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di _juliet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***



Capitolo 1
*** I ***


 – I –





Quando Ren aprì la porta a vetri e fece il suo ingresso nel No way out, le voci si affievolirono e i sorrisi si spensero. Molti evitarono di guardarlo, concentrandosi invece sui muri e fingendo interesse per i quadri che vi erano appesi; pochi, più coraggiosi grazie all'aiuto dell'alcool, lo fissarono con occhi rapaci, soffermandosi in particolar modo sulla custodia nera che portava in spalla.
Ren aveva iniziato a uccidere per denaro a quindici anni e, dopo dieci anni di attività, era convinto che la sua vicinanza risvegliasse nelle persone una sorta di primordiale istinto di sopravvivenza che le spingeva a non interagire con lui. Era abituato a questo e ad altri tipi di reazioni nei suoi confronti e, in tutta onestà, gli andava bene così: socializzare con troppi individui non era mai stata una sua priorità.
Scelse di ignorare l'atmosfera pesante che si era creata e sedette al bancone, concedendosi uno sbadiglio e stiracchiando i muscoli indolenziti dalla lunga attesa di quel pomeriggio.
Il bersaglio si era deciso a uscire dal bordello più di due ore dopo l'orario che il suo cliente gli aveva comunicato e Ren aveva aspettato, nascosto all'ultimo piano di un albergo abbandonato. L'edificio era in rovina e una corrente gelida imperversava nei corridoi deserti, rendendolo un ambiente decisamente inospitale per un'attesa così lunga. Ma poco importava, si disse Ren: il bersaglio era morto con una pallottola nella schiena e il cliente gli aveva pagato il prezzo pattuito più un bonus. La vita era bella.
«Che cosa ti sei fatto?» la voce del barista lo riscosse dai suoi pensieri. Aveva già iniziato a versargli la solita pinta e osservava con orrore le nocche della sua mano destra, malamente bendate e sanguinanti.
Ren sorrise. Quando aveva lasciato l'albergo, una delle guardie del corpo del bersaglio l'aveva inseguito ed era stato costretto ad aprirsi la strada a pugni, ma non era qualcosa di cui poteva parlare liberamente, in un luogo pubblico.
«Buona sera, Stan. Mi dispiace che i tuoi clienti mal sopportino la mia presenza» disse, eludendo la domanda.
«Tu sei mio cliente da molto prima di tutti loro.»
Stan gli allungò la birra e imprecò. Il suo gatto aveva appena deciso che la spillatrice era un ottimo posto in cui acciambellarsi per fare un sonnellino.
Dopo qualche minuto di minacce opportunamente ignorate dal felino, il gestore del No way out rivolse la sua attenzione a Ren, scuotendo la testa. Il movimento faceva ondeggiare i suoi capelli che, in quel periodo, erano azzurri.
«Prima o poi lo ammazzo!» esclamò.
Ren sorseggiò con calma la sua birra, prima di rispondere. «Dici sempre così, ma non ti ho mai visto alzare un dito su quel dannato animale.»
«Certo che no» rispose Stan, afferrando il gatto e stringendoselo al petto, per poi lasciarlo zampettare liberamente sul bancone. L'animale saltò in grembo a Ren e si acciambellò sulle sue gambe, iniziando a fare le fusa.
«Champagne è il mio tesoro, sì che lo è» continuò il barista, con un tono esageratamente sdolcinato che lo faceva sembrare cretino.
Un altro cliente richiese la sua presenza e, mentre Stan lo raggiungeva, Ren approfittò per osservarlo da dietro la sua pinta.
Dargli un'età sembrava impossibile, forse per via del colore dei capelli e degli innumerevoli orecchini che pendevano dai suoi lobi. Le sue braccia, fin dove le maniche della camicia permettevano di sbirciare, erano ricoperte da tatuaggi sbiaditi dal tempo e dal sole. Era più vecchio di lui, ma Ren non avrebbe saputo dire se avesse trent'anni o cinquanta.
Stan non gli aveva detto quasi nulla di sé, ma il giovane non gliene faceva una colpa: era lui il primo a parlare poco di se stesso. In città come quella più ti facevi gli affari tuoi, più potevi sperare di essere lasciato in pace. Ren sapeva solo che Stan era il gestore del No way out – nonché di una solida rete di informatori – e che era bravo nel suo lavoro. Questo era sufficiente.
«Cambiando argomento, sei sicuro di non volere un altro buco?» chiese il barista, di ritorno dietro il bancone. «Potrei fartelo io» continuò, facendo tintinnare i suoi numerosi orecchini. «Ti donerebbe.»
Ren portò istintivamente la mano all'anellino d'argento che portava al lobo destro. «Non è il caso» commentò, trangugiando l'ultimo sorso di birra.
Stan sorrise, guardandosi intorno con aria rilassata. Allungò il braccio e accarezzò Champagne, che era nuovamente salito sul bancone e si strusciava contro la sua mano. Il suo atteggiamento tranquillo avrebbe ingannato gli altri clienti, ma Ren aveva imparato a conoscerlo piuttosto bene e riusciva a vedere oltre la facciata.
Dopo qualche secondo, il barista abbassò lo sguardo sui bicchieri e iniziò a pulirli. «Ho bisogno di parlarti» esordì.
Ren controllò l'orologio e finse di regolare l'ora. «Ho degli affari da sbrigare» disse.
«Sarò breve.»
«È qualcosa che mi interessa?»
Stan esitò, valutando la pulizia di un bicchiere. «Non saprei» ammise.
«Allora parleremo la prossima volta.»
Appena uscito dal No way out, Ren rimpianse la sua decisione. Il vento continuava a soffiare, impietoso, e ora che il sole stava tramontando l'aria sarebbe diventata sempre più fredda. Stringendosi nel cappotto, il giovane si diresse spedito verso casa.
Una folata gelida lo avvolse e lo costrinse a ficcarsi le mani in tasca, strappandogli un gemito di dolore per le nocche martoriate. Il suo respiro accelerato si condensava in piccole nuvole che si disperdevano nell'aria umida.
La luce emanata dai lampioni era brutta e sporca; si accendeva a intermittenza, ronzando, e non era utile neanche per evitare di calpestare la merda sui marciapiedi.
In quella zona della città le strade illuminate erano poche, perché raramente qualcuno si interessava alle condizioni dei fin troppo noti quartieri di confine.
“Come se l'oscurità potesse impedire alle bande di fare quello che vogliono”, pensò Ren, concedendosi un sorriso.
L'Oscurità è ordine: quello era il motto di Frozen Moon, l'organizzazione criminale più influente di Alken. Esisteva da tempo – secondo alcuni, fin da quando la città era stata fondata come colonia penale, nei primi anni del diciassettesimo secolo – ed era tanto organizzata e radicata che la giustizia non era mai riuscita a estirparla del tutto dal territorio. Di fronte a una sconfitta su tutta la linea, le forze di polizia si erano divise in due fazioni: la maggioranza sosteneva che fosse loro compito attenersi esclusivamente alla legge, anche a costo di fallire; ma una cospicua minoranza aveva sostenuto la necessità di combattere ad armi pari.
Così erano state formate numerose squadre di volontari, che si erano autoproclamati “vigilanti” e avevano dato inizio a una vera e propria guerra, costituita di omicidi sanguinosi, terrore per le strade, stragi. Non ci era voluto molto perché la giustizia smettesse di tollerarli e li dichiarasse fuorilegge. Con il tempo i Vigilanti erano diventati a loro volta un'organizzazione criminale molto potente, rivale di Frozen Moon in tutti gli ambiti della società. Ironicamente, il loro motto continuava a essere Giustizia e disciplina.
Da allora Alken era ufficiosamente suddivisa in tre diverse parti: la zona più a Nord era territorio di Frozen Moon, mentre i Vigilanti controllavano il Sud della città. Una terza area fra le due era considerata zona sicura: solo lì le due bande avevano stipulato un patto di non belligeranza.
La giustizia aveva dovuto subire la soluzione in silenzio. In cambio, i Vigilanti e Frozen Moon avevano stabilito di collaborare nell'estirpazione di organizzazioni criminali minori.
Anche se, rifletté Ren, non si poteva dire che si fossero mai impegnati a mantenere la promessa.
Delle urla alle sue spalle lo distrassero da quei pensieri e il giovane affrettò il passo, sperando di non ritrovarsi nel mezzo di un regolamento di conti fra uomini delle bande. Sapeva che, se erano occupati in qualche stupida vendetta, difficilmente gli avrebbero prestato attenzione, ma la prudenza non era mai troppa. Senza pensarci due volte, Ren abbandonò la strada e si infilò in un vicolo.
Attese alcuni minuti nell'ombra, prima che gli uomini apparissero. Erano cinque e cantavano a squarciagola una canzone volgare; le loro voci erano stonate e sembravano essere ubriachi o sotto l'effetto di qualche droga, perché si trascinavano scompostamente, inciampando di continuo. Ogni caduta era accompagnata da scoppi di risa sguaiate. Due di loro indossavano giubbotti di pelle su cui erano impressi, a caratteri gotici, le parole Giustizia e Disciplina.
Ren li osservò con occhio critico. “Pesci piccoli”, pensò, “oppure idioti.”
Li avrebbe lasciati passare e poi sarebbe corso a casa, dove il termosifone, sicuramente, era già caldo.
Improvvisamente, percepì il tocco inconfondibile della canna di una pistola nel centro della schiena.
«Buona sera, Ren» mormorò una voce conosciuta. «È una bella serata per morire, non trovi?»




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NdA: Salve. È la prima volta che scrivo qualcosa che concerne assassini e quartieri malfamati. Spero di non fare troppi casini.

 

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Capitolo 2
*** II ***


 – II –




Ren si lasciò sfuggire un sospiro e girò appena la testa verso di lei. Il vicolo era male illuminato, ma riusciva a intravedere i suoi capelli biondi che ondeggiavano nel vento.
«Buona sera, May» disse.
«Non muoverti o sparo!» gli intimò lei.
La sua voce si era alzata di un'ottava, informandolo che, anche se ostentava sicurezza, non era affatto tranquilla. Il giovane sghignazzò e si voltò completamente, per godersi meglio quello spettacolo patetico.
«Ti ho detto di non muoverti!» scandì May.
Le sue mani stringevano la pistola con tanta forza che, probabilmente, le nocche erano sbiancate. Teneva le braccia tese di fronte a sé e impugnava l'arma correttamente, ma il suo corpo era scosso da un tremito che non era causato dal freddo. La corporatura minuta, gli occhi inumiditi e i capelli chiari non facevano altro che completare l'immagine inoffensiva della ragazza; anche se fosse stato completamente disarmato, lei era meno minacciosa degli scarafaggi che gli zampettavano fra i piedi. Per qualche motivo, quel pensiero lo infastidì.
Ren tolse le mani dalle tasche e alzò le braccia, mostrandole i palmi. Dopo qualche attimo, le sorrise e appoggiò il petto alla canna della pistola, in attesa.
Gli occhi di lei si riempirono di confusione, diventando, se possibile, ancora più grandi. Il suo sguardo correva dall'arma al viso di Ren, mentre le dita si torcevano intorno al calcio della pistola. Sembrava quasi che gli stesse chiedendo il permesso.
“Il permesso per spararmi. Oh, May.”
Le concesse un altro secondo, poi reagì: afferrò la pistola con la mano sinistra e gliela tolse con uno strattone, mentre con la destra stringeva il suo collo magro e la inchiodava senza sforzo contro il muro.
May graffiò e sputò e cercò di morderlo, ma era troppo tardi: non era forte quanto lui e, ormai, era in una posizione svantaggiosa.
«Ti ucciderò, Ren» soffiò. I suoi occhi chiari lampeggiavano di furia, una collera fredda che contrastava orribilmente con il suo aspetto.
Ren la ignorò e si prese qualche secondo per osservare la pistola: una Beretta perfettamente lucida e pulita, che nella sua mano sembrava minuscola. Piccola proprio come la ragazza bionda che la impugnava nei vicoli di quel quartiere dimenticato da Dio.
Attese che May smettesse di tentare di liberarsi, poi la lasciò andare. Lei si accasciò sul marciapiede lurido, cercando il sostegno della parete e tossendo, mentre i lividi della stretta si scurivano sulla sua gola.
«Tu non puoi uccidermi» la informò Ren. Gettò la Beretta ai suoi piedi e riprese a camminare verso casa, desideroso di riscaldarsi vicino al termosifone.
Si era allontanato solo da qualche secondo, quando lì udì. Anche loro avevano abbandonato la strada per infilarsi nei vicoli sporchi e poco illuminati. Continuavano a urlare e a cantare canzoni disgustose e questo poteva significare solo due cose: o volevano attirare attenzioni sbagliate o, più probabilmente, erano troppo sbronzi per capire quello che stavano facendo.
Ren affrettò il passo. Era stanco e provato dalla lunga giornata; desiderava solo rientrare al più presto, mangiare e godersi un meritato riposo.
«Ehi, bionda» biascicò uno degli uomini, fra le risate degli altri. A quanto pare, avevano trovato qualcuno da infastidire. «Quanto per il culo?»
Senza che se ne rendesse pienamente conto, i piedi di Ren rallentarono fino a fermarsi. Si voltò verso l'entrata del vicolo, in silenzio, e non dovette attendere molto prima che un rumore sordo e un coro di fischi sguaiati lo informassero che May aveva reagito. Sentì il suo volto distendersi in un cauto sorriso, mentre visualizzava l'immagine di lei che prendeva a calci quel branco di idioti. Era piuttosto divertente.
«Era solo per dire!» strepitò lo stesso uomo, incattivito. «No, non fare così» le sue parole furono accompagnate da un grido.
«Dai, non avere paura!» esclamò un'altra voce sgangherata, mentre lei continuava a urlare. «Facciamo pace.»
Ren sospirò. Gli dispiaceva per May ma, d'altronde, cosa si aspettava? Girovagare di sera, da sola, in un quartiere come quello... Avrebbe dovuto essere più sveglia.
«Vieni qui, bionda, fatti guardare» una quarta voce, resa grottesca dall'eccitazione, si aggiunse al coro.
“Non sono affari miei”, si disse il giovane. Ma allora perché non se ne stava andando?
May urlò ancora. Un rumore sordo, orribile, di carne che si scontrava con altra carne, e le sue grida si tramutarono in singhiozzi.
«Così va meglio» commentò il primo uomo. «Quando piangono mi viene durissimo.»
“Figlio di puttana.”
Prima di capire cosa stesse facendo, Ren infilò una mano nel cappotto e afferrò il calcio della pistola.
“Spreco di spazio.”
Corse nel vicolo e si arrampicò sulla scala antincendio di un palazzo, senza preoccuparsi di essere silenzioso: il metallo cigolava sotto i suoi piedi, ma sicuramente quei pezzi di merda non gli avrebbero prestato attenzione.
La luce era fievole, ma a Ren bastò per vedere May trattenuta a terra con i pantaloni abbassati.
In quel momento, uno degli uomini con il giubbotto di pelle le si accucciò fra le gambe e le sputò in faccia. «Sai cosa mi piace in una ragazza come te? Il mio caz-»
Il proiettile centrò la sua fronte. Il cranio si aprì e liberò un fiotto di sangue e pezzi di materia cerebrale, che si riversarono sul marciapiede e sui suoi occupanti. Il corpo ondeggiò per qualche istante e poi rovinò a terra, rantolante. Non ci fu bisogno di sprecare ulteriori munizioni: gli altri quattro si dileguarono fin troppo in fretta, strillando come ragazzine.
Ren sapeva che lo sparo avrebbe potuto attirare qualcuno, ma continuò a fissare il fondo del vicolo finché fu sicuro che se n'erano andati.
Chiedendosi perché mai avesse dovuto sprecare un proiettile, sedette sulla scala, in silenzio. Rifletté finché May non fu in grado di rivestirsi e di alzarsi, tremando in modo tanto evidente che c'era da chiedersi come riuscisse a camminare. La guardò allontanarsi lentamente e girare l'angolo per tornare sulla strada illuminata.
Solo allora si diresse verso casa.



Ren era seduto all'unico tavolo del suo piccolo appartamento. Aveva già finito di mangiare da un pezzo e osservava con rabbia il piatto di pasta di fronte a lui. Ormai doveva essere freddo.
Stufo di aspettare, si diresse verso l'armadio in cui custodiva le sue armi e ne prese alcune per lucidarle. In quel momento, udì il cigolio della porta d'ingresso.
«Sei in ritardo» commentò, quando lei entrò nella stanza.
May gli lanciò un'occhiata tagliente e non replicò. Trangugiò in pochi bocconi la pasta e si chiuse in bagno senza degnarlo di un secondo sguardo.
Ren decise di perdonarla per il suo comportamento: dopo tutto, aveva avuto una brutta esperienza ed era sconvolta. Probabilmente si era infilata sotto la doccia e si stava stronfinando il corpo con forza, per lavarsi via di dosso le mani di quei pezzi di merda.
Lasciandosi sfuggire un sospiro, il giovane raccolse la borsa di lei dal pavimento dove l'aveva gettata. Con disgusto, si accorse che era lurida: la stoffa, un tempo, doveva essere stata arancione, forse addirittura gialla; ora sembrava marcia e faceva schifo.
Trattenendo il respiro, Ren vi infilò una mano, per verificare che, nello scontro con i pezzi di merda, non avesse perso la Beretta. Trovò senza sforzo la pistola, quindi controllò che ci fossero anche il portafogli e gli altri oggetti personali: l'avevano già derubata una volta e aveva dovuto occuparsene lui; non aveva alcuna intenzione di ripetere l'esperienza.
Toccò con le dita un pezzo di carta e lo estrasse, credendo si trattasse di denaro, ma era solo la fotografia strappata che May si portava sempre dietro. Ren la lisciò contro la coscia, per cercare di eliminare le pieghe che la rovinavano, e la esaminò.
Ritraeva una bambina bionda fra le braccia di una donna di rara bellezza, seduta; alle loro spalle un uomo calvo e rubicondo si appoggiava allo schienale della poltrona. La tensione sui visi dei genitori era evidente persino dietro l'alone di impronte e di grasso che ricopriva la foto.
“Davvero una splendida famiglia”, si disse Ren, riponendola nella borsa.



Quando May uscì dal bagno, era tornato al lucidamento delle armi e si stava occupando di un Derringer.
La ragazza spostò una sedia trascinandola sul pavimento e si sedette il più lontano possibile.
«Asciugati i capelli» le disse Ren, evitando di cogliere la provocazione. «E mettiti qualcosa addosso. Fa freddo.»
Lei ringhiò ma obbedì: aveva capito da tempo che era meglio non farlo arrabbiare. Entrò in camera e ne uscì indossando una felpa e dei pantaloni di tuta. Si era coperta con il cappuccio, notò lui. Probabilmente i lividi sulla sua gola si erano scuriti e non voleva dargli la soddisfazione di vederli. Come se gliene importasse qualcosa.
«A titolo informativo, ti consiglio di non andare in giro da sola quando fa buio» continuò Ren. «Sei una preda facile, bionda
May colpì la mano di lui con il dorso della sua, e il Derringer cadde sul pavimento.
«Ti seguirò sempre, ovunque andrai!» gridò. «Non mi importa a che ora esci! Ti seguirò finché non avrai pagato!»
Ren raccolse la pistola e la ripose con cura nell'armadio. «Vattene a dormire, May» sibilò.



Credeva che non sarebbe mai riuscito a prendere sonno ma, nel momento in cui il suo corpo toccò il materasso, si addormentò.
Sognò la prima volta che May si era presentata alla sua porta. Erano passati solo alcuni mesi, ma a volte sembravano anni. I suoi capelli sembravano un nido di uccelli e aveva le guance scavate. Gli avambracci che spuntavano dalla felpa enorme sembravano troppo magri per appartenere a un'adulta. Stringeva fra le mani una scheggia di vetro recuperata chissà dove e gli occhi chiari lo perforavano con la stessa collera fredda che gli riservava ogni giorno da allora. Gli aveva detto che l'avrebbe ucciso, perché lui aveva assassinato i suoi genitori.
Quella era stata una brutta giornata e Ren aveva pensato che sì, era un cane e si meritava qualunque cosa potesse accadergli, e dato che prima o poi qualcuno si sarebbe vendicato di lui, tanto valeva che fosse quella ragazzina. D'altronde, lui lo sapeva meglio di chiunque altro: la vita di un uomo non vale poi granché.
Le aveva dato la possibilità di farlo, le aveva offerto la gola... ma lei era rimasta immobile, stringendo convulsamente la sua arma, senza riuscire a colpire.
Ren l'aveva guardata bene: sembrava che potesse cadere in pezzi da un momento all'altro. Forse era passato del tempo dall'ultima volta che aveva mangiato e sicuramente aveva bisogno di farsi un bagno. Non sapeva cosa l'avesse spinto a dirglielo, ma l'aveva fatto. Aveva chiesto: «Perché non entri?»
Aveva ancora sulla retina l'espressione esterrefatta di lei quando il sole, filtrando dalle tapparelle, lo svegliò.
Sbadigliando, Ren si passò una mano sul viso e si sollevò, facendo cigolare il letto sotto il suo peso.
Un mugolio alla sua destra attirò la sua attenzione. May dormiva su un fianco, rivolta verso di lui; si era mossa e ora le lenzuola lasciavano scoperto il suo busto. Affondava la testa nel cuscino e i capelli biondi ricadevano sul suo viso, nascondendolo in parte. Teneva un braccio disteso sul materasso, l'altro piegato, la mano vicino al volto.
Per qualche momento, Ren ammirò la luce giocare con il suo corpo, accarezzare la linea morbida della sua spalla, creare chiaroscuri tra le coperte.


 

***



May si svegliò con un sussulto, senza essersi resa conto di aver dormito. Ogni rumore le faceva temere che loro fossero tornati a prenderla. I quattro che erano rimasti, perlomeno.
Annodò i capelli con un elastico e si asciugò la fronte sudata, cercando di calmarsi. Non era la prima volta che le succedeva di essere aggredita, ma prima era sempre riuscita a cavarsela da sola. Non aveva mai avuto bisogno di aiuto. Specialmente del suo aiuto. La rabbia la fece avvampare e colpì il materasso con un pugno.
Mentre si specchiava, le macchie scure sulla sua gola, perfettamente compatibili con le dita di una mano, le fecero venire il voltastomaco.
“Fanculo.”
Il tonfo dell'uscio che si chiudeva la riscosse dai suoi pensieri cupi e si precipitò fuori dalla stanza.
«Ren!» gridò, ancora imbambolata dal sonno. «Ren! Stai andando al lavoro?»
Corse fino all'ingresso e aprì la porta, rimuovendo la barriera che li separava e specchiandosi negli occhi scuri di lui, tanto profondi da sembrare neri, impenetrabili. Occhi da assassino.
«Non sono affari tuoi.»
«Sono affari miei!» ribatté May, alzando la voce. «Stai andando a uccidere qualcuno?»
Ren sorrise. «E allora?»
Non attese la risposta e si allontanò, con la borsa del fucile in spalla.
La ragazza rientrò in casa di corsa e aprì l'armadio delle armi, afferrando una pistola a caso. L'avrebbe raggiunto e gli avrebbe sparato, così avrebbe impedito che altri padri e altre madri fossero assassinati. Avrebbe vendicato i suoi genitori e, allo stesso tempo, avrebbe fatto la cosa giusta.
Tornò all'ingresso con l'arma fra le mani e la puntò contro di lui. Strinse il calcio, ripetendosi che ora l'avrebbe fatto, solo un secondo per calibrare il colpo e avrebbe sparato, lui sarebbe morto e lei si sarebbe purificata nel suo sangue.
Tu non puoi uccidermi.
May sospirò, guardando la figura di Ren farsi sempre più distante, e abbassò le braccia di scatto.
Perché era rimasta con lui così a lungo?

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Capitolo 3
*** III ***


 – III –




Secondo le indicazioni, il bersaglio si era recato al vecchio teatro per discutere di un affare che non sarebbe stato concluso. Ricevuto il rifiuto, probabilmente avrebbe subodorato la trappola e si sarebbe affrettato ad andarsene.
Non appena lo vide uscire dall'edificio, Ren prese la mira e sparò. Il proiettile centrò il cranio dell'uomo, facendone sgorgare un fiotto denso che macchiò i visi e i vestiti dei sottoposti. Il bersaglio fece ancora qualche passo, le gambe che ancora reggevano il suo corpo, ma non lo sentivano più. Infine rovinò a terra in una pozza di sangue.
Ren smontò il suo M200 CheyTac e lo ripose con calma nella custodia, ignorando le urla allarmate ed irose della scorta. Non avrebbero chiamato ambulanze o polizia; si sarebbero limitati a sbraitare per qualche minuto, cercando di capire da dove fosse partito il proiettile. Ren non se ne preoccupava: se anche fossero stati così audaci da raggiungere il tetto su cui si trovava, li avrebbe accolti con il piombo. Era sicuro che alla fine il timore per la loro inutile vita avrebbe prevalso sul desiderio di vendetta. Privi di una guida, avrebbero raccolto ciò che rimaneva del loro capo e se ne sarebbero andati.
Non dovette attendere molto prima che la sua predizione si realizzasse. Quando udì i motori delle loro costose auto rombare lontano, Ren scese lungo la scala antincendio del palazzo e percorse il lungo vicolo, mettendo quanta più distanza possibile fra lui e il cadavere. Ebbe appena il tempo di imboccare la strada principale, prima di sentire l'urlo che indicava che ora la polizia sarebbe stata chiamata.
L'aria invernale lo sferzava, fredda e tagliente. Stava cominciando a imbrunire, ma era ancora presto perché si presentasse al No way out per bere la sua solita pinta. Stan non gli avrebbe impedito di entrare ma, dopo aver portato a termine un lavoro, Ren preferiva sempre aspettare qualche ora prima di andare da lui, per evitare che potessero considerarlo suo complice e perquisire il locale. Oltre che il suo fornitore di informazioni preziose, Stan era anche una persona a posto. Ren era meticoloso e attento a non lasciare tracce, ma sicuramente la città era piena di tizi più in gamba di lui.
Rimpiangendo le stufe che lo avrebbero accolto più tardi nel locale, si avvolse più strettamente nel cappotto e si rassegnò a girovagare senza meta nella zona sicura.
Quell'area poteva dirsi migliore rispetto all'inferno in cui era abituato a lavorare. Le strade erano ampie e trafficate, i lampioni erano accesi e, nonostante stesse facendo buio, molti negozi erano ancora aperti e pieni di clienti. Molti edifici erano piacevolmente decorati con installazioni luminose.
Passeggiando, Ren sbirciava svogliatamente le vetrine. Non aveva realmente bisogno né voglia di comprare qualcosa, ma era un utile passatempo ed era bello poter camminare senza doversi preoccupare, per una volta, di individuare la via di fuga più vicina in caso di incontri sgraditi.
Un negozio particolarmente colorato e chiassoso attirò la sua attenzione e non riuscì a trattenere un tremito, quando si rese conto che si trattava di una gelateria. Chi mai poteva voler mangiare un gelato in pieno inverno? A giudicare dalla folla, i pazzi erano tanti.
Incuriosito, Ren decise di avvicinarsi e scoprì che i proprietari avevano trovato un buon modo di fare affari anche nella stagione fredda; infatti, invece dei gelati, vendevano varie qualità di cioccolata calda. Festoni, luci e un bicchierino in omaggio lo informarono che era capitato lì proprio il giorno dell'inaugurazione.
Ren non amava le cose dolci, ma gradì il tepore che la bevanda trasmetteva al suo corpo. Mentre la sorseggiava lentamente, cercò di tornare con la memoria all'ultima volta che gli era capitato di berla, ma si arrese dopo pochi attimi.
«Ne vuoi ancora?» chiese una delle ragazze dietro il bancone, rivolgendogli un sorriso provocante.
Ren valutò che avrebbe potuto trovarla attraente, se il biondo dei suoi capelli fosse stato più naturale. «No, ti ringrazio» disse, porgendole il bicchiere vuoto.
«Neanche da far assaggiare a qualcuno a casa?» ci riprovò lei, alzando la voce nel tentativo di trattenerlo.
“E a chi? Io non ho nessuno.”
Ma dovette contraddirsi immediatamente: da qualche tempo c'era qualcuno. Certo, lo pedinava e frugava fra le sue armi ed era incapace di badare a se stessa ed era un peso. Ma a volte era seduta a guardare la televisione quando lui rientrava, e gli mormorava un distratto “ben tornato”.
La voce della ragazza lo riscosse dai suoi pensieri. «Se abiti lontano puoi prendere il nostro cioccolato. Così non c'è pericolo che si freddi.»
Ren uscì dalla gelateria con una tavoletta in mano e ricominciò a vagare per le strade, chiedendosi perché mai l'avesse accettata; le cose dolci non gli piacevano e regalarla a May era fuori discussione. Se gliel'avesse data, lei avrebbe colto l'occasione per tirare fuori i suoi genitori e per ricordargli che un giorno l'avrebbe ucciso. E lui era stanco di sentirselo dire.



Passate un paio d'ore, Ren si disse che poteva arrischiarsi a fare la sua solita visita al No way out, quindi lasciò i quartieri più ricchi e si spostò verso il confine con il territorio di Frozen Moon. Per diversi isolati non incrociò nessuno e ascoltò il rimbombare dei suoi passi nelle strade vuote. Il contrasto con il centro della zona sicura era quasi ridicolo.
Attraverso la vetrina riuscì a vedere che nel bar c'erano pochi clienti e l'idea di scaldarsi davanti a una stufa era molto invitante. Ren affrettò il passo, desideroso di sorseggiare birra scura e di scoprire cosa Stan volesse dirgli.
Improvvisamente udì l'eco di altri passi. Due, forse tre persone, probabilmente uomini, pesanti. Non credeva nelle coincidenze, quindi si fermò e toccò la pistola sotto la stoffa del cappotto, pronto a difendersi.
«Vogliamo solo parlare» esordì una voce maschile.
Il giovane si voltò con noncuranza e vide tre uomini. Il più basso sorrise e alzò le braccia, mostrandogli i palmi delle mani. Gli altri due si limitarono a guardarlo con aria truce. Entrambi indossavano completi eleganti e avevano i capelli lunghi legati dietro la nuca.
«Non badare a loro» commentò il suo interlocutore. «Sono solo cani da guardia.»
Ren riportò l'attenzione su di lui. Indossava un completo e un cappotto di buona fattura. Inforcava occhiali senza montatura e, dietro le lenti, i suoi occhi erano attenti e vigili. Sembrava meno minaccioso dei suoi compagni, ma aveva una strana aura che gli fece accapponare la pelle.
Come se non bastasse, i tre non sembravano preoccupati di trovarsi in quel quartiere, di notte, a volto scoperto e vestiti in quel modo, e questo poteva significare solo una cosa: erano loro quelli di cui bisognava preoccuparsi.
«Posso esservi utile?» chiese Ren, cercando di essere il più educato possibile. Costrinse se stesso a lasciare la presa sulla pistola, ma tenne la mano abbastanza vicina da poterla afferrare in fretta, se fosse stato necessario.
«Il mio nome è Higuchi» rispose l'altro, estraendo un fazzoletto bianco della tasca. Con lentezza studiata, tolse gli occhiali ed eliminò dalle lenti ovali invisibile sporcizia. Quando dispiegò la stoffa, Ren lesse chiaramente le parole L'Oscurità è ordine ricamate in color rosso sangue.
«Voglio complimentarmi con te» disse Higuchi, soddisfatto che il messaggio fosse stato colto. «Hai una mira eccellente e oggi l'hai dimostrato.»
«Sei il mio cliente?»
«Temo di no.»
Ren sorrise senza alcuna allegria. «Cosa vuoi?» domandò. Sapeva di stare camminando su uno strato di ghiaccio molto sottile, ma optò per lasciare da parte i convenevoli.
«Io e i miei cani da guardia» rispose Higuchi, indicando con un cenno della testa i suoi compagni, come per ribadire la loro esistenza. «Ci stavamo chiedendo se tu sapessi che lo spreco di spazio che hai eliminato oggi era nemico giurato di Frozen Moon.»
Prima che Ren potesse reagire, infilò la mano in un'altra tasca del cappotto e ne estrasse una spessa busta. «Per te» spiegò. «Ci hai fatto un grosso favore. Frozen Moon sa ricompensare i suoi amici.»
Il giovane si lasciò sfuggire una lieve risata. Non era la prima volta che qualche organizzazione criminale lo corteggiava. Certo, mai nessuno di così potente e pericoloso... ma non gliene importava un fico secco.
«Vi ringrazio, ma sono già stato pagato. Non ho bisogno di altri soldi. Per me è sufficiente riuscire a sopravvivere e ci riesco da solo.»
«Non ne dubito» disse Higuchi, squadrandolo con sufficienza. Il suo sorriso non si spense, quando domandò: «Ma per quanto tempo ancora riuscirai a sopravvivere?»
Ren si irrigidì, valutando in fretta le sue possibilità. Anche se fosse riuscito a estrarre la pistola prima che uno dei due energumeni lo uccidesse a mani nude, non sarebbe sopravvissuto a lungo. Avrebbe potuto provare a scappare, ma Frozen Moon aveva occhi e orecchie ovunque, anche nella zona sicura, anche nel territorio dei Vigilanti, anche nei tribunali e nelle centrali di polizia. E Frozen Moon non perdonava.
«Ti ascolto» disse infine.
«Non disprezzare il nostro denaro» disse Higuchi, con lo stesso tono che avrebbe potuto usare per rimproverare un bambino. «Lavorare per noi potrebbe farti comodo.»
Ren scosse la testa. Aveva passato la vita in quella città dimenticata da Dio, ma non aveva mai avuto alcun interesse a prendere parte alla guerra civile che la martoriava. Che i pezzi grossi si uccidessero a vicenda, se lo desideravano. Lui non voleva farne parte.
«Lo so, lo so» riprese Higuchi. «Tu sei un lupo solitario e io lo rispetto.»
Estrasse un accendino laccato in oro e accese una sigaretta al mentolo. Espirò diverse boccate con aria pensosa, come se stesse riflettendo sulle parole da usare. Lanciò un'occhiata agli energumeni alle sue spalle e annuì, mentre dal suo volto spariva ogni traccia di cordialità.
«Un lupo solitario diventa una preda fin troppo facile, quando i cani sono in branco» disse, perforando Ren con uno sguardo glaciale.
Infilò nuovamente la mano nel cappotto e prese un involucro di carta bianca, che dispiegò con cura maniacale, rivelando diverse fotografie. «Tutti hanno un prezzo» sussurrò morbidamente, tenendole in mano come fossero un mazzo di carte. «E tutti hanno delle debolezze.»
Ren percepì i muscoli delle braccia contrarsi mentre stringeva i pugni. Tutte, dalla prima all'ultima, erano foto di May.



Ren inciampò e si guardò intorno, rendendosi conto di essere arrivato molto vicino a casa. Non ricordava quasi nulla del tragitto che aveva percorso. Sapeva solo che Higuchi si era premurato di prendergli la mano, aprire le sue dita e consegnargli le fotografie, prima di andarsene con i suoi cani da guardia. Dopo, aveva iniziato a camminare.
Non aveva mai voluto schierarsi per una banda o per l'altra; lavorare per una delle due avrebbe significato inimicarsi l'altra. Oltre a questo, l'idea di avere un capo a cui obbedire ciecamente non gli piaceva. Ma cosa poteva fare? Molti altri avevano cercato di reclutarlo e l'avevano minacciato, ma nessuno di loro era Frozen Moon. Nessuno di loro era ricorso a quel tipo di ricatto.
“Perché prima non avevi nulla con cui potessero ricattarti”, lo derise una voce nella sua testa.
Il giovane scosse la testa, cercando di scacciarla. Nulla era cambiato nella sua vita: lui non aveva alcuna debolezza.
“Sì, invece”, continuò la voce, melliflua, “lascia che ti dia alcuni indizi: un pessimo carattere, occhi chiari e i capelli biondi che ti piacciono tanto...”
«Fanculo» sputò Ren, a denti stretti. Rallentò l'andatura fino a fermarsi, cercando di riordinare i suoi pensieri e passandosi più volte le mani fra i capelli, come il gesto potesse aiutarlo a trovare una soluzione.
Mentre scuoteva la testa, con la coda dell'occhio colse un movimento alla sua sinistra, ma non fu abbastanza rapido. La lama del coltello lo colpì sulla guancia, squarciandone la carne.
Ren si ritrasse, portandosi la mano alla ferita nel tentativo di contenere il dolore e il sangue.
«Tu!» ringhiò, rivolto al suo assalitore.



 

***




La consapevolezza di essere riuscita a ferirlo avrebbe dovuto renderla euforica e sicura di se stessa, ma May continuava a tremare. Sperava solo che lui fosse troppo arrabbiato per accorgersene.
«Tu!» le ringhiò, premendosi la mano sul taglio. Si era ripreso in fretta ma, per un secondo, prima di riconoscerla, i suoi occhi blu avevano lampeggiato di sorpresa e di qualcosa di simile alla paura.
May si ricompose e lo fissò con uno sguardo che sperava fosse freddo quanto quello di lui.
«Hai ricevuto del denaro, non è vero?» chiese, stringendo le dita intorno al manico del coltello.
Ren sorrise senza allegria. Infilò una mano in tasca e ne estrasse un fazzoletto, che usò per tamponare il sangue che gli colava sulla guancia.
«Congratulazioni per la tua perspicacia» commentò.
Ostentava noncuranza, ma May sapeva che, sotto gli abiti, i suoi muscoli erano tesi, pronti a scattare.
Lentamente estrasse la Beretta dalla borsa gualcita e gliela puntò contro. «Hai accettato del denaro anche per uccidere i miei genitori?» chiese.
Ren sbuffò, rivolgendole uno sguardo allucinato. «Ancora con questa storia? Non ti rendi conto di quello che è appena successo? Proprio non ti rendi conto?» sbraitò, avanzando verso di lei.
“Ora”, si disse May, “lo devi fare ora!”
Lui scoppiò a ridere, come se le avesse letto nel pensiero. «Non dirmelo! Stai per uccidermi?» chiese, con un sorriso di scherno. Avanzò ancora, ignorando la minaccia.
May tese le braccia, mirando al viso di lui. Ecco, quello era il momento. Sarebbe stato come l'aveva sempre immaginato. Le sue mani sudate strinsero il calcio della pistola, mentre l'indice accarezzava il grilletto.
Ren sbuffò ed emise un ringhio, prima di scattare in avanti e colpirla.



I rumori si rincorrevano, rapidi, sovrapponendosi gli uni agli altri. L'oscurità non era totale: May era consapevole che, anche se non sulle sue gambe, in qualche modo si stava spostando. Lo sapeva perché, nonostante l'impossibilità di focalizzare l'attenzione su ciò che la circondava, intuiva che c'era qualcuno a muoversi per lei.
Dopo un intervallo di tempo imprecisato, atterrò in malo modo su una superficie morbida e le sfuggì un gemito.
«Dove-?» mormorò, prima di intuire di trovarsi nella camera da letto dell'appartamento. «Ren?» chiamò, mentre i ricordi di quello che era successo affioravano nella sua mente. Le sfuggì un singulto, mentre cercava di immaginare quanto potesse essere arrabbiato. «Ren, io-»
«Ringraziami per non averti uccisa» la sua voce era fredda e tagliente, proveniva da un punto imprecisato nell'oscurità della stanza. «Mi avresti mancato, stupida ragazza.»
«Non è vero-» May protestò debolmente, mentre i suoi occhi si abituavano alla mancanza di luce e riuscivano a intravedere Ren in piedi, appoggiato al muro.
«Sta' zitta» ribatté lui, staccandosi dalla parete. Dal tono della sua voce si capiva che stava sorridendo. «Tremavi come un uccellino bagnato.»
May udì un tonfo e vide la sua Beretta luccicare sul pavimento.
«Avresti sbagliato mira, perché io ti terrorizzo» commentò Ren. Si tolse il cappotto e lo abbandonò in un angolo, avvicinandosi.
La ragazza sapeva cosa stava per succedere; non era la prima volta che accadeva e non sarebbe stata l'ultima. Si voltò, per non vederlo mentre slacciava la cintura, ma udì ugualmente il tintinnare delle cinghie. Quando avvertì il letto sobbalzare sotto il peso di lui, tentò di alzarsi, ma le sue mani l'afferrarono con forza e la spinsero contro il materasso.
«E fai bene ad avere paura» mormorò Ren, sfilandole pigramente i pantaloni. Le toglieva sempre tutti i vestiti, ma lui teneva sempre qualcosa addosso; probabilmente aveva qualcosa da nascondere.
«Niente reggiseno, oggi? Beh, non che ti serva a molto.»
La ragazza gli diede uno spintone, cercando di sbilanciarlo, ma le mani di lui la spinsero giù e la inchiodarono al letto.
«Fottiti, stronzo!» ringhiò.
Ren sorrise, sfiorandole la guancia con le dita. Si chinò, fino a che le sue labbra furono tanto vicine al suo orecchio che May riusciva ad avvertire il calore del suo fiato. «Sfortunatamente per te, ragazzina» le sussurrò. «Anch'io oggi sono di pessimo umore.»



Nel momento in cui May aprì gli occhi, desiderò di non essersi mai svegliata. Aveva la bocca impastata e sembrava che migliaia di sottili spilli le si conficcassero nella carne ogni volta che si muoveva. Si passò una mano fra i capelli e scoprì che erano annodati e sudati. Litigando con le lenzuola, che le si erano attorcigliate attorno, riuscì ad issarsi sul materasso, ma quando si sedette una fitta di dolore fra le gambe le strappò un gemito.
«Ho esagerato.»
La voce di Ren proveniva da un punto imprecisato nella penombra. May riuscì a udire i suoi passi mentre si avvicinava. Una mano le porse qualcosa di freddo.
La ragazza aprì la bottiglia e bevve un sorso d'acqua, che contribuì a schiarirle la mente. «Nessun problema» disse infine. Avvertì il cigolio del materasso mentre Ren le si accomodava accanto sul letto.
«Anche tu hai un taglio sul viso.»
May si portò istintivamente la mano alla guancia destra. «Un idiota voleva che succhiassi il suo cazzo» spiegò.
Ren ridacchiò. «Dio, attrai troppa attenzione in questo posto» commentò.
La sua voce aveva una sfumatura strana, che la ragazza non sapeva interpretare. Non che di solito riuscisse a capire Ren, ma in quel momento le sembrava più cupo del solito. Si chiese se il sesso rabbioso non gli fosse bastato per sfogare la sua ira.
«Tieni. Ti serviranno prima o poi.»
May allungò la mano e toccò uno spesso fascio di banconote. Scosse la testa e si ritrasse, disgustata dal pensiero che quei pezzi di carta zuppi di sangue altrui potessero toccarla. «Non ho bisogno del tuo dannato denaro» soffiò.
Ren tacque a lungo. Infine si alzò e lasciò cadere la mazzetta sul letto. «Prendili lo stesso.»
May avvertì il tocco leggero delle sue dita fra i capelli. «Non toccarmi, Ren» disse.
Lui obbedì. «Mi dispiace» mormorò, mentre si infilava il cappotto e prendeva la borsa del fucile.
«Perché ti scusi?»
Il giovane non rispose e si allontanò, avviandosi verso l'ingresso dell'appartamento.
«Ren!» esclamò May. Cercò di alzarsi, ma si rese conto che la sua caviglia sinistra era stata legata alla struttura in ferro del letto.
«Non seguirmi più» la voce di Ren era glaciale. «Non vorrei essere costretto a ucciderti gratis» disse, prima di sbattersi la porta alle spalle.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV





May si era consumata le corde vocali a forza di gridare insulti e minacce, ma non aveva ottenuto nulla se non un fastidioso mal di gola.
L'interruttore era troppo lontano, quindi dovette accontentarsi della flebile luce dell'abat-jour per cercare la chiave delle manette che la incatenavano al letto. Sempre che lui l'avesse lasciata.
«Oh, fanculo!» esclamò, quando finalmente la individuò sul pavimento.
Si raddrizzò, cercando di ignorare la fitta di dolore in mezzo alle gambe ed esaminò la caviglia. Era un po' ammaccata, ma il metallo non l'aveva tagliata.
«Stronzo.»
Come cazzo gli era venuto in mente di incatenarla al letto? Sì, ogni tanto scopavano, ma lei non era la sua puttana. E dove diamine era andato, comunque? Era tardi, l'ora di cena doveva essere passata da un pezzo. Non era forse lui a dire sempre che stare fuori di notte era pericoloso?
«Chi se ne importa!» esclamò May, interrompendo bruscamente il flusso di domande e pensieri. Si alzò e si vestì in fretta, indossando i primi indumenti che le capitarono fra le mani.
Quando ebbe finito, raccolse la Beretta dal pavimento e la infilò nella borsa. Estrasse poi la foto che ritraeva la sua famiglia e la guardò a lungo, concedendosi di perdersi, per qualche momento, nella sua vecchia vita. L'avrebbe fatta stare male, come tutte le altre volte, ma doveva farlo; doveva ricordare il motivo per cui aveva deciso di avere ancora uno scopo[*]: Ren aveva ucciso i suoi genitori; Ren non doveva vivere.
Mentre riponeva la fotografia, le capitò in mano un oggetto rettangolare. Quando lo prese, rimase a bocca aperta: era una tavoletta di cioccolato fondente. Erano secoli che non ne mangiava.
Lo scartò e lo addentò senza riflettere, godendosi il profumo e il sapore intenso del cacao.
Solo dopo averne inghiottito quasi metà realizzò di non averlo mai comprato. Chi poteva essere stato? Nessuno aveva accesso alla borsa a parte lei. E a parte...
May sospirò e fissò ostinatamente ciò che restava della tavoletta, come se potesse darle una risposta. Senza smettere di guardarla, si distese e affondò fra le lenzuola, che odoravano ancora di sudore e di sesso.
Non era stata la prima volta che Ren aveva sfogato su di lei le proprie frustrazioni: la cosa si ripeteva fin da quando era iniziata la loro improbabile convivenza – all'inizio lei si era ribellata, aveva lottato ed era anche riuscita, in alcune occasioni, a colpirlo abbastanza forte da fargli male, ma sempre più spesso lo lasciava fare senza reagire. Dopo tutto, anche se sentirlo dentro, talvolta, la ripugnava ancora, altri erano stati più ripugnanti. Inoltre, lui era bravo in quello che faceva; se la usava per soddisfare i suoi bisogni, non esisteva motivo per cui lei non potesse fare altrettanto –, ma quella sera c'era stato qualcosa di diverso.
May non era sicura di saper spiegare cosa, ma era certa che fosse così. Nelle battute sarcastiche, nel modo in cui l'aveva presa, nelle sue scuse c'era stata una frustrazione diversa dal solito, un'ira disperata che non gli aveva mai visto. Possibile che fosse solo arrabbiato con lei? E perché le aveva nascosto del cioccolato nella borsa?
«Stronzo» ripeté, nascondendo il viso nel cuscino.
Era un bastardo egoista e un assassino. E lei continuava a stare con lui.


 

***



«Per quanto lo sperassi, non ero convinto di rivederti così presto» disse Higuchi, porgendogli un calice di rosso. Aveva richiesto che gli portassero una bottiglia d'annata, che aveva stappato personalmente per festeggiare il lieto incontro.
Ren non capiva un cazzo di vino, quindi vuotò il bicchiere in un solo sorso e lo appoggiò con mala grazia sul tavolo di vetro che li divideva.
Quando era uscito di casa non aveva idea di come avrebbe fatto a ritrovare Higuchi, ma era bastato mettere piede nel territorio di Frozen Moon perché i suoi uomini trovassero lui. Senza dire una parola, l'avevano spogliato delle sue armi e gli avevano fatto strada fino all'albergo più lussuoso della zona, per poi scortarlo in una delle suites.
La stanza era enorme: aveva due camere e svariati bagni, e il salotto in cui stavano bevendo era più grande del suo intero appartamento.
Higuchi seguiva pazientemente il suo sguardo, senza perderlo di vista per un secondo.
«Questo hotel è di proprietà di Frozen Moon» spiegò. «Ne possediamo molti altri, in cui alloggiano i nostri collaboratori.»
Bevve un sorso di vino e lo degustò con calma, prima di fare un cenno d'assenso al maître che l'aveva scelto. L'uomo sorrise e Ren fu certo di vederlo sospirare di sollievo.
«Se ti unissi a noi, anche tu potresti vivere in una suite» continuò Higuchi, spiandolo da dietro le lenti degli occhiali. «Di solito i novellini hanno stanze normali, ma tu ti farai subito una reputazione, ne sono sicuro.»
«Ho già una casa» disse Ren, trangugiando il secondo calice.
«Ma certo.»
Qualcuno bussò alla porta e uno degli energumeni andò ad aprire, tornando dopo qualche attimo con una cartelletta marrone. La depose sul tavolo di fronte a Ren, lanciandogli un'occhiata minacciosa.
Il giovane ne estrasse una serie di schede che contenevano informazioni su alcuni “soggetti scomodi”. Le analizzò per qualche secondo, riconoscendo nomi e volti noti. Per quanto ne sapeva, nessuno di loro era parte dei Vigilanti.
«Come ho già detto» iniziò. «Non ho interesse a unirmi alla vostra organizzazione.»
«Purtroppo.»
«Ho sempre mantenuto un profilo basso e intendo continuare così. Non voglio guai, né con voi né con i Vigilanti. Sono fuori dalla vostra faida. Fuori.»
Higuchi giunse le dita delle mani e tacque, lanciandogli un'occhiata penetrante.
Ren non distolse lo sguardo. «Per questa volta vi farò un favore» disse, riponendo i fogli all'interno della cartelletta. «Solo per questa volta.»



«Eccellente!» esclamò Higuchi, osservando l'Audi che sbandava e finiva fuori strada. «Un altro lavoro portato a termine.»
“Sta' zitto, idiota”, pensò Ren, tenendo d'occhio l'auto attraverso il mirino. Aveva centrato la fronte della guardia del corpo alla guida, ma non era detto che il bersaglio fosse morto nell'incidente.
Dopo qualche minuto di caos, arrivarono i soccorsi e un'auto della polizia. Un corpo venne estratto dalle lamiere e adagiato sull'asfalto, ma fu subito coperto con un lenzuolo bianco. Non c'era modo di capire se fosse il bersaglio o la ragazzina con le tette rifatte che si stava portando in albergo. Nel frattempo i paramedici avevano montato una barella e si preparavano a trasportare qualcuno all'ospedale.
L'occhio destro di Ren lacrimava per lo sforzo di focalizzarsi sulla scena. Uno dei soccorritori stava sistemando una flebo e si era messo in mezzo, impedendogli di vedere il viso della persona ferita.
“Spostati, maledizione.”
Come se avesse udito l'imprecazione, l'uomo tornò verso l'ambulanza, probabilmente per recuperare qualche strumento utile.
Il colpo aprì una voragine nel petto del bersaglio, schizzando di sangue e tessuti il viso del paramedico rimasto, che si guardò intorno con aria spaesata e iniziò a chiamare a gran voce la polizia, poco lontana. Ma non importava: anche se avessero individuato subito il luogo da cui erano partiti i colpi, non sarebbero mai arrivati in tempo per catturarli.
Ren permise a se stesso di espirare. «Adesso è un lavoro portato a termine» disse freddamente, iniziando a riporre il fucile nella custodia.
Higuchi continuava a guardare la scena attraverso un binocolo, ridacchiando sottovoce. «Hai un'ottima mira e sei molto professionale» commentò ammirato. «È un peccato che tu sia un libero professionista.»
«La vita a volte è ingiusta.»
«Accetta di lavorare per noi» disse Higuchi. «Ti pagheremo bene.»
Ren aveva finito di sistemare il fucile. «Ho detto che ti avrei fatto un favore» ringhiò, issandoselo in spalla. «Non voglio i tuoi soldi. Voglio essere lasciato in pace.»
Il suo interlocutore sorrise, mente gli occhi dietro le lenti lampeggiavano di desiderio. «Ma ora ti voglio più di quanto ti volessi prima» spiegò.
Il giovane lo ignorò. «Questo era l'ultimo» disse, voltandogli le spalle. «Me ne vado.»
Raggiunse le scale in fretta, ma la voce di Higuchi lo bloccò.
«Ti prego di portare i miei saluti alla ragazza dai capelli biondi.»


 

***



Per l'ennesima volta, inconsapevolmente, May si ritrovò in piedi accanto alla finestra a osservare la strada buia. Ovviamente non c'era nessuno in vista.
Ren era sparito da quasi tre settimane e non l'aveva mai contattata. Non che di solito lo facesse.
La ragazza chiuse di scatto le tende e raggiunse la camera da letto. Non era preoccupata. Non lo era. Perché avrebbe dovuto esserlo?
Aveva quasi finito di lucidare la sua Beretta quando udì lo scatto della porta d'ingresso che si apriva, per poi richiudersi immediatamente.
Prima che lei potesse cambiare posizione, Ren irruppe nella stanza da letto, con il fiatone e uno sguardo allucinato. Le lanciò un'occhiata di fuoco e le si avventò addosso, togliendole di mano la pistola.
«Perché la luce è accesa?» la interrogò, indicando con un cenno della testa l'abat-jour sul comodino.
May tacque per alcuni secondi, sorpresa dalla domanda e dal vortice di sentimenti contrastanti che le stava scaldando il petto. «Perché sono ancora sveglia» disse dopo qualche istante, chiedendosi perché mai stesse rispondendo a una domanda stupida.
Ren fece scattare l'interruttore e rivolse la sua attenzione alla finestra della stanza, chiudendo le tende con un movimento brusco.
«Luci spente. Tende chiuse» ringhiò nella penombra. «Tu non esisti.»
«Cosa vuoi dire?»
«Quello che ho detto.»
May scosse la testa, sconvolta. Era come se la scena si stesse svolgendo davanti ai suoi occhi, ma lei non ne facesse parte.
Non riusciva a capire quale fosse l'emozione predominante in lei. Era sorpresa, contenta – contenta – di vederlo, ma una rabbia feroce e indignata le ribolliva nelle viscere: era lui a essersi comportato in modo strano, era lui a essersene andato senza una parola, era lui a essere sparito per settimane. Che diritto aveva di tornare e comportarsi da pazzo?
«Si può sapere che cazzo ti prende?» chiese.
«Cosa mi prende» ripeté lui. Gli sfuggì una risata soffocata, lugubre.
Coprì in un unico passo la distanza che li separava e la fece ricadere sul letto con una spinta. Con una mano le afferrò i polsi e li strinse in una morsa, inchiodandola al materasso, mentre con l'altra si faceva strada fra le sue gambe.
«Che cazzo fai?» strillò May. Si agitò e tentò di respingerlo, ma lui conosceva bene il suo corpo; sapeva dove toccarla e sapeva come farlo. Non ci volle molto perché lei lasciasse da parte la testardaggine e si arrendesse alle sue dita.
«Sei completamente indifesa» sussurrò lui, contro il suo collo. «E sciocca.»
La ragazza voleva rispondere per le rime, ma riuscì solo a reclinare la testa all'indietro, sciogliendosi come burro fra le sue mani.
«Sei una stupida» ribadì lui. «Stupida
May ammutolì. Non era insolito che la rimproverasse e le dicesse quel genere di cose, ma non l'aveva mai fatto con tanta cattiveria.
«Perché cazzo sei piombata nella mia vita?» ringhiò Ren, aumentando l'intensità del suo tocco. «Perché nessuno mi lascia in pace?»
«Ren-»
«Sta' zitta!»
La ragazza mugolò, cercando di allontanarlo. Solo pochi secondi prima sentiva di essere vicina all'orgasmo, ma ora avvertiva una tensione diversa; le faceva male il petto, come se qualcuno l'avesse colpita, come se le avessero infilato a forza qualcosa tra le costole. In un attimo la pressione passò alla gola e gli occhi le si riempirono di lacrime. Voltò la testa di lato, decisa a non mostrare alcun segno di debolezza, ma prima che se ne rendesse conto le sfuggì un singhiozzo.
La voce di Ren imprecò. Le sue mani si fermarono. Rimase immobile per qualche secondo, poi si allontanò da lei, facendo cigolare il letto.
Per alcuni secondi tacquero entrambi, lasciando che il loro respiro tornasse regolare.
May afferrò un lembo del lenzuolo e si coprì, asciugandosi il viso. «Perché ti sei fermato?» chiese. Era una domanda stupida, ma per qualche motivo temeva che, se non l'avesse trattenuto – avrebbe pensato poi a perché volesse trattenerlo –, lui sarebbe sparito di nuovo.
«A me non diventa duro se piangi» disse Ren, in tono brusco.
La ragazza non capì; avvertiva chiaramente la sua erezione attraverso il tessuto dei pantaloni.
«Cazzo. Non è questo» continuò lui. «Non sono come quelli del vicolo. Io non-»
Il cuore di May iniziò a battere più forte, mentre il ricordo delle luride mani di quegli uomini la faceva tremare.
«Dico sul serio» disse Ren. «Non so neanch'io cosa mi prende. Ma non piangere.»
Lei annuì. «D'accordo.»
«Cazzo!» imprecò lui, colpendo con un pugno il materasso. «Non ha senso. Non sopporto che tu pianga.»
«Ren.» May allungò un braccio nell'oscurità fino a sfiorare il suo viso con la punta delle dita, ma lui la bloccò all'istante, afferrandole il polso.
«Va tutto bene, Ren. Sto bene.»
Dopo qualche secondo di silenzio assoluto e immobile, il giovane si rilassò e la liberò dalla sua stretta.
La ragazza ritrovò il suo viso e ne percorse delicatamente i tratti, cercando di visualizzarlo nella mente. Sfiorò la fronte, accarezzò uno zigomo pronunciato, seguì il profilo dritto del naso; toccò le labbra, schiudendole lievemente, premette la pelle ruvida del mento e delle guance.
Era uno stronzo arrogante, ed era bello, e aveva una sua brusca, fredda, patetica gentilezza. E, si rese conto May, nell'oscurità della stanza era solo un uomo.
«Ren.»
Lui ribaltò le loro posizioni e la rovesciò sulla schiena, armeggiando con i suoi pantaloni. «Se non vuoi, ti conviene fermarmi adesso» disse.
May sorrise. Avrebbe pensato poi a chi fosse realmente, e si sarebbe punita per averlo desiderato con tanta forza.
«Non fermarti.»


 

***



La guardò dormire per una interminabile mezz'ora, prima di vestirsi e uscire dall'appartamento. Per qualche motivo l'idea di lasciarla lo infastidiva molto, quasi quanto averla sentita piangere, e dovette fare ricorso a tutta la sua razionalità per non tornare indietro.
Le sue lacrime l'avevano sorpreso, perché lei non aveva mai pianto; non la prima volta che avevano scopato, non quando la trattava male, neanche quando si erano incontrati, quasi tre anni prima, in un corridoio pieno di sangue[*].
Dopo aver lasciato Frozen Moon, Ren aveva camminato senza meta per un paio d'ore, riflettendo. Una volta arrivato nei pressi del suo appartamento, aveva intravisto May dalla finestra della camera. Sedeva sul letto, tranquilla, lucidava una pistola; le tende erano aperte, la luce accesa. Era un bersaglio perfetto, tanto indifesa da farlo sentire impotente. Per qualche motivo questo l'aveva fatto infuriare.
Come poteva proteggerla dall'organizzazione criminale più potente della città, se lei non era neanche in grado di esercitare un minimo di buon senso? E perché cazzo desiderava proteggere una stupida ragazzina? Era stata solo un peso per lui, fin da quando si era presentata davanti alla sua porta.
E poi lei aveva sorriso. Quando l'aveva visto arrivare. Aveva sorriso.
“Bella stronzata”, si disse Ren, ridacchiando di se stesso. “Cazzo.”
Prima che May piombasse nella sua vita, lui non aveva preoccupazioni. Sopravviveva da solo, non era mai stato tanto distratto da venire sorpreso alle spalle, non si curava eccessivamente delle organizzazioni criminali, perché non esisteva nulla con cui potessero ricattarlo. Perché non aveva niente da perdere. Perché prima di May non c'era niente.
“È ora di porre fine a questa ridicola situazione.”
Era molto tardi, ma le luci del No way out erano ancora accese e la porta era aperta. Ren entrò e sorrise quando vide Champagne trotterellargli incontro. Raggiunse il bancone e sedette su uno sgabello, ordinando la solita pinta.
«Stan» iniziò, dopo aver bevuto un sorso di birra. «Ho bisogno di un favore.»




[*] Questi episodi accadono in “Prime volte”, prequel della storia.

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