Piccoli Principi (e Principesse)

di Francine
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Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Tabella, Note e Spiegazioni ***
Capitolo 2: *** I. Prima del concerto ***
Capitolo 3: *** II. Mentre cantano le cicale ***
Capitolo 4: *** III. Quando la polvere si posa ***
Capitolo 5: *** VI. El que en buen hora cinxo su espada ***
Capitolo 6: *** V. Una marsina non troppo stretta ***
Capitolo 7: *** VI. Come una ninna nanna ***
Capitolo 8: *** VII. Questo passa il convento ***
Capitolo 9: *** VIII. Da grande ***
Capitolo 10: *** IX. La piccola principessa ***
Capitolo 11: *** X. Affondo. Stoccata. Parata. ***
Capitolo 12: *** XI. Aurora dalle dita rosate ***
Capitolo 13: *** XII. Il tempo di un batonchiki ***
Capitolo 14: *** XIII. Ungi e frega, ogni male si dilegua ***
Capitolo 15: *** XIV. Sulla collina ***



Capitolo 1
*** Tabella, Note e Spiegazioni ***


Toutes les grandes personnes ont d'abord été des enfants. (Mais peu d'entre elles s'en souviennent.) 
(Antoine de Saint-Exupéry,
Le Petit Prince, dedica a Léon Werth, 1943)
 
Ricordate La Lanterna Magica ?
Ebbene, dopo un anno, m’è venuta voglia di bissare l’esperimento. Sempre nel medesimo fandom, ovvio. Sennò che gusto c’è? Stavolta, però, mi riserbo un tempo di pubblicazione più ragionevole (una tantum; la verità è che la disgraziata qui presente ha bisogno di uno zibaldone dove ficcare tutti quei pensieri che non trovano posto altrove) ed una lunghezza più comoda delle cento parole secche. Mille e non più mille. Si può fare, no?
Protagonisti assoluti, loro: i Baby!Saint di tutte e tre le caste, dal bronzo all’oro passando per l'argento, e tutti coloro che sono incappati in questi piccoli principi e principesse, in un modo o nell’altro, ovviamente descritti in quel periodo dorato che è l’infanzia. Dimenticatevi il fluff spinto, però. Saint-Exupéry è l’ispirazione, d’accordo; ma in cabina di regia ci sono io.


Credits:
Saint Seiya e tutta la bolgia che ne deriva appartengono a Masami Kurumada e alla Toei Animation (1986) e alla TMS (2010) per quanto riguarda Lost Canvas, di cui sono inevitabili alcuni accenni. Metto sotto il microscopio per lo più la serie classica, o non ne usciamo vivi.
La tabella della  Big Damn Table appartiene alla community fanfic100_ita (e la mia iscrizione alla stessa è tuttora in corso. Da Settembre 2013.). Ci sono novantacinque temi prefissati e cinque a scelta libera (che mi riserbo di svelare pian piano). Qui sotto troverete la tabella, aggiornata volta per volta.
Ho deciso di non specificare i prompt all'interno delle storie perché i prompt sono intesi come suggerimenti su cui far andare la tastiera. A volte saranno più incisivi, altre più evanescenti. Come una zaffata di vaniglia. Per le note, mi limiterò a segnalare quelle più pressanti. Per le altre, bando alla pigrizia, c'è sempre wikipedia!
Al solito, sono graditi i commenti (tranquilli, non mordo mica!) e i suggerimenti (ché cento storie sono tante), e se dovete tirarmi qualcosa, ricordate: pomodori a destra e carote a sinistra, grazie!

Io metto su il caffè.
 
001. Inizio. 002. Intermezzo. 003. Fine. 004. Interiorità. 005. Esteriorità.
006. Ore. 007. Giorni. 008. Settimane. 009. Mesi. 010. Anni.
011. Rosso. 012. Arancione. 013. Giallo. 014. Verde. 015. Blu.
016. Porpora. 017. Marrone. 018. Nero. 019. Bianco. 020. Senza colori.
021. Amici. 022. Nemici. 023. Amanti. 024. Famiglia. 025. Estranei.
026. Compagni di squadra. 027. Genitori. 028. Figli. 029. Nascita. 030. Morte.
031. Alba. 032. Tramonto. 033. Troppo. 034. Troppo poco. 035. Sesto Senso.
036. Olfatto. 037. Udito. 038. Tatto. 039. Gusto. 040. Vista.
041. Forme. 042. Triangolo. 043. Diamante. 044. Cerchio. 045. Luna.
046. Stelle. 047. Cuori. 048. Quadri. 049. Fiori. 050. Picche.
051. Acqua. 052. Fuoco. 053. Terra. 054. Aria. 055. Spirito.
056. Colazione. 057. Pranzo. 058. Cena. 059. Cibo. 060. Bibite.
061. Inverno. 062. Primavera. 063. Estate. 064. Autunno. 065. Mezze stagioni.
066. Pioggia. 067. Neve. 068. Lampo. 069. Tuono. 070. Tempesta.
071. Rotto. 072. Riparato. 073. Luce. 074. Oscurità. 075. Ombra.
076. Chi? 077. Cosa? 078. Dove? 079. Quando? 080. Perché?
081. Come? 082. Se. 083. E. 084. Lui. 085. Lei.
086. Scelte. 087. Vita. 088. Scuola. 089. Lavoro. 090. Casa.
091. Compleanno. 092. Natale. 093. Ringraziamento. 094. Indipendenza. 095. Capodanno.
096. Scelta libera. 097. Scelta libera. 098. Scelta libera. 099. Scelta libera. 100. Scelta libera.

 

Licenza Creative Commons
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Capitolo 2
*** I. Prima del concerto ***


I.
Prima del concerto
(Pope Sion)



(Santuario, Atene, 1 Gennaio 1966)


Una grande avventura inizia sempre con un piccolo passo. Succede all’improvviso, come un refolo di vento dispettoso che solleva gonne e gioca con cravatte e cappelli. E tu ti ritrovi in viaggio senza nemmeno essertene reso conto.

Il vecchio Sion vive in attesa.
Duecentoquarantacinque anni sanno farsi sentire quando nelle sere di Maggio il vento racconta una canzone dolcissima accarezzando le fronde degli ulivi e le tue ossa scricchiolano. Di pena, di dolore, di compassione. Par la tendrure, avrebbe detto Dégel, che adesso è sabbia tra le pieghe del tempo, granello tra altri gemelli nella clessidra. Ormai ci siamo, si ripete da giorni il vecchio Santo dell’Ariete. Eppure, non è ancora arrivato nessuno a reclamare gli scrigni d’Oro. Come se questa volta le cose non debbano scendere rimbombando a valle come torrenti impetuoi, ma andare più adagio. Con calma. Come se entrambe le divinità volessero gustarsi gli attimi precedenti all’inizio della battaglia. All’inizio del concerto.

C’è qualche sparuto Santo d’Argento ed un paio di Santi di Bronzo a fargli compagnia. Ma se si eccettua Doko, fermo a meditare davanti alla cascata del dragone sui Monti Lu, l’unico Santo d’Oro presente è lui. E questo inquieta il vecchio Ariete, che non ha la stessa stoffa del Nobile Sage o del suo maestro, Hakurei dell’Altare. Lui è calmo, saggio e paziente. E duecentoquarantacinque anni sono un peso insopportabile se ti ritrovi da solo a trascinarlo per le strade del mondo.

Un altro anno è passato. Un altro foglio di calendario da staccare prima di passare oltre.
Sion entra nella Sala delle Udienze. Rémy di Boote lo aspetta in ginocchio, il capo chino quasi a sfiorare il terreno. Accanto a lui, un bambino. Capelli impomatati, gli abiti buoni appena usciti dalla tintoria. Quanto avrà? Cinque, sei anni? Lo sguardo smarrito del ragazzino fissa il Sacerdote mentre questi avanza sulla guida rossa. Dovremmo farle cambiare, pensa distrattamente Sion. Sa cosa sta guardando quel ragazzino con gli occhi smarginati. Il suo elmo d’oro, il copricapo del Sacerdote, quello che Manigoldo gli ha portato affinché lo consegnasse al saggio Hakurei. E che Sasha gli ha affidato prima di incamminarsi con Tenma e Aron verso il suo destino.

Iniziare un nuovo anno col cuore gonfio di melanconia non è il massimo, si dice Sion sedendosi sul trono. E si concede qualche minuto per osservare quel monello ripulito. Non è stato Rémy, no. Uno come lui, coll’aria perennemente arruffata di chi si è appena alzato dal letto ma che ha lasciato lo spirito a sonnecchiare sul cuscino, non può aver pensato a certi particolari. Lui stesso ha dato una spolverata alla propria corazza e si è presentato all’udienza. Non è forse fango quello che gli macchia il mantello?
Certo che sì, pensa Sion, prima di concentrarsi sul ragazzino. E provare uno stranissimo déjà vu. Lui conosce quel bambino, ma come? Dove ha visto quegli occhi, quel viso, quelle fattezze? Quando? Quanto tempo fa?

«Avvicinati», gli dice, con la voce più roca del dovuto.
Il bambino tentenna. Guarda Rémy, come se lui potesse trarlo d’impaccio in qualche modo, ma Rémy è una statua. Sion lo sente mormorare un qualcosa come: «Spicciati, su!», in quel suo accento impossibile dalle vocali tutte sbagliate. E il bambino si muove. A scatti, come un automa che avrebbe bisogno di qualche goccia di lubrificante sulle giunture arrugginite. E mentre lui si avvicina al trono, Sion lo osserva col cuore gonfio, sì, ma non più di melanconia, densa e scura come melassa troppo cotta; ma pronto a cantare, il sangue come contrappunto che scorre gioioso nelle vene.

Il bambino si ferma ai piedi del trono, qualche scalino che lo separa da quell’uomo con l’abito bianco, la collana di pietre preziose e quel bizzarro copricapo sulla testa.
«Vieni», gli dice Sion, sporto in avanti, la voce che non riesce a nascondere l’impazienza. Il bambino si avvicina timoroso, indeciso se fidarsi o no di quell’uomo bislacco. Non spaventarlo, si ricorda Sion, ma non riesce a seguire quel consiglio perché non appena il bambino è a portata, allunga una mano e se lo trascina davanti. Il bambino grida. Di spavento, stupore e sorpresa. Sion non nasconde un sorriso. Sono forti le mani del Sacerdote. È ancora salda la sua presa. Rémy ha alzato la testa ed osserva incuriosito e perplesso quello che sta accadendo. Gli occhi acquosi del vecchio Ariete l’ignorano, scandagliando il viso del bambino, riconoscendo in lui i tratti familiari di un suo compagno. Di un amico. Dell’uomo che più di tutti ha amato Athena – ha amato Sasha.
Sisifo del Sagittario. Che sembra guardarlo, adesso, sotto quei vestiti cui hanno appena staccato il cartellino, ed i capelli pettinati all’indietro, un velo di brillantina per renderli lucidi ed eleganti.

Sembra uno di quei bambolotti da mettere sulle torte nuziali, pensa Sion prima di calargli la mano sulla testolina e scompigliargli un po’ i capelli. E chiedergli:«Come ti chiami, ragazzo?».
«A… Aiolos», dice – sussurra – «come il dio», aggiunge poi.
Come se io non lo sapessi, pensa Sion. Che ricorda quanto Sisifo amasse sentire il vento scompigliargli i capelli ed accarezzargli le ali dell’armatura. «Chi vola ha bisogno del vento sotto le ali», diceva a Sasha per farla sorridere, e ride adesso Sion, mormorando quelle stesse parole.
«Benvenuto al Santuario, Aiolos», gli dice, lasciandogli il polso e mostrandogli un sorriso sincero. Bentornato a casa, Toxotis. «E buon anno nuovo», aggiunge, come se si fosse ricordato all’improvviso di che giorno sia, oggi.
«Buon… buon anno», risponde Aiolos. Educato e compito. Un piccolo principe con i calzoni di fustagno e la giacca di velluto verde scuro.
«Abbiamo molte cose di cui parlare e si conversa meglio seduti a tavola. Non credi anche tu?», e il Sacerdote si alza, in un frusciare di vesti. Arriveranno. Arriveranno tutti, si dice Sion uscendo dalla Sala del Sacerdote. Aiolos lo segue, titubante, ma le spalle del vecchio sono adesso larghe e ben distese. Come se quell’incontro fosse per lui il movimento della bacchetta del direttore d’orchestra che i musicisti aspettavano per dare inizio al concerto.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Nella mia testa i Santi di Lost Canvas si sono reincarnati in quelli della serie classica. Ci sono stati altri santi, sì, che uno mica può salvare il mondo da solo; ma mi rifiuto di riconoscere gente come Ionia come precedente Santo del Capricorno. Scusate. È un mio problema, me ne rendo conto.
Rémy di Boote esce dritto dritto dal mio headcanon, è il Santo d'Argento della Costellazione di Boote. Ne trovate traccia qui e qui e qui.

Par la tendrure è come muore Isotta alla vista del corpo esanime di Tristano.

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Capitolo 3
*** II. Mentre cantano le cicale ***



II.
Mentre cantano le cicale
(Sagittarius Aiolos)



31 Luglio 1972
 

Ci sono giorni in cui vorrebbe essere una freccia e schizzare via dal proprio arco, fendendo l’aria e il tempo e lo spazio; sorvolando paesi e città e mari e laghi e fiumi e montagne. Andare. Lontano. Lontano, lontano, lontano.
Ma Aiolos non può, perché sulle sue spalle magre grava il peso oneroso dell’armatura del Sagittario; perché Aiolia guarda a lui come Clizia seguiva Apollo; perché il Sommo Sion si fida di lui. Altrimenti non gli avrebbe affidato i marmocchi, giusto?
«Sei l’unico a cui posso chiederlo, Aiolos», gli ha detto il sant’uomo camminando nel pomeriggio inoltrato dei viali del Santuario, e il giovane Sagittario ha subodorato puzza di fregatura. Sono l’unico rimasto, ha pensato.
«Da un grande potere deriva sempre una grande responsabilità», ha aggiunto il Sacerdote quando ha visto la sua espressione colorarsi di perplessità. Ma allora perché inviare Saga a monitorare le mosse di Poseidone? Perché non rifilare a lui i marmocchi? Non ha forse il Santo dei Gemelli un potere pari al doppio del suo? E allora perché non affidare a Saga questo – ingrato – compito? Questo avrebbe voluto chiedere quel giorno Aiolos. E questo si domanda adesso il giovane Sagittario sul ramo più alto dell’albero più solitario del Santuario, mentre le cicale continuano il loro zir zir zir con un ritmo sempre più ossessivo. Lassù è il suo rifugio, una gamba a dondolare nel vuoto, il vento che gli accarezza la fronte, lo sguardo riempito di azzurra immensità. Lassù pensa. A tutto e a niente. Al peso che poggia sulle sue spalle gracili. Alle responsabilità che comporta indossare quella tenia rossa. E lassù, solo lassù, Aiolos si prende una pausa da tutto. Dalle responsabilità, dal Santuario, da Aiolia, da Saga, da Athena. Lassù – dove non conta se l’Armatura che indossi è d’oro, d’argento o di bronzo – Aiolos è solo un ragazzo in cerca di un posto tutto per sé, mentre osserva il Santuario riposare avvolto nel caldo impossibile del primo pomeriggio. Alla Nona Casa non avrebbe pace, requie, quartiere. Cinque minuti da passare da solo a solo con i propri pensieri, questo vuole Aiolos. Che si sente come un falco dalle ali spezzate che guarda al cielo con struggente melanconia. Perché oggi il desiderio di andarsene è insopportabile. Perché oggi è uno di quei giorni in cui Aiolos si sveglia con le migliori intenzioni possibili a gonfiargli il cuore, ma in cui le migliori intenzioni possibili non bastano.
Se solo potessi davvero volare, si dice, mentre sente qualcuno chiamarlo. Un suono fastidioso che lo strappa ai suoi pensieri, come una zanzara che ti ronza accanto all’orecchio mentre cerchi di riposare. Una voce che si avvicina. Correndo. La voce di Aiolia. Che lo sta chiamando, le mani attorno alla bocca a formare un megafono improvvisato.
Aiolos spera – prega – che non lo trovi. Che passi oltre. Perché nella voce di suo fratello c’è urgenza, quella vera. È successo qualcosa, mentre lui se ne stava per i fatti suoi. Qualcosa di grave, o Aiolia non lo starebbe chiamando a squarciagola ai piedi dell’albero, il naso all’insù e lo sguardo allargato dal panico.
Athena, ti prego!
Ma Athena sembra sorda ai richiami del suo Santo. Solo il vento scuote un po’ le fronde degli alberi, come a dirgli: Va’.
Aiolos stringe un sospiro ed un’imprecazione tra i denti e si affaccia oltre le fronde verdissime. «Checcè?», chiede. Seccato. Un’unica emissione di fiato, come solo lui riesce a fare, nemmeno fosse un vecchio isolano, uno di quelli che sputano tabacco all’ouzeria e parlano tutto attaccato che non si capisce niente.
«Aiolos! Scendi!!», grida Aiolia, con lo stesso tono che si usa quando qualcosa – il Santuario, tipo – va a fuoco.
Aiolos aggrotta le sopracciglia. E gli chiede: «Si può sapere checcè?».
«Vieni! Presto!», e balzando di ramo in ramo Aiolos atterra accanto al fratello minore.
«Cosa. Succede?», gli chiede, lo sguardo serio e le braccia conserte.
«È successa una cosa…»
«Che genere di cosa?» Non ti dovrò cavare le parole di bocca, vero?
«Una cosa come l’altra volta!», gli dice Aiolia. E Aiolos trema.
L’altra volta, quale?, si chiede. Perché non è la prima volta, quella, e di certo non sarà l’ultima in cui qualcuno ha una bella alzata d’ingegno. Perché gli scherzi sono all’ordine del giorno, tra i marmocchi, come li chiama il Sacerdote. Ed è anche normale che sia così. E sia ringraziata Athena, per questo. Scherzi, sberleffi e facezie servono a fare gruppo, a cementare un sodalizio, a creare cameratismo, ad alleggerire lo spirito. Perché si combatte meglio assieme ad un amico. Perché muori con minor rimpianto, se hai accanto un amico. Ma questi mostriciattoli giocano al rialzo. L’ultima volta qualcuno ha cosparso di colla il cuscino di Aldebaran. Che diamine è successo, stavolta?, si chiede Aiolos. Osservando la testolina da pulcino di suo fratello.
«Avanti», dice con un sospiro. Inginocchiandoglisi davanti.«Raccontami tutto…»
«Qualcuno ha messo le pulci nel letto di Aphrodite!», esclama Aiolia. Tutto d’un fiato. Lì per lì Aiolos non vuole capire. Sbatte le palpebre una volta, due, tre. Poi sorride. E se una mano invisibile – quella di Athena, forse – non gli fermasse le spalle, Aiolos starebbe già risalendo sul suo ramo preferito a dondolare una gamba nel vuoto, le nuvole nello sguardo e il silenzio nella mente, ignorando tutto e tutti. Aphrodite, il Santuario e le pulci.
Invece no. Athena non glielo consente. E Aiolos questo lo sa.
«Andiamo…..», sospira. «Mi racconterai tutto strada facendo. Con calma», aggiunge, prendendo per mano Aiolia e incamminandosi verso il Santuario.
Il vento riprende a soffiare tra le fronde degli ulivi. E Aiolia racconta.
«Devi vederlo! Aphrodite si contorce come un ossesso. Si gratta dappertutto. Fa impressione», ed Aiolos ride. Di cuore, di pancia e di anima mentre un cosmo caldo e gentile entra in risonanza con la sua allegria. Andiamo, Toxotis. C’è bisogno di te, lo esorta una voce di bambina. La voce di Athena. Che ride con lui. Di cuore, di pancia e di anima nella luce del primo pomeriggio, mentre cantano le cicale. Zir zir zir.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Anche Aiolos è stato un ragazzetto, dopo tutto.
Lo sfortunato caso della colla sul cuscino lo trovate raccontato qui ad opera di Camus dell'Acquario. Milo di Scorpio ringrazia.

Toxotis significa Sagittario in greco. Nella mia testa Athena chiama i suoi Santi con il loro nome celeste. Ed ovviamente, quando vuole sentirli più vicini, lo fa in greco. Noblesse oblige, n'est-ce pas?

"Da un grande potere derivano grandi responsabilità" è la battuta cardine che zio Ben ripere sempre a suo nipote Peter (Parker). Se non sapete di chi sto parlando, molto probabilmente sarete degli alieni. Se avete tempo, guardatevi la trilogia di Spiderman. La prima, quella di inizio nuovo millennio. Se avete coraggio, avvicinatevi ai fumetti. E tanti auguri.

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Capitolo 4
*** III. Quando la polvere si posa ***



III.
Quando la polvere si posa
(Cancer Death Mask, Pisces Aphrodite, Capricorn Shura)


8 Settembre 1973


Yngve è stanco. Tanto stanco.
«Finalmente!»
Lo hanno buttato giù dal letto e lui odia essere svegliato di soprassalto. Lo mette di cattivo umore. E lui odia essere di cattivo umore.
«Non se ne poteva proprio più!»
E quest’italiano pazzo continua a blaterare un discorso tutto suo che Yngve – un occhio a mezz’asta e l’altro pure – non vuole ascoltare. Vuole solo dormire. È così difficile da capire?
«Io lo dicevo. Era troppo perfetto per essere vero.»
Pare proprio di sì.
«Certe cose vanno bene per dopo. Per quando la polvere si abbassa e resta l’epica. Ma durante… durante, no
Yngve ruota a fatica il viso verso il compagno. Sa già che se ne pentirà, ma spera che una domanda, un’unica, singola domanda possa spiegargli che sta succedendo. Lo spera con tutto il cuore. E in caso contrario ho pur sempre pronte le mie rose…
«Si può sapere di che stai parlando?»
Death Mask lo guarda come se fosse appena sbarcato da Marte.
«Davvero non lo sai?»
«Non so, cosa
«Del Cavalier Servente che ha dato di matto», risponde l’altro. Indicando col pollice un punto imprecisato alle sue spalle.
Yngve sbatte le palpebre. Nella sua mano, una rosa rossa.
«Ok. Mi spieghi chiaramente che sta succedendo?!»
Death Mask fa un passo indietro, l’armatura che fa clang. Anche Yngve indossa la sua, la lucidissima corazza dei Pesci, mantello immacolato incluso. Gliel’hanno infilata mentre ancora dormiva, e il metallo si è attaccato alla pelle. E tira. Una sensazione molto, molto fastidiosa.
Death Mask incrocia le braccia. Posa scenica studiatissima, cui Yngve non abbocca. Si schiarisce la voce. Guarda in basso, verso la Decima Casa.
«Pare che il Sagittario abbia attaccato il Sacerdote e rapito Athena.»
Aphrodite deve aver capito male. Aiolos? Quel precisino immacolato? Non è possibile che abbia avuto un’alzata d’ingegno simile. Se stessero parlando di Saga, forse, ché Saga gli ha sempre dato l’idea di essere uno pronto a fare quel che c’è da fare senza troppe cerimonie. È un guerriero, Saga, non qualcuno buono da mettere su un piedistallo ed additare come esempio. Ché sì, il Sacerdote addita anche Saga, ma quando lo fa Yngve non storce le labbra rosate in una smorfia di disappunto.
Aiolos è. Saga, fa.
«Aiolos? Sei sicuro?»
«Il Sommo Sion l’ha beccato davanti alla culla. Con un pugnale in mano. Tu che dici?»
«Ma perché l’avrebbe fatto?»
L’altro si stringe nelle spalle.
«Sarà impazzito», dice. Come se la pazzia potesse essere un buon alibi, una scusa da rifilare all’occorrenza; come se la pazzia spiegasse tutto, quando invece non spiega niente.
«Mmmhhh…»
«Hai un’ipotesi migliore?», ed Yngve si trova costretto a dire di no. «Aiolos ha perso la trebisonda, ha cercato di accoppare Athena neonata e adesso Shura se ne sta occupando.»
Yngve sbatte le ciglia nerissime.
«Come, Shura?»
«Eh, Shura.»
«Ma Shura…»
«…è Shura.»
Yngve pesta un piede. Non indossa nemmeno i calzini.
«Shura non avrà mai…»
«… le palle per farlo fuori?»
Yngve ha la sgradevolissima sensazione di essersi trasformato in uno dei tre –odiosissimi – nipotini di Kalle Anka, quei paperottoli piumosi col brutto vizio di spezzettare un discorso in tre battute. «Sì», dice – sospira.
«Qui ti sbagli», gongola l’altro, nell’ennesimo ghigno preparato. Se Yngve non fosse così stanco da reggersi in piedi a malapena – e tutto perché lo sorregge l’armatura, mica per altro – penserebbe che in fondo è bravo, Mask. Che la parte che si è cucito addosso gli calza a pennello. Se solo fosse meno criptico…
«Perché?»
«Perché Shura è l’unico tra noi tre che potrà portargli la testa di Aiolos.» Risata. «Perché il prooooode Capricorno mangia pane e onore. Perché gliel’ha ordinato il Sacerdote, al cocco di Aiolos. E quello, nel pathos, ci sguazza come il pesce nel barile.»
Yngve vorrebbe obiettare che, da dove viene lui, il pesce non sguazza affatto nel barile, ma non ha la forza per spiegare all’altro la differenza tra quello che ha detto e quello che avrebbe voluto dire. Tanto non l’ascolterebbe. Direbbe che è uguale – e col cavolo che lo è! – e riderebbe per cambiare discorso.
«Ma si può sapere che hai da gongolare così tanto?»
«Gongolo», gli dice Mask con un sorriso simile ad una tagliola affilatissima, «perché alla fine sono venuti fuori gli altarini.»
Lampo di panico nello sguardo di Yngve.
«Che?»
«La polvere sotto al tappeto», spiega Mask. Seccato. «Aiolos non è il Santo dalla specchiata moralità che tutti credevano, ma solo una patacca smaltata d’oro. E ti dirò. Sono felice che sia successo.»
«Che Aiolos abbia rapito Athena?!»
«No!» Mask si porta le mani ai fianchi. «Che Aiolos abbia mostrato la sua vera natura. L’oro di Bologna si fa nero per la vergogna, no?»
No, vorrebbe dire Yngve, ma si trova ad annuire suo malgrado.
«E non so te, ma a me diverte da matti vedere le stelle finire nelle stalle. Non brillano più, dopo.»
E ride, un gesto che ben si adatta ad uno come lui, forte col debole e debole col forte. Un lampo nello sguardo azzurro di Aphrodite lo interrompe.
Alle sue spalle dei passi, e Shura del Capricorno appare sulle scale. Solo. Senza neonata, senza Aiolos, senza Armatura del Sagittario.
«Che minchia è successo?», vorrebbe chiedergli il Cancro, ma lo sguardo di Shura gli congela il fiato in gola. Il Capricorno è stanco, sporco di sangue e terra e l’aria di chi vorrebbe strapparsi di dosso l’armatura e scagliarla nel primo dirupo disponibile. Pezzo per pezzo.
«L’ho perso», digrigna Shura tra i denti, come una bestemmia trattenuta a stento, i pugni stretti pieni di rabbia e vergogna. E sfila via, a fare rapporto al Sacerdote, i compagni che guardano il suo mantello stracciato pendergli dalle spalle come una bandiera sopravvissuta ad un incendio.
Mask corruga le sopracciglia.
È quasi l’alba. E di Aiolos – e di Athena – nessuna traccia.
Aphrodite guarda l’altro, nella speranza che riprenda il suo cianciare. Che dica qualcosa. Che riempia un silenzio così assoluto e freddo che fa paura. Ma Death Mask tace, Ahprodite tace, l’intero Santuario tace, ascoltando la polvere che si posa.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
La fine dell'infanzia non poteva che essere la Notte degli Inganni, quando gli eventi sono precipitati e bla, bla, bla.
Vi aspettavate un assolo di Shura, vero?
E invece no. Il Cancro l'ha superato in volata - e senza nemmeno mettere la freccia - trascinandosi appresso la bella facciotta assonnata di Aphrodite. Tanto dei patemi di Shura, Saga e Aiolia ho già parlato abbastanza - e se ve li foste persi, potete trovarli qui.

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Capitolo 5
*** VI. El que en buen hora cinxo su espada ***



IV.
El que en buen hora cinxo su espada
(Capricorn Shura)


18 Gennaio 1972


Ruy dorme.
Stanco, la testa alla deriva sulla federa che sa di sole ed erba e sapone di Marsiglia, Ruy sogna, le spalle a pezzi, le mani fasciate, le palpebre pesanti.
C’è una strada, davanti a lui, che si snoda nel buio. Una strada bianca, luminosa, come polvere di stelle che attraversa una città. Burgos. Casa sua. Non è la cattedrale, quella che si erge aguzza verso il cielo? Sì. E lui lì, a piedi nudi, una vecchia camicia di Javier come pigiama che gli arriva appena alle ginocchia, fissa quell’immensità di sfumature d’ombra e onice che minacciano di cadergli addosso. Tagliandolo.

Ruy si volta. Un uomo cammina sull’acciottolato dalla porta di Santa Maria fino alla Cattedrale, ma non emette alcun suono. Il cavaliere veste un’armatura, luminosa, che spicca in quell’oscurità avviluppante. Lo guarda, lo fissa, un accenno di sorriso ad addolcire l’angolo degli occhi affilati. Un lago viola scuro di acciaio liquido.
«Vieni», sussurra appena. E si volta, sfilando per le strade deserte, puntando a nord, verso Porta San Esteban, verso Vivar, l’orlo del mantello che danza come a salutare – come ad omaggiare – la Cattedrale di Santa Maria la Maggiore.
Ruy lo segue, a piedi nudi, trotterellandogli dietro sull’acciottolato nero, ché il suo passo è svelto e ampio. E non lo aspetta. Anche se lui è solo un bambino.
«No, che non lo sei», dice il cavaliere, la voce che trancia l’aria immobile.

E superata la porta di pietra sbozzata qualcosa cambia. Burgos sparisce, la strada stessa sparisce, ed appaiono le spade. Una marea di spade conficcate nel terreno. Come in un cimitero che si allarga a perdita d’occhio. Ruy ha paura, ma il cavaliere cammina spedito e lui lo segue, ad un passo dal suo mantello candido come la neve.
Le spade sono lì. Nere. A meno di un braccio da lui. Può sfiorarle con la punta delle dita, ma Ruy ha paura di tagliarsi. Sembrano così affilate. Così pericolose. Così arrabbiate. Così morte.

Il cavaliere prosegue nel suo cammino, e lui lo segue. Ma poi gli occhi di Ruy – confusi, impauriti e sgranati – vedono qualcosa brillare in mezzo a quel roseto di spade, a quel cimitero di lame interrate a metà. Una luce, calda, dorata, splendente come l’armatura del cavaliere. Una luce che lo chiama. Che pulsa, mano a mano che i piedi di Ruy si avvicinano, che la sua mano destra si allunga a sfiorarla, come a cogliere un fiore che cresce sul ciglio di un burrone.
Un fiore fatto di luce. Lama, guardia, taglio ed elsa.

Ruy abbraccia la lama. È calda, sulla pelle. Gli è di conforto. Non ha più paura, adesso, in mezzo a quel cimitero di ruggine nera. Se la stringe al petto, estraendola dal terreno. Perduta e ritrovata, pensa.
Il cavaliere si avvicina. Gli sorride. La spada si chiazza di ombra. E si fa pesante e leggera allo stesso tempo. Ruy non la lascia andare, mentre la luce gli inonda il corpo.
Perduta e ritrovata, pensa, la spada tra le braccia come l’orsacchiotto di quand’era piccolo.

«Perché brillava così forte, questa spada?», chiede, ed è un sorriso gentile – tenero, quasi – quello che incurva le labbra del cavaliere.
«Perché ti stava chiamando», dice il cavaliere, con la voce profonda e inflessibile che contrasta con la luce che gli schiarisce gli occhi. Viola, come un campo smarginato di lavanda.
«Quella», prosegue indicando la spada che Ruy stringe tra le braccia, «un tempo fu mia.»
«E perché non lo è più?»
«Perché io fui», risponde il cavaliere, quasi senza muovere le labbra, «mentre tu sarai.».
«Sarò cosa?», chiede Ruy, mentre la luce sorge alle sue spalle, e il cavaliere sfuma nell’ombra e le sagome nere delle spade svaniscono come incubi trafitti da un raggio di sole.
«El que en buen hora cinxo su espada», sussurra nel vento la voce del Cavaliere, come se fosse il ritornello di una vecchia canzone, mentre Ruy apre gli occhi. Nel suo letto, nella mansarda in casa di Javier, ad Orreaga, ai piedi dei Pirenei. Sbatte le palpebre, si passa un braccio sulla fronte – sudata – e si mette a sedere in un fruscio di coperte ruvide.

Che razza di sogno, si dice, guardandosi il palmo della mano destra. È calda, adesso, calda e pesante, come se ci fosse qualcosa ad attraversargli il braccio fino al petto. Fino al cuore, dove batte una consapevolezza nuova: la certezza di non essere più solo. Di avere una luce, dentro di lui, a bilanciargli meglio braccio e polso e dita.
Ruy si alza, sulle lenzuola sfatte, la camicia incollata alla schiena magra. Il sonno è oramai un ricordo e c’è qualcosa che deve assolutamente fare. Ad ogni costo. Così si alza – Javier è in paese a giocare a scacchi con don Julio – si infila gli scarponi, il giaccone ed esce. Corre verso il bosco alle spalle della baita, il cuore in tumulto per la paura e la gioia, facendosi strada tra gli aghi di pino e la neve fresca, fino su alle rocce aguzze e bianche del Picco del Capricorno.
Sulla sua testa, Deneb Algedi brilla, come a infondergli coraggio.

Ruy sospira.
Perduta e ritrovata, pensa, e il taglio della sua mano si colora di una calda luce dorata. Assottiglia lo sguardo. Il braccio si solleva, prolungandosi oltre la spalla, verso quel cielo ingemmato di stelle. Sì, la sente. Adesso la sente pulsare dentro di lui, quella luce che lo chiamava, che brillava per lui nel cimitero delle spade. Calda, forte, invincibile. E il braccio si abbassa, e il cosmo esplode e Deneb Algedi entra in risonanza. Ed Excalibur cala, fendendo in due l’aria, abbattendo ogni ostacolo mentre in cielo il Capricorno brilla di furore, scaldando la notte ed allontanando la paura. E la spada sacra cala. Una, due, tre volte. Ancora e ancora e ancora. Danzando con Ruy, nel suo braccio, nel suo cuore, nel suo respiro. Lasciandolo senza fiato. Cantando la sua canzone. Incidendogliela nell'anima. Perduta. E alla fine ritrovata.
 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Confessione #1: stavo gironzolando su Pinterest quando sono incappata in questo fumettino. E sono scattati dodicimila campanelli ed è nata questa storia.

Confessione #2: io ho un debole smodato (e squilibrato) per Rodrigo Diaz de Vivar, alias El Cid Campeador, ed il suo Cantar. Per me Shura si chiama Ruy per lui, per il Cid, ben prima dall'apparizione in scena di El Cid (cnfr. Gold, 2002). Scelta banalotta, me ne rendo conto; ma so di non essere sola (Teshirogi anyone?).

Confessione #3: ho lasciato un pezzetto di cuore a Burgos. Se vi capita, fateci un salto. La sola Cattedrale di Santa Maria la Mayor merita una visita. Il fatto che lì vi siano anche sepolte le spoglie del Cid e di Donna Jimena è un valore aggiunto. Davvero.

Confessione #4: El que en buen hora cinxo su espada (trad. Che in buon ora fu armato cavaliere) è uno dei classici epiteti epici con cui ci si rivolge al Cid nel Cantar. Ha sia valenza esplicativa (ne ricorda il valore cavalleresco) che esornativa (spesso lo si utilizza come sinonimo per indicare il protagonista).

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Capitolo 6
*** V. Una marsina non troppo stretta ***



V.
Una marsina non troppo stretta
(Cancer Manigoldo, Pope Sage)


6 Marzo 17XX



«Sacerdote, mi avete mandato a chiamare?»
«Vieni, vieni pure, Ragazzo. Finisco questa, e sono da te», gli dice, sollevando gli occhi per un istante. È sporco, impolverato e con dei vistosi graffi rossi sul viso. E Sage si chiede cosa ne penserebbe suo padre se lo vedesse in questo momento. Gli prenderebbe un colpo. E poi gli liscerebbe il pelo a suon di bastonate, pensa. Sorridendo dentro di sé.


Il Ragazzo – come lo chiama lui – gli ha raccontato la sua storia strada facendo. Non parlava da mesi con anima creata e macinava parole ad una velocità impressionante. Lui l’aveva lasciato fare, tenendogli la mano stretta nella sua per evitare che gli sfuggisse via, come un panno unto d’olio.
Suo padre si chiamava Giuseppe ed era una persona importante, nonostante al villaggio la pensassero diversamente. Oh, di fronte erano tutti sorrisi e moine, ma alle spalle volavano sputi e segni della croce. E qualcuno faceva scivolare una mano in tasca per gli scongiuri del caso.
«Meglio temuti che compatiti», diceva lui, che aveva ereditato il mestiere da suo padre e che sperava di passarlo al figlio, un giorno. Quando sarebbe stato grande a sufficienza da tenere in mano la scure.
Suo padre non usciva mai di casa senza marsina o senza aver lustrato i suoi stivali di cuoio con la massima cura. E lo stesso doveva fare lui. Guai a tenere la camicia troppo morbida o addirittura fuori dai calzoni, guai a rientrare a casa con un bottone penzolante o le scarpe impolverate. C’era un bel bastone nodoso accanto alla porta che l’aspettava, lo stesso con cui suo padre abbatteva i conigli e cercava di far entrare un po’ di sale in zucca a quel figlio scapestrato con troppe favole nella testa e sempre pronto a scendere al ruscello per catturare grilli, rane, salamandre, e tornare a casa coperto di fango.
«L’abito non fa il monaco e la chierica non fa il frate», diceva lui, mentre la pezza di lana andava e veniva sulla pelle un po’ consunta dei suoi stivali. «Ma  diffida di un monaco senza abito o di un frate senza chierica.»

Tutte quelle regole e quelle attenzioni all’aspetto e alla buona educazione per quel bambino erano come una marsina troppo stretta che gli serrava le spalle e la schiena e che tirava pericolosamente ogni qualvolta che respirava, minacciandolo con un severo strrr. Un avvertimento a non tirare troppo una corda pronta a spezzarsi per molto, molto meno. Eppure, ubbidiva, trattenendo il fiato e l’impulsività finché poteva, adattandosi ai voleri di un padre che non usciva di casa senza il fazzoletto ben annodato al collo, la marsina spazzolata, la camicia immacolata, i calzoni al ginocchio e le calze pulite. Nonostante fosse il boia.
«Proprio perché sono il boia», gli aveva risposto una volta, annodandosi un fazzoletto con l’orlo di pizzo, ricordo del padre, un piccolo vezzo che ostentava in occasioni importanti, come quando doveva andare a parlare con lo sceriffo o con il prete. «È una questione di educazione», aveva aggiunto, posando il cappello da caccia le cui piume sarebbero sembrate eccessive. «Non siamo noi, l’immondizia, ma i condannati. Sono loro ad aver infranto la legge. Ecco perché incontrano la mia scure, prima o poi.»

La falce della Nera Comare s’era portata via tutto il villaggio in una notte sola, nessuno escluso. Giustizia o non giustizia. Ridendo dei modi compassati di suo padre, delle sue calze nerissime e dei ricami sui polsini della marsina buona.
L’aveva trovato affamato e stanco mentre i fuochi fatui danzavano attorno a lui. Azzurrissimi e delicati come fiocchi di neve. Decisamente fuori luogo in quel delirio di case distrutte e sangue rappreso per la strada, da cui persino i cani randagi erano fuggiti, uggiolando alla luna una volta che le scorte di cibo – ed i cadaveri – erano finiti. Solo lui era rimasto in zona, nascosto oltre i muretti bassi che delimitavano le case.

Tutta la vallata sapeva cos’era successo in cima alla collina e guai anche solo a pensare di ricostruire qualcosa, lassù. I Borbone avevano deciso di lasciare un paradigma a quella gente, un esempio cosicché agli indecisi o ai temerari del circondario sarebbe bastato alzare gli occhi, in caso di dubbio. Eppure, qualcuno passava ancora da quelle parti. Qualche viandante che non aveva quattrini da spendere nelle costose locande dabbasso, o sufficientemente furbo da pensare che nessuno l’avrebbe seguito, lassù, dove nemmeno la polvere dava fastidio agli spiriti inquieti dei morti, che il vento portava a spasso tra le tegole e i vicoli stretti nelle notti senza luna.

Qualcuno aveva persino visto il diavolo ballare assieme agli spiriti, lassù sulla collina, ma nemmeno allora desistevano.
«Superstizioni», aveva ribattuto Sage del Cancro, Grande Sacerdote di Athena, che agli occhi di quelle persone doveva essere sembrato uno strano vegliardo un bel po’ tocco. Aveva sorriso, aveva agitato la mano come a scacciare una mosca fastidiosa dalle ciliegie mature, prima di prendere la strada che portava alle rovine annerite dal fumo in cima alla collina. Dove, tra i rovi ed i mirti, abitava davvero il diavolo con il suo codazzo di fuochi fatui attorno e una marsina ricamata sulle spalle. Un diavolo dall’aspetto di bambino e dal sorriso da assassino.
 
«Allora, che ne dici, nonnetto?», gli chiede, sorriso spavaldo e mani sui fianchi.
«Si vede che era destino», mormora, dando un’occhiata distratta a quel gatto randagio che ha bisogno di una bella insaponata e di un sana dormita, ma Sage deve sapere una cosa, prima di congedarlo.
«Adesso che hai ottenuto l’armatura, vuoi avere un nome sacro? O vuoi mantenere il tuo», gli chiede, mentre la penna corre sulla pergamena.
«Nah, Vincenzo non mi è mai piaciuto», dice, facendo spallucce. «Ne porterò uno sacro. Come i preti.»
«E sarebbe?»
«Manigoldo.» Lo dice con una naturalezza sconcertante. «Alla fine, ho ereditato il mestiere di mio padre.»
«Marsina compresa?»
Un sorriso sghembo gli si disegna sul viso.
«Tranquillo, nonnetto. Sono un Santo di Athena, adesso. E la marsina di mio padre non è poi così stretta.»



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Galleggiando galleggiando, l'esteriorità. Delle piume del pavone ve ne ho già parlato qui, e non mi ripeterò. Lasciamo spazio a Manigoldo, al suo codazzo di fuochi fatui e alla marsina di suo padre.

Marsina stretta è il nome di una novella di Pirandello apparsa su rivista nel 1901, messa poi su pellicola nel 1954 con uno strepitoso Aldo Fabrizi (e vi parla una che Fabrizi non lo ama. Affatto.).
La marsina era l'antesignana della giacca, con i risvolti sui polsi e decori sempre più eleganti a seconda delle tasche di chi la indossava.

Da fan approvo la scelta del termine manigoldo per designare il boia di Athena; ma da italiana mi rifiuto di credere che qualcuno abbia pensato di battezzare qualcun'altro con questo nome e che il prete gliel'abbia permesso. Vabbé, vabbé, ma a tutto c'è un limite!

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Capitolo 7
*** VI. Come una ninna nanna ***



VI.
Come una ninna nanna
(Kanon)


1 Dicembre 1965



C’è una melodia a proteggere Viktoras quando cala il buio. A fior di labbra, come una ninna nanna tra i battiti del cuore. Una ninna nanna che assomiglia alla canzone che spira dal mare e che il vento infila nella mente. Una melodia di luce, come l’oro scintillante, come le scaglie dei pesci che guizzano nel mare, come il sole che sorge al mattino e dissipa il buio con una lama che fende in due la notte.
Viktoras dorme, la mano sul cuscino, la testa di Vassilios accanto alla sua. Dorme e sogna, mentre la voce di Athena veglia su di lui.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Stavolta andiamo di drabble. Si tratta di mille parole al massimo, giusto?
Nella serie classica Ikki dice a Kanon che Athena ha sempre vegliato su di lui, anche quando si trovava nella prigione di Capo Sounion. Mi faceva piacere tornare indietro di qualche anno, prima che tutto iniziasse e c'erano solo Viktoras/Kanon e Vasilios/Saga.
Mi sa che stavolta il tema è rispettato a cazzotti; pazienza.

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Capitolo 8
*** VII. Questo passa il convento ***



VII.
Questo passa il convento
(Aquarius Camus, Scorpio Milo)


22 Agosto 1972



Veleno si dice pharmakon. Che significa anche medicina. Ma quello che distingue il veleno dalle medicine è che il veleno uccide.

«Buongiorno! Che s’è gia'lzato

Uccide perché il sangue prima e l’organismo poi non sono preparati a ricevere quelle tossine. Troppe. E tutte assieme. È una questione di chimica.
Perché è la dose che fa il veleno, come diceva qualcuno. Paracelso, forse. Non lo ricordi di preciso. Avevi tenuto il segno, ma qualcuno ha fatto volare via libro e cartolina. Per distrazione.

«Non ancora. Lasciate che io vi annunci, Venerabile Sc…»

Ci sono due modi per sconfiggere il veleno: il primo, è avere a portata di mano l’antidoto – ma non si tratta di una vera e propria vittoria, ché il veleno ha fatto il suo sporco lavoro e tu puoi solo tamponare il danno; quanto di un pareggio. O almeno, Rémy la vedrebbe in questi termini.

«Noggrazie! Conosco la strada!»

Il secondo, è diventarne immuni. Assumendone quantità via via maggiori, giorno dopo giorno. Così l’organismo si abitua – si adatta – al veleno e questo perde d’effetto. Sembra facile. Ma ci vuole coraggio per intraprendere il cammino del mitridatismo. Coraggio e stomaco. E pazienza. Ché i veri progressi avvengono passo passo, a piccole dosi – giorno dopo giorno – e non tutti i veleni sono uguali. Certi veleni paralizzano, altri soffocano e altri ancora solidificano il sangue. Ma quelli più pericolosi, sono quelli che non riesci a contenere. Perché mettono a dura prova la tua pazienza. E non sia mai detto che Étienne Arnoul si tiri indietro di fronte ad una sfida, vero?

Quindi ti metti a sedere, le mani in grembo, e aspetti paziente che la porta della camera da letto si spalanchi. Fuori è sorto il sole. Ed è l’ora della tua dose di veleno quotidiana. Se solo l’infermiera fosse giovane e carina, forse l’ingoieresti con un sorriso, ma pazienza. Questo passa il convento, pardon: il Santuario.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
povero, povero Camus. Quanta pazienza ci vuole con un esagitato come Milo!
Il mitridatismo prende il nome dal re del Ponto Mitridate IV, bestia nera della Repubblica Romana; il quale, onde evitare di essere avvelenato dalla solita congiura di palazzo - andavano un casino, all'epoca! - aveva preso la bizzarra abitudine di assumere quantitativi via via maggiori di veleno. E la cosa funzionò, giacché s'infilzò sulla propria spada per non cadere prigioniero di Roma; ma sinceramente, io non seguirei le sue orme.
Un grazie ad Engel ed un bel tè fumante. Senza arsenico, tranquilla!

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Capitolo 9
*** VIII. Da grande ***



VII.
Da grande
(Chameleon June)


1 Marzo 1983



«Gli uomini contano in minuti e le donne in settimane» diceva Cristina, ma quando le chiedevi cosa intendesse dire con quelle parole, lei rispondeva con una risata delle sue – che mettevano in evidenza lo spazio tra gli incisivi – e aggiungeva: «Lo capirai da grande, scricciolo».
E tu ti seccavi. Ti seccavi perché pretendevi una risposta sul momento, e non da grande. E poi, quand’è che si diventa grandi? Quando si diventa maggiorenni? Quando spunta il seno? O quando si inizia a frequentare la tenda mobile delle volontarie pronte a rispondere che si è sempre al di sotto delle sette settimane?
Cristina scuoteva la testa, un lampo negli occhi scuri, e poi ti diceva – ti intimava: «Vedi di non trovarti mai nella loro condizione», e te le indicava oltre il vetro, in fila come tante formiche, le spalle strette nei vestiti leggeri e gli occhi allagati di paura.

Ma tu guarda cosa vado a pensare, ti dici, osservando il profilo delle nuvole che scivolano pigre nel cielo di Marzo, mentre la sirena del postale irrompe nello stridio dei gabbiani. Ti alzi in piedi, ti spolveri le ginocchia – ma fai attenzione ai graffi – dai un’ultima occhiata al cielo e ti sistemi la maschera sul viso. Non te la toglierai prima di altri quindici giorni, quando il postale tornerà con le provviste che il Maestro ha scritto sul foglietto che tieni tra le dita come se fosse la mappa di un tesoro. Alla fine, ho imparato anche io a contare in settimane, pensi, mentre il postale attracca. Ma se tu sia diventata grande, questo ancora non sai dirlo. 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
È poco probabile che una biondina pallida e con gli occhi azzurri come June sia etiope se non per caso. Nel mio headcanon ho scelto di darle una mamma medico presso MSF - Médecins Sans Frontières, che tanto ha fatto per l'Africa al punto che s'è trasferita laggiù con sua figlia - lasciandoci le penne; ma questa è un'altra storia.
Così si chiude il 2015. Buona fine e buon principio e a voi vadano i miei migliori auguri per un 2016 di pace e serenità.

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Capitolo 10
*** IX. La piccola principessa ***



IX.
La piccola principessa
(Mitsumasa Kido)


1 Aprile 1983


 
 APRIL is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
(T.S. Eliot , The Wast Land - I The Burial of The Dead, 1922)



Saori dorme.
La testa abbandonata sul cuscino, I capelli che bucano il bianco candore della federa, la manina stretta a pugno. Le ciglia proiettano un’ombra lunghissima sulle guance paffute, mentre la lanterna magica proietta delle figure luminose alle pareti: un principe, una rosa, una piccola volpe, uno stormo di uccelli migratori, un pianeta nano.
Sarà una bella ragazza, Saori, da grande. Bella come bambola di porcellana, di quelle che fanno bella mostra di sé sui ripiani dei negozi di giocattoli di un certo livello. Più bella di quella vezzosa Priscilla, col cappellino e l’ombrellino coordinati al vestito, che Saori ha scovato in un negozio al centro di Londra. Sì, sarà bellissima, la tua Saori. Peccato che tu non sarai qui per vederla.

«Il medico mi ha dato sei mesi. Un anno al massimo.»

Lo sussurri a te stesso, accarezzando le perle di diaspro rosso che sonnecchiano nell’astuccio sul comodino, mentre fuori Aprile riveste di gemme delicate i rami degli alberi. E solo adesso, al capezzale della tua nipotina, quelle parole ti appaiono dolorosamente crudeli e taglienti e gelide. Reali. Uno schiaffo che ti desta all’improvviso, qualcuno che ti posa la mano sulla spalla e ti invita – con fermezza – a scendere dalla giostra. Proprio sul più bello, pensi, soffermandoti a contemplare il tuo riflesso su una perla. Come sei piccolo e stanco. E come debbono sembrare insignificanti le tue pene, agli occhi degli dei. Ma esistono, poi, questi dei?

L’ultima volta che te lo sei chiesto – che ne hai parlato, scherzando, con Agapios Solo –, loro ti hanno risposto facendoti incontrare quel ragazzino insanguinato e un fagottino avvolto in una coperta rosa. Sì, gli dei esistono; ma non sono qui per esaudire le nostre preghiere, pensi, chiudendo l’astuccio.
Eppure, una richiesta ti sale spontanea alle labbra. Anche se sai che il tuo tempo sta per scadere, anche se sai che è giusto che tu raggiunga Akane e Mei e gli altri che ti hanno preceduto, anche se.
Fammi restare un altro po’ con te, pensi. Mentre le tue mani vecchie e rugose stringono quelle tenere a grassottelle di Saori. Sta avendo un incubo, la piccina. Un brutto sogno che le corruga la fronte e le sopracciglia delicate – un arco perfetto sopra gli occhi dolci.
«Va tutto bene, tesoro», le sussurri, scostando un ciuffo di capelli dalla fronte sudata. «Il nonno è qui con te.»
Fammi restare ancora un po’ accanto alla mia piccola principessa, Athena, pensi – preghi – inginocchiandoti sulla moquette rosa pastello, le dita di Saori nelle tue, ignorando che il vento oltre le finestre sembra quasi ridere di te.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Mi hanno costretto a leggere Il Piccolo Principe quando avevo otto anni e l'ho trovato incomprensibile.
Mi hanno fatto leggere La piccola principessa dopo aver visto la serie a cartoni animati, rovinandomi la sorpresa.
Riletti dopo anni, ho apprezzato (e capito meglio) entrambi, anche se propendo sempre per il racconto di Saint-Exupéry (scusami, Sarah, ma sei troppo buona e perfettina per i miei gusti).
Ovviamente, la lanterna magica di Saori non poteva che proiettare le figure dei personaggi del Piccolo Principe e la bambola cui fa riferimento Mitsumasa non poteva non chiamarsi Priscilla, come l'adorata compagna di Sarah.
Se poi volete fare un salto a dare un'occhiata alla mia Lanterna Magica, siete sempre i benvenuti.
Potete trovare la storia della collana di diaspro rosso nella capitolo Glasperlenspiel all'interno della raccolta Astrolabio, mentre la chiacchierata tra Mitsumasa e Agapios Solo - il nonno di Julian nel mio headcanon - avviene in questa storia. Perché l'hybris non è una calamità che tocca solo i greci. Anzi...

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Capitolo 11
*** X. Affondo. Stoccata. Parata. ***



X.
Affondo. Stoccata. Parata.
(Capricorn Shura)


12 Gennaio 1970


Affondo. Stoccata. Parata.

Il tempo passa. Scorre via assieme al sudore, alla fatica e alle nuvole che solcano il cielo. In realtà, il tempo non esiste come le montagne, l'acqua ed i prati. È un invenzione dell'uomo. Per imbrigliare la propria vita. Capirla. Darle un senso. Una direzione. Il tempo passa, perché è questo quello che sa fare. Scorrere. Nei vestiti che diventano corti. Nella mano che fende l’aria. Nei massi da portare sulla schiena. Nelle rocce da usare come appiglio per saltare. Nelle stelle che aspettano, lassù, brillando nel cielo. Quiete. Pazienti. Lontane.
Stoccata. Parata. Affondo.

Negli occhi di Javier, che scruta l’erba verde dei Pirenei e il fumo delle sigarette come se vi leggesse attraverso chissà quali misteri. Chissà quali segreti. Il futuro? Forse. Il passato, no. «Quello ce l’hai scritto in faccia, mammoletta», gli ripete, le mani in tasca e l’aria indifferente ai saluti dei pellegrini che abbracciano il Cammino, zaino in spalla e pettine alla cintura.

Affondo. Parata. Stoccata.

Nelle mani callose di Lupe, che sbucciano patate e stendono lenzuola, amitti e casule sullo stesso filo, alle spalle della canonica. «Sempre di lino bianco si tratta», scherza lei, la borsa piena di pinze da bucato spaiate, prima di ciabattare in cucina e tornare a sorvegliare una pentola che borbotta, borbotta ma non schiuma mai sui fornelli.

Parata. Stoccata. Affondo.

Nel silenzio della sagrestia, dove don Julio prepara un mistero che risuona del suo latinorum con una rosa che si moltiplica per altre dieci volte. Odore di libri vecchi e avorio intagliato e fogli di giornale spiegazzati. In un orologio che sbuccia i minuti con una lentezza esasperante. Ma solo se stai lì a fissare la lancetta dei secondi.

Stoccata. Affondo. Parata.

Il tempo passa. Si disgrega in fogli da staccare dal calendario e gettare nel camino acceso. In attesa. Che si sciolga la neve. Che cadano le foglie. Che si alzi il vento. Che si risvegli Excalibur. L’equilibrio perfetto. Quello dello stambecco in bilico sullo strapiombo. Quello del Santo di Athena. Arriverà. Javier ne è convinto, Lupe ne ha paura e don Julio non ci crede. Arriverà, un giorno come tanti, senza fanfare e squilli di trombe. Succederà, chissà dove, chissà come, chissà quando. Ma fino ad allora, scorreranno i giorni e gli anni e le stagioni, in un girotondo sempre uguale a se stesso, dal mattino alla sera e oltre. Fino a quando sarà necessario. Fino a quando Ruy non sarà pronto. Le stelle del Capricorno sanno essere molto, molto pazienti...

Affondo. Stoccata. Parata.




Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
L'addestramento di Shura e gli anni che passano. Perché non c'è Shura senza spada, un po' come non c'è fumo senza arrosto.
Javier, Lupe e don Julio li trovate in Quando Cantano le Spade (giuro che finirò questa storia!). Di scherma so quel poco e niente che ho appreso seguendo questo sport in tv (a meno che non si tratti dei talenti del Guerriero in D&D, ma quella è un'altra faccenda) e ho cercato di ridurre all'osso i movimenti base. Affondo, stoccata e parata, insomma. Finta, flèche e fouet li vediamo un'altra volta.
Il pettine non è lo strumento per districare i nodi, ma la conchiglia di S. Giacomo, il simbolo dei pellegrini che affrontano il Cammino di Santiago. Ruy/Shura affronta il suo addestramento a Orreaga-Roncesvalles, un borgo dove inizia la parte spagnola del Cammino, e in paese è pieno di pellegrini come Roma lo è di gatti.
Excalibur è la spada per eccellenza che si ricollega a Re Artù. È quella che ha estratto dalla Roccia? Oppure Caliburn è quella che estrae e che rompe contro Re Pellinor ed Excalibur è un'altra lama?
Dipende da chi scrive.
L'etimologia, invece, varia a seconda se si parte da una base latina o celtica. Una delle tante proposte è ex calibro, ossia in equilibrio perfetto, riferendosi alla fattura stessa della spada. Considerando che Shura crea un doppione della Sacra Lama, verrebbe quasi da credere che lui abbia risvegliato Caliburn in un primo momento e che Excalibur sia un passaggio ulteriore - altrimenti non si spiega come mai El Cid si allenasse ancora, nonostante avesse guadagnato l'armatura del Capricorno...
Sì, i Capricorno sono persone meticolose, ed è con l'esercizio che si padroneggia un po' tutto, a questo mondo. Tuttavia, mi piace lasciarmi una porta aperta con questo gaglioffo, in modo che la sua storia sia meno fissa e immutabile di quanto gli piacerebbe che fosse.

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Capitolo 12
*** XI. Aurora dalle dita rosate ***



XI.
Aurora dalle dita rosate.
(Cancer Death Mask)


1 Marzo 1968


«Non siamo ancora arrivati?»
«Saremo arrivati quando saremo arrivati. E non prendere freddo, sennò tua nonna chi se la sente, poi!»

Il carretto avanza nella notte. È di legno, verniciato di rosso e con qualche anno di troppo sulle spalle. Ha le ruote grandi, di gomma bianca. Alessio lo trascina, una sigaretta accesa, e Marco se ne sta seduto dietro, avvolto in tre, quattro coperte, imbacuccato fino alle orecchie come se stesso per sbarcare al Polo Nord da un momento all’altro.
Il silenzio del bosco è rotto dalle proteste del ghiaietto e dallo scricchiolio dei ramoscelli caduti a terra. Nessuno di loro vi bada, chi perso nei propri pensieri, chi occupato a distinguere le sagome degli alberi in quella massa scura. Come se li riuscisse a distinguere, poi. Marco conosce solo i pini marittimi, con la loro grande chioma ad ombrello, e gli abeti, perché a Natale non c’è casa che non ne sfoggi uno addobbato con tutti i crismi – escluse quelle di sua madre e di quei quattro scriteriati della setta a cui appartiene, ovvio. Ah, sì. E i Cedri del Libano, ma solo di nome, perché sono citati nella Bibbia, ma Marco è pronto a scommettere che nemmeno sua madre ne ha mai visto uno. Come gli angeli, del resto.

Stanno andando verso l’alba, ma Marco non lo sa. Né sa il motivo di quell’uscita fuori programma. Alessio gli ha detto che lo avrebbe portato con sé. A fare una cosa da uomini, eppure Marco non si fida di lui. Non ci riesce. Non gli fa sangue, non gli va a genio con quei capelli a nuvola, la chitarra tra le braccia e l’aria perennemente distante, come se pensasse sempre a qualcos’altro – o a qualcun altro. Una qualche gonnella forse –. Si sta meglio quando non c’è, e sono solo lui e la nonna – che poi Marco non sa se Nonna Agata sia davvero sua nonna, ma poco gli importa. Non lo costringe a pregare per ogni cosa, gli permette di vedere la televisione e non gli lava la lingua col sapone per ogni mannaggia che Marco si lascia scappare. E sono davvero tanti.
La pacchia finisce quando Alessio ritorna, e il viso di nonna Agata trasfigura. Si illumina, quasi come se quella donnetta tutta rughe e occhioni azzurri avesse una luce, dentro di sé, un piccolo sole che splende alla vista della zazzera riccioluta del nipote. E questo Marco non lo sopporta, così come non sopporta le buche che il carretto prende ad ogni passo.
Sa che Alessio lo sta facendo apposta. E che quella del buio è solo una scusa. Ma tace. Non vuole dargli soddisfazione.

Lui gli ha detto di farsi una dormita, ché c’è tempo prima dell’arrivo, ma Marco non è così scemo da obbedire. Dormire? Sì, come no? Come se le favole non fossero piene zeppe di adulti che abbandonano i figli nel bosco nemmeno fossero cani. I genitori di Hansel e Gretel, ad esempio. O quelli di Pollicino. E che dire della storia di Abramo e Isacco?
 Come diceva quel tale, fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Così Marco si accoccola nel tepore delle coperte. Ai piedi, un librone che Alessio gli ha affidato. «Serve a riconoscere le costellazioni», gli ha detto, ma a Marco non importa un accidente delle costellazioni. Vuole solo capire. Che intenzioni abbia quel tizio, ad esempio. Per quale motivo sta trascinando il carretto nel fitto del bosco, tanto per cominciare.
«Ma manca ancora molto?»
«Guarda che sono io a tirare questo trabiccolo. Vogliamo fare a cambio?»
Fossi matto, pensa Marco. Alessio sarà pure secco come un chiodo, ma peserà di sicuro più di un ragazzino pelle e ossa. E a lui di giocare a fare il mulo proprio non va. Così si rintana sotto le coperte, e sbuffa, sbuffa, sbuffa fino a quando il carretto non si ferma. Si volta. Alessio si è acceso una sigaretta.
«Dai, scendi», gli dice, prendendo il libro delle costellazioni tra le mani. Davanti a loro c’è  lo Jonio che muggisce furioso contro gli scogli, in fondo alla scarpata. Come se ce l’avesse con loro per aver disturbato il suo sonno.
«Tranquillo, non ti butto di sotto», gli dice Alessio, spingendolo e liberandolo di uno strato di coperte. «Sennò tua nonna chi la sente…»
Marco gli regala un’occhiata truce, ma l’altro non sembra scomporsi. Stende a terra la coperta e vi si accomoda sopra, a gambe incrociate.
«Dai, non fare storie. Siediti, ché è quasi ora.»
Quasi ora per cosa?, si domanda Marco, restando ostinatamente in piedi. Nonostante il sonno, nonostante il vento, nonostante il freddo.
«Allora?», e Marco si siede. Sbuffando.
«Si può sapere che diamine ci facciamo, qui?»
«Aspettiamo.»
«Aspettiamo, cosa?», ché i veri uomini vanno a donne – qualunque cosa questo significhi – e Marco dubita profondamente che arriveranno delle ragazze in quel posto dimenticato da Dio, ma le sue proteste sono zittite alla vista del termos che Alessio sta tirando fuori dallo zaino. «Che c’è lì dentro?», chiede. Sospettoso.
Alessio sorride, una smorfia luciferina che gli incurva all’insù le labbra sottili. «Roba da adulti», risponde mellifluamente, svitando il coperchio del termos e liberando nell’aria del crepuscolo l’aroma inconfondibile del caffè.
A Marco brillano gli occhi. Il sorriso di Alessio si accentua.
«Posso... posso averne un po’?»
«Non esiste. Il caffè non è roba per bambini.»
«Ma fa freddo!»
«Per questo hai le coperte.»
«Non bastano! Vuoi davvero farmi congelare? Che razza di padre sei?!»
«Il peggiore che potesse capitarti», e qualcosa nella voce bassa di Alessio gli regala un brivido che gli frigge la schiena.
Stattene zitto, gli grida il buonsenso, ma Marco non è tipo da dare retta al buonsenso. Mai. Men che meno con un sorso di caffè a portata di mano.
«Per favore», insiste. «Non lo dirò alla nonna», promette.
«E vorrei vedere! Caverebbe gli occhi a tutti e due», risponde Alessio, versando un po’ di caffè dentro al coperchio del termos. «Tieni. Attento, che scotta.»
Marco stringe il bicchiere improvvisato tra le mani intirizzite. Me l’hai fatto sudare, pensa, ma alla fine quello che davvero gli importa è sentire quel tepore confortante scaldargli le dita, e adesso la brezza salmastra che soffia dal mare non è più così fastidiosa. È quasi piacevole…
Alessio sorride mentre fissa l’orizzonte. «Ecco. Ci siamo», dice, e l’istante dopo Marco assiste ad uno spettacolo incredibile. C’è una lama di luce che fende in due il cielo ed il mare. Poi sorge il sole, e l’aria si colora di rosso, piano piano, inesorabilmente. Come se qualcuno avesse dato fuoco alle nuvole.

«Aurora dalle dita rosate», mormora Alessio, sorseggiando il suo caffè mentre Marco tace. Marco vorrebbe ribattere che sì, insomma, osservare l’alba non è poi questa gran cosa. Ma Marco non trova parole con cui dare fiato alla sua sbruffoneria. Marco se ne resta zitto, le mani strette attorno al caffè nero e bollente, ad ammirare il sole sorgere dal mare mentre i gabbiani volano a filo radente sulle onde increspate dal vento.
«Allora, ne valeva la pena?», si sente chiedere dopo un po’, il braccio di Alessio vicino al suo.
Marco annuisce, porgendogli il coperchio del termos. «Adesso ho sonno, però…»
«Io te l’avevo detto di dormire. O sbaglio?»
«Vorrà dire che dormirò tornando indietro…»
«Nossignore», sibila Alessio richiudendo il termos e ricacciandolo nello zaino. Si stiracchia come un gatto, si alza, raccoglie la coperta e si dirige verso il carretto. «All’andata ho tirato io. Adesso tocca a te, figliolo…», e così dicendo si accomoda dentro al carretto, le gambe penzoloni e lo zaino come cuscino.
«Stai… stai scherzando, vero?», chiede Marco, le gambe di pietra.
«Certo che no», ribatte Alessio sbadigliando.
«Ma che razza di padre sei?!»
«Te l’ho già detto, ragazzino. Il peggiore che potesse capitarti…», e di nuovo quella sensazione di assoluto pericolo che gli serra lo stomaco in una morsa ghiacciata. E Marco si alza, e Marco si libera di uno strato di coperte e Marco afferra il timone del carretto. E Marco tira. E il carretto non si muove. E Alessio ronfa già della grossa. Così Marco sospira e tra un mannaggia e l’altro si ritrova a spingere il carretto, le vene del collo grosse per lo sforzo. Questa me la paghi, Alessio, pensa, un passo dopo l’altro, trattenendo tra i denti la rabbia. Casa è lontana, e ha tutto il tempo per ideare un modo per ricambiare il favore. Qualcosa di eclatante. Dolorosissimo. E che gli faccia passare la voglia di certi scherzi da prete. La vendetta è un piatto che si serve freddo, giusto?






Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Anche Death Mask è stato un bambino. Ribelle e problematico, ma suvvia: nessuno è perfetto!
Nonna Agata e Alessio sono già apparsi nel mio headcanon: lei è una degli occhi ed orecchie del Sacerdote - settore Magna Grecia; lui è il Santo della Lira precedente ad Orphée e la sua storia è parecchio nebulosa anche per la sottoscritta...

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Capitolo 13
*** XII. Il tempo di un batonchiki ***



XI.
Il tempo di un batonchiki.
(Cygnus Hyoga)


16 Maggio 1983


Ruggine aspetta nel vicolo, dietro alla bottega di Oleg, il macellaio.
Ha la solita aria distaccata, come se il mondo attorno a lui non fosse cosa su cui perdere neppure cinque minuti. La neve, il freddo, l'estate breve, il vento, le pedate di Oleg, il chiasso dei bambini, i topolini che corrono lungo i muri; nulla di tutto questo sembra sfiorarlo. Lui se ne sta tranquillo e beato a godersi quei tiepidi raggi di sole, come se il mondo fosse una cosa che gli appartiene. Come se potesse metterselo in tasca da un momento all'altro e passare oltre. Senza corpo ferire.
Hyoga sa che Ruggine l'ha visto. Ma non si muove. Sembra quasi morto, pensa il ragazzino avanzando verso la staccionata scolorita che chiude il vicolo, il cartoccio che gli ha allungato Oleg di nascosto stretto tra le dita. È ripieno di avanzi. «Tagli che nessuno vuole più perché nessuno si abbassa a mangiare certe cose», ha borbottato Oleg mentre la sua mannaia cadeva sul piano di legno scheggiato. Era quasi dispiaciuto. Come se si stesse buttando via chissà quale tesoro.
A Hyoga non importa. Lui pensa che va bene così, perché se nessuno vuole più quella carne, Ruggine la vorrà. Lui ha fame. Una fame nera. Lui lo sa. L'ha capito dal tono della sua voce, che da scostante ed intimidatoria diventa accorata e quasi supplichevole quando fiuta le reali intenzioni di quel ragazzino dal sangue misto, troppo giapponese per essere russo e troppo russo per essere giapponese.
A Ruggine non importa dei suoi quarti di nobiltà. A Ruggine importa solo del contenuto del sacchetto, e a Hyoga sembra onesto. Sembra giusto.
Così lo chiama. «Ehi!», gli dice. Per cortesia. Perché l'educazione innanzitutto, diceva sua madre, e lui è un bravo bambino obbediente, giusto? «Ehi», ripete, e le orecchie di Ruggine ruotano nella sua direzione. «Ho qualcosa per te» e al fruscio della carta i suoi occhi di un verde impossibile gli trafiggono lo sguardo e si piazzano nei suoi.
Hai la mia attenzione, sembra dirgli Ruggine, in un dialogo silenzioso. Di che si tratta?
Hyoga agita con delicatezza il pacchetto davanti a sé, brandendolo come fosse una spada - le unghie di Ruggine non scherzano mica - e Ruggine salta giù dalla staccionata. E gli va incontro.
«Piano», dice Hyoga con dolcezza. E srotola il cartoccio. E lo posa a terra. E Ruggine vi immerge la testa, in un concerto di ron ron e miagolii interessati e suoni liquidi su cui è meglio non indagare. Sta mangiando dopotutto. E sarebbe scortese chiedere.
Oleg, invece, non s'è posto il problema.
«Non capisco perché ti ci spendi tanto», gli ha detto prima di consegnargli la merce, il cartoccio di frattaglie imprigionato tra le dita grandi e storte. 
Lui si è stretto nelle spalle. «Chiunque neghi al gatto il latte scremato, dovrà dare la panna al topo», gli ha risposto, e a Oleg è andato bene, ma la verità è un'altra. La verità è che lui e Ruggine sono anime affini. Sole. Senza legami, senza radici, senza nessuno. E sua madre gli ha insegnato che la vera gentilezza è fare qualcosa per chi non potrà mai contraccambiare. Chi, meglio di un vecchio gatto spelacchiato che campicchia ai margini di un villaggio che si tiene assieme per scommessa e testardaggine?
Così Hyoga aspetta che Ruggine finisca il suo pasto per raccogliere il cartoccio e gettarlo via. «Altrimenti lo dico al tuo maestro», lo ha minacciato Oleg. Che ci tiene che il vicolo dietro al suo negozio sia pulito. «Per una questione di principio», ha detto, e a lui non costa niente accontentarlo. Giusto il tempo di un batonchiki -che a mangiare da soli viene tristezza - quello che Sveta gli allunga di nascosto da Oleg, Camus e Isaac, la schiena contro il muro ancora caldo per il sole, le mani in tasca e la spesa per la prossima settimana a terra, accanto ai suoi piedi.

 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Non dire gatto se non l'hai nel sacco, diceva quel tale. In Russia, invece, si usa il proverbio che Hyoga sciorina al vecchio Oleg, a Kohobotek, Siberia Orientale.
I batonchiki sono caramelle di soia in forma cilindrica, confezionate in una opulenta carta oro e rosso (qui potete trovate qualche ragguaglio sui dolcetti russi). I batonchiki sono caramelle che risalgono al periodo socialista della Russia, e l'allenamento di Hyoga avviene proprio alla fine di quell'esperienza. Come si suol dire, cascava a fagiolo, suvvia...

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Capitolo 14
*** XIII. Ungi e frega, ogni male si dilegua ***



XIII.
Ungi e frega, ogni male si dilegua.
(Gemini Saga, Gemini Kanon)


13 Maggio 1964


«Tutto bene, Bilis?»
«Sì», mente, sapendo di mentire, ché no, non va tutto bene. Non va bene per niente. Gli è entrata un po’ d’acqua di mare nell’orecchio – sempre il solito, il destro – e adesso gli fa male. Tanto male. Colpa di quello sciagurato di suo fratello, e delle sue nuotate fuori programma. Ma Vasilios non si azzarda a dirlo a Fotinê, , non per la sgridata che si beccherà, nemmeno arrivato a metà della spiegazione – della confessione – quanto perché Fotinê conosce un unico sistema per curare le otiti: un tampone d’ovatta imbevuto d’olio extravergine d’oliva tiepido.
Fosse per Fotinê, lei risolverebbe tutto con l’olio d’oliva, scottature e febbre alta incluse. Vasilios deve ammettere che, almeno per il mal d’orecchie, l’olio tiepido funziona a meraviglia. Una panacea. Però, c’è un però: Vasilios odia quel sistema. L’ovatta nell’orecchio è come una coccola piacevole, come un abbraccio di Fotinê quando lui si sveglia, in piena notte, reduce da un incubo – sempre lo stesso: il mare rapisce Viktoras.
Il problema dove sta? Nell’olio. Che cola, lungo il collo e sulle spalle. Ed è unto. «Certo, è olio!», ribatte Fotinê alle sue rimostranze, ma Vasilios proprio lo odia, quel rimedio. Ed è disposto a stringere i denti ancora un po’, piuttosto che sottoporsi a quella tortura. Passerà, si dice. Basterà asciugarsi bene l’orecchio e prenderci un po’ di sole, domani. Ma sa di starsi raccontando una bugia, e nemmeno tanto pietosa, ché l’orecchio destro gli fa un male cane e lo costringe a tenere la mascella serrata ed il collo rigido. Come se avesse ingoiato un palo della luce.
Fotinê torna a pelare le patate poco convinta.
Vasilios trattiene un sospiro, stornando lo sguardo ed incontrando gli occhi azzurri di suo fratello Viktoras. Che sta sorridendo. E questo no, non è un buon segno. Affatto.
Viktoras ha capito, eccome, e Viktoras sa quanto faccia schifo a Vasilios sentirsi unto ed appiccicaticcio perché anche lui odia quella sensazione. Però, qual è la cosa che Viktoras ama di più a questo mondo – dopo il mare, s’intende – ? La risposta è facile: mettere in croce suo fratello. Si diverte a tormentarlo, a ficcarlo nei guai dopo essersi fatto passare per lui. Così, Vasilios sa già cosa sta per fare il suo gemello, carne della sua carne e sangue del suo sangue: vuotare il sacco con Fotinê. Sputtanarlo, per dirla con Ioannis – e questo linguaggio Fotinê no, non lo gradirebbe affatto.
No. Non farlo. Non. Farlo.
Ma Viktoras sorride, il ghigno dell’aguzzino pronto a calare la mannaia sulla schiena della sua vittima, e dice: «Bilis ha male all’orecchio.».
«Non è vero!»
«Sì che è vero! Gli è entrata dell’acqua di mare, e adesso gli fa male.»
Fotinê posa il coltello sul tagliere, si asciuga le mani sul grembiule a fiori e si volta. Gli scocca uno sguardo che non lascia scampo, poi gli domanda: «È vero, quello che dice tuo fratello, Bilis?».
E Vasilios sa che è troppo tardi. Perché Fotinê sa. Ma vuole sentirlo dalla sua voce. Così, stringendo i denti e i pugni, Vasilios sputa fuori un arrabbiatissimo: «Sì!».
Fotinê mormora un «L’immaginavo», poi abbandona le patate sul tagliere e inizia ad armeggiare con un piccolo bricco di ceramica. Accende il fornello e mette a scaldare una lacrima d’olio extravergine d’oliva.
«Vik, vammi a prendere l’ovatta», dice. E Viktoras esegue, uscendo dalla cucina con un ghigno di quelli che chiamano i pugni come i fiori le api. E Vasilios vorrebbe tanto tanto tanto fargli saltare anche l’incisivo – quello che deve ancora cadere – così da cancellare quel sorriso odioso. Ma Vasilios ha paura che quella cosa succeda di nuovo. E non vuole che Fotinê si spaventi o si faccia male. Quando quello scoglio in spiaggia è esploso – e suo fratello è rimasto a bocca aperta – si sono così spaventati da farsela sotto. E hanno concordato, Viktoras e lui, di non parlarne mai. Con nessuno. Fotinê inclusa. «Sarà il nostro segreto», gli ha detto Viktoras, e lui non è come il suo gemello. Lui non sputtana gli altri.
Quando suo fratello rientra, l’ovatta tra le mani, quel sorriso è ancora più indisponente.
«Ecco qui», dice, passando la scatola a Fotinê, che la prende senza degnarlo di uno sguardo. Gongola, l’infame, perché suo fratello passerà le pene dell’inferno, e lui no. Ma ha fatto i conti senza l’oste, Viktoras, ché domani mattina, in spiaggia, Vasilios gliele suonerà di santa ragione. Oh, se lo farà. Certo che lo farà. Sicuro. Come il sole sorge ad est.
Fotinê intinge un batuffolo d’ovatta nell’olio tiepido, ne saggia il calore sull’avambraccio, e poi lo chiama. «Bilis, vieni qui.»
E lui obbedisce.
E l’olio fa schifo.
È come avere i vestiti bagnati incollati addosso, solo che i vestiti, di solito, non sono unti. Non colano. E vedere suo fratello ridere di lui non aiuta. Anzi.
Viktoras lo indica, come si fa con le cose bizzarre o coi pazzi, ride e sghignazza, una mano sulla pancia e il trionfo negli occhi, fino a quando Fotinê non infila un altro batuffolo d’ovatta imbevuto d’olio nel suo orecchio.
Viktoras s’immobilizza, come se l’avessero centrato in pieno con una secchiata d’acqua ghiacciata.
«Perché?», chiede, lo sguardo spaesato che ti lascia uno schiaffo a mano aperta sulla guancia.
«La nuotata l’avete fatta in due. Vero?»
«Sì, ma…»
«Tieni, metti a posto. E non azzardarti a togliere quel batuffolo», gli intima Fotinê, mettendo il bricco nel lavandino e riprendendo a tagliare le patate.
Viktoras ringhia. Puzza di revolverate lontano un miglio, ed esce dalla cucina scalciando, con la scatola dell’ovatta tra le dita e qualche insulto tra i denti, ché Fotinê sarebbe capace di lavargli la lingua col sapone.
Vasiolos lo vede andarsene, fosco come un temporale, e rivolge a Fotinê un sincero: «Anche a lui?».
«Prevenire è meglio che curare. Lo dice anche la pubblicità.»
«E?»
«E così tuo fratello imparerà che fare la spia non è una bella cosa.»
Vasilios sorride. All’improvviso, l’olio d’oliva nell’orecchio non fa più così schifo come prima.

 



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
Ammetto che il tema giallo mi ha fatto penare non poco.
Il titolo del capitolo è un proverbio marchigiano.
Bilis è il diminutivo di Vasilios - che è il nome che ho affibbiato a Saga - mentre Vik è il diminutivo di Viktoras - alias Kanon.
Non so cosa direbbe un otorinolaringoiatra circa l'uso dell'olio tiepido per curare l'otite. Io posso dire che funziona. E che mia nonna paterna era un po' come Fotinê.
Alla prossima!

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Capitolo 15
*** XIV. Sulla collina ***



XIV.
Sulla collina
(Capricorn Shura, Pope Sion)


19 Luglio 1970


Della Collina gli piace la quiete.
Niente strepiti, niente chiasso, niente distrazioni. Solo il silenzio ed il vento che corre a pettinare l’erba alta. Un mare verde con un arcipelago di papaveri che si stende oltre il declivio del Kerameikos, lì dove le lapidi sono quasi illeggibili e il loglio è cresciuto fin quasi a coprire il marmo ingrigito e sbeccato. Lui va lì, ad allenarsi, senza rischiare di decapitare qualcuno – anche se ridurre all’eterno silenzio lo Scorpione non sarebbe poi un gran danno – o di tagliare inavvertitamente qualcosa – le rose di Aphrodite, ad esempio. Poi chi lo sente, quello?
La collina gli ricorda un po’ casa, in un dialogo muto tra l’erba e le nuvole che solcano il cielo di Luglio. Il bosco appena dietro la baita di Javier è fatto di pini, mentre qui puoi imbatterti in qualche solitario e pensoso olivo saraceno, circonvoluto su se stesso, alla ricerca di chissà quali risposte; ma la quiete, è la stessa. Le nuvole rapide, sono le stesse. Solo i monti sono diversi: dal profilo più dolce quelli che difendono il Santuario – che lo cingono, come una corona, come dice il Sommo Sion – e più aguzzi e scuri quelli dei Pirenei.
E poi, Ruy non sa dire perché, c’è qualcosa che lo chiama, tra quell’erba alta. Un’eco silenziosa che gli scorre sotto pelle, e che lo spinge a recarsi lassù appena dopo colazione, quando l'aria è più fresca. Aiolos non lo trattiene, chidendogli di aiutarlo a correggere le posizioni di Aiolia, a controllare che lo Scorpione faccia tutte le sue flessioni o che il Cancro non se la svigni appena possibile. Gli lascia il suo quarto d’ora di solitudine, ché Aiolos sa quanto sia importante avere un momento per sé, ogni tanto.

L’erba gli arriva alle ginocchia, incastrandosi nella trama dei calzoni. Le vipere. Attento alle vipere, si dice, schioccando le dita strada facendo, ché il rumore metterà in fuga le serpi. Oggi vuole spingersi più in là.  Per rispetto. Così i suoi passi superano le ultime lapidi e si dirigono verso la discesa, lì dove l’erba gli arriva alla vita. Saper combattere su un terreno sfavorevole è essenziale, per un guerriero.
«Non sai mai dove andrai a cacciarti, sui sassi, sul fango, sul ghiaccio. Dove sia, sia, devi saper restare in piedi.»
Javier glielo ha ripetuto fino a sgolarsi e fino a farglielo entrare in testa a suon di pugni. Ruy accarezza con la mano le spighe del loglio, godendosi il solletico a fior di pelle. Inspira l’aria pura, riempiendosene i polmoni. La trattiene. Allarga le braccia. Sente il potere della Terra risalirgli lungo le vene delle gambe, come la linfa che scorre dalle radici attraverso il fusto e raggiunge i rami dell’albero e le foglie.
E poi, succede.
Deneb Algedi risponde, ruggendo lassù, e precipitando a valle, riempiendo il cosmo di quel suo figlio, risuonando nei suoi atomi fino a diventare un tutt’uno con Ruy. E la Sacra Spada si sveglia. Excalibur. Quella che dorme nel suo braccio. Quella che Athena ha concesso ad ogni Capricorno, dall’epoca dei Miti. Quella che Ruy affina, giorno dopo giorno, menando fendenti contro nemici immaginari attorno a lui. E la lama cade. Affilata, a tranciare di netto l’erba e le spighe di grano selvatico ancora acerbe in una danza d’acciaio e cosmo che il giovane Capricorno si sforza di perfezionare ogni giorno di più. In onore della dea che l’ha chiamato a sé. Che l’ha scelto. Lui, tra milioni di milioni di esseri umani.
 
Excalibur affonda, para, stocca, difende. Uno, dos, tres. Uno, dos, tres, fino a quando le spalle di Ruy non ce la fanno più, le braccia invocano pietà e il polso minaccia di irrigidirsi per sempre e non piegarsi mai più. Ma non oggi. Oggi, dopo un numero accettabile di affondi – tanto per scaldarsi – Ruy percepisce qualcosa, sotto quell’erba, ed Excalibur si ferma a pochi centimetri dall’impatto. C’è qualcosa, lì sotto, come uno scoglio sommerso in quel mare verde. Le sue mani si fanno spazio, curiose, dimentiche delle vipere, e scoprono del marmo scuro, segnato dalla muffa che s’è fatta largo tra le crepe. Sembrerebbe una stele, si dice Ruy, spostando l’erba ed accosciandosi per leggere meglio l’iscrizione semicancellata dal tempo. Ci sono due nomi. «Sysiphos. El Cid», legge, seguendo il profilo delle lettere con l’indice destro. E due glifi zodiacali. Sagittario. Capricorno. E basta. Né una data, né un epitaffio. Nulla.
Forse ce ne sono altre, qui attorno?, si domanda, aprendosi una strada tra l’erba alta. Fortuna che l’ha percepita. Avrebbe potuto tagliarla in due, affondando in quel marmo come un coltello caldo nel burro. E non se lo sarebbe mai perdonato. Ma la stele è sola, fatta eccezione per una compagna, poco lontana, mezza bruciacchiata come se un fulmine l’avesse centrata in pieno, che reca solo il glifo del Cancro.
Che posto è questo?, si chiede Ruy, lo sguardo che torna alla stele tra l’erba alta. Chi eravate voi due?, si domanda, portando il suo sguardo sui due glifi. Vicini. Come se quei due Santi fossero stati amici. Fratelli, forse? Forse sono caduti assieme? Ma come? Quando?, si chiede il giovane Capricorno. Che ha un bisogno disperato di sapere chi fosse, questo El Cid. Non sarà mica lo stesso di cui gli parlava Javier, vero? Quello che combatteva i Mori a spadate nella Spagna del Medioevo. No. Non può essere, si dice, l’erba umida sotto al sedere e le ginocchia al petto. E resta a fissare la stele, come se questa potesse rispondergli. Come se potesse dirgli…

«Era il tuo predecessore, Ruy.»
Ecco, sì. Una cosa del genere, pensa. Prima di accorgersi che a parlare non è stata la stele, ma la voce del Sommo Sion. Che lo osserva, alle sue spalle, l’elmo sulla testa e la veste immacolata che spicca tra l’erba alta.
«Santità!», ma una mano del Sacerdote lo trattiene.
«Stai.» E Sion si avvicina, fino a sfiorare la stele con l’orlo della sua veste. «Erano amici. Ecco perché li abbiamo sepolti assieme.»
«Non l’ho colpita, Santità. Me ne sono accorto in tempo e…»
«Aiolos ha bisogno che tu gli dia una mano con Aiolia.»
Ruy annuisce. Scatta sull’attenti e dice: «Subito, Santità», prima di girare sui tacchi e tornare da dove è venuto. Pochi passi e si ferma. «Santità?», chiede, mentre il vento pettina l’erba alta, i capelli del Capricorno e la lunga veste del Sacerdote.
«Mh?»
«Vorrei… saperne di più…», dice. Voltandosi, lo sguardo fisso sulla schiena del Sacerdote.
«A tempo debito», risponde Sion. E sente il Capricorno mormorare un «Sissignore», prima che il fruscio dell’erba smossa gli confermi che Ruy sta tornando al campo d’addestramento.
«Eri anche tu, così?», domanda Sion alla stele, in attesa che il vento – che si balocca coi suoi capelli, incurante del suo ruolo e della sua età – gli porti una risposta. Un passerotto caduto dal nido che fa la voce grossa. Questo, è Shura, mentre l’El Cid che ha conosciuto lui era così serio, così severo, così maturo per la sua età. Come se fosse nato già adulto. Saturno sa essere un padre molto severo, dopotutto, ché a questo mondo ci sono costanti che si ripetono, secolo dopo secolo, in un girotondo fatto di karma e predestinazione.
Molte cose cambiano nel tempo. Ma non tutte, pensa Sion, mentre un sorriso gli si disegna sulle labbra stanche e le sue mani ricoprono la stele, come a rimboccarle una coperta. Un ultimo sguardo e poi anche lui si volta. Il passato è passato. Meglio lasciarlo riposare in pace e guardare al futuro, mentre il vento lo accompagna, gentile, soffiando lungo il pendio.



Saint Seiya, ® Masami Kurumada, Toei Animation, 1986. Disegno: Korin2b. Grafica ® Francine.

Note:
In brightest day, in blackest night... no, quella è un'altra cosa...

Il Kerameikos è il cimitero del Santuario, nel mio headcanon. Quello che Saga e soci sventrano per benino quando risorgono per prendere la testa di Athena, avete presente? Ecco.

Javier è il maestro di Shura. Lo trovate in Quando cantano le spade. Finirò anche quella storia, lo giuro. Croce sul cuore.

Ogni riferimento al film Il Gladiatore di Ridley Scott non puramente casuale. E quando si parla di capricornuti, io non ci capisco più niente.

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