So Cold. (Dallas Buyers Club)

di Mokusha
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disfigured. Destroyed. Damned. Dead. ***
Capitolo 2: *** The soul underneath the skin ***
Capitolo 3: *** Little Ray Of Sunshine (I cry when I listen to you breathing) ***
Capitolo 4: *** Take me to church. (Red Shoes - Promise me I'll die like a person) ***



Capitolo 1
*** Disfigured. Destroyed. Damned. Dead. ***


Ok, diciamo che le foto di Jared/Rayon sul set di The Dallas Buyers Club mi hanno ispirata un tantino, ed ero in vena di analisi introspettive :3




La luce mi dà fastidio.
Mi ferisce gli occhi.
Respiro.
Sono ancora vivo.
Perchè?
Per quanto tempo ancora dovrò sopportare entrambe le facce della mia distruzione?
Sono consumato.
Deturpato.
Distrutto.

Fa freddo.
New Orleans è fredda.
Questa casa è fredda. Persino i miei pensieri sono freddi.
Il silenzio è freddo.
Sono solo.
Siamo soli.
Entrambi i miei me stesso stanno congelando nella solitudine.
Sto morendo.

Riesco a trascinarmi a fatica fino al lavabo. Lo specchio, vecchio, sporco e rovinato riflette il mio viso.
La mia condanna mi si legge in faccia.
AIDS.
Quattro lettere, che firmano la mia sentenza di morte.
Lenta. Silenziosa. Mi sta divorando.
Ho il volto scarno. Le ossa sambrano volermi bucare la pelle.

Il trucco non riesce più a nascondere come io stia marcendo.
Ma devo farlo.
Ancora.
Devo diventare lei.
Lei
è molto di più che una parrucca scura e trucco pesante. Molto di più di vestiti appariscenti e modi volgari.
Lei è la mia distruzione.
Lei ha divorato, consumato, distrutto tutto ciò che sono stato, ciò che non riesco più ad essere.
Lei è me.
Io sono lei.
Lei è lui.
E' come avere due anime, due vite.
E' convivere con due persone, contemporaneamente.
E' ossessivo, allucinante, devastante.
Ma lui ha bisogno di lei.
Io ho bisogno di lei.
La parrucca è sporca e aggrovigliata. La metto lo stesso. Poco importa. Ma non mi sento meglio. Lei se n'è già andata.
Mi lascia morire da solo.
Completamente solo.

Un attacco di tosse mi costringe a piegarmi su me stesso.
Sono così debole.
Così distrutto.

Le mie gambe non sono in grado di reggere il mio peso.
Cado.
Il pavimento è freddo. Sporco. Come la mia anima. Come il mio sangue. Come il mio cuore. Come la mia vita.
Mi trascino fino al letto. Le lenzuola sono vecchie, ruvide e umide. Me è giusto così. Io non ho mai meritato niente di bello.
Aspetto.
Aspetto la fine di tutto.
La fine di me stesso.
La fine della mia distruzione.
La fine dei miei peccati.
Tutto questo silenzio mi assorda fino a farmi perdere la condizione del tempo.
E quei colpi, disperati, alla mia porta, rimbombano tra i miei pensieri vuoti.
Sicuramente sarà un'allucinazione.
Il mio struggente bisogno di qualcuno.
Non riesco a muovermi. Non riesco a parlare.
I colpi continuano. I miei respiri continuano.

Qualcuno, fuori dalla porta, pronuncia il mio nome.
Il mio vero nome, non il nome di lei.
Solo una persona conosce il mio nome.
Solo una persona potrebbe essere qui, a vedermi morire.
Solo una persona mi ha dato affetto.
Non riesco a risponderle. Ma è tenace, e non si arrende. Continua a trafficare con la maniglia e la serratura. E' talmente disperata che finisce per riuscire ad entrare.
Si avvicina al mio letto, e mi guarda.
Sa perfettamente quello che sta per succedere.
Sa che non può salvarmi.
Ha gli occhi preoccupati. Non riesce a nascondere l'angoscia profonda che la sta tormentando. Non ci è mai riuscita.
Ma aveva accettato sia lei che me.
E nessuno l'aveva mai fatto.
Nessuno aveva mai voluto me.
Appoggia tutte le borse che ha in mano sul pavimento. Tira fuori una stufetta e la accende. Mi fa alzare dal letto, e mi sistema su una seggiola.
Si muove veloce, finchè toglie le lenzuola, e le sostituisce con alcune che hanno tutta l'aria di essere nuove, calde e pulite.
Mi spoglia. Mi infila un pigiama a righe, di quelli con la casacca. Io la lascio fare. Sento il suo cuore battere forte.
Mi toglie la parrucca, e mi riaccompagna a letto.
Mi copre, e si mette a frugare di nuovo nella sua borsa. Tira fuori una crema, e cominci a passarmela sulle mani, e sul viso, cercando di alleviare il dolore di quelle piaghe e ustioni che sono il marchio della mia malattia.

Bagna un fazzoletto con dell'acqua e me lo passa sulle labbra.
Riesco a stento a deglutire.
< < Posso tenerti per mano? > > mi domanda, in un sussurro.
Non riesco a parlare.
Vorrei piangere.
Vorrei urlare.
Ma sto morendo.
Per tutta risposta, muovo le dita della mano, e me la stringe subito.
Scoppia a piangere.
E' giovane, fragile, distrutta, e costretta a vedere il mio orrore.
Vorrei dire di non piangere.
Di stare tranquilla.
Cerco di stringerle la mano, e avverte la pressione delle mie dita.
Sorride, tra le lacrime.
< < Vorrei tenerti qui. > > dice < < Vorrei tenerti qui per sempre. Per tutto ciò che sei. Per chiunque tu sia stato. Ma non posso farlo. Perchè la tua sofferenza mi uccide. > >
Mi piazzicano gli occhi.
Sento una lacrima, lenta, salata, mandarmi a fuoco una guancia.
< < Sarai libero. > > sussurra. < < Promettimi che abbandonerai le tue colpe. Perdona te stesso. > >
I respiri stanno finendo.
< < Perdona lei. Perdona te stesso. > >
Annuisco, impercettibilmente.
Asciuga la mia lacrima.
Non sono solo.
E' il mio ultimo respiro.
< < Hai sempre avuto degli occhi così belli. > >

 




 

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Capitolo 2
*** The soul underneath the skin ***


Okay, salve a tutti.
Quando ho pubblicato il primo capitolo di questa raccolta, più di un anno fa, non avrei mai immaginato che mi capitasse di scrivere qualcos'altro su Jared/Rayon.
Ma dopo aver visto il film, sia in lingua originale che doppiato, non ho potuto farne a meno, ed è nata anche questa one shot, che ho deiso di aggiungere qui.
Ringrazio, con tutto il mio cuore, chi ha recensito la prima, mi ha fatto davvero piacere leggervi, e spero di ritrovarvi anche qui.
Un abbraccio!

 
The Soul Underneath The Skin



* * *



 
"Ray.”
Non riesco a respirare. Non ci riesco.
I bottoni della camicia si chiudono sulla mia gola. Sembra quasi vogliano soffocarmi. Stringere i miei respiri fino ad ucciderli.
Fino ad uccidere me.
La giacca pare pesare una tonnellata. Vuole sbriciolarmi. Farmi piegare al cospetto di una menzogna. O forse è solo la realtà? 
“Ray.”
Questi vestiti mi uccideranno.
Questo corpo mi ucciderà.
Sono in trappola.
“Ray.”
Soffoco. La mancanza di ossigeno mi intontisce. I pensieri sono così annebbiati.
La sua vergogna mi schiaccia. Si insidia nella mia anima, nel mio cuore.
Stringe in una morsa feroce la bocca del mio stomaco.
Pesa, sulle mie spalle, aggiungendosi agli altri macigni, facendole curvare ancora di più.

“Rayon.”

La sua voce è un sussurro delicato, mentre pronuncia a fior di labbra il mio nome.
Il nome della mia anima.
Raymond è l’involucro.
L’involucro sbagliato in cui mi sono costretto ad entrare di nuovo. Per l’ultima volta.
Rayon è la mia anima.
“Rayon.” ripete, di nuovo.
Lei è sempre così delicata con me.
Così attenta.
Come se il minimo urto potesse spezzarmi.
Volto la testa verso di lei.
Ho le mani appoggiate al tavolo, mentre cerco di riprendere fiato.
Lei mi si avvicina.
Mi tocca la schiena con una mano.
Piano.
“Stai bene?”
Con l’altra mi accarezza.
Le punte delle sue dita sfiorano la pelle del mio viso. Sembra quasi abbiano timore di strapparla.
Mi guarda negli occhi.
Indaga.
Indaga sempre.
Assorbe tutte le mie emozioni.
La vedo cogliere ogni singola sfaccettatura del mio sguardo, vacillare sotto il peso dei miei sentimenti, uniti ai suoi.
Ma non cede.
Non cade.
Mi lascia tutto lo spazio nel suo cuore, nella sua anima, mi lascia entrare completamente quasi sacrificando sé stessa per lasciare posto a me.
Mi bacia una tempia sudata.
Sudore, segno del veleno che mi sporca il sangue. Sudore della morte che è così vicina che ormai posso quasi sentire il suo alito freddo sul mio collo, che è quasi riuscita ad afferrarmi e dalla quale vorrei scappare ma non posso.
Sono riuscito a scappare dal mio corpo, ad ingannarlo, ma non posso più fuggire adesso, anche se vorrei così disperatamente farlo.
Ma almeno la morte esaudirà le richieste d’aiuto che sono state pronunciate per me, e porterà sollievo laddove ora regna la vergogna.
E forse riuscirà a rattoppare i buchi delle mie ali spezzate e mi permetterà finalmente di volare.
Come una farfalla.
Bianca. Pura.
O dai milioni di colori.
O come un angelo.
“Rayon. Vieni.”
Come ogni volta in cui mi infilo a forza la pelle di Raymond, e mi costringo a mentire a tutti, soprattutto alla mia anima, mentre lo specchio mi ride in faccia mostrandomi una realtà senza pietà, perdo il controllo di me stesso.
E’ come se l’anima cercasse di fuggire via da quella pelle così estranea che eppure è quello in cui sono nato, e mi osservasse da fuori.
E io vorrei seguirla, seguire l’anima.
Riesco a vederla disperarsi, tormentarsi. Riesco a sentirla.
Eppure rimango intrappolato nella pelle. Nell’involucro.
“Vieni” ripete.
Non è difficile per lei guidarmi verso il letto.
Mi sostiene, durante quei pochi passi.
Ha paura che crolli, vede le mie spalle curvate sotto quel peso immane.
Si siede vicino a me. Mi prende il viso tra le mani.
Cerca i miei occhi.
“Stai bene?”
Annuisco, automaticamente.
Le mento.
Lei accoglie la bugia, senza indignarsi.
La comprende.
“Sono sbagliato.” sussurro. “Tutto sbagliato.”
Le mie labbra secche si riempiono di crepe, pronunciando quelle parole.
Lei scuote violentemente la testa.
“No.” afferma, decisa. “Questi vestiti sono sbagliati. Toglili.”
Rimango immobile.
La giacca continua a pesare, la camicia continua a soffocarmi.
Non oso muovermi.
Lei si sposta, dietro di me, in ginocchio.
Fa scorrere le dita sulla linea delle mie spalle. Le infila sotto il colletto della giacca, e me la fa scivolare di dosso. La schiena duole come se fosse stata liberata da un blocco di cemento.
Mi sfugge un sospiro.
Chiudo gli occhi. Trattengo la smorfia di dolore, fisico ed emotivo, in cui il mio viso vorrebbe disperatamente contorcersi.
Mi passa un braccio attorno al petto, stringendomi contro il suo.
Vuole farmi percepire la sua presenza.
Il suo calore.
Continua a tenermi premuto a sé, mentre con la mano libera scioglie i bottoni dalle asole della mia camicia.
Mi sta spogliando.
Non come una donna spoglierebbe un uomo.
Mi sta spogliando come se spogliasse un’anima.
Riprendo a respirare.
Ora è faccia a faccia con il mio scheletro.
Ma chissà cosa ci vede.
Vorrei vedere attraverso i suoi occhi.
Anche se lei mi ringrazia sempre per averle mostrato la vita attraverso i miei,
“Va tutto bene.” bisbiglia “Tutto bene.”
Prende la mia vestaglia, me la infila.
E’ così morbida e calda rispetto a quella completo così poco confortevole.
Prende un foulard.
Mi copre i capelli, e me lo annoda sulla testa.
“Vedi?” dice, guardando i nostri riflessi nello specchio. “Non c’è niente di sbagliato.”
Si stringe ancora di più a me,  posa la guancia contro la mia.  Mi abbraccia, da dietro, incrociando i polsi sul mio petto.
Glieli stringo tra le mani.
Non mi ha mai trattato come se fossi sbagliato.
Non mi ha mai trattato come un uomo.
Non mi ha mai trattato come una donna.
Mi ha sempre trattato come se fossi un’anima.
La più fragile, impalpabile, pura parte dell’essere.
La sintesi dell’essenza.
“Vorrei davvero che mi dicessi cosa ti provoca tutto questo dolore. Posso immaginarlo. Ma vorrei davvero capire di più. Vorrei…”
Vorrei che ti amassi come ti amo io.
Ma questo non lo dice.
Queste parole le trattiene, eppure sono perfettamente comprensibili.
Posso percepirle.
Perché lei mi ama.
Non ho mai capito che parte di me ami. Chi o cosa.
Se Raymond o Rayon.
Se l’involucro o la menzogna.
Lei vorrebbe che mi amassi come mi ama lei, e io vorrei amarla come mi ama lei.
“Hai paura?”
Scuoto la testa, e non è una bugia, stavolta.
“No. Sono solo dispiaciuto.”
Annuisce, mesta.
Lotta contro i suoi occhi, no vuole che diventino lucidi.
“Mi piace vivere, se sono me stesso.”
“Lo so.” sussurra.
“Tu hai paura?”
Annuisce di nuovo. Chiude gli occhi stavolta. Non vuole piegarsi alle lacrime.
“Di perdere te.”
Perché lei mi ama.
Ama tutte le mie persone.
Involucri, menzogne, verità, scelte.
Non riuscirebbe a vedere niente di sbagliato, nemmeno se lo volesse.
Ama l’anima fatta di tante anime.
L’anima sotto la pelle.

 

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Capitolo 3
*** Little Ray Of Sunshine (I cry when I listen to you breathing) ***


 Little Ray Of Sunshine
(I cry when I listen to you breathing)


Le fiammelle dei lumini si riflettono sui lucidi petali delle rose bianche e sul vetro della cornice. Le illuminano il viso, e lei non può fare a meno di pensare che la luce le ha sempre donato. Non riesce a staccare gli occhi da quella fotografia, tutto quello che è rimasto, assieme a milioni di ricordi frammentati
La stanza è fredda, lo è sempre stata.
O forse il freddo è solo dentro di lei. Non basterebbe tutto il calore del mondo a scaldarla, adesso che Rayon non c’è più.
Non. C’è. Più.
Queste parole sono terrificanti, spaventose, non riescono ad acquistare un senso nella sua mente.
Il vuoto la inghiotte ed è gelido.
Fa così freddo dentro di lei che le ossa rimbombano dentro la sua pelle, il gelo le scuote, sembra quasi vogliano spaccarsi e urlare tutto il dolore sordo che le pulsa nell’anima.
Si sente immobile.
Sono tutti lì.
Ron, Eve, persino quella dolce signora di colore che lavorava nel Club, e quel biondino di cui non ha mai afferrato il nome, a Ray piaceva chiamarlo Sunflower.
Sono seduti a semicerchio su delle scomode sedie di legno, ma la sua poltrona è vuota, la vestaglia rosa appoggiata sullo schienale. Quel posto libero è così sfacciato, mette tutti di fronte ad una realtà che sembra impossibile da accettare.
La ragazza preferisce non pensarci, ogni volta che le parole ‘mai più’ si affacciano al turbine dei suoi pensieri le sembra di impazzire, e vorrebbe solo annullarsi ed essere morta con lei, assieme al raggio di sole della sua vita.

Ron  sta facendo girare una bottiglia di Bourbon, quando le arriva tra le mani prende una lunga sorsata di liquido dorato che le brucia dentro senza tuttavia scaldarla, anzi.
 La sua voce è roca quando cominci a parlare, graffiata dalle lacrime, dai singhiozzi, dalle urla, dalle parole trattenute.
“Quando l’ho conosciuta, era ancora Raymond. E lui era un ragazzino dai capelli troppo lunghi, gli occhi troppo grandi a cui piaceva vestirsi come David Bowie. Era il mio compagno di banco, e mi faceva sempre fare i suoi temi di letteratura. Non perché lui  non avesse niente da dire, ma perché era convinto che a nessuno interessasse. A me importava, invece. Importava tantissimo.”


Raymond era sempre triste.
Lei lo sapeva, era l’unica a conoscerlo, a conoscerlo davvero, e le bastava guardarlo per capire come si sentisse. 
Era come se fosse capace di vedergli l’anima, e ogni volta pensava di non aver mai visto niente di più bello e più degno d’amore.
Quel giorno di metà febbraio, Raymond era seduto su una delle panchine del cortile della scuola, le spalle curve, dondolava leggermente, avanti e indietro, un movimento involontario che faceva sempre quando era a disagio.
Diceva sempre di sentirsi sbagliato per il mondo, in realtà lei pensava che fosse il mondo ad essere sbagliato per lui.
Lo raggiunse, lascio cadere lo zainetto, e gli si sedette accanto.
“Ray-Ray” disse, posandogli una mano sulla spalla.
Lui alzò il viso e la guardò, e come tutte le volte lei non potè fare a meno di sprofondare nel suo sguardo.
Lui aveva quel suo modo di parlarle con gli occhi, quel cielo liquido le insegnava così tante cose, conosceva così tanto, e nascondeva così tanti segreti non detti, così tanti misteri.
Lo zigomo sinistro era gonfio e arrossato, così come il labbro inferiore, un taglio lo apriva nel mezzo.
“Oh, Raymond..” sospirò lei.
Lui abbassò di scatto la testa, tornando a nascondersi, a vergognarsi.
“Non chiamarmi così” sussurrò “E’ come mi chiama lui.”
“Ray.” lo chiamò, dolcemente, cercando il suo viso con le mani “Ray, fammi vedere.”
A Raymond piaceva la sua voce. Glielo diceva sempre. Era gentile, calda, rassicurante.
Lo faceva sentire giusto, e a casa.
I suoi occhi tornarono a posarsi su di lei. Erano così pieni di tristezza, una tristezza così pura, così autentica, e cruda da farle male.
“Cos’è successo?”
Si strinse nelle spalle.
“Ha trovato il costume che stavo cucendo per la sfilata del Martedì Grasso. Ha detto che è una mancanza di rispetto verso di lui che è mio padre, e che non devo osare nemmeno pensare di potermi vestire a quel modo, in nessuna occasione. L‘ha distrutto. E poi ha… distrutto me.”
Lei si sforzò di ignorare il dolore di cui era tessuto quel sussurro.
“Cosa stavi cucendo?”
“Un’imitazione del vestito rosso di Marylin Monroe.”
“Ray…”
“Sarebbe stato solo per Carnevale. Solo per Carnevale. Viviamo a New Orleans, dannazione. Volevo solo… Osare. Ero… Curioso.”
“Lo so.”
Il ragazzo sospirò.
“Ray?”
“Mh?”
“Hai mai messo un vestito prima d’ora? Intendo… Un vestito da donna.”
Il ragazzo arrossì, ma non rispose. Chinò di nuovo la testa, tornando a fissare la punta delle proprie scarpe.

“Vieni, andiamo.” disse lei dopo un po’. “Oggi saltiamo la scuola.”
Lui sorrise, e il cuore della ragazza vibrò.
E avrebbe voluto solo abbracciarlo forte, e dirgli che lei sapeva, ed andava bene così, sarebbe sempre andato bene, e che niente aveva importanza, ma aveva paura di calpestargli l’anima, di schiacciargliela, di ferirgliela.
“E dove vorresti andare?”
“A casa mia. Mamma ha portato a casa due scatoloni nuovi di stoffe, ieri. Potremmo dare un’occhiata, magari troviamo qualcosa.”

Raymond adorava la casa di lei.
Sua madre dipingeva, era piena di quadri, di tele, i muri erano dipinti, era piacevolmente disordinata e accogliente, sempre profumata di cannella.
Si tolse le scarpe, e si sistemò a gambe incrociate sul letto. Afferrò la chitarra, mentre lei frugava negli scatoloni, e prese a strimpellare la sua canzone preferita.

“You wish and wish, and wish again
You've tried so hard to fly
You'll never leave your body now
You've got to wait to die”

“E’ triste.”
Raymond smise di suonare. “Cosa?” domandò.
“La canzone che stavi cantando. E’ triste.”
Lei parlava senza guardarlo, continuava a frugare negli scatoloni.
“Un po’.”
“E’ così che ti senti?”
Lui sospirò, posando la chitarra.
“Parlami, Ray.”
“Cosa dovrei dirti?”
“Cos’è che ti rende così triste?”
“Sono troppo triste per te? E’ complicato starmi vicino? Ti faccio del male perché ti sembro triste?”
“No, no! Certo che no” esclamò la ragazza. “E’ solo che vorrei che tu… Vedessi quello che vedo io.”
“E cosa vedi?”
Lei si limitò a scrollare le spalle.
“Ecco.” proferì, allungandogli un vestito argentato “E’ degli anni ‘20. Non sarà Marylin, ma può sempre andare.”
Lui prese il vestito e se lo rigirò tra le mani.
Sembrava che tutte le stelle fossero piovute su quel pezzo di stoffa. Provò ad immaginarselo addosso e si sentì arrossire.
Avrebbe voluto scappare, era stata una pessima idea. Fin dall’inizio. 
Senza accorgersene aveva ripreso a dondolare.
Le mani della ragazza si chiusero sui suoi polsi.
“Ray.” sussurrò, calma, gentile, quasi materna. “Mettilo.”
“Poi coprire lo specchio?”
Lei annuì, si alzò, e obbedì.
Raymond cominciò a cambiarsi. Slacciò i bottoni della camicia, la cintura dei pantaloni, e lasciò cadere i vestiti sul pavimento.
Lei le dava le spalle.
Il battito del suo cuore la assordava.
Si sentiva come se stessero facendo qualcosa di perversamente sbagliato, ma sembrava che quella fosse allo stesso tempo la cosa più giusta che potessero fare.
Ray infilò il vestito. La stoffa gli scivolò addosso, baciandogli la pelle, avvolgendogli il corpo come una coperta calda. Gli scendeva fino a sopra le ginocchia, lasciando scoperte le gambe. La scollatura gli stava larga, e le spalline continuavano a scivolargli.
Si schiarì la voce.
Lei si girò, e spalancò gli occhi, ma non disse niente.
Rovistò nella sua cesta da cucito, prese ago e filo e lo raggiunse.
“Non muoverti, okay? Te lo sistemo.”
Lui annuì.
Aveva le labbra secche, le gola arida.
“Siediti qui.” gli indicò una sedia, quando ebbe finito di cucire.
“Dì qualcosa.”
La ragazza sorrise.
“Quando avrò finito. Adesso sta fermo.”
Aprì tutti i cassetti della specchiera, tirando fuori ombretti, rossetti e mascara.
“Chiudi gli occhi.”
Iniziò a truccarlo, le sue dita erano gentili sulla sua pelle, lui non riusciva a ricordare di essere stato trattato con tanta gentilezza da qualcuno prima di quel momento, mentre lei non riusciva a capacitarsi di quanto il proprio cuore volesse disperatamente mostrargli quello che lei vedeva attraverso i suoi occhi.
“Ho finito.” bisbigliò dopo un po’. “Metti questa.” 
Raymond aprì gli occhi, e si sistemò la parrucca che lei le porgeva.
Allungò una mano e le carezzò una guancia, raccogliendo la lacrima che la rigava.
“Perché piangi?”
“Perché tu mi commuovi. Le cose belle mi commuovono sempre. Sei qualcosa di così prezioso.”
“Io.. Non credo.”
“Guarda.” gli disse, scoprendo lo specchio.
Raymond odiava gli specchi. Si specchiava pochissimo, perché gli specchi gli mentivano sempre. Erano crudeli e sprezzanti con lui. Ma non quella volta.
Raymond si trovò per la prima volta faccia a faccia con quello che avrebbe sempre voluto vedere.
Poteva riconoscersi, riflesso in sé stesso.
“Vedi.” la voce di lei interruppe i suoi pensieri. “Questo è quello che io vedo quando ti guardo, Ray.”
Lui deglutì, ricacciando giù il nodo di lacrime che aveva in gola.
“Questo…” sussurrò “Questo sono davvero io.”




“Pochi giorni dopo quell’episodio lasciò la scuola. Venne da me un pomeriggio, e mi disse che sarebbe partito la mattina dopo. Voleva andare a New York, a Chicago Voleva vedere Las Vegas. New Orleans gli stava stretta. L’intero stato della Louisiana gli stava stretto. Diceva che lì nessuno l’avrebbe mai capito, che nessuno l’avrebbe mai accettato. Che non poteva continuare a vivere una bugia per il resto della sua vita. Vivere in un corpo che non gli apparteneva. Una vita che non era la sua, in una pelle che lo soffocava. Che lo distruggeva, minuto dopo minuto. Voleva sentirsi come quando si era specchiato a casa mia. Mi ha detto che ero la persona a cui voleva più bene al mondo. E io l’ho lasciato andare. Volevo che fosse felice, anche se la sua partenza mi avrebbe massacrata. Io lo amavo. Mi sono innamorata di Raymond un poco alla volta. Mi sono innamorata della sua anima, che era Rayon. Quando l’ha lasciata uscire allo scoperto non ho potuto fare a meno di innamorarmene, e di amarla probabilmente ancora di più. Gli ho regalato dei vestiti, dei trucchi e delle calze. Riusciva a smagliare ogni paio che si metteva.”
Ron ride piano, e fa sorridere anche lei.
“Non ho mai più aperto il mio cuore a nessun altro. E’ come se andandosene avesse portato via con sé la mia capacità di innamorarmi, lasciandomi solo l’amore che provavo per lei. E adesso l’ha fatto di nuovo.”
Deglutisce, ingoiando le proprie lacrime.
“E le sono grata per non esserselo portato via. Quando l’ho rivista, anni dopo, ho creduto che il mio cuore sarebbe scoppiato. A prima vista, non c’era più traccia di Raymond, ma solo Rayon. Piena di sogni, folle, gentile, il cuore più straordinario in quest’universo.
Era tornata, finalmente.
I suoi occhi ma hanno raccontato tutto quello che aveva vissuto, che aveva provato, che aveva fatto. E ho scoperta che la sua anima era ancora lacerata, ma non si sforzava più ad ogni costo di nasconderla. Era esposta, nuda, consapevolmente fragile
E io avrei voluto così tanto proteggerla. L’avrei voluto così tanto.
Avrei voluto proteggerla dai suoi vizi, dalle cose sbagliate. Avrei voluto proteggerla da quello che me l’ha portata via. Ma non esisteva un singolo aspetto di lei che non fossi capace di amare disperatamente.
E… Adesso è tutto così vuoto e freddo.
A volte mi fermavo qui, la notte, soprattutto negli ultimi tempi. Mi ero abituata ad addormentarmi ascoltandola respirare, e… Da quando… Da quando se n’è andata io non riesco più a dormire.
E lei mi manca così tanto.”
La stanza è immersa nel silenzio, Ron ha finito l’ultimo sorso di Bourbon, continua a passarsi la bottiglia da una mano all’altra. Eve ha ormai ridotto in briciole il suo fazzoletto di carta. La cera dei lumini si è consumata, solo una fiammella resiste, ancora, debolmente. Danza ancora per un po’, disegna ombre sulla foto in cui si riflette. Sembra cerchi quasi di tenerla in vita.
Poi, in un soffio, anche quella si affievolisce, e muore.

“Mi mancherà per sempre.”




Okaaaay, naturalmente era meglio nella mia testa :')
A parte ciò, nonostante non sia pienamente soddisfatta del lavoro (ma non lo sono mai), non posso dirvi quanto io sia felice di aver postato di nuovo in questa raccolta.
E quindi niente, tutto ciò mi da troppo amore.
Spero che siate un po' feligi anche voi, e vi mando un sacco di baci.
Mokusha



 

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Capitolo 4
*** Take me to church. (Red Shoes - Promise me I'll die like a person) ***


take me to church.

(RED SHOES - PROMISE ME I'LL DIE LIKE A PERSON)



L’aria le scompigliò i capelli mentre entrava nel cimitero, superando il grande cancello in ferro battuto nero, spalancato, come al solito.
Lì era tutto grigio e tutto morto.
Odiava quel posto.
Lo detestava con tutto l’odio che era capace di provare, che aveva scoperto essere molto.
Lo odiava con ogni singola fibra del proprio cuore, del proprio essere, lo odiava così tanto che la estenuava.
Eppure non riusciva a starci lontana.
Ogni giorno, da quel giorno, i suoi piedi calpestavano quel lastricato, il ticchettio vuoto delle sue scarpe sul cemento era l’unico rumore a rompere quel silenzio innaturale, morto, che avvolgeva quel posto.
Le lapidi erano tutte uguali.
Anonime.
File e file di pietre morte.
Morte.
Quella di Rayon si trovava nella dodicesima fila, dopo la fontana, lapide numero ventisei.
Un percorso automatico, ormai i suoi passi si muovevano tra le tombe senza che lei nemmeno se ne rendesse conto, a testa bassa.
Ma quella sera, non era ancora arrivata a metà strada, qualcosa catturò la sua attenzione.
Qualcosa che le fece alzare le testa di scatto, e sforzare di mettere a fuoco, nonostante le lacrime che si liberavano presuntuose, ogni volta che sorpassava l’entrata di quel posto, le annebbiassero la vista.
Cominciò a correre, bruciò la distanza che la separava dal suo blocco di pietra in poche falcate, la borsa le scivolò dalla spalla, bloccandosi nell’incavo del suo gomito non appena le sue ginocchia si schiantarono a terra, e le sue mani cominciarono frenetiche a cercare di cancellare lo sfregio, che, sfacciato, deturpava la superficie liscia del marmo.
‘A B O M I N I O’.
Non era la prima volta che quelle lettere di vernice nera venivano vomitate sulla lapide.
E ogni volta, lei si impuntava e insisteva, insisteva fino all’isterismo per farla sostituire, e, puntualmente, qualche settimana dopo lo scempio si ripeteva.
Questa volta coprivano tutta la scritta che lei aveva farci incidere. Niente nomi, niente date. Solo ‘a little ray of sunshine’.*
Il cuore le si spezzò, e poté percepire ogni frammento schiantarsi al suolo.
La terra era fredda.
Il freddo era una sensazione persistente, da quel giorno.
Non se ne andava mai.
Fredda era la terra, il marmo sotto le sue mani, il vento sulla sua pelle.
Fredde erano le lacrime che la accecavano. Fredda era l’aria che i suoi polmoni cercavano disperatamente di incamerare, ma che le si incastrava in gola, facendola singhiozzare singhiozzi freddi.
Di quelli che si fanno largo nella gabbia toracica aprendola, sbriciolandola, lasciando costole spezzate a perforare il cuore ad ogni battito.
Le sue unghie continuavano a grattare la pietra, spezzandosi, le sue dita si consumavano nel tentativo di tirare via quelle stupide, malvagie, lettere.
Ignorava il sangue, che aveva inevitabilmente cominciato a scorrere da quella carne viva e martoriata.
Ignorava il dolore, badando solo a quello che la divorava da dentro, straziante.

“Promettimelo.”

La sua voce era nella sua testa, delicata, dolce, sottile, stanca.
Era nella sua testa ed era chiara, nitida, reale e continuava ripetersi.
“Promettimelo.”
Continuava a disperarsi, inconsolabilmente, i singhiozzi aumentavano d’intensità, e pensava che forse, ad un certo punto il cuore avrebbe smesso di rompersi e si sarebbe semplicemente fermato.
Bloccato.
Congelato, lì, in quel  freddo paralizzante.

Continuava a lottare con quella vernice, sperando di poterla pulire con le proprie lacrime, con il proprio dolore, perché era sofferenza che si aggiungeva al tormento, e non c’era pace, sollievo, espiazione.
Ron aveva gridato, bestemmiato, inveito contro la medicina, e contro Dio.
Eve aveva quasi distrutto un’intera parete del suo soggiorno, sfogando tutta la propria rabbia con un martello in mano.
Lei no.
Aveva urlato dentro, in un terremoto tremendo, devastante, ma silenzioso.
La miseria era tutta dentro di lei, segreta, inespressa. Zitta.
Come un guscio invisibile che la avvolgeva, separandola dal resto del mondo.
Gli altri l’avevano superato, forse accettato.
Lei era rimasta indietro. Aggrappata alla sua mano, riflessa nei suoi occhi, rifugiata nel suo immenso, immenso cuore.

Adesso erano le mani di Ron che si erano chiuse sulle sue, incuranti del sangue, dello sporco e delle ferite. Le avevano bloccate, e l’avevano tirata contro il suo petto, contro la propria camicia consunta. E l’avevano cullata.
Perché adesso lei stava urlando, e crollando, si stava disfacendo su quella tomba, tra quelle mani.
Ron sapeva di tabacco, pelle, Texas e di qualcosa di caldo.
“Shhh.” i baffi le pungevano la fronte, ma non le importava, aveva bisogno della sua stretta, ancora salda, ancora forte.
‘Promettimelo.’ il sussurro di Rayon era ancora nella sua testa.
“Shhh” ripeté lui “E’ tutto okay. La faremo sistemare. La faremo sistemare, Shhh.”
Lei tremava e si spezzava contro il suo corpo.
“Andiamo.” le disse. Era gentile. Era raro che lui fosse così gentile con qualcuno. “Vieni, andiamo. Andiamo a casa.”
Mentalmente, si chiese quale casa intendesse. Casa non esisteva più. Casa era…
“Da Eve. Sistemerà queste mani.”
Le uniche ferite che potessero essere sistemate.
Ron le accarezzò i capelli, prima di tirarsi su e trascinarla in piedi con lui.
“Vieni.” la invitò, sostenendola “Ti tengo io.”
E lei pregò che ci riuscisse davvero.

Più tardi.

Il fuoco era acceso. Aveva una coperta sulle spalle. Le mani avevano smesso di sanguinarle, medicate e bendate, tremavano reggendo la tazza di the caldo corretto con qualcosa di sicuramente più forte.
“Stavo pensando…” la voce le uscì graffiata, roca per colpa di tutti quei singulti che le avevano ferito la gola. 
Eve e Ron alzarono lo sguardo verso di lei, titubanti. La guardavano come se fosse una granata chi minacciava di esplodere e distruggere tutto da un momento all’altro.
Strinse più forte la sua tazza, e tentò di schiarirsi la voce.
“Prima, al cimitero…” riprese “Stavo pensando ad una…” si interruppe per un momento, quasi smarrendosi. “Ad una promessa che mi aveva chiesto di farle…”
Evie la guardò, stupita, poi il suo solito sorriso dolce le comparve sul volto.
“Ti aveva chiesto di prometterle qualcosa?”
La ragazza annuì.
“L’ultima volta che era stata ricoverata in ospedale. Prima che…” la frase le si spense in gola, di nuovo. Abbassò lo sguardo. La presa sulla tazza aumentò ancora, tanto che le nocche delle sue mani sbiancarono. “Insomma, prima…” concluse in un soffio.

Le labbra erano screpolate, secche. Dei tagli le aprivano, spesso sanguinavano.
Rayon se le umettò con un sospiro, come se anche quel semplice gesto le costasse una fatica immensa. Ma poi la guardò e le sorrise.
La ragazza strinse la sua mano ancora più forte, le sue dita agganciate alle proprie.
Quel sorriso, la vita, l’amore nei suoi occhi la scaldava.
Erano casa.
Erano casa anche in quella stanza d’ospedale asettica e vuota.
Erano casa in tutta la  solitudine che le circondava.
“Ehi…” la salutò in un bisbiglio.
Le sorrise, in rimando. Non le avrebbe lasciato la mano nemmeno se l’avessero trascinata via a forza. 
“Ray…” mormorò “Come ti senti?”
Lei si strinse nelle spalle, diventando ancora più piccola, ancora più fragile.
“Starò meglio.” rispose.
Perché lei era così. Affamata di vita. E sogni. E condannata.
La ragazza annuì.
“Ma devo chiederti una cosa.” continuò.
Lei annuì, subito. “Tutto quello che vuoi.”
Rayon deglutì, e chiuse gli occhi per un momento. Quando li riaprì, quando la investì di nuovo con quell’azzurro, l’azzurro più caldo, accogliente e struggente del mondo, erano lucidi. Immensi.
“Dimmi, Ray-Ray.”
L’altra esitò per un momento.
“Ho bisogno…” si bloccò, come a riflettere su ciò che stava per chiedere. “Di una promessa.”
Sfuggì agli occhi della ragazza solo per un millesimo di secondo, ma la percepì irrigidirsi, sulla seggiola accanto al suo letto.
“Ray…” la riprese.
“No, no, ascoltami” sentenziò “So che non vuoi discuterne. Che non ci vuoi pensare. Ma, cara, questa volta probabilmente mi riprenderò. Ma una delle prossime volte non succederà. Io sto per… Io ho bisogno che tu…”
“Dimmi.” tagliò corto la ragazza, un po’ troppo bruscamente. Se ne accorse per il veloce lampo di dolore che attraversò quell’azzurro sconfinato. Se ne pentì immediatamente.
“Dimmi” ripetè più dolcemente.
“Promettimi” iniziò “Promettimi che morirò come una persona.” spiegò, sottolineando l’ultima parola.
“Oh, Ray…”
“Come una persona.” disse di nuovo “Come la persona che sento di essere.”
La guardava, insistente, e i suoi occhi, i suoi occhi vivi, e sognanti, e affamati la guardavano e le spogliavano l’anima. E la supplicavano. Con candore, onesta e bisogno.
La ragazza ingoiò le proprie lacrime.
“Certo.” bisbigliò. “Certo.”
“Promettimelo.” insistette.
Sollevò una mano e la accarezzò. Le piaghe erano ruvide sotto la punta delle sue dita.
“Te lo prometto.”



“Intendeva come una donna.” precisò, sotto lo sguardo commosso di Ron e della dottoressa. “Dicendo ‘come una persona’, intendeva come una donna.” spiegò.
“Sentirsi una donna, essere trattata come una donna.” continuò, sollevando la testa per guardarli “Era l’unica cosa che la facesse sentire una persona. Per quello ho dato di matto per il vestito. E per le scarpe. Non avevo fatto in tempo a comprarli prima perché non avevo fatto altro che rimandare quel momento. Sapevo che era vicino, ed inevitabile. Stava male da giorni, quella mattina stava addirittura peggio del solito, e aveva freddo, e…”

…il riscaldamento si era rotto, così era uscita a comprare una stufetta, un pigiama più pesante e una crema per quelle piaghe che continuavano a rompersi.
Quando era rientrata Rayon era sul letto, aveva tentato di truccarsi. E tossiva, sanguinava, piangeva.
Era spaventata, e per la prima volta nella sua vita voleva scappare. Da sé stessa, dalla sua malattia, da Raymond, dalla morte.
L’aveva spogliata, rivestita, messa al caldo. Le aveva tenuto la mano. Forte. Sperando che una stretta di mano potesse restituirle quella vita che voleva così tanto.
E aveva pianto, guardandola piangere.
“Hai sempre avuto degli occhi così belli.” le aveva detto, sul suo ultimo respiro.
Prima che Ray, quegli occhi li roteasse, e poi li chiudesse, negandole il suo azzurro caldo per sempre.
La giovane aveva sentito la sua mano abbandonarsi sulle sue. Aveva visto la vita scivolarle di dosso.
Edera stato allora che il freddo si era abbattuto su di lei.
Era rimasta a guardarla per un’eternità. Da sola, ad ascoltare il silenzio.
Poi era arrivato Ron. Poi Evie. Poi l’avevano portata via. All’obitorio.
E avevano iniziato a parlare di funerale, di bare, lapidi, e chiese.
Volevano celebrare la funzione nella cappella della chiesa, la sera stessa.
E lei aveva cominciato a dire che no, no, no, voleva una chiesa vera.
E le era tornata in mente la promessa. Ed era fuggita via. Via da Ron, via da Evie, via dall’ospedale, aveva setacciato New Orleans, ogni negozio, ogni mercatino, come una furia disperata che gira in tondo senza sapere dove abbattersi.
“Mi piacciono quelle scarpe.” le aveva detto una volta, accennando ad un paio di scarpe rosse che lei indossava. Ma le sue erano troppo piccole, e consumate, quindi doveva trovarne un altro paio, adatto a lei.
E aveva corso, corso e corso, di nuovo nell’obitorio, tra quei corridoi morti.
Era arrivata con il fiato in gola e le scarpe rosse in mano. E le avevano detto che la bara era già chiusa. Non aveva capito, allora aveva chiesto semplicemente di riaprirla.
Le avevano risposto che non si poteva.
Allora aveva cominciato a piangere. E ad urlare. Ad urlare che dovevano. Non importa se avessero dovuto cambiare le cassa, dovevano riaprirla. Dovevano. E piangeva, urlava e agitava le scarpe, ripetendo che dovevano aprirla per metterle le cose che lei aveva appena comprato.
Alla fine era scesa la dottoressa, e le aveva dato ragione, e finalmente l’avevano riaperta.
E lei era fredda, e pallida, e rigida. Ma le avevano messo quel vestito nero con la gonna a ruota e le scarpe rosse. E poi lei l’aveva truccata. Le avevano detto di andare via ma lei non aveva ascoltato.
Ed era bellissima. 


“Sembrava Biancaneve” confessò, il suo sussurro spezzato inumidito dalle lacrime. Non più violente e rabbiose, ma delicate, tristi.
“L’ho sempre pensato.” 
Un sorriso, lieve, malinconico, dolce, le increspò le labbra.
“Sembrava Biancaneve.”





*in italiano “piccolo raggio di sole.” Non rende, il gioco di parole starebbe in “Ray”, per l’appunto “raggio”, ma anche diminutivo di Rayon/Raymond.

Note autrice: Voi non potete capire, ogni volta credo di aver dato a sufficienza con questo personaggio, poi l’ispirazione torna e io mi devasto.
Non posso dirvi le lacrime che mi è costata questa One Shot.
Spero piaccia anche a voi, e che abbiate voglia di spendere un minutino a farmi sapere il vostro pensiero.
Vi abbraccio,

Mokusha

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