Elf's Secrets - The Birth - Three Words, Two Hearts, One Sound

di Sylence Hill
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lexis High School ***
Capitolo 2: *** Incontri ***
Capitolo 3: *** Battaglie a pranzo ***
Capitolo 4: *** Il Libro ***
Capitolo 5: *** I Panini ***
Capitolo 6: *** Visioni E Coincidenze ***
Capitolo 7: *** La Farina Fa Miracoli ***
Capitolo 8: *** Ricordi e Decisioni ***
Capitolo 9: *** Una Giornata Spossante ***
Capitolo 10: *** Vera Realtà ***
Capitolo 11: *** Cervello In Tilt ***
Capitolo 12: *** La Calma Prima Della Tempesta ***
Capitolo 13: *** Il Momento Della Verità ***
Capitolo 14: *** Il Nome ***
Capitolo 15: *** Interludio ***
Capitolo 16: *** Visite a Colazione ***
Capitolo 17: *** Grave Imprevisto ***
Capitolo 18: *** Sanctorum ***
Capitolo 19: *** Punti di Vista ***
Capitolo 20: *** Ciò Che Il Cuore Non Crede ***
Capitolo 21: *** Il Vero Motivo ***
Capitolo 22: *** La Porta ***
Capitolo 23: *** La Disperazione ***
Capitolo 24: *** Sguardi Acuti e Scomodi Segreti ***
Capitolo 25: *** Piani e Progetti ***
Capitolo 26: *** Fine dei Giochi ***
Capitolo 27: *** Le Lacrime del Cuore ***
Capitolo 28: *** Non Previsto ***
Capitolo 29: *** Bagno di Emozioni ***
Capitolo 30: *** Vivere un Incubo ***
Capitolo 31: *** Segreti Svelati ***
Capitolo 32: *** La Pioggia ***
Capitolo 33: *** Serate Interessanti ***
Capitolo 34: *** Vendetta ***
Capitolo 35: *** Nascondersi ***
Capitolo 36: *** Sulla Strada di Casa ***
Capitolo 37: *** There's No Place like Home ***
Capitolo 38: *** Un Passo Avanti ***
Capitolo 39: *** Niente è come Sembra ***
Capitolo 40: *** Memories ***



Capitolo 1
*** Lexis High School ***


CAPITOLO 1
 
Lexis High School
 

Sapevo che il primo giorno in quella scuola sarebbe stato complicato, tra aule e armadietto da trovare e professori da conoscere e ricordarmene i nomi. Mi ero preparata già il giorno prima. Sarà complicato, mi dicevo, ma tu ce la farai. Puoi farcela.
Non sapevo quello che mi aspettava.
Il problema fu che appena misi piede nel cortile della Lexis High School il mio cervello si fece prendere dalla confusione che regnava in quel luogo d’inferno giovanile.
Me l’ero già aspettata, ci ero passata tante altre volte, ma mai come questa.
In tante di quelle scuole che avevo girato a causa del lavoro di mio padre – che non avevo ancora capito di cosa si trattasse – i ragazzi non erano così pieni di vita e frenetici. Sembrava di essere nel pieno dei festeggiamenti di una qualche festa e anche abbastanza importate, visto dai numeri di cartelloni e striscioni che vedevo appesi in giro e nelle mani di ragazzi che continuavano ad agitarti davanti agli occhi di tutti.
Le cheerleaders sventolavano i loro pon-pon neri e dorati nel cortile davanti all’imponente edifico di vecchio stampo fatto di mattoni rossi e legno pregiato, con due grosse statue come monili posizionate ai lati del portone, raffiguranti l’animale simbolo della scuola: una tigre seduta sulle zampe posteriori con una zampa posata su un pomo che si suppone doveva essere d’oro.
Come in un normale liceo, vari gruppi erano sparpagliati per il campus: c’erano gli sportivi e le cheerleaders vicino all’entrata, quelli del club d’arte in circolo in mezzo al prato poco più in là, i nerd persi nei loro mondi virtuali di giochi interattivi cosparsi di personaggi immaginari con nomi strani sotto uno degli alberi che costeggiavano il vialetto d’entrata e una cerchia ristretta di ragazze che se ne stava per i fatti loro sedute su uno dei muretti che intervallava la fila degli alberi, toccandosi i capelli a vicenda e ammirando le une lo smalto delle altre.
Tutto normale ma a un tempo diverso dalle solite scuole che avevo frequentato. Qui era tutto circondato da un alone di opulenza, come se fossi in uno di quei college dove i ragazzi portano la divisa e sono figli di persone importati, che possono permettersi il lusso di poter mandare i figli un quel luogo di prestigio.
Solo che quello era un liceo ed era pubblico, non privato, e i ragazzi non portavano la divisa – non l’avrei mai indossata; non avrei mai rinunciato ai miei jeans e alle Converse.
Parcheggiai la mia New Beetle bianca nuova di zecca – regalo di papà per i miei diciassette anni – in un posto vuoto, accanto ad un SUV che faceva sembrare la mia auto un moscerino, recuperai la borsa con i documenti che mi servivano dal sedile del passeggero e scesi.
Un’ondata di suoni e odori m’investirono. L’agglomerato delle voci provenienti da più parti del campus risuonò nell’aria intorno a me, come un turbine; le narici vennero invase dall’odore dei gas di scarico delle auto che stavano transitando per il viale d’accesso al parcheggio, il profumo dell’erba appena tagliata e un aroma dolciastro che non riuscii a definire.
Ah, il liceo!
Scansasi una cabriolet nera e mi avviai verso l’entrata. Una ragazza con gonna a pieghe, camicia bianca e una criniera di capelli biondo-castano mi venne incontro, agitando leggermente una mano per salutarmi.
«Ciao.» disse, tendendo quella stessa mano. «Tu devi essere Sylence Hill, giusto? Che strano… nome.» finì sussurrando.
«Non dirlo a me. Non sapevo neanche cos’era un nome quando mi hanno affibbiato il mio. Comunque, sì, sono io.» Strinsi la sua mano. «Chiamami Sy.»
La scossi leggermente per risvegliarla.
Le si arrossarono leggermente le guance e ridacchiò scioccamente. «È un piacere conoscerti, Sy. Io mi chiamo Gabrielle Ruths, Gabby, e sono la presidentessa del consiglio degli studenti. Mi hanno avvisato del tuo arrivo quest’oggi tramite una chiamata di tuo padre – che uomo simpatico! – perciò sono tenuta a farti fare un giro della scuola e ad accompagnarti fino alla tua aula.» disse tutto d’un fiato, cercando senza riuscirci di non fissarmi negli occhi.
È portata per l’apnea, la ragazza. «Non preoccuparti, posso farcela anche da sola. Sono abituata avere a che fare con scuole nuove, mi capita spesso.»
«Lo so. Il vicepreside si è fatto spedire il tuo fascicolo tramite fax dalla tua precedente scuola e abbiamo constatato che hai girato parecchio.»
«Che vuoi farci? I rischi del mestiere di mio padre.»
«Comunque, benvenuta a Lansing City.»
Mentre parlavamo, Gabby mi condusse nel salone d’entrata in quell’imponente edificio. Un enorme scalone che si fletteva verso i due lati del piano superiore occupava lo spazio in fondo alla sala. Nel centro era esposta, in una teca di vetro, la coppa che – lessi – avevano vinto i ragazzi della squadra di pallacanestro l’anno precedente, mentre ai due lati dell’entrata c’erano due larghi corridoi con addossati su entrambi delle file di armadietti di metallo neri e gialli.
«La Lexis High School è stata fondata nel 1836 dal visconte Francis Reginald Lucius Lexis. Ci sono voluti solo tre mesi per inaugurala. Vedi questa prima era un ospedale psichiatrico, per questo il visconte ha potuto facilmente adibire le stanze dei pazienti ad aule per studenti. Il vecchio laboratorio ora è una palestra, ma prima era adibita a sala di pugilato per tenere in forma i ragazzi e insegnare loro a difendersi. Vedi quei vetri lassù?» Alzò una mano ad indicare il soffitto.
Avevo la certezza che stesse divagando come scusa per non guardarmi, comunque la feci contenta e alzai gli occhi.
Vidi sopra la mia testa un’enorme cupola di vetro che faceva da lucernario all’intero salone. Il sole filtrava attraverso il vetro riscaldando le guance.
«Non te ne eri accorta, vero?» chiese maliziosa Gabby. «Il visconte Lexis lo fece costruire e l’effetto è fantastico. Non ci si accorge di essere entrati dentro fino a che non ci si guarda torno. Il lucernario dà l’illusione di essere ancora là fuori.»
Mi prese per un braccio e mi pilotò verso lo scalone e salimmo al piano superiore. La vitalità che c’era nei corridori facevano sembrare quelli degli ospedali un angolo di paradiso.
Ragazzi che chiacchieravano, chi prendeva i libri, chi scherzava con gli amici, chi pensava a studiare seduto per terra davanti agli armadietti.
Mi piaceva quel posto, mi piaceva sul serio.
Ero sempre stata una fan della vitalità, non mi piaceva l’inattività e tutta quella frenesia, quel divertimento, quell’attività era come una specie di multivitaminico.
Dopo alcuni minuti, svoltammo a destra dirette verso la porta con su scritto “SEGRETERIA” .
Dietro la scrivania c’era una signora di mezz’età con una caschetto nero che incorniciava un viso un po’ rugoso e un paio di occhi castani.
«Salve, signora Flinn. Come sta? Questa è Sylence Hill,» disse indicandomi. «È una nuova studentessa venuta qui da St. Louis.»
«Oh, che bello vedere un viso nuovo.» esclamò la donna. «Dopo tanti anni a vedere sempre le stesse facce è bello vederne di nuove. Benvenuta a Lansing City.»
Tirai fuori dalla borsa i documenti per l’iscrizione che avevo preparato e glieli tesi. La mano della signora si bloccò a mezz’aria e spalancò li occhi. Le costrinsi il foglio in mano.
«È un piacere conoscerla.»
La signora Flinn si riscosse e prese il foglio. Si girò di spalle e ne prese un altro. Me lo allungò.
«Questi sono i tuoi nuovi orari.» sorrise, «E la tua prima ora di lezione è con il professor Drawn. Insegna letteratura.» Si avvicinò come per confidarmi un segreto. «Sembra un tipo freddo, all’apparenza, ma ti posso garantire che sotto sotto è un tenerone, testimoni ne sono i suoi tre figli e l’adorabile moglie che adora e venera.»
Feci fatica a trattenere un sorriso, vista l’espressione seria che aveva in viso. Fui contenta della sua veloce ripresa e anche del suo sorriso. Era una donna molto dolce e gentile.
Annuii. «Me ne ricorderò.»
«Bene,» sopraggiunse Gabrielle.«Allora la tua prima destinazione è l’aula di letteratura al piano terra. Vieni.»
Salutammo la signora Flinn e ci avviammo per la stessa strada che avevamo fatto per salire.
«La signora Flinn è una donna davvero simpatica.» dissi.
«Oh, sì. Non potremmo fare niente senza di lei. È come una seconda mamma per tutti quelli che sono passati per di qua.»
Scendendo le scale, mi accorsi di sentire lo stesso aroma dolciastro che avevo percepito nel parcheggio. Provai a seguirlo e notai che veniva dalla mia sinistra, ma non vidi a chi o a cosa appartenesse.
«Cos’è quest’odore?» chiesi a Gabrielle.
«Quale odore?» mi chiese, guardandosi intorno.
«Questo odore di agrumi e zucchero.»
Lei annusò discreta l’aria. «Io non sento niente.»
Neanche io.Non lo sentii più. «Mah, forse me lo sono immaginata.»
In fondo alle scale, voltammo a sinistra e verso la metà del corridoio ci fermammo davanti una porta recante il nome  “LETTERATURA”.
«Ecco, è qui.» Gabrielle si girò verso me. «Credo non ci sia ancora nessuno, visto che la campanella non suona prima delle otto. Per la prossima ora puoi farti dire dal signor Drawn dov’è l’aula.» disse, continuando a sbattere le palpebre.
«Ti ringrazio tanto, Gabby, per l’aiuto che mia hai dato e per esserti messa a mia disposizione. Spero di incontrarti di nuovo.»
«Beh, se vuoi possiamo incontrarci a pranzo.»
«D’accordo. Allora ci vediamo.»
«A più tardi.»
Se ne andò salutandomi con una mano e sparì su per le scale.
Trassi un respiro profondo ed entrai.
Proprio come Gabrielle aveva detto, nell’aula non c’era ancora nessuno, eccetto un uomo dalla corporatura imponente che osserva all’esterno di una delle quattro finestre dell’aula. Mi schiarii la voce per attirare la sua attenzione e mi ritrovai a fissare un paio di occhi verdi come smeraldi.
«E tu chi saresti?» chiese, la voce potente e carica come quella di un baritono. «Non ti ho mai vista alle mie lezioni.»
«Lei deve essere il professor Drawn.»
Mi piaceva già per non aver avuto nessuna reazione a guardarmi.
«Sì, esatto.» Si allontanò dalla finestra per avvicinarsi alla scrivania che ingombrava quasi tutto lo spazio davanti alla lavagna a muro. Era davvero grosso, non riuscivo a vedere più la finestra, ed era bella grande. «E tu sei…?»
«Mi chiamo Sylence Hill. Mi sono appena trasferita qui e questo è il mio primo giorno.»
«Quindi una novizia. Che bello, devo ricominciare il programma.»
«Non è detto.» risposi.
Ormai avevo capito come agiva il professore: se mi fossi lasciata intimorire ora avrebbe continuato a torchiarmi anche in futuro, e di sicuro non volevo essere la sua preda preferita.
«Dipende da dove siete arrivati. Se avete superato il mio programma vorrà dire che mi rimetterò in pari, studiando di più. Se invece siete voi ad essere indietro, io me la spasserò a veder lavorare gli altri. Magari sarò clemente e aiuterò qualcuno.»
Scorsi quella che mi parve l’ombra di un sorriso sul suo volto, ma non osai cantare vittoria.
«Siamo arrivati verso la fine del Seicento, più precisamente al milleseicentottantaquattro con Il viaggio del pellegrino di John Bunyan e stiamo per entrare nell’epoca di Jonathan Swift e i suoi Viaggi di Gulliver
Lui mi scrutò in viso come per cercare qualche pecca, ma era sicura che non ne avrebbe trovate.
«Bene,» dissi. «Allora…», gli feci un sorriso a trentadue denti. «Me la spasserò. Mi dispiace, ma io sono arrivata a William Blake.»
Questa volta lui sorrise per davvero, e il ghiaccio nei suoi occhi si sciolse come neve al sole. Si avvicinò e mi tese una mano.
«Benvenuta in questa scuola, signorina Hill.»
Sorrisi e strinsi la sua mano.

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Capitolo 2
*** Incontri ***


CAPITOLO 2
 
Incontri

 
Al termine della prima ora di lezione con il signor Drawn, mi feci indicare dove fosse il mio armadietto, il numero 394, e lui mi disse di controllare nella parte settentrionale della scuola, cioè sul retro, che a detta di lui si partiva dal numero 250 e finiva a 375. Mi feci spiegare la strada e seguendo le istruzioni, mi ritrovai in un corridoio illuminato a giorno da grandi finestre ad arco che ricoprivano tutta la parete e che davano su un bel giardino con statue raffiguranti delle giovani donne con mazzi di fiori e cestini di frutta tra le mani.
Non c’era nessuno nei corridoi.
Seguii la scia di numeri sugli armadietti, fino ad arrivare al mio, giallo. Presi il foglio che mi aveva dato la signora Flinn e composi la combinazione di numeri sul lucchetto. Una brezza calda che  mi spinse una ciocca di capelli davanti agli occhi portò con sé un profumo d’arancia e zucchero e pensai di aver già sentito quell’odore: prima nel parcheggio e poi mentre scendevo le scale.
Un’improvvisa ombra oscurò la luce per un secondo. Mi girai di scatto e mi ritrovai davanti un ragazzo, jeans e maglietta bianca, rannicchiato proprio sotto la finestra che fino ad un attimo prima, era sicurissima, era chiusa.
Alzò due occhi dorati su di me.
E successe qualcosa.
Mi sentii come galleggiare in aria, senza peso, andare alla deriva. Avevo perso ogni contatto con la realtà e solo i suoi occhi mi davano un appiglio per salvarmi.
Per sempre…
Vidi la sorpresa lampeggiare nei suoi occhi e capii che la stessa cosa era capitata anche a lui.
Poi si voltò verso il fruscio che entrambi avevamo sentito provenire dal giardino. Qualche istante più tardi a poca distanza dalla finestra, apparve un ragazzo biondo piuttosto alto che lanciava occhiate in giro come a cercare qualcosa.
O qualcuno…
Quando mi vide guardare nella sua direzione, il biondo si avvicinò di qualche passo, e l’altro si appiattì contro il muro sotto la finestra.
«Scusami.» Un paio di occhi neri si fissarono nei miei. «Per caso hai visto un ragazzo passare di qui? Capelli neri, jeans…»
Con la coda dell’occhio vidi il volto impassibile del ragazzo – il fuggiasco. Impulsivamente decisi di aiutarlo.
Scossi la testa. «Mi dispiace, non ho visto nessuno.» Scrollai le spalle. «Se mi capiterà di vederlo gli dirò che lo stai cercando.»
Dopo qualche secondo, annuì «Non è difficile da riconoscere. Occhi come i suoi li hanno in pochi. Digli che Jake Kingston lo sta cercando.»
Gli sorrisi e annuii. Jake se ne andò.
Quando guardai il fuggitivo, lui si alzò senza staccare gli occhi dai miei. Era alto circa un metro e ottantacinque, largo di spalle e torace, fianchi stretti. Sentivo scorrere una strana tensione tra noi. Scrollai la testa per cancellare quella sensazione.
«Perché ti sei nascosto?» domandai.
«Non volevo farmi trovare.» Lo disse come se la cosa fosse ovvia.
«Hai commesso qualche crimine?»
Un sorriso fugace gli attraversò il viso. «No.»
Sembrava che fosse difficile per lui esprimere una qualche emozione. Si avviò verso il corridoio alla mia destra. Io chiusi l’armadietto e lo seguii.
Visto che lui non voleva tirare in ballo quello che era successo – anche se non sapevo cosa fosse – lo accantonai in un angolo della mente per riprenderlo più tardi, pensando a mente fredda.
Lui voltò appena la testa per vedere chi stesse dietro di lui.
«Non hai altro da fare che seguirmi?»
«Veramente mi serve un aiuto. Direi che me lo sono meritato.»
«Davvero?» Mi guardò con un sopracciglio inarcato.
«Aspetta, fammi pensare.» Feci finta di pensarci, guardando nel vuoto. «Direi di sì.»
Lui sbuffò. «Cosa ti serve?»
«Sapere dov’è la mensa e l’aula di matematica.»
«La mensa è l’edificio bianco qui accanto. L’aula di matematica del primo anno è al primo piano, corridoio a destra delle scale, seconda porta a sinistra.»
«Non mi serve quella del primo anno, mi serve quella del terzo.»
Lui inarcò i sopraccigli in un’espressione derisoria e sorpresa. «Sei al terzo anno?»
«Sì.» Con le mani mimai un’esplosione tipo fuoco d’artificio. «Sorpresa.»
Mi complimentai con me stessa per quell’espressione perplessa che gli calò sul viso.
«Allora, dov’è?» ripetei.
Mi scrutò qualche secondo con quegli incredibili occhi dorati. Mi sentii a disagio ma non lo diedi a vedere.
S’irrigidì. «Vieni con me.»
Si girò e andò verso il corridoio alla nostra sinistra.
Io, muta, lo seguii.
Il silenzio mi dava la sensazione di una cappa di calore in un’estate particolarmente afosa.
«Perché non volevi farti trovare?» La mia voce risuonò lungo il corridoio.
Non rispose.
«Chi era quel ragazzo?»
«Una sola volta visto e già sei caduta ai suoi piedi?» chiese, traboccante di sarcasmo. «Grande! Devo farmi spiegare come ci riesce.»
«Scusa?»
«Cos’è? Hai le idee confuse a causa del ricordo del suo bel faccino?»
Mi fermai. «Per caso quando sei saltato dalla finestra, il cervello ti è caduto in un cespuglio? Perché stai sbroccando.»
Si voltò a guardarmi, lo sguardo ironico. «Vuoi farmi credere che non ti piace? Che lo trovi brutto?»
«Non dico che non sia bello: lo è. Ma se ti piace tanto perché non ti ci metti tu con lui?» Scrollai le spalle. «Senti, se volevi farmi questa scenata di gelosia da vorrei-riuscire-a-relazionarmi-come-Jake-Kingston potevi anche risparmiamelo. Non ho intenzione di “cadere ai piedi” di nessuno. Me la cerco da sola l’aula di matematica. Ci vediamo.»
Lo superai e svoltai a sinistra dove voleva andare lui.
Ma tu guarda se il primo giorno di scuola, mi doveva capitare proprio il tipo con i complessi di inferiorità. E quella strana chimica… Che cavolo!
Se avessi incontrato Jake Kingston gli avrei detto dove trovare…
Non so nemmeno come si chiama.
Lungo il corridoio c’erano una serie di porte e dopo averne superate un paio trovai quella di matematica.
Bussai ed entrai.
Alla cattedra era seduta una donna, con non più di trent’anni, una folta capigliatura nera, e una paio di occhi nocciola che mi inchiodarono appena oltrepassai la soglia.
«Lei è?»
Wow!La sua voce sembrava quella di una cantante lirica, fresca, ritmica, una sinfonia, simile al suoni di campanelle di cristallo al vento.
«Sono Sylence Hill.»
«Oh, la nuova arrivata.» Sul suo viso si allargò un sorriso gentile. «Prego, entri. Confido che la prossima volta rispetti l’orario.»
«Ah, sì, mi scusi. È solo che questa scuola è un labirinto e non ho una mappa.»
«Cerchi un posto libero e si sieda. Benvenuta alla Lexis High School.»
Presi posto nella seconda fila, accanto ad una ragazza asiatica, con ridenti occhi scuri e con una cascata di capelli neri e lisci.
«Ciao, io sono Kima Brookes.» si presentò allungando una mano.
Misi a terra la mia cartella e alzai gli occhi su di lei. Già sapevo quale sarebbe stata la sua reazione. «Sy Hill.»
Strinsi la mano che mi tendeva. Aveva le labbra socchiuse e gli occhi spalancati.
Abbassai gli occhi. Presi dalla tracolla un blocco e una matita e cercai di concentrarmi sulla lezione.
«Com’è la professoressa?» chiesi tanto per chiedere quanto per farla smettere di fissarmi. Oramai avevo imparato da anni l’effetto che facevo a primo impatto con la gente ed ero diventata molto brava a sviarlo.
Lei scosse la testa e chiuse la bocca di scatto. «Non essere preoccupata.» mi disse Kima, a stento. «La signorina Madlain è una tipa in gamba.» assicurò, con il suo buffo accento. Lanciò un’occhiata di sottecchi intorno a lei, poi mi si avvicinò con aria confidenziale.
«Lo sai che hai degli occhi davvero fichi?» sorrise.
Da quel momento decisi che lei sarebbe stata mia amica.
«Grazie. Sei la prima che me lo dice. Di solito restano fermi a guardarmi finché non richiamo la loro attenzione.»
Lei annuì vigorosamente. «Hai ragione. Mi sembrava di essere ipnotizzata come un serpente con il suo incantatore.»
Quella cosa mi fece pensare ad un altro paio di occhi di un forte colore dorato. Anche a me era parso di restare ipnotizzata sotto l’influsso di quello sguardo. E quella strana reazione che c’era stata? Non sapevo cosa fosse, ma avevo intenzione di scoprire se era successo anche a lui.
Io sono un tipo che va dritto al punto. Non mi piacciono per niente i giri di parole. Quel bizzarro magnetismo però…
Scossi la testa per schiarirmi la testa e riportai la mia attenzione alla lavagna.
La lezione fu molto più interessante di quanto pensassi. La signorina Mardlain aveva un modo di spiegare molto fluido e faceva diventare degno di attenzione anche qualcosa di noioso come i calcoli matematici, le espressioni algebriche e tutte quelle altre cose di cui, di solito, non capivo un’acca.
Al termine dell’ora, mentre uscivo dalla porta, Kima mi chiamò e aspettai che mettesse a porto la sua roba e mi raggiungesse.
«Da quanto tempo sei arrivata?» mi chiese.
Vi avviamo lungo il corridoio. «Da una settimana più o meno.» Il suo sguardo mi incitava a continuare a parlare. «Ci siamo trasferite qui da St. Louis a causa del lavoro di mio padre, anche se non ho ancora capito di cosa si tratta. Di solito si chiude nel suo laboratorio, con piante e rocce e ci rimane tutto il giorno. A volte devo chiamarlo a gran voce per distogliere la sua attenzione da quello che sta facendo per sapere se è ancora vivo o se ha fame, ma è troppo occupato per andarsi a prendere qualcosa da mangiare. Comunque, è il papà migliore del mondo.»
«E tua mamma? Lei cosa fa?»
«Non l’ho mai conosciuta. Ogni volta che parlo di lei, mio padre cambia argomento oppure sparisce nel laboratorio dandomi come scusa una cosa che si era dimenticato di fare.»
Il suo viso parve adombrarsi. «Non sai com’è? Non hai una foto?»
«No.» Mi guardai in giro cercando di orientarmi e voltai a sinistra per andare al mio armadietto. «Senti Kima, sai dov’è l’aula di Storia?»
«Oh, io devo andarci! Ti faccio vedere io!»
«Allora prendo il libro e poso questo.»
Ero contenta di avere almeno qualcuno che conoscevo a farmi compagnia.
Ero abituata a cambiare scuola tipo ogni anno. Da quando avevo cominciato ad andare alle elementari, papà aveva iniziato a viaggiare e io con lui. All’inizio ci restavo sempre male, perché ogni volta che legavo con qualcuno, alla fine sapevo non l’avrei più rivisto l’anno successivo. Poco prima dell’inizio del terzo anno delle elementari avevo litigato di brutto con papà perché le cheerleaders mi avevano chiesto di entrare a far parte del loro gruppo. Per me sarebbe stato un sogno, ma fui costretta a dire no perché papà doveva andare in Texas. Non gli avevo rivolto la parola per un paio di settimane, ma alla fine decisi che era inutile tenere in broncio, tanto non l’avrei mai spuntata. Mio padre era figlio unico e non aveva parenti stretti. Non avevo né cugini né zii e i miei nonni erano morti da tempo. Sapevo che, tempo un anno, avrei dovuto rinunciare anche questa scuola, ma per il momento decisi che non avrei permesso a quella premessa di offuscarmi il tempo che avevo.
Presi i libri, seguii Kima proseguire lungo il corridoio. Se avessi cercato di ricordare la strada mi sarebbe venuto il mal di testa, perciò decisi che mi sarei fatta guidare da lei.
«Kima, cosa sai di Jake Kingston?» chiesi, prima che potessi rendermene conto.
«Come fai a conoscere il suo nome?» domandò.
Scrollai le spalle con noncurante. «L’ho sentito dire da un paio di ragazze mentre andavo in aula.» mentii.
«Oh. Comunque so tutto quello che c’è da sapere su di lui. È il ragazzo più popolare di tutta la scuola. Campione di basket, ottimo in tutte le materie, la maggior parte delle ragazze della cade ai suoi piedi ogni volta che sorride. È gentile, generoso, affabile con tutti…»
«Un Principe Azzurro, insomma.»
Ridacchiò. «Insomma, sì.» Sospirò. «Sai credo che debba esserlo.»
«Perché?»
«Per via di suo padre. Vedi, Garrett St. James Kingston è il Procuratore Distrettuale della nostra City. Ha una certa immagine da rispettare e…»
«E se lui si comportasse in modo non adatto al ruolo di “Figlio del Procuratore”, il padre potrebbe risentirne in rispettabilità.»
Lei annuì.
«Magari c’è anche un antagonista del Principe Azzurro, o qualcuno che sia del tutto divergente.» ironizzai.
«Divergente?» Picchiettò con un dito sul mento, riflettendo. «Beh, se intendi uno che è il suo esatto opposto ci sarebbe Red.»
«Red?»
«Sì. Red Hawks. Un mito nella box, ma carente in amicizia, carattere e materie scolastiche. Il Cattivo Ragazzo per antonomasia.»
«Wow, non vorrei essere nei suoi panni.»
«Già, credimi staresti nei guai e non per quello che pensi tu. È il bad boy della scuola e al pari di Jake, le ragazze ne sono alquanto attratte. È al quanto anno, come Jake. Prima quei due erano fantastici, erano amici per la pelle, inseparabili. Fratelli. Se Red finiva nei guai Jake lo aiutava tirarlo fuori. Ma poi, prima dell’inizio del quarto anno, è successo qualcosa che li ha divisi. Non possono stare nella stessa stanza che finiscono irrimediabilmente per litigare. Qualche giorno fa, nel cortile della scuola, sono quasi venuti alle mani.»
«Ma per quale motivo?»
Si strinse nelle spalle. «Nessuno lo sa. Quando è iniziata la scuola, li abbiamo visti uno all’antipodi dell’altro. Oh, guarda, siamo arrivate. Questa è l’aula di Storia.»
Attraversammo la porta e ci andammo a sedere in due posti adiacenti, in un lungo bancone. Le altre due file e quella davanti a noi erano già piene di studenti.
«Nessuno lo ha mai chiesto a loro? Del motivo per cui adesso sono in disaccordo, intendo.»
«A quanto ne so, no. E non credo che lo direbbero facilmente a qualcuno.»
Tirammo fuori dalle borse taccuino e penna. All’improvviso, si girò verso me.
«Sai, Jake ha una cerchia ristretta di amici che gli sono sempre attorno, in cui prima c’era anche Red e non sono le cheerleaders o i giocatori come lui. Si riuniscono ogni giorno a pranzo e si mettono a discutere, di chissà cosa poi. Credo che loro sappiano perché quei due ora sono così discordi.»
Non riuscimmo più a parlare, perché in quel momento entrò in classe il professore, il signor Biggle, un omino quasi calvo e con un paio di baffi grigi.
L’ora successiva, Kima aveva un corso che avevo scelto mentre io non avevo niente perché ero ancora indecisa su cosa fare, perciò ci salutammo promettendo di incontrarci a ora di pranzo.
Avendo un’ora buca, decisi di girovagare un po’ per la scuola per capire se mi sarebbe servita una mappa oppure se sarei riuscita a ricordare in che direzione andare.
Andai verso quella che mi parve la strada per l’entrata principale. I corridoio erano silenziosi, le pareti erano colorate con un caldo giallo tendente all’ocra nella parte superiore e dei pannelli di legno scuro ricoprivano quella inferiore. Era attaccato qualche cartellone con raffigurata la squadra di Cheerleader e quella di basket. Mi avvicinai e scorsi subito il viso di Jake Kingston che sollevava la coppa in segno di vittoria. I capelli biondi scompigliati e umidi di sudore e gli occhi luccicanti e ridenti per il buon esito della partita.
Poi mi accorsi della figura in ombra che giaceva al margine dell’immagine. Il ragazzo dagli occhi dorati che avevo incontrato quella mattina guardava Jake con un’espressione fraterna e un leggero sorriso curvava le sue labbra.
Allora questo deve essere Red Hawks.
Anche se quei due avevano litigato da quell’immagine, dall’espressione sul viso di Red, si capiva che gli voleva ancora bene.
Mi chiesi perché avessero litigato. Magari per qualche problema con il padre di Jake: visto il ruolo che ricopriva nella società, non voleva che il figlio frequentasse compagnie non adatte a lui. Eppure non credevo che Red fosse pericoloso. Ma cosa ne potevo sapere io?
Oppure il motivo era completamente diverso. Magari c’era di mezzo una ragazza. Presumibilmente si erano innamorati della stessa ragazza e lei aveva scaricato l’uno per mettersi con l’altro, che non l’ha presa affatto bene.
Anche questa ipotesi era plausibile.
Persa nei miei ragionamenti, non mi accorsi di essere finita in un corridoio cieco finché non andai quasi a sbattere contro un muro. Mi guardai intorno ma non riconobbi niente.
Dove diavolo ero finita?
Guardandomi intorno, scorsi una porta a pochi passi dietro di me. Aveva un vetro opaco nella parte superiore, ma dai colori capii che portava al giardino sul retro della scuola.
Provai a girare la maniglia e…
Clic.
La porta di aprì su un piccolo vialetto delineato da file di siepi perfettamente potate, tra le quali, a intervalli regolari, si ergevano le piccole sculture che avevo visto dalla finestra nel corridoio. Si sentiva un profumo di erba appena tagliata e rose, di cui scorsi un cespuglio a pochi passi da me. Attirata dal piacevole calore del sole sulla pelle, uscii all’esterno gustandomi la sensazione di libertà che mi attraversò.
L’aria calda di fine agosto varcava ancora le soglie della scuola, sfiorando la pelle come mani tiepide e invisibili. Mi ricordava molto la volta in cui io e papà andammo un parco coperto a New York, creato da un amico di papà. C’erano tantissime varietà di fiori, piante e tutti quegli insetti che si potevano trovare in un prato. Facemmo un pic-nic, o meglio io lo feci, visto che papà passò la maggior parte del tempo a chiuso nel laboratorio insieme al suo amico.
Con papà era sempre stato così, ma non gliene volevo. Faceva tanti sacrifici per me e in qualche modo dovevo ricambiare.
Il dolce fruscio delle vento tra le fronde degli alberi mi distolse dai miei pensieri.
Lansing City era una cittadina molto tranquilla, forse la più placida città in cui mi aveva portato mio padre. Di solito, le nostre tappe ci conducono in grandi metropoli chiassose, asfissianti con i gas di scarico e l’inquinamento urbano, per non parlare delle quasi inesistenti distese di erba. Non portevi trovare un angolo tranquillo: da qualsiasi parte andassi il rumore assordante dei clacson del traffico, i palazzi così alti da coprire il cielo e tante di quelle luci da desiderare di diventare cieco ti braccavano, ti trovavano e ti consumavano.
Certo c’erano anche i lati positivi… ma per una che è abituata a goderseli poco non fa poi tanta differenza volerli ricordare.
Quella cittadina, invece, mi era particolarmente simpatica. Le persone erano per bene e gentili. Come la signora Partecci, la fornaia che aveva la sua panetteria vicino alla casa che papà aveva affittato nel centro. Era un donnone con i capelli grigi come la cenere e i tratti del volto tipicamente romani. Ma quello che colpiva erano gli occhi neri e intelligenti. L’avevo conosciuta qualche giorno dopo esserci trasferiti a Lansing City e avevamo subito legato. Quando passavo di lì la mattina, mi preparava un sacchetto con dei panini appena sfornati, soffici come una nuvola, e quando ero in auto riempivano tutto l’abitacolo con il loro profumo.
Passando davanti ad una finestra per prendere un sentiero laterale, vidi la mia immagine riflessa nel vetro.
Non mi potevo certo definire una bellezza, ma – non voglio peccare di invidia – ero abbastanza carina. La cosa che mi piaceva di più di me erano i capelli. Non li avevo mai tagliati e li avevo lasciati crescere. Sciolti, mi arrivavano appena sotto il fondoschiena ed erano il mio orgoglio. Per praticità li legavo in un’acconciatura, che mi aveva insegnato un’insegnate della mia vecchia scuola, quando mi si chiusero per sbaglio nella porta, pratica e che non dava nell’occhio.
Il viso era una versione femminile di quello di mio padre e soltanto la bocca era diversa, più carnosa rispetto alla sua.
Ma la cosa che più attirava lo sguardo erano i miei occhi. Il colore sfumava dal grigio argento intorno alla pupilla fino a diventare nero intorno al bordo dell’iride.
Li amavo e odiavo. Li amavo perché,a detta di papà, erano dello stesso colore di quelli della mamma. Almeno sapevo qualcosa di lei e me la faceva sentire più vicina. Li odiavo perché attiravano troppo l’attenzione e quando qualcuno mi guarda negli occhi, come aveva detto Kima, rimanevano come ipnotizzati. E li odiavo ancora di più perché, ogni volta che papà mi guarda negli occhi e diceva che sono come quelli della mamma, il suo sguardo si adombra e mi sembra di vedere le lacrime che non ha mia versato quando c'ero io che lo guardo.
Ora che ci pensavo, Red non aveva fatto una piega quando li aveva guardati.
Forse anche lui era concentrato come me su quella strana sensazione che abbiamo sentito...
Nel vetro vidi lampeggiare qualcosa che mi accecò per un attimo. Mi voltai di spalle per capire da dove era arrivato.
Il cuore fece un doppio salto mortale carpiato. Semisdraiato alla luce del sole con qualcosa di piccolo e argentato in mano, vidi il signor-difficili-relazioni, Red Hawks.

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Capitolo 3
*** Battaglie a pranzo ***


CAPITOLO 3
 
Battaglie a Pranzo

 
Avete presente quei momenti di follia dove pensate di vedere una cosa, invece la realtà è completamente diversa? Beh, è quello che è successo a me.
Come un flash fotografico mi apparve davanti agli occhi un’immagine alquanto spaventosa che mi fece rabbrividire.
Vidi Red incatenato ad una parete di roccia, le braccia in alto, il corpo accasciato su se stesso, nudo fino alla cintola. Orrendi tagli slabbrati sulle braccia e il tutto il busto e gocce di sangue rosso cremisi gocciolare dal viso…
Fu un lampo veloce davanti ai miei occhi, ma talmente vivido da darmi la nausea. Distolsi lo sguardo, vagando a vuoto nel giardino. Avevo il battito cardiaco accelerato.
Cosa diamine era stato? Avevo letto talmente tanti libri horror da farmi condizionare la mente? Non credevo. Non mi era mai successo.
Avevo paura di guardarlo, spaventata dall’idea divederlo di nuovo in quel posto buio e freddo.
Respira a pieni polmoni, calmati e voltati, mi imposi.
Mi girai.
Per fortuna non ci furono altri flash. Era sempre lì, si era seduto, un ginocchio piegato, un braccio posato su con noncuranza, e l’altro ginocchio penzoloni. Mi accorsi che l’oggetto di metallo che aveva in mano e che mi aveva accecato era un accendino, quelli che restano sempre accessi. Però non mi sembrava di sentire odore di fumo.
Gli occhi dorati si incastrarono nei miei, squadrandomi dalla testa hai piedi.
Di nuovo quella strana sensazione che avevo sentito prima aleggiò intorno, come se ci fosse qualcosa in mezzo a noi che mi tenesse incatenata e mi attirava verso quel ragazzo. Contro la mia volontà, i miei piedi si mossero nella sua direzione e a meno di un metro mi costrinsi a fermarli.
Avevo la strampalata voglia di allungare una mano e vedere se fosse vero o solo un’illusione…
«Perché continui a fissarmi?» proruppe bruscamente.
Internamente sobbalzai e mi congratulai con me stessa per non averlo dato a vedere.
Quel tono di voce impertinente, con quell’aria di superiorità che aveva attorno mi fecero irritare.
«Forse perché il tuo viso è interessante da guardare?»
L’affermazione posta sottoforma di domanda gli fece colorire leggermente le guance.
Un punto per me.
Era bello da guardare, ma non solo per i suoi occhi, il suo viso, i suoi lineamenti. C’era qualcosa dietro quel volto, qualcosa che mi faceva venire l’irritante voglia di scoprire cosa c’era sotto.
«Che cosa fai qui fuori?» chiese allora.
«Tu che ci fai?»
«Possibile che tu risponda sempre con una domanda?»
«Possibile che tu non risponda?»
Ci fu una sfida di guardi e – mi secca molto ammetterlo – fui io a perdere. Distolsi lo guardo, troppa era l’intensità con cui mi scandagliavano.
Uno pari.
Non sapevo che mi prendeva. Qualcosa dentro di me sembrava scattare ogni volta che lo vedevo, come dovessi per forza contrastarlo in qualche modo.
«Avevo un’ora buca.» risposi, tanto per riempire il silenzio sceso tra noi. «Stavi fumando?» chiesi accennando all’accendino.
Mi lanciò un’occhiata beffarda. «Che c’è? Vuoi farmi una predica?»
Scrollai le spalle. «Non sono affari miei se hai deciso di rovinarti i polmoni.»
Invece mi importava, cavolo! Ma cosa avevo che non andava?!
Mi fissò per un po’, poi sbottò: «Non stavo fumando. Non mi piace.»
Sospirai di sollievo internamente, esternamente annuii.
«L’accendino è un regalo.»
Si interruppe come se si fosse imposto di chiudere la bocca. Immaginai che non avrebbe voluto dirlo. Chissà perché?
Una farfalla variopinta svolazzò davanti hai miei occhi, giocherellò con i fiori di un’aiuola lì vicino poi sparì nel circolo brillante del sole.
La brezza calda portò con se il profumo dei fiori del guardino.
E anche quello di qualcos’altro…
Osservando l’azzurro cristallino macchiato qui e là da qualche paffuta nuvola bianca, mi accorsi che a breve avrebbe incominciato a piovere. Avevo sempre adorato l’odore della pioggia. Ovviamente non quella che si percepiva in città. Qualla sembrava scolatura dei piatti. L’odore della piaggia, quella che odori quando sei in mezzo ad un bosco, lontano dallo smog della città, dai gas di scarico o dalle fogne, è particolare, un misto di acqua, terra e vento. Scossi poco la testa, per distrarmi da quegli strani pensieri.
Non sapevo quanto tempo fosse passato, ma probabilmente la mia ora buca stava per scadere.
«Io…devo andare. Ho una lezione fra poco e non voglio fare tardi…»
«Ha un profumo particolare.»
Lo guardai interdetta. Si era alzato dalla fontana ed aveva sul volto un’espressione molto seria, da incutere timore.
«Cosa?» balbettai.
«La pioggia.» disse, infilandosi nella tasca le mani e l’accendino.
Scusi le labbra, stupita. «Sì.» risposi. «Mi è sempre piaciuto. Mi ricorda le giornate in cui restavo a casa con mi padre e giocavamo e ridevamo insieme.»
«E tua madre?»
Distolsi lo sguardo. Non gli risposi, ma credo che la risposta l’avevo scritta in faccia. I sassolini scricchiolarono, sotto le sue scarpe, mentre mi passava accanto e si fermava spalla a spalla.
«Il dolore non sparirà.»
Mi girai a guardarlo.
«Rimarrà sempre una ferita aperta, pronta a farsi sentire con fitte e bruciori quando meno te lo aspetti.»
Deglutii il nodo che mi si era formato in gola. «Lo so.»
I suoi occhi dorati affondarono nei miei, trasmettendomi una curiosa sensazione di affinità. Allora mi ricordai che anche lui aveva perso la madre. Lo vidi sollevare lentamente una mano e fermarsi poco prima di arrivare a toccarmi il braccio. La lasciò ricadere e si allontanò velocemente, sparendo dietro l’angolo dell’edificio scolastico.
Non mi resi conto di aver trattenuto il fiato fino a quando i polmoni non mi chiesero pietà
.

*   *   *
 
L'ultima ora era quella di Storia Americana, corso scelto da me. L'aula si trovava al piano terra e non mi fu difficile trovarla, visto il cartello con la faccia dei padri fondatori appiccicata accanto ad essa.
I posti a sedere erano quasi tutti occupati tranne un paio in prima fila. Uno di quelli era vuoto. Mi sedetti e posai la tracolla sul banco.
Appena qualche minuto dopo entrò il professore, un signorotto pingue e pelato, carico di libri e fogli che si spandevano nell’aria ad ogni movimento e i capelli talmente unti da far pensare che avesse messo la testa dentro una friggitrice.
Posò i libri sulla cattedra e aggiustandosi la camicia macchiata di ketchup, si presentò alla classe come Fletcher Creek. Mentre stava prendendo uno dei suoi libri, arrivò in classe una ragazza tutta trafelata. Fu stupefacente vedere il contrasto che c’era tra la sua maglia verde smeraldo e i suoi capelli simili al colore di un rubino.
Sollevò il viso rivelando un sanino all’insù, costellato di lentiggini e un paio di occhi da cerbiatta, di un profondo marrone leggermente ambrato, dal taglio esotico.
«Ah,» disse il professore. «Signorina O’Sheha, felice di averla alla mia lezione, finalmente.»
Un rossore rivelatore invase il viso della ragazza fino alla base del collo. Mormorando una scusa, entrò in classe a testa basta, non badando dove andasse – verso me, a quanto pareva. Velocemente, tirò indietro la sedia e si sedette. Si accorse solo della mia presenza quando vide la mia cartella posata sulla sua parte di banco.
Lentamente voltò la faccia dalla mia parte. Sgranò gli occhi quando incontrò i miei.
«Ciao.» le dissi, porgendo una mano. «Sono Sy Hill, piacere.»
Mezza imbambolata, la rossa allungò una mano e strinse la mia. «P-p-piacere.»
La guardai in attesa che continuasse.
Le se ne rese consto dopo un po’. «Oh, scusami. Io sono Rosarianna O’Sheha.»
Che nome curioso, pensai. Però le si addiceva: con quella maglia verde e i capelli rossi, sembrava una rosa rossa vivente.
«Da dove vieni?» mi chiese a bassa voce mentre il professore scriveva delle cose alla lavagna.
«New York.»
«Non hai l’accento newyorchese.» considerò.
«Non sono nata lì. Mi ci sono trasferita solo l’estate scorsa. Prima ancora era a South Boston.»
La visi sbattere leggermente gli occhi. «Tu sei una che viaggia, vero? Una che ha visto molti posti.»
Scrollai le spalle. «Sì. Devo seguire mio madre nel suo lavoro, e questo mi porta a viaggiare, spostarmi da un posto all’altro.» Pensare a tutti i luoghi in cui ero stata e le tante volte che non ero riuscita a instaurare un qualche tipo di rapporto mi fece rabbuiare. «Ma… è mio padre. La mia famiglia. Perciò lo seguo senza rimorsi.»
«E tua…» si interruppe abbassando gli occhi, le guance rosse.
«Mia madre?» completai la sua domanda, facendole capire che non era un problema nominarla. «Non l’ho mai conosciuta.»
«Mi dispiace.»
Mi sembrò un riflesso condizionato, invece di un vera espressione di dispiacere.
«Non c’è problema.»
«Signorina O’Sheha, se ha finito di parlare, le dispiace continuare quello che stavo dicendo?» s’intromise il professor Creek.
Vidi Rosarianna scattare sull’attenti appena sentito nominare il suo nome e guardare a destra e a sinistra in cerca di aiuto. Lanciai un’occhiata al professore che, appoggiato alla cattedra con il suo deretano grosso come una botte, che la guardava con uno sguardo soddisfatto.
Si stava divertendo ad umiliarla. Non mi sorpresi più di tanti, perché in tante altre scuole che avevo frequentato era successo, vedere quel ghigno mi fece venire il voltastomaco.
Presi velocemente la matita e scossi velocemente due frasi in croce. Spostai il blocco verso Rosarianna, che vi lanciò un’occhiata disperata.
 
Colonizzazione d’ America. Guerra d’indipendenza.
 
Tutti conoscevamo quel periodo della storia visto che era il periodo della nascita degli Stati Uniti d’America, anche se all’epoca c’erano solo tredici stati.
Sospirando di sollievo – anche se la sentii solo io – Rosarianna prese a parlare. Anche se in sintesi, disse tutto quello che c’era da dire, facendo incupire lo sguardo del professore che, anche se l’aveva beccata, non poteva fare niente, visto che Rosarianna era stata in grado di continuare.
«Non creda che questa sua piccola dimostrazione d’arroganza possa aiutarla in qualche modo. Non si è salvata.» disse e supposi che lo fece solo per pararsi la faccia.
Detto questo, riprese a spiegare.
Rosarianna prese il mio blocco e scrisse qualcosa (era mancina). Poi me lo restituì.
 
Grz dell’aiuto. Avrei voglia d darti 1 bacio enorme!! :)
 
Soffocai una risata. Persi la matita.
 
No grz. Sn onorata, ma nn voglio spezzarti il cuore visto ke sn etero.
 
Leggendo il messaggio, lei infilò la testa dietro un braccio, sul banco, per non farsi scoprire a ridacchiare.
Alla fine dell’ora, il professore assegno due capitoli e un riassunto completo di mappe concettuali.
«Sai già dove sederti a pranzo?» mi chiese lei, mentre raccattavamo la nostra roba.
«Veramente no.» Infilai il libro nella cartella. «Perché?»
«Beh, i licei possono essere diversi, ma le mense sono sempre le stesse, per cui…»
«Ho capito. Com’è il campo di battaglia?» chiesi ironicamente.
«Beh…» tentennò organizzando le idee. Si infilò la tracolla. «Per la maggior parte del tempo noi stiamo nel giardino, per cui… I tavoli all’entrata sono territorio dei più popolari.»
«Come al solito.» commentai.
«Quelli infondo a destra appartengono ai nerd, i punk e quelli del corso d’arte.»
Ci avviammo fuori dall’aula.
«Quelli di fronte,» continuò. «Sono occupati dai componenti dei corsi di teatro, canto e musica, perlopiù.»
Giunte nel corridoio decidemmo di andare prima al suo armadietto perché era allo stesso piano.
«E poi ci sono i tavoli sulla sinistra che sono occupati da quelli che non hanno un abito specifico, come me.» concluse.
«Bella distribuzione. Molto equa. È mai successo che scoppiassero delle risse?»
«Per la verità no. Almeno non nell’orario scolastico. La suddivisione permette la salvaguardia di tutti, soprattutto dei nerd. Però ogni tanto capita che scoppi una lite, ma solo quando Harber è ubriaco fradicio.»
«Chi è Harber?» le chiesi.
Mi incuriosì vedendola abbassare lo sguardo, nascondendo parte del suo viso coi capelli.
«Josh Harber è il capitano della quadra di football.» mormorò quasi a forza, come se le stessero tirando fuori le parole a forza. «Ha il vizio di portarsi la birra a scuola, ma è molto furbo perché la nasconde in macchina oppure la travasa nelle bottigliette della coca-cola colorata. E poi… è il figlio del capo della polizia.»
«Capito.» sbuffai.
Ma che diamine! Ma perché sempre i più idioti avevano le spalle coperte!?
Arrivate al suo armadietto, Rosarianna tirò fuori alcuni libri e posò gli altri, poi lo chiuse.
«Vuoi sederti con noi?» mi chiese Rosarianna, mentre andavamo al mio, di armadietto.
«“Noi” chi?»
«Di solito mi siedo al tavolo più lontano dalla porta con alcuni degli altri “spaesati”, come chiamiamo quelli che non hanno un gruppo preciso.»
«Perché no? Almeno non mi dovrò cercare un posto, come a mosca-cieca.»
«Allora ci vediamo lì. Io devo andare di qua.» disse indicando il corridoio di sinistra. «Devo fare musica.» si lamentò con una smorfia.
«Vedi di non incrinare le finestre.» le suggerii, sorridendo.
Rosarianna scrollò le spalle. «Ci proverò.» ridacchiò.
Ci salutammo e ci separando.
Era proprio un tipo curioso, Rosarianna. Prima schiva, poi estroversa, poi ancora chiusa a riccio. Pensai che sarebbe stata davvero un’ottima amica, e un'incogneta tutta da scoprire.
Perché no?
 
*   *   *
 
Per l’ora di pranzo, io mio cervello era andato in corto. Centinaia di pensieri alla volta si affollavano alla stazione per prendere il diretto per il “SISTEMA NERVOSO CENTRALE”, creando un blocco totale.
Per primo c’era l’importanza di ricordare dove fosse il mio armadietto e tutte le aule di tutte le materie che dovevo ricordare, in quel labirinto di corridoi, snodi e doppie porte. Poi seguivano a ruota i nomi di tutti gli insegnanti e i ragazzi che avevo conosciuto e con cui avevo parlato. Kima la ricordavo, difficile dimenticarla. E Rosarianna. Poi un ragazzo, uno di quei tipi carino-ma-timido. Se non sbaglio si chiamava Christopher, Chris.
Non per ultimo quello strano collegamento con Red, il suo modo strambo di riflettere-parlare-agire, e quell’anormale impulso da parte mia di fare qualcosa che aveva a che fare con lui.
Non avevo alcuna idea su come risolvere l’enigma, ma aveva la chiara idea di risolverlo. Ero all’inizio dell’anno e non avevo alcuna voglia di iniziare col piede spagliato.
In quel momento ero appena uscita dall’ultima aula in cui ero stata e mi stavo dirigendo verso l’armadietto, quando venni ancorata da Gabby.
«Allora, come ti sta andando questo primo giorno di scuola? Qualche difficoltà?» disse, prendendomi a braccetto.
«No. Al momento sono apposto.»
Sorrise. «Oh, mi fa molto piacere sentirlo. Ero un po’ preoccupata.»
«Non ne hai bisogno.» le assicurai, scrollando le spalle.
«Comunque, volevo chiederti se volevi mangiare con me.»
«Veramente c’è qualcuno che mi sta aspettando. Se vuoi puoi unirti a noi.»
Mi parve che il suo sorriso si facesse un po’ forzato.
«Certo.»
Mi pilotò alle scale principali e fuori dall’edificio centrale. Visto che era inizio settembre, non faceva tanto freddo e si poteva stare all’aperto.
Volsi lo sguardo intorno fino ad individuare Kima sul lato sinistro dell’entrata alla mensa. Accanto a lei c’erano anche Chris e Rosarianna.
Mi diressi verso di loro e a mano a mano che mi avvicinavo vedevo il viso di Rosarianna diventare sempre più bianco. Lancia un’occhiata furtiva a Gabby. Aveva la bocca serrata in una linea sottile e rigida e gli occhi duri.
Mi sembrava che non andassero d’accordo, o almeno una agitava l’altra.
Perché?
Arrivata al tavolo, Gabby lanciò un’occhiata a gli altri due ragazzi seduti con Rosarianna, poi si volse verso lei.
«Anna.»
Lei la salutò con un cenno del capo. «Gabby.»
«Vedo che stai bene.»
Se possibile, Rosarianna sbiancò ancora di più. «Anche tu.»
Gabby serrò la mano sul mio braccio. «Sy, che ne dici di andarci a sedere in quei tavoli laggiù? C’è molta più aria fresca lì.»
Okay. Alla prima impressione Gabby mi era sembrata una ragazza carina e disponibile, ma ora mi accorgevo che era solo una maschera. Che quella sgarbata e altera ragazza insultasse una ragazza carina cosa Rosarianna, che era appena diventata mia amica, proprio non mi andava giù.
«Puoi andarci tu,» dissi sfilando il braccio dalla sua presa di ferro. «Preferisco stare con la mia amica Rosarianna, che starmene all’aria fresca.»
Mi affiancai a lei e guardai la faccia di Gabby arrossire di rabbia. Senza dire una parola ci voltò di spalle e – con grande dignità devo dire – se ne andò.
Non riuscivo a sopportare quella pesante tensione, così decisi di dissiparla.
«Chi ha fame?»
Tre paia di occhi si fissarono di scatto su di me. «Hai la minima idea di quello che hai fatto?» mi chiese in un sussurro Chris.
«No, e non mi interessa.» dissi e mi sedetti.
«Dovrebbe.» intervenne Rosarianna, mentre le sue guance prendevano un po' di colore. «Gabby diventa terribile con chi non sopporta e con le persone che non sono della sua cerchia.»
«Io non sono della sua cerchia e di sicuro non ho intenzione di entrarci, ma staremo a vedere chi delle due uscirà viva fuori da un conflitto a fuoco.»
Kima sbatté le palpebre. «Sei una tipa tosta, lo sai?» chiese con quel suo buffo accento.
«Non sopporto le persone che se la prendono con i più deboli, senza offesa.» dissi rivolta vero Rosarianna.
«No, hai ragione.» sospirò lei. «Io…non sono capace di contrastarla. È troppo forte.»
«Anche Golia era forte e grande come un palazzo di quattro piani, ma Davide riuscì ad atterrarlo con una fionda.» Guardai nella direzione dove era sparita Gabby. «Pensavo che fosse una ragazza a modo, invece è semplicemente una facciata.»
«Lo fa ogni volta, con le persone nuove.» mi confidò Rosarianna.
«L’ha fatto anche con te?» le chiesi schiettamente.
Lei abbassò gli occhi e non rispose. Lo presi per un sì.
Senza una parola, mi sedetti al tavolo accanto a lei. Tirai fuori il mio sacchetto del pranzo e l’aroma farinoso dei panini della signora Partecci si levò fino alle mie narici.
«Che buon profumo!» esclamò Rosarianna. «Cos’è?»
Con un sorriso a trentadue denti, pescai una pagnotta a testa le distribuii.
«Assaggiate e ditemi se non è paradisiaco.»
Dopo un solo morso, vidi le loro facce illuminarsi. Attaccarono a parlare tutti contemporaneamente e non capii una sola parola di quello che dissero.
«Calma! Accidenti, così divento sorda!»
«Come sono buonissime!» esclamò Rosarianna.
«Mio Dio, non ho mai mangiata niente di più buono! Le hai preparate tu? Che cosa hai usato? In quale misura? E qual è l’ingrediente segreto?»
Kima aveva parlato talmente in fretta da non avere più fiato in corpo.
«Sono davvero ottime.» si complimentò pacatamente Chris.
«Grazie dei complimenti, ma non le ho fatte io. La signora Partecci, una gentile panettiera che ha un forno sulla strada di casa mia, le prepara ogni mattina e me ne ha regalato un sacchetto. Non so cosa usa, so soltanto che tutto quelle che esce fuori dal forno è lavorato dalle sue mani ed è assolutamente squisito, delizioso, sublime!»
«Voglio conoscerla!» asserì Kima.
Ero contenta che le fosse passato il malumore. «Se vuoi, ti ci porto dopo la scuola.» proposi.
«Oh, non posso.» si rammaricò. «Porto mia sorella dal dentista e poi a scuola di ballo. E devo trovare anche il tempo di fare i compiti per domani.»
«Allora un’altra volta.»
«Volentieri!»
Mentre gli altri continuavano a mangiare e lodare i panini del forno, mi accorsi con la coda dell’occhio che qualcuno ci stava osservando.
Ad un tavolo dal lato opposto rispetto a noi, vidi Jake Kingston circondato da altri cinque ragazzi, tra il quanto e quinto anno. Riconobbi un altro giocatore di basket che era nella stessa squadra di Jake, più alto della media e con capelli tagliati alla militare di uno strano castano multicolore. Poi un paio di ragazze – con una seconda occhiata mi accorsi che erano gemelle – entrambe con i capelli biondo platino e corpo statuario, probabilmente dell’ultimo anno. Un altro ragazzo con capelli rosso tiziano e dall’aspetto molto timido quasi come Chris. Ed infine una ragazza con una paio di occhiali dalla montatura fine, con bellissimi boccoli biondo paglia e l’aria dell’intellettuale.
Doveva essere quella la combriccola di cui mi aveva parlato Kima.
Jake sedeva a capotavola affiancato dall’intellettuale, mentre gli altri lo circondavano come per creare una barriera tra lui e il resto del mondo. Sembravano indaffarati a discutere qualcosa di importante, tutti a capo chino verso Jake e con un’espressione seria in volto. Continuava a lanciare occhiate nella nostra direzione ed ebbi l’impressione che fossi proprio io il soggetto di quelle occhiate.
«Fanno sempre così.»
Mi voltai a guardare Chris. Aveva la pronte corrugata e l’espressione preoccupata.
Lanciai di nuov un'occhiata al tavolo di Jake. «Che vuoi dire?» chiesi.
«Ogni volta che escono per il pranzo, si radunano allo stesso tavolo e incominciano a parlare fino allo scadere dell’ora. Poi si alzano e Jake batte sull’orologio da polso come per ricordare l’ora in cui si sarebbero rivisti.»
Diedi un morso al panino.
Delizioso.
«Ma di cosa parlano?»
«Nessuno è mai riuscito a capirlo. È incredibile che da quando hanno incominciato a frequentarsi non sia mai trapelato quello che dicono in queste riunioni! Eppure si trovano in un luogo affollato.»
«Red faceva parte anche lui della cerchia?» Formulai la domanda senza che me ne rendessi conto.
«Come conosci Red Hawks? Beh, probabilmente ne avrai sentito parlare dalle altre ragazze della scuola. Comunque, sì, anche Red prima faceva parte della cerchia. Solo che da un po’ di tempo, lui e Jake non vanno più d’accordo e non si fanno più vedere insieme.»
«E tu sai il motivo del loro litigio?»
Scosse la testa. «Nessuno lo sa. Ma forse… quelli della cerchia sì.»
Sospirai. Non sapevo neanche io per quale motivo mi sentivo così delusa. Una parte si me – un angolino piccolo piccolo – voleva conoscere tutto quello che riguardava Red Hawks, ma la parte più grande, quella razionale, non riusciva a capirne il motivo, perciò respingeva quella voglia di sapere.
Proprio in quel momento, Jake si alzò. Sembrò lo sbocciare di un fiore. Nel momento esatto in cui lui si sollevò dal suo posto, le teste degli altri intorno a lui si spostarono in alto all’unisono. Si spettacolare e alquanto inquietante.
Esattamente come aveva detto Chris, Jake batté un dito sullo Swatch che aveva il polso e guardò gli altri con sguardo penetrante. Gli altri annuirono e si separarono andando tutti un una direzione diversa. Con lui rimase solo la biondina con gli occhiali.
«Quella è sua cugina, Rae-Mary Johnson.» disse Rosarianna.»È la figlia della sorella della madre di Jake. Stanno sempre insieme, sono molto legati. Una volta ho sentito Jake chiamarla Cercatrice.» rimuginò.
«Gli altri chi sono?» chiesi, girandomi a guardarla.
«Quello col taglio alla militare è Raferty Slater, detto il Pagliaccio.» disse lei, indicandolo. Colse la domanda nel mio sguardo. «Alcuno lo chiamano così per il fatto che compie sempre scemenze facendo ridere mezza scuola, ma alcuno lo chiamano così per quel suo modo di cambiare faccia facilmente. Un momento prima lo vedi che ride come un matto, quello dopo è talmente serio da far paura.»
«Fa davvero paura quando è così.» bisbigliò Chris. «L’unica nota a suo favore sono i suoi capelli.»
Qualcosa mi disse che era meglio non fare domande a qual proposito.
«E gli altri?»
«Il piccoletto che sta quasi sempre insieme a lui è Sebastian Ross, detto la Formica e non perché sia di bassa statura.» rispose Kima.»È un genio informatico. Dicono che si sia già laureato, ma i suoi genitori vogliono che lui abbia una vita da normale adolescente, per questo lo hanno iscritto ad una scuola pubblica. È al quarto anno come Raferty. È quasi una sua mascotte. Ovunque sia Sebastian lì c’è anche Raferty. È l’unico tra di loro a frequentare il terzo, ma anche se fosse al primo o il quinto, non farebbe differenza: rimane comunque un genio.»
«Le biondine platinate sono le Gemelle Oscure, Monika e Annika Teesh.» mormorò Rosarianna. «Sono le ragazze più insopportabili di tutta la scuola. Non hanno peli sulla lingua. Se ti odiano, se sei vestita male, se pensano che tu sia una sfigata, te lo dicono. E godono nel farti del male e non intendo fisicamente.»
«Sembra una famiglia male assortita.» osservai.
«In un certo senso sono una famiglia. Vedi alla maggior parte di loro manca un genitore. Se non sbaglio solo Sebastian ha ancora entrambi i genitori.»
«Ma solo perché il padre si è risposato.» intervenne Chris.
Che coincidenza. E io non ero tipo da credere nelle coincidenze.
«Anche Red è orfano di un genitore?» chiesi.
«Sì. La madre.» rispose Kima. «Perché hai quella faccia?»
«No, niente. Stavo solo pensando a quanto sarà difficile quest’anno.»
Preferivo cambiare argomento e non pensare a Red. E anche a quella strana cerchia. Ed a quelle strane coincidenze.
«A chi lo dici.» rispose Rosarianna.
«Per caso da queste parti c’è una biblioteca?» chiesi.
«Sì. È in centro. La Center Library.» rispose Chris.
«Come la raggiungo?»
«Sarebbe difficile da spiegare. Se vuoi, vengo con te dopo finito la scuola. Tanto la biblioteca fa orario continuo.»
«Non vorrei rovinarti i piani.»
Scrollò le spalle. «Non preoccuparti. Non ne ho.»
Sorridi. «Allora grazie.»
In quel momento suonò la campana. Accartocciai la busta ormai vuota dei panini e la gettai nella pattumiera lì vicino e con i miei nuovi amici mi avviai all’interno della scuola.
«Che materia avete?» chiesi.
«Scienze Sociali.» sorrise Kima. «È la mia materia preferita.»
«Ma solo perché l’ha scelta lei.» chiarì Rosarianna. «Io, invece, ho trigonometria.»
«Chris?» chiesi voltandomi verso di lui.
«Ho un’ora buca, perciò vado nell’aula di informatica a fare una ricerca per Storia Americana.»
«Allora visto che nessuno va nella mia direzione, mi dite dov’è l’aula per Scienze Biologiche?»
«Ti ci accompagno io, tanto è di strada.» offrì Rosarianna.
«Ti ringrazio. Questa scuola è un labirinto.»
«All’inizio è così, poi ti ci abitui.»
Io e lei aprimmo la doppia porta all’entrata dell’edificio principale. Chris ci salutò mentre andava verso destra, ricordandomi l’appuntamento fuori la scuola per accompagnarmi alla biblioteca, e scomparve in mezzo alla calca di studenti che transitava per i corridoi. Kima salì di corsa le scale per andare al suo armadietto a prendere i libri.
Rosarianna mi guidò verso il corridoio di sinistra.
«Rosarianna...» dissi soprappensiero.
«Strano nome, eh?»
Sembrava non molto fecile di questo e mi chiesi perché. «Un po’ sì.»
«Non so di preciso perché me l'hanno affibiato. So di essere per metà irlandese e per metà francese, ma non sono mai riuscita a capire  il nesso. Forse c'entra il fatto che i miei genitori e nonni non si parla.» rimuginò tra sè, con una faccia triste. «E il tuo di nome?» riprese subito dopo, riprendendo il sorriso. «Sylence non è un nome comune.»
«Il mio nome mi è stato dato da mio padre. Disse che quando nacqui non emisi suono e credevano che non respirassi. Invece aprii gli occhi e fissai mio padre tendendo le braccia verso di lui.»
«E tua madre?» chiese timorosa.
«Non so niente di lei. So solo che abbiamo gli stessi occhi. Mio padre non ne parla. Non so chi sia, né che fine abbia fatto. Ho trascorso tutta la mia vita solo con mio padre, viaggiando in tutta l’America del nord.»
Lei spalancò la bocca. «In quanti Paesi siete stati?»
«Mhm… in una ventina o giù di lì.» dissi, scrollando le spalle. «Siamo arrivati fino al confine con il Mexico.»
«Wow! È una fortuna che io sia arrivata fuori città! Invece tu hai girato tutti gli stati del nord!» esclamò. «Sei andata anche in Canada?»
«Solo ad Ottawa.»
«E hai solo diciassette anni.» esclamò.
Ed è l’esatto numero delle scuole che ho cambiato.
Seguii Rosarianna lungo gli svincoli del corridoio e arrivammo davanti ad una porta con la scritta Scienze Biologiche Prof. Du Waine.
«Grazie per avermi accompagnata, Rosarianna.»
«Non c’è di che. E puoi chiamarmi Rosy o Anna, rispondo ad entrambi.»
«Ma no, sono troppo banali! Dobbiamo trovarne un altro. Mhm… che ne dici di Aria?»
Il suo viso sembrò illuminarsi dall'interno. «Mi piace.»
«Allora ci vediamo dopo, Aria
Si allontanò salutandomi con un cenno della mano e un enorme sorriso. Entrai in classe.
Un uomo sulla cinquantina era seduto dietro la cattedra, intento a leggere un libro di biologia.
«Salve, io sono…»
«Oh, bene. Lei deve essere la signorina Hill. Prego si accomodi, pure in un banco libero, mentre aspettiamo gli altri.»
Scelsi il penultimo banco in fondo all’aula. Quando mi voltai verso sinistra mi accorsi di lui.
Sebastian Ross.
«Io ti conosco.» mi lasciai sfuggire prima che me ne rendessi conto.
Lui si volto verso me. Un paio di occhi color caffé mi in quadrarono, spalancati dalla sorpresa, facendo i lineamenti da cherubino. Un paio di ciocche rosse agli ricaddero sulla fronte.
Era minuto di corporatura, ma con un viso del genere di sicuro le ragazze stravedevano per lui.
«Come hai detto, scusa?» chiese.
Scossi la testa, rompendo l’incantesimo in cui ero caduta.
«V-volevo dire… ecco io… ti conosco perché ti ho visto a pranzo al tavolo di Jake Kingston. Tu sei Sebastian Ross.»
Mi guardò come se mi fosse uscita una seconda testa. «E tu chi saresti?»
«Oh!» Allungai una mano. «Il mio nome è Sylence Hill.»
Sebastian spostò lo sguardo dalla mano alla mia faccia, come se ne avesse paura. Quasi come se dalle mie mani dovesse uscire una ragnatela come quella di Spiderman e attaccarlo al muro. Mi venne da ridere.
«Si suppone che dovresti stringerla.» sorrisi.
Allora che lui abbozzò un sorriso e esitante strinse la mia mano con la sua. Aveva una stretta delicata ma che decisa, una contraddizione curiosa.
Mi lasciai esaminare da suo sguardo e il sorriso si accentuò diventando alquanto misterioso e divertito, come se lui sapesse qualcosa che io ancora non conoscevo.
«Credo che la situazione sarà parecchio movimentata.» dichiarò, lasciando la mia mano.
«Che vuoi dire?»
D’un tratto la sua espressione divenne innocente e luminosa come quella di un neonato.
«Niente.»
Per il resto della lezione non parlammo più e alla fine, mentre se ne stava andando feci per raggiungerlo, ma prima che potessi farlo, qualcuno si mise tra me e lui.
«Cosa credi di fare, eh, matricola?»
Sollevai lo sguardo e incontrai il proprietario di quella voce così baritonale. Un paio di occhi nocciola mi fissavano freddi e minacciosi e il taglio alla militare non faceva che rendere ancora più dura la sua espressione.
Oh, mio Dio.
«Io volevo… solo…» balbettai.
«Cosa?» disse Raferty Slater, avanzando di un passo.
D’un tratto mi assalì un forte impeto di rabbia. Ma chi diavolo di credeva di essere?
Alzai il mento, un chiaro segno di sfida. «Se ti sposti di novanta gradi alla mia destra, posso restituire questo a Sebastian.» dissi, tirando fuori un piccolo portachiavi a forma di mouse per computer in miniatura che avevo trovato per terra accanto la banco del piccolo rosso. «Credo che ci tenga.»
Cercò ti togliermelo dalle mani ma fui più veloce di lui. Quando mosse braccio in avanti per afferrare il portachiavi, scivolai agilmente nel poco spazio tra lui e il banco di marmo e mi avvicinai a Sebastian.
«Tieni. Si è rotto un anellino, per questo si è tolto. Ci vediamo.»
Senza prestare attenzione a quella sottospecie di energumeno minorenne dietro di me mi diressi verso la porta.
«Ehi, aspetta.» mi chiamò Sebastian.
Voltai la testa a guardarlo. Dietro di lui, vidi che Slater immobile guardarmi con uno sguardo capace di uccidere.
«Cosa?»
Sebastian alzò leggermente il portachiavi rotto. «Grazie. In effetti ci tengo. Me lo ha regalato Rafe.» chiarì indicando il compagno alle sue spalle.
Annuii. «Di niente. Ci vediamo.»
Mentre oltrepassavo la soglia, sentii bisbigliare i due amici, ma riuscii a captare solo pochi pezzetti della conversazione.
«…tipo interessante…»
«…provato, ma non è successo niente…»
«…credo che…»
«…non è possibile…»
«…non puoi saperlo…»
Il resto di quello si dissero fu inudibile. E anche se avrei ascoltato ancora, di sicuro non ne avrei capito il significato. Di che diavolo stanno parlando?
«Sei una tipa tosta, eh?»
La voce di Jake Kingston mi fece sobbalzale. Concentrata nel capire cosa si stessero dicendo quei due nell’aula, non mi ero accorta di lui appoggiato con disinvoltura al muro opposto alla porta.
«Sei la seconda persona che me lo dice.» lo informai, con stizza.  «E perché nessuno di vuoi da un segno della propria presenza, invece di farmi venire uno spavento?»
Lui piegò la testa di lato, osservandomi, pensando. «Tu non mi percepisci?»
Sbattei le palpebre, confusa. «Che razza di domanda è?»
Mosse la testa in direzione dell’aula dove c’erano ancora u due confabulatori. «Sei stata in gamba. Nessuno osa sfidare Rafe, ne hanno tutti paura.»
«Beh, io no.» dichiarai. «Non mi piacciono tanto i bulli, li detesto. E in una scuola in cui sono andata, se non tenevi testa a tutti quelli che volevano metterti sotto i piedi, finivi per essere il bersaglio. Sai cos’è? È il povero sfortunato a cui tiravano le mutande, che chiudevano in uno sgabuzzino con le scope fino a quando il custode non veniva controllare tutte le porte e lo trovava, quello che tornava a casa coperto di macchie perché a mensa lo consideravano il secchio per la spazzatura… allora dovevi avere le palle per affrontarli e ripagarli con la stessa moneta.» Scrollai le spalle. «Quindi, no, non sono una di quelli che hanno paura di Raferty Slater.» Scossi la testa sospirando. «Oggi non è la mia giornata.»
Mi voltai per andarmene, ma la sua voce mi fermò di nuovo.
«Perché sei venuta qui?»
Non mi girai a guardarlo. «Francamente, non sono cavoli tuoi.»
Me ne andai.

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Capitolo 4
*** Il Libro ***


CAPITOLO 4
 
Il Libro

 
A fine giornata, ero un fascio di nervi. E dovevo ancora incontrarmi con Chris. La giornata era iniziata nel modo migliore per finire a catafascio.
Chissà come andavano le cose a papà? Probabilmente si era dimenticato di mangiare, immerso com’era nel suo lavoro top-secret e, molto probabilmente, si era dimenticato che oggi toccava a lui fare la spesa.
Ero nel parcheggio, appoggiata al cofano posteriore della New Beetle e osservavo gli ultimi studenti lasciare l’istituto.
Pensai spassionatamente che non avevo visto né Jake né Red e neanche il resto della gang di Kingston. Forse erano usciti prima di me o forse erano ancora dentro…
Sospirai. Ma che mi interessa cosa fanno quelli lì? Soprattutto Red…
«Che sospiro.»
Mi voltai verso Chris. Non mi ero accorta di lui. La brezza leggera e frizzantina scompigliava varie ciocche dei sui capelli castani,
illuminati da ciocche paglierine, e i suoi penetranti occhi argentei scrutavano il mio viso, impassibili. La camicia nera faceva risaltare
ancora di più i suoi colori.
Scrollai le spalle. «Mi ero aspettata che il primo giorno di scuola sarebbe stato, non dico bello, ma almeno passabile… ma è andato tutto a rotoli.»
«Ti va di raccontarmi le tue sventure?» chiese.
Scossi la testa. «Non prendertela, ma preferirei non pensarci.»
Tanto che importata se il primo giorno di scuola era andato male? Presto o tardi me ne sarei andata di nuovo.
Salimmo in macchina e per prima cosa accesi il lettore cd con dentro un disco che avevo personalmente masterizzaro.
«Ci piace variare, a quanto sento.» osservò Chris, dopo aver sentito almeno quattro o cinque canzoni del cd.
«Sì. Sono stata in tanti posti, e cambiando luogo si cambia anche musica. Nel Texas prevale il country, a New York l’hip hop e il pop, come anche la tecno pop. A South Boston si predilige la musica della Vecchia Irlanda, la gaelic music, e le più grandi star del gaelico sono le Celtic Women. Ce ne sono alcune anche in italiano, memorizzate a Little Italy e alcune in spagnolo.» Scrollai le spalle davanti alla sua faccia sconvolta. «Quando cambi Paese devi adeguarti o verrai bollato come “quello strano”. Non è una bella cosa.»
«L’hai provato?» mi chiese.
Annuii. «Una volta. Ero in California. Non è un buon posto per un tipo poco festaiolo come me. Dove devo andare?» domandai poi.
Lui mi diede le indicazioni necessarie e in dieci minuti ci trovammo nel centro di Lansing City.
La città era un misto tra nuovo e vecchio, come il vecchio municipio sulla strada principale e il nuovo centro commerciale a South Lans. I lampioni erano il stile regency a differenza che questi avevano la lampadina dietro il vetro. Erano la caratteristica che mi piaceva di più di quella città, quel miscuglio di origini antiche e new style.
«La biblioteca di trova a nord dal centro, ma è in un’aria pedonale.» mi spiegò Chris.
«Perché?»
«Beh, il sindaco pensava che le persone a piedi che passavano per la strada avrebbero avuto voglia di leggere un libro e rilassarsi,» disse con una certa dose di sarcasmo, «Ed è per questo che ha aperto un paio di settimane fa uno Starbucks collegato all’ala ovest della biblioteca.»
«Funziona?» domandai sorridendo.
Lui ricambiò. «Più di prima ma meno di quanto si aspettasse.»
«Allora dobbiamo andarci, così faremo un favore al sindaco usufruendo del servizio che ha fornito.»
Scoppiammo a ridere entrambi.
Fermai l’auto in un parcheggio pubblico e smontammo.
«La Center Library si trova dietro quell’angolo.» disse Chris.
«Chris, posso farti una domanda?»
«Dimmi.»
«Perché Gabby ce l'ha con Kima?» chiesi inchiodandolo con lo sguardo.
lo vidi rabbrividire e voltare gli occhi da un'altra parte.
«Okay, domanda più semplice: chi delle due ha ragione?»
Chris rimase muto.
Svoltammo l'angolo e mi ritrovai davanti un enorme edificio vecchio stile come i lampioni con una scritta a caratterti cubitali in ottone che recitava " THE LANSING CENTER LIBRARY" sul frontone. Era grande più della scuola e la mensa annessa, e completamente fatta di pietra e marmo. Gli scaloni d'entrata erano decorati da scanalature, raffiguranti tutti un pezzo dell'intero disegno scavato nella pietra.
«Che cos'è?» chiesi a Chris, indicando vari pezzi di mosaico.
«Raffigurano un pezzetto del Bosco Incantato.» rispose. «Il fondatore della biblioteca aveva scritto un libro sull'esistenza degli Elfi e credeva che Lansing City fosse, diciamo così, la base militare per eccellenza. E nel suo libro, descriveva di un bosco nascosto da una barriera invisibile all'occhio umano, che proteggeva il villaggio doveva vivevano gli elfi, chiamandolo, appunto, Bosco Incantato.»
«Aveva una fervida immaginazione, eh?»
«Sì,» rise lui. «Dopo un paio di anni dalla fondazione della bibblioteca, lo rinchiusero in un manicomio psichiatrico. Diceva che gli elfi erano usciti dal loro villaggio per accoppiarsi con noi gli umani e creare una stirpe che avrebbe potuto sottometterci tutti.»
«Wow.» ironizzai.
Entrati nella biblioteca, alla reception ci accolse una signora di mezza età, che si presentò come Signora Parks.
«Oh, a proposito, Sy.»
Mi voltai verso di lui. «Sì?»
«Perchè sei venuta in biblioteca?»
Mi girai verso la Mrs. Parks. «Potrebbe dirmi dove si trova la sezione dedicata alla botanica e quella per la petrologia?«Sorrisi quando Chris mi guardò interdetto. «Sono per mio padre.» Mi voltai verso la Mrs. Parks. «Per prendere in prestiro i libri c'è bisogno di fare una tessera?»
«Sì, signorina. Vuole farla?» chiese gentilmente.
«Mi conviene. Qualcosa mi dice che mi vedrete spesso da queste parti.»
Dieci minuti dopo avevo la tessera di socia della bibblioteca e un foglio con le indicazioni per raggiungere i reparti che mi
interessavano. Per fortuna, erano relativamente vicini, solo a quanche scaffale di distanza, al secondo piano.
«Senti, ti dispiace se mi defilo per un pò?» mi chiese Chris. «Vedo se c'è qualcosa di nuovo nel reparto Novità e poi torno.»
«Ma sai ritrovare la strada?»
«Beh, se ti perdo, ti faccio uno squillo e ci ritroviamo alla Hall.»
«Okay, allora.»
Andato Chris, mi diressi verso il reparto petrologico. Trovai quasi tutti i libri elencati da mio padre, perciò, con un pò di difficoltà, andai nel reparto botanica.
Vagai tra gli scaffali, sfiorando con le dita le copertine dei libri. Ce n'erano tantissimi. Ero abbastanza competente nel capire di cosa trattavano, vista l'attività di mio padre, ma alcuni di quei volumi mi erano sconosciuti.
La mia attenzione fu catturata da un piccolo volumetto dalla copertina verde e il dorso scritto con delle lettere strane, antiche.
Curiosa, lo presi. Non c'era scritto l'autore, ma solo un'unica parola dorata.
D'un tratto mi parve questa sfumasse, sbiadisse, come ricoperta da una leggera nebbiolina e le lettere di cui era composta parvero cambiare.
«Alfàr
Nella mia mente quella semplice parola si tradusse aiutomaticamente.
«Elfo
Ma cosa ci faceva un libro che parlava di elfi in mezzo a tutti quei libri di botanica? E come diamine facevo a capire quella strana lingua?
Troppo curiosa, aprii il libro e cominciai a leggerlo. Alquanto sorpresa, mi accorsi che parlava della storia degli elfi, con tanto di immagini di cui mi aveva parlato Chris.
 
 
"Sulle colline a Nord, dove le Nuvole toccano la Terra, protetto dai Giganti delle Montagne, sorge e prospera LiòsLand. Il Villaggio era abitato dai LiòsAlfàr, gli Elfi della Luce. I LiòsAlfàr erano un Popolo pacifico e generoso, dedito al lavoro e alla protezione della loro Famiglia. Gli Alfàr erano in grado di far piangere il Cielo nelle caldi Estati e nuotare nelle Acque azzurre del Lago di Albh, la Regina Bianca, e giocare con le sue Creature. Potevano scaldare i freddi Inverni, quando la Gelida Tormenta riusciva a varcare le soglie del Villaggio. Le Nuvole erano loro Amiche e gli Alfàr si divertivano a giocare con Loro a nascondino. E la nuda Terra poteva rinascere rigogliosa nelle loro Mani.
"I LiòsAlfàr non avevano Re o Regine. Erano un Popolo libero, che conviveva in pace e armonia.
"I LiòsAlfàr avevano un aspetto etereo, la loro pelle riluceva ora della chiarore della Luna ora dello splendere del Sole. I loro Capelli avevano le sfumature di tutti i Fiori, dal bianco delle Orchidee al blu dei Glicini al rosso delle Rose, che le Donne si divertivano ad intrecciare.
"Le donne Alfàr non tagliavano mai i capelli sin dalla nascita, poiché la Regina Bianca adorava quando queste ballavano intorno al suo Lago e un arcobaleno di colori risplendeva sul pelo dell'Acqua.
"Ma ciò che distingueva gli Alfàr dagli Esseri Terreni erano gli Occhi. Gli Occhi per loro erano lo Specchio sull'Anima. Ognuno aveva una particolare sfumatura, alcuni li avevano anche di colore diverso.
"La Regina Bianca, Sovrana del Lago di Albh, aveva gli Occhi del colore grigio e nero delle Tempeste e delle Nuvole più bianche..."

 
 
«Sy
Trasalii al richiamo della voce di Chris, che mi guardava preoccupato.
«Stai bene?» chiese esitante. «Ti ho chiamata tante volte, ma non mi rispondevi. Sembravi ipnotizzata...«Lanciò un'occhiata al libro che avevo in mano. «Che cos'è?»
Si avvicinò per vederlo meglio, poi aggrottò la fronte. «Ma che lingua è?»
Abbassai lo sguardo leggere il testo di prima e vidi che le lettere non erano inglesi. Erano arcaiche come quelle scritte sul dorso.
«Non lo so...» tentennai.
«Allora, come lo stavi leggendo se non la capisci?»
Chiusi il libro con un tonfo e lo risposi dov'era in precedenza.
«Non lo stavo leggendo. E, comunque dobbiamo andare.» mi affrettai a dire. «Mi aiuti a portare gli altri libri?»
«Certo.»
«Hai trovato qualcosa di interessante?»
Raccolse i libri di petrologia da terra e fece una smorfia. «No. Solo vecchio libri che ho già letto. Dovrebbero fare una capatina alla libreria più vicina.» Si avviò verso l'angolo. «Vieni?»
«Arrivo. Prendo l'ultimo libro e ti raggiungo.»
Finsi di consultare i titoli dei libro nello scappale di fronte a me, aspettando che svoltasse l'angolo. Allora, presi in fretta e furia i libri di botanica e tirai fuori il libro sugli Elfi che stavo leggendo in precedenza, nascondendolo im mezzo agli altri.
Non sapevo il perché di tanta segretezza, ma non volevo che Chris vedesse che lo stavo prendendo e qualcosa mi diceva che era meglio che nessuno vedesse, quel libro.
 
*  *  *
 
Dopo aver salutato Chris, tornai a casa. Trasportai i libro con un carrettino di metallo e li posai sul tavolo della cucina.
Mi piaceva quella casa, era davvero accogliente con tutti quei toni sul giallo, l'arancio e il beige.
Di papà non c'era traccia.
Sospirai e, percorrendo il corridoio a destra della cucina, bussai all'ultima porta di fronte a me.
«Papà.»
Niente.
«Papà...» insistetti.
Ancora niente.
Grugnii, mi scrociai le maniche e diedi due pugni alla porta. «Papà
Sentii un trambusto al di là della porta che, dopo pochi secondi si aprì. Un uomo trafelato, alto, con i capelli biondo scuro spettinati e i vestiti sporchi di terra, mi regalò uno splendido sorriso a trentadue denti.
«Ciao, dolcezza. Com'è andato il primo giorno di scuola?»
«Con mi imbrogli.» gli dissi, incrociando le braccia al petto, indispettita. «Sono le quattro e tu non hai mangiato, non è vero?»
Mi sorrise a mo' di scusa. «Sai che quando sono concentrato sul lavoro mi dimentico tutto il resto.»
«Papà, così finirai per debilitarti.»
«Perché? Ti sembro debilitato?»
Xander Hill si eresse in tutto il suo metro e novanta, mettendo in mostra un fisico invidiabile anche da un palestrato. Per essere un uomo di quarant'anni non li dimostrava.
«Cosa vuoi da mangiare?» chiesi, girandomi.
«Ah, mi rimetto nelle tue abili mani. Se una professionista in cucina.»
«D'accordo e... papà.» lo chiamai mentre si voltava per tornare in laboratorio. «Vai a farti una doccia e raderti la barba.»
Si strofinò il mento valutando se era il caso. «Penso che... tu abbia ragione.»
«Per favore, non rientrare nel laboratorio, altrimenti te lo dimenticherai  e dovrò mangiare di nuovo da sola. «Mi lascia scappare.
Abbassai lo sguardo. Non avrei voluto dirglielo.
Lui mi venne incontro e mi abbracciò stretta. «Scusami, Sylence. So di essere un genitore difficile e che sei dovuta crescere in fretta per stare al mio passo...»
«Papà, non te ne faccio una colpa. Sono solo preoccupata per te. Il lavoro ti assorbe troppo, ho paura che alla fine... possa
compromettere la tua salute.»
Mi sorrise dolcemente, gli occhi bruni che scintillavano di amore paterno. «Sei una figlia stupenda e sono orgoglioso di te.»
Sorrisi e presi un bel respiro. Feci una smorfia. «Papà... chiuditi nella doccia fino a domani e metti della candeggina nell'acqua.»
La sua risata baritona riempì la casa e mi fece sorridere ancora di più.
Mi schiocco un bacio sulla guancia e, dopo aver chiuso la porta del laboratorio si diresse al bagno.
Mentre andava si voltò verso me e fece per parlare.
«Il rasoio e la schiuma sono sotto al lavandino e il bagnosciuma e lo shampoo sono nell'angoliera della doccia.» disse, anticipandolo.
Due pollici in su e un ghigno. «Sei fantastica, baby
Due pollici in su e una smorfia che avrebbe dovuto essere seducente. «Anche tu, dirty man
Seguita della risata di mio padre, mi diressi in cucina e, dopo aver frugato dei mobili e il frigorifero, decisi di fare la pasta con il tonno e la panna acida, una fetta di carne per papà e dei wrustel a me.
Il mio era il padre migliore del mondo, a dispetto della sua ossessione per il suo lavoro.
 
*  *  *
 
Dopo aver cenato mi assicurai che papà andasse al letto, portai nello suo studio i libri che avevo preso in prestito dalla biblioteca. Nel metterli sulla libreria a fianco della scrivania, mi capitò tra le mani il libro degli elfi.
Mi sedetti sulla poltrona lì vicino e continuai a leggere dal punto da cui mi ero interrotta.
Ancora una volta, le parole parvero vorticare e cambiare forma e posizione, facendomi comprendere il loro significato.
La storia continuava descrivendo il villaggio e il Bosco Incantato, ma poco più avanti trovai qualcosa di curioso.
 
 
"Una volta ogni Cinquanta Estati, Essi potevano uscire nel Mondo Terreno, e restarvici per un intero Ciclo Stagionale. Era severamente vietato loro di legarsi a Esseri Terreni, poiché costretti a tornare alla loro Terra Natale,  altrimenti non sarebbero stati capaci di sopravvivere per il loro Amore per la Natura e la voglia di vivere in Luoghi pieni di Alberi, Piante e Fiori, dove scorrevano corsi d'Acqua cristallina, dove l'Aria profuna di Magia e le alte pareti delle Montagne li proteggono.
"Inoltre, LiòsLand è un Luogo dove Natura e Magia si incontrano sul Piano Terreno, dando loro Energia e Lunga Vita. Se vennissero meno al contatto con una delle due Facce della Medaglia, perderebbero la loro Vitalità e il loro Spirito, deperendo in una Creatura senza Anima né Cuore..."

 
 
Lo chiusi di scatto appoggiandolo sulla scrivania. Mi chiesi se quello che il libro diceva era vero o se fossero tutte fandonie.
Come facevo a capire quella lingua? Perché avevo la sensazione che avesse a che fare con me? Perché non riuscivo a togliermi dalla testa che quello su cui papà stava spendendo tutto il suo tempo fosse, in qualche modo collegato a questo...?
«Adesso basta.»
Infastidita dai tutti quei pensieri, misi a posto i libri che erano rimasti e, bruscamente, afferrai il libro sugli elfi e lo nascosi nell'angolo in altro dietro un grosso volume di botanica e ci misi davanti una piccola statuetta che c'era lì vicino.
Mi chiesi svogliatamente perché lo stessi nascondendo.
Tornai in camera, pensando che il giorno dopo sarebbe incominciata un'altra giornata di scuola, mi misi il pigiama e mi infilai sotto le coperte.
Poco prima di sprofindare nella fase REM, mi vennero in mente un paio di occhi dorati, che difficilmente avrei scordato.

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Capitolo 5
*** I Panini ***


CAPITOLO 5
 
I Panini

 
«Problema a ore quattro.» mi avvisò Kima.
Non mi voltai. «Chi?»
«Kingston.»
Eravamo a pranzo, a due giorni dalla visita in biblioteca. Non avevo più ripreso quello strano libro sugli elfi, in compenso facevo sogni strambi in cui vedevo un piccolo uomo con le orecchie a punta invitarmi a giocare con lui e offrirmi un enorme fetta di torta.
Mi sa che oggi pomeriggio faccio un dolce.
Diedi un altro morso ad un panino alle erbe della signora Partecci, beandomi del suo sapore.
Quando sentii i passi di Jake dietro di me, non mi voltai. «Come va, Jake? Ti ringrazio infinitamente per esserti palesato in questo modo e non avermi fatto venire un infarto.» dissi sarcastica.
Sentii la sua risata come se mi camminasse sulla pelle. Mi diedi una scrollata come per cancellare quella sensazione.
Gli allungai un panino tendendo il braccio all'indietro. «Vuoi? Sono assolutamente delizioni.»
Mentre Jake prendeva il panino, gli altri mi guardavano come se all'improvviso mi fossi messa a ballare il flamenco sul tavolo – in mutande, sia chiaro.
Non ci badai.
Mi girai a guardare Jake, per vedere se avesse reagito in modo umano.
Vestito tra lo sportivo e l'elegante, Levi's effetto usato, camicia botton-down e sneakers ai piedi era davvero bello... peccato che non costituiva nessuna attrattiva per me.
Dato il morso al panino, lo vidi masticare lentamente, assaporando. «Sono davvero buoni.» disse, impressionato. «Li hai fatti tu?»
«Per quanto vorrei prendermi il merito, no, non li ho fatti io, ma la fornaia vicino casa.»
«Beh, portale i miei complimenti.»
«Volentieri. Senti, perché non saltiamo tutto questo cameratismo e mi dici perché sei venuto?»
«Pessimo umore? Non puoi credere che sia venuto solo per scambiare quattro chiacchiere?»
«Naa. Hai già con chi scambiarle.» dissi, accennando con la testa al tavolo a cui erano seduti tutti i membri (tranne uno) del suo club privato. «Quindi perché sei qui?»
Sul suo volto calò un'espressione seria. «Possiamo parlare in privato?»
Annuii. «Come vuoi.» Mi voltai verso i miei amici. «Ragazzi, vi dispiace?»
«No, fai pure.» rispose Aria per tutti.
Jake e io ci allontanammo dagli altri, raggiungendo il parcheggio, che in quel momento era quasi deserto. Lui si appoggiò al cofano posteriore di un'auto, incrociando le braccia al petto.
«Allora, di cosa vuoi parlare?» chiesi
«So che hai parlato con Hawks.» esordì.
«Quindi?»
«Cosa vi siete detti?»
«Ehm, non credo siano affari tuoi.»
«Io penso di sì. Non devi avvicinarti a lui, non devi neanche guardarlo.»
«Mio Dio, sembra una scenata di gelosia.» Scossi la testa. «L'ho detto anche a lui, se ti piace tanto...»
«Non scherzare.» sbraitò. «Io e lui non abbiamo niente a che fare. Non lo sopporto nel minor modo possibile, è egoista ed egocentrico…»
«Allora perché sei il suo migliore amico?»
Lui voltò la testa di scatto, con una smorfia di sofferenza talmente profonda da darmi un brivido.
«Non è il mio migliore amico, non più, non dopo quello che...» Scosse la testa, cancellando dal suo volto quell'espressione tormentata, ritornando ad essere impassibile. «Comunque, non sono qui per parlare di Hawks. Volevo anche chiederti come ti trovi nella nostra scuola.»
Sorpresa da quel cambiamento repentino, tardai a rispondere. «Bene... le lezioni sono semplici, i professori apposto, mi sono fatta dei nuovi amici...»
«Ho sentito che hai litigato con Gabrielle.»
Lo guardai con gli occhi stretti a fessura. «Ma che hai al posto delle orecchie? Due satelliti della CIA?»
Lui ridacchiò. «Le voci corrono veloci nei corridoi della scuola. Gabby ha cominciato a sbraitare appena entrata nell'atrio principale e non l'ha finita finché un professore non l'ha minacciata di sospenderla.»
«Ma fa sempre così? Intendo, adesca sempre le matricole e i nuovi arrivati per farli diventare il suo seguito?»
«Quasi sempre.»
Mi venne in mente una cosa. «Jake, sapresti dirmi perché Gabby ce l'ha con Rosarianna?»
«La rossa?»
«La mia migliore amica.» dissi di getto. «Sì, lei.»
Sapevo che non avrei dovuto chiederlo a lui e aspettare che me lo dicesse lei, ma avevo l'impressione che non lo avrebbe fatto. E io ero troppo risoluta per poter lasciar pendere.
«Beh, so che la colpa fu addossata a Rosarianna, ma non ne sono per niente convinto.» disse, scrollando le spalle.
«Di cosa parli?»
«Dello scherzo architettato da Gabby per far spaventare Rosarianna, un paio di anni fa. Vedi, ad Halloween, allestiamo una piccola fiera qui, nel parcheggio, mentre la scuola viene addobbata come una casa dei fantasmi, alcune aule rimangono aperte, mentre tutte il resto vengono chiuse a chiave. So che una delle aule che dovevano essere chiuse non lo erano. Rosarianna era una delle organizzatrici insieme a Gabby. Sai,» mi disse, «Loro erano migliori amiche. Fu colpa dello scherzo se ora non lo sono più.»
«Ma cos'era lo scherzo?»
«Fu uno scherzo che sfociò in qualcosa di più pesante. Gabby chiese ai ragazzi del rugby di partecipare e, travestiti da mostri, sono entrati nell'aula aperta da lei. Poi fece bendare Rosarianna, dicendole che doveva mostrale una sopresa.»
Iniziavo a sospettare come si fosse conclusa tutta la vicenda e quello che stavo pensando mi fece accapponare la pelle.
«I ragazzi dovevano solamente spaventarla, ma quando quelli si scolarono almeno quattro Corone a testa, non credo che si siano resi più conto dove fosse il confine tra scherzo e pazzia. E per questo che noi di basket non li consideriamo.» chiarì lui.
«Vuoi dire che si sono ubriacati?!»
Jake annuì. «Portarono dentro Rosarianna, chiudendo poi la porta chiave e i ragazzi eseguirono il loro compito. La spaventarono a morte. Ma non si fermarono. Josh Harber, il capitano della squadra, si avviò oltre la soglia della pazzia... non sa di preciso cosa successe, ma posso immaginarlo. Per fortuna, qualcuno sentì le urla della ragazza e ruppe la maniglia della porta. Appena in tempo, devo dire.»
Una fredda calma mi avvolse e fu provvidenziale: se mi fossi permessa di approfondire le emozioni che mi tempestavano dentro, qualcuno sarebbe finito male.
«E Gabby?» chiesi a stento, tanto era la rabbia repressa che mi faceva tremare.
«Ah, lei diede la colpa a Rosarianna. Disse che fu lei ad architettare quello scherzo per lei e non viceversa e che alla fine le si era ritorto contro.»
«Aria?» farfugliai.
I muscoli delle braccia e delle gambe erano talmente tesi da farmi male. Volevo la testa di Gabby, (metaforicamente parlando, si intende, perché non credo che sul curriculum vitae ci faccia una bella figura una condanna per omicidio).
«So che è andata dallo psicologo della scuola per un certo periodo.»
Aria. L'innocente, dolce Aria, costretta ad andare da uno trizzacervelli per colpa di uno scherzo del cavolo architettato da una sgualdrina megalomane?!
Il cielo, si rannuvolò all'improvviso. Jake gli lanciò un'occhiata per poi tornare a guardarmi. Non pronunciò parola, ma potevo sentire i suoi occhi premermi addosso.
Non ci badai ero troppo infuriata per pensare a qualcos'altro che non fosse la vendetta. Mi ripromisi che alla prima occasione avrei pareggiato i conti.
Era vero, era da poco che avevo conosciuto Aria, ma dentro di me sapevo che, in qualunque modo, ci saremmo legate più saldamente di due sorelle.
E chiunque prova a fare o fa del male alla mia famiglia, ne pagherà le dovute conseguenze.
 
*   *   *
 
Stavo tornando a casa, dopo aver promesso a Kima di passarla a prendere per andare al forno della signora Partecci. Era estremamente entusiasta di conoscerla.
Forse aveva capito che il mio umore era cambiato, dopo la chiacchierata con Jake – il quale se ne era andato facendomi promettere di stare lontano da Red Hawks –, visto che mi aveva lanciato delle occhiate indagatrici più di una volta.
Comunque, quando mi aveva chiesto per quale motivo mi stavo comportando in modo strano, le avevo risposto che era per colpa di una cosa che aveva detto Jake e non aveva indagato oltre.
Nel traggitto da scuola a casa, mi vennero in mente almeno dieci modi diversi per umiliare Gabby.
Magari faccio finta di averli pensato e che le voglio essere amica e poi la faccio ritrovare che gira in mutande e reggiseno per la scuola in cerca dei suoi vestiti. Oppure posso scavare nel suo passato e trovare qualcosa di compromettente da far publicare sul giornalino della scuola. O...
Svoltando l'angolo a quattro isolati da casa mia, vidi qualcuno giocare su un campo da basket.
Red Hawks.
Per fortuna che avevo incrociato le dita alla promessa fatta a Jake, perché in quel momento avevo una voglia irrefrenabile di parlare con Red e, cavolo, lo avrei fatto.
Stupido, strano istinto.
Svoltato, percheggiai l'auto sul marciapiede e, prima di scendere, presi la busta di carta dove c'erano dentro altri tre panini del forno e una piccola bottiglia d'acqua.
Ipnotico fu l'unica parola che mi venne in mente per descriverlo.
A torso nudo, brillante di sudore, tirava a canestro come un professionista e mettendoci tutto sé stesso, si vedeva. Presa, palleggio, tiro e canestro.
In quel momento, mentre mi fermavo a guardarlo all'entrata della recinzione di ferro, palleggiò dolcemente poi, con uno scatto, si lanciò in avanti, saltò e schiacciò la palla nel canestro con tutta la forza che aveva, rimanendo appeso per qualche secondo prima di scendere.
Era uno spettacolo.
Ecco dov'è finita tutta l'attrattiva di Jake: se l'è presa lui.
La palla rimbalzò verso me. Posai la busta terra e la presi, iniziandoci a palleggiare con destrezza.
Ero brava negli sport, soprattutto quelli che concernano l'utilizzo di una palla, di qualsiasi dimensione siano.
Red si girò guardandomi impassibile. Senza una parola, venne verso me, ma, prima che potesse anche solo sfiorare la palla, scattai in avanti, spostando la mano di palleggio da destra a sinistra, invitandolo implicitamente a venirsela a prendere.
Lui non se lo fece ripetere. Mi venne incontro, imitandomi nei movimenti, spostandosi dove mi spostavo io. In quella situazione di stallo, decisi di giocarci un po'. Lo dribblai agilmente e, arrivata vicino al canestro, feci un tiro da due punti.
Lui riprese rapidamente la palla e velocemente cercò di superarmi, senza darmi fiato.
Lo rincorsi, cercando di riprendermela, ma lui, fulmineo, saltò compiendo un tiro da tre punti.
I suoi occhi dorati brillavano di soddisfazione.
Mi fermai a riprendere fiato. «Non gongolare. Sono fuori allenamento, altrimenti ti avrei stracciato.»
Tirando un respiro profondo, mi scostai le ciocche di capelli che mi erano cadute sugli occhi. Mi accorsi che Red aveva seguito il movimento.
Il sole di metà pomeriggio attraversava i suoi capelli neri, creando dei riflessi blu da togliere il fiato e che un leggero venticello li scompigliava, facendomi venire voglia di passarci dentro le mani per farlo da me.
«Ti va un panino?» chiesi, volendo distogliere la mente da quei pensieri assurdi.
Senza aspettare una risposta, andai a prendere la busta coi panini e l'acqua. Lui, intanto, si stava detergendo il sudore con un asciugamano di spugna.
Gli posi per prima la bottiglia con l'acqua. «Tieni.»
Mi osservò alcuni secondi, prima di prenderla e scolarsi un bel sorso. La presi, quando me la porse, e bevvi anch'io. Mi tremarono le labbra a contatto con il collo della bottiglia tiepido, dove aveva bevuto lui.
Un bacio indiretto, si poteva dire.
Mentre bevevo, gli posi la busta. «Dentro ci sono dei panini. Mangiane uno o due, se vuoi.»
Ancora una volta, attese qualche secondo prima di prenderla. Pescò un panino e gli diede un bel morso.
Ah, allora che lui è umano!, pensai, quando vidi lanciarmi un'occhiata sia indagatoria che quasi sconvolta. I panini della signora Partecci riescono a sciogliere anche il ghiaccio più duro.
«Ah, lo so, sono buonissimi. No, non ringraziarmi per averti fatto assaggiare quest'angolo di paradiso.»
Non so per quale motivo, vuoi per la partita, vuoi per quei panini deliziosi, ma mi sentivo libera, libera di scherzare, libera di flirtare...
No, flirtare decisamente no.
«Ci siamo sempre incontrati e abbiamo sempre parlato senza neanche presentarci.» Gli tesi una mano. «Mi chiamo Sylence Hill.»
«Vuoi dirmi che nessuno ti ha mai detto come mi chiamo in tutto questo tempo?»
Scrollai le spalle. «Non ho detto questo, però almeno che ci presentassimo ufficialmente prima di decidere se sparlare di te alle tue spalle, o sparlare di te perché non ti conosco.»
Allora lui allungò la mano e strinse la mia. «Il mio nome è Red Hawks. Tu cosa fai qui?»
Lasciammo le mani contemporaneamente. «Io abito a quattro isolati da qui. Puoi finire di mangiarlo quello se vuoi.» dissi, indicando il panino morsicato, che aveva in mano. «Ho la mia dispensa personale.»
«Dove li hai comprati?»
«Chi ti dice che non li abbia fatti io?»
«Staresti già decantando le tue lodi, se fosse stato così.»
Ci pensai su e gli diedi ragione. «Sì, probabilmente sì. Comunque, se vuoi conoscere l'artefice di questi piccolo paradiso, puoi venire con me, non è lontano.»
«Ho da fare.» disse, sbattendomi, metaforicamente parlando, la porta in faccia.
Mi costrinse tra le mani la busta con il resto dei panini, dopo essersi trangugiato il suo e si mise a raccogliere le sue cose. Infilò la maglietta verde bottiglia, la felpa bianca dei Bullet for my Valentine e si caricò in spalla la tracolla, tenendo con una mano il pallone da basket appoggiato al fianco.
Si avviò verso l'uscita.
Gli corsi dietro. «Mi dici una cosa? Perché ogni volta che mi avvicino te ne scappi?»
«Io non scappo, evito solo ulteriori scocciature.»
«Scocciature? Perché? Cosa ti ho fatto?»
«Oh, andiamo!» esclamò. «Non dirmi che Kingston non ti ha ingiunto di stare lontana da me.»
«Sì, veramente sì. Ma non capisco perché. Sei così cattivo? Io non credo.»
Si fermò voltandosi verso me, il suo viso a sfiorare il mio, i suoi occhi dorati incastrati nei miei argentei. Il mio cuore perse un battito, prima di iniziare a correre veloce.
«Io sono peggio di quanto tu creda. Stammi lontana.»
Il suo respiro mi accarezzava le guance. «Non ti conviene darmi ordini, non sono brava ad eseguirli.»
Sentivo serpeggiare tra noi quella stessa forza che avevo percepito la prima volta che lo avevo visto, quella che mi faceva sentire strettamente legata a lui.
Lui studiava il mio volto, io il suo, in uno scontro all'ultimo sguardo che, per una volta vinsi io.
Distolse gli occhi dai miei, voltandosi leggermente, facendo sfiorare la punta del suo naso con la mia.
«Sei terribilmente cocciuta.» borbottò.
«Oh, cocciuta, ostinata, testarda... chiamami come vuoi. Questi nomi li ho già tutti.» dichiarai, incrociando le braccia in una posa saccente.
Un piccolo sorriso increspò gli angoli della bocca, rilassando i suoi lineamenti e dandogli ulteriore bellezza.
«Non mi lascerai in pace vero? Sei come un mastino che lotta con un altro mastino per contendersi un osso finché non sarà suo.»
Stranamente mi passò per la testa il pensiero che lui potesse essere mio, ma lo cancellai. Non mi conveniva.
«Probabilmente hai ragione. Sarebbe uno spreco lasciare che quello che gli altri pensano di te rovini tutto. La gente si diverte a criticare gli altri quando dovrebbero farlo solo con loro stessi. Guardano i problemi degli altri per evitare di pensare ai propri e ammettere che nella loro vita perfetta c'è qualcosa che non va, come una macchia su uno sfondo bianco. Beh, a me non interessa quello che dice la ressa. Io non dò peso alle loro parole e tu mi permetti di esserti amica.»
Mi guardò, serio in volto. «Perché?»
Sospirai. «Francamente, non ne ho la minima idea. Forse è perché mi piacciono le cause perse o, forse, lo faccio solo per far dispetto a tutti quelli che pensano che sai un tipo pericoloso. Tra parentesi, a me piace il pericolo.»
«Quindi io sarei una causa persa?» chiese tra il serio e il sarcasmo.
«Beh, sì. Non hai amici, sei pessimo a scuola, sei forte in uno sport in cui devi picchiare qualcuno, ti straccio a basket…» dissi cantilenando.
«Non mi hai stracciato. Io ti ho battuta.» mi redarguì.
Colpire l'ego è sempre la cosa migliore per farli sciogliere.
«Solo perché lo volevo.» gli dissi, puntandogli contro un dito. «Aspetta che mi sia allenata come si deve e poi vedremo chi è il migliore.»
Con un sorriso più accennato, scosse la testa, sospirando. «D'accordo, hai vinto.»
Internamente esultai, anche se mantenetti un'espressione impassibile.
«Dove si trova il posto magico dove fanno quegli ottimi panini?»
Sorridendogli in risposta, lo presi per una manica e lo tirai dietro di me.
«Hai l'auto o sei a piedi?» chiesi.
«Auto. L'ho parcheggiata dietro l'angolo.»
Dietro l'angolo? Ma non ho visto nessuna...
Svoltato l'angolo di un edificio di mattoni rossi mi si parò davanti il grosso muso nero di un gigantesco SUV.
Lo riconobbi al primo sguardo.
«Allora questo bestione da gangster è tuo!»
«Sì, perché?»
«Potresti farmi un favore? Potresti non parcheggiare più il tuo SUV vicino alla mia bella New Beetle?»
Lui mi guardò stranito. «Perché?»
«Beh, si spaventa,» lo dissi con tanta convinzione e con un "ovvio" sottinteso. «E poi, accanto alla tua auto, la mia scompare, diventa un'automobilina della Chicco.» protestai, imbronciandomi.
Tempo due secondi e me lo ritrovai accasciato sul paraurti anteriore del SUV a sganasciarsi dalle risate fino alle lacrime.
«Ehi, che hai da ridere? Guarda che è vero!»
Red non la smetteva più. Però, era bello quando rideva, i lineamenti del suo viso si addolcivano e gli occhi diventavano due pozze d'oro fuso.
Era stupendo.
Preso un respiro profondo, si calmò per poi scuotere la testa.
«Tu sei completamente matta. Da rinchiudere nel primo ospedale psichiatrico che trovo.» dichiarò, passandosi le mani tra i capelli.
Oddio, non rifarlo.
I muscoli del braccio e del torace guizzarono al suo movimento, in un'armonia di fasci muscolari e tendini in tensione.
Okay, il mio cervello è da cambiare.
«Come facciamo con l'auto?» chiesi. «La lasciamo qui o vuoi riportarla a casa...»
«No, la lascio qui.» m'interruppe, perdendo la luce ilare di un momento prima.
Rimasi un attimo stordita dal suo cambiamento repentino, ma mi ripresi. «Va bene. Allora posa il tuo borsone nell'auto e andiamo.»
Tempo pochi minuti e ci dirigemmo alla mia auto.

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Capitolo 6
*** Visioni E Coincidenze ***


Sy Hill: Eccoci qua al capitolo 7!!! Ve l'avevo detto che l'avrei pubblicato presto. Comunque so che è un pò corto, ma il bello è questo. Botte piccola vino buono, no?
Comunque, LEGGETE e RECENSITE, PER FAVORE. Sono un pochino a secco.
Voglio sapere cosa ne pensate, è categorico.
Al prossimo capitolo.

Sy Hill <3<3<3<3

P.S.: Essendo impegnata anche con altri lavori, non so quando potrò farlo. Può darsi questa sera stessa o forse tra un po'. Non ne ho idea. Ad ogni modo, cercherò di fare presto.
Baci.
* * *

CAPITOLO 7
 
Visioni e Coincidenze

Sentii le sue labbra sfiorare dolcemente le mie, per poi ritornare con più forza e passione. Un bacio che trasmetteva dolcezza, calore, che sapeva di agrumi e zucchero filato…
E tanto possessivo.
Mi sentivo quasi marchiata da quelle labbra agrodolci, come se…
…come se mi stesse legando a sé…
Le sue mani vagarono sul mio volto, sfiorando le guance, la linea della mascella e la curva del collo, spedendomi brividi caldi alla schiena.
Senza accorgermene, avevo afferrato la sua maglietta imbrattata di farina e uova, tirandomelo più vicino.
D’un tratto, sentii quella strana connessione che ci legava divampare, sommergendoci entrambi. Mi sembrò di perdere peso, diventare leggera come una piuma, e poi venire afferrata da una forza invisibile, che si materializzò nelle fattezze di Red.
Come nel giardino della scuola, nell’istante in cui aprii gli occhi e lo guardai, l’immagine si distorse, sostituita da un’altra che mi fece accapponare la pelle.
Dovevamo fermarci.
Dovevo smettere di baciarlo o non avrei più avuto scampo…
Ma l’appello non venne ascoltato.
Quella visione arrivò e si impresse nella mia mente come un marchio a fuoco…
«Ecco qui, giovanotto.»
Per una volta fui felice dell’intrusione della fornaia.
Mi scostai da Red, evitando di guardarlo e andai incontro alla signora, che alla vista della sua povera cucina e noi due, aveva spalancato occhi e bocca.
«Madonna mia bella!» esclamò in italiano. «Ma che avete combinato voi due, qui?!»
«Ci dispiace, signora Partecci.» mi scusai, la voce roca per gli avvenimenti appena accaduti. «Rimetteremo tutto apposto, non si preoccupi.»
Avevo bisogno di qualcosa che mi distogliesse da quella maledetta visione che mi circolava ancora nel lobo frontale.
La povera donna si passò le mani sul volto. «Meno male che avete risparmiato le pagnotte.»
Già, erano le uniche cose che non avevamo toccato, per fortuna.
«E meno male che oggi apriamo più tardi!»
Ci passò gli stracci puliti e ci indicò la fontana alle nostre spalle. «Datevi una ripulita, che sembrate due fantasmi. E tu, ragazzo, ti conviene togliere quella maglia e buttarla subito sotto l’acqua, altrimenti difficilmente riuscirai a sbarazzarti dell’odore che ti lascerà l’uovo.»
In un silenzio scomodo, si ripulimmo e, poi, ripulimmo la cucina dal casino che avevamo combinato.
Mi venne da pensare al bacio e, inconsapevole, mi sfiorai il labbro inferiore.
Bel modo per rovinare un momento così… splendido.
Fino a che non avevo avuto quella stramaledetta visione, stava andando tutto alla grande. Stavo completamente perdendo la cognizione di tempo e spazio, navigando in quel bacio così buono, da far venire la voglia di provarlo un’altra volta.
E, invece, quel dannato flash mi aveva talmente scossa da farmi ripiombare a terra come se fossi stata colpita da una secchiata di acqua gelata.
E poi, che cosa diamine erano quelle immagini? E perché mi apparivano solo quando c’era Red?
Con Jake, Kima e gli altri non mi era mai capitato, ma bastava che mia avvicinassi al famigerato Red Hawks perché quelle tornavano alla carica.
Mi sa che devo andare dallo psicologo.
Dopo poco meno di un’ora, la cucina era tornata pulita, anche se grossolanamente, ma abbastanza per permettere alla signora Partecci di lavorare.
Alzando lo sguardo sull’orologio da parete della cicuta mi accorsi che erano quasi le cinque e mezza e io avrei dovuto incontrarmi con Kima alle cinque.
«Signora Partecci, mi dispiace, ma devo scappare.»
Lanciando un’occhiata ad un Red silenzioso, mi accorsi che mi seguiva con lo sguardo. Mi sembrava di essere osservata al microscopio, tanto era penetrante il suo sguardo.
Sfuggendo a quegli occhi, mi avviai verso la porta.
«Dovevo incontrarmi con Kima e sono in un ritardo mostruoso.» dissi a nessuno in particolare.
La signora Partecci lanciò un’occhiata a Red. «Guida con prudenza, va bene?»
Colsi il sottinteso della frase.
Stai attenta, ragazzina. Potresti ritrovarti in situazioni spiacevoli.
Non sapeva che avevo già combinato un casino, o forse – è la signora Partecci, intendiamoci – lo aveva già capito e si preoccupava per me.
Giunta all’entrata del negozio, mi voltai per vedere se Red mi avesse seguito. Lui, silenzioso come un’ombra, mi passò accanto e aprì la porta, aspettando che io la oltrepassassi prima di chiuderla.
Salutai l’ultima volta la fornaia impensierita e vi avviai alla macchina.
Red rimase fermo sul marciapiede.
«Perché non sali?» gli domandai, aprendo la portiera.
«Che cosa hai visto?» mi domando a bruciapelo.
Bloccai i miei muscoli facciali in quella posizione e puntai i miei occhi strani in quelli dorati di lui. Un brivido mi trapassò la schiena. Mi sembrò che sotto i miei piedi si fosse aperta una voragine nera e stesse pian piano inghiottendomi.
Non mi chiesi come diamine facesse a saperlo, perché, inspiegabilmente, sapevo già la risposta.
Aveva visto anche lui qualcosa.
Ma cosa?
Quella domanda sorse spontanea, ma la ricaccia da dove era venuta.
Non volevo sapere né cosa avesse visto lui, né volevo ripensare a quello che avevo visto io.
Perciò negai.
«Di cosa parli?»
«Di quello che hai visto, prima.»
Scrollai rigidamente le spalle. «Che cosa dovrei vedere?»
Mi sembrò che i suoi occhi, per una frazione di secondo, fossero diventati neri. In tre falcate, mi affiancò, piazzandosi di fronte a me e chiudendo la portiera.
«Non prenderti gioco di me,» ringhiò. «So perfettamente che hai visto qualcosa, come l’ho vista io.»
Lo sapevo!Esclamò una parte di me, quella parte ancora bambina che crede a Babbo Natale.
Zitta,le ingiunsi io, relegandola in un angolo.
«Ti sei sniffato accidentalmente della farina?»
«Dì la verità.» ordinò.
Socchiusi gli occhi. «Non ti premettere di darmi ordini, non sono il tuo cane.»
Distrattamente, mi accorsi che il cielo se era annuvolato.
«Allora, dì la verità.»
Paradossalmente, pensai di dirglielo, giusto per vedere la faccia che avesse fatto.
«La verità…» incominciai, avvicinandomi al suo viso. «…che sei ammattito.»
Gli diedi una spinta – fregandomene dei brividi caldi che mi salirono su per le braccia – e riaprii la portiera.
«Ci vediamo domani a scuola, visionario.»
Non gli diedi neanche il tempo parlare che già mi ero allontanata.
Poteva farsela a piedi la strada per arrivare alla sua auto – quella bestia su quattro ruote.
Accesi la radio e alzai il volume, impedendo ai miei pensieri di entrare in circolo. Mi riempii la testa dei testi delle canzoni che mi piacevano tanti, tentai di rilassarmi, ma i nervi erano così tesi da darmi degli spasmi.
Arrivai a casa e, certa che mio padre fosse chiuso nel laboratorio, decisi di non disturbarlo, lanciandomi di corsa nella mia stanza, chiudendo la porta.
Solo allora mi permisi di lascia andare i miei pensieri dal carcere mentale in cui l’avevo rinchiusi.
Il ricordo di quella dannata visione mi riempì la mente e, mentre lo riguardavo come un video al rallentatore, le gambe mi cedettero.
La prima volta che avevo avuto quella specie di visione, non aveva avuto un effetto così devastante.
Mi chiesi perché, ma i pensieri furono dirottati verso quella visione che avevo cercato, in vano, di scacciare.
 
 
Una stanza bugia, illuminata flebilmente da un fascio di luce bianca proveniente da un buco nella parete di pietra.
Gocce di umidità gocciolano sul pavimento freddo, mentre una pozza va via via allargandosi.
Fuori, si sentono gli squittii dei topi e fiochi lamenti provenire da entrambi i lati del corridoio.
Un figura, immobile al centro della stanza, osserva assorto l’opera che ha appena compiuto.
Sogghigna, pensando a quello che il padrone gli ha detto.
Sì, il padrone sarà molto contento, pensa. Mi sono divertito, ma l’ho rimasto intero.
Si volta verso l’uscita e la apre…
…illuminando l’orrore che si è lasciato dietro.
Un corpo, appeso al muro.
Due lame larghe sono conficcate nelle sue spalle e trapassano la pietra in due solchi fatti apposta per quello.
Il sangue rosso scarlatto piove sul pavimento, in un suono liquido, orribile in quell’ambiente così sterile.
Apre gli occhi, occhi pieni di dolore e sofferenza, ma anche brucianti di rabbia e odio.
Occhi che illuminano più della luce che proviene dalla porta.
Occhi di oro liquido.
Incastrati in un viso da angelo caduto, ora tumefatto.
Due labbra piene, ora gonfie e spaccate a sangue, si aprono.
Non ha aperto bocca mentre veniva torturato, ma ora, in quel momento, ha un bisogno disperato di provare a sé stesso che è vivo.
Ha bisogno di far sentire che lui è ancora vivo.
Di permettere al suo aguzzino di sapere che non è ancora finita.
Che la pagherà molto cara.
Un grido di vendetta gli scaturisce dal profondo di ciò che è, facendo tremare la terra.
Voglio vendetta. E l’avrò.
 
 
Ritornata alla realtà, mi accorsi di star piangendo e di essermi rannicchiata in posizione fetale sul pavimento della stanza, tremante come una foglia.
Sentii qualcosa ticchettare e, alzando gli occhi vidi la finestra della mia stanza completamente appannata e una pioggia fitta colpire incessantemente il vetro.
Era la seconda volta che mi capitava di avere una visione. L’immagine era più elaborata, come se ci fossi stata dentro. E riuscivo a sentire anche i pensieri dei due che ci erano dentro.
Ma perché solo con Red? Perché non anche con gli altri? E perché ogni volta che vedevo qualcosa doveva essere sempre qualcosa di brutto?
Non c’è due senza tre, perciò decisi che se non ci fosse stata una terza volta, avrei messo da parte quelle che avevo avuto sotto il nome di anomalie.
E poi, perché avevo quelle visioni?
Non avendo momentaneamente le risposte – ma decisa ad averle al più presto, chiedendo al diretto interessato, visto che sembrava sapere quello che mi stava succedendo.
Tirai un respiro profondo, cercando di calmare il battito impazzito del cuore e mi asciugai gli occhi.
Ho già detto di non credere alle coincidente? Beh, perché ce n’erano troppe.
Arrivata nella città, sotto sfervorata insistenza di mio padre; il primo giorno di scuola incontro due ragazzi che non si sopportano e con uno di loro ho avuto una specie di reazione chimica.
Un gruppo di ragazzi malamente assortiti tra loro, fanno comunella tra loro e nessuno sembra sapere quello che si dicono nonostante siano circondati da centinaia di ragazzi che gli girano attorno.
L’ingiunzione del loro capo a non parlare il loro ex componente.
E poi quelle stramaledette visioni che mi facevano accapponare la pelle.
E mio padre che continua a lavorare senza sosta su piante e rocce.
Il fatto che ognuno di quei ragazzi non aveva che un genitore. Come me.
Infine i libro sugli elfi e la mia capacità di leggere quella lingua incomprensibile ad altri.
Troppe coincidenze.

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Capitolo 7
*** La Farina Fa Miracoli ***


CAPITOLO 6
 
La Farina fa Miracoli
 
Saliti in auto, ci dirigemmo alla panetteria della signora Partecci. Dovevo andarci con Kima – volevo parlare con lei, cercare di farmi spiegare quello che le era successo –, ma avere a disposizione Red Hawks, il bad boy della scuola, il ragazzo che attraeva le ragazze ed era odiato dai ragazzi, a disposizione, beh… chi di voi avrebbe rinunciato al almeno un’ora con lui? E non dite io no perché il vostro naso riuscirà a compiere il giro del mondo in due minuti, al diavolo Phileas Fogg!* Il soggetto quella questione era appoggiato con una spalla alla portiera e teneva d’occhio la strada come se da un momento all’altro avrei fatto uno scontro frontale con un palo.
M’imposi di fissare lo sguardo sul percorso che dovevo compiere ed evitare di guardare lui, così dallo scongiurare la sua previsione.
«Guarda che so guidare, la patente me l’hanno datata per questo.»
Lo sentii grugnire, dubbioso.
«Malfidato.»
«Non prendertela, ma non mi sento a mio agio quando a guidare non sono io.»
«Allora, al ritorno guida tu, la macchina.»
Una pausa riempita solo dalle note del cd che avevo inserito nel lettore.
«Non sei gelosa della tua auto nuova?»
Gli lanciai un’occhiata. «Come fai a sapere che è nuova?»
«La targa.»
«Ah. Comunque, no. Non sono gelosa della mia auto. Non sono come la razza sconosciuta agli scienziati più geniali che porta il cromosoma Y.» dissi ironicamente. «Queste sono solo quattro ruote con sedili, non il mio ragazzo. Quello non lo presterei a nessuno.»
«Ce l’hai?»
«Cosa?» chiesi, inarcando un sopracciglio.
«Un ragazzo?»
Frenai di colpo e per fortuna che era pomeriggio e non c’era quasi nessuno in strada, altrimenti avrei di sicuro ammaccato qualche paraurti. 
Mi girai a guardarlo.
Allora fa sul serio, mi sorpresi, osservando la sua espressione.
Una sonora risata mi nacque dal profondo del petto e non riuscii a trattenerla, arrivando persino a lacrimare.
«Perché ridi?»
«Sei tu che mi fai ridere, con quell’espressione così seria.» Tirai un respiro profondo, cercando di calmarmi. «Io non ho un ragazzo e non lo avrò mai.» dichiarai.
«Perché mai?»
Scemata l’attacco di risa, risposi: «Beh… veramente è una cosa che ho deciso all’inizio di tutto quanto.»
«E cosa sarebbe questo “tutto quanto”?»
«Vedi, io non sto mai ferma in un solo posto. Ho viaggiato tanto nella mia vita, fin da quando avevo due anni. Non mi sono mai stabilita permanentemente in una qualsiasi città in cui sono stata. Avvolte, capitava che appena arrivati, io e mio padre, non passassero neanche un paio di mesi già dovevamo partire di nuovo.» Scrollai le spalle, scuotendo la testa. «Un paio di anni fa, mi capitò di prendermi una cotta per un ragazzo. Nessun problema, anche a lui piacevo perciò provammo a vedere come sarebbe andata. Tempo due settimane, mi padre mi disse di fare i bagagli e impacchettare tutto quello che avevamo perché dovevamo andarcene. Io ero abituata a questo tram-tram, non era un problema, ma quello che mi fece più male fu dover lasciare quel ragazzo. Certo, ero ancora una ragazzina, ma mi ero affezionata tantissimo a lui. Mi ero già ripromessa di non legarmi a nessuno come amica, perciò decisi di non legarmi a qualcun altro come ragazza.» Mi voltai a guardarlo. «Perciò, niente ragazzo finché non mi sarò stabilita definitivamente da qualche parte. Oh, so già che dovrò andarmene da questa città, prima o poi. Ma mio padre ha promesso che rimarremo qui almeno fino alla fine dell’anno scolastico, quindi ho ancora tempo per recriminare le mie scelte future.»
Innestai la marcia e ripartii. Nessuna parola, non un suono proveniva da Red e non mi voltai a constatare cosa gli fosse preso.
Finalmente, dopo alcuni minuti di silenzio, arrivammo parcheggiai davanti alla forno della signora Partecci.
«Siamo arrivati.»
Sempre in quell’assordante silenzio, scendemmo dall’auto.
L’insegna della Partecci’s Bakery era attaccata ad un’asta all’esterno dell’entrata e oscillava leggermente.
«Eccolo, l’angolo di Paradiso.»
Silenzio. Stanca di quel mutismo, mi voltai verso Red. «Senti, mi dispiace averti sobbarcato dei miei problemi. Fai finta che io non abbia mai detto niente. Cancella tutto. Fai conto che non abbiamo avuto quella conversazione, okay? Mi sono stufata del tuo mutismo e visto che ne sono la causa…»
«Sylence.»
Il respiro mi si blocco da qualche parte nella gola. Sentii qualcosa vibrare dentro di me, qualcosa di indefinito e caldo, che mi attirava verso di lui.
«Cosa?» gracchiai, perdendomi nel mare dorato dei suoi occhi.
«Non è colpa tua. Mi sono perso nei miei pensieri. Quando rifletto su qualcosa, resto muto fino a che non ho finito di pensare. Perciò, non crede che stia zitto per qualcosa che hai detto o fatto.» concluse, scostandomi una ciocca di capelli sfuggita all’acconciatura in cui li legavo sempre.
Sentire le sue dita calde sfiorare la mia guancia, mi diede un brivido alquanto piacevole alla schiena.
Eravamo vicini, tanto vicini da essere irradiata dal suo calore e percepire un sentore del suo dolce odore.
Arancia e zucchero. Buono.
Il suono cristallino dei campanelli metallici sospesi sopra la porta della panetteria ci fece sobbalzare. Ci allontanammo e voltammo di scatto verso la porta.
Una donna sulla cinquantina era affacciata sull’uscio, coperta da un grembiule e infarinata dalla testa ai piedi.
«Sylence, come stai? È un piacere rivederti di nuovo. E chi è questo bel giovanotto? Il tuo fidanzato?» 
Quel turbine di domande espresse metà in americano e metà in italiano mi stordì e imbarazzare in un’unica volta.
«Signora Partecci!» l’abbraccia, rispondendo in italiano – imparato a Little Italy. «Sto benissimo, grazie. Anche io sono felice di vederla. Lui è un mio amico, è venuto a vedere il luogo sacro dove vengono sfornati quei panini squisiti che mi prepara quasi ogni giorno.»
«Oh, ma davvero?»
Red si avvicinò alla signora, e le fece il baciamano.
Alzai gli occhi al cielo. Raggiratore.
«Signora Partecci.»
Mi stupii nel sentirlo pronunciare il cognome della signora in un’intonazione italiana pressoché perfetta.
«È in vero piacere fare la sua conoscenza. Mi chiamo Red Hawks, sono un amico di Sylence.» si presentò, calcando sulla parola “amico”.
«Oh, piacere mio. Ma cosa fare qui fuori come due stoccafissi, entrate.»
La posta si chiuse alle nostre spalle con l’abituale scampanellio. «Stavo giusto preparando una bella infornata di panini al peperoncino. Vuole aiutarmi?»
«Io l’aiuto volentieri. Così almeno scoprirò il segreto di questi “piccoli paradisi”.» dissi, maliziosa.
«Oh, ma ti sbagli mia cara.» mi corresse la fornaia. «L’impasto dei panini è già pronto e lievitato. Dobbiamo solo dividerlo per farne delle pagnotte piccole come pugni per poi infornarle.»
«Ma così mi toglie ogni speranza di poterne preparare alcune quando me ne andrò.»
La signora mi appoggiò una mano sulla spalla. «Oh, non preoccuparti, tesorino bello. Te ne preparerò due cataste piene, così non soffrirai la loro mancanza.»
Sentii la risata soffocata di Red. La signora Partecci non si lasciava intrappolare da delle moine. Sembrava buona e gentile, ma l’arguzia e l’ingegno erano sue alleate. 
«Scommetti che io riesco a farla cedere?» mi propose Red, sussurrandomi in un orecchio.
Sogghignai. «Vorrei proprio vederti provare. Tanto so già che fallirai.»
Lui non conosceva la signora come me.
Red ridacchiò. «Vedremo.»
«E tu perché ridi, giovanotto?» lo rimbrottò la fornaia.
Red scattò sull’attenti, neanche fosse una cadetto all’accademia militare.
«Non credere che io mi facci fregare dal tuo bel faccino o dalle maniere galanti. Non riuscirete ad estorcermi una parola.»
Scoppiai a ridere alla smorfia di Red. «Te l’avevo detto.» cantilenai, perfidamente soddisfatta.
«Su, vuoi due, venite con me. È ora di rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro.»
La signora ci condusse nel retro del negozio, adibito a piccola fabbrica. Su un lato c’erano tre macchianti e altre macchine più piccole. Riconobbi un impastatore, una bilancia e naturalmente in forno, rigorosamente a legna.
Su un lungo tavolo, posto al centro della stanza, c’erano delle ciotole di ferro coperte da panni di stoffa.
«Prendete le prime tre pagnotte lievitate e vuotatele sul tavolo.»
Vidi Red scorciarsi le maniche e seguire le istruzioni della donna. Non una parola, non un pretesto o una scusa. Questo la diceva lunga sul suo carattere.
La signora Partecci accese una piccola radio, posta nell’angolo della grande stanza, e nell’aria si diffusero le note briose del blues, guidate dalla voce graffiante rauca di Louis Armstrong.
Guidati dalla sapienza della Parteccie, dividemmo le pagnotte in panini per poi disporle nelle teglie di metallo foderate con carta da forno.
Ad un certo punto, mentre prendevo il sacchetto della farina, mi scivolò dalle mani cadendo dei peso sul tavolo e una nuvola di polvere bianca imbrattò la faccia e la maglia di Red, rimasto momentaneamente in mobile per la sorpresa.
«Oh, mamma mia!» esclamò la signora Partecci. «Sembri un fantasma combinato in quel modo, figliolo.» se la rise la donna. «Aspetta, vado a prendere una pezza pulita.»
Io rimasi immobile, mentre la donna scompariva dietro la porta oscillante.
Sapete quei momenti dove non sai se dispiacerti o ridire? Ecco, io mi trovavo nella stessa situazione.
Avevo voglia di farmi una bella risata e le costo le mi dolevano nel tentativo di trattenermi, ma allo stesso tempo avrei voluto scomparire.
Che cavolo! La prima volta che facciamo qualcosa insieme senza litigare e guarda cosa vado a combinare!?
In quel momento, Red si mosse.
Non realizzai quello che era successo fino a che non sentii sulla lingua il sapore secco della farina.
Red, col sacchetto in mano, ne aveva una completamente bianca, di mano e con un maledetto ghigno strafottente stampato in faccia
Socchiusi gli occhi. Allora vuole la guerra.
Senza farmi vedere, presi un sacchetto mezzo vuoto da sotto il tavolo. «Sai, stavo per chiederti scusa… ma ho cambiato idea!»
Gli svuotai la mia cartuccia addosso, mentre lui faceva lo stesso con il suo. Ne raccolsi un altro lì vicino e lo bombardai anche con quello.
Poi, raccolsi la prima cosa che mi capitò a tiro e gliela lancia, accorgendomi troppo tardi che era un uovo: si infranse sulla sua spalla con un suono acquoso e scricchiolante.
Misi la mano davanti alla bocca, che per lo sconcerto avevo spalancato.
E non ce la feci più. 
Scoppiai a ridere.
Mio Dio, era uno spettacolo esilarante, tutto coperto di farina, con il guscio dell’uovo e il suo ripieno che colavano dalla maglia.
Mentre me la ridevo di gusto, lui mi caricò. Afferrandomi per le gambe, mi issò sulla spalla sporca di albume e tuorlo.
«No!» esclamai, quasi soffocata dalle risate. «Mettimi giù. Red!»
Lui mi mise giù, ma non prima di avermi fatto fare un altro giro d’infarinatura.
Lui sogghignava di soddisfazione e divertimento, quasi orgoglioso del lavoro che aveva fatto.
Per scherzo, passai le dita sulla sua spalla – beandomi della sensazione dei suoi muscoli sotto i miei polpastrelli – e presi una manciata di uovo e glielo spalmai su una guancia, che graffiò leggermente la mia pelle con la barba appena accennata.
Per evitare di far altri danni, lui mi afferrò il polso e lo tirò, facendoci così collidere uno addosso all’altro.
Come un fulmine avesse squarciato il cielo, all’improvviso, il divertimento venne sostituito dall’acuta sensazione di quel corpo maschio contro il mio, del suo respiro sul mio viso, dei suoi occhi incatenati ai miei. Mi persi in essi. Un brivido, la consapevolezza che quello che sarebbe successo in quel momento avrebbe avuto delle conseguenze, mi attraversò.
Pensai che non avrei dovuto arrivare a quel punto.
Pensai alla promessa che avevo fatto a me stessa.
Pensai che non volevo rivivere quello che mi era già successo…
Lui non pensò affatto.



*Per chi non lo sapesse è il co-protagonista, insieme a Jackie Chan, del film Il Giro del Mondo in 80 Giorni.

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Capitolo 8
*** Ricordi e Decisioni ***


Sy Hill: Eccomi, miei cari lettori, con un nuovo capitolo. Avevo promesso e io mantengo le mie promesse. E in più vi dirò che questo capitolo è molto, molto, molto speciale. Infatti questo sarà un POV di RED HAWKS!!! *Le urla assordanti dei fans rompono i vetri delle finestre.* 
Ebbene sì, miei care lettrici, per quelle che sono appassionate sostenitrici della mia opera, ci sarà da andare in brodo di giuggiole.
Ma, adesso, si parte per un viaggio, alla scoperta della mente di RED HAWKS!
Buon viaggio e baci,
Sy Hill <3<3<3<3


P.S.: Naturalmente, DOVETE RECENSIRE ASSOLUTAMENTE questo capitolo. *Guarda con uno sguardo minaccioso accarezzando la motosega.* Inoltre questo capitolo è dedicato a KIN YOURUICHI. Ti ringrazio di cuore per il tuo sostegno e le tue recensione. Inoltre, avevo paura di un tentato suicidio. *Sghignazza* Tutto per TE

*    *    *

CAPITOLO 8
POV Red Hawks
 
Ricordi e Decisioni
 
Quella ragazza gli dava veramente sui nervi, mai una volta che rispondesse ad una domanda con una risposta.
Che diamine!, pensò, mentre raggiungeva la sua auto.
E dire che quel giorno avrebbe voluto starsene da solo.
E invece, no.
Doveva venire proprio lei ad interrompere quel suo momento di relax, sfidandolo oltretutto!
Però si era divertito. Ci aveva preso gusto. Ed quella ragazzina era davvero brava a giocare, doveva ammetterlo. Forse se avesse fatto la selezione Jake…
Si adombrò. Pensare al suo amico… anzi, al suo ex-migliore amico.
Gli faceva sempre male pensare a lui.
Quando erano piccoli, Rad e Jake, abitavano vicino e la mattina quando andavano a scuola, facevano lo stesso pezzo di strada, ma rimanevano sempre in silenzio.
Red era un tipo troppo introverso per fare la prima mossa, ma Jake, solare e socievole, non si fece abbattere dal suo mutismo.
Quando si vedevano, era il primo che attaccava a parlare, che rivolgeva domande o faceva osservazione, permettendo poi all’amico di replicare. Mai una volta in cui lo facesse stare zitto, avvolte lo costringeva a forza a parlare, tirandogli le guance o bloccandogli le braccia e sfregandogli le nocche sulla testa.
E poi, ogni volta che Red si metteva nei casini – senza nessuna collaborazione da parte di quest’ultimo –, era sempre Jake a tirarlo., anche a costo di farsi male.
Si ricordò di quando alle elementari, un paio di ragazzini presero una rana di stagno e la piazzarono nel cassetto della cattedra – sapendo che la professoressa che sarebbe venuta apriva ogni volta il cassetto per prendere i suoi occhiali si scorta, visto che perdeva i suoi –  e di come, mentre stavano preparando lo scherzo, Red entro in classe e li beccò. I ragazzini scapparono, ficcandogli in mano la suddetta rana e – scherzo del destino – l’insegnante sia entrata in quel momento. E, vedendo il cassetto aperto dimenticato dagli alti e la rana in mano a lui, gli abbia dato la colpa di quello scherzo non riuscito. Ma, mentre l’insegnante lo stava prendendo per portarlo in presidenza, Jake era uscito fuori chissà dove e aveva detto la verità.
L’insegnante, sapendo di chi era figlio Jake, aveva lasciato correre ingiungendo a Red di portar via la rana e di non provare più a fare scherzi simili.
Quella fu la prima di un’infinità di volte in cui Jake aveva salvato Red da situazioni spiacevoli. E fu proprio in quell’occasione che diventarono migliori amici.
Furono come fratelli negli anni successivi. Compensando l’uno le mancanze dell’altro.
Fino al liceo.
Fino a quel giorno.
Fino all’estate scorsa.
Allora tutti gli anni trascorsi erano spariti, cancellati come neve al sole.
Tutta colpa di uno stramaledetto malinteso, che non riuscivano a chiarire per colpa del loro smisurato orgoglio.
Se non avesse…
Si riscosse, scuotendo la testa. Basta rivangare il passato, finirai per deprimerti ancora di più.
Già, perché era già depresso per quello che era successo nel negozio della fornaia.
Al solo pensarci, brividi caldi gli si arrampicavano su per la schiena.
Si era davvero divertito con quella piccola piaga. Non aveva mai riso tanto come in quel giorno, da quando aveva tagliato i ponti con Jake.
Oh, sì. Sylence Hill era davvero un’irritante rompiscatole. Se la ritrovava davanti sempre nei momenti in qui voleva stare solo. Ogni volta che evitava di stare con qualcuno, lei spuntava come un fungo.
Prima, nel giardino, poi al campo da basket...
Oh, no…
A pensarci bene, forse l’avrebbe vista più spesso di quando credeva, visto che lui faceva sempre dei tiri a canestro quando doveva riflettere o allontanarsi da casa.
E l’unico campo da basket più vicino a casa era quello.
Quando si dice la sfiga.
Salì in macchia e partì.
Sbatté le palpebre, quando nell’abitacolo percepì un odore speziato. Allungò una mano all’indietro e, tastando il borsone ancora aperto dove aveva le sue cose, incontrò una busta di carta.
Tirandosela davanti, sbuffò vedendo che era il sacchetto con i panini della signora Partecci.
Peggio di una mamma, pensò.
Sì, ma una mamma non ti avrebbe baciato come ha fatto lei, si inserì una vocina nella sua testa, una vocina irritante, gongolante.
Però aveva ragione.
Qual bacio lo aveva scombussolato. Come la prima volta che l’aveva vista, in quel corridoio, mentendo per lui, che non conosceva neanche. Ma Red sapeva che lei aveva provato la stessa sensazione che aveva provato lui, incontrando per la prima volta quegli occhi di tempesta e neve.
La sensazione di star galleggiando per aria come un palloncino, senza meta e senza senso d’orientamento. E poi, all’improvviso una mano afferra la cordicella e lo tira giù, fra le sue braccia. E sa che non potrà più lasciarlo, quel posto caldo, accogliente fatto apposta per lui.
Ma Red non credeva a tutte quelle sciocchezze. Non era uno sdolcinato, non lo era mai stato e non lo sarebbe mai stato.
I Libri potevano dire tutto quello che volevano, ma lui non si sarebbe lasciato influenzare da quattro parole messe in croce.
Però…
Pensare a quella ragazzina, al suo corpo contro il suo, mentre assaggiava per la prima volta il suo sapore…
No. Non si sarebbe suggestionare dalle parole di persone vecchie di centinaia di anni.
Lui era solo e solo sarebbe rimasto.
Pervaso da quella nuova determinazione, tornò a casa sua per farsi una meritata doccia rilassante.
 
*   *   *
 
Il mattino dopo, Red nel solito spazio davanti all’entrata principale alla scuola. Nel prendere la giacca di pelle nera sul sedile del passeggero, si accorse che l’auto accanto a lui gli era molto familiare.
La New Beetle bianca di Sylence.
Ma tu guarda se anche a parcheggiare doveva ritrovarsi quella piccola peste davanti.
Sospirando, scese dall’auto.
Quella mattina non doveva lasciarsi distrarre. Aveva un obbiettivo ed era determinato a perseguirlo.
Però, doveva ammettere che se non fosse stato per Sylence, in quel momento non avrebbe fatto assolutamente niente.
Era stato tutta la notte a rimuginare su lui, su lei e anche su quello che era successo con Jake.
Ed era proprio quello che doveva fare quella mattina: parlare con Jake.
Osservato dagli occhi ammirati del gentil sesso, entrò nell’atrio della scuola.
Quella mattina, Jake aveva scienze biochimiche, perciò se la sarebbe svignata in palestra, a quell’ora deserta. Si diresse al suo armadietto con calma, posando i libri e la tracolla.
Mentre si dirigeva in palestra, gli sembrò di cogliere nell’aria un profumo speziato, simile a quello della cannella, ma più dolce. Prima che potesse identificarlo, sparì.
Dandosi dell’idiota per perdere tempo dietro ad un odore, uscì dall’edificio principale e si diresse alla palestra.
Alcune ragazze gli rivolsero qualche timido saluto, ma lui non rispose. Di solito, quando era sotto l’attenzione delle sue “ammiratrici”, non era così rigido, rispondeva al saluto, anche con un cenno del capo. Ma, senza sapere perché, ora quei saluti lo infastidivano soltanto.
La palestra era acconto all’edificio centrale ed erano uniti dal un corridoio chiuso di legno.
Spinse il maniglione antipanico ed entrò.
Un silenzio di tomba lo avvolse, non appena la porta si chiuse.
A lui era sempre piaciuta, perché molte volte veniva a tirare a canestro senza essere disturbato da nessuno, considerato che si era fatto amico il custode, e ogni volta poteva stare tutto il tempo che voleva.
Poi quel silenzio fu spezzato dai secchi tonfi di un pallone che rimbalzava sul pavimenti di legno.
Tra gli spalti affianco alla porta, Red poté osservare Jake palleggiare abilmente e poi tirare a canestro in un fluido movimento. Poi, riprese la palla e ricominciò daccapo.
«Che cosa vuoi, Hawks?»
Red non si sorprese: sapeva che Jake era riuscito a percepirlo.
«Bandiera bianca, Kingston. Non sono venuto per litigare.»
«Bene, perché in questo preciso momento accetterei volentieri una scazzottata con te.»
Jake fermò la palla e si voltò verso Red, rivelando uno sguardo intenso e carico di rabbia repressa.
Una leggera ruga di preoccupazione solcò la fronte dell’ex-migliore amico.
«Che diamine è successo?»
Jake lanciò la palla nella catasta di ferro insieme agli altri. «Non sono più affari tuoi.»
Una fitta trapassò Red, la lui la ignorò. «Andiamo, Kingston, per una volta, dimentichiamo di avere buone ragioni per scannarci a vicenda…»
«Io ho buone ragione per farlo!»
«… e dimmi cosa diavolo ti ha fatto arrabbiare così tanto. So perfettamente che deve essere successo qualcosa di veramente pesante per essere riuscita a scalfire quell’armatura d’acciaio e compostezza che ti ostini a portare.»
Ingaggiarono un duello di sguardi, petrolio nero contro oro dorato, e per una volta vinse Red.
Jake, lasciando andare il respiro lentamente, incurvò le spalle come se avesse su di essere un masso enorme.
E, magari non era una bugia.
Si sedette sul primo gradino degli spalti, con i gomiti posati sulle ginocchia, e si passò una mano tra i capelli umidi.
«Abbiamo un problema, Ombra. Un problema molto serio.»
Il cuore di Red cominciò a battere all’impazzata sentendo Jake chiamarlo in quel modo. Era da quando avevano litigato che non lo chiamava così.
«Che vuoi dire, Re
Jake prese un profondo respiro e, alzandosi in tutto il suo metro e ottantatre, incastrò i suoi occhi in quelli di Red.
«Significa che, purtroppo, abbiamo bisogno anche di te. È ora di reclamare il nostro nuovo membro.»
A Red mancò il fiato.
Un nuovo membro?
Era quello che aveva fatto arrabbiare Jake? No, era impossibile.
Quella era una bella novità, non una brutta notizia.
«Allora, cosa c’è che non va?»
L’altro strinse i denti. «Il problema è che si è portato qualcuno dietro. Qualcuno che non vedevamo da molto tempo e che ci farà passare un mucchio di guai.»

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Capitolo 9
*** Una Giornata Spossante ***


Sy Hill: Eccomi qui! Che ne dite? Siete felici di rivedermi? ^_^ Avevo detto che avrei postato al ritorno dalle vacanze... senza sapere che la mia cara cuginetta (Dio la benedica) ha comprato la chiavetta! Così posso scrivere sul mio pc e poi postare con il suo XP...
Comunque, qui sotto c'è un nuovo capitolo, quindi sedetevi comodi e leggere. RECENSITE in tanti!
Baci e Buon Natale,


Sy Hill <3<3<3<3


* * *

 

CAPITOLO 9
 
Una Giornata Spossante

 
 
 
Chiusi l’armadietto e sospirai, sfregandomi gli occhi. Quella notte non avevo chiuso occhio. Quella maledetta visione mi aveva tormentato i sogni finché, alle cinque passate di quella mattina avevo rinunciato definitivamente al sonno.
Inoltre… mi sentivo inquieta, agitata, come se stessi aspettando qualcosa.
O qualcuno… sussurrò una vocina perfida, nella mia testa. Magari stai aspettando Red.
Sospirando nuovamente, appoggiai la fronte allo sportello fresco, per chiarirmi un po’ d’idee.
Se avessi incontrato Red, come mi sai dovuta comportare? Dovevo far finta di nulla, quando nella mia testa aleggiava ancora la sensazione spaesata di quel bacio? Oppure, dovevo avere la faccia tosta e comportarmi come se quel senso di… non so cosa, un senso che mi faceva pensare che ora Red fosse proprietà privata con tanto di recinzione spinata e pitbull a guardia dell’entrata, fosse legittimo?
Trattenetti a stento un gemito. Mi stavo comportato come una mocciosa al primo innamoramento.
Dovevo smettere di complicarmi ulteriormente la vita, avevo già troppe cose a cui pensare e aggiungere alla lista anche quella barca alla deriva senza e equipaggio né ancora che erano i miei sentimenti a quel momento, proprio non ci voleva.
Riaprendo gli occhi – che non ricordavo di aver chiuso –, mi votai per andare alla lezione successiva, ma venni bloccata da un muro di seta e velluto, profumato di Coco Madmoiselle.
Risalendo con gli occhi, mi ritrovai a guardare in faccia due visi praticamente identici, in cui erano incastonati due paia di turchesi venati da una gradazione del medesimo colore più scura, dei visi lavorati dalla porcellana cinese più fine e una cascata di fili d’oro bianco.
«Non mi piace quella maglia, ti fa grassa.» disse una.
«Io, invece, penso che le faccia il sedere grosso.» interloquì l’altra.
La prima annuì. «Hai ragione, gemella, come sempre.»
«Ti ringrazio, sorella.»
Mi infastidii dalle loro chiacchiere su quello che mi andava bene oppure no. «E io credo che non siano affari vostri quello che indosso.»
«Sì, invece. Se decidi di far fare brutta figura alla scuola.» intervenne una.
«Invece sbagli, gemella.» contraddisse l’altra. «Io credo che faccia bene ad indossare quello che vuole.»
La prima strabuzzò gli occhi. «Perché lo pensi, sorella?»
«Perché… così farà spiccare tutti quelli che contano, cioè noi.»
Le Perfide Gemelle scoppiarono a ridere.
Decisi che mi avevano dato già abbastanza sue nervi per quel giorno ed era la prima volta che parlavamo!
Raccolsi la tracolla da terra e voltai loro le spalle, le quali smisero subito di sghignazzare come due oche.
«Dove credi di andare, matricola?» chiese sprezzante quella a destra.
«Jake vuole vederti. Devi venire con noi.»
A quelle parole mi fermai.
Mi hanno ordinatodi andare con loro?
«Muoviti. Jake ci aspetta.»
Eh, sì. Lo hanno fatto.
Voltai il viso verso di loro, inchiodandole con quello che sapevo essere il mio sguardo più furioso e disdegnoso, e le vidi impallidire.
«Dite a Jake che non sono il suo cagnolino.» scandii bene perché lo capissero. «Io non sono ai suoi ordini. E se vuole vedermi, che venga lui da me, invece di mandare due oche giulive a recapitare il messaggio, neanche fossimo nel Medioevo.»
Voltai loro le spalle e me ne andai.
Fuori dalla finestra, il cielo si era rannuvolato, illuminati a tratti da qualche lampo. Di bene in meglio. La giornata non poteva andare meglio di così.
 
*   *   *
 
Alla fine della giornata, ero decisamente uno straccio, tra nuovi argomenti scolastici e la litigata con le Perfide Gemelle. Inoltre…
Non hai incontrato una sola volta Red, sussurrò la stessa vocina di prima.
Ma tu gli affari tuoi no, eh?
Tu sei affar mio.
Per colpa sua, avevo raggiunto il record di trenta minuti senza pensare a Red. Mi faceva porre domante su Red che non avrei mai formulato a mente fredda e senza quella maledetta vocina.
Dovevo distendere un po’ i nervi, fare qualcosa di rilassante per scaricare la tensione.
E c’era una sola cosa che mi piaceva fare quando avevo un diavolo per capello.
Uno sport compreso di palla.
E l’unico posto nelle vicinanze dove potevo trovarlo era la palestra della scuola.
Posai nell’auto la borsa coi libri e mi diressi all’edificio sulla destra del parcheggio.
A quell’ora quasi tutti se ne erano andati e il capo da basket era completamente vuoi, ma la castra coi palloni era ancora accanto agli spalti.
Assicurandomi bene i capelli per evitare che si sciogliessero, presi una palla arancione e cominciai a palleggiare.
In una delle vecchie scuole dove ero andata, c’era anche una squadra femminile per ognuno degli spot che veniva praticato, tranne per il rugby.
Li provai tutti quasi tutti, tanto poi li avrei lasciati.
Faci un paio di tiri a canestro, muovendomi fluidamente, recuperai la palla, palleggiai e la rilanciai, ma colpì il tabellone e tornò indietro. Quando ero nervosa non riuscivo mai a fare un canestro.
Mentre facevo finire la palla fiori dal cesto, avvertii chiaramente una presenza alle mie spalle, che mi fece correre dei brividi freddi lungo la schiena.
Recuperai la palla e palleggiai, concentrandomi su quella presenza, dando a vedere che non l’avevo avvertita.
Di scatto mi voltai di spalle, credendo di sorprendere quel qualcuno, ma la palestra era completamente vuota.
Scossi la testa. Mi sa che la tu sinapsi è andata in momentaneo cortocircuito. Passa più tardi, i tecnici stanno facendo del loro meglio.
Poi, come un treno in corsa, qualcosa mi colpì con così tanta forza da togliermi il fiato. Mi ritrovai catapultata contro la parete della palestra, anche se non c’era nessuno a mantenermi, mentre un’altra forza invisibile mi stringeva la gola, soffocandomi.
Puntini di luce mi riempirono gli occhi, i polmoni cominciarono a bruciare per la mancanza d’aria e la gola mi sembrò il triplo del normale.
La mente, che incominciava a non connettere più, si sforzava di continuare a lavorare, subissandomi di domande, tra qui la più importante era: che stava succedendo?
Credo di essere svenuta, perché quando gli occhi si riaprirono, non ero più una decorazione della parete e qualcuno mi batteva una mano sulla faccia continuando a ripetere il mio nome.
«Coraggio, riprenderti. Sylence.»
Gemendo per il dolore alla gola e alla schiena, mi voltai faticosamente verso quel qualcuno.
Gli occhi neri di Jake brillarono di sollievo. «Meno male, credevo il peggio.»
«Siamo in due.» gracchiai con difficoltà. Avevo la gola in fiamme.
«Non stai bene. Adesso ti porto via.»
Mi sentii sollevare dal pavimento e un tiepido calore scaldarmi le guance.
La vista mi si annebbiò per qualche istante. Ero completamente fuori gioco, un peso morto tra le braccia di Jake.
Mi schiarii a fatica la gola. «Jake, cosa è…»
«Non adesso.»
Con me in braccio, neanche pesassi come una piuma, mi trasportò fino al giardino sul retro della scuola, al momento deserto.
Mi appoggiò ad una panca di marmo, distesa.
«Come va la testa? E la gola?»
Mi tastai le zone nominate. «Probabilmente avrò un livido enorme per domani,» constatai e mi sfregai leggermente il collo. «E la gola non sarà in condizioni migliori.»
Sospirai, chiedendomi come avrei fatto a nascondere a mio padre quei segni e come me li ero fatti.
E in quanto a questo…
«Che cosa diavolo mi è successo, Jake? Che cos’era quella cosa che ho sentito? Tu lo sai e non provare a mentire, perché giuro che ti prendo a calci.»
I suoi occhi neri si soffermarono sull’ambiente intorno a noi, evitava i miei.
Il sole di primo pomeriggio illuminava le aiuole e i cespugli di rose, schiuse a cercare una carezza calda e un alito di fresco venticello.
«Jake, qualcosa ha cercato di strangolarmi, a provato ad uccidermi. Ho bisogno che qualcuno mi dica che non sono pazza ed essermi immaginata tutto o peggio, di aver inalato qualcosa che mi ha trasformata in un’autolesionista.»
Silenzio.
«Maledizione, Kingston! Parla!» gridai, afferrandolo per il bavero della camicia.
Allora Jake, con il capo leggermente voltato dietro di lui, fece un cenno e da dietro la fontana alle sue spalle uscirono tutti quelli del suo gruppo.
Le gemelle, Slater accanto a Sebastian, la cugina Rae-Mary e, con mio grande stupore, anche Red si disposero a ventaglio dietro di lui. Sui loro visi un’espressione impassibile.
Un senso di inquietudine mi pervase.
«Che sta succedendo?» mormorai.
Cercai con lo sguardo il viso che mi era più familiare.
Gli occhi di Red erano fissi su di me, ma tutto quello che vidi fu un’assoluta compostezza, che venne incrinata da un’espressione di rabbia quando il suo sguardo scese sul mio collo.
«Riesci ad alzarti?» chiese Jake.
Riportai lo guardo su di lui. Per un attimo mi parve di vedere una piccola luce, una scintilla, vorticare, girargli intorno, come in un’orbita tutta sua. Ma scomparve contro la luce accecante del sole.
Appoggiando le mani alla panca, mi diedi una spinta e mi misi in piedi.
Mi reggevo. Grande.
«Vieni con noi.» le ordinò Jake.
Il ventaglio si divise in due, lasciando un passaggio portante alla fontana.
Sorvolando sull’ordine, mossi un passo nella sua direzione.
Milioni di agi mi punsero le gambe. Soffocando un gemito di dolore, sentì il mio intero corpo precipitare al suolo.
Quasi caddi a peso morto sul vialetto lastricato di pietre, ma prima che potessi affrontare l’impatto con il suolo, un braccio mi circondo le costole e mi tenne su.
«Reggiti.» ordinò perentorio Red, mentre prendeva un mio braccio per farlo passare intorno alla sua vita.
Raddrizzai i piedi e mossi un paio di passi, sostenuta da lui, che teneva il volto rivolto davanti a sé, seguendo Jake alla fontana.
«Mi spiegate dove stiamo andando?»
«Limitati a seguirci.» mi redarguì la cugina di Jake, Rae-Mary.
«Sai com’è. Non ho idea dove volete portarmi. Per quanto ne so, potreste anche volermi affogare nella fontana. È abbastanza profonda da far affondare la mia testa di parecchi centimetri.»
Vidi Red abbozzare un sorriso, a differenza di Rae-Mary che sfoderò un’espressione di profonda indignazione.
«Non siamo qui per attentare alla tua vita.» si intromise Jake, in vece di diplomatico.
«Allora dove stiamo andando?» l’incalzai.
«Lo vedrai.»
Detto questo, si inginocchiò davanti alla fontana.


Vorrei tanto ringraziare le seguenti persone per aver messo la mia storia tra quelle seguite e chi l'ha preferita:
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Grazie Infinite!!!

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Capitolo 10
*** Vera Realtà ***


Sy Hill: *Rullo di tamburi* Eccomi qua con un altro capitolo! Ci saranno chiarimenti e nuove scoperte. Cosa succederà a Sy? LEGGERE e RECENSITE!!!
Baci e buona lettura a tutti,

Sy Hill <3<3<3<3


P.S.: è in cantiere anche il capitolo successivo e, probabilemnte, lo posterò questa sera stessa. XD

Inoltre vorrei ringraziare RACHY WILLIAM per la sua splendida recensione. Mi hai fatto lacrimare XD


CAPITOLO 10

Vera Realtà



Aggrappata al fianco di Red, mi allungai altre la spalla di Jake per capire cosa avesse intenzione di fare. Gli altri ragazzi si accerchiarono intorno alla fontana, poggiando contemporaneamente le mani sul bordo.
«Red, abbiamo bisogno anche di te.»
Con un movimento veloce della mano, Jake picchiettò su una pietra che lastricava il sentiero e che sfiorava il bordo della fontana.
Allora, Red, assicurandosi prima che io mi reggessi in piedi, si dispose al lato destro della fontana, tra Jake e una delle Perfide Gemelle – impossibili per me da distinguere, continuando a lanciarmi uno sguardo preoccupato.
Che si fosse dimenticato del mio comportamento dell’altra volta? Ne dubitavo, ma continuava a guardarmi con quei suoi occhi dorati inquieti.
Il suo ex-migliore amico si alzò in piedi, imitando la posa degli altri.
La sua voce spaccò quel silenzio opprimente che era calato sul giardino. «Dichiarate a gran voce il vostro vero Nome.»
Spalancai gli occhi, trattenendo il fiato, aspettando quello che sarebbe seguito.
La cugina di Jake, Rea-Mary, prese un respiro profondo e incominciò per prima, immergendo la mano destra in mezzo alla piccola cascata che scendeva dalla vasca più piccola e soprelevata alla più grande.
«The Seeker, La Cercatrice.»
Con un dito bagnato, disegnò un cerchio sul bordo di marmo accanto alla sua mano. Dopo alcuni secondi questo si illuminò.
Ma che diamine sta succedendo?, mi chiesi, confusa e sbalordita da quello che stava avvenendo davanti ai miei occhi.
«The Aunt, La Formica.»
Fu la volta di Sebastian che imitò le movenze di Rae-Mary, disegnando il cerchio che di conseguenza si illuminò.
Poi toccò a Raferty. «The Clown, Il Pagliaccio.»
Stesse mosse, stesso cerchio illuminato.
Poi toccò alle gemelle, le quali eseguirono le stesse mosse degli altri con inquietante sincronia, quasi fossero una sola entità.
«The Dark Twins, Le Oscure Gemelle.»
Cerchio illuminato.
Poi toccò a Red.
Al suo allungare una mano in direzione della fontana, il mio cuore iniziò a correre come un treno, quasi impaziente di sentire quello che avrebbe detto.
«The Shadow, L’Ombra.»
Un solo battito, più forte degli altri, mi dolse il petto, squassandolo.
Tolse la mano dall’acqua e con il dito bagnato disegnò il cerchiò. Si illuminò poco dopo.
Era così serio, tutti erano così seri da darmi i brividi.
Non ci stavo capendo niente. Che cosa stavano facendo? Come facevano dei semplici disegni fatti con l’acqua ad illuminarsi? E perché io ero lì, ad osservare quella specie di delirio?
Infine fu la volta di Jake.
«The King, Il Re.»
Non appena Jake disegnò il cerchio, sull’intero perimetro del bordo della fontana si diffuse di una luce azzurrina, quasi argentea che, man mano, si aggrappò anche all’acqua dentro la vasca e quella che stava cadendo fuori dal bordo di quella più piccola, fino a raggiungere le mani della statua, che raffigurava una donna, dai lineamenti armonici, dolci e, al contempo, seducenti, la cui figura era avvolta un una tunica morbida sul corpo e appuntata alla spalla destra con un intricato intreccio di rametti e rosette.
«Invoco il Potere e la Benevolenzadella Regina Bianca, per l’Assunzione al nostro Cerchio di un nuovo Elemento.»
Ad un tratto, come un’entità propria, l’acqua si raccolse in un fascio, che allungandosi, si avvitò intorno alla fontana, senza mai toccarla, fino a raggiungere anch’essa le mani della statua, per poi avvolgerla completamente in una gabbia lucente e acquosa.
Allora – non riesci a credere di star per dire una cosa simile – la statua batté le palpebre e il suo viso, prima piegato leggermente su una spalla, si raddrizzò, spostando lo sguardo in circolo, sui componenti di quel cerchio, che avevano chinato il capo in una posa referente.
Solo quando quegli occhi di roccia, ma stranamente coscienti e consapevoli, si posarono su di me, mi accorsi di essermi accasciata al suolo.
Avevo il respiro corto, il cuore ad un principio d’infarto e il corpo così immobile da eguagliare quello della statua «Anche se non so se pensarla ancora così, visto quello che stava accadendo.
Quegli occhi, anche se di pietra, mi trasmisero un calore particolare, come quello di una madre che guarda per la prima volta il suo bambino.
Nel mezzo di quel gorgoglio acquoso, la sua voce risuonò come mille cristalli sfiorati dalla brezza estiva, suonando una melodia talmente pura da far piangere il cuore.
«Sotto un Cielo tappezzato d’azzurro, Voi avete invocato la MiaPresenza.Miei Cari Figli, sono lieta di poterVi aiutare. A cosa si deve la vostra Chiamata?»
«Vi abbiamo invocata, perché abbiamo scoperto che il nostro Cerchio, ora, può disporre di un altro Elemento.»
Jake, fino a quel momento chino sul bordo della fontana, alzò il capo e guardò verso di me. E così lo imitarono anche gli altri.
Essere al centro dell’attenzione non è proprio quello che preferivo.
«Abbiamo trovato Lei, sul nostro cammino, e siamo più che sicuri che sia Una di Noi.»
Una di noi?! Ma di che diamine parlano? Com’è possibile che una statua possa parlare e muoversi come un essere vivente?! E cosa vogliono tutti loro da me!?
Decisi di averne abbastanza di tutto quel mistero.
Costrinsi le mie gambe a reagire agli stimoli del cervello, rialzandomi in piedi, e puntai lo sguardo su tutti loro. Diverse ciocche di capelli caddero dalle mie spalle: si erano sciolti.
«Voglio sapere cosa sta succedendo. Voglio sapere come fa una statua, un oggetto inanimato e freddo, a muoversi e a parlare come una qualsiasi persona.» Raddrizzai la schiena, i capelli che mi coprivano come un mantello. «Voglio sapere cosa siete. Voglio sapere che cosa c’entro io. Ma più di tutto, voglio sapere come diamine è possibile.»
Il cielo, fino a pochi minuti prima limpido, in quel momento era diventato una distesa grigia e violacea, illuminata a tratti da lampi silenziosi.
Lo sguardo del gruppo aveva seguito quel cambiamento, per poi riportarlo su di me.
«Non te ne rendi conto, vero?» chiese una delle Gemelle. «Quello che puoi fare…»
«Quello,» sopraggiunse l’altra gemella, indicando il cielo. «Lo hai provocato tu.»
«Ed è successo più di una volta.» si intromise Jake. «Anche quando abbiamo parlato e ti ho detto quello che era successo alla tua amica, il cielo si è oscurato. Eri arrabbiata vero?»
Alzai, scettica, un sopracciglio. «Mi stai dicendo che io controllo il tempo?»
«Non il Tempo, ma gli Elementi Naturali.»
«Mi sai prendendo in giro?»
«Guardati intorno, vedi quello che vedo io. Calma la tua rabbia, raffreddala, e osserva le conseguenze.»
«Tu credi che io possa calmarmi in un momento come questo?!» urlai. «Sei fuori, Kingston!? Come credi che potrei calmarmi quando, intorno a me, il mondo mi sembra una specie di sogno ad occhi aperti?! Quando le cose che consideravo impossibili, all’improvviso, diventano possibili e reali!? Quando quello in cui credevo crolla come un castello di carte!?»
Non mi accorsi di piangere finché una pioggerella non mi bagnò le spalle.
«Come credi…» singhiozzai, stringendo gli occhi per fermare le lacrime che si ostinavano a premere contro le palpebre e ad uscire.
«Sylence.»
Al suono dolce del mio nome pronunciato dalle labbra di Red, mi sentii subito meglio, come se una coperta calda e pesante mi fosse scesa sulle spalle a ripararmi.
Alzai lo sguardo verso di lui.
I suoi occhi erano tormentati, come se soffrisse per non poter venire a consolarmi.
«Non mi piace vederti piangere. Smettila subito.» ordinò.
Quell’ordine assurdo infranse quella barriera di freddo che mi si era eretta contro, rompendomi di calore, calmandomi.
Mi sfregai gli occhi, cancellando le ultime tracce di lacrime versate. «Solo tu puoi impartire un ordine del genere e renderlo efficace.» dissi, increspando le labbra in un mezzo sorriso e trassi un respiro profondo per calmarmi.
Allora, la pioggia smise di scendere, e le nuvole piene di lampi si diradarono leggermente, per far passare alcuni timidi raggi di sole.
Non è possibile. Come posso…io…?
Senza motivo, mi venne in mente il momento in cui, nella mia stanza mi ero ripresa dalla visione che avevo avuto, e di come, alzando lo sguardo, avevo visto la pioggia battere sul vetro della finestra.
Poi, come un lampo, l’immagine del piccolo libro sigli elfi, i LiòsAlfàr invase i miei occhi. Ricordai un passo che avevo letto…

“Gli Alfàr erano in grado di far piangere il Cielo nelle caldi Estati e nuotare nelle Acque azzurre del Lago di Albh, la Regina Bianca, e giocare con le sue Creature. Potevano scaldare i freddi Inverni, quando la Gelida Tormentariusciva a varcare le soglie del Villaggio. Le Nuvole erano loro Amiche e gli Alfàr si divertivano a giocare con Loro a nascondino. E la nuda Terra poteva rinascere rigogliosa nelle loro mani.”

No.
Non può essere, però…
Quello che stava accadendo – una statua che si muoveva e parlava, l’acqua che si illuminava, io che facevo venire a piovere quando piangevo – beh, anche quello era impossibile. Inoltre c’era da spiegare anche il fatto che potessi leggere una lingua inesistente, quella strana forza che poche ore prima – era davvero passato così poco tempo?» aveva attentato alla mia vita.
E le visioni che ricevevo da Red…
Mi ero ripromessa che, se non avessi avuto un’altra, avrei archiviato le altre due, ma in quel momento non potevo mettere tutto da parte, chiudere tutti quegli avvenimenti sotto chiave, considerandoli anomalie.
Perché, a quanto pareva, quelle anomalie facevano parte della realtà. Una realtà completamente diversa da quella che una persona normale vive ogni giorno.
Impossibile?
O, semplicemente, nascosto così bene da non essere conosciuto?
Forse questa era la vera realtà, quella che gli uomini nascondono per paura di affrontare qualcosa che non sanno spiegare, qualcosa di cui hanno paura, ma che è semplicemente diverso dal mondo come lo conoscono loro e che non vogliono affrontare per timore di distogliere la realtà come l’hanno costruita loro.
Questa è la mia realtà?
Troppe erano le coincidenze, e non essendo tipo da crederci, sapevo già la riposta.
Sì, questa era la mia realtà.

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Capitolo 11
*** Cervello In Tilt ***


Sy Hill: Ecco qui il capitolo che avevo promesso! L'ho fatto più lungo perchè la mia carissima recensitrice Rachy William domani parte e non ppotevo lasciarla con il fiato sospeso (anche se ci rimarrà lo stesso, credo XD)
Comunque, vi ringrazio di cuore per le vostre recisioni. Continuate a Scriverne tante!
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3


P.S.: Con la carica che ho oggi, a dispetto del mal di gola, credo che riuscirò a pubblicare anche un'altro capitolo. Chissà.





CAPITOLO 11
 
Cervello in Tilt

 
Traendo un respiro profondo, alzai gli occhi ad incontrare quelli della statua della Regina Bianca.
«Posso chiedere una cosa?»
Lei mi fece un centro rigido, ma al contempo elegante, del capo.
«Siete voi Albh?»
Vidi un’espressione sconvolta passare sul viso di tutti.
«Come sai…» iniziò a chiedere Jake, ma la ReginaBiancalo interruppe.
«Educazione, Figlio Mio
Jake chinò il capo. «Chiedo scusa.»
Il viso della statua si volto nuovamente verso me. «Lo sono, ma non lo sono
Detesto queste risposte enigmatiche.
«Che vuol dire?»
«Permettete, Regina?» chiese, gentilmente, Sebastian, prendendo parola per la prima volta.
«Prego
Lo guardai, meravigliandomi dello sguardo determinato e dolce che mi rivolse.
«Vedi, questa,» indicò la scultura con lo sguardo, «è solo una statua, ma è il materiale con cui è fatto ad essere speciale. A quanto ho capito, tu conosci l’identità della nostra Regina, quindi sai anche che Lei vive in un lago.»
Annuii.
«Beh, questa fontana, la roccia con cui è fatta, proviene da quel lago, un lago cosparso del Suo Potere e della Sua Energia. Non potendo allontanarsi dal luogo in cui può osservare, controllare e agire, la Regina fece costruire questa fontana utilizzando le rocce dal lago, che intrise della Sua Vita, costituisce un tramite tra il Suo Mondo e il Nostro, permettendoci di comunicare con Lei.»
«E io? E voi? Cosa siamo?»
«Se conosci l’identità della Regina, è inutile che siamo noi a rispondere, quando puoi farlo benissimo anche tu.» grugnì Raferty.
Infatti era così, ma – capitemi – ero un po’ restia ad ammetterlo ad alta voce.
«Siete…ehm…siamo elfi?»
«Non proprio.» rispose Jake. «Noi siamo MihnAlfàr. Il nostro sangue è un misto tra quello umano ed elfico. Ma ce ne sono tanti come noi, qui a Lansing City. È una storia molto lunga. Te la spiegheremo un’altra volta. Ora,» disse, assumendo un’espressione seria. «Siamo al cospetto della Regina Bianca per enunciare la richiesta di Acquisizione di un nuovo Elemento al nostro Cerchio.»
Portò i suoi occhi nei miei.
«Sylence Hill, Figlia di Xander Hill, noi ti perpetriamo la Richiesta i unirti a Noi. La tua scelta non sarà obbligata. La tua scelta sarà tua e tua soltanto. E noi saremo lieti di accettare qualsiasi responso tu decida di darci.»
Rimasi stordita dalla perfetto sincronismo con cui lo dissero.
Loro aspettavano una mia risposta, ma non sapevo cosa dire.
Se avessi accettato, che cosa sarebbe successo? Qualcosa sarebbe cambiato. Probabilmente non avrei più potuto parlare con Kima, Chris e Aria. Ma sarei seduta al tavolo con tutti loro. E poi, per quanto avrei potuto far parte del gruppo? Se mio padre decidesse di partire di nuovo?
Però, ero curiosa di capire, di scoprire quello che mi era successo. Forse, avrei potuto scoprire qualcosa di più anche sulle visioni. Avrei potuto far vedere il libro degli elfi anche a loro, scoprire di più sulla mia natura.
E, a proposito di questo, quanto ne sapeva mio padre? Era per questo che continuava a spostarsi di luogo in luogo, per scoprire delle tracce degli elfi?
Oppure le mie supposizioni erano completamente sbagliate?
Una confusione da mal di testa non mi dava tregua, subissandomi si domande.
«Sylence?»
Richiamata all’ordine di Jake, spostai lo sguardo su di loro che aspettavano ancora la mia riposta.
«Devo rispondere proprio ora? Perché, francamente, non so davvero cosa dire. Io…»
«Sei confusa, Bambina. È una Scelta legittima quella di voler aspettare, per riflettere a fondo sulla questione, e poi rispondere a Mente lucida
Sospirai di sollievo sentendo quelle parole.
«Che cosa c’è da capire? O sei dentro o sei fuori.» proruppe Raferty.
«Rafe.» lo rimproverò Sebastian.
«Anche tu all’inizio eri titubante, quando ti abbiamo posto la stessa domanda.» interloquì Rae-Mary.
«Sì, ma, poi, ho risposto, quella sera stessa.»
«La questione è più complicata, Pagliaccio.» mi difese Red. «Noi siamo cresciuti qui, ci hanno riempito la testa di queste cose quando eravamo ancora in fasce e gattonavamo per casa. Sylence, a quel tempo, viaggiava già in giro per gli Stati, disillusa di tutto quelle favole che a noi raccontavano prima di andare a letto. Molto probabilmente, a letto ci si metteva da sola.»
Quella difesa così appassionata e così realistica mi tolse il fiato.
Come poteva, un ragazzo che conoscevo a malapena, conoscere la mia vita così bene, quasi la stesse leggendo scritta da un libro? Il cuore batteva frenetico, emozionato da quelle parole così familiari ma così sconosciute.
Era vero. Tutto quello che aveva detto Red era vero. Ma come faceva, lui, a saperle, quelle cose della mia vita?
Mi sentivo inquieta,  oppressa da un masso sulle spalle. E in mezzo a quel turbine di novità, c’era lo sguardo fermo e dolce della Regina Bianca.
Anche se l’avevo appena conosciuta ed era solo un pezzo di roccia animata da qualcosa di simile alla magia, la sentivo come la figura materna che non avevo mai avuto. Il suo sguardo gentile, trasmesso attraverso la pietra, aveva la facoltà di calmare tutto lo scalpiccio frenetico nella mia testa.
Mi persi in quegli occhi pietrificati che, – non so se solo per me  anche per gli altri, troppo impegnati a battibeccare tra loro per accorgersene –, si ricoprirono di luce.
Immersa in quel chiarore, viaggiai attraverso lo Spazio e il Tempo, raggiungendo località precluse alla conoscenza umana, luoghi i cui la vera Magia, quella con ma “M” maiuscola, quella che controlla l’intero Mondo, esisteva ancora.
Vidi un’enorme macchia d’alberi, di un forte color smeraldo, circondata da una catena di montagne altissime, le cui vette sparivano tra le nuvole soffici e bianco panna, dalle quali spuntavano raggi chiari di uno splendido sole.
In mezzo alla foresta, ai piedi di un enorme albero, che sovrastava con le sue fronde talmente grandi quasi a voler proteggere tutti i suoi piccoli, c’era un villaggio, abitati da tante persone tutte diverse.
In un lampo, la paesaggio scomparve.
Un altro lampo e, davanti ai miei occhi, apparve un immenso lago, circondato da centinaia di fiaccole, incastrate nelle pareti di roccia delle montagne.
D’un tratto, la superficie cheta dell’acqua venne incrinata dal sollevarsi di un turbine, un‘aspirare serpeggiante. Essa si compattò, formando una cupola luccicante che, partendo dalla cima, si infranse in milioni di gocce.
Una figura, splendente come una luna piena, apparve sul pelo dell’acqua, illuminandone le profondità.
La figura, incappucciata, era indubbiamente quella di una donna minuta.
Ella voltò lo sguardo verso me e io mi persi, in quegli occhi così simili ai miei.
 
*   *   *
 
Avete mai provato una sensazione di deja vu? Quando le cose che avete già vissuto, o avete immaginato di vivere, si ripetono?
 Beh, se sì, allora capite a cosa mi riferisco.
Altrimenti…
Quando riaprii gli occhi, ero – di nuovo – distesa a terra e c’era – di nuovo – qualcuno che cercava di svegliarmi, chiamando il mio nome e prendendomi a sberle – per fortuna – leggere sulle guance.
Questa volta, però, il soggetto era diverso.
Mi trovavo tra le braccia di Red, (e qui il mio cuore si dichiarò clinicamente morto), circondata dagli altri che mi fissavano.
E notaiun particolare.
I loro occhi chi in un modo, chi in un altro, erano fuori dal normale proprio come i miei.
Quelli di Jake erano neri, è vero, ma, ora che li osservavo più da vicino, mi accorsi che intorno al bordo esterno dell’iride c’era un cerchio di blu scuro.
Quelli di Sebastian erano marrone cioccolato, dei quali uno era screziato di nero.
Quelli di Rae-Mary avevano il colore del mare dei carabi, un colore indefinito tra il verde acqua e il celeste, che sfumavano insieme.
Gli occhi di Raferty, invece, potevano sembrare di un comune color nocciola, ma alla luce del sole, assumevano una sfumatura rossastra, alquanto inquietante.
Quelli delle gemelle, beh, li avevo già visti e anche quelli erano da togliere il fiato.
Ma quelli che mi colpirono il cuore furono – ovviamente, aggiunse la vocina fastidiosa – quelli di Red.
Quel dorato irreale, troppo lucente, come se avessero sciolto due pepite e gliele avessero versate nelle iridi. Un colore compatto, niente sfumature, niente anelli, niente screzi, ma assolutamente ipnotici e belli.
«Sylence, che cosa è successo?» chiese Jake, mente il sopra nominato mi scostava dagli occhi lunghe ciocche di capelli.
Con un colpo di reni, mi liberai dall’abbraccio caldo in cui ero riparata e mi sfregai gli occhi, ripensando a quello che avevo visto, ma…
«Non lo so.» risposi, esitante. «Non lo ricordo.» Portai lo sguardo su di loro. «Mi spiegate cosa è successo?»
«Beh, stavi guardando la statua della Regina, quando i tuoi occhi sono diventati bianchi e hai allungato una mano verso la fontana.» raccontò Sebastian. «Sei rimasta così per qualche minuto, poi sei piombata a terra come un peso morto. Scusa,» si affrettò a dire, sotto la minaccia dello sguardo di Red, che non aveva apprezzato l’uscita.
Mi alzai da sola – non avrei sopportato di nuovo la scena della donzella in difficoltà, facendomi prendere in braccio – e lanciai un’occhiata tutto intorno.
Dovevano essere intorno alle cinque, il sole era a mezz’asta. Nessun segno delle nuvole grigie e dei lampi.
La fontana era tornata quella di sempre. Niente acqua che brilla, niente statua che si muove e parla.
La sola prova che quello che era accaduto era vero, era la presenza di quei sette personaggi, di cui non conoscevo nulla.
«Non è stato un sogno, vero? Tutto quello che è successo, tutto quello che mi avete detto… è accaduto davvero.»
Sei teste annuirono, una sola continuava a fissare i suoi occhi dorati su di me.
Mi umettai le labbra secche. «Quindi… dovrei rispondere alla vostra… richiesta… di unirmi a voi. Che poi, cosa sareste?»
«Noi siamo gli unici MihnAlfàr ad essere coscienti, diciamo così, delle nostre origini e delle nostre capacità.»
«Ma, prima, hai detto che ce ne erano degli altri.»
«È vero, ce ne sono degli altri.» confermò Sebastian. «Ma in nessuno di loro, il sangue dei LiòsAlfàr, è abbastanza forte da dar loro delle capacità speciali. Però, ci sono quelli che hanno il Sesto Senso, cioè una capacità cognitiva maggiore di quella di una persona normale. Conosci i medium? Beh, alcuni di loro non sono ciarlatani.»
«Sì, ma prima non avevo queste capacità. Non scatenavo una tempesta quando mi arrabbiamo e c’erano momenti in cui avrei fatto venire un uragano, se lo avessi avuto.» Scrollai le spalle. «Come te lo spieghi questo?»
«Non credo di poterlo spiegare.» mugugnò imbarazzato.
Mi caddero le braccia. «Cosa?»
«Non ho abbastanza Conoscenza per poterlo sapere con certezza…»
«Perché mi sembra che la parola “Conoscenza” abbia una C maiuscola?»
«Perché è così. La Conoscenza che intendiamo noi è diversa da quella che intende una persona normale. Noi consideriamo la Conoscenza come un sapere superiore, la prerogativa di sapere tutto quello che c’è da sapere. Ma qui, l’unica che ha questa facoltà è solo la Regina Bianca e, mi dispiace dirlo, ma Lei non parla mia direttamente.»
«Lo avevo capito.» risposi, ripensando alla risposta che mi aveva dato alla mia domanda.
«Perciò, dovrò spulciare affondo negli Antichi Manoscritti per cercare qualcosa, ma una mezza idea mi è venuta.»
Si portò una mano al mento, in una posa riflessiva.
«Sarebbe?» chiesi, trattenendo il fiato.
«Probabilmente… qualcosa ha fatto scattare il tuo sangue Alfàr assopito, che ha risvegliato le capacità che avevi già, sopite, dentro di te.»
«Cosa sarebbe questo “qualcosa”?»
«Ancora non lo so, ma lo scoprirò presto. Te lo prometto.»
Presi un respiro profondo, prima di guardarli di nuovo tutti.
«Potete concedermi un giorno, o quello che ne rimane più la mattinata di domani, per rispondere?»
Al cenno affermativo di tutti, tirai un silenzioso sospiro di sollievo.
«Grazie. Allora… ci vediamo domani.»
Mi avviai verso il parcheggio, sorda alle proteste di tutti sul fatto di guidare.
«Ho la patente, il mio cervello è apposto e non ho problemi di vista. Sono semplicemente stanca. Troppe cose in una sola volta. Anche se ho sangue elfico, il cervello è comunque umano, e ho un limite di sopportazione a giornata.»
Volsi loro le spalle, ma mente me ne stavo andando, mi venne in mente una cosa (la mia mente era talmente stressata che a quel punto non aveva più la forza di affrontare argomenti pesanti.)
«Oh, a proposito…» lanciai loro un’occhiata. «A che tavolo devo sedermi?»

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Capitolo 12
*** La Calma Prima Della Tempesta ***


Sy Hill: Salve a tutti! Sono di nuovo io! Questo nuovo capitolo è, come posso definirlo? Un capitolo di passaggio. Da qui in poi, le cose saranno molto movimentate, con molte scene fantasy. Beh, che posso dire?
LEGGETE e RECENSITE!
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3
P.S.: RAGAZZI MA 67 PERSONE CHE LEGGONO E NESSUNO CHE RECENSISCE!?!?!?! COSì MI FARE PIANGERE DI DELUSIONE!!!! T-T

CAPITOLO 12

La Calma Prima della Tempesta

 
 
 
Il caos degli studenti che correvano alle loro aule per la lezione successiva, faceva da sottofondo ai miei pensieri.
Era ora di pranzo e, per non sottostare ad una decisione spinosa, decisi di non andare con gli altri.
Kima mi guardò preoccupata.
«Non hai fame? Ti senti poco bene? Vuoi che ti porti in infermeria?»
Quel chiacchiericcio a mitraglietta mi strappò una debole risata.
«No, Kima, non preoccuparti. Devo parlare con il professor Drawn di una cosa. Ci vediamo dopo.»
«Come vuoi.»
L’espressione mogia che le calò in volto aveva un che di tenero.
D'impulso le dissi: «Grazie, per preoccuparti di me.»
Non ero una sdolcinata, ma qualcosa dentro mi si scioglieva quando lei mi guardava con quei suoi occhioni asiatici.
Aspettai che sparisse alla vista, accompagnata da un Chris particolarmente distratto quella mattina e un’Aria persa nei suoi pensieri.
Eravamo proprio messi bene, quel giorno.
Sospirai.
La situazione si complica.
Dettata da un altro impulso (ero in vena quella giornata), mi diressi al giardino, sorprendendomi del poco tempo che era passato dall’ultima volta che ci ero stata e dagli avvenimenti che erano capitati in quel luogo.
Era tranquillo. Di solito, tutti andavano a mangiare in mensa o nei giardinetti con tavolini posto sul davanti dell’edificio e quasi nessuno veniva lì.
La mia fortuna fu quella di trovarlo vuoto.
Quel momento di silenzio e pace, mi permise di esplorare a fondo le emozioni che stavo provando.
Innanzitutto mi sentivo oltremodo confusa. Scoprire di essere una mezz’elfo non è cosa da tutti, inoltre mi chiedevo (e non avevo ancora verificato) se era per parte di padre o madre, il sangue elfico.
Sul libro che avevo letto, quello dei LiòsAlfàr, diceva che un elfo non poteva stare all’esterno del loro villaggio.
Un pensiero improvviso mi attraversò la mente, facendomi trattenere il respiro.
Che mio padre avesse mentito? Che mia madre non fosse morta, ma… solo ritornata a casa sua?
Anche agli altri ragazzi manca un genitore.
E se si fossero conosciuti, tutti i genitori scomparti…? Che si conoscessero già?
Ma allora, se mia madre era originaria di Lansing City, perché mio padre se ne era andato? Insomma, se ci fossero stati altri figli di elfi nelle città in cui ero stata, non sarebbe accaduta la stessa cosa che stava accadendo anche lì? Le coincidenze sarebbero potute esserci anche in un’altra città, ma non era stato così.
Solo a Lansing City era successo.
Ma se mia madre era di questa città e aveva conosciuto mio padre qui, lui doveva per forza abitare qui. Altrimenti, i tempi non coinciderebbero. Io ero nata a settembre, quindi i miei genitori si sarebbero dovuti conoscere più di nove mesi prima. Uno non può andare a letto con un altro senza…
«Oh.»
Che diamine! La mia vita è una completa bugia?
Ero illegittima.
Mio padre e mia madre non erano sposati quando io nacqui. Avevo sempre creduto che mio padre fosse rimasto vedovo.
Ma a quanto pareva, non solo non era sposato, ma , molto probabilmente, mia madre era ancora viva.
Se le mie supposizioni erano esatte – e, credetemi, per certe cose ho un intuito infallibile –, quando sarei tornata a casa, papà avrebbe avuto molte cose da spiegare, lavoro o non lavoro.
E a proposito di lavoro…
Perché si ostinava a studiare le piante e le rocce? A cosa serviva quello che stava studiando così accanitamente, per  tutti quegli anni?
Gemetti, sovraccarica di domande, prendendomi la testa tra le mano, come a fermarle.
Mi sedetti su una panchina e – coincidenza? – fu quella su cui ero stata stesa il pomeriggio precedente. Posai il gomito sul ginocchio e appoggiai la guancia al palmo della mano, piegando la testa di lato.
Lo sguardo scivolò fino ad arrivare alla fontana con la statua della Regina Bianca.
Rividi i componenti del Cerchio, infilare la mano nello scorrere continuo dell’acqua per poi disegnare sulla pietra, successivamente invasa dalla luce.
Incuriosita, mi alzai e la raggiunsi.
Mordicchiandomi il labbro inferiore, controllai in giro che non ci fosse nessuno in giro e, constato che non c’era anima viva, imitai le stesse mosse eseguita dagli altri, il giorno prima.
Posai la mano sinistra sul marmo, immersi la mano destra nella piccola cascata che cadeva dalla vasca più piccola, soprelevata alla più grande, gelandomi la mano sotto quel getto freddo e disegnai un cerchio sul bordo di marmo.
Attesi qualche secondo, con il fiato sospeso, ma quando non accadde niente, sbuffai infastidita.
«È perché tu non sei membro attivo del nostro gruppo.»
Mi voltai di scatto.
Alle mie spalle appoggiato al muro della scuola, bello nei suoi Levi’s e canottiera che metteva in risalto il fisico bel formato, c’era Raferty Slater.
«Non sei stata Ufficializzata come noi agli occhi della Regina, non ti è stato assegnato un Nome, perciò non puoi usare il Suo mezzo di comunicazione.»
Oh, ecco perché non funzionava. Cavolo.
«Hai deciso cosa rispondere, oppure dobbiamo aspettare che passi Natale?» chiese, sarcastico.
«Ma tu, cinque minuti senza voler litigare, non riesci a starci? Sai come è, non vorrei che ti ritrovasti inseguito da una nuvola che ti prende a fulminate il sedere.»
«Non ne se capace, sei ancora una pivella.»
La sua voce era sicura, ma i suoi occhi, saettavano con discrezione al cielo, quasi temesse che da un momento all’altro avrei messo in pratica la minaccia.
Avrei tanto voluto cacciare fuori la lingua, ma siccome ero in tipo educato, evitai un comportamento in stile bambina capricciosa.
«Tu fammi arrabbiare e poi vediamo chi è il pivello qui.»
Allora, Raferty fissò i suoi occhi nei miei e con una voce che, per me, non aveva niente di umano ordinò: «Smettila di parlare
Sentii una corrente elettrica passare sulla pelle, rizzarmi i peli, neanche avessi la pelle d’oca. Nella testa, sentivo il riverbero della sua voce camminare per le mie sinapsi e inibirle per qualche secondo, stordendomi temporaneamente.
Lo sguardo frustato fu la prima cosa che notai quando le attività celebrali ritornarono a funzionare.
Battei le palpebre velocemente, per schiarire gli ultimi percorsi mentali ancora rintontiti.
Scossi la testa. «Che diamine è successo? Che hai fatto? Mi ronzano le orecchie.»
Sbuffando, Raferty si andò a sedere sulla panchina di marmo.»È l’effetto della mia Suggestione.»
«Prego?» chiesi, ancora un po’ intontita.
Lui si strofinò la fronte. «Il mio potere. Il sangue elfico mi da la capacità di imporre la mia volontà alle menti altrui. Jake ci ha vietato di usare i nostri talenti sui i membri del nostro Cerchio, ma tu non ne fai ancora parte, perciò sei disponibile come bersaglio. Ma, a quanto pare, non puoi subirne l’effetto.» constatò in tono lamentoso.
«Oh.»
«Perché, poi, proprio non lo so.»
Passò una mano tra i capelli cortissimi, di quell’incredibile castano mogano multicolore.
«Mi spieghi una cosa, Slater? Perché ce l’hai con me? Ci siamo incotrati solo tre volte e in tutte tu hai sempre attaccato briga con me, senza alcun motivo. Ora, per cortesia, aiutami a capire.»
Nascose la testa fra le mani e sospirò, curvando le spalle.
Dopo pochi minuti mugugnò qualcosa di incomprensibile.
Mi avvicinai a lui, chiedendogli gentilmente di ripetere.
«Mi dispiace, va bene? Non volevo comportarmi come un troglodita, ti chiedo scusa.»
Una lampadina si accese nella mia mente. Sbattei le palpebre quando una considerazione bizzarra, ma alquanto logica, mi passò per la testa.
«Ehm... Raferty, potrei... chiderti una cosa... personale?»
Vidi le sue spalle irrigidirsi.
Cercai di chiederglielo con più tatto possibile. Aprii e chiusi la bocca, più volte, tentando di far uscire la domanda, ma un attimo prima che la facessi uscire dalle labbra, si bloccava sulla lingua, impedendomi di contiuare.
Raferty alzò lo sguardo e, vedendo la scena, sbuffò. «Sembri letteralmente un pesce fuor d'acqua.»
«Sei gay?»
La tua solita delicatezza, mi rimproverò la vocina dispettosa nella testa.
Vidi Raferty spalancare gli occhi, spaventati e, in un secondo, me lo ritrovai tra capo e collo.
Mi afferrò con forza le spalle, piantandomi le dita nella carne. «Non devi dire niente a nessuno, altrimenti...»
Lo afferrai per un polso e torsi, in un movimento brusco, staccandomelo di dosso. «Mi stai facendo male.» sbottai.
Aveva gli occhi spalancati e respirava affannosamente.
«Non sono il tipo che va a sbandierare ai quattro venti cose come questa. E poi, il fatto che tu sia gay non cambia niente. Sei sempre Raferty Slater, quello che mette paura, quello che fa tremare le mura della scuola con un solo grido, quello che può metterti K.O. dandoti una sberla.» lo informai. «L'unica cosa che cambia è che invece di stare dietro a quelle quattro oche giulive che girano per la scuola, hai un po' più di cervello scegliendo quancuno di più consistente.»
Dopo qualche minuto di silenzio, in cui continuammo a guardarci negli occhi, Raferty abbozzò un sorriso rassegnato.
«Come.»
Scrollai le spalle, lasciandogli il polso. «Quando ti ho sentito pronunciare la parola "troglodita".»
«Che ha di strano?»
«Oh, niente. A parte il fatto che la proninciano solo i secchioni – e non credo che tu lo sia –, le oche giulive piene di sé – e non mi sembri neanche questo – ... e i gay. Sono l'unico tipo di maschio che riesce a pronunciare una parola così difficile senza impappinarsi. Fidati, ne ho le prove.»
Una ricca risata gli scaturì dalle labbra.
Credo che fu quello il momento in cui diventammo amici.
 
*   *   *
 
Quel giorno, sentivo la tensione aleggiare nell'aria ad ogni metro che mi avvicinavo a casa.
Dovevo parlare con papà. Capire, chiarire, fammi spiegare perché tutta la mia vita si era basta su una bugia.
Ma quello di cui avevo più paura non era tanto le risposte che ave va da darmi, ma il rapporto che mi legava con lui. Non volevo che si rovinasse. Volevo bene a mio padre, tanto, e anche se mi aveva detto una bugia... beh, avrei cercato di sorvolare.
Tenevo più al rapporto con mio padre, che lisciare il pelo all'orgoglio.
Arrivata davanti al vialetto di casa, parcheggiai e spensi il motore.
Nel silenzioso abitacolo, il mio sospiro risuonò come un urlo.
Schiccai le dita delle mani – un gesto che facevo per abitudite prima di fare qualcosa di importante – e entrai in casa.
Come al solito, mio padre era stipato nel suo laboratorio. Perciò diedi due colpi ben assestati alla porta per farmi sentire.
Venne ad aprire pochi momenti dopo.
«Che cosa c'è, dolcezza?»
Respirai a fondo e, facendomi coraggio, chiesi: «Possiamo parlare?»



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Grazie Infinite a tutti!!!!

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Capitolo 13
*** Il Momento Della Verità ***


Sy Hill: Eccomi qui con un nuovo capitolo, più lungo per farmi perdonare della lunga attesa. Devo dire però che sono molto delusa: più di 100 persone hanno letto lo scorso capitolo ma solo 4 l'hanno recensito. *Gli occhi di Sy si riempiono di lacrimoni.*
Comunque, voglio ringraziare la mia carissima recensitrice RACHY WILLIAMS, la prima che ha recensito la mia opera e che ogni volta che le leggo mi fa sbelicare dalle risate! Non smettera mai di farlo, non sai quanto mi rendi felice ^_^ (URASHI!!!) Inoltre ringrazio anche TAY98, ALEX04 e ELENA90, per aver recensito lo scorso capitolo.
Grazie infinite a tutti (che mettero alla fine del capitolo.)
LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3



 

CAPITOLO 13
 
Il Momento della Verità

 
Condussi mio padre nella cucina. Doveva aver letto qualcosa dalla mia espressione, perché non aveva fatto domande e era diventato serio.
Decisi che era meglio non girarci intorno, strapparlo come fosse un cerotto.
Non appena papà si sedette a tavola, partii con la prima domanda.
«Papà, come è morta la mamma?»
Sì, lo so. Non era un buon inizio, ma era la cosa che mi premeva di più sapere.
I suoi occhi si spalancarono.» Perché vuoi saperlo?» chiese, la voce leggermente acuta. «Tesoro, ho molto lavoro…»
«Siediti.» gli ordinai, vedendolo alzarsi. Con mia sorpresa, lui obbedì. «Rispondi alla mia domanda. Ogni volta che parliamo di lei, tu te ne scappi nel laboratorio, ma questa volta non sarà così. Non ti permetterò di sviarmi. Voglio delle risposte, anzi, ne ho bisogno.»
Lacrime di rabbia cominciarono a premermi sugli occhi, ma – testarda – le ricacciai indietro. Non era il momento dei piagnistei.
Lo sguardo di mio padre vagava sul mio viso. D’un tratto, si alzò in piedi e cominciò a camminare, nervosamente avanti e indietro, nella cucina.
«Perché, all’improvviso, mi fai questa domanda?»
«Papà, io cerco sempre di parlare della mamma, sei tu che non vuoi mai rispondermi.» sviai.
Meglio sorvolare sui particolari.
«Ma, perché proprio ora?»
«Perché non ora? Ce ne sono stati a bizzeffe ti momenti in cui parlarne, ma non hai mai voluto, non quanto me.»
«Non è che non voglio parlare di lei.» disse, calcando la parola. «È solo…» lasciò andare l’aria trattenuta, sgonfiandosi come un palloncino. «…solo, è complicato e… doloroso.»
«Anche a me fa male. Non ho mai avuto la possibilità di conoscerla… di poterla stringere… di dire davanti agli altri: “ecco questa è mia madre.” Fa male, perché nel petto ho un vuoto che solo lei, o almeno, il suo pensiero più colmare. Ma tu,» lo indicai, «non mi hai mai dato la possibilità di riempirlo. Anche questo fa male, papà.»
Una lacrima solitaria scivolò lungo la mia guancia.
«Oh, Sylence.»
L’abbraccio caldo di papà mi avvolse come una coperta.
«C’è.. un’altra cosa, papà.» esitai.
Lui si scostò per potermi vedere in faccia.» Che cosa?»
Tirai un respiro profondo. «Ho… scoperto una cosa.» Al suo sguardo attento, mi costrinsi a proseguire.» Non so come metterla, ma… ho notato che ogni volta che piango o mi arrabbio, o vengo pervasa da altre emozioni, il tempo – il cielo, le nuvole, il vento – reagiscono.»
Mi inchiodò con gli occhi, piagando leggermente la testa. «Cosa?» mormorò.
Lanciai un’occhiata alle sue spalle. «Che cosa hanno detto oggi al meteo?»
Le sue sopracciglia arrivarono a toccare quasi l’attaccatura dei capelli.
«Rispondi.» lo esortai. «So che lo guardi sempre.»
Mi studiò per qualche secondo, poi si decise a rispondere. «Il meteo ha detto che il tempo sarebbe stato sereno per altre due settimane, con nessuna perturbazione, né piogge.»
Annuii. «Allora cos’è questo ticchettio?»
Vide il mio sguardo rivolto alle sue spalle e lo seguì, fino ad arrivare alla finestra, appannata e bagnata dalle gocce di pioggia che stava ancora cadendo.
Il suo sguardo – pericolosamente serio – ritornò su di me.
Annuii, alla domanda implicita del suo sguardo e, in un gesto eloquente mi asciugai una lacrima appena scesa.
«E c’è un’altra cosa.»
Mi avvicinai al piano di marmo della cucina e, scostando un panno, scoprii il libro trovato in biblioteca.
Glielo mostrai. «Leggilo.»
Titubante, prese il libro e, prima di cominciare a leggerlo, se lo rigirò tra le mani.
«È incomprensibile. Questa non è…»
Le parole gli morirono in gola quando, preso il libro dalle sue mani, lessi il primo paragrafo.
Il suo viso divenne sbiancò visibilmente. Mi strappò il libro dalle mani.
«Dove lo hai preso? Chi te lo ha dato? Perché non me lo hai detto?» sbraitò.
Io rimani impassibile davanti a quella sfuriata. «Tu sai perché riesco a leggere quella lingua, vero? E sai anche perché il tempo cambia a seconda del mio umore. E tutto questo ha a che vedere con la mamma.»
Potevo sentire le rotelle nel cervello di mio padre girare vorticosamente, cercando, in vano, una soluzione per tirarsi fuori da quella situazione. Ma, alla fine, anche lui capì che non c’era soluzione. Avrebbe dovuto spiegare tutto.
Chiuse gli occhi, sospirando, sconfitto.
Annuì. «Hai ragione.» disse, scrollando le spalle, con fare noncurante. Ma non mi ingannava: era rassegnato a spiegare, ma anche agitato. «Hai ragione su tutto.»
Evitò il mio sguardo, posandolo sul libro che stringeva ancora tra le mani.
«Dove lo hai trovato?»
«Nella biblioteca, in centro. L’ho trovato per caso, quando sono andata a prendere i libri che mi avevi chiesto, nel reparto di botanica. Papà,» aggiunsi un momento dopo. «Mi dici una cosa?»
«Dovrei dirtene un sacco.»
«Tu eri sposato con la mamma?»
Lui aspetto qualche secondo per rispondere. «No.»
«Lei era di qui, vero? Era di Lansing City.»
Lui annuii.
«Allora, perché te ne sei andato?»
Papà si passò una mano nei capelli.» È un po’ complicato. Quando conobbi tua madre, avevo appena iniziato gli studi che sto tuttora continuando. Avevo ventitrè anni. In quel periodo, stavo studiando la vegetazione di questa città. Ero nel bosco a nord, quando la incontrai per la prima volta. Mi sembrò che la terra avesse smesso di girare quando guardai i suoi occhi «Così uguali hai tuoi. Era così… eterea, da far male al cuore. Fu, come dire? un colpo di fulmine. Ci innamorammo all’istante l’una dell’altra. Credo che il periodo che ho passato con lei sia stato il più bello della mia vita. E quando seppi che era incinta…» Un sospiro di beatitudine gli uscì dalle labbra, gli occhi brillavano di un amore talmente puro da essere raro.» Riempii la casa di fiori, di qualunque tipo e vedere il suo sorriso mi ripagava sempre.» La sua espressione, illuminata al solo parlare della mamma, si rabbuiò. «Non sapevo che le cose non sarebbero continuate, a partire dal suo rifiuto a volermi sposare.»
Mi guardò.» Se hai letto questo libro – e so che lo hai fatto – credo che tu sappia perché.»
Socchiusi le palpebre. «Lei non poteva restare.» mormorai, ricordando quello che avevo letto.
«Già, ma allora non lo sapevo. Dopo la tua nascita, la vidi deperire a vista d’occhio. Mi faceva male vederla così. E ogni volta che le chiedevo se stesse bene, lei rispondeva di sì.»
Si alzò dalla sedia, girando piano nella cucina. «Nel periodo in cui siamo stati insieme, mi ero accorti di alcune cose, che a quanto pare sei capace di fare anche tu. Quando mi disse quello che era, una LiòsAlfàr, tutti i pezzetti del puzzle andarono al loro posto. Sai, quando se ne andò, scese la neve. Era luglio.»
La sua risata triste mi strinse lo stomaco.
Papà amava sinceramente profondamente la mamma e perderla, o meglio, vederla andar via doveva essere stato un duro colpo per lui.
«Io non mi sono rassegnato, però. Ho cercato in lungo e in largo il Villaggio a cui è tornata, ma non l’ho mai trovato. Lei mi disse che non era “né qui né in altro luogo”.»
«È per questo che cambiamo sempre città? Perché la stai cercando?»
Papà annuì.
«Ma, se lei era di qui, perché andarsene? Perché cercare in un altro luogo?»
«Perché lei non era di qui. Mi spiego: l’ho incontrata qui, ma lei non è mai nata qui. E mi spiegò anche una cosa. Il Villaggio, dove vive la sua gente, ha una specie di sistema di sicurezza, che lo fa spostare costantemente. Questo è uno dei due motivi per cui continuiamo a spostarci.»
«Qual è l’altro?»
«Qualche tempo dopo che tua madre se ne andò, mi arrivò una lettera. Non c’era mittente, solo il mio nome, ma la calligrafia era inconfondibile. Tua madre mi scrisse che le dispiaceva molto doversene andare, ma che era stata costretta a farlo per lo stesso motivo che conosci tu. Si chiedeva se tu stessi bene e che le mancavi terribilmente.
«Poi, le parole iniziarono a diventare urgenti. Mi metteva in guardia da un pericolo, qualcosa al si sopra della semplice forza umana e mi implorava di andarmene, portandoti via. Non appena finii di leggere, la lettera si bruciò.
«Allora  presi una decisione. Avrei continuato a cercarla, ma lontano da questa città. So che la cosa può sembrare una mossa azzardata, ma ho qualcosa su cui fare affidamento: la terra. Vedi, tua madre, al mio compleanno, mi regalò un fiore molto speciale, che cresce solo nelle sue terre. Si chiama Liòs De Lai* , il “Fiore dei Liòs”. La sua composizione…ah, lascia stare, ti basti sapere che è molto diverso da una qualsiasi pianta nata sulla Terra.»
Finalmente, si fermò di fronte a me.
«Perché, non me l’hai detto prima?»
«Perché non c’era motivo. Tu avevi già così tante cose a cui pensare, non per ultima cercare di vivere come ti ho costretta io, spostandoti da un posto all’altro. Credi che non mi sia accorto di come tu ti sia chiusa al mondo, per paura di lasciarti coinvolgere troppo per poi soffrirne, una volta andata via? Mi sento terribilmente in colpa per questo, perché non ho potuto darti l’infanzia e la vita che avresti dovuto avere da adolescente quale sei.» Sospirò.» Potrai mai perdonarmi per averti tenuto nascosto tutto questo?»
«Oh, papà.»
Mi lancia tra le sue braccia. La piaggia, che prima si era fermata, ricominciò a scendere, rispondendo alle mie lacrime.
«Ammetto di essere un po’ arrabbiata, ma posso capire le tue ragioni. Avresti dovuto dirmi che la mamma non era morta – e che sono figlia illegittima –, ma posso capire che, da padre iperprotettivo quale sei, tu abbia deciso di nascondere qualcosa che, allora, non capivo. Comunque… certo che ti perdono. D'altronde sei il mio dirty dad!»
Lui scoppiò a ridere.
Ero felice che la luce fosse tornata sul suo viso.
Quello che mi aveva raccontato papà era la cosa più strana e sconvolgente della mia vita.
Ero una mezz’Elfa, con la capacità di interferire emotivamente con le condizioni climatiche, mio padre che viaggia avanti e indietro per lo Stato per cercare una madre Elfa e scomparsa quando ero in fasce, lasciando a papà un fiore, una lettera e qualcosa di pericoloso alle calcagna.
In più, c’era un gruppo di studenti che era come me, che mi aveva chiesto di entrare nel loro gruppo.
C’era solo una cosa che mancava.
«Papà, come si chiama la mamma?»
La sua espressione si addolcì.
«Il suo nome era Alhbany.»
 
*   *   *
 
Quello stesso pomeriggio, come promesso, tornai a scuola e mi diressi nel giardino con la fontana.
Arrivata, constatai che tutti gli altri erano già lì, disposti cerchio intorno alla fontana e la statua della Regina Bianca già “attiva”.
«Ben tornata, Sylence Hill. Spero che il tempo trascorso di abbia portato consiglio.»
Tutti i membri del cerchio mi salutarono con un “bentornata”, tranne Red, che accennò solo un movimento della testa a mo’ di saluto.
Rispettosa – anche se era una statua – accennai ad un inchino alla Regina.
«Lieta di rivederla, Regina Bianca. Sì, il tempo trascorso mi ha aiutato a prendere una decisione e a scoprire anche qualcosa del mio passato.»
Tirai un respiro profondo e proseguii.
«Voi mi avete chiesto di entrare nel vostro Cerchio e… ho deciso di accettare, ma ad una condizione: che io sia libera di decidere ciò che voglio e che non interferisca con le amicizie che ho già instaurato. Se avete bisogno, basta che me lo diciate. Non voglio far parte di un gruppo esclusivo, voglio solo continuare quest’anno in pace. So che probabilmente, non sarà così, ma voglio che almeno un po’ lo sia.»
In risposta alla mia richiesta, il Cerchio alzò lo sguardo alla statua della Regina Bianca.
Negli occhi dorati di Red, ancora su di me, potevo leggere quello che parve orgoglio e…qualcos’altro.
Sto iniziando ad odiare tutti questi “qualcos’altro”.
Allora, la statua della Regina, mi richiamò all’attenzione.
«Quello che chiedi è accettabile. Giudico le tue scelte molto sentite e comprensibili, benché tanti avvenimenti si prospettano all’orizzonte. Ma credo che tu abbia la forza per poterle affrontare. Nervi saldi e intuizione sono elementi che possiedi e che ti saranno molto utili in futuro. Re.»
«Vieni avanti, Sylence Hill. È il momento di Assegnarti con il tuo vero Nome.»




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GRAZIE A TUTTI!!!

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Capitolo 14
*** Il Nome ***


Sy Hill: Allora, parto dicendo che sono estremamente felice delle recensioni che ho ricevuto. A quanto pare, questa mia FF sta avendo molto successo è questo lo devo a tutti quelli che mi hanno fatto l'onore di leggerla.
Voglio ringraziare - ovviamente - RACHY WILLIAMS per la sua solita recensione e dico "solita" perché come sempre mi ha fatto sbellicare dalle risate!!! TI ADORO RAGAZZA. Inoltre voglio ringraziare ELENA90, THEPOISONOFPRIMULA, LITTLE ANGEL, BINCA, LUCI94, SCARLETT96, MARTHIAGOJAZNACHO e HOONEY per aver recensito lo scorso capitolo.
VI RINGRAZIO INFINITAMENTE!!!
Concludo dicendo che gli asterischi saranno chiariti alla fine del capitolo.
LEGGETE E RECENSITE,
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3

 
CAPITOLO 14

Il Nome


Sentire quelle parole mi riempì di aspettative. Ero un po’ nervosa, ma, respirando a fondo, riuscii a calmarmi.
Lentamente, mi avvicinai al Cerchio, con gli occhi amorevoli della Regina Bianca su di me. Mi sentii riempire di nuovo di quella sensazione di calore materno che tanto desideravo.
«Prima che iniziate, mi spiegare una cosa?»
Jake inarcò un sopracciglio. «Dimmi.»
«Come è possibile che nessuno vi abbia mai visto o sentito?»
«Posso spiegartelo, ma dopo.»
Sospirai. «Come vuoi.» Raddrizzai le spalle in una posa determinata. «Cosa devo fare?»
«Entra nella fontana.»
Sbattei la palpebre, sicura di aver sbagliato a capire. «Cosa?»
In un solo movimento, Jake si spostò verso sinistra e indicò la fontana, dalla quale – incredibilmente – cominciarono a formarsi degli scalini al piedistallo.
«Togli le scarpe ed entra nella fontana.» ripeté.
Allora non ho sbagliato a capire. Non so perché mi sorprendo ancora. Già vedere una statua che parla è di per sé strano.
Mi rimboccai mentalmente le maniche e, decisa ad andare fino in fondo a quella faccenda, mi tolsi le converse e i calzini e mi diressi alla fontana.
Rabbrividì al primo contatto dei piedi nudi sulla fredda pietra. Mi sentivo alquanto stupida, mentre vi salivo e mi bagnavo le gambe del jeans.
«E ora?» chiesi a Jake.
«Adesso tocca a noi.»
Richiudendo di nuovo il Cerchio, Jake immerse una mano nell’acqua imitato dagli altri.
All’improvviso, l’acqua fredda diventò calda.
«Per il Consenso ricevuto, Sylence Hill, figlia di Xander Hill, verrà Assegnata al vostro Cerchio di Potere. Per il Consenso ricevuto, riceverà il Nwyeh Nime*, il suo “Nuovo Nome”.»
Allora, l’acqua calda si illuminò. Tanti spirali d’acqua quanti i membri del Cerchio si formarono in corrispondenza delle loro mani. Mi avvolsero da capo a piedi, rinchiudendomi in un bozzolo.
Era come essere rannicchiata sotto le coperte in una fredda giornata d’inverno. Riuscivo a vedere, in un riflesso acquoso, tutto quello che c’era fuori: le sagome ondeggianti del Cerchio, quello degli alberi e delle statue del cortile.
Tante piccole gocce incominciarono a staccarsi dal guscio e penetrarono nella mia pelle, senza far male, in una carezza calda e bagnata.
Fu strano, ma ogni volta che venivo toccata, mi sembrava che un pezzetto di ognuno di loro si unisse a me.
Ad ogni goccia, nel bozzolo d’acqua si apriva un varco da cui potevo vedere l’esterno.
Quando anche l’ultima particella d’acqua si unì al mio corpo, il guscio era ormai svito.
Mi sentivo benissimo, come se fossi una pila sotto carica da tre giorni: mi sentivo piena di energia.
Gli occhi del Cerchio erano fissi su di me, brillante come fari nella notte. Cercai e trovai quelli che – inconsciamente – desideravo vedere più di tutti.
Le pozze dorate di Red erano posati su di me in una luce possessiva che mi fece rabbrividire.
«La cerimonia di Acquisizione ha avuto luogo.»
Alla voce della Regina Bianca, mi volta verso la statua alle mie spalle.
«Il tuo Nweyh Nime è The Key, La Chiave.»
Nel momento in cui pronunciò quel nome, sentii che l’energia che si era accumulata esplodeva in mille frammenti, spargendosi nell’aria fino a saturarla.
Ero avvolta dalla magia. Una magia talmente limpida e pura da eguagliare il cuore di un bambino appena nato.
Il cielo, a mia insaputa, si era ammantato si nuvole bianche e grigie e saette luminose spargevano il loro potere bersagliando la terra, facendola tremare.
Nella mia testa, sentii riecheggiare delle voci, antiche e senza tempo, cantilenavano una nenia, come bambini che girano in tondo e si accompagnano cantando un’allegra filastrocca.
Quando riaprii gli occhi – che non sapevo di aver chiuso – mi ritrovai sospesa in aria. Una vortice di vento, gentile ma abbastanza forte da tenermi, che vorticava intorno al mio corpo mentre gli altri mie guardavano ad occhi spalancati..
Ne dedussi che non doveva essere una cosa normale.
Non sapendo come fare a scendere, feci la prima cosa che mi venne in mente. Ordinai al vento di riportarmi piano a terra.
Funzionò.
Atterrai dietro Jake e mi accasciai al suo: le gambe non mi ressero. Scossi leggermente al testa per schiarirmi le idee e mi girai verso la Regina.
Lei mi guardava con occhi saggi e materni.
«Akkharebhé**, Figlia Mia.»

* * *

Finita la “cerimonia”, anche gli altri vennero a darmi il benvenuto, e caloroso anche.
E dire che, fino ad una paio di giorni fa, non conoscevo nessuno di loro.
Le gemelle mi diedero all’unisono un bacio sulle guance, una a destra e una a sinistra, Rafe, per mantenere il suo status di “bullo”, di diede una pacca talmente energetica sulla spalla da farmi inciampare in avanti.
Jake, regale come sempre, mi strinse la mano e mi regalò un sorriso solare.
Sebastian mi abbracciò e mi augurò un “benvenuta in squadra”.
Rae-Mary – non tanto ben disposta verso me, chissà perché – si aggiustò gli occhiali e pronunciò un saluto fiacco.
Incominciamo bene.
E lui…
Red non si mosse da dov’era, appoggiato al muro alle mie spalle, guardava la scena senza pronunciarsi.
Quando mi decisi a rimettermi le scarpe, mi accorsi che né il jeans né qualsiasi altra parte di me era bagnata.
«Sei stata bagnata da energia magica, che ha la stessa consistenza dell’acqua. Per questo non sei bagnata.»
Mi giravi verso Jake, puntandogli contro un dito. «Tu mi fai paura. Come diamine fai a sapere quello che penso prima che anche io lo abbia pensato?!»
Lui rise. «Perché ci sono passato per primo.»
«Ah.» mi limitai a dire, per arginare la figuraccia. «A proposito: la mia risposta? Come fate a far tutto senza che nessuno vi becchi?»
«Ah, sì. È merito delle gemelle e di Rafe.»
«So che Rafe ha il potere della suggestione,» dissi, fissando il diretto interessato. «Ma le gemelle?»
«Monika e Annika,» indicò prima quella a destra poi quella a sinistra . «Sono delle illusioniste.» mi rivelò lui.
La mia testa scattò verso loro. «Cosa?!»
Loro scrollarono le spalle. «Possiamo creare dei campi di illusione intorno a noi.» m’informò quella a destra, Monika.
«Possiamo far credere a chi guarda che qui non c’è nessuno.» s’inserì l’altra, Annika, mostrandomi le loro mani unite.
«Ora capisco. Da quello che mi ha detto Chris, tutto quello che dicevate era sempre stato segreto. Beh, ora ne capisco il motivo. E immagino che, se qualcosa dovesse trapelare, Rafe interverrebbe con la sua “suggestione”.»
«Esatto. Ora, ti conviene andare a casa a riposare.»
«Riposare?! Non sono mai stata tanto piena di energia come ora!» protestai.
«Adesso. Una volta arrivata a casa, sarai talmente scombussolata da non ricordare nemmeno il tuo nome.»
«Ora, però, so qual è il mio nome.»
Nella testa mi si accese una lampadina, accompagnata da un ghigno birichino.
«Che c’è?» chiesero le gemelle.
Ridacchiai. «C’è una cosa che voglio fare.» dissi, scambiando un’occhiata con Rafe.
Mi avvicinai alla fontana, poggiai una mano sul bordo di pietra e immersi la destra nell’acqua. Tracciai il cerchio accanto alla mia mano e proclamai a gran voce il mio nome.
«The Key, La Chiave.»
Quando il cerchio s’illuminò, lanciai un urlo e feci un salto, alzando le braccia in segno di vittoria. La luce si spense.
«Oh, perché si è spenta?!»
La risata fu generale. «Non devi togliere le mani dalla pietra.» m’informò Sebastian.
A vederci così, non si sarebbe mai detto che ci conoscevamo da solo una settimana. Mi sentivo come se li conoscessi da sempre ed era una bella sensazione, soprattutto per una persona come me, che non ha tempo di instaurare legami permanenti perché su novantanove probabilità su cento poi deve andarsene dal luogo in cui le ha costruite.
Pensare – ingannevolmente – che avrei avuto tempo, molto tempo per godermi quella nuova amicizia mi faceva sentire bene.
«Ragazzi, poteri chiedervi una cosa?» chiesi.
Gli altri annuirono. Mi girai verso Jake.
«So che hai dei problemi con Red, che tutti voi avete un problema con lui. Io sono l’ultima arrivata e, francamente, non ne voglio sapere. Ma, in questa occasione, potrei chiedere un regalo di benvenuto? Potresti appianare le cose con lui? Giusto il tempo di ambientarmi in questa nuova situazione. Poi, potrai fare tutto quello che vuoi. Il motivo per cui avete litigato è un vostro problema, ma vi chiedo gentilmente di accantonarlo. Solo per un po’.»
Ci fu uno scambio di sguardi tra i membro del gruppo e, poi, un sospiro rassegnato da parte di Jake.
«Come vuoi. Ti daremo il tempo di ambientarti e fare la nostra conoscenza, ti aiuteremo a controllare i tuoi talenti… e lo faremo tutti insieme.»
Lo ringraziai chinando il capo. «Ti ringrazio.»
«Ragazzi, credo sia ora di tornare a casa.» ci informò Rafe.» Sono quasi le sette.»
«Wow! Io devo tornare a casa a preparare la cena!» esclamai, andando a prendere la tracolla.
«Ti conviene prendere qualcosa per la strada. Non credo che sarai in grado di fare qualcosa questa sera.» se la ridacchiò Jake.
«Ma, perché?»
«Diciamo che è una controindicazione.» Scollò le spalle.» Se prendi troppa energia e poi la ributti fuori, beh, nel giro di mezz’ora ti sentirai svuotata.»
«Oh, bene.» ironizzai.
Quando mi misi tracolla, questa rimbalzò sulla coscia e il paso al suo interno mi diede una botta.
«Ahi! Diamine, mi ero dimenticata di averlo portato!»
Tirai fuori dalla sacca il libro dei LiòsAlfàr e lo posi a Jake.
«Leggilo. È da qui che ho preso le informazioni che mi servivano. Non l’ho finito di leggere, però.»
Lui prese libro e, girando un paio di pagine, constatò sorpreso: «Ma è incomprensibile. È scritto nell’Antica Lingua.» rivelò.
«Ma io l’ho letto.»
Lui inarcò un sopracciglio. «Sai leggere l’Antico?»
Lo chiese come se non ci credesse.
Allora, gli strappai il libro di mano, girai le pagine ripresi a leggere da dove mi ero interrotta.

“Questa Creatura senz’Anima né Cuore, vagherebbe libera per il Mondo Terreno, cercando, disperatamente, un Luogo in cui attingere quella Vita che ha perso. Darebbe la caccia a ogni Essere Vivente, per poi strappagli, con la Forza, la sua Essenza.”

Chiusi il libro con un tonfo, mettendolo, deliberatamente, sotto il naso di Jake.
«Vuoi continuare tu?»
Restò parecchi secondi a fissarmi, facendomi innervosire. Odio essere fissata.
«Tu sai leggero.»
Impostai le labbra un una “O” perfetta e vi portai una mano al petto.
«No! Davvero? Non me n’ero accorta! Credevo di star leggendo il serpentese!»
Lui fece una smorfia di rimprovero, a cui risposi con una scrollata di spalle.
«Tornatene a casa, svampita.»
«Stavo giusto per farlo, prima che il Signor-so-tutto-io si dimostrasse scettico riguardo alla mia capacità di leggere la Lungua Antica o come si chiama.»
«Bene ragazzi, ci incontriamo domani a scuola, pausa pranzo...»
«Non battere sull'orologio. È una cosa alquanto snervante.» pervenii.
«Sei la tipa più svampita che abbia mai incontrato,» protestò allargando le braccia. «Ed è un complimento.»
«E tu sei il tipo più autoritario che io abbia mai incontrato e ti garantisco che non è un complimento.»
È tremendamente divertente prenderlo in giro.
«Beh, io me ne torno a casa. Non so voi, ma inizio a sentirmi terribilmente assonnata.»
«Non devi guidare.» ordinò Jake.
Alzai un sopracciglio. «Perché?» chiesi, odiando l'ordine.
«Perché è la controindicazione. Anche a Rafe è capitato e abbiamo divuto chiamare un carrattrezzi.»
«L'accompagno io.»
Quella voce calda e un po' roca mi fece rabbrividire. Mi girai verso Red, Quelle erano le prime parole che pronunciava da quando era venuta.
«Bene,» sentii dire a Jake, ma di sfuggita: ero troppo impegnata a perdermi nello sguardo dorato di Red, come lui, d'altronde.
«A domani, allora.»
Nelle vicinanze del cervello, percepii che gli altri se ne stavano andando.
Il venticello del pomeriggio si era rinfrescato, causandomi, a minimo contatto, una leggera pelle d'oca.
Red accennò con la testa al parcheggio della scuola.
«Vieni, ti accompagno.» disse e mi pose una mano.


*Quella scrittura l'ho inventata io e si legge: nuie naim
** Anche questo l'ho inventati e si leggere come sta scritto ponendo un accento sulla "e" finale. E significa "Benrinata" e non bentornata, come pensano gli altri.
Spero vi sia piaciuto. Il prossimo avrà uno sfondo più romance. Non perdetelo.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3

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Capitolo 15
*** Interludio ***


Sy Hill: Ecchime con un nuovo fantastico capitolo, per la gioia delle mie LETTRICI!!!!
Senza dilungarmi troppo voglio ringraziare - ovviamente - la mia fantastiaca recensitrice RACHY WILLIAMS! E LITTLE ANGEL, TAY98, MARTHIAGOJAZNACHO, MARZO2000 ed ELENA90 per aver recensito lo scorso capitolo.
GRAZIE INFINITE A TUTTI VUOI CHE RECENSITE E SOPRATTUTO A VOI CHE LEGGETE!!!
LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3





CAPITOLO 15

Interludio



Con la mano calda, stretta – tra quella di Red, mi lasciai guidare fino alla sua auto/bestia.
«Ancora non l’hai cambiata? Credevo che ti avessero arrestato per possesso illegale di animale feroce.»
Lui ridacchiò ma non rispose.
Galante – ruffiano – mi aprì lo sportello dell’auto.
L’interno non era niente male, esattamente come mi ero immaginata. Tutto intonato al color panna, compreso il tessuto elastico che copriva il volante.
«Ma tu guarda che bel giocattolino.» gli dissi.
Invece di salire, rimase appoggiato allo sportello aperto.
«Come ti senti?»
Piegai la testa di lato. «Bene, anche se inizio a sentirmi alquanto confusa. Ma non sono ancora nella fase peggiore. Te ne accorgeresti.»
Visto che non aveva intenzione muoversi, spostai le gambe, mettendole penzoloni al lato del sedile.
«Allora… perché ti hanno dato quel nome?» chiesi.
«Perché ti hanno dato il tuo?»
Alzai gli occhi al cielo. Sempre la stessa storia.
«Non ne ho idea. Forse, per le mie capacità. Ho… la chiave… per aprire la porta degli elementi. A proposito… qual è il tuo talento?»
Lui scrollò le spalle, noncurante. «Posso controllare il Fuoco.»
Sgranai gli occhi. «Cosa?!»
Stavolta fu lui ad alzare gli occhi al cielo. Si avvicinò a me, schiuse le mani a coppa e vi soffiò dentro. Quando le riaprì in mezzo hai palmi ondeggiava un piccola fiamma azzurra.
«Toccala.»
Sollevai gli occhi nei suoi. Non c’era sfida, solo aspettativa.
Allora, alzai una mano e sfiorai la punta della fiamma.
«È fredda.» esclamai, incredula, guardandolo. «Come…»
«Posso regolare la temperatura, decidere se farla bruciare o meno. Per questo è azzurra. Guarda.»
Si concentrò sulla fiamma e questa da blu divenne arancio acceso.
«Passaci sopra la mano, ma non toccarla.» mi avvisò.
Quando feci quanto chiesto, una voluta calda mi accarezzò il palmo.
«Incredibile.» sussurrai. «Quando l’hai scoperto?» chiesi continuando a giocare con la fiamma.
«Quando avevo dodici, tredici anni. Ho quasi bruciato il giardino dietro casa. Ero arrabbiato e camminavo avanti e indietro, stringendo tra le mani un pallone da basket. E, prima che me ne rendessi conto, si era sciolto tra le mie mani.»
«Forse… riesco a capire perché ti hanno dato quel nome.» dissi, fissando la fiammella nelle sue mani. Brillava quasi quanto i suoi occhi.
«Davvero?»
Sollevai una mano e feci scudo alla fiamma sul lato destro. «Se la fiamma si trova in uno spazio aperto, produce la luce e illumina quello che la circonda. Ma, se c’è qualcosa posto accanto alla fiamma, questa proietta la sua ombra alle sue spalle. Credo sia per questo che la Regina ti ha dato questo nome. E… credo anche per il tuo carattere.» aggiunsi, sollevando gli occhi ad incontrare i suoi. «Tu sei... impenetrabile. Puoi mostrarti in un modo davanti alle persone, ma sappiamo tutti e due che non sei veramente tu. Cambi continuamente, muti forma e aspetto… proprio come un’ombra. E, esattamente come una fiamma fa cambiare i contorni e la grandezza di un’ombra, così tu cambi e ti trasformi in qualcun’altro a seconda delle persone e del contesto. Non si sa mai quale sia il vero te.»
La mia mano, appoggiata sulle sue si riscaldò del calore della fiamma e del suo corpo. Vedevo i suoi occhi dorati vagare sul mio viso, esattamente come stavano facendo i miei con il suo.
Credo di aver imparato a memoria ogni suo singolo tratto.
La fronte increspata coperta da ciuffi corvini dai riflessi azzurri, l’arco armonico delle sopracciglia altrettanto scure, gli occhi come oro liquido contornati da un ventaglio di nere e folte ciglia, che sfioravano gli zigomi alti e casellati, il naso esotico e leggermente all’insù, le labbra carnose e rosee e la linea forte della mascella.
Persa in un mondo di soli istinti, mi mossi prima di rendermi conto dei averlo fatto.
Portai la mano dietro al suo collo, accarezzandoli con la punta delle dita, giocando Con i capelli. Sentii le sue mani posarsi sui miei fianchi e il suo corpo farsi spazio tra le mie ginocchia.
Strinsi la presa, avvicinando il suo volto al mio, affondando l’altra mano nei sui serici capelli, scompigliandoli.
Sembrava che leggessimo l’uno la mente dell’altro: sapevo in anticipo quali sarebbero stati i suoi movimenti e agivo di conseguenza.
Avvicinò il volto al mio e – giocando d’anticipo – piegai il collo. Lui vi affondò il naso. Lo sentii aspirare con voluttà, mentre il suo respiro caldo mi accarezzava la clavicola.
Una carezza gentile mi sfiorò in quel punto: un bacio sussurrato sulla pelle, che mi fece rabbrividire.
La sue labbra percorsero la linea della mia mandibola, mentre una mano stringeva nervosa il fianco e l’altra si arrotolava tra le dita i miei capelli.
Quando sentii il suo respiro sul mento, decisi di volere di più.
Spostai di pochi centimetri lontano da me il suo viso e, piegando leggermente il mio, unii le nostre bocche.
Quel delizioso sapore di arancia e zucchero mi riempì il palato, suscitandomi un gemito di piacere, quando le nostre lingue si intrecciarono in una danza che mi diede i brividi.
Strinsi le mie ginocchia intorno ai suoi fianchi, intrecciando le caviglie dietro la sua schiena, completamente persa in quel bacio squisito.
Per pochi secondi, Red lasciò le mie labbra, leccando le sue.
Accennò ad un sorriso soddisfatto. «Cannella e ciliegie.»
Sorridendo, maliziosa, mordicchiai il suo labbro inferiore. «Zucchero e arancia.» gli sussurrai sulle labbra. «L’ho sentito il primo giorno di scuola. Mi è piaciuto subito.»
Le sue pupille, già dilatate, si allargarono ancora di più, lasciando solo due anelli dorati.
Si avventò ancora sulle mie labbra, invadendomi con la sua lingua, accarezzando la mia con movimenti che mi sciolsero.
La mano sul fianco si spostò sulla schiena, scivolando su fino al collo e tornando giù ad arrivare alla curva delle natiche.
Intanto, le mie stringevano le sue spalle, per poi spostarsi sulla schiena e graffiare leggermente quei muscoli guizzanti e caldi.
Oramai a corto d’aria, lasciai le sue labbra, dopo averle lambite, e ansante poggiai la fronte sulla sua guancia.
E non ero l’unica a soffrire di asma in quel momento.
Il petto di Red si alzava e abbassava come se avesse corso la maratona.
Mi accarezzava dolcemente i capelli, come a calmarmi.
Leggermente scombussolata da quell’interludio davvero… come definirlo? Esaltante? Eccitante? Inebriante? Splendido? O tutte le cose insieme?, mi lasciai cullare.
Fu allora che la cosa che temevo di più accadde di nuovo.
«No!» esclamai prima di finire inghiottita nel vuoto.

* * *

Quando riaprii gli occhi, incontrai lo sguardo preoccupato di Red, che mi accarezzava le guance.
«Sylence! Dio, mi hai fatto prendere un colpo.»
Strinsi forte gli occhi, prima di riaprirli. Eravamo dell’auto di Red, io stesa sul sedile completamente reclinato del passeggero, lui seduto sul sedile posteriore.
Al pensiero della nuova visione, mi passai una mano tremante sul viso.
«Che cosa hai visto?»
Incontrai il suo sguardo determinato e, per una volta, decisi di vuotare il sacco.
«Te.»
I suoi occhi si socchiusero.
«Ho visto te.» ripetei con voce roca e flebile. «Chiuso… in un luogo buio. Lo stesso posto dell’ultima volta.» Chiusi gli occhi e richiamai alla mente la visione.

Plic. Plic.
Gocce che cadono.
Lamenti lugubri che risuonano nell’aria.
Un respiro ansante e spezzato.
Occhi dorati che guardano attraverso i capelli bagnati di sudore e sangue.
Fissano, pieni di rancore la figura davanti a loro.
«Il padrone è contento.» disse la voce della figura, aspra e raspante.
Il prigioniero agita le braccia. Vuole liberarsi per far pagare a quel maledetto mostro quello che ha fatto a lui.
«Non puoi.» cantilena l’altro. «Quelle catene sono fatte apposta per tenere prigioniero uno come te.» Lo indicò con un dito ossuto, grigiastro e sporco del sangue del prigioniero.
L’incatenato non parla. Ma ringhia come una belva, rivendica il suo diritto ad uccidere il suo aguzzino.
«Non verrai liberato prima del suo arrivo. Chissà cosa ti succederà allora.»
La risata beffarda e dura del carceriere risuona nelle orecchie del prigioniero.
Alla chiusura della porta, questi sogghigna.
Il solo pensiero che quella persona sia in salvo gli da la forza per continuare a combattere.
Se fosse successo qualcosa a lei…
Allontana il pensiero, pregustando il momento in cui sarebbe stato libero di restituire il favore a quell’essere immondo…
Abbassa il capo e sospira vedendo il suo corpo completamente devastato dalle frustate e dalle altre torture.
Per fortuna era resistente…

Il silenzio dell’abitacolo diventava pesante di secondo in secondo.
«Non è la prima volta che vedo te. È successo anche la prima volta che abbiamo parlato, nel giardino.»
Gli raccontai anche di quella volta.
«Quella fu solo un’immagine fugace, niente a che vedere con le ultime due.»
Ormai non potevo fare finta di niente. Anche se ora sapevo di essere una mezz’Elfo, avevo creduto lo stesso che le visioni fossero state anomalie, ma arrivate al quel punto, dovevo accettare il fatto che, ogni volta che instauravo un contatto emotivo con Red, venivo sommersa da una visione.
«Questa volta è arrivata in ritardo.»
Mi alzai a sedere e mi voltai verso lui, che mi guardava con uno sguardo imperscrutabile.
«Quando l’ho avuta nella panetteria, è arrivata pochi secondi dopo averti baciato.»
Incredibile, ma vero, arrossii.
«Adesso, invece… è arrivata dopo.»
Chiusi un momento gli occhi, sfregandomi con una mano i muscoli del collo, tentando si rilassarli.
La mani di Red mi circondò una guancia.
Aprii gli occhi e incontrai i suoi. «Ti riporto a casa. Ma domani, parleremo con la Regina Bianca. Forse lei può dirci qualcosa su queste tue visioni.»
Sbattei le ciglia ricordando, in quel momento, un’altra cosa.
«Cosa hai visto tu?» gli domandai.
Di colpo, i suoi occhi si fecero vacui.
«Niente.»
Socchiusi gli occhi. Sta mentendo.
Mi arrabbiai. Perché doveva nascondermi qualcosa, visto che io gli aveva raccontato tutto?
Scostai bruscamente con il dorso della mia mano, quella che teneva ancora sulla mia guancia.
«Portami a casa. Credo che il momento “controindicazione” sia arrivato.» mentii, chiudendo gli occhi.
Lo sentii scendere e salire accanto a me. Sbircia da un occhio socchiuso: aveva la mascella serrata che gli faceva guizzare nervosamente il muscolo della guancia.
Peggio per lui. Perché mi nascondeva le cose?
Non avevo proprio voglia di litigare, tanto più che se lo avessi fatto saremmo sembrati una coppia di fidanzatini e non era proprio il caso.
Red non era il mio ragazzo e non lo sarebbe stato. Non avevo intenzione di imbarcarmi in un relazione che prima o poi sarebbe finita.
Era una visione pessimista, ma anche realistica.
Però…
Ripensare a quel bacio mi faceva arrossire come un peperone. Non mi ero mai comportata così sfacciatamente. Certo, ero un tipo diretto e anticonformista, oltre ad avere la brutta abitudine di cacciarmi nelle situazione più assurde.
Ma non ero mai stata così. Venivo afferrata da una irrazionale timidezza pensando a come lo avevo attirato a me.
Certo, lui non è stato da meno.
Soprappensiero, mi leccai le labbra, sentendo ancora una leggera traccia del suo sapore.
Sospirai. Quella situazione stava diventato sempre più complicata

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Capitolo 16
*** Visite a Colazione ***


Sy Hill: Bentornati cari lettori nel mio antro.*Tuoni fulmini e saette rimbombano nell'aria.*
*Ehm, ehm,* tonando seri... Eccomi tornata con un nuovo capitolo.
Come al solito voglio ringraziare la mia straordinaria recensitrice RACHY WILLIAMS: tesoro tu sei caduta dalla sedia, ma io ho sfagliato mezzo letto alla lettura del tuo commento. GRAZIE PER ESSERE TE!!!
Come sempre voglio ringraziare anche i recensitori/trici dello scorso capitolo: XXSTELLINA92XX, BINCA, ELENA90, TAY98, MARTHIAGOJAZNACHO E LITTLE ANGEL. Non sapete quasnto significhi per me quello che voi scriviete e quanto sia importante.
GRAZIE INFINITAMENTE.
Inoltre voglio ringraziare anche chi ma messo la mia FF nei PREFERITI e nelle STORIE DA RICORDARE. Siete troppo da poter scrivere, ma ringrazio comunque ognuno di voi.
Come al solito: LEGGETE E RECENSITE!
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3


P.S.: Alla fine del capitolo troverete l'immagine di quello segnato con l'asterisco. XD


CAPITOLO 16

Visite a Colazione



Drin. Drin.
Fiaccamente aprii gli occhi e diedi una manata alla sveglia. Mi ero dimenticata di disattivarla.
Fantastico. Era sabato e ed ero già sveglia alle sette e mezza di mattina.
Stropicciandomi gli occhi, mi alzai a sedere. Sarebbe stato inutile rimettermi a dormire, tanto non ci sarei riuscita. Io ero il tipo che quando apriva gli occhi la mattina poi non riusciva più a chiuderli fino a sera.
Infilate le mie babbucce peluchose con il muso da gatto, mi alzai da letto, stiracchiandomi ben bene.
Andai in cucina e, passando davanti al laboratorio di papà mi accorsi che era socchiusa. Vista la privacy di mio padre, preferii non entrare, ma quello voleva dire che stava ancora dormendo.
Andai alla seconda porta a destra del corridoio e la aprii.
Soffocai una risata quando vidi in che modo stava dormendo.
Finirà per cadere dal letto.
Aveva la testa appesa di lato, tra il materasso e il comodino, il piedi destro che penzolava dalla sponda del letto e la gamba sinistra stesa in tutta la sua lunghezza su tutto il lato sinistro del materasso. Inoltre, un braccio era comodamente poggiato sul petto e l’altro era appeso e toccava il pavimento davanti al comò.
Decisi di lasciarlo dormire un altro po’, intanto avrei preparato la colazione.
Lasciando la porta aperta, mi diressi in cucina e perquisii i mobili.
Per fortuna, papà si era ricordato di fare la spesa, per cui optai per una colazione all’americana.
Preparati tutti gli ingredienti per preparare i pancake, tirai fuori dal frigo tre uova e una busta di pancetta.
In quarantacinque minuti una colazione coi fiocchi era pronta da mangiare.
Misi tutto sulla tavola. Le frittelle dorate con un ricciolo di burro e una bevuta di sciroppo d’acero, un piatto con uova strapazzate e bacon croccante e riempii due bicchieri di spremuta d’arancia.
Mi complimentai con me stessa. Mi merito cinque stelle Michelin.
L’unica cosa che mancava era un vaso con i fiori.
Piegai la testa di lato, pensierosa. Che ne fossi capace?
Spostai lo sguardo sul davanzale della finestra della cucina, concentrandomi sul fiore appassito che pendeva dal vaso.
Se ero capace di controllare il vento, perché non provare anche con la terra?
Solo, come fare?
Mi avvicinai alla pianta, trascinando una sedia per sedermi.
Forse, se ordinavo alla pianta di crescere, come avevo fatto con il vento il giorno prima, avrebbe funzionato?
«Cresci.»
Non accadde niente. Feci una smorfia.
«Fiorisci?»
Ancora niente.
«Fai qualcosa.»
Non ottenendo alcuna reazione, sospirai.
Forse con le piante non me la cavo bene come con i fulmini.
Accesi la radio sulla mensola lì accanto. Trasmettevano la mia canzone preferita.


Just shoot for the stars
If it feels right
Then aim for my heart
If you feel like
Can take me away, and make it okay
I swear I'll behave



Io canticchiavo la canzone, seguendo le parole e ballando come un’idiota.


Don't even try to control you
Look into my eyes and I'll own you
You with the moves like Jagger
I got the moves like Jagger
I got the moves...like Jagger



Alla fine della canzone avevo i capelli sconvolti e un mestolo in mano a mo’ di microfono.
Diedi un’occhiata all’orologio accanto alla radio e lo sguardo mi cadde sul vaso.
Il fiore era fiorito.
Con un gesto del braccio, lo mandai a quel paese, sbuffando.
Alzando gli occhi al cielo, andai a chiamare mio padre.
Era ancora nella stessa posizione in cui lo avevo lasciato.
Ormai, presa dall’euforia del momento, mi gettai a peso morto su di lui.
«Onfh!» esclamò quando gli atterrai sul petto. «Dolcezza, non ha più cinque anni: sei cresciuta di parecchi centimetri e sei aumentata di peso.»
Ormai soffocata dalle risate, non riuscii a rispondere.
«Ah, sì! Vendetta!»
Si avventò contro di me, o meglio, sui miei fianchi e prese a farmi il solletico.
«Allora? Come ci si sente ad essere i più deboli?» disse.
«Basta! Basta, mi arrendo! Mi arrendo!» ansimai, contorcendomi per fuggire alla sua tortura.
Lui annusò l’aria. «Cos’è questo profumino?!»
«Oh, credo che la vicina abbia fatto le frittelle e le uova e il bacon. Insomma una colazione coi fiocchi.» dissi, simulando indifferenza.
Quasi gli usciva la bava dalla bocca, come un cane dei cartoni animati con una bistecca. Mio padre adorava il cibo. Mangiava di tutto e di più, quando si ricordava che esisteva il cibo. Mi chiedevo dove andasse a finire.
Mi alzai dal letto, ma non prima di avergli tirato una cucinata da fargli uscire il cervello dall’orecchio.
«Alzati, pelandrone. Sei stravaccato nel letto da un sacco di tempo. È ora di alzarsi.»
In quel momento, il suo stomaco prese a protestare, fortemente.
Gli scoccai l’“occhiata”, quella che gli riservavo ogni volta che si dimenticava di mangiare, quella tra l’esasperato, il seccato e il minaccioso, con un sopracciglio inarcato e le braccia incrociate.
«Ieri sera ti sei dimenticato di mangiare, vero?»
«Sai come succede. Me ne dimentico sempre.» Il suo sorriso luminoso non mi sfiorò neanche.
Sospirai, lasciando ricadere le mani penzoloni.
«Ti aspetto in cucina.»
Uscii dalla sua stanza, chiudendo la porta e mi fiondai nella cucina. Feci spazio al centro del tavolo e presi il vaso con il fiore – una gerbera rossa – e ve lo misi.
Sentendo i passi di mio padre nel corridoio, aprii il frigo e finsi di guardarci dentro.
I passi si interruppero.
Aspettai pochi secondi poi, chiusi la portiera e mi girai a guardarlo.
Quasi mi vennero le lacrime agli occhi nel vedere la sua espressione: un misto di amore e tenerezza, misti ad orgoglio paterno.
Mi mordicchiai nervosamente il polpastrello del pollice, aspettando che mi guardasse.
I suoi occhi scuri, increspati agli angoli da righe di espressione che lo rendevano ancora più bello, si posarono su di me.
Allargò le braccia e io mi ci lancia dentro.
«Ti voglio tanto bene, piccolina.»
Anche io gli volevo tanto bene. Era la mia colonna portante, l’unico che conoscesse la mia parte vulnerabile, l’unica persona a cui avevo dato tutto il mio cuore. Era mio padre e gli volevo un mondo di bene.
«Dai, mangiamo, prima che si freddi.» dissi, sciogliendomi dal suo abbraccio da orso.» Ho passato tutta la mattina a cucinare, non voglio che il lavoro vada sprecato.»
Non se lo fece ripetere due volte. Si sedette a tavola e incominciò a divorare tutto quello che aveva davanti con gusto.
«Mhm!» esclamò, buttando in bocca un pezzo di frittella. «Fai le migliori frittelle del mondo!»
«Sì, ma non ingozzarti in quel modo altrimenti…»
Battendosi furiosamente sul petto massiccio, afferrò il bicchiere pieno di spremuta e ne ingoiò metà, sospirando pesantemente quando lo posò.
«Mi stavo strozzando.» disse a fatica.
Mi schiaffai una mano in faccia. «Come non detto.»

* * *

Erano passate le dieci quando sentii suonare il campanello.
Posai il libro che stavo leggendo sul letto della mia stanza e mi affacciai alla finestra. Vidi la parte posteriore di una Mini Cooper parcheggiata davanti al vialetto d’accesso al portico.
Chi è?
Andai di corsa alla porta, badando che quella di mio padre fosse chiusa, e aprii.
Mi ritrovai davanti gli occhiali Ray-Ban di Rae-Mary.
«Ciao. Ehm, come hai trovato casa mia?»
«È il suo Talento.»
La voce di Jake mi fece fare un lato. Mi girai verso destra e lo trovai a poggiato – bello come il sole – al muro.
Gli ringhiai contro. «Fallo un’altra volta e, giuro, ti farò colpire da una scarica di fulmini.» Sospirai, per calmarmi. «E che vuol dire che è il suo talento?»
Rae-Mary si sistemò gli occhiali sul naso. «Sono capace di trovare chiunque e qualunque cosa ovunque si trovi.»
«Che diamine sei un GPS supertecnologico?!»
«Quasi.» disse lei, soavemente.
«Comunque, perché siete qui?»
«Possiamo entrare?» chiese Jake.
Pensai che mio padre era chiuso in laboratorio, perciò…
Annuii. «Prego.»
Mi scostai dalla porta e li feci entrare. Li condussi in camera mia e chiusi la porta.
Jake si appoggiò alla porta, sua cugina si sedette alla scrivania e io mi buttai sul letto.
«Allora, di cosa volete parlarmi?»
«Veramente, sei tu che dovresti dire qualcosa a noi.» disse Jake, inchiodandomi con i suoi occhi neri.
Socchiusi gli occhi. Lo sa.
«Red ti ha raccontato delle mie visioni, vero?»
«Che cosa vedi?»
Nessuna conferma e nessun diniego. Furbo.
«Vuoi dirmi che Red non te l’ha detto?»
«No. Cavare informazioni da una roccia è più semplice che farle uscire dalla bocca di Red.»
Quindi non gli detto tutto.
«Non dirlo a me.» mormorai, ripensando a come mi aveva taciuto quello che aveva visto lui.
«Partiamo dall’inizio. Come succede? In che momento ti capita di averle?»
Oddio, sto diventando un’altra volta un semaforo rosso!
Stavo arrossendo più volte in quei due giorni che in tutta la mia vita.
«Ogni volta che… instauro un contatto emotivo con Red, mi capita di vedere delle scene di cui è protagonista.»
Lui annuì. «E come vedi queste scene?»
«Ehm… la prima volta era solo un’immagine, ma le altre due sono state come… dei video di cui ero la cameraman.»
«Che cosa inquadri allora?»
Mi massaggiai la radice del naso e raccontai loro tutto quello che avevo visto.
«Quindi hai sempre visto le stesse persone, lo stesso contesto e lo stesso luogo.»
«Esatto. Ma visto che, come hai detto tu, Red parla tanto quanto un muro, credo che non ti abbia detto una cosa.»
Lui si staccò dalla porta e mi si avvicinò, inginocchiandosi davanti a me. Mi sembrò tanto da epoca medievale.
«Ogni volta che capita a me di avere delle visioni, la stessa cosa capita a lui.»
Il suo sguardo nero brillò d’interesse e piegò la testa di lato, come se stesse ascoltando.
«Non ha mai voluto dirmi cosa vede, però. Anche ieri. Quando glielo chiesto, lui ha mentito.»
Ed era per quel motivo che quando mi aveva accompagnato a casa, non lo avevo neanche salutato.
A ripensarci, sembrava che avessi appena litigato con il mio ragazzo. Ma, ovviamente, non lo era e quella scena era assolutamente innocua.
A chi stai raccontando frottole? A me o a te stessa?, s’intromise la mia coscienza.
Sta zitta. Ogni volta che dovrei avere degli scrupoli di coscienza, tu fai le valigie e parti per le Hawahi.
Ignari del mio dialogo interiore, Jake si alzò e andò dalla cugina.
«Cerca gli altri. Dobbiamo riunirci.» ordinò con tono autoritario.
«“Per favore” e “per piacere” ti sono caduti nella fontana, vero? Perché, altrimenti, si direbbe che sei un villano a comandare quel modo una persona, neanche fosse il tuo schiavetto personale.»
Fuori dalla finestra si sentì rombare un tuono.
Iniziavo ad adorare quell’effetto. Dava più forza alle mie parole. Mi lucidai mentalmente le unghie, mentre un sogghigno di superiorità era stampato sulla mia faccia.
Jake ebbe la buona grazia di arrossire.
Si schiarì la voce e si rivolse nuovamente alla cugina.» Potresti cercare gli altri, per favore?»
Rae-Mary si alzò, si piazzò al centro della stanza, togliendosi gli occhiali e chiuse gli occhi.
Quando li aprì, il nero delle pupille aveva inghiottito completamente il blu dell’iride e il bianco della sclera. Quella visione mi fece balzare il cuore in gola.
Oh. Mio. Dio.
Rae-Mary incominciò a girare quegli occhi completamente neri per la stanza, compiendo un giro completo.
Ogni volta che si girava in una direzione diversa, riferiva a Jake le posizioni dei componenti del Cerchio.
«Le gemelle sono a casa loro.»
«Bene.»
Jake estrasse il cellulare dalla tasca e mandò loro un messaggio.
«Raferty è a casa del padre.»
«Accidenti. Allora non può venire.»
«Perché?» chiesi.
Lui scosse la testa. «Lascia stare. È complicato.»
«Sebastian è in biblioteca.» riferì il super GPS.
«Ottimo.»
Messaggio anche a lui.
«Red è…»
«Al campo da basket a quattro isolati da qui.» pervenni.
Lei piegò la testa a guardarmi. «Come lo sai?»
«Beh…» puntai un dito alle mie spalle, la stessa direzione in cui aveva guardato lei.» Da quella parte c’è il capo da basket e Red va spesso a giocarci, o sbaglio?» chiesi rivolta a Jake.
Questi scosse la testa, mentre scriveva un messaggio anche all’amico.
«Quindi, andiamo a parlare con la Regina Bianca, giusto?»
«Sì,» rispose Jake, rimettendosi in tasca il telefono. «Andiamo a cercare un po’ di risposte. E speriamo di trovarle.»


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Capitolo 17
*** Grave Imprevisto ***


Sy Hill: Eccomi a voi con un altro capitolo. Ricordate la sfida che ho proposto nel capitolo precedente. Avete tempo fino a Domenica per poter ancora mandarmi le vostre idee. Come ogni volta, saluto e ringrazio la mia grande sostenitrice RACHY WILLIAMS: tesoro se hai tempo, fatti un viaggetto nel mio profilo, ho una sorpresa per te.
In più voglio ringraziare i recensori dello scorso capitolo MARTHIAGOJAZNACO, AUROBENE E ALEX04.
LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3



CAPITOLO 17

 

Grave Imprevisto

 

 
 

Nel giro di mezz’ora eravamo quasi tutti – di nuovo – nel giardino della scuola.
Tutti i componenti del Cerchio erano dotati della loro bellezza e anche a quell'ora erano al loro meglio. Mancavano le gemelle, ma sapevo che sarebbero state loro risaltate di più. Neanche Angelina Jolie avrebbe avuto un aspetto così radioso come. Tutte le volte che mi era capitato di vederle gironzolare per la scuola, tra un cambio d'ora e l'altro, le avevo viste fresche e perfette sotto ogni aspetto. Come diamine facevano? Io alla mattina era uno zombie, con i capelli stile bambina di The Ring. Loro invece erano come delle Barbie appena confezionare. Avevo il sospetto che si preparassero la sera prima, per poi chiudersi in un maxi congelatore e scongelarsi la mattina, già pronte e belle.
Argh!
Mi ero fatta dare un passaggio da quei due invasori di campo mattiniero di Jake e Rae-Mary, visto che la mia bella automobilina non era tornata a casa ieri sera.
Per fortuna, era ancora nel parcheggio della scuola. Avrei fulminato qualcuno – eh, sì: non è una minaccia a vuoto – se non ce l’avrei trovata.
Appena arrivati, vidi il bestione di Red parcheggiata accanto alla New Beetle.
Ma allora è un vizio!Ci prende gusto a far mettere paura alla mia povera auto!
Lo vidi seduto sul cofano anteriore del SUV, intento a giocare con l’accendino d’argento.
Sospirai internamente. Avevo leggermente – solo una punta – di timore a rincontrarlo, dopo la scenata – okay, non era una scenata, ma una figura del cavolo sì – che avevo fatto.
Poi, mi saltò in mente che era colpa sua, del suo mentire, se mi ero arrabbiata, perciò me ne inficiai altamente e mi comportai come sempre.
Scesi dalla Mini di Rae-Mary e gli andai vicino.
«Ehi, piromane, puoi smetterla di giocare con il tuo elemento? Sai com’è, la tua auto può benissimo saltare in aria, ma la mia è un regalo di compleanno. Ci tengo.» conclusi, portandomi una mano al cuore.
Red chiuse l’accendino con uno scatto. «Ma tu non stai mai zitta?»
«Mhm… no. Di solito, il filtro tra il cervello e la bocca funziona, ma in questo periodo è alle Hawahi insieme alla mia coscienza.»
Vidi l’ilarità brillare nei suoi occhi dorati. «Cosa?»
Feci una gesto noncurante. «Oh, è una lunga storia.»
In quel momento, entrò nel parcheggio una Volvo cx60 ambrata, una vera bomba, che – come al solito – nascose la mia Beetle quando le si parcheggiò affianco.
E da quell’altro bestione scese la figura minuti da Sebastian.
Mi chiesi come facesse ad arrivare ai pedali.
«Ciao, Basty.» lo salutai, agitando una mano.
Lui mi guardò stranito. «Come mi hai chiamato?»
«Basty, che è il diminutivo di Bastian, diminutivo di Sebastian. Perché, non ti piace?»
Lui agitò le mani. «Oh, no. Mi va bene. È solo che non ci sono abituato.»
«Perché,» loro accennai agli altri intorno a noi, «Come ti chiamano?»
«Beh, Sebastian.»
Strabuzzai gli occhi. «Vi conoscete da tre anni e nessuno ti ha mai dato un nomignolo?! Questo, in una delle scuole in cui sono andata, era segno che non scorreva buon sangue.» Storsi la bocca, pensando. «Dobbiamo rimediare.»
Puntai un dito contro Sebastian. «Tu sarai Basty o Bastian o Seb, anche se l’ultima non mi piace granché.»
Mi girai di spalle e mi trovai ad indicare il petto largo di Raferty.
«Da dove sei sbucato fuori, tu?!» chiesi facendo un salto indietro.
«Sono arrivato con Seba…Bastian.» si corresse alla mia occhiataccia.
Gli feci un sorriso smielato e passai al prossimo. Volevo alleggerire quell’aria si serietà che era sceso su tutti quei volti.
«Tu hai già un nomignolo, sarebbe inutile dartene un altro.» Puntai io dito contro Jake. «Tu puoi essere tranquillamente chiamato J.»
«Io preferisco Jake.»
«Io no.» sorrisi.
«Tu sei completamente matta, te l’ho già detto vero?» s’intromise allora Red, sedendosi a gambe large dal lato del cofano, poggiando i piedi alla ruota.
Mi girai verso lui e mossi una mano come a cancellare quello che aveva detto.
«Credimi, so meglio di chiunque altro di avere un umore variabile stile bandiera al vento. Purtroppo, è un difetto di famiglia.» Scrollai le spalle e imitai un sospiro rassegnato. «Mi sa che dovete prendermi così. Un’altra migliore di me non esiste.»
«Per fortuna.» farfugliò lui.
Mi sfregai le mani, impaziente di concludere quell’atto. «Allora, chi manca?» chiesi, rivolta a J.
«Annika e Monika non sono ancora arrivate. Strano,» ontinuò, prendendo il cellulare e componendo un numero. «Di solito, sono le prime ad arrivare quando dobbiamo riunirci.»
Mentre aspettavano una risposta dalle gemelle, con fare indifferente – leggi: attrice nata – mi avvicinai a Red e mi appoggiai anche io alla macchina, in mezzo alle sue gambe, però.
Lo sentii trattenere il fiato, ma feci finta di niente. Incrociai le braccia e aspettai che Jake parlasse.
Lo vidi scuotere la testa. «Non rispondono.»
«Mi sembri sorpreso.» osservai.
Mi rispose Red. «Se conoscessi bene le gemelle, sapresti che loro rispettivi cellulari sono i loro cuori pulsanti: se se ne separano, muoiono.»
La mia schiena vibrò in sincrono alla sua cassa toracica ad ogni parola pronunciata.
Una brutta sensazione mi strinse la bocca dello stomaco ed, essendo un tipo che se ne va per intuizione, mi convinsi che qualcosa non andava.
Come avrei voluto avere un qualche mezzo per poter vedere se stessero bene o, almeno se stessero venendo.
Un’appassionata di fantasy come me, in un mondo in cui immaginazione e realtà sono un’unica cosa, trovava sempre un modo.
Infatti, una lampadina si accese nella mia testa.
Incrociai le dita e sperai che funzionasse.
Mi allontanai dall’auto e mi piazzai in mezzo al parcheggio.
«Che stai facendo?» chiese Rafe.
«Un esperimento o una stupidaggine.» dissi, inginocchiandomi a terra e posando i palmi aperti sull’asfalto. «Rimanete in mobili.»
«Si può sapere…»
«Questa mattina ho patto rifiorire una pianta.» riferii, girandomi a guardarlo. «Quindi sono capace di manipolare e usare tutti gli elementi naturali – anche se non ho ancor verificato. Comunque, se riesco a controllare la terra, dovrei essere capace di percepire tutto ciò che è legato a quell’elemento… compreso l’attrito provocato dalle ruote di un’auto sull’asfalto.»
Una scintilla di comprensione brillò nei suoi occhi.
Chiusi gli occhi e mi concentrai sulla sensazione dei sassolini tra le dita, sulla granulosità della terra trasportata dal vento, dai piccoli fasci di erba nati da una crepa.
Immaginai di viaggiare con la mente come se stessi correndo, percorrendo la strada per arrivare alla scuola.
Una leggera vibrazione passò dall’asfalto al palmo delle mani.
Riaprii gli occhi e mi spostai fino ad arrivare alla delineazione del parcheggio dalla strada vera e propria. Immaginai che proprio quella linea fosse il campo in cui dovevo immergere le mani, come se fossero delle radici.
Un ciuffo di erba secca si raddrizzò, ricolorandosi di verde e crescendo, le radici si rinforzarono a tal punto da rompere l’asfalto ed far emergere la terra sottostante. Mi afose le mane e prese a pulsare come un cuore.
Ad ogni battito, la percezione di quello che avevo intorno si amplificava mandando al cervello delle immagini di ogni corpo fisico che la pulsazione colpiva sulla linea stradale.
Potevo vedere tutti noi, come tanti piccoli cuori palpitanti, il perimetro della scuole e della palestra, i cerchi oblunghi delle gomme delle auto che toccavano il suolo. E ancora, il cerchio della fontana, la diramazione degli alberi e dei cespugli del giardino, il cerchio delle basi delle statue.
Riuscivo a vedere la delineazione di tutto quello che toccava il terreno.
Non so per quanto tempo rimasi ferma, ma ad un certo punto, la pulsazione toccò qualcosa mi moto grande, giusto in mezzo alla strada. Gli oggetti che toccavano terra erano frastagliati, pieni di rientranze e spigoli e qualcosa continuava apparire e scomparire, come se toccasse il terreno e poi si alzasse.
Sembra…
Mi voltai di botto verso gli altri, ancora fermi nelle loro posizioni, con il cuore a mille.
«Hanno avuto un incidente!»
Con uno scatto da velocista, mi catapultai verso la mia auto, ma la voce di Red mi fermò.
«Sali sulla mia.»
Feci come detto. Anche gli altri si mossero veloci e in pochi secondi eravamo tutti partiti.
«Destra.» gli indicai.
Sterzò bruscamente, ma non me ne curai. Brividi freddi mi correvano sulla pelle e, senza che me ne accorgersi iniziai a tremare. La mano di Red, che strinse la mia, mi permise di accorgermene.
Gli dettai le indicazioni a monosillabi e dopo pochi minuti arrivammo sul luogo dell’incidente.
Red frenò di colpo, imitato dagli altri.
Come temevo, l’auto era ribaltata su un fianco e ciò che toccava a intervalli regolari l’asfalto era una ruota ammaccata, i vetri rotti e sparpagliati al suolo, insieme ad altri pezzi di carrozzeria.
Corremmo tutti soccorrere le gemelle, di cui riuscivo a vedere solo una ancora incastrata nell’auto.
Jake corse verso lo sportello del guidatore e, afferrando lo sportello attraverso il finestrino rotto, tirò. La portiera si staccò come se fosse burro. Poi afferrò la cintura di sicurezza tra le mani e la strappò.
Anche se impressionata da quella manifestazione di potere, accantonai la faccenda per un altro momento e mi avvicinai per aiutare a tirare fuori la ragazza.
Aveva delle abrasioni e dei graffi profondi.
«Come facciamo per l’altra?»
Non finii neanche di parlare che Jake era già dall’altra parte dell’auto. Infilò le mani sotto il poco spazio tra il bordo e il terreno e lo issò.
Red corse dalla parte opposta e, quando l’auto minaccio di ribaltarsi, la fermò puntando i piedi a terra.
Sentii un lamento e, anche se impaurita dalle ferite riportate, fui sollevata che avesse dato segni di vita.
Notai che Bastian teneva sulle ginocchia il capo della gemella e, ad occhi chiusi passava le mani sul volto e il corpo della ragazza. Non era un conforto, sembrava quasi un medico che controlla un paziente.
Rafe aiutò Jake a prendere l’altra gemella dall’auto e a stenderla a terra.
Questa si lamentò, sofferente, farfugliando cose insensate.
«Annika? Annika, apri gli occhi.»
Jake aveva un’espressione in viso che a poche persone avevo visto in volto, anzi solo ad una. Quando mio padre sentiva parlare della mamma aveva il viso contorto nella stessa espressione sofferente.
Un braccio mi avvolse le spalle e un petto caldo mi comparve davanti, appiattendo la mia guancia verso suo.
«Calma. Va tutto bene.»
La voce di Red mi scosse qualcosa dentro. D’un tratto, mi accorsi di star piangendo e tremando paurosamente.
Diamine, potevo essere visto come un tipo duro, ma ero pur sempre una ragazza e avevo anche io un animo sensibile. Non avevo mai vissuto una situazione con lo stesso livello di tensione emotiva e tutto il terrore – da quando l’avevo percepita a quel momento, vivendola realmente – mi aveva scosso terribilmente.
Le parole senza senso che mi mormorava all’orecchio ebbero la capacità di calmarmi.
Tirando un respiro profondo, mi scostai e mi concentrati sulle gemelle: una – Monika – era ancora sotto le mani di Sebastian.
Jake, invece stringeva tra le braccia Annika.
«Sta tranquilla, ora ti portiamo via.» stava dicendo Jake, accarezzando i capelli della ragazza.
Lei aprii gli occhi, gemendo e contorcendosi, invocando il nome della sorella.
«Nika, Nika. Guardami, fammi vedere i tuoi occhi.» gli ordinò lui, voltandole delicatamente la testa verso di sé.
Sentire quel nomignolo mi parve quasi ironico: stavamo decidendo proprio quello prima che succedesse tutto quello.
«Sebastian, come sta Monika?» chiese poi.
L’interpellato spostò le mani dal corpo della ferita e lo guardò.
«Grazie a Dio non ha riportato ferite gravi, solo una contusione alla testa e i graffi sul corpo.»
«Allora, lascia che si occupi Rafe di lei e vieni a controllare Annika, per favore.»
Sebastian fece come chiesto. Posò le mani su Annika, sotto lo sguardo di Jake e la controllò.
Non avevo ancora capito bene quale fosse esattamente il suo talento, ma in quel momento mi premeva di più in che condizioni versavano le ragazze.
Mentre veniva controllata, Annika continuava a farfugliare qualcosa di indistinto.
«Jake, cosa sta dicendo Annika?» gli chiesi.
Lui scosse la testa. «Non riesco a capirlo, l’unica cosa che distingue dalle sue parole è il nome della sorella.» Scrollò le spalle, piano, per non disturbare la ragazza. «Forse, è solo preoccupatati per la sorella, cosa tutt’altro che anomala.»
Annuii, ma non ne ero del tutto convinta.
Quando Sebastian, si alzò, Jake prese Annika in braccio e la portò nella sua auto.
«Anche lei è apposto. Graffi e contusioni leggere. Credo che si siano salvate grazie alla cintura di sicurezza.» gli riferì quando tornò.
«Portiamole in ospedale.» proposi, ma un coro di “no” mi parve come una porta sbattuta in faccia.
«Non possiamo.» mi disse Bastian.
«Perché?»
«Perché ci scoprirebbero.» lo disse come se fosse una cosa ovvia, la quale non lo era.
«Per quale motivo?» chiesi, scrollando le spalle.
Lui mi guardò stranito. «Come fai a non sapere che il nostro gruppo sanguigno diverso rispetto a quello delle altre persone?»
«Beh, forse perché non sono mai andata in ospedale in vita mia.»
Un altro coro, questa volta di “cosa” m’investì.
«Sentite,» dissi, zittendoli. «Lasciamo a dopo questo argomento e ditemi cosa facciamo con le gemelle. Devono essere curate.»
Jake sospirò. «Credo sia venuto il momento di farti vedere il Sanctorum.»






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GRAZIE INFINITE PER AVER SEGUITO LA MIA OPERA!!!!!

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Capitolo 18
*** Sanctorum ***


Sy Hill: Eccomi a voi gente con un altro capitolo. Sono rimasta molto delusa credevo che molte più persone si sarebbero interessate alla mia ricerca di un nuovo titolo ma mi sono state perpetrate solo alcuni suggerimenti. Io continuo a far valere la mia sfida (per chi no la sapesse legga il capitolo 16), ma fino alla fine della settimana.
Come al solito voglio ringraziare la mia MITASTICOSA (ti ricorda qualcosa? XD) RECENSITRICE RACHY WILLIAMS.
Inoltre voglio ringraziare TAY98, MARTHIAGOJAZNACHO, LOVEDREAMS, ELENA90, LITTLE ANGEL per aver recensito lo scorso capitolo.
GRAZIE INFINITE.
Come sempre, VI PREGO, LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3

 
CAPITOLO 18
 
Sanctorum
 
 
Credevo che mi stessero prendendo in giro. Alzai un sopracciglio, scettica.
«State scherzando, vero?»
Nessuno rispose, impegnati a portate fuori dalle auto le ragazze.
Dopo aver portato via le ragazze dal luogo dell’incidente, Bastian aveva chiamato un rimorchio per far portare via la carcassa dall’auto delle gemelle. Mi ero chiesta come avremmo fatto a nascondere ai loro familiari quello che era successo.
In quel momento, ci trovavamo nella periferia della città, un luogo pieno di case abbandonate e ruderi antichi di vecchi palazzi.
Quello che aveva davanti era proprio uno di quelli: una vecchia e polverosa casa d’epoca, stile coloniale, con tanto di portico e dondolo sfasciato e riverso. Alle finestre coi vetri rotti, c’erano ancora le tendine di pizzo, tutte lerce e strappate, che non potevano assolutamente essere considerate candide. Il tetto era pieno di buchi e tegole divelte.
Un vero schifo, in poche parole.
Eppure Jake, con Annika in braccio, non esitò a prendere a calci la porta, l’unica cosa che miracolosamente era ancora integra e attaccata ai cardini, e ad entrare, seguito poi da tutti gli altri.
Senza proferire parole, andai con loro.
Come mi ero aspettata, l’interno non era meglio dell’esterno. Mobili impolverati e vecchi, sedie con le gambe rotte, oggetti di ogni tipo buttati alla rinfusa per terra. Era in vero casino.
Jake si fermò al centro della stanza, dove un tappeto consunto occupava il pavimento, posando Annika davanti a sé e Rafe, il quale stringeva protettivo Monika, fece lo stesso.
Come guidati da una coreografia, gli altri si sparpagliarono per la stanza posizionandosi negli angoli e suoi due lati. Mi parve che stessero formando una figura, ma che mancasse qualcosa.
È un pentagono, ma non c’è un angolo.
Guardandomi intorno, imitai la posizione di Red, posto alla mia destra, e mi posizionai nell’angolo di sinistra, evitando di trovarmi perpendicolarmente a Bastian, davanti a me, spostandomi di un passo verso l’interno.
Gli altri tesero le braccia a formare i lati e con il corpo i vertici della figura. Anche stavolta, ricopiai le loro mosse.
La voce di Jake si levò alta, rimbombando nelle pareti ormai troppo vecchie.
«Alhb Ari Este Tyui De Atres
Nella mia mente le parole si tradussero come se sapessi da sempre quella lingua.
In Nome della Regina Alhb, si Aprino le Porte.
Fu sorprendente.
Parallele alle nostre braccia, delle linee di luce tracciarono un pentagono perfetto, e dagli angoli partirono cinque raggi che chiusero Jake in un cerchio non più grande di una ruota per bicicletta.
Il pavimento tremò, ma – per potere soprannaturale? – non vacillai.
La casa iniziò a sgretolarsi a partire dal tetto, come risucchiate dentro un ciclone. Tegole, legno, mobili, tutto venne attratte verso l’alto sino a sparire alla vista.
La casa si smantellò pezzo per pezzo, finché non rimase solo il pavimento del salotto, dove eravamo noi.
Quello che più mi stordì fu ciò che ci circondò.
Ma dove diavolo sono?, mi chiesi, osservando il prato sconfinato che si stendeva per miglia in ogni direzione.
Allungando lo sguardo, mi accorsi che davanti a noi c’erano delle pietre che mi parvero tremendamente familiari.
Sgranai gli occhi, quando riconobbi i cròmlech, le pietre dello Stonehenge d’Inghilterra.
Avevano qualcosa di diverso, però. Queste non erano decrepite, tutti i massi erano al loro posto, in perfette condizioni, come se fossero state infisse nel terreno appena il giorno prima.
E al centro del secondo cerchio, torreggiava un enorme piano di pietra, con la base piena d’inscrizioni, che formavano diversi anelli tutt’intorno.
Avvicinandomi, notai che quelle stesse scritture comparivano anche intorno alla base e alla punta dei cròmlech che formavano i sue anelli
Non appena Jake e Annina oltrepassarono quella sorta di linea di confine, pulviscoli di luce dorata si levarono intorno a loro, come quando accendi quei bastoncini di stellina a capodanno: tante piccole, quasi invisibili, scintille si sollevarono dal suo corpo e scomparvero prima di toccare terra.
A differenza di Jake, però, quelle di Annika era molto deboli. Tendevano al blu cobalto, ma si levarono su fiaccamente e si spegnevano neanche a dieci centimetri dal corpo.
Molto probabilmente, l’energia di quei pulviscoli era legata a quella del corpo ed, essendo ferita, quelle di Annika erano ferite insieme a lei.
La stessa cosa successe anche agli altri.
Dopo Jake, entrò Rafe e le sue scintilli arrivarono quasi alla stessa altezza dei cròmlech ed avevano un colore che si avvicinava molto al viola.
Quelle deboli di Monika erano di un rosa pallido e, come la sorella, morirono appena scese dal corpo.
I pulviscoli di Sebastian, a differenza degli altri, erano molto più… ordinati, si potrebbe dire: non volavano in tutte le direzione, ma si alzavano dal corpo e scendevano verticalmente, in una linea perfetta fino a toccare quasi il suolo, prima che si spegnesse quella scintilla di luce verde menta.
Poi, fu la volta di Rae-Mary. Quello che mi sorprese fu la sorta di zampillio invece della cascata: le sue scintille le sgorgavano dal corpo come se fossero delle minuscole fontanelle, si alzavano verticalmente e ricadevano sul suo stesso corpo per poi spegnersi. Ed erano dello stesso azzurro del cielo.
E poi toccò a Red. Le sue scintille furono le più accecanti e… inquietanti.
Aggrottai la fronte, mentre le guardavo.
Erano rosse, come il colore del sangue, e non si staccavano dal suo corpo, no. Gli scivolavano addosso come se stessero colando da ferite invisibili, fino toccare terra e rimanervi accese per qualche secondo ancora, prima di spegnersi.
Un flash della prima visione mi si parò davanti agli occhi, facendomi rabbrividire.
No, non dovevo pensarci. Mi sfregai gli occhi, come a cancellare quell’immagine, e li seguì.
Quando oltrepassai il cerchio, nessuna scintilla si alzò da mio corpo.
Mettendo da parte la delusione, mi disposi a semicerchio come gli altri, mentre Rafe e Jake adagiavano i corpi fiacchi delle gemelle sulla tavola di pietra.
Come la volta precedente, Jake rimase vicino a loro, mentre noi altri ci disponevamo ad esagono, allargando le braccia, tracciando di nuovo le linee luminose e il cerchio – questa volta circondava anche la base della tavola.
Essendo alle spalle del Re, non potevo vedere cosa stesse facendo, ma ad un certo punto, una nenia si diffuse nei suoni della natura, ovattata e ritmica.
La cosa ancora più strana era che quella nenia, quella cantilena guaritrice, non proveniva da Jake, perché la voce non era la sua e non era una sola: era un insieme di cori, voci su voci, con intonazioni diverse, come se un gruppo assortito di adulti, adolescenti e bambini la stesse intonando.
Parole dette con un metro, una cadenza ben precisa, che sembravano penetrare sotto la pelle, nelle ossa, nel sangue e girare in circolo con esso per tutto il corpo.
Le scritte impresse nella pietra della tavola e nei cròmlech si illuminarono e, pian piano, iniziarono a girare, come un anello che gira intorno ad un dito.
Sia quelli dei cròmlech che quelli della tavole avevano giri diversi: gli anelli delle pietre del cerchio esterno ruotavano verso destra, quelli del cerchio interno verso sinistra e quelli della tavola ad alternanza.
Fu stupefacente vedere le scintille, prima quasi spente e poi brillare come delle piccole stelle levarsi dai corpi delle gemelle.
Vidi chiaramente una ferita riportata alla testa di Monica – riconosciuta perché posata da Rafe con il volto rivolto verso sinistra – guarire con una rapidità impossibile, come anche i lividi sulla guancia e il petto.
Un vento pieno di magia, soffiava tra le colonne di pietra, investendo i nostri corpo immobili, caricando le nostre cellule di altro potere.
Presi un respiro profondo, beandomi della sensazione elettrica che mi trasmise.
Alcuni fulmini, sfuggiti al mio controllo, caddero all’esterno del secondo cerchio dello Stonehenge.
Dopo qualche minuto, la nenia si affievolì fino a scomparire nel sussurro del vento, gli anelli di luce si fermarono, tornando ad essere normali – per quanto possano esserlo – scritte sulla pietra. Le luci del pentagono si frantumarono in centinaia di schegge simili al vetro e scomparvero nel cielo.
Sentii il sospiro di Jake e chinarsi verso la destra della tavola, verso il viso di Annika.
Noi altri cinque ci avvicinammo per constatare le condizioni delle due sorelle.
Immenso sollievo e un forte stupore mi pervasero quando le vidi in perfette condizioni, ancora più splendenti di vita del solito.
Osservai Jake carezzare teneramente una guancia ad Annika, mentre questa, con un sussulto, apriva gli occhi.
«Jake?» domandò con voce roca.
«Piano, Annika. Non preoccuparti, è tutto apposto.» le rispose lui, ritirando velocemente la mano.
Avevo l’impressione che non volesse farle sapere che avesse un debole per lei.
Ruotai gli occhi. Uomini, sbuffai mentalmente. Sempre sinonimi di orgoglio.
In quel momento, Monika spalancò gli occhi e un urlo agghiacciante le uscì di bocca.
Sebastian, dietro di lei, le afferrò le mani che agitava freneticamente, rischiando di far male a Rae-Mary.
«Monika, Monika, calmati!» disse freneticamente.
Rafe e Red gli diedero una mano, mentre io e Rae aiutavamo Jake a far scendere Annika, visibilmente sconvolta e preoccupata per la sorella.
«Che cosa le prende? Monika!» la chiamò, ma quella parve non sentire.
Si dibatteva, cercava di liberarsi, ma tenuta com’era da due braccia forzute non c’era verso.
All’improvviso, smise di urlare, ma incominciò a farfugliare «Come quando l’avevamo recuperata dall’auto – delle parole incomprensibili.
Avevo l’impressione, però, che pronunciasse sempre le stesse parole, solo talmente veloce da creare un suono unico.
Mi avvicinai e inclinai l’orecchio verso di lei.
«Che cosa le sta prendendo, Jake?»
«Che facciamo?»
«Mi fa spavento vederla in quello stato.»
«Per fortuna ha smesso di dibattersi, prima di farsi nuovamente male…»
«State zitti!» ordinai.
Sorprendente, ma vero, mi ascoltarono.
Socchiusi gli occhi, avvicinandomi a Monika un altro po’.
Ancora niente.
«Che cosa succede, Sy?» mi chiese Sebastian.
Gli lanciai un’occhiata. «Non la senti?» chiesi, accennando alla bocca di Monika.
Lui corrugò la fronte, ascoltando. Scosse la testa. «No. Farfuglia, non capisco niente.»
Poggiai le mani alla tavola di pietra e mi sposi sopra di lei, fino ad arrivare con l’orecchio alla bocca della ragazza.
«Ripete sempre la stessa frase, ne sono certa.» riferii all’indirizzo di Jake, che stringeva Annika con un braccio.
Allora, provai con un esercizio che avevo provato in una vecchia scuola a Ottawa.
Chiusi gli occhi. Presi un bel respiro profondo, lo trattenetti nei polmoni per qualche secondo e lo rilasciai pian piano, ascoltando.
I suoni contorti che uscivano dalle labbra di Monika avevano un suono familiare anche se estraneo.
Un lampo mi attraversò la mente.
Spalancai gli occhi e girai di scatto la testa verso Jake.
«Non è la nostra lingua. È per questo che non capivamo. Sta pronunciando le parole nell’Antica Lingua.»
Mi riconcentrai di nuovo su quello che stava dicendo: focalizzai il primo suono nella testa, quello più calcato. Le poggiai una mano sulla gola e registrai sulle dita le vibrazione delle corde vocali.
Mi…fa…yu…
Mik…tah…feb…yu… l…
Mika…ntah…ferb…yuu…la…
Riaprii gli occhi e mi sollevai, rimanendo a guardare Monika. Gli altri osservavano, aspettando.
«Parla l’Antica Lingua e ripete sempre la stessa frase.» Mi girai verso Jake. «Mikahmi Natah Febringh Yuu Laiy
Lo vidi aggrottare le sopracciglia. «Sai cosa significa?» mi chiese.
Annuii. Avevo tradotto quella frase a mente appena l’avevo capita.
«Presto sul Mondo calerà la Tenebra
Appena pronunciai quelle parole, Monika smise di parlare e, dopo qualche secondo, su alzò di scatto a sedere, tendendo le braccia in avanti.
I ragazzi, che avevano allentato la presa, la riafferrarono prima che cadesse a terra.
Annika corse dalla sorella.
«Monika? Gemella, mi senti?» le chiese carezzandole una guancia, scostandole i capelli dalla faccia.
«Sorella.» disse l’altra a fatica. «Annika, cosa è successo?»
«Dovremmo chiederlo noi, gemella.» asserì l’altra. «Come ti senti? Stai bene? Che cosa ti è successo?»
«Piano, Annika.» l’avvisò Jake.
Monika si sfregò la fronte, come a schiarire le idee. «Non lo so, Annika. Mi sembrava di essere rinchiusa nel mio stesso corpo.» La vidi rabbrividire.» Ero come in un altro posto. Non c’era luce, né sensazioni, solo suoni. Potevo sentire tutto quello che dicevate. Sentivo te chiamarmi, ma non potevo risponderti perché non sapevo dove fossero la bocca, la gola e le corde vocali… galleggiavo…» Si guardò intorno, stranita. «Perché siamo nel Sanctorum
«Monika, Annika.» intervenne Sebastian. «Ricordate come è avvenuto l’incidente?»
La prima aggrottò le sopracciglia e si girò a guardarlo. «Incidente? Quale incidente?»
La sorella la scrutò, preoccupata. «Gemella, l’incidente con l’auto.»
Monika si girò di scatto e fulminò la sorella con lo sguardo. «Hai sfasciato la macchina?»
La sorella la scosse per le spalle. «Sorella eri in macchina con me.»
«Annika, puoi dirci che cosa hai visto e come è avvenuto l’incidente?» chiese Jake.
«Non è stato un incidente.» dichiarò lei, voltandosi a guardarlo.
Un silenzio stranito ci avvolse.
«Che vuoi dire?» chiesi, interrompendolo.
Lei mi guardò. «Non lo so in che modo, ma la macchina ha perso aderenza. La ruota anteriore destra, dove era seduta Monika si è bloccata e ha fatto sbandare l’auto. Poi…» aggrottò la fronte, concentrata a ricordare. «Non lo so. È stato come se qualcuno avesse afferrato la parte posteriore dell’auto e l’avesse ribalta sul fianco. Abbiamo battuto entrambe la testa, ma io sono rimasta cosciente per un po’. E ho visto…» Fu scossa da un tremore che non accennò a diminuire. La sorella, per quanto sconvolta, ma avvolse in un abbraccio. «Non so cos’era quella cosa… ma ne sono certa… non era umana.»
Improvvisamente sfiancata, mi poggiai alla pietra, fregandomi la fronte le tempie martellanti.
Un’ombra mi calò addosso.
«Stai bene?» mi chiese Red.
Sentire la sua presenza vicino, mi riempì di calore.
Sospirai. «Per niente.» rispose, scuotendo la testa. «Questa situazione non mi piace e non credo alle coincidenze. E sono fermamente convinta di una cosa. L’incidente – se così può essere chiamato – non è avvenuto per caso.» Mi guardai verso Jake, che mi stava ascoltando. «Presto sul Mondo calerà la Tenebra. L’incidente era solo un mezzo per farci avere il messaggio.» Sposai lo sguardo davanti a me. «La domanda fondamentale è: da parte di chi?»

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Capitolo 19
*** Punti di Vista ***


Sy Hill: Eccomi qui con un nuovo capitolo per la gioia dei miei lettori. E per farmi perdonare, ho scritto un capitolo più lungo e con qualcosa in più. Non dico altro, leggere e fatemi sapere cosa ne pensate.
LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3<3

P.S.: Ringrazio di cuore LIGHTNIGHT, FEDE08, ELENA90, TAY98 e MARTHIAGOJAZNACHO.


 

CAPITOLO 19
 
Punti di Vista

 
 
Appoggiandomi alla tavola di pietra, dove Monika era ancora sdraiata, mi sfregai la fronte, sententi un principio di emicrania farsi avanti.
La situazione stava prendendo una piega che non mi piaceva. Nessuno aveva accennato ad attentati alla vita di chiunque di noi.
E chi diavolo stava cercando di mandarci all’altro mondo?
Eravamo riusciti ad arrivare in tempo per le gemelle, per fortuna, ma se fosse successo ancora, senza che nessuno di noi avesse avuto la possibilità di saperlo?
Mi venne in mente quello che mi era successo in palestra, quella forza invisibile che mi aveva spinto al muro e stava per soffocarmi.
Che cos’era?
Mi girai verso Jake. «La cosa che ha attaccato le gemelle è la stessa che ha tentato di strangolarmi in palestra, l’altro giorno, vero?»
Sentii distintamente i muscoli di Red tendersi e irrigidirsi.
Mi spostai verso di lui, appoggiando la mia spalla destra contro di lui: non gli arrivava nemmeno alla clavicola, ma poggiava sul petto caldo.
Pensai che se io non davo troppa importanza alla cosa, allora non lo avrebbero fatto neanche loro.
Comportati normalmente e lo faranno anche gli altri, lezione imparata in una scuola nella Georgia.
Jake seguì il movimento, ma – come previsto – non vi fece riferimento.
«Penso proprio di sì.»
«Ma cosa sono?»  riflettei ad alta voce.
Lui scosse la testa. «Non ne ho la più pallida idea. Dovremmo consultare la ReginaBianca, ma da qui non possiamo farlo. Dobbiamo ritornare a scuola.»
«Già e dobbiamo chiederle anche delle mie visioni,»  mi girai verso Red, «e le tue.»
Fissai quegli occhi, determinata a fargli sapere che non mi sarei arresa facilmente per scoprire quello che aveva visto.
Io vedevo sempre lui nelle mie visioni e mai qualcun altro del cerchio, allora poteva darsi che lui vedesse solo cose che riguardavano me? E perché visionavo solo lui e non gli altri? E perché sempre quella stessa scena?
Complimenti! Hai vinto una bella emicrania al gioco delle Cento Domande!
Mi guardai intorno, perdendomi in quello sconfinato spazio erboso.
«Che posto è questo?» chiesi a nessuno in particolare.
«Questo è il Sanctorum, il nostro Luogo di Potere.» rispose Rea-Mary, aggiustandosi gli occhiali sul naso.»
«Sembra lo Stonehenge in Inghilterra.»
«Si potrebbe dire che siamo in una copia ristrutturata e migliorata di quella costruzione, ma in una diversa dimensione.»
«Che vuoi dire?»
Le scrollò le spalle. «Che non siamo negli Stati Uniti, né sulla Terra.»
Alzai un sopracciglio. «Vuoi dire che siamo nel Villaggio dei LiòsAlfàr?!»
Il Villaggio! Avevo la possibilità di vedere il posto in cui viveva mia madre, quello che mio padre stava cercando da tanto tempo. Ora avrebbe potuto smettere di lavorare fino a sfinirsi e andare a cercarla.
Tanto avevo sognato di poterla vedere, conoscere, poter finalmente rinsaldare quel legame che si era creato solo tramite pensieri e ricordi di mio padre e riempire quel vuoto dentro che solo lei poteva colmare.
«No.»
Scattai nella sua direzione. «Cosa?»
Rea-Mary si aggiustò di nuovo gli occhiali. «Non è il Villaggio.»
«Mi prendi in giro?» soffiai debolmente.
«No, perché dovrei?»
Allora puoi spiegarmi quel “non è il Villaggio”?»
Scrollò le spalle. «È esattamente quello che ho detto.»
Aggrottai le fronte, frustrata. «Puoi spostarti un po’ verso destra, così prendi linea e la smetti di parlare a singhiozzo?» domandai, grondante sarcasmo. «Non ci capisco niente, se devo tirarti fuori le informazioni con la tenaglia.»
Lei non si scompose minimamente. Ma esisteva in natura e per mano umana qualcosa che la smuovesse da quella sua apatia? Era snervante come riuscisse a rimanere fredda e calma anche nelle situazioni estreme.
«Questo luogo non si trova né sulla Terra né a LiòsLand. Ma in un intermezzo tra i due. La foresta che vedi è soltanto una proiezione di quella vera. Un solo passo all’interno e ti ritroveresti nuovamente fuori, nello stesso punto da cui sei entrata.»
Studiai la foresta con occhio clinico. «Vuoi dire che è finta? Come lo sfondo di un set cinematografico?»
Annuì. «Precisamente.»
Scossi la testa, non ancora convinte. «Come è possibile? Prima ho sentito il vento… e l’odore della foresta…»
«Magia.» disse, noncurante.
Quindi quella non era la vera foresta di LiòsLand. Attraversarla non avrebbe portato da nessuna parte, neanche al Villaggio, quello in cui avevo sperato e speravo ancora di trovare mia madre.
Mio padre aveva detto che se ne era andata, quindi era tornata a casa e l’unico posto in cui sarebbe potuta andare era il Villaggio da cui era venuta.
Dovevo trovare un modo per arrivarci.
«Come si fa ad arrivare al vero Villaggio?» chiesi.
«Non si può.»
«È impossibile.» dichiarò. «Non c’è alcun modo per andarci.»
Non può essere. «Non è vero.»
«Invece sì. Solo chi è arrivato sa come andarsene.» Citò. «Sono le parole della Regina Bianca.»
Rimasi a bocca aperta. Poi sbuffai. «Ma che razza di fregatura! Voglio dire, i nostri genitori sono venuti e tornati e noi non possiamo raggiungerli?!» Spostai lo sguardo su di loro, guardandoli negli occhi uno per uno. «Ognuno di noi ha vissuto la sua vita con metà famiglia. Chi padre, chi madre, a tutti noi manca una parte di quell’amore dato da uno dei due genitori mancanti. Loro sono stati costretti ad andarsene, a non poter vedere i loro amati figli crescere e diventare quelli che siamo diventati adesso. Loro non possono tornare, se non ogni cinquant’anni.»
Mi scostai dalla pietra, camminando nervosamente in circolo, seguendo il perimetro delle colonne di pietra.
«Sapete, avevo sperato che questo fosse vero, che quella foresta finta mi avrebbe portato al Villaggio, dove avevo sperato di conoscere mia madre, di poterla vedere, di capire che tipo di persona è stata talmente forte e dolce da riuscire a conquistare quello scapestrato di mio padre. «Mi fermai, puntando lo sguardo rabbioso sulla foresta. «E invece, ecco che il destino, il fato, o come diavolo volete chiamarlo, mi sbatte la porta in faccia e mi sorride beffardo, dicendomi che non ho nessun modo per fare tutto quello che avevo sognato. Ma, sapete che vi dico?»
Mi voltai verso loro. «Io il destino lo prendo a calci in culo. Me ne frego di quello che dice la Regina Bianca. È solo una statua e non credo abbia tutte le risposte che vogliamo. C’è un modo per entrare nel Villaggio e, giuro su quello che ho di più caro, che io riuscirò a trovarlo.»
 
 
Red Hawks's POV
 
Sono nei guai. Ma in quelli grandi quanto l’Empire State Building, pensò.
I suoi occhi di tempesta fremevano di energia, rabbia, emozione. Un miscuglio altamente esplosivo e assolutamente intrigante per un tipo come Red, che ammirava molto la forza d’animo.
Lei, così piccola, ma con talmente tanta volontà d’agire da essere capace di sorreggere il cielo.
Ma, anche se aveva così tanta forza, a detta di Jake stava per essere strangolata nella palestra da quella forza oscura che aveva attentato proprio quel giorno alla vita delle gemelle.
Quando glielo aveva sentito dire, nel corpo di Red si era mosso qualcosa, un istinto protettivo così inteso da irrigidirgli i muscoli dalla voglia di cercare quella bestia che aveva cercato di far del male – e quasi riuscendoci – a Sy e fargli provare il gusto del suo elemento. Nella sua testa era rimbombata la parola “uccidere” con tanta foga, da lasciarlo momentaneamente stordito.
Il tocco improvviso della sua spalla sul petto, quel delicato calore che permeava la maglia e i muscoli, arrivando direttamente alle ossa, lo scuoteva nel profondo. A quel minimo contatto aveva dovuto reprimere la voglia di avvolgere la sua vita con il braccio, palese messaggio di possessività per chiunque del Cerchio.
In quel momento, l’oggetto dei suoi pensieri vagava per il prato, mentre Sebastian controllava lo stato fisico delle gemelle.
Istintivamente, le si avvicinò, avvertendo un forte senso di inquietudine vibrare nell’aria intorno a lei.
Sy si fermò, dandogli le spalle, lo sguardo perso verso la proiezione della foresta.
«Lo scoprirò, sai?» disse. «Quello che vedi nelle tue visioni. Non puoi nascondermelo.»
La ragazza si girò verso lui, inchiodandolo con il suo sguardo turbinante di emozioni.
Qualcosa si mosse nel petto del ragazzo. Un battito più forte? Un nodo alla gola? Un senso di vuoto alla bocca dello stomaco? O tutte e tre le cose insieme?
Probabilmente, era così, ma per una persona non abituata a quel genere di reazione, decise semplicemente di accantonarle, per poi esaminarle in un altro momento a mente fredda.
Quella ragazza aveva qualcosa di particolare che aveva il potere di istigarlo a sapere sempre di più su di lei. Più sapeva, più voleva sapere.
«Perché non vuoi dirmelo?» chiese.
Red strinse i denti, riportando alla mente la visione che aveva avuto su di lei, la volta in cui aveva toccato le sue labbra dolci e spezziate la prima volta.
Lanciò un’occhiata alle sue spalle, per accertarsi che nessuno potesse sentire quello che aveva da dire, e si avvicinò a lei.
Il suo sguardo fermo lo raggiunse dal basso, passando prima per il petto, poi il collo e in fine agli occhi, carezzando come un venticello estivo.
«Ascoltami, Sylence, attentamente. Prometti che non racconterai niente di quello che sto per dire a nessuno di loro.» chiese il ragazzo accennando con il capo al gruppo dietro di lui.
«Per quale motivo…»
«Prometti.» ordinò.
La vide stringere gli occhi, aprendo e chiudendo convulsamente le mani. Si era accorto da tempo che non poteva soffrire gli ordini.
Per quel motivo, addolcì un po’ la voce. «Promettilo.»
Dopo vari momenti, lei annuì.
Allora lasciò che la visione colmasse la sua mente, invadendo ogni spazio nel suo cervello, occupandolo.
«Non prendertela con me, dopo.» l’avvisò.
 
 
Jackson Kingston's POV
 
Sospirando pesantemente, si sedette sulla tavola di pietra, lanciando un’occhiata alla ragazza bionda tra le mani cliniche di Sebastian «Bastian, si corresse.
La situazione gli stava sfuggendo di mano. Non aveva mai preso in considerazione che potessero succedere ciò che stava succedendo.
Ed è tutto per colpa di una nuova arrivata.
No. Non doveva pensarla in quel modo. Era assolutamente sicuro che Sy non era a conoscenza di quello che stava avvenendo, né che la causa primaria era lei.
Da quando l’aveva vista la prima volta, nel corridoio della scuola, aveva capito che qualcosa stava cambiando, una nuova tensione aveva riempito l’aria, facendo scattare il suo sesto senso come una sirena di sicurezza.
Aveva capito che, presto o tardi, sarebbero arrivati i guai e che sarebbero stati anche molto grossi.
«Sei guarita perfettamente, Annika.»
La constatazione di Bastian lo riportò con i piedi per terra, focalizzando la sua attenzione sulla ragazza al suo fianco.
Annika sospirò di sollievo e si girò a sorridere a sua sorella. «Visto? E tu che continuavi a preoccuparti. «Con un gesto della mano, liquidò la faccenda come se non avesse rischiato di rimetterci la vita.
A volte quella ragazza lo faceva uscire fuori di testa. Aveva degli atteggiamenti superficiali talmente snervanti da fargli venire voglia di strapparsi i capelli.
«Guarda che eri tu quella che continuava a scuotermi neanche fossi una maracas, starnazzando come un’oca. Devo dirtelo, gemella, è stato un comportamento a dir poco indecente.» la redarguì Monika, scuotendo i suoi capelli platinati.
Il viso di porcellana di Annika si adombrò, spostando il peso da un piede all’altro, irrequieta.
«Era terribilmente in ansia, gemella.» mormorò, torturandosi le mani. «Lo ero così tanto da perdere il mio solito charme.»
L’espressione di Monika si ammorbidì, risplendendo si tenerezza. Abbracciò la sorella, stretta, come temesse che, lasciandola andare, potesse rompersi in pezzi.
«Ti voglio tanto bene, Annika.» le sussurrò all’orecchio.
La sorella ricambiò l’abbraccio. «Anche io, Monika.»
Per non invadere la loro privacy, Jake girò lo sguardo soffermandosi sugli altri componenti del Cerchio. Scorse Red al limitare della foresta, con il capo chino e suppose che ci fosse anche Sy, coperta dal grande corpo del ragazzo.
Aveva intuito che tra i due stesse succedendo qualcosa, dai vari gesti compiuti sia dall’uno che dall’altro.
Gli atteggiamenti di Red stavano evolvendo giorno dopo giorno. E la prima volta che se ne era accorto era stato il giorno in cui non riusciva a trovarlo, casualmente (?) anche la prima in cui aveva incontrato Sylence.
Quando era riuscito a trovarlo, nella palestra, aveva notato una nuova espressione sul suo viso. Di solito era un tipo taciturno, impassibile, ma qual giorno, nei suoi occhi aveva letto una forte confusione e anche qualcosa di molto simile alla speranza.
Jake conosceva tutto quello che era successo a Red, da quando erano bambini, e aveva sperato e continuava a sperare tuttora che quella speranza non fosse vana.
Era felice per lui – a dispetto della lite che li aveva divisi –, ma il soggetto di quella speranza era alquanto insinuoso.
Un calore improvviso, situato nella zona della spalla, lo distrasse dalle sue constatazioni.
I suoi occhi affondarono in quelli limpidi come acqua di sorgente di Annika. L’anello di un blu più scuro era accentuato dalla sua espressine corrucciata.
«Tutto bene, Jake?» gli chiese.
Quella sua preoccupazione gli scaldava il cuore, come nessun altro aveva mai fatto per lui.
«Non temere. Sto bene.» Con un gesto del capo, indicò dietro si lui.»Bastian ha detto che ti sei ripresa.»
Lei annuì. «Sì, per fortuna.» Si mordicchiò il labbro, indecisa se parlare o meno. Ma fidandosi del suo istinto, porse la sua domanda. «Che cosa sta succedendo, Jake? Tu lo sai, non è vero?»
Lui non rispose.
«E… tutto questo… sta succedendo… per il suo arrivo?»
Jake sapeva che quel “suo” era riferito a Sy, perché, appunto, anche lui sapeva che era così.
«Che cos’altro accadrà, Jake?» chiese ancora Annika. «Quali altri cose dovremmo ancora affrontare? Sai perfettamente che noi non siamo in grado di farlo, non siamo combattenti. Se quella… cosa… attaccasse di nuovo, cercasse di uccidere qualcun altro di noi, non sapremmo capaci di lottare perché non lo abbiamo mai fatto.»
Allora, Jake allungò una mano a stringere la sua. «Non lo so, Annika. In questo preciso momento, non ho la minima idea di cosa fare.» disse, lasciando trasparire la sia agitazione e il senso di perdita che provava, come se fosse nel deserto e non sapesse in che direzione fosse l’oasi più vicina.
Le mani piccole e calde della ragazza, gli circondarono il viso, carezzando con i pollici le sue guance, infondendogli un senso di calma, e poggiò la sua fronte contro quella del ragazzo.
«Io so che puoi farcela.» gli sussurrò dolcemente. «Ho pienamente fiducia in te.»
Jake chiuse gli occhi, perdendosi in quel momento di assoluta calma e pienezza.
Credo che non mi sentirei così con nessun’altra. Solo con lei.
 
 
Red Hawks's POV
 
Vedere la sua espressione così persa e vulnerabile, fece venire voglia al ragazzo di stringerla tra le braccia.
Si limitò ad avvicinarsi di un altro passo a Sylence, fin quasi a toccarla. Avrebbe voluto non dirle niente, ma lei aveva ragione. Era un suo diritto sapere quello che aveva visto, come lui aveva preteso di sapere cosa aveva visto lei.
Ma ciò che lui le aveva riferito era molto diverso da quello che aveva visto lei.
Il volto pallido di Sylence gli stringeva lo stomaco, sapendo di essere lui la causa, anche se involontaria. D’altronde, non era lui a decidere quello che avrebbe visionato.
La ragazza scosse la testa debolmente. «Non è possibile.» soffiò. «No.»
Non riusciva a sopportare di vederla così abbattuta. Sylence era forte, capace di tenergli testa.
L’avvolse tra le braccia, mentre lei si abbandonava al suo abbraccio, posando la fronte sul suo petto e stringendogli la maglia nelle mani.
«Ti stai sbagliando.» lo contraddisse, le parole soffocato contro di lui. «Non posso aver fatto una cosa del genere.»
Red non disse una parola, lasciandola sfogare, mentre nella sua testa, riviveva la visione di lei che portava il Villaggio alla Distruzione.

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Capitolo 20
*** Ciò Che Il Cuore Non Crede ***


Sy Hill: Eccomi di ritorno Miei Cari Lettori e con me porto anche il mio nuovo Capitolo!!! Questo è più corto rispetto agli altri e vi spego subito perché: essendo delle visioni sono delle immagini fugali, pensieri e momenti catturati da Red. Alcui sono più elaborati e altri sono più semplici, ma arricchiti, per mano mia, di altri dettagli per farvi comprendere meglio. Spero vi piaccia.
Leggete e recensite,
Baci.

Sy Hill <3<3<3<3


P.S: Ringrazia tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo. Grazie Infinite a tutti. Come regalo, Ho postato le immagini di tutto il Cerchio. Fatemi sapere cosa ne pensate.

Baci!



CAPITOLO 20
 
Ciò che il Cuore non Crede

 
 

Nel corridoio di pietra rimbombano i passi cadenzati, la fioca luce che filtrava attraverso le nuvole grigie cariche di tempesta, proiettava l’ombra sinuosa ed elegante sulla parete ricoperta di quadri rovinati e distrutti.
La stoffa del lungo abito nero frusciava ad ogni movimento, avvolgendo la figura esile ma slanciata.
Un lampo di luce, precedente al tuono, illuminò fulmineamente il volto pallido ma bello della ragazza, facendo brillare i suoi occhi strani, magnetici, di due colori diversi: quello destro nero come l’abisso più profondo, quello sinistro di un grigio impalpabile come nebbia.
 
*   *   *
 
Era impaziente di arrivare nella Grande Sala: il suo Assoggettato aveva portato a termine la sua missione con successo.
Un sorriso obliquo, arrogante e soddisfatto curvò le labbra dall’aspetto morbido, ma spietate.
Senza essere toccate, le grandi porte di legno si aprirono cigolando leggermente, spinte da una forza invisibile quanto potente.
La Grande Sala era illuminata da decine di candelabri neri, issati su sostegni alti quasi due metri. Un corridoio ne percorreva il perimetro, le cui arcate erano riempite da Guardie Armate e tra una colonna e l’altra pendevano delle catene che incatenavano i loro polsi ricoperti dall’armatura di ferro.
Non c’erano finestre, né altri accessi.
L’unico elemento di rilevanza era l’enorme pozzo nero al entro della sala, la Beàl an Diabhail, la Bocca del Demone. Era la fonte di potere dell’intero castello, conteneva così tanta Energia da poter distruggere un’intera nazione, se usato nel modo sbagliato.
Ma non era quello che aveva intenzione di fare la ragazza.
No.
Il suo piano prevedeva che, alla fine, avrebbe avuto il controllo del luogo da cui era stata cacciata, il punto d’incontro di tutto ciò che aveva sempre odiato con una rabbia e un impeto tremendamente potenti.
Dalle ombre retrostanti le colonne di pietra, emerse una figura massiccia, vestita di nero, dal volto crudele e cadaverico, dagli occhi privi di sclera e completamente neri infossati, il naso deforme e la bocca sottile, da rettile.
Si inginocchiò a pochi metri dalla ragazza, ferma accanto al pozzo, intenta a guardare al suo interno.
«Mo Bhean.» salutò lui, portando una mano, stretta a pugno, al cuore. «Il compito che mi avete assegnato è stato svolto con successo. Ciò che mi avete richiesto è rinchiuso nelle prigioni, attendendo un vostro comando.»
La voce aspra e raggelante rimbombò nella sala.
La ragazza stese una mano, palmo verso il basso, sulla Beàl an Diabhail, raccogliendo un po’ di Energia. Una foschia scura come la notte si levò dal pozzo, agitando la superficie come le onde leggere d’un calmo mare d’estate. La nebbia avvolse la mano della ragazza, risalendo per il braccio pallido, appollaiandosi per pochi istanti sulla sua spalla, le carezzò una guancia e si fermò al centro del petto, in corrispondenza del cuore palpitante e di un pendente, una stella a cinque punte rivolta in basso, al cui centro brillava una pietra nera, inscritta in un cerchio fatto da un serpente che si morde la coda, simbolo di immortalità.
La pietra assorbì la nebbiolina, che incominciò a palpitare come fosse un cuore.
La ragazza si tolse la collana e la pose all’Assoggettato, mentre questi chinava la testa per ricevere quel dono tanto atteso.
«Siete troppo benevola, Mo Bhean.» disse il servo, nascondendo un sorriso furbesco…
…che non durò allungo.
La ragazza con un movimento veloce del polso, liberò una quantità minima di Energia, avvolgendo il corpo massiccio del suo servo.
La Forza lo strinse in una morsa pari a quella di un serpente a sognagli intorno al corpo della sua preda, stritolando le ossa e facendole scricchiolare dolorosamente.
«Non prenderti gioco di me, Reìrag. minacciò soavemente la ragazza. La voce simile a suono di cristalli al vento. «Non puoi nascondermi il tuo volto, come non puoi nascondermi i tuoi pensieri.»
Un lampo di incredulità e paura illuminò gli occhi del Servo.
«Non sei, poi, così furbo, come credi di essere. Conosco ogni singolo pensiero che attraversa il tuo misero e facilmente soggiogabile senno.»
Intanto, la morsa continuava a stringere Reìrag, ma non tanto da provocare danni irreparabili. Il Servo stringeva i denti, trattenendo gli urli che premevano per uscire, sapendo che anche al solo minimo suono emesso, quella tortura sarebbe peggiorata.
«Ti ho dato il Rìon, dopo averlo caricato di Energia sufficiente per il compito che sto per darti. Ma non sperare. Ciò che avevi predisposto di attuare non andrà a buon fine: il ciondolo non è così potente e io sono l’unica che può attingere dal pozzo.»
Lasciò ricadere la mano, liberando così l’Assoggettato, che cadde a terra con un gemito silenzioso.
Le serviva, considerò la ragazza. Non poteva rovinarlo: era stato l’unico a riuscire nel compito che aveva assegnato già ad altri prima di lui, perciò era un’abile pedina per la sua scacchiera.
E ora, è il momento di fare la mossa decisiva.
«Séìc Tàcth
Scacco matto.
 
*  *  *
 
Il vento soffiava forte, portando con sé le ceneri di quello che una volta era stato lo Sdhraìdbal, il Villaggio.
Le urla raggiungevano le alte colline da cui si godeva quel panorama di devastazione e dolore.
«Mo Bhean.» la chiamò una Guardia Armata, l’armatura piena d pozzi e tagli, completamente ricoperta di sangue scarlatto.
Si inginocchiò al cospetto della ragazza. «I vostri Uomini sono hanno eseguito il compito.»
Una risata maligna eruppe dalle labbra rosse della ragazza.
Il suo piano aveva funzionato, come previsto. Quella stupida di sua Madre non aveva potuto niente contro le legioni di Assoggettati che le aveva inviato contro, riempiti di Energia al punto da riuscire ad abbattere la Barriera che proteggeva il suo Regno e prendere possesso di quello che le spettava di diritto.
Quegli stupidi degli Abitanti non erano stati in grado di combattere contro la Forza delle sue Guardie Armate.
E, presa a tradimento, anche sua Madre non era stata in grado di riuscirci, finendo rinchiusa in quello che era diventato il suo Lago. Ormai non avrebbe potuto più prendersi cura delle sue piante e dei suoi animaletti domestici, perché non sarebbe più uscita dalla sua prigione di Ghiaccio.
Alcuni degli Abitanti i erano rifugiati sopra le vette elevate delle Montagne Rocciose e quelli che avevano combattuto ed erano stati sconfitti, si erano arresi alla sua volontà.
«Mo Bhean, quali sono i vostri ordini?» chiese la Guardia.
Calmata la risata, ripose: «Fai allontanare tutta la mia Guardia dal Villaggio. È ora di ricominciare. E trova Reìrag.» ordinò.
Una folata di vento le spostò delle ciocchi di capelli scuri sugli occhi policromatici.
Un nuovo Potere, una nuova Era.
Allo abbandono del Villaggio, un vortice nero lo cancellò per sempre.


Eccomi qui: Vi presento il Cerchio!


Sylence Hill My Eyes




Red Hawks Red’s Eyes




Jake Kingston Jake’s Eyes



Annika Monika Tisch Twins’s Eyes



Raferty Slater (Si lo so ma non ho trovato nessuno più adatto)




Bastian Ross (Tralasciate gli occhi a mandorla ed è uguale)





Rae-Mary Johnson Rea’s Eyes



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Capitolo 21
*** Il Vero Motivo ***


Sy Hill: Eccomi a vuoi gente con un nuovo capitolo tutto speciale! Sì, perché si avrà una revisione del passato, un ricordo riesumato dalla mente di una dei personaggi secondari. Chi? Leggete e lo saprete.
Come sempre, voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo: CHIA96 , DEFY, TAY98, e una nuova aggiunta SILVIAELAMIGLIORE.
SIETE STUPENDI RAGAZZI E SONO IMMENSAMENTE CONTENTA CHE VI PIACCIA CIO' CHE SCRIVO.
LEGGETE E RECENSITE QUESTO CAPITOLO, MI RACCOMANDO, CO TENGO PARTICOLARMENTE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3



CAPITOLO 21
 
Il Vero Motivo

 
 
Stesa sul mio letto, stringendo il cuscino, rimuginavo su quello che mi aveva detto Red.
Erano passati solo tre giorni da allora e non potevo credere a quello che gli avevano trasmesso le visioni.
Io che vivo in un castello? Ingaggio un… com’era?, un Assoggettato per catturare qualcosa? Che distruggevo il Villaggio, dove molto probabilmente c’è anche mia madre?
Non era assolutamente possibile. E per colpa di quella visione, avevo anche litigato con lui. Ricordavo ancora le parole che gli avevo detto e ciò che lui aveva risposto.
 
Mi allontano di qualche passo da lui, scuotendo insistentemente la testa, negando ciò che lui ha detto.
«Non è vero.» gli dico. «Ti stai sbagliando alla grande. Io non fari mai una cosa del genere.»
Red, impassibile come sempre, continua a guardarmi. «Non posso farci niente. È quello che ho visto e sei stata tu a volerlo sapere.»
In un piccolo angoli della mia mete sconvolta, passò il pensiero che lui lo aveva nascosto per proteggermi proprio da quello.
«Non avevi alcun diritto di tacere, già dalla prima volta che mi hai vista.» lo attaccai. «Invece di fare il Red-Hawks-il-duro-dei-duri-che-non-pensa-a-nessuno, avresti dovuto dirmi quello che avevi visto. Ma lui no! Non pensa a quello che posso provare, sentendomi una perfetta idiota e una stramba perché ogni volta che ti ho baciato mi sono ritrovata stesa a terra, persa in un qualche posto che non ho mai visto, mentre vedo te incatenato, ferito, sotto le mire perverse di un mostro e preoccupandomi da matti!»
Un maschera di fredda impassibilità gli calò sul viso, cancellando quello che avevo creduto Red fino a quel momento.
«Se la pensi in questo modo, puoi stare tranquilla. Non ti toccherò più, farò finta che tu non esista, che non sia mai venuta qui, rovinando quel poco che potevo chiamare vita, riducendola ad un ammasso di misteri e pericoli di cui avrei fatto volentieri a meno.»
 
Da quel momento, da quando mi aveva voltato le spalle per tornare dagli altri, non lo avevo più incontrato.
Mi sentivo uno schifo per come lo avevo trattata. Non se lo meritava. Certo, un po’ era anche colpa sua, ma quella che era esplosa come una bomba ad orologeria ero stata io.
Nascosi la faccia nel cuscino, vergognandomi di me stessa, mente il cielo fuori dalla finestra si faceva plumbeo.
Stupido talento atmosferico.
Non appena una qualche emozione mi pervadeva, un elemento si faceva vedere, rispecchiandolo. Non potevo dissimulare nulla: se ero arrabbiata, partiva un filmine, se ero triste il tempo si rannuvolava, se piangevo pioveva, se mi divertivo a cantare i fiori sembravano divertirsi con me, rinvigorendosi o tornando a fiorire.
Ero come un libro aperto, solo che per capire l’emozione che provavo non dovevi vedermi in faccia, ma guardare il meteo.
Lo squillo del campanello mi fece sobbalzare. Guardai l’orologio: le cinque e mezzo.
Che papà si fosse dimenticato le chiavi? Era uscito per fare la spesa (dopo che glielo avevo ricordato), ero sola in casa.
Posando il cuscino, andai alla porta principale e diedi un’occhiata dallo spioncino.
Alzai un sopracciglio, perplessa e incuriosita , per quella visita… imprevedibile, e aprii, restando a guardare.
«Se avessi saputo che hai intenzione farmi la radiografia, neanche stessi in ospedale, sarei andato direttamente lì, invece di fermarmi da te.»
«Sai com’è, non tutti i giorni mi si presenta davanti alla porta di casa un ragazzone grande e grosso, a cui piacciono le griffe.»
Raferty Slater mi lanciò un’occhiata affilata come un coltello.
«Hai intenzione di lasciarmi impalato sulla porta per tutto il giorno?»
Sorridendogli, mi scostai per farlo passare e chiusi la porta.
Lui scandagliò la stanza, senza avanzare commenti.
«Il tappeto persiano e il quadro della Monna Lisa sono in ritardo di consegna.»
Ebbe il buon gusto di arrossire. «Scusa.»
«Ebbene, cosa ti ha spinto ad entrare nella mia umile dimora?»
Rafe incrociò le braccia muscolose. «La vuoi piantare?»
«Scusa, mi è venuta spontanea. Ora vuoi rispondermi?»
«Non c’è nessuno?»
«No, mio padre è uscito. È successo qualcosa?»
«Possiamo parlare in un posto tranquillo?»
Lo condussi in camera mia, dove si sedette sul letto, mentre io mi rannicchiavo con un cuscino in mano sull’alcova divanetto sotto la finestra.
«Siamo un po’ preoccupati.» disse dopo qualche secondo di silenzio.
«Preoccupati di cosa?»
«In questo periodo ne sono successe di tutti i colori, qualcosa a cui non eravamo preparati e ora non sappiamo come muoverci. Jake cerca di mantenere ordine e di non mostrare quello che pensa veramente, ma si vede che anche lui non sa cosa fare.» Incominciò a camminare nervosamente per la stanza. «Prima, il tuo arrivo e il fatto che sei una di noi, poi l’attacco alle gemelle, quelle strane visioni, e poi c’è stato quel maledetto litigio tra Jake e Red…»
«Perché hanno litigato?» lo interruppi.
Lui mi guardò indeciso, esitante. «Non credo che spetti a me dirlo…>> disse titubante.
«Faccio parte del Cerchio e di tutto questa storia assurta. Un qualcosa sta cercando di ucciderci e ci è quasi riuscito. Per di più, tu sei gay. Senti per caso una folla inferocita e spaventata munita di torce e forconi?» chiesi sarcastica. «Lo so mantenere un segreto, Raferty.»
Rafe si accasciò sul letto, sospirando. «Scusa, è che da una vita che i segreti mi perseguitano e non so più di qui fidarmi.»
«Non posso dirti “fidati di me” perché deve essere una tua scelta, e se sceglierai me come confidente e custode di almeno un parte del peso che ti porti dietro, ne sarò felice.»
Lui mi studiò con uno sguardo pieno di speranza. «Sei strana lo sai?»
Per alleggerire la tensione, scrollai le spalle e dissi: «Che vuoi farci? Difetto di famiglia.»
Rise, per poi sospirare.» Okay.» Fissò i suoi occhi castani nei miei.» Ecco quello che successe…»
 
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Raferty Slater's POV
 
Camminava per il corridoio deserto, aspettando che suonasse la campanella. L’aria era molto calda, per essere fine settembre, e si poteva andare in gironi maglietta o camicia.
Arrivato di fronte all’aula di Biochimica, appoggiò i fianchi tonici contro il basso muretto della finestra, incrociando le braccia muscolose al petto ampio e massiccio.
Se fosse stato per lui, avrebbe depennato le ore passate in palestra ad allenarsi dalla sua lista di cose da fare, e avrebbe occupato le giornate con la sua passione, la fotografia.
Non passava giorno che non prendesse la sua Canon, nascosta nel fondo dell’armadio della madre – luogo sacro e inviolato dal padre – e se ne andasse in giro con l’auto per cercare soggetti e paesaggi da immortalare per sempre sulla sua pellicola.
Ma non poteva.
Smettere comportarsi da uomo, da vero duro impassibile, avrebbe palesato quello che era il suo vero io, il vero Raferty Slater, e, quel punto, sarebbe finita.
Se il suo vecchio avesse anche solo sentito uno spiffero di quello che veramente gli piaceva, lo avrebbe scorticato vivo.
Suo padre, Haron Slater, era un omofobico convinto. Tutto ciò che riguardava la sessualità di una persona era strettamente relazionata alla sola realtà che per lui valeva. Per lui l’uomo poteva stare solo con donne – una la sposava e altre le portava a letto.
Haron non vedeva, anzi, non sopportava vedere due uomini insieme, neanche se erano uno affianco all’altro senza implicazioni di natura sensuale, e aborriva ogni contatto con un altro esponente del suo stesso sesso.
Neanche con il figlio aveva mai avuto contatto.
Probabilmente, le uniche volte in cui lo toccava era quando lo prendeva a pugni, ogni qualvolta non faceva le cose che voleva lui o le sbagliava.
Il suono della campanella lo fece trasalire. Quel suono squillante era simile a quella usata per gli incontri di boxe e, ogni volta che la sentiva, evocava l’immagine di suo padre sopra il ring pronto a menarlo.
La porta di Biochimica si aprì, vomitando studenti su studenti, tra cui il ragazzino dai capelli ramati e i grandi occhi castani che era diventato il suo migliore amico.
Strano a dirsi, vero? Tutti gli studenti si chiedevano come avesse fatto un ragazzino, mingherlino e quasi invisibile tanto era magro, a legare con Raferty Slater, il bestione grande e grosso, sempre scorbutico e cattivo che si aggirava per la scuola.
Beh, neanche Raferty lo sapeva. Quello che si era instaurato tra i due ragazzi, era qualcosa di molto complicato e unico.
All’inizio nessuno dei due sapeva dell’esistenza dell’altro. Figurarsi! Rafe quelli come Sebastian se li mangiava a colazione!
La prima volta che si erano incontrati per davvero era stato dopo la scuola, mentre se ne stava seduto per fatti suoi nel giardino.
In quell’occasione, sfoggiava un nuovo occhio nero, fresco di bastonata per aver sbagliato a fare la lavatrice.
All’improvviso, era comparso lui, Sebastian, carico di libri e si era affiancato a lui.
Rafe era rimasto fermo, cercando di collegare i fatti.
Cosa diavolo voleva quel pivello adesso da lui?, aveva pensato.
Ma il “pivello” lo aveva steso, peggio che essere compito dal pugno con le nocche di pietra del padre.
Aveva posato i libri accanto a Rafe, aveva alzato le mani sul suo viso e lo aveva toccato.
Nel giro di qualche secondo, Rafe aveva avuto la possibilità di aprire completamente l’occhio gonfio.
Sbalordito e completamente rintronato, Rafe aveva guardato Sebastian come se fosse un alieno, cercando di comprendere come fosse possibile.
E poi, la luce.
Sebastian era come lui.
Da quel momento, non si erano più separati.
Rafe lo andava a prendere tutti i giorni fuori dalle aule e Sebastian gli faceva compagnia, rompendolo di chiacchiere incomprensibili.
«Stai aspettando da molto?» gli chiese il rosso, aggiustandosi la tracolla e sorreggendo una piccola pila di libri.
«No,» rispose lui, in un grugnito. «Ma che diamine fai con tutti quei libri? Non ti scocci di leggere sempre le stesse cose?»
Il sorriso dell’altro gli fece pensare che non aveva mai visto un sorriso.
«Il fatto è che mi piacciono! Ogni volta che leggo un libro sulla fisica quantistica o sulla biochimica, le informazioni che ricevo cambiano o per una frase o per un concetto espresso in modo diverso e questo mi da la possibilità di vedere le infinite varianti si un determinato argomento.»
«Mi spieghi ancora una volta perché sono “ancora” tuo amico?» gli chiese Raferty.
«Perché ti guarisco le ferite, perché apparteniamo allo stesso mondo, perché custodisco i tuoi segreti come tu i miei, perché sei l’unico che si sorbirebbe le mie lunghe tirate senza prendermi a pugni…» Riprese fiato. «E perché ti sei affezionato a me come se fossi un cucciolo di gatto.»
L’atro annuì. «Grazie per avermelo ricordato.»
Sebastian scoppiò a ridere.
Arrivati nel parcheggio, Bastian posò i libri nella sua auto costosa.
In quel momento, Jake, Red e gli altri li raggiunsero.
L’espressione dei primi due non portava niente di buono.
«Che succede ragazzi?»
«Non è nien…» incominciò Jake.
«Il signor so-tutto-io non vuole dare una mano alla comunità per cercare di risolvere un crimine.» proruppe Red.
Rafe e Sebastian si scambiarono un’occhiata stranita.
«Cosa?» chiesero in coro.
«Venite,» esortò Jake, lanciando un’occhiataccia al suo migliore amico-fratello Red. «Questo non è luogo in cui parlare di certe cose.»
Attraversammo la scuola e si diressero tutti nel giardino sul retro, mentre le gemelle univano le mani per creare un’illusione.
Ognuno di loro aveva una pecca nei loro talenti e per la maggior parte riguardavano il contatto fisico. Le gemelle potevano creare un’illusione solo se univano le mani; Sebastian poteva usare il suo dono di guarigione solo se toccava il corpo nel punto in cui lo voleva guarire; Red doveva toccare l’oggetto che voleva mandare a fuoco. Mentre Rae-Mary aveva un limite di circa due chilometri per localizzare una persona; Jake non poteva sollevare un oggetto che pesasse più di cinque volte il suo peso. Infine Raferty poteva suggestionare solo persone che non aveva mai incontrato e con un limite di sole tre volte per persona.
«Allora che cosa è successo?» chiese Sebastian una volta arrivati.
«Al telegiornale, questa mattina, è stato mandato in onda un servizio in cui una coppia di ladri a scassinato una casa e, nel mentre, uno dei due ha ucciso una bambina e sua madre.» rispose Rae-Mary.
«E questo cosa…» incominciò Rafe.
«Red ha avuto l’idea di aiutare la polizia ad acciuffare i criminali.» rispose Jake, in evidente disaccordo.
«Ma perché non possiamo?» sbottò Red. «Rae-Mary può localizzarli, tu puoi fermarli e le gemelle possono fare in modo che appaiano davanti al distretto di polizia già legati come due salami. Inoltre, Raferty può suggestionare le loro menti per fare in modo che non ricordino niente di quello che è successo. E in caso di ferite, abbiamo Sebastian.»
Il piano di Red non faceva una piega, ma era palese che Jake non era della stessa idea.
«Non possiamo immischiarci, Red! E se dovesse succedere qualcosa di brutto? Se qualcun altro al di fuori dei due criminali dovesse vederci e riconoscerci? Non siamo ancora abbastanza bravi a controllare i nostri talenti, potrebbero sfuggirci di mano. Proprio ieri, hai quasi dato fuoco a mezzo bosco mentre ti esercitavi e la scorsa settimana Raferty ha avuto quell’effetto collaterale sulla ragazza del bar in centro.» Gli ricordò Jake.
«Andiamo! Non era poi così grave.» sminuì l’altro.
«È andata all’ospedale, Red. Per un trauma celebrale.»
L’atro ebbe la buona creanza di stare zitto.
«Lo ripeto: non ci metteremo in mezzo. Lasceremo che le autorità facciano il loro lavoro.» Jake guardò intorno a sé, ognuno di loro. «Siamo ancora troppo inesperti per immischiarci in cose pericolose, che richiedono la massima concentrazione e calma. Staremo in disparte, continuando ad allenarci, e quando avremo guadagnato un ottimo controllo, allora potremmo agire come meglio crediamo. Ma ora,» disse, scoccando un’occhiata decisa a Red, «Ne staremo fuori.»
Ma Red non era dello stesso avviso. Non se ne starebbe stato a guardare mentre questi maledetti bastardi se ne andavano in giro per le case ad uccidere altre persone innocenti.
Jake non era nessuno. Solo perché era stato il primo, tra di loro, ad aver scoperto quello che era, non voleva dire che era automaticamente il capo. D’altronde, Red non si faceva comandare da nessuno.
Quella stessa sera, dopo essersene andato di nascosto da casa, girovagò per la città, aspettando e osservando.
Aveva mandato un messaggio a tutti gli altri – tranne Jake – per incontrarsi in centro.
Fermo lì, mentre gli altri arrivavano, pensava a come doveva agire, ma si disse che il piano originale era più che buono.
Nel parcheggio deserto, entrarono a mano a mano le auto di tutti gli altri.
«Si può sapere perché ci hai chiamati a quest’ora infame?» protestò Annika, appena scese dall’auto, seguita dalla sorella.
«Perché stanotte giocheremo a “guardia e ladri”.»
Un coro di “cosa!” e “stai scherzando, vero?” lo stordì.
«No.» rispose lui, deciso. «Non ho intenzione di permettere a quei bastardi di passarla liscia un’altra volta o di far fuori qualcun altro. Ormai la polizia li sta cercando da due settimane e non li ha ancora trovati. Ma loro non avevano Rae-Mary.»
La diretta interessata, sempre impassibile, rispose. «Io non voglio cacciarmi nei guai per colpa tua e della tua scelleratezza.»
«Vuoi che un’altra bambina muoia?» le domandò a bruciapelo il ragazzo, gli occhi dorati che sfavillavano come tizzoni ardenti. «Perché è questo quello che accadrà se non fermiamo quei due.»
La ragazza ci pensò su, decidendo che se avrebbe potuto aiutare degli innocenti lo avrebbe fatto, ma solo per non averli sulla coscienza.
«D’accordi ti aiuterò.»
«Starai scherzando, vero, Mary?» chiese Monika, agitando nervosamente le mani. «Se Jake lo viene a sapere…»
«Jake non è il mio capo e io non sono hai suoi ordini.» rispose lei prontamente. «Sto alle sue regole e rispetto le sue decisioni solo perché è mio cugino, ma non decide lui per me.»
«Bene!» esclamò Red, sfregandosi le mani, creando una serie di scintille. «Chi altro è con noi?»
Irrimediabilmente, come delle tessere di domino, tutti gli altri acconsentirono a quel piano folle e pericoloso, capitanati da Red.
Organizzando il tutto, salirono nelle auto.
Rae-Mary, in prima posizione, avrebbe aperto la fila, che si sarebbe chiusa con Sebastian, per ovvi motivi.
Nel girare per la città, Rae-Mary, riuscì ad individuare i due ladri a meno di seicento metri ad est, in un quartiere di lusso della città, e comunicò la notizia agli altri.
Il piano stava filando tutto liscio, troppo liscio.
Era questo che stava pensando Raferty in quel momento, mentre parcheggiavano le auto e le gemelle creavano un’illusione per far credere alle persone che erano intorno che niente di quello che stava accadendo fosse vero e per rendere i due uomini invisibili.
I due uomini erano entrati dalla porta sul retro, e si erano intrufolati fino nello studio della casa, al piano superiore, vicino alle camere da letto.
Uno dei due, stava frugando nei cassetti della scrivania per trovare qualsiasi oggetto di valore da rubare mentre il suo compare andava nella camera da letto padronale e sequestrava i gioielli della donna che stava dormendo, tranquillamente accanto a suo marito.
Credevano di essere stati molto bravi, poiché nessuno della casa si era svegliato, neanche il cane che sorprese l’altro nella camera da letto della giovane figlia dei coniugi.
All’improvviso, la stanza in cui si trovavano scomparve, lasciandoli entrambi al buio. Spaventanti, lasciarono andare gli oggetti che avevano in mano e presero le pistole che avevano nascoste, puntando a caso.
«Vi conviene non muovervi, se non volete fare una brutta fine.» li avviò una voce.
I due, morti di paura, si girarono in torno in cerca della persona che aveva parlato.
«Chi diamine sei?» chiese uno.
«Fatti vedere!» ordinò l’altro.
«Gettate le armi e inginocchiatevi a terra.» ordinò una voce imperiosa.
I ladri, contro la loro voltò, eseguirono.
«Ma che diamine sta succedendo, Laster?» chiese uno. «Non riesco a muovermi.»
«Neanche io, Bill.» disse Laster.
All’improvviso, però, lo spazio nero si dissolse in una nebbia tremolante e, al suo posto, comparve il giardino sul retro, da cui erano passati. Ed erano accerchiati da ragazzi.
«Chi diamine siete?!» gridò Laster.
I ragazzi sorpresi, guardarono le gemelle.
«Ci dispiace, ma non ce la facciamo più. Non reggiamo troppe illusioni alla volta.» rispose Annika, presa dal panico.
Red guardò Rafe. «Controllali, mentre io li lego.» disse, mentre prendeva il tubo dell’annaffiatoio.
«Restate immobili.» ordinò il ragazzo.
Ma, malauguratamente, l’ordine non funzionò.
Uno dei ladri, all’insaputa di tutti, aveva una pistola nascosta nello stivale, e in un gesto fulmineo la estrasse, puntando su di loro.
Ormai li avevano visti, e avendo già ucciso parecchie persone nella sua vita di delinquenza, eliminarli non avrebbe significato altro che non correre il rischio di venire sbattuto in carcere.
Red, intercettando il movimento del ladro, pose le mani a terra e chiamò a sé il proprio talento. Una lingua di fuoco bruciò l’erba in direzione dell’uomo e, quando lo raggiunse, lo avvolse completamente, facendogli lasciare la pistola ormai ardente.
Il fuoco, però, divenne incontrollabile. Red cercò di ritirarlo, di spegnerlo, ma non riusciva a farlo.
Il fuoco avvolse anche l’altro uomo, intento a spegnere quello del compagno.
Presi dalla paura e dal panico, Rae-Mary e le gemelle scapparono, rompendo l’illusione sugli abitanti della casa, che sentirono le grida dei due uomini in fiamme.
I ragazzi cercando disperatamente in giro, trovarono dei tubi di irrigazione, ma era già troppo tardi.
I due uomini, giacquero a terra, immobili, mentre i fuoco continuava a divorare i loro corpi.
Prima di andarsene, chiamarono i pompieri sa una cabina lì vicino, mentre in tutto il vicinato le luci e il vociare, segnalavano il risveglio dei residenti.
Il solo pensiero che pervadeva la mente di tutti era: che cosa abbiamo fatto?
 
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Immobile, guardavo Rafe piangere, mentre riviveva quella notte di tragedia.
Un freddo innaturale mi pervadeva il corpo, impedendomi di alzarmi e correre in bagno per vomitare.
Non avevo la forza per credere alle parole di Rafe, quello che mi aveva raccontato era troppo… troppo orribile, troppo tragico, troppo sbagliato.
«Avreste dovuto seguire il consiglio di Jake.» soffiai.» Avreste dovuto starvene a casa vostra e lasciare che fosse la polizia a sbrigare la faccenda…»
«Credimi,» disse Rafe, cercando di asciugare le continue lacrime che gli bagnavano le guance.» Non sai quante volte ho desiderato tornare indietro e fare esattamente l’opposto di quello che ho fatto. Non sai come mi sono sentito mentre vedevo quei due… bruciare davanti hai miei occhi… l’odore… le urla…»
Si portò una mano alla bocca, soffocando un conato.
«Però Jake se la prese solo con Red.» dissi, per cercare di distoglierlo dai quei macabri pensieri.
Prese un respiro profondo, prima di rispondere: «Jake, quella mattina aveva ascoltato i notiziari. Sapeva quello che era successo la notte prima, dei due ladri, ma seppe anche che una testimone, la ragazzina che abitava in quella casa, aveva visto un gruppi di ragazzi correre vie dal giardino.» Scrollò le spalle. «Era logico che facesse due più due, fuoco uguale Red, perciò andò dritto da lui. non importava che ci fossimo anche noi, Jake sapeva che noi avevamo seguito solo ciò che aveva programmato Red. Jake andò da lui, litigarono come non avevano mai fatto in vita loro, si presero a pugni – cosa deducibile dai lividi e croste che avevano il giorno dopo a scuola – e non si rivolsero più la parola.» Si girò a guardarmi. «È dall’ora che seguiamo sempre i consigli e le indicazioni di Jake.»
Una calma placida ci avvolse, entrambi persi nei nostri pensieri.
Quello che mi aveva raccontato Rafe faceva luce su vari aspetti dei comportamenti di Red, del dolore che vedevo nei suoi occhi ogni volta che Jake lo ignorava, il fatto di nascondere il suo talento e come si fosse preoccupato di farmi stare lontano dalla fiamma che aveva creato. Quella ruga di tensione che solcava le sue sopracciglia quando era vicino a Jake.
Inoltre, potevo farmi un’idea del perché non avesse voluto parlarmi delle visioni che aveva avuto.
Mi sentii ulteriormente peggio quando pensai al modo il cui lo avevo trattato.
Ora sapevo che mi aveva nascosto tutto per paura di allontanarmi, di rompere quel flebile legame che si era istaurato tra di noi, prima che lo disintegrassi con la mia stupidaggine.
Devo rimediare.
Dovevo rimettere le cose a posto, farmi perdonare per il comportamento stupido che avevo tenuto nei suoi confronti per qualcosa di cui non aveva colpa.
Con quella nuova determinazione, mi alzai, facendo trasalire Rafe.
«Sy?»
«Devo fare una cosa.» gli dissi, mentre giravo per la stanza, recuperando le scarpe. «Devo chiedere scusa a Red.»
«Chiedergli scusa?» domandò, prendendo una scarpa da sotto al letto e porgendomela.
L’afferrai. «Grazie. È complicato, ma devo farmi perdonare. Il problema è che con me non vorrà averci niente a che fare e se lo chiamo sul cellulare on risponderebbe. Anzi lo farebbe, ma solo per potermi mandare al diavolo. Ed è qui che entri in gioco tu.»
Dopo aver saltellato in giro per la stanza, infilandomi l’altra scarpa, mi voltai a guardarlo.
«Puoi aiutarmi?»
Sbattendo le palpebre, confuso, rispose: «Certo.»
«Allora prendi il telefono e chiamalo, digli che vuoi incontrarlo in un posto che preferisce. Penso di sapere quale sceglierà.»
«E poi?» chiese, mentre prendeva il cellulare.
Lo presi per il braccio e lo condussi in cucina. Frugai nei cassetti e tirai fuori lo stick di post-it e una penna.
«Vediamo cosa risponde.» farfugliai. Con il tappo in bocca della penna, fischiavo ad ogni lettera come una babbea.» Poi mi accompagnerai a luogo stabilito.»
Attaccai il post-it al frigorifero e tirai Rafe fuori di casa, chiudendomi la porta alle spalle con la chiave.
«Ah, Rafe.» lo chiamai, mentre componeva il numero.
«Sì?»
«Grazie. Per avermi raccontato tutto e… beh, per aver accettato di mettere in atto questa messinscena così all’improvviso. So che non ti vado tanto a genio.»
Lui mi studiò per qualche minuto, per poi dire: «Sai, non sei poi così male come avevo pensato all’inizio. Passi per strambagine e i commenti acidi… sei passabile. Ma non montarti la testa, sei sempre sulla mia lista nera.»
«Oh, non dirmi queste cattiverie, tanto te lo faccio lo stesso, il regalo a Natale.»
Mentre Rafe soffocava una risatina per rispondere a telefono, io salii sulla sua auto, respirando a fondo, per darmi coraggio e sperare che Red non mi mandasse a quel paese.

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Capitolo 22
*** La Porta ***


Sy Hill: Perdonatemi vi prego!!! Non sapevo proprio che queste settimane sarebbero state così impegnative, tra scuola recuperi e pon. Non Linciatemi!
Per farmi perdonare ho scritto un capitolo più lungo con bei colpi di scena.
Preparatevi ad un capitolo alquanto altalenante, tra vari POV e novità.
Ma, come sempre voglio ringraziare chi ha recensito lo scorso capitolo e cioè: NESSIE 97, CHIA 96, DEFY, BABYSGALA e TAY98. E poi ringrazia alle 70 – dico 70!!! – persone che seguono la mia FF. Ma grazie *______*!!!
Grazie di cuore.
Bando alle ciance e eccovi il capitolo!!!!
LEGGETE E RECENSITE!!!!!!!!!!!!
Baci,

Sy Hill <3<3<3


 

CAPITOLO 22
 
La Porta

 
 
Ansiosa come non ero mai stata in vita mia, speravo che il piano andasse a buon fine. Negativamente, nella mia testa spuntava fuori un piccolo filmino dove Red mi mandava al diavolo.
Seguendo le istruzioni, Rafe parcheggiò l’auto prima di arrivare al campo da basket.
«Quanto sei nervosa.» osservò.
«Non sono nervosa.» protestai.
Lui alzò un sopracciglio, scettico, mentre abbassava lo sguardo quella manica che stavo torturando da quando eravamo usciti di casa. Avevo il vizio di tirarmela.
«Fra poco, la tua manica, toccherà il pavimento.» A sorpresa, comprendendo il mio stato d’agitazione, mi strinse in un abbraccio da orso. «Non preoccuparti, Sy. Vedrai che tutto si risolverà per il meglio.»
Mi lasciai abbracciare, affondando la testa nella sua spalla. «Promesso?» sussurrai, il cuore in tumulto.
«Certo.»
Respirando affondo, mi staccai. «Augurami buona fortuna.»
«Non ne avrai bisogno.» disse lui, riaccendendo l’auto.
«Se nello specchietto retrovisore vedi uno sbuffo di fumo, vuol dire che mi ha mandato a fuoco.»
Il suo sguardo divenne malizioso. «Oh, ti manderà a fuoco, ma in un altro modo.»
Arrossendo per la frecciatina, sbattei la portiera dell’auto e mi avviai al campo.
Era una bella giornata di sole, ma dal tumulto che avevo dentro, potevo vedere in lontananza di lampi che illuminavano a tratti il cielo.
Ci mancava solo l’avviso di chiamata.
Ancora prima di arrivare al campo, sentii i tonfi del pallone colpire l’asfalto in un suono ritmico cadenzato, all’unisono con il mio cuore agitato.
Non mi era mai capitato di sentirmi in quel modo. Il respiro affettato, i battiti impazziti del cuore, invasa da un senso d’impotenza.
E se non mi avesse dato la possibilità di parlare? Se se ne fosse andato via, appena mi avesse vista? Come dovevo comportarmi?
Non credevo che la facciata da dura imperturbabile avrebbe funzionato.
Avevo la sensazione che Red potesse leggermi dentro e capire quando stavo mentendo, quando fingevo di essere quella che non ero, e arrabbiarsi nel caso in cui mi fossi comportata in quel modo. E non volevo di certo peggiorare la giù complicata situazione.
Sii te stessa.
Sentii quelle parole come fossero sussurrate direttamente nella mia testa.
Essere me stessa? Cioè farmi vedere vulnerabile a qualsiasi attacco emotivo avesse in serbo per me? No, non se ne parlava.
L’unica persona che sapeva com’ero davvero era mio padre e avevo giurato che non avrei permesso più a nessun altro di approfittarsi delle mie debolezze.
Però…, pensai, mentre mi appoggiavo al muro, come a cercare sostegno.
Quello strano legame che avevo con Red, quel fulmine a ciel sereno che era divampato la prima volta che lo avevo visto, mi dava l’impressione che, in qualunque modo mi fossi comportata, quale che sarebbe stato il risultato di quell’incontro, non avrei mai potuto distaccare la mia mente – o la mia anima?» dalla sua. Avrei sempre avuto un filo di Arianna che mi stringeva a Red, anche se fossimo stati a chilometri di distanza.
E quello, più della prospettiva di un nuovo attentato alla mia vita, mi faceva paura.
Avrebbe significato avere sempre una debolezza, un’arma in mani nemiche che poteva ritorcersi contro di me.
Avrebbero potuto usarlo per estorcermi qualsiasi concessione, qualsiasi cosa.
D’un tratto, la visione che Red mi aveva raccontato e quelle che avevo avuto io, vennero illuminate da un nuovo significato.
Quell’essere orribile, agli ordini di quella che sembravo io – sempre e comunque avrei affermato che non ero io –, aveva incarcerato Red per attirare me. Non sapevo quando né come, ma io avevo conosciuto Red già prima di venire a Lansing City: a LiòsLand.
Ma com’era possibile? Come potevo averlo incontrato se non ero mai venuta in quella città? Come potevamo già essere stati legati da quel medesimo vincolo che ci univa adesso, se non ci eravamo mai incontrati prima del mio arrivo?
Avevo il cervello in fuso, tante erano le domande senza risposta che mi ronzavano in testa, e quello non era niente in confronto alla battaglia che stavo per affrontare su quel campo da basket.
Sospirando pesantemente, mi feci forza e girai l’angolo, ma mi bloccai appena mosso un passo.
Lui era lì, intento a palleggiare, scartare avversari invisibile e fare un elegante tiro a canestro. La forza dei muscoli, l’agilità delle gambe, l’eleganza dei movimenti, era come una danza ipnotica, come lo era il suono del flauto per un serpente a sonagli.
Quell’incantesimo involontario aveva il potere di fermarmi il cuore, farmi chiedere: cosa mai ci troverà un simile demone asceso dall’inferno in un maschiaccio come me?
Ma, in qualche modo, il demone si accorse della mia presenza, come se avessi fatto qualcosa per avvisarlo che ero lì.
Si girò di scatto, puntando i suoi occhi dorati direttamente nei miei, come se si fosse aspettato di trovarmi lì, bloccandomi il respiro nella zona della gola.
Nessuno dei due emise suono. Sembrava che il tempo si fosse fermato in quell’istante, mentre il nostro duello di sguardi continuava all’infinito.
Lo vidi stringere le mani. Immaginava che fosse il mio collo? O anche lui aveva la stessa voglia di toccare ciò che – possibile fossi così strana? – il cuore considerava mio?
Un brivido di inquietudine passò sotto pelle, facendola accapponare.
Cosa devo fare? Che devo dire?
Nella mia mente, mi ero preparata già la scena. Io che arrivavo, lui che mi chiedeva cosa diavolo volessi, io che gli rispondevo che mi dispiaceva, lui che accettava le mie scuse e ci saremmo stretti in un veloce abbraccio per aver risolto pacificamente la questione.
Ma la scena che mi stavo vivendo non corrispondeva affatto a quella che avevo immaginato.
Perché non parlava? Perché non mi dava la possibilità di potermi trincerare nuovamente dietro la mia corazza e potergli rispondere come mio solito, con sarcasmo e battutine? Perché non riuscivo a parlare?
Perché?
Possibile che avesse un simile controllo su di me?
Mi sentivo confusa, perciò vulnerabile, e non mi piaceva.
Mandando giù il groppo che mi si era formato in gola, costrinsi i miei piedi a muoversi, entrando nel campo da basket, e mi fermai a pochi metri da lui.
Vagamente, mi accorsi che i ciuffi di erba spintati dalle crepe intorno al campo, erano appassiti, mentre un leggero venticello giocava con le ciocche corvine di Red.
Le parole non volevano uscire. Ero incapace di proferire anche una sola parola. Era frustrante. Io che ero potevo dire anche una stupidaggine in momenti meno opportuni!
Il fatto era che, in quei momenti, non ero veramente io. Lo facevo solo quando avevo paura e per mostrarmi coraggiosa, imperturbabile, tirando fuori le prime parole che mi capitavano per la mente.
Invece, proprio lì, in mezzo al campo da basket, mentre la paura di sbagliare e commettere un passo falso mi mangiava viva, non ero capace di fare la stessa cosa.
Sono vulnerabile. Ho la vista annebbiata. Perché…?
In cielo si rannuvolò all’improvviso. Grosse gocce di pioggia iniziarono a cadere, colpendoci come le freccette di un tiro a segno.
In poco tempo, entrambi ci bagnammo come se fossimo appena usciti dal mare, con i vestiti addosso.
Un singhiozzo mi bloccò il respiro.
Sto piangendo?, pensai, stordita.
 
* * *
 
Red Hawks's POV
 
Una fitta, simile al taglio di una lama affilata, lo compì al petto.
La vista di lei, piangente, mentre il cielo rispecchiava quelli che erano i suoi sentimenti, era qualcosa che non riusciva a tollerare.
Com’era possibile che, una perfetta sconosciuta, si fosse impiantata a forza nella sua vita, sconvolgendola in quel modo? Come poteva essersi insinuata sotto pelle nel poco tempo che avevo avuto a disposizione?
Come?
La sua vita era un casino già prima che arrivasse lei. E il suo arrivo aveva complicato di più le cose.
Eppure, in qualche modo a lui sconosciuto, aveva avvertito qualcosa nell’aria prima ancora del suo arrivo. Un sentore di novità e caos che lo aveva seguito fino a poco prima la sua comparsa a scuola, con i suoi occhi di tempesta e nuvole e quell’animo da guerriera che si ritrovava.
In quel momento, nel campo da basket, proprio come la prima volta che avevano avuto un vero e proprio confronto, si ritrovava pervaso da sensazioni sconosciute, che gli suggerivano di correre da lei, abbracciala, confortarla, dirle che tutto andava bene.
E Red fece del suo meglio per sopprimerlo, ma non riuscendogli del tutto.
Si avvicinò a Sylence, immobile, intenta a versare lacrime silenziose, e le posò una mano a coppa sulla guancia.
L’ultima volta che l’aveva vista, aveva pianto nello stesso modo, poco prima che gli dicesse tutte quelle cose. Ora, però, non riusciva a rievocare quel sentimento freddo che lo aveva pervaso dopo la sua sfuriata e che si era costretto a mantenere per evitare di avvicinarla un’altra volta.
Lei aveva rispettato quello che per lui era stato quasi un giuramento, senza sapere che Red avrebbe preferito che lo infrangesse, che ricomparisse nei momento più opportuni o che dicesse una selle sue battute sagaci.
«Non sopporto vederti piangere. Smettila.»
Si diede mentalmente dello stupido per quell’uscita. Perché non poteva essere un po’ più… sensibile?
Ma purtroppo quel tratto non era nel suo carattere. Inoltre Sylence non poteva soffrire che le si ordinasse qualcosa.
Vide gli occhi di Sylence oscurarsi leggermente, mentre la poggia si fermava e il cielo veniva riempito da lampi, in corrispondenza della sua rabbia.
«Perché mi sono illusa che potessi dire qualcosa di più romantico? Tipo non un ordine.» disse, mentre si scostava una ciocca di capelli scuri come la notte, sfuggita dalla coda di cavallo. «Oh, già. Tu sei Red Hawks. Quasi ti avevo scambiato…»
«Per chi?» proruppe il ragazzo. Una fitta di quella che sembrava gelosia gli provocava uno spasmo alla mascella.
Sylence piegò la testa di lato, – inconsapevolmente? – verso il suo palmo, studiandolo.
«Cos’era quella? Una scenata di gelosia?»
I suoi occhi, così dannatamente seducenti, contornati dalle ciglia bagnate dalla pioggia, brillarono di ironia.
«Sai che non puoi permetterti di flirtare con qualcun altro al di fuori del Cerchio.» se ne uscì lui.
«Qualcuno altro o con qualcuno che non sia tu?»
La frecciatina andò a segno.
«Non farti illusioni. Ricordo ancora quello che mi hai detto, qualche giorno fa…» disse allontanandosi.
«Io…»
Il cielo si era schiarito, ma una nuova inquietudine riempì l’aria intorno alla ragazza.
Stranamente, ogni volta che qualcosa turbava l’animo di Sylence, Red era capace di percepirlo.
Come in quel momento.
Sylence si tirò indietro i capelli, mentre sospirava di frustrazione. Sembrava combattere una battaglia con se stessa. Proprio come lui?
«Ero sconvolta.» disse poi la ragazza. «Sai com’è. Venire a sapere di essere la distruttrice di un’intera civiltà non è che sia la più belle delle notizie. Inoltre, tu me lo avevi nascosto per tutto il tempo… come avrei dovuto comportarmi?» gli chiese lei, allargando le braccia. «Avrei dovuto ridere, darti una pacca sulla spalla e dire: “Grazie Red per avermi tenuto questo disastro nascosto? Ora mi sento meglio” ?»
«Avrei preferito che non avessi scaricato la colpa su di me.»
«Lo so e mi dispiace per averlo fatto.» Sylence chiuse un attimo gli occhi e respirò a fondo. «Sono stata presa da una specie di sfogo ritardato. È stato come se, nella mia testa, tutto quello che ho scoperto nelle ultime settimane si fosse accumulato fino a riempirmi e quell’ultima rivelazione fosse stata la cosiddetta goccia che fa straboccare il vaso. Sono esplosa e me la sono presa con la persona più vicina a me, cioè tu. E me ne scuso.»
Finalmente, in cielo ritornò azzurro, segno che Sylence si era calmata.
Incapace di vederla così triste, le si avvicinò nuovamente e, frenando l’impulso che gli ordinava di baciala, la strinse tra le braccia.
Sentì il suo corpo tremare, freddo e bagnato dalla pioggia, perciò scaldò la sua pelle così da riscaldare anche lei.
«Un bel vantaggio, quello di poter diventare una stufa vivente.» la sentì mormorare, mentre affondava la faccia nell’incavo della spalla e infilava le mani nella sua giacca, posandole sulla schiena del ragazzo.
Un senso di pace lo invase, così inaspettato da stordirlo.
Come poteva essere così bello stringerla tra le braccia? Perché provava quel senso di completezza? Perché aveva la sempre più strana e confusionale convinzione di averla incontrata prima di quel momento, quando non era possibile?
Inconsciamente, prese ad accarezzarle la testa, oscillando sul posto, cullandola.
Non gli era mai capitato di consolare qualcuno, né di poter essere sé stesso senza destare paura o repulsione.
L’unico che era a conoscenza del suo talento, oltre il cerchio, era suo padre. E lo aveva scoperto nel peggiore dei modi.
«Tuo padre sa quello che sei capace di fare?» chiese, prima di rendersi conto di quello che aveva domandato.
«Sì.» rispose lei, la voce soffocata dalla sua maglietta. «Il tuo?»
«Come ha reagito?» chiese ancora, ignorando la sua.
Lei scostò per guardarlo con i suoi occhi tempestosi, brillanti. «Bene, direi. Non ha dato di matto, né è corso a chiamare il primo centro di detenzione psichiatrica della zona. Quindi, sì, se l’è cavata a meraviglia.» Annuì. «A quanto pare, anche mia madre aveva il mio stesso talento. Mi ha detto che quando se ne andata, a luglio, ha nevicato.»
Un moto di sorpresa invase il ragazzo. «Allora, è per questo!» esclamò, lasciandola.
«Cosa?»
«I meteo e i telegiornali sono impazziti quel giorno.» le rivelò. «Nessuno, scienziato o meteorologo o altri riuscirono a spiegare quel fenomeno atmosferico così improvviso e improbabile, data la stagione.» Aggrottò le sopracciglia, pensoso. «Noi del cerchio non eravamo ancora nati, o almeno io no, ma Sebastian trovò vari articoli che riportavano i fatti accaduti… e anche un’altra cosa. Credo che tu non lo sappia, però.»
Un brivido di anticipazione passò sulla schiena di Sy. «Che cosa?»
Ci fu una pausa, poi Red la prese per il gomito. «Vieni con me.»
«Dove andiamo?» la ragazza, poco incline agli ordini.
Una scarica di adrenalina passò nelle vene di Red, al solo toccarla.
Ma che diamine mi prende? Neanche girassi in calzamaglia e declamassi un qualche patetico sonetto.
Anche se ci si stava abituando. Pessima cosa. Non doveva, si era ripromesso di mantenere le distanze. Lei non lo conosceva, non aveva idea di quello che era il vero Red e lui non era intenzionato a mostrarlesi. Inoltre, Sylence non sapeva quello che aveva fatto e in cuor suo aveva chiaro che, qualunque sarebbe stata la sua reazione dopo averlo appreso, non sarebbe stata positiva.
«Aspetta un attimo, Red.» disse Sy, tirando via il gomito. «Non abbiamo finito di parlare.»
«Che c’è? Credevo che volessi sapere più su tua madre, che fossi impaziente di capire come entrare nel Villaggio.»
«Sì, è vero. Ma non mi hai ancora detto se… se mi perdoni, per le brutte cose che ti dissi, l’altro giorno.»
Una sensazione nuova, qualcosa di molto simili alla felicità lo invase. Nessuno prima di quella piccola donna aveva fatto una richiesta di quel genere. Di solito, le persone si limitavano a comandarlo, a gridare ordini su ordini e lui doveva limitarsi semplicemente ad obbedire. Nessuno gli aveva mai chiesto se avesse voglia di fare una qualsiasi cosa, invece di abbagliargli contro come cani rognosi, maniaci del controllo e della sottomissione.
Era impossibile negare a Sylence ciò che chiedeva, visto il modo in cui glielo aveva proposto.
«Diciamo… che per stavolta chiudo un occhio. Ma la prossima…»
La ragazza sbuffò. «Il solito Red. Sempre pronto a rovinare un momento di dolcezza.»
Il modo in cui lo disse, però, gli diede la certezza che avesse detto la cosa giusta.
 
* * *
 
Sylence Hill's POV
 
Red parcheggiò l’auto davanti alla biblioteca in centro.
«Se cerchi un articolo di giornale tanto vecchio quanto la tua età, è qui che puoi trovarlo.» disse, mentre scendeva. «Credo negli archivi conservino giornali risalenti a dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.»
«Credi che imploderà su sé stessa? Sai, il peso della conoscenza.»
Un’occhiata obliqua mi fece zittire.
Quando mi aveva presa tra le braccia, avevo temuto – sperato «Che mi baciasse. Non aveva la forza mentale per affrontare un visione.
La signora Parks ci salutò con un sorriso, almeno al me, fino a che non vide Red. Allora, la sua espressione diventò diffidente. Ma che avevano tutti contro di lui?
«Salve, Mrs. Parks. Potrebbe aiutarci, per favore? È importantissimo.» mi affrettai a domandarle, per distogliere la sua attenzione dal soggetto che, a quanto pareva aveva un altro fan al suo Club Anti-Red.
La donna mi guardò, addolcendo lo sguardo. «In cosa posso esserti utile, tesoro?»
«Mi servirebbero tutti i giornali risalenti al periodo di Luglio del 1996.»
La signora mi guardò stralunata. «E a cosa ti servono,cuccioletta?»
Scrollai le spalle, indifferente. «Scuola.» dissi, atteggiando la faccia ad un’espressione schifata.
La donna ridacchiò e si alzò dalla sedia, lanciando un’occhiata circospetta a Red.
D’istinto, gli afferrai la mano, palesando agli occhi della donna quello che volevo farle credere che ci fosse – ma che non c’era – tra me e Red. Le sue occhiate mi avevano infastidito.
Per fortuna, Red non fece una mossa per ritirarla, grazie al cielo. Anzi, rinforzò la presa.
«Sei una grande attrice, lo sai?» mi sussurrò all'orecchio, il suo respiro una carezza sulla pelle.
«Talento naturale.»
«Da questa parte.» disse Mrs. Parks, guidandoci dentro una parta con la targa “NEWSPAPERS ARCHIVES”.
Nello spazio asettico, pieno di scaffali, c’era un forte odore di stantio e muffa, prova che non molte persone, se non nessuna, entravano lì dentro da molto tempo.
Ogni scaffale di metallo era contrassegnato e diviso in periodi temporali e mesi: quelli più vicini alla porta erano archiviati sotto la voce OTTOBRE, 2012, e a scendere i mesi retrocedevano. Anno per anno, mese per mese, in quel luogo infinito c’erano talmente tanti giornali da temere che una sola scintilla potesse far bruciare l’intero archivio e palazzo annesso.
Dopo aver camminato per un bel po’, tra svoltare a destra e sinistra, – quel posso sembrava un labirinto del Minotauro «Mrs. Parks si fermò davanti ad uno scaffale con su scritto LUGLIO, 1996. la cosa che mi sorprese non di tanto quella di essere riusciti a trovarlo, ma che andando avanti con lo sguardo si vedevano ancora centinaia di scaffali di ferro, sia a destra che sinistra.
«Ecco qui, ragazzi.» disse la donna, indicandoci lo scaffale. «Mi raccomando, state attenti. Oh, mi sono dimenticata.» Stese la mano a palmo aperto davanti al nostro naso. «Accendini.»
Un po’ confusa per quella richiesta, pensai che era solo una precauzione per salvaguardare la protezione dei giornali.
Guardai Red, che se pur con riluttanza, cacciò fuori dalla tasca posteriore dei jeans l’accendino argentato. Nel fugace momento in cui lo vidi passare davanti hai miei occhi, vidi sulla parte anteriore e posteriore un disegno volitivo di fiamme che circondavano un fulmine bianco inciso nel corpo di metallo.
«Io non me ho.» dissi quando la donna tese la mano verso me.
Sorrise. «Potete sedervi lì.» Indicò un tavolo nero con sedie in ferro imbottite di gommapiuma.» Se vi serve qualcosa, chiamatemi. Buon divertimento.» disse ironica.
«Come facciamo a chiamarla se neanche mi ricordo quale strada abbiamo fato per arrivare qui?» mi chiesi, dopo che se ne fu andata.
«Mettiamoci a lavoro.»
Sciogliemmo le mani nello stesso momento. Red si diresse allo scaffale e incominciò a spulciare tra i vari titoli.
Io presi lo scaffale alle sue spalle. C’erano vari intestazioni di cronaca nera, ma dopo alcuni minuti, non trovai niente che esclamasse “NEVE A LUGLIO!” oppure “BUFERA FUORI STAGIONE!” o ancora “NEVICA. COLPA DELL’UOMO DELLE NEVI?”.
«Trovato qualcosa?» chiesi a Red, arrampicatosi su una scala per guardare negli scaffali più in alto. C’erano talmente tanti di quei giornali di così tante testate giornalistihe da far venire il mal di testa.
«Niente. Eppure doveva essere qui.» mormorò. «Una notizia di quel genere doveva aver suscitato tanto stupore da scriverne per un’intera settimana.»
Lanciai un’occhiata in giro. «Esamino l’altro scaffale. Grida quando trovi qualcosa, questo posto è talmente grande da impedire qualsiasi tipo di comunicazione a lunga distanza.» constati, superando lo scaffale dove c’era lui.
«Stai attenta.» disse, bruscamente.
«A cosa?» chiesi, scrollando le spalle, senza guardalo. «All’eventuale crollo di una montagna di giornali? Sono più resistente di così.»
Avrei tanto voluto avere un radar che potesse individuare in un millesimo di secondo i giornali che ci interessavano.
Incominciai a guardare dagli scaffali in basso, risalendo man mano verso l’alto.
Mi accorsi che ognuno di essi era disposto in modo da seguire un ordine cronologico ben preciso a partire dal primo in giù fino all’ultimo in su. Chi li aveva ordinati così meticolosamente aveva fatto una fatica del diavolo.
Posai un giornale risalente al 9 Luglio. Presi quello dopo, inclinando la testa in un gesto incuriosito, quando mi accorsi che la data non era esatta. Lì avrebbero dovuto trovarsi i giornali risalenti al 10 luglio e non all’11. Ma, nell’intestazione, c’era scritto proprio “11 Luglio 1996” e non “10 Luglio 1996”.
Allungando una mano cercai di raggiungere il ripiano superiore, per vedere se anche gli altri riportavano la stessa data o se era un errore, ma – grazie alla mia elevatissima altezza – rischiai di cadere: mi ferrai ai giornali prima di cadere a terra, portando con me anche i quotidiani.
Borbottando contro quello scansafatiche di mio padre che non si era sprecato minimamente a darmi un po’ dei centimetri d’altezza eccessivi che aveva, presi a raccogliere i giornali sparsi intorno a me.
Dopo averli impilati, mi guardai intorno per vedere se ce n’erano ancora e mi accorsi che uno di quelli era finito vicino ad una porta di legno scuro.
Aggrottai le sopracciglia. Eppure era sicura che prima non c’era.
Mi avvicinai, chinandomi a raccogliere il giornale e posarlo sul tavolo lì vicino. La porta non aveva scritte e – ancor più perplessa – non c’erano maniglia e serratura.
A cosa serviva una porta visto che non si poteva aprire? A niente, eppure avevo la strana sensazione che una funzione ce l’avesse.
Essendo la curiosità donna, mi feci avanti per guardala meglio, per capire se la serratura fosse nascosta o meno.
Passai le mani sulla superficie sorprendentemente levigata, tracciando il contorno del stipite, ma non trovai niente. Cercai in giro con lo sguardo un possibile nascondiglio per un pulsante o una leva per farla aprire, ma niente lo stesso.
Guardando di nuovo la porta, sbuffai infastidita quando vidi che sul legno prima levigato era inciso un simbolo.
Ma dove cavolo mi trovo? A Hogwarts, dove alle porte piace cambiare (invece delle scale)?
Guardando attentamente in simbolo, notai che aveva una fattura molto strana… no, non strana, ma quasi come se dovessi conoscerla: raffigurava un albero della vita, con degli intrecci celtici al posto delle radici e inscritto in un cerchio, e al centro, tra le radici e il tronco, le linee formavano una chiave di violino, come se quella fosse il cuore dell’albero.
«Sylence?»
Ero talmente concentrata su quel disegno da trasalire a richiamo di Red.
«Cosa?» chiesi, girandomi a guardalo.
«Che stai facendo?» Spostò lo sguardo quella porta. «Che c’è lì dentro?»
«Veramente… non ne ho idea. Non si può aprire. Non ha né maniglia né serratura. Ho provato a cercare un altro meccanismo per aprirla ma non c’è nemmeno quello.»
Scrollò le spalle. «Lasciala perdere, allora. Una porta che non si apre non serve a niente. Probabilmente dovevano murarla, perciò hanno tolto tutto.»
«Ma non ci sono i buchi per la serratura e i le viti.» Gli indicai il disegno. «E guarda questo.»
Lui si avvicinò per controllare. Aggrottò le sopracciglia. «Sembra un LifeTree, un Albero della Vita.»
«E perché si trova qui?»
«Forse, qualcuno si è divertito ad inciderlo.»
«C’è puzza di muffa qui dentro. Ti sembra che qualche giovane studente abbia voglia di metterci piede? Probabilmente, nessuno entra qui dentro da almeno un centinaio d’anni.»
«Perché ti crei tanti grattacapi? Non ti bastano quelli che hai già?» s’indispettì.
«Io non mi creo grattacapi. Questa porta prima non c’era. Sono passata per andare da lì,» indicai lo scaffale dove c’era prima lui, «A lì,» spostai il dito alla pila di giornali alle mie spalle, «E questa non c’era. Poi mi sono girata ed eccola qui. Inoltre, questo disegno non c’era qualche minuto fa. E come ho già detto, non credo alle coincidenze. Certe cose succedono perché è destino che accadano.»
«Perciò tu credi che sia destino che questa porta sia apparsa quando sei arrivata tu?»
«Credo di sì. E credo anche che cerchi di dire qualcosa. O di mostrarla.»
All’improvviso sentii un leggero vento soffiare e il frusciare delle soglie riempire il silenzio. Eppure, non c’era nessun venti della stanza e neanche alberi.
Sconcertata, vidi che il disegno aveva preso vita, imitando la natura vera creando un vento che faceva agitare e cadere le foglie dell’Albero della Vita.
Presa da un senso d’urgenza, cercai freneticamente in giro dell’acqua e, scorgendo l’insegna di un bagno poco più avanti, corsi a bagnarmi una mano.
Poggiai quell’asciutta sul legno levigato, accanto all’Albero e tracciai con il dito bagnato la linea che disegnava la chiave di violino.
Non appena la toccai, la linea si illuminò. Continuai a muovere il dito fino a delineare l’intero disegno della chiave, poi scostai la mano.
La luce inondò l’intero disegno, seguendo ogni linea e ogni curva, fino ad arrivare alle foglie dell’Albero della Vita e seguire il perimetro del cerchio.
Si sentì uno scatto, come quando si gira una chiave nella porta. Il disegno si spinse all’esterno della porta di un paio di centimetri.
Lo afferrai e lo voltai verso destra, fino a sentire un altro scatto. Come diamine facevo a sapere come funzionava quella cosa assurda? Non lo sapevo. Avvertivo solo una potenza superiore che guidava i miei movimenti, come se fossi controllata fili invisibili.
Red cercò di fermarmi, temendo per me, ma non appena mi toccò, ritirò la mano come se fosse stata percorsa da una forte scarica elettrica.
Ruotai il congegno verso sinistra, fin quasi a capovolgerlo.
Altro scatto.
Riportai l’Albero nella posizione iniziale e lo sospinsi dentro, inserendolo a filo con il resto della porta.
Questa tremò, e questa volta quando Red mi afferrò le spalle per tirarmi indietro, non venne respinto, come se il burattinaio che mi aveva controllato avesse finito il suo compito e avesse abbassato le difese, visto che non gli servivo più. Avevo eseguito l’ordine.
La porta parve spaccarsi a metà, una linea frastagliata e sconnessa la tagliò in due di netto. Le due metà si ritrassero nel muro, rimanendo un varco per poter passare.
La stanza era completamente buia, neanche le luci al neon riuscivano a illuminare quell’oscurità così innaturale.
Attirata, come una falena dalla luce della fiaccola, allungai una mano per poter toccare quel manto di velluto.
 
Red Hawks's POV
 
«No!»
Il divieto di Red le rimbombò nella mente come in suono di una campana, stordendola, mentre le afferrava la mano, quasi arrivata alla meta.
«Questa storia non mi piace, e tu sei già in grossi guai, non aggiungiamo altra carne a cuocere.» disse il ragazzo, preoccupato da quello che scorgeva, anzi che non scorgeva.
Quell’oscurità, oltre la porta, era talmente fitta e compatta da poter essere tagliata con un coltello, e non gli suggeriva niente di buono.
Qualunque cosa ci fosse oltre quella porta non era bene e sembrava attirare Sylence come una calamita.
Niente da fare. Tu non ti muovi da qui, le disse mentalmente, mentre la stringeva più forte tra le braccia.
«Lasciami, Red.» protestò lei, cercando di liberarsi. «Non mi farà del male.» Lo disse come se stesse parlando di un cucciolo.
«No, Sylence. Eravamo venuti per cercare delle risposte su tua madre e continueremo a cercarle. Abbiamo ancora tanti…»
«Ci mancano dei giornali.» disse all’improvviso la ragazza, come se si fosse ricordata solo in quel momento di quel particolare.
«Che vuoi dire?» Chiese Red, voltandola verso lui.
«Non ci sono dei giornali. Quelli risalenti al 10 luglio.» gli riferì Sylence, mentre spostava lo sguardo sulla piccola pila di giornali sul tavolo. «Mentre li raccoglievo, ho guardato ognuna delle date e nessuna di quella corrispondeva al 10, ma all’11.»
Che avessero trovato la pista giusta?
«Dove sono finiti gli altri allora? In un altro reparto?» si domandò ad alta voce.
Sylence voltò la testa verso la porta, gli occhi come incantati da un qualche spettacolo a lui invisibile. «Sono lì dentro.»
Un brivido freddo passò sulla schiena del ragazzo. «Come fai a saperlo?»
«Non lo so. Solo, ho la certezza che sono lì.»
Ogni vola che si trovavano in situazioni strane, Sylence aveva sempre avuto delle sensazioni che si erano rivelate giuste. Quando le gemelle avevano avuto l’incidente era subito scattata usando i suoi talenti come guidata da una forza superiore. Oppure, quando si trovavano davanti ad un problema, era la prima ad avanzare ipotesi che si erano rivelate sempre esatte.
Aveva come un sesto senso, che le suggeriva le risposte giuste e che la guidava quando ce n’era bisogno.
E in quel momento, quello stesso senso le stava dicendo che in quella porta, strana e apparsa dal nulla, c’erano le risposte ad un quesito ancora inespresso, ma che gironzolava nella mente, imperterrito, fino a quando non veniva considerato.
Red era sempre dell’idea che non avrebbe dovuto lasciarla andare, vedere cosa sarebbe successo, che doveva proteggerla da qualunque cosa avesse tentato di farle del male. Ma Sylence aveva un cervello, era un essere razionale e dotato di intelletto per mettere in atto le diverse decisioni che prendeva, perciò chi era lui per impedirle quello che lei voleva volontariamente fare?
Beh, un cretino che sta diventando sempre più fesso ogni giorno e che, passo dopo passo, volontariamente o inconsciamente, si sta legando a quella ragazza bizzarra e fuori dal comune.
Sei in pericolo, amico mio. si fece sentire il suo cervello razionale.
Che diamine vuoi? Battere ancora di più sul chiodo? Non ho già abbastanza grane, ti ci metti anche tu ora?
Sospirando impotente, la lasciò andare.
Inaspettatamente, lei si girò e gli prese il viso tra le mani.
«Non preoccuparti.» li disse, guardandolo con i suoi occhi di tempesta, tanto seducenti e brillanti da mandare il suo cervello in tilt. «Qualcosa mi dice che non succederà niente di male.»
In quel momento, sembrava una bambina, ingenua e curiosa, al suo primo approccio con un animale feroce.
Sylence avanzò verso la porta e, cauta, allungò una mano.
Questa affondò nell’oscurità creando un effetto simile a quando immergi una mano nell’acqua: ondeggiava e i polpastrelli sembravano sbiaditi.
La ragazza ridacchiò. «Fa il solletico.»
Affondò ancora di più, fino ad arrivare al gomito. La mano non si vedeva più.
Con il respiro leggermente ansante, Sylence si voltò verso Red e gli tese una mano.
Ubbidendo alla sua muta richiesta, la strinse avvicinandosi. Sollevò la mano libera e la immerse nel mare oscuro.
Non era una brutta sensazione, aveva ragione Sylence, faceva il solletico, tipo il formicolio che senti quando ti si addormenta un arto.
«Al tre.» disse la ragazza.
Red annuì.
«Uno.» contò la ragzza.
«Due.»
«Tre.»
Si immersero.
In pochi secondi erano spariti.





* Eccovi qui il disegno sulla Porta:

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Capitolo 23
*** La Disperazione ***


Sy Hill: Chiedo Venia per tutto questo tempo. Troppe cose tutte insieme e momentanea mancanza di ispirazione. Ma ora tutto risolto!
Grazie a tutti quelli che hanni recensito lo scorso capitolo. Grazie Mille.
Spero che mi farete sapere cosa ne pensate anche di questo.
Baci,

Sy Hill


 

CAPITOLO 23
 
La Disperazione

 
 
Sembrava di galleggiare. Come se fossi in mare.
Sospesa nel vuoto, ma consapevole di essere ancora ancorata a terra attraverso l’acqua. Era  una sensazione strana, visto che non si vedeva praticamente niente. Il silenzio assoluto era quasi assordante.
Era come se non esistessi.
E con me neanche Red.
«Red?»
Non ottenni risposta.
«Red?»
Mi si bloccò il fiato in gola quando sentii il suo braccio avvolgermi la vita, il suo corpo compatto aderire al mio.
«Mi hai fatto prendere un colpo, piromane
«Dove diavolo siamo?»
Sospirai. «Non ne ho idea.»
«E mi spieghi per quale motivo idiota mi hai trascinato qui dentro?»
Feci una smorfia, contrita. «Non lo so.» bofonchiai. «Avevo la sensazione che dovevo entrare e… avevo timore… di andarci da sola…»
Sembrava strano, ma con il buio mi riusciva più facile confessare le mie debolezze. O forse era la vicinanza fisica di Red che mi trasmetteva calore e sicurezza a sciogliere la lingua.
«Sylence?»
«Sai,» dissi. «Mi sono sempre chiesta per quale motivo tu non mi chiami mai Sy. Sembra una cosa inutile dirlo adesso e completamente fuori luogo, però me lo sono chiesto spesso.»
Mi diedi mentalmente della deficiente per aver messo in mezzo quel discorso inutile. Che me ne fregava se Red non mi chiamava per nomignolo? Tanto la storia della familiarità uguale soprannome non rientrava nei suoi parametri.
Solo, quella parte sdolcinata e debole, che ostinatamente mettevo da parte sotto un cumulo di sfacciataggine e superficialità, cacciava fuori la testa sempre nei momenti meno opportuni e sparava cretinate da romanzo rosa prima che potessi rimetterla a soffocare sotto alle macerie e alle barriere emotive.
«Senti, lascia stare.» Provai a divincolarmi. «Fa finta che non…»
Le sue braccia strinsero maggiormente la presa, mentre il volto di Red affondava nell’incavo del collo, carezzandomi con il suo respiro tiepido.
«Non potrei mai sminuire il tuo nome, dal suono seducente, con solo due lettere insignificanti.»
La sua mano calda raggiunse la mia guancia, circondandola, carezzandola. Mi costrinse gentilmente a voltarmi verso di lui, e anche se non potevo vederlo, avvertivo sulla pelle del viso il bruciore dei suoi occhi dorati.
Alla cieca, prese a darmi dei piccoli baci, sfiorando dolcemente la fronte, l’angolo dell’occhio, la guancia, la curva delicata della mascella, e ancora giù fino, lungo il collo, la clavicola e l’incavo tra le due.
Con il fiato corto e ansante, mentre ondate di calore mi invadevano dallo stomaco e di propagavano in tutto il corpo fino alla punta dei piedi, un senso d’anticipazione e timore mi invase.
Non aveva affatto dimenticato ciò che accadeva tutte le volte che io e Red avevamo un contatto ravvicinato e anche quello che succedeva dopo.
Però dovevo almeno ammettere a me stessa che avevo sperato in un simile riavvicinamento, a dispetto di quello che sarebbe potuto accadere.
Presa quella decisione, liberai le braccia dalla presa ormai debole delle braccia di Red e gliele avvinghiai intorno al collo, affondando le dite nei suoi capelli soffici e freschi.
Prendendolo come un assenso, Red mi afferrò la vita, traendomi a sé, e si avventò sulle mie labbra.
Inaspettatamente, sentii quel legame già conosciuto, ma al contempo estraneo, riaffiorare in superficie, creando una cascata di scintille, uguali a quelle che avevo visto al Sanctorm.
Solo che questa volta non erano solo di Red, ma anche mie.
Avevo le mie scintille!
Potei vedere la sua faccia sorpresa, mentre gli occhi seguivano uno di quei piccoli pulviscoli di energia.
La cosa ancora più strana era che le scintille non si propagavano da un solo corpo ma da entrambi e avevano un colore che sfumava dall’oro quando si alzavano dal nostro corpo ad argentato quando scendevano verso il buio fino a spegnersi.
Sembrava che quel luogo, qualunque esso fosse, amplificava l’Energia che ci pervadeva.
E non c’erano state conseguenze, mi ritrovai a pensare, sorpresa. Non era passato tanto tempo dal bacio, ma visto che accadeva subito dopo di quello, avevo pensato che la visione mi avrebbe investita appena le labbra di Red si fossero staccate dalle mie.
E, invece, niente.
L’euforia a quella scoperta,  fu talmente tanta, da spingermi a buttarmi su Red e baciarlo di felicità. Mi misi a ridere nel vedere la sua faccia sorpresa, contenta anche di poterla vedere attraverso le luci e le ombre che sprigionavamo.
«Cos’è tutto questo zucchero?» chiese ironico Red, mentre le sue mani facevano su e giù sulla mia schiena.
«Questo!» esclamai, indicando me e lui. «Posso vedere le mie… voglio dire, le nostre scintille! Inoltre…»
Aspettai qualche secondo prima di parlare, per timore che fosse solo una falsa speranza.
Ma no, invece.
«Niente visioni! Né svenimenti!»
Vidi la consapevolezza invadere il suo volto. Socchiuse gli occhi. «Come?»
Scrollai le spalle. «Credo sia questo posto. È come un amplificatore di Energia. E un inibitore.»
Un lampo di luce passò rapido alle mie spalle, facendomi sobbalzare.
«Ma che diamine era?» chiese Red, stringendomi di più.
Neanche il tempo di finire la frase, che un altri due lampi riempirono i nostri occhi.
In breve tempo, tanti fasci di luce si scagliarono nell’oscurità intorno a noi, riempiendola di un bianco accecante.
Non riuscivo a capirci niente, solo che quelle cose stavano facendomi venire il mal di testa.
In qualche modo, mi venne da imprecare nell’Antica Lingua.
Red mi guardò alzando un sopracciglio. «Che…?» Un altro lampo troncò la domanda.
Mi allontanai di poco, spostandomi come se stessi nuotando, per cercare di prendere una di quelle cose, ma non c’era verso. Anche se mi avvicinavo, queste si spostavano con me.
I lampi iniziarono a rallentare a mano a mano. Mi resi conto che quelle che ci passavano in torno a velocità supersoniche erano immagini, quando una di queste si fermò per qualche secondo davanti a noi, prima di sparire alla velocità della luce nell’oscurità.
Mi voltai verso Red. «L’hai visto?»
Lui scosse la testa.  «Cos’era?»
Vi voltai. I lampi d’immagine continuavano a viaggiare, saettare. Cercai di vedere qualcosa, ma queste non si fermavano. Dopo poco tempo, cominciai a stancarmi.
Strinsi i pugni dal nervoso, e se avessi avuto un pavimento ci avrei sbattuto i piedi.
«E fermatevi!» gridai.
Le immagini rallentarono di botto, adottando un passo di lumaca.
«Okay, inizio a farmi paura da sola.» mormorai.
Almeno avevo la possibilità di vedere cosa rappresentavano quelle immagini.
Quella più vicina, sulla mia destra, riportava un campo di grano inondato dalla luce aranciata e rosata del tramonto. Le colline alle spalle di una macchia di alberi mi davano un senso di familiarità strano, come se le avessi già viste.
Sussultai violentemente quando l’immagine partì in quarta per sparire nell’oscurità.
«Che cosa hai visto?» mi chiese Red, spostatosi alle mie spalle.
Mi parve una domanda strana. «Tu che hai visto?» gli chiesi di rimando, girandomi verso di lui, anche se alla momentanea oscurità non riuscivo a vederlo.
«Solo un quadro pieno di luce.»
Un moto di timore mi pervase. Allora non riusciva a vedere quello che vedevo io.
Quello che mi chiedevo era: dove eravamo finiti? Anzi, dove ci avevo portati?
Quando ero passata dalla porta, un sesto senso mi aveva detto che tutto quello avrei trovato dall’altra parte mi sarebbe servito. Avevo percepito come se quella porta fosse stata una vecchia amica che avevo rivisto dopo tanto tempo lontane.
Cosa assurda, considerato che non l’avevo mai vita in vita mia.
Come un flash nella mia testa passò uno strano messaggio, cosa che mi stordì per qualche secondo.
Non era un mio pensiero.
Tabhale Dhe Atisio Lighue. Parla l’Antica Lingua.
«Come faccio a parlarla?» mi chiesi ad alta voce.
Ma la risposta già la sapevo.
L’Antica Lingua era qualcosa che avevo già dentro la mia testa. L’avevo constatato quando avevo trovato quel libro, quando nella mia testa le parole pronunciate prima della Regina Bianca, poi da Jake e dopo ancora, da Monika. Le parole venivano trasformate nella mia testa in automatico, quasi avessi sempre parlato l’Antica Lingua.
«Voglio Sapere.»                                                                                                            
Un lampo accecante che mi invase gli occhi fu talmente forte da farmi gemere di dolore. E non solo io. Anche Red si coprì gli occhi con le mani per l’intenso flash.
In mondo da nero diventò di un bianco innaturale, troppo forte. E pulsante.
Sentivo nell’aria statica come una sottile corrente elettrica che camminava sulla mia pelle, forte abbastanza da farne sentire la presenza ma così debole da non costituire alcun pericolo.
Entrò in sincrono con mio battito cardiaco, quasi come se fosse il cuore stesso.
Percepii la corrente entrare in circolo, percorrere vene e arterie, fino ad arrivare al muscolo cardiaco, hai polmoni, alle sinapsi.
Poi fu come se avvenisse un black out.
Tutto il mio essere – il mio corpo, il mio cervello – si spegnessero, come se avessero tolto tutta l’energia che mi alimentava.
Il respiro si bloccò, all’unisono con il cuore, mentre il mondo intorno a me diventava buio.
 
Red Hawks's POV
 
Fu come se gli avessero strappato il cuore dal petto.
Quando la vide bloccarsi, mentre percepiva distintamente, quasi fosse stato suo, il battito del cuore fermarsi all’improvviso, gli parve che il mondo gli fosse crollato improvvisamente addosso.
Urlò il suo nome, mentre si lanciava verso lei, il cui corpo rimase sospeso in aria senza vita.
Una visione orribile, che gli fece quasi venire le lacrime agli occhi.
Che diamine stava succedendo?, continuava a chiedersi mentre stringeva protettivamente il corpo esanime della ragazza tra le braccia.
La scosse, provò a chiamare di nuovo il suo nome, ma fu tutto inutile.
Sylence Hill giaceva morta tra le sue braccia.
Maledizione! Perché non l’aveva fermata dall’entrare lì dentro?!
Era tutta colpa sua. Se lui non avesse insistito per fargli vedere quel giornale, quella stupida ricerca, tutto quello non sarebbe successo, e in quel momento, Sylence sarebbe viva – il suo cuore batterebbe.
Un urlo di dolore – un dolore così forte che neanche le volte in cui suo padre lo picchiava con la bazza da baseball riusciva a procurargli – si fece largo nella sua gola e lui fu felice di farlo uscire.
Urlò fino a quando non gli bruciarono i polmoni, fino a quando non gli fischiarono le orecchie e gli galleggiò la testa.
Allora strinse Sylence – perché per lui sarebbe sempre stata Sylence, mai Sy – contro il petto, affondando le labbra, da cui emerse un lamento simile a quello di un animale ferito, nei suoi capelli d’ebano.
Non sapeva come, né quando e neanche perché – e non gliene importava in quel momento – ma Sylence era diventata una parte importante della sua vita.
La sua bellezza, la sua caparbietà, la sua risolutezza era qualcosa che aveva imparato ad apprezzare, qualcosa che gli erano diventati indispensabili.
Non era amore, no. Era qualcosa che trascendeva l’amore, un sentimento più forte, qualcosa da venerare e conservare con cura.
Non aveva nome, non poteva essere espresso con un banale verbo, troppo abusato e quasi mai sentito davvero.
Un sentimento che lo riempiva di calore e gioia, ma che in quel momento lo stava trascinando nei meandri della più cupa disperazione.
Quel legame speciale, che solo loro due potevano sentire, vedere, provare sembrava essere sparito, come nascosto dietro ad un cumulo di ovatta.
Poi accadde qualcosa.
Mentre le accarezzava una guancia, ancora intrisa del suo calore corporeo, sentì le dita improvvisamente bagnate.
Alzando lo sguardo dorato, travagliante, osservò le gocce di cristallo che, una dopo l’altra, iniziarono a scendere dagli occhi chiusi della ragazza.
Appena cadevano del bordo del viso, prendevano a galleggiare per aria, per poi esplodere in piccoli fuochi d’artificio argentati.
Ad ogni fuoco, una luce piccola quando una perla si univa a quella successiva. A mano a mano vennero a creare un cerchio della grandezza di hula-hop, brillante, caldo.
Infine le lacrime si fermarono. Quando anche l’ultima fu versata e poi trasformata in pulviscolo di luce, si fermò al centro del cerchio.
Red la vide espandersi come una a goccia d’inchiostro riempie le fibre di un foglio, allacciandosi con le altre lucine, diventando parte di esso, come uno specchio che non rifletteva la luce ma la emanava.
La superficie argentata ondeggio leggermente e, gradualmente, qualcosa iniziò a prendere forma, a delinearsi al suo centro.
Red sgranò gli occhi quando davanti ai suoi occhi visualizzò il viso della Regina Bianca, solo non era di pietra, ma in carne ed ossa.
Era stupefacente, bellissima, proprio come la raffigurava la statua – senza darle giustizia – con i capelli neri come una notte senza luna e un viso piccolo e aggraziato, che trasmetteva un’inconfondibile aura di potere, saggezza, antichità.
Red si ritrovò a guardala con soggezione, almeno fino a quando non vide i suoi occhi.
Gli si mozzò il fiato in gola.
Gli occhi di Sylence, quei magnifici e magnetici occhi del colore della tempesta e delle nuvole candide, lo fissavano consapevoli, studiandolo.
«Sono felice di poter finalmente incontrarti, Mijhack.» disse la voce soave della Regina, leggermente distorta, ma ugualmente ipnotica. «Se stai vedendo questo messaggio significa che la mia adorata kirisha ha trovato la Vithesa Abrech Parteuh, la Porta dell’Albero della Vita e che in questo momento – proprio come avevo predisposto – lei sia caduta preda del Sonno Immobile.»
Red spostò velocemente lo sguardo dalla Regina a Sylence, ancora tra le sue braccia, ancora immobile, priva di vita, prima di riportarlo alla figura nello specchio.
«Non preoccuparti, Mijhack. Non temere per la sua vita, non potrei mai farle del male. Si sveglierà presto.»
Facendosi forza Red chiese: «Voi siete le Regina Bianca, non è vero?»
La donna piegò leggermente i viso in un movimento aggraziato. «Perché porre domande di cui si ha già la risposta?»
Prendendo un respiro profondo per elaborare che il suo principale sospetto era stato confermato, disse: «Non può essere.»
«Qual è la tua domanda, giovane Mijhack
Passandosi la lingua sulle labbra secche, decise che avrebbe approfittato per sapere di più di tutta quella storia.
«Che cosa sta succedendo? Chi sono quegli essere che stanno cercando di ammazzarci? Cosa voglio da noi? E cos’è questo posto?»
«Una domanda alla volta, Mijhack, e non è detto che abbia tutte le risposte.» lo avvertì la Regina.
«Dove vi trovate? Tutti i nostri genitori dove si trovano?»
«Nel luogo a cui appartengono.»
Quindi erano a LiòsLand, come previsto. «E dove si trova?»
«Ovunque e da nessuna parte.»
Quando odiava le frasi enigmatiche e prive di senso! «Che diamine significa?»
La Regina non rispose. Red vide i suoi occhi osservarlo impassibili.
«D’accordo. Come faccio a raggiungere LiòsLand
«Seguendo le Luci che brillano sulla Terra, il percorso è segnato dalla Forza dei Quattro, mentre la Notte, brillante e oscura, conduce l’Anello in Ogni Dove e nel Nulla Assoluto.»
Strofinandosi la faccia con una mano, in preda ad una grande frustrazione per non riuscire a cercare le risposte che tanto gli prevedano, pregò di avere più pazienza, per evitare di fare qualcosa di scellerato.
«D’accordo, allora… Chi sono quelli che voglio ucciderci? Sono di LiòsLand
«Braniach, i Senz’Anima, coloro che hanno perso la loro Vitalità e per sopravvivere sono costretti a prendere quella degli altri.»
Finalmente una risposta sensata.
«Che cosa voglio da noi?»
«Potere.»
«Da chi sono comandati? Chi è che li manda?»
Un lampo di qualcosa che Red non riuscì a cogliere passò nello sguardo impassibile della Regina Bianca.
Non rispose.
Quella cosa – l’immagine nello specchio, quella conversazione – era la cosa più bizzarra che gli fosse mai capitata. Sembrava una registrazione, una cosa tipo Star Trek, con messaggi virtuali e cose del genere.
 «Il tempo sta per scadere. Ti avverto, Mijhack, che quello che è stato detto in questo Spazio e questo Tempo fuori potrà sembrarti confuso, ma non temere. Nell’arco di una notte, riuscirai a riconquistare i tuoi ricordi. E, ti prego, prenditi cura di ciò che ho di più caro.»
«Perché hai voluto che io ti vedessi? Perché non Sylence?»
La tristezza invase il suo volto. «Perché lei non doveva vedere. Non ancora. E ti chiedo di mantenere questo segreto.»
Red annuì, anche se riluttante.
«HaI tempo per un ultima domanda.» disse la Regina.
Red rifletté bene su quale scegliere. Prendendo la sua decisione, alzò lo sguardo dorato sulla Regina Bianca e chiese: «Come mi lega a Sylence?»
Un dolce sorriso incurvò le labbra della donna. «Tamyha Seyleh
Ignaro del significato di quelle parole, fece per chiederglielo ma in un fuoco d’artificio, lo specchio si ruppe in mille frammenti di luce che si dispersero nell’aria, fino a sparire.
E tutto cadde nel buio.
 
Sylence Hill's POV
 
I primo respiro fu quello più difficile.
Sembrava che stessi respirando sott’acqua, mentre l’aria passava nuovamente nei polmoni e lentamente, rantolando, usciva fuori.
A differenza del prima battito cardiaco, che mi parve pesarmi addosso quanto un macigno, dandomi una fitta tremenda al petto.
E il primo pensiero coerente che il mio cervello intorpidito riuscì  a mettere insieme, mi fece martellare le tempie.
Ancora intontita, mi resi improvvisamente conto di non essere morta.
Sentivo il duro pavimento freddo sotto il petto e un odore agrodolce di arance e zucchero, molto familiare.
Mentre, con un gemito, cercai di tirarmi su, sentii qualcosa accanto a me, una calore familiare e confortate, tanto da spingermi quasi a rannicchiarmi contro quella fonte di calore e sprofondare in un sonno ristoratore.
Quasi.
A fatica, riaprii gli occhi, sbattendo le palpebre per l’improvvisa luce che li aveva colpiti e guardai alla mia destra, ritrovandomi ad appoggiare le mani al petto caldo e solido di Red, dove ero stata sdraiata per chissà quanto tempo.
La cortina di miei capelli – come si erano sciolti? – gli copriva un braccio, mentre l’altro era stretto intorno alla mia vita, protettivo, possessivo.
Una forte voglia di baciarlo, mentre guardavo il suo viso di diavolo asceso rilassato nel sonno, mi assalì, ma la ricacciai indietro.
Non fare mosse stupide, idiota. E se si sveglia mentre lo faccio?
E che te ne importa? Tanto se ti betta con le mani nel sacco, ce le mette anche lui.
Tu non eri alle Hawahi, Altra Me?
Si.
Allora tornaci!
Allora fa prima quello che ti senti per una volta e poi me ne vado.
Sospirando per quel dialogo –  leggi: discussione da pazza schizzata – interiore, tornai a focalizzare il volto di Red, ancora addormentato.
Però, era proprio bello. i tratti del viso era ammorbiditi dal sonno, dando un’immagine più fanciullesca di lui, ringiovanendolo.
Seguendo l’impulso guidato, spostai con una mano i capelli, tenendoli dietro un orecchio, mentre con l’altra mi tenevo in equilibrio, chinandomi su di lui.
Il primo contatto con le sue labbra morbide, dolci, mi diede i brividi.
Il secondo mi fece sentire euforica, neanche avessi vinto la lotteria.
Il terzo fu ricambiato.
La bocca di Red si aggrappò voracemente alla mia, quasi avesse paura di lasciarla andare, per timore di non poterla più assaggiare.
Le mani cercarono il mio viso, accarezzandomi le guance, il collo, affondando nei miei capelli.
La sua lingua carezzò la mia, affondò nella mia bocca, saccheggiandola, rubandomi il respiro, in un bacio che sapevo di disperazione, gioia.
Una bacio che voleva provare la mia esistenza.
Improvvisamente, un ricordo di quello che era successo dentro la portai piombò addosso, come un macigno.
Con un sussulto mi scostai da lui, respirando affannosamente.
Mi costrinsi a distogliere lo sguardo dai occhi simili a tizzoni ardenti, per cercare in giro la presenza della porta.
Niente.
Era sparita.
Proprio come era apparsa.
Tornai a guardare Red, che mi scrutava attentamente.
«Dimmi che non sono pazza.» chiesi in fine, dando voce hai miei timori.
Era davvero morta per non sapevo quanto tempo? C’era veramente stata una porta? Avevo veramente vissuto quell’esperienza?
O tutto quanto era stato frutto della mia fantasia?
Le braccia grandi e rassicuranti di Red mi avvolsero, avvicinò le sua labbra al mio orecchio e mormorò: «Si che lo sei.»
Un sorriso spuntò sulla mia faccia. «Allora lo sai anche tu, piromane.» gli dissi ricordando il soprannome che gli avevo dato in quella porta.
«Vieni,» disse, lasciandomi.
Si alzò in piedi e mi tiro con sé.
Ancora instabile sulle gambe – per i postumi di quell’esperienza extracorporea o per il bacio, non lo sapevo – mi sorressi a lui, mettendo da parte per la seconda volta l’orgoglio (due volte in un solo giorno? Che mi stava succedendo?)
Mi guardai in giro, momentaneamente disorientata da quello che mi circondava. Poi ricordai che posto era e perché eravamo lì.
Mi ero completamente dimenticata che stavano cercando quell’articolo di giornale che, ha detta di Red, mi avrebbe aiutato a trovare mia madre o un modo per raggiungerla.
«Dici che dobbiamo continuare a cercare?» chiesi. «L’articolo che mi avevi detto, intendo?»
Inaspettatamente lo sentii irrigidirsi. «No, credo che sia inutile.» rispose, senza guardarmi. «E poi, hai detto che i giornali di quel periodo non ci sono. Perciò se non ce l’ha la biblioteca, non li troveremo da nessun’altra parte.»
Accigliata, lo visi tornare al tavolo dove avevamo lascito la nostra roba e prendere la sua giacca.
Mi parve strano, come se volesse andarsene in fretta da quel posto, altrimenti lo avrebbero preso a calci.
Ora che ci pensavo bene… per un certo periodo di tempo io ero rimasta… inattiva, perciò lui cosa aveva fatto? Che cosa era successo nel lasso di tempo in cui ero in me?
«Sylence,» lo sentii chiamarmi.
Recuperai la mia roba e seguendolo in quel dedalo di scaffali, ci dirigemmo verso l’uscita.
Dal momento in cui avevo smesso di… beh, di vivere, non avevo che un vuoto nella mia mente. Proprio come quando ad un computer viene tolta la corrente.
Osservando le spalle larghe di Red, ebbi la sensazione che qualcosa era successa, qualcosa che lo aveva spinto a lasciare quel posto come se fosse l’Inferno stesso.
La domanda era: cosa era successo?
E ancora più importante: me lo avrebbe tenuto nascosto?

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Capitolo 24
*** Sguardi Acuti e Scomodi Segreti ***


Sy Hill: LEGGETE E RECENSITE.
Baci,

Sy Hill <3<3<3



CAPITOLO 24
 
Sguardi Acuti e Scomodi Segreti

 
 
Per fortuna il giorno dopo era sabato, il che significava niente scuola.
Ero ancora scombussolata per quello che era successo nella biblioteca e non potevo fare a meno di pensare che Red avesse qualcosa da nascondere.
Quando il giorno prima mi aveva riaccompagnata alla macchina, se ne era andato borbottando un “ci vediamo”, neanche avessi fatto qualcosa che non andava.
Ora mi ritrovavo nella mia stanza, a testa in giù sul letto – pessima abitudine per il cervello – e scervellarmi per capire cos’era che Red stava nascondendo.
Essendo pomeriggio mi ritrovavo senza un tubo da fare, mentre le lancette della sveglia datata che ticchettava sul mio comodino scandivano ogni sospiro di frustrazione che emettevo.
Diamine, io ero una che non riusciva a stare ferma un attimo nello stesso posto senza muovermi, perciò decisi di mandare a quel paese Red e i suoi stramaledetti segreti e fare qualcosa.
Con un colpo di reni, mi alzai dal letto, presi il telefono e scorsi velocemente la rubrica fino a trovare il numero che cercavo.
Rispose al secondo squillo.
«Pronto?»
«Ti va se ci incontriamo?» chiesi subito – maleducata!, mi sgridò la vocina.
Dall’altro capo del telefono silenzio per pochi secondi. «Alla caffetteria di fronte allA Biblioteca?»
Non avrei voluto rivedere quel posto per niente al mondo in quel momento, dato i ricordi che mi rievocava, perciò proposi: «Che ne dici di incontrarci alla piazza del Wall Mart?»
Ancora qualche secondo si silenzio e poi: «Ci vediamo lì tra venti minuti.»
Non risposi neanche e attaccai, afferrando al contempo le scarpe da sotto al letto.
Corsi fuori dalla mia stanza, scrissi velocemente un post-it a mio padre attaccandolo alla porta del laboratorio e, sfilando le chiavi della New Beetle dal gancio in cucina, uscii.
Avevo un’agitazione in corpo, come un vulcano in fase di stasi prima del grande botto.
Mentre guidavo cercando di mantenermi sotto al limite di velocità, continuavo a guardarmi intorno quasi temessi la comparsa di qualcosa all’improvviso.
Dieci minuti dopo fermavo l’auto nel parcheggio del Wall Mart, a quell’ora già pieno di persone, cosa molto gradita.
Preferivo in posto pieni di gente quando si trattava di parlare con qualcuno: avevo l’impressione che, essendo tutte quelle persone impegnate a fare la spesa, a divertirsi, a pensare ai fatti loro, non dessero retta a due ragazzi che se ne stavano un po’ in disparte, che si perdevano in quell’enorme calca.
Era come essere invisibile e inudibili.
Superate le porte a vetro scorrevoli, venni investita dalla cacofonia di suoni che si mischiavano nell’aria: il parlottio delle persone, i pianti di un bambino, il frusciare delle buste di carta, in bip continuo delle casse…
Tutto quello ebbe un effetto rilassante suoi miei nervi in agitazione. Prediligevo abbondantemente quel chiasso al silenzio che regnava a casa mia. Avendo la mente impegnata a distinguere quei suoni, quegli odori, il cervello non aveva possibilità di affollarsi di pensieri quali Red, segreti, tentati omicidi…
Tirando un profondo respiro, riempiendomi le narici del forte profumo di caffè, mi sedetti su una delle panchine che offriva la pedana rialzata al centro della piccola piazza, circondata da fast-food e ristoranti, caffè e gelaterie.
Il centro della piazza era occupata da una fontana dalla quale fuoriuscivano dei tentacoli di acqua. L’acqua seguiva uno schema preciso prima di fermarsi per qualche secondo e poi riprendere di nuovo.
Mi persi nel seguire quei getti fluidi e precisi, tanto da non accorgermi che un’altra persona si era seduta vicino a me fino a che non parlò.
«In antiche culture, si riuscivano a vedere il futuro in uno specchio d’acqua.»
Battei le palpebre, ritornando nel mio corpo. «Davvero?»
«Sì, e non solo nell’acqua ma anche nel fuoco.»
Mi fece venire in mente Red. «Evitiamo di parlare di fuoco o qualcosa legato ad esso, vuoi?»
Grugnì. «Brutta giornata?»
«Non sai quanto.»
Sentii una piccola risatina uscire dalle sue labbra, mentre gli occhi argentei brillavano divertiti e inteneriti nell’osservarmi. Si passò una mano nei capelli biondi, ottenendo un effetto scompaginato che sembrava essere stato creato ad arte da un parrucchiere professionista.
Non avevo idea del perché avevo chiamato proprio Chris. Era stato un impulso dettato dall’istinto, reazione inaspettata da un’azione predisposta.
Sapevo solo che Chris mi infondeva un senso di calma, come quando ti trovi nel tuo letto in pieno inverno e non hai voglia di fare niente al di fiori che restare sotto le coperte e dormire per ore.
«Ti va un milk-shake?» propose. «Quella gelateria ne fa di ottimi.»
Annuendo, lo seguii facendo slalom tra le persone sedute ai tavolini intorno alla piazza e ci fermammo davanti alla vetrina della gelateria per scegliere il gusto per il frappè.
«Quale prendi?» chiese Chris, mentre si avventurava dalle parti dei gusti a frutta.
Scrutai la vetrina, indecisa tra cioccolato bianco e nocciola.
Spostandomi verso lui, l’occhio mi cadde sulla scritta “gusti nuovi” e un cartellino con su scritto “arancia”.
D’impulso, scelsi quello – mi stavo facendo comandare troppo dagli impulsi in quel periodo, anche se io ero abbastanza impulsiva di mio.
Chris scelse un variegato all’amarena e, dopo aver pagato – leggi: frappè offerto da Chris – ritornammo al nostro punto di partenza, miracolosamente ancora libero a dispetto di tutto quel via vai di gente.
Al primo sorso di milk-shake, decisi che avrei sempre preso quel gusto.
Perché? Provate a immaginare di mangiare/bere/assaggiare qualcosa che ha lo stesso sapore della persona con cui state – va bene: io e Red non stavamo insieme, ma qualcosa c’era, ero abbastanza realista da ammetterlo – non vorreste anche vuoi avere la possibilità di assaggiarlo anche quando lui/lei non c’è?
A prescindere dalla vostra risposta, la mia era sì.
Era strano ritrovarsi con qui pensieri in testa, quando per tutta la mia vita – anche se non tanto lunga – non avevo fatto altro che evitare legami con qualsivoglia persona.
E ora mi ritrovavo con la testa piena delle sue immagini, i timpani vibranti nel ricordare la sua voce, la lingua cosparsa del suo sapore e il mio stupido cuore che correva veloce ogni volta che lo sentivo nominare, lo vedevo di sfuggita o pensavo a lui.
Innervosita da quella tiritera mentale, mi alzai di scatto, facendo trasalire Chris, e gettai il milk-shake nella pattumiera.
Mi risedetti, sciolsi i capelli dall’acconciatura in cui li legavo di solito e presi ad annodarmeli e scioglierli con furia, tirandomeli anche – leggi: schizofrenica.
Chris rimase a guardarmi nel mio comportamento da schizzata, continuando a bere il suo frappè.
Era per questo che mi piaceva: non era il tipo che quando hai un problema – come me adesso – ti assilla con domande su domande, ma ti lascia i tuoi spazi, ti da il tempo di sbollire la rabbia, versare le tue lacrime, rompere gli oggetti a portata di mano, di sfogarti insomma, prima di fare una qualsiasi domanda.
Come in quel momento, quando decisi di essermi sbollita abbastanza con i capelli e lasciandoli finalmente liberi di lambirmi i fianchi, neanche fossero acqua.
«Facciamo un giro?» propose.
Le seguii senza fiatare.
Imboccammo uno dei corridoi che portavano alla piazza, e ci ritrovammo sommersi in una calca di uomini, donne e bambini che entravano e uscivano dai negozi, che spingevano un carrello della spesa, che guardavano vetrine su vetrine di cose costose e irraggiungibili.
«Sai che mio padre lavorava in una gelateria, qualche tempo fa?» disse Chris, ad un certo punto.
Mi voltai a guardare la sua espressione triste e persa nei ricordi.
«Ogni volta che tornava a casa, portava una vaschetta piena dei miei gusti preferiti. Ci sedevamo davanti alla TV e passavamo la serata a guardare il David Letterman Show e mangiare cucchiaiate di gelato fino a farci congelare le meningi.»
Lo vidi deglutire, come se le parole gli si fossero incastrate in gola.
«Sai, dopo la morte della mamma, lui era l’unico con cui avrei potuto relazionarmi, in famiglia. Entrambi i miei genitori erano figli unici, perciò niente zii né cugini. Ora non ho più neanche quello.»
«Perché?» chiesi.
Perché questo discorso? Perché sta parlando con me di queste cose? Perché mi sta dicendo quelle cose personali a me?
Lui si voltò a guardarmi, gli occhi illuminati di sorpresa. «Per la mia omosessualità.»
Fui talmente sorpresa da fermarmi in mezzo al corridoio, facendomi investire una signora con il carrello.
Fui sbalzata in avanti e solo pronta presa di Chris riuscì a rimettermi in piedi.
«Guarda dove vai, ragazzina!» mi sgridò la donna, prima di sparire tra la folla.
Chris mi pilotò verso una panchina d’acciaio e legno poco distante e mi fece sedere.
«Stai bene?» chiese.
Rimasi a guardarlo, imbambolata, studiandolo con occhio critico.
Non si poteva dire che non era piacente, come aspetto fisico e come carattere, i suoi lineamenti classici e gli occhi così chiari.
Ora che ci facevo caso – ora che prestavo più attenzione a qualcun altro oltre a me – mi resi conto di altre cose in Chris che non avevo notato le poche volte che lo avevo visto e che a primo sguardo avevo classificato sotto la voce “carino-ma-timido”.
Chris era più alto di me, con un fisico che veniva valorizzato dalla maglia elastica e dai jeans stretti, e che delineavano un corpo longilineo, né muscoloso ma neanche scheletrico. Asciutto. Fine.
Come avrei potuto aspettarmi che fosse gay?
D’altronde, non si era mai tradito, con una frase – come era capitato a Rafe – né con un gesto, né con un comportamento.
Ma era proprio questo il punto. Non avevo capito la sua natura poiché lui non mi aveva dato segni per dedurlo.
Esattamente come con Rafe, prima che scivolasse a scoprirsi.
Io mi stavo comportando nello stesso modo. Se non avessi dato io degli indizi di me stessa, gli altri non avrebbero potuto dedurre ciò che stavo passando, ma anche chi ero e ciò che ero.
Mi sentii male per quello che si poteva dedurre dalle sue parole. Probabilmente il suo rapporto con il padre non doveva più essere come quello di prima.
Chris lo aveva ammesso a sé stesso, prima di dirlo al padre e questo era qualcosa che lo faceva diventare più coraggioso della sottoscritta.
Io non aveva neanche le palle di ammettere a me stessa i sentimenti che provavo per Red. Non volevo che avessero un qualche potere su di me, che mi scegliessi le mie azioni in base alle sue, che pensasi in funzione di lui.
Non volevo che qualcuno avesse il controllo su di me.
Ma era questo il punto. Il controllo. Red aveva controllo su di me, perché non ammettendo ciò che provavo per lui – quella matassa intricata che mi ritrovavo al posto del cuore – mi faceva stare allerta, sul chi vive, sfuggendo il momento in cui me lo sarei ritrovato di fronte e avrei dovuto risponderne.
Sono una gran vigliacca. Avrei dovuto chiudermi in una botola e non uscirne più.
«Sy? Tutto bene?»
La voce di Chris mi fece sobbalzare, talmente ero concentrata sui miei pensieri.
Mi voltai a guardare la sua faccia distorta da righe di preoccupazione.
«Va tutto bene?»
Sembrava che avesse quasi timore di parlami.
«Ti aspetti una crisi isterica da un momento all’altro, vero?» dissi. «Perché non me lo hai detto? Va bene, posso capirti,» risposi al suo posto. «Noi non siamo grandi amici, non ci raccontiamo i nostri segreti e non ci passiamo un diario in cui scriviamo le nostre reciproche riflessioni.»
Dovevo ammette che un po’ mi feriva il non aver saputo di lui dall’inizio. Per essere una che badava ai particolari, dovevo dire che me ne ero fatti sfuggire parecchi.
«Non è questo.» disse, spostandosi un po’. «Non faccio mistero del mio orientamento sessuale. Mi basta sapere che i miei amici – quelli veri – lo sappiano. Degli altri non mi importa granché.»
Le sue parole toccarono una cordicina vicina al mio cuore, facendo risuonare una nota d’affetto per quel ragazzo tanto semplice quanto complicato.
Lo guardai, consapevole del reale significato delle sue parole.
E allora decisi che sarei stata anche io una vera amica.
«Ho baciato Red.» dichiarai.
Le sue palpebre di contrassero dalla sorpresa.
«E non solo una volta.» Presi a gesticolare, tanto da far agitare anche i capelli. «Ho questo enorme masso sullo stomaco, che quasi non riesco a respirare. Ogni volta che lo guardo, che lo sento, mi sembra che il cuore decidesse di uscirmi dal petto per farsi un giorno intorno a lui e poi posarglisi tranquillamente su una spalla, come un pappagallo.» Lasciai ricadere le braccia, insieme ad un profondo sospiro. «E a volte mi sembra di non conoscerlo – so di non conoscerlo. Sbarra qualsiasi entrata con una porta blindata, butta tutto e tutti fuori, si rintana nel suo antro buio e oscuro, blocca ogni tipo di emozione. Diventa… freddo.» Mi sfregai la fronte. «E mi fa paura, Chris.» Lo guardai negli occhi. «Mi fa veramente paura.  È come se non potessi più toccarlo, altrimenti finirei anche io per diventare come lui.»
Ero talmente scombussolata da non accorgermi delle lacrime che avevo iniziato a versare.
Diamine, non ero mai stato un tipo emotivo, cercavo in tutti i modi di tenere sotto controllo le mie emozioni, ma in quel periodo era come se non riuscissi più a tenere stretta ogni tipo di cosa.
Sentii il borbottio irritato di alcune persone, che si lamentavano per un improvviso rovescio temporale.
Irritata, mi ricordai che erano proprio le mie emozioni che controllavano il tempo. Facendomi forza allora, ricacciai indietro le lacrime, tirando poco elegantemente su col naso, e mi asciugai i residui di pianto dalle guance.
Quando guardai Chris, mi accorsi troppo tardi di quello che avrebbe potuto vedere, capire.
I suoi vispi occhi chiari erano puntati su di me, per poi spostarsi sulle persone dietro le mie spalle, le quali stavano tirando sospiri di sollievo per il ritorno del sole.
«Deve essere stato un lieve passaggio di una nuvola temporalesca.» sentii dichiarare da un uomo.
Ma non vi badai, troppo presa dagli occhi scrutatori di Chris per pensare a qualcosa che non fosse il mio segreto – quello dell’intero Cerchio.
 «Che ne dici di andarcene?» proposi, alzandomi. «Ha smesso di piovere.»
«Già,» disse lui dopo un momento. «Proprio uno strano modo di piovere.»
Con un brivido d’apprensione, mi diressi verso l’uscita.
 
*    *    *
 
Lasciai Chris nel parcheggio del Wall Mart, da dove me ne andai sotto il suo sguardo indagatore.
Guidai fino a casa con la sensazione che quella giornata sfibrante non fosse ancora terminata.
Cosa che venne confermata quando mi fermai davanti casa e scorsi una figura rannicchiata sui gradini davanti all’entrata.
«Aria!» esclamai appena scesi. «Che cosa fai qui?»
La ragazza si alzò in pieni, il viso contorno dalla sofferenza. Si buttò tra le mie braccia, mentre scoppiava a piangere.
Stordita da quel comportamento, la trascinai di nuovo sulle scale e la feci sedere, mentre lei si aggrappava alla mia maglietta.
«Aria, si può sapere che sta succedendo?  Perché sei fuori dalla porta?»
«Ho provato a bussare ma nessuno a risposto, perciò ho pensato che non c’era nessuno in casa. E mi sono sentita così abbandonata che non ho potuto fare a meno di crollare…»
Il resto si perse in un borbottio indistinto, mentre un altro fiume di lacrime mi bagnava il collo.
Goffamente, la guidai fino alle scale. «Entriamo dentro. Mio padre deve essere chiuso nel laboratorio, per questo non ti ha sentita.»
La sentii annuire, prima che si spostasse, permettendomi di prendere le chiavi dalla tasca dei jeans.
La feci sedere al tavolo della cucina, dopo aver chiuso la porta, e andai a sbirciare la porta del laboratorio di papà.
Il post-it era sparito, quindi lo aveva letto, perciò andai a bussare per comunicargli il mio ritorno a casa.
Due pugni bene assestati alla porta dopo, papà aprì, completamente ricoperto di terra. La luce verdastra alle sue spalle gli dava un’aria molto…inquietante.
«Ah, sei tornata.» disse, sorridendomi. «Sei andata a fare la spesa? Hai comprato…ma cos’è questo lamento?»
Aria aveva ricominciato a piangere e i suoi singhiozzi arrivavano fino a lì.
«È una mia amica di scuola. L’ho trovata davanti alla porta di casa, dopo che qualcuno non aveva sentito suonare il campanello.» dissi intenzionalmente, per rimproverarlo, ricevendo in cambio un’occhiata di scuse. «Ora si sta sciogliendo in lacrime e non so perché.»
Rabbrividii sotto lo sguardo di papà diventato improvvisamente affilato e serio. Senza dire una parola, si tolse il camice sporco e i guanti di plastica nera e li posò sul bancone dietro di lui, prendendo poi uno straccio per pulirsi il viso e, dopo aver chiuso la porta, lo seguii in cucina, dove Aria stava singhiozzando con la testa affondata nelle braccio incrociate sul tavolo.
Aria trasalì quando si inginocchiò accanto a lei, ritraendosi il più lontano possibile, quasi da cadere dalla sedia.
La mano di papà, che aveva tentato di avvicinare, rimase sospesa in aria, attraversata visibilmente da un fremito, prima che venisse chiusa in un pugno così stretto da far scricchiolare le ossa.
Inorridita, vidi Aria coprirsi la testa con le braccia in uno scatto, quando mio padre si alzò da terra, gli occhi tempestosi ancora puntati su di lei.
Lentamente, Xavien si girò verso la porta e, afferrando le chiavi della macchia, aprì la porta della cucina.
Prima di uscire, si girò per dirmi, con voce quasi metallica «prenditene cura», e poi sparì, chiudendo delicatamente la porta.
Un silenzio irreale scese sulla piccola cucina, mentre il rumore soffocato dell’auto che abbandonava il vialetto di casa lo riempiva.
Spostai lo sguardo su Aria, ancora immobile, che fissava la porta con occhi sgranati e impauriti, le  braccia ancora sollevati vicino alla testa.
La chiamai piano, per paura di spaventarla ulteriormente.
Le mi sguardo come se mi vedesse per la prima volta, poi, come un palloncino bucato si affloscia, si lasciò scivolare per terra.
Corsi subito da lei, per paura che si facesse male e la sostenni per le spalle.
«Dimmi come ti senti. Dimmi una stupidaggine. Dimmi qualcosa, basta che la smetti con questo mutismo ostinato.» la pregai dopo un po’ che era rimasta in silenzio.
Con gli occhi spiritati, mi guardò. Mosse la bocca come un pesce, senza che nessuna parole ne fuoriuscisse.
«Okay, sei sotto shock e posso capirlo, credimi. Che ne dici se andiamo in camera mia e ti stendo un po’ sul letto?» le chiesi.
Aria annuì e, retta dalle mie mani, mi seguì in camera. Invece di stendersi a letto, si sedette sulla panca sotto la finestra e appoggiò la testa al vetro, chiudendo gli occhi. Il suo respiro si era calmato. Io, per contro, mi sedetti sul letto a gambe incrociate, aspettando che cominciasse a parlare di sua spontanea volontà.
Ero preoccupata per papà. Non riuscivo a capire il motivo per cui era uscito di tutta fretta, per andare dove poi?
«Sai, Sy,» incominciò Aria. «Non ho mai chiesto niente per me stessa. Ora che ci penso – senza falsa modestia – non credo di aver mai ricevuto qualcosa che fossi stata io a richiedere. In tutta la mia vita, tutto quello che ho avuto è stato solo un continuo indaffararmi per cercare di compiacere i miei genitori. Non un incoraggiamento, non un complimento, solo un continuo spronarmi per andare avanti, sempre continui rimproveri per ottenere meglio di quello che già avevo ottenuto… sai che qualche anno fa riuscii a costruire un intero computer funzionante, usando pezzi di altri fuori uso, per un progetto di scuola? E che l’unica lode che ricevetti fu quella che mi diede il professore Mason? Quando tornai a casa, portando con me il computer per mostrarlo ai miei, sai cosa mi disse mio padre? Appena lo vide, storse la faccia con aria schifata e disse:“Butta quell’affare. A che diavolo ti serve?”.» Deglutì. «Ma quello non è stato il momento peggiore. La parte più brutta è arrivata dopo, al colloquio con gli insegnanti, mia madre di è presentata completamente ubriaca, biascicando cose come: “Tanto tutto questo non le servirà a niente, quando si ritroverà con un tizio tra le gambe e un mostriciattolo che la fa sembrare una balena.”.» Lacrime luccicanti e piene di dolore le delinearono le guance pallide, mentre cercava inutilmente di fermarle premendo le mani contro gli occhi. «Non credo di essermi sentita più abbandonata, inutile…indesiderata nella mia vita.»
Incapace di vederla piangere così disperatamente, l’andai ad abbracciare, uno di quegli abbracci da orso che mio padre dava a me quando ero triste, che trasmetteva calore, amore.
«È quello che è successo stasera non è altro che un altro pezzo del mosaico.» singhiozzò sulla mia spalla. Si spostò quel tanto che bastava per poter abbassare la manica della maglia.
Trattenetti il fiato bruscamente.
Un ematoma grande quando la mia mano le copriva la spalla, violaceo.
All’esterno della casa un fulmine squarciò il cielo, concretizzando la rabbia che mi stava nascendo dentro al significato implicito di quel livido.
Senza rendermene conto, imprecai in Antica Lingua un improperio estremamente sgradevole, ringhiandolo con tutta la furia che mi stava sommergendo.
Bastardo! Come poteva un genitore fare una cosa del genere alla propria carne e al proprio sangue!? Come si può solo pensare di alzare una mano con intenzione di ferire un altro essere umano – per di più consanguineo?!
Incapace di restare ferma, camminai avanti e indietro nella stanza, mentre fuori una pioggia di fulmini si scaricava sulla terra, anche se avrei voluto che colpissero un preciso bersaglio.
Aria continuava a guardarmi, dopo essersi rimessa la magli apposto, per poi abbassare lo sguardo.
«Non azzardare a vergognarti Aria.» proruppi, quando mi accorsi delle guance rosse proprio per la vergogna. «Non azzardarti a sentirti umiliata. Non permetterti neanche di pensare ad un qualche pensiero autolesionista causato dall’idea dei tuoi genitori. Non permettere loro di governarti ancora di più. Hanno giù avuto abbastanza controllo per i miei gusti. Adesso basta. So che mi sto comportando come una pazza, ma al pensiero che quel bastardo di tuo padre possa aver fatto una cosa del genere…» Al mio desiderio di poter rompere qualcosa, vidi un fulmine colpire il palo della luce davanti la mia finestra, accecandomi con il flash improvviso, spezzando i fili elettici.
Dovevo calmarmi. Schioccai le dita e, come aveva già fatto prima, sciolsi i capelli e presi a passarvi dentro le dita con furia, sedendomi sul letto. Dopo, avrei sicuramente provato rimorso per avermi strappato i capelli, ma in quel momento avevo bisogni di calmarmi altrimenti, chissà cos’altro avrebbero combinati i fulmini che stavo scaricando.
Un paio di mani gentili fermarono le mie, mentre lo sguardo vacuo rimetteva a fuoco l’immagine di Aria, che mi guardava, quasi con tenerezza.
«Ti prego, smettila di rovinare i tuoi splendidi capelli.» mi pregò.
«Me li taglierei, se servisse a qualcosa, Aria.» chiarii.
Il mento le tremò, mentre una lacrima solitaria cadeva dalla delicata curva del mento.
«Sei un’amica vera, Sy.» disse. «Mi sento quasi umiliata per quanto la tua amicizia mi faccia sentire speciale. Quando dai la tua amicizia a qualcuno, sembra quasi che tu faccia un giuramento di sangue. Sei leale fino al midollo.»
Non sapevo cosa dire. Forse aveva ragione, non mi ero mai soffermata a pensare a questo aspetto di me.
Ripensai a quando Jake mi aveva detto di Kim e quello che le era successo e di come avevo reagito, dei pensieri che mi avevano attraversato la mente. Pensai a come mi ero sentita quando Rafe mi aveva confidato i suoi segreti e i suoi ricordi, del contentezza che mi aveva riempito quando aveva decido si darmi la sua fiducia. Quello che ero disposta a fare per i membri del Cerchio.
E ancora di più per Red.
Beh, Aria ha ragione.
La quale, in quel momento, di era seduta alle mie spalle sul letto e delicatamente aveva preso a raccoglierli i capelli e a pettinarli con la spazzola presa dal comodino.
Sembrava un gesto così naturale, così da “sorella maggiore” che mi rilassai quasi subito.
In poco tempo, erano tornati luminosi e lisci, prima di venire intrecciati dalle sue abili mani.
«Ecco, finito.» annunciò dopo poco.
Raccolsi la treccia e la passai su una spalla per farla ricadere sul petto. Sorrisi nel vedere che aveva usato una di quelle molle con il ciondolino attaccato vicino: una coppa di gelato.
Lo sguardo che ci scambiammo contenne tutte le parole che non riuscivamo a mettere insieme.
«Che ne dici se curiamo quell’ematoma?» le chiesi gentilmente.
La vidi irrigidire un pochino, ma dopo un attimo annuì.
La presi per mano e la portai in bagno.
Una quindicina di minuti dopo eravamo di nuovo nella mia stanza, entrambe sdraiate sul mio letto a guardare il soffitto.
«Aria.»
«Sì?»
«Ti sei mai innamorata?»
Lei si alzò su un gomito per guardarmi in viso. «Perché questa domanda?»
«Rispondi.»
La vidi scuotere la testa, prima di riposarla sul cuscino. «No. C’è stata qualche cotta, ma niente di serio.» Una pausa. «Di chi sei innamorata, Sy?»
«Non credo di essere innamorata. Anche se, a dirla tutta, non so proprio cosa significhi. Oggi giorno l’amore è un sentimento sottovalutato o troppo esaltato dalle storie d’amore che si leggono nei libri. Eppure… c’è sempre un pizzico di verità in qualunque diceria o leggenda.»
Io ne ero un esempio vivente.
«Quindi? Credi o no di amare qualcuno? Amarlo davvero?»
Respirai profondamente. «Non lo so. Ho una confusione in testa che è già tanto se riesco a capire cosa sia ciò che sto provando.»
«Ma se non lo sai.» rise lei.
«Appunto. L’unica cosa che capisco è che non ci capisco niente.»
Rise a crepapelle, fino a che quelle risate così spensierate non si trasformarono i singhiozzi disperati, gli ultimi residui del dolore che stava provando.
La abbracciai, lasciando che si sfogasse, pensando che per nessun motivo al mondo avrei permesso che succedesse di nuovo.

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Capitolo 25
*** Piani e Progetti ***


Sy Hill: Salve a tutti voi, stranieri in viaggio verso terre lontane e orizzonti infiniti! Sono felice di portervi rivedere ancora, anche se devo dire che sono molto scoraggiata per le mancate recensioni dello scorso capitolo. Mi sarei aspettata almeno un ciao, ma fa niente.
Questo capitolo credo sia il più lungo in assoluto e devo dire che sono fiera di me per averlo scritto in una sola notte. (Mi piace fare le ore piccole XD)
Spero che almeno questa volta mi facciate sapere cosa ne pensate.
Il Prossimo è già in fase di scrittura e credo di poterlo pubblicare già Lunedì. Perciò, vi aspetto numerosi.
Leggete e recensite.
Baci a Tutti,

Sy Hill

 

CAPITOLO 26
 
Piani e Progetti

 
 
In fila indiana, con Jake come testa, ci avviammo alla fontana. Lo vidi inginocchiarsi, come la volta precedente, sulla pietra che sfiorava il piedistallo di marmo e battere le nocche per terra tre volte, prima di disporsi dalla parte opposta della circonferenza.
A seguire ci fu Rae-Mary, che dopo aver battuto le nocche dispose alla destra di suo cugino. Seguirono Bastian, Rafe, le gemelle e Red.
Infine venne il mio turno. M’inginocchiai davanti alla fontana e battei le nocche tre volte. Ogni tocco sembrava produrre il suono di un campanello dentro la mia testa, poi mi alzai e mi posizionai tra Jake, alla mia sinistra, e Red, a destra.
«Dichiarate a gran voce il vostro Nome.» ordinò Jake, con voce ispessita dall’autorità.
Rae-Mary immerse la mano destra nella piccola cascata della fontana e posò l’altra sul bordo della vasca, mentre tracciava un cerchio con l’indice bagnato.
«The Seeker, La Cercatrice.»
Il cerchio si illuminò.
Poi fu il turno di Sebastian. Stessi gesti e poi: «The Aunt, La Formica.»
Rafe. «The Clown. Il Pagliaccio.»
Le gemelle. «The Dark Twins. Le Oscure Gemelle.»
Red. «The Shadow, L’Ombra.»
E poi, toccò a me. Un senso di esaltazione mi pervadeva, mentre facevo scivolare una mano sotto il getto fresco della fontana, e appoggiavo l’altra al leggermente freddo marmo.
Tracciai il cerchio, che si illuminò all’istante.
E a gran voce dichiarai: «The Key, La Chiave.»
In quello stesso momento, l’Energia che scorreva nel Cerchio s’infiltrò dentro di me, facendomi sentire come una batteria in carica da tre giorni: pimpante, sovraccarica, capace di correre per chilometri senza stancarmi.
E mancava ancora Jake che, dopo aver eseguito tutti i gesti rituali, pronunciò: «The King, Il Re.»
E successe una cosa incredibile. Potei distintamente vedere le scintille vibranti di vita sollevarsi dai loro corpo, proprio come era successo al Sanctorum.
Rosse, blu, verdi… erano uno zampillio di energia che illuminava il Cerchio di tanti colori, piccoli fuochi d’artificio che rispecchiavano chi li emanava.
Erano stupendi.
E, proprio come la volta precedente, ero solo io a poterle vedere e solo io non le emettevo.
Mi chiesi perché, visto che erano saltate fuori quando io e Red eravamo nella biblioteca.
L’acqua nella vasca si illuminò, risalendo lungo la piccola cascata e avvolgendo completamente la figura della Regina Bianca, che prese vita di lì a poco.
Avvolta nella fascia d’acqua che, comandata da una volontà superiore, avvolse il corpo di marmo della statua, racchiudendola in un bozzolo, ma senza mai sfiorarla.
La statua batté le palpebre e spostò il capo volgendolo tutt’intorno a sé.
«In questo Giorno di Luce, Io Vi saluto, Figli Miei
«E Noi rendiamo Saluto a Voi, Regina Bianca.» ossequiò Jake.
Faceva uno strano affetto sentirlo parlare in quel modo, quasi venisse da un altra epoca.
«Il Cerchio è al Vostro cospetto per un ragguaglio sugli avvenimenti di queste ultime settimane.»
«Parlate, allora, dite cosa c’è da dire
«Poco più di una settimana fa, le Gemelle sono state attaccate da un Essere a noi sconosciuto. Esso ha attentato alla loro Vita, ma, per nostra fortuna siamo arrivati in tempo, grazie anche all’aiuto fornito dal nostro nuovo Affiliato, la Chiave.»
La statua voltò il suo viso di marmo nella mia direzione. «Sono immensamente contenta del Tuo operato, Figlia. Tale atto ti fa Onore e io Ti ringrazio con tutto il Cuore.»
Essendo a disagio sotto il suo sguardo stranamente intenso – essendo esso di pietra – e sotto quello degli altri, mi limitai ad un cenno del capo.
«Inoltre,» aggiunse Jake, «è stato verificato anche il potenziale della Chiave, e ne sono rimasto alquanto incuriosito.»
«Ti prego si spiegarTi
«A quanto pare, Regina,» si aggiunse Bastian. «La nostra Chiave ha un’Affinità non solo con i Fulmini, ma anche con gli altri Elementi della Natura. In giorno dell’incidente delle Gemelle, è stata lei, tramite il riverbero sonoro della Terra che è riuscita a individuare dove e lo stato in cui erano le due ragazze.»
Stavo iniziando ad innervosirmi a stare sotto a tutta quell’attenzione. Di solito, le persone si vantano quando hanno il merito di qualcosa e adorano stare sotto i riflettori, ma io aborrivo qualunque cosa mi avrebbe fatto stare sotto gli occhi di tutti neanche fossi un insetto al microscopio.
Trasalii leggermente quando mi sentii afferrare la mano destra.
La strinsi, non ne potei fare a meno. Ero troppo nervosa.
«La nostra Chiave ha qualcosa da aggiungere?» sentii chiedere dalla Regina.
Mi costrinsi ad alzare lo sguardo su di lei. «Per la verità, Regina Bianca, vorrei sapere una cosa su LiòsLand
Lei annuì.
«C’è una cosa di cui sono venuta a conoscenza. Un fiore. Il Liòs De Lai
«Come fai a conoscerlo?» mi chiese Bastian.
Non gli risposi. Continuai a guardare la regina in attesa di una sua risposta.
«Il Fiore dei Liòs è una Pianta unica nel suo genere. È capace di resistere a qualsiasi temperatura, sia essa fredda che calda. Le sue Radici hanno poteri curativi se mischiati ad altri Elementi. Gli unici tre Semi che risiedono all’interno della Corolla, possono dare solo un altro Fiore, non uno di più ed esso può nascere solo se le sue Radici affondano nella Terra del Lago di Ahlb. Infine, la sua Fioritura può durare anni se il Fiore si schiude al tocco di due Cuori Uniti e Affini
«Perché l’ultima parte mi sembra sospetta?» rimuginai ad alta voce.
«Ciò di cui sto parlando sono i Tamyha Seyleh.»
Nella mia testa il termine si tradusse in: le Metà del Cuore.
«Vuole dire due persone innamorate?»
«Molto più che unite da un semplice legame d’Affetto
Perché mi parve di vedere lo sguardo della statua saettare verso Red? Un’allucinazione? Una svista? Bah!
«E ora, se non c’è altro che dovete dirmi, Vi lascio alla vostra Vita e alle Vostre Esperienze
Il flusso d’acqua a spirare che vorticava intorno alla statua si ritirò, mentre la Regina riprendeva la sua solita posa, con il viso leggermente inclinato e lo sguardo rivolto verso il basso, e ritornava pietra inanimata. Le luci dei cerchi si spensero e tutto tornò calmo, con solo il gorgoglio della cascata a fare da sottofondo.
Fu Bastian a rompere il silenzio sceso tra noi.
«Perché quella domanda?» chiese.
Seppi che ce l’aveva con me solo quando Jake richiamò la mia attenzione.
«Scusa come? Oh…ehm…» tentennai, non sapevo neanche io perché. «Mio padre… ha quel fiore. Mia madre glielo regalò, prima di andarsene. E… niente, volevo solo saperne di più.»
I ragazzi mi guardarono con uno sguardo comprensivo e compassionevole.
«A proposito, Sy.» disse Jake, andando a prendere la sua tracolla dalla panchina. «Volevo ridarti questo.» Tirò fuori il libro che gli avevo dato. «Io non sono riuscito a decifrarlo, ma credo che tu possa farlo.»
Presi il libro dalle sue mani – dopo aver lasciato quella di Red ancora saldamente stretta alla mia – e sfiorai il frontespizio privo di immagini o scritte.
«Sai,» disse Bastian, mentre ritornavamo alla panchina, dove si sedette. «Mi chiedo se leggere quelle scritte sia un altro tuo Talento o questa tua conoscenza sia dovuta a qualcos’altro.»
«Che vuoi dire?» chiesi, aprendo il libro, sedendomi accanto a lui.
Riprendemmo quasi le stesse posizioni del mio arrivo; solo Red, che non c’era ancora prima, venne a mettersi alle mie spalle, in piedi, con le mani infilate nelle tasche del jeans-effetto-usato. Mi dava una sensazione di calore e protezione che mi fece rabbrividire.
«Beh, stavo considerando un paio di ipotesi.» disse Bastian, riscuotendomi. Prese ad elencare le suddette ipotesi sulla punta delle dita. «Forse le tue Conoscenze sono, come ho detto, un ulteriore Talento, da sommare a quelli che già hai. Un’altra ipotesi è che tu abbia questa Conoscenza da quando sei nata. Un’altra idea è che tu riesci a leggere l’Antica Lingua solo dopo aver fatto una qualche Esperienza.»
«Non credo che sia quest’ultima ipotesi.» dissi, mentre infilavo un dito nella pagina che avevo scelto del libro e lo chiudevo.
«Perché?»
«Non è successo niente di “strano” prima di trovare questo libro.»
Sì, beh, era successo qualcosa, ma non c’entrava niente con tutto quello.
«Okay… allora le uniche cose plausibili sono le altre due.»
«O un Talento o una Conoscenza innata.» Mi strofinai la fronte. «Francamente, non ho nessuna voglia di parlare di tutto questo. Già non riesco a controllare i fulmini quando sono arrabbiata, a cercare di non svenire ogni qualvolta ho una visione e…»
«A proposito…» s’inserì Jake.
«No, non ne ho più avute.»
Il mio tono sottolineava un “chiuso-argomento”. Di sicuro non mi sarei messa a parlare della mia vita privata davanti a tutti loro, soprattutto se concerneva uno di loro.
Aprii il libro e feci vagare lo sguardo sulle parole, frasi e quant’altro c’era scritto.
Il fatto che quelle parole cambiassero aspetto, ruotando e formando parole nella moderna lingua parlata, mi lasciava dentro sempre un senso di perplessità e sconcerto.
Perché ero in grado di leggere quelle parole? Era proprio un talento o era qualcos’altro? E se era già nel mio sangue e nel mio DNA, perché non me ne ero mai accorta? Perché non mi era mai sfuggita una parola in quella lingua?
Quando si è piccoli, quello che si ascolta viene ripetuto; allora, buttando un’ipotesi a caso, se mia madre aveva parlato qualche volta nell’Antica Lingua, perché io non ne avevo mai conservato il ricordo, fino al momento in cui si era presentata l’opportunità di sfruttarla?
Mentre ero persa in quel milk-shake di domande, sentivo intorno a me le voci degli altri, scambiarsi considerazioni, battute, prendendosi in giro.
Erano come una famiglia, mi resi conto all’improvviso. Erano esattamente come una famiglia e ognuno di loro interpretava un ruolo.
Jake era il padre, serioso e autoritario, ma anche comprensivo e gentile. Sebastian il figlio modello, beneducato e studioso. Le gemelle, le cugine alla moda ed esuberanti. Rae-mary… poteva fare la parte della zia severa e imperturbabile.
Rafe? Mah, magari un qualche zio alla lontana che si faceva vedere di tanto in tanto e custode di innominabili segreti di famiglia.
E Red?
Non aveva un ruolo preciso in quel quadro familiare, era proprio come il nome che portava, un’ombra nella famiglia che, anche se marginale era la chiave per risolvere un qualche enigma, o un appoggio solido quando tutto intorno crollava come un castello di carte.
E che aveva un lato oscuro, una parte di sé che nessuno conosceva…
Tranne la persona che avrebbe conquistato il suo cuore.
Scossi la testa, cancellando quell’ultima frase dalla mia testa, e presi a leggere un passaggio del libro.
Non aveva un contenuto importante, considerato che parlava di come era fatto LiòsLand. Andai avanti di qualche pagina e mi fermai solo quando qualcosa mi saltò all’occhio.
Appena dopo il primo paragrafo, c’era un disegno stilizzato di un paesaggio: un campo di grano con un bosco e delle colline alle sue spalle e un tramonto ad illuminare il tutto.
Mi parve che nel cervello scattasse un interruttore, facendomi ricordare quello che era successo nella biblioteca, nella porta in cui io e Red eravamo entrati.
Era la stessa immagine di quella volta, solo che questa era in bianco e nero e l’altra sembrava uno scatto fotografico.
Era incredibile perché erano identiche; stessa inquadratura, stessi soggetti, come se due persone, in epoche diverse, fossero state nello stesso luogo e nello stesso punto a disegnare e scattare una foto a quel paesaggio.
«Sy, qualcosa non va?» sentii chiedere da Jake.
Faticai a dire «no», ma riuscii a dirlo. Chiusi il libro con un scatto del polso e me lo posai sulle ginocchia.
«Continuerò a leggerlo a casa e se trovo qualcosa di rilevante, ve lo farò sapere.»
«Come vuoi.» rispose Jake.
Mentre l’aria settembrina frusciava tra gli alberi e rinfrescava il corpo e la mentre, ebbi una stravagante idea.
«Sapete,» dissi. «Ormai è quasi inverno. Con Halloween l’autunno finirà del tutto. Quindi… perché non festeggiare la fine di questa stagione? D’altronde, sono successe tante di quelle cose che un po’ di relax è d’obbligo.»
Spostai lo sguardo intorno, scambiando un’occhiata con ognuno di loro.
«Che ne dite se facciamo una bella scampagnata nel bosco poco più a nord?»
Due secondi dopo, ero subissata di domande.
«Una scampagnata? Dici sul serio?»
«Io penso che sia quello che ci servirebbe, ma…»
«Non credo sia una buona idea.»
«Noi non andremo in nessun bosco pieno d’insetti a sporcarci le nostre belle scarpe!»
«Oh, andiamo ragazzi!» esclamai, alzando le braccia al cielo, in un movimento frustrato. «Da quant’è che non vi prendente una pausa? Da quando non fate qualcosa solo per vuoi stessi che non implichi uno svilimento mentale? Quando è stata l’ultima volta che vi siete fermati a prendere un profondo respiro senza avere centinaia di cose da fare nello stesso istante? Quando è stata l’ultima volta che avete staccato la spina? Io dico che non ve lo ricordate. Jake,» mi girai verso lui. «Tu sei il leader, quello più sotto pressione di tutti noi. Sei la mente del gruppo, ciò che ci mantiene uniti, che non fa affondare tutta la baracca. Sei ragionevole ed equo. Quindi ti chiedo «Come ultima responsabilità – di decidere sulla questione. Abbiamo affrontato molti avvenimenti negativi ultimamente; l’attacco alle gemelle, quello fatto a me prima ancora, pressioni a casa, pressioni a scuola… mai un momento per respirare davvero. Non hai anche tu di dire “basta, oggi non voglio fare niente”? Io ne ho una maledetta voglia.»
Jake sembrò valutare attentamente la questione. Sapeva che avevo ragione, ma «Come potei intuire da quel poco che ne sapevo di lui – avrebbe preferito risolvere prima le questioni importarti e poi rilassarsi. Ma per come stavamo adesso, tutto quello che potevamo fare era solo creare ancora di più casino.
Alla fine disse: «Io credo che sia buona idea. Sciogliere un po’ i nervi è proprio l’ideale. Chi è a favore dica sì.»
«Sì, certo.» fu la pronta risposta di Bastian.
«Anche per me è okay.» sovvenne Rafe.
Con un sospiro sonoro anche le gemelle accettarono, aggiungendo un «Le nostre povere scarpe».
Rae si tolse gli occhiali e, polendoli con un fazzoletto tirato fuori dalla tasca dei jeans, si limitò con un «Volentieri.»
Red annuì.
«Bene, allora. Che ne dite di questo venerdì?» propose Jake.
Un coro collettivo di assensi.
«Ci incontriamo domani a pranzo per concordare meglio su quello che dobbiamo portare e chi lo porterà, va bene?»
Tutti d’accordo, ci dirigemmo alle auto.
Jake batté sullo Swatch, guadagnandosi un’occhiataccia da parte mia, e ribadì: «Domani a pranzo.»
Alzando gli occhi al cielo, salii abbordi del Suv nero.
«Allora, cosa ne pensi?» chiesi dopo che ebbe svoltato sulla strada di casa mia. «Della scampagnata, intendo.»
Lui scrollò le spalle.»È una buona idea. Io accendo il fuoco.»
Rimasi a bocca aperta, prima di scoppiare a ridere, per quella… cosa. «Sai che era squallida, vero?»
«Che vuoi?» s’indispettì, anche se stava sorridendo pure lui. «Sei tu che mi hai contagiato. Ti devo forse ricordare quella che hai fatto tu quando stavamo andando alla biblioteca?»
Quello mi fece passare la voglia di ridere. Il ricordo di quell’immagine e ciò che era successo dopo ­– che non riuscivo a ricordare – erano ancora nella mia mente, vorticavano e spingevano le meningi, cercando una risposta.
«Red… cos’è successo là dentro?»
Non rispose.
 
*   *   *
 
Il mattino successivo, dopo un tempestivo arrivo al suono della campanella – salvata in corner – fui immensamente felice di vedere di nuovo Kima, seduta nel banco accanto al mio.
Mi sedetti velocemente al mio posto, e mi voltai verso lei.
«Kima, sono felice di vederti! Dove ti sei cacciata in questi giorni!?»
Per tutta risposta, lei tirò fuori un fazzoletto di stoffa e si soffio il naso, per poi respirare pesantemente.
«Ho avuto l’influenza. Non riuscivo neanche a muovere un passo senza il mio corpo protestasse. Ho ancora qualche residuo, ma per il resto sono apposto.»
«Mi ero preoccupata. Non sapevo neanche come rintracciarti.»
«Oh, è vero, non hai il mio numero…» lanciò un’occhiata alla porta, dove stava entrando il professore. «Dopo te lo do.»
Purtroppo non ne ebbe la possibilità perché, a fine lezione, il professore le chiese di aspettare che doveva parlare, perciò lei mi fece cenno di andare avanti.
Sospirando, andai a prendere i libri dell’ora successiva. Passando per l’atrio, notai uno svolazzo nella bacheca accanto alla porta d’ingresso.
Diedi un’occhiata veloce e, internamente, ghignai malevolmente.
Il foglio per dare aiuto alla Rappresentate d’Istituto nell’allestimento nella Casa degli Orrori per il 31 Ottobre era stato affisso.
Presi la penna assicurata con un filo di lenza alla bacheca, scrissi il mio nome e me ne andai.
 
*   *   *
 
A pranzo non ebbi neanche la possibilità di scegliere dove sedermi, perché fui afferrata da due vortici biondo platino che mi trascinarono a forza verso il tavolo di Jake, neanche fossero due cavalieri del medioevo che trascinano un criminale alla forca.
«Sei la brutta copia della cantante dei Paramore, con quella felpa, i jeans a sigaretta e quella felpa multicolore.»
«Dovrebbero rinchiuderti in un ricovero per malati di cattivo gusto.»
Mi sentivo come una campana appena colpita dal batacchio, completamente rintronata da quelle chiacchiere inutili.
«Ehm, perché mi avete preso all’amo, ragazze? Di solito, fate finta che io non esista e, per quanto sia spiacevole sentirlo, per me va bene.»
«Questo succedeva prima, Sy.» disse Bionda Uno.
«Prima di cosa?»
«Prima che tu entrassi a far parte del nostro Cerchio.» chiarì Bionda Due.
Accigliandomi chiesi: «Cosa volete, ragazze?»
Le gemelle si scambiarono uno sguardo. «Niente,» rispose Bionda Due.
«Annika, Monika, che state dicendo a Sy?»
Salvata in corner. Di nuovo. Sebastian si fece avanti, sedendosi nel posto di fronte al mio.
«Che state facendo a questa povera e inconsapevole vittima?» chiese, scrutando le gemelle, che fecero faccia da poker.
«Niente, Bastian.»
«Proprio niente.»
«Niente di niente.»
«La smettete di ripetere niente!?» esclamai esasperata da quel comportamento insolito. «Vuoi due che cosa volete?» domandai calcando sulle parole.
Si scambiarono nuovamente uno sguardo. Stavo incominciando ad innervosirmi.
«Allora?»
In quel momento, arrivò Jake, il quale ignaro di tutto, si sedette al suo posto. Non fece caso al paio di occhi turchesi che lo seguirono in ogni movimento, come un insetto al microscopio.
MI chiesi per quale motivo Annika non si facesse avanti con lui. Eppure la gemella era molto sicura di sé, ma a quanto pareva non lo era proprio su tutto.
«’Giorno a tutti.» salutò Jake. «Aspettiamo gli altri e poi incominciamo a decidere cosa portare alla scampagnata.»
«A proposito di quello, Jake.» dissi. «Che ne pensi se porto qualcun altro?»
Quattro paia di occhi si fiondarono su di me. «Ma sei matta?» esclamò Monika. «Fai tanto per poterci dare una giornata di relax e vuoi portare degli estranei, in modo da farci rimanere sulle spine, caso mai succedesse qualcosa di… strano?»
«Lo so che non è una grande prospettiva, ma – credetemi – non solo voi avete bisogno di una giornata per staccare la spina.»
Jake parve pensarci su, anche se non mi parve molto convinto e poi disse: «Aspettiamo gli altri, poi decideremo sul da farsi.»
Accettai quella concessione.
Mi voltai di spalle per scoccare un’occhiata al tavolo dove erano seduti Chris, Aria e Kima, con un fazzoletto al naso.
Sia Aria che Chris meritavano una giornata relax. Avrei invitato anche Kima, ma probabilmente avrebbe declinato. Comunque glielo avrei chiesto.
Sentii gli altri salutare Rafe, mentre si sedeva accanto a Bastian, e poi un tonfo sordo segnalò l’arrivo di Rae al tavolo – il rumore proveniva dalla colonna di libri che aveva posato sul tavolo.
Mancava solo Red e mi chiesi dove fosse.
Istigata da una vicina interna, provai a richiamare alla mente quella sensazione che avevo provato la prima volta che lo avevo incontrato, quel legame che ci aveva unito per una frazione sospesa di tempo.
Quel filo invisibile, ma luminoso e corporeo che mi legava a lui.
Mi sentii pervadere da un dolce calore, come quello che ti da essere abbracciata da un maglione di lana nel gelo d’inverno.
E là, in mezzo a tutta quella gente, riuscii ad individuare Red.
Era stava scendendo le scale del secondo piano.
Poi mi sentii invadere da una strana sensazione, come se qualcuno mi stesse osservando. Sentii un formicolio alla nuca, proprio quando senti lo sguardo di qualcuno si di te.
Mi girai di spalle, ma non c’era niente di strano. Nessun “qualcuno” di strano.
In quel momento, Red arrivò al tavolo, dove si sedette lontano da tutti.
Mi accorsi del suo arrivo perché le chiacchiere si abbassarono di tono.
Mi diede fastidio. Ormai avevano deciso di appianare la armi, quindi perché comportarsi così? Capivo che non avevano ancora chiarito e che non si erano ancora perdonati a vicenda, ma che almeno alle riunioni dessero una parvenza di normalità.
Per tutta risposta, allora, mi alzai da mio posto e mi sedetti accanto a lui.
«Ehi, piromane, come te la passi?» chiesi.
Dapprima, si irrigidì poi quando gli posi la domanda, si rilassò un pochino.
«A meraviglia, nanerottola
«Bene, perché fa poco non lo sarà più, me lo sento.»
«Che vuoi dire?» chiese, accigliandosi.
«Miss-complico-sempre-le-situazioni ha proposto di invitare altre persone per la nostra scampagnata.» si fece avanti Monika, mordace come al solito, lanciandomi anche un’occhiataccia.
Red spostò lo sguardo accigliato su di me, che scrollai le spalle. «Perché no?»
«Devo farti l’elenco?»
Gli diedi una pacca pesante sul braccio, borbottando un «idiota».
«Andiamo, ragazzi!» esclamai. «Sembriamo la brutta fotocopia di una confraternita, senza quegli nomi tipo Teta-Nu-Teta. Sembriamo quei gruppi esclusivi tipicamente snob che ho trovato nella scuola di New York, davvero dei grandi imbecilli griffati. Se vi chiudete così, come se far avvicinare gli altri potesse contagiarvi, ci credo che la gente pensa che voi siate strani, che abbiate qualcosa da nascondere.» Guardai Jake negli occhi. «Dobbiamo fare in modo che tutti i pettegoli non abbiano niente da ridire su quello che facciamo o come lo facciamo. Rimanere a numero chiuso, lasciando fuori gli altri, penso che sia controproducente. E se in mezzo agli altri ci fosse qualcuno dei nostri?»
«Impossibile.» dichiarò Bastian. «Non potrei mai lasciarmi fuggire altri come noi. Mi basta guardarli per capire se hanno il nostro stesso DNA.»
«Ma se qualcuno di loro ha la capacità di nascondersi ai tuoi occhi? O che abbia qualcosa che lo fa al suo posto? Ci hai mai pensato? Può darsi che in questa cittadina non siamo i soli a volerci tenere per noi i nostri segreti. Sapete, leggere roba fantasy aiuta, in certi casi, e dalla Marvel ho imparato che è meglio non svelare la propria vera natura a chiunque si incontri e, in mancanza di persone fidate, meglio tenerla per sé e non sbandierarla in giro.»
«Capisco il tuo punto di vista,» disse Jake, sfregandosi il mento, riflettendo. «E chissà se non hai anche ragione,» aggiunse scambiandosi un’occhiata con Bastian. «Credo che dovremmo controllare meglio d’ora in avanti. Forse,» riprese dopo qualche istante di silenzio al mio indirizzo, «Nel tuo libro c’è qualcosa, un’indicazione per riuscire a trovare quelli che si nascondo.»
«Ci darò un’occhiata stasera e ti farò sapere se troverò qualcosa.»
«Sì, ma questo non risolve la questione principale.» s’inserì Rafe, appoggiando gli avambracci muscolosi sul tavolo. «Che facciamo con la proposta di Sy? Dovremmo far entrare qualcun altro nel nostro gruppo?»
Fu Bastian a rispondere.»È una questione controversa. Da una parte sarebbe un bene per la nostra immagine, così non daremo nell’occhio e sembreremo più “normali”. Fare altre conoscenze, inoltre gioverebbe anche a noi stessi. Dall’altra parte, dovremmo stare sempre attenti a non rivelare le nostre capacità, soprattutto chi non può controllarle,» sguardo su di me.
«A proposito di questo,» dissi, grattandomi a disagio dietro la nuca, «C’è una cosa che non vi ho detto. Avete visto quella pioggia fulminea di qualche giorno fa? Beh, sono stata io a farla, come da copione, ormai. Solo che… quando è successo non ero… sola.» I loro sguardi circospetti mi davano l’impressione di volermi spaccare la testa a metà. «C’era qualcuno con me, a cui non è sfuggito di collegare le mie reazioni all’atmosfera.»
Accanto a me, Red si era irrigidito, mentre lo sguardo degli altri virava dalla rabbia all’esasperazione alla angoscia.
«Mi dispiace,» mi rammaricai. «In quel momento ero sommersa da emozioni contrastanti e non sono riuscita a contenermi. Anche io sono arrabbiata per la mia mancanza di controllo, credetemi, ma non so come fare a mettere un freno a questa emozione-reazione.»
Avrei preferito trovarmi in mezzo ad una valanga piuttosto che sotto i loro sguardi accusatori, perciò abbassai gli occhi per evitare di vederli.
«Era anche per questo che vi ho chiesto di far entrare nel giro altre persone, perché potessero constatare di persona che era tutto normale, che quello che è successo in quella occasione era solo una coincidenza e basta, nient’altro. E poi,» aggiunsi. «Non credo che avrebbe niente da ridire. Voglio dire, ho fiducia in questa persona e sono sicura che non svelerebbe a nessuno il nostro segreto, se ne venisse a conoscenza. Ma, d’altronde, l’intera questione è riposta nelle vostre mani e in quelle di nessun altro. Perciò…»
Smisi di parlare quando mi resi conto che stavo diventando logorroica.
Sentivo i loro sguardi su di me, ma – codarda, lo so – non riuscivo a ricambiarli.
Erano diventati miei amici, erano come una seconda famiglia quasi, e non sopportavo l’idea di deluderli.
Sembra sciocco, visto che era poco tempo che li conoscevo, ma avevamo un segreto in comune e mi sentivo parte di qualcosa, appartenevo a qualcosa. Non ero solo un soggetto marginale, qualcuno che anche se non c’è non ne si sente la mancanza. Facevo parte di un gruppo, una cerchia di persone che, se me ne fossi andata, avrebbero sentito la mia mancanza – sempre dopo aver instaurato una solida amicizia, ma ero quasi sicura di averlo fatto con la maggior parte di loro.
D’un tratto, sentii un braccio circondarmi la vita e una voce calda e suadente sussurrarmi all’orecchio, come a confidare un segreto.
«Alza gli occhi, nanerottola. Non è ancora tempo per il plotone d’esecuzione.»
A quelle parole, alzai di scatto gli occhi trovandomi ad essere fissata da tutti loro. Non c’era condanna nei loro sguardi, solo una pacata accettazione e bonario rimprovero.
Mi sentii stringere il cuore quando compresi che non mi avrebbero inveito contro di andarmene.
«Capita a tutti di cadere le prime volte.» dichiarò Jake.
«Già.» si aggiunse Bastian. «Sai, all’inizio, quando avevo scoperto che potevo guarire gli esseri viventi, sono stato quasi beccato da mia madre mentre stavo curando un uccello con un’ala spezzata.» confidò.
«Anche io ho usato il mio Talento davanti a mio padre, quando si era ubriacato e stava quasi per farsi prendere a botte da un tizio con la metà dei suoi anni e grosso il doppio.» rivelò Raferty, un po’ a disagio. «Per fortuna, aveva talmente bevuto che la mattina dopo non ricordava neanche dove fosse la sera prima.»
«Io ti ho già detto del pallone da basket, ricordi?» chiese Red, stringendo la presa sul fianco.
Sorrisi talmente tanto che temetti mi si rompesse la faccia.
«Grazie, ragazzi. Prometto di impegnarmi a controllare il mio Talento. Non capiterà più.»
«Ci contiamo.» dissero all’unisono le gemelle.
«Ma come la mettiamo con la sua proposta?» aggiunse Rea, rimasta in silenzio fino a quel momento.
Jake si portò una mano alla nuca, sfregandosela. «Chi sarebbero le persone che vorresti invitare?»
Voltai il capo a guardare verso il tavolo dove erano seduti Chris, Aria e Kima, che stavano lanciando occhiate non tanto nascoste nella nostra direzione.
Tornai con lo sguardo a Jake e con un cenno del capo li indicai. «Loro.»
Lui si prese qualche istante per valutare la situazione. Poi sospirò. «Posso fidarmi del tuo giudizio?»
Lo fissai. «Mi stai chiedendo di fare da garante?»
«Una cosa del genere.»
Sbattei le palpebre, sgomenta. «Sì.» dissi infine. «Certo che sì. Sono pienamente degni di fiducia.»
«Non entusiasmarti troppo, però.» avvisò lui, serio. «Questo è solo un esperimento. Se qualcosa dovesse trapelare, se, malauguratamente, qualcuno di noi dovesse far scoprire la sua vera natura e loro lo spifferano in giro, li obbligheremo a dimenticare e tu sarai in guai seri, capito?»
Annuii. «Me ne prendo la piena responsabilità.»
«Bene. Perché non vai a chiamarli?» mi propose.
Seguii il suo suggerimento e andai da loro.
Non appena fui a portata d’orecchi venni subissata di domande.
«Come mai sei al loro tavolo?»
«Li conosci?»
«Sono tuoi amici? Come avete fatto a legare così facilmente?»
«Come mai Red aveva un braccio intorno a te?»
«Ragazzi! Datemi un momento, vi prego!» esclamai alla fine, accasciandomi accanto a Chris. «Sono venuta a proporvi una cosa.»
«Che genere di cosa?» chiese lui.
«Una scampagnata.» Mi sorrisero. «Insieme a loro.» indicai alle mie spalle. Questo cancellò i loro sorrisi.
«Ci stai prendendo in giro, vero?» chiese infine Chris. «Fare una gita… insieme a loro? Tu sei fuori di testa.»
«Perché? Non vi piacerebbe? Così potreste carpire i loro sporchi segreti.» dissi, in tono cospiratorio.
«Ma noi non lo conosciamo, o per meglio dire, non abbiamo alcun rapporto con loro.» disse Aria.
«Io accetterei volentieri, ma con questo raffreddore non mi sento di andare da nessuna parte, tranne infilarmi sotto le coperte del mio bel lettuccio e dormire.» disse Kima, parlando col naso.
«Mi dispiace, dolcezza. Sapevo che avresti risposto una cosa del genere, ma ho voluto chiedere lo stesso.»
Mi sorrise dolcemente. «Sei stata gentile. Grazie lo stesso.»
«E voi che mi dite?» chiesi agli altri due. «Volete venire? Guardate che non mordono mica.» la buttai sul ridere. «Sono bravi ragazzi, proprio come voi.» O quasi.
Mi parvero indecisi e insicuri sul da farsi, perciò feci loro una proposta.
«Sentite, che ne dite se ve li presento e poi decidete se volete approfondire la conoscenza o meno?»
Ci pensarono su, e poi accettarono.
Kima non si alzò. «Non mi sento per niente bene. Forse non sarei dovuta venire. Vado a chiamare mia madre per farmi venire a prendere.»
«D’accordo, Kima. Riguardarti, va bene, cuccioletta
Sorrise stentatamente. «D’accordo.» Raccolse la sua roba e, dopo aver starnutito, si avviò verso il complesso principale.
Chris e Aria presero la loro roba e vennero con me al tavolo di Jake.
«Ehi, ragazzi. Visto che siete così spaventosi, voglio dissipare qualsiasi dubbio sulla vostra aura alla cerchia di Covenant.» dissi, facendoli ridere e sorridere. «So che vi conoscete già di vista ma ve li presento, in via ufficiale: i miei amici Chris e Aria.»
Entrambi risposero con un timido «ciao.»
«Loro li conoscete già, no?»
«Sì, certo.» si affrettò a dire Chris, leggermente rosso in viso.
Mi sedetti di nuovo accanto a Red, mentre Chris prese posto tra Rae e Raferty e Aria accanto alle gemelle.
«Jake?» interpellai.
«Allora,» si alzò dal suo posto, sfregandosi le mani. «Per quando riguarda la scampagnata andremo nel bosco a nord. Vediamo, dobbiamo decidere cosa portare. Io ho un barbecue.» dichiarò.
«Noi possiamo portare un cestino molto carino con le tovaglie i bicchieri, i piatti e le posate di plastica.» disse Annika.
«Sono un avanzo della festa di compleanno di nostra cugina. Ce ne sono talmente tanti da riuscire a servire un esercito.» aggiunse Monika.
«Perfetto!» esclamò Jake. «Cos’altro serve?»
«Dragoncello e carbone.» elencò Rafe. «Posso portarli io.»
«Noi possiamo andare a fare la spesa.» proposi, indicando me e Red. «Mettiamo insieme i soldi e compriamo carne, hamburger e salsicce. E ho anche il posto adatto per andare a prendere i panini.» aggiunsi, sogghignando.
«Dimmi che sono quei piccoli angoli di paradiso che mi hai fatto assaggiare?» chiese Jake.
Annuii seria. «Assolutamente.»
«Finalmente li assaggeremo anche noi.» si lamentò Rafe. «Tanto a parlarne ma mai ad gustarne. Non è giusto, visto che voi li avete già provati.»
«Bene, avrai l'onore di farlo molto presto.» garantii.
«Cos’altro manca?» chiese Rae, pensando.
Aria alzò timidamente la mani a mezz’asta. «Avrei un’idea.»
«Spara.»
«La musica.»
«Vero!» esclamai. «Non possiamo andare senza portarci dietro uno stereo o un mp3 con le casse surround.»
«Oh, a quello posso pensare io!» assicurò Bastian.
«Perfetto! Allora non manca niente. Dobbiamo solo mettere insieme i soldi. Tirate fuori i portafogli e vuoi uomini, non fare i tirchi.»
Ognuno di noi mise al centri del tavolo quello che si ritrovava in tasca. Li raccolsi sopra un fazzoletto di carta e li contai.
«Sono cinquantasei dollari e ottanta centesimi. Dovrebbero bastare e quello che avanza lo divideremo.»
«D’accordo. Voi due,» disse Jake indicando me e Red. «Andrete a fare la spesa il giovedì. Prenderemo le auto di Sebastian, quella delle gemelle e…»
«La mia.» propose Red. «È abbastanza grande per stare comodi.»
Uno sguardo di Jake bastò a ringraziarlo.
«Se non c’è altro da aggiungere, noi andremo. Ormai la pausa è finita da un pezzo e abbiamo geografia astronomica.» disse Annika, alzandosi insieme alla sua gemella.
«Sì, certo. A domani, ragazze.» salutò Jake – leggi: «A domani, Annika», diceva il suo sguardo.
Ma perché non si faceva avanti?
Le gemelle raccolsero le loro cose e con un coordinato «ciao» si avviarono all’interno. Jake le seguì dopo poco.
«Andiamo anche noi.» annunciò Sebastian. «Ci vediamo domani.»
Rafe si alzò insieme a lui e non mi sfuggì lo sguardo che lanciò a Chris, mentre questi si era affrettato a frugare nella sua borsa, con le guance rosse. Dopo averci salutato, seguì Bastian all’interno.
«Sy, tu cos’hai adesso?» mi chiese Aria.
«Ora buca.» sogghignai. «Mi vado a fare quattro passi in giardino.»
«Allora ci vediamo a casa. Io e Chris abbiamo ancora Storia Moderna e Arte.»
Annuii. «D’accordo.»
Anche gli altri se ne andarono e gli unici che rimasero fummo io e Red – ma tu guarda.
Al resto dei tavoli e intorno a noi, erano rimasti solo altre poche persone, intente a fare i compiti o a parlare tra loro.
 Non mi andava di rovinare quel momento idilliaco e rilassante con delle parole, perciò rimasi in silenzio, raccogliendo le gambe sopra la panca di legno e avvolgendole con le braccia. Appoggiai la schiena contro la spalla di Red e rimanemmo così.
Fermi. Senza dire niente.
Aspettando. Guardando.
Poi, come se avessimo condiviso un solo pensiero, ci alzammo e, dopo aver preso la nostra roba, Red mi prese per mano e ci dirigemmo al giardino.
Buttai la cartella sulla quella che ormai consideravo la nostra panchina e andai alla fontana. Immersi le mani e giocai con i riflessi del sole sul pelo dell’acqua.
Volsi lo sguardo su Red e lo vidi seduto con un piede appoggiato sulla superficie piana della panchina, accanto alla mia borsa, intento a guardarmi.
Privai l’intenso desiderio di andare lì e affondare le dita nella serica massa dei suoi capelli corvini e assaggiare quelle invitanti labbra carnose.
Senza rendermene conto, mi ero già mossa, fino ad arrivare a un paio di passi da lui.
Come se fosse un gesto abituale, lui allungò un braccio e mi trasse a sé, strofinando il viso contro il mio addome.
Allora non resistetti. Alzai le mani e le sprofondai nei suoi capelli, beandomi della loro consistenza e morbidezza.
«Perché ho la sensazione di conoscerti da sempre?» chiese con voce soffocata. «Com’è possibile che ti consideri importante, quando ti conosco da sole tre settimane? Cos’è che mi spinge inesorabilmente verso di te? Perché ho sempre la voglia di toccarti, abbracciarti, constatare con mano che sei vera, reale?»
Mi sentii sciogliere da quelle parole, molto meglio di un mazzo di fiori.
«Credimi, sono sulla tua stessa barca.» gli dissi, mentre alzava quel suo liquido sguardi dorato su di me. «Non ho idea di cosa sia successo, né perché, ma so che non scambierei questa sensazione per niente al mondo. Concretamente so che non può durare.» Ci adombrammo entrambi. «Prima o poi, io me ne andrò. Me ne sono sempre andata. Ogni volta che ci fermavamo in un posto nuovo sapevo che avrei dovuto lasciare quello che avevo costruito. Perciò, che ne dici se continuiamo a vivere questo presente? Niente etichette, niente “stiamo insieme”, niente “siamo fidanzati e ci sposeremo quando finiremo il liceo”. Solo tu e io. Per tutto il tempo che ci è concesso.»
La sua presa salda su di me mi dava un senso di protezione e calore, infuso anche di possesso e privilegio esclusivo.
E mi andava bene così. Ormai, avevo mandato al diavolo tutte le precauzioni e tutte le recriminazioni che avevo precedentemente.
Non volevo che niente e nessuno offuscasse quella luce e quel calore che provavo stando vicino a lui. Volevo vivere quel momento e lo avrei vissuto.
Dopo un po’, lo vidi annuire.
«Come vuoi. Ma ad una condizione.»
Aspettai che parlasse.
«Niente roba zuccherosa come nomignoli ridicoli o regali a San Valentino, come dolci a forma di cuore, chiaro?»
Rimasi a fissarla, mezza stordita perché avevo paura di dicesse qualcosa di serio e brutto. Invece se ne era uscito fuori con quella cavolata.
«Ma vuoi farmi venire il diabete?» gli dissi, con espressione di sufficienza.
«Almeno siamo d’accordo.»
«Ovvio, altrimenti non mi saresti piaciuto.»
Il suo sguardo passò dal giocoso all’intenso in pochi secondi.
Con uno strattone, mi fece cadere sulle sue gambe, e affondò la faccia nell’incavo tra collo e spalla, inspirando a fondo.
«Hai un odore di cannella che non riesco a togliermi dalla testa.» mi sussurrò contro la pelle, spedendomi milioni di brividi lungo la schiena.
«E tu hai il sapore delle arance ricoperte di zucchero a velo.» gli confidai, mentre afferravo le sue spalle e lui mi ricopriva con una pioggia di baci sulla pelle. «Ho persino comprato un milk-shake all’arancia perché potessi assaggiarlo di nuovo.»
A quel punto, si lanciò sulla mia bocca con un bacio tanto famelico quanto passionale. Le sue labbra si modellarono sulle mie, la lingua stracciava il confine e poi lo superava, facendo esplodere nella mia bocca un incredibile caleidoscopio di sapori.
Le sue mani suoi fianchi, si spostarono verso il sedere, stringendolo e carezzandolo. L’altra andò freneticamente a giocare con i miei capelli intrappolati nella solita acconciatura, disfacendola. La cortina dei miei capelli cadde su di noi, come se si fosse chiuso un sipario, creando una sorta d'intimità.
Per riprendere fiato, si staccò dalla mia bocca e percorse con le labbra un sentiero infuocato dalla mento alla mascella, fino a scendere nell’incavo della gola e alle clavicole, cospargendoli di baci e leccate.
Dio, ero morta e finito in paradiso. Non mi ero mai senta in quel modo, così euforica, piena di vita fin quasi a scoppiare, e tremendamente sensuale.
Così audace da infilare le mani sotto la sua maglietta e accarezzare la consistenza contraddittoria della sua pelle, così morbida ma anche dura, graffiandola leggermente.
Sentii un gemito erompere dalle sue labbra come se si fosse sforzato di trattenerlo e poi non ci fosse più riuscito.
Con le mani sulla parte bassa della mia schiena, mi spinse verso di sé, mentre le labbra posarono l’ennesimo bacio nell’incavo tra i seni la felpa slacciata lasciava intravedere.
All’improvviso però, sentii un brivido freddo e, spaventata, mi strinsi a lui, mentre l’ennesima visione mi inghiottiva.


*Covenant: è un film in cui un gruppo dei ragazzi che hanno poteri speciali vengono consederati degli esclusivi dagli altri ragazzi del college, che non sanno delle loro capacità, e tengono per loro questo segreto, mostrandosi superiori agli altri. Questo esempio è solo per dare un'idea. Sy non vuole che il Cerchio venga considerato alla strengua di un esclusivo gruppo a cui è vietato l'accesso, come se gli altri avessero la lebbra e non volessero essere contagiati.

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Capitolo 26
*** Fine dei Giochi ***


Sy Hill: Salve a tutti ragazzi! Sono stra felice di essere riuscita a scrivere questo capitolo nel giro di due giorni. Non prendete a male le mie lunge assenze. Il fatto è che ho poca ispirazione in questo periodo e devo dividermi nello scrivere anche altre due FF. Ma niente paura: troverò sempre il tempo di scrivere per voi.
Un Bacio ENORME a coloro che hanno recensito lo scorso capitolo GirlOnFire_, [MissJohnson, ClearLaMoon e Gabrielle Pigwidgeon (Complimenti per il nome scelto :) )
Grazie a tutti quelli che leggono le mie sciocchezzuole.
Baci,


Sy Hill.



 

CAPITOLO 25
 
Fine dei Giochi

 
 
 
Posai il libri di biochimica nell’armadietto e lo chiusi… ritrovandomi la faccia da schiaffi di Gabby a dieci centimetri dalla mia. Il sorriso a trentadue denti era venato da una sottile tensione.
«Ciao Sy, è un piacere rivederti.»
Non per me, dolcezza.
«Ciao Gabby.» risposi, appoggiando le spalle al freddo sportello di metallo.
«Come stai?» chiese.
«Me la cavo. Ti serve qualcosa?»
Vidi la sua faccia da poker vacillare leggermente ma subito si riprese.
«Avverto una sottile ostilità da parte tua…» No davvero?»… e mi chiedo perché. Non ti ho fatto niente di male.»
Avrei voluto prenderla a calci nel sedere. Avrei voluto prendere quella sua bella testolina e infilzarla ad uno spiedo come si faceva nel Medioevo.
Ma mi trattenetti per amore delle apparenze. E per la salvaguardia del mio curriculum vitae.
«Oh, non preoccuparti. Tu non c’entri. Ma stavo pensando,» aggiunsi subito dopo, «Che siamo quasi alla fine di ottobre, perciò…»
Vidi il suo volto illuminarsi appena capì a cosa alludevo. «Oh, è vero. Tu non hai mai festeggiato Halloween da noi. Beh, come rappresentante dell’istituto sono a capo dell’organizzazione per la festa.»
«Di solito che cosa fate?» chiesi anche se già lo sapevo.
«Facciamo della scuola una Casa degli Orrori, con cadaveri sparsi da tutte le parte, sangue ovunque, fantasmi…» – giocatori di football ubriachi che tentano uno stupro di gruppo,» «E tante altre cose divertenti.»
«Chi è che ti aiuta? Voglio dire, non puoi fare tutto da sola.»
«No, certo che no. Sono la migliore ad organizzare le cose, ma non sono dotata della forza necessaria per fare tutto. Mi aiutano la squadra di football e chiunque scriva il suo nome sulla lista di aiuto che viene appesa nella bacheca, giù nell’atrio, una settimana prima della festa.»
Ecco, pensai. Ecco come mi vendicherò.
«Grazie, Gabby. Non sai quanto mi sei stata utile.»
E me ne andai.
 
*    *    *
 
Incontrai Aria mentre me ne andavo a spasso per la scuola all’ora di pranzo. Era seduta sulla scala antincendio al fianco dell’edificio principale, un posto appartato e in ombra.
«Che stai facendo qui da sola?»
Lei sobbalzò, presa alla sprovvista, e si accasciò su sé stessa, come un palloncino sgonfio d’aria.
«Mi hai spaventata, Sy.»
Ridacchiai. «Scusa.» dissi, sedendomi accanto a lei. «Allora che fai?»
«Sto pranzando,» disse, sventolando la busta di Herr’s alla paprika sotto il mio naso.
«Questo lo avevo capito,» affermai, tuffando la mano nella busta a pescare un paio di patate. «Ma perché qui dietro?»
Il suo sguardo si adombrò e con uno scatto della testa, una spessa ciocca di capelli rosso rubino andò a coprirle una parte del viso.
«Non mi andava di essere sotto lo sguardo di tutti. Di sicuro, ormai, sapranno tutto quello che è successo.»
Aggrottai le sopracciglia. «Come avrebbero fatto a saperlo?»
«Perché una delle ragazze della cerchia di Gabby abita nella casa accanto alla mia e ogni volta che succedeva un litigio, lei sentiva tutto e lo andava a raccontare a tutta la scuola. È una gran pettegola, proprio come sua madre. Ed è perfida, perciò… la litigata di ieri sera farà il giro della scuola e con qualche abbellimento in più, anche.»
Uno scatto di rabbia mi invase. Girai la testa verso il centro del cortile, dove la maggior parte degli studenti, mi accorsi, era radunato intorno ad un tavolo e una biondina con abiti scollati, di una taglia inferiore alla trentotto, parlottava con aria cospiratoria, girando lo sguardo tutt’intorno a lei, quasi a controllare che tutti stessero prestando attenzione a quello che stava spiattellando ai quattro venti.
Perché Aria le lasciava il “via libera”?
«Perché non farei altro che umiliarmi ancora di più.» disse Aria.
Non mi ero accorta di aver parlato ad alta voce.
«Ma perché permetterle di sparare balle, soprattutto su una cosa così terribilmente privata come quella?» La afferrai per le braccia, scuotendola. «Tu, come tutti gli altre, hai diritto alla privacy, perciò perché quella stronza di una Barbie dovrebbe privartene?»
Aria mi guardava con tanto di occhi. Sapevo di sembrare una pazza svitata, seduta lì davanti a lei, a scuoterla neanche fosse un milk-shake.
Ma, una dei miei difetti, era quello di farmi carico delle faccende altrui. Avevo il brutto vizio di far diventare mie le emozioni e situazioni altrui, quasi le stessi vivendo io invece che loro.
«Sy… capisco quello che vuoi dire, e sono d’accordo con te…»
«Allora perché non vai?»
«Perché non sono un tipo combattivo!» esclamò, prima di chiudersi a riccio. «Guarda te, così forte, sempre pronta a far valere le tue idee, ad aiutare chi ne ha bisogno, a dare sostegno, a prendere a calci chiunque. E guarda me… io non sono come te. Fondamentalmente – ed è la semplice verità – io sono passiva. Preferisco non intromettermi negli affari che non mi riguardano, anche se qualcuno mi attacca o dice qualcosa di offensivo, faccio orecchie da mercante e mi volto dall’altra parte. Non ho un carattere forte come il tuo. Se anche andassi lì, finirei per fare la figura della patetica povera vittima, subendo ancor più di quello che mi aspetta se invece non faccio niente…»
«E non ti sei stancata di ricoprire il ruolo della damigella in pericolo!?» le gridai contro. «Non ne hai piene le scatole degli idioti che ogni volta ti fanno passare per la deficiente di turno, per la vittima designata dei loro scherzi, neanche avresti un cartello attaccato alle spalle con un tiro a segno stampato sopra, che dice "Bersaglio facile"!?» Indicai con veemenza il gruppo della Barbie. «Quelli si stanno prendendo gioco della tua vita, una vita che loro non vivranno mai e non conoscono ciò che conosci tu, non hanno vissuto le tue stesse esperienze. Perché dovrebbero prendersi gioco della tua vita? Adesso voglio chiederti una cosa, Aria, e rifletti bene sulla risposta: vuoi continuare a dipendere dagli altri o, finalmente, prenderai in mano le redini della tua vita?»
Incavolata come una bestia, per la piega che stavano prendendo gli eventi, alzai i tacchi e me ne andai.
 
*   *   *
 
Guardai incessantemente l’orologio mentre Mr. Drawn si perdeva nella spiegazione di un letterato inglese molto famoso, di cui in quel momento non ricordavo neanche il nome.
Mancavano ancora sette minuti alla fine di quell’ultima lezione, e la mia mente divagava su quello che era successo in quelle ultime settimane.
Dio, la scuola era cominciata da solo un mese? Mi sembrava di aver vissuto in quella città da almeno un decennio.
La sola scoperta delle mie capacità e di non essere la sola ad averle mi aveva portato via almeno tre anni, altri due si potevano togliere alla notizia che mio padre sapeva tutto e che non ero nata dietro il sacro vincolo del matrimonio.
E siamo a cinque.
Altri tre erano volati via quando avevo saputo che mia madre era ancora viva, ma non sapevo come raggiungerla.
E altri due seguivano l’esempio degli altri, mentre vivevo quella stramaledetta situazione con Red e gli altri del cerchio, tra cui i tentati assassini.
Quella situazione si complicava ancora di più se ci si mettevano anche la storia di Aria e la troppo perspicace presenza di Chris.
E da un po’ di tempo a questa parte, Kima non si era più fatta vedere. E mi domandavo perché.
«Signorina Hill.»
La voce da baritono di Mr Drawn mi fece sobbalzare e feci cadere il libro di letteratura in precario equilibrio sullo spigolo del banco.
Questo scatenò delle risatine idiote, che Mr. Drawn si affrettò a spegnere sul nascere.
Gli occhi verdi dell’uomo m’inchiodarono sul posto.
«Signorina Hill, so che lei ha già superato quello che gli altri studenti della sua classe stanno, in questo momento, studiando… ma gradirei che lei sia presente alle mie lezione e non se ne vada a spasso con la fantasia.» Gli occhi brillarono come smeraldi appena lucidati. «Streghe ed Elfi non esistono.»
Mantenetti la mia espressione cortese e vacua, mentre si girava verso la lavagna a scrivere qualcosa, ma dentro di me stavo fremendo.
Non mi era sfuggito il suo calcare sulla parola «Elfi– e mi chiesi perché l’aveva fatto.
Non credendo alle coincidenze, pensai subito che c’era qualcosa di strano sotto.
Al suono della campanella, gli studenti raccolsero in fretta e furia quaderni, libri e matite e si precipitarono fuori dalla classe.
Lentamente, seguii il loro esempio, ma, invece di imbucare subito la porta, mi fermai vicino alla cattedra, dove Mr. Drawn stava scribacchiando su alcuni fogli.
«Mr. Drawn.»
L’uomo alzò lo sguardo dalle scartoffie e mi guardò, impassibile.
«Le serve qualcosa, signorina Hill?»
«Prima di tutto vorrei scusarmi con lei.» inizia. «Ovviamente, ha ragione, non è educato snobbare… voglio dire, non prestare attenzione quando una persona, specialmente un professore, sta parlando. Le prometto che non succederà più.» Presi un respiro e continuai. «Come seconda cosa… le sembrerà strano, ma quello che mi ha detto prima, sulle streghe e gli elfi, mi ha dato da pensare. Come una forte sostenitrice del fantasy e dell’occulto, metto in dubbio le sue parole. Perché streghe, vampiri, lupi mannari e elfi non possono esistere? In una realtà come la nostra, dove esistono dogmi e uomini divini che operano miracoli, di cui conserviamo memoria dentro un libro, perché allora creature soprannaturali non potrebbero esistere? La mente umana opera in base alle conoscenze che ha, alle esperienze che vive e le rielabora, adeguandosi ad esse. E ogni volta che trova qualcosa che non considera idonea alle proprie idee ed esperienze, si affretta ad etichettarle, mettendo quella determinata cosa sotto gli occhi di tutti in quanto qualcosa di «Diverso–. Quindi, viene spontaneo domandarsi: e se quelle determinate creature “diverse” abbiano capito che esporre le caratteristiche che li rendono anormali agli occhi del comune essere umano, li abbia costretti a ritirarsi e nascondersi, o a camuffare quelle determinate caratteristiche, se non a sopprimerle del tutto?» Scrollai le spalle. «Molte persone si spacciano per chiromanti, altri dicono di vedere fantasmi, altri ancora che riescono in cose impossibili alla maggior parte delle persone comuni. E io mi chiedo: e se veramente quella persona può vedere il futuro delle persone attraverso delle carte? O se quel fantasma esiste perché ha avuto una morte così violenta ed atroce che non riesce a trovare pace neanche dopo la sua dipartita e cerca un modo per trovarla, quella pace, tramite qualcuno che ha la capacità di vederlo? Il mistero è qualcosa di fittizio che noi uomini creiamo ogni giorno sulle cose che non conosciamo. Si dice che ogni leggenda abbia almeno un fondo di verità. Allora, perché queste leggende non dovrebbero essere vere?»
Mi ero talmente infervorata da perdere completamente la cognizione dello spazio e del tempo. D’un tratto, mi ritrovai catapultata di nuovo nell’aula di letteratura, davanti alla cattedra strapiena di fogli, mentre il professore mi osservava con i suoi occhi smeraldini, appoggiato allo schienale della sedia imbottita.
«Trovo alquanto interessante la tua arringa, signorina Hill. Sembra quasi che lei stia vivendo quelle stesse esperienze che ha elencato poc’anzi.» insinuò.
Vedendo che il discorso prendeva una brutta piega, la buttai sul ridere.
«Ma no, professore. Gliel’ho detto: sono appassionata di storie fantastiche e occulto, cose che per il resto delle altre persone non sono altri che fandonie. A me invece piacciono, perciò ho studiato tutto sull’argomento. Mi ci vedrebbe mentre parlo con un fantasma o faccio cadere un fulmine dal cielo?» risi, anche una delle due cose praticamente potevo farla.
«Ah, no, signorina. Certo che no. Di sicuro non parla con i fantasmi.»
Preferii non far caso alla risposta incompleta.
«Beh, allora, dopo questa interessante conversazione, io me ne andrei.»
Mi avviai alla porta, tirando un sospiro di sollievo, quando sentii il professore dire: «Sei uguale a lei
Mi bloccai sulla soglia dell’aula, mentre dentro il petto il cuore faceva un balzo.
Mi voltai lentamente a guardare il professor Drawn, che si era alzato in piedi.
«Cosa?»
L’uomo mi guardò fisso negli occhi. «Sei la sua degna figlia, uguale a lei in tutto e per tutto.»
Mentre la mia mente intorpidita elaborava le parole che aveva sentito, mossi un passo esitante verso lui, reggendomi allo stipite della porta.
L’uomo, così alto e massiccio, mi guardava con quello che mi parve uno sguardo compassionevole e consapevole.
Ma mentre stavo per porgergli la domanda che mi premeva in gola, una voce familiare mi chiamò non lontano da dove mi trovavo e, man mano, diventava sempre più vicina.
«Sy! Sy devi venire subito!»
Un Chris trafelato a causa della corsa, si fermò accanto a me, reggendosi con le mani sulle ginocchia piegate, mentre riprendeva fiato.
«Che cosa sta succedendo, Chris?» gli domandai a fatica, senza distogliere lo sguardo dal professore.
Chris, dopo aver preso un respiro profondo, seguì i miei occhi e si accorse della presenza dell’uomo nell’aula.
«Oh, mi scusi professore, non l’avevo vista.»
Cosa alquanto bizzarra, vista la mole del soggetto.
«Che succede, signor Alasdair?» chiese l’uomo.
«Ecco, vede…» Chris si torturò le mani, indeciso se parlare o meno. «Non è niente di che professore, solo una… non è niente. Però, Sy deve venire con me. Non è in punizione, vero?»
«Certo che no. Può andare, signorina Hill. Riprenderemo la nostra conversazione un’altra volta.»
Riprendendomi da quel momentaneo stato di rimbambimento, mi affrettai a rispondergli.
 «Certo, professore.» dissi subito. Ci puoi giurare.
Mi misi tracolla sulla spalla e seguii Chris lungo il corridoio. Mi dovetti mettere a correre per riuscire a mantenere il suo passo svelto.
«Quello che hai detto prima era una balla o…»
«Vorrei tanto che fosse stato così.» esclamò, alzando le braccia al cielo in un gesto di disperazione.
«Che sta succedendo?»
Iniziai a preoccuparmi seriamente.
«La dolce e timida Rosarianna non è più dolce e timida.»
Battei le palpebre, perplessa. «Cosa?»
«Non lo so, è questo il problema. Stamattina, quando l’ho incontrata era tutta intristita e se ne stava per conto suo senza dire una parola. Le ho chiesto che cosa le era successo, non mi ha risposto. Poi, quando a pranzo, quando ho visto un capannello di gente intorno a quella bocca larga di Carly Mayfiels, ho capito che cosa era che Rosarianna mi aveva tenuto nascosto. Tutti sanno che non appena miss non-so-farmi-i-fatti-miei-Carly apre la bocca, ci uscirà qualcosa che ha come tema Rosarianna. Tutta sanno dei suoi genitori, ma quello che mi fa imbestialire è che se ne prendano gioco. Ma fino ad ora, Rosarianna non ha mai mosso un muscolo per farla smettere.»
«Fino ad ora?»
Ebbi il sospetto di quello che mi avrebbe detto Chris, e infatti: «All’improvviso, l’ho vista alzarsi dalla scala antincendio e puntare dritto contro Carly. Aveva una tale espressione da far pensare ad un soldato in missione a cui è stata assegnata una missione speciale, tutta determinata e combattiva. Si è fermata alle spalle della bionda finta e le ha detto a chiara voce di smetterla di parlare.
«Carly si è girata, sorpresa che qualcuno l’abbia interrotta nel suo interessante monologo e si è sorpresa nel ritrovarsi il viso di Rosarianna davanti.»
«Che cosa le ha risposto, la barbie?»
«Le ha chiesto perché avrebbe dovuto, visto che fino a quel momento non aveva avuto niente da ridire, quando lei riferiva quello che aveva ascoltato chiaramente, "da finestra a finestra"? Ho visto quella poverina di Rosarianna afflosciarsi su sé stessa come un palloncino che si sgonfia e ho capito la situazione stava prendendo una brutta piega e sono venuto a cercarti.»
Eravamo appena arrivati nel cortile della scuola, e subito mi saltò all’occhio un cerchio di persone, ferme nel parcheggio, al cui centro c’erano la Barbie e Aria, la quale era similmente subissata dalle calunnie dell’altra.
Mi avvicinai velocemente, facendomi largo a spintoni, fino ad arrivare alla prima fila, proprio mentre Carly diceva: «Tu che mi dici… anzi no, mi comandi di smettere di parlare, neanche fossi la tua serva? Sei tu quella che mi dovrebbe leccare le scarpe, mentre quell’ubriacona di tua madre si scola un’altra bottiglia e tuo padre continua a cornificarla con chiunque abbia un paio di tette.»
Sentii nettamente, come se lo stringessi nelle mani, il cuore di Aria che si spezzava. Avrei voluto andare da lei, avrei voluto far rimangiare quelle orribili parole a quella stronza di Carly a suon di sberle, ma non potevo. Non avrei fatto altro che aumentare l’umiliazione che Aria stava pubblicamente subendo.
E ancora, percepii qualcosa rompersi dentro Aria, qualcosa che aveva sempre tenuto quel lato oscuro e selvaggio che aveva sempre tenuto incatenato, quasi avesse paura di farlo vedere.
Vidi i suoi limpidi occhi verdi oscurasi, mentre il suo corpo minuti si tendeva, pronta a scattare.
 Allora Aria le andò sotto a muso duro e disse a chiari parlo: «Azzardati a dire un’altra parola e giuro che ti ritroverai calva nel giro di cinque secondi.» quasi ringhiò quella minaccia. «Tu parli e parli e parli, ma non ti rendi conto che quello che dici non ti servirà a farti sentire importante. Gli attimi di notorietà in cui ti ritrovi la star, non servono ad altro che far accrescere quello che tutti in questa scuola pensano. Se solo una stronza che si diverte sulla pelle degli altri, qualcuno che gode nel far del male al prossimo. Scommetto che quando ti ritrovi sola nella tua stanza di notte, ti chiedi se sei piaciuta agli altri mentre spargevi in giro i fatti privati della gente come fossero coriandoli. Beh, eccoti una cosa che non ti saresti mai aspettata. Vogliamo parlare dei segreti che le persone si portano dietro e che, per loro sfortuna, incappano in te che li va a spifferare? Bene, cominciamo a da te allora: cosa diranno i tuoi genitori quando verranno a sapere di quello che combini quando loro non ci sono? Per non parlare di quel piccolo tête-à-tête che hai avuto con quel tizio, come si chiamava?, Tyler o Ryler, nella tua stanza – che guarda caso è proprio di fronte alla mia? –, mandando a farsi benedire il tuo “voto di castità”? Già mi immagino la faccia dei tuoi, due perfetti puritani che vanno in giro a predicare il sesso quale scempio della gioventù corrotta e che danno continuamente volantini sul farlo dopo il matrimonio, mentre vengono a sapere che la figlia si fa scopare da un tizio qualunque, nella loro casa? Oppure, vogliamo parlare delle tue piccole scappatelle al 1&1, il locale dove la droga arriva a fiumi e da dove, una sera ti sei ritornata completamente fatta, a braccetto con una tua amica, se così si può chiamare chi ti pianta sulla porta di casa come un albero e se ne va, lasciandoti alle conseguenze. Come faccio a saperlo, ti chiedi?» disse, vedendo la sua espressione già sconvolta sbiancare di colpo. «Perché ti ci ho portato io dentro.» Aria scosse la testa, disgustata. «Non riuscivi neanche a capire dove fossi. Quasi non ricordavi il tuo nome. Che squallore. E vuoi sapere un’altra cosa, visto che siamo in vena di confessioni? Ho notato una certa… come posso chiamarla?... disuguaglianza tra te e i componenti della tu famiglia. Sai dirmi perché?» Lo sguardi di Aria di fece come il ferro, duro e fermo, mentre lo riportava sul volto cereo di Carly. «Ho ancora altre armi nel mio arsenale, non credere. Non è solo la mia famiglia ad avere i suoi segreti. Se sento ancora un altro pettegolezzo, su chiunque o qualunque cosa, uscire dalla tua cazzo di bocca, di sputtano davanti a tutta la città: ti ritroverai sulla prima pagina del giornale con tutta la lista di peccati che non vorresti mai far sapere.»
Mentre la bionda si scioglieva in lacrima, dopo la tremenda umiliazione subita, Aria raccolse la sua borsa da terra e si avvicinò a noi, lo sguardo vitreo e il volto pallido.
«Possiamo andare a casa?» mi chiese.
Senza dire una parola, l’accompagnai alla mia macchina e ve la feci salire.
Guardai Chris che, dopo aver annuito come per dire “la lascio nelle tue mani”, si girò e se ne andò.
Salii anche io, ma non misi in moto. Mi girai, invece, a guardare Aria che era rimasta immobile da quando era salita.
Dopo poco disse: «Vorrei proprio sapere come faceva.» disse, la voce roca dopo la sfuriata.
«A fare cosa?»
«Dire tutte quelle cose orribili e andarne fiera, neanche avesse vinto una coppa per averne spifferate di più.»
«Ah, non lo so. Dovresti chiederlo a lei.»
«Io…» s’interruppe per deglutire. «Ho un’immensa voglia di piangere, ma stranamente non mi vengono fuori le lacrime. Sento come un groppo in gola, un sentore che mi avverte che la crisi sta arrivando, ma non sento assolutamente niente. Mi sento… vuota.»
«Fare del male non ti porta mai a stare bene. In questo caso, posso capire e giustificare il tuo comportamento – non avrebbe dovuto tirare in ballo argomenti così personali –, ma anche se l’hai ripagata con la stessa moneta, non sei come lei. Non gioisci delle pene altri, non ti fai beffe della malasorte altrui. E per questo, anche se tu sei comportata in conseguenza a quello che ti è stato sbattuto in faccio – anzi, ai quattro venti – non ne trai alcun giovamento… perché non è nel tuo carattere.»
Aria voltò la testa verso me, tirando su col naso, mentre due enormi lacrimoni le si formavano agli angoli degli occhi.
«Sai una buona amica, lo sai?» chiese con voce instabile, mentre le lacrime le scendevano sulle guance.
Mi strinsi nelle spalle. «Ci provo.»
E mentre la sua risata si trasformava in una fiumana di singhiozzi, la strinsi in un forte abbraccio, mormorando una preghiera: che quella dolce anima ferita potesse trovare presto la sua felicità.
 
*  *  *
 
Dopo essere tornate a casa, Aria si chiuse nella stanza degli ospiti, di fronte alla mia.
Sospirando per quella giornata davvero no, decisi di farmi una passeggiata per smaltire un po’ di tensione.
Avvisai Aria, che mi rispose con un «va bene» soffocato, e uscii di casa. Mio padre lo poteva avvisare lei.
Quando la sera prima era tornato, era di umore nero, e sospettavo che fosse andato dai genitori di Aria a “chiarire”. Non sapevo di preciso cosa avesse fatto, ma quando era tornato, aveva portato con sé anche due valige piene della roba di Aria e le aveva detto: «Tu ti sistemi nella stanza degli ospiti a tempo indeterminato» ed era sparito nel laboratorio.
Per una parte ero felice di quella situazione, che Aria non dovesse più aver paura di essere percossa dal padre violento e subire abusi mentali dalla madre alcolista; per un’altra parte, invece, ero triste: Aria non meritava tutto quello. Era una ragazza dal cuore d’oro come poche ormai, integra moralmente e incapace di far del male ad una mosca.
Era stata costretta, dalle angherie subite, a indossare i panni del predatore e non più della preda.
Ma questo le faceva solo male. Il suo animo gentile sanguinava ogni volta che era costretta a quel ruolo di cui non era avvezza e per questo soffriva terribilmente; la sua anima candida perdeva un pezzettino che anneriva delle brutture che era costretta subire.
Tirando un profondo respiro, svoltai l’angolo… e mi ritrovai davanti il campo da basket.
Non mi ero accorta che mi stavo dirigendo da quella parte, ma soprappensiero i miei piedi mi avevano portata lì.
Per fortuna che non c’era nessuno. Il sole era nascosto dietro alle nuvole, quasi avesse anche lui paura di farsi vedere.
Attraversai al campo fino a trovarmi alla distanza di un tiro da tre punti dal canestro.
Mi lasciai cadere a terra, incrociando le braccia intorno alle ginocchia e aspettai.
Non chiedetemi come facevo a saperlo, ma era così. Sapevo che sarebbe arrivato, da un momento all’altro.
Era come se quel filo invisibile che avevo visto in occasione del nostro primo incontro, mi dicesse sempre dove fosse quando avevo bisogno di lui.
E in quel momento ne avevo bisogno.
Seppi che era lì senza neanche voltarmi.
Seppi che si era mosso senza aver sentito i suoi passo sull’asfalto del campo.
E seppi che era dietro di me anche se non mi aveva ancora toccata.
«Tu credi che le cose capitano perché qualcun altro decide per noi quello che deve accadere?»
Osservai due uccelli che volarono intorno al canestro, allegri come due vecchi ubriachi che ricordano i bei momenti andati.
«Credo che ognuno di noi abbia un destino già scritto, ma che cambia continuamente a seconda delle scelte che facciamo.»
«Non è un po’ contraddittorio? Se è già scritto come può riscriversi alla scelta di cose importanti?»
«Tu mi hai chiesto se qualcun altro decide per noi? Beh, io dico che il nostro destino è già scritto da qualcun altro, ma le scelte che ci troviamo ad affrontate sono pura farina del nostro sacco. Solo noi possiamo scegliere che strada seguire. C’è sempre un bivio che ti porta immancabilmente o a destra o a sinistra, al bene o al male, degli altri o il nostro. Si chiama libero arbitrio.»
Mi voltai verso lui, perdendomi nei suoi occhi dorati.
«Sai che non ti facevo così filosofo?»
«Infatti non lo so. Parlo per esperienza.»
Il suo sguardo intenso mi fece fremere. «Arriverò mai a capirti veramente?»
Non rispose.
Il silenzio si protrasse allungo, ma non era un silenzio imbarazzante, scomodo. No, era un silenzio tranquillo, in cui nessuno dei due aveva niente da dire e apprezzava semplicemente la compagnia dell’altro.
Non avrei mai creduto possibile arrivare fino a quel punto con lui, neanche fossimo insieme da anni… ma era così che mi sentivo: come se lo conoscessi da anni.
Ed erano bellissimo e spaventoso allo stesso modo.
Un suono stridulo riempì l’aria intorno a noi, quasi smuovendola come se fosse stata una nuvola di vapore.
Sentii Red armeggiare con i jeans e tirare fuori il cellulare che continuava a squillare.
«Jake.» disse soltanto, quando rispose, continuando a guardare me.
Maleducato, sillabai.
«Sì è qui con me.» disse.
Mi indicai a chiedere: parli di me?
«Arriviamo.» e attaccò.
«Doppiamente maleducato.» gli dissi, mentre rimetteva in tasca l’iPhone e si alzava in piedi. «Neanche un "ciao, come stai" o un "arrivederci!.»
«Jake ci vuole entrambi alla fontana della scuola.»
Misi da parte gli scherzi. «È successo qualcosa che non va? Le gemelle…»
Prese la mano che gli tesi e mi tirò su… con troppo slancio: andai a sbattere contro il suo petto, ma non lo sentii lamentarsi. Anzi, strinse ancora di più la presa.
«Non preoccuparti. Non è niente. È solo Jake che convoca il Cerchio per un aggiornamento su quello che è accaduto questa settimana.»
Mi rilassai ancora di più – prima lo ero per essere nelle sue braccia, che sdolcinata da diabete – e gli chiesi: «Mi metti giù? Non tocco il suolo.»
Ridacchiando come un bambino, fece come gli avevo chiesto e in gesto del tutto spontaneo, ne ero certa, mi prese una mano.
«Nanerottola
«Piromane
Felice di quella svolta inaspettata, lo seguii alla sua immensa bestia su ruote e mi aiutò a salire.
«Mi presti il tuo cellulare, così avviso Aria che faccio tardi? Il mio l’ho dimenticato a casa.»
Dopo essere salito anche lui, mi pose il cellulare.
Mandai il messaggio dicendo che avevo incontrato Chris e sarei andato con lui e avrei fatto tardi.
Restituii l’iPhone a Red e mi rilassai sul morbido sedile di pelle, lasciando che lui guidasse tranquillamente.
C’erano ancora tante cose che non conoscevo di lui, ancora altri segreti dovevano essere svelati, ma in quel momento non avevo assolutamente voglia di rompere quell’armonia che si era venuta a creare tra noi.
L’osservai, mentre girava il volante con movimenti fluidi ed eleganti – dovuti anche all’auto, certo. Mi resi conto che Red non si sprecava mai in gesti inutili.
Di solito, le persone che guidano, tendono a girare spesso la testa come se non volessero controllare dove stanno andando, per dare un senso di superiorità su strada, come a dire “sono capacissimo di guidare anche ad occhi chiusi se voglio”.
Red no. Fissava la strada, dritto davanti a sé e si limitava a gettare ogni tanto un’occhiata dalla mia parte.
«Che succede?» chiese, sogghignando leggermente. «Oggi niente chiacchiere inutili?»
Scossi la testa. «No. Sono successe tante di quelle cose che il mio cervello è già pieno. Non riuscirebbe a sopportarne altre. Devo ancora capire se quello che verrà detto in questa Riunione rimarrà nel compartimento delle cose importanti o farà direttamente un viaggetto verso l’archivio.»
«Sì, ho visto cosa è successo oggi.» disse, tornando serio. «Carly non poteva fare peggio di così. Per una parte sono perversamente contento di quello che la piccola Rosarianna le ha detto – se lo meritava, dopo tutto quello che lei dice degli altri; ma per un’altra parte provo compassione per quella ragazza che non riesce a farsi dei veri amici, perciò ripiega su qualcosa – in questo caso raccontare fatti personali altrui – per cercare il suo momento di notorietà quotidiano.»
«Se c’eri anche tu, dov’eri?»
Lui mi lanciò un’occhiata. «Nell’aula di Arte, al secondo piano.»
Alzai un sopracciglio, scettica. «E sei riuscito a sentire quello che dicevano?»
«Sì.»
Una pausa. «Un’altra delle tue capacità?»
«Non lo so.»
Eravamo arrivati al parcheggio della scuola. Scendemmo dall’auto e, dopo che Red mi ebbe afferrato si nuovo la mano – piccola scossa calda su per il braccio –, ci dirigemmo nel giardino sul retro della scuola.
Gli altri erano già lì. Le gemelle intente a parlare fitto fitto tra loro, sedute sulla panchina di fronte al vialetto che portava alla fontana, Sebastian era con Jake e Rae-Mary, anche loro intenti in una conversazione. Raferty era poco distante, appoggiato in una posa indolente al muro dell’istituto e osservava intorno a lui con sguardo annoiato.
Salutando in gruppo, ci dirigemmo verso Jake che, vedendoci arrivare, aveva smesso di parlare con gli altri due.
«Eccovi, finalmente.» disse.
«Dovreste stringervi la mani,» dissi indicando sia lui che Red. «Due maleducati, che non salutano.»
Jake agitò la mano come a cancellare quello che avevo detto. «Lasciamo perdere discorsi inutili. Dobbiamo riunirci. Ora che ci penso,» aggiunse. «Questa è la tua prima Riunione.»
«Eh, già. Perciò, se faccio qualcosa che non va, avvisami.»
«Non preoccuparti. Sarai l’ultima a Presentarti e a chiudere il Cerchio, per cui basta che segui l’esempio degli altri e sarai apposto. Hai già visto come si fa no.»
Tirai un profondo respiro. «Sì, ma farlo ufficialmente è un altro paio di maniche.»
«Bene allora,» Jake si sfregò la mani come a pregustare quelle che sarebbe venuto. «Dichiaro aperta la Riunione del Cerchio.»

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Capitolo 27
*** Le Lacrime del Cuore ***


Sy Hill: Salve a tutti, miei cari e stimati lettori. Devo dire che sono molto soddisfatta di questo capitolo mooooolto speciale - leggete e capirete. Ci ho messo un pò, e mi scuso, ma ho avuto una specie di forlgorazione per un'altra storia, si cui ho scritto 23 pagine in meno di tre giorni (vanità il tuo nome è Sy Hill!!! XD), e ho scritto a singhiozzo: un po' quello è un po' questo.
Ma adesso che ho finito, posso dichiararmi contenta.
Non mi dilungo troppo. Voglio solo ringraziare i recensori dello scorso capitolo: monicamonicamonica, Lady Catherine che ha scritto una tesina e non una recensione (e non sai come ho pianto a leggera, lacrime di gioia si intende (: ), 5HuNtErS5 che ha scritto una recensione davvero delizionsa, GirlOnFire_, [Miss Johnson e Boarcas. Inoltre, un grazie speciale a tutti quelli che hanno messo la mia storia nelle seguite/ricordate/preferite. GRAZIE.
Godetevi questo capitolo, non ho la mimina idea di quando pubblicherò il prossimo, ma credo che non ci metterò molto.
LEGGETE E RECENSITE, mi raccomando.
Baci,


Sy Hill


* * *


CAPITOLO 27
 
Le Lacrime del Cuore
 

 
 
Sylence Hill’s Afternoon
 
È solo nella sua cella, mentre aspetta che vengano a prenderlo.
Quello è il suo grande giorno. Finalmente avrebbe riavuto la sua tanto amata libertà e con lei anche quello che aveva protetto fino a quel momento.
Niente avrebbe potuto tenerlo lontano, ma prima di poter tornare a casa e stringere ciò che anela tra le sue braccia, deve riprendere ciò che gli era stato preso.
Non si sarebbe lasciato distrarre da niente e nessuno, perciò elimina dalla sua mente qualunque pensiero, fa tabula rasa.
In quel momento, la massiccia porta di legno sfregiato e macchiato si sangue secco si apre e ne emerge l’orribile creatura che lo ha condotto in quel luogo con un inganno.
Reìrag.
Il prigioniero fa finta di essere senza energie, si accascia su sé stesso e fa penzolare la testa.
«La mia signora ti vuole al suo cospetto, miserabile derelitto.» sbraita con la sua voce aspra.
Si avvicina e con una grossa chiave apre le speciali catene forgiare per un mezz’elfo.
Il prigioniero si abbandona alla forza di gravità, cadendo al suolo a peso morto.
Il suo aguzzino grugnisse dall’impazienza e si china ad afferrarlo per i capelli.
Questo è il momento giusto.
Con uno scatto felino, in un solo movimento, il prigioniero afferra il pugnale che la creatura conserva nello stivale e si avventa contro la sua gola.
Ma non ha previsto che quel mostro ha un’arma in più che lui non può contrastare.
Il pendente che porta al collo si illumina di una foschia nera che, in pochi secondi, avvolge Reìrag, il quale con un solo manrovescio al volto scaglia il prigioniero dritto contro il muro.
Un suono umido e secco riempie l’aria.
Il prigioniero si accascia al suolo, immobile.
Reìrag si avvicina al corpo e costata che purtroppo il colpo che gli ha riservato è stato troppo forte e che gli ha spaccato il cranio.
Il prigioniero è morto.
 
*   *   *
 
Con un urlo, mi alzai a sedere, mentre quello che ho visto mi fa battere il cuore e scoppiare a piangere.
È morto. Quel mostro lo ha ucciso.
Due mani forti mi afferrano le braccia e mi scossero, mentre una voce così familiare e tanto voluta mi sgrida dicendo: «Sylence, riprenditi. Sono qui. Smettila di urlare. È tutto apposto. È finita.»
No, non è per niente finita. Non finirà mai.Ogni volta che lo avessi toccato, avrei visto qualcosa che lo riguardava e non avrei avuto la forza di rivivere la sua morte.
«Sylence.»
La morbida voce di Red mi avvolse come un abbraccio, calmandomi a poco a poco. Man mano mi accorsi di quello che avevo intorno.
Ero sui sedili posteriori del suo SUV, nel parcheggio della scuola, e le braccia di Red mi avvolgevano, restituendomi un poco della sanità mentale che la visione mi aveva tolto.
Doveva essere pomeriggio, forse la scuola era anche finita, dato che dai finestrini non vedevo che poche aiuto rimaste.
Sentendo quel blocco di ghiaccio che mi si era formato al posto del cuore sciogliersi un po’, trassi un respiro profondo, fin quasi a farmi dolere le costole, e affondai il viso nel collo caldo e profumato di Red.
È vivo,  mi ripetevo, è qui, non è morto. Non era lui quello nella visione.
Beh, tecnicamente lo era, ma era qualcun altro con il suo aspetto.
Di tutte le visioni che avevo avuto, questa era stata la peggiore, la più brutta, quella che non avrei voluto rivedere mai più. Non avrei avuto a forza di riprendermi. Vederlo accasciarsi al suolo, il sangue che macchiava la parete e gli scorreva sul collo, mentre esalava l’ultimo, brusco respiro…
Smettila di pensarci! Smettila di torturati!
Eppure non ne potevo fare a meno, perché ormai Red era diventato troppo importante per me, mi resi conto all’improvviso.
Era entrato prepotentemente nella mia vita, qualcuno di non richiesto, ed era diventato il fulcro di ogni mio pensiero. Con tutti i suoi cattivi umori, con le litigare e i baci, si era fatto spazio in quella che ormai consideravo solo una vita a metà, senza radici né casa fissa, prendendosi un posto a sedere nella fila di poltrone che nessuno era mai riuscito ad occupare permanentemente.
Strinsi forte le braccia intorno a lui, imponendo al mio corpo di smettere di tremare.
«Che cosa hai visto?» mi chiese, dopo qualche minuto.
Non volevo dirglielo. Nel mio egoismo, volevo impedirmi di rivivere di nuovo quei ricordi. Perché erano quello, dei ricordi stipati da qualche parte che saltavano fuori ogni volta che stabilivo un contatto emotivo e fisico con Red.
Perciò optai per una mezza verità.
«Non ricordo precisamente cosa ho visto, ma ho ben chiari i sentimenti che ho provato. Rabbia, angoscia, sofferenza, dolore… come se mi avessero strappato il cuore dal petto.» Se non era davvero così.
I suoi occhi dorati mi scrutava attentamente, indagatori, valutando con attenzione se quella fosse la verità o meno, perciò mi costrinsi a sostenere il suo sguardo, pregando che niente trapelasse dalla mia espressione.
Dopo qualche istante, alzò una mano a scostarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio – li avevo ancora sciolti – e mi accarezzò una guancia.
Un terrore freddo mi attraversò, la paura di poter ripetere la terribile esperienza mi corse per il corpo, facendomi venire la pelle d’oca. Mi scostai da quel contatto, spostandomi un po’ per mettere spazio tra noi.
Dio, era straziante vedere la smorfia di sofferenza che gli passò sul viso, ma non potevo farci niente. Avevo troppa paura che qualunque tipo di contatto tra noi avesse potuto innescare altre visioni squassanti, portandomi sull’orlo della disperazione. Esagerato? Sì. Ma nessuno si sceglie le emozioni che vuole provare, come se fossero vestiti, quindi…
«Tu cosa hai visto?» gli chiesi ad un tratto, ricordandomi che quella cosa non era unilaterale.
Ma lui rimase in silenzio. Pensai che me lo ero meritato, visto che neanche io gli avevo detto la verità.
«Che ore sono?» chiesi, tanto per spezzare il silenzio quanto per saperlo davvero.
Red infilò la mano nei capelli in un gesto che dedussi essere di sopportazione.
«Sono all'incirca le quattro. Sei stata incosciente per quasi tre ore.»
Dio, e pensare che quella visione non era durata che pochi minuti.
Annuii e scivolai sul sedile verso di lui per poter scendere. Ma Red non si mosse. Rimase a fissarmi con quagli occhi che erano diventati la mia ossessione, il mio punto fermo, colmi di sofferenza e frustrazione. Pieni di dolore.
Incapace di sostenere quello sguardo che io avevo provocato, mi tirai indietro e scesi dall’altra parte.
Purtroppo, le mie ginocchia avevano altri piani, visto che si misero a ballare il twist, facendomi quasi crollare a terra come una pera cotta.
Mi afferrai saldamente alla portiera dell’auto, per darmi sostegno. Sentii una soffocata imprecazione e i passi affrettati di Red, che venne dalla mia parte. In pochi secondi ero un peso morto tra le sue braccia.
«Capisco che non vuoi più toccarmi. Ma lascia che almeno ti riporti a casa.»
Costringendomi ad ignorare la dolorosa fitta al petto alle sue parole, scossi ostinatamente la testa.
«Portami solo alla mia auto. Ti prego.»
Capendo che non l’avrebbe spuntata, rinsaldò la presa sulle mia gambe e, sporgendosi, mi fece segno di prendere la mia cartella sul porta-oggetti posteriore nell’auto, dietro i sedili.
Poi mi portò alla mia auto, distante quattro o cinque posti parcheggio dalla sua.
Mi mise giù. «Ti reggi?»
Feci sì con la testa e rovistai nella cartella per prendere le chiavi.
Però, prima di salire, mi bloccai. Non volevo salutarlo così. Non dopo quello che era successo in giardino, non dopo aver messo le carte in tavola.
Volevo salutarlo come si deve, come avevo avutovoglia di salutarlo tante altre volte.
E mentre si girò per andarsene, lo afferrai per un braccio e lo fermai.
«Red, io…» tentennai, non sapendo cosa dire. «Mi dispiace, okay? Io… non riesco a controllarlo. È qualcosa che va oltre la semplice forza di volontà. Ma, ciononostante… io ho voglia di toccarti, Red. Non sei solo tu quello frustrato perché non puoi avvicinarti come vorresti perché altrimenti cadi a terra svenuto.» Mi leccai le labbra aride. «Io…» La sua espressione impassibile fini quasi per mettermi a tappeto. «Puoi… posso abbracciarti? Solo per un istante, poi me ne vado.»
Vedendo che non si muoveva, lo presi come un assenso e mi feci avanti, circondando la sua vita snella con le braccia e affondai la faccia nel suo petto. Sentivo sotto la fronte, il pulsare frenetico del suo cuore che batteva allo stesso ritmo del mio.
Poi, le sue braccia mi sollevarono fino a portarmi alla sua stessa altezza e, come aveva fatto sulla panchina, affondò il viso nel mio collo.
«Mi dispiace,» farfugliai. «Credimi, sono… estremamente frustrata.»
Perché dovevo avere proprio le visioni? Non si poteva cambiare con un’altra opzione, una che non fosse relativo allo svenimento?
Stavo iniziando ad abituarmi a quel legame, a quei sentimenti contrastanti che pervadevano il mio corpo, il mio cuore, fin quasi a farlo scoppiare.
Venne naturale scioglierci dal nostro abbraccio e salutarci con un bacio a fior di labbra, dolce come il suo sapore di zucchero e spiacevolmente breve, per evitare altri guai.
«Ci vediamo domani.» dissi, prima di infilarmi in aiuto, evitando così di calarmi ancora di più nella parte della sdolcinata.
Red rimase a guardarmi fino a quando non guidai fuori dal parcheggio e non potetti più vederlo dallo specchietto retrovisore.
 
*    *    *
 
Quella notte non riuscii a chiudere occhio. Nella mia testa, non smetteva di vorticare la raccapricciante immagine della morte di Red. Ogni volta che mi saltava davanti agli occhi, avevo la sensazione che un coltello mi fosse penetrato nello sterno dritto al cuore.
Era doloroso, oltre ogni limite. Era frustrante la difficoltà con cui cercavo di bandirlo dalla mia mente e la facilità con cui questa si opponeva.
Ormai la mia mente e il mio corpo non potevano fare a meno dei ricordi e delle sensazioni che Red dava loro. Ero come un tossicodipendente che non può più fare a meno della sua dose giornaliera.
Ma era il cuore a preoccuparmi di più.
Mi ero rassegnata ad accettare Red nella mia vita, ma quel muscolo cardiaco si stava pericolosamente affezionando a lui. Rischiavo di soffrire terribilmente una volta che me ne fossi andata.
E quello mi spaventata. Come il controllo che esercitava. Certo ero anche io quella che si immolava volontariamente, ma solo per lo stimolo datomi da mente e corpo. Il cuore era un altro paio di maniche.
Neanche con Benjamin avevo provato quello che Red mi faceva sentire. Con Ben era stato la prima vera cotta, quella che ti fa vedere tutto il mondo rosa, che ti fa sorridere come una deficiente, che ti sembra durerà per sempre.
Mi aveva fatto male quando ero stata costretta a lasciarlo. Ben non l’aveva presa bene. Mi aveva inveito contro dando a me la colpa, dicendo che ero sempre stata a conoscenza della mia partenza, che lo avevo preso solo in giro, abbindolato con il mio falso affetto, e che mi ero divertita a farlo soffrire alle sue spalle.
Non era vero quasi niente. Sapevo della partenza, sapevo che una volta finito l’anno, sarei dovuta partire, ma avevo tenuto per me quell’informazione, cercando di godermi il sentimento giovanile che avevo con lui il più possibile. Ma lui non aveva voluto sentire ragioni. Era venuto a quella che all’epoca era casa mia, aveva sproloquiato tutto il veleno che aveva in corpo e poi se ne era andato.
La mattina dopo non era neanche venuto a salutarmi. Potevo capire che fosse ferito quella mia improvvisa partenza, che soffriva come un cane proprio come me, ma che avesse una così bassa opinione di me mi aveva ferita ancora di più.
All’epoca, avevo pensato che fosse solo per la brutta notizia del mio abbandono, ma ora a pensarci a mente fredda mi chiesi se non avesse sempre avuto quei pensieri maligni su di me.
Ma ora con Red, quello che aveva provato con Ben mi sembrava insignificante.
Con Red era una continua sfida a chi aveva la meglio sull’altro, era un batticuore così forte da temere che il cuore saltasse fuori dal petto, era calore e il freddo insieme, era una fiamma ardente che persuadeva a fare follie.
Era qualcosa di inspiegabile, di terribile e meraviglioso.
Qualcosa che non poteva essere ignorato.
Sospirando, mi rigirai nel letto, tentando di dar pace ai mille pensieri che si affollavano alla stazione per il settore “priorità”.
E, dopo poco, mi arresi alle braccia di Morfeo che finalmente si decisero ad accogliermi.
 
*    *   *
 
Quella stessa mattina, mi ritrovai in casa da sola. Due post-it attaccati alla porta comunicavano l’uscita di papà e la camminata per schiarirsi le idee di Aria.
Colsi l’occasione per fare un magnifico bagno rilassante, per poi impegnarmi a sciogliere i nodi che intricavano i miei poveri capelli bistrattati. Ritornando nella mia stanza, mi fermai davanti alla porta del laboratorio.
Era socchiusa.
Mi sorpresi, perché papà era molto attento a chiuderla sempre a chiave quando usciva. Non voleva che entrassi. Diceva che c’erano delle piante velenose che non dovevano essere avvicinate e che potevano emettere delle spore pericolose per la salute.
Francamente, non ci avevo mai creduto.
Ed ero molto curiosa di vedere il fiore che gli aveva regalato la mamma.
Circospetta, come se temessi che mio padre sbucasse da dietro qualche porta per cogliermi in flagrante, mi avvicinai alla porta e posai la mano sul pomello.
Niente imboscate. Bene.
Aprii piano la porta, meravigliandomi del buio pesto che invadeva la stanza.
Sembrava che la luce all’esterno non riuscire a superare la soglia e ad immettersi dopo due centimetri di spazio.
Era completamente oscurata.
Avvicinai la mano allo stipite tastai il muro in cerca di un interruttore.
Niente, né a destra né a sinistra.
Rassegnandomi a brancolare nel buio, mossi il primo passo. E poi il secondo. E ancora il terzo. Non avevo la benché minima idea di dove stessi andando né la strada che dovevo percorrere, ma andai a tentativi.
Dopo essermi allontanata di un buon metro e mezzo dalla porta, questa di chiuse con un tonfo e uno scatto secco che mi fecero trasalire.
Non era possibile. Mi ero chiusa dentro?
Mi avvicinai velocemente alla porta e provai a girare la maniglia.
Niente.
Un paio di strattoni ben assestati.
Ancora niente.
Oh, porca miseria!
Sbuffando seccata, mi feci coraggio e mi inoltrai nel laboratorio.
Ero come un ceco, che non sa dove andare e si affida agli altri sensi che possiede.
Allungai le mani e tastai intorno a me tutto quello che trovavo: prima afferrai il vuoto, poi con un altro paio di passi, alla mia destra fiorai qualcosa di umido e liscio.
Con i polpastrelli studiai la superficie e decisi che era la foglia di una pianta, data la lunghezza, lo spessore e l’attaccatura ad uno stelo bello spesso.
Abbassando al mano, toccai un bancone di legno cosparso di terra, granulosa e secca.
Andai avanti di qualche passo e sentii che il bancone girava bruscamente verso sinistra, in una curva ad angolo retto. Mi girai in quella direzione e con la sinistra toccai l’altro bancone.
Mi chiesi come mio padre potesse lavorare in tutta quella oscurità. Sapevo che alcune piante prediligevano gli spazi bui e secchi, ma come diavolo ci si potesse muovere là dentro non ne avevo la più pallida idea.
Seguii il bancone, mentre le mani venivano solleticate dalle varie piante che erano esposte, alcune fresche e bagnate, altre secche e ruvide.
Dopo alcuni metri, percepii nell’aria un odore particolare, speziato ma dolce come quello del caramello. Affidandomi all’olfatto, seguii quel profumo – che stuzzicava l’appetito tanto era dolce – come un segugio.
E andai a sbattere. Non so di preciso contro cosa, ma era solido e liscio come vetro e altrettanto freddo.
Sobbalzai quando una luce mi colpì dritta negli occhi. Poi se ne accese un’altra alla mia destra e poi a sinistra.
In pochi attimi, l’intero laboratorio venne illuminato da fasci di luce incassate nel soffitto, svelando ai miei occhi la reale dimensione di quel posto.
Era enorme.
Il che era impossibile, perché la planimetria della casa ricopriva quasi per intero lo spazio che occupava il laboratorio. Ma, in quelle settimane, impossibile aveva acquistato un valore relativo per me.
Quindi mi chiesi se mio padre avesse messo lo zampino in quell’illusione ottica, tramite qualche sostanza in qualche pianta, o quella casa era più di quel che sembrava.
Accantonando quei pensieri per un secondo momento, voltai il viso lanciando uno sguardo al laboratorio… e mi persi nei petali dorati e argentei di un magnifico fiore.
Era imprigionato sotto una teca di vetro forato in punti strategici per poterla innaffiare, le foglie verdi smeraldo avevano una linea arcuata arricciate all’insù in punta, e larghe quanto il palmo nella mia mano; lo stelo era dritto, perfettamente circolare, senza scanalature o bozzetti, di un verde più scuro delle foglie, come il fondo di una Heineken. E il fiore…
Aveva le sembianze di una lilium, ma i petali era più lunghi e larghi e aveva solo tre piccoli baccelli sottilissimi all’interno nella corolla, con piccoli semini attaccati in punta, e non era screziata da altri colori. La corolla partiva da un intenso dorato nella parte della corona, attaccata allo stello, per poi diventare da un cangiante bianco perla nella parte centrale e finire in punta da l’argento più chiaro che abbia mai visto, molto più chiaro del mercurio. E anche più splendente.
Mi sembrava che sprizzare Energia da tutti i pori, illuminando da sola la teca senza l’ausilio di luci o altro.
Avevo  capito che era il Fiore di Liòs appena vi avevo messo gli occhi sopra.
Era stupefacente, bellissimo, così delicato ma così forte e luminoso. Era soprannaturale.
Ed era potuto nascere solo grazie all’amore che i miei genitori provavano l’uno per l’altra, non avevo più dubbi. Vedere la prova di quell’amore, sentire l’odore e sperare di poterlo un giorno toccare mi faceva battere forte il cuore, riempiendolo della speranza e della forza necessaria per darmi la determinazione per non arrendermi. Per lottare. Combattere. Trionfare. E finalmente, realizzare il sogno di una vita, ritrovare mia madre.
Sapevo che era viva, me lo sentivo nelle ossa e quel fiore non faceva che confermare ulteriormente quella convinzione.
Annuendo a me stessa, feci dietro-front e uscii dal laboratorio, più determinata che mai.
Lasciai la porta socchiusa come l’avevo trovata e andai in camera mia a recuperare il libro dalla cartella.
Mi sedetti sulla panca sotto la finestra e voltai il libro sul tetro, sperando in un indice.
Niente. Poco male. Sfogliai velocemente le pagine fino a trovare l’immagine che avevo visto nella biblioteca.
E, a proposito di quella parentesi, non mi ricordavo ancora niente di quello che avevo vissuto la dentro. Cioè, ricordavo di esserci entrata e di aver visto la stessa immagine del libro, ma da quel punto in poi era completo black-out, fino a quando non mi ero svegliata in braccio a Red.
Sfogliai piano le pagine, facendo attenzione a trovare le parole che mi servivano, buttando anche un occhio al resto.
Dopo alcune pagine, trovai una cosa interessante. Era una specie di filastrocca, incastrata tra due paragrafi, che recitava:
 
Canti e Balli risuonan nell’Aria
Quando le Luci della Terra conducon le Danze
L’Ombra del Fuoco capeggia la Cerchia
Mentre assetati giocan con l’Acqua
Tutti uniti in un Unico Insieme
Celebrano Ovunque il loro Restare
E raggiungon così la loro Destinazione
Dove le Danze non si potran Fermare

 
Che strana poesia, ma dovevo ammettere che era la cosa più normale che avessi trovato in quel libro.
Prendendo una graffetta dalla scrivania la inserii nel foglio come segnalibro e andai avanti.
Non c’era granché, la maggior parte era tutta una descrizione di LiòsLand, ma non volevo basarmi su dei racconti che potevano risalire a cento anni prima. Io volevo vederla con i miei occhi LiòsLand e dire “questa è la terra da cui provengo” e non “questa è la sua descrizione”.
Girai un altro paio di pagine, ma non ne uscì niente di rilevante. Poi, trovai una pagina che si dilungava a parlare dei Talenti che i vari LiòsLand possedevano fin dalla nascita.
Uno diceva:
 
"La Natura d’Animo di ogni Liòs si rispecchia nei Talenti che domina. Un Animo Guerriero e Coraggioso, ha la Forza necessaria a sollevare un tronco d’Albero. Un Animo Nobile e Pacato, non resiste alle Correnti del Cielo con cui gioca. Un Animo Sensibile e Osservatore, può Guarire le Ferite del Corpo. Molti sono i Talenti, mai uguali, mai più di tre nella stessa persona, mai abusarne troppo. L’Animo Corruttibile delle Creature della Terra è facilmente persuaso a farne cattivo uso. Questa caccia al Potere più portare alla Creazione di ben più grandi conseguenze di quelle che potrebbe provocare la Furia della Natura…"
 
L’improvviso sbattere della porta d’ingresso mi fece sobbalzare. La voce baritonale di mio padre riecheggiò per la casa.
«Dolcezza, sono a casa! Dove sei?»
Sentendo i passi avvicinarsi rapidamente alla mia stanza, nascosi il libro sotto il cuscino e mi ci sdraiai sopra, incrociando le caviglie e piegando le braccia dietro la testa.
La porta di aprì e papà entrò.
«Ciao. Che stai facendo?» chiese.
«Niente.» mentii. «Mi stavo solo rilassando, godevo di quel poco di tempo in cui non devo ricordarti di fare qualcosa.» lo presi in giro.
Xavien sorrise tanto da slogarsi quasi la mascella. «Beh, adesso non avrai niente da ridire, visto… che mi sono ricordato di fare la spesa.» esclamò.
«Menomale, così stasera non dovremo ordinare pizza. Finalmente posso cucinare qualcosa di diverso di pomodori, mozzarella e peperoni.»
Mi alzai dal letto e, prendendolo a braccetto, lo portai nella cucina.
Meglio allontanalo dalla scena del crimine.
Presi un appunto mentale: ricordarmi di riferire a Jake quello che avevo trovato nel libro e della visione che avevo avuto di Red.
Ed ecco un altro appunto: costringere Red a rivelare quello che ha visto.
Sospirai mentalmente. Che fatica essere me.
 
 
Rosarinna O’Sheha’s Afternoon
 
Lasciato il post-it attaccato alla porta, uscì di casa. Non riusciva a restare chiusa tra le quattro mura soffocanti della camera degli ospiti. Voleva rimettere ordine nella sua testa, i troppi pensieri si accavallavano, come il crollo di un castello di carte. La sua vita era ormai in pezzi, ogni convinzione che tutto sarebbe andato per il meglio, tutte le volte che aveva provato instaurare un rapporto con la sua famiglia, le terapie di gruppo a cui avevano partecipato per un paio di mesi, i momenti trascorsi insieme senza litigare che avevano acceso una flebile speranza dentro il tenero cuore di Aria…
Tutto perduto. Anzi, tutto inutile. Non era servito a niente.
Sua madre la disprezzava ancora di più per averle negato la vita da modella che aveva sempre sognato che era in procinto di avviare. Il momento in cui era stata accettata in un provino per camminare sulla passerella indossando abiti di un noto stilista era stato anche quello in cui aveva saputo di essere incinta.
Suo padre lo aveva fatto. Perché? Sapeva che Adeline Bouchampe voleva fare quel lavoro, viaggiare per il mondo, vedere le maggiori capitali dell’alta moda, incontrare i creatori di quei modelli che adorava tanto, e che quindi non sarebbe rimasta con lui. Perciò aveva fatto in modo che non potesse più essere accettata in nessun provino, che non potesse più muoversi dalla soglia di casa.
L’aveva compromessa – anche se la madre era stata consenziente – e lo aveva fatto sapere al padre di lei. I nonni di Aria avevano obbligato Jack a sposare la loro figlia che, volente o nolente, non aveva potuto rifiutare o abortire, come aveva avuto intenzione di fare.
E da lì in poi, era andata anche peggio. Jack fu subissato di lavoro all’acciaieria, trascorrendo meno tempo con la famiglia, se così si poteva chiamare. E incominciò a dedicare ad altre la sua attenzione, quando capì che la moglie lo considerava meno di niente, un semplice donatore di DNA.
E la moglie, incinta, privata del suo sogno, con il corpo sformato dalla gravidanza, si dedicò alla bottiglia di Jack Daniels. Non si può bere alcol quando si è in dolce attesa, ma per Adeline era una vendetta, perché credeva che se avesse bevuto tanto alcol il mostro che le cresceva nella pancia sarebbe morto, lasciandola finalmente andare per la sua strada.
Ma niente servì. Era come se la cosa che cresceva nella pancia se ne fregasse altamente delle sostanze tossiche che le faceva ingerire.
E nove mesi dopo, al momento del parto, non c’era nessun in casa con Adeline. Il marito la stava cornificando un’altra volta, e per colpa delle contrazioni dolorose non riusciva a raggiungere il telefono. Fu solo al terzo urlo che la sua vicina si accorse che qualcosa non andava e andò a controllare, trovando la partoriente stesa nel salone di casa in pieno parto.
L’ambulanza impiegò quindici minuti per arrivare, e altrettanti ne impiegò per tornare in ospedale. Il parto fu il più lungo che l’ospedale avesse mai assistito: ventinove ore di travaglio e sono dieci minuti per far nascere il neonato.
La madre non volle neanche vederlo.
Il padre si presentò solo il giorno dopo nel tardo pomeriggio. Aveva la speranza che avesse avuto un maschio. Quando andò alle finestre che esponevano le culle con i neonati, ne vide una con il nastro blu e pensò che fosse lui, suo figlio, così paffuto e roseo, e bello grande come lo era lui.
Ma l’infermiera che gli chiese chi fosse, gli indicò un’altra culla. Il neotanto al suo interno era sdraiato su un fianco, magro come un chiodo, piccolo quando una bambola e avvolto in un panno rosa.
Jake O’Sheha aveva una figlia.
Una figlia che non aveva previsto, una figlia che non avrebbe amato, ma solo tollerato perché derivante da lui, una figlia che non gli avrebbe dato le soddisfazioni che lui pretendeva.
Una figlia che avevano lasciato crescere in balia di sé stessa.
Con un genitore impegnato con altre donne, l’altro attaccata al collo di una bottiglia un giorno sì e l’altro pure, Aria aveva dovuto crescere più in fretta di altre bambine della sua età. Aveva imparato, già da quando aveva capito che doveva farlo, che non poteva affidarsi ai suoi genitori ma solo su sé stessa.
Eppure, bambina dal cuore dolce e tenero com’era, non si rassegnava all’idea che i suoi genitori non potessero volerle bene un giorno. Sperava sempre che un giorno rinsavissero, che entrassero entrambi nella sua stanza, che le dessero il buongiorno con un bacio sulla guancia, e che le dicessero che le volevano bene.
Ed ora, quel sogno infantile, nascosto nei meandri più segreti del suo cuore, era svanito per sempre.
Jack e Adeline non l’avrebbero mai amata, non l’avrebbero mai voluta e quando se n’era andata di casa, non avevano fatto niente per impedirglielo. Anzi, c’era mancato poco che le preparassero i bagagli con le loro mani.
Con una stretta al cuore, in procinto di versare altre lacrime amare, Aria svoltò l’angolo della strada, ritrovandosi faccia a faccia con il cancello del Holy Safe Lansing Graveyard.
Il cimitero, che si trovava nella parte ovest della città, era un’enorme distesa di erba verde, punteggiata di quanto in quanto di piccoli tocchi di colore. Il terreno era cosperso di file regolari di tombe grigie, bianche, nere, sculture, e in certi punti anche mausolei. L’accesso era sempre aperto, perché a differenza di altri posti, Lansing vantava lo zero percento di atti vandalici riservati ai cimiteri. Ogni cittadino considerava quel luogo terra sacra, consacrata, e niente doveva turbare quell’ambiente che, anche se triste, infondeva un senso di pace.
Aria si disse che il suo subconscio l’aveva portata lì, cercando un modo per alleviare il tumulto interiore che le turbava i pensieri e il cuore.
Spinse il cancello di ferro battuto dipinto di nero, con lo stemma lavorato a mano intorno alla toppa, e questo cigolò debolmente. Il sentiero lastricato si diramava in più direzioni e nel punto d’incontro c’era un palo con cartelli di legno con su scritto i vari nomi delle zone che indicavano. Era così: per tenere un ordine per le tombe, chi aveva creato il cimitero lo aveva suddiviso in diverse zone e ognuna di loro aveva il nome di un santo. Aria scelse San Antonio, il santo delle anime afflitte. Piuttosto azzeccato.
Le tombe si susseguivano in perfetto ordine come perfetti soldatini, in diversi colori e forme, con decorazioni in ottone, altre con semplici scritte.
Una di quelle catturò la sua attenzione. Si avvicinò per leggere meglio il nome inciso sopra.
 
MADELINE BOUCHAMPE
1927 – 2012
 
Sotto alla scritta, c’era la foto della donna incorniciata d’ottone. Il suo viso era la fotocopia invecchiata di sua madre.
Sua nonna.
La nonna era morta e lei non l’aveva neanche conosciuta. Da quello che aveva potuto comprendere dalle varie litigate dei suoi genitori, i suoi nonni sia paterni che materni avevano tagliato i ponti con i rispettivi figli dopo averli obbligati a sposarsi e aver deciso di comune accordo che nome darle. Molto probabilmente, il nome Rosarianna derivava proprio da quella frattura, una prova, un nome, che non l’avrebbe ricollegata né alla famiglia materna né quella paterna.
Non erano stati presenti al battesimo, né a nessuno dei compleanni della nipote, né a qualunque altra ricorrenza.
All’improvviso tutto lo squallore, la tristezza e la sofferenza che la opprimevano vennero a galla, straripando dagli occhi sotto forma di lacrime.
I forti singhiozzi si perdevano nel vento che scuoteva le fronde degli alberi sparsi qua e là nel camposanto. Aria si accasciò a terra, sorreggendosi alla lapide della nonna mai conosciuta per impedirsi di cadere a peso morto. In quel momento, Aria desiderò solo avere un’ancora di salvezza, qualcuno che le dicesse che andasse tutto bene, qualcuno a cui aggrapparsi in momenti difficili come quello, qualcuno che l’amasse davvero.
Asciugandosi le lacrime con la manica della maglia, Aria fece forza sulle gambe e si issò in piedi. Aveva la testa piena d’aria come un palloncino e era leggermente confusa.
Si guardò in giro, cercando si capire che cosa fare ora. La sua vita era a pezzi e doveva trovare uno stimolo per continuare ad andare avanti, altrimenti sarebbe impazzita.
Rimettendosi sul sentieri che aveva percorso, tornò indietro, profondando le mani nelle tasche dei jeans. Alzò il viso al sole che le scaldava le guance, scurendo le graziose efelidi che aveva intorno al naso e facendo brillare i suoi occhi verde prato.
Qualcosa nell’aria parve cambiare e capì, in qualche modo, di non essere più sola.
Lentamente, come se temesse di scoprire chi fosse l’intruso, abbassò lo sguardo.
Due occhi bicolore la guardavano fisso, osservando, studiando con attenzione.
L’occhio d’ossidiana sembrava la guardasse freddo, calcolatore. Quello azzurro ghiaccio, invece, esprimeva curiosità e diffidenza. In piedi, in mezzo al sentiero, pareva incombere su di lei anche se avevano un divario di due metri buoni. Era vestito completamente di nero, colore che faceva risaltare la sua figura snella, ma tonica, con spalle da nuotatore e gambe da corridore. Lo zuccotto gli copriva i capelli, ma qualche ciocca castano scuro gli si modellava sulle tempie, facendo risaltare gli zigomi alti.
Aria avvertiva una debole campanella d’allarme nella sua testa, come se qualcosa in nel tipo alto e vestito come un ladro non andasse. Solo, non aveva fatti i conti con i suoi occhi, strambi quanto magnetici.
Bellissimi.
Aria non aveva mai incontrato qualcuno affetto da eterocromia, ma ne aveva sentito parlare. E vedere finalmente prova dell’esistenza di quella malformazione genetica – anche se per lei non era tale – era molto strano.
«Ehm… ciao.»
L’altro non rispose.
Sì, brava. Continua pure con questa brillante entrata.
Spostando il peso da un piede all’altro, a disagio, Aria non sapeva cosa dire. Era come se nel suo cervello fosse successo un black-out generale.
Dì qualcosa idiota!, si rimproverò.
«Come mai da queste parti?»
E, secondo te, sono affari tuoi?
«Io non so perché sono qui.» Ciao, io parto per un cervello migliore. «Voglio dire, non so neanche come ci sono arrivata.» Addio, le mie dimissioni sono sulla tua scrivania.
Quegli occhi straordinari sembravano scandagliarla dentro, scavando, cercando, trovando. Un esame ai raggi X che poteva catturare tutti i suoi più intimi segreti.
Evitando di incontrare quello sguardo, Aria scosse la testa e agitò una mano come a dire dimentica-quello-che-ho-detto.
«Uh…ehm… ci vediamo.» O forse no, dipende se una buca mi inghiotte in questo preciso momento, evitandomi di fare figure del genere anche in futuro.
Essendo impacciata in modo ridicolo con il sesso forte, Aria aveva fatto in modo di stare alla larga qualsiasi contatto con la specie. In quel momento, però, rimpianse quella decisione.
Per evitare di fare ulteriori figuracce, si voltò per andarsene, e arrivare al più vicino centro di recupero mentale, magari uno che operi lo scambio di cervelli, visto che il suo era completamente inutile al momento.
«Attenta con i desideri.»
La sua voce tenorile le arrivò alle orecchie come il più carezzevole dei suoni, bloccandole i piedi e facendo battere più veloce il suo cuore.
Si volse lentamente, incontrando i suoi occhi bicolore, intensi, profondi come un abisso.
«Non puoi mai sapere chi ti sta ascoltando.»
Un brivido le corse dietro la schiena a quelle parole. I campanelli che prima erano un sussurro  iniziarono a strillare nella sua mente, spingendola a correre più lontano possibile da quello sconosciuto.
Una volta, aveva sentito dire che la bellezza di una persona era pari all’animo nero che serbavano dentro. Perché, in quel momento, quelle parole le sembravano più che vere?

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Capitolo 28
*** Non Previsto ***


Sy Hill: Salve a tutti, miei cari Lettori. Sono estremamente felice di vedere che non mi avete abbandonato e posso affermare con fierezza di aver raggiunto più di cento recensioni!!! Non so come ringraziarvi, se non continuando a farvi felici scrivendo questa mia Opera. Un rigraziamento speciale voglio farlo in onore di Lady Catherine e 5HuNtEr5 che, come sempre, mi hanno scritto una recensione lunga un tema d a Juliet327. Grazie infinite. E, Lady Catherine, non preocciparti. Non è come pensi. Non aggiungo altro. XP.
Grazie infinte a chi segue/recensisce/ricorda/preferisce la mia storia. non sarei niente se non fosse per voi.
GRAZIE INFINITE.
Leggete e recensite.
Come sempre,
Baci,

Sy Hill

 

 
CAPITOLO 28
Non Previsto
 
 
Meno 13 ore al giorno della scampagnata e ne erano passati due dalla visione. Quel dì avremmo rifinito gli ultimi dettagli. La carne era nel frigorifero, comprata il pomeriggio precedente, purtroppo da sola. Red mi aveva inviato un messaggio per dirmi che non poteva venire. Anche Jake si era fatto sentire, per sapere se avevo trovato qualcosa di interessante, e gli avevo risposto che gli avrei detto tutto al momento opportuno.
Stiracchiandomi, mi alzai dal letto e andai alla scrivania e feci una rapida ricerca. Su Google Maps, trovai la nostra destinazione, il Tacumseh Park*. Si poteva raggiungere facilmente percorrendo la Martin Luter King Jr. Blvd**, attraversare il ponte che portava allo svincolo con Grand River Ave*** e prendere la Tacumseh River Rd**** e il gioco era fatto.
L’occhio mi cadde sul fiume che era proprio davanti al parco, che dava il nome alla strada. Lo spazio più appropriato in cui accamparci era di sicuro dove si trovava una curva a U capovolta che poi portava verso sud-ovest: era abbastanza lontano dalla strada principale e dava proprio sulle rive del fiume.
Un’idea mi balenò nella mente. Sogghignando, presi il telefono e chiamai le gemelle (lo scambio di numeri era stato necessario per le riunioni del Cerchio, altrimenti, chi avrebbe mai avuto il numero delle gemelle!?).
Annika  mi rispose al primo squillo, con un assurdo sproloquio.
«Salve, qui Annika Teesh, la regina della moda e la più fashion che ci sia in città. Chi parla?»
«Una che vorrebbe non aver mai fatto questa telefonata.»
«Sylence!? Oh, mio Dio. Sei rinsavita!? Hai deciso di abbandonare quel tuo look assolutamente out e mi hai chiamata per fartene consigliare uno migliore!?»
Riavvicinai il cellulare che avevo allontanato dall’orecchio per evitare di diventare sorda così giovane e risposi:«Ehm…no. Ho chiamato per un’altra cosa.»
«Oh.»
Alzai gli occhi al cielo per il tono secco che aveva usato e continuai: «So che voi due siete le esperte della moda per antonomasia, lo hai detto tu stessa. Di sicuro conoscete tutti i trucchi per scovare quello che vi serve e sono sicura che ad un occhio attento come il vostro sia impossibile che sfugga qualsiasi cosa.»
«Sì, è vero.»
Me la immaginavo gongolare, mentre un’immaginaria coda di pavone si apriva per fare la ruota. Vanità il tuo nome è Annika!
«Perciò, sono sicura che al tuo occhio esperto non manchi di individuare subito le forme esatte di una persona.»
«Che vuoi dire?» chiese, il tono sospetto.
«Vuoi sapete riconoscere le taglie di una persona a vista d’occhio, non è vero? Siete le esperte in questo campo, no?» aggiunsi subito dopo, per gonfiare il suo ego.
Era un raggiro, ma in guerra e in amore…
«Ma è ovvio. Perciò, cosa ti serve?»
«Tu e tua sorella potete procurarvi un costume per tutti noi del Cerchio e per Chris e Aria?»
Incrociai le dita.
«Perché? Non andiamo mica al mare.»
No, infatti. Ma ad un fiume sì.
«Puoi farlo?» insistetti, evitando di rispondere alla domanda.
«Ma certo. Ne ho visti alcuno proprio carini in un negozio in città. Devo prendere anche quelli maschili, vero?» chiese eccitata.
Mi chiesi se lo fosse perché doveva comprare un costume per Jake, ma esclusi a priori la voglia di chiederlo.
«Certo. E, mi raccomando, nessuno deve sapere niente. Se vuoi, puoi dirlo solo al tua gemella. Ma a nessun altro, chiaro?»
«Oh, ma certo. Anche se io e Monika amiamo i pettegolezzi, non lascerei mai trapelarne alcuno in cui si parla anche di noi.»
«Bene. Allora ci vediamo domani, Annika.»
«Aspetta! Serve anche a te un costume?»
«Ah, no. Ne ho uno che ho comprato un paio di anni fa, dovrebbe andarmi ancora bene.»
Silenzio.
«Te ne compro uno nuovo. Au revoir
Guardai il telefono che continuava ad emettere il tuu-tuu della linea interrotta e pensai: mi ha attaccato il telefono in faccia?
Scuotendo la testa, spensi il pc e andai a sdraiarmi, chiudendo gli occhi.
Intuivo in qualche modo che quella di domani sarebbe stata una giornata interessante.
Un paio di timidi colpi alla porta mi fecero svegliare.
Mi ero addormentata?
«Avanti.» dissi, stropicciandomi la faccia.
Dalla porta fece capolino Aria. «Sy, ti ho svegliata? Scusami.»
«Non preoccuparti, Aria. Chi ore sono?»
Le feci degno di entrare e lei venne a sedersi sul letto accanto a me.
«Sono le nove passate. Oh, guarda come sono ridotti i tuoi capelli!»
Prese la spazzola da sopra il comodino e prese a spazzolarmi i capelli aggrovigliati.
«Dovresti avere più cura di loro.» mi rimproverò bonariamente Aria.
«Se io li curo, poi chi me li spazzola?»
Lei ridacchiò.
Ero contenta di vederla di nuovo sorridere, mi mancava la sua risata. Nei suoi occhi del colore delle foglie primaverili c’era ancora un velo di tristezza, ma almeno non piangeva più la notte, come mi era capitato di sentirla, a volte.
«Sei pronta per domani?» chiesi.
La spazzola passava lentamente nei miei capelli. «Ho timore di non piacere ai tuoi amici.»
«Ma che dici, Aria! Tu piacerai a tutti e saranno anche tuoi amici.» Mi voltai a guardarla e mi sorrise debolmente. «Aria, non partire dal presupposto – del tutto erroneo – che non piacerai agli altri: fallirai immediatamente. Se non ci proci, non sai quello che può accadere. Pensa positivo. Pensa che faremo la scampagnata, accenderemo un barbecue…» – faremo un nuotata – «… e ci divertiremo un mondo insieme agli altri. E non pensare nemmeno per un attimo di metterti in un angolo ad osservare gli altri che si divertono come se fossi in castigo. Costringerò il tuo sederino a muoversi, a furia di tirarvi sberle. Sei sia irlandese che francese ed ognuna delle due parti apprezza il divertimento. Tu dovresti essere la regina delle feste! Prometti che ti divertirai, che farai uno sforzo.»
Aria si mordicchiò esitante il labbro. Poi annuì. «D’accordo, ci proverò.»
L’abbraccia. «Sei grande, Aria.»
«E ti sei la migliore amica che si possa avere.»
Mi si strinse il cuore alla tristezza che impregnava quella frase.
«Anche tu, Aria.» le dissi guardandola seria. «Anche tu.»
Quella stessa sera, riferimmo a papà il piano per il giorno dopo. La prese bene, anzi era felice che facessimo questa scampagnata, così io avrei legato con altri “ragazzi della mia età” e Aria sarebbe uscita un po’ di casa.
«Così avrò una giornata tutta per me, da dedicare ai miei hobby personali.»
Lo guardai con un sopracciglio scettico alzato. «Vuoi dire che te ne starai tutto il giorno chiuso nel laboratorio, non è vero? Papà!» esclamai vedendo la sua faccia da colpevole. Poi sospirai, sfregandomi la fronte. «Promettimi che punterai il tuo orologio da polso ad ogni orario di pasto.»
«Lo prometto. Parola di “giovane marmotta”.» promise, scattando sull’attendi e imitando un saluto militare.
«Papà, tu non eri negli scout.»
«Dettagli.»
Sospirando, sperai solo che tutto filasse per il verso giusto.
 
*    *    *
 
Il mattino dopo, la giornata prometteva sole a tutto spiano, splendido per la nostra scampagnata. Mi stiracchiai e, tirando da parte le lenzuola, scesi dal letto e andai a chiamare Aria.
Non sentivo il parlottio della televisione, il che voleva dire che papà non si era già alzato.
Bussai alla porta di Aria e, non ricevendo alcuna risposta la aprì.
Vuota.
Aggrottando la fronte, uscii dalla stanza e andai in cucina. Niente. Poi sentii dei rumori estranei provenire dall’esterno e andai ad affacciarmi alla finestra che dava sul lato della casa. Intravidi una Converse nera spuntare da dietro l’angolo della parete. Sospirando di sollievo, rimproverandomi per aver pensato al peggio, corsi in camera e mi vestii. Poi uscii di casa e raggiunsi la fuggiasca sulla scena del crimine.
Appena svoltai l’angolo, un sorriso tenero mi si dipinse sulla faccia.
Aria, seduta a gambe incrociate a terra, che coccolava un micino spelacchiato. Gli faceva il solletico, si faceva artigliare la manica, rosicchiare le dita, e un’espressione di pura dolcezza le illuminava il viso lentigginoso.
La palla di pelo le si arrampicò sulla maglia, facendola ridere.
«Dove vai, piccoletto? Se cadi, poi, ti farai male.»
«E tu invece? Non ti farai male quando tenterò di strozzarti?»
Aria sobbalzò, voltandosi di scatto e, al contempo, prese il gattino e lo nascose alle sue spalle.
Dio, ma che razza di genitori ha avuto
Aria sospirò quando si accorse che ero solo io. «Cavoli! Mi hai spaventata.»
«Ma non mi dire.» bofonchiai. «Dove hai trovato quella palla di pelo?» chiesi avvicinandomi.
La vidi sbattere le palpebre, perplessa, quando si rese conto del gesto compiuto e di avere ancora il gattino nascosto dietro la schiena.
«Ah, lui. L’ho sentito miagolare questa mattina presto e l’ho trovato intrappolato dentro un vaso di terracotta, qui, in giardino. Credo che si sia arrampicato su una pianta e che poi ci sia caduto dentro.»
Annuii. «Capito. Ma non possiamo tenerlo. Mio padre è allergico ad ogni tipo di pelo. Altrimenti, sai quanti animali avrei avuto in casa? Tutti i randagi del quartiere avrebbero trovato ristoro a casa mia. L’avrei trasformata in un asilo per animali.»
Aria si rattristò. Guardò in gattino muovere dei passi esitanti sul prato, tra noi due, per poi tornare da lei.
«Non so neanche se abbia una mamma, e se sì, dove potrei trovarla.» Accarezzò la pelliccia maculata del micio. «Possiamo portarlo con noi? Solo per oggi?» mi chiese speranzosa.
Esitai. «Non so che dirti. Se fosse per me, te lo farei portare. Cavolo, me lo metterei nella tracolla e lo porterei a spasso per la città. Ma bisogna chiedere anche agli altri e vedere se anche loro sono d’accordo. Metti caso che qualcuno di loro sia allergico.»
Aria annuì. «D’accordo. Mi rimetto a giudizio degli altri.»
Prendendo in braccio il gattino, si alzò in piedi e tornammo in casa.
«Per fortuna papà è ancora a letto, profondamente addormentato, altrimenti avrebbe incominciato a starnutire come un ossesso.»
Ridacchiammo. Recuperai il cellulare dalla mia stanza e lo controllai.
Due nuovi messaggi.
Uno era di Jake che diceva:
 
Stiamo x arrivare. Auto d Bastian. 5min. ok?
 
Quanto era criptico e maleducato, neanche un ciao o un buongiorno.
L’altro era di Red.
 
‘Giorno. Tu verrai cn me e porta Rosarianna cn te. Lo nostra auto è la - carica. Nn dimenticare la spesa.
 
Almeno lui aveva avuto il buon gusto di dire buon giorno. E una piccola parte di me – quella sdolcinata da colesterolo a mille – avrebbe preferito un messaggio più romantico. Ma la restante parte di me non lo era, perciò andava più che bene.
Avvisai Aria che andò a prendere la sua roba. Scrissi un post-it per papà e glielo attaccai alla porta del laboratorio e andai in cucina, proprio quando sentii le ruote di più auto fermarsi sulla strada di fronte casa.
Sbirciai dalla finestra e vidi il SUV di Red e la Volvo di Bastian e una nuova auto, molto probabilmente delle gemelle, ma comunque un bestione.
Avvisai Aria e andai incontro agli altri.
«Buongiorno, campeggiatori. Dormito bene?» chiesi loro, mentre mi avvicinavo al SUV.
Mi arrivarono “si” e “no” da tutte le direzioni, ma il mio sguardo si fermò in quello di Red, appena sceso dalla sua auto.
Mi sorse il dubbio su come salutarlo. L’altra volta, ci eravamo baciati, ma eravamo soli e non credo sarei riuscita a rifarlo con un pubblico. Ero molto schizzinosa sulle manifestazioni d’affetto in pubblico, toccarsi e abbracciarsi va bene, ma baciarsi…
Fu lui a decidere per me, e mi piacque quello che fece. Mi sa che accontentò entrambi.
Semplicemente mi avvolse la vita con un braccio, in un abbraccio, e mi sfiorò la guancia, con un bacio.
Ecco perché mi piace tanto. Riesce a trovare una via di mezzo con qualunque cosa. Quanto mi piacciono i compromessi!
Non feci caso alle varie facce stupite e gli occhi che cadevano per terra, dopo essere schizzati fuori dalle orbite dalla sorpresa. L’occhio però mi cadde su Jake, sceso dall’auto di Bastian. Il suo sguardo era serio, ammonitore, e anche triste, nostalgico, come quando una persona pensa alla propria città natale dove sa che non tornerà più.
«Andiamo, piromane, mi serve il tuo aiuto per prendere il cibo.» gli dissi allontanandomi di qualche centimetro da lui. «Credo, però, di aver esagerato un pochino.» confessai poi agli altri.
«Quanta carne hai comprato?» chiese Jake, sempre pratico.
Gli feci segno di venire con me. Li condussi in casa, dove trovai Aria intenta a rincorrere il micino che le era scappato.
«Vieni qui, piccolino.» lo pregava.
Il micino corse tra le gambe di Jake fino ad avvicinarsi a Red, il quale appena lo vide arrivare, si chinò e lo afferrò per la pelliccia del dorso, ma senza fargli male.
«Grazie.» disse Aria. «Non avrei mai avuto il coraggio di prenderlo così, con la paura di potergli far male.»
«Tieni.» si limitò a dire Red, porgendole il gatto.
«Era anche di questo che volevo parlarvi.» confidai a Jake. «Non è qualcuno di vuoi ha una qualche allergia al pelo di gatto?»
Lui scosse la testa. «Non che io sappia.»
Aria sorrise felice, rilasciando il respiro che aveva trattenuto. «Meno male. Non avrei mai voluto provocare problemi.»
«Perché dici questo?» chiese Jake.
«Vorremmo portare il gattino con noi.» dichiarai. «Non posso lasciarlo a casa perché papà è allergico, però non possiamo neanche lasciarlo da qualche parte a sé stesso. È ancora un cucciolo, un neonato. E credo abbia perso la mamma. Perciò vorremmo portarcelo dietro, almeno così, per oggi, avrà qualcuno che lo protegga e che lo farà mangiare. Ho già pronta anche la scorta di latte.» aggiunsi.
Dopo aver valutato la questione, Jake annuì. «Mi sembra un’ottima proposta. Però, si deve chiedere anche agli altri.»
«Certamente.» accettammo contemporaneamente io e Aria.
«Ora recuperiamo la carne.» propose Jake.
Mi avvicinai al frigorifero e tirai fuori due buste di plastica enorme, da cui strabordavano fuori gli involucri di carta della macelleria.
«Ti avevo avvisato che aveva esagerato un pochino.» dissi, vedendolo spalancare gli occhi.
«Un pochino? Ma hai comprato cibo per un anno intero! Non riusciremo mai mangiare tutta questa roba.»
«Beh, pensala così: quello che avanza, lo daremo alla prima mensa dei poveri che incontriamo, o possiamo dividercela tra noi.»
Jake sospirò mentre Red faticava a reprimere una risatina. «Portiamo questa valanga di carne in auto.» propose, alla fine.
«Ho un paio di borse termiche. Possiamo mettere tutto lì dentro.»
Al suo assenso, recuperai le borse dall'armadio delle cianfrusaglie e le portai in cucina, dove le riempimmo. Gli uomini portarono le borse all'auto di Red, mentre io e Aria recuperammo le nostre tracolle e uscimmo di casa.
Dall'auto di Bastian, spuntò la testa bionda di Chris, on i capelli scompigliari e gli occhi a mezz'asta.
«Ehi, ragazze.» sbadigliò, fregandosi un occhio.
Ci avvicinammo. «Ehi Chris, non ti avevamo visto.»
Lui arrossì. «Ero mezzo addormentato. Non mi sono accorto di nulla.» Adocchiò il micino in braccio ad Aria. «Chi è quella palla di peli? Non sapevo che avessi un gatto, Aria.»
«Infatti, non ce l'ho. L'ho trovato, è un orfanello e lo portiamo con noi alla nostra scampagnata. Non sei allergico, vero, Chris?»
«Naa. Mi sono sempre piaciuto gli animali.» Accarezzò il pelo del micio. «Come si chiama?»
«Non gli ho ancora dato un nome.»
«Beh, lo decideremo insieme.»
Red Suonò il claccson per avvertirci che dovevamo andare. Salutammo Chris e salimmo a bordo.
In un perfetta fila, uscimmo dalla città, dirigendoci a Nord. Accesi la radio di Red. Un miscuglio di musica house, pop e rock si diffuse nell’auto alleggerendo la situazione. Il gattino di Aria decise che era stato per troppo tempo ignorato, per cui scese dalle sue ginocchio e si avventurò in giro per l'auto, passando sotto il sedile del guidatore.
«No! Dove vai?» Aria cercò di prenderlo, ma non riuscì a raggiungerlo in tempo.
Il gattino s'infilò sotto le gambe di Red, pericolosamente vicino ai pedali. In una mossa fulminea, Red si chinò, tenendo contemporaneamente lo sguardo sulla strada e tentendo un braccio verso il basso. Afferrò il gatto poco prima che si infilasse sotto il pedale del freno.
«Dovre credi di andare, monello?» chiese al gatto, alzandolo per la collota all'altezza degli occhi. «Vuoi finire ammazzato sotto un piede, o vuoi far morire noi?» Lo guardava con uno sguardo di rimprovero, proprio come se fosse stato un suo fratellino a compiere quella bravata. Per tutta risposta, in micio tirò fuori la lunguetta rosa e ruvida e gli diede una leccata al naso. Red alzò un sopracciglio come a chiedere «stai cercando di corrompermi?» e incurvò gli angoli della bocca in un leggero sorriso.
A quella vista così tenera e inusiale, il mio cuore prese a battere in modo irregolare.
Sapevo che aveva dolcezza nascosta dentro di sé. Ci serviva solo una piccola palla di pelo per tirarla fuori.
Red tese il braccio verso me e lasciò cadere il gatto sulle mie ginocchia, poi riprese a guidare come se niente fosse successo.
«Che nome hai deciso di dargli, Rosarianna?» chiese.
«Chiamami Aria, per favore. Lo preferisco. E ancora non sappiamo come chiamarlo.»
«Che ne dite di Peste?» chiesi. «Visto che si caccia sempre nei guai, direi che più che appopriato.»
«Nanerottola, tocca ad Aria dargli il nome, non a te. Tu sei di parte.»
Gli feci la linguaccia – assolutamente infantile, lo so. «Era tanto per proporre.»
«Evita.»
M'imbronciai, ma mi stavo anche divertendo con quel battibecco, fino a che non pensai che sembravamo una coppia. Allora mi venne la voglia di sorridere come una deficiente. Repressi quell'impulso.
«Possiamo metterlo nella lista dei possibili nomi,» risolse la questione Aria. «Comunque, lo trovo carino. Ma avrei in mente un altro nome. Cosa ne pensate di Happy?»
Feci una smorfia. «Sembra più un nome da cani.»
«Lo so, ma, come un cane, anche lui riesce a rendermi felice con il suo piccolo musino peloso.» disse, carezzando dolcemente la pelliccia del micio, accoccolato sul mio grembo, un'espressione triste sul viso.
La scossi per una spalla. «Aria, ricordi la promessa?» le ricordai.
Lei scrollò la testa, calcellando la tristezza e dandomi un sorriso. «Sì, hai ragione. Però, mi piacerebbe chiamarlo Happy. Metteremo anche questo nella lista.» concluse, appoggiando la schiena al sedile.
La imitai, trovandomi davanti la strada. Vidi in lontananza la struttura metallica di un ponte, perciò mancava poco al raggiungimento dello svincolo che ci avrebbe portato sulla Grand River Ave.
Non era tanto grande, non come il ponte di Brooklin, ma sembrava non finire mai ed era completamente deserto.
Giusto, alle otto e mezza di mattina di sabato, chi vuoi che esca fuori dal letto?
Sentii un clacson dietro di noi. Red guardò nello specchietto retrovisore e sogghignò, mentre l'auto con Bastian si affiancava al suo lato.
Fece un paio di gesti che non riuscii a capire e superò la nostra auto.
«Che ha detto?» chiese Aria, risparmiando a me il compito.
«Dice che sono lento.» se la rise Red. «Ma non ha ancora visto niente.»
Detti questo, pigiò sull'acceleratore a tavoletta, raggiungendo e sorpassando la Volvo di Bastian. Un fiotto di adrenalina mi corse veloce nelle vene dall'eccitazione della corsa. Scoppiai a ridere. A me piace correre. Non sono il tipo che scorrazza per la città, infrangendo tutti i divieti, ma se mi trovo davanti un tratto di strada deserta senza alcun limite, non mi tiro indietro.
Aria invece non era di quell'avviso. Strinse in micino con un braccio e con l'altra si strinse alla maniglia di sicurezza.
Guardai Red. «Credi che tu stia facendo venire un attacco di cuore a questa povera ragazza. Tanto più che tra breve dovrai anche girare. Che ne dici di lasciare l'acceleratore?» proposi, posandogli una mano si bicipite.
Una fugace occhiata alla mia mano sul suo braccio e l'auto rallentò. Dopo poco, svoltò verso la Grand Rive Ave.
L'atmosfera nell'auto era rilassata, per niente imbarazzata come avevo pensato. Red guidava sicuro, Aria accarezzava il micio alias Peste alias Happy, mormorandogli sciocchezze e io mi godevo il vento sul viso, affondando gli occhi nel profilo di Red.
Il sole donava alla sua pelle una sfumatura più luminosa del dorato, il vento che entrava dal finestrino abbassato gli scompigliava i capelli, dandogli uno aspetto selvatico, come se si fosse appena alzato dal letto. Le mani forti e affusolate stringevano con sicurezza il volante, i muscoli delle braccia che si tendevano e si rilassavano al minimo movimento.
Dio, ci stavo davvero perdendo la testa.
«Mi stai fissando.» disse.
«Stavo guardando il panorama, mica te.»
Mi guardò con un sopracciglio alzato come a dire «credi che sia idiota?», visto che l'unica cosa che si vedeva era una scia indefinita di verde, che presumibilmente erano gli alberi del Tacumseh Park.
Arrivammo alla svolta e ci immettemmo in Tacumseh River Rd. Ancora cinque minuti e fummo a destinazione, dopo aver sobbalzato un po' sulla strada sterrata.
Il luogo che avevamo predisposto come punto di controllo era stupendo, un vero e proprio panorama naturare. Il sole alto nel cielo risplendeva nella macchia di alberi dove uno spazio erboso costituiva il punto perfetto per allestire un campeggio. Si sentiva nell'aria l'odore degli alberi e della terra, si sentiva il riverbero dello scorrere del fiume fino a lì, facendomi venire voglia di andarlo a vedere il più presto possibile.
Prima di scendere dall'auto, aprii la portiera e feci penzolare i piedi, dopo di che mi tolsi scarpe e calzini. Appena scesi dall'auto, i piedi affondarono nell'erba fresca di rugiada e la morbida e rivuda terra, facendomi sentire parte della natura stessa.
Considerai quel senso di appartenenza in un altro modo: mi chiesi se per caso avendo il Talendo degli Elementi della Natura, non avessi una connessione diretta con essa stessa, amplificando maggiormente i miei sensi.
Sentii la presenza di Red alle mie spalle. «Rifulgi di Energia, nanerottola. Vedi di calmarti, se non vuoi creare scompiglio.»
Mi girai a guardarlo con sufficienza – e con un mezzo sorriso – e buttai calze e scarpe nella tracolla e la posai sul sedile del passeggiero. Anche gli altri erano scesi dalle auto: chi si stiracchiava, chi si guardava in giro, eravamo tutti contenti di esserci fermati lì.
Sentii il miagolio entusiasta di Peste/Happy quando Aria lo mise a terra, permettendogli di scorrazzare – per quanto gli permettessero le sue minuscole zampine – per il prato, strappando un sorriso a più di uno di noi.
«Jake, che ne dici se facciamo un avanscoperta qu'intorno, prima di scaricare tutto? Così, ci sgranchiamo un po'. E poi, ho una gran voglia di vedere il fiume.»
«Vuoi siete d'accordo?» chiese Jakea gli altri, diplomatico come sempre.
Fu un assenso collettivo a cui partecipò anche Peste/Happy con un forte "miaoooo".
Assucirammo bene le auto e, dividendoci in gruppo ci sparpagliammo. Immacabilmente, Jake batté sullo Swatch e disse: «Un'ora, non di più.»
Mi venne voglia di rispondergli «sì, mamma» ma mi trattenetti.
Le gemelle agguantarono Aria, mentre questa prendeva in braccio il micio, e la costrinsero ad andare con loro, "per fare amicizia", come affermarono. Nel frattempo, scambiarono uno sguardo con me, che interpretai con un "missione compiuta", per poi sparire tra gli alberi, seguite da Rae.
Bene.
Rafe, Chris e Bastian parlottavano tra loro, di chissà cosa e si diressero nella direzione opposta. Rimanemmo solo io, Red e Jake che, con un sospiro si rassegnò ad aggregarsi a noi.
Una sottile tensione crepitò nell'aria, allavvicinarsi dei due poli quali erano Jake e Red, il quale si tese come una corda di violino. D'istinto, mi avvicinai e allacciai la mia mano alla sua, che strinse la presa.
«Credo che il fiume sia da quella parte.» dissi, tanto per dire qualcosa, indicando il sud.
Senza proferire parola, ci dirigemmo il quella direzione, mentre lo scroglio dell'acqua si faceva più forte. Quella foresta era di un verde molto particolare, che variava dal semplice verde erba, al bottiglia, allo smeraldo, al salvia. C'erano tante di quelle sfumature da assomigliare ad un caleidoscopio. Il cinquettio degli uccelli risuonva nell'aria, il fruscio delle foglie mosse dalla leggera brezza, i nostri passi attuttiti dall'erba alta e dalle foglie cadute...
Era magnifico. Ma la tensione in cui mi trovato intrappolata era come una macchia nera su un foglio bianco. Rovinava l'idillio, l'atmosfera rilassata, la gioiosità, l'euforia di essere in mezzo alla natura incontaminata.
Dopo qualche minuti, sbucammo a pochi metri dalla riva del fiume Tacumhseh, proprio dove si trivava la curva. Lasciando la mano di Red, mi avvicinai alla riva e, tirando su la gamba del jeans, immersi il piede nell'acqua.
Inspirai bruscamente, ritirando il piede, ed esclamai: «Dio, che fredda!»
Era gelata! Peggio che mettera il una vasca piena di ghiaccio!
I due imbecilli alle mie spalle scoppiarono a ridere.
Gli lanciai un'occhiataccia. «Che diavolo ridete?! Se mi si congela il piede, mi prendo uno dei vostri! Uh, che dolore!»
Red smise di ridere e venne subito da me. Si accovacciò e prese tra le mani il piede indolenzito. Dopo pochi secondi, un tiepido calore avvolse la pianta e il collo, ridandomi la sensibilità all'arto.
«Che bello!» gemetti. «Grazie.»
«La prossima volta, vedi di controllare prima la temperatura e poi di infilarci dentro un arto.» mi rimproverò.
Mugugnai uno "scusa", riprendendomi il piede.
In quel momento, mi accorsi dell'espressione di Jake. E lo fece anche Red.
Jake ci fissava impalato come uno stoccafisso, con la faccia irrigidita dalla severità e dalla disapprovazione e da qualcosa che non riuscii a decifrare. Red si alzò lentamente, come se temesse che un movimento brusco avrebbe provocato danni.
«Devi sempre fare sfoggio dei tuoi Talenti, non è vero? Devi sempre essere al centro dell'attenzione. Non puoi fare a meno di risolvere qualsiasi problema nel modo più semplice. E queste tue stramaledette manie da prima donna ti hanno portato a commettere più errori di quanti si possano contare su due mani.»
Ma di che diavolo...?
Un lampo di quello che Rafe mi aveva riferito sul motivo del litigio tra Jake e Red mi attraversò la mente, rendendo chiaro il quadro della situazione.
Era arrivata la resa dei conti, il confronto tra i due, quello che avrebbe deciso le sorti della loro flebile amicizia.
Jake sbuffò arrabbiato, inferocito. «Ogni volta che ti vedo usare il tuo Talento, non posso fare a meno di ripensare a quello che hai fatto, a quello che hai constretto gli altri a fare. Per colpa della tua dannata impulsività, della tua voglia di ribellione a quello che era la cosa giusta da fare... non sai quante volte ripenso a quel giorno, quando la mattina mi alzai dal letto e sentii alla televisione quello che avevate fatto. Venire a sapere una cosa del genere e avvertire nel profondo di me stesso che il colpevole possibile era solo uno, quello che un tempo consideravo il mio migliore amico... stupido io che ci penso ancora, e doppiamente stupido per sentirmi responsabile di quello che accadde.» Respirò affannosamente, come se gli fosse difficile tirare fuori le parole.
Lo sguardo di Red era perso nel vuoto, come se stesse rivivendo quel terribile momento.
«Mi sentro tradito da quello che consideravo mio fratello, quello che un tempo avrei difeso con le unghie e con i denti da tutto e tutti, anche da tuo padre.»
Mi chiesi distrattamente cosa volesse dire.
«Io...» riprese Jake, per poi interrompesi come se non sapesse che cosa dire. «Io non volevo comandarvi. Non lo mai voluto e mai lo vorrò. Purtroppo, però, qualcuno di noi deve pur assumersi il ruolo di autorità che eviti alle teste calde come te di commettere degli errori, e visto che tu non hai la forza necessaria per ragionare freddamente, è toccato a me. Il senso di rivalità ti si è acceso dentro e hai subito voluto dare prova delle tue competenze in quanto capo, ma non hai saputo dirigere la banda. Anzi, hai macchiato la coscenza degli altri con un atto assolutamente atroce. Posso capire che volevi fermare quel ladro, ma non avresti dovuto coinvolgere gli altri, che sono semplicemente state le povere vittime del tuo giogo.» Jake sospirò e parve che le forze lo abbandonassero, come se non avesse più forza. Come se le parole acri che aveva rivolto a Red gli avessero succhiato via la vitalità.
Mi sentivo male per entrambi. Una parte di me voleva schierarsi in favore di Red, veementemente: lo difendeva considerando che il gesto compiuto era stato un errore madornale che però gli aveva insegnato a riflettere almeno un pò prima di agire.
Un'altra parte si schierava con Jake, in quanto amico, fratello, ferito nel profondo dalle scelte sbagliare, la fiducia incondizionata tradita di uno sbaglio che si sarebbe potuto evitare.
«Non ho mai voluto.»
La voce di Red era ridotta ad un sussurro, ma risuonò forte nell'aria. Ad un tratto, parve come se la foresta avesse percepito il turbamento che vibrava nell'aria e avesse deciso di non disturbare, facendo calare i suoni ad un flebile mormorio di sottofondo. Anche il fiume parve calmarsi, scorrendo meno impetuosamente di prima.
«Non ho mai voluto che andasse a finire così.» ripeté Red. «Non ho mai voluto che qualcuno ci rimettesse la vita, quella notte. Non ho mai voluto che gli altri avessero sulla coscienza la morte una persona, anche se questi era un ladro. Ho commesso un terribile errore di valutazione, ho sottovalutato il controllo che avevo sul mio Talento e anche gli altri.» Si passò una mano tra i capelli, in un gesto disperato, deglutendo convulsamente.
Il mio cuore pianse a quella vista.
«Tu non puoi saperlo, ma... rivivo quella scena ogni notte. La sogno continuamente, come se la mia coscienza volesse punirmi per quello che ho fatto. Vedo il fuoco, sento le urla, l'odore acre della carne che brucia... dio, non so neanche come faccio ad essere ancora vivo, visto come il tormento, il senso di colpa, il desiderio di non aver mai preso le scelte che mi avevano portato in quel baratro di autidistruzione continuano a consumarmi dentro. Tu non sei l'unico che vorrebbe non aver mai compiuto quelle azioni, che vorrebbe non aver mai fatto determinate scelte. Tu credi che faccio vedere in giro quello che so fare? Che voglia mostrare a chicchessia il mio Talento? Ti sbagli, Jake, io vorrei non aver mai avuto questo tormento, questa maledizione. Mi ha allontanato da tutti quelli che mi volevano bene: prima mio padre, poi tu e gli altri. Ogni volta che mi sembrava di aver quasi raggiunto la felicità, ecco che salta fuori il mio Talento a rovinare, anzi bruciare qualsiasi cosa.»
A testa bassa, una mano premuta sugni occhi, l'altra stretta in un pugno tanto forte da sbiancare le nocche, Red mi apparve in tutta la sua vulnerabilità e tutta la sua disfatta. Sembrava distrutto e forse lo era davvero.
Avevo voglia di piangere di fronte a tanta desolazione, ma mi tratenni. Volevo aiutare in qualche modo. Volevo fare in modo che il loro rapporto oramai ridotto in nient'altro che poche briciole, si ricostruisse. Almeno un pochino.
«Jake,» parlai per prima volta e vidi trsalire entrambi, come se si fossero dimenticati della mia presenza. «Tu hai mai sbagliato in vita tua?» gli chiesi. «Hai mai commesso un errore di cui ti sei pentito, in seguito?» Lui non rispose. Non lo guardai. «Io sì. Ogni nostra scelta conduce ad una conseguenza, sia essa un bene o un male. Non siamo perfetti. Tutti commettono degli errori. E, per come la vedo io, tutti hanno una possibilità di redenzione. Chi ha la forza necessaria, riesce a risalire dal fondo in cui è caduto, ed altri invece, che sono troppo deboli, si lasciano affogare.» Respirai a fondo, sollevando lo sguardo nei suoi occhi neri. «Hai ragione: Red ha commesso un errore, è questo ha portato alla morte di un uomo. Ma non è il solo che si tormenta. Rafe mi ha raccontato l'intera vicenda,» riferì loro. «E potete farvi un'idea di quello che ha provato lui e di quello che ho sentito io quando me l'ha riferita. Ed essendo esterna alla vicenda posso affermare che tutti voi del gruppo sentite il morso del senso di colpa. Ma stavo pensando: la vicenda è ormai passata, non si può tornare indietro e cambiare il corso degli eventi. So che la frattura tra voi è molto profonda e ci vorrà tempo per guarirla, ma... memori della vostra vecchia amicizia/fratellanza non potere, che ne so?, seppellire l'ascia di guerra? Portarvi rancore a vicenda non giova a nessuno dei due, e il vostro comportamento si ripercuote anche sul resto del Cerchio, me compresa, adesso. Per di più, ho un... come posso chiamarlo?... affetto speciale per Red e vederlo così,» lo indicai, «non mi piace per niente. E tu sei l'unico che può farlo tornare come era un tempo. A meno che non sia sempre stato così, in qual caso, tu non puoi fare niente e non ha nessuna speranza.»
Li guardai entrambi, mentre loro si sguardavano di sottecchie, come se avessero paura di beccarsi a vicenda a studiarsi.
«Ehm... ragazzi,» feci finta di controllare l'orario sul polso. «Si sta facendo tardi e mi è venuto un certo languorino, non è che potere accorciare i tempi?»
A volte l'ironia è meglio della serietà e, forse, l'unica strada per risolvere un problema.
Il tempo parve fermarsi per qualche istante, congelando tutto nella propria posizione, annullando ogni suono e ogni movimento.
Non capii bene chi fu il primo a muoversi, ma d'un tratto si trovarono entrambi a poca distanza l'uno dall'altro e ancora incerti su cosa fare. Avvertivo il forte desiderio di ambedue di voler riappianare le cose, o almeno di farle funzionare di nuovo... ma se non si muovevano qui faceva notte.
Allora, sbuffai, alzandomi in piedi, ed esclamai: «Ma sempre tutto io devo fare?»
Affettai le mani dell'uno e dell'altro e le strinsi insieme. «Ecco come due persone civili risolvono le questioni: una stretta di mano, formale e virile.»
Quest'ultimo commento mi fece guadagnare un'occhiataccia da Jake.
«Ma tu stai mai zitta?»
«Ehm...» finsi di rifletterci. «No.»
Allora, Jake si voltò a guardare Red. «Ma come fa a piacerti?»
L'altro scrollò le spalle. «Questione di gusti e alchimia.»
Apprezzai molto la sua risposta. Subito dopo, Red ridivenne serio. «Mi dispiace, Jake. Non sai quanto mi spiace.»
Jake lo studiò per qualche secondo, forse per valutare la sincerità di quelle parole – come se ce ne fosse bisogno!, protestò una vocina dentro di me – e poi annuì.
«D'accordo. Ma sia chiaro: lo faccio per il bene del cerchio.»
«E chi ci crede,» bisbigliai, senza farmi sentire, ricordandomi troppo tardi che forse Red poteva farlo.
Qust'ultimo annuì. Lasciarono ricadere le mani nello stesso momento. «Raggiungo le auto. Vedo se gli altri sono arrivati.» c'informò Jake, avviandosi tra gli alberi. Poi si fermò. «Cerca di non deludermi di nuovo.» disse e sparì tra gli alberi.
Rimasi a guardare il vuoto che aveva lasciato dietro di sé, dopo di che sospirai. «Chi avrebbe immaginato che la mia bella scampagnata sarebbe iniziata così?»
Feci per girami verso Red, quando mi sentii afferrai per la vita dalle sue bracci forti e solide, e la sua faccia affondò nel mio collo.
Meravigliata e con il cuore che batteva solo per lui, sentii qualcosa di bagnato cadere sulla mia pelle. Nessun suono proveniva da lui, solo il respiro affannato e tremante stabiliva il suo stato d'animo.
Una goccia cadde sulla mia clavicola. La raccolsi con il polpastrello e la portai alle labbra.
Dolce e salato.
Proprio come lui.
 
*   *   *
 
Rosarianna O’Sheha POV
 
Dopo essere stata agguantata dalle due gemelle, Aria venne trascinata in giro per la foresta. Stringeva Happy tra le braccia e gli accarezzava il pelo. Le gemelle continuavano a sciorinare qualsiasi tipo di cosa, dal vestirsi al trucco, ai capelli, senza farsi mancare anche dei suggerimenti per un nuovo, possibile look. 
Aria, non essendo appassionata di quel genere di argomento, non sapeva cosa rispondere, né era sicura che la riposta sarebbe stata buona. Perciò preferì restare in silenzio, guardandosi in torno, perdendosi nella natura che la circondava.
Quel bosco sembrava così piccolo sulle cartine e, invece, era estremamente grande. Non come lo Yellowstone, si intende, ma abbastanza da potersi perdere se non si stava attenti.
Le gemelle si scambiarono delle opinioni su quale make up sarebbe andato bene per il suo viso, e le lasciarono le braccia per poter parlottare tra loro, intanto che decidevano.
Aria si ritrovò al fianco della ragazza bionda con gli occhiali, Rae-Mary che, silenziosa, continuava a seguire quelle due teste platiniche che le camminavano davanti.
«Non ci siamo ancora presentate come si deve, non è vero?» disse Aria, tendendo una mano. «Mi chiamo…»
«Rosarianna O’Sheha, diciassette anni, proveniente da una famiglia di ceto medio, con la tendenza a prendere sotto la sua ala protettiva qualunque animaletto ferito.» rispose Rae, aggiustandosi gli occhiali sul naso.
Leggermente sconcertata per quell’entrata, Aria si affrettò a chiudere la bocca, prima che vi entrasse qualche mosca.
«Vedo che ti sei informata.» disse.
Rae scrollò le spalle. «Non sono informazioni così importanti da essere top-secret.»
Aria la osservò attentamente, riflettendo su che tipo di persona fosse. Era bella, anche se non in modo convenzionale: i capelli biondo paglia e la carnagione delicata facevano risaltare i suoi lineamenti fini e ben casellati, e Aria si dispiaceva che gli occhiali nascondessero quei bellissimi occhi color acquamarina. Un vero peccato.
Ma Rae-Mary non sembrava voler ostentare sé stessa. Anzi, Aria aveva la sensazione che la ragazza volesse rimanere nell’ombra il più possibile, che non volesse farsi notare il più del necessario.
E questo le dava da pensare. Cosa era successo a quella ragazza per farla diventare così? Perché cercava di passare inosservata?
«Rae-Mary, potrei farti una domanda?»
La ragazza si limitò a guardarla.
«Qual è il tuo colore preferito?»
Rae si fermò di botto a quella domanda, sbattendo le palpebre, perplessa. «Come, scusa?»
«Il tuo colore preferito.» ripeté Aria. «E che dolce ti piace? Io adoro il Tiramisù.» sorrise.
Rae-Mary la guardò come se fosse un alieni. «Che cosa c’entra questo con…»
«Quale musica ti piace ascoltare?»
Leggermente confusa, Rae rispose: «Non ho una predilezione particolare in fatto di musica, il mio dolce preferito è la torta margherita e il mio colore preferito… credo sia il verde bottiglia.»
«Hai fratelli o sorelle? O sei figlia unica?»
«Ho una sorella… sorellastra, maggiore di due anni; nessun fratello.»
«Io, invece, avrei tanti voluto una sorellina. Ti piace il mio gattino?» chiese ancora Aria, mostrandole Happy.
«È molto carino, anche se un incrocio.»
«Ehi, anche se non è un gatto di razza ha sempre il suo carattere che lo distinguerà dagli altri.» protestò Aria. «Che ne pensi di questo posto? Io adoro gli spazi verdi. Avrei sempre voluto avere una casa sull’albero, dove poter fingere di essere nella giungla e vivere come Tarzan.»
Rae piegò la testa di lato, riflettendo. «Che strano desiderio, quello di vivere come un uomo allevato dalle scimmie. Io preferisco al lato civilizzato dell’umanità, quello razionale e efficiente.»
«Credo che un uomo debba essere due facce della stessa medaglia: da una parte, un uomo razionale – come dici tu – ed intelligente, dotato di abbastanza intelletto da riuscire a fare una conversazione brillante. Ma, d’altra parte, vorrei anche che fosse passionale, comandato dagli istinti protettivi quando sente che qualcosa minaccia ciò che è suo, sia esso un oggetto che una persona, e che sia aggressivo quel tanto che basta per proteggere chi ha a cuore.» Aria si voltò verso Rae-Mary. «Tu come immagini l’uomo dei tuoi sogni?»
Rae si mosse a disagio, evitando lo sguardo verde smeraldo di Aria. «Non credo di avere un “uomo dei sogni”. Non credo che esista, tra l’altro, un uomo dei sogni, intendo. Credo semplicemente che le persone abbiano una percentuale precisa di compatibilità con l’altro sesso e che, in un caso su tre, riesca a trovare quella che fa a caso suo e riesca a rimanerci insieme tutta la vita, vivendo felice ed appagato.»
D’improvviso, sul viso di porcellana di Rae-Mary spuntò un’espressione così triste da far stringere il cuore di Aria.
«Sai, le persone cercano per tutta una vita la cosiddetta anima gemella, ma ad un certo punto si arrendono, quando realizzano che forse non la troveranno mai, e si accontentano della prima persona che mostra loro un affetto sufficiente per stabilire delle basi per il matrimonio. In questi casi, due sono i possibili sviluppi: hanno fatto una scelta giusta, che li porterà a volersi bene fino alla fine… oppure la coppia può aver commesso il peggior errore della loro vita, che li porterà a litigare ventiquattro ore su ventiquattro, a ritrovarsi con un bambino che verrà traumatizzato dai loro litigi; uno dei coniugi si stancherà e cercherà conforto nelle braccia di qualcun altro, tornando poi a casa con un bambino che non aveva previsto e il quale sarà il monito per l’altro partner del suo tradimento e sul quale non verrà riversato altro che odio e indifferenza.»
Sentire quelle parole fece saltare alla mente a Aria che, forse, non era l’unica ad avere problemi in famiglia. Sentì di avere un feeling speciale con quella ragazza introversa e marginale, un legame molto simile a quello che potrebbero avere due sorelle. Non era come quello che aveva con Sy, non che non lo apprezzasse. Al contrario, se non ci fosse stata Sy a quell’ora sarebbe ancora oggetto dei pettegolezzi di quella sciacquetta di Carly. Con Sy si sentiva protetta, al sicuro, proprio come se fosse la sua sorella maggiore.
Con Rea, si sentiva quasi come se fossero gemelle, due persone con il passato comune, che hanno avuto le stesse esperienze e lo stesso senso di non-appartenenza.
Rae-Mary rinsavì di colpo, rendendosi conto di quello che aveva detto. Non avrebbe mai voluto tirare fuori quello che aveva dentro, se lo era ripromesso centinaio di volte… ma, essere a conoscenza – come tante altre persone, ingiustamente tra l’altro – di quella che era la situazione familiare di Aria, l’aveva come galvanizzata, scossa fin nel profondo, incrinando l’armatura d’acciaio e diamante che si era costruita intorno al cuore, per impedire ai suoi genitori di inferire ulteriormente su di lei, povera vittima dei loro scherni e del loro veleno.
Quello che le era scappato di bocca, però, non era che l’apice di quel castello di carte: c’erano tante altre cose che nessuno, neanche suo cugino Jake, non sapeva, non per ultimo la sua condizione di nascita. E non lo avrebbe mai saputo. Rae si era premurata di nascondere attentamente anche quello.
Lanciò un’occhiata spaurita ad Aria che la ricambiò con un sorriso di comprensione.
«Non devi preoccuparti, Rae-Mary. Non dirò a nessuno quello che hai detto a me. La mia vita privata non è più un segreto per nessuno, ma ti prometto che farò di tutto per mantenere privata la tua.»
Quella promessa, fatta con tanta sincerità, la fece quasi piangere.
Rae-Mary non si era mai sentita parte di qualcosa, neanche del Cerchio. Certo, partecipava alle riunioni e talvolta interveniva, ma non aveva alcun ruolo attivo, la sua opinione non veniva richiesta che in poche occasioni.
In parte, non le dispiaceva: preferiva ricoprire un ruolo marginale, privo si qualunque responsabilità. Dall’altra però, questo suo stato di ombra non le permetteva – né si permetteva – di legare con gli altri, neanche con suo cugino Jake.
E questo le faceva male.
Ma non lo avrebbe mai ammesso. Non avrebbe permesso che qualunque altra cosa potesse farla soffrire come le era già successo in passato.
«Rae-Mary?» la chiamò Aria.
La ragazza si girò a guardarla. «Cosa… c’è?» chiese titubante.
«Che ne dici di incontrarci, qualche volta? Potremmo andare al Wall Mart o alla caffè della biblioteca, o…»
«Perché?» chiese Rae-Mary, in modo brusco.
«Beh… così, tanto per socializzare. Avevo pensato…»
«Tieni per te le tue idee.» la interruppe Rae, scortese, scostandosi. «Non mi serve essere compatita, men che meno da una ragazza patetica come te. Solo perché abbiamo qualcosa in comune non significa che adesso siamo diventate migliori amiche.»
Le voltò le spalle e tornò alle auto.
Ogni parola era uno schiaffo in faccia ad Aria, che non aveva voluto altro che stringere amicizia con Rea.
Non sapeva, però, non era la sola ad essere stata male per aver detto quelle cattiverie. Solo che Rae non aveva avuto scelta. Se non avrebbe voluto soffrire di nuovo avrebbe fatto meglio ad allontanare qualunque minaccia per la sua corazza, aveva pensato. E così aveva fatto.
Allora, perché sentiva come se fosse la persona peggiore sulla faccia della terra?
 
*   *   *
 
Sylence Hill POV
 
 
Il capeggio non si stava prospettando la scampagnata felice e spensierata che avevo progettato. Chi litiga, chi piange, la situazione non era delle migliori.
E non sapevo cosa fare. Dopo essercene andati dalla riva del fiume, io e Red avevamo seguito Jake alle auto, dove avevo visto Rae arrivare come una furia e andarsi a sedere nell’auto delle gemelle. Dopo di che era venuta Aria, con una faccia che mi fece temere che potesse scoppiare a piangere da un momento all’altro.
Che disastro!
Non avevamo neanche incominciato che già stava andando tutto a rotoli. Ma non mi sarei lasciata abbattere. Dovevo escogitare qualcosa per risollevare il morale alle stelle.
Ma cosa?
Mi guardai in giro sperando in un segno… e il segno arrivò. Tutta la natura che mi circondava era un segno.
Però avevo bisogno di un complice. Proprio in quel momento, come un ulteriore segno dal cielo, Bastian uscì dalla foresta.
Mi diressi da lui senza esitare. Lui si accorse dell’atmosfera che era calata su tutti noi e fece una faccia perplessa.
«Ma che…»
Prima che potesse completare la frase, lo afferrai per un braccio e lo tirai in disparte per non farmi sentire.
«Ho bisogno del tuo aiuto tecnologico.» dichiarai.
«Ehm… certo.» rispose Bastian. «Che vuoi che faccia?»
«Fai partire la musica.» ghignai.
Lui mi guardò, come intrigato da qualcosa, e fece come chiesto. Tirò fuori dal porta-oggetti della sua auto due casse e un alimentatore che si inseriva nell’accendisigari dell’auto. Posò le casse sul tettuccio della Volvo, collegò i fili giusti e, dopo pochi istanti, la voce dolce e la musica scandita dalla chitarra di James Blunt, Stay the Night, si diffuse per il bosco.
Mi bastò ascoltare poche note per perdermi nella magia della musica… persi il controllo e ne fui assolutamente felice.
 
It’s 72 degreases zero chance to rain
It’s been the perfect day
We’re all spinning on our heels,
So far away from real
In California
 
Comincia a cantarla, non proprio intonata, ma a tempo. Avevo un senso di euforia che mi viaggiava a mille nelle vene. 
 
And if this is what we’ve got
Then what we’ve got is gold
We’re shanning bright and I want you
I want you to know
The morning’s on this way
Our friend our say goodbye
There’s nowhere else to go
I hope that you’ll stay the night!
 
Quando arrivai al ritornello, mi accorsi vagamente che anche gli altri avevano iniziato a seguirmi e quel risultato fece scatenare ancora di più il mio Talento. Le piante intorno a noi cominciarono a fiorire e gli alberi parevano ondeggiare al ritmo della musica. L’erba sotto i miei piedi, che non accennavano ad astenersi dal danzare, divennero soffici come piume, dando l’impressione di star camminando su una nuvola di ovatta.
«Togliete le scarpe!» risi agli altri. 
In quel preciso momento, mi sentivo strettamente legata al mio Elemento, forse perché per la prima volta ero io ad aver deciso quando utilizzarlo.
Aria fu la prima a fare come chiesto e a raggiungermi, proprio mentre la canzone finiva. Quella dopo fu Domino, Jessie J., e Aria prese a cantarla con me, due ubriache che cantavano alla luna, dimenandoci come epilettiche, ridendo felici.
Alla frase “you got me loose my mind” scoppiammo a ridere come delle idiote, fino ad accasciarci a terra. Anche da terra continuammo a cantare, anche se non avevamo più fiato dalle risate.
Allora mi accorsi che anche tutti gli altri erano venuti a ballare con noi, chi in piedi chi appoggiato all’auto – Red – intento ad osservare con un sorriso la scena.
La canzone successiva fu Drive By, Train.
Era felice di vedere che, chi in un modo, chi in un altro, avevano cancellato dal loro viso quelle espressioni depresse che avevano prima.
D’un tratto, mi sentii afferrare la vita e seppi subito che le braccia erano di Red.
«Non so come riesci a farcela sempre.» mi sussurrò all’orecchio, spedendomi piccoli e deliziosi brividi sulla pelle. «Hai il tocco magico, riesci a riportare la felicità dove prima c’era la malinconia.»
Mi sentii talmente felice da quell’affermazione che vidi spuntare dal terreno e circondare i trinchi degli alberi delle splendide rose tea, do un giallo tendente al dorato.
E se ne accorse anche Red. «Devo prenderlo come un complimento?»
Risi e portando le braccia all’indietro, avvolsi le mani intorno al suo collo.
«Basta che non ti monti troppo la testa.»
Altra canzone. Danca Bonito
Mi resi conto solo dopo la prima strofa cantata dalla ragazza che io e Red ci stavamo muovendo all’unisono, e le nostre movenze erano tutt’altro che caste e pure. Intendiamoci, non erano spinte, ma neanche innocenti.
Il suo torace, le sue braccia e le sue gambe aderivano alle mie, e le sue mani non smettevano di carezzare i miei fianchi. Dio, era così eccitante, così bello. Non ero mai stata toccata in quel modo e non avrei mai potuto immaginare o permettere a nessun altro di farlo.
«Che ne dite di scaricare tutta la marasma di roba che abbiamo nelle auto?» sentii di sfuggita chiedere da Jake, cosa che ruppe quel momento molto… intimo.
Con un sospiro, ci separammo, ma tenemmo le mani unite.
Collaborando, allestimmo il nostro piccolo campeggio: le coperte per terra, un cofano dell’auto aperto, debitamente scaricato di tutto quello che c’era dentro, che faceva appoggio alle posate di plastica, brigo bar pieno di Coca Cola e Fanta, e dove era aperta una delle buste con la carne.
Raferty e Jake allestirono e accesero il barbecue, e iniziarono a cucinare. Con l’aiuto di Aria e Chris, recuperammo dal bagagliaio dell’auto di Bastian una busta con pacchetti di patatine e altri stuzzichini che distribuimmo agli altri nei piatti di plastica. Più tardi, avevamo deciso, avremmo allestito sulle rive del fiume un piccolo falò, dove avremmo arrostito i marshmallows e dei wrüstel, chi ne voleva, perciò Red e Bastian erano andati a raccogliere la legna.
Stava andando tutto per il meglio. Per fortuna.
Alle quattro del pomeriggio, eravamo tutti distesi sulle coperte, chi sonnecchiava per la pancia troppo piena – avevamo consumato quasi la metà della carne che avevo comprato! – chi invece si rilassava prendendo il sole.
Aria era caduta addormentata circa dieci minuti prima e Happy/Peste le si era accoccolato sulla pancia. Chris, invece, non sembrava aver sonno e sera disteso a pancia in giù vicino a Raferty e Bastian. Mi chiesi di sfuggita se stesse accadendo qualcosa tra Rafe e lui. Comunque, ero contenta che avessero legato.
Sbadigliai, leggermente assonnata, ma assolutamente sicura di non arrivare alla fase REM.
Le dita di Red mi accarezzarono pigramente la guancia. Lo stava facendo da quando mi ero sdraiata accanto a lui e avevo appoggiato la testa sul suo stomaco. Continuava a coccolarmi, sfiorandomi una guancia, spostando una ciocca di capelli, facendo scorrere il polpastrello lungo il profilo della mia mascella, o giocando con in miei capelli stretti in una treccia, come il quel momento.
E chi si lamenta!
Anzi, sentire il suo tocco sulla mia pelle mi infondeva una calma interiore che rasentava l’illuminazione buddista.
«Non li hai mai tagliati?» domandò.
Scossi la testa. «No.»
«Perché?»
A pensarci mi rattristai. «Papà diceva sempre che le ricordavo la mamma, visto che ho i suoi stessi occhi. Ma a volte, da piccola, quando piangevo, dicendo che mi mancava la mamma, papà veniva nella mia stanza, si sdraiava con me e prendeva ad accarezzarmi i capelli o me li spazzolava, dicendo che anche con la mamma faceva così, per calmarla. Anch’io mi rilassavo sempre, come accade tutt’ora. Decisi che non me li sarei mai tagliati, così da avere un altro tratto in comune con la madre che non ho mai conosciuto.»
Le mai di Red si fermarono. «Ti manca così tanto?»
Alzai il viso a guardarlo. «Perché? A te no? Non vuoi rivedere la donna che ti ha messo al mondo? Quella parte di te che non hai mai conosciuto?»
Red non rispose.
Restare così, sdraiati, mi fece tornare alla mente quando ci eravamo trovati nella stessa situazione nella biblioteca.
In una specie di flash a ritroso, vidi quel momento percorso all’indietro. Prima stesi a terra, poi nella porta, il buio più totale, quando nella mia mante era passata quella frase e, prima ancora l’immagine che avevo ritrovato anche sul libro.
Sentii il mio corpo tendersi, le dita delle mai e dei piedi arciarsi, come quando si subisce una forte scossa elettrica, mentre altri flash d’immagini mi passavano nella, mente, disconnesse e confusionali.
Vidi me stessa sdraiata sull’erba di un campo di grano, sorridere ad un Red di verso sa quello di adesso – quello della mia visione!, mi resi conto.
Poi, delle parole che non riuscivo a capire tanto erano veloci. E ancora un altro flash, un’altra immagine: una donna, una ragazza per la verità, affacciata su un balcone di pietra, incastrato in un a torre di un castello che sorrideva alla devastazione davanti a sé. E gli occhi di due colori diversi, uno nero tempesta e l’altro bianco nuvola.
«Ti sto aspettando.» diceva nell’Antica Lingua.
«Sylence!»
Il grido di Red mi fece ritornare in me. Tirai un profondo respiro, come se fossi stata in apnea per troppo tempo e avessi finito la riserva d’aria.
Guardai confusamente le facce degli altri che si erano radunati intorno a me, fermandomi quando incontrai gli occhi dorati – dilatati dallo spavento – di Red.
«Stai bene?» chiese.
Deglutii a vuoto. «Sì.» risposi affannosamente. «Che è successo?»
«Sy, ricordi l’attacco epilettico che hai avuto quell’altra volta, vicino alla fontana?» chiese Bastian.
Mi ci volle qualche secondo per ricordarmene. Il respiro che si fermava. Gli occhi che diventavano bianchi…
«Oh.»
«Ti capitano spesso?» mi chiese Aria intimorito. Ebbi il timore che potesse scoppiare a piangere da un momento all’altro. «Perché è stato orribile.»
Mi sfregai la nuca, pensando alla svelta una buona scusa. «Ehm… sì. Ne ho sempre sofferto… in modo latente però. Capita solo ogni tanto.»
«Ma perché…»
«Che ne dite di fare qualcosa di più divertente di starvene tutti intorno a me, come se fossi un alieno e voi gli scienziati che vogliono studiarmi?» dissi, aggrappandomi al braccio di Red per issarmi in piedi.
Mi reggevo. Magnifico!
«Gemelle.» chiamai.
Le mi guardarono, titubanti. «Sei sicura che…»
«Sicurissima.» mi affrettai a rassicurarle. «Andateli a prendere.»
«Di che stai parlando?» domando Rafe.
Li guardai, con un espressione di estrema soddisfazione. «Aspettate e vedrete.»





*
**
***
****
Tutte le località e il parco nominati all'inizio esistono davvero, anche la strada e il fiume come li ho spiegati. Sono un po' più a nord di dove li ho messi, ma ho supposto che la casa di Sy si trovasse già a nord della città quindi che le sia stato facile raggiungere la Martin Luther King.

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Capitolo 29
*** Bagno di Emozioni ***


Sy Hill: Sono estremamente felice di poter pubblicare così presto quest’ultimo capitolo. Non ci ho messo molto, non so per quale motivo, ma l’ho scritto molto in fretta, è venuto così.
Spero che vi piaccia. L’ho rivisto e corretto, così da evitare ogni qualsivoglia critica. Come sempre voglio ringraziare i recensori dello scorso capitolo e le risposte saranno a fine pagina.
Leggete e recensite, come sempre.
Baci,
 
 
Sy Hill

 

*     *      *


CAPITOLO 29

Bagno di Emozioni

 
Red Hawks POV
 
«Mi stai prendendo in giro, nanerottola?» chiese Red, inarcando un sopracciglio. «Prima ti stavi congelando un piede e adesso vuoi farti un bagno nel fiume?»
«Sì.» rispose Sylence, semplicemente.
Red la guardo qualche secondo, battendo gli occhi. «Qualcuno mi dia il numero del più vicino manicomio, per favore.»
«Oh, ma smettila, piromane.» s’infastidì lei, dandogli una spinta.
«Sy, prima stavi congelando, e ci hai immerso solo un piede.» obbiettò Jake. «Non credo sia una buona idea.»
«Sono sicura che ora l’acqua sarà più calda, rispetto a stamattina. È tardo pomeriggio e il fiume ha assorbito i raggi del sole abbastanza da permetterci un’immersione.»
Red si scambiò un’occhiata con gli altri, titubanti anche loro.
«Sentite.» disse Sylence, scrollando le spalle. «Io vado a mettermi il costume e a farmi una nuotata. Chi vuole seguirmi lo faccia liberamente, io non lo costringo. Siamo in un Paese Libero e ognuno pensa per sé.» Si voltò verso le gemelle, con intenzione.
Annika pescò da dentro una sacca di tela colorata della Vuitton un costume striminzito, due mezzi rosso fuoco. Gli si bloccò la respirazione e il cuore fece un giro verso le tonsille, quando si immaginò Sylence con quel costume.
«Ma stiamo scherzando?» sfuggì dalle labbra della ragazza. «Io non mi metto quel… coso.» lo pronunciò come se fosse una parolaccia.
Red era d’accordo con lei. Gli si infiammarono le coronarie al pensiero di tutti gli occhi puntati su di lei. No, non se lo sarebbe messo, lo avrebbe bruciato, decise.
«Volevi farti un bagno, no?» asserì Monika. «Beh, queste è l’unico che abbiamo trovato della tua taglia.»
Sylence alzò un sopracciglio. «Ma se ho quasi la stessa taglia di Aria.»
«Quasi.» sottolineò la gemella. «Ma ci sono… come posso gentilmente definirlo?… dei punti strategici che non hanno le stesse dimensioni.»
Tenendo l’espressione impassibile, Red nascose un leggero turbamento che gli si agitava dentro. Quel discorso stava prendendo una piega decisamente… privata.
Il ragazzo vide Sylence arrossire – guardò ammirato il contrasto rosso-bianco tra la sua pelle e quell’affluenza di sangue sulle guance – e si distrasse, cosicché la ragazza riuscì a prendere il costume prima che lui avesse la possibilità si ridurlo a randelli inceneriti.
«Dammi qua.» Marciò verso la foresta dicendo intanto: «Aria, mi accompagni?»
Red avrebbe voluto correrle dietro solo per poter strapparle il costume dalle mani, ma si trattenne. Sarebbe stato preso per pazzo.
«Ragazzi, voi cosa avete deciso?» chiese Jake, dopo che le due ragazze sparirono tra gli alberi. «Non so voi, ma io preferirei non diventare un pezzo di ghiaccio.»
«Io ci vado.»
La risposta venne da Annika. Guardava il gruppo tenendo le spalle dritte e insistendo con lo sguardo in direzione di Jake.
Monika prese la gemella per le spalle e la scosse. «Sorella, ma sei ammattita? Non puoi immolarti come vittima sacrificale di quella pazza svitata di Sy.»
La sorella si sciolse dalla sua presa. «Non lo faccio per lei.» le assicurò. «Voglio solo mettere me stessa alla prova. E poi, voglio indossare questo splendido costume.» aggiunse, mostrandoglielo.
Non aveva niente da invidiare a quello di Sylence, anzi, era ancora più striminzito.
Red vide gli occhi di Jake schizzare fuori dalle orbite. Le ragazze stavano mettendo a dura prova l’integrità morale dei ragazzi con quei piccoli pezzi di stoffa.
«Io raggiungo Sy. Gemella?» domando Annika a Monika, mostrandole al contempo un altro costume, simile al suo tranne per il colore.
Monika sospirò. «Sarebbe una vera blasfemia non indossare quello splendido capo. Da qua.»
Sfilò dalle mani della sorella il costume e insieme raggiunsero Sy.
«Essendo in inferiorità numerica, tanto vale schierarsi con la maggioranza.» asserì Rae seguendo a ruota le gemelle.
Ormai erano rimasti solo gli uomini. Si guardarono in faccia, una domanda, una sfida negli occhi di tutti, che si spostarono sulla borsa di tela nera ai loro piedi: la borda con i loro costumi.
Red non era tipo da tirarsi indietro da una sfida. Inoltre, non aveva nessunissima idea di lasciare Sylence in costume in mezzo a quella mischia di testosterone in visibilio.
Raccolse la borsa e vi frugò all’interno. Gli fu facile trovare il suo: tutti i capi avevano la targhetta della taglia con su scritto il nome del proprietario sul retro. Erano tutti dello stesso modello, a pantaloncini appena sopra il ginocchio e con disegni stilizzati bianchi o neri. Il suo era rosso, lo stesso colore di quello di Sylence, con stilizzate delle fiamme nere e rosse.
Poi lanciò la sacca a Jake e lo guardò con un sopracciglio alzato, come a dire «tu che vuoi fare?».
Grugnendo dall’esasperazione, infilò la mano nella borsa e tirò fuori il suo costume, blu notte e nero.
Gli altri seguirono il loro esempio. Rafe si ritrovò con un costume arancio ruggine, Bastian verde mela e bianco e Chris grigio perla e nero fumo.
Come un blocco unico si diressero dietro le auto e i cespugli e, rapidamente si tolsero i vestiti e indossarono i costumi.
Calzavano tutti a pennello.
«Questa storia mi spaventa di più del bagno che ci si prospetta.» asserì Bastian, guardandosi per cercare una qualsiasi pecca nel capo di vestiario estivo. «Come fanno le gemelle a sapere le nostre misure? Non è che lavorano segretamente per un’agenzia funeraria?»
Gli altri ridacchiarono. «Mistero delle donne fissate con la moda.» rispose Jake, stringendo i lacci del suo costume, che poi infilò nella vita di stoffa.
«Sapete com’è.» disse Chris, finendo di piegare ordinatamente i suoi vestiti. «Mai indagare sulla natura femminile e le sue armi. Se ci provate, siete belli e pronti per il primo centro di detenzione psichiatrica.»
Una fila di “già” e “vero” seguì quella perla di saggezza. Guardando clinicamente tutti i ragazzi, compreso sé stesso, Red dovette ammettere che erano davvero un bel gruppo di esempi maschili. Rafe era il più atletico, con i bicipiti gonfi, il petto massiccio e la tartaruga. Più che giusto, visto che faceva boxe, pesi medi.
Anche Red la esercitava, ma nei pesi leggeri. Aveva un fisico asciutto, pettorali ben definiti, muscoli delle braccia ingrossati dal sollevamento pesi e gambe toniche.
Jake aveva la sua stessa costituzione, fatta eccezione le spalle da nuotatore.
Bastian era quello con la costituzione più piccola, era snello e dall’ossatura piccola. Ma non era né scarno né pelle e ossa. No, era piccolo ma ben tonico.
Anche Chris non scherzava. Portando sempre magliette larghe non si notavano né i fianchi stretti né la forma delineata dei pettorali e lo stomaco piatto. Nonché i muscoli abbastanza sviluppati delle braccia.
Guardandoli, sentì dentro di lui la voglia di prenderli in massa e chiuderli da qualche parte, magari seppellirli lì intorno, o sbatterli nel bagagliaio delle auto. Sapere che i loro occhi si sarebbero posati sul corpo esposto di Sylence lo faceva irrigidire dal fastidio.
Scuotendo la testa, raccolse i suoi vestiti e, dopo che gli altri ebbero fatto lo stesso, tornarono alle auto dove li posarono. Neanche il tempo di voltarsi e...
Oh, porco Giuda.
Le ragazze, tutte sorridenti, che li aspettavano, nei loro striminziti pezzi di stoffa colorata. Ma lui non aveva occhi – prima che gli rotolassero fuori dalle orbite – che per Sylence.
Aveva intravisto il suo fisico, ne aveva intuito le forme da tutte le volte che l’aveva abbracciata e toccata… ma lo spettacolo che aveva davanti non aveva niente a che vedere con quello che si era immaginato.
Il costume esaltava le sue forme femminili e rotonde, eleganti e ben delineate. Le spalle strette, i fianchi rotondi, i ventre piatto e due gambe mozzafiato. Per non parlare delle parti anatomiche tipicamente femminili, perfette in tutti i sensi. Si era sciolta i capelli scuri che le superavano la dolce curva del fondoschiena e sottolineavano l’arco perfetto della schiena.
Gli venne l’acquolina in bocca dalla voglia di mangiarsela, come un frutto maturo al punto giusto. Molto probabilmente, quel suo desiderio si dovette riflettere nei suoi occhi perché quando Sylence alzò i suoi, di tempesta e nuvole, incontrando il suo sguardo la vide rabbrividire.
Era scattato il gioco della seduzione.
 
*   *    *
 
Sylence Hill POV
 
Avevo fatto un errore. Un errore madornale. Non avrei mai dovuto avere quell’idea. Avrei dovuto stare tranquilla e trovare qualcos’altro da fare.
Ma no. Dovevo pensare ad una nuotata, senza pensare concretamente all’idea di vedere – e vedermi – con il costume addosso.
E il quel momento, quasi ritirai la sua proposta.
Quello sguardo fiammeggiante, famelico, scandagliava il mio corpo facendomi sentire le ginocchia deboli e il fiato corto. Rabbrividì all’intensità di quei due occhi dorati, che esprimevano tutto quello che red non stava dicendo a voce.
Ma ero sicura che il mio non era da meno. Anche io lo stavo assaporando con lo sguardo.
Il fisco scolpito, perfetto, dorato, i fianchi stretti e le gambe muscolose sottolineati dal costume, inspiravano pensieri tutt’altro che casti.
Questa gita stava svelando lati della nostra “relazione-senza-etichetta” che non avevo considerato fino a quel momento.
Prima, se mi avvicinavo a lui, ero troppo impegnata a perdermi nel suo sguardo dorato, per pensare – percepire – il suo corpo contro il mio, i muscoli che guizzavano, la forza delle braccia e la potenza delle gambe.
Ora, trovandomelo davanti, come una fetta di torta tutta da assaggiare, avevo solo voglia di far sparire gli altri e toccare quella pelle dorata, saggiare la sua compattezza e bearmi della sua morbidezza e del suo calore.
Non avevo mai pensato a cose simili, neanche con Ben, essendo ancora troppo acerba per comprendere quell’aspetto della “vita di coppia”.
Mi sa che ci voleva proprio la nuotata al fiume: per calmare i bollenti spiriti, non c’è  niente di meglio che una bella doccia fredda, bagno in questo caso.
«Hai deciso di ritirare la sfida?»
La potente voce di Rafe la fece ripiombare con i piedi per terra. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo da Red e dal suo corpo e mi voltai verso gli altri, tutti dei gran bei pezzi di marcantonio esposti alla nostra vista femminile.
Veci saltellare gli occhi dagli uni e dagli altri, prendendo nota degli sguardi fugaci e discreti tra Annika e Jake, che si ammiravano a vicenda. Inoltre, mi accorsi che Chris era rosso come un peperone – oltre al fatto che Rafe lo stava squadrando come se volesse prendergliele misure (ma non aveva detto che voleva tenere nascosto il suo orientamento sessuale?) – cosa che mi fece ricordare il suo lato gay latente stava prendendo il sopravvento su quello maschile. E quando mi lanciò un’occhiata implorante, andai a soccorrerlo.
«Chris,» dissi prendendolo a braccetto. «Devi farmi un favore.»
Mentre lo conducevo lontano dal testosterone in visibilio, intercettai gli occhi di Red. Mi venne il mente la perla “se gli sguardi potessero uccidere”, perché sotto a quello sguardo Chris sarebbe potuto morire bruciato.
«Che favore devo farti?» chiese Chris, visibilmente sollevato.
«Quello di non metterti in situazioni imbarazzanti.» me la ridacchiai.
Lui arrossì. «Era così palese?» mugugnò, a disagio.
Strinsi le labbra scuotendo la testa. «No, certo che no. Solo un pochino.» gli dissi, mostrando pollice e indice. Ma non riuscii a trattenermi da ridere di nuovo.
«Sy, ti rendi conto che il tuo ragazzo sta premeditando almeno dieci modi di eliminarmi?» m’informò Chris.
Non feci conto alla sua domanda. «Tu fai il bagno?»
Lui mi lanciò un’occhiataccia. «Ma sei ammattita? No che non me lo faccio. Sono giovane, non voglio morire assiderato.»
«Ma dai, che sei bello forte e, appunto perché sei più giovane, riuscirai a resistere di più.»
«No, grazie.»
Scossi la testa alzando gli occhi al cielo. «Che fifone.»
«Auto-conservatore. Preferisco vivere ancora per un po’.»
Nel frattempo, eravamo arrivati al fiume, dove il corso formava la curva a U capovolta.
Gli lasciai il braccio – lo sguardo di Red ancora propenso ad uccidere – e mi avvicinai alla riva.
Lì, l’acqua non scorreva troppo veloce e non era neanche troppo profonda, di sicuro meno di un metro e mezzo, ergo andava benissimo per fare un bagno senza la paura di venir trascinati dalla corrente.
Presi un respiro profondi e mi girai verso gli altri. «Bene, signori. Siamo arrivati al capolinea. Chi ha la forza per affrontare la sfida si faccia avanti e venga a tuffarsi.»
«Visto che sei tu quella che ha messo in mezzo questa cretinata, perché non ti tuffi per prima?» mi sfidò Rafe.
Già con l’idea in testa di essere la prima, mi ero preparata psicologicamente, perciò non fu difficile accettare quella sfida.
Inarcando un sopracciglio a dire «sta a vedere», piantai i piedi sul bordo della riva, bagnata e fredda. Testai l’acqua con la punta del piede e constatai sollevata che l’acqua era davvero meno fredda di quella mattina. Si intenda, non era calda come quella che c’è al mare, ma abbastanza sopportabile per un bagno veloce.
Volendo essere un po’ esibizionista, mi voltai verso gli altri, dando la schiena al fiume. Sorriso al sopracciglio inarcato di Rafe…
E mi tuffai.
Piegai le ginocchia per darmi la spinta, contorsi la schiena per ritrovarmi con la parte superiore del corpo voltato verso l’acqua, per poi girare anche le gambe, e allungai le braccia per preparare il resto di me all’impatto.
Non mi resi neanche conto di aver trattenuto il fiato fino a che non uscii fuori per prendere una sanissima boccata d’aria. Mi tolsi i capelli dalla faccia, rabbrividendo dal freddo. Non avevo neanche la forza di parlare. Rimasi semplicemente a guardare gli altri, con sguardo di sfida.
Per prenderli in giro, mi feci anche una rapida nuotata fino alla riva.
Ignorando il fatto che stessi tremando come una foglia, strizzai i capelli e dissi agli altri: «Che c’è?» chiesi innocentemente. «Nessuno di voi hai il fegato per entrare? Oh, che delusione.» dicendo questo incontrai gli occhi di Red.
Impassibile, si fece avanti fino alla riva, dove mi trovavo, e con un balzo si tuffò. Lo spruzzo del tuffo mi fece la doccia – gelata.
Mentre lui risaliva in superficie, con una sfilza di imprecazione (verso chi?, me o l’acqua?), guardai gli altri.
«Qualcun altro?»
Jake e Rafe si scambiarono uno sguardo e con uno scatto presero a correre fino a tuffarsi anche loro, con un’esplosione di acqua che arrivò fino alle gambe delle ragazze, che strillarono per il freddo.
«Io non mi muovo di qui.» disse Monika.
«Allora ci vediamo dopo, gemella.» le rispose Annika.
Si avvicinò alla riva, dove era emerso Jake, e piano si calò nell’acqua. Subito si strinse le braccia al corpo per la bassa temperatura acquea, buttando fuori il fiato che aveva nei polmoni.
«Dio, che fredda!» biascicò.
Rimasi alquanto sorpresa e incuriosita, quando vidi Jake andare da lei e fregare le sue braccia, in modo da farle prendere calore. Di solito, evitavano qualsiasi tipo di contatto, anche casuale – me ne ero accorta –, ma ogni volta che Annika si trovava in situazioni che la mettevano in “pericolo”, Jake arrivava subito. Era come una specie di guardiano invisibile, che osserva e impara e si svela solo quando ce n’è bisogno.
Bastian e Chris vennero a sedersi sulla riva, immergendo solo le gambe. Seguì l’esempio anche Aria, che però, dopo poco decise anche lei di entrare in acqua come Annika, poco alla volta. Rimase, però vicino a Chris, che le faceva da appiglio, visto che, come lei mi disse, non sapeva nuotare.
Sia Monika che Rae rimasero fuori dall’acqua, sdraiate sulla coperta che si erano portare dietro.
I maschi nell’acqua ingaggiarono una battaglia all’ultimo schizzo, facendo un enorme casino, bagnando sia loro che quelli fuori dall’acqua.
Un senso di calma e familiarità mi invase. Mi sentivo assolutamente in pace con me stessa e con il mondo. In quel momento, mi sembrava che tutto andasse per il meglio. Vedere Red e Jake ridere e scherzare insieme, proprio come avevo immaginato che fossero prima della tragedia, mi riempì il cuore felicità e tenerezza.
Mi diedi una spinta con i piedi e feci la morta, galleggiando sull’acqua, facendomi trasportare dalla corrente.
Il cielo era una macchia azzurra, che stava iniziando a tendere al violetto e all’arancio rosato del tramonto. Chissà che ora erano…
Andai a sbattere contro qualcuno e finii sottacqua, ingollandone un po’. Venni tirata fuori e sorretta dalle braccia di Red. Una scossa intensa mi percorse a contatto con quella pelle compatta e fredda, morbida e dura alcontempo.
«Sta attenta, nanerottola.» mi rimproverò, bonariamente. «Potresti essere trascinata dalla corrente.»
Immersa in quel senso di pace interiore, badai poco alle sue parole e mi limitai ad avvolgergli il collo con le braccia e a lasciarmi cullare.
«Stai tremando.» mormorò lui.
Pochi secondi più tardi, il suo corpo divenne caldo, riscaldando sia la mia che la sua pelle gelata. Smisi del tutto di tremare.
Le sue mani calde scivolare lungo la schiena, rilassandomi i muscoli indolenziti dall’acqua fredda, facendomi accelerare il respiro e rendere il battito irregolare. Anch’io allora, indifferente a quello che ci era intorno, poggiai le palme delle mani sulla sua schiena ampia, saggiando i muscoli guizzanti, che si irrigidirono al primo contatto.
Sotto i polpastrelli, percepii delle lieve sporgenze, come se la pelle avesse delle grinze. Le sue mani smisero si accarezzarmi, stringendo i miei fianchi, come se volesse allontanarmi da sé.
Te lo scordi.
Mi avvinghiai stretta al suo collo, impedendogli di lasciarmi andare. I muscoli vibrarono dalla tensione, il suo petto si scontrava con il mio ad ogni respiro affannoso che emetteva.
Caparbiamente, mi staccai e lo guardai negli occhi. Lessi un miscuglio di emozioni dall’ansia alla rabbia, dal dolore alla rassegnazione.
Per un qualche assurdo motivo, mi venne in mente quello che Jake gli aveva detto durante il litigio.
«… mi sento tradito dal fratello che avrei difeso con le unghie e con i denti da tutto e da tutti, anche da suo padre
Un brivido freddo mi attraversò la spina dorsale e l’acqua gelida non c’entrava niente.
Possibile che a questo mondo debbano esistere così tante persone che con l’andare del tempo, diventano dei mostri anche per i loro consanguinei? Che non ci fosse amore nei membri di una stessa famiglia?
Incatenando i miei occhi hai suoi, gli ordinai: «Non muoverti.»
Vidi un muscolo della sua guancia rasata guizzare, in risposta allo stringere della mascella, in un atto di tensione e resistenza all’ordine.
Ma con mia sorpresa, non si mosse. Allora, lentamente, temendo che un qualsiasi movimento affrettato potesse farlo scattare, mi allontanai di qualche spanna e gli girai intorno. Nel compiere quel movimento, gli presi una mano tra le mie e intrecciai le nostre dita in una presa ferrea e rassicurante, come a comunicargli che gli ero d’appoggio.
Non so come definire quello che mi trovai davanti. Posso dire solo che in quel momento, sentii dentro talmente tanto orrore e rabbia da far rannuvolare il cielo e far cadere sulla terra almeno tre fulmini di seguito.
La schiena di Red, l’ampia distesa di pelle dorata, dalle spalle alla vita e anche oltre, supposi, era interamente ricoperta di cicatrici frastagliate e irregolari, che raggrinzivano la pelle, marchiandola a fuoco. Erano un grido di dolore ai miei occhi, un urlo di rabbia e sofferenza che quasi mi spezzò il cuore. Erano cicatrici particolari, sia piccole che grandi, ma tutte dello spesso spessore, che suggerivano essere stati inflitti con la stessa arma ogni volta che Red era stato percosso.
Incapace di trattenermi – in verità, non lo volevo affatto – con la punta dell’indice percorsi una di quei segni di dolore, quel piccolo, grinzoso grido di anima.
I muscoli della schiena di Red si fletterono, quando si raddrizzò per impedirmi di toccarlo, ma lo seguii nel movimento, tirandolo al contempo con la mano ancora stretta nella sua.
«Non pensarci nemmeno, piromane.» gli ringhiai contro. «Non azzardarti a fare un solo movimento.» La minaccia venne intensificata con un rombo di tuono.
Mi accorsi vagamente che gli altri stavano guardando il cielo e alcuni di loro – il Cerchio – si erano voltati verso di me, mentre gli altri si apprestarono ad uscire dall’acqua.
Una rabbia ceca mi aveva invasa. Avevo voglia di andare dal padre di Red e restituirgli il favore. Ciò che aveva fatto al figlio era abominevole. Avrebbero dovuto dargli l’ergastolo solo per averlo sfiorato.
Red, il mio Red, sottoposto a quel trattamento animale chissà da quanto tempo.
«Spero che tu gliel’abbia fatta pagare. Spero che tu gli abbia abbrustolito l’ottanta per cento del corpo, così che il restante potesse essere sottoposto allo stesso trattamento che ti è stato riservato.» Le parole mi uscirono dalla bocca con urgenza, uno dei modi che avevo a disposizione per sfogare la rabbia senza fare del male a qualcuno.
Red si girò a guardarmi, gli occhi socchiusi invasi dallo sgomento e la speranza.
«Spero che tu l’abbia fatto, perché quando me lo ritroverò davanti – e giuro che un giorno ci sarà – lo farò pentire di quello che ti ha fatto.»
Un fulmine piombò a pochi chilometri da lì.
 
*    *    *
 
Jackson Kingston’s POV
 
Non aveva mai creduto possibile una cosa del genere. Non era mai arrivato a crede che un giorno, qualcuno sarebbe riuscito a penetrare così profondamente la corazza d’acciaio in un Red si era rinchiuso tanto da mostrare i segni degli abusi che suo padre gli lasciava, ogni volta che usava la frusta, ad anima viva.
Eppure, in quel momento, stava vedendo con i suoi occhi la prova di tale miracolo.
Sy, così piccola e indifesa – per quanto lo possa essere chi controlla i filmini – stava toccando letteralmente con mano le cicatrici che si intrecciavano in un macabro disegno sulla schiena del suo amico.
E Red la lasciava fare. Non opponeva alcuna resistenza, limitandosi a subite il tocco leggero della ragazza.
Ormai non aveva più dubbi. Non poteva più negare che Sylence Hill avesse conquistato il cuore di ferro di Red Hawks. Lo aveva visto nei piccoli gesti che entrambi si scambiavano, nelle espressioni, nei dialoghi, negli atteggiamenti, che quei due avevano un legame speciale e indissolubile.
Ora stava solo a loro accorgersi di tale legame, cercare di coltivarlo al meglio e farlo crescere e sbocciare.
Sospirando, lanciò un’occhiata al cielo, prova della rabbia che Sy aveva provato quando aveva visto per la prima volta le cicatrici cosparse sulla schiena di Red.
Jake aveva sempre saputo della loro esistenza: era stato lui quello che lo aveva medicato la prima volta che il padre lo aveva ridotto allo stremo delle forze a furia di frustate.
Red non aveva mai voluto dirgli il motivo di tale comportamento, il perché un padre avesse iniziato a picchiare suo figlio addirittura con una frusta.
Lo aveva pregato di denunciarlo, di fare qualcosa per cambiare la situazione, per impedire al padre di fargli ancora del male. Suo padre era il Procuratore Distrettuale e aveva gli agganci giusti per riuscire a risolvere in fretta la faccenda senza creare alcuno scandalo.
Ma Red non aveva voluto sentire ragioni: non avrebbe detto niente, né a lui né alla polizia né a chiunque altro.
Così Jake si era dovuto arrendere, e sopportare ogni volta il suo e il proprio dolore quando Red lo chiamava per farsi medicare le ferite.
Era solo da qualche anno che il padre aveva smesso, da quando Red aveva iniziato ad praticare la boxe. La sua unica àncora di salvezza, sia mentalmente che fisicamente.
E ora, con l’arrivo di Sy, Jake sperava che oltre al corpo e alla mente, anche il cuore di Red potesse guarire. Di sicuro, la ragazza stava facendo un ottimo lavoro, per arrivare così in fretta fino a quel punto.
«Jake, esci?»
La voce dolce di Annika lo distrasse dai quei pensieri. Si voltò a guardarla, ammirato dallo spettacolo che offriva. Il suoi costume, nei toni abbinati al suo, esaltava la sua pelle di porcellana e gli occhi turchesi spettacolari, oltre a sottolineare la figura esile e femminile; gli era venuto quasi un infarto quando l’aveva vista e aveva provato il forte desiderio di avvolgerle intorno un enorme coperta per impedire a tutti gli altri di poter guardare le sue grazie.
In quel momento, coi capelli bagnati che scendevano a circondarle il collo di cigno, gli venne l’irresistibile voglia di mordicchiarla.
Fece uno sforzo mastodontico per riuscire a trattenersi.
«Sì, adesso esco.» le rispose.
«Sono proprio belli insieme, vero?» chiese, indicando con un cenno del capo Sy e Red, che in quel momento erano avvinghiati in un abbraccio che emanava conforto e tenerezza. «Non ho mai visto Red comportarsi in quel modo. Sy gli fa molto bene.»
«Già,» disse, osservando Annika con intenzione, mentre lei non guardava. «Lo penso anche io.»
In quel momento, un urlo saettò nell’aria, un grido di terrore.
Voltandosi di scatto verso il bosco, vide gli altri correre verso le auto.
«Monika.» disse Annika.
Con uno scatto, balzò sulla riva e si precipitò nel bosco.
«Annika!» le urlò Jake. «Fermati.»
Uscendo dall’acqua le corse dietro, percependo vagamente anche la presenza di Sy e Red.
«Che diamine succede?» sentì chiedere dalla ragazza.
Jake non rispose, quando la risposta gli si parò davanti. Nello spiazzo delle auto, un’enorme sagoma si ergeva con un memento su tutti loro.
Un memento di terrore.
E ai suoi piedi c’era Monika, che tentava di strisciare via, una ferita alla gamba perfettamente visibile.
Gli altri erano sparsi per la radura, immobili, intensi a fissare quell’orribile creatura apparsa da chissà dove.
«Gemella!» chiamò Annika, che fece per lanciarsi al soccorso della sorella.
Jake la fermò. «No, Nika. Non muoverti, finiresti solo per farti male anche tu.»
«Ma cos’è quell’enorme cosa?» chiese Sy, intimorita quanto gli altri.
«È lui.» mormorò Annika, respirando affannosamente. «È quel mostro. Riconosco i segni che ha sulla pelle. È quello che a cercati di uccidere me e Monika.»
Come sentendosi chiamato in causa, il mostro si girò nella loro direzione, gli occhi completamente neri, vuoti e affamati di vita.
Disse qualcosa che Jake non riuscì a comprendere, per poi avanzare verso di loro. Il suo enorme corpo ricoperto di strani segni neri, simili a quelli che c’erano nel Sanctorum, sfregiando la sua pelle grigia e nerboruta. Al collo portava un pendente, una stella a cinque punte capovolta che al centro recava un gemma nera, inscritta in un cerchio fatto da un serpente che si morde la coda.
«Oh, mio Dio.»
Jake si voltò verso Sy, che era sbiancata di colpo, come se avesse visto un fantasma.
«Sylence, che succede?» gli chiese Red, affiancandosi a lei.
Lei non gli rispose, ma mosse in passo in avanti, spostandosi di fronte a Red: voleva proteggerlo.
Red aggrottò le sopracciglia. «Sylence, che stai…»
La ragazza pronunciò delle parole estranee a Jake, ma che avevano lo stesso suono di quelle dette dal mostro, il quale si era fermato a guardarla.
Nella testa di Jake si accede una lampadina: Sy stava parlando nell’Antica Lingua.
Il mostro le rispose.
Allora Sy urlo: «Non ti permetterò di fargli del male.» e allargò le braccia chiamando a sé la Forza della Natura.
 
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Risposte:
 
5HuNtEr5:
le tue recensioni sono stupende e mi fanno scendere una lacrima gni volta che le leggo. Grazie della difesa in mio favore per quanto riguarda il sottolineare gli errori che capitano quando si scrive di getto – come è capitato per questo capitolo. E ti ringrazio anche per l’enorme, quasi spropositata considerazione che hai di me. Spero di risentirti anche per quando riguarda questo capitolo
Baci,
 
 
Sy Hill

 
 
 
Lady Catherine:
per quanto riguarda gli arti persi, se leggi questo messaggio hai già la risposta. Anche a me piace il nome Peste, ma è ancora tutto da decidere.
È vero, c’è qualcosa tra i due, Rafe e Chris, ma non ti dirò niente di più. XP
Mi sono divertita a mettere quella parte padre-figlia, sai capitano anche a me con mio padre, perciò mi sono detta: perché no? Ed eccola qua.
Grazie per il suggerimento alla correzione degli errori, li ho già apportati.
Ti informo che credo la mia storia sia già nelle scelte, se non vado errato. Dovrebbe essere stata – e se il Lettore legge, che mi contraddica se ho detto una blasfemia – che sia sta Claire LaMoon a selezionarla per quella categoria. E le sono molto grata per averlo fatto.
Beh, ti aspetto per la prossima recensione, spero.
Baci,
 
Sy Hill.

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Capitolo 30
*** Vivere un Incubo ***


Sy Hill: Eccomi, miei cari Lettori, con questo arriviamo alla bellezza di 30 CAPITOLI e 110 RECENSIONI. Non sono mai stata più felice. Arrivare fino a questo punto era impensabile ma ci sono riuscita. Ho raggiunto un traguardo, quello di impegnarmi seriamente a scrivere, ed è solo merito vostro che mi supportate, leggere, recensite, seguite, preferite, scegliete la mia Storia. Non so davvero come ringraziarvi se non continuando a scrivere con ancora più impegno.
Non voglio dilungarmi troppo: voglio solo ringraziare i recensori dello scorso capitolo: Lady Catherine, 5HuNtEr5, Juliet327, e le new entry Dills Nightmare e maxmin1997. Sono felice delle vostre recensioni e spero di riceverne ancora.
Ma ora, VAI COL FANTASY!!!
Leggete e Recensite.
Baci,
 
Sy Hill

 

*     *     *     *
 

CAPITOLO 30
Vivere un Incubo

 
Ero in un incubo. Doveva esserlo. Se non lo fosse stato, sarei impazzita.
Non poteva essere vero. Come aveva fatto l’incubo, il mostro, l’aguzzino che avevo visto nelle mie visioni essersi materializzato davanti a me, nel mio mondo, nella mia realtà?
«Voglio il Fuoco.» aveva detto nell’Antica Lingua, e avevo subito capito che si riferiva a Red.
Quello che mi premeva sapere era come aveva fatto Reìrag a arrivare lì. Possibile che ci fosse un qualcosa che collegava i due mondi, la Terra e LiòsLand? E poi, chi aveva mandato Reìrag? La donna che avevo visto nella mia visione? Ma cosa voleva da Red?
Ora, con quel mostro davanti la mia paura più grande stava diventando reale. E la cosa che più mi preoccupava era che se Reìrag era lì per venire a prendere Red, possibile che quello che avevo visto non era il passato, ma… il futuro?
Al quel pensiero, il mio cuore perse un battito, perché questo voleva dire… l’orribile visione della morte di Red mi riempì la testa, facendomi barcollare. Mi mancava il respiro al pensiero che quello fosse il futuro.
Non poteva essere.
«Sylence, che sta succedendo?»
La voce rabbiosa di Red raggiunse il mio cervello in fase di shock, riportandolo alle normali funzioni.
Misi a fuoco quello che mi circondava, o almeno una parte, perché l’altra era riempita dal viso di Red.
«Che cosa ha detto quel mostro?» chiese.
Essendo chiamato in causa, mi focalizzai su Reìrag che immobile, aveva la testa reclinata all’indietro, e le sue labbra nere come l’inchiostro si muovevano leggermente, come se stesse pregando…
… o parlando con qualcuno a bassa voce.
«Brucialo.» dissi velocemente a Red, senza distogliere lo sguardo da Reìrag. «Fallo smettere di parlare, distrailo, devi interrompere la comunicazione.» gli spiegai freneticamente. «Brucialo, piromane.» ordinai perentoria, incontrando il suo sguardo.
Se quello che stavo pensando era giusto, quel bastardo stava scambiando informazioni con la donna che gli aveva dato il pendente.
Red rimase a fissarmi per qualche secondo. Poi  si girò verso il mostro e unì le mani. Vi soffiò all’interno per creare una fiammella guizzante, brillante, calda. Dopo di che aprì le mani e soffiò sulla fiamma. Come se avesse avuto del combustibile in bocca e lo avesse sprizzato sulla lingua infuocata tra le sue mani, una fiammata raggiunse Reìrag alle gambe, riducendo a brandelli fumanti e suoi stivali consunti e lerci, carbonizzandogli la pelle delle gambe. L’odore acre della carne bruciata impregnò l’aria, ma l’intervento di Red ottenne i risultati sperati.
Reìrag gridò di dolore, riaprendo gli occhi neri come abissi gemelli e inchiodandoli sul responsabile del danno inflittogli.
«Dobbiamo fare in modo di allontanarlo. Non deve prenderti.» riflettei ad alta voce.
Reìrag mi lanciò uno sguardo di rabbia velenosa, una promessa di dolore nei miei confronti.
«Potrai anche metterti in mezzo, ma non riuscirai ad impedire che io adempi al mio compito
Scossi la testa. «È qui che ti sbagli. Tu non farai un bel niente. Tornerai a casa a mani vuote.»
Una risata grottesca gli uscì dalle labbra. «Con i poteri che la mo Bheanmi ha affidato, non potrò fallire.»
Detto questo, si piazzò a gambe larghe sul posto e strinse i pugni. Un vortice di aria melensa e scura, fumosa, sul levò intorno al suo corpo nerboruto, passandogli attraverso, facendo vibrare qualcosa dentro di me.
Percepii chiaramente che quel fumo non portava niente di buono.
Vediamo di cosa sei capace.«Jake, contrastalo e fatti aiutare da Rafe. Usate i vostri Talenti.»
Per una volta Jake non contestò i miei ordini. Chiamò Rafe con un cenno del capo e insieme avanzarono verso il bestione.
«Che cosa vuoi fare?» mi chiese Bastian.
«Dobbiamo fare in modo che le gemelle sia insieme. Mi servono le loro illusioni.»
«A questo posso pensarci io.»
La voce di Chris mi fece sobbalzare. Mi ero dimenticata che c’erano anche lui e Aria, due innocenti, due umani.
«Hai un sacco di cose da spiegare, ma lo farai dopo.» chiarì, prima di avviarsi verso Monika, fiancheggiando il limitare le bosco, sgattaiolando tra i cespugli e gli alberi per restare al coperto.
«Bastian.» chiamai. Lui venne ad affiancarmi. «Riesci ad individuare un suo punto debole?» gli chiesi, indicando Reìrag.
Bastian annuì e fissò gli occhi sul suo bersaglio. In quel momento, Jake e Rafe lo attaccarono. Il primo gli saltò addosso, assestandogli un pugno in piena tempia: il rumore della carne sbattuta contro altra carne mi fece venire il voltastomaco.
Ma quella mossa diede almeno un po’ dell’effetto sperato: Reìrag smise di emettere fumo e la sua testa scattò di lato, grugnendo dal dolore.
«Non usare i tuoi poteri.» gli ordinò Rafe, la voce ispessita dal suo Talento.
Il mostro si prese la testa tra le mani. Molto probabilmente, però, il potere di Rafe non fece molto effetto perché dopo qualche secondo, il fumo riprese a vorticargli intorno.
«La sua mente è troppo forte.» mormorai. «Jake!»
Jake saltò di nuovo verso il mostro, che però questa volta non si fece cogliere impreparato. Vedendo arrivare il calcio, allungò un braccio e imprigionò la gamba del ragazzo, tirandogli poi un pugno al ginocchio.
L’urlo di dolore di Jake riverberò nell’aria, contorcendomi lo stomaco: Reìrag gli aveva rotto il ginocchio.
Allora, Red si lanciò contro il bastardo, formando al contempo una palla di fuoco nelle mani, che, arrivato a pochi metri dal suo obbiettivo, gli lanciò contro.
All’impatto con il bolide infiammato, fu Reìrag a gridare per la sofferenza, lanciando così andare la gamba ferita di Jake che venne subito agguantato da Chris, sbucato da dietro l’auto lì vicino, e che lo trascinò al riparo.
Dalla rabbia ceca, Red continuò a bersagliare Reìrag di proiettili di fuoco, provocandogli delle ustioni molto gravi sulle braccia e il torace.
Quello che mi parve strano era che il mostro, non opponeva poi tanta resistenza. Si lasciava colpire e tirava un debole colpo in contrattacco, a poi continuava ad incassare.
Quando mi resi conti di quelle che erano le sue vere intenzioni, era quasi troppo tardi.
«No!»
Mi lanciai in una corsa sfrenata verso Red, che impegnato a sfogare la sua rabbia per l’amico ferito, non si era accorto del sorriso macabro che solcava la bocca della sua presunta vittima.
Quel bastardo di un Assoggettato stava giocando al gatto con il topo, attirando Red in trappola, senza che ques’ultimo se ne accorgesse.
Per mia fortuna, un fulmine venne in mio soccorso. Quando mi lanciai con tutto il mio peso sulle spalle di Red, che si preparava per un altro attacco, il filmine cadde quasi a sfiorare Reìrag che per evitare di farsi colpire, si scansò allontanandosi quel tanto che basta per uscire dalla traiettoria presa da Red, mentre veniva spinto in avanti dal mio peso.
«Non farlo, brutto idiota! Ti sta tendendo una trappola.» gli dissi, quando cercò di scrollarmi via. «È te che vuole! Non farti prendere dalla rabbia, altrimenti farai il suo gioco. Red!»
Allontanandosi da Reìrag, Red mi fece scendere bruscamente dalle sue spalle.
«Che diavolo ti salta in mente!» mi gridò contro.
«Puoi sgridarmi più tardi, mamma, ora abbiamo qualcosa di più importante da fare.»
Sì, perché Reìrag non aveva gradito il mio intervento, e in quel momento mi stava uccidendo con gli occhi. Il fumo gli vorticò intorno prima di fermarsi al centro del suo petto, formando una sfera fumosa.
Bisognava inventarsi qualcosa e alla svelta. Ma cosa?
Reìrag scelse proprio il momento sbagliato per attaccarci: io e Red eravamo ancora fermi e sembrava sfinito. Jake era in salvo dietro l’auto con Chris e Monika era stesa a terra dietro il mostro, svenuta.
La sua sfera di fumo fu talmente veloce che non riuscii quasi a vederla. Feci in tempo a spingere Red lontano da me, quel quanto che basta da evitargli il colpo e prenderlo tutto io.
All’impatto, l’aria dai polmoni fuoriuscì in un fiotto violento, le costole e lo sterno subirono maggiormente il colpo, tanto che il plesso solare smise per qualche secondo di funzionare. Mi sentivo completamente inutile, gli arti non volevano rispondere e il cervello nemmeno. Non sentii nemmeno l’impatto della terra contro la schiena, dopo essere stata proiettata all’indietro dal colpo.
Le orecchie ronzavano e la vista era annebbiata.
Passò un po’ di tempo prima che potessi recuperare pienamente le funzioni vitali. Quando provai ad alzarmi i muscoli presero a urlare di protesta, ma li costrinsi a collaborare.
Che cosa diamine era successo nel frattempo?
Scuotendo la testa per schiarire la vista, mi ritrovai di fronte il peggio. Red era come impazzito: continuava a lanciare palle di fuoco su Reìrag, che si riparava dietro quella che mi parve una barriera di fumo. Stava sogghignando.
Jake si era ripreso. Lo visi in piedi, sorretto da Chris, la faccia contorna in una smorfia di dolore.
E gli altri? Mi guardai freneticamente in giro, trovando Aria che immobile fissava la scena da dietro alcuni cespugli, con Bastian accanto e Annika dall’altra parte, che piangeva sommessamente.
Raferty era corso a recuperare una Monika ancora svenuta e a trascinarla il più lontano possibile dall’Assoggettato. Rae era con loro.
Red non cedeva, andava avanti nella sua furia senza pensare che stava per ricadere nella trappola di quel bastardo di Reìrag.
Che cosa potevamo fare? Cosa?
Lentamente, senza farmi vedere, mi allontanai gattonando, cercando di raggiungere il più in fretta possibile il punto in cui si trovava Bastian.
Sapevo che Red non avrebbe sentito niente di quello che gli avrei detto, perciò mi serviva qualcosa per fermarlo.
Per fortuna, arriva a destinazione senza essere scoperta: né Red né Reìrag prestavano attenzione a qualcuno che credevano ferito gravemente.
Mi domandai di sfuggita com’era possibile che fossi ancora intera dopo un colpo così forte.
Arrivata da Bastian, mi accovacciai per non farmi vedere.
«Tieni questa.» disse porgendomi una maglia.
Mi ero dimenticata di essere in costume. Presi la maglia e la infilai velocemente dicendo intento: «Bastian, devi farmi un favore. Porta Annika da Monika, cura quest’ultima.» Mi girai verso Annika. «Gemella.» la chiamai, scuotendola per la spalla. «Mi servi lucida. Se vuoi salvare sia tua sorella che Jake, devi accantonare le tue paure e ragionare.»
Annika si volse verso di me, un po’ intontita, ma annuì, tergendosi le lacrime dagli occhi.
«Che devo fare?» chiese, con voce tremante.
«Quando tua sorella si sarà ripresa, create un’illusione: voglio che questa foresta sia piena di Red. Fate in modo che tutti gli alberi – e anche noi – siano una copia di Red.»
«Ma perché…»
«Non chiedermi niente, ve lo spiego dopo. Io distraggo quei due, voi approfittatene per correre quanto più veloce potete.»
Dopo che ebbe annuito, mi girai verso Aria, che mi guardava ma senza vedermi davvero. Mi accorsi solo allora che stringeva Peste/Happy tra le braccia.
«Aria.» la chiamai.
Lei spostò lo sguardo spiritato prima sulla scena nella radura e poi su di me.
«So che avrò molte cose da raccontarti, e so che in questo momento sei molto spaventata, ma… devi fare un piccolo sforzo. Cerca di non farti vedere, rimani nascosta qui dietro e non dare nell’occhio. Può essere pericoloso.»
La spinsi dolcemente verso il retro di un albero lì vicino e, dopo esservi accertata che fosse tutto apposto, feci segno agli altri di tenersi pronti.
Chiusi gli occhi, concentrandomi sui miei poteri. Mi servivano un paio si fulmini, perciò avevo bisogno della rabbia. Ripensai alle più recenti scoperte, le cicatrici di  Red, l’aggressione che Aria aveva subito. Quel sentimento rabbioso e pieno di odio che invadeva quei ricordi, mi diede l’Energia che mi serviva.
Appena uscii allo scoperto, Bastian e Annika, corsero intorno alla radura per raggiungere Monika. Io avanzai verso Reìrag e Red, intendi a tirarsi colpi su colpi, non avvertirono la mia presenza. Concentrai la rabbia, focalizzai il punto preciso in cui volevo che si abbattesse e pregai che l’attacco andasse a buon fine.
Sentii il turbinio dell’aria e l’elettricità solcarmi la pelle, mentre le nuvole di addensavano come prima di temporale e i tuoni rimbombavano nell’aria.
Colpisci!
Il primo fulmine cadde a pochi metri da Reìrag, che per l’onda d’urto barcollò in avanti. Diamine! Adesso sapeva che eri in piedi! Poco male, il secondo colpo non sarebbe andato a vuoto.
Bang!Il fulmine successivo lo colpi alla spalla. Evvai!
Tendendosi una spalla, il mostro si girò verso me con intenzioni omicide. Anche Red si accorse di me, dopo essersi liberato della rabbia che gli ottenebrava la mente, supposi. Lo vidi muovere le labbra a formare il mio nome.
«Ti farò pentire di quello che hai fatto!»
Il grido di Reìrag riportò il mio sguardo su di lui. Il mostro aveva riunito le mani, pronto a preparare un’altra sfera di fumo.
Con la coda dell’occhio, mi accorsi che Bastian agitava una mano, facendo segno che sia Annika che Monika erano pronte. Le vidi stringersi le mani e guardarmi con determinazione.
Brave ragazze! Adesso bisognava distrarre Reìrag.
«I tuoi attacchi non servono a molto.» gli dissi nell’Antica Lingua. «La tua Regina penserà che sei inutile. Ti ha dato i suoi poteri tramite la collana, non è vero?» insinuai, sapendo che era la verità.
Vidi la sorpresa balenare nei suoi occhi. «Ti sbagli, Yuleck. Quelli che vedi e che sentirai tra breve sono i miei poteri
Non volevo scoprirmi troppo, perciò dissi: «Beh, se sono i tuoi, sono così deboli da non essere capaci di uccidermi come si deve.»
«Ti farò rimangiare quello che hai detto!»
Allora, mentre Reìrag si apprestava ad attaccarmi, feci segno alle gemelle. Non persi tempo e corsi verso Red, che poco prima dell’arrivo dell’illusione, si stava apprestando ad attaccare Reìrag per difendermi.
Lo afferrai per una spalla e lo allontanai dal mostro.
«Aspetta.» gli dissi.
Lui mi strinse la vita con un braccio e ci allontanammo ulteriormente.
«Che cosa sta…»
Proprio in quel momento, l’illusione calò su di noi. Gli alberi scomparvero e al loro posto centinaia di Red presero il loro posto, come centinaia di guardi del corpo.
«Ma che diamine…»
«Corri,» gli mormorai alla svelta. Mi fece effetto sentire le parole che mi uscivano di bocca essere pronunciate con la voce di Red. «Confonditi con le altre copie. Non deve vederti.» Gli diedi una spinta e corsi della direzione opposta.
Lanciai un’occhiata a Reìrag che si guardava intorno, disorientato da tutte quelle copie del sul obbiettivo.
«Ti facevi furbo, eh, mostro?» lo incitai, spacciandomi per Red. «Ma non sai di cosa siamo capaci. Mai sottovalutare un avversario quando non lo hai mai affrontato.»
Reìrag lanciò un urlo di rabbia e con esso una sfera di fumo… che invece di colpire me, prese in pieno un altro Red. Un albero.
Feci zigzag tra gli alberi, confondendolo ancora di più. Quasi mi scontrai con un altro Red che veniva nella mia stessa direzione.
«Red, che cosa sta succedendo?»
«Sono Sy. Tu chi sei?»
«Sono Chris. Ma che diavolo…»
«Non ho tempo di spiegarmi Chris, dove hai lasciato Jake?» gli chiesi concitatamente, tirandolo in disparte dietro un ammasso di Red.
«Vicino all’auto.»
«Bene.» Vidi che Reìrag continuava a lanciare attacchi a tutti i Red che vedeva. «Continua a correre. Disperditi in questa massa di copie, compari e scompari. Ho bisogno che tu lo confonda. Se incontri qualche altro Red che si muove, digli di fare la stessa cosa.»
Non attesi una risposta e ricominciai a correre. Arrivai vicino alle auto, e trovai una copia di Red seduta a terra e con un ginocchio in pessime condizioni.
«Jake.» lo chiamai, accovacciandomi. «Resisti ancora un po’.» Mi guardai freneticamente attorno. Incurante di essere sentita da Reìrag – tanto non sarebbe riuscito a capire né chi né dove fossi – chiamai Rafe.
«Porta le gemelle dov’era Jake. Bastian vieni anche tu.»
Nel frattempo, mi feci un’altra corsa intorno alla radura, mescolandomi alla moltitudine di copie e raccogliendo quanta più Energia possibile. Mi serviva un altro fulmine e dovevo andare a segno.
Maledetto il poco controllo che avevo! Mi fermai dietro un Red/albero e presi forza.
Poi mi sposi quel quanto che basta per vedere Reìrag che si girava freneticamente intorno e lanciava palle di fumo.
«Mi sto scocciando di questa seccatura. Se non verrai allo scoperto raderò al suolo tutto quello che c’è a vista d’occhio
Quello mi spinse ad agire. Raccolsi l’Energia e la rabbia, focalizzai nella mia mente il fulmine che colpiva la testa di Reìrag e attesi qualche secondo.
Colpisci!
Il fulmine squarciò il cielo, colpendo Reìrag esattamente nel punto in cui avevo immaginato. Il mostro, perse il controllo della sfera che aveva in mano, che si dissolse in pochi secondi. Il colpo che gli avevo inferto aveva aperto una grossa ferita che perdeva copiosamente sangue nero. L’Assoggettato, barcollò, cadendo su un ginocchio.
Contenendo l’euforia per quella piccola vittoria, corsi velocemente raggiungendo l’auto dov’era Jake, che nel frattempo si era riempito di gente – tutta uguale.
«Gemelle.» chiamai ansiosa.
«Sì.» risposero in coro, con la voce di Red.
«Per quanto ancora riuscirete a mantenere questa illusione?»
«Non per molto.» rispose una di loro. «Non ce la facciamo quasi più.»
«E io sono troppo debole.» gemette l’altra.
«Okay. Bastian.»
Mi rispose con un cenno del capo.
«Sei riuscito ad individuare un punto debole?»
«Credo non ce l’abbia… però,» aggiunse. «Se colpiamo la collana che ha intorno al collo…»
«Ci avevo pensato anche io.» concordai. «Gliela dobbiamo togliere. Ma come fare?»
«Non possiamo farlo noi.»
Mi si accese una lampadina. «No, ma può farlo lui. Gemelle, tenetevi pronte: mi serve un’ultima illusione. Rafe, trova Red. Bastian, prenditi cura di Jake. È ora di finirla.»
«Come faccio a trovarlo? Ne siamo circondati!» protestò Raferty.
Grugnendo si frustrazione chiamai Rae-Mary.
«Dimmi.» rispose da dietro la spalla di Chris/Red.
«Localizza Red, per favore.»
Detto, fatto. I suoi occhi divennero neri e dopo qualche secondo disse: «Si trova nella macchia di boschi alle tue spalle, Raferty.»
Rafe scattò, allontanandosi. Bastian si inginocchiò accanto a Jake e prese a curargli la gamba.
«Gemelle.» dissi loro, avvicinandomi. «Ho bisogno che al momento opportuno voi facciate credere a quel mostro che la sua collana sia in realtà un anello di fuoco.»
«Va bene.» rispose una.
«Dove ti sei cacciata, piccola Yuleck!» sentii Reìrag gridare.
Doveva essersi ripreso dalla ferita. Bastardo.
«Mi sono stancato. Ridurrò questo luogo e tutti quelli che ci sono in cenere.»
Mi affacciai oltre il cofano dell’auto e vidi quel mostro protendere le mani al cielo e cominciare a mormorare qualcosa che non compresi. La nuvole in cielo divennero nere e presero a vorticare, confluendo nei palmi aperti di quel mostro.
Proprio in quel momento, due Red si avvicinarono a noi. Il cuore ebbe un sobbalzo alla sua vista.
«Sylence, che cosa stai architettando?» chiese il vero Red, guardandosi in giro.
«Sono qui. Dobbiamo attaccarlo, prima che sia troppo tardi.» lo informai. «Io, tu e Rafe. Lui attaccherà per primo,» pianificai. «Userà il suo talento, per confonderlo. Questo mi darà il tempo necessario per raccogliere l’Energia e colpirlo con un filmine. Poi, lo attaccherai tu, e bada bene, perché è la mossa più importante: confonditi con gli alberi e poi, quando ti sarai avvicinato abbastanza, devi colpirlo alla gola con una sfera di fuoco. Prendilo in giro, confondilo, fagli credere che non riuscirà a liberarsi del fuoco. In quel momento, voi gemelle,» mi girai verso loro. «Creerete la vostra illusione… e preghiamo Dio che tutto vada per il meglio.» Presi un respiro profondo e chiesi: «Ci siete?»
Un coro di “sì” pregni di determinazione mi diede la forza necessaria per attuare il piano.
Il primo colpo di Reìrag colpì un albero alle nostre spalle, mandandolo in frantumi.
Proteggendomi la testa con le braccia, gridai: «Ora!»
Dato il segnale, l’attacco partì.
Rafe superò l’auto e piantandosi davanti a Reìrag, colmò la sua voce di Potere e ordinò: «Smettila di combattere! Non usare i tuoi poteri
Fu più forte di quanto avessi creduto, perché Reìrag si contorse come se un enorme macigno da cento tonnellate gli fosse caduto improvvisamente addosso, sbilanciandolo, facendolo deconcentrare.
Proprio quello che mi serviva. Concentrai la mia Energia al massimo e immaginai di colpirlo di nuovo alla testa. Dopodiché  uscii allo scoperto e mi piazzai accanto a Rafe.
«Colpisci!» urlai.
Il fulmine al mio comando piombò dal cielo, colpendo ripetutamente il suolo per poi schiantarsi sulla testa già spaccata di Reìrag, che sotto quel doppio attacco, cadde definitivamente in ginocchio. Con il cuore che batteva a mille, osservai Red che sbucò dalla foresta di sue copie alle spalle del mostro e, creando una sfera, gliela lanciò perfettamente tra capo e collo.
Corsi dalle gemelle e diedi loro il segnali. Strinsero ambedue le loro mani e chiusero gli occhi.
Spostai l’attenzione su Reìrag che, dopo che il fuoco che Red gli aveva lanciato si era spento, continuava a contorcesi, stringendosi il collo, sfregando, cercando si afferrare qualcosa che solo lui poteva vedere.
«Non potrai spegnerlo.» disse Red alle sue spalle. «Quello non è semplice Fuoco. L’ho create appositamente per te, in modo che tu possa bruciare per sempre all’inferno.»
Trattenendo il respiro, pregai che il piano andasse a buon fine.
Con un urlo di rabbia, Reìrag afferrò il collo della sua casacca sporca di sangue secco e sudiciume e la tirò, strappandosela di dosso. Mi venne quasi da piangere quando vidi il chiaro luccichio della collana che saltava via dal suo corpo, cadendo chissà dove nell’erba.
All’improvviso dal suo corpo, prese ad uscire una fumosa foschia nera, che in volute scomparivano nell’aria. Il mostro si accasciò al suolo, come privo di forze, gli occhi spiritati che si guardavano freneticamente intorno.
Reìrag alzò le braccia al cielo e pregò: «Mo Bhean, richiamami il tuo cospetto. Accetterò qualunque punizione tu voglia donarmi
Dopo qualche secondo, la nebbia nera che circondava il suo corpo lo avvolse come un bozzolo, racchiudendolo, escludendolo alla nostra vista e…
Implose su sé stesso.
Proprio come un piccolo Big Ben, ma senza la nascita dei pianeti, la foschia si richiuse su sé stessa, riducendosi fino ad un pulviscolo di polvere e poi, con una piccola onda d’urto, scomparve.
Respirando affannosamente, mi accasciai al suolo: le gambe non mi ressero più tanto tremavano.
Un tonfo soffocato mi spinse a guardare nella direzione delle gemelle. La loro illusione stava svanendo: i centinaia di Red scomparvero, ritornando semplici alberi,  ritornammo stessi.
La radura riprese il suo normale aspetto. Si poteva quasi dire che non fosse successo niente ma le prove di quello scontro c’erano e si vedevano. Alberi bruciati, altri spezzati a metà, chiazze di era annerita dal fuoco.
In quel momento mi venne in mente una cosa, anzi una persona.
«Aria.»
Costrinsi le mie gambe a muoversi a quasi inciampando sui miei stessi piedi, raggiunsi il punto in cui avevo lasciato Aria. Era svenuta e Peste/Happy le stava vicino, come se avesse percepito la paura e il turbamento della ragazza.
Sfinita oltre ogni limite, mi accasciai al suolo e poggiai la testa sulle ginocchia.
Mentalmente e fisicamente spossata, ebbi solo la forza di chiamate Rafe perché venisse a recuperare Aria.
Giornata peggiore non poteva esserci.
 

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Capitolo 31
*** Segreti Svelati ***


Sy Hill: Eccomi con un nuovo capitolo. Avviso i gentili Lettori che questo capitolo è, diciamo, un capitolo di passaggio, ciononostante è importante per alcune cosette.
Ringrazio chi segue, sceglie, ricorda la mia storia e chi mi mette al corrente dei suoi pensieri/opinioni su quello che ha letto tramite recensione.
Non mi dilungo e vi lascio a questo piccolo sollazzo.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
P.S.: Le risposte alle recensioni dello scorso capitolo a fondo pagina.

*    *     *

CAPITOLO 30
Segreti Svelati

 

La riunione di quel pomeriggio fu un po’ diversa dal solito. Dopo quello che era successo durante la nostra gita, avevamo più un problema da chiarire.
Uno di quelli era già stato risolto. Con Aria non avevamo fatto fatica a convincerla che niente fosse successo. Le avevamo detto che si era addormentata e che quello che aveva visto era stato solo un brutto sogno, e quello che non potevamo spiegarle, gli alberi incendiati o spezzai, per esempio… beh, Rafe era intervenuto installando nella sua mente la convinzione che fossero già così. Inoltre, su di noi non avrebbe trovato niente che potesse provare che non avesse veramente sognato, visto che Bastian aveva provveduto a curare chiunque avesse una ferita o altro.
Ma non c’era solo lei.
E Chris era un altro paio di maniche.
Non poteva essere influenzato. Rafe aveva detto che i suoi ricordi erano troppo forti e non poteva obbligarlo a dimenticare, altrimenti gli avrebbe provocato danni al cervello. Inoltre, aveva aiutato tutti noi e gli eravamo grati per questo.
Perciò in quella riunione, avremmo decido anche cosa fare come Chris.
Io lo sapevo già. Gli dovevo una spiegazione e gliel’avrei data, con o senza il consenso di Jake. La sua gamba era apposto, se n’era occupato Bastian, e gli dava solo qualche fitta quando la sforzava troppo. Un paio di giorno di riposo e sarebbe tornata come nuova, gli aveva assicurato Bastian.
In quel momento, mi trovavo nel parcheggio, seduta in macchina, che rivivevo tutto quello che era successo due giorni prima.
Di tutte gli avvenimenti che mi erano passati per la testa, niente era paragonato a quello che era successo davvero. E c’erano tanti di quegli interrogativi che stava per scoppiarmi il cervello.
Sobbalzai, sentendo qualcuno che bussava al finestrino. Dio, avevo i nervi a fior di pelle. Anche quella mattina ero saltata su un paio di volte, prima con mio padre che era entrato silenziosamente nella mia stanza, poi per Peste, che Aria è stata costretta a mettere in giardino, che aveva rotto un vaso di terra cotta.
Adesso era colpa di Bastian.
Scesi dall’auto. «Ciao.»
Lui mi scrutò con il suo occhio clinico. «Tutto bene, Sy? Rivelo alti livelli di adrenalina nel tuo sangue.»
«Ci credo, mi hai fatto fare un salto.» mi lamentai, incrociando le braccia. Mi appoggiai contro la portiera della New Beetle.
«Cosa che non è da te, spaventarti facilmente intendo.»
«Beh, può sempre esserci una prima volta.» obbiettai.
Rimase a fissarmi. «Sylence, sappiamo tutti e due perché hai reagito così. Quello che è successo… l’attacco di quel mostro… ti ha scossa più di quanto tu non voglia ammettere. Io penso che…»
«Sebastian, non per essere maleducata o scortese… ma potresti smetterla di analizzarmi? In questo momento… ho il cervello che mi sta fumando e fra poco appenderà il cartello “fuori uso”. Quindi… lasciami il tempo di metabolizzate tutto… e poi ti chiederò io stessa di analizzarmi al microscopio e aiutarmi in una seduta da psicologo. Okay?»
Lui mi scrutò per qualche istante. Poi annuì. «Come vuoi.»
«Grazie. Ora… andiamo? Credo che ci stiano aspettando.»
Fece strada fino al giardino sul retro, dove tutti gli altri stavano spettando nelle loro consuete posizioni. Mi guardai in giro, fino ad incontrare lo sguardo dorato di Red.
Era da quando aveva accompagnato me ed Aria a casa che non ci parlavamo, troppo immersi nei nostri pensieri per riuscire a comunicare apertamente.
Decisa a non mostrarmi debole, staccai i miei occhi dai suoi e percorsi il resto del gruppo fino a fermarmi su Chris. Era seduto sulla panchina, da solo, che si guardava intorno con determinazione, come a dire «so quello che ho visto e voi non mi potere imbrigliare».
Per solidarietà andai a sedermi accanto a lui. Fui sollevata da un peso quando vidi che non si scostava: non avrei saputo cosa fare altrimenti.
«Ciao, Chris.» lo salutai, incontrando tranquillamente i suoi occhi grigi.
«Ciao, Sy.»
«Come stai?» ce lo chiedemmo all’unisono.
Questo bastò a rompere il ghiaccio tra noi, assicurandomi che quello che c’era tra noi era ancora lì, immutato.
«Bene… più o meno.» risposi. «E tu?»
Strinse le labbra, riflettendo. «Sono… molto confuso e alquanto sbalordito… da quello che ho potuto vedere su di te… e su gli altri.»
«So che ti devo una spiegazione ed entro oggi la avrai.» gli assicurai.
«Grazie.»
«Bene.» intervenne, allora, Jake. «Visto che siamo tutti presenti, direi di dare inizio alla nostra Riunione.»
«Ah, Jake.» chiamai. «Credi che ci sarà bisogno di… un consulto?» chiesi titubante, quando ottenni la sua attenzione.
Chris aveva già visto tanto e sembrava scosso: non volevo che avesse un qualche attacco psicologico se avesse visto qualcosa di ancora più strano.
Jake dovette pensarla come me. «Credo sia meglio più tardi.»
Lo ringraziai con un cenno del capo.
«D’accordo. Allora, cominciamo. Ci siamo riuniti per discutere di quello che è successo questo venerdì e venire a capo di molti interrogativi che ci assillano. Ma, prima di tutto, dobbiamo decidere che cosa fare con Christopher Alasdair.» Lo indicò. «Nessun altro al di fuori del cerchio è mai venuto a conoscenza della nostra esistenza, né, prima d’ora, è mai entrato in contatto con noi. Perciò, ci troviamo di fronte ad un caso eccezionale. Non possiamo operare la soluzione che di solito usiamo per chi scopre qualcosa, perché avrebbe un effetto negativo e pericoloso per Chris, inoltre ha dato un valido aiuto nel momento del bisogno.» Jake spostò lo sguardo tutt’intorno a sé, per poi fermarsi su di me. «Quando mi hai proposto di invitare degli esterni, ti sei proposta come garante e hai accettato le conseguenze in merito alla scoperta della verità. Tu hai detto di fidarti di lui… e noi abbiamo acconsentito alla tua richiesta. Ora, la soluzione che ci eravamo prefissato non può più essere messa in atto, per cui dobbiamo trovarne un’altra.»
«Kingston.» lo chiamò allora Chris. «Potrei dire una cosa?»
Jake annuì.
«Grazie. Sentite, non so di preciso in che cosa mi sono immischiato… certamente, prima di venerdì non credevo che una persona potesse controllare i fulmini, o creare illusioni o palle di fuoco. Non credevo che la magia esistesse. Eppure, qualcosa mi diceva che non era tutto oro ciò che luccicava. Mi ero accorto che c’era qualcosa di strano già da quando ci siamo incontrati al Wall Mart.» Si rivolse a me. «Quel giorno è scoppiato a piovere proprio quanto ti sei messa a piangere… e quando hai smesso la pioggia ha cessato di cadere. Coincidenza? Non ero sicuro. E quello che è successo venerdì mi ha dato la conferma che cercavo.» Chris scrollò le spalle. «Sono il primo a non poter emettere sentenze. Nessuno è perfetto, chi in un modo e chi in un altro. Se tu puoi accettare me… se tutti vuoi potete accettare me, allora io posso accettare voi. Giuro su Dio che non rivelerò ad anima viva quello che so, me lo porterò nella tomba, morirà con me. Non tradirò in alcun modo il vostro segreto… croce sul cuore, potessi morire.» scherzò facendosi tracciando con la punta del dito una croce sul suo cuore.
Sorrisi al suo buffo giuramento e d’impulso lo abbracciai. «Mi fido di te, Chris.» gli dissi, prima di scostarmi. «Davvero.»
Sentivo quel sentimento di fratellanza scorrermi nelle vene. Fiducia era una parola importante, che aveva il suo peso. Era qualcosa che andava conquistata con la fatica e il sudore, non era qualcosa che di dava alla leggera. Un po’come la verginità: si aspetta il momento e la persona giusta, quella con cui stringi un legame così forte da poter dire «darei la vita per te».
E Chris era quella persona. Era la spalla su cui piangere, l’amico con cui ridere, il supporto nelle situazioni peggiori. E lo aveva dimostrato.
Con questa convinzione, mi voltai verso gli altri.
«Non voglio imporre niente a nessuno. Ognuno decide per sé. Ma credo che già sappiate una mia risposta ad un eventuale votazione: mi fido di Chris, è mio amico e lascerò che sappia la verità, tutta la verità.»
Il silenzio scese su di noi, persi ognuno nei propri pensieri e riflessioni. Erano quasi le sei e il sole era in procinto di tramontare, tingendo di arancione e oro tutto quelli che i suoi raggi tiepidi sfioravano.
«Propongo una votazione.» disse allora Jake. «Sottopongo la questione in questo modo: Sy, che ha appoggiato l’inserimento di Chris nella nostra gita, è il suo diretto responsabile, per cui qualsiasi decisione presa in merito a Chris, ricadrà anche si di lei, la sua garante. Sbaglio?» mi chiese, a mo’ di conferma.
Annuii.
«Perciò, anche tu riceverai una… chiamiamola sanzione per quello che è successo: un umano è venuto a conoscenza di noi e tu ne sei la causa, implicitamente. Ma questo verrà deciso in seguito. Ora, procediamo con Chris. Alzati.» ordinò a quest’ultimo.
Chris gli si piazzò di fronte, per nulla intimorito. Erano alti quasi uguale.
«Christopher Alasdair, essendo venuto a conoscenza dei nostri Segreti, la punizione  dovrebbe essere l’Abolizione. In merito a questa, la tua memoria verrebbe cancellata, o se vogliamo, distorta. Purtroppo, però, ora non è più fattibile. Per questa ragione, e per essere venuto in nostro aiuto quando ne avevamo bisogno… chiedo al Cerchio se voglia accettare la proposta di Alleanza, intendo cioè chiedere che tu divenga una specie di mascotte del gruppo, un paio di occhi in più nella nostra improvvisa quanto inaspettata battaglia. Non ti sarà permesso partecipare alle nostre Riunione oltre a questa, non verrai in possesso delle informazioni che non riceverai oggi, non ti unirai ad un futuro scontro. Ti sarà, consentito unicamente, sapere della nostra esistenza, di essere i nostri occhi e le nostre orecchie nel tuo mondo e sarai obbligato ad informarci di ogni qualsivoglia notifica di cui tu verrai a conoscenza e che concernerà il nostro Cerchio.» Jake si volse verso noi. «Chi è favorevole a questa proposta alzi una mano.»
Tutti l’alzarono. Chris si guardò intorno fino ad incontrare il mio sguardo, un sorriso appena accennato di contentezza che gli curvava le labbra.
Jake annuì, concorde. «Per voto unanime, Noi ti accettiamo nel nostro Cerchio, o perlomeno come nostra Mascotte.»
Sospirai di sollievo.
«Vi ringrazio.» disse Chris. «Avevo il timore di incappare in qualcosa di peggio e sono contento della vostra decisione.»
«Ora devi andare Chris.» lo informò Jake. «La nostra riunione non è ancora finita e tu non puoi seguire oltre.»
Chris accettò la decisione con un cenno del capo. «Grazie ancora. Giuro sulla tomba di mia madre che custodirò gelosamente il vostro segreto.»
«Ti crediamo. Ora vai.»
Chris venne ad abbracciarmi e dopo essersi scostato, disse: «Ci vediamo domani.» e se ne andò.
Trassi un respiro profondo e mi preparai a quello che sarebbe venuto. Guardai Jake.
«Sono pronta.» dissi alzandomi.
Jake mi guardò. «In merito al fatto che un estraneo è venuto a conoscenza di Noi, la punizione è l’Espulsione dal Cerchio.»
Non ebbe neanche il tempo di finire che si levarono voci di protesta, che mi scaldarono il cuore.
«Non puoi buttarla fuori. È stata un valido aiuto.» contrastò Rafe.
«Se non fosse stato per Sy, la mia gemella avrebbe potuto fare una fine orribile.» Annika.
«Se non avesse invitato Chris a quest’ora tu staresti su una sedia a rotelle con una gamba fasciata e inutilizzabile.» Bastian.
«Inoltre, ha mantenuto il sangue freddo e ideato un piano che si è rivelato un successo, cosa che ci ha permesso di sopravvivere.» Rae-Mary.
Sentire tutte quelle voce mi riempì il cuore di gioia. La mia famiglia.
Ma mancava una voce, quella più importante.
Mi voltai verso Red. Il suo sguardo dorato si era scurito: prometteva sofferenza e dolore.
Vendetta. Su Jake.
«Red.»
Lentamente il suo sguardo si posò su di me. «No.»
Un minuscolo guizzò sulla sua guancia allo stringersi della mascella.
«Vi ringrazio, tutti quanti. Siete i migliori amici che si possano desiderare. Ma ho commesso un errore. Non me ne mento, ma l’ho pur sempre commesso. E se la punizione è l’Espulsione io l’accetto.»
«Non ho detto che verrai espulsa.» disse allora Jake.
Lo guardai, interdetta. «Ma se hai appena detto…»
«Ho detto che la punizione per questo atto è l’Espulsione… ma non che tu sarai espulsa. Non è così che funziona. Qualcuno deve proporre l’iniziativa, poi si procede con una votazione e, ad un risultato positivo, si passa ad attuare tale punizione. E dato la veemente opposizione dell’intero Cerchio, non credo che qualcuno di loro voglia proporla.»
Inghiottendo l’impellente voglia di saltare addosso a quel demente per avermi fatto quasi avere un infarto, attesi pazientemente – cosa alquanto rara – che Jake continuasse a parlare.
«Considerata quindi la mancata Espulsione, la tua punizione sarà un’altra: a partire da questo lunedì e per i prossimi sette giorni, non ti sarà permesso partecipare alle nostre Riunioni Ufficiali e ciò che verrà detto non ti sarà riferito, se non allo scadere della penitenza.» Spostò lo sguardo sugli altri. «Chiedo, dunque al Cerchio, di votare questa decisione e esprimere con un alzata di mano il suo consenso o il suo dissenzo.»
Anche se riluttanti la maggior parte di loro alzò una mano. Rimasero fuori solo Annika e Red.
Non me l’ero cavata a buon mercato, ma sempre meglio che essere buttata fuori a meno di una settimana dalla mia Affiliazione.
«Per voto di maggioranza, l'Esclusione è apparovata ed entrerà in atto allo scoccare della mezzanotte di questo giorno.» Jake alzò un sopracciglio. «Questo, comunque, non ci impedisce di discutere degli ultimi avvenimenti prima dell'inizio della punzione.»
Furbo, il ragazzo.Ecco perchè aveva voluto che ci incontrassimo per forza quella domenica: sapeva che gli altri avrebbero accettato la seconda proposta e non la prima e aveva fatto in modo che io potessi partecipare a quella Riunione per avere già un quadro preciso e poter parlare di quello che nella settimana della punizione non avrei potuto dire.
«Bene. E ora chiamiamo la Regina Bianca.»
Dieci minuti dopo, la Regina aveva aperto i suoi occhi di pietra e ci salutava cordialmente.
«Salute a Lei, Regina Bianca. Siamo felici e onorati della Vostra Presenza.» ossequiò Jake.
«Il mio Cuore è aperto a Voi, Figli Miei. Ditemi quello che Vi affligge e cercherò di aiutarvi a trovare una Soluzione
Jake le riferì velocemente degli avvenimenti di quel venerdì, lodando il mio intervento – cosa che mi fece sentire a disagio.
«Volevamo chiedereLe se ha idea di cosa possa essere quella Creatura. Che cosa è venuto a fare nel nostro mondo? Perché ci ha attaccati? E come a fatto ad arrivare e ad andarsene?»
«Una domanda alla volta, Figlio Caro. Alcuni di questi quesiti non hanno risposta, perchè la Risposta è nell'Animo di chi pon e la Domanda
Che?
«Ma, Regina Bianca...» tentò di dire Jake.
«Inoltre, credo che altre risposte possono essere date scrutando ciò che Animo Umano non vede, ma che possiede
Perchè si è girata verso me?Anche gli altri mi stavano guardando.
«Che c'entro io? Non ho le risposte.»
«Ne sei sicura, Kirisha?»
Figlia. Mi aveva chiamata figlia. Perchè quel termine mi sembrava di averlo già sentito?
ero cava a buon mercato, ma sempre meglio che essere buttata fuori a meno di una settimana dalla mia Affiliazione.
 cosa vivere.«Sy, forse è qualcosa che hai letto nel libro.» suggerì Bastian. «Una di quelle parti che hai letto, non parlava di un qualche mostro, o cose del genere?»
Corrugai la fronte, concentrandomi. Ripassai mentalmente tutto quello che avevo letto in quel libro, cercando un indizio, qualcosa.
«Ricordo... di aver letto qualcosa su certi... esseri che per sopravvivere avevano bisogno di impossessarsi dell'Energia e della Forza Vitale altrui.» Guardai loro. «Forse, quel mostro è uno di loro.»
«Probabile. Cos'altro sappiamo?» chiese Jake. «Che cosa ti ha detto? Quando parlava nell'Antica Lingua.»
Ecco il primo intoppo.
«Lui... voleva Red.»
Sette paia si occhi saettarono su di me.
«Che cosa?» chiese il diretto interessato, rigido nella postura e nella voce.
«Quando mi ha parlato, ha detto: "voglio il fuoco". E tu sei l'unico tra noi a possedere quel Talento.»
«Ma perchè voleva Red?» domando ancora Jake.
«Non lo so.» Altro intoppo. «Ma c'è un'altra cosa... Noi lo conosciamo. Conosciamo quel mostro.» Feci cenno a Red.
Il Cerchio mi guardò sconvolto. «Che cosa?» sussurrò Red, corrugando la fronte.
«Non lo ricordi? Il suo nome è Reìrag... ed è il tuo aguzzino.»
Il silenzio calò sul gruppo. Mi feci forza e continuai a parlare. «L'ho riconosciuto appeno l'ho visto, in quella radura. Non potrei mai dimenticarlo... e c'è un'altra cosa. La collana che abbiamo recuperato, Red l'ha vista in una delle sue visioni. E ho pensato ad una cosa. Le visioni hanno una tempistica. Prima ho visto Red incatenato... poi torturato...» Deglutii a fatica. «Dopo ancora ucciso. Ma,» aggiunsi, prima di mettermi a frignare. «Se mettiamo insieme le sue e le mie visioni, viene fuori una specie di filmato, in cui le scene sono tagliate e a spezzoni, ma comunque se messe insieme assumono un senso.» Mi voltai verso Red. «Ricordi che cosa hai visto nella seconda visione? Quella che mi hai raccontato? La donna che hai visto consegnava a Reìrag la collana pregna di un oscuro potere e gli diceva di prendere qualcosa... o qualcuno... Credo che quella sia l'inizio di tutta la vicenda. E allora ho realizzato. Le visioni non corrispondo ad avvenimenti passati, come avevo supposto... le nostre visioni riguardano il futuro. Tu vedi il mio e io il tuo. E credo abbiamo appena sconvolto i piani di quella donna. Io ho visto Red già prigioniero, la prima volta che ho avuto una visione, quindi era stato catturato... ma, visto che le intenzioni di Reìrag sono state sventate, quella visione non ha più senso... quindi nemmeno le altre.» Incrociai gli occhi di Red. «Ora abbiamo un altro futuro da vedere
Dentro di me, esultavo dalla gioia perché l'ultima visione che avevo avuto non si sarebbe realizzata e avrei fatto di tutto per non farla avvenire.
«Quello che stai dicendo ha molto Senso, Figlia Mia. Ma sei sicura che il Futuro sia stato cambiato?» chiese la Regina Bianca.
Ci riflettei sopra. Alla fine annuii. «Sì. Credo proprio di sì.» le dissi.
«Eccellente. Forse il Libro, che prima avete nominato, ha altre Risposte a alle Domande che ponete.»
Nella mia testa scattò la scintilla. «Ora che ci penso, ho trovato alcune cose molto interessanti, sia riguardo a noi che ad altro.»
«Di cosa si tratta?» chiese Bastian.
«In uno dei paragrafi ho trovato scritto che i Liòs hanno molti Talenti, che non sono mai uguali tra loro... e ognuno di loro ne possiede tre.»
Un'esclamazione di sorpresa si levò dal Cerchio.
«Regina Bianca, potete confermare quello che ho letto?» chiesi alla statua che, con un cenno del capo, lo confermò. Mi girai verso Red. «Così si spega il tuo udito super-sviluppato.»
Al "che cosa?" del Cerchio, Red mi lanciò un'occhiataccia. «Prima o poi, avresti dovuto dirlo, piromane.» lo redarguì. «Io ho solo accelerato i tempo.»
«Sempre ad impicciarti dei fatti degli altri, tu.» borbottò.
Scrollai le spalle, ghignando, come a dire «perché no?».
«Hai scoperto qualcos'altro?» chiese Bastian.
Annuii. «Certo. Sfogliando le pagine, mi sono imbattuta in una buffa filastrocca.» Corrugai la fronte cercando di ricordare. «Ricordo che parla di luci che danzano sulla Terra, che giocano col l'Acqua, la musica che si diffonde nell'Aria e... e una luce di Fuoco che è il capo della combricola.» Scoppiarono a ridere. «Sì, lo so è alquanto buffa. Continua in un modo strano, non sono riuscita a decifrarlo, ma dice una cosa tipo che se ne vanno da tutte le parti a divertirsi fino a raggiungere il posto destinato dove non smetteranno mai di ballare... o una cosa del genere.» mi sfuggì ancora da ridere. «Quando l'ho letta non c'ho capito niente.»
«Canti e Balli risuonan nell'Aria / dove le Luci della Terra conducon le Danze / l'Ombra del Fuoco capeggia la Cerchia / mentre assetati giocan con l'Acqua / tutti uniti in un Unico Insieme / celebran Ovunque il loro Restare / e raggiungon infine la loro Destinazione / dove le Danze non si potran Fermare
La voce seria della Regina Bianca mi fece accaponare la pelle: aveva ripetuto parola per parola tutta la filastrocca che avevo trovato.
Riascoltandola di nuovo, mi parve strana, come quando un meccanico ha un pezzo mancante che sa dove mettere ma non si ricorda la collocazione esatta.
Con la coda dell'occhio mi accorsi che Red si era irrigidito e guardava la Regina negli occhi, che lo rimandava pieno. Che stava succedendo? Che cosa sapevano loro che noi non sapevamo? Cosa aveva Red da nascondere?
Un muscolo tremò sotto il mio occhio tremò quando mi resi conto che qualcosa da nascondere ce l'aveva.
«Piromane.» lo chiamai bruscamente.
L'occhiata sfuggevole che mi diede confermò i miei sospetti.
«Conoscevi già quella filastrocca, vero?» Presi come un assenzo il suo silenzio. Sentii come se un macigno mi comprimesse il petto. «Adesso basta. Mi sono stufata di questi giochetti. Basta segreti, basta verità nascoste. Non ne posso più. Odio gli ultimatum, ma sono costretta a dartene uno: o parli adesso e dici tutto quello che hai da dire... oppure la finiamo qui.» Deglutii. «Non sopporto di parlare della mia vita privata davanti ad altri, ma non mi lasci scelta. Ogni volta che ti pongo una domanta tu non rispondi, o svii l'argomento. Ora non ne posso più.»
Il silenzio si prolungava e mi sembrava che la terra scivolasse via da sotto i miei piedi. Che cos'era – chi era – così importante da dover mantenere tanto gelosamente un segreto? Abbassai gli occhi, non volevo far vedere agli altri quanto questo suo escludermi mi aveva ferita. Avevo creduto che tutto andasse per il meglio, che saremmo potuti stare bene insieme, che non ci sarebbero state complicazioni.
Tutti sogni, tutte illusioni.
I problemi c'erano, solo che io non avevo voluto vederli. In realtà io e Red non ci conoscevamo davvero. Era semplicemente scattata una potente scintilla d'attrazione alla quale ci siamo abbandonati facilmente, senza pensare ai "se" e ai "ma". Entrambi non abbiamo voluto vedere al di là della superficie, ma ci siamo accontentati di goderci quello che avevamo.
Non volevo che fosse così. Ma ci eravamo finiti dentro entrambi e io ne stavo pagando lo scotto.
«Nella biblioteca.»
Alzai la testa di scatto, focalizzandomi su Red. «Cosa?»
«Quando abbiamo attraversato quella porta... è stato allora che mi è stata detta, con parole diverse ma il senso è lo stesso. Hanno lo stesso scopo.»
«Quale scopo?»
Non rispose alla mia domanda. «Avevo giurato che non avrei fatto parola con nessuno, neanche con te. Per questo non te l'ho mai detto.»
«Ma chi te l'ha detta? A chi hai promesso di non parlarmene?»
Res inchiodò i suoi occhi dorati nei miei. Il cuore mi batteva all'impazzata. Sentivo che la risposta che mi avrebbe dato sarebbe stata...
«L'ho promesso a tua Madre.»
...importante.
Con un sussulto, tutto quello che mi era intorno di tinse i bianco e, barcollando, caddi per terra. L'ultima cosa che sentii fu qualcuno invocare il mio nome.
 
*    *    *
 
Red Hawks POV
 
Riuscì ad afferrarla prima che sbattesse la testa per terra. Imprecando contro sé stesso per avergliarlo detto, ma sollevato di essersi tolto uno dei tanti pesi che aveva sulle spalle. Aveva sempre saputo che non sarebbe riuscito a mantenere il segreto per molto. Sy poteva essere anche paziente a volte, ma non lo sarebbe stata per sempre. E proprio come allora, avrebbe preteso di sapere la verità.
Avendo entrambi allontanato le mani dalla fontana, la statua della Regina tornò immobile.
Quegli attacchi di chissà cosa stavano diventando sempre più frequenti e questo a Red non piaceva.
Prendendola più comodamente in braccio, raggiunse velocemente la panchina di pietra e ve la stese sopra.
Sentì gli altri raggiungerli.
«Red, che cosa sta succedendo? Di che cosa stavate parlando prima?» gli chiese concitatamente Jake.
Velocemente, continuando intanto ad accarezzare i capelli d'ebano Sylence, Red raccontò quello che era successo nella biblioteca, della porta, del comportamento di Sylence, dei giornali spariti, di quelle che Sylence gli aveva raccontato erano delle immagini, escludendo lacuni particolari, certo.
Concluse dicendo: «Non so di preciso cosa sia successo dopo, ricordo solo che ci siamo svegliati, ritrovandoci di nuovo tra gli scaffali, e la porta era sparita, come se non fosse mai esistita.»
«Beh, è strano. Non possiamo chiedere neanche delucidazioni dalla Regina, visto che Sy è svenuta.»
Non credeva che la regina avrebbe aiutato più di tanti, visto che era stata proprio lei a strappargli la promessa di mantenere quel segreto, ma questo non lo disse ai suoi compagni.
Il tramondo stava appassenso dietro le montagne a Ovest e Sylence ancora non si era ripresa. Red cominciò a preoccuparsi seriamente.
«Bastian, puoi darle una controllata, per favore?»
«Certo.»
Il ragazzino si avvicinò a Sylence e posò una mano sulla sua fronte e l'altra sull'addome. Red represse la voglia di scostarlo, perché era per il bene della ragazza. Gli capitava spesso, ultimamente, di avere istinti omicidi verso qualunque maschio si avvicinasse a lei a meno di due metri. Quante volte aveva pensato di ammazzare Chris nei peggiori modi possibili? Quante volte aveva voluto dar fuoco ai pantaloni dei ragazzi che la guardavano, quando camminava per la scuola, inconsapevole degli sguardi d'ammirazione che suscitava nel sesso forte? Ma doveva controllarsi. Non era un animale, non si faceva guidare dagli istinti più bassi... non ancora.
«Sta bene.»
La costatazione di Bastian lo riportò con i piedi per terra.
«Cosa?»
«Ho detto che sta bene. Sembra quasi che stia dormendo, ma è soltanto svenuta. Si sveglierà tra poco.»
Trattenne per sé un sospiro di sollievo.
E pensare che quella piccoletta era stata capace di ammansirlo, di averlo tenuto a bada quando aveva avuto voglia di voltarle le spalle e sparire nel bosco, quel venerdì, al fiume. Quando aveva sentito le sue mani tocargli la schiena – le cicatrici – aveva sentito come se dentro di lui qualcosa si spezzasse, qualcosa di duro e freddo poco più a sinistra dello sterno. D'impulso si era scostato, non voleva che le sue mani, che non avevano mai sfiorato la brutalità, l'orrore della vita, toccasse gli orrendi segni che gli deturpavano la schiena.
Ma lei lo aveva seguito, non gli aveva permesso di scostarsi, gli aveva ordinato di rimanere fermo.
E lui non aveva potuto fare altro che obbedire.
Sylence poteva anche avere una corporatura piccola, ma quello che c'era dentro era più tagliente del diamante, più resistente dell'acciaio e più morbido di una piuma. Aveva una volontà così travolgente da essere quasi impossibile resisterle.
E aveva toccato le sue cicatrici.
Lo aveva galvanizzato.
Lo aveva liberato.
Lo aveva salvato.
L'ultimatum che gli aveva dato lo avevano indispettito. Come anche lei aveva affermato, pure Red non li sopportava e anche se era stata Sylence a darglierlo, non gli era piaciuto. Ma lo aveva posto davanti ad una scelta, dirle la verità o vederla uscire dalla sua vita. Non portala più toccare, non poter più sentire i suoi discorsi strampalati, non poterla più sentire chiamarlo piromane. Ormai si era abituato a quel nomignolo e che fosse stata lei a darglielo, lo aveva aiutato ad accettarlo. E tutti i progressi che avevano fatto nella loro "relazione" sarebbero andati a farsi benedire.
Perciò aveva scelto lei, aveva scelto di dire la verità. Anche se una mezza verità.
Proprio in quel momento, le palpebre di Sylence vibrarono e pian piano, il ventaglio di ciglia nere come inchiostro rivelarono i suoi meravigliosi occhi argentei e neri, mozzandogli il fiato.
«Cos'è successo?»
«Hai avuto un altro attacco. Di nuovo occhi bianchi e svenimento.»
«Perchè...» La consapevolezza invase i suoi occhi che si spostarono su Red, supplichevoli. «Ti prego, dimmi che quello che mi hai detto non me lo sono sognato. Ti prego.»
Lentamente, Red scosse la testa.
Una lacrima solitaria, brillante come il più puro dei cristalli, le cadde dall'angolo degli occhi, tracciando il profilo di una guancia.
«L'hai vista.» sussurrò. «Hai visto mia madre.»
Red le deterse la gota rosa, carezzandole poi la tempia. «Sì. Mi ha parlato.»
«Com'è?» gli chiese concitatamente.
Red guardò teneramente. «Basta che ti guardi allo specchio. È la tua versione adulta.»
Sylence rise, mentre altre lacrime le solcavano il viso. Allora Red decise che le avrebbe dato quello che aveva sempre cercato: il modo per raggiugere sua madre.
«La filastrocca che hai trovato...» le disse, scostandola da sé per guardala negli occhi. «Non è una semplice poesia. È la mappa. La filastrocca è il percorso per arrivare a LiòsLand.»


 

*     *     *     *     *     *     *
 

Manu_effe: Ciao cara Lettrice, sono contenta che ti sia piaciuto quello che ho scritto fino ad ora e non vedo l’ora di leggere anche l’opinione su quest’ultimo capitolo.
Non capisco la tua mancanza di stima verso i miei personaggi, ma rispetto questa tua critica e l’aggetto. Chissà, magari andando più avanti riuscirai ad apprezzarli. Io mi rimbocco le maniche e mi metto a lavoro per farteli piacere.
Apprezzo anche questa tua visione in grande: un film? Cavolo, se mi proponessero di usare la mia storia come sceneggiatura, accetterei all’istante. Magari, in futuro, chissà…
Baci,
 
Sy Hill
 
 
Faythe: Grazie per aver recensito, cara Lettrice, fa sempre piacere avere gente nuova che mi mette a parte delle sue opinioni sul mio lavoro. Sono felice che ti piaccia e spero di sentire cosa ne pensi che di questo capitolo.
Bello Chris, vero? Se leggi questo messaggio, hai letto quello che succede al cucciolo, no?
Baci,
 
Sy Hill
 
 
 
Stri: Felice di ricevere la tua recensione e di trovarla così entusiasta della mia Opera. Ti assicuro che (spoiler) ritaglierò una capitolo anche per loro, quando sarà il momento.
Ecco, quindi, in nuovo capitolo.
Spero di risentirti presto.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
 
Dills Nightmare: Mi fa piacere l’entusiasmo con cui apprezzi la mia Opera. L’intento era proprio quello di rendere la scena più realistica possibile e sono felice di constatare di esserci riuscita.
Spero di sentirti anche per questo capitolo.
Baci,
 
 
Sy Hill
 
 
 
Lady Catherine: Ti ringrazio dei complimenti, Catherine. Ho cercato di inventare qualcosa di plausibile e, soprattutto, di magico e visti i complimenti ricevuti devo aver fatto proprio un buon lavoro. Si sa, in guerra e in amore tutto è permesso, e di sicuro non si può uscire illesi e per coerenza qualcuno doveva pur farsi male, e l’idea è ricaduta su Jake, Monika e Sy, come hai potuto leggere. E se ci sono i combattenti, c’è anche chi preferisce rimanere dietro le trincee.
Red è stato impulsivo, proprio come è di carattere, e accecato dalla rabbia non riesce a vedere bene quello che succede lui intorno.
Per quanto riguarda gli errori, ho controllato il capitolo e sono certa di non avercene lasciati, ma se ne trovi qualcuno, sono ben contenta di correggerli.
Grazie ancora dei complimenti e spero di risentirti anche per questo capitolo.
Baci,
 
 
Sy Hill
 
 
5HuNtEr5: Grazie per la recensione e i complimenti. Ho cercato di mantenere un contatto con ognuno dei ragazzi, senza lasciare al caso nessuno di loro. Tutti sono stati presi in considerazione, poiché devo dire che non mi piace quando alcuni dei personaggi vengono messi sullo sfondo come cornice. Mi piace spaziare da mente a mente, da POV a POV, e far comprendere ai lettori quello che i personaggi, tutti i personaggi, vivono, pensano, provano.
Se hai letto questo capitolo, mi dispiace averti smontato un mito: aver risolto la questione di Aria in quel modo è una scelta strategica che poi capitai in futuro (non dico altro altrimenti è spoiler)
Spero di sentire al tua opinione anche in questo capitolo.
Baci,
 
Sy Hill

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Capitolo 32
*** La Pioggia ***


 Sy Hill: Eccomi a voi gente con un nuovo capitolo della mia avventura, fresca fresca di stampa, come si suol dire. Spero che piaccia.
Voglio ringraziare i NOVE, dico NOVE, recensori dello scorso capitolo che mi hanno gentilmente messo al corrente delle loro opinioni: Juliet327, Dills Nightmare, 5HuNtEr5, Manu_effe, Faythe, Agapanto Blu, prima conosciuta con il nome di Lady Catherine, Idril Leralonde, The_Black_Fire e Sonreir. Ringrazio inoltre tutti quelli che seguono/ricordano/preferiscono la mia Storia.
Thank U so Much!!!
Baci,
 
Sy Hill
 

*       *       *


 

Capitolo 31
La pioggia

 
Il giorno dopo, non andai a scuola. Mi sentivo troppo fiacca e rintontita per fare qualcosa, perciò pregai mio padre di poter restare a casa. Essendo un uomo molto comprensivo, mio padre acconsentì. Dormii per la maggior parte del tempo e, se non fosse stato per Aria che mi svegliava agli orari dei pasti, non avrei neanche mangiato.
Per fortuna nessuno dei due chiese spiegazioni, adducendo questa mia mancanza di energia al post-gita, come lo chiamò papà, e ad una carenza di vitamine, tanto che Aria mi preparò delle premute con la frutta che c’era in casa, tutta la frutta, e quello che ne venne fuori fu una brodaglia assolutamente disgustosa, che mi obbligò a ingollare, tra un conato e l’altro.
Disgustoso, lo so.
Il lunedì, dopo la sveglia vivente che Aria diventò, mi preparai per andare a scuola. Papà dormiva, quando uscimmo di casa.
«Ti senti meglio, Sy?» chiese Aria, salendo in auto.
«Sì, non preoccuparti. È stato solo un momento di stress, nient’altro. Ora sono in piena forma, pronta e scattante.»
Avviai la New Beetle e partimmo in direzione della scuola. Era una giornata coperta, le nuvole avevano deciso di invadere il cielo, comprendo tutto il mondo sottostante da una fastidiosa atmosfera grigia e monotona, che ti faceva venite voglia di rinchiuderti in casa a dormire.
«Allora?» disse Aria appoggiando la schiena contro la portiera per guardare verso me.
Le lanciai un’occhiata. «Allora cosa?»
«Come va tra te e Red?»
Ci mancò poco che beccassi un cassonetto dell’immondizia, tanto che sbandai.
Le lanciai un’occhiataccia. «Ma ti sembrano domande da fare mentre uno guida!?»
«Vuoi rispondere?» insistette, incrociando le braccia, con un mezzo sorriso in faccia.
Scossi la testa con aria scontenta. «Ti sto influenzando davvero in modo pessimo. Stai prendendo tutte le mie più deplorevoli maniere.»
Aria rimase imperterrita a guardarmi. Avevo l’impressione che non avrebbe mollato tanto facilmente, come un cane con l’osso.
Sospirai, arrendendomi all’inevitabile. Tanto uno in più non avrebbe fatto tanta differenza.
«Non… non so come definirci. Abbiamo deciso di comune accordo di non appiopparci etichette, perciò… non dico che è il mio ragazzo, ma in un certo modo lo è.»
Aria strinse le labbra, annuendo. «E… com’è stare insieme a lui?»
«Stressante.» sbuffai e le lanciai un’occhiata alla quale mi rispose con un’alzata di sopracciglio. «Beh, è vero. Sono stata più stressata in quest’ultimo mese, che in tutti gli anni dietro a mio padre.»
«Ma dai! Non può essere così male. “Stressante” non è la parola che usano le ragazze per definirlo, da quello che ho sentito dire.»
Aggrottai la fronte, infastidita. «Da chi lo hai sentito dire?»
Lei scoppiò a ridere. «Dimmi tu se non sei verde dalla gelosia!» Scosse la testa, sorridendo. «Sei proprio cotta, non è vero?»
Ignorai ostinatamente il formicolio alle guance, chiaro segno che stavo arrossendo di brutto.
«Ammettilo, Sy. Ti farà sentire molto meglio.»
Rallentai l’auto, sospirando. «Non posso. Avrebbe troppo potere su di me, dopo.»
«Ma…»
«Adesso basta con questo terzo grado.» la interruppi, riprendendo ad accelerare. «Cos’è, stamattina ti sei svegliata con la voglia di fare da Cupido?»
Aria mi guardò con uno sguardo di sufficienza. «Siamo quasi arrivate. Questa è l’unica cosa che ti ha salvata dal resto dell’interrogatorio. Ma presto o tardi sarai di nuovo sotto la luce della mia lampada.» finì con aria cospiratoria.
«Certo, certo.»
Non potei però reprimere un senso d’apprensione.
 

   *    *    *

 
La mattinata passò velocemente, e arrivai all’orario di pranzo completamente rintronata, peggio di quella mattina. Mi era venuto il sospetto che avendo usato troppo i miei Talenti quel venerdì, gli ultimi due giorni ero rimasta senza energie, avendole già spese.
Ero esasperata perché, già per due volte, avevo avuto dei capogiri e per un soffio non ero caduta dalle scale.
Ora, a pranzo, non avevo neanche la forza di muovere un passo, perciò mi accasciai davanti al mio armadietto, esalando un sospiro.
Mi sembrava di essere tornata al giorno in cui ero stata Affiliata, nella fase della controindicazione. Mi massaggiai le tempie doloranti, imprecando i dieci modi diversi.
«Oh, finalmente ti ho trovata.»
Ecco, ci mancava solo lei.
Alzai lo sguardo il quanto che basta per scoccare a Gabby un’occhiata inceneritrice alla Red e poi richiudere gli occhi.
«Che cosa c’è, Gabby? Francamente, in questo momento, non mi va di sentire chiacchiere inutili.»
Sentii i suoi piedi pestare il pavimento, come una bambina capricciosa, per poi fermarsi a due spanne dalle mie ginocchia incrociate.
«Veramente, credo che dovrai sentirmi, visto che anche tu fai parte del gruppo per allestire la “Casa degli Orrori”.»
Mi diedi una manata in fronte. Me ne ero dimenticata. Ma questo non mi impedì di pensare che era l’unica strada per incappare in una vendetta. E pensare che dovevo ancora elaborarla.
«Dimmi, cosa dovrei fare?»
Un foglio di carta con su scritta una tabella e degli orari mi svolazzò davanti fino a posarsi sul pavimento.
«Questi sono gli orari. Vedi di essere puntuale.»
Devo dire che il suo tono mi diede molto fastidio? Con tutto il mal di testa, mi alzai i piedi, con tutto il contegno possibile, e la guardai.
«Non ho capito.» scandii lentamente, mentre la vidi deglutire. «Puoi ripetere gentilmente la tua richiesta? Perché era una richiesta, vero? Sai, io non posso soffrire gli ordini.»
Tenni un contatto fisso con i suoi occhi, costringendola a subire l’effetto dei miei fino a farglieli distogliere.
Si schiarì delicatamente la gola. «Sulla tabella ci sono gli orari. Potresti cercare di essere puntuale? Per favore?» aggiunse subito dopo.
Senza degnarla di altre attenzioni, raccolsi la tracolla e vi ficcai dentro il foglio, incurante di stropicciarlo. Voltai le spalle a quell’oca piena di sé come un tacchino al Ringraziamento e me ne andai.
Ci mancava soltanto quella “cara” visita, tanto per rallegrare ancora di più la giornata.
Uscii all’aperto, nel giardino sul retro, considerato che gli altri si sarebbero riuniti al tavolo nel prato anteriore. Conoscendomi, sapevo che mi sarei infastidita a vederli confabulare tra loro e non potermi avvicinare.
Mi sedetti su quella che oramai consideravo la mia panchina e tirai fuori dalla tracolla la busta di carta con i panini della signora Partecci.
Non era una giornata tanto soleggiata, il sole spariva e riappariva frequentemente dietro delle nuvole grigie che promettevano pioggia nei giorni avvenire.
Addentai il secondo panino, beandomi del suo sapore salato e aromatizzato al rosmarino, reprimendo la forte voglia di tornare dentro e fare lo scalpo a quella…
Mi costrinsi a tacere, dando un altro morso al panino.
Ma cosa si può essere così… superbi? Vanagloriosi? Odiosi?
Con le mie esperienze nelle altre scuole, avevo incontrato spesso persone come Gabby. In tutte le scuole c’è una gerarchia, le varie cerchie e tutto il resto. E poi c’era il gruppo di “Esclusivi”, quello che pensava a farti passare gli anni al liceo nel modo peggiore possibile. Beh, di sicuro Gabby entrava in quella categoria, insieme a Carly, aggiunsi mentalmente.
I miei sensi si attivarono come se si fosse acceso un interruttore. Senza dire una parola, presi un fagottino di paradiso dalla busta di carta e la allungai alle mie spalle.
«Vuoi?»
Il panino mi venne sfilato di mano.
Non parlavo con Red dal giorno prima. Ero molto arrabbiata con lui per avermi tenuto nascosto la sua conoscenza con mia madre e mi stavo ancora chiedendo perché la donna avesse preferito parlare con lui e non con me che ero sua figlia.
Red si sedette accanto a me. «Hai intenzione di tenermi il muso fino alla fine dell’anno?»
«No. Tre mesi non sono abbastanza.» Presi un respiro profondo. «Sai, in queste ultime ventiquattro ore mi sono ritrovata spesso ad essere invasa da sentimenti contrastanti… si potrebbe dire che io provi… gelosia verso di te… e fastidio. Chissà perché? Forse perché tu hai conosciuto mia madre prima di me? O forse perché lei non ha voluto parlare con me? Tu che dici?» Tirai un morso feroce al panino, strappandone quasi metà.
Lo sentii sospirare. «Non è stata una mia idea.» disse. «Se fosse dipeso da me, ti avrei detto che avevo conosciuto tua madre quel giorno, alla biblioteca. Ma lei mi ha pregato di non dirtelo… e non chiedermi perché. Non ne ho la più pallida idea.»
Sospirai anche io. «D’accordo, va bene. Accantoniamo questa storia. Ormai non possiamo più farci niente.»
Accartocciai il sacchetto dei panini e lo buttai nel cestino della spazzatura dietro alla mia spalla sinistra.
«Sai cosa mi è venuto in mente?» chiese lui, dopo un po’.
«No, cosa?»
Mi voltai verso Red… e sgranai gli occhi.
«Oh, mio Dio!» esclamai, inginocchiandomi sulla panchina e prendendo delicatamente il viso di Red tra le mani. «Ma che diamine hai fatto alla faccia!?»
Aveva il naso gonfio e un cerotto lo divideva in due, posto sopra un taglio sulla sella. Lo zigomo era rosso e viola, il labbro gonfio.
«Sembra che ti abbiano preso per sacco da boxe.» considerai soprappensiero, mentre sfioravo con attenzione le sue ferite.
Lo vidi alzare un sopracciglio. E mi resi conto di quello che avevo detto.
«Oh.» mi uscì fuori. «Beh, sapevo che boxavi, ma non credevo che prendessero te come sacco d’allenamento. Le altre volte non ti ho visto ridotto in questo stato. Che hai combinato?»
Sorpresa, lo vidi arrossire. «Ehm, ero… un po’ distratto.»
«Un po’? Sembra quasi che tu sia salito sul ring con un cartello appeso al collo con su scritto “bersaglio facile”. E come diamine facevi ad essere nella palestra se ieri era domenica?»
«Secondi te chi ha la copia delle chiavi?»
«E chi ti ha ridotto in questo stato?»
«Se te lo dico, cosa fai? Lo vai a prendere a pugni? Non credi che sia nelle tue capacità.»
«E se ti dicessi che lo fulminerei? Credi che questo rientri nelle mie capacità?»
Lui alzò le mani. «Touché
Con un sospiro, continuai a sfiorare i contorni del suo viso, perdendomi nella sensazione di poter toccare quando, come, dove volevo la sua pelle calda. Mi dava tremendamente fastidio che qualcuno avesse compromesso la sua bellezza, i lineamenti così ben definiti del suo viso. Però, avere la libertà di toccarlo era… inebriante.
Red sembrava ben disposto nel farsi toccare. Non emetteva suono, si limitava ad osservarmi di rimando con i suoi occhi dorati seminascosti dietro le palpebre socchiuse, passandomi delicatamente una mano lungo il fianco.
«Perché non ti sei fatto curare da Bastian?» gli chiesi, infilando una mano nei suoi capelli d’ebano, morbidi e setosi.
Red scrollò le spalle, scuotendo la testa.
«Perché?» insistessi, stringendo leggermente tra le mani alcune ciocche nere, costringendolo a guardarmi negli occhi.
Lui evitò il contatto visivo. «Volevo sapere quale sarebbe stata la tua reazione… al mio aspetto, dopo un incontro.»
Strinsi gli angoli della bocca, trattenendo un sorriso, a quella risposta. «E perché?»
«Volevo vedere se ti saresti proposta come Croce Rossina.» evitò la domanda.
Il tono noncurante, come se la risposta fosse stata scontata, mi fece scoppiare a ridere.
«Idiota!» scrollai la testa.
«E mi serviva un pretesto per farti parlare di nuovo con me.» svelò alla fine.
Sorrisi dolcemente a quell’uscita… così non da Red. «Perciò ti sei fatto pestare dai tuoi amici solo per attirare la mia attenzione?»
«Per la verità, no. L’idea mi è venuta questa mattina. Comunque, non era di questo che volevo parlarti.»
Mi accomodai tra le sue ginocchia, poggiando un braccio sul suo ginocchio alzato.
«Ah, no? E di cosa volevi parlare?»
«Dei tuoi svenimenti. Stanno iniziando a preoccuparmi. Li stai avendo troppo di frequente.»
«Non posso controllarli, quindi non so cosa risponderti. E poi,» aggiunsi. «Non dovresti non parlare con me? Sai, il divieto…»
«Ti è stato vietato di partecipare alle riunioni e di non riferirti quello che veniva detto. Non ho sentito niente riguardo allo scambio di opinioni tra singoli componenti.»
Il mio ghigno imitò il suo. «Il tuo modo di cavillare è assolutamente fantastico.»
«Imparato con l’esperienza. Ora,» aggiunse. «Pensiamo alle cose più importanti. Che cosa succede quando svieni?»
«Ehm…» mi uscì fuori, fregandomi la nuca con la mano. «Vedo… delle cose. Immagini fugaci a volte. Di recente, però stanno diventando qualcosa di più. Più che semplici figure, sono quasi degli spezzoni, proprio come è accaduto con le visioni.» riferii. «Prima fotogrammi, poi piccolo filmini di pochi secondi. Solo, le due cose non sono relazionate.»
«Mi sono accorto che ti capitano sempre quando c’è qualcosa che concerne tua madre.» rifletté lui. «Forse…» disse dopo qualche secondo. «Quegli svenimenti sono un modo per impedirti di vedere qualcosa che non dovresti.»
Aggrottai le sopracciglia. «Tu credi che sia una specie di… protezione? Ma perché?»
«Te l’ho detto. Forse c’è qualcosa che non devi vedere. Il problema è capire cosa.»
Già e avevo una vaga idea su cosa potesse essere. Ma per il momento era meglio accantonarlo, visto che non avevamo molti indizi e potevamo rischiare un buco nell’acqua.
Sospirando, gli diedi la schiena e mi appoggiai al suo torace caldo. Sentivo il suo cuore pulsante scandire la sua vita nel mio orecchio, rilassandomi, calmandomi.
Le sue braccia mi avvolsero il busto, intrecciando le dita sul mio stomaco. Ne presi una e sfiorai delicatamente le nocche escoriate.
«Ti sei dato proprio un bel da fare, non è così?»
«Rischi del mestiere.» ironizzò.
Ridacchiai.
Stare così, tra le sue braccia, mi faceva sentire bene. Un senso di pienezza, come un cubo di Rubik risolto. Sentivo a contatto, con la sua schiena, il suo torace che si alzava e abbassava al tempo del respiro, in sincrono con il mio.
Era sempre così, mi ritrovai a pensare. Ogni volta che ci trovavamo a contatto, il battito del cuore, il movimento del petto, il respiro compivano i medesimi movimenti, come se fossero un tutt’uno.
 Era bellissimo e terrificante insieme, perché significava che mi stavo legando a livello istintivo a lui.
Eppure non ci conoscevamo davvero, mi resi conto all’improvviso. Io e Red eravamo quasi estranei. Certo, ero venuta a conoscenza di aspetti importanti della sua vita, ma non tutti.
«Lillian.» mi ritrovai a dire.
Mi voltai verso di lui, che mi guardava interrogativamente. «Cosa?»
«È il mio secondo nome.» Sospirai una risata. «Non l’ho mai detto ad anima viva. Non so neanche io perché. Lillian sarebbe meglio come nome, mi risparmierebbe quelle occhiate che dicono “ma che diavolo di nome è Sylence?”.»
Ma perché cavolo stavo dicendo quelle cose? Che se ne fregava lui del mio secondo nome?
«Però, preferisco che le persone mi chiamino Sy, o Sylence, come fai tu. Preferisco questo nome all’altro.» Scossi la testa. «Lascia stare, dimentica tutto.»
Mi allontanai dal cerchio delle sue braccia e mi alzai in piedi. La sua mano calda mi afferrò gentilmente un polso.
«Visto che siamo in mena di confessioni… Red è il diminutivo del mio, di nome. Sai com’è quando danno la possibilità alle donne di scegliere il nome del bambino quando nasce, deve sempre averne uno altisonante, unico.» I suoi occhi dorati brillavano come oro puro. «Il mio nome completo è Fowred. E tu sei la prima che lo sente in diciotto anni.»
Deglutii il nugolo di emozioni che mi si era bloccato in gola. Un’altra piccola vittoria, un altro passo avanti. Un’altra parte di lui che usciva alla luce del sole.
Mi avvicinai a Red e lo abbracciai, affondando con il viso nella curva rassicurante del suo collo.
«Piacere di conoscerti, finalmente, Fowred Hawks.» gli sussurrai sulla pelle.
Le sue braccia mi avvolsero. «Piacere mio, Sylence Lillian Hill.»
 

*    *    *

 
Nel pomeriggio fu chiaro che la pioggia aveva deciso di fare visita alla città prima del previsto. Mentre percorrevo svogliatamente il corridoio vuoto, diretta all’aula di musica per il primo incontro con gli altri membri del gruppo che avrebbe organizzato la Casa degli Orrori, un lampo lo illuminò in un flash raccapricciante con conseguente tuono, che rimbombò nel cielo ricoperto di nuvole minacciose, facendo tremare i vetri delle finestre.
Borbottando degli improperi per non aver portato l’ombrello, svoltai l’angolo… e andai a sbattere.
Ma chi aveva messo un muro lì? Scuotendo la testa, misi a fuoco qualcosa di ben diverso da un muro di mattoni. Infatti mi si parò davanti un muro di muscoli, sottolineati da una maglietta moooolto attillata.
Indovinate di chi erano? No, non erano del mio… come chiamarlo?... ragazzo-senza-etichetta.
«Ehi, svampita, guarda dove vai.» grugnì Rafe, facendo un passo indietro.
«Oh, scusami, ammasso di muscoli ambulante, se non sono grossa quanto te, altrimenti, puoi star certo che non ti sarei venuta solo addosso.»
Alla fine di quel dolce scambio di battute ci sorridemmo.
«Dove stai andando?» mi chiese.
Gli sventolai sotto il naso il foglio che Gabby mi aveva dato. «Nell’aula di musica, che non riesco a trovare, anche se so che si trova da questa parte. Devo incontrarmi con il gruppo che organizza la Casa degli Orrori.»
«Condoglianze, allora, visto che dovrai passare un’ora della tua vista insieme a quella… non mi viene un termine politicamente corretto, ma non volgare per definirla… di Gabby.»
«Quindi accorcia la mia sofferenza e dimmi dov’è l’aula di musica.»
Rafe indicò alle sue spalle. «Quarta porta a sinistra.»
«Grazie. Ti prometto che alla prima festività ti regalerò un bell’oggetto griffato.»
Lui mi guardò, alzando un sopracciglio. «Sparisci, prima che decida che sei meglio tu da prendere a pugni di un sacco da boxe.»
Gli feci un sorriso a trentadue denti e mi avviai.
«Oh, quasi dimenticavo.» lo fermai prima che sparisse. «Dì agli altri che si tengano liberi per Halloween. Ho intenzione di fare un bel “dolcetto o scherzetto” molto speciale.»
Se fossi stata in un fumetto, intorno a me si sarebbe alzata una foschia sinistra e la mia ombra avrebbe riso perfidamente.
Dopo che ebbe annuito mi defilai. Arrivata davanti all’aula di musica, sentii un parlottio di voci all’interno che non preannunciava niente di buono. Sentivo lo squittio snervante di Gabby che perforava i timpani a chiunque fosse dentro.
«Non mi importa un accidente di quello che dice. Noi faremo a modo nostro.»
«Gabby, non puoi pretendere che la roba passi inosservata, soprattutto ora che quel rompipalle del preside insiste per controllare nei nostri zaini e noi nostri armadietti ogni volta che si organizza qualcosa a scuola.»
«Oh, ma non saremo noi a portarla all’interno. Lo faranno altri per noi. Non adesso, Josh, ti dirò tutto più tardi.» proruppe Gabby.
«Ma… se ci scoprono?» chiese quello che, ipotizzai, fosse Josh Harber.
«Non lo scopriranno. Fidati di me.»
Mi sembrarono parole pronunciate dal diavolo in persona. Fidarsi di quella vipera malefica? Qui c’era sotto qualcosa. Sentivo puzza di trasgressione talmente forte da uguagliare il tanfo di una fogna.
Non chiedete, fidatevi e basta.
Quella festa di Halloween si prospettava più inquietante del solito.
 

*     *     *

 
Finalmente dopo due ore di disposizioni, ordini e una lista lunga un metro di cose da comprare per la festa, raccolsi la mia tracolla e mi avviai verso l’uscita.
«Sy.» mi sentii chiamare.
Repressi la voglia di mandare a quel paese la ragazza. «Cosa, Gabby?»
«Potresti controllare se al negozio di Beeler ci sono anche degli enormi pupazzi, tipo un orsacchiotto sgozzato, o meglio ancora un bel pipistrello?» mi chiese con voce da diabete.
«Certo. Tanto mi ci trovo.»
«Bene. Allora ci incontriamo dopo domani alla stessa ora, come scritto sui vostro orari. Ciao, ciao.» Sventolò una mano per salutare.
Brontolando tra me, uscii fuori dall’aula.
«Ehi, Bimba Morta, dove te ne vai?»
Già a sentire quel soprannome ridicolo mi stizzii, figuratevi sapere che me lo aveva affibbiato uno dei responsabili della tentata aggressione ai danni di Kima.
«Che cosa diavolo vuoi, Harber?» gli chiesi, con tutto lo sgarbo che avevo.
Mi girai a scoccagli un’occhiata seccata. Josh Harber era quello che si poteva definire un armadio con arti. Alto, capelli castani, occhi bruni, fisico da lottatore di sumo in forma, però. Sembrava sprizzare arroganza, disprezzo, superiorità, cattiveria da tutti i pori. Portava una ridicola cresta da moicano, né corta né lunga, che faceva spiccare i suoi lineamenti e una piccola cicatrice che gli solcava la parte destra del cranio.
«Ehi, calmati, Bimba Morta. Volevo solo conversare tranquillamente.»
Sì, e io sono la First Lady. «Che cosa volevi?»
«Sapere dove te ne stai andando?»
«Non sarebbero affari tuoi, ma tanto… me ne vado a casa, a studiare… sai aprire quei cosi pieni di fogli dove si possono trovare informazioni essenziali per gli esami che dovrai dare a fine anno.»
«Senti, ragazzina, se non vuoi finire male, vedi di abbassare la cresta.»
Mi lasciai pervadere dalla rabbia, sia per l’ordine sia per quello che avevano fatti a Kima.
Gli andai sotto a muso duro, in barba ai più di dieci centimetri che ci separavano.
«E se tu non vuoi fini all’ospedale, ti conviene rivedere i tuoi piani per Halloween. Ti avvero: azzardati a fare qualcosa di spiacevole o pericoloso, e giuro che ti ridurrò ad un ammasso di carne fumante.»
Un rombo di tuono risuonò nel cielo e potete star certi che non era per la pioggia.
Mi girai e me ne andai.
 

*    *    *

 
Meanwhile…
 
Rosarianna O’Sheha POV

 
Dopo aver ricevuto un messaggio da Sy che le diceva che non sarebbe tornata a casa prima delle cinque, Aria si caricò la tracolla in spalla e si avviò verso casa.
Quella giornata era stata estremamente spossante. Non era passato un solo minuto senza che chiunque incontrasse non la fissasse negli occhi, o parlottasse alle sue spalle, o non girasse a largo da lei.
La scenata che era avvenuta nel cortile della scuola con Carly non aveva giocato a suo favore, riducendola non solo ad essere un emarginata peggio di prima, ma essere anche considerata una specie di bomba ad orologeria, in procinto di scoppiare se per caso le dicevi qualcosa.
Aria si sentiva depressa. L’unica cosa che riusciva a tirarla su era quella piccola peste di un gatto che viveva nel giardino di casa Hill. Happy le era stato di grande aiuto, distraendola da pensieri così cupi da oscurare la sua stanza come una foschia tetra.
Nei giorni dopo essersene andata di casa, i suoi genitori non si erano fatti né sentire né vedere, neanche a pagarli. Per una parte Aria ne era sollevata, perché se li avesse incontrati e loro avrebbero fatto finta di non conoscerla, l’avrebbe distrutta. D’altro canto, erano i suoi genitori, per la miseria, coloro i quali l’avevano generata, le avevano dati la vita! Era profondamente arrabbiata verso loro, verso sé stessa, verso il mondo intero, o un qualunque Dio fosse lassù a vederla sprofondare sempre do più nella disperazione.
Se quello che le stava capitando era stati deciso da Dio, allora si vedeva che il Signore non la vedeva di buon occhio.
Perché? Chi lo sapeva.
Scrollò la testa, dandosi un paio di schiaffetti sulle guance. Doveva smetterla con quei pensieri, altrimenti avrebbe trovato il più vicino albero adatto e si sarebbe impiccata. Melodrammatica? E chi se ne fregava!
D’un tratto, non voleva più tornare a casa. Se fosse tornata, si sarebbe chiusa nella sua stanza e non si sarebbe più mossa da lì.
Decise che sarebbe andata da qualche altra parte, un posto dove poter stare da sola, ma in pace e tranquillità, dove non avrebbe pensato al male che le era stato fatto.
Perciò, si ritrovò a percorrere la strada che portava al Holy Safe Lansing Graveyard.
Doveva avere qualcosa che non andava, se pensava che un cimitero fosse un luogo in cui fermarsi a pensare positivo. Però, c’era sempre l’aspetto spirituale che quel posto presentava. Le persone che vi erano sepolte avevano trovato la pace, erano finalmente libere da ogni problema, da ogni orribile destino, perché ormai il loro si era compiuto ed era terminato.
Era alquanto filosofico, ma le piaceva questo aspetto della vita. La nascita segnava l’inizio del tuo cammino; nel corso della vita compivi delle scelte che ti portavano inesorabilmente a compiere il bene o il male, davi qualcosa agli altri; poteva capitare che cambiassi il destino di qualcun altro; se eri fortunato davi alla generazione successiva gli insegnamenti che avevi appreso nella tua vita e poi, al compito terminato, lasciavi questo mondo, tornando in grembo alla Madre Terra.
Aria credeva che la nascita di un nuovo bambino corrispondeva alla morte di un'altra persona che nella sua vita, prima della morte, non era stata capace di portare a termine il suo compito, che aveva fatto le scelte sbagliate e che nella nuova vita, la nascita di un nuovo bambino appunto, aveva la possibilità di espirare i suoi peccati, per così dire, aveva una seconda chance di influire positivamente sulle persone che avrebbe conosciuto.
Arrivata al cancello di ferro battuto del cimitero, si accorse che una delle ante era socchiusa.
Il pensiero fugace che il ragazzo che aveva incontrato la volta precedente fosse di nuovo lì le attraversò la mente, ma lo scacciò subito: non aveva alcuna voglia di ritrovarsi quegli occhi bicolori davanti, intenta a scrutarla nei recessi più reconditi della sua anima.
Oltrepassò la soglia del cancello immettendosi nel viale principale. Questa volta scelse la diramazione di San Cristoforo.
Le nuvole minacciose che oscuravano il cielo promettevano pioggia, ma Aria non se ne preoccupava: sarebbe uscita dal cimitero prima che cadesse la prima goccia.
Camminando con il naso all’aria, non vide la pietra che ostacolava il passaggio e il suo piede ci andò a sbattere contro, proiettandola in avanti. I riflessi le permisero si salvarsi la faccia, proteggendola con le braccia, mentre cadeva a terra.
Imprecando fortemente, incurante di essere in un luogo consacrato, si turò su. Le braccia protestarono nello sforzo di sollevare il busto da terra.
Bene, la giornata non faceva che andare di bene in meglio! Gli occhi le pizzicarono dalla voglia di piangere, ma cavolo, non lo avrebbe fatto! In quel periodo non stava facendo altro che piangersi addosso, ed era arrivata al limite.
Niente più lacrime, niente più piagnistei!, si ripromise.
Contorse cautamente la caviglia per vedere se aveva una distorsione, ma a parte una piccola fitta, non le fece più male di tanto. Si tirò su le maniche della felpa e si guardò gli avambracci: erano arrossati per la caduta ed erano indolenziti, ma non c’erano escoriazioni o ferite sanguinanti.
Almeno questo!
Come se non bastasse, si mise a piovere.
Non avendo neanche la forza di alzarsi, si lasciò cadere all’indietro, sdraiandosi in mezzo al sentiero. La pioggia si faceva via via più forte, ma Aria non ci badò.
I suoi vestiti si inzupparono come delle spugne e i capelli diventarono delle alghe rosse intorno alla faccia.
Sembrava che ogni cosa dentro di lei, ogni muscolo, ogni grammo di energia, ogni emozione, si fosse spenta, avesse perso vitalità, diventando… niente.
Si sentiva niente.
Ironicamente, pensò che se fosse morta era già nel posto giusto. Si misi a ridere, una risata per niente gioviale.
«Hai, dunque, deciso di morire?»
Quella voce bassa, conosciuta, stranamente, non l fece trasalire, come avrebbe dovuto. Era come se, qualcosa dentro di lei, sapesse già che fosse apparso.
Aria batté le palpebre, mentre la pioggia le tempestava le ciglia di gocce.
«Perché? A te importa qualcosa?» gli chiese.
«E a te?» ribatté lui.
Gli occhi di Aria vagarono intorno a lei, per poi fermasi su di lui, proprio sopra di lei. Quegli occhi bicolori la fissavano intensamente, scrutandole dentro, scovando i suoi segreti.
«Non più di tanto.» gli rispose.
«Solo perché la vita ti ha dato delusioni, tu ti fermi? La fai finita?» Emise un verso di sdegno. «Allora non sei per niente una combattiva, come credevo.»
Aria aggrottò le sopracciglia. «Tu cosa ne vuoi sapere di come sono io? E come ti permetti di giudicarmi come se mi conoscessi da sempre? E poi, chi diavolo sei?» aggiunse, in una botta di rabbia.
In qualche modo, forse per l’astio che le aveva suscitato, o il fastidio, l’imbarazzo che di solito la coglieva nel confrontarsi con un ragazzo – come la volta precedente, poi – l’aveva abbandonata.
Meglio.
«Non ha importanza chi sono io, ma chi sei tu.» le rispose enigmatico lui.
Aria si tirò su a sedere, passandosi le mani sul viso per detergerlo dall’acqua.
«Perché, ogni volta che vengo qui, incontro te?» chiese ancora Aria. «Chi sei?»
L’altro non le rispose. I suoi occhi bicolori si alzarono al cielo piangente, chiudendo le palpebre, lasciando che le gocce d’acqua gli bagnassero il viso.
Guardandolo con attenzione, Aria si accorse che era vestito come la volta precedente: stessi vestiti neri, stesso zuccotto in testa. Niente in lui era cambiato.
«Come ti chiami?» gli chiese.
Il ragazzo aprì lentamente gli occhi e li spostò su di lei. Minuscoli brividi le corsero sulla pelle e non erano dettati dalla pioggia. Quegli occhi magnetici aveva la capacità di provocarle le più insolite sensazioni.
Mentre la guardava, le parve che il mondo intorno a loro scomparisse, i suoni si attutirono come dietro un muro di ovatta, il cimitero che faceva loro sfondo venne ricoperto da una nebbiolina che dava una parvenza di intimità, come se ci fossero solo loro due e nient’altro.
Poi il ragazzo interruppe quell’idillio dicendo: «Faresti meglio a tornare a casa, se non vuoi buscarti un raffreddore con i fiocchi.»
La si poteva scambiare per una premura, ma dal tono in cui disse quella frase si intuiva che volesse semplicemente sbarazzarsi di lei.
Indispettita, Aria si alzò in piedi e strinse le mani lungo i fianchi.
«Va bene, mister lasciatemi-solo, me ne vado. Voglio solo sapere una cosa, prima di lasciarti tutta la libertà che vuoi… qual è il tuo nome?»
Il ragazzo rimase a fissarla, senza rispondere.
Sentendosi in qualche modo delusa da quella mancanza di risposa, Aria si schiarì la voce e disse: «D’accordo. Ehm… probabilmente non ci rivedremo un’altra volta, perciò… addio.»
Togliendosi dalla fronte una ciocca di capelli rosso fuoco, Aria girò le spalle al ragazzo e si avviò verso l’uscita.
Si sentiva ancora più depressa di prima. Inspiegabilmente, avrebbe voluto instaurare un qualche tipo di legame con quel ragazzo sconosciuto, sapere di più su di lui, il motivo per cui veniva in quel cimitero. Forse per coincidenza o per fato, Aria non lo sapeva, ogni volta che varcava la soglia di quel luogo consacrato, si ritrovava a sprofondare dentro quegli occhi eterocromatici.
Aggrottando la fronte, si fermò e si voltò a guardare alle sue spalle.
Lui era ancora là, ad osservare il cielo con uno sguardo così nostalgico da farle stringere il cuore.
«Perché mi hai detto quella frase, l’altra volta?» si ritrovò a chiedere.
Gli occhi azzurro-neri saettarono su di lei, come se non si aspettasse di trovarla ancora lì.
«Che cosa intendevi?» instette la ragazza.
Se non avesse risposto, gli avrebbe dato un pugno, decise. Aria non era un tipo manesco, né avrebbe mai voluto far del male fisicamente al prossimo, ma quel tipo le accendeva dentro una rabbia che la faceva agire nei modi più strani, così non da lei.
«Certi desideri, a volte, posso portare alle conseguenze più… inaspettate.»
Quella frase strana, più l’intonazione le suggerirono che quelle “conseguenze inaspettate” non fossero delle più positive.
Lampo li accecò per un momento, e il rombo che lo seguì furono un chiaro monito per Aria, che ormai era completamente fradicia, di ritornare a casa.
Alzando esitante una mano a mo’ di saluto, disse un titubante «ciao» al ragazzo e si affrettò ad andarsene.
Un altro lampo e un altro rombo riempirono l’aria e in quel frangente, poco prima che il rombo risuonasse nell’aria, quando si sente lo sfrigolio di energia che lo precede, ad Aria parve udire un nome, ma tuono le scoppiò nei timpani troppo forte per poterne essere sicura.
E mentre correva lungo la diramazione del cimitero, gettò frettolosamente un’occhiata alle sue spalle.
Lui era sparito…
… ma il suo nome, se lo aveva sentito davvero, le risuonava ancora in testa.
Constantine.
 

*     *     *

 
 Jackason Kingstone’s POV
 
 
La pioggia torrenziale batteva insistentemente contro le porte a vetro del salone della villa e i tuoni le facevano tremare. Rimescolando con un continuo ruotare del polso il contenuto del bicchiere, Jake rimuginava.
Su tutto e nulla di preciso. I suoi pensieri oscillavano dal Cerchio, alla scuola, alle questioni sentimentali, al semplice decidere quello che doveva mangiare quella sera.
Suo padre era di nuovo costretto a rimanere in ufficio in città fino a tardi, perciò quella sera non sarebbe ritornato, ma avrebbe dormito nella stanza che aveva preparato appositamente in quelle occasioni, alla centrale.
Nel giro di due mesi la sua vita tranquilla, per così dire, era stata rivoltata come un calzino. Con l’arrivo di Sylence Hill, quel poco di controllo che aveva esercitato su tutto quello che aveva intorno, stava via via assottigliandosi.
E questo a Jake non piaceva per niente.
Lui era per natura un tipo posato, logico, che ponderava ogni scelta e possibile sviluppo prima di agire.
Ma dopo la comparsa di Sy Hill, non sapeva più quello che lo aspettava.
Sospirando, si andò a sedere sulla poltrona rivestita di pelle bianca alle sue spalle e posò il bicchiere intonso su tavolino davanti a lui. Nel sedersi fece una smorfia. La gamba gli dava ancora qualche fitta, anche se solo leggermente e solo quando la forzava troppo. Bastian gli aveva assicurato che l’osso era apposto, lo aveva saldato perfettamente, e che il fastidio sarebbe passato nel giro di pochi giorni.
Jake era abbastanza paziente, perciò non si diete più grattacapi di quelli che già aveva.
La situazione con il Cerchio si stava facendo troppo seria. Loro non erano addestrati a combattere, facevano di tutto per mantenere segreta la loro presenza, i loro Talenti, la loro vera natura.
Ma se gli attacchi fossero continuati – e un sesto senso gli diceva di sì – non aveva la minima idea di come avrebbero potuto fare a contrastarli.
La prima volta ce l’avevano fatta per un pelo, e solo perché il loro avversario aveva sottovalutato le loro capacità, ma non avrebbero più avuto l’elemento sorpresa dalla loro la volta successiva. E questo lo preoccupava.
Un altro lampo squarciò il cielo. Si direbbe che è una vera e propria tempesta, non tanto insolita, ma molto violenta per questo periodo, si ritrovò a pensare.
Che fosse colpa di Sy? Forse le era capitato qualcosa e quella era il riflesso delle sue emozioni.
Preoccupato per quell’ipotesi, prese l’iPhone dalla tasca dei jeans e la chiamò.
Rispose al terzo squillo.
«Pronto?»
«Sy, sono Jake. Stai bene?»
Qualche secondo di silenzio. «Sì… perché?»
Jake si ritrovò a disagio. «Ehm… niente. Solo… ho visto la tempesta e… mi è venuto in mente che forse…»
«Ne fossi io la causa?» concluse lei, un sorriso nella voce. «No, non preoccuparti. Non è merito mio. Credimi, se avessi avuto intenzione di provocare questo violento temporale, mi sarei munita di ombrello, invece di farmi una doccia per arrivare all’auto.»
Jake ridacchiò. «Già… ascolta, volevo chiederti una cosa… non per farmi i fatti tuoi, certo, ma per puro spirito fraterno, se vogliamo metterla così… come va con Red?»
«Tu e Aria dovreste stringervi la mano.» la sentì borbottare.
«Cosa?»
«Lascia perdere. Comunque, con Red… è okay. Voglio dire, stiamo bene. Oggi abbiamo parlato, diciamo che ci siamo chiariti e… ci siamo conosciuti un po’ di più.» La ragazza sospirò. «A dirti la verità, mi sento come in un enorme frullatore, sbattuta a destra e a manca insieme ad un mare di emozioni indistinte. Però mi sento viva… capisco cosa intendo? Fino ad ora non ho mai vissuto una cosa del genere, e non parlo solo di Red e di quello che ci lega, ma anche di voi, del Cerchio. Siete come una seconda famiglia, stare con voi mi da una sensazione di appartenenza che non ho mai provato con nessun altro gruppo, nelle vecchie scuole. E non solo perché siamo speciali… mi fate sentire viva, come se stessi vivendo davvero solo da quando vi ho conosciuto.» Sy rise leggermente. «Scusa, ti sto inondando di chiacchiere non richieste.»
Jake si affrettò a rassicurarla. «Non preoccuparti. Sono felice di questo tuo apprezzamento, mi ha fatto capire che ci tieni davvero a noi, che non stai prendendo questa cosa come un gioco.»
«Mi prendi in giro? Quello di venerdì non è stato per niente un gioco, credimi.» affermò lei, seria.
«A proposito di quello… volevo dirti che sei stata estremamente brava, molto meglio di come avrei fatti io. No, è vero.» disse, interrompendo sul nascere le sue proteste. «Ti sei comportata proprio come un capo deve fare, con nervi saldi e sangue freddo. Sei stata capace di ideare un piano che ci ha permesso di tornare a casa vivi… hai salvato la vita di tutti noi, specialmente quella di Red.»
«Siete stati anche voi a salvarlo, vi siete salvati da soli. Non avrei potuto farcela se non ci fosse stati anche voi.»
Rimasero qualche istante in silenzio. Non c’era imbarazzo, ma solo un sottile legame che legava entrambi a quel fatidico giorno e all’idea che erano ancora interi, sani e salvi nelle loro case.
«Dimmi una cosa, Jake.» disse Sy. «Che cosa c’è tra te e Annika?»
Quel cambiamento di argomento così repentino lo disoriento e finì per dire più di quanto avrebbe voluto.
«Purtroppo niente.» gli uscì.
«Purtroppo, eh?» se la ridacchiò lei. «Perché non ti fai avanti? Ho visto come ti guarda e come tu guardi lei.» asserì Sy, spegnendo le sue proteste sul nascere. «Il suo viso si illumina quando ci sei tu in circolazione, e le sue guance diventano rosse quando parli con lei… e tu non sei da meno. Puoi nasconderlo dietro la tua autorità e l’aura di comando che ti circonda, ma non puoi nasconderlo all’occhio di un’altra donna in… che ha quel tipo di legame.»
Momentaneamente stordito da quelle asserzioni, Jake si chiese se quello che stava per dire fosse “donna innamorata”.
«Ehm… tutto questo a cosa dovrebbe portare?» chiese poi Jake.
«Porta al fatto che devi farti avanti e chiederle di uscire!» esclamò lei, come se fosse ovvio.
Jake scosse la testa, anche se Sy non poteva vederlo. «Sy, io…»
«Non buttare scuse.» lo sgridò lei. Se la immaginò che gli puntava un dito contro.
«Non è il momento adatto, non con tutto quello che sta succedendo.» protestò lui.
Sy sospirò nuovamente. «Almeno sei onesto con te stesso e con me e ammetti che Annika ti piace.» considerò. «Un bel passo avanti.»
«Perché non dovrei? È la verità, per quanto debba tenermela per me, ancora per un po’.»
«Ah, gli uomini.» sospirò Sy. «Tutti dei casi senza speranza.»
Il ragazzo si accigliò a quell’uscita. «Con questo che vorresti dire?»
«Niente, niente. Non farci caso. Ci vediamo domani, Jake.»
Dopo averla salutata, Jake posò il telefono sul tavolino e prese il bicchiere, bevendone quasi tutto il contenuto in un sorso.
Si sarebbe fatto un bel panino per cena
 
 

*                *                 *

 
 
Juliet327: Grazie per la tua recensione. Ecco la risposta alla tua domanda: no, il leader è e rimani sempre Jake. Quella frase indica un’altra cosa, che verrà poi svelata in seguito.
Felice di averti letto,
Baci,
 
Sy Hill
 
 
Dills Nightmare: Eccomi Dills, fecile di risentirti. Sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo e spero che ti piaccia anche questo. Non è tanto, ma qualcosa. Quello di Jake è stato solo un bluff, come hai potuto capire, solo una scusa per far venire la tremarella a Sy. XD! I casini scoppieranno tra breve, non preoccuparti, quello appena trascorso non è niente.
Baci,
 
Sy Hill
 
P.S.: mi stavo chiedendo: che anime è quello nella tua foto?? Grazie!
 
 
5HuNtEr5
: Ciao Hunt, sono contenta di risentirti, e di poter leggere ancora uno dei tuoi temi che mi fanno sempre scendere la lacrimuccia dalla gioia. La sfilza di complimenti che mi rifili mi fa diventare rossa peggio che dopo aver mangiato un chilo di peperoncini piccanti! XD. Comunque, bando alle ciance, cerco sempre di fare in modo di dare spazio a tutti i miei personaggi, non mi piace mettere in luce solo due o tre e lasciare gli altri ad ammuffire in un angolo. Poi, le risposte che vengono date alla fine dello scorso capitolo sono solo una parte di quelle che ancora devono essere poste, e niente è mai come sembra. Per quanto riguarda i noi, ti ho già risposto nella mail, ma ribadisco, ho cercato di dare loro dei nomi che rispecchino le loro personalità o le loro caratteristiche e non è ancora finita. Quella dei nomi è un particolare molto importate e più avanti capirai perché.
Spero che mi farai partecipe anche della tua opinione riguardo questo capitolo.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
Manu_effe: Grazie per la tua recensione, Manu. Ho cercato delle persone che presentassero le stesse caratteristiche fisiche dei personaggi descritti, quindi le immagini solo diciamo delle approssimazioni di come dovrebbero essere.
Fammi sapere cosa ne pensi anche di questo capitolo.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
Faythe: Ciao, Faythe, anche per me è un piacere poter leggere la tua recensione e prendo come un complimento la parte riguardo al film. Ti dirò, la Regina Bianca è più un surrogato di quella vera, possiamo dire che è come un robot nel quale hanno caricato delle informazioni. Ma ogni tanto, tramite wireless va’, la vera Regina si collega hai ragazzi. E di dirò un'altra cosa (spoiler): quando viene “attivata” la statua, la regina vera si collega immediatamente entrando in contatto, solo ha il poter di poter comunicare tramite la statua o lasciare che quest’ultima agisca da sola. Proprio come un robot telecomandato.
Per quanto riguarda Chris, beh, ce ne saranno di sorprese, posso garantirtelo.
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensi sia del capitolo di quello scritto qui sopra.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
 
Agapanto Blu / Lady Catherine: è un piacere poter leggere la tua recensione, non importa se in ritardo o se è corto, mi bastano anche due righe, giusto per sapere se ti è piaciuto quello che ho scritto.
Riguardo a Chris: sì, quella parte riguarda il suo essere gay, poiché gli altri non lo sanno, non viene compreso appieno, ma comunque serve come base per la sua promessa. Eh, no, Red proprio non riesce a tenere segreto questo a Sy, ma ci sono anche altre cose che non le dice…
Sì, Rafe è proprio puccioso, soprattutto in questo capitolo, vero! XD.
Ho controllato questo capitolo tre volte, quindi sono sicura che non ci siano errori gravi, ma se dovessi trovarli fammelo sapere.
A presto, baci
 
 
Sy Hill
 
 
Idril Leralonde: è un piacere fare la tua conoscenza. Grazie per la recensione e sono felice che tu l’abbia notata. Ti ringrazio per i complimenti, troppo buona. Anche a me piace Sy – ovvio, l’ho creata io XD – ed è pure ovvio che anche il mio unico neurone funzionante dia i numeri quando di parla di Red.
Spero che mi farai sapere cosa ne pensi anche di questo capitolo.
Baci,
 
Sy Hill
 
 
 
The_Black_Fire: Felice di fare – finalmente devo dire – la tua conoscenza. Sono contenta che tu l’avvia scelta tra le mille altre belle come, se non più, della mia. Faccio sempre del mio meglio, do il cento per cento per scrivere questa storia perché, in qualche modo, ogni volta che finisco un capitolo, mi sento più leggera, come un puzzle che si completa pezzo dopo pezzo, capitolo dopo capitolo.
Spero di averti stupito anche con questo nuovo capitolo.
Fammi sapere la tua opinione, ci conto.
Baci
 
 
Sy Hill
 
 
 
Sonreir: Benvenuta nel mondi di EFP, allora! Sono felice che tu abbia scelto proprio la mia storia da recensire. Sapere che la mia Storia sia riuscita a colpirti mi riempie di gioia. E non preoccuparti, non sei l’unica che ha pensierini su Chris! XD
A mano a mano, verrà tutto svelato e tutti i misteri si risolveranno. Anche quello legato al padre di Red.
Continua a farmi sapere cosa pensi di questo e degli altri capitoli che scriverò in futuro.
Baci,
 
Sy Hill

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Capitolo 33
*** Serate Interessanti ***



Sy Hill: Eccomi a voi gente, dopo un periodo sabatico (mancanza d'ispirazione). Ma non preoccupatevi, non vi lascio mai in sospeso e sarò sempre qui, pronta a farvi contenti e concedervi un nuovo capitolo della mia storia.
Come sempre, voglio ringraziare i recensori dello scorso capitolo: 5HuNtEr5, Dills Nightmare, The_Black_Fire. Grazie trante per le vostre splendide recensioni.
Non perdo tempo e vi lascio al capitolo.
Baci,

Sy Hill

* * *

Capitolo 33

Serate Interessanti

Meno tre giorni all’apertura della Casa degli Orrori, e anche a quello della mia vendetta. Avrei fatto rimpiangere Gabby di essere nata. Il piano mi si era delineato in testa dopo averci pensato un po’ su. Le avrei fatto venire i capelli bianchi dallo spavento.
Percorrendo la strada per tornare a casa, buttai un’occhiata al cielo, pregando che non piovesse come il giorno precedente, perché come al solito avevo dimenticato l’ombrello.
Svoltato l’angolo, mi fermai di botto, trovandomi davanti la targa dell’auto di Red. Fece una paio di passi laterali, in stile granchio, e piegai la testa verso il bordo del cofano posteriore. Incontrai i suoi occhi dorati riflessi nello specchietto retrovisore.
«Sali?»
Voi cosa avreste fatto?
Salii.
«Che ci fai da queste parti?» gli chiesi, sprofondando dentro il sedile di pelle morbido. «Casa tua non è nella direzione opposta?»
«Che c’è? Non sei felice di vedermi?»
Ma stiamo scherzando? A chi non farebbe piacere vedere un marcantonio come lui, così bello come la luce del sole e l’oscurità delle tenebre, con fasci di muscoli scattanti ricoperti di denim e cotone, e per di più, che ti viene dietro?
«Non ho detto questo. Ma, visto che non vedo alcun pallone da basket, ho presunto che non fossi qui per giocare nel campo.» conclusi, facendo un cenno con la testa in direzione del campo da basket alle mie spalle. «Quindi…» lasciai in sospeso.
Mi guardò con vari espressioni, dall’infastidito al divertito, ma una luce negli occhi smentiva entrambi: erano colmi di istinti omicidi.
«Mi hai fatto passare il genio di farti delle improvvisate.»
«Oh, no, ti prego! Continua a farmele. Le trovo estremamente divertenti.»
Socchiuse gli occhi, diventati taglienti come lame dorate. «Non voleva essere divertente.»
«Oh.» dissi. Mi stavo davvero divertendo, anche se un brivido di anticipazione mi aveva percorso la schiena. «E come voleva essere?»
In un gesto fulmineo, avvolse una mano dietro la mia nuca e mi attirò contro di sé, fino a trovarci naso contro naso. Trovandomi in quella posizione, non resistetti alla tentazione di giocare con lui, fregando la punta del mio naso contro il suo.
In un istante, la sua espressione divenne così tenera da dolermi a cuore.
Catturai, con la coda dell’occhio, un movimento fuori campo visivo.
Mi sentii ardere dalla vergogna quando mi accorsi che dall’altra parte del marciapiede, a fissarci con un’espressione imperscrutabile, c’era mio padre!
«Oh, oh.» mormorai.
Red aggrottò le sopracciglia. «Cosa?»
Feci una piccola smorfia, staccandomi un po’ da lui. «Okay… non voglio allarmati, ma… mio padre ci sta guardando dall’altra parte della strada. No, non guardare!» lo fermai, mente si girava.
Sospirai. Avrei avuto molte cose da spiegare, non per ultimo perché mi ritrovavo nella macchina di Red a comportarci come due piccioncini.
Sbuffai stizzita. Non avevo programmato che mio padre incontrasse il mio ragazzo-senza-etichetta, non ancora almeno, non ora che la situazione si stava stabilizzando e la confusione era quasi sparita.
Rassegnandomi al destino, guardai Red con un sorriso di scuse.
«Mi dispiace, non volevo metterti in questa situazione.»
«Quale situazione?» Scrollò le spalle. «Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno. Anzi, forse è mia. Se non mi fossi fermato…»
«Ehi, non dirlo neanche per scherzo!» lo rimproverai. «Mi piacciono queste improvvisate. Mi piace che tu venga a cercarmi… almeno, ho la sicurezza che io ti manchi come tu manchi a me.»
Ormai ero come un astice bollito, cioè completamente rossa. Non ero tipo da smancerie, ma a quanto pareva, Red riusciva a tirare fuori la ragazza da romanzi rosa che avevo dentro.
«Ehi.» mi richiamò all’ordine Red, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Siamo usciti indenni da uno scontro con Reìrag… non sarà più difficile che affrontare tuo padre.»
Non la pensavo allo stesso modo, ma evitai di controbattere.
Mi rimisi a sedere e sospirai. «Forza, prima che cambi idea.» dissi.
«Andiamo ad affrontare il drago.» scherzò lui, rimettendo in modo.
Giunsi le mani sulla guancia, piegando la testa e facendo l’espressione più smielata che potei.
«E salvare la damigella in pericolo?»
Mi lanciò un’occhiata alla mi-prendi-per-scemo?. «No, per salvarmi la pellaccia.»
Scoppiammo a ridere. «Ma che razza di cavaliere sei!?» lo sgridai.
«Uno che tiene al proprio fondoschiena.»
La preoccupazione era sparita e tutto per merito suo. Mi sporsi per dargli un bacio sulla guancia e sussurrai un «grazie».
Mi piaceva questo suo inaspettato lato comico.
Nel giro di qualche minuto eravamo arrivati al vialetto di casa. Red spense l’auto.
«Sei sicuro?» gli chiesi ancora. «Avevamo deciso che non avremmo avuto etichette e questo…»
«Sylence.»
Detto con quel tono, il mio nome era un chiaro monito a fare silenzio. Scese dall’auto e venne dalla mia parte. Aprì il mio sportello e mi guardò.
«Anche se non abbiamo etichette, è chiaro come il sole che… non "stiamo insieme", perché è troppo infantile, troppo riduttivo. Quello che mi lega a te è più di questo… e sono sicuro che vale anche per te.»
Inutile negare. «È così, ma…»
«Che cosa ti fa paura?» mi sussurrò, guardandomi intensamente.
Ricambia il suo sguardo e decisi che avrei giocato a carte scoperte.
«Il fatto di non essere sicura di poter uscire indenne da questa storia. Il timore che alla fine dei giochi, io mi ritrovi… a pezzi.»
Le mani di Red mi avvolsero le guance, inondandomi del loro calore. «Chi dice che ne usciremo?»
«Red…»
«Ascoltami. Non è sicuro che tu te ne vada. Qui è dove sono le tue radici, l’inizio di tutto. Non puoi abbandonare questo posto così. Non fasciarti la testa prima di essertela rotta.»
Aveva ragione, lo sapevo. Razionalmente, però avevo la certezza che lo avrei lasciato, presto o tardi. E quando sarebbe accaduto il mio cuore, la mia anima, si sarebbero ridotte in pezzi.
Meglio pensare in positivo, mi redarguii, facendo un respiro profondo.
«Hai ragione.» concordai, poggiando una mano sulle sue. «Magari tra un anno non staremo neanche più insieme, forse troverò qualcun altro.» scherzai.
Sentii il suo corpo irrigidirsi. Il suo sguardo dorato divenne adamantino.
Pensai a quello che avevo detto e considerai l’ipotesi di lasciarci e stare con qualcun altro.
Red che abbracciava un’altra.
Red che baciava un’altra.
Red…
Okay, capito.
«Mi dispiace!» dissi d’impulso «Non avrei dovuto dirlo. Io… sono solo nervosa. Fai conto che non abbia aperto bocca.»
Distolsi lo sguardo, troppo confusa e agitata, per incrociare il suo sguardo. Ma Red mi afferrò piano il mento e mi costrinse a farlo. Sentivo la mano che mi teneva tremare. Rabbia?
«Tu non sarai di nessun altro, Sylence.» scandì. «Tu… sei… solo… mia
Non avrei dovuto sentirmi euforica per quelle parole così arroganti e possessive, ma visto che mi trovavo nella sua medesima situazione, dentro di me ballai la macarena.
Così, afferrai il collo della sua maglietta e lo tirai a me, i nostri nasi si sfiorarono di nuovo.
«Questo vale anche per te, piromane.» Accostai le labbra al suo orecchio. «Tu-sei-mio
 
 
* * *
 
Christopher Alasdair’s POV
 
 
Camminando per le strade della città, gettando uno sguardo alle vetrine addobbate per Halloween, Chris sospirò, rammaricandosi di non essersi portato dietro il suo portafogli. Se lo era dimenticato a casa, nella fretta di uscire.
Non era riuscito a restare un minuto di più, mentre guardava suo padre andare e venire dal frigorifero per prendere la sua consueta birra analcolica, senza degnarlo di uno sguardo, come se non esistesse, come se fosse invisibile.
A Chris faceva male, pensava che non si sarebbe mai abituato, e se lo avesse fatto avrebbe iniziato a preoccuparsi.
Quando un genitore ti volta le spalle, come se fossi spazzatura, è come se dentro di te qualcosa si crepasse immancabilmente, come se ti tagliassero via le gambe. È qualcosa che non puoi più avere indietro una volta tolta.
E quando Jason Alasdair aveva guardato suo figlio come se fosse un mostro, il cuore di Chris aveva perso un pezzo che non avrebbe più riavuto.
Fa male, tremendamente male. Si può recuperare il rapporto, certo, se entrambe le parti in causa lo vogliono, ma in ogni frase detta e in ogni gesto ci sarà sempre qualcosa che ricorderà la frattura che si è prodotta.
Prima quando guardava negli occhi del padre vi leggeva solo orgoglio, affetto, la felicità di avere avuto un figlio a cui trasmettere le sue idee, le sue passioni, i suoi ricordi.
Ora invece, Jason non ne sopportava neanche la vista, perciò evitava sempre di guardarlo e le poche parole che gli rivolgeva erano sempre asettiche, fredde, impersonali, come se fossero due estranei che condividono una casa.
Non era come quando incontrava un altro paio di occhi, trasalì all’improvviso.
Perché lo aveva pensato?
Forse, perché quando veniva guardato da quegli occhi non si sentiva un mostro. Forse, perché era da tanto tempo, probabilmente anche per la prima volta, che sentiva quel calore suscitato da quegli illeggibili, impassibili, occhi castani così intensi che alla luce del sole sembravano colorarsi di rosso.
Chris scosse la testa. Ma perché stava pensando a lui proprio in quel momento, quando era più vulnerabile? Tanto, era inutile farsi illusioni.
Sapeva per sentito dire che Raferty Slater era uno tutto d’un pezzo, che non si lasciava coinvolgere da niente e nessuno. Aveva la fama di aver infranto tanti cuori tra le ragazze della scuola, e che non abbia cercato, né avesse voluto le attenzioni di nessuna di loro.
Non era gay, di questo era certo. Perché? A pensarci si sentì le guance andare a fuoco. Lo aveva beccato mentre pomiciava con una del secondo anno, poco tempo addietro e sembrava abbastanza coinvolto, anche se poi, dopo quel piccolo siparietto non li aveva più visti insieme.
Niente illusioni, solo una piccola strusciata, tanto per divertirsi un po’.
Forse gli piacevano quelle più grandi, donne più mature, oppure qualcuna gli aveva spezzato in così piccole parti il cuore che non gli sarebbe più servito…
«Argh, smettila di pensare queste cavolate!» si rimproverò ad alta voce, guadagnandosi l’occhiataccia di una signora che stava parlando al cellulare accanto a lui. «Mi scusi, non mi riferivo a lei…»
Ma quella se ne era già andata, con una smorfia di sdegno.
Sospirando di nuovo, percorse l’ultimo tratto della strada e svoltò a sinistra, in direzione del quartiere dei negozi.
Era un enorme parco giochi per chi, come lui, amava andare per negozi a fare shopping o semplicemente per guardare le vetrine.
Lui preferiva la seconda. Pur essendo gay, non era il tipo estremamente effeminato, che sproloquia come una ragazzina e aspetta con ansia un nuovo modello firmato Dolce&Gabbana.
Era un uomo, a cui piacevano gli sport, le auto, e perché no?, anche le belle ragazze, anche se lui propendeva per un’altra direzione. Ne ammirava semplicemente la bellezza, essendo lui un patito della bellezza.
Girare per quelle strade inondate delle più disparate luci dei negozi, dei bar, e quant’altro era ciò che lo accomunava e che lo faceva sentire più vicino alla madre.
Quanto tempo Chris aveva passato vagabondando per quelle vie così familiari, ammirando un vestito o prendendo un tè aromatizzato alla menta, a braccetto con Yulia Blashkyn, da sposata Yulia Alasdair.
Di madre patria Russa, Yulia era arrivata in america con un sogno: quello di vivere in pace, con una propria famiglia e un marito che la amasse davvero.
Era da lei che Chris aveva preso sia gli occhi che i capelli, la madre per scherzo lo definiva una sua fotocopia al maschile.
Era tra quelle strade che aveva incontrato per la prima volta Jason Alasdair e se ne era innamorata a prima vista. Si erano sposati un anno dopo essersi diplomati e poco tempo dopo era stato concepito Chris.
Yulia non voleva che il figlio rinnegasse le sue origini russe, per cui gli aveva insegnato a parlare sia la sua lingua madre che l’inglese. Come era stato divertente scambiarsi frasi che solo loro due sapevano, facendo impazzire il padre dalla voglia di capire che cosa si erano detti.
Era stata Yulia, la prima a sapere che Chris era gay. Glielo aveva detto lui, poco tempo dopo averlo scoperto lui stesso. Chris aveva temuto una reazione negativa, un rifiuto, ma la madre, dal cuore tenero, buono e gentile come quello di un angelo, lo aveva abbracciato e gli aveva detto: «Ya lyublyu tebya
Ti voglio bene.
Allora aveva capito che la madre non lo avrebbe mai giudicato, ma solo amato per quello che era…
…e poi la malattia se l’era portava via.
Poco più di tre anni addietro, all’usuale controllo medico aveva scoperto di avere un tumore in stato avanzato. Non lo aveva detto al marito, fino a che non era diventato troppo evidente per nasconderlo. E aveva Yulia preso una decisione. Se doveva morire lo se ne sarebbe andata circondata dalla sua famiglia.
Aveva fatto giurare al marito che avrebbero trascorso tutto il tempo che le rimaneva, che fosse una settimana, una mese o dieci anni, senza darvi peso, come se tutto fosse normale. Lo aveva preteso.
E così avevano fatto. I due anni successivi erano stati i migliori e i peggiori per tutta la famiglia Alasdair. Avevano fatto diversi viaggi, erano andati a trovare i parenti della madre in Russia, avevano festeggiato il compleanno della madre riempiendo la casa con vasi di orchidee viola e con una torta a forma di farfalla monaca, tutto quello che piaceva a Yulia.
Se ne era andata dormendo. Non aveva sofferto. Aveva trentatre anni.
E da allora, la vita in casa Alasdair sembrava svanita con lei.
C’erano risate, c’erano sorrisi, c’erano colori, ma niente era bello come quanto c’era Yulia. Tutto quello che le apparteneva era stato relegato in soffitta, sotto un enorme telo nero.
Il padre non l’aveva più nominata. Era come se per lui non fosse mai esistita. Il legame tra i due uomini di casa si era sfaldata un po’, poiché Yulia era il collante che li teneva uniti insieme, e quando Chris si era deciso finalmente di dire al padre di essere gay, quella fratture aveva finito per diventare un buco nero, che aveva risucchiato al suo interno tutto l’amore che Jason aveva provato per il figlio.
Era come se per lui anche Chris fosse morto con la madre.
Fermandosi, Chris alzò gli occhi su una vetrina e nel riflesso vide il suo viso bagnato da una scia di lacrime.
Quando aveva cominciato a piangere?
Asciugandosi una guancia, l’occhio gli cadde su una figura riflessa nel vetro alle sue spalle.
Si bloccò nel compiere il movimento.
Il riflesso di quegli occhi castano-ramato nel vetro lo aveva paralizzato.
Avvolto in un giaccone di pelle nera, con una mano infilata nella tasca anteriore dei jeans effetto usato, e con l’altra che stringeva una busta di un negozio di articoli sportivi, Raferty Slater lo fissava imperscrutabile.
Lo guardava con quel suo sguardo penetrante, scandagliandolo, agitandolo. Già la prima volta che lo aveva incontrato aveva sentito addosso i suoi occhi strani, quasi animaleschi, che lo fissavano con insistenza, come se lo stesse vivisezionando.
Ma perché? Chris non lo sapeva, ma aveva un effetto strano al suo sistema nervoso.
Lo metteva in ansia.
Se non sapesse che era etero, Chris avrebbe pensato che lo guardava in quel modo perché gli piaceva.
Purtroppo, però, Raferty Slater era puramente etero.
Perciò, decise di darsi un contegno, mettere da parte ansie e false speranze – non che ne avesse, sia chiaro; non era tipo da andare dietro a casi senza speranza, era realista lui.
Con un respiro profondo, raddrizzò le spalle e si girò.
Raferty non si era mosso. Allora, Chris si fece coraggio e si fece avanti lui, raggiungendolo e, nel frattempo, lo salutò con un cenno del capo.
«Ehi, Raferty. Come va? Che fai da queste parti?» gli chiese e si diede mentalmente dello stupido.
Che diavolo te ne importa di quello che fa? Digli due frasi in croce e vattene.
Raferty inarcò un sopracciglio e sollevò debolmente la busta di carta bianca e nera della Foot Locker.
«Ah.» se ne uscì il biondo.
Nella sua mente, un piccolo omino nero e bastardo applaudiva sarcasticamente le mani e gli diceva: "Ma bravo, qualche altra risposta intelligente?"
Ma che ci poteva fare lui se quel bastardo di un boxer aveva il potere di mandare in pappa i suoi neuroni?
«Ehm… bene, non voglio trattenerti, perciò… ci vediamo... ehm, sì.»
Chris girò le spalle a Raferty, facendo una smorfia di rabbia verso sé stesso e fece per andarsene.
«A cosa stavi pensando?» gli chiese inaspettatamente Raferty.
Chris trasalì al suono della sua voce roca, ipnotica. Titubante a voler rincontrare nuovamente i suoi occhi, si girò e mantenne lo sguardo fisso sulla giacca di pelle di Raferty.
«Cosa?»
Raferty fece cenno verso la vetrina dove prima Chris si era fermato.
«Mentre eri lì, fermo. Aveva l’espressione di un vecchio che pensa ai suoi anni di gioventù: malinconica, triste. A cosa pensavi?»
Toccato dal suo spirito di osservazione, così attento ai suoi umori, Chris si ritrovò a rispondere sinceramente.
«Pensavo a mia madre.»
Raferty annuì, comprensivo. «Dov’è?»
Penso nei ricordi del viso sorridente di Yulia, Chris rispose: «È morta. Due anni fa. Tumore.»
Raferty lo studiò per qualche secondo, prima di annuire.
«Posso capirti. Anche io non ho più una madre.»
Chris aggrottò la fronte, sentendo quella frase curiosa.
«Che strana scelta di parole.» considerò ad alta voce.
Stringendo le labbra Raferty lo guardo per qualche secondo ancora, poi lanciando un’occhiata intorno a sé, disse: «Vieni, andiamocene da qui.»
Si addentrò nella strada senza aspettare di vedere se Chris lo stesse seguendo.
Ma Chris gli era alle calcagna.
Che cosa voleva dirgli?
 
 
* * *
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
 
Stringendo la mani di Red, varcai la porta di casa, aspettandomi di vedere mio padre in posizione di combattimento – a gambe aperte e braccia incrociate, che ci fulminava con lo sguardo – in cucina.
Ma non c’era. La cucina era vuota.
Mi bloccai sulla soglia, mandando a sbattere Red contro la mia schiena. Lui mi afferrò prima che cadessi.
«Che succede?» domandò.
«Ehm…» tentennai, non sapendo cosa dire. «Papà?» chiamai.
Nessuna risposta.
«Papà?» insistessi, ma niente.
Ma dove si era cacciato? Possibile che mi fossi sbagliata a tal punto da pendere un granchio? No, avevo visto mio padre, fermo sul marciapiede, ne ero certa.
Ma allora… possibile che sia nel laboratorio?, pensai ad un tratto.
Era l’unica volta in cui non rispondeva quando lo chiamavo.
Lanciai un’occhiata al corridoio, indecisa se andare o meno.
«Sylence, perché siamo impalati sulla porta?»
«Scusa.» Mi affrettai ad entrare e chiudere la porta.
Ad un tratto mi resi contro che quella era la prima volta che Red metteva piede nella mia cucina, se tralasciamo la volta in occasione della scampagnata – ma quella è stata una cosa rapida, non c’era stato tempo per niente. Tempo per cosa, poi? Non lo sapevo neanche io.
Ma era la prima volta che invitavo a casa un ragazzo, neanche Benjamin era entrato.
«Aspetta qui.» dissi a Red.
Attraversai il corridoio e bussai alla porta del laboratorio, chiamando mio padre. Ma non rispose.
«Papà?» ripetei alzando ancora di più la voce.
Niente. Ma che stava succedendo? Dov’era finito papà? I miei neuroni mezzo intorpiditi iniziarono a lavorare a super velocità, elencando una serie di orribili possibilità: che fosse stato investito da qualcuno, mentre tornava a casa e lo avessero portato in ospedale? Che fosse chiusi nel laboratorio e si fosse sentito male?
O, la peggiore di tutte, che Reìrag fosse ritornato e avesse catturato mio padre?
Respirando profondamente, cercai di placare quella crisi isterica che mi stava assalendo – non essendo io il tipo da lasciarsi prendere dall’isteria – e bussai nuovamente alla porta di papà.
Miracolo! Lazzaro è risorto!
La porta di aprì e papà ne uscì con la sua solita espressione da cane bastonato colto con le mani nel sacco.
Allargai le braccia come a dire «ma che stai combinando?».
«Scusa,» disse, sfregandosi la nuca. «Ero concentrato sul lavoro.»
Quel suo atteggiamento angelico, come se non mi avesse beccata nella macchina di uno a lui sconosciuto non mi convinceva per niente.
«Stavi facendo qualcosa di importante?» gli chiesi.
«Chi, io?» cadde dalle nuvole. «No.»
Risposta sbagliata. Papà faceva sempre qualcosa di importante nel suo laboratorio e non passava volta, quando glielo chiedevo, che non me lo dicesse.
«D’accordo. Smettiamola di fare i finti tonti e passiamo subito al dilemma.» proposi. «Voglio farti conoscere una persona.»
Come per magia, la sua espressione da angioletto con l’aureola sparì e al sul postò calò l’immagine sputata della serietà.
«Ci aspetta di là in cucina. Datti una ripulita,» gli consigliai a bassa voce. «Puzzi di concime. Io intanto preparo qualcosa da mangiare.»
Papà si limitò ad annuire e chiudere la porta del laboratorio, dopo di ché si infilò nel bagno.
Sospirando all’imminente confronto tra teste calde, ritornai in cucina, dove trovai Red intento a dare un’occhiata alle foto sul mobiletto accanto alla porta d’ingresso.
Teneva i mano una foto dalla cornice di ferro battuto, colorato di rosso ruggine.
«Avevo cinque anni, in quella foto.» dissi.
Red rimase a guardare quel piccolo riquadro che mi raffigurava addormentata sul letto di una delle case in cui io e papà avevamo abitato, e stringevo al petto un peluche, un orsacchiotto bianco, alle cui zampe era stato cucito un cuore rosso bordato di pizzo, con su scritto "TI VOGLIO BENE".
«Me lo regalò mio padre.» gli raccontai. «Era il mio compleanno e ci eravamo appena trasferiti non mi ricordo dove. Non conoscevamo ancora nessuno, perciò non organizzammo nessuna festa, però papà volle farmi un regalo. Ricordo che girammo per la città per trovare un centro commerciale, ma non potemmo arrivarci perché le strade, in quella zona, erano chiuse per dei tubi delle fogne rotti e venivamo sempre fermati da dei vigili che ci ordinavano di tornare indietro. Poi, l’ennesimo stop, mi affacciai dal finestrino e dall’altra parte della strada vidi un negozio di oggetti usati e nella vetrina c’era lui.» Indicai l’orsacchiotto della foto. «Senza pesarci – ero solo una bambina – scesi dall’auto e corsi al negozio. Feci venire i capelli bianchi a mio padre, quando mi vide correre per la strada, ma io non ci badavo, vedevo solo l’orsacchiotto, come se mi stesse chiamando. Quando mi raggiunse, papà mi sgridò. Ma volevo talmente tanto quel peluche che non ci feci caso e glielo indicai, dicendo: "Voglio quello".»
«Io ero talmente preoccupato che non ci feci caso e tenendola in braccio, andai alla macchina. Ma le sue urla mi fermarono.»
Papà era appoggiato allo stipite della porta della cucina con una spalla e le braccia incrociate. Mi osservava con uno sguardo così affettuoso da farmi venire la voglia di un abbraccio da orsi.
Papà venne avanti. «Allora vidi il pupazzo. Lei cercava di prenderlo, allungava le manine e urlava di frustrazione per non riuscire a prenderlo. Aveva due bei polmoni.»
«Guarda che li ho ancora.» protestai.
«Certo, ma non li usci più come prima.»
Scossi la testa, sorridendo e mi voltai verso Red, fermo accanto a me, ad osservarci con uno strano sguardo.
«Alla fine, come puoi vedere, ottenni il peluche.» mi esaltai, alzando due dita in segno di vittoria.
«Già, e dov’è ora?» mi chiese mio padre, insinuante.
«Nella mia stanza, sullo scaffale.» dissi con soddisfazione, che mi venne tolta all’alzare del suo sopracciglio scettico. Allo mi imbronciai. «Senza un occhio e con un braccio scucito, ma ancora intero.»
Papà fece un verso di sufficienza, come a dire "capirai!". Poi si fece avanti, tendendo una mano a Red.
«Non ci siamo ancora presentati a dovere. Io sono Xander Hill, il padre di questa piccola rompiscatole.»
«Oh, grazie.» risposi mordace. «È sempre un piacere sentire questi dolci nomignoli affettuosi.»
Red strinse la mano di mio padre. «Red Hawks, signor Hill. Piacere mio.»
Osservai come si studiarono a vicenda per pochi minuti, in puro men style, per poi lasciare la presa.
«Bene, dopo questa virile sessione di saluti, che ne dite di mangiare qualcosa?» mi intromisi, non sopportando più quel silenzio. «Avevo intenzione di fare delle cotolette alla milanese con contorno di pomodori. Cosa ne pensate?»
«Sai che ogni volta che si parla di cibo, mi rimetto nelle tue abili mani.» disse mio padre, scrollando le spalle.
Mi voltai verso Red. «Tu? Sei allergico a qualcosa, o…»
Red scrollò la testa. «No e non ho nessun tipo di preferenza. Mi piace tutto.»
«Grande. Papà,» dissi, voltandomi verso lui. «Che ne dici di farti la barba, nel frattempo che cucino?»
Papà si mise sull’attenti e fece scattare la mano alla testa, in segno di saluto militare.
«Signorsì, capitano.»
E sparì in corridoio.
Sentii distintamente la tensione che aveva avvolto sia me che Red svanire all’istante, contenti che fino a quel momento non fosse successo niente di grave, ma era solo l’inizio.
«Ti serve una mano?» mi chiese poi lui, togliendosi la giacca di dosso.
Non mi ero neanche resa conto che le avevamo ancora addosso. Tolsi anche la mia e gliela diedi. Le appese all’uomo morto dietro la porta d’ingresso e si scorciò le maniche.
«Certo, perché no?» Come completare meglio quel quadretto familiare? «Che ne dici di iniziare a tagliare pomodori? Sono nel frigo, cassetto di destra.»
Mentre prendevo l’occorrente per la cena, mi chiesi come sarebbe stata il resto della serata.
 
 
* * *
 
 
Christopher Alasdair’s POV
 
 
Chris aveva seguito Raferty fino a che non erano arrivati in un vecchio parco giochi. Non si erano scambiati una parola per tutto il percorso, non che uno dei due avesse voglia di parlare, in quel momento.
Chris si stava chiedendo che cosa volesse dirgli Raferty e perché proprio lì.
Osservava incantato le sue movenze feline, da predatore, pensando di non aver mai visto qualcuno muoversi come Raferty. Anche se era grande e grosso, non era né goffo né spavaldo, ma aveva un’energia interna mal trattenuta che lo faceva sembrare più grande di quello che era. Una forza virile che gli dava i brividi.
Raferty si fermò accanto alle altalene e, dopo aver posato la busta di carta a terra, si sedette su un dondolo.
Vederlo seduto lì, lo fecero sembrare, agli occhi di Chris, ancora più grande, ma anche altamente vulnerabile.
La luce dei lampioni gettava ombre scure ai suoi lineamenti, marchiando ancora di più la curva morbida degli zigomi e quella forte della mascella. I capelli risplendevano di tante sfumature di castano.
«Mia madre era uno spirito libero,» esordì Raferty, dandosi una leggera spinta con i piedi per oscillare avanti e indietro. «E non vuol dire che fosse un hippy o cose del genere. Lei era come un uccello selvatico: puoi metterlo in una gabbia, ma troverà sempre il modo di scappare. Per lei, aver sposato mio padre era proprio questo: una gabbia. Lui esigeva che lei si comportasse come le veniva ordinato, voleva che le cose andassero come diceva lui e lei non doveva fiatare. Doveva stare solo zitta e obbedire agli ordini.» Tacque per qualche secondo, raccogliendo le idee, forse. «Prima ho detto che non ho più una madre, perché mio padre non di è accontentato solo di mia madre, nel corso del matrimonio. E mia madre lo ha scoperto quando venni posato davanti alla sua porta, con un foglietto con si scritto "Eccoti il tuo figlio bastardo". Ma per mia madre andava bene. Aveva scoperto solo poche settimane prima che non poteva avere figli, perciò, per lei, io ero una benedizione. Per mio padre un po’ meno. Solo la prova della sua infedeltà che non è riuscito a nascondere e sarò sempre questo ai suoi occhi. E poi, mia madre ci lasciò.»
Chris buttò giù il groppo che aveva in gola. Dio, come poteva essere incasinata la vita di una persona.
«Mi dispiace. So cosa significa perdere un genitore.» mormorò, sommessamente.
«Oh, ma mia madre non è morta.» disse Raferty, confondendo Chris. «Quando ho detto che ci ha lasciato, intendo che se ne andata via. Ha fatto le valigie, preso baracca e burattini ed è sparita dalla circolazione. Comprensibile, visto il comportamento di mio padre nei suoi confronti.»
Poteva anche sembrare impassibile, noncurante per quello che stava raccontando, ma Chris riusciva a scorgere il dolore e la sofferenza negli occhi di Raferty.
Voleva fare il duro, ma si vedeva che ci stava male per come si erano comportati entrambi i suoi genitori, cosa che lo avrebbe segnato per sempre.
«Raferty, perché mi stai raccontando queste cose? Voglio dire,» si affettò a spiegare Chris. «Non che non apprezzi il fatto di essere il tuo confidente sia chiaro, ma… io e te non ci conosciamo, non davvero. Non siamo amici d’infanzia, né tanto meno abbiamo parlato in questi tre anni che frequentiamo la stessa scuola, perciò… non capisco. È solo per… sai, il fatto dell’essere la "mascotte", o…»
Raferty si alzò con uno scatto dal dondolo e gli si avvicinò.
«Non ti ho detto queste cose per questi motivi. A dirti la verità, non so neanche io perché te l’ho raccontato.»
«Raferty…»
«Senti, lascia perde, fai finta che io non ti abbia mai detto niente.» Afferrò la busta di carta e si allontanò. «Non so che cosa stavo pensando.» lo sentì a stento dire Chris.
Quest’ultimo di affrettò a raggiungerlo.
«Raferty, aspetta.» Gli si parò davanti e gli piantò le mani sul petto. «Non volevo smontare così la tua fiducia che hai avuto in me, nel raccontarmi quelle tue confidenze così private. Apprezzo enormemente quello che hai fatto. E solo che non riesco a capire perché proprio a me. Hai i componenti del Cerchio con cui parlare. E poi c’è Sy. Se vuoi che il tuo segreto venga chiuso dietro una porta blindata, lei è la migliore.» Chris scosse la testa. «Quindi… perché io?»
Non sapeva neanche lui perché insisteva tanto su quel particolare. Avvertiva però che era un dettaglio importante, qualcosa che poteva portare una qualche svolta.
In quei momenti sospesi nel tempo, in cui nessuno dei due parlava, limitandosi a guardarsi negli occhi, Chris avvertiva tutta la potenza di quel corpo compatto e virile sotto i palmi delle mani. Sentiva il petto distendersi e contrarsi al ritmo del respiro, il battito leggermente accelerato del cuore pulsare sotto i polpastrelli, i calore che emanava irradiarsi su per i polsi e le braccia.
Raferty era un concentrato di energia a stento trattenuta, ne era estremamente convinto.
«L’ho fatto,» disse infine Raferty, «Perché tu sei come me.»
L’espressione intensa e seria sul suo viso dissero a Chris quello che si era domandato. Aveva capito quello che volevano sottintendere le sue parole. Non era come dire "sei un reietto, come me", no.
Quelle parole aveva un significato più recondito che solo chi, come Chris, poteva riuscire a capire. Il che era sbalorditivo. Inaudito. Allora, quando lo aveva colto il flagrante a strusciarsi con quella tipa, era tutto finto? Che fosse stata una verifica, visto che il giorno dopo sembravano due estranei?
Raferty si guardò attorno e, prendendo per il polso Chris, lo trascinò verso l’ombra alle spalle del lampione.
«Solo una cerchia di tre persone lo sa, e ora tu ne fai parte. Non ho mai voluto dire deliberatamente che cos’ero ad ognuno di loro, sono stati loro a scoprirlo. Tu sei il primo a cui lo dico di mia spontanea volontà, ma c’è una ragione per questo. Io ti… ammiro.»
Quelle parole fecero battere il cuore di Chris più velocemente. Raferty lo ammirava.
«Perché?» chiese.
«Sono venuto a conoscenza di come te ne sei fregato altamente di quello che pensava di te la gente e hai ammesso volontariamente di essere gay, quando Harber lo aveva insinuato. A dire la verità, io ero lì, quando lo hai fatto. Ho sentito quel deficiente di Josh sfotterti per come portavi i capelli, usando nomignoli dispregiativi che mi hanno fatto venire voglia di lavargli la botta con la spazzola per il water. E tu, allora, gli hai risposto: "Se anche fosse vero, sarei sempre meglio di te, che ti nascondi dietro il tuo nauseante comportamento da etero" e te ne sei andato. È stato allora che ho cambiato opinione su di te. E ho capito quanto sei stato cento volte più forte e coraggioso di me. Scommetto che lo hai detto anche a tuo padre.» Un’espressione di amarezza passò sul viso di Raferty. «E io invece non ho le palle per dirlo al mio.»
Il vociare della strada e le musiche dei bar inondavano il parco, ma per Chris niente importava davvero all’infuori di quello che Raferty stava ammettendo.
Sapere di aver conquistato la sua fiducia e ammirazione erano come in traguardo raggiunto per Chris, un traguardo che non sapeva di voler ottenere prima che Raferty non lo rendesse evidente.
Vedere l’amarezza dipinta sul volto di Raferty gli faceva male, ma, come diceva sempre sua madre, nessuna emozione negativa non si più cancellare con un gesto gentile.
«Grazie, Raferty. Mi fa piacere che tu ti sia fatto una così alata opinione di me…»
«Non esageriamo.»
«…e ho intenzione di ricambiare. Che ne dici di venire per negozi con me? Infondo, era per questo che ero venuto qui.»
Raferty alzò un sopracciglio, il corpo rilassato. «Ti sembro uno che se ne va in giro a commentare gli acquisti di qualcun altro dicendo "quello è troppo chic" oppure "quello è squisitamente trendy"?» sbeffeggiò, facendo la boccetta stridula da ragazza.
Chris scoppiò a ridere. Gli piaceva quella nuova parte di Raferty. Per Chris era come un cubo di Rubik che andava risolto per riuscire a trarre tutte le facce del suo carattere.
«Neanche io! Posso anche apprezzare il genere maschile, ma non sono così gay.»
«Bene. Almeno, siamo dello stesso parere.»
Ridacchiando, Chris tirò Raferty per un braccio. «Andiamo. Ti offro un frappè.» propose.
«Facciamo un caffè e siamo a cavallo.» rilanciò Raferty.
«Andata.»
 
 
* * *
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
 
Era andata meglio di quanto mi aspettassi. Niente scenate, niente silenzi imbarazzanti, niente domande inopportune.
Era andato tutto liscio come l’olio. Avevamo cenato, chiacchierando nel frattempo, papà aveva raccontato aneddoti divertenti di quando ero piccola, e io per vendetta ne raccontai alcuni di quando lui era salito su una barca.
Ora stavo servendo il caffè, comodamente seduta sul divano della sala da pranzo, mentre papà e Red commentava una partita dei Red Sox e dei New York Yankees che stava trasmettendo alla TV.
Era bello guardarlo mentre si scambiavano opinioni, oppure mugugnavano ad un colpo andato male o esultavano quando invece il battitore faceva uno strike.
Soffocai uno sbadiglio. Era stata una giornata impegnativa e stressante, ma tutto sommato bella.
Ero "fidanzata in casa", come avrebbe detto la signora Maiello, una donna di Little Italy di origini napoletane.
Appoggiai la testa allo schienale della poltrona, chiudendo gli occhi. Mi sarei riposata un attimo e poi…
Caddi addormentata pochi secondo dopo.
 
* * *
 
Fowred Hawks’s POV
 
Lanciando un’occhiata a Sylence, Red rimase incantato. Sembrava ancora più piccola così appallottolata sulla poltrona, con le ginocchia raccolte e le braccia strette al petto.
Senza neanche accorgersene un sorriso di tenerezza gli si aprì in volto.
La cena era stata davvero carina e divertente, come non ne aveva fatte da tantissimo tempo e tutto per merito suo. L’aveva osservata di continuo mentre girava per la cucina, indaffarata a preparare la cena e inconsapevole dei suoi movimenti, così eleganti e femminei da rincretinirlo a tal punto che per poco non si era affettato un dito.
Grazie al padre e ai ricordi divertenti che gli aveva raccontato, era riuscito a scoprire qualcosa di più di quella splendida quanto testarda ragazza.
A Red piaceva Xander. Era un padre affettuoso, premuroso, che voleva bene a sua figlia con tutta l’anima; se la sarebbe venduta per far felice Sylence ed era questo che Red apprezzava più di tutto: il legame che c’era tra padre e figlia.
«Si è addormentata, eh?» gli chiese Xander, spegnendo la TV.
Red annuì.
«Deve essersi preoccupata per tutto il tempo che potessi fare o dire qualunque cosa che potesse metterti o metterla a disagio.»
Non volendo contraddire quello che Xander stava dicendo, Red rimase zitto. Si avvicinò a Sylence e, facendo attenzione a non svegliarla, la prese in braccio.
«Lascia, faccio io.»
Il padre di Sy si protese per prenderla, ma Red rafforzò la presa e scrollò la testa.
«Non si preoccupi. Mi dica dov’è la sua stanza.»
Xander si tirò indietro e gli indicò il corridoio. «Da questa parte.»
Red lo seguì fino alla stanza di Sylence. Era arredata con mobili bianchi vecchio stile, con tendine di pizzo alla finestra, sotto la quale c’era una panca incassata nel muro, piena di cuscini.
Xander tirò indietro le coperte del letto e Red ve l’appoggiò sopra. Il padre le tolse le scarpe e poi la coprì. Entrambi rimasero a guardarla, ognuno di loro con gli occhi pieni d’affetto.
«Sei innamorato di lei?» gli chiese inaspettatamente Xander.
Nascondendo la sorpresa, Red capì che quello era il momento che si era prospettato per tutta la serata e che richiedeva la massima sincerità.
«Non lo so, ancora. È qualcosa che non riesco a spiegare. So solo che farei qualsiasi cosa per lei.»
Red non colse il cenno d’intesa del padre di Sylence, troppo impegnata a guardarla.
«Bene.» disse allora Xander, poggiandogli una mano sulla spalla.
Red la sentiva come un peso ed un monito. Spostò lo sguardo ad incontrare gli occhi penetranti dell’uomo.
«Voglio solo avvertirti. Falle del male, e io ti faccio diventare concime per le mie piante.»
«Se dovessi farle del male, le darò io stesso la pala con cui sotterrarmi.» chiarì Red.
Xander lo guardò per qualche momento e, alla fine, annuì.
«Ci conto.»
Uscirono dalla stanza di Sylence e Xander accompagnò Red alla porta.
«Felice di averti conosciuto, Red.» disse l’uomo tendendo una mano al ragazzo, che la strinse dopo essersi infilato la giacca.
«Il piacere è stato mio, signor Xander.»
«Chiamami Xander, non sopporto le formalità.»
Red annuì e si avviò alla macchina.
Che serata, ragazzi!


* * *

Risposte alle recensioni:


5HuNtEr5: Ciao Hunt, felice di risentirti, mi dispiace di non aver risposto subito, problemi tecnici, ma è come sempre un piacere leggere la tua opinione su qyello che scrivo. Non spendo tanto in parole questa volta perché non ho tempo, ma prometto che mi sdebiterò alla prossima recensione. Ho letto e recensito le tue shot e la mia opinioni su di essi. Spero di risentirti anche per questo capitolo.
Baci,

Sy Hill


Dills Nightmare: Ciao Dills, grazie della recensione e spero che risponderai anche a questo capitolo. Costantine è un peronaggio particolare e non ti farò aspettare tanto per scoprirne i segreti ma per adesso verrà accantonato per un'altra cosa (non ti dico cosa). Anche per quanto riguarda il resto dei personaggi che hai nominato dovranno aspettare, c'è un'altra questione che richiede la massima urgenza (Cosa? Boh!)
Ti aspetto presto.
Baci,

Sy Hill



The_Black_Fire: Ciao Black, felice di risentirti. Sono felice che ti sia piaciuto il capitolo e spero che anche questo ti sia piaciuto e mi metterai al corrente della tua opinionesu quanto scritto.
Baci,

Sy Hill

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Capitolo 34
*** Vendetta ***


Sy Hill: Eccomi qui con un nuovo capitolo. Mi scuso enormemente con tutti quelli che mi hanno seguito in questi mesi di inattività. Posso solo dire che si sono successi degli eventi che mi hanno impedito di scrivere (a partire dalla scuola alla rottura del pc) e alla mancanza d'spirazione. Posso orgogliosamente dire che ho scritto questo capitolo in meno di tre giorni e ne vado fiera.
Rigrazio chi mi ha scritto le recensioni, anche se non ne meritavo per la mia negligenza, e per chi mi ha seguito e ha aspettato per leggere questo nuovo capitolo della mia Opera.
Vi lascio alla lettura. (Il testo non è propriamente corretto, ha bisogno di rivisitazioni ed altro e alcune cose sono cambiate, ma posso assicurare che vale la pena leggere.)
Baci,

Sy Hill

 

CAPITOLO 34
 
Vendetta

 
Finalmente era arrivato il grande giorno: il 31 Ottobre, Halloween.
In quella settimana non avevo fatto altro che andare avanti e indietro per la città, comprando festoni a forma di pipistrello, delle zucche di polistirolo con le lucine dentro le orbite, scatoloni con cavi, macchina per il fumo e ragnatele finte, mani monche e teschi.
E per completare il quadro, ricordare la richiesta di Gabby di un pupazzo spaventoso? Beh, l’ho trovato ed è davvero raccapricciante: un Winnie the Pooh sgozzato con il sangue che scorre dalla carotide recisa e una faccia cadaverica.
Quando l’avevo visto nel negozio per gli scherzi di Halloween avevo subito deciso di comprarlo. Mi perdonino gli amanti del genere, ma era Halloween e non credo che avrei trovato qualcosa di più orrido di un peluche a forma di orsacchiotto sanguinante.
Mi stavo dirigendo al mio armadietto, sfinita dall’ultimi preparativi. Intanto, in un parte della mia mente – quella diabolica, s’intende – stavo pianificando il piano malvagio (pensatemi dire “eccellente” come Monty Burns).
Avrei fatto prendere a Gabby un tale spavento da farle venire i capelli bianchi.
Soprappensiero, non mi accorsi che il mio armadietto era bloccato da quell’armadio a tre ante di Harber, fino a quando non rischiai di dargli una testata nello stomaco.
«Guarda dove vai, bimba morta.» mi disse, appoggiando un gomito allo sportello e poggiando la testa a forma di palla da bowling sulla mano.
Sospirai pesantemente. «Potresti spostare il tuo corpo mastodontico? Dovrei posare i libri e quello è il mio armadietto.»
«Sono contento che tu mi abbia notato.» sorrise, un sorriso da bamboccio.
«Come se potessi evitarlo.» borbottai.
Una strana luce si accese nei suoi occhi. Non mi piacque.
«Andiamo.» disse con voce roca, graffiante. Si staccò dall’armadietto. «Non devi fare la ritrosa, bimba morta. Ormai mi sono accorto di tutto. Gli sguardi, tu che appari nello stesso posto dove ci sono anche io… e il fatto di essere nel gruppo di organizzatori.»
Mentre parlava si avvicinava sempre di più, facendomi retrocedere per non farmi toccare. Il solo pensiero mi dava ribrezzo.
Ritrosa!? Che diamine stava dicendo? Certo che lo guardavo! Stavo cercando di capire se aveva dato peso alla mia minaccia oppure no, perché altrimenti gliene avrei detto un’altra con tanto di cazzotto. Mi ero ritrovata nei suoi stessi posti, sottolineo un ovvio, perché entrambi organizzavamo la Casa e, sempre ovvio, portavamo gli oggetti nello stesso posto.
Sussultai quando la mia schiena toccò il muro freddo. Nella mia testa ripetevo non fulminarlo, non fulminarlo, non fulminarlo, come un mantra per ricordarmi che quel fesso babbione era un “innocente” – e qui parte una bella risata – e non dovevo fargli del male.
«Fatti indietro, Harber.»
Non mi diede ascolto e piantò le mani ai lati della mia testa. Venni investita dall’odore ripugnante del suo dopobarba scadente.
«Mi piacciono le tipe combattive.» disse, investendomi con il suo alito fetido – puzzava di birra. «Soprattutto se più piccole di me.»
Una rabbia furente mi invase, pensando a Kima e a quello che quel maiale avrebbe potuto farle, se non l’avessero salvata. Sentii un rombo di tuono rimbombare fuori dalla scuola.
«Ne ho già avuto abbastanza, Harber. Vedi toglierti di testa qualsiasi cosa possa aver a che fare con me. Io non ti vengo appresso, ti guardo perché mi sembri patetico nella tua giacca da giocatore, mentre gli altri ti prendono come il pagliaccio della combriccola.»
Un fulmine si schiantò al suolo, facendo tremale i vetri delle finestre.
Colsi l’occhiata che Harber gettò all’esterno per poi tornare a me, e m’imposi di calmarmi.
«Tu credi che io sia patetico?» mormorò.
La sua mano scattò in avanti e afferrò la mia crocchia, tirando forte. Strinsi i denti per il dolore, ma non emisi fiato. Afferrai i suoi avambracci, cercando di staccarmi dalla sua presa, ma niente: mi sembrava di avere la testa tra due tenaglie.
Va bene che potevo fulminarlo, ma ero comunque uno scricciolo di ragazza al confronto.
Però potevo tirargli un calcio laddove sapevo gli avrebbe fatto male.
Feci scattare il ginocchio in alto, ma il bastardo anticipò il mio movimento e balzò indietro, tirandomi ancora di più i capelli.
«Maledetto bastardo, lasciami!» gli urlai.
«Altrimenti? Che cosa succede se non lo faccio, bimba morta
«Diventerai il mio prossimo sacco da box.»
Quel ringhio rabbioso venne da Red. Harber si girò a guardarlo, allentando leggermente la stretta, permettendomi di scorgere il volto di Red.
Era una maschera di ira cieca, furibonda, incandescente. Una rabbia che poteva uccidere con un solo sguardo.
«Lascia la mia Sylence
La frase in sé mi fede molto piacere, ma il modo in cui lo disse mi mise una paura del diavolo. Mi meravigliai che Harber fosse ancora vivo, invece di bruciare come un cerino, visto che lo sguardo di Red bruciava talmente tanto da provocare quasi un’autocombustione.
«Che cavolo vuoi, Hawks?» protestò Harber. «Sono fatti miei e di questa nanetta. Tu non c’entri niente, perciò sparisci.»
Dio, quanto avrei voluto fulminare quell’imbecille, perché fece arrabbiare ancora di più Red. Vidi la fiamma rabbiosa nei suoi occhi brillare minacciosa, come se ci avessero buttato sopra della benzina. Dovevo calmarlo, altrimenti avrebbe perso il controllo sul suo Talento e allora sarebbero stati guai seri, più di prima. Perciò decisi di attaccare quel deficiente di Harber da un’altra angolazione. Gli tirai un calcio negli stinchi.
Funzionò. Harber mollò la presa sui miei capelli, per reggersi l’arto dolorante. Mi sfilai dalla sua presa e corsi da Red, gli appoggia una mano sul petto, ma dovetti scostarla di botto.
Era bollente, come l’acqua che bolle sul fuoco. Da scottatura.
«Red, guardami.»
Niente, il suo sguardo non si mosse, inchiodava ancora Harber, che stava borbottando degli improperi verso di me che eviterò di ripetere.
«Red, ascoltami. Non fare cazzate. So quanto può essere stronzo Harber, ma non per questo devi ucciderlo… o procurargli una un’ustione di terzo grado, anche se mi piacerebbe tanto. E,» aggiunsi quando, non si voltò, avvicinandomi quel tanto che bastava per non farmi sentire da Harber, «lo hai promesso a Jake.»
Evviva! Finalmente una reazione!
Si voltò a guardarmi, mentre la fiamma nei suoi occhi si smorzava un po’.
«Oh, con Jake reagisci e con me no? Grazie.» M’imbronciai. Anche questo aiutò.
«Non credere.» sibilò, lanciando a Harber un’occhiata omicida. «Ti conviene allontanarti da qui, Harber, se non vuoi finire male.»
L’energumeno si gonfiò come un pallone. «Vogliamo vedere chi dei due esce vivo da una scazzottata?» sfidò, facendosi avanti a muso duro.
Red mi spinse dietro le sue spalle, allungando le braccia intorno a me, per proteggermi. Idiota, era lui quello che doveva proteggere la sua faccia!
E poi…
«Red, ho detto controllo.» dissi, seccata. Mi rivolsi a Harber. «È meglio per te se te ne vai.»
«Altrimenti che fai, bimba morta?»
Gli ringhiai contro. «Ti fulmino lì sul posto, cazzo! Mi hai stancato. Io non ti considero nemmeno, sei meno di zero. Io sono di Red!»
Dio, dopo quell’ammissione mi sentii immensamente sollevata, il che era tutto dire. E non fui la sola a reagire positivamente.
Mi parve che Red diventasse ancora più grosso, come se i suoi muscoli si tessero gonfiando e si eresse, fiero, in tutto il suo metro e ottanta. Vidi sulla sua faccia un’espressione talmente intensa, che mi diede i brividi – brividi caldi, si capisce.
«Fulminarmi?» rise. «Tu sei completamente matta. Sai che ti dico?» disse a Red. «Tienitela pure questa pazza svitata. Sai che me ne frega. Ma tra noi è un’altra storia.» chiarì, serio.
«C’è altro?» chiese Red, quasi educato, ad Harber.
Questi fece una smorfia di superiorità. Disse: «Non è ancora finita,» e se ne andò – zoppicando leggermente.
Red fece per andargli dietro, ma gli posai una mano sul petto e spinsi per fermalo.
«Lascialo andare, quell’idiota. Non vale una sola micro parte di te. E poi,» continuai, ghignando. «Possiamo sempre vendicarci stasera. Uno scherzo così spaventoso da fargli venire la tremarella. Poi vediamo chi dei due esce veramente vivo.»
Il suo sguardo dorato di posò su di me. Era talmente intenso che mi tremarono le ginocchia.
Eh, sì, aveva proprio notato la mia affermazione.
Allungò una mano e la infilò nei miei capelli, delicatamente. Fece cadere le ultime forcine che ancora avevo in testa e li allargò sulle mie spalle. Il cuore batteva impazzito e non era per la paura.
Infondo ai suoi occhi, potevo vedere la rabbia che ribolliva, una rabbia che prometteva vendetta.
Mi pettinò delicatamente, districando i nodi e alleviando il dolore alla cute.
«Gliela farò pagare.»
Non lo contraddissi.
 
*    *    *
 
Jackson Kingston’s POV
 
In quel momento, rimpiangeva di aver promesso a Sy, quella stessa mattina, di andare a quella stupida festa di Halloween e di vedere come avessero mascherato la scuola in Casa degli Orrori.
Fermo sulla porta principale, Jake guardava a destra e a sinistra, osservando i corridoi, le porte, gli “oggetti di scena”. Ragnatele disseminate ovunque, pipistrelli di plastica che penzolavano dal soffitto, zucche con le orbite illuminate… era tutto un miscuglio di nero, arancione, viola e rosso sangue, ma per quanto poteva vedere non era poi tanto spaventoso.
Certo, avrebbero potuto evitare di mettere un Winnie the Pooh sgozzato e sanguinolento proprio dietro la porta dell’entrata, con una luce che partiva dal basso ad abbracciare il pupazzo, dandogli un’aria davvero spaventosa e ripugnante, ma tant’era.
Aveva già deciso di andarsene dopo aver salutato Sy, per far vedere che aveva mantenuto la promessa e poi se ne sarebbe andato.
S’un tratto, sentì una grossa risata. Jake si girò a lanciare un’occhiataccia a Rafe che, piegato in due dalle risate, indicava il suddetto pupazzo.
«Questa gliela devo concedere!» esclamò, asciugandosi le lacrime di riso. «Quando penso che non può sorprendermi più di tanto, quella tappetta fa sempre qualcosa che mi fa ricredere.»
«Rafe, datti un contegno, per Diana!» si sdegnò Annika.
La sua gemella si portò una mano al petto e la guardò sconvolta. «Mio Dio, gemella, ma dove hai pescato quell’esclamazione così obsoleta?»
Annika scrollò le spalle. «Romanzi rosa History. Ne ho letti talmente tanti che ormai mi esprimo quasi allo stesso modo. Che posso dire? Deformazione professionale.» se la rise.
Jake rimase momentaneamente intontito da quella risata, talmente gli piaceva, ma si costrinse a voltarle le spalle. Gli faceva uno strano effetto, un brutto effetto, sentirla ridere e non poter apprezzare apertamente quel libero sfogo di serenità.
«Finalmente siete arrivati! Credevo che sarei rimasta sola a soffrire questa atrocità.»
La lamentela venne da Sy, appena sbucata oltre l’angolo del corridoio destro. Per la festa si era vestita completamente di nero, aveva lasciato i capelli sciolti e intorno al collo portava un enorme collana fatta di denti finti: sembravano tutti canini.
«Da cosa diamine sei vestita?» le chiese Rafe, guardandola con un sopracciglio inarcato.
Sy fece un ghigno e tirò fuori da dietro la schiena un paletto di legno. «Sono una cacciatrice di vampiri.» chiarì. Mostrò loro la collana. «Questi sono i canini che ho strappato alle mie vittime, proprio come Kaderin Cuore-di-Ghiaccio*.»
«Chi?» chiesero in coro.
Sy fece una smorfia. «Lasciamo stare. Dovreste leggere più libri fantasy.» Mise a posto il paletto. «Allora, vi piace il mio mega pupazzo?» chiese con un sorriso innocente.
Tutti cincischiarono borbottando commenti, ma senza dare una risposta chiara.
«Lo so, neanche a me piace. A qualcuno di voi piace Winnie the Pooh?» Tutti risposero di no. «Bene, perché anche io non lo sopporto e appena ho visto quel pupazzo non ho potuto fare a meno di ammirare l’operazione alle tonsille non riuscita che gli hanno praticato. Credo che me lo porterò a casa dopo la festa.» considerò, guardando ad occhi socchiusi il suddetto pupazzo.
«Che ne dici di farci dare un giro?» propose Jake.
«Certo. Venite con me. Vi porterò in un viaggio turistico nella Casa degli Orrori.» Lo disse con una voce che avrebbe dovuto terrorizzarlo, ma perse effetto quando si mise a ridere. «Devo ammettere che, a dispetto delle aspettative, è venuta su molto bene, anche se in alcuni punti gli scherzi sono davvero divertenti.» Subito si tappò la bocca con la mano. «Non avrei dovuto dirlo, fate finta che non ve lo abbia detto.»
Il giro turistico partì dal corridoio di sinistra, completamente al buio, disseminato di ragnatele con ragni pelosi – e di gomma – appesi. Ogni tanto, in punti strategici erano stati attaccati ai muri degli arti finti, come se dei mostri, o zombi, volessero uscire dal muro. Dall’interfono della scuola, si diffondeva con lugubri suoni, una musica di sottofondo, dei rumori di venti e poi delle urla improvvise, Jake doveva ammettere, davvero realistiche.
«Gabby si è impegnata davvero tanto per fare mettere su queste scene da film dell’orrore.» mormorò Sy, mentre dall’interfono giungeva il rombo di un tuono. «Le si deve riconoscere che ha fatto un buon lavoro.»
Le gemelle sobbalzarono, facendo ridacchiare Rafe. Bastian, seminascosto dietro di lui, gli diede un buffetto al braccio.
«Smettila.» lo rimproverò.
Jake pensò che quella scuola non era mai stata aggobbita in quel modo, tutta angoli bui e tetri, movimenti sinistri e immagini raccapriccianti. Sy li riportò nell’atrio, dove altri ragazzi stavano entrando guardandosi reciprocamente. Alcune ragazze, matricole a quanto pareva, urlarono come delle pazze allo strillo che uscì dall’interfono, e si strinsero tra loro.
«Non ho mai visto un posto del genere, fa veramente paura!» esclamò una di loro rivolta alle altre.
«Chissà chi lo ha messo un piedi?» chiese un’altra a nessuno in particolare.
Jake soffocò una risata, guardando Sy che si ergeva in tutto il suo metro e sessantuno, brillante d’orgoglio. Ci manca solo che faccia la ruota come un pavone, si ritrovò a pensare.
«Da questa parte c’è l’Ala delle Streghe e dei Morti Viventi.» disse loro Sy. «O almeno è così che l’ha battezzata Gabby, visto che l’ha allestita lei.»
Il corridoio era disseminato di pezzi finti di cadaveri, teste, monconi di braccia e gambe, occhi umani appesi al soffitto, sangue finto che macchiava le pareti e i pavimenti, in certi punti dove c’erano delle rientrane, avevano messo un paiolo fumante – ghiaccio secco, ovvio – ricoperto di impronte di mani insanguinate e code di lucertole appese.
Ma, a differenza dell’altro corridoio, tutto quello non aveva proprio un effetto spaventoso. Sembrava, anzi, che qualcuno so fosse dimenticato le cose alla rinfusa, come se avesse fretta, e non le aveva dato l’effetto giusto.
Comunque era rivoltante. Finito il giro completo del piano terra, Sy li fece fermare di nuovo nell’atrio.
«Dovremmo andare al piano di sopra, ma ho detto a Gabby che non è ancora pronto.» Il sorriso di Sy fu inquietante. «Sto preparando una piccola sorpresa e mi serve il vostro aiuto.» disse rivolta alle gemelle. «Red è già sopra, mi servite soltanto voi.»
Le gemelle si scambiarono uno sguardo, aggrottando la fronte. «Che vuoi fare?» chiese Annika.
Sy sbatté le palpebre da finta innocente. «Uno scherzo di Halloween, che altro?»
«Ah-ah.» fece Monika. «Uno scherzo? Con noi e Red?» Scosse leggermente la testa. «Non credo proprio.»
L’altra alzò le mani. «Okay, allora diciamo che voglio solo restituire un torto. Ci state?» chiese a tutti loro, i quali si rivolsero a Jake in una muta domanda.
Jake sapeva che mettendosi in mezzo sarebbe finito in mezzo ai guai. Però doveva ammettere che quello che Sy aveva in mente di fare era passato anche per la sua mente, solo che non lo aveva mai fatto. “Occhio per occhio, dente per dente” era una filosofia che comprendeva a pieno, anche se non l’aveva mai messa a frutto.
Perciò disse: «D’accordo. Diciamo che non approvo quello che vuoi fare e quando lo farai eviterò di espormi più del dovuto, ma… ti aiuterò. Dopotutto, è Halloween: dolcetto o scherzetto.»
Il sorriso, anzi ghigno, a trentadue denti della ragazza rischiava di slogarle la mascella, tanto era largo.
«Lo sai che ti adoro, Jake?» gli disse. «In questo momento, ho voglia di abbracciarci.»
Proprio in quel momento, Red sbucò da dietro un angolo e sentì quell’ultima frase. Jake avrebbe giurato che stesse escogitando almeno dieci modi per farlo soffrire.
«Ti conviene non farlo, se non vuoi mettere a rischio la mia vita. Ci tengo.» sottolineò, facendole segno con gli occhi.
Sy si girò di spalle e vide Red. Gli sorrise, cosa che diede una fitta allo stomaco di Jake. Da quel semplice gesto traspariva quanto loro non dicevano ad alta voce, cosa che fece fare un viaggetto al suo stomaco fino ai piedi e ritorno. Perché? Era forse invidioso? Naa…
«Oh, ma lui lo sa che se lo facessi, sarebbe solo un gesto fraterno.»
Gli occhi di Red brillarono in modo fosco, possessivo, tremendamente possessivo. Circondò Sy con un braccio intorno alla vita e poi lanciò un’occhiata a Jake, come a dire “ti tengo d’occhio”.
Ma non ne aveva bisogno, visto che Jake non aveva occhi che per Annika, la quale lo sorprese asserendo: «Sto per avere un attacco di diabete.»
Lui le lanciò un’occhiata, ma lei non lo stava guardando, anzi sembrava impegnata a decifrare un qualche messaggio segreto nascosto nelle crepe del muro ricoperto di sangue finto.
Che anche lei…
Jake bloccò il pensiero prima che finisse di formularlo. Meglio evitare di addentrarsi in luoghi sconosciuti e invalicati.
«Hai sistemato tutto?» chiese Sy a Red, voltandosi tra le sue braccia. «Qualche problema?»
«Rispettivamente sì e no.» rispose lui, prendendo a giocherellare con la collana di denti finti. «Mi devi ancora dire da cosa sei vestita.»
La ragazza aggrottò le sopracciglia. «Non te l’ho detto? Sono una cacciatrice di vampiri.» riferì al suo segno di diniego. «Non fare quella faccia.» lo sgridò, quando Red la guardò con uno scettico sopracciglio inarcato. Jake non poteva che essere d’accordo con lui.
Il suono funereo e raccapricciante di una campana funeraria risuonò nell’aria, facendolo sobbalzare.
Sy alzò la testa di scatto. Ghignò. «È ora.» Si girò verso i componenti del cerchio e disse: «Quelli che vogliono aiutarmi, vengano con me.»
Sy si districò dall’abbraccio di Red e sfrecciò sulle scale per il secondo piano. Jake incontrò lo sguardo del ragazzo e lo ricambiò scrollando le spalle e facendogli segno di seguirla.
Jake scambiò uno sguardo anche con gli altri che, al suo assenso, seguirono Sy sulle scale. Non sapeva cosa la mente contorta della svampita avesse elaborato, ma un senso di anticipazione lo invadeva.
Jake constatò con sorpresa che il piano superiore era completamente diverso da quello inferiore. Non c’erano festoni né altre decorazioni, non c’erano muri macchiati o arti sparsi ovunque… non c’era assolutamente niente. Era completamente deserto, armadietti a parte. Paradossalmente però faceva più paura così che se ci avessero messo gli addobbi.
Jake non aveva mai visto la scuola di sera, quando non c’era l’attività frenetica della mattina, quando i corridoio non erano invasi dal chiacchiericcio degli studenti, quando la luce della luna dava ai corridoio un aspetto spettrale, soprannaturale.
Ma che aveva in mente di fare Sy?
All’ultimo rintocco della campana fantasma, il primo piano ricadde nel silenzio più totale e inquietante. Erano nell’ala over e lì non arrivava alcun suono da piano di sotto, non una voce, tranne i suoni grevi dell’altoparlante.
Perso nei suoi pensieri, Jake non si accorse che gli altri si erano fermati solo quando andò a sbattere contro la figura piccola e sinuosa di Annika, che si sbilanciò in avanti. Solo il braccio di Jake intorno alla sua vita sottile le evitò di andare a sbattere contro qualcun altro.
Le mani di Annika afferrarono il suo braccio, mentre la sentì trattenere il respiro.
Un calore conosciuto invase il corpo di Jake, diffondendosi dal braccio al torace, dove il petto largo era entrato in contatto con la schiena della ragazza. Annika si voltò leggermente indietro, quel tanto che bastava per incontrare lo sguardo nero notte del ragazzo.
Una parte di lui, quella governata da un diavoletto dispettoso in stile Cartesio, mise in dubbio tutti i suoi propositi di stare alla larga dalla fonte dei suoi pensieri più privati e fare tutto quello che avrebbe voluto con lei, prima di tutto venire finalmente a conoscenza del suo sapore…
Ma si costrinse – facendo penitenza sul suo corpo – a lasciare andare Annika, che si staccò da lui, barcollando leggermente.
Gli parve di scorgere del rossore sulle sue guance, prima che con un movimento della testa, nascondesse il suo viso dietro una cortina di capelli di luna.
«Mi serve l’aiuto di vuoi due, gemelle.»
La voce di Sylence riportò Jake con i piedi per terra. Annika trasalì e si voltò di scatto verso la ragazza.
Jake mise a fuoco quello che lo circondava. Era nel mezzo di un corridoio del secondo piano, vicino all’auditorium di musica. La strada era bloccata da una catena di ferro arrugginita, tesa tra due pali di sostegno anch’essi di ferro. Un cartello di “vietato entrare” pendeva a metà catena. Inoltre, una tenda di plastica, simile a quella della doccia, era appesa attraverso il corridoio a due pilastri nei muri.
La tenda era macchiata di rosso. Sangue finto.
«Che vorresti che facessimo?» chiese Monika, posandosi una mano sulla vita.
Sy sorrise in modo inquietante e scostò la tenda.
Il corridoio era vuoto.
«Allora?» si spazientì Monika. «È uno stupido corridoio vuoto…»
«Sbagliato.» la interruppe Sy. «Non è vuoto, o almeno, non lo sarà… perché vuoi lo riempirete di illusioni.»
«Che genere di illusioni?» investigò Annika, socchiudendo gli occhi.
Un lampo oscuro passò negli occhi di Sy. «Le più terrificanti.» mormorò. «So che vi rovinerò leggermente la serata, ma ho bisogno che vuoi vi nascondiate nell’aula di musica. Io intanto andrò a prendere le vittime. Red,» gli disse, «sai cosa devi fare. Rafe,» si voltò verso di lui, «mi serve anche il tuo aiuto. Saresti capace di suggestionare più di una persona contemporaneamente?»
 Rafe scosse la testa. «No. Posso influenzare una sola persona per volta. E non più di tre volte.»
Sy parve riflettere, poi annuì. «D’accordo. Allora al mio segnale influenza solo i capi, gli altri lasciali perdere. Non sono importanti.»
Sempre più incuriosito, Jake seguì le istruzioni di Sy e andò con Annika, Monika, Rae-Mary e Bastian nell’aula di musica.
Mentre entrava sentì Sy parlare con Red alle sue spalle.
«… non bruciare niente, piromane. Quanto basta per farli prendere uno spavento da capelli bianchi.»
«So quello che faccio, nanerottola
Una pausa silenziosa, poi dei passi che si allontanavano.
Red doveva essersene andato, ipotizò Jake. Qualche secondo dopo, entrò anche Sy nell’auditorium e chiuse la porta.
Sospirò. «So che probabilmente vi rovinerò la serata…»
«Smettila di ripeterlo, rompiscatole.» proruppe Rafe, sedendosi su un banco vuoto. «Siamo… anzi, sono venuto qui solo perché tu me lo hai chiesto.» chiarì. «In tutti gli anni che hanno allestito la Casa degli Orrori non ci sono mai venuto. Primo perché non sopportavo quella piattola di Gabby e la sua squadra di cani bastardi, e poi perché era un vero mortorio. Almeno quest’anno c’è qualcosa di nuovo. Credo che tutti quanti abbiano notato la differenza tra il corridoio allestito da te e quello fatto da Gabby.» disse coinvolgendo anche tutto il resto di loro con un’occhiata. «E questo tuo piano… ho capito che vuoi vendicarti di Gabby e della sua squadra per qualcosa che non so e che vuoi spaventarli a morte… e io ci sto. Almeno, mi divertirò, per una volta, ad usare il mio Talento.»
Jake non era perfettamente d’accordo con Rafe, ma anche lui avrebbe dato una mano, se Sy glielo avesse chiesto. Jake era un tipo che mascherava con indifferenza l’antipatia che provava verso qualcun altro, per cui aveva nascosto bene quella che provava verso Gabby. Dalla prima volta che l’aveva incontrata e avevano parlato, aveva intuito che tipo di persona fosse e aveva mantenuto da subito le distanze.
Aveva capito che Sy intendeva vendicarsi per quello fatto alla sua amica Kima era lui sarebbe stato dalla sua parte. D’altronde, anche lui avrebbe fatto lo stesso.
«Gemelle?» chiese Sy girandosi nella loro direzione.
Le sorelle si scambiarono uno sguardo proprio da gemelle e poi annuirono in contemporanea.
«Detestiamo Gabby.» dissero all’unisono.
Allora, Sy annuì tirando un debole sospiro di sollievo.
«Grazie ragazzi.» disse. «Sono in debito con voi. Ora vado a prendere le nostre vittime.»
Detto questo, uscì.
Jake si girò verso i componenti del Cerchio.
«Siete sicuri di quello che fate?»
I ragazzi annuirono. «Bene.» sospirò Jake. «Allora, diamo inizio ai giochi.»
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
La serata stava andando meglio di quanto mi sarei mai aspettata. Il Cerchio era dalla mia parte, Red mi avrebbe aiutato e da lì a cinque minuti Gabby, Harber e quelli della squadra di football avrebbero festeggiato Halloween nel modo migliore. O dovrei dire peggiore? Mah…
Un ghigno malefico si aprì sulle mie labbra e non feci niente per nasconderlo.
Trovai Gabby nella palestra che comandava a bacchetta i giocatori, facendoli andare avanti e indietro portando questo o quello, mentre Harber se ne stava in un angolo appoggiato al muro, senza costume, con una bottiglia di coca tra le mani: era una di quelle in limited edition, per cui non si vedeva quello che c’era dentro. Ed ero fermamente sicura che non fosse coca-cola. E meno male che gli alcolici li potevano bere solo i ventunenni.
L’intera aria del campo da basket era stato sgombrato e adesso pullulava di studenti vistiti con i più svariati costumi. Lungo il lato nord dell’edificio erano stati sistemati i tavoli con le bibite e gli stuzzichini; invece a pochi metri di distanza dall’entrata della palestra, c’era un DJ che giocava con i piatti e tutte quelle lucine, mentre la tecno-music suonava a palla dagli amplificatori posti strategicamente negli angoli della palestra.
Appena mi fermai vicino a Gabby, Harber bevve un sorso tenendo il collo della bottiglia con due dita, per poi asciugarsi la bocca con la manica della maglia – disgustoso – e staccarsi dal muro, venendo nella nostra direzione.
Bene.
«Gabby, ricordi che ti avevo chiesto di lasciarmi il corridoio del secondo piano, perché avevo una sorpresa da farti vedere? Bene, perché la sorpresa e pronta e devi solo venirla a vedere.»
Gabby si scostò una ciocca di capelli dal viso in un gesto vezzoso. «Ma che bella cosa, Sy. Non sapevo che la sorpresa fosse per me.»
«Oh, ma non è solo per te. Sono invitati anche Harber e i suoi giocatori.» dissi, alzando appositamente la voce, per farmi sentire anche dagli altri. «Venite con me.»
Feci un sorriso invitante – palesemente falso – e feci loro cenni di venirmi dietro.
Sentivo i bestioni di football scambiarsi battute idiote su di me, chiedersi cosa stessi loro per mostrare – inteso in senso volgare, sia chiaro – e darsi pesantemente delle pacche sulle spalle per congratularsi delle loro stesse battute.
Che idioti.
Lanciai un’occhiata incuriosita verso Harber che se ne stava silenzioso accanto ad Gabby, mentre continuava a tracannare la birra. Sembrava perso nei suoi pensiero, e sperai vivamente che io o Red non c’entrassimo niente.
Arrivati nell’atrio, li guidai al secondo piano, mentre dal basso, giungevano le voci di altri studenti che entravano nella Casa degli Orrori, urla femminili provenienti dai corridoio e altri schiamazzi.
Nascosi un sorriso soddisfatto. Stava andando tutto liscio come l’olio.
Giunta a pochi metri dalla tenda di plastica, alzai appositamente la voce per farmi sentire dalla gemelle, e gli altri del Cerchio.
«Bene, siamo quasi arrivati.» dissi girandomi verso gli altri. Gli occhi di tutti erano posati tutti sulla tenda e li sentivo bisbigliare tra loro, domandandosi cosa ci fosse dietro. «Tenetevi pronti per la sorpresa. Al mio tre, alzerò la tenda.»
Mi posizionai accanto alla tenda e ne afferrai un lembo con la mano. «Pronti?  Uno… Due…»
Tenno il loro fiato sospeso, un principio di suspense, e poi perché avevo sentito dietro la schiena qualcuno che mi toccava.
«…Tre!»
Il telone era scostato.
All’interno un immenso buco nero. Non si vedeva niente, come se avessero spento ogni minino dispensatore di luce.
Brave gemelle!
Le mie vittime fissavano quel buio con soggezione, le loro menti sottosviluppate intuivano che c’era qualcosa che non andava, ma erano troppo stolti per riuscire a capire che cosa fosse.
Fece loro un vago gesto con la mano, indicando il tunnel oscuro. «Entrare e godetevi questo giro sulla vostra giostra d’onore.»
La mia voce fu inquietante anche per me.
Gabby era sbiancata, ma con il solito gesto ammiccante, si scostò i capelli dagli occhi e disse: «Ma che brava!» si complimentò. «Un’oscurità davvero perfetta. Devi svelarmi il tuo segreto.»
Detto questo si avviò all’interno. Nella mia testa sentivo una vocina dire: “Ah, se veramente potessi dirtelo, allora sì che scapperesti a gambe levato e con tutti i capelli bianchi.”
Harber finì di bersi la sua coca-birra e, ruttando sonoramente, entrò anche lui.
E sono due.
Mi voltai verso quelli della squadra di football. «Voi non volete entrare?»
Vidi alcuni di loro aggiustarsi il pacco, come se riaggiustarsi i gioielli di famiglia potesse renderli più coraggiosi, per poi raggiungere il loro capitano.
Entri, invece, preferirono fare dietro front e tornarsene da dove erano venuti, borbottando di un improvviso impegno e di qualcuno che li stava aspettando.
Così mi facilitano di più il lavoro.
«Jake?» chiamai.
Lui emerse da dentro l’oscurità. «Dimmi.»
«Le gemelle?»
«Sono proprio sulla porta dell’aula di musica. Ti stanno aspettando.»
«Bene, portami da loro. Io non riesco a vederle.»
Jake mi prese per il polso e mi portò verso la porta.
Dio, faceva veramente paura quel posto. Buio totale, non un pizzico di luce, neanche un pulviscolo. Era perfettamente compatto, da tagliare con un coltello.
Jake si fermò. «Gemelle liberate Sy dall’illusione.» ordinò verso un punti impreciso davanti a lui.
«No!» esclamai con voce moderata, guardando proprio lì. «Voglio vedere quello che le gemelle creeranno. Però dovete fare in modo che gli altri non possano vedermi.»
«Detto fatto.» sentii dire da una delle due, se non erro, Monika, dopo qualche secondo.
«Benissimo.» sospirò Jake.
«Okay, gemelle.» dissi loro, girandomi verso le inconsapevoli vittime, che si erano fermate poco più avanti. «Dolcetto o scherzetto.»
Lo spazio intorno a noi si riempì di bianco accecante, stordendo sia me che le mie vittime. Qualche secondo dopo, l’atmosfera cambiò radicalmente. Tutto intorno a noi si propagarono immagini di ogni sorta di mostro, molto simili a quelli di Nightmare Before Christmas, che si avvicinavano lentamente, come zombie.
Era qualcosa di leggero, ma per come li presentarono le gemelle – coperti di sangue e che emanavano suoni sgradevoli dalle gole – avevano un certo impatto.
Osservai Gabby ridacchiare nervosamente, mentre Harber si faceva una grossa risata.
«Cosa diavolo sono queste? Un qualche tipo di proiezione?» chiese, probabilmente a me, ma non gli risposi. Lui si girò intorno cercando con gli occhi, ma non trovando niente, si voltò a guardare quelle figure minacciose che continuavano ad avanzare.
«Gemelle, datemi qualcosa di più pesante, tipo gli zombi dentro Resident Evil IV, conoscete?» chiesi.
«Certo.» rispose una delle due.
Appena qualche secondo dopo, i mostri alla Nightmare iniziarono a cambiare, ad ondeggiare, come se fossero dietro una nuvola di fumo, allungandosi, contraendosi, fino a giungere alle spaventose forme di essere umani cadaverici, con orbite lattiginose e infossate, la camminata sbilenca, come se le gambe fossero rotte e si trascinassero a fatica; uomini e donne con vestiti laceri e grondanti di sangue, gengive che colavano bava e mani mostruose protese in avanti.
Sia Gabby che Harber rabbrividirono: erano circondati da quelle creature orribili che tendevano le braccia per ghermire le loro vittime – le mie. I ragazzi della squadra di football, che fino a quel momento avevano osservato la scena, chiacchierando tra loro, si strinsero in un’unica massa.
«Gemelle, ce la fate ancora?» chiesi.
«Non preoccuparti.» rispose Annika. «Illusioni in un campo ristretto sono più facili da mantenere e modificare. E riusciamo a reggerle per molto più tempo.»
«Bene, allora, ecco un altro tocco d’arte. Fare in modo che gli zombi possano toccarli. Che quei due sentano il tocco delle loro mani putride.»
«Bleach, che schifo!» esclamò una, disgustata.
«Pensa che non toccheranno te, gemella.»
Con i mostri che l’accerchiavano, a circa un metro di distanza, Gabby si strinse contro Harber, mentre questi si guardava intorno circospetto.
«Sy, adesso basta.» disse Gabby, con voce autoritaria, che perse l’effetto che avrebbe voluto fare, perché tremava. «Ne ho abbastanza di questo scherzo, davvero divertente.»
Ebbi paura della mia stessa risata, tanto era inquietante. Che stessi diventando sadica? Naa…
«Non hai ancora visto niente.» mormorai tra me e me. «Gemelle è ora di rincarare la dose.»
Così detto, gli zombie si avvicinarono ulteriormente a Gabby e Harber che si erano rintanati in un angolo del corridoio.
Il primo zombie che toccò Gabby la fece urlare a squarciagola. Harber cercava di allontanarli, ma non ci riusciva. I ragazzi di football allungavano i pugni per colpire le illusioni, ma puntualmente il colpo andava a vuoto. Quando si resero conto di non poter fare niente contro di loro, decisero in una ritirata strategica: spintonandosi a vicenda, correndo, scivolando, scavalcandosi, si affrettarono ad allontanarsi, tornando da dove erano venuti.
Gabby e Harber erano impotenti di fronte all’assalto degli altri zombie: Harber colpiva a vuoto, come i suoi amici, mentre Gabby non faceva altro che urlare come un’ossessa ogni volta che uno zombie le sfiorava il viso, le braccia, i capelli.
Anche se brutto a sentire, ero soddisfatta di quella scena, perché da quello che mi aveva detto Jake, anche Rosarianna aveva provato una cosa del genere, circondata da omoni che volevano farle del male, che la toccavano senza il suo consenso, che la accerchiavano per poter farle del male e lei, incapace di difendersi con uomini più grossi di lei.
Dante Alighieri l’avrebbe definita una punizione per analogia, nell’Inferno.
E a proposito di Inferno…
Tirai fuori il telefono dalla tasca e mandai un messaggio a Red.
«Gemelle, vi chiedo un ultimo favore. Tenetevi pronte per un’ultima illusione, quella che, personalmente, ho chiamato pirotecnica.» Mi voltai verso Rafe. «Adesso.»
Rafe annuì e si voltò verso Gabby e Harber. «Gabrielle.» la chiamò con la sua voce doppia, piena di potere.
La ragazza, nascosta dietro Harber, venne costretta a esporsi e guardare Rafe.
«Rimani immobile.» le ordinò e senza perdere un attimo di tempo, chiamò anche Harber, che lo guardò con occhi sbarrati dalla paura, e gli ordinò di rimanere fermo.
Sentì nella mia tasca il telefono che vibrava.
Mi giravi verso le gemelle. «Ragazze, quando arriva Red ricopritelo di fiamme e fatelo sembrare più alto. Dategli una faccia demoniaca, tipo zanne, occhi infuocati e corna. Deve sembrare il diavolo in persona. E,» aggiunsi, «fate andare via gli zombie, come se fossero spaventati. Fateli scappare via.»
«Ti ci stai mettendo davvero d’impegno, vero?» disse, sarcasticamente, una di loro.
«Sy non credi di aver fatto abbastanza?» mi chiese Jake. «Infondo non è da tanto che conosci Aria…»
«Aria è diventata la mia migliore amica, anzi è come una sorella per me.» lo interruppi con veemenza. «E i membri della mia famiglia non si toccano. Non mi importa se è successo prima che io la incontrassi, è comunque un torto subito che non è mai stato pagato. E io intendo pagarlo.»
In quel momento arrivò Red.
«Gemelle, tocca a voi. Trasformate Red nel diavolo in persona.»
«Ricordami di non farti mai arrabbiare.» mormorò Jake, facendosi da parte.
«Non preoccuparti. Dopo questo te lo ricorderai da solo.»
Le gemelle si misero all’opera e in men che non si dica, Red fu avvolto da fiamme fantasma, il suo corpo si allungo di ben più di trenta centimetri, la faccia cambiò totalmente, ricopiando in pieno i miei suggerimenti. Le gemelle avevano aggiunto un altro tocco, una coda con la punta forma di freccia infuocata.
Mi divertii a vedere l’espressione delle mie due vittime che diventava cinerea e le loro voci che riempivano il corridoio di urla terrorizzate.
Red si avvicinò a loro con passo aggraziato, suo solito – devo dire che anche combinato in quel modo mi dava i brividi, e non di paura. Si avvicinò a meno di tre metri da Harber e Gabby e allungo le mani, le palme all’insù.
Due palle di fuoco presero a formarsi al loro interno, fino a raggiungere un diametro poco più grande di dieci centimetri.
Il primo bersaglio fu Harber. Ovviamente, non lo colpì per ferirlo – anche se sapevo che quelle erano le intenzioni segrete di Red per quello che il bestione idiota mi aveva fatto quel giorno stresso –, ma lanciò la palla ai suo piedi e, visto che il giocatore non poteva muoversi per merito di Rafe, si spaventò ancora di più. Si contorceva, allungava le braccia, torceva il busto per riuscire a muoversi, ma niente serviva: era completamente alla mercè di Red-diavolo.
La seconda fu per Gabby. La palla di fuoco volò a pochi centimetri dalla sua testa – visto che il punto debole di Gabby erano i suoi capelli – facendola strillare come un’oca a cui si torce il collo.
Erano entrambi così spaventati che non accorsero di niente, quando il diavolo – al mio segnale – se ne andò (prese le normali sembianze di Red e venne da noi).
Ne avevo abbastanza. Quei due avrebbero fatto attenzione a quello che facevano per un po’. La paura è un’arma a doppio taglio e quando la si usava potevi ferire ed essere ferito.
Quei due sarebbero stati buoni almeno per qualche tempo.
«Rafe.» dissi con voce stranamente roca. «Cancella loro la memoria – solo la parte del tragitto fino qua.»
Quei due avevano avuto quello che meritavano, continuavo a ripetermi. Allora perché mi sentivo così spossata… così sconfitta?
Red mi arrivò alle spalle e mi avvolse la vita con le braccia, costringendomi dolcemente a poggiare la guancia contro la sua spalla, il naso affondato nel suo collo.
«Non sei cattiva. Vendicativa, ma non cattiva. E loro meritavano quello che fatto loro, soprattutto Harber.» mormorò al mio orecchio.
Vidi Rafe accompagnare Gabby e Harber fuori dal corridoio che, ancora storditi dalla suggestione, gli obbedirono senza fiatare.
Poi tornò da noi.
«Bene. Credo che qui abbiamo finito. Che ne dite di andare via… magari possiamo farci una pizza da qualche parte, oppure un hamburger.» suggerì Rafe.
In quel momento non avrei avuto neanche la forza di mangiarmi un grissino, lo avrei rimesso. La cattiveria ha dei brutti effetti collaterali.
All’improvviso, da dietro le spalle di Rafe – che era davanti a me – iniziò ad addensarsi una nuvola di fumo, che serpeggiando e ondeggiando, si allargò fino a prendere la forma di un uomo, molto alto e forzuto, che oscurò la finestra alle sue spalle. I contorni indistinti si fecero più chiari, la sagoma divenne tridimensionale e il corpo solido.
Piegai la testa di lato quando, mezza stordita dai postumi della vendetta, riconobbi l’oscura presenza di Reìrag.
«Gemelle, perché avete creato l’illusione di Reìrag?» chiesi loro girandomi a guardarle.
Tutti di irrigidirono, mentre le gemelle si scambiarono uno sguardo fugace. Alzarono le mani, sottolineando il fatto di non averle più unite.
«Ma non abbiamo creato niente.»
«E allora quello…» dissi accennando alle loro spalle.
Il mostro non si era ancora mosso, era ancora lì circondato dal fumo nero e denso che ci osservava, come un leone osserva una gazzella.
Le braccia di Red si serrarono intorno al mio busto, dandomi una leggera fitta… e questo bastò a riportarmi con i piedi per terra… e nella spiacevole situazione in cui ci trovavamo.
La lucidità mi assalì, aggredendo il mio cervello con messaggi di pericolo e fuga immeditata.
Quella non era un’illusione.
Reìrag era tornato.
 
Jackson Kingston’s POV
 
Immobile accanto agli altri, Jake osservava la figura oscura e trasudante di potere di quel mostro, Reìrag. Era tornato e sembrava intenzionato a provocare molti più danni della volta precedente. Questa volta non li avrebbe sottovalutati, ne era certo.
La mente di Jake lavorava freneticamente per trovare una soluzione, prima di tutto a come uscire di lì. La scuola pullulava di studenti e se si fosse verificata una battaglia – cosa più che certa – sarebbero dovuti andare da un’altra parte, dove degli innocenti sarebbero stati al sicuro.
Red sembrò essere sulla sua stessa lunghezza d’onda, perché gli disse: «Dobbiamo andarcene da qui.»
Allora, Reìrag incominciò a parlare. Una fiumana di parole nell’Antica Lingua, intrise di rabbia, fredda minaccia e promesse di morte, che si sparsero nell’aria. L’unica di loro che poteva comprenderla era Sy, che proprio per questo si fece avanti di qualche passo.
Anche se non era giusto – in guerra e in amore tutto e lecito –, sembrava  proprio un ottimo diversivo per spingerli tutti quanti fuori. Ma dove?
«La porta antincendio, alla fine del corridoio.» gli disse Red e Jake benedisse quel sottile legame che ancora li univa e che permetteva loro di comprendersi al volo, senza bisogno di parlare. «È ancora aperta.»
Le parole che Sy e Reìrag si stavano scambiando andarono via via serrandosi, il che prediceva che l’inizio della battaglia era ormai vicino. Dovevano fare in fretta.
«Gemelle, appena ve lo dico, fateci diventare invisibili agli occhi di quel mostro, okay?»
Le sorelle annuirono.
Jake afferrò la mano di Annika, che afferrò quella della sorella, e fece segno agli altri di fare lo stesso. Red prese quella di Sy, che troppo impegnata a parlare con Reìrag non se ne accorse. Parlava con veemenza contro Reìrag, dicendogli chissà cosa, e rimpianse di non averle chiesto di insegnarli l’Antica Lingua: questo essere allo scuro dei loro discorsi lo rendeva nervoso.
Poi Sy smise di parlare, emettendo un suono strozzato come se le si fosse stretta la gola, e impallidì continuando a sentire quello che il mostro le diceva. Prese a scuotere la testa, non un gesto di diniego, ma uno di rifiuto, come quando ti comunicano che una persona a te cara è all’ultimo stadio di un cancro.
Jake vide Sy stringere convulsamente la mano di Red, e decise che il momento opportuno era proprio quello.
Girandosi verso le gemelle, disse loro: «Tenetevi pronte.» Poi si voltò verso Red e gli chiese: «Prepara una palla di fuoco, dobbiamo distrarlo ancora di più, per guadagnare altro tempo.»
L’altro annuì e spostò la mano che non teneva quella di Sy dietro la schiena, che incominciò a fumare e riscaldarsi.
Con i nervi tesi, pronti per l’azione, Jake contò lentamente fino a cinque.
Uno…
Sarebbero dovuti scattare immediatamente.
Due…
Strinse la presa sulla mani di Annika, mentre sgombrava la sua mente da ogni pensiero negativo.
Tre…
Lanciò un’occhiata a Red, augurandosi che avesse ragione riguardo alla porta.
Quattro…
Pregò Dio che gliela mandasse buona.
Cinque!
«Ora!»
Red lanciò la palla di fuoco contro Reìrag centrandolo giusto in faccia. Il mostro lanciò un urlo raccapricciante prendendosi il viso tra le mani, piegandosi in due dal dolore. Il ragazzo afferrò la mano di Sy e la strinse a sé.
Jake fece segno alle gemelle e queste crearono l’illusione.
Subito dopo scattarono verso la porta antincendio.
Uno dietro l’altro correvano a perdifiato verso l’unica via d’uscita che avevano a disposizione. I lamenti di Reìrag sfociarono in un grido di rabbia, che prometteva vendetta sicura. Jake gli lanciò un’occhiata: lo vide barcollare leggermente, sfregandosi la faccia fumante; i suoi occhi erano abissi di morte e dolore.
Riportando lo sguardo davanti a sé, Jake vide la porta antincendio. Erano salvi.
Rafe, a capo della fila, arrivato per primo, spinse il maniglione antipanico, che si abbassò aprendo la porta con uno scatto. Le scale antincendio erano sgombre e presero a scenderle velocemente, facendo attenzione a non inciampare.
Jake sentì dei passi pesanti che si avvicinavano e ipotizzò che Reìrag doveva essersi ripreso abbastanza dal colpo ricevuto da poterli inseguire.
Incitò gli altri a scendere, intanto che pensava. Non potevano andare nel parcheggio perché c’erano tutti gli studenti che stavano arrivando o che se ne stavano andando dalla scuola e li avrebbero messi in pericolo; e non potevano neanche optare per una fuga attraverso la città perché le case con dentro persone innocenti sarebbero state un bersaglio facile e un’ottima merce di scambio se quel maledetto mostro avesse preteso di nuovo di volere Red.
L’unica soluzione che restava era andare nel giardino della scuola, molto probabilmente deserto, dove avrebbero avuto campo libero sia per usare liberamente i loro poteri, sia perché le gemelle avrebbero avuto un campo ristretto su cui agire, garantendo loro una protezione da occhi indiscreti.
«Nel giardino, Rafe!» gridò, quando scesero gli ultimi gradini della scala, che vibrò pericolosamente quando il peso di Reìrag vi piombò addosso: il mostro stava scrutando intorno a lui, per cercare di individuarli.
Jake incitò gli altri a non fermarsi, dirigendoli verso il giardino.
Ma il mostro riuscì a vederli, o almeno a percepire la loro presenza, perché Jake vide il suo sguardo inchiodarlo, mentre un ghigno maligno gli incurvò le labbra.
«Via, via, via!» incitò gli altri a muoversi. «Al giardino!»
Il cerchio scatto verso il loro luogo di riunione, mentre una risata maligna vibrava nell’aria, alle loro spalle.
Il retro della scuola era completamente buio, fatta accessione di qualche piccola luce d’emergenza, accesa sulle porte che davano sul selciato, a frammentarlo.
«Jake, cosa facciamo?» gli chiese Annika, affannata dalla corsa, il viso contorto dall’ansia e dalla paura.
Jake non lo sapeva, in quel momento la sua mente era tabula rasa. Gli era parso – ed era sicuro che fosse così – che Reìrag questa volta fosse più potente: aveva chiaramente percepito la sua Energia, che lo aveva investito con più forza dello scontro precedente.
Dovevano trovare un modo per contrastarlo altrimenti questa volta non ne sarebbero usciti, non vivi almeno.
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Un profondo intontimento m’intorpidiva la mente e il corpo. Camminavo per inerzia, perché Red mi stava tirando per la mano, a peso morto.
Nella mia mente, risuonavano senza sosta tutto quello che Reìrag mi aveva lanciato contro, verbalmente parlando. Bugie su bugie, un cumulo di menzogne grande quanto una casa, ne ero sicura.
O, se non altro, era quello che mi ripetevo.
Però, per quanto brutto a dirsi, dentro di me, in quella parte del mio essere puramente aliena, quella che mi legava quel mondo fatto di magia e esseri sconosciuti, avevo percepito la verità nascosta dietro le sue parole.
Ma non potevo crederci, altrimenti tutto quello in cui avevo creduto sarebbe caduto come un castello di carte.
Quella parte di me ancora bambina, quella che aveva paura del mostro nell’armadio, piangeva silenziosamente in un angolo della mia mente, chiedendosi perché le stesse capitando tutto questo.
Uno strattone ben assestato mi fece riprendere leggermente. Mi accorsi vagamente che eravamo nel giardino e ci stavamo dirigendo verso la fontana della Regina Bianca. Sentivo la voce di Red chiamarmi con insistenza, ma era soffocata, come dietro un muro d’ovatta.
Dovevo riprendermi, dovevo reagire. Non era il momento affollare la mente di pensieri sconcertanti. Avevo bisogno di lucidità.
Costrinsi me stessa a reagire, ordinando alle mie gambe di muoversi. Strinsi la presa sulla mano di Red, per fargli capire che mi stavo riprendendo dallo shock. Lui mi lanciò un’occhiata interrogativa, a cui risposi con un cenno affermativo del capo.
I membri del Cerchio si fermarono davanti alla fontana, l’unico posto più lontano dalla scuola, dove c’era più possibilità di mosse.
Tirando un respiro profondo, mi preparai a combattere, richiamando a me tutto il potere possibile: il cielo si rannuvolò e i lampi invasero le coltri scure.
Vidi Jake lanciarmi uno sguardo. Annuii.
«Qualche piano intelligente?» mi chiese.
Scossi la testa. «Uh-uh.»
«Allora siamo nei guai.» rispose.
«Nessuna idea?»
«Neanche l’ombra.»
«Come diavolo facciamo?» mi domandai soprappensiero. «Abbiamo un mostro altro due metri e largo uno e mezzo, che ci rincorre come un leone con la preda, pieno di Energia da scoppiare, con un’insana voglia di vendetta e che non si fermerà fino a quando non ci avrà visto morire uno ad uno. Ho tralasciato qualcosa?»
Jake mi guardò di sottecchi. «Sai proprio come risollevare l’umore, vero?»
«Meglio essere realisti, che vivere di castelli in aria, rischiando di rimetterci la pellaccia.» lo rimbrottai.
Tirò su col naso. «Come non darti torto.»
In quel momento, Reìrag svoltò l’angolo dell’edificio: si faceva avanti con l’aria disinvolta di uno che aveva tutto sotto controllo, che aveva fiducia nelle sue capacità.
In effetti…
No, niente pensieri negativi. O, almeno, non più di quelli che avevo già espresso.
«Un piano, un piano.» continuavo a ripetermi, scervellandomi, cercando un qualsiasi barlume di speranza.
Reìrag arrivò all’imbocco del vialetto.
«Sei ancora capace di ragionare, Yuleck?» mi domandò.
Mi seccava sentirmi chiamare mocciosa, ma cercai di non badarci.
«Molto più di te, idiota.» gli grugnii contro. «Che cos’hai questa volta da dire? Altre fesserie? Altre balle? Non me le bevo.»
«Dovresti bertele, invece, come dici tu. Posso essere tacciato di malvagità, essere considerato un assassino spietato e senza cuore – cose tutte vere, tra l’altro – ma non di essere un bugiardo. Purtroppo, la mo Bhean, mi ha lanciato contro un incantesimo che mi impedisce di farlo.» Sogghignò. «Le parole che ti ho riferito erano la pura verità
Allargò le braccia, richiamando a sé l’Energia oscura che lo avviluppava come un manto nero fumo.
«Dobbiamo attaccarlo, Jake.» dissi freneticamente. «Adesso.»
Lui Annuì. «Cerchio!» chiamò. «Disponetevi a semicerchio. Gemelle, alla mia destra. Rafe, accanto a loro, così potrai proteggerle. Red spostati dall’altro lato di Sy: lei è il nostro Elemento più forte e dobbiamo preservarla per l’attacco definitivo.»
«Aspetta un attimo!» protestai. «Mi stai rilegando in un angolo?»
«Sylence, i tuoi fulmini sono armi potenti e a lungo raggio.» mi spiegò Red. «È ovvio che vogliamo tenerti al sicuro. Il tuo Talento più tornare più utile dei nostri messi assieme, in un attacco diretto.»
Era inutile continuare a lagnarsi, sapevo che aveva ragione. Nonostante questo, non mi andava che Red fosse in prima linea, pronto a difendermi.
Gli afferrai il collo della t-shirt e lo tirai a me. «Lui ti vuole ancora, Fowred.» gli ringhiai all’orecchio. «Non gli permetterò di averti. Non gli permetterò di portarti via da me.»
Il suo sguardo s’intensificò e con un cenno del capo mi comunicò la sua intenzione di impedire a quel mostro di dividerci.
«Gemelle,» sentii dire da Jake. «Indietreggiate. Le vostre illusioni ci saranno utili dopo. Ora, quello che più ci preme è un attacco frontale.»
Avrei voluto congratularmi con Jake per il suo comportamento: era la quintessenza del comando, dell’autorevolezza; distribuiva ordini a destra e a manca, pensando ogni qualsivoglia strada percorribile. Si stava riscattando in pieno per la mancata occasione di dimostrare il suo valore come stratega impeditogli la vola precedente.
Riportai lo sguardo su Reìrag, che aveva finito di raccogliere l’Energia in una palla di fumo e, con un ghigno, l’aveva portata all’altezza del viso.
Si comincia.
Per la prima volta da tanto tempo, levai una lieve preghiera a Dio.
Aiutaci ad uscire tutti vivi.
 
Third Person Narrator’s POV
 
L’aria era carica di elettricità, molecole di Potere così forte da far tremare i vetri dell’enorme edificio scolastico. Le voce degli studenti erano solo un debole sottofondo, tanto pulsava il sangue nei cuori del Cerchio.
La notte era una compagna pericolosa e allo stesso tempo confortante.
Un brivido di freddo attraversò il corpo di Sy, rendendola consapevole della tensione che le irrigidiva i muscoli.
Era frustrata per essere stata rilegata in seconda fila, ma era consapevole che Jake aveva ragione. Doveva conservarsi per quando sarebbero arrivati allo scontro vero e proprio.
Sy percepiva chiaramente l’Energia dell’Assoggettato, eppure non vedeva né ciondoli o altri ornamenti che potessero costituire un contenitore di Energia.
Gli occhi nero abisso di Reìrag incontrarono i suoi…
… e lo scontro iniziò.
Reìrag lanciò la sua palla di fumo, ancor più veloce di un il calcio di l’attaccante di calcio, che si scontrò a mezz’aria con quella di fuoco creata da Red.
L’onda d’urto che scaturì al disintegrarsi delle due sfere la squilibrò, costringendola a fare un passo in dietro per non sbilanciarsi ulteriormente.
Jake ordinò a Rafe di lanciare un ordine per impedire a Reìrag di usare la sua magia, ma il mostro non venne suggestionato. Fortunatamente però, il Talento di Rafe fece guadagnare al Cerchio qualche momento prezioso per contrattaccare, visto che la soggezione intontì il mostro.
Red creò altre due sfere che poi unì insieme e che poi scagliò contro Reìrag, prendendoli in pieno viso. Un grido di rabbia vibrò fuori dalla sua bocca.
Gli occhi penetranti si alzarono ad incontrare quelli del ragazzo, che gli risposte sostenendolo.
Inaspettatamente, però, sulla faccia del mostro si allargò un ghigno e, incredibile a dirsi, scomparve.
Un attimo era lì, piegato su se stesso con il viso tra le mani, e quello dopo era come stato risucchiato dentro il mantello dell’invisibilità.
«Dove diavolo è?» domandò Rafe, guardandosi attorno freneticamente.
«State tutti vicini, spalle contro spalle.» ordinò Jake.
Formarono un cerchio, guardandosi intorno, cercando disperatamente di vedere dove fosse Reìrag.
Un urlò di dolore si alzò in mezzo a loro, quando Rae-Mary venne colpita.
«Rae!» gridò Sebastian, voltandosi verso lei.
La ragazza era accagliata a terra, un braccio completamente ustionato, vesciche e cicatrici rosse le solcavano la pelle. Il ragazzino la prese sotto le ascelle, e cercando di essere delicato, la trascinò all’interno del cerchio protettivo formato dagli altri componenti del gruppo. Passò la punta dei polpastrelli sulla ferita, ricostruendo la pelle, assorbendo le vesciche, alleviandole il dolore.
«Bastian?» sentì chiamare da Jake.
«Sta bene. È svenuta a causa del dolore.» riferì il ragazzino. «Dobbiamo fermarlo.»
«Ma come?» chiese Rafe.
La mente di Sy lavorava freneticamente. «Credo che dovremmo utilizzare di nuovo il Talento di Rafe.» riferì poi.
«Ma non servirebbe a niente!» protestò quest’ultimo. «Non posso impedirgli di fare niente. È troppo forte.»
«Sì, ma lo stordisce. Può essere un’ipotesi azzardata, ma sembra l’unica scelta possibile.»
«E appena lo vediamo – se lo vediamo – attaccatelo. Sy anche tu.»
«Rafe, devi metterci tutta l’Energia che puoi.» lo avvisò la ragazza. «Questo è il tuo ultimo tentativo.»
Rafe annuì con sguardo serio, concentrando tutto se stesso nel raccogliere tutto il potere che aveva il corpo. La Forza lo invase, contraendogli i muscoli delle spalle, quasi sostenessero un peso invisibile.
Mormorando una preghiera, aprì la bocca e la voce intrisa di tutto il suo potere risuonò in tutto il giardino.
«Reìrag, smettila di usare i tuoi poteri!»
La terra tremò sotto il peso della Suggestione, anche i membri del Cerchio percepirono distintamente le onde di Energia che agitavano l’erba, i cespugli, le fronde degli alberi.
Il silenzio che seguì fu surreale, come se qualcuno avesse premuto il tasto mute sul telecomando del mondo.
C’era aspettativa. Speranza.
Poi, da un punto impreciso alle spalle del Cerchio si levò un lamento gracchiante.
Con uno scatto, tutti gli occhi puntarono sulla figura accasciata accanto al muro dell’edificio, una mano premuta sulle orecchie da cui, attraverso le dita nodose, gocciolava del sangue nero come l’inchiostro.
C’erano riusciti, pensarono confusamente più menti. Avevano bloccato l’invisibilità di Reìrag.
Questo accese dentro i loro giovani cuori la speranza che, anche questa volta sarebbero riusciti a sconfiggerlo.
Sentendosi fibrillata da quella scoperta, Sy incitò Red ad attaccare ancora una volta.
Il ragazzo creo velocemente una sfera di fuoco che lanciò contro Reìrag.
Ma il colpo non andò mai a segno.
Qualcosa di invisibile intercettò la palla e la disintegrò prima ancora di avvicinarsi a meno di due metri da lui.
Sy vide distintamente una voluta di fumo alzarsi dal corpo dell’Assoggettato, seguita da un’altra, e un’altra e ancora, fino a che il fumo non lo avvolse completamente.
Non preannunciava niente di buono.
Un’improvvisa onda di Energia investì il gruppo, spingendolo a indietreggiare.
L’aria crepitò di potere, di rabbia scatenata e violenta sete di morte.
«Attenti!» ebbe appena in tempo di urlare Sy, prima che Reìrag attaccasse.
Si mosse così velocemente da essere quasi incorporeo. Stese una mano, una sfera di fumo si formò nel suo palmo e, inarrestabile, piombò sul primo bersaglio che ebbe sotto tiro: Rafe.
Il colpo lo prese in pieno stomaco, proiettandolo all’indietro, mentre un fiotto di aria e sangue gli usciva a forza di bocca. Cadde di schiena sul prato alle sue spalle, rotolando per i restanti tre metri, per poi andare a sbattere contro il tronco di un albero.
«Rafe!» gridò Bastian, scattando verso il suo migliore amico.
Non arrivò mai a destinazione. Venne travolto dalla forza del pugno di Reìrag in pieno viso: il suono umido e secco del setto nasale che si spezzava fu raccapricciante.
Il corpo di Bastian piombò al suolo come un peso morto, a pochi metri di distanza.
Sopraffatta dalla rabbia nel vedere quella strage, Sy concentrò il suo potere, richiamando una scarica di fulmini, che scaricò su Reìrag con un urlo assordante.
Red le diede manforte, colpendolo con una continua fiumana di palle di fuoco particolarmente potenti.
Jake, si avvicinò alla panchina di pietra alle sue spalle e, afferrando la seduta, la strappò da sopra le colonne che la sostenevano. Fremente di rabbia, velocizzò il passo, come fa un atleta prima del lancio del giavellotto, per poi lanciare la lastra di pietra con tutta la forza che aveva.
Il masso si abbatté sulla schiena di Reìrag, disintegrandosi un tanti pezzi e una pioggia di pietrisco. Jake fu pronto a prendere anche le altre due lastre, i piedi della panchina.
Sy, intenta a scaricare fulmini dopo fulmini su Reìrag, ebbe la vaga sensazione che ci fosse qualcosa che non andasse. I colpi che stava ricevendo avrebbero dovuto scaraventare il corpo di quel mostro in tutte le direzione, come quando si scuote una bambola di pezza.
Ma Reìrag rimaneva fermo, fatta eccezione per qualche passetto laterale o indietro.
Sy sentiva il suo potere di sminuire di colpo in colpo: stava usando tutta l’Energia che aveva in corpo per colpirlo…
A quel punto di diede dell’idiota. Come aveva potuto essere così idiota!?
Era talmente ovvio quello che stava facendo quel mostro che lo aveva dato per scontato. Si ripromise non commettere più quell’errore madornale.
Resasi conto del piano di Reìrag, diminuì la potenza dei colpo e aumentò la distanza tra l’uno e l’altro.
Cercò di chiamare Red, per spiegargli quello che aveva intenzione di fare, ma quello era preso troppo dalla rabbia per poterla sentire: vedeva chiaramente il fumo che saliva dai suoi vestiti e la puzza di bruciato.
Continuando con la sua farsa, si avvicinò a Red, stando ben attenta a non farsi troppo vicina, per timore di essere scottata. Era consapevole che Red era troppo arrabbiato per cogliere la differenza tra lei e Reìrag.
«Red, devi smetterla!» gli ingiunse. «Stai sprecando la tua Energia. Stai ricadendo nella sua trappola.»
Ma lui non le dava ascolto. E, ormai, era troppo tardi.
In seguito le venne detto quello che successe in quel frangente di tempo che era stata svenuta, rimanendo alquanto scioccata.
Reìrag, ormai stanco di subire quegli attacchi, decise che aveva fatto sprecare abbastanza Energia al Fuoco, per cui attaccò.
Raccogliendo tra le braccia una manciata potente di Energia oscura e poi, raddrizzandosi, allargò le braccia in modo tale da espandere quell’Energia in una potente onda d’urto.
I suoi bersaglio caddero come tante foglie secche. Vide con soddisfazione che la Yuleck colpì violentemente una pietra che spuntava dal terreno alle sue spalle, quella che il suo amico aveva frantumato, rimanendo a terra, immobile.
Sentì il Fuoco, che dopo essersi ripreso parzialmente dal colpo subìto, mormorava il nome della Yuleck, cercandola con gli occhi, allungando una mano nella sua direzione quando la individuò.
Il ghigno che si aprì sulla sua faccia era colpo di soddisfazione.
Questa volta la mo Bhean sarebbe stata contenta di lui e lo avrebbe ringraziato per averle portato il Fuoco concedendogli altro potere; potere che lui avrebbe utilizzato per spodestarla.
«Non servirà a niente.» gli disse, incurante che lui non potesse capirlo. «Lei non potrà aiutarti. Ormai il tuo destino è segnato, così come il mio
Il Fuoco si trascinava verso la Yuleck, chiamandola per nome.
«Smettila di lamentarti. Mi sono stancato di sentirti.»
Arrivatogli vicino, si piegò e lo prese per i capelli, alzandolo di peso. Il Fuoco di lamentò, cercando si liberarsi. Reìrag lo colpì allo stomaco con un pugno pesante quando un maglio.
«Dì addio alla tua amata, Fuoco.» gli disse.
Allungò una mano per aprire il Vortice del Trasporto…
La mano gli venne tranciata di netto.
Un urlo disumano uscì dalla sua bocca, mentre si afferrava il moncone sanguinolento. Si guardò intorno per capire da dove fosse provenuto l’attacco, ma non vide niente. Eppure era estremamente sicuro che non ci fossero altri membri del Cerchio: erano stati tutti neutralizzati.
Con il fiato corto, cercò l’avversario invisibile che era costretto a combattere. Percepì un movimento alle sue spalle, ma quando si voltò per fronteggiarlo, non vi trovò niente.
Venne attaccato alle spalle. Un forte bruciore gli percorse la schiena quando unghie affilate come coltelli gli squarciarono la veste e la pelle.
Quell’essere non era assolutamente umano, altrimenti non avrebbe potuto attaccarlo in quel modo. Altri colpi arrivarono alla cieca: un braccio, la gamba, il torace. Venne colpito più e più volte, senza mai riuscire a capire da che parte sarebbe arrivato l’attacco.
La rabbia per quella dimostrazione di debolezza gli conferì la forza necessaria per evocare l’energia che propagò come onda d’urto.
Un brontolio sordo lo raggiunse. Il suo sguardo saettò alle mura dell’edificio in pietra davanti a lui.
Dall’ombra emerse la forma sinuosa di un animale dall’aspetto felino, grosso quanto un pony, dello stesso colore della notte; due occhi del colore del brandy lo fissarono con impassibile freddezza.
Comprese immediatamente cosa fosse. Non gli era mai capitato di incontrare un esemplare di Lhakoros ad una distanza così ravvicinata, ma ne aveva sentito parlare. Esseri capaci di murate la loro forma corporea assumendo l’aspetto di un animale particolare, quello che avevano scritto nel sangue.
A LiòsLand non ne si trovavano più, poiché la mo Bhean ne aveva avuto paura, emanando una condanna a morte per tutta la stirpe.
Perché erano gli unici che avevano così tanto potere da essere capaci di penetrare le difese della mo Bhean, di conseguenza anche le sue.
Ma non si sarebbe lasciato sopraffare. L’avrebbe combattuto.
Formò una palla di fumo e la scagliò contro la creatura, ma questa era troppo veloce e agile per essere presa da un attacco frontale; scomparve di nuovo nella notte.
Con i nervi tesi, aspettò il momento propizio, creando una sfera di fumo grande quando un suo palmo, che nascose dietro al veste nera.
Ma l’attacco non venne dal felino.
Un brontolio sinistro gli giunse alle spalle e, prima ancora di potersi girare, una zampata gli arrivò tra la spalla e il fianco, così forte da catapultarlo in avanti.
Prontamente, ignorando il dolore, si rimise in piedi. E quello che si trovò davanti gli fece seriamente dubitare che potesse farcela.
Com’era possibile che due Lhakoros di razza diversa potessero convivere nella stessa città? Come avevano fatto quei miseri ragazzini a stringere un’alleanza con quelle bestie umane?
Quello che, chiaramente era un orso bruno, ingigantito di dimensioni di almeno il doppio, era alzato sulle zampe posteriori; accanto a sé il felino era acquattato a quattro zampe, pronto per balzare all’attacco.
L’orso bruno gli ringhiò contro, cadendo sulle zampe anteriori. Era una chiara minaccia.
Stringendo i denti per la frustrazione, Reìrag ammise a se stesso che se avesse avuto una possibilità di riuscita in uno scontro con un Lhakoros, con due non poteva farcela: lo avrebbero fatto a pezzi prima ancora di riuscire a preparare un attacco efficace.
Era consapevole della punizione che gli avrebbe inflitto la mo Bhean, ma non aveva altro modo di agire se non ritirarsi.
Richiamando a sé l’Energia necessaria per creare un Vortice di Trasporto con l’intenzione di andarsene… ma, poi, cambiò idea. Modificò la composizione del Vortice, facendo in modo che lo portasse in una dimensione parallela, invisibile, inudibile, insensibile.
Sarebbe rimasto in stato d’inerzia, ma avrebbe sfruttato quel tempo nel modo migliore: recuperare l’Energia necessaria per l’ultimo atto.
Proprio mentre il felino balzava in avanti con l’intenzione di colpirlo ancora una volta, Reìrag balzò nel vortice e lo richiuse alle sue spalle.
Entrato nel Mondo Immobile, si ammantò dell’energia di recupero necessaria per restituirgli un po’ del potere che aveva perso e si rannicchiò su se stesso.
In attesa…
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Voci soffocate mi arrivarono alle orecchie. Si trovavano relativamente vicine. Sentivo il corpo come un peso morto, da cui partivano sensazioni contraddittorie: sentivo freddo dalla vita in giù, ma il busto, le spalle e il viso erano irrorate da un piacevole calore.
Mi era familiare, l’avevo già sentita da qualche parte.
D’un tratto i ricordi di quello che era accaduta invasero prepotentemente la mia mente, stordendomi.
Reìrag, l’attacco, la trappola e poi… il buio. Che cos’era successo? Cos’era successo a Red!?
Presa dal panico al pensiero che il mio Red fosse stato catturato da quel mostro di Reìrag, che me lo avessero portato via, vi fece venire le lacrime agli occhi.
Cercai di alzarmi, ma un dolore acuto mi aggredì alla testa, facendomi venire la nausea. Stringendo i denti, sia per il dolore che per trattenere quel poco che avevo nello stomaco, mi costrinsi a muovere lentamente.
Dovevo sapere. Non potevo restare ignara. Se Red era stato catturato avrei mosso mari e monti per potermelo riprendere.
Ora riuscivo a capire perché mio padre era così ossessionato dalla voglia di trovare LiòsLand, di trovare la terra dove viveva mia madre. Il saperlo così lontano da me, il fatto di non poterlo toccare, sentire il suo calore, assaggiare ancora una volta il suo frastornante sapore di arancia e zucchero…
Oramai, i singhiozzi avevano invaso la mia gola. Non avevo mai pianto in quel modo, non da quando era diventata abbastanza grande da capire che le lacrime non avrebbero risolto alcuna situazione, che non avevano uno scopo preciso.
Ora invece capivo che piangere mi sarebbe servito a far passare più velocemente il dolore sordo che provavo al posto del cuore, così che avrei avuto le idee chiare per poter affrontare l’obbiettivo che mi ero predisposta: trovare Red.
Una mano calda mi accarezzò una guancia, un soffice contatto sulla fronte, un profumo così invitante e familiare.
Aprii gli occhi di scatto… e mi ritrovai a fissare quegli occhi dorato che avevo imparato ad amare. Ormai non potevo che ammetterlo. Lo spavento che avevo provato al solo pensiero di non riavere più Red accanto aveva fatto crollare le mie ultime difese, stampando a ferro – per sempre – il suo nome nel mio cuore.
Ormai tutto me stessa – la mia anima, il  mio cuore, il mio corpo – apparteneva a Red. Ed ne ero più che felice.
«Sylence, smettila di piangere. Ti ho già detto che non lo sopporto.»
Anche troppo felice di quel suo rimbrotto – quello del solito, vecchio Red – gli buttai le braccia al collo, affondando il naso nell’incavo tra la spalla e la mascella, rompendomi i polmoni del suo salutare odore.
«Dio, credevo che ti avesse preso.» Stentai a credere che quel lamento venisse dalla mia bocca. «Credevo che ti avesse portato via da me.»
Le sue braccia mi strinsero con forza al suo petto solido e caldo. «Niente più separami da te. Non l’hai ancora capito? Niente, nemmeno la morte.»
Dio, non potete immaginare come mi sentii bene lì, tra le sue braccia capaci di gentilezza, quanto di forza.
Qualcuno si schiarì la voce. «Scusate se interrompo, ma volevo dare un’occhiata alla ferita riportata dalla signorina Hill.»
Al suono di quella voce così profonda e inconfondibile, m’immobilizzai.
Possibile che il colpo intesta mi stesse facendo dei brutti scherzi? Eppure, sentivo il corpo di Red, solido, caldo, reale. Quindi… cosa?
Mi scostai leggermente dall’abbraccio si Red e lentamente volsi la testa verso la voce che avevo sentito… e mi ritrovai a incontrati gli occhi verde prato del professor Drawn.
«Salve.» lo salutai debolmente.
Cosa diavolo stava facendo il professore lì? Proprio ora, dopo la battaglia con Reìrag? E dove diavolo era finito quel mostro? Che se ne fosse andato?
«Signorina Hill, mi faccia controllare la sua ferita alla testa.» mi disse, perentorio, il professore. «Non credo che sia grave, ma non si è mai sicuri di niente di questi tempi.»
Incapace di dire una sola parola logica, lasciai che il professore mi scostasse i capelli dal collo – sentii il collo della maglietta bagnata. Stavo sanguinando?
Red tenne fermo i miei capelli, accarezzandoli, sciogliendo i nodi, mentre il professore passava le dita sulla ferita. Una fitta tremenda di dolore mi percorse la spina dorsale, facendomi scattare in avanti, cozzando contro il petto di Red.
«Stringi i denti, nanerottola. Tra poco sarà tutto finito.» mi disse.
Annuii tanto per farlo contento, ma ero consapevole che il professore non era Bast…
Un tepore invase la nuca fino alle scapole e in meno di un minuto, il dolore sparì, sostituito da un debole tepore confortevole; anche il mal di testa era sparito, insieme alla nausea.
Sbattei le palpebre, voltandomi in tempo per vedere il professore allontanare la mano dalla mia nuca, una mano che brillava debolmente, lo stesso che invadeva le mani di Bastian quando ci curava.
Il professore…
«Lei è uno di noi?»
«È un po’ più complicato di così, signorina Hill.» rispose un’altra voce, melodiosa, lirica, mentre il professore si alzava, battendosi sulle ginocchia per togliere il terriccio e la povere dal jeans. Registrai vagamente che era vestito casual.
Ancora più sconcertata, osservai la signorina Madlain avanzare alla luce d’emergenza, con passo felpato, in tuta e felpa extra-large che le arrivava quasi alle ginocchia.
Ma che diavolo stava succedendo?
La signorina Madlain si voltò leggermente, per parlare con qualcuno alle sue spalle.
«Lo avete individuato?» chiese.
La risposta venne da Rea-Mary. «No. Non è da nessuna parte. È scomparso.»
«Deve essersene andato.» Lo disse come se ne dubitasse altamente.
Mi voltai verso Red. «Che sta succedendo?» gli sussurrai.
Lui alzò un sopracciglio, come a chiedere «che vuoi dire?».
«Perché ci sono i professori qui?»
«Siamo venuti a darvi una mano.»
Sobbalzai alla voce del professor Drawn. Mi girai di scatto a guardarlo.
«Abbiamo percepito l’Energia oscura di quella creatura così chiaramente da far venire i brividi.» spiegò il professore. «Quell’essere è entrato nel nostro mondo senza passare dalla Porta, per cui siamo dovuti venire a controllare… e vi abbiamo trovato nella peggior situazione possibile. Come diavolo avete fatto ad inimicarvi un simile mostro?»
«Aspettate un attimo.» lo interruppi. «Volete dire che voi – entrambi – siete di LiòsLand?» A sentire quel nome entrambi trasalirono. «Che succede?»
La signorina Madlain sospirò. «Credo che dovremmo dirgli tutto, Mikah.» disse la donna all’indirizzo del professor Drawn.
«Sì, credo proprio che dovremmo.» Lui guardò la donna. «Lo fai tu, Bonamy?»
La signorina Madlain annuì.
Tutti i membri del Cerchio le si strinsero intorno. Vidi con sollievo che quasi tutti erano in perfetto stato. Rae aveva il braccio destro completamente fasciato. Sperai con tutto il cuore che la ferita non fosse grave e che non le lasciasse cicatrici.
«Nel mondo di Liòs, gli Alfàr non sono le uniche Creature presenti. Ci sono tante specie, che vivono rintanare, nascoste agli occhi di tutti, per timore di venir cacciate. Una è la nostra Razza.» disse, indicando anche il professor Drawn con un’occhiata. «È, fondamentalmente, questo il problema. Noi siamo Lhàkoros, quelli che nel folklore umano sono chiamati licantropi, ma abbiamo in comune solo la facoltà di cambiare la nostra forma corporea in quella di un animale, il cui sangue scorre nelle nostre vene.» Attese qualche istante, come a riorganizzare le idee. «Ai tempi del Primo Sole, quello che sul Mondo Terreno si potrebbe chiamare Età Antica, gli Alfàr e i Lhàkoros vivevano in pace ed armonia gli uni con gli altri. Loro vivevano a Valle, Noi sulle Montagne e li aiutavamo come Loro aiutavano Noi. Ma un giorno, venne emanato un editto di condanna per quelli della nostra Razza. Da un giorno all’altro, venimmo considerati alla stregua di fuorilegge, braccati e uccisi come animali. Molti di noi perirono in quella che noi chiamiamo Onda Scarlatta. Quelli che riuscirono a salvarsi in tempo, attraversarono la Porta su gli altri mondi e scapparono. Noi siamo gli ultimi rimasti della nostra Razza, in questa città.»
«Ma chi emanò quell’editto?» chiese Jake dopo qualche secondo. Annika era al suo fianco, visibilmente scossa, ma in salute: si tenevano per mano.
«Fino ad ora, non lo abbiamo mai saputo. Ma, vedendo quel mostro e il segno che portava alla tempia sinistra, beh, posso dire con certezza che chi l’ha fatto, appartiene alla Casa Reale di Liòs
Il mondo sembrò girare vorticosamente, annebbiando la vista. Davanti agli occhi, mi apparve l’immagine dell’Albero della Vita, incontrata in biblioteca. Seppi istintivamente che quello era il simbolo della Casa Reale.
Quella scoperta m’insospettì, e non poco. Perché la porta con il simbolo della Casa Reale – che poi cos’era di preciso la Casa Reale? – mi era apparsa?
«Vuole dire che quel mostro appartiene alla stirpe reale?» trasecolò Rafe, mentre Bastian si stringeva a lui.
«No.» rispose il professor Drawn. «È uno scagnozzo, al servizio di un membro della Casa Reale. È un Assoggettato, un mostro che si ciba di Energia Vitale, poiché ha consumato la sua con sentimenti oscuri.»
 «Aspettate un momento.» intervenne Bastian. «Io non ho mai sentito parlare di Casa Reale, o di qualsiasi membro al suo interno. Pensavo che la Regina Bianca fosse la massima autorità.»
«Ciò che dici è giusto, signor Ross. La Regina Bianca è la massima autorità… ma la sua prole è quella che detiene il potere sugli Esseri che abitano LiòsLand
«Prole!?» L’esclamazione venne da tutti, tranne che da me: ero troppo congelata da quelle rivelazioni per poter anche solo aprire bocca.
Red, accanto a me, mi strinse di più, percependo il mio turbamento.
«La Regina Bianca può anche vivere nel Lago di Ahlb, ma non è costretta a rimanervi. Quello è il luogo in cui il suo Potere è al massimo della forza, ma ha la facoltà – così come ce l’hanno tutti gli altri Alfàr – di lasciare il Lago… e fare tutto quello che vuole.»
Tutti capirono a cosa alludeva.
«Oltre ad essere la figura più importante e la Regina più potente diLiòs, è anche una donna.» disse la signorina Madlain. «E, nel mondo dei Liòs, i figli nati da Lei, sono i legittimi eredi al trono.»
«Il problema è che qualcuno alla Casa Reale stava complottando contro di Lei, l’ultima volta che ho ricevuto sue notizie.»
«Voi avete parlato con la Regina?» chiese Red, il tono di voce circospetto.
Entrambi i professori tacquero, ma il loro gesto fu più esplicito di mille parole: spostarono i loro occhi su di me. E così fecero anche quelli del Cerchio.
Io li guardai con occhi sbarrati.
«Non c’è bisogno di parlare con Lei.» disse la signorina Madlain. «Perché Lei è qui con noi.»
 
 
Third Person Narrator’s POV
 
Sconcertato da quello che aveva sentito, Reìrag soppesa con lo sguardo la Yuleck. Com’era possibile che non se ne fosse accorto? Eppure era così evidente la somiglianza con la mo Bhean. Era stato così concentrato sul suo obbiettivo, da non accorgersi di quello che aveva davanti. Anche se, doveva ammettere, che con quegli strani vestiti addosso, aveva fatto fatica a riconoscere il legame di sangue che la univa alla mo Bhean.
E gli occhi…
Anche quelli erano diversi, anche se in un certo modo, erano simili: il loro colore era pressappoco uguale.
Ma la mo Bhean era stata chiara: doveva occuparsi del Fuoco: era quello che le serviva, e non la Yuleck. Perciò lui le avrebbe portato il Fuoco.
Era riuscito a fermare la fuoriuscita di sangue dal braccio tranciato e aveva raccolto abbastanza energia da creare un Vortice Trappola da usare contro il Fuoco. Lo avrebbe attaccato e lui non se ne sarebbe reso conto, se non quando fosse stato troppo tardi.
Sogghignando per la sua idea trionfante, allungò le mani e intrecciò l’incantesimo.
 
 
Rea-Mary Johnson’s POV
 
Il braccio le faceva un male atroce. Neanche Sebastian o la signorina Madlain erano riusciti a curare le ustioni fino in fondo. Con rammarico, la donna le aveva detto che le sarebbero rimaste le cicatrici.
Con un’espressione stoica le aveva detto che non le importava, visto che tutto il testo del corpo era integro, ma il solo pensiero delle emozioni che quelle orrende cicatrici potessero suscitare le faceva sudare freddo.
Ma, caparbiamente, aveva tenuto nascoste le sue emozioni, come sempre d’altronde.
Proprio come adesso.
La notizia implicita a quella frase non era sfuggito a nessuno di loro, tanto più che era palese l’anormalità di Sylence. Solo che non si era aspettato che quell’anomalia derivasse da quello: la sua discendenza dalla Regina Bianca.
La più problematica e la più semplice delle risposte.
Il sangue della Regina Bianca che le scorreva nelle vene le aveva dato la facoltà di saper leggere l’antica Lingua, la Potenza per governare gli Elementi Naturali, le Percezioni più chiare e la facoltà di vedere i futuro, per così dire.
«No, vi state sbagliando…» protestò debolmente Sylence, cercando mi mettersi in piedi.
Red la trattenne. «Non fare cretinate.» le ingiunse. «E poi non sei tu quella che non crede alle coincidenze?»
«Sì, ma… andiamo! Io, la figlia della Regina Ahlb…» Il suo viso impallidì. «Ahlbany.» sussurrò. Chiuse gli occhi e scosse la testa. Deglutì. «Lui lo sapeva.» mormorò.
«Chi?» le chiese Red, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte. «Di cosa parli?»
Una lacrima le scese sulla guancia lattea. «Mio padre… lui sapeva che ero sua figlia.»
Red cancellò la lacrima con il pollice. «Deve aver avuto delle buone ragioni per non dirtelo.»
«Le stesse che gli hanno impedito di dirmi che ero illegittima?» lo redarguì aspramente. Rae rimase sconcertata dalla facilità con cui disse una cosa del genere. «Dio Santo, la mia vita è un’intera bugia?»
In un certo senso, Rae capiva lo smarrimento e la rabbia della ragazza. Era sconvolgente venire a sapere che quella che pensavi fosse la tua vita, in realtà era solo una menzogna. Iniziavi a vedere le cose in modo diverso, ti sembrava che gli altri ti vedessero in modo diverso, perché tu stesso ti sentivi diverso.
Chi non aveva mai sperimentato quelle sensazioni non poteva capire.
Ad un tratto, senza alcun motivo particolare, le parve che alle spalle di Red ci fosse troppo buio. E che questo si muovesse.
Aggrottando la fronte, cercò di capire se fosse un problema di vista, dovuto agli occhiali rotti, o altro.
Qualcosa dentro di lei protese per “altro”.
Un brivido le corse lungo la schiena. Velocemente, si tolse gli occhiali, chiudendo gli occhi.
Raccolse quel poco di Energia che ancora aveva dentro e attivò il suo Talento. Quando riaprì gli occhi, l’intero mondo era diventato bidimensionale, fatto di linee bianche e forme blu navy. Tutti i componenti del Cerchio brillavano di luce proprio, tutti con un colore diverso, tranne quello di Sy che, come tutte le volte che l’aveva guardata, appariva un miscuglio di due colore, l’argento e il nero, uniti in un movimento voluttuoso senza fine. Invece i professori, avevano come un’ombra alle loro spalle, sagome vaporose di quelli che gli parvero un orso e una pantera.
E individuò subito l’anomalia.
Alle spalle di Red un’enorme macchia scura, nero pece, continuava ad allargarsi.
Quando dall’altra parte del vortice, le parve scorgere la sagoma di quel mostro, Reìrag, comprese quello che stava accadendo.
Freneticamente, chiamò il nome di Red, facendogli segno di spostarsi.
Lui non capì.
Stringendo i denti dalla frustrazione, gridò «alle tue spalle», intanto corse verso di lui.
Solo allora, il ragazzo parve accorgersi che qualcosa non andava. Lanciò un’occhiata alle sue spalle e vide il vortice. Percependo il pericolo, un una frazione di secondo, il ragazzo spinse via Sy, allontanandola dal pericolo.
Il vortice s’intensificò, trascinandolo al suo interno…
… ma Rae intervenne prima. Quasi avesse giocato a rugby, placcò Red, sbalzandolo lontano dal vortice.
Ma questo era ormai troppo forte per potersi allontanare. Venne trascinata nelle sue profondità buie, senza alcun appiglio per potersi salvare.
L’ultima cosa che vide fu le facce sconvolte dei suoi compagni – il suo Cerchio –, mentre questi evocavano il suo nome: erano disperati.
Forse, una famiglia, dopotutto, ce l’aveva.

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Capitolo 35
*** Nascondersi ***


Sy Hill: Visto tutto il tempo che ho mancato per pubblicare, preferisco non perdermi in chiacchiere e lasciarvi leggere quello che ho scritto.
Baci,
Sy Hill

 

CAPITOLO 35
 
Nascondersi

 
 
Un silenzio sgomento regnava su di noi. Il debole rimbombo dei bassi nella palestra e il leggero vociare degli studenti erano gli unici suoni che facevano da sottofondo a quella drammatica svolta. Nessuno aveva il coraggio di fiatare, nessuno aveva la forza per confermare quello che la mente aveva elaborato, ma che il cuore si rifiutava di accettare.
Sentivo distintamente il dolore e l’incredulità che pervadevano ogni singolo soggetto che si trovava in quel prato.
Per un motivo a me sconosciuto, volsi lo sguardo verso la statua della Regina bianca… trovandola completamente a pezzi. Solo un debole rivolo d’acqua segnava la precedente presenza di una fontana. Sperai ardentemente che si potesse fare qualcosa per rimetterla insieme.
Poi, il muro d’acqua che avvolgeva tutto sembrò crollare, investendomi con tutti i suoi, gli odori le sensazioni che fino a quel momento erano state bloccate dietro un mucchio di ovatta.
Sentii il grido disperato di Jake, quando si lanciò in avanti invadendo lo spazio dove prima era apparso il portale: agitava le braccia come un forsennato, come a cercare disperatamente un appiglio che gli permettesse di raggiungere la cugina.
«No, maledizione, no!» continuava a ripetere, chiamando ogni tanto il nome della cugina.
Annika, che stava piangendo silenziosamente, gli si avvicinò cercando un contatto per confortarlo. Ma Jake non volle essere toccato. Scostò bruscamente la mano della ragazza, lanciandole al contempo un’occhiata di fuoco.
Potei sentire distintamente la crepa che si aprì nel cuore di Annika quando vide quello sguardo rivolto contro di lei. Parve quasi ritrarsi in se stessa, come un fiore appassito che si chiude per mancanza di acqua.
Jake, nel suo scatto di rabbia disperata, marciò contro Red, incenerendolo con lo sguardo. Gli afferrò rudemente il collo della felpa e se lo tirò contro, piegando contemporaneamente il braccio, preparandosi a tiragli un pugno.
«È colpa tua!» gli urlò contro. «È sempre colpa tua. Ogni volta che succede qualcosa di male a noi o a qualcun altro, sei sempre tu la causa di tutto! Prima quell’uomo e adesso questo. Mia cugina, catturata da quel mostro, portata chissà dove non potremmo mai raggiungerla, in costante pericolo. Chi diavolo può dirlo cosa le farà quale mostro o il padrone per cui lavora. Se le succede qualcosa…» 
Ormai accecato dalla rabbia e dalla disperazione più nera, Jake tirò un feroce e potente pugno dritto alla guancia di Red.
Troppo impietrita per far qualcosa, potei solo osservare Red che veniva sbattuto a più di tre metri di distanza. Quello che più mi sorprese non fu tanto il corpo ricevuto, ma il fatto che Red non avesse reagito in alcun modo, né alle parole di Jake, né all’avviso di quel colpo.
Si riteneva responsabile, era chiaro come il sole. Almeno a me.
Credeva ad ogni cosa che gli aveva detto Jake.
Questa consapevolezza fu più forte della minaccia costituita dal colpo che Jake aveva inferto a Red.
Scattai come un elastico rotto verso Jake, che si stava dirigendo verso Red con l’intenzione di dargli un altro pugno. Il cielo sulle nostre teste di rannuvolò nel giro di cinque secondi, mentre lampi accecanti illuminavano a tratti l’intero giardino.
Sentivo nelle vene una scarica potente di Energia elettrica, come se dei cavi dell’alta tensione avessero sostituito i miei vasi sanguigni.
«Prova a dargli un altri pugno e saprai cosa si prova ad essere colpito da un filmine.» gli ringhiai contro.
«Levati di mezzo Sy.» mi abbaio contro lui, continuando a camminare verso Red.
Ringhiando come un animale – a stenti riconobbi me stessa in quel verso – chiamai a raccolta il mio Potere e colpii con un filmine abbagliante quanto distruttivo lo spazio rimanente tra Jake e Red, che nel frattempo si era rialzato.
Jake fece un balzo indietro e mi guardò, sgomento.
«Red è mio e nessuno può fargli del male, neanche tu.» gli dissi.
«Mi avresti colpito con quel fulmine?» domandò, ansimando.
«Tu hai colpito Red usando il tuo Talento, perché non dovrei fare lo stesso?»
«Ha permesso a Reìrag di catturare Rae-Mary.» Lo disse quasi come un bambino che cerca di giustificare le sue azioni.
«No, non è così. È stata Rae-Mary a farsi catturare, per mettere in salvo Red. Lo ha fatto di sua spontanea volontà. Non mi sembra di aver visto Red minacciarla con un coltello alla gola di farsi prendere al suo posto. Ha cercato di salvarlo, finendo per essere catturata. Ma è stata lei a volerlo salvare.»
«Ma non si sarebbe trovata nella situazione di mettere a rischio la sua vita, se Red…»
«Se  Red cosa?» lo interruppi. «Non osare pronunciare altre parole se non vuoi finire male. Ma non vedi?» gli dissi, allargando le braccia. «Ci stiamo sfasciando con le nostre stesse mani! Invece di trovare una soluzione per risolvere i nostri problemi, litighiamo, ci colpiamo a vicenda, ci feriamo a vicenda. Stiamo facendo esattamente il gioco che vuole Reìrag. Non ha fatto altro da quando lo abbiamo incontrato la prima volta.» esclamai buttando le braccia al cielo, che stava rasserenandosi. «Ha tentato di dividerci perché sa che insieme abbiamo più di una possibilità di batterlo. E noi invece stiamo costruendo un muro che, tra poco tempo, ci dividerà per sempre. E non dobbiamo permetterglielo.» Sospirai di rammarico, passandomi la mani nei capelli. «Voi siete i primi amici che ho da tempo e che possa essere fulminata all’istante se permetterò a quello stramaledetto mostro di dividerci.»
Jake, chinò la testa, nascondendo il suo viso dietro i capelli, ma vidi distintamente il luccichio di una lacrima versata cadere al suolo.
Mentre mi dirigevo verso Red, lanciai un’occhiata ad Annika, che guardava Jake con un’espressione assolutamente desolata. Forse avvertendo il mio sguardo, i suoi occhi volarono verso me. Le feci cenno verso Jake, chiedendole silenziosamente di avvicinarglisi. Lei scosse la testa, ma io annuii. La vidi titubare, ma poi, a passo incerto si avvicinò a Jake.
Mi inginocchiai accanto a Red. Evitava il mio sguardo, la testa voltata verso la scuola.
Delicatamente, gli preso il mento – cercò di nascondere un sussulto – e lentamente lo voltai verso me. Sulla guancia colpita stava già formandosi un livido enorme, prova della forza con cui Jake lo aveva colpito, e un rivolo di sangue gli scendeva dal labbro spaccato nell’angolo della bocca.
Ma quello che più mi fece male vedere furono gli occhi. Quei magnifici occhi dorati offuscati da sentimenti quali dolore, desolazione, come se fosse morto qualcuno a cui stava a cuore.
Forse era proprio così.
Spinta dall’istinto, dal legame invisibile che scorreva tra di noi, mi chinai in avanti e leccai via il sangue, il gusto ferroso sulla lingua, e gli baciai l’angolo ferito, indugiando poi sulle labbra.
«Te l’ho già detto una volta.» gli sussurrai sulle labbra. «Non osare mai nasconderti da me. Mai.» Gli sfiorai le labbra con un bacio. «Non m’importa per quale motivo, ma per qualunque cosa ti succeda, non m’interessa se buona o brutta, tu non dovrai mai nascondermi niente.» Un altro bacio. «Voglio vedere ogni emozioine che ti cambia i lineamenti, ogni cicatrice che ti segna il viso, voglio sapere tutto, nel bene e nel male.»
Con impeto assaltai la sua bocca, imprimendo in quel bacio tutta la forza del desiderio che provavo per lui, tutto il dolore che avevo provato quando avevo creduto di averlo perso. Volevo la prova tangibile che lui fosse lì con me, che non fosse una semplice illusione partorita dalla mia mente per la disperazione.
Il suo sapore di arancia e zucchero mi scivolò sulla lingua quando incontrò la sua. Le sue mani mi afferrarono il viso, affondare nei miei capelli, incastrandomi contro di lui, contro il suo corpo caldo, dai muscoli tonici e duri.
Il cuore batteva all’unisono con il suo, la mia mente in pieno sincrono con il corpo: non mi importava di niente, né degli altri che potevano guardarci, né del pericolo di avere una qualche visione. Non m’importava di niente, tranne di quel bacio.
Mi scostò bruscamente da sé, tenendomi ancora ben salda tra le mani. Gli occhi splendevano, bruciavano di desiderio, il fiato caldo m’inondava le guance, mescolandole con mio.
Mi accorsi che le mie mani erano scese fino ad insinuarsi sotto la sua felpa, a contatto con la pelle calda del suo addome. Sotto i polpastrelli sentivo i muscoli contrarsi, mentre le mie dita disegnavano cerchi sulla sua pelle.
D’improvviso, la grandezza di quello che provavo per lui, l’importanza di quello che provavo mi piombò addosso, strappandomi un gemito. Abbassai la testa, affondandola nell’incavo del suo collo. Sulla punta del naso percepivo il suo battito cardiaco, veloce come il frullare delle ali di un uccellino.
Lo amavo. Perdutamente. Irrimediabilmente. Stupidamente.
E poi, come al solito, una nuova visione mi si scagliò contro. Ma stavolta ero preparata e l’accolsi a braccia aperte.
Un nuovo futuro mi aspettava al varco.
 
 
Jackson Kingston’s POV
 
Non doveva mettersi a piangere. Non avrebbe dovuto comportarsi come una femminuccia. Si sarebbe dovuto mostrare forte per tutto il gruppo, era il loro leader, che diavolo, ma non di meno non riusciva a smettere di piangere.
Anche se con gli altri non lo mostrava, il legame che aveva con sua vicina era speciale, poiché entrambi sapevano cosa si provava ad essere abbandonati, reietti da una famiglia che ormai era all’osso quanto a legami.
Fin da quando era piccola, Rae era stata emarginata, allontanata dagli altri membri della famiglia, per quello che essa rappresentava.
Jake invece, era stato messo da parte, dimenticato dal padre per colpa della madre: era la sua versione femminile, e il padre non faceva che ripeterlo. Jake capiva perché si comportava così. Aveva visto dalle foto, da quello che il padre era solito raccontargli da piccolo – cosa che non è più avvenuta da un bel po’ di anni – di quanto aveva amato la madre e di come, dopo poco tempo, essa sia scomparsa senza lasciare traccia.
Allora non comprendeva, poi crescendo aveva scoperto la verità. Insieme a Rae-Mary.
Era capitato per caso, sia per lui che per lei. Quando era piccolo, aveva appena sette anni, era stato capace di rompere un cavalluccio di legno massiccio, mandandolo a sbattere contro un muro. Il padre non aveva mai capito cosa fosse successo al giocattolo. Rae-Mary, invece, era sempre stata capace di capire dove fosse Jake, prima ancora che esso la incontrasse: gli chiedeva se si era divertito al campo da basket, o se le avesse comprato qualcosa, dopo che era andato a far compere con il padre.
La particolarità era proprio questa: Rae-Mary era capace di individuare solo Jake senza usare il suo Talento completo.
E per Jake era stato un chiaro segno: avevano un legame di sangue. Li aveva uniti in momenti particolari della loro vita.
Ma andando avanti con gli anni, la crescita, la pubertà, si erano allontanati, avevano tracciato un confine netto tra il loro essere consanguinei e maschio e femmina. A dispetto di questo, però, avevano ancora un ottimo rapporto.
E ora, ecco che capita il disastro.
Lacrime di dolore presero a scendergli dagli occhi, solcandogli le guance in scie salate.
Abbassò la testa, coprendo la faccia con i capelli, sperando che nessuno vedesse quella manifestazione di dolore, quella vulnerabilità che lo tormentava, che lo faceva vacillare, un senso di bruciore che gli invadeva il petto.
Avvertì un calore dolce, tenue, che trasmetteva conforto, poggiarsi proprio lì.
Il profumo delicato che aveva imparato ad associare ad una sola persona – una che, si rese conto, aveva trattato davvero male – gli invase i sensi.
Inerte, lasciò che lei lo girasse in modo da dare le spalle agli altri.
Per un motivo preciso, che stava iniziando a considerare, lasciare che lei lo vedesse in quello stato non gli dava fastidio. Solo un vago senso di disagio, ma facile da ignorare.
«Non nasconderti, ti prego.» gli sussurrò.
Gli scostò gentilmente le ciocche di capelli che gli coprivano gli occhi, per poter affondare in quel mare di nero ossidiana; un mare di tristezza e dolore.
«Capisco cosa stai provando, credimi. Ci sono passata anche io quando ho pensato che Monika non fosse sopravvissuta all’incidente. È come un vuoto, un buco nero che si apre all’altezza del petto e ti corrode. Fa male.» Gli accarezzò una guancia, cancellando la scia salata di una lacrima. «Questo non vuol dire che tutto è perduto, c’è sempre una speranza, una via d’uscita.»
Annika respirò affondo per poi afferrargli il viso con le mani. «Tu sei il nostro leader. Se tu cadi, cadiamo tutti. Io per prima.» aggiunse dopo una piccola esitazione. «Devi farti forza, prendere il coraggio e la determinazione a due mani e trovare un modo per risolvere questo rompicapo. Io ho piena fiducia in te, Jackson. E so che riuscirai a cavartela.»
La vide deglutire debolmente. Avvicinò il suo viso al suo, protendendo le labbra verso le sue. Il cuore di Jake batteva all’impazzata, rinfrancato da quelle parole, dette dalla sola persona in mezzo ad altre migliaia capace di raggiungerlo.
Il bacio non fu altro che un tenero sfioramento di labbra, ma quello che conteneva era ancora più importante del semplice contatto tra due bocche. La fiducia, il sentimento, la certezza che poteva farcela in qualunque situazione venne espresso con quel gesto così intimo e fuggevole.
Annika appoggiò la sua guancia calda e morbida contro quella spigolosa, ruvida e bagnata di Jake. Gli sussurrò: «Jackson…» con la sua voce calda, facendo rabbrividire Jake, scaldandogli l’anima.
Le sue braccia, fino a quel momento rimaste pendoloni sui fianchi, si alzarono per stringerla contro di sé, assorbendo dal corpo esile e flessuoso tutto il calore che poteva, abbassando le difese fino ad ora tenute ben salde, permettendosi di essere vulnerabile, trasmettendole tutto il bisogno di conforto che aveva in quel momento.
Dentro di sé, Jake sapeva che, dopo, avrebbe cercato di non pensarci, archiviando quel momento, per tirarlo quasi quando si sarebbe risolto tutto. Ma ora non gli importava granché. Aveva bisogno di quel contatto, non poteva farne a meno, le recriminazioni potevano aspettare.
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Lei, rabbiosa e furente, alza le braccia verso l’alto, raccogliendo tra le mani una quantità non indifferente di energia oscura: una fumosa palla nera le si materializza tra i palmi, avvolgendole i polsi di voluto.
Il giovane ancora semi accasciato a terra, quasi privo di forze, può soltanto restare a guardare mentre, con uno scatto in avanti delle braccia, ella scaglia contro la sua avversaria quella sfera di energia distruttrice.
Il colpo prende in pieno petto la ragazza, proiettandola contro il muro alle sua spalle.
Si accascia al suolo. Non ce la fa più. È completamente priva di energia, non riuscirebbe a sopportare un altro colpo del genere.
La donna, così simile a lei, ma così diversa intrinsecamente, sogghigna rendendosi corto che ce l’ha quasi fatta. Le basta colpirla ancora e tutto quello per cui ha lottato finalmente avrà i suoi frutti.
Ma c’è una cosa che vuole fare perché la vittoria le sia congeniale.
Allarga le dita delle mani, stendendole verso il corpo del ragazzo, che cerca disperatamente di raggiungere la sua bella.
Perché non dargli una mano, allora?
Fili sottili come capelli le fuoriescono dalle punte dei polpastrelli, serpeggiando e sibilando con piccoli serpenti, raggiungendo il giovane e avvolgendogli strettamente gli arti.
Con un burattinaio con i suoi burattini, essa muove le dita facendo muovere il ragazzo come più le aggrada, rialzando il suo corpo da terra senza che lui faccia un qualche sforzo.
Lo fa avvicinare alla sua bella, che cerca disperatamente di rialzarsi.
«Lascialo andare…» biascica debolmente.
Il viso del ragazzo è contorto dall’ansia, perché sa che sta per succedere qualcosa di orribile e non può far niente per evitarlo.
«Dì le tue ultime preghiere, mikhlyn.» I suoi occhi, nero e bianco, la fissano ridenti, mentre un luccichio trionfante li illumina come perla e onice.
Muovendo sinuosamente le dita, la donna costringe il ragazzo ad unire le mani. Tramite le punte dei suoi fili serpeggianti, forza il Talento del giovane – quanto ne resta – a fuoriuscire dai suoi palmi.
Una luccicante sfera di fuoco prende a crearsi tra i due palmi che tremano d’orrore.
Non può fare una cosa così agghiacciante, pensa lui. Ma sa prima ancora di finire quel pensiero che, sì, ne è capace.
La sfera cresce fino a diventare grande quanto un pallone da calcio, e il giovane si sorprende nel notare che parte di quella energia non è rossa come al solito, ma nero fumo.
Contro la sua volontà, alza le braccia al cielo, pronto a lanciare quello che sarà il colpo mortale per entrambi i giovani.
Lui guarda in quegli occhi speciali, che lo fissano di rimando, specchiando il proprio orrore e anche una punta di rassegnazione.
Il giovane cerca di lottare strenuamente contro la forza oscura che lo tiene imprigionato, ma è tutto inutile.
La donna ride. «Guarda come uccidi la donna che ha il tuo cuore.» ingiunge.
Con un grido disperato, il giovane cerca di fermarsi, mentre la donna lo costringe ad abbassare le braccia, scagliando la sua forza distruttrice contro il proprio amore…
 
Un grido agghiacciante si levò in aria, mentre due braccia calde e confortevoli tentavano di fermare quello sfogo di paura.
Solo quando la voce di Red chiamò il smio nome, superando quello del grido, mi accorsi che ero io quella che stava strillando.
Mi impose di smettere, affondando la faccia nel petto di Red, reprimendo quegli attimi d’orrore che avevo appena vissuto.
Non riuscivo ancora a credere a quello che avevo visto. Avevo tanto sperato che il futuro fosse cambiato in meglio, ma a quanto pareva si erano solo invertite la parti, e nel peggiore dei modi.
Stavo tremando come una foglia, lo sapevo, ma non riuscivo a smettere. Sentivo nelle orecchie, la voce roca e gentile di Red che cercava di confortarmi, ma potevo percepire che anche lui era scosso.
Lo sentii mormorare: «… avrei dovuto farmi catturare…», ma se anche fosse stato così, le cose non sarebbero migliorate di molto.
Analizzando logicamente quello che era successo, potei essere fiera di me stessa per aver avuto ragione: la visione del futuro era cambiato perché Red non era stato catturato e questo rifaceva sperare che, nel frattempo, avremmo avuto l’opportunità di poterlo alterare ulteriormente.
Scostandomi dal petto di Red, mi tirai indietro i capelli con uno scatto nervoso, rimpiangendo di non averli legati, strappandomene alcuni.
«Ehi, calma, nanerottola.» mi disse Red, con voce ruvida. «Non c’è bisogno di strapparsi i capelli. Il futuro è mutevole e non si sa mai come sarà.» Mi sfiorò la fronte con le labbra. «Non permetterò mai che questo avvenga.»
Annuii anche se titubante, e gli permisi di aiutarmi ad alzarmi. Per quella sera ne avevo abbastanza di fare la dura.
Con un’occhiata affrettata, vidi che il Cerchio ci si era radunato intorno, ansioso di scoprire quello che avevamo visto.
E lo ero anche io. «Red, che cosa hai visto?» gli chiesi.
La sua espressione diventò imperscrutabile (avevo iniziato a capire che lo faceva quando voleva mascherare le emozioni più forti).
«La tua stessa visione, anche se vista dalla tua prospettiva.»
Quindi non avevamo visto due cose diverse. Mi chiesi perché.
Il professor Drawn si fece avanti. «Non mi ancora chiaro che cosa sia successo.»
La signorina Madlain intervenne: «Credo che abbiano avuto una visione condivisa.»
Una strana espressione calò sul volto del professore. «Vi capita spesso?» ci domandò.
Red rispose: «Non sempre, solo in precisi momenti.»
Internamente, mi congratulai con lui per non essere arrossito, a differenza di me, che era diventata adatta come semaforo rosso.
L’uomo e la donna si scambiarono un’occhiata curiosa – come se fossero sorpresi, compiaciuti e un tantino spaventati.
«Perché?» chiesi.
Altra occhiata. Mi accigliai. «Se avete qualcosa da dirci, con tutto il rispetto, sputare il rospo. Ne ho abbastanza di segreti per questa sera.» borbottai. «E dalle vostre facce non sembra qualcosa di buono.»
«No, solo… inaspettato, e curioso.» disse il signor Drawn.
«Che cosa?»
«Voi due.» La signorina Madlain mosse la mani ad indicare reciprocamente me e Red. «C’è un legame speciale tra voi due, e non solo perché siete adolescenti nel pieno fervore.» disse ironicamente. «A quanto sembra, vuoi due siete Metà del Cuore
Quelle parole si affacciarono nella mia mente, tradotte in quella che era la mia lingua madre.
«Tamiha Seyleh
La donna annuì. «In corrispettivo umano delle Anime Gemelle.» chiarì. «A quanto ne so, nella Famiglia Reale, si tramanda una particolare capacità tra Metà del Cuore, e cioè quella che permette alle due metà di poter scrutare nel futuro dell’altra.» Ci indicò. «E visto che tu fai parte della Famiglia ne consegue che anche tu ne l’abbia.»
Battei le palpebre, leggermente stordita dalle sue parole, e spostai lo sguardo su Red. I suoi occhi dorati risplendevano, cariche di quelli che mi parvero soddisfazione, possesso e qualcos’altro che non riuscii a capire.
Sembrava contento di quella situazione. E chi ero io per giudicare? Anzi, passata la confusione iniziale, iniziai a sentimi anche io soddisfatta per come eravamo messi.
Significava che Red sarebbe sempre stato mio, che nessun’altra avrebbe avuto abbastanza ascendente su di lui – per non dire nessuno – da poterselo accaparrare. Non che io lo avrei permesso, sia inteso.
Sentivo un sorriso assolutamente compiaciuto che si allargava sulla mia faccia, quasi a spaccarla in due.
Mi girai verso la signorina. «Deve dirmi di più.» Tornai seria. «Ma dopo aver risolto questa situazione.» Spostai lo sguardo si Jake, che aveva stretto nella sua mano quella di Annika, quasi come un naufrago che di aggrappa ad un pezzo di legno. «Abbiamo qualcuno da salvare.»
Lui fece un segno affermativo, mentre quasi non se ne accorgesse, accarezzava la mano di Annika. Lei gli appoggiò l’altra sulla spalla, gesto che sembrò rilassarlo leggermente.
Ma tu guarda quando Cupido non doveva farsi i fatti suoi.
Anche se, ad essere onesta ero felice per loro. Jake aveva avuto la sua dose di brutte esperienze e pessime situazioni, aveva diritto ad un po’ di conforto e una luce positiva. E Annika era quello che gli serviva.
Annuii. «Signori, dobbiamo trovare la strada per LìosLand. Qualcuno ha un navigatore satellitare?»

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Capitolo 36
*** Sulla Strada di Casa ***


Sy Hill: Salve a tutti, miei cari lettori. Bando atutte le ciance e godetevi il prossimo capitolo.
LEGGETE E RECENSITE
Baci,

Sy Hill <3

P.S.: Desidero ringraziare Sassy_Culler per aver inserito la mia Opera nelle Storie Scelte, è un grande onore per me. E Dills Nightmare per aver recensito lo scorso capitolo.


 

CAPITOLO 36

Sulla Strada di Casa



Rosarianna O’Sheha’s POV

Era esausta. Sia fisicamente che emotivamente.
Tutti quegli sguardi addosso, tutti quelli che bisbigliavano, indicandola…
Non ne posso più.
Per fortuna, quella era l’ultima ora, e non aveva una materia importante, perciò decise di andarsene.
Scaraventando stizzita i libri nell’armadietto, sbatté la porta di metallo e marciò verso l’uscita. Ricordava che doveva andarsene con Sy, perciò le mandò un messaggio per informarla delle sue intenzioni.
Uscita fuori dall’edificio, trasse un respiro profondo, tentando di rilassare i nervi, ma niente. Era agitata.
Da quando aveva fatto quella scenata a scuola, con Carly, tutti avevano iniziato a girarle intorno in punta di piedi, come se temessero che potesse scoppiare anche con loro.
Se prima era presa in giro, ora era come temuta.
Stringendosi nel giubbotto, riparandosi dal vento novembrino, si avviò attraverso il parcheggio, allontanandosi da quegli sguardi, quelle occhiate, quelle parlatine maligne, corrosive.
Avrebbe fatto meglio a farsi i fatti suoi e continuare a comportarsi come uno zerbino.
Arrivò fino alla fermata degli autobus, controllò il tabellone degli orari, sollevata di vedere che tra poco più di dieci minuti ne sarebbe passato uno che fermava ad un isolato dalla casa di Sy.
A proposito di Sy…
Si stava comportando in modo strano. E non solo lei. Anche gli altri ragazzi, avevano assunto un comportamento anormale. Non si sedevano più insieme, a pranzo, Sy trascorreva quel lasso di tempo da qualche parte, anche se non aveva idea di dove, né con chi.
A casa, non andava molto meglio. Forse Sy e suo padre avevano litigato, perché c’era molta tensione tra loro, e non si comportavano più come prima: Sy era fredda con Xander e lui cercava in tutti i modi di entrare di nuovo nelle grazie di sua figlia, ma niente. E, dato che aveva imparato a conoscere Sy, sapeva che doveva essere successo qualcosa di veramente pesante da farla comportare in quel modo.
Mentre osservava il cartellone degli orari si chiese che cosa.
Doveva ammettere però che non aveva voglio di tornare a casa.
Casa.
Sembrava strano trovare così facile chiamare la villetta di Sy “casa”. Ad essere sincera, aveva sviluppato più affetto per quell’abitazione in quelle poche settimane, che in tutti i suoi diciassette anni nella casa dei suoi genitori.
Forse avrebbe dovuto sentirsi turbata da una simile constatazione, ma non era così.
Se un posto che gli altri chiamano casa per te non lo è, non puoi fartene una colpa. Non aveva sviluppato attaccamento per quel posto perché non c’era stato un solo ricordo felice che vi avesse vissuto, che gliel’avesse fatta apprezzare.
Sospirando lasciò scorrere lo sguardo sugli orari, quando l’occhio le cadde su una fermata.
Holy Safe Lansing Graveyard. L’autobus sarebbe passato da lì tra un quarto d’ora.
L’immagine fugace di viso pallido con due occhi spaiati le attraversò la mente.
Scosse la testa per cancellarla. Non aveva intenzione di andare al cimitero. Tanto più che non era sicuro che ci sarebbe stato.
Due volte potevano essere una coincidenza, ma tre? Era improbabile…
… ma non impossibile, sussurrò una vocina nella sua testa.
No, non ci sarebbe andata.
L’autobus che stava aspettando, si palesò all’orizzonte. Sarebbe salita e andata a casa. Stop. Fine.
Eppure, quando l’autobus si fermò davanti a lei, spalancando la porta, esitò.
Il conducente, vedendola indecisa, si spose in avanti, scostando leggermente il cappello dalla fronte e sbraitò: «Ehi, ragazzina, sai sì o no? Non ho tempo da perdere.» aggiunse ritornando a sedersi composto, tanto quanto glielo permetteva la sua pancia prominente.
Allora presa dall’impulso del momento, fece un passo indietro, scuotendo la testa.
«Mocciosa…» sentì borbottare dal conducente, mentre chiudeva le porte.
Gli fece una linguaccia, poi sospirò.
Solo un’altra volta, si disse. Poi, non ci andrò più. Se anche ci fosse o meno.
Si sedette sulla panca di ferro alle sue spalle, aspettando che arrivasse l’altro autobus, intanto passa il tempo leggendo un libro.
L’autobus arrivò e lei vi salì senza esitare.
Il viaggio non fu tanto lungo e c’erano solo lei e poche persone che scesero a quella fermata.
Era una giornata nuvolosa, per cui il cimitero appariva sotto una luce fosca che intimidiva, metteva soggezione. Le poche persone – per non dure nessuna – che circolavano per le stradine acciottolate erano anziani, quindi non una grande presenza.
Aria imboccò la zona di Sant’Antonio, con la mani infilate nelle tasche del jeans. Gettava qualche occhiata intorno, per vedere se qualcuno fosse presente, ma era completamente sola.
Titubante, contò a camminare, riflettendo sulla sciocchezza che stava facendo. Per l’amor di Dio, era andata in un cimitero per incontrare una ragazzo! Non è quello che si dice il primo appuntamento romantico.
No, si corresse. Non era un appuntamento. Era solo curiosa di capire chi fosse qual tizio – e rivedere quei suoi occhi così strambi.
Sapeva, tramite delle ricerche in internet, che era eterocromia, ma questo era solo un dettaglio. Solo un disguido genetico. Non spiegava l’intensità, la forza che quello sguardo trasmetteva.
Doveva rivederlo.
Passò davanti alla tomba della nonna, ma non si degnò di guardarla; non lo avrebbe sopportato, soprattutto in quel periodo di crisi familiare peggiore di tutti gli altri.
Arrivata al culmine della piccola collinetta che sorgeva in quella parte del cimitero, si fermò per gettare uno sguardo intorno.
Non c’era.
Un moto di fastidio contro se stessa la fece sbuffare. Che cosa diavolo aveva creduto? Che lui fosse andato lì, con un bouquét di rose in mano, aspettandola inginocchiata, tanto per farle una sorpresa?
Rise amaramente per la sua stupidaggine. Possibile che si fosse invaghita di quel tipo dopo solo due volte averlo visto? Un tizio che non sapeva nemmeno come si chiamava – era propensa a non credere che quello che aveva sentito la volta precedente sia stato proprio il suo nome; come avrebbe potuto – ? Si poteva essere più patetici.
Eppure, quella porticina del suo cuore, quella ingenua che crede ancora nell’amore, quello vero, aveva sempre sperato di trovarlo, l’amore vero, come quello che c’era tra Sy e Red, o tra quello che aveva percepito tra il padre di Sy, Xander, e la madre che non aveva mai conosciuto.
Quello era il vero amore, il fatto di amare una persona che se non si aveva la prova concreta che essa fosse sì, anche se non si poteva toccare, o sentire; un amore che superava qualunque barriera.
Lasciando andare un respiro profondo, si andò a sedere su una panchina di ferro battuto lì vicino. Si chinò in avanti, raccogliendo quella che pochi mesi prima sarebbe stata una splendida bocca di leone, ma che ora era solo un fiore smorto, che aveva perso vita, sole.
Proprio come lei.
Due crossi lacrimosi minacciarono di spuntarle agli angoli degli occhi, ma testardamente non volle farli cadere, ne aveva abbastanza di piagnucolare su latte versato, anche se in quel caso era il suo. Ne aveva abbastanza di fare la vittima.
Ora capiva cosa voleva dire Sy con quelle parole, la volta in cui aveva reagito contro Carly. In quell’occasione era stato per lo più uno sfogo di tutto quello che le era successo nella famiglia.
Ma ora era pienamente consapevole che Sy non si riferiva solo alle voci di corridoio che Carly spargeva in giro come petali.
Sy aveva voluto che lei si svegliasse, che si desse una scrollata, che si alzasse in piedi, afferrasse a due mani il suo coraggio, che la finisse di mettere la testa sotto la sabbia come uno struzzo e che reagisse.
Doveva imparare a decidere da sola, doveva essere responsabile delle conseguenze che tali decisioni portavano e non avere paura di farsi valere. Sia nella vita che a scuola.
Sarebbe stato complicato, le sarebbe servito un po’ di allenamento, visto che fino a quel momento si era lasciata trasportare dalla corrente invece di cavalcarla, ma doveva farcela. Per se stessa. Per Sy, che credeva in lei. E anche per Xander che le aveva dato un tetto, un letto e una famiglia come non ne aveva mai avuta.
«Quello sguardo finirà per metterti nei guai.»
Aria sobbalzò, girandosi di scatto. Le sue dita lasciarono cadere a terra il fiore martoriato.
Un paio di occhi bicolore fissavano i suoi, uno sguardo intenso, letale per il suo povero cuoricino. Ecco, per prima cosa, non si sarebbe lasciata intimidire da quel tipo.
«Che cosa ci fai qui?» gli chiese, brusca, anche se aveva le ginocchia che le facevano giacomo giacomo.
Lui piegò la testa di lato, restando in mobile. «Non era me che stavi cercando?»
Aria aggrottò la fronte, davanti alla sua spavalderia. «E chi ti credi di essere per stare a centro dei miei pensieri?» gli disse, congratulandosi con se stessa per il mezzo sorrisetto che riuscì a fare.
«Sei venuta per litigare?» chiese, incrociando le braccia, gesto che sottolineò perfettamente i muscoli degli avambracci e dei bicipiti.
Indispettita per essersene accorta, Aria sbuffò. «No, ma voglio delle risposte. Tipo cosa ci fai qui.»
«Ho anche io una domanda per te…» disse lui.
«Non prima che tu abbia risposto alle mie.» chiarì Aria, determinata. «Ogni volta che vengo in questo posto, ti trovo qui. Scusami tanto se lo trovo alquanto strano, per non dire inquietante.» Lo squadrò. «Per di più, non so nemmeno come ti chiami, l’altra volta non hai voluto dirmelo.»
Lui socchiuse gli occhi. «Tu conosci il m io nome.» dichiarò. «Non perderò tempo a dirtelo di nuovo.»
Aria strinse le labbra, guardandolo con diffidenza. Non poteva credere che avesse sentito davvero il suo nome, la volta precedente. Era molto lontano e stava piovendo. Non era scientificamente possibile che la sua voce fosse arrivata fino a lei…
Okay, pensò. Prima premessa: accettare anche quello che ti sembra una stupidaggine. Tutto quello che ti dirò lo prenderai per buono. Alla fine di tutto, tirerai le varie conclusioni.
Tirò un respiro profondo, poi lanciò un’occhiata intorno a sé. Le nuvole si stavano addensando rapidamente, grigie e scure. Minacciavano pioggia.
«Andiamo a sederci da qualche parte.»
Senza fiatare, lui fece strada fino ad una panchina di ferro battuto e legno lì vicino. Si sedette a gambe larghe sullo schienale, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, i pugni chiusi.
Aria prese posto sul bordo del sedile in legno, vicino alla sponda, il più lontano possibile da lui.
«Paura di me?» chiese lui, con un sopracciglio alzato.
Aria sbuffò. «Di tutte le cose che possono spaventare, tu sei l’ultimo della lista.»
«Perciò, hai avuto spesso motivo per spaventarti? Visto che hai addirittura fatto una lista.»
«Chi ti dice che è la mia?» proruppe lei.
Lui la inchiodò con i suoi occhi magnetici. «Intuito.»
Quello sguardo non le piacque per niente, anzi le fece venire i brividi. Tentando di nascondere il suo tremore, gli disse: «Non eravamo qui per parlare di me.»
«Prima dimmi come mi chiamo.» pattuì. «Sappiamo tutti e due che hai sentito l’altra volta quando l’ho detto e, adesso, voglio che tu lo ripeta.»
Non sapeva perché, ma ammettere che lo aveva sentito e doverlo pronunciare per darne prova, le sembrava di accettare qualcosa che non riusciva ad individuare, a carpire di lui.
Comunque, se per farlo parlare doveva dirgli il suo nome, per lei non c’erano problemi. Quasi.
Si leccò le labbra secche. «Constantine.»
I suoi occhi bicolore si dilatarono leggermente prima di tornare impassibili. «Cosa vuoi sapere? Premetto che non ti dirò tutto. Ci sono cose che è meglio non sapere.»

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

Il fulmine colpì in pieno la pietra spaccandola in mille pezzi, che vennero sparati in tutte le direzioni.
Monika lanciò un grido di spavento, portandosi la mano alla bocca per soffocare quella reazione istintiva. Gli altri si limitarono a coprirsi le orecchie o a scostarsi se qualcuno era nella traiettoria del proiettile di pietra.
Tirai un respiro profondo, tentando di calmarmi, ma niente. Il cielo ne era una prova. I miei nervi avevano raggiunto la soglia massima di sopportazione e alla fine la diga aveva ceduto. In quel preciso momento ero un pericolo per chiunque, con la rabbia che mi percorreva il corpo, facendolo tremare, e il mio Talento soggetto alle emozioni non era d’aiuto.
Per fortuna, in quel momento arrivò Red.
Ci eravamo riuniti fuori città su richiesta dei professori, subito dopo la scuola. Eravamo nei pressi della foresta, un luogo appartato dove non passava mai nessuno perché proprietà privata del professor Drawn.
Ero venuta con la mia auto. Per cui ero arrivata prima di Red, insieme agli altri, e non era stato un bene. Chissà perché, la vicinanza di Red riusciva a calmarmi, ma quando era lontano, la mia mente spaziava e capitava che tornasse sempre sullo stesso punto, cioè la proverbiale goccia che aveva fatto traboccare il vaso.
La litigata con papà. Eh, sì. Anche i migliori prima o poi finiscono per scontrarsi, e questa volta era toccato a me e papà.
Il giorno dopo Halloween ero marciata nel suo laboratorio e gli avevo chiesto di dirmi tutto quello che sapeva sulla mamma.
Lui aveva negato di sapere ogni cosa. Allora mi ero arrabbiata e avevo giocato a carte scoperte. Gli avevo detto chiaro e tondo che sapevo chi fosse la mamma, sapevo quello che lui stava cercando, sapevo del fiore e del suo significato e sapevo che lui sapeva cos’ero io e che non me lo aveva mai detto.
Che sapeva che avevo una madre ancora viva e che non mi aveva mai detto che la stava cercando, per poi tenermelo nascosto.
Papà era rimasto muto di fronte al mio sfogo, il che mi aveva mandato ancora di più in bestia.
Ma poi aveva detto una cosa che mi aveva veramente fatto male.
«Non volevo che tu lo sapessi. Non volevo che tu facessi parte di… tutto questo. Volevo che avessi una vita normale, come qualsiasi ragazza della tua età.»
Non si rendeva conto di quello che aveva detto, avevo pensato. Stava dicendo che non voleva che io fossi io, che fossi quella che ero, cioè una mezz’elfo, figlia di una potente regina elfo, e – Dio non voglia – erede al trono di un mondo che non aveva mai neanche visto?
Allora gli avevo risposto: «Se è così, avresti dovuto non cercarla affatto, la mamma. Invece di perdere tempo a inseguire qualcosa che non vuole essere trovato, avresti dovuto dedicare il tuo tempo a tua figlia e non alle tue piante.» ed ero uscita.
Da allora non ci eravamo più parlati, solo quel poco di conversazione per il vivere civili.
Mi faceva ancora male e credo che avrebbe sempre fatto male. Non mi voleva così com’ero.
La vista mi si appannò, mentre le lacrime mi inondavano gli occhi. Anche il cielo aprì le sue cataratte e una pioggia sottile cominciò a cadere.
Un lamento collettivo si alzò dal Cerchio.
«Sy, cerca di controllati.» si lamentò Jake, mentre si alzava la giacca di tuta sulla testa e Annika trovava rifugio sotto il suo abbraccio protettivo.
La nota positiva di tutta quella faccenda era che quei due avevano deciso di stare insieme. Non che lo avessero detto apertamente, ma il loro comportamento era diventato più affettuoso e le manifestazioni d’affetto più frequenti di prima.
Le braccia protettive di Red mi avvolsero le spalle da dietro, la mani salì fino alla mia guancia bagnata e il pollice sfregò l’angolo dell’occhio per cancellare le lacrime.
«Te lo devo ripetere?» disse.
Tirando poco elegantemente su col naso, misi il broncio. «No.»
«Bene.»
Lo guardai indispettita. «Non sei per niente d’aiuto.»
Mi guardò con sufficienza. «Sì, invece, e lo sai.»
Agitando la testa, non volendo ammettere che sì, era vero, mi lasciai sprofondare contro il suo petto, mentre la sua temperatura corporei si alzava di qualche grado.
«Non perderti nella tua mente. Ci servi lucida. Abbiamo una missione da compiere e non possiamo farlo se non sei concentrata. Finiresti per metterci tutti nei guai, colpendo a caso con un fulmine.» mi rimproverò bonariamente all’orecchio, in modo che solo io potessi sentirlo. Come sempre il suo tono sommesso, caldo, era ammaliante come il suono di un flauto per una serpente a sonagli.
Trassi un profondo respiro, inalando il suo dolce odore di zucchero e arancia, che subito mi calmò.
Dovevo farmi spiegare meglio la faccenda delle Metà del Cuore. Avrei voluto leggere il libricino che avevo trovato in biblioteca, ma era scomparso. Ero sicura di averlo messo sul fondo dell’armadio in modo tale da non farlo trovare da nessuno, ma quando ero andata a prenderlo qualche giorno prima, non lo avevo trovato.
Anche se chi lo aveva preso, o trovato, non poteva leggerlo, mi dava l’impressione che qualcuno stesse leggendo il mio diario segreto e non mi piaceva.
Dovevo ritrovarlo. Ma in un altro momento. Ora c’era qualcosa di più importante da fare: salvare Rae-Mary.
Borbottando una scusa indirizzata agli altri, mi raddrizzai, pur restando tra le braccia di Red; avevo bisogno di rimanere lucida e con lui funzionava, per cui era ben accetto (anche se non lo fosse stato, ben inteso).
«Che cosa facciamo?» chiesi, rivolta a Jake.
Con un’occhiata, lui passò il testimone alla signorina Madlain.
«Bene. Non so se ne siete a conoscenza, ma l’entrata per LìosLand cambia continuamente, poiché, come un sistema di sicurezza cambia la combinazione di una cassaforte ogni dieci minuti, essa cambia posizione dopo un certo periodo di tempo.»
Jake aggrottò le sopracciglia. «Non ne sapevamo niente.»
«Io sì.» dissi, involontariamente brusca. «Xander me lo ha detto, una volta, parlando di mia madre. È per questo che studia biologia e tutto il resto.»
«Quello che non sapete è che, inizialmente, LìosLand si trovava qui sulla Terra.» rivelò la donna.
Un silenzio sgomento calò su di noi.
«Lìos è una Terra Antica, quella che sulla Terra è conosciuta come Atlantide.» proseguì lei. «Le leggende terrene raccontano che Altlantide fu sommersa dall’acqua, chi dice per volere degli Dei, chi per una catastrofe naturale… questo perché LìosLand si trovava in mezzo al mare che ora si chiama Oceano Pacifico. Vedete, inizialmente su Lìos vivevano le più disparate creature, quella che sulla terra fanno parte del folklore, come i vampiri, o i licantropi o le streghe o gli elfi, soprattutto questi ultimi.» Sospirò. «Purtroppo, però, accade qualcosa che la Regina non aveva previsto. La vostra versione della storia è completamente sbagliata. Vedete, gli uomini non comparvero con l’evoluzione due milioni di anni fa, ma molto più indietro nel tempo. Quella che voi state vivendo è una seconda Era sviluppata sulla cenere di quella precedente.»
Quello che stava dicendo Madlain stava scuotendo le fondamenta delle origini umane. Non solo l’uomo era già comparso sulla terra, prima ancora che noi lo scoprissimo, ma a quanto pareva non era il solo ad averla abitata.
«Noi siamo…» sussurrai, titubante a dirlo espressamente.
«La seconda opportunità di vita per gli umani, visto che la prima l’avete gettata alle ortiche.» chiarì il professor Drawn. «A differenza dell’uomo Moderno, l’uomo Antico era capace di sviluppare un Talento. Sapete quegli studi che provano che l’essere umano medio utilizza solo il dieci per cento del suo cervello? Beh, è vero. L’uomo della Terra Antica aveva le sue capacità perché usava quasi tutto il suo cervello, e cioè la parte che gli permetteva di controllare una determinata cosa, come gli elementi, manipolando intrinsecamente la materia. Conoscete i geni, quelli che hanno capacità più sviluppate di altri? Non è semplice frutto di allenamenti. Magari può aiutare, ma anche senza sforzi, posseggono in Talento che possono controllare, in modo latente.»
«Quindi noi possediamo i nostri Talenti perché utilizziamo più cervello rispetto ad altri.» dissi, titubante.
«Non esattamente.» disse Madlain. «Voi avete le vostre capacità perché siete mezz’elfi. È il vostro sangue che determina quello di cui siete capaci, è scritto nel vostro DNA. Gli esseri umani, invece, hanno bisogno che il loro cervello funzioni pienamente per poterle acquisire. È per questo che, oggigiorno, solo uno su un milione nasce con la facoltà di utilizzare la maggior parte delle cellule celebrali.»
«Ma perché sono scomparsi? Gli esseri umani, intendo.» chiese Rafe.
Drawn sospirò. «Perché la storia si ripete sempre. E per ogni cento bambini che nascono con un cuore gentile, ne deve per forza nascere anche uno dal cuore nero.»
«Che vuol dire?» gli chiesi.
«Che come in questa Era sono nati bambini come Hitler o Benedict Harnold, così nell’Era Antica sono nati bambini che da adulti hanno compiuto malefatte che hanno portato solo guerre e distruzioni per ideali sbagliati.»
«In quell’Era si chiamava Prahbich ed era un essere umano dalle capacità spaventose, tra cui quella di poter controllare la mente di altre persone. Quando prese coscienza di quello che poteva fare, decise di voler conquistare il nostro mondo. Voleva il potere assoluto su tutte le creature della Terra, gli Alfar compresi. Compiva delle enormi stragi, assoggettando i maggiori esponenti di ogni razza, in modo tale da avere il controllo di ogni specie, distruggendo tutti gli altri. Centinai e centinai di creature che qui, nella Nuova Era, non sono mai arrivate, perché sterminate per suo volere!» esclamò Madlain. «Sapete che prima i continenti erano uniti a formare la Pangea, no?, e solo Lìos era distaccato dagli altri. Prahbich voleva conquistarlo. Riunì sotto il suo potere gli esemplari di ogni razza più potenti e marciò verso Lìos. Le voci della sua ribellione arrivarono fino a Lìos, cui la Regina poté anticipare le sue mosse. La Regina non ha un’indole battagliera, non le piace fare del male ad altre creature, ma quando vi è stretta, protegge con le unghie e con i denti quello che le appartiene.»
Sentire la donna parlare di mia madre, descriverla in quel modo, me la fece sentire più vicina, più reale. Da come l’aveva rappresentata, a quanto pare era da lei che avevo preso parte del mio carattere.
«All’alba del tempi, la Regina raccolse sotto la sua protezione tutte le specie ancora salve, inviando un messaggio globale, che raggruppò tutte le razze sulla sua isola. Da lì, alzò una barriera magica impossibile da distruggere, che relegò il suo Paese in un’altra dimensione. Nel frattempo, lanciò nel Mondo Terreno una quantità tale di Energia, da riuscire a spazzare via ogni creatura vivente e a spaccare la Pangea in diversi pezzi.» proseguì il professor Drawn.
«Allora è così che la superficie terrestre si è divisa.» esclamò Bastian. «Non fu colpa di una pioggia di meteoriti.»
«All’occhio umano, chiuso nella sua mentalità moderna, può sembrare così, ma come vi spiegate la mancanza di frammenti celesti o dei crateri?» domandò l’uomo.
«Ma frammenti di meteoriti sono stati ritrovati…» protestò Bastian.
Il professore stava scuotendo la testa prima ancora che finisse. «Quelli non sono frammenti di meteoriti. Ma sono solo pietre contaminate dalla magia della Regina. Credimi, i veri meteoriti non si disintegrerebbero neanche attraversando l’attuale atmosfera terrestre, molto più rarefatta e corrosiva di quella dei tempi antichi.»
«Ma se la Regina ha portato Lìos in un’altra dimensione, come avete fatto voi ad arrivare sulla terra?» chiesi, aggrottando le sopracciglia.
I due adulti si scambiarono un’occhiata. «C’è una cosa che non abbiamo detto.» rivelò il professore. «Prima che venisse emanato l’Editto, che ci segnò come prede e non più predatori, noi,» indicò se stesso e Madlain, «facevamo parte della Guardia Scelta della Regina.»
«Era un corpo speciale, composto da solo quattro componenti di razze differenti, fedelissimi alla Regina e pronti a morire per Lei. E, come Guardie Scelte, venivamo messi a conoscenza di alcuni dei segreti della Regina. Uno di questi erano le Porte dei Mondi.»
«Porte dei Mondi?» ripetei sotto voce. «Mi suona familiare.»
La donna annuì. «La sera di Halloween l’abbiamo accennato. È il mezzo che abbiamo usato per arrivare fino a qui.» Un altro scambio di occhiate. «E pensiamo che la vostra filastrocca sia la mappa per arrivare ad una di essere.»

* * *

Rosarianna O’Sheha POV

Sedevano in silenzio da qualche minuto. Aria era indecisa su come incominciare. Non essendo sempre stata un tipo incline all’eloquenza, non sapeva come farsi avanti, come intavolare volontariamente una conversazione.
Non che Constantine – aveva già iniziato a pensare a lui in quel modo – desse un qualche aiuto. No. Anche lui rimaneva immobile, guardando un punto impreciso davanti a lui, perso in qualche ragionamento o, semplicemente, evitando di guardarla.
Alla fine, si decise a chiedere: «Allora, non eri tu quella che voleva delle risposte?»
«Ehm… sì, allora… tu…» s’interruppe, non sapendo bene cosa chiedere. Poi, buttandosi a cosa, domandò la prima cosa gli passasse per la mente. «Sei reale?»
Fece una smorfia per quell’uscita a dir poco idiota. Una vocina nella sua testa fece uno sbuffo sarcastico dicendo: “È davanti a te, imbecille. Secondo te, come può essere un’illusione?
Ma, lanciando un’occhiata a Constantine, constatò sorpresa che lui non stava ridendo. Anzi, le parve come se fosse in procinto di farle una domanda, per poi ripensarci. La osservò con un’espressione curiosa, come se volesse scavare dentro alla sua sinapsi per carpirne i segreti.
«Perché me lo hai chiesto?» le domandò, infine.
Perché è un’idiota!, rispose la vocina nella testa di Aria, mentre questa annuiva mentalmente per darle ragione.
«Lasciamo perdere, va bene? È stata una domanda stupida.»
Constantine rimase a guardarla per qualche secondo, poi annuì. «Come preferisci.»
Preferirei sparire, ma non posso.
«Chi hai qui nel cimitero?» chiese ancora, poi fece una smorfia, rendendosi conto della propria mancanza di tatto. «Voglio dire…»
«Nessuno.»
Aria batté le palpebre. «Non c’è nessun parente a cui fare visita? Allora, cosa fai qui?»
Constantine lanciò un’occhiata intorno a sé. «Qui mi sento a mio agio. Sono circondato da amici.» le disse ironico. «Ma, c’è un senso di pace, di tranquillità che avvolge questo posto, una che non puoi trovare da nessun’altra parte. Mi mantiene calmo.»
Aria non sapeva se prendere sul serio quello che Constantine le aveva detto oppure prenderlo per uno scherzo. Ma, vedendo la sua espressione seria, comprese che diceva sul serio.
«Davvero ti piace venire qui? Non è un po’ deprimente questo posto?» gli chiese, corrugando la fronte. «Insomma, sei circondato di gente morta, chiuse dentro a casse di legno in decomposizione…» s’interruppe per rabbrividire alle sue stesse parole.
«Dovresti pensare alla storia che c’è dietro a quei corpi in decomposizione.» la redarguì. Allungò un braccio, indicandole una tomba poco più avanti.
La lapide scarna, recava la data di nascita e di morte dell’uomo che vi era sepolto:

BRODICK SHOULZ
1927 - 1954

«Era giovane quando morì, nel fiore degli anni. Morto poco dopo il ritorno delle squadriglie della Seconda Guerra Mondiale. Come? Salvando una bambina. La piccola era entrata in un cantiere che stava ricostruendo un palazzo colpito precedentemente da una bomba. Stava inseguendo una palla. Brodick la vide mentre questa si avvicinava pericolosamente ad una parete poco stabile che avevano appena finito di issare. Sfortunatamente, la parete deciso che era proprio quello il momento in cui non sarebbe riuscita a reggere se stessa. E Brodick era l’unico più vicino che potesse salvarla. Non ci pensò due volte. Le corse incontro, quando un masso più grande degli altri si staccava dalla parte e franava indisturbata verso la bambina. La raggiunse appena in tempo per spingerla lontano e venire schiacciato da quel masso che lo colpì in testa. Lo rese un vegetale. E poco tempo dopo, la moglie non potendo più sopportare il dolore di vedere il suo valoroso uomo ridotto in quello stato deplorevole, decise di dargli il risposo eterno.» Lo sguardo vuoto con cui aveva continuato ad osservare la lapide, intanto che raccontava, si focalizzò su di lei. «Cosa pensi adesso che hai sentito la sua storia? Pensi ancora che sia solo un corpo in decomposizione?»
Dipinta in quel modo, il pensare al corpo sepolto appariva in una nuova luce. Le faceva pensare a che uomo fosse in vita, a quale missione avesse partecipato, a cosa avesse provato mettendo in pericolo la sua vita per inseguire degli ideali patriottici, la famiglia che aveva lasciato, le persone che aveva amato.
Aria si rendeva conto di aver sbagliato. Lanciò un’occhiata tutt’intorno, leggendo si sfuggita i vari nomi sulle tombe, domandandosi al contempo chi fossero e cosa avessero fatto nella loro vita. Erano eroi come Shoulz, oppure semplici persone che svolgevano la loro vita tranquillamente fino alla fine, o ancora che avevano visto la Morte negli occhi troppo presto?
«Tu perché vieni qui?» le domandò poi Constantine. «Chi hai qui?»
«Mia nonna.» rispose Aria soprappensiero.
«Quanta emozione.» la derise lui.
Aria scrollò le spalle. «Non l’ho mai conosciuta. In realtà, non avevo idea che fosse sepolta qui. La prima volta che ci siamo incontrati è stata anche la prima volta che ho visto la tomba della nonna e ne sono venuta a conoscenza.»
Lui la guardò intensamente. «Come facevi a non saperlo? I tuoi genitori non ti hanno mai parlato della tua famiglia.»
Aria non era proprio al settimo cielo parlando della sua famiglia. Alla luce dei nuovi avvenimenti, delle separazioni, delle sofferenze che aveva patito, era chiaramente restia a parlare a chiunque fosse sull’argomento.
Davanti al suo silenzio, lui annuì comprensivo. «Capito. Non vuoi parlane.»
«Tu vuoi parlarne?» sopraggiunse lei. «Della tua famiglia, intendo.»
Constantine tacque.
Aria annuì con uno scatto del mento. «Appunto.»

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

«Scusate.» dissi. «Ma visto che avete usato la Porta dei Mondi, a cosa ci serve la filastrocca? Voi sapete dove si trova il passaggio.» Il loro sguardo era assolutamente non positivo. «Oppure no?»
Madlain respirò a fondo. «Vedi, quando è stato emanato l’Editto, ogni Porta è stata segnata in modo tale da non agire in presenza di creature soggette ad esso. Noi siamo stati fortunati a poterne usare una, poiché è stata la Regina Bianca a farcela usare, poco prima che venissimo presi.»
«È come se la Porta fosse refrattaria.» chiarì il professore. «Non accetta la nostra presenza nelle vicinanze. È per questo che arrivato ad un certo punto, dovrete andare davanti da soli.»
«Ma come faremo senza il vostro aiuto?» chiese Bastian.
I professori si scambiarono uno sguardo, poi guardarono me. «Credo che Sylence possa aiutarvi.»
Mi accigliai. «Io? E come? Fino ad ora non sono stata di grande aiuto al riguardo.» bofonchiai.
La donna si avvicinò e mi posò le mani sulle mie spalle. «C’è una cosa che la Regina Bianca è riuscita a dire prima che chiudesse la Porta.»
«Ha detto: “Mia figlia sta per tornare”.» svelò il professor Drawn. «“Lei conosce la strada. L’ha nel sangue”.»
Scossi la testa. «Ma io non la so, la strada. Sarei ancora qui, altrimenti?» chiesi, alzando le braccia al cielo. «Vorrei che ci fosse un modo per sbloccare quello che ho qua dentro!» Mi picchiai un pugno contro la tempia.
Red mi afferrò le mani e le tenne strette insieme alla sue intorno alla mia vita.
«Calmati, nanerottola.» mormorò. «Se c’è una cosa che ho imparato è che le cose importanti vengono sempre di loro spontanea volontà. Per adesso, andiamo avanti con la nostra ricerca. Leggiamo la poesia e vediamo dove arriviamo. E se nel frattempo, avrai qualche flash o qualche visione, ben venga.»
«Sei cambiato, Ombra.» disse Jake, disse dopo qualche minuto. Guardava Red con uno sguardo serio, dal quale si poteva leggere una luce nuova di rispetto. «Sei cambiato davvero tanto.»
«Sono cresciuto, Re.» gli rispose l’altro. «E questa volta ho troppo da perdere.» dichiarò, rafforzando la presa intorno a me.
Avere tutta quella considerazione da parte sua mi fece sentire assolutamente meglio. Felice. Appagata. Se ancora Red non mi aveva detto espressamente cosa provava per me, le sue azioni lo esclamavano a chiare lettere.
Si dice di più facendo che dicendo, o qualcosa del genere.
Mi girai per posare un bacio sulla clavicola di Red e poi mi girai verso gli altri.
Viva il contatto fisico!
«D’accordo. Va bene. Qualcuno si ricorda come fa? La poesia, intendo, perché in questo momento ho un vuoto di memoria e non ho la pazienza di colmarlo.» dissi.
«Sì, certo.» rispose Bastian.
Tirò fuori dalla tasca il suo iPhone. Alzai un sopracciglio. «Te la sei scritta sul cellulare?»
Lui scrollò le spalle. «Era l’unica cosa a portata di mano, mentre tornavo a casa, quando l’ho sentita per la prima volta.»
«Ah.» mi limitai a dire.
«Ecco. “Canti e Balli risuonan nell’Aria/ quando le Luci della Terra conducon le Danze” sono le prime due strofe.»
«Non dobbiamo tralasciare alcun dettaglio.» ribadì Jake.
«Per adesso, però, accantoniamo la prima frase, non credo che indichi qualcosa. Ma la seconda…» dissi. «Mi dà da pensare. “Quando le Luci della Terra conducon le Danze”… Luci della Terra…»
«Sembra una strana immagine.» commentò Rafe. «Insomma, le “luci della terra”… la terra è cosparsa di luci. L’uomo le ha installate da tutte le parti.»
«Dovete considerare una cosa, però.» ci avvertì Madlain. «Per quanto possiate correlare gli elementi di quella poesia al mondo moderno, dovete rendervi conto che è stata scritta e destinata al popolo di Lìos, un popolo che vive a stretto contatto con la natura e dove la modernità dell’uomo non è mai arrivata.»
«Quindi gli elementi della poesia sono prettamente naturali.» conclusi. «Di conseguenza, per Luci della Terra, possiamo considerare delle “luci” che la terra mette a disposizione dei Lìos per segnare il percorso di ritorno a casa.»
«Sì, ma che tipo di luci?» ci domandò Monika. «La natura dispone di tante luci naturali.»
«Per esempio?» chiese la sorella.
«Beh, prima di tutto ci sono il Sole, la Luna e le Stelle.»
«Forse sono le stelle.» disse Annika, scrollando le spalle.
Grugnii, dubbiosa. «Sarebbe troppo facile. Pensaci. Se avessero scritto di un percorso facilmente deducibile, tutti potrebbero facilmente trovare la strada per tornare a casa, compresi chi non dovrebbe affatto saperlo.» Mi grattai una tempia. «Deve essere qualcos’altro.»
Continuavo a mormorare tra me e me le parole “luci della terra”, lanciando al contempo un’occhiata intorno a noi, in cerca di un indizio.
Sentivo distrattamente gli altri che continuavano a proporre altre possibili soluzioni. Appoggiai la testa all’indietro, sulla spalla di Red, pensando a cosa potessero essere, Red aveva avvolto le sue braccia intorno a me e io poggiai i miei avambracci sui suoi.
Ad una mosca venne voglia di infastidirmi con il suo ronzare perpetuo. Alzai una mano a scacciarla.
Qualcosa mi brillò tra le dita. Sussultai inorridita prima di rendermi conto che era soltanto una lucciola tardiva. La osservai distrattamente allontanarsi volando tranquillamente sulla prima voglia libera e posarsi, brillando fiocamente.
Fu allora che, osservando quel piccolo esserino, mi si accese una lampadina.
«Le Lucciole.» mormorai.
Guardai gli altri, che si erano interrotti per girarsi verso me. Mi misi a ridere. Indicai loro il piccolo esserino luminoso che, stufo di starsene fermo, riprese a volare indisturbato tra noi, raggiunto pochi secondi dopo da altri due compagni.
«Sono le lucciole.» dichiarai. «Sono animali che da larve, crescono sulla terra e quando sono abbastanza adulti, si alzano in volo e iniziano a brillare.» Risi. «Luci della Terra
Vidi l’entusiasmo imperversare sui visi del Cerchio: avevamo fatto un passo avanti nella ricerca della strada per Lìos ed eravamo un passo più vicini a riprenderci Rae-Mary.

* * *

Rosarianna O’Sheha POV

Il silenzio si era fatto pesante. Aria non sapeva come andare avanti. Voleva delle risposte, ma aveva timore a fare domande.
Forza, ragazza!, s’incitò. Fatti avanti, prendi coraggio, e domanda!
«Dove vivi?» chiese.
«Un po’ qui, un po’ là…»
Aria gli lanciò un’occhiataccia. «Se non vuoi dirlo, basta che stai zitto. Prendermi in giro non serve a niente.»
«Dovresti prendere la vita con più leggerezza. Ne una sola, infondo, e se non te la godi, che gusto c’è a viverla?»
«Non mi sembri un tipo spensierato. Anzi, sembri proprio il tipo che prende tutto sul serio.»
Sul viso si Constantine calò l’inespressività. «Dovresti pensare a cosa è meglio per te. Non lasciarti condizionare da altri, cerca da sola la tua strada e seguila. Non fare mai affidamento sugli latri: è sempre un grosso errore.»
Disorientata da quel brusco cambiamento, non protestò ne fece altro quando lo vide alzarsi e allontanarsi a passo veloce, fino a scomparire dietro un mausoleo.
Poi si alzò di scatto e lo inseguì, ma appena voltato l’angolo, si fermò bruscamente.
Di Constantine non c’era traccia.

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

«Come continua la filastrocca?» chiese Jake.
Bastia controllò il cellulare. «“L’ombra del Fuoco capeggia la Cerchia/ mentre assetati giocan con l’Acqua”.»
«La prima frase è scontata. È ovvio che sta parlando di te, Red.» disse Jake, guardandolo. «Probabilmente, è il Fuoco l’elemento principale, la chiave per sbloccare tutto il resto del percorso.»
«Sì, ma in che modo?» mi chiesi. «E le lucciole? Come possono collegarsi le due cose?»
Tutto il Cerchio si mise a riflettere. I professori stavano confabulando tra loro, dicendo a testa le varie idee che potevano risolvere il dilemma.
«Forse c’entra il fatto che entrambi brillano, le luci e il fuoco.» suggerì Annika.
Presi a giocare distrattamente con le dita di Red. Mi venne in mentre la prima volta che mi aveva mostrato il suo talento. Il giochino di far cambiare il colore alla fiamma, il saper controllare la temperatura…
Un fuoco che non frusciava… un fuoco freddo…
Veloce come una scossa elettrica e altrettanto dolora, una visione mi aggredì il cervello, facendomi vacillare. Mi portai le mani di scatto alla testa, come ad impedire che essa potesse attecchire alle mie meningi. Ma, come al solito, niente può fermare una visione quando viene.
Vidi, davanti ai miei occhi, un piccola fiammella blu, simile a quella che mi aveva mostrato Red e una lucciola che ci giocava, volando dentro e fuori all’alone azzurro.
Riaprii di colpo gli occhi, ritrovandomi accasciata al suolo con Red che mi sosteneva gli altri tutti radunati intorno a noi.
«Hai avuto una visione?» mi chiese subito Jake.
Red non fiatava, restando in attesa. Lo sentivo rigido, dietro di me. Gli accarezzai un braccio, tentando di rilassarlo, intanto che rispondevo a Jake.
«Sì. Avevi ragione,» dissi, rivolgendomi ad Annika. «Sia il fuoco che le lucciole hanno la luce in come, ma non perché brillano, ma perché la loro luce è fredda.» Mi volsi verso Red, incontrando il suoi meravigliosi occhi dorati. «Devi creare un fuoco freddo. Credo che le lucciole, poi, faranno il resto.»
«Stai bene?»
Lo guardai, ironica. «Ti sembro una donzella in difficoltà?»
I tratti del suo viso si rilassarono. Poi annuì. Mi aiutò a rialzarmi, dopo di ché si spostò di qualche passo e unì le mani a formare una coppa. Una piccola scintilla scaturì tra i due palmi e una fiammella azzurra prese a bruciare, a crescere fino a diventare alta almeno due palmi.
«Alzala, piromane.» consigliai.
Fece come chiesto. Il Cerchio rimase in attesa di una qualche svolta. In primo momento non successe niente, e potei percepire chiaramente la delusione che iniziava a serpeggiare tra i membri, ma dopo qualche minuto, alcune lucciole incominciarono a farsi avanti, volando intorno al fuoco azzurro, fino ad arrivare a pochi centimetri di distanza. Giocavano con la fiamma, proprio come nella mia visione, entrando e uscendo dalle lingue bluastre come se stessero su un ottovolante delle montagne russe.
All’improvviso i piccoli insetti iniziarono a scoppiettare come pop-corn, tipo mini fuochi d’artificio. Solo che i loro corpicini rimanevano integri. A scoppiettare era la magia che esse rinchiudevano, mi resi conto.
«Ora ricordo!» esclamò a quel punto Madlain. «Ricordi, Mikah?» si rivolse al professore. «Le lucciole erano gli unici animali che si avvicinavano al Lago della Regina, perché le piaceva vederle mentre gironzolavo intorno alla riva e illuminavano di puntini la superficie del Lago.» Ridacchiò. «Per questo, forse, sono state scelte per segnare il cammino.»
«Adesso, come andiamo avanti?» chiese Jake.
«Il resto della filastrocca?» mi rivolsi verso Bastian.
«“E tutti uniti in un Unico Insieme/ celebrano Ovunque il loro Restare”.» citò.
«Avete notato una cosa?» disse Monika, attirando l’attenzione. «Canti nell’Aria, luci della Terra, l’ombra del Fuoco e giochi con l’Acqua.» elencò. «Fuoco, acqua, terra e aria, i quattro elementi!» esclamò quando restammo in silenzio. «Non deve essere un caso se sono stati messi nella filastrocca. Voi avete detto che i Lìos erano quanto di più vicino alla natura esista, giusto?» chiese hai professori. «Beh, io credo che siano parte dello schema per trovare la strada che conduce alla Porta dei Mondi.»
Annuii. «Credo che tu abbia ragione, Monika, ragione da vendere. Cosa c’è di più naturale dei quattro elementi?» domandai, retorica. «Solo, non capisco in che modo sono collegati assieme.»
«Decidete prima che questi cosetti decidano di scoppiettare anche su di voi.» disse Red, guardandomi con sufficienza.
«Tanto controlli il Fuoco.» gli sorrisi. «Non succederebbe niente.»
Mi guardo tra il serio e il faceto. «Hai tanta voglia di essere bruciacchiata?»
Mi avvicinai a lui, allungando una mano per toccare il fuoco freddo. «Tu non lo permetteresti.» gli risposi, con lo stesso tono, infilando le dita tra le fiamme.
Il suo sguardo dorato si fece serio e lo vi lessi una promessa solenne che mi scaldò dentro.
«Non è il momento di fare i piccioncini, ragazzi.» ci sgridò Jake. «Abbiamo qualcosa di più importante a cui pensare.»
Sospirando annuì, dandogli piena ragione. «D’accordo. I quattro elementi. Vediamo un po’…» riflettei portandomi un dito alla tempia. «Di soluto non sono solo quattro gli elementi, ma cinque, anche se il quinto varia di volta in volta, a seconda di quale cultura si guardi. Alcuni credono che sia il metallo, altri ancora che sia lo spirito…»
«Altri il fulmine!» esclamò Bastian, indicandomi.
Anche se dubbiosa, annuii. «Sì, può essere.»
«E, solitamente, vengono raffigurati in schemi precisi, come un pentagono o una stella.» concluse, poi.
«E se provaste a formare un pentagono intorno a Red?» suggerì Drawn.
«Ma nessuno di noi possiede tre dei cinque elementi che servono.» obbiettò Rafe.
Mi mordicchiai il labbro inferiore, mentre rispondevo. «Forse dobbiamo guardare i nostri Talenti da una prospettiva diversa.»
«Che intendi dire?» chiese Jake.
«Beh…» tentennai, ponderando di dire ad alta voce i miei pensieri, che non erano tanto chiari. «No, credo che sia una cosa idiota.»
«Andiamo!» disse con enfasi Rafe. «Fino ad ora le tue idee sono state buone. Perché questa dovrebbe essere diversa?»
Facendo una smorfia, annuì, dubbiosa. «Ecco… stavo pensando che i simboli dei quattro elementi siano proprio questo, dei simboli. E quello che dobbiamo fare è solo interpretarli.»
Le loro facce interdette mi dissero che non mi ero spiegata affatto.
«D’accordo. Prendiamo il primo elemento della lista, Aria. È un elemento invisibile, sfuggente, che non può essere catturato o toccato. Eppure c’è. È un po’ come… un’illusione.» guardai con intenzione le gemelle.
Jake e il resto dei presenti mi guardò con attenzione. «Va avanti.» disse il ragazzo.
«C’è la terra. È un elemento forte, solido, che può sorreggere centinai di chili di peso superiori ai suoi. Jake, tu non fai la stessa cosa?» gli chiesi. «Non sollevi pesi più grandi dei tuoi? Non sei “forte come una roccia”?»
Fidi il Cerchio scambiarsi dei sorrisi e dei ghigni. «E l’acqua?» chiese Monika, trepidante. «A chi appartiene?»
Mi agitai, perché non sapevo rispondere. L’acqua era un elemento insidioso, che può arrivare ovunque, può lenire o ferire, distruggere o creare.
Fu allora che mi si accese un’altra lampadina. «Ma certo!» esclamai, alzando gli occhi e le braccia al cielo. «Bastian!»
Tutti si guardarono verso lui, che avvampò come un semaforo rosso. «Io, cosa?»
«Il tuo Talento, la Guarigione. Pensaci. Io so cosa si prova quando lo usi su qualcuno. Quando tu guarisci una persona è come se il tuo Talento filtrasse attraverso la pelle, i muscoli, le ossa. Entra in tutti i vasi sanguinei e lenisce il dolore. Come quando bevi l’acqua e la senti scorrere giù in gola fino allo stomaco, per spegnere la sete.»
Vidi i volti del Cerchio estasiati. Avevamo risolto la maggior parte dell’enigma; ci stavamo avvicinando inesorabilmente a Rae-Mary.
Tieni duro ragazza, stiamo arrivando!

* * *

Rosarianna O’Sheha POV

Stava tornando a casa. Aveva deciso di non andare più al cimitero. Mai più. Ne aveva abbastanza di tutti quei misteri, di Constantine e del motivo per cui lo incontrava ogni volta. Chissà che poi non riuscisse a scordarselo, lui e i suoi dannati occhi bicolore.
Il tempo non era dei migliori: non si sapeva se avrebbe piovuto, oppure no. I nuvolosi grigi e scuri dicevano di sì, ma fino a quel momento niente pioggia.
Per fortuna, considerato che non aveva l’ombrello.
La strada non era tanto trafficata, passava un’auto ogni tanto, ma niente di più.
Perché tornava a piedi? Perché aveva perso l’ultimo bus per tornare a casa. Tutta colpa di Constantine, pensò furiosa. Se non si fosse messa a parlare con lui, non avrebbe fatto tardi, non avrebbe perso il bus e ora non si sarebbe ritrovata in quel quartiere non tanto sicuro per una ragazza, per tornare a casa.
Aria svoltò a destra, seguendo le indicazioni per il centro. In quella strada, le luci dei lampioni erano quasi tutte spente, e con il cielo oscurato, non era uno scenario dei migliori. Tanto più che, pochi passi avanti la strada era completamente buia.
Stringendosi nel suo giubbotto, si fece coraggio e, a testa alta, camminò a passo veloce verso quel tratto buio, tenendo gli occhi solo sul punto illuminato.
E fu quello il suo sbaglio.
Non si accorse di essere pedinata fino a quando qualcosa di pesante non colpì un secchio della spazzatura lì vicino e lo fece cadere pesantemente a terra, con un tonfo così assordante da far abbagliare un cane nelle vicinanze.
Una risata gradevole riempì l’aria pesante e carica di elettricità, insieme ad un misto di imprecazioni così volgari da far arrossire una statua di pietra.
«Smettila di ridere, cazzo, e dammi una mano.» gridò uno, con voce stridula.
«Alzati da solo, pezzo di idiota. È colpa tua se sei caduto.» lo derise un altro.
«Piantatela, coglioni, altrimenti la spaventate.» li sgridò una terza voce, piena di sarcasmo, sbucata all’improvviso davanti a lei.
Aria si fermò di botto, con il cuore in gola dalla paura.
«Come se a te non piacessero tremanti e spaventate.» commentò quello caduto, che stava rialzandosi.
Una situazione tutt’altro che piacevole. Il primo che aveva sentito si fece avanti claudicante. Non riusciva a vederlo chiaramente in volto. Non che le importasse che facce avesse, visto il pericolo che costituiva.
«Ciao, bellezza. Che fai da queste parti? Vuoi venire a divertirti con noi?» chiese, alzando di scatto più volte le sopracciglia.
«O a divertire noi?» aggiunse il compare che si era alzato, sistemandosi i canzoni in un gesto assolutamente volgare.
Lo sguardo di Aria passava tra loro, morta di paura, non sapendo cosa fare. Voleva fuggire, ma sapeva che non sarebbe mai riuscita a superarli, perché il terzo tizio era più grosso degli altri e le sbarrava la strada; gli sarebbe bastato allungare un braccio per prenderla.
Ma doveva comunque fare qualcosa. La prospettiva di rimanere ferma era peggiore rispetto a quella di provare a scappare.
Lentamente, mentre i due idioti litigavano, si spostò verso sinistra, dove supponeva ci fosse più spazio di manovra.
«State zitti, cazzo!» urlò il più grosso. Gli altri due smisero di bisticciare. «Mi chiedo perché esco ancora con voi?» sospirò, poi, spostò l’attenzione si Aria. Sorrise in maniera sgradevole. «Scusa, bellezza, ma con questi due pezzi d’imbecilli non si può mai stare tranquilli.» Si avvicinò di qualche passo. «Che facevamo?»
Capendo di non avere altra possibilità che quella, Aria si lanciò in avanti, buttandosi a peso morto contro il fianco dell’energumeno. Questo perse l’equilibrio, sbilanciandosi verso destra, permettendo ad Aria la fuga.
Ma la speranza non durò molto. I tre tizi si lanciarono al suo inseguimento, mentre altre imprecazioni le venivano scagliate addosso.
Se questa volta l’avessero presa, non l’avrebbe passata liscia.
Corse freneticamente, senza sapere dove andare, svoltando, inciampando. Lanciava delle occhiate per vedere se quelli la stavano ancora seguendo, ma sapeva che la stavano inseguendo: li aveva sfidati a prenderla e loro avevano raccolto la sfida. Aria aveva il cuore a mille, dalla paura e dalla fatica, e la crescente sensazione di sventura.
Svoltò verso destra e si bloccò. Vicolo cieco.
La paura l’invase. Cercò di tornare indietro, ma quei tre erano ormai arrivati. Non aveva via di scampo. Indietreggiò fino a sfiorare il muro alle sue spalle con le scarpe.
I tre si sogghignarono a vicenda e iniziarono ad avanzare.
Anche se le avessero fatto del male, mai e poi mai avrebbe implorato, si ripromise, determinatamente. Lo aveva fatto tante volte quando il padre ci andava giù pesante con schiaffi e pugni e l’unica cosa che ne ricavava era di farlo infuriare.
Stringendo i pugni lungo i fianchi, alzò il mento in segno di sfida. Al diavolo, era già nei guai, che li avrebbe affrontati a testa alta. Era irlandese, cavolo!
I primo che le afferrò una spalla, ricevette un calcio negli stinchi che, anche se non provocando danni pesanti, fece comunque ritirare momentaneamente l’omaccione numero due, con un mare di parolacce.
«Mi piacciono le tipe combattive.» commentò il primo energumeno.
«Ah-ah.» concordò il campare.
«Prendi quella piccola sgualdrina e andiamocene di qui. Mi sono già stufato di correrle dietro come un mulo.» grugnì quello colpito.
I primi due scattarono in avanti, afferrando Aria per le braccia. Lei si dibatté come un pesce fuor d’acqua per riuscire a liberarsi, ma quelli avevano la presa pari ad una tenaglia. Tirò calci a vuoto, pensando che almeno uno li avrebbe colpiti.
Il terzo uomo si fece avanti, afferrando prima una caviglia e poi un’altra, togliendole anche quella che era l’unica difesa a sua disposizione.
Aria si dibatté, urlando, cercando di prendere a morsi le maledette mani che le serravano i polsi.
Uno di quelli si stancò e, tenendole il polso con una sola mano, la schiaffeggiò pesantemente con l’altra. La testa le si voltò di scatto. L’impatto fece morire in gola le urla. Il dolore fu così forte da nausearla.
«Mi hai stancato, stronzetta.» le ringhiò contro la bestia. «Se non la smetti subito, tra poco pregerai Gesù Cristo di essere morta. Volevano solo che ti ci divertissi un po’, ma di questo passo, sarò molto più contento di prenderti a pugni.»
Con la vista annebbiata, la testa ciondoloni, Aria non credeva avesse altre speranze. Pensare che quelle bestie avrebbero abusato di lei, in tutti i modi possibili, le faceva salire la bile in gola. Aveva il fiatone e le facevano male le braccia.
Quante volte aveva sognato di conoscere un bravo ragazzo, di frequentarlo, diventare la sua ragazza e poi provare quello che quasi tutte le ragazze della sua età avevano già sperimentato già da tempo, cioè fare l’amore con la persona giusta, che ti suscita i giusti sentimenti, di cui ti fidi ciecamente?
A quanto pare la Vita le aveva sputato in faccia un’altra volta.
Lacrime di dolore presero a scenderle dagli occhi, ma lei si rifiutò di farle vedere, chinando il capo per non umiliarsi ulteriormente, piangendo in silenzio.
Per qualche strana ragione, si ricordò della volta in cui, al cimitero, aveva desiderato disperatamente qualcuno da amare, qualcuno che si prendesse cura di lei, che la proteggesse…
I tre tizi si fermarono bruscamente. Erano già arrivati? Era lì che avrebbero abusato di lei?
«E tu che diavolo vuoi?» sentì domandare da uno dei tre. «Levati di mezzo, bamboccio, se non vuoi finire male.»
Aria non sentì risposta, forse perché non c’era stata.
«Sei duro di comprendonio?» continuò a sbraitare il tizio. «Un bel cazzotto ti servirà come incentivo, allora.»
Aria venne momentaneamente lasciata dai tizi, uno di loro però la riprese subito, agguantandola per la vita e sbattendosela in spalla come un sacco.
«Occupatevi di lui.» ordinò quello che la teneva.
Aria non poteva vedere ciò che stava succedendo, ma sentiva i due idioti ridere tra loro, come a pregustare la vittoria sul nuovo arrivato. Aria avrebbe voluto sapere chi fosse.
Stranamente, però, non sentì i rumori di una lotta. Anzi, non sentì proprio niente. All’inizio, pensò che fosse svenuta, ma dopo poco il tizio che la teneva in braccio, si agitò, sballottandola a destra e a manca, mentre indietreggiava.
«Ma che diavolo succede?» lo sentì sbraitare. «Avanti, colpitelo!» incitò gli altri.
Aria non riuscì a capire la risposte, ma quello che la teneva disse: «Che cavolo significa?! Dagli un cazzotto e andiamocene!»
Aria percepì i passi degli altri due che si avvicinavano. «Ci ho provato, Rick! Ma non riesco a colpirlo! È come se il mio pugno gli passasse attraverso.» si lamentò uno.
«Ragazzi, non è che quegli spinelli che ci siamo fatti non erano di qualità?» domandò l’altro.
«Non prendermi per il culo, li ho fatti io stesso! Le piante le coltivo io, sono buone!»
Aria sentì il proprio corpo vibrare, quando l’energumeno si raschiò la gola per poi sputare a terra.
«Mi sono rotto.» disse. «Prendi questa.» e passò Aria al compare.
In un ultimo sprazzo di lucidità, Aria raccolse quel poco di forza che aveva per tentare di liberarsi, ma non le valse a molto.
Questa volta però venne presa per le braccia e sorretta, dandole la possibilità di vedere che cosa stesse succedendo.
A primo acchito, pensò di avere le allucinazioni. Non poteva star vedendo Constantine con le mani in tasca, da solo contro quei tre.
Poi, quando il tizio che la teneva gli si lanciò contro, riacquistò la lucidità, rendendosi conto che sì, Constantine era solo contro quei tre.
Constantine l’aveva trovata. La stava salvando. La stava proteggendo
Lui le lanciò a stento un’occhiata.
Quando il primo pugno dell’energumeno si avvicinò alla faccia di Constantine, il colpo gli passò attraverso.
Non si sa chi fosse stato più sconvolto, se Aria che guardava la scena, o l’energumeno, che sbilanciato dal colpo mancato, caracollò in avanti, andando a sbattere contro il lampione.
Il tizio che la stava tenendo, mollò la presa, barcollando all’indietro, seguito dal compare. Aria si accasciò a terra, completamente svuotata di forze.
«Rick, quelle cazzo di piante non erano buone, non erano buone per niente!» urlò questo verso l’amico.
Il compare accanto a lui si fece il segno della croce, per poi piagnucolare: «Cosa diavolo sei? Non farci del male.»
Allibita, aria osservò Constantine piegare la testa di lato, lentamente, per poi mormorare: «Sono il fantasma del Natale Futuro.»

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

Ci disponemmo a pentagono, con Red in punta e noi agli altri estremi.
«Avete mai visto una setta? Ecco, mi sento nella medesima situazione.» dissi. «Se potessero vederci adesso i ragazzi a scuola, tutto quello che hanno pensato su di voi sarebbe reale.» me la risi.
«Società segreta? Con rituali e tutto il resto?» stette al gioco Rafe.
«Sì.» ridacchiai. Respirai profondamente, tornando seria. «Okay, non so proprio come procedere, perciò vi conviene darmi una mano. Sono aperta a suggerimenti.» offrii.
«E se disegnassimo una stella, allargando le braccia?» propose Annika, mostrandoci come.
Scrollai le spalle. «Perché no?» dissi. «Proviamo.»
Allargammo le braccia a formare la stella e aspettammo. Le lucciole continuavano a giocare con fuoco e a scoppiettare, di tanto in tanto. Ma non successe niente.
«Non credo che funzioni così.» disse Jake, agitando la testa. Abbassò le braccia.
Mi mordicchiai le labbra. «Ho come la sensazione che il Fuoco debba essere il centro del disegno. Anche se nella poesia dice “capeggia la Cerchia”, se dobbiamo formare un disegno, credo sia meglio che Red sia al centro e noi disposti intorno a lui.»
«Ma così perdiamo la disposizione a pentagono, il simbolo per antonomasia dei cinque elementi.» protestò Bastian.
Agitai la testa, indecisa. «Lo, so, però…»
«Te lo senti dentro.» concluse Jake al mio posto.
Con una smorfia, annuii, agitando le mani , come a dire “più o meno”.
«Va bene.» accettò lui. «Infondo, tua madre pensa che ti abbia le risposte e fino ad ora ci sei stata di grande aiuto, perciò, faremo come dici tu.»
Mi spiazzava la fiducia che aveva in me, nelle mie idee strambe. Per un qualche strano motivo, pensai che se avessi avuto un fratello, sarebbe stato come Jake.
Cambiammo posizioni, accerchiando Red. Attendemmo ancora, non successe niente. Di nuovo.
«Dannazione, stavamo andando così bene!» si rammaricò Rafe. «Perché adesso non succede niente? Non possiamo perdere altro tempo…»
«La smetti, Raferty!?» inveii contro di lui. «Sembri uno stramaledetto uccello del malaugurio! Piantala, non ci sei di nessun aiuto!»
«Smettetela, voi due. Non è il momento di litigare.» ci rimproverò Jake.
«Non metterti in mezzo anche tu, Jake!» aggredii anche lui. «Non sei mio padre.»
La situazione stava degenerando, e in pochi secondi, me ne rendevo conto. Il cielo si era rannuvolato, pronto a seguire il filo delle mie emozioni, e borbottava minacciosamente.
«Sylence.»
La voce di Red bastò a schiarirmi le idee. La rapidità con cui riusciva a calmarmi era sorprendente, e mi inquietava. Nessuno aveva mai avuto un simile controllo su di me e, sapere che all’improvviso questo qualcuno c’era, non era per niente rassicurante.
Tuttavia, non potei fare a meno di girarmi a guardalo.
Il suo sguardo non era di rimprovero, anzi, era quasi divertito. Ricordando quello che mi aveva detto, riguardo al fulminare qualcuno accidentalmente, trassi un respiro profondo per stabilizzarmi.
In cielo, le nuvole si dissiparono, facendo tirare un sonoro sospiro di sollievo a tutti i presenti.
Mi voltai verso Rafe. «Scusa, non volevo.» Mi accigliai. «Anzi, volevo, solo che non avrei dovuto dirlo.» chiarii.
Rafe increspò la fronte, distendendo le labbra in un sorriso divertito. «Ecco che se ne va al diavolo, di nuovo, il filtro da cervello e bocca.» ridacchiò. «Di spiace anche a me per quello che ho detto. Posso solo dire ce sono preoccupato per Rae-Mary e il non far niente non aiuta a calmarmi.» sospirò.
Annuii comprensiva, poi mi girai verso Jake. «Scusa anche a te, Jake.»
Lui accettò le scuse limitandosi ad un cenno col capo.
«Quindi come procediamo?» chiese Annika.
Scossi la testa. «Non mi viene in mente niente.» Mi sfregai una guancia, riflettendo. «Forse c’è qualcosa nella filastrocca che abbiamo saltato o che ci è sfuggito.» tentai.
Bastian tirò fuori il cellulare. «La ripeto daccapo?»
Annuii.
«“Canti e Balli risuon nell’Aria/ quando le Luci della Terra conducan le Danze…» Bastian ripeté tutta la filastrocca.
Mi ripetevo quella medesima tiritera nella mente, certa che mi stesse sfuggendo qualcosa. Scandivo parola per parola, a bassa voce, cercando di trovare quella scintilla, quell’illuminazione buddista che ci avrebbe permesso di andare avanti.
«Canti e Balli…» mormorai. Socchiusi gli occhi, come a vedere qualcosa di microscopico. «Canti e balli.»
Prendere una determinata posizione è l’imput per incominciare una danza, giusto?, mi chiesi. Noi ci eravamo posizionati intorno a Red a forma di cerchio, come a voler dare inizio ad una danza ottocentesca.
E i canti?, pensai subito dopo. Se c’è il ballo, deve esserci anche la musica, o almeno un canto per potersi muovere a tempo.
Guardi Jake. «Noi non abbiamo i “canti”.» dichiarai.
Lui mi guardò con un sopracciglio inarcato. «Cosa?»
«La filastrocca dice “canti e balli”. Canti e balli. Il secondo ce l’abbiamo.» affermai, indicando noi cinque. «Ma i canti?»
Ci guardammo a vicenda. Mi girai versi professori. «C’è una qualche canzone che piaceva a mia madre? Una ballata? Una cantilena?»
Loro si guardarono, poi scuoterono la testa. «Non credo. Almeno, io non lo hai sentita cantare.» disse il professore. «Le ninfe, che ogni tanto le tenevano compagnia, erano solite dire che la Regina prediligeva il suono dell’acqua che scorreva.»
«Aspetta!» esclamò dopo poco Madlain, alzando un dito. «Ricordi quelle strane frasi che cantilenava ogni tanto, nell’ultimo periodo in cui stette al castello?» chiese al professore. Chiuse gli occhi, concentrata. «Com’era? Te la ricordi, Mikah?»
Il professore scosse la testa. «Mi dispiace, ma sono negato quando si tratta di ricordare delle canzoncine.»
«Andiamo, professoressa!» esclamò Rafe. «Ci serve il suo aiuto.»
«Datemi un attimo.» chiese, alzando le mani. Mosse le labbra, tentando di riportare alla memoria tutte le parole, mentre ne mormorava alcune che già sapeva. «Il Cammino segnato da… da poca luce… che segue la strada…»
«… del passero rosso.» mi uscì di bocca.
«Sì!» esclamò la donna. «La conosci?» mi chiese dopo, aggrottando la fronte.
«A quanto pare sì.» considerò Jake.
Scossi la testa, aprendo la bocca, senza emettere suono. «Io, veramente…»
In un momento, seppi che, sì, conoscevo quella poesia – perché era una poesia, non una cantilena – che mia madre aveva scritto appositamente per me, per noi.
Le parole affiararono a poco a poco nella mente, non nella nostra lingua, ma in nell’Antica Lingua.
Nella mia mente si affacciò un ricordo – poi compresi non mio – di una donna, dai contorni indistinti e dal viso in ombra, che scriveva su un foglio quelle medesime parole, solo in una lingua diversa. Fissai nella mente l’immagine di quel foglio, le parole che vi erano scritte e mi voltai verso Red.
Lui mi guardò, in attesa.
«Adesso ti dico le parole.» gli dissi , lentamente, come a non voler far volar via il ricorso, pari ad una farfalla. «Tu ripetile dopo di me.»
Lui annuì.
«Kariàte Ferlayet ot Hout Barykh.» pronunciai e Red le ripeté.
Cammino segnato da Fioco Bagliore…
«Serén Dorìsh ot dha Hrore Bribrik
…Segue la Strada del Passero Rosso…
«Trayahr Layat ghorìnt dha Chélick
…Luci della Terra guidate la Cerchia…
«Um dha Vulian Vérék ot dha Neshe Trayahr
…Sul Sentiero Antico della Terra Natale.
Il sapere che quelle parole erano frutto di mia madre me le fece amare subito. Erano nostalgiche, un richiamo a tornare a casa, un faro in mezzo alla tormenta.
Riportai la mia attenzione nel presente, dove il Red era circondato dai componenti del Cerchio e dove il suo fuoco freddo aveva attirato le lucciole, le quali avevano preso ad assediando in massa, entrando e uscendo dalle fiamme blu, formando il segno dell’infinito, mi resi conto ad un tratto.
Come comandate da un segnale, esse si alzarono in volo. Brillarono su ogni componente del Cerchio, compresi quelli che non costituivano il quadrato, per poi tornare da noi e formare un cerchio di luci tutt’intorno.
«Red, pronuncia questa frase: “Trayahr Layat, Zahat ghorìth”.» gli ordinai.
Luci della Terra, guidateci.
Lui ripeté le parole e poco dopo, le lucciole si spostarono in fila indiana, dirigendosi fluttuando in direzione nord-est.
Senza pronunciare una parola, cominciammo a seguirle.

* * *

Rosarianna o’Sheha POV

Con un movimento del braccio, talmente veloce da essere indistinto, Constantine tirò un manrovescio a Rick che lo catapultò all’indietro di un paio di metri, mandandolo a sbattere contro il muro.
Rick si accasciò a terra e rimase immobile.
Una paura gelida attraversò Aria. Che il colpo lo avesse ucciso? Va bene che fosse arrabbiata con quegli animali per ciò che volevano farle, ma non aveva minimamente pensato ad ucciderlo e di certo non voleva la sua morte sulla coscienza!
Per fortuna, Rick si mosse, emettendo un lamento, risollevandole l’animo.
Quello che prima la teneva venne avanti, bianco come un cencio, con le mani alzate, universale segno di resa.
«Ascolta, amico.» disse rivolto a Constantine. La voce gli tremava tanto quanto le mani. «Non volevamo fare niente di male. Ci stavamo solo divertendo, vero?» chiese, retoricamente, e al contempo, afferrò Aria per un braccio, rialzandola bruscamente da terra. Aria emise un lamento dal dolore, colpa della presa troppo forte del tizio, e guardò Constantine, pregandolo con gli occhi di soccorrerla.
Una parte della sua mente si chiedeva come mai non stesse urlando come una forsennata davanti allo spettacolo che lui aveva presentato, ma si disse che era tutta la paura, lo stress e la debolezza che sopprimevano qualsiasi crisi isterica. Quando si fosse calmata, poteva darsi che ne avrebbe avuta una, si disse.
Ma non ora. Adesso, le serviva almeno un pochino di lucidità e si rendeva conto che Constantine era l’unica àncora di salvezza che potesse tirarla fuori dai guai, che parevano inseguirla come gli dei levrieri con un coniglio.
Osservò il viso di Constantine oscurarsi per qualcosa, e gli occhi brillare si furia.
Pensò che non avrebbe mai voluto che si arrabbiasse con lei.
All’improvviso, il suo corpo sembrò senza peso, come sospeso in aria, poi ripiombò a terra. Dopo l’iniziale stordimento, Aria si rese conto che era successo perché quello che la teneva era stato colpito e, visto che la teneva, stava per essere trascinata da lui, quando era caduto, ma poi aveva lasciato la presa, liberandola.
Il problema era che niente lo aveva colpito! Sembrava che fosse stato colpito, ma niente lo aveva toccato.
Il terzo uomo, quello che fino ad ora si era allontanato dagli altri, si avvicinò al compagno, scuotendolo.
«Ehi, Louis. Ehi, fratello, andiamo svegliati.» lo pregava. Si girò a guardare Constantine. «Senti, io non volevo fare del male alla ragazza. Stavo solo aiutando Rick, ma giuro su Dio che non lo seguirò mai più. Smetterò di fumare erba e tornerò ad essere il bravo ragazzo che mia nonna crede che sia.» Tirò su col naso. «Lo riconosco un territorio marcato quando lo vedo. Prenditi la ragazza. Tanto neanche mi piaceva, i capelli rossi non mi fanno impazzire.» bofonchiò.
Per una volta, Aria dovette ringraziare di avere quel colore di capelli.
«Mi riprendo il mio amico e me ne vado.»
Il ragazzo avvolse la spalla del suo compagno e issò a sedere, in modo tale, poi, di afferrargli la vita e tirarlo in piedi.
Lanciò un’occhiata a Rick. «Di lui non ne voglio più sapere. È troppo… estremo.»
Quindi, infischiandosene dell’altro, si caricò Louis sulla spalla e si avviò lentamente fuori dal vico. Dovette passare accanto a Constantine, aggirandolo però.
La si era fatto ormai notte e l’aria era diventata gelida. Anche con il suo giaccone, Aria tremava dal freddo. Forse anche per lo shock di tutta quella serata. Teneva lo sguardo fisso su Constantine, come se avesse paura che, distogliendo gli occhi, questo potesse evaporare, convincendola che aveva solo avuto un’illusione e lei non era affatto stata salvata.
Ma lui si mosse. Fece un passo avanti, avvicinandosi ad Aria e allontanando la sua sanità mentale.
Tutto quello che era successo… la fuga, il rapimento, la lotta… tutto era stato reale. Lei era stata presa per essere il giocattolino di tre uomini – due se si esclude quello a cui non piacevano i suoi capelli –, Constantine era apparso come un fantasma e li aveva fermati in tempo.
Constantine che non era stato ferito perché i colpi gli passavano attraverso.
Il cervello di Aria andò in tilt e si spense.

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

I professori se ne erano andati. Ci avevano detto che non potevano proseguire perché ad ogni passo peggiorava la nausea, un malessere che noi del Cerchio non avvertivamo, ma che loro,Lhàkoros in esilio, invece sì.
Il che era un bene e un male al contempo. Ci stavamo avvicinando alla Porta, per cui stava andando tutto per il meglio, ma visto che se ne andavano, noi perdevamo il miglior punto di riferimento sulla Regina Bianca.
Lo avevamo detto ai professori, ma Madlain aveva scosso la testa. «Noi non sapremmo come guidarvi meglio di come potresti fare tu, Sy. Segui il tuo istinto.» mi consigliò. «Fino ad ora è stato utile. Ricorda che tua madre aveva piena fiducia in te.»
Così sia lei che il professor Drawn avevano invertito la rotta, ripercorrendo i nostri passi, fino a sparire nel folto della foresta.
Ora, stavamo ancora seguendo le lucciole. Era passata almeno mezz’ora da quando avevamo incominciato a andarle dietro, e non eravamo ancora arrivati a destinazione.
Il dubbio che avessimo sbagliato qualcosa mi assalì, ma lo ricacciai. Dentro di me, sapevo che mia madre non ci avrebbe mai fatto sbagliare di proposito, scrivendo quella poesia, per cui era la strada giusta.
Ci voleva solo un po’ di tempo. “La pazienza è la virtù dei forti” dice il proverbio. Più o meno.
«Credete che ci voglia ancora tanto tempo?» chiese Monika. Era esausta di camminare, si vedeva dalla faccia e dalle braccia ciondolanti. «Neanche andando a fare shopping tra le strade di Milano si cammina tanto.» si lamentò.
«Resisti un altro po’, gemella, sono sicura che siamo vicini.» la rassicurò Annika. «Ricordi quella volta che siamo andate a Parigi?» le domandò, per distrarla, sospettai. «Dove abbiamo visto quel magnifico vestito di Vuitton?»
«Quello color ciliegia?» rilanciò la sorella.
Iniziarono a chiacchierare delle vetrine che avevano visto e dei capi firmati che avevano comprato o provato, spezzando il silenzio, in cui eravamo piombati, con l’allegria.
Lanciai un’occhiata a Red. Mi accigliai, piegando la testa di lato, quando mi accorsi che stava parlottando tra sé.
Red che parlotta?
«Piromane, che stai facendo?» gli chiesi, socchiudendo gli occhi.
Lui si interruppe mi guardò. «Mi alleno.» dichiarò.
Guardai a destra e sinistra per cercare di capire. «Con cosa?»
«Sto cercando di distinguere tutti i suoni che sento.» chiarì.
Spalancai gli occhi. «Oh, stai allenando l’udito super-fino!» esclamai, sollevata. «E cosa stai sentendo?»
Scrollò le spalle, nel suo abituale gesto di nonchalance. «Quello che capita.»
«Tipo?» insistetti. Volevo conoscere la portata di quel Talento.
Si concentrò. «Tipo… il debole calpestio di una lepre che salta… il frullare delle ali di un uccello…» Mi prese la mano. «Il tuo cuore che pulsa frenetico.» concluse, guardandomi negli occhi, argento dentro oro.
Eh, già. Quel piccolo affarino che avevo nel petto aveva proprio accelerato i battiti, alla sua presa.
«Ah-ah.» mi limitai a dire, decidendo di non lasciarli la mano. «Divertente.»
Mi si fece più vicino. «Non sai che bel suono sia.» mi mormorò all’orecchio. «Mi rilassa.»
Strofinò la punta del naso dietro all’orecchio, spedendomi piccoli brividi caldi su per la colonna vertebrale. Affondò l’altra mano nei miei capelli, giocando con le ciocche, attorcigliandole intorno alle dita.
Mi faceva esasperare il fatto che volessi baciarlo, ma che, facendolo, mi avrebbe provocato una crisi – tradotto, una visione.
Lui si limitò a baciarmi una guancia, per poi tracciare con le labbra un sentiero fino alla fronte, passando per la punta del naso e una tempia. Sentivo la faccia bruciare di calore, il mio rossore e il suo alito caldo che si fondevano in un unico insieme, infuocandomi la pelle…
Poi m’irrigidì, bloccandomi sul posto.
Situazioni del genere mi fanno desiderare disperatamente di essere solo vagamente umana.
Red si fermò con me. Mi guardò accigliato. «Che succede?» chiese, accarezzandomi la nuca, rilassandomi leggermente.
Sentivo come della corrente elettrica a bassissimo voltaggio che mi correva sulla pelle, rizzandomi i peli. Mi guardai freneticamente attorno, saettando con gli occhi da una parte all’altra del bosco.
«Non lo senti?» gli domandai.
Si guardò anche lui attorno. «Dimmi cosa.»
Alzai le mani e le guardai. Mi sembrava quasi di vedere piccoli rivoli di elettricità corrermi sugli avambracci fino alle punte delle dita, come un riverbero di sole sulle scagli di un pesce. «Potere.»
«Jake.» chiamò subito Red.
L’altro si girò. «Cosa c’è?»
Red mi lanciò un’occhiata, inducendo Jake a fare la stessa cosa. «Cosa ti prende Sy?»
«Credo che ci siamo?»
Tutto il Cerchio si mise in allerta, guardandosi intorno. Le lucciole, invece, continuarono a volare, secondo il loro percorso.
Le seguii. Red mi venne dietro, pedinato dagli altri.
Ad ogni passo, sentivo l’Energia aumentare di voltaggio, come quando si carica una molla. La tensione cresceva man mano.
Le chiacchiere che, fino a quel momento avevano alleggerito l’aria, erano cessate, facendo risuonare ogni altro suono nei dintorni. Il frusciare delle foglie mosse dal vento, i nostri passi attutiti dall’erba, i rametti che si spezzavano quando capitavano sotto le suole di qualcuno di noi.
Era come una melodia, una musica naturale che ci circondava.
Le lucciole si fermarono e noi con loro.
Stentai a credere ai miei occhi.
In mezzo a due enormi querce, ricoperta di erba e rampicanti, si ergeva una gigantesca porta: era completamente di pietra bianca, la stessa usata per costruire la fontana della Regina Bianca, aveva due lati massicci, disegnati a spirare, che si univano in un’enorme arco, sulla sommità. Non vidi alcun chiavistello, né una pomello; sul davanti c’erano dei cassettoni, quattro in tutto.
Eseguito il loro compito, le lucciole si raggrupparono in un unico agglomerato di luci, vibrante, rumoroso. Poi, parve quasi che si scontrassero in un solo, forte impatto ed esplosero come un fuoco d’artificio. Non morirono, né bruciarono. L’esplosione le parò in tutte le direzioni proprio come un fuoco pirotecnico, disperdendole nell’aria, fino a sparire dalla circolazione, come se non fossero mai state lì.
Rimanemmo immobili davanti a quello spettacolo.
Una risata riempì l’aria.
Era un suono gioioso.
Era la mia.
Aspetta ancora un po’, Rae. Ormai siamo vicini.

* * *

Rosarianna O’Sheha POV

Un gemito le salì in gola. Un forte pulsare alla mandibola l’aveva colpita dritta in testa, facendola pulsare. Quando tentò di aprire gli occhi, migliaia di puntini luminosi le svolazzarono davanti, annebbiandole la vista.
Non potendo vedere, si concentrò sugli altri sensi. La prima cosa che la colpì fu l’intenso dolore che sentiva alla guancia e al petto. L’aria aveva uno strano odore, di polvere e stantio, tipo quando entri un una stanza che non si apre da tanto tempo. Un riverbero lontano le fece arrivare alle orecchie il sibilare ritmico di un treno in transito. Gli unici quartieri di Lansing aventi la linea ferroviaria che vi passava in mezzo erano quello degli immobili e quello dei bassifondi.
Sperò ardentemente che non si trattasse di quest’ultimo.
Era sdraiata si una superficie ruvida, ma morbida. Un divano? Allungò le mani e constatò che era così: aveva la testa poggiata su uno dei bracci.
Come diamine ci era arrivata? E perché era svenuta?
D’un tratto la valanga di avvenimenti successi le precipitò addosso, facendola rizzare di scatto. Ignorò il pulsare alla nuca e si guardò intorno.
La stanza era semi illuminata dalla luce di un lampione, che entrava dalla finestra alle spalle del divano, alla sua sinistra. Distingueva i contorni di un tavolino alla sua destra, unico altro oggetto oltre al divano, e una porta – chiusa – dritto davanti a lei.
Dov’era Constantine?
Pensare a lui le ricordò quello che aveva visto nel vicolo, o piuttosto quello che non aveva visto.
Si sfregò la faccia, cercando di allentare la tensione ai nervi del collo e di attenuare il dolore alla nuca; sentiva di avere la guancia gonfia, in corrispondenza del colpo ricevuto.
Doveva andarsene da lì, anche se, prima di tutto, doveva capire dove fosse.
Buttò giù le gambe dal divano e appoggiò i piedi sul freddo pavimento in marmo – non aveva le scarpe.
Probabilmente era nei quartieri immobiliari, vista la buona fattura dei muri, degli infissi e del pavimento. Per assicurarsene, si avvicinò alla finestra. Si spostò all’indietro i capelli, caduti in avanti, mentre si era chiana a guardare oltre il vetro leggermente opaco di polvere.
Eh, sì. Era proprio nei quartieri immobiliari. Come diamine aveva fatto Constantine a portarla fino a lì? Era parecchio distante da dove era svenuta.
La porta alle sue spalle si aprì, facendola trasalire. Istintivamente, si riparò nell’ombra offerta dalla parete.
Parlando del diavolo
Constantine si fermò sulla soglia, lo sguardo fisso sul divano vuoto. Forse non l’aveva vista, perché si diresse al divano, fermandosi accanto al tavolino. Vi buttò sopra una busta con il marchio della Burger King.
Aria la guardò battendo le palpebre, perplessa. Aveva portato del cibo? Per lei?
Piegando la testa di lato, l’osservò mentre si portava una mano alla faccia, in un gesto speculare al suo e strofinarsi una guancia – la stessa che lei aveva gonfia.
Pensare a quello che era stato capace di fare le faceva venire i brividi. Lui era scomparso, era diventato inconsistente, e una persona gli era passata attraverso.
Era da ricovero nel primo ospedale psichiatrico a disposizione.
Eppure, era venuto. Per lei. L’aveva strappata al pericolo. Era apparso dal nulla e l’aveva salvata.
Titubante, si morse l’interno della guancia, lasciando che una parte di calappi le ricoprisse la guancia dolorante, in un movimento istintivo. Poi mosse un passo in avanti.
Bastò questo per rivelare la sua presenza. Constantine si alzò di scatto e si girò. I suoi occhi bicolore la focalizzarono subito.
Le si mozzò il respiro. L’intensità di quello sguardo, come se la stesse divorando con gli occhi, le fecero battere il cuore all’impazzata.
Deglutì, intimorita, indecisa su cosa fare. Scappare? Restare? Nella stessa stanza di un potenziale alieno? Quel pensiero le suscitò una risata isterica.
Constantine inarcò un sopracciglio.
Perché i più fighi lo sanno fare e gli sfigati come me no?, si ritrovò a pensare. Ah, giusto, destino infame.
Quei pensieri assurdi la fecero delirare di risate. Sapeva di star dando l’impressione di essere impazzita, ma non poteva farne a meno. Si potrebbe chiama “shock ritardato”.
Si accasciò a terra, appoggiando la schiena alla parte fredda. Si portò una mano alla bocca per soffocare il riso, ma questo continuava, mentre un’ondata inaspettata di lacrime le colmava gli occhi e prendeva a scorrerle sulle guance. Spostò le mani a coprirsi l’intera faccia.
Pensieri assolutamente cupi le invasero la mente, ricordandole che stata per essere violentata, che era stata picchiata. In più si aggiunsero altri moniti che non c’entravano niente con tutta quella storia, ma che erano altrettanto cupi.
I suoi genitori che non l’avevano mai amata, le botte ricevute per tanti anni dal padre, i tanti compleanni mai festeggiata, mai ricordati, mai voluti, e le centinaia di festività che a casa sua non si erano mai celebrate.
Aria stessa era sorpresa da quello sfogo. Lo scampato pericolo era stata la proverbiale goccia. Le brutture vissute così di recente si erano sommate ad altre cento, provate nel resto della sua breve vita, rompendo gli argini.
Fu ancor più sorpresa quando, d’un tratto, sentì delle braccia avvolgerle le ginocchia e le spalle per essere issata dal pavimento freddo. Istintivamente si rannicchiò contro il corpo caldo e solido che la sorreggeva.
Senza una parola, Constantine la portò sul di divano e – sorpresa delle sorprese – vi si sedette con lei in braccio. In quella posizione, Aria si rese vagamente conto che la sua testa gli arrivava all’altezza delle clavicole.
Bilanciandola sulle ginocchia, le prese le mani per scostargliele dalla faccia e, avvolgendo i lunghi capelli rossi nel pugno, glieli getto dietro le spalle.
I viso di Aria era un tripudio di chiazze rosse ed efelidi, uno spettacolo poco seducente, eppure fecero uno strano effetto a Constantine.
La osservò per qualche secondo, mentre lei continuava a singhiozzare. Le lacrime, per fortuna si erano fermate. Quasi involontariamente, le sue dita sfiorarono il viso di lei, cancellandole le ultime tracce di pianto, ma quando Aria si irrigidì, le scostò di scatto. La fece scendere dalle sue ginocchia, mettendola a sedere sul divano, e si allungò a prendere la busta sul tavolino.
Gliela lasciò cadere in grembo. Vedendo che lei non accennava a muoversi, trattenne un grugnito e si alzò.
Aveva appena raggiunto la porta e si accingeva a girare la maniglia quando sentì la voce di Aria.
«Constantine…» la sentì sussurrare.
Ignorando la strana emozione che lo invase a sentirle pronunciare il suo nome così delicatamente, girò leggermente la testa a guardarla.
Stringeva il sacchetto al petto. Lo guardava con i suoi immensi occhi verdi, acquosi, come se stesse in procinto per scoppiare di nuovo a piangere.
Per qualche motivo che non comprendeva, non voleva che lo facesse.
Lei deglutì. «Non andartene.» balbettò, soffocando un singhiozzo.
Razionalmente, sapeva che non doveva darle ascolto, girarsi e uscire da quella porta, ma quando una lacrima cadde dalle ciglia morbide, rotolando lungo la guancia arrossata, sapeva di aver perso.
Lasciò cadere la mano che teneva la maniglia e tornò da lei.

* * *

Sylence Lillina Hill’s POV

Il cuore mi batteva all’impazzata. Eravamo arrivato il punto di svolta.
Ora o mai più. Pensare che da lì a poco avremmo varcato la Porta dei Mondi e raggiunto il luogo in cui risiedevano le nostre radici è un avvenimento che fa riflettere.
E c’erano alcune cose che, però, non avevamo ancora definito.
«Ragazzi, mi è venuta in mente una cosa.» dissi, aggrottando la fronte. Loro mi diedero attenzione. «Noi abbiamo dei genitori, qui, sulla Terra. E nessuno sa che stiamo per andarcene. Come diamine facciamo? Perché io ho intenzione di varcare quella porta e non posso farlo se non siete con me.»
Ci guardammo a vicenda, preoccupati. Io sapevo già cosa fare. Avevo avvertito papà che avrei cercato la mamma, e gli avrei mandato un messaggio con cellulare poco prima di andarmene. A LìosLand non c’era tecnologia perciò i telefoni non avrebbero funzionato.
«Quanto vorrei avere il libricino!» sospirai.
Jake inarcò le sopracciglia. «Il cosa?»
«Il Libricino, quello dove c’è scritto tutto sugli Alfar.» chiarii. «Non riesco più a trovarlo. Ho cercato ovunque, ma è sparito.»
«Che cosa volevi farci?» mi chiese Bastian.
Feci schioccare la lingua. «Avrei voluto sapere che il Tempo a LìosLand scorre diversamente.» Sospirai. «Se così fosse non avremmo problemi. Se fosse più veloce, non avremmo tanti problemi, perché una settimana equivarrebbe solo a poche ore. Comunque, visto che non possiamo saperlo, è inutile domandarselo, per cui… come facciamo con i nostri genitori?»
«E tuo padre?» mi chiese Red.
Strinsi i denti, sentendomi pervadere dalla collera, ma facendo forza su me stessa per sopprimerla.
«Ho intenzione di dirli esattamente quello che voglio fare: andare a cercare mia madre.» Guardai gli altri. «Cosa che vuoi non potete fare, dico bene?» Silenzio. «Lo prendo per un sì.»
«Non possiamo dire a nostro padre che andiamo a cercare la mamma.» disse Annika, guardando la sorella. «Lui ci ha detto che è morta.»
«E neanche io posso dire ai miei genitori che vado a cercare la mia vera madre.» si aggiunse Bastian.
Rafe e Jake si limitarono a scuotere la testa.
«Allora dobbiamo inventarci qualcosa. Non possiamo sparire per chissà quanto tempo, finiremmo per destare sospetti laddove non vorremmo.»
Non avevo alcuna idea su come fare. Tutti i componenti del Cerchio avevano un genitore mancante.
«A proposito…» dissi, guardando Jake. «Che cosa hai detto ai genitori di Rae-Mary? Non ho visto nessun poliziotto a scuola, per cui deduco che il padre e la madre non abbiano detto niente.»
La facci di Jake s’irrigidì. «Sanno che sta da me. È mia cugina, di sangue, e mio padre è un esponente politico. Inoltre…» continuò, stringendo la mascella. «Non che loro se ne importano più di tanto. Sono troppo impegnati a litigare tra loro per accorgersi della mancanza della figlia.» concluse, distogliendo lo sguardo.
Mi passai una mano sulla faccia, riflesso di tutta l’amarezza che sentivo.
«Non giudicatemi insensibili, ma posso chiedervi… c’è qualcuno di voi che non ha problemi familiari?» Al loro silenzio, scossi la testa. «Sapete, a volte mi chiedo… cosa cavolo i nostri genitori siano venuti a fare qui? Solo per apparire un giorno, concepire un bambino e poi andarsene, lasciandolo alle conseguenze? Non è un comportamento responsabile, proprio per niente!» Alzai le mani. «Se non volete venire con me – cavolo neanche io vorrei venire con me stessa – vi capirei alla grande! Chi vorrebbe conoscere un genitore che se ne altamente fregato?»
Mi sentii avvolgere stretta dalle braccia di Red e mi lasciai andare contro il suo petto solido e caldo. Abbassai lo sguardo, chiudendo gli occhi. Lui affondò il suo viso nei miei capelli, dandomi un leggero bacio sulla nuca.
«Certe volte, vorrei avere a disposizione un rifugio in cui stare, senza nessuno a rompermi le scatole, lontano da tutto e tutti, dove potermi sentire libera dei pesi sulle spalle, libera dai ricordi e dalla consapevolezza.»
Per un po’, tra noi regnò il silenzio, forse per colpa delle mie parole, forse perché ognuno era peso nei proprio pensieri.
«Rifugio.» sentii mormorare.
Riaprii gli occhi e li portai su Monika.
«Un rifugio.» ripeté spostando lo sguardo sulla sorella. «Rose Cottage
Annika, che fino a quel momento aveva guardato la sorella come se le fosse partita una rotella, s’illumino, acquistando una consapevolezza che non afferrai.
«Ma certo!»
«Ehm… potreste spiegarci…» tentò di dire Jake.
Annika gli si avvicinò. «Nostro padre, pochi anni fa ha comprato un cottage in montagna, poco più a nord di qui, dove a volte passiamo l’inverno.»
«Visto che ora siamo vicino alle vacanze invernali, abbiamo deciso di riaprirla.» chiarì la sorella. «E noi andremo là.» dichiarò.
Il resto di noi si guardò a vicenda. «Non stavamo andando a LìosLand?» chiesi. «Se avete cambiato idea…»
«Ma no!» Annika scosse la testa. «Siamo arrivate fino a qui e ti aiuteremo, Sy.» affermò.
Qualcosa nel mio petto si allargò, facendo tentennare il mio respiro. «Grazie.»
«Quello che la mia gemella voleva dire è che noi faremo finta che siamo andate a Rose Cottage e passare lì un paio di settimane, in compagnia dei professori, sia ben chiaro.» mise in chiaro.
«I professori?» le chiese la sorella, in contemporanea con noi.
«Jake, tu hai il numero del professor Drawn, vero?» chiese Annika.
Accigliato, Jake annuì. «Come lo sai?»
Arrossendo, lei evitò la domanda, rispondendo: «Chiamalo e dirgli di comunicare ai nostri genitori che andremo con loro a fare una gita in montagna per un compito e che alloggeremo a Rose Cottage.» Guardò noi altri. «Così se i genitori domandano, possono dire che i cellulari non prendono lassù – cosa vera, tra l’altro – e che non possiamo né chiamare né ricevere chiamate.»
«Ed essendo un compito scolastico, non verranno a ficcare il naso.» concluse Jake. «Voi due siete due geni!»
Nell’impeto dell’entusiasmo, afferrò Annika per le spalle e le stampò un bacio sulle labbra. La ragazza arrossì come un peperone, leggermente stordita.
Scoppiai a ridere, felice di quello che vedevo. Bastian li guardava a bocca spalancata. Rafe rideva così fragorosamente da spaventare gli uccelli lì vicino, facendoli volare via. Red si limitò a ridacchiare.
Rendendosi finalmente conto di quello che stava facendo, Jake si scostò da Annika, schiarendosi la voce e borbottò: «Chiamo i professori» prima si sparire tra gli alberi.
Monika, che stava osservando la scena boccheggiando come un pesce fuor d’acqua, si fece avanti e prendendo la sorella le chiese: «Stai bene?»
Lei batté le palpebre. Un sorriso luminoso le si allargò sulle labbra rosse. «Sì.» disse, trasognata.
Se Rae-Nary potesse vedere questa scena!, sospirai. Mi ripromisi che sarebbe successo.

* * *

Rosarianna O’Sheha POV

Aveva divorato i due hamburger più le patatine in pochi bocconi. Non sapeva di essere affamata fino a quando non aveva aperto la busta della Burger King e l’odore di carne grigliata e patatine fritte le aveva invaso le narici. Il stomaco aveva preso a borbottare sonoramente, orinandole espressamente di ingurgitare tuta quella roba unta e grassa per soddisfarlo.
Aria non se l’era fatto ripetere due volte.
E per tutto il tempo, Costantine non aveva fatto altro che guardarla. E non nel senso di guardare quello che faceva, seguire i suoi movimenti con gli occhi, no; quegli occhi così non-umani l’avevano fissata immobili, come un laser di alta precisione, fermi sul suo viso.
Inizialmente, Aria aveva pensato che forse si era sporcata mente mangiava: si era pulita la faccia in i tovagliolini di carta, trovati nella busta. Ma poi, constatando che non si spostavano comunque, aveva immaginato che invece la stessero studiando.
Era come Constantine stesse cercando di entrarle nella mente, si seguire il filo dei suoi pensieri, scavare nel suo labirinto mentale per svelarne i segreti.
La stava mettendo in tensione, innervosendo. Voleva parlare o sentirlo parlare, magari così avrebbe smesso di scandagliarla.
Inoltre, Aria voleva cercare di capire. Perché quello a cui aveva assistito era stato troppo surreale, troppo come ne “Ai confini della realtà”.
Andiamo! Se avesse detto a qualcuno che aveva visto un uomo attraversane un’altra le avrebbero riservato la prima stanza libera in un manicomio.
Eppure, non se l’era immaginato. Lo aveva visto. Non era pazza. O almeno, non credeva che lo fosse.
Che tutti gli avvenimenti dell’ultimo periodo l’avessero fuso qualche rotella?
Aveva sopportato di tutto, si disse. Questa era solo qualcosa in più.
Poteva accettarlo? Forse, se Constantine avesse deciso di spiegarglielo.
Sollevò gli occhi ad incontrare i suoi. «Grazie per questo.» Aria indicò la busta di carta ormai vuota, sul tavolino. «Non credevo di essere così affamata.»
Constantine non rispose. Aria si agitò, torcendosi le dita.
Non riusciva più a sopportare quella situazione di stallo. Perciò, raccolse tutto il coraggio che poteva e si buttò.
«Constantine…» si mordicchiò il labbro, indecisa su porre la questione. «Tu…»
«Credi nei fantasmi?»
Quella brusca domanda la stordì leggermente, volta di sorpresa. Poi prese coscienza della domanda e cominciò a tremare internamente.
Deglutì. «Perché?» chiese con voce roca dal timore.
Constantine piegò leggermente la testa di lato, studiandola. «Se ti dicessi che il mondo che conosci non è il solo esistente, cosa mi risponderesti?»
Aria aprì la bocca, ma poi decise di tacere. Stava per digli che non era possibile. Ma così non si sarebbe contraddetta? Non aveva considerato quello che aveva visto di Constantine come una cosa possibile?
Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza, mentre rispondeva. «Non so di preciso cosa risponderti. Visto che conosco e vivo in questo mondo, non posso sapere se ne esistono altri. D’altronde, non sentiamo notizie di alieni, che vendono sulla terra? Non veniamo a conoscenza di fenomeni paranormali che la scienza non riesce a spiegare?» Scrollò le spalle e si decise ad incontrare il suo sguardo ipnotico. «Se esistono altri mondi? Può darsi.» Tenendo lo sguardo fisso su di lui, gli domandò: «Perché me lo hai chiesto?»
Constantine non rispose. Poi allungò una mano, il palmo rivolto verso Aria. Lei fissò l’arto, poi tornò sul viso di Constantine. Capì cosa voleva che facesse.
Solo che Aria aveva paura. Ma si era ripromessa di essere coraggiosa. Con un respiro profondo, sollevò lentamente la sua mano e centimetro dopo centimetro, accorciò le distanze da quella di Constantine.
Fermò il palmo ad un soffiò dall’altro.
Le sembrò di interpretare la parte di Kat dentro il film Casper. Il problema è che questa volta non c’era un fantasmino, ma un ragazzo in carne e ossa – sperava –, che aveva una forza attrattiva non indifferente. E che stava iniziando a piacerle.
Mandando al diavolo quel pensiero, colmò la distanza. Stette a guardare la sua mani mentre entrava in contatto con quella di Constantine e passava attraverso, in un incrocio di palmi.
Aria trattenne il sospiro, ma – sorprendendo anche se stessa – non ritirò la mano. Anzi, mi mise a studiare la sensazione che derivava da quel contatto. Non era freddo, come aveva immaginato, ma dava l’impressione che nel punto d’incontro la sua mano fosse addormentata, non la sentiva.
Tirò via la mano e si guardò il palmo. Non era cambiato niente, però, si accorse che la sua pelle aveva cambiato leggermente colore, come se entrando a contatto con quella di Constantine gliene avesse sottratto. Ma dopo pochi secondi, la mano tornò normale.
Alzò lo sguardo su Constantine. Non aveva ancora abbassato la mano. Sembrava come ipnotizzato. Da lei.
Mordicchiandosi il labbro, Aria allungò di nuovo la mano. Stavolta la mano entrò in contatto con quella di Constantine. I palmi si plasmarono l’uno contro l’altro, intrappolando tra di loro il calore che entrambi emanavano.
Sbattendo le palpebre, perplessa, Aria inclinò leggermente la testa. Non riusciva a capire.
«Sono unPhantom.» disse finalmente Constantine. Le parve che la sua voce si fosse arrochita.
«Un cosa?» domandò Aria, corrugando la fronte.
«Un essere a metà tra il fantasma e un essere corporeo. Posso decidere liberamente quale forma scegliere.» le spiegò.
Sbalordita, Aria scosse la testa. «Come…»
«… è possibile?» concluse lui a suo posto. «Te l’ho detto. Credi nell’esistenza di altri mondi?»
Aria spalancò gli occhi. «Sei un alieno!»
Le sopracciglia di Constantine schizzarono in alto fino a sparire dietro una ciocca di capelli scuri. E scoppiò a ridere. Una risata roca e piena, travolgente.
Non si seppe che fosse più sorpreso, se Aria o Constantine stesso.
Nessuno, nella sua lunga vita passata in solitudine, non aveva mai avuto occasione di ridere, di sentire quel suono che ti scuote dentro, che dona allegria anche quando si è nella miseria più nera.
E poi…si ritrovò a pensare Constantine. È comparsa lei.
Un fiamma vivente, un fuoco vivo. Aveva portato la luce dove prima regnava l’oscurità più buia. Non aveva la minima idea di come aveva fatto in poco tempo quella piccola testa rossa ad insinuarsi nella sua esistenza e mandare tutto all’aria, ma ci era riuscita.
Quello che si domandava era se in seguito avesse continuato a brillare.

* * *

Sylence Lillian Hill’s POV

Per fortuna, la soluzione pianificata dalle gemelle andò bene. I professori avevano acconsentito al nostro piano e avrebbero avvisato loro stessi i genitori.
Io mandai un messaggio al mio e spensi il cellulare, così avrei avvitato che papà potesse chiamarmi o altro. Gli altri avevano già spento i propri.
Guardandomi attorno, mi accorsi che Red stava parlando al cellulare e la sua espressione non era delle migliori. Per una questione di privacy, evitai di avvicinarmi. Va bene che fossimo una coppia, ma sapevo rispettare gli spazi e mi parve che Red ne aveva decisamente bisogno in quel momento; se avesse voluto, mi avrebbe detto cosa stava succedendo di sua spontanea volontà. Certo, mi avrebbe fatto male se non lo avesse fatto, ma sapevo fingere bene all’occorrenza.
Alla fine, Red chiuse la chiamata, ma rimase a guardare il suo cellulare, lo sguardo perso nel vuoto.
Pungolata dalla preoccupazione, mi avvicinai. Gli poggiai una mano sulla spalla e lo sentii sussultare, il che mi fece accigliare. Red, che veniva colto alla sprovvista?
«Red, che succede?» gli chiesi, lanciando delle occhiate in direzione del cellulare.
Lui lo guardò come se fosse sorpreso di averlo ancora in mano. «Niente.» rispose, riponendo in tasca l’oggetto. «Stavo avvisando mio padre.»
Solo allora mi venne in mente che Red mi aveva detto che suo padre sapeva quello di cui era capace. Lo stesso che lo aveva ferito, sia fisicamente che mentalmente.
«Che cosa ti ha detto?» gli chiesi, meno garbata di quanto volessi.
Red scrollò le spalle, come se niente fosse. Ma la tensione alle spalle, che avvertivo sotto la mano, e i pugni talmente stretti da sbiancare le nocche dicevano un’altra cosa.
«Solo che me ne andavo fuori per qualche giorno con Jake.»
«E non ha fatto storie?»
Infastidito, si scostò, togliendomi il suo calore. «Sono adulto, Sylence. Non ho bisogno della babysitter.»
Strinsi i pugni dall’irritazione. «Ma un genitore che si preoccupa sì.» lo rimbrottai.
«Un genitore che si prenda cura di suo figlio. Un genitore…»
«Tu non sai com’è mio padre.» m’interruppe, guardandomi con i suoi occhi pieni di rabbia.
«So che se un padre che vuole bene a suo figlio non lo avrebbe mai trattato come ha trattato te.»
«Tu non sai come stanno realmente le cose.» esclamò.
«Perché tu non me ne parli mai.» gli rinfacciai, alzando le braccia al cielo. «Ogni cosa che conosco di te, me l’hai detta perché non avevi altra scelta. Persino Jake sa più di quanto so io.» mi esasperai. «Certo, voi due vi conoscente da più tempo di quanto ci conosciamo io e te, ma…»
«Non sapevo che fossi così invadente.» disse Red.
Quella frase mi spiazzò. Invadente? Io volevo conoscere più di lui, aveva fatto tante storie sul fatto che dovevamo essere una coppia sincera, e poi se ne usciva con quella frase così poco felice? Quella considerazione da parte sua mi fece male, un male cane, peggio di quando ti rompi una gamba.
«Invadente.» dissi. «Da quando preoccuparsi per una persona è essere invadente? Da quando volere che la persona a cui tieni non venga ferita è da considerarsi un’invasione?»
«Sylence…»
Alzai le mani per fermalo, scossi la testa e mi voltai, tornando dagli altri. Mi sentii doppiamente mortificata, sapendo che tutto il Cerchio aveva assistito a quella scena.
«Troviamo il modo di aprire quella porta.» dissi a Jake, senza guardarlo. Non aveva la forza per incontrare i suoi occhi, sapendo che mi guardava con biasimo. «Mi sono già stancata di aspettare.»
Capendo il mio desiderio di accantonare al più presto tutta quella storia, Jake annuì e ci avvicinammo alla Porta dei Mondi.
Sull’arco superiore, mi accorsi quando fummo più vicini, c’era una scritta appena leggibile, come se fosse stata usata troppo nel tempo e la pietra di fosse lisciata tanto da far quasi scomparire le lettere.
Era Lingua Antica.
«Ehm…» strinsi gli occhi per leggere meglio. «Là, dove l’Alto Fratello si leva a proteggere i suoi Fautori…le Colonne Portanti porgano il Marchio.» tradussi.
«Che vuol dire?» chiese Jake.
«Sono stufo di questi indovinelli!» esclamò Rafe. «Giuro che appena torno a casa, butto tutte le Settimane Enigmistiche* che trovo.»
Lo guardai accigliata. «Ma non è una rivista italiana?»
«Sì, dolcezza. Ma io sono metà italiano*.»
Gli feci un cenno della testa, riconoscendo che era proprio bravo nella pronuncia.
«Complimenti.»
«Lasciamo perdere questo discorso e concentriamoci.» s’intromise Jake. «Sy, che ne pensi?»
Sbuffando piano, guardai l’intera porta. Mi accigliai. Nei cassettoni della porta c’erano incisi dei simboli e delle scritte. Nel primo riquadro, in alto a sinistra, c’era un disegno simile alla Stella di Davide, cioè la stella a sei punto, solo che le mancavano due lati: uno in alto a destra e l’altro in basso a sinistra; la scritta diceva: “Fonte di Vita, Riflesso dell’Anima”.
Il cassettone affianco aveva un simbolo molto più semplice: due righe rette, parallele orizzontalmente, zigzagate e attraversata perpendicolarmente da una linea dritta. C’era inciso: “Madre, Figlia, Compagna di Venture”.
Il riquadro in basso, sotto a questo, era segnato da un disegno simile ad un tre al contrario, con un ricciolo al centro. La dicitura diceva: “Libertà, Sfavillo di Pulviscoli, Amante del Tempo”.
L’ultimo cassettone nell’angolo in basso a sinistra era il più semplice di tutti: una semplice linea frastagliata di picchi, lunga poco più di dieci centimetri e la scritta proferiva: “Difensore, Abbraccio, Devastante Furore”.
Ogni simbolo era rinchiuso nella scritta, a formare un anello intorno ad esso.
«Credo che c’entrino i quattro elementi.» riferii a Jake. «Vedi questi segni?» gli dissi, indicandoli. «Rappresentano gli Elementi Naturali. E sull’arcata dice che dovete “porre il Marchio”. Credo che dovreste toccarle.»
Jake lanciò un’occhiata alla Porta e annuì. «Va bene.»
«Non so se c’e bisogno di un ordine preciso, perciò credo che sarebbe meglio toccarle seguendo un senso orario.» consigliai.
«Chi è il primo allora?» chiese Bastian.
«Tu.»
Lui rimase fermo qualche secondo. «Ah.»
Si fece avanti e cercò di raggiungere il riquadro superiore. Ma riusciva a stento a sfiorarlo. Rafe gli andò in aiuto, facendolo montare sulle sue spalle. In effetti, da vicino, la porta era mastodontica: basti dire che la metà della porta, la linea che divideva i riquadri superiori con quelli inferiori, gli arrivava a stento alla testa, e lui era il più alto di noi!
«Il prossimo è Jake.» dissi.
Lui riuscì ad arrivarci, per fortuna.
«Annika, tocca a te.»
«Per fortuna che si trova in basso il mio.» ridacchiò.
Strinsi la mascella, guardando l’ultima casella. Non ci fu bisogno di dire niente. Red si fece avanti da solo e posò la mano sulla porta.
Dopo appena qualche secondo, i simboli sui quadrati iniziarono a brillare di una leggera luce azzurra; ad onde si diffuse prima nelle lettere poi nel contorno dei quadrati fino a raggiungere le scanalature, che delimitavano i confini dei quattro cassettoni, formando una croce di luce azzurra.
Essa sembrò ritirarsi, a partire dalle estremità esterne, invece si raccolse nel centro della porta, dove le punte dei quadrati si incontravano. La pietra parve gemere, mentre, come accadde con la porta della biblioteca, le piccole tessere di cui era composta iniziarono a ritirarsi l’una nell’altra.
Alla fine la luce azzurra aveva formato un cerchio perfetto al centro della porta: come era iniziata, quella danza magica si concluse, facendo ritirare la luce azzurra all’interno del cerchio: sembrò quasi che la luce si rompesse in mille frammenti che volarono nell’aria, fino a spegnersi, rivelando a mano a mano il disegno apparso all’interno del cerchio, fatto dello stesso motivo delle colonne.
Quando anche l’ultima luce si spense, potei finalmente vedere l’incisione.
Mi si blocco il fiato in gola.
Vithesa Abrech. L’Albero della Vita.
Il simbolo della mia famiglia, la Casata Reale.
Involontariamente, mi voltai a guardare Red. Lui stava guardando me.
«Ma non doveva aprirsi?» chiese Annika, rialzandosi in piedi.
«Quello cos’è?» mi chiese Jake, che mi stava guardando attentamente.
Buttai fuori una boccata d’aria, fregandomi gli occhi. «Ehm… è il simbolo della mia…» gesticolai, insicura su come dirlo. «Della Famiglia Reale.»
«Il tuo simbolo?» chiarì Rafe, rimettendo a terra Bastian.
Feci una smorfia. «Non…» tentai di negare, ma era inutile. Perché era vero. Io appartenevo alla Casata Reale, per quanto incredibile suonasse alle mie stesse orecchie. Sospirai. «Sì.»
«Quindi devi appoggiare anche tu la mano e la Porta dei Mondi si aprirà?» mi chiese Jake.
Ciondolai con la testa, non tanto sicura. «Forse. Ma sembra troppo facile.» lo avvertii.
Infatti quando appoggiai il palmo sul simbolo – ci arrivai a stento – non accadde niente. Lo avevo avvertito dentro, che dopo tutta quella manifestazione di magia, bastasse semplicemente toccare l’Albero della Vita per poter utilizzare la porta.
Scossi la testa. Mi portai la mano alla faccia, coprendomi gli occhi, riflettendo.
Mancava qualcosa, qualcosa di fondamentale. Lo sentivo. Era come un ricordo remoto, un sogno fatto e poi appena fuori dalla tua portata appena ti svegli, eppure sai che lo hai fatto.
Percorsi a ritroso il tragitto che avevamo fatto, i movimenti, le espressioni, le frasi…
Riaprii gli occhi quando mi parve di ricordare una cosa. Piegai la testa di lato, concentrando lo sguardo sulla pietra della porta davanti a me, persa nei miei recessi mentali.
Quali erano state le sue parole? “Mia Figlia conosce la strada. L’ha nel Sangue.” Interessante scelta di parole. Avrebbe potuto dire “lo ha nella Mente” ma aveva scelto la parola sangue. Ho già detto che non credo alle coincidenze? Bene.
Abbassai gli occhi al suolo, cercando. Mossi qualche passo, avvicinandomi alla boscaglia, scandagliando il suolo.
Finalmente, dopo qualche instante, trovai quello che cercavo. Mi avvicinai ad un albero, poggiai il dorso della mano contro il tronco e – non riesco a credere a quello che stavo per fare – colpii il palmo aperto e teso con la pietra appuntita che avevo in mano.
Non riuscii a trattenere un grido di dolore. Non potete immaginare quanto mi sentii deficiente in quel momento di autolesionismo, ma mi dissi mentalmente che era per un bene superiore. Dovevo liberare Rae-Mary e per farlo dovevamo attraversare quella maledetta e complicata porta.
Lasciando cadere a terra, strinsi i denti, per evitare di lanciare un altro grido di dolore, altrimenti avrei ceduto.
«Che diavolo stai facendo!?»
Devo dire di chi era quel ringhio furioso? Red si fece avanti a passo di carica, mettendosi poi a correre appena vide la mano che gocciolava sangue.
«Bastian!» chiamò, allungando poi una mano verso me.
«No.» gli dissi, più che altro biascicai a denti stretti, scostandomi da lui.
«Sta ferma, piccola pazza.» mi ringhiò contro Red. «Mi spieghi quale cavolo di motivo avevi per martoriati la mano in quel modo!?» abbaiò, mettendosi davanti per non farmi passare.
«Se ti levi di torno, te lo farò vedere, così Bastian sarà poi libero di curarmi.» inveii.
Alzando le bracci al cielo, lo sguardo però sempre fisso sulla mia mano sanguinante, si spostò di lato.
Trattenendomi dalla voglia di tirargli un calcio negli stinchi, mi avvicinai alla porta. Facendo attenzione a far colare un po’ di sangue sulla punta delle dita, alzai il braccio e tracciai il disegno della chiave alla base dell’albero.
«Ricordi l’altra volta, piromane?» gli chiesi. «Nella biblioteca? Il principio è lo stesso… solo che stavolta c’era bisogno di questo, del mio sangue. La signorina Madlain lo aveva detto, citando le parole di mia Madre.»
Stringendo gli occhi dal dolore pulsante che pervadeva la mano e risaliva sul polso, abbassai il braccio. Bastian mi fu subito accanto, avvolgendomi la mano con la sua energia acquea, filtrando in ogni cellula, curando il disastro che avevo combinato.
Nel mentre, mi voltai a guardare Red. I suoi occhi dorati erano pervasi da sentimenti oscuri, ma quello che spiccava più di tutti era la preoccupazione. Per me.
Mi accorsi che non volevo andare nell’altro mondo arrabbiata con Red. Certo, lui aveva torto, ma per il momento, era meglio accantonare quella faccenda: avevamo qualcosa di più importante da fare, recuperare un membro del nostro Cerchio, un membro della nostra famiglia.
Per cui, appena Bastian ebbe finito di curarmi, lo ringraziai e mi avvicinai a Red. Lui era un pezzo marmo rigido, ma vedevo agitarsi tante emozioni nelle sue pupille dorate. Allora, alzai una mano – quella che mi era ferita – e gliela poggiai sulla guancia. Lui l’afferrò di scatto, e per un attimo temetti che volesse scostarmi.
Ma no lo fece. La stretta non era forte, al contrario, era estremamente delicata, come se stesse tenendo tra le dita un oggetto di cristallo finissimo. Voltò la testa di lato, e tenendo i suoi occhi nei miei, baciò l’interno del polso, accarezzandomi la pelle con le sue labbra roventi e scaldandola con suo respiro.
Allungò l’altro braccio ad avvolgermi la vita e trarmi a sé. Sospirai a contatto con il suo petto duro e caldo. Mi riempii i polmoni del suo dolce profumo di agrumi e zuccheri. Pensai che, se imbottigliati, avrei potuto fare fortuna vendendolo.
«Non fare mai più una cosa del genere.» mi ordinò.
Scossi la testa. Il solito vecchio Red, che nelle situazioni romantiche, fa perdere il fattore “romantico”.
«Non dono una masochista, lo sai?» gli domandai, retorica. «Ho dovuto farlo.»
«Potevi farlo in modo diverso.» grugnì. «Non c’era bisogno che ti martoriarti una mano.» Le sue labbra sfiorarono il palmo ormai guarito. «Credo che ricorderò fin troppo spesso la terribile sequenza di te che alzi la pietra e…» strinse i denti, ma baciò nuovamente il palmo della mano con dolcezza.
«Mi dispiace.» gli dissi, sfiorandogli con le dita la guancia.
«Scusate ragazzi, ma dovreste venire a vedere.»
La voce di Jake ci raggiunse, rompendo l’emozione momentanea.
Repentino quanto inaspettato, Red si chinò in avanti, sfiorandomi le labbra con le sue, per poi baciarmi la punta del naso.
Lo guardai, battendo le palpebre. Come se niente fosse, tenendo stretta la mia mano, mi tirò dietro, andando dagli altri. Jake stava indicando la porta.
L’Albero della Vita aveva preso a brillare, il segni rossi lasciati dal sangue sulle radici era sparito: un luce argentata sfavillava al loro interno. Essa si estense su per il tronco, i rami superiori, fino alla punta delle foglie e finendo per invadere anche il cordone di pietra che delimitava l’incisione.
Un forte schiocco – simile a quello che fa un chiave che fa scattare la serratura – riecheggiò nell’aria. La terra prese a tremare, mentre davanti ai nostri occhi, la Porta dei Monti apriva i battenti.
Proprio come si apre un grosso portone elettrico, le porte si pietra si aprirono in perfetta sincronia, verso l’interno. Un vento improvviso e forte soffiò su di noi, accecandomi momentaneamente. Mi portai una mano agli occhi per ripararmi da quelle folate violente. Il braccio di Red, che mi avvolse la testa, aiutò il mio intento.
Così com’era arrivato, il vento se ne andò e la terra ritornò immobile.
Red mi liberò dalla sua stretta protettiva, permettendomi di abbassare la mano.
Lanciai un’occhiata alla porta. Il suo interno era completamente nero. E non una semplice oscurità. Proprio come la porta della biblioteca, il buio oltre la soglia era ondeggiante, denso, tagliabile con un coltello.
E poi realizzai. Ce l’avevamo fatta. Avevamo aperto la Porta dei Mondi. Stavamo per andare a LìosLand. Potevamo andare a salvare Rae-Mary.
Avrei potuto incontrare mia Madre.
Mi girai a guardare Red. Lui mi fissò di rimando, come se anche lui non ci credesse. Mi voltai verso gli altri, che fissavano attoniti la Porta aperta.
Jake mi guardò. Annuì una sola volta. Era un ringraziamento, un gesto di riconoscenza. Lo ricambiai.
«Ti devo un favore.» mi disse.
Scossi la testa. «Voi siete la mia famiglia. Ciò che viene fatto ad uno di noi, viene fatto a tutti quanti. Rae-Mary è mia sorella, cugina, amica e non lascio nessuna di loro in pericolo, se c’è anche una sola briciola di possibilità di salvarla.»
I membri del Cerchio si riunirono. Jake alzò il braccio, il pugno in alto. Red vi poggiò sopra la sua mano. Vi aggiunsi la mia. Si unirono anche Rafe e Bastian. Annika, poggiò una mano sulla spalla di Jake e appoggiò l’altra sulle nostre. Monika seguì la sorella.
Ci guardammo a vicenda, promettendoci, senza parlare, di guardarci le spalle a vicenda, di proteggere ciò che era nostro, del Cerchio; di restare uniti, di confortarci l’un l’altro, si rallegrarci insieme.
Di vivere uniti fino alla fine.
Jake annuì. «Andiamo a salvarla.»




Fu così che, mano nella mano, in una fila perfetta, il Cerchio, attraversò insieme la Porta dei Mondi, immergendosi in quella nera oscurità oscillante che li avrebbe condotti nel verso l’inizio dell’ultimo tratto della loro avventura.

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*Nel testo in italiano, in corsivo cisto che loro parlano in inglese (Ci troviamo in America XD)

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Capitolo 37
*** There's No Place like Home ***


Sy Hill: Salve lettori di tutto il mondo. So che in questo momento, se state leggendo il mio nuovo capitolo, vvolete linciarmi per tutto il tempo che vi hi fatto aspettare, ma, credetemi, non riuscivo proprio a trovare né il tempo né l'ispirirazione per mettere le parole nero su bianco (colpa aanche della scuola che occupa tutto il tempo). Ma In qualche modo sono riuscita ad andare avanti e a completarlo.
Per cui, bando agli induci e godetevi il capitolo.
LEGGETE E RECENSITE, mi raccomando - anche se sono insulti per la mia negligenza.


Sy Hill

P.s.: Risposte alle recensioni alla fine del capitolo



Capitolo 37

There’s no places like Home

Avete mai provato la sensazione che vi assale, quando camminate in una stanza buia? Non sapete dove andare, vi sembra di galleggiare anche se avete i piedi ancorati a terra? Tendete le braccia, cercando di trovare un appiglio che vi indichi dove siete, ma ogni volta che allungate le mani, afferrate il vuoto?
Fu la stessa cosa, solo un po’ diverso.
Ci tenevamo saldamente per le mani, ognuno di noi era legato ad un altro tramite una ferrea stretta di dita. Avanzavamo nel vuoto, nel nulla assoluto, poggiando i piedi su quello che sembrava un pavimento ricoperto da moquette, anche se per ovvie ragione non lo era.
E poi cademmo.
Fu proprio come se ci avessero tolto la terra da sotto i piedi, quando sei soprappensiero e ti dimentichi che davanti a te ci sono le scale e metti un piede in fallo.
Solo che noi, il resto della scalinata, non l’avevamo.
La prima reazione fu ovviamente quella di urlare, un coro di “no” esclamato a pieni polmoni. La seconda quella di trovare un benedetto sostegno a cui aggrapparci disperatamente per evitare di schiantarci al suolo. Se ci fosse stato il suolo.
Venni strappata dalla presa ferrea di Jake per essere intrappolata tra le braccia di Red. Venni inglobata nel suo torace, circondata strettamente dai suoi arti, il viso affondato nel suo collo.
Glielo strinsi in una morsa d’acciaio, incurante se gli facessi male o meno, e allacciai le gambe intorno ai suoi fianchi. Un vento impetuoso sbatacchiava i miei capelli, frustando le nostre facce.
«Non è come l’altra volta.» sibilai al suo orecchio, per sovrastare l’ululato del vento, cercando di mostrarmi calma. Non volevo far vedere di aver paura, ma non potei impedire alla mia voce di tremare.
Per tutta risposta, mi strinse ancora più stretta.
Lanciai un’occhiata agli altri. Jake aveva avvolto Annika come un viticcio al muro e non dava l’impressione di volerla lasciare. Rafe aveva afferrato Bastian e Monika e li teneva stretti tra le sue braccia nerborute, gli occhi aperti cercando di scrutare il suolo, anche se non c’era.
Fu come se il fotogramma di una pellicola di un film venisse improvvisamente tagliata da una scena e attaccata ad un’altra completamente diversa. In un battito di ciglia, lo scenario cambiò. Niente più caduta, niente vento, niente spazio infinitamente nero.
Una luce abbagliante invase le mie pupille, abbagliandole tanto da far male e lacrimare. Affondai la faccia nel collo di Red.
Non potendo vedere, gli altri sensi si amplificarono, permettendomi di cogliere tutti i particolari che mi era sfuggiti.
Percepii il cambiamento climatico sulla pelle come una leggera scossa: il sole riscaldava tiepidamente la pelle, mentre una brezza la rinfrescava. Il corpo aveva riacquistato il suo peso, ritornando pesante e pressando il suolo.
Perché c’era un suolo. Era bitorzoluto e malleabile, come essere sdraiati sull’erba.
Ma il profumo che sentivo nell’aria non era quello dell’erba appena tagliata.
Volendo capire, sollevai il viso da suo rifugio confortevole e aprii cautamente gli occhi.
Fu sbalorditivo. Avete presente il quadro di Van Gogh, Notte Stellata? Era identico, salvo lo stile pittorico. Un cielo talmente terso e immenso, di un profondo blu cobalto, e non azzurro come il nostro, anche se splendeva il sole. Le poche nuvole che fluttuavano trasportate dalla brezza, erano talmente bianca da essere irreali. E il campo di grano in cui eravamo atterrati sembrava una distesa immensa di oro, con qualche punta di ametista e corallo, dove spuntavano dei mazzolini di fiori campestri.
Quella era LìosLand. La terra di mia Madre.
Non riuscendo a ridere ma avendo la voglia di farlo, ansimai qualche flebile risata, continuando a far vagare lo sguardo intorno, innamorandomi a prima vista di quel luogo assolutamente magico. Un senso si familiarità mi pervase, anche se non avevo mai visto quel luogo. Potevo quasi vedere il legame che avevo con quella terra, la Magia, con la “M” maiuscola che pervadeva l’aria, spumeggiante come champagne.
Scambiai delle occhiate con i miei compagni d’avventura, rendendomi conto che anche loro erano appena arrivati nella terra natale del proprio genitore.
Jake si alzò subito in piedi. Barcollò qualche secondo, ma poi stabilizzò e, portandosi le mani ai fianchi, ispezionò il luogo che ci circondava con occhio vigile.
Non me la diede a bere. Lo capivo dalla sua postura rilassa e dal luccichio nei suoi occhi che era emozionato tanto quanto ognuno di noi.
Sentii la presenza di Red alle mie spalle, prima ancora che mi posasse le mani suoi fianchi. A dire la verità, percepivo ognuno di loro, ma presenza di Red era la più forte. Non solo; mi sembrava che l’intero campo scoppiasse di vita, come se l’Energia di quella terra mi stesse fluendo nelle vene. La Natura faceva parte di me ed Essa scorreva in me.
Era una sensazione a dir poco straordinaria. Mi sembrava di essere un coniglietto della Duracell.
«Non ci posso credere.» furono le prime parole che sentii pronunciare.
Mi girai verso Bastian. «A cosa?»
Mi guardò con tanto di occhi. «“A cosa”? Ma scherzi? Guarda dove siamo! Guarda come ci siamo arrivati!» Scosse la testa freneticamente. «È la cosa più incredibile che mi sia capitata in tutta la mia breve vita.»
Capivo cosa volesse dire.
«Ed è tutto grazie a te.» aggiunse, improvvisamente serio. «Non saremo mai arrivati a questo punto se non fosse stato per la tua determinazione.»
«Dici “cocciutaggine”, esprime meglio il concetto.» s’intromise Rafe, alzandosi da terra e togliendosi della paglia di dosso. Lo sguardo che mi dedicò, però, esprimeva tutto quello che a parole non era in grado di dire.
«Adesso basta fare gli svenevoli.» si lamentò Monika, alzandosi anche lei. «Sia arrivati a destinazione. Bene, fantastico. Mi dite ora che avete intenzione di fare? In che direzione andiamo?» chiese a raffica. «Perché, non so voi, ma io non ho la minima idea di dove sia la città più vicina e di sicuro non abbiamo una mappa.»
Jake annuì, sospirando. «Ha ragione.» confermò al mio indirizzo. «Non abbiamo la minima indicazione, non conosciamo LìosLand, il territorio circostante.»
Mi sfregai la nuca. «A dire la verità, io contavo sull’aiuto dei professori per trovare una via per arrivare al villaggio. Visto che ovviamente non sono potuti venire qui con noi, e tutte le altre cose che dovevamo fare, mi è sfuggito di mente.» dissi con una smorfia contrita.
«Quindi?» chiese Annika, al fianco di Jake. «Come facciamo?»
Jake parve riflettere per qualche secondo, poi si volse verso me. «Non hai alcun ricordo di questo luogo? Qualche visione che possa aiutarci?»
Scrollai le spalle, scuotendo la testa. «Mi dispiace. Vorrei tanto potervi aiutare, ma non posso avere una visione a piacimento. Non è così che funziona. Deve esserci qualcosa che l’attiva, una frase, un luogo, anche una persona, ma…»
Tirando un profondo respiro, Jake si guardò intorno. Potevo quasi sentire i suoi pensieri. Di sicuro si stava chiedendo come potevamo muoverci, in che direzione andare, come comportarci ora.
Ne approfittai per dare un’occhiata in giro. Il capo era circondato da un rado boschetto, gli alberi avevano perso quasi del tutto le foglie, e anche se brillava il sole, l’aria era fresca. Ne dedussi che probabilmente il tempo lì scorreva nello stesso modo che sulla Terra. Poco più in là, lo sguardo si perdeva in una vallata verde dorata, smossa da refoli di vento, punteggiato da cespugli ed erbetta fiorita. Oltre ancora, un’immensa montagna dominava la pianura. I colori tetri di cui era dipinta trasmettevano un senso d’oppressione e di cupezza. La cima era nascosta da una foschia talmente spessa da sembrare neve.
Un flash improvviso, così rapido che non riuscii a vederlo, mi passò davanti gli occhi, accecandomi. Un senso di aspettativa si diffuse nel mio corpo, come se qualcuno mi stesse mormorando nell’orecchio di andare in quella direzione. Delle mani invisibili, stessero premendo sulle mie spalle per farmi muovere.
«Sy.»
Mi voltai verso Red. «Niente.» risposi al suo sguardo interrogativo. Mi voltai verso Jake. «Credo… che dovremmo andare di là.» suggerii, indicando la montagna.
Lui lanciò un’occhiata al monte, poi tornò a guardarmi con un sopracciglio inarcato. «Ne sei sicura?» mi chiese, dubbioso. «Non mi ispira niente di buono.»
«Lo so,» gli dissi, annuendo e mi voltai verso il monte. «Credimi.»
«Bene.» esclamò Jake. «Il cielo è terso e il sole sta tramontando, per non cui ci rimane ancora tempo. Approfittiamone per avvicinarci quanto più possibile.»
«Sei davvero convinto di andare là?» gli chiese Annika.
Jake le prese la mano, intrecciando le proprie dita con le sue. «Ho imparato una cosa, da quando Sy è nel nostro Cerchio.» Si girò verso me. «Mai dubitare dei suoi comportamenti strani. Ogni volta che ne ha avuti, è successo qualcosa di importante. Per cui… preferisco affidarmi alle sue stranezze che andare a vuoto.»
Sentii la faccia andare in fiamme a quella dimostrazione di fiducia. «Grazie, fratello.»
«Andiamo.» ci incitò poi.

* * *

Rosarianna O’Sheha’s POV

La strada per arrivare a casa di Sy non le era mai sembrata così strana. Alla luce degli eventi che aveva vissuto la sera prima, tornare a scuola, percorrere i corridoi strapieni di studenti, assistere alle lezioni le sembra anormale. Le facce che si ritrovava a guardare non erano giuste, i movimenti innaturali, le parole che pronunciava non erano sue.
Lei non si sentiva più come prima. La sua ottica della vita era completamente rovesciata. E tutto per Constantine.
Anche solo pensare a lui le spediva un fremito lungo la schiena.
Le pareva ancora incredibile quello che aveva scoperto su di lui. E quello che aveva scoperto su se stessa. A pensarci, le scappò una risatina.
Era passata in mezzo a tante di quelle circostanze sfortunate che due mani non bastavano a contarle e ognuna di quelle l’aveva segnata un po’. Più di tutte, l’incontro con Constantine.
Arrivò all’incrocio accanto al passaggio a livello, la sbarra abbassata, il semaforo rosso acceso in attesa che passasse il treno, e si fermò. Quella era la scorciatoia che aveva usato per tornare a casa la sera prima – e la strada più corta per arrivare al cimitero.
Lanciò un’occhiata alla strada di casa, titubante. Da una parte avrebbe voluto tornare a casa, in modo da lasciare che l’intera situazione con i vari sviluppi fossero assorbiti dalla sua coscienza, ma dall’altra aveva una voglia pazzesca di vedere di nuovo Constantine. Il treno, una carrozza singola, passò e pochi minuti dopo la sbarra si alzò.
Aria lo considerò un segno. Aggiustandosi la tracolla sulla spalla, attraversò i binari e si diresse verso il quartiere immobiliare. Poi si rese conto di non avere la minima idea di dove fosse la casa di Constantine. Si fermò di scatto.
Maledizione! E adesso? Si guardò intorno. Si estendevano per tre o quattro isolati un’identica schiera di villette, tutte con uguali giardini e uguali cassette delle lettere colorate di rosso.
Come diavolo avrebbe fatto a trovare quella di Constantine? E poi, trasalì, quella in cui era stata era veramente casa sua? E se non fosse più in quel quartiere?
Depressa, continuò a camminare, lanciando occhiate tutt’intorno. Le case erano tutte uguali, intonacate di bianco, col tetto color mattone e le imposte delle finestre color sabbia. Non erano uno spettacolo piacevole, ma a quanto pareva da tutti i cartelli davanti alle case, la maggior parte erano state vendute.
Si fermò di scatto. Ma perché andarlo a cercare in un posto in cui non era sicura di trovarlo, quando poteva andare al cimitero? Che sciocca a non averci pensato prima!
Fece subito dietrofront e corse alla prima fermata dell’autobus che trovò. Controllò l’orario. Abbassò le spalle, abbattuta. Non un solo bus quel giorno passava per il cimitero. Sospirò, domandandosi cosa fare ora. Forse era meglio tornare a casa, tanto più che il cielo si stava di nuovo rannuvolando, constatò guardando il cielo.
Si avviò verso casa. Avrebbe dovuto aspettare ad incontrare Constantine. Ripensò ai suoi occhi, così strani e così magnetici, colmi di segreti. Sorrise pensando che parte di essi li aveva condiviso con lei. Ancora faceva fatica a elaborare che fosse un fantasma. Anzi, un mezzo fantasma, si corresse. Chissà dov’era la sua famiglia. Era solo? Scappato di casa? Anche i suoi genitori erano come lui?
Un Phantom. Tirò fuori il cellulare e si collegò ad internet. Cercò la parola “phantom”, ma non riuscì a trovare altro che romanzi fantastici che ne parlavano. Lesse l’estratto di un libro in cui era menzionato: i phantom erano capaci di diventare corporei a loro piacimento, e quando erano sottoforma di fantasmi non potevano essere uccisi. Ed erano immortali.
Quest’ultima parola la fece fermare bruscamente. Immortale? Nel senso che non poteva morire o che viveva per tanto tempo? Se era così…
Poteva darsi che fosse molto più vecchio di lei di molti anni. E le sarebbe sopravvissuto…
Scosse la testa, riponendo il cellulare nella tasca. Non doveva pensarci, non prima di averne parlato con Constantine. Voleva sapere tutto di lui.
D’un tratto si sentì completamente insensibile e le gambe non la ressero. La caduta libera verso terra però venne interrotta fa due mani che l’afferravano alla vita, serrandola contro un petto caldo e solido.
Si scostò i capelli, caduti davanti agli occhi, percependo un vago odore di spezie nell’aria. Alzò lo sguardo.
La stava guardando come se fosse un oggetto interessante, con la testa leggermente inclinata e gli occhi attenti. Quegli occhi che l’avevano ossessionata anche nei sogni.
«Dovresti stare attenta a dove cammini.» le disse.
Aria aveva la gola secca, non riusciva a spiccicare una sola parola. La fredda brezza novembrina scompigliava le poche ciocche di capelli che fuoriuscivano dal suo zuccotto.
«Indossi sempre gli stessi vestiti?»
Non si rese conto di averlo detto ad alta voce fino a quando Constantine non alzò un sopracciglio, lievemente divertito.
La faccia di Aria si coprì di rosso fino alla radice dei capelli. «No, io… insomma, ogni volta che ti vedo… lo zuccotto…»
Tenne la testa inclinata, con quel dannato sopracciglio inarcato, che le faceva sempre venire in mente che lei era una sfigata perché non so sapeva fare.
«Sono un phantom.» si limitò a dire.
«Il che significa…»
«Che i miei vestiti non cambiano. Rimangono sempre quello con cui sono morto.»
Aria sussultò, scostandosi da lui bruscamente. Aveva il cuore il gola e il respiro ansante.
L’espressione sul viso di Constantine divenne impassibile. «Hai improvvisamente ricordato di avere repulsione per quello che sono? Fino a ieri sera ti andava più che bene.»
La fece arrossire sia d’imbarazzo che di rabbia. Come si permetteva di rinfacciaglielo, quando si era comportata così spontaneamente con lui, quando si era resa così vulnerabile più che con chiunque altro.
«Non me lo avevi detto.» insorse. «Non avevi accennato a niente del genere e mi infastidisce non poco che tu non l’abbia fatto. Non è qualcosa che puoi tirare fuori così. Ricordati che io non vengo da dove vieni tu, ovunque si trovi questo posto. Non so niente su di te, la tua famiglia, la tua specie o che so io. Anche se non mezza irlandese e credo negli spiriti, questo non significa che ne voglia incontrare uno e scambiarci quattro chiacchiere. Tu… sei morto, eppure, posso toccarti, sentire il tuo cuore battere, il calore che emani… Come puoi farlo?»
Constantine era immobile, ad Aria sembrava quasi non respirare. Aria non aveva il coraggio di guardarlo negli occhi, dopo quella sfuriata, e faceva vagare lo sguardo tutt’intorno, senza soffermarsi su qualcosa in particolare.
«Che ci fai da queste parti?» gli chiese poi. «Questo non è il tuo quartiere.»
Lui la osservò per qualche secondo, poi le afferrò la mano. «Vieni con me.»
La tirò in direzione della ferrovia. «Abiti veramente nel quartiere immobiliare?»
Non le rispose e lei lo interpretò come un no. Chissà perché, ma l’aveva immaginato. Attraversarono i binari ferroviari a passo spedito, lei tirata da lui, e Constantine che procedeva a come se avesse una missione importante da affrontare.
Infatti era proprio quello che stava pensando Constantine. Dentro di sé, si stava prendendo a schiaffi per come le aveva risposto e quello era un tentativo di riparare al torto. Non era colpa della ragazza, Aria, se lui era quello che era, se sentiva un istinto sconosciuto e senza nome che lo spingeva, lo incitava a volerla. No, non a volerla. Mai a volerla. Non era consentito. Ma a farsela amica sì, quello poteva farlo.
Superarono il quartiere residenziale, dove aveva occupato temporaneamente una casa disabitata. Essere un phantom aveva i suoi vantaggi.
Marciò oltre il quartiere verso la zona della città che poco preferiva: non era come bassifondi, ma ci si avvicinava. Le case non erano catapecchie, ma non erano neanche propriamente delle case: ognuna aveva un giardino fatiscente, pieno di erbacce e pezzi di metallo, spazzatura e altra roba che aveva minimo vent’anni, e tutte avevano una bassa recinzione di rete metallica, tipo quella delle carceri di minima sicurezza. L’aria era pregna di puzza d’immondizia e il fetore di putrefazione era una costante, proveniente dai tombini pieni fino a scoppiare.
Dentro di sé era timoroso, stava cercando di capire se avesse avuto il coraggio di arrivare fino in fondo, di farle vedere quella che era stata per la maggior parte della sua vita la realtà che aveva vissuto. Non sarebbe stato un bello spettacolo, perché la sua corta esistenza era stata tutt’altro che un paradiso. A cominciare dalle circostanze che lo avevano portato lì.
Si rendeva conto, man mano che si avvicinavano sempre di più alla penultima casetta del quartiere, che stava dando fiducia a quella ragazza di cui non sapeva un granché ma che lo aveva fatto reagire, intimamente, come nessun altro prima d’ora.
C’era solo da sperare che la fiducia che le stava dando non fosse malriposta, perché non aveva alcuna idea di come avrebbe reagito, diversamente. Probabilmente non bene.
Sentiva il calore della sua pelle irradiare il palmo della mano, come una piccola fiamma stretta tra le dita che non bruciava, ma scaldava il suo sangue freddo come il ghiaccio, sciogliendolo man mano. Aria non aveva fatto alcun gesto di volersi liberare, comunicandogli indirettamente che non aveva paura di lui, che sapeva non le avrebbe fatto male. Questa consapevolezza fece fremere Constantine.
Aria non aveva la minima idea del perché Constantine l’avesse portata in quel posto così cupo e sgradevole. Eppure una sensazione in fondo allo stomaco la stava avvertendo che molto probabilmente non era buona. Si fidava di Constantine. Ormai lo aveva capito, lo sentiva dentro che lui non le avrebbe fatto del male. D’altronde, l’aveva salvata, l’aveva consolata, aveva fatto più di chiunque altro, a parte Sy. Ma Sylence era una caso a parte: era una persona che una volta data fiducia a qualcuno, una volta deciso che tu eri suo amico, difficilmente ti lasciava ad affrontare eventi negativi da sola, ti aiutava in qualunque modo, era leale, sincera, una vera amica.
Constantine era tutta un’altra storia. Lo aveva conosciuto in un momento di crisi emotiva, l’aveva affascinata al loro primo incontro, indispettita quello dopo. Non conosceva niente di lui, a parte quello che gli aveva estorto. Non sembrava il tipo che diventa l’amico del cuore di qualcuno, figurarsi il ragazzo…
No, meglio non pensare a questo. La tua vita è già complicata così com’è, ragazza, non complichiamola ulteriormente.
Si fermarono di fronte alla casa, la penultima, quella malridotta né più né meno di tutte le altre, ma che emanava una sensazione spiacevole, come se avesse attorno a sé un alone, una foschia melensa, gelida. Nel giardino pieno di erbacce, c’erano una vecchia bicicletta arrugginita e una poltrona di pelle completamente rovinata, macchiata e… beh, praticamente da buttare.
Constantine le lasciò il polso. Rimase a guardare la casupola, spostando lo sguardo ora a destra, verso il viottolo che portava sul retro, ora in alto, verso le finestre completamente oscurate dalla polvere e dalla sporcizia del secondo piano.
Aveva paura di parlare, come quando sei in un cimitero e hai paura che i morti possano sentirti.
«Perché siamo qui?» gli chiese infine, sottovoce. Si sfregò le braccia, quando un brivido di freddo le soffiò sulla pelle, attraverso la giacca.
Constantine andò ad aprire il cancello arrugginito della recisione, che produsse uno stridio così forte da far volar via degli uccelli appollaiati sui pali della corrente elettrica lì vicino.
Aria lo seguì, esitante. Non voleva entrare in quel posto fantasma, non voleva avvicinarsi a quelle mura decrepite che emanavano sentore di morte e malasorte. Non aveva mai desiderato tanto che Constantine parlasse, le spiegasse per quale motivo l’aveva portata lì.
«Constantine…»
«È casa mia.» proruppe.
Aria s’immobilizzò. Fissava la sua schiena rigida. Un brivido gelido le scese lungo la schiena.
«Era casa mia.» specificò poi. Vagò con lo sguardo sulla struttura. «Non vivo più qui da un bel po’ di tempo, almeno quindici anni.» Si voltò a guardarla con i suoi occhi così cupi e pieni di segreti.
Un fremito scosse Aria quando si rese conto cosa quegli occhi le stavano comunicando. Quindici anni… da quando lui era morto.
Un ghigno freddo solcò il volto di Constantine.
«Già… è qui che è successo. È qui che sono diventato quello che sono.» Si avvicinò alla porta sbieca e scrostata. «Ti ho detto che non sono di questo mondo. Ti ho detto che non sono umano. Ma i miei genitori lo erano. Pienamente umani. Mi trovarono nel loro giardino. Non sapevano come ci fossi finito, non ricordo quasi niente della mia vita prima del mio arrivo qui. Nei miei ricordi c’è solo caos che, di tanto in tanto, mi manda un’informazione, un’immagine, un suono, una sensazione, chiarendomi alcuni, se non pochi, dei dubbi che ho ancora in testa.» Le lanciò un’occhiata. «Avevo otto anni. E sono capitato nella famiglia sbagliata.»

Sylence Lillian Hill’s POV

Ci eravamo accampati per la notte. Eravamo a circa cinque chilometri dalla montagna, quindi per il giorno dopo l’avremmo raggiunta. Eravamo spossati. A quanto pareva, il viaggetto attraverso la Porta dei Mondi ci aveva prosciugati come dopo l’Assegnazione del Nome: prima belli pimpanti, cinque secondi dopo sfiatati come palloncini bucati.
Avevamo – Red aveva – accesi un fuoco, raccolto la legna segna per la notte. La Luna alta nel cielo rischiarava il buio più assoluto che ci circondava al di fuori del raggio dell’accampamento.
In cerchio intorno al fuoco, sembravamo boyscout al campeggio estivo. Solo che non c’era nessun adulto e potevamo contare solo su noi stessi ei nostri Talenti.
«Ragazzi, che fame!» si lamentò Monika. «Mi mangerei anche i maccheroni che servono ogni giovedì a mensa.»
«Bleach, gemella!» inorridì Annika, portandosi una mano alla bocca fermare un finto conato. «Quella roba è disgustosa, non dovrebbe neanche essere chiamata pasta!»
«Però ha ragione.» convenne Jake, seduto alle sue spalle. «Eravamo talmente concentrati sul come trovare il passaggio per arrivare a LìosLand, che ci siamo completamente dimenticati sul cosa fare una volta arrivare qui.» Le strinse le braccia intorno e la sospinse verso il proprio torace.
Ancora mi stupivo di come fossero cambiati gli atteggiamenti di Jake verso Annika. Sembrava quasi che fossero insieme da mesi invece che da pochi giorni. Il viso limpido di Annika era come un libro aperto e si leggeva facilmente la contentezza dell’essere importante per Jake e della naturalezza con il quale questi la trattata come se fosse sua.
Ero strafelice per loro.
Non si può dire lo stesso per voi, insinuò malignamente la mia Vocina.
Mi tormenti anche qui, disgraziata?
Sempre.
Da quando ci eravamo incamminati per la montagna, Red e io non ci eravamo rivolti una parola, neanche uno sguardo, come se il lasso di tempo in cui la paura aveva preso il sopravvento e ci aveva fatti stringere l’un l’altro fin quasi a penetrare l’uno nella pelle dell’altro, nel viaggio attraverso la Porta, non fosse mai esistito.
E questo faceva male. Un male cane.
Avrei tanto voluto parlarne con Aria. Mi chiesi che cosa stesse facendo in quel momento. Sperai che stesse bene.
Mi sentivo in colpa per averla lasciata in modo così brusco, senza un saluto decente, una telefonata, un messaggio. Sospirai, considerando che se fossi tornata a casa – quando fossi tornata – non me ne avrebbe voluto.
«Cerchio chiama Sy? Sei in casa?»
La voce beffarda di Rafe mi riscosse da quei pensieri, riportandomi al nostro campeggio improvvisato.
Battei le palpebra, guardandolo perplessa. «Cosa?»
Alzò un sopracciglio. «A cosa pensavi?» chiese malizioso.
Lo guardai aggrottando la fronte. «Credi che lo venga a dire a te?» gli domandai, con sufficienza.
Alzò le mani. «Era solo una domanda.» disse, con aria innocente.
Gli indirizzai un’occhiata eloquente, delle serie: “Mi credi scema?”.
«Comunque, ci stavamo chiedendo come trovare un po’ di cibo.» disse poi.
Mi resi conto che, in qualche modo, ero diventata il fulcro del gruppo. Ogni decisione, ogni azione, doveva passare tra le mie mani. Anche Jake, leader nato, stava iniziando a fare affidamento su di me. Non che non ne fossi lusingata, tutt’altro. Ma sono, per natura, poco incline a volermi trovare in situazioni di primo piano: non mi piace essere la prima donna, in poche parole.
L’irritazione trasparì dalla mia risposta: «Ragazzi, non sono un computer in cui ci sono ogni tipo di risposte e file segreti.»
«Per la verità, un po’ sì.» mi contraddisse seraficamente Bastian.
Gli lanciai un’occhiataccia. «Così non mi aiuti.»
«Calmati, Sy.» mi avvisò Jake, avvolgendo Annika in un abbraccio protettivo, come se potessi saltagli addosso da un momento all’altro.
Questo mi fece indispettire ancora di più. Non ero un mostro come Reìrag. «Non rompere, Jake. Sei tu il leader. Sei tu che devi rispondere alle loro domande, che devi prendere le decisioni. Io sono l’ultima arrivata, che cavolo ne so di come comandare un gruppo di ragazzi?»
«Sylence.»
La voce di Red riuscì a penetrare attraverso il muro che mi stavo ergendo intorno.
«Che c’è?» sbottai, voltandomi a guardarlo.
I suoi occhi dorati mi fissarono qualche istante. Si alzarono ad osservare qualcosa alle mie spalle. Mi voltai anche io. Delle grosse nuvole nere stavano avanzando, portando con loro lampi e tuoni dal suono minaccioso.
Rimasi imbambolata a guardarle avanzare. Questo era quello che sapevo fare, richiamare il pericolo, rischiare di fare del male ai miei amici, la mia seconda famiglia in uno scoppio di rabbia.
Curvai le spalle sotto il peso della consapevolezza di essere un problema per il Cerchio, raccogliendomi le ginocchia al petto. Abbassai gli occhi per evitare di guardare chiunque di loro, respirando lentamente per calmare i nervi e lasciare che il mio Talento si dissipasse.
Non volevo fare del male a nessuno di loro, più di ogni altra cosa. Potevo mantenere la calma, anzi dovevo farlo.
Lentamente, le nuvole che offuscavano il cielo notturno si dissiparono, lasciando che i raggi della Luna raggiungessero la terra e le piante, illuminando di nuovo il panorama circostante.
«Mi dispiace.» mi sentii mormorare.
Percepii il calore del corpo di Red prima ancora che lui mi circondasse, stringendomi le braccia e le gambe attorno. Le sue mani calde mi avvolsero la faccia, costringendomi ad incontrare i suoi occhi dorati.
Non disse niente, rimase semplicemente lì, lasciando che il suo calore mi penetrasse sotto pelle, che le parole non dette tra di noi, fluissero come brezza tra i nostri occhi.
«Noi non crediamo che tu abbia tutte le risposte.» disse Jake. Non mi voltai. «E so benissimo di essere il leader, credimi, ne sono consapevole. Ma so quando farmi da parte, quando lasciare che siano gli altri – nella fattispecie tu – a decidere cosa fare.»
Negli occhi di Red riuscivo quasi a scorgere il mio riflesso. Era quasi come se mi stesse trasmettendo la sua calma d’animo.
Sospirando, chiusi gli occhi per assorbirla. Da sopra la spalla dissi: «Chiedo scusa. Non volevo reagire così male… ma ho una fame tremenda e se non mangio divento una bisbetica della peggior specie.»
«Come il novanta percento delle volte.» se la rise Rafe.
Mi strappò un sorriso sbieco. Sbuffai, voltandomi a guardarlo. «Gentile come sempre, vero?»
Si portò le mani al cuore, con un’espressione a cui mancavano solo i cuoricini agli occhi. «Sei la mia amichetta speciale, no?»
Scoppiammo a ridere. «Deficiente.»
«Però, davvero, chi ha qualche idea su come rimediare del cibo commestibile?»
Riflettei un momento. Lìos era una terra fertile, dove cresceva di tutto. Era il Reame della Natura, per cui…
Mi guardai intorno, socchiudendo gli occhi per riuscire a vedere meglio gli alberi che ci circondavano. Mi sembravano familiari. Probabilmente, se il Tempo era lo stesso di quello della Terra, allora anche la Natura lo era.
«Mi dai una mano, piromane?» Si alzò in piedi, tirandomi con lui. «Accendi una torcia e seguimi.»
Raccolse qualche ramoscello dalla piccola catasta poco lontano da noi e li accese con un gesto della mano. Percorsi lentamente la circonferenza del Cerchio, studiando attentamente gli alberi, la forma delle foglie e il loro colore.
Erano proprio come le nostre. Ero figlia di mio padre e vivere con lui, studioso di ogni tipologia di terreno e specie di alberi, una discreta conoscenza in materia l’avevo.
C’erano aceri, gelsi, pioppi, biancospini, olmi querce… e alberi da frutta. Tanti meli e albicocchi, tanti peschi e peri, che vista la stagione erano sfiorati e ingrigiti, con poche foglie ostinatamente attaccati ai rami.
Alberi che pulsavano di vita. Potevo farcela. Di sicuro ce l’avrei fatta. Speravo.
Mi fermai davanti ad un albero di mele. Mi inginocchiai, abbassando le mani fino a toccare le radici sporgenti, alla base del tronco.
Mi bastò toccarle per sentire la loro forza vitale filtrare attraverso la corteccia secca, irradiarsi nei palmi, salirmi lungo le braccia. A dispetto di tutto, l’albero era vivo, pieno di linfa vitale.
Affondai le mani della terra, stringendo le radici nei palmi. Immaginai una corrente d’acqua risalisse attraverso di loro verso il tronco, ai rami fino alle fronde ormai spoglie. Immaginai le foglie che rinascevano a nuova vita, che rinfoltivano l’albero rendendolo di nuovo verde come uno smeraldo; i germogli che sarebbero nati da quelle nuove foglie, i boccioli che crescevano timidamente, i fiori che sarebbero sbocciati profumando l’aria, il polline che sarebbe volato fino a impollinare i fiori, lasciando che la natura facesse il suo corso e finalmente, portare alle nascita del frutto, prima candido come la neve, acerbo, per poi maturare e cambiare dal verde al giallo al rosso. Finalmente maturo.
«Tu sei… incredibile.» sentii dire da Red.
Mi sorprese talmente tanto da farmi sobbalzare. Le mani mi scivolarono dalle radici, mandandomi a sbattere con il muso per terra.
Red mi afferrò le spalle, tirandomi su. Sulla sua faccia faceva bella mostra un ghigno da “me la sto godendo alla grande”.
«Non-una-sola-parola.» scandii, additandolo.
Fece finta di chiudersi la bocca con la zip. Lo spinsi via. «Idiota.» M’incamminai verso il cerchio. Mi accorsi vagamente che guardavano a bocca aperta qualcosa alle mie spalle.
E, a proposito, me le sentii afferrare di nuovo. «Frena i cavalli, nanerottola. Guarda cosa hai creato.»
Mi voltò.
Le fronde verdi come smeraldi ondeggiavano a venticello serale, rami che scoppiavano di salute, sembrava quasi di vedere la linfa vitale scorrere nelle venture della corteccia. Sui rami rigonfi di foglie, mele grandi quanto il pugno di un uomo splendevano rosse come il sangue alla luce delle torce. Riempivano l’intero albero, quasi avesse la varicella. Ina luce fioca, come pulviscolo illuminato dalla luce del sole vi brillava intorno, carico di Energia e Vita.
Avevo ravvivato l’albero. L’avevo fatto fruttare.
Un sorriso compiaciuto si aprì lentamente sulla mia faccia. Mi girai verso il Cerchio.
«Chi vuole favorire?»

Rosarianna O’Sheha POV

«Non sapevo dove fossi, non conoscevo niente di questo posto, così grigio e freddo rispetto al mio, così vitale e luminoso. Ne ricordo qualche frammento, immagini che sbucano all’improvviso nella mia mente, che mi mostrano il mio vero mondo.»
La voce di Constantine riecheggiava nella casa fantasma. All’interno era peggio che all’esterno. Il cigolio della porta scrostata avevano accompagnata il loro ingresso nella struttura fatiscente, seguito da un tanfo di muffa, mischiato ad uno più acro, dal gusto metallico, disgustoso.
La stanza in cui si trovavano fungeva da salotto e cucina, un vecchio divano logoro e pieno di polvere si trovava di traverso nella stanza, voltato verso il muro, dove prima doveva esserci una televisione, da tempo sparita.
«Mi ritrovai davanti alla loro porta senza neanche sapere come. Non avevo la minima idea di quello che si dissero, non conoscevo la vostra lingua. Vedevo solo un uomo e una donna che discutevano tra loro e mi indicavano di tanto in tanto. Poi la donna mi afferra per un braccio e mi trascina dentro.»
Aria si accorse che lo sguardo di Constantine era diventato vuoto, perso nei suoi ricordi.
«Non mi piace quella casa, puzzava di fumo e di stantio. Ma non sapevo come dirlo, per cui sono costretto a restare in silenzio. I due forse mi credono muto e iniziano a litigare. L’uomo, un essere mastodontico con una pancia tanto prominente e flaccida da sembrare gonfiata d’acqua tira un manrovescio alla donna, mandandola sbattere contro un mobiletto talmente vecchio rompersi sotto l’impatto. Ma si riprende subito; sembra quasi che se lo sia aspettato perché tira fuori dallo stivale malridotto un coltello mezzo spuntato e arrugginito. L’uomo la guarda con odio, ma si tira indietro: non credo che voglia farsi tagliare malamente da quella lama, penso, e lo vedo tornare alla poltrona davanti alla tivù su cui era seduto, circondato da una marea di lattine. La donna mi afferra per un braccio e mi trascina per quella casa fatiscente, saliamo delle scale scricchiolanti come le ossa di un vecchio fino al piano di sopra dove mi fa entrare in una stanzetta angusta e che puzza di polvere, come se non venisse mai aperta. Apre le alte divelte di un vecchio armadio e tira fuori dei vestiti della mia taglia. Sorprendentemente, quelli non sembrano vecchi come il resto della casa, ma nuovi, come appena comprati. Mi fa segno di metterli e io accetto: sto morendo di freddo. Poi mi guarda negli occhi e mi dice qualcosa e alla fine dichiara: “Constantine”. È l’unica parola che riconosco perché so essere un nome. Mi indica e lo ripete. Allora capisco che mi sta dicendo che quello sarà il mio nome. La guardo e capisco una cosa: lei sarà la mia mamma. Mi ha preso come figlio suo. Allora accetto il nome e lei e quel grassone al piano di sotto perché ho paura di rimanere da solo, di non riuscire a trovare un’altra famiglia, la mia.»
Constantine batté le palpebre lentamente, come svegliandosi da un sogno e spostò lo sguardo su Aria. Il cuore della ragazza era a mille.
«Ma non avrei mai immaginato che avessi appena firmato il contratto col diavolo. Gli anni che trascorsi in questa casa… non c’è termine per descriverli. Loro mi sfruttavano, pretendessero che io rubassi nelle case dei quartieri più alti, che mi facessi amico i più influenti e poi li ottenessi il massimo rendimento da questa amicizia. Ma il male più orrendo…» La sua voce tremò.
Gli occhi etero cromatici sfuggirono a quelli verde foresta di Aria, vagarono per la stanza angusta, indecisi su cosa fissarsi.
Poi, lentamente, alzò le mani e si afferrò il retro della felpa e lo tirò su. Il cuore di Aria ebbe un sussulto talmente forte da darle l’impressione di essersi incastrato per un attimo nella gabbia toracica. A mano a mano la felpa di alzava, svelava pelle compatta e tonica… e segni frastagliati e alcuni circolari, come…
Aria si portò una mano alla bocca, mentre un senso di nausea le si agitò nello stomaco. Le cicatrici erano bianche, il che indicava che erano state fatte tanto tempo prima, molto probabilmente quando Constantine non aveva potuto lottare per salvarsi.
«A volte, non riuscivo a scappare in tempo. Certe volte, quando dormo, sogno di essere ancora in questa casa, di essere ancora vittima dei suoi colpi, sento ancora la voce di quella pazza che gli dice di non avermele date abbastanza…»
«Basta!» sbotto Aria.
Tremava come una foglia al vento e aveva le guance bagnate. Provava dentro emozioni così forti che temeva di collassare sul posto. Sembra che le stesse raccontando la propria stessa vita dalla sua prospettiva. Poteva quasi sentire sulla sua pelle il dolore che lui aveva provato, come se fosse il proprio.
Gli occhi di Constantine la guardavano impassibili, mentre si abbassava la felpa, nascondendo nuovamente i segni del dolore, del tradimento subito. Ma Aria riusciva a percepire la tempesta di emozioni che si agitava nel suo profondo. Perché anche a lei era successo, quando si era confidata con Sy.
«Voglio uscire di qui.» disse a Constantine, rifiutandosi di degnare un altro sguardo a quella che era diventata la prigione del phantom.
Fu solo quando Constantine raggiunse la porta e si girò a guardarla che Aria fece forza sue gambe per muoverle. Lo seguì fuori, giurando che non avrebbe mai più messo piede in quel posto infarcito di orrori.


Sylence Lillian Hill’s POV

Era quasi buio. Solo un fuoco, attizzato ogni tanto dal volere di Red e da qualche ramo secco, rischiarava quella cappa di blu profondo. La Luna era nascosta dietro banchi di nuvole scure, che non facevano filtrare i suoi argentei raggi, e solo qualche stella solitaria faceva mostra della sua presenza.
Chissà da dove prendo questi pensieri così poetici?
Di sicuro il sonno mi stava facendo sdilinquire.
Mi voltai a guardare gli altri. Avevamo deciso di fare a turno proteggere il Cerchio: Red aveva scelto il primo turno; a quanto pareva non aveva sonno. Guardava senza vedere davvero il fuoco, perso in chissà quali pensieri.
Avrei tanto voluto ascoltarli.
Gli altri stavano dormendo. Bastian aveva scelto di stare lontano dal fuoco, “perché gli suscitava brutti ricordi” aveva detto, lanciando un’occhiata di scuse a Red, il quale non aveva fatto una piega. O così si poteva pensare.
Rafe allora aveva deciso di stargli vicino per non fargli sentire freddo, proprio come un fratello maggiore protegge il suo fratellino. Quei due condividevano un legame molto speciale, forse perché entrambi erano figli unici e facevano affidamento l’uno sull’altro come se fossero stati consanguinei.
Jake appoggiato al tronco di un albero, faceva da supervisione ad Annika, sdraiata tra le sue gambe, comodamente addormentata sul suo petto, e Monika, distesa accanto a loro.
Per quanto potesse attrarre il calore del fuoco, niente era meglio dell’abbraccio della persona amata.
Quel pensiero così filosofico e romantico – spuntato non si sa da dove – mi fece spostare lo sguardo verso Red.
Incredibile, pensavo, non ci siamo ancora messi “ufficialmente” insieme e siamo già ai ferri corti. Non era stata mia intenzione aprire quella falla, ma lui aveva contribuito in ampia scala. Ma era quello che non aveva voluto dirmi che mi dava più da pensare. Che cosa c’era del suo rapporto col padre che non sapevo? Cos’altro ancora mi nascondeva? Perché c’era qualcosa che ancora non aveva rivelato, lo avvertivo a pelle.
E non mi piaceva per niente.
Dichiarando a me stessa che era inutile fingere di dormire, con circospezione mi alzai a sedere.
Red mi lanciò uno sguardo, prima di tornare a fissare il fuoco, smuovendolo di tanto in tanto con un bastoncino. Eppure non potei non notare quel lampo che gli aveva attraversato lo sguardo.
Avvolgendomi le braccia intorno, strisciai verso di lui. Forse dettato da un qualche impulso momentaneo, sollevò un braccio, invito palese ad accoccolarmi contro di lui.
Scusate l’ipocrisia, ma non me lo feci ripetere due volte.
Incastrai la mia testa nell’incavo della sua spalla e subito il suo corpo si riscaldò come una stufa. Non mi sarei mossa di lì per niente al mondo.
Per un po’, ci perdemmo a guardare le fiamme arancio-dorato danzare sinuose, ognuno perso nei propri pensieri, un silenzio per niente imbarazzato circondava il Cerchio addormentato che non volevamo infrangere.
«Non ti chiederò scusa.» dissi alla fine. «Sappiamo tutti e due chi ha sbagliato e non sono io. Ora so che sei suscettibile sul tasto “genitori”, ma prima non ne ero al corrente ed è stato ingiusto da parte tua non dirmelo. Almeno ci saremmo evitati quella litigata.» Alzai gli occhi sul suo viso, rivolto alle fiamme. «Non vuoi dirmi che cosa succede tra te e tuo padre? Benissimo, solo non trattarmi come un’invasata ficcanaso quando non so neanche per quale motivo non vuoi parlarmene. Voglio solo che tu sappia che questo tuo non voler comunicare è un problema bello grosso e, se vuoi che continuiamo a stare insieme, prima o poi dovremo affrontarlo.»
«Non sopporto gli ultimatum
«Questa l’ho già sentita.» Mi riappoggiai alla sua spalla. «Lo hai detto anche tu:c’è sempre un bivio che ci porta o a destra o a sinistra. Libero arbitrio.»
«Sei una manipolatrice.» commentò, riattizzando il fuoco.
«Ho imparato dal migliore.»
I crepitio del fuoco riempì la pausa. Ero quasi nelle braccia di Morfeo, quando lo sentii mormorare:«Non sempre è facile scegliere.»

Rosarianna O’Sheha POV

Ormai erano lontani. Dalla casa, dai brutti ricordi che conteneva. Dalla sua influenza maligna.
Eppure sembrava che l’aura putrida che la circondava avesse creato una cappa intorno a loro, uno spesso strato di fuliggine nera invisibile che si era insinuata sotto i loro vestiti, permeando la pelle, incollandosi addosso.
Aria rabbrividiva ancora. Non era il freddo. Constantine le stava qualche passo avanti a lei, chiuso nel suo mutismo.
Aria avrebbe voluto che si aprisse, che esprimesse quello che aveva dentro, ma qualcosa in lei sembrava intuire che non sarebbe stato facile. Per niente.
Avevano superato la ferrovia, e sembrava che si stessero dirigendo al cimitero. Non che Aria ci stesse facendo caso: lei stava seguendo Constantine.
Non voleva andarsene, non voleva lasciarlo da solo, e di per sé, non aveva ancora voglia di tornare a casa.
Voleva stare un altro po’ con il ragazzo alieno.
Se alieno era.
Non ci stava capendo più niente. Per quello che aveva capito, Constantine era di un altro mondo, capitato chissà come sulla terra quando era piccolo, i suoi genitori, se c’erano, si trovavano chissà dove e lui non poteva raggiungerli.
Inoltre aveva avuto la sfortuna di essere capitato in un quartiere per niente raccomandabile, con una “madre” fumatrice incallita e un “padre” alcolizzato che abusava di violenza su di lui.
C’era una cosa però che non le era ancora chiara.
Allungò il passo per affiancarlo. «Constantine.» La voce le tremò un po’, ma perseverò: voleva sapere tutto e poi accantonarlo.
Lui sembrò udirla perché rallentò il passo, ma non si fermò.
«C’è una cosa che non capisco.» continua allora lei. «Se sei capace di fare… quello che sai fare… perché non li hai lasciati subito? Quando hai capito che la situazione si era fatta così tragica da dover per forza portare a misure drastiche.»
Lo vide girare lo sguardo intorno, poi la tirò in disparte, contro un muro. Aria si lasciò pilotare.
«Non ho sempre avuto… non sono sempre stato come sono adesso.»
Aria spettò che continuasse, ma visto che non lo faceva, lo sollecitò: «Non sei sempre stato un…»
«Il nome phantom l’ho preso un libro di fantasia, perché più o meno spigava quello che ero. All’inizio, quando ero un bambino, ero esattamente come te: fatto di carne e ossa.»
«Allora come…»
«La morte.»
Il sangue di Aria si gelò. Cielo, glielo aveva anche già detto che era morto, ma se ne era completamente dimenticata, visti tutti gli avvenimenti recenti.
«La morte del corpo è… un mezzo, un catalizzatore… che ha svelato quello che ero davvero.»
Il cuore di Aria sfarfallava, indecisa se fare la domanda successiva o meno.
La fece. «Sono stati loro?» gli chiese in un soffio. «Loro ti hanno…»
«No.»
Aria lasciò andare il fiato trattenuto. Non sapeva per quale ragione, ma sapere che lui avesse scoperto di essere phantom in modo brutale non le andava a genio.
«Com’è successo?» gli chiese.
«Così.» disse lui, scrollando le spalle. «Il giorno del mio ventunesimo compleanno. Mentre camminavo per la strada, ho avuto un infarto e sono morto. Pulito, quasi indolore. E poi quando mi sono svegliato, ero ancora straiato a terra sul marciapiede. Un signore si è fermato a soccorrermi, ha sgranato gli occhi quando mi ha visto alzarmi allegramente e andarmene. Mi disse che aveva sentito se respiravo e il battito cardiaco e non c’era niente. Ero talmente confuso che mi lascia condurre all’ospedale, ma poi mi venne in mente che non avrei saputo come pagare le cure, gli esami eccetera, sono scappato.»
«Quando ti sei accorto delle tue capacità?»
«Quando tornai a casa.» I suoi occhi bicolore si affossarono. «Arrivai proprio mentre quei due idioti stavano litigando per l’ennesima volta. Il grassone aveva le mani intorno al collo della pazza: lei aveva la faccia cianotica. Pensai che avrei voluto prenderli e sbattere le loro teste contro il muro… e fu quello che accadde. Mi basta pensare di muovere un oggetto perché questo si muova. E quel pensiero era così forte che il colpo li uccise.»
Aria non sapeva per cosa essere più sconvolta: del fatto che le stesse raccontando di aver ucciso involontariamente i genitori posticci o la calma in cui le diede quella notizia, come se stesse dicendo “oh, guarda, sta per piovere”.
Sta di fatto che i suoi occhi non la lasciarono andare neanche per mezzo secondo, dandole la convinzione che la stesse mettendo di nuovo alla prova.
Stava incominciando a stancarla.
Però… pensò ai propri genitori, al loro menefreghismo, hai loro maltrattamenti… e comprese le azioni di Constantine. Non che avesse voglia di uccidere i suoi, non era il tipo, ma parecchie volte le era venuta voglia di farla pagare ad entrambi, di punirli per il comportamento inappropriato per due genitori verso il loro stesso sangue.
«Ah.» esclamò flebile. «Per quanto mi riguarda se lo sono meritati.» gli disse. Colse un lampo di sorpresa nei suoi occhi. «Sai, in fin dei conti, abbiamo più cose in comune di quelle che credevo. Non siamo poi così diversi.»
Constantine la guardò in modo strano, concentrato, come se stesse pensando intensamente a qualcosa.
«Già.» mormorò lento. «Sto iniziando a capirlo.»





Risposte:

Summer_Love_8175: Eccomi qui a continuare, spero che ti sia piaciuto e che sia valsa la pena di aspettare, se hai aspettato.


Hp_PJ_RG_E 4ever: grazie della recensione, quando lho letta mi ha decisamente sollevato il molare. Spero tu abbia letto anche questo mio nuovo capitolo.


Luu Depp; Ecco il mio nuovo capitolo. Tutto risolto,



Fourever Alone: Così mi fate piangere. Sono davvero contenta ed entusiata e siete davvero gentili.


titty27: Non è egoismo il tuo, e scusa il mio ritardo. Davvero, spero di non fare più così tardi alla consegna di un capitolo. Ho ingranato la marcia e nessuno può più fermarmi


Dills Nightmare: Ciao Dills è da tempo che non ci si vede, ma come puoi vedere mi sono rifatta vedere - scusa il gioco di parole. spero che tu mi segua ancora anche dopo tanto tempo.

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Capitolo 38
*** Un Passo Avanti ***


 
Sy Hill: Mio Dio, mi rendo conto del mio tremendo ritardo, ma non avete idea della follia che è l'ultimo anno di liceo, e posso ben comprendere se parecchi di quelli che mi stavano seguendo hanno deciso di liberarsi di me, che sono una tale ritardataria, e buttarmi nel dimenticatoio: non preoccupatevi non ve ne faccio una colpa.
Comque, ciancio alle bando... ehm, bando alle ciance e vai col capitolo.
Mi raccomando, anche se non rispondo, perché non ho proprio tempo, LEGGETE E RECENSITE. Amo troppo i costri commenti per poterne fare a meno, anche quelli negativi.
Baci, 


Sy Hill <3

*            *            *

Capitolo 38

 

Un Passo Avanti
 
 
La mattina si apprestò ad essere uno strazio. Dopo aver fatto colazione con le mele, ne avevamo messe da parte parecchie in alcune giacche che si erano trasformate in sacche da vagabondo.
Stavamo camminando da almeno un paio d’ore e la montagna si profilava ancora all’orizzonte. Che diamine, è impossibile che non ci fossimo avvicinati neanche un po’. Eppure sembrava così.
«Ragazzi, è solo una mia impressione o non ci siamo proprio mossi, nonostante tutta la strada che abbiamo fatto?» chiese Annika.
«No.» rispose Rafe. «Non sei la sola che lo pensa.»
Colsi l’occhiata di Jake a cui risposi con una scrollata di spalle. Che ne sapevo io? Era la prima volta che per me lì a LìosLand.
«Deve esserci qualcosa che non va.» disse Jake, guardando il paesaggio tutto intorno.
Quella mattina, il sole alla Van Gogh splendeva alto nel cielo e scaldava in modo piacevole la pelle. La temperature era notevolmente aumentata, a differenza della notte in cui calava tantissimo.
Non dissi a Jake che c’aveva pensato anche io e tenni me mie idee per me.
Anche io non ero sicura del perché non avevamo fatto alcun progresso. Ma non mi sarei fatta abbattere. L’avrei raggiunta in un modo o nell’altro.
Avevo passato la notte a sonnecchiare, ora tra le braccia di Red, ora a terra, quando avevo il sedere troppo anchilosato e intorpidito per poterci dormire sopra.
E non ero stata l’unica.
Furtivamente, mi avvicinai ad Annika, verso il retro del gruppo, cosa che mi lasciva alquanto perplessa, visto che Jake era davanti.
«Ehi, gemella buona.» la chiamai.
Lei mi guardò di soppiatto. «Che c’è? E perché parli sotto voce?» rispose lei, nello stesso tono.
«Tu assecondami. Non sono il tipo che spettegola, ma questo melo devi proprio dire.» affermai. «Che succede tra vuoi due?» chiesi, saltando con lo sguardo tra lei e Jake.
La faccia di Annika diventò un semaforo rosso. «Niente.» balbettò.
Le lanciai un’occhiata alla “ti sembro scema?”. «Perché lui è là e tu sei qui? Ieri eravate come due cozze.»
«Ieri era ieri e oggi è oggi.» disse, filosofica, distogliendo lo sguardo.
«Bella risposta del cavolo. Andiamo, Annika. Voglio vedervi felici e come coppia siete meglio di Willy e Kate: state benissimo insieme.»
Mi lanciò on’occhiata. Disse riluttante: «Non so cosa sia successo. Ieri sera mi sono addormentata e questa mattina ero tra le braccia di Jake.»
«Monika non ha detto niente? Ha dormito affianco a voi. Deve aver visto Jake che ti prendeva.»
Lei scrollò le spalle. «Non so perché non abbia detto niente. O forse sì… comunque, fatto sta che stamattina mi sono svegliata abbracciata a Jake… e lui si è comportato in modo strano. Non mi ha salutato, si è alzato e si è messo a raccogliere le mele. Non uno sguardo, non una parola.»
Dal tono si sentiva quanto fosse delusa a dal ragazzo. «E tu…?»
«Non ho fatto niente. Che dovevo fare?» protestò alla mia occhiataccia. «Mica potevo andare da lui e dire: “senti, cocco, che intenzioni hai?”, così come se niente fosse.»
La guardai. «Sì.» annuii.
Sospirò, scuotendo la testa. «Sy, io non sono come te. Non ho la sfacciataggine di andare da Jake e parlargli a quattr’occhi. Prima ancora di arrivarci vicino, diventerei rossa, inizierei a sudare – cosa che odio tanto – e finirei per balbettare. Farei la figura della scema, insomma!»
Sospirai con lei. Guardai Jake che camminava in testa al gruppo. Così alto, serioso, dava l’impressione di non aver mai sperimentato un’emozione in vita sua.
Eppure io sapevo quanto poteva essere affettuoso, quanto poteva legarsi così tanto a qualcuno. E Annika era una di quelle. Detto questo, il suo improvviso cambiamento di rotta mi lasciava non poco perplessa.
Storsi il naso quando mi sorse un dubbio: e se fosse stato un improvviso impenno del senso del dovere? Jake ne era più che capace. Giuro che se così fosse stato, avrei riempito il suo deretano dei calci. All’improvviso si era ricordato di essere a capo di un gruppo e per questo tutto il resto – Annika, l’affetto (se così poteva essere chiamato) per lei – era slittato in secondo piano? Ma che idiota!
«Sy, perché quella smorfia?» mi chiese Annika.
Aprii la bocca per dirle quello che mi era passato per la testa, ma ci ripensai e la chiusi.
«Solo una leggera indigestione di…» – “cazzate” – «…mele.» Agitai una mano. «Niente di che. Scusami.»
Borbottando imprecazioni contro quel demente, marciai al mio posto. Non avrei mai arrivato a capire i meccanismi neurologici degli uomini.
«Sy, ti serve aiuto?» mi chiese Bastian. «Ho sentito…»
«Non preoccuparti.» mi affrettai a dire. «È una cosa leggera. Guarda, è già passata.»
«Okay.» rispose, lentamente, guardandomi come se fossi una pazza da assecondare.
Mi affiancai a Red, sospirando. Lui mi lanciò un’occhiata. Gli risposi scuotendo la testa.
Decisi di farmi i fatti miei e mi concentrai sul problema principale: come raggiungere la Montagna.
Era chiaro che c’era qualcosa che non dava, che ci impediva di arrivarci. LìosLand era una terra magica, dove l’Energia sprizzava da ogni essere vivente e non. Quindi molto probabilmente, ciò che faceva da impedimento, da deviante. Forse un incantesimo illusorio…
O forse la montagna era tutta un’illusione.
«Ragazzi, fermiamoci un momento.» disse Jake.
Cascammo tutti a terra, recuperammo i sacchi con le mele e le distribuimmo.
«Sentite, affrontiamo questa cosa.» esordì Rafe, dando un morso alla mela. «Non ci siamo avvicinati a quella stramaledetta montagna neanche di un millimetro. Non capisco come sia possibile, ma non muoverò un passo di più.»
«Rafe ha ragione.» convenne Bastian, inghiottendo un morso. «Non stiamo facendo alcun progresso. È come se stessimo camminando a vuoto, in tondo.»
Jake mi guardò, alzando un sopracciglio. «Sai cosa voglio chiederti.»
Feci la finta tonta. «Quando mai?» Alzai gli occhi al cielo. «Sì, so cosa vuoi e credo di avere una risposta plausibile.» Morsi la mela. «Un illusione. O un incantesimo che ci devia. E no, non sono un’enciclopedia, quindi non so come fare a spezzarlo.»
«Perciò, siamo bloccati. Non possiamo andare avanti e indietro non si torna.» osservò Jake, sospirando. Si fregò la fronte, cercando di venire al capo della matassa. Sentivo le rotelle nel suo cervello roteare veloci.
«Quanto vorrei avere un manuale d’istruzione.» sospirò poi.
«Quanto vorrei che mia madre mi ci aiutasse.» ribattei.
Gli brillarono gli occhi. «Perché non glielo chiedi?»
«Cosa?» gli chiesi stranita.
«Come raggiungere il Monte.»
«Ti sembra che abbia il suo numero di cellulare?»
«Potresti… che so?, stabilire un contatto con lei. Dopotutto, è tua madre e avete un legame.»
«Ti pare che l’abbia vista così spesso da aver stabilito un collegamento con lei? Buon Dio, sì sono emozionata all’idea di vederla, ma ad essere onesta, non ho idea di come mi sentirei una volta incontrata di persona. Ho letto troppo su cosa succede a chi ha incontrato chi dopo tanto tempo o per la prima volta nella vita: chi ha reazioni spropositate – cosa che non è nel mio genere; chi invece reagisce a rilento; chi non reagisce proprio. So qual è il mio carattere, probabilmente prima mi bloccherei come una statua e poi avrei una razione ritardata. Me la prenderei con comodo. Però, in tutto questo, sentirei il legame con lei subito.» Scossi la testa. «Detto questo, ora che non l’ho ancora incontrata, non senso proprio niente, solo la flebile speranza di rivederla.»
«Ma qualcosa te lo ha installato nel cervello.» si aggiunse Rafe. «Ti ha dato degli indizi, delle visioni che ti hanno permesso di raggiungere il suo luogo di nascita. Deve averti dato qualcos’altro per superare quest’ostacolo.»
«Non è detto.» protestai. «Forse, quando mi ha instillato quelle informazioni, questo “trucchetto” non era ancora stato messo.» dissi, facendo le virgolette.
«Non puoi provare?» chiese Annika, buttando il torso. «Forse c’è una possibilità.»
Vedendo negli occhi del Cerchio una comune luce di speranza, mi convinsi che potevo farcela, che mia madre era stata così previdente da avermi dato i mezzi inconsci per arrivare a lei.
Sospirai. «Va bene. Ma, per inciso, non so come funziona. Se viene, viene, altrimenti…»
Chiusi gli occhi, svuotando la mente, cosa più facile a dirsi che a farsi. Sentivo su di me gli sguardi degli altri, le aspettative che facessi bene quello che sapevo fare – qualunque cosa essa fosse – e riuscire a risolvere la situazione.
Potevo solo sperare.
 
 
Rae-Mary Johnson’s POV
 
Non sapeva dove si trovasse. Un attimo prima si trovava nel cortile della scuola, intenta ad evitare a Red di essere catturati e un attimo dopo si era risvegliata in quell’immenso salone, rischiarato da sporadiche torce appese alle pareti in sostegni di ferro. Si accorse di essere appesa al muro, trattenuta da ceppi ai polsi sulla testa e alle caviglie incatenate.
Rimase allibita alla vista che le si presentò, sollevando lo sguardo.
Sembrava di essere in un castello medievale. La Sala Grande, con un camino enorme sulla parete più larga di fronte a lei, simile alla bocca di un drago, con spuntoni in corrispondenza dei quattro angoli. Una pedana rialzata in fondo alla sala, alla sua sinistra, con tanto di scranna dal poggiatesta intagliato e rifinita in oro. Una lunga scala contorta in pietra, ricavata dal muro, portava al piano superiore, appena prima della pedana.
Ma quello che più la impressionava era il gigantesco foro al centro del salone. Una foschia grigia, simili ad aspirali di fumo denso e acquoso. Sembrava uscire dalla bocca dell’inferno, un inferno non luminoso, caldissimo e pieno di fuoco, come si poteva pensare, ma oscuro, tenebroso e fumoso.
La fece rabbrividire.
Poi sentì dei passi affrettati. Si voltò verso l’entrata del salone, sulla destra, dove una massiccia, alta porta di legno faceva da anfitrione. Le porte, alte molto più di due metri, si aprirono senza che nessuno le toccasse, e sbatterono contro il muro di pietra, che si scheggiò.
Una figurina avvolta in un abito nero svolazzante entrò camminando impettita: anche senza vedere la sua espressione, si capiva che era arrabbiata dalla linea rigida della schiena, dal passo incisivo.
Si fermò davanti al foro nel pavimento, agitò una mano e il fumo denso le si attorcigliò intorno ad un polso, docile, carezzevole quasi.
La sentì borbottare qualcosa, mentre il fumo la avvolgeva… per poi sparire nella sua pelle.
Buon Dio…
La donna si voltò di scatto.
Rae-Mary trattenne il fiato.
I suoi occhi…
Gli occhi della donna era di due tonalità diverse, eterocromatici, ma di due colori che Rae conosceva troppo bene per non riconoscere.
Gli occhi di Sy. Anche se diviso in due.
Le parlò in una lingua strana, aspra ma fluente, ritmica.  Rae la guardò senza capire. La donna alzò gli occhi al cielo, per poi darle le spalle. La sentì chiamare qualcuno, la voce potenziata dall’eco della stanza.
Il nome che chiamò però, anche se con una pronuncia e accento diverso, le sembrò familiare. Terribilmente.
L’aria poco distante dalla donna si distorse, si compresse su se stessa, per poi dilatarsi, trasformandosi in un vortice…
Reìrag comparve qualche istante dopo, in tutta la sua altezza.
Era impressionante in tutti i suoi due metri, il corpo completamente ricoperti di segni scuri, la sua espressione cupa, che prometteva catastrofi.
Rae rabbrividì. Qualcosa che diceva che aveva commesso un passo falso.
La donna accanto al foro non si voltò al suo arrivo. Continuava ad agitare le mani aggraziate sul fumo che ne fuoriusciva, mormorando qualcosa.
Reìrag le si avvicinò in modo, che apparve a Rae, esitante. Questo le fece intuire che, chiunque fosse quella donna, era così potente da incutere timore anche a mostro.
«Reìrag.» la sentì pronunciare in tono carezzevole, nella sua strana pronuncia.
Rae non potette credere ai propri occhi quando lo vide rabbrividire.
Dio Santo, ma chi era quella donna?
«Mo Bhean.» le disse, si portò una mano al petto e si inchinò, ginocchio a terra.
«Parla la sua lingua.» disse la donna, in un accento così marcato da rendere quasi indistinte le parole.
«Mia Regina.» ripeté Reìrag.
«Sono molto contrariata, Servo.» affermò la donna, come se stesse parlando del tempo. «Ti avevo dato un esplicito ordine e tu non li hai svolto.»
Il tono colloquiale fece venire i brividi a Rae. Non ci voleva un genio per capire che quella calma era solo apparenza. Doveva essere furiosa.
Reìrag sembrò tremare. «Ti chiedo umilmente perdono, mia Regina, non ho scuse per il mio comportamento. Accetterò qualunque punizione tu voglia concedermi.»
La donna accarezzò le spire di fumo che si levavano dal foro, pensierosa. Poi si voltò verso il mostro. «Risparmiati quel tono sottomesso, Servo. Sai bene che non ti punirò, mi servi di più da vivo che agonizzante, in preda a dolori atroci. Dopotutto,» si voltò verso Rae-Mary. «Qualcosa l’hai portata, anche se non era quello che ti avevo chiesto.»
Rae-Mary si ritrasse d’istinto. Tutto diceva lo sguardo che la donna le rivolse, fuorché buone intenzioni.
La donna le si avvicinò, scrutandola da cima a fondo. «Non sei potente. Il Potere è debole nelle tue vene, è molto diluito. Non mi servirebbe a niente. Ma hai le tue utilità.» Allungò una mano pallida circondata da fumo denso e le scostò gli occhiali ammaccati dagli occhi. «Ah. Conosco la tua Famiglia, il tuo Lignaggio. Deboli, come te.»
Le voltò le spalle, incurante dello sconvolgimento lasciatosi dietro. Rae non riusciva a capacitarsi di quello che aveva appreso.  Il cuore le batteva a mille.
Mio Dio, la donna aveva detto… sì, aveva detto la sua famiglia. Significava che erano ancora vivi… suo padre…
«Reìrag!» la sentì urlare poi. Gli abbagliò quelli che le parvero ordini e si avvicinò al pozzo di fumo.
Una litania invase la Sala Grande rimbombando sulle pareti di pietra, insinuandosi in ogni fessura e angolo. Le spirali di fumo si levarono più corpose, più dense, più abbondanti. Le si raccolsero sul palmo della mano, formando una sfera di fumo vorticante, quasi viva, che le accarezzava i polsi e le dita affusolate.
Reìrag le si avvicinò e protese entrambe le mani.
Lei si immobilizzò. «Dov’è il medaglione?» gli domandò.
Reìrag parve ritrarsi.
«Se ci tieni alla tua miserabile vita, rispondi alla domanda.» gli ingiunse Lei.
Reìrag tacque. Sembrava che non trovasse il coraggio di dirle che non lo aveva più.
«Come vuoi.» disse Lei.
Con uno scatto del polso, lanciò la palla di fumo contro il mostro, sbalzandolo a parecchi metri di distanza. Ma non toccò il suolo. Il fumo lo tenne sospeso in aria, come un crocifisso, mentre gli si insinuava nelle cavità facciali: bocca, naso occhi, orecchie, tutto venne invaso da quella densa foschia. La pelle divenne cerea, e faticava a respirare.
Poi il fumo si ritrasse e, come un cagnolino docile, ritornò sul palmo della sua padrona. Da lì, si distese per tutta la lunghezza del braccio fino ad arrivare alla bocca, dalla quale venne risucchiata.
Rae-Mary era combattuta tra il disgusto e lo sconcerto. Prevalse il primo, mentre un conato le rivoltava lo stomaco.
La donna gettò la testa all’indietro, mentre finiva di assorbire il fumo e tacque, immobile per qualche secondo.
La pelle di Rae cominciò a formicolare. Un’ondata potente di Energia venne spigionata di botto, mentre la donna urlava tutto il suo disappunto e ala sua furia. Venne sbalzata all’indietro contro il muro, battendo malamente la testa contro la dura pietra.
L’ultima cosa che vide fu Reìrag che cadeva a terra come un fantoccio privo di scheletro.
 
*   *   *
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
 
Era difficile istaurare un feeling con qualcuno che non hai mai incontrato. Non hai nella testa quelle immagini, quei ricordi che ti danno la sicurezza che ci sono, che esistono.
Altro che difficile, era quasi impossibile. Però, dovevo farlo, dovevo riuscirci, per loro. Per il Cerchio, la mia seconda famiglia.
Mi concentrai allora su ciò che avevo racimolato, quelle poche briciole che avevo raccolto. Sapevo che mia Madre aveva i capelli come i miei, e il viso come quello della Statua della Regina Bianca – anche se non era la stessa cosa, perché una statua non può mai rappresentare perfettamente il viso di una persona – e i miei stessi occhi. Mi immaginai una persona dolce, comprensiva, ma anche autoritaria e seria – come secondo il mio metro dovrebbe essere una regina.
Mi sforzai di mettere insieme gli elementi sparsi come coriandoli, attaccandoli insieme con le emozioni che essi mio suscitavano…
La sentii nella mia testa, una specie di fantasma che vaga nelle stanze vuote di una casa, di cui si avverte la presenza, ma che non puoi vedere, uno spiffero in un angolo della mente, penetrato da una fessura invisibile.
Immaginai di entrare in una stanza completamente vuota, le pareti di un grigio neutro, incolore, neanche una finestra, una feritoia, da cui poter sbirciare l’esterno.
Fu lì che la cercai, perché in quella stanza avrebbe dovuto esserci lei, i suoi ricordi, le mie sensazioni su di lei, il calore che un suo abbraccio avrebbe suscitato, la gioia che la sua risata avrebbe evocato…
Nell’angolo più lontano, un’ombra nera invadeva lo spazio che avrebbe dovuto essere monotono come il resto.
Proprio lì. Avrei trovato ciò che cercavo.
Mossi qualche passo, l’ombra mi chiamava, mi attirava a sé. A portata di mano, essa mi avvolse, rimasi sospesa nel vuoto.
E la trovai.
Quella connessione che cercavo, quel legame che credevo difficile da trovare.
La percepii scivolare dentro di me, fare un noto intorno al mio animo e attirarmi a sé. Lo sentii abbracciarmi con mani gentili, afferrare il mio cuore in una stretta delicata e restare lì, avvolta a doppio nodo intorno all’organo essenziale alla vita.
Sentii quelle mani fantasmi accarezzarmi le guance, sfiorarmi i capelli, stringermi in un abbraccio.
«Mo Kirisha.» senti sussurrare nella mia testa.
Figlia mia.
Mi protesi verso il calore, tesi le braccia a toccare il legame fantasma che mi univa a mia madre, quella voce dolce che mi mormorava nella mente.
«Màthia.» singhiozzai.
«Mae ot Kahem.» sospirò la voce.
Vieni da me.
Mi sentii afferrare saldamente, tirare con decisione, e uno spiraglio di nuove possibilità si aprirono ai miei occhi. I ricordi che avrei potuto conservare con cure nel cuore e nella mente dei momenti che avrei passato con mia madre, di tutti i posti da lei conosciuti che non avrebbero avuto segreti per me, una volta che lei me li avesse mostrati, la tante emozioni che mi avrebbe suscitato essere con lei giorno e notte…
Un voragine enorme mi inghiotti, ma non ebbi paura, perché sapevo che lì ci sarebbe stata lei a tenermi stretta, al sicuro, protetta come in una botte di ferro…
…e con quelle braccia, arrivarono anche piccoli sprazzi della memoria che aveva lasciato dentro di me.
Ora sapevo cosa fare, sapevo dove dovevamo andare e come.
La Montagna delle Anime Nere non aveva alcune segreto per me.
 
*    *    *
 
Rosarianna O’Sheha POV
 
Un gelato.
Incredibile, ma vero, era seduta su una panchina, al parco comunale, a mangiare un gelato alla pistacchio e crema alla nocciola.
Con Constantine. Lui lo aveva preso al cioccolato fondente e caramello.
Aria aveva pensato che fosse più un tipo da caffè e menta, gusti amari, forti.
Leccò via le gocce di nocciola che stavano scorrendo lungo il cono prima che le sporcassero la mano.
«Non capisco come sia possibile che a ottobre inoltrato, il gelato possa ancora sciogliersi.» si lamentò.
L’angolo della bocca di Constantine si alzò leggermente. Lei non se ne fece accorgere, era decisa a farlo sentire quanto più a suo agio possibile. Da quando avevano lasciato la casa, aveva notato la tensione disegnargli linee nette sulla fronte e intorno alle labbra. Voleva stendere, cancellarle, passare le dita sulla sua pelle corrugata e levigarle. Ma per farlo avrebbe dovuto toccarlo e non era dell’idea che lui fosse stato d’accordo.
Il parco era deserto, erano le sette di sera. Il sole era tramontato da un pezzo e le luci dei lampioni erano fredde e monotone. Tutto era contornato da un alone azzurrognolo, che faceva sembrare quel posto ancora più malridotto di quanto fosse in realtà.
«Cosa fai di norma?» gli chiese, continuando a mangiare il gelato. «Vai a scuola? Lavori? Vai in giro a menare le mani?»
Il gelato rimase sospeso a mezz’aria. Le lanciò un’occhiata.
Aria si agitò. Che c’era di male ad aver chiesto? Come poteva conoscerlo se lui non voleva dire niente di sé?
«Scusa.»
Il gelato aveva perso il suo gusto dolce, sembrava fiele in bocca. Era così incasinata nell’instaurare relazioni con chiunque che non riusciva neanche a parlare del più e del meno? Era una sfigata.
«No.» rispose lui. «Non vado a scuola. Te lo immagini? Salve, sono Constantine e sono morto.» Alzò gli occhi al cielo. «Proprio un bell’inizio.»
Aria non sapeva se inorridire a quella battuta oppure riderne: era la prima che sentiva da lui.
Ridacchiò. «Già. Diventeresti superpopolare e se dovessero dire che c’è un fantasma nello spogliatoio femminile, non sarebbe una palla.»
Il gelato le cadde di mano. La sua risata, più unica che rara, l’aveva colta di sorpresa. I suoi occhi brillavano di ilarità, il viso illuminato da un chiarore rilassato.
Forse non era poi così sfigata.
 
*    *    *
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Le palpebre si sollevarono lentamente, appesantite, come se una coltre di sonno mi stesse opprimendo, tentandomi di tornare a dormire. Mi sentivo racchiusa in un bozzolo di calore, come quando la mattina ti svegli avvolta nelle coperte scaldate.
Poi cominciai a sentire delle voci.
Voci concitate, voci agitate, voci furiose, voci lacrimose.
Una cacofonia di suoni da cui mi scostai istintivamente.
Ma non potevo muovermi. Qualcosa mi bloccava.
Allora la sentii.
La sua voce. Quella melodia di campanelle tintinnanti al vento, quelle fruscio del vento tra gli alberi.
Red…
…e il Cerchio.
La valanga di ricordi mi pervase, mi sentii sommergere, affogare…
Spalancai gli occhi, scattando a sedere, volendo fuggire da quello che avevo nella testa, quella miriade di informazione spezzettate e attaccate male. Tutta quella Conoscenza che non avrei dovuto avere nella testa, perché non era la mia, non l’avevo sviluppata io.
La mia mente era refrattaria a volerla dentro di sé, ma la costrinsi a restare. Mi serviva, serviva al Cerchio, serviva a Rae-Mary… anche a costo di morire l’avrei tenuta lì…e forse c’era.
Presi un respiro profondo e misi a fuoco quello che avevo davanti, battendo le palpebre.
«Bastian!» sentii abbagliare da Red.
Il piccoletto con i capelli rossi si inginocchiò di fronte a me. Prese la mia faccia tra le mani. «Sy.» mi chiamò. «Riesci a sentirmi? Riesci a comprendermi? Riesci… a fare qualcosa?» mi chiese reprimendo un singhiozzo.
Certo che so fare qualcosa, Rosso!, esclamai. Fatemi alzare.
Lo vidi nascondere il viso nelle mani e scappare da Rafe che lo strinse in un abbraccio, per confortarlo.
«Sy?»
Jake invase il mio campo visivo. Buon dio, aveva le lacrime agli occhi!
Jake che cavolo succede?Perché siete tutti sconvolti? Abbiamo le informazioni che volevamo!
«Andiamo, riprenditi!» mi sgridò, invogliava un singulto. «Non siamo arrivati fino a questo punto per poi perderti!»
Ma di che diavolo stai parlando?Io sono qui, ti sto parlando!
Ma non mi rispose. Lasciò cadere la testa, come se gli pesasse, e andò da Annika, che lo strinse, soffocando una serie di singhiozzi nella suo petto.
Allora capii che c’era qualcosa che non andava.
Qualcuno mi prese il viso tra le mani e lo sollevò. Gli occhi dorati di Red incontrarono i miei. E capì che mi era successo qualcosa di davvero brutto. I suoi occhi erano vuoti, senza vita.
Oh, mio Dio.
«Non azzardarti a lasciami.» lo sentii ringhiare. «Non osare. Sono ad un passo dal bruciale l’intero fottuto mondo, e se non ti riprendi le cose potrebbero mettersi veramente male.»
Il mio cuore sussultò, così tanto che fece male, quando vidi una lacrima solitaria cadergli dall’angolo dell’occhio e solcargli la guancia.
Le sue dita calde mi accarezzavano il viso, quando le sue labbra sfiorarono le mie, in un bacio che parlava di sofferenza, dolore… perdita…
Allora compresi.
No, non è possibile!
La Conoscenza che mia Madre mi aveva lasciato mi venne in aiuto. Ero bloccata nel mio stesso corpo. Ero come un computer che aveva appena fatto l’aggiornamento. Mi ero resettata.
Ero morta. Per davvero. Il mio cure aveva cessato di battere per qualche secondo.
Ma ora ero viva, solo che il corpo, essendo fatto di carne, cuore, cervello, aveva bisogno di tempo per rielaborare tutto e ripristinare le normali funzioni.
Era in black-out temporaneo.
Potevo respirare, il mio cure batteva, e il mio cervello pensava, ma le altri funzioni primarie erano ancora fuori uso.
Buon Dio, loro credevano che fossi in catalessi.
Devo farcela, mi devo riprendere. Li sto facendo preoccupare troppo. E Red…
Vedevo il buio farsi strada nel suo sguardo, l’oro fuso scomparire dietro coltri di oscurità.
Maledizione, no! Okay, piano, un po’ alla volta. Primo, dovevo cercare di muovermi.
Dovevo percepire bene il mio corpo, quali muscoli muovere, quali tendere, quali stirare. Prima qualcosa di semplice, gli occhi.
Vidi ciò che avevo davanti apparire e scomparire. Bene.
Le mani. Provai a stringere qualcosa. Sentii l’erba nel palmo delle mani.
Volevo far capire a tutti che c’ero, che non ero un guscio vuoto, soprattutto a Red.
«Red, puoi spostarti, per favore?» ascoltai dire da Bastian.
Un brivido forte scosse il mio corpo. Solo quando udii un suono graffiante, di gola, mi resi conto che era il ringhio di Red ad avermi scossa. Buon segno, significava che stavo riprendendomi, anche senza fare niente.
«Ombra.» lo rimproverò Jake. «Se può fare qualcosa, qualsiasi cosa, per aiutarla, allora, ti prego, lascialo fare.» pregò. «Capisco benissimo come ti senti, ma per favore… la rivogliamo tutti indietro.»
La mia visuale ondeggiò, segno che Red mi stava spostando o che si stava agitando. Bastian apparve davanti ai miei occhi.
Lanciò un’occhiata al mio guardiano. «Non la tocco.» lo rassicurò, alzando le mani a palmi rivolti verso me. Chiuse gli occhi.
Le mani iniziarono a brillargli di una luce azzurrognola, mentre rilasciava il suo Talento su di me. Lo percepii attraversarmi come acqua fresca, penetrare in ogni poro, vibrare sotto pelle. La sua carezza raggiunse la mia testa, il cranio, fino a scivolarvi sotto.
Sentivo la tensione accumularsi nel mio petto, qualcosa non andava. I tentativi di Sebastian di entrare nel mio sistema nervoso, nel mio cervello, erano palpabili, li sentivo come se fossimo pelle a pelle, ma qualcosa nella mia scatola cranica gli impediva l’accesso… fino al punto di negargli completamente l’accesso al mio corpo.
Bastian venne spinto fisicamente all’indietro, lontano da me, mentre le sue mani venivano percorse da scariche elettriche a basso voltaggio, come quando sfreghi i calzini sulla lana e poi tocchi ferro.
Ansimò dal dolore. «C’è qualcosa, un blocco, che mi impedisce di entrare nella sua testa. Ma ho capito una cosa. Studiando la sua composizione chimica e il suo encefalogramma, ho capito… lei è lì. Sy dentro il suo corpo. Sta bene.» disse, in direzione di Red, agitato. «Solo… non so come spiegarlo… le dobbiamo dare del tempo e stimolarla, darle degli input, così reagirà più in fretta.»
Il sospiro di sollievo fu collettivo. Annika pianse ancora di più. «Come facciamo?»
Sebastian scrollò le spalle. «Attraverso i sensi. Parliamole, tocchiam…» s’interruppe, lanciando un’occhiata a Red. Immaginai la sua faccia che si aggrottava, gli occhi dorati che brillavano minacciosi.
Il mio possessivo Red.
Quel pensiero mi faceva sorridere.
«Avete visto!?» esclamò Rafe, che fino a  quel momento non aveva pronunciato una sola parola. «Si è mossa.»
Jake si sfregò il mento. «Forse è il pensiero di Red.» suppose, lanciando un’occhiata all’amico. «Forse è lui la chiave di tutto. Credo che basti solo lui, per riportarla indietro.»
«Credo anch’io.» soggiunse Annika.
«Toccala, parlare, fai il possibile per riportarcela.» chiese Jake con forza a Red. «Andiamo.» disse, rivolto agli altri.
Li sentii allontanarsi, finché rimanemmo solo io e Red. Avrei voluto toccarlo, avrei voluto fare un mucchio di cose che il mio corpo non mi permetteva ancora si fare.
Le sue mani mi presero il viso, accarezzandomi le guance. Il suo volto entrò nel mio campo visivo, gli occhi dorati illuminati, seppur di poco da una luce di speranza.
«Forza, nanerottola, so che sei lì dentro. Mi rifiuto di credere altrimenti.»
Spostò il mio corpo fino a racchiuderlo col suo, il suo calore aumentò. Le sue braccia mi circondavano, lo sentivo su ogni parte di me. Le sue labbra mi percorsero il viso, le guance, il naso, il mento, tracciando una linea umida e calda, che mi fece rabbrividire.
«Così.» mormorò, scendendo verso il collo. «Torna da me.»
Le sue mani, fino ad allora rimaste sulla mia schiena, si spostarono, una intrecciandosi ai miei capelli, l’altra scendendo sulla vita, spingendo i miei fianchi contro i suoi.
Una vampata di calore invase il mio corpo, spingendo ogni mio nervo a reagire, a contrarsi per poterlo toccare.
La sua bocca salì di nuovo, afferrando la mia, stordendomi con un bacio famelico, mentre prendeva il mio corpo e lo sollevava contro il suo.
Un bacio che sapeva di disperazione, arancia e zucchero. Il mio preferito.
Poi mi scostò bruscamente da sé. I suoi occhi bruciavano come tizzoni ardenti. Oro fuso, calore e desiderio.
Allora mi accorsi che le mie mani erano nei suoi capelli e le ginocchia strette attorno ai suoi fianchi, i mio seno incastrato contro il suo petto.
«R-r-red…» balbettai, ancora incerta.
Lui si fiondò sulla mia bocca e io risposi entusiasta, assaggiando qual gusto unico, tipico di Red solo, che tanto mi piaceva e che da tanto non avevo più gustato
Stavo tornando e nel modo più piacevole possibile.
Le sue mani afferrarono il mio sedere, spingendomi verso di lui, come se volesse farmi entrare dentro la sua pelle.
Buon Dio, non ci eravamo mai spinti tanto oltre senza che qualcosa ci interrompesse, ma diamine, ero troppo inebriata dal suo sapore per fregarmene qualcosa.
«Red…» sospirai nella sua bocca, molto più sicura nel pronunciare il suo nome.
All’improvviso mi ritrovai con la schiena sull’erba, il corpo compatto di Red sul mio, tra le mie gambe, le braccia piantate ai lati della mia testa.
Il suo respiro affannato quanto il mio mi scaldava le guance, i nasi si sfioravano.
Una goccia mi bagnò le labbra.
Misi a fuoco i suoi occhi. Le ciglia lunghe e nere come l’inchiostro erano bagnate. Stava piangendo. Per me.
Si abbassò lentamente, come a non volermi spaventare – come se io potessi avere paura di lui – e affondò il viso nella curva del mio collo, sfregando il naso contro la vena pulsante alla base.
«Red.» lo chiamai.
Mi sentivo stupida a ripetere sempre il suo nome, ma era l’unica cosa che avevo intesta in quel momento: il pensiero di lui.
La presa delle sue braccia s’intensificò fin quasi a soffocarmi, ma a me andava bene. Anche senza parlare, stava esprimendo tutto il suo sollievo e la sua contentezza di avermi indietro. Come me, d’altronde.
Il solo pensiero di non poterlo più toccare liberamente, di poter battibeccare ancora con lui, di poterlo stringere tra le braccia come in quel momento, mi stritolava il cuore in una morsa angosciosa.
Si staccò da me, ma tenendomi sempre tra le braccia, si alzò a sedere.
Mi capitò a tiro d’occhio un albero poco distante da noi. Era completamente bruciato. Con quello accanto, e quello dopo ancora.
«Caspita.» esclamai, con voce debole. «Non scherzavi quando hai detto di poter bruciare il mondo.»
La sua mano si posò sulla mia testa, accostando la sua fronte alla mia. Sbattei le palpebre. Un sorriso di sollievo gli curvava le labbra e una risata liberatoria gli salì dal petto, riempiendomi di conforto.
Era tornato il solito Red.


 

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Capitolo 39
*** Niente è come Sembra ***


Sy Hill: Salve a tutti!!!! Come promesso, dopo gli esami, mi sarei impegnata per pubblicare più di una volta ogni tanto, e quindi ora che la maturità è alle porte, colgo l'occasione per questo nuovo capitolo, appena finito. Spero che vi piaccia, e che mi lascerete scritto quello che ne pensate.COme ogni volta, ringrazio infinitamente quelli che hanno recensito lo scorso capitolo: VI RINGRAZIO UN CENTINAIO DI VOLTE per avermi seguito fino a questo punto e di non avermi abbandonato dopo tutto il mio mutismo.
Quindi, bando alle ciance, e...  

LEGGETE E RECENSITE, mi raccomando.
Baci,


Sy Hill <3






Capitolo 39
 
Niente è come sembra
 
 
Mi subissarono di domande. Cos’era successo era quella più frequente. Con la lingua ancora un po’ attaccata, balbettai quello che mi era successo, mentre ancora ero tra le braccia di Red.
Dopo… non saprei come definirlo, quella libera espressione dei nostri reciproci sentimenti – stavamo pomiciando alla grande, ma meglio metterla in modo filosofico, mi faceva sentire meno una fiaccola ambulante – mi aveva riportato in braccio dagli altri. Le terminazione nervose erano apposto, ma i muscoli erano ancora atrofizzati o giù di lì.
Le reazioni del Cerchio mi aveva riempito di calore. Annika e Monika erano venute ad abbracciarmi e Rafe aveva stretto tutte e tre in una morsa d’acciaio. Red si era rifiutato categoricamente di mollarmi, quindi si era ritrovato nel mezzo della tenaglia. Jake era venuto a stringermi una spalla, una o due lacrime di felicità che gli avevano solcato le guance. Bastian invece era stato così contento che aveva fatto un salto, gridando un “evviva, avevo ragione” di contentezza.
Divorai una mela, tanto ero affamata, e bevvi un’intera bottiglietta d’acqua. Quando chiesi a Red di mettermi giù, mi lanciò un’occhiata di traverso, dicendo che tutto voleva al di fuori di lasciarmi andare – perfettamente d’accordo –, ma mi permise di appoggiare i piedi a terra e tenermi equilibrio usando lui come appoggio.
«Ce la fai?» mi chiese.
«Certo.» gli dissi, scostandomi. Costrinsi le mie gambe a reggermi. Era bello reggersi a lui, ma… insomma, non ero una mammoletta. Basta fare al principessa svenevole.
«Per quanto tempo sono rimasta… bloccata?» chiesi.
«Quasi un’ora.» rispose Bastian. Mi si avvicinò con i palmi rivolti verso me. «Ferma.» mi ordinò.
Mi ispezionò da capo a piedi, il suo Talento mi attraversò come acqua fresca, rinvigorendo i muscoli tesi e rigidi, rilassandoli, riportandoli allo stato naturale, elastici e mobili.
Sospirai di piacere. «Grazie mille, mi serviva proprio fare un viaggetto alla Bastian S.P.A.
Scoppiò a ridere. «Questa è la prova inconfutabile che è tornata la nostra vecchia Sy.»
«Credimi, è un piacere anche per me.» Tornai seria. Guardai Jake. «Abbiamo un bel po’ di cose da fare se vogliamo arrivare lì.» Accennai alle Montagne. «Diamine, non sarà per niente facile.»
Il Cerchio si scambiò uno sguardo. Jake mi posò un mano sulla spalla. «Chiave
Fu tutto quello che disse. Ma fu quello che non disse a farmi sorgere un’inaspettata voglia di piangere di gratitudine. Mi sentii invadere da un profondo senso d’affetto e determinazione. Era fiducia incondizionata, la libera disposizione delle future azioni del Cerchio, la responsabilità della loro sopravvivenza.
Chiusi gli occhi, imponendomi di non essere di nuovo una fontana e li riportai su Jake.
«Dobbiamo andare da mia Madre.» dichiarai. «Al lago di Thaùrm.»
 
 
*    *    *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
 
«Credo che sia meglio separarci qui.» disse Aria. Si pentì subito. «No! Volevo dire, insomma…»
Non hai speranze, sorella. Scava una buca e sotterrati, io vado in pensione.
Ma Constantine non la stava guardando. Scrutava con occhio attento la casa di Sy, come a voler passare attraverso le mura.
«Che succede?» gli chiese Aria.
Lui aggrottò leggermente la fronte, assottigliando lo sguardo. «Chi abita qui?»
«Ehm… la mia amica Sy, con suo padre. Perché?»
Con scosse la testa. «Niente.» Si voltò verso di lei. I suoi occhi bicolore le  sfiorarono il viso, indugiando su una ciocca di capelli che le si arricciava lungo la mascella. «Ci vediamo.»
Veloce, le girò le spalle e, mani in tasca, si allontanò.
Fu così svelto che Aria si bloccò con una mano a mezz’aria. Era perplessa dalla rapidità con cui Constantine l’aveva liquidata.
Sospirò. «Ciao.» disse, agitando inutilmente la mano.
Entrò in casa, trovandola silenziosa. Aveva voglia di raccontare a Sy quella che le era successo – salvo dettagli più fantascientifici – e andò in camera sua.
Era vuota. La sua borsa era lì, il letto era sfatto dalla mattina.
Uscì in corridoio, provò a chiamarla sul cellulare, ma le rispose la segreteria telefonica.
Iniziò a preoccuparsi. Lanciò un’occhiata alla porta del laboratorio. Doveva avvisare Xavien? Ricordava ancora il litigio che aveva sentito tra i due, nascosta in camera sua. Non aveva capito bene cosa si fossero detti, ma alla fine Sy era uscita di casa sbattendo la porta e Xavien era tornato nel laboratorio.
Non sapeva cosa fare.
Andò in camera sua e si sedette sul letto. Che fare? Dirlo a Xavien? E se Sy voleva stare da sola? Di sicuro si sarebbe arrabbiata. Dio, era inutile quanto un cd rotto. Non sapeva come comportarsi in qualsiasi situazione. Non ci si era mai trovata, non sapeva comportarsi come un’amica.
Un’ombra le comparve alle spalle. Un brivido le corse lungo la schiena.
Sapeva chi era. Prima ancora di girarsi.
Constantine si stagliava contro la luce proveniente dalla finestra, un alone che lo faceva sembrare un angelo. Un angelo arrabbiato, considerò, guardando al sua fronte aggrottata sugli occhi inquieti.
«Perché mi hai chiamato?» le chiese.
Aria scosse leggermente la testa. «Non l’ho fatto. Io…» Sbatté le palpebre. «Come hai fatto ad arrivare qui?» soffiò.
«Transfert
Gli occhi nero-ghiaccio brillarono, un attimo prima di sparire. Aria si alzò di scatto dal letto, la mani protese in avanti, quasi a voler afferrare il corpo che era appena scomparso.
Incespicò all’indietro andando a sbattere contro la porta. No, non era la porta. Le porte non sono calde e non respirano.
Lentamente, girò la testa fino ad incontrare un paio di occhi bicolore. Le gambe, già tremanti, le cedettero del tutto, costringendo Constantine ad afferrarla prima che cadesse a terra come una pera cotta.
«Oh, mio Dio.» sospirò, chiudendo gli occhi.
Okay, si ritrovò a pensare. Non dare di matto, tanto hai già accettato che lui sia un morto che cammina, un alieno venuto da un altro mondo e un essere soprannaturale che più far volare le cose con il pensiero. Perciò, che differenza fa avere un potere in più?
Il braccio saldo che le cingeva la vita le fece balzare il cuore in gola. La maglia le si era alzata sopra l’ombelico, mettendo in mostra la pelle bianca della pancia. Era in iperventilazione, non sapeva se per la sorpresa o per la vicinanza di Constantine.
«Perché… perché sei venuto?» gli chiese, tremante, incapace di muoversi.
Il braccio si strinse di più. «Ho avvertito come una sensazione di malessere. E mi è venuto in mente il tuo nome.» Lo disse come se fosse un’accusa. «Cosa è successo?» grugnì.
Aveva sentito il suo disagio? Possibile? Dovette sopprimere la voglia di alzare gli occhi al cielo. Ormai aveva problemi ad identificare ciò che era “possibile” da ciò che non lo era.
Aria inghiottì. «Non riesco… a trovare la mia amica. Non risponde al cellulare e non ha lasciato alcun messaggio. Non voglio preoccupare suo padre.»
«Dove l’hai vista l’ultima volta?» le chiese, tenendola ancora. Sembrava quasi restio a lasciarla.
«A scuola. Mi ha accompagnato stamattina, ma sono tornata da sola. Ora che ci penso…»
Tirò fuori dalla tasca il cellulare e controllò i messaggi. «Le ho mandato un messaggio mentre tornavo, ma non mi ha risposto.»
«Può darsi che sia con il suo ragazzo.» insinuò Constantine.
Aria si mordicchiò il labbro. «Forse, ma Sy non è il tipo da far preoccupare le altre persone. Mi avrebbe avvisata se fosse andata da qualche parte. Può anche aver litigato con suo padre, ma avrebbe usato me come intermediario per fargli sapere che stava bene.»
Alla fine, Constantine la lasciò andare. Aria sentiva la pelle sotto la maglia che aveva toccato formicolare, come se sentisse la mancanza del suo calore.
Constantine scrollò le spalle. «Allora vai a scuola. Se non risponde, vedi se qualcun altro l’ha vista e chiedi in giro se hanno notato qualcosa.»
Uscì dalla stanza e chiuse la porta alle spalle di Constantine. Lanciò un’occhiata alla porta del laboratorio e annuì.
«Andiamo.» sospirò. «Spero di far presto, prima che Xavier si accorga della mancanza di Sy.» Si avviò verso la porta d’ingresso, seguita da Constantine. «Non ho la patente, dovremmo andare a piedi.»
Constantine la afferrò, cingendola da dietro le spalle, e le sussurrò: «Chiudi gli occhi.»
Aria fece appena in tempo ad eseguire il suo ordine, prima di essere risucchiata in un vortice che la strattonò a destra e a manca, tirata verso l’alto come succhiata in un tubo. La presa di Constantine si rafforzò.
Pochi secondi prima, i piedi atterrarono pesantemente al suolo, duro sotto le suole delle scarpe, mentre il mondo cercava di riallinearsi con il suo asse e quel anche istante dopo, veniva trascinata all’indietro dalle braccia di Constantine, mentre uno stridore di pneumatici che solcavano l’asfalto fendeva l’aria.
Una nausea tremenda le assaliva lo stomaco, ma si costrinse a reprimere qualsiasi tentativo di conato, stringendo le labbra.
Il conducente dell’auto si affaccio. I lineamenti del Professor Drawn erano contratti dalla preoccupazione.
«State bene?» chiese loro. «Non so proprio come ho fatto a non vedervi.» si accigliò.
Visto che Aria non era in condizioni di rispondere, lo fece Constantine per lei.
«Stiamo benissimo, ci scusi.» affermò. «Non avremmo dovuto oltrepassare senza guardare la strada.» giustificò.
Il professore lo studiò per qualche secondo, per poi stringere le palpebre. «Sicuro…»
«Non si preoccupi.» Constantine strinse Aria al petto. «Provvederò io a lei.»
Dopo qualche secondo, l’uomo annuì. Rimise in moto e, dopo uno «state attenti la prossima volta» uscì dal parcheggio.
Constantine abbassò lo sguardo su Aria, che aveva gli occhi spiritati e il corpo tremante.
«La prima volta può dare un po’ fastidio.» le disse Constantine, per riscuoterla dal torpore.
«Davvero?» gli rispose Aria, tra i denti, sarcastica. Batté un paio di volte le palpebre e sospirò, abbassando la testa. Non poteva credere di averci quasi rimesso la pelle.
Dita calde le si arricciarono intorno al mento, alzandolo. «Stai bene?» le chiese Constantine, gentile, scrutando il suo viso pallido.
Tenendo gli occhi fissi nei suoi, la nausea iniziò a calmarsi fino a sparire del tutto, mentre un calore insolito e conosciuto insieme le invadeva lo stomaco, placando il tremore.
«Sì.» gli rispose. «Mi hai…» balbettò.
«Sì.» le disse.
«Come facevi a sapere che era la mia?»
«È l’unica scuola pubblica abbastanza vicina da essere raggiunta a piedi.»
«Ah.» Prese un bel respiro profondo. «Sta attento la prossima volta.»
Si schiarì la gola, avvampando, mentre un rosso acceso le colorava la faccia e il collo. Era stretta tra le braccia di Constantine, nel cortile della scuola, sotto gli occhi di tutti. Aveva già adocchiato un paio di tipe a bisbigliare, guardandola di sottecchi.
Di sicuro ne sarebbero usciti pettegolezzi a non finire…
Stai ancora lì a preoccupartene?, si rimproverò. Hai pubblicamente umiliato Carly, comportandoti come la peggiore lingua-lunga possibile e ti fai ancora intimidire dalle chiacchiere di corridoio?
Che parlassero, si disse.
Come per un segnale implicito, Constantine la lasciò andare e indietreggiò tanto da impedirle di sentire il suo calore corporeo.
«Dove vuoi cercare?» le chiese.
«Resti?» gli chiese, sorpresa, cercando di reprimere quel senso di contentezza che le ispirava il solo pensiero di averlo qualche altro minuto ancora.
Lui scosse le spalle. «Se dovessi spostarti ancora, ti sarei d’aiuto. E non ho altro da fare.» aggiunse dopo qualche secondo.
«Grazie mille, anche se credo che avrei dei problemi a… “viaggiare” di nuovo con te.» confesso, facendo le virgolette.
«Dopo le prime volte, va meglio.» la rassicurò lui.
Aria annuì, poco convinta. «Se lo dici tu.»
Andarono nella segreteria e aria chiese alla signora Flinn se aveva visto Sy quella mattina.
La donna scosse la testa. «Mi dispiace, tesorino, non l’ho vita.»
Mentre la donna fissava il monito del computer, cliccando un paio di volte, Aria aspettò, lanciando uno sguardo a Constantine. Si guardava intorno, a prima vista con aria indifferente, ma Aria riusciva a vedere infondo ai suoi occhi, coperti dal ciuffo scuro dei capelli, una voglia di esplorare l’edificio scolastico. Comprensibile, visto che non vi era mai entrato.
«A quanto pare non era presente alle lezioni pomeridiane, ma a quanto pare era giustificata.» la informò la signora Flinn.
«Chi l’ha giustificata?» chiese Aria, rivolgendo la sua attenzione alla donna.
«La professoressa Madlain. Aveva la penultima ora.»
«Dove posso trovarla?»
Altro click. «È andata via un decina di minuti fa.»
Aria sospirò, abbassando le spalle. «Grazie mille.»
Voltò le spalle alla donna e si avvicinò a Constantine, che stava studiando una bacheca di sughero con sopra una marea di volantini. Quello a cui lui era rivolta la sua attenzione era quella dello scorso anno, un poster della squadra di basket, capitanata da Jackson Kingston. Era felice mentre stringeva il pallone sotto il braccio e con l’altra aiutava il vicecapitano a reggere la coppa che avevano vinto al campionato scolastico.
 Ora che lo vedeva così sorridente, si ritrovò a pensare che era da un po’ che non gli vedeva quell’espressione sul volto. Si ricordò le volte, gli anni precedenti,in cui era seduto con i suoi compagni di squadra a scherzare e divertirsi nella pausa pranzo.
Invece, dall’inizio dell’anno era stato taciturno, serio. E non aveva più frequentato la squadra di basket.
Che fosse stato a causa del suo litigio con il compagno di squadra, Red Hawks?
Per intuizione, si girò verso la signora Flinn e chiese: «Mi può dire se oggi anche Red Hawks era assente?»
La donna, momentaneamente stranita, batté qualche tasto e poi le rispose, aggrottando la fronte: «A quanto pare, sì.»
Sospettosa, chiese alla donna di dirle se Chris era ancora a scuola.
«Sì, l’ho visti prima: stava andando in biblioteca come al solito.» sorrise lei.
«Grazie.»
Aria afferrò il braccio di Constantine, che era rimasto silenzioso accanto a lei, e lo trascinò in corridoio in direzione della biblioteca scolastica. Chris trascorreva molto tempo tra gli scaffali impolverati, preferendo i pomeriggi trascorsi a scuola che quelli passati a casa.
Chris le aveva accennato ad un cattivo rapporto con il proprio genitore e del suo sentirsi ferito dal distacco brusco del padre.
Lo trovò che leggeva un libro di astronomia, verso la fine della biblioteca.
«Ehi, Chris.» lo salutò lei.
L’amico abbassò il libro, scoccandole un’occhiata sorpresa. «Aria? Che ci fai qui? Non dovresti aver finito?» le chiese. Lanciò un’occhiata alle sue spalle. «E chi è lui?»
«È un amico.» glissò lei. «Chris, puoi dirmi…»
«Amico?» rimarcò lui. «E non me lo presenti?»
«Non adesso, Chris…» tentennò lei. «Sto cercando Sy. L’hai vista?»
«Perché la cerchi?» domandò Chris, accigliandosi. «È successo qualcosa?»
Aria si domandò se far preoccupare anche lui o meno. Meglio non destare sospetti.
«No, niente di importante. È solo che aveva detto che mi avrebbe accompagnata a casa e non è ancora tornata. E non ha risposto alle mie chiamate.»
Chris si agitò sulla sedia, evitando il suo sguardo. «Probabilmente sarà uscita con Red e il suo cellulare non prende.»
«Red non era presente oggi a scuola.» intervenne Aria. «Non può essersene andata con lui. Inoltre, la sua auto non è nel parcheggio.» lo informò.
Chirs posò il libro e si alzò. «Non preoccuparti, non le è successo niente.» la rassicurò. «Non conosco nessuno che sia responsabile quanto Sy.»
«Sì, ma…»
Chris la prese per le spalle e fece per afferrarla per le spalle.
Con uno scatto, Constantine si intromise tra loro, impedendo al ragazzo si toccarla. Chris si tirò indietro di scatto, lanciando uno sguardo interdetto in direzione di un’Aria confusa.
«Ehi, che succede?» chiese, alzando le mani. Il suo sguardo saettava da l’uno all’altro, cercando di capire in che modo quel tizio era legato ad Aria.
«Constantine…» sussurrò lei. «È tutto apposto. Non vuole farmi del male.»
«Certo che no!» s’indignò Chris. «Non alzerei mai le mani su una ragazza, soprattutto se è mia amica.»
«Se lo dici tu.» mormorò Constantine, tuttavia non si mosse.
La pulsione che lo spingeva a fare da barriera ad Aria non si era ancora allentata. Non avrebbe permesso a nessun altro di farle del male, anche se non sapeva spiegare per quale motivo.
«Comunque,» continuò Chris. «Sy sta bene, non preoccuparti.»
«Come puoi saperlo?» gli chiese Aria, accostandosi a Constantine, ancora fermo.
«Fidati.» le impose l’amico, lanciandole un’occhiata della serie “non fare altre domande tanto non rispondo”.
Aria si accigliò. «Che cosa mi stai nascondente? E perché mi nascondete le cose, tu e Sy?»
«Non ti stiamo nascondendo niente.» la rassicurò lui, alzando le mani. «Però posso dirti con certezza che è inutile preoccuparsi per lei. Torna a casa, tornerà presto.»
Aria si sentì ferita. Chris sapeva qualcosa che Sy gli aveva detto, eppure aveva escluso lei. Non aveva voluto metterla a parte dei suoi piani, o quello che stava facendo. Ma perché? Forse non si fidava di lei? Si sentì il petto oppresso da un senso di tradimento e sfiducia. Valeva così poco come amica?
«Andiamo, Constantine.» mormorò, sfiorando il braccio del phantom.
Il ragazzo la seguì fuori dalla porta della biblioteca, senza voltarsi indietro, perdendosi l’occhiata di dispiacere che solcò il viso di Chris.
 
 
*   *   *
 
Chistopher Alasdair’s POV
 
Appena le doppie porte della biblioteca si chiusero, Chris afferrò il suo cellulare e compose il numero di Sy ma, proprio come ad Aria, gli rispose la segreteria telefonica. Allora chiamò il professor Drawn. Sy glielo aveva dato insieme a quello della professoressa Madlain.
Il professore gli rispose al terzo squillo.
«Mi scusi, professore, mi chiamo Christopher Alasdair, sono un amico di Sylence Hill…»
«Aspetta un attimo.»
Sentì dei passi e poi il suono di una porta che si chiudeva.
«Che cosa è successo?» gli chiese Drawn.
«Ha notizie di Sy? È da un po’ che non la sento.»
«Ma certo, è in baita con la professoressa Madlain.»
«Baita?» si stupì Chris.
«Stanno partecipando ad una escursione...»
«Stanno?» lo interruppe, insospettito. «Chi altro è con lei?»
«Suoi compagni di corso.» sorvolò l’uomo.
«Scommetto che tra questi “compagni” ci siano anche Red Hawks, Jackson Kinghston e magari anche le gemelle Teesh.»
«Non credo come i componenti del gruppo possano importarle, signor Aladrair. I ragazzi sono in montagna a fare ricerche per un compito scolastico, questo è quanto. I genitori sono già stati avvisati e sono sotto la supervisione di un insegnate.»
«La professoressa Madlain, insegna matematica.» soggiunse Chris.
«Anche scienze, anche se non in questa scuola.»
L’insicurezza invase il ragazzo? Si era forse sbagliato? Sy gli aveva accennato ad un coinvolgimento dei professori e gli aveva dato il loro numero. Forse si era dimenticata di dir loro del suo ruolo di mascotte del Cerchio. E se avesse sbagliato a capire? Doveva riprovare?
«Professore…» tentennò. «Una mia amica se n’è appena andata, preoccupata perché non aveva notizie di Sy Hill. Io l’ho incontrata questa mattina, ma dopo è sparita e adesso lei mi dice che è ad una gita con i suoi compagni che, guarda caso, sono anche quelli con cui di recente ha iniziato a frequentare a pranzo, un gruppo chiuso che non permette a nessuno degli altri di avvicinarsi a loro.» Scosse la testa, anche l’uomo non poteva vederlo. Decise di tentare un’altra strada, azzardata, ma era una soluzione. «Professore, se le dicessi “Regina Bianca” e “Cerchio”, lei che cosa mi risponderebbe?»
Silenzio, sentiva solo il respiro dell’uomo, calmo e regolare. «C’è qualcosa che vuole dirmi, signor Alasdair?» chiese infine Drawn.
«Credo che debba essere lei a dover dire qualcosa a me.» chiarì Chris. «Che fine ha fatto il Cerchio?»
 
 
*   *   *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
 
Non sapeva che fare. non voleva arrendersi così, solo perché Chris le stava nascondendo qualcosa, ma si sentiva ferita dai segreti che Sy le teneva nascosti, ma che non aveva problemi a divulgare ad altri. Perché avrebbe dovuto parlarne con Chris, ma non con lei? Forse non si fidava abbastanza. Se non l’avesse rivista, non lo avrebbe mai saputo, ed era una cosa che non poteva accadere.
Chris aveva detto che non le era successo niente, ma non poteva saperlo di sicuro, giusto? Non era con lei, non sapeva cosa stava facendo o con chi era. O sì?
Argh! Scosse la testa, cercando di scrollarsi di dosso quel senso di impotenza che l’aveva invasa.
«Cosa hai intenzione di fare, adesso?» le chiese poi Constantine.
Girandosi a guardarlo, le lampeggiò in mente l’immagine di come si era comportato prima, frapponendosi tra lei e Chris. Aveva capito che il suo intento era quello di proteggerla, il suo viso era diventato inespressivo, come la notte che l’aveva salvata dai quei tipi, nel vicolo.
«Non lo so.» gli rispose titubante. «Per qualche ragione, Sy non ha voluto che sapessi dove sarebbe andata, né con chi o perché.» Fece una smorfia di tristezza. «Per quale ragione dovrei continuare a cercarla, quando è chiaro come il sole che non vuole essere trovata?»
«Quindi ti arrendi.» affermò.
Gli lanciò un’occhiataccia. «Non mi sto arrendendo!» protestò lei. «È solo che…»
«Sì che lo stai facendo.» insistette lui.
«Ti dico di no!» Aria si girò per affrontarlo. «Sy non vuole essere trovata, dice di essere mia amica, ma poi non mi racconta i suoi segreti, quando io gli ho detto i miei. Perché dovrei perderci altro tempo su questa faccenda?»
«Perché è tua amica.»
Aria non seppe cosa rispondere. Sì. Sylence era sua amica e le amiche si supportano a vicenda anche quando non era richiesto. E come tale si preoccupava per lei. Per la sua pace mentale, doveva sapere se Sy era al sicuro o meno. Fino a poco tempo fa era stata proprio Sylence ad aiutarla, ora toccava a lei ricambiare il favore.
Raddrizzò le spalle. «Anche se dovesse mandarmi a quel paese una volta che l’avrò trovata, voglio accertarmi che stia bene.» affermò. Raddrizzò le spalle. «Muoviamoci.»
Gli occhi di Constantine brillarono. «Dove vuoi andare?»
«Dalla signorina Madlain.»
 
 
*   *   *
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Il modo più veloce, ma non quello più semplice per arrivare al Lago era quello di attraversare la Foresta delle Anime Sole. Era un luogo nebbioso e stipato di alberi secchi e contorti, come mani scheletriche che allungavano le loro dita ossute e bianche verso il cielo a cercare la luce del Sole che non sarebbe mai soggiunta. L’aria era greve, soffocante, come una coperta d’umidità che ricopriva di patina la pelle che  mi fece rabbrividire.
Il ricordo instillatomi nella mente da mia Madre ci aveva condotti fin lì, in una traversata di quasi un’intera giornata. Eravamo stanchi, affaticati e non vedevamo l’ora di mangiare e bere. Avevamo riempiti gli zaini con le mele e, lungo il tragitto avevamo trovato un rivolo d’acqua fresca, così da rifornirci anche di acqua. Non avevo parlato tanto con gli altri, sia perché ero concentrata nel seguire in percorso segnatomi da mamma, sia perché non avevo granché da dire.
Ero ancora un po’ sconvolta da quello che mi era successo. Quello che più mi sconcertava era il fatto che mia Madre avesse collocato dentro di me quei ricordi e poi avesse dovuto farmi morire prima di averli. Perché non mostrarsi prima, tipo quando eravamo in biblioteca io e Red? Perché arrivare fino a LìosLand e poi farmi sapere che c’era un modo per raggiungerla?
Potevo capire che per intraprendere questo viaggio, avevo avuto bisogno di sostegno, di conoscere quelle che erano le mie potenzialità, il mio Talento, di dover incontrare il Cerchio per poter avere conferma della sua esistenza e della mia vera natura, ma avrebbe potuto mostrare segni di vita anche prima, no? Xavien mi aveva portato a spasso per il mondo appunto per cercarla. Come avrebbe reagito se avesse saputo che dentro di me c’era la chiave per trovarla?
«Questo posto mette i brividi.» mormorò Annika, stringendosi le braccia al corpo. «Sembra quasi che incomba si di te, come una spada di Damocle.»
Monika Annuì. «Concordo. È angosciante.» rabbrividì.
«Sei sicura che dobbiamo passare di qui?» mi chiese Jake.
Annuii. «O per di qui, o per le paludi.» gli dissi. «E credi, non ti piacerebbero. Il solo ricordo è…» Tremai di disgusto. «Bleach!»
«Quindi non abbiamo scelta.» concluse lui.
«Esatto.»
Scrutò quell’ammasso di tronchi e fumo. «Quanto ci metteremo? Ad attraversarlo, intendo.»
 Presi un respiro. «Questo dipenderà dalla foresta.»
Lui mi guardò accigliato. «Che cavolo vuoi dire?»
«Lo scoprirai.»
Mi avviai superando il primo filare di alberi. Fu come entrare in una cupola di umido, aria densa come acqua. Titubanti, anche gli altri mi seguirono. Mi sconcertava ancora la fiducia che mi accordavano.
«La Foresta delle Anime Sole.» commentò Rafe. «Perché si chiama così?»
Non si riusciva a vedere niente al di là dei due metri. «Questa foresta, come tutto il resto di questo Mondo, è invaso dall’Energia. Sulla Terra la chiamiamo Magia, ma qui è proprio quello che il suo nome dice. È puro flusso di elettroni, protoni e neutroni, neutrini e quanti, in un continuo scambio. Non si esaurisce, si moltiplica. Ogni Essere Vivente, ogni Albero o Pianta, ogni Roccia o Ruscello, tutto è Energia. Così come lo sono anche tutte le Creature di LìosLand. Noi umani siamo convinti che il corpo possegga un’Anima, qui che sia pervaso da Energia. Ma sono la stessa cosa. Così come l’Anima governa il corpo, come lo riempie di vita, così qui l’Energia pervade le membra e permette di esistere. Alla morte del corpo, l’Anima lo lascia, per raggiungere altre luoghi – Paradiso o Inferno che siano. Qui entrano nel Dàapht o nel Vybhros
«Questo cosa c’entra con la Foresta?» chiese Rafe, con la sua solita impazienza.
Sospirai. «A LìosLand c’è una… come chiamarla?... una clausola, una scappatoia che permette a due Anime Congiunte di poter entrare in uno dei due Luoghi insieme. È chiamato Nahany Dwrijh, l’Amore Infinito. È quel legame che si instaura tra due Anime che hanno condiviso tutto nella Vita: gioia, dolori, che si sono scambiati un Giuramento che non è mai venuto meno, che hanno deciso di unire le loro Essenze per crearne una nuova.»
«Due anime gemelle.» considerò Bastian.
«Non proprio. Gli essere umani non ne sono capaci fino in fondo. Sulla Terra, anche se una coppia rimane insieme fino alla morte, c’è sempre qualcosa che si sono tenuti nascosti: una mania, un pensiero scomodo, anche un’attività. Quello è amore. Ma i Lìos, una volta instaurato quel legame, non potranno mai più tenere nascosto quello che hanno nel cuore. Tutto è alla luce del sole, tutto è limpido. Niente bugie, niente segreti. E così anche dopo la Morte, essi si uniscono nel cammino verso l’Altro Mondo.» Sospirai. «Ma dopo l’Onda Scarlatta, molte Anime sono state separate e molte di loro non hanno conosciuto quel legame. È una volta sopraggiunta la Morte del Corpo, esse giungono qui, perché senza un posto dove andare, né in Paradiso, né all’Inferno.»
«Scusa, ma di solito quando uno muore non viene giudicato per quello che è e poi spedito in uno dei due posti?» chiese Rafe.
«Non sto parlando di giudicare. Parliamo di un sentimento che viene perso o mai conosciuto. Qui è dove giungono le anime prive di quel legame, non chi ha commesso omicidio o ha fatto una vita da santo.»
 Camminammo in silenzio, ognuno perso nei proprio pensieri. Red venne accanto a me e mi strinse la mano. Il legame che condividevo con lui era diventato così forte che ormai riusciva a leggere facilmente tutte le emozioni che mi pervadevano. Aveva sentito il mio dispiacere, la mia tristezza per quelle Anime che non avevano potuto vivere con la loro metà per il resto della loro vita. Ormai, lo avevo accettato come un dato di fatto. Quello che mi dava da pensare era perché mia Madre non mi aveva instillato anche la Conoscenza di quel Legame.
«Pensieri?» mi chiese.
«Credo di non aver ancora realizzato appieno tutto questo.» confessai, scuotendo la testa. «Voglio dire, okay, sono qui a LìosLand, sono morta e risorta come Gesù, sto per incontrare la madre che ho sempre cercato e che mi ha incasinato anche la vita, vi sto facendo correre un pericolo tremendo, è molto probabile che ritroveremo Reìrag e chissà quanti altri pericoli incontreremo. Potremo rimanere feriti gravemente o morire…»
«Ehi.»
Red mi prese per le spalle, infondendomi un senso di calma assolutamente benvenuto. Realizzare fino a che punto avevo condotto quei poveri cristi mi faceva sentire uno schifo.
«Sto diventando una maledetta femminuccia.» mi lamentai, provando disgusto per me stessa.
«Sy.» mi chiamò Annika. Si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. «Credo di parlare a nome di tutti quando ti dico che abbiamo tutti un cervello con cui pensare. Abbiamo riflettuto quanto te su questa cosa, abbiamo scelto di nostra spontanea volontà di seguirti, perché ansiosi come te di voler scoprire le nostre radici. I pericoli, le conseguenze che questo gesto potrebbe portare… Io e Monika siamo state una nottata intera a pensarci su, a valutare i pro e i contro… e come vedi siamo qui, con te, con il Cerchio.» Mi scrollò leggermente. «Non sei sola in tutto questo. Non considerarti responsabile per noi. Tu sei quella che ha dato moto a tutto, ma era un desiderio che noi avevamo espresso a noi stessi da tanto tempo, ma che non abbiamo mai avuto coraggio di realizzare.»
«Annika ha ragione.» intervenne Jake. «Tu hai agito per prima, ma tutti noi ti siamo venuti dietro per nostra scelta. Nessun obbligo, nessun ricatto, nessuna spinta. Solo libero arbitrio.»
«E tanta stupidaggine.» terminò Rafe facendoci ridere.
Nessuno aveva degli amici migliori dei miei.
 
*   *   *
 
Constantine’s POV
 
«È questa la casa.»
Tramite il cellulare, Aria era riuscita a recuperare, sul sito della scuola, l’indirizzo dalla casa della signorina Madlain. La casa in cui abitava era uguale a tutte le altre del viale, in stile coloniale, con il portico dalla ringhiera pitturata di bianco e vasi di fiori a profusione, i mattoni rossi e il tetto in ardesia.
 Nel vialetto era parcheggiata la Mini nera opaco e il tettuccio bianco della donna, per cui doveva essere in casa.
«Scusa se ti ho fatto camminare così tanto.» disse improvvisamente Aria.
Constantine si fermò a guardarla. E quella da dove era uscita? L’aveva accompagnata per sua scelta, per liberarsi da quel senso d’oppressione al petto. Quando lo aveva avvertito per la prima volta, quella mattina, gli era sembrato di essere stato colpito da una mazzata allo sterno. Per niente una bella sensazione. Poi aveva sentito nella sua testa un mormorio, un ronzio, che ripeteva sempre la stessa cosa: “va da lei”. Aveva capito subito a chi si riferiva, la voce.
«Mi sto lamentando?» replicò lui.
Arai batté le palpebre. «No.» rispose, perplessa. «Ma ti saresti evitato tutto questo casino se mi avessi mollata a scuola.»
«Mi sto lamentando?» ripeté il phantom.
Una luce particolare le scintillò negli occhi, abbagliando quelli di Con. Un sorriso luminoso le si distese sulle labbra. Lo sguardo di Constanti si fissò in quelle pozze verde foresta per poi spostarsi verso la sua bocca, una curva di labbra rosse e morbide, contorno seducente per la fila di denti bianchi.
«Grazie mille.» gli rispose.
Constantine ebbe voglia di assaggiarle, sapere se erano soffici come apparivano, se erano calde, che gusto avevano…
In tutto il tempo che era vissuto sulla Terra, niente gli era mai importato. Aveva vissuto la sua vita così come gliel’avevano servita, aveva lottato per la propria indipendenza, per la propria vita ed era sopravvissuto. Dopo aver compreso ciò che era, aveva deliberatamente lasciato perdere tutto quello che considerava di rilievo – amici, una casa, una famiglia –, aveva scelto di vivere come più gli piaceva e ne era stato contento… fino a poche settimane prima.
Aria non lo sapeva. Non doveva saperlo.
Osservò il contrasto tra la pelle lattea, cosparsa di macchioline dorate e la criniera di capelli rosso sangue.
Erano stati proprio quei nastri di quel colore insolito e accecante che lo aveva attirato al cimitero.
Ci era andato spesso dopo che se n’era andato dalla bettola in cui abitava, e girovagando senza meta, si era ritrovato davanti il cancello dell’Holy Safe Lansing Graveyard. Si era sentito attratto da quel luogo di pace e silenzio, dove non avrebbe sentito le urla di sua padre e le imprecazioni di suo madre, dove non ci sarebbe stato nessuno che avrebbe potuto prenderlo in contropiede e ferirlo, sia nel corpo che nello spirito.
Era rimasto a vagare tra loculi, tombe e cripte fino al calar del sole, e anche all’ora, quando ad una persona normale, il camposanto sembrava infestato e pauroso, a lui aveva infuso calma e quiete.
Aveva sviluppato una routine: di mattina andava in giro a sbirciare le tombe, raccogliere fiori per chi non li aveva e a buttare quelli ormai secchi, e di notte teneva d’occhio i cancelli, in caso di incursione da parte di qualche vandalo, come era capitato già più di una volta.
E proprio camminando tra le tombe, l’aveva scorta.
Il corpo scosso da singulti, la faccia affondata tra le mani e la testa china su una lapide. Una cascata rossa che svolazzava nel venticello di fine settembre. Ne era stato subito attratto.
Poi aveva sentito i suoi singhiozzi. Li aveva riconosciuti. Quando uno come lui passava la sua infanzia a cercare di mascherare il dolore, ad un tratto arrivi al punto di punto di rottura e devi in qualche modo espellere tutto il veleno che ti scorre in corpo.
E aveva riconosciuto il suono di quel piagnisteo, intriso di una particolare sofferenza: quella di un animo corroso da mani altrui, pieno d’impotenza e aberrazione, d’incomprensione, di bruttezza, di mancanza d’amore. Aveva avuto l’impulso irrefrenabile di avvicinarsi e l’aveva fatto.
E quando lei lo aveva scorto, si era ritrovato immerso in due pozze verde bosco, così lucidi di pianto e di dolore, che ne aveva riconosciuto l’affinità ai suoi.
Ecco perché si era trovato a salvarla dall’aggressione, perché si era preoccupato che lei mangiasse, che lei scoprisse quello che a nessun altro aveva mai fatto vedere, che le aveva fatto conoscere il vero Constantine.
«Entriamo?»
Aria si avviò verso la casa e Constantine si scosse da quei pensieri così lontani anni luce, eppure così vicini.
Pochi minuti dopo aver suonato il campanello, la porta si aprì.
La donna, bella nel suo semplice maglione e jeans, sorrise ad Aria lanciandole un’occhiata perplessa.
«Salve, ragazzi.»
«Scusi il disturbo, signorina. Sono Rosarianna O’Sheha, un’amica di Sy Hill.»
Constantine si accorse subito del cambiamento nella donna, dell’improvvisa rigidità delle spalle, dello sguardo diventato guardingo e il sorriso teso.
«Come posso aiutarti?» chiese la donna, gentile.
«Ecco, sono preoccupata per Sy.» incominciò Aria. «Mi hanno detto che l’avete giustificata perché andasse via, quindi pensavo che non si fosse sentita bene. Ma quando sono andata a casa, non l’ho trovata. Mi chiedevo se lei sapesse dov’è.»
Constantine rimase impressionato dalla facilità con cui inventò quella scusa. Aveva inventiva, la ragazza.
«Oh, è ad un’escursione!» esclamò la donna, come sollevata. «Il signor Drawn li ha accompagnati in montagna per studiare gli effetti del cambiamento di stagione sulla natura.» spiegò.
«Eh, davvero?» tergiversò Aria. «Ma avrebbe dovuto dire qualcosa almeno alla famiglia. Sa, suo padre…»
«Lo abbiamo avvisato noi.» intervenne la Madlain. «La scuola si è incaricata di avvisare tutti i genitori…»
«Tutti?» la interruppe Aria. «Credevo che fosse insieme a Red e basta. C’è qualcun altro insieme a loro?»
«Non si preoccupi, signorina…»
«No!» esclamò Aria. «Sono stufa di sentirlo in continuazione! La mia amica è sparita e a quanto pare non solo lei. Voglio delle risposte e le voglio adesso!»
Constantine ammirò la sua determinazione. Sembrava una lupa che protegge i suoi cuccioli.
Poi Aria si accigliò. «Aspetti un attimo.» disse, irrigidendosi. «Sono i montagna… con il professor Drawn?» Di scatto, si girò a guardarlo. «Com’era quello che ci ha quasi investito a scuola?» gli chiese.
La signorina Madlain sgranò gli occhi. «Vi hanno…»
«Com’era?» ripeté Aria.
«Corporatura massiccia, sulla quarantina, capelli neri, occhi verdi e voce potente, da baritono.» fu la sua esaustiva risposta di Constantine.
Arai assottigliò gli occhi, a quella risposta. Si girò verso la donna che aveva ormai lasciato perdere la faccia di finta gentilezza per una seria, circospetta.
«Se lei dice che il professor Drawn è in montagna con Sy e gli “altri”, come può essersi a scuola un uomo con le sue stesse fattezze?» mormorò alla donna. «Inoltre, c’è un’incongruenza nella firma dell’orario d’uscita. Lei ha firmato venti minuti fa, ma il suo orario è terminato alle tre, non alle quattro. E lo so, perché oggi avrei dovuto avere matematica applicata con lei, ma siamo usciti prima perché l’insegnate mancava. Ma com’è possibile visto che poi lei ha firmato l’orario d’uscita?»
La Madlain tacque.
«Sappiamo entrambe che sta nascondendo qualcosa, di molto grosso anche se ha avuto bisogno dell’aiuto di un altro professore, rischiando di finire nei guai.»
Constantine era rapito. Continuava a guardare Aria, cercando di ricordare se l’avesse mai vista così determinata, così combattiva. Era ammaliato dalla sua forza d’animo, dalla tenacia che stava esibendo per le sorti dell’amica.
Fu guardando lo scintillio negli occhi verde bosco che si rese conto di essere nei guai. Perché quella ragazza stava mettendo a soqquadro il mondo che fino ad ora aveva conosciuto e in cui aveva sempre vissuto, e non era del tutto certo che quello fosse un male.
Una macchina scusa si avvicinò al vialetto della casa coloniale, fermandosi vicino alla cassetta della posta. Dall’auto scese l’uomo che li aveva quasi investiti.
Constantine fece in tempo a vedere le spalle della professoressa crollare sotto il peso della sconfitta, prima che Aria facesse qualche passo in avanti, lanciandole un’occhiata di fuoco.
«Bomany perché mi hai chiamato? Avevi detto che era urgente.» commentò mentre risaliva il vialetto. Si fermò di colpo quando vide i due ragazzi davanti alla porta di casa della donna. Si accigliò. «Che sta succedendo?»
«Questo me lo deve dire lei, professore, visto che non dovrebbe essere qui.» affermò Aria. «Che è successo? Ha dimenticato lo zaino e la corda? In montagna servono sempre.»
 
 
*   *   *
Sylence Lillian Hill’s POV
 
«Sbaglio o la foresta sembra essersi richiusa su di noi?» chiese Jake.
Scossi la testa. «No, non sbagli.»
Strinse gli occhi, studiando la mia faccia. «Dimmi perché non sei preoccupata.»
Il mio sguardo vagò sulle forme sfocate degli alberi che si erano curvati intorno a noi, inghiottendoci tra le loro spire.
«Perché so già quello che sta per accadere. Ricordi?» Mi sfiorai la tempia. «È tutto qui dentro.»
«Sei un tantino spaventosa in questo momento, lo sai?»
Annuii rispondendo: «Non sai quanto. Non hai idea di quanta roba ho nel mio cervello in questo momento che preferirei non sapere.»
«Tipo cosa?»
«Te lo dirò un’altra volta.» sviai. «Non credo che questo sia il momento.»
Vibrazioni piene di Energia iniziarono a scivolarmi addosso, proprio come era successo nei pressi del Portare, sulla Terra. Piccoli assestamenti, come a dire che qualcosa si stava avvicinando.
Mi sentii stringere una spalla. «Lo senti anche tu, non è vero?» chiesi a Red.
Lui annuì, spostandosi davanti a me, facendomi da scudo. «Cos’è?»
Alzai gli occhi al cielo. «Non succede niente, Red.»
«Se lo dici tu.» commentò, ma non si spostò.
Le vibrazioni si fecero più forti, tanto che anche i rami ricurvi intorno a noi iniziarono a ronzare, scossi da tremolii continui. Poi si avvertì uno schiocco, come quando un elastico teso viene lasciato di scatto, e l’aria densa di nebbia davanti a noi si contorse, espandendosi e contraendosi.
Quei movimenti sinuosi mi ricordarono Reìrag e i suoi portali, incutendomi timore: infatti, anche gli altri vennero assaliti dalla paura, ma imposi loro di calmarsi.
«Avevi detto che non ci avrebbe fatto del male.» protestò Jake, mentre stringeva Annika, che si era rifugiata tra le sue braccia.
«No, non l’ho fatto.»
«Ci hai messo deliberatamente in pericolo!?» mi gridò contro.
Ahia. Quella mancanza di fiducia mi fece male. Lo guardai, lasciando vendere quanto quella domanda mi aveva ferita.
«Credi che lo farei?» gli chiesi. «Dopo tutto questo, credi che farei mai una cosa del genere?»
Vidi il suo viso irrigidirsi, mentre nei suoi occhi apparve il rimorso per avermi accusata ingiustamente.
Riportai lo sguardo davanti a me. L’aria era quasi al punto di rottura, giusto qualche secondo e poi con un altro schiocco, più forte dell’altro, e davanti a noi apparve una forma. Indistinta come la nebbia, eppure solida, tridimensionale.
La sagoma di una donna.
Essa non aveva volto, nascosto sotto un cappuccio, anch’esso fatto di nebbia e fumo, come il resto del corpo, che ondeggiava come un’illusione provocata dal caldo sull’asfalto.
La sua voce, un eco sussurrato nelle nostre menti. «Er este bhà?» ci chiese nell’Antica Lingua. Chi è là?
«Chiediamo perdono, per aver disturbato il Sonno delle Anime Andate, ma porgiamo una richiesta di passaggio per il vostro Luogo al fine di raggiungere la Madre delle Madri, al lago di Thaùrm.» le dissi ossequiosa. Rimasi stupida da me stessa: non avevo mai parlato in quel modo, antiquato e composto, ma nella mia testa si era messo in modo un meccanismo automatico sfornando parole su parole, senza che io me ne accorgessi.
«Chi porge la sua richiesta?» ribatté l’Anima.
«Pongo i saluti a nome del Cerchio di Lansing. Io sono Sylence Hill, membro del Cerchio e… figlia della Regina Bianca.»
All’improvviso, migliaia di fuochi fatui, o quelli che sembravano tali, spuntarono come funghi intorno a noi, aumentando il volume dei lamenti intorno a noi ad un livello assordante. Red mi spinse dietro la sua schiena, circondandomi con le braccia.
Cercai di non preoccuparmi. Mamma mi aveva dato un suggerimento importante, quando mi aveva trasmesso questo ricordo: non intimoriti, prova pietà e compassione e passa oltre.
Lo avrei fatto.
«Sy, puoi spiegarci…?» chiese Jake.
«Le ho detto il mio nome.»
«E allora?»
Non gli risposi. Non sapevo cosa dire. Mia Madre non mi aveva avvisato di questa probabilità. Spinsi un po’ contro la spalla di Red per spostarlo il tanto che bastava per vedere la donna che alzava una mano fumosa. Le Anime parvero calmarsi: smisero di vibrare e i lamenti si attenuarono.
«Quale impulso ha spinto la figlia di Colei che ci ha guidato a calpestare il Sacro suolo del nostro Bosco?» chiese ancora la donna.
«Desidero incontrarla.» risposi. «Anelo a conoscere, per la prima volta in vita mia, la Donna che potrei chiamare Madre.»
«Dunque Tu non hai mai intrattenuto rapporti con Lei?» continuò la donna.
Scossi la testa. «Purtroppo no.»
La donna parve riflettere. Il suo capo si spostò leggermente, soffermandosi su Red.
Infine si girò verso i fuochi fatui. «Ella non è Colei che crediamo. Il suo Animo è puro e lo condivide con Lui.» Le luci fluttuanti la circondarono come ad abbracciarla. «Non attenterà al nostro Luogo, né a Noi.»
Quando sentii quelle parole incominciai a rilassarmi. Mi girai verso gli altri.
«Sembra che sia tutto apposto.» sussurrai.
«Sicura?» chiese Jake.
Annuii. «Dipenderà tutto da quello che dirà lei.» chiarii, indicando la donna-fantasma.
La donna mormorò qualcosa di incomprensibile alle Anime ed esse, ad una ad una, iniziarono a spegnersi, fino a sparire del tutto.
La donna fluttuò verso di noi. Si fermò davanti a Red, che di tese come una corda di violino.
«Calma il tuo Animo, Mijhack, non arrecherò danno alla tua Tamyha.» affermò la donna, parlando inglese per la prima volta. Credo che lo fece soprattutto a beneficio di Red.
Mi parve strano sentir chiamare Red giovane uomo, ma mi lasciò ancor più stranita il fatto che mi aveva definita la sua Metà.
«Anche io come te attendevo l’arrivo della mia Anima Complice, di Colui che avrebbe reclamato io mio Cuore.» Anche se non potevo vedere il suo viso, percepivo la tristezza che la invase, rivangando i ricordi. «Ma il Destino ci ha precluso tale esito.» Spostò il capo tra me e Red. «Non prendete sotto gamba ciò che il Fato ha voluto per Voi. Chi trova la sua Metà è destinato a vivere una Vita piena.»
La donna fluttuò accanto ad un albero e posò la mano contro la corteccia biancastra. L’Energia scaturì dal suo palmo, pervadendo il tronco e le radici. D’un tratto, la foresta non apparve più oppressiva, non ci incombeva più addosso, e i rami contorti si distesero verso l’alto, aprendo la volta che ci aveva coperto fino a quel punto.
«Il Passaggio vi sarà concesso.» annunciò la donna, abbassando il braccio. «Seguite il sentiero, non inoltratevi in altre strade poiché vi porteranno nell’Ignoto e non potrete più trovare Casa.»
Posai una mano sulla spalla di Red. Si voltò a guardarmi e io annuii. Lanciai un’occhiata a Jake che, tenendo la mano ad Annika, ringraziò con un cenno del capo la donna e la oltrepassò, seguito dagli altri.
Red intrecciò le dita alle sue e mi trascinò in avanti, ma lo trattenni per qualche altro secondo.
Mi girai a guardare la donna che stava per inoltrarsi nella nebbia. «Qual è il tuo nome? E quello del tuo amato?» le chiesi.
Il cappuccio si voltò, osservandomi da sopra una spalla. «Qual è la ragione di tale domanda?»
Scrollai le spalle. «Curiosità.»
Una pausa. «Breezah. Era quello il mio nome.» Chinò il capo. «Lui era Gahareìr.»
La sua figura di fece indistinta fino a scomparire, amalgamandosi con la nebbia.
 
 
*   *   *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
I professori continuavano a scambiarsi occhiate, parlando senza dire una parola, innervosendo tantissimo Aria. Le tremavano le mani tanto era la voglia di colpire qualcosa. Non aveva mai auto istinti omicidi – a parte per i suoi genitori, s’intende – ma in qual momento aveva una voglia pazzesca di fare del male a qualcuno.
«Adesso basta.» sbottò. «Se in cinque secondi non mi dite che cosa avete fatto a Sy e a chiunque altro, chiamerò la polizia. Spiegate a loro perché avete mentito ai genitori dei vostri alunni, magari mettendoli in pericolo.»
La signorina Madlain sospirò, abbassando le spalle. «Mikah…» iniziò, scuotendo la testa.
«Bonamy.» l’interrupe lui. «Tanto vale dirglielo. Per di più, guarda con chi è. Qualcosa mi dice che non ne rimarrà tanto sconvolta.»
Aria si accigliò, lanciando uno sguardo a Constantine: lui era occhi negli occhi con il professore, quasi stessero ingaggiando una lotta solo con lo sguardo, cercando di penetrarsi la mente a vicenda. Si stavano riferendo a lui? Che cosa sapevano? E come facevano a saperlo?
«Come vuoi tu, Mikah.» sospirò la donna, facendosi da parte. «Ma ti prenderai tu qualunque tipo di responsabilità.»
Il professore annuì, distogliendo lo sguardo da Constantine per entrare in casa con la professoressa.
Aria guardò con ansia Constantine che, prendendola per un gomito, la condusse all’interno della casa.
Era un posto accogliente, con mobili di legno bianco e marrone chiaro, pieno di pizzi e tende di cotone, vasi di fiori e profumo di lavanda sparso dappertutto.
La Madlain li condusse nel salotto, un posto spazioso con un divano di pelle bianca e un tappeto di pelliccia finta.
Li fece accomodare. «Incominci tu?» chiese al professore.
L’uomo annuì. «Prima di tutto, voglio sapere che cosa ci fa una mia annulla con uno come lui.» affermò.
Aria si accigliò per il modo in cui si riferì a Constantine, come se fosse… beh, non le piacque per niente.
«Constantine.» affermò ferma la ragazza, fulminando l’uomo. «Il suo nome è Constantine.»
«Beh, vorrei sapere come fa a conoscerlo.» insistette lui.
«Lei come fa?» ribatté Aria.
L’uomo incrociò le braccia al petto, gonfiando minaccio i bicipiti. «Io non so chi sia, ma so cos’è
Aria lanciò un’occhiata a Constantine, afferrandogli una mano. I due adulti si accorsero del gesto e si accigliarono.
«Che cosa sapete voi di Constantine? Da dove proviene? Come vi siete accorti di lui? E soprattutto perché sapete di lui?» chiese a profusione.
«Loro sono come me.» mormorò Constantine.
Aria lo guardò sgranando gli occhi.
«Non proprio come me, ma… sono diversi.»
Il professor Drawn annuì, studiandolo con attenzione. «Anche tu senti la nostra Energia. Così come noi sentiamo la tua.»
«Ma voi non siete come me.» ribatté il ragazzo.
«No.» confermò la Madlain. Si scambiò uno sguardo con il professore. «È da un bel po’ di tempo che non mi capita di vedere un phantom
Aria non poté fare altro che guardarla allibita. «Che cosa sapete?» chiese, quasi senza fiato dall’emozione.
«A parte le cose basilari? Che è il primo della sua specie che incontriamo qui sulla Terra. Ed è ancora più strano averlo incontrato dopo tanto tempo. Stiamo perdendo la mano, Bonamy.» sospirò il professore.
«Non credo, Mikah.» contraddisse la donna. «Il problema è che lui ha mascherato bene le sue tracce, o qualcuno lo ha fatto per lui. Riesco ancora a sentire la puzza d’alcol stantio e di marcio che permea la sua pelle.» La donna rivolse uno sguardo di compassione al ragazzo. «Non devi aver avuto una vita facile, se sei diventato quello che sei in giovane età.»
Aria percepì il corpo di Constantine irrigidirsi, respingendo in automatico quel tentativo di psicoanalisi. Si ritrovò a stringergli il braccia appoggiandosi a lui con il corpo, infondendogli il suo calore.
Il professore emise un lamento, guardando il gesto. «Ti prego, non dimmi che l’hai legata a te.» lo supplicò, passandosi una mano tra i capelli per la frustrazione.
«Mikah…» tentò la professoressa.
«Deve saperlo, Bonamy!» esclamò. «Prima che sia troppo tardi.»
Aria aveva timore di chiedere, ma lo fece lo stesso, visto che Constantine non si decideva a farlo. Anzi, sembrava diventato un pezzo di ghiaccio.
«Di che cosa state parlando?»
«Del Bound.» affermò l’uomo. «Il legame che si instaura tra un phantom e la sua compagna. Un legame che neanche la morte può spezzare.» Sospirò. «Un legame che si è già creato tra voi due.»
Aria si sentì arrossire fino alla radice dei suoi capelli già rossi. Va bene che le piacesse Constantine – era inutile nascondere la cosa, era troppo palese – ma che fosse anche la sua compagna? No. Non poteva essere. Si conoscevano fa quanto? Due settimane? Qualcuna in più. Era troppo presto. Inoltre… se Constantine non provasse quello che provava lei? Ci sarebbe rimasta molto male, ma era partita già con quel presupposto… però se aveva instaurato quel legame… No, non poteva assolutamente essere.
«Non c’è un modo per scioglierlo?» Si pentì immediatamente di quella domanda. «Voglio dire… se si è creato c’è anche un modo per toglierlo.» No, così peggiorava le cose. Non aveva neanche il coraggio di guardare Constantine in faccia. «No! Insomma, come si è creato?» si decise a chiedere infine, abbassando gli occhi.
Il professore scosse la testa. «Non è qualcosa che nasce, come l’affetto, o altro. È un qualcosa di già prestabilito. Ogni phantom ha la sua compagna, ma non è sicuro che la trovi. Inoltre, un legame di tale portata non può essere ignorato, né si farà ignorare. Si farà sentire in qualunque modo, tramite i pensieri, o i gesti, o le emozioni.» spiegò.
Aria non sapeva che dire. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non aveva coraggio sufficiente ad analizzare quell’improvvisa piega degli eventi. Era andata lì per un altro motivo e non si sarebbe lasciata distrarre. Avrebbero approfondito il discorso di Bound, legami e quant’altro in un altro momento.
«Scusatemi, non per qualcosa, ma io voglio sapere dov’è Sy.» chiese.
Dopo un altro scambio di occhiate, la professoressa Madlain si rivolse a lei dicendo: «Ci sono molte cose che non sai della nostra città e su quello che nasconde. E tutto è legato in modo intrinseco a Sy…»
Aria rimase sbalordita da quello che le dissero i professori. Certo, era passata per un phantom e tutti gli aspetti che questo comportava, ma… elfi, magia, altri mondi? Mio Dio, c’era da ricoverarsi in psicoanalisi. Eppure, dalle loro parole, nella sua mente scaturirono una serie di piccoli flash, che le confermarono che tutta quella storia era vera: i ricordi della scampagnata, quella che lei credeva essersi svolta nei migliori dei modi e che, invece, era andata a finire in un altro modo.
L’attacco di quel mostro pieno di simboli neri, la sua amica si che parlava una lingua strana… e Chris che invece era rimasto al suo fianco, e che quindi conosceva l’intera storia.
Ecco perché le aveva risposto in modo evasivo, ecco quello che Sy le aveva nascosto.
Si sentì ferita. Perché Sy non l’aveva messa a parte di tutte quelle cose, invece di farle in lavaggio del cervello? Perché aveva scelto di dire a Chris quello che avrebbe potuto dire a lei? Si preoccupava di essere giudicata? Oppure non la riteneva adatta ad essere parte di quel segreto? Era così poco degna di essere sua amica?
Non si accorse di avere le lacrime agli occhi fino a che non sentì le mani calde di Constantine che le stringevano il viso con delicatezza e le cancellava le scie salate dalla guance.
«Perché?» singhiozzò. «Perché non ha voluto dirmelo?»
«Credo che lo abbai fatto per proteggerti.» mormorò lui, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte. «Pensaci. Se quel mostro fosse tornato, avrebbe attaccato tutti quelli a cui la tua amica vuole bene, inclusa te.»
«Oh.» Non riuscì a dire altro. Non l’aveva pensata così. Non le era mai passato per la mente che potesse essere per un motivo altruistico che Sy non glielo avesse rivelato.
«Se avessimo saputo che c’era un phantom in città…» si rammaricò il professore d’un tratto.
La signorina Madlain era d’accordo. «Avremmo risparmiato molto tempo.»
«Che volete dire?» chiese Constantine.
«Beh, mio caro phantom, significa che tu sei il nostro lascia passare per LìosLand.» Rise della loro faccia perplessa. «I portali – o la maggior parte di essi – sono sotto stretta sorveglianze e protetti da un incantesimo di sangue che non permette a quasi tutte le specie viventi di oltrepassarle. Quello in cui il Cerchio è passato aveva un blocco contro di noi e se anche fossimo riusciti ad oltrepassarlo, ci avrebbe spediti dritti nelle fauci del lupo, se mi passate il gioco di parole.»
«Purtroppo quello era l’unico portale che abbiamo mai trovato e, ora come ora, non ci servirebbe a niente trovarne un altro, perché non potremmo lo stesso oltrepassarlo. Ma tu,» disse miss Madlain indicando Constantine. «Non avresti mai in questo problema, grazie al trasfert. Fu proprio per questo vostro potere che foste perseguitati fino all’estinzione, per impedire a qualsiasi altro di entrare e uscire liberamente da LìosLand
Un silenzio tombale cadde nella stanza. Ad aria parve quasi che Constantine avesse smesso di respirare.
«Vuole dire…» sussurrò il ragazzo. «Che io…»
Con rammarico, la donna annuì. «Per quanto ne sappiamo, tu potresti essere l’ultimo della tua specie. Mi dispiace.»
Ad Aria venne voglia di piangere di nuovo. Aveva intuito da come ne aveva parlato, il desiderio di Constantine di voler incontrare la sua vera famiglia, o almeno qualcosa di simile a lui. Il non poter più fare anche avendo al possibilità di tornare al luogo a cui apparteneva era orribile.
«Comunque non si può essere certi al cento per cento.» soggiunse il professore. Tirò su col naso, in modo brusco e scosse la testa, ma Aria colse lo stesso lo scintillio dei suoi occhi umidi. «Chi può sapere se altri phantom abbiano lasciato il loro mondo per un altro prima di essere catturati o peggio?» Guardò Constantine negli occhi. «C’è sempre una speranza ragazzo. Non dimenticarlo mai.»Capitolo 39
 
Niente è come sembra
 
 
Mi subissarono di domande. Cos’era successo era quella più frequente. Con la lingua ancora un po’ attaccata, balbettai quello che mi era successo, mentre ancora ero tra le braccia di Red.
Dopo… non saprei come definirlo, quella libera espressione dei nostri reciproci sentimenti – stavamo pomiciando alla grande, ma meglio metterla in modo filosofico, mi faceva sentire meno una fiaccola ambulante – mi aveva riportato in braccio dagli altri. Le terminazione nervose erano apposto, ma i muscoli erano ancora atrofizzati o giù di lì.
Le reazioni del Cerchio mi aveva riempito di calore. Annika e Monika erano venute ad abbracciarmi e Rafe aveva stretto tutte e tre in una morsa d’acciaio. Red si era rifiutato categoricamente di mollarmi, quindi si era ritrovato nel mezzo della tenaglia. Jake era venuto a stringermi una spalla, una o due lacrime di felicità che gli avevano solcato le guance. Bastian invece era stato così contento che aveva fatto un salto, gridando un “evviva, avevo ragione” di contentezza.
Divorai una mela, tanto ero affamata, e bevvi un’intera bottiglietta d’acqua. Quando chiesi a Red di mettermi giù, mi lanciò un’occhiata di traverso, dicendo che tutto voleva al di fuori di lasciarmi andare – perfettamente d’accordo –, ma mi permise di appoggiare i piedi a terra e tenermi equilibrio usando lui come appoggio.
«Ce la fai?» mi chiese.
«Certo.» gli dissi, scostandomi. Costrinsi le mie gambe a reggermi. Era bello reggersi a lui, ma… insomma, non ero una mammoletta. Basta fare al principessa svenevole.
«Per quanto tempo sono rimasta… bloccata?» chiesi.
«Quasi un’ora.» rispose Bastian. Mi si avvicinò con i palmi rivolti verso me. «Ferma.» mi ordinò.
Mi ispezionò da capo a piedi, il suo Talento mi attraversò come acqua fresca, rinvigorendo i muscoli tesi e rigidi, rilassandoli, riportandoli allo stato naturale, elastici e mobili.
Sospirai di piacere. «Grazie mille, mi serviva proprio fare un viaggetto alla Bastian S.P.A.
Scoppiò a ridere. «Questa è la prova inconfutabile che è tornata la nostra vecchia Sy.»
«Credimi, è un piacere anche per me.» Tornai seria. Guardai Jake. «Abbiamo un bel po’ di cose da fare se vogliamo arrivare lì.» Accennai alle Montagne. «Diamine, non sarà per niente facile.»
Il Cerchio si scambiò uno sguardo. Jake mi posò un mano sulla spalla. «Chiave
Fu tutto quello che disse. Ma fu quello che non disse a farmi sorgere un’inaspettata voglia di piangere di gratitudine. Mi sentii invadere da un profondo senso d’affetto e determinazione. Era fiducia incondizionata, la libera disposizione delle future azioni del Cerchio, la responsabilità della loro sopravvivenza.
Chiusi gli occhi, imponendomi di non essere di nuovo una fontana e li riportai su Jake.
«Dobbiamo andare da mia Madre.» dichiarai. «Al lago di Thaùrm.»
 
 
*    *    *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
 
«Credo che sia meglio separarci qui.» disse Aria. Si pentì subito. «No! Volevo dire, insomma…»
Non hai speranze, sorella. Scava una buca e sotterrati, io vado in pensione.
Ma Constantine non la stava guardando. Scrutava con occhio attento la casa di Sy, come a voler passare attraverso le mura.
«Che succede?» gli chiese Aria.
Lui aggrottò leggermente la fronte, assottigliando lo sguardo. «Chi abita qui?»
«Ehm… la mia amica Sy, con suo padre. Perché?»
Con scosse la testa. «Niente.» Si voltò verso di lei. I suoi occhi bicolore le  sfiorarono il viso, indugiando su una ciocca di capelli che le si arricciava lungo la mascella. «Ci vediamo.»
Veloce, le girò le spalle e, mani in tasca, si allontanò.
Fu così svelto che Aria si bloccò con una mano a mezz’aria. Era perplessa dalla rapidità con cui Constantine l’aveva liquidata.
Sospirò. «Ciao.» disse, agitando inutilmente la mano.
Entrò in casa, trovandola silenziosa. Aveva voglia di raccontare a Sy quella che le era successo – salvo dettagli più fantascientifici – e andò in camera sua.
Era vuota. La sua borsa era lì, il letto era sfatto dalla mattina.
Uscì in corridoio, provò a chiamarla sul cellulare, ma le rispose la segreteria telefonica.
Iniziò a preoccuparsi. Lanciò un’occhiata alla porta del laboratorio. Doveva avvisare Xavien? Ricordava ancora il litigio che aveva sentito tra i due, nascosta in camera sua. Non aveva capito bene cosa si fossero detti, ma alla fine Sy era uscita di casa sbattendo la porta e Xavien era tornato nel laboratorio.
Non sapeva cosa fare.
Andò in camera sua e si sedette sul letto. Che fare? Dirlo a Xavien? E se Sy voleva stare da sola? Di sicuro si sarebbe arrabbiata. Dio, era inutile quanto un cd rotto. Non sapeva come comportarsi in qualsiasi situazione. Non ci si era mai trovata, non sapeva comportarsi come un’amica.
Un’ombra le comparve alle spalle. Un brivido le corse lungo la schiena.
Sapeva chi era. Prima ancora di girarsi.
Constantine si stagliava contro la luce proveniente dalla finestra, un alone che lo faceva sembrare un angelo. Un angelo arrabbiato, considerò, guardando al sua fronte aggrottata sugli occhi inquieti.
«Perché mi hai chiamato?» le chiese.
Aria scosse leggermente la testa. «Non l’ho fatto. Io…» Sbatté le palpebre. «Come hai fatto ad arrivare qui?» soffiò.
«Transfert
Gli occhi nero-ghiaccio brillarono, un attimo prima di sparire. Aria si alzò di scatto dal letto, la mani protese in avanti, quasi a voler afferrare il corpo che era appena scomparso.
Incespicò all’indietro andando a sbattere contro la porta. No, non era la porta. Le porte non sono calde e non respirano.
Lentamente, girò la testa fino ad incontrare un paio di occhi bicolore. Le gambe, già tremanti, le cedettero del tutto, costringendo Constantine ad afferrarla prima che cadesse a terra come una pera cotta.
«Oh, mio Dio.» sospirò, chiudendo gli occhi.
Okay, si ritrovò a pensare. Non dare di matto, tanto hai già accettato che lui sia un morto che cammina, un alieno venuto da un altro mondo e un essere soprannaturale che più far volare le cose con il pensiero. Perciò, che differenza fa avere un potere in più?
Il braccio saldo che le cingeva la vita le fece balzare il cuore in gola. La maglia le si era alzata sopra l’ombelico, mettendo in mostra la pelle bianca della pancia. Era in iperventilazione, non sapeva se per la sorpresa o per la vicinanza di Constantine.
«Perché… perché sei venuto?» gli chiese, tremante, incapace di muoversi.
Il braccio si strinse di più. «Ho avvertito come una sensazione di malessere. E mi è venuto in mente il tuo nome.» Lo disse come se fosse un’accusa. «Cosa è successo?» grugnì.
Aveva sentito il suo disagio? Possibile? Dovette sopprimere la voglia di alzare gli occhi al cielo. Ormai aveva problemi ad identificare ciò che era “possibile” da ciò che non lo era.
Aria inghiottì. «Non riesco… a trovare la mia amica. Non risponde al cellulare e non ha lasciato alcun messaggio. Non voglio preoccupare suo padre.»
«Dove l’hai vista l’ultima volta?» le chiese, tenendola ancora. Sembrava quasi restio a lasciarla.
«A scuola. Mi ha accompagnato stamattina, ma sono tornata da sola. Ora che ci penso…»
Tirò fuori dalla tasca il cellulare e controllò i messaggi. «Le ho mandato un messaggio mentre tornavo, ma non mi ha risposto.»
«Può darsi che sia con il suo ragazzo.» insinuò Constantine.
Aria si mordicchiò il labbro. «Forse, ma Sy non è il tipo da far preoccupare le altre persone. Mi avrebbe avvisata se fosse andata da qualche parte. Può anche aver litigato con suo padre, ma avrebbe usato me come intermediario per fargli sapere che stava bene.»
Alla fine, Constantine la lasciò andare. Aria sentiva la pelle sotto la maglia che aveva toccato formicolare, come se sentisse la mancanza del suo calore.
Constantine scrollò le spalle. «Allora vai a scuola. Se non risponde, vedi se qualcun altro l’ha vista e chiedi in giro se hanno notato qualcosa.»
Uscì dalla stanza e chiuse la porta alle spalle di Constantine. Lanciò un’occhiata alla porta del laboratorio e annuì.
«Andiamo.» sospirò. «Spero di far presto, prima che Xavier si accorga della mancanza di Sy.» Si avviò verso la porta d’ingresso, seguita da Constantine. «Non ho la patente, dovremmo andare a piedi.»
Constantine la afferrò, cingendola da dietro le spalle, e le sussurrò: «Chiudi gli occhi.»
Aria fece appena in tempo ad eseguire il suo ordine, prima di essere risucchiata in un vortice che la strattonò a destra e a manca, tirata verso l’alto come succhiata in un tubo. La presa di Constantine si rafforzò.
Pochi secondi prima, i piedi atterrarono pesantemente al suolo, duro sotto le suole delle scarpe, mentre il mondo cercava di riallinearsi con il suo asse e quel anche istante dopo, veniva trascinata all’indietro dalle braccia di Constantine, mentre uno stridore di pneumatici che solcavano l’asfalto fendeva l’aria.
Una nausea tremenda le assaliva lo stomaco, ma si costrinse a reprimere qualsiasi tentativo di conato, stringendo le labbra.
Il conducente dell’auto si affaccio. I lineamenti del Professor Drawn erano contratti dalla preoccupazione.
«State bene?» chiese loro. «Non so proprio come ho fatto a non vedervi.» si accigliò.
Visto che Aria non era in condizioni di rispondere, lo fece Constantine per lei.
«Stiamo benissimo, ci scusi.» affermò. «Non avremmo dovuto oltrepassare senza guardare la strada.» giustificò.
Il professore lo studiò per qualche secondo, per poi stringere le palpebre. «Sicuro…»
«Non si preoccupi.» Constantine strinse Aria al petto. «Provvederò io a lei.»
Dopo qualche secondo, l’uomo annuì. Rimise in moto e, dopo uno «state attenti la prossima volta» uscì dal parcheggio.
Constantine abbassò lo sguardo su Aria, che aveva gli occhi spiritati e il corpo tremante.
«La prima volta può dare un po’ fastidio.» le disse Constantine, per riscuoterla dal torpore.
«Davvero?» gli rispose Aria, tra i denti, sarcastica. Batté un paio di volte le palpebre e sospirò, abbassando la testa. Non poteva credere di averci quasi rimesso la pelle.
Dita calde le si arricciarono intorno al mento, alzandolo. «Stai bene?» le chiese Constantine, gentile, scrutando il suo viso pallido.
Tenendo gli occhi fissi nei suoi, la nausea iniziò a calmarsi fino a sparire del tutto, mentre un calore insolito e conosciuto insieme le invadeva lo stomaco, placando il tremore.
«Sì.» gli rispose. «Mi hai…» balbettò.
«Sì.» le disse.
«Come facevi a sapere che era la mia?»
«È l’unica scuola pubblica abbastanza vicina da essere raggiunta a piedi.»
«Ah.» Prese un bel respiro profondo. «Sta attento la prossima volta.»
Si schiarì la gola, avvampando, mentre un rosso acceso le colorava la faccia e il collo. Era stretta tra le braccia di Constantine, nel cortile della scuola, sotto gli occhi di tutti. Aveva già adocchiato un paio di tipe a bisbigliare, guardandola di sottecchi.
Di sicuro ne sarebbero usciti pettegolezzi a non finire…
Stai ancora lì a preoccupartene?, si rimproverò. Hai pubblicamente umiliato Carly, comportandoti come la peggiore lingua-lunga possibile e ti fai ancora intimidire dalle chiacchiere di corridoio?
Che parlassero, si disse.
Come per un segnale implicito, Constantine la lasciò andare e indietreggiò tanto da impedirle di sentire il suo calore corporeo.
«Dove vuoi cercare?» le chiese.
«Resti?» gli chiese, sorpresa, cercando di reprimere quel senso di contentezza che le ispirava il solo pensiero di averlo qualche altro minuto ancora.
Lui scosse le spalle. «Se dovessi spostarti ancora, ti sarei d’aiuto. E non ho altro da fare.» aggiunse dopo qualche secondo.
«Grazie mille, anche se credo che avrei dei problemi a… “viaggiare” di nuovo con te.» confesso, facendo le virgolette.
«Dopo le prime volte, va meglio.» la rassicurò lui.
Aria annuì, poco convinta. «Se lo dici tu.»
Andarono nella segreteria e aria chiese alla signora Flinn se aveva visto Sy quella mattina.
La donna scosse la testa. «Mi dispiace, tesorino, non l’ho vita.»
Mentre la donna fissava il monito del computer, cliccando un paio di volte, Aria aspettò, lanciando uno sguardo a Constantine. Si guardava intorno, a prima vista con aria indifferente, ma Aria riusciva a vedere infondo ai suoi occhi, coperti dal ciuffo scuro dei capelli, una voglia di esplorare l’edificio scolastico. Comprensibile, visto che non vi era mai entrato.
«A quanto pare non era presente alle lezioni pomeridiane, ma a quanto pare era giustificata.» la informò la signora Flinn.
«Chi l’ha giustificata?» chiese Aria, rivolgendo la sua attenzione alla donna.
«La professoressa Madlain. Aveva la penultima ora.»
«Dove posso trovarla?»
Altro click. «È andata via un decina di minuti fa.»
Aria sospirò, abbassando le spalle. «Grazie mille.»
Voltò le spalle alla donna e si avvicinò a Constantine, che stava studiando una bacheca di sughero con sopra una marea di volantini. Quello a cui lui era rivolta la sua attenzione era quella dello scorso anno, un poster della squadra di basket, capitanata da Jackson Kingston. Era felice mentre stringeva il pallone sotto il braccio e con l’altra aiutava il vicecapitano a reggere la coppa che avevano vinto al campionato scolastico.
 Ora che lo vedeva così sorridente, si ritrovò a pensare che era da un po’ che non gli vedeva quell’espressione sul volto. Si ricordò le volte, gli anni precedenti,in cui era seduto con i suoi compagni di squadra a scherzare e divertirsi nella pausa pranzo.
Invece, dall’inizio dell’anno era stato taciturno, serio. E non aveva più frequentato la squadra di basket.
Che fosse stato a causa del suo litigio con il compagno di squadra, Red Hawks?
Per intuizione, si girò verso la signora Flinn e chiese: «Mi può dire se oggi anche Red Hawks era assente?»
La donna, momentaneamente stranita, batté qualche tasto e poi le rispose, aggrottando la fronte: «A quanto pare, sì.»
Sospettosa, chiese alla donna di dirle se Chris era ancora a scuola.
«Sì, l’ho visti prima: stava andando in biblioteca come al solito.» sorrise lei.
«Grazie.»
Aria afferrò il braccio di Constantine, che era rimasto silenzioso accanto a lei, e lo trascinò in corridoio in direzione della biblioteca scolastica. Chris trascorreva molto tempo tra gli scaffali impolverati, preferendo i pomeriggi trascorsi a scuola che quelli passati a casa.
Chris le aveva accennato ad un cattivo rapporto con il proprio genitore e del suo sentirsi ferito dal distacco brusco del padre.
Lo trovò che leggeva un libro di astronomia, verso la fine della biblioteca.
«Ehi, Chris.» lo salutò lei.
L’amico abbassò il libro, scoccandole un’occhiata sorpresa. «Aria? Che ci fai qui? Non dovresti aver finito?» le chiese. Lanciò un’occhiata alle sue spalle. «E chi è lui?»
«È un amico.» glissò lei. «Chris, puoi dirmi…»
«Amico?» rimarcò lui. «E non me lo presenti?»
«Non adesso, Chris…» tentennò lei. «Sto cercando Sy. L’hai vista?»
«Perché la cerchi?» domandò Chris, accigliandosi. «È successo qualcosa?»
Aria si domandò se far preoccupare anche lui o meno. Meglio non destare sospetti.
«No, niente di importante. È solo che aveva detto che mi avrebbe accompagnata a casa e non è ancora tornata. E non ha risposto alle mie chiamate.»
Chris si agitò sulla sedia, evitando il suo sguardo. «Probabilmente sarà uscita con Red e il suo cellulare non prende.»
«Red non era presente oggi a scuola.» intervenne Aria. «Non può essersene andata con lui. Inoltre, la sua auto non è nel parcheggio.» lo informò.
Chirs posò il libro e si alzò. «Non preoccuparti, non le è successo niente.» la rassicurò. «Non conosco nessuno che sia responsabile quanto Sy.»
«Sì, ma…»
Chris la prese per le spalle e fece per afferrarla per le spalle.
Con uno scatto, Constantine si intromise tra loro, impedendo al ragazzo si toccarla. Chris si tirò indietro di scatto, lanciando uno sguardo interdetto in direzione di un’Aria confusa.
«Ehi, che succede?» chiese, alzando le mani. Il suo sguardo saettava da l’uno all’altro, cercando di capire in che modo quel tizio era legato ad Aria.
«Constantine…» sussurrò lei. «È tutto apposto. Non vuole farmi del male.»
«Certo che no!» s’indignò Chris. «Non alzerei mai le mani su una ragazza, soprattutto se è mia amica.»
«Se lo dici tu.» mormorò Constantine, tuttavia non si mosse.
La pulsione che lo spingeva a fare da barriera ad Aria non si era ancora allentata. Non avrebbe permesso a nessun altro di farle del male, anche se non sapeva spiegare per quale motivo.
«Comunque,» continuò Chris. «Sy sta bene, non preoccuparti.»
«Come puoi saperlo?» gli chiese Aria, accostandosi a Constantine, ancora fermo.
«Fidati.» le impose l’amico, lanciandole un’occhiata della serie “non fare altre domande tanto non rispondo”.
Aria si accigliò. «Che cosa mi stai nascondente? E perché mi nascondete le cose, tu e Sy?»
«Non ti stiamo nascondendo niente.» la rassicurò lui, alzando le mani. «Però posso dirti con certezza che è inutile preoccuparsi per lei. Torna a casa, tornerà presto.»
Aria si sentì ferita. Chris sapeva qualcosa che Sy gli aveva detto, eppure aveva escluso lei. Non aveva voluto metterla a parte dei suoi piani, o quello che stava facendo. Ma perché? Forse non si fidava di lei? Si sentì il petto oppresso da un senso di tradimento e sfiducia. Valeva così poco come amica?
«Andiamo, Constantine.» mormorò, sfiorando il braccio del phantom.
Il ragazzo la seguì fuori dalla porta della biblioteca, senza voltarsi indietro, perdendosi l’occhiata di dispiacere che solcò il viso di Chris.
 
 
*   *   *
 
Chistopher Alasdair’s POV
 
Appena le doppie porte della biblioteca si chiusero, Chris afferrò il suo cellulare e compose il numero di Sy ma, proprio come ad Aria, gli rispose la segreteria telefonica. Allora chiamò il professor Drawn. Sy glielo aveva dato insieme a quello della professoressa Madlain.
Il professore gli rispose al terzo squillo.
«Mi scusi, professore, mi chiamo Christopher Alasdair, sono un amico di Sylence Hill…»
«Aspetta un attimo.»
Sentì dei passi e poi il suono di una porta che si chiudeva.
«Che cosa è successo?» gli chiese Drawn.
«Ha notizie di Sy? È da un po’ che non la sento.»
«Ma certo, è in baita con la professoressa Madlain.»
«Baita?» si stupì Chris.
«Stanno partecipando ad una escursione...»
«Stanno?» lo interruppe, insospettito. «Chi altro è con lei?»
«Suoi compagni di corso.» sorvolò l’uomo.
«Scommetto che tra questi “compagni” ci siano anche Red Hawks, Jackson Kinghston e magari anche le gemelle Teesh.»
«Non credo come i componenti del gruppo possano importarle, signor Aladrair. I ragazzi sono in montagna a fare ricerche per un compito scolastico, questo è quanto. I genitori sono già stati avvisati e sono sotto la supervisione di un insegnate.»
«La professoressa Madlain, insegna matematica.» soggiunse Chris.
«Anche scienze, anche se non in questa scuola.»
L’insicurezza invase il ragazzo? Si era forse sbagliato? Sy gli aveva accennato ad un coinvolgimento dei professori e gli aveva dato il loro numero. Forse si era dimenticata di dir loro del suo ruolo di mascotte del Cerchio. E se avesse sbagliato a capire? Doveva riprovare?
«Professore…» tentennò. «Una mia amica se n’è appena andata, preoccupata perché non aveva notizie di Sy Hill. Io l’ho incontrata questa mattina, ma dopo è sparita e adesso lei mi dice che è ad una gita con i suoi compagni che, guarda caso, sono anche quelli con cui di recente ha iniziato a frequentare a pranzo, un gruppo chiuso che non permette a nessuno degli altri di avvicinarsi a loro.» Scosse la testa, anche l’uomo non poteva vederlo. Decise di tentare un’altra strada, azzardata, ma era una soluzione. «Professore, se le dicessi “Regina Bianca” e “Cerchio”, lei che cosa mi risponderebbe?»
Silenzio, sentiva solo il respiro dell’uomo, calmo e regolare. «C’è qualcosa che vuole dirmi, signor Alasdair?» chiese infine Drawn.
«Credo che debba essere lei a dover dire qualcosa a me.» chiarì Chris. «Che fine ha fatto il Cerchio?»
 
 
*   *   *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
 
Non sapeva che fare. non voleva arrendersi così, solo perché Chris le stava nascondendo qualcosa, ma si sentiva ferita dai segreti che Sy le teneva nascosti, ma che non aveva problemi a divulgare ad altri. Perché avrebbe dovuto parlarne con Chris, ma non con lei? Forse non si fidava abbastanza. Se non l’avesse rivista, non lo avrebbe mai saputo, ed era una cosa che non poteva accadere.
Chris aveva detto che non le era successo niente, ma non poteva saperlo di sicuro, giusto? Non era con lei, non sapeva cosa stava facendo o con chi era. O sì?
Argh! Scosse la testa, cercando di scrollarsi di dosso quel senso di impotenza che l’aveva invasa.
«Cosa hai intenzione di fare, adesso?» le chiese poi Constantine.
Girandosi a guardarlo, le lampeggiò in mente l’immagine di come si era comportato prima, frapponendosi tra lei e Chris. Aveva capito che il suo intento era quello di proteggerla, il suo viso era diventato inespressivo, come la notte che l’aveva salvata dai quei tipi, nel vicolo.
«Non lo so.» gli rispose titubante. «Per qualche ragione, Sy non ha voluto che sapessi dove sarebbe andata, né con chi o perché.» Fece una smorfia di tristezza. «Per quale ragione dovrei continuare a cercarla, quando è chiaro come il sole che non vuole essere trovata?»
«Quindi ti arrendi.» affermò.
Gli lanciò un’occhiataccia. «Non mi sto arrendendo!» protestò lei. «È solo che…»
«Sì che lo stai facendo.» insistette lui.
«Ti dico di no!» Aria si girò per affrontarlo. «Sy non vuole essere trovata, dice di essere mia amica, ma poi non mi racconta i suoi segreti, quando io gli ho detto i miei. Perché dovrei perderci altro tempo su questa faccenda?»
«Perché è tua amica.»
Aria non seppe cosa rispondere. Sì. Sylence era sua amica e le amiche si supportano a vicenda anche quando non era richiesto. E come tale si preoccupava per lei. Per la sua pace mentale, doveva sapere se Sy era al sicuro o meno. Fino a poco tempo fa era stata proprio Sylence ad aiutarla, ora toccava a lei ricambiare il favore.
Raddrizzò le spalle. «Anche se dovesse mandarmi a quel paese una volta che l’avrò trovata, voglio accertarmi che stia bene.» affermò. Raddrizzò le spalle. «Muoviamoci.»
Gli occhi di Constantine brillarono. «Dove vuoi andare?»
«Dalla signorina Madlain.»
 
 
*   *   *
 
Sylence Lillian Hill’s POV
 
Il modo più veloce, ma non quello più semplice per arrivare al Lago era quello di attraversare la Foresta delle Anime Sole. Era un luogo nebbioso e stipato di alberi secchi e contorti, come mani scheletriche che allungavano le loro dita ossute e bianche verso il cielo a cercare la luce del Sole che non sarebbe mai soggiunta. L’aria era greve, soffocante, come una coperta d’umidità che ricopriva di patina la pelle che  mi fece rabbrividire.
Il ricordo instillatomi nella mente da mia Madre ci aveva condotti fin lì, in una traversata di quasi un’intera giornata. Eravamo stanchi, affaticati e non vedevamo l’ora di mangiare e bere. Avevamo riempiti gli zaini con le mele e, lungo il tragitto avevamo trovato un rivolo d’acqua fresca, così da rifornirci anche di acqua. Non avevo parlato tanto con gli altri, sia perché ero concentrata nel seguire in percorso segnatomi da mamma, sia perché non avevo granché da dire.
Ero ancora un po’ sconvolta da quello che mi era successo. Quello che più mi sconcertava era il fatto che mia Madre avesse collocato dentro di me quei ricordi e poi avesse dovuto farmi morire prima di averli. Perché non mostrarsi prima, tipo quando eravamo in biblioteca io e Red? Perché arrivare fino a LìosLand e poi farmi sapere che c’era un modo per raggiungerla?
Potevo capire che per intraprendere questo viaggio, avevo avuto bisogno di sostegno, di conoscere quelle che erano le mie potenzialità, il mio Talento, di dover incontrare il Cerchio per poter avere conferma della sua esistenza e della mia vera natura, ma avrebbe potuto mostrare segni di vita anche prima, no? Xavien mi aveva portato a spasso per il mondo appunto per cercarla. Come avrebbe reagito se avesse saputo che dentro di me c’era la chiave per trovarla?
«Questo posto mette i brividi.» mormorò Annika, stringendosi le braccia al corpo. «Sembra quasi che incomba si di te, come una spada di Damocle.»
Monika Annuì. «Concordo. È angosciante.» rabbrividì.
«Sei sicura che dobbiamo passare di qui?» mi chiese Jake.
Annuii. «O per di qui, o per le paludi.» gli dissi. «E credi, non ti piacerebbero. Il solo ricordo è…» Tremai di disgusto. «Bleach!»
«Quindi non abbiamo scelta.» concluse lui.
«Esatto.»
Scrutò quell’ammasso di tronchi e fumo. «Quanto ci metteremo? Ad attraversarlo, intendo.»
 Presi un respiro. «Questo dipenderà dalla foresta.»
Lui mi guardò accigliato. «Che cavolo vuoi dire?»
«Lo scoprirai.»
Mi avviai superando il primo filare di alberi. Fu come entrare in una cupola di umido, aria densa come acqua. Titubanti, anche gli altri mi seguirono. Mi sconcertava ancora la fiducia che mi accordavano.
«La Foresta delle Anime Sole.» commentò Rafe. «Perché si chiama così?»
Non si riusciva a vedere niente al di là dei due metri. «Questa foresta, come tutto il resto di questo Mondo, è invaso dall’Energia. Sulla Terra la chiamiamo Magia, ma qui è proprio quello che il suo nome dice. È puro flusso di elettroni, protoni e neutroni, neutrini e quanti, in un continuo scambio. Non si esaurisce, si moltiplica. Ogni Essere Vivente, ogni Albero o Pianta, ogni Roccia o Ruscello, tutto è Energia. Così come lo sono anche tutte le Creature di LìosLand. Noi umani siamo convinti che il corpo possegga un’Anima, qui che sia pervaso da Energia. Ma sono la stessa cosa. Così come l’Anima governa il corpo, come lo riempie di vita, così qui l’Energia pervade le membra e permette di esistere. Alla morte del corpo, l’Anima lo lascia, per raggiungere altre luoghi – Paradiso o Inferno che siano. Qui entrano nel Dàapht o nel Vybhros
«Questo cosa c’entra con la Foresta?» chiese Rafe, con la sua solita impazienza.
Sospirai. «A LìosLand c’è una… come chiamarla?... una clausola, una scappatoia che permette a due Anime Congiunte di poter entrare in uno dei due Luoghi insieme. È chiamato Nahany Dwrijh, l’Amore Infinito. È quel legame che si instaura tra due Anime che hanno condiviso tutto nella Vita: gioia, dolori, che si sono scambiati un Giuramento che non è mai venuto meno, che hanno deciso di unire le loro Essenze per crearne una nuova.»
«Due anime gemelle.» considerò Bastian.
«Non proprio. Gli essere umani non ne sono capaci fino in fondo. Sulla Terra, anche se una coppia rimane insieme fino alla morte, c’è sempre qualcosa che si sono tenuti nascosti: una mania, un pensiero scomodo, anche un’attività. Quello è amore. Ma i Lìos, una volta instaurato quel legame, non potranno mai più tenere nascosto quello che hanno nel cuore. Tutto è alla luce del sole, tutto è limpido. Niente bugie, niente segreti. E così anche dopo la Morte, essi si uniscono nel cammino verso l’Altro Mondo.» Sospirai. «Ma dopo l’Onda Scarlatta, molte Anime sono state separate e molte di loro non hanno conosciuto quel legame. È una volta sopraggiunta la Morte del Corpo, esse giungono qui, perché senza un posto dove andare, né in Paradiso, né all’Inferno.»
«Scusa, ma di solito quando uno muore non viene giudicato per quello che è e poi spedito in uno dei due posti?» chiese Rafe.
«Non sto parlando di giudicare. Parliamo di un sentimento che viene perso o mai conosciuto. Qui è dove giungono le anime prive di quel legame, non chi ha commesso omicidio o ha fatto una vita da santo.»
 Camminammo in silenzio, ognuno perso nei proprio pensieri. Red venne accanto a me e mi strinse la mano. Il legame che condividevo con lui era diventato così forte che ormai riusciva a leggere facilmente tutte le emozioni che mi pervadevano. Aveva sentito il mio dispiacere, la mia tristezza per quelle Anime che non avevano potuto vivere con la loro metà per il resto della loro vita. Ormai, lo avevo accettato come un dato di fatto. Quello che mi dava da pensare era perché mia Madre non mi aveva instillato anche la Conoscenza di quel Legame.
«Pensieri?» mi chiese.
«Credo di non aver ancora realizzato appieno tutto questo.» confessai, scuotendo la testa. «Voglio dire, okay, sono qui a LìosLand, sono morta e risorta come Gesù, sto per incontrare la madre che ho sempre cercato e che mi ha incasinato anche la vita, vi sto facendo correre un pericolo tremendo, è molto probabile che ritroveremo Reìrag e chissà quanti altri pericoli incontreremo. Potremo rimanere feriti gravemente o morire…»
«Ehi.»
Red mi prese per le spalle, infondendomi un senso di calma assolutamente benvenuto. Realizzare fino a che punto avevo condotto quei poveri cristi mi faceva sentire uno schifo.
«Sto diventando una maledetta femminuccia.» mi lamentai, provando disgusto per me stessa.
«Sy.» mi chiamò Annika. Si avvicinò e mi posò una mano sulla spalla. «Credo di parlare a nome di tutti quando ti dico che abbiamo tutti un cervello con cui pensare. Abbiamo riflettuto quanto te su questa cosa, abbiamo scelto di nostra spontanea volontà di seguirti, perché ansiosi come te di voler scoprire le nostre radici. I pericoli, le conseguenze che questo gesto potrebbe portare… Io e Monika siamo state una nottata intera a pensarci su, a valutare i pro e i contro… e come vedi siamo qui, con te, con il Cerchio.» Mi scrollò leggermente. «Non sei sola in tutto questo. Non considerarti responsabile per noi. Tu sei quella che ha dato moto a tutto, ma era un desiderio che noi avevamo espresso a noi stessi da tanto tempo, ma che non abbiamo mai avuto coraggio di realizzare.»
«Annika ha ragione.» intervenne Jake. «Tu hai agito per prima, ma tutti noi ti siamo venuti dietro per nostra scelta. Nessun obbligo, nessun ricatto, nessuna spinta. Solo libero arbitrio.»
«E tanta stupidaggine.» terminò Rafe facendoci ridere.
Nessuno aveva degli amici migliori dei miei.
 
*   *   *
 
Constantine’s POV
 
«È questa la casa.»
Tramite il cellulare, Aria era riuscita a recuperare, sul sito della scuola, l’indirizzo dalla casa della signorina Madlain. La casa in cui abitava era uguale a tutte le altre del viale, in stile coloniale, con il portico dalla ringhiera pitturata di bianco e vasi di fiori a profusione, i mattoni rossi e il tetto in ardesia.
 Nel vialetto era parcheggiata la Mini nera opaco e il tettuccio bianco della donna, per cui doveva essere in casa.
«Scusa se ti ho fatto camminare così tanto.» disse improvvisamente Aria.
Constantine si fermò a guardarla. E quella da dove era uscita? L’aveva accompagnata per sua scelta, per liberarsi da quel senso d’oppressione al petto. Quando lo aveva avvertito per la prima volta, quella mattina, gli era sembrato di essere stato colpito da una mazzata allo sterno. Per niente una bella sensazione. Poi aveva sentito nella sua testa un mormorio, un ronzio, che ripeteva sempre la stessa cosa: “va da lei”. Aveva capito subito a chi si riferiva, la voce.
«Mi sto lamentando?» replicò lui.
Arai batté le palpebre. «No.» rispose, perplessa. «Ma ti saresti evitato tutto questo casino se mi avessi mollata a scuola.»
«Mi sto lamentando?» ripeté il phantom.
Una luce particolare le scintillò negli occhi, abbagliando quelli di Con. Un sorriso luminoso le si distese sulle labbra. Lo sguardo di Constanti si fissò in quelle pozze verde foresta per poi spostarsi verso la sua bocca, una curva di labbra rosse e morbide, contorno seducente per la fila di denti bianchi.
«Grazie mille.» gli rispose.
Constantine ebbe voglia di assaggiarle, sapere se erano soffici come apparivano, se erano calde, che gusto avevano…
In tutto il tempo che era vissuto sulla Terra, niente gli era mai importato. Aveva vissuto la sua vita così come gliel’avevano servita, aveva lottato per la propria indipendenza, per la propria vita ed era sopravvissuto. Dopo aver compreso ciò che era, aveva deliberatamente lasciato perdere tutto quello che considerava di rilievo – amici, una casa, una famiglia –, aveva scelto di vivere come più gli piaceva e ne era stato contento… fino a poche settimane prima.
Aria non lo sapeva. Non doveva saperlo.
Osservò il contrasto tra la pelle lattea, cosparsa di macchioline dorate e la criniera di capelli rosso sangue.
Erano stati proprio quei nastri di quel colore insolito e accecante che lo aveva attirato al cimitero.
Ci era andato spesso dopo che se n’era andato dalla bettola in cui abitava, e girovagando senza meta, si era ritrovato davanti il cancello dell’Holy Safe Lansing Graveyard. Si era sentito attratto da quel luogo di pace e silenzio, dove non avrebbe sentito le urla di sua padre e le imprecazioni di suo madre, dove non ci sarebbe stato nessuno che avrebbe potuto prenderlo in contropiede e ferirlo, sia nel corpo che nello spirito.
Era rimasto a vagare tra loculi, tombe e cripte fino al calar del sole, e anche all’ora, quando ad una persona normale, il camposanto sembrava infestato e pauroso, a lui aveva infuso calma e quiete.
Aveva sviluppato una routine: di mattina andava in giro a sbirciare le tombe, raccogliere fiori per chi non li aveva e a buttare quelli ormai secchi, e di notte teneva d’occhio i cancelli, in caso di incursione da parte di qualche vandalo, come era capitato già più di una volta.
E proprio camminando tra le tombe, l’aveva scorta.
Il corpo scosso da singulti, la faccia affondata tra le mani e la testa china su una lapide. Una cascata rossa che svolazzava nel venticello di fine settembre. Ne era stato subito attratto.
Poi aveva sentito i suoi singhiozzi. Li aveva riconosciuti. Quando uno come lui passava la sua infanzia a cercare di mascherare il dolore, ad un tratto arrivi al punto di punto di rottura e devi in qualche modo espellere tutto il veleno che ti scorre in corpo.
E aveva riconosciuto il suono di quel piagnisteo, intriso di una particolare sofferenza: quella di un animo corroso da mani altrui, pieno d’impotenza e aberrazione, d’incomprensione, di bruttezza, di mancanza d’amore. Aveva avuto l’impulso irrefrenabile di avvicinarsi e l’aveva fatto.
E quando lei lo aveva scorto, si era ritrovato immerso in due pozze verde bosco, così lucidi di pianto e di dolore, che ne aveva riconosciuto l’affinità ai suoi.
Ecco perché si era trovato a salvarla dall’aggressione, perché si era preoccupato che lei mangiasse, che lei scoprisse quello che a nessun altro aveva mai fatto vedere, che le aveva fatto conoscere il vero Constantine.
«Entriamo?»
Aria si avviò verso la casa e Constantine si scosse da quei pensieri così lontani anni luce, eppure così vicini.
Pochi minuti dopo aver suonato il campanello, la porta si aprì.
La donna, bella nel suo semplice maglione e jeans, sorrise ad Aria lanciandole un’occhiata perplessa.
«Salve, ragazzi.»
«Scusi il disturbo, signorina. Sono Rosarianna O’Sheha, un’amica di Sy Hill.»
Constantine si accorse subito del cambiamento nella donna, dell’improvvisa rigidità delle spalle, dello sguardo diventato guardingo e il sorriso teso.
«Come posso aiutarti?» chiese la donna, gentile.
«Ecco, sono preoccupata per Sy.» incominciò Aria. «Mi hanno detto che l’avete giustificata perché andasse via, quindi pensavo che non si fosse sentita bene. Ma quando sono andata a casa, non l’ho trovata. Mi chiedevo se lei sapesse dov’è.»
Constantine rimase impressionato dalla facilità con cui inventò quella scusa. Aveva inventiva, la ragazza.
«Oh, è ad un’escursione!» esclamò la donna, come sollevata. «Il signor Drawn li ha accompagnati in montagna per studiare gli effetti del cambiamento di stagione sulla natura.» spiegò.
«Eh, davvero?» tergiversò Aria. «Ma avrebbe dovuto dire qualcosa almeno alla famiglia. Sa, suo padre…»
«Lo abbiamo avvisato noi.» intervenne la Madlain. «La scuola si è incaricata di avvisare tutti i genitori…»
«Tutti?» la interruppe Aria. «Credevo che fosse insieme a Red e basta. C’è qualcun altro insieme a loro?»
«Non si preoccupi, signorina…»
«No!» esclamò Aria. «Sono stufa di sentirlo in continuazione! La mia amica è sparita e a quanto pare non solo lei. Voglio delle risposte e le voglio adesso!»
Constantine ammirò la sua determinazione. Sembrava una lupa che protegge i suoi cuccioli.
Poi Aria si accigliò. «Aspetti un attimo.» disse, irrigidendosi. «Sono i montagna… con il professor Drawn?» Di scatto, si girò a guardarlo. «Com’era quello che ci ha quasi investito a scuola?» gli chiese.
La signorina Madlain sgranò gli occhi. «Vi hanno…»
«Com’era?» ripeté Aria.
«Corporatura massiccia, sulla quarantina, capelli neri, occhi verdi e voce potente, da baritono.» fu la sua esaustiva risposta di Constantine.
Arai assottigliò gli occhi, a quella risposta. Si girò verso la donna che aveva ormai lasciato perdere la faccia di finta gentilezza per una seria, circospetta.
«Se lei dice che il professor Drawn è in montagna con Sy e gli “altri”, come può essersi a scuola un uomo con le sue stesse fattezze?» mormorò alla donna. «Inoltre, c’è un’incongruenza nella firma dell’orario d’uscita. Lei ha firmato venti minuti fa, ma il suo orario è terminato alle tre, non alle quattro. E lo so, perché oggi avrei dovuto avere matematica applicata con lei, ma siamo usciti prima perché l’insegnate mancava. Ma com’è possibile visto che poi lei ha firmato l’orario d’uscita?»
La Madlain tacque.
«Sappiamo entrambe che sta nascondendo qualcosa, di molto grosso anche se ha avuto bisogno dell’aiuto di un altro professore, rischiando di finire nei guai.»
Constantine era rapito. Continuava a guardare Aria, cercando di ricordare se l’avesse mai vista così determinata, così combattiva. Era ammaliato dalla sua forza d’animo, dalla tenacia che stava esibendo per le sorti dell’amica.
Fu guardando lo scintillio negli occhi verde bosco che si rese conto di essere nei guai. Perché quella ragazza stava mettendo a soqquadro il mondo che fino ad ora aveva conosciuto e in cui aveva sempre vissuto, e non era del tutto certo che quello fosse un male.
Una macchina scusa si avvicinò al vialetto della casa coloniale, fermandosi vicino alla cassetta della posta. Dall’auto scese l’uomo che li aveva quasi investiti.
Constantine fece in tempo a vedere le spalle della professoressa crollare sotto il peso della sconfitta, prima che Aria facesse qualche passo in avanti, lanciandole un’occhiata di fuoco.
«Bomany perché mi hai chiamato? Avevi detto che era urgente.» commentò mentre risaliva il vialetto. Si fermò di colpo quando vide i due ragazzi davanti alla porta di casa della donna. Si accigliò. «Che sta succedendo?»
«Questo me lo deve dire lei, professore, visto che non dovrebbe essere qui.» affermò Aria. «Che è successo? Ha dimenticato lo zaino e la corda? In montagna servono sempre.»
 
 
*   *   *
Sylence Lillian Hill’s POV
 
«Sbaglio o la foresta sembra essersi richiusa su di noi?» chiese Jake.
Scossi la testa. «No, non sbagli.»
Strinse gli occhi, studiando la mia faccia. «Dimmi perché non sei preoccupata.»
Il mio sguardo vagò sulle forme sfocate degli alberi che si erano curvati intorno a noi, inghiottendoci tra le loro spire.
«Perché so già quello che sta per accadere. Ricordi?» Mi sfiorai la tempia. «È tutto qui dentro.»
«Sei un tantino spaventosa in questo momento, lo sai?»
Annuii rispondendo: «Non sai quanto. Non hai idea di quanta roba ho nel mio cervello in questo momento che preferirei non sapere.»
«Tipo cosa?»
«Te lo dirò un’altra volta.» sviai. «Non credo che questo sia il momento.»
Vibrazioni piene di Energia iniziarono a scivolarmi addosso, proprio come era successo nei pressi del Portare, sulla Terra. Piccoli assestamenti, come a dire che qualcosa si stava avvicinando.
Mi sentii stringere una spalla. «Lo senti anche tu, non è vero?» chiesi a Red.
Lui annuì, spostandosi davanti a me, facendomi da scudo. «Cos’è?»
Alzai gli occhi al cielo. «Non succede niente, Red.»
«Se lo dici tu.» commentò, ma non si spostò.
Le vibrazioni si fecero più forti, tanto che anche i rami ricurvi intorno a noi iniziarono a ronzare, scossi da tremolii continui. Poi si avvertì uno schiocco, come quando un elastico teso viene lasciato di scatto, e l’aria densa di nebbia davanti a noi si contorse, espandendosi e contraendosi.
Quei movimenti sinuosi mi ricordarono Reìrag e i suoi portali, incutendomi timore: infatti, anche gli altri vennero assaliti dalla paura, ma imposi loro di calmarsi.
«Avevi detto che non ci avrebbe fatto del male.» protestò Jake, mentre stringeva Annika, che si era rifugiata tra le sue braccia.
«No, non l’ho fatto.»
«Ci hai messo deliberatamente in pericolo!?» mi gridò contro.
Ahia. Quella mancanza di fiducia mi fece male. Lo guardai, lasciando vendere quanto quella domanda mi aveva ferita.
«Credi che lo farei?» gli chiesi. «Dopo tutto questo, credi che farei mai una cosa del genere?»
Vidi il suo viso irrigidirsi, mentre nei suoi occhi apparve il rimorso per avermi accusata ingiustamente.
Riportai lo sguardo davanti a me. L’aria era quasi al punto di rottura, giusto qualche secondo e poi con un altro schiocco, più forte dell’altro, e davanti a noi apparve una forma. Indistinta come la nebbia, eppure solida, tridimensionale.
La sagoma di una donna.
Essa non aveva volto, nascosto sotto un cappuccio, anch’esso fatto di nebbia e fumo, come il resto del corpo, che ondeggiava come un’illusione provocata dal caldo sull’asfalto.
La sua voce, un eco sussurrato nelle nostre menti. «Er este bhà?» ci chiese nell’Antica Lingua. Chi è là?
«Chiediamo perdono, per aver disturbato il Sonno delle Anime Andate, ma porgiamo una richiesta di passaggio per il vostro Luogo al fine di raggiungere la Madre delle Madri, al lago di Thaùrm.» le dissi ossequiosa. Rimasi stupida da me stessa: non avevo mai parlato in quel modo, antiquato e composto, ma nella mia testa si era messo in modo un meccanismo automatico sfornando parole su parole, senza che io me ne accorgessi.
«Chi porge la sua richiesta?» ribatté l’Anima.
«Pongo i saluti a nome del Cerchio di Lansing. Io sono Sylence Hill, membro del Cerchio e… figlia della Regina Bianca.»
All’improvviso, migliaia di fuochi fatui, o quelli che sembravano tali, spuntarono come funghi intorno a noi, aumentando il volume dei lamenti intorno a noi ad un livello assordante. Red mi spinse dietro la sua schiena, circondandomi con le braccia.
Cercai di non preoccuparmi. Mamma mi aveva dato un suggerimento importante, quando mi aveva trasmesso questo ricordo: non intimoriti, prova pietà e compassione e passa oltre.
Lo avrei fatto.
«Sy, puoi spiegarci…?» chiese Jake.
«Le ho detto il mio nome.»
«E allora?»
Non gli risposi. Non sapevo cosa dire. Mia Madre non mi aveva avvisato di questa probabilità. Spinsi un po’ contro la spalla di Red per spostarlo il tanto che bastava per vedere la donna che alzava una mano fumosa. Le Anime parvero calmarsi: smisero di vibrare e i lamenti si attenuarono.
«Quale impulso ha spinto la figlia di Colei che ci ha guidato a calpestare il Sacro suolo del nostro Bosco?» chiese ancora la donna.
«Desidero incontrarla.» risposi. «Anelo a conoscere, per la prima volta in vita mia, la Donna che potrei chiamare Madre.»
«Dunque Tu non hai mai intrattenuto rapporti con Lei?» continuò la donna.
Scossi la testa. «Purtroppo no.»
La donna parve riflettere. Il suo capo si spostò leggermente, soffermandosi su Red.
Infine si girò verso i fuochi fatui. «Ella non è Colei che crediamo. Il suo Animo è puro e lo condivide con Lui.» Le luci fluttuanti la circondarono come ad abbracciarla. «Non attenterà al nostro Luogo, né a Noi.»
Quando sentii quelle parole incominciai a rilassarmi. Mi girai verso gli altri.
«Sembra che sia tutto apposto.» sussurrai.
«Sicura?» chiese Jake.
Annuii. «Dipenderà tutto da quello che dirà lei.» chiarii, indicando la donna-fantasma.
La donna mormorò qualcosa di incomprensibile alle Anime ed esse, ad una ad una, iniziarono a spegnersi, fino a sparire del tutto.
La donna fluttuò verso di noi. Si fermò davanti a Red, che di tese come una corda di violino.
«Calma il tuo Animo, Mijhack, non arrecherò danno alla tua Tamyha.» affermò la donna, parlando inglese per la prima volta. Credo che lo fece soprattutto a beneficio di Red.
Mi parve strano sentir chiamare Red giovane uomo, ma mi lasciò ancor più stranita il fatto che mi aveva definita la sua Metà.
«Anche io come te attendevo l’arrivo della mia Anima Complice, di Colui che avrebbe reclamato io mio Cuore.» Anche se non potevo vedere il suo viso, percepivo la tristezza che la invase, rivangando i ricordi. «Ma il Destino ci ha precluso tale esito.» Spostò il capo tra me e Red. «Non prendete sotto gamba ciò che il Fato ha voluto per Voi. Chi trova la sua Metà è destinato a vivere una Vita piena.»
La donna fluttuò accanto ad un albero e posò la mano contro la corteccia biancastra. L’Energia scaturì dal suo palmo, pervadendo il tronco e le radici. D’un tratto, la foresta non apparve più oppressiva, non ci incombeva più addosso, e i rami contorti si distesero verso l’alto, aprendo la volta che ci aveva coperto fino a quel punto.
«Il Passaggio vi sarà concesso.» annunciò la donna, abbassando il braccio. «Seguite il sentiero, non inoltratevi in altre strade poiché vi porteranno nell’Ignoto e non potrete più trovare Casa.»
Posai una mano sulla spalla di Red. Si voltò a guardarmi e io annuii. Lanciai un’occhiata a Jake che, tenendo la mano ad Annika, ringraziò con un cenno del capo la donna e la oltrepassò, seguito dagli altri.
Red intrecciò le dita alle sue e mi trascinò in avanti, ma lo trattenni per qualche altro secondo.
Mi girai a guardare la donna che stava per inoltrarsi nella nebbia. «Qual è il tuo nome? E quello del tuo amato?» le chiesi.
Il cappuccio si voltò, osservandomi da sopra una spalla. «Qual è la ragione di tale domanda?»
Scrollai le spalle. «Curiosità.»
Una pausa. «Breezah. Era quello il mio nome.» Chinò il capo. «Lui era Gahareìr.»
La sua figura di fece indistinta fino a scomparire, amalgamandosi con la nebbia.
 
 
*   *   *
 
Rosarianna O’Sheha’s POV
I professori continuavano a scambiarsi occhiate, parlando senza dire una parola, innervosendo tantissimo Aria. Le tremavano le mani tanto era la voglia di colpire qualcosa. Non aveva mai auto istinti omicidi – a parte per i suoi genitori, s’intende – ma in qual momento aveva una voglia pazzesca di fare del male a qualcuno.
«Adesso basta.» sbottò. «Se in cinque secondi non mi dite che cosa avete fatto a Sy e a chiunque altro, chiamerò la polizia. Spiegate a loro perché avete mentito ai genitori dei vostri alunni, magari mettendoli in pericolo.»
La signorina Madlain sospirò, abbassando le spalle. «Mikah…» iniziò, scuotendo la testa.
«Bonamy.» l’interrupe lui. «Tanto vale dirglielo. Per di più, guarda con chi è. Qualcosa mi dice che non ne rimarrà tanto sconvolta.»
Aria si accigliò, lanciando uno sguardo a Constantine: lui era occhi negli occhi con il professore, quasi stessero ingaggiando una lotta solo con lo sguardo, cercando di penetrarsi la mente a vicenda. Si stavano riferendo a lui? Che cosa sapevano? E come facevano a saperlo?
«Come vuoi tu, Mikah.» sospirò la donna, facendosi da parte. «Ma ti prenderai tu qualunque tipo di responsabilità.»
Il professore annuì, distogliendo lo sguardo da Constantine per entrare in casa con la professoressa.
Aria guardò con ansia Constantine che, prendendola per un gomito, la condusse all’interno della casa.
Era un posto accogliente, con mobili di legno bianco e marrone chiaro, pieno di pizzi e tende di cotone, vasi di fiori e profumo di lavanda sparso dappertutto.
La Madlain li condusse nel salotto, un posto spazioso con un divano di pelle bianca e un tappeto di pelliccia finta.
Li fece accomodare. «Incominci tu?» chiese al professore.
L’uomo annuì. «Prima di tutto, voglio sapere che cosa ci fa una mia annulla con uno come lui.» affermò.
Aria si accigliò per il modo in cui si riferì a Constantine, come se fosse… beh, non le piacque per niente.
«Constantine.» affermò ferma la ragazza, fulminando l’uomo. «Il suo nome è Constantine.»
«Beh, vorrei sapere come fa a conoscerlo.» insistette lui.
«Lei come fa?» ribatté Aria.
L’uomo incrociò le braccia al petto, gonfiando minaccio i bicipiti. «Io non so chi sia, ma so cos’è
Aria lanciò un’occhiata a Constantine, afferrandogli una mano. I due adulti si accorsero del gesto e si accigliarono.
«Che cosa sapete voi di Constantine? Da dove proviene? Come vi siete accorti di lui? E soprattutto perché sapete di lui?» chiese a profusione.
«Loro sono come me.» mormorò Constantine.
Aria lo guardò sgranando gli occhi.
«Non proprio come me, ma… sono diversi.»
Il professor Drawn annuì, studiandolo con attenzione. «Anche tu senti la nostra Energia. Così come noi sentiamo la tua.»
«Ma voi non siete come me.» ribatté il ragazzo.
«No.» confermò la Madlain. Si scambiò uno sguardo con il professore. «È da un bel po’ di tempo che non mi capita di vedere un phantom
Aria non poté fare altro che guardarla allibita. «Che cosa sapete?» chiese, quasi senza fiato dall’emozione.
«A parte le cose basilari? Che è il primo della sua specie che incontriamo qui sulla Terra. Ed è ancora più strano averlo incontrato dopo tanto tempo. Stiamo perdendo la mano, Bonamy.» sospirò il professore.
«Non credo, Mikah.» contraddisse la donna. «Il problema è che lui ha mascherato bene le sue tracce, o qualcuno lo ha fatto per lui. Riesco ancora a sentire la puzza d’alcol stantio e di marcio che permea la sua pelle.» La donna rivolse uno sguardo di compassione al ragazzo. «Non devi aver avuto una vita facile, se sei diventato quello che sei in giovane età.»
Aria percepì il corpo di Constantine irrigidirsi, respingendo in automatico quel tentativo di psicoanalisi. Si ritrovò a stringergli il braccia appoggiandosi a lui con il corpo, infondendogli il suo calore.
Il professore emise un lamento, guardando il gesto. «Ti prego, non dimmi che l’hai legata a te.» lo supplicò, passandosi una mano tra i capelli per la frustrazione.
«Mikah…» tentò la professoressa.
«Deve saperlo, Bonamy!» esclamò. «Prima che sia troppo tardi.»
Aria aveva timore di chiedere, ma lo fece lo stesso, visto che Constantine non si decideva a farlo. Anzi, sembrava diventato un pezzo di ghiaccio.
«Di che cosa state parlando?»
«Del Bound.» affermò l’uomo. «Il legame che si instaura tra un phantom e la sua compagna. Un legame che neanche la morte può spezzare.» Sospirò. «Un legame che si è già creato tra voi due.»
Aria si sentì arrossire fino alla radice dei suoi capelli già rossi. Va bene che le piacesse Constantine – era inutile nascondere la cosa, era troppo palese – ma che fosse anche la sua compagna? No. Non poteva essere. Si conoscevano fa quanto? Due settimane? Qualcuna in più. Era troppo presto. Inoltre… se Constantine non provasse quello che provava lei? Ci sarebbe rimasta molto male, ma era partita già con quel presupposto… però se aveva instaurato quel legame… No, non poteva assolutamente essere.
«Non c’è un modo per scioglierlo?» Si pentì immediatamente di quella domanda. «Voglio dire… se si è creato c’è anche un modo per toglierlo.» No, così peggiorava le cose. Non aveva neanche il coraggio di guardare Constantine in faccia. «No! Insomma, come si è creato?» si decise a chiedere infine, abbassando gli occhi.
Il professore scosse la testa. «Non è qualcosa che nasce, come l’affetto, o altro. È un qualcosa di già prestabilito. Ogni phantom ha la sua compagna, ma non è sicuro che la trovi. Inoltre, un legame di tale portata non può essere ignorato, né si farà ignorare. Si farà sentire in qualunque modo, tramite i pensieri, o i gesti, o le emozioni.» spiegò.
Aria non sapeva che dire. Avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non aveva coraggio sufficiente ad analizzare quell’improvvisa piega degli eventi. Era andata lì per un altro motivo e non si sarebbe lasciata distrarre. Avrebbero approfondito il discorso di Bound, legami e quant’altro in un altro momento.
«Scusatemi, non per qualcosa, ma io voglio sapere dov’è Sy.» chiese.
Dopo un altro scambio di occhiate, la professoressa Madlain si rivolse a lei dicendo: «Ci sono molte cose che non sai della nostra città e su quello che nasconde. E tutto è legato in modo intrinseco a Sy…»
Aria rimase sbalordita da quello che le dissero i professori. Certo, era passata per un phantom e tutti gli aspetti che questo comportava, ma… elfi, magia, altri mondi? Mio Dio, c’era da ricoverarsi in psicoanalisi. Eppure, dalle loro parole, nella sua mente scaturirono una serie di piccoli flash, che le confermarono che tutta quella storia era vera: i ricordi della scampagnata, quella che lei credeva essersi svolta nei migliori dei modi e che, invece, era andata a finire in un altro modo.
L’attacco di quel mostro pieno di simboli neri, la sua amica si che parlava una lingua strana… e Chris che invece era rimasto al suo fianco, e che quindi conosceva l’intera storia.
Ecco perché le aveva risposto in modo evasivo, ecco quello che Sy le aveva nascosto.
Si sentì ferita. Perché Sy non l’aveva messa a parte di tutte quelle cose, invece di farle in lavaggio del cervello? Perché aveva scelto di dire a Chris quello che avrebbe potuto dire a lei? Si preoccupava di essere giudicata? Oppure non la riteneva adatta ad essere parte di quel segreto? Era così poco degna di essere sua amica?
Non si accorse di avere le lacrime agli occhi fino a che non sentì le mani calde di Constantine che le stringevano il viso con delicatezza e le cancellava le scie salate dalla guance.
«Perché?» singhiozzò. «Perché non ha voluto dirmelo?»
«Credo che lo abbai fatto per proteggerti.» mormorò lui, scostandole una ciocca di capelli dalla fronte. «Pensaci. Se quel mostro fosse tornato, avrebbe attaccato tutti quelli a cui la tua amica vuole bene, inclusa te.»
«Oh.» Non riuscì a dire altro. Non l’aveva pensata così. Non le era mai passato per la mente che potesse essere per un motivo altruistico che Sy non glielo avesse rivelato.
«Se avessimo saputo che c’era un phantom in città…» si rammaricò il professore d’un tratto.
La signorina Madlain era d’accordo. «Avremmo risparmiato molto tempo.»
«Che volete dire?» chiese Constantine.
«Beh, mio caro phantom, significa che tu sei il nostro lascia passare per LìosLand.» Rise della loro faccia perplessa. «I portali – o la maggior parte di essi – sono sotto stretta sorveglianze e protetti da un incantesimo di sangue che non permette a quasi tutte le specie viventi di oltrepassarle. Quello in cui il Cerchio è passato aveva un blocco contro di noi e se anche fossimo riusciti ad oltrepassarlo, ci avrebbe spediti dritti nelle fauci del lupo, se mi passate il gioco di parole.»
«Purtroppo quello era l’unico portale che abbiamo mai trovato e, ora come ora, non ci servirebbe a niente trovarne un altro, perché non potremmo lo stesso oltrepassarlo. Ma tu,» disse miss Madlain indicando Constantine. «Non avresti mai in questo problema, grazie al trasfert. Fu proprio per questo vostro potere che foste perseguitati fino all’estinzione, per impedire a qualsiasi altro di entrare e uscire liberamente da LìosLand
Un silenzio tombale cadde nella stanza. Ad aria parve quasi che Constantine avesse smesso di respirare.
«Vuole dire…» sussurrò il ragazzo. «Che io…»
Con rammarico, la donna annuì. «Per quanto ne sappiamo, tu potresti essere l’ultimo della tua specie. Mi dispiace.»
Ad Aria venne voglia di piangere di nuovo. Aveva intuito da come ne aveva parlato, il desiderio di Constantine di voler incontrare la sua vera famiglia, o almeno qualcosa di simile a lui. Il non poter più fare anche avendo al possibilità di tornare al luogo a cui apparteneva era orribile.
«Comunque non si può essere certi al cento per cento.» soggiunse il professore. Tirò su col naso, in modo brusco e scosse la testa, ma Aria colse lo stesso lo scintillio dei suoi occhi umidi. «Chi può sapere se altri phantom abbiano lasciato il loro mondo per un altro prima di essere catturati o peggio?» Guardò Constantine negli occhi. «C’è sempre una speranza ragazzo. Non dimenticarlo mai.»

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Capitolo 40
*** Memories ***


Spero che questo capitolo, anche se corto vi piaccia. Ringiazio tutti quelli che hanno recensito lo scorso capitolo, e anche gli scorsi recensitori.
Grazie mille davvero.
Baci, 


Sy Hill



Capitolo 40

 
Memories
 
 
Stentavo a crederci. Dopo aver atteso tutta la vita, attraversato periodi neri, scoperto realtà sconosciute, finalmente eravamo al lago. Era una distesa d’acqua argentea sotto i raggi della Luna di Van Gogh, che increspava la superficie di tanti riflessi simili a diamanti. Tutt’intorno, gli alberi della Foresta creavano una sorta di abbraccio, i tronchi piegati a formare un arco, le chiome spoglie ricurve verso il lago; ricordava tanto la forma di un’arena.
Quello che più mi lasciò basita fu la riva del lago. Era circondato di lucciole, tanti piccoli puntini di luce che ondeggiavano e danzavano, componevano un anello luminoso così particolare da lasciare senza fiato: la luce che di solito emettono le lucciole è verde fosforescente, ma queste erano azzurre, quasi argentee.
Era uno spettacolo davvero emozionante.
Il problema fu che non appena mettemmo piede sulla distesa di sassolini e ghiaia che costituiva la riva, queste si agitarono e ci circondarono.
Le lucciole di natura non sono aggressive, ma queste volavano verso di noi con l’intento di colpirci.
E accadde una cosa strana. Non appena colpii una di quelle creaturine fastidiose, si bloccò: con una piccola scossa, divenne un sassolino volante che galleggiava nell’aria. Sembrava essere sotto l’effetto del pietrificus totalus.
Ebbi timore di aver usato il mio Talento inconsciamente, ma mi accorsi che le mie braccia erano percorse da rivoli di Energia, proprio come quando ero in prossimità del Portale. A quanto pareva, riflettei, ero una specie di bussola che riconosce i luoghi di Potere.
Solo allora mi accorsi che anche le altre lucciole di erano fermate: non bloccate, solo ferme, galleggiando in aria, come sorprese.
Scambiai uno sguardo con gli altri, deglutendo. Avevo i nervi a fior di pelle. Era sorprendente come ogni cosa in tutta LiosLand era magico.
Raddrizzai le spalle. Fino a quel momento avevo retto ogni tipo di attacco psichico, di certo delle piccole lucine svolazzanti non mi avrebbero fermato.
Mossi qualche passo verso il lago, aspettando un altro sciame pronto all’attacco. Al contrario, esse mi lasciarono passare. Lentamente si spostarono fino a creare un tunnel in direzione del Lago.
«Sy?» mi sentii chiamare da Bastian.
Lancia un’occhiata alle mie spalle. «Dimmi.»
«Stavo riflettendo…»
«Come tuo solito.»
«…e mi è venuta in mente una cosa. I professori hanno detto che il luogo di maggior potere della Regina è il Lago di Albh, giusto? Allora perché siamo qui?» chiese al mio cenno affermativo.
«Tutti i Laghi di LìosLand sono collegati da flussi sotterranei.» mi venne spontaneo dire. Mi fermai di botto battendo le palpebre. Aprii e chiusi la bocca, come un pesce. Scossi la testa. «Fa uno strano effetto rendermi conto di sapere più cose di prima. Mi ci devo ancora abituare.»
«Flussi sotterranei?»
Annuii, distratta. «Esatto. Sono come dei canali fognari, ma sono collegati tra loro in un flusso continuo. Tramite i vari canali, mia Madre può spostarsi con suo comodo in qualsiasi luogo i laghi siano.»
«Perché hai scelto proprio questo lago?» mi chiese Jake. «Perché non il Lago di Albh?»
«Primo, perché era più vicino e, secondo… quel lago è irraggiungibile adesso. È protetto da una barriera – e per barriera intendo proprio uno sbarramento fisico, materiale – ed è impenetrabile. È anche per questo motivo che è ancora viva.» sussurrai.
«Ma non potrebbero prenderla attraverso i flussi?»
Mi fermai sulla riva del lago, appena qualche centimetro prima che l’acqua argentina mi bagnasse le scarpe e mi girai verso loro.
«Nessuno ne è a conoscenza.» dichiarai, guardandoli negli occhi. Potevo vedere nei loro occhi la consapevolezza del peso che avevo loro affidato.
Red si avvicinò e mi strinse la mano, mentre con l’altra mi avvolse la nuca. Nei suoi occhi dorati una determinazione che mi colpì al cuore. Sapevo di potermi fidare di lui, a dispetto di tutti i litigi che c’erano stati e che ci sarebbero stati in futuro. Niente e tutto rose e fiori tanto meno la nostra relazione. Anzi, la nostra meno di tutte, ma la fiducia…. Quella ci sarebbe stata sempre.
 
 
*   *   *
 
Rosarianna O Sheha POV
 
Un brivido di freddo pervase Aria, mentre Constantine, troppo scosso, perdeva il controllo delle mani e diventava incorporeo. Gli occhi del ragazzo erano diventati cupi come la superficie di una lago in un giorno di pioggia, trasmettevano tutta la loro desolazione, la loro tristezza.
Senza una parola, Aria lo abbracciò, sorpresa che glielo lasciasse fare. C’era stato tanto contatto fisico tra loro nelle ultime ore, e questa libertà di movimento improvvisa la lasciava ancora basita.
Il professore scosse la testa. «Non pensarci ora, ragazzo. Non lasciare che il dolore ti ottenebri. Oltretutto, non è sicuro che siano tutti morti. Per niente. Avete il trasfert, quello vi permette di non utilizzare le Porte dei Mondi e chissà in quale siano capitati quelli che non hanno scelto come destinazione proprio la Terra.»
Aria lo guardò accigliata. «Scelto come destinazione?» ripeté perplessa.
«So che è sconvolgente per una mente acerba come quella umana, ma… sì, esistono altri mondi, al di fuori della Dimensione Terrestre.» li informò la signorina Madlain. «Ad essere precisi, ci sono tante dimensioni quanti sosia esistono di noi.»
«C’è una teoria, anche se gli scienziati non la reputano tale; sostiene che esistono sette sosia per ognuno di noi.» si affrettò a spiegare il professore, vedendo l’espressione perplessa della ragazza. «Quello che gli scienziati non sanno è che sì, esistono delle persone che hanno i nostri stessi tratti somatici, ma ognuno di loro non è del nostro pianeta. Provengono dalle altre dimensioni, sette appunto, in cui esistiamo, ed ognuno di esse ha una vita a sé.» concluse Mr. Drawn.
La signorina Madlain gettò un’occhiata comprensiva verso Constantine. «Vedi, non devi preoccuparti.» Spostò veloce il suo sguardo sulle sue mani trasparenti per poi tornare al suo viso. «Le probabilità di ritrovare i tuoi genitori sono maggiori di quanto ci si aspetti.»
I suoi occhi si spostarono poco più giù, dove le mani di Aria stavano accarezzando in modo inconsapevole il collo del phantom. Era risaputa la loro avversione al contatto fisico, solo quelli della loro stessa specie e i quelli legati a loro dal Bound avevano il mutuo consenso al tocco.
E Constantine si lasciava toccare da Aria anche in quel momento di forte vulnerabilità. Si ritrovò a pensare che, anche se non avesse ritrovato i suoi genitori, la perdita non sarebbe stata così tremenda per lui: aveva già qualcun altro che avrebbe colmato quel vuoto.
Aria accarezzava i capelli di Constantine, lieta che lui glielo permettesse. Voleva calmarlo, voleva fargli riconquistare il controllo che lo aveva sempre caratterizzato, quella fermezza che le aveva fatto da àncora nei momenti di crisi.
Pian piano, il corpo di Constantine si distese, i muscoli contratti dalla tensione si rilassarono, le mani ripresero la loro consistenza fatta di carne, ossa e sangue.
Una delle mani si alzò a posarsi su quelle di Aria, sulla nuca. Lei lo interpretò come un segnale di stop, del tipo “puoi smetterla adesso”, e fece per toglierle, ma Constantine ne afferrò una e intrecciò le dita alle sue, carezzandole l’interno del polso col pollice. Le guance di Aria si tinsero di rosso, ma Constantine non la guardò.
«Cosa possiamo fare ora?» chiese infine, spostando le loro mani unite davanti al lui. «Per l’amica di Aria, intendo.»
Gli astanti rimasero sorpresi dal cambiamento di argomento, comprendendo che il ragazzo aveva affrontato abbastanza batoste per quel giorno e voleva evitarne altre.
«Beh, per quanto ne sappiamo, i ragazzi sono a LìosLand. Non dovrebbero avere problemi, hanno la testa sulle spalle e i loro Talenti a disposizione. Abbiamo fornito loro le conoscenze utili allo scopo prima che partissero. Inoltre, hanno Sylence con loro che, come ci ha ampiamente provato, ha un legame con la Madre e delle conoscenze che Ella le ha trasmesso prima di lasciarla.» spiegò il professore.
«Io voglio accertarmi di persona che sta bene.» stabilì Aria. «Non accetto delle supposizioni su basi cosi astratte. Da quello che mi avete detto, LìosLand è immensa, ancora più grande dell’Australia, e potrebbero essere precipitati in qualsiasi parte.» Si alzò in piedi e Constantine con lei. «Io voglio andare a LìosLand, e spero che voi mi aiuterete ad arrivarci.»
 
 
Constantine’s POV
 
Aria guardò Constantine che ricambiò il suo sguardo. La determinazione di quella piccola rossa lo lasciava ammutolito. Non sapeva più come comportarsi con lei, anche perché aveva già adottato dei cambiamenti nel suo modo di relazionarsi con le persone che non aveva mai avuto prima di lei. Lasciarsi toccare da lei, toccarla di sua spontanea volontà, consolarla e lasciarsi consolare… non ci era abituato e non n’era incline a tali slanci d’affetto.
Perché era affetto, si rese conto. Stava iniziando ad affezionarsi ad Aria senza che lui non potesse farci niente. Era come la vecchiaia – nel senso lato del termine – che prima dà avvisaglie con i primi acciacchi e poi ti prende inesorabilmente.
Non sapeva come reagire, lasciava che le cose gli scivolassero addosso, per poi pagare il conto alla fine di tutta quella situazione scombussolata.
«Signorina, non credo che lei si renda conto del guaio in cui si sta cacciando, per colpa della sua testardaggine.» l’avviso l’uomo.
Quando lo aveva visto, dopo che li aveva quasi investiti, aveva percepito subito che c’era qualcosa in lui, come una sorta d’alone che l’avvolgeva dalla testa ai piedi e che offuscava la sua figura imponente. Aveva provato l’istinto di allontanarsi, di fare un passo indietro, ma si era controllato per tempo.
«Non m’interessa.» dichiarò Aria.
«Lei non sa che posto può essere diventato LìosLand…»
«Lei lo sa, invece?» ribatté la ragazza.
L’uomo incassò il colpo. Abbassò lo sguardo per qualche secondo, prima di tornare a guardare Aria negli occhi, offuscati dal rammarico e dal dolore.
Constatine si sentì in empatia col professore; quel senso di disagio che ti pervade non avendo idea di quale sia l’immagine della realtà che hai sempre vissuto è soverchiante.
«Mi dispiace.» si scusò Aria, tirandosi indietro alcune ciocche rosse. «Non volevo battere quel tasto, ma… cercate di capire: Sy è mia amica, mi ha aiutato nelle situazioni peggiori, mi ha dato la forza per rialzarmi quando non ne avevo più neanche per piangere… è mia sorella. E anche se non sono un elfo, un Lhàkoros o un phantom, userò qualsiasi mezzo per raggiungere Sy e esserle d’appoggio, in qualunque modo.»
Il coraggio della piccola rossa aveva il potere di lasciarlo esterrefatto e suscitargli un impeto d’orgoglio mai provato. La sua determinazione fu la leva che gli accese dentro il desiderio di esaudire il suo desiderio, per quanto pericoloso esso fosse.
D’altronde, ci sarebbe stato lui a proteggerla, nulla le avrebbe fatto anche un solo graffio.
Strinse la calda, piccola mano della sua. «Ho bisogno che mi diate un’immagine precisa del posto in cui devo andare.» pretese.
Entrambi i professori, ormai alle strette, sospirarono e, dopo essersi scambiato l’ennesimo sguardo, annuirono.
Il professore disse: «Visto che insistete tanto,  non ci rimane altra scelta, se non quella di accompagnarvi.» Annuì determinato, sotto gli sguardi sorpreso dei due giovani. «A quanto pare andremo tutti in gita in montagna, e questa volta sarà per davvero.»
 
 
Sylence Lillian Hill’s POV
Mi inginocchiai sulla riva, immergendo le mani nell’acqua: a dispetto di quanto sembrasse, era calda e densa, come affondare la mani in una crema. L’energia che essa conteneva mi risalì dalla punta delle dita, nei palmi, nelle vene. Mi pervase, donandomi il suo potere restauratore, proprio come una sessione di cura sotto le mani di Bastian. Le fatiche del corpo e della mente venne sommerse e lavate via.
«Immergete le mani, lasciate che vi curi.» mormorai agli altri.
Il Cerchio si fece avanti e, ad uno ad uno, tuffarono le mani: vidi il sollievo e una nuova botta d’energia pervadere le loro membra, i visi che rispecchiavano il sollievo riprendendo colore, distendendo le rughe dovute ai momenti di tensione, le ombra scomparire sotto un rossore genuino.
Presi la pietra più piatta e liscia che trovai e mi rialzai, stringendola nel pugno. La racchiusi fra i due palmi, l’avvicinai alla bocca e, nell’Antica Lingua, sussurrai: «Porta a Colei che mi ha Generato, la Notizia della mia Venuta. Che il Nuovo Sangue e l’Antico Sangue si ricongiungano, infine
Tirai indietro il braccio e con un movimento del polso, lanciai la pietra di piatto sull’acqua. I suoni che ne nacquero dai ripetuti tocchi sulla superficie cristallina del Lago erano paragonabili ai suoi nei cristalli al venti, un tintinnio così soave da far piangere. I cerchi circoncentri si espandevano incastrandosi l’uno con l’altro creando un quadro di forme geometriche splendide, armoniose, che avevano una melodia propria, una composizione fatto da Madre Natura in persona.
La pietra perse lo sprint iniziale e con un leggero tonfo affondò nell’acqua del lago.
«Che cosa hai detto, qualche momento fa?»
Mi voltai verso Jake. «Un messaggio. Dovremmo avere la risposta tra breve. Nel frattempo, perché non mangiamo qualcosa? Ho una fame da lupi.»
«Dio, ragazzi, una sessione alle terme non poteva essere migliore!» Rafe si stiracchiò, facendo gocciolare le mani ancora bagnate sulla faccia.
«Concordo.» si aggiunse Bastian.
Ci sedemmo a cerchio e dopo aver raccolto qualche ramo abbastanza grande da essere bruciato, Red accese un fuoco. Tutti con una mela e una bottiglina d’acqua per parte, incominciammo a mangiare. Ci scambiamo poche parole, troppo immersi nei nostri pensieri per poter parlare.
Finalmente avrei contrato mia madre. Ancora non ci potevo credere. Nella mia mente, sapevo che da lì a pochi minuti sarebbe apparsa, immersa nelle spumeggianti acque argentee del lago, la figura misteriosa che era la mi genitrice, ma nel cuore non sentivo ancora quel legame che avrei dovuto stringere con lei molti anni prima.
È davvero brutto da dire, ma finché non l’avessi incontrata in carne e ossa, finché non le avessi parlato, non l’avessi toccata, non avrei mai creduto alla sua esistenza.
Sarei stata San Tommaso.
«Che cosa hai intenzione di fare?» mi chiese Jake ad un certo punto.
Lo guardai titubante. «Non lo so. Voglio dire, siamo qui.» Indicai con un cenno della testa tutto quello che avevo intorno. «Ho atteso tanto il momento in cui l’avrei incontrata per la prima volta. E ho tante di quelle domande che mi scoppia la testa. Credo che dopotutto, io non stia vivendo questo momento nel modo giusto. Insomma, sto per conoscere mia madre,» tentai di metterci un po’ di enfasi, ma mi uscì molto fiacca la frase, «l’altra parte di me, ma nella mia testa è come se l’avessi già vista. Come se avessi già parlato con lei.»
«Per quello che ti è successo?» chiese Bastian. «Del piccolo… “incidente”?» disse facendo virgolette.
Annuii. «Lei mi ha dato un’infinità d’informazioni, che però non sono tutte sbloccate, solo quelle essenziali per arrivare fino a qui. E, in tutto quel marasma di roba, c’erano anche alcuni ricordi.» Il mio sguardo si perse nel vuoto, mettendo a fuoco quelli che erano alcuni istanti di vita quotidiana che mia Madre aveva  condiviso con me. Momenti in cui era sulla Terra, poco prima di averla lasciata.
Il periodo della sua gravidanza e della mia nascita.
 
*   *   *
Albhany’s Memories
 
«Abby?»
La voce di Xavier le fluttuò intorno, riscuotendola dal torpore a cui si era lasciata andare. Lo vide appoggiato allo stipite della porta, le braccia conserte che la guardava con i suoi occhi scuri illuminati dell’amore che sentivano reciprocamente.
«Perdonami, stavo assopendomi. È cosi bello sentire il sole sulla pelle…» mormorò.
«Sei bellissima.» le disse. «Ora più che mai. Non avevo idea che la gravidanza di desse un aspetto così… radioso. Sembri emanare una luce tutta tua.»
Abby gli regalò un sorriso dolcissimo. Gli tese una mano, chiedendogli di avvicinarsi. «È tua figlia che illumina la giornata, non io.» Chinò la testa per ricevere il bacio dal suo uomo.
«Si capisce che sarà uguale a te, quando crescerà.» le disse Xavier, sedendosi sulla panca sotto la finestra. La stanza della bambina era stata già arredata e il bianco era il colore che spiccava di più. Le tende di pizzo, i mobili laccati, il letto intagliato, il comodino e anche la panca sotto la finestra, era tutto di un bianco puro, ma non freddo. Niente avrebbe potuto essere freddo in quella casa.
Abby si accarezzò il pancione ormai ben visibile al sesto mese di gravidanza.
«Io spero che sia uguale a te.» asserì la donna.
«Con la testa fra le nuvole e le mani perennemente sporche di terra?» scherzò Xavier, passandosi una mano tra i capelli disordinati.
Abby si lasciò distrarre un attimo dalla visione del corpo forte del suo uomo, la flessione elegante dei muscoli, la forza delle braccia, la torsione del petto.
«No,» disse poi. «Vorrei che fosse di sani principi, generosa e piena di amore.»
Xavien la fissò con gli occhi pieni del suddetto amore. «Non riesco a capire la tua testardaggine. I miei sani principi ne risentono pesantemente. Perché vuoi aspettare? Perché non sposarmi adesso? Io amo te e so che anche tu mi ami, aspettiamo una splendida bambina, perché dovrei aspettare ancora?»
Lei sospirò, allungando una mano ad accarezzare la guancia del suo amato. Le faceva male al cuore dover chiedergli tanto, sapeva che il desiderio di rendere la loro relazione di dominio pubblico, di dire a tutti quelli che poteva che era la sua donna, sia moralmente che legalmente, era forte, ma…
«Non sempre possiamo avere tutto e subito. A volte è meglio aspettare. La pazienza è la virtù dei forti.»
L’uomo grugnì la sua disapprovazione, ma baciò il palmo della mani di Abby.
«Certe volte vorrei entrare nella tua testa e carpirne ogni segreto. Proprio non mi spiego perché vuoi aspettare, ma visto che è questo il tuo desiderio, allora lo accetterò. Ma sappi che non ne sono contento.»
Neanche lei lo era, ma per il suo bene e per quello della bambina era meglio per tutti se nessuno sapeva della loro relazione.
 
*   *   *
 
«Non sono un pezzo di vetro, sai? Posso camminare tranquillamente da sola.» protestò Abby.
«Dopo che hai rischiato, e non solo una, ma uno svariato numero di volte, di cadere, scivolare o quant’altro, rischiando di fare del male a te e a nostra figlia? Scordatelo! D’ora in poi non muoverai un passo a meno che non ci sia io a un minimo di trenta centimetri di distanza.»
Abby sbuffò, ma si strinse nelle braccia del suo uomo, beandosi del suo calore e della sua forza. Sapeva che Xavien aveva ragione: stava rischiando molto negli ultimi tre giorni, ma non era colpa sua. Purtroppo non si poteva imputare colpa a nessuno fuorché alla sua natura. Stava iniziando ad avere cedimenti, mancanze di Energia e botte di calore improvvise che la lasciavano stordita nel peggiore dei modi.
Il suo periodo nel mondo terreno stava volgendo al termine, il suo Paese natale iniziava a mandarle i primi segnali d’allarme, ad avvertirla che doveva fare in fretta a tornare, prima che fosse troppo tardi.
Ma doveva resistere. Era all’ottavo mese, non poteva mollare proprio adesso, doveva dare alla luce sua figlia. Doveva farlo, per il bene di entrambe.
 
*   *   *
 
Strinse forte i dente, sentendo i muscoli contrarsi ormai allo stremo. Dolore ovunque. Alle mani, dove stringeva forte la cornice del letto, alle gambe contratte all’inverosimile, e al ventre doveva e sembrava che un pezzo di vetro le si fosse conficcato nelle carni e continuasse a salire e scendere tra lo stomaco e l’utero.
«Spinga un altro po’, ci siamo quasi!» le gridò l’ostetrica, premendole sull’addome. «È quasi uscita, solo un altro po’.»
Con un ultimo sforzo erculeo, gridando tutto il suo dolore e la sua forza di volontà, Abby spinse fino a che non le parve che il cervello le esplodesse e il peso che sentiva non sparì, lasciandola esausta, sudata, allo stremo.
«Eccola!» disse l’ostetrica, reggendo tra le mani un esserino minuscolo, tutto rosa, congestionato e rugoso. La donna le diede un paio di pacche sul sedere, fissando preoccupata la bambina, che non aveva emesso un solo suono.
In quel momento, entrò nella stanza il neo papà, staccando quasi la porta dai cardini, e fece vagare lo sguardo fino a che non lo posò sulla donna sul letto, valutando in pochi secondi se mettersi a piangere o ringraziare Dio.
«Abby!» la chiamò avvicinandosi al letto. Strinse la donna tra le braccia. Intanto l’ostetrica avvolgeva in un panno morbido la bambina. Aveva constatato che respirava il suo cuore batteva veloce,  forte, ma la bambina si rifiutava di piangere. Decise quindi di portandola dal padre. «Signor Hill, sua figlia.»
L’uomo stordito si voltò a guardare prima la donna e dopo ad abbassare lentamente lo sguardo fino ad incontrare due occhi del colore della tempesta, specchio di quelli della madre. Di solito i bambini nascono con gli occhi azzurri per poi cambiare colore nel corso dei giorni successivi. Ma lei, sua figlia, no, lei era troppo speciale, troppo incredibile per rispettare gli standard.
Lei che lo guardava con uno sguardo intenso, come se sapesse già chi lui fosse e lo stesse studiando, valutando. Lei che allungò una manina verso di lui, aspettandosi un contatto.
Xavien venne pilotato da quello sguardo di tempesta e nuvole e allungò un dito che si fece allegramente stringere dalle ditina di sua figlia.
Solo allora la bimba di decise ad emettere i primi suoni e i gorgoglii tipici dei neonati riempirono la stanza come il suono di tante campanelle al vento, dando il benvenuto al mondo alla piccola Sylence.
 
*    *    *
 
Non riusciva a trovarla. Aveva cercato in tutte le stanze, la bambina dormiva tranquilla nel suo lettino, la cucina era immersa nel silenzio, insolito nella sua casa. Quando si avvicinò alla porta sul retro si accorse di star rabbrividendo. Strano, visto che era piena calura estiva.
Spalancò la porta. Si bloccò sulla soglia. Un pulviscolo bianco gli si posò sulla guancia, irradiandolo con il suo bacio gelido. L’intero giardino era coperto di neve, che cadeva dolcemente al suolo, ricoprendo il suo erboso con il suo candore.
Xavien si accasciò al suolo, mentre il groppo che aveva in gola si serrava e gli occhi si inumidivano.
Quello era il suo messaggio d’addio. Alhbany.

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