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Elsa
passeggiava, nella neve fresca, eterea, con quel vestito lungo e cristallino,
ripieno di riflessi chiari come i raggi di sole che trasparivano lontani dai
rami e dalle montagne.
Sfiorava
alberi addormentati, ascoltandone i rumori brevi del vento che soffiava dolce.
Era
tornato l'inverno con delicatezza, come la natura e gli anni imponevano, e lei
adorava l'inverno. Tutto quel bianco, così candido, innocente.
Si
era allontanata dal castello, oberata di impegni e stanca del continuo
cinguettare dei suoi assistenti per il governo del fiordo.
Camminando
con tranquillità sulla neve fresca, notò che si era assai allontanata dai
confini del paese, raggiungendo la foresta. Ricordava bene quel tragitto, era
la stessa via di fuga che aveva usato per fuggire, tempo addietro, una vita fa.
Il suo sguardo si rabbuiò, e cambiò direzione, non salendo, ma scendendo,
raggiungendo i limiti della spiaggia.
Lì,
camminando tra i ciottoli ghiacciati, sentì un rumore lontano. Di voce
femminile.
Nascondendosi
fra le fronde innevate, scorse da lontano Anna, intenta a mettersi dei pattini
bianchi, farfugliando su quanto i nodi siano difficili da fare. Era vestita di
una gonna verde che scendeva delicata sui fianchi dolci, e si stringeva al
petto con un corpetto nero, e una giacca in pelliccia nera. In testa il
cappuccio calato, forse per non essere riconosciuta.
Era
passato un anno ormai dalla lontana “estate congelata”, e il fiordo, così come
la gente, prima quasi del tutto ignorante su chi fosse a governare il paese,
ora vi erano due fanciulle conosciute ai più per aver salvato tutti dal freddo
glaciale.
I
poteri di Elsa furono stranamente ignorati, come se fosse lecito ad un sovrano
essere al di sopra della normalità. E questo fu una felice sorpresa per la
nuova regina.
Anna,
esultando felicemente, riuscì a legarsi gli stivaletti, alzandosi in piedi. O
almeno, ci provò. Rovinò in modo scomposto sul ghiaccio, scivolando lentamente
verso il largo dell’acqua.
Si
alzò, ricercando l’equilibrio. Ripetendosi, come in un mantra, delle parole che
in lontananza Elsa non riusciva a percepire.
Continuò
ad osservarla, da lontano, nascosta dietro agli alberi, come quando da piccola
la osservava al di là della grossa vetrata della sua finestra.
La
giovane donna dai capelli rossi iniziò a pattinare in modo scomposto,
cominciando prima di tutto ad andare in avanti senza inciampare, né cadere.
Si
era scelta una zona sicura della conca, abbastanza lontana dal paese ma
abbastanza vicina alle montagne da non rischiare rotture del ghiaccio perché
troppo sottile. Ma arrischiarsi su una superficie non perfettamente liscia come
il ghiaccio creato dalla sorella era pericoloso. Poteva trovare un dislivello,
una scalfittura invisibile all’occhio che poteva farla rovinare a terra in modo
scomposto, magari anche rompendosi una caviglia.
La
sorella maggiore, con discrezione, picchiò il piede a terra, creando una scia
di ghiaccio che, nel propagarsi, corresse quelle imperfezioni senza farsi
scoprire da Anna, intenta a rimettersi in piedi per l’ennesima volta.
Senza
che se ne accorgessero, da lontano, oltre il piccolo ponticello e il porto, si
notava un vascello in avvicinamento. Erano gli emissari della Terra del Fuoco,
regno neonato con un oscuro presagio per il piccolo regno di Arendelle.
«Avete
visto la regina, messere Kristoff?» domandò la domestica, guardando il giovane
dai capelli biondi, apparso dal portone trasportando ghiaccio.
«No,
mi spiace, Gwenda, non l’ho vista oggi, e nemmeno Anna, se per questo...» il
suo sguardo si crucciò «Ieri mi aveva detto che avrebbe dovuto imparare a fare
una cosa, ma non mi ha detto cosa...» ammise, e slegò Sven
dalla slitta, lasciando la povera domestica alla ricerca sfrenata delle due
giovani sorelle.
«Dove
si è cacciata quella ragazza?!».
«Woah!» e il rumore sordo del suo fondoschiena si sparse per
la piccola spiaggia, ennesimo tentativo fallito. Ma per Anna il gioco era
appena incominciato. Si era messa in testa che doveva imparare a pattinare, per
poter regalare poi a sua sorella una tranquilla pattinata per il fiordo senza
scivoloni.
Si
era intestardita, e quando lo faceva, era peggio di un toro. Niente la fermava
dall’ottenere ciò che voleva. Lo faceva per se stessa, ma soprattutto per Elsa.
«È
per Elsa che lo faccio, forza Anna! Alzati!» ma scivolò l’ennesima volta, crollando
sul ghiaccio scivolando lontano. Troppo lontano.
Si
guardò intorno e si accorse di essere sola, in mezzo alla conca, lontana
chilometri dalla sicura spiaggia e dalla terra ferma. E andò in crisi,
iniziando a trascinarsi in modo spastico e scoordinato, ottenendo l’effetto
contrario.
Dal
versante opposto il vascello avanzava solenne, con un’aria minacciosa. I colori
caldi, e forti della bandiera e delle vele contrastavano con forza i colori
ghiacciati del fiordo di Arendelle.
Elsa,
dalla spiaggia, notò lo sconforto di Anna, e si domandò cosa potesse fare per
aiutarla. Con orrore notò che il vascello straniero avanzava nel ghiaccio con
calma e tranquillità, senza incontrare ostacoli, intorno a lui il ghiaccio si scioglieva.
«Ma
come...?» dimentica di aver celato la sua presenza, uscì allo scoperto, il
vascello andava dritto verso il porto. Niente di strano, insomma, a parte gli
stemmi mai visti dalla regina. Il problema era una povera pattinatrice
imbranata in mezzo alla traiettoria.
Elsa
scattò, saltando abilmente sulla superficie ghiacciata, le scarpe di cristallo sembravano
non toccare terra, una folata di vento gelido si abbatté sulle vele della
barca, in contrasto con la sua direzione, cambiandone drasticamente la rotta.
Ma Anna, accortasi del pericolo che stava correndo, non sapeva cosa fare per
smettere di scivolare verso l’inesorabile declino.
La
regina correva leggiadra sul ghiaccio, arrivando in poche falcate alla sorella.
«Anna!»
la chiamò, e la giovane si girò, la sua espressione passò dalla disperazione
alla felicità.
«Elsa!»
e le tese la mano, prontamente afferrata dalla bionda. La regina si era accorta
che la barca continuava ad avanzare. Il ghiaccio si sgretolava, ritornando
acqua, a pochi metri dalla polena della nave, una fenice intagliata che
inesorabile avanzava contro di loro pronta a trasformarle in cibo per i pesci.
«Fermati!»
urlò la regina, irrorando le distanze della sua magia che usciva forte dalle
sue mani. Il ghiaccio si cristallizzava sempre di più, e il getto funse da
aiuto per entrambe, a scivolare lontano dalla barca, Anna attaccata alla vita
della sorella, incapace di rimanere in piedi senza supporto. Si allontanarono
quel tanto che bastò per mettere in salvo entrambe. Anna tremava, in ginocchio,
afferrata alla vita di Elsa, mentre questa osservava i marinai del vascello
commentare la magia accadutavi davanti. Eppure il blocco di ghiaccio creato
dalla regina si sciolse in pochi istanti, a contatto con la nave. Come per magia.
«Scusami
Elsa...» borbottò Anna, tremante di paura. La sorella le strinse le spalle,
abbracciandola.
«Stai
bene, Anna?» domandò, controllandole il viso. La rossa rispose annuendo.
«Sì,
sto bene ma chi sono quelli?» domandò, guardando il vascello, ora innocuo,
lontano da entrambe. «E soprattutto, perché si scioglieva il ghiaccio, Elsa?»
ma la regina rimase muta, non conoscendo la risposta. Gli occhi fissi a
guardare lontano, mentre la nave attraccava.
Per
la prima volta in vita sua, Elsa sentì un brivido freddo attraversarle la
schiena.
Mentre le due sorelle
prendevano la via per ritornare al castello, gli occhi di Elsa, freddi come il
ghiaccio d’inverno, osservavano la nave attraccata al porto. C’era un’aura
intorno ad essa che le emanava un non so che di misterioso e il suo animo
divenne preda della curiosità.
Nella mente ricordò la missiva
sul suo tavolo della visita di emissari importanti. E lei non era lì ad
accoglierli. Intimò ad Anna di accelerare il passo, e ignorò platealmente il
brontolare della sorellina mentre raggiungevano il piccolo ponticello del
porto.
Doveva arrivare subito su quel
pontile.
Una sensazione strana, la
stessa provata prima, le vibrava dentro le viscere, scombussolandole lo
stomaco.
Non sapeva chi si sarebbe
trovata davanti, e ora tutto il suo essere era risucchiato dalla curiosità.
Mentre i piedi di sua sorella affondavano nella neve lei ne camminava sopra
come sospesa dai suoi poteri, facilitandone il passo, tutto inconsciamente.
Come se il suo essere si
stesse preparando a conoscere qualcosa – o qualcuno – di importante per lei.
«Benvenuti, signori, ad
Arendelle.» mormorò Gwenda inchinandosi leggermente, mentre con gli occhi
ricercava – in modo silente – la regina ritardataria.
«Benvenuti.» aggiunse Elsa,
sbucando fuori dal nulla mentre Anna raggiungeva Kristoff poco lontano,
rimanendo in disparte. L’uomo osservava con occhi dubbiosi il pontile che si
abbassava per far scendere gli emissari giunti da lontano. Le Terre del Fuoco
erano sulla bocca di tutti da mesi ormai, terra lontana, patria delle grandi
eruzioni vulcaniche ancora attive. Terra ricca ma rude, rozza, ancora viva.
Eppure, dopo molti combattimenti interni e di generazioni spezzate, si
unificarono pacificamente sotto il regno della casata dei Brandjӓrn, che
ora regna prospera e forte protettrice della propria gente, senza distinzione.
Dalla nave scesero un uomo e
una donna, vestiti con abiti leggeri, estivi, e colorati con i colori del loro
casato, il verde, il rosso e il bianco.
L’uomo era alto e palesemente
a petto nudo, mostrando il fisico asciutto e muscoloso, le spalle larghe e la
pelle abbronzata. I capelli castano scuro tenuti fortemente corti e gli occhi,
neri, indugiavano sul mondo intorno a lui come confuso o non ben partecipe del
grande momento che stava accadendo su quel pontile. Varie cicatrici solcavano
il suo volto, così come il petto e le braccia, nascoste a volte da tatuaggi
tribali.
Incrociò le braccia, non
parlando. Fissò per pochi secondi ognuna delle persone lì presenti,
soffermandosi di più sul ragazzo biondo che, intimidito, deviò lo sguardo.
«Quell’uomo è inquietante.»
sussurrò all’amata, vedendo un suo breve accenno di consenso.
La donna invece, era
leggermente più bassa dell’uomo al suo fianco, si muoveva sinuosa ma allo
stesso tempo con passo militarizzato, come pronta a scattare e combattere per
la sua terra e per la sua vita. Avevano entrambi un taglio di capelli
praticamente identico se non nella lunghezza, leggermente più accentuata nella
donna. Gli occhi invece erano di un profondo castano, e uno sguardo profondo e
saggio, ma distante. Anche lei mostrava un fisico asciutto sotto i vestiti
eleganti ma pratici, i colori del casato, una testa di leone ruggente in campo
verde con contorno bianco.
Era in quest’ultima che Elsa
si soffermò parecchio, rimanendo muta. Era rimasta come congelata dalla
sferzata di calore che provenne da entrambi, soprattutto dalla donna che pareva
più anziana di età rispetto all’uomo che l’accompagnava. Ma era l’aura intorno
ai suoi occhi che la rendevano così intrigante per la regnante di ghiaccio. Non
riusciva a decifrarli.
«Grazie per l’accoglienza.»
sbiascicò la donna, parlando un accento dolce, sembrava cantasse. Elsa abbozzò
un sorriso, indicandole il tragitto per l’interno del castello. Il piccolo
borgo guardava i dignitari camminare di fianco alle donne vestite in pellicce
gonfie e cappelli come se non percepissero il freddo pungente di quella terra.
Come se fossero troppo abituati al calore da non sentirne la mancanza. Come se
la Terra del Fuoco fosse radicata nella loro pelle.
Mentre camminavano Anna, da
dietro la sorella più grande, notò il suo incedere curioso verso la donna,
analizzandola. Aveva un vestito tipico delle terre del sud, infatti indossava
pantaloni che stringevano alla caviglia, dove iniziava uno stivaletto ricamato.
Alla cinta portava una daga, leggera e corta, anch’essa ricamata e ricoperta
d’oro.
Un drappo unico di stoffa
rossa partiva dalla cinta, in contrasto con i pantaloni verdi che strusciavano
leggeri e stretti sui muscoli scattanti, e si univa appoggiando su un’unica
spalla, con una spalliera in pelle decorata. Essa seguiva i movimenti del
corpo, e ogni tanto si poteva scorgere – con grande sorpresa e vergogna di Anna
– la fascia che stringeva il seno. L’uomo aveva lo stesso abbigliamento solo
che invece del drappo rosso aveva solo una lunga fascia rossa che cingeva la
vita, nascondendo la cinta, dove aveva appeso una mazza rozza e pesante.
Aveva ragione Kristoff su
quell’uomo, era inquietante. Ma il suo sguardo mostrava altro, era spaesato, e
seguiva la donna come se fossero legati da un filo invisibile.
Era curiosa, Anna. Non vedeva
l’ora di cambiarsi – alla velocità della luce – e raggiungere i dignitari nel
salottino privato, e sorseggiare cioccolata calda in silenzio.
Anche se avrebbero parlato di
politica non le importava, voleva analizzare queste nuove persone giunte da
lontano, e ascoltare le loro storie.
Elsa li accompagnò in
dignitario silenzio nel salottino privato, dove tempo addietro suo padre
riceveva i dignitari degli altri mondi lontani dal loro. Ricordava che doveva
assistere, in rigoroso silenzio e con penna e fogli alla mano per prendere
appunti e ascoltare, per imparare il suo dovere di regnante di questo mondo.
Sorrise mestamente, mentre
entrò dopo l’uomo, alto due spanne più di lei, mentre la donna era solo una
spanna in più di Elsa.
Anna, la più piccola di tutti,
entrò trafelata, cambiatasi in modo frettoloso nella camera al piano di sopra,
si sedettero e ordinarono da bere, prossimi ormai alla cena già imbastita nel
grande salone.
La donna dai capelli corti
parlò per prima, dopo aver sorseggiato un poco di quel liquido marrone caldo ma
dolce.
«Conosco la vostra lingua,
quindi non avremo bisogno di un traduttore.» informò, anche se ovviamente si
sentiva palesemente l’accento delle sue terre. La principessa e la regina
annuirono, mentre sorseggiavano la cioccolata calda appena servita da Gwenda.
«Volevo innanzitutto scusarmi
per la fretta della mia visita.» iniziò a parlare, e Elsa ricordò che l’avviso
era arrivato non meno di una settimana dalla loro effettiva partenza. Il
viaggio durava decine di giorni, e i preparativi furono ultimati poco prima
dell’arrivo della nave.
«Si figuri anzi, sono onorata
della vostra visita. Sono assai interessata alla vostra situazione politica.»
rispose Elsa, educatamente. Anna osservava silente, esultando internamente per
il fatto che la donna avesse imparato la lingua del posto. Anche se si domandò
quanto tempo ci avesse impiegato, visto la veloce ascesa al potere della sua
famiglia.
«Era proprio di questo di cui
volevo parlarvi, e privatamente.» e uno sguardo fulminante volò verso la donna
dai capelli rossi che, sorpresa da quelle parole e dallo sguardo tagliente,
poco ci volle che soffocasse con la cioccolata.
«È mia sorella, non ho niente
da nascondere alla mia famiglia.» aggiunse Elsa irritata, leggermente
infastidita dalle sue parole. Ma sorvolò, visto la poca documentazione che
aveva su quella donna. E forse valeva per entrambe, visto che non sapeva chi
fosse l’uomo al suo fianco, e lo osservò più approfonditamente. Non sembrava
una guardia dall’aspetto.
Ignorò difficilmente Anna che
tossiva, che cercava di non morire su quella poltrona, pulendo il cioccolato
che era colato dal suo naso.
«Neanche io. Mi scusi, forse
mi sono espressa male. Non ero a conoscenza che lei fosse lady Anna, la
principessa.» e si alzò per chinare il capo. Anna rimase congelata. Prima si
era sentita quasi offesa dalla freddezza con cui l’aveva trattata ma ora le
sembrava quasi... gentile.
Fece un gesto per farle capire
che non si era arrabbiata, e ricominciò a respirare, lasciando la tazzina sul
tavolo. «Questo è mio fratello Enos, e io sono Elyce.» disse, presentandosi.
L’uomo si alzò, si inchinò e mormorò un “piacere” appena accennato.
“Uomo di poche parole.”
Pensarono inconsciamente le due donne di Arendelle.
«Sono venuta per avvisarvi di
un terribile presagio di cui solo poche persone sono a conoscenza.» disse
Elyce, andando subito al sodo. Elsa lesse nei suoi occhi la paura. Una grande e
potente paura. «Il nemico che ha vessato per anni la nostra terra,
costringendoci a camminare sulle ceneri dei nostri cari, è riuscito a sfuggirci
via mare. Molti fonti indicano che potrebbe essere nelle vicinanze del vostro
regno.».
Brutte, anzi bruttissime
notizie.
Un nemico di un neoregno
fuggito dalla sua giustizia ha attraversato l’oceano per chiedere asilo, in
modo clandestino.
Era una bruttissima
situazione, doveva gestirla in maniera neutrale e tranquilla.
«Capisco. Farò in modo di
allertare le mie guardie con una dovuta descrizione e se lo vedremo vi
avviseremo.».
«No.» intimò il fratello,
guardando la regina con sguardo furente. «Ha ucciso nostra madre e nostro
padre. Davanti ai nostri occhi. Tu devi ucciderlo.».
«En, non rivolgerti così a una
regina.» ammonì la sorella, guardandolo in modo furente. Elsa vide il fuoco
giocare nelle sue pupille, solo per un secondo, prima di sentire delle scuse
secche da parte dell’uomo. Ritornò pacatamente nel suo silenzio, ma Anna non
aveva perso neanche una parola e lo osservava tristemente, leggendo lo
sconforto nei suoi occhi. Erano neri, ma erano pozzi di dolore. Ecco perché li
vedeva così vicini. Sono rimasti da soli.
«Elsa, ti prego...» mormorò Anna, appoggiando la testa alla porta, il
vestito nero si piegò leggermente al movimento «parlami...dimmi che sei ancora
lì...non lasciarmi da sola...» ma, come sempre, sentì solo il silenzio e il
freddo. Sempre quel maledettissimo freddo che le divideva. Si strinse nelle
gambe, singhiozzando. Per un secondo le sembrò di sentire il respiro di sua
sorella al di là del legno bianco. Ma si convinse che era solo una sua
illusione.
In un momento del genere sarebbe corsa dalla madre, per un abbraccio.
Ma ora non aveva più nessuno ad alleviare la sua sofferenza.
Nessuno...
«Elsa...» Anna richiamò la
sorella, le sembrava così fredda in quel momento. Come poteva non vedere? Le
toccò leggermente la spalla, e lei si girò «Se è un uomo malvagio non sarebbe
meglio catturarlo, o almeno indagare e cercarlo?» suggerì, con la voce piccola
come lo era sempre nei momenti in cui doveva sembrare più una principessa che
una esaltata.
Elsa la guardò e rifletté. Non
era rabbia quello che leggeva negli occhi di Enos, ma odio. Era uno sguardo
freddo, fatto di ferro e dolore. Passò gli occhi alla donna, e quasi ci cozzò,
perché si incontrarono a metà, ognuna persa negli occhi dell’altra. Parlò lei
per prima, spezzando quel momento che aveva incantato Elsa.
«Non è la vendetta che ci guida,
Regina, ma-».
«Chiamami Elsa.» disse la
bionda. E quasi si vergognò dell’intimità che le concedeva. Ma sorvolò. Sentiva
che si sforzava a parlare in quel modo altezzoso. E capì solo in quel momento i
pensieri di Anna. Erano rimasti soli. I genitori morti, proprio come loro.
«Elsa, non vogliamo vendetta.
Vogliamo giustizia. Era questa la parola chiave di mia madre, e voglio
rispettare i suoi dettami. Non voglio venir meno a una promessa. Deve essere
giustamente punito per i crimini che ha commesso, secondo le leggi del mio
popolo. E soprattutto, cosa che più mi preoccupa adesso, non voglio che faccia
danno in un paese pacifico come il vostro.» sospirò, e strinse la mano di suo
fratello, che era come sceso in trance, stringendo le mani convulsamente, fissando
intensamente il pavimento. Il suo tocco sciolse la presa ferrea, e rilassò i
muscoli, prima tesi del braccio e del petto del fratello.
I suoi occhi erano lucidi, ma
non si permise quella debolezza, di farsi vedere in lacrime.
«Scusatemi.» e dicendo questo
si inchinò velocemente e uscì dalla stanza silenziosamente. Elyce seguì con lo
sguardo il fratello fino alla sua uscita.
«Scusatelo, non ha ancora-» le
si spezzò la voce, e cercò di sciogliere il nodo che aveva in gola. Era duro, e
pesante. Come il ferro. Ma bruciante come il fuoco vivo.
«Non scusatevi.» disse Anna,
scattando in piedi, seguendo l’uomo fuggito via.
«Anna dove-» ma Elsa non fece
in tempo a richiamarla, che era già fuori dalla porta.
«Impulsiva, eh?» domandò Elyce,
con tono scherzoso. La lacrima venne risucchiata da un sorriso mesto.
«Sì, purtroppo.» sospirò la
bionda.
«Forse tra animi affini si
calmeranno a vicenda.» aggiunse la donna, sorridendo. Elsa ricambiò il sorriso.
Il silenzio calò, per qualche
istante.
«È successo pochi mesi fa,
poco prima dell’instaurazione del nostro governo. Mi sono ritrovata a governare
un regno che pensavo ormai salvo sotto le mani di mio padre. Non sapevo niente
né di politica, né di economia. Ho dovuto imparare tanto, e facendo figure non
da poco sul campo. Ma il mio popolo crede in me, e io credo in loro. Se si
fidano di me io non devo far altro che crederci. Sono una Regina, ho un popolo
sotto le mie mani, interi villaggi sotto la mia custodia, e ho appena
venticinque anni.» sogghignò. «Per mio fratello perdere i nostri genitori è
stato pesante. Ho fatto di tutto, per proteggerlo, sin da quando era piccolo.
Ma ora, che soffre, non riesco a proteggerlo da se stesso. E dal suo senso di
colpa. Non gli permettevo nemmeno di combattere, se non c’ero io di fianco a
proteggerlo.» le scappò una risata. «”Una donna piccola come me che protegge un
gigante così, come può?” Sicuramente si starà domandando vero?».
Elsa non rispose. Gli occhi di
lei erano passati dalla tristezza, al dolore, all’orgoglio, a uno sguardo che
non capiva. Era misteriosa quella donna, Elsa lo sentiva a pelle. Avevano le stesse
responsabilità, gli stessi dolori, lo stesso atteggiamento nei confronti dei
fratelli minori.
Aveva chiamato Anna e Enos
“spiriti affini” ma forse non erano loro quelli simili, ma le due donne sedute
una di fronte all’altra a parlare come se si conoscessero da anni, e non da
minuti.
Elyce lesse il silenzio della
regnante come un incito ad andare avanti.
«Ho sofferto nel veder morire
mia madre e mio padre, ma il dolore che non passa mai è veder mio fratello
piangere per una colpa che non è sua.» sospirò, ricordando il passato «È stata
colpa mia, se i nostri genitori sono morti. Ma lui incolpa se stesso.».
Erano all’ultimo fronte, prima della disfatta totale del nemico.
Elyce dilaniava membra, mentre il fratello – poco distante – faceva
piazza pulita con il suo martello di ferro pieno, il sangue ricopriva i volti
di entrambi, ma negli occhi vibrava l’adrenalina della battaglia. Pulivano la
strada a chi osava avvicinarsi troppo ai futuri regnanti, e lo stavano facendo
egregiamente.
Il padre, così come la madre, erano in mezzo al marasma di guardie e
nemici suicidi che li affrontavano all’arma bianca, dove o uccidi o muori,
anche se la battaglia era persa in partenza.
I cavalieri neri, intorno a loro, d’un tratto da numero minore
divennero una valanga. Un piccolo distaccamento sorse dal nulla attaccando il
cuore dei soldati verdi rossi che difendevano i due futuri regnanti.
Elyce, la più lontana, intuì troppo tardi il colpo che stava per accadere, e cercò di
farsi largo tra i soldati, colpendo a destra e a manca per raggiungere i
genitori che lottavano all’ultimo sangue.
Enos, più lontano, si accorse dopo delle urla dei genitori e della
sorella. E quando iniziò a muoversi verso i genitori vide il vessillo della
casata crollare. Un urlo di vittoria sprigionarsi dalle fila nemiche.
I futuri regnanti erano morti.
I suoi genitori erano morti.
Come involontariamente Elsa si
era avvicinata con la sedia sempre di più ad Elyce mentre raccontava la caduta
dei suoi genitori. E quando sentì la sua voce spezzarsi nel momento finale, non
frenò la mano dal correre alla sua. E la strinse. E all’inizio non capì perché
si sentiva così felice nell’essersi avvicinata così tanto a quella donna, ma
poi comprese.
Stava soffrendo, e nessuno
vedeva il suo dolore – nemmeno suo fratello.
Aveva rivelato solo a lei quel
suo senso di colpa, e non sapeva perché.
E sinceramente non le
importava, in quel momento.
Voleva soltanto continuare a
guardarla negli occhi, profondi e tenui, come il sole d’agosto quando ti sfiora
le guance.
Elsa la guardava negli occhi,
e non muoveva un solo muscolo. La pelle di lei era così calda...non aveva mai
sentito qualcuno così bollente come lei. Nemmeno quando toccava Anna aveva mai
sentito un calore simile. Era così in contrasto con lei, così fredda...così
glaciale.
«Mia Regina, la cena è serv-» ma Gwenda si fermò a metà frase. Lo scatto che aveva
fatto Elyce e Elsa per allontanarsi l’una dall’altra, alzandosi in
contemporanea dalle sedie era risultato molto evidente alla vecchia serva, così
come non si era fatto scappare quella stretta di mano e quello sguardo che
stavano condividendo fino a pochi istanti fa. Erano entrambe rosse in volto, e
le parole di Elsa furono leggermente balbettanti verso Gwenda, che con lei
parlava come a una seconda madre. Si morse un labbro.
«S-Scusa, dicevi Gwenda?»
domandò la regina, intrecciando le mani al ventre, stringendosi le mani. Era
completamente in imbarazzo.
«La cena è servita, mia
regina.» rispose l’anziana e poi guardò in giro per la stanza, ma non individuò
né la principessa Anna né il fustacchione pettoruto
che aveva visto alla passerella. Sbuffò leggermente, delusa. Gli piaceva quel
bel maschione. Le ricordava il fisico di Kai – suo
marito – ai tempi d’oro. Aveva quasi ceduto all’emozione, al porto. Non aveva
mai sentito così caldo quel giorno come quando aveva le caldane per la
menopausa.
«Arriviamo, Gwenda. Cerca Anna
per il castello, è andata con il nostro ospite...» e li cadde, la mente le fece
un brutto scherzo, fermando la frase a metà. Non ricordava il nome del ragazzo.
Elyce le venne incontro,
avvicinandosi alla porta, il suo rossore si notava di meno, su quella pelle
scura. Ma era indubbiamente imbarazzata. Non le era mai successo una cosa
simile. Perdere il controllo delle proprie emozioni e delle proprie parole.
Aveva parlato così
naturalmente con quella donna affianco a lei, come se fosse il destino a
legarle.
«Enos. Mio fratello è uscito
per una boccata d’aria, il viaggio lo aveva scombussolato e la principessa Anna
lo ha cordialmente invitato a fare un giro turistico del castello.» completò la
frase per Elsa, guardandola di sottecchi. La bionda annuì, e Gwenda si licenziò
con l’ordine di cercare in giardino sotto consiglio della regina.
Quando le porte si chiusero di
fronte alle due donne, ci fu una specie di sospiro condiviso. Avevano come
rischiato di farsi vedere, e Elsa non capiva questa sua tensione. E soprattutto
il respiro trattenuto fino all’uscita della serva.
«Mi scusi per prima regina,
io-».
«Elsa...non chiamarmi regina,
per favore...» mormorò, girandosi a guardarla. Elyce rimase a fissare i suoi
occhi. Il suo cuore capitolò alla dolcezza della sua voce, e dai movimenti
tranquilli delle sue labbra colorate di velato rossetto. Rimase incantata dalla
sua bellezza, e dalla sferzata di potente inquietudine nel suo animo, facendole
sentire le farfalle nello stomaco.
«Elsa, scusami...».
«È colpa mia, mi scusi
signorina-» la interruppe la regina.
«Elyce...chiamami Elyce, per
favore...» Elsa non riusciva a sostenere quello sguardo...era troppo caldo e
bollente sulla sua pelle. Le scottava, e se ricambiava lo sguardo sentiva come
qualcosa sciogliersi dentro. E spingere a fare azioni non consone. Come la mano
scappata al controllo del suo corpo prima.
«Elyce...» iniziò la bionda
regina, ma non riuscì a continuare. La freddezza che di solito mostrava, quella
compostezza così diversa dall’esuberanza della sorella, in quel momento
l’abbandonò. Quel piccolo castello di cristallo che aveva costruito intorno a
sé per evitare la vicinanza delle persone si stava letteralmente sciogliendo,
cadevano torri di ghiaccio e gli scalini erano acqua. Irrorava calore, quella
donna, e non aveva modo di fermarla. Era il sole. E Elsa si stava sciogliendo
di fronte a lei.
«...È così bello, il mio nome,
quando è la tua voce a pronunciarlo.».
Il punto di rottura venne
superato e il rossore e l’emozione sgorgarono dalle sue mani come ghiaccio che
veloce galoppava in ghirigori fantasiosi. Ma Elyce non si allontanò. Le afferrò
le mani, stavolta con decisione e dolce fermezza, e i piccoli fiocchi di neve
smisero di cadere.
Così Elsa fu due volte
sorpresa e due volte emozionata. Come poteva, quella donna, fermare la sua
magia inarrestabile? Che aveva rischiato di ghiacciare tutto il fiordo?
E perché le sue mani
sembravano l’unico posto che ricercava come un assiderato ricerca il calore?
Le appoggiò un bacio di
galanteria sul dorso della mano, e gli occhi sfrecciarono ai suoi. Era calore,
era bellezza.
E Elsa si sentiva come una
falena attratta dal calore del fuoco.
Ma la falena muore, a contatto
con il fuoco.
Distaccò la mano con un
sorriso cortese, ma Elyce lesse nei suoi occhi i tumulti che la muovevano e la
sua paura. Si prefissò di non osare oltre. Anche se avrebbe voluto avvicinarla
di più. Quella sverzata di fresco vento invernale la chiamava. Era ciò che non
aveva mai provato, come una boccata d’aria fresca mai provata. Le distendeva i
polmoni così come le stringeva il cuore. E capitolò di nuovo nella sua
bellezza, osservandola in silenzio.
Aprì la porta con galanteria
alla regina e, con poche parole formali, si diressero al salone dove avrebbero cenato.
Fu per coincidenza che videro
Enos e Anna giocare, come due fanciulli, in mezzo alla neve.
Elyce ne fu felice, era da
molto tempo che non vedeva suo fratello sorridere così ingenuamente.
Ma quasi si spaventò nel
vedere che un pupazzo di neve da fermo quale era iniziò a muoversi di vita
propria, lanciando anch’esse palle di neve, in mezzo a quel parco interno.
«Quella cosa...è viva?!»
mugugnò, guardandola da lontano con sguardo spaventato. Era sbiancata.
Elsa sorrise in modo timido,
la mano davanti alla bocca, e spiegò la natura di quel pupazzo di nome Olaf.
Fu difficile farla avvicinare,
e ancor di più a credere alla sua anatomia. Era diffidente, e lo si vedeva in
volto.
Anna la prese per mano,
facendola avvicinare poco a poco. E le disse che non doveva aver paura di lui.
Si strinsero la mano, in modo cortese, anche se Elyce ancora non capiva come
potesse essere “vivo”.
Enos, d’altro canto lo accettò
con noncuranza, come se fosse normale che un pupazzo fatto di neve si muovesse
come mosso di vita propria e con pensieri propri.
Dopo la rimpatriata, il
quartetto si avviò alla sala da pranzo mentre Olaf semplicemente svanì girando
un angolo, la regina e la principessa facevano strada ai due dignitari
stranieri, e Elyce guardò di sottecchi il fratello, con ancora il sorriso
stampato in faccia.
«Allora...» iniziò la sorella,
e Enos la guardò, curioso. Parlava abbastanza piano da non farsi sentire dalle
due donne di fronte a loro «Vedo che hai legato molto bene con la
principessa...» e il fratello esplose di vergogna, e le orecchie tesero al
rosso. Sogghignò, quel segnale era insito nella natura del fratello. Lo
conosceva troppo bene. Si grattò il retro del capo, scostando quel che rimaneva
di qualche fiocco di neve sopravvissuto alla battaglia di prima.
«È simpatica, è intelligente,
è divertente...è bella...» disse, guardandole le spalle, i suoi occhi a fissare
il suo corpo – Anna stava parlando con Elsa della battaglia di neve, concitata
– e i suoi occhi cadevano inesorabilmente verso il basso, dimentico del
discorso ma non del tempo passato al parco.
Enos aveva raggiunto un alberello nato vicino al rio della fontana li
vicino.
Era cupo, era triste, era disperato. Si asciugò con forza le lacrime
che non si fermavano dal cadere. Non aveva ancora elaborato il lutto di mamma e
papà ed eccolo li a piangere davanti a due perfetti sconosciuti.
«Non dovresti tenere tutto dentro. Piangere fa bene.» mormorò una voce
dietro di lei, femminile. Ma stavolta non era sua sorella, a dirglielo.
Si voltò, era la rossa, la principessa. Come si chiamava...?
«Io...non stavo piangendo.» biascicò, poco convincente. La voce era
roca e dava tutti i segni di quello che era stato un pianto sussurrato, colto solo
dalla luna lucente nel cielo.
«Io penso che piangere faccia bene. Ti svuota.» continuò, ignorando la
banale scusa del ragazzo. «Solo...non si dovrebbe piangere da soli.» e rivide
in lui se stessa, quando piangeva davanti a una porta che non si apriva, e che
faceva sentire tutto il freddo che la sorella emanava.
«Io non stavo piangendo.» stavolta lo disse con più convinzione. «Sono
adulto ormai, non sono più un bambino. Non posso più permettermi di piangere.»
disse con tono altezzoso, guardandola cercando di traspirare forza. La sua
schiena, così come le sue spalle si rizzarono, cercando di mostrare tutta la
sua altezza.
«Ah, ok...allora...» si chinò, raccogliendo un poco di neve nelle mani
«Sei troppo bambino per... QUESTO!» e la palla di neve collise con il volto
dell’uomo, che non si aspettava un colpo del genere.
La ragazza sorrise, e scappò, pronta al contrattacco.
Enos si tolse la neve dal volto, ancora sconvolto da quell’azione poco
diplomatica. Gliel’avrebbe fatta pagare.
“Oh, eccome che te la faccio pagare.” Pensò, per la prima volta,
sorridendo.
Quella ragazza aveva fatto più di quanto pensasse. Gli aveva tolto di
mente i pensieri cupi con una battaglia a palle di neve epica.
E ricordò il suo nome, stampandoselo nel cuore: Anna.
E sorrise, perché in quella fredda giornata di inverno, lei era il sole
che lo rischiarava dalle cupe nubi del lutto, allontanando il peso della scure
di ferro arrugginito che pesava sopra la sua testa.
«Ah...» Enos la guardò
sottecchi, la vide sogghignare. «Beh, hai sempre avuto un debole per le
rosse...» aggiunse Elyce, e vide un sorriso beffardo spuntare.
«Non ci provare nemmeno.»
sentenziò, guardandola con occhi fulminanti «È già fidanzata.» disse, con tono
serio e velatamente deluso.
«Io non ho detto niente,
En...sei tu che te lo sei detto da solo.».
«Uhm...» mugugnò il ragazzo,
cercando una risposta da dire alla sorella. Riusciva sempre a zittirlo, ad
avere l’ultima parola in un discorso, e non riusciva mai a ribattere se non
poche volte.
«Come se non vedessi gli sguardi
che lanci alla regina.» Elyce si irrigidì, persa anche lei a guardare la
schiena di Elsa che, con fare gentile e composto, ascoltava la sorella e di
tanto in tanto sorrideva, con la mano che copriva quel sorriso che sarebbe
stato capace di spaccare il ghiaccio in due. «Dopotutto ti sono sempre piaciute
le bionde, no...?» i capelli di Elsa si spostarono e la dolce treccia cadde
sulla schiena, rimbalzando morbidamente al movimento del passo.
«Già...» mugugnò, anche se gli
occhi non badarono al fratello ma bensì ai movimenti di Elsa.
Il modo in cui camminava, così
fiero, naturale, e allo stesso tempo così dannatamente...sexy.
«Ma almeno la mia non è
fidanzata.».
Silenzio.
“Enos zero, Elyce uno.” Si
annotò la ragazza, sogghignando, lo sguardo complice rivolto al ragazzo “bel
tentativo fratellino, ci hai provato...almeno.”.
E con quello chiuse la
conversazione, lasciando un En stizzito e una Elyce con un sogghigno sul volto
per tutta la sera.
Elyce si chiuse la porta alle
spalle, appoggiandosi ad essa. Il volto stanco, e la pancia satolla di quelle
che erano state le pietanze più buone mai assaggiate. Dieci giorni di nave
l’avevano provata, e il suo stomaco ora era contento di essere tornato a cibi
più commestibili del pesce arrosto.
«Uff!»
sbuffò, finalmente contenta di essere nelle sue stanze private, da sola, libera
di potersi finalmente riposare e spogliare di quegli abiti pomposi e buttarsi
nel grandissimo letto a baldacchino che le sussurrava dolci sogni. Si levò le
vesti - troppo eleganti – e indossò il pigiama da viaggio, pantaloncini corti e,
liberatasi da quella fascia che le costringeva il petto, indossò una canotta.
Stava per aprire le lenzuola
perfettamente piegate ed entrare in quel tugurio di “morbidosità
e relax” quando un bussare alla sua porta interruppe le sue fantasie di riposo.
Aprì la porta subito
d’istinto, senza sapere chi fosse, stizzita.
Diventò viola alla vista di
Elsa. Maledì la sua brutta abitudine di dimenticarsi in che luogo fosse.
«Ehm...» la regina aveva
ancora la mano sospesa a metà, davanti alla porta. Alla vista dell’ospite in
abiti da camera così “succinti” spense la miriade di pensieri che l’avevano
affollata prima.
Elyce, d’altro canto, non
parlò proprio. Era rimasta bloccata, completamente gelata dall’imbarazzo che la
vedeva lì, in pigiama, di fronte al regnante di cui era ospite.
«Volevo...» iniziò a parlare
Elsa, cercando di chiudere quel momento di imbarazzo velocemente. Gli occhi non
si staccavano dalla scollatura di lei. Era veramente molto provocante. E
profonda. Deglutì. «Volevo sapere se volevi aggiungerti alla festa in tuo
onore.».
Elyce meditò a lungo, non per
l’idea della festa – doveva obbligatoriamente andarci, visto che era in suo
onore – ma bensì per lo sguardo della regina che non accennava ad allontanarsi
o a spostarsi dal suo fisico. Si sentiva divampare. E per un secondo – molto
vago – le sembrò di leggere negli occhi di lei il desiderio di possedere ciò
che stava guardando.
«Ecco...io...non ho niente da
mettermi.» confessò, sorridendo mestamente.
Elsa ritornò velocemente alla
realtà, e portò lo sguardo ai suoi occhi. Il cuore a mille.
«Ma potrei farmi prestare
qualcosa da mio fratello...» affermò, e il suo sorriso spense i tumulti del
cuore della bionda.
Elsa si licenziò velocemente,
percorrendo il corridoio con passi veloci. Lo sguardo di Elyce la seguì per
tutto il corridoio, ammiccante. Vedendo come, da lontano, si malediva da sola
per come si era comportata.
Il suo struggimento si poteva
leggere lontano un miglio, e Elsa si avviò al salone. Ma il batticuore, così a
come quel rimescolamento delle interiora e il tormentarsi il labbro non passò.
La mente tornava sempre a quella scollatura – decisamente troppo profonda – che
aveva fissato durante il dialogo con lei.
“Bel modo di comportarsi,
Elsa.” Si rimproverò da sola “ma cosa ti salta in mente?!”. Ma i suoi pensieri
si spensero quando vide Elyce entrare dalla porta, spegnendo il vociale della
sala e dei dignitari delle terre vicine per concentrarsi alla sua entrata.
Indossava un completo da uomo –
giustificato come abitudine strana del loro paese – eppure era incantevole. I pantaloni stretti
alle cosce, terminavano al ginocchio con un paio di stivaletti da cavallerizzo,
la giacca richiamava i gradi più alti del suo paese e il colore predominante
era il rosso fuoco. I capelli, laccati,
erano riportati all’indietro, e pareva un uomo in tutto e per tutto alla sala,
che la confusero con suo fratello.
Venne letteralmente assalita
dai dignitari, presentazioni su presentazioni, sorrisi, ammiccamenti e momenti
imbarazzanti alla scoperta di come una bellissima donna in abiti militari stava
facendo strage di belle donne in quel salone in cui la temperatura era salita
di molti gradi.
Sorrideva a tutti, in modo
indistinto, se non per qualche sguardo dolcemente infuso di lussuria a qualche
donna che aveva il coraggio di civettare con lei. Le sue mani erano ricoperte
da guanti bianchi, e i movimenti delle sue mani, così come le sue labbra, non
sfuggivano ad attente signore che letteralmente scalpitavano per un ballo.
La musica, in quel salone, era
per la maggior parte d’accompagnamento, perché i balli iniziavano solo quando
la regina – o chi in sua vece – iniziava a danzare con il personaggio più
importante del salone.
La sala era sfarzosa, notò
Elyce, colonne reggevano un soffitto a volta decorato di affreschi che
richiamavano il paradiso, la musica piacevole, i camerieri servivano bicchieri
pieni di un liquido caldo e dolceamaro chiamato idromele, e la donna ne aveva
già bevuti abbastanza.
Si permise di lasciare la
regina lì, sul trono, ad osservarla per qualche tempo. I suoi occhi non si
staccavano da lei, e vedeva come ogni signora – di età giovane – quando le
toccava le mani, o si avvicinava un po’ troppo al suo viso le causava una
reazione palpabile nell’aria. I suoi occhi sprigionavano un’emozione che Elyce
riconobbe subito, e ne fu lieta: la gelosia.
Era vestita in maniera
elegante e straordinariamente sensuale, la regina, con quel vestito azzurro a
cristalli così inverosimilmente uguali al ghiaccio, e la corona sulla sua testa
la rendeva bella come una rara gemma di inestimabile valore. Portava un copri
spalle fatto di pelliccia bianca, e gli occhi erano glaciali. Poteva sentire il
freddo scivolare lungo la sua figura, e Elyce godette di ciò. Le piaceva, in
modo in cui la desiderava, eppure non accennava ad alzarsi per raggiungerla. Altezzosa
e intrigante. Bevve un sorso di idromele. Doveva contenersi solo un altro po’,
e poi...
Si licenziò dolcemente dalla
dama al suo fianco, e si avvicinò al trono, inchinandosi. La sala si fermò dal
vociare una seconda volta, trattenendo il respiro. Tutti volevano sapere come
la regina avrebbe reagito alla domanda più fatidica della sera.
«Mia regina, mi concede l’onore
di questo ballo?» Elyce parlò, guardandola con quegli occhi caldi e sensuali a
cui Elsa nonriusciva a resistere. Ella
si alzò dal trono, lentamente, avvicinandosi passo dopo passo a lei, e Elyce assaporò
ogni suo passo con dolce piacere. I suoi fianchi, le sue mani...era quasi
febbricitante, tanto il desiderio che trasudava in lei di concedersi almeno un
ballo con quella figura così alta e regale tanto straordinariamente
affascinante.
I loro occhi non si staccarono,
eppure Elsa godette – stranamente – di come si era concessa a lei – e soltanto
a lei – di ballare. La desiderata tutta per sé e lei, che mai aveva avuto
desideri egoistici, si sorprese di come si stava divertendo giocando con quel
fattore. La mano sospesa della dignitaria toccò quella della regina,
stringendosi in un’apoteosi di sensazioni.
Lei era il fuoco, la bruciante
passione dei sensi, la scottante bellezza del proibito e concesso.
E riconobbe in se stessa il
ghiaccio, l’inespugnabile fortezza di solide lastre di compostezza e
raffinatezza. In sé così bella così come pericolosa. Elsa sapeva che, in cuor
suo, poteva permettersi di ballare con lei solo per quel motivo. Si giustificò
così, ignorando lo sguardo di Anna e della plateale espressione di sorpresa, conoscendo
come la sorella mai aveva concesso un ballo a nessuno. Mai, fino a quel
momento.
Elsa tremò leggermente, a
contatto con le sue mani, ma il suo tocco – così familiare e caldo – la tranquillizzò
con una stretta dolcemente decisa. In lei regnava ancora la recondita paura di
ferire qualcuno con quelle emozioni che non riusciva a controllare.
«Sì.» disse, con poco fiato,
sorridendo impercettibilmente.
Si diressero al centro della
stanza, e gli occhi erano tutti a fissare quella coppia che, di primo acchito,
mostrava tutti gli aspetti di un contrasto unico.
Il rosso con il blu.
Il castano con il biondo.
La femminilità in una e la
bellezza androgina nell’altra.
Si avvicinarono, ormai perse
in quel momento dove esistevano solo loro, al centro di quella stanza.
I loro occhi, così come le
loro mani, assaporavano ogni momento di contatto che potevano avere.
E la musica partì.
Una musica lenta, dolce, di
valzer sussurrato, riempì le orecchie degli astanti, ammaliati dalle figure
così perfettamente congiunte la centro della sala, le sole a danzare quel ballo
tutto loro.
«Non pensavo che avresti
accettato.» sussurrò Elyce all’orecchio della regina, nel mentre di una
giravolta. La bionda voltò lo sguardo, il suo volto era così dannatamente
vicino da poter vedere ogni singolo dettaglio: la pelle lucida e scura, gli
occhi inebriati e profondi, le labbra fruste e sottili...
«È la prima volta che
succede.» ammise, ritornando a concentrarsi sui passi. Ma non era abbastanza
forte, come distrazione.
«Sono lusingata e onorata.»
disse, non scostando lo sguardo da lei. Elsa poteva quasi percepire il calore
del suo respiro sul suo collo scoperto dalla pelliccia. Era una cascata di
piacevoli brividi.
«Siete intrigante e
misteriosa, mia regina.» ammise, e gli occhi di lei tornarono ai suoi, curiosi.
«Non ho mai incontrato qualcuno come te nella mia vita. Sei perfetta.» l’emozione
della regina scaturì dalle sue mani ma, come se le avesse letto nel pensiero,
Elyce riuscì a contenere – senza la minima fatica – l’esplosione di ghiaccio da
lei.
«Come riuscite a fare
questo...?» domandò Elsa in un sol fiato, conscia che quello che riusciva a
fare non era nell’umana concezione.
«So fare questo e altro...»
ammiccò, sorridendole in modo beffardo. Elsa divampò d’imbarazzo, scostando lo
sguardo.
«Non sono perfetta come pensi,
Elyce...» ammise la bionda, il volto cupo «Sono stata chiamata “strega”, per
colpa di...questo.» e con lo sguardo indicò le mani. Ancora le bruciava quella
brutta sensazione di inopportuno che le creava quelle parole.
«Lo siete...» e lo sguardo di
Elsa scattò a lei, e Elyce vi lesse la rabbia, la delusione, per un barlume di
un momento. Poi la sorpresa durante il caschè,
portando i loro volti così vicini abbastanza da percepire le parole sussurrate
«...perché mi avete stregato il cuore.».
L’azzurro cozzò con il castano,
leggendo l’emozione e irrorando calore, e la mano sulla schiena era bollente e
allo stesso tempo piacevolmente eccitante. I loro volti così impercettibilmente
vicini al bacio, all’apoteosi dei sensi.
Un applauso spezzò la magia, riportando
le due donne alla realtà. Si staccarono, i loro sorrisi che trasudavano
imbarazzo e i volti rossi – emozione mascherata – mentre inchinandosi
accettavano i complimenti dei presenti. I balli ricominciarono subito, e le due
donne si videro separare da altre persone che volevano danzare con loro.
Elsa ammise un malumore e si
licenziò dalla festa, la mano sul cuore che non smetteva di correre.
Quando si chiuse la porta
dietro di sé, poté sentire ancora l’emozione di prima premere sul suo petto.
Ci era andata vicina. Molto vicina.
La falena non riusciva a
staccarsi dal fuoco.
Appoggiò la testa allo stipite
della porta, prossima alle lacrime.
“Cosa mi sta succedendo...?”
fu quello che continuava a domandarsi, per tutta la notte, dormendo a fatica,
sognando continuamente di essere in mezzo ad un incendio da cui non poteva
scappare e, ormai prossima alla morte, venir salvata da Elyce, prendendola in
braccio e stringendola in un bacio passionale da strapparle il fiato,
risvegliandosi ogni volta col fiatone e tutta sudata.
Anche se non fu l’unica a
passare una notte tormentandosi su cosa stesse realmente accadendo.
Elyce passò la notte tra sogni
concitati e momenti di silenzio a fissare le stelle, rodendosi l’anima su come
quella donna – appena conosciuta – fosse già entrata nel suo cuore. Aveva paura,
tanta.
Ma quel nuovo mondo – dove la
magia non causava motivo di nuove guerre e odio – l’aveva inebriata e
ammaliata, portandola a fare cose che si era promessa di non fare più.
Si guardò le mani, e le
strinse a pugno così forte da rendere le nocche bianche.
Che fosse un segno del
destino, forse?
Gli dei le stavano concedendo
una possibilità di remissione, con lei? Poter finalmente liberarsi di quel peso
opprimente che portava da anni?
Il sole era sorto in modo
pacato quel giorno, e la brina ancora disturbava la superficie dell’erba nata
nel cortile interno alla reggia di Arendelle. La regina si era svegliata
stanca, memore della nottata passata a sognare strane cose di cui non ricordava
la trama. In veste da camera, si stava dirigendo con calma alle cucine per una
leggera colazione quando, passando davanti alle vetrate del corridoio, vide con
sorpresa qualcuno allenarsi con foga al piano terra, in giardino.
Elyce, dopo aver dormito
qualche ora in modo pesante, si stava allenando con foga con una spada lunga e
bianca in mano, lanciando fendenti mortali ad un nemico inesistente. Elsa sorrise,
perdendosi a guardare i suoi movimenti fluidi, studiati e composti. Veloce e
scattante, e talmente presa nel combattimento da non notare il fatto di essere
osservata.
Si fermò per tergersi il
sudore e si girò a guardare la regina, sentendo la sua presenza alle spalle. Era
in veste da camera, una lunga vestaglia azzurra, impreziosita con ricami.
«Buongiorno.» disse, il volto
leggermente dorato di rosso.
«Buongiorno.» rispose Elyce,
con il fiatone. Rifoderò la spada, e cercò di rendersi presentabile. L’elegante
treccia della regina contrastava con i capelli ribelli e disordinati della
bruna, non ancora toccati da quando era scesa dal letto.
«È una bella giornata, no?» la
regina guardò il cielo, libero dalle nuvole.
«Già.» mormorò Elyce,
guardandola. Era incantevole, e bellissima, anche di prima mattina. «Almeno,
per me è bellissima.» ribadì, sogghignando. Lo sguardo della regina si colorò
di curiosità.
«E come mai, di grazia?»
chiese, notando l’atteggiamento con cui l’aveva detto.
La mora si avvicinò.
«Perché siete voi a renderla
tale.».
Elsa rimase muta, imbarazzata
di nuovo dalle parole fuorvianti e allo stesso tempo maliziose della donna.
«Avrei una domanda da farle,
Elyce, se non le dispiace.» la donna non capì quel suo atteggiamento chiuso, e
con un cenno le chiese di continuare. «È consuetudine, dalle vostre parti,
parlare ad una donna in questo modo...?» aveva soppesato le parole,
ricercandole, per paura di offenderla, o peggio. Ma stranamente Elyce, invece
di offendersi, iniziò a ridere.
«Dalle mie parti, come dite
voi, Elsa, non è consuetudine che una donna si comporti e si vesta da uomo, che
porti un’arma, che sappia usarla e che parli con le donne in modo malizioso
come faccio io.» disse, sogghignando. Elsa era ancora più confusa. E le si
leggeva in volto.
«E allora come mai...?».
Elyce la interruppe fermando
il suo parlare con un dito appoggiato alle sue labbra, vicinissima al suo
volto.
Le cinse una mano intorno alla
vita, portandola aderente al suo e Elsa, presa alla sprovvista, non la fermò
nel suo agire.
«Perché, Elsa...» le parlò,
accarezzandole il volto. «...io posso.». e sorrise, ridendo.
Elsa si staccò, contrariata. Si
aspettava una risposta diversa da quella.
Ma guardarla ridere, mentre
cercava di scappare da una palla di neve improvvisata le cancellò il fastidio prima
provocato. Dopotutto era vero.
Lei era o non era la regnante
della Terra del Fuoco?
Si avviarono verso la cucina
ridendo, mentre dal lato della montagna un uomo incappucciato con in mano un binocolo
aveva osservato la scena per intero.
Una donna bionda si avvicinò,
sensuale ed elegante. I capelli ricci si muovevano fluenti e liberi sulle
spalle, trattenuti da una coda. Gli occhi, verdi, trasmettevano energia e
leggeri brividi a chi li fissava.
«Allora, che si fa? Io mi sto
annoiando.» disse seccata all’uomo appostato, più anziano della giovane donna
che aveva parlato. Gli accarezzò una spalla, dolcemente.
«Non ti preoccupare, tesoro
mio. Il momento propizio si sta avvicinando.» disse, e baciò con foga la giovane
bionda. «Dobbiamo solo aspettare un altro po’, promesso.» negli occhi della
ragazza si poteva leggere il desiderio, e il bisogno.
Ma negli occhi di lui, neri
come la pece, si poteva leggere un solo sentimento. La vendetta.
Tre mesi fa – Terre del Fuoco
«So di non essere perfetta,
Elyce, ma per favore credimi! È stato solo un equivoco!» la donna parlava alla
figura di fronte a lei, era bionda, con una coda elegante che faceva scivolare
i capelli ricci sulle spalle in modo sinuoso, le vesti in disordine, colpevole
la troppa fretta nel metterli. Il collo mostrava evidenti segni di succhiotti,
e di morsi.
Ad ogni sfuggevole sguardo
rivolto a lei scivolava dagli occhi – così verdi, emanavano una scossa di vita
che adorava sentire sulla pelle – alla palese dimostrazione del suo tradimento.
Quei morsi, qui baci, quelle labbra rosse che non erano più suoi.
«Un equivoco.» disse, la voce
fredda come non lo era mai stata. Non era mai stata così glaciale, lei che il
fuoco ce l’aveva nell’anima.
«Sì! Ti prego, non mi
lasciare!» piagnucolò la donna, prendendole il braccio. Lo scatto di Elyce la
sorprese, si videro divampare scintille dallo scatto. Era la scossa che aveva
acceso il suo orgoglio ferito.
«Non mi toccare.» scandì ogni
parola con forza e autorevolezza. Ora i suoi occhi vibravano di fuoco nero, più
nero della pece, e di odio. Rabbia, invasione della sua anima fino alla più
piccola scintilla di essenza.
Lo poteva sentire, divamparsi
in lei, la sensazione del tradimento, dell’onore e dell’orgoglio ferito.
Anzi no, del cuore spezzato.
«Tu mi hai tradito!» urlò, le
lacrime scivolavano dal suo viso con prepotenza e così calde, scendendo sul suo
viso distrutto dal dolore. Soffriva, come raramente le succedeva, e ancor di
più mostrava la sua debolezza più grande alla persona che prima credeva l’amore
della sua vita.
«Elektra, tu mi hai tradito
con MIO FRATELLO!» sbraitò, le fiamme insorsero dalle sue braccia, l’odore di
bruciato si poteva sentir vorticare nell’aria, l’odore di zolfo bruciava nei
polmoni come se fossero nel centro più rovente di uno dei vulcani che
circondavano le loro terre. Gli occhi dal castano si evolsero in cerchi
irradiati di fuoco. Sembrava un mostro di indicibile paura e forza proveniente
direttamente dall’inferno.
«Io ti ho dato tutto, ed è
così che mi ripaghi?!» le fiammate si alzavano dal suo corpo, come se l’animo
che ora irradiava la sua anima – la rabbia e il furore del dolore – uscisse
letteralmente da ogni poro della sua pelle.
I capelli iniziarono a
muoversi di natura propria, l’anidride carbonica stava letteralmente togliendo
l’aria dai polmoni di Elektra. Un bruciore intenso la colpì alla spalla, e si
accasciò a terra, stringendo l’arto ferito. Un odore di carne bruciata vibrava
nell’aria, come accusa. Come punizione. Anche se non era solo la sua, di pelle
ferita. E la mano che l’aveva ferita era di lei, che ora la guardava con occhi
di fuoco.
Elyce stava letteralmente
divampando, e la pelle si scioglieva ed evaporava, di fronte agli occhi increduli
di Elektra. Il dolore era fulminante nel suo corpo, ma non come il suo animo.
«Se tu fossi stata più
presente tutto questo non sarebbe successo.» rispose, fredda e fulminea. Le
mani iniziarono a stridere, si sentiva nell’aria una tensione più potente del
resto. Elyce, avvolta nelle fiamme, da rosse diventarono blu, e la voce
cavernosa e gutturale, la pelle rossa e a tratti nera, mostravano i muscoli
scattanti bruciati sotto la pelle ormai inesistente, i vestiti che lentamente
si logoravano.
«Non darmi colpe che non ho!
Tu mi hai tradito, non io!» e con il braccio indicò con forza la porta, che
come toccata da una forte fonte di calore si aprì di scatto, come implodendo su
se stessa.
«Vattene! E non farti più
vedere!» sentenziò, e la ragazza si rizzò su in piedi, come presa da una
scossa, si avvicinò talmente tanto da rischiare di essere bruciata dalle fiamme
blu.
«Non dirmi cosa devo fare! Io
me ne vado perché ti lascio!» e si sentì come il rombo di un tuono, nella
stanza, pochi istanti e un lampo blu aveva scaraventato Elyce, completamente
spenta della sua furia contro il muro, facendo cadere suppellettili vari e
quadri.
«Tu sei un mostro, e io non mi
farò rinchiudere in un castello fatto di mura di fuoco solo perché tu hai paura
del mondo esterno!» sbraitò la donna, alle lacrime. La spalla urlava di dolore,
ma piangeva di più la sua anima. E le lacrime che scendevano non si contavano
più ormai. Il corpo vibrava, come presa da una scossa continua di dolore.
Poteva sentire l’elettricità scorrerle nelle vene, a malincuore. Odiava quel
suo aspetto fulmineo e immediato. E soprattutto, quel suo dannato potere.
Elyce, come niente, si tirò
su, ferita nel corpo così come nell’anima.
«Se io sono un mostro,
Elektra...» disse, guardandola mentre la pelle tirava su tutto il suo corpo.
L’odore di bruciato impregnava la stanza così come la rabbia nella sua anima.
Si sentiva tremare il cuore, e sentiva che non poteva resistere a molto, ma
doveva scagliare quell’ultima lancia, e avrebbe ferito lì, dove non basta qualche
benda e unguento a curare il male: il cuore. «Tu, che cosa sei?».
Sentì come un vetro spezzarsi,
rompersi in mille pezzi e scagliarsi comprimendosi nell’aria eterea della sua
anima, sentì il quadro – che traeva loro due, insieme, abbracciate e
felicemente innamorate – cadere sul suolo del suo cuore, spezzarsi e spargere
scaglie di dolore e lacrime.
Elyce sentì l’effetto che
aveva provocato e le aveva gelato il cuore. E così come erano nate, le fiamme
che ricoprivano il suo corpo svanirono, lasciandola lì, ferita e dolorante.
Si alzò in piedi, la pelle
tirava e faceva male, ma così come era andata a fuoco, lei si erse come una
fenice che rinasce dalle ceneri. E dal dolore.
«Vattene via, Elektra. E non
tornare mai più.» la pelle, che lentamente tirava, si ricostruiva creando un
rumore frivolo di pelle che lentamente scivola su qualcosa di rovente.
Elektra scattò, e fuggì,
piangendo.
Quelle poche vesti, e quei
capelli disordinati e ancora memori dei momenti di passione sparirono dietro lo
stipite della porta bruciacchiato, i piedi nudi che rimbombavano per il
corridoio di pietra scura.
Elyce si girò, guardandosi le
braccia.
«Tsk.»
mormorò stizzita, odiando quel suo scoppio. Si cambiò velocemente, rivestendosi
alla meno peggio.
Guardò i danni intorno a lei,
e fu come se fosse tornata su quel campo di battaglia.
Il vessillo che cade, e il dolore che si irradia. Sentì scoppiare in
lei qualcosa come una bolla di odio e rabbia.
Non ricordava molto altro, a parte il dolore e l’odore di carne
bruciata. Quando rinvenne suo fratello la guardava con in mano uno scudo fatto
di metallo rozzo ricoperto di nero, fumante. Intorno a lei solo terra bruciata.
I cadaveri sprigionavano fumi di odore acre e pungente dalle bocche nere e
alcuni ancora sfrigolavano. All’inizio non intuì, ma poi capì cosa era successo.
Enos la guardava con occhi spaventati, così come non l’aveva mai guardata. Era
completamente nuda, in mezzo a quella desolazione di solo fuoco, alcuni focolai
erano ancora accesi, poco lontano. Il vento iniziò ad alzare le ceneri dei
morti. Quel giorno venne chiamato il Giorno Grigio. Sopravvissero solo loro
due.
Si odiò, e si maledì. Non doveva succedere, non doveva.
Eppure lei era li, e la madre aveva visto giusto nei suoi occhi.
«Tu hai il fuoco dentro di te, Elyce, figlia mia. Non reprimerlo.» Elyce
eluse la sua frase, ignorandola. Non voleva accettare quella maledizione che
incombeva su di sé. Erano nella tenda del loro accampamento, tra poco avrebbero
iniziato la battaglia finale, la disfatta del tiranno e finalmente l’unione
delle Terre di Fuoco sotto il loro casato e protezione. Sotto il casato di suo
padre.
«Ho dato alla luce una brava figlia, ma ho acceso qualcosa di molto più
grande che una sola vita. Elyce...».
«Madre. Ti prego. Basta...» mormorò la ragazza. Non sopportava queste
sue parole dolci. A lei, che era un mostro. I suoi poteri erano una menomazione
del dono degli dei. Sua madre veniva da un casato molto alto, ma il padre era
un semplice guerriero. Era una nobile sporca di nascita. Quei poteri non erano
una benedizione, ma bensì una maledizione. Era una punizione degli dei stessi.
Per ricordarle che non c’era posto per i mezzosangue in mezzo al banchetto dei
guerrieri.
Ancora persa nel guardare l’ultimo
spiraglio del fantasma del suo passato – Elektra - suo fratello entrò
trafelato, si teneva le lenzuola attaccate al corpo nudo, i capelli
scompigliati e gli occhi strabuzzati, scorgendo lo scompiglio e l’odore di
bruciato. La guardò, impaurito.
«El...».
«Taci.» disse, con il tono
spento. «Lasciami sola.» mormorò, con la voce stanca. Il volto, era stanco. Gli
occhi erano rossi per le lacrime, e rivestita di stracci bruciacchiati, si inginocchiò
a terra, stringendosi il petto.
«Elyce, scusami, io...».
«VA VIA!» urlò, e sentì di nuovo
quella vena di orda entrarle nei polmoni e premere, per uscire. Ma non poteva. Le
lacrime offuscavano la sua vista, e appoggiò la testa a terra. Il respiro
affannoso e breve, sempre più veloce e corto, e il corpo scosso da convulsioni
forti che la facevano sussultare sul posto.
Pulsava, il suo cuore, e
straripava di marciume e dolore, ripiena di disgusto per se stessa, riscoprendo
la vena del mostro che pulsava in lei, che usciva e feriva ciò a cui teneva di
più.
Ma no, tutto poteva bruciare:
lei, il suo castello, il mondo, tutto poteva bruciare.
Tutto, ma non suo fratello.
Tutto può bruciare, ma non lui... non di nuovo.
Quando il vessillo cadde Enos sentì l’esplosione di un urlo. E riconobbe
la voce di Elyce.
E poi ci fu il fuoco, una fiamma alta e nera, come se un vulcano si
fosse risvegliato in lei. Sgorgava fuoco e morte, e poteva sentire il calore
propagarsi fino a lui. Lo scudo che portava al braccio lo protesse dalla prima
ondata di fuoco esplosa da lei. I nemici caddero, spaventati.
«Un mostro, aiuto!» inveivano, correndo via, spaventati. Ma Elyce non
ebbe pietà, per nessuno di loro.
Continuava a urlare, sua sorella, e il dolore si poteva udire ovunque,
come delle unghie che grattano contro la superficie interna della sua anima,
inondandolo di rabbia, sporcandola di sangue e lacrime, sperperando la voce al
di là del Velo e richiamandoli dall’aldilà. Ma la madre non rispondeva all’urlo
disumano di sua figlia.
Riuscì a scorgerla, da lontano, e per la prima volta in vita sua, Enos ebbe
paura di lei.
Era avvolta da questa fiamma nera, che aderiva al suo corpo come magma
che scorre sulla sua pelle, ricoperta di rosse ventate che la sollevavano da
terra e – come se il destino volesse prenderla in giro – queste folate rosse
disegnavano dietro di lei delle specie di ali, che la tenevano sospesa a mezz’aria.
Un angelo del dolore, e del fuoco.
Gli occhi non erano che piccole scaglie bianche nel nero, così come
quando scaldi talmente tanto il ferro da irradiare una luce da accecarti.
In quel contesto, dove il sangue evaporava e i corpi si carbonizzavano
all’istante ad ogni ventata, Elyce sembrava un demone proveniente direttamente
dall’inferno.
«Elyce...» mormorò, come chiamandola. Stava piangendo, di nuovo, e le
lacrime solcavano il suo viso. «Scusami...» si inginocchiò, perdendo per un
secondo la cognizione di dov’era e cosa stava succedendo.
La seconda ondata di calore lo irradiò, prendendolo di sorpresa. Era
così potente e bollente che il braccio a contatto con il ferro dello scudo
prese fuoco, bruciandolo. Quest’onda d’urto colpì tutta l’area, bruciando i
fuggiaschi e chi – ancora – era vivo dalla prima ondata.
Il suo urlo, così come improvvisamente era iniziato, finì d’un botto.
La vide crollare a terra. Si guardò intorno, ferito e dolorante. Lo
scudo – stranamente – era sopravissuto.
Era l’unico, in piedi, e vivo. Solo lui e sua sorella. Il silenzio ora
era diventato assordante. Niente urla, niente voci di persone che scappavano. Solo
il suo respiro affannato. E il vento.
Si avvicinò al suo corpo, o almeno così sembrava. Era raggrinzito,
carne bruciata, eppure ancora respirava. La sentiva, rantolare, stesa a terra. E
poi, lentamente, la vide rinascere dalle ceneri, la pelle che ricresceva, nuova
e lucente. Pochi minuti e Elyce era lì, distesa a terra, a respirare,
completamente nuda. Lui si avvicinò un altro po’, spaventato e cauto, con lo
scudo ormai nero e bruciato, pronto a difendersi ancora una volta, il braccio
pulsava di dolore.
Aprì gli occhi e si alzò, Elyce, e si guardò intorno.
Per un breve secondo non comprese cosa era successo, e poi capì tutto. Si
girò cercando il fratello, e se lo vide di fianco, sporco e sanguinante.
«Enos...cosa...» e poi ricordò, il fuoco. E il mostro che aveva in sé,
sempre represso, intrappolato, che aveva trovato la libertà nel suo dolore. Nella
morte dei suoi genitori.
«No...» piagnucolò, e vide il suo braccio, completamente ustionato. «O
mio dio, Enos, cosa ti ho fatto!» scattò, avvicinandosi, e lui d’istinto si
ritrasse, spaventato che potesse essere ancora rovente.
Elyce si raggelò, vedendo come la guardava, e come si comportò.
«O mio dio...» disse, portandosi la mano alla bocca, stringendosi
mentre le lacrime scorrevano. «Stai lontano da me!» disse, alzandosi, cercando
di allontanarsi da lui, e inciampò in un corpo, ritrovandosi distesa in mezzo a
scheletri neri. E la fissavano.
L’accusavano.
«Elyce, scusa io...».
«Stai lontano da me!» urlò, rialzandosi, sporca di ceneri. Le ceneri
dei suoi nemici. Delle sue vittime. «Sono un mostro! Sta lontano da me! Ti prego.»
lo guardava piangendo.
«Non posso sopportare di farti del male...ancora.» biascicò, cadendo in
ginocchio stringendosi il petto. La testa appoggiata a terra. L’odore di cenere
tutta intorno.
Il respiro diventò veloce e agitato, e il corpo preso di sussulti.
Il suo pianto riempì il vento che volava, placido, lungo la radura,
trasportando le ceneri in ghirigori gentili nell’aere.
Enos, alla richiesta della
sorella si allontanò, e lei lo vide. Il suo braccio, ormai guarito, era ancora
ricoperto da quella patina traslucida della pelle bruciata. Ancora, nel suo
cuore, maledì quel giorno e maledì se stessa. Odiandosi, e stringendosi cercò
di contenere il dolore. La rabbia. Si rialzò, dopo così tanto tempo che le ossa
e le giunture facevano male. Si cambiò e uscì. L’arte della spada l’aveva
sempre calmata.
Enos guardava dalla finestra
con occhi tristi sua sorella, mentre perdeva sudore nel muovere quella spada
troppo pesante per le sue braccia. L’unica cosa rimasta di suo padre fu quel
pezzo di ferro.
Una spada a due mani molto
pesante, forgiata direttamente da lui, che prima era un fabbro, uno dei
migliori.
Vi era inciso sopra il simbolo
del loro casato, quello della loro madre.
Era l’unica cosa che
possedeva, Elyce, e che usava per cercare conforto e allo stesso tempo
punizione.
Lui, d’altro canto, aveva
tenuto lo scudo. Era un regalo della madre, che reputava il figlio troppo
impulsivo. Sorrise dolcemente all’idea che quello scudo lo aveva protetto non
dai nemici ma dalla propria sorella.
Elyce cadde per terra,
stremata, il sole ormai stava calando, e la sera stava giungendo.
Ma il suo volto non era
cambiato, aveva la stessa espressione di prima. I loro occhi si incrociarono,
per un secondo.
Enos li fuggì. Conscio dell’errore
commesso. Di tutte le donne che poteva avere, aveva scelto quella più
sbagliata. L’unica scusante – se non mezzo per cercare di ridurre il proprio
senso di colpa – era il fatto che aveva bevuto troppo quella sera. Non ricordava
nemmeno cosa era successo durante la notte, con lei.
Ma non serviva a niente, Elyce
non parlava. E non lo fece, per settimane.
Alla fine, la vide sorridere,
una mattina. Stava parlando con la nuova ragazza addetta alla cucina. E sorrise
anche a lui. Fu un perdono sottile, e lento. Senza parole.
Ma è sempre stato così. E ci
passò sopra, il ragazzo.
Inconsapevole del fatto che la
sorella non aveva perdonato se stessa di ciò che era successo. E che si era
convinta del fatto che lui non c’entrasse niente con tutto ciò. Era stato un
mero strumento nelle mani della ragazza. Questo Elyce lo sapeva per certo.
“È una maledizione, quello che
mi porto dentro. Sarebbe così facile, liberarsene. Ma non posso.”.
«Elyce, tesoro mio...» la madre la chiama dolcemente, la luna brilla
opaca, ma è la madre che illumina la stanza. Il suo potere è sempre stato la
luce. Dove voleva, ovunque andasse, rischiarava di luce. Ed era bella,
illuminata durante la notte, ed era dolce e calda, quel brillio tenue che si
portava dietro. Come la sua pelle, e il suo sorriso.
«Sì, madre?» la bambina gioca con il dito guardando quel fagotto
piccolo nella culla, il nuovo erede dato alla luce.
«Mi fai una promessa?» chiese la madre, guardando la figlia, con i
denti mancanti e il sorriso a groviera. I capelli ribelli e spettinati, come un
ragazzino senza padrone.
«Certo, madre!» disse alzando la voce squillante, e il fagotto si mosse
disturbato. La bambina, preoccupata, abbassò il tono e sussurrò uno “scusa”
flebile e debole, quasi impercettibile. Non sapeva come mai, ma le era molto a
cuore il benessere di quel bambino un poco cicciottello.
«Devi badare a tuo fratello, quando crescerà. È questo quello che fa
una sorella maggiore, sai?». La bambina la guarda, stranita. Non capisce.
«È il tuo dovere di sorella, devi stare attenta che lui non si faccia
male e che stia bene.» cercò di spiegare, sorridendole. Il bambino stringe a
pugno il dito della sorellina.
È destino.
«Sì madre. Starò attenta.».
“Ti ho fatto una promessa,
mamma. E la manterrò.”.
«Elyce, scusami se ti faccio
questa domanda, ma è da ieri che ci penso.» Elsa era passata velocemente al tu,
così come la mora, che camminava di fianco a lei verso le cucine.
«Dimmi.» e le sorrise
dolcemente. Sentire il suo nome pronunciato dalla voce dolce ed elegante della
bionda la inebriava.
«Quest’uomo che è scappato,
che cercate, sapete chi è?». Lo sguardo di Elyce si ombrò, e Elsa si rammaricò
della sua curiosità. Ma non poteva ignorare ancora a lungo quel discorso, prima
o poi doveva affrontarlo.
«Quest’uomo che cerco,
scappato alla giustizia del mio paese, che ha ucciso mia madre e mio padre in
una imboscata e che fu il primo a dare inizio alla guerra civile, sì, lo
conosco. E molto bene, purtroppo.» disse, con un velo di tristezza ma anche di
dolore. Di rabbia. Le fiamme dei suoi sentimenti si potevano leggere al di là
delle sue parole. Li sentiva ardere nel suo animo, e Elsa notò il suo
cambiamento di postura – più rigida – e del parlare, più concitato. Si domandava
sempre di più come mai questa donna, dall’animo così focoso e istintivo,
riuscisse a contenere tutto dentro di sé, lasciando trasparire ciò che prova
solo con gli occhi.
«Vostro zio?» rimase stupita,
Elsa, nel sentire quelle parole.
«Sì.» disse con amarezza
Elyce, lo sguardo basso. «È il fratello gemello di mia madre, ma si ribellò
quando lei prese il posto di mio nonno come erede della casa Brandjӓrn, invece di scegliere lui. Il suo rancore lo
portò alla guerra civile. È una serpe in seno alla civiltà, quell’uomo.»
strinse i pugni dalla rabbia.
Elsa camminava silente al suo
fianco, le mani giunte al ventre, pensierosa. Lo sguardo che poggiava su di lei
era saturo di pacata compassione, come un petalo accarezza il dito che lo
sfiora.
«Avete provato a parlare? Fa
pur sempre parte della vostra famiglia...» suggerì Elsa, ricordando il rapporto
tra lei e sua sorella Anna.
«Sì. Anche mia madre ha
provato a parlargli, numerose volte.» lo sguardo diventò ombrato da ricordi
dolorosi. «Otteneva sempre astio da lui, e ne soffriva.».
Alzò lo sguardo, vide il
fratello parlare con le guardie del castello.
«Io non saprei che fare, se
lui...mi odiasse.» mormorò, dando voce alle sue inquietudini.
«Anch’io.» sussurrò Elsa, e si
guardarono per un istante, collegandosi per un secondo che divenne era. Puri
anni istantanei persi ognuna negli occhi dell’altra. Fu Elyce, stavolta, a
scostarli. Aveva sentito una vibrazione nell’anima troppo forte. Ricordi
dolorosi e il cuore che riprende a palpitare di un’emozione dimenticata e
maledetta.
«Mi scusi, regina...» e con un
breve inchino si girò, rinfoderando la spada.
Elsa la guardò con occhi
dispiaciuti, non comprendendo il suo istantaneo allontanamento.
C’era qualcosa di sconosciuto
nel suo cuore, la bionda lo aveva capito. Ma non sapeva ancora darvi una forma.
O un nome.
Enos vide la sorella, e le
corse dietro, chiamandola. Ottenne un ordine perentorio di non seguirla,
bloccandolo sul posto, vicino alla regina. Gli bruciava nell’animo, quel tono
di voce. Gli ricordava un’epoca che considerava dimenticata.
«El!» chiamò Enos, riuscendo finalmente a
vedere la sorella uscita da una stanza. Lo guardò con occhi spaventati, si
guardò intorno. Non vide nessuno. Non poteva...
«Giochiamo insieme!» disse, correndo verso di lei.
«NO!» le impose, intimandogli di fermarsi. Gli occhi erano colorati di
rabbia.
Enos non capì che la rabbia era rivolta a se stessa, e non a lui.
«Non seguirmi.» gli intimò, e iniziò a correre per il corridoio.
Sparendo dietro un angolo del corridoio, lasciando il bambino a giocare da
solo.
«Cos’ho fatto?» disse ad alta
voce, rivolgendosi di più a se stesso, che non alla regina di fianco a lei.
«Niente, Enos.» gli rispose,
accarezzandogli un braccio, con occhi colorati di pensieri cangianti.
«Non è vero.» disse, scostando
il braccio «Non è mai “niente”.» calcò l’ultima parola con forza «Non mi merito
questa freddezza, se non ho fatto “niente”.» e gli occhi facevano trasbordare
l’animo ferito del ragazzo. L’uomo si voltò, facendo lo stesso gesto della
sorella, andando dalla parte opposta.
Elsa guardò entrambi camminare
per i corridoi del castello, in opposizione.
E capì che c’era qualcosa di
sospeso, tra i due fratelli, irrisolto. Forse, da anni.
I giorni nel castello
sembravano uguali tra di loro, Enos ed Elyce aspettavano notizie che non
arrivavano dalla guardia della regina Elsa. La regina della Terra del Fuoco
mandava missive su missive, il suo regno neonato sentiva la mancanza di una
regnante sempre presente, e questo pesava sulle sue sole spalle, confinandola
nelle sue stanze per la maggior parte del tempo, a parte gli ormai quotidiani
allenamenti mattutini. E le cioccolate consumate in compagnia di Elsa.
«Oggi sei più silenziosa del
solito, Elyce.» disse Elsa, sorseggiando la bevanda calda.
La donna, vestita negli abiti
regali, aveva lo sguardo perso verso il basso, le gambe incrociate e una mano
sorreggeva la tazza sovrappensiero. «Elyce?» la richiamò la bionda, notando lo
sguardo perso e la non risposta.
«Sì?» finalmente alzò lo
sguardo, ma lo scostò subito. Rifugiandosi nella cioccolata ormai fredda. Il
battito del suo cuore che accelerò per un secondo, sentendo la sua voce
chiamarla.
«Cosa c’è che ti turba?» Elsa
poggiò la tazza, tintinnando leggermente con il piattino. La biblioteca era
silenziosa nei pomeriggi corti dell’inverno, e il fuoco che scoppiettava al
loro fianco riscaldava la stanza in modo tenue.
Elyce poggiò la tazza, si
sporse in avanti e incrociò le mani.
«Non ho detto niente. È da
mezz’ora che stiamo in silenzio, a bere la cioccolata, così come le volte
scorse.» Elsa incrociò le caviglie, ed Elyce seguì il suo movimento con gli
occhi, rapita «Cosa c’è che non va, Elyce?».
“Non posso dirglielo” pensò
Elyce, diventando leggermente rossa, scostando gli occhi dalle sue gambe,
evitando con disinvoltura gli occhi.
«Non ignorarmi. Per favore.»
Si chinò in avanti, ricercando il suo sguardo. Ne aveva bisogno, Elsa, e non
sapeva perché.
«Scusami.» e alzò gli occhi,
Elyce, raccogliendo tutto il suo coraggio per guardarla e tutta la sua forza
per non discostare lo sguardo. Si fissarono, per qualche minuto, e nessuno
delle due parlò.
Quegli occhi, così caldi, le
accarezzavano l’intima parte della sua anima, ricordandole un calore
dimenticato. Sottile, e delicato, come un bacio appoggiato al volto.
«È per via di tuo fratello?»
domandò Elsa, cercando di carpire qualche informazione dal suo sguardo.
“Tutto, fuorché questo.”.
«No, mio fratello non c’entra
niente.» rispose, e scostò lo sguardo, ritornando al solito punto perso tra l’aria
e il pavimento.
«A me sembra tutto il
contrario. Lui ti vede meno di me. E questo per me è tanto.» affermò,
osservandola. Elyce si passò una mano nei capelli e incrociò le braccia,
appoggiando il busto allo schienale della poltrona.
«È normale, ho molte cose da
fare, visto che sono lontana dal mio paese. È giusto così.».
«Non è vero, dovresti
dedicargli qualche minuto del tuo tempo, così come fai con me. Mi metti in una
difficile situazione, Elyce.».
«E perché mai?» lo sguardo
della mora diventò tagliente, la ramanzina che stava ricevendo non le piaceva
per niente.
«Perché mi sembra ingiusto che
ti vedo di più io, Elyce, che non lui, che è tuo fratello.» e lo sguardo della
regina diventò freddo e allo stesso tempo combattuto. «Non è giusto, e tu lo
sai. Per cosa lo stai punendo?».
«Punendo?!» disse, alzandosi
in piedi. «Cosa ti ha detto?!».
“Cosa gli ha detto Enos?!”
iniziò a pensare la mora, elaborando tesi su di lui che gli parla dei suoi
poteri, di lui che parla di come sia fredda e calcolatrice, di lei. Sua
sorella. Un mostro.
«Niente, non mi ha detto
niente, Elyce.» Elsa vide l’agitazione della donna, vide i suoi occhi ricolmi
di paura, e di timore. Ma per cosa? Cosa nascondeva quella ragazza dalla
carnagione scura e da un passato burrascoso?
Di cosa aveva paura, Elyce?
«Bene.» e si calmò, per un
secondo. Poi si incamminò verso la porta, la finestra mostrava il sorgere del
sole ormai. «Scusami, ma ora devo andare. È stato un piacere, Elsa, come sempre.»
gli dava le spalle, la mora, e sentiva il suo sguardo su di lei. Poteva quasi
immaginarlo. Lei sporta sul bracciolo, con quegli occhi così belli e dolci, che
le supplica di restare. Almeno un altro minuto, e non di lasciarla lì, a metà
di un discorso che la rendeva giudice e accusatrice, senza speranze di
redimersi, e lei, Elyce, la colpevole e vittima.
Si girò, e vide quello che
aveva immaginato farsi realtà. La guardava, Elsa, come per dire “non andare”.
Ma la mora chinò di poco il capo, e chiuse la porta dietro di sé. Chiudendo il
discorso scappando, come sempre, per evitare dolori ad entrambi, per evitare a
lei di sbagliarsi, di essere nel giusto, di sperare in qualcosa che non doveva accadere.
Di non permettersi di
innamorarsi di nuovo, non di lei, non di Elsa. Perché non poteva permettersi un
altro sbaglio, un altro dolore.
Non poteva.
Elyce corre, corre nella
foresta, sente che sta per scoppiare, e non può farlo. Non deve farlo.
Inciampa, cade giù da un
dirupo e si scontra con qualche ramo, nella caduta, atterrando su un giaciglio
di neve ghiacciata.
«Ah...» si rialza, Elyce, e si
appoggia con una mano ad un tronco, che istantaneamente inizia a fumare, come a
contatto con qualcosa di rovente.
«NO!» e stacca la mano, Elyce,
come se si fosse scottata. L’impronta della sua mano si poteva scorgere sulla
corteccia, marchiata a fuoco.
«No. No...No...» incrocia le
braccia, e china sulle ginocchia inizia a dondolarsi. Gli occhi ricolmi di
paura, di terrore, di dolore.
«Ti prego basta...» ma le mani
iniziano a scoppiettare, come il fuoco appena acceso. La neve intorno a lei si
scioglie, mostrando un terreno nero, duro, sterile. Rami secchi che iniziano a
prendere fuoco intorno a lei.
«Fermati. Basta!» parla,
Elyce, come una litania, ma è più una preghiera verso se stessa, che non verso
gli dèi.
“Ti prego, fermati...” lo
sente ribollire dentro di sé, quella foga, quel fuoco che mangia e divora la
sua anima, che vuole uscire. Come un animale in gabbia, graffia le pareti e
pretende di uscire, ruggendo e scalpitando.
«Ciao bellezza...» una voce la
riscuote e la fa scattare in piedi, guardando un uomo incappucciato.
Ne spuntano fuori altri due,
dalle sue spalle, armati di randelli.
«Cosa ci fa un bocconcino così
da sola in mezzo alla foresta?» l’uomo che aveva parlato prima muove la spada
con fare sicuro.
Elyce è spaventata. Ma non
dagli uomini intorno a lei, ma dal potere che sente, non si è assopito. È pericolosa.
«Scappate, vi prego! Non
voglio farvi del male!» mormora la ragazza, stringendo le braccia intorno a sé.
Gli uomini non si accorgono che trema non per la paura, ma per evitare di
scoppiare.
«Oh, stiamo tremando di
paura...».
«Suvvia, dolcezza, non ti
facciamo niente...».
«Sì, vieni con noi, che ci
divertiamo.» l’uomo sogghigna, mentre la mano scuote il cavallo dei pantaloni.
«No...» Elyce mugugna di
terrore. Non vuole altri morti sulla coscienza. Ne ha già a migliaia.
Il giorno delle ceneri già
grava sulla sua coscienza.
Si sente una mano appoggiare
sulla spalla.
«NO!» e l’uomo ritrae la mano
urlando dal dolore, la mano ridotta a carne bruciata.
«Puttana!» gli urla l’uomo
affianco, cercando di colpirla con il randello di legno. Elyce, inconsciamente,
pone la mano nella traiettoria, e una vampata di fuoco riduce in cenere l’arma,
rendendo vano l’attacco dell’uomo che, spaventato, si allontana e scappa.
«Mostro! Muori!» Elyce vide,
con la coda dell’occhio la spada arrivarle sul fianco e lei chiuse gli occhi,
pronta a sentire la fitta di dolore. Ma non arrivò. Aprì gli occhi e vide che l’uomo
aveva lasciato cadere a terra il moncherino di una spada fusa e resa rovente.
«Mostro!» gli urla di nuovo,
tenendosi la mano ferita. Una vampata di fuoco bruciò i due uomini intorno a
lei. Gli occhi di Elyce erano rossi come il fuoco che la dominava.
«Non chiamarmi “mostro”.» Era
fredda, distaccata, come lontana dalla paura che la dominava. Era cosciente che
ora quegli uomini dovevano morire. Nessuno che vede il suo potere manifestarsi
può rimanere vivo.
Il fuggitivo tornò con altri due
uomini, pronta a ucciderla. Bastarono pochi istanti per renderli carne
bruciata.
Così come si era accesa,
Elyce, si spense in pochi istanti. Gli occhi tornarono castani, e riprese il
controllo di sé. E così come tornò la coscienza, tornò la paura, tornò il
terrore. E il disgusto verso sé stessa.
«No...» Elyce piange, e le
gambe le vengono meno.
Altri cinque uomini che la
fisseranno durante gli incubi, altre cinque anime che brameranno vendetta. Altre
tacche sulla sua coscienza.
«Mi dispiace...Mi dispiace...»
mugugna Elyce, sentendo la bestia dentro di sé ritornare al suo posto. Come
soddisfatta.
«No...» le lacrime le
impediscono di vedere l’ombra che la fissa dall’alto della radura.
Un sogghigno passa sul volto
dell’uomo incappucciato, e svanisce, inghiottito da un’ombra nera.
[So
chi sei, ho camminato con te una volta in sogno]
(Once
Upon A Dream – Lana Del Rey)
Enos
era appoggiato alla colonna del piano superiore del castello, che dava sul
giardino interno. La luna era magnifica, quella sera, ma il ragazzo non vi
badava, perché i suoi occhi erano concentrati su qualcos’altro, o meglio, su qualcun
altro.
Anna,
inconscia degli occhi di Enos su di sé, parlava con Olaf nel giardino, entrambi
distesi a guardare la luna.
Enos
la ammirava da lontano, osservandone i movimenti, ascoltando le risate che
giungevano alle sue orecchie. Sorrideva mestamente il ragazzo, conscio che non
voleva avvicinarsi di più. Per ora voleva solo guardarla. Guardare i suoi
capelli rossi adagiarsi sul terreno, le mani muoversi verso il cielo, indicando
le stelle. Perdersi nei meandri del suo corpo disteso e nei suoi pensieri,
immaginando cosa nascondesse quella donna sotto le vesti...
Immaginò
di essere lui Olaf, di poter vedere da vicino quel sorriso, di sentire solo lui
la sua risata, anzi di essere lui a farla sorridere. Di essere solo lui quello
che le sfiora il vestito con delicatezza, giocare con le sue ciocche, di essere
lui a poterla baciare sotto la luna piena.
Le
sue fantasie vennero spente dall’entrata in scena del biondo ragazzo di nome Kriguoff – o Krigoff , o
Kristoff, non ricordava bene.
Anna
si alzò e l’abbracciò, dandogli un bacio delicato sulle labbra. E tutto finì
lì, lui si allontanò, dirigendosi alla stalla insieme a una renna – una renna,
ma che razza di animale da compagnia aveva?! – e lei riprese a parlare con
Olaf.
Ma
che razza di fidanzati erano quelli?
«Ti presento il mio fidanzato, Enos.»
disse la rossa, indicando un uomo biondo alto più o meno come lui. Gli strinse
la mano, e sentì che la presa di lui non era per niente forte.
Non era per niente contento di
stringergli la mano.
«Piacere.» mormorarono entrambi, reticenti
a parlare. Anna passava gli occhi prima su uno e poi sull’altro cercando di
carpire il motivo del loro comportamento.
Il trio, con il susseguirsi di Olaf,
andarono in giro per il borgo, passeggiando per le vie.
E il ragazzo notava come si
comportavano, e più li guardava più non capiva. Si comportavano come amici, per
la maggior parte del tempo, e lui era peggio di lei in questo.
“Ma questo ha mai avuto una ragazza in
tutta la sua vita?” pensò il ragazzo, scrutandolo.
«Anna.» bisbigliò Kristoff all’orecchio
della ragazza «È da quando me lhai presentato che mi fissa. È inquietante!»
confessò all’orecchio della donna, mostrando disagio sul volto.
«Lo so!» rispose bisbigliando la
ragazza, e andò a parlare al ragazzo, chiedendogli se andava tutto bene.
«Sì, tutto apposto.» e li guardò in
maniera strana, prese il coraggio a due mani, e fece la domanda che gli
frullava nella mente ormai da ore.
«Ma voi due da quanto tempo siete
fidanzati?» domandò, e vide il rossore passare tra i due. Lui si grattò il
retro della testa, sistemandosi il cappello in testa. Lei scoppiò in un
risolino nervoso.
«U-un anno
circa, vero cara?» rispose lui, imbarazzato.
«Sì, sì, quest’estate facciamo un anno.»
aggiunse lei, prendendolo a braccetto, si voltò e lo guardò sorridente.
Enos perse un colpo al cuore.
“Un
anno. Secondo me lui è vergine, da come si comporta con lei.” I pensieri, ora
diventati di astio verso l’uomo si rispecchiavano sul suo volto. Sentì una mano
sulla sua spalla e, colto alla sorpresa, si girò compiendo una presa di
pressione sul polso.
«AHI!»
urlò Kristoff, dal dolore.
«Oh,
scusa, non mi ero accorto che fossi tu.» disse il ragazzo, mollando la presa.
Ma, internamente, sorrise.
«Wow...sei
forte...» disse l’uomo, stringendosi il braccio. Poteva ancora sentire la
pressione sul polso, e gli faceva ancora male.
«Anni
di allenamento.» rispose distratto, tornando ad appoggiarsi alla colonna.
«Oggi
la luna è bellissima, vero?» domandò il biondino, guardandolo di sbieco.
“Proprio
adesso vuoi intavolare una conversazione con me?” pensò il giovane, ma quando
vide Anna incamminarsi all’interno del castello si arrese.
«Sì,
bellissima. Non l’ho mai vista così vicina.» rispose, con tono neutro «Posso
chiederti una cosa? Da uomo a uomo.» incalzò il ragazzo, fissando intensamente
il biondo.
Lui
si grattò la testa, deviando per un secondo lo sguardo. Platealmente in
imbarazzo, parlò.
«Dimmi
pure, Enos.».
«Ma
tu...sei vergine?».
Il
biondo rimase come bloccato un secondo.
«Come?»
domandò, sperando di aver sentito male. O meglio, che il ragazzo avesse usato
un termine sbagliato.
«Hai
mai scopato?» riformulò in modo più plebeo la domanda, domandandosi se l’uomo
di fronte a lui stesse evitando volontariamente l’argomento.
«Ecco...Ma
sì! Che domande! Sono un grande donnaiolo io!».
«Bugiardo.»
Enos aveva gli occhi fissi su di lui, come se potesse leggergli dentro. Era troppo
strafottente, e il suo linguaggio del corpo diceva il contrario. Tutto
platealmente il contrario.
«Ehm...»
il silenzio calò sul dialogo «Ma Enos, tu non hai diciotto anni?» domandò il
biondo, spiazzato da come un ragazzo così giovane possa già sapere tutto
su...quell’argomento.
«Sì,
e allora?» il ragazzo aveva un ciglio alzato «Nella mia terra a sedici anni
diventi adulto, e puoi andare con le donne, per tua informazione.» Kristoff
sbiancò.
«Oh...Davvero?»
il biondo non sapeva capacitarsene.
«Sì...
E al bordello mi conoscono come “Enos l’insaziabile”.» disse, tutto inorgoglito.
Vide il biondo voltarsi, capo chino e schiena ricurva.
«Dove
vai?!» chiese il moro, ma l’uomo era già sceso per le scale, lasciando Enos con
un pugno di mosche.
«Mi
sa che veramente quell’uomo è vergine...» disse, pensando ad alta voce.
«Cosa
significa “vergine”?» la voce di Anna lo fece sussultare, girandosi di colpo.
«Cosa?!»
Anna, dietro di lui, aveva il volto serio, le mani giunte dietro la schiena.
«Cosa
significa “vergine”?» ripeté la rossa, fissandolo intensamente.
«Ehm...».
“Enos.
Sei fottuto! Ecco cosa ti direbbe tua sorella ora!” e per un secondo pensò alla
sorella che non vedeva da giorni ormai.
Elyce
sa quale sporco lavoro deve fare. Tira, solleva, scava. Armata di un badile
rozzamente inventato da un pezzo di legno, scava cinque fosse, per cinque
uomini.
Libera
i cadaveri dagli oggetti terreni, deve commemorare la memoria di cinque uomini,
morti per colpa sua.
Trova
un orologio fuso, un disegno che ritrae un bambino bruciacchiata.
Lacrime.
Scava,
Elyce, conscia della colpa sulle sue spalle, eppure non si ferma. Non c’è tempo
per l’autocommiserazione.
“Dopotutto,
è colpa tua. Tu, disgustoso essere immondo, un essere fatto a metà.”.
Il
pezzo di legno si blocca nel terreno, spinto con troppa foga nella terra
fredda.
“Basta
Elyce, basta...”.
Cinque
cadaveri sono seppelliti, con una rozza tomba di pietre raccolte. Le spade, gli
oggetti, i mantelli, nascosti, lanciati dentro una grotta piccola e stretta sul
versante della montagna, l’entrata nascosta da un cespuglio secco.
La
donna si gira, tergendosi il sudore dalla fronte. La luna, è piena. Non si era
nemmeno accorta che il sole così come era sorto era anche tramontato. La luce
della luna è così forte, e l’asteroide così vicino. Si possono vedere le sue
creste, le sue cicatrici.
“Se
fosse così anche con me...Nessuno si avvicinerebbe”.
Abbandona
il badile per terra e si ripulisce dalla terra, Elyce, nascondendo la colpa nel
profondo.
Cammina
ora, la mora, verso il castello, sperando di non esser vista.
Una
nuvola passa sulla luna, bloccando la luce, rallentando il camminare della
donna. Un rumore alla sua sinistra, come di passi, la rende cauta, e si
nasconde dietro un albero.
Quando
la luce riprese a trapassare l’oscurità, notò Elsa camminare verso una pietra
lontana dal castello, il mantello di ghiaccio che disegna il suo percorso con
dolcezza sulla neve candida, le mani giunte al ventre.
Elyce,
incuriosita, rimase nascosta ad ammirare la bellezza della regina che, arrivata
a pochi metri dalla pietra, si fermò, come meditando. Gli occhi, che brillavano
sotto la luce della luna, erano intensamente blu, ripieni di inquietudini, e
come pronta a compiere un passo importante. Battito di cuore.
Con
velocità scagliò un raggio di ghiaccio verso la pietra, investendola in pieno.
Elyce rimase bloccata, sorpresa e frastornata. Ma non si mosse, talmente era
rapita. La sua potenza, la sua bellezza nei movimenti delle mani, gli occhi
concentrati nella magia che stava compiendo. Elsa, sotto quella nuova luce di
donna dal potente potere di manipolare e creare il ghiaccio, era ancora più
bella e intrigante per Elyce, sentendo il cuore vibrare di nuovo ai sussulti
dell’amore prematuro.
La
pietra, alta alcuni metri, era completamente ricoperta di stalattiti di
ghiaccio, un’opera mostruosamente bella. Elsa con le mani cercò poi di
controllarne i poteri, modellando il ghiaccio, ora grezzo, in qualcosa di più
malleabile ed elegante. A poco a poco il ghiaccio, levigandosi e trasformandosi
in cristalli volanti, diventò una bellissima statua di un cigno con le ali
spalancate.
Bellissima
e stupenda, qualcosa di talmente idilliaco e magnifico, che Elyce rimase rapita
dalla bellezza che Elsa poteva creare col suo potere.
E
provò empatia. Si sentì meno sola. La regina di ghiaccio era come lei.
Elsa
sospirò, come se si fosse tolta un peso, e sorrise. Ora, i suoi occhi,
brillavano di felicità.
«Ce
l’ho fatta... finalmente.» mormorò, parlando a se stessa.
Una
nuvola di nuovo bloccò la luce della luna, e un rumore di passi rese inquieta
la regina.
«Chi
va là?» urlò, le mani brillavano di potere, pronta a difendersi e ad
attaccare...se necessario.
I knowyou, the gleam
in youreyesis so familiar a gleam
Yet I
knowit’struethatvisions
are seldomalltheyseem
[So
chi sei, il luccichio nei tuoi occhi è così familiare, un bagliore
Eppure
io so che è vero che le visioni sono raramente quello che sembrano]
Un
fuoco, nato dal nulla, comparve, per rischiarare le tenebre. Elsa si sorprese
di vede Elyce, con la mano che manipola una piccola fiamma sospesa a mezz’aria.
Elyce
ora aveva capito, ora sapeva.
Ora...lei
era libera.
Finalmente.
«Elyce!
Come...».
Elyce,
per la prima volta, si sentì al sicuro, si sentì capita, si sentì compresa.
Aveva
finalmente trovato qualcuno che potesse fermare il suo potere distruttivo.
Cosa
c’è di meglio del ghiaccio per fermare il fuoco?
«Una
volta sognai, da piccola, una donna dai lunghi capelli biondi prendermi per
mano, e sorridermi.» le mani di Elsa si spensero del potere, e ascoltava le
parole della donna, rapita. Nei suoi occhi vide una pace che non le aveva mai
intravisto. Era come una visione, e quel fuoco era caldo, era tranquillo. Il
buio non faceva più paura ora, con Elyce al suo fianco.
«Ho
sempre avuto paura di...questo.» e con la mano indicò il piccolo fuoco nato nelle
sue mani.
«Non
so controllarlo, non so come fare. E così l’ho sempre sottomesso, imbavagliato,
chiuso dentro di me. Aspettando che se ne andasse.» e con la mano chiuse a
pugno il fuoco, intrappolandolo tra le sue mani, combattendo per uscire.
«Ma
in realtà, ottenni solo il contrario.» la mano non riusciva più a trattenere le
fiamme, e infine aprendole con forza, il fuoco proruppe in una piccola
esplosione, spegnendosi subito dopo. Il buio tornò prorompente, e nell’aria si
sentiva odore di bruciato.
«Elyce!»
Elsa si avvicinò all’ombra della ragazza, prendendole il braccio «Sei ferita?!»
Elyce fissava la mano, e gli occhi di Elsa videro come la pelle, con lenta
velocità, riprendeva a crescere e a curarsi. La mano tornò come prima, senza
tracce, né cicatrici.
«E
ottenni dolore. Ottenni paura.» Elsa alzò lo sguardo, e vide le lacrime della
donna cadere copiose dal suo volto. «Tu mi capisci, vero Elsa?» chiese, tra i
singulti del pianto.
La
donna passò la mano fresca su quella di Elyce, intrecciando le dita. La mora
sentì il tatto fresco e genuino della bionda, e il cuore iniziò a battere forte
nel suo cuore. Poteva percepire il sentimento crescere e mettere radici,
rimanendo rapita dalla bellezza dei suoi fiori.
Le
dita di lei scostarono le lacrime dal suo volto, e Elyce poté vedere il sorriso
di Elsa oltre la nebbia del dolore. Ed era oltre l’emozione, ed era oltre la
bellezza.
Butif I knowyou,
I knowwhatyou’ll do
You’ll love me at once, the way youdid once upon a dream
[Ma
se so chi sei, so che cosa farai
Ti
innamorerai di me una volta sola, come facesti una volta in sogno]
«Va
tutto bene...» disse la sua voce incantevole, ed Elyce sentì l’anima
sollevarsi, come liberata di un peso troppo grande che non riusciva più a
sostenere. E le sorrise.
Elsa
rimase come shockata dalla bellezza che mostrava a lei, e solo a lei, in quel
momento quella donna. Il suo sorriso, le sue debolezze, solo a lei. Il cuore
che si dilatava nel suo petto, e a milioni i sentimenti che l’attraversavano.
La
luce della luna, d’un tratto, illuminò i loro volti. La bionda la guardò negli
occhi, rapita e presa da emozioni sconosciute. I suoi capelli, scombinati, cadevano
sulla fronte coprendo di poco gli occhi. Li scostò con un dito, e vide il
boccolo arricciarsi intorno al suo indice, come se non volesse più lasciarla
andare, la pelle calda e liscia al tatto, gli occhi castani che le riscaldavano
l’anima, così talmente vicini da poter vedere pagliuzze dorate nell’iride.
Le
labbra sottili e rosa.
E
sentì l’istinto di assaggiarne il sapore, e sentì il corpo muoversi da solo.