Il cuore deserto

di Kuri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 0. Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Nella polvere ***
Capitolo 3: *** 2. Nelle stelle ***



Capitolo 1
*** 0. Prologo ***


Storia scritta, dopo numerosi tentennamenti, per la IV Disfida de I Criticoni.
La disfida prevedeva la formazione di squadre alle quali era assegnato un prompt di gruppo e una serie di prompt individuali. Io faccio parte della squadra Alfa e il nostro prompt di gruppo era: "I grandi eroi, quelli che vengono ghermiti da me, dalla Gloria, non sono mai esseri imperfetti.", tratta da Knockin' Hills di Keiko. Il prompt individuale che mi sono scelta, invece, è stato Curvo/Dritto.
Vi do un unico avvertimento: questa volta ci sono andata giù pesante con i voli pindarici, ma era una storia che mi andava di raccontare. Se è stata così sfacciatamente OOC, il gudizio verrà presto espresso, ma io l'ho amata molto ugualmente!
ENJOY!!







0. Prologo


Credo che più fatale dell’inevitabile ci sia solo il compromesso che questo porta irrimediabilmente con sé.
Mediare tra il desiderio e ciò che il destino ha effettivamente deciso è un passo duro e ingrato, che i piedi si rifiuterebbero di fare se potessero esistere svincoli dalla ragione.
Molti chiamano questa cosa: diventare grandi.
Una vera tortura, insomma.
L'unica cosa che mi sento di dirti, Watanuki, è che se anche a te un giorno capitasse questa sorta di maledizione – e il suo avvento riesco a scorgerlo tra le pieghe dei tempi e dei mondi – cerca di non dimenticare tutti gli istanti della tua vita in cui hai riso con semplicità, in cui hai provato un genuino stupore, in cui l’unica cosa che ti era sufficiente conoscere era il tuo nome e quello delle persone che amavi.
La cosa peggiore di tutti i mondi è crescere e dimenticarsi di quello che si è stati, illudendosi di aver appena fatto una conquista.
Tra tutti gli insegnamenti che ti ho impartito, vorrei che questo fosse per te il più importante, anche se non mi hai mai sentito pronunciare queste parole.
Sono sicura tuttavia che tu abbia compreso.
E con questa certezza che molto spesso assume i contorni sfuocati della speranza, come una bolla che fluttua in un mare di nulla, posso concedermi un sospiro di sollievo.
Dura poco, è solo una sensazione che lotta con mille altri battiti di cuore, ma c’è, e questo basta a rendere tutto più sopportabile e i dolori più giustificabili. Ogni passo necessario alla crescita ti lascerà addosso queste sensazioni e saranno come bava fredda che imbratta le mani e copre la faccia.
Non importa.
Se la sconfitta è una possibilità, anche la vittoria e il trionfo lo sono. Finché ogni sforzo non si infrangerà contro la barriera dell’inevitabile, non credo che ci sia una vera giustificazione per potersi arrendere.
Ora sorrido, perché mi accorgo che le mie sono solo parole, lo sforzo didattico di una strega la cui potenza è ormai un monolite immobile che non è più in grado di cambiare i mondi. Il percorso si sta concludendo ed ormai è giunto il tempo che dalla mia strada diparta un altro sentiero.
Senza parole, so che tu riuscirai a trovare il modo.
Poi ti arrabbierai, mi dirai che sapevo tutto quello che stava per accadere e che non ho fatto nulla per impedirlo perché sono una donna orribile.
Ridacchio. È vero. Stare a guardarti è la cosa migliore che mi sia capitata da molto tempo a questa parte e, probabilmente, questo fa di me davvero una donna poco raccomandabile.
Perciò arrabbiati finché vuoi, scalcia, prenditela con Mokona, urla e agita quelle braccia lunghe da mantide. Lamentati, sbuffa, brontola come un vecchio bonzo bigotto e fai l'offeso.
E allora, quando tutto questo non sarà altro che un ricordo e il peso di nuove responsabilità ti graverà sulle spalle e io non sarò più lì con te, potrai sempre pescare dalla tua memoria frammenti di una vita passata che ti ha fatto stare bene.
Perché solo questo è importante: un buon bicchiere di sakè, la pipa sempre piena, amici fidati e nessun rimpianto quando gli occhi si volgono indietro.
E sono sicura che tu farai molto meglio di quanto sia riuscita a fare io.

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Capitolo 2
*** 1. Nella polvere ***








1. Nella polvere


Visto da qui lo spazio sembra immobile,
come in attesa che accada qualcosa in più.[1]


Il silenzio strisciava in ogni angolo come un aroma esotico e sconosciuto.
Non credeva che la sua fosse paura.
Forse era molto più simile ad un profondo senso di desolazione, un'emozione languida che le scavava il vuoto nel petto con le dita e con le unghie.
Trovare il mondo deserto non era stato affatto semplice. Aveva frugato ogni angolo delle dimensioni per trovare un rifugio isolato e inarrivabile.
Pensava di esserci riuscita.
In quel mondo sembrava che un alito di morte fosse sceso su tutte le cose, lasciandole immobili e vuote. Non c'era il sussurro del vento, e non aveva mai sentito il frullo leggero delle ali degli uccelli.
Ogni cosa in quel luogo rifletteva la solitudine di un mondo abbandonato.
Ed era quello che lei voleva. Era solo una questione di volontà, non di desiderarlo davvero.
Abbassò lo sguardo sul palmo liscio delle proprie mani, perdendosi nel reticolo delle linee sottili che lo percorrevano, come un libro pronto per essere letto.
Quella era davvero la scelta migliore.
La desolazione, per quanto apparentemente dolorosa, le appariva come la scelta migliore per un esilio voluto.
Era sempre e solo una questione di volontà, non certo di desiderio.
Lei conosceva bene la consistenza dei desideri. Poteva essere soffice, umida, graffiante, ma non era mai arida come sabbia tra le dita. E lei, in quel momento, sentiva la bocca impastata di granellini fini ed insidiosi.
Silenzio, immoto come un'attesa.
Le rimaneva solo l'eco di stupore di un bisbiglio fangoso che le si era appiccicato addosso.
Strega.
Certo non c'era orrore nel modo in cui quelle parole erano state pronunciate – in un altro mondo, un tempo lontano dal cuore – ma un rispetto onesto e sincero. Il potere che le vibrava dentro era stato visto come un'opportunità di prestigio e onore.
Tutti sapevano che nonostante la giovane età sarebbe cresciuta come una donna forte e possente e ne erano felici, dotati della lungimiranza di un popolo saggio e sapiente.
Eppure lei aveva avvertito le dita dell'angoscia penetrarle le viscere, stringendo la loro consistenza umida in uno strattone doloroso.
Perché il suo modo di essere non era più una questione di volontà, ma solo di desiderio.
Le era sempre bastato allungare il collo in un moto di curiosità, nella spinta giocosa di non essere nulla più che una bambina, per buttare un'occhiatina nel cuore profondo di chi la circondava. Il quel luogo buio e umido, tra i filamenti della carne, riusciva a trovare la felicità trepida dei desideri, il loro veleno, tutto il mondo che si trascinavano dietro.
Era una ragazzina di indole allegra. Le piaceva indugiare nell'osservazione delle cose, avvicinando tanto gli occhi a quello che le interessava da sentire la testa girare come il fluire rapido del tempo. Non riusciva ad impedirsi di rovistare tra i desideri e di fare quello che poteva per esaudirli, di allungare una mano per dare un colpetto al destino.
Eppure, nel momento in cui aveva sentito quelle voci osannarla, aveva capito che c'era qualcosa che non andava. Un dettaglio le impediva di essere contagiata dalla felicità di quel mondo e del suo popolo.
Lo aveva capito solo qualche tempo dopo, in un modo così innocente e banale che avrebbe potuto anche non accorgersene.
Camminava lungo la strada accompagnata dai propri servitori. L'abito sontuoso da sacerdotessa le frusciava intorno alle gambe ad ogni passo come una musica e le monete d'oro che ornavano la gonna accompagnavano quella melodia con un vago tintinnio.
Erano passati accanto a delle rozze casupole, attorno alle quali pascolavano gruppi di animali ed erano disseminate rottami di ogni tipo. Lei aveva gettato un'occhiata in mezzo a quell'operosità confusionaria, tra le donne indaffarate che correvano con ceste ricolme di panni lavati e brocche d'acqua.
La figura sparuta della bambina aveva catturato la sua attenzione, ritagliata come una macchia di colore sbiadito in mezzo a tutto quel movimento laborioso. Aveva gli occhi immensi spalancati di meraviglia su un faccino schiacciato e sporco di polvere. Lei aveva incrociato quello sguardo adorante e aveva letto, con una spontaneità naturale, il suo desiderio.
Era qualcosa di piccolo e quasi scontato, qualcosa che lei aveva già sentito in passato, mille volte. E chiunque avrebbe potuto intuirlo con facilità, anche senza alcuna magia.
Si era scostata dalla piccola processione e le si era avvicinata, mentre il corpo della bimba veniva scosso da un tremito di timore. Poi si era tolta la sottile stola di seta bianca che faceva parte dei suoi paramenti sacri, lasciando che i capelli scuri le scivolassero lungo la spalla mescolandosi al biancore della stoffa, e glielo aveva porto, adagiato a cavallo del palmo della mano.
«Prendilo. So che lo desideri.»
La bambina aveva indugiato per un attimo sul velo, poi aveva alzato uno sguardo di sconforto su di lei.
«Avanti, cosa aspetti? So che lo vuoi.»
Aveva visto le ciglia della piccola imperlarsi di lacrime, mentre la manina le risaliva lungo il povero vestito e se lo stringeva al petto.
Lei aveva osservato quel gesto apparentemente insignificante. Inclinando appena la testa sopra la spalla, mentre i capelli di notte le scivolavano sul vestito con un fruscio soffice, aveva guardato quelle dita rosee e paffute serrarsi all'altezza del cuore e un dolore, vivido e risentito, deformare l'espressione della ragazzina.
Aveva sbattuto le palpebre, perplessa e incuriosita. Le sembrava quasi che quella mano cercasse di schermare il cuore dalla sua attenzione involontaria, da quel potere tanto profondo e predatore.
Entrambe conoscevano la vanità di quel desiderio. La bambina non sarebbe mai potuta diventare una sacerdotessa, e dare alla sua famiglia l'agiatezza e il prestigio sociale che questo avrebbe comportato. Non aveva alcun potere, neppure la più piccola scintilla di magia. Era una ragazzina qualsiasi al centro di un'esistenza insignificante.
Un rossore violento aveva imporporato le guance della bambina, quasi un moto di vergogna per quel desiderio tanto sciocco e per essersi permessa di pensarlo, quasi quelle considerazioni fossero arrivate chiare alla sua mente. Era stato stupido volerlo, ancora più insensato permettere che la strega se ne accorgesse e le facesse la carità in quel modo.
Lei si era ritratta, tornando a stringere la stola nel palmo della mano. Non si sentiva ferita da quel comportamento, ma comprendeva la gravità che si nascondeva sotto la superficie del suo faccino imbronciato. Nel mondo in cui le sembrava di aver vissuto fino a quel momento, il suo potere si era inserito come un artiglio in una ferita aperta.
Il giorno dopo se n'era andata.
Non aveva portato nulla con sé, sebbene fosse circondata da oggetti preziosi, da abiti creati appositamente per lei, da animali di compagnia e servitori. Non c'era nulla che potesse rappresentare un ricordo o uno struggimento.
Nel suo cuore non c'era tristezza. La fragilità di ogni più piccolo essere umano le si era presentata di fronte come la traccia inevitabile di ogni loro azione e sentire, ed era una bava mucosa che condannava i loro gesti a rimanere invischiati nel nulla.
Non era stato semplice trovare il mondo deserto.
Aveva dovuto attraversare molte strade e conoscere persone incatenate come lo era stata lei. A volte era un corpo morto e una voce crudele nella testa, altre volte una gabbia all'interno della quale poter solo cantare tristemente sognando le fate. In altri casi era un amore tanto forte da avere i contorni di un odio orlato di sangue e petali di ciliegio, altri ancora era un cuore che ne conteneva un altro e che desiderava disperatamente non sentirsi inutile.
La vista di quelle esistenze le era parsa intollerabile e un disgusto sottile le si era insinuato nell'animo. Non avrebbe mai permesso al proprio potere di governare le sue azioni, trasformandola in un riflesso maligno e osceno. Sapeva che il seme di quella oscurità si trovava dentro di lei, lo sentiva pulsare piano quando tutto, intorno, era silenzio. Era nulla più che un sussurro, un alito freddo tra i capelli.
E la solitudine era parsa la soluzione migliore. Immergersi in una dimensione senza respiri, senza aneliti.
Nel mondo deserto tutto sembrava senza vita e perciò non le sarebbe stato possibile ferire le sue creature. Anche le piante, pur non avendo la consistenza putrida della morte ma ampie aperture smeraldine, erano vuote.
Era così tanto tempo che non avvertiva un desiderio, fuori o dentro di sé, che poteva quasi pensare di averne dimenticato la forma, quell'alone sinuoso e morbido come le spire di un serpente.
Dal castello di macerie in cui viveva non si vedeva neppure il cielo. Le piante erano così alte che invadevano l'aria di un'ombra vibrante.
Era sola al centro di un nulla immenso.
Non un suono, né musica nell'aria. Non esistevano animali e non soffiava il vento.
I suoi abiti non facevano rumore e i suoi gioielli non tintinnavano.
Un'attesa sospesa la avvolgeva.
Quando poi lo sentì, si chiese se non fosse stato il suo cuore ad essere così ricolmo di desiderio da volere follemente anche solo un piccolo suono.
Il fruscio era stato impercettibile ma il ghigno sommesso, quello lo aveva avvertito benissimo.
Nulla più che una risatina dispettosa, come il graffiare di due pietre tra di loro.
Alzò lentamente gli occhi dalla contemplazione annoiata delle trame del proprio vestito consunto e li puntò nella foresta.
Nient'altro che un verde umido e profondo.
Poi un fremito improvviso delle foglie la colse di sorpresa, bloccandole il respiro sommesso.
Forse era una semplice illusione. Era consapevole di quanto fosse semplice ingannare la mente e sapeva di non potersi sentire esclusa da quel genere di debolezza. Respirava come ogni altro essere vivente. La fragilità era quindi un male inevitabile.
Distolse lo sguardo da quell'angolo scuro di felci ombrose. Era decisa a non cedere alla menzogna della propria solitudine.
Ancora un fruscio e la risatina maliziosa.
La curiosità accesa in lei la costrinse a volgere di nuovo il viso in quella direzione.
Due occhi gialli e tondi la fissavano quasi con sfida, mentre la bocca irta di denti candidi e aguzzi sogghignava in una smorfia di dispetto.
Non aveva mai visto una creatura simile. Non tanto per l'aspetto buffo e il piccolo corpo peloso che appariva sgraziato mentre dondolava sulle zampe posteriori. Era la magia che irradiava nell'aria ogni volta che i suoi baffi avevano un fremito.
Era rimasta così a lungo lontana dalla vita, nel mondo deserto, che quella vitalità improvvisa l'aveva sedotta quasi fosse stata la prima volta che assisteva a un prodigio.
Si mosse ancora prima che potesse avvertire coscientemente il desiderio. I piedi scalzi fecero un passo davanti all'altro, sporcandosi della povere impalpabile che ricopriva ogni cosa nel mondo deserto. Avvertì che la creatura seguiva con attenzione e intelligenza ogni suo movimento, mentre le pupille oblunghe si muovevano sullo sfondo giallo delle iridi immense.
Quando si trovò a poco meno di una decina di passi da lei, l'essere ebbe un guizzo repentino e scomparve nel folto delle piante dimenando le sue due lunghe code.
Lei allungò una mano per scostare le foglie ampie mentre i passi affondavano nella terra tenera. In fondo all'oscurità di quel buco umido sentiva la risata dell'animale invitarla a oltrepassare la soglia. Proseguì, lasciando che la tenda del fogliame si richiudesse dietro di lei sommergendola di tenebre.
Non c'erano dubbi su dove quel cammino l'avrebbe portata. Quando sentì la morsa stringerle le viscere, capì dove stava andando.
Un altro mondo e un'altra incapacità di comprendere.
Era inevitabile.

Crateri che io non avevo visto mai
dove si annidano i demoni e gli angeli.


***


Oggi io e te siamo comete instabili,
luci intrecciate che fendono l'oscurità.


Appena la vide, credette che un altro animale fosse riuscito ad intrufolarsi nel giardino della grande casa immersa nella quiete, attratto fin lì dal profumo dei fiori o dal silenzio tranquillo.
Eppure quegli occhi rossi, che lo fissavano quasi fosse stato lui l'intruso, non gli lasciarono alcun dubbio. Forse era una creatura selvatica, ma quella forza indomita era chiusa nell'aspro corpo di una ragazzina vestita di un abito stracciato e impolverato, che un tempo doveva essere stato di una sontuosità superba.
Le sorrise, socchiudendo i piccoli occhi scuri. Lei sembrò non avvedersi di quella smorfia gentile e rimase immobile osservandolo con lieve curiosità, per nulla spaventata.
«Ti sei persa?»
Prima che lei potesse rispondere, i loro sguardi vennero attratti da un rumore sordo. Lui poté vedere un grosso gatto a due code balzare fuori dall'erba alta per arrampicarsi su uno degli alberi adombrati dalla luce viola del crepuscolo.
L'uomo si lasciò sfuggire una risatina sommessa.
«Ah, è stato il nekomata [2] a portarti qui. Ultimamente sta recuperando ogni genere di oggetto dai posti più impensabili.» scosse la testa, sollevando gli occhialini sul naso con una spinta del dito affusolato «Devi perdonarlo. È un gran dispettoso, ma non fa del male quasi a nessuno.»
Lei non si mosse, rimanendo a fissare il gatto che si leccava pigramente una zampa, ma sulle sue labbra fini comparve un sorriso mesto, che destò in lui curiosità.
«È davvero riuscito a raggiungere un posto impensabile.» la vide raccogliere tra le mani la gonna dell'abito e avanzare fendendo l'erba del giardino verso di lui, che era rimasto immobile per tutto il tempo sotto la pergola che circondava l'esterno della casa.
Fu in quel momento che comprese la portata del suo potere e della sua unicità. Non nella semplice prospettiva che lei fosse dotata di capacità speciali e straordinarie, o di bellezza e intelligenza sopra la norma.
Lei era unica, e questo non era un vago accessorio del suo essere, ma la sua stessa essenza. In ogni mondo, in ogni piega che il tempo e lo spazio ricamavano avvolgendosi l'uno sull'altro, lei non avrebbe mai potuto trovare un altro viso su cui riflettere la propria sorte o l'illusione di un destino diverso. E così anche lui.
Quando gli fu accanto, lui abbassò lo sguardo scuro sul sorriso che lei gli rivolgeva.
«Se hai difficoltà a tornare indietro, spero di poterti dare una mano a ritrovare la strada di casa.»
Si sentì sciocco per aver avuto bisogno di riempire il silenzio con una frase tanto vuota.
«Se non ti dispiace vorrei rimanere qui ancora un po'. È molto tempo che non vedo un cielo così bello.» lo aveva raggiungo sotto il riparo fresco delle canne di bambù della tettoia, e aveva posato le mani candide sulla ringhiera per potersi sporgere con un gesto infantile verso il giardino. I suoi piedi nudi sbucarono dall'orlo della gonna e lui sentì il respiro che gli si bloccava per l'imbarazzo.
Il suo non era un problema con le donne.
Nei decenni che erano scivolati tra le sue dita come acqua, aveva conosciuto numerose principesse, veggenti potenti, algide sacerdotesse. Sebbene alcune di loro fossero molto potenti, non si era mai sentito sopraffatto dai loro sguardi o dalle parole taglienti. Riusciva a capire bene, fin dal primo sguardo, quando fragile fosse la maschera che calzavano sul viso per sostenere il peso di tanta forza. Era arrivato al punto di credere che la bellezza e l'intelligenza, nel corpo di una donna, fossero un male incalcolabile.
E ora arrossiva per due piedi impolverati che scalciavano una veste morbida mentre lei, la ragazzina dagli occhi fulvi, si protendeva a guardare il cielo indaco punteggiato di stelle.
Lei rivolse la testa verso l'alto e i capelli scuri le scivolarono sulla spalla mescolandosi alla notte.
«Perché sei venuta fino a qui?»
Lei non diede segno di averlo sentito. Sorrise mentre guardava il cielo e lui vide la luce pallida delle stelle scintillare lungo il suo profilo sottile.
«Lo hai detto tu. È stato lui a portarmi qui.» rispose accennando al nekomata che li osservava ancora dal buio fitto del giardino.
Lui indietreggiò di un passo. Rimase impettito sotto il peso dell'imponente veste sacerdotale di seta in attesa che lei parlasse ancora.
«Ero sola.» lei si voltò di scatto e si appoggiò con la spalla ad una delle colonnine scolpite del pergolato. Ripiegò il braccio sul ventre e lasciò che la mano cadesse abbandonata verso il basso, con le dita inermi come frammenti di giada «Le persone come noi a volte soffrono la solitudine, non trovi?»
Lui abbassò lo sguardo.
Non aveva alcun dubbio che anche lei avesse compreso tutto fin dal primo momento e questo lo fece sentire inaspettatamente sollevato.
Capì che stava camminando dal lieve tintinnio che le frange del suo vestito dorato spandevano tutto intorno. Rialzò la testa e vide il corpo di lei che si muoveva lungo il portico con la consistenza vana di una bava di fumo, ondeggiando come in una danza. Malgrado la magrezza e l'acerbità del fisico, poté intuire le tracce di un impulso controllato a fatica, stordente come un profumo velenoso.
La vide avvicinarsi alla grande gabbia d'argento che dondolava piano nel buio, in un angolo del portico affacciato al giardino. Lei allungò la mano e indugiò a lungo accarezzando le sbarre insolitamente sottili e fitte, che alla fine si contorcevano in riccioli fini.
Lei inclinò la testa sulla spalla.
«Non è giusto che stiano qui dentro. Sono così belle.»
Lui avanzò di alcuni passi, sempre rigido sotto il peso dei paramenti da mago. Lei lo guardava, intensa e bellissima, e lui desiderò allungare le dita per sfiorarle il mento appuntito. Contrasse la mano all'interno della manica, colpito da quel battito forte, dallo scarto del proprio cuore da anni di immota tranquillità. Lo scorrere del tempo gli era sempre parso come una corrente lenta destinata a fluire sotto la superficie. Ora quelle mani stavano rimescolando tutto ciò che doveva essere fermo e silenzioso, e portavano alle sue orecchie lo sciabordio del cambiamento.
Lei parve scorgere i suoi pensieri. Si accigliò, mentre le sopracciglia si piegavano in una curva dubbiosa.
«Ti sbagli, io non sono come loro.»
La sua risposta era stata brusca, come se quel reciproco osservarsi fosse stato un'indiscrezione insostenibile.
«Sono belle e sono infinitamente fragili, potrebbero morire da un momento all'altro. È per questo che le persone le amano tanto.»
Lui scosse la testa.
«Credi davvero che siano così fragili, dopo che hanno avuto il coraggio di perdere la loro pelle, digrignando i denti per la sofferenza, per diventare quello che sono ora?»
Lui sorrise con indulgenza nel vedere il turbamento di lei risentito di tanta sincerità.
Sollevò la mano verso il suo viso. Poi, con uno scatto improvviso delle dita, spalancò la porticina della gabbia alle sue spalle. Per un attimo sembrò che non dovesse accadere nulla nel silenzio più totale.
Un frullio sommesso riempì l'aria. Lei si scostò di lato, radunando la gonna con le mani, quasi si apprestasse ad un meraviglioso inchino.
Le farfalle nere invasero lo spazio intorno a loro riversandosi fuori dalla gabbia. Le videro turbinare come una densa voluta di fumo, spandendo nell'aria la melodia dei battiti delle loro ali. Le vide danzare intorno a lei come impazzite, sfiorarle la pelle nuda delle braccia, e poi sparire rapide, inghiottite dai buio.
Lui chiuse le mani serrando i pugni, mentre la osservava alzare il viso con un ansito stupito, quasi desiderasse rincorrere tutti quei piccoli animaletti tra l'erba del prato. Sapeva che se avesse allungato le dita per sfiorarla, sebbene lo desiderasse con una forza sconosciuta, avrebbe rischiato di sporcare il pallido luccicore che vedeva sulle sue ali, togliendole la capacità di volare.
Non gli restava che una gabbia, un sottile reticolo di nodi per catturare la prima cosa davvero meravigliosa che avesse mai visto.
«Io mi chiamo Clow.» lei alzò il viso e lo fissò «Qual è il tuo nome?»
Lei non rispose. Si morse il labbro inferiore, sbattendo le palpebre in preda ad un'indecisione nervosa.
Lui comprese che lei aveva sepolto il proprio nome in un luogo in cui nessuno avrebbe potuto trovarlo, per non risvegliare tanto doloroso potere.
Clow socchiuse le labbra in un sorriso. Il primo nodo era intessuto, un laccio sottile fatto di una magia oscura e primigenia, una forza capace di legare un cuore, una mente, un corpo e un destino.
«Allora ti chiamerò Yūko, perché sei unica e sei la prima persona ad essere arrivata fino a qui. Mi sembra un nome molto grazioso, non credi?» [3]

Le tue braccia io riscalderò
Finché avrò fiato
Io soffierò via le tue nuvole.


Tra tempeste ed eclissi,
Le galassie e i riflussi,
Tra deserti e ghiacciai
Il mio sole, il mio sole, il mio sole
Sarai.












[1] Corpo Celeste, bonus track del disco L'Eclissi dei Subsonica.
[2] Nekomata, creatura della mitologia giapponese dalla forma di un gatto con due code e con la capacità di camminare sulle zampe posteriori.
[3] Yūko. Wikipedia disse, significa “prima figlia” e mi sembrava una buona soluzione.

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Capitolo 3
*** 2. Nelle stelle ***








2. Nelle stelle


E sono qui a immaginare anche per noi
Un tempo sospeso
Un frammento di eternità.


Gli fu sufficiente seguire il vago sentore del tabacco e il lento contorcersi della scia del fumo per sapere dove Yūko si fosse appartata all'interno dell'ampia casa di legno.
La trovò in un angolo della grande sala da tè, affondata in una pila di morbidi cuscini che aveva ammassato alla rinfusa, creando un tappeto dai colori sgargianti che accarezzava con un gesto distratto. Il contatto con la stoffa sembrava darle un certo piacere, come se riuscisse a sfiorare il segreto principio creatore con cui si intrecciavano la trama e l'ordito in un disegno eterno, e che era in realtà infinitamente piccolo.
«Non dovresti fumare qui dentro. L'odore del fumo rovinerà l'aroma del tè.»
Clow non impedì alla propria voce di sfuggire con un sospiro di controllata esasperazione.
Lei sollevò gli occhi rossi e per un istante Clow ebbe la sensazione che Yūko non lo avesse neppure sentito.
Osservò con attenzione la donna che aveva di fronte e che si portava la pipa alla bocca con un gesto automatico.
Anche se il tempo non aveva più significato, si era trovato stupito di fronte alla metamorfosi avvenuta su quel corpo e in quella mente, un processo irreversibile che l'aveva vista rinascere, come se prima di allora non ci fosse stato nulla.
All'inizio non era stato semplice gestire i passaggi di Yūko tra la sua casa e il mondo deserto. La ragazzina sembrava possedere uno spiccato senso dell'inopportunità, un potere in grado di insinuare una lama di disagio anche in un mago esperto come lui. Alla curiosità si era presto unita un'incredulità esasperata per tanta vivacità. Clow se la ritrovava di fianco nei momenti più impensati, intenta ad osservare quello che stava facendo con attenzione, mentre gli occhi rossi catturavano ogni dettaglio con avidità.
Le conversazioni che erano successivamente scaturite erano state fonte di una vera sorpresa, malgrado avesse subito afferrato che non sarebbe potuto essere altrimenti. Non poteva aspettarsi che intelligenza da quella mente brillante, un'acutezza che aumentava con la magia e con la crescita della sua anima. Non poteva che sentirsi ammaliato come un bambino dalle parole profonde che uscivano da labbra rosa come petali, accompagnate dal velluto scuro della sua voce.
Aveva realizzato la forza di Yūko in un momento come quelli, mentre discutevano con vivacità abbandonati su ottomane damascate, circondati dall'abbraccio insinuante dell'incenso.
La sua voce era un'ipnosi, un'onda soffice e inesorabile.
Sembrava scivolare placida sulle forme dolci del suo corpo, coperto dalle pieghe di seta di un kimono, un abito che l'aveva conquistata fin da subito, trovato per caso in uno dei tanti vecchi bauli che affollavano la casa.
Clow la fissò, immobile e silenziosa come una statua.
Tra i suoi capelli luccicava un piccolo fermaglio a forma di farfalla. Da quando le aveva disperse intorno a lei, in quella prima sera trascorsa insieme, Yūko sembrava essere stata divorata dal desiderio di catturarne quante più possibile.
«Cosa ti turba?» le chiese infine con delicatezza. Tra di loro c'era sempre quel contrasto di toni, ora aspri, ora gelidi, ora gentili.
«Non riesco a capire. Sono ancora ossessionata dalle parole di quella creatura. Non trovo pace.»
Aveva pensato che si sarebbe rivolta a lui come sempre, mormorando mezze parole oscure, scavandolo con lo sguardo spietato e inesorabile, come era solita fare quando si divertiva a tormentarlo. Invece si era lasciata sfuggire quell'esclamazione angosciata, densa di vuoto e di paura.
«Sei ancora giovane. Arriverà il giorno in cui capirai le sue parole.»
Yūko sporse le labbra in una smorfia di incertezza. Non riusciva a trovare una ragione in quello che le stava dicendo Clow. Se anche la sua mente comprendeva la veridicità di quella frase con la disponibilità di una discepola obbediente, il suo cuore sussultava, incapace di crederci.
Molte delle cose che aveva appreso sulla magia le doveva a Clow Reed, un mago potente che era vissuto a lungo prima che lei nascesse in un mondo lontano.
Appena lo aveva visto, le era stato chiaro che in lui avrebbe potuto trovare tutte le risposte di un potere che continuava a ferire chi la circondava e che l'aveva condannata ad una solitudine amara.
Invece le domande si erano accresciute ancora di più.
Le loro magie collidevano con uno stridore insopportabile. Mentre una passava attraverso la mente come un raggio luminoso, diretto e scintillante, l'altra si avvolgeva intorno al cuore, insinuante e lenta, fino a stritolarlo.
Poi era arrivata la polpettina bianca, con le sue parole. E la confusione era cresciuta a tal punto che si era sentita soffocare come sotto l'influsso di una droga stordente.
La richiesta di Clow di visitare con lei il mondo deserto, il luogo nel quale si era esiliata per troppo tempo, l'aveva riempita di profondo stupore.
Non era riuscita a capire perché glielo avesse chiesto. Con il passare le tempo le era diventato sempre più difficile capire cosa si agitasse sotto gli stati di seta con cui lui si copriva, come se quella sepoltura sotto chili di stoffe rigide potesse conferire al proprio essere maggiore forza. In principio era stato come giocare con un passerotto stordito dall'arrivo dell'inverno. Il controllo di Clow rimaneva confinato tra i tratti del viso mentre il cuore gli sussultava nel petto a ogni minima provocazione, a ogni atto sconsiderato di quella ragazzina terribile. Ma poi per Yūko era diventato sempre più complicato mettersi in sintonia con il trotto silenzioso di quei battiti finché un giorno, inevitabilmente, aveva capito di non riuscire più ad udirlo. Clow l'aveva esclusa da quel giochino malizioso e crudele, confinandola ancora in un angolo con la sua superiorità.
Yūko non si era sentita offesa per questo.
Solo, indefinitamente triste.
Tra loro non potevano esserci parole, perché il loro incanto avrebbe potuto scatenare in ogni momento una magia che li avrebbe devastati, e Yūko si era aggrappata a quei vaghi tremori per avere un unico e pallido segnale di tutte quelle frasi che non avevano mai avuto il coraggio di dirsi e neppure di confessare a se stessi.
Lui le aveva tolto quella possibilità, mantenendo sul viso una maschera di cortese gentilezza, fisso nelle proprie posizioni corrette e giuste.
Le aveva chiesto con gentile indifferenza di vedere il mondo deserto, e lei non riusciva a leggere negli occhi scuri anche solo un piccolo perché.
Aveva invece aperto il varco con solerzia, con un semplice gesto della mano, un ricamo che aveva tracciato una scia sinuosa e densa, e il sapore dolciastro dell'aria immobile le aveva accarezzato il viso.
Aveva colto immediatamente una presenza estranea e vibrante, viva, e con lei anche Clow che ne aveva avvertito la magia fluente e immensa, tanto forte da essere a malapena sopportabile.
Avevano trovato il piccolo animaletto candido tra le rovine bianche come ossa, tanto che era stato difficile distinguere la massa ondeggiante di pelo dai grandi lastroni squadrati.
Non si erano lasciati ingannare dal suo aspetto innocuo. La pietra rossa che brillava al centro della sua fronte lanciava bagliori sinistri sotto la luce soffusa del mondo deserto.
Yūko aveva indietreggiato istintivamente, appena era riuscita a leggere l'intento che si nascondeva sotto le lunghe orecchie pelose. Aveva chiuso gli occhi truccati e si era calata le mani ai lati della testa, quasi un urlo disumano le stesse perforando i timpani.
«No... non puoi fare una cosa simile...»
Lo aveva rantolato tra i denti stretti e Clow era rimasto turbato dalla smorfia che le distorceva il viso e che aveva sostituito il consueto sorrisetto. Non aveva avuto il coraggio di allungare una mano per sorreggerla, per liberarla da quel peso che sembrava costringerla contro la polvere sottile.
L'animaletto si era voltato verso di lei e malgrado gli occhi chiusi sembrava vederla davvero, sofferente e piegata, con i capelli che le si allargavano intorno come bave d'inchiostro.
«Non puoi fare una cosa simile, ti prego...»
Yūko aveva preso a singhiozzare, e le sue lacrime cadevano sulla pietra in una pozza sottile, dai contorni cristallini.
Perchè non dovrei, giovane strega? Perchè non dovrei creare un mondo perfetto dove per quelli come voi non ci sarà più sofferenza?
Il petto di Yūko non riusciva a smettere di tremare, sotto il sussulto del pianto. Aveva scosso la testa e Clow aveva intravisto dietro allo schermo dei capelli incollati alla faccia il visino spaurito e fiero di quella ragazzina che aveva interrotto la sua meditazione molto tempo prima, e non della giovane donna che lo provocava e che si ubriacava di liquore senza ritegno.
Era arretrato di fronte a quel dolore, incapace di comprenderlo e di vederne i confini.
Le parole che la creaturina aveva diretto alle loro menti gli riecheggiavano ancora tra le pareti del cranio.
La sofferenza, quella che Yūko nascondeva tra la seta, nelle spire pigre del fumo, nel fondo di una tazzina di ceramica.
«Perché il dolore non potrà finire in questo modo, non caricando tanta responsabilità sulle spalle di una sola, fragile persona. Non saprà più qual è il suo scopo, e impazzirà. Ti prego, non farlo...»
Il destino ha già deciso, e tanta ostinazione non potrà mai provocare un cambiamento tale da determinare un esito diverso.
Clow aveva visto Yūko contorcersi in uno spasmo che le aveva teso ogni fibra del corpo, accartocciandole la pelle sui muscoli tesi e aveva sentito il suo urlo spaccare l'aria densa di quel mondo.
«Mokona, è così che vi chiamate, vero?» aveva parlato con calma, come se non stesse accadendo nulla «Sarete il dio di questo mondo, ma non serve che prendiate la ragazza. Andremo via di qui subito.»
La polpettina bianca era parsa soppesare la proposta per un attimo, nell'imperscrutabilità della propria espressione, poi il corpo di Yūko aveva avuto un crollo rimanendo immobile, mentre lei si sforzava di respirare nuovamente attraverso i denti serrati.
Clow l'aveva portata via, prima che la terra franasse sotto i loro piedi, per lasciare spazio ad un mondo diverso, un mondo dove non ci sarebbe dovuto essere spazio alcuno per il dolore di tutti ma per quello di uno solo. [4]
Yūko scosse la testa, scacciando quei ricordi dalla propria mente. Si alzò piano, mentre il corpo le si snodava tra la stoffa con lenta voluttà.
Clow si scostò di lato per lasciarla passare, mentre lei incedeva in silenzio verso il giardino. La vide posare le mani sullo steccato, sporgere il viso verso il cielo mentre le dita viola del tramonto l'invadevano, accendendo le prime stelle.
«Non riuscirai a trovare lì una risposta, semplicemente perché non c'è. Lo sai anche tu che il destino è irrevocabile.» Clow non aveva dato alcuna inflessione alla propria voce. Solo la traccia dell'inevitabilità.
Yūko scosse la testa. I capelli le scivolarono di lato, lasciando scoperta la guancia e la linea delicata dell'orecchio. Clow riusciva a vedere la pelle sottile percorsa dalle vene azzurrine, e la lanugine fine dei capelli scuri.
«Eppure ci deve essere un modo per non sentire il dolore.»
«Non è possibile, Yūko.»
Il corpo di lei rimase immobile, non si voltò a osservarlo mentre le diceva una bugia.
«Perciò credi che fuggire sia sempre la soluzione preferibile, Clow? Scomparire per non dare il tempo al destino di prenderci?»
Clow si irrigidì, incapace di respirare. Aveva sepolto quella verità in profondità nella propria mente, certa che lei non sarebbe mai riuscita a percepirla. Credeva di avere eretto barriere solide e incantesimi efficaci per isolare sé stesso dal potere di Yūko, e non riuscì a reagire alle sue parole.
Lei si voltò. Il suo viso aveva un'espressione terribile, come se una maschera arcana le si fosse posata sulla pelle. Quella bellezza crudele la pervadeva tutta, facendo fondere l'aria intorno a lei.
«Speravi che non riuscissi a sentirlo, Clow? Credevi che le stelle non mi avrebbero portato da te, a quello che stai sentendo, all'unica verità che conta davvero?»
Lui non ebbe il coraggio di parlare. Sollevò il volto in un gesto di sfida.
«Hai infranto ogni tabù, Clow. Hai letto il tuo stesso futuro, per cosa? Per illuderti di poterne sfuggire? Le stesse sagge parole che rivolgi a me, non sai nemmeno pronunciarle al cospetto di te stesso!» la voce di Yūko aveva preso un'eco dura e affilata.
«Ho letto il futuro dei miei discendenti, Yūko.»
«Il tuo sangue! Credi che le stelle siano così stupide da risparmiarti per un'inezia simile, per una sciocca finezza formale?» allungò un braccio, puntandogli contro un dito, un gesto accusatore che aveva scatenato un fragore nell'aria intorno a loro. Il potere di Yūko non aveva la forza per fargli del male, ma per un istante Clow aveva sentito la propria certezza cedere sotto la verità che, impietosa ed inesorabile, lei gli stava svolgendo di fronte.
«In ogni caso è inutile, Yūko. Il futuro è tracciato e non potremo in nessun caso invertire la sua rotta. Qualsiasi decisione possa compiere ora, io e i miei discendenti saremo destinati al dolore. Sia i ragazzini che troveranno le carte [5], sia i miei figli.[6]»
Clow non riuscì a sostenere il peso che quegli occhi fulvi gli stavano scaricando addosso senza pietà. Non abbassò i suoi, non poteva farlo. Ma le voltò lentamente le spalle dritte, lasciandosi inghiottire dal buio della casa vuota, e lasciò Yūko nella luce ardente del tramonto, con in mano i frammenti del proprio cuore infranto.

***


La grande casa sembrava disabitata.
Da molto tempo sembrava che nessuno la vivesse più, e in ogni stanza si respirava quell'aria un po' ferma tipica delle cose vecchie.
Clow non aveva idea di quanto tempo fosse passato dall'ultima volta in cui aveva visto Yūko. Più disorientante ancora era pensare all'espressione che le ricordava sul viso, la feroce onnipotenza che per un breve istante aveva scorto in lei.
Non credeva di averla sottovalutata, eppure quella determinazione era troppo anche per lui.
Aveva sfiorato il fondo limaccioso dell'anima di Yūko, l'angolo buio da dove veniva il suo potere ed ogni sua parola.
Aveva vissuto fino a quel momento nell'incrollabile certezza delle proprie idee. Aveva scorto un cammino dritto, teso come il lancio di un sasso verso l'orizzonte, e malgrado gli ostacoli di cui era stato fin da subito consapevole, aveva deciso di seguirlo perché gli sembrava la soluzione migliore. Aveva voluto fare le cose per bene, perché il suo prestigio non potesse essere messo in discussione per nessun motivo.
E poi era arrivata la piccola ragazzina indisponente dagli occhi ardenti e le movenze di una creaturina dispettosa e, senza pensarci troppo, lei aveva sconvolto ogni piano.
Non ne era mai stata consapevole, perché era troppo impegnata alla ricerca di una risposta solo per sè, ma Clow aveva visto gli ingranaggi del futuro mutare impercettibilmente, come se un click appena udibile avesse potuto sconvolgere il lento incedere del fato.
Come aveva potuto Yūko, con le mille domande, con le risate e gli scoppi di ilarità a sproposito, con quella sua vanesia gioia di vivere, sconvolgere tutto e lasciarlo da solo ad affrontare il cambiamento di prospettiva?
Clow si alzò dalla sedia intagliata di ebano scuro, l'unico mobile presente nella stanza. Fuori la luna disegnava le sagome degli alberi contro i pannelli di carta di riso. Il suo corpo era come sempre irrigidito dalla tensione che la presenza tacita di Yūko gli trasmetteva, anche se si trovava nella stanza accanto, o nel mondo vicino.
Ripensò all'ultima volta in cui Yūko l'aveva preso in giro per la sua postura impeccabile, mentre lei giocava serena con i fiori, addentrandosi nei grandi cespugli profumati del giardino.
Gli aveva detto che se si fosse ostinato a essere sempre così perfetto, prima o poi il destino sarebbe venuto a prenderselo e portarselo via, e lui non avrebbe fatto in tempo a fare le valigie, ad afferrare qualcosa da portare via con sé.
Fu quando risollevò il proprio sguardo che si accorse della sagoma che sulla carta sottile del pannello si era aggiunta a quelle degli alberi.
Allungò la mano e ne seguì i contorni leggeri e sinuosi come se davvero potesse essere possibile, per lui, sfiorare colei che si trovava dall'altra parte della barriera impalpabile.
Lasciò andare un sospiro e riabbassò il braccio, nascondendo la mano dentro la manica della tunica.
Aprì la porta scorrevole e trovò Yūko appoggiata allo steccato del porticato. Teneva un dito proteso verso una farfalla scura che le svolazzava delicatamente attorno e a Clow parve quasi di riuscire a scorgere il respiro più denso che le usciva dalle labbra socchiuse. Un'espressione serena le distendeva i tratti del volto, mentre un vago senso di pace sembrava spandersi intorno a lei.
La veste di un rosa violento e acceso cadeva verso il pavimento in onde soffuse, lasciandole scoperte le lunghe gambe. Sottili ricami neri disegnavano complicati arabeschi che le risalivano i fianchi e le abbracciavano il busto.
«Ho trovato la risposta che cercavo, Clow, ed era stata sempre sotto i miei occhi.» disse con voce mesta «Sei stato tu a mostrarmela, ma io non avevo ancora la prontezza necessaria per coglierla. Però non è troppo tardi.»
Si girò verso di lui e gli sorrise.
Clow rimase immobile. La sua espressione ferma e impassibile fece sollevare un sopracciglio a Yūko.
«Te ne stai andando?» si lasciò sfuggire in un sussurro, perché sapeva che se avesse parlato appena più forte lui avrebbe potuto sentire la sua voce rompersi.
Clow annuì, chiudendo le palpebre per non vederla. Sentì solo il fruscio del suo abito e il profumo fresco e sincero della sua pelle quando gli fu accanto.
«Me lo hai detto tu, Clow. Il destino è tracciato. Ma il bruco può decidere se affrontarlo strisciando o se farlo librandosi in volo.» lui aprì gli occhi e incontrò il suo volto sorridente «Abbiamo ancora la possibilità di una scelta, tu ed io.»
Clow rimase impietrito. Yūko era così vicina che il movimento del suo respiro le lambiva la frangetta. Dal suo corpo saliva un tepore lieve come una carezza, mentre i capelli scuri le ricadevano sulle spalle come lucidi nastri di seta.
Non indossava alcun gioiello, solo il leggero vestito rosa, eppure a Clow sembrò che tutto il suo essere brillasse di una preziosità misteriosa.
«Hai... ?»
Yūko scosse la testa.
«No, non ho letto il mio futuro, non ho avuto il tuo stesso coraggio. Ma ho trovato una veggente molto potente in questo mondo, in un paese chiamato Giappone. Le ho fatto visita, e lei mi ha svelato tutto quello che...» non riuscì a concludere la frase. L'implicazione di quelle parole era troppo forte, e pronunciarle avrebbe reso quell'incanto indissolubile.
«Immagino ti avrà parlato anche del ragazzo.»
Yūko annuì e Clow non riuscì a capire cosa significasse quella smorfietta incerta.
«Sì, me ne ha parlato. Sarà il solito secchione noioso a cui riesce bene tutto. Un tipo come te, insomma.» aveva concluso con una scrollata delle spalle lasciate nude dall'abito.
«Però mi hai rimproverato per aver letto il mio futuro. Questo vuol dire che non mi riesce proprio tutto bene.»
Yūko si fece seria, fissandolo con intensità.
«A volte può accadere, Clow. Solo, tu non riesci a capire che l'imperfezione non è un motivo di rammarico, ma l'unica base certa della vita degli esseri umani.»
Dal giardino intorno a loro non arrivava alcun suono, tranne un flebile frinire di cicale.
«Hai detto che avevi una risposta.»
Lei annuì, di nuovo sorridente, anche se tutta quella tristezza sembrava combattere contro l'inclinazione gioiosa delle labbra.
«Li aiuterò io, Clow. Diventerò forte e aiuterò tua figlia a non smarrirsi e i due ragazzini a non farsi vincere dal potere delle carte. La veggente mi ha detto che li troverò sulla mia strada, e sarebbe ridicolo per me volgere altrove lo sguardo. Anche perché la ragnatela del destino si sta allungando anche sul ragazzo...»
Yūko sentì l'aria afferrarle la gola come una morsa.
Non si illudeva che qualcosa potesse essere diverso, che in quel momento le parole potessero sgorgare tra di loro senza blocchi, scatenando forse la fine di tutti i mondo, ma facendoli sentire liberi da se stessi e dalla loro natura per una frazione di felicità.
«Ti serviranno un incantesimo e un sigillo, due oggetti che favoriscano e blocchino allo stesso tempo.» Clow abbassò gli occhi su di lei «Ti lascio da sola ad affrontare qualcosa di terribile.»
Lei sorrise, come se quella frase non avesse alcuna importanza, come se quel sola non avesse il potere di racchiudere tutta la sua vita in un frammento.
«Non rimarrò sola per sempre. Tra un po' arriverà il ragazzino, e poi non è detto che gli incantesimi e i sigilli debbano per forza restarsene zitti.»
Indietreggiò di un passo, allargando le mani. Aprì la bocca e dalle sue labbra iniziarono a cadere le parole di una magia triste, quasi un lamento di addio.
Clow chiuse gli occhi. Sorrise appena mentre automaticamente si univa a quella nenia impastata. Pronunciò le parole con lentezza, come se fossero le ultime che potesse donarle.
Le aveva insegnato lui quell'incantesimo.
Ogni respiro tra un moto e l'altro, ogni intonazione, lei lo aveva appreso dalla sua voce.
L'aria si fece brillante tra di loro, risplendente di scintille fragili come fiocchi.
Dalla luce presero forma due piccole sagome tonde, a cui andavano spuntando orecchie lunghe e paffute code pelose. Quando sentì il tintinnare del metallo, Clow aprì di nuovo gli occhi. Due gemme colorate brillavano al centro della fronte e all'orecchio di due creaturine addormentate che assomigliavano a quella che avevano incontrato nel mondo deserto, il creatore di un nuovo mondo.
Clow osservò Yūko mentre si chinava per stringerseli al petto, affondando appena il viso nelle loro pellicce calde e soffici, quasi riuscisse a respirare un profumo in grado di darle un po' di tepore e un labile conforto.
Indietreggiò ancora.
Finalmente lei incrociò gli occhi con i suoi. Forse aveva sperato di scorgerci la traccia di una commozione. Avrebbe potuto portare con sé il senso di colpa per un sentimento che non aveva un nome a causa della sua cura nel reprimerlo.
Invece, in fondo alle iridi sanguigne, trovò fierezza. Orgoglio. Coraggio.
«Vai.»
Un sussurro esalato mentre affondava il viso nei corpi morbidi delle due polpettine, il suo personale scherzo al destino su cui Clow non aveva avuto alcun potere.
«Non mi guarderò indietro. Terrò sempre lo sguardo fisso sul domani. E anche se il tempo o lo spazio contorcendosi mi riportassero di fronte la tua faccia, non avrò rimpianti e guarderò oltre. Addio Clow.»
La figura del mago si fece sfuocata, come se delle dita dispettose si stessero divertendo a sciogliere il colore con cui era fatto il suo corpo e le vesti che lo coprivano.
Rimase ancora per un istante tremolante, un'immagine sorridente di dolcezza. Poi il buio della notte sembrò gonfiarsi e in un balzo lo ingoiò.
Yūko si voltò verso il giardino. Era tutto silenzioso e immobile, come se la casa si fosse assopita in attesa del ritorno del proprio padrone. Tuttavia, in lontananza, giungeva una vaga melodia, come un suono di campanelli soffocati dalla nebbia.
Oltre lo steccato si estendeva un mondo vivo, denso di persone e desideri, di sofferenze e di angosce nascoste dietro sorrisi. Anche se qualcosa fosse morto, altro avrebbe lottato per nascere.
Oltre lo steccato c'era il suo destino.
Le tracce sbiadite di Clow che avrebbe incontrato la stavano già aspettando. Non vedeva l'ora di cogliere la sfida gettata dal proprio rimpianto.
Per quanto la riguardava, non avrebbe distolto lo sguardo neppure per un istante dalla linea lontana dell'orizzonte.

Quanto di te
Per sempre acceso viaggerà.
Le curvature del tempo
Ci attendono.

Ma se adesso tu
Resti con me finché avrò fiato,
Soffierò via le tue nuvole.

Tra tempeste ed eclissi,
Le galassie e i riflussi,
Nei crepuscoli so
Che il tuo sole, il tuo sole, il tuo sole sarò.




***


«Smettila di fumare qui dentro! Appesterai tutto! Si rovineranno i soufflé al caramello che ho preparato con tanto amore per la dolce Himawari!»
«Non frignare sempre, Watanuki... alle ragazze non piacciono i perfettini, ricordatelo.»
«E cosa gli piace, allora?»
«A loro piacciono... mhm... fammi pensare... quelli come Doumeki, ecco!»
«Maledetta strega! Lo sapevo che lo avresti nominato solo per farmi saltare i nervi. E poi cosa ne sai tu di ragazze! Sei insopportabile, siete tutti e due insopportabili!»
«Chi, io e Mokona o io e Doumeki?»
«Watanuki è arrabiato, Watanuki è arrabbiato!»
«Tutti, siete tutti insopportabili! Non riuscite a lasciarmi da solo per un secondo, almeno in cucina? Non vi chiedo tanto, lasciatemi solo
«Mpf... non serve mica agitarsi così. Io e Mokona eravamo venute qui solo per prendere delle birre e degli stuzzichini.»
«Stuzzichini, stuzzichini!»
«FUORI DI QUI!»

Che il tuo sole, il tuo sole, il tuo sole
Sarò.












[4] Per chi non conoscesse i fumetti delle Clamp, ho ipotizzato in questo modo la nascita di Sephiro, il mondo protagonista di Magic Knight Rayearth, ad opera del suo creatore Mokona, appunto.
[5] Sakura e Shaoran di Card Captor Sakura.
[6] Sakura e Touya (e Shaoran, anche se non è suo figlio) di Tsubasa Reservoir Chronicle.

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