, prima di lanciarsi in un inusuale slancio di confidenza.
“Credo
di aver visto l’uomo dei miei sogni sull’autobus. L’ho
guardato in faccia e nel mio cervello è partito il coro
dell’Angelus della messa di San Pietro,” annunciò rapita,
ricordando il meraviglioso sorriso di Tizio, le sue fossette e le sue dita
affusolate.
“Però…C’era
il dolby surround?” s’informò lui interessato.
Giù
annuì solennemente e il ragazzo emise un fischio ammirato.
“Cazzo.
Allora è Amore Vero,” commentò grave.
Scoppiarono
a ridere in coro. Quando la professoressa di inglese entrò in classe e
Eva tornò al suo posto stavano ancora sghignazzando come deficienti.
All’uscita
da scuola Giù aveva stabilito definitivamente che la sua proverbiale
sfiga l’aveva abbandonata, forse per non fare ritorno. Non c’era
altra spiegazione al fatto che le due persone che le camminavano accanto le
fossero simpatiche, che la sua sedia non si fosse rotta per ragioni ignote
capottandola in terra ed esponendola al ludibrio dell’intera classe, come
le era successo il primo giorno del primo anno di liceo, che il suo zaino non
si fosse rotto riversando il proprio contenuto per le scale e che nessuno
avesse commesso atti di bullismo nei suoi confronti.
Oppure,
come una vocina savia continuava a sussurrarle nell’orecchio, c’era
una madornale fregatura che l’aspettava perfidamente. Ricordati che sei Giù, ribadiva
la vocetta, malvagia, e se sei giù non puoi essere su.
“Ci
vediamo domani, Pi,” la riscosse Eva, sfiorandole il braccio, quando
ebbero oltrepassato il portone d’ingresso nella calca degli studenti in
uscita.
“Io…”
mormorò lei, interrompendosi quando la mano di Francesco fece comparire
magicamente nel suo campo visivo un pacchetto di sigarette.
“Grazie!” trillò sollevata.
Il
ragazzo si era sistemato accanto alla parete, per togliersi dal passaggio, ed
Eva stava piantata accanto a lui. Giù li imitò, cavando fuori
l’accendino dalla tasca del cappotto e rischiando poi di dar fuoco alla
propria sciarpa.
Per
qualche secondo nessuno dei tre parlò, quindi lei si calcò meglio
il berretto sulla testa. I suoi capelli cominciavano a sembrare spaventosamente
afro.
“Io
vi ringrazio,” iniziò, di slancio. “Ero terrorizzata dal
primo giorno di scuola perché sono sempre stata una sfigata
cronica,” illustrò con una smorfia.
“Ti
aspettavi un tormento?” chiese Eva, divertita.
Giù
annuì, stringendosi nelle spalle.
“Pensavo
che come minimo un gruppo di skinhead mi avrebbe appesa per le mutande al
lampadario e invece tu mi hai persino offerto il caffè,”
specificò, con un cenno del capo verso Francesco.
“Capirai,
per trenta centesimi,” bofonchiò lui, palesemente lusingato.
Giù
sorrise un po’ impacciata, stringendosi nelle spalle per ripararsi dal
freddo. Eva continuava a guardarsi intorno con febbrile aspettativa e Francesco
lanciò alla nuova amica un’occhiata d’intesa, cui Giù
rispose con un ghigno malefico mentre il suo piede s’incastrava da solo
in una crepa del marciapiede. Si aggrappò prontamente al ragazzo per
evitare un capitombolo e quasi lo strangolò con il collo
dell’eskimo.
Forse
la sua nuova fortuna era strettamente circoscritta al perimetro interno del
liceo Calvino.
“Allora,
il tuo principe?” interloquì, recuperando l’equilibrio
mentre Francesco tossicchiava.
Eva
sbuffò pazientemente, scrollando la testa.
“La
quinta b esce sempre per ultima e Stef è
l’ultimo degli ultimi. È lento come la fila alla cassa della
Coop,” illustrò rassegnata.
L’autobus
numero 64 veleggiò in quel momento verso la fermata e Giù
lanciò uno strillo, riconoscendolo.
“Il
mio autobus!” ragliò allarmata, lanciando via la sigaretta che
mancò di poco il cappuccio di un estraneo sfortunato. “Devo
correre!”
“A
domani!” la salutò Francesco, mentre Eva sventolava la mano sul
suo scatto da velocista. Giù caracollò di corsa verso l’automezzo
con lo zaino che rimbalzava sulla schiena, travolse due ragazzini del primo o
secondo anno e si spappolò una tibia contro un idrante. Balzò
sull’autobus all’ultimo secondo sventolando le braccia come pale di
mulino, perse il berretto appena messo piede a bordo e la foresta dei suoi
capelli esplose libera.
Ansimò,
abbandonandosi contro il finestrino, mentre tentava di recuperare il fiato e si
guardava cautamente intorno, speranzosa. Esaminò attentamente tutti gli
altri passeggeri ma purtroppo non c’erano tracce di Tizio, della sua
giacca raccapricciante e del suo sorriso da denuncia per molestie.
Peccato.
Sua
madre la aspettava impeccabile con un piatto di maccheroni al sugo e un trancio
di torta sacher grosso come un comodino. Era una fanatica della buona cucina e
tra le mille attività cui si dedicava c’era quella di preparare
leccornie per tutta la famiglia. Era quel genere di cuoca che ama preparare
prelibatezze anche per se stessa e Giù non capiva come mai non fosse
grassa come un porcello, ma questo le dava buone speranze per il futuro.
Dopotutto le somigliava molto: da lei aveva preso i capelli a bomba atomica, i
piedi a papera e la faccia tondeggiante, anche se disgraziatamente non
possedeva un’oncia del suo carisma vulcanico e della sua grazia naturale.
“Allora,
Pi, questa nuova scuola?” chiese Serafina,
speranzosa.
La
ragazza si sfilò il cappotto con espressione pensosa, emise uno sbuffo
depresso e infine si aprì ad un sorriso luminoso.
“Ho
due amici,” annunciò, ancora sorpresa lei stessa per quel felice
evento.
Trascorse
le due ore successive spiegando a Serafina tutto
quello che le riuscì di descrivere di Eva, Fra’, il professor
Ventura, la bidella, il Preside, la macchinetta del caffè, il suo banco
verde e la corsa alla fermata. Quando smise di parlare le faceva male la gola e
si sentiva contenta come non aveva pensato di poter mai essere nella nuova
città.
Era
dannatamente strano.
Forse
stava diventando Buffy..?
___________________________________
Nunichan: Oh, grazie! Ahm, ammetto che al momento non so
nemmeno bene io dove andrò a parare, la trama ha già subito tre
modifiche sostanziali ma a grandi linee il fulcro continua a rimanere il
medesimo. Quanto a Tizio… ^__^ L’effetto voluto era un po’
quello lì. Mi fa piacere che tu voglia seguire la storia, spero davvero
di non deluderti.
Sky88: Certo che puoi chiamarla Pi, anzi, a lei fa molto
piacere. Non ti azzardare ad uscirtene con Giusy o ti
sfranteca la faccia. ^__^ Che altro dire…speriamo
bene. Mi auguro di riuscire a mantenere la storia interessante. Grazie, alla
prossima.
Aglaia: tesoro, tu mi commuovi. “Pasticcino”,
awww! Lo so che mi sei fedele, e non sai quanto ti
sono grata per questo. Davvero. Quanto alla nostalgia del liceo…bah. Per certe
cose forse sì, ma la vita da universitaria mi calzava molto di
più. Che altro…ah sì. La battuta, vedi, Giù se la fa
anche da sola…^__^ Apresto, besos.
linduzz: Grazie! Ti somiglia? Beh, almeno vorrà
dire che è un pochino realistica, il che mi conforta. Spero il resto
della storia ti aggraderà altrettanto, alla prossima.
L’indomani
mattina Giù riuscì a non sentire la sveglia per tre volte di fila
ed emerse dal groviglio delle coperte soltanto quando sua madre andò a
prenderla a cuscinate. Ovviamente era di nuovo in ritardo, ma non stava
più per affrontare il suo primo giorno di scuola quindi se ne strafregò della matita agli occhi, dei capelli a
cespuglio, dei vestiti abbinati a pugni in faccia e dei calzini spaiati.
Soltanto quando si fu gettata fuori dalla porta di casa, e una folata di gelido
vento invernale le ebbe scosso il cervello intorpidito, ricordò la
possibilità di incontrare Tizio sull’autobus e apparirgli in tutto
il suo splendore di larva pesta e sgarrupata.
Troppo
tardi, considerò mesta zompettando in strada.
Una
volta a bordo ebbe a malapena il tempo di osservarsi nel riflesso del
finestrino e verificare con attonita rassegnazione la propria somiglianza con
la copia troppo magra e bianca di Aretha Franklin in
pigiama e cappotto, che un formicolio alla base della nuca la costrinse a
spostare uno sguardo vacuo a lato. La sua mano tremò sulla sbarra cui
era aggrappata e il cuore prese a galopparle in patto quando incrociò le
pozze cerulee delle iridi di Tizio, distrattamente fisse su di lei in una sorta
di catalessi soporifera.
Porco
Giuda e Diavolo canterino, era assolutamente bello da far scricchiolare le
ginocchia.
Quel
mattino Tizio non era solo. Accanto a lui un ragazzo grassoccio e bruno
blaterava enfaticamente, senza che Tizio sembrasse riuscire a seguire
l’incatenarsi delle frasi. Persa nella contemplazione amorevole del suo
mento magnificamente virile Giù considerò che doveva avere anche
lui qualche problema con la sveglia mattutina, a giudicare dal modo in cui
quelle palpebre dispettose si ostinavano a coprire parzialmente i suoi
bellissimi occhi.
Tizio
sbadigliò apertamente, spalancando le fauci come un ghepardo sotto il
sole della Savana.
Sempre
che i ghepardi vivessero nella savana. Forse quelli erano i leoni.
Adorabile,
comunque.
Giù
si concesse il lusso di esaminarlo più attentamente. Aveva già
scannerizzato la giacca di pessimo gusto arancione quasi fosforescente, le
lentiggini, i bei capelli chiari che scivolavano verso le spalle, dondolando
qualche centimetro sotto le orecchie e spettinandosi, più in alto, in
ciuffi un po’ più corti. Inoltre, scoprì, Tizio era
parecchio alto. La giacca era aperta – niente di strano, su quel bus
sembrava di stare in un forno pronto per cuocere la pizza – e lei
poté venire a sapere con gran gaudio che lui aveva un bel fisico snello
e mediamente atletico, da quel che si poteva capire tra il maglione grigio e
slabbrato e i pantaloni neri cadenti.
Sospirò
tra sé, ammaliata.
L’uomo
della sua vita prendeva il suo stesso autobus. Tu guarda a volte i casi, si
poteva ben dire.
Il
suo sguardo adorante dovette risultare alla lunga un tantino invasivo,
perché alla fermata numero due Tizio si riscosse sbattendo delicatamente
le palpebre e sembrò riemergere da un lungo sonno: raddrizzò il
busto, strizzò gli occhi un paio di volte e infine la vide.
Non
che fosse in qualche modo difficile notare una psicopatica appesa a un sbarra a
bocca aperta, con la testa sporta verso di lui el’espressione di chi sta
assistendo a una performance live dei RollingStones a proprio esclusivo beneficio. Mancava solo un filo
di bava al lato delle labbra, gemette Giù nei propri pensieri
distogliendo vergognosamente lo sguardo. Avvampò come un furgone dei
vigili del fuoco fissando vacua il cartellino dei posti per gli handicappati.
Con un po’ di fortuna Tizio le avrebbe rivolto la parola, solo per
suggerirle di accomodarsi lì.
Invece,
quando si azzardò a spostare nuovamente uno sguardo cauto verso di lui,
lo scoprì completamente indifferente e intento a chiacchierare col
grassoccio. Tese l’orecchio per riuscire a captare quale fosse il
contenuto della conversazione e fu così che udì una bella voce
profonda e leggermente rauca esclamare un soave “porco cazzo”.
Intimamente
gioì. Aveva anche il suo stesso lessico raffinato.
Poi
l’autobus sferragliò fermandosi davanti al liceo Calvino e
Giù balzò a terra cercando di prendere tempo e trattenersi in
mezzo al passaggio, di modo da costringere Tizio a chiederle di nuovo di
passare. Invece lo vide incamminarsi verso l’ingresso della scuola poco
lontano da lei.
Era
passato dalla porta dietro.
“Giuuù-ù!” la raggiunse in quel momento
un ruggito sonoro.
Francesco
stava più o meno rotolando giù dalla via che si arrampicava verso
il quartiere collinare, con un casco al braccio e l’eskimo sventolante.
Fendeva la calca dei compagni di scuola dall’alto del suo metro e novanta
o giù di lì, sorridendo beato nella sua direzione.
Giù
si sentì contenta senza una ragione particolare, soltanto perché
era il suo secondo giorno di scuola e c’era già una persona che
sembrava davvero felice di vederla. Lo aspettò senza sentirsi troppo
intimidita da tutte le persone sconosciute che le camminavano intorno e
Francesco la raggiunse con un’altra delle sue pacche.
“Hai
rivisto il tipo dell’Angelus?” esordì allegro, accendendosi
una sigaretta.
Giù
sospiro estasiata, annuendo ripetutamente.
“Proprio
ora. Bello come un putto del Botticelli,” affermò gravemente.
“Dai,
indicamelo che ti dico tutto quel che c’è da sapere. A parte me i
begli uomini son quattro gatti, in questa scuola,” la incalzò lui,
scrutando vivacemente la piazzola affollata. Giù trovava stupefacente
tanta elettrica vitalità alle otto meno dieci del mattino.
“Come
fai ad essere così sveglio?” chiese, con genuina ammirazione.
Francesco
si strinse nella spalle, modesto.
“Sono
venuto in motorino. Senza guanti.”
Giù
rabbrividì al pensiero, cercando attentamente la sagoma di Tizio tra
quelle degli altri allievi del Calvino, ma del suo colpo di fulmine non
c’era più traccia.
“Dev’essere già entrato,” borbottò
delusa.
“Vabbè, dai,” commentò Francesco
accomodante. “Nell’intervallo lo rintracciamo. Com’è
fatto?”
Giù
esitò, persa nella mistica ricostruzione della perfezione
dell’amato.
“E’
bello,” rispose, sintetica e precisa.
“Ah,
ho capito chi dici,” osservò Francesco sarcastico, levando lo
sguardo al cielo.
Lei
ridacchio ebete, prendendo fiato.
“E’
alto e affascinante e si veste da cani,” aggiunse, più esaustiva.
Francesco
aggrottò la fronte, sospettoso.
“Sarà
mica quel grandissimo coglione di Mattia Galleani?”
Un
coglione. Perfetto. Considerata la sua spiccata propensione ad invaghirsi del
classico pirla della situazione, il suo colpo di fulmine non poteva che essere
il re delle teste di cazzo. Aveva un senso.
“Probabilmente,”
mugugnò Giù fatalista. “Non ne ho idea.”
Francesco
fece per parlare nuovamente, fraterno.
“Ciao
Franz,” intervenne invece Gregorio detto Greg, avvicinandosi con passo
ciondolante. Giù sorrise timidamente al compagno di classe, accennando
un saluto, mentre Francesco lo accoglieva con un’altra pacca, stavolta
virile, e Giù ritenne che non potesse che aver frantumato qualche
costola al ragazzo, di costituzione piuttosto mingherlina.
“Ehilà,
biondo,” esclamò il gigante ignaro. Greg sorrise dietro la coltre
di capelli corvini, poi mosse il capo verso la nuova allieva.
“Ciao…Giù,”
salutò dopo una leggera esitazione.
Era
avvolto in un maglione di lana grezza, grosso quanto due omini Michelin e
contornato di sciarpine colorate di sapore tibetano.
Nonostante questo riusciva a sembrare minuto accanto alla massa muscolosa di
Francesco nel suo eskimo peloso.
“La
squinzia l’hai nascosta?” domandò
questi, sparpagliando cenere come se stesse nevicando.
“E’
andata con Patty a comprarsi la brioche,” rispose Greg, mite. Giù
ricordò le informazioni avute il giorno prima da Eva: Gregorio, vicino
di banco di Francesco, usciva con Laura detta Lalla, a sua volta vicina di
Patrizia aka Patty. Insieme, i quattro costituivano
lo zoccolo duro dell’ultima fila settore est; a sinistra, insomma. Tutto
tornava, in fin dei conti.
“Oggi
mi sgama di filo,” continuò Greg tristemente, portando alle labbra
una sigaretta di trinciato che, dall’odore, Giù riconobbe
immediatamente non essere tale. L’aroma di erba si spandeva leggero, con
grazia discreta. Considerato che si trovavano a quattro metri
dall’ingresso del liceo e che un insegnante era appena passato al loro
fianco, lei ne dedusse che Greg non doveva essere particolarmente intimidito dall’autorità
costituita.
“Chi
è l’ultimo che abbiamo studiato?” s’informò
Francesco distrattamente.
“Cartesio.
Credo,” rispose Greg, non senza incertezza.
Giù
non poté reprimere un risolino, proprio mentre la campanella suonava
l’inizio delle lezioni. Francesco e Greg lanciarono via le loro paglie in
sincrono avviandosi all’interno e quest’ultimo espulse
l’ultima sostanziosa boccata di fumo già nell’atrio,
tossicchiando delicatamente. La bidella lo scrutò con odio atavico e profondo
e Gregorio replicò con un angelico sorriso. Giù scoppiò a
ridere apertamente, seguendo i due compagni verso il terzo piano.
Durante
l’interrogazione di Greg della seconda ora l’astuccio di Giù
si ribaltò in terra, seminando penne, matite, pennarelli, biglietti
ingrigiti, scontrini, biglie, linguette di lattine, clips
e rimasugli di gomma per cancellare fino al fondo dell’aula. Arrossendo
nuovamente la fanciulla si mise in caccia di resti, tra i sorrisi amichevoli o
pietosi di qualche generoso che le porgeva i pezzi. Ad allungarle il prezioso
tappo della prima birra che si era comprata alla tenera età di tredici
anni fu appunto Patty, nell’ultimo banco coté finestra. Si
scambiarono un cortese sorriso e nulla più, perciò Giù fu
piuttosto sorpresa di vedere le due ragazze appropinquarsi al suo posto allo
scoccare dell’intervallo, quando Eva scomparve di nuovo come se
l’avessero sparata via dalla sedia con un cannone.
“Come
va?” le chiese Patty, con l’espressione di chi porge le
condoglianze ad una vedova fresca di lutto. Giù ingoiò la
timidezza e si ravviò nervosamente i capelli. La sua mano restò
incastrata in un nodo e mancò poco che si staccasse tutta la ciocca.
“Ahio. Meglio prima,” borbottò dolorante.
Patty
rise, di una bella risata cristallina ed acuta. Accanto a lei Lalla
giocherellava col piercing al labbro e sorrideva leggermente, assorta nella
contemplazione di Greg che si contendeva un pacchetto di patatine con
Fra’ a colpi di righello.
“Mi
piacciono i tuoi capelli,” continuò candidamente Patty. Giù
sgranò gli occhi e la guardò allibita, puntandosi istintivamente
il dito contro nell’insicurezza che parlasse davvero a lei. Patty
annuì spiccia. “Sono creativi,” aggiunse a mo’ di
spiegazione.
Creativi.
Beh,
quello era il complimento più creativo
che le fosse mai stato fatto.
“Grazie,”
mugugnò perplessa.
“Patrizia
si colora i capelli una volta al mese e se li arriccia, se li spunta, li
tortura da anni,” intervenne Lalla noncurante, spostando finalmente uno
sguardo pacifico dal suo ragazzo. “Ignorala.”
“Sei
una stronza. Lo sai, sì?” la rimbeccò l’amica con un
spintone.
Giù
le osservò educatamente mentre prendevano scherzosamente a darsele,
finché Greg si intromise distribuendo amichevoli schiaffoni con una
mansuetudine spiazzante. L’arrivo di Francesco, che con una singola
spintarella scaraventò quasi Patty contro la parete, sancì la
fine della lotta.
“Sei
il solito vitello sovrappeso, Turco,” commentò Lalla rassegnata.
“E
tu sei una…”
“Zitto
lì, che poi devo cercare di menarti e mi rovini,”
s’intromise Greg pazientemente, allungando furtivo una mano e rubando
qualche patatina dal pacchetto che l’amico gli aveva sottratto.
Giù
continuava a guardarli. Le sarebbe piaciuto intervenire e dire qualcosa di
divertente, ma aveva paura che invece le sarebbe uscita una frase stupida e
sciapa e finì per tacere. Ma Francesco si voltò verso di lei e le
sorrise radioso.
“Non
mi hai ancora dato il tuo numero di cellulare, Giù,”
osservò bonario, come rimproverandole una leggera mancanza.
“Porco,”
sentenziò Lalla truce, e Patty scoppiò di nuovo a ridere.
“Tre
volte scema!” ribatté lui piccato, mimando uno sganassone.
“E’ appena arrivata e non conosce nessuno, per quello le ho chiesto
il numero,” aggiunse altezzoso, sollevando il mento all’aria.
“Oh,
anch’io devo darti il mio, Pi,” piovve la voce trasognata e composta
di Eva, che si sporse il quel momento a scavalcare il banco.
“Già
qui? L’hai scaricato?” ghignò Francesco.
“Ti
piacerebbe, eh?” replicò lei con fare superiore, sventolando i
capelli con movenze da vamp.
“Come
no, non vedi quanto patisco la gelosia?” replicò lui
melodrammatico.
“Mi
pareva, in effetti. Ti ho visto subito un po’ gracile e sciupato,”
commentò Giù gravemente, scribacchiando il proprio numero di
cellulare su un bigliettino. Eva scoppiò a ridere e Francesco storse
comicamente il naso, mentre Greg scoppiava in un ridacchiare asmatico da malato
di tisi.
Al
suono della campanella sciamarono tutti ai loro posti e fu mentre la
professoressa di francese entrava in classe che Eva si voltò verso di
lei, con espressione assorta e pensierosa, e la guardò seria.
“Lo
so che non mi conosci e che quindi non ti sembrerà particolarmente
strana come informazione,” iniziò, quieta, “ma penso di
essere innamorata.”
Giù
spalancò gli occhi e la guardò incerta, senza sapere se
congratularsi o esprimerle tutto il suo più sentito cordoglio.
Dall’espressione della sua faccia sembra non saperlo nemmeno Eva, se
fosse una notizia positiva o meno.
Allora
sorrise, ironica.
“Buona
fortuna,” augurò.
Con
un po’ di fortuna anche per lei – un po’ tanta, magari, ma
perché porre limiti alla Provvidenza che al momento le sembrava amica
– entro qualche settimana avrebbe potuto dire la stessa cosa di sé
e Tizio. Wow.
Eva
ridacchiò e la professoressa iniziò a spiegare.
Le
lezioni finirono proprio quando Giù cominciava a credere che non avrebbe
potuto fare a meno di addormentarsi e mentre si avviava all’esterno con i
suoi nuovi amici, o qualcosa del genere, realizzò di cominciare a
credere che la sua nuova vita fosse addirittura migliore della precedente e l’ipotesi
le sembrò trovare inoppugnabile conferma quando, ferma sulla piazzola ad
accendersi una sigaretta col gruppetto di nuovi compagni, vide Tizio emergere
dalla porta dell’istituto. Individuò a colpo d’occhio
l’arancione della sua giacca, poi ritrovò il sorriso, le fossette,
le ciocche dorate che accarezzavano il collo e infine il cielo primaverile degli
occhi che, per una sorta di miracolo divino, dardeggiavano splendenti proprio
nella sua direzione.
Tizio
avanzò verso di lei con andatura ferma e morbida, le mani cacciate in
tasca. Dopo un paio di passi scosse leggermente la testa per scostare un ciuffo
di capelli dal viso e Giù non seppe trattenere un sospiro estatico degno
del testimone di una comparsa della Vergine Beata.
Era
troppo bello per essere vero. Stava venendo proprio verso di lei.
Non
poteva essere.
E
infatti in quel momento Eva si mosse accanto a lei, si slanciò in avanti
con entusiasmo e spiccò un saltello atterrando con precisione tra le
braccia di Tizio che, invece di gettarla a terra come Giù egoisticamente
sperò per un istante, piegò il collo per andare a depositare le
sue labbra da film porno per casalinghe su quelle della sua vicina di banco.
Giù
sentì distintamente il suono lugubre dei propri polmoni che scoppiavano
con lacerazione di mucosa e le gambe cederle malamente, mentre i suoi occhi si
sgranavano con orrore e la salivazione le si azzerava completamente.
Realizzò immediatamente la triste, drammatica realtà dei fatti.
Tizio
era Stef.
__________________________________
Ahm.
Devo a tutti delle scuse
per questa immonda lentezza nell’aggiornare. Purtroppo ho iniziato,
ahinoi, a lavorare e devo ancora organizzare bene le mie ore libere, il che mi
ha portata a poter postare soltanto un paio di fic
cortissime e altre due (una e mezza) vecchie che avevo lì.
C’è un pezzo
di questa storia già pronto e poi è da continuare, ma sto
cercando di non finire subito di sottoporvi la parte già scritta,
così avanzo pian piano a passo con la stesura.
Ciò detto.
_sefiri_: Mille grazie! Spero l’opinione si sia
mantenuta invariata con questo nuovo capitolo. Alla prossima!
Little Jewel: …Ho il sospetto che il tuo sospetto abbia
trovato conferma. No? Inoltre sì, ho rifilato a Fra’ alcune delle
mie passioni cinematografiche (i MontyPython, aaaah! Che ridere,
cielo!) Che altro, grazie mille per i complimenti e spero il seguito non deluda
le aspettative. A presto.
fog: WOOOOOOW! TU! TU, TU! Oh, che bello, che gioia,
che bello! Guarda, mi dispiaceva aver cambiato momentaneamente fandom specialmente perché sapevo che non ci saresti
stato…ed eccoti qui sulla mia originale. Dunque, che dire. Come al solito
le tue entusiastiche recensioni a fiume mi toccano tantissimo, come al solito
mi lusinghi e come al solito quell’altro gelosino
(ciao!) farà bene a rassegnarsi al nostro mistico e arcano legame psicologico-mentale(-patologico?). quanto a Giù e la
strada da fare, come vedi gli esordi non promettono molto. Chissà. Un abbraccio,
nel frattempo.
kry333: Grazie. Dunque, penso di averti accontentata. Per
cominciare, ecco svelata l’identità di Tizio. Per il resto, chi
vivrà vedrà…^__^
linduzz: ^__^ Grazie! Fra’’ è un
personaggio per me importante sotto parecchi punti di vista, sono contenta che
abbia catturato qualche simpatia. Speriamo bene per il resto… Alla
prossima!
Urdi: oh, chi si vede. Ho visto che sei tornata e spero
tu stia meglio e vada tutto bene – nei limiti del possibile. Quanto alla
recensione, sono molto contenta del tuo parere positivo e spero di mantenerlo
invariato con il resto della storia. Vero che è strano, anche a me
sembra essere passato molto meno tempo di quanto è, dall’epoca dei
miei diciotto anni. Sarà che la maturità non è poi molto aumentata…^__^
Con questo, passo e chiudo. A presto!
Capitolo
di una certa importanza, che vi sottopongo con trepidazione.
Avrete
modo di conoscere ben due personaggi che mi sono piuttosto cari, ma ovviamente il
più importante è colui che dà il titolo al capitolo. Finalmente
facciamo una breve panoramica su Stef, o Tizio che
dir si voglia.
Aspetto
le vostre impressioni…? Buona lettura. suni
IV. STEF
Giù
rimase a guardare atterrita Eva che baciava con entusiasmo il suo uomo dei
sogni, avvertendo una sensazione fisica non del tutto dissimile ad una violenta
badilata nello stomaco. Rimase immobile per quel che le parve un centinaio di
anni, senza riuscire nemmeno a sbattere le palpebre, poi finalmente Eva prese
fiato e si voltò indietro raggiante, allacciando la mano a quella del
ragazzo.
“Ti
ho parlato della mia nuova vicina di banco, Pi. Pi, questo è
Stefano,” annunciò pomposa, con l’aria di stare facendo le
presentazioni tra il Presidente degli Stati Uniti e la Regina
d’Inghilterra.
Giù
tento disperatamente di trovare la voce o almeno l’aria per parlare, ma
tutto quello che le riusciva di fare era guardare gli occhi di Tizio – Stef, era Stef – e il suo
sorriso luminoso, amichevolmente rivolto a lei. Un guizzo acuto delle iridi
cerulee le fece intuire che lui l’avesse riconosciuta come la strana
persona mentalmente instabile dell’autobus, ma comunque fosse il ragazzo
si limitò a tenderle la mano con un gesto spontaneo e deciso.
“Ciao,
Pi.”
Per
qualche inspiegabile fenomeno la sua voce grave e profonda modulava quelle due
semplici lettere, p e i, come nessun’altra mai. Giù tese un
braccio con fatica disumana e abbandonò stremata la propria mano in
quella di lui.
“Ciao,”
squittì, tentando malamente di celare la disperazione.
“Ciao,
Landolfi,” intervenne Fra’ svagato sovrastando
l’interlocutore, con quello che a Giù parve deliberato
compiacimento, di quasi tutta la testa. Lei continuava a lasciare la mano
inerme nella presa sempre più incerta di Stefano, con
un’espressione distratta e il più possibile innocente. Forse se
avesse fatto finta di nulla abbastanza a lungo lui avrebbe smesso di badarci e
l’avrebbe portata via con sé senza rendersene conto.
“Ciao,
Franz,” rispose il ragazzo con lo stesso tono distaccato, ritraendo il
braccio.
Giù,
nel panico più assoluto, sfuggì lo sguardo di Eva, sperò
di non stare arrossendo un’altra volta e dopo esserselo sfilato dalle
spalle istericamente cacciò la testa nello zaino quasi per intero,
fingendo di cercare le sigarette. Ovviamente non erano lì e lo sapeva,
ma borbottò comunque qualche sillaba casuale che voleva suonare come una
lamentela prima di alzare lo sguardo ad occhi sgranati, ritenendosi somigliante
a qualcuno che ha appena avuto un’illuminazione improvvisa o alternativamente
che è passato sulla sedia nella prigione statale del Texas.
“Vuoi
per caso una siga?” chiese Stef,
cavando fuori come un prestigiatore un portasigarette di metallo da boss
mafioso che non ci azzeccava nemmeno lontanamente con la giacca, i capelli e
tutto il resto. Giù pensò di rispondere che si era ‘appena
ricordata’ di avere il suo pacchetto in tasca ma poi tornò a
guardarlo e l’unica risposta che le venne di dare era e tu vuoi per caso sposarmi? Ritenendo
tuttavia che il tenero sorriso che Eva stava tributando al suo uomo e alla sua
compagna di banca osservandoli commossa mentre interagivano, come se fossero
stati due oranghi allo zoo, avrebbe potuto trasformarsi in una smorfia omicida,
si limitò ad annuire con un gorgoglio di asfissia, come un lavandino
otturato.
Francesco
si era rimesso a ciarlare con Greg e il suo vocione le risuonava da qualche
parte vicino all’orecchio, senza che le sue parole avessero per lei un
senso compiuto. Percepì invece perfettamente la successiva frase di
Stefano.
“Allora,
Pi, quant’è che sei arrivata in città?”
Era
difficile non perdere la cognizione del tempo davanti a un viso del genere e
Giù rifletté febbrilmente per qualche secondo: una settimana?
Dieci anni?
“Mercoledì
scorso,” rispose la sua voce per lei, in un pigolio orrendo.
“Ma
è venuta a scuola solo ieri perché è una lavativa,”
precisò Francesco con nonchalance.
Giù
si voltò a guardarlo come se fino ad allora non si fosse resa conto di
averlo accanto, e fu così che vide di nuovo l’autobus 64, stavolta
già drammaticamente giunto alla fermata e sul punto di ripartire.
“Oh
cazzo!” trillò enfatica. “Il mio minchia di autobus mi
lascia qui!”
Scorse
gli occhi di Lalla farsi compassionevoli e Greg grattarsi la testa con leggera
perplessità.
“Ne
passa un altro tra cinque minuti,” la informò Stef
distrattamente.
Effettivamente
aveva una logica. Era piuttosto raro che un autobus di linea passasse due volte
al giorno, avrebbe potuto pensarci da sola.
“Oh.
Eh. Beh, già,” articolò imbarazzata.
“Possiamo
prenderlo insieme,” continuò gentilmente il ragazzo.
A
Giù tremarono persino i piedi.
“Certo,”
cinguettò atterrita.
Francesco
la stava fissando vagamente ebete, in silenzio. Soltanto Lalla e Patty
confabulavano sottovoce e Greg fingeva di girarsi una sigaretta con delle
briciole di hashish talmente grosse, sparse tra il trinciato, che sembravano
quadretti di cioccolato Novi. Eva, invece, continuava a stringere le dita di
Stefano come se lasciandole il ragazzo avesse potuto precipitare da un dirupo.
“Allora
vengo a cena da te?” chiese poi, radiosa.
Stefano
annuì, rivolgendole un sorriso che avrebbe avuto ragione anche di Adolf
Hitler.
E
Francesco, percepì Giù, la stava ancora fissando.
“Oh,
Pi!” esclamò poi la ragazza, entusiasta. “Potrei venire a
casa tua nel pomeriggio, prima di andare da Stef.
Tanto abiti a cinque minuti da lui!”
Francesco
sgranò gli occhi, strafulminato dalla comprensione della realtà,
ma Giù non se ne accorse, spalancando a sua volta i propri.
Primariamente per la scoperta struggente di sapere ex-Tizio come suo vicino,
quindi per l’idea di Eva a casa sua. Come un’amica vera. Qualcosa
le scattò dentro annullando per un momento il pensiero del ragazzo e un
sorriso spontaneo e smagliante le arcuò le labbra. Eva. A casa sua.
“D-dici?” chiese, svanita.
“Se
ti va,” confermò Eva annuendo.
“Sì.
Sì, certo che mi va!” E rise, sentendosi immensamente stupida agli
occhi di chiunque. Ma rise lo stesso, infischiandosene.
“Vengo
anch’io?” propose Patty titubante. Giù si voltò come
se l’avessero caricata con la molla, la bocca semiaperta e lo sguardo da
triglia.
“Sì!”
belò esaltata. “Sì, certo!”
“Perfetto,”
commentò Stef soddisfatto, nemmeno lui
c’entrasse qualche cosa. “Andiamo, Pi?”
Anche
in Messico, se vuoi, e dire che detesto i deserti, pensò Giù con
fervore. Invece tacque mentre lui coinvolgeva Eva in un bacio che si
affrettò a non guardare, girandosi di scatto verso Greg, che stava
leccando la cartina per chiuderla. Il ragazzo rimase immobile, con la punta
della lingua sporgente tra le labbra socchiuse.
“Devi
dirmi qualche cosa?” biascicò disponibile. Giù
arrossì e scosse energicamente la testa.
“Beh,
io faccio quello che si leva dai coglioni,” annunciò Fra’,
mostrando il casco. “Ci si vede, pueblo,” salutò
genericamente, mantenendo lo sguardo fisso su di lei per un paio di secondi.
“Mi
porti?” chiese Patty soave.
“Comprati
un casco, Traversi!” la sfotté lui, incamminandosi con le sue
falcate elefantesche.
La
ragazza gli mostrò fieramente il dito medio e sospirò
melodrammatica, sistemandosi lo zaino.
“A
domani, e a dopo!” salutò, sventolando la mano prima di
incamminarsi verso l’altra fermata.
“Portami
il cd a scuola!” le strillò Lalla mettendo le mani ad imbuto.
“Pronti?”
risuonò calda la voce di Stefano.
“V-via,” balbettò Giù esitante.
Pronti
era una parola grossa. In sua presenza si sentiva pronta giusto ad arrossire.
Eva
si fece dare l’indirizzo esatto, assicurò che l’avrebbe
trasmesso a Patty e slacciò finalmente la mano da quella di Stef. Era tempo, perché l’autobus arrivava
cigolando.
“Muoversi,
soldato!” esclamò lui incamminandosi rapido. Giù gli
andò dietro trasognata, lo imitò quando lo vide lanciarsi in una
corsetta leggera ed ovviamente all’ultimo riuscì a centrare in
pieno lo scalino del marciapiede, perdendo l’equilibrio. Atterrò
contro il suo zaino e lo scaraventò in avanti. Stefano si schiantò
contro la fiancata dell’autobus con un rumore di medusa spiaccicata sulle
rocce.
“Merda!
Cazzo, cazzo, scusami!” gemette Giù avvilita, zoppicando verso la
porta.
“Sali,
dai,” replicò lui impassibile, spintonandola a bordo e saltando su
a sua volta.
“Mi
dispiace da morire, io…” farfugliò lei, di nuovo violacea e
congestionata.
“Non
fa niente. Dopo che ieri mi hai frantumato il fottuto mignolino,
mi aspetto di tutto,” rispose lui noncurante.
“Mignolino?” ripeté Giù, senza capire.
Stefano annuì col suo quieto e perfetto sorriso da Monna Lisa, poi
afferrò il suo polso – la colorazione delle guance di Giù,
a quel punto, poteva ricordare soltanto una stanga di tungsteno incandescente
– e la portò ad aggrapparsi alla sbarra con inaspettata
previdenza.
“Quando
mi sei precipitata sui piedi con le tue pantofoline
da legione straniera,” le ricordò ameno.
Giù
desiderò vivamente morire subito.
“Oh…i-io
non…ti chiedo sc…” mormorò
mortificata.
“Non
stare a scusarti continuamente,” la interruppe Stef
tastandosi cautamente il naso, forse nel timore che l’urto contro il bus
l’avesse danneggiato.
Giù
annuì docilmente, silenziosa e affascinata. Stefano smise di toccarsi il
naso e lo arricciò un po’, quindi parve decidere che era incolume
e sorrise senza ragioni particolari. Giù ne fu felice come se fosse
stato Natale, perché quel sorriso era indescrivibilmente bello.
Decise
che doveva dire qualcosa, tanto perché non rimanessero entrambi in
silenzio a fissare i finestrini. Si schiarì la voce emettendo un raschio
sgradevole, conseguentemente arrossì e infine gemette sillabe casuali.
“Eh?”
fece Stef perplesso.
“E’…molto
tempo che prendi questo autobus?”
Pose
la prima, stupida domanda che le passò in mente e appena l’ebbe
pronunciata si rese conto che si trattava di una solenne idiozia. Quello era
l’autobus per andare a scuola, ovvio che lo prendesse da anni. Pensò
per qualche secondo di sbattere la testa contro lo spigolo di un sedile
abbastanza forte da schizzare sangue tutt’intorno, ma Stef
aveva spalancato leggermente gli occhi con aria assorta e si grattava il mento.
“Sai
che è strano?” replicò soave. “In realtà, no.
Ho la macchina dal meccanico, di solito vado con quella,” spiegò
spiccio. “Cazzo, come hai indovinato?” continuò curioso.
Giù
spalancò la bocca, incredula. Era partita dicendo una cagata clamorosa e
invece stava ancora passando per quella connessa mentalmente o qualcosa del
genere. La nuova città le faceva veramente bene.
“A-ah
io…non so,” borbottò spaesata.
Stefano
annuì svagato, poi si strinse nella spalle, sfregando inavvertitamente
lo zaino contro la faccia di un bambino per mano alla madre.
“La
riprendo la settimana prossima. Potrò portarti alla porca scuola io,
tutti i giorni,” osservò contento.
Il
fisico di Giù ebbe uno strano tipo di reazione incontrollata: il fiato
smise completamente di raggiungerle i polmoni, un brivido di gelo le percorse
la schiena e poi un gran calore la fece avvampare da capo a piedi, mentre i suo
cervello lanciava un grido incomprensibile.
“F-forte,” boccheggiò stridula.
Non
seppe mai se lui la pensasse nello stesso modo, perché in quel momento
il grassoccio della mattina e un altro tizio allampanato si avvicinarono
salutando calorosamente Stef. Lui la presentò
immediatamente a tali Jack e Max rispettivamente, poi Giù rimase in
religioso silenzio mentre chiacchieravano tra loro, scoprendo nell’ordine
che:
-
Stef diceva parolacce del tutto a caso ed
esclusivamente fuori contesto, senza valide ragioni al fine della
conversazione.
-
Aveva un che di ingenuo ed innocente che la mandava completamente in orbita e
sembrava essere appena piovuto sulla Terra dritto da Urano o qualche altro
pianeta ultraterreno, con le sue maniere placide da giovane Buddha e i suoi occhioni larghi, serafici.
-
si sarebbe sicuramente innamorata di lui entro massimo tre settimane; due, se
avesse iniziato veramente a portarlaa scuola.
“La
tua fermata, Pi,” la riscosse lui chissà quando. Giù fece
appena in tempo a riconoscere l’angolo della sua via prima che le mani
uscenti dalla giacca arancione la spintonassero verso la terraferma, ove
planò investendo un tredicenne.
“Salutami
Eva,” si congedò Stef, subito prima che
la porta si richiudesse tra loro. Giù poté soltanto sollevare
debolmente la mano in un saluto estatico e disperato. Eva. Già, Eva.
Giù
sospirò tristemente, incamminandosi mogia verso il portone di casa.
Quando giunse sulla soglia del suo alloggio aveva già sviluppato la
drammatica certezza che sarebbe rimasta innamorata di Stefano a vita e che lui
avrebbe sposato Eva, che a sua volta avrebbe voluto proprio lei come testimone
di nozze, e Giù sarebbe morta senza mai rivelare il suo grande amore segreto,
zitella e circondata da otto cani, unici fedeli compagni della sua vita.
“Tutto
bene, Jo?”
Sorrise
debolmente a suo padre, affacciato in ciabatte dalla soglia dello studio.
Marco
Corioli era l’esatta dimostrazione del fatto
che la genetica è un’opinione, nell’ottica di Giù.
Altrimenti non si sarebbe potuto spiegare come mai suo padre possedesse una
chioma lucida e corvina, naturalmente serica, un volto smaliziato da Indiana
Jones e un sorriso da squalo d’acqua dolce che faceva tremare le gambe a
tutte le sue colleghe. La mamma minacciava a cadenza settimanale di presentarsi
in ufficio armata di una sacca colma di molotov e una di dinamite, ma Marco
rideva e la abbracciava stretta, finché sua moglie non gli mollava una
gomitata in direzione inguinale borbottando ingiurie velenose verso il resto
del genere femminile che non fossero lei, sua madre e sua figlia. La suocera
non costituiva eccezione, in quanto Serafina aveva altre
ragioni valide per includerla tra gli oggetti del proprio odio.
“Sì,
papà,” biascicò Giù senza convinzione.
“Jo?”
insistette lui sollevando un sopracciglio.
Giù
lo guardò in faccia. Tutto quel che avrebbe potuto dire era qualcosa
come: ho incontrato il ragazzo dei miei sogni e me lo mangerei con tanto di
giacca ma lui esce con la mia nuova amica, che è adorabile, e io voglio
uccidermi perché sono entrambi così carini con me e sento che
sarà un lungo martirio. Poteva dirlo, in realtà. Suo padre
avrebbe capito e una volta lei gliene avrebbe parlato davvero. Fino a tre mesi
prima era il suo confidente prediletto, sapeva più cose di lei della
mamma, con cui pure aveva un grande dialogo.
Quando
Giuseppina era nata sua madre aveva diciotto anni e suo padre diciannove, e
forse era stata la scarsa differenza di età a mantenerli vicini e in
sintonia con lei anche durante la tempestosa adolescenza della figlioletta;
Giuseppina in origine ovviamente era stata un “incidente”, anche se
la sola volta che aveva usato quella parola riferendosi a se stessa, in uno
sciocco litigio – voi non mi
capite, non v’importa di me, sono solo un incidente, erano state le
sue testuali parole – Marco le aveva rifilato l’unico schiaffone
della sua vita.
Era
successo a settembre, quando le avevano annunciato del trasferimento. Quello
schiaffo e quella notizia erano rimasti tra lei e suo padre come un muro di
cemento e nemmeno Serafina aveva potuto farci nulla.
Giuseppina
aveva quasi smesso di parlargli, da allora. Aveva smesso di sorridere quando
lui la chiamava Jo – come la Josephine March di
Piccole Donne, il libro che le
leggeva sempre da piccola per farla dormire – e di raccontargli cosa le
succedeva, e lui doveva aver avuto paura di peggiorare le cose.
Quindi
Giuseppina non gli spiegò la situazione. Non era il caso, dopotutto.
“Scusa.
È solo…strano,” borbottò invece, vaga.
Lui
espirò lungamente, avvicinandosi di un paio di passi.
“Jo,
so che ce l’hai con me. Ti capisco. Avevi tutti i tuoi amici e quel ragazzo
a Trento e ho rovinato tutto. Ma vedi…”
“Lascia
perdere,” lo interruppe lei nervosamente. “Oggi…oggi vengono
due mie compagne a casa,” biascicò atona.
Il
sorriso sfolgorante che si disegnò sul volto del padre le fece quasi
male agli occhi, da quanto era il sollievo che esprimeva. Giù ne
accennò timidamente un altro in risposta e Marco le indicò la
cucina.
“La
mamma non c’è, andava a un colloquio per un lavoro. Io ho preso il
pomeriggio libero. Ho preparato i tacos.”
Giù
annuì, sfilandosi il cappotto.
Eva
arrivò alle quattro in punto, scampanellando al ritmo di Yellow Submarine.
Aveva un sacchetto colmo di croissant e sorrideva curiosa. Giù non fece
in tempo a farla accomodare che Marco si catapultò nell’ingresso
con la mano tesa e per venticinque minuti chiacchierò così
amabilmente con la ragazzina che Giù venne a sapere una quantità
di cose a lei ignote su Eva: abitavain collina, nella zona residenziale; non era figlia unica, aveva due
fratellini di tredici anni, gemelli, Simone e Samuele; era nata a Praga e sua
mamma era ceca; le piaceva il tè e sì, sarebbe stata ben lieta di
berne una tazza.
“Che
simpatico,” commentò leggiadra quando Giù riuscì a
trascinarla in camera, abbandonando il genitore all’incombenza del
bollitore.
“Lo
fa solo perché lo odio,” mugugnò lei chiudendosi la porta
alle spalle.
Eva
sgranò gli occhi, stupita.
“Tu?
Perché?” chiese, guardandosi intorno.
La
stanza era chiara, luminosa e ancora un po’ spoglia. Erano rimaste delle
scatole da disfare e c’era parecchio caos, ma a Giù piacevano il
grande letto in ferro battuto in cui dormiva da sempre e il suo largo armadio
di legno di noce in stile liberty, e anche Eva sembrò apprezzare.
“Carino,”
commentò schietta. “Sai cosa dovremmo fare? Comprare qualche
poster e delle fotografie. Ti posso portare in un bel negozietto che so io, un
pomeriggio,” propose cortese.
“E’
per il suo lavoro che vi siete trasferiti, mi pare?” indagò ancora
Eva, sedendosi cautamente sull’angolo del suo materasso.
Giù
annuì in silenzio, arricciando il naso.
Si
sentì improvvisamente una ragazzina stupida intestardita nel bisticciare
col padre – cosa che in effetti, a ben guardare, poteva sembrare –
e si domandò se non fosse così che la vedeva Eva. Si
mordicchiò un labbro e sognò nuovamente il passamontagna, la
chirurgia e il cane per ciechi.
“Beh,
ma è una cosa buona. Ora conosci me e Fra’ e i ragazzi e Stef,” continuò Eva, radiosa.
_sefiri_: Oh, grazie. Pi è commossa dalla tua
partecipazione ai suoi drammi e dalla tua comprensione. ^__^ Che dire, penso
che momenti del genere siano capitati a tutte, prima o poi. Ed ecco, ora l’hai
vista interagire con lui... Alla
prossima.
Hipatya: oooh, che bello vederti
qui! Che dire, mi ha molto lusingata e inorgoglita la tua recensione. Sono rimasta
lì come una scema con un gran sorriso e il cuoricino un po’
accelerato. Ah, sì, per giunta: viva Calvino! Il nome del liceo non
è scelto a caso, non avrebbe potuto essere altri che Lui. So che si sta
disperando per essere finito coinvolto in questa scemata di storiella, ma spero
non la prenda troppo male. E quanto all’incontrare anche tu un Tizio beh…spero
che sia successo. E che non fosse il ragazzo della tua vicina di banco…
*-*. Grazie davvero, a presto.
kry333: Hehehe, sono contenta
che la cosa non fosse troppo scontata. E quanto al resto…leggere per
sapere.Ho aggiornato prima
possibile, con i miei tempi ovviamente. Il che vuol dire lentamente, lo so. E ancora
mi sono spicciata! A presto, grazie.
Aglaia: sante parole. Ogni volta che mi capita questa
mistica intesa con un estraneo mi sembra che il mondo brilli. Ho voluto
regalare questa piacevole sensazione a Giù, che essendo mia creatura
è un po’ maltrattata. Lietissima di averti fatta ridere,
ovviamente, ma già lo sai. A presto, e sempre grazie per le tue
incursioni.
Il
resto della settimana di Giù fu forse il più strano che avesse
mai vissuto. Dopo il pomeriggio trascorso insieme ad Eva e, in parte, a Patty,
che era passata più tardi, le sembrò di aver trovato qualcosa che
confusamente cercava da un sacco di tempo. La sua nuova amica era diversa da
tutte le precedenti, e anche se non avrebbe forse mai raggiunto
l’intimità che Giù poteva condividere con Laura, accanto
alla quale era cresciuta dalla nascita, di certo vi si avvicinava più di
chiunque altro.
Giù
notò che ridevano per lo stesso tipo di cose grottesche e senza senso e
che, con vergogna, amavano entrambe Paperissimaper
quello stesso motivo. Eva era capace di stare dritta sulla testa senza usare le
braccia e sapeva far roteare tre pallette come i
giocolieri, cosa che le dimostrò grazie a tre mele gentilmente fornite
dal signor Marco, come lo
denominò immediatamente. Passava tutte le estati a Praga e parlava un
po’ il ceco, ascoltavano la stessa musica e riuscivano a dirsi qualunque
cosa con una facilità sconcertante.
Inoltre
Fra’ diventò strano. Giù non era proprio sicura che non lo
fosse già prima, visto che non lo conosceva, ma nei primi due giorni di
scuola le era sembrato diverso da dopo. La fissava sospettoso –
Giù era relativamente sicura che non se lo stava immaginando e che il
suo stadio di demenza non contemplasse ancora le manie di persecuzione –
e persino Eva ne sembrava perplessa.
Inoltre,
Giù ogni mattina si svegliava mentalmente, ché il mero risveglio
fisico all’uscita del letto non poteva definirsi un autentico ritorno
alla vita, nel momento in cui il bus le sferragliava davanti e la prima cosa
che vedeva coscientemente nelle sue giornate era il sorriso sfolgorante e
lentigginoso di Stef al di sopra della giacca
arancione. Questo la lasciava un po’ scombussolata fino a sera, se con scombussolata si poteva indicare una
persona completamente persa in elucubrazioni arcane, con una curiosa
espressione facciale da foca morta e la prontezza di spirito di un bradipo in
decomposizione. Giù si rendeva conto di essere imbarazzante ma questo
non la portava che ad arrossire più della sua media.
Stef
comunque sembrava vivere con paraocchi fatati che lo catapultavano nelle specie
di realtà parallela che era il suo mondo mentale, e non pareva
minimamente accorgersene. Non che non sapesse di essere discretamente attraente
– Giù lo riteneva di gran lunga l’essere umano più
bello mai esistito, ma aveva notato che non tutti condividevano
quell’opinione tanto definitiva – e una volta le allungò una
cameratesca gomitata indicando con un cenno del capo una ragazza intenta a
venerarlo in silenzio. Le fece l’occhiolino con intesa e Giù
pensò seriamente di ricorrere seduta stante a un pacemaker, prima che
un’aritmia cardiaca la stroncasse anzitempo.
Però
Stef non si accorgeva di come lei lo guardava. E
nemmeno Eva lo notava; d’altra parte Giù tendeva a smettere di
rivolgergli la parola in presenza di lei, temendo di tradirsi con uno dei
leggeri sospiri che le sfuggivano tra una frase e l’altra quando gli
parlava – e che lui palesemente non percepiva.
Sì,
era patetica. Sospirava quando gli parlava. Quel pensiero faceva calare il suo
livello già scarso di autostima nella Fossa delle Marianne.
“Oggi
pomeriggio vado a riprendere la macchina,” le annunciò in quel
momento Stef, attirando la sua attenzione. Giù
sbatté gli occhi un paio di volte, ricordando a se stessa che per
sopravvivere era bene respirare.
Di
solito non ritornavano con lo stesso bus, tranne in quella prima occasione
dopo essersi presentati: come le aveva anticipato Eva quando ancora l’identità
del suo principe sul pisello le era ignota, Stefano era davvero lento come la
fila alla cassa della Coop; usciva da scuola praticamente per ultimo, quando
Giù era già a metà strada verso casa. Quindi non sapeva
bene come mai quel sabato avesse cambiato la sua abitudine ma non riuscì
in ogni caso a dispiacersene.
“Oh.
Basta autobus, insomma,” commentò dispiaciuta. Non credeva affatto
che lui avesse veramente l’intenzione di portarla a scuola, invece il
ragazzo le sorrise allegro e poggiò una delle sue magnifiche mani dalla
perfetta proporzione leonardesca sulla sua spalla.
“Già
Da lunedì avrai l’autista, merda,” e annunciò lieto.
Fortunatamente
la frenata cigolante del 64 coprì il suo rantolo di estatica
disperazione. Giù si aggrappò al corrimano per calare a terra,
instabile sulle gambe tremanti, e Stef la
spintonò bonariamente.
“Ci
vediamo luned…aspetta!” esclamò
lui, di getto. Giù aveva già un piede a terra e nel girarsi
indietro di scatto inciampò nel gradino, rovinando verso terra. Stef saltò giù per soccorrerla e magicamente
la recuperò al volo: l’unico inconveniente fu che gli scarponi da
marines di lei spappolarono nuovamente il suo piede. Miagolò piano senza
la minima acredine e Giù osservò perplessa l’autobus
ripartire senza di lui.
“Ma
così sei rimasto a piedi,” commentò incerta.
Stef
osservò il veicolo allontanarsi con serenità.
“Già,”
confermò incurante, prima di stringersi nelle spalle. “Tanto sto
qui vicino. È solo che non so se Eva te l’ha detto…dove
merda è già che abiti?” domandò guardandosi intorno.
Giù
deglutì faticosamente, indicando con difficoltà la propria via. Lui
annuì e s’incamminò in quella direzione, attendendosi
evidentemente di essere seguito. Non c’erano problemi in quel senso: lei
gli sarebbe andata tranquillamente appresso anche se lui avesse annunciando di
voler raggiungere la Groenlandia in infradito e costume da bagno.
“Dicevi?”
squittì nervosamente.
Stef
sbatté gli occhi, parendo quasi confuso, quindi sorrise ancora.
“Sì.
Eva ti ha detto di stasera?”
Giù
inclinò la testa, incerta: Eva le aveva accennato qualcosa sul fatto che
sarebbero usciti tutti insieme quella sera e che doveva assolutamente essere
anche lei della partita, promettendo di chiamarla subito dopo pranzo per
accordarsi. Non era stata più precisa, però.
“Mi
ha invitata a uscire con voi, credo,” borbottò vaga.
“Suono
con il mio gruppo. Non è che siamo i Doors ma
comunque…” Il commento fu borbottato sottovoce con inaspettata
mestizia, subito annullata da un altro sorridere luminoso. “Vieni?”
Giù
rischiò di inciampare nel vuoto per la sorpresa, la gioia e la
disperazione. Ecco l’uomo dei suoi sogni che la invitata al suo concerto
insieme alla di lui fidanzata. Fantastico.
“O-oh…io…” farfugliò senza fiato.
“Hai
da fare?”
Qualcosa di meglio di te? Starai
scherzando, spero. Fortunatamente
la sua lingua evitò di formulare la frase pensata e Giù scosse
ripetutamente la testa, violacea. Fissò intensamente il vuoto mentre
percorreva gli ultimi metri che la separavano dal portone di casa e si
schiarì la voce fingendo di stare per parlare. Non riuscendovi, si
arrestò e scrutò Stef con velato
terrore.
Lui
osservò il portone con interesse.
“Abiti
qui,” affermò, con mirabile arguzia. Lei, tanto per cambiare,
annuì ancora – di quel passo l’avrebbe convinto ciecamente
che era definitivamente stupida, ma non riusciva a fare molto altro – e
Stefano si passò la mano tra i capelli. Giù seguì il gesto
con spasmodica devozione e si domandò terrorizzata cosa mai ci facesse
ancora lì.
“Andrei
a mangiare,” borbottò a malincuore.
“Certo.
Sai…” confermò lui, perso dietro il filo dei propri
pensieri. “Eva…è una persona un po’ strana. Lei non ha
molte amiche intime e in questi giorni mi parla sempre di te. Sono contento che
tu sia la sua vicina di banco, cazzo.”
Giù
spalancò bocca e occhi come le ante di un largo armadio. Si fece
pallida, scarlatta e tutta la serie di solite nuances
che odiava a morte e sfiatò un raglio leggero. A quel punto le
riuscì di deglutire – grazie al cielo, o il suo sabato si sarebbe
concluso al pronto soccorso – e si fissò le temibili punte delle
scarpe con estremo interesse.
“M-ma veramente sono io che sono contenta…di aver
conosciuto Eva,” balbettò imbarazzata. Era vero: se non ci fosse
stato quel piccolo dettaglio che era la ragazza di lui, tutto sarebbe stato
così assolutamente perfetto da far sfigurare Buffy
e tutta quella congrega di oche televisive.
Stef
la osservò attento.
“Già.
Beh, sai…nemmeno io ho molte amiche,” aggiunse vago.
Giù
cessò nuovamente di respirare. Seriamente, considerò atterrita
tra sé, di quel passo l’avrebbe uccisa in tempi brevissimi.
“C-come?” trillò, sperando vivamente di non
aver capito.
Stef
si strinse nelle spalle.
“Le
ragazze sono sempre un po’ strane con me,” spiegò, con un
tono fatalista che sottintendeva un genuino stupore per il fatto in questione.
Giù si disse che sapeva perfettamente perché le ragazze erano strane con lui. Quello che non
capiva era come mai lui non si accorgesse che lo era anche lei. O forse trovava
normali le sue variazioni coloristiche degne di un’insegna di Las Vegas?
“Allora,
stasera ci sei?” continuò il ragazzo, all’improvviso quasi
serio.
E
Giù si accorse che assolutamente non poteva dire di no. Non che ne
avesse avuto seriamente l’intenzione, ma davanti agli occhi azzurrissimi
di Stefano e alla sua profferta di amicizia così candida non poté
che annuire. Sapeva che con quel gesto sanciva da sola la propria condanna a
una lunga, tormentosa agonia, eppure annuì. Si sentì completamente
idiota e un applauso sbeffeggiante risuonò nelle sua testa, insieme a
una pernacchia. Le parve di intravedere anche uno striscione recante la scritta
Giù, somma masochista e le
sfuggì un sorriso insensato.
“Sicuro.
Dopo mi metto d’accordo con Eva.”
Stefano
si era appena cacciato una sigaretta tra le labbra e la accese contento,
riponendo il suo assurdo portasigarette.
“A
dopo,” terminò, voltandole le spalle.
Giù
si scagliò oltre il portone e lo sbatté alle proprie spalle,
accasciandovisi contro.
Urgeva
trovare una soluzione, perché il suo povero cuore non avrebbe retto a
lungo. Oltretutto, se non ricordava male, sua nonna soffriva di una notevole
aritmia cardiaca e probabilmente il fenomeno era ereditario: non era prudente
sottoporre il proprio sistema cardiovascolare a simili stress emotivi.
Nelle
successive quattro ore, durante le quali riuscì a parlare con Eva e
organizzare la serata, raggiunse differenti e contraddittorie risoluzioni per
risolvere lo spinoso problema.
-
Soluzione numero uno: mantenere le distanze da Stefano, spiegargli che le
piaceva andare a scuola in autobus, che non amava i concerti, che era allergica
all’arancione e che avere Fra’ come amico maschio le era
sufficiente.
-
Soluzione numero due: dimenticarsi quel ridicolo colpo di fulmine e piantarla
con i castelli da imbecille romantica, ficcarsi in testa che Stef era il ragazzo di Eva e che tra loro due poteva
esserci una bella amicizia e lanciarsi su quella strada forte della
razionalità ritrovata.
Peccato
che della suddetta razionalità, invece, non vi fossero tracce.
Sconfortata, Giù passò quindi oltre.
-
Soluzione numero tre: trovarsi velocemente un ragazzo per dimenticare Stefano e
poter così attuare serenamente la numero due.
-
Soluzione numero quattro: suggerire a suo padre che forse il trasferimento che
gli avevano assegnato non era sufficiente per una persona meritevole come lui;
proporgli quindi di fare pressione per essere nuovamente spostato. In un altro
continente.
-
Soluzione numero cinque: suicidarsi.
L’ultima,
se ne rendeva conto, era un tantinello melodrammatica,
ma indubbiamente efficace. Drastica, forse, ma dopotutto Giù era una
persona determinata. Beh, qualcosa del genere.
Studiò
il proprio riflesso nello specchio con una smorfia, scuotendo la testa.
Si
era lavata i capelli, in un momento di puro autolesionismo: forse quando lo
facevano le persone normali le loro chiome diventavano soffici e lucenti, ma a
lei serviva soltanto per avere capelli voluminosi come le attrici dei telefilm
anni Ottanta, gonfi come nubi in tempesta e esenti dall’effetto della
legge di gravità. Inoltre si era messa una gonna blu stracciosa
che arrivava sotto le ginocchia, calze floreali nere, una maglietta a righe verdi
e rosse ed un maglioncino azzurro. Ai piedi, ovviamente, gli stivaloni
regolamentari.
Sembrava
appena fuggita da una casa di cura.
Quantomeno,
concluse edificante, nessuno l’avrebbe potuta accusare di voler sembrare
qualcuno che non era.
Non
si sarebbe truccata, perché non mirava a fare colpo su nessuno.
Assolutamente no. Stava andando con la sua amica Eva a prendere un aperitivo e
poi in un locale a sentire il concerto del suo amico Stef,
dove le avrebbero raggiunte gli amici Fra’ e Patty. Tutto perfettamente
amichevole.
Esatto.
Quindi niente trucco.
“Tesoro,
sei in ritardo!”
Giù
gettò un’occhiata in tralice alla schermata del cellulare,
verificando che le parole di sua madre erano drammaticamente esatte. Si
tuffò malamente nel cappotto, riemergendone dopo una strenua lotta,
agguantò la sua borsa nera informe e si lanciò fuori di casa
seguita da raccomandazioni canoniche.
Aveva
appuntamento con Eva in centro. Miracolosamente, nonostante un cambio
d’autobus alla fermata sbagliata con conseguente corsa forsennata per
beccare la corrispondenza, arrivò in ritardo di soli tredici minuti,
sudata come un maiale e stordita dai ripetuti sbalzi termici.
Eva
la aspettava sul predellino sorridendo contenta. Non aveva gli occhiali e
nemmeno il cappottone nero, ma una bella giacca di
velluto e una vaporosa coda fermata in alto sulla nuca. Giù si accorse
solo in quel momento che era semplicemente bella.
Eva
rise divertita e la condusse a consumare chiacchierando e sghignazzando la
prima di una serie di birre piccole a causa delle quali alle nove e mezza,
mentre entrava nel Piccolo Buco Nero,
il locale preferito di Eva e casualmente quello in cui era solito suonare il
gruppo di Stef, a Giù sembrava di camminare su
un tappeto morbido di cotone e di avvertire la rotazione della terra con molta
più precisione del solito. Sorrideva come una beota e naturalmente
urtò un paio di estranei appena varcato l’uscio, poi
s’immobilizzò come un mimo con la gamba a mezz’aria e la
bocca semiaperta mentre Eva al suo fianco si arrestava con un sorriso appagato.
Stef
era già sul palco: niente giacca arancione, soltanto i suoi jeans frusti
e un maglione scuro. Stava appollaiato su uno sgabello in un angolo e
strimpellava pianissimo sul suo basso ovviamente arancione fiammante, la
sigaretta accesa penzolante dalle labbra e le ciocche bionde che sfioravano le
ciglia. Accanto a lui c’era il cicciottello Jack, che guarda caso parlava
a macchinetta, mentre altri due ragazzi che Giù non conosceva
armeggiavano con gli spinotti dell’amplificatore. Sopra il bancone i
volantini pubblicizzavano il concerto dei MediasRes.
Mentre
Giù digeriva la visione paradisiaca dell’amato senza
l’orrendo giaccone Eva si era già proiettata verso il palco e in
mezzo secondo stava facendo ciao con la manina al principe sul pisello: Stef mollò basso, capra e cavoli e le rivolse un
sorriso talmente radioso che Giù pensò di vomitare. Quindi lui saltò
giù dallo sgabello e scese tra i comuni mortali per accogliere Eva come
le si confaceva – ovvero con una solenne pomiciata. Quando le riserve di
ossigeno di entrambi furono esaurite e Giù cominciava a meditare di
scappare in Cambogia Eva sussurrò qualcosa e subito gli occhi di Stef corsero lungo la sala fino a trovarla.
Giù
non poté che congratularsi con se stessa nel trovare la forza di alzare
un braccio con noncuranza in un saluto distratto. Subito dopo, tutta via,
allungò quello stesso braccio alla cieca e strappò via la birra
di mano a un perfetto estraneo.
“Ehi!”
protestò quello, indignato. “Tipa, ma sei scema?”
Normalmente
Giù sarebbe sprofondata nel sottosuolo per la vergogna e non ne sarebbe
riemersa se non dopo mesi. Si sarebbe scusata, umiliata, e avrebbe giurato che
non sapeva cosa le fosse preso e che era costernata, doveva aver bevuto troppo.
Normalmente, se non fosse stato per due dettagli: il primo era che la sua
ubriachezza cominciava a farsi consistente; il secondo che tra le innumerevoli
cose che odiava nel mondo, come i cacciatori di balene e il presidente Bush
passando per il gelato al caffè, nulla la mandava in bestia più
dell’appellativo tipa.
“Ehi,
tipo, vuoi un cazzotto?” rispose rissosa.
Il
ragazzo spalancò sorpreso due esterrefatti occhi neri, gonfiò il
petto come un tacchino di Natale e spalancò la bocca pronto a vomitarle
addosso fiumi di insulti o ad azzannarla alla gola. Non fece mai nessuna delle
due cose.
“Oh,
hai conosciuto Pi. Pi, questo è Mattia, il nostro batterista,”
La
voce svagata di Stef piovve loro addosso come una
coperta. Mattia rimase fermo e rigido e assottigliò gli occhi fissandola
con odio. Giù gli restituì uno sguardo bellicoso e
trangugiò a sfregio una lunga sorsata dal boccale.
“Mi
ha fregato la birra,” affermò il ragazzo, stizzito.
“Mi
ha chiamata tipa!” berciò Giù dopo aver deglutito.
Stef
annuì compreso.
“Direi
che siete pari,” concluse pacifico. Eva, allacciata al suo braccio, rise
candida.
Poi
Fra’ fece irruzione nel locale, rischiando di tirare giù un
lampadario con la testa e trascinandosi dietro Patty, che al suo fianco
sembrava un bonsai umano. A malapena si poterono tutto salutare e quindi i
ragazzi montarono sul palco.
Giù
scoprì che il cantante era proprio Jack, e così poté
spiegarsi la sua logorrea: era allenato ad usare molto la voce. Non aveva mai
visto il chitarrista e decise immediatamente che il batterista, Mattia, era la
persona più antipatica tra tutti i presenti. Poi la musica – un
rock dal sapore giamaicano - la catturò e si trovò a scatenarsi
tra il pubblico, rimbalzando tra i tre amici.
Alle
undici era decisamente ubriaca e a mezzanotte meno venti, quando cessò
la musica, si reggeva al braccio sinistro di Fra’ come Patty al destro.
“Tra
due ore massimo devo essere a casa,” sentenziò garrula.
“Prosit!”
replicò Stef, materializzandosi davanti a lei
nel porgerle un nuovo bicchiere.
“Grazie,”
accettò Giù con nonchalance. “Ehi, tu suoni la
chitarra,” aggiunse, puntando subito la bevanda contro l’estraneo
al fianco del ragazzo. Quello – media statura, lunghi capelli castani e
sorriso sghimbescio - annuì distrattamente.
“Lui
è quello stronzo di Beppe. Beppe, Pi,” li presentò Stef contento.
“Attento
che non ti freghi il bicchiere,” intervenne Mattia freddamente.
“Galleani,” interloquì Fra’, raddrizzando
la testa. Sembrava ancora più enorme.
“Turco,”
rispose l’altro con tono aspro.
Sembravano
due cowboy in attesa di sfoderare le pistole.
“Qualcuno
vuole del merda di punch?” chiese Stef, soave.
“Sì,
grazie,” replicò Beppe, soddisfatto del diversivo.
Giù
non badò molto a quel che successe poi. Si sedettero tutti insieme e
cominciò a chiacchierare a macchinetta con Beppe, partendo dai
complimenti per la performance per arrivare a Jeff Buckley
e quindi, tramite una serie di arditi passaggi, alle vacanze estive in Croazia.
Ogni tanto il suo sguardo si posava su Stefano e rimaneva fisso e vacuo,
sicché dopo qualche secondo si trovava costretta a chiedere
all’interlocutore di ripetere l’ultima frase. Eva se ne andò
all’una, perché sua madre stava rientrando da una cena di lavoro e
la passava a prendere, e all’una e venti Giù si accorse, emergendo
per qualche istante dalle nebbie dell’alcol, di essere in ritardo e
appiedata. Ergo, fottuta alla grande.
“Ti
porto a casa,” stabilì Stef placido.
Francesco
le posò la mano sulla spalla e fece per parlare, ma l’altro le
aveva già preso un polso con la mano e Giù gli piroettò accanto
con un sorriso di miele.
“Oookay,” trillò, inciampandogli nella gamba.
Poi
Stef la cacciò in macchina a forza, mentre lei
quasi si addormentava. Al terzo incrocio Giù sentì lo stomaco
arrotolarsi e si rizzò di scatto. Fortunatamente Stef
aveva i riflessi pronti ed accostò appena in tempo perché lei
spalancasse la portiera e, cacciata fuori la testa, rigettasse nello scolo del
marciapiede.
Quando
sollevò faticosamente il capo lo scoprì chinato fuori dalla
macchina, intento a sorreggerla perché non finisse a mollo nel suo
stesso vomito.
“Prendo
le cazzo di curve un po’ strette,” affermò lui, come se
quella fosse l’unica ragione da addurre al malessere di Giù.
“Credo
di stare per morire,” gemette lei, fievole.
“Mi
sembra improbabile,” osservò Stef composto.
Giù
ridacchiò scioccamente, penzolante nella sua presa.
“Sei
gentile,” affermò accorata.
“Certo.
E anche molto intelligente, affascinante ed estremamente simpatico. Se hai
finito con le minchiate potresti vomitare ancora un po’ e poi ti riporto
a casa.”
“Non
devo più vomitare,” rispose lei bofonchiando.
Lui
sembrò valutare la cosa per qualche secondo, quindi dovette –
erroneamente – decidere che gli stava bene e la spinse indietro per farla
rimettere a sedere. Disgraziatamente il movimento non giovò allo stomaco
di Giù e mentre Stef si sporgeva per farla
allungare contro lo schienale lei ebbe un nuovo violento conato.
Quando
Giù riaprì gli occhi Stefano li aveva chiusi, era immobile e una
colata di vomito gli adornava la giacca arancione.
“Oh,
Cristo,” bofonchiò agghiacciata.
Lui
non si mosse ancora per qualche secondo. Non respirava neanche. Quindi
arretrò, si rizzò in piedi e, usando le punte di quattro sole
dita, si slacciò la giacca e la levò, tenendola tra
l’indice e il pollice.
“Cazzo.
Cazzo, Stef, io…”
Stava
per piangere. Lo sapeva, stava per piangere. Gli aveva vomitato addosso. Non le
avrebbe parlato mai più e avrebbe ordinato a Eva di tenerla a distanza e
lei avrebbe sofferto per sempre.
“Stai
meglio?”
Stef
aveva gettato la giacca sul sedile posteriore. Accennava un sorriso leggermente
forzato e teneva ancora la sua portiera semiaperta, come temendo il peggio.
“Sì,
adesso sì,” sussurrò Giù avvilita, lottando con le
lacrime.
“Ottimo.
Per favore, se devi vomitare ancora fallo pure addosso a me, ma non sul fottuto
sedile. Va bene?” chiese lui mite.
Giù
lo guardò incerta. Non sembrava arrabbiato e nemmeno sprezzante.
Annuì debolmente e mormorò ancora una scusa che lui troncò
sul nascere, prima di rimettersi alla guida. Giù si addormentò
immediatamente ed era ancora parzialmente incosciente quando Stef le chiese le sue chiavi di casa, chissà quanto
tempo dopo. Poi le sembrò di ondeggiare e sentì un persistente
rumore di passi, un tintinnio metallico e quindi cominciò a girare,
ancora intorpidita. Fu soltanto quando ad un nuovo tintinnio seguì una
luce improvvisa che recuperò un minimo di lucidità.
La
porta del suo alloggio era spalancata, le luci accese. Stefano aveva ancora il
braccio proteso per infilare la chiave, ma ad aprire non era stato lui
bensì Serafina, alle cui spalle sbucava la
testa di Marco.
“Sei
in ritardo di almeno…” tuonò feroce sua madre,
interrompendosi nel vederla cinerea ed abbarbicata ad un perfetto estraneo.
Giù
annaspò terrorizzata, emise un gorgoglio di panico e cercò
qualcosa di intelligente da dire per evitare il linciaggio, ma il suo cervello
era troppo ottenebrato e la cosa le risultava ancor più difficile del
solito. Fu in quel momento – lei boccheggiava, sua madre aveva gli occhi
sgranati e la bocca spalancata e suo padre studiava lo sconosciuto con aria
sconcertata – che Stef le restituì le
chiavi e tese la mano in avanti.
“Buonasera.
Mi chiamo Stefano Landolfi e temo di aver accidentalmente ubriacato vostra
figlia, al mio concerto di stasera.”
La mandibola di Marco
precipitò verso il basso.
___________________________________________
kry333: Eggiàeggià i fidanzatini… Sì, Stef è un po’ strano. L’ho immaginato
pazzo fin dall’inizio, era la sua caratteristica peculiare quando ancora
tutto il resto rimaneva da definirsi. Ebbene, spero che questo nuovo epico
momento ti sia gradito…Grazie!
Hypatia: Eh, è quello! Devi prendere l’autobus
e pestare forte i piedi alla gente o bloccare le porte. Ce li hai degli anfibi carrarmato? Comprali! Altrimenti il Tizio mica lo trovi…
Comunque. Ahm, tornando a noi…ma no! Povera Eva, che male ha mai fatto? Sì,
adoro Calvino. Devo aver letto Il
cavaliere Inesistente qualcosa come sessanta volte senza esagerare - AgilulfoEmoBertrandino dei Guildiverni e
degli Altri di Corbentraz e Sura,
cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez…senza
andare a controllare il nome eh! ^__^ (e voglio farti notare…AgilulfoEmo…emo! EMO, capisci? Calvino
era troppo avanti e ha creato un personaggio ancor più scassacocones del teme. Che smacco, Saskè,
sei secondo) - e Se una notte d’inverno
un viaggiatore è una delle cose che hanno più segnato il mio
modo di scrivere (con risultati scarsi, ma vabbè),
per non parlare di Marcovaldo
che è il nucleo della mia visione tragicomica della vita… Per
sintetizzare e non spendere due pagine, sì, amo Calvino. Immensamente.
Portinaia: caspita…recensioni così aprono il
cuore. Che dire, sentitamente e schiettamente grazie. Piangerei, se non fossi
intenta a cercare di disincrostarmi dai denti una briciola di crosta di pane
del brunch che mi fa penare e contemporaneamente a scrivere. Dunque, sono
commossa. Quanto al resto…anche io ho la tendenza a innamorarmi di gente
che assolutamente non posso avere. Il meglio finora è stato quando mi
presi una cotta devastante per un mio coinquilino. Fidanzato con l’allora
vicina del piano di sopra. Non sto
scherzando.^__^ Ma sento che posso migliorare e innamorarmi in modo ancor
più imbecille e masochista, ho fiducia nella mia idiozia. Ah, niente
muffa e pane stantio, ma vino rosso e taralli: sennò che piacere
è?
Liz85: donna mia! Che onore averti qui, stella. È
bellissimo che una cara amica si prenda la briga di venirmi a commentare…smontandomi.
^________^ Hihi. Ovviamente non posso esporti tutti tutti i piani per il futuro della storia nemmeno in pvt anche se un po’ l’ho fatto, e di certo non
qui. Ma…hai ragione, ovviamente, devo fare attenzione. Sto cercando di
contenermi per non partir en touslessens
e darmi dei limiti, che come sai bene è un mio annoso problema non solo
scrivendo. Vedremo se funziona, ma sentiti libera di allertarmi se qualcosa non
va. Grazie zucchero, biscottina e nuvola di miele.
^__^
L’indomani
Giù si svegliò all’ora di pranzo, con lo stomaco strizzato
e la testa un po’ pesante. Impiegò un quarto d’ora per
tirarsi in piedi e si recò in cucina con l’espressione avvilita di
un cane preso a randellate.
Di
sua madre non c’era traccia e soltanto Marco girellava intorno al tavolo
apparecchiando lentamente.
“Ciao,”
salutò atono.
“Ao,” borbottò Giù guardando il
perimetro di una piastrella accanto al suo piede sinistro.
La
notte prima, dopo l’estemporanea presentazione, Stef
si era trattenuto per spiegare ai suoi genitori che era il ragazzo della sua
vicina di banco e che aveva appena suonato con il suo gruppo amatoriale, non
era un criminale e non adescava compagne di scuola con dosi massicce di
superalcolici. Tutto questo mentre Giù, nel bagno, si dedicava a
un’ultima sessione di espulsione dell’alcol in eccesso. Quando era
tornata in salotto, un po’ più lucida, Stef
stringeva tra le mani una tazza di tè caldo, Serafina
mangiucchiava biscottini alle mandorle e Marco osservava il ragazzo con aria
ancora estremamente sospettosa.
“Come
stai?” le aveva chiesto sua madre, inghiottendo un biscotto intero.
“Meglio,”
aveva ronzato lei intorpidita.
“Grazie
per avercela riportata,” aveva borbottato Marco senza troppa enfasi.
“Si
figuri,” aveva risposto Stef leggiadro.
Sembrava non badare al fatto che i due adulti di fronte a lui fossero in
pigiama e avessero un’aria piuttosto sconvolta e sorseggiava il suo
tè serafico. “Volevo essere sicuro che non vi arrabbiaste con lei.
Le ho servito troppo punch.”
Falso.
Giù ricordava perfettamente fiumi di birra e del rhum e cola ingurgitati
ben prima che lui iniziasse a riempirle il bicchiere.
A
quel punto Serafina si era lanciata in un
interrogatorio senza vie di scampo. Dove viveva, cosa facevano i suoi genitori,
andava bene a scuola – Stef, candido, aveva allora
confessato di aver ripetuto la terza liceo e di non cavarsela troppo bene con
le materie scientifiche – beveva spesso – no, assolutamente,
soltanto un bicchierino il sabato. A quel punto Marco era intervenuto chiedendo
a sproposito se cambiasse spesso ragazza e Stef aveva
risposto di no senza sembrare minimamente allarmato da tutti quei quesiti a
tappeto.
Poi
aveva posato la tazza vuota e si era defilato abbagliandola con un ultimo
occhiolino. Dalla sua espressione sembrava ridersela sotto i baffi e Giù
si era domandata se non fosse completamente matto.
I
suoi l’avevano spedita immediatamente a dormire senza fare commenti ed
ora eccola qui, pesta e intontita.
“Ti
sei divertita, ieri sera?”
Suo
padre non sembrava ironico né velenoso, soltanto un po’ nervoso.
Giù
annuì in silenzio. Effettivamente fino al momento del vomito si era
divertita moltissimo, aveva chiacchierato molto – anche se non ricordava
più bene a proposito di cosa – e riso come una iena.
Marco
annuì di rimando, poggiandosi al bordo del tavolo.
“Jo,
senti,” iniziò incerto, “so anche io che a diciotto anni
capita di ubriacarsi. Non è grave se non succede sempre. È solo
che siamo qui da nemmeno due settimane e tu ti prendi questa sbronza colossale.
Io…io non volevo che tu fossi infelice, Jo. Vorrei non aver accettato il
trasferimento.”
Lei
sollevò lo sguardo e lo guardò fisso. Sembrava sconsolato e
persino un po’ più vecchio e Giù pensò
irrazionalmente che un giorno sarebbe invecchiato davvero, come tutti quanti, e
lei non avrebbe potuto farci niente anche se gli doveva tutto e lui alla sua
età stava per diventare padre, aveva dovuto farsi un culo triplo per
mantenere una famiglia e fare l’università, darle tutto quello di
cui aveva bisogno e permettere alla mamma di coltivare a sua volta dei progetti
personali.
Suo
padre meritava quel nuovo lavoro. E la città non era poi così
male.
“Non
mi sono accorta che bevevo così tanto. Mi stavo divertendo,”
mormorò colpevolmente.
Marco
la guardò fisso.
“Davvero?”
Giù
annuì con convinzione.
“I
miei nuovi amici sono molto simpatici,” continuò sorridendo.
Marco
sospirò sollevato, poi accennò il suo sorrisetto predatore.
“Stefano
è molto gentile,” commentò vago.
“Oh,
sì,” rispose Giù con enfasi, abboccando come una trota da
allevamento. “E’ gentile e molto in gamba.”
“E
piuttosto carino,” continuò il padre avviandosi ai fornelli.
Già
trovò che la definizione non rendesse onore alla bellezza di Stef e lo seguì esaltata, dimentica delle settimane
di silenzio, dello schiaffo e di tutto il resto.
“L’hai
notato? Hai visto che begli occhi, pa’?”
continuò, nell’impellenza di rendere giustizia alla grazia
dell’amato.
“Molto
belli. Anche il sorriso,” confermò lui come se niente fosse.
Spense il gas sotto la pentola, afferrò una presina e si voltò
sornione. “E’ il ragazzo di Eva, giusto? Anche lei mi piace
molto,” aggiunse candido.
Giù
arrossì immediatamente, comprendendo infine le intenzioni paterne.
Ovviamente era stata stupida a credere che suo padre non si sarebbe accorto
della sua cotta titanica semplicemente guardandola in faccia in presenza di Stef, nonostante il torpore e l’ubriachezza.
Raggelata, glissò fissando la pentola.
“Certo.
Sono molto carini insieme,” rispose meccanicamente.
“Meglio
così,” fece Marco svagato.
Lei
sospirò tra sé, sollevò la testa e fece per rispondere una
banalità qualunque, ma l’espressione saputa di suo padre la fece
invece scoppiare a ridere suo malgrado.
“Oh,
ti odio! Come hai fatto?” brontolò risentita.
“Quando
ti ha fatto l’occhiolino sei diventata color porpora. Conosco il mio
pollo,” rise Marco poggiandole la mano sulla spalla. “Inoltre ti
piace complicarti la vita, sei uguale a tua madre.”
Giù
s’imbronciò, oltraggiata per il paragone, ma la porta si
aprì in quel momento e Serafina fece il suo
ingresso con alcune buste in mano. Il suo sguardo corse tra il marito e la
figlia, dovette registrare la loro ritrovata intesa e sorrise contenta.
“L’ubriacona
si è svegliata, vedo,” commentò ironica.
“Non
sono un’alcolizzata!” protestò Giù piccata, prima di
chinare la testa. “Mi dispiace.”
“Almeno
ho conosciuto anche io un tuo amico, visto che non c’ero l’altro
pomeriggio. Papà mi ha detto che le ragazze sono molto graziose,”
rispose sua madre bonaria. “E sabato prossimo non puoi uscire,”
aggiunse con noncuranza.
Giù
si strinse nelle spalle, perché lo prevedeva. Sicuramente papà
avrebbe finito per portarle a mangiare la pizza: i suoi genitori erano del
tutto incapaci di punirla.
Si
sedettero a mangiare e Giù si sorprese nello scoprire quanto aveva avuto
nostalgia di quei pranzi ciarlieri con i suoi genitori. L’argomento
principale della conversazione fu ovviamente il “bell’autista
biondo” che l’aveva scortata a casa, come lo definì Serafina. Giù finalmente narrò della
folgorazione sull’autobus e del rammarico per il fatto che fosse proprio
il fidanzato di Eva, sua madre s’intenerì assicurandole che ne
avrebbe trovato presto un altro e Marco sentenziò che comunque non
avrebbe accettato un genero con le lentiggini.
“Guastano
la perfetta bellezza canonica. Solo il meglio per te, Jo,” affermò
ridacchiando.
Stavano
spiluccando gli avanzi di crostata quando il suo telefonino prese a suonare e
Giù balzò su da tavola correndo in camera, e travolse en passant
la sedia, lussandosi probabilmente l’anca: era Eva.
“Ciao!”
salutò di slancio, rispondendo nonostante il dolore atroce.
“Ciao,
vomitina,” replicò l’amica,
scoppiando a ridere. “Stef mi ha detto della
giacca.”
La
giacca. Gesù, la giacca. Giù avvampò di vergogna in
differita, schiarendosi la voce.
“Mi
dispiace. Quanto è disgustato?”
“Disgustato?
Credo stia ancora sghignazzando. Finché non gli tocchi il proiettile di
fuoco puoi anche ricoprirlo di cacca.”
“Il
proiettile di fuoco?” ripeté Giù perplessa-
“Ma
sì, la macchina. È l’unica cosa che lo offende, hai fatto
bene a non criticarla. ”
Giù
non se la ricordava nemmeno, la macchina. A malapena sapeva di esserci salita,
ma soltanto perché se si trovava in casa propria era accaduto per forza.
“Ce
ne sarebbe stato motivo?” chiese incerta.
Eva
rise.
“Si
vede che non ti ricordi. Vedrai che trabiccolo,” rispose misteriosa.
“Comunque era molto divertito. Certifico invece che Mat
ti odia.”
Giusto,
Mattia, l’odioso batterista. Giù ricordò la sua antipatia e
la sua assurda pretesa di non farsi rubare il bicchiere e si chiese obiettiva
come mai non l’avesse presa a schiaffoni.
“E’
una cosa reciproca,” biascicò vergognosa.
Eva
sospirò.
“Ti
pareva. Fra’ sarà contento.”
Il
cervello di Giù scricchiolò sinistramente mentre ricordava
l’avversità dimostrata dall’amico nel trovarsi davanti il
ragazzo, il modo in cui aveva pronunciato il suo cognome, Galleani…in
quel momento ritornò indietro con la memoria a giorni prima, al mattino
in cui Fra’le aveva chiesto
del tipo dell’Angelus commentando poi sarà
mica quel grandissimo coglione di Mattia Galleani?
Tutto
tornava.
“Come
mai?” chiese curiosa.
Ed
Eva si lanciò in uno dei suoi racconti frenetici e confusionari,
riferendole una storia di ragazze contese, corna e gelosie. Giù se la
godette come una tazza fumante di cioccolata calda con panna. Quando la
narrazione fu giunta a termine sapeva che il pomo della discordia consisteva in
tale Marta Anselmi, quarta A, che aveva rimbalzato dall’uno altro dei
pretendenti per mesi tre scaricando entrambi quando si erano presi a cazzotti, e
ridacchiò deliziata.
“Però
si tollerano,” commentò pacifica.
“Per
forza. Fra’ è il mio migliore amico e Stef
e Mattia si conoscono dall’asilo,” fece Eva soave. “Qualcuno
dovrebbe darmi un nobel per la pace,” aggiunse con un sospiro.
“Ti
candiderò immediatamente,” rise Giù.
Quando
la telefonata fu conclusa ed Eva ebbe riso di lei un altro po’ Giù
stabilì che avrebbe almeno tentato di studiare prima che la sonnolenza
la cogliesse nuovamente. Funzionò per quaranta minuti, poi la sua testa
precipitò sul tavolo con un tonfo attutito e decise che quel giorno
concentrarsi era facile quanto una scalata dell’Everest in ciabatte,
quindi lasciò perdere. Scrisse invece un paio di lunghe ed esaustive
mail agli amici a Trento finché Serafina non
si presentò in camera sua con un sorriso e un frullato.
“Disturbo?”
Giù
scosse la testa, girando la sedia.
“Papà
mi ha detto che non sei disperata. È vero?”
La
ragazza sorrise confermando quell’ipotesi e Serafina
s’illuminò di contentezza. Quindi si sedette sul suo letto e le
allungò il bicchiere.
“Stavo
ripensando a questo Stefano,” affermò poi, assorta. “Vedrai,
ti passerà presto. Sai, mi ha fatto effetto. Ci credi che mi ricorda
papà?”
Giù
si raggelò, allibita. Ci mancava soltanto il complesso di Elettra da
aggiungere alla lunga lista delle sue psicosi. L’idea che le piacesse
qualcuno che ricordava suo padre le dispiacque oltremodo, poi considerò
che papà aveva i capelli neri e gli occhi scuri e che Stef era biondo e celeste e sua madre una sciroccata. Tutto
regolare.
“Dovresti
portare gli occhiali,” commentò condiscendente.
Serafina ridacchiò, somministrandole un lieve scappellotto.
“Scema,”
esclamò divertita.
______________________________________
gengy: Oooh, grazie. Recensione
sintetica e che m’inorgoglisce alquanto…speriamo che duri, la tua
adorazione! ^__^ Ti ringrazio, alla prossima.
Levsky: Salve! Sì, il batterista antipatico si
chiama Mattia, e qui abbiamo scoperto qual cosina in più su di lui. Quanto
alla reazione in famiglia, come vedi, anche se i genitori di Giù non
hanno nulla a che vedere con i miei ho deciso di affibbiare loro il medesimo
spirito anarcoide quanto a orari e ubriachezza…niente botte, dunque. ^__^
Spero continuerai ad apprezzare e grazie, sentitamente.
liz_85: ergh-aaak…tu non
mi puoi fare i complimenti! Se TU mi fai i complimenti allora poi sì che
mi monto la testa, perdincibacco! Che dire, tata…avrai
notato e noterai che di riferimenti più o meno vaghi alla nostra
adolescenza ce ne sono, sparsi qua e là, e non pochi. Infatti certe
volte mentre scrivo sghignazzo da sola perché mi vengono in mente cose
(tipo certe lettere mattutine…^__^). Orbene, sono contenta che l’immaginazione
resti “aperta”, e sì, il fil rouge
è quello lì. Fattene una ragione, caramellina,
tortellina e granella di sole.
kry333: Mi colmi di gioia quando dici che Stef fa ridere. Era uno dei miei primari obiettivi. Ora,
dunque, posso morire contenta e appagata. Marco, poverino, fa quello che
può. Noterai che ha un certo self control,
comunque. Grazie molto, a presto.
VavvyMalfoy91: Un po’ me l’aspettavo ma mi ha
stupita lo stesso che tu abbia tirato in ballo Naruto, però è
vero che cromaticamente – l’arancione, gli occhi azzurri, i capelli
biondi – gli somiglia, ma per il resto non ha niente a che vedere. Per
dirne una, Stef è un bel ragazzo… ^__^
grazie mille, alla prossima. (Ma non mi dare del genio che poi chiedo dei
soldi. Hihi.)
Lo
so. Sono ripugnante, ho accumulato un ritardo vergognoso. E per giunta non
è nemmeno dovuto a un calo d’ispirazione, sono solo…pigra.
Ma
rasserenatevi (o spaventatevi, semmai): Giù, Eva, Stef
e gli altri non vi lasceranno molto presto.
suni
VII. IL PROIETTILE DI FUOCO
Il
lunedì mattina era storicamente il momento più faticoso della
settimana di Giù. Apriva gli occhi, realizzava che la attendevano sei
giorni di scuola e un peso insostenibile le comprimeva i polmoni, impedendole
per qualche minuto anche i movimenti più semplici.
Quel
particolare lunedì mattina non fu diverso, salvo che per festeggiare la
ritrovata armonia Marco la estirpò personalmente dal piumone caldo portandola
in spalle come un sacco fino al tavolo da pranzo, per poi precipitarsi in
ufficio uscendo dalla porta di casa con una scarpa ancora in mano: la
puntualità ineccepibile non era un punto di forza di nessuno dei membri
del nucleo familiare Corioli.
Giù
trafficò con la sua tazza di cereali fino a tramutarli in una pappetta ripugnante che ingurgitò direttamente dalla
tazza, sbrodolandosi il pigiama. Completamente intronata si diresse in bagno,
si lavò la faccia, mise dei vestiti a caso e barcollò giù
dalle scale gemendo un saluto alla madre. Rischiò di addormentarsi
contro il portone e solo un immenso sforzo di volontà le permise di
spalancarlo e avventurarsi nel gelido dicembre esterno; non faceva freddo come
a Trento, ma comunque.
Zampettò
per qualche passo verso la fermata, finché tre colpi di clacson in
rapida successione non la fecero sussultare tanto che rischiò di
capottarsi. Si voltò indietro intontita e fu così che vide quel
che doveva vedere e le parole di Eva le furono perfettamente chiare.
Era
verde, per cominciare. Una Clio scassata color verde
pisello coi parafango stortignaccoli e uno
specchietto sbilenco che sembrava ammiccare. Al di là del parabrezza Stef sorrideva sventolando una mano. Non aveva accostato e
dietro di lui si stava formando una discreta coda ma lui non badò
né a quello né al coro di clacson che seguì, sicché
Giù pensò di doversi gettare sul sedile accanto a lui prima che
il grosso conducente del fuoristrada due macchine dietro scendesse e facesse
polpette stefaniche.
“Ciao!”
l’accolse Stef non appena la vide aprire la
portiera – non senza un certo sforzo, ché era difettosa.
“Monta, soldato.”
“Ciao,”
squittì Giù sedendosi di schianto. Dimenticò di avere lo
zaino in spalle e poco ci mancò che rimbalzasse di naso contro il cruscotto.
“Come
stai? Spero che i tuoi non fossero incazzati,” attaccò Stef partendo con una sgommata. “E che cazzo di
fretta hai, cazzone del cazzo,” aggiunse senza
alcuna aggressività gettando lo sguardo indietro, verso
l’automobilista che oltre a sommergerli di colpi di clacson stava anche smadonnando alla grande. “Questa testa di
cazzo…allora, i tuoi?”
E
sorrideva pacifico.
“Non
erano incazzati. Cazzo, no,” rispose lei con enfasi, giusto per non
cambiare registro linguistico. “Sono in punizione sabato prossimo, ma
tanto papà non tiene,” aggiunse più precisamente.
Pensò di concludere con un ultimo cazzo,
ma forse era meglio non strafare.
Stef
svoltò a destra con andatura da crociera, tamburellando le dita sul
volante.
Giù
voltò la testa incuriosita. Tra il marasma di cd, bottiglie vuote,
felpe, varie ed eventuali troneggiava lo zaino nero di Stef.
Giù lo scrutò perplessa, prima di individuare a cosa il ragazzo
si riferisse: il montgomery blu scuro arrotolato accanto ad esso.
“Ho
messo il mio stronzo giaccone a lavare,” ridacchiò Stef, improvvisamente sornione.
Lei
avvampò, purpurea.
“Gesù,”
abbaiò imbarazzata.
“Sì,
beh, tu puoi chiamarmi Stef,” rispose lui
magnanimo. “E poi te l’ho detto, Pi, non fa niente: basta che
risparmi la macchina.”
Giù
ricordò l’avvertimento di Eva ed esitò, cauta.
“E’
molto speciale?” chiese con prudenza.
“Cazzo,
sì!” rispose Stef di slancio, ingranando
la marcia come se fosse stato alla guida di un autosnodato da otto tonnellate.
“Questo fottuto gioiello è nella mia famiglia da tempo immemore.
Io l’ho ereditato da mio fratello maggiore. A lui non serviva più,
sai,” aggiunse distrattamente, fissando la strada.
“Si
è fatto la macchina nuova?” chiese lei, ciarliera.
Stef
le gettò un’occhiata sbilenca, remotamente sorpresa. Storse le
labbra nel primo sorriso men che abbagliante che lei
gli avesse visto fare e scrollò la testa.
“Credevo
che Eva te l’avesse detto,” commentò noncurante.
“Detto
cosa?” lo incalzò lei sorpresa.
Lo
sguardo di Stef s’illuminò di nuovo
all’improvviso, voltato verso il lato del palazzo.
“Ehi,
quella è la miglior panetteria della città!”
esclamò, mettendo repentinamente la freccia. “Devi assolutamente
provarla, merda. Adesso per festeggiare il nostro primo viaggio insieme ci
compriamo due stronze brioches.”
Giù
fissò il vuoto stordita.
Il nostro primo viaggio insieme.
La
sua mente partì da sola, e del tutto contro la sua volontà,
visualizzando una lunga carrellata di immagini on the road, con zaini in spalla, accampamenti di fortuna,
romantici tramonti sul mare e aeroporti affollati in cui si addentravano mano
nella mano. Nemmeno si accorse del parcheggio estemporaneo, in obliquo tra due
cassoni della spazzatura, e soltanto quando Stef le
picchiettò un dito sulla spalla ritornò malvolentieri alla
realtà.
“Scendi?”
Annuì
con estrema fatica, abbandonando senza entusiasmo il sedile.
Finirono
per ingoiare tre brioches a testa, Giù
rigorosamente al cioccolato perché erano le sue preferite e Stefano
sbizzarrendosi tra una ripiena alla crema, una con mele e cannella e un
gigantesco bombolone colmo di marmellata di mirtilli. Le brioches,
spiegò con un grosso baffo violetto sulla guancia, erano in assoluto il
suo alimento preferito.
A
quel punto dovettero schizzare come matti in mezzo al traffico – Stef era bravissimo a sorpassare in corsia unica, ma anche
a non imbroccare nemmeno per sbaglio i sensi unici nella giusta direzione
– per non arrivare a scuola con troppo ritardo. Si separarono a tutta
birra appena oltrepassata la soglia dell’istituto, perché la
quinta A era a piano terra, ma Giù per un soffio non inciampò
immediatamente nel primo gradino, nel sentire la mano di Stef
sfiorare i suoi capelli in una carezza dispettosa prima che l’interezza
di lui sparisse nel corridoio.
Fortunatamente
la prima ora del lunedì, come quella del mercoledì, era tenuta
dal professor Ventura, che la accolse con uno sguardo placido e vagamente
ironico sventolando bonariamente nella sua direzione il gessetto con cui stava
schematizzando alla lavagna la cronologia di vita di Filippo Brunelleschi.
“Corioli, sono contentissimo che tu abbia deciso di passare
a salutarmi,” osservò indifferente.
Giù
si fece nuovamente purpurea, esitando nel raggiungere il banco.
ci
mancava solo che la buttasse fuori perché non aveva la giustificazione
per il ritardo. Come lo spiegava a Serafina che dopo
averla ricondotta in casa ubriaca e vomitante Stefano l’aveva fatta
arrivare a scuola venti minuti dopo l’orario prestabilito?
“Naturalmente,
Corioli,” confermò il docente, dando
un’occhiata al libro di testo per riprendere il filo. “Come non
credere, del resto, ad una scusa così ben congegnata?”
proseguì riprendendo a scrivere. Eva scoppiò rumorosamente a
ridere e numerose altre risatine trattenute risuonarono alle loro spalle.
“Che sia la prima e ultima volta, Corioli,”
l’ammonì ancora il professore, ma sul suo volto c’era un
vago sorriso che si aprì immediatamente anche su quello di Giù,
mentre prendeva posto.
“Grazie,
professore,” mormorò riconoscente, lui annuì sbrigativo e
riprese a spiegare.
Giù
nell’intervallo spiegò ad Eva delle brioches
e lei si lasciò andare ad entusiastici commenti sull’effettiva
prelibatezza di tutti i prodotti dolciari de Il Piccolo Forno di Manuela, la panetteria in cui l’aveva
portata Stef.
“Che
non succeda sempre, però, o diventerò gelosa,” rise
scherzosa, beatamente ignara.
Fu
nel cambio d’ora di mezzogiorno meno cinque che Francesco si avvicinò
con fare losco, mentre Eva ciarlava con Lalla. Il ragazzo si guardò
intorno circospetto e si chinò accanto a lei, poggiando i gomiti sul suo
banco.
“Pi?”
borbottò piano, col vocione cupo.
“Dimmi,
Fra’,” replicò distrattamente lei, copiando la parte di
schema che aveva mancato all’inizio dell’ora di storia
dell’arte.
Francesco
storse il naso, impacciato, e si passò una manona
tra i capelli ad istrice.
“Sono
dalle tue parti, nel pomeriggio,” attaccò, con tono che tratteneva
malamente un qualche genere di urgenza. “Sarei libero, diciamo, intorno
alle quattro e mezza. Ti va se passo da te, oppure di scendere a bere un
caffè?” propose, fissandola intensamente.
Giù
sbatté le palpebre, voltandosi finalmente a guardarlo con vago terrore.
Cercò sul viso dell’amico qualche traccia di malizia o di intenti
lontanamente romantici, e non trovandone si rilassò.
“Ma
certo!” trillò contenta. “Vieni pure a casa mia, i miei non
vedono l’ora di conoscere chiunque mi rivolga la parola in questa
città,” puntualizzò, sospirando rassegnata.
Francesco
sembrò improvvisamente rasserenarsi, sorridendo contento. Giù
scribacchiò il suo indirizzo esatto su una pagina bianca di quaderno che
strappò via con inconsulta ferocia, porgendogliela lieve.
Alla
campanella di fine scuola si riversarono all’esterno con la solita grazia
di bufali in carica. Raggiunsero la postazione all’angolo della piazza
con Francesco in testa che apriva la strada a suon di leggiadre spallate,
mentre Greg dietro di lui rollava la cannetta del buon pomeriggio senza nemmeno
guardare dove stesse mettendo i piedi. Sembrava quasi che il suo corpo fosse
geneticamente predisposto a quell’atto, ne concluse Giù
guardandolo di sottecchi mentre scavalcava istintivamente uno zaino mollato in
terra.
Fosse
stava lei, si sarebbe ribaltata dopo il primo metro.
“Peccato
che non siate venuti sabato sera,” stava blaterando Patty alla coppia di
amici. “E’ stato molto divertente.”
“Sicuro.
Dovevate vedere la nostra Pi com’era sbronza,” confermò
Fra’ tutto serio, accendendosi una sigaretta.
Eva
scoppiò a ridere, scuotendo le lunghe chiome.
“Purtroppo
mi sono persa l’ultimo round, accidenti a mia madre,”
commentò con rammarico.
“Noi
eravamo a cena con Sonia e Luca,” spiegò Lalla senza troppo
entusiasmo.
“Due
palle come due…” borbottò Greg pacifico.
“Non
è vero,” lo interruppe la ragazza con finta severità, prima
di voltarsi verso gli altri. “E’ che hanno litigato tutta la
sera,” aggiunse sbuffando.
“Appunto,”
concluse Greg, sbuffando fuori una prima sostanziosa boccata di fumo.
“Chi
è che ha litigato? Sei stata tu vero, Pi?”
Nell’udire
quella voce solare e intimamente serena le dita dei piedi di Giù si
arricciarono di scatto, mentre si voltava giusto in tempo per vedere Stef che chinava la testa per dare un bacio ad Eva.
“Hai
fatto arrivare Pi in ritardo a lezione!” lo ammonì poi lei,
dandogli un colpetto sulla spalla.
“Hanno
fatto problemi?” s’informò lui, allacciandole il braccio
intorno alla vita.
“Naaa, c’era Ventura,” rispose Eva poggiando la
testa contro la sua spalla. Giù distolse lo sguardo, interiormente
affranta. Erano così maledettamente innamorati da far venire il
voltastomaco.
“Altrimenti
che avresti fatto, saresti andato dal prof a dirgli che sei Stefano Landolfi e
mi hai accidentalmente ingozzata di brioches dopo il
tuo concerto?” affermò istintivamente, più secca e
tagliente di quanto avrebbe voluto – sempre posto che avesse avuto
realmente l’intenzione di parlare, cosa non del tutto esatta.
Stef
sgranò per un istante gli occhioni azzurri,
prima di scoppiare in una celestiale risata scrosciante e un po’ roca.
“I
tuoi mi odiano, vero?” chiese attento, subito dopo.
“No,”
bofonchiò Giù senza guardarlo. “Ti trovano carino.”
Stef
sorrise ancora, gongolante.
“Tutti
mi trovano carino,” commentò, con tale candida innocenza che
Giù pensò di liquefarsi sull’asfalto in un’estasi di
tenerezza.
“Tutti
chi?” fece Fra’, sarcastico.
“Io
ti trovo carino,” sussurrò Eva suadente, avvolgendo le braccia
intorno alla vita di Stef.
“Ah
sì?” mormorò lui. Lei ridacchiò e il ragazzo la
sollevò leggermente da terra, riprendendo a baciarla. Giù si
voltò verso Fra’ domandandosi se fosse il caso di chiedergli di
colpirla sulla testa col casco abbastanza forte da spaccare il suo cranio in
due perfette metà e risparmiarle quell’angoscia.
“Cos’è
questa storia di Landolfi e del concerto?” s’informò Greg
pacato, passando il tizzo a Fra’. Questi esitò per un paio di
secondi, coscienzioso, prima di prenderlo con una scrollata di spalle e
portarselo alle labbra, allungandogli in cambio la sigaretta.
Giù
prese un lungo respiro, iniziando a raccontare stentatamente del concerto, del
viaggio in macchina – scoppiarono tutti a ridere come iene, al momento
del vomito sulla giacca, e persino Stef si
staccò per qualche secondo dalla bocca di Eva per commentare che
quell’arancione non sarebbe mai più stato lo stesso – e
dell’improvvisata con i suoi genitori.
“Tuo
padre dev’essere andato fuori di testa,”
osservò Lalla impressionata. “Il mio mi ucciderebbe.”
Giù
ci pensò su per qualche secondo, scettica. Il commento più
negativo di Marco era stato che non voleva un genero con le fossette, ma
sospettava non fosse il caso di parlarne.
“Lui
è piuttosto permissivo,” borbottò vaga.
“Oh,
piantatela,” tuonò Fra’ d’improvviso, esasperato.
“Siete rivoltanti, colombelle,” sentenziò, facendo sì
che le labbra di Stef e quelle di Eva si staccassero
definitivamente.
“Tranquillo,
Franz, te la restituisco intera,” assicurò il ragazzo con fare
responsabile.
“Non
sono un pacco!” protestò Eva con finta indignazione.
Stef
e Fra’ si scambiarono una virile e scherzosa occhiata d’intesa e
quest’ultimo distolse lo sguardo, trattenendo le risa. Stef gli piaceva, decise Giù all’istante; gli
piaceva, ma non voleva ammetterlo perché era il miglior amico di Mattia Galleani.
Poteva
capirlo: se avesse conosciuto prima Galleani e poi Stef lo avrebbe immediatamente detestato. E forse la sua
vita sarebbe stata molto migliore, ponderò tristemente.
“Turco,”
intervenne improvvisamente Patty, sogghignando. Giù notò in quel
momento il casco che teneva in mano, e che al momento sventolava con una
smorfia vittoriosa piuttosto inquietante.
“Maledizione,”
ruminò il ragazzo funereo. “Ancora non ci credo che ti sei
veramente procurata un casco.”
Patty
ridacchiò trionfalmente, improvvisando una camminata da vamp.
“Lo
sai cosa sei? Una persecuzione,” continuò Fra’, caricando
meglio lo zaino in spalle. “Ne parlerò a Norimberga.”
“Vaffanculo, Turco!” protestò Patty, colpendolo
senza tanti complimenti. Lui scosse pazientemente la testa e si mise in marcia,
sventolando la mano. Nemmeno era finito il successivo coro di saluti che Stef le picchiettò la spalla, costringendo
Giù a voltarsi con un sussulto.
“Andiamo,
Pi?”
E certo, che domanda.
____________________________________________
kry333:
Eccoti Stef in tutta la sua grazia linguistica. Spero
di averti accontentata… Beh, grazie per l’apprezzamento anche a
Marco e Serafina, e spero la storia continui a
piacerti. Alla prossima!
Levsky: Oh, grazie! Ti ringrazio, e anche Marco ti ringrazia. Hihihi…occhio però, che Serafina
è una moglie molto gelosa (e come non esserlo, fortunella).
Quanto a Giù e Mattia, tutto quel che posso dire è che sì,
li si vedrà ancora interagire. Suoi come e i perché, lasciamo il
mistero. ^__^ A presto.
VavvyMalfoy91: ahm…la sintesi è l’Arte Suprema…? Hihi. Beh, presto capitoli più linghi.
Buona lettura!
liz-85:
gioia, luce e faro della mia vita, involtina
primavera mia…non somigliano ai miei genitori! Sono giovani e
sghignazzanti e…va bene, mia madre sghignazza, ma Runnerman
mica tanto…^__^ E smettila di sputtanarmi! Comunque tu non avresti potuto
scrivere il capitolo: non sai usare le virgole. :P Baci, mia rilucente cometa.
lilyjuve: Ma no! Ce ne sono tante e tali di ben migliori… Ma ti
ringrazio lo stesso, sono toccata. Spero davvero che quanto seguirà sia
all’altezza e continui ad appassionarti. E non ti preoccupare per il
blocco, non è nei miei piani. Alla prossima.
Sì,
lo so, è passato qualche eone e mi vergogno come una ladra, anche
perché il capitolo era lì pronto da tre mesi. Abbiate la
bontà di perdonarmi.
VIII: DAFTPUNK
Giù
dovette tormentosamente aspettare che i due piccioncini si salutassero come di
dovere, ma fortunatamente Greg e Lalla si trattennero a chiacchierare con lei
durante la sessione di pomiciata che ne seguì. Poi, finalmente, Stef sembrò decidere che le sue riserve eviche gli avrebbero permesso di sopravvivere per le ore
successive e arpionò graziosamente lo zaino di Giù.
“Buon
pomeriggio,” salutò, tirandosela appresso.
“Cia-a-ao,” mugolò lei, mentre Eva le sorrideva
solare sventolando la mano.
Giù
si sedette di schianto in macchina sentendo l’immediata agitazione che
l’invadeva puntualmente quando si trovavano soli. Stef
scelse quel preciso istante per far partire la musica ad un volume spropositato,
mettendo allegramente in moto.
“Daftpunk,” annunciò, sovrastando la musica
assordante. “Mi mettono energia,” sbraitò ancora, sognante.
Giù
annui completamente ebete, vuoi per lo shock auditivo, vuoi per la
realizzazione folgorante che il giaccone blu, a Stef,
stava da dio. Richiamava perfettamente quelle microscopiche screziature appena
un po’ più scure nell’azzurro dei suoi occhi, e…
“Mi
apri una lattina?” berciò Stef,
svoltando col semaforo giallo.
Giù
sbatté più volte le palpebre e lo guardò confusa,
riemergendo dalle fantasie cromatiche.
“Dietro
il tuo stronzo sedile c’è un pacco di birre,”
puntualizzò Stef serafico, rendendosi
evidentemente conto di non averle fornito informazioni sufficienti. Riusciva a
sembrare angelico anche strillando come un condor. “Me ne apri
una?”
Giù
eseguì meccanicamente la richiesta, si torse indietro con
l’elasticità di un armadio a tre ante e annaspò artigliando
il vuoto fino a riuscire nel delicato compito di afferrare il pacco ed estrarne
una lattina. Stremata, fece saltare la linguetta e gliela porse, senza
commenti.
Erano
usciti da scuola da ben dieci minuti, dopo tutto. Non c’era niente di
male nel fatto che Stef si facesse una birra. E poi
doveva guidare per un tragitto molto breve.
“Hai…ehm…sete,
eh?” borbottò, nella convinzione che lui tanto non l’avrebbe
sentita.
“Cazzo,
sì,” rispose Stef prendendo una sorsata.
“Serviti pure, eh. Mi cañas tu cañas.”
Quell’ultima
parte della sua affermazione le risultò pesantemente oscura, ma fece
finta di nulla ed annuì compresa.
“Sì,
grazie,” confermò, sentendosi improvvisamente prendere da una
straordinaria leggerezza. Avrebbe bevuto una birra con Stef
tornando a casa da scuola, sì, perché no? Sarebbe stato un
momento unico da conservare nella memoria per farsi forza nei tempi bui, o
qualcosa del genere.
Il
Calvino le faceva male, ne concluse sardonica, mentre compiva una seconda volta
le mirabolanti acrobazie necessarie a procurarsi una birra.
“Sei
di fretta, Pi?”
Stefano
aveva abbassato un po’ il volume, registrò di soprassalto.
Continuava a fissare noncurante la strada, ma aveva voltato leggermente la
testa verso di lei. Giù ci pensò su. A casa c’erano:
-un probabile
bigliettino lasciato al mattino da suo padre che riferiva qualche aneddoto
sicuramente idiota con cui augurarle il bentornata a casa,
-un probabile
biglietto lasciato al mattino da sua madre in cui si faceva un ‘in bocca
al lupo’ da sola per il primo giorno del nuovo lavoro,
-un pranzo da
preparare.
“No,
affatto,” rispose di slancio.
Stef
sorrise, provocandole il solito attacco tachicardico.
“Ti
va una focaccia?” propose svagato.
“Certo,”
rispose Giù prima ancora di capire che le sue labbra si stavano muovendo.
Mentre
Stef la conduceva nella miglior focacceria del fottuto mondo, a
sentir lui, Giù si rese conto con una massiccia dose di inquietudine che
le sue sinapsi erano teatro di strani fenomeni in presenza di Stef. Non che di solo brillassero di innata magnificenza,
ma le pareva di sfiorare la totale inanità in quei particolari
frangenti.
E
poi era accoccolata su una panchina del Belvedere cittadino, più lontana
da casa di quand’era uscita dal Calvino e con una focaccia fumante
stretta tra le mani infreddolite. Davanti a lei Stef
stava appollaiato sul muretto, mangiando avidamente. I raggi bianchi di sole
invernale creavano sfuggenti riflessi nel biondo dei suoi capelli e Giù
rimase per un po’ senza parlare, limitandosi a mangiare e lanciargli
qualche occhiata discreta, o così sperava.
Stef
si succhiava l’olio dalle dita, osservando assorto il panorama. Aveva
incrociato le gambe sul muretto e la fedele lattina di birra riluceva accanto
al suo piede.
Infine
Giù si schiarì la voce, più preoccupata di sembrare muta
che infastidita da quel prolungato silenzio: non la stava disturbando –
stranamente, considerata la sua costanza nel sentirsi imbarazzata.
“Bello,
qui. Non c’ero ancora venuta,” esordì, voltando la testa
intorno con un mezzo sorriso. C’erano passeggiatori variegati, cani
piscianti e bambini mugolanti, ma c’erano anche piante spoglie battute
dal sole, cespugli sempreverde e una fontanella che scrosciava cristallina.
Stef
imitò la sua panoramica esplorativa e poi annuì vago, puntando
l’azzurro delle iridi in quello più tenue del cielo. Giù
preparò un sospiro adorante, ma lui in quel momento spostò la
gamba ed urtò la lattina e la birra si versò in terra in un
tripudio di schiuma.
“Porco
cazzo,” sbottò, contrariato.
E
il sospiro di Giù diventò una risata spontanea, vagamente
asinina.
Splendido,
riuscì a pensare tra sé, sembrava Lucignolo nel Paese dei
Balocchi.
Stef
si alzò per raccogliere la lattina e Giù seppe per qualche
ragione che era ora di andare. Ritornarono verso la macchina di nuovo senza
parlare, ma ora a Giù sembrava ci fosse uno strano genere di urgenza
nell’aria, qualcosa che Stef emanava attraverso
i movimenti, che pure erano sempre morbidi e rilassati. Ma lui rimase distratto
e svaporato per tutto il tragitto, fece ripartire la musica e canticchiò
persino qualche nota sottovoce.
Lei
aveva già i piedi a terra e la mano sulla maniglia, pronta a lanciarsi
verso il portone di casa prima che qualcuno tamponasse il proiettile di fuoco,
quando Stef sporse leggermente la testa verso di lei.
“Pi,
senti,” iniziò, con tono leggero, “ci pensavo, e,
cioè cazzo, per quello che dicevo prima della macchina che è
importante, e di Michele…”
“Michele?”
intervenne Giù, individuando con la coda dell’occhio
un’automobile che si avvicinava rallentando per via della Clio che ostruiva il traffico.
“Michele,
sì, mio fratello,” spiegò Stef
con un sorriso paziente.
“Oh,
quello che te l’ha passata di mano,” confermò Giù,
soddisfatta di essere riuscita a cogliere il nocciolo del discorso. Si
rammentò della spiegazione sul veicolo, dell’accenno al fratello maggiore
e del brusco cambio d’argomento dovuto alle brioches.
“Ah, sì. Cos’è che Eva non mi ha detto?”
chiese, prendendo coraggio. Una seconda macchina si fermò in coda.
Stef
annuì leggiadro. I suoi occhi azzurri continuarono ad essere tersi e
sereni quando riprese a parlare.
“Che
mio fratello è morto, quando ero in terza liceo. La prima volta che ero
in terza fottuta liceo, intendo.”
Giù
spalancò la bocca e sgranò gli occhi, smettendo per un paio di
secondi di respirare. Le parole le affollarono la gola e minacciarono di
straripare in uno dei soliti flussi demenziali e incoerenti cui era sovente
soggetta, ma in quel momento il terzo automobilista si produsse in una
fantasiosa performance musicale pigiando il clacson come i tasti di un
saxofono.
“Ci
vediamo domani mattina, eh.”
Stef
allungò il braccio e chiuse la portiera che Giù stringeva ancora
convulsamente. Le lanciò un cenno e un ultimo sorriso, prima di mollare
il freno e ripartire fluido.
L’automobilista
del concerto per fiato solo le
passò accanto con uno sguardo fiammeggiante odio, abbassando rapido il
finestrino.
“Ragazzini
del cazzo!” inveì, prima di sgommare via con furia.
Che
pessimo inizio di pomeriggio.
Entrando
in casa Giù si trovò a pensare che avrebbe potuto solo
peggiorare. L’appartamento era deserto, immerso nella penombra, le
tapparelle abbassate e come se non fosse stato sufficiente le arrivò un
messaggio nell’istante stesso in cui si chiudeva la porta alle spalle,
ancora incapace di assorbire del tutto la confessione finale di Stef.
In realtà ti vorrei parlare di
una cosa precisa oggi pomeriggio. Penso di aver capito chi è il tizio
dell’Angelus, sai.
Era
Fra’.
Giù
si abbandonò contro la porta, spossata. La focaccia le rimbalzava nello
stomaco con insistenza, le ginocchia le tremavano e la prospettiva di vedere
Fra’ improvvisamente la terrorizzava oltre ogni dire.
“Gesù,”
mugugnò, lasciandosi scivolare a terra.
Non
si stupì di non ricevere risposta: ci provava da anni, ma nessuno
lassù se la filava mai.
Scrutò
lo schermo del cellulare con profonda avversione, rimuginando sulle possibili
risposte.
-
opzione uno: Fra’, mi dispiace, un
commando di afgani mi ha rapita per tenermi in ostaggio a Kabul, sono insaccata
in un burka e non vedo i tasti. Ti richiamo tra qualche
mese, se mi lasciano tenere la testa.
-
opzione due: Ho avuto un attacco di
appendicite fulminante, mi hanno portata in ospedale in elicottero e sto
lottando tra la vita e la morte. Messaggio autogenerato
da Vodaphone.
-
opzione tre: Non è vero, stai
mentendo, non potrai mai dimostrarlo.
Ne parliamo dopo, digitò, sospirando lugubre.
Era
in gravissimo pericolo. Non osava nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto se
Fra’ avesse detto ad Eva delle sue brillanti conclusioni, sempre che
fossero esatte. Probabilmente Eva l’avrebbe minacciata di morte oppure
l’avrebbe sfidata a duello e ovviamente lei avrebbe perso, perché
sarebbe rimasta incastrata nelle briglie del cavallo cadendo rovinosamente e
tutti l’avrebbero schifata. Di nuovo, sarebbe rimasta sola con i suoi
otto cani, sempre lì si tornava.
Accidenti.
Non riusciva proprio a capire come Fra’ ci fosse riuscito. Certo non
poteva averla tradita il fatto di assumere tutte le sfumature di viola e rosso
acceso riconosciute dal sistema RGB quand’era con Stef,
né il fatto che tendesse a balbettare come un’ultracentenaria in
fase acuta del Parkinson…
Giù
si portò una mano alla fronte, sconsolata.
E
Stef, per giunta. Come gli era saltato in mente di
dirle una cosa del genere in mezzo alla strada, prima di sgommare via,
Giù non lo capiva. Divenne bordeaux in ritardo al pensiero
dell’orrenda figura mattutina, quando gli aveva chiesto se suo fratello
avesse cambiato macchina. Certo che no, non gli serviva più: ora correva
senza provare stanchezza nelle verdi praterie celesti, o qualcosa del genere.
Ci
pensò su, mentre si preparava una tisana alla camomilla atta a
scongiurare il sempre presente pericolo dell’apoplessia ereditaria. Lei
non aveva mai perso nessuno: i suoi nonni erano tutti vivi, come zii, cugini e
parenti tutti, e di fratelli non ne aveva mai avuti.
Ma
soprattutto si chiedeva perché mai Stef non ne
avesse parlato prima, dandole il tempo di avere una reazione più
intelligente che guardarlo ad occhi sgranati. Sapeva di assumere un aspetto
orrendamente affine a quello di un piccolo di allocco quando aveva
quell’espressione.
E
poi si ricordò dei Daftpunk a tutto volume per
darsi energia, della birra e del lungo silenzio al Belvedere. Le balzò
chiaro agli occhi che probabilmente Stef aveva avuto
intenzione di parlarle di suo fratello prima. Probabilmente le aveva proposto
la focaccia apposta in quella prospettiva, ma poi non c’era riuscito.
Ecco,
mentre lei si beava del sole e dei cespugli verdi, lui pensava a come dirle che
suo fratello era morto.
Quella
sì che era sintonia.
Il
citofono suonò esattamente mentre Giù ingollava l’ultimo
sorso di tisana, facendola sussultare. Le tornò in mente Fra’ e il
panico la invase, repentino. Si guardò rapidamente intorno, ma niente:
quel bonaccione di suo padre non aveva nemmeno pensato a installare in casa
un’uscita secondaria per sfuggire ad eventuali creditori né una
scala antincendio che la depositasse direttamente accanto ad una moto nuova
fiammante per fuggire lontana. Era incastrata.
A
Buffy non sarebbe successo.
Nemmeno
a Paperino, e questo suonava molto più umiliante.
“Sì?”
squittì rassegnata afferrando l’interfono.
“Sono
Fra’!” tuonò un vocione inconfondibile.
Giù
gli aprì, massaggiandosi l’orecchio perforato dai decibel in
eccesso. Tempo qualche secondo e udì una serie di potenti tonfi in
avvicinamento, che andando per esclusione intuì essere i passi
dell’amico su per le scale. Aprì la porta con un sorriso che
voleva essere cordiale e che sapeva essere molto più simile a una
smorfia di paura degna di Shining.
“Ehilà,
Pi,” attaccò Fra’, impalato sul pianerottolo.
“Ciao,
quanto tempo,” replicò lei scherzosa, cercando di darsi un tono.
Le riuscì bene e ne fu soddisfatta, sicché raddrizzò le
spalle finora incassate con una certa baldanza mentre lui entrava in casa
incuriosito.
“Stefano
Landolfi,” scandì Fra’ di soprassalto, voltandosi a fissarla
sicuro.
Le
spalle di Giù si rattrappirono come tutta la sua persona, mentre
tratteneva a viva forza una contrazione terrorizzata del viso, sentendo le
guance ustionare in modo significativo. Inspirò a vuoto, rantolando.
Doveva fare ben pena, decise contrita.
Negare,
intimò un voce impersonale che sgorgava dal suo profondo inconscio, da
istinti radicatisi col passare dei secoli nella coscienza collettiva del suo
popolo. Negare sempre, negare tutto.
“Stefano
Landolfi cosa?” squittì ad ultrasuoni.
“Eh?”
fece Fra’, abbandonando per un attimo l’espressione saputa in
favore di uno sguardo perplesso.
“Ho
detto, Stef che?” gracchiò Giù,
rassegnata: la sua abile mossa disorientante non aveva funzionato, stranamente.
Francesco
si fece serio, aggrottò la fronte.
“Il
tuo colpo di fulmine. È lui,” affermò grave.
“N-no!” cinguettò Giù stridula, la pelle
color brace ardente. “Ma come ti salta in mente?”
“Come
a parte il colore della tua faccia, intendi?” ribatté lui,
condiscendente.
“L-la mia faccia non è affatto…”
iniziò lei piccata, portandosi la mano al viso. “Gesù, devo
avere quaranta di febbre,” commentò, stupida dalla temperatura
emanata dalla sua pelle.
“E’
veramente lui?” insistette Fra’, sovrastandola con la sua mole
elefantiaca.
“No!
No, certo che no!” esclamò Giù con foga, gesticolando per
farsi aria. “Non è assolutamente…cazzo, sì,”
bofonchiò, inchiodata dallo sguardo scettico di Fra’.
“Oh,
porca troia,” mugghiò lui, incupendosi.
Giù si afflosciò
sulla sedia più vicina, avvilita. Curiosamente le venne in mente che
avrebbe avuto proprio bisogno dei Daftpunk, in quel
momento.
O
di una calibro venti puntata alla tempia.
“Ma
non è grave!” esalò, cercando di sembrare rilassata e
risultando più simile a un condannato nel corridoio verde. “Mi sta
già passando,” mentì, spudorata.
“Come
no,” sfiatò Fra’ lugubre, abbandonando il casco a terra.
“L’altra sera quando ti ha presa per portarti a casa sembrava ti
avesse proposto un viaggio ai Tropici tutto pagato,” osservò
sedendosi a sua volta. Sospirò pesantemente, scrollando la testa.
“E ora che faccio?” borbottò esitante.
Giù
sgranò gli occhi, agghiacciata.
“In
che senso?” rantolò, sporgendosi in avanti tanto da rischiare di
cadere.
Fra’
spalancò le immense braccia, stizzito, evitando d’un soffio di
tirarle una manata.
“Dovrei
dirlo a Eva!” tuonò irritato, e a Giù si ghiacciò il
sangue nelle vene. “Sono il suo migliore amico, non posso fingere di non
sapere una cosa del genere! Però così tu…”
“Non
è necessario!” squittì Giù afferrando la sua mano,
con sguardo da invasata. “Io…mi sta già passando, Fra’,
e comunque non farei mai nulla, te lo giuro! Stef non
lo sa e mai lo saprà e io adoro Eva! Non sai quanto…non sai quanto
sono contenta di essere la sua vicina di banco,” terminò in uno
schietto, contrito pigolio.
Fra’
sbuffò rumorosamente, con l’impetuosa forza di una locomotiva, e
si grattò la testa con aria sconcertata.
“Che
cazzo, però. Quasi quasi era meglio se fosse
stato Galleani per davvero,” brontolò
cupo.
Giù
annuì compresa, senza particolare slancio. Dopo diciotto anni di
convivenza con se stessa non riusciva più a stupirsi particolarmente
della propria spiccata attitudine a tuffarsi in piscine di sterco fumante e
cacciare spontaneamente la testa sotto.
“Allora
non lo dirai ad Eva?” cinguettò con voce fremente.
Fra’
si accigliò ancora, distolse lo sguardo, inspirò a fondo e
scrollò le spalle.
“No.
Credo di no, per il momento.”
Giù
avvertì il proprio peso svanire e pensò che avrebbe levitato
verso il soffitto come un palloncino gonfiato ad elio. Commossa, fece per
rispondere profondendosi in marcati inchini e ringraziamenti celebrativi,
quando il suo cellulare squillò segnalando la ricezione di un messaggio.
“Scusa,”
bofonchiò perplessa. Qualcun altro voleva farle sapere che conosceva un
suo segreto, il KGB era sulle sue tracce?
Mi dispiace per prima, cazzo. Non so
mai bene come parlarne alle persone. Era
Stef.
“Giù,
perché sei diventata fucsia?” chiese Fra’, sospettoso.
Lei
prese fiato ripetutamente, si mordicchiò le labbra ed emise un rantolo rassegnato.
“Va
bene, è lui…ma non pensare male!”esclamò con
veemenza, vedendolo farsi arcigno. “Lui…lui vuole essere mio amico
e…e anche io. Cioè, è molto meglio di niente. Se riesco a
farmi passare questa cosa e vederlo innocentemente come…io credo sarebbe
una bella amicizia e…capisci, Fra’?” farfugliò
tremula.
“Ti
stai facendo delle illusioni, Giù. Se lui ti piace, come…?”
“Beh,
tanto non c’è alternativa!” ragliò lei, vagamente
isterica, tanto che Fra’, ancorché grosso il doppio di lei e
massiccio come un armadio a tre ante, si ritrasse leggermente. “Quindi ci
devo riuscire!”
Lui
scosse la testa sconsolato, con l’ennesimo sospirone.
“Okay.
Vedrò di darti una mano, va bene?”
E
Giù, in qualche inspiegabile modo, si sentì molto meglio. La sfiga
la perseguitava invariata, ma almeno non era più sola a fronteggiarla.
Prese
un lungo respiro incerto, lo guardò dritto negli occhi – Fra’
le restituì un’occhiata cauta in risposta – e facendosi
coraggio gli fece cenno di sedersi.
“Metto
su l’acqua per il tè,” bofonchiò nervosamente. “Intanto…senti,
Fra’, cos’è successo esattamente a Michele Landolfi?”
Lui
sgranò lievemente gli occhi preso in contropiede, storse il naso ed
affondò sulla sedia.