Bollente

di Eriok
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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Elsa passeggiava, nella neve fresca, eterea, con quel vestito lungo e cristallino, ripieno di riflessi chiari come i raggi di sole che trasparivano lontani dai rami e dalle montagne.

Sfiorava alberi addormentati, ascoltandone i rumori brevi del vento che soffiava dolce.

Era tornato l'inverno con delicatezza, come la natura e gli anni imponevano, e lei adorava l'inverno. Tutto quel bianco, così candido, innocente.

Si era allontanata dal castello, oberata di impegni e stanca del continuo cinguettare dei suoi assistenti per il governo del fiordo.

Camminando con tranquillità sulla neve fresca, notò che si era assai allontanata dai confini del paese, raggiungendo la foresta. Ricordava bene quel tragitto, era la stessa via di fuga che aveva usato per fuggire, tempo addietro, una vita fa. Il suo sguardo si rabbuiò, e cambiò direzione, non salendo, ma scendendo, raggiungendo i limiti della spiaggia.

Lì, camminando tra i ciottoli ghiacciati, sentì un rumore lontano. Di voce femminile.

Nascondendosi fra le fronde innevate, scorse da lontano Anna, intenta a mettersi dei pattini bianchi, farfugliando su quanto i nodi siano difficili da fare. Era vestita di una gonna verde che scendeva delicata sui fianchi dolci, e si stringeva al petto con un corpetto nero, e una giacca in pelliccia nera. In testa il cappuccio calato, forse per non essere riconosciuta.

Era passato un anno ormai dalla lontana “estate congelata”, e il fiordo, così come la gente, prima quasi del tutto ignorante su chi fosse a governare il paese, ora vi erano due fanciulle conosciute ai più per aver salvato tutti dal freddo glaciale.

I poteri di Elsa furono stranamente ignorati, come se fosse lecito ad un sovrano essere al di sopra della normalità. E questo fu una felice sorpresa per la nuova regina.

Anna, esultando felicemente, riuscì a legarsi gli stivaletti, alzandosi in piedi. O almeno, ci provò. Rovinò in modo scomposto sul ghiaccio, scivolando lentamente verso il largo dell’acqua.

Si alzò, ricercando l’equilibrio. Ripetendosi, come in un mantra, delle parole che in lontananza Elsa non riusciva a percepire.

Continuò ad osservarla, da lontano, nascosta dietro agli alberi, come quando da piccola la osservava al di là della grossa vetrata della sua finestra.

La giovane donna dai capelli rossi iniziò a pattinare in modo scomposto, cominciando prima di tutto ad andare in avanti senza inciampare, né cadere.

Si era scelta una zona sicura della conca, abbastanza lontana dal paese ma abbastanza vicina alle montagne da non rischiare rotture del ghiaccio perché troppo sottile. Ma arrischiarsi su una superficie non perfettamente liscia come il ghiaccio creato dalla sorella era pericoloso. Poteva trovare un dislivello, una scalfittura invisibile all’occhio che poteva farla rovinare a terra in modo scomposto, magari anche rompendosi una caviglia.

La sorella maggiore, con discrezione, picchiò il piede a terra, creando una scia di ghiaccio che, nel propagarsi, corresse quelle imperfezioni senza farsi scoprire da Anna, intenta a rimettersi in piedi per l’ennesima volta.

Senza che se ne accorgessero, da lontano, oltre il piccolo ponticello e il porto, si notava un vascello in avvicinamento. Erano gli emissari della Terra del Fuoco, regno neonato con un oscuro presagio per il piccolo regno di Arendelle.

 

«Avete visto la regina, messere Kristoff?» domandò la domestica, guardando il giovane dai capelli biondi, apparso dal portone trasportando ghiaccio.

«No, mi spiace, Gwenda, non l’ho vista oggi, e nemmeno Anna, se per questo...» il suo sguardo si crucciò «Ieri mi aveva detto che avrebbe dovuto imparare a fare una cosa, ma non mi ha detto cosa...» ammise, e slegò Sven dalla slitta, lasciando la povera domestica alla ricerca sfrenata delle due giovani sorelle.

«Dove si è cacciata quella ragazza?!».

 

«Woah!» e il rumore sordo del suo fondoschiena si sparse per la piccola spiaggia, ennesimo tentativo fallito. Ma per Anna il gioco era appena incominciato. Si era messa in testa che doveva imparare a pattinare, per poter regalare poi a sua sorella una tranquilla pattinata per il fiordo senza scivoloni.

Si era intestardita, e quando lo faceva, era peggio di un toro. Niente la fermava dall’ottenere ciò che voleva. Lo faceva per se stessa, ma soprattutto per Elsa.

«È per Elsa che lo faccio, forza Anna! Alzati!» ma scivolò l’ennesima volta, crollando sul ghiaccio scivolando lontano. Troppo lontano.

Si guardò intorno e si accorse di essere sola, in mezzo alla conca, lontana chilometri dalla sicura spiaggia e dalla terra ferma. E andò in crisi, iniziando a trascinarsi in modo spastico e scoordinato, ottenendo l’effetto contrario.

Dal versante opposto il vascello avanzava solenne, con un’aria minacciosa. I colori caldi, e forti della bandiera e delle vele contrastavano con forza i colori ghiacciati del fiordo di Arendelle.

Elsa, dalla spiaggia, notò lo sconforto di Anna, e si domandò cosa potesse fare per aiutarla. Con orrore notò che il vascello straniero avanzava nel ghiaccio con calma e tranquillità, senza incontrare ostacoli, intorno a lui il ghiaccio si scioglieva.

«Ma come...?» dimentica di aver celato la sua presenza, uscì allo scoperto, il vascello andava dritto verso il porto. Niente di strano, insomma, a parte gli stemmi mai visti dalla regina. Il problema era una povera pattinatrice imbranata in mezzo alla traiettoria.

Elsa scattò, saltando abilmente sulla superficie ghiacciata, le scarpe di cristallo sembravano non toccare terra, una folata di vento gelido si abbatté sulle vele della barca, in contrasto con la sua direzione, cambiandone drasticamente la rotta. Ma Anna, accortasi del pericolo che stava correndo, non sapeva cosa fare per smettere di scivolare verso l’inesorabile declino.

La regina correva leggiadra sul ghiaccio, arrivando in poche falcate alla sorella.

«Anna!» la chiamò, e la giovane si girò, la sua espressione passò dalla disperazione alla felicità.

«Elsa!» e le tese la mano, prontamente afferrata dalla bionda. La regina si era accorta che la barca continuava ad avanzare. Il ghiaccio si sgretolava, ritornando acqua, a pochi metri dalla polena della nave, una fenice intagliata che inesorabile avanzava contro di loro pronta a trasformarle in cibo per i pesci.

«Fermati!» urlò la regina, irrorando le distanze della sua magia che usciva forte dalle sue mani. Il ghiaccio si cristallizzava sempre di più, e il getto funse da aiuto per entrambe, a scivolare lontano dalla barca, Anna attaccata alla vita della sorella, incapace di rimanere in piedi senza supporto. Si allontanarono quel tanto che bastò per mettere in salvo entrambe. Anna tremava, in ginocchio, afferrata alla vita di Elsa, mentre questa osservava i marinai del vascello commentare la magia accadutavi davanti. Eppure il blocco di ghiaccio creato dalla regina si sciolse in pochi istanti, a contatto con la nave. Come per magia.

«Scusami Elsa...» borbottò Anna, tremante di paura. La sorella le strinse le spalle, abbracciandola.

«Stai bene, Anna?» domandò, controllandole il viso. La rossa rispose annuendo.

«Sì, sto bene ma chi sono quelli?» domandò, guardando il vascello, ora innocuo, lontano da entrambe. «E soprattutto, perché si scioglieva il ghiaccio, Elsa?» ma la regina rimase muta, non conoscendo la risposta. Gli occhi fissi a guardare lontano, mentre la nave attraccava.

Per la prima volta in vita sua, Elsa sentì un brivido freddo attraversarle la schiena.

«Non lo so, ma ho un brutto presentimento.».

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1

 

Mentre le due sorelle prendevano la via per ritornare al castello, gli occhi di Elsa, freddi come il ghiaccio d’inverno, osservavano la nave attraccata al porto. C’era un’aura intorno ad essa che le emanava un non so che di misterioso e il suo animo divenne preda della curiosità.

Nella mente ricordò la missiva sul suo tavolo della visita di emissari importanti. E lei non era lì ad accoglierli. Intimò ad Anna di accelerare il passo, e ignorò platealmente il brontolare della sorellina mentre raggiungevano il piccolo ponticello del porto.

Doveva arrivare subito su quel pontile.

Una sensazione strana, la stessa provata prima, le vibrava dentro le viscere, scombussolandole lo stomaco.

Non sapeva chi si sarebbe trovata davanti, e ora tutto il suo essere era risucchiato dalla curiosità. Mentre i piedi di sua sorella affondavano nella neve lei ne camminava sopra come sospesa dai suoi poteri, facilitandone il passo, tutto inconsciamente.

Come se il suo essere si stesse preparando a conoscere qualcosa – o qualcuno – di importante per lei.

 

«Benvenuti, signori, ad Arendelle.» mormorò Gwenda inchinandosi leggermente, mentre con gli occhi ricercava – in modo silente – la regina ritardataria.

«Benvenuti.» aggiunse Elsa, sbucando fuori dal nulla mentre Anna raggiungeva Kristoff poco lontano, rimanendo in disparte. L’uomo osservava con occhi dubbiosi il pontile che si abbassava per far scendere gli emissari giunti da lontano. Le Terre del Fuoco erano sulla bocca di tutti da mesi ormai, terra lontana, patria delle grandi eruzioni vulcaniche ancora attive. Terra ricca ma rude, rozza, ancora viva. Eppure, dopo molti combattimenti interni e di generazioni spezzate, si unificarono pacificamente sotto il regno della casata dei Brandjӓrn, che ora regna prospera e forte protettrice della propria gente, senza distinzione.

Dalla nave scesero un uomo e una donna, vestiti con abiti leggeri, estivi, e colorati con i colori del loro casato, il verde, il rosso e il bianco.

L’uomo era alto e palesemente a petto nudo, mostrando il fisico asciutto e muscoloso, le spalle larghe e la pelle abbronzata. I capelli castano scuro tenuti fortemente corti e gli occhi, neri, indugiavano sul mondo intorno a lui come confuso o non ben partecipe del grande momento che stava accadendo su quel pontile. Varie cicatrici solcavano il suo volto, così come il petto e le braccia, nascoste a volte da tatuaggi tribali.

Incrociò le braccia, non parlando. Fissò per pochi secondi ognuna delle persone lì presenti, soffermandosi di più sul ragazzo biondo che, intimidito, deviò lo sguardo.

«Quell’uomo è inquietante.» sussurrò all’amata, vedendo un suo breve accenno di consenso.

La donna invece, era leggermente più bassa dell’uomo al suo fianco, si muoveva sinuosa ma allo stesso tempo con passo militarizzato, come pronta a scattare e combattere per la sua terra e per la sua vita. Avevano entrambi un taglio di capelli praticamente identico se non nella lunghezza, leggermente più accentuata nella donna. Gli occhi invece erano di un profondo castano, e uno sguardo profondo e saggio, ma distante. Anche lei mostrava un fisico asciutto sotto i vestiti eleganti ma pratici, i colori del casato, una testa di leone ruggente in campo verde con contorno bianco.

Era in quest’ultima che Elsa si soffermò parecchio, rimanendo muta. Era rimasta come congelata dalla sferzata di calore che provenne da entrambi, soprattutto dalla donna che pareva più anziana di età rispetto all’uomo che l’accompagnava. Ma era l’aura intorno ai suoi occhi che la rendevano così intrigante per la regnante di ghiaccio. Non riusciva a decifrarli.

«Grazie per l’accoglienza.» sbiascicò la donna, parlando un accento dolce, sembrava cantasse. Elsa abbozzò un sorriso, indicandole il tragitto per l’interno del castello. Il piccolo borgo guardava i dignitari camminare di fianco alle donne vestite in pellicce gonfie e cappelli come se non percepissero il freddo pungente di quella terra. Come se fossero troppo abituati al calore da non sentirne la mancanza. Come se la Terra del Fuoco fosse radicata nella loro pelle.

Mentre camminavano Anna, da dietro la sorella più grande, notò il suo incedere curioso verso la donna, analizzandola. Aveva un vestito tipico delle terre del sud, infatti indossava pantaloni che stringevano alla caviglia, dove iniziava uno stivaletto ricamato. Alla cinta portava una daga, leggera e corta, anch’essa ricamata e ricoperta d’oro.

Un drappo unico di stoffa rossa partiva dalla cinta, in contrasto con i pantaloni verdi che strusciavano leggeri e stretti sui muscoli scattanti, e si univa appoggiando su un’unica spalla, con una spalliera in pelle decorata. Essa seguiva i movimenti del corpo, e ogni tanto si poteva scorgere – con grande sorpresa e vergogna di Anna – la fascia che stringeva il seno. L’uomo aveva lo stesso abbigliamento solo che invece del drappo rosso aveva solo una lunga fascia rossa che cingeva la vita, nascondendo la cinta, dove aveva appeso una mazza rozza e pesante.

Aveva ragione Kristoff su quell’uomo, era inquietante. Ma il suo sguardo mostrava altro, era spaesato, e seguiva la donna come se fossero legati da un filo invisibile.

Era curiosa, Anna. Non vedeva l’ora di cambiarsi – alla velocità della luce – e raggiungere i dignitari nel salottino privato, e sorseggiare cioccolata calda in silenzio.

Anche se avrebbero parlato di politica non le importava, voleva analizzare queste nuove persone giunte da lontano, e ascoltare le loro storie.

 

Elsa li accompagnò in dignitario silenzio nel salottino privato, dove tempo addietro suo padre riceveva i dignitari degli altri mondi lontani dal loro. Ricordava che doveva assistere, in rigoroso silenzio e con penna e fogli alla mano per prendere appunti e ascoltare, per imparare il suo dovere di regnante di questo mondo.

Sorrise mestamente, mentre entrò dopo l’uomo, alto due spanne più di lei, mentre la donna era solo una spanna in più di Elsa.

Anna, la più piccola di tutti, entrò trafelata, cambiatasi in modo frettoloso nella camera al piano di sopra, si sedettero e ordinarono da bere, prossimi ormai alla cena già imbastita nel grande salone.

La donna dai capelli corti parlò per prima, dopo aver sorseggiato un poco di quel liquido marrone caldo ma dolce.

«Conosco la vostra lingua, quindi non avremo bisogno di un traduttore.» informò, anche se ovviamente si sentiva palesemente l’accento delle sue terre. La principessa e la regina annuirono, mentre sorseggiavano la cioccolata calda appena servita da Gwenda.

«Volevo innanzitutto scusarmi per la fretta della mia visita.» iniziò a parlare, e Elsa ricordò che l’avviso era arrivato non meno di una settimana dalla loro effettiva partenza. Il viaggio durava decine di giorni, e i preparativi furono ultimati poco prima dell’arrivo della nave.

«Si figuri anzi, sono onorata della vostra visita. Sono assai interessata alla vostra situazione politica.» rispose Elsa, educatamente. Anna osservava silente, esultando internamente per il fatto che la donna avesse imparato la lingua del posto. Anche se si domandò quanto tempo ci avesse impiegato, visto la veloce ascesa al potere della sua famiglia.

«Era proprio di questo di cui volevo parlarvi, e privatamente.» e uno sguardo fulminante volò verso la donna dai capelli rossi che, sorpresa da quelle parole e dallo sguardo tagliente, poco ci volle che soffocasse con la cioccolata.

«È mia sorella, non ho niente da nascondere alla mia famiglia.» aggiunse Elsa irritata, leggermente infastidita dalle sue parole. Ma sorvolò, visto la poca documentazione che aveva su quella donna. E forse valeva per entrambe, visto che non sapeva chi fosse l’uomo al suo fianco, e lo osservò più approfonditamente. Non sembrava una guardia dall’aspetto.

Ignorò difficilmente Anna che tossiva, che cercava di non morire su quella poltrona, pulendo il cioccolato che era colato dal suo naso.

«Neanche io. Mi scusi, forse mi sono espressa male. Non ero a conoscenza che lei fosse lady Anna, la principessa.» e si alzò per chinare il capo. Anna rimase congelata. Prima si era sentita quasi offesa dalla freddezza con cui l’aveva trattata ma ora le sembrava quasi... gentile.

Fece un gesto per farle capire che non si era arrabbiata, e ricominciò a respirare, lasciando la tazzina sul tavolo. «Questo è mio fratello Enos, e io sono Elyce.» disse, presentandosi. L’uomo si alzò, si inchinò e mormorò un “piacere” appena accennato.

“Uomo di poche parole.” Pensarono inconsciamente le due donne di Arendelle.

«Sono venuta per avvisarvi di un terribile presagio di cui solo poche persone sono a conoscenza.» disse Elyce, andando subito al sodo. Elsa lesse nei suoi occhi la paura. Una grande e potente paura. «Il nemico che ha vessato per anni la nostra terra, costringendoci a camminare sulle ceneri dei nostri cari, è riuscito a sfuggirci via mare. Molti fonti indicano che potrebbe essere nelle vicinanze del vostro regno.».

Brutte, anzi bruttissime notizie.

Un nemico di un neoregno fuggito dalla sua giustizia ha attraversato l’oceano per chiedere asilo, in modo clandestino.

Era una bruttissima situazione, doveva gestirla in maniera neutrale e tranquilla.

«Capisco. Farò in modo di allertare le mie guardie con una dovuta descrizione e se lo vedremo vi avviseremo.».

«No.» intimò il fratello, guardando la regina con sguardo furente. «Ha ucciso nostra madre e nostro padre. Davanti ai nostri occhi. Tu devi ucciderlo.».

«En, non rivolgerti così a una regina.» ammonì la sorella, guardandolo in modo furente. Elsa vide il fuoco giocare nelle sue pupille, solo per un secondo, prima di sentire delle scuse secche da parte dell’uomo. Ritornò pacatamente nel suo silenzio, ma Anna non aveva perso neanche una parola e lo osservava tristemente, leggendo lo sconforto nei suoi occhi. Erano neri, ma erano pozzi di dolore. Ecco perché li vedeva così vicini. Sono rimasti da soli.

 

«Elsa, ti prego...» mormorò Anna, appoggiando la testa alla porta, il vestito nero si piegò leggermente al movimento «parlami...dimmi che sei ancora lì...non lasciarmi da sola...» ma, come sempre, sentì solo il silenzio e il freddo. Sempre quel maledettissimo freddo che le divideva. Si strinse nelle gambe, singhiozzando. Per un secondo le sembrò di sentire il respiro di sua sorella al di là del legno bianco. Ma si convinse che era solo una sua illusione.

In un momento del genere sarebbe corsa dalla madre, per un abbraccio.

Ma ora non aveva più nessuno ad alleviare la sua sofferenza.

Nessuno...

 

«Elsa...» Anna richiamò la sorella, le sembrava così fredda in quel momento. Come poteva non vedere? Le toccò leggermente la spalla, e lei si girò «Se è un uomo malvagio non sarebbe meglio catturarlo, o almeno indagare e cercarlo?» suggerì, con la voce piccola come lo era sempre nei momenti in cui doveva sembrare più una principessa che una esaltata.

Elsa la guardò e rifletté. Non era rabbia quello che leggeva negli occhi di Enos, ma odio. Era uno sguardo freddo, fatto di ferro e dolore. Passò gli occhi alla donna, e quasi ci cozzò, perché si incontrarono a metà, ognuna persa negli occhi dell’altra. Parlò lei per prima, spezzando quel momento che aveva incantato Elsa.

«Non è la vendetta che ci guida, Regina, ma-».

«Chiamami Elsa.» disse la bionda. E quasi si vergognò dell’intimità che le concedeva. Ma sorvolò. Sentiva che si sforzava a parlare in quel modo altezzoso. E capì solo in quel momento i pensieri di Anna. Erano rimasti soli. I genitori morti, proprio come loro.

«Elsa, non vogliamo vendetta. Vogliamo giustizia. Era questa la parola chiave di mia madre, e voglio rispettare i suoi dettami. Non voglio venir meno a una promessa. Deve essere giustamente punito per i crimini che ha commesso, secondo le leggi del mio popolo. E soprattutto, cosa che più mi preoccupa adesso, non voglio che faccia danno in un paese pacifico come il vostro.» sospirò, e strinse la mano di suo fratello, che era come sceso in trance, stringendo le mani convulsamente, fissando intensamente il pavimento. Il suo tocco sciolse la presa ferrea, e rilassò i muscoli, prima tesi del braccio e del petto del fratello.

I suoi occhi erano lucidi, ma non si permise quella debolezza, di farsi vedere in lacrime.

«Scusatemi.» e dicendo questo si inchinò velocemente e uscì dalla stanza silenziosamente. Elyce seguì con lo sguardo il fratello fino alla sua uscita.

«Scusatelo, non ha ancora-» le si spezzò la voce, e cercò di sciogliere il nodo che aveva in gola. Era duro, e pesante. Come il ferro. Ma bruciante come il fuoco vivo.

«Non scusatevi.» disse Anna, scattando in piedi, seguendo l’uomo fuggito via.

«Anna dove-» ma Elsa non fece in tempo a richiamarla, che era già fuori dalla porta.

«Impulsiva, eh?» domandò Elyce, con tono scherzoso. La lacrima venne risucchiata da un sorriso mesto.

«Sì, purtroppo.» sospirò la bionda.

«Forse tra animi affini si calmeranno a vicenda.» aggiunse la donna, sorridendo. Elsa ricambiò il sorriso.

Il silenzio calò, per qualche istante.

«È successo pochi mesi fa, poco prima dell’instaurazione del nostro governo. Mi sono ritrovata a governare un regno che pensavo ormai salvo sotto le mani di mio padre. Non sapevo niente né di politica, né di economia. Ho dovuto imparare tanto, e facendo figure non da poco sul campo. Ma il mio popolo crede in me, e io credo in loro. Se si fidano di me io non devo far altro che crederci. Sono una Regina, ho un popolo sotto le mie mani, interi villaggi sotto la mia custodia, e ho appena venticinque anni.» sogghignò. «Per mio fratello perdere i nostri genitori è stato pesante. Ho fatto di tutto, per proteggerlo, sin da quando era piccolo. Ma ora, che soffre, non riesco a proteggerlo da se stesso. E dal suo senso di colpa. Non gli permettevo nemmeno di combattere, se non c’ero io di fianco a proteggerlo.» le scappò una risata. «”Una donna piccola come me che protegge un gigante così, come può?” Sicuramente si starà domandando vero?».

Elsa non rispose. Gli occhi di lei erano passati dalla tristezza, al dolore, all’orgoglio, a uno sguardo che non capiva. Era misteriosa quella donna, Elsa lo sentiva a pelle. Avevano le stesse responsabilità, gli stessi dolori, lo stesso atteggiamento nei confronti dei fratelli minori.

Aveva chiamato Anna e Enos “spiriti affini” ma forse non erano loro quelli simili, ma le due donne sedute una di fronte all’altra a parlare come se si conoscessero da anni, e non da minuti.

Elyce lesse il silenzio della regnante come un incito ad andare avanti.

«Ho sofferto nel veder morire mia madre e mio padre, ma il dolore che non passa mai è veder mio fratello piangere per una colpa che non è sua.» sospirò, ricordando il passato «È stata colpa mia, se i nostri genitori sono morti. Ma lui incolpa se stesso.».

 

Erano all’ultimo fronte, prima della disfatta totale del nemico.

Elyce dilaniava membra, mentre il fratello – poco distante – faceva piazza pulita con il suo martello di ferro pieno, il sangue ricopriva i volti di entrambi, ma negli occhi vibrava l’adrenalina della battaglia. Pulivano la strada a chi osava avvicinarsi troppo ai futuri regnanti, e lo stavano facendo egregiamente.

Il padre, così come la madre, erano in mezzo al marasma di guardie e nemici suicidi che li affrontavano all’arma bianca, dove o uccidi o muori, anche se la battaglia era persa in partenza.

I cavalieri neri, intorno a loro, d’un tratto da numero minore divennero una valanga. Un piccolo distaccamento sorse dal nulla attaccando il cuore dei soldati verdi rossi che difendevano i due futuri regnanti.

Elyce, la più lontana, intuì troppo tardi  il colpo che stava per accadere, e cercò di farsi largo tra i soldati, colpendo a destra e a manca per raggiungere i genitori che lottavano all’ultimo sangue.

Enos, più lontano, si accorse dopo delle urla dei genitori e della sorella. E quando iniziò a muoversi verso i genitori vide il vessillo della casata crollare. Un urlo di vittoria sprigionarsi dalle fila nemiche.

I futuri regnanti erano morti.

I suoi genitori erano morti.

 

Come involontariamente Elsa si era avvicinata con la sedia sempre di più ad Elyce mentre raccontava la caduta dei suoi genitori. E quando sentì la sua voce spezzarsi nel momento finale, non frenò la mano dal correre alla sua. E la strinse. E all’inizio non capì perché si sentiva così felice nell’essersi avvicinata così tanto a quella donna, ma poi comprese.

Stava soffrendo, e nessuno vedeva il suo dolore – nemmeno suo fratello.

Aveva rivelato solo a lei quel suo senso di colpa, e non sapeva perché.

E sinceramente non le importava, in quel momento.

Voleva soltanto continuare a guardarla negli occhi, profondi e tenui, come il sole d’agosto quando ti sfiora le guance.

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2

 

Elsa la guardava negli occhi, e non muoveva un solo muscolo. La pelle di lei era così calda...non aveva mai sentito qualcuno così bollente come lei. Nemmeno quando toccava Anna aveva mai sentito un calore simile. Era così in contrasto con lei, così fredda...così glaciale.

«Mia Regina, la cena è serv-» ma Gwenda si fermò a metà frase. Lo scatto che aveva fatto Elyce e Elsa per allontanarsi l’una dall’altra, alzandosi in contemporanea dalle sedie era risultato molto evidente alla vecchia serva, così come non si era fatto scappare quella stretta di mano e quello sguardo che stavano condividendo fino a pochi istanti fa. Erano entrambe rosse in volto, e le parole di Elsa furono leggermente balbettanti verso Gwenda, che con lei parlava come a una seconda madre. Si morse un labbro.

«S-Scusa, dicevi Gwenda?» domandò la regina, intrecciando le mani al ventre, stringendosi le mani. Era completamente in imbarazzo.

«La cena è servita, mia regina.» rispose l’anziana e poi guardò in giro per la stanza, ma non individuò né la principessa Anna né il fustacchione pettoruto che aveva visto alla passerella. Sbuffò leggermente, delusa. Gli piaceva quel bel maschione. Le ricordava il fisico di Kai – suo marito – ai tempi d’oro. Aveva quasi ceduto all’emozione, al porto. Non aveva mai sentito così caldo quel giorno come quando aveva le caldane per la menopausa.

«Arriviamo, Gwenda. Cerca Anna per il castello, è andata con il nostro ospite...» e li cadde, la mente le fece un brutto scherzo, fermando la frase a metà. Non ricordava il nome del ragazzo.

Elyce le venne incontro, avvicinandosi alla porta, il suo rossore si notava di meno, su quella pelle scura. Ma era indubbiamente imbarazzata. Non le era mai successo una cosa simile. Perdere il controllo delle proprie emozioni e delle proprie parole.

Aveva parlato così naturalmente con quella donna affianco a lei, come se fosse il destino a legarle.

«Enos. Mio fratello è uscito per una boccata d’aria, il viaggio lo aveva scombussolato e la principessa Anna lo ha cordialmente invitato a fare un giro turistico del castello.» completò la frase per Elsa, guardandola di sottecchi. La bionda annuì, e Gwenda si licenziò con l’ordine di cercare in giardino sotto consiglio della regina.

Quando le porte si chiusero di fronte alle due donne, ci fu una specie di sospiro condiviso. Avevano come rischiato di farsi vedere, e Elsa non capiva questa sua tensione. E soprattutto il respiro trattenuto fino all’uscita della serva.

«Mi scusi per prima regina, io-».

«Elsa...non chiamarmi regina, per favore...» mormorò, girandosi a guardarla. Elyce rimase a fissare i suoi occhi. Il suo cuore capitolò alla dolcezza della sua voce, e dai movimenti tranquilli delle sue labbra colorate di velato rossetto. Rimase incantata dalla sua bellezza, e dalla sferzata di potente inquietudine nel suo animo, facendole sentire le farfalle nello stomaco.

«Elsa, scusami...».

«È colpa mia, mi scusi signorina-» la interruppe la regina.

«Elyce...chiamami Elyce, per favore...» Elsa non riusciva a sostenere quello sguardo...era troppo caldo e bollente sulla sua pelle. Le scottava, e se ricambiava lo sguardo sentiva come qualcosa sciogliersi dentro. E spingere a fare azioni non consone. Come la mano scappata al controllo del suo corpo prima.

«Elyce...» iniziò la bionda regina, ma non riuscì a continuare. La freddezza che di solito mostrava, quella compostezza così diversa dall’esuberanza della sorella, in quel momento l’abbandonò. Quel piccolo castello di cristallo che aveva costruito intorno a sé per evitare la vicinanza delle persone si stava letteralmente sciogliendo, cadevano torri di ghiaccio e gli scalini erano acqua. Irrorava calore, quella donna, e non aveva modo di fermarla. Era il sole. E Elsa si stava sciogliendo di fronte a lei.

«...È così bello, il mio nome, quando è la tua voce a pronunciarlo.».

Il punto di rottura venne superato e il rossore e l’emozione sgorgarono dalle sue mani come ghiaccio che veloce galoppava in ghirigori fantasiosi. Ma Elyce non si allontanò. Le afferrò le mani, stavolta con decisione e dolce fermezza, e i piccoli fiocchi di neve smisero di cadere.

Così Elsa fu due volte sorpresa e due volte emozionata. Come poteva, quella donna, fermare la sua magia inarrestabile? Che aveva rischiato di ghiacciare tutto il fiordo?

E perché le sue mani sembravano l’unico posto che ricercava come un assiderato ricerca il calore?

Le appoggiò un bacio di galanteria sul dorso della mano, e gli occhi sfrecciarono ai suoi. Era calore, era bellezza.

E Elsa si sentiva come una falena attratta dal calore del fuoco.

Ma la falena muore, a contatto con il fuoco.

Distaccò la mano con un sorriso cortese, ma Elyce lesse nei suoi occhi i tumulti che la muovevano e la sua paura. Si prefissò di non osare oltre. Anche se avrebbe voluto avvicinarla di più. Quella sverzata di fresco vento invernale la chiamava. Era ciò che non aveva mai provato, come una boccata d’aria fresca mai provata. Le distendeva i polmoni così come le stringeva il cuore. E capitolò di nuovo nella sua bellezza, osservandola in silenzio.

Aprì la porta con galanteria alla regina e, con poche parole formali, si diressero al salone dove avrebbero cenato.

Fu per coincidenza che videro Enos e Anna giocare, come due fanciulli, in mezzo alla neve.

Elyce ne fu felice, era da molto tempo che non vedeva suo fratello sorridere così ingenuamente.

Ma quasi si spaventò nel vedere che un pupazzo di neve da fermo quale era iniziò a muoversi di vita propria, lanciando anch’esse palle di neve, in mezzo a quel parco interno.

«Quella cosa...è viva?!» mugugnò, guardandola da lontano con sguardo spaventato. Era sbiancata.

Elsa sorrise in modo timido, la mano davanti alla bocca, e spiegò la natura di quel pupazzo di nome Olaf.

Fu difficile farla avvicinare, e ancor di più a credere alla sua anatomia. Era diffidente, e lo si vedeva in volto.

Anna la prese per mano, facendola avvicinare poco a poco. E le disse che non doveva aver paura di lui. Si strinsero la mano, in modo cortese, anche se Elyce ancora non capiva come potesse essere “vivo”.

Enos, d’altro canto lo accettò con noncuranza, come se fosse normale che un pupazzo fatto di neve si muovesse come mosso di vita propria e con pensieri propri.

Dopo la rimpatriata, il quartetto si avviò alla sala da pranzo mentre Olaf semplicemente svanì girando un angolo, la regina e la principessa facevano strada ai due dignitari stranieri, e Elyce guardò di sottecchi il fratello, con ancora il sorriso stampato in faccia.

«Allora...» iniziò la sorella, e Enos la guardò, curioso. Parlava abbastanza piano da non farsi sentire dalle due donne di fronte a loro «Vedo che hai legato molto bene con la principessa...» e il fratello esplose di vergogna, e le orecchie tesero al rosso. Sogghignò, quel segnale era insito nella natura del fratello. Lo conosceva troppo bene. Si grattò il retro del capo, scostando quel che rimaneva di qualche fiocco di neve sopravvissuto alla battaglia di prima.

«È simpatica, è intelligente, è divertente...è bella...» disse, guardandole le spalle, i suoi occhi a fissare il suo corpo – Anna stava parlando con Elsa della battaglia di neve, concitata – e i suoi occhi cadevano inesorabilmente verso il basso, dimentico del discorso ma non del tempo passato al parco.

 

Enos aveva raggiunto un alberello nato vicino al rio della fontana li vicino.

Era cupo, era triste, era disperato. Si asciugò con forza le lacrime che non si fermavano dal cadere. Non aveva ancora elaborato il lutto di mamma e papà ed eccolo li a piangere davanti a due perfetti sconosciuti.

«Non dovresti tenere tutto dentro. Piangere fa bene.» mormorò una voce dietro di lei, femminile. Ma stavolta non era sua sorella, a dirglielo.

Si voltò, era la rossa, la principessa. Come si chiamava...?

«Io...non stavo piangendo.» biascicò, poco convincente. La voce era roca e dava tutti i segni di quello che era stato un pianto sussurrato, colto solo dalla luna lucente nel cielo.

«Io penso che piangere faccia bene. Ti svuota.» continuò, ignorando la banale scusa del ragazzo. «Solo...non si dovrebbe piangere da soli.» e rivide in lui se stessa, quando piangeva davanti a una porta che non si apriva, e che faceva sentire tutto il freddo che la sorella emanava.

«Io non stavo piangendo.» stavolta lo disse con più convinzione. «Sono adulto ormai, non sono più un bambino. Non posso più permettermi di piangere.» disse con tono altezzoso, guardandola cercando di traspirare forza. La sua schiena, così come le sue spalle si rizzarono, cercando di mostrare tutta la sua altezza.

«Ah, ok...allora...» si chinò, raccogliendo un poco di neve nelle mani «Sei troppo bambino per... QUESTO!» e la palla di neve collise con il volto dell’uomo, che non si aspettava un colpo del genere.

La ragazza sorrise, e scappò, pronta al contrattacco.

Enos si tolse la neve dal volto, ancora sconvolto da quell’azione poco diplomatica. Gliel’avrebbe fatta pagare.

“Oh, eccome che te la faccio pagare.” Pensò, per la prima volta, sorridendo.

Quella ragazza aveva fatto più di quanto pensasse. Gli aveva tolto di mente i pensieri cupi con una battaglia a palle di neve epica.

E ricordò il suo nome, stampandoselo nel cuore: Anna.

E sorrise, perché in quella fredda giornata di inverno, lei era il sole che lo rischiarava dalle cupe nubi del lutto, allontanando il peso della scure di ferro arrugginito che pesava sopra la sua testa.

 

«Ah...» Enos la guardò sottecchi, la vide sogghignare. «Beh, hai sempre avuto un debole per le rosse...» aggiunse Elyce, e vide un sorriso beffardo spuntare.

«Non ci provare nemmeno.» sentenziò, guardandola con occhi fulminanti «È già fidanzata.» disse, con tono serio e velatamente deluso.

«Io non ho detto niente, En...sei tu che te lo sei detto da solo.».

«Uhm...» mugugnò il ragazzo, cercando una risposta da dire alla sorella. Riusciva sempre a zittirlo, ad avere l’ultima parola in un discorso, e non riusciva mai a ribattere se non poche volte.

«Come se non vedessi gli sguardi che lanci alla regina.» Elyce si irrigidì, persa anche lei a guardare la schiena di Elsa che, con fare gentile e composto, ascoltava la sorella e di tanto in tanto sorrideva, con la mano che copriva quel sorriso che sarebbe stato capace di spaccare il ghiaccio in due. «Dopotutto ti sono sempre piaciute le bionde, no...?» i capelli di Elsa si spostarono e la dolce treccia cadde sulla schiena, rimbalzando morbidamente al movimento del passo.

«Già...» mugugnò, anche se gli occhi non badarono al fratello ma bensì ai movimenti di Elsa.

Il modo in cui camminava, così fiero, naturale, e allo stesso tempo così dannatamente...sexy.

«Ma almeno la mia non è fidanzata.».

Silenzio.

“Enos zero, Elyce uno.” Si annotò la ragazza, sogghignando, lo sguardo complice rivolto al ragazzo “bel tentativo fratellino, ci hai provato...almeno.”.

E con quello chiuse la conversazione, lasciando un En stizzito e una Elyce con un sogghigno sul volto per tutta la sera.

 

 

Elyce si chiuse la porta alle spalle, appoggiandosi ad essa. Il volto stanco, e la pancia satolla di quelle che erano state le pietanze più buone mai assaggiate. Dieci giorni di nave l’avevano provata, e il suo stomaco ora era contento di essere tornato a cibi più commestibili del pesce arrosto.

«Uff!» sbuffò, finalmente contenta di essere nelle sue stanze private, da sola, libera di potersi finalmente riposare e spogliare di quegli abiti pomposi e buttarsi nel grandissimo letto a baldacchino che le sussurrava dolci sogni. Si levò le vesti - troppo eleganti – e indossò il pigiama da viaggio, pantaloncini corti e, liberatasi da quella fascia che le costringeva il petto, indossò una canotta.

Stava per aprire le lenzuola perfettamente piegate ed entrare in quel tugurio di “morbidosità e relax” quando un bussare alla sua porta interruppe le sue fantasie di riposo.

Aprì la porta subito d’istinto, senza sapere chi fosse, stizzita.

Diventò viola alla vista di Elsa. Maledì la sua brutta abitudine di dimenticarsi in che luogo fosse.

«Ehm...» la regina aveva ancora la mano sospesa a metà, davanti alla porta. Alla vista dell’ospite in abiti da camera così “succinti” spense la miriade di pensieri che l’avevano affollata prima.

Elyce, d’altro canto, non parlò proprio. Era rimasta bloccata, completamente gelata dall’imbarazzo che la vedeva lì, in pigiama, di fronte al regnante di cui era ospite.

«Volevo...» iniziò a parlare Elsa, cercando di chiudere quel momento di imbarazzo velocemente. Gli occhi non si staccavano dalla scollatura di lei. Era veramente molto provocante. E profonda. Deglutì. «Volevo sapere se volevi aggiungerti alla festa in tuo onore.».

Elyce meditò a lungo, non per l’idea della festa – doveva obbligatoriamente andarci, visto che era in suo onore – ma bensì per lo sguardo della regina che non accennava ad allontanarsi o a spostarsi dal suo fisico. Si sentiva divampare. E per un secondo – molto vago – le sembrò di leggere negli occhi di lei il desiderio di possedere ciò che stava guardando.

«Ecco...io...non ho niente da mettermi.» confessò, sorridendo mestamente.

Elsa ritornò velocemente alla realtà, e portò lo sguardo ai suoi occhi. Il cuore a mille.

«Ma potrei farmi prestare qualcosa da mio fratello...» affermò, e il suo sorriso spense i tumulti del cuore della bionda.

Elsa si licenziò velocemente, percorrendo il corridoio con passi veloci. Lo sguardo di Elyce la seguì per tutto il corridoio, ammiccante. Vedendo come, da lontano, si malediva da sola per come si era comportata.

Il suo struggimento si poteva leggere lontano un miglio, e Elsa si avviò al salone. Ma il batticuore, così a come quel rimescolamento delle interiora e il tormentarsi il labbro non passò. La mente tornava sempre a quella scollatura – decisamente troppo profonda – che aveva fissato durante il dialogo con lei.

“Bel modo di comportarsi, Elsa.” Si rimproverò da sola “ma cosa ti salta in mente?!”. Ma i suoi pensieri si spensero quando vide Elyce entrare dalla porta, spegnendo il vociale della sala e dei dignitari delle terre vicine per concentrarsi alla sua entrata.

Indossava un completo da uomo – giustificato come abitudine strana del loro paese  – eppure era incantevole. I pantaloni stretti alle cosce, terminavano al ginocchio con un paio di stivaletti da cavallerizzo, la giacca richiamava i gradi più alti del suo paese e il colore predominante era il rosso fuoco.  I capelli, laccati, erano riportati all’indietro, e pareva un uomo in tutto e per tutto alla sala, che la confusero con suo fratello.

Venne letteralmente assalita dai dignitari, presentazioni su presentazioni, sorrisi, ammiccamenti e momenti imbarazzanti alla scoperta di come una bellissima donna in abiti militari stava facendo strage di belle donne in quel salone in cui la temperatura era salita di molti gradi.

Sorrideva a tutti, in modo indistinto, se non per qualche sguardo dolcemente infuso di lussuria a qualche donna che aveva il coraggio di civettare con lei. Le sue mani erano ricoperte da guanti bianchi, e i movimenti delle sue mani, così come le sue labbra, non sfuggivano ad attente signore che letteralmente scalpitavano per un ballo.

La musica, in quel salone, era per la maggior parte d’accompagnamento, perché i balli iniziavano solo quando la regina – o chi in sua vece – iniziava a danzare con il personaggio più importante del salone.

La sala era sfarzosa, notò Elyce, colonne reggevano un soffitto a volta decorato di affreschi che richiamavano il paradiso, la musica piacevole, i camerieri servivano bicchieri pieni di un liquido caldo e dolceamaro chiamato idromele, e la donna ne aveva già bevuti abbastanza.

Si permise di lasciare la regina lì, sul trono, ad osservarla per qualche tempo. I suoi occhi non si staccavano da lei, e vedeva come ogni signora – di età giovane – quando le toccava le mani, o si avvicinava un po’ troppo al suo viso le causava una reazione palpabile nell’aria. I suoi occhi sprigionavano un’emozione che Elyce riconobbe subito, e ne fu lieta: la gelosia.

Era vestita in maniera elegante e straordinariamente sensuale, la regina, con quel vestito azzurro a cristalli così inverosimilmente uguali al ghiaccio, e la corona sulla sua testa la rendeva bella come una rara gemma di inestimabile valore. Portava un copri spalle fatto di pelliccia bianca, e gli occhi erano glaciali. Poteva sentire il freddo scivolare lungo la sua figura, e Elyce godette di ciò. Le piaceva, in modo in cui la desiderava, eppure non accennava ad alzarsi per raggiungerla. Altezzosa e intrigante. Bevve un sorso di idromele. Doveva contenersi solo un altro po’, e poi...

Si licenziò dolcemente dalla dama al suo fianco, e si avvicinò al trono, inchinandosi. La sala si fermò dal vociare una seconda volta, trattenendo il respiro. Tutti volevano sapere come la regina avrebbe reagito alla domanda più fatidica della sera.

«Mia regina, mi concede l’onore di questo ballo?» Elyce parlò, guardandola con quegli occhi caldi e sensuali a cui Elsa non  riusciva a resistere. Ella si alzò dal trono, lentamente, avvicinandosi passo dopo passo a lei, e Elyce assaporò ogni suo passo con dolce piacere. I suoi fianchi, le sue mani...era quasi febbricitante, tanto il desiderio che trasudava in lei di concedersi almeno un ballo con quella figura così alta e regale tanto straordinariamente affascinante.

I loro occhi non si staccarono, eppure Elsa godette – stranamente – di come si era concessa a lei – e soltanto a lei – di ballare. La desiderata tutta per sé e lei, che mai aveva avuto desideri egoistici, si sorprese di come si stava divertendo giocando con quel fattore. La mano sospesa della dignitaria toccò quella della regina, stringendosi in un’apoteosi di sensazioni.

Lei era il fuoco, la bruciante passione dei sensi, la scottante bellezza del proibito e concesso.

E riconobbe in se stessa il ghiaccio, l’inespugnabile fortezza di solide lastre di compostezza e raffinatezza. In sé così bella così come pericolosa. Elsa sapeva che, in cuor suo, poteva permettersi di ballare con lei solo per quel motivo. Si giustificò così, ignorando lo sguardo di Anna e della plateale espressione di sorpresa, conoscendo come la sorella mai aveva concesso un ballo a nessuno. Mai, fino a quel momento.

Elsa tremò leggermente, a contatto con le sue mani, ma il suo tocco – così familiare e caldo – la tranquillizzò con una stretta dolcemente decisa. In lei regnava ancora la recondita paura di ferire qualcuno con quelle emozioni che non riusciva a controllare.

«Sì.» disse, con poco fiato, sorridendo impercettibilmente.

Si diressero al centro della stanza, e gli occhi erano tutti a fissare quella coppia che, di primo acchito, mostrava tutti gli aspetti di un contrasto unico.

Il rosso con il blu.

Il castano con il biondo.

La femminilità in una e la bellezza androgina nell’altra.

Si avvicinarono, ormai perse in quel momento dove esistevano solo loro, al centro di quella stanza.

I loro occhi, così come le loro mani, assaporavano ogni momento di contatto che potevano avere.

E la musica partì.

Una musica lenta, dolce, di valzer sussurrato, riempì le orecchie degli astanti, ammaliati dalle figure così perfettamente congiunte la centro della sala, le sole a danzare quel ballo tutto loro.

«Non pensavo che avresti accettato.» sussurrò Elyce all’orecchio della regina, nel mentre di una giravolta. La bionda voltò lo sguardo, il suo volto era così dannatamente vicino da poter vedere ogni singolo dettaglio: la pelle lucida e scura, gli occhi inebriati e profondi, le labbra fruste e sottili...

«È la prima volta che succede.» ammise, ritornando a concentrarsi sui passi. Ma non era abbastanza forte, come distrazione.

«Sono lusingata e onorata.» disse, non scostando lo sguardo da lei. Elsa poteva quasi percepire il calore del suo respiro sul suo collo scoperto dalla pelliccia. Era una cascata di piacevoli brividi.

«Siete intrigante e misteriosa, mia regina.» ammise, e gli occhi di lei tornarono ai suoi, curiosi. «Non ho mai incontrato qualcuno come te nella mia vita. Sei perfetta.» l’emozione della regina scaturì dalle sue mani ma, come se le avesse letto nel pensiero, Elyce riuscì a contenere – senza la minima fatica – l’esplosione di ghiaccio da lei.

«Come riuscite a fare questo...?» domandò Elsa in un sol fiato, conscia che quello che riusciva a fare non era nell’umana concezione.

«So fare questo e altro...» ammiccò, sorridendole in modo beffardo. Elsa divampò d’imbarazzo, scostando lo sguardo.

«Non sono perfetta come pensi, Elyce...» ammise la bionda, il volto cupo «Sono stata chiamata “strega”, per colpa di...questo.» e con lo sguardo indicò le mani. Ancora le bruciava quella brutta sensazione di inopportuno che le creava quelle parole.

«Lo siete...» e lo sguardo di Elsa scattò a lei, e Elyce vi lesse la rabbia, la delusione, per un barlume di un momento. Poi la sorpresa durante il caschè, portando i loro volti così vicini abbastanza da percepire le parole sussurrate «...perché mi avete stregato il cuore.».

L’azzurro cozzò con il castano, leggendo l’emozione e irrorando calore, e la mano sulla schiena era bollente e allo stesso tempo piacevolmente eccitante. I loro volti così impercettibilmente vicini al bacio, all’apoteosi dei sensi.

Un applauso spezzò la magia, riportando le due donne alla realtà. Si staccarono, i loro sorrisi che trasudavano imbarazzo e i volti rossi – emozione mascherata – mentre inchinandosi accettavano i complimenti dei presenti. I balli ricominciarono subito, e le due donne si videro separare da altre persone che volevano danzare con loro.

Elsa ammise un malumore e si licenziò dalla festa, la mano sul cuore che non smetteva di correre.

Quando si chiuse la porta dietro di sé, poté sentire ancora l’emozione di prima premere sul suo petto.

Ci era andata vicina. Molto vicina.

La falena non riusciva a staccarsi dal fuoco.

Appoggiò la testa allo stipite della porta, prossima alle lacrime.

“Cosa mi sta succedendo...?” fu quello che continuava a domandarsi, per tutta la notte, dormendo a fatica, sognando continuamente di essere in mezzo ad un incendio da cui non poteva scappare e, ormai prossima alla morte, venir salvata da Elyce, prendendola in braccio e stringendola in un bacio passionale da strapparle il fiato, risvegliandosi ogni volta col fiatone e tutta sudata.

Anche se non fu l’unica a passare una notte tormentandosi su cosa stesse realmente accadendo.

Elyce passò la notte tra sogni concitati e momenti di silenzio a fissare le stelle, rodendosi l’anima su come quella donna – appena conosciuta – fosse già entrata nel suo cuore. Aveva paura, tanta.

Ma quel nuovo mondo – dove la magia non causava motivo di nuove guerre e odio – l’aveva inebriata e ammaliata, portandola a fare cose che si era promessa di non fare più.

Si guardò le mani, e le strinse a pugno così forte da rendere le nocche bianche.

Che fosse un segno del destino, forse?

Gli dei le stavano concedendo una possibilità di remissione, con lei? Poter finalmente liberarsi di quel peso opprimente che portava da anni?

 

 

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3.

 

Il sole era sorto in modo pacato quel giorno, e la brina ancora disturbava la superficie dell’erba nata nel cortile interno alla reggia di Arendelle. La regina si era svegliata stanca, memore della nottata passata a sognare strane cose di cui non ricordava la trama. In veste da camera, si stava dirigendo con calma alle cucine per una leggera colazione quando, passando davanti alle vetrate del corridoio, vide con sorpresa qualcuno allenarsi con foga al piano terra, in giardino.

Elyce, dopo aver dormito qualche ora in modo pesante, si stava allenando con foga con una spada lunga e bianca in mano, lanciando fendenti mortali ad un nemico inesistente. Elsa sorrise, perdendosi a guardare i suoi movimenti fluidi, studiati e composti. Veloce e scattante, e talmente presa nel combattimento da non notare il fatto di essere osservata.

Si fermò per tergersi il sudore e si girò a guardare la regina, sentendo la sua presenza alle spalle. Era in veste da camera, una lunga vestaglia azzurra, impreziosita con ricami.

«Buongiorno.» disse, il volto leggermente dorato di rosso.

«Buongiorno.» rispose Elyce, con il fiatone. Rifoderò la spada, e cercò di rendersi presentabile. L’elegante treccia della regina contrastava con i capelli ribelli e disordinati della bruna, non ancora toccati da quando era scesa dal letto.

«È una bella giornata, no?» la regina guardò il cielo, libero dalle nuvole.

«Già.» mormorò Elyce, guardandola. Era incantevole, e bellissima, anche di prima mattina. «Almeno, per me è bellissima.» ribadì, sogghignando. Lo sguardo della regina si colorò di curiosità.

«E come mai, di grazia?» chiese, notando l’atteggiamento con cui l’aveva detto.

La mora si avvicinò.

«Perché siete voi a renderla tale.».

Elsa rimase muta, imbarazzata di nuovo dalle parole fuorvianti e allo stesso tempo maliziose della donna.

«Avrei una domanda da farle, Elyce, se non le dispiace.» la donna non capì quel suo atteggiamento chiuso, e con un cenno le chiese di continuare. «È consuetudine, dalle vostre parti, parlare ad una donna in questo modo...?» aveva soppesato le parole, ricercandole, per paura di offenderla, o peggio. Ma stranamente Elyce, invece di offendersi, iniziò a ridere.

«Dalle mie parti, come dite voi, Elsa, non è consuetudine che una donna si comporti e si vesta da uomo, che porti un’arma, che sappia usarla e che parli con le donne in modo malizioso come faccio io.» disse, sogghignando. Elsa era ancora più confusa. E le si leggeva in volto.

«E allora come mai...?».

Elyce la interruppe fermando il suo parlare con un dito appoggiato alle sue labbra, vicinissima al suo volto.

Le cinse una mano intorno alla vita, portandola aderente al suo e Elsa, presa alla sprovvista, non la fermò nel suo agire.

«Perché, Elsa...» le parlò, accarezzandole il volto. «...io posso.». e sorrise, ridendo.

Elsa si staccò, contrariata. Si aspettava una risposta diversa da quella.

Ma guardarla ridere, mentre cercava di scappare da una palla di neve improvvisata le cancellò il fastidio prima provocato. Dopotutto era vero.

Lei era o non era la regnante della Terra del Fuoco?

Si avviarono verso la cucina ridendo, mentre dal lato della montagna un uomo incappucciato con in mano un binocolo aveva osservato la scena per intero.

Una donna bionda si avvicinò, sensuale ed elegante. I capelli ricci si muovevano fluenti e liberi sulle spalle, trattenuti da una coda. Gli occhi, verdi, trasmettevano energia e leggeri brividi a chi li fissava.

«Allora, che si fa? Io mi sto annoiando.» disse seccata all’uomo appostato, più anziano della giovane donna che aveva parlato. Gli accarezzò una spalla, dolcemente.

«Non ti preoccupare, tesoro mio. Il momento propizio si sta avvicinando.» disse, e baciò con foga la giovane bionda. «Dobbiamo solo aspettare un altro po’, promesso.» negli occhi della ragazza si poteva leggere il desiderio, e il bisogno.

Ma negli occhi di lui, neri come la pece, si poteva leggere un solo sentimento. La vendetta.

 

 

 

Tre mesi fa – Terre del Fuoco

 

«So di non essere perfetta, Elyce, ma per favore credimi! È stato solo un equivoco!» la donna parlava alla figura di fronte a lei, era bionda, con una coda elegante che faceva scivolare i capelli ricci sulle spalle in modo sinuoso, le vesti in disordine, colpevole la troppa fretta nel metterli. Il collo mostrava evidenti segni di succhiotti, e di morsi.

Ad ogni sfuggevole sguardo rivolto a lei scivolava dagli occhi – così verdi, emanavano una scossa di vita che adorava sentire sulla pelle – alla palese dimostrazione del suo tradimento. Quei morsi, qui baci, quelle labbra rosse che non erano più suoi.

«Un equivoco.» disse, la voce fredda come non lo era mai stata. Non era mai stata così glaciale, lei che il fuoco ce l’aveva nell’anima.

«Sì! Ti prego, non mi lasciare!» piagnucolò la donna, prendendole il braccio. Lo scatto di Elyce la sorprese, si videro divampare scintille dallo scatto. Era la scossa che aveva acceso il suo orgoglio ferito.

«Non mi toccare.» scandì ogni parola con forza e autorevolezza. Ora i suoi occhi vibravano di fuoco nero, più nero della pece, e di odio. Rabbia, invasione della sua anima fino alla più piccola scintilla di essenza.

Lo poteva sentire, divamparsi in lei, la sensazione del tradimento, dell’onore e dell’orgoglio ferito.

Anzi no, del cuore spezzato.

«Tu mi hai tradito!» urlò, le lacrime scivolavano dal suo viso con prepotenza e così calde, scendendo sul suo viso distrutto dal dolore. Soffriva, come raramente le succedeva, e ancor di più mostrava la sua debolezza più grande alla persona che prima credeva l’amore della sua vita.

«Elektra, tu mi hai tradito con MIO FRATELLO!» sbraitò, le fiamme insorsero dalle sue braccia, l’odore di bruciato si poteva sentir vorticare nell’aria, l’odore di zolfo bruciava nei polmoni come se fossero nel centro più rovente di uno dei vulcani che circondavano le loro terre. Gli occhi dal castano si evolsero in cerchi irradiati di fuoco. Sembrava un mostro di indicibile paura e forza proveniente direttamente dall’inferno.

«Io ti ho dato tutto, ed è così che mi ripaghi?!» le fiammate si alzavano dal suo corpo, come se l’animo che ora irradiava la sua anima – la rabbia e il furore del dolore – uscisse letteralmente da ogni poro della sua pelle.

I capelli iniziarono a muoversi di natura propria, l’anidride carbonica stava letteralmente togliendo l’aria dai polmoni di Elektra. Un bruciore intenso la colpì alla spalla, e si accasciò a terra, stringendo l’arto ferito. Un odore di carne bruciata vibrava nell’aria, come accusa. Come punizione. Anche se non era solo la sua, di pelle ferita. E la mano che l’aveva ferita era di lei, che ora la guardava con occhi di fuoco.

Elyce stava letteralmente divampando, e la pelle si scioglieva ed evaporava, di fronte agli occhi increduli di Elektra. Il dolore era fulminante nel suo corpo, ma non come il suo animo.

«Se tu fossi stata più presente tutto questo non sarebbe successo.» rispose, fredda e fulminea. Le mani iniziarono a stridere, si sentiva nell’aria una tensione più potente del resto. Elyce, avvolta nelle fiamme, da rosse diventarono blu, e la voce cavernosa e gutturale, la pelle rossa e a tratti nera, mostravano i muscoli scattanti bruciati sotto la pelle ormai inesistente, i vestiti che lentamente si logoravano.

«Non darmi colpe che non ho! Tu mi hai tradito, non io!» e con il braccio indicò con forza la porta, che come toccata da una forte fonte di calore si aprì di scatto, come implodendo su se stessa.

«Vattene! E non farti più vedere!» sentenziò, e la ragazza si rizzò su in piedi, come presa da una scossa, si avvicinò talmente tanto da rischiare di essere bruciata dalle fiamme blu.

«Non dirmi cosa devo fare! Io me ne vado perché ti lascio!» e si sentì come il rombo di un tuono, nella stanza, pochi istanti e un lampo blu aveva scaraventato Elyce, completamente spenta della sua furia contro il muro, facendo cadere suppellettili vari e quadri.

«Tu sei un mostro, e io non mi farò rinchiudere in un castello fatto di mura di fuoco solo perché tu hai paura del mondo esterno!» sbraitò la donna, alle lacrime. La spalla urlava di dolore, ma piangeva di più la sua anima. E le lacrime che scendevano non si contavano più ormai. Il corpo vibrava, come presa da una scossa continua di dolore. Poteva sentire l’elettricità scorrerle nelle vene, a malincuore. Odiava quel suo aspetto fulmineo e immediato. E soprattutto, quel suo dannato potere.

Elyce, come niente, si tirò su, ferita nel corpo così come nell’anima.

«Se io sono un mostro, Elektra...» disse, guardandola mentre la pelle tirava su tutto il suo corpo. L’odore di bruciato impregnava la stanza così come la rabbia nella sua anima. Si sentiva tremare il cuore, e sentiva che non poteva resistere a molto, ma doveva scagliare quell’ultima lancia, e avrebbe ferito lì, dove non basta qualche benda e unguento a curare il male: il cuore. «Tu, che cosa sei?».

Sentì come un vetro spezzarsi, rompersi in mille pezzi e scagliarsi comprimendosi nell’aria eterea della sua anima, sentì il quadro – che traeva loro due, insieme, abbracciate e felicemente innamorate – cadere sul suolo del suo cuore, spezzarsi e spargere scaglie di dolore e lacrime.

Elyce sentì l’effetto che aveva provocato e le aveva gelato il cuore. E così come erano nate, le fiamme che ricoprivano il suo corpo svanirono, lasciandola lì, ferita e dolorante.

Si alzò in piedi, la pelle tirava e faceva male, ma così come era andata a fuoco, lei si erse come una fenice che rinasce dalle ceneri. E dal dolore.

«Vattene via, Elektra. E non tornare mai più.» la pelle, che lentamente tirava, si ricostruiva creando un rumore frivolo di pelle che lentamente scivola su qualcosa di rovente.

Elektra scattò, e fuggì, piangendo.

Quelle poche vesti, e quei capelli disordinati e ancora memori dei momenti di passione sparirono dietro lo stipite della porta bruciacchiato, i piedi nudi che rimbombavano per il corridoio di pietra scura.

Elyce si girò, guardandosi le braccia.

«Tsk.» mormorò stizzita, odiando quel suo scoppio. Si cambiò velocemente, rivestendosi alla meno peggio.

Guardò i danni intorno a lei, e fu come se fosse tornata su quel campo di battaglia.

 

Il vessillo che cade, e il dolore che si irradia. Sentì scoppiare in lei qualcosa come una bolla di odio e rabbia.

Non ricordava molto altro, a parte il dolore e l’odore di carne bruciata. Quando rinvenne suo fratello la guardava con in mano uno scudo fatto di metallo rozzo ricoperto di nero, fumante. Intorno a lei solo terra bruciata. I cadaveri sprigionavano fumi di odore acre e pungente dalle bocche nere e alcuni ancora sfrigolavano. All’inizio non intuì, ma poi capì cosa era successo. Enos la guardava con occhi spaventati, così come non l’aveva mai guardata. Era completamente nuda, in mezzo a quella desolazione di solo fuoco, alcuni focolai erano ancora accesi, poco lontano. Il vento iniziò ad alzare le ceneri dei morti. Quel giorno venne chiamato il Giorno Grigio. Sopravvissero solo loro due.

Si odiò, e si maledì. Non doveva succedere, non doveva.

Eppure lei era li, e la madre aveva visto giusto nei suoi occhi.

 

«Tu hai il fuoco dentro di te, Elyce, figlia mia. Non reprimerlo.» Elyce eluse la sua frase, ignorandola. Non voleva accettare quella maledizione che incombeva su di sé. Erano nella tenda del loro accampamento, tra poco avrebbero iniziato la battaglia finale, la disfatta del tiranno e finalmente l’unione delle Terre di Fuoco sotto il loro casato e protezione. Sotto il casato di suo padre.

«Ho dato alla luce una brava figlia, ma ho acceso qualcosa di molto più grande che una sola vita. Elyce...».

«Madre. Ti prego. Basta...» mormorò la ragazza. Non sopportava queste sue parole dolci. A lei, che era un mostro. I suoi poteri erano una menomazione del dono degli dei. Sua madre veniva da un casato molto alto, ma il padre era un semplice guerriero. Era una nobile sporca di nascita. Quei poteri non erano una benedizione, ma bensì una maledizione. Era una punizione degli dei stessi. Per ricordarle che non c’era posto per i mezzosangue in mezzo al banchetto dei guerrieri.

 

Ancora persa nel guardare l’ultimo spiraglio del fantasma del suo passato – Elektra - suo fratello entrò trafelato, si teneva le lenzuola attaccate al corpo nudo, i capelli scompigliati e gli occhi strabuzzati, scorgendo lo scompiglio e l’odore di bruciato. La guardò, impaurito.

«El...».

«Taci.» disse, con il tono spento. «Lasciami sola.» mormorò, con la voce stanca. Il volto, era stanco. Gli occhi erano rossi per le lacrime, e rivestita di stracci bruciacchiati, si inginocchiò a terra, stringendosi il petto.

«Elyce, scusami, io...».

«VA VIA!» urlò, e sentì di nuovo quella vena di orda entrarle nei polmoni e premere, per uscire. Ma non poteva. Le lacrime offuscavano la sua vista, e appoggiò la testa a terra. Il respiro affannoso e breve, sempre più veloce e corto, e il corpo scosso da convulsioni forti che la facevano sussultare sul posto.

Pulsava, il suo cuore, e straripava di marciume e dolore, ripiena di disgusto per se stessa, riscoprendo la vena del mostro che pulsava in lei, che usciva e feriva ciò a cui teneva di più.

Ma no, tutto poteva bruciare: lei, il suo castello, il mondo, tutto poteva bruciare.

Tutto, ma non suo fratello.

Tutto può bruciare, ma non lui... non di nuovo.

 

Quando il vessillo cadde Enos sentì l’esplosione di un urlo. E riconobbe la voce di Elyce.

E poi ci fu il fuoco, una fiamma alta e nera, come se un vulcano si fosse risvegliato in lei. Sgorgava fuoco e morte, e poteva sentire il calore propagarsi fino a lui. Lo scudo che portava al braccio lo protesse dalla prima ondata di fuoco esplosa da lei. I nemici caddero, spaventati.

«Un mostro, aiuto!» inveivano, correndo via, spaventati. Ma Elyce non ebbe pietà, per nessuno di loro.

Continuava a urlare, sua sorella, e il dolore si poteva udire ovunque, come delle unghie che grattano contro la superficie interna della sua anima, inondandolo di rabbia, sporcandola di sangue e lacrime, sperperando la voce al di là del Velo e richiamandoli dall’aldilà. Ma la madre non rispondeva all’urlo disumano di sua figlia.

Riuscì a scorgerla, da lontano, e per la prima volta in vita sua, Enos ebbe paura di lei.

Era avvolta da questa fiamma nera, che aderiva al suo corpo come magma che scorre sulla sua pelle, ricoperta di rosse ventate che la sollevavano da terra e – come se il destino volesse prenderla in giro – queste folate rosse disegnavano dietro di lei delle specie di ali, che la tenevano sospesa a mezz’aria. Un angelo del dolore, e del fuoco.

Gli occhi non erano che piccole scaglie bianche nel nero, così come quando scaldi talmente tanto il ferro da irradiare una luce da accecarti.

In quel contesto, dove il sangue evaporava e i corpi si carbonizzavano all’istante ad ogni ventata, Elyce sembrava un demone proveniente direttamente dall’inferno.

«Elyce...» mormorò, come chiamandola. Stava piangendo, di nuovo, e le lacrime solcavano il suo viso. «Scusami...» si inginocchiò, perdendo per un secondo la cognizione di dov’era e cosa stava succedendo.

La seconda ondata di calore lo irradiò, prendendolo di sorpresa. Era così potente e bollente che il braccio a contatto con il ferro dello scudo prese fuoco, bruciandolo. Quest’onda d’urto colpì tutta l’area, bruciando i fuggiaschi e chi – ancora – era vivo dalla prima ondata.

Il suo urlo, così come improvvisamente era iniziato, finì d’un botto.

La vide crollare a terra. Si guardò intorno, ferito e dolorante. Lo scudo – stranamente – era sopravissuto.

Era l’unico, in piedi, e vivo. Solo lui e sua sorella. Il silenzio ora era diventato assordante. Niente urla, niente voci di persone che scappavano. Solo il suo respiro affannato. E il vento.

Si avvicinò al suo corpo, o almeno così sembrava. Era raggrinzito, carne bruciata, eppure ancora respirava. La sentiva, rantolare, stesa a terra. E poi, lentamente, la vide rinascere dalle ceneri, la pelle che ricresceva, nuova e lucente. Pochi minuti e Elyce era lì, distesa a terra, a respirare, completamente nuda. Lui si avvicinò un altro po’, spaventato e cauto, con lo scudo ormai nero e bruciato, pronto a difendersi ancora una volta, il braccio pulsava di dolore.

Aprì gli occhi e si alzò, Elyce, e si guardò intorno.

Per un breve secondo non comprese cosa era successo, e poi capì tutto. Si girò cercando il fratello, e se lo vide di fianco, sporco e sanguinante.

«Enos...cosa...» e poi ricordò, il fuoco. E il mostro che aveva in sé, sempre represso, intrappolato, che aveva trovato la libertà nel suo dolore. Nella morte dei suoi genitori.

«No...» piagnucolò, e vide il suo braccio, completamente ustionato. «O mio dio, Enos, cosa ti ho fatto!» scattò, avvicinandosi, e lui d’istinto si ritrasse, spaventato che potesse essere ancora rovente.

Elyce si raggelò, vedendo come la guardava, e come si comportò.

«O mio dio...» disse, portandosi la mano alla bocca, stringendosi mentre le lacrime scorrevano. «Stai lontano da me!» disse, alzandosi, cercando di allontanarsi da lui, e inciampò in un corpo, ritrovandosi distesa in mezzo a scheletri neri. E la fissavano.

L’accusavano.

«Elyce, scusa io...».

«Stai lontano da me!» urlò, rialzandosi, sporca di ceneri. Le ceneri dei suoi nemici. Delle sue vittime. «Sono un mostro! Sta lontano da me! Ti prego.» lo guardava piangendo.

«Non posso sopportare di farti del male...ancora.» biascicò, cadendo in ginocchio stringendosi il petto. La testa appoggiata a terra. L’odore di cenere tutta intorno.

Il respiro diventò veloce e agitato, e il corpo preso di sussulti.

Il suo pianto riempì il vento che volava, placido, lungo la radura, trasportando le ceneri in ghirigori gentili nell’aere.

 

Enos, alla richiesta della sorella si allontanò, e lei lo vide. Il suo braccio, ormai guarito, era ancora ricoperto da quella patina traslucida della pelle bruciata. Ancora, nel suo cuore, maledì quel giorno e maledì se stessa. Odiandosi, e stringendosi cercò di contenere il dolore. La rabbia. Si rialzò, dopo così tanto tempo che le ossa e le giunture facevano male. Si cambiò e uscì. L’arte della spada l’aveva sempre calmata.

Enos guardava dalla finestra con occhi tristi sua sorella, mentre perdeva sudore nel muovere quella spada troppo pesante per le sue braccia. L’unica cosa rimasta di suo padre fu quel pezzo di ferro.

Una spada a due mani molto pesante, forgiata direttamente da lui, che prima era un fabbro, uno dei migliori.

Vi era inciso sopra il simbolo del loro casato, quello della loro madre.

Era l’unica cosa che possedeva, Elyce, e che usava per cercare conforto e allo stesso tempo punizione.

Lui, d’altro canto, aveva tenuto lo scudo. Era un regalo della madre, che reputava il figlio troppo impulsivo. Sorrise dolcemente all’idea che quello scudo lo aveva protetto non dai nemici ma dalla propria sorella.

Elyce cadde per terra, stremata, il sole ormai stava calando, e la sera stava giungendo.

Ma il suo volto non era cambiato, aveva la stessa espressione di prima. I loro occhi si incrociarono, per un secondo.

Enos li fuggì. Conscio dell’errore commesso. Di tutte le donne che poteva avere, aveva scelto quella più sbagliata. L’unica scusante – se non mezzo per cercare di ridurre il proprio senso di colpa – era il fatto che aveva bevuto troppo quella sera. Non ricordava nemmeno cosa era successo durante la notte, con lei.

Ma non serviva a niente, Elyce non parlava. E non lo fece, per settimane.

Alla fine, la vide sorridere, una mattina. Stava parlando con la nuova ragazza addetta alla cucina. E sorrise anche a lui. Fu un perdono sottile, e lento. Senza parole.

Ma è sempre stato così. E ci passò sopra, il ragazzo.

Inconsapevole del fatto che la sorella non aveva perdonato se stessa di ciò che era successo. E che si era convinta del fatto che lui non c’entrasse niente con tutto ciò. Era stato un mero strumento nelle mani della ragazza. Questo Elyce lo sapeva per certo.

“È una maledizione, quello che mi porto dentro. Sarebbe così facile, liberarsene. Ma non posso.”.

 

«Elyce, tesoro mio...» la madre la chiama dolcemente, la luna brilla opaca, ma è la madre che illumina la stanza. Il suo potere è sempre stato la luce. Dove voleva, ovunque andasse, rischiarava di luce. Ed era bella, illuminata durante la notte, ed era dolce e calda, quel brillio tenue che si portava dietro. Come la sua pelle, e il suo sorriso.

«Sì, madre?» la bambina gioca con il dito guardando quel fagotto piccolo nella culla, il nuovo erede dato alla luce.

«Mi fai una promessa?» chiese la madre, guardando la figlia, con i denti mancanti e il sorriso a groviera. I capelli ribelli e spettinati, come un ragazzino senza padrone.

«Certo, madre!» disse alzando la voce squillante, e il fagotto si mosse disturbato. La bambina, preoccupata, abbassò il tono e sussurrò uno “scusa” flebile e debole, quasi impercettibile. Non sapeva come mai, ma le era molto a cuore il benessere di quel bambino un poco cicciottello.

«Devi badare a tuo fratello, quando crescerà. È questo quello che fa una sorella maggiore, sai?». La bambina la guarda, stranita. Non capisce.

«È il tuo dovere di sorella, devi stare attenta che lui non si faccia male e che stia bene.» cercò di spiegare, sorridendole. Il bambino stringe a pugno il dito della sorellina.

È destino.

«Sì madre. Starò attenta.».

 

“Ti ho fatto una promessa, mamma. E la manterrò.”.

 

«Elyce, scusami se ti faccio questa domanda, ma è da ieri che ci penso.» Elsa era passata velocemente al tu, così come la mora, che camminava di fianco a lei verso le cucine.

«Dimmi.» e le sorrise dolcemente. Sentire il suo nome pronunciato dalla voce dolce ed elegante della bionda la inebriava.

«Quest’uomo che è scappato, che cercate, sapete chi è?». Lo sguardo di Elyce si ombrò, e Elsa si rammaricò della sua curiosità. Ma non poteva ignorare ancora a lungo quel discorso, prima o poi doveva affrontarlo.

«Quest’uomo che cerco, scappato alla giustizia del mio paese, che ha ucciso mia madre e mio padre in una imboscata e che fu il primo a dare inizio alla guerra civile, sì, lo conosco. E molto bene, purtroppo.» disse, con un velo di tristezza ma anche di dolore. Di rabbia. Le fiamme dei suoi sentimenti si potevano leggere al di là delle sue parole. Li sentiva ardere nel suo animo, e Elsa notò il suo cambiamento di postura – più rigida – e del parlare, più concitato. Si domandava sempre di più come mai questa donna, dall’animo così focoso e istintivo, riuscisse a contenere tutto dentro di sé, lasciando trasparire ciò che prova solo con gli occhi.

«Quest’uomo...è mio zio.».

 

 

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Capitolo 4.

 

«Vostro zio?» rimase stupita, Elsa, nel sentire quelle parole.

«Sì.» disse con amarezza Elyce, lo sguardo basso. «È il fratello gemello di mia madre, ma si ribellò quando lei prese il posto di mio nonno come erede della casa Brandjӓrn, invece di scegliere lui. Il suo rancore lo portò alla guerra civile. È una serpe in seno alla civiltà, quell’uomo.» strinse i pugni dalla rabbia.

Elsa camminava silente al suo fianco, le mani giunte al ventre, pensierosa. Lo sguardo che poggiava su di lei era saturo di pacata compassione, come un petalo accarezza il dito che lo sfiora.

«Avete provato a parlare? Fa pur sempre parte della vostra famiglia...» suggerì Elsa, ricordando il rapporto tra lei e sua sorella Anna.

«Sì. Anche mia madre ha provato a parlargli, numerose volte.» lo sguardo diventò ombrato da ricordi dolorosi. «Otteneva sempre astio da lui, e ne soffriva.».

Alzò lo sguardo, vide il fratello parlare con le guardie del castello.

«Io non saprei che fare, se lui...mi odiasse.» mormorò, dando voce alle sue inquietudini.

«Anch’io.» sussurrò Elsa, e si guardarono per un istante, collegandosi per un secondo che divenne era. Puri anni istantanei persi ognuna negli occhi dell’altra. Fu Elyce, stavolta, a scostarli. Aveva sentito una vibrazione nell’anima troppo forte. Ricordi dolorosi e il cuore che riprende a palpitare di un’emozione dimenticata e maledetta.

«Mi scusi, regina...» e con un breve inchino si girò, rinfoderando la spada.

Elsa la guardò con occhi dispiaciuti, non comprendendo il suo istantaneo allontanamento.

C’era qualcosa di sconosciuto nel suo cuore, la bionda lo aveva capito. Ma non sapeva ancora darvi una forma. O un nome.

Enos vide la sorella, e le corse dietro, chiamandola. Ottenne un ordine perentorio di non seguirla, bloccandolo sul posto, vicino alla regina. Gli bruciava nell’animo, quel tono di voce. Gli ricordava un’epoca che considerava dimenticata.

 

«El!» chiamò Enos, riuscendo finalmente a vedere la sorella uscita da una stanza. Lo guardò con occhi spaventati, si guardò intorno. Non vide nessuno. Non poteva...

«Giochiamo insieme!» disse, correndo verso di lei.

«NO!» le impose, intimandogli di fermarsi. Gli occhi erano colorati di rabbia.

Enos non capì che la rabbia era rivolta a se stessa, e non a lui.

«Non seguirmi.» gli intimò, e iniziò a correre per il corridoio. Sparendo dietro un angolo del corridoio, lasciando il bambino a giocare da solo.

 

«Cos’ho fatto?» disse ad alta voce, rivolgendosi di più a se stesso, che non alla regina di fianco a lei.

«Niente, Enos.» gli rispose, accarezzandogli un braccio, con occhi colorati di pensieri cangianti.

«Non è vero.» disse, scostando il braccio «Non è mai “niente”.» calcò l’ultima parola con forza «Non mi merito questa freddezza, se non ho fatto “niente”.» e gli occhi facevano trasbordare l’animo ferito del ragazzo. L’uomo si voltò, facendo lo stesso gesto della sorella, andando dalla parte opposta.

Elsa guardò entrambi camminare per i corridoi del castello, in opposizione.

E capì che c’era qualcosa di sospeso, tra i due fratelli, irrisolto. Forse, da anni.

 

 

 

I giorni nel castello sembravano uguali tra di loro, Enos ed Elyce aspettavano notizie che non arrivavano dalla guardia della regina Elsa. La regina della Terra del Fuoco mandava missive su missive, il suo regno neonato sentiva la mancanza di una regnante sempre presente, e questo pesava sulle sue sole spalle, confinandola nelle sue stanze per la maggior parte del tempo, a parte gli ormai quotidiani allenamenti mattutini. E le cioccolate consumate in compagnia di Elsa.

«Oggi sei più silenziosa del solito, Elyce.» disse Elsa, sorseggiando la bevanda calda.

La donna, vestita negli abiti regali, aveva lo sguardo perso verso il basso, le gambe incrociate e una mano sorreggeva la tazza sovrappensiero. «Elyce?» la richiamò la bionda, notando lo sguardo perso e la non risposta.

«Sì?» finalmente alzò lo sguardo, ma lo scostò subito. Rifugiandosi nella cioccolata ormai fredda. Il battito del suo cuore che accelerò per un secondo, sentendo la sua voce chiamarla.

«Cosa c’è che ti turba?» Elsa poggiò la tazza, tintinnando leggermente con il piattino. La biblioteca era silenziosa nei pomeriggi corti dell’inverno, e il fuoco che scoppiettava al loro fianco riscaldava la stanza in modo tenue.

Elyce poggiò la tazza, si sporse in avanti e incrociò le mani.

«Niente, Elsa. Stavi dicendo?» disse, sorridendo pacatamente.

«Non ho detto niente. È da mezz’ora che stiamo in silenzio, a bere la cioccolata, così come le volte scorse.» Elsa incrociò le caviglie, ed Elyce seguì il suo movimento con gli occhi, rapita «Cosa c’è che non va, Elyce?».

“Non posso dirglielo” pensò Elyce, diventando leggermente rossa, scostando gli occhi dalle sue gambe, evitando con disinvoltura gli occhi.

«Non ignorarmi. Per favore.» Si chinò in avanti, ricercando il suo sguardo. Ne aveva bisogno, Elsa, e non sapeva perché.

«Scusami.» e alzò gli occhi, Elyce, raccogliendo tutto il suo coraggio per guardarla e tutta la sua forza per non discostare lo sguardo. Si fissarono, per qualche minuto, e nessuno delle due parlò.

Quegli occhi, così caldi, le accarezzavano l’intima parte della sua anima, ricordandole un calore dimenticato. Sottile, e delicato, come un bacio appoggiato al volto.

«È per via di tuo fratello?» domandò Elsa, cercando di carpire qualche informazione dal suo sguardo.

“Tutto, fuorché questo.”.

«No, mio fratello non c’entra niente.» rispose, e scostò lo sguardo, ritornando al solito punto perso tra l’aria e il pavimento.

«A me sembra tutto il contrario. Lui ti vede meno di me. E questo per me è tanto.» affermò, osservandola. Elyce si passò una mano nei capelli e incrociò le braccia, appoggiando il busto allo schienale della poltrona.

«È normale, ho molte cose da fare, visto che sono lontana dal mio paese. È giusto così.».

«Non è vero, dovresti dedicargli qualche minuto del tuo tempo, così come fai con me. Mi metti in una difficile situazione, Elyce.».

«E perché mai?» lo sguardo della mora diventò tagliente, la ramanzina che stava ricevendo non le piaceva per niente.

«Perché mi sembra ingiusto che ti vedo di più io, Elyce, che non lui, che è tuo fratello.» e lo sguardo della regina diventò freddo e allo stesso tempo combattuto. «Non è giusto, e tu lo sai. Per cosa lo stai punendo?».

«Punendo?!» disse, alzandosi in piedi. «Cosa ti ha detto?!».

“Cosa gli ha detto Enos?!” iniziò a pensare la mora, elaborando tesi su di lui che gli parla dei suoi poteri, di lui che parla di come sia fredda e calcolatrice, di lei. Sua sorella. Un mostro.

«Niente, non mi ha detto niente, Elyce.» Elsa vide l’agitazione della donna, vide i suoi occhi ricolmi di paura, e di timore. Ma per cosa? Cosa nascondeva quella ragazza dalla carnagione scura e da un passato burrascoso?

Di cosa aveva paura, Elyce?

«Bene.» e si calmò, per un secondo. Poi si incamminò verso la porta, la finestra mostrava il sorgere del sole ormai. «Scusami, ma ora devo andare. È stato un piacere, Elsa, come sempre.» gli dava le spalle, la mora, e sentiva il suo sguardo su di lei. Poteva quasi immaginarlo. Lei sporta sul bracciolo, con quegli occhi così belli e dolci, che le supplica di restare. Almeno un altro minuto, e non di lasciarla lì, a metà di un discorso che la rendeva giudice e accusatrice, senza speranze di redimersi, e lei, Elyce, la colpevole e vittima.

Si girò, e vide quello che aveva immaginato farsi realtà. La guardava, Elsa, come per dire “non andare”. Ma la mora chinò di poco il capo, e chiuse la porta dietro di sé. Chiudendo il discorso scappando, come sempre, per evitare dolori ad entrambi, per evitare a lei di sbagliarsi, di essere nel giusto, di sperare in qualcosa che non doveva accadere.

Di non permettersi di innamorarsi di nuovo, non di lei, non di Elsa. Perché non poteva permettersi un altro sbaglio, un altro dolore.

Non poteva.

 

 

Elyce corre, corre nella foresta, sente che sta per scoppiare, e non può farlo. Non deve farlo.

Inciampa, cade giù da un dirupo e si scontra con qualche ramo, nella caduta, atterrando su un giaciglio di neve ghiacciata.

«Ah...» si rialza, Elyce, e si appoggia con una mano ad un tronco, che istantaneamente inizia a fumare, come a contatto con qualcosa di rovente.

«NO!» e stacca la mano, Elyce, come se si fosse scottata. L’impronta della sua mano si poteva scorgere sulla corteccia, marchiata a fuoco.

«No. No...No...» incrocia le braccia, e china sulle ginocchia inizia a dondolarsi. Gli occhi ricolmi di paura, di terrore, di dolore.

«Ti prego basta...» ma le mani iniziano a scoppiettare, come il fuoco appena acceso. La neve intorno a lei si scioglie, mostrando un terreno nero, duro, sterile. Rami secchi che iniziano a prendere fuoco intorno a lei.

«Fermati. Basta!» parla, Elyce, come una litania, ma è più una preghiera verso se stessa, che non verso gli dèi.

“Ti prego, fermati...” lo sente ribollire dentro di sé, quella foga, quel fuoco che mangia e divora la sua anima, che vuole uscire. Come un animale in gabbia, graffia le pareti e pretende di uscire, ruggendo e scalpitando.

«Ciao bellezza...» una voce la riscuote e la fa scattare in piedi, guardando un uomo incappucciato.

Ne spuntano fuori altri due, dalle sue spalle, armati di randelli.

«Cosa ci fa un bocconcino così da sola in mezzo alla foresta?» l’uomo che aveva parlato prima muove la spada con fare sicuro.

Elyce è spaventata. Ma non dagli uomini intorno a lei, ma dal potere che sente, non si è assopito. È pericolosa.

«Scappate, vi prego! Non voglio farvi del male!» mormora la ragazza, stringendo le braccia intorno a sé. Gli uomini non si accorgono che trema non per la paura, ma per evitare di scoppiare.

«Oh, stiamo tremando di paura...».

«Suvvia, dolcezza, non ti facciamo niente...».

«Sì, vieni con noi, che ci divertiamo.» l’uomo sogghigna, mentre la mano scuote il cavallo dei pantaloni.

«No...» Elyce mugugna di terrore. Non vuole altri morti sulla coscienza. Ne ha già a migliaia.

Il giorno delle ceneri già grava sulla sua coscienza.

Si sente una mano appoggiare sulla spalla.

«NO!» e l’uomo ritrae la mano urlando dal dolore, la mano ridotta a carne bruciata.

«Puttana!» gli urla l’uomo affianco, cercando di colpirla con il randello di legno. Elyce, inconsciamente, pone la mano nella traiettoria, e una vampata di fuoco riduce in cenere l’arma, rendendo vano l’attacco dell’uomo che, spaventato, si allontana e scappa.

«Mostro! Muori!» Elyce vide, con la coda dell’occhio la spada arrivarle sul fianco e lei chiuse gli occhi, pronta a sentire la fitta di dolore. Ma non arrivò. Aprì gli occhi e vide che l’uomo aveva lasciato cadere a terra il moncherino di una spada fusa e resa rovente.

«Mostro!» gli urla di nuovo, tenendosi la mano ferita. Una vampata di fuoco bruciò i due uomini intorno a lei. Gli occhi di Elyce erano rossi come il fuoco che la dominava.

«Non chiamarmi “mostro”.» Era fredda, distaccata, come lontana dalla paura che la dominava. Era cosciente che ora quegli uomini dovevano morire. Nessuno che vede il suo potere manifestarsi può rimanere vivo.

Il fuggitivo tornò con altri due uomini, pronta a ucciderla. Bastarono pochi istanti per renderli carne bruciata.

Così come si era accesa, Elyce, si spense in pochi istanti. Gli occhi tornarono castani, e riprese il controllo di sé. E così come tornò la coscienza, tornò la paura, tornò il terrore. E il disgusto verso sé stessa.

«No...» Elyce piange, e le gambe le vengono meno.

Altri cinque uomini che la fisseranno durante gli incubi, altre cinque anime che brameranno vendetta. Altre tacche sulla sua coscienza.

«Mi dispiace...Mi dispiace...» mugugna Elyce, sentendo la bestia dentro di sé ritornare al suo posto. Come soddisfatta.

«No...» le lacrime le impediscono di vedere l’ombra che la fissa dall’alto della radura.

Un sogghigno passa sul volto dell’uomo incappucciato, e svanisce, inghiottito da un’ombra nera.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


Capitolo 5.

 

I know you, I walked with you once upon a dream

[So chi sei, ho camminato con te una volta in sogno]

(Once Upon A Dream – Lana Del Rey)

 

Enos era appoggiato alla colonna del piano superiore del castello, che dava sul giardino interno. La luna era magnifica, quella sera, ma il ragazzo non vi badava, perché i suoi occhi erano concentrati su qualcos’altro, o meglio, su qualcun altro.

Anna, inconscia degli occhi di Enos su di sé, parlava con Olaf nel giardino, entrambi distesi a guardare la luna.

Enos la ammirava da lontano, osservandone i movimenti, ascoltando le risate che giungevano alle sue orecchie. Sorrideva mestamente il ragazzo, conscio che non voleva avvicinarsi di più. Per ora voleva solo guardarla. Guardare i suoi capelli rossi adagiarsi sul terreno, le mani muoversi verso il cielo, indicando le stelle. Perdersi nei meandri del suo corpo disteso e nei suoi pensieri, immaginando cosa nascondesse quella donna sotto le vesti...

Immaginò di essere lui Olaf, di poter vedere da vicino quel sorriso, di sentire solo lui la sua risata, anzi di essere lui a farla sorridere. Di essere solo lui quello che le sfiora il vestito con delicatezza, giocare con le sue ciocche, di essere lui a poterla baciare sotto la luna piena.

Le sue fantasie vennero spente dall’entrata in scena del biondo ragazzo di nome Kriguoff – o Krigoff , o Kristoff, non ricordava bene.

Anna si alzò e l’abbracciò, dandogli un bacio delicato sulle labbra. E tutto finì lì, lui si allontanò, dirigendosi alla stalla insieme a una renna – una renna, ma che razza di animale da compagnia aveva?! – e lei riprese a parlare con Olaf.

Ma che razza di fidanzati erano quelli?

 

«Ti presento il mio fidanzato, Enos.» disse la rossa, indicando un uomo biondo alto più o meno come lui. Gli strinse la mano, e sentì che la presa di lui non era per niente forte.

Non era per niente contento di stringergli la mano.

«Piacere.» mormorarono entrambi, reticenti a parlare. Anna passava gli occhi prima su uno e poi sull’altro cercando di carpire il motivo del loro comportamento.

Il trio, con il susseguirsi di Olaf, andarono in giro per il borgo, passeggiando per le vie.

E il ragazzo notava come si comportavano, e più li guardava più non capiva. Si comportavano come amici, per la maggior parte del tempo, e lui era peggio di lei in questo.

“Ma questo ha mai avuto una ragazza in tutta la sua vita?” pensò il ragazzo, scrutandolo.

«Anna.» bisbigliò Kristoff all’orecchio della ragazza «È da quando me l’hai presentato che mi fissa. È inquietante!» confessò all’orecchio della donna, mostrando disagio sul volto.

«Lo so!» rispose bisbigliando la ragazza, e andò a parlare al ragazzo, chiedendogli se andava tutto bene.

«Sì, tutto apposto.» e li guardò in maniera strana, prese il coraggio a due mani, e fece la domanda che gli frullava nella mente ormai da ore.

«Ma voi due da quanto tempo siete fidanzati?» domandò, e vide il rossore passare tra i due. Lui si grattò il retro della testa, sistemandosi il cappello in testa. Lei scoppiò in un risolino nervoso.

«U-un anno circa, vero cara?» rispose lui, imbarazzato.

«Sì, sì, quest’estate facciamo un anno.» aggiunse lei, prendendolo a braccetto, si voltò e lo guardò sorridente.

Enos perse un colpo al cuore.

 

“Un anno. Secondo me lui è vergine, da come si comporta con lei.” I pensieri, ora diventati di astio verso l’uomo si rispecchiavano sul suo volto. Sentì una mano sulla sua spalla e, colto alla sorpresa, si girò compiendo una presa di pressione sul polso.

«AHI!» urlò Kristoff, dal dolore.

«Oh, scusa, non mi ero accorto che fossi tu.» disse il ragazzo, mollando la presa. Ma, internamente, sorrise.

«Wow...sei forte...» disse l’uomo, stringendosi il braccio. Poteva ancora sentire la pressione sul polso, e gli faceva ancora male.

«Anni di allenamento.» rispose distratto, tornando ad appoggiarsi alla colonna.

«Oggi la luna è bellissima, vero?» domandò il biondino, guardandolo di sbieco.

“Proprio adesso vuoi intavolare una conversazione con me?” pensò il giovane, ma quando vide Anna incamminarsi all’interno del castello si arrese.

«Sì, bellissima. Non l’ho mai vista così vicina.» rispose, con tono neutro «Posso chiederti una cosa? Da uomo a uomo.» incalzò il ragazzo, fissando intensamente il biondo.

Lui si grattò la testa, deviando per un secondo lo sguardo. Platealmente in imbarazzo, parlò.

«Dimmi pure, Enos.».

«Ma tu...sei vergine?».

Il biondo rimase come bloccato un secondo.

«Come?» domandò, sperando di aver sentito male. O meglio, che il ragazzo avesse usato un termine sbagliato.

«Hai mai scopato?» riformulò in modo più plebeo la domanda, domandandosi se l’uomo di fronte a lui stesse evitando volontariamente l’argomento.

«Ecco...Ma sì! Che domande! Sono un grande donnaiolo io!».

«Bugiardo.» Enos aveva gli occhi fissi su di lui, come se potesse leggergli dentro. Era troppo strafottente, e il suo linguaggio del corpo diceva il contrario. Tutto platealmente il contrario.

«Ehm...» il silenzio calò sul dialogo «Ma Enos, tu non hai diciotto anni?» domandò il biondo, spiazzato da come un ragazzo così giovane possa già sapere tutto su...quell’argomento.

«Sì, e allora?» il ragazzo aveva un ciglio alzato «Nella mia terra a sedici anni diventi adulto, e puoi andare con le donne, per tua informazione.» Kristoff sbiancò.

«Oh...Davvero?» il biondo non sapeva capacitarsene.

«Sì... E al bordello mi conoscono come “Enos l’insaziabile”.» disse, tutto inorgoglito. Vide il biondo voltarsi, capo chino e schiena ricurva.

«Dove vai?!» chiese il moro, ma l’uomo era già sceso per le scale, lasciando Enos con un pugno di mosche.

«Mi sa che veramente quell’uomo è vergine...» disse, pensando ad alta voce.

«Cosa significa “vergine”?» la voce di Anna lo fece sussultare, girandosi di colpo.

«Cosa?!» Anna, dietro di lui, aveva il volto serio, le mani giunte dietro la schiena.

«Cosa significa “vergine”?» ripeté la rossa, fissandolo intensamente.

«Ehm...».

“Enos. Sei fottuto! Ecco cosa ti direbbe tua sorella ora!” e per un secondo pensò alla sorella che non vedeva da giorni ormai.

 

 

 

Elyce sa quale sporco lavoro deve fare. Tira, solleva, scava. Armata di un badile rozzamente inventato da un pezzo di legno, scava cinque fosse, per cinque uomini.

Libera i cadaveri dagli oggetti terreni, deve commemorare la memoria di cinque uomini, morti per colpa sua.

Trova un orologio fuso, un disegno che ritrae un bambino bruciacchiata.

Lacrime.

Scava, Elyce, conscia della colpa sulle sue spalle, eppure non si ferma. Non c’è tempo per l’autocommiserazione.

“Dopotutto, è colpa tua. Tu, disgustoso essere immondo, un essere fatto a metà.”.

Il pezzo di legno si blocca nel terreno, spinto con troppa foga nella terra fredda.

“Basta Elyce, basta...”.

Cinque cadaveri sono seppelliti, con una rozza tomba di pietre raccolte. Le spade, gli oggetti, i mantelli, nascosti, lanciati dentro una grotta piccola e stretta sul versante della montagna, l’entrata nascosta da un cespuglio secco.

La donna si gira, tergendosi il sudore dalla fronte. La luna, è piena. Non si era nemmeno accorta che il sole così come era sorto era anche tramontato. La luce della luna è così forte, e l’asteroide così vicino. Si possono vedere le sue creste, le sue cicatrici.

“Se fosse così anche con me...Nessuno si avvicinerebbe”.

Abbandona il badile per terra e si ripulisce dalla terra, Elyce, nascondendo la colpa nel profondo.

Cammina ora, la mora, verso il castello, sperando di non esser vista.

Una nuvola passa sulla luna, bloccando la luce, rallentando il camminare della donna. Un rumore alla sua sinistra, come di passi, la rende cauta, e si nasconde dietro un albero.

Quando la luce riprese a trapassare l’oscurità, notò Elsa camminare verso una pietra lontana dal castello, il mantello di ghiaccio che disegna il suo percorso con dolcezza sulla neve candida, le mani giunte al ventre.

Elyce, incuriosita, rimase nascosta ad ammirare la bellezza della regina che, arrivata a pochi metri dalla pietra, si fermò, come meditando. Gli occhi, che brillavano sotto la luce della luna, erano intensamente blu, ripieni di inquietudini, e come pronta a compiere un passo importante. Battito di cuore.

Con velocità scagliò un raggio di ghiaccio verso la pietra, investendola in pieno. Elyce rimase bloccata, sorpresa e frastornata. Ma non si mosse, talmente era rapita. La sua potenza, la sua bellezza nei movimenti delle mani, gli occhi concentrati nella magia che stava compiendo. Elsa, sotto quella nuova luce di donna dal potente potere di manipolare e creare il ghiaccio, era ancora più bella e intrigante per Elyce, sentendo il cuore vibrare di nuovo ai sussulti dell’amore prematuro.

La pietra, alta alcuni metri, era completamente ricoperta di stalattiti di ghiaccio, un’opera mostruosamente bella. Elsa con le mani cercò poi di controllarne i poteri, modellando il ghiaccio, ora grezzo, in qualcosa di più malleabile ed elegante. A poco a poco il ghiaccio, levigandosi e trasformandosi in cristalli volanti, diventò una bellissima statua di un cigno con le ali spalancate.

Bellissima e stupenda, qualcosa di talmente idilliaco e magnifico, che Elyce rimase rapita dalla bellezza che Elsa poteva creare col suo potere.

E provò empatia. Si sentì meno sola. La regina di ghiaccio era come lei.

Elsa sospirò, come se si fosse tolta un peso, e sorrise. Ora, i suoi occhi, brillavano di felicità.

«Ce l’ho fatta... finalmente.» mormorò, parlando a se stessa.

Una nuvola di nuovo bloccò la luce della luna, e un rumore di passi rese inquieta la regina.

«Chi va là?» urlò, le mani brillavano di potere, pronta a difendersi e ad attaccare...se necessario.

 

I know you, the gleam in your eyes is so familiar a gleam

Yet I know it’s true that visions are seldom all they seem

[So chi sei, il luccichio nei tuoi occhi è così familiare, un bagliore

Eppure io so che è vero che le visioni sono raramente quello che sembrano]

 

Un fuoco, nato dal nulla, comparve, per rischiarare le tenebre. Elsa si sorprese di vede Elyce, con la mano che manipola una piccola fiamma sospesa a mezz’aria.

Elyce ora aveva capito, ora sapeva.

Ora...lei era libera.

Finalmente.

«Elyce! Come...».

Elyce, per la prima volta, si sentì al sicuro, si sentì capita, si sentì compresa.

Aveva finalmente trovato qualcuno che potesse fermare il suo potere distruttivo.

Cosa c’è di meglio del ghiaccio per fermare il fuoco?

«Una volta sognai, da piccola, una donna dai lunghi capelli biondi prendermi per mano, e sorridermi.» le mani di Elsa si spensero del potere, e ascoltava le parole della donna, rapita. Nei suoi occhi vide una pace che non le aveva mai intravisto. Era come una visione, e quel fuoco era caldo, era tranquillo. Il buio non faceva più paura ora, con Elyce al suo fianco.

«Ho sempre avuto paura di...questo.» e con la mano indicò il piccolo fuoco nato nelle sue mani.

«Non so controllarlo, non so come fare. E così l’ho sempre sottomesso, imbavagliato, chiuso dentro di me. Aspettando che se ne andasse.» e con la mano chiuse a pugno il fuoco, intrappolandolo tra le sue mani, combattendo per uscire.

«Ma in realtà, ottenni solo il contrario.» la mano non riusciva più a trattenere le fiamme, e infine aprendole con forza, il fuoco proruppe in una piccola esplosione, spegnendosi subito dopo. Il buio tornò prorompente, e nell’aria si sentiva odore di bruciato.

«Elyce!» Elsa si avvicinò all’ombra della ragazza, prendendole il braccio «Sei ferita?!» Elyce fissava la mano, e gli occhi di Elsa videro come la pelle, con lenta velocità, riprendeva a crescere e a curarsi. La mano tornò come prima, senza tracce, né cicatrici.

«E ottenni dolore. Ottenni paura.» Elsa alzò lo sguardo, e vide le lacrime della donna cadere copiose dal suo volto. «Tu mi capisci, vero Elsa?» chiese, tra i singulti del pianto.

La donna passò la mano fresca su quella di Elyce, intrecciando le dita. La mora sentì il tatto fresco e genuino della bionda, e il cuore iniziò a battere forte nel suo cuore. Poteva percepire il sentimento crescere e mettere radici, rimanendo rapita dalla bellezza dei suoi fiori.

Le dita di lei scostarono le lacrime dal suo volto, e Elyce poté vedere il sorriso di Elsa oltre la nebbia del dolore. Ed era oltre l’emozione, ed era oltre la bellezza.

 

But if I know you, I know what youll do

Youll love me at once, the way you did once upon a dream

[Ma se so chi sei, so che cosa farai

Ti innamorerai di me una volta sola, come facesti una volta in sogno]

 

«Va tutto bene...» disse la sua voce incantevole, ed Elyce sentì l’anima sollevarsi, come liberata di un peso troppo grande che non riusciva più a sostenere. E le sorrise.

Elsa rimase come shockata dalla bellezza che mostrava a lei, e solo a lei, in quel momento quella donna. Il suo sorriso, le sue debolezze, solo a lei. Il cuore che si dilatava nel suo petto, e a milioni i sentimenti che l’attraversavano.

La luce della luna, d’un tratto, illuminò i loro volti. La bionda la guardò negli occhi, rapita e presa da emozioni sconosciute. I suoi capelli, scombinati, cadevano sulla fronte coprendo di poco gli occhi. Li scostò con un dito, e vide il boccolo arricciarsi intorno al suo indice, come se non volesse più lasciarla andare, la pelle calda e liscia al tatto, gli occhi castani che le riscaldavano l’anima, così talmente vicini da poter vedere pagliuzze dorate nell’iride.

Le labbra sottili e rosa.

E sentì l’istinto di assaggiarne il sapore, e sentì il corpo muoversi da solo.

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