Noisy love

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. 1874. Primo appuntamento. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. 1874. Preda e cacciatore. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. 1874. Le regole dell'essere fidanzati. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. 1875. Questa dannata farina... ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. 1877. Quando il gatto non c'è... ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. 1879. Gelosia portami via. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. 1880. Anno nuovo, vita nuova. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. 1881. La sposa perfetta. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. 1881. Le cose dei ricchi. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. 1882. Jean ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. 1883. Un neonato in famiglia ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. 1885. Quotidianità ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. 1887. I tasselli dell'esistenza ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. 1887. Le risposte di un bambino ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. 1889. Un vero e proprio demonio ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16. 1890. Janet ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17. 1890. Nuovi equilibri ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18. 1893. Novità. ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19. 1893. Il componente in più ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20. 1894. Chi raccoglie i cocci. ***
Capitolo 21: *** Epilogo. 1894. Questa dannata farina... reprise. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. 1874. Primo appuntamento. ***


Capitolo 1.
1874. Primo appuntamento.



 
SCIAF!
Il rumore dello schiaffo riempì tutta la grande stanza dell’emporio Havoc, risuonando impietoso tra le scatole, i barattoli e qualsiasi prodotto esposto.
James rimase incredulo a fissare la ragazza che, davanti a lui, stava ancora con la mano tesa dopo avergli mollato quella cinquina fenomenale. Ma più che per il dolore o la sorpresa, il giovane non riusciva a levare l’attenzione da quel viso arrossato e contratto in un broncio di disappunto tremendamente infantile e affascinante, da quegli occhi castano chiaro accesi di un furore fuori dal comune.
“Ma che ho fatto?” riuscì a dire, dopo qualche secondo.
“Credi che non me ne sia accorta? – esclamò la giovane, abbandonando finalmente quella posizione e scostandosi sdegnosamente da lui – Come quella è uscita di qui ti sei messo a guardarle il fondoschiena!”
“Ma non è vero!”
“Sì che è vero! E avevi la classica espressione di bue rimbecillito che hanno tutti i maschi quando vedono un bel sedere! – ritorse lei, arrivando a pestare un piede a terra e diventando ancora più rossa in viso – Che cosa ci troverai il quella, poi, me lo devi spiegare! Il mio sedere è molto più bello del suo… e poi avrà già sui venticinque anni, come minimo è anche sposata! Sei proprio un… un idiota, maniaco, stupido… animale da riproduzione, James Havoc! Ancora non capisco perché ho accettato il tuo appuntamento!”
“E dai, Angela, non fare così!”
Ma la giovane dai corti capelli castano chiarissimo, tanto da sfumare nel biondo, aveva sdegnosamente girato i tacchi e si dirigeva verso l’uscita dell’emporio. Gli occhi azzurri di James obbligatoriamente si posarono su quel fondoschiena perfetto, incredibilmente valorizzato dalla gonna color cielo e tutta la sua persona gli gridò che non poteva assolutamente permettere che la sua preda andasse via in quel modo.
Non senza averle almeno rubato un bacio.
“Ehi, aspettami!” esclamò correndole dietro.
 
Sentendo quel richiamo dietro di lei, Angela Astor aumentò l’andatura, ma un sorriso soddisfatto le apparve in viso: se James la stava seguendo voleva dire che ci teneva e che la considerava più importante di tutte le altre ragazze con cui era uscito fino a quel momento.
Da quanto ne sapeva non era mai risultato che fosse corso dietro a qualcuna in maniera così palese.
E ti vorrei sfidare a non capitolare davanti alla mia camminata! – pensò, con la sicurezza di chi è consapevole di avere un bel corpo.
L’aveva definito un maniaco, certamente, ma ad essere sinceri lei era la prima a provocarlo in quel senso.
Ma era inevitabile: a sedici e diciassette anni, in pieno giugno e dunque con vestiti più leggeri, c’era una voglia del tutto particolare di provocare il sesso opposto.
E Angela trovava queste provocazioni particolarmente divertenti: pettinature? Nastri per capelli? Abitino nuovo? No, quella era roba per le ragazzine che abitavano proprio in paese e non in una delle tante case di campagna come lei. Ad Angela non servivano capelli lunghi con nastrini: le bastava la sua gonna che le avvolgeva in maniera seducente i fianchi e la sua camminata sicura e dritta, in modo che il petto fosse in perfetta esposizione.
Sì, lei li provocava i ragazzi, ma solo se voleva.
Ed in quel momento voleva provocare James Havoc: gli aveva messo gli occhi addosso da qualche mese e aveva deciso di farlo suo, alla faccia di tutte le altre ragazze che gli ronzavano attorno come api operaie.
Del resto… un esemplare così fantastico di diciassette anni non si trovava facilmente, tutt’altro e…
“Ti vuoi fermare?” la raggiunse finalmente lui, prendendola per un braccio.
“Perché? – il viso di Angela riprese prontamente la smorfia di disappunto – Tanto tra poco ne arriverà qualcun’altra e potrai vedere il sedere anche di quella…”
“Bello come il tuo? – James sorrise, un sorriso sfacciatamente bello, quasi da schiaffi – Non credo proprio, signorina Astor.”
“Ti sembrano cose da dire ad un primo appuntamento?! Grazie, molto gentile!”
“No, non è che volevo dire questo…” si riscosse lui, capendo di aver fatto un commento forse troppo esplicito.
“Cioè il mio sedere non è bello?”
“No! E’ fant… cioè, non è quello che volevo dire ad un primo appuntamento – annaspò James – anche se ammetto che… oh, senti, Angela, perché non la facciamo finita e mi dai un bacio?”
Cosa?”
“Beh, dai –James si mise le mani in tasca con spavalderia – lo vogliamo sia io che tu, no? Perché non la smettiamo con queste stupide chiacchiere e non andiamo al sodo?”
“Te lo do io il sodo!” strillò lei, dandogli un secondo schiaffo, esattamente nel medesimo punto del primo.
Diamine, andava bene reagire alle provocazioni, ma qui si stava davvero esagerando. Certo che voleva il bacio, ma un minimo sindacale di corteggiamento e frasi carine che andassero oltre i commenti sul suo fisico sarebbe stato gradito.
Col cavolo che ti bacio se continui così!
Rimasero a guardarsi, lui di nuovo con lo sguardo di un mansueto bestione perplesso e lei più irritata che mai.
“Senti, se vuoi scappare di nuovo via puoi cambiare direzione e tornare verso l’emporio?” chiese infine James, massaggiandosi lievemente la parte lesa.
“Scusa?” fece Angela, mettendosi a braccia conserte.
“E’ che mio padre stamane è andato via e dunque ci sono soltanto io. Se continui ad allontanarti così poi  non vedo se arrivano altri clienti, capisci?”
“Ti sembrano cose da dire in un momento come questo? – Angela si mise le mani sui corti capelli castani, arruffandoseli con esasperazione, ma comprendendo la problematica – Uff, che disastro di appuntamento! E io che mi ero immaginata tutt’altra cosa….”
“Ah sì? E cosa? – chiese lui, incitandola con un gesto a tornare verso il grande emporio – se me lo dici possiamo risolvere, no? Sul serio, Angela, mi dispiace se te la sei presa, ci tengo a te…”
“Per il primo appuntamento mi aspettavo una passeggiata nei campi, non di stare con te in emporio…” ammise lei col solito broncio, senza però scostarsi troppo dal compagno.
“Te l’ho detto: mio padre ha deciso tutto all’ultimo e mi sembrava brutto dirti di rimandare il giorno prima.”
“E siamo interrotti ogni tre per due da qualcuno che arriva.”
“Lo so, ma non posso cacciarli via.”
“Almeno evita di guardare il sedere alle clienti.”
“E’ un riflesso incondiz… cioè, ti giuro che ci starò attento.”
E ci mancherebbe altro!
Erano arrivati all’ingresso e gli occhi castani di lei tornarono furenti.
Per un attimo James la fissò impanicato, ma poi le mise le forti mani sulle spalle.
“Ti posso offrire qualcosa da bere?”
“Che?”
“Succo di frutta corretto – spiegò lui con aria cospiratoria – lo fa mio padre per pochi clienti scelti. In realtà non dovrei farne parola con nessuno, ma per te farò un’eccezione!”
“Cerchi di ubriacarmi?”
“No, volevo solo sciogliere la tensione e… diamine, Angela, ma perché devi sempre contestare ogni cosa che dico? Questo primo appuntamento è davvero un disastro!”
“Ah sì? Dici così perché non vuoi averne un secondo?”
“Sono profondamente tentato!” si esasperò lui.
“Pure io, ti avviso.”
 
La famiglia Astor, come tante, possedeva un discreto numero di ettari di terra coltivata. A lavorarla erano diversi braccianti, ma anche i componenti della stessa che sin da piccoli venivano abituati ad aiutare in qualsiasi faccenda, secondo la tradizione della campagna.
Alla morte del vecchio Astor, la terra era passata ai due figli maschi che, invece di spartirsela, avevano tenuto unita l’azienda: la casa era stata ampliata e adesso brulicava di due rumorosissime e laboriose famiglie. A dire il vero non c’era una separazione netta, tutt’altro: eccetto le due coppie sposate, i giovani dormivano in diverse camere, maschi con maschi e femmine con femmine… che fossero sorelle o cugine era un dettaglio secondario. Il resto degli spazi domestici era in comune: dalla grande cucina alla sala da pranzo e così via. A detta di tutta la seconda generazione in casa Astor c’erano due madri, due padri e svariati figli, tanto che per un estraneo era difficile capirci qualcosa.
Fu quindi del tutto normale che, quando tornò a casa circa un’ora dopo, Angela venisse letteralmente rapita da sorelle e cugine che volevano sapere del fantomatico appuntamento.
Immediatamente la camera che la ragazza condivideva assieme alle due sorelle e ad una cugina fu riempita di chiacchiericcio, gridolini eccitati, sospiri tanto che era impossibile capire chi stesse dicendo cosa.
“Galline!” esclamò Albert, uno dei più giovani, aprendo di colpo la porta e gettando una bacinella d’acqua sulle ragazze.
Immediatamente si scatenò il putiferio, cosa che, ad onor del vero, succedeva almeno due volte al giorno. Era uno dei tanti contrattempi che si avevano nel mettere sotto lo stesso tetto una quindicina di ragazzi di entrambi i sessi che andavano dai sette ai ventidue anni.
E tutti dal carattere particolarmente vivace tipico di famiglia.
“Albert, ti polverizzo! – Angela scattò in avanti cercando di afferrare il cugino, la sua voce squillante che riuscì a sovrastare tutte le altre – mi hai bagnato tutta la gonna, deficiente!”
“Oh, ma quanto mi dispiace!” sogghignò il colpevole, fuggendo prontamente da quell’attacco e trascinandosi dietro una torma di ragazze furenti.
Succedeva sempre così… non c’era mai un attimo di pace in quella casa.
Nemmeno per poter raccontare alle altre del primo, strano, appuntamento.
 
“James Havoc, eh? Se te lo prendi è un bel colpo. Ammetto che ci avevo messo gli occhi addosso pure io, ma all’epoca usciva con un’altra…”
Angela non fece caso a quel commento fatto da Greta, la cugina che era più grande di lei solo di due mesi. Si limitò a sistemarsi la camicia da notte, spegnere la luce, e infilarsi nel letto che condivideva con la sorella Allyson.
“Se te lo sposi poi devi fare come Christa che è scappata da questo manicomio e ora ha una casa tutta sua – consigliò proprio la ragazza che, al contrario di Angela, vantava folti capelli castani lunghi fino alla vita – allora, ci racconti come è andata?”
Finalmente era arrivata la domanda cruciale.
A dire il vero la mossa di Albert era stata provvidenziale. Se doveva essere sincera Angela non sapeva come definire quello strano primo appuntamento con James Havoc. Nelle sue aspettative doveva essere qualcosa di più tranquillo, romantico e… sensuale. In realtà avevano passato metà del tempo a discutere e a dichiarare i loro dubbi in merito a quel rapporto.
Va bene, può darsi che sia anche colpa mia. Non lo posso provocare con il mio corpo e poi pretendere che dica solo cose romantiche… ma ne avesse detta una…
“Ecco… siamo rimasti all’emporio e…”
“All’emporio?” subito tre voci femminili iniziarono a esternare il proprio disappunto per quella scelta così poco romantica. Già era difficile che una di loro riuscisse a combinare un appuntamento con tutto quello che c’era da fare in famiglia… se poi andava a rotoli in quel modo.
“Doveva pensare all’emporio – spiegò Angela, mostrandosi comprensiva più di quanto avesse fatto con lo stesso James – suo padre non c’era.”
“E sua madre?”
“Scema, lo sai che è morta da almeno dieci anni.”
“Ah, già… beh, però non va bene, proprio no! Siete almeno rimasti soli?”
“Non proprio… anzi quasi mai!”
Angela sbuffò quella frase: sembrava che tutte le ragazze del paese avessero deciso di passare all’emporio quel pomeriggio, giusto per dare fastidio a lei.
“Oh, povera sorellina – sospirò Allyson abbracciandola – vedrai che ne troverai uno migliore. Non abbatterti, facciamo che questo non lo consideriamo un primo appunt…”
“Ci dobbiamo rivedere tra tre giorni.”
“Che? Ma allora…”
“Non sarà certo un appuntamento come questo a rovinare tutto – sbottò Angela mettendosi a sedere con aria decisa, nonostante fosse chiaro che nessuna delle altre potesse vederla nel buio – gli ho messo gli occhi addosso ed è mio personale territorio di caccia, siamo intese?”
“Uh, che dichiarazione forte! Ma dovrai darti da fare… sai bene che James Havoc ha avuto tante storie a scuola, ma mai nessuna che sia durata più di un mesetto!” le ricordò Greta con malizia.
“Appunto… ora che ha finito le scuole è proprio il caso di finirla con questa poli… poligamia!”
“Brava, Angy! Faglielo sudare un tuo bacio!”
Ovviamente… beh, adesso basta! Domani dobbiamo darci da fare… buonanotte!”
“Notte!”
“Notte!”
Oh beh, meno male che non sono volute andare avanti con il discorso… - sospirò Angela mentre si rimetteva sdraiata e si accomodava contro la sorella.
Dopo simili dichiarazioni non sarebbe stato molto coerente dire loro che il bacio c’era già stato.

 
 
 
________________________
nda.
Eccomi, sono approdata anche all'ultimo spin off.
Caricata (anche di chili di troppo) dalla pausa natalizia, mi appresto a narrarvi le vicende di James, Angela e successivamente di Jean e Janet.
Credo (e spero) che questo spin off sia più breve rispetto agli altri: in primis perché non ci sono avvenimenti sconvolgenti e dunque la trama è molto lineare e dunque vado a trattare effettivamente di slice of life
Avrete notato che la lunghezza è minore rispetto ai capitoli che sono solita fare... spero di tenermi su questa lunghezza o comunque di non arrivare alla mole di nove pagine a capitolo, altrimenti non finirò mai.
Ammetto una cosa: degli Havoc non avevo ancora abbozzato uno straccio di idea per le loro famiglie quindi è un po' tutto in divenire anche per me.
Per quanto riguarda i disegni di Mary, do il solito avviso: se i suoi impegni glielo permetteranno comparirà qualche sua opera, as usual ^^

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. 1874. Preda e cacciatore. ***


Capitolo 2.
1874. Preda e cacciatore.



Nonostante James Havoc fosse poco presente nella vita del paese, dati i compiti che svolgeva nell’emporio di famiglia, era considerato dalle ragazze come uno dei partiti più belli che la campagna potesse offrire.
Molti giovani erano muscolosi, considerati i lavori pesanti che svolgevano sin dall’adolescenza, ma lui lo era in modo più armonioso. E a quel corpo così alto e prestante che, chiaramente, doveva ancora finire di svilupparsi, si accompagnava un viso seducente, dai capelli biondi folti e morbidi e dagli occhi azzurri ridenti, buoni e con quella scintilla che era in grado di conquistare seduta stante.
Era quindi più che naturale che sin dalle prime classi superiori avesse avuto un numero imprecisato di storie, anche con fanciulle più grandi di lui.
James trovava divertente tutta questa faccenda: aveva scoperto che baciare era bello e gustoso, così come godere della morbidezza di un abbraccio femminile. Di conseguenza non si era mai fatto problemi ad andare da una ragazza all’altra: l’amore per lui era un qualcosa che andava mantenuto libero e senza impegni, altrimenti avrebbe perso parte del suo speciale sapore.
“Stai uscendo, figliolo?”
“Sì, papà – sorrise lui, andando accanto al genitore e passandogli gli ultimi barattoli da sistemare sullo scaffale – torno tra qualche ora, ma se hai bisogno di me prima non hai che da chiedere.”
“Oh, tranquillo – disse Jean Havoc con un sorriso indulgente – è un periodo di calma ed è più che giusto che ti goda quest’estate così piacevole. Che c’è? Qualche appuntamento con una ragazza? E’ carina?”
“Direi proprio di sì – ammise James con una strizzata d’occhio maliziosa – una delle prede più belle che abbia mai visto.”
“Ahah, l’animo del cacciatore! Vai pure, ma fai attenzione: spesso le prede più belle sono quelle più difficili da catturare.”
“Nah, credo sia già sul punto di capitolare.”
 
E’ già sul punto di capitolare, me lo sento!
Angela proseguiva a passo spedito verso il luogo dell’appuntamento, una piccola radura a metà strada tra le rispettive abitazioni: le sue gambe forti e tornite avevano una movenza decisa ma allo stesso tempo elegante, e le braccia lungo i fianchi seguivano i movimenti, sottolineando la figura morbida ma forte.
Era il momento di catturare James Havoc, era chiaro.
Adesso aveva sedici anni: aveva appena terminato le scuole, per i canoni della gente di campagna era praticamente pronta ad entrare nel mondo degli adulti. Per i suoi personalissimi canoni era già abbastanza adulta da mettere una seria ipoteca sul ragazzo che aveva scelto.
C’erano state altre ragazze prima di lei? Poco importava.
Adesso c’era solo lei e, volente o nolente, il giovane rampollo Havoc si doveva arrendere a quell’evidenza.
L’aveva già conosciuto alle scuole superiori, ovviamente, ma chissà per quale motivo non era mai stata una delle sue prede, al contrario di diverse sue compagne che avevano scambiato con lui diverse effusioni.
Oh, invece c’è un motivo. Lui voleva prede, ma io sono cacciatrice.
E lo era perché sapeva far impazzire i ragazzi se lo voleva.
Non le piacevano assolutamente gli atteggiamenti da bamboline di certe sue coetanee. No, lei voleva essere parte attiva del corteggiamento e se la cosa spaventava i maschi allora voleva dire che non erano quelli adatti a lei.
Oh, ma tu sei adatto a me, come non potresti?
Un sorriso furbo le apparve in viso mentre entrava nella radura proprio nel medesimo momento in cui James compariva dall’ingresso opposto.
Non dissero una parola, rimasero fermi per qualche secondo, a scambiarsi quello strano sorriso soddisfatto, come se entrambi fossero felici di vedere l’altro, quasi fosse la vittoria ad un’imprecisata scommessa.
Cinque secondi dopo erano avvinghiati l’uno all’altra, riprendendo il bacio focoso che avevano dovuto interrompere tre giorni prima.
 
“Ehi, ehi, ehi! – fece Angela ad un certo punto, scostando James da lei – piano con le mani.”
“Che c’è? Hai paura? – la provocò il giovane, ritirando comunque le mani dal petto di lei, incredibilmente morbido e sodo – Eppure impari in fretta, sai?”
Lei si allontanò di un passo, leccandosi le labbra leggermente arrossate per tutti quei baci appassionati che si erano scambiati. Sì, lei imparava in fretta: tre giorni prima aveva dato il suo primo bacio, ma era rimasto timido e infantile solo per cinque secondi. Poi si era lasciata guidare con entusiasmo da lui e la questione era diventata molto più interessante… era quindi logico aspettarsi che al secondo appuntamento le cose si evolvessero ulteriormente.
Ma non pensare di vincere così in fretta. A tutto c’è un prezzo.
“Non abbiamo ancora parlato – ammise Angela, guardandosi le dita con aria pensosa – nemmeno un saluto o altro, ci siamo subito fiondati l’uno sull’altra come due animali.”
“Non mi sembrava ti dispiacesse – fece lui, inclinando il capo con perplessità, iniziando a temere che adesso la sensuale Angela Astor tornasse ad essere la ragazza suscettibile che gli aveva mollato due sberle tre giorni prima – e comunque, se proprio ci tieni… ciao, Angela, come stai? Ti sta molto bene il vestito che indossi, sul serio.”
“Mi prendi in giro?”
“No, sul serio… hai detto che non avevamo ancora parlato ed ecco qui. Però, sai, fare commenti sulla bella giornata mi pare stupido considerato che amoreggiare con te era molto più interessante e piacevole.”
Fece uno dei suoi sorrisi sfacciati, gli occhi azzurri accesi di malizia, quasi fosse sicuro che lei avrebbe ceduto e sarebbe tornata tra le sue braccia nell’arco di tre secondi.
Ma Angela in quel momento capì di essere in posizione di vantaggio.
“Più che del tempo mi piacerebbe parlare di quel che siamo noi due.”
Frase detta con noncuranza, mettendosi le mani dietro la schiena e fissando James con aria indagatoria: o lo catturava ora o mai più.
“Che siamo? – chiese lui con voce leggermente timorosa – Beh, siamo due ragazzi che si godono questa giornata, tutto qui. Usciamo insieme e tutto va bene, che altro c’è da dire.”
“Questo usciamo insieme non mi piace – scosse il capo lei – non mi pare il buon presupposto per andare avanti con la nostra… pomiciata.”
“Oh, suvvia, perché devi fare la difficile? – sospirò James, con un piccolo cenno di esasperazione – Le altre con cui pomiciavo mica si ponevano problemi, sai? Perché tu dev…”
SCIAF!
Lo schiaffo bloccò la frase.
Le altre con cui pomiciavi? – Angela lo fissò con occhi che lanciavano fiamme – Per tua norma e regola io non sono una di quelle con cui pomiciare!”
“Ma lo stavamo fac…”
“Se mi consideri alla stregua di quelle allora possiamo anche finirla qui, mi pare. Buona giornata, James Havoc.”
Si girò sdegnosamente e iniziò a camminare fuori dalla radura, sapendo bene che lui non poteva resisterle e  che quindi sarebbe stata solo questione di secondi prima che…
Ma come? Non viene?
Angela si fermò, accorgendosi di aver fatto già una decina di passi in più rispetto a quelli previsti. Lanciò un’occhiata verso di lei e vide che il giovane la fissava ancora con aria stranita, come se si chiedesse quale mossa compiere.
“Beh?” gli chiese tornando indietro e mettendosi a braccia conserte.
“Beh cosa? Mi dai una sberla ad ogni cosa che dico…” protestò lui.
“Tu mi dici cose offensive.”
“Sei più complicata del previsto,  Angela… insomma, cosa vuoi da me? Baci in modo fantastico, hai un corpo da favola, sto bene con te. Non farò mai dei grandi discorsi romantici, se è questo che vuoi. Io sono così, non sono certo un grande esperto di conversazione o uno che capisce al volo cosa passa nella mente di voi ragazze… anzi, ammetto che spesso e volentieri mi terrorizzate quando volete fare discorsi seri.
“Aspetta, aspetta… adesso sarebbe colpa mia? E’ dunque questa la tua idea di relazione? Amoreggiare dopo essersi a malapena salutati? Tutto qui?”
“Non mi pare brutto…”
Angela trattenne la nuova sberla che gli voleva dare. Ad essere troppo violenta poteva farlo scappare del tutto: insomma, si capiva che voleva stare con lei, ma doveva ancora comprendere che c’era un prezzo da pagare.
 
James fissò quella ragazza così focosa con attenzione: era arrivato al momento cruciale.
O scappava via o era sua.
A quanto sembrava per stare assieme ad Angela Astor doveva impegnarsi in maniera più seria rispetto a tutte le altre ragazze con cui era stato. Le altre cadevano ai suoi piedi come mosche, lei no. Forse era per questo che la considerava speciale: lei non aveva alcun remore ad interrompere le effusioni, assolutamente. Lei non esitava a dargli una sberla se sentiva qualcosa che non le piaceva.
Lei andava molto oltre l’idea di donna – bambola che aveva avuto fino a quel momento.
O la prendi o la perdi. E non la vuoi perdere.
L’animo del cacciatore si fece prepotentemente in avanti.
“Bene, allora fidanziamoci!” disse tutto d’un fiato, senza distogliere lo sguardo da lei, anzi assumendo un’aria di sfida. Ed ebbe la soddisfazione di vederla fare un passo indietro.
“Cosa?”
“Volevi qualcosa che andasse oltre l’amoreggiare, no? Fidanziamoci, è facile.”
“Se ci fidanziamo poi le altre non le devi manco vedere.”
“Ovvio… e tu non devi vedere gli altri maschi. Mi ricordo bene come a scuola si giravano tutti a guardarti.”
“Per tua norma e regola non ho mai fatto la smorfiosa con nessuno. Se poi sono bella e mi guardano è affar loro, non mio.”
“Sì, ma anche se ti guardano… oh beh, insomma, devi stare solo con me.”
“Non mi dire… in fondo è il concetto del fidanzamento, no? – la sua voce era di presa in giro, ma si intuiva una chiara soddisfazione – Va bene, ci sto. Ci fidanziamo adesso e chiudiamo così la questione.”
“Allora fidanzati?” James tese la mano, quasi a concludere un affare.
“Ti pare il modo giusto?” arricciò il naso lei.
“Se ti chiedevo un bacio magari ottenevo una sberla… sei imprevedibile, Angela.”
“Scemo, certo che ci baciamo!” esclamò lei, saltandogli addosso.
 
E’ in trappola – pensarono entrambi, mentre riprendevano a baciarsi con foga – la preda è mia!
 
Jean Havoc era quello che si poteva definire un uomo pacato e tranquillo.
Era una persona molto grande dall’aria perennemente calma, quasi assente, tanto che a volte le persone che venivano all’emporio non si accorgevano subito della sua presenza se non era al bancone.
Questo suo carattere silenzioso di natura era diventato ancora più evidente dopo la morte della moglie, avvenuta una decina di anni prima. Da allora la vita del vecchio Havoc si era ridotta all’emporio e al suo unico figlio James, l’unica parte allegra della sua esistenza, con quel sorriso e quel carattere gioviale che tanto gli ricordava la dolce Sarah, morta nel mettere al mondo una bambina che era sopravvissuta una manciata di minuti appena.
“Ciao, papà! Sono tornato!” la voce di James riempì immediatamente l’emporio, riportando l’uomo, ormai cinquantaseienne alla realtà.
“Uh, bentornato, figliolo.”
“Papà, ti devo dire una cosa – James si accostò a lui con aria seria, mettendogli addirittura le mani sulle spalle, nonostante gli mancassero un cinque centimetri ancora per diventare alto quanto lui – è importante e devi essere il primo a saperlo.”
“Ah sì? E che è successo?”
“Mi sono fidanzato.”
Jean fissò suo figlio con aria stranita, credendo di essere vittima di uno strano scherzo.
Fidanzato? James? Quello che cambiava un paio di ragazze al mese?
“Scusami, non credo di aver ben capito. Potresti ripetere?”
“Mi sono fidanzato – spiegò ancora lui con semplicità – beh… prima o poi doveva succedere, no? Allora, che ne pensi? Ovviamente la conoscerai presto, è chiaro.”
“Penso che – fece Jean con un sospiro – se per oggi chiudiamo venti minuti prima non succederà nulla. Vorrei sentire questa storia nei minimi dettagli… e soprattutto seduto.”
“Più che giusto – annuì James – ci penso io a chiudere. Tu vai pure a versarti un bicchiere di liquore: arrivo subito!”
 
“Insomma, la volete smette con questo casino!? – Angela sbatté con forza le mani sul tavolo, tanto che le stoviglie sue e di chi le sedeva accanto trabballarono pericolosamente – Sto cercando di fare un dannato annuncio!”
Finalmente la tavolata di venti persone si zittì ed una quarantina di occhi, prevalentemente castano chiari come i suoi, le rivolsero l’attenzione. Fu quasi surreale sentire tutto quel silenzio all’ora di cena, persino i respiri sembravano diventati impercettibili.
“E allora?” riscosse tutti Albert, fissando la cugina con noia.
“Zitto tu o ti ribalto dalla sedia! – lo ammonì Angela con un’occhiataccia – Volevo dire a tutti che sono ufficialmente la fidanzata di James Havoc! Amen! Pace! Riprendete pure a mangia…”
“Che cosa?” esclamarono quasi in coro tutte le donne di famiglia, madre e zia comprese.
In due secondi fu il caos, la cena dimenticata da quasi tutti e Angela circondata come se fosse una sorta di divinità a cui chiedere la grazia. Chi le chiedeva di raccontare come era andata, i più grandi che le dicevano che doveva portarlo a casa assolutamente, alcuni, ovviamente tra i maschi, che facevano qualche stupido commento su come poteva fare uno sano di mente a mettersi con lei e così via.
“E così l’hai catturato! – esclamò Allyson, riuscendo finalmente a farsi largo ed abbracciarla – Brava, sorellina, sapevo che non avresti ceduto!”
“Ehi, ehi! Quando si sposa il suo posto letto diventa mio, chiaro?”
“Zitta, Lya, ci sono prima io più grande di te! Spetta a me!”
“Ma io non voglio dormire ancora nella stanza delle piccole!”
“Problemi tuoi!”
“Comunque, che fortuna! Quello ha un emporio niente male, eh?”
“Credi che ci farà credito?”
“Ahah, brava Angy, hai preso proprio un ottimo partito!”
“Ti dispiace se mangio anche la tua parte… l’amore chiude lo stomaco, no?”
Angela in mezzo a tutto quel caos che, ovviamente, si stava spostando su altri inutili discorsi, sospirò rassegnata. Per tradizione avrebbe dovuto portare James a conoscere la sua numerosa e rumorosa famiglia.
In genere è raccomandabile presentarli a piccole dosi, ma a lui toccherà l’impatto grosso… oh beh, se non mi lascerà in quel momento non mi lascerà mai più.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. 1874. Le regole dell'essere fidanzati. ***


Capitolo 3.
1874. Le regole dell’essere fidanzati.

 

Portare a pranzo un fidanzato a casa Astor era garanzia di due cose: i maschi di famiglia, persino i bambini, avrebbero squadrato l’intruso con un misto di sospetto e minaccia, persino se si fosse trattato di una persona conosciuta da sempre. La seconda certezza era che tutte le femmine di famiglia avrebbero osservato il suddetto fidanzato con aria estatica, quasi fosse un’icona sacra, riempendolo di tutte le attenzioni possibili.
Ed era altrettanto garantito che questo secondo atteggiamento scatenasse la gelosia dei maschi che vedevano le loro figlie, nipoti e persino mogli insidiate da quella presenza estranea.
A conti fatti presentarsi per un pranzo simile era sempre un banco di prova per capire se il ragazzo era davvero interessato: o scappava a gambe levate tra primo e secondo oppure restava legato alla sua amata per sempre. E solo allora la parte maschile della famiglia avrebbe iniziato a concedere un minimo di confidenza al possibile candidato.
Angela aveva cercato in tutti i modi di preparare James a questo strano evento: ricordava fin troppo bene cosa era successo l’anno prima quando Alessia, sua cugina, aveva portato in casa il suo fidanzato Rick. Come quei due si frequentassero ancora era un mistero, ma una cosa era certa: Rick non metteva più piede a casa Astor e le poche volte che incontrava i componenti della famiglia per strada impallidiva vistosamente.
“E’ che… che in genere siamo da prendere a piccole dosi…”
Erano queste le parole con cui Angela aveva descritto la sua famiglia mentre con James si dirigeva verso casa. Ed era vero: a partire dai suoi genitori e dai suoi zii erano tutti delle ottime persone… ma messi assieme era come se si sentissero obbligati a scatenarsi e a far eventuale fronte comune contro il nemico.
Nemico che, in quell’occasione, era James Havoc.
Un ragazzo conosciuto soprattutto per aver avuto numerose relazioni con diverse ragazze del paese.
Risultato dell’analisi per la parte maschile di famiglia: un poco di buono che voleva rovinare una delle bambine.
Risultato dell’analisi per la parte femminile di famiglia: un ragazzo fantastico con cui tutte sarebbero uscite volentieri, persino quelle già accasate.
Possibilità che James scappi… molto elevata.
Pensandolo Angela infilò la mano sotto il tavolo e strinse con forza quella del fidanzato, quasi a fargli forza e a supplicarlo di non farsi prendere dal panico… non proprio ora che suo fratello maggiore Angelo lo stava fissando quasi volesse riempirlo di botte per aver osato insidiare una delle sue sorelle.
“James, posso toccarti il braccio?” chiese Greta in quel momento, suscitando occhiatacce da tutti i suoi fratelli.
“Che?”
“Il tuo braccio… è così dannatamente muscoloso.
E il dannatamente muscoloso piaceva parecchio: in tre secondi tutte le ragazze si alzarono chiedendo di poter tastare quei muscoli perfetti. E James davanti a tutte quelle attenzioni femminili ci sguazzava come un pesce. Nell’arco di un minuto Angela si trovò almeno a tre metri di distanza dal suo fidanzato, scivolata non si sa come all’estremità del tavolo, mentre tutte le altre ragazze ridevano deliziate.
“Ehi! Ehi, ferme tutte! – protestò alzandosi in piedi, pronta a recuperare quello che era suo – Tenete a bada i vostri bollenti spiriti e…”
Non fece in tempo a finire la frase che Angelo si alzò dal suo posto con l’aria di un toro a cui è stato sventolato davanti un fazzoletto rosso.
“Ti credi forte per un paio di muscoli, ragazzo? Vediamo se competi con questi!”
“Vai, Angelo! – subito i maschi di famiglia gli furono dietro – Fagli vedere!”
“No! No, Angelo, aspetta! – cercò di bloccarlo Angela – Non è il caso di…”
“Braccio di ferro?” James si fece avanti con aria furba, provocando gridolini deliziati da parte di tutte.
“Fatti sotto, pivello!” annuì l’altro, sistemando già il gomito sul tavolo beatamente ignaro dell’aver rovesciato diversi bicchieri.
“James!” esclamò la ragazza, incredula.
Questo andava contro qualsiasi cosa avesse mai visto. Un pranzo ufficiale si strava trasformando in una caciara degna di una bettola di ubriaconi. Ma sembrava che lei fosse l’unica a vedere l’assurdità di quanto stava accadendo: tutta la famiglia invece era attorno ai due contendenti e faceva tifo sfegatato.
“Chi vince sfida!” dichiarò Giacomo, uno dei cugini, mettendosi dietro ad Angelo e arrotolandosi la manica della camicia.
“E vediamo chi arriva a sfidare me! – esclamò improvvisamente il padre di Angela – Forza, giovanotti, fateci divertire!”
“Ma papà!” inorridì Angela.
“Zitta, figliola! Anzi, porta altre bottiglie dalla cucina! Pronti voi due… via!”
 
Fatto più unico che raro nella famiglia Astor, James venne accettato dai maschi nell’arco di un paio di ore. Già al terzo scontro di braccio di ferro tutti facevano tifo indifferentemente, riconoscendo e apprezzando la forza del nuovo arrivato.
Era chiaro che il giovane Havoc sapeva attirare l’attenzione su di sé.
E così, quando prese congedo, ormai a tarda serata, tutti lo salutarono come se fosse uno di famiglia da sempre, con tanto di baci affettuosi e pacche sulle spalle.
Fu solo allora che Angela riuscì a riprendere possesso di lui.
Per chissà quale motivo durante tutte quelle ore non era riuscita ad avvicinarsi al suo fidanzato, ostacolata dalla torma di parenti che sembrava farlo apposta.
“Non capisco perché ti preoccupavi così – dichiarò James – la tua famiglia è davvero divertente. Non credo di aver mai fatto delle sfide a braccio di ferro così belle.”
“Già…”
“E poi le tue sorelle e cugine sono davvero simpatiche e anche premurose. Quando ho sollevato tua cugina con una mano sola erano estasiate.”
“Già…”
“Tuo padre poi è fantastico. Diamine ha quasi ribaltato il tavolo quando mi ha battuto a braccio di ferro e…”
“Certo che potevi considerarmi di più, eh!”
James la guardò sorpreso. Si era fermata in mezzo al sentiero, le braccia lungo i fianchi e le mani strette fino a sbiancare. Il viso poi era una maschera furente, tanto che James fece un cautelativo passo indietro per evitare un eventuale ceffone.
“Ma che dici? Scusa, avevi paura che i tuoi facessero problemi ed invece…”
“In cinque ore che sei rimasto a casa mia mi avrai rivolto la parola sì e no dieci volte… e sempre su mia iniziativa! – sbottò lei furiosa – Sono io la tua fidanzata! Non Greta, non mia sorella, non mia madre… non mio padre o i miei fratelli!”
“Non… non mi è sembrato di…” balbettò lui, non riuscendo a capire cosa fosse andato storto in quello che lui considerava un pomeriggio perfetto.
“Il fatto che quando siamo in due ti prendi più libertà del previsto non ti autorizza a trascurarmi quando siamo in pubblico! O forse vuoi che dica a mio fratello quello che abbiamo fatto ieri, quando mi hai sbottonato la camicetta?”
“Ma eri d’accordo pure tu, no?”
“Non è questo il punto… oh, dannazione, lascia stare! – si arrese lei con le lacrime agli occhi. Si sentiva così umiliata che non aveva nemmeno voglia di dargli un ceffone – Non capisci proprio nulla… vai pure a casa, coraggio. Non ho più voglia di accompagnarti… anzi, se aspetti che torno a casa lo chiedo ad Angelo… magari vi fate un’altra sfida a braccio di ferro sulla via del ritorno.”
“Uh – lui si arruffò i capelli con aria imbarazzata, iniziando a comprendere il motivo di quell’atteggiamento – sei… sei gelosa della tua famiglia? Mica sto con loro…”
“Potevi dimostrarlo, sai. Sembrava che conoscessi tutti da tempo tranne me!”
“Vabbè, scusa, mi sono lasciato trasportare… e che i tuoi sono simpatici ed è stato naturale fare comunella con loro. Non volevo farti dispiacere, anzi, pensavo ne fossi felice.”
Femmine… decisamente tra le creature più complicate del mondo. Durante tutta l’andata non aveva fatto che raccomandazioni sull’essere gentile, disponibile, fare di tutto per accattivarsi i suoi fratelli e compagnia cantante. E adesso invece, sebbene le cose fossero andate egregiamente, sembrava che lui si fosse comportato nel peggiore dei modi rovinando tutto quanto.
E a dimostrazione di quanto erano complicate c’era il fatto che Angela nemmeno gli rispondeva: si limitava ad osservarlo con rabbia, senza fargli capire se era pericoloso avvicinarsi o meno.
Tuttavia, nonostante il sentore di pericolo, James si sentì davvero dispiaciuto nel vederla in quello stato: capiva che dietro la rabbia c’erano delusione e tristezza e pensare quei sentimenti su Angela gli fece più male del previsto. Così, in barba a qualsiasi ceffone che poteva arrivargli, si accostò a lei e l’avvolse nel suo abbraccio.
“Sei… sei uno scemo…” mormorò lei, restando rigida in quella stretta, senza però scostarsi.
“E’ che non la conoscevo questa regola dell’essere fidanzati…”
“Regola?” Angela alzò lo sguardo perplessa, la rabbia che iniziava a sparire.
“Beh – fece lui con serietà – presumo che quando si è fidanzati ci si debba comportare in maniera un po’ diversa da quando ci si… uhm… frequenta giusto così, senza andare oltre.”
Ma sì, doveva essere di certo questo. Doveva pensarci prima che impegnandosi con Angela sarebbe andato incontro anche a questi dettagli: quel pranzo era per conoscere i suoi, ma ovviamente avrebbe dovuto pensare anche a lei. Effettivamente era come se ad una festa di compleanno si fosse messo a scherzare e ridere con tutti meno che col festeggiato. Alla luce di questo il disappunto della sua fidanzata era più che legittimo.
“Le regole dell’essere fidanzati… – Angela scosse il capo con un sorriso – solo tu potevi tirare fuori una cosa simile, ne sono certa.”
“Mi perdoni, scheggia?”
Scheggia?” ripeté lei.
“Perché sei piccolina rispetto a me – spiegò James con un sorriso divertito – e sei imprevedibile e rapida come una scheggia. Ti sta bene, non è una presa in giro, te l’assicuro. Era da qualche giorno che pensavo che fosse carino darti un nomignolo, però se non ti piace lo cambiamo… forse preferisci qualcosa di più romantico.”
“Scheggia… no, mi piace! – annuì lei rispondendo al sorriso, tutta la rabbia sparita – Però facciamo così: mi puoi chiamare in quel modo solo quando siamo noi due, va bene?”
“Affare fatto! E tu me lo vuoi dare un nomignolo?”
La ragazza rimase a pensarci per qualche minuto, restando placidamente posata contro il petto robusto del fidanzato. Ma alla fine scosse il capo e lo guardò con attenzione.
“No, non ne trovo uno adatto a te così su due piedi… però ti prometto che ci penserò. Senti, ti va se ti accompagno ancora per un pezzo di strada?”
“Ne hai di nuovo voglia?” chiese lui strizzandole l’occhio con malizia.
“Sì, adesso sì.”
 
“E quindi vi sposerete, vero?”
A quella domanda ad Angela andrò di traverso il boccone e dovette fare una smorfia non indifferente per dissimulare l’attacco di tosse che le venne di conseguenza. Con tutta la disinvoltura possibile afferrò il suo bicchiere e mandò giù diversi sorsi d’acqua per prendere tempo.
“Ovviamente, papà – rispose James per lei – ma mi pare un po’ prestino, non credi? Angela ha ancora sedici anni e io diciassette.”
“Ma certo – annuì Jean Havoc, guardando con aria paterna la coppia di giovani seduta davanti a lui – bene, ne sono davvero felice. Con tutte le ragazze che hai frequentato, ancora non ne portavi una a pranzo… iniziavo a pensare che non volessi mettere la testa a posto.”
“Ah, tranquillo, papà – ridacchiò il ragazzone – dovevo solo incontrare quella giusta. Vero, Angela?”
“Sì, sì… certamente!” riuscì a rispondere lei.
“Ah, non vedo l’ora di avere dei nipoti!”
Angela ringraziò un’ignota divinità per averle impedito di addentare il boccone successivo, altrimenti avrebbe rischiato di morire soffocata per la seconda volta.
Matrimonio? Nipoti? Ma quanto correva quell’uomo?
Insomma, era chiaro che lei e James si frequentavano in maniera seria con il futuro obbiettivo di sposarsi, ma parlarne a nemmeno un mese dal fidanzamento le sembrava una cosa completamente fuori luogo.
Guardando bene il suo futuro suocero si domandò se stesse scherzando o meno, ma nonostante l’espressione bonaria, molto simile a quella del figlio, si capiva che era serio.
Del resto era vedovo, cinquantaseienne, con un solo figlio ed un grande emporio da mandare avanti… era più che normale che pensasse a cose di quel tipo.
Ma che diamine! Non ho nessuna intenzione di sposarmi appena maggiorenne e scodellare i suoi eredi!
Con aria seccata prese un pezzo di pane e se lo mise in bocca, cercando di dire qualcosa che facesse capire le sue intenzioni. Ma prima che potesse aprire bocca l’uomo continuò.
“Ah, sarà fantastico sentire di nuovo voci infantili in questa grande casa.”
Oh cielo…
“Ci sarà tempo, signore – disse con un sorriso imbarazzato – e quanto all’emporio posso dare una mano pure io, se serve…”
Oh cavolo! No… no, Angela, che hai appena detto? Non ti devi mica far assumere… cielo, che situazione!
“Ah, che fantastica idea! – disse James, battendole una pacca sulle spalle – Così lavoriamo assieme già da subito, non ne sei felice? Ovviamente chiediamo prima ai tuoi, sia chiaro.”
“Del resto è giusto che una moglie aiuti il marito nel suo lavoro.” sentenziò Jean, incrociando le braccia al petto con l’aria di chi la sa lunga.
“Veramente io non so…”
“Non ti preoccupare, non è difficile da imparare. E nei primi tempi non ti diamo compiti difficili.”
“E poi sembra complicato, ma non lo è.”
Nell’arco di dieci secondi padre e figlio la stavano subissando di dettagli su inventari, prezzi, merci stagionali e centinaia di altre cose che le sembravano completamente fuori senso. Le sembrava di essere un animale da lavoro che è stato appena acquistato e al quale i nuovi proprietari guardano con particolare aspettativa.
“Ci tengo a precisare – li interruppe alzandosi in piedi e cercando di recuperare le redini della situazione – che io sono una persona libera e sceglierò io se lavorare o meno all’emporio. Ho una mia testa, penso da me: se mi va di continuare ad aiutare a casa mia lo faccio e non saranno certo delle stupide… stupide idee maschiliste a impedirmelo! Sia ben chiaro!”
E con aria offesa si risedette, riprendendo a mangiare come se niente fosse.
Sapeva di essersi giocata le simpatie del padre di James e la cosa le dispiaceva, ma era meglio fermare certi discorsi prima che…
“Ahah! Ragazzo mio – Jean Havoc scoppiò a ridere – è proprio un bel tipino la tua ragazza!”
“Scusi?” Angela lo fissò con aria interdetta.
“Adesso capisco perché l’hai accalappiato, signorina – rise ancora l’uomo con le lacrime agli occhi per l’ilarità – sei proprio una ragazza infiammabile, come si suol dire. Non hai idea di quanto mi piaci!”
Ma se gli ho appena detto chiaro e tondo che è una persona retrograda…
“Tu e James siete perfetti… e credo che i miei nipoti saranno dei bei demonietti biondi!”
“Ancora con questa storia dei bambini? Signore, io non voglio sposarmi subito!”
“Mica te l’ho chiesto, mia cara – scosse il capo lui – e chi vi mette fretta? Lo farete prima o poi, tutto qui.”
Riprese a ridere sonoramente, seguito dal figlio.
E ad Angela sembrò di aver a che fare con due persone fuori di testa.
 
“Seconda regola dell’essere fidanzati – sospirò mentre lui la riaccompagnava a casa – non osare parlarmi di eredi o quanto altro, chiaro? Matrimonio e figli sono un discorso che si farà più avanti.”
“Come preferisci. – annuì James – Non fare caso a papà non pensa assolutamente che una moglie debba essere schiava del marito o cose simili.”
“Ne sei sicuro?” lo osservò con aria dubbiosa.
“Ma certo. Lui è solo impaziente perché sai… non è un bell’affare restare vedovo, capisci? Diciamo che a lui piace molto l’idea di una bella famiglia e gli fa piacere pensare che verrai a vivere a casa e che avremo dei bambini.”
Angela abbassò lo sguardo colpevolmente. Non si era soffermata a pensare alla situazione familiare di James. Lei era abituata ad avere una famiglia numerosa ed invadente ventiquattro ore su ventiquattro, ma a casa Havoc le cose erano molto diverse. Provò ad immaginare la sua vita senza i suoi e i suoi fratelli e cugini e improvvisamente sentì l’esigenza di prendere per mano James e stringersi a lui.
“Senti, l’idea di venire a lavorare all’emporio non mi dispiace, davvero…”
“Non ti devi sentire obbligata.”
“Ma no, se per voi non è un problema.”
“Beh, dovremmo aspettare che tu compia i diciotto anni, no?”
“Eh già… insomma c’è tempo.”
Dire quella frase la fece sentire incredibilmente sollevata. I discorsi di quel pranzo le sembrarono incredibilmente lontani e surreali: davanti a lei si presentava di nuovo il solito e placido scorrere del tempo, senza alcuna svolta decisiva all’orizzonte. Non ancora, come era giusto che fosse.
“Sole…” mormorò.
“Mh?”
“Io scheggia e tu sole, va bene?”
“Sole? Beh, mi piace – ammise lui dopo qualche secondo – perché sono biondo?”
“Anche…” annuì lei.
Ma soprattutto perché poteva bruciarla con la passione, ma allo stesso tempo poteva accarezzarla lievemente, dandole una sensazione di sicurezza e benessere paragonabile a quella del sole.
Chissà che cosa ne poteva uscire da due tipi come loro.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. 1875. Questa dannata farina... ***


Capitolo 4.
1875. Questa dannata farina…


 
“Ciao a tutti, io vado a lavorare!”
“Tu stai solo andando all’emporio a trovare James – disse Allyson mentre usciva assieme alla sorella per andare alla stalla a mungere le mucche – non dire cavolate.”
“Non sono cavolate – ribatté Angela con orgoglio ferito – dopo due mesi che lavoro da loro nel pomeriggio ancora non ve ne siete fatti una ragione, vero?”
“Francamente credo che faresti di più a casa: una mano per mungere non sarebbe male, giusto per fare un esempio. Ma da quando mamma e papà ti hanno dato il permesso non ci senti più da quell’orecchio, vero?”
“E di mattina secondo te che faccio? – Angela si irritò notevolmente per quel discorso che, ad intervalli più o meno regolari, saltava inevitabilmente fuori – Aiuto come tutti gli altri, mica me ne sto ad oziare. Ho chiesto a mamma e papà se potevo andare… se loro mi avessero detto che serviva una mano anche il pomeriggio non mi sarei mai permessa, lo sai bene; smettila di fare il broncio.”
“Spostare barattoli, che gran fatica!”
“C’è molto di più dietro… oh, ma che ne parlo con te. Ci vediamo a cena!”
“E non ti pagano nemmeno! – le gridò Allyson mentre lei fuggiva verso il sentiero – Bell’affare, no?”
Angela, in preda alla rabbia, prese una tale rincorsa che si fermò soltanto quando la strada per arrivare all’emporio era praticamente dimezzata. Si posò ad un albero con il fiatone, ricacciando indietro le lacrime di amarezza e frustrazione. Perché ogni volta si doveva tirare fuori quell’argomento? In realtà Allyson era solo gelosa! Gelosa del fatto che nonostante lei fosse più grande di cinque anni non avesse ancora uno straccio di fidanzato e con la prospettiva di restare per sempre a vivere a casa.
Problemi suoi se sin da scuola si è spianata la strada per fare la zitella acida.
Certo la sua situazione era davvero particolare e non era solo Allyson a guardarla con sospetto.
In genere dopo il fidanzamento una ragazza restava a casa dei suoi fino al matrimonio: non si era mai sentito di una diciassettenne che andava ad aiutare nell’attività del fidanzato tralasciando così i lavori nella casa paterna. Evidentemente agli occhi di molti era una sorta di tradimento.
Ma se quelle critiche potevano fare male, dall’altra Angela era felicissima di iniziare ad avere una forma di indipendenza dalla sua famiglia. Era come se quelle ore passate a lavorare all’emporio la facessero affrancare sempre di più da loro: non un distacco netto come può esserlo dal matrimonio in poi, ma qualcosa di più graduale.
E poi è ovvio che non mi pagano – sospirò riprendendo a camminare – sono ancora minorenne. Il mio è un aiuto volontario, tutto qui.
Però doveva ammettere che le dava una soddisfazione fuori dal comune poter dare una mano a James e a suo padre. Si capiva che ci tenevano moltissimo affinché lei imparasse a gestire l’emporio e ogni giorno non mancavano mai di insegnarle qualcosa di nuovo: ed erano cose così diverse dai banali lavori di casa o della fattoria… era un mondo così affascinante, fatto di merci, conti, magazzino. La faceva sentire in qualche modo al di sopra di tutti gli altri.
Che sia per questo che sono così irritati con me? Eppure non mi sembra di vantarmi di tutto questo…
“Ehilà, scheggia, benarrivata!”
La voce di James interruppe quei cupi pensieri: con una scrollata di spalle dimenticò il disappunto di sua sorella e si tuffò nel meraviglioso mondo dell’emporio.
 
Qualcosa la preoccupava, era chiaro.
In quell’anno e passa di fidanzamento, James Havoc aveva imparato a riconoscere diverse sfumature di Angela e sapeva che quando simulava un’allegria troppo marcata era per nascondere la tristezza.
Succedeva diverse volte alla settimana ormai, se ne era reso conto, dunque si doveva trattare di un problema persistente.
Però chiederglielo sarebbe stato come buttare un petardo nelle ceneri ancora accese e dunque era meglio evitare un approccio diretto, anzi era il caso di procedere con estrema cautela.
Da molto… molto lontano.
“Fare l’inventario ti ha levato tutta l’allegria, vero? – chiese, accostandosi a lei con aria noncurante – Non ti preoccupare, anche io a volte impazzisco nel contare tutte queste cose.”
“E tuo padre ci lascia anche soli proprio adesso – commentò lei senza levare gli occhi da quei fogli dove chiaramente le cifre non corrispondevano a quanto c’era nel magazzino – per lo meno oggi l’emporio è chiuso ed i clienti non verranno a disturbare… ma non ti preoccupare, mi destreggio io.”
“Sicura? Tanto io ho sistemato quello che dovevo sistemare.”
“Sicurissima.”
James annuì e si sedette con disinvoltura su uno dei sacchi di farina sparsi nel pavimento: erano stati scaricati il giorno prima ed ancora dovevano essere sistemati. Provare a fare la conta era davvero un rompicapo perché puntualmente ne mancava qualcuno oppure ce n’erano d’avanzo.
Angela continuava a spostare gli occhi chiari dai fogli ai sacchi, in una lotta che chiaramente non riusciva a vincere. James approfittò di quei momenti per studiarla.
A diciassette anni era ormai del tutto sviluppata, a chiamarla donna mancava solo la maggiore età che sarebbe arrivata a febbraio dell’anno prossimo. Era uno spettacolo di ragazza, senza ombra di dubbio: lui aveva conosciuto diverse femmine, ma nessuna a suo parere aveva una prosperosità così armoniosa come quella di Angela Astor. In lei c’era una forza e un’eleganza che la rendevano fuori dal comune. Adesso portava i capelli leggermente più lunghi, con le ciocche che andavano a sfiorare il collo e tendevano ad arricciarsi in avanti, anche quando lei se ne sistemava qualcuna dietro l’orecchio. Il viso era sempre lo stesso, sebbene avesse assunto qualcosa di nuovo e affascinante nell’espressione in generale, contribuendo a far cadere sempre l’occhio sulla sua persona.
Insomma era davvero una ragazza fantastica…
Almeno quando non piange per… per dei sacchi di farina.
“Ehi – si alzò e le andò subito accanto, abbracciandola – non mi pare il caso…”
“E’ colpa di questa dannata farina – si giustificò subito lei, cercando di asciugare le lacrime – è… è peggio delle cipolle! Entra negli occhi e…”
“Certo, hai proprio ragione…” la assecondò.
“Smettila di prendermi in giro.”
“Mica lo sto facendo… dannata farina, non sai quante volte fa piangere anche me.”
“Idiota! – si infuriò Angela, alzando il viso con espressione irata – Sei proprio…”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma erano già labbra contro labbra in un bacio un po’ inaspettato.
Era raro che si baciassero quando lei era ancora arrabbiata, in genere aspettavano che la sua ira sparisse come neve al sole dopo qualche secondo. Ma questa volta sembrava che le cose fossero destinate ad andare diversamente.
Immediatamente Angela alzò le braccia e le strinse attorno al collo di James, inducendolo a premere ancora di più la bocca contro la sua.
Era una bella situazione, una piccola parte di lui se ne rendeva perfettamente conto: da qualche settimana si era sorpreso a desiderare di voler spingersi oltre con la sua fidanzata. Le effusioni con occasionali palpate non gli bastavano più…
Istintivamente le sue mani andarono alla camicetta di lei, sbottonandola con veloce abilità acquisita nel corso del tempo.
“Ma no – cercò di protestare lei senza troppa convinzione – e… e l’inventario…?”
“Dannata farina…” mormorò lui per tutta risposta scendendo a morsicarle il seno destro con delicatezza e sentendola gemere come mai aveva fatto. Con le labbra ed i denti sembrava che le cose fossero molto differenti.
“Odio la farina – ammise Angela ad occhi chiusi mentre si faceva sollevare come un fuscello – è… è sempre colpa della farina…”
“Non ne hai idea – sospirò James adagiandola tra i sacchi dell’odiata farina – non puoi capire… come sia… come…”
“Come cosa?” chiese la ragazza, ma si dovette interrompere e serrare gli occhi mentre le labbra di James scendevano dal suo seno, al torace, all’ombelico… all’elastico della gonna…
“… eh… come… te lo dico… te lo dico dopo…” ansimò James in preda alla più folle ondata di desiderio che l’avesse mai travolto. Non gli importava più di nulla, aveva solo una certezza: quel pomeriggio avrebbero fatto l’amore per la prima volta, non si poteva più tornare indietro.
Risalì a baciarla con passione mentre le sfilava la gonna e l’intimo tutto in una volta.
“Adesso? – chiese lei afferrandolo per il collo e fissandolo con aspettativa – Qui? In mezzo alla dannata farina?”
“Diciamo che… – esitò mentre perdeva quei tre secondi necessari per sbottonarsi i calzoni e calarli – dobbiamo… dobbiamo trovare anche lati positivi, no? Posso?... Ti prego dimmi di sì, non hai idea di che voglia pazzesca ho di fare l’amore con te…”
Per tutta risposta lei lo attirò contro il suo corpo, baciandolo con passione.
Il resto fu chiaramente colpa della dannata farina.
 
“Perché piangevi?”
Angela terminò di avvolgersi nell’asciugamano e si girò a fissare il suo… uomo.
Se l’aveva sempre considerato bello fisicamente, ora che lo vedeva del tutto nudo, ancora fradicio per il bagno che si erano fatti assieme, lo considerava perfetto come una divinità. Dovette mordersi il labbro inferiore per non saltargli addosso e riniziare tutto.
“Stupide cose a cui non è nemmeno il caso di pensare dopo… dopo tutto questo… oh, James – sospirò di gioia – è… è stato fantastico.”
“Tu sei fantastica, Scheggia: sono persino disposto a perdonare la dannata farina dopo quello che è successo.” commentò lui, recuperando a sua volta un asciugamano e frizionandosi con forza i capelli biondi.
Si guardarono entrambi e si sorrisero, come se fossero amanti di vecchia data: sembrava che la nudità reciproca appena scoperta non li imbarazzasse affatto. Osservando gli occhi azzurri, tuttavia, Angela capì che la domanda restava ancora e così si decise a rispondere.
“Discussioni tra sorelle e cugine, lascia stare… credo siano tutte un po’ gelose che il pomeriggio vengo all’emporio invece di aiutare a casa. E vorrei precisare che un mio fratello ed un mio cugino si sono appena sposati quindi per me che non lavoro lì di pomeriggio ci sono due nuove ragazze che lavorano tutti i giorni di buona lena… è solo invidia.”
“Mh – lui la fissò con aria stranita – non sono discorsi che posso capire essendo figlio unico, però…”
“Ti ho detto di lasciare stare – lo bloccò lei con aria sicura – è questo il mio futuro, qui con te, all’emporio. Se se ne faranno una ragione dopo il matrimonio, che se la facciano già da ora. Devo rinunciare a tutto questo per il loro broncio? Non credo proprio! E non fare quella faccia, non sono mai stata così sicura in vita mia.”
“Se lo dici tu – annuì James iniziando a rivestirsi – mi fido. Ma se c’è qualcosa che non va promettimi che me lo dirai. Forse ci potrò fare ben poco, ma…”
“Potremmo sempre dare la colpa alla farina, no?” ridacchiò con malizia, accostandosi per baciarlo
“Giustamente, dannata farina… ma ora rivestiti, Angela Astor, altrimenti farina o no ricomincio di nuovo…” la strinse James fissandola con passione nemmeno troppo simulata.
“Abbiamo un inventario da finire – gli ricordò lei con aria desolata – e tuo padre starà per tornare.”
Lo disse con sincera malinconia, in realtà pure lei aveva voglia di ricominciare, stavolta magari in un più comodo letto. La prossima volta sarebbe stata meglio la più confortevole camera di James piuttosto che i ruvidi sacchi di farina.
Oh, ma che cosa me ne importa!
 
Ho fatto l’amore con James… ho fatto l’amore con il mio fidanzato…
Angela disse quelle parole con la mente, ma le sue labbra non si mossero.
Aveva una voglia matta si svegliare sua sorella e confidarle tutto quanto, ben sapendo che quella notte non sarebbe riuscita a chiudere occhio. Ogni volta che qualcuna di loro aveva perso la verginità prima del matrimonio aveva sempre trovato una confidente tra le sorelle o le cugine e adesso Angela capiva bene quanto fosse necessario un sostegno simile.
Dopo le gioie dell’amore fisico ora ne viveva le paure: stando lontana da James si sentiva spaesata.
Non era rimasta incinta, ne era certa: era la prima volta per entrambi e nessuno di loro aveva raggiunto l’apice del piacere. Però c’era l’ovvio indolenzimento, la consapevolezza che comunque il proprio corpo non era più lo stesso… che lei era in qualche modo cambiata.
E un conto è vivere queste esperienze da sposata.
Allyson… Ally, ti prego… ho fatto l’amore con lui…
“Che c’è?” quasi svegliata da quelle suppliche silenziose, Allyson si girò di fianco e si accostò a lei con uno sbadiglio.
“Nulla…” mentì lei.
“Respiri irregolarmente, si capisce c’è qualcosa – spiegò con voce assonnata mentre la abbracciava, come se niente fosse successo tra di loro, come se quei litigi non fossero mai avvenuti – ed è da quando sei tornata che sei strana…”
“Oh, Ally…” si girò verso di lei e si rifugiò nel suo abbraccio, sentendo una strana voglia di piangere.
“L’avete fatto, eh?” chiese la maggiore stringendola a sé.
“Sì…”
“Sei cresciuta, sorellina…”
“Peccato che ora non mi senta così grande… dannazione, Ally, ma perché discutiamo sempre? Era da ore che volevo confidarmi con te!”
“Scusami – sospirò lei, accarezzandole i capelli – sono stata pessima negli ultimi tempi. E’ che… sai che Chris Mellom si sposa? L’ho saputo oggi.”
“Chi? Il figlio minore dei Mellom? No, non lo… oh Ally, ti piaceva?”
“Sono stata una pessima sorella, come ti dicevo… tu non c’entravi niente. E’ che le cose cambiano e invece la mia vita resta uguale. E adesso anche la mia sorellina cresce.”
“E’ uno scemo se non si è accorto di te…” Angela si pentì amaramente di aver pensato quelle brutte cose sulla sorella, a proposito dell’essere perenne zitella, nonostante fossero passati dei giorni.
“Un treno che se ne va, tutto qui. Vorrei sapere quando arriverà quello per me.”
“Sono sicura che lo trovi quello giusto, fidati!”
“Dici? Beh, in fondo se uno del paese è appena partito per l’Accademia militare allora tutto è possibile.”
“Ah, ma quelli sono i figli importanti – commentò sarcasticamente Angela – gli Hevans non sono gli Astor. Non abbiamo bisogno di pensare a loro.”
“Sarà. Forza, ora cerca di dormire… o se proprio vuoi raccontarmi come è andata non esagerare con i dettagli, va bene?”
“Ma no – ridacchiò lei, accucciandosi ancora di più contro il petto della sorella – adesso va tutto per il meglio e non credo di aver più così tanta paura.”
“E allora dormi: domani dobbiamo preparare il pane, ricordi?”
“Farina…” sospirò lei.
“Eh?”
“Niente… è che… è sempre questa dannata farina.”
“Uh, beh, sarà come dici tu.”
“Buonanotte!”

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. 1877. Quando il gatto non c'è... ***


Capitolo 5.
1877. Quando il gatto non c'è.



 
Etciù!
“Uh, diamine, cara – Jean Havoc alzò lo sguardo su Angela che, con mosse seccate, cercava un fazzoletto nella tasca del grembiule – credo proprio che tu non sia scampata al raffreddore quest’inverno, eh?”
“A casa ce lo stiamo passando a vicenda – sospirò la giovane, asciugandosi gli occhi che non la smettevano di lacrimare – è sempre così: stile epidemia… inizia uno e nell’arco di una settimana almeno una decina di noi hanno contratto l’influenza di turno.”
“Nei prossimi giorni dovresti restare a casa e riposare.”
“A casa a riposare? – sorrise sarcasticamente lei scuotendo il capo – No, mi conosco: non riuscirei a stare a letto e mi metterei a fare faccende domestiche; detesto stare con le mani in mano e…” forse avrebbe aggiunto anche altro, ma una nuova serie di starnuti le impedì di proseguire il discorso.
Il signor Havoc si avvicinò a lei con aria paterna e le tastò la fronte.
“Signorina – le disse con voce significativa – vorrei tanto sbagliarmi, ma credo che entro stasera ti verrà un bel febbrone: sei già oltre il raffreddore.”
“Sciocchezze…” tentò di difendersi lei.
“Oh, coraggio mia cara – le passò un braccio attorno alle spalle, stringendola a sé – se per un paio di giorni non vieni qui non succede niente. Sai come vanno le influenze, no? Una settimana a casa e poi tutto passa, niente di drammatico.”
“Niente di drammatico? – Angela lo guardò con aria incredula – Oggi è il ventinove novembre ed un’influenza non le pare niente di drammatico? Si rende conto di che giorno è dopodomani?”
“Che? – l’uomo la guardò con perplessità, ma poi sorrise bonariamente – Ah, mia cara bimba, credo che quest’anno tu debba rinunciare alla festa del primo dicembre. Coraggio, niente musoni: ne hai ancora tantissime davanti a te e per una che salti non succederà nulla.”
 
“Non succederà nulla!? Dannazione, non posso saltare la festa del primo dicembre!”
“Sorellina, non è colpa mia se ti sei beccata la peggior influenza da quando sei nata – Allyson le tastò la fronte e scosse il capo – e ho la tremenda paura che sconfinerà in bronchite: domani verrà il medico a visitarti, fatti forza.”
“Allyson Astor – esclamò Angela mettendosi a sedere e tossendo violentemente per il fastidio che parlare le procurava – tu… ora mi darai una mano a mettere quel dannato vestito e…”
“… e poi ti trascinerai come un relitto fino al capannone per crollare svenuta appena varcata la soglia? Davvero divertente, Angy: cerca di essere razionale e rassegnati. Per una settimana o anche dieci giorni tu il letto non lo lasci.”
“Vi odio tutti!” singhiozzò la ragazza, anche se buona parte delle lacrime erano dovute al raffreddore che non la voleva abbandonare e anzi andava allegramente a braccetto con la febbre.
“Oh, suvvia, cosa temi? Che qualcuna ti porti via il tuo James in questi giorni che sei malata? – la prese in giro la maggiore sistemandosi meglio la frangetta e controllando che il nastro sui capelli fosse in ordine – Lui è tua proprietà privata da ormai tre anni buoni, chi te lo tocca più?”
“Lui ci va alla festa… come tutti voi… e mi lasciate in questo letto di dolore!”
“A casa ci sono la zia, e almeno altri cinque di noi a letto con l’influenza: sei in ottima compagnia. Mi dispiace dirtelo, Angela Astor, ma per una volta tanto il mondo non si fermerà per te. Ora, se posso consigliarti, bevi quel decotto finché è caldo e poi cerca di dormire. Ti prometto che quando torneremo faremo attenzione a non svegliarti.”
Magra consolazione – pensò Angela con un broncio offeso, prendendo tuttavia la tazza di decotto che stava sul comodino.
 
Il fatto che Angela fosse così contrariata da quell’influenza non era dovuto solo al normale disappunto dello stare male. Fosse capitata in altri periodi dell’anno non l’avrebbe turbata più di tanto, ma che andasse a prendere proprio la festa del primo dicembre poneva la cosa in una luce del tutto nuova e negativa.
La festa del primo dicembre, era risaputo, era la più importante del paese: il vero momento in cui la società si riuniva tutta assieme al grande capannone. Lei era già tre anni che andava assieme a James ballando anche con lui e dunque agli occhi della gente era chiaro che erano ufficialmente impegnati.
E la cosa, inutile negarlo, la faceva gongolare parecchio: vedere gli sguardi invidiosi di parecchie altre ragazze le dava un senso di maligna soddisfazione. Lei, del resto, era riuscita dove tutte loro avevano fallito.
Proprio perché conosceva bene la piccola società femminile sotto i venticinque anni, sapeva che poteva bastare una festa senza accompagnatrice per risvegliare tutto d’un tratto le speranze delle altre ragazze nei confronti del giovane Havoc.
E per quanto ci fosse la spiegazione razionale che Angela Astor era allettata da una febbre non indifferente, spesso si preferiva fare orecchie da mercante e approfittare della situazione.
Fidanzati del resto non vuol dire mica sposati.
E così, quattro giorni dopo la festa…
“Ciao, James, come va?”
“Oh, ciao, Patricia – James alzò gli occhi dall’elenco che stava controllando nel bancone e sorrise nel vedere la sua vecchia conoscenza di scuola – come stai?”
“Splendidamente, caro, e tu?”
“Ottimamente, grazie.”
James non aveva mancato di notare come la giovane indossasse un vestito che valorizzava parecchio le sue forme. Anche i capelli neri erano ben curati e tutto faceva pensare che…
“Vai ad una festa?” chiese infine con perplessità.
“Che? – lei sgranò gli occhi scuri con sorpresa – no, assolutamente. Sono solo capitata qui per caso e ho pensato di passare a trovarti: è da tanto che non scambiamo quattro chiacchiere.”
“Oh, certo – James si passò una mano tra i capelli biondi, riflettendo sul fatto che loro due non si erano mai scambiati qualcosa che andasse oltre il saluto o qualche frase – di che vuoi parlare? Però ti avviso che se arriva qualche cliente devo dedicarmi a lui…”
“Ma certo – annuì lei comprensiva – se ti serve una mano chiedi pure.”
“Rovineresti il tuo bell’abito.”
“Ti piace?”
“Carino. Angela ne ha uno simile, lo sai?”
“Angela? Oh, già, poveretta: ho saputo che sta male…”
“Penso che tra un cinque giorni tornerà in piedi. Se ce la faccio vado a trovarla domani.”
“Certo… uhm… senti,  perché invece di parlare di lei non parliamo di noi?”
“Di me e te? – James inclinò la testa con curiosità – Ossia?”
“Sai, in questi giorni mi sento particolarmente sola…”
“Non stavi con Clivert?”
“Che? – la ragazza arrossì e poi fece un gesto con la mano – Ma no, quella è storia vecchia di due anni.”
“Ah, no aspetta! – si ricosse James schioccando le dita – hai ragione: era Bobby… oh no, lui era l’anno scorso. Aspetta non me lo dire… il fratello di Tom Derson!”
“Avevo sedici anni, suvvia!”
“Scusa, non è colpa mia se ne cambi uno ogni tre mesi…”
“Ma che dici!” esclamò Patricia indignata.
“Ehi, non ti offendere, lo facevo pure io… prima di incontrare Angela, ovviamente.”
“James Havoc, questa conversazione sta degenerando, sappilo!”
“Ma sei tu che volevi parlare di me e te!”
“Oh! Oh… dannazione! – lei fece una smorfia di disappunto – Lascia stare, adesso devo andare!”
“Sei sicura?”
“Assolutamente!”
“Vuoi venire a trovare Angela con me, domani?” le chiese con una maliziosa strizzata d’occhio.
“Al diavolo!”
Il rumore degli stivaletti risuonò per ogni singola asse del pavimento. Solo quando sparì del tutto, ad indicare che la ragazza era ormai uscita, James scoppiò a ridere.
Le ragazze erano davvero originali, non c’era che dire. Quasi quasi gli dispiaceva di essere fidanzato: nell’arco di quei giorni avrebbe avuto più avventure rispetto a quante ne aveva avute nel resto della sua giovinezza.
Oh andiamo… però Patricia Mott si poteva astenere. Francamente lei non mi ha mai ispirato.
Ma per una Patricia Mott che non andava bene, erano passate almeno un cinque – sei ragazze niente male che avevano tutte le stesse intenzioni. Provocanti, ammiccanti… sì, decisamente quattro anni prima avrebbe ringraziato ignote divinità per delle simili grazie.
“Ah! I doveri dell’essere fidanzato! – sospirò – Scheggia mia, non vedo l’ora che tu torni all’emporio…”
E non certo per l’aiuto…
 
“Figliolo…”
“Sì, papà?” James alzò lo sguardo dalla cena che stavano consumando.
“Non hai notato pure tu che negli ultimi giorni sono venute molto spesso delle ragazze a fare compere all’emporio?”
“Mmmmh – James rifletté con aria pensosa e poi sgranò gli occhi come se cascasse dalle nuvole – ora che mi ci fai pensare…”
“E’ proprio vero che quando il gatto non c’è i topi ballano, eh?” ridacchiò Jean con indulgenza.
“Oh dai, non vorrai dire che vengono per me – ridacchiò riuscendo persino ad arrossire – non l’hanno mai fatto in una simile misura.”
“Ricordati che sei fidanzato.”
“Ovviamente!”
 
“Patricia Mott?” Angela serrò le mani sulle coperte.
“Patricia Mott.” James annuì con un sorriso divertito.
Patricia Mott!” ripeté la donna, facendosi paonazza in viso.
“Patricia Mott…”
“Finiscila di ripetere quel nome!”
“Sei tu che lo stai ripetendo, cara.”
“Quella… quella sgual… mmmmh, meglio che mi trattenga. Come ha osato!? – si passò una mano tra i capelli tormentandosi con rabbia le ciocche – Brutta ape che non è altra! Sempre a ronzare da un ragazzo all’altro… e adesso viene anche sul mio personale territorio!”
“Nessuno mi aveva mai definito personale territorio! – James si riscosse – Non so se prenderlo come complimento o meno…”
“Non è il momento di scherzare, James Havoc! La sola idea che quella sciacquetta ci abbia provato con te mi fa ribollire il sangue… ma me la sistemo io!”
“Tranquilla, scheggia, l’ho già spiazzata io ricordandole qualcuno dei suoi innumerevoli trofei di caccia… tra cui il famoso fratello di Tom Derson.”
“Che – gli occhi castani di lei si sgranarono – e tu come lo sai?”
“Se ne è vantata per settimane, no?”
“Sì, ma con noi ragazze…”
“E il fratello di Tom Derson si sarà dovuto pur lamentare con qualcuno, no? Anche noi ragazzi sappiamo essere solidali e quel poveretto ne aveva proprio bisogno… tre settimane con Patricia Mott non sono uno scherzo, non credi?”
Angela fissò incredula il suo fidanzato che aveva parlato con aria estremamente grave, come se quello accaduto a Tom Derson fosse stata una tragedia di dimensioni epocali. Poi intercettò la strizzata d’occhio e scoppiò a ridere, come al solito la rabbia che svaniva come neve al sole.
“Oh, cielo! – ansimò alla fine, recuperando un bicchiere d’acqua che stava sul comodino – Non farmi ridere così… altrimenti la mia gola tornerà in condizioni disastrose.”
“Insieme ad Henry Hevans credo di essere l’unico che ha sdegnosamente rifiutato le effusioni di quella là. Che ne dici se mi metto una divisa militare? Sarei più bello di quanto lo sono adesso?”
“Ma finiscila! Tu militare? – lo prese in giro lei – In paese ne basta uno, tu pensa solo a difenderti da quelle che ti ronzano attorno finché non torno io.”
“Tranquilla, sono corazzato – garantì James, battendosi un pugno in petto con orgoglio – sono tuo personale territorio del resto!”
“Quando il gatto non c’è i topi ballano – sospirò Angela – proprio non si rassegnano all’idea che tu sia fidanzato con me!”
“Sposiamoci allora – alzò le spalle lui con noncuranza – così risolviamo la questione…”
Si guardarono quasi a chiedersi se era il caso di far diventare serio quel discorso.
Però scossero entrambi il capo all’unisono.
“Ma no… vuoi davvero correre così? – chiese Angela – Ci dobbiamo sposare solo perché quelle ti corrono dietro? Non mi pare una buona motivazione.”
“Effettivamente sarebbe un po’ sminuire la cosa… le facciamo bollire nel loro brodo ancora per un po’, che ne dici?”
“Affare fatto.”
“Che ne dici di un bacetto adesso?” chiese James sedendosi sul letto e sporgendosi con lei con aria maliziosa.
“Senti, già rischi il contagio a stare qui e… mh!” il bacio di James interruppe le proteste.
Alla faccia dell’influenza che poteva essere contagiata era bello potersi baciare dopo tanto tempo, specie dopo aver ottenuto quella strana e piccola vittoria nella loro vita di coppia.
“Patricia Mott! – esclamò ancora Angela quando si staccarono – Ti giuro che prima o poi questa gliela rinfaccerò… e sarà uno dei giorni migliori della mia vita, stanne certo!”
“Ne sono sicuro, cara… e vorrò proprio godermi lo spettacolo!” ridacchio James.
Ne sarebbe davvero valsa la pena.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. 1879. Gelosia portami via. ***


Capitolo 6.
1879. Gelosia portami via.


 

“Insomma siete fidanzati da cinque anni e ancora non vi sposate?”
James scrollò le spalle con un sorriso noncurante e riempì i bicchieri, posandosi poi pesantemente contro lo schienale della sedia e godendosi quel pomeriggio invernale. Non capitava spesso che si potesse concedere qualche ora di pausa con i suoi vecchi compagni di scuola: erano le occasioni in cui si rimembrava il passato, i vecchi anni passati tra i banchi a fare scherzi e ad evitare il più possibile i libri. Decisamente nessuno di loro aveva avuto un ottimo rapporto con la scuola.
Erano passati anni oramai e praticamente tutti loro si erano sistemati: restava solo James a non esser ancora sposato, per quanto il fidanzamento con Angela fosse ufficiale da tempi ormai immemorabili.
“E’ che… boh, evidentemente non è ancora il momento – si giustificò l’interessato, arruffandosi i capelli biondi – a me ed Angela va bene così. Ma prima o poi ci sposeremo, tranquilli: e sarete tutti invitati, promesso.”
“Ahah, secondo me non vi sposerete mai – ridacchiò Arthur – insomma, se io avessi avuto come fidanzata Angela Astor me la sarei messa al sicuro dopo un anno appena, ma giusto per non indispettire la famiglia di lei… sapete come sono i genitori, ci tengono ai tempi formali.”
“I genitori di lei non hanno nessun problema in merito…”
“Ah, perché sono gli Astor! – commentò Jack con aria di chi la sa lunga – Sono così tanti che alla fine non fanno caso a queste cose. Te lo dico perché mia moglie è una cugina della tua Angela. Mi diceva sempre che a volte perdono il conto di quanti sono e quindi la questione dei tempi formali nemmeno se la pongono.”
“… e nemmeno mio padre…” proseguì James con aria significativa.
“Ne sei sicuro?”
“Beh, lui adora Angela, la considera già una figlia. Sa che prima o poi ci sposeremo e basta. Non ritiene giusto farci pressioni, tutto qui.”
Mantenne un tono noncurante, tuttavia quei discorsi iniziavano a dargli un po’ di fastidio. Considerava la sua relazione con Angela qualcosa di strettamente personale che, al massimo, coinvolgeva le rispettive famiglie: sentire che la cosa era così di dominio pubblico lo faceva sentire osservato speciale.
“Io comunque sarei già morto di gelosia a stare in paese…” dichiarò ancora Arthur.
“Ah sì? – le orecchie di James sembrarono rizzarsi a quelle parole: questa novità non gli piaceva per niente – perché? Che succede in paese?”
“Oh, dai, Arthur – lo bloccò Jack – ma perché devi dirgli simili cose? Insomma, lo sai come è fatto… è quello scemo di Toby: ha il commento facile da sempre.
Ma James sentiva già il sangue ribollire: certo che lo conosceva Toby Mood e sapeva anche che genere di commenti era solito fare sulle ragazze. Ma se la cosa non gli importava finché si trattava delle altre, scoprire che i suoi apprezzamenti riguardavano anche Angela lo faceva impazzire.
E niente era più pericoloso di un bonario James Havoc arrabbiato e geloso.
“Che avrebbe detto su Angela? Sentiamo pure…” si limitò a chiedere, volgendosi verso l’amico.
Inizia a decidere cosa vuoi scritto nella tua lapide, Toby Mood… hai pronunciato il tuo ultimo commento sulla mia fidanzata.
 
Il fatto che Toby Mood si fosse improvvisamente messo a fare commenti su Angela era dovuto al fatto che nelle ultime settimane la ragazza era spesso scesa in paese. A casa Astor infatti le acque non erano proprio tranquille considerato che c’erano ben tre donne prossime al parto e diversi bambini a cui pensare e di conseguenza ogni aiuto era indispensabile. Così, di spontanea volontà, la giovane aveva deciso di smettere momentaneamente il suo lavoro all’emporio per dedicarsi alle faccende domestiche in modo da rendere più facili le cose per la sua numerosa famiglia… e tra i vari compiti che si era assunta c’era anche quello di andare a fare le commissioni in paese.
Da sempre Angela era stata consapevole di avere un aspetto più che provocante: i ragazzi la guardavano con quella che si definiva bava alla bocca e questo le aveva sempre suscitato un forte compiacimento. La sua falcata decisa e accattivante attirava gli sguardi, così come i suoi modi di fare spigliati e sicuri: ai ragazzi piaceva perché era diversa dalle altre femmine che in genere puntavano sulla delicatezza e sulla timidezza.
Il fatto di essere fidanzata con James non le aveva minimamente fatto smettere simili atteggiamenti: non perché non avesse rispetto nei confronti di lui, ma semplicemente non ne vedeva la necessità. Erano parte di lei, perché mai avrebbe dovuto cambiarli? Il suo era un bel corpo, con belle gambe, splendido fondoschiena e seno prosperoso… James era capitolato anche per questo, ne era consapevole. Ed i suoi modi erano quelli da una vita, il discorso era lo stesso.
Per Angela Astor essere fidanzata era un qualcosa in più, non un qualcosa che le doveva levare le caratteristiche per cui era sempre stata rinomata.
Se poi qualche scemo come Toby Mood faceva ancora commenti sul suo fondoschiena era l’ultimo dei suoi problemi. Tanto quello stupido era destinato a rimanere scapolo a vita con i suoi atteggiamenti da idiota.
Di conseguenza quando scese in paese quel pomeriggio fu parecchio sorpresa di incontrare James al bivio.
“Ehi, ciao! – lo salutò con un bacio, inconsapevole del disastro che stava per succedere – Come mai qui? Ti credevo all’emporio.”
“Devo fare una cosa in paese – spiegò lui, laconico, con sguardo assente – e così ho deciso di aspettarti.”
“Grazie, sei davvero gentile – sorrise, sistemandosi una ciocca dei corti capelli castani – così ci possiamo vedere: scusa se passo poco all’emporio, ma Irina è quasi prossima al parto e sta decisamente male. Allyson è convinta che siano gemelli… e mi sa che ha proprio ragione con quel pancione…”
“Uuuh uuuhmmm…” commentò James mentre arrivavano all’ingresso del paese.
“E poi ci sono ben tre bambini con gli orecchioni, che disastro! Il povero dottore viene a casa ogni giorno: dovremmo preparargli una brandina per dormire da noi, mi sa… uh, ma mi ascolti?”
“Sì, sì… certo che ti ascolto… orecchioni, ma certo…”
“Sembri parecchio assente.”
“Ma no… ottima idea quella della brandina per… per quell’idiota… eccolo là…”
“Idiota? Ma chi? Il med… ehi, dove vai?”
Angela rimase perplessa a guardare il fidanzato che, dopo aver sciolto gentilmente la loro presa a braccetto, si dirigeva con passo spedito verso una strada laterale. Fu tentata di seguirlo ed, effettivamente, mosse i primi passi verso quella direzione, ma poi un grido la fermò.
“Che?... ma… Toby Mood?” esclamò vedendo il giovane che veniva letteralmente lanciato verso la strada principale ed atterrava a pochi metri da lei.
E in dieci secondi fu il caos più totale.
 
“Angela, calmati! Se continui così distruggi quell’impasto!” inorridì Allyson la mattina seguente, cercando di bloccare la sorella che più che impastare stava letteralmente prendendo a schiaffi l’impasto per il pane.
“Capisci quanto può esser stato idiota e troglodita? – esclamò invece Angela, prendendo una palla di composto e schiacciandosela tra le mani – E ovviamente tutti gli altri bestioni gli sono andati dietro! Sempre così! Proprio come a scuola… ne iniziavano due e dopo poco erano in almeno venti! Lui… lui… maledetto rissaiolo! Lo odio!”
E sbatté l’impasto sul tavolo con violenza tale che andò a sporcare sia lei che la sorella.
Ma mentre Allyson cercava di risolvere quel pasticcio, lei non poteva far a meno di ripercorrere quella scena così maschilista e patetica a cui aveva assistito il giorno prima. Sembrava che fosse tutto preparato, che tutti gli amici di James e di Toby Mood si trovassero nelle vicinanze quasi per caso… come non fosse intervenuta la polizia ancora non se lo spiegava.
Massa di bestioni dal cervello di gallina. Gorilla idioti che credono che nei muscoli e nelle risse ci sia la risposta ad ogni cosa… certo! Poi tocca sempre a noi donne raccogliere i cocci!
“Non vai a trovarlo?” chiese Allyson, ridestandola da quei pensieri.
“Trovarlo? Manco morta! Per poi cosa? Sentirlo vantarsi di quanto è stato bravo a fare nero Toby? Complimenti, davvero!”
“Capisco che non sia stato proprio un comportamento adulto, ma credo fosse per quel commento sul tuo sedere, sorellina – strizzò l’occhio la maggiore – lo sai come sono gelosi gli uomini e…”
“E tutti i commenti che fanno sui suoi muscoli? Pensi che non lo sappia? Ma finché restano solo commenti non me ne frega assolutamente niente… ma loro no! Loro sono uomini – iniziò a camminare avanti ed indietro per la cucina – loro devono far vedere quanto valgono! Quanto sono maschi dominanti!”
“E di che ti sorprendi? – la prese in giro l’altra – non le vedi tutti i giorni a casa simili scene?”
“Astor, Havoc, Mood… sono tutti uguali! E’ che è più piccolo di me di parecchio, altrimenti mi sarei fidanzata con il figlio del notaio: educato, gentile, pacato, andrà all’Università e certamente non ha quel complesso da bue infuriato di tutti gli altri!”
“A parte il fatto che Andrew Fury probabilmente è già fidanzato con la figlia degli Hevans… ma poi… tu che stai con uno come lui? Scoppieresti dopo due giorni… o scoppierebbe lui, poveretto. No, decisamente non mi sembrate una coppia ben assortita e proprio perché lui è educato, gentile e pacato.”
Angela mise un broncio degno di miglior causa: le prese in giro erano l’ultima cosa di cui aveva bisogno in un momento come quello. Però, effettivamente, il pensiero di un ragazzino perbene e timido come Andrew Fury con una come lei era davvero comico, tanto che un sorriso divertito le aleggiò sulle labbra.
“Angela! Angela! – una delle sue cugine più giovani apparve trafelata sulla porta di cucina – Il tuo fidanzato sta arrivando! E’ all’ingresso della proprietà!”
“Ah, ha anche il coraggio di presentarsi qui? – sbottò lei, perdendo tutto il buonumore appena ritrovato – Molto bene, adesso mi sente, dannato bestione!”
“Devo chiamare zio ed Ang…” iniziò a proporre la ragazzina.
“Tu non chiamare nessuno – la bloccò con un’occhiata furente – a Mister Muscolo ci penso io!”
 
Il giorno prima James era stato troppo preso dalla rissa per capire quanto fosse offesa la sua dolce metà.
Purtroppo quando l’adrenalina per lo scontro si faceva sentire era difficile recepire qualcos’altro, senza contare che, in quel caso, si erano aggiunte alla rissa diverse persone.
In fondo non c’era niente di male: fare un po’ di sane botte era un’attività sociale del tutto normale e consentita, almeno finché non degenerava in qualcosa di più grave. Ma non era mai successo. Si conoscevano tutti sin dalle scuole e dopo essersi sfogati erano pronti a darsi delle pacche sulle spalle e dimenticare… certo Toby Mood doveva ben capire la lezione, ma James si augurava che dopo quei lividi l’invito a non fare più commenti su Angela fosse stato recepito.
In fondo non era un cattivo diavolo.
Per questo trovarsi davanti un’Angela furente non era ciò che si era aspettato.
E il loro incontro degenerò abbastanza in fretta.
“E che dovevo fare? – chiese infine esasperato – Lasciare che quello continuasse a fare commenti sul tuo sedere? Ma lo sai che andava a dire in giro?”
“Che ho il sedere più fantastico del mondo!” rispose lei, mettendosi con le mani ai fianchi, in posa di sfida.
“Diceva che… uh, lo sapevi?”
“Certo che lo sapevo, cretino!”
“E dovevo permettere che lo dicesse?”
“Non è la verità, scusa? Mi stai dicendo che il mio sedere non è fantastico?”
“No! Insomma – annaspò lui – sì che lo è, ma è… è roba mia, se permetti.”
“Tua? – Angela lo fissò incredula – Fino a prova contraria è roba mia… tu l’hai solo in uso quando te lo concedo, James Havoc, non farti strane idee in testa! Io sono una persona, non una proprietà… sedere compreso! E anche seno, prima che tu lo chieda!”
“Aspetta… fammi capire! – sbottò James, fissandola con stizza, una cosa un po’ malriuscita considerato l’occhio sinistro pesto – Ti piace che si commenti sul tuo sedere?”
“Me ne frego che si commenti sul mio sedere, è diverso. Altrimenti che cosa dovrei dire io per i commenti sui tuoi muscoli da parte di svariate ragazze? Non sono né sorda né cieca, James Havoc!”
“E non sei gelosa?”
“E’ semplicemente la verità, finché non ti vengono a stressare, come invece ha fatto Patricia Mott, non me ne importa nulla. E sai perché? Si chiama fiducia… mettitelo nella zucca. E poi è solo Toby Mood, insomma! Quello non fa commenti solo alle donne sposate, dovresti saperlo… oh, James, ma possibile che ti sia ridotto in quel modo per…”
“Sposiamoci!” la interruppe lui.
“Scusa?” Angela sgranò gli occhi e si mise a braccia conserte, troppo incredula per quello che aveva appena sentito… per quello che il suo fidanzato aveva osato dire.
“Finiamola con questa storia e sposiamoci – continuò lui con decisione – del resto siamo fidanzati da quanto? Cinque anni? Perché aspettare ancora?”
“Stai scherzando, spero…”
“No, assolutamente – la prese per le spalle – basta con questa storia di essere fidanzati: sposiamoci e mettiamo una pietra sopra a questi stupidi pettegolezzi.”
“Mi vuoi sposare solo perché Toby Mood smetta di fare commenti sul mio sedere?”
“Beh – la domanda mise James in seria difficoltà, specie quando vide l’espressione di lei farsi pericolosamente furente – non è… insomma ci dobbiamo sposare prima o poi no? E forse è il momento buono…”
“E se Toby Mood la smette di fare pettegolezzi sarà come prendere due piccioni con una fava, vero? –  chiese lei con sarcasmo, scostandosi da quella presa – Ottima base per una proposta di matrimonio, davvero!”
“E dai, scheggia, ma perché devi distorcere la cosa? – sospirò James, cercando di recuperare le redini del discorso – sai che ti amo…”
“O ami più il tuo orgoglio?”
“Sono geloso, che problema c’è? – sbottò infine – Diamine, in genere tutte le ragazze sono felicissime di vedere il proprio fidanzato geloso, ma tu no! Perché devi fare la difficile!”
“Ah, ora è colpa mia?”
“No… cioè, sì… non nel… oh, dannazione, non si arriva a niente. Ti chiedo di sposarmi perché io…”
“Perché sei un stupido toro idiota che pensa solo con i suoi muscoli ed il suo dannato orgoglio geloso – esclamò lei, dandogli un ceffone, ignorando bellamente che la guancia fosse già pesta – e comunque la risposta è no! Ficcatelo nel cervello! Ma forse non lo usi dato che non è un muscolo!”
“Mi stai rifiutando!”
“Complimenti, ci sei arrivato! – sorrise sarcasticamente lei, mentre dentro sentiva la rabbia montarle – Vattene al diavolo, James Havoc… non hai idea di quanto mi abbia umiliata con queste tue parole!”
“Certo! Sempre colpa mia e della mia stupidità! – sbottò lui, esasperato – Benissimo, signorina Astor, scusi tanto per il disturbo…”
“Ma figurati!” Angela si girò sdegnosamente e con passo sicuro, badando bene che la camminata evidenziasse il suo sedere perfetto, tornò verso casa.
“E comunque – la raggiunse la voce di James – dato che ti piacciono tanto i commenti di Toby, perché non ti sposi lui?”
“Ti odio con tutte le mie forze, idiota! Non osare più presentarti a casa mia!” gli strillò, prima di iniziare a correre.
“E chi ci torna!”
 
James rimase a fissare interdetto la figura di Angela che si faceva sempre più piccola e spariva dentro casa.
Si sentiva umiliato ed offeso: possibile che quella donna avesse frainteso tutto… come sempre?
“Sì, sono geloso! Dannatamente geloso – sbottò, girandosi per tornare verso il sentiero – scusa tanto se preferisco che del tuo sedere non si dica niente!”
 
“Gelosia portami via?” chiese Allyson con aria maliziosa, mentre Angela senza dire una parola tornava a distruggere l’impasto per il pane.
“Che se lo porti al diavolo! – sbottò Angela prendendo la terrina e buttandola con foga nel pavimento, immaginando che fosse James Havoc – A lui, a Toby Mood e a tutta la dannata razza maschile!”
“Non credo che un commento sul tuo sedere abbia mai fatto più danno, sorellina…”

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. 1880. Anno nuovo, vita nuova. ***


Capitolo 7.
1880. Anno nuovo, vita nuova.



“Va bene, ci siamo – l’espressione di Allyson era estremamente concentrata – con la prossima spinta è fuori anche il secondo. Un ultimo sforzo!”
Angela strinse al petto gli asciugamani con i quali sarebbe stato avvolto anche il secondo neonato che sua cognata stava per partorire. L’odore di sangue e di sudore che impregnava la stanza ormai le dava un enorme fastidio, ma non osava lamentarsi: in confronto a quello che stava passando la partoriente era ben poco. E anche in confronto a quello che stava facendo Allyson.
“Angy, pronta con quell’asciugamano!”
“Sì! – annuì, avvicinandosi al letto – Ci sono…”
Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma con un grido di dolore Irina riuscì a mettere al mondo il secondo dei gemelli. Con una rapida manovra Allyson lo aiutò a districarsi dal cordone e soffiò delicatamente sulla boccuccia insanguinata liberando così le vie respiratorie e provocando i primi vagiti. Quindi  lo mise tra le braccia della sorella, dedicando la sua attenzione alla puerpera che terminava il parto.
“Bravissima, Irina – si congratulò – due splendidi maschietti!”
Mentre sentiva il pianto liberatorio della donna, Angela abbassò lo sguardo sul neonato ancora imbrattato di sangue che si dimenava leggermente, non proprio felice delle ultime stressanti ore che aveva trascorso.
Era piccolo, rosso, pieno di rughe ma curiosamente morbido e caldo… regalava una strana sensazione averlo in braccio.
“E così la grande casata Astor può vantare due nuovi rampolli – dichiarò Allyson con soddisfazione – forza, sorellina, porta qui anche l’altro bambino. Direi che Irina ha tutto il diritto di goderseli. Voglio proprio vedere la faccia di Angelo e del dottore quando arriveranno e scopriranno che abbiamo fatto tutto noi. E ora, andiamo ad avvisare il resto della famiglia!”
 
“Ti piace il dottore?”
Angela lo chiese quasi per caso quella sera mentre lei e la sorella si godevano un attimo di quiete in camera loro, stranamente libera dalle due cugine.
“Che? – Allyson la guardò stranita e poi scoppiò a ridere – siccome sono ancora zitella allora credi che mi piaccia? Andiamo, avrà almeno dieci anni più di me!”
“E’ che ho visto che ci hai parlato parecchio – Angela continuò ad insistere, sicura di non essersi ingannata – e non è la prima volta. Durante le ultime gravidanze che abbiamo avuto in famiglia tu eri sempre accanto a lui e…”
“Hai visto bene, ma hai capito molto male, sorellina – scosse il capo la donna, sedendosi accanto a lei – perché invece non parliamo di te e James?”
“Non c’è niente da dire su noi due – sbuffò – e non glissare sull’argomento. E’ ingiusto: sono stata io la prima a chiedere.”
“Ti dirò il mio segreto se tu poi ti deciderai a parlare di…”
“Va bene! Va bene! – si arrese la giovane, troppo curiosa di sapere cosa stesse combinando la sorella – Però prima svuota il sacco… tutta la verità, mi raccomando.”
“Levatrice.” dichiarò Allyson con un sorriso soddisfatto.
“Levatrice? – Angela la fissò incredula – Stai scherzando?”
“No, assolutamente – ribatté con sicurezza l’altra – ci pensavo già da diverso tempo, del resto in casa ne abbiamo avuti di parti, eh? E spesso dalle case di campagna si arriva prima qui da noi che alla casa del dottore in paese, no? E lui mi ha detto che sono parecchio brava… mi ha anche prestato alcuni libri davvero interessanti, sai?”
“Levatrice…”
“Perché fai quella faccia? Credevi che sarei rimasta la figlia nubile a vita destinata a restare sempre e solo a badare alle faccende domestiche? – gli occhi castani brillavano di malizia – come vedi ci sono diversi modi per realizzarsi… e aiuterò anche le persone, fantastico no?”
“Mamma e papà lo sanno?”
“Sei la prima a cui lo dico, ma penso che loro sospettino qualcosa… spero che non pensino che mi piaccia il dottore, suvvia! Però penso che ne parlerò anche con loro a breve. Ecco svuotato il mio sacco. Soddisfatta?”
Angela non sapeva che dire, si limitava a scuotere la testa con incredulità. Allyson le era sempre sembrata così domestica, destinata davvero ad essere sempre e comunque una rassicurante certezza casalinga. Scoprire che aveva segretamente lavorato per realizzare quel progetto era destabilizzante ed in qualche modo fantastico: era come scoprire una persona nuova.
“Sei felice per me sì o no?” la spronò ancora Allyson, non avendo ottenuto risposta.
“Felice? – annaspò infine la ragazza, stringendole le braccia al collo – Diamine, Ally, sono incredibilmente felice! Sei fantastica! Non hai idea di quanto ti ammiri in questo momento: sei la mia eroina! E sono sicura che sarai la miglior levatrice sulla faccia della terra! Se il dottore ha detto che sei brava non ci sono dubbi… e se un giorno avrò figli vorrò te accanto!”
“Ecco, proprio a proposito di tuoi eventuali figli – con una risata Allyson la costrinse sdraiata sul letto – parliamo di te e James come promesso. Allora, hai intenzione di levare questo broncio e fare pace con lui? E’ quasi un mese che non vi parlate… davvero la vostra relazione deve finire per colpa di uno stupido commento? Un commento di Toby Mood vorrei specificare.”
Angela non rispose: prese il cuscino e lo strinse, affondando il viso sulla morbida superficie. Nessuno in famiglia aveva osato chiederle di James dopo quella brutta litigata: sicuramente i maschi solidarizzavano con lui, così come la maggior parte delle sorelle e cugine. Sembrava che la colpa fosse solo del suo brutto carattere che non voleva apprezzare un fidanzato geloso e pronto a vendicare qualsiasi oltraggio.
Ed era veramente brutto sentire di essere così diversa, specie perché lei era convinta di essere nel giusto.
James aveva esagerato e soprattutto lei non era un oggetto. Se qualcosa non le andava bene ce la poteva fare da sola: se si trattava di zittire Toby con un ceffone non avrebbe avuto problemi.
“E’ stato solo uno stupido bestione geloso…” borbottò con la voce soffocata dal cuscino.
“Sì, lo so, per donne emancipate come noi la cosa non va bene – la prese in giro Allyson, sdraiandosi accanto a lei – però ti ama, lo sai bene. E tu non sei proprio di facile gestione… mi ha chiesto di te, sai…”
“Cosa? – a quella rivelazione Angela alzò il viso – E quando?”
“Ieri… eh, già, se non ci fosse la sorellina maggiore a darti una mano. In questo mese ci ho parlato diverse volte: perché credi che non sia venuto a casa? L’ho convinto io, altrimenti sarebbe venuto qui già il giorno dopo la vostra sfuriata… e sarebbe scoppiata la guerra. Altro che la rissa in paese!”
“Come hai potuto non dirmi niente?” Angela si sentiva furente. James era una questione che la riguardava personalmente: come aveva potuto tenerla all’oscuro di tutti quegli incontri?
“Semplicemente perché dovevi cuocere nel tuo brodo, mia cara – spiegò Allyson, per nulla intimorita da quell’occhiataccia – così ti rendevi conto di quanto ti mancava… e non cercare di tenere il broncio. Pensi che non mi sia accorta di quante volte al giorno guardi la finestra sperando di vederlo arrivare?”
“Dici che dovrei andare io?” sospirò.
“Vedi un po’ tu…”
 
Se Allyson aveva fatto bollire Angela nel suo brodo per quasi un mese era perché la conosceva meglio di tutto il resto della famiglia. Se c’era un difetto che aveva era di essere troppo testarda e stuzzicarla subito dopo un litigio voleva dire rischiare rotture molto difficili da sanare.
Però una volta che sbolliva si rendeva conto che forse era stata troppo estrema in determinati atteggiamenti che la facevano spesso scivolare dalla parte del torto.
Per questo quando la mattina successiva la ragazza arrivò davanti all’emporio degli Havoc si sentiva parecchio in imbarazzo, non sapendo come sarebbe stata accolta. Mancare per così tanto tempo non era stato proprio gentile, non solo nei confronti di James, ma anche, e forse soprattutto, di quelli del signor Havoc. Il vecchio uomo ormai la considerava una figlia e…
“Permesso?” chiese timidamente entrando.
“Angela? – c’era proprio lui dietro il bancone e subito un sorriso gli rischiarò il volto – oh, mia cara figliola! Bentornata!”
“Presumo di dovermi scusare per questo mese d’assenza…” sorrise imbarazzata lei andandogli incontro e venendo avvolta in un abbraccio da orso che quasi la soffocava.
“Ma che dici, signorina? – lui le accarezzò i capelli proprio come se fosse una figlia che torna a casa dopo tanto tempo – Non c’è alcuna scusa che tu debba farmi… ma fatti vedere, mi sembri così cresciuta.”
“Ma se è passato un mese!” ridacchiò lei, cercando di trattenere la commozione per quell’accoglienza così calorosa.
“Beh, non direi… un mese fa eravamo nel 1879, adesso siamo nel 1880… in fondo è un anno differente, non credi? Allora, tutto bene?”
“Sì, tutto bene.”
“Lui è nel magazzino… oh, non fare quella faccia imbarazzata, sapevo che prima o poi saresti venuta a fare pace. Eh, siete proprio una coppia di scavezzacollo, non c’è che dire. Forza e coraggio: vai a ridare il sorriso a quel bestione. Sono stanco di vederlo così immusonito.”
A quelle parole Angela trasse un profondo sospiro: sapere di essere così fondamentale per la felicità di una persona da una parte la faceva sentire lusingata, dall’altra le creava uno strano senso di viscere attorcigliate. Nella sua numerosa famiglia per quanto fosse normale attaccarsi a determinate persone in particolare, si aveva la certezza di avere altri sostegni. Il fatto che James avesse solo suo padre e lei rendeva la situazione molto più complicata.
Insomma, lo ami, no? E questo vuol dire essere fautrice della sua felicità. Di che ti sorprendi?
Però nell’andare verso il magazzino aveva la netta impressione di essere ad un bivio decisivo.
 
James stava sistemando diversa merce, trovando che il lavoro fisico era il miglior modo per sfogare il senso di impotenza che lo attanagliava ogni giorno di più. Tuttavia ogni volta che sentiva l’impulso di correre verso casa degli Astor e spiegarsi con Angela, gli tornavano in mente i consigli di Allyson.
Quella ragazza aveva ragione, non c’erano dubbi: doveva far sbollire Angela da sola altrimenti avrebbe rovinato tutto quanto.
E quando ci rivedremo che farò? Le chiederò scusa? Aspetterò che sia lei a parlare?
Cose estremamente complicate, non c’era che dire… la parte più noiosa dell’amore. Come quando aveva a che fare con qualche fornitore troppo burocratico, mentre per lui sarebbe andata meglio la canonica e sincera stretta di mano. Quella parte burocratica di un fidanzamento lo destabilizzava.
Per lui sarebbe bastato chiedere scusa, prenderla tra le braccia, baciarla… fare l’amore. Che senso aveva perdere così tanto tempo a tenersi il broncio? Poteva capire un giorno, massimo due…
Ma qui siamo a quasi un mese e…
“Ho quasi fatto, papà…” lo disse in maniera automatica come sentì la porta aprirsi. Non si preoccupò nemmeno di girarsi verso di lui. Preferiva evitare di guardarlo negli occhi: sapeva bene che soffriva pure lui per l’assenza di Angela.
“Già – commentò una voce – allora… uhm… allora non ti serve una mano, eh?”
Fu come se un fulmine lo colpisse, tanto che mollò la presa sulla scatola di barattoli che teneva e fu solo per un riflesso pronto che la recuperò al volo.
“Uh, wow… ottima presa, James…” Angela gli andò accanto.
Stava a braccia conserte, lo sguardo tra l’incerto e l’imbarazzato. Una versione simile di Angela Astor non si vedeva molto spesso.
“Ciao, scheggia…” la salutò, mettendosi le mani in tasca e fissandola con altrettanto imbarazzo.
Rimasero così per un minuto buono, aspettando che fosse l’altro a fare la prima mossa. Ma sembrava che nessuno dei due sapesse cosa dire. Eppure erano tanti gli argomenti: chiedere scusa del fatto di esser stati troppo gelosi o troppo testardi. Ammettere che forse si era esagerato, specie se si considerava che il commento era venuto da quell’idiota di Toby Mood. Dire che in fondo ci si era pentiti immediatamente di quel litigio e che quel mese separati era stato da…
“… da veri idioti…” ammise Angela.
“Sì, decisamente – confermò James – ci siamo comportati da due veri idioti.”
“Possibile che…” lei si dovette interrompere perché aveva iniziato a ridacchiare.
“A quanto pare…” la seguì lui, passandosi una mano tra i capelli arruffati.
“Al diavolo – la ragazza smise la posa a braccia conserte e assunse quella con le mani sui fianchi, molto più adatta a le – forse è il caso di finirla con…mh!”
James non aveva perso tempo. L’aveva abbracciata con tutte le sue forze e l’aveva zittita con un bacio passionale. Adesso che era di nuovo assieme a lui si era reso conto di quanto gli era davvero mancata sia fisicamente che emotivamente.
Non ne poteva fare a meno, non voleva più sentire una simile distanza tra di loro.
“Scheggia – ansimò, quando si staccarono diversi minuti dopo, dato che lei aveva restituito il bacio con medesima passione – senti, ti giuro che non posso vivere senza di te…”
“… questa dannata separazione non ha senso…” ammise lei.
“… e poi insomma dopo tanti anni…”
“… sarebbe stupido…”
“… decisamente…”
“Insomma – esclamò lei – me lo chiedi sì o no?”
“Angela Astor – la sollevò come se fosse un fuscello – ragazza più meravigliosa che abbia mai conosciuto, così fantastica che farei l’amore con te ventiquattro ore al giorno… testarda, affascinante, col sedere più bello del mondo, per non parlare del seno e di tutto il resto… con gli occhi che mi fanno impazzire… oh, senti, ci impiegherei ore ed ore per elencare il tutto… vuoi sposarmi? E non accetto rifiuti, ti avviso!”
“Ti avviso che sono io a non aver nessuna intenzione di rifiutare – rispose la ragazza, baciandolo con foga – certo che sì, certo che ci sposiamo!”
 
“Insomma mi lasciate parlare?!”
Come sempre dovette alzarsi in piedi e sbattere le mani sul tavolo per ottenere un minimo d’attenzione.
Cosa ancora più difficile data la presenza dei due nuovi nati che non la volevano finire di piangere (abbastanza ovvio considerato il casino fatto da quella tavolata) e il conseguente tentativo di calmarli da parte di almeno cinque membri della famiglia oltre i genitori.
“Che vuoi dirci?”
“Ehi, me lo passi quello se non lo mangi?”
“Papà, domani dobbiamo assolutamente andare a compare nuovi attrezzi…”
“Cielo, senti come strilla!”
“Benedetti pupi…”
Dannazione! – sbottò – Ma mi volete ascoltare? Io e James abbiamo deciso di sposarsi ad inizio anno prossimo! Consideratemi!”
Ci furono cinque secondi di silenzio, persino da parte dei neonati… ad Angela sembrò quasi surreale.
“Oh, era ora…”
“Finalmente…”
“Tutto qui! Bah, era chiaro come il sole… ehi, Angelo, passami il ciuccio!”
“Posso trasferirmi in camera tua come te ne vai? Ormai sono grande e posso stare con le grandi e non nella camerata dei bambini!”
“Alla larga, stupida, ci sono prima io! Sono più grande di sette mesi!”
“Non conta!”
“Grazie, eh – sbottò Angela, guardando incredula quella dimostrazione di insensibilità – non spingete troppo per le congratulazioni, mi raccomando!”
“Oh, che altro ti aspettavi dagli Astor – Allyson la raggiunse e la abbracciò – però avevo il sentore che sarebbe successa una cosa del genere. Tu no?”
“Non proprio…”

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. 1881. La sposa perfetta. ***


Capitolo 8.
1881. La sposa perfetta



Una volta che decisero di sposarsi a gennaio dell’anno successivo, ossia del 1881, per Angela e James il tempo sembrò trascorrere estremamente in fretta. Non che ci fosse chissà che cosa da organizzare, di certo non avevano intenzione di fare chissà quale grande festa, ma era come se i giorni nel calendario si susseguissero senza che se ne rendessero conto. Ogni tanto si guardavano tra di loro come a chiedersi “Ma come, manca già così poco?”.
Questo perché nonostante tutto quello che stavano andando a fare era comunque un bel cambiamento, soprattutto per Angela. Molto spesso, durante i pasti, si trovava ad osservare la rumorosa tavolata della sua famiglia e si chiedeva come sarebbe stato senza di loro. Quella mezz’ora di camminata che serviva per arrivare da casa Astor all’emporio le sembrava una distanza spaventosamente grande ed era come se matrimonio significasse distacco totale da tutti i suoi parenti.
Per la prima volta iniziò a vedere l’emporio e l’annessa grande casa con occhi più attenti. Si rendeva conto di quanto gli spazi fossero enormi e provava uno strano senso di vuoto nel comprendere quanto quella casa fosse tremendamente silenziosa.
Era davvero pronta ad un simile cambiamento? A stare tra quelle mura, consumare pranzo e cena in quella quiete che le sembrava così surreale?
 
“Domani è il gran giorno, Scheggia – commentò James – allora ti senti pronta?”
Lei annuì mentre il fidanzato le prendeva di mano la valigia che conteneva le sue cose.
Ovviamente le loro famiglie facevano parte di un ceto che certo non richiedeva la dote alla sposa… e non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno. A conti fatti loro andavano a stare nella stanza matrimoniale che era stata dei genitori di James, mentre il signor Havoc si sarebbe spostato in un’altra camera più distante, in modo da lasciare agli sposi la giusta intimità.
“Ah, papà dice che se vuoi prendere anche qualche vestito di mia madre puoi farlo senza problemi. Sono tutti in quella cassapanca.”
“Davvero? – la ragazza pensò ai tre vestiti più che usati che portava in valigia e che assieme a quello che indossava e a qualche gonna e camicetta costituivano il suo guardaroba. Una cosa più che scontata in una famiglia dove tra sorelle ci si tramanda gli abiti appena è possibile – Oh beh, sarebbe fantastico. Magari più avanti.”
“Che hai?”
“Sono nervosa – ammise, sedendosi sul bordo del letto e sentendo come quel materasso le fosse estraneo – tu continui a stare a casa tua, io no.”
“Beh, io lascio la mia solita camera per venire a stare qui… sarà questione di abitudine, presumo – spiegò lui con enorme senso pratico, sedendosi vicino e baciandola sul collo – e poi tu ti sei già liberata dalla noia principale delle spose, no? Tutta quella paura della prima volta…”
“Finiscila!” sbuffò Angela non potendo far a meno di sorridere.
“Oh, sul serio – trascinandola con il suo peso James la fece sdraiare nel letto – e non abbiamo sempre detto che il magazzino dell’emporio è davvero scomodo. Pensa a come potremo sbizzarrirci qui, magari anche adesso… suvvia…”
“Blocca i tuoi bollenti spiriti, James Havoc!” si divincolò subito lei, alzandosi in piedi.
“E dai! E’ da almeno una ventina di giorni che non lo facciamo!”
“Aspetterai domani: faremo l’amore solo quando sarò la signora Havoc.”
“Oddio, ci risiamo… un’altra delle solite stranezze femminili – sospirò l’uomo rimettendosi in piedi – è da anni che facciamo l’amore e ora all’improvviso questa storia. Posso sapere il perché?”
Lei scrollò le spalle, provando grande simpatia per quell’espressione perplessa. A volte capiva di essere davvero crudele nello stuzzicare la mente semplice di James con le sue idee, ma sapeva anche lui la amava anche per queste peculiarità, nonostante se ne lamentasse.
“Voglio sentirmi una sposa – ammise – voglio… voglio che domani sia tutto speciale e non come una giornata qualsiasi. Se facessimo l’amore adesso farlo domani perderebbe un po’ il suo significato, non credi? Invece con così tanta attesa, almeno per i nostri canoni, sarà più emozionante, no?”
 
Sentirsi una sposa.
Quella notte James continuava a rigirarsi nel suo letto e a pensare alle parole di Angela.
Capiva che la sua fidanzata era più ansiosa di quanto facesse credere all’idea delle nozze che si sarebbero svolte tra nemmeno dieci ore. Poteva immaginarla stretta a sua sorella nel letto che aveva condiviso assieme a lei per anni ed anni. Possibile che le loro vite dovessero cambiare radicalmente solo per quella cerimonia fatta davanti al sindaco del paese? Perché doveva essere un certificato di matrimonio a metterli in simili condizioni di disagio?
E tu ti senti uno sposo?
Se lo chiese mentre si sistemava supino e portava un braccio fuori dalle coperte.
Subito sentì il pungente freddo della notte di gennaio passare oltre la stoffa della manica del pigiama.
Ecco, il matrimonio era un po’ quello: era come uscire fuori dalle coperte ed affrontare un clima diverso.
Sarebbe stato decisamente più facile restare sotto le coltri, al calduccio, in un rifugio che ben si conosce.
Però…
Però una volta che ti alzi, e magari sulle prime senti un po’ di freddo, inizi la tua giornata, carica di soddisfazione e di felicità. Insomma, dal giorno successivo si sarebbe svegliato con Angela accanto a lui. Non avrebbe dovuto più attenderla o vederla andare via la sera: finalmente sarebbe stata parte integrante di quella casa, come era giusto che fosse.
Una presenza femminile… che cosa strana. Aveva solo sette anni quando sua madre era morta ed erano vaghi i ricordi che aveva di lei. Angela quando cucinava spesso cantava, anche sua madre lo faceva? Cercò di spremere le meningi, ma proprio non gli venne in mente. E suo padre non era mai stato molto loquace nel parlare di lei una volta che era morta.
Insomma è davvero arrivato il momento…
 
“Dannazione a Lydia, ma che ci ha fatto con questo vestito al suo matrimonio? – Angela andò nel panico quando si accorse che la cucitura stava saltando – Segnati questa mia frase, Allyson, se mai avrò una figlia e si sposerà, al suo matrimonio avrà un vestito personale… non l’eredità di almeno una decina di matrimoni!”
“E’ che Lydia non è certo prosperosa come te – commentò la donna cercando di risolvere quell’inconveniente dell’ultimo minuto con ago e filo – hai molto più seno, lo sai bene. Ecco, ci siamo! Sembri una…”
“Sembro un’oca ingozzata per il pranzo di natale – sbottò Angela mentre si apprestavano ad uscire dalla piccola sala del municipio dove la sposa doveva stare in attesa che parenti e fidanzato prendessero posto – o una torta coperta di panna che si sta sciogliendo per il sole. Dannato abito!”
“Ma dai che sei fantastica… e poi, insomma, non possiamo pretendere miracoli da quest’abito! Dai che papà ci aspetta… eccoci qua! – Allyson la baciò sulle labbra come era tradizione e le passò il mazzo di fiori – Io vado a prendere il mio posto da damigella. In bocca al lupo.”
“Crepi – sospirò Angela, prendendo il braccio del padre e cercando di dare un contegno alla sua persona, cosa abbastanza difficile dato lo scempio bianco che sapeva di essere – e tu, papà, smettila di sghignazzare. Lo so, sono ridicola!”
“Sei adorabile, cara. Assomigli tantissimo a tua madre, fidati.”
“Mi prendi in giro?”
“No – lui le accarezzò la mano con affetto – fidati di me, ragazza. Forza, andiamo a stendere tutti quanti con il nostro ingresso trionfale.”
E come varcarono la porta ed entrarono in quella sala colma di gente, per la maggior parte suoi parenti, Angela dovette farsi forza: sarebbe stato davvero insolito avere tutta l’attenzione della famiglia su di lei per la prima volta in vita sua.
 
“Pronti? E uno… e due…”
“Treeee!” Angela ormai lacrimava per le risate mentre James la portava in camera da letto.
Era ubriaca fradicia, non faceva fatica ad ammetterlo, alla faccia di tutta la dignità che si era ripromessa di dare al suo matrimonio. Ma era stata una vana ambizione sin da principio.
“Posso finire di strapparti l’abito? – ridacchiò James mentre la buttava senza troppe cerimonie nel letto. Anche lui era brillo, ma non quanto lei: avevano resistenze agli alcolici parecchio differenti – Oh dai, sì che posso… chi piange acconsente…”
“Chi ta… chi tace, scemo – sospirò lei senza però fermarlo – e… oh sì! Strappalo tutto! Spezziamo questa maledizione dell’abito da sposa di casa Astor… al diavolo stupido… stupido ammasso bianco che non… non mi ci fa stare le tette!” scalciando come un’ossessa terminò l’opera di distruzione iniziata da James, ma che aveva avuto le sue origini già durante i festeggiamenti tra balli e quanto altro.
“Ah, ragazza, sei fradicia – la prese in giro James portandosi sopra di lei e baciandola con passione – il vino ti rende… dannatamente sensuale, non ne hai idea!”
“Uuuh, James… gira tutta la stanza, lo vedi? – lei sorrise scioccamente mentre sbatteva gli occhi incredula davanti a quel miracolo ottico – Gira gira gira e gira… come il ballo, no? Un bellissimo girotondo tondo tondo… quello dei bimbi, sai?”
“Sì, sì – la assecondò lui, aiutandola anche a sfilarsi la sottoveste – che ne dici se andiamo sotto le coperte adesso? Ci penso io a riscaldarti, mia cara mogliettina.”
“E’ vero! – lo osservò con sorpresa – siamo marito e moglie… cavolo, James! Ma ci pensi? Aspetta che lo dica ad Ally, non ci vorrà credere! E’ troppo buffo!”
“Uhm – accorgendosi di quei deliri James iniziò a riflettere sull’effettivo grado di ubriacatura della moglie – certamente. Comunque, eccoti qua, sotto le coperte… si sta meglio, vero?”
“Tanto meglio!” annuì lei, accoccolandosi tra le coltri con uno sciocco sorriso.
“Mi spoglio e sono subito da te, tesoro!”
Intuendo che c’era poco tempo a disposizione, James si spogliò più rapidamente che poteva. Non gli importò di strappare i bottoni dei polsini del vestito buono o di gettare i pantaloni sul pavimento. Del resto era la loro prima notte di nozze, l’avevano attesa così tanto e…
“Oh no, Scheggia – sbottò – no… non puoi addormentarti proprio adesso!”
Ma la sposina con gli occhi chiusi ed un sorriso idiota sulle labbra era già sprofondata nel mondo dei sogni.
James provò a chiamarla, arrivò persino a scuoterle leggermente la spalla, ma tutto quello che ottenne fu un mugugno che chiaramente era un invito a lasciarla dormire in pace.
“Fantastico – sospirò, rassegnandosi a sdraiarsi accanto a lei ed abbracciarla – una prima notte di nozze indimenticabile… e io che avevo sperato che il vino ti rendesse solo più vivace del previsto. Sei un disastro, Angela As… Angela Havoc.”
Però si consolò nel sentirla stretta a lui, così morbida e calda. Anche se non avevano fatto l’amore era qualcosa di veramente speciale stare sdraiato con lei abbracciata, avere la consapevolezza che poteva addormentarsi sereno sapendo che la mattina dopo sarebbe stata lì. Ora che ci pensava tutte le volte che avevano fatto l’amore non si erano mai potuti soffermare a stare sdraiati, abbracciati l’uno all’altra. Era una parte praticamente sconosciuta del rapporto.
Forse è meglio così – pensò l’uomo chiudendo gli occhi e godendosi quei momenti – forse… forse è questo il vero momento in cui siamo diventati marito e moglie.
 
Nella sua vita Angela si era ubriacata già altre volte, ma mai a quei livelli.
In genere le sue bevute a feste o simili prevedevano che si svegliasse ai soliti orari e che l’unica conseguenza fosse uno stordimento che in genere un bel bagno caldo contribuiva a cacciare via del tutto.
Quando aprì gli occhi non trovò dunque nulla di strano nel sentire un forte cerchio alla testa e la sgradevole sensazione che il suo corpo fosse pesante e assolutamente bisognoso di un bagno.
“Ally – mugugnò rigirandosi e non capendo come mai il letto le sembrasse così grande… ma forse era perché sua sorella si era già alzata – ora arrivo, eh…”
Continuò a rotolare verso destra, fiduciosa di incontrare la parete di legno dove era posato il letto, ma con sua somma sorpresa sentì un improvvisa sensazione di vuoto e dopo due secondi, complice anche la scarsezza di riflessi del momento, si ritrovò a terra con una massa di coperte sopra di lei.
“Che… che diamine…?” sbottò districandosi ed iniziando a recuperare lucidità.
Guardandosi attorno rimase stordita, ma dopo qualche secondo riconobbe la stanza e gli eventi delle ultime ventiquattro ore le tornarono di colpo in mente, compresa la disastrosa fine di quel matrimonio.
“Oh no! – gemette, alzandosi in piedi e rischiando di inciampare in tutte quelle coperte – no… no, non doveva andare così! Ma che ho fatto… oh merda l’abito!”
Con incredulità si accostò a quell’ammasso di stoffa bianca che giaceva sul pavimento: le bastarono due secondi per capire che era irrimediabilmente perduto.
E pensare che l'avrei dovuto riportare a casa dopo averlo lavato.
Lavare… ecco un verbo molto interessante.
E anche mangiare non sarebbe stato male, giusto per levare del tutto il senso di stordimento che…
“Oh diamine! Diamine!”
Le venne in mente che una brava sposina avrebbe dovuto svegliarsi assieme al marito, preparare la colazione, provvedere alla casa. Ma dalla finestra si capiva che era metà mattina e che dunque lei aveva dormito come un sasso per molte più ore del previsto.
Annaspando disperatamente corse all’armadio e recuperò il cambio di biancheria ed un vestito. Quindi, dato che il vestito da sposa era irrecuperabile, tolse il grande lenzuolo matrimoniale dal letto e se lo avvolse attorno.
“Da oca ingozzata a… a non so nemmeno io cosa – borbottò uscendo dalla stanza e cercando di tenere avvolto il lenzuolo esageratamente grande e contemporaneamente di non far cadere gli abiti – ah ecco… un pupazzo di neve che si scioglie… sì, proprio così e…”
E… ovviamente se abiti nella stessa casa di tuo suocero lo incontrerai in mezzo al corridoio in quella versione di te stessa non proprio decente.
“Uh, buongiorno, mia cara…” le sorrise Jean come se nulla fosse.
“Salve – si costrinse a sorridere lei – bella giornata, vero?”
“Splendida. Oh, ma vai pure: sai bene dove è il bagno, no?”
“Ma certo… faccio subito e poi vengo ad aiutare…”
“Tranquilla oggi l’emporio è chiuso per festeggiare voi due. Se vuoi la colazione è ancora in cucina, è giusto da riscaldare. Ah, e James sta portando dentro un po’ di legna per il camino.”
“Ottimo, bene, adesso vado! – dichiarò, stringendosi ulteriormente nel lenzuolo – a tra poco.”
“A tra poco, cara!”
Come il robusto uomo scompare dentro una stanza, Angela prese una rincorsa tale che quasi sfondò la porta del bagno. Chiuse a chiave la porta e ansimò disperata: la sua vita matrimoniale non stava proprio iniziando nel modo migliore.
“Va bene… va bene… ti sei solo ubriacata come una scema, sei crollata addormentata senza nemmeno fare l’amore con tuo marito… proprio tu che avevi fatto tutti quei grandi discorsi. Hai distrutto l’abito di famiglia… tuo suocero ti ha appena visto avvolta solo nel lenzuolo, ma va tutto bene! Ma sì, Angela Astor, va tutto a meraviglia, vero?”
Si guardò allo specchio rendendosi conto dell’aspetto assolutamente indecente che aveva il suo viso. C’era persino il segnetto del rivolo di bava all’estremità delle labbra. Uno spettacolo mattutino di notevole livello che lei aveva appena mostrato a suo suocero.
E la giornata era ancora lunga… chissà che altri disastri potevano succedere.
 
“Ahahahaha! Rilassati, Scheggia, mica eri nuda!”
“Non è divertente – sospirò Angela qualche ora dopo mentre lei e James stavano sdraiati nel letto matrimoniale accuratamente rifatto (un piccolo riscatto morale di Angela: aveva dimostrato che a rimettere in ordine le stanze era davvero brava) – cielo che figuraccia!”
“Sei fuori di testa, ragazza mia – continuò a prenderla in giro – per non parlare dell’abito da sposa!”
“Già… vorrò proprio vedere la faccia di mia madre e della maggior parte delle mie sorelle e cugine quando domani vedranno il danno!”
“Come hai detto stanotte, finalmente viene spezzata la maledizione di quell’abito.”
“Dai, però il pranzo che ho fatto era ottimo, no?”
“Più che ottimo.”
“E poi ho rimesso tutto in ordine.”
“Certo, ed io ti ho aiutato.”
“E poi…”
“Ehi, ma che c’è?”
“Guardami, sul serio… ti sembro una moglie?”
“Certo – annuì lui con semplicità mettendosi di fianco e osservandola – sei mia moglie, che cosa ti disturba così tanto?”
“Non sono sembrata una moglie, mi sa…”
“Perché? Che strane idee ti eri fatta?” le accarezzò i capelli castani.
“Prima di tutto non ubriacarmi in quel modo – iniziò Angela – non crollare addormentata come una scema…”
“Sei davvero bellissima quando dormi, sai?”
“… fammi continuare… e poi non distrugger… scusa, che hai detto?”
“Che sei bellissima quando dormi – la baciò lui – stamane quando mi sono svegliato è stata la cosa più bella del mondo trovarti accanto a me, lo sai?”
“Avevo il rivolo di bava…”
“La cosa più bella del mondo, fidati… Angela Havoc.”
“Angela Havoc – ripeté lei, chiamandosi per la prima volta con il cognome del marito. Sollevò la mano e osservò con curiosa meraviglia l’anello che le cingeva l’anulare – sono… siamo sposati.”
“Uh, ben ventiquattro ore per rendertene conto, amore mio? – la baciò ancora James – Ma ti prego, non cercare di darti un contegno da chissà che donna di casa. Sei perfetta così.”
“Vestaglia… ecco cosa mi serve.”
“Sì, certo – l’uomo con noncuranza andò sopra di lei – tutto quello che vuoi…”
“Senti, ma ero davvero sensuale la scorsa notte?”
“Lo sei anche adesso… e non osare crollare addormentata!”
Lei sorrise con malizia, cingendogli le braccia al collo: quella era la parte migliore del matrimonio che dovevano assolutamente recuperare.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. 1881. Le cose dei ricchi. ***


Capitolo 9.
1881. Le cose dei ricchi



“Va bene, siate sinceri, come sto?” Angela si portò davanti a marito e suocero e li scrutò attentamente, pronta a cogliere la minima traccia di bugia nei loro sguardi.
Aveva passato le ultime due settimane a lavorare a quell’abito che avrebbe indossato per la festa del primo dicembre e, nonostante non fosse proprio eccezionale come sarta, ci aveva messo tutta se stessa. Per la prima volta indossava un vestito veramente suo, nel senso che non l’aveva dovuto contendere ad altre ragazze della sua famiglia. Certo, in realtà era appartenuto alla defunta madre di James, ma Angela l’aveva modificato in modo da dargli un’impronta così personale tanto da poterlo considerare come proprio.
“Assolutamente fantastica – commentò James senza indugio – stasera spiazzi tutte quante, fidati.”
“Superba, mia cara, non posso dire altro – gli fece eco Jean – avessi trent’anni di meno mi innamorerei follemente di te, ne puoi stare certa.”
Angela arrossì con piacere a tutti quei complimenti e, deliziata, corse ad abbracciare il suocero, baciandogli la guancia con affetto.
“Oh, papà, tu sì che sai come mettermi in imbarazzo.”
“Ehi, anche io ti ho fatto i complimenti – strizzò l’occhio James, porgendole il cappotto – non merito pure io un bacio?”
“Tu pensa solo a guidare il carro, caro – lo prese in giro lei, sistemandosi con aria civettuola una ciocca di capelli dietro l’orecchio – e ci conviene muoverci: la festa inizierà tra poco. Non vedo l’ora di vedere la faccia di Allyson e degli altri quando mi vedranno con questo vestito.”
 
C’erano svariati motivi per cui Angela era particolarmente ansiosa di partecipare a quella festa.
Sapeva che quella sera gli occhi sarebbero stati puntati su di lei: in primis era la prima volta che vi prendeva parte come donna sposata, di conseguenza non sarebbe stata più confusa in mezzo alla grande nidiata della progenie Astor, e poi indossava un vestito bellissimo. Sua suocera aveva avuto un gusto davvero raffinato e quel bel vestito violetto la faceva sentire una vera principessa.
“Spero che potrò avere l’onore di ballare con te, figliola – sorrise Jean come arrivarono al capannone e si mischiarono alla gente che chiacchierava allegramente attorno alla pista da ballo – non sono più abile come anni fa, ma mi piacerebbe davvero.”
“Più che giusto, papà – sorrise lei, accettando la mano che le veniva offerta – i prossimi sono tutti tuoi, James, non essere geloso.”
“Tranquilla, cara – ridacchiò l’altro – io vado a salutare alcuni amici.”
Mentre si dilettava in quella danza assieme al suocero, Angela rifletté su quell’anno passato da moglie di James Havoc. Si sentiva così grande e matura: per quanto a casa Astor avesse sempre preso parte alle faccende domestiche si rendeva perfettamente conto che farle a casa propria era tutta un’altra cosa. Era come se ci fosse una nuova responsabilità in ogni azione che faceva: dal preparare il pranzo o rimettere a posto la casa o, ancora, aiutare in emporio. Sentiva che in qualche modo James e suo padre si affidavano completamente a lei, dandole assoluta fiducia.
“Sei proprio stupenda, ragazza mia!” commentò proprio Jean.
La donna sorrise con dolcezza: oramai era estremamente affezionata a quell’uomo, tanto che da qualche tempo aveva preso a chiamarlo papà. Perché se c’era un aggettivo che poteva essere attribuito a Jean Havoc era proprio paterno. Non c’era attimo della giornata in cui non la facesse sentire una vera e propria figlia, tanto che ormai Angela non si preoccupava più di determinate apparenze. Certo, non aveva più rischiato uscite estreme come quella della mattina dopo il matrimonio, ma per esempio non aveva remore ad accomodarsi in cucina ancora in camicia da notte e vestaglia per condividere con lui il primo caffè del mattino.
Mentre rifletteva su questi dettagli, il ballo terminò e, con estrema galanteria, Jean la accompagnò fuori dalla pista, dove furono prontamente raggiunti da James.
“Sappi che sei oggetto di notevole invidia, mia cara – sogghignò l’uomo – il tuo vestito ha suscitato i commenti di parecchie ragazze. E presumo anche quelli di parecchi ragazzi.”
“Non vorrai andare in giro a cercare Toby Mood, spero – lo prese in giro lei, tirando fuori quella vecchia questione – anzi, che ne dici di ballare con me? Così tappiamo la bocca definitivamente a certa gente.”
“Più che volentieri, mia splendente Scheggia – annuì James, passandole con disinvoltura il braccio attorno alla vita – andiamo a far vedere al paese quanto siamo belli.”
 
James non era proprio un ballerino eccezionale, ma nonostante tutto gli piaceva danzare.
Da quando però era fidanzato e poi sposato con Angela aveva scoperto che era più facile del previsto e questo l’aveva portato alla convinzione che si trattava solo di avere la compagna ideale accanto.
Angela era bravissima a farsi condurre e allo stesso tempo guidarlo nei passi, riuscendo a riempire anche quelle lacune che ogni tanto erano inevitabili nella danza. E lo faceva in una maniera così spontanea che il ballo era perfettamente godibile, senza dover far attenzione alla sequenza di passi: potevano tranquillamente parlare, ridere, guardarsi negli occhi.
“Ma ci pensi che tra nemmeno due mesi sarà un anno che siamo sposati? – chiese lei ad un certo punto, fissandolo con malizia – considerazioni, coraggio… hai o non hai la più fantastica moglie del mondo?”
“Senza dubbio alcuno – rispose restituendole il sorriso – sei fantastica, Scheggia, non finirò mai di dirtelo. Da quando sei a casa nostra la mia vita è completamente cambiata… e giuro che in questo momento vorrei essere a casa per spogliarti e…”
Angela ridacchiò come James si accostò e terminò la frase all’orecchio, in modo che nessun’altro potesse sentirli, cosa abbastanza difficile considerata la musica. Nonostante ormai fossero marito e moglie il loro entusiasmo per le attività sotto le coperte non era minimamente diminuito, tutt’altro.
Però quella era solo una parte del loro rapporto: litigi, discussioni, risate, riappacificazioni, aiutarsi nelle piccole cose… le loro giornate assieme erano un vortice frenetico che avrebbe destabilizzato chiunque altro, ne era sicura.
“Ma suvvia, ti pare che… – iniziò, ma poi sgranò gli occhi – ommiodio, non posso credere assolutamente a quello che vedo!”
“Che cosa?” si sorprese James, girandosi nella direzione del suo sguardo e accorgendosi che molte persone stavano iniziando a mormorare con sorpresa. Poi vide che a poca distanza da dove stavano ballando loro si era approssimata una coppia… davvero strana.
“Il figlio del notaio e… Ellie Lyod! – Angela arrivò addirittura a strattonare le maniche del maglione di James – Santo cielo, ma lei non ha nemmeno sedici anni!”
“Vabbè – scrollò le spalle James, non riuscendo a capire – sarà come quando si balla con qualche amichetta o cuginetta e…”
“No, no, no, no! – lei scosse il capo con ostinazione – Questo non è un ballo a caso! Ma allora le voci che dicevano che Laura Hevans quest’estate aveva avuto una relazione con il figlio del postino erano vere! Diamine che storia… parola mia! Un fidanzamento tra Fury e Lyod!”
“Ma che cosa te ne importa, suvvia – protestò James – sono le solite cose strane tra le famiglie ricche, no? Ma guardalo, lui non ha un briciolo di muscoli…”
“Fa l’Università, diventerà ingegnere!”
“… uhmpf, quanta grazia. Senti, quello te lo sollevo come un fuscello… e quel grissino di ragazzina ha solo un visetto carino, tutto qui. Francamente a me piacciono più prosperose, come te… uhm, fammi pensare a Laura Hevans. L’ho vista prima, quella con i capelli rossi, vero? Ecco, se fossi stato nei panni di quello lì non avrei esitato a scegliere e…”
“Porco! – lo prese in giro Angela con rassegnata – tu ovviamente non puoi capire nulla! Sì, quella ha un bel seno, ma è meglio il mio! Anzi, il mio è l’unico di cui ti deve importare!”
“Più che giusto: te ne darò ampia dimostrazione stanotte!”
“Possiamo riprendere a goderci il ballo, per favore?”
“Veramente sei tu che hai iniziato…”
“Inizio e finisco, va bene? – lo trafisse lei – discorso chiuso!”
 
La conseguenza di quel ballo inaspettato tra i due rampolli delle famiglie più in vista del paese fu che Angela passò nettamente in secondo piano per quella festa del primo dicembre.
Ma se ne fu delusa non lo diede a vedere: a dire il vero era così eccitata pure lei da quella novità che si dimenticò in fretta di tutta la questione dell’abito. Del resto in quel piccolo paese le novità erano davvero poche e più che gradite per poter scambiare quattro chiacchiere.
Peccato che nell’arco di nemmeno due mesi il paese venne sconvolto da una nuova notizia che, in qualche modo, coinvolgeva anche il giovane figlio del notaio, almeno così dicevano i più.
“Matrimonio di facciata – disse convinta Greta – ma certo, ha fatto il danno con la figlia degli Hevans però era già promesso alla figlia dei Lyod anche se non lo sapeva… le cose dei ricchi, insomma!”
“Tu hai sentito troppe storie sciocche ­– la sgridò Allyson, girando il cucchiaino sulla sua tazza di the caldo – e poi se davvero ha fatto lui il danno è lui che la deve sposare: funziona così, lo sai.”
“Oh, certo, ed il vecchio Lyod lo permetterà: se quello ha deciso che il ragazzo va a sua figlia è così!”
Angela osservava pensosa la sua famiglia continuare a commentare quell’avvenimento così inusuale e tragico. E, se doveva essere sincera, non le piaceva per niente il tono che stava prendendo la discussione: arrivò anche a pentirsi di essere andata a casa dei suoi per quella merenda tra cugine e sorelle.
“E tu, Angela, che ne pensi?” le chiese Greta all’improvviso.
“Beh, non lo so… però è una situazione davvero difficile. Insomma, è incinta: nascerà un bambino e dovrà pur avere un padre, no?”
“E chissà chi è!”
“No, non intendevo questo – scosse il capo – un padre nel senso di… avere una famiglia che lo cresca.”
“Tutto sommato non sono dispiaciuta – commentò Lysette con uno sbuffo – Fury, Hevans… tutta gente con la puzza sotto il naso. Ben gli sta a quella ragazza, che torni con i piedi per terra!”
“Non è vero che hanno la puzza sotto il naso – protestò Allyson – ricorda che il notaio Fury è sempre stato disponibilissimo con papà quando si è trattato di quelle vendite di terreni.”
“Va bene, restano gli Hevans… loro non hanno mai fatto nulla.”
“E che dovevano fare? – chiese Angela – Io ero compagna di scuola del maggiore e non ci sono mai stati problemi. Sono sempre stati dei ragazzi normali, sia lui che la sorella, suvvia.”
“Ma se lei era sempre appiccicata ad Andrew Fury, non dire sciocchezze!”
“Sei solo gelosa dei bei vestiti che si poteva permettere!”
“Finiscila! Sembri quasi quella scema di Patricia Mott!”
La discussione andò avanti su quei toni e quando Angela prese congedo Allyson decise di accompagnarla per un tratto di strada. Per diverso tempo le due sorelle non si parlarono, ma quando arrivarono al bivio dove in genere si salutavano Angela confessò.
“Possibile che solo noi due ci siamo rimaste male? Spesso non capisco quanto la maggior parte di noi sia pronta a giudicare il prossimo senza nemmeno riflettere.”
“Ecco uno dei motivi per cui sei sempre stata tu la mia sorella preferita – annuì Allyson – ma non lo fanno con vera cattiveria, lo sai bene. Credi davvero che sia stato lui?”
Angela rifletté profondamente su quella domanda. Le tornò a mente quel ragazzo dai capelli castani che ballava con Ellie Lyod alla festa del primo dicembre. E’ vero, lei era molto giovane e sicuramente poteva essere tutto frainteso, però…
No, lui era troppo felice per…
“No, non credo.”
“Nemmeno io.”
“E allora chi?”
“Ci resta solo da aspettare… se ha scoperto di essere incinta allora deve essere come minimo al secondo mese, ad occhio e croce. Il bambino nascerà in estate… nei prossimi mesi ci sarà il matrimonio riparatore e scopriremo chi è stato. Con buona pace di tutti. Oh, dai, non fare quella faccia… è già successo altre volte di bimbi nati con netto anticipo rispetto alla data del matrimonio. Vedrai che tra qualche anno la stessa Laura ci riderà sopra con marito e figlio.”
“E’ che… è stato così brutto sapere di quella reazione da parte dei suoi…” Angela scosse il capo al ricordo di quanto le avevano detto le sue cugine. Urla, minacce e chissà che altro… l’avevano anche picchiata? Provò una grande simpatia per quella ragazza.
“Sono i ricchi – le spiegò la sorella – per loro è una cosa più scandalosa, tutto qui.”
“Se penso che io e James lo facevamo da anni…”
“Ehi, ogni donna è diversa, Angy, non fare paragoni. Vedrai che presto anche tu avrai un bimbo.”
“Mica ho detto che lo voglio subito!” arrossì lei.
“Vengono quando meno te lo aspetti, fidati!”
“Beh – arrossì ancora di più la giovane – adesso devo proprio andare! Ci vediamo in questi giorni.”
“Buona serata, sorellina!”
 
James si era tenuto volutamente in disparte da tutti i pettegolezzi che giravano in paese.
Riteneva che fosse ingiusto parlare così tanto di quella che era una cosa strettamente personale come un figlio e tutte le conseguenze che comportava. Per come la vedeva lui la famiglia era una cosa sacra e scagliarsi così contro una donna incinta era da vigliacchi. Sperava solo che il padre si facesse avanti e sposasse la ragazza, mettendo fine a quelle storie.
Del resto se Angela fosse rimasta incinta l’avrei sposata molto prima, non c’è dubbio.
Fissò con aria pensosa la donna che finiva di cambiarsi per la notte e si infilava sotto le coperte in tutta fretta per far fronte alla fredda notte di fine gennaio. Era stata più silenziosa del previsto dopo esser tornata da quella visita a casa sua: evidentemente avevano parlato di quella storia e ne era rimasta turbata più del previsto.
“Scheggia, che ne pensi di un bambino?” le chiese a bruciapelo.
“Che?” sgranò gli occhi lei.
“Ti piacerebbe?”
“Ma che avete tu e mia sorella? – sbottò, girandosi dall’altra parte del letto – Vi mettete d’accordo?”
“Eh? Ma che c’entra tua sorella? Io parlavo di noi due!” si sorprese.
“Senti, se arriva arriva, va bene? Cos’è, siccome è incinta Laura Hevans lo devo essere pure io? No, non lo sono, chiaro! Se ti interessa ho le mie regole, sei felice?”
“Non… non volevo mica dire qualcosa di… oh, va bene! Sei in una delle tue serate no, l’ho capito!”
“Bravo, e allora pensa a dormire!”
“Ma certo, buonanotte, mia cara!” sbottò, irritato da quel trattamento ingiusto.
“Buonanotte, tesoro!”
Anche lui si spostò all’estremità della sua parte di letto, dandole le spalle.
Alle solite: quando le gira male non le si può dire una parola… femmine!
 
In genere Angela una volta che si addormentava non apriva gli occhi se non la mattina successiva.
Ma quella notte si svegliò più volte e alla fine mise da parte l’orgoglio e strisciò fino a raggiungere l’ampia schiena di suo marito. Si raggomitolò contro quella fonte di calore e sospirò con tristezza.
Era spaventata: quel discorso sui figli era stato tirato fuori per ben due volte quella sera.
Lei non voleva un figlio, non ancora.
Sapeva che molte donne si sentivano realizzate solo con la gravidanza, ma lei non aveva quell’aspirazione. Se doveva essere sincera la sua vita andava benissimo così: l’emporio, James, suo suocero… le sue giornate erano così piene che certo non le serviva un marmocchio a cui badare.
Se sarebbe arrivato in seguito, magari tra qualche anno, non ne sarebbe stata dispiaciuta, ma in quel momento le sembrava solo una gabbia dove non voleva assolutamente essere imprigionata.
Imprigionata… sì, Laura Hevans è imprigionata.
“James – si trovò a chiamare dolcemente – ehi…”
“Mh? Che c’è?” rispose lui.
“Tu… tu vuoi un bambino?”
Lui si girò con un sospiro e la abbracciò.
“Scheggia, da quanti anni facciamo l’amore? Eh?”
“Oh, senti…”
“Quando arriva arriva, hai ragione tu. Senti, vedrai che quella ragazza se la caverà alla grande… sei solo turbata per tutta questa storia, è chiaro…”
“Ma sì,forse hai ragione.”
“E poi hai le tue cose – la voce di James aveva assunto il tono di chi la sa lunga – insomma a volte succede che sia più irritabile del solito in quei giorni.”
“Ma come ti permetti!” esclamò lei, venendo però imprigionata ancora di più dall’abbraccio.
“Oh dai, Scheggia – ridacchiò – ti trovo splendida anche così…”
E impossibilitata a muoversi, ad Angela non restò che sistemarsi meglio tra quelle braccia e riprendere a dormire.

 
 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. 1882. Jean ***


Capitolo 10.
1882. Jean



Le mani di Angela quasi divennero bianche per lo sforzo di tenersi al lavandino. Teneva gli occhi chiusi, continuando a respirare lentamente e sperando che la sgradevole sensazione di sudore freddo ed il cerchio che pareva schiacciarle la testa si calmassero.
Angela? – fece la voce di James da fuori il bagno – Va tutto bene, cara?
“Secondo te come può andare?” esclamò lei. Forse avrebbe aggiunto anche altro, ma sembrava che il suo corpo ritenesse troppo prematura un’arrabbiatura, o anche solo una semplice dimostrazione di sarcasmo.
Fu costretta a chinare di nuovo il capo e ricominciare la respirazione dall’inizio.
Dopo tre minuti buoni, quasi per magia, tutto quanto finì. Per ironia della sorte sembrava che non fosse successo niente e solo il lieve pallore che ancora si intravedeva nelle guance testimoniava la crisi appena trascorsa. Guardandosi allo specchio la donna si sistemò meglio i corti capelli e si fece forza prima di uscire dal bagno.
Tanto era inutile continuare a negare quello che stava succedendo.
“Ehi – subito James le fu accanto e le accarezzò la guancia – come va?”
“Beh – raccolse le idee lei – scappare da tavola in pieno pranzo per correre a vomitare … direi che può rientrare nella mia soglia di tolleranza, non credi?”
“Senti, papà crede che tu…”
Non dirlo.”
“I segnali effettivamente indicano che…”
“Sei sordo o cosa? Ti ho detto di…”
“Scheggia, perché ti crea così tanti problemi ammettere di essere incinta?”
… non dirlo…” sospirò la donna, ma ormai la frittata era fatta.
Le due parole magiche erano state pronunciate, spezzando l’incantesimo d’illusione che lei si era creata. Dove quel ritardo di praticamente tre mesi non era nulla di eccezionale e le nausee erano solo momenti di stanchezza per il caldo così improvviso che era arrivato dopo una primavera relativamente fresca.
“Sette anni e passa tra fidanzamento e matrimonio ed ecco qua…” commentò.
“Ma dai che è fantastico! – la abbracciò James – Sarà sicuramente un maschio, me lo sento.”
“E’ così fantastico avere queste nausee, te lo assicuro. In questo momento se è maschio o femmina proprio non è nel mio interesse – sbuffò, cercando di arrendersi una volta per tutte – vado a sdraiarmi, mi è passato completamente l’appetito…”
“Ehi – la baciò teneramente James – non hai idea di quanto mi senta felice in questo momento.”
“Ma sì, ma sì, sono felice anche io…” si arrese sciogliendosi da quell’abbraccio.
Guadagnata la pace della camera da letto, Angela si concesse di sospirare malinconicamente.
E così la sua libertà finiva, quando invece lei aveva sperato di godersela ancora per qualche anno. Ma sembrava che tutte quelle allusioni fatte qualche mese prima, quando il caso di Laura Hevans faceva mormorare il paese, le avessero portato sfortuna.
Non che lei ce l’avesse contro i bambini: prima o poi era davvero sua intenzione averne.
Ma dopo che hai passato più di vent’anni circondata sempre da almeno quattro o cinque bambini strillanti e casinisti… oggettivamente la voglia ti passa.
Senza contare che spesso e volentieri veniva chiesto proprio a lei di prendersi cura della numerosa cucciolata della nuova generazione Astor. Oggettivamente ricominciare tutta la solfa di pianti, pannolini e tutti gli annessi e connessi era tutto meno che alettante.
“Niente di personale – disse, mettendosi una mano sul ventre e parlando al piccolo dentro di lei – lasciami solo qualche settimana ancora e andrà decisamente meglio. Comunque se la smettessi di procurarmi tutte queste nausee sarebbe un bel passo in avanti, non credi?”
 
Mentre Angela cercava di venire a patti con il suo essere incinta, James invece non aveva nessun problema ad accettare la paternità, anzi ne era più che entusiasta. Da sempre aveva invidiato le famiglie numerose e spesso e volentieri aveva patito la solitudine nel stare in quella grande casa con la sola compagnia di suo padre. Con il lavoro da fare, ancora prima di terminare le scuole, non si era potuto permettere di frequentare molto spesso gli amici, senza contare la relativa lontananza dell’emporio dal paese.
Di conseguenza, sapere che a dicembre in casa Havoc ci sarebbe stato un bambino lo riempiva d’entusiasmo.
Nella sua praticità sapeva già che ci sarebbero stati dei problemi, specie all’inizio, ma riteneva che Angela se la sarebbe cavata egregiamente: del resto era risaputo che nella primissima infanzia erano le madri ad occuparsi dei piccoli. A lui non sarebbe rimasto che offrire alla sua adorata moglie tutto il sostegno possibile.
Senza contare che potevano fare affidamento anche su suo padre e sulla sua esperienza.
Insomma era tutto programmato per andare nel migliore dei modi.
“Sei fantastica con questa pancia…” sorrise una sera mentre si mettevano a letto.
“La tua ironia non aiuta – sbuffò Angela cercando di trovare una posizione confortevole – Ahia! Anche stanotte? Hai intenzione di scalciare anche stanotte?!”
Effettivamente col passare dei mesi il bambino si era dimostrato particolarmente vivace: non c’era giorno in cui non scalciasse allegramente almeno una decina di volte e mano a mano che la pancia diventava più grande, pure lui diventava più turbolento.
“Ah, è proprio nostro figlio, non ti pare?” commentò l’uomo, mettendo una mano sul ventre della moglie, ormai all’ottavo mese avanzato. E dovette attendere solo qualche secondo prima di sentire il suo erede muoversi.
“Potrebbe aspettare di uscire fuori per agitarsi così – sospirò lei, oggettivamente provata dal pancione – non vedo l’ora che arrivi dicembre e nasca. Portarmelo a spasso per tutto il giorno ormai sta diventando davvero difficile.”
“Vedrai che presto arriverà il momento: tua sorella ha parlato di massimo una ventina di giorni, probabilmente prima di natale.”
“Non so chi è più al settimo cielo, se lei o tuo padre…” scherzò Angela, portandosi una mano alla pancia, proprio accanto a quella del marito e accarezzando con amore la parte dove, a suo parere, stava la testa del bambino.
“Forse papà, non ricordi che parlava di bambini già dalla prima volta che ti ho portato a pranzo a casa?”
“Vero… Allyson forse vuole solo usarmi come cavia per il suo mestiere di levatrice.”
“Senti, considerato che non abbiamo pensato ancora al nome… che ne dici di Jean, sempre se si tratti di un maschio.”
“Come tuo padre? – Angela fissò perplessa la sua pancia – Non si farà confusione? Insomma, a casa mia è un disastro per quanti Angelo ci sono… penso siamo a quota quattro, senza contare che pure mio nonno si chiamava così.”
“Naaah, tranquilla, qui non si creano confusioni. Pensaci: sia io che te chiamiamo mio padre papà, il bambino lo chiamerà direttamente nonno. Quando si chiamerà Jean sarà chiaramente riferito al bambino. Ma, tralasciando tutto questo, deve piacere innanzitutto a te, scheggia. Ti piace?”
“Sì, direi che mi piace. Di certo non l’avrei chiamato Angelo… è meglio dare un nuovo Jean agli Havoc piuttosto che l’ennesimo Angelo agli Astor. A quello ci penserà qualche altra della mia famiglia.”
“Ehi, piccoletto – scherzò James, dando lievi pacche sul ventre della moglie – e tu che ne pensi?”
“Ahia! No… non fargli più domande! – lo bloccò lei – se scalcia per rispondere è un vero dramma!”
 
Circa venti giorni dopo, proprio come aveva pronosticato Allyson, arrivò il fatidico momento del parto.
Angela ne aveva visti svariati a casa sua e, molto spesso, aveva ritenuto che i lamenti delle madri fossero esagerati. E aveva altresì ritenuto di avere una soglia del dolore molto più alta rispetto a quelle mammolette.
Effettivamente quando iniziarono le doglie, a metà mattina, e James venne mandato a chiamare Allyson, si era detta che il cosiddetto dolore era perfettamente gestibile, tanto che era rifiutata di sdraiarsi, sostenendo che era perfettamente in grado di continuare a preparare il pranzo.
Tuttavia, verso l’ora di cena, aveva ormai scoperto che i dolori delle contrazioni erano davvero forti e tutto quello che chiedeva era che quella tortura finisse presto.
“Ah, sorellina, che meraviglia – continuava a sorridere Allyson seduta ai piedi del letto, intenta ad osservare l’andamento del parto – sta andando tutto alla perfezione. Non vedo l’ora di prendere tra le braccia il mio nipotino.”
“Ahah, ma poi ricordati che lo voglio subito prendere io in braccio – le fece eco James che teneva la mano della moglie – e tu, amore mio, sei fantastica, te lo giuro!”
“Fantastica? Fantastica? – ansimò lei, fissandolo con odio – Io sto patendo le pene dell’inferno per mettere al mondo tuo figlio e tu non fai altro che sorridere e chiacchierare con… con quest’aguzzina!”
“Preparati, James – strizzò l’occhio Allyson – adesso arriva la fase in cui si maledicono i propri mariti. Uh, che c’è? Una nuova contrazione?”
“Secondo te? – sibilò Angela, piegandosi in due per il dolore – Che domande idioteeeee… uff! Uff! Uff!”
“Sì, brava così… tre, quattro, cinque, sei, sette. Finita. Forza e coraggio che nel prossimo quarto d’ora partorisci.”
“Continua così, ragazza!”
“James Havoc – la donna si rivolse con sguardo furente verso l’uomo – se non la pianti con questo dannato entusiasmo assolutamente fuori luogo, giuro che ti lancio qualcosa in testa!”
“Ah, ti adoro quando ti incavoli!”
“Al diavolo! Secondo te… cosa credi che provi a far uscire un bambino da… da un posto così piccolo!? Eh? Fallo tu e ne riparliamo!” sbottò.
Quel parto si stava trasformando in un teatrino surreale e lei stava davvero esaurendo la sua scorta di pazienza. Le ultime settimane erano state snervanti, con il bambino che non faceva che agitarsi, e quella conclusione che sembrava quasi una festa di famiglia andava oltre qualsiasi soglia di tolleranza.
“Contrazione… perché non provi a spingere?” propose Allyson, scrutando con attenzione la situazione.
“E per te che sto facendo?”
“Oh, Angy, sei troppo divertente – sdrammatizzò l’altra – in genere tutte si limitano a lamenti, ma tu ci vai sotto con le parole.”
“Perché… sei… uff! Sei così allegra, oggi? Dannazione, in genere sei così seria…! Uargh!”
“Oh, dai per la mia sorellina questo e altro. Però ora direi che ci siamo, sai che vedo la testa?”
Merda!” esclamò la donna, ricadendo all’indietro dopo quella contrazione.
Sentiva il peso del bambino dolorosamente premuto tra le sue gambe, come se fosse incastrato e stesse lottando per liberarsi. Anche se non poteva vedere capiva benissimo che la sua creatura stava subendo un stress più forte del suo… e questo la fece improvvisamente stare male.
“Ally, tiralo fuori – supplicò – alla prossima spingo, ma tu prendilo…”
“Ehi – la sorella maggiore le sorrise con fare rassicurante – non c’è niente che non vada, sorellina. E’ tutto a posto ed il piccolo adesso esce.”
“Ma sì, amore mio – la baciò James – un ultimo sforzo, coraggio.”
Quasi chiamata da quegli incoraggiamenti arrivò la nuova contrazione: con una nuova energia, uscita fuori nel momento del bisogno, la donna spinse con tutte le sue forze. L’esigenza di far uscire il piccolo da quella situazione così critica fu più forte di qualsiasi dolore potesse provare.
Si aggrappò a James come non era mai successo in tutte quelle ore, per quella tortura che durò dieci, incredibili, secondi.
“Eccolo! – esclamò soddisfatta Allyson – Ahah! Maschio come pensavamo! A casa qualcuno mi deve dei soldi! Oh, ma che meraviglia, non credo di aver mai visto un pupo così bello!”
“Hai… hai scommesso sul sesso del bambino – Angela rideva e piangeva allo stesso tempo. Non si era mai sentita così felice e realizzata in vita sua: come il bambino iniziò a piangere si chiese come aveva fatto ad attendere così tanto per provare una gioia simile – oh, chi se ne frega. Dammelo… dammi il mio piccolo.”
“Come si direbbe a casa Astor, è proprio un bel marmocchio – ridacchiò la levatrice, avvolgendo il bimbo urlante e ancora sporco di sangue in un asciugamano e passandolo alla sorella – benvenuto a te, Jean Havoc: ottimi polmoni a quanto sento.”
“Piccolo – ad Angela vennero le lacrime agli occhi come sentì quei tre chili tra le sue braccia, come vide quel visino arrossato e contratto in una smorfia, con i ciuffetti umidi appiccicati alla testolina – amore… amore mio. Jean…”
“Ehi… ehi, figliolo – James passò un dito su quel braccino arrossato – benvenuto, piccolo mio.”
“Stai per piangere pure tu!” rise Angela, mentre le lacrime scorrevano libere sulle guance.
“E come non potrei – sorrise lui – sono padre, scheggia… sono padre. E tu sei una mamma!”
“Cielo… guardalo. E’… è così perfetto da mozzare il fiato…”
“Ehi, che ti aspettavi? – la prese in giro Allyson, accostandosi alla famigliola – io faccio nascere solo bambini perfetti. Per il tuo ci ho messo particolare impegno.”
“Oh, Ally! – Angela allungò il braccio per poterla stringere – grazie… tu non hai idea di quanto ti voglia bene!”
“Lo so, sorellina. Però, adesso dammi mio nipote: voglio tagliargli il cordone e lavarlo.”
 
Il giorno successivo, appena dopo pranzo, Angela era sdraiata di fianco e osservava incantata Jean che, dopo aver abbondantemente mangiato, dormiva placido avvolto nella sua copertina.
Fino a poco prima era stata circondata da suo suocero, da sua sorella e anche da altri membri della famiglia che erano venuti a congratularsi con lei. Ma tutto quello che bramava era stare sola con il suo bambino.
Le sembrava surreale che avesse passato ventiquattro anni della sua vita senza godere della sua presenza.
Non faceva altro che ammirarlo, non trovando la minima imperfezione: gli aveva contato decine di volte le dita delle mani e dei piedi, non aveva fatto altro che rimirare l’azzurro degli occhietti, la delicatezza di quei ciuffi chiari nella testolina.
“Sei perfetto, amore mio… raggio di sole… sei il mio perfetto raggio di sole…” sussurrò, accarezzandogli la manina chiusa a pugnetto.
“Ehilà, scheggia – la salutò James, entrando nella stanza e sdraiandosi accanto a lei – come va?”
“Non mi sposterei da questo letto per nulla al mondo – sorrise lei – per me è già difficile metterlo nella culla. Non mi separerei mai da lui.”
“Secondo te da chi ha preso?” chiese con curiosità l’uomo, sbirciando il piccolo con affetto.
“Havoc, senza dubbio dagli Havoc – rispose decisa lei – ho visto tanti bambini Astor, ma Jean non ha nulla a che fare con loro. Del resto tuo padre ha detto che è la copia di te neonato. Questo da grande diventa alto, muscoloso, biondo e con gli occhi azzurri.”
“E ne sei felice?”
“Più che mai… vero, Jean? Tu sei un piccolo Havoc… un perfetto, piccolo Havoc.”
“E tu sei una perfetta mamma, Angela Havoc.” la baciò con amore.
“Sono sempre affascinante?” chiese lei con malizia.
“Più che mai: essere mamma ti dona un qualcosa di nuovo e sensuale… non ne hai idea.”
“Ah, già, a proposito – fece lei con aria di scusa – ovviamente lo sai che voglio svezzarlo, no?”
“Certo…”
“E ovviamente lo sai che se restassi incinta di nuovo perderei il latte.”
“Mhmh – annuì l’uomo con aria perplessa – e quindi?”
“Almeno per cinque mesi niente rotolamento tra le coperte, mi dispiace.”
“Che? Cinque mesi? – sembrava un bambino a cui avevano appena levato i giocattoli per tempo indefinito – Così tanto?”
“Eh, ora siamo genitori, mio caro – disse lei con aria di chi la sa lunga – le cose cambiano.”
E dare quello smacco a James Havoc era davvero divertente.

 
 
 
 
 
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come potete vedere è arrivata la copertina ad opera della fantastica Mary *__*  

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. 1883. Un neonato in famiglia ***


Capitolo 11.
1883. Un neonato in famiglia



Eeeghu!”
Immediatamente Angela scatto a sedere nel letto.
“Anche questa notte!” sospirò, mettendosi una mano in testa.
“Ci sta prendendo per i fondelli come tutte le altre volte – mormorò la voce di James accanto a lei – non ha bisogno di niente.”
“Ghaa… gha…uh…”
“Sei sveglio pure tu – gli fece notare la donna, accendendo la luce sul comodino ed alzandosi per andare alla culla di Jean – non fare il finto tonto.”
Come sbirciò all’interno della culla vide che Jean se ne stava beatamente sdraiato di fianco con gli occhi semiaperti, in uno strano stato di dormiveglia. Sorrideva soddisfatto e ad intervalli irregolari emetteva quei versetti che a quanto pare esprimevano tutta la sua approvazione per essere al caldo e con lo stomaco pieno.
Peccato che questi versetti avessero il potere di far svegliare i genitori praticamente ogni notte. Dall’alto del suo mese e mezza di vita Jean non si rendeva conto che la notte era un momento di riposo prezioso per chi doveva lavorare.
“Ehi, bestiolina – sussurrò Angela accarezzando i capelli biondi e sottili del piccolo – perché non ti addormenti del tutto e non ti svegli fino alla poppata delle sette? Su, da bravo, chiudi gli occhietti…”
Continuò a vezzeggiarlo in quel modo per diversi minuti non potendo fare a meno di sorridere nel rimirare suo figlio. Dovette trattenersi dal prenderlo in braccio: Jean l’avrebbe sicuramente presa come scusa per svegliarsi del tutto e allora sarebbe stato davvero difficile farlo riaddormentare. Se c’era una cosa che aveva imparato di suo figlio era che aveva svariate energie e il concetto di orari per dormire era abbastanza elastico.
Fortunatamente quella notte il bimbo si dimostrò collaborativo e nell’arco di poco, con un ultimo verso soddisfatto, stranamente simile a delle fusa, si abbandonò del tutto al sonno. Mettendogli il ciuccio in bocca, sperando che fosse un deterrente per nuovi versi notturni, Angela gli rimboccò meglio le copertine e tornò a letto.
“Sai che ore sono?” le chiese James con aria significativa.
“Ho paura di scoprirlo – sbadigliò lei – le due come ieri?”
“No, le tre e mezza – sbuffò l’uomo – sto iniziando a dimenticare l’ultima volta che ho dormito tutta la notte: capisco che pianga per mangiare o per essere cambiato… ma l’ultima poppata la fa alle undici e per come lo stai abituando regge fino alle sei e mezza o addirittura le sette. Ed ha il sonno così pesante che se ne frega altamente se se la fa addosso…”
“Beh, che cosa vorresti insinuare?”
“… niente. Solo che non è proprio bello stare all’erta per quei dannati versi! Diamine sembri una molla pronta a scattare.”
“E se il giorno che non scatto a vedere si tratterà proprio del rigurgito che lo soffocherà?”
“Quei versi non sono rigurgiti… sono un chiaro messaggio. Se vuoi te lo traduco. Ciao, cari genitori, anche stanotte voglio rompervi le scatole con i miei versi solo per il gusto di farlo.”
“Ha un mese e mezza!”
“Dannazione, non oso pensare a quando avrà l’uso della parola! Lasciamo stare che è meglio… domani c’è un sacco di lavoro da fare all’emporio e… ma che fai?”
Osservò con sorpresa la moglie che si alzava, si metteva la vestaglia, e recuperava Jean dalla culla, tenendolo ben avvolto nella copertina.
“Ma certo, domani c’è tanto lavoro da fare – dichiarò con sguardo irato – se ti disturba che io pensi a mio figlio allora è meglio che vada a dormire in una delle stanze libere. Così il tuo prezioso sonno non verrà disturbato…”
“Eh dai, non volevo dire che… oh, senti, fai come vuoi! Buonanotte!”
“Buonanotte!” esclamò la donna chiaramente trattenendosi dal sbattere la porta giusto per non svegliare il bambino.
 
Quando Angela aveva ammesso di essere incinta, sicuramente nella coppia era stato James quello più felice, anzi addirittura entusiasta. Per tutti i mesi della gravidanza non aveva fatto altro che parlare di quanto sarebbe stato fantastico il loro bambino e si era lanciato a capofitto nella sistemazione della camera e nel preparare la casa per l’arrivo di un neonato.
Dopo quasi tre mesi dalla nascita di Jean, tuttavia, sembrava che questo entusiasmo fosse in buona parte scemato, al contrario di quello di Angela che era andato alle stelle. Non c’era attimo che la donna non passasse con il bambino ed era estasiata da ogni verso, gesto o quanto altro che l’infante compisse.
A far da supporto a questo entusiasmo c’era ovviamente anche il nonno.
Sì, perché adesso Jean Havoc senior amava definirsi come nonno del piccolo Jean. Se non era Angela a tenere in braccio il bambino lo faceva lui e non perdeva occasione di vezzeggiarlo e coccolarlo.
E, paradossalmente, in tutta quella situazione James si sentiva leggermente escluso.
“No, ma che fai? Non prenderlo così!” gli disse Angela una sera che lui aveva preso il bimbo dalla culla con l’intenzione di farlo giocare.
“E dai che si diverte! – protesto – Vero, marmocchio? Come si sta a testa in giù, eh?”
“Ha appena finito di prendere il latte, glielo fai risalire!”
“Per l’amor del cielo, Angela, e fallo divertire questo benedetto bambino. Lo culli, lo allatti, lo cambi, lo lavi… farlo giocare decentemente no? Second… oh, cavolo!”
Effettivamente mettere a testa in giù un piccolo di tre mesi che ha appena finito la poppata non è molto produttivo, a meno che l’obbiettivo non sia fargli risalire tutto il pasto. E quell’obbiettivo fu centrato appieno con un rigetto di dimensioni davvero mastodontiche per un bambino così piccolo e immediato pianto di protesta.
“Oh no, cucciolo – sospirò Angela recuperando Jean e cullandolo – cosa è successo, eh? Quell’idiota di tuo padre ti ha fatto vomitare tutto… sssh, dai che passa tutto…”
“Quell’idiota… ah, ora sarei un idiota?”
“Vuoi essere insignito del titolo di padre dell’anno dopo questo colpo di genio? Lo vuoi capire che a tre mesi è ancora piccolo per certi stupidi giochi… specie dopo mangiato!”
“Ehi ehi – Jean senior entrò in cucina attratto da quelle urla – che è successo? Che ha da piangere il mio adorato nipotino?”
“Grazie, papà, se lo tieni pulisco il disastro. James Havoc, mettiti in testa che ancora per un po’ certi giochi li puoi evitare, tante grazie.”
“Dannazione, ma la casa deve proprio ruotare attorno al bambino?”
Sbottò all’improvviso, sfogando finalmente gli ultimi mesi di frustrazione crescente che aveva vissuto. Forse, anzi di sicuro, era infantile sentirsi messo in secondo piano rispetto ad un neonato, ma non ne poteva fare a meno. Sembrava che quel marmocchio avesse la precedenza su tutto e che lui fosse l’ultima persona che doveva averci a che fare
“E dai, figliolo – lo riprese bonariamente Jean senior cullando il piccolo con esperienza e riuscendo a chetarlo del tutto – non dire determinate cose.”
“Lasciamo stare che è meglio – commentò con aria offesa l’uomo, mettendosi le mani in tasca – io torno in magazzino. Si vede che maneggiare il marmocchio non rientra nelle attività di un padre.”
 
Come l’uomo fu uscito Jean senior fissò con curiosità la nuora che terminava di pulire dove il bimbo aveva rigettato. Lo sguardo di Angela era indispettito, ma vi si poteva scorgere una piccola componente di delusione: certamente l’atteggiamento del marito non le aveva fatto piacere.
“Non vai a parlare con lui?”
“No, proprio no – rispose lei stizzita – se pensa di avere ragione si sbaglia di grosso.”
“Non dico che abbia ragione… però forse c’è qualcosa che non va se si comporta così.”
“Sì che c’è qualcosa che non va – Angela si accostò all’uomo e si mise nella classica posa a gambe larghe e mani sui fianchi – quello non ha ancora capito che ha a che fare con un bimbo piccolo. Se pensava di poter già giocare alla lotta con lui forse non ha fatto i conti con le fasi della crescita.”
“Beh, non è che tu gli lasci fare molte cose con Jean, eh…”
“Ma non ne è capace… insomma, Jean piange per come lo tiene in braccio, vuole sempre fare cose troppo irruente con lui e poi…”
“… e poi quando tornate a dormire assieme? E’ tre mesi che dormi nella camera degli ospiti con il piccolo.”
“E’ che Jean di notte si sveglia e può dare fastidio a James…”
“Senti, cara – sospirò Jean senior passandole con gentilezza il figlio – capisco che sia molto apprensiva e pronta a scattare come una molla per qualsiasi cosa riguardi Jean, ed è più che giusto. Ma se tu sai bene come comportarti con un piccolo di quest’età James invece ancora non ha avuto occasione di capirlo appieno. Però… se gli neghi qualsiasi possibilità come potrà mai imparare?”
“Dovrei fargli manipolare il mio bambino come poco fa?”
“No… però se glielo fai tenere in braccio più di adesso sarebbe un bene. Jean adesso prende il latte anche dal biberon, perché ogni tanto non lo fai dare pure a James? Coinvolgilo di più, suvvia…”
“Non sono cose da uomini, sono sicura che tirerebbe fuori una cosa simile e…”
“No, non credo, forse è solo spaventato all’idea. Ma diamine, figliola, il piccolo ha sia una madre che un padre oltre, ovviamente, a un nonno che lo adora.”
“Mmmh…” Angela sbuffò.
Quando suo suocero si lanciava in simili discorsi sapeva bene che aveva ragione. Però le dava fastidio ammettere di avere in parte torto, ma soprattutto la turbava l’idea di concedere a James di avere a che fare in maniera troppo stretta con il bambino.
 
Quella sera James si stava preparando per la notte quando Angela entrò con il bambino tra le braccia.
“Ehilà, mamma dell’anno – la salutò con ironia – hai bisogno di qualcosa?”
“Sì – ammise lei senza scomporsi – devi riportare qui la culla di Jean.”
A quella risposta James si girò a guardarla con sospetto, chiedendosi dove fosse il trucco. Forse Angela aveva intenzione di riprendere possesso della camera matrimoniale cacciando via lui. Beh, in questo caso si sarebbe accorta che c’erano determinati limiti anche se c’era un bimbo di mezzo.
“Io di qui non mi sposto, sia ben chiaro.”
“Nessuno te lo chiede, infatti.”
“Ah.” la guardò di nuovo. Una simile risposta pacifica non se la sarebbe mai aspettata.
Ancora una volta lei sembrava assolutamente tranquilla, non che la cosa dissipasse tutti i dubbi. Però, non avendo altro da obbiettare, James annuì e andò nella camera degli ospiti a recuperare la culla di legno che lui stesso aveva riparato dopo che per anni ed anni era rimasta chiusa in soffitta.
Mentre la riportava nella camera matrimoniale pensò a tutte le ore di lavoro che ci aveva messo, pensando a quanto sarebbe stato bello vederla occupata da un bambino. All’epoca non pensava che la situazione gli sfuggisse così di mano: Jean gli sembrava per la maggior parte del tempo una creatura a lui completamente ostile, pronta a piangere alla minima occasione.
“Ecco qua – dichiarò, posizionando la culla proprio dove stava in principio – altro?”
“Ora siediti qui vicino a me: il bimbo deve prendere il biberon.”
“E io che c’entro?”
“Glielo dai tu, chiaro, no?” spiegò lei, posando il bimbo sul lettone.
“Mi devo preoccupare? A che gioco stai giocando?”
“Nessun gioco – sospirò la donna con aria paziente – ma tuo padre ha ragione: è ovvio che non imparerai mai a fare il padre se io non ti concedo di stare a contatto con il piccolo. Coraggio, prendilo.”
“Sai bene che non gli piace stare in braccio a me.”
“Invece del troppo entusiasmo usa un pochino di dolcezza… forza, la testa sostienila con il braccio: deve stare un po’ alzato altrimenti ha difficoltà a mangiare.”
Effettivamente tenere un bambino senza tutto l’involucro delle coperte a fare un bozzolo protettivo era una questione complessa. E già il piccolo Jean lo fissava con occhi dubbiosi, chiedendosi sicuramente se sarebbe stato bravo o gli avrebbe solo procurato fastidio. Per quanto fosse un neonato particolarmente vivace non apprezzava essere sballottato come un sonaglino.
Ma se forse padre e figlio nutrivano dei sospetti reciproci, Angela invece si era decisa a far funzionare quello strano esperimento. Aiutò il marito a sistemarsi il bambino tra le braccia e poi gli passò il biberon, invitandolo a metterlo tra le labbra del figlio.
“Non aver paura di spingere un poco… schiude le labbra da solo.”
James seguì quelle istruzioni e, incredibilmente, il piccolo collaborò senza troppi problemi. Era strano vederlo così tranquillo tra le sue braccia.
“Senti – mormorò Angela – è troppo piccolo per certe cose, capisci? Ma ne puoi fare altre con lui, davvero. Forse dargli il latte non è così entusiasmante, però create un legame, no?”
“Sto tenendo in braccio mio figlio e lui non piange. Come fai a dire che non è entusiasmante? – riuscì a sorridere lui, trattenendo la commozione perché sentiva che per la prima volta Jean si stava affidando completamente a lui – Non sai quanto stavo invidiando te e papà che riuscivate e maneggiarlo senza nessun problema.”
“Maneggiarlo… ma che verbo usi per un bambino? – lo prese in giro lei, baciandolo sulla guancia – Tenerlo in braccio è molto più indicato. E vedrai che impari pure tu.”
“Prometto che farò attenzione ai versi che farà durante la notte.”
“Ah, non ne fa molti, almeno da una quindicina di giorni: pare che adesso si addormenti pesantemente. Evidentemente era solo una fase iniziale.”
“Da quindici giorni – si sorprese James – e perché non…”
Non terminò la frase perché si accorse dell’occhiata mortificata che lei gli aveva lanciato.
“Oh, vabbè, lascia stare – scosse il capo – facciamo finta di niente.”
 
A volte basta semplicemente avere la buona volontà di iniziare e le cose vengono da sé.
Bastarono poche settimane che James diventasse il più premuroso dei padri e che il piccolo Jean instaurasse con lui il medesimo rapporto che aveva con la madre e con il nonno.
E così, si arrivò ad ovvie conseguenze…
“Daaaah aah..aaaghuu!”
“Vuole te – sbadigliò Angela, girandosi verso James e dandogli un colpo con il braccio – dai… vai…”
“Me? – le chiese lui ancora assonnato – ma no… è ora della poppata, lo sai…”
“No, per quella piange… vuole solo che lo prenda in braccio, dai… magari ha perso il ciuccio e non lo riesce a trovare.”
“Stupido ciuccio – sbottò James, alzandosi al buio, conoscendo a memoria il percorso verso la culla – senti, Jean, lo sai che ore sono? Sono le quattro e mezza… e sai come lo so? Perché ormai riconosco le sfumature di luce notturna in camera da quante volte ci svegli. Perché dopo un mese di pausa hai ripreso con queste follie?”
“Gha!” rispose il bambino mentre veniva preso in braccio e sgambettava felice.
“Dai, cullalo che si riaddormenta.”
“Certo, certo – sbuffò James recuperando il ciuccio a tastoni e mettendolo in bocca al bambino – senti… facciamo così, infame: per stanotte dormi tra mamma e papà, ma che non diventi un vizio, sia ben chiaro.”
“James, non puoi risolverla ogni volta così – protestò la donna, accogliendo però il piccolo in mezzo a loro e accarezzandogli il pancino – questo è già viziato… a cinque mesi…”
“Sei viziato, Jean?”
“Mmgggh!” mugugnò il piccolo intento a ciucciare con tranquillità.
“No, non lo è… buonanotte.”
“Oh, al diavolo, ho troppo sonno – sospirò Angela finendo di drappeggiare la coperta sopra il piccolo – buonanotte.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. 1885. Quotidianità ***


Capitolo 12.
1885. Quotidianità



“E’ inutile che fai quella faccia, Jean Havoc, sai benissimo che devi fare il bagno. Forza, alza le braccia che ti levo questi vestiti.”
Il bambino di tre anni continuò a emettere sordi brontolii di disappunto per tutta la durata dell’operazione, pur sapendo che sua madre per queste cose era irremovibile. La sua vita era fantastica, ma spesso doveva scontrarsi con le follie degli adulti: che senso aveva lavarsi se poi il giorno dopo eri di nuovo sporco?
Era solo una perdita di prezioso tempo… ed il bagno in sé non era per niente piacevole: il sapone gli lasciava un senso di amaro in bocca (ma perché mai dovevano insaporire così l’acqua? Poi come poteva far bene le bollicine?) e spesso gli andava negli occhi (impedendogli di scoprire le meraviglie del fondo della vasca sott’acqua)… e soprattutto la mamma aveva la cattiva abitudine di usare con particolare forza la spugna, fastidiosamente ruvida, su di lui.
“Mamma mia quanti rimbrotti – sospirò la donna una volta che l’ebbe svestito – ogni volta è una tragedia farti il bagno.” Sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio tornò a dedicare l’attenzione alla vasca che si finiva di riempire d’acqua calda, mettendo una mano per sentirne la temperatura.
Quei dieci secondi di distrazione furono sufficienti al bambino per valutare come la porta del bagno fosse solo socchiusa e che comunque altri cinque minuti di libertà, prima dell’inevitabile cattura, erano meglio di niente. Con un lampo di malizia negli occhi azzurri e un sorriso scaltro schizzò verso la porta prima che la madre si potesse rendere conto di quello che stava succedendo.
A tre anni appena compiuti era agilissimo e rapidissimo: fare gli scalini o correre a perdifiato non erano attività che gli creavano problemi, anzi. Ed in quella fuga stava mettendo tutto se stesso, specie quando, a metà corridoio sentì la voce della madre che gridava il suo nome.
Fuga scoperta, chiaro, ma non per questo bisognava arrendersi.
“Jean! Torna immediatamente qui!” Angela comparve in cima alle scale proprio quando lui guadagnava il piano terra della casa.
“No!” esclamò il piccolo mettendosi le mani sui fianchi ad imitazione della posa materna, non facendo per niente caso al fatto di essere nudo. Anche se erano in pieno dicembre la casa era perfettamente riscaldata e si stava benissimo anche senza vestiti.
“Piccolo prepotente! – sbottò la donna, iniziando a scendere – ma aspetta solo che ti prenda. Ti assicuro che la sculacciata che ti darò ti farà passare la voglia di…”
“Blablabla!” la prese in giro Jean, riprendendo la sua fuga.
Una piccola parte razionale gli diceva che più prolungava la sua fuga più sua madre si sarebbe arrabbiata e quindi più sarebbero stati gli sculaccioni. Ma quella piccola parte di buonsenso veniva annullata dall’ebbrezza dell’impresa e dall’innegabile gusto che gli procurava sfrecciare nudo per il salotto costringendo sua madre all’inseguimento.
“Niente bagno! Niente bagno!” gridò felice, saltando sopra il divano e frapponendo quell’ostacolo tra sé ed il nemico.
“Adesso basta con questa storia – Angela gli puntò il dito con aria minacciosa, iniziando una manovra d’avvicinamento – resta fermo dove sei. Sei già nei guai, giovanotto, non peggiorare la sit… fermo!”
Jean ovviamente non aveva nessuna intenzione di cedere.
Balzò sul pavimento proprio nell’istante in cui sua madre si lanciava sul divano, con il concreto risultato di guadagnare diversi metri di vantaggio: quel giorno la fuga si stava rivelando davvero divertente. Con un grido beduino d’esultanza, fiero di quella vittoria, il bambino corse in cucina.
“Niente bagno! Niente bagno! – continuò a strillare, saltando come un folle. Si girò verso la porta, aspettando di vedere sua madre entrare e continuò ad indietreggiare con aria di sfida – Niente bagno! Niente bag…uuaaahooo!”
Splash!
L’eroica e rocambolesca fuga terminò con un disastroso tuffo nella grande tinozza d’acqua dove stavano ammollo le tende che proprio quella mattina erano state messe a lavare. Nell’arco di due secondi il bambino si trovò sprofondato di schiena in mezzo a quei tessuti e quell’acqua saponata e, ovviamente, avendo la bocca aperta, un buon sorso venne bevuto e altresì il fastidioso sapone andò negli occhi.
Tutto questo bastò a scatenare il panico nel piccolo che continuò ad agitarsi come un ossesso senza però riuscire a riguadagnare una posizione seduta: le sue mosse contribuivano, al contrario, a spingerlo ancora più in fondo con i grossi drappi di tessuto che lo imprigionavano sempre di più.
La salvezza arrivò da una mano che lo afferrò per un bracciò e lo sollevò facendogli finalmente emergere la testa dall’acqua.
“Jean! – Angela lo tirò fuori dalla tinozza e lo prese in braccio – Jean… come ti senti? Hai sbattuto la testa sul bordo della tinozza? Hai bevuto troppa acqua saponata?”
Il bambino tossì convulsamente fino a sputare un po’ di liquido, terminò con uno starnuto violento che gli fece uscire anche una bolla di sapone dal naso. Poi, superata finalmente la crisi, si accorse del saporaccio che gli permeava la bocca, del bruciore agli occhi e soprattutto del fatto che la sua fuga era terminata in modo davvero umiliante.
Fu quindi inevitabile scoppiare a piangere e aggrapparsi al collo della madre passata da nemica a consolatrice dopo quella disastrosa sconfitta.
“Oh no, raggio di sole – scoppiò a ridere Angela stringendolo, non facendo minimamente caso al fatto che le stava infradiciando il vestito – ma che è successo, eh? Ci siamo fatti un volo fuori programma nella tinozza della roba sporca… suvvia, non è successo nulla. Non vedi? La mamma è qui, va tutto bene.”
“Cattivo!” singhiozzò il piccolo indicando la tinozza dietro di lui.
“Sì? La tinozza cattiva? Allora sai che facciamo? La lasciamo da sola così impara… noi andiamo a farci il bagno, ma quello vero.”
“Bagno? – Jean fissò la madre con aria mogia – Già fatto il bagno, no?”
“Con quel sapone? No, direi proprio di no – lo prese in giro la donna, baciandolo sulla guancia – mi dispiace per te ma la tua fuga è finita.”
Jean fissò con astio la tinozza: dannazione a quell’ostacolo… gli era costato ben due bagni.
 
Quando qualcuno dei suoi piani andava male spesso Jean restava mogio per il resto della giornata. Quando questo succedeva andava a cercare conforto dall’unica persona che lo capiva veramente (perché ovviamente quando si è offesi i genitori non contano).
“Oh, suvvia, giovanotto – sorrise bonariamente Jean senior mentre stava seduto vicino al fuoco intento ad intagliare un pezzetto di legno – che è questo musetto triste? Ti sei beccato qualche sculacciata da tua madre o da tuo padre?”
“No – scosse il capo lui, rendendosi conto che effettivamente sotto quel punto di vista gli era andata bene – però fatto due bagni e non uno! Non è giusto! Jean non vuole!” con aria offesa si sedette sul pavimento, posando la schiena contro la gamba del nonno e fissando le sue calzette azzurre.
Immediatamente sentì che i capelli gli venivano arruffati con gentilezza e questo contribuì a migliorare discretamente il suo umore.
“Sei proprio un puledrino scatenato, vero? Sai che sono i puledri, Jean?”
“No.”
“Sono i cavalli più giovani.”
“Cavalli? Come Margherita?” chiese, riferendosi alla docile cavalla che tirava il loro carro.
“Sì, ma i puledri sono piccoli, proprio come te… e scalpitano alla grande, fidati.”
“Anche loro devono fare il bagno?”
“Certamente le loro madri provvedono perché siano sempre puliti.”
“Voglio essere un uccello! – esclamò il bambino con un lampo negli occhi azzurri – così volo in alto alto alto e la mamma non mi raggiunge. E così non faccio il bagno!” distese le braccia ad imitazione delle ali e si alzò in piedi, iniziando a correre per tutto il salotto con risate divertite.
Alla fine corse verso il nonno e posò la testa sul suo grembo, non facendo caso ai diversi trucioli di legno che stavano sui pantaloni e che andarono sulla sua chioma dorata.
“E che uccello ti piacerebbe essere, Jean?”
“Un’aquila! – rispose lui – quelle che volano in alto in alto fino alle nuvole, come quando me lo racconti tu!”
“Un’aquila, eh? Bella scelta, sono sicuramente i volatili più belli… che dici, ci assomiglia ad un’aquila?”
A quella domanda il bambino girò il viso dall’altra parte e solo allora notò la bellissima scultura che l’uomo aveva appena finito di intagliare nel legno. Si rimise in posizione eretta, alcuni trucioli che gli cadevano dalla testa, e osservò con meraviglia quel volatile che teneva le sue ali aperte, proprio come se stesse volando tra le nuvole. E come sembravano vivi gli occhi!
“Oh, che bella, nonnino!” gioì, battendo le mani e saltellando sul posto.
“Se ti piace così tanto allora tienila pure – sorrise l’uomo, porgendogliela – è un regalo speciale per te.”
“Sul serio per me? – chiese estasiato il bambino prendendo in mano la sculturina come se fosse il più prezioso dei tesori – Grazie! Grazie!” ovviamente l’entusiasmo fu tale che si lanciò subito in braccio al nonno, stringendogli le braccia attorno al collo.
“Allora, vogliamo provare ad inventare una storia per la nostra amica aquila? Inizia tu, che nome gli vuoi dare?” chiese Jean senior, sistemandosi meglio il bambino in grembo.
“Fulmine! Perché è rapida come un fulmine! Woooosssssh!”
“Benissimo… adesso proviamo a pensare il posto dove vive: nelle montagne, in alto alto alto, dove le persone non possono arrivare…”
 
“E poi Fulmine scende velocissimissima! – esclamò Jean arrampicandosi quanto poteva sulla schiena del padre – e prende la sua preda!”
Intuendo quello che voleva il bambino, James riuscì ad afferrarlo e lo sollevò in aria, provocandone un grido entusiasta. Lo tenne in quella posizione per cinque secondi prima di farlo scendere di colpo a simulazione di una caduta e bloccandolo proprio quando era a pochi centimetri del pavimento.
“Tutto questo movimento prima di andare a dormire potremmo anche evitarlo – li rimproverò Angela mentre sistemava il letto di Jean e recuperava il pigiama – dai, amore, vieni a cambiarti.”
Il bambino era così felice per il gioco dell’aquila che corse dalla madre e le strinse le braccia al collo.
“Presa anche mamma!” dichiarò.
“Sì che mi hai presa – annuì lei con pazienza – ma adesso è l’ora della nanna, va bene?”
“Anche le aquile dormono?”
“Ma certo, specie quando sono piccole come te: la notte fanno la nanna così il giorno dopo possono scatenarsi.”
Fortunatamente Jean era uno di quei bambini che cedevano facilmente al sonno: essendo così attivo durante tutta la giornata, gli bastava sdraiarsi nel letto per addormentarsi profondamente.  Come spesso commentava Angela era una piccola benedizione dopo lo stress di un’intera giornata passata a corrergli dietro.
Dopo che si furono assicurati che il figlio fosse sprofondato nel mondo dei sogni, i due adulti si concessero di andare a letto per godersi qualche momento di pace. Angela si accoccolò con soddisfazione contro il petto del marito e commentò.
“Meno male che non ha avuto problemi alla pancia… temevo che avesse ingoiato troppa acqua saponata.”
“Un vero genio nostro figlio, eh?”
“Genio della fuga… dannazione a lui, ogni volta mi fa penare.”
“E poi ti riduce il bagno ad un lago – la prese in giro James – non lo domi, scheggia, mi dispiace.”
“La prossima volta ci pensi tu al bagno, se vuoi…”
“No grazie…”
“Dai, racconta – mormorò lei – come è andata la tua discesa in paese? Ci sono novità? Finché c’era Jean era impossibile fare qualche chiacchiera in santa pace.”
“No – rispose l’uomo – niente pettegolezzi, mi dispiace. Il capitano Falman è ormai perfettamente integrato con la sua famiglia e ancora si commenta della festa del primo dicembre, come ogni anno.”
“Niente di niente? Oh James, dai… sul figlio dell’ingegnere non si sa nulla?”
“Niente che tu non sappia già: è nato prematuro ed è ancora è vivo, altrimenti ci sarebbe stato il funerale, no?”
“Il medico ha raccontato ad Allyson che è stato un podalico – sospirò la donna – poveretta la madre, dev’essere stato tremendo per lei. Se penso che tu ed Allyson ridevate e scherzavate durante il parto di Jean.”
James scrollò le spalle, abituato a prendere le cose delle vita con filosofia, anche quelle negative. Ovviamente sapeva che Angela, in quanto madre, era particolarmente sensibile e solidale per determinate cose e…
“Fulmine!” la vocetta di Jean dal corridoio li fece riscuotere e dopo tre secondi il piccolo aprì la porta e con un gran sorriso e corse verso il lettone per poi balzarci sopra.
“Beh? Ma tu non stavi dormendo? – gli chiese James mentre il figlio si appellicciava con soddisfazione al petto della madre – Che ci fai qui?”
“Voglio stare con la mamma – spiegò lui, chiudendo gli occhi come un gatto – la mamma… la mamma è morbida… tanto tanto morbida.”
“Ma certo, aquilotto – lo abbracciò subito Angela che, ovviamente, si scioglieva davanti a queste dimostrazioni d’amore filiale – stai pure con la mamma.”
“Infame… ha già capito tutto della vita.”
“James!” lo guardò male lei.
“E’ un complimento! Mica scemo!”

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. 1887. I tasselli dell'esistenza ***


Capitolo 13.
1887. I tasselli dell'esistenza



Angela arrivò al cortile della scuola e rimase ad osservare i bambini di prima elementare che giocavano allegramente in attesa che suonasse la campanella d’uscita. La snella figura di Jean, con la sua chioma dorata, risaltava incredibilmente in mezzo a tutti gli altri. Era come se suo figlio avesse una vivacità ed una voglia di vivere tali che lo portavano ad emanare una luce propria.
Vedendolo così allegro e spensierato, mentre correva dietro ad un pallone, tutti le sue apprensioni svanirono come neve al sole: era passata una settimana da quando il bambino aveva iniziato la prima elementare, ma sembrava che questa separazione da lei e dall’ambiente domestico non lo turbasse più di tanto. I primi due giorni, effettivamente, il piccolo aveva dimostrato un certo turbamento nel venir lasciato in quel posto, ma poi aveva capito che si trattava solo di qualche ora ogni mattina e si era rassicurato, lasciandosi andare ai giochi e all’amicizia con i compagnetti.
“Jean, guarda – gli disse la maestra – c’è già la tua mamma, se vuoi puoi iniziare ad andare: tanto mancano un paio di minuti.”
Il bambino raccolse il pallone e poi si girò a guardare Angela, il suo viso rischiarato da un bellissimo sorriso. Sembrava quasi le dicesse “lo vedi, mamma? Ti ho aspettato anche oggi.”
Poi, lanciò il giocattolo ad un altro bambino e corse a recuperare la sua piccola tracolla per poi raggiungere la madre già pronta a prenderlo in braccio.
“Ciao, raggio di sole – lo baciò sulla guancia – tutto bene?”
“Mamma, lo sai che sono il più veloce di tutti a correre? Arrivo sempre primo!”
E da lì iniziò un confuso ed entusiasta resoconto di quanto aveva fatto a scuola: quella prima settimana di giochi e racconti lo stava prendendo più del previsto e questo faceva ben sperare che i futuri impegni didattici non l’avrebbero preoccupato più di tanto. Però Angela già intuiva che il suo scalmanato bambino sarebbe stato un vero problema in termini di gestione. Indipendente, sfrontato… aveva sempre l’esigenza di fare le cose di testa sua, a costo di farsi male. E a testimoniare questo spirito d’iniziativa c’erano le ginocchia perennemente sbucciate, lividi su braccia e gambe, pantaloncini strappati e tutto un assortimento di disastri alle sue spalle… alla veneranda età di cinque anni ancora da compiere.
“Oggi sembri più integro del previsto – constatò la donna ad un certo punto del viaggio di ritorno, mettendolo a terra e prendendolo per mano – mi devo preoccupare? Hai intenzione di scatenarti a casa?”
Jean nemmeno le rispose: liberando la mano da quella materna iniziò a correre nel sentiero ridendo felice.
Solo dopo un po’ si fermò e si girò ad aspettare la madre iniziando a saltare sul posto come un piccolo canguro, quasi la sua natura gli impedisse di stare immobile.
“Ehi… non vogliamo rispondere alle domande della mamma?”
“Io non faccio guai!” dichiarò lui con l’aria più innocente che riuscì ad assumere.
“Questa è la più grossa bugia che tu abbia mai detto, Jean Havoc – lo prese in giro la donna, arruffandogli i capelli – ti voglio ricordare che stamane sei andato a scuola con il sedere dolorante per le sculacciate prese da tuo padre. Piccolo scalatore… gli scaffali del magazzino non sono lì per te. Potevi rompere qualcosa o romperti tu.”
“Io non mi rompo mai!” protestò Jean con orgoglio ferito.
“Ma questo non vuol dire che devi sfidare la sorte.”
“Papà è ancora arrabbiato?”
“No, tranquillo – ridacchiò la donna vedendo l’aria leggermente preoccupata del bambino – ma cerca di comportarti bene almeno per qualche ora, ti conviene.”
Come sempre simili parole avevano l’effetto di far sparire qualsiasi pensiero negativo dalla mente del bambino. Con un sorriso felice riprese a correre nel sentiero, spalancando le braccia quasi fosse un aquilotto pronto a volare sul mondo.
 
Se c’era una cosa su cui Angela non aveva mai dubbi era la capacità di perdono che aveva James nei confronti del figlio e viceversa. Nell’arco di nemmeno un paio d’ore qualsiasi castigo o arrabbiatura sparivano come neve al sole ed i due riprendevano a giocare assieme, come a rinsaldare il loro legame tramite quei semplici ed esuberanti momenti tra padre e figlio.
“Avanti, ragazzino – lo incitò l’uomo – afferra forte il braccio di papà che ti sollevo.”
Con un’esclamazione entusiasta Jean si strinse contro l’arto paterno e rise felice quando venne sollevato da terra, le gambe a penzoloni.
“Pronto a lasciare tutto? Uno… due…”
“Treeee!” Jean lo precedette e mollò la presa, sicurissimo di venir recuperato al volo.
E difatti così avvenne: l’altro braccio del padre fu pronto a pararsi tra lui ed il pavimento.
Con una nuova, rapida, manovra, il bambino si trovò a cavalcioni sulle ampie spalle di James. Subito affondò le manine sulla bionda chioma paterna e si accoccolò maggiormente contro di lui.
“Ehi, piccoletto, diventiamo sempre più vivaci, eh?” lo canzonò James, incamminandosi verso il piano di sopra.
“Oh dai, papà, giochiamo ancora, ti prego!” supplicò il bambino, ben sapendo che andare al piano di sopra voleva dire che il momento di ricreazione era finito.
“Dopo cena, ragnetto, promesso – James gli diede una lieve pacca sulla gamba – Adesso papà deve andare dal nonno in emporio. Tu stai in camera tua e fai il riposino… ti ricordi che mi hai promesso di essere bravo?”
Jean fece una lieve smorfia di disappunto nel ricordarsi quella promessa della quale, onestamente, si era completamente dimenticato.
“Mamma non viene a farmi compagnia? – chiese con il broncio – A raccontarmi una favola.”
“La mamma è andata dai tuoi nonni e torna tra poco, lo sai – James entrò nella stanza del bambino e lo mise a letto, provvedendo a levargli le scarpine – Però sono sicuro che tu sarai bravo e farai la nanna da solo, senza capricci.”
Jean lo guardò con aria di supplica, ma sapeva che suo padre non avrebbe ceduto: non era nemmeno il caso di insistere.
In cinque anni di vita aveva ormai sviluppato un rapporto differente con entrambi i genitori: la mamma era la sua prima fonte d’amore e sicurezza e, sebbene anche lei fosse a volte severa, era quella che forniva l’abbraccio consolatore quando era necessario. Il papà invece era totalmente differente: in lui c’era una componente di gioco molto più elevata, ma era altresì  quello che se si arrabbiava era capace di castighi molto più dolorosi. Senza rendersene conto il bambino era molto attratto da lui, riconoscendosi in buona parte in quel carattere pronto a dimenticare in fretta qualsiasi sgridata.
E di conseguenza sapeva che era irremovibile per certe cose.
Così, con un sospiro si sdraiò docilmente, facendosi coprire con il lenzuolo, e chiuse gli occhi, sperando che il sonno arrivasse come per magia. Ma senza la mamma a fargli compagnia sarebbe stato davvero complicato, ne era certo.
 
Come James entrò nell’emporio suo padre gli sorrise con indulgenza.
“Credi davvero che si è messo a dormire?”
“Sono ottimista.”
“Io credo invece che nell’arco di massimo dieci minuti ce lo troveremo qui – ridacchiò Jean senior con l’aria di chi la sa lunga – te l’ho sempre detto che devi restare con lui finché non si addormenta.”
“Non sono bravo a raccontare storielle o simili – scrollò le spalle James, sistemando con attenzione alcuni barattoli leggermente messi storti su uno scaffale – quella è roba che sa fare Angela. E poi mi sembrava che dormisse… aveva gli occhi chiusi.”
“Certo, certo… e ti fai ingannare così da tuo figlio?”
“Mah, francamente questa storia del sonnellino pomeridiano è una sciocchezza – sbuffò il giovane – se non ha sonno non ha senso farlo dormire per forza. Ma Angela si ostina… dice che almeno fino ai sei anni è un bene che faccia delle pause simili.”
“Saggia donna. Fidati di lei, conosce le esigenze del bambino meglio di te.”
James accolse quella piccola predica con un sorriso sarcastico: sapeva benissimo che per determinate cose suo padre patteggiava spudoratamente con sua moglie. A volte riteneva che Angela facesse su di lui chissà quale incantesimo ammaliatore. Alzando lo sguardo verso l’alto notò che il contenitore di vetro delle noci era quasi vuoto.
“Mi sa che faccio un salto in magazzino – iniziò – serve altro che tu sap… papà!”
Jean senior era accasciato sul bancone con una smorfia di dolore sul viso in genere così placido. Immediatamente James gli fu accanto, aiutandolo a sollevarsi e notando con terrore l’improvviso pallore del viso.
“Papà! Papà, che ti succede? – lo chiamò adagiandolo con delicatezza sul pavimento – Riesci a sentirmi? Per favore… dannazione, rispondimi!”
Il panico si impossessò di lui. Che cosa doveva fare? Portarlo in camera sua? Lasciarlo lì sul pavimento e correre a chiamare il medico: dal pallore sul viso capiva che la situazione era davvero critica.
Dannazione, come posso lasciarlo solo?
“Papà… papà, che ha il nonno?”
Alzando lo sguardo vide che Jean era a nemmeno dieci passi da loro, proprio nella porta che separava la casa dall’emporio. Il bimbo fissava con timorosa perplessità il nonno sdraiato a terra, intuendo che qualcosa chiaramente non andava.
“Jean, torna subito in camera! – esclamò James, non volendo assolutamente che il bambino assistesse a tutto questo – Vai!”
“Ma… ma, il nonno…” delle lacrime iniziarono ad uscire dagli occhi azzurri, mentre le manine tormentavano il bordo della maglietta a maniche corte.
“Il nonno sta bene… forza, vai!”
Avrebbe voluto alzarsi e dargli una spinta per farlo uscire, ma non poteva assolutamente spostarsi: teneva il capo di suo padre tra le mani e aveva paura che a modificare seppur minimamente la posizione le cose sarebbero degenerate. L’uomo aveva ripreso a respirare con più facilità, certo, ma si capiva che il dolore la faceva ancora da padrone: con un gesto affannoso si portò la mano sinistra sul cuore.
“Ehi, papà – lo chiamò James – coraggio, apri gli occhi…”
“Ehilà! Sono tornate la mamma e zia Ally!”
La voce di Angela dall’ingresso di casa gli fece tirare un grosso sospiro di sollievo.
“Angela vieni subito qui!” la chiamò disperato.
Porta via nostro figlio! Impediscigli di vedere ancora tutto questo!
 
Come il medico uscì dalla stanza assieme ad Allyson, James intuì subito che qualcosa non andava bene: nessuno dei due aveva un’espressione rassicurante e per una decina di secondi temette che gli dessero la peggiore delle notizie.
“Come sta?” chiese, passandosi una mano tra i capelli biondi… un gesto che aveva fatto innumerevoli volte mentre attendeva che quella visita finisse.
“Ha settant’anni, James – sospirò il medico, mettendogli una mano sulla spalla – e sai bene quanto la morte di tua madre l’avesse già devastato. Semplicemente il suo cuore ha deciso che è il momento di… ha vissuto una vita piena e felice, non ha nessun rimpianto.”
“Ma è vivo?”
“Sì, ma l’attacco cardiaco che ha avuto è stato molto grave e l’ha debilitato… il mio intervento ha solo rimandato di qualche settimana una cosa naturale.”
Lo disse con voce grave, eppure serena. Effettivamente una cosa che James apprezzava di quel pacato medico di campagna era di saper riconoscere dove la medicina doveva cedere davanti alla natura. Ma sentire quelle cose per il proprio padre non gli dava alcun conforto.
“Oh, tesoro – Angela lo abbracciò con forza – mi dispiace, non hai idea…”
“Dannazione, ma stava benissimo… non ha mai avuto problemi.”
“E’ stata una cosa improvvisa, certamente, ma può succedere… La cosa migliore che potete fare è lasciarlo tranquillo ed evitargli qualsiasi sforzo. Non sta soffrendo, James, te lo assicuro: è solo incredulamente stanco, tutto qui.”
“Grazie, dottore…” James disse quelle parole senza nemmeno rendersene conto.
Era come se la sua vita fosse stata improvvisamente privata di un fondamentale sostegno: cercò di ricordare cosa aveva provato alla morte di sua madre, ma non ricordava un senso di vuoto così devastante. Sapere che suo padre era in quella stanza e che tutto quello che poteva fare era guardarlo spegnersi piano piano lo faceva sentire sperduto.
In quel momento l’unica cosa che lo teneva ancorato a terra era l’abbraccio di sua moglie.
 
“Sembra che tu abbia paura di reggerti sulle tue gambe, figliolo… anche se è da anni che ormai lo fai.”
Era passato quasi un mese da quell’incidente e la voce di Jean senior dava sempre l’impressione di essere incredibilmente stanca. Se fino ad un mese prima il viso ed il corpo sembravano eccezionalmente robusti per la sua età, adesso sembrava essersi rimpicciolito e quel letto appariva troppo grande per lui.
“Non devi stancarti, papà – lo rimproverò James chiudendo la bottiglietta della medicina – adesso pensa a riposare, coraggio.”
“James, non mi pare il caso di rifiutare così la realtà… sto morendo, tutto qui.”
C’era una grande serenità in quelle parole, una cosa che fece infuriare James. Come se la morte di una persona cara fosse facile da accettare.
“Finiscila con queste idiozie…” mormorò, cercando di ignorare il groppo in gola.
“James, figliolo, non hai niente da rimproverarti… è la vita. Settant’anni non sono uno scherzo, sai? E io ne sono ampiamente soddisfatto… mi basta vedere la meravigliosa famiglia che hai costruito.”
“Ma tu ne fai parte! – esclamò l’uomo, serrando i pugni – Come puoi pensare di lasciarci così?”
“E come dovrei lasciarvi? – un sorriso comparve sul viso del vecchio – In modo più tragico? Ti ho sempre insegnato ad accettare le cose della vita, James, sia quelle belle che quelle cattive… che poi la morte, per quanto dolorosa, non è propriamente cattiva… è semplicemente la fine, tutto qui.”
“Tutto qui…”
“E se esiste davvero un aldilà, allora sono sicuro di ritrovare tua madre e la tua povera sorellina neonata. Devo dire che ne sarei molto felice… anche se lo scoprirò solo vivendo… anzi, morendo.”
“Battuta pessima, papà.” riuscì a sorridere James
“Figliolo, capisco la tristezza del momento… in un certo senso anche io sono dispiaciuto di lasciarvi. Sai, non mi sarebbe dispiaciuto vedere un altro nipotino.”
“E allora resta ancora – propose James, mestamente, anche se, piano piano, suo padre lo stava riconducendo al solito buonsenso Havoc – perché privartene?”
“Perché sono cose che, purtroppo, non possiamo decidere noi… non sempre.”
 
“Oggi sei più sereno – gli disse quella sera Angela, mentre si mettevano a dormire – parlare finalmente con tuo padre ti ha fatto più che bene.”
“Tu l’hai accettato, vero, scheggia?” sorrise James.
“Sì, direi di sì… è che… tuo padre mi ha sempre trasmesso un grande senso di serenità. Persino in questo momento difficile so che… che andrà tutto bene… nel senso che andrà nel modo giusto.”
“E’ che… non ho la minima idea di come sarà la vita senza di lui.”
“Ma sono certa che lui sa che ce la caveremo – la donna lo baciò dolcemente in fronte – è fiero di noi, come non potrebbe… il fatto che se ne andrà sereno è dovuto anche a questo.”
“Sei brava quasi quanto lui a rendermi più tranquillo, sai?”
“Ne sono felice… dai, adesso cerchiamo di dormire.”
 
E quando Jean Havoc si spense serenamente la mattina di tre giorni dopo, James l’accolse meglio di quanto credeva.
Era solo l’ultimo tassello di un’esistenza felice e piena.
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. 1887. Le risposte di un bambino ***


Capitolo 14.
1887. Le risposte di un bambino



 
Al funerale di Jean Havoc era presente praticamente tutto il paese. Non era una novità: bene o male tutti erano conoscenti ed era più che naturale che la partecipazione fosse praticamente totale. Tuttavia fu senza dubbio una delle cerimonie più sentite degli ultimi tempi a testimonianza di quanto il vecchio fosse stato sinceramente amato dalla piccola comunità. Anche questo dettaglio contribuì notevolmente a mettere in pace l’animo di James: vedere che suo padre aveva lasciato un’impronta così positiva in tutte quelle persone gli faceva comprendere quanto avesse davvero vissuto una vita piena e senza rimpianti.
E questo rendeva più facile dirgli addio, sebbene fosse strano non vederlo più in casa o al bancone dell’emporio. Gli mancavano quei silenzi così calmi e pacati, quei consigli che non mancava mai di dargli, quella forma di saggezza che gli aveva sempre trasmesso anche con la sola presenza.
Alla luce di tutto questo, quando anche l’ultimo conoscente fu andato via dal piccolo cimitero, James poté fissare la lapide di suo padre con relativa serenità, gli occhi azzurri ormai asciutti dopo l’inevitabile dolore per la perdita.
“E’ stata una bellissima cerimonia – commentò Angela accanto a lui – hai visto quanti aneddoti hanno raccontato. E’ stato un modo stupendo per ricordare tuo padre.”
“Non credo sia stato molto corretto mettersi a ridere in un cimitero – sogghignò lui – ma certe storielle che lo vedevano protagonista sono state davvero notevoli.”
“Meglio così: preferisco ricordare con un sorriso piuttosto che con le lacrime.”
Una risata cristallina echeggiò dietro di loro: girandosi videro Jean che correva divertito tra le lapidi della parte più vecchia del cimitero, inseguendo chissà che animaletto. La piccola giacchetta nera era stata allegramente buttata sopra la lapide di chissà che vecchio personaggio e la figurina in pantaloncini scuri e maglietta azzurra si godeva quei momenti all’aria aperta, esaltato da quel posto dove non era mai stato e di cui non capiva ancora il significato.
Jean non aveva ancora capito che il suo adorato nonno era morto: sua madre aveva cercato di spiegarglielo con tutta la delicatezza possibile, ma la sua mente infantile non era ancora pronta a recepire una cosa così profonda come la perdita di una persona cara. Il nonno semplicemente per un po’ di tempo sarebbe stato male, ma poi sarebbe tornato: quella cerimonia di sepoltura per lui non voleva dire assolutamente niente.
“Cosa dobbiamo fare con lui?” sospirò James.
“Non lo so – ammise Angela – non mi va di forzarlo troppo. Forse deve recepire il concetto piano piano, chissà. L’idea del per sempre è troppo confusa per lui, figuriamoci quella della morte.”
“Prima o poi capirà che il nonno non tornerà mai più…”
“E allora cercheremo di spiegargli bene come funziona la vita. Jean! Amore, vieni, dobbiamo tornare a casa. Non dimenticare la giacchetta che si sta rinfrescando!”
Il bambino immediatamente si rivolse verso i genitori e annuì. Si era divertito tantissimo in quel posto nuovo e pieno di cose strane, certo, ma iniziava a sentire un certo appetito e intuiva che l’ora della cena si avvicinava. Così perse interesse per la lucertola che stava inseguendo fino a poco prima e corse a recuperare il suo soprabito per tornare dai suoi genitori.
 
La piccola mente di Jean aveva intuito che qualcosa era cambiato a casa: lo capiva dall’atteggiamento molto più pacato dei suoi genitori. Era abbastanza sicuro che si trattasse di una cosa passeggera, però non ne riusciva a capire le cause e questo lo frenava più del previsto.
Stare tra le quattro mura gli dava un fastidioso senso di disagio e così, come ne aveva occasione, sgusciava in cortile dove ritrovava immediatamente la serenità: il silenzio lasciava il posto ai rumori della natura e ridere non gli sembrava più una cosa poco adeguata.
Per quanto riguardava il nonno, Jean aveva semplicemente deciso che era ancora molto malato e che dunque non lo potesse andare a trovare: i suoi genitori gliel’avevano detto più volte che il nonno aveva bisogno di stare tranquillo e, per quanto dispiaciuto, il piccolo si era dovuto arrendere all’idea che non poteva andare a trovarlo.
Questo era quello che aveva fatto credere loro.
In realtà più di una volta durante l’ultimo mese di vita dell’uomo, il piccolo si era intrufolato nella sua stanza. Certo, aveva notato il profondo cambiamento fisico e l’aria stanca e debilitata, ma erano sempre bastati il sorriso rassicurante e la voce dolce e pacata a far andare in secondo piano qualsiasi aspetto negativo. Suo nonno era lì e non si faceva problemi a raccontargli qualche bellissima storia: che guarisse era solo questione di tempo.
Due giorni dopo il funerale, il piccolo decise che era il momento di fare una nuova visita: del resto era più di una settimana che non andava a trovare il nonno e sicuramente aveva sentito parecchio la sua mancanza. Del resto chi non si sarebbe annoiato a stare a letto tutto il giorno?
Con aria furba si assicurò che i suoi genitori non fossero in giro: sbirciò nel corridoio, affacciandosi persino al pianerottolo delle scale per vedere se erano di sotto. Sapeva che suo padre era in emporio e sua madre in cucina a preparare la cena: aveva almeno un’oretta a disposizione.
Con un sorriso soddisfatto, ma tenendo sempre un’andatura da missione, si diresse in fondo al corridoio dove stava la camera del nonno. Trattenendo una risatina all’idea che la sua impresa fosse riuscita (considerato che sua madre aveva sempre la magica capacità di sorprenderlo quando stava per combinare qualcosa di nascosto) si sollevò in punta di piedi per arrivare alla maniglia.
E con sua somma sorpresa si accorse che la porta era chiusa a chiave.
Provò più volte, ma era proprio chiusa… e la cosa era assai strana: come si poteva chiudere a chiave il nonno? Non aveva alcun senso.
La novità lo destabilizzò a tal punto che si sedette sul pavimento, continuando a fissare quella barriera di legno che si frapponeva tra lui e la stanza. La fastidiosa sensazione che qualcosa in casa non andava si ripresentò, ma come sempre non le seppe dare risposta… si rifiutava di credere che avesse a che fare con il suo adorato nonno.
Così rimase a fissare e ancora fissare quel legno, concentrandosi sulla maniglia e sperando che, prima o poi, con la forza del pensiero, la serratura scattasse.
“Ciao, raggio di sole.”
La voce di sua madre lo fece quasi sobbalzare: era rimasto così assorto in quell’attività da non rendersi conto dello scorrere del tempo. Solo in quel momento si rese conto del sedere indolenzito per quella posizione seduta e di come le luci fossero accese a testimoniare che la sera era ormai scesa.
Con sua somma sorpresa sua madre non gli disse di alzarsi, ma si sedette accanto a lui e lo abbracciò con dolcezza, iniziando ad accarezzargli i capelli. In genere in simili momenti Jean si lasciava completamente andare a quelle coccole, ma stavolta ne fu consapevole solo in maniera distratta: continuava a guardare quella porta… rendendosi conto che non aveva avuto nemmeno l’iniziativa di chiamare il nonno: sicuramente l’avrebbe sentito e gli avrebbe risposto.
“Mamma…”
“Dimmi, tesoro.”
“Puoi aprire la camera del nonno? – lo chiese con timore – Voglio andare da lui…”
La sentì sospirare e poi l’abbraccio che lo avvolgeva si sciolse. Osservandola speranzoso, il piccolo notò che tirava fuori una chiave dalla tasca dell’abito e la metteva nella serratura. Subito si alzò in piedi e un sorriso di aspettativa gli illuminò il viso: era ovvio che andava tutto bene. Si era preoccupato per nulla.
Adesso non vedeva l’ora di raccontarlo al nonno… sicuramente lui avrebbe tirato fuori una storia meravigliosa sull’argomento.
“Nonn…” non fece in tempo a finire quella parola che si accorse di un dettaglio destabilizzante.
La stanza era sempre la stessa, anzi era più luminosa e ordinata di quanto se la ricordasse l’ultima volta che era entrato. Nel tavolo non c’era più nessuna medicinale o altro e anche i vestiti non erano più posati nella sedia… era tutto così impersonale. Ma quello che non tornava era che il letto era vuoto: perfettamente rifatto, le lenzuola pulite, il cuscino perfettamente sprimacciato… ma suo nonno non c’era.
Jean fece qualche passo esitante fino al centro della stanza e si guardò attorno, soffermandosi sul letto desolatamente vuoto. Poi si girò verso la madre che era rimasta sulla porta.
“Mamma…”
“Sì, amore?”
“Dov’è, il nonno?”
La vide sorridere dolcemente, lo stesso sorriso che faceva quando lo voleva consolare per qualcosa. La osservò andare sul letto e sedersi, le lenzuola perfettamente stirate che si sconvolgevano leggermente per quel peso. Fu quasi istintivo andare da lei e tendere le mani.
“Jean – gli disse, prendendole tra le sue e baciandole – il nonno non c’è più.”
“E quando torna?” chiese speranzoso.
“Amore… senti, ti ricordi quando hai trovato quell’uccellino morto?”
“Quello che non si muoveva più?”
“Sì… ti ricordi che cosa avete fatto tu ed il nonno?”
“Nonno mi ha aiutato a seppellirlo… perché era morto.”
“Ecco – la donna gli prese il viso tra le mani – vedi, cucciolo, anche il nonno adesso è morto…”
Jean trattenne il fiato a quelle parole: ripensò a quell’uccellino così piccolo e fragile tra le sue mani… ripensò a quella fossa in cortile, scavata con dei bastoncini.
“Mamma, ma nonno non è un animaletto…”
Perché per il bambino persone e animali erano cose differenti, non capiva che la morte toccava a tutti.
“No, non è un animaletto… però succede anche alle persone. Dopo che vivono tanti e tanti anni se ne vanno, fa parte della vita.”
“Quindi… quindi il nonno non c’è più?”
“No, Jean, il nonno non c’è più… mi dispiace, amore mio, devi capire che…”
“E non potrò più vederlo?”
“No, Jean, non sarà più possibile… però ti ricorderai sempre di lui, no? E’ questo l’importante…”
“Sì, però… io voglio vederlo – una singola lacrima gli rotolò sulla guancia destra – mamma… mamma perché le persone se ne vanno?”
Evidentemente la madre non conosceva la risposta: si ritrovò preso in braccio e stretto con forza come raramente succedeva. Per la prima volta in vita sua si rese conto che quell’abbraccio non gli dava il conforto assoluto che era abituato a conoscere.
Per la prima volta si era reso conto che nella vita c’erano cose più brutte di una sgridata o di una punizione. Cose brutte ed inconcepibili perché… perché se le persone si volevano bene sarebbero dovute stare sempre assieme. Come nelle favole… per sempre felici e contenti.
 
Scoprire che una persona amata se ne poteva andare per sempre portò il bambino a diventare più silenzioso che mai. Anche quando usciva in cortile non si lasciava più andare all’esuberanza, ma rimaneva quieto ad osservare il panorama davanti a sé. Molto spesso andava sotto l’albero dove aveva sepolto l’uccellino tempo prima e cercava di capacitarsi che anche al nonno fosse toccato lo stesso destino
“Ehilà, figliolo – lo raggiunse James, una sera – come va?”
Jean si rigirò tra le mani la scultura d’aquila che gli aveva fatto il nonno tempo prima.
“Bene, papà…” rispose con lieve apatia.
“Profondi pensieri? – gli chiese il genitore arruffandogli i capelli – ne possiamo parlare se ti va…”
“Dove si va quando si muore… dove è andato il nonno?”
“Hai presente quel posto dove c’era tanta gente? Quello dove siamo andati assieme la settimana scorsa.”
“Nonno era in quella cosa di legno? Quella che hanno messo sotto terra?”
“Sì – ammise James, sostenendo lo sguardo stranito di quegli occhi azzurri identici ai suoi – è lì che le persone vengono portate quando muoiono.”
“E… e che fa lì il nonno?”
“Jean, ecco è difficile da spiegare… lì c’è solo il corpo… non, non è più in vita…”
Jean scrollò la testolina come un cucciolo, chiaramente stordito da quelle nozioni troppo difficili da capire.
“Va bene…” annuì alla fine, stringendo a sé la piccola scultura e allontanandosi da quel posto.
Aveva bisogno di stare solo e riflettere.
 
“Lo sta capendo piano piano – commentò Angela quella sera, come si mise sotto le coperte – poverino, sta facendo fatica a metabolizzare l’idea.”
James sospirò e fissò un punto imprecisato della coperta: non gli piaceva vedere suo figlio in quelle condizioni. Jean era fatto per correre, divertirsi, mostrare al mondo la sua gioia di vivere: vedere quella versione riflessiva e turbata di suo figlio non andava per niente bene.
“Forse dovevamo dirgli che il nonno era andato da qualche parte ed aspettare qualche anno prima di fargli sapere la verità.”
“Ma no – scosse il capo la donna – non sarebbe stato giusto: bisogna solo procedere con dolcezza, tutto qui. Lasciarlo ragionare e…”
“Mamma! Mamma!”
Non fece in tempo a girarsi verso la porta che il bambino era entrato in lacrime.
Con terrore si arrampicò sul letto e si buttò addosso a lei, stringendola in una morsa di ferro.
“Che c’è? – gli chiese con preoccupazione – Amore mio, ma che hai?”
“Mamma! – singhiozzò lui – Ma allora anche tu e papà un giorno morirete? Un giorno pure io?”
“Merda…” sibilò James con aria esasperata: i ragionamenti del bambino stavano andando ben oltre.
“Suvvia, tesoro – cercò di calmarlo Angela – va tutto bene… succederà fra tanto e tanto tempo, stai tranquillo. Mamma e papà staranno sempre con te, promesso…”
“No, bugiarda! – gli occhi lacrimanti di Jean la fissarono con aria accusatoria – Anche nonno doveva stare per sempre con me! Ma tu no… tu no, mamma… per favore… tu non morire, non morire!”
“Non muore nessuno, Jean, fidati. Per molto molto, moltissimo tempo non morirà nessuno…”
“Per quanto?”
“Così tanto che nemmeno riesci ad immaginarlo, amore mio. Ma pensi che potrei lasciarti quando hai così tanto bisogno di me? Pensi che tuo padre potrebbe?”
“Promesso?” chiese con voce supplicante.
“Promesso, ragazzino – lo consolò James, arruffandogli i capelli dorati – fidati di mamma e papà… andrà tutto bene. Adesso basta con questi cattivi pensieri, d’accordo?”
“Però…”
“Ma sì, Jean – sorrise la madre, mettendolo sotto le coperte – non pensare a queste cose poco allegre. Mamma e papà saranno sempre nel tuo cuore, raggio di sole, è una promessa… adesso dormi, stringiti a me e dormi, da bravo.”
 
Nonostante quei giorni difficili, Jean superò il trauma con tutta la naturalezza di questo mondo. Semplicemente la morte era un dato di fatto, ma per ora andava relegato nell’angolo più nascosto della sua mente. La spensieratezza del gioco, la gioia di vivere ripresero possesso di lui come se niente fosse successo.
Certo, a volte gli capitava di pensare al nonno e allora si incupiva, ma arrivò ben presto alla conclusione che era più bello ricordare le cose felici piuttosto che rimuginare sul fatto che non c’era più. La piccola aquila di legno divenne il suo tesoro più prezioso, diventando il vero e proprio legame con quella figura così speciale della sua infanzia.
“Mamma, adesso ho capito dove è andato il nonno – disse una sera, mentre veniva messo a letto – ci dovevo pensare prima.”
“Ah sì? – chiese Angela – e dove è andato?”
“E’ con Fulmine – spiegò, indicando la sculturina che stava su un ripiano della libreria – e volano assieme, e vedono anche noi. Bello, eh?”
“Bellissimo – sorrise la donna, abbracciandolo – sono sicura che il nonno si diverte un mondo a volare con Fulmine.”
Semplicemente Jean aveva trovato da solo una risposta al mistero della morte.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. 1889. Un vero e proprio demonio ***


Capitolo 15.
1889. Un vero e proprio demonio



 
“Posso riassumere vostro figlio in una sola parola? Un vero e proprio demonio!”
A quella sentenza Angela stava per ribattere a muso duro contro la maestra di scuola, ma si trattenne quando vide l’espressione esasperata e al contempo dispiaciuta. E sapendo quanto suo figlio fosse di difficile gestione persino a casa… beh, effettivamente quella donna aveva tutte le carte in regola per essere considerata una martire.
Ormai l’estate era vicina ed i bambini stavano per finire la seconda elementare: era il momento dell’anno in cui i genitori venivano chiamati dagli insegnanti per parlare del rendimento scolastico dei propri figli. In genere per le classi elementari si trattava di una piacevole chiacchierata con i voti del bambino che andavano ad occupare poco più di cinque minuti della conversazione.
Ma a volte c’erano le eccezioni e Jean era una di queste.
Già in prima elementare il piccolo si era dimostrato particolarmente vivace, ma ben presto era apparso chiaro che vivace era un eufemismo.
“In tutto l’anno scolastico è scappato almeno una quarantina di volte durante l’intervallo – elencò la maestra – non chiedetemi come faccia. Ha la capacità di sparire nell’arco di due secondi… disturba durante le lezioni, non sta mai attento, i suoi compiti sono un disastro… è… è un vero dramma seguirlo.”
“Si rilassi, signorina – le consigliò James, mettendole una mano sulla spalla – respiri con calma, coraggio.”
“Capita che nelle classi ci sia un bambino turbolento, è più che normale – continuò lei – ma in quindici anni che faccio questo mestiere non credo di aver mai avuto a che fare con un caso come Jean… è al di fuori di ogni controllo! E grazie al cielo gli altri bambini non lo seguono più di tanto nelle sue scorribande, altrimenti sarebbe l’anarchia più totale!”
“Beh, possiamo provare a sedarlo…” iniziò James per sdrammatizzare.
“E finiscila! – gli diede una gomitata Angela – Non capisci che nostro figlio ci sta facendo fare una pessima figura?”
“Senti, nemmeno io andavo matto per la scuola…”
“Ma lei… è scappato così tante volte in seconda elementare?” gli chiese la maestra.
“Ammetto di no…”
“Almeno su questo cercate di fare qualcosa – supplicò la donna – fategli capire che non può andare via quando vuole… che ci sono regole! Io più di metterlo nell’angolo non posso fare, ma voi siete i genitori… non avete idea dell’angoscia che mi viene quando lo perdo di vista.”
“E per… uhm… i voti?” chiese James.
Finalmente sta venendo a patti con il leggere e lo scrivere e con un minimo di matematica – sospirò la donna – ma rimane molto indietro rispetto agli altri bambini. E sapete che mi fa rabbia? Che non è per niente lento, tutt’altro! Semplicemente non ne ha voglia… non gli piace. E se qualcosa non piace a vostro figlio lui non la fa!”
“Su su – James le batté una mano sulla spalla in un gesto di simpatia – un bel respiro.”
“Almeno per queste vacanze assicuratevi che faccia i compiti – si arrese la donna – è tutto quello che vi chiedo. Non è molta roba… che si eserciti nello scrivere, nel leggere… anche se gli fate leggere ad alta voce un libro di favole va benissimo. E che faccia di conto: addizioni e sottrazioni… insomma, fate in modo che non dimentichi.”
Quando James ed Angela si riavviarono verso casa erano abbastanza interdetti.
“Nostro figlio sta per portare quella donna all’infarto, te ne rendi conto?” chiese Angela.
“Secondo me non è abituata a bambini come Jean.”
“Beh, è difficile tenerlo, è vero…”
“Nemmeno io andavo matto per la scuola, davvero.”
“Peccato per lui che ci deve andare fino alla quinta superiore… possibilmente senza bocciature – sentenziò la donna – e poi che diamine! Quaranta evasioni da scuola in seconda elementare! Tuo figlio ha sinceramente bisogno di una regolata, James Havoc!”
“Ah, aspetta! Quando fa danni è mio figlio? – chiese lui stizzito, fissandola con rabbia – Non mi piace per niente questo concetto, ragazza, sappilo.”
Nostro figlio si deve dare una regolata… ti va bene così? – ripeté lei fermandosi in mezzo al sentiero – Ora che le colpe sono al cinquanta per cento vogliamo pensare al modo di correggerlo il minimo indispensabile per evitare che la sua maestra tenti il suicidio?”
“Va bene… effettivamente quaranta evasioni vanno oltre la soglia di tolleranza…”
 
Tentare di mettere in riga un bambino testardo come Jean era un’impresa oltre i limiti dell’impossibile, persino per i suoi genitori. La maestra aveva descritto bene la situazione: se una cosa non gli interessava non la faceva, anzi si adoperava il più possibile per evitarla. E lo studio rientrava proprio in questa categoria.
Di conseguenza quell’estate del 1889 fu ricordata come l’estate di guerra e fiamme a casa Havoc.
“Jean, dannazione! Apri questa dannata porta – sbottò Angela – devi fare i compiti!”
No!” protestò il bambino da dentro dando persino un calcio contro il legno.
“Dovrai uscire prima o poi, ragazzino – gli ricordò la donna – e allora vedrai! Tuo padre si sfilerà la cintura e poi voglio proprio sentirti a strillare!”
Il silenzio che seguì quella minaccia fece ben sperare. Ormai la cintura del padre era l’unica cosa che Jean fosse arrivato a temere in maniera seria: a nemmeno sette anni gli sculaccioni, per quanto dolorosi, non gli facevano più paura. Li considerava alla stregua di una sbucciatura dopo un gioco particolarmente irruento: facevano male ma in maniera accettabile.
Tuttavia ad inizio estate, proprio in virtù della correzione che James ed Angela si erano imposti di dargli, aveva scoperto che la cintura del padre faceva molto più male. Ovviamente James non ci andava pesante, ma sembrava che il bambino avesse finalmente trovato uno spauracchio che lo tenesse a freno.
Va bene – sospirò Jean – però tu non ti arrabbi, vero?
“No, non mi arrabbio – garantì Angela, cercando di mantenere un tono serio – ma tu adesso vieni con me in cucina e fai il dettato senza capricci, intesi.”
La porta finalmente si aprì ed un Jean tutt’altro che entusiasta fece la sua comparsa: gli occhi azzurri erano fissi sul pavimento a sottolineare come stesse facendo tutto quello non di sua volontà ma sotto minaccia.
“Se invece di perdere così tanto tempo in capricci e fughe ti applicassi di più – lo sgridò la donna, prendendolo per mano e portandolo verso il luogo della sentenza – ti resterebbe molto più tempo per giocare. E’ un dettato, Jean Havoc, un semplice dettato…”
“Al diavolo il dettato!” sbottò il bambino.
“Ehi! – lo rimproverò Angela, dandogli una sculacciata – Piano con i termini, signorino! Da chi impari simili espressioni, eh?”
“Da nessuno – rispose laconico lui, massaggiandosi il sedere – proprio da nessuno, mamma…”
Con un sospiro Angela rinunciò ad andare avanti in quell’indagine.
Purtroppo con le scuole il livello di confidenza che Jean aveva con lei era in parte diminuito. Adesso aveva degli amichetti, faceva le sue marachelle e scoperte nel cortile della scuola oltre che in quello di casa, e non smaniava più di raccontarle con entusiasmo tutte le piccole meraviglie di cui veniva a conoscenza ogni giorno. Non essere più l’unico centro del suo mondo le dispiaceva, ovviamente, ma era anche una normale fase della crescita: era più che giusto che Jean prendesse una certa indipendenza anche sotto questo punto di vista.
Come il piccolo si sedette sul tavolo, Angela gli accarezzò la chioma bionda e si accorse come lui si irrigidiva: solo dopo qualche secondo si lasciò andare alla carezza. Chiaramente c’era già una prima forma di quello strano orgoglio per cui le coccole materne sono disdicevoli, ma altrettanto chiaramente Jean non era ancora pronto per abbandonare del tutto quella forma di appagamento fisico ed emotivo.
“Dai, facciamo in fretta – gli suggerì, aprendogli il quaderno e passandogli la penna – così dopo ti posso preparare la torta, sei contento?”
“Quella che mi piace?” chiese il piccolo ritrovando il sorriso.
“Certamente.”
 
Se Angela aveva questo metodo relativamente dolce per approcciarsi a Jean e farlo studiare, James invece non era così accondiscendente. Per quanto davanti alla maestra si fosse dimostrato come il genitore che tendeva a sdrammatizzare, dopo qualche giorno si era effettivamente reso conto che suo figlio aveva bisogno di rimettersi seriamente in carreggiata. Più che altro si riconosceva in lui e dunque capiva che se determinate cose non venivano corrette subito, potevano facilmente degenerare: non che Jean fosse cattivo, tutt’altro, la sua indole era buona e solidale… semplicemente la troppa vivacità lo portava ad uscire fuori dal seminato ed era giusto fargli capire dove stavano i confini entro i quali doveva muoversi.
“Forza, la tabellina del due.”
“Che? – protestò il bambino mentre veniva fatto sedere sopra il bancone dell’emporio – ma non mi va!”
“Mi dispiace per te – scosse il capo James – ma le tabelline fino a quella del cinque verranno ripetute prima che tu possa muoverti da qui.”
“Io voglio andare in cortile a giocare!” dichiarò Jean strisciando verso il bordo del bancone per scendere.
“Se i tuoi piedi toccano terra ti assicuro che passi guai – lo bloccò James, puntandogli il dito contro – guai serissimi, Jean, mi sono spiegato?”
“Che palle!”
“Farò finta di non aver sentito – sbuffò James – forza, questa benedetta tabellina del due…”
“Due per uno due, due per due quattro – iniziò Jean, assumendo un’espressione esasperata del tutto identica a quella del padre… ma poco dopo l’esasperazione lasciò il posto alla perplessità – due per otto… quin… no, sed… diciannove…”
“Sedici, Jean… dall’inizio, avanti.”
“Che?! – protestò il piccolo – ma papà!”
“Dall’inizio!”
“Cavolo di tabelline!”
“A chi lo dici…”
 
Quell’estate di fuoco e fiamme passò così: con Jean che cercava di sopportare quanto poteva i suoi genitori nell’inaspettata e sgradita veste di maestri, e James ed Angela che dovevano sopportare un figlio particolarmente ribelle ed ostinato.
Angela commentò che se non arrivava ad odiarli durante quei mesi, non l’avrebbe fatto mai più, ma se da una parte le dispiaceva costringere in questo modo suo figlio, dall’altra capiva che era una di quelle cose che venivano fatte a fin di bene.
E così, il primo settembre… a titolo puramente precauzionale, Jean venne portato a scuola da entrambi i genitori con una mezz’ora di anticipo rispetto all’inizio delle lezioni.
Al bambino non piaceva per nulla quella situazione: trovarsi seduto nel suo banco con quei tre adulti a squadrarlo lo faceva sentire in un mare di guai.
“Allora – iniziò infine James – oggi inizia un nuovo anno scolastico, figliolo: la tua maestra si augura che ci siano dei cambiamenti in positivo.”
“Va bene…” sospirò il piccolo.
“Cambiamento numero uno – iniziò la madre – nessuna fuga durante l’intervallo o durante l’orario scolastico, siamo intesi. Provaci e vedrai quello che ti succede a casa, signorino.”
“Cambiamento numero due – proseguì James – i compiti si fanno e si seguono le lezioni, capito? Non voglio più sentire la tua maestra lamentarsi perché non studi.”
“Cambiamento numero tre: in classe si tiene un atteggiamento educato… niente parolacce, dispetti o quanto altro, intesi?”
“Altro?” chiese Jean esasperato, iniziando a capire che in quel modo la scuola si trasformava in un supplizio ancora maggiore di quanto non lo fosse già.
“Questo basta e avanza, fidati!” gli disse James, dandogli uno scappellotto sulla nuca.
“Ahia! Ma, papà!”
“Niente ma, figliolo: sei in terza elementare, tra un paio di mesi compi sette anni… sei perfettamente in grado di gestirti.”
“Ehm – fece la maestra con un sorriso imbarazzato – credo che possa bastare, sul serio. Vi ringrazio davvero tanto, signori Havoc, e sono sicura che Jean ci metterà tutta la buona volontà possibile, vero caro?”
“Ti pare che abbia via di scampo, maestra? – le chiese Jean, guardandola con sufficienza – A me proprio non pare!”
“Sì, un minimo è stato domato – ammise Angela con rassegnazione – un’estate di fuoco e fiamme è servita a qualcosa… pare…”
 
E così la terza elementare di Jean iniziò sotto i migliori auspici: per le prime settimane sembrava davvero che il bambino avesse iniziato un percorso del tutto nuovo… certo un po’ sofferto e un po’ sotto minaccia, ma pur sempre un cambiamento in positivo.
Tuttavia, a metà ottobre…
“Jean Havoc! – Angela entrò in cucina con aria incavolata nera – spiegami perché ho incontrato la tua maestra in paese e…. Jean, torna qui!”
Ma come aveva visto l’aria minacciosa della madre, il bambino era balzato giù dalla sedia ed era corso verso le scale, calcolando alla perfezione la velocità sua e della donna ed i secondi preziosi che aveva a disposizione per evitare una punizione esemplare. Se la maestra avesse avuto occasione di vedere una tale rapidità di calcolo sarebbe rimasta davvero incredula.
La sua rincorsa nel corridoio fu tale che dovette frenare di colpo per riuscire ad imboccare la porta di camera sua. Con un’esclamazione affannosa, riuscì a chiudere la porta e girare la chiave nella serratura due secondi prima che sua madre lo raggiungesse.
Jean Havoc! Apri subito questa dannata porta!”
“Scordatelo!” esclamò il bambino con sfida, mettendosi a braccia conserte
Mettere l’inchiostro nel cassetto della cattedra… come hai potuto?!”
“Basta versarci la boccetta, mamma… è facilissimo!”
“Ah, fai anche l’ironico? Piccolo demonio! Ma ti assicuro che come esci di lì ti faccio il sedere nero! Capito? Nero! Non ti potrai sedere per un mese!”
“E allora non esco!”
“Sì che uscirai, te lo assicuro!”
“Bla bla bla bla! – fece lui, sdraiandosi sul pavimento e fissando con un sorriso sarcastico il soffitto – Tanto io non esco… e che la maestra si beva un brodo!”
Sì, prima o poi spinto dalla fame o dall’esigenza di andare in bagno sarebbe dovuto uscire.
Sì, in quel momento avrebbe passato guai seri: sapeva benissimo che sua madre quando faceva promesse simili le manteneva sempre. E quasi sicuramente le avrebbe prese anche da suo padre.
No, in quel momento non gliene importava nulla: si godeva il sapore della vittoria, seppur temporanea, mentre i suoi occhi azzurri si illuminavano di piacere nel ricordare l’espressione esterrefatta della maestra mentre si accorgeva del danno.
Quello era un punto per Jean Havoc, non c’erano dubbi in merito.
“Ne vale sempre la pena!” scoppiò a ridere, mentre sua madre continuava a bussare e minacciarlo da dietro la porta.

 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16. 1890. Janet ***


Capitolo 16.
1890. Janet



 
Verso l’inizio di novembre dell’anno precedente Angela aveva scoperto di essere di nuovo incinta.
Questa volta non erano state le nausee a metterla sull’avviso, ma un ritardo che durava da troppe settimane: bastò quindi un consulto con Allyson per confermare la notizia e secondo i calcoli il nuovo erede della casata Havoc sarebbe dovuto nascere a maggio.
Angela accolse la notizia certamente meglio di quando era rimasta incinta di Jean: ormai conosceva le gioie dell’essere madre e, ad onor del vero, il nuovo bambino si dimostrò da subito meno turbolento di quanto fosse stato il primogenito.
Anche James era molto contento: non vedeva l’ora, a detta sua, di avere una banda di scatenati maschi Havoc scorrazzare per la casa. Perché, ovviamente, era certo che anche il secondo bimbo in arrivo sarebbe stato un maschietto, non c’erano dubbi.
Per quanto riguarda Jean rimase abbastanza perplesso quando gli venne data la notizia: non capiva assolutamente da dove dovesse arrivare questo fratellino. Fu solo quando iniziò a vedere la pancia della madre gonfiarsi che capì che effettivamente c’era del vero in quello che gli avevano detto.
Da una parte l’idea di un fratello con cui giocare gli faceva molto piacere: con i suoi compagni si divertiva davvero tanto e avere qualcuno con cui divertirsi anche a casa sarebbe stato più che positivo. Aveva già in mente decine e decine di giochi che avrebbero potuto fare insieme: la lotta, le partite di pallone, le gare con le biglie e così via. La madre ed il padre avevano provato a spiegargli che, inizialmente, il nuovo fratellino sarebbe stato troppo piccolo per giocare con lui, ma nell’entusiasmo della novità, Jean riteneva che i primi anni sarebbero passati molto in fretta.
Tuttavia c’erano dei momenti in cui non era propriamente felice del nuovo bambino in arrivo: a volte gli capitava di vedere sua madre che si sdraiava nel letto con aria lievemente sofferente e intuiva che era colpa del fratellino dentro la sua pancia. Ora, lui stava diventando parecchio suscettibile sulle coccole materne, ma vedere la donna in chiara difficoltà faceva scatenare in lui un magone notevole.
“Ti sta dando fastidio, vero?” chiese un pomeriggio di febbraio, saltando sopra il letto matrimoniale dove Angela stava riposando.
“Cosa? – lo guardò sorpresa la donna – Oh no, stai tranquillo: è tutto a posto. Sono solo un po’ stanca.”
Tuttavia il bambino non sembrava per niente convinto: continuava a fissarla con gli occhi azzurri stranamente cupi. L’aria era estremamente seria e sospettosa, come se credesse che la mamma stesse cercando di difendere il nascituro da una colpa evidente.
“Ti sta dando fastidio invece – sbottò lui, accoccolandosi accanto a lei ed intrufolando la testa bionda sull’incavo della sua spalla. Subito la abbracciò con forza, come se fosse estremamente preoccupato di non poter fare niente per lei – devi dirgli di smetterla.”
“Jean, guarda che non ho niente – ridacchiò Angela, girandosi per rispondere a quell’abbraccio. Era raro ormai che il bambino si abbandonasse così totalmente a lei e la cosa non poteva che farle enorme piacere – anche quando aspettavo te ogni tanto avevo bisogno di riposare, tutto qui. Il tuo fratellino si sta comportando benissimo, fidati.”
“Se… se c’è qualcosa che non va… me lo dici, vero?” le chiese arrossendo.
“Così mi puoi proteggere?” la donna lo guardò con immenso amore, restando quasi senza fiato per quanto lo trovava bello. A volte si chiedeva se mai un secondo figlio le potesse venire perfetto quanto Jean: le sembrava impossibile che quei capelli dorati e quegli occhi azzurri così brillanti ed espressivi potessero venir in qualche modo replicati.
“Certo che ti proteggo – sbuffò Jean spingendo ancora di più il volto contro la sua spalla – io ti proteggo sempre, non lo sapevi?”
“E proteggerai anche il tuo fratellino?”
“Se proprio devo…” e lo sguardo corse di nuovo a quella pancia che continuava a crescere.
No, i dubbi non erano spariti del tutto.
 
Nonostante queste perplessità, casa Havoc si preparò a ricevere degnamente il nuovo arrivo: James con grande orgoglio preparò una nuova stanza non mancando mai di sorridere al pensiero della sua famosa banda di marmocchi Havoc che rendevano rumorosa la casa.
E così si arrivò a metà maggio, precisamente alla mattina del sedici, in un momento di grande tranquillità in casa: era sempre così quando Jean era a scuola. Sembrava che anche le pareti si prendessero un meritato riposo in quelle ore.
“… e comunque fidati di me – stava dicendo James, controllando alcuni fogli – secondo me abbiamo sbagliato qualcosa nell’inventario. Queste cifre sono da ricontrollare.”
“Tu e la tua grande idea di far fare i conti a Jean – sospirò Angela in piedi accanto a lui, con le mani sulle reni per cercare di dare un minimo di sollievo alla sua schiena messa a dura prova dal pancione – sai bene che quando non ne ha voglia tende a sbagliare.”
“Erano semplici addizioni!”
“Sì, ma lui aveva appena fatto i compiti di tutte le altre materie: non hai proprio visto lo sguardo da martire che aveva? Ti giuro che per una volta tanto mi ha fatto pena.”
“Un giorno gestirà lui l’emporio.”
“E ti aiuta come può già adesso che deve ancora compiere otto anni. Suvvia, James, dagli un po’ di tregua almeno in questi giorni e… diamine!”
A quell’esclamazione James alzò gli occhi su di lei: se Angela Astor in Havoc interrompeva una delle sue filippiche voleva dire che il motivo era davvero importante. Ed infatti aveva assunto un’aria estremamente sorpresa mentre si toccava la pancia.
“Calcio?” chiese, inarcando un sopracciglio: effettivamente era strano, considerato che il bambino era sempre stato più che pacifico.
“No – scosse il capo lei con leggero panico – contrazione… ops! Oh, oh… cavolo! Le acque… mi si sono rotte le acque!”
“Come le acque? – esclamò l’uomo, andandole subito accanto e sostenendola – di già? Così all’improvviso? Aspetta che ti porto a letto, scheggia, ci penso io!”
Non le diede tempo di ribattere: la sollevò con tutta la naturalezza del mondo, come se il pancione non esistesse, e con passo sicuro la portò dal magazzino in camera da letto. Qui la distese sopra il giaciglio e prese in mano la situazione… o così credeva.
“Bene, continua a respirare – le disse con aria sicura – tra massimo mezz’ora torno con tua sorella e…”
“No – scosse il capo Angela, mettendosi a sedere come meglio poteva – non c’è tempo… James… questo sta già uscendo!”
“Uscendo? – lui sbiancò – Come sta già uscendo?”
“Beh, entrare mi sembra difficile – sbottò la donna, mentre una smorfia di dolore le compariva nel viso – aiutami a mettermi sul bordo del letto… e prendi… ecco, gli asciugamani puliti che stanno lì sulla sedia.”
“Scheggia – James andò a recuperare quanto gli era stato chiesto, andando poi accanto alla moglie che, con tutta la disinvoltura che poteva, si era sfilata la biancheria e aveva sollevato la gonna fino alla vita – Senti, non puoi farmi una cosa simile… capisco tenerti la mano ed incitarti, ma queste cose… ehm… cose specificatamente femminili, non credo che io…”
“Smettila di fare l’idiota – sbuffò lei afferrandolo per la manica della camicia e obbligandolo ad andare davanti a lei – non osare fuggire: adesso tu ti prepari a prendere la testa del bambino come esce, intesi?”
“Ma scherzi?”
“No, non scherzo… uff! Uff! Uff! Questo ha davvero fretta di nascere…”
“Ma porca… porca vacca, che schif… oh merda!”
“La vuoi piantare di commentare così? – Angela si aggrappò alle sue spalle –Tieni pronte quelle mani invece di schifaaaaaa… merda che male!”
“Cacchio… cacchio – sussurrò James tenendo con le mani la testolina – oddio… oddio lo sto tenendo, sto tenendo mio figlio… un’altra spinta, amore, un’altra ed è fuori… coraggio!”
“Non farlo cadere… non farlo…”
“E dai che lo sto tenendo! Pensa a spingere… forza!”
Non osare dirmi quello che devo fare!” strillò lei, nell’ultima contrazione.
Sentì il bambino finire di scivolare via dal suo grembo con una facilità incredibile: per due secondi piombò in quello stato di assoluta estasi per essersi liberata da quel peso che la opprimeva da mesi, il dolore del parto che si mischiava al sollievo.
Poi abbassò lo sguardo sul marito, inginocchiato davanti a lei, e lo vide tenere tra le mani il neonato che si agitava debolmente alla ricerca del primo critico respiro. Stava per dirgli di fare qualcosa, ma con una prontezza incredibile James la precedette e somministrò all’infante la prima sculacciata della sua vita scatenando il primo vagito.
“Femmina…” dichiarò prendendo un asciugamano e avvolgendo la piccolina che adesso, scalciava come un’ossessa.
“Femmina? – Angela lo guardò sorpresa, mentre trovava le forze per sistemarsi sdraiata nel letto, considerato che le sue gambe non sopportavano più di tenere il peso – Ma stai scherzando?”
“No, proprio no – scosse il capo lui rimettendosi in piedi e levando il sangue dalla testa della figlia – diamine… e chi l’avrebbe mai immaginato. Una Havoc! Tienila pure, Angela Astor… credo che tu ti sia superata anche questa volta.”
“Che faccia figli belli è un dato di fatto – ridacchiò lei, prendendo tra le braccia la neonata e controllando – e sì, è una femmina! Oddio, questo è davvero comico… alla faccia della tua banda di maschietti Havoc! Ciao, amore mio… ben arrivata… cucciola… mia dolcissima cucciola.”
“Una femmina – sospirò James, sedendosi accanto a moglie e figlia – beh, i programmi cambiano non c’è che dire.”
“Sssh, amore… lo vedi? Credo che papà non sappia bene come reagire alla tua nascita. E pensare che ti ha fatto venire al mondo lui. Eh, questi maschietti, ci vuole proprio tanta pazienza.”
“Ma che dici! – scosse il capo James, effettivamente un po’ rintronato dagli eventi dell’ultima ora – E’ mia figlia, certo che sono felice che sia nata! Congratulazioni, ragazzina, sei la prima Havoc da qualche generazione a questa parte, almeno credo. Dobbiamo trovare un bel nome per te, non credi?”
“Uh, occhi come li aveva Jean appena nato – ridacchiò Angela, mentre la neonata sollevava per la prima volta le palpebre – eh sì, questa è proprio una Havoc… bionda con occhi azzurri.”
“Janet, che te ne pare? – chiese James, battendo le mani – Jean e Janet… suona bene: stessa iniziale.”
“Janet? Janet Havoc? – Angela soppesò quel suono e poi sorrise – mi piace! Approvato!”
E guardando la neonata si rese conto che era bella da mozzare il fiato, in maniera completamente diversa da come era Jean. E andava benissimo così.
 
Qualche ora dopo Jean stava tornando a casa con aria particolarmente lieta.
La mattinata a scuola era stata più soddisfacente del previsto: non solo era riuscito a fare un dispetto a Sofì senza venir scoperto, ma aveva anche evitato che la maestra scoprisse che non aveva fatto i compiti. E questo voleva dire che non era prevista nessuna punizione, almeno per motivi scolastici: di conseguenza il pomeriggio a casa sarebbe stato più che tranquillo, sicuramente sarebbe riuscito anche a convincere suo padre a giocare assieme a lui.
“Mamma, papà! – esclamò entrando di corsa in cucina e sentendosi più affamato che mai – Sono tornato!”
Tuttavia rimase parecchio deluso quando non sentì nessun profumino invitante e quando vide che non era stato nemmeno apparecchiato. Lasciando cadere la tracolla a terra girò con aria perplessa attorno al tavolo, chiedendosi che fine potessero aver fatto i genitori.
“Mamma?” chiamò flebilmente.
Ora, logica avrebbe imposto di andare a controllare in emporio e poi al piano di sopra, ma per uno strano motivo quella strana deviazione dalla quotidianità gli aveva fatto tornare in mente il giorno in cui era sceso giù in emporio e aveva trovato suo padre accanto al nonno sofferente.
Crescendo Jean aveva ben capito cosa era successo… e adesso la brutta idea che fosse accaduto qualcosa di brutto ai suoi genitori…
“Ehilà, figliolo! – la voce di suo padre lo fece sospirare di sollievo: si girò verso la porta in tempo per vederlo arrivare… solido, sano e rassicurante come sempre – Mi sembrava di aver sentito che chiamavi!”
“Papà, che è successo? – chiese con aria offesa: adesso che il momento di crisi era superato tanto valeva tornare al solito atteggiamento – Non è pronto il pranzo?”
“Beh, oggi dovremo fare diversamente, mi sa. Dopo ti arrangio qualcosa io, tranquillo.”
“E la mamma?”
James inarcò con malizia un sopracciglio e poi lo prese in braccio.
“Beh, è giusto darti la notizia, ragazzo mio: congratulazioni, qualche ora fa sei diventato fratello maggiore!”
Fratello maggiore: a Jean quelle parole suonarono strane eppure estremamente piacevoli.
Finalmente era arrivato! Il fratellino tanto atteso era arrivato!
Questo voleva dire non solo che avrebbe smesso di dare fastidio alla mamma, considerato il pancione, ma anche che finalmente avrebbe avuto un compagno di giochi. Non era giusto che simili fortune capitassero solo a tipi come Heymans o qualche altro! Anche lui, Jean Havoc, aveva il diritto ad un fratellino con cui giocare… e anche da schiavizzare e tormentare.
“Grandioso! – esclamò gioioso, scalciando per farsi mettere a terra – E’ arrivato il fratellino!”
“Fratellino? – James cercò di bloccarlo – Beh, non…”
“Mamma è in camera con lui, vero?” Jean cominciò a saltare impazzito dall’eccitazione.
“Sì, mamma è in camera, però…”
“Posso salire da lei… oh, dai… sì che posso! – e corse verso le scale – Mamma! Mamma! Sono tornato! Voglio vedere il  mio fratellino!”
Aprì la porta della camera matrimoniale con un entusiasmo tale che per poco non cadde in avanti.
“Piano, Jean! – esclamò Angela – Oh, amore, bentornato!”
“Mamma, stai bene, vero? – chiese con un sorriso, vedendo che, nonostante fosse sdraiata a letto stava più che bene… e finalmente era senza quella ridicola pancia – Papà mi ha detto che sono fratello maggiore!”
“Eh sì… sei fratello maggiore! Forza, sali pure nel letto… guarda, devi conoscere qualcuno.”
Con un grido gioioso il bimbo balzò nel letto e si accostò alla madre e al fagotto di coperta che teneva tra le braccia: da esso sporgeva una testolina arrossata con dei ciuffi chiari. Dormiva con una manina posata pigramente sulla copertina.
Piccolo… davvero tanto – pensò Jean, arricciando il naso – oh, dai, sicuramente cresce in fretta… tra poco saprà giocare con me alla lotta!
“Come si chiama il mio fratellino?” chiese.
“Fratellino?” Angela lo guardò perplessa e poi spostò lo sguardo verso James che finalmente li aveva raggiunti. Subito l’uomo scrollò le spalle, ad avvertire che non aveva fatto in tempo ad avvisare Jean del… cambiamento di programma.
“Non avete ancora scelto? – chiese ancora lui – Posso scegliere io? Tornado sarebbe forte, non credete?”
“Tesoro… veramente ha già un nome, si chiama Janet.”
“Janet? – sgranò gli occhi lui – Ma… ma è un nome da bambina…”
“Jean – Angela modificò la presa sulla figlioletta per accarezzargli la chioma bionda – non è un fratellino, ma una sorellina… non sei felice?”
“Sorellina? – lui guardò incredulo la sorellina che proprio in quel momento si stava svegliando – è una femmina? Una stupida femmina?
“Stupida? Oh no! Ma Jean…”
“Ma è una fregatura! – la delusione e la rabbia furono tali che il bambino si alzò in piedi nel letto – Che ci faccio io con una femmina?”
“Suvvia, figliolo – lo afferrò James – effettivamente anche io pensavo che fosse maschio… però, non è male come puoi pensare!”
“Io le bambine le odio! – sbottò Jean – Sono antipatiche e smorfiose! Non ne voglio una in casa… mamma, facciamo cambio con qualche bambino, ti prego!”
“Jean – sospirò Angela – non si fa cambio in queste cose. Suvvia, guardala, avere una sorellina sarà bellissimo, vedrai.”
“No e poi no! – si fece mettere a terra – Le femmine portano solo guai, è risaputo! Io con quella cosa non ci voglio avere niente a che fare! O me o lei!”
E uscì dalla stanza chiudendo la porta con una forza tale che Janet scoppiò immediatamente a piangere.
Il primo impatto tra fratello e sorella fu quello: una porta sbattuta con rabbia ed un pianto isterico.
James ed Angela si fissarono interdetti.
“Oh beh, inizia proprio nel modo più classico…” sospirò la donna. 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17. 1890. Nuovi equilibri ***


Capitolo 17.
1890. Nuovi equilibri




Col passare delle settimane Angela si rese conto che la nascita di Janet aveva profondamente sconvolto gli equilibri di casa Havoc. A volte le sembrava surreale che quel piccolo concentrato di morbidezza che sapeva di latte e borotalco potesse cambiare così tanto una realtà familiare, ma si doveva ogni volta ricredere.
E la cosa più surreale era che la bambina aveva fatto un effetto diametralmente opposto sui due maschi di casa.
“Sai, Janet – sospirò la donna, un pomeriggio di giugno, mentre finiva di farla mangiare – a volte mi sembra di essere il perno della bilancia. Credo che se non ci fossi io questa casa crollerebbe sulle sue stesse fondamenta.”
La bambina la fissò pigramente con i suoi occhi azzurri già mezzo chiusi, con la chiara aspettativa di essere cullata da una delle canzoncine materne per addormentarsi.
Accontentando quel desiderio così palese, Angela continuò a riflettere sul fatto che sia Jean che James avevano sviluppato per la piccola dei sentimenti davvero contrastanti, eppure classici.
James era diventato il tipico padre completamente innamorato della propria figlia femmina: sì sa che spesso i genitori maschi tendono ad affezionarsi in maniera particolare alle figlie, ma James spesso rasentava il ridicolo. Anche perché, ovviamente, con Jean non si era mai comportato in un modo così sdolcinato.
Jean, dal canto suo, non voleva avere il minimo rapporto con la sorellina: addirittura usciva dalla stanza non appena si rendeva conto che c’era anche lei. Questo l’aveva portato a stare fuori più del previsto e non per la solita smania di giocare. Era come se vedesse la sua casa occupata da una spiacevole intrusa e continuava a mantenere la parte dell’offeso sperando di ottenere chissà cosa.
“Già – constatò Angela, mettendo la piccola addormentata nella culla – decisamente bisognerebbe riorganizzare un po’ le cose. Oh, ma non ti preoccupare, cucciola, il tuo fratellino ti vuole bene, se ne deve solo rendere conto pure lui. Ma, ahimè, ha sia sangue Havoc che sangue Astor: la sua ostinazione durerà per diverso tempo.”
“Dov’è la mia bellissima principessina? – chiese James entrando con il più ebete dei sorrisi – Dov’è la bambina più bella del mondo?”
“Si è appena addormentata – lo mise sull’avviso Angela con sguardo serio – e non è proprio il caso di svegliarla, intesi?”
“Oh, e dai! Voglio solo passare del tempo con lei!”
“Potresti smetterla di essere così smielato? Almeno in presenza di Jean: non capisci che così lo fai ingelosire ancora di più?”
“Ingelosire? – James la fissò incredulo – Ma no, scheggia, sono due cose differenti. Sono maschio e femmina: pure lui dovrebbe adorarla, no?”
“Permettimi di dissentire – sospirò la donna mettendosi una mano sulla fronte – essere padre e fratello sono due cose molto differenti, dovresti capirlo. E poi Jean c’è già rimasto male per la storia del fratellino mancato, non mi pare il caso di infierire ancora. Tratta Janet con più tranquillità, va bene?”
“Ma lei è perfetta!”
“Come lo è Jean!”
“Ovviamente… ehi… mi sa che tu hai una preferenza per il maschio, eh?”
“Ma che dici!? Io amo entrambi i miei figli allo stesso modo.”
“Pure io, spero non lo vorrai mettere in dubbio. E’ che… diamine non mi aspettavo una femminuccia!”
“Santa pazienza…”
 
“Stupida sorella!” esclamò proprio in quel momento Jean, lanciando una pietra in uno dei piccoli stagni poco lontani da casa sua.
La rabbia era così tanta che continuò ad afferrare i sassolini e a scagliarli nella pozza d’acqua fino a quando il terreno vicino a lui fu privo di qualsiasi proiettile. Non pago iniziò a prendere a calci i fiori attorno a lui facendo un disastro con le proprie scarpe e pantaloncini corti.
Erano passate cinque settimane dall’arrivo dell’intrusa, ma sembrava che i suoi genitori proprio non accettassero l’idea di fare uno scambio con un maschietto. E nemmeno con un cagnolino. A quanto pareva era destinato a sorbirsi la marmocchia per tutta la vita.
Proprio lui che odiava le bambine: strane, smorfiose, prepotenti, pronte a piangere… erano brave solo come vittime dei suoi dispetti. Ma questo non voleva dire che ne gradiva una sotto il suo stesso tetto.
Maschio… a lui serviva un fratello maschio!
“Uffa! – sospirò alla fine, ansando leggermente per tutto il caos che aveva combinato – Ma perché sono così sfortunato?”
Mettendosi le mani in tasca iniziò a passeggiare senza meta, desideroso solo di stare lontano da casa sua e da quella marmocchia irritante. Se c’era una cosa che gli dava fastidio era vedere i suoi genitori ronzare attorno a lei come delle api attratte dal miele.
Tipico delle femmine fare le smorfiose per attirare le simpatie.
Se fosse stato un fratello avrebbe finalmente avuto la spalla che gli mancava. Oramai mancava poco all’inizio della quarta elementare ed effettivamente si stava accorgendo che non riusciva a stringere amicizia forte con nessuno dei suoi compagni. Erano divertenti, si scherzava, ma vedeva che non si andava oltre determinate confidenze.
Con un fratello sarebbe stato tutto estremamente diverso.
“Ehilà, Jean – una voce lo fece distogliere dai suoi pensieri e si accorse che davanti a lui c’era Heymans, il suo compagno di classe – tutto bene?”
“Certo – annuì lui con aria spavalda – perché?”
“Era solo per chiedere – scrollò le spalle l’altro – non ti ho più visto da fine scuola.”
“Semplicemente mi faccio gli affari miei… adesso scusa, ma devo proprio andare.”
Si girò e riprese il cammino verso casa: se c’era una cosa che voleva evitare era una chiacchierata con Heymans Breda. Di tutti i suoi compagni era quello che considerava di meno: troppo diligente ed educato, i cocchi della maestra non gli piacevano per niente.
E come se non bastasse ha anche un fratello… dannazione a lui!
La vita era profondamente ingiusta e ce l’aveva in particolar modo con lui, era chiaro.
 
E la vita prometteva di essere particolarmente ingiusta quella sera.
Dopo cena sua madre lo chiamò nella camera matrimoniale e, con sommo disgusto, vide che la cosa era sopra il letto, con tanto di tutina smanicata e sgambata, che si agitava tutta contenta del suo ruolo di regina della casa.
“Che cosa vuoi?” chiese il bambino con aria seccata, mettendosi le mani in tasca.
“Fammi un grande favore – gli disse Angela, andando verso di lui e arruffandogli i capelli – devo assolutamente andare a farmi un bagno, ne ho proprio bisogno. Tuo padre è in magazzino e deve fare delle cose. Pensa tu a Janet, va bene?”
Cosa? – sbottò lui, sgranando gli occhi – Ma stai scherz… mamma!”
“Dai, per una ventina di minuti! – sospirò la donna, recuperando asciugamani e vestito pulito – devi solo restare qui e controllarla per evitare che cada dal letto. Grazie, raggio di sole, mi stai salvando la serata!”
Jean era pronto a ribattere che non aveva alcuna intenzione di salvare la serata di nessuno, considerato che la sua era stata già rovinata. Tuttavia sua madre fu incredibilmente veloce e non aveva fatto in tempo a girarsi che lei era già sparita, chiudendo la porta alle sue spalle.
E così, per la prima volta, Jean si trovò faccia a faccia con la sua rivale, senza nessuno dei suoi genitori a sovrintendere.
Almeno così credeva.
 
“Secondo me è una follia – mormorò James, dietro la porta – chissà che è capace di combinare!”
“Se non gli diamo la possibilità di conoscerla bene non le piacerà mai – scosse il capo Angela – quindi adesso torna in magazzino e lasciali soli.”
“E se nostra figlia si mette a piangere per colpa di nostro figlio?”
“La loro madre è in bagno ed è in grado di sentire eventuali pianti – sorrise lei, vittoriosa – e questo chiude qualsiasi discussione. Forza, aria! Non mi pare proprio educato stare qui ad origliare.”
 
Jean rimase in piedi per qualche minuto, a braccia conserte, fissando con aria annoiata la sua rivale che, sdraiata supina, lo guardava con gli occhioni azzurri spalancati. Sembrava estremamente curiosa del nuovo arrivato e ad un certo punto agitò freneticamente le braccia, sembrando una papera che tenta di prendere il volo.
“Ma che? Sei scema?” chiese Jean inclinando la testa di lato.
Per tutta risposta la bambina continuò nei suoi movimenti, aggiungendo anche uno sgambettio violento; sputò il ciuccio ed iniziò ad emettere versi strani e lamentosi.
“No, dai, non fare così – si impanicò subito il ragazzino – poi la colpa viene data a me! Smettila! Che motivo hai di fare l’indemoniata?”
Si accostò al letto, cercando di capire che cosa non andasse e, come per magia, la bambina smise di lamentarsi e prese a fissarlo con maggiore intensità.
“Bene, hai smesso!” annuì Jean, girandole le spalle e tornando indietro.
Ma non aveva fatto due passi che di nuovo Janet riprese a protestare ed agitarsi.
“Che rottura di palle che sei! – sbottò il ragazzino – Va bene, ho capito: guarda sono qui vicino a te. Sei contenta adesso?”
E sembrava che la bambina fosse proprio contenta di quel risultato: sembrava che fosse estremamente interessata a suo fratello ed era chiaro che desiderava le sue attenzioni. Peccato per lei che Jean non avesse alcuna intenzione di dargliele.
“Scordatelo, frignona! Resto qui, ma mica ti tocco!”
Si scatenò così una strana lotta tra fratello e sorella: il primo si ostinava a non toccarla e manteneva quella posizione vicino alla seconda solo per evitare nuove proteste; la bambina invece cercava chiaramente di spostarsi verso il fratello maggiore, ma i suoi movimenti erano ancora troppo impacciati per arrivare al gattonare e anche il solo girarsi sul fianco era parecchio complicato.
Jean, per quanto ostentasse un’aria annoiata e seccata, osservava con curiosità quella sorellina così strana e… buffa. Era come uno strano animaletto rovesciato sulla schiena che lotta per riguadagnare la posizione sulle quattro zampe: ma nonostante gli sforzi Janet non otteneva alcun risultato, sebbene non si scoraggiasse.
“Dì, ma proprio non ci riesci?” le chiese ad un certo punto, sinceramente incuriosito.
Per tutta risposta Janet annaspò ancora, cercando una girata di lato che però si bloccò a nemmeno un quarto di strada. Tuttavia la voce del fratello le aveva dato nuova vitalità e tese le braccia verso di lui, con la chiara intenzione di farsi aiutare.
Jean sospirò ed allungò l’indice verso quella manina paffuta che lo afferrò prontamente.
E così era quella la sua situazione: costretto ad assecondare i capricci di una poppante che non era nemmeno in grado di girarsi sul fianco.
“Naaghuu!” esclamò Janet, soddisfatta di quel risultato.
“Ehi, non credere! E’ mio l’indice!”
Ma pur dicendo quella frase non levò il nuovo giocattolo dalle mani della sorellina.
Aveva la netta intenzione che se avesse fatto una mossa simile si sarebbe scatenata di nuovo nel suo repertorio di fastidiosi suoni piagnucolosi.
E dovette far appello a tutto il suo orgoglio per negare quella piccola parte di lui che si stava divertendo ad osservare quella cosina così vivace e sgambettante.
 
“James Havoc! – sibilò Angela dieci minuti dopo quando, uscita dal bagno, vide il marito davanti alla porta della loro stanza – sei davvero pessimo.”
“Sssh – la zittì lui – sono arrivato adesso, cosa credi!”
“Ah sì? Scusa se ne dubito… allora, come va?”
“Niente pianti né rumori sospetti – ammise lui – non so se esserne felice o preoccupato!”
Angela sbuffò ma poi tese attentamente l’orecchio per sentire i suoni soffocati dalla porta di legno. Distinse chiaramente i ciangottii di Janet e sembrava che la bimba si stesse divertendo, ma poi, ascoltando meglio, si accorse anche delle risatine di Jean.
Si concesse un sorriso soddisfatto e fissò il marito con aria di chi la sa lunga.
“Giocano, suppongo.”
“Nostro figlio che gioca con Janet? Mah…”
“Bisognava solo dare tempo al tempo – sentenziò lei – adesso ovviamente non entreremo di colpo per non rovinare questo momento,vero?”
“Se lo dici tu…”
Angela sorrise ma proprio in quel momento la voce di Jean divenne chiara, così come l’inizio di pianto di Janet.
“Ehi… ehi… e ora che piangi? Non ti piace più il mio dito? Che cosa ti suc… oh, merda! Che schifo! Ma ti sei cagata addosso! Lascia! Lascia il dito! Fammi stare lontano da te! Ma come cazzo fai ad essere così schifosa!”
“Jean! – la donna entrò subito in camera pronta ad intervenire – potresti gentilmente moderare i termini!”
“Ma la vedi? – il bambino si allontanò ancora di più dalla sorellina urlante con aria profondamente irritata – è un bagno di merda!”
“Pupù, Jean Havoc! Pupù!”
“Ma se anche tu e papà dite merda!” protestò lui, tappandosi il naso con le dita.
“Sì, ma questo non ti autorizza a ripeterle, almeno fino a quando non avrai diciotto anni – lo sgridò James, dandogli uno scappellotto sulla testa – sono le regole e… merda! Angela ma quanto caga nostra figlia!?”
“Oh! Dannazione! James non ti ci mettere anche tu! – sbottò la donna che stava cercando di liberate Janet dalla tutina che, ovviamente, aveva i bottoni messi male – Ho detto che simili parole… e merda! Ma perché non si vuole aprire!”
“Mamma hai detto pure tu merda!”
“Finitela!”
E alla povera Janet non rimase che singhiozzare fino a quando, dopo altre svariate ripetizioni della parola iniziante per m, non venne finalmente pulita e cambiata.
 
Per lo meno, da quel momento, sembrò che la situazione migliorasse leggermente, almeno per quanto concerneva l'atteggiamento di Jean nei confronti della sorellina.
“Ciao, principessina dolce di papà… ti posso prendere in braccio? Oh, ma sì che posso… vero? Vero? Vero che mi vuoi bene? Vero che mi vuoi bene?”
“Gggnaaagh!” esclamò Janet
“Ha detto di sì! Certo che ha detto di sì!”
“Mamma – chiese Jean seduto sul tappeto intento a giocare – ma papà faceva così anche con me?”
“No, a te faceva fare vola vola – sospirò Angela sedendosi nel divano e ringraziando il cielo per la fine di una giornata particolarmente intensa – ma è normale, caro. E’ che i papà con le bambine sono sempre un po’… uhm…”
“Stupidi?” propose Jean con un’occhiata eloquente
“Beh, non è proprio il termine giusto… però il concetto è quello. Ma non devi pensare che per questo papà ti voglia meno bene, vorrei che ti fosse chiaro.”
“No, ma non l’ho mai pensato – scrollò le spalle il piccolo – però è preoccupante vederlo fare così.”
Era davvero buffo e allo stesso tempo piacevole vedere Jean in quella versione seria che poco si confaceva a lui. Per qualche secondo Angela ritenne che fosse segnale che qualche cosa non andava nel suo primogenito, ma poi si rese conto che in determinati frangenti Jean Havoc era anche in grado di stare sereno e confidarsi.
Così, con disinvoltura, scese dal divano e si sdraiò accanto a lui, proprio come una bambina.
“A cosa giochi?” gli chiese, prendendo le figurine di legno rappresentanti gli animali.
“A niente – ammise il piccolo tenendo tra le mani quella di un’aquila – pensavo al nonno… è che a volte mi manca.”
“Oh, tesoro, mi dispiace – sospirò la donna abbracciandolo e sentendo con piacere che non si irrigidiva – è normale, sai.”
“Credi che a lui sarebbe piaciuta?”
“Janet? Sì, credo proprio di sì… e credo anche che ti avrebbe detto di essere un bravo fratello per lei.”
“E avrebbe detto a papà di essere meno… stupido?”
“Molto probabile – annuì la donna con aria cospiratoria – anzi, di sicuro.”
“Le piace il mio indice – ammise il bambino – non so perché.”
“Ha gusti molto personali, come tutti. Ehi, dovresti essere felice che le piaci  - lo spronò ancora la donna – piacere ad una Havoc non è cosa da tutti, sai?”
“Mh, ma credo che per i fratelli sia diverso… è ovvio che le piaccio.”
“Ah, ma allora ti piace pure lei… tra fratelli è così, no?”
Gli occhi azzurri di Jean si puntarono su di lei: profondi, accusatori, ma leggermente increduli, come se gli avesse appena svelato la soluzione ad un rompicapo su cui si stava arrovellando da tempo.
“Allora va bene – annuì dopo qualche secondo – se tra fratelli è diverso allora posso anche farmela piacere.”
“Principessina, piccina piccina piccina…”
“Papà, smettila…”

 

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Capitolo 18
*** Capitolo 18. 1893. Novità. ***


Capitolo 18.
1893. Novità




“Secondo te è molto sconveniente sposarsi a quarant’anni?”
Allyson fece quella domanda con tutta la noncuranza possibile mentre prendeva un altro cucchiaino di minestrina e lo porgeva a Janet, già pronta a spalancare la bocca. Gli occhi castani della donna lanciarono un’occhiata ad Angela che si era fermata con il braccio alzato a riporre un piatto nella credenza.
Il silenzio pervase la stanza per una decina di secondi buoni, interrotto solo dai versi della bambina che, terminato il boccone, chiedeva con entusiasmo una nuova porzione del suo pranzo.
“Non credo di aver afferrato il senso della domanda – riuscì a dire infine Angela girandosi verso di lei, ancora con il piatto in mano – mi stai dicendo che ti vuoi sposare?”
“Diciamo che… che effettivamente ci sono concrete possibilità – ammise Allyson distogliendo lo sguardo dalla sorella e riprendendo a dar da mangiare alla nipote – tutto qui.”
Angela sgranò ancora di più gli occhi e solo allora si accorse di avere il piatto in mano. Lo sistemò nella credenza e poi prese il canovaccio per asciugare il lavabo, quasi che quel lavoro fisico la aiutasse a riflettere meglio sulla situazione.
“E fammi indovinare – chiese infine, asciugandosi le mani col grembiule – si tratta del dottore?”
“E’ stato molto cortese – rispose l’altra con le guance leggermente arrossate, una versione timida di se stessa che raramente mostrava al mondo – e ovviamente capirai che non è certo un matrimonio improntato sul fare bambini o cose simili, anche se oggettivamente posso ancora averne.”
“Beh, matrimonio non vuol dire automaticamente figli – scosse il capo Angela, assumendo un tono più pacato nel vedere la sorella in quello stato – è un’incognita, non sono certo io a doverlo dire ad una levatrice. Insomma, lui ti ha fatto una proposta… e quando?”
“La settimana scorsa – sospirò Allyson, pulendo il visino di Janet col bavaglino – stavamo tornando entrambi da una visita alla fattoria Resser: la gravidanza della moglie del fattore ha seri problemi e così la stiamo tenendo sotto controllo costantemente. Non è la prima volta che seguiamo assieme qualche caso… scambiandoci opinioni è più facile intervenire e poi non si smette mai di imparare e…”
“… e quindi? Che è successo in quel sentiero?”
“Niente di sconveniente! – scosse il capo la donna – Dopo un po’ che siamo rimasti a parlare della gravidanza della signora lui… ecco, ha iniziato a dire che è ormai da anni che ci conosciamo, che mi stima davvero tanto per la mia professionalità come levatrice…”
“Romantico, davvero…” sbuffò Angela.
“… se mi lasciassi finire! Ha detto che sono la donna che ammira di più in tutto il paese e che quando ci sono io al suo fianco è sicuro di avere un grandioso aiuto e… e ha detto che queste cose le pensa non solo in campo medico… ed insomma, mi ha chiesto di tenere in considerazione una proposta di matrimonio.”
“Oh, diamine – la minore si sedette al tavolo, fissando con incredulità la sorella che aveva assunto un’aria stranamente felice – e tu che gli hai detto?”
“Sulle prime non sapevo che dire! Capiscimi, io ormai ho quarant’anni e lui quarantanove… abbiamo una certa età entrambi. Però… insomma, l’idea di avere una casa tutta mia, un marito per cui provo sincero affetto e stima non mi dispiacerebbe. E’ che non mi lamento mai del mio essere zitella, del resto la nostra famiglia è numerosa, però…”
“Però è diverso dall’avere un marito, lo so bene – le fece eco Angela prendendole le mani – cielo, Ally, vista in questo modo la cosa non è per niente fuori luogo… insomma, ho sempre ritenuto che avessi trovato la tua realizzazione nel diventare levatrice.”
“Oh ma lo sono! – sorrise lei – però… insomma non mi dispiacerebbe affatto. E Georg… cioè il dottore…”
“Oh, ma qui vi date già del tu! Perché negarlo?”
“Va bene, ce lo diamo da qualche anno, lo ammetto. Dicevo… George è una persona davvero distinta e colta: parlare con lui è così piacevole; ed inoltre è molto educato e pacato, cosa che non mi è mai dispiaciuta.”
“Insomma, mi stai dicendo che hai tutta l’intenzione di dire di sì.”
“Cielo non so che faccia faranno a casa quando lo dirò – Allyson si coprì il viso con le mani – mi prenderanno per pazza con tutta probabilità.”
“Se ti prenderanno per pazza ricordati che loro sono i primi ad esserlo – Angela si riscosse e assunse un tono deciso – diamine, è la tua vita! E ti ammiro tantissimo, sorellina, davvero! Se sarai felice con il dottore allora fai più che bene a sposarlo… e se ci saranno stupidi pettegolezzi per la vostra età, allora che se ne vadano al diavolo! E’ un tipo d’amore che… non lo so, mi fa estrema tenerezza e mi dà anche un senso di sicurezza e stabilità!”
“Sapevo che avrei fatto bene a parlarne prima con te – sorrise la maggiore alzandosi e andando ad abbracciarla – ammetto che mi serviva una spinta per decidermi.”
Angela ricambiò quell’abbraccio con gioia: passata la sorpresa iniziale, l’idea di quel matrimonio le faceva estremamente piacere. Riteneva sua sorella una persona fantastica che meritava assolutamente qualcuno che le stesse accanto e le volesse bene. E dopo anni finalmente era arrivato.
“Comunque lo dissi tempo fa che ti piaceva il dottore!” scherzò per trattenere la commozione.
“Sei proprio una stupida, Angy!” scoppiò a ridere l’altra.
 
Nonostante Allyson si fosse raccomandata di non far trapelare la notizia fino a quando non avesse fatto l’annuncio alla famiglia, Angela non si fece problemi a raccontare le novità a James già qualche ora dopo, mentre preparava la tavola in attesa che Jean tornasse da scuola.
“Ci pensi? Allyson che si sposa!”
“Era ora che si sistemasse – annuì James – era sprecata per essere zitella: anche a quarant’anni è un gran pezzo di donna, credimi.”
“Sei il solito idiota – scosse il capo – pensi solo a quell’aspetto senza considerare il lato romantico della questione. Ma del resto che dovevo aspettarmi da uno che mi palpava il seno già al secondo appuntamento?”
“Ehi, tu mica eri scontenta, mi pare di ricordare!” le strizzò l’occhio James.
“No, decisamente non sei romantico come il dottore…”
“… che se non sbaglio ha parlato della competenza di tua sorella come levatrice… quali grandi vette di romanticismo! E’ come se io ti parlassi di come sia brava nostra figlia a sporcare il pannolino, non credi?”
“Ti stai guadagnando il diritto a cambiarla per i prossimi due mesi, ti avviso! – lo minacciò la donna, puntandogli contro il coltello con cui stava tagliando il pane – anzi, visto che ci sei perché non vai a prenderla: tanto Jean sarà qui a minuti ed è quasi pronto.”
“Agli ordini, cara – ridacchiò James, tutto sommato felice di averla stuzzicata – sappi che ti sposerei anche se avessi quarant’anni.”
“Davvero spiritoso!”
Angela rispose a quella risatina: a dire il vero se non ci fosse stato Jean che stava per tornare ed il pranzo ormai avviato avrebbero proseguito quella discussione a letto, ne era sicura. Se c’era una cosa che le mancava in quel periodo era trovare i momenti per lei e James: non che le occasioni mancassero, ma effettivamente con una bimba di quasi tre anni che sgambettava in casa era difficile.
“Jean, sei tu?” chiese, sentendo la porta di casa che si apriva e si chiudeva… in modo insolitamente tranquillo.
Questo era chiaro indice che era successo qualcosa a scuola: ormai aveva imparato a riconoscere tutti i segnali che indicavano che suo figlio era nei guai. E dunque non fu troppo sorpresa quando lo vide affacciarsi in cucina con aria estremamente mogia e preoccupata.
“Ahi, ahi, che succede? – gli chiese – Mi devo preparare a vederti mangiare in piedi perché riceverai una passata di sculacciate appena prima di pranzo?”
“Ecco – ammise il bambino, grattandosi la chioma bionda – non lo so…”
“Brutto voto?”
“Non proprio…”
“Ramanzina per qualche disastro che hai combinato?”
“No…”
“Scherzo a qualche insegnante? Eppure in prima media pensavo che ti fossi dato una calmata: non c’è la vecchia maestra che è così indulgente, no?”
“I professori ti vogliono parlare – dichiarò Jean – sia a te che a papà. Domani, dicono che è importante.”
 
La bocciatura! Te ne rendi conto? Rischi la bocciatura… in prima media!”
Il tono di James era così minaccioso che per una volta tanto Angela si sentì in dovere di mettersi tra lui e Jean. Pure lei era furiosa col figlio, inutile negarlo, ma era meglio far passare la rabbia prima di prendere provvedimenti.
Il colloquio con i suoi docenti era stato al dir poco disastroso: non c’era materia in cui il ragazzino si salvasse, senza contare tutte le volte che saltava le lezioni per evitare compiti in classe od interrogazioni. E poi c’erano quelle lacune… in ogni materia non riusciva a combinare niente di buono e di certo non ci metteva buona volontà, tutt’altro.
“Va bene, adesso calmiamoci tutti quanti – disse, prendendo in mano la situazione – Janet sta dormendo di sopra e non voglio svegliarla con urla e quanto altro. Se ci sarà una punizione aspetterà qualche ora, intesi?”
“Sono con te, mamma!” esclamò Jean, aggrappandosi alla sua vita con un sorriso furbo.
“Non tentare questa carta, Jean Havoc – lo ammonì – sei in guai seri e non pensare di uscirne così facilmente… proprio una bella sorpresa scoprire, a marzo inoltrato, che sei a questi livelli. Eppure ci avevi promesso che alle scuole medie avresti cambiato completamente atteggiamento!”
“Oh, ma sono i professori che esagerano!” sbottò lui.
“Con una media di dieci giorni d’assenza al mese? Vorrei proprio sapere dove vai tutte le mattine…”
“In giro…” scrollò le spalle lui.
“In giro? – James era furente – E lo dici in tutta tranquillità? Ti assicuro che questa volta non ti siedi per un anno: inizia ad abbassarti i calzoni e…”
“Mamma!” supplicò il ragazzino riaggrappandosi alla madre.
“James, smettila! – lo bloccò Angela – Ti ho detto che non è il momento! Adesso bisogna pensare a come evitare questa bocciatura.”
“Io quello che hanno proposto quelli là non lo accetto!” protestò Jean.
“Tu non sei nelle condizioni di obiettare – gli ricordò Angela – ti ricordo che tra te e la cintura di tuo padre ci sono solo io, giovanotto. E credimi che la tentazione di lasciarti in mano a lui è tanta!”
“Ma mamma!”
“Va bene – sbuffò James, sedendosi al tavolo – adesso ne parliamo con tutta calma, proprio come in una famiglia normale. Jean Havoc, tu recuperi quelle maledette lacune e vieni promosso… non mi importa se te la caverai per un pelo o avrai voti altissimi. A giugno voglio vedere un promosso sulla pagella, chiaro? Altrimenti è la tua fine, in senso fisico…”
“James, smettila di minacciarlo di morte!” lo rimproverò la donna, sedendosi all’altro lato del tavolo con il figlio ancora stretto a lei.
“E quanto all’idea dei tuoi docenti di affiancarti al migliore della classe… non osare porre obiezioni, capito?”
“Ma quello non è mio amico!”
“Può anche essere il tuo peggior nemico – James sbatté la mano sul tavolo con forza tanto che Jean sobbalzò – ma tu studierai con lui e lo ringrazierai! E se sento la sola idea di obbiettare o tentare di sfuggire a questa soluzione che si forma nella tua mente… ti lascio solo immaginare le conseguenze, Jean Havoc.”
 
Miracolosamente quella serata disastrosa si concluse senza nessuna conseguenza fisica per Jean.
Alla fine Angela non ritenne opportuno caricarlo anche di un castigo fisico, considerato che era già abbastanza sconvolto di suo. E, fortunatamente, riuscì a convincere anche James.
“Cerca solo di non provocare tuo padre, raggio di sole – sospirò, quando entrò in camera sua per dargli la buonanotte – e cerca di metterti sotto con lo studio.”
“Mamma – Jean si sedette nel letto, abbassando lo sguardo con vergogna – esser lento vuol dire che sono scemo?”
“Ma no, Jean – lo consolò prontamente lei, andando a sedersi vicino a lui e abbracciandolo – è che non hai mai studiato con impegno e a lungo andare è ovvio che hai problemi. La tua maestra alle elementari ha sempre detto che era arrabbiata con te perché non ti applicavi, nonostante fossi bravo.”
“E’ che… è tutto inutile – spiegò lui – ogni volta che apro libro non ci capisco nulla.”
“Devi solo recuperare, tesoro. Cerca di essere positivo. Sei intelligente, credimi, non c’è niente che non va in te… eccetto la disobbedienza, è chiaro.”
“Ma a questo giro non posso permettermelo, vero?” sbottò, mettendo il suo adorabile broncio.
“No, proprio no – annuì la donna con un sorriso – e sei anche fortunato che il tuo compagno ti aiuterà. Dimmi chi è? Lo conosco?”
“No, non lo conosci. Si chiama Heymans Breda.”
“Breda? – Angela sgranò gli occhi nel sentire quel cognome – Heymans Breda?”
“Mh? Sì… perché conosci i suoi genitori?”
“No, non di persona, caro – si costrinse a sorridere – coraggio, adesso dormi e pensa positivo.”
“Va bene… senti, mamma…”
“Sì?”
“Papà non…”
“No, non metterà mano alla cintura per questa volta, ma dipende tutto da te, intesi?”
“Intesi.” sospirò il bambino mettendosi sotto le coperte.
 
Una decina di minuti dopo James entrò nella stanza di Janet e trovò la moglie che teneva in braccio la bambina profondamente addormentata.
“Che hai? – le chiese – Ha fatto capricci per dormire?”
“No – scosse il capo lei, decidendosi a metterla nel lettino – è che… senti, forse non te ne sei reso conto ma nostro figlio è spaventato per questa storia. Non è facile per un ragazzino di dieci anni capire di avere tutte quelle problematiche.”
“Se non ha messo il culo nella sedia da subito sono problemi suoi – sbottò James – e ora ne paga le conseguenze. E se ha la strizza meglio così: è la volta buona che si mette d’impegno.”
“Il compagno che lo dovrà aiutare è Heymans Breda.”
“Breda? – James si grattò la guancia cercando di associare quel cognome a qualche viso – Ah, il figlio di Laura Hevans… uhm, questo pone le cose sotto nuova luce, vero?”
“Sai, quella poveretta praticamente vive reclusa a casa, e solo il cielo sa tutto quello che le viene detto contro… immagino che quel ragazzino viva con un bel peso sulle spalle.”
“Preoccupata?”
“Che la sua situazione coinvolga anche nostro figlio? – sospirò lei, andando ad abbracciare il marito – Sì, lo confesso. E da una parte il mio istinto di madre mi direbbe di trovare un’altra soluzione.”
“Non sarebbe da te discriminare un bambino, Angela – scosse il capo James, baciandola sui capelli – specie uno che ha una situazione così difficile.”
“Non ho nessuna intenzione di farlo, infatti! Heymans Breda verrà a dare una mano a nostro figlio e lo accoglierò con tutto l’affetto possibile!”
“Ti stai infervorando – strizzò l’occhio l’uomo, mentre uscivano dalla stanza della bambina – mi piace quando fai così…”
“Insomma, se mia sorella si può sposare a quarant’anni con il medico perché ha tutto il diritto di essere felice con la persona che ha scelto, Heymans Breda ha tutto il diritto di venire qui ad aiutare Jean, anzi verrà ampiamente ringraziato… e spero che lui e nostro figlio stringano una bella amicizia. Se potrò dare a quel bambino un minimo di pace ed accettazione ne sarò felicissima!”
“Più che giusto, ora ti riconosco!”
“Wow, sono tutta un fremito – sorrise lei – in questi giorni ci sono state davvero tante novità nella nostra vita, no? E tutte positive, ci scommetto!”

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Capitolo 19
*** Capitolo 19. 1893. Il componente in più ***


Capitolo 19.
1893. Il componente in più




Janet si affacciò fuori dalla sua camera e sbirciò con curiosità nel corridoio. Vedendo che non c’era nessuno sorrise soddisfatta e iniziò a camminare con i suoi piedini scalzi che ancora avevano qualche incertezza, nonostante i tre anni compiuti. Con la mano sinistra si trascinava per l’orecchio il grosso pupazzo di un coniglio rosa, suo inseparabile compagno da ormai qualche settimana.
Arrivata davanti al suo obbiettivo si mise in punta di piedi, cercando di arrivare alla maniglia, ma come ogni volta non ci riuscì. Per niente demoralizzata da quel fallimento, anzi elettrizzata dalle voci che sentiva all’interno della stanza, prese a battere prepotentemente con il palmo della mano.
“Jean! Jean! – chiamò con la sua vocetta squillante – Apri, Jean!”
“Naah, che palle! La nana è uscita dalla sua camera!” la voce all’interno della camera la fece sorridere come non mai. Suo fratello si era accorto di lei: adesso le avrebbe aperto.
“Ci ha dato tregua per un paio di ore, non potevi pretendere di più!” disse la seconda voce.
“Heymans!” chiamò la bambina, saltellando felice e rischiando di inciampare sul pupazzo.
“Io non le apro!”
“Sì, così inizia a strillare e fa accorrere tua madre.”
“Diamine, per una volta che ci prendiamo una pausa dallo studio non possiamo stare in pace?”
“Jean! Jean! – Janet riprese a battere sulla porta con impazienza – Jean apri o dico a mamma!”
“Infame! Tre anni e già fa i ricatti!”
“Più che infame direi testarda… dai, apro io!”
A quelle parole magiche Janet fece un passo indietro, aspettando che le venisse concesso di entrare. Come la porta si aprì ed Heymans fece la sua comparsa con un sorriso furbo, mollò la presa sul pupazzo e si fiondò contro le sue gambe, abbracciandolo come poteva.
“Heymans!” lo salutò.
“Ciao, Janet – la prese in braccio il rosso – quando sono arrivato facevi il sonnellino e non ci siamo salutati. Che c’è? Ti sentivi sola in camera tua?”
“Io non mi sentivo per niente solo senza di lei – sbottò Jean, mentre l’amico chiudeva la porta alle sue spalle e posava la bambina sul tappeto dove stavano giocando con i soldatini di stagno – oh no! Ecco che combina disastri! Hai rovesciato tutte le mie truppe!”
Ma Janet nemmeno fece caso al suo rimprovero: si lasciò beatamente cadere in grembo al fratello, aggrappandosi alla sua maglietta sgualcita. Non protestò nemmeno quando il ragazzo la sistemò in posizione seduta con malagrazia, appioppandole una lieve pacca sulla gambetta scoperta. Dopo tre anni era talmente abituata alle sue rudi attenzioni che capiva benissimo dove stava il confine tra un dispetto e una coccola.
“Oggi vuole stare in braccio a te e non a me – ridacchiò Heymans arruffando i capelli biondi e corti della bambina, prima di risedersi sul tappeto – comunque non ti preoccupare: i soldatini si rimettono in piedi in nemmeno mezzo minuto. Possiamo riprendere a giocare subito, tanto lo sai che vuole solo stare in compagnia. Vero, Janet?”
“Sì – annuì felice la piccola, strusciando la testina bionda contro il fratello – con Heymans e Jean!”
“Pallosa…” sospirò il biondo lasciandola accucciare a lui.
 
“Janet, amore? – chiamò Angela entrando nella camera della bimba – Ti sei svegliata dal sonnellino?”
Tuttavia rimase perplessa quando vide il lettino disfatto, con le lenzuola in parte cadute per terra. Notando che mancava anche il pupazzo del coniglio, la donna capì che sua figlia si era sì svegliata dal sonnellino e aveva anche preso l’iniziativa andando in giro per la casa.
Ora, Janet era decisamente più tranquilla di quanto lo fosse stato Jean alla sua età, però non era certo molto rassicurante saperla a vagabondare da sola con il rischio di combinare chissà quale guaio o farsi male.
Così tornò immediatamente nel corridoio e si avviò verso camera di Jean, sperando che la bambina fosse semplicemente andata dal fratello maggiore.
“Jean – bussò, prima di aprire la porta ed entrare – scusate se vi disturbo ragazzi, ma… oh, è qui!”
“Ciao, mammina!” salutò Janet con i ridenti occhi azzurri che brillavano per la felicità di trovarsi assieme al fratello e all’amico.
“E dove volevi che fosse? – chiese Jean con aria offesa – lo sai che mi si appiccica sempre addosso.”
“Mamma mia, quante storie! – sbuffò la donna andando a recuperare la bambina – Sei suo fratello, ovvio che vuole stare con te! Ti desse così fastidio!”
“Quando la smetterà di farsela addosso allora mi darà meno fastidio!”
“Si è bagnata di nuovo?” chiese Angela con dubbio, tastando il pannolino di Janet: contrariamente al fratello, che si era saputo controllare molto presto, lei ancora aveva l’esigenza di portare una protezione anche di giorno.
“No, pare di no! Comunque, dato che sei qui, è pronta la merenda?”
“Sì, se andate in cucina è tutto sul tavolo – annuì lei – adesso io devo uscire. Vado a casa di zia Allyson e torno verso l’ora di cena.”
“Va bene, salutami tanto la zia!”
“Noi ci salutiamo qui, Heymans – sorrise Angela, rivolgendosi al rosso – ci vediamo domani?”
“Certamente, signora – rispose al sorriso il ragazzo – a domani.”
“Quanto a Janet confido di poterla lasciare con voi, va bene?” e rimise la figlia a terra, permettendole di sgambettare verso i ragazzi.
“Male che vada dopo la appioppo a papà.”
“Tuo padre sta lavorando: armati di buona volontà e pensa tu a tua sorella. Heymans posso contare su di te?”
“Ovviamente, signora.”
 
“Se non fosse che l’emporio è così lontano ti farei restare a cena ogni sera – commentò Jean mentre facevano merenda – e poi ti farei anche dormire da noi.”
“Ehi, pure io ho una madre che mi aspetta, sai? – rispose Heymans, mentre versava un bicchiere d’acqua per Janet e la aiutava a bere senza fare disastri – e poi ci vediamo domani a scuola, va bene? Ti aspetto al bivio come al solito.”
“Davvero non ti secca venire al bivio ogni volta? Abitando in paese potresti svegliarti almeno mezz’ora dopo e faresti in tempo ad essere a scuola con almeno dieci minuti di anticipo.”
“No, mi va bene così, fidati.”
Jean non rispose e riprese a mangiare il suo panino, osservando l'amico destreggiarsi tra la merenda e Janet. Erano passati quasi due mesi da quando gli era stato imposto quel compagno di studi e al biondo sembrava ormai surreale aver passato così tanti pomeriggi senza la sua compagnia.
Non aveva mai considerato troppo Heymans Breda: era sempre stato uno dei favoriti della maestra delle elementari e dei professori delle medie. Attento, studioso, anche durante la ricreazione non si era mai lasciato andare a qualcosa di spericolato: era come se tutto ciò che poteva procurare guai dovesse stargli alla larga. E questo aveva sempre dato profondo fastidio a Jean: non c’era niente di peggio di chi si atteggiava da adulto quando invece non aveva nemmeno undici anni.
Insomma, quelle ripetizioni forzate sembravano il preludio di una noia mortale ed il ragazzino si era piegato a quel volere solo per la minaccia della cintura.
Però non è andata così… oh, se non è andata così…
Gli erano bastati tre giorni per capire che dietro quel ragazzo sempre così serio e silenzioso si celava una bella persona: gli ci era voluto qualche tentativo prima di riuscire a strappargli una battuta e una risata, ma poi era tutto filato liscio come l’olio. Non era musone come si aspettava, semplicemente doveva essere stimolato per giocare e divertirsi: era come dover superare una cortina di diffidenza creata da chissà che cosa.
E l’esuberanza e la simpatia di Jean ci avevano impiegato ben poco.
Heymans Breda non solo era un ottimo maestro, sebbene quelle ripetizioni fossero una noia infinita, ma era anche un compagno di giochi perfetto: oramai per loro era normale vedersi ogni giorno non solo per studiare ma anche per giocare e si erano già promessi che, con l’imminente arrivo dell’estate, le loro scorribande per la campagna sarebbero state all’ordine del giorno.
Quando poco prima aveva detto che l’avrebbe voluto invitare a dormire a casa ogni sera, Jean non mentiva. Ma non era solo perché gli sarebbe piaciuto da matti stare sveglio fino a tardi a chiacchierare con lui e scherzare, magari avventurandosi di nascosto fino al magazzino e poi inventare chissà quale fantastico gioco…
“Ne vuoi ancora? – chiese in quel momento il rosso, tagliando un pezzetto di panino e porgendolo a Janet che subito fu pronta ad aprire la bocca – Mastica bene, mi raccomando.”
… è perché quando sei qui a casa mia sei completamente diverso.
Era come se finalmente Heymans si sentisse libero di essere se stesso, senza aver paura di… di qualcosa che Jean non riusciva a definire. E questo gli veniva in mente soprattutto quando lo vedeva assieme a Janet: si capiva benissimo che adorava quella marmocchia, cosa ampiamente ricambiata. La vezzeggiava con una tenerezza davvero particolare, come se non gli sembrasse vero di potersi in qualche modo comportare da fratello maggiore.
Ma perché? Del resto ce l’ha pure lui un fratello minore… ma forse è per quella famosa questione delle femmine che sono differenti, come dice la mamma. Bah, dipendesse da me gliela cederei la poppante.
Una cosa che ovviamente si limitava a pensare, ma che mai e poi mai avrebbe detto.
In qualche strano modo Janet era diventata parte della sua vita… strano modo! Semplicemente non poteva cacciarla via di casa, non poteva eliminarla fisicamente e nemmeno farle male, altrimenti i suoi si arrabbiavano: aveva dovuto imparare a conviverci.
Stupida papera impacciata!
Perché Janet gli dava sempre l’idea di una papera: non solo per l’andatura traballante causa pannolone, ma anche per i capelli biondi e perennemente arruffati. E poi quella dannata vocina: era un pigolio continuo che si fermava solo quando si addormentava. E, sfortunatamente, molto spesso veniva a stare dietro a lui.
Beh, a chi altri del resto!
“Jean! Formaggio!”
“Vuole il formaggio del tuo panino…”
“Sei una rottura di palle – sbuffò il biondo, aprendo la sua merenda per levare la fetta di formaggio e passarla alla sorella – ogni volta è così! Toh, mangia e non stressare!”
 
Come ebbe salutato l’amico, circa due ore dopo, Jean si avviò verso l’emporio, seguito dalla sorellina che gli trotterellava allegramente dietro.
“Jean, perché Heymans va via ogni sera?”
“Perché deve tornare a casa, tonta.”
“E non può stare con noi? – gli chiese la piccola, allungando il passo per prendergli la mano – Ti prometto che io gli vorrei sempre bene.”
“Mica è un cane, sciocchina… ehi, papà, la vuoi tenere tu?”
James si girò verso i due figli e tese le braccia: prontamente Janet mollò la mano del fratello e corse a farsi sollevare dal genitore. Se c’era una cosa che la piccola apprezzava era essere tenuta in braccio e più in alto stava meglio era.
“Heymans è andato via?” chiese l’uomo, posando la bambina sopra il bancone e rimettendosi a fare i conti.
“Sì – annuì Jean salendo con un agile balzo dall’altra parte del bancone rispetto alla sorella e accomodandosi a gambe penzoloni – viene anche domani dopo pranzo, come sempre.”
“Papà, lo possiamo tenere Heymans?” chiese ancora Janet.
“Lo vedi già diverse ore al giorno, paperotta – la baciò l’uomo – e poi Heymans ha una mamma che lo aspetta a casa, lo sai. Se non tornasse si preoccuperebbe molto.”
A quella spiegazione logica la bambina mise il broncio: non le piaceva per niente quando le sue speranze venivano disattese in un simile modo. Evidentemente James si accorse di quel cambiamento d’umore e strizzò l’occhio.
“Ero così impegnato a fare questi conti che mi sono dimenticato di darvi una notizia… Jean, da quando non c’è più la vecchia Margherita?” chiese, riferendosi alla vecchia cavalla che per anni aveva trainato il carro di famiglia.
“Quasi due settimane – rifletté il ragazzino, cercando di non far trasparire l’ovvia tristezza per quella perdita – non hai ancora preso un nuovo cavallo, vero?”
“Mah, eppure dalla stalla mi è sembrato di sentir nitrire poco fa…”
“Allora l’hai preso! – esclamò Jean con un grande sorriso – potevi dirmelo subito! Vado a vederlo!”
“Anche io! Anche io dal cavallino!” supplicò Janet, sporgendosi per cercare di scendere. Ma il fratello si era già catapultato fuori e nemmeno aveva sentito il suo richiamo. Ma prima che potesse iniziare a piangere, James la prese prontamente in braccio e si avviò verso l’uscita.
Come raggiunse la stalla vide che Jean già accarezzava con entusiasmo un giovane cavallo bianco e nero che gli annusava la chioma dorata con estrema curiosità. Per niente intimorito dalla stazza dell’animale, il ragazzino frugò dentro un secchio e porse una mela che l’equino addentò con soddisfazione.
“Bello, vero? – chiese James – l’ho comprato dall’allevamento del signor Lyod: i suoi cavalli sono splendidi e dei gran lavoratori.”
“E’ fantastico, papà!”esclamò Jean, accarezzando la criniera chiara della bestia, ancora china verso di lui.
“Il cavallino!” batté le mani Janet, felice di vedere l’animale e ansiosa di poterlo toccare.
“Brava, Janet, accarezzalo così, piano piano… ti piace?”
“Come si chiama?”
“Sì, papà! – le fece eco Jean – ha un nome? E’ un maschio,vero?”
“E’ un maschio, ma il nome ancora non ce l’ha. Che dici, Janet, vuoi darglielo tu?”
“Oh, dai! Glielo voglio dare io! – sbuffò il ragazzino – Lei sicuramente sceglierà un nome idiota!”
Proprio in quel momento l’animale scrollò la testa con uno sbuffo, evidentemente eccitato da tutto quel movimento attorno a lui.
“Fa scruff! Fa scruff! – rise la bambina – Si chiama Scruffo! Scruffo!”
“Ah, visto? – le arruffò i capelli James – problema risolto: il nostro nuovo puledro ha un nome. Scruffo… niente male.”
“L’avevo detto che avrebbe scelto un nome idiota – sospirò Jean – però sei proprio bello, Scruffo, benvenuto tra di noi. Diventeremo grandi amici, me lo sento!”
 
Proprio in quel momento Angela prendeva congedo dalla sorella maggiore.
“E comunque prima o poi dobbiamo organizzare un pranzo qui a casa – diceva Allyson, mentre la accompagnava alla porta – George è d’accordissimo: ti trova decisamente simpatica, lo sai.”
“E vorrei ben dire… anche se non credo sia pronto a un raduno degli Astor in grande stile.”
“Oh, non sai come sono contenta di avergli evitato il rituale pranzo in famiglia non appena fidanzati!”
“Del resto vi siete fidanzati e sposati nell’arco di nemmeno due mesi – ridacchiò Angela – Allyson Astor, quasi mi vergogno: sembrava un matrimonio riparatore!”
“Semplicemente abbiamo aspettato tanti anni – la abbracciò lei – e non vedevamo l’ora di andare a vivere assieme. Allora ci vediamo presto.”
“A prestissimo!” la salutò Angela, avviandosi per le strade del paese.
Quella visita ad Allyson le aveva fatto estremo piacere: era bellissimo vedere come in quel mese da sposata si fosse perfettamente adattata alla sua nuova vita. E la casa del dottore era così bella, sebbene non proprio grande: certamente non si poteva paragonare a quella del notaio Fury o a quella dei ricchi Lyod, ma era certamente arredata con gusto. E poi era proprio al centro del paese, decisamente una posizione privilegiata.
Ma soprattutto era felice di vedere gli occhi della sorella brillare di una nuova felicità: si vedeva lontano un miglio che era teneramente innamorata del suo nuovo marito e sembrava che anche il dottore ricambiasse quel sentimento. Era incredibile vedere come un matrimonio così strano avesse invece tutte le carte in regola per riuscire alla perfezione.
Beh, del resto è giusto così – pensò mentre arrivava alla fine dell’abitato – se anni fa si è sposata Ellie Lyod che aveva compiuto da pochi giorni i diciotto anni, è più che ragionevole che ci siano casi opposti.
“Salve, signora!”
“Oh, ciao Heymans – sorrise, nel vedere il ragazzino che le veniva incontro – stai tornando adesso!”
“Ma sono in perfetto orario per la cena – sorrise di rimando il rossino – stia tranquilla, non faccio preoccupare mia madre.”
“Molto bene – annuì, accarezzandogli la chioma arruffata – ci vediamo domani, caro.”
“A domani!”
Guardandolo allontanarsi verso le prime case, Angela sorrise con un pizzico di rimpianto. Aveva sempre paura che tornando a casa quel ragazzo trovasse una situazione di tensione e tristezza che non avrebbe mai dovuto conoscere. Più volte aveva cercato di liberarsi da quei timori, ma sapeva che erano più che fondati: le era bastato guardarlo per qualche minuto la prima volta che era venuto a casa per capire che viveva in una famiglia infelice. Dal modo in cui aveva iniziato ad interagire con Jean, Janet, James e lei stessa si capiva che aveva un disperato bisogno di stabilità emotiva ed affettiva.
Sì, Heymans era arrivato in fretta a considerarli la sua famiglia alternativa.
Se non ci fosse tua madre farei qualsiasi cosa per portarti da noi – pensò – darei non so che cosa per  poterti aiutare.
Perché nell’arco di pochi mesi si era così affezionata a quel ragazzo, tanto diverso da Jean, da arrivare a considerarlo come un terzo figlio. E le sembrava una grande ingiustizia che a vivere sotto il continuo sguardo accusatore del paese ci fossero lui e Laura Hevans… una donna che non meritava tutto quello, tutt’altro.
Poteva succedere a chiunque di noi di restare incinta prima del matrimonio… poteva succedere in tutti quegli anni che ho passato da fidanzata. Solo che…
“Dannazione, Laura, ma perché proprio quell’uomo…” sospirò con rabbia.

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Capitolo 20
*** Capitolo 20. 1894. Chi raccoglie i cocci. ***


Capitolo 20.
1894. Chi raccoglie i cocci




“Io, mamma! – esclamò Janet, tendendo le manine – Metto io i piatti!”
“Uno alla volta, amore – annuì Angela, passandole il primo – tutti insieme sono troppo pesanti.”
Con entusiasmo la bambina corse verso il tavolo, sollevandosi in punta di piedi per poter iniziare ad apparecchiare: a quattro anni le piaceva tantissimo collaborare alle faccende domestiche. Spesso il suo aiuto era più dannoso che altro, come quando, piegando le lenzuola, non riusciva a tenere la presa e faceva cadere tutto, ma l’entusiasmo che ci metteva era davvero encomiabile.
E poi è più che giusto che inizi a destreggiarsi in queste cose – pensò Angela osservando con attenzione la testolina dalle codette bionde, pronta ad intervenire in caso di necessità – anche se è chiaro che lo prende ancora come un gioco.
“Dopo se vuoi puoi aiutare la mamma a girare lo stufato, sei contenta?”
“Davvero posso? – saltellò Janet, felicissima, andando a recuperare un altro piatto – Evviva!”
Se anche Jean fosse un minimo collaborativo…
Ma a quasi dodici anni il suo primogenito non aveva nessuna intenzione di collaborare alle faccende domestiche, se non dopo che lo si sfiancava a furia di minacce. Ormai era un vero e proprio cavallino selvaggio che bramava soltanto di correre libero per la campagna. Ad onor del vero dava un grande aiuto in emporio, e di sua spontanea volontà, quindi era più che normale che desiderasse il resto del tempo per la sua persona. Però Angela era un pochino gelosa del forte rapporto che ormai Jean aveva instaurato con il padre: le confidenze, i piccoli dubbi, ormai erano confidati a James e non più a lei. Ed era dura ammettere che era passata quella parte dell’infanzia in cui è la madre al centro del mondo.
“Mamma – la richiamò Janet, tirandole la gonna – ti aiuto?”
“Ma certo, cara – la prese in braccio – ecco, prendi il mestolo e gira, ma piano, mi raccomando.”
E poi c’era Janet, ovviamente. Forse Jean si era in parte staccato da lei perché aveva intuito che era la bambina ad avere maggior bisogno della presenza materna. Per quanto non sembrasse quel testardo era parecchio attento alle esigenze della sorella minore… e quando avesse terminato di nascondere questo amore fraterno con il farle i dispetti così tante volte al giorno sarebbe stata una vera benedizione.
“Sono a casa!”
Proprio la voce dell’interessato squillò allegramente dall’ingresso.
“Fratellone!” esclamò Janet, muovendo maldestramente il mestolo e facendo uscire parte dello stufato.
“Oh no, Janet, attenta! – la bloccò Angela – Sì, adesso ti metto giù, ho capito. Ma devi fare attenzione, altrimenti ti potresti bruciare e… oh, non mi ascolti nemmeno!”
La bambina si era infatti letteralmente divincolata dalla sua presa per correre verso il fratello che aveva fatto il suo ingresso in cucina. Ma invece di venire accolta da un abbraccio, venne bloccata dalla mano di Jean che si posò sulla sua testa, tenendola lontana da lui.
“Alla larga, nana! –sogghignò l’undicenne – Lasciami in pace!”
“Santi numi, Jean Havoc! – esclamò la donna – Che hai fatto?”
“Solo qualche graffio – scrollò le spalle lui, come se quei lividi sulle braccia ed il labbro spaccato non fossero nulla – niente di che! Dovresti vedere invece come sta quello che ho pestato io!”
“Bisogna subito disinfettare – scosse il capo lei, accostandosi e prendendogli il mento tra le mani – ti fa molto male, caro? Racconta alla mamma, che ti hanno fatto?”
“Che mi hanno fatto? – sbuffò Jean incredulo – Oh, mamma, finiscila di farti idee strane! Sono cose tra indipendenti, te l’ho già detto!”
“Cose tra indipendenti, come no! Ed intanto io ti devo vedere tornare a casa in questo stato…”
Si bloccò: stava per dire qualcosa come “aspetta che tuo padre lo venga a sapere”, ma non si poteva più permettere questo tipo di minaccia. Per un semplice motivo
“Papà! – sorrise Jean, quando vide James entrare – grandioso, papà! Ne ho steso uno con la mossa che mi hai insegnato!”
E liberandosi dalla presa di Angela corse verso il genitore che lo sollevò tra le braccia con una risata soddisfatta, arruffandogli i capelli dorati
“Ahaha, ragazzo mio, mi rendi fiero di te! Stasera te ne mostro una nuova! Tutto bene con questo labbro?”
“Nemmeno lo sento che fa male!” mentì chiaramente il ragazzino.
“Ottimo, sei una pellaccia dura proprio come me! Forza, vai comunque a fartelo disinfettare da tua madre, così è più tranquilla.”
Fu solo allora, quasi per gentile concessione, che Jean acconsentì a farsi vedere il labbro spaccato.
 
Se c’era una cosa che Angela aveva sempre detestato negli uomini era il loro fare a botte come se fosse un modo per farsi valere.  Aveva più volte rimproverato a James questa sua caratteristica e sebbene suo marito si fosse dato una regolata in merito, sembrava che Jean avesse ereditato appieno questa mentalità del padre.
Ora, in fondo Angela sapeva che non c’era niente di cattivo: non era per odio o altro, semplicemente c’era l’esigenza di uno sfogo fisico che, come conseguenza, portava a stabilire determinate gerarchie tra i ragazzi delle varie classi.
Tuttavia per lei era intollerabile vedere suo figlio così pesto far finta di nulla e dissimulare il dolore. Avrebbe preferito di gran lunga che piangesse e si sfogasse con lei, ma ovviamente era l’ultima cosa che il ragazzino avrebbe fatto. Per Jean il dolore era sempre stata una cosa relativa: eccetto le punizioni, non si era mai fatto traumatizzare da sbucciature, tagli o quanto altro la sua esuberanza gli faceva subire. A maggior ragione, ora che c’era anche una componente d’orgoglio del tutto nuova, non aveva alcuna intenzione di mostrarsi vulnerabile, almeno non con lei.
“Dovresti smetterla di incoraggiare tuo figlio in questo modo – sbottò quella sera, quando si ritirarono per la notte – conoscendolo si mette contro quelli più grandi di lui.”
“E’ un torello il mio ragazzo, lascialo stare – sbuffò James, per niente contento di quella discussione – vuoi che diventi lo zimbello di tutti? Cazzo, lui ed Heymans sono già indipendenti in seconda media!”
“Ma perché deve essere così importante per voi questa storia degli indipendenti…”
“Ehi, io lo ero!”
“Non ti ho certo sposato per quello!”
“Oh, dai che parte del mio fascino derivava anche da quello – la stuzzicò lui – essere indipendenti attira le ragazze, è risaputo, cara mia!”
Angela si rifiutò di guardarlo: forse era in parte vero che aveva messo gli occhi addosso a James anche per il suo essere indipendente. Ma considerato che avevano iniziato a frequentarsi che lui aveva praticamente terminato le scuole la cosa non importava.
“E comunque a nemmeno dodici anni è troppo presto! – sospirò accucciandosi sul bordo del letto – non mi ha voluto dire niente, eppure si capisce che gli fa tanto male quell’assortimento di lividi e tagli!”
“Nah, fidati che sta benone! – la rassicurò James abbracciandola – l’ho controllato personalmente anche io e non c’è nulla che in due settimane non sparisca. E’ rapido e furbo il nostro ragazzo: mi ha raccontato nei dettagli lo scontro e ha la stoffa del campione!”
“Con me ha liquidato tutto con questione tra maschi.”
“Ehi, un giorno Janet spettegolerà con te sui ragazzi o su chissà che altra questione femminile… non verrò certo a metterci il naso dentro.”
“Lascia stare, James!”
 
L’analisi che aveva fatto Angela era perfetta, ma anche se James era arrivato alle stesse conclusioni, non aveva nessuna intenzione di rinunciare al rapporto privilegiato che aveva instaurato con Jean.
Fino a nemmeno due anni prima il bambino non aveva mai fatto niente di particolare per cui cercasse specificatamente le attenzioni paterne, anzi aveva avuto una predilezione per la madre. Ma scoprire l’ebbrezza del fare a botte gli aveva letteralmente aperto un mondo dove era il padre l’eroe.
E a James piaceva passare simili momenti con il proprio figlio.
“Avanti, prova! Pugno chiuso, ragazzo, e gioca soprattutto con la spalla, come ti ho fatto vedere!”
Con espressione attenta, gli occhi azzurri brillanti, Jean si mise in posizione d’attacco e sferrò il pugno contro la mano paterna pronta a parare.
“Bel colpo, figliolo! Avanti, prova a fare tutta la sequenza: pugno, schivata e sgambetto!”
Jean annuì prontamente ed eseguì quella simulazione, senza però riuscire a far cadere suo padre: ma era chiaro che su un ragazzo delle superiori quel giochetto avrebbe invece funzionato. Preso dalla foga del momento, come spesso succedeva, non smise l’attacco, ma continuò a tempestare il genitore di giocose botte, con il concreto risultato che in dieci secondi si trovarono entrambi distesi sul pavimento del magazzino.
“Io sono il più forte di tutti!” esclamò il ragazzino con una felice risata, prima di buttarsi sul petto del padre. Gli piaceva farsi accarezzare i capelli e abbracciare: dalla madre avrebbe rifiutato un gesto simile, ma col padre, dopo la lotta, si lasciava andare.
“Certo che lo sei, piccolo infame! – lo prese in giro James, arruffandogli con fierezza la chioma – Li batti tutti quegli altri scavezzacollo: tu ed Heymans siete i veri indipendenti della scuola.”
“Ce ne sono altri due – ammise Jean dopo qualche secondo – ma non ci consideriamo molto… si chiamano Roy e Maes. Un giorno mi batterò pure con loro, lo so! E anche se sono un anno più grandi di me non avrò di certo paura!”
Lo disse con fierezza, ma anche con serietà: per quanto sembrasse sempre scherzoso prendeva determinate cose molto seriamente. Aveva già capito il gioco di sottili equilibri che esisteva all’interno della scuola e ne era entrato a far parte con estrema tranquillità.
“Cerca solo di non tornare con le ossa troppo rotte – lo avvisò James – non vogliamo che tua madre impazzisca di apprensione, vero?”
“Non capisco proprio perché si preoccupa tanto – sbuffò il bambino, mettendosi supino e fissando il soffitto con aria pensosa – eppure glielo dico sempre che sono cose tra maschi e che le ferite non mi fanno troppo male!”
“Beh, figliolo, stai iniziando a capire che maschi e femmine sono differenti – spiegò James – ed in particolare tua madre.”
“E’ una cosa stupida…”
“Suvvia, fa sempre piacere avere una persona che raccoglie i cocci, come dice sempre lei.”
“Sì, però li raccoglie sempre lamentandosi e rimproverandomi… non va per niente fiera di quello che faccio, non come te.”
“Sono i grandi misteri dell’universo, ragazzo mio. Vuoi un consiglio? E’ tua madre, comunque ci dovrai convivere per sempre: ogni tanto lasciati abbracciare e vezzeggiare, la rendi più felice.”
“Non ho più tre anni…”
“… e se lei è più felice rompe meno le scatole quando ti vede tornare pesto per qualche rissa.”
“Non è vero – ridacchiò Jean mettendosi seduto e fissandolo con occhi furbi – mamma non romperà mai meno le scatole, altrimenti non sarebbe la mamma.”
“Probabile – concesse James – ma è il suo modo di dimostrarti che ti vuole bene.”
“Mah, le femmine sono proprio strane… penso che mamma e Janet mi basteranno per tutta la vita – rifletté con serietà – altre non ne voglio.”
“Aspetta qualche anno ancora e ne riparleremo.”
 
“Secondo te perché le madri si preoccupano così tanto per qualche livido?” Jean lo chiese la mattina successiva, mentre lui ed Heymans passeggiavano per il cortile della scuola.
I loro lividi erano ancora evidenti e le occhiate di molti erano su di loro, ma questo non creava problemi al biondo. Anzi ne andava particolarmente fiero e teneva la schiena più dritta del solito.
“Presumo perché quando da piccoli ci facevamo male erano loro a curarci… fa parte dell’essere madri.”
“Io però lo dico sempre alla mia di non preoccuparsi, ma lei mica mi ascolta.”
“Non penso funzioni così – ammise il rosso con aria pensosa – insomma, credo che sia una di quelle cose inevitabili per sempre. Insomma, se a tua madre succedesse qualcosa ti preoccuperesti per lei, no? E così è per loro… solo che lo fanno anche per lividi e sbucciature. E’ per dire che ci vogliono bene.”
“L’ha detto pure mio padre.”
“Se l’ha detto lui ti puoi fidare – annuì Heymans con convinzione – sa un sacco di cose. A proposito: grandiosa la mossa che ci ha insegnato, vero?”
“Alla prossima rissa la dobbiamo assolutamente mettere in atto!”
 
Ma, nonostante tutto, Jean non si convinceva assolutamente: mostrarsi debole con sua madre era l’ultima cosa che voleva. E dunque, con buona pace di tutti, continuò con il solito andazzo, limitandosi a farsi curare lividi e ferite senza lamentarsi e senza proferire parola.
“Maledetto orgoglio maschile – sbottò Angela dopo l’ennesima medicazione, mentre rimetteva in ordine bende e cerotti – questa è tutta opera tua, James.”
“Ancora? – sospirò l’uomo – e lascialo divertire!”
“Divertire? Un occhio nero ti sembra un bel divertimento?”
“Non è quello il punto… oh, senti, Scheggia, sono cose che voi donne a quanto pare non capite. A noi piace così e non ci sembra di fare nulla di male.”
“Tanto poi a raccogliere i cocci ci siamo noi, vero? Avesse un minimo di gratitudine quel disgraziato!”
“E’ che sei sua madre, aspetta che abbia la ragazza e vedrai come sarà felice di farsi curare da lei… specie se lei sarà più che fiera di vederlo pieno di lividi. E’ uno strano gioco e…”
“E’ un gioco talmente idiota che non voglio nemmeno commentarlo. Per la cronaca io non ti ho mai curato amorevolmente dopo una rissa: l’unica volta che hai rissato, da quando siamo fidanzati, ti ho dato il ben servito per un mese. E poi mi spieghi che sarebbe questa storia che noi donne dobbiamo solo aspettare che voi torniate a casa pesti?”
“… oh, dai, non vorrai mica dire…”
“Credi che non vi terremo a bada?”
James ridacchiò e le mise una mano sulla testa
“Scusami, amore, ma eccetto le tue incredibili sberle non credo che saresti capace di…"
“Brutta stupida, molla!”
“No, lo voglio io!”
Le voci provenienti dalla camera di Jean impedirono qualsiasi risposta.
“Sempre a litigare quei due – sospirò Angela – e adesso che cosa è successo?”
Con aria arrabbiata si diresse verso il luogo del misfatto, pronta a calmare il nuovo litigio tra fratelli: per quanto Janet idolatrasse il maggiore, non mancava mai di provocarlo in qualche modo. E di conseguenza i capricci tra i due erano all’ordine del giorno e si concludevano quasi sempre con la bambina in lacrime.
“Vedi che non lo prendi? Stupida sorella, adesso vai via!”
“No! Dammelo! Lo voglio io!”
“E’ il mio soldatino, stupida, torna a giocare con le bambole! Non rom… ouch!”
La porta venne aperta proprio mentre Jean emetteva quel lamento ed Angela trovò il figlio maggiore a terra che si teneva le mani sullo stomaco con espressione dolorante. Dall’altro lato della stanza Janet si massaggiava la testolina con aria perplessa, ma poi, con un sorriso felice, raccolse uno dei soldatini che stavano per terra ed uscì dalla stanza.
“Adesso posso giocare al re e alla regina!” esclamò felice, sgusciando tra le gambe dei genitori.
“Dannata – sibilò Jean, cercando di recuperare il fiato – Stupida… stupida sorella.”
“Ma che ti ha fatto?” chiese James perplesso.
“Mi ha dato una testata sullo stomaco, l’infame – tossì lui – mamma, tua figlia avrebbe bisogno di una sgridata… e anche di qualche sculacciata bella forte, non credi?”
“Ah no – ridacchiò Angela, beandosi di quella piccola vittoria contro il mondo maschile – in questo caso proprio no, anzi sono molto fiera di lei.”
E se ne andò, lasciando padre e figlio a guardarsi perplessi.
“Femmine… vero, papà?”
“Sì, figliolo… femmine. Fattene una ragione.”

 

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Capitolo 21
*** Epilogo. 1894. Questa dannata farina... reprise. ***


Epilogo.
1894. Questa dannata farina... reprise




Domenica di inizio luglio.
Caldo, eccezionale caldo… fin troppo.
Una di quelle mattinate in cui tutto quello che desideri è restare a letto, considerato che la tua stanza, ancora per qualche ora, resterà relativamente immune ai raggi troppo violenti del sole.
Oh sì – pensò Angela, girandosi di lato e scostando del tutto il lenzuolo, in modo da non avere nulla sopra la sua pelle eccetto la leggera camicia da notte smanicata – emporio chiuso, Jean che deve uscire con Heymans… riposo… riposo assoluto.
Una benedizione che si poteva concedere pochissime volte all’anno e quando succedeva non le sembrava vero.
“Mamma! – la voce squillante di Jean interruppe la quiete mattuttina – Mamma!”
“Oh no! – sospirò la donna nemmeno aprendo gli occhi, ma intuendo che il figlio era entrato in camera da letto – Che c’è? Ti ho già preparato il pranzo al sacco ieri sera: è in cucina, lo sai…”
“Lo so benissimo – sbottò il ragazzino – è questa rompiscatole che vuole venire con me! Diglielo che non può venire: è una poppante di quattro anni, non può fare la gita con me ed Heymans!”
“Voglio andare pure io! – la vocetta di Janet arrivò puntuale, accompagnata dal sospiro irritato del fratello – Mammina, ti prego, dillo a Jean che posso andarci anche io!”
“Ah no, proprio non ti voglio! Ti devo sopportare ogni giorno: è da due settimane che io ed Heymans progettiamo questa gita e tu non sei invitata!”
“Mamma! – movimenti del materasso fecero capire che la bambina era saltata sul letto per enfatizzare la propria protesta – E dai! Dammi il permesso…”
“Jean – sospirò Angela, girandosi supina e mettendosi un braccio sopra gli occhi – davvero non la puoi portare? Da bravo…”
“Ma dobbiamo andare verso il torrente! E’ tutto in salita… si stancherebbe dopo cinque minuti e vorrebbe esser presa in braccio. E poi si lamenterebbe per il caldo, per i sassolini nella scarpa, per fare pipì, per fermarsi… e questo… e quest’altro… tanto la conosco!”
“Che diamine…” protestò la donna, trovando la forza di aprire gli occhi e mettersi seduta: tanto era chiaro che il suo progetto di riposo era del tutto fallito.
“Oh dai, mamma! – Janet le fu subito accanto, con sguardo supplicante – Farò da brava e non mi lamenterò, promesso! Voglio andare pure io in gita con Jean ed Heymans…”
“Mamma…” Jean si limitò a chiamarla.
Per una volta tanto aveva ragione lui: non era giusto rovinare la gita che lui ed Heymans avevano in mente da tempo. Janet era troppo piccola per stare al passo con loro.
“Jean, è arrivato Heymans!” chiamò James di sotto.
“Vai – annuì la donna – divertitevi e cercate di tornare senza sbucciature o altri danni, intesi?”
“Intesi – sorrise felice il ragazzino, capendo di aver ottenuto la vittoria – Entro il tramonto sarò a casa!”
“Oh no!” protestò Janet, cercando di raggiungere il fratello che usciva trionfante dalla camera da letto. Ma Angela fu più svelta di lei e la prese per la vita, impendendole di scendere dal letto.
“Mi dispiace, cara, ma Jean ha ragione: sei troppo piccola per una simile gita. Vedrai che tra qualche giorno ne faranno un’altra meno faticosa e ci potrai andare pure tu. Non mi pare il caso di…”
Ma qualsiasi tentativo di spiegazione venne interrotto dallo strillo di disappunto, seguito immediatamente dalle prime lacrime che annunciavano un pianto dirotto per almeno i prossimi dieci minuti.
E sono solo le otto di mattina – sospirò la donna.
 
“No, Janet! – James prontamente bloccò la bambina che stava gattonando allegramente sul bancone con la chiara intenzione di andare fino al barattolo di vetro contenente chiodi – Non ci provare, demonietto!”
“Ma io volevo fare i pupazzetti!” protestò la bambina, mentre veniva messa a terra.
“Con quelle cose appuntite? No, proprio no: non sono giochi, amore: ti puoi fare davvero male con i chiodi. Senti, perché non vai dalla mamma? Papà qui deve fare delle cose importanti.”
“Mi ci ha mandato la mamma qui!” si indignò Janet, per nulla felice di essere trattata come una palla che tutti si rimbalzavano a piacimento.
“Ah – si imbarazzò James, guardando quel visino imbronciato e furente tremendamente simile a quello della madre: era già palese che da grande sarebbe stata identica a lei eccetto che per i colori – evidentemente la mamma non sapeva che ero impegnato. Che sta facendo?”
“Cucinando… e ha detto che è una cosa difficile e quindi non la posso aiutare.”
Dal tono si capiva chiaramente che questa nuova estromissione non le andava bene.
“Uh… va bene. Però, ciccia, vedi… papà adesso!”
“Janet, amore! – Angela arrivò di corsa, tenendo per mano Allyson – hai visto chi è arrivata? La zia!”
“Ciao, zia Ally!” sorrise Janet, correndo subito ad abbracciarla.
“Ciao, cara – la prese in braccio la donna – sai, passavo di qui per caso e mi sono detta… chissà se la mia nipotina preferita è in casa.”
“Che fortuna che sei rimasta a casa, amore – batté le mani Angela – altrimenti la zia ci sarebbe rimasta male, non credi?”
James intercettò la strizzata d’occhio: era chiaro che era tutto ben congeniato, ma era altrettanto chiaro che Janet ne doveva restare all’oscuro. Ed effettivamente la bambina si stava facendo convincere, in virtù del fatto che finalmente veniva messa al centro dell’attenzione.
“Davvero, zia?”
“Ma certo! E mi stavo chiedendo una cosa: che ne dici di venire con me in paese? E poi pranzi a casa mia, assieme allo zio George, che te ne pare?”
“Non è che mi deve fare la puntura, vero?” Janet la guardò con sospetto, scostandosi lievemente da lei. Ricordava fin troppo bene le moine con le quali l’avevano tratta in inganno qualche mese prima: era stato un comportamento davvero vigliacco… ed era sempre meglio stare attenti quando c’era di mezzo lo zio George.
“No, ma quando mai! Mica hai l’influenza come l’altra volta… allora, ci stai? La zia ti prepara anche la crema che ti piace tanto e la usiamo per farcire la torta.”
“E ti posso aiutare?”
“Ma certo!”
“Mamma, papà! Posso andare con la zia?” chiese la bambina del tutto convinta da quella meravigliosa prospettiva.
“Certamente, Janet!” annuì Angela, seguita immediatamente dal marito.
Con il migliore dei sorrisi i due accompagnarono zia e nipote alla porta e restarono a salutare fino a quando non le videro scomparire nel sentiero che portava verso il paese.
“Ti senti una persona squallida ad aver ingannato tua figlia in questo modo?” chiese James.
“Una giornata senza i ragazzi, ti basta come risposta?”
“Emporio chiuso, casa tutta per noi – annuì l’uomo mettendosi a braccia conserte – il fatto che oggi cada il ventesimo anniversario del nostro fidanzamento non c’entra nulla, vero?”
“Mi ritieni una donna talmente calcolatrice? – chiese Angela con aria falsamente offesa – Ti pare che io abbia fatto in modo di tenere impegnato Jean per tutta la settimana in modo che la sua gita venisse a cadere proprio in questo specifico giorno?”
“Non mi piace insinuare determinate cose, però…”
“Beh, potrei ricordare che anche tu hai contribuito a riempirlo di compiti all’emporio… sei complice, mio caro. Quindi conviene che mantieni il segreto.”
“Più che giusto.”
“Adesso vai pure a terminare in emporio: io finisco di preparare in cucina… vedrai, questa volta mi sono superata. Vent’anni assieme si devono festeggiare alla grande!”
 
“Porca… porca… merda maledetta!”
James stava giusto entrando in cucina, dopo aver sistemato in emporio, quando venne accolto da una nube di fumo di notevoli proporzioni: da una parte indistinta di quella cortina veniva la voce irata di Angela, intervallata da diversi colpi di tosse.
“Che diamine è successo? – chiese l’uomo, facendosi avanti per cercare di individuare sua moglie – non mi dire che il forno è andato!”
“Proprio oggi! – sbottò lei, apparendo come un demone uscito dall’inferno, sporca di fuliggine come non mai – E te l’ho detto decine di volte che ormai andava riparato… ma tu no! Niente da fare! Che il forno di casa tua aveva ancora cartucce da sparare e sarebbe durato ancora anni ed anni… vaffanculo!”
“E che ne potevo sapere che l’avresti messo così a dura prova? – chiese James, iniziando a tossire e accostandosi al forno per vedere i danni e capire se c’era qualche principio d’incendio – Cazzo, a luglio dovresti usarlo pochissimo… già fa caldo!”
“Se vuoi brucare l’erba come le pecore vai pure! Che disastro – sospirò mentre la pirofila veniva posata sul tavolo mostrando in tutto il suo orrore il suo arrosto ripieno ormai degno solo di essere buttato – tanta fatica per nulla… che ventesimo anniversario del cavolo!”
“Preparati, scheggia – annunciò James, mentre la nuvola di fumo iniziava a diradarsi, aiutata anche dalle finestre aperte – niente forno per almeno cinque giorni… qui è da rifare tutto…”
“Che diamine!”
“Lo dici a me? Bisognerà smontare e trovare i pezzi giusti per… ahia! Che cazzo colpisci con quel mestolo?”
“La prossima volta che ti dico che qualcosa va riparato evita di rimandare,idiota!”
“Smettila di fare l’offesa!”
“Vado a lavarmi…”
 
Un bagno fresco non contribuì a migliorarle l’umore.
C’erano delle giornate destinate ad iniziare male e finire peggio e sembrava che il ventesimo anniversario fosse proprio una di quelle. Doveva capirlo da quando Jean e Janet avevano interrotto il suo riposo con quell’improvvisata di prima mattina.
Scendendo al piano di sotto, tuttavia, la donna si sentì lievemente in colpa per come aveva trattato James. Anche se quel forno era destinato a rompersi di certo non era stata colpa di nessuno e continuare ad insistere sul quel continuo rimandare non avrebbe di certo cambiato le cose.
“James, dove sei?” chiamò, oltrepassando la cucina ancora in parte nera e andando verso l’emporio.
Sono in magazzino – la guidò la sua voce – sto controllando se ci sono dei pezzi per sistemare un minimo il forno!
“Lascia stare – lo bloccò lei, raggiungendolo – non ha molto senso accomodarlo se rischia di rompersi di nuovo: aspettiamo di avere tutto a disposizione e amen. Per cinque giorni mi arrangio con i fornelli.”
“Sperando che non abbiano subito danni pure loro…” sospirò l’uomo grattandosi la testa con disappunto e rinunciando alla sua ricerca.
Angela sospirò, gli ultimi residui di rabbia che sparivano davanti a quella situazione davvero surreale.
Era ormai pomeriggio ed il loro ventesimo anniversario si stava concludendo con un digiuno, un forno rotto, niente pezzi di ricambio ed una cucina da pulire da cima a fondo prima di essere ancora riutilizzabile.
Si sedette con rassegnazione su un sacco di farina.
Farina…
Gli occhi le si accesero di malizia
“Dannata farina…” mormorò.
“Cosa?” chiese James in tono distratto, mentre rimetteva in ordine alcune cose che aveva spostato durante la sua ricerca.
“E’ colpa della dannata farina, come sempre!”
“Farina? – finalmente lui si girò a guardarla e subito sorrise malizioso – Oh certo! La farina… hai proprio ragione! Come ho fatto a non pensarci prima.”
“Però – fece lei, alzandosi in piedi con sensualità e andandogli accanto – una volta mi hai detto che bisogna trovare i lati positivi di questa dannata farina, no?”
“Giusto – la abbracciò con passione – da quando non ci rotoliamo tra i sacchi di farina, scheggia?”
“Troppo tempo, senza dubbio.” ridacchiò, prima di essere baciata con foga.
E come al solito tutto il resto fu colpa della dannata farina.
Ancora a distanza di vent’anni.




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Ehilà!
Eccoci arrivati alla fine dell'ultimo spin off, con James ed Angela che festeggiano a modo loro questi primi vent'anni trascorsi assieme. Una storia divertente, vivace, carica di tutta la follia che è tipica di questa famiglia, dove però l'amore non manca mai *-*
E' stato uno spin off più corto rispetto agli altri, ma avevo previsto che sarebbe stato più lineare, senza troppi colpi di scena ^^
Il vostro parere ovviamente sarà più che gradito ^^

Per ulteriori informazioni sulla mia produzione vi ricordo che c'è la mia pagina fb (la trovate sul mio profilo)

Un saluto a tutti ^_^


 

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