Mental Disorder.

di Nitrogen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


Ai miei incubi,
che di idee malsane me ne regalano fin troppe.

 



 



Capitolo I
_____________________
 
 
 
L’effetto del narcotico stava finalmente svanendo. Dovevo aver perso i sensi per parecchio tempo perché quando rinvenni impiegai cinque minuti buoni solo per riuscire a muovere un dito; gli arti erano indolenziti e la testa in fiamme, pronunciare qualche frase di senso compiuto risultava impossibile a causa della scarsa salivazione e anche solo domandarsi il perché di tutto quel dolore ai polsi riusciva difficile.
Aprii gli occhi con uno sforzo inumano e rimasi accecata dalle luci troppo potenti sul soffitto bianco: guardare le pareti o il freddo pavimento di mattonelle, entrambi dello stesso pallore, risultava inutile e altrettanto faticoso, dunque aspettai che la vista si abituasse a quell’atroce fastidio versando qualche lacrima involontaria.
L’unica nota di colore in quella stanza era il mio stesso sangue ormai secco che macchiava una parte del pavimento e del muro. Ne sentivo leggermente il sapore metallico anche in bocca, ragion per cui passai in rassegna con la lingua tutti i denti delle due arcate senza però trovare differenze.
Impiegai qualche secondo di troppo per capire che i polsi erano bloccati dietro la schiena da delle manette ben strette e la caviglia destra da una catena incastrata a un gancio nel muro: il recupero delle mie facoltà cognitive si stava rivelando più complicato di quanto potessi immaginare.
Quando fui in grado di mettermi a sedere osservai la piccola stanza, che in realtà altro non era se non quattro mura di recente verniciatura – o addirittura costruzione – contenenti un altrettanto recente tavolo in lega metallica con due sedie anch’esse troppo nuove per poter dire siano state usate prima di quel giorno. Con quella catena alla caviglia potevo arrivare soltanto a una delle due sedie, ma non avevo ancora fatto i conti con le vertigini che mi presero non appena provai ad alzarmi dal pavimento.
Per la cronaca, arrivai comunque alla sedia anche se sbandando pericolosamente in ogni direzione. Avevo abbastanza determinazione da poter fare quasi ogni cosa, e altrettanta immotivata convinzione di essere abbastanza determinata da poter fare invece qualsiasi cosa. Non pensavo di essere inarrestabile su ogni fronte, ma mi tocca ammettere che ero molto piena di me proprio come se lo credessi davvero.
Non so quanto tempo aspettai con la testa sul tavolo, ma trovai il modo di non annoiarmi troppo costringendomi a un riepilogo generale di quel che avevo intuito stando in quella stanza spoglia e decisamente poco accogliente. Per prima cosa, non potei fare a meno di notare che non vedevo finestre e l’unica porta esistente sembrava pesantissima e di grande spessore, con un misero vetro oscurato e probabilmente unidirezionale dal quale qualcuno mi osservava. Non era una porta per niente abbordabile economicamente da un cittadino medio, e di conseguenza ero "ospite" di qualcuno di discreta rilevanza o che guadagnasse il triplo dei due stipendi mensili che recepivano i miei genitori. Inoltre, il sospetto che mi trovassi in un luogo per nulla piacevole dopo essere stata incastrata in tal modo non poteva che rivelarsi veritiero: lo scontro con la polizia era stato estenuante e il narcotico aveva svolto un ottimo lavoro, rinchiudermi da qualche parte e isolarmi non sarebbe risultato difficoltoso; e su questo ero pronta a giocarmi le scarpe che avrei tanto voluto avere. Tutto quel che mi copriva era un camice da paziente bianco, leggermente sbiadito da probabili troppi lavaggi. Non indossavo più nulla di quello che ricordavo.
Quando di fronte ai miei occhi si materializzò un uomo entrato dalla porta, non mi preoccupai nemmeno di sistemarmi meglio sulla sedia per ringraziare come si deve il padrone di casa per la sua ospitalità fatta di catene, manette e sangue. Era un uomo alto e robusto, dai capelli brizzolati, gli occhi scuri e allungati; indossava un camice da medico e con sé teneva una valigetta nera priva di graffi. Entrò nella stanza senza mai smettere di sorridere e prese posto dall’altro lato del tavolo, sulla sedia che non avrei mai potuto raggiungere nemmeno sforzandomi. Pure se avessi allungato un braccio, non sarei riuscita nemmeno a sfiorarlo.
«Nebraska Herstal, ragazza, sedici anni, nata a Dublino il 23 Settembre 1996 ma residente a Baltimora da quando aveva sei anni… Tutto esatto?»
Annuii dando uno sguardo annoiato sul foglio con i miei dati generali che aveva tirato fuori dalla valigetta; c’era anche una mia fototessera allegata, ma cercai di non pensare che rendeva ben poca giustizia al mio bell’aspetto ritornando a osservare l’uomo, ancora sorridente e con un accento che era ben lontano da quello americano o inglese. Il tesserino lo identificava come uno psichiatra, di nome Hijikata Kashim.
«Nebraska… Non è di certo un nome che le si addice dopo il putiferio che ha generato.»
Si sbagliava, ma non sul significato del mio nome decisamente poco adatto a qualcuno che di tranquillo non aveva nulla. Feci un sorriso forzato per ricambiare i suoi più naturali e continuai a starmene zitta. Non mi intimoriva la sua presenza nella stanza, ma sapevo che parlare a vuoto mi avrebbe causato problemi e finché riuscivo era meglio rispondere solo allo stretto indispensabile.
«Herstal, sa perché è qui?»
«Più o meno.»
Hijikata iniziò a scrivere furiosamente su un blocco appunti in precedenza riposto nella cartella.
«”Più o meno” non è la risposta che mi aspettavo da lei.»
«E cosa si aspettava? Un “sì” seguito da un bellissimo ghigno?»
Sorrise. Evidentemente avevo appena fatto centro.
Tornai a guardare la porta di fronte a me poggiando la testa alla mano e chiusi gli occhi: avevo la nausea e le vertigini, in aggiunta al bel quadretto c’era un mal di testa che si placava solo se smettevo di pensare. Non era facile sopportare tutti quei fastidi che avrebbero messo qualcun altro al tappeto e contemporaneamente risultare acida come se nulla mi causasse troppi problemi.
«Non sembra affatto spaventata.»
«Non ho motivo per esserlo.»
«Devo ricordarle che attualmente è detenuta in un ospedale psichiatrico?»
Caspita, mi hanno messa in mezzo ai pazzi!
E mentre lo penso torno a guardarlo, divertita dalla sua precisazione. Ero convinta mi avrebbero messa in carcere e condannata a qualcosa di molto prossimo all’ergastolo, e invece mi ritrovavo in un ospedale psichiatrico perché ritenuta psicologicamente instabile.
«Come mai non sono in un carcere minorile? Credevo mi avreste mandata direttamente lì.»
Lui staccò gli occhi dalla cartella e posò la penna. Rimase in silenzio per qualche secondo prima di rispondermi, non riuscii a decifrare il suo sguardo.
«Infermità mentale.»
«Avrei preferito passare la mia vita in carcere ma non essere considerata una pazza.», dissi più a me stessa che a lui. «Non c’è modo per cambiare la situazione?»
«È un po’ tardi per dimostrare il contrario, Herstal. Doveva pensarci prima di compiere un simile reato.»
Pensai che dopotutto aveva ragione: ero stata accusata di un atto che non avevo compiuto, ma ripeterlo ancora anche a quel medico non aveva senso perché purtroppo ero stata incastrata con le spalle al muro senza vie di fuga e se il mondo intero era convinto di questo, io non potevo farci niente. Condannata com’ero a una vita di torture e poche libertà, tanto valeva accettare la mia permanenza in un ospedale psichiatrico che di certo non poteva essere tanto peggiore di un carcere minorile.
«Cosa dovrò fare adesso?»
La mia voce era stata strozzata da un improvviso dolore alla scapola destra che non riuscivo a motivare. Avrei voluto controllare sotto il camice, ma le manette mi impedivano ogni cosa.
«Tutto il possibile per permetterle di integrarsi nuovamente con la società.»
Palle, sono tutte palle.
Ma non glielo dissi perché sarebbe stato anche questo inutile. Era quel che veniva detto a tutti i pazienti, eppure erano davvero poche le persone che riuscivano a tornare a casa e io lo sapevo. Forse anche io non sarei mai tornata a casa, però pensarci adesso e perdere il controllo mi sarebbe costato caro.
«Noto dal suo sudore che sta per terminare l’effetto dell’antidolorifico.»
Il suo ghigno mi fece innervosire e gli avrei volentieri sputato in pieno volto, ma mi feci forza per non reagire in malo modo poiché iniziavo anche a sentire il fastidio sempre maggiore ai polsi, ormai brucianti come se perennemente circondati dal fuoco, e necessitavo la sua collaborazione per smettere di soffrire.
«Può togliermi le manette?»
«Sarebbe rischioso per la mia incolumità.»
«Teme le salti addosso e la uccida per poi mangiarla? Le assicuro che non sono solita ricorrere a soluzioni così estreme per soddisfare la mia fame. E sarebbe stupido peggiorare la mia situazione più che critica usando la violenza contro di lei.»
Lui scosse il capo, non soddisfatto della mia risposta oltremodo esauriente. Era un uomo difficile che non si faceva intimorire da un – per lui – malato di mente che sapeva esattamente cosa dire per farsi credere. Purtroppo nemmeno io ero una che si faceva intimorire, e pur essendo sola contro il mondo non mi andava di farlo vincere: quelle manette le volevo lontane dai miei polsi e avrei fatto il possibile per accontentare il mio capriccio.
«Dottor Hijikata, andiamo… Non ne posso più di queste fastidiose manette. Me le tolga.»
«Mi dispiace Herstal, ma di criminali come lei se ne vedono molti in giro e alla minima distrazione sarei morto.»
«La prego, mi dia del tu. Potrei essere sua figlia per quanto mi dicono le sue rughe e prima che lo pensi no, non è un’offesa.» Mi alzai in piedi tentennando e mi voltai di spalle. «Adesso le spiego cosa può fare: si avvicina e mi toglie le manette con la promessa che io non le torcerò un capello, oppure lascia scivolare la chiave sul tavolo ed io farò il resto da sola. Se non vuole rischiare le consiglio quest’ultima in quanto le ricordo che ho una catena alla caviglia, e dunque non potrei ferirla nemmeno se volessi.»
Ci fu silenzio per qualche secondo prima di sentire la piccola chiave strisciare lungo il tavolo. Mi liberai alla svelta e tornai a sedermi, massaggiandomi i polsi e facendo scivolare le manette nella sua direzione: potevano essere usate come un’arma e non volevo credesse che una volta tolte mi sarei scagliata contro di lui a distanza.
Spostai leggermente il camice e osservai la scapola destra, restando per lo più sorpresa ma comunque non allarmata. Era fasciata e leggermente macchiata di sangue, doveva essere una ferita probabilmente causata da arma da fuoco per quanto si era espansa in modo uniforme e circolare sulle bende; notai che non erano ben strette ma abbastanza allentate, e questo mi fece pensare che non erano state cambiate come in realtà era il caso di fare. Non ricordavo di essermi procurata una simile ferita, mi sfuggiva ancora qualche dettaglio su ciò che era accaduto anche se ormai avevo recuperato quasi del tutto le mie capacità cognitive.
«Ero sicuro avresti usato le manette per colpirmi.», ammise facendomi scappare una risata.
«Penso ci vedremo molto spesso in questi giorni, sarebbe il caso di andare d’accordo almeno per un altro po’ di tempo.»
«Senza dubbio, Herstal, sei molto perspicace per essere stata rinchiusa in un ospedale psichiatrico perché considerata incapace di intendere e di volere.»
«La ringrazio infinitamente del complimento e spero ci sarà un modo per farle capire che sono capace di intendere e di volere benissimo. In tutta confidenza, credo i miei genitori e il mio eventuale avvocato che non ho mai avuto l’onore di conoscere abbiano mentito per non farmi finire in carcere minorile. A proposito, avrebbe anche un antidolorifico in quella bella valigia da lavoro? La spalla non smette di pulsare.»
Lui rise sommessamente e sapevo esattamente a cosa era dovuta quella reazione: quante altre persone prima di me, davvero malate di mente, avevano detto la stessa identica cosa sull’essere sani e non psicologicamente instabili? Io ero solo una delle tante, a parole non avrei concluso un bel niente.
«Ce l’ha o no questo antidolorifico?», chiesi nuovamente, con più rabbia di quanto volessi.
«Sì, ho un antidolorifico. Sapevo ti sarebbe servito e l’ho portato… Prima che io te lo somministri, però, avrei la necessità di porti alcune semplice domande. Nulla di troppo impegnativo, te lo assicuro.»
Tirò fuori dalla valigia un cofanetto metallico contenente diverse siringhe, sieri e flaconi. A quanto ne sapevo, gli psichiatri non potevano andare in giro con tutta questa quantità di farmaci né tanto meno darli a pazienti. Erano davvero troppi flaconi e dalla mia visuale non riuscivo a distinguere i nomi sulle etichette.
«Prego, parli pure.»
Prese un registratore a cassetta e lo dispose al centro del tavolo. Una volta azionato, iniziò con la serie di domande.
«Ricordi esattamente cosa è accaduto? So che te l’ho già chiesto, ma rispondi comunque.»
Annuii, poi risposi con un “sì” ricordandomi del registratore. Sudavo sempre di più. Il dolore alla spalla destra poteva essere paragonato a una tortura vera e propria per quanto stava diventando atroce.
«E ti penti delle tue azioni?»
«Mi pento di aver ascoltato qualcuno che ha fatto in modo di incastrarmi qua dentro al posto suo. Posso avere l’antidolorifico?»
Sistemò con cura l’ago sulla siringa. Non l’aveva disinfettato, ma non poteva importarmi più di tanto in quel momento: stavo male, avevo bisogno di quell’iniezione.
«Con calma, Herstal. Chi è che ti avrebbe incastrato per l’omicidio, secondo te?»
«Che senso avrebbe risponderle? Riderà di me perché mi crede pazza e non voglio contribuire ulteriormente al divertimento suo e dei suoi colleghi dicendo altro al riguardo. So che non avete trovato niente che non sia mio sul posto, quel che direi sarebbero solo accuse campate in aria.»
«Vedo che non sei ancora disposta a parlare dell’accaduto e accettare le tue colpe.»
Se non avessi avuto una spalla fuori uso avrei sbattuto entrambi i pugni sul tavolo, ma fui costretta a limitarmi per quello sfogo di rabbia all’utilizzo del solo sinistro; il risultato fu misero in quanto di forza, al momento, ne avevo ben poca. Più il tempo passava, più il mio resistere alle urla che avrei voluto cacciare per il dolore alla spalla prosciugava le mie energie.
«Parlerò dell’accaduto solo quando lei sarà disposto ad ascoltarmi e a non credermi malata di mente.»
«Così non andiamo d’accordo, Herstal... Devi collaborare con me se desideri una permanenza piacevole in questo ospedale. Non vuoi più l’antidolorifico?»
Certo che lo volevo, ma il dosaggio del farmaco nella siringa non era quello giusto.
«Quanto crede io sappia di medicina, dottor Hijikata?»
Sul suo volto si disegnò un’espressione perplessa che non motivava la mia domanda. Si alzò in piedi prima di rispondermi.
«Beh, dal tuo grado di istruzione e la scuola scelta suppongo il minimo indispensabile.»
Mi lasciai scappare una risata sommessa: «Hijikata-sensei, dovrebbe stare più attento con chi è in grado di intendere e di volere.»
Questa, per esempio, era una di quelle affermazioni che non andavano fatte pur essendo lecite. Mi resi conto solo dopo che risultava essere una minaccia bell’e buona, ma ciò non fece altro che aumentare il mio divertimento e alla fine mi fregai con le mie sole parole.
«Cosa intendi, Herstal?», chiese visibilmente nervoso.
«Quello non è il dosaggio giusto per l'analgesico.» Sorrisi vedendolo bloccarsi con la siringa a mezz’aria. «O meglio: lo sarebbe se il suo intento fosse quello di causarmi nausea, vomito, allucinazioni, euforia e tanti altri sintomi per nulla piacevoli… Vuole forse farmi star male per costringermi a parlare?»
Colto in flagrante, il dottore non rispose a parole ma con un’espressione tutt’altro che piacevole. Mascherava a fatica la rabbia, la voglia di prendermi a pugni o sbattermi contro il muro per assistere a un mio svenimento. Sembrava come ferito nell’orgoglio e sapevo che non me l’avrebbe fatta passare liscia in nessun modo, nemmeno se avevo capito le sue intenzioni.
Lasciò scivolare la siringa sul tavolo nella mia direzione e sorrise, tirandosi su le maniche del camice da dottore. Sudava anche lui adesso, e non potei non sorridere vedendolo in quello stato.
«Forza, Herstal. Fallo da sola, sono certo tu sappia farlo.»
«Altrimenti?»
«Potremmo sempre fingere tu abbia optato per un suicidio nella tua stanza. Nessuno si prenderà l’incarico di controllare se un malato di mente ha davvero pensato di andare all’altro mondo o gli sia accaduto qualcosa di altrettanto spiacevole.»
Tutte le imprecazioni e le maledizioni che mentalmente creavo e scagliavo contro di lui si affievolirono poco alla volta quando presi in mano la siringa e osservai il liquido che la riempiva interamente. Non avevo molte alternative se non parlare direttamente o iniettarmi quella sostanza endovena e, alla fine, parlare comunque. Stringendo il pugno mi promisi che Hijikata me l’avrebbe pagata cara, così come anche i miei genitori e la persona che era stata in grado di rinchiudermi qua dentro.
L’unica cosa che feci prima di passare il dito sullo stantuffo, fu sperare nella mia capacità di resistere a quella droga e non dire più di quel che volevo.




──Note dell'autore──
Non so se riuscirò a trarre davvero una storia da ciò, senza qualcuno che mi sproni continuamente a continuare io tendo ad abbandonare tutto. Spero almeno di non avervi fatto perdere tempo leggendo questo capitolo.


Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***








Capitolo II
______________________
 
 
«Sono certo che adesso la qui presente Nebraska Herstal sarà disponibile a rivelare ciò che sa sull'omicidio, a darci un movente chiaro e valido delle sue azioni.»
Qualunque cosa avessi detto l'avrebbero usata contro di me e l'opzione di restare in silenzio sembrava ancora possibile con tutta la droga. Mi chiedevo se avrebbe capito che non ero un soggetto che si lasciava sopraffarre dalla paura o l'ansia: continuavo a puntare i miei occhi neri nei suoi altrettanto scuri, ostinata a non abbassarli anche se la testa diventava ogni secondo più difficile da tener ferma. Iniziavo a sentirmi leggera, tranquilla, forse spensierata, ma questo non bastò a farmi parlare perché vedevo già materializzarsi davanti ai miei occhi le solite allucinazioni di poco conto, quelle carine che ti lasciano chiacchierare con le persone a cui vuoi bene di cose frivole, che non possono far altro se non innervosire la persona intenzionata a estorcerti informazioni sicuramente più importanti di quelle che potevano darti le allucinazioni.
Il primo pugno arrivò senza che me ne accorgessi sulla mascella. Impiegai troppo tempo per capire mi fosse stato inferto da Hijikata, ma non fece troppo male. Il secondo prese in pieno uno zigomo, e in preda all'euforia causata dalla droga risi vedendo il mio sangue uscire dalla bocca e sporcare il suo camice; la risata si trasformò in panico quando dopo altri pugni indolori sputai sangue e vermi, allora incapace di realizzare che questi ultimi erano solo frutto della mia testa e non reali.
Non so per quanto tempo andò avanti questo incubo, ma posso dire con un po' di fierezza che il mio autocontrollo ebbe la meglio sulla droga: avevo visioni, nausea e giramenti di testa accentuati dall’analgesico, ma riuscii comunque a non proferir parola pur sudando freddo.
Hijikata non sembrava apprezzare il mio religioso silenzio, e non c’era momento in cui non me lo facesse notare tirandomi calci e pugni. Quando l’effetto della sostanza andava scemando lo mordevo o colpivo anche io come meglio potevo, sperando di fargli abbastanza male da farlo andar via e avere un po’ di pace.
Purtroppo, trovò il modo per rimettermi le manette e iniettarmi altre due dosi eccessive di quel farmaco con l’unico intento di punirmi per la mia poca disponibilità. Quella sostanza aveva effetti devastanti sul mio organismo, non riuscivo a reagire o a difendermi ad ogni suo attacco d’ira con tutta quella droga in corpo, ma per lo meno ero immune al dolore per il suo effetto analgesico che funzionava perfettamente: in quel momento avrei potuto avere fratture di ogni genere e non rendermene conto, e questa era l’unica cosa che mi confortava da un’eventuale morte per mano di quello psichiatra.
Nella sequenza confusa e distorta di realtà alternata ad allucinazioni ci sono frasi sconnesse di Hijikata che mi incitavano a confessare dopo l'ennesimo colpo impartitomi nello stomaco, siringhe che si susseguono ciclicamente nelle mie braccia iniettandomi liquidi a me sconosciuti endovena, ghigni mostruosi di quello psichiatra che probabilmente meritava di essere rinchiuso nel manicomio al posto mio. Arrivò a minacciarmi anche con un coltello puntato prima ai polsi e poi in gola.
Per un secondo mi chiesi se sarei morta proprio in quella stanza grazie all'indole omicida di un essere privo di controllo, e per di più in un giorno che non sapevo perché avevo perso la cognizione del tempo. I miei genitori, che ero certa non avessero voluto il mio male, avrebbero creduto alla menzogna del suicidio? Forse sì, forse si sarebbero arresi a quella notizia e mi avrebbero ricordato come la loro unica figlia, nata e cresciuta comportandosi da angelo e diventando un'assassina di prim'ordine senza che loro se ne fossero accorti.
Sarebbe stato un finale triste, ma il più probabile tra i pochi possibili se qualcuno non avesse spalancato la porta e iniziato ad urlare contro Hijikata. Non sentivo cosa diceva, ogni suono arrivava alle mie orecchie ovattato, ma le braccia e le mani che non riusciva a tener ferme perché in preda all'ira parlavano chiaro. Era arrabbiato, non voleva che lui mi facesse del male… o almeno non fino a quel punto. Desideravo scorgere i suoi lineamenti, vedere il volto del mio salvatore, ma con tutta quella confusione che si era impadronita del mio sangue il massimo che potevano i miei occhi ipermetropi fu distinguere appena la sua carnagione abbronzata e i suoi capelli marrone scuro che, essendo corti, in circostanze normali non mi avrebbero nascosto nemmeno una parte del suo viso.
Sapevo che mi accarezzava ma non lo sentivo sulla mia pelle, capivo che mi teneva tra le sue braccia sperando che non fossi morta ma non potevo nulla per fargli capire che in un modo o nell’altro ero ancora cosciente. Avrei voluto comprendere le sue parole, rispondere, muovere un solo muscolo e non ci riuscivo.
Ricordo che ad un certo punto svenni. L'ultima immagine catturata dalle mie retine fu del braccio destro insanguinato da troppi tentativi nel cercare la vena, causa del piccolo rivolo di sangue che scivolava nella chiazza rossa già esistente sul pavimento, dove mi ero accasciata nuovamente esanime.
In un attimo di lucidità prima di chiudere gli occhi ripensai alla persona che aveva deciso io dovessi essere il suo sostituto in questo inferno e la maledii ancora, augurandole il doppio delle mie sofferenze.

Il risveglio fu traumatico. Tutti i dolori che fino a quel momento non avevo provato a causa dell’analgesico si stavano facendo largo in ogni parte del mio corpo, rendendo il mio ritorno alla realtà atroce e pieno d’agonia: la testa scoppiava di nuovo, le vertigini erano presenti ancora una volta, le braccia dolevano e pulsavano come anche la scapola dove ero stata sparata chissà quando.
Mi contorcevo sotto un lenzuolo logoro e sporco, in quel letto tutt’altro che confortevole posto contro il muro di una stanza che non riconoscevo, che non avevo mai visto. Era piccola e non presentava nessun elemento che mi permettesse di riconoscerla, addobbata esclusivamente con il minimo indispensabile, una brandina e un gabinetto poco distante che vedevo a stento a causa della scarsa illuminazione che filtrava attraverso un misero rettangolo sulla porta dal lato opposto della stanza. Non era il posto migliore del mondo, eppure lo preferivo di gran lunga alle torture di Hijikata.
Mi alzai, ancora dolorante e barcollando, e feci il giro completo dei miseri due metri quadrati in cui ero stata lasciata a marcire. Tremavo: avevo dimenticato quanto il buio non fosse il mio elemento.
L'odore fetido di sporco e vecchio infestava quel locale e il pavimento era coperto di sostanze liquide che i miei piedi nudi avrebbero preferito non identificare; non ero la prima a essere entrata lì dentro, chi mi aveva preceduta doveva avere qualche problema di incontinenza. Effettivamente, oltre all'urina sparsa in modo non uniforme non c'era niente di più di quello che avevo visto appena sveglia.
Tornai sul letto decidendo che, per quanto l'ambiente fosse poco caldo, avrei usato il lenzuolo nella speranza di ripulirmi almeno in minima parte da quello schifo; poi restai ferma a gambe incrociate su quel materasso che per quanto ne sapevo poteva nascondere ogni sorta di insetto. E adesso? Che potevo mai fare chiusa in una camera simile?
Non c'era stato bisogno di osservare la porta per capire che non potevo buttarla a terra - non solo era di lega metallica, io ero ridotta troppo male per compiere qualunque sforzo eccessivo -, non sapevo nemmeno quando qualcuno sarebbe tornato a vedere se ero morta. In realtà ero certa mi preferissero viva, o che almeno lo volesse il mio salvatore, in quanto ero stata nuovamente medicata, e nemmeno tanto male. Valutai l'idea di gridare, far rumore, o comunque di attirare l'attenzione di qualcuno nel vano tentativo di velocizzare l'incontro ravvicinato con qualcuno, ma mi tornò alla mente Hijikata e la voglia di incontrarlo non era molta.
Fin da piccola, le uniche paure che io avessi mai avuto erano il buio e gli ospedali. Per fortuna, con l'andare degli anni sviluppai un autocontrollo eccellente e nessuna delle due mi era più parsa un grave problema. In quel frangente, probabilmente a causa di quegli avvenimenti, entrambe sembravano essere tornate a spaventarmi leggermente. Ma quando avevo sette anni c'erano le mani dei miei genitori a rassicurarmi e le loro voci a dirmi di non aver paura, adesso non avevo nessuno. Nessuno oltre Hijikata che mi voleva morta.
Mi costrinsi a camminare verso la porta, evitando accuratamente l'urina che intravedevo, e sollevandomi sulla punta dei piedi osservai l'esterno della mia "nuova casa". Quattro porte numerate, che di sicuro erano solo alcune delle tante di quel posto, erano dall'altra parte del corridoio: anch'esse riportavano la piccola finestra da cui entrava appena della luce soffusa, ma nessuna tra la B4 e la B7 sembrava avere individui vivi all'interno perché quando urlai la prima volta non rispose nessuno.
«Qualcuno mi faccia uscire da qui!»
Ancora nessuna risposta, in compenso dalla B7 si affacciò qualcuno che però sparì una frazione di secondo dopo. Sapere che c'era qualcuno vivo mi fece sentire meglio, ma non sapere il grado della sua igiene mentale mi riportò di nuovo in ansia.
«Hey! Dannazione, ma non c'è nessuno in questo corridoio?!»
Di nuovo, dalla B7 qualcuno si sollevò abbastanza da mostrare appena gli occhi che, infastiditi forse dalla mia voce, cercavano ovunque la causa di quella confusione; si accorse di me quasi subito, e me lo fece capire puntando i suoi occhi grigi come l'acciaio di cui erano fatte quelle porte contro i miei che invece erano di un nero petrolio da cui a stento si distingueva l'iride dalla pupilla. Invidiai il suo sguardo che sembrava impenetrabile perché sapevo quanto il mio fosse incapace di nascondere la lieve paura che mi faceva formicolare ogni mia singola cellula. Non smetteva di guardarmi, sarei scesa a patti col diavolo pur di sapere cosa stesse pensando.
Un urlo fin troppo vicino distolse la mia attenzione dalla B7: non era un urlo di terrore, non era un grido disperato fatto nel vano tentativo di chiedere aiuto. È uno di quei lamenti acuti che sfocia in una risata orrenda, sonora, che ti lacera i timpani ogni volta che dopo una presa d'ossigeno nei polmoni torna a farsi sentire più straziante e innaturale di prima, fino a diventare così simile alla risata di un mostro che inizi a sentire il cuore scoppiare per l'eccessivo sangue pompato nelle vene e la bile salirti su in gola fino a diventare un conato di vomito che non puoi non trattenere.
Non sapevo a cosa fosse dovuto o chi lo causasse, ma scivolai con la schiena lungo la porta e mi tappai le orecchie pur di non sentire quel suono che era agonia pura per la mia testa. Quel posto era un incubo ed io non ne potevo già più di starci: tutta la vita in quel manicomio mi avrebbe fatto diventare pazza sul serio, e finché potevo mi sarebbe piaciuto evitare un finale del genere. Dovevo trovare un modo per dimostrare che la mia sanità mentale era nella norma, dovevo andarmene alla svelta ma non sapevo come fare.
Diedi nuovamente uno sguardo fuori dalla porta e trovare ancora gli occhi spalancati della B7 puntati su di me mi fece indietreggiare senza volerlo. Mi andava di pensare ci fossimo affacciati nello stesso momento perché solo ipotizzare avesse continuato a fissare la mia porta per tutto quel tempo mi preoccupava non poco. Dannazione, il suo sguardo era terrificante. Capivo non ci fosse molto da fare in un postaccio simile, ma cosa voleva da me?
Sbatté improvvisamente le palpebre e iniziò a muovere gli occhi, attratto di nuovo dalle risate isteriche di quell’essere. Nemmeno lui, l'urlatore, doveva avere molto da fare. Mi domandai se una situazione simile andasse avanti anche di notte, se in realtà fosse già notte e anche che giorno della settimana poteva essere.
Quando mi incastrarono era il 13 Dicembre, un mercoledì qualunque in cui avrei dovuto adempiere ai miei doveri da studente sia di mattina che nel primo pomeriggio, e poi sarei dovuta restare in casa a leggere tutto il materiale possibile sulla psiche umana o a vedere documentari vari in televisione. Non facevo molto altro perché nei miei interessi rientravano poche cose, ovvero informarsi su più cose possibili - anche quelle che non mi sarebbero mai servite - e perdere tempo con la mia cerchia piuttosto bizzarra di amici.
Mi piaceva la loro compagnia, ma mi sentivo sempre come un rubino tra tanti smeraldi: eravamo tutti delle gemme, però di tue tipologie diverse. A loro non interessava quel che dicevo e viceversa, e questo mi portò alla ricerca di qualcuno che potesse ascoltare i miei discorsi su quel che avevo imparato e discuterne a mo' di notizia appresa al telegiornale senza temere di non essere capita. Se avessi saputo che la persona da me reputata perfetta per questo compito potesse incastrarmi al suo posto, mi sarei tenuta volentieri la schiera di smeraldi che mi voleva bene pur non capendomi affondo.
Maledicendomi per non aver chiesto a Hijikata che giorno fosse, lasciai che anche la mia attenzione fosse catturata da quella risata orrenda; qualcosa mi diceva che prima mi ci abituavo meglio sarei stata, dunque lasciai che la sua voce mi perforasse i timpani mantenendo la calma.
Quando sei in un posto simile il tempo sembra infinito, come quel lamento che non voleva cessare. Sia io che B7 continuavamo a osservare l'esterno delle nostre celle per qualche altro forse minuto, poi lui scattò di spalle allontanandosi dalla porta. Chiunque fosse quella lettera legata a un numero doveva essere in quel manicomio da più tempo di me, e seguire il suo esempio mi parve la cosa più giusta da fare. Non me ne sarei trovata pentita se dopo aver udito dei passi non mi fossi affacciata per l'ennesima volta.
Lo spettacolo era il seguente: avevano aperto una delle porte alla mia sinistra e adesso il pazzo che fino a quel momento aveva distrutto le mie orecchie con la sua voce, e che continuava imperterrito a farlo, era stato bloccato da quattro ipotetici medici tra la B5 e la B6. Fu facile individuare i capelli brizzolati di Hijikata, ma avevo imparato a mie spese che dove c'era lui non poteva non esserci una tortura e quasi senza volerlo iniziai a pregare per l'Urlatore, scheletrico come pochi eppure abbastanza forte da impiegare tre uomini per tenerlo fermo.
«E pensare che con te speravo di non dover usare le maniere forti.» iniziò Hijikata, parlando abbastanza forte da farsi sentire anche da me. «Ti ho chiesto con le buone di stare zitto, poi ti ho minacciato e ti ho privato di cibo e acqua, ma continui a dare fastidio. Giunti a questo punto è giusto punirti, lo sai?»
Di tutta risposta, l'Urlatore sbraitò qualcosa di incomprensibile e venne preso a pugni nello stomaco da tutte le mani non erano impegnate a reggerlo, quelle di Hijikata e una ciascuno per due degli uomini in camice. Il pazzo era privo di muscoli, che tra tutti quei colpi non ce ne fosse stato uno abbastanza forte da rompergli qualche costola era improbabile.
«'Sta sera sono di pessimo umore a causa di una stronzetta che mi ha rotto il naso, ho così tanta voglia di ammazzare qualcuno che farei volentieri fuori te. Sfortuna vuole io sia misericordioso e per grazia divina te la caverai con poco.»
Non era da escludere che tra i pugni e i morsi inferti dalla sottoscritta allo psichiatra qualcuno l'avesse preso in pieno volto. Sorrisi all'idea, ma quando Hijikata tirò fuori una forbice da giardino per piante di piccole dimensioni il panico si fece sentire e il respirò già prima irregolare parve peggiorare.
Un quinto uomo in camice, tenutosi in disparte fino a quel momento, si avvicinò per aprire la bocca dell'Urlatore; Hijikata non aspettò un ulteriore invito e tranciò di netto la lingua. Fiotti di sangue colavano dalla bocca di un uomo disperato, in preda a un dolore atroce che lo fece cadere sul pavimento e gemere dal dolore. I suoi occhi invocavano aiuto a qualcuno, ma nessuno si decise a soccorrerlo prima che non fosse passato un minuto esatto in cui tutti loro ridevano soddisfatti dalla loro opera. Sarebbe morto soffocato nel suo stesso sangue se non si fossero decisi a metterlo in piedi.
Gridai, senza nemmeno rendermene conto.
I medici, Hijikata e il pazzo si voltarono nella mia direzione, i primi stupiti dalla mia presenza e l'ultimo gorgogliando qualcosa che giunse alle mie orecchie come una supplica di aiuto priva di vere parole. Trovai ancora una volta gli occhi di B7 su di me, ma in quel frangente parvero parlarmi e non essere impassibili come prima: Non dovevi guardare, mi dicevano, e io l'avevo appena urlato ai quattro venti.
«La ragazza ha visto... Per la miseria, quella puttana ha visto!»
«E allora? Kashim, è pazza, nessuno le chiederà nulla.»
Hijikata lanciò le forbici insanguinate contro la mia porta e io, in lacrime, indietreggiai fino alla brandina. Se non avessi urlato nessuno si sarebbe accorto del mio sguardo su di loro, mi ero fregata da sola grazie all'autocontrollo che mi stava poco alla volta abbandonando.
«Quello schifo è sotto le grazie di Joshua Mayer. Non chiedermi perché, non ne ho idea, ma quella mocciosa la vuole viva e priva di lividi. Se lui le chiedesse qualcosa è probabile che lui la crederebbe. Quando mi ha visto torturarla ha fatto una scenata assurda, Sam, assurda!»Diede un pugno contro la mia porta che risuonò in tutta la stanza vuota per diversi secondi e osservò il buio che mi circondava. «Me la pagherai, ragazzina. Quando Joshua non sarà qui a difenderti, io...»
Voleva uccidermi, o per lo meno aveva intenzione di farmela pagare per come gli avevo ridotto il naso che, lo ammetto, ero riuscita a rovinare proprio bene. Seppur soddisfacente, attaccarlo non era stata per niente una buona idea: non mi ero mai pentita di aver picchiato qualcuno come in quel dannato momento, eppure di persone ne picchiavo molte. Mi ero messa contro la persona sbagliata e presto ne avrei pagato le conseguenze.
Tirai un sospiro di sollievo quando lo vidi sparire e allontanarsi insieme ai suoi compagni, trascinando con sé anche l'Urlatore; allora la scampai, ma sapevo che era solo una ritirata momentanea.
Sola e ancora in lacrime, non riuscivo a togliere dalla testa l'immagine di quell'uomo pelle e ossa che continuava a lamentarsi per la lingua che ormai non aveva più. Hijikata era diventato il mio peggior incubo specialmente grazie a quell'evento, e se lo conoscevo da qualche giorno era anche tanto. Un essere simile non poteva esistere davvero, eppure lo avevo incontrato, lo avevo sentito sulla mia pelle mente mi colpiva e si divertiva vedendo il mio sangue scorrere sul pavimento e macchiare il suo camice.
Ero avvolta dal buio, ma quella misera luce che filtrava dalla porta non mi dava nessuna speranza.
 


──Note dell'autore──
Ammetto che una recensione, un'opinione, un pensiero sul mio elaborato mi farebbe piacere, ma non posso obbligarvi a scriverlo. L'unica cosa che posso fare, ordunque, è sperare sia stato di vostro gradimento e che per lo meno continuiate a seguire la storia, nella speranza io la porti a termine.
Info: È possibile io cambi qualche nome, è nella mia natura. E che aggiunga qualche avvertenza oltre a far diventare il rating rosso. Per ora lo tengo arancione - prima era giallo - ma con le chiare avvertenze di scene violente perché più in là potrei spingermi oltre, e di temi forti. Mi chiedo se "Drammatico" sia ancora la sezione giusta.


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Capitolo 3
*** Capitolo III ***








Capitolo III
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Piansi per quel taglio di lingua non mio, ma non abbastanza da essere considerata davvero affranta per l'Urlatore. Sapere che Hijikata non era più dietro quello spioncino ad osservarmi mi tranquillizzava, e l'iniziale terrore provato nel vedere la lingua del pazzo creare una chiazza di sangue sul pavimento passò in fretta, forse anche prima di quanto potessi immaginare: non potevo pensare alle disgrazie altrui quando nemmeno io ero messa tanto meglio. Certo, per il momento ero salva, ma non sapevo ancora per quanto.
Hijikata sarebbe potuto tornare da un momento all'altro, farmi fuori nell'arco di pochi minuti solo per rabbia o torturarmi fino a quando non l'avessi implorato di uccidermi godendo della mia supplica.
Mi chiedevo se si fosse macchiato di sangue altrui come fantasticavo, se quando tornava a casa raccontasse a sua moglie e ai suoi figli una versione limpida e pura delle sue azioni contro di noi. Qualcuno in questo ospedale doveva sapere ciò che faceva, saperlo e non dirlo per i più svariati motivi: accordo, soldi, paura, minaccia, stesso pensiero, un motivo per far tacere l'intero personale doveva esserci. Mi stringevo tra le mie stesse braccia pensandoci; in un posto simile ci si sente così soli e dimenticati, soprattutto se sani di mente.
Notte o giorno che fosse, tentai di prendere sonno senza riuscirci. Mi capitava di sentire di tanto in tanto urla o lamenti, porte chiuse con forza e altri rumori che non classificavo solo con l’udito. Andavo in allerta ad ogni passo che sentivo, scattando in piedi per fronteggiare un eventuale collaboratore di Hijikata o lui stesso fermatosi di fronte alla mia cella. Quando capivo che il più delle volte tutto ciò era solo frutto della mia mente, mi lasciavo cadere sulla brandina cercando di non dar sfogo alla mia rabbia con urla o qualunque altro modo possibile che potesse attirare l’attenzione di persone indesiderate. Dovevo solo abituarmi a stare lì, a vivere in quell’isolamento forzato fatto di buio e odore di urina altrui.
Ma come se non bastasse la mia testa a giocarmi brutti scherzi, iniziarono a farsi sentire anche la fame e la sete. Non avevo idea di quanto tempo fosse passato da quando avevo ingerito qualcosa, non avere un punto di riferimento per il tempo non faceva che peggiorare la mia stabilità mentale. Pensare al mio salvatore era l’unica cosa che in quel momento mi faceva stare meglio.
Joshua Mayer, è così che l’aveva chiamato Hijikata. Il mio salvatore doveva essere un pezzo grosso per frenare i suoi istinti omicidi contro di me, lui era l’unica speranza che avevo di non morire prematuramente per mano di quello psichiatra. Sapevo che Joshua Mayer, qualunque fosse il suo ruolo in questo stabile, sarebbe tornato per aiutarmi e sapevo che non avrebbe permesso la mia morte. Dovevo solo aspettarlo, pazientemente, senza fare nulla per peggiorare la mia situazione già critica.
Ed è quello che avrei fatto, stesa su quel letto freddo e poco simile al mio tanto confortevole, se non avessi sentito delle campane in lontananza. Erano davvero molto lontane, le sentivo appena, ma riuscii a contare dodici rintocchi che equivalevano a sole due alternative: mezzogiorno o mezzanotte.
Come se si fosse svegliato da un letargo durato tutto un inverno, il corridoio si animò lentamente: un rumore di passi e porte aperte, questa volta reale, si fece via via più vicino sino a raggiungere la porta della mia cella e superarla, tonando nuovamente silenzioso: tutti erano stati fatti uscire e portati altrove tranne me. Non motivavo questa cosa, ma del resto non motivavo quasi nulla di quel che avevo visto stando in quell’ospedale psichiatrico, non c’era da stupirsi.
Ero una persona socievole a cui piaceva però star spesso da sola, non avrei sofferto la solitudine di quel luogo se avessi avuto un modo per occupare il mio tempo. Ero schiacciata contro la porta, in attesa di un movimento o comunque qualcosa che potesse suscitare interesse al mio cervello ormai annoiato da quel non poter far altro che parlare con se stesso.
Doveva essere passato sicuramente troppo tempo quando vidi una donna materializzarsi oltre la porta senza che me ne rendessi conto. Scivolai sul letto di riflesso, preoccupata per le intenzioni di quello sconosciuto. Non fece movimenti bruschi ma fu veloce nell'aprire la porta e mostrarsi appena per far vedere la sua uniforme da addetta alle pulizie.
«Nebraska, avvicinati! Non voglio farti nulla, lo giuro su Dio e i miei due figli!»
Quella donna dai capelli color grano aveva fretta e non sembrava intenzionata a farmi del male. Ciononostante, quel che mi convinse davvero a camminare fino alla porta fu la sua piccola costituzione: pure se mi avesse attaccato mi sarei potuta difendere senza problemi, anche se di forza ne avevo ben poca al momento.
«Chi sei?»
«Nessuno di importante.», rispose con una smorfia. «Non ti ho vista per il pranzo, dunque ho pensato ti avessero messa in punizione in una cella di detenzione e questa era l'unica ancora chiusa. Tieni.»
Allungò un braccio e mi porse una pagnotta di pane e una bottiglina d'acqua. Presi entrambi con titubanza perché il suo gesto era così generoso da preoccuparmi. Lei se ne accorse e forse per tranquillizzarmi mi arruffò i capelli sporchi e ancora incrostati di sangue. Dopo il cibo e l’acqua, la cosa che più desideravo era una doccia per pulirmi da tutto quel sudore che sentivo ancora addosso dopo il primo scontro con Hijikata; e senza ombra di dubbio, l’odore di chiuso e urina che infestava la minuscola cella era diventato il mio nuovo profumo.
«Avrei voluto portarti di più, ma poi se ne sarebbero accorti.», disse con un filo di voce. «E mi piacerebbe anche ripulire la tua cella di isolamento, ma se non torno subito nella sala comune finirò in guai seri... Puoi perdonare il mio essere così vigliacca?»
La osservavo confusa mentre addentavo la pagnotta, non capendo davvero come potesse pensare di essere vigliacca dopo avermi portato di nascosto qualcosa da mangiare. Di tutta risposta le regalai un sorriso interrotto solo da un sorso d'acqua, più tiepida che fresca ma comunque ben accetta.
«Se non ti verrà data nemmeno la cena, non preoccuparti. Farò il possibile per fartela avere in qualche modo.»
Una pagnotta di pane non era molto per il mio stomaco abituato a mangiare ciò che voleva e quando voleva, però era comunque un grande gesto. Ero tornata fare i conti col buio, la noia e la solitudine dopo che mi richiuse nella cella a chiave, eppure mi sentivo consolata dall'idea di avere, oltre quella porta di metallo, non soltanto persone che avrebbero gioito facendomi soffrire, ma anche altre con ancora un briciolo di umanità tale da non volermi morta di fame.
Ero convinta sarei stata sola in tutto il manicomio, e invece mi ritrovavo come alleati degli sconosciuti che a quanto sembrava rischiavano grosso aiutandomi. Forse avevo davvero qualche speranza di uscire da quell'inferno viva prima di diventare ufficialmente pazza, forse loro mi avrebbero creduto se avessi rivelato la realtà dei fatti sull'omicidio, forse mi avrebbero aiutato anche in questo, oltre che a sopravvivere in ospedale.
No, non potevo chieder loro una cosa del genere, ero certa stessero facendo già troppo per me. E poi, aspettare una manna dal cielo così grande quando sei isolato in una cella di detenzione del peggior ospedale psichiatrico mai visto non mi sembrava molto intelligente. Per niente.
Ero passata dal sentirmi rincuorata dal bel gesto di quella donna senza nome a pensare di non avere tutte queste possibilità di andarmene, anche con il loro aiuto. Se anche mi avessero creduto, non c’erano reali certezze sulla revocazione della condanna, probabilmente nessuna: vengono date proroghe di mesi a chi invece dovrebbe uscire e tornare alla sua vita, perché io avrei dovuto fare eccezione?
Stesa sul letto e persa tra i miei pensieri annoiati, sentii appena il ritorno di tutti gli altri detenuti. Quando me ne resi conto, corsi verso la porta cercando di capire cosa avessero fatto tutto questo tempo, spiandoli in punta di piedi: uomini e donne di ogni età erano trascinati lungo il corridoio dal personale dell’ospedale, quasi tutti troppo malconci per reggersi in piedi da soli, lividi e ricoperti da cicatrici su ogni centimetro di pelle. Erano gentilmente sistemati nella propria cella dopo un sorriso, non gettati con forza all’interno senza che nessuno battesse ciglio come poteva dimostrare il loro corpo.
Leggevo la pazzia pura negli occhi di alcuni detenuti, l’assenza di volontà e di emozioni in altri proprio come mi sarei aspettata da un posto del genere. Ma la restante parte mostrava solo dolore e disperazione, solitudine e una ormai flebile voglia di vivere a cui mancava poco per cessare d’esistere. E molti di questi ultimi ero certa non dovessero nemmeno essere in un posto del genere.
Il ragazzo della B7 mi passò davanti agli occhi seguito da due collaboratori, eppure non riuscii a guardarlo in volto. Era l'unico dei pazienti, o almeno del mio corridoio, a essere stretto in una camicia di forza che gli impediva di usare le braccia; la curiosità sul perché lo trattassero così mi assaliva, ma non potevo chiedere a nessuno. L'unica cosa che notai in quella decina di secondi che mi fu concesso osservarlo, era del sangue secco di giorni incrostato sul suo collo quasi interamente coperto dai capelli neri come l'oscurità che avvolgeva entrambi.
Scattai indietro sul letto quando un'ombra si fermò davanti alla mia cella.
Un paio di occhi indecifrabili mi osservarono per qualche istante prima di aprire quel ferro arruginito, e quando vidi la sua uniforme bianca l'adrenalina salì alle stelle. Ero preparata al peggio ma non avevo paura, non potevo aver paura; dovevo nasconderlo a causa di una sottospecie di orgoglio che non aveva intenzione di mostrarmi debole agli occhi di quell'uomo che non conoscevo.
«Qual buon vento porta nossignore a rendere visita alla qui presente feccia del mondo?»
Il tono cantilenante con cui esposi quella domanda suscitò un sorriso divertito sul volto dell'uomo, fermo sulla soglia della porta e ancora intento ad osservarmi. Per quanto tentassi di non dar ascolto al mio istinto ancora in allarme, quell'uomo non sembrava essermi ostile ma esattamente l'opposto. Socchiudeva gli occhi scrutando il buio della cella, non riusciva a vedermi perfettamente.
«Sei Nebraska Herstal, vero?»
«In alternativa potrei essere un'allucinazione, un clone, un sosia, una proiezione, sua sorella gemella... Come vede le alternative non mancano.»
Questo era il chiaro esempio di come la maggior parte dei miei buoni propositi - stare zitta per non peggiorare la situazione in attesa del mio salvatore, in questo caso - si spegnessero allo stesso modo di una candela accesa e poi chiusa ermeticamente in un bicchiere, ovvero troppo velocemente. Fortuna vuole che quell'uomo non fosse Hijikata e nemmeno un suo scagnozzo, tant'è vero che alla mia risposta accennò una risata autentica che mi prese alla sprovvista.
«Mi era giunta voce fossi un bel soggetto dalla lingua lunga, ma non credevo fino a questo punto.» Osservò il pavimento disgustato, lasciando che una smorfia catturasse la sua espressione tanto serena. «Gli addetti alle pulizie mi dovranno delle spiegazioni per questo... Vieni fuori da qui, Nebraska.»
«E perché mai? In questa cella così spaziosa si sta una favola.»
Rise ancora, cogliendo l'ironia nelle mie parole. Se non altro, apprezzava il mio sarcasmo da quattro soldi.
«Sono certo tu abbia già incontrato un'addetta alle pulizie mia complice. Ti ha portato qualcosa per non farti morire dissetata, a quanto pare.», rispose indicando la bottiglina d'acqua che avevo svuotato del tutto.
Scettica, mi feci largo tra il lago di urina e Dio-solo-saprebbe-cosa e fui accecata dalla luce troppo forte del soffitto. Se non fosse stato davvero un'amico della donna, mi sarei potuta definire morta solo varcando la soglia della cella. Scrutai l'uomo dai capelli corvini e gli occhi scuri, constatando che la sua stazza doveva essere pressappoco come quella del mio salvatore. Una domanda non mi costava nulla.
«Lei è Joshua Mayer?»
«Chi ti ha detto il mio nome?»
Rimasi in silenzio perché troppo felice della sua risposta. Sorrisi, pensando che per una volta la mia poca pazienza era servita a qualcosa. Adesso che ero vicina all'uscio della porta lo vedevo esaminarmi con attenzione, studiando le mie braccia e gambe livide delle torture di Hijikata e lo sporco che mi accompagnava da troppo; accarezzava il mio viso ancora gonfio dalle percosse con una dolcezza che non avrei creduto possibile in un luogo simile, non nel mio sfortunato caso.
Il mio salvatore si era fatto desiderare abbastanza, averlo davanti a me non poteva che farmi sentire in salvo dalle violenze di quello psichiatra.
«Sono mortificato a nome di tutto l'ospedale per ciò che ti è accaduto.»
«Di tutto l'ospedale tranne Hijikata.», sbottai.
Era davvero più forte di me, controllare quel che dicevo non mi era semplice se il fulcro dei miei dialoghi era lui. Pensare a quella persona orrenda non mi faceva ragionare su niente, e Mayer l'aveva notato chiaramente.
«Purtroppo non hai torto, Nebraska. Ma finché ci sarò io a sorvegliarti, il massimo che può fare è chiuderti in cella di detenzione.»
«Senza cibo per lasciarmi morire, aggiungerei. Non sarebbe una cosa da sottovalutare se mettesse qualcuno a controllare il corridoio.»
La mia affermazione lo fece restare in silenzio. Mi osservava dubbioso, soppesando le mie parole come se dietro vi fosse un messaggio criptato di cui lui non conosceva la chiave. Mentre eseguiva questa semplice azione, lasciai che il mio sguardo vagasse liberamente su di lui, senza particolar motivo. Fu in quel momento che notai il tesserino sistemato non sul camice ma sui pantaloni, un tesserino che portava il ruolo di infermiere e non di dottore come avevo immaginato.
Il mio salvatore era un semplice infermiere, un signor nessuno come tanti altri dentro e fuori quell’ospedale. Eppure Mayer mi stava aiutando per quanto gli era possibile, e con lui nei paraggi Hijikata sembrava non avere abbastanza coraggio da farmi del male. Quale fosse il motivo per proibirsi di torturare la sottoscritta in presenza di un infermiere non riuscivo ad immaginarlo.
«Sei sveglia.»
«Lo dice come se dovesse essere l’esatto contrario. Mi hanno mica chiuso qui dentro dicendo che il mio quoziente intellettivo è inferiore alla norma?»
Lui scosse la testa, poggiando una mano sul mento come se stesse pensando a qualcosa di particolarmente importante e al tempo stesso problematico.
«Non sono telepatica, purtroppo. Mi spiega perché non la smette di osservarmi come se fossi una delle persone più strane che abbia mai visto?»
«Scusami, non volevo metterti a disagio.»
«Ma per favore…»
Mettermi a disagio, farmi sentire in imbarazzo o qualunque altra cosa di vagamente simile erano alcune delle poche cose non possibili su questa Terra: erano sentimenti che non mi erano mai appartenuti per quanto ci provassi di tanto in tanto, e nessuno poteva farci nulla, nemmeno io.
«Comunque, perché è qui? Stiamo parlando tranquillamente in questo corridoio da troppo, se Hijikata scopre che lei è qui non finisce nei guai come l’addetta alle pulizie?»
«Non credo. Darmi troppi problemi è l’ultima cosa che farebbe.»
«Qualcuno che riesce a farlo star fermo esiste, allora.»
Mi spinse delicatamente lungo il corridoio, sorpassando la cella di B7. «Non è proprio così che stanno le cose, Nebraska… Semplicemente cerchiamo di convivere pacificamente in questo posto cercando di non infastidirci troppo a vicenda.»
Era una risposta evasiva, piuttosto generica, che mi incuriosiva non poco. Avrei chiesto volentieri altro, ma istintivamente sapevo che non mi avrebbe detto molto: glielo leggevo in volto che parlare di Hijikata non era un bell’argomento nemmeno per lui, insistere non avrebbe portato a nessun risultato soddisfacente.
Lasciai che il discorso cadesse senza riprenderlo, osservando lo spoglio corridoio non troppo male illuminato in cui stavamo camminando tranquillamente. Era solo la mia cella ad essere orribile perché quel che vedevo era piacevole all’occhio, un po’ inquietante pensando fosse il corridoio di un ospedale psichiatrico ma non così tremendo come si poteva immaginare; certo, i pavimenti non splendevano di luce propria e le pareti e le porte erano abbastanza datate, eppure non mi dispiacevano affatto.
Fu come uscire all’aria aperta dopo anni di assoluto isolamento, sentire inoltre la mano di Mayer sulla mia schiena mi faceva sentire al sicuro. Sapere che non ero stata abbandonata dal mondo era bellissimo.
Le porte blu numerate che avevano lasciato il posto a quelle della detenzione erano semplici e poco spesse, senza ombra di dubbio più recenti e al tatto piacevoli. Le guardie che passavano, inoltre, salutavano Mayer e mi sorridevano, facendomi così sentire nuovamente un essere umano e non una pazza come tante.
«Non è tanto male questo posto.», azzardai osservando ciò che mi circondava.
«Sono felice tu lo pensi. Facciamo il possibile per rendere piacevole la vostra permanenza in questo ospedale, ma come hai già potuto constatare tu stessa ci sono dei problemi con una parte del personale.»
Annuii forzatamente, ripensando al mio viso gonfio e agli arti più violacei che del loro colore naturale. Il problema restava sempre lo stesso, ma la mia voglia di mettere in azione un qualcosa che potesse sistemare almeno in parte le mie “vacanze” in quel posto sembrava aumentare continuamente, non intenzionato a cessare.
«Non c’è un modo per mandar via Hijikata e il suo gruppo di fatine spastiche?»
Mayer si fermò di colpo, strabuzzando gli occhi. «Cosa?»
Ripetei malvolentieri, più lentamente: «Ho chiesto se c’è un modo per mandar via da questo ospedale Hijikata e il suo gruppo di fatine spastiche.»
«Fatine spastiche? Questa mi è nuova!»
Non era stato Mayer a parlare, ma una persona che non conoscevo arrivata in quel momento alle mie spalle. Era una delle guardie presenti sul piano, con un accenno di occhiaie ma un sorriso stampato in faccia che mostrava il suo buon umore a chiunque avesse occasione di guardarlo. Lanciai un’occhiata all’infermiere per comprendere se fosse una minaccia o un altro di cui potersi fidare; non sembrava all’armato.
«Non avevi fatto il turno di notte, Kline?»
«Certo, ma il vecchio Kim si è dato malato per oggi e il qui presente si è offerto di coprire il suo turno.» La guardia allargò ancor di più il suo sorriso, lasciando quasi subito un’aria preoccupata quando si accorse dei lividi che ricoprivano buona parte del mio corpo. «Oh Cielo… Chi è questa ragazza, Joshua?»
«Nebraska Herstal, sedici anni, nata a Dublino ma residente a Baltimora da quando aveva sei anni.», ripetei imitando il modo in cui lo disse la Hijikata la prima volta che lo incontrai. «E per dirla tutta, accusata di omicidio e di aver rotto il naso a uno psichiatra. Lei, invece?»
La guardia restò in silenzio e con la bocca semiaperta per qualche secondo prima di riprendersi.
«Ah, quella Nebraska! Io sono Kline Eastwood, una delle tante guardie che lavorano in questo ospedale.»
«Poiché vi siete già presentati», si intromise Mayer, «direi che è il caso di passare a questioni più importanti. Scommetto che a Nebraska piacerebbe darsi una ripulita.»
«Mi è concesso fare una doccia?», chiesi incredula.
«Certo. Sempre se a Kline non dispiaccia darci le chiavi della tua camera.»
«Perché, ho una camera tutta per me?»
Kline poggiò una mano sulla mia spalla e tornò a sorridere come prima. «Non avrai davvero pensato che quella cella di detenzione sarebbe stata la tua stanza per sempre, vero?»
 


──Note dell'autore──
Sono mortificata. Avevo sperato di aggiornare entro il fine settimana scorso, ma avendo il computer fisso fuori uso ho dovuto scrivere tutto da cellulare e farvelo avere adesso è una mia piccola vittoria.
In questo capitolo non c'è niente di particolarmente violento, è più soft dei precedenti, ma spero comunque non vi deluda. Non tutto va sempre male a Nebraska, qualche fortuna deve averla anche lei.
Ringrazio tutte le persone che hanno messo la storia nelle seguite e chi ha recensito. La vostra opinione per me è molto importante. Grazie.


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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***








Capitolo IV
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«Non lo so, Hijikata è totalmente fuori di testa.»
Subire un interrogatorio, mentre mi trovavo semi-nuda davanti agli occhi del medico Mayer, era l'ultima cosa che desideravo.
Mi era stata effettivamente concessa una doccia e ringraziai sia lui che Kline per quel privilegio, ma subito dopo Mayer ebbe la brillante idea di chiudersi nell’infermeria con me e non farmi più uscire. Continuava a girarmi intorno facendomi domande, toccandomi e osservando ogni mio singolo lembo di pelle violaceo o leggermente malridotto, e io tutto questo la trovavo una perdita di tempo.
«Aspetta, Nebraska. Ricapitoliamo di nuovo tutto: tu sei stata incastrata nell’omicidio da questa terza persona, giusto? E non hai potuto far nulla per controbattere poiché non solo eri sul posto al momento dell’accaduto ma sono state trovate tue tracce sull’arma.»
«Esatto.»
«E non appena ti hanno vista sei stata presa con la forza, picchiata e narcotizzata perché hai provato a dire che tu non c’entravi nulla. Hijikata ha fatto il resto per ridurti in questo stato.»
Annuii dopo una smorfia di dolore causata dalla pressione eccessiva che aveva esercitato sull’avambraccio sinistro e gli lanciai un’occhiataccia. Quell’arto era fuori uso e solo toccarlo mi faceva ricordare quanto poco immortale fossi realmente.
«Sei fortunata Nebraska, oltre a qualche livido non hai nulla di grave.»
«Beh, direi che se fosse fortunata non sarebbe qui, non ti pare Joshua?»
Indossai velocemente i vestiti prima di spostare la tenda azzurra e guardai leggermente stizzita Kline che fino a quel momento, sbadigliando e appoggiato alla porta, aveva ascoltato l’interrogatorio senza intervenire. Io, in fortuna e cose che non potevo controllare, credevo davvero ben poco.
«Ti sbagli, Kline, non c’entra nulla la fortuna nel mio caso: mi sono solo fidata della persona sbagliata e questa mi ha usata come meglio ha potuto. Ero convinta di essere abbastanza astuta da poter plasmare ciò che mi circonda a mio piacimento, mi sono sentita così superiore a chiunque da non preoccuparmi dell’esistenza di qualcuno che potesse essere più intelligente, furbo e doppiogiochista di me. È per questo che ti dico che non c’entra nulla la fortuna, è stato solo un errore dettato dalle mie assurde convinzioni.»
Mayer abbassò la testa completamente assorto nelle sue riflessioni e Kline seguì il suo esempio poco dopo. Avevano ascoltato quella misera successione di frasi sull’assassinio senza interrompermi e cercando in tutti i modi di credermi, ma ovviamente farlo non era poi così semplice.
«Nebraska, quando hai incontrato per la prima volta Hijikata?»
«Ero nella stanza bianca, ma non ho la minima idea di che giorno o ora fosse. In realtà non so nemmeno che giorno sia oggi…»
«14 Dicembre.», parlò ancora Mayer «Erano circa le dieci del mattino del 14. Ora invece sono le…» sollevò la manica per guardare l’orologio e rispose alla mia incognita «Nove e venti di sera, lunedì 16.»
Se c’è una cosa che odio particolarmente, forse anche più di essere rinchiusa a tempo indeterminato in un manicomio, è perdere la cognizione del tempo e non sapere più che giorno o ora sia. Lo detesto, lo detesto davvero, e vedere quell’incognita sparire come per magia mi fece sentire come se avessi di nuovo tutto sotto controllo. Ovviamente, era solo una sensazione perché nelle mie mani non avevo un bel niente.
Sorrisi sentendo la risposta così semplice e iniziai a girare nella piccola infermeria ben fornita curiosando tra i documenti sparsi un po’ ovunque su una scrivania: risultati di analisi e test, spiegazioni dettagliate sulla salute mentale e fisica di una quantità inverosimile di pazienti. Patricia Jackson, trentasette anni, schizofrenia, stanza 15. Kaleb Anderson, 54 anni, psicosi maniaco-depressiva, stanza 36. Nikola Stefanenko, 18 anni, sindrome da autolesionismo, stanza 11. E probabilmente avrei letto anche tutti gli altri se Mayer non me li avesse tirati di mano perché stavo violando la privacy degli altri pazienti.
«Come si chiama il ragazzo della B7?»
«Non sperare di cambiare argomento in questo modo, Nebraska.», mi ammonì nuovamente «Stavamo parlano di Hijikata. Voglio sapere ogni parola che ti ha detto, se l’hai più rivisto dal 14 e qualunque altra cosa ti venga in mente su di lui. E ora che ci penso, vorrei anche sapere chi è questa terza persona che ti avrebbe incastrato.»
Sbuffai per il condizionale, ma sapevo che era giusto e razionale usare quella coniugazione in un caso simile. Entrambi i presenti nell’infermeria sembravano vivamente interessati al mio racconto, peccato io non volessi più narrare le mie disgrazie di quei tre giorni: l’immagine dell’acciaio fuso nelle iridi di B7 era impressa sulle mie retini, dargli un nome e capire perché sembrasse così diverso dagli altri aveva occupato tutti i miei pensieri.
«Voglio il suo nome.», continuai.
«Come mai tutta questa insistenza?»
Mi voltai verso Kline, senza sapere esattamente cosa rispondergli. Ero una persona abbastanza razionale, ragion per cui le mie azioni avevano quasi sempre una o più valide motivazione da poter esporre con tutta calma; quelle poche che non ne avevano, poi, le lasciavo immediatamente perdere perché pensavo non valesse la pena far qualcosa senza una giusta causa. Eppure quella volta non avevo una motivazione che andasse oltre alla semplice curiosità, e mi sentivo fortemente in imbarazzo.
Era quella curiosità fastidiosa, quella che ti toglierebbe il sonno e l’appetito per giorni, che ti tormenterebbe fino a quando non riusciresti a darti una risposta, ma era pur sempre una motivazione che personalmente non trovavo sufficiente.
«È strano.», risposi «Forse… Anzi, è probabile che nell’ospedale ce ne siano altri trattati in questo modo, ma io, dalla mia cella, ho visto solo lui legato con la camicia di forza. Cosa ha fatto per meritare una cosa del genere?»
Kline ci pensò un attimo: «Parli del ragazzo con i capelli scuri e gli occhi chiarissimi chiuso in isolamento almeno sei giorni su sette? Beh, sai, lui ha…»
«Kline!» Mayer si lanciò su di lui e gli bisbigliò qualcosa che io non riuscii a sentire. Si girò nuovamente nella mia direzione dopo poco, sorridendo sornione. «Ascoltami Nebraska, facciamo un patto.»
«Lei è una brutta persona, dottor Mayer.», dissi iniziando a ridere, «Ricattarmi per le informazioni che desidero è una di quelle cose mal viste dalla società e oltretutto con me non funziona nemmeno. Non mi vedo per una cosa simile.»
«Io non lo chiamerei ricatto, lo trovo molto più simile a un accordo. Tu mi dici ciò che ti ho chiesto e io farò lo stesso per te. Non voglio costringerti, però ammetto mi piacerebbe tu accettassi questo scambio di informazioni senza ulteriori storie: voglio aiutarti, voglio capire cosa c’è nella tua testa e non posso farlo se tu continui a non parlarmi di questa terza persona.»
Voltai la faccia cadendo nell’agitazione che infettava ogni mia singola cellula perché quando si doveva parlare di quella terza persona e ciò che aveva fatto andavo nel panico a causa di due sentimenti contrastanti che mi occupavano la mente negli stessi momenti: desideravo proteggerlo, speravo ci fosse un motivo inimmaginabile ma giusto per incolpare me e non lui; eppure ammetto che allo stesso modo mi sarebbe piaciuto vederlo morto, probabilmente nel modo più atroce possibile per un represso istinto di vendetta.
Le mie incoerenze mentali prima di una risposta furono bruscamente interrotte dall’entrata improvvisa della donna delle pulizie che, con l’espressione di chi aveva appena assistito a una strage, pretendeva nell’immediato la nostra completa attenzione.
«Crystal, calmati e parla piano.»
«Visita a sorpresa di Hijikata, e Nebraska è qui con te e quel cretino di Kline e non nella cella di isolamento dove l’ha lasciata ieri!»
«L’alta considerazione che hai di me mi imbarazza ogni volta di più, tesoro mio.», disse la guardia dandole una pacca sulla spalla, «Ma adesso passiamo alle cose serie. Nebraska, entra nel bagno dell’ufficio… Sì, esatto, quella porta, brava. E tu, donnaccia, esci subito da qui con me se non vuoi essere licenziata all’istante. Muoviti!»
Kline e Crystal si volatilizzarono nel giro di qualche secondo mentre io mi avvicinai alla porta del bagno proprio come mi era stato ordinato. Mayer mi fermò poco prima che mi ci chiudessi dentro mettendo un piede tra la porta e la parete.
«Nebraska… Qualunque cosa succeda tu non devi uscire, mi sono spiegato?»
Annuii e socchiusi la porta, abbastanza da non essere vista ma non troppo per poter vedere cosa accadesse nell’ufficio. Ero seduta sul pavimento, ipotizzando i vari esiti di uno scontro diretto con Hijikata: come era facile intuire nulla sarebbe andato per il meglio, ma che finisse così male non me lo aspettavo di certo.
«Dov’è la ragazza?!»
Mayer sollevò lentamente gli occhi dalla scrivania e con la calma tipica di chi era abituato ad affrontare ogni sorta di problema senza lasciarsi prendere dal panico, finse di non sapere del suo arrivo e di non comprendere a pieno la domanda.
«Di quale delle tante ragazze che hai – si suppone – in cura in questo ospedale stai parlando?»
«Hai presente quella ragazzina dal bel visino e gli occhi grandi, dal carattere scontroso, poco socievole e fin troppo impertinente che io avevo messo per ovvi motivi in cella di isolamento? Bene, perché è sparita e sono sicuro come la morte che tu sia stato così stupido da farla uscire!»
«Ci sono dei pazienti nell’altra stanza. Di grazia, non urlare.»
L’infermiere sembrava trovarci gusto nel farlo irritare, e per di più era come se situazioni simili fossero all’ordine del giorno per lui; dovevano esserci seri trascorsi tra i due, avvenimenti che li avessero portati ad una relazione costellata da scontri e incomprensioni costanti.
La tensione palpabile nell’aria iniziava ad irritarmi. Essere al centro di quella discussione che sentivo sarebbe degenerata non era piacevole, e restare ferma dopo quel che sentivo e che avrebbero detto era contro la mia natura. Ma Mayer aveva fatto una richiesta e io avevo acconsentito, non mi sarei mossa da quel bagno a meno che non avessero provato ad uccidersi a vicenda.
«Noi due avevamo un accordo, Joshua. Tu non interferivi con il mio lavoro e io non interferivo con il tuo.»
«Da quanto picchiare e drogare i pazienti è diventato un lavoro?»
«Non potevo fare altrimenti.», sbraitò ancora Hijikata, «Quella ragazza è violenta, voleva attaccarmi, uccidermi. Non hai visto cosa mi ha fatto al naso?»
Mayer si alzò lisciando il camice con un’aria beffarda dipinta sul volto. «Certo che l’ho visto, e non sai quanto ho riso per questo.»
Onestamente e forse per via della droga, io non ricordo di avergli dato quel pugno, ma non è da escludere sia accaduto sul serio. Dopotutto Hijikata non si sbagliava: violenta lo ero davvero, solo ancora non lo ero stata del tutto con lui.
«E comunque», continuò Mayer, «Nebraska è tutt’altro che tranquilla, lo ammetto, ma non ti avrebbe colpito se non l’avesse trovato strettamente necessario. Devo ricordarti cosa le hai iniettato nelle vene e come l’hai ridotta prima che la portassi via?»
Hijikata scosse la testa, diventando immediatamente più calmo: «Tu non l’hai vista quando i poliziotti me l’hanno portata, sono stati loro a picchiarla. Perché mai avrei dovuto farlo io? E pure se fosse… Non hai prove. La parola della ragazza non conta nulla, nulla.»
Quell’ultima frase mi fece riflettere più del necessario. Hijikata non mentiva, qualunque cosa io avessi detto non sarebbe bastata per accusarlo di avermi picchiata perché effettivamente anche i poliziotti avevano fatto il loro lavoro. Inoltre, se mi dichiaravano mentalmente instabile o non attendibile, nessuno avrebbe potuto incolpare il vero assassino qual’ora io avessi deciso di raccontare la mia versione dei fatti. Mi scappò un’imprecazione mentale per l’intelligenza di quel ragazzo nell’avermi incastrato in questo modo e probabilmente me ne sarebbero venute in mente altre se la discussione tra i due uomini nell’ufficio non fosse degenerata come temevo nel giro di qualche botta e risposta sfuggita alle mie orecchie.
La situazione era la seguente: la sedia, la scrivania e tutti i documenti che prima erano posti in ordine impeccabile su quest’ultima erano adesso sottosopra, lasciando intendere che il sangue sulla mascella dell’infermiere e quello fuoriuscito dal naso dello psicologo erano frutto di qualcosa di molto più violento di un paio di semplici pugni.
Mayer inspirò profondamente rimettendosi in piedi, Hijikata fece lo stesso dopo poco imprecando in modi che avrei potuto definire molto simili ai miei e dunque molto prossimi all’essere volgari. Entrambi avevano l’affanno, entrambi erano decisi a non cedere alle volontà dell’altro e io continuavo a sentirmi più nervosa di prima.
«Kashim… Kashim, dannazione! Si può sapere cos’hai contro quella ragazza in particolare adesso?»
«È un’assassina, non ti basta?»
«Non hai comunque il diritto di ridurla in quello stato, e questo discorso vale anche per tutti gli altri pazienti che hanno dovuto subire le tue torture immotivate!»
Hijikata parve sul punto di controbattere, ma alla fine non disse nulla. Si era come rabbuiato, incupito da chissà quale strano pensiero. Qualunque cosa gli fosse balenata nella mente lo aveva mutato radicalmente, ma né io né Mayer – che lo scrutava perplesso tanto quanto me – contemplammo anche solo per poco l’idea che si fosse offeso.
Continuando ad avere quell’espressione che non comprendevo dipinta sul volto, Hijikata gli voltò le spalle e andando via biascicò a stento uno dei tipici cliché adatti a quella situazione: «Non finisce qui, Joshua.»
Se prima regnava il caos in quell’ufficio, adesso vi era un silenzio così surreale da farmi sentire quasi chiaramente il respiro dell’infermiere, ancora con lo sguardo fisso sulla porta appena chiusa. A differenza di quello di Hijikata, il misto di confusione e rabbia che mostrava il suo viso era fin troppo facile da leggere e interrompere la scia di riflessioni che probabilmente gli infestava la testa sembrava sconveniente. Aspettai che fosse lui, una volta ripresosi, ad aprire la porta del bagno e ad aiutarmi a rimettermi in piedi.
«Perché ti ha picchiato?»
«Perché io gli ho dato un pugno.», rispose secco, sfatando la mia idea fosse stato ancora una volta Hijikata ad iniziare. «Ma non è nulla, piccola, non devi preoccuparti.»
Gli pulii il labbro insanguinato con la manica della felpa e iniziai lentamente a piangere, trattenendo ogni singhiozzo per non fare rumore. Mi sentivo tremendamente in colpa per l’accaduto: se Mayer non avesse deciso di tenermi sotto la sua ala protettrice come stava facendo, non avrebbe avuto nessun problema con lui. E invece, nel tentativo di difendere una presunta assassina aveva picchiato e si era lasciato picchiare, non curante delle conseguenze.
«Non devi piangere, non mi ha fatto niente quel pugno…»
«Ma se io non fossi qui Hijikata non ti avrebbe mai fatto nulla…»
«Sei qui per sbaglio, Nebraska, quindi non è colpa tua.» Avvolse le braccia intorno al mio corpo e mi strinse come nessuno ormai faceva da tempo. Riprese il discorso solo dopo essere rimasto in silenzio ed essersi assicurato io smettessi di piangere, concludendo nel modo migliore che potesse preferire. «Non devi preoccuparti per me, non voglio tu ti addossi anche questa croce: ho scelto io di aiutarti e me ne assumo ogni conseguenze, dalla più piacevole a quella meno gradita. Hai capito cosa voglio dire, Nebraska? Tu non hai colpe, tu non ne hai nessuna.»
 


──Note dell'autore──
Dopo un'assenza durata una o due mesi - ammetto di aver perso il conto - sono tornata con il quarto "capitolo". Spero vi piaccia, perché se dopo tutto questo tempo vi fa schifo... Beh, mi dispiace avervi fatto aspettare inutilmente.
Ja nee.


Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***








Capitolo V
____________________
 
 

Dopo la sfuriata di Hijikata e il suo scontro con Mayer, immaginavo che la mia permanenza sarebbe migliorata leggermente: sapevo che quella tra i due uomini non era la fine della guerra ma una semplice tregua in vista di un ennesima lotta, però supponevo che per qualche giorno tutto sarebbe andato liscio.
Avrei fatto in modo di risultare invisibile per tutti, di seguire esattamente le indicazioni dei dottori, delle guardie e di chiunque altro potesse avere qualche autorità su di me. Sarei stata una paziente modello, di quelle che non causano problemi e che amano tutti.
Quel che accadde davvero? Esattamente l’opposto.
Rimasta al sicuro per tutta la notte nella mia stanza, mi svegliai il mattino seguente riposata e più serena del giorno prima, ma comunque seccata e annoiata dalla situazione che stavo vivendo. Con gli occhi ancora impastati dal sonno, mi accorsi solo dopo qualche istante di troppo che nella stanza non ero sola: qualcuno stava rovistando nell’armadio noncurante della mia presenza, e sembrava anche piuttosto preso dalla sua attività clandestina. Era una figura minuta, così piccola da poter essere scambiata per una bambina se non fosse per le curve perfette che i suoi procreatori le avevano regalato.
Spostai le coperte tentando di fare più rumore possibile per attirare la sua attenzione, cosa che ovviamente non ottenni, e mi misi a sedere a gambe incrociate sul materasso. La osservai in silenzio, davvero non sapendo come comportarmi.
«Posso interrompere un attimo qualunque cosa tu stia facendo nel mio armadio?»
Scattò indietro e mi puntò un paio di occhi scuri ed enormi addosso, mettendomi stranamente in soggezione. Avrei voluto capire cosa le passasse per testa in quel momento, ma la sua espressione non mi diceva assolutamente nulla, cosa ancora più strana della precedente; sembrava solo un piccolo animale selvatico, confuso dalla mia presenza nella stessa stanza.
«Allora… Cosa stai facendo nel mio armadio?»
Lei continuò a guardarmi restando in silenzio, sembrava non avesse nemmeno mosso un muscolo ascoltando la mia domanda più che lecita. Iniziarono a formarsi vari pensieri per la testa, come che non mi capisse o non potesse parlare per via dei più svariati motivi; e non pensare che le avessero tagliato la lingua era quasi impossibile.
La porta si aprì dopo che una voce femminile chiese il permesso per entrare: un sorriso smagliante illuminò la piccola stanza e regalò alla ragazza seduta sul pavimento l’input necessario per rimettersi in piedi.
«Oh, vedo che avete già fatto amicizia!», disse la donna avvicinandosi al letto, «Buongiorno Nebraska. Io sono Broox e lei è la mia assistente, Candice.»
La mia silenziosa apparente coetanea era chiaramente una delle tante pazienti dell’ospedale, ma sembrava essere molto intima a quella collaboratrice mai vista prima d’ora.
Non sapevo quale fosse la reazione giusta da avere, dunque optai per un semplice far finta di niente, convincendomi che una situazione del genere poteva essere considerata normale in quel luogo.
«Forza, Candice. Non stare lì ferma.»
La cosiddetta assistente mi si avvicinò con una maglia e un pantalone largo, mostrando le sue perfette arcate di denti. Li presi dalle sue braccia e li guardai, costatando non fossero altro che semplici indumenti da paziente; probabilmente in quell’armadio non vi era altro.
«Non vorrei metterti fretta, Nebraska, ma abbiamo molto da fare oggi. Vestiti, su su!»
Tutto quell’entusiasmo che le vedevo cacciare da ogni poro mi confondeva non poco: mi sarebbe tanto piaciuto sapere se cercava soltanto di mettermi di buon umore o se fosse davvero così tutti i giorni.
Mi vestii rapidamente e la seguii fuori dalla stanza senza far storie, restando in silenzio così come la mia coetanea, ancora intenta a servire a chi passasse un bel sorriso simpatico; guardandoci da fuori sono certa io sembrassi la sua nemesi.
«Sai, Nebraska, Joshua Mayer mi ha parlato molto di te.», disse ad un certo punto Broox. Probabilmente cercava di diminuire la tensione causata dal mio non dire una parola. «Mi ha informato del tuo continuo rispondere in modo inappropriato a Hijikata, di avergli rotto il naso, di aver causato qualche altro piccolo problema… Ciononostante sembra molto felice tu sia una nostra paziente, è sicuro tu possa fare un ottimo lavoro in questo ospedale se seguita dalle persone giuste.»
Roteai gli occhi, ma lei non se ne accorse. Quel discorso non mi interessava minimamente, mi annoiava, dunque quel che desideravo era parlare di altro, e quale argomento migliore della sua assistente poteva esistere?
«Candice, non parli? Sei muta? Hanno tagliato la lingua anche a te?»
La ragazza si voltò nella mia direzione smettendo di sorridere, eppure non sembrava arrabbiata, più che altro addolorata dal non potermi rispondere lei stessa. Sapevo quello non fosse il modo più gentile per chiedere cose tanto delicate, ma non mi importava: l’edificio alla fine non era male, nessuno sembrava intenzionato a trattarmi uno schifo oltre a quello psichiatra e probabilmente mi sarei anche potuta abituare a una vita simile; ma io desideravo la mia libertà, quella che mi spettava e che ingiustamente sembrava essermi negata.

“Le persone sono cattive con te, le tratti male solo per difenderti.”


Mi bloccai di colpo sentendo l’eco di quelle parole non mie nella testa. Ricordi, frammenti di ricordi che riaffioravano esattamente quando non ne era proprio il caso.
«Ci mancavano solo le stronzate di quell’essere. ’Fanculo, diventerò pazza sul serio di questo passo.»
Broox, vedendomi immobile, si avvicinò leggermente per assicurarsi stessi bene. Non appena mi sfiorò con una mano scossi la testa, indietreggiando per riacquistare quella minima distanza che avrei gradito non superasse nessuno.
«Sto bene.», dissi forzando un sorriso, «Proseguiamo.»
«A me non sembrerebbe…»
«Ho detto “Proseguiamo”.»
Il tono più duro di quanto volessi lasciò per qualche istante Broox con il fiato sospeso; poi tornò a respirare e senza indugio aprì una porta metallica, non degnandomi nemmeno di uno sguardo: molti pazienti erano seduti attorno a tavoli circolari insieme a dei medici, e quasi tutti erano intenti a far qualcosa che andasse dal semplice chiacchierare al giocare a scacchi, carte o altri giochi da tavolo; era una sala enorme, davvero un bel posto per fare ricreazione e perdere qualche ora di quell’interminabile vita nell’ospedale.
Li osservai tutti, più che altro per fare un resoconto generale della situazione in quella stanza: la maggior parte dei pazienti mi aveva notata, e a giudicare dello sguardo sembravo il nuovo giocattolino dell’istituto; le guardie che circondavano il perimetro della sala erano invece come allarmate dalla mia presenza; i sorveglianti, gli infermieri o qualunque altra tipologia di addetti alla nostra cura mi ignoravano o mi guardavano di sottecchi, questi ultimi evidentemente curiosi di conoscere la nuova arrivata. Non ero infastidita da simili attenzioni, anzi, si poteva dire l’esatto contrario; mi sentivo un po’ come la reginetta del ballo, peccato solo il posto poco piacevole e il sottofondo costituito da lamenti indecifrabili degli altri partecipanti.
Uno dei pochi che sarebbe rimasto per tutta la serata appoggiato al muro rifiutando ogni invito era lo strano ragazzo della B7, ancora senza nome.
Era immobile su quella sedia di plastica, con lo sguardo rivolto verso le vetrate opache che lasciavano trasparire a stento l’ombra di un albero smosso dal vento: le sue iridi si muovevano come per ispezionare quella superficie, eppure giurerei che non avrebbe saputo spiegarmi cosa avesse visto poiché dubito lo stesse scrutando davvero con attenzione. Lo vedevo come mentalmente assente, completamente disinteressato a noi che lo circondavamo; l’idea di poter interagire con lui mi faceva salire l’adrenalina a mille.
Broox interruppe i miei pensieri: «Dio, l’hanno legato di nuovo…»
«Qual è il suo nome?», chiesi puntando l’indice nella sua direzione.
«Perché vuoi saperlo?»
«Perché nessuno vuole dirmelo.»
Candice, che fino a quel momento era rimasta buona al fianco di Broox, ci lasciò e corse in direzione di B7 con il sorriso stampato sulle labbra; gli avvolse le braccia intorno al collo, lo strinse come se fosse una persona a lei cara che non vedeva da molto tempo. Non sapevo che tipo di rapporto ci fosse tra loro, ma mi sorprese vedere che B7 non sembrava affatto disturbato da un simile affetto, anzi, probabilmente l’esatto opposto: né la bocca né gli occhi sorridevano, ma la sua testa si era appena tesa istintivamente verso i capelli di Candice, come se volesse sprofondare in quell’abbraccio che lui non poteva ricambiare a causa di qualcosa che gli bloccava le braccia dietro la sedia.
Mi voltai verso Broox che, vedendo la mia espressione palesemente perplessa, si limitò a dire ben poco al riguardo: «Non chiedere a me spiegazioni, lei è l’unica con cui ha legato in tutti questi anni e ancora non se ne comprende il motivo. Chiunque altro gli si avvicini non viene degnato di alcuna attenzione.»
«Quindi se io cerco di parlargli non mi calcolerà, giusto?»
«Esattamente. Sarebbe meglio tu cercassi di relazionarti con qualcun altro… Non sai cosa è in grado di fare quel ragazzo.»
«Sì, non lo metto in dubbio. Qual è il suo nome?»
«Hai sentito cosa ti ho detto, Nebraska?»
Annuii distrattamente osservando ancora una volta Candice, adesso seduta di fronte a lui intenta a posizionare le pedine sulla scacchiera. Mi chiedevo come avrebbe fatto B7 a giocarci con le braccia legate.
«Allora?», chiesi ancora, «Non mi è concesso conoscere il suo nome?»
«Puoi chiamarlo Zedd.»
In quel momento pensai fosse un nome piuttosto insolito, ma non me ne curai più di tanto poiché vidi B7 sciogliere rapidamente -e con fin troppa facilità- il laccio di cuoio che teneva inchiodate le sue braccia dietro alla sedia; si stiracchiò e fece per muovere uno dei pezzi sulla scacchiera, ma le guardie si lanciarono immediatamente contro di lui per bloccarlo di nuovo. B7 aveva già caricato il pugno sinistro pronto a colpirli.
«Fermatevi subito!», urlò Broox contro le guardie, «Se voi lo trattaste meglio, lui non reagirebbe in questo modo ogni santissima volta. Vi ho già spiegato che non dovete legarlo, non dovete fare nulla contro la sua volontà, non dovete continuare a metterlo sotto stato di stress solo perché per voi è pericoloso. Allontanatevi subito
B7 lasciò perdere le guardie e si concentrò sulla scacchiera: la sua espressione facciale non era mai cambiata durante questo susseguirsi di avvenimenti, era imperturbabile. Non capivo come potesse esistere un carattere simile, così chiuso e apatico; doveva essere davvero un pazzo o una persona dotata di un autocontrollo smisurato.
Per quanto io mi sforzassi di reprimere quell’impulso causato da eccessiva curiosità, mi avvicinai al tavolo, riuscendo ad ottenere unicamente l’attenzione di Candice. Broox alle mie spalle mi teneva d’occhio da debita distanza, probabilmente preoccupata dal mio poter causare guai di qualche tipo. Non sarebbe stato semplice avere una conversazione con lui.
Mi separavano da B7 solo pochi centimetri, sufficienti per studiarlo finalmente come desideravo: il suo volto era segnato da violenze risalenti a qualche giorno prima, lo sguardo era perso ancora nel vuoto anche se la mia presenza dubito non l’avesse notata. Iniziai ad ipotizzare fosse tutta una finta.
«Tu sei il ragazzo della B7, non è così?»
La domanda era volutamente banale, mi interessava solo sondare il terreno e capire se sarebbe stato disposto ad ascoltarmi. Sentivo il bisogno di dirgli una cosa che pensavo, ma non mi andava di parlare a vuoto.
Come immaginavo, lui continuò a osservare la scacchiera, muovendo una pedina nera verso quelle bianche. Essere ignorata in quel modo non mi faceva molto piacere, avrei preferito di gran lunga che mi chiedesse di lasciarlo in pace.
Girai intorno al tavolo e mi avvicinai abbastanza da notare anche le cicatrici appena visibili che coprivano diverse zone delle braccia e le unghie quasi inesistenti, spezzate dai suoi stessi denti o forse dal vano tentativo di non subire più determinate torture; il collo, nascosto da una folta chioma di capelli, nascondeva delle striature violacee e rosse, come se avesse indossato un collare troppo stretto per diverso tempo.
Per quanto sembri insolito io non lo temevo, l’idea potesse farmi del male non mi sfiorava nemmeno. Ma quando i suoi occhi incrociarono i miei, la paura che potesse alzarsi e decidere di darmi una lezione per la mia insistenza mi costrinse a ricredermi: le pupille dilatate all’inverosimile mi inghiottivano, le iridi che ricordavano l’acciaio non sembravano umane. Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, dentro quel corpo non ce n’era nemmeno un frammento.
Indietreggiai di un passo, ma subito mi riportai avanti; per una manciata di secondi delle mie chiacchiere non mi avrebbe di certo ucciso.
«Okay, non hai intenzione di rispondermi.», dissi fingendo di essere disinvolta, «Ma a me basta tu mi ascolti, prometto che poi non ti disturberò più. Quando due sere fa eri nella B7, nella cella di fronte alla mia, perché mi hai voluto dare quel tacito consiglio di starmene in silenzio? Non ne avresti avuto motivo, per te non sono nessuno. Ma lo so, non mi risponderai e non ti chiedo di farlo. Volevo solo ringraziarti: alla fine non sono riuscita a fare come volevi, ma apprezzo comunque il gesto. Grazie.»
Non ero sicura avesse capito le mie parole, non ero certa nemmeno mi avesse ascoltato, ma sentivo l’esigenza di ringraziarlo, e solo perché era un paziente in un ospedale psichiatrico non equivaleva fosse incapace di comprendere cosa fosse la gratitudine.
Mi voltai lasciandolo solo con Candice e i loro scacchi, sorridendo a Broox perché avevo fatto qualcosa che mi faceva sentire bene e, ad essere onesti, anche piuttosto umana. Avrei cercato qualcun altro con cui parlare se non avessi visto l’infermiera spalancare gli occhi come se dietro di me si fosse materializzato un mostro.
Quel che vidi non fu altro che B7 intento ad osservarmi con lo stesso sguardo che avrebbe avuto una ordinaria altra persona non considerata psicologicamente instabile.
«Non credo tu sappia giocare a scacchi.»
Una voce priva di emozione, apatica, asettica, degna di essere paragonata a un sintetizzatore vocale. Non era né acuta né roca, né fastidiosa né piacevole. Non saprei come descriverla, era così insolita.
«Ho tentato… Ho cercato di imparare diversi anni fa, ma non ci sono mai riuscita. Non credo di essere portata.»
Roteò gli occhi e guardò Candice come per chiederle telepaticamente qualcosa. L’altra sorrise e si spostò sulla sedia affianco, facendomi segno di accomodarmi vicino a lei. Broox mi spinse in avanti e mi bisbigliò di farmi coraggio, contraddicendosi in quell’istante alle parole precedenti di non avvicinarmi a lui. Ero confusa, convinta di non interessare assolutamente a quel ragazzo; e seduta lì, di fronte a lui, non sentivo altro che l’agitazione.
Una voce quasi metallica si fece largo tra le mura di quella sala, rimbombando più volte: «Che tutti i pazienti si avvicinino al banco. Ripeto, che tutti i pazienti si avvicinino al banco.»
La maggior parte dei pazienti si alzò, chi nel giro di pochi istanti e chi impiegandocene qualcuno di troppo, per raggiungere le tre infermiere dietro la lastra di vetro che le separava da noi. Avevo una vaga idea di cosa stesse accadendo, ma non osai crederci fino a quando lo disse B7, occupato a rimettere i pazzi nella loro posizione iniziale con la tipica aria di chi era annoiato da quella routine inalterabile.
«Oh, è già l’ora delle medicine? Sembri spaventata, Herstal. Stai tranquilla.»
«Dovrò prenderle anche io? Cosa ci daranno esattamente?»
Spostò su un lato la scacchiera e si sporse in avanti, come se stesse per rivelarmi qualcosa che nessuno avrebbe dovuto sentire.
Bisbigliò: «Solitamente danno lo stesso schifo a tutti, ovvero ansiolitici, neurolettici, antidepressivi… Insomma, psicofarmaci. E purtroppo oggi ti è andata male poiché nessuna delle tre là dietro è dalla tua parte e scambierà vitamine con quella robaccia.»
Lo disse con una risata che sapeva fin troppo di macabro, e non sapevo davvero come reagire a un simile soggetto. Ma quando si alzò spostando rumorosamente la sedia, mi parve per un attimo di leggere ancora una volta la noia nelle sue iridi.
«Ascoltami bene, Herstal.», disse avvicinandosi a passo svelto, «Non voglio spaventarti più del dovuto, ma quella merda che vogliono darci fotte il cervello, lentamente. La cosa migliore da fare sarebbe non ingerirla, ma so bene che non è semplice quando c’è il rischio ti controllino la bocca dopo aver finto di averla ingoiata… Anzi, ai novellini è una prassi che non saltano mai proprio perché non si fidano. Sarebbe decisamente poco saggio tentare di prenderli in giro.» Si inumidì le labbra e mi spostò i capelli da un orecchio, abbassandosi alla mia altezza. «Non temere, me ne occupo io. L’ultima cosa che desidero al momento è vederti diventare pazza sul serio.»
Un brivido mi percorse la schiena per il modo in cui lo disse: era come se traesse piacere da questa situazione che non mi entusiasmava più di tanto.
Io non osai replicare, più che altro perché confusa da quelle sue ultime parole sussurrate all’orecchio; non capivo perché dovesse importargli di me e della mia sanità mentale, ma evidentemente ero io a non cogliere il messaggio nascosto nelle sue frasi: quando gli chiesi una spiegazione, si limitò solo a lasciarmi una piccola carezza sulla guancia e a dire “Non è ovvio?”.
Mi chiese, quasi ordinandolo, di alzarmi dalla sedia e mi voltò verso il banco delle infermiere: la fila di pazienti prendeva i due bicchierini meccanicamente, portando alla bocca prima quello stretto nella mano sinistra e poi il secondo nella destra; ingerivano il contenuto di entrambi senza far storie, tornando poi al loro posto come se nulla fosse mai successo.
B7 posò le mani sulle mie spalle: «Sei disposta a fidarti di me?»
«Non lo so, dipende cosa tu abbia in mente.»
«Lo prenderò per un sì. Cammina, prendi i bicchieri e fingi di ingoiare, esattamente come farà Candie. Mi sono spiegato?»
Cercai di replicare, ma lui mi spinse in avanti e chiamò Candice, che mi prese per mano trascinandomi verso le infermiere sorridenti e apparentemente ben disposte. Trasmettevano qualcosa che non mi faceva star tranquilla e immaginai fosse lo stesso anche per B7, tornato ad avere quello sguardo vuoto di sempre.
Candice si sporse sul bancone e prese i suoi due bicchierini guardandone il contenuto; li svuotò alla svelta entrambi, ma quando si voltò verso di noi aprì leggermente la bocca per mostrarci la pillola rossa che non aveva ingoiato.
B7 mi spinse ancora, senza però dire nulla. Le sue intenzioni non mi erano chiare, ma feci ciò che disse anche se avrei preferito mi rivelasse tutto prima di arrivare lì di fronte.
«Finalmente anche a noi è permesso conoscere Nebraska Herstal… Ci è stato detto dal dottor Hijikata di trattarti come una principessa
Le infermiere mi guardavano, mi studiavano attentamente mentre mi porgevano i due bicchieri; semplice acqua e una pillola bianca che non potevo definire. Poiché l’idea di eseguire quell’ordine non mi allettava più di tanto, non mi preoccupai nemmeno di nascondere il mio disappunto davanti a loro: ero arrabbiata con loro, con quelle persone che mi avevano rinchiusa in quella gabbia di sofferenza e solitudine senza degnarsi nemmeno di sentire la mia versione dei fatti prima di strapparmi all’improvviso da quell’esistenza mai stata troppo spiacevole.
Al diavolo le mie intenzioni di diventare una paziente modello, al diavolo la mia iniziale convinzione che tutto sarebbe andato meglio se non avessi causato guai; quella non era la vita che meritavo, e volevo che tutti lo sapessero, che ogni dannata persona presente in quell’ospedale psichiatrico se ne rendesse conto.
Che l’avrebbero pagata cara in qualche modo era l’unica cosa che riuscivo a pensare osservando quei bicchieri… Ma in quel caso io non potevo far altro che fidarmi di B7 e la sua idea che solo qualche istante dopo classificai come malsana e totalmente fuori dagli schemi.
Presi quei bicchieri giurando vendetta e portai quello con la pillola alle labbra, facendo esattamente come quel ragazzo mi aveva detto: la trattenni tra le due arcate di denti allo stesso modo di Candice, ma questo non mi risparmiò dal sentire la sostanza amara che la ricopriva sciogliersi al contatto con la saliva. Mi affrettai a bere l’acqua, pur sapendo che non sarebbe bastata a togliere quel fastidioso sapore dalla mia lingua.
Rimasi immobile davanti alle tre infermiere, con entrambi i bicchieri vuoti. B7 era ancora dietro di me, ma niente sembrava smuoverlo dalla sua posizione. Iniziai a pensare mi avesse mentito, che in realtà non avrebbe fatto nulla per impedire a quel farmaco di finire nel mio stomaco: ormai ero lì, con la pillola tra i denti e le donne a controllare ogni mio movimento involontario; se avesse davvero voluto fare qualcosa, non avrebbe aspettato così tanto.
Mi maledii per essermi fidata di uno sconosciuto, probabilmente l’ennesimo pazzo di quell’edificio, e chiusi gli occhi cercando di mantenere la calma.
Un attimo dopo, il vetro che separava le infermiere da noi pazienti si frantumò in mille pezzi, distrutto da un destro di B7 che quasi sfiorò il mio viso. Un urlo delle infermiere attirò l’attenzione di tutta la sala, guardie e altri infermieri specialmente. Tutti i pazienti con ancora un briciolo di sanità mentale si allontanarono da noi, gli altri che avevano già preso le loro medicine rimasero ai loro posti senza sconvolgersi più di tanto.
Con l’attenzione concentrata su di lui, trovai il modo di gettare la pillola e calpestarla con un piede, rendendola così invisibile essendo dello stesso colore del pavimento. Ero riuscita a non ingoiare quello schifo, e dovevo ringraziare la persona che adesso perdeva copiosamente sangue da un braccio. Per quanto fosse chiaro che quelle ferite non erano nemmeno lontanamente dei semplici graffi, lui non sembrava preoccuparsene: sorrideva, aveva dipinto sul volto un sorriso meraviglioso che non riuscivo a motivare con certezza. Poteva essere divertimento, stupore o un qualunque altro sentimento, ma sicuramente non dolore per l’arto malridotto.
«Hai fatto tutto questo solo per una pillola? Non ci posso credere!»
Ed era vero: io, effettivamente, non ero in grado di comprendere come potesse essersi spinto tanto oltre per l’effetto a lungo termine di una pillola su una persona di cui a stento conosceva il nome.
B7 continuò a sorridere, con Candice che lo ricambiava seduta di fronte agli scacchi di prima e Broox che, esterrefatta, aveva preso il cellulare senza però riuscire a comporre nessun numero.
«Te l’ho già detto, Herstal, e non lo ripeterò un’altra volta: l’ultima cosa che desidero in questo momento è vederti diventare pazza sul serio.»
 


──Note dell'autore──
Non ho la più pallida idea di chi legga questa storia, ma se dopo tre mesi di assenza sieta addirittura arrivati a leggere le note di questo capitolo, beh... Complimenti! O sono io dannatamente brava a scrivere o voi siete fin troppo pazienti; tanto perché voi lo sappiate, penso sia più probabile la seconda ipotesi.
Vorrei dirvi che mi dispiace avervi fatto aspettare, ma in realtà non è proprio così: detesto scrivere se non ispirata o controvoglia, figuriamoci se arrivo a fine capitolo e penso faccia troppo pena per essere pubblicato.
Sì, questo l'ho riscritto due volte, e B7 non doveva farla da protagonista così come Candice non era in programma di esistere. Eppure penso che questo capitolo non sarebbe altrettanto "piacevole" se lei non vi fosse, dunque non ho avuto il coraggio di eliminarla.
Vi ringrazio per le visualizzazioni, per aver messo MD tra le seguite/ricordate/preferite/quel che volete e vi ricordo due cose: per qualunque domanda potete tranquillamente contattarmi su Facebook, Ask, Tumblr, quel che vi pare e, soprattutto, che se mi capitasse qualche recensione o critica in più non mi dispiacerebbe. Siate onesti, non mi offendo facilmente.
Che note lunghe.


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「Nitrogen」

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***









Capitolo VI
_______________________
 

B7 sorrideva.
Sembrava divertito dalle grida e dal panico che aveva generato dal nulla. Era fermo davanti al vetro che lui stesso aveva infranto pochi attimi prima, e non si curava del suo braccio sinistro che implorava medicazioni: il sangue, con una lentezza disarmante, tingeva la sua pelle troppo pallida e nel giro di poco sarebbe colato anche sul pavimento.
Era innaturalmente troppo calmo.
Una persona, una qualsiasi altra persona, avrebbe quantomeno mostrato un accenno di interesse per quello che gli avrebbero fatto gli inservienti, per la punizione che sicuramente gli avrebbero dato. Ma a lui sembrava non importare, come se quel dopo non gli riguardasse affatto.
B7 sorrideva, e lo faceva allo stesso modo di chi mi aveva rinchiusa lì dentro.
Lo faceva in un modo che mi mandava senza volerlo nel panico, perché mi faceva sentire come se tutto il mondo fosse nelle sue mani e nelle mie non ci fosse nulla. Più lo si guardava, più sembrava acquisire quella sicurezza in grado di distruggerti psicologicamente in pochi istanti: era la copia sputata di quel mostro, di quell’essere che sarebbe dovuto essere lì al mio posto a ingerire pasticche.
B7 posò il suo sguardo su di me, mutando il sorriso sadico in uno leggermente più dolce; voleva dirmi qualcosa con gli occhi, ma io non riuscii a capirlo perché in una frazione di secondo degli inservienti gli saltarono addosso e lo colpirono più volte, finendolo con una scarica elettrica sul collo.
Lo vidi accasciarsi a terra, con l’espressione di chi sapeva cosa gli sarebbe accaduto e non aveva paura, di chi aveva vinto in partenza. La calma che mostrava il suo volto era fuori dal comune, e questo lo commentarono anche gli inservienti che l’avevo circondato: le sue azioni e reazioni spaventavano chiunque, e io non facevo eccezione.
«Vieni via da qui, Nebraska, forza. È meglio approfittarne per andarsene.»
«Broox, gli faranno male.»
Lei mi prese la mano e sorrise: «Non preoccuparti per lui, adesso. Sa cavarsela da solo.»
Mi lasciai trascinare verso l’uscita della sala senza fare storie: avevo ancora le parole di B7 a tormentarmi, dannatamente confusa dal suo comportamento che non capivo, ma Broox mi convinse che andarsene era la cosa migliore da fare.
Candice, che era venuta via con noi, stringeva come immaginabile una mano a Broox, più tranquilla di quanto potessimo esserlo io e la donna al mio fianco. Quest’ultima era assorta nei suoi pensieri, e continuava a digitare sul cellulare nel vano tentativo di farsi rispondere da qualcuno, ignorando chi tentava di salutarla; aveva imprecato, sottovoce, e questo parve disturbare per un istante la quiete di Candice.
Io continuavo a seguirla, in silenzio, pur non sapendo dove mi stesse portando. Si fermò quando vide Kline di guardia a un corridoio, intento a fare quattro chiacchiere con un suo collega di cui Broox ignorò totalmente la presenza.
«Zedd ha rotto il vetro delle infermiere.», disse senza nemmeno salutarlo.
Kline si irrigidì. «Di nuovo?»
«Sì, di nuovo, di nuovo! Adesso l’hanno portato via, e io non so cosa fare. Joshua non risponde.»
«Non è in servizio adesso.»
«Ma io devo parlargli assolutamente.»
Kline non parve capire, e Broox gli si avvicinò di più, prendendo a bisbigliare: «Ha parlato con Herstal, oggi. E non l’ha aggredita, voleva giocare a scacchi con lei.»
«Non voleva farmi ingerire le pillole.», intervenni, «Ha detto che... non vuole vedermi diventare pazza sul serio.»
Broox gli voltò le spalle e mi guardò, quasi furente: «Ha rotto quel vetro per te? Quando avevi intenzione di dirmelo?!»
Candice si mise tra me e la donna, come se volesse difendermi. Non sapevo cosa risponderle.
«E anche tu lo sapevi! Perché lo ha fatto? Lo sai anche tu che se si caccia nei guai fino a questo punto noi non possiamo aiutarlo! Dovevi fermarlo!»
Il rimprovero fece indispettire di colpo Candice, che staccò la mano di Broox stretta attorno al suo braccio. Le leggevo del disprezzo sul volto che mai avrei pensato potesse mostrare, minuta e tranquilla com’era, come se in quel frangente si fosse sentita ferita dalle sue parole, come se si fosse sentita tradita da Broox che non aveva compreso le motivazioni di B7.
Kline parlò: «Suvvia, Broox, lasciala stare. Che colpa ne ha lei se Zedd si diverte a complicarsi la permanenza in ospedale?»
Ma Candice non sorrise alla carezza che gli fece, ma anzi, si allontanò da noi con passo molto lento; sembrava voler stare da sola.
«Dove…»
«Quando si arrabbia le piace andare fuori.», mi anticipò Broox, «Ma non possiamo lasciarla da sola è pur sempre una paziente.»
Strabuzzai gli occhi: «Vengo anch’io?»
«Certo, perché non dovresti?»
Non uscivo all’aria aperta da non sapevo quanti giorni. Certo, già non essere più in quella cella di isolamento era una cosa meravigliosa, ma sentire l’aria fredda dell’inverno entrarti nei polmoni era una sensazione completamente diversa. Visto dall’esterno, per di più, quel manicomio non dava affatto una brutta impressione: sembrava una struttura ben tenuta, un posto in cui una qualsiasi persona si sarebbe trovata bene e dalla quale un giorno sarebbe uscita come nuova. Ma la verità era un’altra, e pensarci ancora non avrebbe fatto altro che aumentare il mio malessere.
Non faceva così freddo com’è facile immaginare, eppure la ferita da arma da fuoco alla mia spalla tornava a dar fastidio, e camminare scalzi sull’erba come stava facendo Candice sarebbe stato comunque un problema; passeggiava senza meta, con lo sguardo vigile di Broox puntato sulla sua schiena. Era sovrappensiero, il cellulare ancora in mano perché forse in attesa che Mayer la richiamasse.
«Perché il ragazzo della B7 e Candice sono così… amici?»
La domanda uscì senza permesso dalle mie labbra, portando per qualche istante gli occhi di Broox su di me. Non parve sorpresa dalla mia domanda, ma nemmeno felice di aprire quell’argomento.
«Amici? Lui la considera come una sorella, o almeno è questo quel che mi ha detto Joshua Mayer.»
«Perché, con te Zedd non parla?»
«Lui non parla con nessuno, in alcuni casi è difficile anche solo avvicinarsi. Cerco di fare il possibile per aprire una conversazione con lui, ma normalmente mi ignora come ignora la maggior parte dei pazienti, inservienti e così via. Con Joshua, però, un po’ si apre. E qualcosa avrà detto anche a Candice.»
La indicò con la testa, stringendosi le braccia al petto: guardava Candice con gli occhi pieni di sofferenza, come se osservarla con quella linea così dura sul volto facesse male prima a lei che alla diretta interessata.
«Zedd e Candice è come se si servissero a vicenda.», disse tutto d’un tratto, «Lei non parla quasi mai, ma con lui qualche parola la dice; e lui è intrattabile, apatico, menefreghista, ma si scioglie completamente quando la vede. Non so perché né come il loro rapporto sia diventato così, però si sono trovati in questo ospedale e se potessero darebbero la vita l’uno per l’altra pur di vedere uno dei due fuori da queste mura, anche solo per qualche ora.»
«Perché sono costretti qui? Cosa hanno fatto?»
Broox si ammutolì per qualche istante, non avendo inizialmente alcuna intenzione di rispondermi. Temevo di averla infastidita, ma non osai chiederglielo.
«Ci sono cose che è meglio non sapere, Nebraska. Ci sono domande che in posti simili è meglio non fare, e questa è una di quelle. Non potrai mai sapere chi si siederà al tuo fianco all’ora di pranzo o chi vorrà giocare a carte con te, quindi ti consiglio di non interessarti più di tanto della vita passata di chi è qui dentro, o più in generale a qualunque cosa non riguardi direttamente te. Se vuoi una permanenza tranquilla, ti consiglio caldamente di concentrarti solo sul presente, e se riesci di dimenticare di essere sana di mente.»
«Non credi io sia pazza?»
«Joshua mi ha chiesto di non trattarti come una paziente e mi ha raccontato la tua verità dei fatti. E se posso dire la mia, io ti credo.» Si girò nella mia direzione, facendomi mancare un battito. «Non so cos’è accaduto esattamente perché non ne hai voluto parlare e razionalmente parlando non dovrei fidarmi di te solo per le parole che mi sono state riportate, ma più ti osservo e più penso che questo non è il tuo posto. Tu non puoi averli uccisi, non puoi, te lo leggo negli occhi, sono convinta lo abbiano capito tutti che sei qui per errore, Hijikata per primo.»
Hijikata. Avevo completamente rimosso quell’uomo dalla mia testa, o forse accantonato in qualche angolo buio della mia testa in attesa che qualcuno lo nominasse ancora. In un attimo riaffiorò l’immagine del suo sorriso, la siringa che mi porse il primo giorno, le torture che mi aveva fatto e…
Un urlo spezzò il mio filo di pensieri, rimettendo di nuovo Hijikata in quel po’ di spazio che gli aveva concesso la mia mente, accuratamente sotto chiave. Era un urlo straziante, alto, troppo acuto per essere qualcuno che semplicemente si era fatto male, e che nel silenzio irreale di quel manicomio sembrava assordante. Non sapevo di chi fosse e probabilmente non avrei fatto nulla se non pregare per questa persona, ma quando vidi Candice voltare di scatto la testa nella nostra direzione e correre per tornare dentro fu tutto chiaro.
Io la seguii prima ancora che decidessi razionalmente di farlo, ignorando il richiamo di Broox per entrambe di restare con lei. Non conoscevo il manicomio abbastanza bene da sapere dove stessimo andando, quindi svoltai tutte le volte che lo fece Candice senza pormi domande, o almeno così credevo. Ero di nuovo nel corridoio dove per la prima notte dormii tra odore di urina, lenzuola sporche e urla di quell’uomo ormai senza lingua, ma di Candice non ce n’era nemmeno l’ombra.
Rallentai la corsa e camminai a passo felpato fino alla B7, dove non avevo dubbi su chi avrei trovato. Così vicino alla cella, le urla divenivano insopportabili, e a causa dell’arredamento assente rimbombavano per tutto il corridoio facendoti credere fossero direttamente nella tua testa. E tra un urlo e l’altro, si sentiva qualcuno che parlava a bassa voce, che alternava le sue parole con quello che potevo ipotizzare fosse un pugno o un calcio.
Quando trovai un po’ di coraggio, quel che riuscii a vedere dallo spioncino mi raggelò il sangue nelle vene: B7 era quasi immobile sul pavimento, steso in una pozza di sangue e avente il volto tumefatto dalle continue torture di quello psichiatra, che se era stato un incubo per me, lo era ancora di più per lui.
Respirava con fatica, e cercava di proteggere il viso con gli arti lividi così come per il resto del corpo. Chiudeva gli occhi e versava lacrime in silenzio, resisteva alle torture e non reagiva, pur essendo certa sarebbe riuscito a farlo e che in cuor suo ardeva dalla voglia di restituirgli anche solo una parte del male che stava gratuitamente ricevendo. Non tentava di fermarlo, né di allontanarsi per avere un attimo di tregua, restava sotto di lui in attesa dell’ennesimo colpo sferrato con rabbia, come se sapesse che da quella situazione non potesse scappare, qualunque cosa avesse fatto. Non vedevo quella vittoria dipinta sul volto che aveva mostrato poco prima nell’area ricreativa davanti a me e Candice, non mostrava quel sorriso tranquillo che mi aveva convinto avesse tutto nelle sue mani e nulla nelle mie. Lo vedevo distrutto dall’ennesimo tentativo di Hijikata di mandarlo fuori combattimento, lo sentivo come un’anima in fin di vita che pregava solo di farla finita una volta per tutte e il più rapidamente possibile. Lo vedevo solo, sfinito, senza un motivo valido per reagire.
«Non reagisci nemmeno questa volta, ragazzo?»
Un suo piede schiacciò B7 al pavimento, facendogli emettere dei gemiti che con fatica riuscì a non tramutare in urla. Stringeva le labbra tra i denti, teneva stretta una mano attorno a un piede del letto e si rannicchiava, come se fosse stato un bambino in attesa di qualcuno che lo liberasse dai suoi incubi.
«Jonathan, che effetto ti fa essere chiamato con il tuo vero nome?»
Si abbassò sulle ginocchia per fargli una carezza che dopo poco divenne una tirata di capelli per portarlo all’altezza del suo viso. Hijikata mi dava le spalle, ma adesso B7 poteva vedermi, e di fatti sgranò gli occhi gonfi e rossi per il pianto: non capivo se fosse sorpreso o turbato dalla mia presenza, e non ebbi nemmeno il tempo di pensarci a dovere perché una spinta mi scaraventò contro la porta facendomi sbattere la testa.
Scivolai a terra, incapace di stare in piedi a causa delle vertigini. Non avevo sentito arrivare nessuno, forse troppo presa ad osservare l’interno della cella per rendermene conto, e di questo mi maledii non appena questa persona mi costrinse con forza ad alzarmi; lo riconobbi anche se non ne ricordavo il nome, l’avevo visto tener fermo l’Urlatore quel giorno.
«Dovresti imparare a non immischiarti nelle cose che non ti riguardano, Herstal.»
«Oh, non ci crederai ma me l’hanno già detto.», risposi forzando un sorriso, «Purtroppo non sono brava a seguire i consigli delle persone di cui mi fido, figuriamoci di esseri violenti come te.»
«E questo non ti porterà da nessuna parte, lo sai?»
Sorrise anche lui, poi mi spostò per permettere a Hijikata di vedermi. Non gli faceva piacere vedermi, e non si risparmiò né dal dirlo con l’espressione del viso né con le parole.
«Ancora la nostra ficcanaso. Sembra proprio tu non riesca a startene buona da sola.»
«È quel che le ho detto anche io.»
«Ciò non toglie che nemmeno in questo caso seguirò il vostro suggerimento di farmi gli affari miei.»
Hijikata mi gettò malamente nella cella con B7. Quest’ultimo si avvicinò alla svelta, in apparenza confuso da quel che stava accadendo o forse ancora frastornato dall’ultimo colpo ricevuto; sembrava volesse dirmi qualcosa, ma non aveva la forza, la lucidità o non so che altro per farlo.
«Sam, non vi avevo detto di tenere tutti lontani?»
«Sì, e infatti la piccola Candice è stata già chiusa da qualche parte dove non possa dar fastidio. Per quanto riguarda Herstal… Ammetto che ho chiesto io di non fermarla. Ho pensato ti avrebbe fatto piacere giocare anche con lei, oggi.»
Hijikata sorrise, visibilmente felice di quel che aveva appena sentito. Vorrei dirvi che ero spaventata, che l’idea lui mi mettesse le mani addosso mi terrorizzava, ma vi assicuro che in quel frangente la mia espressione era pura felicità paragonata a quella di B7. Non appena Hijikata aveva tentato di avvicinarsi, lui si era alzato e si era messo tra di noi.
«Da quando hai tempo per pensare a qualcuno che non sia tu stesso, Jonathan?»
«Farò una domanda stupida, ma non ti basta torturare me per appagare ogni tuo desiderio?»
«Non opponi resistenza, Jonathan, non c’è divertimento.»
B7 si portò ancora più avanti: «È questo che vuoi? Non è un problema, farò come desideri, ma per favore, lasciala stare. Lei non dovrebbe essere qui, dunque almeno permettile una vita qualunque in questo inferno.»
«Cos’è questa? Pena? Provi pena per qualcuno che non sia quella stupida mocciosa senza lingua? Joshua sarà lieto di saperlo!»
«Non parlare in questo modo di Candie...», bisbigliò.
«Al diavolo, Jonathan! Pensi che le tue parole possano farmi smettere? Potrei offenderla in qualunque modo possibile, probabilmente anche prenderla e violentarla davanti ai tuoi occhi e tu, povero disgraziato, non avresti il coraggio di alzare un dito contro di me, forse nemmeno urlarmi contro. Ora, per chissà quale motivo, ti sei messo in testa che vuoi difendere Nebraska. Ma Jonathan, non sei riuscito a difendere Candie, e nessuna delle altre persone prima di lei, nemmeno tua sorella. Come puoi difendere lei se fino ad ora non sei stato in grado nemmeno di proteggere te stesso?»
Erano discorsi che io, da poco entrata a far parte di quel mondo di pazzi, non potevo e non riuscivo a capire perché sembravano riguardare la personalità di B7, o meglio la parte umana di lui che fino a quel momento non avevo avuto modo di conoscere. Vederlo in quello stato, soprattutto dopo le ultime parole dette dallo psichiatra, lo rendevano ai miei occhi così fragile e incredibilmente stanco, come se avesse sofferto tutte le pene possibili per un ragazzo della sua età. Avrei giurato che sarebbe crollato sulle ginocchia da un momento all’altro, a piangere a più non posso per la disperazione, ma probabilmente non ebbe il tempo di farlo poiché Hijikata gli diede un pugno che, a causa delle sue già pessime condizioni, lo face cadere a terra.
Le mie intenzioni, dettate più dall’istinto che da altro, erano di correre in suo aiuto per quanto fosse possibile, ma Sam si scaraventò su di me seguendo l’esempio dello psichiatra, ed io finii nuovamente con le spalle al muro. E Sam non era Hijikata, Sam non mi guardava con gli occhi di chi voleva riempirmi di botte per storpiarmi il volto, non mi guardava con gli occhi di chi amava vedere una persona sanguinare da un labbro o dal naso, non mi guardava con gli occhi di chi fremeva dal desiderio di sentirmi urlare per una costola incrinata, per un braccio rotto, per la pressione su una ferita non ancora rimarginata; perché lui voleva altro da me, lo vedevo dal modo in cui sorrideva, dall’attenzione per il mio corpo anziché il mio viso, dalla carezza che mi fece prima di far scendere lentamente le mani lungo i miei fianchi.
Avrei dovuto reagire di più per un ormai lontano senso di sopravvivenza, ma per quanto mi dimenassi non riuscivo a liberarmi dalla sua stretta, e insistere ancora sarebbe servito a null’altro che peggiorare il senso di umiliazione che avrei provato una volta appagato il suo desiderio. E sperare in Mayer che per una terza volta mi salvasse da una fine simile era irrazionale, totalmente privo di senso. L’unica cosa che mi convinsi di fare fu versare qualche lacrima per illudermi di alleviare così il mio dolore, senza in realtà ottenere buoni risultati.
La sua lingua scivolava sul mio collo, e io guardavo la frustrazione nel cuore di B7 aumentare sempre più per ogni attimo che restavo ferma a lasciarmi violare. Le sue mani viscide e troppo vecchie si strofinavano sulla mia pelle provocandomi un senso di repulsione che purtroppo non bastò a smuovermi. Il suo respiro diveniva poco alla volta più forte, fastidioso, insopportabile per quella piccola parte di me che non voleva arrendersi ancora.

«Devi andare avanti, e lasciarsi scivolare tutto addosso non è il modo migliore.
Reagisci, Nebraska, fallo per me.»

La forza che usai per respingere Sam prima che fosse troppo tardi uscì così violenta e improvvisa che non sorprese solo me, ma anche gli altri presenti nella cella. B7 stava molto peggio di prima, eppure non si fece sfuggire quel momento di stupore generale per ribaltare la situazione e gettare Hijikata sul pavimento, poco distante da Sam; si fermò a cavalcioni su di lui per dar finalmente libero sfogo alla sua rabbia repressa, e qualche pugno lo caricò davvero.
Si staccò quasi subito, osservandosi le nocche sporche di un sangue che non gli apparteneva, visibilmente turbato: le guardava come se avesse commesso chissà quale peccato o come se dei ricordi orribili gli fossero riaffiorati tutto d’un tratto dal nulla, o forse ancora entrambe le ipotesi dette mescolate insieme.
Non si riprese del tutto quando pochi secondi dopo strisciò fino a me, ma recuperò quella concezione della realtà tale da consentirgli di parlare: «Stai bene?»
«Ti ricordo che sei tu quello incrostato di sangue, non io.»
«Tranquilla,» disse Hijikata rialzandosi e pulendosi un rivolo di sangue «adesso arriverà anche il tuo turno.»
E Hijikata fu di parola, perché non appena si rialzò anche Sam decisero che non era ancora giunta l’ora di smettere di giocare. Si dedicarono a quella pura e semplice voglia di violenza alimentata dalla vendetta che mi permise da un lato di restare inviolata, e dall’altro ugualmente distrutta per le torture che ricevemmo.
Non ero abituata a sentire la voglia di vivere ridursi al tal punto da essere quasi inesistente, tanto meno a desiderare che tutto finisse al più presto, in bene o in male non faceva alcuna differenza. Ma resistetti come fece B7, forse più per lui che tentava disperatamente di avvicinarsi e staccarmi l’inserviente di dosso che per me: non voleva io sopportassi tutto questo, ma la sua sola forza di volontà non bastava, e l’idea di salvarmi da quello scempio svanì lentamente dai suoi occhi pieni di sofferenza.
Sam e Hijikata ci lasciarono sanguinare al buio chiusi nella cella, da soli, allo stremo delle forze ma con il sollievo di essere sopravvissuti in qualche modo. Eravamo seduti sul pavimento, appoggiati con la schiena al muro a pochi centimetri l'uno dall'altra.
«Mi dispiace, Nebraska.», disse respirando a fatica, «Non volevo finisse così per te.»
«Poteva andare peggio. E non è colpa tua, dunque non scusarti.»
«E invece mi scuso a nome di tutti, perché non vogliono capire che non è qui che dovresti essere.»
Sorrisi, cercando di non pensare al sapore del sangue sulla lingua: «Tu cosa puoi saperne? Non conosci nulla di me, Jonathan
«Non usare quel nome,» mi ammonì «per lo meno non se c’è qualcun altro in giro.»
«Non è il tuo?»
«Sì, ma non qui dentro.»
«Perché?»
«Tu fai troppe domande, Herstal. E fare domande non è un bene quando…»
«…si è in un posto del genere, con pazzi che urlano e persone che vogliono torturarti, lo so.»
Si alzò lentamente, trascinandosi fino allo spioncino della cella: scrutava l’esterno con attenzione pur avendo un occhio così gonfio da essere quasi completamente chiuso; non capivo dove trovasse tutta quella forza per camminare, io a stento riuscivo a spostare un arto.
«Penso che rimarremo qui per un bel po’. Non ti dispiace stare al buio, vero?»
«In realtà sì, e anche parecchio.»
«Abituati.», disse senza giri di parole, «Ho la brutta sensazione che questa non sarà l’ultima volta insieme in una situazione simile.»
E rimase in silenzio, tornando a sedersi al mio fianco. L’ospedale sembrava essersi addormentato, e le uniche cose che potevano sentirsi erano i nostri respiri e qualche mio vano tentativo di muovermi per trovare una posizione più comoda della precedente. Quell’assenza di suoni mi angosciava, soprattutto quando di tanto in tanto mi convincevo di aver sentito qualche strano rumore provenire dall’esterno.
«Perché sei qui dentro?»
«Non ti avevo detto di…»
«Non mi interessa. Parla. Parlami di qualcosa, Jonathan. Se non di questo raccontami qualsiasi altra cosa o apriamo una discussione. Ma non restare in silenzio, per favore. Parliamo.»
Lui sorrise divertito, inumidendosi le labbra secche e violacee: «Mi credi se ti dico che non sono pazzo?»
«Tu mi crederesti se ti dicessi che ho ucciso quattro persone?»
«No, assolutamente.»
«E invece dovresti.»


 




──Note dell'autore──
Questa è la più chiara dimostrazione di come l'autrice di questa storia sia completamente -e irrimediabilmente- fuori di testa. Partorire capitoli del genere dopo tre mesi di assenza non è da tutti, e per questo mi faccio i complimenti da sola.
Il capitolo, inizialmente, doveva essere molto più tranquillo, ma non so come ho deciso di far picchiare un po' di gente. Forse sentivo la mancanza di Hijikata, o più semplicemente la mancanza di qualche scena violenta, onestamente non saprei dirvi, però devo ammettere che non mi dispiace affatto quel che ho scritto.
L'unica cosa certa è che per colpa di questo capitolo dovrò cambiare mezza trama, ma a noi va bene così, no?
Tanto i problemi sono tutti miei, mica vostri.
Ah: vorrei fare un ringraziamento particolare a Riley -che se non pubblicavo oggi mi uccideva-, a Luigi -che mi prende sempre in giro Nebraska-, e alla mia Candice personale -che ha letto il capitolo in anteprima e ha apporvato la pubblicazione-. Grazie, gentaglia. ♥
Al prossimo capitolo, e per il vostro bene vi auguro io lo scriva il più lentamente possibile.


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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***







Capitolo VII
__________________________

 
 
 

«Bugiarda.»
La sua replica mi sorprese, ma non lo diedi a vedere. Non era affatto turbato da quel che gli avevo detto, anzi, sembrava non importargli minimamente.
«Non conosci me e la mia storia, potrei essere davvero un’assassina. Dovresti credermi.»
«Non ho alcuna intenzione di farlo.»
«Il motivo?»
«Ho visto così tanti pazzi, criminali e quant’altro in questo posto che non ho bisogno di sapere il passato di ogni individuo per dire chi lo sia davvero o no.»
«Potresti sempre sbagliarti con me.»
Jonathan restò di nuovo in silenzio. Guardava il muro di fronte con gli occhi appena illuminati dalla luce proveniente dallo spioncino, la mascella contratta e l’espressione di chi non sapeva se credere a quel che sentivano le sue orecchie o a se stesso.
«Non prenderti gioco di me, Nebraska.», replicò poi, «Tu non hai ucciso nessuno.»
«Potrei averlo fatto.»
«Allora sentiamo: chi hai ucciso?»
«Degli amici di famiglia.»
«Come?»
«Con una pistola.»
«E perché avresti dovuto? Loro non ti hanno mai fatto niente, anzi, sono sempre stati molto gentili con te. Le vostre famiglie festeggiavano il Natale e il Capodanno assieme, avevi un buon rapporto con i figli dei Collins e spesso la domenica trascorrevi l’intero pomeriggio con loro. Ti piaceva stare in quella casa con Christopher e Lidia, non li avresti mai uccisi.»
Restai paralizzata osservando il suo profilo: come poteva sapere tutte quelle informazioni? Erano cose vere che non avevo detto a nessuno, e lui non aveva di certo potuto conoscermi prima di essere chiuso in manicomio; un elemento simile non si dimentica facilmente.
«Spiegami come sai i loro nomi e tutto il resto.», dissi cercando di non mostrarmi agitata.
Lui fece spallucce, con l’indifferenza tipica di chi stava per dire una cosa di poco conto. «Passo molto tempo in infermeria a causa delle ferite che riporto in seguito alle torture di Hijikata e qualcun altro: tra scartoffie varie lasciate incustodite e qualche chiacchiera con Joshua penso di aver sentito, saputo e capito più di quanto dovessi.»
Ed io che per voler sapere il tuo nome dal dottore ho quasi dovuto supplicarlo.
«E cos’altro sapresti sul mio conto?»
«Abbastanza da sapere a grandi linee perché sei rinchiusa qui dentro senza che tu me l’abbia detto. Vuoi io sia più preciso? Nessun problema: conosco il rapporto che hai con i tuoi genitori e quelle poche persone che frequenti, quel che si dice sul tuo conto sia tra i pazienti che tra gli inservienti, e come se non bastasse so perfettamente come e cosa pensi.» Si avvicinò al mio orecchio, facendomi provare un senso di déjà vu che mi irritò non poco. «Sono un osservatore eccellente, Nebraska, e ho capito che non riesci a mandar via i demoni che lentamente ti stanno divorando la testa.»
«Di che diavolo stai parlando?»
«Non di un diavolo qualunque, mia cara, ma del buon Lucifero in persona.»
L’allusione era così chiara per me che mi mancò un battito. Jonathan aveva deciso di parlare di un argomento che, solo a pensarci, mi mandava completamente fuori di testa e respirare a fatica. Dovevo cambiare argomento prima che ogni ricordo a Lui collegato riaffiorasse per farmi del male, ma il ragazzo seduto al mio fianco non me ne diede occasione.
«Joshua Mayer mi ha rivelato che, a detta tua, l’assassino sarebbe qualcun altro. E questo altro deve darti davvero molto fastidio mentre torna nei momenti peggiori per darti suggerimenti o semplicemente per fare quattro chiacchiere: magari in piena notte ti assale proprio quando non hai nessuno con cui piangere del tuo triste destino, quando sei sola e non puoi mandarlo via in alcun modo. Mi sbaglio?»
«Tu come…»
«E deve anche starti molto a cuore perché non hai ancora fatto il suo nome a nessuno; sembra quasi tu voglia proteggerlo, e questo direi che è molto insolito per una persona che probabilmente sta scontando l’ergastolo bianco del secolo.»
«Smettila, mi stai infastidendo.»
«Non so che tipo di legame ci sia tra voi. Eravate migliori amici? Fidanzati? Qualcos’altro che adesso mi sfugge? Perché davvero, non ho mai visto nessuno reagire in un modo tanto… assurdo. Stai proteggendo un assassino.»
«Sono sua complice.»
«Tu non hai premuto il grilletto.»
«E dunque? La pistola gliel’ho procurata io.», dissi senza nemmeno pensarci. Il che era vero, perché l’arma era di mio padre e io gliela diedi senza fare domande; non potevo dirgli di no.
«È stata una cosa molto stupida, ma non per questo meriti di vivere qui dentro per il resto dei tuoi giorni. E sei piccola, te ne mancano ancora parecchi, una sessantina come minimo.»
«Cosa puoi saperne tu di cosa merito o meno?! Tu non immagini come io mi senta, non sai quello che ho vissuto!»
Mi accarezzò il viso sorridendo, con le labbra ancora gonfie per quello che era accaduto: «Oh, come ti sbagli, piccolina. Io so cosa vuol dire sentire le grida disperate di chi ami, so cosa vuol dire vedere in faccia la morte e non sapere come scappare, so come ci si sente quando tenti invano di salvarli e le tue mani si macchiano di quel viscido liquido rosso che tanto hai temuto e che, per quanto tu possa lavare via con l’acqua, torni a vedere sotto forma di allucinazione.»
Mi allontanai di scatto. Faceva male ricordare quel momento ed io, pur essendo passati diversi giorni, non riuscivo ancora del tutto a capacitarmi della loro morte, più di tutte quella di Christopher. Non mi era stato concesso nemmeno sapere quando si sarebbero tenuti i funerali, non avevo potuto piangere sulla loro tomba o portar loro un fiore. I Collins erano stati come una seconda famiglia per me, forse li avevo voluti bene più di quanto ne abbia mai voluto ai miei veri genitori. E Christopher era un perno essenziale della mia vita, molto più che un semplice fratello: era l’unico che mi avesse fatto sentire amata davvero, voluta e desiderata. L’unico oltre il suo assassino.
«Io so cosa vuol dire sentirsi responsabili per la morte di qualcuno, ma non è colpa tua, Nebraska: l’unica cosa per cui potresti essere condannata è solo il tuo essere stata troppo ingenua.»
«Ti prego, sta’ zitto.»
Non volevo sentirlo, non volevo continuasse a parlare.
«No, ascoltami. Smettila di darti colpe che non hai!»
«Lasciami in pace.»
La sua insistenza mi ricordava troppo quella del mostro che mi aveva rinchiuso qui dentro al suo posto.
«Non ti lascerò in pace fino a quando non–»
«Jonathan, basta!»
Lui tacque, e il silenzio tornò quasi a farla da sovrano nella cella piccola e poco piacevole in cui eravamo. Il sangue era ancora attaccato ai nostri vestiti e sulla nostra pelle, sparso anche sul pavimento e a tratti anche sul letto a cui Jonathan si era aggrappato; era buio, faceva freddo, ero affamata, mi sentivo sporca e incapace di perdonarmi per aver detto alla persona sbagliata dove si trovasse la pistola di mio padre. Avrei voluto piangere, dare sfogo a quel che provavo, ma non ci riuscivo: ero come bloccata da qualcosa o come se avessi finito tutte le lacrime a mia disposizione e mi toccasse soffrire in silenzio. Come se tutto questo non bastasse, la spalla faceva male, ancora, e non riuscivo a farle smettere di pulsare in nessun modo.
Jonathan ripeteva che stare svegli era una tortura aggiuntiva a quello che avevamo appena passato, e dormirci ci avrebbe permesso di sopportare meglio il dolore delle ferite e il tempo che sembrava non voler scorrere. Eppure nemmeno lui riusciva perfettamente a prendere sonno: al minimo rumore alzava la testa, e se ne era il caso apriva gli occhi; era come se restasse in dormiveglia perenne, con la mente il più rilassata possibile ma l’attenzione al massimo anche a distanza di molto tempo.
«Voglio uscire da qui.», biascicai, «Sono stanca di non sapere che ore siano.»
«È più o meno pomeriggio inoltrato.», disse trascinandosi fino al letto. Dalla scarsa imbottitura del cuscino tirò fuori qualcosa che mi lasciò cadere in grembo poco dopo. «Esattamente le sei e mezza.»
Era quel che restava di un orologio da polso vecchio e malridotto, con il vetro danneggiato da graffi significativi e la lancetta dei secondi spezzata verso la metà; il quadrante di un intesto blu acceso spiccava tra i ricchi inserti argento che lo circondavano così come i numeri e le lancette del medesimo colore. Pur non essendo della sua iniziale bellezza, riuscivo comunque a distinguerne la marca che rimandava a un manufatto che, a giudicare dalle complicazioni che aveva, era non solo di ottima qualità ma anche eccessivamente costoso: giorno, mese ed anno a finestrella facevano compagnia ad una piccola sezione creata per le fasi lunari e sul retro vi era un altro quadrante che segnava la mappa celeste e la relativa orbita della luna.
Non era di certo quel tipo di orologio che avrei pensato di vedergli indossare.
«Questo non è un manufatto da quattro soldi.»
«Complimenti, non sapevo ti intendessi di orologi.»
Sorrisi con l’amaro in bocca. Brutto argomento, quello, davvero pessimo. «Mio padre era un fanatico di questi affari e mi ha insegnato qualcosa. Dove l’hai preso?»
«Me lo regalò mia sorella per non ricordo quale occasione. È l’unico oggetto personale che mi è concesso tenere. Sai, con questo pensano io non possa uccidere nessuno…»
Pensai che dovevano reputarlo davvero pericoloso se quella era la sola cosa che gli era concessa avere. Tenni ancora un po’ l’orologio con me, studiandolo e distraendomi per quanto possibile dai dolori alle articolazioni, poi tentai di restituirglielo: lui mi chiuse le dita sull’oggetto, stringendomi la mano per avvolgerlo completamente.
«Tienilo.»
«Ma è un regalo di…»
«È morta, Nebraska, non saprà mai che l’ho dato a te. E non ha senso tenere conto del tempo quando sai che resterai in un manicomio per il resto dei tuoi giorni, ma tu sei ancora legata al tuo passato e non sarò certo io a farti cambiare idea.»
La mia mente fece qualche collegamento di troppo e la domanda che sussurrai ne fu una conseguenza: «Hai ucciso tua sorella, Jonathan?»
«Così dicono.»
Non ebbi il tempo di replicare o chiedergli di più poiché si alzò di scatto interrompendo la nostra conversazione: si era avvicinato di nuovo allo spioncino, ma questa volta sorridendo.
«Quel che hai sentito qui dentro resta qui dentro, intesi? Ah, e hai capito quel che ti ho detto prima?»
«Mi hai detto un sacco di cose, Jonathan.»
«Broox. Non fidarti di lei, per nessuna ragione.»
«Questo non me l’avevi detto. Perché non...»
«Fa’ la brava e fidati. Non posso spiegartelo adesso, sono arrivati i soccorsi.»
E interrompendomi sporse un braccio fuori dallo spioncino e qualcuno si avvicinò alla cella, a passo non troppo svelto. Quel qualcuno girò una chiave nella serratura e la porta si aprì: l’inserviente fermo sulla soglia della cella mostrava un sorriso compiaciuto, evidentemente divertito dalla situazione spiacevole in cui ci trovavamo.
«Non hai una bellissima cera, ragazzo mio.»
«Molto spiritoso. Chi ti ha detto che eravamo qui, Aiden?»
«Voci di corridoio. Ma non sapevo ci fosse anche lei.» E mi indicò con la testa, portandosi poco di più all’interno della cella. «Chi ho l’onore di conoscere?»
Non risposi. Non ero mai stata molto propense a fidarmi degli sconosciuti, meno che mai in un posto del genere; ma Jonathan sembrava così rilassato…
«Si chiama Nebraska Herstal. Sicuramente avrai sentito parlare anche di lei in questi giorni.»
L’inserviente annuì, sorridendo. «Dicono che non la fai passare liscia ad Hijikata.»
«Faccio quel che posso per non morire.», risposi tentando di alzarmi. Barcollavo, non ero di certo nel pieno delle mie forze, ma grazie al sostegno del muro riuscii a stare per lo meno in equilibrio; a giudicare dalle mie condizioni, mi meravigliai anche solo di aver fatto un’azione tanto semplice. «Comunque, piacere di conoscerti, Aiden.»
L’uomo mi osservò con attenzione, scrutando ogni lembo di pelle scoperto che avevo. Non mi piaceva avere i suoi occhi puntati su di me e Jonathan parve capirlo quasi subito.
«Ti prego di non guardarla troppo, Aiden. La infastidisci.»
«Oh, scusami.», disse portando la sua attenzione all'altro nella stanza, «Ad ogni modo, tu dovresti smetterla di prendere a pugni il vetro delle infermiere. Ripararlo di volta in volta costa, sai?»
Jonathan sorrise, come se il rimprovero di Aiden gli facesse quasi piacere. Non che fosse una cosa da escludere completamente e del tutto impossibile, in effetti; era così strano quel ragazzo che non ne sarei rimasta sorpresa.
«Vorrei tornare nella mia stanza, sono già stata troppo tempo in questa cella.»
Aiden tornò a puntare i suoi occhi su di me, come se non potesse fare altrimenti: osservava le gambe instabili, i pantaloni sgualciti, le macchie di sangue sulla felpa, i lividi sparsi in punti più o meno visibili della mia pelle. E mentre mi avvicinavo alla porta mi ripetevo che prima o poi sarei uscita da quell'inferno, anche se le fitte che ormai erano di casa nel mio corpo me ne facevano perdere la speranza.
«Non capisco che ruolo tu abbia in questa faccenda, Nebraska.»
«Che intendi?»
«Perché Hijikata ti fa tutto questo? Per quanto possa essere una persona orrenda, non gli ho mai visto far del male una ragazza o una donna… Fisicamente, intendo.»
«Nebraska non è fuori di testa, Aiden, e questo è un problema.», intervenne Jonathan. «Inoltre, è anche abbastanza intelligente, resiste alle pressioni di questa detenzione forzata e ormai è sotto l'ala protettrice di Joshua Mayer. Vuole probabilmente farle tenere la bocca chiusa su quanto accaduto fuori da questo posto, e "semplici" torture psicologiche non servono con lei. Non mi sorprenderei se un giorno o l'altro la ritrovassi senza lingua o con un orecchio mozzato.»
Rabbrividii immaginando la scena. L'indelicatezza di quel ragazzo nel parlare di sua sorella defunta e adesso di future mutilazioni per la sottoscritta era sconfinata.
«E io dovrei anche lasciarglielo fare?», chiese retorico Aiden, «Dovrei continuare a vedere te e altri pazienti essere maltrattati per chissà quale motivo?»
«Eticamente parlando no, dovresti aiutarci. Ma se posso darti un consiglio, è meglio se resti fuori da questa situazione: Hijikata non te la farebbe passare liscia, e non credo sia una buona idea andare contro di lui. Sappiamo tutti cosa accade a chi dà troppo fastidio, no? E tu hai una famiglia a carico, non puoi permetterti il lusso di perdere il lavoro per due inutili scarti della società come noi.»
Aiden strinse i pugni, a un passo dal non poter più reprimere la sua rabbia. «Come puoi parlare in questo modo di voi?»
«Ah, non lo so. Forse Hijikata è riuscito a farmi dubitare dell’utilità della mia esistenza dopo quattro anni di violenze.»
Bugiardo.
Ascoltavo le parole di Jonathan con l’espressione di chi non credeva a nessuna di esse. Non lo conoscevo abbastanza da essere certa lui stesse mentendo, ma istintivamente sapevo che non era convinto di quel che diceva, o almeno non per quanto riguardava me: non avrebbe mai perso tempo tentando di salvarmi da quell’inferno se non l’avesse reputato essenziale, e su questo dubbi non ne avevo. Ma prima che potessi dire quel che pensavo Aiden mi trascinò via dalla stanza prendendomi per un braccio e camminando a passo svelto per una destinazione a me ignota, con Jonathan che ci seguiva a ruota.
«Dove mi sta portando?!»
«Perdonami, ma sono davvero stanco di tenere a bada le mie buone intenzioni.»
Iniziai a fare supposizioni sulle sue parole per il breve tragitto fino alla nostra meta e nessuna di queste sembrava portare a buon fine; non appena l’inserviente aprì di scatto la porta della stanza, poi, ne ebbi solo conferma.
«Guarda come li hai ridotti! Che senso ha fare tutto questo? Perché devi rendere la loro vita un inferno?»
Hijikata sollevò appena gli occhi dal portatile sul quale stava digitando chissà cosa e li fece scorrere distrattamente sulla figura che aveva appena parlato: lo scrutò con poca attenzione, interessato più che altro a me e Jonathan, probabilmente a fare un resoconto delle nostre condizioni fisiche.
«Buongiorno, dottor Hemmerick. Le rammento che sarebbe buona educazione bussare prima di entrare in una stanza e salutare cordialmente chi vi è all’interno.»
«Al diavolo i convenevoli!», sbraitò Aiden avvicinandosi a Hijikata, «Spiegami perché, Kashim. Che senso ha ridurli in questo stato?»
«Se lo meritano, non basta?»
«No che non lo meritano!», replicò Aiden battendo i pugni sulla scrivania dello psichiatra, «Sono pazienti, i nostri pazienti, e sono qui per essere curati, per tornare ad essere delle persone che un giorno potranno reintegrarsi nella società. Le famiglie di questi due ragazzi si sono affidate a noi per permettere loro di avere una seconda possibilità. Tutti sbagliano, tutti, e noi siamo l'unica speranza che hanno per tornare a vivere come delle persone qualunque. Dovremmo rieducarli, e le tue azioni non aiutano a realizzare lo scopo primario per cui ci hanno assunti in questo ospedale!»
Ma per quanto fossero giuste e nobili le parole di Aiden, Hijikata parve non interessarsene più del necessario: continuava imperturbabile a sorridere, questa volta sfogliando un fascicolo su cui era segnato il nome di un suo paziente. Il mio nome.
«Nebraska Herstal ha ucciso un uomo, una donna e i loro due figli. Non ha mai mostrato segni di pentimento, proclamandosi per di più innumerevoli volte innocente durante gli interrogatori. Se la paziente non è disposta ad accettare le sue colpe, come posso rieducarla? Sai anche tu che quello è il primo passo per andare avanti, Hemmerick.»
«Non è un buon motivo per maltrattarla fino a questo punto, dannazione!»
«Sono d'accordo con te, infatti picchiarla è solo un passatempo. È una ragazza così testarda che sembra quasi mi inciti alla violenza.»
Lo ammise con una disinvoltura disarmante, gettando malamente il fascicolo sulla scrivania e divorandomi con gli occhi. È un mostro, mi ripetevo, e trae piacere nel vedermi sofferente. E prima che andassi nel panico Jonathan mi strinse un polso, come se in qualche modo volesse rassicurarmi.
«Chi l'ha pagata per far vivere questo incubo a Nebraska, dottor Hijikata?»
Io e Aiden ci voltammo a guardarlo: non capivo cosa intendesse, e probabilmente nemmeno l’altro inserviente. L'unico che rimase impassibile fu Hijikata, che aveva smesso di sorridere e lo puntava con sguardo truce; ma non durò molto quel suo viso colmo d'ira poiché nel giro di qualche istante tornò a sorridere sornione, prendendo il fascicolo di Jonathan tra le mani.
«Non dovresti preoccuparti dei maltrattamenti altrui, ragazzo. I tuoi problemi sono ben peggiori dei suoi.»
«Le ho fatto una domanda, dottore. Chi l'ha pagata per riservarle un trattamento del genere?»
«Non chiederlo a me, Zedd. Forse ne sa qualcosa la signorina che cerchi tanto di salvare.» E mi indicò, mostrando un’aria di finta innocenza che gli calzava ben poco.
Non ne avevo alcuna certezza, eppure temevo si riferisse a Lui, il mio mostro e il mio angelo. E probabilmente Hijikata me l’avrebbe anche confermato se solo Joshua Mayer non fosse entrato nell’ufficio e avesse ordinato ad Aiden di smetterla con quel teatrino.
«Ma lui non può–»
«Vattene.»
«Joshua, ascolta–»
«Ho detto vattene, Aiden. E porta Nebraska Herstal e Zedd nelle loro rispettive stanze.»
Il tono di voce e lo sguardo di Mayer mi sorpresero perché non capivo per quale ragione stesse impedendo ad Aiden di fare quello che diversi giorni prima aveva fatto anche lui, ovvero farlo ragionare. Teneva i suoi occhi fissi sull’altro inserviente, quasi come se potesse ucciderlo solo con gli occhi. Mi era parso di vedere nel mio salvatore l’ombra di Hijikata, e questo non fece altro che alimentare le mie paure; nemmeno Jonathan sembrava tranquillo alla scena a cui stava assistendo.
Aiden cedette, allontanandosi dalla scrivania e puntando l’attenzione su Mayer. «Allora permettimi almeno di dire un’ultima cosa a quel verme.» Si voltò verso lo psichiatra, con lo sguardo colmo d’ira e l’evidente voglia di prenderlo a pugni. «Sappi che farò tutto ciò che è in mio potere per fermarti, Hjikata. E non mi importa se questo mi costerà il lavoro o qualunque altra cosa: non ti permetterò di continuare in eterno questo scempio.»
Hijikata si trattenne a stento dal ridere: «Temo non ci riuscirai.»
 
 
Quella discussione tra Aiden e Hijikata parve non portare alcun cambiamento all’interno dell’ospedale: anche a distanza di poco più di una settimana dall’accaduto, ogni cosa continuava a seguire il suo regolare corso degli eventi quasi come se la sfuriata dell’inserviente non fosse mai avvenuta; ogni paziente proseguiva la propria routine senza mutamenti, e a questo disegno io non facevo eccezione.
Ancora una volta ero stata svegliata da Broox e il baccano di Candice che frugava nell’armadio, mi era stata servita la colazione e insieme ci eravamo dirette nella sala grande, dove tutti i pazienti trascorrevano la maggior parte del loro tempo nel vano tentativo di rendere meno grigie le proprie giornate.
Broox aveva come di consueto tentato di farmi parlare un po’ ma le parole di Jonathan sul non fidarmi di lei mi impedivano di avere una conversazione che andasse oltre a pochi monosillabi o comunque nulla di troppo articolato. Le sorridevo quando serviva, le rispondevo solo se necessario, pesando con attenzione ogni parola, proprio come mi era stato spiegato da quel ragazzo.
Stavo lentamente imparando i meccanismi per non farmi ingoiare da quell’esistenza, quelle piccole cose che servivano per starsene in pace e non avere problemi; ero anche riuscita diverse volte a non ingerire quelle pillole –un po’ per fortuna e un po’ per aiuto di alcune infermiere– anche se quelle volte che non era andato tutto a buon fine avevo iniziato a star male, a sentire il sonno prendermi, la concentrazione mancare. E costantemente al mio fianco era rimasto Jonathan, che mi aveva spiegato come sopravvivere, come comportarmi con la maggior parte dei pazienti, come farmi amiche le guardie e alcuni degli inservienti; quando poteva mi parlava sottovoce della sua vita, mentre accarezzava i capelli di Cadice che altro non era se non la sua ombra; loro due erano le uniche persone che riuscivano a tenermi compagnia e cercavo la loro presenza ogni volta che potevo.
E anche quel giorno mi avvicinai al tavolo della grande sala dove era solito trovarsi Jonathan, preceduta da Candice che si era praticamente lanciata tra le sue braccia: quel giorno non era legato, e per tale ragione la strinse in un affettuoso abbraccio che mi fece pensare a quanto bene si volessero.
Feci per sedermi di fronte a Jonathan, ma lui mi fece cenno di mettermi sulla sedia alla sua sinistra; un gesto insolito considerato che da quando ero lì il mio posto non era mai cambiato.
«Non vuoi giocare a scacchi, oggi?»
«Lo faremo tra poco, tranquilla. Prima dobbiamo parlare di una cosa.»
Iniziò a guardarsi intorno, lasciando Candice e sussurrandole qualcosa che io non sentii; lei si allontanò, andando vicino a una vecchia signora malata di Alzheimer e chissà cos’altro che dondolava nervosamente su una sedia. Non capivo che bisogno ci fosse di allontanarla, Jonathan aveva sempre parlato apertamente anche davanti a lei.
«Perché Candice non può sapere quel che stai per dirmi?»
«Faresti mai vedere una scena violenta o una di un film porno ad una bambina di meno di quattordici anni? È lo stesso discorso.»
«Ma lei non è una bambina, è mia coetanea.»
«C’è una grossa differenza tra te e lei, purtroppo: tu mentalmente hai esattamente l’età che dovresti avere, lei su certe cose non proprio. Inoltre ha già sofferto abbastanza per essere tanto piccola e ingenua, se posso evitarle un dispiacere non mi faccio troppi problemi. Adesso puoi cortesemente starmi a sentire? Ho una cosa molto importante da dirti, quindi ti chiedo di fare attenzione. Ci vorrà poco, ma preferirei evitare di ripetermi.»
Canalizzai l’attenzione su di lui, o meglio sulla sua mano destra che giocava con lo scacco bianco della Regina; aveva le nocche ancora violacee per l’aver preso a pugni Hijikata nella cella di isolamento.
«Non so come si dicano queste cose, Nebraska, ma cercherò di essere il più chiaro e conciso possibile.», disse quasi bisbigliando, «Ti ricordi di Aiden Hemmerick, vero?»
Annuii piuttosto confusa. Perché parlarmi di un uomo che avevo incontrato solo una volta?
«Tu non ci avrai nemmeno fatto caso, ma è da un paio di giorni che non si vede da queste parti. Mi sono insospettito, ho cercato informazioni convinto si fosse dimesso a seguito di quanto accaduto diversi giorni fa, ma voci di corridoio –anche piuttosto affidabili, a dire il vero– mi hanno riferito tutt’altro, e non è nulla di piacevole: Aiden è morto.»
«Morto? Come? Perché? Non…»
Mi morirono le parole in gola, temevo di dire quello che il mio cervello aveva elaborato nel giro di pochi istanti. Non era possibile.
«Lo so a cosa stai pensando e onestamente anche io credo sia assurdo. Ma accontentarsi della convinzione sia morto in un banalissimo incidente stradale mi risulta davvero poco razionale, soprattutto sapendo quanto accaduto nell’ufficio di Hijikata.» Si fermò un attimo per inumidirsi le labbra ancora leggermente gonfie e tornò a parlare, prendendo il mio viso per il mento e portandolo a girarsi per far incrociare i nostri sguardi; non amavo guardarlo negli occhi, temevo sempre potesse leggermi dentro, troppo affondo. «Nebraska, se non ti è chiaro quello è un avvertimento per tutti noi.»
«E cosa vuol dire?»
«Che Hijikata non ha più voglia di giocare con noi.»


 




──Note dell'autore──
Dopo il bel capitolo precedente, che è uscito una meraviglia quasi fosse preso da un vero libro, questo avrà deluso più che lasciato effettivamente qualcosa. Uno sconosciuto muore, Hijikata è più stronzo di sempre e Jonathan sembra essere diventato un pappamolle. E io non ho nemmeno voglia di scrivere le note d'autore. Niente di eccezionale o di nuovo, e come al solito non voglio scusarmi per nessuna di queste cose.
Io l'avevo detto che man mano saremmo andati peggiorando, dunque non datemene una colpa.
Ah, già che ci sono vi informo di una cosa: dal 17 Giugno (per quelli meno intuitivi sappiate che è questo mese) al 2 Luglio (sempre per quelli poco intuitivi: il mese prossimo) la sottoscritta sarà in Inghilterra per uno stage scolastico a seguito di un colloquio con il preside e altre tre sue sottoposte andato -evidentemente- più che bene.
Non merito assolutamente questo viaggio completamente spesato in Inghilterra, ho una media che non supera quella del sette e non ho saputo dire chi è Giovanni per Foscolo (adesso lo so); ma mi hanno presa per non so quale motivo, dunque anche se non lo merito come gli altri potrei mai rifiutare?
Se non pubblico un altro capitolo entro la scadenza, auguratemi un buon viaggio.


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「Nitrogen」

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***







Capitolo VIII
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«Non andare nel panico, Nebraska.»
«Siamo arrivati a questo punto e tu mi dici anche che non devo andare nel panico?! Quell’essere vuole farci fuori!»
«Se urli ci farà fuori adesso, e perdere la calma non servirà a nulla.», disse stiracchiandosi e accennando un sorriso, «Comportati normalmente, fa’ finta di non sapere nulla e gioca con Candie come al solito. No, anzi, va’ da Mayer: al momento non posso ascoltare le tue paranoie, ma lui del tempo per darti corda lo troverebbe senza problemi.»
«Alle mie paranoie? Tu non ti rendi conto di cosa sta accadendo!»
«Sono in questo ospedale da quattro anni, conosco Hijikata molto più di chiunque altro e comprendo perfettamente la gravità della situazione. Siamo agli sgoccioli e dobbiamo trovare un modo per uscirne sani e salvi. Sciaguratamente, le tue preoccupazioni non servono a questo scopo.»
In quel momento mi sentivo presa in giro e non capita da una delle poche persone che reputavo fidate all’interno dell’ospedale. Normalmente avrei lasciato perdere, mi sarei allontanata di mia spontanea volontà pur di non intavolare una discussione che mi avrebbe portato ad andare fuori di testa, ma ero così arrabbiata per tutto quello che stavo passando che non riuscii a tenere a freno il mio pugno destro, entrato in collisione con lo zigomo già violaceo di Jonathan.
Temevo di averla fatta grossa, ma poiché lui non aveva né urlato né reagito in malo modo, nessuna delle guardie parve notare quanto stava accadendo al nostro tavolo: io ero paralizzata, sorpresa dalla mia reazione; Jonathan si massaggiava lo zigomo, con una smorfia che non esprimeva dolore ma fastidio per il mio gesto.
«Sai, Herstal, mi chiedo perché tu debba sempre essere così impulsiva.»
Mi afferrò i capelli e mi fece sbattere violentemente la testa contro il tavolo. Non credevo avrebbe reagito, o almeno non in tal modo con me. Mi stavo preparando a reagire a un ennesimo attacco di Jonathan, ma le guardie  scattarono verso di noi non appena lo videro alzare nuovamente il braccio all’altezza della testa.
«Adesso picchi anche le ragazze, bastardo?»
Jonathan sorrise e si lasciò legare le mani; lo trascinarono via con la forza anche se avrebbero tranquillamente potuto chiederglielo con gentilezza – poiché li avrebbe seguiti senza opporre resistenza.
Ovunque lo stessero portando non era di certo per fare una passeggiata all’aria aperta e temevo sarebbe toccato lo stesso destino anche a me, cosa che invece non accadde: le due guardie che si avvicinarono mi chiesero semplicemente se Jonathan mi avesse fatto troppo male.
«Mi gira la testa.», risposi, «Ma ho sopportato di peggio… Non è il caso di allarmarsi.»
«Non è solo Zedd da punire, lei gli ha dato un pugno poco prima.»
Puntai gli occhi su Broox, apparsa alle mie spalle con l'espressione tipica di chi non aveva intenzione di farmela passare liscia. Imprecai.
«Zedd mi ha fatto arrabbiare.»
«Non è un buon motivo per picchiare qualcuno, Nebraska.»
 
 
 

«Diamo il benvenuto a Nebraska nel nostro gruppo. Forza, salutatela.»
Si alzò un coro per nulla intonato di “Buongiorno” e altre parole biascicate in malo modo che mi irritò non poco. Ero appena entrata in quella stanza e già desideravo ardentemente scappare via, tornare nel mio isolamento forzato – e voluto – che ero riuscita a mandare avanti per più di quanto avessi immaginato. Nell’ospedale c’erano continue attività di gruppo ed io, per un motivo o per un altro, ero riuscita ad evitarli fino a quel giorno; ma sapevo che quella fortuna non sarebbe durata per sempre e mi stavo lentamente rassegnando all’essere trattata come tutti gli altri pazienti. Broox mi aveva incastrata.
«Nebraska, sai qual è la funzione principale di questo gruppo?», chiese la dottoressa numero uno con un sorriso largo e a dire il vero anche piuttosto sincero.
Era seduta di fronte a noi sei pazienti e al fianco della sua collega, quest’ultima con una penna già pronta all’uso per trascrivere la mia risposta sul quaderno che teneva in grembo. La cosa non mi aiutava ad essere molto spontanea.
«Ne ho solo una vaga idea.»
«Allora faremo iniziare gli altri, così potrai renderti conto in cosa consiste. Non è nulla di complicato, vero signori?»
Diversi “sì” si fece largo nella stanza e io storsi il naso; la dottoressa numero due lo appuntò sul quaderno. Solo in quell’istante notai che l’ultima sedia del semicerchio formato da noi pazienti – esattamente quella più vicina a lei – ancora non era stata occupata.
«Inizieremo dalla mia sinistra quest’oggi: Daniel, come ti senti questa mattina?»
L’uomo in questione dondolava nervosamente sulla sedia, sforzandosi di guardare la dottoressa negli occhi ma senza alcun buon risultato. Aveva delle iridi di un verde smeraldo molto intenso, ma le pupille erano fin troppo dilatate e non riuscivano a stare ferme per molto; era un bell’uomo, ed era un vero peccato vederlo ridotto in quello stato.
«B-bene, do… do… dottoressa.»
La dottoressa numero uno gli sorrise e gli disse che era felice di saperlo; l’altra appuntò quanto uscito dalle labbra di Daniel senza quasi aspettare che finisse di parlare.
«E le forti emicranie? So che il dottore ha cambiato le tue medicine.»
Daniel si limitò a sorridere e ad annuire non facendomi capire la risposta; ma le due dottoresse sembravano aver afferrato il messaggio poiché dopo altre brevi domande che non mi premurai di ascoltare passarono al paziente successivo, quello immediatamente alla mia destra: si chiamava Lacy e doveva avere circa il doppio dei miei anni, eppure aveva diverse treccine ad adornargli i capelli scuri che lo facevano sembrare abbastanza infantile.
Non appena la dottoressa numero uno ebbe terminato la prima domanda di routine – quella su come si sentisse – la porta della stanza si spalancò di colpo e fece il suo ingresso in scena Jonathan, che si andò a sedere con nonchalance sull’unica sedia libera seguito a ruota da due guardie. Evidentemente era riuscito per l’ennesima volta a sfuggire alla sua punizione.
«Dottoressa Evans, dottoressa Lee.» salutò, prima la più vicina – che registrò il suo ingresso sul quaderno – e dopo la più distante – che mutò il suo sorriso in un ghigno. Non era il benvenuto ma non lo mandarono via, tutt’altro: congedarono le due guardie e si consultarono velocemente sottovoce, per poi tornare esattamente come prima, belle e sorridenti come se affette da paralisi facciale.
La dottoressa Lee parlò per prima: «A cosa dobbiamo la tua visita? Di solito non ti interessi ai gruppi e fai il possibile per evitarli.»
«‘Sta mattina mi sono svegliato con la Sindrome di Stoccolma e dunque vi amo entrambe.»
Nascosi una risata non molto sonora voltandomi verso Lacy, che vedendomi divertita parve accennare un sorriso. Ma non era il sorriso da mezzo squilibrato che mi aspettavo: mi sembrava lucido e mi guardò come se sapesse perfettamente io chi fossi; non che alla fine ci volesse tanto.
Per la prima volta riuscii a sentire la voce della dottoressa Evans: «Immagino che durante la tua assenza ai nostri incontri siano successe diverse cose… Vuoi parlare di qualcosa ai tuoi compagni?»
Jonathan ci guardò tutti, nessuno escluso: da quando era entrato non mi aveva rivolto uno sguardo e nemmeno in quel frangente concentrò su di me più attenzione del necessario; si comportava come se per lui non fossi nient’altro che un ordinario paziente, diverso in nulla dagli altri. Poi sorrise senza apparente motivo alla donna seduta due sedie dopo di lui, una quarantenne piuttosto in carne dai capelli rossi e cotonati. Aveva una faccia simpatica.
«Patricia! Non mi ero accorto della sua presenza, mia signora.» E si alzò dalla sua sedia per raggiungerla, baciarle la mano e spostarsi alle spalle dell’uomo alla mia sinistra – ossia quello alla destra della donna. «Hey, Oldboy, alzati. Oldboy… Oldboy! Leva il culo da questa sedia!»
La ragazza seduta in precedenza alla destra di Jonathan mise le mani davanti agli occhi: «Non dovresti essere così scurrile con le persone! Bisogna essere gentili per ricevere gentilezza.»
«Se fosse vero quel che dici, Dee Dee, allora non sarei stato accolto in questo posto con un coro di offese e il sottofondo di pugni, quattro anni fa.»
«Ma tu hai ucciso tua sorella, per questo ti hanno picchiato.»
«Che ragionamento del cazzo…», bisbigliò irritato passandosi una mano sul volto. Dopo un sospiro schioccò le dita e alzò la voce per farsi sentire, cercando di starle al gioco. «Oh, giusto, mia sorella! Dimentico sempre quel dettaglio...»
Nemmeno il tempo di finire la frase che Jonathan spinse l’uomo che chiamava “Oldboy” per terra e si sedette rapidamente al suo posto. Nemmeno in quel momento mi degnò di particolari attenzioni ma anzi, si concentrò su Patricia dandole un sonoro bacio sulla guancia destra.
«Zedd!», urlò la dottoressa Lee, «Aiuta Jim a rialzarsi e torna subito al tuo posto!»
«Oldboy, vai al mio posto?»
Ma l’omone di due metri continuava a star seduto sul pavimento in silenzio, con lo sguardo perso nel vuoto. A quel punto Jonathan gli mise le braccia al collo e le dottoresse si alzarono di scatto, terrorizzate.
«Stai – »
«Non voglio strangolarlo, dottoresse. Se volessi ucciderlo non lo farei di certo in questo modo, e nemmeno qui dove potreste fermarmi.»
Dee Dee intervenne ancora: «Ecco. Poi ti lamenti se ti picchiano. Non si uccidono le persone, Zedd!»
Jonathan mi guardò, chiaramente al limite della pazienza: «Capisci perché preferisco prenderle dalle guardie anziché stare qui?»
«Beh, di questo passo ti manderanno a calci, da loro.»
«È quello che sperava fin dall’inizio.», disse Lacy tutto d’un tratto.
«Oh, ecco! Nebraska ti presento Lacy, affetto da schizofrenia e con alle spalle una dozzina di omicidi. Lacy questa è Nebraska, l’omicida della famiglia Collins.»
Rimasi un po’ turbata dalla presentazione fatta da Jonathan, più che altro perché era stato lui stesso diverso tempo prima a dirmi che era meglio non conoscere il passato dei pazienti; e di certo dirmi che era un serial killer schizofrenico non mi aiutava a stringergli la mano senza sembrare rigida e a disagio.
«Tranquilla Herstal, Lacy è apposto, non tenterà di uccidere anche te.»
Lo fulminai con gli occhi; non era di certo quello il modo migliore per rassicurare qualcuno ed ero certa lui lo sapesse bene.
«Fate silenzio voi tre!», urlò la dottoressa Lee tutto d’un tratto. Si alzò e con un sorriso ben poco sincero si avvicino a Oldboy per farlo accomodare all’iniziale posto di Jonathan, dopodiché tornò a sedersi e guardò noi tre con uno sguardo che non prometteva nulla di buono. «È nel vostro interesse collaborare con noi se desiderate una permanenza tranquilla nell’ospedale.»
«Crede che se me ne importasse qualcosa farei tutto questo chiasso?», replicò Jonathan con una smorfia dipinta sul volto. «Io mi annoio, qui, e poiché nessuno sembra voler ascoltare le verità di un apparente pazzo assassino, farò in modo di non farvi passare delle belle giornate. E sfortunatamente io sono di parola. Ma avevamo già parlato tempo fa di questo, sbaglio?»
La dottoressa Lee chiuse gli occhi per qualche istante e parve riflettere; quando li riaprì lessi un velo di compassione rivolto interamente a Jonathan.
«Du sollst weg.»
«Ich will aber nicht.»
«Weg.»
Il significato dell’ultimo scambio di battute avvenuto tra i due sfuggì a tutti i presenti, me compresa: avevo riconosciuto la lingua, era tedesco, ma io non avevo le conoscenze necessarie per capire cosa significasse. Mi limitai a osservare Jonathan, perplessa, nella speranza che mi desse qualche spiegazione. Ovviamente lui non lo fece.
Si alzò dalla sedia, si stiracchiò e guardò la dottoressa Lee dritto negli occhi: anche questa volta si parlarono ma senza l'uso delle parole; non era nulla che noi, dall'esterno, potevamo comprendere affondo.
«Herstal, alzati.»
«Perché?»
«Se non l'hai capito ti sto dando l'opportunità di non scontare la tua “punizione”.»
La dottoressa Lee emise un sospiro, dopodiché mi guardò. «Va' anche tu, Nebraska. Ti autorizzo io.»
A quel punto non obiettai: se potevo davvero risparmiarmi quell'imbarazzante e noiosa terapia di gruppo o qualsiasi cosa fosse…
«Bene, allora…»
«Da quanto sei così educata da voler salutare?»
Jonathan mi prese per il polso e mi trascinò fuori dalla stanza, stringendolo più di quanto fosse necessario per portarmi via.
«Perché ce ne siamo andati? E cosa vi siete detti tu e la dottoressa Evans?»
«“Dovresti andare via.”, “Non voglio”, “Vai”. È tedesco.»
«Perché conosci il tedesco?»
«So anche il francese, lo spagnolo e un po’ di latino. I miei genitori tenevano molto ad avere i loro figli ben istruiti.»
Sapevo che non voleva gli facessi domande simili, ma non riuscii a trattenermi: «Avevi solo quella sorella?»
«Cosa ti importa?»
«Semplice curiosità. Non ho idea di chi tu sia stato prima di finire qui, non vuoi mai parlarne.»
Si fermò di colpo a pochi passi dall'infermeria, spazientito come ogni qual volta si toccava l'argomento.
«Sono il secondogenito di una famiglia benestante, educato, istruito a dovere, dal quoziente intellettivo leggermente superiore alla norma e per tale motivo ho subito pressioni di ogni tipo. Quest'ultima cosa ha influenzato così tanto la mia vita che ho passato l'intera adolescenza in compagnia di poche persone che potessi definire mie amiche: “loro non capiscono, sono stupidi” e così la maggior parte del mio tempo l'ho trascorso con Clara, mia sorella maggiore. I miei parenti e amici di famiglia erano convinti avessi qualche problema, socializzavo poco e avevo strane manie.» Sorrise amaro, si avvicinò leggermente e continuò a parlare puntando i suoi occhi acciaio nei miei. «Poi i miei genitori sono morti e siamo stati affidati a mio zio, di sicuro non una brava persona considerando che maltrattava Clara e l’ha uccisa quando lei è arrivata al limite della sopportazione dandomene la colpa. Ma ovviamente proclamare la mia innocenza non è servito a molto. Dopotutto, io ero quello strano e non c’era nessuno oltre mia sorella che pensasse il contrario.»
Fece uno scatto indietro, voltandosi per raggiungere la porta dell’infermeria e lasciandomi da sola con le sue parole: aveva sputato tutto in un solo colpo, facendo un riassunto perfetto della sua vita nel giro di pochi secondi; se quel che diceva era vero, avevamo in comune un passato molto più simile di quanto immaginassi, e non era da escludere che lui lo sapesse fin dall’inizio.
Lo raggiunsi con tutte le intenzioni di togliermi questo dubbio, ma come prevedibile lui rispose prima che io gli chiedessi qualsiasi cosa.
«Evita di sprecare fiato inutilmente, non ti risponderò.»
«Il tuo dono della telepatia è sorprendente.»
«Non prendermi in giro, Herstal. So cosa pensi perché ti conosco: sei troppo curiosa e detesti non avere risposte… Probabilmente è questo il motivo principale per cui ti sei legata a quel tizio senza nome che ti ostini a difendere. Ti dava le risposte che cercavi e doveva averti detto ben poco sul suo conto.» Prese una pausa, dopodiché fu come colto da un’illuminazione. «Herstal! Sei un’idiota!»
«Che ho fatto adesso? Ce l’hai ancora con me per il pugno?»
Ma lui aprì la porta dell’infermeria e mi costrinse ad entrare: era visibilmente fuori di testa, e iniziò a sbraitare affinché tutti i presenti eccetto il dottor Mayer uscissero per lasciarci soli.
«Ascoltatemi, ragazzi: al momento sono occupato e – »
«Nebraska si è fidata di uno sconosciuto, non conosce nemmeno il vero nome della persona che l’ha incastrata al suo posto in questo manicomio!»
Bingo.
Passai una mano tra i capelli, facendo una smorfia per quanto aveva appena detto Jonathan. Non dissi nulla per conferma o per diniego, ma la mia espressione era fin troppo chiara: sì, quello psicopatico ci ha visto giusto.
Io non sapevo nulla di Lui, nemmeno quanti anni avesse o quale fosse il suo lavoro – sempre se ne avesse uno. Voleva solo io gli parlassi di me, che gli raccontassi di quello che facevo ogni giorno anche se era oggettivamente poco interessante. E a me questo bastava, perché io non avevo bisogno d’altro, non desideravo altro.
Lessi negli occhi di Joshua tutte le intenzione di farmi una ramanzina ma alla fine rimase in silenzio; c’era qualcosa che lo turbava molto più di quello che Jonathan aveva detto, era distante, sovrappensiero.
«Dottore, mi risparmia gli insulti?»
«Per oggi sì, sono molto occupato e preferirei voi andaste – »
Jonathan lo interruppe: «Sta pensando ad Aiden, non è così?»
Joshua silenziò, con gli occhi fissi sulla superficie della scrivania, stringendo i pugni con forza.
«Sai quanto tenevo a quell’uomo.»
«Sì, e sappiamo entrambi che non può essere stata una morte naturale o una casualità.»
«Jonathan, non giungere a conclusioni affrettate…»
«Affrettate? Non prendiamoci in giro! Sa come sono andate le cose!»
E lo sapevo anche io, ci avrei messo la mano sul fuoco che Hijikata avesse fatto qualcosa a quel pover uomo. Non poteva essere una semplice coincidenza.
«Non abbiamo alcuna prova, Jonathan.», replicò ancora il dottore.
«Questo purtroppo lo so, ma volendo ci sarebbero prove per altri reati che ha commesso.» Si accomodò su una delle due sedie poste davanti alla scrivania di Joshua e continuò. «Aiden da solo non avrebbe vinto contro Hijikata, non aveva i mezzi necessari e nemmeno le conoscenze per mandarlo via da questo posto. Non è stato ucciso perché aveva paura di lui o per dargli una lezione; la morte di Aiden è un avvertimento, e alla prossima azione sbagliata sarà sicuramente Herstal a pagarne le conseguenze.»
Trasalii e mi avvicinai alla scrivania, senza sedermi: «Perché proprio me? L’azione più logica sarebbe uccidere il dottor Mayer; se lui sparisse, nessuno gli darebbe più fastidio.»
«Non ti sbagli del tutto, ma ci sono due cose che non hai tenuto in conto. La prima è che la morte di due dipendenti dello stesso ospedale nell’arco di poco tempo sarebbe una coincidenza forzata; la seconda è che Hijikata ha aiutato Joshua ad uscire da un periodo decisamente poco felice della sua vita dove ha tentato diverse volte di farla finita.» Fece una breve pausa, dopodiché puntò i suoi occhi nei miei. «Herstal, faresti mai del male al tuo salvatore?»
Guardai il dottore in cerca di una conferma, ma lui spostò l’attenzione su Jonathan: «Come fai a saperlo? Io non ne ho parlato a nessuno.»
«Tu non ne hai parlato, ma qualcun altro sì.», rispose con il sorriso sulle labbra, «Sai, Hijikata è un chiacchierone, e noi due passiamo molto tempo insieme.»
Joshua abbassò nuovamente lo sguardo verso la scrivania; sembrava pronto a implodere da un momento all’altro, non era affatto contento delle parole di Jonathan e a dire il vero non lo ero nemmeno io.
Se solo Joshua si fosse deciso, quel mostro sarebbe stato cacciato dall’ospedale e avrebbe smesso di far del male a noi pazienti. Nella mia testa si ripeteva ciclicamente la scena di Hijikata che prendeva a calci e umiliava Jonathan, quest’ultimo in lacrime e con la lingua tra i denti per non urlare. Perché quel ricordo mi faceva molto più male della saliva di Sam sul mio collo, delle sue viscide mani che tentavano di raggiungere la pelle sotto la mia felpa.
«Lei deve fare qualcosa.», dissi, «Non può permettere a Hijikata di – »
«Nebraska…»
«No, mi ascolti prima di dire qualsiasi cosa. So cosa vuol dire essere emotovamente legati al tal punto da non avere il coraggio di mettere nei guai chi si ama; sono consapevole di quanto sia più semplice chiudere gli occhi anziché agire e tentare seppur invano di far ragionare qualcuno. Ma la prego, dottor Mayer, non ci abbandoni. Noi non possiamo difenderci da soli, e a quanto pare lei ha la possibilità di salvarci.» Mi fermai per qualche istante, inumidendo le labbra e cercando il coraggio di portare avanti il mio discorso. «Non continui a proteggere quel mostro solo perché l’ha aiutata una volta, lui non lo merita.»
Joshua tacque e lo feci anche io. Avevo parlato più di quanto volessi, detto al dottore tutto quello che in realtà mi ripetevo spesso quando Lui tornava per tormentare i miei pensieri. Ma io, a differenza di Joshua, non avevo nulla in mano che mi permettesse di identificarlo, io non potevo nient’altro che soffrire in silenzio e rassegnarmi alla mia condanna.
Mi avvicinai al dottore e feci per posargli una mano sulla spalla con tutte le intenzioni di continuare a parlare, ma lui si scostò rapidamente.
«Sarebbe meglio voi tornaste nella sala comune; tra non molto verrà servito il pranzo.»
Non era una menzogna quella appena detta, ma la sua era una semplice scusa per congedarci educatamente e restare solo; se avessi insistito o lo avesse fatto Jonathan, il risultato sarebbe stato peggiore e avrebbe inveito contro di noi.
Cercai lo sguardo di Jonathan, abbandonato sulla sedia con un’espressione di disappunto che non si premurò di nascondere. Non sono mai stata in grado di capire cosa passasse nella testa di quel ragazzo, eppure in quel momento ero certa entrambi fossimo d’accordo che uscire dall’infermeria fosse la scelta migliore e non ce lo facemmo ripetere ulteriormente: varcammo la porta diretti alla sala comune, in silenzio, senza nemmeno salutare Mayer.
Avevo il morale a terra, ero convinta che Joshua non ci avrebbe aiutati e immaginavo anche Jonathan dovesse sentirsi di pessimo umore; eppure quest’ultimo canticchiava sottovoce un motivetto che non comprendevo, con gli occhi sereni e un sorriso appena accennato sulle labbra pur avendo l’attenzione delle guardie puntata interamente su di sé. Non capivo come potesse essere tanto tranquillo.
«Herstal, non tenere il muso, sei stata bravissima.»
«Bravissima in cosa?»
Jonathan fece uno scatto in avanti e iniziò a camminare all’indietro, cosicché potesse guardarmi perfettamente: «Magari non sembra, ma sono quasi certo tu abbia convinto Joshua ad andare contro Hijikata. Ci ho provato diverse volte anche io, ma i miei tentativi non sono serviti a molto. Credo tu gli piaccia molto più di me, quindi direi che molto probabilmente, tra un paio d’ore al massimo, si sarà completamente convinto che aiutarci sia la cosa giusta da fare.»
«Come fai a dirlo?»
Lui fece spallucce. «Io le persone so leggerle dentro, e lui non è tanto complicato come sembra.»



 




──Note dell'autore──
Questo capitolo è stato un parto e non so ancora chi legge questa storia: purtroppo l'estate mi rammollisce, e il troppo tempo libero mi fa sentire come se potessi fare qualsiasi cosa e ho iniziato a scrivere talmente tante di quelle cose diverse che alla fine Mental Disorder è passata in secondo piano.
Ma non uccidetemi: i prossimi capitoli sono già stati abbozzati, dunque gli aggiornamenti saranno sicuramente molto più rapidi di questo (se non altro non passeranno tre mesi prima che sentiate di nuovo Nebraska lamentarsi della sua villeggiatura in ospedale).
Potrei dirvi che quel pugno di Nebraska a Jonathan l'ho desiderato per diverso tempo e ho fatto in modo che finisse in questo capitolo (e non so come, ma sono anche riuscita a collegarlo), potrei raccontarvi di come non dovevo scrivere del passato di Jonathan e alla fine l'ho fatto, oppure ancora del perché io abbia deciso che Nebraska meritava di finire in uno di quei gruppi e "salvata" da chi nemmeno due ore prima l'aveva fatta diventare una cosa con il tavolo. Ma questo non interessa a nessuno, dunque buona lettura.
Ah: grazie per aver lasciato recensioni, aver messo MD nelle ricordate/seguite/favorite e per avermi inviato sollecitazioni di ogni tipo ricordandomi che Nebraska era ancora chiusa qua dentro e aspettava me.  


Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***







Capitolo XI
__________________________

 
 
 

Bussarono alla porta che era ancora troppo presto anche per la colazione. Mi rigirai nel letto tastando alla cieca l’interno del cuscino in cerca del quadrante ricevuto da Jonathan: erano le cinque e quaranta del mattino, un orario decisamente insolito per ricevere qualsiasi tipo di visita gradita.
Sollevai la testa dal cuscino e nascosi il quadrante nel pugno, dopodiché mi trascinai fino alla porta. Pensai fosse una guardia in quanto capitava spesso queste facessero giri di ronda e bussassero per controllare se noi pazienti eravamo ancora nelle nostre stanze; ma di fronte ai miei occhi ancora assonnati si era materializzato il dottor Mayer, che rapidamente si infilò in camera e chiuse la porta alle sue spalle, senza perdersi in convenevoli o accennare al motivo della sua visita.
«Buongiorno, dottore.»
«Non ho molto tempo per parlarti, non dovrei nemmeno essere qui.»
«Allora parli in fretta e sparisca di nuovo.»
Joshua annuì e si sedette sul materasso; io scivolai al suo fianco, incrociando le gambe.
«Ho riflettuto su quanto mi hai detto qualche giorno fa e credo tu abbia ragione.»
A quelle parole mi tornò in mente Jonathan, sicuro che il dottore avrebbe cambiato idea. Quel ragazzo era formidabile.
«Cos’ha intenzione di fare esattamente?»
Joshua allungò un braccio e mi fece una carezza: «Non devi preoccupartene, Nebraska. Pensa solo che quando tutto questo sarà finito farò in modo di portare a casa anche te, ma solo ad una condizione.»
Storsi il naso. Capivo le buone intenzioni del dottor Mayer e il suo ottimismo, ma ero ben consapevole che farmi uscire da quell’ospedale era una cosa impossibile: la polizia mi aveva trovata con chiari segni di colluttazione sul corpo, ricoperta dal sangue delle vittime e con una pistola avente le mie impronte digitali sul manico, esattamente dove era stato consumato l’omicidio. Ma lui questo non lo sapeva ancora.
Sorrisi debolmente, puntando lo sguardo sul quadrante datomi da Jonathan.
«Non può portarmi via.»
«Nebraska, fidati di me. Ti prometto che se mi racconterai tutto su quell'uomo e l'omicidio, ti aiuterò ad uscire da questo posto. Non ho ancora un quadro completo della situazione, ma anche io credo tu sia innocente… Inoltre Jonathan insiste molto affinché tu non debba restare qui per il resto della tua vita e come ben avrai capito non è di certo il tipo di persona da far pressioni senza motivo. Non avrebbe mai regalato l’unico suo oggetto personale a un paziente qualsiasi.»
Alzai la testa di scatto, spalancando gli occhi: «Lei sa qualcosa di sua sorella?»
«Non posso parlarti della sua vita personale, o almeno non di un dato sensibile come questo.» Tentai di interromperlo, ma lui continuò prima che potessi farlo. «Niente ricatti questa volta. Sai già più del necessario sul suo conto.»
«Vorrei solo sapere se ha davvero ucciso sua sorella come si dice.»
Il dottor Mayer mi guardò torvo, dopodiché si alzò e si diresse verso la porta.
«Credo tu non abbia alcuna intenzione di rivelarmi le dinamiche esatte dell’omicidio dei Collins, dunque ti restituisco al tuo attuale letto – che non è di certo più confortevole di quello che avevi nella tua stanza. Con permesso.»
Mi fiondai sulla porta per impedirgli di aprirla.
«Le avrei già detto tutto se fosse servito a qualcosa. Ma lei mi creda, non può salvarmi.»
«Lasciami provare.»
«Ero lì con la pistola in mano e ricoperta di sangue quando è entrata la polizia. Non si può fare niente.»
«Nebraska, devi raccontarmi tutto con calma e dall’inizio, senza escludere nulla, nemmeno come hai conosciuto quella persona e cosa vi dicevate o facevate di solito.» Spostò la mano dalla maniglia e me la poggiò su una spalla, con fare rassicurante. «Se davvero sei innocente, non posso lasciarti in questo ospedale, va contro ogni mio principio.»
Abbassai lo sguardo e restai in silenzio per qualche istante, scuotendo la testa. Non sarei uscita da quel posto, lo sapevo e ci avevo perso le speranze da un pezzo, ma lui continuava a sperarci perché fin troppo ottimista. 
«Allora parliamone.», dissi sollevando la testa e incrociando le braccia al petto. «Tanto quando avrò finito ammetterà che c’è ben poco da fare.»
«Questo lascialo decidere a me.»
«Lo diceva sempre anche qualcun altro e sappiamo tutti com’è andata a finire.»
Il dottore si passò una mano tra i capelli, probabilmente al limite della pazienza: «Adesso devo andare. Verrò a cercarti tra qualche giorno, così tu avrai il tempo di decidere cosa fare e io di tenere lontano da noi Hijikata e i suoi seguaci. Sei d’accordo?»
«Solo se mi esonera da tutte le sedute da alcolisti anonimi di oggi e domani.»
Mayer sorrise e mi scompigliò i capelli, dopodiché la abbassò all’altezza del volto e mi accarezzò la guancia sinistra guardandomi dritto negli occhi. Mosse impercettibilmente le labbra come se si stesse trattenendo dal dire qualcosa; sospirò appena, interrompendo il contatto oculare quasi infastidito dai suoi stessi pensieri.
«Dottor Mayer?»
Mi diede una pacca sulla spalla e mi voltò verso il centro della stanza: «Forza, torna a letto adesso.»
«Non mi faccia tanto stupida. Non era questo che voleva dirmi.»
«Ti sbagli.»
«Non credo.»
«Quanto sai essere testarda.» E non ammise replica poiché mi spinse lievemente in avanti e abbassò la maniglia. «Non creare disastri prima che arrivi io a parlarti.»
«A Jonathan hanno dato ieri due settimane di isolamento per non so quale ragione. Non deve preoccuparsi, sarò un angioletto.»
«Vorrei crederti sulla parola, ma mi è piuttosto difficile.»
Mi sorrise e si chiuse la porta alle spalle.



«Herstal.»
«Ben tornato tra noi, Cannibale.»
Io e Jonathan ci sorridemmo per qualche istante: ero sorpresa di trovarlo in buono stato – anche se piuttosto pallido e con qualche livido a storpiargli il volto – soprattutto contando che era passata a stento una settimana da quando l’avevano chiuso in quella cella: mi era giunta voce avesse azzannato una delle guardie per un non ben precisato motivo, dunque farlo tornare in libertà così presto era insolito. E mi sarebbe piaciuto dire che la sua fosse stata autodifesa o qualcosa del genere, ma in molti sapevamo perfettamente che per Jonathan ogni occasione era buona pur di movi​mentare leggermente le giornate. Se il Destino non gli dava una mano, non ci voleva molto affinché escogitasse qualcosa per interrompere la quiete di tutte quelle persone che non ascoltavano la sua verità sull’omicidio della sorella.
«Come corrono in fretta le voci...», disse continuando a sorridere, «Ti va una partita a scacchi?»
Mi guardai intorno: mi piaceva molto giocarci, ma non potevo competere con Jonathan e per tal motivo io e Candice partecipavamo come un unico giocatore. Però lei sembrava non esserci.
«Dov'è Candie?»
«Vorrei saperlo anche io.»
Jonathan era sempre stato a conoscenza di qualsiasi cosa, dai turni di Mayer al passato di ogni paziente, e mi parve insolito avesse risposto in tal modo; ma lui sembrava abbastanza tranquillo, dunque non me ne preoccupai.
«Per una volta puoi anche provare a battermi da sola.»
«Non ci riuscirò.», dissi scuotendo la testa, «Sei molto più forte di me.»
«Intelligente, non forte.»
Pignolo.
Mi sedetti sulla mia sedia e iniziammo a disporre i pezzi sulla scacchiera; stranamente, lui prese i neri e lasciò a me quelli bianchi: da quando ero lì non l'avevo mai visto giocare con i pezzi neri e credevo che un giorno simile non sarebbe mai arrivato.
«Herstal, la tua Regina è nel posto sbagliato.»
Guardai la scacchiera, precisamente il pezzo da lui indicato. Jonathan aveva invertito il Re con la Regina, senza ombra di dubbio volutamente. Quando feci per prenderla, notai immediatamente che il pezzo presentava una linea orizzontale che faceva pensare potesse aprirsi, un po’ come una matriosca.
«Non adesso, Herstal. Aprila quando sarai sicura di essere sola, dopodiché falla sparire.»
Tirò fuori dalla tasca un’altra Regina Bianca e la posizionò nella mia casella vuota, sorridendo: avrei voluto controllarla in quel momento, ma l’ordine di Jonathan fu chiaro e io obbedii senza controbattere, nascondendo il pezzo nella tasca dei miei pantaloni.
Nebraska, cambia discorso.
«Sai, Mayer vuole aiutarci davvero.»
Jonathan ruotò la scacchiera per riprendere i bianchi e sorrise spostando il primo pezzo della partita: «Quando te ne ha dato conferma?»
«Qualche mattina fa, quattro o cinque, forse.
«E cosa ha intenzione di fare?»
Feci spallucce e mossi un pezzo anche io. «Ah, non lo so. Mi ha detto che non devo preoccuparmene: immagino però voglia coinvolgere anche qualcun altro nell’impresa.»
Jonathan rimase in silenzio, concentrato sulla scacchiera e la sua prossima mossa.
«...Merda.»
Lo guardai perplessa. Sentirlo imprecare per una partita a scacchi appena iniziata non sembrava avere molto senso.
«Qualcosa non va?»
«Mi serve Mayer. O meglio: mi servite tu e Mayer.»
«Perché?»
«Herstal, chiedi a Kline di portarci da lui o che come minimo lo faccia venire qui.»
Tentai con scarso successo di calmarlo: «Ho incontrato Mayer nel corridoio prima di venire qui. Mi ha detto che sarebbe passato per portarmi in infermeria, sarà qui a breve. Non – »
«Mai possibile io debba ogni volta dare di matto per ferirmi appositamente e risolvere i problemi altrui?»
Jonathan si guardò intorno alla ricerca di un qualcosa non ben precisato – che si rivelò essere Lacy – e sorrise compiaciuto. Non era una di quelle persone che faceva qualcosa senza un motivo più che valido seppur celato, ma permettergli di avvicinarsi a Lacy per dargli un pugno e riceverne qualcuno in cambio non era decisamente una buona idea considerato che il dottor Mayer era sempre stato di parola.
«Jo... Zedd, per favore, aspetta che arrivi da solo. Quel che vuoi fare non è necessario.»
«Herstal, non farti spaccare la faccia. Questo davvero non sarebbe necessario.» Roteò gli occhi nella mia direzione, accigliato come mai l'avevo visto prima di allora. «Se Mayer parla con la persona sbagliata, chiede consiglio o non so cos'altro, tu sei morta. Nel vero senso della parola. E non nego che sfrutto la mia intelligenza molto più di voi, ma non posso prevedere se deciderà di parlare anche con Broox o se ancor peggio l’abbia già fatto.»
Mi bloccai per qualche istante, ricordando il passato avvertimento di non fidarmi di Broox. Avevo già iniziato a sospettare di lei, ma ero giunta alla conclusione che potesse essere una pedina di poco conto sotto le direttive di Hijikata; però Jonathan se ne stava preoccupando, e questo non era un buon segno.
A quel punto fece un cenno a Lacy poco distante, e quest'ultimo si avvicinò annoiato, con le solite treccine ad adornargli i capelli. Jonathan sorrise sornione.
«Amico mio, mi servirebbe un piccolissimo favore.»
«Ogni volta che inizi una conversazione così, qualcuno finisce con il perdere grosse quantità di sangue.»
«E nemmeno in questo caso ci sarà un'eccezione.» Si alzò facendo strisciare rumorosamente la sedia sul pavimento e si stiracchiò. «Puoi darmi un pugno e fare lo stesso con lei?»
«Scordatelo. Non voglio finire nei casini con te e non ho alcuna intenzione di picchiare una donna.»
«Suvvia, ne hai uccise quattro prima di finire qui dentro…»
«Ma porca miseria, non le ho mica picchiate o violentate! Sono un assassino, non un mostro!»
Scossi la testa, ridendo per l’assurdità di quell’affermazione: aveva un insolito concetto di “mostro”, ma probabilmente non me ne sarei dovuta sorprendere più di tanto.
Jonathan tornò a sedersi e, dopo una smorfia, parlò ancora. «Se non vuoi picchiare me o Herstal, prendi di mira uno qualsiasi dei pazienti che è in questa stanza. Ovviamente sono disposto a darti un compenso per la prestazione, dunque più che un favore sarebbe uno scambio.»
Lacy parve non rifletterci nemmeno e mi indicò: «Sigarette, un accendino e un’oretta con la tua protetta in una cella di isolamento.»
Lo fulminai intenzionata a rispondergli, ma Jonathan lo guardò con un’espressione infastidita e l'evidente desiderio di rompergli un braccio.
«Accontentati di una rivista porno, Lacy.»
«Rischio l’isolamento per farti questo favore, lo sai?»
«Le riviste e le sigarette ti faranno compagnia.»
«Non sperare io accetti per così poco, cazzo!»
«La vorresti, in aggiunta, una foto della tua ex moglie?»
Lacy sgranò gli occhi, dopodiché si abbassò e strinse il volto di Jonathan in una mano, furioso.
«Lei è ancora mia moglie.»
«Non passa a trovarti da mesi, e l’ultima volta che è venuta portava addirittura la fede sulla mano sbagliata.»
«Queste non sono prove a conferma di quello che dici, Zedd.»
«Ma le carte della separazione arrivate tre giorni fa in direzione sì.»
Le qualità di Jonathan, per quanto fosse intelligente e poche altre belle cose, potevano benissimo contarsi sulle dita di una mano: era un abile giocatore di scacchi, fin troppo intelligente, il miglior casinista che avessi mai conosciuto e sicuramente il bugiardo più furbo e doppiogiochista presente sulla piazza; se voleva qualcosa la otteneva, che il metodo fosse immorale o meno, poi, non importava più di tanto.
Quando Lacy si allontanò, riservai uno sguardo accigliato all’artefice di tale menzogna. Sorrideva a stesso, probabilmente compiaciuto della sua menzogna.
«Ci cascano sempre.»
«Lo dici come se fosse una bella cosa.»
«Lo è a tutti gli effetti! Non puoi capire quanto sia micidiale un serial killer del suo rango quando si infuria!»
Inclinai la testa. Mi scappò un sorriso insolitamente sadico. «Sei consapevole che quando Lacy scoprirà di questa bella bugia tenterà di ucciderti?»
«Certo, ma prima che mi incontri di nuovo passerà almeno una settimana in isolamento, e per allora troverà un modo per non farmi ammazzare.»
«Ottimista!»
«Sì. Anche io ho qualche caratteristica in comune a un normale essere umano.»
Non ebbe quasi il tempo di terminare la frase che una sedia raggiunse le sue spalle e per un pelo non gli staccò la testa dal collo. Jonathan si voltò per vedere Lacy al fianco di un inserviente terrorizzato per l’accaduto. Passò nuovamente a guardarmi.
«Avevo previsto chiedesse a qualcuno se quel che avevo detto era vero, ma una sedia nelle spalle è più di quanto chiedessi per generare un po’ di caos qui dentro.»
«Jonathan, sta per arrivare un’altra sedia.»
«Sai com’è, la gente crede io cada due volte, per di più consecutive, nello stesso errore.»
Jonathan si alzò di scatto e io feci lo stesso poiché la traiettoria della sedia prevedeva di centrare due bersagli in un colpo solo. Le guardie bloccarono Lacy, che sbraitava perlopiù parole incomprensibili per l’eccessiva foga nello sputarle fuori.
«IO TI AMMAZZO!»
«Darei una A per l’intenzione, ma una F per l’incoscienza. Lascio a te il calcolo della media.»
«BASTARDO!»
Lacy si scrollò le guardie di dosso e iniziò a correre verso di noi. Eravamo in un bel guaio, e tutto a causa delle manie di protagonismo di quel pazzo.
«Tutto questo era davvero necessario?»
«Certo che no!»
Mi afferrò il polso e, come suo solito, mi trascinò contro il mio volere verso l’uscita della sala mentre le guardie erano impiegate nuovamente a contenere Lacy; il bisogno viscerale di rendere ogni suo gesto teatrale poteva risultare assurdo e fastidioso, eppure era grazie a questo se non passavo la maggior parte del mio tempo in quell’ospedale ad annoiarmi e a pensare a casa. Non era completamente sano di mente, ma più di tanto non mi dispiaceva.
Jonathan si lanciò contro la porta dell’infermeria, aprendola e facendo saltare tutti i presenti per lo spavento.
«Mayer!»
«Ragazzo, non puoi entrare ogni volta in questo modo!»
«“Non puoi”, “Non devi”… Bla, bla, bla. Ci sono cose di cui dobbiamo discutere assolutamente, quindi al diavolo le buone maniere.»
Attraversò la stanza e raggiunse l’ufficio di Mayer dove si sedette poggiando i piedi sulla scrivania; l’infermiere mi guardò, sospirò e mi fece cenno di seguire l’esempio del mio compagno di sventure.
«Ho l’impressione Nebraska ti abbia detto qualcosa.»
«Io invece ho la brutta sensazione lei abbia parlato con qualcuno di quello che vuole fare per mandare via Hijikata e forse portare fuori Herstal.»
Mayer si limitò ad annuire; Jonathan esplose una frazione di secondi dopo, scattando dalla sedia.
«Non Broox, la prego, non Broox!»
«Jonathan, non giungere a conclusioni affrettate! Ne ho parlato solo con Kline, Crystal e la Dottoressa Lee.»
«Solo con loro? Broox…»
«Non dovrebbe sapere niente, ho chiesto anche a loro di evitarla. Adesso, però, sarebbe il caso tu mi spiegassi perché tutto questo mistero su di lei.»
Jonathan passò le mani tra i capelli e si sedette nuovamente, trattenendo per qualche attimo il respiro. Sospirò senza emettere suono, aveva lo sguardo perso nel vuoto come se qualche ricordo gli fosse appena passato davanti.
«Jonathan?»
«Qualcosa non torna. Dannazione, non ci capisco niente!»
I suoi pugni batterono contro la scrivania, facendomi arretrare leggermente con la sedia per timore di un ennesimo scoppio d’ira di Jonathan.
«Quella donna è venuta nella mia cella di isolamento insieme ad altri due uomini. Credevo fosse lì solo per controllare come stessi, verificare lo stato delle mie ferite… Dopotutto non si è mai comportata male nei confronti di nessuno, e che di lei non ci si potesse fidare era solo un mio sospetto dettato dall’istinto. Volevo togliermi al più presto questo pensiero dalla testa, Candie è la sua ombra per questo.»
Ripensai alla prima volta che avevo visto entrambe: sembravano così unite, ero convinta si volessero bene sul serio, ma dopo le parole di Jonathan tutti i miei ricordi con loro iniziavano ad avere una nota dal retrogusto amaro.
«Dunque Candie non tiene a Broox? È tutta una falsa?»
«La ragazzina non parla, è piccola, carina e in apparenza pare una delle persone più innocenti del mondo. Nessuno penserebbe mai che invece è perfettamente in grado di mentire e che ha falsato i risultati del proprio testi dell’intelligenza per risultare più stupida. Una “spia” perfetta.»
Jonathan storse il naso: «Così però le fai credere io usi Candie. Chiariamo: tengo a quella ragazza più della mia stessa vita e venderei la mia anima al diavolo pur di vederla in un posto migliore di questo. Le ho chiesto di fare questa cosa e lei ha accettato spontaneamente.»
«Sì, va bene, ma non è di Candie che dovevamo parlare.», dissi prima che la discussione si perdesse in precisazioni inutili, «Broox è passata per la B7, e poi?»
«E poi è accaduto quello che meno mi sarei aspettato da lei: mi ha fatto bloccare dai due inservienti e mi ha assestato diverse volte il tirapugni di Hijikata in faccia. Inizialmente non ho reagito, ero troppo… stupito per fare qualcosa. Quando ho compreso che aveva tutte le intenzioni di ridurmi a uno straccio ho iniziato a difendermi, ma con discreti risultati.» Passò una mano sul volto, dove era visibile ancora un livido, e lo sfiorò appena. «Ripeteva che è colpa mia, che sono un lurido verme e ho rovinato tutto, che l’avrei pagata cara. Quando mi hai detto delle intenzioni di Joshua ho pensato che Broox avesse saputo tutto e se la fosse presa con me in preda all’ira; ma se le cose non stanno così vuol dire che qualcuno di quelli che reputavo fidati non è dalla nostra parte.»
«Oppure che l’ha origliato in qualche modo.», intervenni.
«Qualche mattina fa sono finalmente riuscito a parlare con il nuovo direttore di questa assurda situazione. Avevo chiesto di non rendere il tutto una questione di stato, ma è probabile che qualcosa sia già trapelato sulle future mosse del Direttore. Broox avrà capito che ormai è tutto finito e non sapendo con chi prendersela si sarà sfogata su di te.»
Io e Jonathan ci guardammo: entrambi eravamo certi di aver sentito bene, di aver capito con esattezza quel che Mayer aveva detto, eppure per qualche istante dubitammo di noi stessi.
«Mi faccia capire bene: lei è riuscito a – »
«Non volevo ancora dirvelo perché non sono stati nemmeno ancora sospesi dal servizio, ma il nuovo direttore è una brava persona, Nebraska… È quasi sicuramente tutto finito. Né Hijikata né chiunque altro a breve potrà più farvi del male. Non sono stati abbastanza accorti da eliminare ogni traccia delle loro malefatte e Kline mi ha detto che alcune delle videocamere di sorveglianza possono dimostrare quanto c’è di marcio in quest’ospedale.»
Sono cosciente che quella non era la soluzione a tutti i miei problemi, ma era comunque una piccola vittoria che ci avrebbe permesso, nel migliore dei casi, di avere una permanenza nell’ospedale di certo migliore di quella che avevamo avuto fino a quel momento, e lo stesso pensava anche Jonathan. Sorrideva appena, ma i suoi occhi erano pieni di gioia ed era chiaro stesse cercando di restare calmo dopo quella bella notizia.
«Appena lo diremo a Candice farà i salti di gio– »
Le parole di Jonathan furono brutalmente interrotte dalla suoneria del cellulare di Mayer, fino a quel momento rimasto indisturbato sulla scrivania.
Il dottore guardò l’aggeggio elettronico, ne lesse il nome sul display e ci fece cenno di far silenzio. Non disse nulla per far comprendere a chiunque fosse dall’altro lato del cellulare che stava ascoltando, premette solo il verde e attese. Si sentì qualche fruscio provenire dal cellulare, indecifrabile per me e Jonathan a causa della distanza, dopodiché un urlo costrinse il dottore ad allontanare il cellulare dall’orecchio.
Mi alzai, avvicinandomi a Mayer per origliare quanto ancora restava da dire alla persona dall’altro lato del telefono: «…un accordo che tu non hai rispettato. Non te ne meravigliare, Joshua. È quello che meritate.»
Hijikata attaccò il telefono e Mayer iniziò a muovere rapidamente gli occhi nel vuoto, con il respiro mozzato e i pensieri persi a recepire, probabilmente, le parole dette da quel mostro.
«Voi due restate qui, mi sono spiegato?»
«Cosa sta succedendo, dottore?»
«Non adesso. Resta qui e non far uscire Jonathan.»
Tirato in causa, si alzò di scatto e intervenne: «Ah, no, se vuole che resti buono qui dentro dovrà darmi delle valide motivazioni.»
«Se ti spiegassi perché preferirei non mi seguissi, faresti il possibile per fare l’esatto contrario. Per favore, Jonathan, non uscire dal mio ufficio.»
Jonathan tornò a sedersi come apparente segno di resa, ma sia io che il dottore lo conoscevamo abbastanza da sapere che nel giro di qualche minuto avrebbe cambiato idea; per tale motivo, uscendo, Mayer fece in modo di chiuderci dentro.
«Figlio di puttana!», urlò sbattendo i pugni contro la porta. Aveva messo a soqquadro la stanza, ma di altre chiavi non ce n’era nemmeno l’ombra. «Per quanto è vero che non ho ucciso mia sorella, gliela farò pagare non appena uscito da qui.» 
«Prendersela con la porta non servirà a farci uscire, a meno che tu non sia davvero abbastanza forte da sfondarla.»
«Io, a differenza tua che ti sei comodamente seduta dietro la scrivania, sto almeno cercando una soluzione.»
«Se invece di dar libero sfogo al tuo istinto animale usassi il bel quoziente intellettivo da 132 che ti ritrovi, avresti già pensato di contattare qualcuno con il cellulare di Mayer.»
Sollevai il telefono, sorridendo sorniona, e lo sentii imprecare sottovoce prima di avvicinarsi.
«Chi hai chiamato?»
«Kline, che però non ha risposto e mi ha inviato un messaggio chiedendomi cosa volessi. Gli ho scritto che Hijikata ha chiuso Mayer nell’ufficio. Arriverà a momenti.»
Jonathan imprecò ancora, dopodiché aspettò con ben poca pazienza che l’unica nostra speranza arrivasse per tirarci fuori da quell’ufficio. Era in ansia, divorava le unghie già distrutte a dovere agitando la gamba destra; stava valutando ogni possibile motivo di quella telefonata, eppure nulla di quello che aveva pensato era ciò che effettivamente stava accadendo oltre quelle quattro mura.
«Avrei dovuto immaginare che eravate voi due!»
«Kline! Scusaci, ma dovevamo assolutamente uscire da qui.»
«Scommetto che non è nemmeno stato Hijikata a – »
«Herstal, non perdiamo tempo!»
Jonathan uscì di corsa dell’ufficio, scostando malamente Kline dall’uscio della porta. Avrei voluto non risultare tanto ingrata da seguire Jonathan senza spiegare nulla, ma avevamo già perso troppo tempo e non sapevamo ancora cosa stesse accadendo. Una sola cosa era certa: se Mayer aveva deciso di bloccarci lontano dai guai, probabilmente era diretto nell’unico posto dove sia io che Jonathan entravamo malvolentieri.
Aprii la porta dell’ufficio di Hijikata, trovando lui e Mayer in preda a una discussione accesa.
«Guarda un po’ chi si rivede…»
«Andate subito via!», urlò il dottore, «Non è qui che dovreste essere!»
«Anche voi come Joshua vorreste sapere chi urlava dal mio lato del telefono, non è così?»
Digrignai i denti: il suo falso sorriso nascondeva del sadico divertimento e mi irritava più della soda caustica a contatto con gli occhi.
«Non resterai in quest’ospedale ancora per molto.», biascicai.
«Questo non vuol dire che io non possa andarmene senza togliermi qualche piccola pietra dalla scarpa. Se devo finire in carcere per il resto della mia vita, vorrei almeno fosse per un motivo che reputo valido… Non per un video di sorveglianza che mi riprende mentre taglio la lingua a qualcuno.»
A quel punto Hijikata tentò di avvicinarsi alla sottoscritta, ma Jonathan si contrappose tra di noi come a volermi proteggere: «Tu sei pazzo, completamente pazzo. Che cosa stai architettando?»
«È troppo tardi per fare qualcosa. Avete già perso.»
Scossi la testa, spostando Jonathan per vedere in faccia quel mostro: «Perso a cosa?»
«Mi dispiace doverlo annunciare in tal modo, ma una vostra pedina è appena stata mangiata.»
E non guardò me che gli avevo posto la domanda, ma Jonathan: sembrava lo stesse penetrando da parte a parte con lo sguardo, che godesse nel vedere l’espressione di rabbia del mio più fedele amico in quell’ospedale mutare in una di puro terrore, in una sottospecie di panico forzatamente contenuto.
«No, no, no. Tu… Tu non puoi davvero averlo fatto… Nessuno riuscirebbe a fare una cosa simile a – »
«Ti consiglio di controllare la sua stanza, Jonathan, ma non ti assicuro riuscirai a salutarla prima che esali il suo ultimo respiro.»
Lanciai un fugace sguardo a Mayer per fargli comprendere le mie intenzioni e trascinai Jonathan fuori da quell’ufficio; era rimasto paralizzato al suo posto, incapace anche solo di muovere un muscolo, e senza la mia iniziativa non avrebbe avuto la forza nemmeno di raggiungere quella minuscola camera d’ospedale.
Come tante altre, nemmeno quella differiva molto dalla mia, eppure il disordine presente in essa lasciava chiaramente intendere che vi fosse stata una lunga lotta tra due o più individui e che il risultato finale non era stato dei migliori: i diversi disegni appesi in precedenza alle pareti erano stati strappati, i pochi oggetti che era concesso tenere ad ognuno di noi abbandonati al suolo quasi distrutti, il letto sfatto mostrava le vecchie lenzuola irrimediabilmente macchiate dell’unico colore che fossi mai riuscita ad odiare. Al centro della stanza, poi, vi era raggomitolato un piccolo, esile e pallido corpo, disteso in una pozza di sangue fin troppo ampia per far sperare che tutto potesse risolversi nel modo migliore.
Jonathan si inginocchiò nella pozza di sangue di Candice, stringendola a sé e chiamando il suo nome più e più volte. Tentava, in un gesto disperato e dettato dall’istinto, di bloccare la fuoriuscita di sangue dallo stomaco della ragazza premendogli una mano contro, spingendo il liquido cremisi dentro come se potesse servire a qualcosa.
Candice riuscì appena ad aprire gli occhi per rivolgerli a Jonathan; sorrideva ancora seppur debolmente, e una lacrima le rigò il volto.
«Candie, perdonami…»
Lei sorrise e un flebile sussurro si fece largo nella stanza: “Non è colpa tua”.
«Io… Dovevo proteggerti, te l’avevo promesso. Almeno te, dovevo salvare almeno te…»
Candie tentò di stringersi ancora di più a Jonathan, di raggiungere il suo orecchio per bisbigliare qualcosa che non mi fu mai detto e che io non chiesi nemmeno.
La morte di Candice fu uno dei momenti peggiori della mia vita: rivedevo me stessa in Jonathan, sovrapponevo quello che avevo vissuto con Christian e il resto dei Collins alla sua immagine.
Cullava Candice dolcemente, l’accompagnava verso la fine come avrebbe fatto un qualunque buon fratello con sua sorella. Le parlò, seppur in lacrime e completamente distrutto da quanto stava vivendo, fino a quando non esalò il suo ultimo respiro e la dondolò ancora tra le sue braccia.
Per quanto avrei voluto farlo, non mi avvicinai nemmeno per un attimo a loro: restai sull’uscio della porta ad assistere a quella scena per i pochi minuti che servirono affinché Candice smettesse di soffrire. Amavo quella ragazzina, ma sapevo che Jonathan teneva a lei molto più di me e cercai di contenere la mia sofferenza che lentamente si tramutava in quella che mi parve rabbia e che, tutto d’un tratto, mi resi conto fosse un sentimento provato ben poche volte in tutta la mia vita.



 

«C’è una sola cosa che non farei mai.»
«E sarebbe?»
«Vendicarmi. La vendetta sembra non portare mai a nulla di buono.»
 «Non ti sbagli, Nebraska, ma per alcune persone la vendetta è l’unica cosa che può farli sentire ancora vivi.»
«Ma la vendetta non fa altro che distruggere, come può far star bene una persona?»
Lui sospira.
«Un giorno lo capirai da sola.»




Sentii la voce di Jonathan entrare in quel ricordo, distruggendo l’immagine di Lui che avevo figurato davanti ai miei occhi.
«Herstal! Dietro di – »
Poi, il vuoto.



 




──Note dell'autore──
Lo so, lo so, è di nuovo passato un mese o più dall'ultimo aggiornamento. Ho il capitolo pronto da un pezzo, ma non avendo Internet a casa al momento ho dovuto aspettare che qualcuno mi concedesse di utilizzare la sua connessione (e anche il pc).
Sì, è passato un mese e io vi ringrazio per la pazienza con un capitolo del genere, facendo morire ancora una volta qualcuno: vi può sembrare cattivo da parte mia far fare una brutta fine a uno scricciolo tanto carino come Candice, ma era una cosa in programma fin dalla creazione del suo personaggio, e penso che i più ci saranno anche arrivati da un po'.
Per quelli che non comprendono il mio gesto (e restando in tema) rispondo solo dicendo che sì, era necessario al fine della storia. Spero solo possiate perdonare questa mia azione (anche se in realtà sarebbe di Hijikata): mancano solo due/tre capitoli al termine di Mental Disorder, pazientate ancora un po' e dopo potrete riservarmi lo stesso destino di Candie.

Dimenticavo: volevo davvero ringraziare di cuore tutte le persone che mi seguono e mi supportano (specialmente una delle mie fan più sfegatate nonché mia carissima amica Giulia), perché se non fosse per loro probabilmente la stesura di Mental Disorder andrebba a rilento. Incrocio le dita nella speranza di terminare la storia entro la fine di Dicembre affinché possa iscriverla agli Oscar EFPiani, anche se dubito fortemente di vincere in quanto quello che scrivo non piace più di tanto alle persone.
Grazie comunque per quello che fate. Vi sono debitrice.


Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***







Capitolo X
__________________________
 


A differenza della prima volta che mi svegliai nella stanza bianca dell’ospedale – dove impiegai fin troppo tempo per capire di essere finita nei guai – spalancai gli occhi non appena tornai cosciente e cercai nell’immediato di comprendere cosa fosse accaduto. Ero capitata nel peggiore dei miei incubi: gli occhi non riuscivano a vedere niente e le orecchie a percepire alcun suono.
Ispira, espira. Immetti aria nei polmoni e cacciala fuori.
Detestavo il silenzio e avrei tanto voluto che si sentisse un qualsiasi rumore affinché non ci rimettessi a lungo andare la mia sanità mentale, ma il terrore che mi incuteva l’incapacità di vedere cosa si potesse annidare nell’oscurità era – ed è tuttora – la cosa che più mi paralizza in assoluto; il mio senso più sviluppato è la vista, e saperlo totalmente inutile in una situazione del genere non riusciva affatto a tenermi calma. Non riuscivo nemmeno a vedere a un palmo dalla mia faccia.
Ancora una volta le mie mani erano legate dietro la schiena, tenute ben strette da quelli che sembravano essere diversi giri di fili di nylon attorno ai miei polsi. Non l'avrei mai voluto dire, ma peggio di una corda o delle manette vi è senza ombra di dubbio quella superficie tanto sottile e liscia che seghettava a dovere la mia pelle ad ogni movimento di troppo: era qualcosa di assolutamente eccessivo, fatto appositamente per farmi soffrire più che tenermi ferma, e questo mi aveva fatto pensare che chiunque mi avesse rinchiuso in quella scatola di cemento si sarebbe divertito vedendomi grattare le unghie contro le pareti implorando aiuto, se fosse stato possibile. Ma per vedermi mentre mi disperavo avvolta dall'oscurità dovevano esserci delle videocamere di sorveglianza a infrarossi, probabilmente a uno dei quattro angoli della stanza.
Convincermi ad alzarmi o tentare comunque di comprendere dove fossi non fu la cosa più semplice del mondo, ma Jonathan aveva passato tanto di quel tempo a spiegarmi come "sopravvivere" in quell'ospedale che mi parve di sentire la sua voce al posto dei miei pensieri, e strisciare all'indietro in cerca di una parete fu quasi automatico. Mi spostai cercando un angolo da cui poter partire e segnare come punto di riferimento mentale per delineare il perimetro della stanza; mi alzai aiutandomi con il muro e iniziai a camminare verso destra.
Uno, due, tre, quattro, cinque... Oggetto.
Mi voltai di spalle e identificai la cosa che mi aveva preso in pieno all’altezza del bacino come un lavabo e lo superai, facendo scontrare così la mia gamba destra con quello che ipotizzai fosse il water. Doveva essere una delle celle di isolamento.
Altro angolo. Uno, due, tre, quattro… Parete vuota. Uno…
Con il braccio destro che strisciava sulla parete per non perdere l’orientamento, riuscii a identificare il cambio di superficie con la porta d’accesso: irrimediabilmente chiusa come prevedibile, iniziai a colpirla con diverse spallate nel vano tentativo di attirare l’attenzione di qualcuno, urlando di farmi uscire da lì. Ma mentre eseguivo queste azioni, l’olfatto – che fino a quel momento non mi aveva suggerito altro che la solita puzza di chiuso e urina tipica di ogni cella – avvertì qualcosa che prima non aveva notato. Era un tanfo che non mi era mai parso di sentire prima di quel momento, e che proveniva dall’unico angolo che non avevo ancora controllato.
Un passo dopo l’altro, raggiunsi – fino a scontrarlo – quello che ai miei piedi nudi parve un materasso terribilmente umido, impregnato da chissà che cosa. Mi chinai di poco, annusando l’aria nella vana speranza di comprendere da cosa fosse causato quell’odore tanto spiacevole e qualche ipotesi iniziò a farsi avanti nella mia testa.
Allungai un piede verso il centro del materasso e lo sentii: qualcosa di viscido, organico e in pieno stato di putrefazione era abbandonato in quel punto della cella da giorni, forse settimane, e i liquidi corporei avevano completamente infestato il letto.
Indietreggiai di colpo, maledicendomi per il mio preferire i piedi scalzi alle scarpe e tentai di mantenere la calma anche se, a dire il vero, non fu cosa facile: sapere di essere in una microscopica cella di isolamento, legata e completamente al buio in bella compagnia di un cadavere era quello che di peggio potesse accadermi; o almeno è quello che ho creduto fino a quando tutto d’un tratto non si aprì la porta della cella.
La luce del corridoio non era chissà quanto forte, ciononostante i miei occhi non riuscirono a mettere a fuoco nell’immediato chi fosse appena entrato e mi ritrovai senza cerimonie a subire una scarica di pugni in pieno volto, incapace anche di difendermi a causa del filo di nylon che mi bloccava i polsi dietro la schiena.
«Povera piccola Nebraska, ancora una volta è stata sfortunata.»
Hijikata…
Indietreggiai, incastrandomi in un angolo nel tentativo di rimettermi in piedi. Dal momento in cui gli occhi si erano abituati alla luce del corridoio, vedevo chiaramente quello scarto di cadavere contorto in un’espressione di puro terrore, abbandonato in una posizione innaturale e sgraziata come se fosse stato gettato lì senza particolari cure. E lo conoscevo, ero certa fosse il corpo di uno dei pazienti con cui una volta, per caso, avevo interagito nella sala grande.
Un conato di vomito si fece sentire, ma distolsi rapidamente lo sguardo da quello spettacolo e non gli diedi ascolto.
«Hai la tipica espressione di chi non si aspettava sarebbe finita in questo modo. Credevi davvero che la morte di Candice avrebbe risolto ogni cosa?»
«Vuoi uccidere anche me?»
«Permettimi di essere sincero almeno questa volta: lo ammetto, mi divertirebbe molto vederti ridotta in quello stato.» E indicò il cadavere dall’altro della stanza, dandogli anche un rapido sguardo. «Sai, ho perso il conto di quanto tempo fa l’ho pestato a sangue; non ricordo il motivo per cui l’ho ridotto in quello stato e nemmeno più il suo nome. Però una cosa è certa: lui è stato solo uno dei tanti che ha rivisto in me il Tristo Mietitore. Non puoi immaginare quanti io ne abbia fatti fuori, Nebraska, non hai la minima idea di come ci si senta Dio quando tu sei l’unico che può decidere se far restare in vita qualcuno o lasciarlo morire nel modo più atroce possibile.»
Era vicino, troppo vicino; mi stringeva il volto, infossava le dita nella mia pelle e mi pugnalava con i suoi occhi colmi di un desiderio completamente diverso da quello di Sam ma altrettanto perverso. Sorrise, portando la sua bocca vicino al mio orecchio sinistro lasciato libero di sentire quello che sussurrò appena.
«Rassegnati, Nebraska: il tuo ultimo respiro lo esalerai in questa cella e sarà solo causa mia.»
Mi fece sbattere la testa contro il muro alla mia destra, dopodiché mi assestò un calcio nello stomaco e mi tenne in piedi tirandomi per i capelli. Un pugno, un altro e un altro ancora. Il sangue scivolava copiosamente dalle narici e l’intero viso pulsava per le troppe percosse. Non era la prima volta, quella violenza incontrollata l’avevo già vissuta prima di quel giorno, eppure non riuscivo ancora, a distanza di mesi dal mio internamento in ospedale, ad abituarmi del tutto.
«Tu non vorresti uccidermi.», biascicai.
«Cosa te lo fa credere?»
«Jonathan mi ha detto che per quanto tu possa essere un ripugnante scarto umano, non ti piace far del male a una donna.»
«C’è sempre un’eccezione a tutto.»
«Quanto ti ha pagato per farmi fuori?»
Hijikata mi fece sbattere nuovamente la tempia contro il muro e tentò di colpire il lavabo con i miei incisivi; il primo colpo andò a segno, ma per il secondo riuscii a girare abbastanza la testa da sentire solo la guancia scontrarsi con il metallo a basso costo del lavandino.
«Quel ragazzo è il vero mostro, non io.», disse a pochi centimetri dalle mie labbra, «Ha pagato così tanti soldi per rinchiuderti qui dentro che solo un pazzo non avrebbe accettato.»
Gli sputai in faccia: «Mi fai schifo. Io sono innocente – »
«Lo so dal primo giorno, Nebraska, non serve a nulla tu lo ribadisca adesso. Credimi, all’inizio non volevo nemmeno arrivare a questo punto, avrei preso tutti quei soldi ignorando l’ordine di farti passare le pene dell’Inferno. Ti avrei trattata come chiunque altra, ragazzina, ma tu mi hai istigato. Tu e quella tua dannata voglia di metterti costantemente nei guai, tu e la tua testardaggine, tu e quel coraggio che continua a non abbandonarti.» Il suo indice percorse i lineamenti del mio viso lentamente, deviando in alcuni punti le scie del mio sangue. «Forse, se avessi avuto paura di me come tutti gli altri, adesso non staresti per morire.»
Afferrò nuovamente i capelli e mi costrinse la testa nel water. Ero fin troppo debole per averla vinta, ma tentai di opporre resistenza ugualmente, come se non sapessi che lui era l’unica persona a poter decidere se farmi inalare ossigeno o acqua. Non volevo morire, non in quel modo, non in quel momento.
Mi tirò fuori la testa e io tornai a respirare per qualche istante.
«Ti piace l’acqua?»
«Direi che non è il mio elemento.»
«Mi dispiace per te, allora. Questa era solo una prova.»
La mia testa finì ancora una volta nella tazza. L’acqua era gelida, il sangue dal mio volto si mescolava ad essa e la colorava lentamente di nuvole rossastre che mi accecavano gli occhi. Per quanto io mi dimenassi, la sua presa sulla mia testa era troppo forte e io continuavo, imperterrita, ad ingerire acqua.
L’aria nei polmoni entrò con la stessa violenza di un calcio ben assestato allo sterno. Il mio intero corpo doleva: le nuove ferite si aggiungevano alle vecchie cicatrici, bruciavano e mi ricordavano per l'ennesima volta che di immortale non avevo un bel niente.
«...Basta.»
Hijikata sorrise sornione: «Di già? Mi deludi, Nebraska, di solito sei molto più resistente.»
«Dopo mesi credo sia normale averne abbastanza di queste torture.»
«Ma io non ho ancora finito di divertirmi. Sei così bella mentre tenti disperatamente di riemergere e di non inalare acqua…»
Doppiogiochista, sadico e perverso; questi erano – e sono tutt’ora – gli unici aggettivi che mi sentivo di affibbiargli. Avrei venduto l’anima al diavolo pur di sfregiargli la faccia almeno una volta, di rompergli ancora il naso o spaccargli il labbro.
Ero stanca di vedere la mia pelle che si riempiva di lividi e cicatrici, delle mie lacrime che impregnavano il cuscino e degli incubi che mi tormentavano la notte; i miei familiari erano come morti e tutto quello che avevo si limitava a un crimine sulle spalle nemmeno mai pensato. Sopravvivere in un ospedale psichiatrico non è facile, specialmente se la tua salute mentale non ha molto che non vada; e in quel momento, con di nuovo la testa in acqua, non facevo che rivedere fotogrammi casuali della mia permanenza nella struttura.
La camera bianca, il primo incontro con Hijikata e il suo naso che incontra un mio gancio; Mayer che mi trascina via e mi prende sotto la sua ala protettrice; i sorrisi di Crystal e Kline; le spiegazioni prive di parole di Candice per insegnarmi come giocare a scacchi... E poi Jonathan, con i suoi occhi dello stesso colore dell'acciaio fuso che mi chiedeva di fidarmi di lui.
Avevo passato così tanto tempo all’interno di quell’ospedale che quasi non ricordavo più cosa significasse uscire con gli amici, andare a scuola e tante altre piccole stupide cose che chiunque avrebbe definito normali. Avevo solo diciotto anni e, per quante io ne abbia passate in tutta la mia vita, essere segregata in quell'ospedale è stata la peggiore in assoluto.
Cercavo di convincermi che forse arrendermi a quel destino fosse la scelta migliore, ma i miei polmoni continuavano incessantemente a supplicare per un po' di aria mossi dall'istinto di sopravvivenza che non potevo controllare; mi agitavo anche se avrei voluto smettere di vivere un'esistenza simile; pregavo ogni Dio in cui non avevo mai creduto di darmi quella forza che stava via via scemando in una delusione totale causata dal non poter far nulla nemmeno per difendere quel poco di onore che mi restava.
Sentivo il gusto della morte tra i denti, stretti gli uni sugli altri nel vano tentativo di non cedere al mio istinto che mi avrebbe portato a inalare le ultime boccate d'acqua prima di affogare completamente.
Ma tutto d'un tratto i miei capelli furono tirati indietro e la mia testa riemerse. Non avevo forze, tossivo acqua e non capivo cosa stesse accadendo; sapevo solo che qualcuno mi stringeva e mi spostava i capelli bagnati dal viso, con fare quasi amorevole.
«...Mayer?»
Una risata. Maschile, piacevole, familiare.
«Non può essere sempre lui a salvarti, Herstal. Qualcosa tocca farlo anche a me.»
«Jonathan...»
«Mi piacerebbe tanto stare fermo a guardare i tuoi occhi pieni di gratitudine, ma purtroppo non c'è tempo.»
Jonathan tagliò il filo di nylon che aveva logorato i miei polsi con un coltello preso chissà dove, dopodiché si mise in piedi e fece qualche passo verso Hijikata, contorto in un'espressione di dolore.
«Vorrei tanto ucciderti per quello che hai fatto a me, Candice e Nebraska, ma mi hanno detto che ammazzarti non sarebbe nient'altro che un bel favore: vivere nelle stesse quattro mura per anni, senza avere la possibilità di far nulla che ti piaccia ed essere trattato come un cane affetto da rabbia sembra essere una tortura ben peggiore che toglierti dalla faccia della Terra.»
E dicendo queste parole assestò diversi calci sul volto di Hijikata, facendolo diventare un agglomerato di chiazze violacee e rivoli di sangue al pari della mia faccia. Lo colpiva con un odio smisurato, quasi contro natura, come se ad ogni gemito di Hijikata lui godesse profondamente.
Jonathan si fermò per qualche istante: aveva il respiro accelerato, qualche schizzo di sangue in volto e nessuna buona intenzione che gli passasse per la testa.
«Herstal, vattene.»
«Cosa?»
«Muoviti ad uscire.»
«Che vuoi fare?»
«Dare un buon motivo alla gente per chiamarmi “assassino”.»
Hijikata si alzò approfittando della guardia lasciata bassa da Jonathan e lo colpì, scagliandolo dall’altro lato della stanza; afferrò il coltello incustodito e me lo puntò alla gola prima che io potessi anche solo capire che si stava avventando su di me.
Jonathan si alzò massaggiandosi una tempia; non parve minimamente turbato dal coltello tra le mani di Hijikata, né tanto meno che fossi io quella presa in ostaggio. Sorrise con malizia, dopodiché prese parola: «La prossima volta che ti darò un ordine sarai così gentile da eseguirlo prima che le cose prendano una brutta piega?»
«Ti sembra il momento di discuterne?!»
«Andiamo, Herstal…» Sbuffò, poi passò a guardare lo psichiatra. «Ascoltami, Hijikata, perché non ho intenzione di ripeterlo una seconda volta: lascia Herstal o ti ammazzo sul serio.»
«Vuoi convincermi che se non le facessi del male, mi lasceresti uscire da questa cella? Non farmi tanto stupido, Jonathan: se non mi sei ancora saltato addosso è perché temi per la sua vita.»
Jonathan fece una smorfia. Si leggeva la noia sul suo volto, quasi come se il tutto non fosse affar suo.
«Va bene, allora uccidila pure. Ciao ciao.»
E dicendolo uscì di corsa dalla cella, lasciandomi nella penombra con lo psichiatra a bloccarmi gli arti e il coltello a segarmi la gola. Ero sconcertata dal suo gesto, ma razionalmente sapevo che quel diavolo aveva qualcosa in mente; continuavo a ripetermi che da un momento all’altro sarebbe accaduto l’impensabile, ero certa non mi avrebbe mai abbandonata… più o meno. In realtà ero terrorizzata all’idea – nemmeno tanto improbabile – che lui se ne fosse davvero lavato le mani.
«Lasciami andare, bastardo!»
«Stai zitta!» Il coltello si strinse ancora di più sul mio collo. «Per quanto lui sia codardo… No, non può averti lasciata davvero qui con me.»
Hijikata mi trascinò verso l’uscio della porta blindata: la visuale sulla destra era libera; sulla sinistra invece c’era la porta blindata non del tutto appiattita contro il muro che, pensavo, nascondesse malamente Jonathan. E quello fu lo stesso pensiero di Hijikata, che con una spallata l’avrebbe fatta sbattere contro il muro se non ci fosse stato il corpo esanime di una guardia accovacciato sul pavimento.
Il corridoio delle celle sotterranee era nel silenzio totale.
«‘Fanculo. Avrei dovuto ammazzare quell’essere la prima volta che ne ho avuto occasione.»
Hijikata mi strinse ancora più forte, probabilmente preoccupato all’idea che Jonathan potesse sbucare da un momento all’altro, prendermi e sottrargli così la possibilità di essere lui a reggere il gioco. Iniziammo a spostarci verso il lato ovest del corridoio; non ne facemmo molti poiché di punto in bianco le luci si spensero, tornando nuovamente ad essere inghiottiti dal buio.
Hijikata imprecò. Sentivo la sua paura divenire sempre più forte dopo ogni secondo che passava senza poter contare sulla vista, al contrario mio che – per quanto detestassi l’oscurità – in quel frangente mi sentivo al sicuro: chiunque in quell'ospedale sapeva che Jonathan si sentiva molto più a suo agio in assenza di luce; perché lui non temeva quello che non poteva vedere, ci conviveva pacificamente senza preoccupazioni. Ero come avvolta dalla sua presenza, e quando lo sentii davvero passarmi davanti sorrisi al nulla, cercandolo con lo sguardo.
Il generatore che aveva fatto saltare in qualche modo, tornò a funzionare nel giro di qualche minuto. Pensai che quello sarebbe stato il momento adatto per colpire Hijikata con una testata, ma lo psichiatra era ormai immune al dolore e mi bloccò contro il muro dopo aver subìto il colpo: questa volta mi ferì davvero con il coltello, poco più in basso della guancia sinistra, giusto per farmi capire che stavo giocando con il fuoco. Aveva fatto un bel taglio che tutt’ora, a distanza di tempo, è possibile intravedere pur essendosi rimarginato nel migliore dei modi.
«Stupida ragazzina, vuoi morire davvero?!»
«Ti conviene lasciarmi se non vuoi essere tu a fare una brutta fine.», dissi avendo tra i denti più sangue che saliva.
«Che ne dici di farti tagliare la lingua, Nebraska?»
Risi: «Mi aspettavo un trattamento più originale da qualcuno che era pronto ad uccidermi nemmeno dieci minuti fa.»
«Tu vuoi davvero farmi perdere la pazienza.»
«Io le ho solo dato un consiglio su cosa sarebbe meglio per lei, dottore. Jonathan non gliela farebbe passare liscia se – »
«Finché tu sei in pericolo di vita, lui non farà niente.»
«Fossi in lei non ne sarei così sicuro. Quel ragazzo è pazzo sul serio.»
Hijikata mi diede l’ennesimo pugno in pieno volto. Sentivo le ossa non reggere all’impatto, sgretolarsi sotto la forza impressa nell’atto di farmi stare zitta; eppure il dolore non mi tolse il coraggio di rispondergli con stampato in volto il sorriso di chi aveva appena vinto la guerra.
«Forza, uccidimi. Fammi fuori. Incastrami la testa nel muro, squartami il ventre, lasciami in un lago di sangue come hai fatto con Candice. Non è per questo che mi hai rinchiusa in quella cella e mi hai costretto la testa nel water? Adesso Jonathan non c’è, dovresti approfittarne… Conoscendolo bene, dubito resterà fermo e buono ancora per molto.»
La mia mascella fu arpionata dalla mano dello psichiatra, sempre con il coltello ben saldo tra le dita e pronto ad essere usato contro la mia gola.
«La vicinanza con quell’abominio ti ha mandata fuori di testa.»
«Quell’abominio di cui lei parla, però, è molto più intelligente di lei.»
Hijikata non si voltò, Hijikata non mosse alcun muscolo: Jonathan era fermo alle sue spalle con un sorriso sornione stampato sul volto; agitò in aria una pistola presa – forse – dalla guardia accasciata davanti alla cella, e dopo qualche istante la premette contro la nuca dello psichiatra.
«Adesso che ne dici di lasciare Herstal?»
«Se credi io – »
«Hijikata-san», lo interruppe tirando indietro il cane, «voglio solo ricordarti che una pistola è molto più veloce di un coltello da cucina. E non ti concederò molto altro tempo per decidere se uccidere Herstal e morire o lasciarla stare e, forse, cavartela solo con un proiettile da qualche parte.»
Gli occhi di Hijikata mutarono espressione, passando da sorpresi a persi nel vuoto come se potessero vedere il muro alle mie spalle. Abbassò lentamente il coltello e lo sguardo, si voltò verso Jonathan che continuava a tenergli la pistola puntata alla testa.
«Allontanati da lei.»
«Mi ucciderai lo stesso, non è così?»
«È quello che meriteresti.»
Hijikata fece qualche passo affinché io potessi spostarmi di fianco a Jonathan; non era di certo l'uomo migliore a cui fare affidamento, ma sapere che stava cercando di proteggermi mi rassicurava, per quanto fosse possibile in una situazione del genere.
«Non avresti mai dovuto accettare quei soldi, Hijikata. Meno che mai avresti dovuto tenere me in quest’ospedale per quattro interminabili anni e trattarmi come un giocattolo.»
Hijikata rise con fare sadico: «La vendetta ti sta divorando l'anima, Jonathan.»
«La vendetta è l'unico sentimento che mi ha permesso di sopravvivere a questo inferno.»
Forse avrei potuto insistere, chiedergli di non fare quello che, alla fine, tutti si aspettavano realmente da lui. Ma quando distolse appena lo sguardo da Hijikata per riflettere su cosa fare non nego di aver provato quel briciolo di rabbia necessario per dirgli che sparargli almeno un proiettile in corpo era la cosa che più desideravo in assoluto; l'urlo di Hijikata quando il colpo si conficcò nel ginocchio destro mi diede una scarica di adrenalina che non saprei spiegare in alcun modo.
Lo psichiatra iniziò a supplicarci, ma nessuna di quelle parole riuscì nemmeno per un istante a farmi cambiare idea: volevo morisse, volevo pagasse per tutto il male che aveva fatto a me, Jonathan e tutti gli altri prima di noi.
«Cosa aspetti ad ucciderlo?»
«Non posso farlo. Renderti mia complice è l’ultima cosa che ti serve.»
«Non prendermi in giro e spara! È quello che merita, devi farlo!»
Ma Jonathan non mi diede ascolto. Assestò qualche calcio alla testa di Hijikata per stordirlo e le sue pupille si immersero nelle mie; mi ammonì con lo sguardo e io mi voltai di spalle, con le mani tra i capelli: ero quasi diventata lo stesso mostro che per mesi avevo affermato di non essere.
«Herstal, calmati. Quello che hai detto e pensato è… normale. Ti spiegherei anche perché, ma non abbiamo tutto questo tempo a nostra disposizione. Dobbiamo andare via.»
Mi guardai intorno: eravamo nei sotterranei di un edificio che pullulava di guardie armate e inservienti che non ci avrebbero di certo fatto uscire solo chiedendolo; inoltre non avevo nemmeno mai pensato a come evadere da quel posto, dunque mi sentivo spaesata, completamente incapace di escogitare un piano, e Jonathan lo sapeva senza che ci fosse bisogno io esprimessi le mie incognite a voce.
«Conosco la planimetria dell'edificio a memoria, da queste parti ci dovrebbe essere uno sgabuzzino...» E iniziò a camminare a passo svelto verso la fine del corridoio, guardando in ogni cella in cerca di qualcosa. «Niente sgabuzzino. Non è proprio il massimo dell’affidabilità, ma dovrebbe andare bene...»
Uscì da una delle celle trascinando una sedia di legno in pessime condizioni, e la posizionò subito sotto la piccola finestra rettangolare in fondo al corridoio, che dava sull'asfalto interno al perimetro dell'ospedale.
«Jonathan, quella finestra ha le sbarre.»
«Che hanno quasi gli stessi anni dell’Universo.» E a dimostrazione di quel che diceva, bastò appena un po' della sua forza per trovarsi con la grata logorata dal tempo tra le mani. «Ottima serata per evadere: la visibilità è scarsa e piove a dirotto.»
«Fantastico, ci mancava solo il tempo a complicare le cose.»
Jonathan scese dalla sedia. «Probabilmente se usciremo vivi da questo posto è proprio grazie al temporale in corso. Hai il mio orologio con te?»
Annuii e lo tirai fuori dalla tasca, porgendoglielo: erano le otto passate, avevo praticamente trascorso l’intero pomeriggio in quel sotterraneo.
«Hai le idee chiare su come evadere da questo posto?»
«Il tuo semplice metterlo in dubbio mi offende.»
Scossi la testa al nulla: qualunque fosse la situazione, Jonathan doveva tentare sempre di risultare totalmente tranquillo e sereno. «Su, spiegami che vuoi fare.»
Come prevedibile, lui mi ignorò completamente. Era salito sulla sedia e si apprestava ad uscire con un’agilità che io di certo non avevo.
«Herstal, datti una mossa.»
«Cosa ti fa credere io ci possa riuscire?»
«Forza, dammi la mano. Ti aiuto io.»
Diedi un ultimo sguardo all’Hijikata agonizzante pochi metri più avanti: si muoveva appena, era a un passo dal perdere definitivamente i sensi, e tra un gemito e l’altro aveva a stento la forza di maledire noi due. In quell’istante, prima che Jonathan mi spronasse di nuovo a salire sulla sedia, sperai che quella fosse l’ultima volta che mi sarebbe capitato di vederlo.
Una volta superato l’ostacolo della finestra e uscita dal piano sotterraneo per prendere acqua e gelo causati dal temporale, Jonathan non perse tempo in chiacchiere e mi spiegò rapidamente cosa fare.
«Da quella parte», disse indicando in direzione nord-ovest, «c'è un punto in cui il muro esterno ha ceduto. È talmente isolato e nascosto dalle piante che nessuno se n'è ancora accorto; o se non altro, nessuno ha ritenuto necessario farlo sistemare.»
«Non è un piano d’evasione troppo… elementare
«A volte le cose più semplici sono anche le migliori. Andiamo.»
Ci spostammo furtivamente verso quel lato dell'ospedale, usando la pioggia e la scarsa visibilità a nostro favore: in una situazione simile avrei immaginato un Jonathan divertito, quasi elettrizzato all'idea di fare qualcosa di tanto estremo; invece mi stringeva saldamento il polso in una mano come se temesse di perdermi in qualche modo, e nell’altra stringeva la pistola lasciata senza sicura ancora carica.
«Non sai quante volte ho immaginato questa scena.», disse spostando qualche pianta dal muro costruito per delimitare la proprietà dell’ospedale, «Solo che nelle mie fantasie c'era Candie al tuo posto... Volevo dire anche Candie.»
Spostai lo sguardo da lui alla scenario che ci circondava: la pioggia aveva bagnato ogni cosa e la leggera nebbia che c’era rendeva davvero difficile vedere più di tanto, inoltre fino a quel momento non avevo visto alcuna ombra aggirarsi nell’area.
«Se fossimo evasi prima...»
«Lei non sarebbe venuta comunque. Per un anno intero ho tentato di convincerla a scappare con me e non mi appoggiava molto. Mi avrebbe aiutato ad evadere, di questo ne sono certo, ma non mi avrebbe seguito. Quell'ospedale è la cosa più simile a una casa che lei abbia mai avuto in vita sua.»
A quel punto, con le piante sradicate dal terreno, la falla nel muro era chiaramente visibile:
guardandoci attraverso, si potevano vedere gli alberi cresciuti intorno alla proprietà dell'ospedale e l'erba incolta che copriva tutta la zona.
Stavo già pregustando la sensazione della libertà mancata quando tutto d'un tratto si sentì uno sparo. Era stato lanciato in aria come avvertimento, per farci cambiare idea e risolvere il tutto con una strigliata di capelli; oppure con due cadaveri per mano di Hijikata. Ma eravamo così vicini all'esterno...
«Herstal, entra!»
Non me lo feci ripetere e corsi nella sua direzione per strisciare oltre il muro. Ma per quanto io fossi veloce, i proiettili lo erano sempre più di me.
Mi accasciai al suolo prima di riuscire ad accovacciarmi, chiamando il nome di Jonathan che
strisciò per soccorrermi. Il pezzo di metallo e polvere da sparo era finito nella coscia, in un punto non vitale ma che dava comunque un certo fastidio. Imprecai al cielo, strinsi i denti per non urlare. Un altro proiettile era l'ultima cosa che desideravo.
«Dannazione, Jonathan…»
«Lo so che fa male, ma non hai tempo per lamentarti del dolore. Ce l'abbiamo quasi fatta!»
Feci un profondo respiro prima di muovermi verso lo squarcio nel muro: non sapevo fino a che
punto aveva senso tentare di evadere con una ferita del genere, ma mi fidavo di Jonathan, e non mi avrebbe mai detto di continuare se non era certo ce l'avremmo fatta.
Strisciai dall’altro lato del muro e aspettai che Jonathan facesse lo stesso. Ma a un passo dallo sgusciare fuori, i suoi occhi si sgranarono e le dita si arpionarono al terreno: qualcuno l’aveva bloccato, lo stavano di nuovo trascinando dentro.
«Non pensare a me, corri in quella direzione!»
«Io non posso… Io non…»
«Vai! Fidati di me anche questa volta, Herstal!»
Mentre correvo decisi che non avrei dovuto pensare a come rimuovere il proiettile, né alle voci che urlavano oltre il muro sempre più distante né a Jonathan che era stato catturato. Concentrai la mia attenzione sul dolore lancinante della gamba e il sangue che defluiva dalla ferita, con l’unico obbiettivo di correre fino a quando ce l’avrei fatta o non sarebbe successo quel qualcosa per cui mi sarei dovuta fidare di Jonathan.
La vegetazione di quel posto era fitta, ma non impossibile da affrontare se le condizioni fisiche – e psicologiche – fossero state migliori: il dolore alla gamba aumentava proporzionalmente alla diminuzione dell'adrenalina in circolo nel sangue, ciononostante continuavo a correre, perché fermarsi per riflettere su cosa fosse meglio fare mi era in quel frangente impossibile. Non ero lucida, non riuscivo a pensare a quello che stavo facendo, il mio muovere un passo dopo l’altro era dovuto solo a un singolare rimasuglio di volontà, di desiderio di sopravvivere.
Ma ero debole, forse anche più di quanto riuscissi a comprendere da sola. Persi stabilità nelle gambe, crollai al suolo incapace di rimettermi in piedi. Ero stremata.
Il sangue macchiava l'erba incolta di quell’area, scivolava dalle mie ferite e si impregnava nel terreno. Non sapevo con esattezza dove fossi, le mie gambe avevano corso il più velocemente possibile senza riflettere su dove andare e in quel momento nemmeno mi importava: piangevo, raccolta in posizione fetale, su quel manto d'erba umido che era divenuto il mio letto. Non era un pianto disperato, ma una silenziosa preghiera di pace e assenza di dolore che mi mancava da tanto.
Cullata dalla pioggia e dal vento, iniziai a sentire il mio corpo rilassare i muscoli e il sonno impaziente di inghiottire i miei pensieri.
Chiusi gli occhi, lentamente.
Il vuoto mi aveva presa ancora una volta.



 




──Note dell'autore──
Come al solito, mi ritrovo ad essere troppo pigra per usare questo spazio in un modo che possa definirsi decente. Spero di non avervi deluso, e che in un modo o nell'altro io finisca la storia entro la fine di Dicembre. Mi sembra una cosa impossibile, ma finché non sarà il primo Gennaio ci spererò sempre.

Il banner è opera di Class of 13.

「Nitrogen」

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***







Capitolo XI
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Mi svegliai di soprassalto, con addosso ancora la sensazione della pioggia a bagnarmi e il vento a soffiarmi nelle orecchie: non stavo bene, sudavo freddo, e le immagini di Jonathan che veniva trascinato di nuovo nell’ospedale mi passarono davanti prima che comprendessi di non essere più sul manto d'erba esterno all'edificio. 
Ero distesa sui sedili posteriori di un’automobile malridotta e piuttosto vecchia. Vedevo Jonathan al posto del passeggero, ancora gonfio in volto e con il sangue secco a sporcargli i capelli, eppure visibilmente più tranquillo; muoveva le labbra come se stesse parlando con il conducente che da quella visuale non vedevo, ma il mio cervello non era ancora abbastanza sveglio da capire le parole che udiva.
Tentai di mettermi a sedere senza alcun buon risultato, così restai distesa in attesa di avere almeno la forza per parlare. Portai istintivamente una mano sulla gamba ferita: non sentivo molto dolore, probabilmente perché ero ancora troppo intontita o per via delle medicazioni approssimative che avevo ricevuto mentre ero incosciente. Feci una smorfia costatando che le bende poste a coprire lo squarcio nel pantalone erano umide perché perdevo ancora sangue; non mi avevano estratto il proiettile e ricucito la ferita, mi avevano solo fasciato la gamba e forse dato qualcosa per lenire il dolore.
«Devo ammettere che per quanto io sia intelligente e tante altre cose, quelle guardie mi hanno dato davvero filo da torcere. A nessuna di loro andava l’idea che scappassimo, soprattutto che scappassi io… E le capisco, in questi anni hanno avuto tutte le ragioni di questo mondo per volermi male, ma nemmeno ‘sta volta il loro desiderio di vendetta è riuscito a tenermi a bada.»
«Mettendo un attimo da parte il tuo bisogno di pavoneggiarti, fatti dire che per essere uno a cui hanno appena ucciso la persona più simile a una sorella che aveva sembri star bene.»
Jonathan forzò un sorriso all’uomo al volante: «Mi è capitato così tante volte che ormai sono abituato a vedere qualcuno morirmi tra le braccia. Ibernare quello che provo non mi è più tanto difficile.»
«Di' quello che vuoi, ma se fosse morta la ragazzina qui dietro saresti uscito fuori di testa.»
«Mi sarebbe dispiaciuto, ma non sono legato a Herstal quanto lo ero a Candice.»
L’uomo rise di buon gusto, scuotendo la testa e facendo scontrare tra loro quelle che ipotizzavo fossero delle collane: «Chiamarla per cognome non ti aiuterà a rendere quello che dici più vero. Jonathan, siamo stati insieme in quell'ospedale abbastanza tempo da conoscerci come fossimo amici d’infanzia, e so perfettamente che non avresti mai salvato una persona qualsiasi. Cosa hai visto in lei?»
Jonathan restò in silenzio per diversi secondi, talmente tanti che credevo non avrebbe risposto. La domanda sembrava non piacergli per niente.
«Avresti dovuto vedere i suoi occhi mentre mi guardava attraverso lo spioncino della cella di isolamento. Era terrorizzata, era il suo primo giorno in quel posto, mi chiedeva aiuto. E io non ho saputo ignorare la sua tacita richiesta anche se è un comportamento inusuale per me. Poi sono venuto a conoscenza della sua storia: io so cosa vuol dire pagare per le colpe di qualcun'altro, è una sofferenza atroce... Non potevo farle vivere il mio stesso inferno.»
Avrei ascoltato volentieri quanto altro aveva da dire sul mio conto, ma la gamba iniziava a pulsare nuovamente, a farmi male come se mi avessero appena sparato. Sollevai lentamente la schiena, gemendo e attirando l'attenzione di Jonathan che si voltò a guardarmi. Gli sorrisi a fatica, aggrappandomi ai sedili anteriori per non crollare all’indietro; non stavo affatto bene.
«Non potevi dormire un altro po'? Stare svegli con una pallottola in una gamba non è molto piacevole.»
«Lo dici come se non mi avessero mai sparato prima.», sbuffai, «Com'è che sono finita in quest'auto? E tu come hai fatto a scappare dalle guardie? E poi, dov'è che saremmo diretti? Non conosco nemmeno quello che pare essere un tuo amico di vecchia data, potresti presentarmelo.»
«Herstal, ti prego, almeno per questa notte tieni a freno la tua curiosità.»
Il conducente rise, continuando a tenere gli occhi puntati sulla strada: «Ha una ferita da arma da fuoco nella coscia, lividi sparsi ovunque e riesce comunque a dire cose che non siano lamenti riferiti alle sue condizioni fisiche. Per essere solo una ragazzina ha una buona resistenza.»
«Tu non la conosci, quando si tratta di togliere qualche dubbio dalla testa riesce ad essere più attiva e fastidiosa del normale.»
«Semplicemente», replicai, «la permanenza in ospedale è servita a qualcosa.»
L'uomo mi squadrò tramite lo specchietto retrovisore: aveva lo stesso sguardo che si sarebbe comunemente affibiato a un criminale, duro e per niente piacevole; come se non bastasse, le svariate cicatrici che aveva non gli donavano un'aria molto raccomandabile. L'idea che quell'uomo fosse finito in un ospedale psichiatrico mi fece tornare la speranza che non rinchiudessero solo sani di mente in posti del genere.
«Zedd, controlla la medicazione di Nebraska. È probabile sia il caso di cambiarla.»
«Puoi usare il mio vero nome quando c'è lei, lo conosce.»
«Muoviti
Jonathan obbedì nell'immediato: scavalcò il sedile e si sistemò su quelli posteriori, iniziando a srotolare le bende. Ne mise di pulite con molta cura, facendo attenzione a non provocarmi più dolore di quanto fosse necessario.
«Non è proprio in buono stato», riferì contiuando a sistemare le bende, «ma per qualche altra ora non ci dovrebbero essere problemi. Comunque se dormissi sarebbe meglio: oltre a questa hai altre ferite, e non è il caso tu ti sforzi troppo.»
«Ho dormito abbastanza.», replicai, «L'unica cosa di cui ho bisogno è qualche risposta e magari un antidolorifico. Non ne avete?»
«Sto seriamente pensando che forse era meglio lasciarti agonizzante a terra.» Si sistemò meglio sul sediolino al fine di starsene più comodo e mi regalò uno sguardo accigliato. «Non ti starò a spiegare i trucchi del mestiere su come scappare da delle guardie che vorrebbero mangiarti vivo per quante gliene hai fatte passare, ma sappi che ho ricevuto qualche aiuto dai piani alti.»
«Mayer?»
«Può darsi... Ma la cosa importante è che ti ho trovata incosciente a un passo dal morire per congelamento. E anche che lui, Ross, era pronto a portarci lontano da quel posto.»
Guardai di nuovo l'uomo al volante cercando, con fatica, di non far trasparire la mia curiosità su cosa avesse fatto di tanto orribile per finire in un ospedale psichiatrico. Inutile dire che Jonathan sapeva perfettamente quel che pensavo.
«Hai presente quelle belle rapine alle banche che fanno vedere nei film? Ecco, Ross ne ha fatta più di una e ha ucciso un paio di poliziotti. Come sia riuscito a farsi dare l'infermità mentale è tutt'ora un mistero, ma di sicuro meriterebbe un Oscar per aver retto il gioco per tre mesi interi.»
«È stato così poco tempo in ospedale?»
«Diciamo che non amo particolarmente essere sottomesso. E un modo per evadere si trova sempre, se si riflette a dovere.»
Sospirai. Non ero in grado di dire – e non lo so tutt'ora – chi era il più svitato dei due, ero consapevole solo di essere in una situazione che sapeva dell'assurdo. Ero scappata da un'ospedale dopo aver subito mesi di torture, avevo un proiettile nella gamba ed ero diretta chissà dove con un ladro e un sociopatico. E per essere tanto calma in una situazione simile non dovevo essere sana di mente nemmeno io.
«E... Dov'è che siamo diretti?»
«A casa di un'amica.» 
«Un'altra conosciuta in ospedale?»
«Herstal, non conosco solo squilibrati o criminali.»
«Non l'avrei mai detto.»
«Cerchi rogne o cosa?»
«Piantatela!», urlò Ross prima che Jonathan iniziasse a sbranarmi viva, «Stiamo andando nella casa di campagna di una dottoressa dell'ospedale che si è gentilmente offerta di aiutarvi. Qual è il suo nome completo, Zedd?»
«Jezabel Anya Lee.»
«Ecco, la dottoressa Jezabel Anya Lee. Adesso che ne dici di startene buona senza rompere, ragazzina?»
Non risposi. Spostai l'attenzione verso il retro dell'automobile e restai in silenzio a guardare la strada statale che stavamo percorrendo inondata dalla pioggia. Ero stanca, affamata e arrabbiata, con in testa l'unica domanda a cui non riuscivo ancora a rispondere: perché ha scelto proprio me? 
Quella persona, l'incubo di tutti i mesi persi in quell'ospedale – oltre al buon e caro Hijikata – era da qualche parte sotto il mio stesso cielo a ridere della mia situazione, mentre io accumulavo condanne sulla mia fedina penale e prendevo tutti i proietti che meritava lui.
Chiusi gli occhi, esausta, e soprattutto stanca di essere ignorata da Jonathan che come me fissava il nulla fuori dal finestrino.
Rivedevo quell'essere dietro le mie palpebre, con i suoi capelli biondo cenere e il perenne sorriso di chi sapeva già come sarebbe finita tutta questa storia.
«Dormi.», biascicò Jonathan, «Pensare non fa altro che mandarti ancora di più fuori di testa.»
Avrei voluto dargli torto solo per il gusto di farlo, ma sapevo perfettamente che aveva ragione.
«Sta' zitto e lasciami in pace.»
Per una serie interminabbile di minuti non accadde nulla; poi le nostre mani si sfiorarono e aprii gli occhi di colpo. Continuava a tenere lo sguardo fermo sulla strada accigliato come prima, ma le nostre mani erano intrecciate e non perché fossi stata io a farlo. Un modo semplice e banale per tentare di rassicurarmi, forse per farmi sperare che in un modo o nell'altro tutto sarebbe andato bene e che avremmo superato anche questa.
Mi scrutò con la coda dell'occhio, muovendo impercettibilmente le labbra e portando la mano libera a tracciare una linea orrizontale sul collo: Non dire niente o ti ammazzo.
Sorrisi nascondendo la faccia nel sediolino. Mi sarebbe piaciuto rispondergli, ma evitai di farlo per non metterlo ancora più in imbarazzo di quanto già non fosse. Quella stretta di mano non serviva solo a me, ma a tenere lontano per un po' i demoni che stavano silenziosamente divorando dall'interno anche lui.



La piccola casa di campagna della dottoressa Lee era come isolata dal resto del mondo: non si sentiva niente e non si vedeva nessuno, quasi sembrava che nemmeno gli animali amassero stare da quelle parti. L'unica cosa che pareva animare quello spettaco era il vento gelido che scuoteva gli alberi, rimasuglio del temporale appena passato. Era tutto troppo buio per i miei gusti.
«Herstal, se riesci ad uscire da sola dall'auto prometto che ti porto in braccio fino a un letto.»
«Grazie per l'offerta, ma mi basta tu mi permetta di poggiarmi a te per raggiungere la casa.»
Scivolai fuori dal veicolo e avvolsi il braccio attorno al collo di Jonathan, zoppicando a fatica sino all'ingresso prima di cadere a terra e trascinare lui con me. Fare le scale non era così semplice come credevo.
«Nessuno ti avrebbe dato della femminuccia se avessi accettato la proposta di Jonathan.», mi prese in giro Ross.
«Aiutami e smettila di importunarmi.»
Ma anziché limitarsi a mettermi in piedi, Ross mi prese in braccio e varcammo la soglia aperta da Jonathan con un mazzo di chiavi datogli poco prima dall'uomo. Non mi faceva affatto piacere stare tra le braccia di uno sconosciuto simile, però ero consapevole che in quel momento non sarei mai riuscita a fare più di qualche passo da sola, così decisi di non fare altre storie.
Entrammo nell'abitazione, ritrovandoci in un piccolo corridoio completamente privo di ornamenti. Ross svoltò verso l'unica porta sulla destra, come se sapesse esattamente che lì avrebbe trovato il salotto e la cucina.
«Anya, ovunque tu sia vieni subito in salotto! Anya? Cazzo, Anya!»
«Non ti ho dato le mie chiavi per entrare quando– Che ci fai qui con loro due?!»
La dottoressa Lee, coperta appena da una vestaglia lilla, si bloccò sullo stipite della porta come sconcertata: evitai di chiederlo ai due uomini perché era fin troppo ovvio che in realtà la dottoressa non sapesse nulla della nostra visita.
Ross mi lasciò scivolare sul divano, sul quale Jonathan si era già sistemato da un pezzo.
«Ascoltami, Anya...»
«No, ascoltami tu, Ross! Sei un criminale e hai le chiavi di casa mia, sai quanto rischio ogni volta che vieni qui? E adesso fai anche evadere due pazienti dal mio ospedale? Cosa ti ha fatto credere di poterli portare qui?»
«Hijikata voleva ammazzarli. Mayer ha detto che–»
«Ah, quel disgraziato! Sempre pronto a mettermi in mezzo a questi casini!», urlò passandosi le mani tra i capelli, «Vorrei tanto sapere cosa ho fatto di male per meritarmi tutto questo.»
Jonathan, rimasto buono a fissare il soffitto, iniziò a sfasciare le bende che coprivano la mia gamba: «Possiamo rimandare i litigi a più tardi? Abbiamo un proiettile in una coscia.»
«Oh, vi prego. Io sono uno psichiatra, non un chirurgo o qualsiasi altra cosa vi serva!»
«Mi basta tu mi faccia vedere tutti i medicinali che hai... anche quelli presi tramite false ricette mediche e quelli che hai rubato dall'ospedale.»
La dottoressa Lee scosse la testa, biascicò qualche imprecazione e ci fece cenno di seguirla altrove. Ma la sola idea di dovermi alzare nuovamente mi faceva impazzire, e supplicai i due di non farmi muovere da quel divano.
«Ross, cerca antidolorifici, antinfiammatori, qualcosa che funga da sedativo... So che Anya ne fa uso.»
«Non trattarmi da idiota, conosco casa sua più della mia. E so cosa serve in questi casi.»
«Perdonami, non ti facevo tanto intelligente.»
L'uomo ignorò le parole di Jonathan e sparì al piano di sopra; l'altro restò seduto al mio fianco con uno strano sorriso stampato sul volto. Un sorriso fastidioso, dannatamente fastidioso.
«Smettila, pazzo. Mi da sui nervi quella faccia.»
«Nervosa?»
«Mi vuoi togliere il proiettile e non sei un medico. Come dovrei sentirmi?»
«Ah, ma sarà Ross a farlo. Credimi, non sarebbe la prima volta...»
«Peggio ancora. Non mi fido di lui.»
Si voltò a guardarmi ridendo: «Bugiarda. Tu ti fidi di me e dunque anche di lui, perché è una persona che stimo.»
«Addirittura lo stimi? Che può aver fatto di buono nella sua vita un ladro del genere?»
«Sei ancora troppo legata al concetto largamente condiviso dalla massa per comprendere che in realtà una brava persona non dipende solo da quanti crimini ha o meno commesso. Sarebbe il caso tu cambiassi il modo di vedere le cose, perché non sei più una persona qualsiasi con la fedina penale pulita... Adesso sei un’assassina. Hai o meno ucciso qualcuno poco importa, lo sei e basta, soprattutto dopo aver reagito alla tua condanna in ospedale con l'evasione.»
«Ma io non ho commesso quell’omicidio!»
«Ma a nessuno importa quello che dici tu. Rassegnati: sei un criminale come me, come Ross, come tanti altri prima di noi. E lo resteresti comunque anche se magicamente si fossero convinti del contrario: se per loro tu fossi davvero innocente, vorrebbe dire che qualcun altro di non identificato è colpevole.» Si fece più vicino, puntando i suoi occhi nei miei come a volermi intimidire. «Dimmi, Herstal, dormiresti sonni tranquilli sapendo che un folle omicida è dietro le sbarre tenuto a bada da psicofarmaci e guardie armate, o sapendolo fuori da qualche parte, probabilmente intenzionato a ripetere l’opera? Le persone comuni non vogliono la verità ad ogni costo, le persone comuni vogliono solo vivere tranquille gli anni a loro disposizione, senza preoccuparsi che un potenziale mostro giri per la loro città ad uccidere loro simili.»
«Inoltre Hijikata non mi avrebbe mai fatto uscire, nemmeno se avesse avuto il mondo contro.»
«Ti sbagli. Da quell’ospedale prima o poi ci saresti uscita, invece, ma non viva.»
Storsi le labbra in un segno di disappunto: immaginare la propria morte non è una cosa simpatica, soprattutto se tutti i modi che ti passano per la testa sono estremamente lenti e dolorosi.
«E tu Jonathan? Se qualcuno avesse creduto che eri innocente per l’omicidio di tua sorella ti avrebbero lasciato andare?»
«Io, a differenza tua, non ho mai avuto nessuno disposto a credermi. Joshua, Anya, Kline, Crystal, Candie, gli altri pazienti… Eccetto Hijikata, nessuno ha mai dato credito alle mie parole, nessuno ha mai dubitato nemmeno per un istante che fossi colpevole. Nemmeno tu.»
«Io ammetto di considerarti fuori di testa, ma non penso tu abbia ucciso tua sorella.»
«Stai mentendo come al solito.»
«Nemmeno Joshua pensava tu l’avessi uccisa.»
«Piantala, Herstal.»
«Nemmeno noi, se ci tieni a saperlo.», disse la dottoressa Lee tornando nel salotto con Ross, «Che tu abbia qualche disturbo mentale è assodato e penso tu ne sia consapevole… Però ti conosco fin troppo bene: in uno scatto d’ira potresti uccidere davvero qualcuno, ma non lei.»
La dottoressa Lee e Jonathan si scambiarono qualche altra battuta, però io non ascoltai: ero impegnata a osservare Ross stendere un vecchio lenzuolo sul tavolo e a preparare tutto il necessario per rimuovere il proiettile dalla gamba; iniziavo a sentire l’adrenalina girarmi in corpo.
«Okay, se voi due avete finito di discutere direi di spostare la ragazzina sul tavolo.» I tre mi guardarono; rimasi in silenzio cercando il coraggio per dire che ero pronta. Non uscì niente dalle mie labbra. «Te la stai facendo sotto, Nebraska?»
«Giuro che se sbagli qualcosa─»
«Herstal, dacci un taglio.»
Jonathan mi sollevò di peso, visibilmente stanco e annoiato dalle mie parole, e mi stese sul tavolo sistemato a dovere. Controllò di nuovo che non mancasse nulla e, dopo aver fatto qualche raccomandazione sottovoce, si avvicinò al mio lobo sinistro, sussurrando: «Herstal, non permetterei mai a Ross di fare una cosa simile se non fossi sicuro che ne è davvero in grado.»
Deglutii, sorrisi nervosamente allungando una mano al viso di Jonathan per portarlo ancora più vicino. 
«Venderei l’anima al Diavolo pur di non fidarmi di te, adesso.»



Molto meno di un’ora dopo, ero stesa su un letto, quasi allo stremo delle forze: rimuovere quel proiettile non fu la cosa più piacevole che mi fosse capitata, ma il semplice fatto di esserci già passata una volta mi permise se non altro di essere meno nervosa durante l'operazione e di rendere la vita facile a Ross. Aveva fatto un buon lavoro, e riempirmi di farmaci mi aiutò a non soffrire più di quanto non potessi sopportare. 
La camera degli ospiti in cui mi avevano sistemata era vuota, poco vissuta e senza alcun tipo di ornamento, proprio come il resto dell'abitazione. Eppure era stata tirata a lucido nel modo migliore possibile da qualcuno che, probabilmente, non era mai stato abituato a farlo; Jonathan si era inoltre premurato di cambiare le lenzuola prima di portarmi in stanza, infatti profumavano ancora di pulito e di lavanda, un odore che io amavo alla follia. Non sapevo se quella fosse una semplice coincidenza o gli avessi parlato del profumo che mia madre metteva ovunque, ma quando lui entrò in stanza non osai chiederglielo: preferivo che tra noi regnasse il silenzio perché ogni volta che uno dei due apriva la bocca,  l'altro si metteva d'impegno per fargli saltare i nervi. 
Si sedette sul bordo del letto dopo aver chiuso a chiave la porta, non mostrando nient’altro che la sua solita espressione di indifferenza ed apatia che con fatica riusciva a staccare dal suo volto. L'unica cosa appena percettibile era il nervosismo intuibile solo dalla sua abitudine di affossare le dita nel tessuto dei pantaloni: voleva dire o fare qualcosa, ma non era certo fosse  il momento adatto.
«Jonathan, parla. Sei insopportabile quando fai così.»
«Ti piace la camera? È un po’ spoglia ma –»
«Va bene così, mi ricorda casa mia anche se con meno cianfrusaglie… E poi non ho mai avuto una stanza così grande, è bello.»
Sorrise appena, iniziando ad accarezzarmi i capelli. «Ne avrai una ancora più grande.»
«E dove?»
«Di certo non qui negli USA. Più restiamo fermi, più probabilità ci sono che ci trovino. Dobbiamo andare via il prima possibile.»
«Non sei costretto ad aiutarmi ancora, e nemmeno a scappare con me.»
«Cos'altro potrei mai fare? I miei genitori sono morti e i tuoi ignorano totalmente la tua esistenza, mi sorella è stata uccisa e lo stesso è toccato a Candice e ai Collins. Condividiamo a grandi linee un destino simile, tanto vale farci compagnia.»
Non aveva detto nulla di particolare, eppure preferii non replicare. I nostri discorsi in ospedale, eccetto rari casi, si limitavano a chiacchierate generiche che evitavano con cura qualsiasi cosa si riferisse al nostro passato o a cose che potessero, in qualche modo, riportare alla mente aneddoti spiacevoli; lui sapeva qualcosa di me anche se non ero stata io a dirglielo, al contrario io non sapevo nulla di lui che non riguardasse sua sorella. Avevamo lasciato che fossero le parole non dette a sovrastare sui nostri discorsi, praticamente non potevo definirlo nient’altro che un semplice conoscente, eppure con quelle poche frasi aveva reso chiara la sua intenzione di non lasciarmi perdere e semplificarsi così l’esistenza.
Jonathan spostò lentamente la mano dai miei capelli alla guancia, arrivando a sfiorarmi le labbra. Era così duro in volto, eppure le sue dita passavano sulla mia pelle con una delicatezza che offuscava la logica dei miei pensieri – o forse erano i farmaci. Mi stavo rilassando troppo e, anche se non volevo che ciò accadesse, non trovai la forza per chiedergli di smettere.
«Sarà difficile andare via, molte persone sapranno presto chi sono. Non ci riusciremo.», dissi riacquistando per qualche secondo la lucidità.
«Con le giuste conoscenze è possibile fare un bel po’ di cose.»
«Di chi stai parlando?»
«Non fare domande, non sono problemi di cui devi occuparti. Al momento limitati a riposare, sei ancora molto debole.»
«Conosci gente della criminalità organizzata? Quella seria, intendo, non semplici ladri come Ross.»
«Non mi spiego come tu riesca a trovare sempre la forza per sprecare ossigeno inutilmente.»
«Se non mi darai delle risposte c’è il rischio io continui all’infinito.»
«Sei insopportabile.»
«Perché non vuoi rispondermi?»
«Non sono obbligato a farlo.»
«Ma sarebbe carino tu lo facessi.»
«Nebraska, dormi.»
Sentirgli usare il mio nome anziché il cognome mi fece irrigidire sotto le sue carezze. Suonava così… strano detto da lui che quasi sembrava non fosse sicuro di potermi chiamare in tal modo; fu come se in quell’istante avessimo fatto un passo avanti nel nostro rapporto, e avessimo completamente smesso di essere due pazienti chiusi in uno stesso ospedale psichiatrico.
E mentre io pensavo queste cose, Jonathan si chinò fino a sfiorare la pelle del mio viso con i suoi capelli scuri. Fu un bacio leggero, casto, che poteva a stento essere definito tale per la poca pressione che aveva esercitato sulle mie labbra; eppure era talmente carico di affetto che per quanto mi sforzassi di ignorare quel suo gesto, sperai non si allontanasse da me, o almeno non troppo in fretta.
Avvolsi le braccia attorno al suo collo, lo strinsi a me con quel po’ di forza che avevo e lasciai che le sue labbra si impadronissero delle mie, che scendessero fino al collo e mi facessero sentire di nuovo amata e voluta dopo tempo.
Ma poi mi morse e io tornai nel mondo reale, quello dove io ero una fuggiasca, lui un presunto assassino e un altro criminale era ancora a piede libero. Mi allontanai di scatto, spostandomi verso la metà di letto rimasta vuota fino a quel momento, in silenzio, con i ricordi che riaffioravano di colpo e mi mandavano in tilt.
«Mi aspettavo una reazione simile.», disse di punto in bianco, sorridendo. Io continuavo a non dir nulla poiché non sapevo cosa pensare, cosa credere, cosa volere, e i ricordi mi impedivano di formulare periodi di senso compiuto da poter condividere. «Non ho fatto questo perché ti amo, probabilmente non ho mai provato nessun sentimento di affetto che superasse l'amore fraterno, e sono certo tu ne sia consapevole. Volevo solo testare una cosa, ed hai reagito come immaginavo.» Si alzò, girando intorno al letto per venire nella mia direzione. «Tu e quell'uomo avete –»
«No, ti sbagli. Non è mai successo.»
«Allora con Christopher? Ma onestamente propendo di più per la prima ipotesi, sono certo tu abbia sempre visto il figlio dei Collins solo come un buono e caro amico di infanzia a cui rivelare qualche segreto di poco conto. Perché per quelli più importanti c'era Lui, quell'essere che ti ha amato così tanto da addossarti parte delle sue colpe.»
«Non sai quel che dici.», sibilai appiattendomi contro la testata del letto.
«Invece lo so bene, Nebraska. L'hai visto davanti ai tuoi occhi mentre ti baciavo, no?»
«Ti ho detto che non è così.»
«Forse l'hai visto ogni volta che qualcuno ti stringeva o accarezzava i capelli, in ogni stupida e banale dimostrazione d'affetto. Volevo sperare ti fossi liberata di quel parassita che ti ha divorato il cervello per tutto questo tempo, sia prima che durante la peranenza in ospedale, ma evidentemente permetterti di fare quel che più desideri in un Paese dove nessuno ti conosce non basterà a spezzare l’ultima catena che ti lega a quella persona.»
Diedi un pugno alla testata del letto, ormai al limite della pazienza: «Cazzo, lasciami in pace! Tu non sai chi è lui, non sai quanto può essere subdolo quell'uomo e come riesce sempre ad ottenere ciò che vuole!»
Jonathan sorrise. Mostrò gli inicisivi con una macabra ombra di puro divertimento, come se avessi appena detto qualcosa di poco sensato.
Si avvicinò al letto, spostandosi sul materasso fino a distare dal mio volto soli pochi centimetri; istintivamente mi sarei scostata, ma in ospedale mi aveva ripetuto sino alla nausea che in casi simili era meglio reggere lo sguardo e sembrare privi di alcun timore, dunque rimasi impassibile cercando di scorgere in anticipo eventuali sue azioni dalle dubbie intenzioni.
Scostò le coperte e infilò una mano nella tasca del mio pantaloncino – reso tale da un paio di forbici che poco prima cercavano di farsi largo verso la ferita da arma da fuoco.
Afferrò l'oggetto che avevo dimenticato al suo interno e me lo chiuse tra le dita, lasciandomi un leggero e rapido bacio sulle labbra come a volermi prendere in giro.
«Ne riparleremo poi, Nebraska, quando forse capirai che io so molte più cose di te.»
Jonathan andò via, ignorando i miei vani tentativi di richiamare la sua attenzione.
Sarei dovuta restare a riposo, cercare di recuperare le forze perdute dormendo il più possibile, ma il pezzo della Regina Bianca che stringevo tra le dita impediva al mio cervello di starsene tranquillo. Sapevo che aprendolo avrei potuto scoprire qualcosa di impensabile o che non mi sarebbe piaciuto, eppure quando vidi cosa c'era su quel piccolo foglio arrotolato al suo interno quasi mi mancò un colpo. Rimasi impietrita, con la carta logora e consumata tra le mani e gli occhi sgranati per lo stupore.
Su di essa erano state segnate con una grafia poco chiara e insolitamente irregolare solo due brevi parole.
Un nome.
Quel nome.



 




──Note dell'autore──
Che fossi in ritardo con l'aggiornamento era prevedibile; che non mi scusassi per questo ritardo altrettanto. È che, come alcuni già sanno, non amo scrivere perché devo farlo, e non avrei mai pubblicato un capitolo che non mi convinceva del tutto: terminata la prima bozza, l'ho cestinata e ho deciso di non pensarci più per un po'; poi, ho riscritto tutto, e questo che avete appena letto è il risulato finale.
Come sempre, spero sia stato di vostro gradimento.
Ah, vi chiedo scusa: alcuni di voi si saranno illusi per quel bacio e me ne dispiaccio, ma sappiamo tutti che non sarebbe mai potuto scoppiare l'amore tra i due, no? Non è quel genere di storia.


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「Nitrogen」

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