Due cuori e l'effetto serra

di The queen of darkness
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Essere ancora vivi ***
Capitolo 2: *** Nel passato ***
Capitolo 3: *** Passeggiata ***
Capitolo 4: *** Rin ***
Capitolo 5: *** Amiche ***
Capitolo 6: *** Litigi e Concordia ***
Capitolo 7: *** Le Volpi Bianche ***
Capitolo 8: *** Sogni ***
Capitolo 9: *** Ripicca ***
Capitolo 10: *** Fratture aggiustate ***
Capitolo 11: *** Bufere placate ***
Capitolo 12: *** Incontri fortuiti ***
Capitolo 13: *** Preparativi alla partenza ***
Capitolo 14: *** Attacco a sorpresa ***
Capitolo 15: *** Gelosia ***
Capitolo 16: *** Progetti di salvataggio ***
Capitolo 17: *** Degne conclusioni ***
Capitolo 18: *** Scontri Verbali ***
Capitolo 19: *** "Di famiglia" ***
Capitolo 20: *** Ricerche e inquietudini ***
Capitolo 21: *** Passione ***
Capitolo 22: *** Dopo la tempesta ***
Capitolo 23: *** Ningen ***



Capitolo 1
*** Essere ancora vivi ***


 “Mi chiamo Kagome Higurashi”.
Tossì e sputacchiò un po’ di polvere, tornando lentamente alla vita. Davanti alle palpebre ancora chiuse, danzavano demoni sorridendi che abbracciavano umani ubriachi con visi promiscui. Le sue narici fremettero sentendo un odore forte, pungente, e sperò che tale olezzo non provenisse da lei.
“Ho sedici anni”.
La vista era annebbiata, ma le permise comunque di osservare una parete scura e viscida fatta di legno davanti ai suoi occhi. Dietro la sua schiena e ai fianchi era uguale: una gabbia scavata nel terreno, un bunker da cui le pareva impossibile trarre aria.
“Vivo a Tokyo”.
L’unica cosa che ricordava era che c’era stata un’esplosione di luce e potere, prima che la terra diventasse il cielo e che i fiori cominciassero a sussurrare il suo nome. Un enorme boato fatto di silenzio aveva squarciato l’aria come un’esplosione e l’aveva investita in pieno, travolgendola. La sua mano si era spasmodicamente stretta a quella di lui, sentendo gli artigli perforarle la carne nel desiderio di trattenerla.
“Ho una madre, un fratello di nome Sota e un nonno”.
Miroku, Sango, Shippo e tutti gli altri avevano i visi accartocciati in una smorfia d’orrore. Prima sorridevano sollevati, poi si erano finalmente resi conto che i due amici non li avrebbero mai raggiunti. Si portò faticosamente una mano davanti al viso, nello spazio angusto. I segni delle unghie c’erano ancora.
“La mia famiglia gestisce un tempio”.
Continuando ad eseguire il metodo imparato a scuola per controllare il panico, ovvero ripetere come un mantra delle frasi ovvie per recuperare la calma, cercò di mettersi a sedere, ma si rese conto di essere troppo incastrata per permettersi un movimento qualsiasi. Un lungo bastone rigido le si era conficcato in un fianco, premendo all’altezza delle costole.
“Devo diplomarmi entro un anno”.
Sentendo il proprio fiato venire meno con quella cosa infilatale nella carne, la strappò via da sé spasmodicamente, con una mano mossa nel buio. Toccandolo, si accorse che il guscio era ruvido e sgualcito, ma comunque familiare. Le sue sopracciglia si inarcarono in un movimento improvviso: quello era un fodero.
“Mercoledì prossimo ho la verifica di trigonometria”.
A tentoni partì alla ricerca frenetica del possessore di quel particolare oggetto. Se pensava bene, doveva trattarsi della stessa persona che le aveva tenuto la mano, aveva combattuto al suo fianco e che l’aveva baciata – baciata! – dopo che lei l’aveva desiderato per quasi un anno.
Le sue dita inciamparono in una pioggia di finissimi fili d’argento. Non riuscendo a vedere bene si affidò al tatto, li toccò a piene mani, fino a raggiungere un ammasso uniforme di capelli nivei. La testa. Era la testa di Inuyasha, ne era sicura: nessuno aveva una chioma tanto liscia eppure resistente.
“Quand’ero piccola volevo un cane”.
-Inuyasha! – cercò di chiamarlo, scuotendo disperata quella che credeva essere una spalla. –Inuyasha!
Dalla sua bocca uscivano gemiti strozzati, con un suono roco e sgradevole. Per un attimo temette che tutta la polvere che aveva ingerito nell’impatto l’avrebbe privata per sempre della sua vera voce, decisamente più armonica, ma l’importante era solo che lui si svegliasse.
Il suo corpo forte e ammantato di fuoco stava raggomilato su un fianco, abbattuto contro un lato del pozzo. Era troppo grande per poter stare in quello spazio minuscolo, infatti giaceva molto simile ad un manichino buttato via che non ad un guerriero. Tessaiga sporgeva fiera verso l’aria, come se fosse uno stendardo nobile di una casata importante. Era stato grazie a lei se Kagome si era svegliata.
-Inuyasha, ti prego, svegliati – piagnucolò, sentendo le lacrime pungere contro i suoi occhi. Era così disidratata che non riuscì a farne uscire nemmeno una, rimanendo a singhiozzare pateticamente come se non avesse più fiato. E, in effetti, era così.
“Mio nonno, invece, mi regalò un gatto”.
Non voleva arrendersi alla prospettiva che, dopo un’infinità di battaglie, di scontri e di avventure fosse davvero finita così, in un luogo sconosciuto. Non poteva continuamente vivere in un crudele gioco del destino, non poteva lasciare che l’amore finalmente manifesto per lui potesse sparire da un istante all’altro! Non sapeva nemmeno se fosse stata ancora nell’epoca Sengoku oppure nel presente, e neanche quanto tempo fosse passato dall’esplosione, semplicemente lasciava che le sue mani si aggrappassero alla stoffa resa oleosa dalla polvere, con disperazione.
“Gli vogliamo così tanto bene che lo rimpinziamo di continuo”.
All’improvviso, dal corpo uscì un rantolo dolorante. –K…Kagome’ – mormorò il ragazzo.
Lei stava per mettersi a piangere dal sollievo ma, come prima, niente scese dai suoi occhi. La pelle era striata di grigio e i suoi vestiti erano tutti stropicciati, unti di materiali fangosi che non voleva identificare. Le sue unghie si aggrapparono al terriccio compatto sotto di sé come se volesse veramente sincerarsi che non fosse soltanto un sogno.
-Sì – mormorò, commossa. –Sono io, Inuyasha. Sono proprio Kagome.
Il giovane, voltando il capo verso di lei, fece una smorfia. –Stai bene? – disse, in un gemito rauco.
Lei annuì brevemente, facendo scivolare ciocche di capelli luridi davanti al suo viso. La pelle liscia del suo amato mezzo-demone era stata resa grigiastra da una patina di sporcizia, mentre le labbra esangui avevano un taglio proprio nel mezzo, una ferita superficiale che doveva bruciare tantissimo.
Al solo vedere che era in grado di riconoscerla, gli accarezzò la linea dello zigomo, assaggiando con i polpastrelli la sua carne gelida. Parve riprendersi a poco a poco, gradualmente.
“È diventato la cosa più grassa che io abbia mai visto”.
I suoi occhi gialli si aprirono incerti, come risvegliandosi da un lungo sonno. La focalizzarono subito, e Kagome vide l’iride colmarsi di lei, della sua presenza, del fatto che fossero ancora insieme nonostante tutte le avversità. Questo fu sufficiente a farla sentire bene, rilassata; al suo fianco era sicura che non aveva bisogno di temere nessun pericolo, nessuna minaccia.
Si chinò piano verso di lui, e gli stampò un bacio leggero a fior di labbra. Si ritrasse subito, però, perché non aveva avuto la forza di fare altro. Il rossore sul suo viso da diciottenne venne celato dalla misteriosa polvere grigia, e le venne quasi da sorridere per la tenerezza.
“Anche le mie amiche hanno dei gatti, ma i loro sono magri”.
-Che ne dici se usciamo da qui? – gli sussurrò. La stanchezza stava già allungandosi verso le sue membra intorpidite, e le pareva che la testa stesse per scoppiare. Sicuramente aveva preso una brutta botta sulla fronte, magari cadendo, e adesso il livido stava sbocciando in tutto il suo macabro splendore.
-Buona idea – grugnì lui, permenttendole prima di spostarsi da lì. Insomma, per quanto lo spazio le concedesse movimento.
Kagome si rattrappì in un angolo per lasciare che lui si sollevasse a sedere, mettendo a posto la spada e assicurandosi di non avere ossa rotte. Visto in quella posizione, con la schiena in grado di arrivare quasi fino all’apertura in cima, sembrava stare già meglio, e in effetti era proprio così; il suo corpo aveva già iniziato a rigenerarsi, mettendo a posto le ferite di minore entità procedendo in ordine progressivo.
Quasi per riflesso, la ragazza alzò lo sguardo laddove l’aveva puntato anche lui: quando lo faceva nel pozzo nell’epoca Sengoku, vedeva chiaramente una fetta di cielo blu purissimo e incontaminato. Se, invece, succedeva a casa propria, si ritrovava a fissare solo delle assi mezze-marce incastrate sul soffito, incapaci quasi di reggere il peso della capanna in fondo al cortile.
In quel momento vedeva solo buio, ma l’aria non era di certo incontaminata come quella del bosco. I due i scambiarono un’occhiata, pregna di significati. La sfera era stata chiara: lei, che non apparteneva a quel mondo, se ne sarebbe andata non appena il compito fosse stato portato a termine. E, a meno che non esistessero altri pozzi oppure scantinati nell’era medievale, allora voleva dire che qualcosa era andato storto.
Non voleva mettersi a sperare di avere sia la famiglia sia l’amore della sua vita nello stesso luogo, nella realtà dove aveva sempre vissuto, perché avrebbe decisamente chiesto troppo. Si limitò a mantenersi imperturbabile mentre Inuyasha, con un agile balzo, superava l’apertura squadrata e usciva di fuori, ovunque quel luogo si trovasse.
Su Marte, forse?
“Ma io credo che i gatti cicciotti siano più simpatici”.
L’unica cosa che potè notare fu solo la sua chioma bianca che si muoveva, simbolo che si stava guardando intorno. Per lo meno non aveva sfoderato la spada, segno che non c’erano nemici in vista, e non aveva neppure lasciato traccie di sangue o strillato urla doloranti. Era già qualcosa, una magra consolazione.
Il suo viso sbucò all’improvviso dall’apertura, dubbioso. Sembrava non avesse scoperto dove si trovavano, e a Kagome parve davvero molto strano. Che l’impatto li avesse feriti più a fondo di ciò che pensavano? Non avrebbe saputo dirlo con certezza, anche se si sentiva un po’ meglio rispetto a prima.
-Vieni – le disse, poco convinto. –Non sento puzza di demone -. Le allungò una mano e lei, alzatasi in piedi, la prese, prima di ricevere l’aiuto necessario ad uscire da quel buco tetro e soffocante. Le pareva quasi che i muri claustrofobici le stessero spezzando il respiro, chiudendosi attorno a lei, stringendosi come corpi attorno ad un fuoco. Quando riuscì ad appoggiarsi sull’orlo di assi pericolanti, però, capì subito in che posto fossero capitati.
-No – disse, sgomenta. –Non è possibile.
Avrebbe riconosciuto fra mille il piccolo portachiavi rosa attaccato ad una porta scorrevole, davanti a lei. Quelli che sembravano mille anni prima l’aveva comprato per le chiavi di casa, ma Eri le aveva regalato una cosa molto simile a quella e doppiamente voluminosa, con un gancio per attaccarlo alla borsa, quindi aveva preferito usare quello.
Alla fine, il simpatico gattino color confetto era stato relegato nello scantinato vicino alla casa, a proteggere il suo più grande segreto da occhi indiscreti. Un’orecchio era un po’ sporco, smussato sulla punta, ma nel complesso era lo stesso: aveva persino la minuscola scheggiatura che ben ricordava, fatta appena dopo averlo comprato.
La ragazza spalancò gli occhi, e Inuyasha parve capire. Tutto, in un instante, perse il senso che pensavano di aver trovato alla situazione, e si ritrovarono spiazzati e pieni di dubbi che nessuno sapeva spiegare loro.
“Mi chiamo Kagome Higurashi. Sono viva. E sono appena tornata a casa”.
 
 
 
L’AUTRICE CHIEDE UN PICCOLO AIUTO:
Buongiorno a tutti/e! Allora, questa è la mia seconda storia nella sezione Inuyasha, (che amo alla follia), e premetto che non so neanc’ora quale sarà il suo destino. Mi affido a voi, quindi, con una domanda: secondo voi, la continuo oppure la cancello? Fatemi sapere cosa ne pensate, il seguito sarebbe appettitoso, se mai vi siete chieste come potrebbe reagire Inuyasha a vivere nel futuro!
Vi lascio all’ardua sentenza ;)
Ciao ciao! Un bacio ;)   

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Capitolo 2
*** Nel passato ***


Miroku fissava il buio con occhi critici, quasi dovesse analizzarne la composizione da vero esperto.
Le gambe, a lungo tenute incrociate sul palo sottile della staccionata, avevano iniziato a fare male, ma non si sarebbe spostato. Diversi giorni prima, quand’era accaduta la tragedia, un bagliore accecante aveva tagliato l’aria, squarciandola per qualche secondo; forse, se lui fosse stato attento, sarebbe riuscito a cogliere il ritorno dei due compagni.
Kagome e Inuyasha erano spariti in un lampo di luce bianca, lo ricordava bene. Il fascio gigantesco li aveva inghiottiti nel proprio turbine, e per qualche istante di terrore era addirittura rimasto accecato. Quella scena gli aveva ricordato spaventosamente quella che aveva preceduto la scomparsa di suo padre; era stato il primo giorno della sua vita in cui aveva guardato alla morte quasi con rassegnazione.
Quello che più lo turbava, comunque, era la totale mancanza di logica. La sfera aveva promesso che, una volta assolto il proprio compito, entrambi sarebbero dovuti tornare ai loro mondi, senza potersi più re-incontrare di conseguenza. Tuttavia, quando se n’erano andati erano insieme, le loro mani erano giunte, le dita intrecciate. Nessuno dei due era più tornato nel passato, o quello che lui considerava presente. Si erano semplicemente volatilizzati.
Forse il luogo d’origine di cui la sfera parlava era addirittura quello primordiale, ovvero l’aldilà. Non avrebbe avuto senso lo stesso, però, che fossero morti entrambi, visto che non era nei patti. Avevano combattuto la sfera nell’altro mondo, quando erano scomparsi l’avevano già oltrepassato.
Solo e semplici congetture, niente di più. Odiava non avere delle certezze su cui fare affidamento, la cosa lo stava mandando fuori di testa, e sapeva benissimo di non essere in grado di trovarne.
-Miroku? – chiese una voce dolce, dietro di lui. –È tardi, torna dentro.
Il monaco non rispose subito. Chiuse stancamente gli occhi, esausto a causa della veglia e consapevole di non potersi arrendere.
Aveva riconosciuto Sango, la donna che presto sarebbe diventata sua moglie, richiamarlo con preoccupazione sincera. Era da quel maledetto giorno che assisteva passivamente alla sua stoica decisione, senza trovare il coraggio di dissuaderlo, preda del suo stesso dolore. Quella scomparsa così improvvisa era stata lacerante anche per lei.
Lui sospirò leggermente quando sentì uno scialle scivolargli sulle spalle, con amorevole cura; sentì il fiato di Sango, per un solo istante. Poi la ragazza si allontanò a rispettosa distanza e si appoggiò dall’altra parte della palizzata, come se lo temesse.
In un certo senso, Sango aveva paura. Paura che l’uomo che amava fosse impazzito, paura che le sue promesse venissero meno, paura di rimanere sola a dover affrontare lo smarrimento. Erano dubbi fondati, terrori radicati nella ragione.
-Va bene – concesse il monaco. Sistemò la stoffa sulle sue spalle. –Grazie.
-Figurati – rispose, sorridendo. Il suo sguardo era però rivolto alle nuvole, che coprivano le stelle.
Miroku si prese qualche istante per guardarla, o meglio, ammirarla, in tutta la sua bellezza. Era davvero straordinaria.
-Sai – disse lei, nostalgica, - tra poco Kohaku partirà. Shippo ha fatto sapere di essere arrivato ieri. La vecchia Kaede ha firmato una sorta di accordo con i villaggi limitrofi. Rin ha cominciato ad imparare il mestiere.
Il monaco non disse nulla; era vero. Capiva quello che lei voleva dirgli, ma era difficile da accettare, da mettere in atto. Sango gli stava fornendo un chiaro esempio di scorrere della vita: gli altri, sebbene faticosamente, si stavano riprendendo dalle sventure e cercavano di costruire un futuro solido, all’insegna della pace.
Naraku aveva gettato un’ombra nelle loro vite che difficilmente sarebbe sparita. Avevano sempre paura di vederla incollata al suolo in una qualsiasi giornata di sole.
Eppure, nonostante le complicazioni, le distanze e le ferite, si erano ripresi. Il mistero sulle sorti dei due si allungava, ma tutti sapevano bene che le vicende spirituali erano difficili da immaginare o da risolvere. Ne avevano avuto più di un esempio davanti agli occhi, stampato sulla pelle, e la cicatrice non sarebbe sparita mai più.
Anche Miroku rivolse lo sguardo al cielo, come per esprimere una supplica o una preghiera, una richiesta, una speranza, faceva lo stesso. Sapeva che sarebbe rimasta inascoltata. All’improvviso, si accorse che quelle vane e fioche impressioni sul loro ritorno erano state molto più effimere di quello che aveva pensato, e rendersene conto lo fece sentire svuotato.
Saggiamente, la sterminatrice di demoni lo sorresse quando si alzò in piedi, vista la debolezza delle membra.
-Adesso cosa farai? – chiese Miroku. Notando la sua occhiata terrorizzata, si affrettò a spiegare, - voglio dire, in questo periodo dubito che ci sarà ancora bisogno degli sterminatori.
Sango si aggiustò il braccio dell’uomo sulla spalla. –Ci penserà Kohaku, a continuare la lotta. Io non voglio; ho dato tutto per questa causa, e ora mi rimane davvero poco. Non voglio perdere anche quello che ho – aggiunse, sorridendo malinconicamente.
-È coraggioso, per essere così giovane – osservò il bonzo.
La donna annuì in silenzio. In realtà, entrambi sapevano quanto fosse preoccupata per lui, per la sorte che l’avrebbe spinto in terre lontane fra le braccia dei pericoli.
-E tu, invece? – domandò, cercando di farsi coraggio, - Cosa farai?
-Mah… - osservò Miroku. – Ho tutta l’intenzione di sposare una donna meravigliosa, e di farne dei figli. Vivrò in una casa modesta, con lei, e cercherò di darmi da fare per renderla felice.
Lei arrossì. –Sono certa che lei lo è già.
Il ragazzo rivolse il suo sguardo alla volta celeste, oscurata dalla promessa della pioggia. –La ammiro molto, per questo.
Non ci fu bisogno di dire altro, almeno per il momento. Sango lo aiutò a finire la strada in silenzio, e fu questione di pochi istanti prima che la capanna della vecchia Kaede spuntasse davanti a loro. Era difficile orientarsi al buio, ma l’orto non era lontano dalla casa principale, e il sentiero procedeva dritto, senza curvature. Per questo riuscirono a raggiungerla in fretta, incuranti della frescura serale.
-Buonasera! – salutò allegramente Miroku, sforzandosi di fare finta di nulla.
-Buonasera, buonasera – borbottò la sacerdotessa, seguita dalla voce squillante di Rin, decisamente sincera in quanto ad entusiasmo.
Sango lo fece sedere su una stuoia vicino al focolare, dove già sobbolliva tranquillamente una grossa pentola colma di riso.
-Accidenti, Venerabile Kaede, come mai tutto questo cibo? – disse, sinceramente sorpresa, la sterminatrice. Si accomodò vicino al futuro marito e gli riallacciò il fazzoletto per reggere il braccio, dolorante da quando la battaglia si era conclusa. Era lo stesso che un tempo aveva ospitato il Foro del Vento, dove al suo posto vi era adesso una cicatrice argentea.
-Dobbiamo distribuirle ad alcune famiglie del villaggio – cinguettò Rin. –Le donne hanno partorito da poco e non riescono a cucinare.
La ragazza rimase evidentemente sorpresa da questa risposta, ma ringraziò e accettò sorridendo la propria ciotola fumante, reggendo le bacchette fra le dita sane. Una, purtroppo, aveva dovuto subire una brutta frattura, tanto che le sorti della falange erano rimaste incerte fino al giorno prima. Alla fine la sua mano sarebbe rimasta integra, per fortuna.
Miroku, mentre mangiava, osservava la bambina. Fino a poco tempo prima aveva avuto non poche difficoltà a trovarsi circondata da esseri umani, paradossalmente. Sapeva sorridere ed essere felice solo con Sesshomaru nei dintorni, e dava il meglio di sé per strappargli una qualsiasi reazione. Erano bastate poche giornate al villaggio perché diventasse loquace e spensierata come sempre, dedita al lavoro con una singolare solerzia.
-Rin, ora che Sesshomaru è partito, cosa farai? – chiese gentilmente Miroku.
La bambina posò le bacchette sull’orlo della scodella, con attenzione. Gli occhi scuri si arrovellarono per trovare una risposta soddisfacente, mentre riordinava le parole.
-Il Signor Sesshomaru mi ha chiesto di rimanere qui – disse, - per imparare un mestiere. Ha detto che se, quando l’ho imparato, voglio restare qui, potrò farlo, altrimenti potrò andare con lui e seguirlo, come ho sempre fatto – fece un sorriso larghissimo: - È per questo che sto cercando di fare in fretta.
Come al solito, la sua dedizione nei suoi confronti era soprendentemente. Chissà quali doti nascoste doveva avere il demone per attrarla così tanto.
-E voi, invece, venerabile monaco? – chiese, innocentemente.
-Io sposerò questa bella signorina al mio fianco – disse, abbracciando con una mano i fianchi di Sango, che arrossì.
-Ohh! – esclamò la bambina. – E lei sposerà voi?
-Certamente – confermò ridendo. Gli piaceva parlare con lei, aveva sempre il potere di tirarlo su di morale.
-Siete un uomo fortunato – disse allora lei, prima di dedicargli un altro mite sorriso e riprendere a mangiare.
Il cibo era un ostacolo che Kaede aveva dichiarato insormontabile. Rin era magrissima, per costituzione; il kimono nascondeva gran parte della spigolosità del suo busto, la sottigliezza degli altri e l’incredibile piattezza del ventre. Non sembrava che fosse sul punto di morire per malnutrizione, perché Sesshomaru si era sempre assicurato che fosse in salute, però ad un occhio esterno sarebbe parso che lei stesse vivendo un’astinenza quasi totale dal cibo.
In un certo senso, era così: la bambina, abituata a ritmi irregolari nell’alimentazione, non riusciva a capire che bisogno ci fosse di fare tre pasti ogni giorno, e ne saltava qualcuno. Era stata abituata a cercare da mangiare solo quando aveva fame, e questo poteva avvenire ad ogni ora del giorno; aveva imparato ad arrangiarsi, ma le scadenze erano dettate soltanto dal suo orologio biologico.
Alla sacerdotessa bastava che lei fosse abbastanza in forze almeno per sostenere i lavori, e di energia la bambina ne aveva da vendere, quindi il problema era minimo, agli occhi del monaco. Peggiore gli era sembrato quello della sua avversione verso gli uomini o, peggio ancora, il suo timore di essi, ma in parte era stato risolto.
C’era da dire, però, che Rin era una bambina pulita e ordinata. Ogni volta che poteva si lavava mani, piedi e viso, senza contare il bagno fatto ogni mattina all’alba. Inoltre, da qualche anno aveva orgogliosamente imparato a lavarsi il kimono, con sommo stupore di Kaede: quando Sesshomaru stava via per giorni e la lasciava sola in compagnia di Jaken, aveva ancor meno aiutanti per il suo vestiario, tanto che aveva osservato per un po’ delle donne fare il bucato fino ad imparare i loro metodi.
Con estremo candore, la bambina aveva raccontato che da quel giorno ne aveva approfittato per lavare anche i panni del servo di Sesshomaru, giusto per rendergli il favore di tenerle compagnia. Anche se il mostricciatolo verde era più che altro un fastidioso impiccio, lei non si sarebbe mai azzardata a definirlo così e, a differenza di ogni pronostico, era lieta ogni volta che poteva vederlo.  
-Rin…perdona la domanda, ma vedi ancora Sesshomaru? – chiese Sango, ad un certo punto.
La bimba scosse la testa, affranta. –Dice che per me è meglio stare senza la sua presenza. Quando torna, mi fa trovare degli splendidi regali, ma non mi da la possibilità di rendergli grazie…davvero non lo capisco. Anche se chiedo sempre a Jaken di portargli i miei saluti, dubito davvero di essere ascoltata.
-Non preoccuparti – disse lei, materna, - vedrai che vi re-incotrerete presto.
Nemmeno Miroku era tanto convinto da questa prospettiva, ma si affrettò a consolarla.
Il resto della cena passò abbastanza velocemente. Nessuno parlò molto, come sempre, però l’atmosfera non sembrò appesantirsi significativamente. Kaede era immersa nei suoi pensieri; quello stesso giorno era scesa a patti importanti per la sopravvivenza del villaggio, e pareva che il territorio si sarebbe allargato. Inoltre, la non belligeranza fra uomini e demoni sembrava funzionare in tutti i territori dell’est, compreso Musashi, e nuove ragazze attendevano di poter essere ordinate sacerdotesse.
Miroku, come al solito, stava riflettendo sul suo futuro e Sango, assorbita dal cibo, era in ansia per Kohaku. Avrebbe dato notizie molto di rado, le uniche informazioni certe poteva averle solo da Totosai, e non lo vedeva nemmeno troppo spesso. Da un lato, sapeva che sposandosi sarebbe stata più lontana dal fratello, ma dall’altro sentiva già di soffrirne.
Verso sera, sparecchiarono tutto e si affrettarono a pulire le stoviglie. Rin si alzò e andò ad attingere acqua dal pozzo, mentre Kaede preparava diversi involucri con dentro la cena delle famiglie impossibilitate a procurarsela, affidando sempre alla sua assistente il compito di distribuirla.
-Che sonno! – esclamò il monaco, ad un certo punto. Si stiracchiò con aria teatrale e coprì uno sbadiglio con la mano sinistra. –Penso proprio che andrò a dormire.
Giunse i palmi in un breve inchino, prima di congedarsi. Prima di alzarsi e andarsene, diede una pacca leggerissima sul fondoschiena di Sango, che arrossì immediatamente ma decise di non punirlo: reggeva le scodelle con entrambe le mani e non riusciva a spostarle senza farle cadere, per questo si limitò ad un’occhiataccia.
Uscì ridacchiando, fingendo di muoversi verso il proprio alloggio provvisorio. Quando fu sicuro che nessuno lo vide, però, si recò di nuovo al suo posto di osservazione e, sedutosi a gambe incrociate sul palo orizzontale, si mise ad osservare il cielo crudelmente immobile, in attesa di un qualsiasi segnale di ritorno. 

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Capitolo 3
*** Passeggiata ***


-Cosa?! – esclamò Kagome, incredula.
-Non urlare, Kagome – la ammonì il nonno, mentre Buyo fuggiva spaventato dalla sua esasperante padroncina.
Inuyasha, al suo fianco, quasi non poteva credere a ciò che aveva appena sentito. Prima di parlare della loro anomala presenza nel futuro, si erano presi diversi giorni di tempo, per vedere se la situazione si fosse mantenuta stabile e se erano del tutto in salute. Entrambi stavano bene: i loro fisici non avevano subito uno shock eccessivo e si erano ripresi in fretta dai lividi e dagli acciacchi.
-E tu non cambiare discorso – ribattè Kagome, abbassando il tono.
Quando avevano chiesto al nonno cosa ne pensasse di tutta la storia, ne era venuta fuori una verità sconvolgente. Erano tutti presenti, a parte Sota, e stavano ora cercando di capire cosa avesse causato il loro ritorno nell’epoca sbagliata ma, soprattutto, perché mai si trovassero ancora insieme.
-Ora ci ripeti tutto daccapo – ringhiò Inuyasha, a denti stretti. Cercava di non mancare di rispetto a nessuno, in quella casa, ma certe volte lo mandavano davvero al limite dell’esasperazione.
-Ho solo detto la verità – ripetè con calma l’uomo, pazientemente, - è stata tutta colpa vostra.
-Oh, ma cosa stai dicendo? – gli chiese la madre di Kagome, costernata.
-Infatti – rincarò la ragazza, - saremmo tutti più felici se ti spiegassi meglio.
Con un miagolio, anche Buyo assentì. Era ritornato nella stanza sentendo che le urla si erano placate, e ora si lasciava grattare le orecchie dalle dita nervose di Inuyasha. Straordinariamente, quei due sembravano andare d’accordo.
Il signor Higurashi alzò l’indice come per indicare il cielo, anche se in realtà era solo un modo per dare spettacolo. Parlò con voce calma, lenta, come se si stesse rivolgendo ad un pubblico che lo seguiva a fatica e con cui era inutile fare discorsi troppo complicati.
-La questione è molto semplice: voi due, volendo rimanere insieme a tutti i costi, avete costretto la sfera a prendere una decisione. Essendo diventati inseparabili, forse vi ha considerato entrambi come un’entità sola.
-Dubito che la sfera si faccia simili problemi etici – commentò Inuyasha, storcendo il naso. Era leggermente arrossito.
-Non ha il minimo senso – concordò Kagome. Non osava guardarlo.
-Infatti! – intervenne la madre, accalorata. - Con tutto il dolore che ha causato, sembra davvero impossibile che abbia cominciato a nutrire dei riguardi verso gli innamorati!
Il nonno, accavvalato da voci di auto-convincimento fortemente schierate contro la sua tesi, resistette poco; non poteva tollerare a lungo che nella famiglia le sue opinioni venissero scartate a prescindere, anche perché lui era un sacerdote rispettabile, e conosceva certe cose! Quando si arrischiava a voler spiegare a quelle due teste calde qualcosa di importante, era ovvio che andava a finire così.
Con un sospiro, abbandonò l’idea di una ramanzina, e decise di essere superiore a certe cose.
-Credeve ciò che vi pare – concluse, alzandosi. Si portò una mano alla base della schiena e uscì dal salotto.
-Se vi serve mi trovate in giardino! – avvertì prima di chiudersi la porta alle spalle e, presa la sua scopa di paglia, si mise a spazzare lentamente l’atrio, pulendo tutti i residui di foglie secche che vi si erano depositati sopra.
Ci fu un attimo di silenzio, nella stanza. Kagome guardò l’hanyou con sguardo supplichevole: quella di parlare con il nonno era stata un’idea sua; il ragazzo non era stato d’accordo. Diceva che erano cose troppo arcane perché un sacerdote moderno potesse intendersene, e forse non aveva tutti i torti. Come al solito, si era rivelata una riunione inconcludente.
Intanto, la madre di Kagome li osservava, con un sorriso imbarazzato e gentile sul volto. Capiva come dovevano sentirsi i due giovani di fronte al dilemma, ma non potevano semplicemente gioire dell’accaduto? In fondo erano insieme, nonostante i pronostici avessero annunciato diversamente, e lei era molto felice all’idea che non avrebbe perso la propria figlia.
Inoltre, anche se sapeva che Inuyasha aveva intenzioni serie, si sentiva un po’ rincuorata dal fatto di avere il futuro genero sotto lo stesso tetto, in modo da controllare che le cose andassero nel modo giusto.
-Volete del thè? – chiese premurosamente. Forse, per il momento, era meglio chiudere la questione.
Kagome sospirò. –No, grazie, mamma.
Si nascose la testa fra le braccia e si appoggiò al tavolo, sconsolata. Alla donna faceva male, vederla così, ma capì che non avrebbe potuto fare nulla; non aveva studiato nulla di simile nella sua vita, e l’unico parere che poteva dare era solo basato sulla logica.
Le poggiò una mano sull’avambraccio, cercando di confortarla, e poi uscì dalla stanza, lasciandoli soli. Si disse che era meglio così.
-Hey… - cercò di dire Inuyasha, a bassa voce, - … fino a che va tutto bene non importa, abbiamo ancora tempo per scoprire cosa non va.
-Lo so – rispose una voce soffocata. Sembrava sconsolata. –È solo che ho paura di quello che può succedere.
Si alzò e lo guardò dritto negli occhi: -Capisci? Potrebbe essere un riscatto crudele, e io non voglio pagare per qualcosa che non so di aver fatto.
Il mezzo-demone la guardò, intensamente. Fissò quel viso triste e sperduto, così tremendamente bello, che l’aveva affascinato sin dal primo momento in cui l’aveva visto. No, non era vero che assomigliava a Kikyo: erano due bellezze completamente diverse, e nessuna delle due aveva a che fare con l’altra. Era stato ingiusto quando gliel’aveva detto, cercava solo di prendere le distanze.
Lei arrossì e distolse lo sguardo. Nessuno disse nulla per un bel po’, tanto che si poté udire distintamente lo sbadiglio del gatto, che sonnecchiava in grembo ad Inuyasha.
Se la ragazza non replicò, era perché apprezzava immensamente lo sforzo che Inuyasha aveva fatto nel consolarla. Raramente dimostrava di tenere a lei, anche se col tempo aveva capito quello la legava veramente al suo spirito. Improvvisamente, le venne un’idea.
-Inuyasha? Andiamo a fare una passeggiata? C’è un parco, qui vicino. Con tutto questo cemento mi sembra di soffocare.
Era vero; da quando aveva cominciato a frequentare l’epoca Sengoku, l’aria densa del presente e la mancanza di una fitta vegetazione la stordivano. Sentiva il bisogno, ogni tanto, di rifugiarsi su un prato, in mezzo al verde, e di cercare fresche macchie d’ombra dove potersi rilassare.
-D’accordo – annuì, - credo sia la soluzione migliore.
Anche la ragazza si rese conto che era una bella trovata, soprattutto per schiarirsi le idee; camminare un po’ le avrebbe fatto bene. E con Inuyasha al suo fianco si sarebbe sentita molto più sicura.
-Perfetto. Vado un attimo a cambiarmi – disse. Ormai non aveva più bisogno di indossare l’uniforme, visto che le vacanze estive erano appena iniziate.
-Ti aspetto qui – stabilì il mezzo-demone, già preparandosi a mettersi a torturare Buyo, la vittima più consenziente dell’universo.
La ragazza ridacchiò: capelli bianchi, occhi gialli, orecchie morbide in cima alla testa e una tunica rosso sgargiante dai pantaloni ampi. Il look perfetto per non dare nell’occhio, insomma.
Lo tirò scherzosamente per la manica fino in camera propria, divertendosi di fronte al suo sbigottimento.
-Andiamo, stupido, sono finiti i tempi in cui ti bastava un berretto da baseball!

***
 
Kagome arrossì violentemente per l‘ennesima volta, maledicendosi aspramente per la propria stupidità.
Sua madre, qualche giorno prima, aveva avuto la brillante idea di prendere dei vestiti vecchi appartenuti al nonno dalla soffitta, e di metterli a disposizione di Inuyasha. Erano pochi a causa della passione dell’uomo per i kimono da cerimonia, ma alcuni sembravano ancora molto attuali, e ad occhio erano della sua misura.
Per questo aveva pescato un paio di jeans e una camicia bianca, intimandogli di indossarli facendogli vedere come allacciare le cuciture e sistemare i bottoni. Dopo sbuffi, proteste e imprecazioni, l’aveva convinto: non poteva girare con degli abiti che attiravano troppo l’attenzione altrimenti si sarebbe infastidito della gente che gli ronzava attorno.
Semplice e lineare, aveva assicurato la ragazza, non è un ragionamento stupido, no?
Invece lo era, eccome. Gli aveva lasciato la propria camera per cambiarsi, dopo essersi rifugiata in bagno. Trucco veloce e approssimativo a causa delle lamentele esplicite di Inuyasha, che poteva sentire fin lì, vestito celeste semplice perché a lui infastidivano le cose complicate e un golfino neutro sottobraccio; già pensava di aver esagerato.
Quando, però, si era ritrovata davanti al ragazzo vestito in abiti moderni, non aveva potuto evitare di sentirsi incredibilmente inadatta. Le sembrò di tornare alle medie, davanti al suo compagno di classe per cui aveva una cotta, e si sentì vulnerabile.
Non aveva fatto i conti con il fisico di Inuyasha. Gli abiti gli stavano a pennello; la camicia metteva in discreto risalto la muscolatura possente, scolpita e asciutta, forgiata su ogni millimetro del fisico, mentre i pantaloni cadevano alla perfezione dimostrando ai quattro venti le gambe dritte e scattanti, degne di un atleta. Forse per praticità, si era legato i capelli in una coda lunga sulla nuca, lasciando i ciuffi laterali del viso esclusi dall’elastico per evitare che si vedesse la mancanza di orecchie umane.
Era, in poche parole, perfetto.
Le tremarono le mani quando dovette allacciarsi le scarpe e le ginocchia si mantennero molli per tutta la scalinata, facendola vacillare ad ogni passo.
All’improvviso, più o meno a metà, sentì un braccio forte e muscoloso infilarsi sotto al suo con decisione.
-Mi spieghi che cos’hai? – sbottò Inuyasha.
-E…eh?
-Ecco, lo vedi? Sei distratta, pallida e vacillante. Stai male?
-No…no, sto bene – mentì Kagome, arrossendo. Non aveva mai toccato direttamente la sua pelle ma, ora, le braccia erano lasciate quasi del tutto scoperte.
-Forse è colpa del caldo – osservò Inuyasha, guardando il cielo, - magari è meglio se torniamo indietro.
La ragazza premette la mano sul suo avambraccio, guardandolo negli occhi cercando di essere convincente: -Davvero, sto bene. Ero solo assorta nei miei pensieri. E poi il parco non è lontano, solo qualche minuto. All’aria aperta andrà decisamente meglio.
Dopo qualche minuto, in cui lui si sentì leggermente rincuorato, la lasciò andare e riprese a scendere, avendo premura di non superarla e stare al passo. Camminarono in silenzio, percorrendo le strade trafficate di Tokio velocemente e senza trovare qualcosa di intelligente da dire.
Inuyasha, a dire la verità, non amava molto spostarsi nel mondo di Kagome. Quelle che lei chiamava “auto” facevano un rumore terribile, e il loro odore era rivoltante. Impregnavano l’aria facendola diventare una nube densa di fuliggine, ma nessuno sembrava accorgersene.
Inoltre la ragazza aveva avuto una bella idea, in quanto la cosa che gli mancava più di tutti erano i boschi. Trovava sorprendente scoprire che il Musashi come lo ricordava lui esisteva contemporaneamente a quella piana spoglia brulicante di vita. Tutto il suolo era ricoperto dal duro cemento, di un grigio malato e triste, e in silenzio il suo cuore soffriva.
Saper di non poter cambiare la situazione lo faceva sentire impotente. Con i suoi artigli, avrebbe volentieri divelto tutto l’asfalto e dato una bella lezione a tutti quei veicoli rumorosi. Nel giro di qualche momento si sarebbe sentito meglio, ne era sicuro.
Non voleva imbarazzare Kagome, però, così non disse nulla. Appena uscito dalla sua stanza, chiuso in quegli scomodi pantaloni che si sentiva costantemente premere sulla pelle, era stato difficile non dirle quanto la trovasse graziosa con quel vestito; era abituato a vedere le sue gambe scoperte agitarsi allegramente in giro, ma con quella piega morbida l’effetto era diverso. Sembrava più femminile, adulta.
Si rese amaramente conto che, infatti, dopo le ultime vicende non era stato molto attento con lei. La battaglia con Naraku, la definitiva morte di Kikyo, le sconfitte e la frustrazione gli avevano impedito di concentrarsi su di lei, di essere presente. Guardandola ora, di sottecchi, notò quanto fosse maturata in solo un paio di settimane. Il suo viso sembrava già più adulto e splendido, con quella dolcezza puramente materna nei connotati che la rendevano simile ad un fiore primaverile.
-Qui c’è il parco – disse lei, interrompendo le sue riflessioni, -è bello, non trovi?
Lui annuì. Davanti a loro, una grande chiazza verde smeraldo si estendeva in mezzo ai palazzi vertiginosi e alla puzza di veicoli a motore. C’erano alberi dalla corteccia scura, alcuni più chiari e dalle chiome ampie, che permettevano ad un sentiero verdeggiante di essere morbidamente protetto dai raggi violenti. Anche se era davvero molto rilassante, si notava che era artificiale, costruito dagli uomini e non dalla natura.
Ma non aveva importanza; era grato che esistesse un posto con un minimo sapore di casa. Alcuni bambini vociavano sul percorso, mentre altri ne approfittavano per camminare tranquillamente.
Sempre in silenzio, trovarono una panchina isolata e si sedettero, vicini ma sufficientemente lontani. Si respirava un’aria fresca e tranquilla, sotto a quella quercia.
-Mi ricorda il bosco – disse Inuyasha.
-Anche a me. Mi ricordo che ci andavo sempre con Jinenji, alle radici di alcune piante, per prendere delle medicine particolari.
-Non bastavano i campi? – domandò lui, incuriosito.
Lei scosse la testa: -Non sempre. Non mi portava mai troppo lontano; in genere erano al limitare della casa.
Inuyasha ci pensò un po’ su. –Passavate molto tempo insieme, eh?
-Cosa vorresti dire? – chiese Kagome, stranita.
-Niente – arrossì. –Semplicemente quello che ho detto.
Silenzio. Fra sé e sé, la ragazza sorrise. Era inutile parlare con lui, finiva sempre preda di una stupida e insensata gelosia. Davvero pensava che ci potesse essere qualcosa fra lei e Jinenji?
-Sai, la mamma ha pensato che potrebbe farti dormire sul divano. Dice che è sconveniente che una ragazza della mia età dorma con qualche suo coetaneo.
Inuyasha avvampò di colpo. –M…ma io non ti faccio mica niente di male!
-È quello che le ho detto anch’io – spiegò Kagome, - ma credo che ci sia lo zampino del nonno. Sai com’è fatto, lui; così vecchio stile.
-Io ho uno stile molto più vecchio del suo – osservò lui, tranquillamente.
La ragazza ridacchiò: -Ma sei comunque più giovane; non hai vissuto realmente tutti gli anni fra l’epoca Sengoku e adesso, hai saltato qualche passaggio.
-Ho vissuto comunque parecchi anni più di lui – ammise, con un mezzo sorriso.
Era vero; essendo un mezzo-demone, l’apparenza era decisamente ingannevole. Inuyasha non pareva nemmeno ventenne, e invece poteva benissimo avere alle spalle più di cent’anni di esistenza. Un periodo così lungo, costellato da mille sfide… se lo trattava come suo pari, non era solo grazie all’aspetto giovane, ma anche al’immaturità del ragazzo. Kagome credeva che ogni tanto quella di Inuyasha fosse una scelta: apparire più simile agli esseri umani.
-Comunque dubito che lascerò che ti facciano dormire in salotto. Secondo me sei troppo grande per quel divano.
-È scomodo – commentò il ragazzo. Fece una pausa: -Ma credo che tuo nonno abbia ragione. Se vuole che ti sposi, di certo non va bene che io e te dormiamo nella stessa stanza; persino nei viaggio ci separavano, no?
Kagome lo fissò, stranita. Cos’era quella novità?
-Se vuole che io mi sposi? Con chi credi che mi voglia sposare? – nonostante il cipiglio infastidito, le sue guance stavano andando a fuoco esattamente come quelle del ragazzo.
-Beh…i..io… - farfugliò.
La ragazza sospirò. –Ti prego, lascia perdere. Per oggi basta brutte notizie. Se ti dà fastidio la situazione attuale, basta che me lo dici.
-Va bene – sussurrò. Era conscio di aver appena fatto un disastro.
Lasciarono passare i minuti nel completo e imbarazzato silenzio che nessuno dei due aveva coraggio di interrompere. Sembrava che il tempo stesse scorrendo via dalle loro mani eppure, nonostante fissassero un punto impreciso nel vuoto, si sentivano stranamente rincuorati dall’essere di nuovo insieme.
-Kagome? – disse Inuyasha.
-S...sì?
Le prese delicatamente la mano, quasi con timore di farle male. Prese forza e un respiro profondo, cercando di non arrossire come uno stupido. Lei non disse nulla, e continuò a guardare la pioggia di piccole foglie davanti ai suoi occhi.   
-Sei graziosa con questo vestito. 

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Capitolo 4
*** Rin ***


Rin si sentiva sola, triste e abbandonata a sé stessa.
Era la prima a non sapersi spiegare i motivi di tali sensazioni, visto che al villaggio era stata accolta sin sa subito come una componente della famiglia. Grazie a Kaede, inoltre, aveva imparato a leggere, scrivere e fare di conto, per lo meno affinando i rudimenti che Jaken le inculcava a forza durante le lunghe ore notturne, e ora poteva definirsi anche abbastanza autosufficiente per quanto riguarda le piccole questioni domestiche che doveva risolvere.
Anche se delle volte il lavoro assegnatole era davvero duro da svolgere, lei lo faceva con piacere; erano momenti capaci di farla rilassare e sentire importante. Inoltre, la sua mente poteva essere tenuta lontana dai pensieri negativi delle ultime settimane, per lo più riguardanti da scomparsa di Sesshomaru.
-Sono stata una bambina cattiva, Venerabile Kaede? – le aveva chiesto, un giorno. –È per questo che il Signor Sesshomaru non vuole neppure più vedermi?
La donna aveva interrotto il proprio lavoro per darle retta, e già di per sé questo dettaglio costituiva un onore immenso. Pazientemente, le aveva spiegato che se Sesshomaru non si presentava alla sua porta era solo perché la gente del villaggio avrebbe fatto delle storie, e Rin non si sarebbe impegnata abbastanza a fondo nella propria educazione poiché distratta dal pensiero dell’incontro con lui.
Il ragionamento poteva sembrare valido a chiunque, meno che a lei. Voleva un bene dell’anima a Sesshomaru e proprio non capiva come lui aveva potuto pensare che le loro chiacchierate silenziose sarebbero sembrate più un impiccio che un incentivo.
Si era illusa che il demone la conoscesse bene, ma in realtà la trattava come una sconosciuta. Se non aveva indovinato nemmeno la basilare venerazione che lei nutriva nei suoi confronti, allora come poteva sperare quella bambina che tornasse a riprenderla da quel villaggio così dolorosamente simile al proprio, messo al rogo diversi anni prima?
Immerse le caviglie sottili nell’acqua trasparente del torrente, e il giovamento non si fece attendere. Nelle torride ore appena trascorse, infatti, la bambina aveva dovuto occuparsi del bucato, e strofinare le mani contro la stoffa non si poteva certo dire piacevole. Inoltre, la schiena le doleva terribilmente, e calcolò che la sacerdotessa non si sarebbe arrabbiata per qualche minuto di ritardo; era troppo stanca anche solo per pensare a sobbarcarsi un’altra mansione prima di cena.
Guardò il sole fino a che gli occhi non le divennero ciechi. Le piaceva strizzare le palpebre e stare a guardare i riflessi che venivano a volteggiare sotto di esse, e seguiva le eliche rosse e blu con estremo piacere. Seguiva i filamenti con incredibile concentrazione fino a quando non ritrovava la calma.
Il turbamento era giunto all’improvviso, quando aveva visto la piccola casupola della famiglia dei pescatori al limitare del bosco. Era un assembramento mal riuscito di legno marcio, pannelli consunti e tatami luridi, con un tetto fatiscente di paglia e l’aspetto traballante, ma all’interno, oltre alla vischiosa puzza di pesce, si poteva trovare un’accoglienza coi fiocchi.
Una volta, infatti, era inciampata in una rete da pesca lasciata ad asciugare sul selciato, e la donna di casa, per scusarsi, l’aveva invitata a prendere una tazza di thè. Non aveva potuto trattenersi molto, ma da allora cercava sempre di passare di là anche solo per un saluto; quella dolce signora assomigliava molto a sua madre.
La donna che Rin aveva chiamato madre era morta assieme al marito e al figlio maggiore. Era successo in pieno pomeriggio, un orario insolito per l’arrivo dei briganti: sentendo il suono degli zoccoli lungo il sentiero, subito avevano tutti pensato ad una qualche scorribanda dell’esercito in quei territori. In genere i soldati non erano violenti con i civili, ma si limitavano a prendere i loro tributi e ad infastidire le donne più giovani con qualche moina di troppo, ma mai nulla più di questo.
Sua madre le aveva ordinato di andare in casa, però, quando avevano visto le fiaccole; nessuno aveva bisogno di luce quando in cielo c’era un sole battente.
Era stato un massacro: donne, bambini, uomini trapassati a fil di spada, bestiame sgozzato fuori dalle porte di casa, cavalli rubati, provviste rovinate e in parte saccheggiate, campi devastati, capanne bruciate. La cosa più vivida che Rin ricordava era il sangue; ce n’era dappertutto, persino sui muri. Alcuni fra quegli uomini maleodoranti l’avevano usato per imbrattare le case ancora incolumi.
Fra i gemiti e i lamenti delle ragazze brutalmente trascinate dietro alle loro casupole, qualcuno aveva scovato Rin; con gli occhi sbarrati, aveva assistito impotente allo sfascio della sua intera famiglia, protetta dal corpo ormai freddo della madre.
Serrò gli occhi con maggior vigore, fino quasi a farsi male. Scosse addirittura le gambe nell’acqua, bagnandosi l’orlo del kimono con qualche zampillo ghiacciato, ma nulla riuscì a rimuovere l’orrendo ricordo di quello che era successo dopo.
La Venerabile Kaede sapeva quello che era successo. Sapeva perfettamente che con una bambina di sette anni non si può usare la spada abbastanza a lungo da trarne una minima forma di malsano divertimento, e sapeva ancor meglio che alcuni uomini particolarmente deviati amavano la compagnia delle bambine.
Rin si vergognava al solo pensiero, ed era stata grata quando l’avevano buttata per strada, fra le rovine del villaggio. Di quei momenti ricordava soltanto l’ustione causata dal fuoco divampante, e la frenetica corsa per fuggire dai lupi, l’unico brandello rimasto del suo istinto di sopravvivenza.
E poi…poi c’era stato Sesshomaru. Forse anche lui sapeva quello che era successo, magari meglio di chiunque altro al mondo, persino di lei. I suoi occhi innocenti di bambina non potevano capire fino in fondo quanto avevano dovuto subire, ma un demone millenario con un profondo e radicato disprezzo per la natura umana ne aveva un’idea particolareggiata.
La bambina non l’aveva visto, ma qualche mese dopo averle salvato la vita il demone aveva pasteggiato con un nutrito gruppo di criminali famosi in tutto il Giappone dell’est per la loro abitudine di incendiare i villaggi massacrati, senza lasciare nessun testimone.
Con il respiro corto dall’affanno, Rin ritirò le gambe dall’acqua, rannichiandosi sull’erba. Solo una volta Jaken l’aveva vista in quelle condizioni, e l’aveva costretta a respirare profondamente. Si convinse che era meglio fare quanto il servitore le aveva insegnato: la vista era annebbiata, il cervello confuso, la bocca secca e il corpo scosso da brividi, ma riuscì a trovare la lucidità necessaria per fare ordine nella propria testa.
-Non ci pensare… - mormorò, - …non ci pensare, Rin…
Strinse le dita tremanti sulla stoffa del proprio kimono fino a quando il mondo smise di vorticare. Il suo petto si alzava e abbassava ritmicamente, fasciato dalla stoffa datole da Sesshomaru.
-Questo kimono te l’ha regalato il Signor Sesshomaru – disse a sé stessa.
L’idea di stropicciarlo le fece ritirare le mani di scatto, con una sorta di timore reverenziale. Si mise a sedere sull’erba fresca.
Il sole cocente era amortizzato dalla voce dell’acqua che scorreva al suo fianco, che sembrava volerle dare sollievo anche senza toccarla.
-Grazie, acqua – bisbigliò. Poi accarezzò piano il prato su cui era seduta, poiché sua madre le aveva insegnato di avere sempre un profondo rispetto per natura, l’unica vera padrona degli uomini.
Sentendosi ancora un po’ scossa, decise di aver bisogno di un bagno. Aveva i capelli infangati e della terra sotto le unghie: la Venerabile Kaede non sarebbe stata per niente contenta di vederla in quello stato, poiché sosteneva che una brava levatrice, o sacerdotessa, doveva sempre dimostrarsi pulita e in ordine non solo per il costante contatto con la gente, ma anche perché doveva maneggiare continuamente erbe medicinali e pomate lenitive.
 Velocemente, come le era stato insegnato, sciolse l’obi di un bel giallo acceso e lo spiegò. Poi sfilò il kimono corto, piegando anch’esso, e vi aggiunse la sottoveste. Impilò i vari indumenti con cura e tenne di tutto solo la leggera stoffa bianca, che posò con cura accanto al resto.
Infine, liberò i capelli frettolosamente dal loro fedele codino e si immerse nel freddo torrente, ridacchiando poiché l’acqua fredda le solleticava la pancia. Non era capace di nuotare: appena raggiunta la zona centrale si aggrappò ad una pietra che riaffiorava dalla superficie e si tenne lì, lasciando che il caldo, il sudore e la sporcizia venissero lavati via.
Nel folto del bosco, con la schiena appoggiata ad un albero secolare, Sesshomaru distolse lo sguardo. Non aveva mai permesso che Rin si spogliasse in sua presenza proprio per non darle noia, e non avrebbe certo iniziato ora a spiarla immerso fra le frondose cime di piante vecchie quanto lui. Gli pareva una mancanza di rispetto nei confronti della bambina.
La verità era che gli mancava moltissimo. Se ne era accorto nell’istante stesso in cui l’aveva affidata alle cure della vecchia sacerdotessa: era consapevole che da quel momento in avanti non avrebbe più potuto godere della sua compagnia, e che per molto tempo l’idea della sua risata fresca e della sua naturale gentilezza sarebbe stata molto più astratta del previsto.
L’assenza della bambina era un marchio bruciante, in lui, e lo disturbava il pensiero di questa sua nostalgia. Persino il semplice gracchiare di Jaken lo infastidiva, quando una volta ignorarlo era la cosa più semplice. Gli sembrava quasi che il servo spiasse ogni sua mossa, e sapesse perfettamente dove il padrone andasse durante le sue sempre più frequenti assenze.
Sesshomaru era conscio più di chiunque altro che in quella morbosa mancanza che sentiva nel petto a causa della bambina c’era una vena malata, insita nel suo spirito, ma non poteva fare a meno di compiacere i propri istinti. Rin aveva dovuto soffrire molto a causa della brutalità umana, e lui si rendeva conto che vegliarla tanto ossessivamente sarebbe stata soltanto l’ennesima buona ragione per lasciarla lì e sparire.
Rin era piccola non solo in confronto agli standart umani, ma soprattutto per i suoi. Fra loro c’erano come minimo cinquecento anni di differenza. Un’infinità.
Durante il periodo della loro separazione, Sesshomaru aveva persino accettato noiose “avances” da parte delle femmine di demone, solo per vedere se il suo corpo, appagato per lo meno dal lato carnale, avrebbe smesso di tormentarlo con le proprie continue richieste. Era stata tutta fatica sprecata; disprezzava profondamente le donne demoniache e quel periodo di compiacenza nei loro confronti non aveva fatto altro che ribadire le sue convinzioni.
Inoltre, a causa dei due viaggi nell’aldilà, la crescita di Rin era stata compromessa. E proprio in quello stesso periodo, quando di norma avrebbe dovuto avere solo nove o dieci anni, ne dimostrava già quattro di più.
Di questo si era accorto per primo, e ne era rimasto terrorizzato, sempre nei limiti che l’autocontrollo gli consentiva. Non solo per l’esasperante bellezza che la fanciulla aveva sin da subito dimostrato, ma anche perché la sua vita già di per sé breve si sarebbe accorciata ulteriormente, e le possibilità che la vecchiaia la assalisse in un battito di ciglia si faceva tangibile di giorno in giorno.
Per questo le portava sempre dei regali, anche se non aveva il coraggio di darglieli personalmente; voleva come dare una consistenza a quella strana amicizia con oggetti solidi, che lei potesse sfoggiare con evidente soddisfazione.
Quando sentì le parole della vecchia sacerdotessa provenire da un punto dietro alla sua schiena, non si sorprese affatto: ne aveva sentito l’odore ancor prima che uscisse dalla sua capanna.
-Quando ti deciderai a farti vedere da lei? – chiese, la voce distorta dagli anni. Era l’unica che potesse permettersi di dargli del tu senza che suonasse inappropriato.
Sesshomaru chiuse gli occhi. –Non sono affari tuoi.
-E invece credo di sì -  disse la vecchia, tranquillamente. –Ora che tuo fratello e la Divina Kagome sono scomparsi nel nulla e i preparativi per il matrimonio di Miroku e Sango stanno per essere ultimati, Rin passa molto tempo da sola.
Si mosse nel sottobosco, con il suo passo pesante. –Questo fa sì che lei cominci a rimuginare e ad intristirsi. Ha smesso di chiedermi tue notizie, ma risente della tua mancanza. E poi, questo periodo è molto particolare per lei.
Sesshomaru sapeva anche questo, come tutto il resto; era stato in quello stesso mese, o comunque in quel particolare momento dell’anno, che il suo villaggio era scomparso dalla faccia della terra, che la sua famiglia era stata sterminata e che quegli uomini, quella feccia di una razza già di per sé deplorevole, le avevano impresso il loro lurido marchio.
-Lo so – ribattè, stizzito. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma non era nella sua natura. Si alzò, con un fruscio.
-Datele questo da parte mia – si limitò a replicare.
Prima che il kimono rosa dalla squisita fattura toccasse terra, il demone bianco era già scomparso.
Kaede sospirò: che storia si sarebbe inventata, questa volta? 

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Capitolo 5
*** Amiche ***


Quella mattina, Kagome si svegliò con calma. Era avvolta dalle coperte fin sotto al mento, e qualcuno aveva lasciato la finestra aperta: una tendina svolazzava verso l’interno a causa del forte vento, annunciatore di un temporale.
Ancora intorpidita, si allungò verso il comodino, tastando la superficie liscia convinta di inciampare nella sveglia. Solo in quel momento si ricordò che non l’avrebbe mai più rivista; Inuyasha l’aveva rotta ormai qualche mese prima e, fra una cosa e l’altra, si era dimenticata di comprarne un'altra.
Accese il cellulare, trovato nel primo cassetto. Come sospettava, batteria scarica. Si era scordata il caricabatterie nella borsa al piano di sotto, e non aveva nessuna voglia di mettere i piedi sul pavimento gelido per andare a recuperarla.
Con uno sbuffo contrariato, rimise il braccio infreddolito sotto le coperte. A causa del mezzo-demone, le poche tecnologie di cui non si era ancora privata o erano rotte oppure dovevano essere sostituite.
Come la bicicletta: aveva dovuto spendere anni di risparmi per permettersene un’altra, e aveva rischiato che venisse sfasciata anche quella in uno dei fatali scontri con Naraku. Certo, preoccuparsi di una cosa banale come quella quand’era in gioco il destino del mondo non era una cosa nobile, ma in fondo la sua non era una famiglia in grado di permettersi grandi lussi.
Dando un colpo di reni, si girò dall’altro lato e si ritrovò a fissare il muro, con una certa nostalgia. Inuyasha doveva essersi già alzato, altrimenti avrebbe visto la sua testa canuta sbucare dal bordo del letto, visto che dormiva per terra a gambe incrociate ogni notte. E poi, data la sua abitudine di alzarsi presto, non era difficile supporre che fosse uscito dalla finestra per non disturbarla.
Piano, sorrise. Era sempre il solito: la riempiva di premure così infinitesimali da sperare che lei non se ne accorgesse per evitagli l’imbarazzo di un ringraziamento, ma alla fine lo smascherava sempre. Sembrava vergognarsi di quelle piccolezze come se fossero delle ingiurie nei suoi confronti.
Per un po’, rimase lì rannicchiata a pensare, man a mano che la sua mente si faceva più lucida. Sango, colei che era presto diventata la sua principale amica e confidente, le mancava moltissimo. Giusto qualche sera prima dello scontro finale avevano parlato del loro futuro, e avevano trovato delle aspettative così pallide che si erano subito intristite.
 
-Tu ti sposerai con Miroku, no? – osservò Kagome, per risollevare il morale dell’amica. Le ombre gettate dal gioco del fuoco con l’oscurità danzavano sul volto della sterminatrice distorcendone i connotati.
-Certo – mormorò Sango, per nulla convinta. –Ma la verità è che ho paura. Abbiamo viaggiato tanto, abbiamo sofferto ancora di più, ma alla fine… è Naraku ad essere in vantaggio. E se tutto questo peregrinare fosse stato inutile, Kagome-chan?
La ragazza del futuro deglutì, incerta. –È vero, per il momento ha lui il coltello dalla parte del manico, ma noi siamo più determinati a trionfare. Lui in queste battaglie non ha mai avuto nulla da perdere perché non aveva mai posseduto nient’altro che la sua cattiveria: noi siamo più forti perché spinti dalle ingiustizie subite nel corso del tempo.
La sterminatrice, notando il tono improvvisamente sicuro usato dalla sacerdotessa, aveva incassato la testa fra le spalle, demoralizzata. Sembrò riaversi dopo una breve riflessione, e la sua espressione si fece leggermente più distesa. Cambiò argomento senza nemmeno accorgersene.
-Sai, Miroku mi ha promesso un matrimonio, ma non sono sicura che manterrà questi propositi.
-C…cosa? – esclamò Kagome, sorpresa, - E perché non dovrebbe?
L’altra alzò le spalle. –Mah, sai com’è fatto… un giorno ama una, un altro ne ama un’altra. Per il momento è tutto preso dalla battaglia, com’è giusto che sia, ma quando non ci saranno più le guerre, gli scontri? Cosa farà?
Kagome si prese un attimo per riflettere. –Miroku è innamorato di te, ne sono convinta. Lo si vede da come ti guarda: solo perché fa il cascamorto con le altre non vuol dire che sia poco serio nei tuoi confronti; se ci pensi, non si è mai spinto fino in fondo con nessuna.  
Sango sospirò: - È vero, hai ragione.
Per un po’, entrambe guardarono le fiamme che si levavano scoppiettanti verso il cielo, colte da una strana apatia. Quella conversazione suonava, alle orecchie di entrambe, come una sorta di addio, come se quella sarebbe stata l’ultima sera prima di un’inevitabile distacco fra loro.
-Piuttosto – disse Sango, all’improvviso, - tu, che cosa farai? Voglio dire, una volta sconfitto Naraku… cosa sceglierai?
Kagome abbassò ancora di più la testa, mortalmente in ansia. –Non lo so, Sango-chan. Ad essere sincera non ne ho idea.
-Ma come? – chiese l’amica, sorpresa.
-È che…sono legata indissolubilmente a tutti  e due questi mondi. In uno ci sono nata e cresciuta, e nell’altro…nell’altro ho incontrato persone splendide, ho assolto doveri importanti… e vissuto avventure indimenticabili.
-Avventure… - sussurrò l’altra ragazza, pensierosa. In quei momenti, Kagome lo sapeva, pensava a Kohaku. Si morse la lingua, dandosi della stupida.
Riprese a parlare senza deprimersi ulteriormente: -E con Inuyasha? Come farai?
La sacerdotessa arrossì. –Bella domanda…lui è ancora così preso da Kikyo che non ho avuto il coraggio di dirgli nient’altro. Non credevo avesse bisogno di altri pensieri. Sai, fra lei e Naraku non so chi l’abbia preoccupato di più, ultimamente.
-Sì – osservò Sango, con pungente semplicità, - ma Kikyo è morta. Non hanno altre possibilità, lui deve rassegnarsi. Ormai non tornerà più qui, sulla terra; dev’essere il primo ad essersene reso conto. Già prima, quando lei si trascinava qui come uno spettro pieno di terra tombale, lui doveva aspettarsi di doversi concentrare sul mondo dei vivi, no?
-Ma…Sango! – esclamò Kagome, costernata.
Lei sapeva benissimo quale fosse l’opinione dell’amica circa la storia della sacerdotessa, e quest’ultima non poteva proprio nascondere il fastidio che il carattere altezzoso della defunta le suscitava. Nonostante la ragazza del futuro la pensasse allo stesso modo, non le pareva giusto infangare la memoria di Kikyo in quel modo.
-Hai ragione, lo so – sospirò Sango, - Inuyasha l’ha amata tanto eccetera eccetera. Questo l’ho capito. Quello che voglio dire, è che ormai lui nei tuoi confronti ha delle responsabilità: e il fatto che la tua casa è distante in quanto a tempo e non in spazio non fa altro che complicare le cose.
-Su questo non posso darti torto – mormorò Kagome. –Solo che non lo vedo intenzionato a scegliere. Se dovesse presentarsi l’occasione di dovermi seguire dall’altra parte del pozzo, dubito che lo farebbe.
Sango le posò una mano sulla schiena, leggermente. –Non dire così, Kagome-chan. Vedrai che una volta sistemato Naraku lui saprà prendere le sue decisioni.
-Lo spero, Sango-chan – sussurrò Kagome, assorta, - lo spero davvero.
 
A ripensarci in quel momento, quasi non le sembrava vero credere a tutto quello che era successo dopo. Adesso Inuyasha viveva con lei, nel futuro, stava integrandosi nella vita degli anni duemila con sorprente facilità, e faceva da assistente al nonno senza nemmeno esigere uno stipendio.
Anzi, in quel momento doveva presumibilmente trovarsi nel magazzino, visto che in giro non si sentiva nessun rumore: si alzava prestissimo per rimettere in ordine i vari orpelli, anche se il nonno aveva fatto fatica a riammetterlo lì dentro a causa dei danni commessi in precedenza.
Con un mormorio assonnato, Kagome si girò ancora una volta, sistemandosi meglio sul materasso. Ricordava bene quanto agognasse al suo letto nelle nottate passate all’adiaccio, per terra, attorno al fuoco, oppure quando gli scomodi tatami le lasciavano delle ecchimosi bluastre sulla schiena. Per non parlare delle serate insonni che aveva dovuto sopportare a causa della presenza di demoni, mostri, battaglie, esorcisti confusi e tante, troppe altre cose…
-Kagome? – esclamò una voce, all’improvviso. La porta della sua camera si spalancò in un attimo e un forte odore di thè prese prepotentemente possesso delle sue narici.
-Sei sveglia? – venne chiesto di nuovo, sempre con lo stesso tono fastidiosamente alto.
La ragazza, sotto le coltri, sobbalzò, e non poté reprimere un grido. –Inuyasha!
Il mezzo-demone in questione si voltò verso di lei con espressione interrogativa e un vassoio fra le braccia.
-Ah, ma allora ti sei già alzat…
-Si può sapere che modi sono?! – urlò Kagome, drizzandosi a sedere. Il ragazzo si rattrappì contro il muro, terrorizzato. – Ti hanno mai insegnato che esiste un’azione chiamata “bussare” e che si usa sulle “porte” quando si cerca di entrare nelle “stanze”? Eh? Te l’ha mai insegnato qualcuno?!
Ripresosi dallo choc, Inuyasha non perse la sua occasione per replicare a tono: -E adesso che cosa c’è? Ti arrabbi ancora prima di vestirti?
A quella frase, le mani della ragazza corsero alla sottoveste di mussola, regalo di compleanno della madre, che indossava. Si affrettò a coprirsi di nuovo, nonostante non fosse per niente un indumento capace di trarre in tentazione.
-Tsk! E io che ti avevo anche portato il thè! – sbottò il ragazzo, volgendo stizzito la testa dall’altra parte.
Aguzzando la vista, Kagome si rese conto che sul vassoio scuro c’erano due tazze fumanti, della quale una dal bordo sbeccato, e delle bustine di zucchero. Da quando Inuyasha aveva assaggiato quell’ingrediente per la prima volta, non aveva smesso di complimentarsi con l’epoca moderna per averlo “inventato”.
Capendo che lo scopo del giovane era stato davvero nobile, Kagome si addolcì considerevolmente. Trovava decisamente strano che Inuyasha si fosse messo a fare il tenero così, all’improvviso, ma non aveva potuto evitare di rimanerne assolutamente deliziata: quanti erano ancora in grado di premure come la colazione a letto?
-Oh… - disse solo, arrossendo. –Inuyasha, io… scusami…
-Bah, lascia perdere – brontolò, scorbutico. Posò il tutto sulla sua scrivania, voltandole le spalle probabilmente perché non notasse il suo imbarazzo, e sistemò Tessaiga al proprio fianco. –Chiamami quando ti sei vestita.
Sancito questo, uscì dalla porta privo della veemenza che l’aveva abitato fino a poco prima. Kagome, ancora un po’ scombussolata, afferrò la frase al volo e si adoperò per metterla in pratica. Chiuse rabbrividendo la finestra per non far raffreddare il thè e si mise addosso una maglietta a maniche lunghe e un paio di jeans appoggiati alla sedia.
Si schiarì la voce. –Ehm…se vuoi…se vuoi ho finito.
Le parve la cosa più giusta da dire.
A quel richiamo, il ragazzo aprì di nuovo la porta, stavolta senza accenni di violenza, e si sedette sul bordo del letto, dalle lenzuola stropicciate. La fissò dritta negli occhi.
-Beh? – sbottò.
-Niente… - replicò la ragazza, truce, e si arrese a portare il vassoio sul proprio giaciglio, sistemando le coltri in modo che non dessero fastidio, posandolo in mezzo a loro. Sedendosi, appoggiò la schiena al muro e portò le gambe sotto al mento.
-L’hai fatto tu? – chiese.
Il ragazzo, prendendo la tazza sbeccata, annuì. Bevve una lunga sorsata. –Tua madre non c’era.
-Oggi è giorno di spesa – rispose, riflettendo ad alta voce. –Strano che non mi abbia chiamato.
Il ragazzo arrossì leggermente: -Sono stato io a dirle di non farlo. Insomma, voglio dire, stavi dormendo così profondamente che…
Non continuò la frase, ma tanto bastò per far avvampare Kagome.
-Beh…grazie – disse, sorridendo. Non sapeva in che altro modo fargli capire che aveva apprezzato il gesto.
Lui voltò velocemente la testa all’altra parte con aria di superiorità, borbottando un “Tsk!” piuttosto infastidito.
-Hai fatto tutto da sola – le ricordò.
Kagome strinse gli occhi a fessura, già prevedendo un battibecco: -Che cosa intendi?
-Se sei pigra io non posso farci niente, no? – ribattè lui, con tono stizzito.
-Ma si può sapere cos’hai stamattina, scemo? Prima fai tutto il dolce e premuroso e adesso cerchi di farmi arrabbiare in ogni modo! – esclamò Kagome. Si stava già innervosendo.
-Frena, frena – disse lui, portando le mani avanti nel gesto di calmarla, - perché te la prendi con me adesso?
-La stessa domanda potrei farla io a te – rispose, acida.
-Dannata! E io che cerco di essere gentile…
-Eh no, mio caro, adesso non puoi rigirare la frittata così! – lo accusò lei, scattando in piedi. Con un moto di stizza, si sedette alla scrivania: -Non ho responsabilità sul fatto che agisci in modo diverso da come parli, ficcatelo bene in testa!
Lui, che di rimanere seduto non aveva più la minima voglia, si alzò dal bordo del letto e parlò con voce più alta, come se fosse in cerca di un litigio.
-Ah sì, eh? Bene, allora visto che è così vado ad agire e parlare da un’altra parte!
La ragazza si prese la testa fra le mani con un certo sconforto. Si era appena svegliata e già aveva dovuto subire tre diversi cambi d’umore: troppo, per una sola mezz’ora.
-Senti, fai un po’ quello che ti pare! – concesse infine, senza guardarlo. –Non è un mio problema.
Agguantò il libro di matematica e, afferrata una matita, si mise a scribacchiare furiosamente a caso nella pagina inziale, senza nemmeno leggere il testo della prima equazione. Quando studiava recuperava sempre la calma, perché si immergeva completamente in ciò che stava facendo; in quel caso, con gli occhi di Inuyasha ancora puntati addosso e una discussione in corso, ebbe l’unico risultato di irritarsi ancora di più.
-Non ti importa proprio niente di me, allora! – esclamò il ragazzo.
Questo fece calare un silenzio siderale fra loro. Lui sembrò immediatamente pentirsi di quanto appena proferito, ma era ormai troppo tardi. Kagome, con gli occhi lucidi dalla frustrazione, si alzò con estrema lentezza e, serrate le mani a pugno, continuò a dargli la schiena. Parlò con voce gelida, con un tono che non le apparteneva affatto.
-Stammi bene a sentire: dopo tutto quanto quello che è successo questa è l’ultima cosa che tu possa dirmi. Insultami come fai sempre, ignorami come fai sempre, ma non mentirmi. Fatti un esame di coscienza, piuttosto.
Detto questo, voltò i tacchi e uscì dalla propria camera mentre Inuyasha, ancora in piedi, stava fissando il muro maledicendosi per la propria stupidità.
 
*
 
Dopo quanto accaduto quella mattina, nessuno dei due ebbe né il tempo né la voglia di cercare un punto d’incontro. Inuyasha, risentito, si chiuse nel magazzino a lucidare furiosamente vasi più vecchi di lui mentre Kagome, recuperato il caricabatterie, aveva avvisato le sue tre migliori amiche di aver bisogno di uscire.
La madre, tornata per il pranzo, aveva scoperto una situazione bizzarra: il mezzo-demone si era sottratto ad una cucina che lui esaltava come ottima per preferire un antro polveroso, il nonno era assorto nella meditazione per trovare una soluzione ai problemi amorosi della nipote e Sota, ignaro di tutto, aveva visto la sorellina inforcare la bicicletta e partire a spron battuto per una strada secondaria.
-Secondo voi, cosa può essere successo? – bisbigliò la donna, cospiratoria, alla famiglia restante riunita in cucina.
Il nonno alzò le spalle, mostrando i palmi al cielo. –Non ne ho idea; non ero in casa stamattina.
Il ragazzino scosse la testa: -Nemmeno io. Ma penso che abbiano litigato come al solito.
-Stamattina - ricordò la donna, -Inuyasha mi è sembrato di buonumore. Le ha addirittura voluto preparare il thè.
-Davvero? – si incuriosì il nonno. –Forse le avrà scottato la lingua.
-Oppure era salato, come l’altra volta – azzardò Sota.
-Magari Kagome voleva il caffè – provò la madre, ma nessuna di queste ipotesi sembrava soddisfarli.
-Comunque sia – concluse il nonno, con aria profetica, - sarà quello che deve essere. Costretti a stare sotto lo stesso tetto troveranno presto un modo per un confronto amichevole, no?
Nessuno fra i presenti, però, concordò con le sue parole, ma rimasero piuttosto tutti in silenzio.
Nel frattempo, invece, Kagome aveva già parcheggiato la propria bici davanti al fast food preso come riferimento, ed era in attesa, assieme ad Eri e Yuka, dell’arrivo di Ayumi.
Si sentiva ancora furiosa per quello che lei e il mezzo-demone si erano detti, e non valutava il perdono come soluzione a breve termine. Aveva davvero passato il limite: era offesa e risentita dal fatto che tutto quello che aveva fatto per lui sembrava essere stato completamente dimenticato.
-Lo sai che la senpai Mayu di quinta B si è messa con quel giocatore di basket - sai, quello che ti piaceva! – di terza A? – stava dicendo Eri.
Yuka arrossì immediatamente. –Oh mio Dio, ma è terribile! No che non lo sapevo!
Si prese il viso fra le mani, bianca come un lenzuolo. Eri non sembrava altrettanto preoccupata, anzi, la sua espressione si era fatta quasi fiduciosa.
-Lui è troppo più piccolo di lei, Yuka-chan! Non dureranno nemmeno una settimana!
-Ma anche io sono più vecchia di lui di un anno, Eri… - le fece notare l’interessata, pallidissima.
Subito la ragazza, capendo di averla fatta grossa, si grattò la nuca con espressione da persona spacciata. –Ma va, non preoccuparti! La vostra differenza d’età è molto minore rispetto alla loro, non ti pare?
-Tu dici? – chiese l’altra, in cerca di essere rasserenata.
-Ma certo! – esclamò, sollevata, l’amica.
-E…da quanto stanno insieme? – si informò Yuka, che aveva subito ripreso un po’ di colore.
Kagome, intanto, aveva messo le mani in tasca e osservava la scena con un vago disinteresse. Quando Yuka le aveva confessato di avere una cotta per il sopracitato atleta, lei non vi aveva prestato molta attenzione: Kagura era appena morta e i piani malvagi di Naraku avevano assunto una sfumatura di urgente isteria.
Si rese conto di aver molto trascurato le sue compagne di scuola, presa com’era da battaglie che, alla fin fine, non avrebbero avuto ripercussioni sul futuro nemmeno se lei non fosse intervenuta. Questo pensiero la intristì terribilmente, ma l’arrabbiatura prevalse.
“Quello stupido!” pensò. “Stupido, idiota e infantile!
-Beh… - stava dicendo Eri, imbarazzata, - … da un mese, più o meno…
Kagome ripetè ossessivamente quella cantilena denigrante dentro la propria testa, ma si accorse che la cosa non la fece stare affatto meglio. Forse, rivolgendosi al diretto interessato, ne avrebbe tratto sollievo, ma l’orgoglio le impediva persino di considerare l’ipotesi di parlarci, anche solo per offenderlo.
-S…stai scherzando, vero? – balbettò Yuka. –U…un…m…mese?
-Mhhh…beh, ecco… - farfugliò Eri. Sembrò riprendersi con un moto di falso entusiasmo: -Ma la fonte da cui ho sentito questa chiacchiera non è affatto affidabile, sai? Probabilmente si sarà inventata tutto, come al solito! Magari me l’ha detto solo per spettegolare un po’, fra amiche!
La ragazza, sempre più estraniata dalla conversazione, si convinse che Inuyasha aveva tenuto un atteggiamento imperdonabile. Se davvero non le fosse importato niente di lui, allora perché avrebbe accumulato assenze a scuola per combattere la sua stupida battaglia?
-E chi è che ti ha messo questa pulce nell’orecchio? – continuò Yuka, cadaverica, a caccia di colpevoli.
…per sconfiggere il suo stupido nemico? 
Eri si grattò la testa, sempre più in difficoltà. –Ehm… la senpai Yuzuru…
…per recuperare la sua stupida sfera?
-La senpai Yuzuru?! – esclamò Yuka, attirando anche lo sguardo di qualche passante. –La responsabile della sezione gossip del giornale scolastico?!
…per salvare il suo stupido mondo?
-Ma dai, non prenderla così! Sarà stata in cerca di scoop! – cercò di dirle Eri.
…per rincorrere la sua stupida amante?!
-Eri, lei e la senpai Mayu sono intime amiche! Sono nella stessa classe, vanno agli stessi club e il fratello maggiore della senpai Mayu è il fidanzato ufficiale della senpai Yuzuru! – le ricordò Yuka.
Kagome si morse la lingua. Stava esagerando; stava letteralmente esagerando. In fondo, lui aveva cercato di allontanarla da quella storia, ma era sempre stata lei a tornare indietro, no?
“Già” pensò amaramente, “forse non mi riteneva capace nemmeno di lanciare una freccia!”
In quel momento, la sagoma di Ayumi si profilò all’orizzonte, appena fuori dall’entrata della metro. Aveva il proprio inseparabile zaino in spalla e, appena le vide, le salutò con la mano, avvicinandosi.
-Oh, eccola qui! – esclamò Eri, sbracciandosi con gratitudine per farsi vedere.
-Buongiorno, ragazze – esclamò la nuova arrivata, trafelata. – Scusate il ritardo, ma ho perso il treno e ho dovuto aspettare quindici minuti per l’altra corsa!
-Come mai sei venuta in metro? – chiese Kagome, per distrarsi.
-Ero fuori città – spiegò, - mia nonna si sentiva poco bene e sono dovuta correre da lei.
-Ci dispiace averti fatto scappare via – disse Eri, abbattuta. –Potevi dircelo, avremmo rinviato.
Kagome non ascoltò la risposta perché si era distratta a guardare due passanti. Un ragazzo, dall’espressione felice, stava abbracciando per la vita una ragazza, che stava arrossendo tenendo in mano un mazzo di rose. Sembravano così allegri e innamorati che Kagome se ne sentì quasi invidiosa.
Ecco come sarebbe stata con una persona normale, un fidanzato del futuro. Poi scosse la testa: Inuyasha non gliel’avrebbe mai permesso.
Già, Inuyasha…lo stesso per il cui amore aveva sacrificato tutto, persino l’idea di farsi una famiglia. Brutto ingrato!
-Ehm…Kagome? Ci sei? – chiese Ayumi, con espressione preoccupata.
-Eh? – si riscosse dalle proprie invettive.
-Ti abbiamo chiesto se ti va un hamburger – ripetè Eri, scandendo lentamente le parole per farle capire meglio.
-Ehm…certo. Massì, perché no? – disse, sforzandosi di sorridere.
Le amiche la guardarono dubbiose, ma il vero interrogatorio lo fecero una volta sedute sui confortevoli divani del locale, ricoperti da uno spesso strato di vernice rosso fuoco anni settanta.
-Allora? – disse Yuka, prendendo l’iniziativa, - cosa ti ha fatto questa volta?
-C..cosa? – Kagome smise di sorseggiare la sua bibita per concentrarsi sulle parole che stava sentendo.
Si era distratta un’altra volta, accidenti. L’ennesima coppietta che le era sfilata davanti le aveva strappato un’esclamazione silenziosa che, colta solo dalle sue orecchie, sembrò molto ma molto astiosa, per altro rivolta a due sconosciuti. Stava davvero degenerato.
-Lo vedi? – si prese la briga di spiegarle. –Sei assente, distratta. Ti guardi in giro con occhi vacui, hai mangiato appena, hai giocherellato con il tuo panino per mezz’ora: sono tutti sintomi di problemi d’amore, mia cara.
Lo aveva detto con tono da esperta, come se la tragedia da lei vissuta con il suo bel giocatore di basket non fosse mai esistita.
Ayumi annuì con convinzione. –È già successo altre volte, sai? Sempre le stesse cose. Secondo me dovresti deciderti a scaricare il responsabile una volta per tutte.
La veemenza di Eri la soprese: -Lascia perdere la tua indole romantica! Lui non ti merita! Lo so che hai paura di rimanere da sola, Kagome, ma sei ancora giovane! Hai solo diciassette anni!
Durante il suo discorso aveva battuto una mano sul tavolo, e la stava puntando con l’altra, stretta a pugno. Si risedette con dei mormorii estranei in sottofondo, arrossendo.
Riprese, a voce bassa. –Secondo me faresti meglio a chiudere definitivamente questa storia… ti fa più male che bene.
-E cominciare a frequentare altre persone – suggerì Ayumi.
-Più gentili e attente ai tuoi bisogni – continuò Eri.
-Dolci e premurose – aggiunse Yuka, sognante.
-Ma soprattutto educate – chiarì la prima.
 Kagome, che fino a quel momento non aveva detto nulla, si lasciò andare ad un lungo sospiro. Convincerle del fatto che non aveva nessuno come fidanzato sarebbe stato del tutto inutile, così rinunciò in partenza.
-È vero – ammise, - abbiamo litigato.
-Lo sapevo! – esclamò Eri, trionfante.
-Shh, abbassa la voce – bisbigliò Yuka, ammonendola.
-Non ci voleva molto a capirlo, d’altra parte – ragionò Ayumi. –È sempre lo stesso ragazzo, quello con i capelli bianchi?
Kagome annuì.
-Il teppista – ricapitolò Eri.
-Sì, quel poco di buono – assentì Yuka.
-Non è un teppista! – lo difese Kagome, - E nemmeno un poco di buono. È semplicemente un po’ scontroso, tutto qui.
“Ma perché lo sto difendendo?” si chiese, arrossendo. Lui non si meritava che qualcuno prendesse le sue parti, non dopo quello che aveva detto!
-Ah sì? – osservò Yuka, sarcasticamente, - E come spieghi i suoi attacchi di malumore, i continui litigi, i dissensi e i dolori che fanno peggiorare la tua salute?
-Non si scherza con le ragazze giovani affette da reumatismi – concordò Eri.
“Nonno, questa me la paghi” pensò Kagome.
-Soprattutto dopo il tuo recente attacco d’asma! – intervenne Ayumi.
“E anche questa”.
-E per fortuna che non hai dovuto iniziare la chemio! – lamentò Yuka.
“Ma soprattutto questa”.
-Il punto è un altro – intervenne Kagome, ormai dipinta come una martire, - il problema è successo questa mattina. Abbiamo litigato per una cosa stupida e lui ha detto che a me di lui non importa nulla.
Le ragazze la guardarono, senza capire, e così si affrettò a spiegare.
-Insomma, non ho detto niente quando la sua ex era tornata a bussare alla porta, e nemmeno quando doveva regolare i conti con Nara…un tizio molto pericoloso, per non parlare di tutti i battibecchi con suo fratello che ho dovuto placare! Sono arci-stufa di venire ricompensata così dopo avergli risolto tutti i problemi! – si sfogò.
Negli occhi di tutte, ora, c’era una certa compassione. Eri le posò una mano sulla spalla con un sorriso incerto.
-Povera Kagome… - commentò.
-Ma vi siete sentiti per telefono? – chiese Yuka.
Lei scosse la testa. –Mi aveva portato la colazione in camera, poco dopo avermi svegliata.
-S…stai dicendo che vive con te? – impallidì Ayumi.
La ragazza si morse la lingua con violenza, dandosi della stupida. Ovvio che non avrebbero capito in che circostanze si trovavano!
-È…è solo una situazione temporanea – farfugliò.
Con gli occhi spalancati dallo scandalo, Eri si prese il viso fra le mani. –Ma…così giovani, sotto lo stesso tetto…?
“E per fortuna che non gli ho detto che dormiamo nella stessa stanza…” pensò lei, sarcasticamente.
-Ehm… sì – disse, inventadosi un racconto. –C’è stato un incendio a casa sua e i suoi parenti vivono distanti, così…mi sono offerta di dargli una mano. Solo per un po’ – si affrettò a dire.
-È vero, c’è stato un incendio a qualche isolato da qui, la settimana scorsa – confermò Yuka.
Le ragazze parvero rasserenarsi. Ci fu un attimo di silenzio, in cui i loro sguardi indagatori la fecero deglutire, e sperò tanto che se la fossero bevuta.
-Comunque – concluse Eri, - secondo me l’unica cosa da fare è lasciarlo. E metterti con una brava persona. Come Hojo, ad esempio.
Le altre concordarono con lei. Kagome sospirò: sarebbe mai riuscita ad averla vinta, con loro tre?     

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Capitolo 6
*** Litigi e Concordia ***


Miroku stava guardando la luna, come sempre.
Era da quasi una settimana che aveva smesso di radersi e pettinarsi, fare le proprie abluzioni e rispettare l’orario della preghiera. Dormiva pochissimo, e sempre all’aperto. Delle volte spariva per ore intere e tornava con le ginocchia coperte di fango, e lo sguardo vacuo.
Ogni tanto, nel singolare buio della notte, parlava da solo: usava una grande quantità di inchiostro su rotoli di pergamena scadente, su cui annotava numeri, fasi lunari e coincidenze astrali. Quando un erborista era passato per la città, l’aveva interrogato per più di un’ora, ma nessuno sapeva cosa si fossero detti.
Posizionava il suo bastone in modo particolare, sul terreno, e ogni tanto lo spostava, di solito con il piede. Qualche millimetro, oppure gli faceva fare un giro completo per rimetterlo nella posizione originale.
Per Sango era doloroso vederlo così; mancava una settimana al matrimonio, ormai, e lui non sembrava affatto intenzionato a rinsavire da quella paranoica follia in cui era scivolato.
Da quando Kaede le aveva chiesto di portare pazienza, la ragazza si era ritirata in una vita di silenzio. Preparava puntualmente i pasti per lui, gli faceva compagnia e cercava di spiare sui suoi fogli, ma non ci capiva gran che: erano tutti vergati in calligrafia precisa e ordinata, senza nemmeno l’ombra di un qualsiasi delirio, e una persona che li avessi letti con calma non avrebbe mai pensato che fossero opera di un pazzo.
No, si diceva Sango, Miroku non era pazzo. Stava solo attraversando un periodo difficile. La sua ossessione per le emanazioni di potere e la possibilità di capire che sorti fossero toccate a Inuyasha e Kagome aveva preso bordi pericolosamente tangibili, ma mentre prima si imponeva di non preoccuparsi, ora le pareva impossibile non prestarci attenzione.
In fondo, lei lo amava ancora, e la atterriva l’idea di non aver potuto far nulla per lui. Voleva essergli utile così come lui era stato abile nel consolarla quando stava male per Kohaku, ma non ci riusciva. Ogni volta che vedeva la sua schiena rannicchiata sullo steccato dietro la casa di Kaede le veniva un groppo in gola, e non riusciva più a respirare. Doveva tornare in casa a piangere e sfogarsi fino a quando non sarebbe stata sicura di potergli offrire tutto il sostegno necessario.
Quella sera, il buio tardava ad arrivare. La sagoma della luna si vedeva all’orizzonte, nel cielo rosato, e aveva preso l’abitudine di fissarla anche lei. Non ci vedeva nulla di bello, però: le sembrava solo una sfera irridente e irraggiungibile, una di quelle cose impossibili da afferrare e che era meglio lasciar perdere. Un enigma irrisolvibile, un delitto riservato solo agli dei.
Sistemò lo scollo del kimono, che aveva allentato per il caldo, e finì di mescolare la zuppa. Dalla finestra della sala non riusciva a vedere la schiena del monaco, poiché era abbastanza distante, ma sapeva per certo in quale posizione l’avrebbe trovato. A gambe incrociate, curvo su un pezzo di carta, con il pennino furiosamente intento a graffiare il piccolo spazio ingiallito.
Sospirò. Avvolse la ciotola in un fazzoletto semplice e se lo mise sottobraccio. Quando sentì dei passi fuori dalla porta, che dava sulla strada, si fermò. Non le piaceva incontrare la gente, in quel periodo. Ne aveva quasi timore: le pareva che ognuno le rimproverasse la follia del futuro marito come se dipendesse da lei.
-Questa è la casa del monaco – bisbigliò una massaia.
Sango si appiattì lungo il muro interno e non fiatò.
-Sì, lo stesso che è ammattito e dorme nell’orto della Venerabile Kaede – intervenne, a bassa voce, un’altra.
-Quello che viaggiava con la ragazza del futuro e col mezzo-demone – confermò un’altra.
-Sono entrambi spariti – spiegò la seconda, - e pare che il monaco cerchi di parlare con gli dei per capire se potrà raggiungerli.
Sango serrò le mascelle, ma non disse nulla.
-In cielo? – chiese, stupita, la prima.
-Non lo so – continuò la seconda, - ma non è bene chiederglielo. Chissà se ha fatto patti con i demoni o che altro, per essere uscito così fuori di senno.
-Ho sentito dire che i demoni volpe mangiano l’anima di chi chiede loro un favore…
“Stupide!” urlò Sango nella sua testa, “stupide idiote! Contadine ignoranti! Maledette!”.
Sentì le lacrime pungerle gli occhi, ma deglutì la saliva e si impose di rimanere calma. Era ovvio che la gente di un piccolo villaggio si mettesse a parlar male di qualcuno troppo originale. Era nell’indole degli abitanti dei centri di campagna.
Anche se la cosa le dava fastidio, non sarebbe comunque riuscita a far loro capire che Miroku era solo addolorato dalla recente perdita, e aveva reagito in modo sbagliato. Ma si sarebbe ripreso presto, di questo era sicura.
Raddrizzò le spalle e uscì dalla casa, con la cena sottobraccio. Si unì alla silenziosa processione dei contadini, che tornavano dai campi, e nessuno la notò. Svoltò accanto alla casa di Kaede, e fece una smorfia sentendo l’odore disgustoso della latrina. Lo scolo doveva essersi di nuovo intasato.
La breve salita prima dello spazio dell’orto le fece male ad una caviglia, ma continuando a camminare potè ignorare il dolore. Se fosse scesa anche solo di qualche passo, si sarebbe scontrata con il retro dell’abitazione. Poco più avanti c’erano le lapidi di famiglia: quella di Kikyo era la più recente, poiché la sacerdotessa ne aveva fatto piantare un’altra quando la morte della sorella era stata definitiva.
Sango, per paura di risvegliare ancora la donna, non aveva mai portato un fiore sul posto, ma era un timore infondato: in quel sepolcro non c’erano più nemmeno i resti della defunta, ma solo della comunissima terra polverosa tipica del suolo del Musashi.
Nel tenue bagliore di un tramonto che volgeva al termine, per Sango non fu difficile individuare Miroku. Come immaginava, era seduto a gambe incrociate, ma non stava scrivendo: tutti i suoi documenti erano sparsi disordinatamente per terra e lui stava fissando il cielo con profonda concentrazione.
Senza dire niente, la sterminatrice posò la ciotola su un’asse di legno posata orizzontalmente sullo steccato, in attesa che qualcuno lo riparasse. Fermò le oscillazioni di quel piano instabile posandoci sotto un secchio rovesciato e un paio di mattoni di argilla, poi allentò il fazzoletto e lasciò che il vapore si diffondesse un po’.  Dopo di che sciacquò al pozzo lì affianco la tazza che aveva lasciato lì il giorno prima, (che, come immaginava, non era stata lavata), e la riempì d’acqua fresca. Sistemò al suo interno l’infuso per il thè e si sedette, in attesa.
Durante quei difficili minuti di silenzio, Miroku non si era voltato, ma era rimasto immobile come una statua.
-Ci sono quasi, Sango – disse, all’improvviso.
Lei deglutì: la sua voce era un po’ roca, però aveva lo stesso tono sereno e amichevole che aveva imparato a conoscere. Si illuse quasi che fosse tornato quello di un tempo.
Quel timbro estremamente rassicurante lasciò a quella persona fragile e provata il lusso di concedersi una fantasia: sognò che quella lunga e estenuante fase di pazzia fosse finalmente finita e che Miroku, con un sorriso sulle labbra, sarebbe tornato ad abbracciarla come faceva un tempo, a sussurrarle che tutto sarebbe andato per il meglio e che si sarebbero sposati presto.
-Davvero? – disse lei. Si contenne, senza cedere troppo a quella recondita speranza, ma non fu facile.
-Sì. Non manca molto alla luna nuova.
La ragazza si aspettò una spiegazione, ma lui non aggiunse altro. Con un sospiro, lei tirò fuori le bacchette che aveva infilato nella manica e le posò sul bordo.
-Se vuoi ti ho portato la cena – disse, apprensivamente, ma con una nota di stanchezza. –Quando hai finito, potresti mettere tutto impilato come la scorsa volta, per favore?
-Sai, avevo quasi pensato di aver sbagliato i calcoli della rotazione – continuò lui, apparentemente senza sentirla. –Ma mi pareva assurdo. Ho passato notti a fissare tutte le fasi, i cambiamenti e le mutazioni, e sono diventato molto preciso a metterle su carta. È per questo che credo di essere vicino alla soluzione, Sango.
Sentendolo parlare così, la ragazza si appoggiò ai paletti di legno conficcati nel suolo. Non era mai stata una grande esperta di astri, ma era sicura che il discorso fatto dal monaco non c’entrasse nulla. Una morsa di disperazione la convinse che la gente non si era sbagliata: il ragazzo era impazzito davvero.
Deglutì sonoramente.
-Vedrai, Sango – continuò lui, con voce fiduciosa, - scoprirò come riportarli a casa, te lo prometto.
Quello che disse dopo passò inascoltato, poiché la ragazza aveva gli occhi offuscati dalle lacrime e i polmoni brucianti. Aveva voglia di esplodere, di cadere e non rialzarsi mai più.
Miroku, l’uomo che avesse mai amato, era totalmente pazzo. Non avrebbe più potuto darle un futuro, probabilmente non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo, isolato ed emarginato da tutti. Non si rendeva nemmeno conto dello stato in cui si trovava, semplicemente continuava ad alimentare il proprio delirio con soprendente lucidità, ma aveva quasi del tutto perso il contatto con la realtà. Non c’erano più speranze.
-Capisci, Sango? Sono orma…
-Basta! – urlò lei, con le lacrime agli occhi.
Lui si voltò, guardandola completamente in viso. Non era abituato a vederla in crisi, non fino a quel punto, e sgranò gli occhi, con le parole troncate a metà incastrate in gola. Sembrava persino che l’allarmato bagliore in fondo alle iridi blu oceano fosse naturale, lo stesso sguardo di quando tutto andava bene.
Sango non l’aveva mai visto, l’oceano. L’aveva solo sognato. Quand’era bambina, vederlo era sempre stato il suo desiderio, ma c’era sempre qualche demone da uccidere, qualche esorcismo da fare, qualche questione che era molto più urgente dei suoi desideri, e così non aveva mai realizzato questo proposito. Miroku le aveva promesso che vi avrebbe posto rimedio, ma ora anche questo stava andando in mille pezzi.
-Smettila! – singhiozzò, portandosi le mani ai capelli, -Non capisci che ti stai uccidendo? Che ci stai uccidendo tutti e due?
-Ma… - cercò di dire, ma lei lo interruppe.
-Non…non dire niente. Non provare a farlo. La luna, le stelle, il cielo… ci hanno sempre guardato e basta, lo capisci? Mai nessuno ci ha aiutato a proseguire le nostre battaglie, a sopravvivere ai nostri nemici, nessuno! E tu lo sai meglio di me! La tua cara e fidata luna ti avrebbe guardato senza battere ciglio dissolverti nel Foro del Vento se le cose fossero andate male, lo sai bene!
Il monaco chiuse la bocca, rimasta semi-aperta dallo sgomento. Era stato punto sul vivo. La ragazza proseguì.
-Tu non ti rendi più conto di niente, ormai. Vivi nel tuo mondo…e non posso biasimarti affatto, perché se avessi potuto avrei fatto lo stesso. Ma ho dei doveri, e li rispetto. Mi mantengono viva. Ed è quello che dovresti fare anche tu!
-Sango… non capisci che…
-No, no no, mio caro, io capisco fin troppo bene! Non trattarmi da stupida, perché sono stanca di stare qui, in silenzio, a guardarti vaneggiare e non poter fare niente per farti rendere conto che è un atteggiamento stupido!
Le lacrime ormai le impedivano di vedere bene quello che la circondava, ma a lei non importava affatto. Ora che aveva cominciato a sfogarsi le pareva di stare meglio con sé stessa, ma vedere la lucidità prendere vita sul volto del monaco, a differenza di ciò che immaginava, non le diede la speranza che di solito la animava.
-Non è stupido quello che faccio qui – cercò di persuaderla, - è per Inuyasha e Kagome, per fare in modo che…
-Mancano anche a me, ti è mai venuto in mente? – esclamò Sango. A risponderle ci fu solo uno sbigottito silenzio.
-Allora? – lo incitò – Lo hai mai pensato?
Miroku la guardava, ora, mortificato. Aveva le mani in grembo e la sua espressione afflitta le fece male, perché aveva scelto un momento molto delicato per dirgli ciò che pensava a proposito delle sue improvvise stranezze e ora rischiava di mettere in pericolo anche la propria precaria stabilità.
-La vita continua, Miroku. Con le proprie ferite, i propri screzi, le proprie difficoltà, ma va avanti. Mi sorprende che tu non te ne sia accorto.
Non ebbe la forza di dire altro. Si voltò e, a passo spedito, tornò al villaggio, celando gli occhi arrossati tenendosi lo scialle sul capo. Un po’ soffrì del fatto che il monaco non l’avesse seguita.
La zuppa, ormai, era del tutto gelida, ma nessuno vi fece caso.
 
*
 
Nella tribù Yoro esisteva un detto: per cancellare un grande dolore, bisogna subito festeggiare una grande gioia.
Fu per questo che Ayame e Koga non attesero oltre e, appena tre giorni dopo lo scontro fatale, cominciarono le cerimonie per il loro matrimonio. I demoni lupo erano tutti vestiti a vesta, bardati con le armi scintillanti e gli occhi accesi da uno sguardo allegro, quasi giocoso, sereno.
La sconfitta di Naraku aveva portato una ventata di ottimismo nei clan, e vi erano state numerose riunioni per porre fine allo stato di eterna belligeranza che da sempre infestava i picchi rocciosi dove le tribù erano stanziate. In effetti, i contemporanei non ricordavano i motivi che causarono tali scontri, ma li avevano semplicemente protratti per rispetto dei loro antenati, convinti che sicuramente dovevano essere stati animati da un buon motivo.
Ora che avevano dovuto sperimentare una disgrazia decisamente maggiore sulla loro pelle, ovvero la venuta del malvagio mezzo-demone, erano tutti concordi sul fatto che tali avvenimenti erano stati soltanto nocivi allo sviluppo di una civiltà progressista e compatta. Fu Koga stesso, un giorno prima delle proprie nozze, a stipulare il primo trattato di pace dopo quasi seicento anni.
Nel giorno del matrimonio, tutti dimenticarono per un momento le fatiche da cui dovevano riprendersi e le macerie che dovevano trasformare in abitazioni, e non si badò a spese: due notti intere di baldorie e banchetti rinfrancarono con sbornie colossali e scoppi di risa tutti i presenti.
Avendo un forte legame con il popolo, Koga aveva lasciato libera la partecipazione alle tavole imbandite e, gomito a gomito, il nobile aveva iniziato a discorrere con l’umile, così come il generale si trovò a trascorrere momenti piacevoli con la massaia. Fu, insomma, un evento unico nel proprio genere.
Ayame, dal canto suo, non poteva dirsi più soddisfatta: era sposata con l’uomo che amava, presto avrebbe partorito un bambino, la tribù del nonno era finalmente stata unita a quella degli Yoro e tempi felici brillavano all’orizzonte. Cosa poteva una donna desiderare di più per essere entusiasta?
Marito e moglie, da quel giorno, abitarono in una grotta sulla punta del monte principale, molto riparata dalle intemperie e abbellita dai tesori di guerra che erano stati accuratamente spartiti. Non avevano problemi nella convivenza, anche perché erano molto spesso impegnati: decisioni importanti richiedevano la partecipazione di Koga anche per ore, bisticci territoriali da acquietare e piccoli furti erano all’ordine del giorno, e la principessa andava servita e riverita in qualsiasi momento, per cui tornavano nelle loro stanze solo per crollare dal sonno e, all’occasione, mangiare qualche pasto in compagnia.
Recuperavano del tempo assieme solo nelle assolate giornate di riposo, dove scendevano fino alle pendici collinari del territorio per immergersi in una qualsiasi area boschiva e cacciare.
Portare delle prede a casa era la passione segreta di Ayame; aveva passato la propria vita a dover provvedere da sola ai propri pasti e, ormai, catturare la selvaggina era diventata per lei un’azione abituale. Koga la seguiva per mantenersi in forma e non perdere il proprio spirito da combattente , visto che ormai non aveva più bisogno di battagliare come faceva un tempo. E poi doveva ammettere che la parlantina della moglie gli era di gran conforto, quindi per lui era molto facile sentirsi finalmente a proprio agio con qualcuno.
-L’ho preso! – urlò Ayame.
Di lei vedeva solo le caviglie, precariamente posate su un ramo particolarmente alto. La corda tesa della trappola fu scossa da un tremito.
-Bene! – le gridò di rimando. –Adesso lascio il falcetto!
-Pronta! – confermò la moglie, tenendo saldamente la preda.
Con un gesto rapido, Koga estrasse la lama ricurva dal terreno, forzando il muscolo dell’avambraccio e sentendo immediatamente un lampo di dolore. Immediatamente, la liana intrecciata scomparve dalla sua vista con un fruscio da frusta, e un sonoro schiocco annunciò che il collo del piccolo animale era stato spezzato a dovere. Alla fin fine, era il tipo di morte migliore che poteva offrire ai suoi pasti: non ne comprometteva l’integrità ed era una cosa breve, immediata.
Con un salto atletico, Ayame atterrò affianco al marito reggendo, con evidente soddisfazione, un grasso demone scoiattolo. Potevano crescere così tanto da assomigliare ad un cane da caccia.
Il suo sorriso di trionfo le morì sulle labbra quando vide la smorfia di dolore sul viso del marito.
-C…che cosa c’è?
Lui scosse la testa. –Niente, solo la mia solita cicatrice. Non si è ancora sistematacompletamente dopo lo scontro, ma adesso è tutto a posto. Certo che è proprio grosso quell’affare.
Tenendo la carcassa penzolante dalla fune, lei mise minacciosamente le mani sui propri fianchi.
-Non me la fai – lo rimproverò, - e se credi di cavartela con così poco ti sbagli di grosso. Quante volte ti ho detto di lasciare che ti fasciassero?
Koga sospirò. –Andiamo, Ayame! Era solo una….
-… cosa da nulla – completò lei, alzando gli occhi al cielo. –Se ricordo precisamente, stavi anche per dire che “un vero guerriero non si ferma davanti a scaramucce del genere”. Scaramucce, certo. Così poco importanti che ti fanno male anche a un mese di distanza.
-Non mi fa male – rispose, piccato, mettendo il broncio.
Un nuovo sospiro. –Piuttosto, aiutami con il fuoco: io intanto lo scuoio.
Il ragazzo si affrettò a sistemare le pietre che avevano raccolto durante il percorso in un cerchio più o meno regolare. Si stava facendo buio e prima di tornare dalla tribù avrebbero mangiato qualcosa; avendo preso due demoni scoiattolo, un gallo probabilmente fuggito da un pollaio e un cervo adulto sarebbe stato troppo faticoso spostare tutto fino in cima alla montagna a stomaco vuoto.
Conoscendo il proprio appetito, il ragazzo considerò la diretta eliminazione dei due grossi demoni, mentre il resto, com’era giusto che fosse, se lo sarebbe portato in spalla. Ora che Ayame era incinta, non vedeva di buon occhio il suo voler fare gli stessi sforzi di un uomo.
Accese un piccolo fuoco proprio nel centro dello spiazzo fra gli alberi, mentre la ragazza, poco più in là, stava puntellando il coltello appena sotto il primo strato di pelle. Trovando il punto giusto, prese a togliere come un rivestimento la rada pelliccia con grande concetrazione.
Era un compito che voleva fare lei a tutti i costi, visto che sosteneva che Koga fosse un incapace in quelle cose. Probabilmente era vero, visto che a sbrigare tali incombenze erano sempre stati Ginta e Hakkaku, ma il demone lupo preferiva pensare che quel compito le fosse gradito poiché derivava da un insegnamento del nonno.
-Sai, oggi, sull’albero, ho visto i camini del Musashi – disse lei, dopo un po’.
-Davvero? – chiese, sorpreso.
Spezzò un ramo flessibile e basso e lo sistemò come spiedo. Vedendo che si era subito bruciato troppo, lo gettò via e ne cercò un altro.
-Sì. C’erano tutti i tetti spianati davanti ai miei occhi, è stato bello. Forse sono andata troppo in alto, ma non importa: in fondo questo bel ragazzotto l’ho catturato proprio per questo!
Fece brillare la punta vichiosa di sangue da una chiazza priva di peli vicino al collo, e si fece una risata di gusto. Koga roteò gli occhi ma non disse niente.
-Comunque sia mi ha fatto tornare in mente Kagome e… quel mezzo demone…. – si interruppe, puntandosi il coltello al mento come se fosse un prolungamento della propria mano, -… come si chiamava il mezzo demone dai capelli bianchi, Koga?
Il ragazzo borbottò qualcosa.
-No, non era “botolo ringhioso”, questo me lo ricordo – lo precedette, asciutta. Raggiunse subito l’illuminazione.
-Ma certo, Inuyasha! Si chiamava Inuyasha! – esclamò. –Comunque sia, mi sono tornati in mente. Ho provato ad allungarmi un po’ se ne vedevo le sagome, ma era tutto troppo sfocato; sai com’è, i miei occhi non arrivano fino a lì. Beh, mi sembrava tutto tranquillo, come se la guerra non ci fosse mai stata. L’altro giorno, ad esempio, Ginta mi ha detto che lì vicino si sono scontrati due eserciti. Ti rendi conto? DUE eserciti! Mica roba da niente! E loro se ne stavano là, ad arare placidamente i campi come se la cosa non li riguardasse. Straordinario, non trovi?
-Al Musashi fanno una vita semplice – osservò Koga, - quelle poche volte che sono stato lì davano tutti l’impressione di non avere particolarmente a cuore le sorti dei vari eserciti. E poi con gli umani è facile confondere le fazioni, hanno tutti la stessa faccia! – borbottò.
Ayame scosse lentamente la testa. –Mi sono rimaste impresse quelle due sacerdotesse. Sai, Kagome e la sua antenata, quella Kikyo. La morta due volte. Erano praticamente identiche.
-Si assomigliavano molto – ammise lui.
-Già… chissà che Inuyasha è riuscito a sposare la più giovane, però! L’ultima volta l’ho visto così…strano!
Koga sistemò accuratamente due bastoncini appuntiti accanto al fuoco, testandone la flessibilità. Si muovevano bene, si arcuavano al punto giusto e parevano anche abbastanza robusti; li fissò con una cordicella e poi si mise a lucidare il proprio pugnale da caccia, un’ennesima volta.
-Sicuramente – disse, senza esitazione. – Quel botolo ringhioso sa essere davvero testardo, a volte, ma su una cosa del genere non è difficile trovare una risposta. Non mi sorprenderebbe scoprire che lei sia già incinta.
-E la cosa non ti tocca? – chiese la moglie, a bruciapelo.
-C…cosa?
-Voglio dire, tu eri pur sempre innamorato di lei.
La voce innocente contrastava completamente con le dita immerse nelle viscere di quel povero scoiattolo. Koga deglutì sonoramente.
-Hai detto bene: ero! Kagome era una donna davvero bellissima, ma era di Inuyasha, non mia. Me ne sono accorto presto e… beh, poi sei arrivata tu.
Ayame arrossì di piacere. Il sole era quasi del tutto scomparso all’orizzonte, e il fuoco giocava al posto suo con i riflessi dei suoi capelli ramati. Era bellissima.
-Oh, Koga! – sospirò, estasiata - Tu sì che sai farmi felice! Visto che sei così bravo posso anche darti un pezzo di fegato, lo vuoi?
Sulla punta della lama teneva una parte informe di qualcosa di viscido. Lui rifiutò cortesemente con un gesto della mano.
-A proposito, ricordami di portare questo cervo a Hakkaku – aggiunse dopo qualche attimo di silenzio. –A lui piace da morire.
-Lo so! Sua moglie lo sa cucinare divinamente! Anche se è tanto giovane è davvero un’esperta di cucina! – la lodò Ayame.
Koga annuì, distrattamente. Nonostante Hakkaku avesse ormai messo su famiglia, continuava a servirlo fedelmente al fianco di Ginta, così come era sempre stato. Avrebbe dovuto lodarli più spesso per i loro servigi.
-Sì… credo che ci abbia anche invitato a cena, ma non mi ricordo quando.
-Accidenti, Koga! Sempre la stessa storia, non ti ricordi mai niente! Non vorrai mica fare la figura dell’altra volta, quando hanno dovuto aspettare due giorni prima che tu ti decidessi a rifiutare l’invitodella settimana prima?! – lo sgridò.
-Non farla così lunga! – replicò, infastidito. –Sono pur sempre il capo-clan, no? Sanno benissimo che ho un sacco di questioni a cui pensare!
La voce di Ayame si addolcì. Posò il proprio coltello, ormai lurido, e lasciò cadere la collottola pelosa per terra, mettendo precariamente la carcassa su un sasso là vicino con l’intenzione di finire di pulirla in un secondo momento. Si sciacquò velocemente le mani con uno zampillo della propria borraccia e abbracciò la schiena del marito.
Sentì i muscoli di lui irrigidirsi dalla sorpresa, ma non fece nulla per mandarla via.
-Lo so, Koga, che sei un uomo impegnato. Sono molto orgogliosa di quello che stai facendo con le altre tribù, sai? Mi dispiace vederti così affaticato, ma d’altra parte so che è necessario per garantire il bene dei demoni lupo. Era il progetto che abbiamo sempre sognato, e quando ti ho sposato sapevo benissimo quello che avrebbe comportato. Se insisto affinchè tu ogni tanto ti prenda una pausa è solo per non farti impazzire.
-Lo capisco – mormorò.
-Forse Ginta e Hakkaku hanno avuto il mio stesso pensiero; lo sai quanto ti vogliono bene – gli fece notare.
Lui borbottò qualcosa. Dire che degli uomini “si vogliono bene” non era una cosa particolarmente rassicurante per un maschio Yoro, legato com’era alla tradizione di virilità e compostezza di spirito. Il “volersi bene”, l’”amare” e il “provare affetto”, erano cose da donne.
-Vorrei davvero avere più tempo per te, Ayame – ammise.
In fondo, anche se all’inizio aveva avuto dei dubbi, lui amava sinceramente sua moglie. A causa alla stretta rigidità politica a cui era legato non poteva esporsi più di tanto, ma teneva alla donna come sua unica confidente e amante leale. Era la persona, assieme a Ginta e Hakkaku, di cui si fidasse di più, e la trovava davvero splendida.
Era rimasto sorpreso dal grande senso di protezione che sentiva nei suoi confronti, e soffriva nel stare così a lungo lontano da lei, soprattutto ora che stava aspettando un bambino; ricordava che le famiglie umane avessero molta attenzione per le donne incinte, e per qualche tempo si era anche quasi sentito colpevole per la propria educazione, che impediva severamente ad un uomo di “rammollirsi” passando troppo tempo in casa.
Riuscire a conciliare un matrimonio d’amore con una facciata di convenienza non era affatto facile.
-Ce la faremo, vedrai – lo incoraggiò, sorridendo fra sé, e accarezzandogli un braccio.
Detto questo, lei tornò a dedicarsi all’animale, poi montò il demone sullo spiedo e prese a cucinare. Lui raschiò via il sangue dalle lame e sistemò tutto il materiale da caccia nelle varie bisacce, con attenzione; erano utensili molto preziosi.
Mangiarono per lo più in silenzio, con una strana serenità. Lui la lodò per la sua cucina, lei arrossì e lo riempì di baci, lui si schiarì la voce per farle capire che stava esagerando e finirono per fare l’amore sotto la luna.
Quando capirono che stavano facendo troppo tardi, si caricarono i bagagli in spalla, (con Koga che borbottava perché Ayame aveva insistito per aiutarlo con il cervo) e ripresero la salita verso casa.
Voltandosi un’ultima volta per osservare la luna, Ayame fece un impercettibile sospiro.
-Sai, se abbiamo tempo mi piacerebbe andare a fare una visita al Musashi. Che ne dici?
Koga, che aveva già imboccato il sentiero, sollevò gli occhi al cielo dandole le spalle. Questo significava dover essere addirittura ospite di quel botolo ringhioso, anche se solo per un pomeriggio. Sbirciando il viso affaticato di Ayame, ancora arrossato di piacere, cedette.
-Si può fare – concesse.
Il resto del percorso lo completarono in silenzio. L’alba illuminava i tetti delle case quando crollarono, esausti, nei loro giacigli. 

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Capitolo 7
*** Le Volpi Bianche ***


Kagome si strinse il proprio cardigan contro le spalle.
Per essere una notte estiva, faceva parecchio freddo; le fronde degli alberi del tempio si agitavano, impazzite, sotto la pressa schiacciante del vento, mentre la volta stellata sopra alla sua testa sembrava essere zuppa di pioggia come una spugna. Presto sarebbe scoppiato un temporale.
L’incontro con Yuka, Eri e Ayumi non aveva portato a grandi risultati. Come immaginava, le ragazze avevano concluso il prorprio discorso con Hojo e, da quel momento in poi, non avevano parlato d’altro.
Lei le stava a sentire per pura cortesia, ma in realtà non vi stava dando particolare attenzione. Nonostante le sue premure, infatti, il giovane Hojo non sarebbe mai stato un compagno ideale per lei: troppo protettivo, troppo docile, troppo malleabile, troppo educato, troppo dentro agli schemi, troppo premuroso, troppo soffocante, troppo… normale.
Nella fase dei suoi sensibili quattordici anni aveva spesso favoleggiato su un cavaliere bello e gentile che le portasse delle rose alla finestra della sua stanza, ma si ritraesse senza entrare per non mancarle di rispetto. Si sarebbe lasciata vezzeggiare come una vera e propria principessa, e si sarebbe crogiolata in quelle attenzioni con grande piacere.
Se fosse tornata nuovamente ad un simile stato d’idee, Hojo sarebbe stato il compagno perfetto. Ma, abbandonati i sogni così colmi di zuccherata irrealtà, aveva cominciato a nutrire interesse per quel tipo di principe rude, testardo e scontroso che una donna, più di viziarla esplicitamente, si concentra ad amarla con implacabile passione.
Inuyasha, doveva ammetterlo, era un amante ideale. Burrascoso, irruento, violento, infantile, dal cuore d’oro e con un forte senso di giustizia. Lui era stato la scossa elettrica che le aveva sconvolto l’animo, quella ventata d’aria improvvisa che fa volare via aquiloni e cappelli.
Con un sospiro, si arrese all’evidenza: le sue amiche non avrebbero mai potuto capire. Non essendosi mai trovate in situazioni di reale pericolo, non riuscivano a comprendere la sostanziale differenza fra un uomo forte e un ragazzino di sole parole.
Inuyasha l’aveva protetta da demoni, mostri, creature mitologiche, situazioni rischiose ed emanazioni spirituali. Hojo, invece, l’aveva pedinata una settimana per accettare una lucertola secca contro i reumatismi, ignorando la sua repulsione per quegli animali, soprattutto se morti, decomposti e sottovuoto.
Dopo aver camminato senza meta per un po’, si sedette sotto le foglie fruscianti del Goshinboku, cercando di trovare un po’ di pace. Si sentiva confusa: i suoi sentimenti per Inuyasha non erano affatto cambiati, ma era ancora arrabbiata per quella storia della mattinata.
Era conscia di aver avuto una reazione eccessiva, ma non aveva potuto trattenersi di fronte a quella frase. Il ragazzo sapeva benissimo quanto fosse importante per lei; perché all’improvviso la trattava come se avesse sempre tenuto un comportamento esigente ed ingrato nei suoi confronti?
Nel pomeriggio aveva provato a prendere in considerazione l’idea che avesse semplicemente detto una cosa di troppo, spinto dalla voglia insensata di portare avanti un litigio. Ma ci sarebbero stati mille altri modi per farla arrabbiare e Inuyasha, che li aveva ormai sperimentati tutti, lo sapeva meglio di chiunque altro.
Dimostrarsi geloso, fare il permaloso, parlare di amanti immaginari, accusarla di essere stupida oppure comportarsi da scemo: erano ottime idee per farle saltare i nervi.
Il ragazzo sapeva di certo che si sarebbe solo indignata, usando la frase che aveva detto, e non ci sarebbe stato nessun litigio, ma solo un muro di silenzio.
La panchina era ghiacciata, e questo la spinse a rannicchiarsi su sé stessa. Avrebbe atteso la pioggia prima di entrare in casa; avrebbe sempre potuto dire di essere rimasta in biblioteca fino a tardi e di essere rincasata soltanto ora.
In effetti era vero; dopo il pranzo piuttosto deludente, aveva salutato le amiche e si era diretta in biblioteca. Aveva preso tutti i volumi disponibili di algebra, un blocco di appunti e non aveva alzato la testa fino a quando la bibliotecaria, con un tono gentile, le aveva fatto notare che era ora di chiusura.
Le equazioni letterali non avevano avuto l’effetto desiderato. Le sembrava che ogni radice quadrata le urlasse a gran voce il torto subito.
“X = y2, mia cara Kagome, ma non preferiresti un Inuyasha = a cuccia20?”.
Ripensandoci, era da tantissimo tempo che non lo mandava “a cuccia”, eppure nemmeno in quel momento ne sentiva il bisogno. Negli ultimi tempi, soprattutto dopo la definitiva morte di Kikyo, aveva cominciato a trovare barbaro quel modo di sigillarlo, sebbene per brevi istanti, e aveva smesso di usare il comando anche senza accorgersene.
All’improvviso, fu costretta a sobbalzare: una pesante casacca di stoffa le era appena scivolata sulle spalle, eliminando bruscamente i suoi brividi di freddo.
Il suo istinto le suggerì di urlare, poiché lo spavento l’aveva colta alla sprovvista, ma il suo corpo si rilassò istantaneamente di fronte a quel tepore familiare, a quell’odore di muschio così dolce e sensuale che aveva sempre il potere di farla sentire a casa.
Prima che potesse dire qualcosa, una voce dietro alle sue spalle la ammonì.
-Così finirai per ammalarti, scema – borbottò.
Con un balzo, sulla panchina non fu più sola: un ragazzo con delle morbide orecchie da cane se ne stava a gambe incrociate. La sua espressione imbarazzata era però indecifrabile, se non oltre il disagio che doveva provare nel starle vicino dopo quello che era successo.
-Inuyasha – mormorò lei, sopresa.
Vederselo accanto di nuovo, dopo averlo pensato tutto il giorno, fece in modo che il suo cuore accellerasse il battito: le pareva ancora più bello del solito, e così grande che se l’avesse abbracciata lei si sarebbe smarrita sul suo petto.
Indossava solo il kimono bianco, coperto sotto dalla chiusura dei pantaloni ampi; la veste superiore l’aveva data a lei e, con dita esitanti, ne seguì quasi incosciamente le cuciture.
Lui non rispose per un lungo momento e, alla fine, decise di cambiare discorso.
-Dovresti rientrare, sta cominciando a piovere.
Kagome sospirò, e appuntò lo sguardo laddove lo stava tenendo fisso anche lui. Non fu difficile seguirne la traiettoia, visto che stava guardando con un’espressione strana il capanno del pozzo, sigillato dalla familiare sbarra di legno.
Il nonno, infatti, aveva considerato saggio apporre un sigillo contro qualche pellegrino curioso che, invece di trovarsi di fronte ad un altare, avrebbe svelato un antico passaggio con il mondo medievale. Sempre se funzionava ancora.
La ragazza capì che quello era il momento opportuno per scusarsi, e prese fiato. Ma, mentre stava per iniziare il proprio discorso, la voce di lui cominciò a fare lo stesso, e lei si interruppe per lasciarlo parlare.
Pur di stare a sentire quello che lei doveva dirgli, Inuyasha si zittì, ma era ormai troppo tardi. Un silenzio imbarazzato cadde fra di loro per la seconda volta.
-Oggi… oggi non ti ho visto al tempio – disse Inuyasha.
Kagome non lo guardò.
-Sono uscita con le mie amiche.
Lui storse il naso. –Le tre dell’altra volta? Quelle che mi toccavano i capelli?
La ragazza annuì. Nessuna risposta.
Mentre la conversazione stava ancora per scivolare nel nulla, fu nuovamente il mezzo-demone a prendere l’iniziativa pe continuare a parlare.
-Io sono stato con tuo nonno, invece; abbiamo… abbiamo riordinato il magazzino – spiegò.
La giovane si chiese perché glielo stesse dicendo. Decise di giocare al suo gioco ancora per un altro po’, prima di poter parlare a carte scoperte.
-Davvero? Siete stati coraggiosi; erano anni che non ci mettevo più piede, mi disperavo anche solo nello stare sulla soglia.
Il ragazzo annuì, appollaiato sullo schienale della panchina. Un soffio di vento spostò per un secondo la pesante frangia che gli copriva la fronte alta e liscia, ma i ciuffi argentei tornarono a coprire lo spazio superiore alle sopracciglia con incredibile puntualità.
-Ho… - deglutì, - … ho trovato una tua foto.
Kagome impallidì. –C..cosa?
Senza fornirle ulteriori spiegazioni, lui si mise a frugare nella propria manica destra, prima di trarre con insospettabile delicatezza un rettangolo ingiallito dal tempo. Prima di porgerglielo, ci soffiò sopra con cura e, infine, lo passò tenendolo solo con i polpastrelli, evitando di artigliarlo.
Con mani tremanti, Kagome prese l’istantanea fra le dita, sfiorando involontariamente quelle di Inuyasha. La pelle era fredda, ma anche stranamente rassicurante, come se il pulsare del suo cuore potesse arrivare con un’eco distinta anche sotto agli artigli.
Arrossirono entrambi di quell’involontario contatto, e Inuyasha volse la testa dall’altra parte per mascherare l’imbarazzo.
Kagome, posando lo sguardo sulla foto, accarezzò un lembo ammorbidito. L’immagine ritraeva lei da bambina che teneva la mano a Sota, che all’epoca aveva appena imparato a camminare. Il piccolo non stava guardando l’obbiettivo perché era troppo occupato a tenersi in piedi, ma Kagome sorrideva felice vero il fotografo, e sembrava il ritratto della persona felice.
La ragazza non ricordava quando quella foto fu scattata, ma indovinò che si trattasse di un periodo di particolare leggerezza in famiglia. Aveva pochi ricordi della propria infanzia, e tutti piacevoli, ma le pareva comunque verosimile che stesse reggendo i passi malfermi del fratellino visto che, quand’era nato, aveva fatto la solenne promessa di proteggerlo fino a quando non sarebbe stato in grado di farlo da solo.
Inuyasha sbirciò la sua reazione. Stava calando il buio, il sole era quasi del tutto scomparso all’orizzonte e faceva freddo, ma il piccolo sorriso che sbocciò sulle labbra della fanciulla lo fece sentire bene, al caldo. All’improvviso, gli sembrò quasi impossibile che non ci fosse un sole cocente sopra alla sua testa, invece che il pallido riflesso della luna, nascosta da nubi temporalesche.
-Non mi ricordavo affatto di questa foto – commentò Kagome, facendo una risatina. –Sota era così piccolo… credo avesse imparato a camminare solo da qualche giorno.
-Anche adesso è piccolo – le fece notare Inuyasha.
-È vero – concesse, - ma fa sempre uno strano effetto vedere il tempo che passa.
Inuyasha non sapeva bene cosa dire, di fronte a quella frase così malinconica. Nell’epoca Sengoku non esistevano le fotografie, e per questo era più difficile avere qualcosa di palpabile dei propri ricordi. Certo, lui non aveva difficoltà di memoria, ma vedeva gli sforzi degli umani nel conservare le cose belle del passato; facevano ritratti, dipinti e templi nella speranza che a qualcuno rimanesse la memoria di loro, ma non sempre trionfavano.
-Eri bella, da bambina – ammise lui. Subito dopo averlo detto, si morse la lingua.
Kagome sollevò le sopracciglia, guardandolo per la prima volta della serata. A dispetto di quello che lui temeva in modo del tutto irrazionale, la ragazza fece un sorriso dolcissimo.
Lui ne rimase incantanto. Chissà per quale motivo si era aspettato che il complimento la facesse arrabbiare, più che lusingarla, e si era mentalmente preparato a doverla fronteggiare nell’ennesimo battibecco.
Kagome era una ragazza bellissima, inutile negarlo. La morbidezza dei lineamenti del viso trovava un perfetto connubio nei capelli color carbone, che contornavano i suoi occhi lucenti e le labbra splendide con dolci e sinuose ondulazioni. Il collo da cigno era solo il preludio di un corpo sottile, slanciato eppure pieno, laddove le curve erano perfettamente bilanciate per non sembrare minimanente volgari o piatte.
Insomma, era perfetta. E quando sorrideva, il mondo sembrava trovare la pace, come se tutti i dolori passati non fossero mai esistiti. Esprimeva una così commuovende freschezza che lui se ne sentì abbagliato, catturato, completamente assorbito, e non poté fare altro se non guardarla con profonda e stupita ammirazione.
-Grazie – momorò lei, tornando a guardare la foto.
Era strano che Inuyasha fosse tanto carino con lei. Che fosse un modo per chiederle scusa?
No, in realtà ne dubitava. Seguendo i ragionamenti del guerriero, il torto non era mai suo e, anzi, se si comportava in modo scorretto era solo perché ci era stato obbligato, e mai per errore personale. Questo Kagome l’aveva imparato con il tempo.
Tuttavia si chiese se non erano forse arrivati ad una svolta. Insomma, erano piombati entrambi nello stesso mondo apparentemente per sempre, vivevano sotto lo stesso tetto e avevano condiviso un sacco di cose insieme. E poi c’era stato quel bacio, a suggellare un momento che sembrava essere stato del tutto dimenticato.
Con una certa amarezza, forse si rese conto che quell’episodio era stato dettato dal sollievo per aver sconfitto il loro nemico. Per lei aveva avuto un significato davvero importante, ma si chiese se Inuyasha avesse pensato lo stesso.
Si diede della stupida subito dopo aver formulato il pensiero: lui era un ragazzo tremendamente serio sui sentimenti, non scherzava con gli animi delle persone. Se l’aveva baciata, allora era stato per un motivo valido.
-Kagome… - momorò lui, pensieroso.
-Inuyasha… - sussurrò lei, nello stesso momento.
Si guardarono, sorpresi, e lei gli sorrise timidamente.
Una mano fresca le si posò sulla guancia, e si ritrovò a fissare due intensi occhi ambrati. Trasmettevano pace e desiderio. Lei vi si specchiò dentro, e trovò che mai il suo viso avrebbe potuto trovare una cornice più perfetta di quella.
Non ragionarono più di tanto, in quell’istante, ma seguirono semplicemente l’istinto, la cara vecchia attrazione che aveva fomentato tutte le azioni che, senza la perdita della ragione, non avrebbero mai fatto.
Come in quell’istante: Inuyasha prese le briglie del proprio buonsenso, se davvero lo possedeva, e lo gettò via, completamente, senza nessun ripensamento.
Si chinò quel tanto che bastava, sentendo il battito furiosamente accellerato di Kagome, e la baciò con trasporto. La ragazza rispose alla stretta e gli permise di scivolare oltre le sue labbra morbide, di abbandonare la goffaggine dell’inesperienza per donarglisi completamente, senza rimorsi.
Nessuno dei due se ne accorse ma, nel frattempo, aveva iniziato a piovere. Distrattamente, il ragazzo coprì meglio le spalle della sua donna con la veste e continuò ad abbracciarla con tale fervore che chiunque avrebbe pensato che fosse suo desiderio non lasciarla andare mai più.
E, in effetti, era proprio così.
 
//
 
Yuka si portò preoccupata una mano sulla fronte, sentendo che scottava. Prese il termometro dal cassetto e lo incastrò sotto l’ascella. In quell’esatto momento, squillò il cellulare.
-Pronto?
La voce di Eri le arrivò soffocata come se la ragazza si stesse tenendo un pezzo di stoffa davanti alla bocca.
-Yuka? Sei tu?
L’interessata si allarmò immediatamente.
-E..Eri? Tutto bene?
Ci fu  una breve pausa dall’altro capo del telefono, dove si udì un confuso tramestio di sottofondo. A Yuka parve che l’amica stesse trafficando con delle stoffe, oppure un pezzo di carta.
-Può sentirti qualcuno? – domandò di nuovo Eri.
-N…no – disse, un po’ spaventata, - ma mi spieghi cosa succede?
Non era raro che Eri la coinvolgesse nelle sue stramberie, ma quella sera le parve quasi che non stesse affatto scherzando. Non solo il tono le era sembrato mortalmente serio, ma anche poco incline alla presa in giro. Se l’amica voleva divertirsi, quella sera non era decisamente il momento.
-Bene – la interruppe, senza rispondere. Lo strappo di un pezzo si schotch rieccheggiò nell’altra linea.
-Ok – continuò. –Ascoltami bene. Ti ricordi che oggi abbiamo pranzato con Kagome?
Yuka si mise a sedere, circospetta. –Certo – affermò.
-Ad un certo punto ha confessato di aver litigato con il teppista. Ci sei?
Tirando fuori il termometro da sotto il pigiama, inutile visto che ormai si era mossa, Yuka sbuffò con impazienza.
-Eri, non trattarmi come una bambina, è successo tutto solo poche ore fa!
-D’accordo, d’accordo – concesse, - ma tu sforzati, ok? Ad un certo punto, quando ha spiegato il motivo per cui era così arrabbiata, ha detto che l’aveva aiutato quando doveva regolare i conti con un tizio pericoloso, no?
Yuka strinse gli occhi a fessura, sforzandosi di farsi tornare il passaggio preciso in mente. Il mal di testa le stava oscurando i pensieri, rendendo difficile mettere ordine fra le varie informazioni ma, dopo qualche attimo di riflessione, le parve di ricordare una cosa del genere: Kagome si era messa ad elencare i motivi che dovevano essere prove evidenti del suo affetto per lui.
-Sì, ci sono… e questo cosa dovrebbe significare? – chiese.
-Beh – disse Eri, bisbigliando. –Ci ho pensato tanto sopra, e alla fine sono arrivata alla soluzione. Quando ha detto questa cosa stava per dire un nome. Un nome che iniziava per “Nara”. Non l’ha completato, ha detto solo che si trattava di una persona molto pericolosa.
Yuka non ci stava capendo più niente: voleva solo mettersi a dormire anche se erano solo le nove di sera.
-Eri, ti prego – la scongiurò, - arriva al punto, non ne posso più!
-Va bene – sospirò l’amica, dall’altra parte. –Insomma, credo di aver scoperto chi fosse il tanto temuto personaggio sconosciuto.
Fece una pausa ad effetto.
-Sono sicurissima che si trattasse del capo banda Narata, il leader delle Volpi Bianche!
Yuka trattenne il respiro, inorridita. Rimase così sconvolta dalla notizia che le cadde il telefono per terra e, nel tentativo frenetico di riprenderlo in mano, fece rotolare a terra la sveglia, un libro, il termometro e il caricabatterie.
Tastando il pavimento, riprese il cellulare con dita tremanti. Eri sembrava molto soddisfatta dell’effetto-bomba di cui anche Yuka era stata vittima.
La ragazza abbassò tragicamente il tono, come se all’improvviso anche lei si sentisse spiata da una cimice o una telecamera nascosta nella sua camera.
-Stai parlando di quel Narata? – volle sincerarsi Yuka, - Quello con i capelli tinti di bianco, pieno di piercing che gira su una moto tenendo in mano una mazza da baseball? Quello che è stato arrestato per atti vandalici e incendio doloso? Il responsabile di tutte quelle aggressioni?
-Pensaci! – la spronò Eri, felice di aver trovato qualcuno che condivideva i suoi stessi timori. –Il ragazzo di Kagome ha i capelli bianchi e lunghissimi, proprio come quelli delle Volpi Bianche, indossa vestiti strani e fuori moda, proprio come quelli delle Volpi Bianche, ha delle orecchie canine in cima alla testa, proprio come quelle delle Volpi Bianche, è rude, impulsivo, con una brutta situazione famigliare alle spalle e un carattere da villano, indovina come chi?
-Come quelli delle Volpi Bianche? – azzardò Yuka.
-Esatto! – esclamò Eri, trionfante.
-Povera Kagome – mormorò l’altra, lamentosamente, - come ha potuto innamorarsi di un criminale come quello? Come? Che tutte le sue assenze da scuola siano state una conseguenza della sua sofferenza?
-Può darsi – annunciò Eri, tragica. –Ma adesso noi abbiamo capito tutto. Possiamo sempre salvarla da quello lì.
Yuka ci pensò su un attimo. Le Volpi Bianche erano un gruppo di teppisti molto temuto, nei vari quartieri di Tokyo, e ogni giorno sui giornali si leggevano le loro bravate. Era un’accusa pesante quella di appartenere ad un gruppo simile, si poteva benissimo rischiare la prigione.
Yuka fu improvvisamente nauseata all’idea che la signora Higurashi e quel simpatico vecchietto avrebbero potuto essere potenziali vittime di quel mostro.
-Però… - mormorò, - … quella volta che l’abbiamo visto non mi è sembrato cattivo. È stato gentile con noi, simpatico, una brava persona. E poi era andato a trovare Kagome il giorno dei suoi esami…
-Sì – ammise Eri, - ma ti ricordi com’era Kagome quando l’ha visto? Era infuriata! Sicuramente le aveva fatto qualcosa di brutto. E non essere troppo ingenua, Yuka, le persone possono sempre mentire.
La ragazza non ne era troppo convinta, ma decise di lasciar perdere. In fondo, l’amica aveva molte più motivazioni di lei per essere sicura di quello che diceva.
-Adesso avviso Ayumi – annunciò Eri, - così potremmo attuare il mio piano.
-Il tuo piano? – chiese Yuka, stranita.
-Esattamente. È chiaro che Kagome soffrirebbe meno con Hojo al suo fianco, sono fatti per stare insieme… forse Kagome non trova il coraggio di lasciare il teppista per paura di una possibile ripercussione.
-Ma è terribile! – esclamò Yuka, affranta.
-È vero, lo è. Ma noi rimedieremo a tutto, stai tranquilla. Ti richiamo domani mattina.
La ragazza cercò di dire qualcosa, ma non era sicura di ciò che voleva esprimere. Era preoccupatissima per Kagome: era una brava persona e non si meritava una cosa del genere. Tuttavia si sentiva più tranquilla pensando che presto l’avrebbero aiutata a stare meglio, ed era rassicurata dalla sua intenzione di dare tutto per farla stare bene.
Eri riattaccò, e Yuka si rimise il termometro sottobraccio. Si coprì con il piumone fino al mento e si permise un sospiro tormentato.
Kagome era davvero in un bel pasticcio.
 

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Capitolo 8
*** Sogni ***


Rin fu accompagnata nella capanna, esitante, con la mano di Kaede appoggiata alla sua spalla con un tocco rassicurante.
Nonostante non si fosse mai opposta a niente durante quell’intero mese di apprendistato, si sentiva incerta,  ma, più che dell’odore o del suono acuto che proveniva dall’interno, era rimasta impaurita dall’aura di sacralità che la vecchia sacerdotessa aveva impresso in ogni rituale quotidiano dall’alba sino a quel momento.
La donna, nel suo intimo, era molto sorpresa dai progressi della giovane fanciulla. Essendo poco più che una bambina aveva l’agilità e la forza necessaria per assolvere qualsiasi tipo di commissione e l’intelligenza adatta a portarla a termine nel migliore dei modi.
Aveva uno spirito di osservazione acuto e una memoria eccellente; a poche settimane dall’aver imparato a fare di conto sapeva già risolvere operazioni particolarmente complicate, e calcolare con esattezza millimetrica tramite funzioni matematiche cinesi all’anziana incomprensibili i dosaggi delle varie misture.
Grazie ad una concentratissima attenzione, Rin sapeva riconoscere anche solo dall’odore la composizione dei vari intrugli. In un episodio in particolare, davanti all’urgenza di una vecchia signora, aveva impastato una crema a dire della malata “miracolosa” usando solo delle piante medicinali trovate nel magazzino, e di cui sapeva perfettamente i pregi.
Davanti a questi prodigi, l’adolescente si spiegava dicendo che stando in viaggio con Sesshomaru tanto a lungo aveva imparato moltissime cose. Spesso, sosteneva, per ingannare il tempo si perdeva ad analizzare le carte di Jaken, nonostante sapesse leggere solo in modo zoppicante, e aveva asserito che se alla Divina Kaede serviva un cervo scuoiato oppure una trappola per i demoni-furetto o, la sua specialità, un legaccio per assicurare un accampamento di fortuna sulle fronde di una quercia, bastava soltanto chiedere, e lei sarebbe stata ben lieta di soddisfare le sue richieste.
Il suo acume e la sua propensione naturale verso i misteri che una sacerdotessa deve affronatre ogni giorno portarono Kaede a darle un insegnamento prematuro su come trattare la nascita dei bambini. Spese poche parole sull’origine della gestazione, tenendo a mente di star parlando con una ragazzina dal passato difficile, ma cercò di insegnarle tutti i dettagli possibili su come attrezzarsi per sostenere un assistenza completa.
Rin prese molto sul serio queste sue lezioni, ed escluse il mondo esterno dal proprio cervello per dedicarsi completamente alle istruzioni della sua maestra. Preparava impacchi, miscelava erbe, distillava soluzioni con la stessa precisione e passione di un artigiano con i propri manufatti, e la sua espressione concentrata si assottigliava fino ad assumere connotati tipicamente adulti.
Imparava in fretta, e questo aveva spinto un’ennesima volta Kaede ad accellerare i tempi. La fece assistere una sola volta e, come aveva potuto notare con un certo stupore, non aveva arricciato il naso né sollevato le sopracciglia neppure per un secondo, mantenendosi imperturbabile. Le molte apprendiste della sua età sarebbero arrivate ad un tale percorso di studi solo dopo diversi anni dall’età di Rin, e non si sarebbero potute dire ancora del tutto preparate.
Era per questa serie di motivi che la donna, avendo cura che la su nuova assistente fosse pronta e sveglia a dovere, la fece arrivare nella capanna. Era conscia di star compiendo una mossa fin troppo affrettata, ma la sua fiducia nei confronti dell’allieva aveva avuto la meglio: le spiegò che c’era una donna in procinto di partorire al di là della stuoia, e che Rin se la sarebbe dovuta cavare da sola.
Kaede sarebbe stata presente, assicurò, placando sul nascere le sue obiezioni; ma l’avrebbe solo osservata, intervenendo nel caso remoto in cui la situazione le fosse sfuggita di mano.
-Dite che posso entrare anche senza indossare il rosario? – chiese la ragazzina.
Con gli occhi spalancati dallo stupore per quell’imminente prova e la traccia di nervosismo stampata sotto forma di morso sul labbro inferiore, sembrava davvero giovane e fragile.
L’anziana donna annuì con aria solenne, spingendola leggermente verso l’entrata dandole una lieve pacca sulla schiena.
Rin deglutì a vuoto. Si sentiva strana, fasciata da quel kimono così austero e prezioso insieme, e insolita senza avvertire il fruscio delle ciocche ai lati del collo. Le pareva di essere estremamente esposta… e vulnerabile.
Scostò la stuoia sollevandone un lembo e passandovi sotto. Quello che vide non le piacque: una contadina del villaggio, coperta da un lenzuolo macchiato di sangue fresco, stava trattenendo un urlo di dolore contraendo furiosamente le mascelle. Nella stanza unica e priva di porte o punti di attraversamento per accedere ad altre sale pareva di soffocare dal caldo; nella penombra si notava lo scintillio della polvere che danzava nel riverbero di luce proveniente dalla finestra socchiusa.
Si impedì qualsiasi esclamazione, mentre faceva il formale inchino. Le due giovani ragazze ai lati della donna immergevano pezze bagnate in un catino e le tamponavano la fronte. Appena la videro e notarono la sua giovinezza, le loro occhiate si fecero pungenti.
-Fatelo nascere – implorò la donna, con voce strozzata, senza rivolgersi a nessuno in particolare – vi prego.
Aveva il viso imperlato di sudore. Rin annuì con decisione, mentre Kaede entrava e prendeva posto in un angolo.
-Non preoccupatevi, nobile donna. Adesso sarò costretta a togliere il lenzuolo dal vostro futon, siete pronta? Non allentate la stretta fra le cosce, per favore.
Detto questo, scostò il velo di stoffa grezza. Quello che vide la nauseò: si portò una mano alla bocca dissimulandolo come un gesto per alzare le maniche del kimono. Corrugò le sopracciglia e le ridistese subito dopo, conscia di essere osservata da tutte le presenti.
Aveva imparato la procedura da seguire a memoria, in quelle settimane; Kaede era un’insegnante precisa e severa che non si aspettava niente di meno della perfezione dalle sue allieve, e questo le aveva permesso di raggiungere un livello di preparazione molto superiore al consueto.
Sistemò gli utensili della levatrice spianandoli sul tatami, dopodichè si assicurò lo strascico ampio delle maniche alle spalle e pronunciò una breve preghiera di benaugurio.
Quella delle due assistenti con i denti storti le diede in mano una pezza di stoffa umida. Con tocco tremante ma al tempo stesso deciso, Rin la usò per pulire la superficie su cui avrebbe dovuto lavorare.
-Per favore… - gemette la donna, ancora, contorcendosi, - … mi provoca così tanto dolore… per favore…
Rin deglutì, di nuovo. Poi prese un profondo respiro e si mise all’opera con la maggior accuratezza possibile.
 
//
 
Kaede, a causa dell’età, non era più in grado di sedersi fra le radici degli alberi: le loro alcolve erano scomode e si sentiva il continuo bisogno di cambiare posizione, lusso che le era stato precluso da tempo. Inoltre le fessure erano troppo strette per potervisi accomodare e, senza nessun appiglio, non avrebbe nemmeno potuto sedersi per terra.
Il nobile Sesshomaru, naturalmente, non aveva di questi problemi; nonostante avesse vissuto una vita circa quattro volte più lunga della propria, era ancora flessuoso e in forze come un felino. I suoi freddi occhi gialli la stavano guardando in viso, come per sondare quello che stava pensando; il taglio spietato degli occhi si addiceva perfettamente ai lineamenti femminei in modo estremamente virile.
Con trent’anni di meno, Kaede riflettè che non sarebbe stato affatto difficile innamorarsi di lui. E, se non fosse stata una sacerdotessa ligia al dovere anche all’epoca, forse non avrebbe potuto escludere l’eventualità di trovarsi con il cuore spezzato.
Scacciò il pensiero con un lieve affanno derivato dalla fatica della camminata, e appoggiò il palmo aperto contro il tronco di un albero per riprendere fiato.
-Allora? – sbottò.
Mal sopportava la fastidiosa abitudine del demone di chiederle udienza (ovvero ordinandole di presentarsi in tal luogo a tal ora con alterigia e arroganza, aspettandosi un doveroso anticipo da parte della sacerdotessa), e con gli impegni ancora da terminare si sentiva irrequieta.
Forse dare il resto della giornata libera a Rin era stato un azzardo: avrebbe potuto essere ovunque, persino nascosta dal cespuglio dietro la sua schiena. Decise di non pensarci.
-Non hai nulla da dirmi? – chiese Sesshomaru, gelidamente.
La donna scosse la testa, e farlo provocò un respiro ancora più rantolante.
-Nulla che tu possa considerare importante, demone.
-Sento odore di sangue sulle sue dita, donna – disse, tagliente.
Si stava innervosendo, non ci voleva un grande osservatore per capirlo. Sarebbe presto scattato, e Kaede era consapevole che non si sarebbe fatto scrupoli ad ammazzare persino una vecchia sull’orlo del collasso, pur di sfogare la propria rabbia; di certo avrebbe trovato un modo per farla soffrire anche senza ledere subito il suo cuore fragile.
Inoltre non c’era bisogno di specificare che si trattava di Rin; rintanandosi nei boschi, ovvero i luoghi in cui lui si sentiva più a proprio agio, si informava regolarmente sulla sua salute e sui progressi come farebbe un padre attento nei confronti della figlia minore.
Lei si schiarì la voce. –Ha completato senza aiuti esterni l’assistenza ad una donna partoriente. Ha fatto nascere una bambina femmina, sana, senza nessuna conseguenza per la madre e la nascitura, provvedendo anche, una volta finito, a mettere le opportune medicazioni.
-Era la prima volta? – domandò.
Kaede sbuffò. –Perché non lo vai a chiedere a lei?
Il demone ripetè il proprio quesito, implacabile. La fissò negli occhi senza scomporsi.
-Sì – borbottò infine. –Sì, lo era. E se vuoi proprio saperlo, Sesshomaru, non mi ha più chiesto di intercedere per lei… non mi ha mai domandato una tua udienza. Si sta stancando, evidentemente; l’ultima volta che mi hai fatto dare il regalo per lei, i suoi ringraziamenti li ha rivolti al tempio, e non mi viene in mente luogo più lontano dalla tua natura di quello.
Il demone rimase in silenzio. Pareva essere stato colpito a fondo da quelle parole, quasi come se il suo spirito fosse diventato anche solo vagamente umano.
Era strano che Rin non la implorasse per incontrare il demone o che non lo nominasse ogni secondo, era vero; tuttavia, impegnata com’era nei suoi studi, poteva benissimo darsi che avesse tenuto le proprie preghiere per sé. Il fatto poi che si fosse rivolta al tempio vicino per rendere grazie del regalo ricevuto, ben sapendo chi glielo spediva, l’aveva fatta riflettere.
Le pareva davvero impossibile che non volesse più avere notizie del suo amato demone. Che non lo vedesse più come un padre?
Gli occhi ambrati di Sesshomaru fissavano il suolo, senza tuttavia esprimere alcunchè su ciò che pensava realmente. Era evidente che la cosa lo turbava, ma era altrettanto sicura che non ne avrebbe mai fatto parola; si sarebbe logorato dentro fino a quando il boccone non fosse diventato meno amaro da digerire.
Quando, due mesi prima, le aveva affidato la bambina con lo scopo di farla dimenticare di sé stesso per regalarle una vita normale, forse l’unico gesto compassionevole che il demone avesse dimostrato in tutta la sua esistenza, Kaede non aveva pensato nemmeno un attimo che stesse parlando sul serio.
Il loro legame era qualcosa di forte e inspiegabile, la rara sintonia fra due creature opposte, un’amicizia, o forse qualcosa di più, che non sarebbe mai dovuto esistere.
-Adesso – disse lei, scandendo lentamente le parole, - io me ne torno al villaggio. Non ne voglio più sapere niente dei tuoi sciocchi appuntamenti, sbrigatela da solo. Non posso essere la tua serva, ho fin troppo da fare; Rin sta crescendo in fretta, proprio come avevi sperato, ma spesso il desiderio più ardente si rivela la tortura più agghiacciante, demone. D’ora in poi, se non sarai animato da un valido motivo, sarò costretta a cacciarti dal villaggio con un esorcismo. Addio.
Detto questo, si voltò a fatica e risalì il sentiero in lieve pendenza con camminata tentennante, fino a quando non arrivò in prossimità del villaggio.
Nel frattempo, Sesshomaru era rimasto immobile; chiuse gli artigli attorno al fragile pettinino e serrò le fauci.
Sarà per un’altra volta.
 
//
 
Diverse notti dopo, Rin fece un sogno. Sentiva le membra intorpidite dal sonno, mentre la realtà dipinta dalla sua fantasia prendeva forma davanti alle palpebre chiuse.
Si trovava nella sua stanza modesta in casa di Kaede. Il mobilio era pressochè inesistente, se si escludevano il futon stropicciato e il cassetto soliario attaccato al muro per contenere i suoi vestiti. Gli oggetti preziosi che Sesshomaru le regalava li teneva nascosti fra kimono e kimono, lisciando ogni mattina le stoffe preziose e piegandole con singolare attenzione.
La finestrella era aperta, ed entrava il bagliore etereo della luna. Sussultò: al suo fianco c’era qualcuno.
-Chi siete? – mormorò, con voce impastata.
Le sue membra rese pesanti da quella sfera artificiale in cui galleggiava, e che le avvolgeva la testa come un drappo, sembravano davvero riprodurre alla perfezione l’intorpidimento che sentiva quando, alle luci dell’alba, era costretta ad alzarsi dal suo gaciglio per completare le proprie abluzioni.
Quel sogno era fastidiosamente realistico, quindi, riguardo ai dettagli sensoriali. Non vedeva l’ora che finisse, più che altro per scrollarsi di dosso l’incertezza dell’essere o meno ancora profondamente addormentata.
La figura non rispose. Nelle tenebre, riuscì a scorgere la protuberanza innaturale di un grande oggetto di stoffa pelosa e morbida, mentre la riga marziale della spalla di un’armatura luccicò appena nella penombra notturna. La postura, inoltre, la fece pensare ad una statua di marmo: eretta, fiera e piegna di uno straordinario quanto affascinante contegno. Era un velo di capelli, quel bagliore argenteo che ne contornava il busto come un mantello?
-Sesshomaru? – domandò, cauta. –Siete voi?
Se anche fosse stato lui, non si preoccupò affatto di indossare solo una misera vestaglia leggera al suo cospetto. La stoffa grezza era impalpabile e semi-trasparente, certo, ma d’altra parte non stava succedendo davvero, e quindi non fece nulla per coprire i seni da quegli occhi che, lo sapeva bene, erano in grado di vedere al buio come nella più nitida giornata estiva.
Si costrinse a credere di essere vittima di uno scherzo del proprio cervello, e si rilassò istantaneamente. Si mise a sedere come per meglio osservare il nuovo arrivato.
-Sì – rispose la sagoma, con voce profonda.
Una sola sillaba, la prima che il misterioso cavaliere avesse pronunciato, ma che la fece rabbrividire. Fu solo dopo che l’annusò: l’odore di neve, di ghiaccio, di gelida presenza invernale, come l’ombra più rassicurante del mondo che incombeva su di lei più per proteggerla che per spaventarla.
Calmò l’emozione con il briciolo di obbiettività rimastale; voleva mantenere un certo contegno anche nell’inconscenza del proprio cervello.
-Sono tanto contenta che siate venuto a trovarmi – confessò, - era da tanto tempo che desideravo potervi vedere.
In un sogno si potevano dire anche delle verità inviolabili, no? E poi non lo stava vedendo affatto; c’era troppa poca luce, per i suoi miseri occhi umani, e non riusciva a scorgerlo bene. Aguzzò la vista ma, con suo irritato disappunto, il cervello non le permise di schiarire la visuale. Evidentemente non era abbastanza cosciente per manipolare la sua fantasia.
Come da copione, Sesshomaru non disse niente. Non era obbligato a farlo, e rispondeva solo se necessario; era questo, uno dei lati che la faceva impazzire di più.
Tuttavia si sentiva improvvisamente irrequieta. Le era capitato spesso, soprattutto nelle ultime settimane, di fantasticare su di lui, ma nessuna visione nella sua testa era mai stata tanto strana. Mai di notte, mai nella sua stanza, mai con sensazioni così realistiche. Chissà com’era stanca, quando si era assopita.
-Ho saputo che oggi hai superato una prova difficile – disse.
La schiena di Rin si inarcò leggermente sentendo quell’intonazione così virile e profonda, tanto avvolgente da avere il potere di calmare i brividi sulla sua pelle. Volse un timido sguardo al suo interlocutore. Era la prima volta che dimostrava un qualsivoglia interesse per i suoi meriti.
-È vero, signor Sesshomaru, avete sentito bene – ammise, arrossendo.
Avrebbe tanto voluto chiedergli chi gliel’avesse confidato, ma poi si diede della stupida: essendo una figura partorita dalla sua mente assorbita dall’incoscienza notturna, era ovvio che sapesse ogni cosa che le era accaduta.
C’era qualcosa, nel modo in cui lui inclinò lievemente la testa, che la colmò di gratitudine. Era il suo demone, anche se di reale aveva ben poco: era lui, in tutti i suoi dettagli, uguale all’ultima volta che l’aveva visto, ed era bellissimo. Il suo viso rassicurante la stava vegliando, respirando piano con la pacatezza del vero guerriero e la misura di un generale.
Si sentì piena di gratitudine per quel colloquio immaginario, e la bellezza del mondo le si stese davanti agli occhi in tutta la propria magnificenza. Durò poco, però, molto poco: la sua contemplazione planetaria venne interrotta dalle successive parole.
-Perché sei andata al tempio, Rin?
Rin. Non aveva mai avuto un nome prima che lui lo pronunciasse.
Era stata solo un’altra anima che calcava il suolo giapponese, che si divideva fra la famiglia, lo scappare dai lupi e il morire in un bosco, solitaria, senza nemmeno la speranza di sentire il leggero peso di un fiore posato sopra alla propria tomba.
E poi era arrivato Sesshomaru, e l’aveva chiamata per nome. Ed era allora che aveva cominciato ad esistere.
-Non lo so – mormorò, pensierosa. Decise di potersi fidare del proprio subconscio, e si mise ad esternare a parole quello che la affliggeva.
-Davvero, signor Sesshomaru, non riesco a capire. Quando mi avevate lasciato ho sentito un vuoto enorme, in questo punto – sfiorò con le dita le costole che si delineavano sopra al cuore, - e non riuscivo più a vedere la luce. Ma poi avete cominciato a darmi quegli splendidi regali, ed era un po’ come sapere che non vi eravate dimenticato di me, che dopo ogni viaggio avevate davvero bisogno di sentirmi vicino.
Fece una leggera pausa, strofinandosi gli occhi.
-Li ho tenuti, sapete? Sono in quel cassetto là in fondo. E, per rispondere alla vostra domanda, sentivo il bisogno di rivolgere a qualcuno i miei ringraziamenti. Ho gettato una moneta nel fondo e ho cominciato a pregare, anche se non so bene cosa significhi del tutto.
Lo sguardò di sottecchi. –Ho pregato per il vostro ritorno, signor Sesshomaru. E spero tanto che possa funzionare.
Ci fu un lungo e denso silenzio, greve di una moltitudine di emozioni diverse. Il demone era immobile, ghiacciato al suo posto senza muovere un solo muscolo; manteneva ancora una fiera dignità che lo rendeva bello anche se i suoi connotati si mantenevano invisibili.
Rin non ebbe il coraggio di sondare la reazione di lui, ma tenne le mani in grembo e strinse il lenzuolo, ansiosa. La visione stava diventando nuovamente sgradevole; si sentiva stranamente esposta con quel suo corpo che stava mutando in bella mostra, e provò l’intenso desiderio di coprirsi. Non ne ebbe il tempo.
-Volevo darti una cosa.
Si sentì un fruscio di stoffa e il rumore di un piccolo oggetto posato sui tatami. La ragazza non si voltò se non dopo un lungo istante ma, quando lo fece, si trovò davanti a due pozzi ambrati.
Non si sorprese, non sussultò. Rimase a fissarli: sembravano due gemme vive e pulsanti, due bellissimi gioielli incastonati in un liscio mare di neve. Ne vedeva solo gli zigomi, ma poteva indovinare benissimo che il viso di Sesshomaru, osservato da così vicino, non aveva nulla a che fare nemmeno con la più celestiale delle bellezze umane: componeva una sinfonia arcana impossibile da ignorare, o soffocare.
Chiunque si fosse sentito imprigionato da quegli occhi intensi, brucianti, avrebbe potuto dirsi felice. E così era Rin, paralizzata e al tempo stesso curiosa di scoprire la meraviglia dietro a quello sguardo che sembrava così reale.
Il suo cuore accellerò i battiti sentendo il suo respiro avvicinarsi. Il fiato fremente di una bestia appena domata sotto alla carne le solleticò le guance ancora troppo rotonde per essere affilate: aveva solo undici anni, in fondo, e anche se era più alta delle proprie coetanee ed estremamente bella, restava pur sempre una ragazzina.
Fu questo a fermare il demone dall’afferrare quei seni così meravigliosamente pieni e stringere i suoi fianchi dolci, dal carezzare furiosamente un corpo così magro da sembrare di cristallo, dal mordere la pelle diafana fino ad imprimervi il proprio odore, solamente questa consapevolezza.
Aveva imparato che la resa delle volte è inevitabile, e in quell’istante sentiva nel suo spirito la più cedevole delle intenzioni. Lasciò scivolare la propria passione travolgente nei meandri più gelidi del suo spirito e dimenticò tutto, tutto quanto, persino Lei.
Poi tornò in sé, e decise che un unico gesto poteva anche permetterselo. Si chinò con singolare lentezza e sentì il fiato tiepido della sua piccola Rin, la dolce ed esuberante figura che gli aveva rubato il cuore.
Fu un bacio molto leggero, appena accennato, come non era abituato a darne. Gustò il sapore delle sue labbra carnose e inesperte, così comunque pronte ad accoglierlo, e sentì fino in fondo quanta gioia potessero dare le piccole cose per cui gli uomini mortali morivano ogni singolo giorno. Sì, nel buio di una camera minuscola, chinato dolcemente sulla sua altrettanto piccola donna, con una mano quasi timidamente posata sul lembo del lenzuolo stropicciato, poteva ammettere con spirito sereno che avrebbe preferito un solo giorno da contadino se paragonato alla sua intera vita di principe.
-Tornerò – promise.
Era un sussurrò fatto al vento, affidato alla luna e custodito dal cuore di Rin, il posto più sicuro del mondo. Frastornata, la ragazza udì quelle parole velate, ma non riuscì ad impedire alla persona che più amava al mondo di uscire dalla sua camera come se non vi fosse mai entrata.
Soprendetemente, la piccola levatrice si riaddormentò con la pace in petto, la finestra ancora aperta, convinta di aver appena fatto il sogno più bello della sua vita.
Quando le luci dell’alba le bagnarono il viso, però, incontrarono anche una lieve sporgenza sul tatami, laddove riposava un sottile ed elaborato pettinino che profumava di demone.
 

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Capitolo 9
*** Ripicca ***


Kagome sorrise nella pallida luce del mattino.
Calcolò che fossero approssimativamente le sette, da come il tiepido calore del sole, invece che farsi soffocante, era invece molto piacevole. Qualche raggio brillava sulla pelle scoperta della spalla, lasciata impunemente nuda, e chiazze di luce tracciavano un percorso irregolare sulla porzione di clavicola che sbirciava fuori dalla scollatura.
Inuyasha stava ancora dormendo, ne era certa. Teneva la sua tunica bianca (visto che la casacca rossa le cingeva le spalle e aveva svolto il proprio dovere per tutta la notte) saldamente artigliata sotto alle dita, per evitare qualsiasi accenno di fuga da parte sua. Il viso affondato nel suo petto ampio poteva completamente bearsi del tiepido calore del suo corpo e della regolarità del respiro; sembrava che la stesse cullando anche solo stringendola.
Era stata una nottata speciale: avevano continuato a baciarsi sotto alla pioggia, inzuppandosi fino al midollo, e, quando l’acquazzone aveva smesso di scaricare la propria ira sulle loro teste, erano rimasti a guardare le stelle nella rassicurante aria nottura. Non avevano avuto bisogno della lanterna del nonno per capire di doversela squagliare: Inuyasha se l’era caricata sulle spalle ed erano sgattaiolati dentro casa passando per la finestra.
Con una meravigliosa timidezza, Inuyasha le aveva mostrato il cardine lento della finestra, che lui usava per entrare e uscire dalla sua stanza a piacimento quando ancora viaggiavano fra un mondo e l’altro; aveva dovuto premerle una mano sulla bocca perché la risata fresca della fanciulla non li tradisse.
Erano crollati, esausti, subito dopo. Le coltri avevano miscelato in un garbugliato intrico di forme i loro corpi, uniti anche senza toccarsi, e la luna aveva lasciato spazio al sole senza che nemmeno se ne accorgessero.
Kagome, puntellandosi leggermente sul gomito per non svegliarlo, sentì scivolare la mano artigliata di Inuyasha contro la sua schiena. Scostò alcune ciocche candide di capelli dalla fronte, per guardarlo meglio in viso: mentre il sonno distendeva i suoi lineamenti così dolci e rassicuranti, sembrava davvero giovanissimo, e di una bellezza strabiliante.
Si perse a seguire la linea della mandibola, risalendo per la forma dritta del naso, per passare alle delicate ciglia nivee, così chiare da sembrare un miraggio, e la fronte liscia…
Avvampò. I loro respiri, a contatto per tutto quel tempo, avevano finito per sincronizzarsi, e quella strana intimità, gradevole quanto il profumo dei fiori appena sbocciati a primavera, la stava colmando di una sensazione dolce, arcana e al tempo stesso misteriosa.
Era innamorata di Inuyasha, questa non era affatto una novità; ma stargli così vicino senza parlare, senza guardarsi, senza rovinare tutto con stupide discussioni, aveva il marchio di qualcosa di diverso, del legame profondo che unisce due persone solo quando l’amore, sconfinato e senza riserve, è ormai un fenomeno manifesto in entrambi.
Era forse una sensazione più appagante del fare l’amore, cosa che non era successa per un soffio; e la ragazza poteva dirsi completamente felice e soddisfatta del tempo appena trascorso.
Affondò nuovamente nel suo nido accogliente e si accoccolò come una bambina.
-Kagome? – mormorò il ragazzo, assonnato, poggiando il mento sulla sua testa.
-Mhh – rispose lei. Chiuse gli occhi: le pareva quasi di poterlo vedere meglio.
-Sei sveglia? – bisbigliò ancora.
Lei soffocò una risatina divertita contro la stoffa morbida. –Sì. E tu?
Un lungo silenzio, durante il quale Kagome credette che lui si fosse riaddormentato.
-Più o meno. Non mi sono mai sentito tanto stanco in vita mia – ammise.
Con un gesto volutamente lento, la ragazza strofinò la punta del naso contro il triangolo nudo del suo petto che spuntava dalla scollatura a “v”. Dopo quella giornata al parco, Inuyasha aveva ricominciato ad indossare i propri abiti abituali, non avendo più avuto bisogno di uscire. Spesso i pellegrini si facevano domande su quel ragazzo con un foulard azzurro sulla testa, che avvolgeva completamente il cranio, ma non trovavano affatto strana la sua presenza, in quanto si era calato perfettamente nella parte dell’assistente di un sacerdote. Soprendetemente, era il luogo dove poteva mimetizzarsi meglio.
Kagome, per la seconda volta, si sforzò di non ridergli in faccia al pensiero di Inuyasha vestito da miko, agghindato per la festa dei ciliegi in fiore.
-Come mai? – chiese, nonostante conoscesse la risposta.
La guancia di lui si scaldò, segno inequivocabile che era arrossito. –Beh… ieri è stata una giornata pesante. Tuo nonno non mi ha dato tregua, e mi sentivo spossato anche solo per averti offesa.
La giovane rimase sorpresa da quelle parole. Fece scivolare una coscia contro quella di lui, in un gesto piuttosto involontario.
-Davvero ti dispiaceva?
Inuyasha annuì impercettibilmente. In quell’intima complicità che si era creata fra loro era impossibile mentire; ci si sentiva portati a dire la verità.
-Anche a me – confidò lei, mestamente.
Si appoggiò alla sicurezza statuaria del suo corpo maschile, così fortemente virile da farle girare la testa. Inuyasha era giovane, vivo, forte, e la faceva sentire a casa propria in qualsiasi situazione; la sua muscolatura possente e al tempo stesso asciutta, che lo rendeva magro e comunque scolpito in ogni dettaglio, le regalava dei brividi lungo la schiena, e sotto alle sue dita poteva godere del contatto di ciò che aveva ammirato solo qualche volta e di sfuggita, nella pace della notte.
-Sei brava con i muri di silenzio; sono un po’ la tua specialità – disse ad un tratto, divertito.
Lei rimase sbalordita. La stava forse… punzecchiando?
-Ho un degno avversario – si limitò a dire. Anche se non lo poteva vedere in viso immaginava perfettamente la gamma di espressioni che stavano attraversando i suoi connotati.
Accolse con un pizzicorio la risata leggera che lui fece, frenandosi subito dopo. Non assomigliava nemmeno lontanamente agli sbuffi di scherno che emetteva di solito, anzi, pareva qualcosa di molto più rilassato e genuino.
-Io non riesco ad ignorarti. Non per tanto tempo, almeno; finisco sempre per dirti qualcosa. Non so gestire il silenzio… forse è per questo che delle volte litigavamo, perché interpretare le tue urla era più facile.
Quella confessione così matura la fece riflettere. Inuyasha era cambiato; quelle poche settimane di dolce far nulla nel mondo moderno, evidentemente, lo avevano fatto riflettere sul passato. Una volta le aveva confidato che per lui passato e presente erano del tutto indifferenti; l’unica cosa a turbarlo era la solitudine. Magari era stato questo fattore ad innescare la maggior parte delle loro liti, in precedenza, ma le pareva comunque stranamente bello che fosse stato lui ad accorgesene per primo.
-I silenzi sono molto più complicati delle parole – disse Kagome. Lui assentì con un cenno discreto della testa.
Rimasero immersi ancora un po’ in quella piacevole intesa. Kagome si appisolò per una mezz’ora, o forse di più, e sotto alla sua guancia il ritmo del respiro di Inuyasha si stabilizzò fino a continuare a cullarla con dolcezza; era un dondolio efficacemente rilassante, e lei vi si abbandonò con grande piacere.
Quando la veglia si faceva più netta, inseguiva pensieri indistinti fino a riprendere sonno; in genere la sua lucidità non durava mai a lungo, e i sogni di demoni in festa attorniati da fiori sgargianti si mischiava all’odore di muschio del ragazzo e al bianco panna della sua casacca.
A destarla fu un rumore familiare, del tutto estraneo. L’oni dalle guance blu fece una linguaccia e sparì immediatamente da sotto alle sue palpebre, facendole fare una smorfia.
“Ma che cosa…?” si chiese, intorpidita. Il rumore secco alla porta si ripetè. Una voce smorzata da oltre l’uscio la chiamò discretamente.
-Kagome? Posso entrare?
Solo in quell’istante realizzò cosa stesse succedendo; sua madre doveva entrare in camera; lei aveva dormito vestita, era tutta scompigliata e indossava un indumento di Inuyasha; il ragazzo la stava abbracciando e le dormiva appiccicato addosso.
-Oh, cavolo! – esclamò, in un mormorio strozzato.
Schizzò a sedere facendo svegliare di botto anche il ragazzo. Con espressione confusa, il demone seguì il movimento di Kagome ad occhi semi-chiusi, ma prima che potesse dire qualcosa la ragazza gli tappò la bocca con una mano. Portò un indice alle proprie labbra e, con occhi spiritati, lo invitò ad ascoltare.
-Kagome? – chiese di nuovo la voce, preoccupata. Il tempismo era stato perfetto per sottolineare la dimostrazione della ragazza.
Le sopracciglia di Inuyasha si corrucciarono, prima che nelle sue iridi ambrate si diffondesse il panico. Si fissarono per un lungo e fatale istante.
-S…sì, mamma – balbettò la ragazza, la mano ancora premuta sulla bocca del mezzo-demone. –Un momento solo.
Gli attimi successivi furono particolarmente frenetici; Kagome saltò fuori dal letto togliendosi di dosso la giacca di lui e lisciandosi con fare ossessivo il vestito, piegato in più punti laddove aveva appoggiato il proprio corpo. Rudemente, invitò il ragazzo ad uscire dalla finestra.
-Muoviti! – sibilò.
-Accidenti, un attimo! – borbottò lui, rimettendosi a posto il kimono come meglio poteva. La veste sembrava non volersi allacciare nel modo giusto, e nemmeno le dita sconvolte di Kagome riuscirono ad accellerare il processo.
-Se ci scopre in questo stato è la fine! – gorgheggiò, agitata.
Lui la guardò con espressione sconfitta: capiva quello che gli stava dicendo, ma non riuscira a sbrigarsi nel fare altrimenti.
Anche se di fatto non era successo nulla di turpe o vergognoso fra loro, l’essere trovati addormentati sullo stesso letto, avvinghiati e scompigliati come dopo una notte di travolgenti follie e vizi lussuriosi decisamente non avrebbe aiutato a scansare gli equivoci. E il nonno non avrebbe mai permesso che una cosa del genere si ripetesse, mai, e avrebbe cacciato il ragazzo a dormire nel capanno degli attrezzi.
-Tutto bene lì dentro? – ripetè la madre. La sua voce si era fatta più acuta.
-Sì, non preoccuparti, mamma! – rispose la figlia, rasentando l’isteria. Aprì la finestra con uno schiocco secco e si mise a spingere la spalla di Inuyasha affinchè se ne andasse fuori il più in fretta possibile.
Lui la ricambiò con uno sguardo accigliato ed indignato insieme, ma il continuare ad essere ficcato contro uno spazio troppo angusto direttamente sul vuoto non contribuiva ad avere riguardi nei confronti della fanciulla.
-Hey! – le bisbigliò.
-Esci. Fuori. Da. Qui. – sillabò lei. Lui le lanciò un’ultima occhiata truce e, con un agile balzo all’indietro, cadde dal balcone.
Non ebbe né il tempo per essere sollevata, né per sincerarsi che la caduta non avesse comportato fratture multiple nel suo amato mezzo-demone.aggauntò delle grucce a caso, si spogliò in fretta senza nemmeno chiudere le tende e si buttò addosso in tutta fretta gli abiti che aveva tirato fuori, senza guardare colore o modello.
Abbassò la maniglia e accolse la madre con un sorriso fintissimo.
-Buongiorno, mamma! – scattò, a voce troppo alta perché sembrasse naturale.
La donna la squadrò con un vago rimprovero nello sguardo. –Tutto bene?
Kagome annuì tre volte. La signora Higurashi si rasserenò immediatamente; il sospetto era già sparito dal suo viso quando le sorrise nel modo più dolce del mondo.
-Scusami se ti ho svegliato, ma hai delle visite.
Solo allora notò che la madre teneva un vassoio del thè con delle tazze fumanti posate sopra.
-V…visita? – chiese, confusa.
L’altra annuì. –Eri, Ayumi e Yuka sono venute a trovarti. Hanno portato anche Hojo.
Fu come se un fulmine l’avesse colpita in pieno, all’improvviso. Si trasformò in un’immobile statua di marmo, con un’espressione basita sul volto: non credeva davvero che le sue amiche sarebbero potute arrivare a tanto, soprattutto a tradimento!
Avvampò di vergogna pensando alla posizione di poco prima, al senso di calore che ancora le elettrizzava la pelle, e subito confrontò quel miscuglio di sensazioni con l’immagine del ragazzo perbene, forse un po’ troppo ossessivo, che Hojo incarnava alla perfezione.
Alla fine di tutta questa serie di ragionamenti, impallidì. Si sentiva colpevole anche se non ne sapeva la ragione.
-Tesoro, sei sicura che sia tutto a posto? Sembra che tu abbia la febbre.
Kagome si appoggiò allo stipide della porta prendendo un sospiro preparatorio. –No, davvero, è solo che stavo sognando e…
Le sue parole caddero nel silenzio, ma la donna parve aver capito. La squadrò un’ultima volta seppellendo i propri presentimenti e la precedette sulle scale.
“Cosafacciocosafacciocosafaccio?” si ripetè ossessivamente. La risposta non esisteva; se era sconvolta era perché non se l’era aspettata, certo, ma non aveva tradito nessuno. D’altra parte, non aveva nessun impegno sentimentale con Hojo, di alcun tipo, e quella poteva considerarsi come una semplice visita di cortesia, visto che non avevano più occasione di rivedersi a scuola.
Tuttavia, conoscendo le sue amiche meglio di quanto lei stessa volesse ammettere, sapeva per certo che quell’incontro non era stato affatto dettato dal caso, e che ci sarebbero state sorprese in futuro. Senza che la madre la vedesse, roteò gli occhi esasperata e cercò di mantenere un contegno.
 
//
 
Appena aveva fatto la propria comparsa nel piccolo salotto, era stata accolta da sguardi straniti. All’inizio non aveva capito a cos’erano dovuti, ma poi aveva realizzato di essersi conciata peggio del previsto: al posto dei jeans aveva agguantato dei pantaloni della tuta blu scuro, abbinandoli ad un vestito rosso fuoco (che all’inizio le era sembrata una maglietta) con sovrapposto un maglione di un verde abbagliante. Il bordo inferiore dell’abito, piuttosto corto, conosiderati i suoi standard, svolazzava fastidiosamente oltre quello dell’indumento che lo copriva in parte, facendole avere sul didietro una buffa coda da papera.
“Maledizione alle sorprese” pensò, serrando i denti in un sorriso fintamente naturale.
Dopo i saluti, cominciarono a bere il thè. Hojo, educato come sempre, aveva aspettato che tutte le ragazze si fossero servite, prima di prendere una tazza, e ora vi stava soffiando sopra con aria preoccupata. Era vestito in modo informale, con un paio di pantaloni piuttosto giovanili in una tinta neutra e una maglietta bianca, e si era pettinato i capelli con la scriminatura che gli era più familiare. Sembrava un impiegato di banca nonostante avesse appena diciassette anni.
Yuka, invece, era la più circospetta del gruppo. Guardava Kagome di sottecchi: gli occhi arrossati, i capelli alla rinfusa, l’abbigliamento infagottato e mal abbinato lasciavano presuppore una grande sofferenza interiore mascherata a malapena da un sorriso malinconico.
“Forse non riesce a dormire per le pene d’amore” ipotizzò con tristezza, e anche il più infinetesimale gesto dell’amica sembrava essere una prova del suo stordimento.
Eri era la più soddisfatta. Le sue tesi trovavano un’incarnazione vivente nello stato trasandato di Kagome, e sicuramente la maglia lunga di un rosso sfavillante era l’elemento più inconfutabile di tutti: non era forse di rosso che le Volpi Bianche tingevano i propri fazzoletti, quando facevano le proprie scorribande? Erano macchie che spiccavano sul candore incontrastato dell’abbigliamento in modo tanto esplicito quanto raccapricciante, e il goffo tentativo di coprire la sua appartenenza seppur limitata nel gruppo le ispirava solo una grande tenerezza.
“Povera Kagome” pensò, amareggiata, “chissà cos’avrà fatto per amore… ed è pure così giovane…”
Ayumi era colei che si era mantenuta scettica, invece. Aveva fatto giustamente notare che non avevano mai visto il teppista assieme ad altri membri del gruppo e che, anzi, lavorava addirittura presso un tempio shintoista, e dubitava davvero che un criminale potesse mascherarsi a tal livello fra la gente; fra tutte le professioni, quella del religioso le sembrava la più improbabile per un aspetto così vistoso, e non aveva mancato di far notare alle altre che un poco di buono non ha alcuna devozione religiosa.
Tuttavia l’aspetto evidentemente provato di Kagome era una parte non trascurabile del suo turbamento interiore e concluse che, Volpi Bianche o meno, quell’Inuyasha doveva essere davvero spregevole per averla ridotta in quello stato.
Solamente Hojo, a conti fatti, continuava a ritenere la dolce Higurashi ugualmemnte bellissima, e sembrava collegare quella temporanea indisposizione estetica come una conseguenza del brusco risveglio, che doveva averle fatto risvegliare i vecchi disturbi da reumatismi. Appena elaborato il pensiero, si sentì tremendamente in colpa, e nel greve silenzio della stanza gli sembrò quasi che tutti lo stessero accusando di aver reso la sua salute ancora più instabile.
 Dopo essersi complimentato per la bontà del thè, si sentì in dovere di scusarsi.
-Scusaci tanto, Higurashi, se ti abbiamo svegliato, stamattina – mormorò.
-Oh, non importa, davvero! – rispose, con artificiale allegria. –Mi piace ricevere visite!
“Poverina… guarda come tenta di mascherare la delusione” pensò Eri. Poi però stette subito meglio al pensiero di averle portato Hojo direttamente in casa, e recuperò in parte un po’ di buonumore.
-Allora, ragazze – si interessò la padrona di casa, - come mai avete deciso di venire a trovarmi?
“E di conseguenza rovinare un momento magico?” aggiunse mentalmente.
Fu Yuka a rispondere. –Avevamo voglia di vederti… ci sembrava passato così tanto tempo!
Hojo si grattò la nuca, arrossendo. –Per me era davvero passato un sacco dall’ultimo incontro!
Nessuno gli diede attenzione, però, e Ayumi intervenì con il suo solito spirito pratico.
-E volevamo anche invitarti al cinema con noi, questo week-end.
Aveva deciso di partecipare al piano con una certa riluttanza, davanti alla profonda convinzione di Eri. Riconosceva la necessità di Kagome nel trovarsi una persona seria con cui passare dei momenti spensierati, ed era altrettanto sicura che l’amore di Hojo fosse corrisposto, ma era anche certa che da soli non avrebbero mai trovato la forza di prendere l’iniziativa.
L’amica aveva elaborato una semplice strategia: invitarla in un posto intimo come un sala proiezioni, convincerla a guardare un film romantico e poi dire all’ultimo minuto di aver avuto un impegno urgente per lasciarla sola con Hojo a godersi il momento. Era una cosa perfetta, doveva ammetterlo; e fortunamente la ragazza sembrava non sospettare nulla di tutto ciò.
-Kagome, ti senti bene? – chiese il ragazzo, allarmato.
Lei, nel frattempo, era diventata più bianca di un lenzuolo. Immerse nelle proprie soddisfazioni e ansie personali, le amiche non avevano notato quell’improvviso e anomalo cambio di colorito; le si avvicinarono subito formando un campanello attorno al  cuscino su cui era seduta.
-Kagome? Cosa succede? – frignò Yuka, mentre Eri interveniva toccandole la fronte con aria preoccupata. Ayumi prese a sventolarle una rivista davanti al viso, e gli scorci di “Matrimonio a cinque stelle per la famosa star della  serie TV più chic del momento!” brillavano altalenanti nel dare conforto all’assistita.
-N…niente, niente – disse l’interessata, dopo qualche istante di silenzio. Teneva lo sguardo fisso sulla finestra, ma nessuno sembrava essersene accorto.
Allontanò gli infermieri improvvisati (con l’eccezione di Hojo, che era stato bloccato dall’impeto femminile altrui al suo posto senza poter intervenire) con un gesto della mano, e tentò persino di rassicurare tutti con un sorriso.
-Ho sempre qualche capogiro, la mattina presto – disse, a mo’ di scusa. Ovviamente non poteva sapere che i suoi calcoli sull’orario erano totalmente sbagliati, essendo le lancette dell’orologio molto più vicine a mezzogiorno che non alle sette, ma nessuno ebbe il coraggio di farglielo presente.
Si creò un silenzio sgradevole; la ragazza continuò a sbirciare oltre al balcone per sincerarsi di non avere avuto un’allucinazione, ed ecco che spuntò di nuovo il baluginio colto in un primo momento: un ciuffo di capelli bianchi che occhieggiava nella parte esterna del vetro non si era perso nemmeno un secondo di tutta la visita.
“Inuyasha sta origliando?” si chiese, confusa. Nonostante le paresse impossibile, ne aveva una prova davanti agli occhi; quella non poteva che essere la cima della sua testa.
Non seppe interpretare la propria reazione davanti a quella apparizione; forse riteneva particolarmente strano che il ragazzo si interessasse di cose tanto futili quanto una riunione fra amiche?
-Sai, Higurashi – stava dicendo Hojo, nel frattempo, - volevo parlarti di questi capogiri, che hai sempre più spesso.
La ragazza non  stava ascoltando. Lentamente, aveva assistito alla comparsa di due perle ambrate, che esaminavano accusatorie la stanza. Le altre non le avevano notate, per fortuna, e il ragazzo stava dando le spalle alla finestra, altrimenti si sarebbe trovata in un bel pasticcio; visto che Eri, Yuka e Ayumi non avevano fatto il minimo accenno alla presenza di Inuyasha in casa sua, significava che non volevano che Hojo lo sapesse.
Questa cosa le faceva comodo, visto che poi avrebbe dovuto fare i conti con la rigidissima morale di lui e i suoi sguardi traditi e delusi. E non era certo un’esperienza piacevole, doversi giustificare davanti a quella vera e propria giuria di cose che non poteva spiegare nel modo appropriato.
-Ho parlato proprio l’altro giorno con tuo nonno, il signor Higurashi – proseguì, - e anche lui mi è sembrato molto preoccupato. L’avevo chiamato apposta, in verità, e mi dispiace di essermi permesso, ma… era una questione che mi stava a cuore.
Kagome era del tutto estranea al tono imbarazzato, alle guance arrossate del ragazzo, alle occhiate sognanti delle altre e a quella pungente di Ayumi; semplicemente, li stava ignorando, e al suo cervello arrivavano solo stralci che si sfaldavano, parole senza capo né coda ed elementi isolati del discorso che non la aiutavano minimamente a capire di cosa stessero parlando. Non ne che ne fosse poi così interessata, a dire la verità.
La sua attenzione era completamente focalizzata su quegli occhi dorati. Ma c’era qualcosa di strano, di alieno ai sentimenti provati quella stessa mattina, solo una decina di minuti prima. Le sopracciglia erano aggrottate, l’iride splendeva di una luce torva, i capelli coprivano quasi del tutto la fronte in un garbuglio disordinato.
-Insomma, mi ha detto che ultimamente sembravi stare meglio, ma che ogni tanto hai una ricaduta e che da lì la situazione peggiora.
-Quello che vuole dire – intervenne Eri, vedendo che Kagome era concentrata da qualche altra parte, - è che ha forse trovato un rimedio giusto. Vero, Hojo?
L’occhiata ammonitrice della giovane gli fece capire di averla tirata troppo per le lunghe. Fece uno sguardo mortificato. –Vero, verissimo.
La ragazza, intanto, pareva aver capito; non riuscì a nascondere un’espressione indignata. Inuyasha era arrabbiato con lei! Sì, arrabbiato; come se non contasse nulla tutto ciò che gli aveva detto, come l’aveva tenuto stretto e tutte le carezze che gli aveva dedicato nell’arco di una notte.
Era davvero troppo; solo perché gli aveva intimato di uscire dalla finestra per evitargli di finire a dormire all’addiaccio in cortile in compagnia di Buyo, questo non voleva dire di essersi comportata in modo scorretto!
Kagome assunse un’espressione tradita e risentita, e gliela fece godere tutta. Lui parve abbastanza sorpreso da quella reazione battagliera, ma non si tirò indietro e, per sottolineare il concetto, le mostrò il polso con il segno violaceo delle sue dita strette attorno.
-La prossima settimana vado ad una fiera sui rimedi omeopatici per i problemi di salute. È organizzata da un medico, un amico di famiglia. Ecco, mi chiedevo se… sì, insomma, se ti fa piacere accompagnarmi…
Il discorso finì con una sconclusionata serie di borbottii. Yuka lo guardò con un certo compatimento: era di certo un bravo ragazzo, ma con le relazioni non ci sapeva proprio fare.
Kagome fu riportata alla realtà dalle insistenti richieste di Eri; la stava strattonando per un braccio. Con riluttanza abbandonò la propria sfida visiva e si concentrò, con una certa difficoltà, su quello che l’amica le stava dicendo.
-Allora? – ripetè dopo averle riassunto il patetico tentativo di Hojo di formulare una proposta. –Ci andrai?
Kagome Higurashi, per la prima volta in vita sua, fu messa abilmente alle strette. Ma fu forse per ripicca, per una sciocca ed inutile vendetta, che pronunciò delle parole che in circostanze normali non avrebbe mai formulato.
-Sì – rispose, con decisione. –Accetto.
Dicendolo, però, puntò gli occhi con aria di sfida oltre la finestra, dove una chioma nivea, ora, aveva completamente cambiato cipiglio e la stava osservando, o almeno così le parve, solo con un gelido terrore fisso nelle pupille color della notte.
 
 
LE MIE SCUSE:
Buongiorno a tutte. Volevo scusarmi sia per il ritardo nel postare che per l’orrenda qualità del capitolo, ma l’insonnia mi sta togliendo completamente la gioia di vivere. Mi dispiace davvero tanto di aver dovuto impiegare ben tre giorni nella scrittura di queste misere pagine, ma spero di poter rimediare nei capitoli successivi : )
Grazie mille per l’attenzione ;)
 

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Capitolo 10
*** Fratture aggiustate ***


Mancava ormai una settimana o poco meno al matrimonio, ma Sango si era ormai rassegnata all’idea che sarebbe rimasta sola, in quella modesta capanna che il capo villaggio aveva voluto donare loro come ringraziamento per la sconfitta di Naraku.
Di Miroku si era persa ogni traccia; erano passati sei giorni da quando aveva abbandonato la sua postazione, e da nessuna parte del territorio erano mai giunte sue notizie.
A dire la verità, la sterminatrice avrebbe anche potuto trovare un modo per andare a cercarlo, perlomeno spingendosi verso le pendici boscose che si allungavano vicino al centro abitato, ma non aveva la benchè minima intenzione di interferire con la follia del monaco; era un uomo adulto, e se aveva deciso di sparire, che facesse pure.
Nelle lunghe notti solitarie affacciate alla finestra, senza riuscire a chiudere occhio, Sango guardava la luna, e cercava di trovare quell’ipnotico dettaglio che Miroku fissava tanto insistentemente, fino ad averne tratto una vera e propria ossessione.
Non vedeva altro che un viso liscio e lucido, indifferente, incastonato nel blu scuro della notte. A lei non comunicava la minima pace, anzi; distoglieva sempre lo sguardo e, se proprio non poteva impedire ai demoni nella sua testa di punzecchiarla, allora tornava a dare delle brevi sbirciatine.
 Divideva la propria vita fra il fiume, per lavare ossessivamente panni già puliti, e lo spazio dietro casa, abbastanza grande da permetterle di allenarsi senza farsi vedere dagli altri abitanti del vilaggio.
E, anche se sapeva che si trattava di un pensiero egoista, desiderava ardentemente la compagnia di Kagome per avere qualcuno con cui parlare, e si struggeva nell’idea di non poterla vedere mai più; trovava semplicemente ingiusto che dopo tutte le battaglie affrontate e i sacrifici fatti per garantire la pace fosse rimasta completamente sola: prima Kagome, poi Kohaku e ora anche Miroku.
Immersa in questi deprimenti pensieri, si aggiustò la cesta in vimini contro il fianco. Faceva caldissimo: nonostante avesse allentato la scollatura del kimono le pareva ancora di soffocare.
Al fiume il sole picchiava, impietoso, ma la freschezza dell’acqua l’aveva aiutata a sopportare l’afa estiva; tuttavia percorrere il sentiero nel senso opposto, in salita, si stava rivelando un’impresa molto più difficile del previsto.
-Nobile Sango? – chiese una voce dietro di lei.
La sterminatrice si voltò di scatto; non aveva sentito nessun passo alle sue spalle, ed era molto strano, poihcè grazie al suo allenamento avrebbe potuto contare il numero di topi nascosti nell’intercapedine di un muro persino del castello imperiale.
Davanti ai suoi occhi stava un giovane alto e magrissimo, dalle spalle larghe. Indossava un mantello scuro come la notte, foderato per sopportare il gelido vento dell’inverno ma del tutto inadatto a quella stagione, e un cappello di paglia a punta, che in quell’istante gli stava coprendo il viso. I piedi erano pieni di graffi,  alcuni così freschi da brillare di sangue; i sandali erano rovinati come se li avesse usati per camminare sin da quand’era bambino.
Nonostante il suo abbigliamento, e la postura così dritta e sicura, Sango non si sentì in pericolo, poiché lui non aveva un aspetto aggressivo o comunque non lasciava intendere l’intenzione di aggredirla.
Senza staccare gli occhi da lui, posò la cesta con i panni puliti a terra, circospetta.
-Come posso aiutarvi?
Il volto totalmente in ombra sembrò distendersi in un lieve sorriso.
-Volevo chiedervi se state bene – rispose lo sconosciuto.
La ragazza lo fissò. –Scusate, credo di non capire.
Il forestiero accennò ad una risata. Aveva un bel timbro di voce: profondo, virile, rassicurante, familiare. Sembrava quasi stesse cantando, invece di ridere, ed ebbe l’impressione che quel suo modo di parlare, e di agire, derivasse da una grande e profonda calma interiore.
Sango rimase sorpresa da quell’improvvisa e rispettosa ilarità, e le venne naturale portarsi una mano alla scollatura allentata del kimono.
-Ero sicuro che non mi avresti riconosciuto, Sango – aggiunse, divertito.
Lei arrossì; il ragazzo, con un gesto lento, portò una mano davanti al viso e cominciò, lentamente, a togliersi il cappello con consumata galanteria.
Il viso era magro, sottile e dalle guance incavate, ma manteneva un fascino incredibilmente travolgente. Le labbra carnose e il naso dritto, sicuro, dalla linea molto maschile, rendevano la sua espressione quasi giocosa. I capelli arruffati erano lunghi quasi fino alle spalle, legati sommariamente da un nastro sottile, e la barba di qualche giorno ricopriva disordinatamente il mento.
Ma furono gli occhi a farle davvero capire chi avesse davanti. Erano del colore più strano che avesse mai visto, di una colorazione di blu tanto intensa da farle girare la testa, e così espressiva che si sarebbe potuto benissimo dire che fossero quelli, il vero fulcro del suo intero aspetto.
Si copri la bocca con le dita tremanti.
-Miroku… - mormorò.
Il monaco si grattò la nuca, imbarazzato. Arrossì un po’: sembrava felice.
-Sono tornato – ammise.
Prima che potesse aggiungere altro, però, Sango gli gettò le braccia al collo, facendolo sbilanciare e rischiando di ruzzolare a terra assieme a lui. Le sue braccia furono salde nel tenerla stretta: e questa volta non se la sarebbero lasciata scappare così facilmente.
 
//
 
-Padron Sesshomaru, mi potreste spiegare dove stiamo andando? – chiese Jaken, timorosamente.
Erano in viaggio da quasi tre giorni; non era raro che l’Illustre Sesshomaru avesse bisogno di lunghi spostamenti, e nemmeno che lo sottoponesse a marce ferree abusando dell’insonnia del servo, tuttavia non era mai capitato in così tanti anni di devoto servizio che il suo padrone fosse così rabbuiato e tormentato interiormente.
Non avevano mai smesso di camminare. Quando Jaken gli aveva posto una domanda per la prima volta, aveva ottenuto solo che venisse accellerato il passo; ogni demone minore di qualsivoglia specie era stato brutalmente calpestato dal loro passaggio senza nemmeno il bisogno di ingaggiare un duello, tant’era la furia assassina di Sesshomaru.
Jaken aveva notato che quella tremenda sete di sangue era nata dal suo ultimo viaggio al Musashi, laddove si trovava Rin da ormai qualche mese; nonostante lui non fosse d’accordo, il padrone vi si recava sempre più spesso, arrivando persino a passare le notti nel folto del bosco limitrofo, attento ad ogni rumore.
Il servo non credeva che questa sua abitudine giovasse alla sua salute mentale, tuttavia non aveva potuto opporre obiezioni. Era fin troppo chiaro cosa lo legasse a Rin, e in un certo senso a Jaken era comprensibile perché persino lo stesso Sesshomaru avesse voluto allontanarla, ma trovava quella misura inutilmente dolorosa, se poi non veniva rispettata dallo stesso demone.
Come al solito, Sesshomaru non rispose. In cuor suo, Jaken era lieto che Rin fosse andata a vivere altrove: sarebbe stato scandaloso, per una creatura quasi millenaria, accostarsi a colei che sarebbe stata troppo piccola persino per un umano, e forse era meglio evitare delle cose così terribilmente sconvenienti.
Stavano attraversando una foresta buia, costellata di cespugli di rovi e di alberi dalle fronde ricche di frutti velenosi. I piedi del servo dolevano, ma non si lamentò: continuò a scandire il ritmo della loro avanzata con i colpi ritmici del proprio bastone.
“Ah, povero Padron Sesshomaru! Se solo le donne demone fossero tanto amorevoli quanto belle, a quest’ora avrebbe già potuto avere un erede di sangue puro, invece che dover scalpitare a tutti i costi per ottenere, un giorno, un bastardo dall’animo pasticciato!”
Inorridì alla possibilità di dover fare da balia ad una possibile creatura nata dal demone maggiore e da Rin, ma per questioni legate alla purezza della stirpe, bensì perché si sentiva legato alla bambina e la pensava con affetto, e di certo non si sarebbe meritata un futuro irto di problemi derivati dalla sua relazione con un demone.
Poiché gli sembrava palese, ormai, che un figlio fra loro sarebbe arrivato, e anche molto presto.
Fissando la schiena del suo padrone, inquieto in testa al minuscolo corteo, pregò che i Kami non gli facessero uno scherzo del genere.
Nel frattempo, Rin stava cenando assieme alla Divina Kaede nella modesta stanza in casa della sacerdotessa. Non aveva parlato molto, in quella settimana, e si era fatta terribilmente cupa; continuava il proprio lavoro con grande concentrazione, ma l’anziana si preoccupava proprio per la completa mancanza di pause nel lavoro dell’allieva.
-Oggi la signora che abita in fondo alla valle ti ha mandato i suoi saluti – disse.
Rin smise di masticare. –Di chi state parlando?
-La coppia del mese scorso, ricordi? Marito e moglie costretti a letto dalla febbre; quelli che sono guariti grazie alla tua mistura di erbe medicinali.
-Oh, ora ricordo – rispose. Non aggiunse altro, mescolando il riso nella sua ciotola con dei movimenti lenti delle sue bacchette.
La donna aveva osservato che a cena non mangiava mai molto. A pranzo si ritirava nel bosco, sfruttando il momento di pausa per prendersi avanti con la classificazione delle erbe, e quindi non poteva sapere se mettesse qualcosa nello stomaco o meno.
Tuttavia, e non era la sola ad averlo notato, le costole avevano ricominciato a premere contro la stoffa sottile del kimono, e le gambe erano diventate due bastoncini sottili dalle cosce arcuate. L’obi poteva essere stretto così tanto da lasciare appena una decina di centimetri in vita, e la stessa cucitura sulle spalle, le misure così attentamente prese dai migliori sarti orientali, si facevano ora pateticamente svuotate dalla sua tristezza.
Le fece cenno di prenderle una boccetta di infuso, sentendo le gengive dolere. La ragazza fu velocissima ad agire, e questo le diede occasione di vedere la sagoma delle vertebre e delle scapole spuntare sotto l’arancione allegro del cotone.
Rimasero in silenzio per un altro po’. A Kaede faceva un effetto strano, perché si era ormai abituata alle chiacchiere scoppiettanti della bambina, le quali non si esaurivano mai; quella quiete era schiacciante e sgradevole da sopportare, e decise di prendere l’iniziativa e farle un discorso serio.
Nello stesso istante, la ragazzina era giunta a capo di tutte le riflessioni che aveva fatto. Sogno o meno, quella notte Sesshomaru era andato davvero nella sua stanza e le aveva portato quel dono poggiandolo sul pavimento. Era stato orribile scoprire di essere stata spiata nel buio della notte, nella propria camera, da colui che sempre l’aveva protetta e che, improvvisamente, aveva deciso di sparire dalla sua vita.
Per questo entrambe presero un respiro profondo, fecero un’accurata sintesi di ciò che volevano dire all’altra, raccolsero il coraggio a due mani e diedero voce alle proprie afflizioni.
-Rin…
-Divina Kaede…
Silenzio. Si fissarono negli occhi, sorprese. L’anziana sospirò.
-Avanti, dimmi – concesse.
La ragazzina abbassò lo sguardo, ma usò un tono pregno di una determinazione che la spiazzò.
Piano, parola dopo parola, Kaede potè chiaramente affermare di non essere mai stata tanto sconvolta in vita propria, e la consapevolezza che questa volta il demone aveva davvero fatto qualcosa di innominabile e sconvolgente, di cui lei non era a conoscenza, ma che era sicura fosse stato compiuto, si radicò nel suo spirito appena questa domanda fatta per pura ripicca giunse alle sue orecchie:
-Divina Kaede, posso cominciare l’apprendistato per diventare sacerdotessa?
 
//
 
Nella pallida luce del lume appoggiato sui tatami, il costato di Miroku sembrava ancora più sporgente e definito.
Sango, appoggiata sul suo petto scarno, lo guardò da sotto in su, e si perse a rincorrere con lo sguardo la linea della mandibola, fino ad arrivare agli occhi, fissi sulle travi che componevano il soffitto.
La nudità, per la prima volta nella sua vita, non le diede nessun fastidio, anzi; Miroku, in quelle poche ore che separavano il giorno dalla notte, aveva esaltato in modo tanto veemente il suo corpo da averla quasi resa orgogliosa del proprio fisico. Le sue mani grandi e calde avevano percorso con puro desiderio la curvatura dei suoi fianchi, la forma delle cosce, e ora erano posate sulla sua schiena per regalarle carezze leggere.
-E pensare che stavo per buttare via tutto questo – mormorò, pensieroso.
Lei gli si strinse contro. –Non pensarci, ti prego.
Le posò un bacio sulla testa. –Invece devo. Mi serve per rendermi pienamente conto di ciò che ho fatto, ed evitare di farlo ancora. Ero scivolato in un mare vischioso… è stato difficilissimo uscirne.
-Come hai fatto… a tornare quello di un tempo? – domandò, timorosamente.
Si sentiva piccola e intorpidita, vicino a lui; era ancora stanca per le dolci fatiche appena compiute e leggermente imbarazzata dal non aver rispettato i tempi del matrimonio ma, in un certo senso, si sentiva totalmente ed irrimediabilmente felice.
-Non è stata una scelta così semplice da fare, in verità – raccontò. –All’inizio volevo solo sparire per sempre, per darti la possibilità di rifarti una vita, partendo da zero. Poi, però, nel mio vagare senza meta mi sono reso conto di star seguendo un sentiero: e mi sono ritrovato, mezzo morto e sfinito, alle porte della casa del Maestro Mushin.
Sopresa, Sango si levò a sedere e lo guardò negli occhi.
-Davvero?
Lui fece una piccola risata. Trasudava una grandissima serenità, come se avesse ritrovato sé stesso nel periodo che aveva passato lontano dal Musashi. Non era diverso solo a livello fisico, ma anche spirituale: era come se il suo carattere fosse diventato più nobile, e più sereno. Il fatto di essere completamente esposta ai suoi occhi la fece arrossire, e lui la invitò tacitamente a farsi nuovamente abbracciare.
-Sì, davvero. Non capirò mai come ha potuto salvarmi… credo si sia solo limitato a farmi bere sakè fino a quando non mi sono addormentato.
Immaginando la scena, Sango scoppiò a ridere, seguita subito dopo da lui.
-Mi ha sottoposto ad un durissimo allenamento; credo fosse arrabbiato con me. Non mi ha dato tregua un solo giorno… mi faceva vivere con una ciotola di riso e una tazza di thè al giorno, senza contare tutte le volte che mi ha tirato le orecchie perché gli chiedevo qualcosa in più da mangiare.
Sango strofinò il naso contro il petto di lui, sentendo la forma dello sterno sotto alla pelle liscia.
-Mi ha completamente trasformato. Mi ha fatto capire che le disgrazie della vita vanno affrontate in modo diverso, e che bisogna continuare a vivere nonostante tutto quanto sembri volerci schiacciare. È stato tutto merito suo se ho capito che dovevo tornare da te, Sango.
L’atmosfera intima della stanza in penombra, i fruscii delle lenzuola sotto ai loro piedi, il calore del suo abbraccio e la gioia del suo ritorno portarono la donna a fremere sentendo l’intonazione che lui aveva dato al suo nome. Sorrise di cuore verso di lui, posandogli un timido bacio sulle labbra.
-Non mi importa tutto quello che è successo, Miroku. Per me l’importante è che tu sia tornato da me, nonostante il dolore e le difficoltà, e che tu mi abbia dato la prova della tua determinazione; a me basta questo.
-Sono fortunato ad avere una donna come te – le sussurrò all’orecchio.
La sterminatrice strinse il monaco al proprio petto, saggiandone la magrezza quasi eccessiva e la barba pungente, ripromettendosi che avrebbe personalmente provveduto a viziarlo e rimpinzarlo con le migliori cure che avrebbe potuto offrirgli.
Si mormorarono la buonanotte, la prima di tante, e lui soffiò sul lume, spegnendolo.
Il futuro, immersi nella familiarità di una nuova vita insieme, non sembra più così impervio.
 
HELLO:
Buonasera, mie adorate!
Ebbene sì, contro ogni previsione, sono tornata! *applauso*
Mi sento una cattiva persona ad avervi fatto aspettare così tanto, ma è un periodaccio; non so se vi è mai capitato di stare male fisicamente e mentalmente ed essere sommerse dalle cose da fare… è un incubo!
Mi pareva giusto inchinarmi rispettosamente ai vostri piedi per implorare perdono, prima di andarmene di nuovo. Mi auguro davvero tanto di non dovervi più fare attendere così tanto.
Un bacio dal più profondo del cuore!
The Queen.
 

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Capitolo 11
*** Bufere placate ***


Kagome, tenendo lo sguardo fisso sulle proprie mani, finì di piegare una maglietta, togliendo le mollette da bucato e riponendole accuratamente nel piccolo cestino di vimini ai suoi piedi.
Inuyasha, accovacciato dietro di lei, la stava fissando da una decina di minuti abbondanti; quando era uscita sul retro per finire di togliere i panni puliti dallo stendino, non avrebbe mai immaginato che lui l'avrebbe seguita e, in seguito, torturata silenziosamente.
Dall'invito di Hojo era passata quasi una settimana intera, ormai, e la gita si stava avvicinando di giorno in giorno. Aveva avuto occasione di sentire ancora le proprie amiche e, alla fine, avevano deciso di spostare l'appuntamento al cinema per il weekend successivo; lei aveva fatto in modo che il suo assenso si sentisse forte e chiaro, poiché era sicura che Inuyasha stesse ascoltando.
Non sapeva cosa aveva dato inizio a quella catena di piccole e stupide vendette, ma doveva ammettere che provava una sorta di lugubre soddisfazione nel prendersi le proprie sciocche rivincite, anche se si sentiva terribilmente infantile.
Inuyasha non aveva nemmeno più cercato di parlarle, evidentemente immaginando che ci sarebbe stato uno scontro verbale, e nessuno dei due ne aveva voglia, tantomeno il tempo.
Kagome era rimasta atterrita dalla totale scomparsa del dolce principe che l'aveva cullata una notte intera, e ripensava con nostalgia a quelle poche ore di pace. Si sentiva stupida per essersi addormentata a sua volta, invece di averlo fissato dormire, e di non aver sfruttato appieno quel momento sereno, pacificante, che agognava da anni.
In casa, Sota, la mamma e soprattutto il nonno si erano già rassegnati al fatto che loro due fossero due anime senza speranza; non c'era verso di passare un armonia una sola settimana, sette miseri giorni, e avevano già pensato, in cuor loro, come affrontare i lunghi muri di silenzio, le lacrime assorbite da un cuscino premuto sul viso e un'infinita serie di ripicche .
L'unica cosa che evitavano spudoratamente era il mettersi in mezzo, e avevano un rispetto assoluto dell'atmosfera greve che si respirava in casa, fra le mura del soggiorno e al tavolo della cucina. Sopportavano di buon grado i loro pasti silenziosi e avevano smesso di tentare di animare la conversazione: il malumore di Inuyasha e Kagome rappresentava una nube di elettricità statica che nessuno si arrischiava a stuzzicare.
Alla fine di ogni colazione, pranzo o cena, ogni singolo membro si riprometteva che alla riunione successiva avrebbe preso in mano le redini della situazione e avrebbe condotto, con la forza o meno, i due ad una soluzione, fosse essa anche un allontanamento definitivo.
Ma, nonostante le acredini, i due non sembravano affatto intenzionati a separarsi e, contro ogni aspettativa, Kagome non aveva mai fatto capire ad Inuyasha di volere che lui non dormisse più in camera sua, né il mezzo-demone aveva mai voluto davvero andarsene da quella stanza che, per lui, era qualcosa di molto vicino al divino.
Quindi, imbronciati e assorbiti da un cieco egocentrismo, uno dormiva con la schiena al muro in un angolo, e l'altra se ne stava rattrappita in una piccolissima porzione di letto, dandogli la schiena e sforzandosi di non girarsi dalla sua parte nemmeno una volta, tenendogli il viso nascosto.
Inuyasha, segretamente, avrebbe voluto porre fine a quella situazione ridicola, ma nonostante tutti i momenti in cui si erano ritrovati da soli in casa, non aveva mai saputo cogliere la giusta occasione.
Kagome era una maestra nel mantenere quell'espressione delusa e sdegnata insieme, e sapeva essere così sottilmente crudele da fargli dubitare di conoscerla davvero. Tuttavia la trovava ancora estremamente bella, e non faceva a meno di lodarla, nel proprio intimo, per quella battagliera tenacia che sapeva dimostrare.
Quel giorno, però, si era deciso di riportarla alla ragione.
Era stanco di soffrire di una forzata insonnia, pur di godersi la pace di vederla riposare, di sbirciare la sua schiena distesa nel sonno, era stanco di dover tenere a freno la lingua e fingersi tradito, quando in realtà voleva soltanto baciarla fino allo sfinimento, ed era anche stanco del doversi muovere contro la propria volontà in un mondo che non era il suo senza la guida esperta e gentile della fanciulla.
Stare tutto il giorno nascosto dagli occhi dei pellegrini era diventato sfiancante, e il suo nuovo lavoro aveva perso il brivido della novità dopo quasi un mese di dura fatica nel magazzino. Era grato di aver qualcosa da fare, ma gli esseri umani moderni gli risultavano terribilmente odiosi, come mai gli era successo nella sua vita, nemmeno quando si trovava braccato e perseguitato da bande armate di contadini: le ragazzine giapponesi che frequentavano il tempio, evidentemente condotte lì da genitori troppo zelanti, indossavano vestiti improponibili e al limite del succinto, parlando con vocette stridule e civettando con chiunque capitasse loro a tiro, mentre ogni persona che avesse varcato la soglia dei trentacinque anni si comportava in modo assurdo, o troppo educato o troppo sorpreso di fronte alle cose ordinarie, come poteva esserlo una zampa di demone essiccata o un altare recuperato dalle ceneri del monte Hakurei.
Ma più di tutti non sopportava coloro che spargevano la voce maligna riguardo alla falsa esistenza dei demoni, al fatto che il nonno di Kagome fosse un pazzo visionario e che il tempio avesse bisogno di essere modernizzato; Inuyasha amava quel luogo sacro proprio perché manteneva il suo equilibrio nella storia, e ammirava il signor Higurashi perché sembrava essere rimasto l'unico con un briciolo di rispetto per il passato giapponese. Inoltre, l'idea di essere una leggenda metropolitana in realtà inesistente gli dava sui nervi, tanto che più di una volta gli era frullata in testa l'idea di estrarre Tessaiga e far precipitare su di loro una pioggia di diamanti appuntiti, giusto per contraddire quegli zotici in merito all'esistenza dell'energia demoniaca.
Tuttavia aveva sempre trovato il modo di governare il proprio spirito guerriero, più che altro per amor di Kagome. Ogni volta che lui era andato a trovarla nel futuro, lei si era raccomandata più e più volte che tenesse un comportamento civile, un basso profilo che gli avrebbe garantito l'invisibilità, e si era assicurata personalmente che diventasse molto scrupoloso nel coprire le sue singolari orecchie, oppure i capelli; non avevano avuto altre occasioni di uscire, ma il mezzo-demone era sicuro che, se questo fosse successo, lei non avrebbe esitato a fargli mettere di nuovo quegli abiti scomodissimi e attillati, che lo imbarazzavano moltissimo ma che, a quanto pareva, lì erano perfettamente normali.
La sua dolce metà, però, non sembrava lodare molto i suoi sforzi; questo, invece che spingerlo a trasgredire, l'aveva fatto cadere in una forte rigidità, e si era fatto addirittura schivo quando si trattava di parlare con gli esseri umani.
La fissò prendere un paio di pantaloni (femminili!) e mettere in atto lo strano rituale di piegatura. Ci metteva una singolare attenzione, e anche il capo di vestiario più grande veniva ridotto ad un fagotto eccezionalmente piccolo. Poteva vederne solo la schiena, ma ebbe un brivido notando il cotone aderire morbidamente alle scapole, e il collo baluginare da sotto ai capelli raccolti.
-Hai intenzione di rimanere lì ancora a lungo? - sbottò lei ad un tratto, brusca.
Lui sussultò. Arrossì.
-Quanto sarà necessario per chiarire questa cosa.
Lei non si voltò, ma il ritmo dei suoi sforzi diminuì.
-Quale cosa? - osservò sarcasticamente. -È tutto cominciato senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Risentire la sua voce dopo così tanto tempo lo faceva sentire strano, e si accorse di quanto gli fosse mancato parlare con lei, seppure per cercare,  con tutte le probabilità, un altro litigio.
-Non lo so nemmeno io, ma non piace doverti evitare. Ho la fortuna di poterti vedere tutti i giorni senza Naraku fra i piedi... Non voglio passare il tempo con te in questo modo.
Era stato sincero in un modo per lui imbarazzante, ma si accorse che le sue parole ebbero l'effetto sperato, poiché la ragazza smise del tutto di muoversi e alzò il viso verso il cielo, nascosto dalle fronde di un'imponente quercia davanti a lei.
Era bella anche osservata da quell'angolazione. Inuyasha si alzò in piedi e le si avvicinò, ma non così tanto da poterla toccare: era tuttavia sufficiente per bearsi del suo profumo, cosa che fece immediatamente. Le sue narici fremettero di sollievo; quanto puzzava l'aria di quel mondo! Com'era maleodorante la città ai loro piedi! Che insignificanti le fragranze indossate da tutte le altre persone, così finte, così artificiali!
-A pensarci bene, non abbiamo mai avuto la possibilità di stare molto insieme, noi due, anche se ero là quasi tutti i giorni - rifletté lei.
Inuyasha non disse nulla. Gli piaceva ascoltarla quando si perdeva nei propri ragionamenti, poiché era stata l'intelligenza di Kagome a renderla una persona interessante; il suo cervello disegnava schemi che il suo non sarebbe mai riuscito a vedere nemmeno in una vita intera.
-Dovevamo sempre stare attenti a dove ci accampavamo, e spesso ci toccava dormire all'aperto, preda dei demoni-zanzara e di tutti quei sottogruppi di insetti, ti ricordi? Inoltre, se c'erano cinghiali nel dintorni, nemmeno da prendere in considerazione l'idea di accendere un fuoco! E poi che schifo, tenere il naso così vicino alle interiora di pesce. Hanno un odore che non dimenticherò mai.
Da quelle frasi, Inuyasha comprese davvero quale doveva essere stato il sacrificio della giovane: il mondo moderno era così diverso in confronto a quello medievale!
Ogni singolo ambiente era lavato e lucidato a specchio, e sorgevano tantissime città e abitazioni. Era possibile viaggiare in comodità usando quelle bestie metalliche, sostituite ai cavalli, e non pareva nemmeno necessario a quegli animali fermarsi per bere, o riposare; ogni parte del mondo era collegata ad un'altra, in un costante brulichio di informazioni, di notizie, di eventi, che lo stordivano e affascinavano al tempo stesso. Tutto era alla portata di tutti in una frazione di secondo, ed era questa forse la sostanziale differenza fra le due epoche: il Sengoku pareva terribilmente lento, sporco e retrogrado rispetto a quel surrogato di paese.
Lui fece spallucce.
-Era logorante, ma dopo un po' ci si faceva l'abitudine.
La vide annuire. Forse deponendo per un istante l'ascia di guerra, Kagome si voltò leggermente e lo guardò in viso. Gli sorrise.
-Ti ricordi come tutto è cominciato? Della prima volta in cui ti ho visto?
Come dimenticare?
Era stata lei a salvarlo dalle tenebre, in effetti, era stata lei ad allontanare Kikyo dalla sua testa, a fargli capire che quell'amore era morto con lei.
Che povera creatura senza speranza era stato! Quando Kagome era arrivata per la prima volta nella sua epoca, tutto il mondo gli pareva un enorme susseguirsi di nulla; non trovava la gioia in niente di ciò che faceva, tanto che era persino arrivato alla speranza di morire giovane. Dopo il tradimento della sacerdotessa ogni cosa era apparsa vuota, inutile.
E poi c'era stato il sigillo, che aveva divorato cinquant'anni della sua vita. Una singola freccia e il suo cuore sarebbe stato destinato a morire per sempre.
Il profumo, il viso, i vestiti della Divina Kagome di allora gli sarebbero sempre rimasti impressi, perché provocarono in lui un profondo e inesprimibile sconvolgimento.
Lei era stata la prima persona che avesse visto dopo essere stato sigillato, dopo aver guardato Kikyo morire per un suo stesso colpo. La sua nuova vita era iniziata con lei, e con lei sarebbe finita.
Inuyasha accennò ad un mezzo-sorriso divertito, sollevato dalla piega che aveva preso il discorso.
-Eri una ragazzina viziata.
Kagome si finse sconvolta, e gli diede un buffetto su una manica.
-Adesso non esageriamo, signor so-tutto-io!
-Stavo scherzando, stupida! - si difese.
Diede però un'intonazione così dolce a quella parola che parve il migliore fra i complimenti, e lei se ne accorse. Tenne la mano sulla sua manica rossa, chiedendosi per l'ennesima volta se lui non avesse caldo, vestito così.
-Sono stata davvero cattiva con te, Inuyasha - ammise, abbassando lo sguardo. -Mi dispiace.
Lui le prese il mento fra le dita. -Guardami -mormorò.
Gli occhi castani di lei si rispecchiarono in quelli ambrati del guerriero. Tutta la vita che avevano vissuto insieme scorse fra iride e iride, come in un sogno, e si accorsero della stupida tenacia che avevano infuso nel loro muto litigio.
Avevano avuto la fortuna, all'apparenza permanente, di riuscire a vivere insieme in un tempo che pareva ad entrambi più ricco di possibilità, quindi perché si ostinavano a darsi continuamente battaglia?
La ragazza appoggiò la tempia sulle sue clavicole, respirando lentamente. Inuyasha le accarezzò i capelli, e capì che era stato perdonato a sua volta, come Kagome lo era stata sin dall'inizio.
In cuor suo, ammise di essere stato un vero bastardo ad averla continuamente provocata, e credette che Kagome fosse stata la prima a rendersene conto.
-A proposito... - disse lui, dopo qualche minuto di pace, -... E con quel tuo amico, come la mettiamo?
La sentì sobbalzare. Quando lei alzò lo sguardo verso il suo, le sue guance erano più rosse di un pomodoro.
-Non ci avevo più nemmeno pensato! Ero troppo impegnata a tenerti il muso... E adesso come faccio? - esclamò.
Lasciando perdere la prima parte della frase, per la quale si ripromise di crucciarsi a tempo debito, Inuyasha si mise a pensare. Non avrebbe mai lasciato partire Kagome con quello lì, nemmeno se fossero stati ancora immusoniti l'uno con l'altro, e avrebbe di gran lunga preferito avercela in casa, urlante, che compiacente in compagnia di quell'insetto pur di portare avanti una qualche insensata ripicca.
Quel rammollito non gli era mai piaciuto, nemmeno quando si era presentato da loro nell'epoca Sengoku: evidentemente, la stupidità di quella famiglia doveva essere ereditaria, poiché l'invertebrato moderno gli era sembrato totalmente identico a quello già morto e sepolto da cinquecento anni.
Quando si era ormai rassegnato a pensare ad un distacco fatale fra loro due, quel ragazzetto sarebbe stata l'ultima persona a cui avrebbe affidato la felicità di Kagome. L'aveva visto solo una volta, e per giunta travestito in quella sorta di teatrino scolastico, ma nemmeno allora gli aveva fatto una buona impressione. Come con Koga, non si fidava e mai si sarebbe fidato di lui, in quanto non lo riconosceva abbastanza uomo per provvedere a Kagome. Ora, poi, che era evidente il fatto che avrebbe potuto riuscirci egli stesso per tutta la vita, rimaneva sempre più saldo nella propria idea iniziale.
Dopo qualche attimo di elucubrazione, giunse ad un verdetto.
-Mi sembra ovvio, cosa faremo - disse, saccente, tenendola ancora fra le braccia.
-Davvero?
Lui annuì con gravità.
-Verrò anch'io, naturale.
Kagome lo fissò per un lungo momento, ammutolita. -Stai scherzando?
Non era di certo la reazione che si era aspettato, ma forse il tono prometteva ancora la remota speranza che lei si complimentasse per l'intelligenza del guerriero.
-No, sono serissimo - disse Inuyasha, fissandola dall'alto della sua statura.
La fanciulla strinse gli occhi a fessura. 
"Non è che dubitassi di quello che avevi detto, Inuyasha" pensò Kagome, "ma ti stavo dando l'opportunità di rimangiarti tutto quanto".
Troppo tardi, ovviamente; quando anche lui si accorse che il danno era fatto e che, anche se ancora non ne capiva il motivo, aveva firmato la sua condanna, ma non si sottrasse dalle proprie affermazioni per una questione d'orgoglio.
Kagome si sciolse dall'abbraccio con un sospiro rassegnato.
-S...sei arrabbiata, adesso?
La ragazza scosse la testa: -Nient'affatto; anzi, mi sembra una buona idea. Adesso vado ad informarlo che ci sarà un'aggiunta...spero la prenda bene.
Fu come se un fulmine avesse centrato in pieno il corpo del mezzo-demone.
-Come sarebbe a dire "vado ad informarlo"? Non puoi usare quell'aggeggio che ti metti sempre all'orecchio, quello dove parli e una persona da qualche altra parte ti sente?
Se c'era una cosa che aveva voluto evitare, infatti, era proprio che i due stessero vicini senza la sua sorveglianza.
Kagome scosse lentamente la testa, rassegnata. -La famiglia di Hojo non ha il telefono: dicono che fa male al cervello.
Lui decise volontariamente di non commentare questa frase e la seguì mentre andava a prendere la bicicletta nel capanno degli attrezzi, adiacente al magazzino; sulla fiancata rosa del destriero metallico, c'erano ancora i segni delle sue unghiate.
-M...ma Kagome, non puoi andare! - balbettò, esasperato.
Se partecipava anche lui ad un evento di cui non conosceva nemmeno l'esistenza, le probabilità che lui facesse il cascamorto con Kagome si azzeravano, e questo gli permetteva di avere un rivale di meno alla prospettiva di passare il resto della sua esistenza con lei. La cosa che ignorava totalmente era che a Kagome non importava assolutamente nulla di Hojo e che, anzi, l'avrebbe evitato volentieri, se non fosse stata incastrata dalle sue amiche.
-Inuyasha, devo: si tratta di educazione, capisci? Bisogna che io gli faccia sapere in anticipo cosa ho intenzione di fare, e se vuoi venire anche tu allora è necessario che io lo avvisi!
Tolse il catenaccio dalla ruota anteriore e lo mise nel cestino. Si voltò, gli diede un rapido bacio sulla guancia e inforcò la bicicletta.
-Torno presto, promesso! - urlò, mentre si stava allontanando.
Inuyasha la guardò scomparire dietro alla casa, in silenzio.
Ma a cosa diavolo aveva appena acconsentito, poi?
 
***
 
Kagome, mentre pedalava furiosamente verso il centro di Tokyo, diretta alla casa di Hojo, ripensava alla rappacificazione avuta con Inuyasha, giusto pochi minuti prima.
Era al settimo cielo per essere riuscita a mettere le cose in chiaro con il mezzo-demone, ma d'altra parte avrebbe voluto utilizzare quella giornata con Hojo per dirgli, una volta per tutte, che lei non aveva intenzione di intrecciare alcuna relazione amorosa con lui e, se per caso l'avesse lasciato intendere, ne era molto dispiaciuta.
Le sue amiche potevano avere voce in capitolo in determinate parti della sua vita, e le sue esperienze sentimentali non erano fra quelle. Se però Inuyasha fosse stato presente, non solo avrebbe fatto la figura dell'idiota esibizionista, ma anche non avrebbe avuto la minima occasione di potergli parlare in privato, ed era assolutamente fuori questione la possibilità di chiarire la situazione con Inuyasha presente: da quel che il mezzo-demone ne sapeva, fra lei e Hojo non c'era mai stato nessun equivoco.
-Kagome! Hey, Kagome!
La ragazza per poco non sbatté la testa contro un palo della luce. Frenò bruscamente tirando i freni al massimo e si voltò, trafelata: Ayumi, una borsa della spesa fra le braccia e un sorriso raggiante, la stava salutando, venendole incontro.
Kagome sorrise di rimando, scendendo dalla bicicletta e accostandosi al muro di un negozio; non era affatto strano incontrare l'altra ragazza da quelle parti, poiché la madre la mandava spesso a fare la spesa nel supermarket vicino a casa sua.
Accaldata dalla fatica, l'amica la raggiunse.
-Ciao, Kagome-chan! - esclamò. -Come stai?
"Sbaglio o c'è un che di anomalo nella sua apprensione?" Pensò lei, ma si limitò a dare una risposta di circostanza e a porgerle la stessa domanda.
-Oh, una fatica! - si lamentò Ayumi. -Sempre la stessa storia: tre fratelli grandi e grossi e a fare la spesa ci vado sempre io!
Kagome fece una risatina. -Sono sicura che sarebbe peggio mandare loro, comprerebbero solo pasti precotti!
Anche l'amica ridacchiò, e per un breve istante a Kagome sembrò di aver recuperato l'armonia di un tempo. 
A causa degli ultimi eventi, infatti, aveva trascurato moltissimo le sue amiche, tanto che le era parso, per qualche tempo, di vivere in un universo totalmente opposto al loro; le ragazze non sapevano cosa si provava a salvare il Giappone da una minaccia terrificante, come poteva esserlo stato Naraku, e , giustamente, vivevano l'adolescenza nella frivolezza tipica di chi non ha grandi problemi o pensieri per la testa. Anche lei, se non fosse partita, sarebbe stata così, e certamente si sarebbe sentita completa anche con delle cose che, come aveva scoperto, di utile non avevano nulla. Un po' le mancava quell'antico affiatamento, ma d'altra parte sentivano provare ancora uno smisurato affetto per loro, soprattutto in memoria dei vecchi tempi, e della lealtà che avevano sempre dimostrato nei suoi confronti.
Nessuna di loro tre, purtroppo, avrebbe potuto reggere il confronto con Sango. Fare paragoni era stupido e ingiusto, lo sapeva, ma non poté farne a meno; l'amica le mancava moltissimo anche a causa della sua intelligenza e di tutto ciò che avevano passato assieme. Si augurò velocemente che stesse bene e si impose di non pensarci.
-Allora, che ci fai da queste parti? - chiese Ayumi, bonariamente.
Kagome prese la bicicletta e la portò a mano, accompagnando l'amica nel breve tratto che la separava da casa.
-Sto andando a casa di Hojo - ammise.
-Wow! - esclamò l'altra, entusiasta, attirando su di sé qualche sguardo di troppo. -Che bella notizia! Vi siete finalmente decisi di ufficializzare la cosa, allora!
Kagome arrossì: -Q...quale cosa? N...no! Dovevo solo chiedergli una cosa, niente di che.
Ayumi sospirò, all'improvviso molto meno allegra. -Che peccato.
Quel commento cadde nel vuoto, perché Kagome non gli diede seguito. Camminarono in silenzio per il resto del tragitto, facendosi largo fra una marea di persone, e alla fine si separarono ad un bivio. 
-Questa sera ti telefono! - promise Ayumi, e Kagome rise, acconsentendo. 
Era una tradizione ormai radicata nel tempo, infatti, che le due onorassero il rituale di almeno una chiamata a settimana, per raccontarsi cos'era accaduto a scuola e scambiarsi reciprocamente quelle notizie poco importanti, ma terribilmente interessanti, che costellavano la loro vita di studentesse.
Quest'abitudine si era intensificata da quando Kagome aveva cominciato a collezionare assenze a causa del periodo Sengoku, e ben presto era diventato un tratto caratteristico del loro rapporto. Con Ayumi sentiva di avere un legame diverso, particolare, che non avrebbe saputo definire, e confidarsi con lei le risultava più facile. Ovviamente, pensò con nostalgia, la sua cara sterminatrice di demoni sarebbe stata il coronamento di tutti i suoi desideri, ma la nuova incertezza del domani la spaventava, e non volle nemmeno prendere in considerazione l'idea di non poterla vedere mai più. 
Scosse con forza la testa. 
"Concentrati su Hojo, Kagome. È da lui che devi andare, smettila di pensare al passato".
Farsi forza con questo pensiero rese nettamente più facile anche ricordare il motivo per cui stava andando verso il centro della città. La casa degli Hojo era nota in tutta la scuola per la propria austera bellezza, e chiunque ne conosceva l'indirizzo; il padre del ragazzo era un uomo stimato e rispettato, nonché molto ricco, e questo era bastato perché intere generazioni di studenti, e rispettivi genitori, si sentissero portati alla riverenza per un uomo tanto importante.
A differenza di quanto Kagome aveva inizialmente pensato, però, il figlio non era poi così dissimile dal genitore, e quest'ultimo aveva finito per sposare una donna molto cagionevole di salute, dedicandosi quasi completamente alla ricerca di rimedi per farla stare meglio.
Era una caratteristica propria della famiglia, infatti, quella di volersi a tutti i costi prendere cura del prossimo. Kagome, che godeva di una salute di ferro, si era ritrovata vittima di quegli innocenti attacchi, suo malgrado, e quindi poteva essere una valida testimone di quest'abitudine fra consanguinei.
Sperava che, dicendogli che anche "un suo amico" (magari prendendola alla larga avrebbe capito meglio l'allusione) era interessato ad accompagnarla, avrebbe potuto comprendere cosa davvero volesse la ragazza, ovvero che si levasse letteralmente dai piedi.
La giovane scese dalla bici e la sistemò contro il muro. Mise il catenaccio, assicurandolo ad un lampione, e suonò al campanello con una specie di timore reverenziale; non era mai stata lì prima d'allora, e doveva ammettere che non avrebbe voluto ripetere l'esperienza ancora per molto tempo.
La casa degli Hojo era molto grande, ma priva di particolare ornamenti e tinteggiata con colori neutri. Ai balconi, c'erano mazzi di piante verdi, dalle foglie larghe ma anche stranamente lucenti, e l'unica aiuola, curatissima, di fiori, se ne stava discretamente in un angolo nell'ampio giardino.
Il cancelletto si aprì con un ronzio, facendola sussultare. Aguzzando la vista poté scorgere la figura di Hojo che, affacciatosi alla porta, stava cercando di capire chi si stesse avvicinando.
Kagome ammise con sé stessa che lui era davvero un bel ragazzo: occhi castani, capelli leggermente più chiari del solito color mogano, lineamenti gentili, un viso solare e remissivo. Essendo un atleta, inoltre, poteva vantare un fisico asciutto e slanciato, anche se imprigionato in abiti che non ne esaltavano in alcun modo la prestanza.
-Higurashi! - salutò con affabilità e, forse, un po' di sorpresa.
Lei fece un sorriso tirato. -Buongiorno, Hojo; scusami se sono venuta senza avvisare, ma...
-Non preoccuparti - sorrise lui. -Ti andrebbe una tazza di thé?
Kagome dimenticò all'istante tutti i discorsi che si era preparata in testa, e si ritrovò a fissare, senza la minima idea di cosa dire, il volto del giovane. Era sempre stato molto educato e servizievole con lei, e l'aveva sempre trattato male; non riusciva a capire cosa davvero avesse di sbagliato per non suscitarle la minima reazione, ma di certo non era colpa sua; al limite, era un problema di Kagome: qualcosa nel suo cervello le stava suggerendo che era lei ad avere un pessimo gusto per gli uomini, considerato il fatto che aveva letteralmente buttato via un ragazzo d'oro come Hojo.
Si guardò alle spalle, mordicchiandosi il labbro inferiore. Vide il parafanghi posteriore della sua bicicletta rosa. Notò, nel luccichio del sole pomeridiano, l'impronta delle unghie di Inuyasha, e si chiese come avesse potuto dubitare anche solo un secondo di quello che provava per lui; pessimo gusto per gli uomini? Quanti potevano vantare un aitante mezzo-demone fra le proprie conquiste?
Sentì immediatamente l'urgenza di andarsene via da quella casa, da quello sguardo gentile, troppo gentile, e di rintanarsi nel suo abbraccio virile, nella sua presa salda, e di non uscirne mai più.
Solo allora parve ricordarsi di aver lasciato una domanda in sospeso.
-S...scusami, ma... Io... Devo andare. Mi dispiace. Allora a sabato, eh? - balbettò.
Prima di attendere una risposta, si voltò e corse via, chiudendo il cancelletto dietro di sé e facendo un veloce cenno di saluto con la mano, prima di partire a spron battuto per la direzione opposta.
-A... A sabato... -mormorò Hojo al vento, osservandola, stranito.
Rimase qualche secondo a chiedersi cosa fosse appena successo; poi, con un sospiro e un'alzata di spalle, rientrò e richiuse la porta dietro la propria schiena.
 
 
 
 

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Capitolo 12
*** Incontri fortuiti ***


All'ombra di una quercia secolare, l'ultima chiusura dell'armatura di Sesshomaru-sama venne slacciata dalle sue dita artigliate, e cadde a terra accompagnata dal fruscio del kimono bianco.
La nudità era un sollievo, per il demone: nella torrida calura estiva portare così tanti strati di stoffa addosso costituiva un impedimento notevole.
A causa della natura demoniaca dell'animale che aveva da sempre rappresentato la sua famiglia, Sesshomaru non poteva impedirsi di preferire le stagioni invernali a quelle estive e, negli anni precedenti al suo primo incontro con Rin, era solito spostarsi in regioni artiche, disabitate, e rinchiudersi in un'alcova di ghiaccio fino a quando non ce ne fosse più stato il bisogno.
Posò i suoi occhi gelidi sulla superficie gorgogliante del piccolo lago. Più che di una vera e propria pozza d'acqua, si trattava di un'ansa piuttosto ampia del fiume che attraversava la regione, intervallata da qualche piccola cascata e con dei tornanti spesso nascosti alla vista umana; il letto del fiumiciattolo scorreva per lo più in zone scoscese, inaccessibili agli esseri umani, e questo permetteva una maggiore abbondanza di pesce proprio nei luoghi più reconditi.
La macchia boschiva che circondava quel luogo in particolare, inoltre, lo rendeva perfetto per accogliere le membra del demone: all'ombra rassicurante di chiome lussureggianti, completamente ermetico rispetto al resto della piana, abitata da chiassosi contadini umani, e così terribilmente pacifico, quel luogo l'aveva sin da subito conquistato.
Jaken non conosceva l'ubicazione di quell'angolo di Nirvana; era stata una scoperta così personale che non aveva voluto condividerla nemmeno con il servo, e aveva fatto in modo di  affidargli qualche impegno all'apparenza importante pur di togliersi la sua invadente presenza dai piedi.
Già pregustando il sollievo dall'afa, Sesshomaru si immerse nell'acqua bassa, meravigliosamente gelida: essendo accarezzata solo in parte dalla luce, la superficie manteneva temperature bassissime anche durante il periodo più rovente dell'anno, ovvero la fase che stavano attraversando.
Lasciò che il proprio corpo fremesse dal sollievo. Era stato una settimana senza la possibilità di spogliarsi, sotto quel sole impietoso, trovandosi ingaggiato in una lotta spietata per la conquista di un territorio insignificante; ora che poteva finalmente rilassare i muscoli, però, gli pareva che la mente fosse rimasta cristallizzata in quella nottata fatidica, così poco distante nel tempo quanto già amaramente lontana.
Aveva dichiarato inutilmente guerra ad un popolo piuttosto pacifico solo per avere la testa occupata da altri pensieri. Con la scusa che un loro emissario era penetrato senza permesso nelle sue terre, aveva dato vita ad una strage senza pari, rasando al suolo interi insediamenti demoniaci di un'altra importante famiglia dell'Est.
Suo padre aveva fronteggiato per anni quelle tribù senza arrivare ad un nulla di fatto; in cuor suo, si diceva che quella era stata la scusa per rivendicare un antichissimo torto subito, ma sapeva che non era la verità.
La possibilità di sfoderare Tokijin e sentirla ballare, fra fiumi di sangue rancido e di interiora vischiose, l'aveva fatto sentire potente, spietato. Lui, il grande Sesshomaru-sama, principe di tutte le terre dell'Est e di una fascia più a Nord, regnante assoluto da ben sette generazioni umane, degno successore del Grande Generale suo padre, era ancora in grado di dare battaglia, e di vincere.
Da quando aveva lasciato la piccola, dolce Rin nella sua stanza, quella notte, non era riuscito a dominare il ricordo delle sue labbra fresche, morbide e lisce; era un sortilegio, una magia. Forse, aveva pensato, se avesse potuto dimostrare di essere ancora così terribilmente cattivo e privo di scrupoli come un tempo, l'aria illibata e sacra della fanciulla avrebbe cozzato irrimediabilmente contro quella di una distesa di corpi morti sul piano di guerra, e si sarebbe quindi allontanata. Era stato il contrario.
Da un lato aveva cominciato a nutrire un profondo disprezzo verso sé stesso, poiché non era stato tanto dissimile dagli uomini da cui Rin, a suo tempo, doveva essere protetta. Dall'altro, invece, era incredibilmente orgoglioso di quella sua nuova gloria militare, e avrebbe voluto avere un trofeo da portarle, per farla rendere orgogliosa di avere al suo fianco un demone così capace da aver superato suo padre.
"Lei non ne sarebbe orgogliosa" pensò, stizzito. "Ne avrebbe orrore".
Appoggiò la schiena contro la riva erbosa, allargando le braccia e tenendole fuori dall'acqua. Chiuse gli occhi: gli pareva che il sole si facesse meno aggressivo se nascondeva le iridi con le palpebre.
Aveva subito una brutta ferita alla spalla sinistra e un lungo taglio alla coscia, combattendo. I vari tagli superficiali e le contusioni dovute al corpo-a-corpo erano spariti presto, ma in particolare quei due squarci da lama erano rimasti impressi. Non avendo potuto togliersi le fibbie dell'armatura tanto a lungo, aveva rischiato che andassero in suppurazione, ma Jaken era stato molto efficiente nel procurargliene un unguento lenitivo.
Gli aveva permesso di metterglielo egli stesso; prima, il servo non aveva mai avuto occasione di toccare la pelle del padrone. Sesshomaru aveva sempre pensato che fosse una cosa da deboli, quella di farsi curare le ferite da altri, ma in quel caso sentiva il profondo bisogno di punirsi, di umiliarsi per il proprio amore infame verso una ragazzina umana.
Jaken, inutile dirlo, aveva raggiunto l'eterna pace dei sensi. Se prima gli era devoto, dopo quel comando così inaspettato si era totalmente consacrato a lui, nelle carni e nell'anima.
Il grande demone aveva avuto dei brividi di disgusto sentendo quelle piccole zampe artigliate toccargli la pelle con tanta incredulità quanta sacralità, ma aveva sopportato in silenzio, dovendo poi ammettere che quella cura si era rivelata davvero molto efficace.
Guardò il solco sulla muscolatura definita della gamba: era una striscia rossa, piuttosto sottile, dai bordi netti e completamente privi di croste. Il color giallo putrido era completamente sparito, così come il blu livido che ne faceva da sfondo. La pelle era tornata bianca e liscia come il mare in inverno, totalmente priva della minima imperfezione.
Sesshomaru aveva sempre imparato a detestare la propria bellezza o, in casi estremi, ad usarla per vincere il nemico. Tantissimi grandi condottieri si erano lasciati vincere da quella figura malsana, meschina, grondante di sangue proprio e altrui, che si ergeva, feroce, sui cadaveri degli sconfitti, e in cuor loro avevano finalmente pensato di aver trovato un dio. 
Tuttavia, da quando aveva cominciato a notare ed apprezzare quella di Rin, aveva rivalutato totalmente il mondo dell'aspetto esteriore, tanto che i connotati della fanciulla erano diventati per lui una sorta di ossessione.
Perché, pensò rovesciando la testa all'indietro, si era messo a setacciare il bosco accanto al villaggio Musashi in cerca di una pozza d'acqua? Perché si era scelto un posto preciso, delimitato da alberi non sufficientemente alti da coprire una visuale aerea della postazione, ben sapendo che ci sarebbe stata la possibilità di venire scoperto? Perché era rimasto nonostante la sua avversione al pensiero di essere sorpreso a lavarsi da un contadino umano di passaggio, oppure da qualche viaggiatore mortale errante?
Lo sapeva, dannazione se lo sapeva. Ma non voleva ammetterlo; tutta una questione d'orgoglio.
"Io non amo una donna umana" pensò, caparbio. "Io non sono una stupida preda di quest'oscena maledizione".
Scosse risolutamente la testa, puntando gli occhi verso il cielo terso; ma, per quanto si impegnasse a farsi avvolgere dal piacevole sciabordio, non riuscì a scorgere nel riflesso marino nulla che non fosse il meraviglioso e caro viso della sua Lei.

***

Le celebrazioni per il matrimonio di Sango e Miroku non erano state sfarzose, ma allegre e ricche di gioia.
La sposa, avvolta in un abito precedentemente usato ma dalla fattura squisita, era il puro ritratto dell'amore e della devozione, al fianco del suo aitante e giovane marito. L'uomo, dimagrito e abbronzato dallo stare all'aria aperta, aveva un aspetto nobile che faceva ricordare a tutti i presenti la sua profonda conoscenza della cultura.
Rin aveva scelto un ruolo nelle retrovie per onorare gli sposi, e alla fine la sua decisione si era rivelata la migliore, visto che le addette all'allestimento e al servizio degli ospiti erano, alla fin fine, quelle che si divertivano di più.
Per le sue nozze, Miroku aveva aperto le porte a tutti gli abitanti del villaggio, senza escludere nessuno. Persino le contadine che avevano malignato circa la sua salute mentale, nonostante l'imbarazzo iniziale, erano state accolte al banchetto a braccia aperte, assieme ai mariti e ai figli, ai parenti e ai vicini di casa.
Davanti alla faccia stupita di Sango davanti a quella marea di gente esultante, Miroku aveva riso di gusto.
"Ho sempre desiderato un matrimonio allegro" le aveva confidato, "e se dovessimo metterci a scegliere quando si tratta di fare baldoria, allora non avremmo mai sufficienti invitati. E poi, finché portano da mangiare e da bere, per me sono tutti come dei figli!"
Verso la metà del pomeriggio, quando ormai gli animi di tutti si erano sciolti, era stato dato ordine alle suonatrici di shamisen, alle flautiste, e a chiunque sapesse fare un rumore sufficientemente accettabile per creare l'armonia, di continuare ad animare la festa mentre le coppie presenti si dedicavano al ballo.
All'inizio, ad aprire le danze erano stati soltanto Sango e Miroku, bellissimi e raggianti nei loro abiti da cerimonia, ma non c'era voluto molto tempo prima che tutti si unissero allo strano rituale.
Era quasi inaudito che un intero villaggio avesse bloccato le proprie attività solo per festeggiare una festa di matrimonio ma, forse, si trattava anche di un modo per rendere omaggio ai "difensori della pace", che avevano sconfitto la minaccia di demoni aggressivi e di Naraku, per aver inaugurato un periodo di grande serenità. Era finito il tempo dei fossati lungo il perimetro del villaggio, delle frecce e dei picconi nascosti sotto alle stuoie avanzate di casa, dei timori durante la notte, delle incursioni disastrose di creature terrificanti, di bambini scomparsi e persone uccise all'ordine del giorno, e tutto veniva suggellato e reso reale da quella giornata di festa.
Le miko, intanto, avevano goduto di dolci allo zucchero fatti scivolare fra le maniche ampie da occhiate complici, e di piccoli gnocchi di riso dati come ringraziamento. Già dopo un paio d'ore di festa, non si riuscivano più a contare tutte le collanine intrecciate, i fiori profumati attaccati ai soffitti, le corone poste su teste di regnanti improvvisati e gioielli fatti di pergamene rovinate messi al collo delle contadine più giovani.
Il compito delle miko, oltre che essere puntuali nel servire le pietanze (misere e modeste, composte per lo più composte da ciotole semi-vuote di riso bollito e verdure sotto sale) e di ripulire le stuoie quando diventavano troppo sudicie o ingombre di decorazioni, era quello di assicurarsi che tutto procedesse per il verso giusto. Se ne stavano ai lati della stanza, inginocchiate pudicamente con il capo abbassato, e aiutavano la Divina Kaede a sopportare il caldo e la posizione accovacciata del suo ruolo di officiante.
La vecchia sacerdotessa aveva avuto l'aria di divertirsi molto, durante quelle ore, e aveva partecipato con piacere alle varie conversazioni che avevano richiamato la sua attenzione.
Nonostante tutto, nella stanza si potevano sentire solo educati scoppi di risa e brusii sommessi, ma era quanto di più improbabile si potesse immaginare; non avevano mai avuto l'aria di essere tanto uniti come in quel momento, e Rin si sentiva terribilmente felice per tutti loro.
-Allora, come sta la mia mia giovane sacerdotessa? - le aveva domandato ad un tratto Miroku, circa un'ora prima.
La ragazzina aveva riso. -Ma quale onore! Non sono ancora arrivata ad un tale livello, l'unico privilegio di cui posso godere è la rasatura dei capelli!
Lo sposo sembrò apprezzare la battuta, poiché le aveva scompigliato affettuosamente le ciocche tagliate da poco come un padre lo fa con la figlia minore.
-Sei graziosissima lo stesso, Rin-chan! - aveva aggiunto Sango, sorridendo.
Lei arrossì. Augurò loro buona fortuna, ritirandosi per svolgere i propri compiti, e non aveva più avuto modo di parlare loro, visto che venivano contesi fra gli invitati come le celebrità del momento.
Il capo villaggio era stato molto gentile a concedere la propria sala principale per ospitare il villaggio ma, a causa del numero troppo ingente di presenti, la festa fu allargata fino al giardino, sull'erba e all'ombra degli alberi, tanto che alla fine ci fu una sorta di tappeto bucherellato di persone.
Rin aveva avuto molto da fare, durante quelle ore, ma era stata lieta di essere confusa fra tanti altri visi, di avere dei compiti da ultimare; la aiutava a distrarsi, a dimenticare per brevi momenti lo sgarbo imperdonabile che Sesshomaru le aveva inferto.
Il suo torto bruciava come una ferita di spada. Sotto quella cicatrice palpitava ancora della carne sanguinolenta, e non avrebbe saputo dire quanto tempo sarebbe potuto passare prima di una guarigione; le risultava impossibile accettare che lui, il suo Grande Demone, avesse violato uno spazio notturno che lui stesso le aveva affidato per baciarla - baciarla! - furtivamente.
Forse, si diceva, quell'ultimo dettaglio era stato un arricchimento della sua fantasia, della sua immaginazione, un sogno spintosi troppo oltre; ma ne dubitava. Che Sesshomaru fosse stato nella sua stanza ormai non c'erano più dubbi, e tanto bastava a farla sentire offesa.
E, anche se sapeva che lui non aveva nessun rispetto dei ruoli religiosi umani, essere una sacerdotessa, in futuro, gli avrebbe impedito di comportarsi a proprio piacimento.
Era solo all'inizio, era vero, e Kaede le aveva fatto capire che se cambiare idea era ancora possibile farlo, tuttavia lei rimaneva risoluta nei propri iniziali propositi ed era più che mai convinta di portare avanti il suo compito auto-imposto.
Nelle ore più calde del pomeriggio, quando gli ospiti si erano fatti più calmi e più inclini a conversare tranquillamente di affari meno importanti, e agli sposi erano stati concessi degli attimi di riposo durante il quale poterono parlare fra di loro senza orecchie indiscrete, Rin sgattaiolò senza farsi notare dalle cucine, posando lo straccio che le avevano affidato e lasciando una fila di ciotole pulite posate sui tatami.
Aveva le braccia indolenzite e sentiva la pelle delle mani sfaldarsi per essere stata troppo a lungo immersa nell'acqua calda. Inoltre, a nulla era servito arrotolare le maniche del suo pesante kimono formale, né di accorciare la gonna con mille risvolti, perché la stoffa spessa aveva impedito il passaggio del minimo spiffero d'aria, facendola sentire rinchiusa in una prigione.
Sarebbe tornata, ovviamente; il senso di colpa per non aver portato del tutto a termine il proprio lavoro le avrebbe impedito di stare via troppo a lungo, ma sentiva di aver bisogno di una pausa.
Per prima cosa, allentò la scollatura dell'abito, lasciandolo aperto sulla sottoveste. Poi, assicurò le maniche alle spalle, scoprendo totalmente le braccia e, infine, portò la lunghezza dello spacco quasi fino alla vita, lasciando scoperte le cosce fino a lasciarne gran parte esposta.
Non aveva il timore di incontrare nessuno, visto che si trovavano tutti al ricevimento, così si permise di abbandonare per un attimo la posizione rigida che contraddistingueva il suo ruolo per abbandonarsi ad una camminata più sciolta, naturale.
C'era una bella pace, nel villaggio deserto. Le viuzze polverose e le capanne modeste apparivano quasi più eleganti, senza quel via vai di gente, e il brulichio dei discorsi nei campi, di mani che si muovono nell'intrecciare ceste e di riempirle di legumi, di verdure o di pesce, si era finalmente acquietato, lasciando dominare il silenzio.
Risalì in fretta la strada che portava verso il bosco, e si mosse con sicurezza fra le radici degli alberi, conoscendo alla perfezione le strada da percorrere.
Durante il lungo periodo in cui aveva seguito il demone come un'ombra, aveva scoperto che i posti migliori, più pacifici, si nascondevano laddove l'uomo non poteva arrivare. Sfruttando la propria costituzione magra e il proprio fisico longilineo era riuscita ad infilarsi nel pertugio contornato da rami nodosi e sbucare in una radura protetta, oscurata dal resto del mondo, con una bella sorgente fresca dove avrebbe potuto lavarsi i piedi.
I sandali, infatti, avevano il brutto vizio di lasciarle delle dolorose vesciche laddove la paglia sfregava contro la carne, e sentiva le piccole ferite pulsare a causa dello stare in piedi in quell'aria torrida: un po' d'acqua fredda le avrebbe sicuramente giovato.
Si arrampicò sulle radici più sporgenti di una quercia, aggrappandosi al tronco, e riuscì ad infilarsi in un piccolo passaggio semi-chiuso, sgusciando dietro ad una siepe composta da arbusti di bacche.
Fece per muoversi verso l'acqua, (che già sentiva respirare con quel suo suono meraviglioso), quando scorse dei vestiti candidi piegati con cura sotto ad un albero a fianco a lei, e un'armatura splendente buttata sopra.
Fissò con un terrore paralizzante quegli oggetti come se stessero per assalirla; le decorazioni sul petto di ferro della corazza, i ricami delicati e nobili del kimono, la cintura vivace, le maniche appena dipinte di rosso.
Non c'erano dubbi: erano i Suoi vestiti. Ma cosa ci facevano lì? Perché Sesshomaru si era spogliato proprio nel posto che le era più caro?
Si acquattò immediatamente fra le foglie quando sentì un fruscio. Trattenne il respiro, sporgendosi leggermente per meglio vedere se Lui era in circolazione.
All'inizio non riuscì a vedere nulla ma, ad un tratto, i suoi occhi incontrarono la curvatura di due spalle magnifiche, di due braccia forti di un bianco splendente, e una chioma liscia e più fluida dell'acqua stessa, così meravigliosa che non si sarebbe detta di questo mondo.
Fu presa dall'impulso di gridare, ma riuscì a domarsi. Il suo cuore non aveva mai avuto un ritmo tanto sfrenato, poteva quasi vederne il movimento sulla stoffa del suo vestito.
Com'era sporca e lacera in confronto a quella perfezione! Com'era magra e rachitica se paragonata alla perfetta definizione di quei muscoli guizzanti, di quella statua vivente!
Possibile, possibile che avesse davvero vissuto vicino a tanta bellezza senza che davvero l'avesse mai vista?
Impossibile; non poteva credere al fatto che Sesshomaru potesse celare un fisico simile sotto alle vesti composte, sotto all'espressione di ghiaccio. Del fatto che fosse straordinariamente bello aveva sempre potuto rendersi conto, ma non avrebbe mai sospettato che il demone potesse raggiungere un tale livello.
Un dio, ecco cos'era. Le aveva sempre mentito: era in realtà una divinità scesa in terra per prendere in giro gli esseri umani.
Ad un tratto, fu come il mondo fosse sprofondato in un baratro perché il demone, evidentemente appagato dal bagno, si era rialzato e stava uscendo dal laghetto con la grazia che lo contraddistingueva.
Non riuscì a trattenersi dall'avere un singulto, però, vedendo anche il torace, l'addome, le gambe e il suo fisico nella propria interezza.
Sesshomaru alzò lo sguardo, e i suoi occhi d'ambra incontrarono quelli di lei per un lungo momento, forse per incatenarli a sé e distoglierli dalla vista del resto. Ma era ormai troppo tardi; la ragazzina aveva già visto ciò che non desiderava vedere (era davvero questa la verità?) e ora si sentiva amareggiata, umiliata e tradita, anche se non avrebbe saputo dire perché.
Senza pensarci ancora, si voltò, ridiscese velocemente la strada scoscesa e si rigettò nel bosco, correndo come mai aveva fatto nella sua nuova vita, ma ripetendo la stessa, disperata fuga dai lupi che aveva concluso la sua esistenza precedente.

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Capitolo 13
*** Preparativi alla partenza ***


Fu molto difficile evitare che Inuyasha le mettesse il muso ma, dopo un paio d'ore di estenuanti suppliche, rassicurazioni, promesse e carezze smielate, il mezzo-demone aveva ceduto.
L'aveva ostinatamente fissata mentre si preparava lo zaino in attesa della gita con Hojo, osservando ogni singolo oggetto che metteva dentro; lei aveva avuto l'accortezza di non usare il suo amato zaino giallo, simbolo di quasi due anni di spostamenti nell'era Sengoku, e l'aveva rimpiazzato con un versione più piccola e pratica composta da una cartelletta azzurra di stoffa.
Per Kagome era molto difficile portare avanti quella scelta, ma ormai non poteva più tirarsi indietro; essendo precipitosamente fuggita dalla casa di Hojo non aveva nemmeno fatto in tempo di avvisarlo dell'aggiunta, e non aveva avuto la minima intenzione di ripassare per casa sua un'altra volta. Il danno era fatto, ma era decisa ad approfittare della situazione per scaricare Hojo una volta per tutte. Non avendo il rischio di essere sentita da Inuyasha e di lasciare spazio a terribili fraintendimenti, avrebbe parlato chiaro al ragazzo e gli avrebbe spiegato che non voleva che tra loro ci fosse altro che una semplice amicizia.
Era ora di chiudere quella storia, infatti; lei era una persona libera di fare le proprie scelte e, anche se capiva le premure delle sue amiche, non poteva certo rimanere incastrata in una relazione che non desiderava, soprattutto per rispetto verso Hojo.
E poi lei amava Inuyasha; non aveva mai dubitato per un solo secondo che quello che la unisse al mezzo-demone non fosse il sentimento più sincero che avesse mai provato nei confronti di qualcuno, e aveva tutta l'intenzione di passare il resto della propria vita con lui.
-A che ti serve la spazzola? - chiese lui, acidamente, vedendola riporre l'oggetto in una delle tasche della sacca.
Kagome sospirò. -Se per caso dovessi spettinarmi, almeno potrei darmi una sistemata.
Lo sentì sbuffare. -Non è che per caso la userai per fare la smorfiosa con lui?
Ecco, stava cercando di rinfacciarle il fatto che stava andando via senza i suoi occhi vigili addosso. Quanto sarebbe durata quella silenziosa accusa?
-Non farò la smorfiosa proprio con nessuno - puntualizzò, infastidita. -Sai benissimo che se potessi non ci andrei!
Finì di piegare una giacca di riserva e la posò sul letto.
-Pff, non mi pare ti stia obbligando nessuno!
La ragazza sollevò gli occhi al cielo. Quante volte gli aveva detto che Hojo aveva già comprato i biglietti d'ingresso e disdire all'ultimo minuto sarebbe stato un gesto terribilmente maleducato?
-Sai che ti dico? Non me la porto nemmeno, la spazzola. Al diavolo. La lascio qui, va bene?
Con voluta lentezza prese l'oggetto e lo posò sulla scrivania. Questo lo fece sbuffare in modo decisamente poco soddisfatto.
-Non sarà di certo questo ad impedirti di fare tutta la carina con quello lì - borbottò, ostile.
La giovane decise di non replicare. Vederlo appollaiato sul letto, con le braccia incrociate e uno sguardo accusatorio stampato in faccia non faceva altro che renderla nervosa, e non voleva dover passare il giorno seguente con uno stato d'animo peggiore di quello che già immaginava.
Ricontrollò mentalmente una lista veloce di quello che doveva portarsi e, dopo aver passato in rassegna tutto ciò che aveva già messo dentro, ficcò una busta di stoffa, non senza arrossire, in una tasca interna.
Il ragazzo strinse gli occhi a fessura, notando quell'improvviso cambiamento d'espressione nella ragazza; da annoiata si era fatta improvvisamente imbarazzata. Lei stava solo sperando che non dicesse nulla, quand'ecco che Inuyasha allungò il naso verso di lei con l'evidente intenzione di scoprire il contenuto del misterioso involucro e, non riuscendoci, le fece una fatale domanda.
-Kagome, cos'hai lì?
Lei ebbe un singulto. "Accidenti!".
La situazione era già piuttosto tesa, ma quell'ultima sua reazione la rese ancor peggiore
"Non posso mica spiegargli cosa sono degli assorbenti!" si disse, arrossendo ancora di più.
-N...niente - balbettò, ma non fu affatto convincente.
Lui corrucciò minacciosamente le sopracciglia.  -Sì, come no. Sicuramente sarà un regalo per il tuo innamorato, ne sono sicuro!
Kagom chiuse la cerniera di scatto. -Sei sempre il solito geloso!
-Io non sono per niente geloso! - si difese.
Dentro di sé, Kagome sorrise: era riuscita a fargli cambiare argomento. Si sentì straordinariamente fiera di sé stessa.
-Oh, sì che lo sei, invece!
Inuyasha scosse la testa con forza. Voltò lo sguardo dall'altra parte, assumendo un'aria meditabonda.
-La mia non è gelosia, è preoccupazione; quel tipo non mi piace, e non sono per niente contento di lasciarti da sola con lui per un giorno intero. Capito?
Kagome rimase interdetta. Non riuscì a dire nulla, perché lui le afferrò un polso con fermezza e la attirò verso il proprio petto, abbracciandola stretta e premendo la testa contro i suoi capelli, aspirandone il profumo.
-È vero che il mondo moderno è molto meno pericoloso del mio - mormorò sommessamente -ma...
Non completò la frase, e la strinse con più forza. Kagome si rimpicciolì nel suo abbraccio impetuoso, e le parve di diventare ancora una volta una ragazzina sprovveduta e bisognosa di protezione. Non avrebbe mai pensato che la preoccupazione di Inuyasha potesse arrivare ad un tale livello, e si sentì improvvisamente in colpa per averlo fatto soffrire con quella stupida gita, a cui fra l'altro non voleva nemmeno partecipare.
Finalmente poteva avere Inuyasha tutto per sé: perché c'era sempre qualcuno che si doveva mettere in mezzo?
-Io...Inuyasha... - mormorò, ma non riuscì a trovare delle parole degne di continuare quella frase.
All'improvviso le sembrò tutto molto più naturale di quanto pensasse; non era mai esistito qualcosa di più perfetto delle sue braccia forti e della forma dei propri fianchi che vi aderivano completamente. Quel corpo solito e ben fatto era meraviglioso, soprattutto quando premuto contro il suo. Non averci mai pensato prima le parve un delitto.
Senza dire nulla, poiché sapeva che non ci sarebbe mai stato un discorso appropriato per quel momento, alzò leggermente la testa e posò le proprie labbra sulle sue, con delicatezza.
Quel gesto le fece venire in mente tutti i baci che c'erano stati prima, tutti gli abbracci dettati dall'impeto e a tutti i momenti che avevano creato, con la loro dolcezza, i tasselli più indimenticabili della loro storia.
Il mezzo-demone non si sottrasse a quel gesto e, anzi, lo incoraggiò. Cambiò posizione senza nemmeno accorgersene, e le posò una mano su una coscia, inclinando la schiena come per invitarla a stendersi.
Kagome ebbe un solo attimo di esitazione; in quello successivo si preoccupò soltanto di stringere con forza l'attaccatura dei capelli di Inuyasha, lisci e meravigliosi, che la stavano circondando come per proteggerla dal mondo esterno. I loro baci divennero promesse roventi, testimoni di una passione che rasentava la follia.
La ragazza strinse le cosce contro i fianchi di lui; Inuyasha fece scivolare una mano sul suo addome; Kagome posò le dita sulla sua casacca rossa, cercando freneticamente di scioglierla. Voleva arrivare il più presto possibile fino in fondo a quel piacere che stava cominciando a nascere nel suo ventre, e sapeva che l'unico modo sarebbe stato quello di affidarsi ad Inuyasha nello stesso modo in cui lui si stava affidando a lei.
I loro respiri erano già ansimanti quando, all'improvviso, sentirono un discreto bussare alle porta.
-Kagome? Inuyasha? - chiese una voce gentile oltre l'uscio, inconfondibilmente quella della signora Higurashi. -La cena è pronta.
La fiamma che li stava arroventando si spense improvvisamente. Si sciolsero dall'abbraccio, con le guance rosse di vergogna, guardandosi negli occhi con improvvisa timidezza, nonostante fossero ancora avvinghiati.
-A...arriviamo! - boccheggiò Kagome. Si passò una mano sul viso.
-D'accordo - si limitò a dire la donna. Dal cambiamento nel tono di voce sembrava che avesse notato qualcosa di strano, ma fosse combattuta se intervenire oppure no.
-I...io...forse è meglio che vada - balbettò Kagome.
-S...sì, sì, certo.
Fece per lasciarla passare ma, nel tentativo maldestro di ritrarre le mani si sbilanciò e fu costretto ad appoggiare una mano laddove capitava per rimanere in equilibrio.
"Uhm...è morbido" pensò istantaneamente. Ci fu un attimo di silenzio.
Il suo palmo aperto, con tutte le cinque dita ben distanziate fra loro a coprire meglio una porzione più grande di superficie, era fermo proprio sopra al seno sinistro di Kagome. La ragazza, troppo sorpresa per riuscire a fare un discorso sensato, si limitò a fissarlo.
Lui la guardò di rimando: se si fosse spostato sarebbe caduto e, dalla posizione in cui si trovavano, anche lei sarebbe ruzzolata a terra, facendosi sicuramente male al gomito, che sporgeva dal materasso.
Si cullò nel pensiero che rimaneva fermo in quella posa solo per il bene di Kagome; gli pareva di sembrare meno uno squilibrato mentale.
-P...pervertito! - esclamò all'improvviso la ragazza, con le guance al limite del bordeaux.
-Kagome, ma cos...
Sciaff! Lo schiaffo risuonò per l'intera stanza; fu dato con un'energia tale che Inuyasha, già visto il precario appiglio, ricevette la spinta necessaria per cadere a terra e, così facendo, fece ribaltare Kagome esattamente sopra di lui, in una posizione analoga alla precedente solo che a ruoli invertiti.
Entrambi rimasero leggermente inebetiti dall'urto ma, proprio mentre stavano prendendo fiato per scambiarsi reciprocamente delle invettive, si accorsero per l'ennesima volta di come avessero incastrato i propri corpi: Kagome, le gambe divaricate a cingergli i fianchi e Inuyasha, disteso di schiena, che la teneva ferma con le mani sul suo costato.
-A...accidenti! - proruppe lui. Con un balzo felino riuscì a sgusciare da sotto di lei e a farla accasciare sul pavimento di schiena, facendole prendere una bella botta contro il comodino.
-Ahi! - si lamentò, disperata. Sembrava che più cercassero di sbrogliare la situazione, meno ottenessero dei risultati, tanto che quando si accorsero di essersi definitivamente sciolti da quella sorta di magnetismo imbarazzante, entrambi non potevano che dirsi increduli di quanto appena accaduto.
-Per tutti i Kami - sospirò la ragazza, massaggiandosi la zona colpita.
A fatica, si rialzò da terra.
-F...forse...forse è meglio se andiamo di sotto... - suggerì Inuyasha. Se ne stava in piedi in un angolo come se temesse che, avvicinandosi troppo, avrebbe potuto innescare una qualche formula chimica che li avrebbe incollati di nuovo.
Lei annuì con forza, cercando di scacciare il momentaneo disagio.
-Hai ragione - disse, mangiandosi le parole. -Che ne dici se scendo per prima e tu, dopo un po', mi segui?
-Ottima idea - assentì Inuyasha.
-Bene - commentò Kagome.
-Bene.
La giovane, a passo incerto, uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Il mezzo-demone, avvertendo i suoi passi sulle scale, si lasciò cadere con la schiena contro il letto; finché il rossore non fosse sbiadito, lui non si sarebbe mosso da lì.

**

La signora Higurashi finì di sistemare le bacchette accanto ad ogni ciotola, con la cura che la contraddistingueva.
Il nonno, seduto a capotavola, fissava il suo lavoro con fare meditabondo; Sota, invece, non sembrava capire nulla di cosa preoccupava i due adulti, e si limitava a stare in silenzio, fissando inespressivamente la propria porzione.
Appena la donna ridiscese le scale dopo aver chiamato i due giovani, il nonno sembrò prendere in mano le redini della situazione con un profondo sospiro.
-Dobbiamo trovare il modo di farli andare d'accordo - sentenziò.
-Oh, sì! - esclamò subito Sota. Arrossì. -Sono stanco di tornare da scuola e vederli seduti ai lati del tavolo, che non si guardano, oppure che litigano in giardino, o sentire i passi furiosi di Inuyasha di notte nel magazzino perché lei lo ha cacciato fuori, e...
-Calmati, Sota - intervenne dolcemente sua madre, posandogli una mano sulla schiena. Guardò apprensivamente dietro di sé per assicurarsi che non stessero scendendo e abbassò il tono di voce.
-Sinceramente non piace nemmeno a me questa situazione, ma non possiamo obbligarli a non avere i loro scontri. Sono stata giovane anch'io, so come vanno queste cose; secondo me sarebbe soltanto il caso di farli maturare e metterli davanti alla verità.
Il nonno annuì con aria greve.
-Non sembrano essersi accorti che ormai potrebbero rimanere per sempre in questo tempo, anche se non ho ben capito perché. Però, se così fosse, allora devono decidersi a fare qualcosa.
Lui e la nuora si guardarono: la donna trasudava un forte stato di turbamento e indecisione; sembrava fosse incerta su quanto bisognasse dire.
-Ma sono così giovani... - cercò di dire, ma l'anziano parente la fermò con una mano.
-È vero, lo sono. Ma non potranno rimanere sotto questo tetto per sempre. Inuyasha è pur sempre un demone; anche se l'aura del tempio non è più quella di una volta, a lungo andare potrebbe soffrirne.
-Ma non avevi detto che l'energia spirituale di casa nostra è forte come un tempo, nonno? - chiese Sota.
-Delle volte bisogna guardare in faccia alla realtà, figliolo - replicò, tristemente.
La donna sospirò, passandosi una mano sul viso.
-Non lo so; non so davvero che fare. È vero che ormai non possono più sottrarsi da un futuro insieme, e non credo vogliano lasciarsi, però mi fa stare male l'idea di farla partire adesso - mormorò.
Il signor Higurashi le posò, comprensivo, una mano sull'avambraccio. -Non preoccuparti, non andrà mica in capo al mondo...
-D...di che cosa state parlando?
Sota era smarrito; aveva sempre pensato fosse naturale che Kagome, anche una volta diventata adulta, sarebbe rimasta in casa. I suoi genitori avevano vissuto con i suoceri, per mandare avanti il tempio, e cosa c'era di strano? Inoltre non aveva mai sentito parlare alla sorella maggiore di un qualche viaggio, da quando era ritornata in modo permanente nel presente, e quindi davvero non comprendeva come mai i due avrebbero dovuto allontanarsi; Inuyasha non aveva nemmeno idea di dove andare, se si trovava nel mondo moderno!
La madre gli sorrise, scompigliandogli i capelli.
-Kagome e Inuyasha dovrebbero sposarsi - sussurrò, - ma silenzio, adesso, stanno arrivando.
In quel preciso momento, la ragazza, ignara di tutto, scese l'ultimo gradino e si affacciò in cucina, scompigliata e con le guance arrossate. Fece un sorriso ebete e si sedette su un posto che non era il suo a tavola, augurando buon appetito e prendendo le bacchette dalla parte sbagliata. Di Inuyasha nemmeno l'ombra.
"Sì", pensò il vecchio. "Sarà meglio che si sposino al più presto".







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Capitolo 14
*** Attacco a sorpresa ***


Koga, quella mattina, terminò velocemente le proprie abluzioni e si precipitò, ancora mezzo svestito, nella grande sala principale scavata nella roccia.
Era la stanza che più preferiva di tutta la casa, non solo poiché costituiva il cuore dell'intera abitazione, ma anche perché si trattava di un luogo rilassante, arredato solo da qualche stuoia e un paio di arazzi per commemorare le gesta dei suoi antenati. L'unica luce lì presente veniva da delle discrete torce nascoste nelle nicchie contro il soffitto, scavato seguendo la linea arcuata del monte e capace di dare una grande profondità allo spazio.
Inoltre, era sempre sicuro di trovarvi qualcuno all'interno; essendo collocata nel centro del monte dove si dinoccolava la costruzione intera, era un passaggio obbligato per qualsiasi stanza si volesse raggiungere.
I suoi passi concitati risuonarono vuoti fra le pareti in pietra del corridoio soffocante, con il leggero schiocco umido dei suoi piedi bagnati a terra.
-Ayame! - chiamò. -Ayame!
La sua voce tuonò nei meandri della casa, e gli parve di udire un mormorio di risposta.
Giunse ad un bivio familiare e cominciò a correre più in fretta, troppo ansioso di renderla partecipe della sua idea per preoccuparsi di avere i genitali scoperti e i capelli sciolti; aveva immediatamente bisogno di parlarle ed era sicuro che, se non l'avesse fatto subito, avrebbe ripensato a quell'idea scapestrata che gli era appena germogliata in testa, abbandonando per sempre il progetto.
Guidato dal fioco e tremolante bagliore dell'imboccatura principale, si appoggiò all'arco che sovrastava la sua testa e, riprendendo velocemente fiato, gonfiò il petto e si preparò ad urlare a pieni polmoni il nome della consorte.
-Koga? - chiese una voce. -Cosa succede?
La voce gli si incrinò. Fu costretto a lasciare un grande sospiro per evitare di soffocarsi, oppure mugolare come un soldato morente. Si affacciò sull'apertura ma, non vedendola, corse concitatamente all'interno.
La sua comparsa non passò inosservata; Ayame, seduta al centro della sala circondata dalle sue ancelle, fu costretta a coprirsi le orecchie con le mani per non venire stordita dal coro di urla scandalizzate delle giovani ragazze al suo seguito.
Lei, dal canto proprio, era ormai abituata alle bizzarrie del marito. Nonostante il suo ruolo politicamente rilevante, non riusciva a sopportare l'etichetta delle buone maniere per più di qualche ora, e solo durante le sedute ufficiali. Quando stava a casa propria, poi, sembrava un selvaggio: mangiava con le mani, si dimenticava di abbigliarsi con gli abiti consoni ad un capo tribù, dormiva ad ore improponibili del giorno e stava sveglio anche tutta la notte, non sembrava avere il minimo orario per quanto riguardava i rituali di purificazione oppure i duelli d'allenamento. Spesso, preso dalla furia di uno scontro armato, lo si trovava gareggiare contro il soldato di turno fra le mura domestiche, lanciando un affondo nella sala da pranzo, detergendosi il sudore con un lenzuolo preso dalla camera nuziale oppure rompendo suppellettili donati da altri uomini politici semplicemente per testare la flessibilità della nuova lancia.
-Ayame - le sorrise, sollevato, - finalmente ti ho trovato! Era quasi un'ora che ti cercavo!
La moglie, nel frattempo, si era alzata in piedi. Da quando aveva raggiunto il terzo mese di gravidanza si sentiva stanca, spossata, e il suo medico personale le aveva consigliato di riposarsi. Non era facile come aveva inizialmente pensato, perché Koga stava facendo di tutto per essere presente in casa mentre c'era anche lei.
Per uccidere la solitudine di cui le stanze vuote erano pregne, spesso chiamava con sé un certo numero di sue coetanee, e si dedicavano ad attività noiose eppure edificanti come il cucito, oppure la tessitura.
Vedendo il corpo del marito esposto in bella vista si portò le mani ai fianchi, lo sguardo truce. Le ragazze, nel frattempo, non erano riuscite a capacitarsi di quanto appena successo e continuavano ad urlare, sconvolte. La tradizione voleva che non vedessero un uomo nudo prima del matrimonio, ma ormai il danno era fatto.
La donna prese fiato.
-Koga! Disgraziato! Si può sapere che modi sono?! Vieni qui urlando, nudo come un verme, con i capelli al vento e reclami la mia attenzione, che cosa diavolo hai in testa?! Copriti, svergognato! Copriti o solo gli Antenati sanno cosa mi inventerò per fartela pagare!
In quello stesso momento si sentì uno sferragliare tonante in ogni corridoio. Un paio di ragazze erano svenute l'una nelle braccia dell'altra, e le poche che non fossero ancora scoppiare in lacrime erano rosse fino alla punta delle orecchie e si coprivano il viso con le mani.
"Che esagerate!" pensò Ayame, scuotendo la testa. Si trattava pur sempre di un corpo, accidenti! Che bisogno c'era di strillare a quel modo?
-In alto le mani! - urlò Hakkaku, dal lato ovest della stanza.
Tutti si voltarono nella sua direzione: un intero squadrone di Yoro armati di tutto punto stava asserragliando la stanza con le lance in posizione da battaglia, richiamati da tutto quel trambusto.
-Chi cerca di ledere la persona di sua Maestà il principe Koga?! - strillò di nuovo, non sapendo come reagire vista la totale assenza di una situazione di pericolo. Sembrava aver preso il suo compito di Responsabile della Guardia per la Sicurezza Personale del Principe un po' troppo sul serio.
Solo allora sembrò accorgersi del sopracitato principe che, tranquillo e completamente nudo, lo stava osservando con evidente interesse.
Koga fece un sorriso sfacciato: - Gli scudi che avevo ordinato sono arrivati, finalmente!
Hakkaku balbettò qualcosa. -S...signore...?
Ayame si passò una mano sul viso. Non era mai stata tanto arrabbiata in vita sua.
-Fuori! - latrò con tutto il fiato che aveva in corpo. -Tutti fuori! Qui non c'è nessuno in pericolo! Fuori, via! Sciò! 
In uno svolazzare di vesti sgargianti e pettinini elaborati, le ragazze furono le prime ad accogliere l'invito e a precipitarsi nelle loro stanze, mentre i soldati rimasero imbambolati ancora qualche secondo a fissare la scena, straniti. Poi, realizzando che era stato davvero un falso allarme, si inchinarono come un sol uomo e marciarono a ritroso, con un ritmo leggermente stranulato.
Nel giro di pochi minuti, la stanza rimase completamente deserta, fatta eccezione per il principe e per la moglie. Ayame, ricoperta da una pelliccia sulle spalle e un kimono semplice, era rossa in viso dalla rabbia e dall'umiliazione. Sicuramente Hakkaku avrebbe dovuto fare rapporto per un intervento armato, anche se non ce n'era poi stato l'effettivo bisogno. Cosa avrebbe scritto sulla pergamena ufficiale? "Il principe sostava privo di qualsivoglia vestimento nella sala principale causando lo svenimento involontario di vergini ancelle"?
Gli puntò un indice sul petto glabro. -Tu... - sibilò.
Lui alzò subito le mani in segno di resa, ma non sembrò comunque afferrare il motivo che doveva aver portato la moglie alla rabbia.
-A...Ayame? Cosa c'è...? - farfugliò, ma la donna non gli diede ascolto fino a quando non l'ebbe messo con le spalle al muro.
-Fai un'altra volta una cosa del genere e stai sicuro che ti sgozzerò nel sonno - ringhiò a denti stretti.
Koga deglutì sonoramente. Il suo sguardo assomigliava ad un coltello affilato che prometteva vendetta.
-E copriti - gli disse, allontanandosi di un passo e facendo un cenno distratto, ma severo, verso il suo bassoventre.
Il demone lanciò un'occhiata dove indicato, ma non ebbe comunque la possibilità di fare granché. Recuperò una pelliccia da terra, la scrollò leggermente e se la mise in vita stringendola come una cintura. Ora che la consorte glielo faceva notare, si sentiva leggermente vulnerabile senza armi né corazza.
Con un sospiro, la ragazza si sedette sulle pelli di orso, accarezzandosi l'addome. Se avesse continuato su quella strada, il mese successivo sarebbe stata sicuramente costretta a letto, ed era l'ultima cosa che voleva: fissare il soffitto scuro e buio in camera propria invece che tranquillizzarla l'avrebbe intristita terribilmente.
-Cosa c'è, allora? - domandò, stanca.
Koga andò a sederlesi accanto, cingendole la vita con un braccio. Gli bastava vedere l'accennata rotondità del suo fisico per crederla fragile e inquieta; Ayame notò il luccichio argenteo della sua vecchia ferita sopra al polso, che si allungava fino al gomito, ma non disse nulla e gli si fece più vicina. Ora che regnava solo il silenzio le sembrava di aver recuperato l'intimità domestica dei primissimi giorni di nozze.
-Ti ricordi quando mi parlasti del villaggio Musashi, tempo fa? - le chiese.
Lei annuì.
-Stavo pensando di andarci, proprio in questi giorni. Sai, non c'è molto da fare al consiglio, mi annoio a morte; stanno sempre lì a parlare di confini e altre cose che non interessano a nessuno. E poi tu, e il bambino, non vi potrete più muovere fra poco, no?
Per la prima volta da quand'era entrato trionfalmente nella stanza, Ayame sorrise. Strofinò il naso contro il suo in un gesto familiare.
-Va bene, sarebbe bello. Ma sei sicuro che Inuyasha e Kagome non se la prendono se piombiamo lì all'improvviso, senza aver detto niente?
-Nah - la rassicurò lui, enfatizzando. -A quei due farà piacere, vedrai.
Si alzò in piedi, spazzolandosi velocemente le cosce con le mani. 
-Bene! Allora preparati, fra un'ora partiamo! - esclamò.
-C...cosa? - chiese Ayame, allibita.
Il marito, con passo allegro, si rimise subito in marcia per andare a concludere quanto iniziato poco prima, e la piantò in asso con il dubbio inespresso ancora sulla punta della lingua.
Ayame scosse leggermente la testa.
-Ma cosa diavolo avevo in testa quando ho acconsentito a sposarlo...? -mormorò fra sé e sé.
Fece per chiamare un'ancella, ma ci ripensò: per quel giorno avrebbe dovuto prepararsi da sola.

**

Nonostante Koga avesse insistito per quasi un'ora affinché Ayame montasse su una portantina e si facesse portare a spalla, non riuscì ad averla vinta, e si ritrovò, imbronciato, a ridiscendere il pendio scosceso della montagna con una moglie che, agile quanto uno stambecco, lo precedeva allegramente.
L'aria fresca della mattina aveva sempre avuto un effetto rigenerante su Ayame, e nei periodi in cui la nausea non le permetteva di fare un passo fuori di casa si ritrovava a desiderare ardentemente una passeggiata all'aperto.
Non capiva come mai, tutti d'un tratto, Koga fosse così apprensivo e soffocante nei suoi confronti, ma simili attenzioni non potevano che lusingarla. All'inizio aveva temuto che sarebbe stata lei l'anima della coppia, colei che cercava di mitigare un'indole arrogante e caparbia, ma alla fine il marito si era dimostrato una persona affettuosa, in grado di provvedere con cura e attenzione ai suoi bisogni, e assecondarlo nelle sue stranezze era stato molto più facile del previsto.
In meno di un paio d'ore riuscirono ad attraversare le pendici del bosco, sbucando sulla pianura antistante il villaggio. Sotto insistenza di lui, si fermarono a riposare all'ombra di un albero, masticando carne secca di demone furetto.
I demoni lupo non erano particolarmente abili in cucina, poiché molto spesso si facevano bastare morsi famelici di carne cruda, ma Ayame aveva rifiutato categoricamente di dover gestire un popolo vulnerabile ai periodi di magra, quando i branchi migravano altrove o venivano sterminati dal freddo e i lupi rischiavano di fare la stessa fine. Aveva insistito affinché le nuove generazioni femminili si concentrassero anche sulle comuni arti umane della massaia, ottenendo anche un certo successo. Koga non aveva avuto nulla da ridire: in fondo, a lui la carne cotta piaceva, e azzannarla direttamente da un cadavere non gli era mai sembrata una cosa ragionevole.
Il viaggio riprese con calma. Ora che si era lavato e pettinato in modo consono ai giovani Yoro, Koga non sembrava più il visionario impazzito di quella mattina, e a lei non poteva che fare piacere. Durante la noiosa camminata sui terreni piani, facili da attraversare, lui le raccontò della sua infanzia, di come fossero una volta i demoni lupo, e parlò anche delle antiche usanze, delle tradizioni ataviche.
Per Ayame erano racconti bellissimi, e non solo perché a raccontarglieli era un aedo appassionato e innamorato di quelle epoche, bensì si trattava di cose estranee a lei e alla realtà in cui aveva sempre vissuto. Nonostante il suo ruolo marginale nella politica Yoro, le sembrava comunque importante cercare di capire con chi avesse a che fare ogni giorno, e più vedeva le trame tessute da quelle parole, più sentiva parte di una tribù straordinaria.
-Siamo arrivati - disse lui, ad un certo punto.
Lei alzò lo sguardo, sorpresa: oltre le punte dell'ultima fila d'alberi davanti a loro si intravedevano dei tetti di paglia, il fumo di cibo umano che usciva dai camini e si poteva udire il vociare sommesso di uomini e donne al lavoro. Alle sue orecchie giunse anche la risata di un bambino; si sentì improvvisamente fuori luogo.
Si strinse vicino a Koga, tenendolo per l'avambraccio.
-Non cercheranno di esorcizzarci, vero? - bisbigliò.
-Andiamo, Ayame, non dire assurdità! - esclamò lui. -Siamo venuti per visitare un mezzo-demone che ha sposato la loro sacerdotessa più potente, secondo te potrebbero farsi problemi per due demoni lupo che vivono sulle montagne?
-Lo so... - mormorò lei, - ...ma...
-Ma niente, te lo dico io - la interruppe. - Non preoccuparti, al Musashi hanno una mente aperta e...
Non riuscì a concludere il discorso.
Sentirono un tonfo alle loro spalle. Voltandosi, videro un vecchio contadino con una pesante cesta sulle spalle che, seduto scompostamente a terra come se fosse caduto, li stava puntando con un indice tremante e li fissava ad occhi sbarrati.
Ayame stava per fargli cenno di andarsene, ma Koga assunse un tono gioviale e un modo di fare volenteroso.
-Accidenti, amico, dovesti stare più attento! Dammi la mano, ti aiuto ad alzarti! - disse, ridendo.
Nel momento stesso in cercò di prendere il suo polso per sollevarlo e rimetterlo in piedi, l'uomo iniziò a farfugliare qualcosa di incomprensibile, cosa che alla fine si tramutò in un urlo terrorizzato.
-Al demone! Al demone! Aiuto! Aiutatemi, vi prego! - gridò.
-C...cosa? - esclamò Koga, interdetto. -Ehi, ma...
Ancora una volta il suo discorso cadde nel vuoto.
-Koga, attento! - gridò Ayame. Balzò di lato seguendo un riflesso condizionato appena vide l'ombra della rete calare sulle spalle del marito.
Era una comune trappola da lancio: si trattava di una maglia metallica dalla trama fitta, fissata ai lati con dei pesi in ferro per inchiodare la vittima a terra. Non era particolarmente efficace quando si trattava di demoni adulti, ma aveva un'immediata forza paralizzante che poteva consentire un successivo attacco armato, cosa che Ayame pregò non potesse succedere.
-Spostati, Ayame! - le urlò di rimando Koga.
Piegò le spalle sotto al peso dei legami di quasi una tonnellata, ma con un colpo di braccia riuscì a scucirla su un lato e aprire un varco per uscire. Una freccia si conficcò sul suolo ad un millimetro dal suo piede.
La donna, in preda al panico, sfoderò la spada che portava al fianco. Appena la vide, il vecchio cominciò a strillare come un dannato.
-Sta zitto, bastardo! Di danni ne hai già fatto abbastanza! - ringhiò lui verso il disgraziato.
Questi lo guardò, troppo sconvolto per dire altro, e svenne immediatamente, giacendo come un bambola di pezza sull'erba.
-Dannati! - stava urlando qualcuno. Arrivò una seconda freccia. Il rumore di passi concitati e lo sferragliare delle loro armi improvvisate cominciò a riempire l'aria circostante con il proprio trambusto disordinato, tanto che presto Ayame fu costretta a chinarsi con la testa fra le mani: era sensibilissima ai rumori violenti.
-Ayame! - chiamò subito il marito. - Spostati subito su quell'albero, e rimani lì fino a quando non avrò sistemato questi bastardi!
Lei si rialzò a fatica. Scosse la testa. -Non ti lascio solo, scordatelo!
Koga ringhiò spazientito, schioccandosi le dita. -Donna testarda...
Appena il primo kimono azzurro sbucò dal fogliame, il ragazzo balzò in avanti e tagliò di netto una fronda appena germogliata che ne impediva una completa visuale. Il viso confuso di un contadino dalla pelle bruciata dal sole comparve, con una smorfia interrogativa, davanti a lui. Koga non era intenzionato a fargli del male, poiché non era venuto lì per ucciderli, così si limitò a snudare le zanne e a gorgogliare come un lupo pronto all'attacco, i muscoli tesi.
-Aiuto! - strillò il malcapitato. -Un demone lupo! Aiuto!
Senza degnarlo di un altro sguardo, il giovane spiccò un salto fino a sovrastarlo e atterrò proprio di fianco ad un suo compagno, spezzando in due il bastone che reggeva come una spada.
-Nessun attacco, eh? - urlò sarcasticamente Ayame, dietro di lui. Si spostò sui rami più alti di un sempreverde per evitare una sassata in sua direzione. Una decina di uomini stava schierata davanti a loro, ma non sapevano come reagire.
-Oh, e sta un po' zitta! - sbottò il giovane. Non vide arrivare una freccia che per poco non gli perforò un occhio.
-Che cosa?! - esplose, offesa. -Non ti permetto di darmi ordini se solo qualche ora fa hai mostrato tutta la tua mercanzia alla tribù intera!
-Aiuto, al demone! Presto, attaccatelo! - stavano dicendo quelli, intanto, formando un sinistro coro.
-Ti sembra forse il momento per dire cose del genere?! - per la frustrazione atterrò un ragazzino colpendolo alla nuca. Quello cadde, svenuto, ai piedi di un suo anziano concittadino.
Ad un tratto, proprio mentre si stava stancando di sferrare pugni a vuoto per farli retrocedere, sentì arrivare un colpo fortissimo in fronte, simile ad una pietra. Per l'impatto spalancò gli occhi e cadde per terra, di schiena, intontito, senza capire cosa fosse successo: sentiva la fronte in fiamme e quel viscido e caldo contatto si stava espandendo in tutto il corpo, intorpidendolo. Che qualcuno gli avesse tirato in testa un pezzo di roccia?
-Fermi tutti - disse una voce calma, perentoria. I contadini cessarono immediatamente il loro duello disorganizzato e si guardarono alle spalle. Koga, steso a terra, non riusciva a capire cosa stesse succedendo, ma avvertì comunque dei passi che si avvicinavano sull'erba.
L'incredibile ondata di energia spirituale lo scosse con un brivido: come aveva fatto a non sentirla prima?
-Venerabile Monaco - mormorò qualcuno, ossequiosamente.
Ci fu un brusio, che ripeté la stessa frase come un'eco.
-Cosa succede qui? - chiese il nuovo arrivato. Il suo odore gli era familiare.
-Un demone...ha cercato di attaccare il povero Buntaro...l'ha buttato a terra...voleva mangiarlo...
-Calmatevi - ordinò, con voce paziente. Gettò lo sguardo sulla rete sventrata lì a fianco, e poi portò la propria attenzione sul corpo steso a terra.
Strabuzzò gli occhi: -Koga?!
Il ragazzo riaprì a fatica gli occhi: si sentiva reduce da un'ubriacatura colossale, non sembrava più essere padrone del suo corpo.
-M...Miroku? - biascicò.
-Koga! - gridò Ayame, disperata. Scese con un balzo vicino al consorte, inginocchiandosi a terra vicino a lui e senza notare nemmeno la loro vecchia conoscenza che, lì in piedi, era troppo sorpresa per parlare.
-Cos'é questo foglietto che hai in fronte? - domandò, cedendo la paura alla curiosità.
Lui non ci stava capendo molto, ma sentì una risata divertita del monaco. Vide la mano dell'uomo avvicinarsi al suo viso e sentì il doloroso suono di uno strappo.
-Si tratta di un esorcismo - spiegò. -Si rimetterà fra pochi minuti.
Sembrava più divertito che mortificato. Ayame carezzò leggermente la fronte di Koga, che cominciò subito a recuperare le energie atrofizzate dal foglio sacro; era come se il suo corpo fosse un fiume che, dopo un periodo di siccità, veniva lentamente ricolmato dalla pioggia.
-Dov'è Inuyasha? E Kagome? - lo interrogò, guardinga.
Il viso del bonzo si adombrò.
-Venite con me; ci sono delle cose che dovete sapere.

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Capitolo 15
*** Gelosia ***


Quella mattina, Kagome uscì di soppiatto dalla propria stanza e si preparò silenziosamente all'ingresso.
Era stata attenta a non fare il minimo rumore, ma ad un tratto si era accorta, non senza un certo disappunto, che Inuyasha era misteriosamente sparito. Decise di non andare a cercarlo; forse, essendo a conoscenza della gita che avrebbe avuto luogo di lì a poche ore, non aveva avuto la benché minima voglia di assistere alla partenza.
Come pattuito, quindi, la ragazza salutò la madre e partì verso il centro di Tokyo, al luogo stabilito per l'incontro, parcheggiando la bicicletta in uno spazio riservato che le costò quasi ottocento yen*.
"Accidenti, sono aumentati un sacco dall'ultima volta!" pensò, osservando le monete nel suo portafoglio così crudelmente dimezzate. Aveva deciso di portarsi lo stesso dei soldi, per qualsiasi evenienza, ma si era pentita di averne portato così pochi; sperò che non avrebbe dovuto comprare nulla, sarebbe stato troppo imbarazzante andare a prestito da Hojo.
-Higurashi! - esclamò una voce, in quello stesso istante.
La ragazza si voltò, sorpresa. Hojo, in piedi dal lato opposto della strada, si stava sbracciando per attirare la sua attenzione; vicino a lui era parcheggiata una macchina scura e lucida guidata da un uomo dal viso serio, che indossava una specie di uniforme.
Automaticamente, Kagome sorrise, aggiustandosi lo zaino in spalla. Le mani iniziarono subito a sudare, mentre nel petto il cuore batteva a velocità impossibile: si pentì subito di non essere rimasta a casa, tranquilla, con Inuyasha al suo fianco, e capì subito che quella giornata sarebbe stata molto più difficile del previsto.
Appena il ragazzo si accorse di essere stato visto, le fece un sorriso di cuore e smise subito di fare i propri gesti frenetici. Kagome si sentì in colpa, perché quello stesso giorno avrebbe segnato un completo distacco fra loro ma, d'altra parte, continuare ad illuderlo come aveva fatto sino ad allora (senza che fosse nemmeno colpa sua, fra l'altro) le sembrava una cosa peggiore.
Nonostante il traffico terribile, riuscì ad arrivare sana e salva da Hojo e, con sua enorme sorpresa, ricevette subito un caloroso abbraccio.
-Ciao, Higurashi! - la salutò, allegro, sciogliendosi dalla stretta che lui stesso aveva intrapreso. - Hai dovuto aspettare molto?
Era arrossito e, per qualche strano motivo, lei si ritrovò con le guance dello stesso colore.
-Eh...no, no, sono appena arrivata... - balbettò.
Era stata presa in contropiede, perché mai avrebbe pensato che Hojo avrebbe potuto prendere una simile iniziativa, e si ritrovò a sperare che la cosa non si sarebbe ripetuta nel corso della giornata.
La scena non era destinata a continuare: Kagome sentì all'improvviso due mani sottili posarsi sulle sue spalle e i suoi occhi si colmarono di un'apoteosi di stoffa scura, brillantini e capelli cotonati.
-Mia cara! - disse una voce acuta, civettuola. -Finalmente ti conosco, mio figlio mi ha parlato così tanto di te!
La ragazza era sempre più smarrita. Fece un sorriso di circostanza, stringendo la mano che la signora - evidentemente la madre di Hojo, che l'aveva appena abbracciata - le stava porgendo. Era una bellissima donna, dai lineamenti delicati; aveva un taglio di capelli all'ultima moda, dalle gradazioni color miele, e indossava un completo molto elegante, che mostrava le curve di un corpo snello, anche se forse troppo magro.
-M...molto piacere di conoscerla - farfugliò Kagome. La donna non smise di sorridere.
-Vieni, cara, ti presento mio marito! - esclamò, raggiante. Posandole una mano sulla schiena, leggermente, la condusse fino all'auto senza che lei potesse muovere alcuna obiezione.
All'interno, sui sedili in pelle traslucidi,  era seduto un uomo che, se fosse stato in piedi vicino all'Hojo adolescente che lei conosceva, sarebbe stato scambiato per un suo riflesso allo specchio. Il colore dei capelli, degli occhi, la forma del viso e persino la piega delle labbra, ora che stava sorridendo, erano in tutto e per tutto simili a quelle del figlio. L'unica cosa che separava la sua immagine da quella del più giovane era un paio di baffi. Gli strinse la mano con l'impressione di essere precipitata in una realtà a parte, completamente diversa da quella che aveva sempre imparato a conoscere.
La salutò allegramente. -Finalmente ti conosco, ho tanto sentito parlare di te!
Dopo ulteriori convenevoli, che Kagome accolse con risatine nervose e commenti educati, si stiparono tutti nei sedili posteriori, con le gambe di Hojo appiccicate alle sue per effetto della mancanza di posti più larghi. L'auto, nel frattempo, partì, senza che nessuno avesse dato alcuna indicazione all'autista.
-Che ne dite di cantare una canzone propiziatoria? - propose, allegro, il padre di Hojo.
-Oh, sarebbe una splendida idea! - squittì la donna, entusiasta.
Il figlio placò subito l'allegria dei genitori. 
-Kagome soffre di emicrania cronica, dubito che una canzone urlata nelle orecchie possa farle bene - disse, serio.
 La ragazza arrossì ancora di più, cercando di farfugliare qualcosa per togliersi dall'imbarazzo; per quanto tempo ancora avrebbe dovuto subire le conseguenze delle bugie di suo nonno?
-Oh - replicò il genitore, dispiaciuto. -Per fortuna ho portato con me l'audiolibro del professor Hayashi** sulle teorie del Big Bang!
Kagome, fra sé e sé, sospirò. Sarebbe stata una giornata molto, molto lunga.

//

-Quella stupida... - borbottò Inuyasha, fissando la sagoma snella di Kagome sparire oltre il sentiero alberato in sella al suo destriero metallico.
Se la sera prima l'aveva ormai completamente perdonata per quello che gli era sempre sembrato un abbandono vero e proprio, già la mattina seguente aveva cambiato atteggiamento, e per la stizza di essere stato totalmente escluso dai pensieri della giovane era andato a rifugiarsi sul tetto, laddove era certo che non sarebbe stato trovato.
Aveva bisogno di stare da solo; era l'unico modo per far sbollire la rabbia.
A dire il vero, la soluzione giusta ai suoi problemi d'umore sarebbe stata vedere che Kagome, la ragazza per cui provava un amore bruciante dalla prima volta in cui aveva posato gli occhi su di lei, aveva ripensato alla propria idea di andarsene in compagnia di quel rammollito allo scopo di passare una giornata con lui.
Sapeva perfettamente che non si trattava di una fuga romantica, visto che l'aveva inizialmente convinta a portare anche lui, ma la cosa gli bruciava lo stesso, eccome; essere accantonato come se nulla fosse lo faceva sentire un animale domestico.
Sbuffò, irritato, voltandosi su un fianco e sostenendosi la testa sul palmo, piegando il gomito, nella posizione che gli era più congeniale per concentrarsi. 
Era vero, d'altronde, che Kagome non era mai stata entusiasta di quel progetto; e, inoltre, si era sempre mostrata piuttosto distaccata, anche se cortese, nei confronti del pappamolle in questione, tanto che il suo viso diventava una maschera di marmo ogni volta lui si trovava nei paraggi. Una volta si era nascosta nell'armadio fino a quando non se n'era andato; un'altra aveva finto di essere malata per evitare che andasse a trovarla.
Almeno da quel punto di vista si convinse di poter stare tranquillo, visto che per quanto riguardava Kagome non c'era assolutamente il pericolo di un qualche cedimento. Ma a preoccuparlo era quell'altro: quell'invertebrato che, per quanto privo di doti degne di un vero guerriero, di un uomo d'onore, poteva avere la compagnia di Kagome per una giornata intera.
Ma come avrebbe potuto biasimarlo, povero diavolo, se avesse anche solo tentato di allungare una mano, vedendo le sue gambe chiare e slanciate messe in risalto da quel vestitino azzurro cielo? Se le avesse accarezzato i capelli, lasciati sciolti al vento? Se avesse baciato quelle labbra così morbide, dal sapore di pesca?
-Dannazione! - esclamò, alzandosi a sedere di scatto.
Se quand'era salito il suo morale era a terra, ora si sentiva pronto allo scontro fisico. Quel verme, quel dannato, anche soltanto provando a fare una cosa del genere...inaudito! Inammissibile! A Kagome? Alla sua Kagome?
No, assolutamente no. Sentì il petto gonfiarsi a causa dell'ira. Che diritti aveva quello per potersi trovare al fianco della ragazza mentre lui, il mezzo demone che aveva rischiato la vita per lei, che aveva affrontato mille battaglie solo per assicurarsi che potesse vivere in pace, che l'aveva accompagnata in altrettanti viaggi e che aveva ucciso demoni - demoni! - e mostri pur di saperla al sicuro, che aveva messo in discussione persino sé stesso, era costretto a starsene rintanato sul tetto di un vecchio magazzino! 
Si schioccò le dita delle mani, già pregustando il momento in cui l'avrebbe afferrato per la collottola come un animale e costretto a battersi da vero uomo (sempre se l'altro sapesse come si faceva). Sorrise, sfrontato: l'avrebbe acciuffato, il bastardo. L'avrebbe preso e gliel'avrebbe fatta pagare; doveva imparare la lezione.
Senza indugiare oltre, quindi, balzò sulle fronde di un albero vicino, acquattandosi fra i rami più alti. Grazie alla sua vista portentosa, poteva avere una visuale completa delle strade circostanti che, inerpicandosi sotto al colle dove sorgeva il tempio, convergevano tutte in un unico nodo circondato da edifici grigi.
Gli venne mal di testa solo al pensiero di doversi tuffare in mezzo a veicoli sbuffanti, allo stridore di quelle strane ruote e ai miasmi pestilenziali di quelle bestie su cui viaggiavano gli uomini moderni, ma strinse i denti e si convinse che, nel passato, aveva dovuto affrontare sfide decisamente più ardue di un semplice viaggio nel mondo di Kagome.
Fra le foglie, sorrise, trionfante.
"Sto venendo a salvarti, Kagome!"

//

- ... e infine ci sarà una conferenza sulla medicina omeopatica a cui abbiamo partecipato per quattro anni di fila, senza mai rimanere delusi! - concluse Hojo, soddisfatto.
Da quasi mezz'ora stava illustrando, facendo sfoggio di una conoscenza smisurata, tutte le attrazioni che il posto offriva, di tutti gli incontri che si erano svolti nei vari stand e che cosa significava ogni singola scritta.
A Kagome, che aveva indossato un paio di scarpe volutamente scomode un po' per punirsi in vista di quella giornata lontano da casa, e un po' perché pensava ingenuamente che sarebbe dovuta star seduta praticamente tutto il tempo, facevano male ai piedi, ma non lo disse per il timore che Hojo la trascinasse dentro ad una di quelle strutture precarie, allestite per l'occasione, e le facesse provare un'infinita gamma di creme o intrugli.
Si trascinava semplicemente stando dietro al giovane, paziente, ascoltando in silenzio ogni suo singolo discorso e sperando che non le facesse domande in proposito, poiché non si sarebbe potuta dire sufficientemente concentrata sui suoi resoconti.
Pensava ad Inuyasha, e si lasciava martoriare passivamente dalla malinconia per il suo mezzo demone. L'aveva lasciato a casa senza veramente riflettere su cosa avrebbe potuto fare una creatura centenaria negli anni duemila senza nessuna guida che potesse portarlo a fare una passeggiata, che lo aiutasse ad ingannare il tempo durante la sua assenza. Fortunatamente non aveva fatto presente al nonno questo problema, visto che probabilmente avrebbe coinvolto il ragazzo in una qualche attività spirituale dall'utilità dubbia; forse, però, conoscendo le due persone in questione, sarebbe stato persino possibile che entrambi si sarebbero divertiti, perché in quanto a stranezze lei non avrebbe saputo dire chi superava l'altro.
-Higurashi...tutto bene? - chiese Hojo, guardandola, incerto.
-Oh - rispose, imbarazzata, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. -Ma...c...certo!
"Stupida!" si disse, "ti ha beccata mentre non lo stavi ascoltando!"
Il ragazzo sospirò, scuotendo la testa. -Higurashi, ti prego di scusarmi. Non avevo minimamente pensato al fatto che, con i reumatismi, non avresti potuto camminare troppo a lungo!
-Ehm...cosa?
Il giovane si sbatté una mano sulla fronte, abbattuto. -Ma certo, come ho potuto essere così insensibile? Per te dev'essere stato un vero strazio, con questo caldo poi! Guarda le tue caviglie...sono informi!
-M...ma...Hojo, cosa dici? - replicò lei, arrossendo, a metà fra l'offeso e il colpevole.
-Ah, come sono stupido! Ora ti si gonfieranno le giunture, e avrai dei dolori atroci per tutto il resto del giorno...per non parlare dell'asma!
-M...ma Hojo, non mi sembra il caso di... - tentò di dire Kagome ma, ormai, l'altro era totalmente assorto nelle proprie assurde preoccupazioni.
-Ti immagini se io, con il mio inutile parlare, non mi fossi reso conto di star danneggiando la tua salute? Il diabete non è una cosa con cui si possa scherzare! Per non parlare poi degli attacchi di panico!
Durante il monologo di Hojo, Kagome si spostò all'ombra per non doverlo stare a sentire sotto il sole cocente e cercò di placare con deboli balbettii quella serie di auto-accuse, per altro tutte infondate.
-Attenta, Higurashi! - esclamò Hojo. La ragazza sobbalzò immediatamente.
-C...cosa c'è?
-Il polline! - disse, come se potesse chiarire ogni dubbio. Vedendo la sua espressione smarrita, abbassò il tono e assunse un'espressione afflitta. -Il polline, sei allergica. A quanto pare non ti sei ancora ripresa dall'amnesia...
"A...amnesia?" pensò. Fra tutte le storie inventate dal nonno, questa era certamente la più astrusa. Ma come diavolo gli era venuto in mente di trovare una scusa del genere? Non bastavano forse tutte le patologie mortali di cui l'aveva resa vittima?
Avrebbe dovuto sigillare il telefono di casa, onde evitare che la voce di simili epidemie si spargesse. Una volta tornata, gli avrebbe fatto un bel discorsetto.
-Hojo, tesoro, cosa succede? - chiese la madre del ragazzo, camminando verso di loro.
Lei e il marito si erano allontanati un momento per salutare un vecchio amico di famiglia, e avevano fatto ritorno proprio alla conclusione del breve giro turistico. La ragazza li guardò con un misto di gratitudine e scoraggiamento; vista la reazione del figlio, non osava immaginare cosa si sarebbero inventati i genitori.
-Kagome non può continuare il giro - ammise tristemente il ragazzo, abbassando il capo. -I suoi problemi di salute...non avrei dovuto sottovalutarli in questo modo. Temo molto per la sua allergia.
-M...ma veramente... - cercò di dire la ragazza, ma venne presto interrotta.
-Oh, povera Kagome! - commentò l'uomo. -È proprio un peccato. Allergia, eh? Cose da non sottovalutare; qui in giro ci sono troppe piante ornamentali...che ne dite di andare nella sezione "medicina medievale"? Lì ci sono meno alberi, meno foglie, meno fiori!
-Oh, sì, sarebbe bellissimo! - approvò la signora, al suo fianco. -L'anno scorso era l'attrazione principale!
-Ottima idea! - convenne il figlio, nuovamente entusiasta.
E poi: - Vieni, Higurashi!
La prese sotto braccio e lei, come una bambola priva di volontà propria, si fece trascinare dall'altro lato della fiera per andare a visitare una riproduzione di un mondo che aveva visto dal vivo e che, incredibilmente, sembrava continuasse a perseguitarla.

//

Non era stato facile seguire quel filo sottile d'odore in mezzo a così tante tracce diverse ma, nonostante tutto il resto, era riuscito ad individuare comunque il tragitto percorso da Kagome su quel mostro su ruote e l'aveva seguita per tutto il viaggio. Lei non sembrava essersi accorta di nulla; se ne stava, rigida, al fianco del pesce lesso senza nessuna espressione sul viso, a parte un sorriso tirato che ben poco si addiceva alla sua consueta bellezza.
Appena arrivati sul posto, l'aveva guardata entrare assieme ad una coppia strana, probabilmente parente del ragazzino. Aspettò di vederli sparire fra la folla prima di uscire dal proprio nascondiglio e dirigersi, con passo sciolto, verso l'ingresso.
Aveva fretta di incontrarla e di portarla via da lì; prima ciò sarebbe avvenuto, meglio sarebbe stato. La sua testa assomigliava infatti ad un vespaio dove regnavano migliaia di odori e puzze diverse, suoni squillanti e fumi pestilenziali.
-Hey tu! - esclamò un tizio dietro ad un banco di legno.
Inuyasha si voltò, innervosito: era certo che si riferisse a lui poiché era l'unico rimasto là sullo spiazzo antistante alla fiera.
-Beh? - sbottò. -Cosa diavolo vuoi?
Ad averlo fermato era un ragazzetto con un ciuffo disordinato di capelli flosci sulla fronte, il viso ossuto e una maglia sbracciata di un color giallo squillante, con ideogrammi moderni disegnati sopra. Era ferraglia quella che aveva sulle orecchie? E sul labbro inferiore?
Quello, notando il suo sguardo torvo, deglutì.
-Non può passare se non ha il biglietto di ingresso - spiegò, avvicinandosi. 
-Che?! - esclamò. -Il biglietto di cosa?! E adesso che diamine vai dicendo?
Il più giovane squadrò da capo a piedi l'abbigliamento del mezzo-demone con una smorfia, prima di piantargli in viso uno sguardo annoiato e infastidito.
-Amico, non puoi entrare alla fiera se non hai comprato il biglietto di ingresso - ripeté, passando ad un tono più confidenziale. - Bisognava pagare in anticipo...se non ce l'hai non posso farti passare.
Inuyasha storse il naso. -Amico di chi? Avanti, levati di mezzo, io non ho certo tempo da perdere!
Fece per muovere un passo, risoluto, verso l'arco addobbato davanti a lui. Sentì una presa molle e poco convinta sul suo braccio e, voltando lo sguardo, scoprì il palmo sudaticcio di quell'essere inferiore che tratteneva un orlo della sua veste. Era troppo; un affronto gravissimo che, con l'umore che aveva, fu la tipica goccia che fece traboccare il vaso.
Posò immediatamente la mano su Tessaiga, liberandosi con uno strattone: strinse l'elsa e il suo sguardo si fece affilato come un rasoio.
-L'hai voluto tu, idiota! - esclamò, irato.
-Fermo, Daisuke! - intervenne una nuova voce.
Entrambi, in due stati d'animo completamente diversi, si voltarono e scoprirono il sopraggiungere di un ennesimo ragazzetto in maglietta gialla, con un colore altrettanto improponibile di capelli e un egual numero di brillantini sparsi sui lobi delle orecchie.
-Ottima interpretazione - aggiunse lo sconosciuto, annuendo. -Ma adesso è ora di andare. Lo stand apre fra circa un quarto d'ora, devi preparare l'armatura e tutto il resto. Ah, Koichi, non preoccuparti: lui passa anche senza biglietto. È per la parte della rappresentazione medievale...forza, muoviti!
Detto questo, il collaboratore tentò di afferralo per il vestito, ma il ringhio infastidito di Inuyasha lo tolse dall'imbarazzo della scelta, e sembrò capire che il mezzo-demone l'avrebbe seguito anche senza contatto fisico.
Quello all'ingresso, rimasto lì impalato, fissò la trionfale uscita di scena di Inuyasha che, frantumando completamente la propria maestosa aria di trionfo da guerriero Sengoku, concluse la sua comparsa con un'infantile boccaccia.

//

A differenza di ciò che pensava, Kagome dovette ammettere che la sezione medievale era stata molto ben curata, e che i costumi rispettavano più o meno fedelmente gli originali.
C'erano bancarelle allestite ovunque, e tutte profumavano di un odore diverso, a causa delle trecce di fiori appese a mo' di cornice attorno ad ogni banco di legno.
Anziani vestiti da monaci oppure da sacerdoti mostravano creme lenitive e strumenti chirurgici applicandoli su pezzi di legno; una donna più giovane, all'imboccatura di un giardino lussureggiante, illustrava i tipi di fiori che i passanti avrebbero incontrato durante il percorso.
Si trattava di una passeggiata circondati dall'epoca Sengoku. Si respirava il tipico odore di impasti fatti in casa, di misture di erbe di antiche tradizioni cinesi, di piante intrecciate e pezzi di corteccia lenitiva essiccati.
Kagome guardava tutto con uguali eccitazione e malinconica. Aveva fatto moltissima fatica per abituarsi a quel mondo e, ora che l'aveva dovuto lasciare, ne sentiva amaramente la mancanza. La Venerabile Kaede, Rin, Miroku, Shippo, Kirara...e Sango.
E Sango.
C'era qualcosa di lei in ogni angolo. La ragazzina che suonava lo shamisen in un angolo aveva il suo stesso sguardo dolce. Una ragazza in kimono rosa aveva la sua stessa pettinatura; una tuta aderente scura, simile a quella che indossava durante ogni battaglia, era esposta dietro ad una vetrina.
Era così crudele, il destino, ad averla posta davanti ad un'unica scelta: prima la faceva affezionare ad un mondo completamente diverso dal suo, a delle persone speciali e a dei luoghi indimenticabili, e poi...e poi niente, si disse.
"Non è giusto pensare a questo" rifletté. "Per lo meno, non adesso; esistono i momenti fatti per pensare al passato e altri per concentrarsi su altro; oggi ho bisogno di tutto fuorché essere triste".
-Guarda, Kagome! - disse, entusiasta, Hojo, che le stava camminando a fianco.
Stava indicando una pianta sottile, allungata, con dei fiori a forma di tubo affusolato di un colore chiaro.
-È verbena - spiegò Kagome. -Un tempo veniva usata per curare i problemi ai reni; poi, però, è entrata anche nel folklore popolare perché si diceva potesse respingere i vampiri. È una medicina molto potente, va dosata con parsimonia.
-Sei molto informata, vedo - le disse, con un sorriso. Poi arrossì. -Scusami se prima ti ho chiamato per nome, Higurashi...è solo che...
La ragazza gli posò una mano sulla spalla, timidamente. Gli fece un sorriso appena accennato che, però, tradiva una certa dolcezza.
Era arrivato il momento di mettere le cose in chiaro, anche se non credeva che sarebbe arrivato così presto. Provava un grande sollievo, anche se misto ad una grande agitazione: ma era giusto così, in fondo, e sarebbe stato meglio per tutti.
-Hojo...a tal proposito... - cominciò, incerta.
Fu lui a sorprenderla, però, regalandole un'occhiata triste.
-Guarda, lì c'è una panchina. Ci sediamo?
Lei annuì.
In silenzio, pregò di avere la forza necessaria per farla sembrare una cosa indolore.

//

- I.nu.ya.sha - scandì il mezzo demone, accigliato. - Il mio nome è Inuyasha!
-Va bene, va bene, come vuoi! - sospirò colui che all'ingresso l'aveva salvato dalle grinfie del collega. 
-Andiamo, Narata! Lascialo fare - intervenne, sorridendo, una ragazzina di sì e no dodici anni. -Ognuno ha i suoi metodi per calarsi nel personaggio, no?
-Bah! - replicò quello. -A me non interessano i suoi trucchi del mestiere, l'importante è che indossi l'armatura!
-Se ti ho detto che quella robaccia io non la metto, allora non la metto - replicò, piccato, il guerriero.
Era da quasi mezz'ora che quel tizio voleva fargli infilare una sorta di corazza in ferro intarsiata, con legacci rossi e gambali arabescati. Tuttavia, e questo non avrebbe mai potuto confessarlo nemmeno a sé stesso, quella roba gli ricordava terribilmente Sesshomaru, e l'idea di somigliargli anche solo vagamente lo faceva tremare.
Per lui, il fratellastro maggiore era stata l'unica figura paterna che avesse mai avuto; gli scontri, le lotte, persino l'odio che reciprocamente provavano costituivano degli elementi tangibili che suo padre non aveva potuto dargli, e affrontarlo gli dava la giusta misura della propria potenza.
Incrociò le braccia nascondendo gli avambracci sotto alle maniche ampie, sbuffando per sottolineare il concetto.
-Ma devi! - ribatté Narata. -Abbiamo pagato per la tua partecipazione, cosa credi? Ah, l'avevo detto io di non scegliere un attore di teatro: sono troppo esigenti e cedono di poter fare quello che vogliono!
La più giovane, che li stava osservando, sollevò gli occhi al cielo. Disse qualcosa che Inuyasha non sentì; aveva annusato di nuovo l'odore di Kagome, lì vicino, e cominciò ad aguzzare lo sguardo per individuare il suo bel viso fra la folla.
La trovò subito. Stava vicino al rammollito con un'espressione...dolce? Era tenerezza quella nel suo sguardo?
Fu come se qualcuno gli avesse dato un colpo in testa, con violenza. Kagome, la sua Kagome, stava sorridendo a quel tizio con aria materna e...cosa stava facendo? Perché lo stava prendendo per mano?
Troppo sconvolto per realizzare quanto appena successo, se li lasciò sfuggire, e le loro due figure si persero fra tutte le altre fino a che non fu del tutto impossibile rintracciare i profili dei  colpevoli fra tutti gli altri.
Presto, però, lo sconvolgimento lasciò il posto alla rabbia; dunque era così, eh? L'aveva lasciato da solo con un motivo ben preciso, altro che "ci vado solo per buona educazione"!
-Avanti, dammi qua! - disse, prendendo in malo modo i pezzi principali dell'armatura e cominciando freneticamente ad indossarli.
La razionalità l'aveva del tutto abbandonato; non rifletté affatto su tutto quanto quello che c'era stato fra loro e sulle evidenti prove della dedizione di Kagome, anzi, la gelosia gli offuscò a tal punto i pensieri che non volle nemmeno considerare le prove che avrebbero potuto riportarlo alla ragione.
Il ragazzo e la bambina lo fissarono, sbigottiti, senza sapere cosa pensare. Inuyasha strinse ogni cinghia, laccio o gancio con la massima precisione, sapendo perfettamente come infilarsi la protezione per il petto sebbene non avesse mai avuto occasione di metterne una prima. Si sistemò Tessaiga alla cintola, con sguardo tetro.
-Adesso vi faccio vedere io... - ringhiò a denti stretti.
-A...aspetta! - esclamò Narata, cercando di trattenerlo, ma era ormai troppo tardi: il mezzo-demone era già saltato oltre il banco e stava correndo a velocità impossibile per seguire quella flebile, eppure facilmente distinguibile, traccia di profumo.

* Quasi 5 euro.
** Trattasi del professore giapponese di astrofisica Chushiro (Kushiro) Hayashi, noto per aver elaborato diverse teorie sul fenomeno conosciuto come Big Bang e padre di una serie di scoperte inerenti al moto delle stelle e di corpi celesti in genere. Non sono una grande esperta di astrofisica, quindi se ne voleste sapere di più purtroppo non sono la persona più indicata a cui chiedere!

POSTILLA:
Buongiorno!
Scusatemi per la lunghezza esorbitante del capitolo, ma già tagliandolo in questo modo ho commesso un gesto azzardato! Spero di poter caricare la seconda parte entro Natale, ma non posso promettervi nulla :) In ogni caso, buone feste!
The Queen :)

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Capitolo 16
*** Progetti di salvataggio ***


Nel villaggio Musashi tutto taceva; gli aggressori anonimi di poco prima si erano ritirati nelle loro capanne per medicarsi le ferite, prima di tornare nei campi.
Koga osservò la stanza principale della capanna del bonzo e sua moglie, e pensò che la loro non doveva essere troppo diversa da tutte le altre case contadine da cui erano circondati: muri in legno, pavimento di terra battuta ricoperta da tatami squadrati, porte scorrevoli sottili come carta e arredamento povero, essenziale.
Gli piaceva, tuttavia, l’odore dolce del ciliegio, i cui rami entravano da una finestrella a lato; dava una nota fiorita all’intero spazio. Inoltre c’era una luce discreta, accogliente, e la sottile penombra degli angoli, laddove i raggi solari non riuscivano ad abbracciare completamente gli spigoli degli oggetti o l’incontro tra le pareti, gli ricordava la sala principale dove amava trascorrere il tempo, in cima alla sua montagna.
Ayame aveva in viso un’espressione preoccupata, invece. Stava seduta al centro della stanza sui cuscini gentilmente offerti dai loro ospiti, e di tanto in tanto guardava la macchia violacea che il fuda aveva lasciato sulla fronte del marito. Sembrava assumesse anche un’aria di rimprovero, se la sua contemplazione delle ferite del consorte sfociava anche in fasi meditative.
Koga la ignorò; la sua vista sarebbe stata decisamente fuorviante, soprattutto se avesse cominciato a pensare alla ramanzina che sicuramente lo avrebbe aspettato una volta tornati dagli altri Yoro (e una scenata in pubblico alla domanda “come vi siete procurato quella ferita, Sire?” non era da escludere).
In quell’istante pensava soltanto a Kagome, e al botolo ringhioso. Le sue previsioni erano state sbagliate, ma credeva ancora impossibile che i due avessero rinunciato ad un futuro insieme. In fondo, avevano sopportato troppe sventure per farsi fermare da un qualche ostacolo momentaneo come uno capace di nascere nei periodi di pace.
Pertanto il suo cervello si arrovellava a vuoto. E, nonostante fosse una situazione che si presentava spesso nella sua mente anche di fronte a questioni più semplici, la trovava ugualmente una cosa irritante.
-Gradite un po’ di thè? – chiese, educatamente, la sterminatrice.
L’aria posata di donna di casa e gli abiti da persona comune che indossava stridevano completamente con l’immagine selvaggia, violenta ed entusiastamante che aveva di lei. Ovviamente i tempi di guerra erano finiti, ma Koga davvero riteneva impossibile che una tale trasformazione potesse compiersi in un arco così breve di tempo.
-No, grazie – replicò Ayame, parlando per entrambi.
Fu il monaco a prendere la parola. –Mi dispiace per prima, Koga, non ti avevo riconosciuto. Gli uomini del villaggio non sono da biasimare, in fondo, perché di questi tempi gli attacchi demoniaci sono all’ordine del giorno, e sono sicuro di parlare a nome di tutti quando ti rivolgo le nostre scuse più sincere.
Il principe Yoro fece un gesto di noncuranza.
-Bah, lascia perdere! Acqua passata. Ti capisco, bonzo. Ma adesso, bando alle ciance! Che fine hanno fatto Kagome e quel botolo ringhioso?
-Koga, accidenti! – esclamò Ayame, severa. –Possibile che dopo mesi di politica tu non abbia ancora imparato le buone maniere? Ti sembra il modo di rivolgerti a delle persone che sono state così gentili con noi?
-Non importa, davvero – disse Sango, con voce tranquilla, - siamo abituati a trattare con caratteri un po’ difficili. Conosciamo il temperamento di Koga, e d’altra parte vi dobbiamo delle spiegazioni.
Il viso di Miroku si fece serio, all’improvviso. Lui e la moglie si scoccarono un’occhiata d’intesa che tradiva qualcosa di più di un semplice accordo fra coniugi, bensì la condivisione di un segreto – oppure di un grande dolore, - che non doveva essere conosciuto anche dai nuovi arrivati.
Koga si stava spazientendo ma, prima che potesse lamentarsi, il monaco cominciò a parlare.
-Dopo la battaglia finale, proprio alla morte di Naraku, ci fu un attimo di totale assenza di energia spirituale. Mai, nella mia intera vita, ho sentito una piattezza così estrema. Ma la battaglia non era ancora finita: il pozzo scomparve per tre giorni, e alla fine Inuyasha e Kagome tornarono indietro, come se nulla fosse successo.
Il principe e sua moglie si fecero attenti.
-Tuttavia, proprio mentre stavano venendo verso di noi, la tranquillità è stata spezzata da un’esplosione di luce, che li ha inghiottiti entrambi: siamo rimasti accecati per qualche minuto e, quando siamo riusciti a vedere di nuovo, Inuyasha e Kagome non c’erano più.
-State dicendo… - chiese Ayame, pallida, - … state dicendo che sono morti?
Sango strinse la mano del marito. –Non lo sappiamo – intervenne, - da allora non li abbiamo più rivisti.
Koga, sconvolto, si premette le dita sulle tempie nel tentativo di dare un senso a quelle parole.
-Sono spariti per tre giorni, e poi quando sono riapparsi si sono misteriosamente volatilizzati, dunque? – interloquì.
-Esatto – annuì il monaco.
-Stavano completando il conflitto contro la sfera – rettificò Sango, - e hanno concluso lo scontro nell’aldilà. L’operazione è durata tre giorni, anche se a loro devono essere sembrati pochi minuti.
-Non sappiamo cosa sia successo nei dettagli, durante quel periodo di tempo – intervenne Miroku, - ma crediamo che la sfera sia sparita per sempre e che loro abbiamo fatto ritorno al mondo dei vivi, almeno per un istante. Sembravano sereni, comunque.
-Cosa vi fa pensare che non siano stati risucchiati di nuovo dall’aldilà? – insistette Ayame.
-Non posso esserne certo, ma lo escludo – ammise il monaco. –Sarebbe anomalo per la legge divina riammettere un morto al mondo dei vivi per poi riabbracciarlo pochi secondi dopo; quando accade che un’anima torni sulla terra o si trasforma in uno spirito vendicativo, oppure ha il tempo di lasciare solo un breve messaggio ai suoi cari.
-E se il messaggio di loro due fosse stato di farsi vedere felici, insieme? – azzardò Koga.
In cuor suo, la bruciante assenza di spiegazioni lo disorientava. Era sempre stato abituato ad una visione lineare dello scorrere delle cose, nonché delle vicissitudini storiche, che gli impediva di capire completamente gli eventi legati all’energia spirituale.
In quanto demone, era attratto per natura al mondo invisibile che si trovava al di là di quello dei vivi, tuttavia non aveva mai saputo classificare tutte le vibrazioni e i mutamenti energetici che sentiva di tanto in tanto.
Il pensiero che i due compagni fossero scivolati in un gorgo senza fine, una spirale di mistero, gli attanagliava lo stomaco in una morsa opprimente. Era un incubo che aveva sempre avuto da bambino: rimanere impigliati in una prigione fatta essenzialmente di nulla da cui era impossibile liberarsi, e passare un periodo di tempo indefinito in balia dell’eternità. Ebbe un brivido lungo la spina dorsale al solo pensiero.
-Non credo. L’ipotesi più plausibile – continuò Miroku, - è che siano tornati insieme nel mondo di Kagome, ma non possiamo essere certi nemmeno di questo. Se i miei calcoli sono esatti, allora la sfera deve aver riportato Kagome nella sua realtà, poiché il suo compito qui era finito, e il suo legame fisico con Inuyasha non ha fatto distinguere le due anime all’energia spirituale, che li ha trasportati entrambi.
Ayame, spazientita, passò una mano davanti agli occhi del marito, che fissava imbabolato il volto del bonzo.
-Mi sa che vi toccherà ripetere il vostro discorso, venerabile monaco, perché sembra proprio che Koga non abbia capito un’acca.
L’uomo assunse un’aria di scuse e fece una risatina di circostanza.
-Miroku vuole dire – disse Sango, con espressione comprensiva, - che Kagome non venne nel nostro tempo per caso. Come ben sai lei viene dal futuro; lei è una reincarnazione di Kikyo, che è stata la sacerdotes…
-Questo lo so – disse il demone, concentrato. –Quello che non capisco è perché Kagome sia arrivata qui.
La sterminatrice riprese senza scomporsi. - Kagome aveva il dovere di fare in modo che la sfera non nuocesse più a nessuno. Kikyo aveva tentato di farlo, a suo tempo, ma non riuscì a portare a termine l’impresa a causa di Naraku. Per questo è accaduto tutto ciò. Solo che anche Kagome ignorava il perché della sua presenza qui, e quando la sfera si è rotta abbiamo cominciato a cercarla.
-Quindi, a compito terminato, Kagome non avrebbe più dovuto avere niente a che fare con l’epoca Sengoku, che noi stiamo vivendo adesso. Tuttavia le vicende si erano allungate di molto, e io e Miroku crediamo che l’energia della sfera abbia compreso il legame che la univa a Inuyasha e che li abbia trasportati insieme.
-Esattamente – confermò Miroku, - potrebbe essersi trattato di un favore di Midoriko, essendo stata liberata dal fardello di continuare la sua guerra.
-Uhm, capisco – meditò il principe, con aria assorta.
Il disegno, nella sua testa, si dipinse con una certa precisione. Tuttavia c’era una logica di fondo che continuava a sfuggirgli, e non accettava affatto la situazione che la ragazza fosse stata strappata al mondo senza nessuna avvisaglia. Era pur sempre vero che la sua vera famiglia, il suo nido, la sua tana, si trovava dall’altra parte, ma anche nell’epoca più antica – che era la sua, riflettè – aveva stretto dei legami che potevano essere definite parentele.
Ragionando da lupo, infatti, avrebbe potuto chiamarla sorella indipendetemente dal legame di sangue. Lui aveva moltissimi fratelli senza appartenere alla loro stessa famiglia, tuttavia non aveva mai trattato nessuno di loro come se non fosse un loro parente, un padre, a volte. Ginta e Hakkaku ne erano un esempio: non avrebbe mai saputo classificare quello che avvertiva per loro come semplice amicizia, però ammetteva anche che era una cosa che superava tutto ciò che sentiva nei confronti degli altri membri della tribù Yoro.
-In realtà ne dubito – sospirò Ayame, riferendosi  all’esclamazione del marito. –Però continuo a trovare questo ragionamento ingiusto.
Sango fece un sorriso triste. –Purtroppo gli uomini e il destino non la pensano allo stesso modo riguardo a tantissime cose che accadono, e non abbiamo il potere di cambiare le decisioni del fato.
La demone storse il naso. Quell’arrendevolezza tipicamente umana non le era mai piaciuta, poiché la sua condizione di essere vivente in completa simbiosi con la natura, come ogni demone animale, le aveva fatto assumere tutt’altra visione della vita. Lei e tutti coloro nella sua stessa condizione erano stati istruiti con il concetto di una natura modificabile al loro volere e di un destino che assumeva caratteri definitivi solo per i comuni mortali.
-Non credo che questo possa bastare – disse, piccata. –Insomma, non vorremmo mica arrenderci in questo modo!
-È vero! – esclamò Koga, recuperando tutta la propria belligeranza. –In fondo Kagome e il botolo ringhioso non possono sparire così, all’improvviso, senza che noi facciamo nulla! Qui bisogna intervenire!
Miroku non capì cosa avesse provocato quest’improvviso cambiamento nell’animo del giovane, e pertanto cercò di placare i bollenti spiriti che, così dannosamente, potevano culminare in un disastro.
-Forse sarebbe meglio…
-Monaco, non farmi perdere la pazienza! – interruppe. – Avanti, mostratemi dove diavolo si trova questo pozzo e risolveremo la faccenda in un attimo. Che avrà mai di così diverso questo “futuro”? Tutte le scoperte da fare sono state già fatte! Carri più veloci? Villaggi più grandi? Demoni più cattivi? Pff! Nulla in confronto a quello a cui è abituato un maschio Yoro!
-Veramente ci sono delle cose portentose… - cercò di dire Sango, ma venne prontamente bloccata dal carattere infantile del principe.
-Stai forse cercando di contraddire il sovrano degli Yoro, sterminatrice? Vuoi forse causare un accidente diplomaziatico?
-Incidente diplomatico – lo corresse Ayame.
-Beh, quello che è! – sbuffò, incrociando le braccia. Nella foga del momento si era addirittura alzato in piedi e, quando se rese conto, si lasciò cadere pesantemente sul cuscino e assunse la posa scomposta tipica della sua solita postura.
Miroku sollevò gli occhi al cielo. –Il pozzo non esiste più. E comunque, anche se ci fosse, solo Inuyasha e Kagome potevano attraversarlo.
-Come fai a sapere che solo loro potevano viaggiarci dentro? – lo provocò l’altro.
-Perché ci ho provato – disse Miroku, - mille volte, o forse di più. Credi che il pensiero di tutte quelle belle donne sconosciute, così vicine, non mi abbia tolto il son…
Un ceffone gli fece morire le parole in bocca. Sango, furibonda, sembrava aver recuperato l’aria da guerriera che gli era appartenuta in un tempo non troppo lontano.
-Sei sempre il solito pervertito! – lo rimproverò.
-Aspettate un attimo! – disse Ayame, all’improvviso.
Tutti si voltarono a guardarla; la guerriera aveva una nuova luce in fondo agli occhi e la sua espressione si era fatta speranzosa. Teneva una mano sull’elsa della spada e un lieve sorriso le incurvava le labbra sottili.
-Se sono vivi entrambi, solo che in un luogo differente, allora è possibile riportarli indietro.
Quest’affermazione fu accolta con il silenzio. Miroku e Sango si voltarono a guardarla, stupiti da quel colpo di scena. Koga, invece, non capiva dove sarebbe voluta andare a parare, ma era già pronto a gonfiare il petto dall’orgoglio quando la moglie, per forza di cose, avrebbe ammesso che le teorie appena espresse dal marito erano geniali.
Non avvenne nulla di tutto ciò.
-Cosa intendi? – volle sapere Miroku.
Sango gli scoccò un’occhiata preoccupata, di sottecchi. Vedeva lo stesso interessamento che aveva caratterizzato la sua follia estintasi solo poche settimane prima, e nel proprio intimo sperò che non sarebbe scivolato nello stesso turbine.
Sarebbe stato troppo pesante, per lei, dover affrontare nuovamente la stessa situazione, vedere un’ennesima volta il marito ammattire per inseguire una fissazione inafferrabile. Non era sicura che sarebbe riuscita a prendersi cura di lui, né che avrebbe potuto uscirne incolume.
-Intendo che ci deve essere per forza un modo per riportarli indietro – continuò, - e che noi lo troveremo.
Il monaco scrollò la testa, esasperato. –No, io ci rinuncio. Mi basta sapere che sono insieme, e che stanno bene, tutto qui. Per il resto non importa.
Sango prese la mano di Miroku fra le proprie. – È vero -, annuì, - è lo stesso anche per me.
-Ma il punto è che voi non sapete se sono insieme – fece notare Ayame. –Voi lo supponete. Non è detto che bisognerà per forza farli tornare qui, basterebbe soltanto comunicare con loro, magari dare l’addio che sono stati incapaci di dirvi prima di scomparire. E se dovessero essere in pericolo, li aiuteremmo.
Koga, in silenzio, ammirò la tenacia della moglie. Non le importava che Kagome fosse stata la donna di cui lui si era innamorato, a lei importava soltanto rendere il marito felice, e dargli anche solo un minimo di serenità. Si era offerta di consultare gli antenati, cercare un rimedio spirituale tanto al di fuori della loro compresione pur di regalare questa serenità al compagno che amava, e questo esaltò la sua figura rendendola più forte e determinata che mai.
-Non so se ne vale pena – ammise Miroku, mestamente, con un filo di voce. Era combattuto; la proposta di Ayame l’aveva tentato. Riprendere la sua disperata ricerca e, questa volta, giungere ad un risultato, anche se fallimentare.
 -Va bene – disse Sango, di slancio. –Lo faremo.
Miroku la fissò, incredulo. Se Ayame era determinata a volere la pace interiore del marito, Sango era ancora più accanita nel preservare la stabilità psichica del proprio compagno di vita. Voleva trasformare la sua ossessione in qualcosa di concreto, nonostante fosse terrorizzata dalle conseguenze. Questa volta ci sarebbe stata la sua supervisione e, qualsiasi sviluppo fosse avvenuto, sarebbe intervenuta al presentarsi di un qualunque problema.
-Ottimo! – esclamò, entusiasta, Koga. –Allora è deciso: verrete con noi. La saggezza Yoro non è comparabile a quella di voi umani, e chissà quanto ci mettereste a scoprire anche solo il più piccolo incantesimo!
-È la soluzione migliore – disse Ayame, vedendo le espressioni allibite degli altri due, - in casa nostra c’è molto spazio ed è una cosa che necessita vicinanza. Ce la caveremo, vedrete: risolveremo questo mistero in men che non si dica!
-Adesso vi lasceremo un po’ di tempo per fare i bagagli, allora – stabilì il principe. –Vi serve un facchino? Uno schiavo? Ne abbiamo, anche di non umani, in caso vi dia fastidio. Ci sono alcuni che farebbero volentieri questa fatica per voi. Allora, che ne dite?
Sango stava per obbiettare, ma Miroku la tolse dall’imbarazzo del rifiutare caricandosi quest’onere sulle proprie spalle. In realtà loro due non erano poi così entusiasti di quella soluzione, ma in un certo senso capivano che sarebbe stato più facile proseguire il progetto.
Ayame e Koga minacciarono di offendersi in caso di rifiuto e di non comunicare il successo (poiché avrebbero continuato a cercare Inuyasha e Kagome da soli, e li avrebbero trovati sicuramente) una volta avvenuto, se avessero continuato con le loro sciocche frasette di circostanza. Pertanto, si arresero.
-A me fanno più paura loro due che non i progetti del destino – bisbigliò Sango all’orecchio del marito.
-Concordo – disse Miroku.
 
**
 
Kohaku aveva visto migliaia di tramonti prima d’allora, ed ognuno in una terra differente, ma ritrovare nuovamente l’orizzonte più familiare che gli fosse concesso avere ebbe un sapore meraviglioso sulla sua gola secca; quanto aveva viaggiato prima di accorgersi di aver sempre agognato ciò che si era invece lasciato alle spalle?
Mosse qualche passo incerto sulla terra polverosa. Nonostante il bendaggio fattogli da un medico di passaggio, il sangue inzuppava ancora la sua casacca, che aveva assunto una sfumatura rossastra. A nulla era valsa la pesante armatura, di cui si era dovuto disfare: gli artigli di quell’orrendo demone orso non avevano visto barriere, e avevano colpito subito la carne.
Sapeva che non sarebbe sopravvissuto, lo sentiva dentro di sé, assieme al pulsare delle ferite. Eppure, nonostante questa consapevolezza, non aveva saputo arrendersi.
Voglio rivederla prima di morire.
Non aveva mai pensato che la morte, per lui, sarebbe stata un’ingiustizia. Ma anche se si stava avviando verso la casa tanto amata per puro egoismo, non poteva rinunciare allo sguardo dell’unica persona che gli aveva sempre dato il suo amore nonostante tutte le avversità.
Era stato un ingrato, ora che aveva modo di riflettere, ad averla lasciata sola anche quando potevano finalmente gioire della pace faticosamente ottenuta. La smaniosa voglia di fuggire l’aveva divorato, gli aveva rubato il sonno; sapeva di essere destinato a grandi battaglie, ad imprese incredibili destinate a cambiare la storia, a non trovare mai più una patria poiché aveva distrutto, con le sue stesse mani, la propria.
Poco importava che Naraku avesse manovrato le sue mosse, era stato un debole; e ora pagava il giusto tributo. Ma non poteva permettere che il destino si prendesse anche quell’ultima rivincita, poiché sapeva di meritare almeno un estremo saluto. E, l’aveva capito, l’unica cosa da cui aveva voluto allontanarsi era sempre stato solo e soltanto il suo animo.
Il fiato ansante si fece ancor più pesante appena giunto innanzi alla cancellata, e seppe che avrebbe dovuto sbrigarsi o non sarebbe più riuscito a camminare. Strada facendo aveva buttato via tutto, caricandolo sulla groppa di Kirara: le aveva intimato di stare lì, finchè non si fosse anche lei ripresa dalle ferite riportate dopo l’attacco a sopresa.
Il falcetto, però, l’aveva tenuto. Non la monumentale arma di Totosai, bensì la lama ricurva che sapeva di casa, modellata appositamente per essere retta dal suo polso sottile di bambino, quella che usava per allenarsi sulle statuette di legno nei lunghi pomeriggi estivi, quelli che parevano millenni prima.
Strinse i denti, ma le mascelle tremavano lo stesso. Si curvò sul suo stesso peso, ma non ne ebbe la minima percezione. La febbre gli stava annebbiando i pensieri.
Ormai il dolore era solo una nube indistinta, presente ma non più costante. Le scalfitture sugli avambracci, scottati dagli innumerevoli granelli di terra sabbiosa che vi erano filtrati dentro, avevano smesso di bruciare. La sua pelle resa violacea dalla moltitudine di lividi non accolse più il calore del sole ma, al contrario, cominciò a pizzicare a causa del freddo.
Cadde in ginocchio; il vecchio bastone che gli permetteva di reggersi in piedi si spezzò, collassò su sé stesso, e con uno schiocco secco l’impugnatura cadde a terra. Kohaku sbattè il viso nella polvere, e la sua testa ciondolò senza che avesse fatto nulla per proteggersi.
Rimase per qualche attimo privo di conoscenza. Suo padre si chinò sul suo corpo provato e tremante, gli accarezzò piano la testa e gli sussurrò che andava tutto bene, che presto si sarebbe placidamente addormentato.
Un grido. Chi era? Sua madre, la donna che non aveva mai conosciuto? Oppure l’ennesimo urlo di dolore di sua sorella?
Riaprì piano un occhio, l’unico che fosse ancora sufficientemente intatto da poter vedere, e si ritrovò a fissare il perfetto incastro fra cielo e terra, la linea rosseggiante del firmamento, tendente al blu, che si fondeva con la distesa di suolo bruciato su cui era caduto. Era un abbraccio mortale, e straordinariamente bello: non aveva mai visto nulla del genere. Ebbe l’impressione di essere chiuso in una clessidra, e che tutta la sabbia sopra alla sua testa gli fosse appena crollata addosso, seppellendolo.
Voglio rivederla prima di morire.
Non ce l’avrebbe fatta.
Ma ormai nemmeno questo pensiero gli provocò dolore; continuò a guardare il cielo, e gli sembrò di poter finalmente farne parte.
 
ANGOLO AUTRICE:
Ok, odiatemi. No, vi capirei, sul serio, visto che tecnicamente vi ho abbandonato.
E va bene, io sono un po’ come Kohaku, afflitta dai sensi di colpa, ma spero di poter confidare nella piccola parte di Sango che c’è in voi!
Spero possiate apprezzare il capitolo, e vi avverto che il prossimo giungerà molto prima di questo (ovviamente non sto scherzando, arriverà prima sul serio xD )
Vi ringrazio anticipatamente per la pazienza che sapete portare nei miei confronti nonostante i miei comportamenti inclassificabili, e sono costretta a lasciarvi di nuovo!
Attendendo e sperando in tempi migliori,
the Queen.
 

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Capitolo 17
*** Degne conclusioni ***


Hojo la stava fissando ad occhi spalancati, come un giovane cervo impaurito.
Avevano scelto una zona d'ombra che si affacciava sull'imboccatura del giardino, ma la panchina era protetta dalle invadenti fronde di un salice meraviglioso; il sole estivo, in quella cupola isolata, non sembrava torrido come fino a qualche momento prima.
Kagome aveva sentito progressivamente il coraggio venirle meno, e nella sua testa c'era un guazzabuglio di pensieri senza capo né coda. Più che la paura di ferirlo, a sovrastare tutte le altre incertezze c'era il non sapere assolutamente come impostare il discorso.
In fondo, lei non era certa al cento per cento che lui provasse effettivamente qualcosa nei suoi confronti. Era stata una supposizione, basata su un insieme di fatti; ma se si fosse sbagliata? Se quello che lui provava fosse solo semplice empatia?
In un certo senso, se si metteva a considerarlo come proprio spasimante non era per eccesso di egocentrismo, bensì per una pura osservazione che aveva fatto riguardo al suo atteggiamento, al suo modo di porsi quand'erano insieme.
Era piuttosto timido ed impacciato, balbettava se lo guardava dritto negli occhi, spesso gli sudavano le mani quando gli si avvicinava troppo...non voleva forse dire che non voleva essere per lei solo un semplice amico?
Eppure...eppure c'era qualcosa che la rendeva incerta. Era stata tutta colpa delle sue tre amiche se aveva cominciato a prestare attenzione a certi dettagli; non le era mai interessato spiare i comportamenti delle altre persone, soprattutto se era per scoprire un qualche interesse nei propri confronti. Aveva sempre preferito rimanere ignorante in certe materie d'amore perché non sapeva come gestirle, e sapeva perfettamente che se si fosse messa a rifletterci su sarebbe accaduto un completo disastro.
Inoltre, in quel momento la sua attenzione era fissa sull'immagine che si era fatta di Inuyasha, solo e abbandonato a casa, privo del suo sostegno e smarrito come un bambino in mezzo ad una folla di sconosciuti.
Chissà per quanto le avrebbe tenuto il broncio, una volta tornata a casa. Era perfettamente consapevole, infatti, che il suo gesto (sebbene tanto meditato e compiuto solo dopo aver preso accordi su accordi e aver fatto miriadi di rassicurazioni) non sarebbe stato privo di conseguenze. Nessuno avrebbe potuto convincerla che il mezzo-demone non avrebbe trovato il modo di farla sentire in colpa, e ciò avrebbe inevitabilmente innescato una lunga e vorticosa spirale di litigi, incomprensioni, ripicche...
-H...Higurashi... - mormorò Hojo, incerto.
Kagome voltò lo sguardo verso di lui, sentendosi leggermente in colpa; si era completamente dimenticata della sua presenza, immersa com'era nelle proprie riflessioni.
- ...D...Dimmi... - non era l'esordio migliore che potesse fare (visto che era stata lei a dirgli di dovergli parlare, e non il contrario), ma era pur sempre meglio del silenzio che aveva regnato fino ad allora.
-Ecco, io... Vedi, c'è una cosa che non ti ho mai detto...
Subito dopo averlo bisbigliato, il ragazzo arrossì di colpo, assumendo un'intensa tinta bordeaux. "Ecco" pensò la ragazza, tra il rassegnato e il dispiaciuto, "ci siamo".
L'amico prese a torturarsi il bordo di un'unghia con fare nervoso, senza guardarla; teneva lo sguardo ben lontano dal suo viso, come per paura di leggerci un incoraggiamento a continuare quell'oneroso discorso.
-Q...quando ti ho vista la prima volta... - cominciò, prendendo sicurezza parola dopo parola, - ho capito subito che qualcosa sarebbe cambiato per sempre, in me. Ma non sapevo davvero come dirtelo, visto che non avevo confidenza... Poi, dopo aver conosciuto Eri e Yuka, ho cominciato a pensare veramente di avere qualche possibilità di liberarmi da questo peso che ho sul petto, ma Ayumi mi ha scoraggiato perché...
Il giovane prese un respiro profondo. -Perché mi ha detto che eri già innamorata, Higurashi.
A Kagome mancò un battito. La tristezza che traspariva da quelle parole la turbava, perché vi riconobbe lo stesso, opprimente stato d'angoscia che lei provava quando assisteva alle spasmodiche ricerche di Inuyasha, quando la minima traccia di Kikyo compariva sulla loro strada.
Sapere che il proprio amore non è corrisposto e che, per di più, l'oggetto delle nostre più tenere fantasie ama un altro con la stessa intensità e passione che viene riversata su di lui dalla persona che non guarderà mai con occhi innamorati é quanto di peggio possa capitare. Come la trafittura delle spade più acuminate dilania e distrugge interiormente, fino a non lasciare altro che cenere, così questa situazione ha il potere di trascinare nell'oblio e nella disperazione qualsiasi barlume di sentimento felice.
-Ho cercato di farmene una ragione, ma... - scosse la testa, affranto. - ... non potevo vivere con questo terribile senso di colpa.
-S...senso di colpa? - balbettò Kagome. Non era stata di certo la frase che si era aspettata.
Hojo deglutì. Annuì brevemente, passandosi una mano fra i capelli, per poi sollevare uno sguardo implorante e dispiaciuto su di lei.
-Kagome, ti prego di perdonarmi...io l'avevo capito subito che soffrivi di una grave forma di tubercolosi, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo...tutti i tuoi problemi di salute, le assenze...se te l'avessi detto magari ti saresti risparmiata così tante sofferenze!
La ragazza, realizzando cosa lui aveva realmente detto, attraversò un breve attimo di smarrimento.
Tubercolosi? 
-C...cosa? - chiese, confusa, cercando di dare un senso a quelle parole tanto assurde, ma senza riuscirci.
Nel frattempo, l'altro aveva assunto un'espressione desolata. All'improvviso tutti i rimorsi di coscienza di lei si trasformarono in sincero fastidio, nonché in una sconsolata rabbia verso sé stessa.
"Davvero ho rinunciato ad una giornata con Inuyasha...per una malattia di cui non soffro?"
In effetti, se doveva confrontare le cose sul piatto di una bilancia morale, lei risultava sconfitta a pieni voti, nonché macchiata di un gesto insensato che avrebbe sicuramente rovinato le settimane seguenti. Ma davvero Hojo era arrivato a quel punto? Possibile che fosse davvero così?
Si ritrovò piuttosto impreparata, poiché tutte le frasi rassicuranti che era riuscita ad articolare nella sua mente si erano rivelate del tutto inutili. Cosa dire, a quel punto? "Troverai una ragazza sana con cui fare figli senza malattie genetiche, ne sono certa"? "Che sollievo sapere che credevi avessi una sindrome mortale piuttosto che pensare che tu fossi innamorato di me"?
Vedendolo pensoso e incerto, gli posò una mano sulla spalla, leggermente, come per consolarlo.
-S...sono guarita - balbettò.
"Kagome, cosa diavolo stai facendo?" Si disse, incredula anche del proprio comportamento.
Lui la fissò intensamente. -C...come? Guarita?
Vedendo la gioia sincera che stava sbocciando nelle sue iridi, non si sentì in grado di continuare a guardarlo dritto negli occhi, così volse lo sguardo dall'altra parte concentrandosi sulle cime degli alberi e annuì lentamente, con poca convinzione.
Non avrebbe potuto immaginare la reazione di lui nemmeno dopo una lunga sfilza di riflessioni e film mentali; scattò in piedi come se fosse stato seduto su una molla fino ad allora e le prese di slancio le mani fra le proprie, sorridendo con un sollievo e una gratitudine tali da farla sentire meschina.
-Higurashi ma...ma è meraviglioso! - esclamò.
I passanti che assistettero alla scena si voltarono verso di loro; alcuni sorrisero con benevolenza, forse interpretando l'accaduto come il frutto di una giovane passione adolescenziale. Altri, invece, avevano stampato in viso un sorriso tenero, come a rimembrare tempi passati in cui la gioia e l'entusiasmo erano all'ordine del giorno; lo sguardo più incisivo, però, rimase quello di un signore più anziano che, rimproverandoli tacitamente, li ammonì del rumore appena provocato come se fosse stato ancora in grado di sentire.
-Hojo, ti prego, siediti...
-Mi stai dicendo che ora stai bene? Che non dovrai più andare all'ospedale?
-Esatto, sì, sì, ma adesso, per favore, mettiti seduto...ci stanno guardando tutti...
Quelle parole giunsero fioche alle morbide orecchie guizzanti di Inuyasha. Fremeva dalla rabbia; come si permetteva il mollusco di toccare le mani di Kagome?! Aveva sicuramente bisogno di una bella lezione...e personalmente non vedeva l'ora di impartirgliela. Ma ciò che ancora temeva, nonostante il palese tradimento della giovane, era di ferirla durante l'attacco che avrebbe sferrato con Tessaiga.
Se durante il Taglio del Vento qualche residuo di energia demoniaca l'avesse investita, quale sarebbe stato l'effetto? Se si fosse parata fra il corpo del suo nuovo damerino e la lama di Inuyasha? Che fare?
Si acquattò dietro ad un cespuglio relativamente vicino alla scena, ma anche piuttosto lontano. Incredibili erano il calore, la folla e la quantità di odori sgradevoli mal miscelati nell'aria densa che si respirava lì fuori. Troppe fragranze esotiche ma artificiali, troppe sostanze oleose che impiastricciavano il vento, troppi olezzi pestilenziali di piante medicinali e fumi di scarico. Convogliati in un'unica nuvola, avevano avuto il potere di stordirlo, tanto che non riusciva più a fiutare nemmeno la fragranza distintiva di Kagome.
Sentì un bisbiglio provenire dalla sua destra, ma non vi fece caso; era troppo occupato a cercare di cogliere qualche stralcio della conversazione dei due, ma con tanta gente che parlava nello stesso momento non era facile.
Di un nuovo un sussurro, sempre dalla stessa parte, ma lo ignorò. Sembrava che ci fosse qualcuno che parlava a bassa voce poco distante da lui...l'unica cosa che sperò fu che non gli fosse di intralcio, di chiunque si fosse trattato.
Posò la mano sull'elsa di Tessaiga, in posizione d'attacco. Se fosse balzato da sinistra avrebbe preso il fianco scoperto del ragazzetto (che poteva vedere in faccia, mentre Kagome gli dava le spalle), e l'avrebbe sicuramente atterrato.
-Guardalo, è lui - sussurrò la voce lì vicino.
Certo, e se lei si fosse spostata per l'urto sarebbe finita sulla siepe, attutendo la caduta. Inuyasha, prima che si fosse ripresa, avrebbe già potuto dare inizio al primo attacco contro quell'altro incapace...
-Sì...il teppista! Riconosco i capelli - rispose l'altro interlocutore. Sembravano voci femminili.
Ovviamente, se la sacerdotessa si fosse spostata prima sarebbe stato un problema, ma forse ignorandola avrebbe comunque potuto sferrare un destro al suo avversario (aveva come l'impressione che un pugno sarebbe stato più che sufficiente).
-Ma...cosa ci fa qui? Non vorrà mica...
"Perfetto!" Pensò, soddisfatto. Attaccare da sinistra era la cosa migliore. Strinse l'elsa con decisione, pronto a partire. Finalmente, dopo averlo tanto desiderato, avrebbe potuto fare la propria mossa!
-E invece credo proprio di sì... Guarda! Sta per fare qualcosa! Yuka, presto...dobbiamo fermarlo!
Nel momento stesso in cui Inuyasha posò un piede, risoluto a trionfare, oltre il suo improvvisato quartier generale, tre ragazze spuntarono da dietro la quercia accanto a lui e si piantarono proprio lì davanti, sbarrandogli il passaggio.
Per la sorpresa, il guerriero fu costretto a retrocedere di un passo, ma rimase in posizione difensiva con la spada per metà nel fodero.
-Signore e signori! - urlò la prima, agitando la massa di capelli ricci. Un rivolo di sudore gelido le colò dalla tempia. -Un attimo di attenzione, prego!
-Maledizione! - imprecò Inuyasha, digrignando i denti.
Aveva capito il loro gioco: stavano cercando di impedirgli di andare avanti e dare a quell'invertebrato ciò che si meritava. Dalle voci e dagli odori sembravano le amiche di Kagome, e indossavano tutte il suo stesso strano kimono con cui era abituato a vederle. Ma cosa ci facevano lì?
La folla non tardò ad arrivare, e ben presto il mezzo-demone si ritrovò circondato da spettatori curiosi, avidi di scoprire il motivo di tanta agitazione.
Intervenne la più sveglia del trio, con i capelli tagliati corti: - Sta per cominciare la rappresentazione medievale!
-Cosa?! - sbottò Inuyasha, preso in contropiede.
-Esatto! - intervenne la terza. -E qui a nostra disposizione c'è un vero guerriero dell'epoca Sengoku...il Mastro Volpe!
Pronunciata quest'eclatante rivelazione, le ragazze si scostarono e lasciarono Inuyasha completamente scoperto in mezzo al semi-cerchio che si era creato lì intorno; il giovane, non sapendo come reagire ora che i suoi piani erano andato in fumo, sfoderò Tessaiga.
La mastodontica spada eseguì alla perfezione il proprio dovere, ingigantendosi sotto la pressione demoniaca che il sangue del ragazzo provocava in lei; davanti ad un simile prodigio, la folla sgranò gli occhi e si profuse in "ohh" e in "ahh" stupefatti.
-I...Inuyasha?! - esclamò Kagome. Avendo sentito il clamore, si era voltata, ma preferì non averlo fatto: da vero protagonista, Inuyasha stava in mezzo a tutto quel trambusto reggendo la sua fedele spada, incerto se lasciarsi vezzeggiare dal successo che sembrava aver avuto oppure proseguire nell'espressione imbronciata che aveva e portare a termine quello che era venuto a fare.
Ma la sorpresa non era finita, visto che ai lati della visuale scorse le sue amiche, le stesse che l'avevano trascinata in quella situazione. Così come il trio non capiva cosa potesse volere il "teppista" da Kagome se non strangolarla gridando al tradimento subìto, Kagome intese subito quali erano stati fin da principio gli scopi di ognuno di loro; Inuyasha era sicuramente andato a fare quella manfrina solo nella speranza di ottenere una giusta vendetta; le ragazze, spinte dalla curiosità, non avevano fatto altro che spiare le loro mosse; e lei stessa, che alla fine si era rivelata la più ingenua di tutte, aveva scoperto che quello che Hojo provava per lei non era altro che un fanatico bisogno di avere qualcuno da accudire, e questa consapevolezza aveva provocato una catena indistinta di sentimenti confusi nel suo spirito.
-Kagome! - esclamò il giovane di risposta, appena la vide. Ma lei non aveva voglia di litigare, né di mettere in scena un qualche teatrino solo per sviare le apparenze. 
A dire il vero era stanca, terribilmente stanca di quella sequenza di fraintendimenti e incomprensioni. Ricordò l'episodio della sua recita scolastica, originata più o meno dagli stessi motivi, e sbuffò impercettibilmente pensando al suo esasperante destino sentimentale.

***

-Dove vai? - chiese Tomoko, vedendogli indossare l'armatura toracica in ferro.
Il ragazzo scosse la testa, facendo tintinnare gli orecchini. Era irritato poiché quell'attoruncolo di teatro, con i suoi modi da vip di Hollywood, gli aveva rovinato la giornata e, di conseguenza, il posto di lavoro. Che fare se fosse stato licenziato anche dallo staff organizzativo? Le sue speranze di trovare un giorno un posto nel mondo del cinema sarebbero vertiginosamente calate fino allo zero.
-Vado a vedere cosa sta combinando quel deficiente - borbottò, agganciandosi gli schinieri intarsiati. - Mal che vada improvviso io al posto suo.
Ripensando alla facilità con cui il giovane, prima, aveva indossato quella ferraglia pesantissima gli fece rivalutare le sue scarse capacità interpretative; doveva essere un attore davvero abile, se riusciva a sopportare con tanta disinvoltura un peso del genere. Per non parlare poi del calore della parrucca...nemmeno una goccia di sudore!
-Cosa vuoi che stia facendo? - disse stancamente la sorella minore, aggiustando un riproduzione di un kimono d'epoca nella teca. -Starà facendo la sua scena come confermato, no? E dire che questo ti era sembrato bravo, quando ha fatto il provino!
In effetti, era vero. Quando, due mesi prima, quel tale si era presentato lì, gli era sembrato un fanfarone, ma che sapeva il fatto suo. Forse troppo cerimonioso nel parlare, magari esageratemente zelante e pieno di sé quando si trattava di usare le spade, ma tutto sommato non era male. Non capiva come mai quel giorno avesse scelto di indossare una parrucca bianca e quelle ridicole orecchie (per non parlare del cambio di voce) ma, forse, si era detto, faceva tutto parte della scenografia. In fondo, è risaputo che i giapponesi antichi erano dei tipi strani.
Accarezzò velocemente la testa di Tomoko, con affetto, cercando di non rovinare con i polpastrelli la sua complicata acconciatura.
-Mamma aveva ragione - commentò bonariamente, -sei sempre stata tu la più saggia.
Nonostante i suoi dodici anni, Tomoko era una ragazzina sveglia e in gamba, a differenza di lui, che era sempre stato una testa calda. Anche quando lei era venuta a sapere del suo gruppo di teppisti a Tokyo non aveva detto nulla; l'aveva semplicemente guardato con uno sguardo troppo profondo e meditativo per essere quello di un'adolescente e aveva lasciato perdere il discorso. Ma quell'occhiata era valsa più di mille parole.
"Solo finché non trovo un vero lavoro, Tomoko" promise, fra sé e sé.
Sbuffando dallo sforzo, si mise la finta spada alla cintola.
-Vado a controllare...sarò qui fra dieci minuti.
La sorellina scosse la testa, affranta.
-Narata... - sospirò. Sembrò sul punto di aggiungere altro, ma continuò nella propria mansione senza rialzare la testa. - ... Stai attento.
Il ragazzo sorrise; poi corse verso il mormorio sempre più eccitato, udibile anche da quella distanza.

***

-Posa subito quella spada ho detto, scemo che non sei altro! - strillò Kagome.
Inuyasha sbuffò, sembrando in tutto e per tutto un samurai del tardo periodo Sengoku; ficcò la lama al suolo e vi si appoggiò con fare impertinente, guardandola con aria di sfida.
-Solo quando ti sarai decisa a lasciar perdere quello scriteriato - replicò, con evidente soddisfazione.
Il pubblico notò subito quella cadenza antica nella voce, una dialettica decisamente più raffinata di quella moderna (per quanto accompagnata da un atteggiamento decisamente rozzo e maleducato), e qualche spettatore più attento sembrò apprezzare il fatto che nemmeno le più zelanti lezioni di dizione avrebbero potuto dare un effetto simile.
Le tre ragazze si stavano scambiando sguardi preoccupati da quegli improvvisi sviluppi; cercando di arginare il danno, e di impedire la morte di Hojo, avevano involontariamente attirato anche l'attenzione di Kagome sulla presenza del teppista e ora, come avevano temuto, l'umore della loro compagna era peggiorato in un batter d'occhio.
Proprio in quel momento, quando la ragazza, indignata, stava per ricambiarlo con la stessa moneta, Inuyasha fu colpito da un colpo alla spalla, che lo sbilanciò e minacciò di farlo cadere nonostante fosse stato dato con un'intensità quasi ridicola.
I suoi riflessi furono quanto mai pronti, e dalla posizione eretta e disinvolta passò ad una posa accovacciata e pronta a balzare in avanti.
-Marrano! - esclamò il nuovo arrivato, che aveva un pezzo dell'armatura sbilenco e agganciato dalla parte sbagliata, - Come osi importunare la principessa d'oriente?
A dire il vero, Narata, (ovvero il nuovo, prode cavaliere appena giunto sulla scena), aveva cominciato a blaterare quelle battute attingendole da una rappresentazione teatrale che aveva visto la settimana prima; non aveva la minima idea di come inserirle nel giusto contesto, ma sembrò ottenere l'effetto sperato, visto che il pubblico cominciò a nutrire uno smisurato interesse per quanto stava succedendo.
Forse colpire l'attore alla spalla con tutte le proprie forze era stato un gesto azzardo, ma lo sguardo di puro odio che aveva ricevuto in cambio prometteva che l'altro avrebbe retto il gioco.
Il mezzo-demone corrucciò le sopracciglia. -Hey, ma tu sei...
-Esatto! - gridò melodrammaticamente, interrompendo qualsiasi informazione che avrebbe rovinato l'intera scena. -Sono proprio io, lo Shogun in persona!
Gli spettatori trattennero il respiro.
Kagome, per l'esasperazione, si coprì gli occhi con una mano, nascondendo parzialmente il viso per la vergogna.
"Perché certe cose capitano solo a me?" Si chiese.
-Pff! - sbuffò il giovane, con arrogante aria di sfida. -Chi dici di essere te? Sono sicuro che mi basterà un colpo di spada per stenderti e mandarti all'altro mondo!
Narata deglutì: la spada che pendeva al suo fianco non sarebbe stata di certo in grado di sopportare un duello (per quanto finto), visto che la lama flessibile poteva essere maneggiata solo da un esperto che fosse capace di non farne notare il movimento. Inoltre, aveva come l'impressione che il ragazzo davanti a lui stesse facendo sul serio.
-Un uomo di potere non si abbassa a tanto! - inventò. Nascose un lembo della propria t-shirt gialla sotto alla corazza.
-Certo, certo: tutte scuse! - disse Inuyasha, sfoderando il suo miglior sorriso animalesco. Prese Tessaiga e, saltando in piedi, si mise in posizione d'attacco.
-No! - gridò Kagome, correndo verso di lui.
Nella sorpresa generale, si parò davanti al giovane organizzatore e spalancò le braccia. Fissò Inuyasha con occhi imploranti.
-Vi prego, non fatelo! - supplicò. Si era calata anche lei nella parte, nonostante i suoi abiti tipicamente moderni non lasciassero grande spazio alla farsa che aveva cercato di mettere in piedi.
Inuyasha storse il naso. -Cosa?! Adesso ti metti a difendere pure questo qui?!
"Ma è mai possibile che sia davvero così stupido?", si chiese, esasperata, Kagome.
-Per tutti i Kami! - si sentì in dovere di intervenire Narata, per salvare la sconosciuta da una situazione scomoda. -Questa povera creatura ha davvero rischiato così tanto a causa di una stupida disputa per la difesa dell'onore virile? Davvero le cose sono giunte a questo segno?
Attingendo a tutto il drammatismo di cui era capace, si portò una mano alla fronte. -Che vergogna! Stringiamo dunque alleanza, mio ritrovato compagno, e non lasciamo che altri innocenti paghino lo scotto delle nostre misere azioni!
Allungò una mano verso Inuyasha.
-C..cosa? - replicò il mezzo demone. Ricevendo una gomitata da Kagome, sembrò capire l'antifona e accettò la stretta del giovane.
Nonostante il contesto completamente distorto e privo di senso, si levò uno scroscio di applausi dalla folla circostante, con l'aggiunta di complimenti e incitazioni. Fra le prime file, un signore sembrava aver particolarmente apprezzato, poiché se ne stava, compiaciuto, ad osservare cosa gli attori improvvisati avevano appena messo in atto e, a giudicare dalle occhiate entusiaste e dagli abiti eleganti, tradiva il genere di orgoglio che scaturisce dal successo di una propria creazione.
Si avvicinò all'improvvisato Shogun, battendogli poderosamente delle manate sulle spalle magre.
-Bravo, ragazzo! - esclamò, soddisfatto. Il giovane nascose un gemito sentendo sbatacchiare la pesante armatura contro le sue costole.
-Devo farti i miei complimenti - continuò, prendendogli, stavolta, la mano*, - anche se il copione era un po' diverso da questo, siete riusciti a catturare ugualmente l'attenzione generale. E la battuta dello Shogun?! Geniale!
-G...grazie, signore - mormorò flebilmente, con un mezzo sorriso di circostanza.
-Vedo un grande futuro davanti a te, figliolo! - consultò un orologio da taschino. -Beh, a quanto pare è più tardi di quel che pensassi...il tempo è denaro! Tieni, prendi il mio biglietto da visita... Formidabile, formidabile!
Senza degnare di uno sguardo Inuyasha (smarrito, confuso ma ancora irritato dalle precedenti ragioni) e Kagome (pallida dall'imbarazzo e con i piedi doloranti), si allontanò premendosi all'orecchio un telefono cellulare e cominciando a blaterare con voce catarrosa commenti entusiasti sullo spettacolo appena visto.
Il demone e la sacerdotessa rimasero ad un palmo dal naso, incerti sul da farsi; osservarono, straniti, il nuovo arrivato: era un ragazzino magro, con un' armatura feudale agganciata nel modo sbagliato, una parrucca sbilenca a coprire delle ciocche tinte di bianco e un'espressione di assoluta ma felice incredulità stampata sul viso ossuto. Si stava rigirando fra le dita inanellate il cartoncino con su scritto il numero del bizzarro uomo di prima, senza apparente segno di riuscire a realizzare la situazione.
-Voi due! - disse, alzando di scatto la testa. Gli interessati sobbalzarono. -Non...non ho davvero parole per ringraziarvi! 
-E fai bene! - disse Inuyasha, strafottente. -Ti ho appena risparmiato la vita!
Narata fece una risata allegra, prima di presentarsi sbrigativamente. -Non mi riferivo propriamente a quello...è solo che l'uomo che è appena andato via è niente di meno che l'organizzatore di questo posto! Se dice che "vede un grande futuro davanti a me"... Allora forse ho davvero delle speranze di poter diventare un attore, un giorno, ed è tutto merito vostro!
Kagome, avendo l'impressione di essere scivolata in un brutto incubo fatto di avventure impossibili e scarpe scomode, trovò la forza di fare un lieve sorriso. -Guarda che non devi ringraziarci...
-Invece, senza di voi, tutto questo non sarebbe successo! - insistette. Li guardò con profonda gratitudine, prima di avvicinarsi leggermente.
-Voi mi sembrate delle persone a posto - proseguì, con tono di voce più basso, - è sappiate che se vi dovesse servire qualcosa, qualsiasi cosa, basta solo che chiediate, e l'avrete; ho un debito nei vostri confronti.
Detto questo, sollevò un lembo della maglietta gialla, scoprendo un piccolo tatuaggio sul fianco destro, che rappresentava il muso appuntito di una volpe albina con un fazzoletto rosso annodato al collo**.
-Hai detto che ti chiami Narata, giusto? - chiese distrattamente Kagome, senza collegare comunque le cose.
Il giovane annuì sbrigativamente, coprendo il marchio con la stoffa. 
-Beh, molto piacere. Noi siamo Kagome e Inuyasha - gli scoccò un'occhiata, come a dire "ormai, rivelare la nostra identità a degli sconosciuti non renderà questa giornata più strana di com'è già stata...".
-Molto piacere - sorrise. -Ora devo andare. Mia sorella mi aspetta; mi raccomando, qualsiasi cosa. Arrivederci!
Prima che potessero trattenerlo, lo strano giovane aveva già voltato i tacchi e aveva iniziato a correre; i due rimasero lì impalati a guardarlo sparire fra la folla che, ormai, si stava dissipando.
-E noi adesso che facciamo? - chiese Inuyasha, stranito.
Kagome sospirò. -Ho solo voglia di andare a casa, a dire il vero.
-Q...quindi non sei arrabbiata con me?
La giovane scosse la testa. -Oh, ma certo che lo sono. Ma si può dire che abbiamo sbagliato entrambi, e che possiamo ritenerci pari. Sei d'accordo?
Nonostante Inuyasha non fosse il più abile diplomatico disponibile sul campo, ci mise pochi secondi a capire che una proposta del genere difficilmente sarebbe potuta capitare di nuovo e che, se avesse mosso qualche altra obiezione, avrebbero finito con il litigare di nuovo.
-Ci sto - disse, in fretta.
Kagome si guardò intorno per vedere se riusciva a rintracciare di nuovo le sue amiche, ma sembravano sparite; non aveva voglia di cercarle. Di certo, anche se le avesse trovate, avrebbero subito cominciato a sgridarla per aver scelto di nuovo il teppista, e di certo in quel momento lei non aveva voglia di discussioni.
-Queste scarpe mi hanno fatto vedere le stelle - commentò la ragazza.
-Pff - replicò Inuyasha, prendendola delicatamente in braccio, - che scemenze.
La sacerdotessa era davvero sfinita; si lasciò cullare dal passo stranamente lento di Inuyasha e non protestò davanti a quell'improvviso modo di farsi perdonare. In fondo, non le dispiaceva affatto essere riportata a casa come una bambina; ad Inuyasha bastò raggiungere uno spiazzo vuoto per spiccare un balzo senza occhi indiscreti attorno e, nel mentre del ritorno a casa, Kagome si addormentò, circondata dall'odore che più amava al mondo e a cui non avrebbe mai saputo rinunciare.

***

Hojo guardò la figura vestita di rosso, ancora abbigliata con schinieri e bracciali, allontanarsi portando fra le braccia il corpo sottile e fragile di Kagome.
Sua madre gli posò una mano sulle spalle.
-Mi dispiace tanto, tesoro - gli disse.
Lui scosse la testa, con un sorriso mesto.
-Non sono riuscito a dirglielo - ammise, - ma non importa; è giusto così.
La donna rispettò il silenzio che seguì senza proferire parola. Poi, quando il figlio si sentì pronto, si voltarono insieme; sulla strada verso casa, Hojo cercò di non ripensare a quel pomeriggio ma, per quanto si sforzasse, la giocosa risata di Kagome non voleva smettere di risuonargli nelle orecchie e quel sorriso meraviglioso, che tanto aveva illuminato le sue giornate, sembrava ricordargli che mai più avrebbe potuto essere solo e soltanto suo.

* Ovviamente un uomo giapponese, per quanto sguaiato o maleducato, non stringerebbe mai una mano ad un altro; si tratta di "un'americanata" che ho inserito per rendere la scena più facilmente immaginabile e vicina alla concezione occidentale di "uomo d'affari" :)
** ZAN ZAN ZAN ZANNN Il ritorno delle... *pausa ad effetto* ... Volpi Bianche!

 AUTRICE:
Buongiorno, belle creature!
Inutile implorare perdono; ormai penso abbiate imparato a conoscermi e penso possiate immaginare quanto mi dispiace avervi fatto aspettare. Ho aggiornato la mia bio, sulla pagina dell'autrice, e vi chiederei di leggerla... Comunque sappiate che, nonostante tutto, rimarrò su questo sito, per lo meno in veste di lettrice :)
Grazie mille comunque per essere speciali esattamente così come siete; personalmente non amo molto questa seconda parte, così aspetterò le vostre opinioni in merito :)
Grazie ancora,
Dark Kisses.

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Capitolo 18
*** Scontri Verbali ***


Lo chiamavano il "Sonno Mortale"*; gli dei posano una mano sugli occhi del malato ed esso, troppo ferito per reagire, non può far altro che serrare le palpebre fino a quando la divinità della morte non decide di far ritirare le altre dita, e tenere solo le sue.
Kaede, appena visto il corpo livido e rantolante del giovane Kohaku, aveva sentito il suo cuore mancare un battito. Nella sua lunga vita, infatti, aveva assistito ad incidenti di tutti i generi: contadini disattenti, arti rotti da brutte cadute, epidemie, febbri puerperali, vaiolo, peste, allucinazioni, malnutrizione, infezioni intestinali, scabbia, tifo, gonorrea, sifilide, dipendenza da oppiacei, senza contare le miriadi di cadaveri in grado di respirare di giovani soldati ridotti a semplici manichini di carne. E, con il passare del tempo, l'esperienza le aveva fatto bastare una sola occhiata per capire se il paziente di turno sarebbe sopravvissuto oppure no.
Per quanto riguardava il Sonno Mortale, però, l'anziana donna non avrebbe potuto prevedere le sorti del ferito; era come se l'anima si rintanasse all'infuori del corpo e quest'ultimo, svuotato, rimanesse avvolto nel sonno fino alla morte per inedia. Grazie alla nutrizione forzata si poteva tenere lo sventurato in vita per qualche giorno di più ma, ad un certo punto, tutti culminavano con il soffocamento.
Alle sacerdotesse era stato dunque insegnato che per gestire tale situazione bisognava passare giorno e notte con l'ammalato, nella sua stessa stanza, e pregare mentre lo si accudiva. Così facendo, forse, i Kami e gli spiriti dei suoi antenati sarebbero stati in grado di sentire la sequenza di orazioni, e il Sonno Mortale si sarebbe interrotto; oppure, un'inspiegabile guarigione sarebbe giunta a risolvere la situazione. Di fatto, nell'epoca Sengoku Kaede non aveva mai sentito parlare di un rimedio contro quel mistero divino, e pertanto si limitava ad eseguire solo la spiacevole prassi.
Tuttavia, questo caso era diverso. Non si trattava di un forestiero di passaggio, di uno sconosciuto, bensì di Kohaku: non c'erano dubbi che l'assoluta mancanza di reazioni del suo corpo martoriato indicasse il Sonno Mortale, ed era altrettanto ovvio che non sarebbe sopravvissuto. Ma la donna provava un profondo orrore a lasciar morire così un giovane tanto amato, soprattutto trattandosi del fratello minore di Sango. Quante volte la sterminatrice si era persa nei racconti sulla loro infanzia? Quante volte ne aveva tessuto le lodi parlando con la sacerdotessa?
Kaede si ritrovò, dunque, in una situazione molto spiacevole; ma il suo senso pratico ebbe la meglio, e ordinò subito che il giovane fosse trasportato nella sua capanna personale, steso sul futon più sottile che ci fosse a disposizione e spogliato completamente dell'armatura.
Come tutti avevano immaginato, la sorella fu fra le prime a sapere la funesta notizia. Da allora, semplicemente, impazzì di dolore.
Miroku riuscì a fatica a trattenerla e a chiuderla in casa, cercando di contenere il suo pianto disperato. La moglie si strappava i capelli, si stracciava i vestiti e urlava il nome del fratello, picchiando le mani contro la porta per poter uscire e andare a vegliarlo.
-Sango, ti prego, non fare così! - ripeté, per un giorno intero, il monaco. Solo alle sacerdotesse era possibile assistere una vittima del Sonno Mortale: se gli dei avessero avvertito la presenza di un familiare forse, attirati dall'odore del suo sangue, avrebbero fatto addormentare anche lui.
-Non mi interessa, Miroku, non mi interessa, se i Kami decideranno di far morire anche me, tanto meglio! Ma non lui, non il mio piccolo fratellino!
Quello stato di folle dolore si prolungò per tutta la notte dopo il ritrovamento. Nonostante le insistenze del marito, Sango non toccò cibo e se ne stette rannicchiata in un angolo a piangere, e continuò fino a quando anche gli esasperati pigolii della sua agonia si ridussero ad un angoscioso silenzio.
Il monaco non l'aveva mai vista così, e il suo cuore fremeva di pena sincera davanti a quell'immagine straziante. Durante il viaggio alla ricerca di Naraku, infatti, Sango aveva mostrato solo il lato più forte e determinato del suo carattere e, nonostante le angherie del destino nei suoi confronti, aveva avuto pochissimi attimi di cedimento. Quando la frustrazione e la rabbia affioravano sulla sua pelle, aveva modo di sfogarsi in battaglia; ma ora, confinata in una vita tipicamente casalinga, non aveva modo di esternare le proprie preoccupazioni. L'attaccamento sincero che provava nei confronti di Kohaku era simile ad un cordone ombelicale: ora che esso era stato crudelmente strattonato, la donna si trovava a soffrire tanto quanto il fratello, moribondo dall'altro lato del villaggio.
Anche Rin, sospese le sue attività di apprendista levatrice (Kaede aveva infatti ritenuto più saggio privarla dell'insegnamento sacerdotale almeno per qualche anno a causa del presentimento che la sua vocazione non fosse sincera), si dimostrò in apprensione per le sorti del giovane.
Loro due non avevano mai avuto modo di approfondire la reciproca conoscenza, ma provavano nei confronti l'uno dell'altra una certa curiosità mista ad affetto che sarebbero state la base, se coltivate, di una tanto strana quanto profonda amicizia. Avevano condiviso dei brevi momenti di prigionia, insieme, e pareva ad entrambi di aver conosciuto un po' meglio il proprio animo proprio dopo quella conversazione, avvenuta ormai diversi anni prima.
A Kaede la cosa faceva piuttosto comodo: alla sua età, stare a lungo seduta in posizioni accovacciate per vegliare un malato sarebbe stato quasi impossibile. E, per quanto volesse dedicarsi personalmente alla faccenda, si accorse che non avrebbe saputo dare al giovane tutto il sostegno necessario alle sue cure.
Fu costretta a delegare il compito a Rin in fretta e furia, dopo averle fatto vedere come cambiare i bendaggi su viscere che, prima della sutura d'emergenza, erano rimaste esposte.
"Dovrai lavarlo tre volte al giorno con un panno umido di acqua tiepida ed essenze naturali; poi ogni due ore dovrai sollevargli le gambe e posarle su un poggiapiedi, e lasciarle così per qualche minuto. Ogni quattro ore sollevagli il viso dal guanciale e, dopo avergli aperto la bocca, fagli scorrere in gola qualche goccia d'acqua, massaggiando lungo il collo poiché non può deglutire. Non esagerare con le dosi, non muoverlo troppo spesso. Se proprio devi parlare, fallo a sussurri, e respira piano; se gli dei si accorgono che ci sei, faranno addormentare anche te".
Con queste parole, lasciò la ragazza al proprio dovere e si preoccupò di farle trovare tre pasti frugali e tutto il necessario per lei e Kohaku ogni giorno appena fuori dalla porta scorrevole.
E Rin, mostrando grande diligenza e profonda serietà, si accinse a fare tutto ciò che era stato richiesto, assicurandosi di compiere ogni cosa nel modo giusto. La mancanza di sonno la turbava, tuttavia si impose di non farvi caso. Mangiando metà di quello che Kaede preparava per lei, riusciva a rimanere vigile più a lungo, poiché i crampi allo stomaco la tenevano continuamente sveglia. Le preghiere le sapeva perfettamente a memoria, e faceva in modo di recitarle ad alta voce per continuare a seguire il senso di ciò che diceva senza farle diventare una monotona litania, infondendovi tutta la devozione, la speranza e la convinzione possibili.
Chiunque fosse passato davanti alla stanza, a qualsiasi ora del giorno, avrebbe sentito un sommesso mormorio, a volte accompagnato da un ovattato suono di coperte spostate oppure garze risistemate, altre volte circondato dall'assoluto silenzio.
Il respiro rauco e irregolare del giovane, infatti, non si sentiva quasi più. La carne attorno alle ferite aveva cominciato a diventare sempre più scura, così come i bordi degli squarci presero a gonfiarsi nonostante gli sforzi e la fatica della giovane guaritrice. Il suo volto non subiva il minimo mutamento, la fronte rimaneva imperlata di sudore e scottante di febbre, insensibile agli impacchi e alle creme lenitive.
E fu così che, senza nessun apparente miglioramento, arrivò il tramonto del secondo giorno di veglia.


//

Il sole era da poco scomparso oltre le vette dei monti in lontananza.
Miroku, a passi incerti sul selciato irregolare, oltrepassò uno sparuto gruppo di alberi e imboccò la via in salita. Camminava affidandosi alla memoria: l'oscurità aveva già cominciato a scendere e gli era impossibile vedere meglio dove stava andando.
Nonostante fosse sudato e accaldato, si strinse nel proprio mantello; poche ore prima, quando aveva smesso di sentire la voce di Sango, non avrebbe mai potuto immaginare che la donna sarebbe riuscita a sparire proprio sotto ai suoi occhi. Prima di capire davvero la sua assenza, aveva dovuto sfondare la porta della camera, al cui interno la moglie si era asserragliata con l'evidente intenzione di non uscire mai più.
Invece, forse attingendo alle sue straordinarie capacità di guerriera, era riuscita a sgattaiolare dalla piccola apertura a pannelli scorrevoli senza che lui, troppo assorto ad implorarla di uscire, avesse notato il movimento.
Stava cercando di raggiungere la casa di Kaede, dove il macilento Kohaku era stato portato, ma non era facile: inanzitutto, la fatica derivata anche dalla notte in bianco non lo stava aiutando nella salita, e la pressante preoccupazione per la moglie non gli lasciava respiro.
Persino Koga e Ayame, negli attimi dopo il ritrovamento, avevano cercato, senza riuscirvi, di trattenerla, ma era stato pressoché impossibile. Come se fosse stata un demone scalciante, tutti e tre la portarono in casa e la chiusero dentro.
"Non so quali siano le vostre usanze in questi casi" aveva detto Koga, imbarazzato, "ma sappi di poter contare su di me, monaco".
Era stato costretto a congedarli, però; era impensabile che dei demoni lupo vivessero in un villaggio umano per consolare una ex-sterminatrice. Visto che le ferite di Kohaku sembravano proprio le artigliate di "una di quelle creature", non era una scelta intelligente farli rimanere lì, e così i due erano tornati alle vette delle loro montagne promettendo di dare presto loro notizie. Infatti, trattandosi del ritorno a casa di un guerriero ferito (e in quelle condizioni, poi), gli animi di coloro che conoscevano anche solo di vista la famiglia del giovane, o che ne avevano sentito parlare, erano parecchio sensibili.
Con un salto, Miroku aggirò una siepe e spostò il piede su una radice sporgente, issandovisi grazie all'aiuto del suo bastone dorato. Con un grugnito, facendo leva sulla gamba che ancora risentiva di una vecchia ferita riportata nello scontro fatale, atterrò sul terriccio molle al di là dell'imponente quercia. I suoi occhi rimbalzarono su una parete buia e impenetrabile: Sango era stata agevolata dall'essere passata di lì quando c'era ancora la luce solare.
Il monaco fu improvvisamente consapevole che, se non avesse imboccato la via giusta in quell'intrico di rami, non sarebbe riuscito a raggiungere la casa della sacerdotessa.
All'improvviso, però, un brivido gli percorse la schiena.
"Demoni" pensò.
E, prima di rifletterci su, fece un mezzo giro su sé stesso, tenendo fissa l'asta del bastone, e ne puntò gli anelli benedetti verso l'oscurità dalla parte da cui era venuto, in posizione d'attacco. I suoi occhi incrociarono uno sguardo gelido, più freddo del vento proveniente dal Nord, e un'aura di potenza assoluta lo sconvolse nel profondo.
-Sesshomaru? - disse, incredulo.
Usando solo un dito artigliato, il demone spostò con incredibile facilità la cima rivolta verso di lui, portandola leggermente a sinistra. Miroku sentì una leggera scossa provenire dal manico e propagarsi nel suo corpo.
-Togliti di mezzo.
Nonostante la situazione paradossale, il bonzo fece un sorriso lupesco a metà fra l'angoscioso e il disperato.
-Non questa sera, Grande Demone. 
Vide, attraverso la cortina di densa oscurità, un candido sopracciglio inarcarsi. Nessuno aveva mai parlato in quel modo a Sesshomaru e, se la conversazione fosse continuata su quel tono, sarebbe stata la prima e ultima volta anche per Miroku.
-Sciocco umano - ribatté il demone, con disprezzo, - abituato come sei a trattare con quegli esseri inferiori dei mezzo-demoni, ti sei dimenticato cosa sia il rispetto per le entità maggiori.
-Forse è vero - ammise l'uomo, sorprendentemente, - e sono certo che non vedreste l'ora di insegnarmelo; tuttavia, oggi non siete l'unico a correre per il benessere di una donna: e se starete ancora qui a bloccare il mio, di cammino, probabilmente sarà troppo tardi per entrambe le nostre protette.
Sesshomaru lasciò passare un lungo silenzio prima di decidersi a dire qualcosa, forse troppo immerso nell'atmosfera surreale di quella che, ormai, poteva essere chiamata "conversazione".
-Sento odore di sangue rancido - si limitò a dire.
Aveva compreso, infatti, l'allusione del monaco e, benché se ne fosse sentito oltraggiato (e anche piuttosto punto sul vivo) decise di lanciare un'esca per meglio capire cosa stava succedendo. Aveva giurato a sé stesso che non avrebbe più messo piede in quel villaggio infernale, e così avrebbe fatto; ma il pensiero di Rin, del suo profumo così vicino a quella funesta puzza di morte, non gli dava pace.
Il viso del monaco si fece teso e ombroso. -É così - disse, truce. -È un brutto giorno per tutto noi; il ragazzo non ha grandi speranze di sopravvivere...e temo manchi poco alla fine.
-Il manichino di Naraku - sibilò Sesshomaru.
Lo sguardo gelido che ricevette come risposta fu sufficiente a capire il tipo di legame che legava il bonzo al giovane ragazzo.
-Si chiama Kohaku - ringhiò, - ed è un guerriero mille volte più valoroso di voi, se è per questo. Se Rin volesse ancora parlarvi, probabilmente ve lo direbbe ella stessa.
-Cosa state farneticando? - rispose Sesshomaru, a denti stretti. Sentire quegli espliciti riferimenti alla sua ossessione per la ragazzina lo stava alterando; perché non lo sgozzava e basta, ponendo fine alla sua oltraggiosa insolenza una volta per tutte?
-Non fate finta di non sapere; e comunque, Rin adesso sta attraversando la veglia per proteggere lo spirito di Kohaku dalle insidie della morte. Ma, sapete cosa mi preoccupa di più? Il fatto che sia lei a cedere per prima. È piccola, è gracile, è sola...soffre di stenti e siamo solo al secondo giorno.
Nonostante la tristezza che traspariva da parole che volevano essere di sfida, il messaggio arrivò limpido e chiaro al cervello del demone. Il monaco stava dicendo, senza troppe infiocchettature, che il malessere di Rin, la sua spossatezza e la sua tristezza, erano tutta colpa sua, e che non era in errore nel ritenersi l'unico responsabile. 
Con questo, Miroku fu consapevole di aver superato di gran lunga il limite, e di essere appena arrivato ad un millimetro dalla morte. Ma non gli importava assolutamente nulla, poiché la sua unica determinazione era sapere Sango al sicuro. La propria vita non valeva nulla, in quell'istante: bastava solo la salvezza della moglie.
Senza aggiungere altro, visto che aveva già detto troppo, il monaco abbassò il bastone sotto lo sguardo furente del demone e, accennando ad un inchino estremamente e forse esageratamente ossequioso, si voltò e proseguì sul suo sentiero con passo veloce.
Sesshomaru non reagì. Guardò le vesti spesse dell'uomo allontanarsi nel groviglio di alberi, le vide nitidamente come se fosse giorno e poi, senza emettere nessun suono, si girò nella direzione opposta e ripercorse a ritroso la strada che l'aveva portato lì.


* Praticamente, è il coma.

ANGOLO AUTRICE:

Buonasera, care lettrici. Sono un demone incorreggibile, mi dispiace; mi sento davvero in colpa a farvi aspettare così tanto ma, come mi trovo sempre costretta a ripetere, non dipende da me e, anche se non credo di meritarlo, vi chiedo di portare pazienza.
Questa settimana mi impegnerò a recensire tutti i capitoli in sospeso e, sperando, a cominciare a fare la stesura di quelli nuovi in modo da farvi avere il prossimo "episodio" il prima possibile.
Grazie mille per tutto l'affetto che riuscite sempre a trovare per me (onorata e felice di ricambiarvi!),
Dark Kisses,
The Queen.

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Capitolo 19
*** "Di famiglia" ***


Quello stesso pomeriggio, appena fatto ritorno al tempio, Inuyasha aveva subito sentito il bisogno di sgranchirsi le gambe.
Nella sua testa ronzavano troppi pensieri tutti in una volta; le avventure da poco passate costituivano appena una piccola parte del guazzabuglio di parole che cominciava già a stagnare nel suo cervello e, lo sapeva bene, se avesse recato di seguire il filo di ogni singolo ragionamento sarebbe presto impazzito.
Non era mai stato molto esperto quando si trattava di mettere ordine fra i propri pensieri, doveva ammetterlo: preferiva nettamente lo scontro fisico e diretto, laddove non serviva concentrarsi granché sulle parole da usare ma bisognava entrare in azione.
Ora, invece, chiuso nel silenzio della camera di Kagome, fissando il respiro lento e regolare della ragazza addormentata, con i capelli resi ramati dai raggi obliqui del sole che arrivavano dalla finestra socchiusa, non faceva altro che rimuginare continuamente sulle stesse questioni senza allontanarsi da un passo dal pensiero iniziale.
Non era preoccupato da un possibile scontro: la sacerdotessa era stata chiara su questo punto. Ma una miriade di altri problemi avevano invaso la sua giovane mente; non trascurabile era, tra l'altro, la bruciante nostalgia dei boschi e delle vallate color smeraldo che aveva lasciato al di là del pozzo. Quelle cose non esistevano nel mondo artificiale di Kagome, infatti: il caldo opprimente, il sole avvelenato da quella patina oleosa spalmata sul cielo, l'odore pestilenziale dei loro veicoli mostruosi...
Fece una smorfia. Meglio non pensarci.
Dopo qualche attimo di incertezza decise di alzarsi e mettersi in attività. Non aveva idea su cosa avrebbe potuto fare, ma si rendeva perfettamente conto di aver bisogno di muoversi almeno per qualche ora, giusto per ingannare il tempo. L'espressione di Kagome prometteva ancora molto tempo di incoscienza prima del risveglio.
Spinto dal bisogno di compagnia aprì la porta della stanza e si acquattò nel corridoio. Poi, cercando di non far rumore, scese velocemente le scale, fino a quando, arrivato al piano di sotto, smise di trattenere il respiro e recuperò la propria scioltezza.
Visto che la porta di ingresso era chiusa a chiave, per arrivare al giardino era obbligato a passare per la cucina. Non che lo spazio verde antistante all'abitazione fosse in grado di attenuare la sua nostalgia, anzi; tuttavia si trattava di un luogo meno grigio degli altri, e per il momento tanto bastava.
Ripensò per un secondo a Miroku, e alla sua abitudine di meditare in mezzo ai prati, oppure vicino alle cascate. Dove sarebbe andato se si fosse trovato nella situazione di Inuyasha? Il mezzo-demone sogghignò all'idea del monaco imprigionato in una gabbia di cemento alla disperata ricerca di sakè, pace e belle donne.
Fece scorrere il pannello sottile della sala principale che collegava l'entrata alla cucina e vi trovò, con sua somma sorpresa, il vecchio Higurashi. L'anziano sacerdote stava seduto al tavolo con la schiena dritta e l'espressione assorta, intento a leggere le righe di un enorme fascicolo dalle pagine sottili intensamente scritto. Portava, posato sul naso, uno di quegli arnesi che Kagome aveva detto servivano per ingrandire le lettere.
-Buongiorno, giovanotto - disse l'uomo senza scomporsi. Il ragazzo balbettò un saluto in risposta, preso in contropiede.
Il parente pareva lo stesse aspettando; gli fece cenno di accomodarsi sul cuscino davanti a lui.
-Vuoi una tazza di thè? - domandò indicando due piccole stoviglie in ceramica alla sua destra.
-No, grazie - fece il giovane.
L'altro non rispose. Ripiegò i fogli che stava leggendo e li ripose vicino a sé sui tatami. Kagome gli aveva spiegato anche che quei grandi pezzi di carta erano degli oggetti molto comuni nell'epoca moderna, e che venivano stampati ogni giorno affinché tutti potessero leggere le ultime notizie; a lui ricordavano le pergamene ufficiali degli esorcisti. Ebbe un brivido: ecco una parte del suo mondo di cui non sentiva affatto la mancanza.
-Dov'è Kagome? - chiese.
-Sta dormendo di sopra.
-Bene - commentò il nonno, - molto bene.
Quell'espressione seria non piaceva ad Inuyasha perché, nonostante il vecchio non gli avesse mai fatto nessuna paura, sembrava presagire un discorso serio oppure un rimprovero. Quando le visite di Inuyasha si limitavano ad un paio di volte al mese, e di sfuggita, l'affare era diverso; ma ora che si trovava ad essere ospite sotto il suo tetto sentiva di avere dei doveri e delle responsabilità nei confronti della famiglia.
-Serve una mano in magazzino? - azzardò il giovane spezzando il silenzio. 
-Magari dopo.
Il silenzio continuò.
Inuyasha capì di non poter reggere più a lungo di così; era arrivato al limite. Se era fuggito dalla camera di Kagome era perché non riusciva a sopportare il tremendo vuoto di parole che vi si respirava: perché ora si trovava imprigionato in una situazione ancor più sgradevole?
Fortunatamente il sacerdote si decise a parlare prima che il giovane intervenisse sgarbatamente come stava per fare.
- Inuyasha... Negli ultimi giorni ho pensato e ripensato al pozzo dietro casa, così come negli ultimi anni l'ho guardato inghiottire e poi restituire mia nipote. Mi chiedevo come fosse possibile che questa storia stesse accadendo davvero; ma non sono mai giunto alla soluzione. Non credo si possa spiegare in modo sufficientemente esauriente un simile fenomeno, d'altronde. Ma qualcosa c'è, senza dubbio. Tu ci sei, sei qui davanti a me: e per la gente di quest'epoca tu fai parte di un passato sepolto.
Inuyasha storse il naso. -È così; neanche io so perché il pozzo funzionava, così come non so perché ha smesso di farlo proprio adesso.
Aveva cercato di eludere l'ultima parte del discorso, ma a quanto pareva il vecchio non era disposto a cedere. Liquidò la sua affermazione con un cenno stanco della mano.
- Lasciamo ai Kami i loro misteri - disse, - e dedichiamoci a quelli che possiamo controllare. Sei qui davanti ai miei occhi, giovanotto; per quanto vecchio e pazzo io possa essere, non v'è alcun dubbio riguardo a questo.
Il mezzo-demone annuì per fargli capire che lo stava seguendo.
- Quel che voglio veramente capire è come tu abbia fatto non tanto a venire qui, bensì a resistere in questo mondo.
Il guerriero drizzò le orecchie.
- La tua è una essenza demoniaca; sono pur sempre un sacerdote, per quanto nutrito di scienza recente, e certe cose posso capirle. Ma vista questa tua caratteristica imprescindibile, come può essere che tu possa vivere in un tempio, a contatto con oggetti sacri ogni giorno, senza la minima scalfittura?
Il ragazzo assunse un'aria di sfida e di soddisfazione; fece un sorrisetto.
- Io non sono completamente demone, vecchio. Lo sono a metà: mia madre era una donna umana. E poi - aggiunse, posando una mano sull'elsa di Tessaiga, - ho questa.
Fece baluginare la lama dal fodero per far capire all'uomo che stava parlando proprio dell'arma.
Il vecchio si sporse un po' verso di lui raggiustandosi le lenti. Poi si rimise a sedere con aria affatto divertita.
- Ma cosa stai dicendo? - rispose, brusco, - I matrimoni misti erano impossibili!
Inuyasha si indispettì; ma come diavolo si permetteva quello lì di cercare certi vincoli così personali? Cosa voleva saperne lui? 
Ripensò a Kagome: non doveva perdere la calma. In fondo, rifletté, era stato a lui ad entrare in argomento. E, anche se l'aveva fatto per rispondere ad una domanda, ormai era necessario che spiegasse la cosa per intero.
Arrossì: - Non so bene come andò fra i miei genitori, visto che posso tener fede solo alla versione di mia madre. Mio padre era un generale ed ebbe un figlio da lei, per poi morire subito dopo. Questo è tutto ciò che so.
Il vecchio si accarezzò l'ispida barba con fare meditabondo.
- E...gli altri? Quelli nati da genitori entrambi demoni?
Inuyasha alzò le spalle. - Quelli sono un'altra cosa. Possono essere più o meno potenti, e più lo sono e più assomigliano agli uomini. Hanno un brutto carattere e mangiano le persone. Adesso come adesso non mi viene in mente altro.
Decise di tagliare la parte inerente al suo desiderio di diventare uno di loro, di tralasciare la sua vita da creatura braccata e anche di omettere tutte le storie che riguardavano l'esistenza segregata dei mezzo-demoni, dei loro giorni da esseri totalmente umani e tutta una serie di dettagli considerati inutili sul momento.
- Uhm... - commentò il suo interlocutore. - Cosa vuol dire che la tua spada di protegge dalle reliquie benedette?
"Le tue reliquie non sono affatto benedette" pensò sarcasticamente Inuyasha. Decise di parlare degli oggetti veramente sacri.
- È un dono di mio padre, serve a contenere la parte demoniaca che è in me. Ogni volta che devo combattere oppure rischio di perdere il controllo devo solo sfoderarla.
Il vecchio non disse nulla per un po', meditando su quelle ultime affermazioni. Poi decise di intervenire.
- E Kagome?
Il giovane arrossì nuovamente. - Kagome cosa?
Il sacerdote sospirò.
- Che cosa hai intenzione di fare con lei?
Il mezzo-demone si grattò la nuca, imbarazzato da quel repentino cambio di argomento. Era stato preso in contropiede: non si aspettava che il vecchio potesse fargli una domanda del genere.
Inoltre non avrebbe saputo cosa rispondere; non solo a causa del fatto che il quesito era stato così diretto da risultare quasi inappropriato, ma anche perché il giovane non si era posto il problema fino a quel momento.
Insomma, ovviamente aveva capito che non potevano continuare così all'infinito, ma le vicende degli ultimi tempi, le tensioni, i doveri e l'ambientazione precaria avevano completamente assorbito la sua attenzione.
Si rendeva comunque conto di non poter rispondere nemmeno "non lo so" anche per una questione di rispetto nei confronti del nonno: in fondo, la sua preoccupazione era legittima.
Poiché il silenzio si allungava il signor Higurashi prese nuovamente la parola.
- Demone o non demone devo essere sicuro di potermi fidare di te, giovanotto. Però qui non si tratta solo di te, ma anche di Kagome; lei nutre una grande fiducia in te, ha rinunciato a molte cose per venire nel tuo mondo. E ora che per puro caso le sorti si sono invertite tocca a te prenderti cura di lei e assumerti delle responsabilità.
- Lo so - intervenne. - Lo so bene. 
L'altro annuì. - Ottimo, dunque. Sono certo che giungerai alla conclusione più ragionevole. Sappi che, nel frattempo, saremmo lieti di ospitarvi fin quando vorrete; ormai fai parte della nostra famiglia.
Inuyasha volle replicare, ma non riuscì a dire anche sola mezza parola. Il discorso del vecchio aveva colpito nei punti giusti: l'educazione di uomo responsabile impartitagli dalla madre, sempre fedele all'etichetta, il dovere morale che sentiva di avere nei confronti della questione appena esposta, l'amore bruciante che nutriva verso Kagome e la commozione per quanto appena detto: "uno della famiglia".
Lui, infatti, non aveva mai fatto parte di nulla di simile. Era sempre stato solo contro tutto il resto del mondo, a combattere contro i propri fantasmi e a doversi ricucire le ferite dopo ogni scontro. E se il gruppo di validi guerrieri che l'aveva accompagnato nella propria avventura era stato per lui quanto di più simile ad un nucleo famigliare, ora che i parenti di Kagome avevano cominciato a trattarlo con un figlio poteva sentire il proprio cuore scoppiare.
Non era tipo da lasciarsi andare a sentimentalismi, entrambi lo sapevano, ma nei suoi occhi si leggeva chiaramente quanto quella semplice affermazione avesse realmente scosso il giovane.
Per la prima volta da quando era bambino, Inuyasha mostrò profondo rispetto nei confronti di chi aveva di fronte: mise le mani nelle maniche e chinò la testa in un inchino.
- Grazie - disse, - saprò fare la cosa giusta.
Era vero che non aveva mai detto a nessuno cosa era intenzionato a portare avanti con Kagome (anche perché una stupida sorta di contegno virile gli aveva sempre impedito di ammetterlo anche con sé stesso) tuttavia ora era deciso come non mai di prendersi le proprie responsabilità in via ufficiale.
Aveva rischiato la vita per lei, aveva ricominciato da capo già una volta: ora come ora sentiva che non sarebbe stato difficile mettersi in gioco di nuovo.
Il nonno ringraziò tacitamente per l'omaggio ricevuto.
Inuyasha alzò lo sguardo e parlò con tono deciso.
- Di questo mondo io non so molto; Kagome mi ha raccontato delle cose, è vero, ma mi rendo conto che se dovrò vivere qui avrò bisogno di sapere molto altro ancora. Non saprei però da che parte iniziare. Saresti disposto ad insegnarmi, vecchio?
Il sacerdote ignorò l'epiteto solo per il fatto che il ragazzo sembrava impegnarsi davvero a fondo ad essere gentile.
- Ovviamente - disse, facendo il primo sorriso da quando il colloquio era iniziato, - ti spiegherò tutto quello che c'è da sapere. E a proposito - riprese, assumendo un'espressione dolorante, - ci sarebbe un vaso da spostare in magazzino...
Inuyasha sospirò. 
"Solo perché mi ha ammesso nella famiglia", si disse.

**

Kagome, durante il sonno, fece una lunga serie di sogni. Rivide Sango come l'aveva vista l'ultima volta, dolorante ma soddisfatta, sorridente nonostante le ferite della battaglia, e riuscì persino a sentire la risata di Miroku quando, dopo aver ingannato un capo villaggio per approfittare della sua ospitalità, scherzava per alleggerire il senso di colpa.
Accarezzò il manto di Kirara mentre volavano sulle cime del monte Fuji; annodò un fiocco al collo di Shippo in occasione del suo compleanno; bevve un thé alle erbe con la venerabile Kaede in una calda giornata di primavera; rabbrividì nel proprio mantello mentre camminava sulle pianure innevate a nord del Musashi, nella caccia contro Naraku; pianse sulle spoglie evanescenti di Kagura, nonostante tutto ciò che era successo nel corso degli anni, imparando per la seconda volta il perdono, e affidandolo al vento.
Nonostante fosse tutto frutto di ricordi rielaborati dalla sua mente, Kagome credette di essere veramente immersa, di nuovo, nell'epoca Sengoku, e di essere ancora protetta dalla cupola limpida che vegliava su di lei, mai considerata come "cielo" bensì come protezione dalle ansie e dagli affanni del mondo in cui era nata.
Alla fine, quando sentì che il risveglio era vicino, si ritrovò ad intrecciare, sul prato vicino alla casa di Jinenji, delle corone di fiori. Faceva caldo, la brezza leggera smuoveva gli steli dell'erba su cui era seduta. A fianco a lei, una fanciulla che non conosceva le stava porgendo delle nuove margherite da infilare nella corona.
- Sono sicura - disse la sconosciuta, - che tutto volgerà al meglio.
Con grande serenità Kagome sorrise. - Ne sono certa anch'io. L'alba arriva sempre, anche dopo la notte più buia.
- È vero - riprese l'altra, con voce armoniosa, - quando si stanno per perdere le speranze arriva la luce. Ed è per questo che non si può mai smettere di lottare.
Kagome annuì, ripetendo gli stessi gesti con le dita sottili.
- I tempi oscuri sono passati - continuò la donna, - e adesso è arrivata una prospera epoca di pace da ambo le parti. Non possiamo prevedere se ci sarà altro dolore; ma lasciamo queste preoccupazioni per il futuro. La situazione presente durerà ancora per molto tempo, mia cara Kagome, e ti porterà tanta felicità. Ma non temere che un giorno avrai di nuovo la possibilità di scegliere il tuo destino. Come hai ben detto, il sole sorge sempre dopo la notte più buia, ma anche in seguito a quelle lunghe e meravigliose sere di mezza estate.
Kagome le porse una corona. La sconosciuta sorrise, per poi chiedere: - Tu, mia dolce Kagome, hai paura del futuro?
La ragazza scosse la testa. - No.
- Bene. Non c'è nulla di spaventoso nel domani, così come non c'è alcun bisogno di temere l'oggi. Grazie, mia bella fanciulla.
La donna le baciò la testa, poi si alzò e si incamminò verso l'infinito confine della pianura. Kagome la guardò allontanarsi con un senso di profonda fiducia e tranquillità.
- Addio, Midoriko.





ANGOLO AUTRICE: 
Buongiorno, mie care lettrici. Queen è come l'allergia: arriva sempre con il bel tempo.
Finalmente ho molto tempo libero e conto di regalarvi un'estate all'insegna dei miei capitoli (sento già le vostre grida di protesta); questo, come potete vedere, punta sul misticismo più oscuro e anche sulla fantascienza (INUYASHA EDUCATO?!).
Vi lascio alle vostre vite, per il momento, ma non temete che verrò presto a dare una sbirciatina.
Con tutto l'affetto del mondo,
The Queen.
PS- mi siete mancate da morire!

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Capitolo 20
*** Ricerche e inquietudini ***


Miroku, ormai immerso nel buio fitto del bosco, ebbe la netta sensazione di aver appena superato il punto da cui era partito, e di star girando intorno sempre alle solite querce. Il bosco al limitare del Musashi non era né fitto né enorme; in una giornata a cavallo lo si superava ampiamente e si potevano raggiungere i territori da esso separati in assoluta comodità; per non parlare dei taglialegna, poi, che in un pomeriggio riuscivano a portare nuovi arbusti e combustibile tagliati di fresco al villaggio usando solo un carretto e un paio di muli.
Per questo non riusciva a spiegarsi come mai non fosse riuscito a raggiungere nel giro di poco tempo la casa di Kaede: lui e Sango avevano un'abitazione piuttosto vicina al centro nevralgico del villaggio, percorso che non richiedeva più di dieci minuti di cammino. Forse venti, al buio.
Ma erano ormai ore che si ritrovava perso nel fogliame, a decidere costantemente quale sentiero imboccare, senza approdare a nessun cambiamento significativo.
Si massaggiò stancamente un ginocchio; aveva le gambe terribilmente indolenzite. Era sempre stato un uomo in ottima forma fisica, ma camminare su un terriccio impervio per un così lungo lasso di tempo cominciava a pesargli sulle articolazioni degli arti inferiori.
L'ansia per le sorti della moglie, inoltre, gli impediva di pensare lucidamente. Preso dalla foga di trovarla al più presto aveva commesso dei gesti avventati, come giocare a fare l'insolente con la figura di Sesshomaru (aveva cominciato a dubitare, con il proseguire della marcia, di averlo visto davvero), oppure buttare il proprio bastone a terra per decidere la strada da imboccare, senza nemmeno rifletterci sopra razionalmente.
Era ormai chiaro che sarebbe stato costretto a passare la notte lì, nell'alcova legnosa di un qualche albero nei paraggi. Ma questa consapevolezza lo riempiva di angoscia; gli era insopportabile l'idea di doversi arrendere senza nessun altro tentativo.
Era stato un sorvegliante negligente, doveva ammetterlo. Avrebbe dovuto entrare con la forza nella stanza dove Sango si era asserragliata e riportarla alla realtà con parole dure, ma vere. Accompagnarla personalmente dalla sacerdotessa il giorno successivo, pregare con lei per Kohaku.
Ma se non si era imposto prepotentemente su di lei era perché non era riuscito a superare il rispetto e l'ammirazione che provava nei confronti di colei che era, prima di tutto, l'amica più preziosa che avesse. In battaglia non esisteva una compagna più valida di Sango, una donna più coraggiosa e determinata; aveva imparato molto dal suo esempio ed era sempre rimasto stregato davanti alla fede incrollabile della moglie nei confronti del trionfo della giustizia. Il suo ruolo di marito non aveva cambiato le cose: per lei non avrebbe mai e poi mai voluto essere un banale despota, bensì un pilastro a cui appoggiarsi nei momenti di bisogno.
Pilastro che, a quanto pareva, era miseramente venuto meno solo qualche ora prima.
Stanco, nervoso, agitato e sconfitto, si lasciò cadere in un nido di radici ai suoi piedi. Venne invaso dal più profondo senso di smarrimento che non provava da tempo; senza Sango, lui non era assolutamente nulla.
All'inizio era stato solo un monaco di quart'ordine in cerca di vendetta: scaltro, agile e duttile nei confronti del proprio destino, l'unica sua virtù morale era stata la determinazione di far finire quella spira di sangue che stava stritolando la sua famiglia. Poi, quando aveva incontrato lei, aveva compreso che a fare di lui un bonzo, ma soprattutto un essere umano, era l'amore, l'unico sentimento che non avesse mai seriamente provato per una donna.
Ed era così che era lentamente tornato alla vita. Ogni ingegno per sopravvivere che avesse mai escogitato, legale o meno, l'aveva fatto solo per assicurarsi automaticamente anche il benessere di Sango, per fare in modo di non doversi mai separare da lei.
E proprio ora che non c'erano più nemici senza volto, battaglie combattute a vuoto e scontri sanguinari, rischiava di perderla per sempre. Non aveva garanzie, infatti, che la consorte avesse raggiunto la casa di Kaede e che fosse, quindi, in salvo. Nella sua instabilità emotiva, nella stanchezza e nel dolore per il fratello, Sango poteva essere inciampata in qualsiasi altro pericolo, addirittura essersi smarrita com'era capitato a lui.
Il pensiero di tutto ciò gli divenne insopportabile. Si aggrappò al proprio bastone tintinnante per fuggire da quell'amara e confusa realtà. Possibile che fosse riuscito a perdere tutto ciò che avesse di più caro in una singola notte?
No, si disse. Sango sta bene; me lo sento. È partita di giorno, è sempre stata un'abilissima guerriera, e nulla l'ha mai fermata. Sta bene. È al sicuro.
Questo debole auto convincimento, però, fece ben poco effetto su di lui. Sapeva di star facendo anche l'impossibile pur di consolarsi almeno un minimo, ma tutto ciò non lo aiutava affatto a ritrovare la strada maestra.
Alzò lo sguardo: la pallida luce lunare illuminava solo le vette irraggiungibili dei sempreverdi che vegliavano su di lui, i rami vischiosi di resina gli avevano graffiato il viso e il terriccio umido gli aveva insozzato completamente le vesti. Faceva freddo, il cielo era buio e impenetrabile, indifferente. Non riusciva a vedere nulla, e capì che presto sarebbe piovuto.
Deglutì sonoramente. Sì, aveva paura; per Sango e per sé stesso. Si sentiva come se avesse ancora sette anni, uscito nel pieno della notte per cercare l'orinatoio e perso nei meandri della casa di Mushin, così vuota e silenziosa che gli era parso un castello di un oni maledetto sperduto nel nulla.
Abbandonato dalla fede e dalla speranza, Miroku strinse con maggior forza il bastone, chinò la testa e cominciò a pregare con singolare fervore, dapprima scosso da disperati singhiozzi, poi con maggiore sicurezza. Ogni singola parola costava uno sforzo immane, e risuonava come un roco mormorio nello spazio circostante. La notte divenne la densa spugna di quelle orazioni accorate, ogni angolo muschioso si colmò di quelle frasi intrise di amore disperato e dolore.
Pregò con un'intensità che non aveva mai sperimentato prima. Pensò a Sango, a Kohaku, a suo padre, a tutti coloro che aveva conosciuto e che erano morti; le sue viscere si contrassero dolorosamente a causa della paura e dello smarrimento, ma non smise nemmeno per un attimo.
Poco dopo, cominciò a piovere.

//

-Allora? - chiese il Signor Sesshomaru, avvolto nella densa oscurità della notte.
Jaken cadde prostrato ai suoi piedi.
-Nulla, mio signore.
Era ormai la terza volta in poche ore che il servo doveva strisciare in mezzo alle case umane puzzolenti di vite volgari per spingersi fino alla soglia del moribondo vegliato da Rin, e ogni volta portava lo stesso messaggio: "nulla mio signore".
Era vero; non succedeva proprio un bel niente.
Con la sua famosa determinazione tipicamente umana, la ragazzina pregava incessantemente, e si interrompeva solo per spalmare unguenti odorosi o per spostare gli arti immobili del semi-cadavere steso ai suoi piedi.
Il corpo giovane e sodo del guerriero sembrava svuotarsi ogni minuto; la pelle giallastra si tendeva sullo scheletro, la fronte grondava sudore bollente, i denti digrignati battevano a causa dei tremori febbrili. Dalle sue ferite sanguinolente si alzava un forte lezzo di demone. A nulla erano servite le pesanti e precise cuciture sull'addome squarciato: sembrava essere tutto inutile. Il giovane non dava segni di vita.
Il padrone accolse la notizia con quello che parve un sospiro. Per il resto rimase immobile, una bellissima statua; corrucciato, freddo, negli occhi rimaneva sepolto un bagliore assassino.
Non chiedeva dettagli, forse ignorava egli stesso quanto desiderasse in realtà avere informazioni più precise. Ma quando Jaken aveva stilato il primo, puntiglioso rapporto, le frasi esaustive sembravano averlo placato, almeno in parte e, quando il servo ripeteva il suo laconico messaggio, era consapevole che la situazione rimaneva identica alla prima volta che gli aveva fatto domande in proposito.
Volse il suo profilo principesco e fissò la luna, intensamente. Quello sguardo avrebbe potuto far sciogliere anche il più coriaceo dei combattenti.
Il servitore si ritirò in disparte, senza una sola parola di più. Era fin troppo lampante che il Signor Sesshomaru era terribilmente in collera e in apprensione per la giovane Rin, e una sola esclamazione da parte sua, questa volta, avrebbe comportato la sua morte definitiva.
Per questo rispettava il silenzio del demone, che da taciturno era ormai diventato impenetrabile. Non era possibile capire cosa stesse pensando nemmeno dalla piega severa delle labbra, normalmente distese in un'espressione neutrale e impassibile.
I capelli argentei splendevano nell'oscurità. Era l'unica luce che ci fosse nel raggio di chilometri. Addentrati così com'erano nel fitto della macchia d'alberi attorno all'insediamento umano, ci sarebbe voluto un discreto numero di tempo anche all'esploratore più tenace per scoprire le loro tracce. Jaken ebbe la sensazione che quella solitudine non fosse casuale.
All'improvviso, con un solo fruscio, Sesshomaru si alzò dal proprio scranno improvvisato e si mise a camminare con passo lento e risoluto.
Jaken aprì la bocca per dire qualcosa, ma riuscì a frenare la lingua appena in tempo; guardò la schiena del padrone allontanarsi verso un punto imprecisato.
E, anche dopo che i suoi occhi di demone non furono più in grado di individuare la sua posizione, l'istinto che viveva dentro di lui fu comunque in grado di percepire ancora a lungo la sua aura demoniaca che stendeva i propri artigli su tutta la zona.

//

Quando il temporale si fece violento e pericoloso per la sua salute, il monaco comprese di non poter rimanere un minuto di più in balia della natura.
L'ultimo barlume di razionalità che gli era rimasto lo spinse a correre verso il fondo del bosco, in mezzo alle fronde più impenetrabili, per evitare le schegge di legno che venivano scagliate addosso a lui a causa degli schianti dei rami spezzati.
Con il bastone si diede lo slancio per superare alcune radici sporgenti che intralciavano il passo; si fermò per un breve momento a riposare contro una robusta corteccia, ma riprese subito la propria fuga dall'ignoto verso l'ignoto. 
Il fiato gli mancava, i polmoni bruciavano e le raffiche di vento gli rendevano difficile respirare con regolarità, tuttavia proseguì fino a quando gli parve di scorgere una piccola grotta incastrata su una parete di roccia, evidentemente nei pressi di una stretta fascia collinare poco distante dal centro del villaggio. Si diede del tempo per riflettere: ora aveva un'idea un po' più precisa di dove si trovasse, e la cosa gli regalò un minimo di sollievo.
I piedi gonfi e pieni di graffi faticavano a muoversi sui sentieri accidentati, resi ancor più ostici dalla scivolosità dei sandali fradici. Ma, ora che era così vicino ad un riparo, strinse i denti e si addentrò disperatamente nell'intrico di rami, foglie, felci e radici, fino a raggiungere la tettoia naturale in roccia e a gettarsi, sfinito, sul solido piano scavato sul fianco dell'altura.
Libero dalla pioggia, dalle sferzate del vento e dallo smarrimento. 
Si sentiva un uomo nuovo.
Un tuono esplose fragorosamente, preceduto da un breve lampo di luce abbagliante. Questo gli permise di scorgere una figura accovacciata nelle profondità del rifugio.
Si rimise a sedere con un groppo in gola. Possibile che fosse capitato nella tana di un demone?
Tenne il proprio bastone con entrambe le mani, pronto a scagliare un fuda al minimo segno di pericolo; dopo aver tanto faticato per trovare riparo, in ansia per Sango e in lutto per quella che sarebbe stata l'inevitabile fine di Kohaku, sentiva che tutta la violenza repressa e la crudeltà animalesca che avevano sempre abitato in lui stavano per scoppiare.
Un altro lampo: non si era sbagliato, si trattava di una persona rannicchiata contro le pareti scivolose del riparo. Urlò qualcosa, ma le sue parole furono coperte dal fragore di un altro tuono, più forte del precedente.
Si armò di coraggio e si alzò in piedi, avvicinandosi con attenzione. La sagoma era piccola, di certo più di lui, e sembrava quella di una donna. Non sentiva odore di demone, ma poteva benissimo darsi che fosse a causa della pioggia.
Il suo cuore batteva forte nel petto, dandogli l'impressione che potesse balzare fuori da un istante all'altro.
La presenza sconosciuta si mosse lentamente, a fatica, voltandosi stancamente verso di lui; era impossibile scorgere il viso, ma ebbe l'impressione che si trattasse di un pallido volto delicato circondato da capelli scarmigliati e folti.
Puntò il bastone verso di lei con fermezza: era lontano solo pochi metri. La donna alzò lo sguardo, un ennesimo flash di luce rivelò che aveva sgranato gli occhi.
-M...Miroku... - mormorò, con voce roca.
Un altro tuono. Lui si sentì mancare, le ginocchia tremarono.
L'aveva trovata.

//


Kaede, dolorosamente piegata su sé stessa avvolta nel suo kimono dai colori funebri, finì di sgranare per la seconda volta le perle del proprio rosario. Attorno a lei, dieci fra i più eminenti bonzi e sacerdotesse dei paesi vicini, tutti a testa china, seguivano le sue parole e procedevano allo stesso ritmo.
Quando si era saputo del caso di Sonno Mortale, nei paraggi era scoppiato il panico; il fatto che i Kami avessero inflitto una punizione tanto crudele ad un ragazzo così giovane veniva interpretato come il peggiore dei presagi. Quando si era venuto a sapere, però, che il ragazzo era uno straniero, l'ansia per le sorti del proprio villaggio si era leggermente mitigata: i più superstiziosi arrivarono addirittura a credere che il malato avesse personalmente inflitto qualche sgarbo agli spiriti, e fosse stato punito di conseguenza.
Con discreta abilità Kaede si era affrettata a far scemare tutte quelle sciocche dicerie di paese che si propagavano in fretta; la reputazione di Kohaku rimase intatta. E così, seguendo la tradizione, si era deciso di istituire una preghiera generale al fine di evitare ulteriori fraintendimenti o incidenti funesti.
Per rispetto nei confronti della sua anzianità, Kaede era stata insignita del ruolo di officiante e organizzatrice ufficiale dell'evento, un ruolo importante e colmo di onori. Tuttavia l'anziana donna aveva accolto la notizia con pari gioia e dolore, poiché ormai da tempo non riusciva a mantenere una posizione seduta per troppe ore di seguito e, con l'avanzare dell'età, aveva anche pensato di ritirarsi: una sacerdotessa con le articolazioni rigide non sarebbe stata in grado di portare avanti il suo sacro ufficio come si conveniva.
Tuttavia qualcosa la tratteneva sempre; non aveva istruito in modo sufficiente le proprie miko, Rin stava seguendo un addestramento di tutt'altro tipo e, malgrado tutto, era affezionata al suo ruolo: i compiti che una volta erano stati di Kikyo ora venivano svolti da lei. Il legame con sua sorella era stato reso stretto e indivisibile proprio grazie alla professione alla quale aveva sacrificato non solo la giovinezza, ma la sua intera vita. La passione di un tempo non si era affatto dissolta, e questo non sarebbe mai successo; ma era consapevole di non poter continuare ancora a lungo a sostenere quei ritmi impossibili, se voleva garantire al villaggio la sicurezza di cui aveva bisogno.
La promessa fatta a Sesshomaru di completare l'istruzione di Rin c'entrava solo in parte; mantenere la parola data era sempre stata la sua peculiarità, era vero. E trasgredire ad un impegno di tale portata sarebbe stato un terribile gesto da parte sua (il demone aveva lasciato intendere che non si fidava di nessun altro essere umano, sotto quest'aspetto). Ma, mentre il signore dell'est non sembrava curarsi degli anni che passavano, per una comune mortale come lei non si trattava propriamente di questioni trascurabili.
Era anche per questo, forse, che quei due giorni erano stati così emotivamente difficili per lei. Kohaku era un uomo giovane, nel fiore degli anni, devoto al servizio e alla protezione del prossimo. Il fatto che conducesse una vita rischiosa non mitigava affatto l'ingiustizia di quanto aveva dovuto subire; rimaneva unanime il parere che avesse sofferto di una sorte ingiusta. Il pensiero di avere ancora la facoltà di camminare e muoversi tutto sommato liberamente mentre nell'altra stanza un ragazzo con meno della metà dei suoi anni forse stava per abbandonare la vita le faceva male al cuore. Ma rimase assorta nella preghiera, a testa alta e, nonostante la sua lunga esperienza le dicesse che i Kami raramente badavano alle richieste degli esseri umani, continuò ad implorare loro misericordia.

//

Una sola parola turbinava nel cervello del demone: Rin.
Quelle sole tre lettere avevano avuto il potere di imprigionarlo in una presa indistruttibile. Gli bastava sillabarle nella sua testa per impazzire: come una folata di vento gelida nella triste primavera che era la sua normalità, così giungeva inaspettato il brivido che quel nome portava con sé.
La pura ossessione di quei giorni non aveva fatto altro che fargli disprezzare la propria debolezza. Cosa voleva ottenere da quella piccola, innocente umana? 
Aveva lui stesso sancito che fosse lei a fare la sua scelta, l'aveva lasciata al villaggio senza vederla per sua stessa decisione, e ora sembrava non solo smarrirsi al pensiero di non poterla vedere più per molti anni ancora, bensì che alla fine del suo apprendistato la piccola scegliesse il villaggio al posto del suo demone centenario.
Suo? Ma certo, a chi voleva darla a bere: ormai egli stesso non apparteneva più al proprio spirito incrollabile, ma a lei. Alle sue manine sottili, che avrebbe potuto spezzare solo soffiandoci sopra, al suo sorriso sdentato, ai suoi capelli corvini, al suo corpo che mutava notte dopo notte.
La figura piccola ed esile si stava assottigliando fino a formare ciò che i suoi incubi avevano tessuto: una donna. Una donna umana, mortale, bellissima e a lui proibita.
Eppure, si ritrovò a pensare, non sarebbe meglio se si sposasse? Con un uomo, anche lui dalle ore contate come tutti gli altri di quella maledetta stirpe, che facesse dei bambini puzzolenti e lacrimosi, che morisse di parto, di tifo o di stanchezza quando non aveva ancora raggiunto le trenta primavere, che ingrassasse come ogni sua coetanea era destinata a fare dopo la quarta gravidanza, che sfaldasse il suo bellissimo, meraviglioso corpo sotto le mani rozze di uno qualunque?
Che follia; che follia! La sua Rin? Contadina in una capanna, sepolta sotto uno strato di banalità, quell'incantevole principessa?
Mai e poi mai.
Non volle concludere il pensiero, non osò spingersi tanto oltre; per il momento era sufficiente quello che aveva appena formulato. Quell'orribile orizzonte di dolore e sofferenza.
Sentì il suo lato puramente demoniaco riaffiorare in superficie, ma lo contenne. Lui era Sesshomaru, il più grande fra tutti i demoni...non poteva abbandonarsi ad una simile collera. Era a dir poco disdicevole.
Ma il pensiero della piccola non lo abbandonava. Con il crescere della nostalgia, aumentava l'andatura; perché non volava fino a lei, maledizione? Cosa gli impediva di porre fine a quell'attesa una volta per tutte?
Non lo sapeva. Anzi, lo sapeva benissimo: non poteva presentarsi dalla sacerdotessa in quelle condizioni: fuori di senno, ad un passo dalla follia, stritolato dalla più dolce maledizione che mai potesse pendergli sulla testa.
Reclamava la risata di Rin, il suo profumo, il suo odore, l'animalesco bisogno di vederla. La bestia che era in lui fremeva e ruggiva.
Si sarebbe seduto in un angolo della capanna pregna di odori umani, ma tutto sommato migliore rispetto a quelle circostanti, e l'avrebbe ascoltata parlare. Fino a quando la ragazzina non si fosse addormentata fra le sue braccia, candidamente come più di una volta era successo. Non che Sesshomaru la vezzeggiasse quando lei era ancora sveglia: semplicemente la raccoglieva da terra, le spazzolava via il terriccio dai capelli e, con una carezza impossibile da percepire, la poggiava sul suo giaciglio; a volte la guardava dormire, voleva sentire se respirava, guardava le palpebre per capire se stesse sognando. Se stesse sognando lui.
Se stesse sognando loro due insieme.
Per la collera verso sé stesso affondò le unghie nella corteccia vicina, e quasi immediatamente la superficie cominciò a sfrigolare e si sciolse sotto alla sua presa. La resina vischiosa gli impregnò la stoffa della manica, l'interno vivo e pulsante dell'albero si squarciò come neve al sole attorno alle sue dita. Affondò fino al polso, poi ritirò gli artigli per non far crollare il tronco.
Riprese la sua marcia.
Rin era solo una bambina, non doveva dimenticarlo.
Anche per gli standard umani lei era semplicemente troppo giovane. E non solo alla luce dei cinquecento anni o poco più che li separavano, ma anche in nome di qualsiasi decenza.
Il suo aspetto non era rimasto compromesso da quell'improvvisa furia rabbiosa, ma si calmò leggermente dopo tale pensiero. Doveva solo avere pazienza, poi lei avrebbe fatto la sua scelta.
Nell'aria, fiutò l'odore nauseabondo del villaggio; fece un po' di fatica a causa della pioggia che stava per arrivare ma riuscì a capire che, a parte poche eccezioni, tutti dormivano. Anche da lì poteva sentire i rauchi respiri pesanti di deboli creature indifese, gli odori del sudore e della fatica non del tutto raschiati via dai loro corpi. La nota flautata dell'essenza di Rin lo raggiunse con un po' di ritardo, ma era sempre presente: affaticata, ma costante.
Lei non stava dormendo: annusò un po' più in profondità, ammonendosi di non superare certi limiti, e fiutò il suo respiro sottile, il suo fiato fresco. Stava parlando, non riposava da tempo.
Aveva parlato con la sacerdotessa umana, le aveva detto di non fare affaticare oltre l'apprendista, che era troppo piccola per sopportare una veglia del genere. Ma a quanto pare non era stato ascoltato, e ciò lo infastidiva.
Poi, come uno schiaffo improvviso, lo raggiunse il marcio e fetido odore del ragazzo. E fu allora che la sentì arrivare: la consapevolezza.
Il giovane non sarebbe sopravvissuto.
Fece quella che, in circostante normali, su visi più malleabili, sarebbe dovuta essere una smorfia. Ma i suoi lineamenti perennemente contratti in un'assenza di espressione non ne ricevettero il minimo cambiamento.
La preoccupazione che sentiva per Rin continuò a crescere, e non solo alla luce delle condizioni del malato, ma anche a causa delle parole insolenti di quel monaco. L'umano aveva usato prendersi gioco di lui, ma aveva toccato dei tasti dolenti: era per questo che si era deciso ad intervenire.
Pur contrastando completamente il suo istinto, si sedette in un'alcova fatta di radici odorose. Mantenne la schiena dritta e le orecchie tese, pronto a cogliere il minimo movimento, ma Jaken era stato molto accurato nei suoi rapporti. Almeno di questo doveva rendergli merito.
Nel buio e nel silenzio della notte, Sesshomaru attese.
E, per la prima volta nella sua vita, anche a lui le ore sembrarono infinite.

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Capitolo 21
*** Passione ***


ATTENZIONE: Scusate se vi disturbo subito ad inizio capitolo, ma vi devo avvisare che si tratta di un'episodio più "bollente" del solito (si spera, per lo meno!). Ho aggiunto un angolo autrice alla fine per maggiore chiarezza.
Buona lettura!



Inuyasha aveva dimenticato quanto la stanchezza umana possa portare all'oblio completo. Kagome non aveva dato segno di volersi svegliare per quasi tre ore: lui aveva lavorato al magazzino, rizzandosi di tanto in tanto per consolarsi con la traccia forte e distinta del profumo della sua donna.
Kagome era ormai diventata un'adulta, se ne era accorto già da tempo. Le sue gambe snelle e slanciate avevano acquistato una nuova flessuosità, il seno generoso era ben visibile anche sotto al vestito più casto, le labbra e il suo odore stesso avevano cominciato ad assumere una sfumatura terribilmente sensuale, segni inequivocabili che la ragazzina di cui si era lentamente innamorato stava mutando in una splendida, meravigliosa giovane donna.
Si rese distrattamente conto che non sapeva quanto a lungo sarebbe stato ancora in grado di dormire nella sua stessa stanza senza la minima reazione.
Perché lei, immersa nel sonno, assumeva un'aria così innocente e pura da abbacinarlo. Il viso disteso, le ciglia scure posate sulle guance morbide, il respiro regolare, le pose involontariamente seducenti che permeavano il suo corpo totalmente rilassato, effluvi deliziosi del suo odore che gli giungevano a lente, dolci ondate...avrebbe voluto immergere il capo nella sua chioma corvina e respirare avidamente quella fragranza che aveva potuto assaggiare solo di sfuggita, e per brevi momenti, lasciarsi andare dando libero sfogo al suo lato demoniaco che premeva, notte dopo notte, per uscire.
Finì di spostare un vaso leggermente più pesante dei precedenti. Il problema, in quel magazzino, non era troppo il peso degli oggetti, quanto la polvere che vi era depositata sopra: quei minuscoli granelli gli grattavano la gola, i polmoni, sembrava che gli si incastonassero nel cervello.
Spostò l'oggetto nell'angolo e ne sollevò un altro, forse ancora più costoso, ma leggero come se fosse totalmente vuoto. La voglia di chiedere spiegazioni al vecchio, assorto a decifrare alcune pergamene alle sue spalle, fu violenta, ma si trattenne; non era dell'umore giusto per porre quesiti. La risposta, inoltre, sarebbe sempre stata la stessa: "oggetti antichi, giovanotto, oggetti molto antichi e preziosi".
Forse quella roba era più recente di lui stesso, chi poteva dirlo? Per il nonno, comprensibilmente, anche un artefatto di cento anni prima era considerato un cimelio.
- Ragazzo, stai attento a quel vaso - gli disse, senza alzare gli occhi dalle proprie carte.
L'odore penetrante di inchiostro di quegli affari lo stava seriamente inebetendo. Posò il carico a terra, lo spolverò con lo straccio che aveva in dotazione, poi lo ripose sullo scaffale. Quanto robusta doveva essere quella struttura per reggere tutta quella roba?
Passò oltre; quel lavoro metodico eppure stancante lo invitava a perdersi nei propri pensieri.
Un fruscio lontano, proveniente dalla stanza di Kagome, lo avvisò che la ragazza doveva essersi voltata sull'altro fianco, segno che stava per svegliarsi. Lei dormiva sempre stesa sul lato sinistro, ma si rigirava durante la notte: dapprima si metteva a pancia in giù e poi, quando la realtà si riavvicinava al suo spirito addormentato, si appoggiava sulla parte opposta.
Annusò meglio, con discrezione. Sembrava ancora profondamente assopita...ma la sua memoria non mentiva mai, così come il corpo di Kagome, costretto alla sincerità dalle leggi della natura. Guardando l'arco del sole nel cielo e le ombre che venivano proiettate a terra, calcolò che dovevano essere all'incirca le quattro del pomeriggio.
- Giovanotto...a che punto sei?
Il mezzo-demone si scostò con uno sbuffo spazientito per mostrargli direttamente il proprio operato. - Ho spolverato lì...e lì...e anche là in fondo. Poi ho messo in ordine quei vasi nell'angolo, e ho riordinato i primi tre scaffali, i più alti. Ma non riesco a capire cosa c'è scritto su quelli verdi, così li ho lasciati da parte.
- Bisognerà che ti insegni i nuovi ideogrammi - disse il vecchio, sembrando assorto in un dialogo con sé stesso. Poi annuì con convinzione.
Sembrava soddisfatto.
Si tolse gli occhiali dalla punta del naso e li pulì con l'orlo della parte alta del kimono.
- Tra una mezz'ora circa noi partiamo per fare visita a dei parenti...ma visto che Kagome dorme abbiamo deciso di lasciarla qui a casa. 
Dopo averlo annunciato, sembrò sul punto di uscire dal soffocante magazzino, ma si voltò nuovamente verso Inuyasha.
- Ah, a proposito: quando si sveglia dille che siamo andati lo stesso. E, visto che hai fatto un buon lavoro, per oggi può bastare così. Domani ti insegnerò a leggere gli ideogrammi che non capisci.
Fece un cenno d'assenso, seguito a ruota da Inuyasha, ancora piuttosto sbigottito e incerto su cosa pensare.
Per non sembrare eccessivamente maleducato, il giovane sollevò una mano, come per salutarlo, quando l'uomo era già a diversi passi da lui.
- A stasera, allora.
Il sacerdote rispose con un'occhiata affaticata dalla lettura, per poi entrare in casa e sparire. Suo malgrado, sentì grazie al suo fiuto l'odore del vecchio che si muoveva nell'ingresso, togliendosi i sandali, e che saliva le scale.
Inuyasha si tolse la bandana che era costretto a tenere legata sul capo.
Quella traccia olfattiva lo incatenò, nuovamente, a Kagome. La sua graziosa principessa.
Arrossì immediatamente: graziosa principessa?! Ma cosa stava blaterando? Che si fosse rammollito a furia di stare in quella casa di pazzi?
Lei stava dormendo, ma meno intensamente di prima. Gustò ad occhi chiusi il sentore che gli stava stuzzicando le narici; era stanca, molto stanca. Si era addormentata di sasso dopo appena pochi metri percorsi in braccio a lui. A causa di quel sonno pesante non gli era stato possibile entrare dalla finestra della sua stanza, furtivamente com'era abituato, e fu costretto ad entrare dalla porta principale.
Fortunatamente non c'era nessuno; sarebbe stato imbarazzante venire scoperto con la ragazza stretta al proprio petto.
Kagome si mosse ancora: lui drizzò le orecchie. Era stata una reazione incontrollata: il minimo fruscio risvegliava il suo istinto demoniaco, la parte di sé che cercava di soffocare da quando era arrivato in quel mondo poco adatto ad ospitare dei demoni. Quando l'olfatto non riusciva a saziarsi a dovere, interveniva l'udito. E lui non faceva assolutamente nulla per impedirlo.
Sentì una calda scossa al basso ventre quando, forse a causa del momentaneo arricciamento dell'orlo del vestito leggero di Kagome, riuscì a cogliere l'odore dell'intimità di lei.
Il suo viso assunse una colorazione bordeaux. Disperatamente, cacciò il naso in mezzo ai vasi ancora unti che che se ne stavano nell'angolo, in attesa di essere spolverati, e inspirò violentemente. Il suo viso ebbe un fremito, e il suo corpo premette per la voglia di scostarsi, ma tenne ferma la presa sulla sua ragione e si impose di rimanere immobile con il naso premuto contro il coccio ruvido e sporco del "sacro" contenitore.
Il pulviscolo sottile prese a grattargli la gola, gli occhi bruciarono immediatamente, lacrimando per il fastidio. Tossì e gli venne da vomitare, ma rimase fermo. Poteva quasi fiutare ogni singola mano, ogni singolo insetto, ogni minimo granello di polvere che vi erano spalmati sopra, che avevano lasciato un'impronta di sudore e di grasso sulla superficie lurida dell'oggetto.
L'essenza pulsante di Kagome, la sua fresca giovinezza.
Inspirò più a fondo, colse un sentore di marcio che gli fece girare la testa.
La morbidezza sottile e birichina di quell'essenza fruttata.
Si aggrappò ai fianchi del vaso e inalò l'odore prepotente dello smalto verde, che ricopriva il vaso con pennellate uniformi.
L'inconsapevole leggiadria di una fragranza tutta da scoprire.
Si morse la lingua. "Maledizione!"
Doveva uscire da lì. Quella penombra abbacinante gli stava dando al cervello. Con che coraggio si permetteva di invadere spazi tanto privati, a lui preclusi? Kagome era giovane, molto giovane...vergine.
Il suo essere demoniaco lo portò ad una situazione molto simile alla disperazione. Sentì il cuore battere furiosamente nel suo petto, quasi desiderasse uscire. Le mani, gli artigli, le gengive che trattenevano le zanne presero a prudere e a formicolare con prepotenza; le ginocchia fremettero dalla voglia di scattare.
Ogni minima fibra del suo corpo era tesa come un cane da caccia.
Animale, demone: era questo ciò che era? Era questo ciò che l'eccitazione lo faceva diventare? Come poteva un essere del genere presentarsi davanti a Kagome?
Il solo pronunciare il suo nome provocò una scossa elettrica che gli fece frizzare la colonna vertebrale.
Nonostante la violenza fatta a sé stesso ficcando le narici fra quel marciume, quella voglia insensata e famelica non si ridusse di un solo frammento. Era come scivolare contro un muro solido e compatto, impermeabile alla sua ragione. Rivide chiaramente nella sua testa il corpo nudo di Kagome come gli era capitato di vederlo parecchie volte...la sua gelosia di quella mattina era stata totalmente giustificata.
L'innocente ancheggiare con quella gonna cortissima e brillante.
Il sorriso, la risata che gli scaldava il cuore di gioia.
La sagoma di lei addormentata fra le sue braccia.
E quella bocca...quella bocca...
Si portò il pugno chiuso alle labbra e morse furiosamente; quante volte, dormendo nella sua stanza, aveva provato sensazioni simili? La camera di Kagome era come una bolla isolante, che lasciava al di fuori della porta di legno rettangolare tutto quanto. Persino la bruciante nostalgia dell'epoca Sengoku si attenuava. Tutto diventava secondario rispetto al respiro della giovane a pochi passi da lui.
Sentì una goccia di sangue scorrere lungo il polso, e continuò ad affondare i denti nelle carni. Sapeva perfettamente che il suo corpo sarebbe stato in grado di guarirlo nel giro di poco tempo ma, se le lesioni si fossero approfondite, gli ci sarebbero voluti anche dei giorni interi.
Si accorse, tutto sommato, che quel dolore auto-imposto gli stava facendo ritrovare il controllo. La morsa famelica che sentiva nel basso ventre smise di pulsare in modo tanto sfacciato mentre i canini dilaniavano la pelle e si facevano strada verso il coriaceo interno della sua mano. Le ossa, i legamenti tesi: tutto funzionava come una macchina viva, il cui funzionamento sfuggiva però al suo controllo.
Odiava sé stesso perché sapeva che Inuyasha (il vero Inuyasha) non gli apparteneva. Non apparteneva a nessuno. La semplice consapevolezza di rischiare la follia a causa di un'eccitazione sessuale che non sapeva dominare era un motivo di profonda delusione.
Quando si trasformava in demone, quando respirava l'essenza di Kagome. Cosa avevano di diverso quei momenti?
Nulla; era pronto ad uccidere in entrambi i casi.
Perdeva il lume della ragione, i legami con il suo fisico si logoravano, il suo cervello innestava il pilota automatico senza il suo consenso. Faceva del male a sé stesso.
Vittima e carnefice diventavano una cosa sola.
Kagome non era pronta a donarglisi come lui desiderava facesse. Non perché non lo amasse, poiché era certo sopra ogni cosa che la ragazza ricambiasse i suoi sentimenti, ma a causa di altri elementi che sfuggivano alla sua comprensione. I momenti c'erano stati, non erano mancate le occasioni in cui avrebbe finalmente potuto sfogare le proprie fantasie. Tuttavia, una volta superata una certa soglia, il tocco di lei cambiava; si irrigidiva, inciampava su sé stessa, arretrava e si ritraeva.
Una volta aveva visto nei suoi occhi una scintilla di terrore, come se pensasse che lui avrebbe continuato nonostante le sue resistenze. Come se davvero fosse capace di violentarla.
E Inuyasha, obbedendo al più profondo dei suoi istinti, si bloccava ogni volta. Non faceva pressioni quando venivano interrotti, né quando era lei a dimostrarsi incerta se proseguire alla ricerca del piacere oppure interrompersi.
Ritraeva le mani, si staccava dalle sue labbra. Il rispetto per lei era decisamente più importante di un momento di eccitazione.
Ma quel giorno sentiva che nel suo corpo stava accadendo qualcosa di diverso. Ora che la colata di lava corrosiva che aveva il proprio fulcro laddove aveva piantato i denti stava assorbendo le energie del suo spirito, ebbe modo di pensare razionalmente. Forse, si disse, ne aveva colma la misura, non era più in grado di resistere.
Giorno dopo giorno diventava sempre più difficile ignorare ciò che sentiva dentro. E proprio perché rispettava Kagome si rese conto che era necessario che lui si allontanasse. Che la lasciasse tranquilla.
Sì, decise, quella sera stessa avrebbe accettato l'offerta fattagli diverso tempo prima dalla madre di Kagome di dormire sul divano. O all'aperto, fra le fronde di una quercia, una delle tante che c'erano nel giardino del tempio.
Risoluto, tolse lentamente i denti dalla carne della mano, ancora stretta a pugno, e sentì un'allucinante scarica di sofferenza riversarsi dentro di lui. Poteva chiaramente avvertire la forma affilata delle zanne mentre abbandonavano i solchi scavati a forza nella pelle: aveva esagerato, si era lasciato andare più del dovuto.
Analizzò lo squarcio dolente e sanguinante: si vedeva distintamente il segno dell'arcata appena ritratta. I segni erano profondi, scuri e gonfi; la pelle zampillava sangue, prudeva e pizzicava. Stava soffrendo terribilmente.
Voltò il dorso e analizzò il palmo, anch'esso segnato dalle mezzelune che le sue unghie avevano disegnato nella stretta. Rivoli di sangue vischioso raggiunsero anche quella parte tutto sommato illesa, colando lungo il polso, confondendosi con l'orlo dell'ampia manica color cremisi. Era un fiotto all'apparenza inarrestabile.
- Inuyasha! - esclamò una voce.
Alzò di scatto lo sguardo: Kagome. Nella confusione della sua testa non l'aveva sentita arrivare.
La ragazza aveva in volto un'espressione sconvolta dalla pena e dalla preoccupazione. Lasciava vagare lo sguardo fra la sua bocca sporca di liquido rosso e la mano deturpata, senza evidentemente trarre un collegamento fra le due cose.
Inuyasha, gli occhi resi vividi da un bagliore rossastro, un arto devastato e un sorriso di sangue stampato sulla pelle candida del viso, la fissò come un colpevole guarda colui che l'ha colto sul fatto.
All'improvviso, il fianco del mezzo-demone prese a premere violentemente, con pulsazioni sempre più prepotenti.
"Tessaiga". La spada stava reagendo, stava cercando di fermarlo. Lo stava proteggendo.
Stordito, il giovane si appoggiò all'entrata del magazzino: la copiosa perdita di liquido, l'intromissione della spada e la massiccia cura di emergenza che il suo organismo stava mettendo in atto lo debilitarono tanto che credette di stare per perdere conoscenza.
Kagome, in un lampo, lo sorresse. Gli tenne con fermezza le spalle, lo sguardo animato da una nuova determinazione.
- Non opporre resistenza - disse, a denti stretti per lo sforzo di tenerlo in piedi, - lascia che ti porti in casa...so io come curarti, lascia fare tutto a me.
Inuyasha, dal canto suo, rimase impuntato al suo posto. Non poteva permettere di esporla al pericolo di stargli troppo vicina, non dopo i pensieri inopportuni e sconsiderati che aveva fatto su di lei.
- Kagome, lasciami qui...sto benissimo...
La sua voce affaticata tradì quanto in realtà stesse soffrendo.
- Non esiste - esclamò l'altra. Appena si assicurò che fosse stabile sulle gambe lo prese per il polso, con delicatezza, macchiandosi a sua volta dell'impulsività del mezzo-demone.
Lui si lasciò condurre: niente al mondo sarebbe stato in grado di dissuaderla.

//

Il periodo trascorso nel Sengoku aveva reso Kagome molto meno sensibile alla vista del sangue di quanto lei stessa credesse.
Quando si trovava al villaggio poteva assistere ad ogni genere di spettacolo, da un incidente domestico ad un ferimento in battaglia. Nella capanna di Kaede, e nell'infermeria costruita a fianco, se ne vedevano di cotte e di crude.
Aveva imparato che la prima reazione di fronte a tali eventi è la più importante, e che lasciarsi prendere dal panico complicava solo le cose. All'inizio strillare le era sembrata una buona idea, nonché la cosa che le venisse meglio; ma, quando si era accorta che la ferita non mutava affatto anche se si sgolava, aveva cominciato a rendersi conto di poter fare qualcosa di veramente utile grazie alla sua energia spirituale.
Non era la prima volta che vedeva Inuyasha ferito. Si lasciò guidare da questa convinzione.
Lo fece sedere sull'orlo della vasca da bagno e si fece porgere la mano sanguinante, nonostante le resistenze del mezzo-demone.
Non parlò, non disse nulla: sotto il suo sguardo attento, ripulì con una vasta dose di disinfettante e acqua fredda lo squarcio, stando di attenta a non calcare troppo sui punti più esposti.
Il giovane si ritrasse con una smorfia, ma lei lo tenne fermo.
- Non muoverti - intimò.
- Brucia! - esclamò lui. - E poi non mi serve a niente quella roba!
- Senti: se non rimani immobile sarò costretta a legarti, e credimi quando di garantisco che, in tal caso, non sarà solo questa mano a dover essere ricucita.
Inuyasha voltò la testa dall'altra parte: la sua chioma folta le impedì di vedergli il viso. Era un compromesso accettabile.
Mente tamponava quella serie di voragini, per la testa cominciarono ad affacciarsi mille domande.
Si vedeva chiaramente il segno di un'arcata dentale superiore stampata sulla pelle di Inuyasha, con estrema precisione. Ma nessuno poteva avere un morso capace di penetrare tanto in profondità e di lasciare un segno così visibile. Quand'era arrivata il mezzo-demone era solo, e la ferita era fresca: inoltre, altro fatto non trascurabile, la bocca di lui era altrettanto imbrattata.
Tuttavia, nonostante ogni evento facesse credere che quella fosse una ferita auto-inflitta, Kagome non riusciva a spiegarsi il perché. Inuyasha non aveva mai manifestato un simile istinto distruttivo verso sé stesso, nonostante molto spesso avesse desiderato essere diverso e non avesse mai fatto mistero di quanto soffrisse della sua condizione di mezzo-demone. Ma arrivare a tal punto? Scorticarsi tanto in profondità, con una tale violenza?
Arrivò a pensare che si trattasse di un profondo senso di estraniamento nei confronti di quel mondo in cui, all'apparenza, sarebbe stato costretto a vivere d'ora in avanti. Forse i palazzi, l'asfalto, il rumore incessante del traffico e l'aria viziata lo stavano provando in modo talmente significativo da fargli perdere lentamente la testa.
Era perfettamente normale che il giovane si sentisse spaesato da quel nuovo stato di cose, ma era pur vero che non era propriamente nuovo in quell'epoca. L'aveva visitata moltissime volte, alcune anche senza di lei, si era mosso agilmente attraverso la trama urbana e mai, prima d'allora, aveva mostrato così evidenti segni di repulsione.
Non seppe perché, ma cominciò a sentirsi in colpa.
Tirò maggiormente verso di sé la mano di lui, ripulì il polso con gesti decisi e poi volle vedere anche la parte inferiore. I suoi palmi erano privi delle pieghe che comunemente vi sono disegnate sopra: a parte due leggeri solchi, (uno a descrivere la curva del muscolo vicino al pollice, l'altro sotto all'attaccatura delle dita affusolate), Inuyasha aveva mani incredibilmente delicate. Certo, le unghie lunghe e ovali, la pelle candida e il tepore che la pelle emanava potevano apparire come caratteristiche eccessivamente femminee, ma la linea dura e rigida degli arti recidevano decisamente questa sensazione di androginia. Pur maneggiando costantemente la spada, non vi era il minimo segno di sfregamento.
Osservò, senza nascondere quanto fosse affascinata, i solchi lasciati dalle unghie che, da rossastre mezzelune, si riducevano fino a sparire.
Sospirò; gli asciugò il punto dolente e poi lo fasciò generosamente. Nonostante sapesse che i tempi di guarigione di Inuyasha erano differenti da quelli umani, volle comunque evitare la possibilità di un'infezione.
- Ecco fatto. Riesci a muovere le dita?
- Sì.
- Senti un formicolio? - chiese, riponendo le garze nel kit di primo soccorso.
L'altro grugnì un assenso.
- È perfettamente normale.
In verità avrebbe voluto urlargli in faccia che no, quella situazione di normale non aveva nulla, ma si trattenne. Non avrebbe avuto senso sfogarsi proprio quando lui le mostrava le sue debolezze.
Lo sguardo le inciampò sull'elsa di Tessaiga, la spada che lui aveva ottenuto grazie a lei.
Tessaiga...l'arma che gli aveva appena salvato la vita.
Infatti, se non fosse stato per il richiamo che aveva cominciato a mormorare nell'orecchio di Kagome, solleticando il suo potere spirituale, la ragazza avrebbe continuato a dormire, ignara. Le aveva provocato quel genere di solletico che avvertiva quando Inuyasha rischiava la vita, una sensazione che avrebbe potuto definire "di pancia".
Era stata guidata da Tessaiga verso di lui, poiché la spada aveva capito che solo Kagome sarebbe riuscita a fermarlo, a porre rimedio a quel disastro. E lei aveva obbedito.
Vedendo Inuyasha fuggire dal suo sguardo, decise di prendergli delicatamente la mano sana fra le sue. Accarezzò le nocche in rilievo, la tessitura fitta di vene e nervi, sfiorò la pelle fresca vicino al polso, saggiò la punta delle sue unghie innaturalmente scure.
Il mezzo-demone ebbe un fremito e fece per ritrarsi. Lei, con uguale determinazione rispetto a prima, lo tenne stretto.
- Mi spieghi cosa c'è? - chiese, a bassa voce.
Erano seduti l'uno di fronte all'altra, ma Inuyasha si ostinò a fissare il muro. Aveva compreso che quel semplice quesito non nascondeva né pietà, né eccessiva voglia di impicciarsi dei suoi affari, ma solo pura e semplice preoccupazione, tuttavia non riusciva a risponderle. Non solo non poteva confessare cosa l'aveva spinto a quel gesto estremo, ma anche si sentiva terribilmente a disagio con sé stesso, anche a causa della loro vicinanza.
Non poteva continuare così, lo sapeva benissimo. Eppure confessarsi e parlarne con lei, lei che era la diretta responsabile, risultava ancor più impossibile che ignorare le sue sensazioni.
- Inuyasha, lo so che c'è qualcosa che mi stai nascondendo. Questa ferita ne è la prova; non voglio che tu sia costretto ad arrivare ad un simile livello solo perché non me ne vuoi parlare...abbiamo condiviso cose che in circostante normali basterebbero a far interrompere qualsiasi rapporto. E ce l'abbiamo sempre fatta.
Cercò di guardarlo in viso, una profonda tristezza che albergava nel suo cuore si fece prepotente quando notò l'espressione gelida e distante, tormentata, di Inuyasha.
- Ti prego... - sussurrò.
Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Il mezzo-demone si voltò di scatto, troppo repentinamente perché Kagome potesse reagire, e le prese la mano che, poco prima, stava stringendo la sua. La ruvidità delle fasciature gli impediva di saggiare appieno la sua pelle, ma fece in modo che le dita, lasciate libere da quell'inutile costrizione, accarezzassero la morbidezza della sua guancia rosea.
Premette le labbra contro quelle della giovane in un impeto di pura follia. Il suo corpo era immerso in un fuoco rovente, divampante; l'elettricità statica che aveva in corpo bruciò quando sfiorò la giovane e, dalla reazione di Kagome, capì che anche lei aveva ricevuto la scossa.
Sentendo la bocca della sua donna schiudersi, Inuyasha lasciò che un altro briciolo di ragione si infrangesse e lo abbandonasse. Snudò le zanne, fece danzare la sua lingua contro quella di lei.
Kagome, sentendo quella presa ardente di passione, ebbe un fremito. Inuyasha non si era mai dimostrato così deciso, prima d'ora. Era come se avesse abbandonato ogni resistenza, fosse già nudo davanti a lei: nello sfolgorio dei suoi gesti poteva intravedere lo scintillare della sua anima.
Gli parve di comprenderlo di più in quel momento che non in tutto il periodo che avevano trascorso insieme. I suoi baci infuocati le disegnarono la linea della mascella, per poi scendere lungo il collo, le clavicole. Le mani le cinsero la schiena, lei si abbandonò fra quelle braccia forti.
Strinse a sua volta la sua chioma folta. Era incredibile quanti capelli Inuyasha potesse avere: formavano un'onda compatta, impenetrabile, liscia e sfuggente. Ne tenne incatenate alcune ciocche fra le dita, per poi risalire lentamente verso l'attaccatura. Quando la spinta del giovane la portò a stendersi sulla schiena nel precario equilibrio del bordo della vasca, lei tirò  i ciuffi che teneva fra le mani, con forza, misurando la passione.
Questo strattonare provocò un gemito soffocato nel demone, che nascose la bocca nella curva del suo collo. Tale reazione la affascinò; strinse di nuovo, provocando un altro ansito. Sentì la forma dei denti a stento trattenuti dietro alle labbra farsi tangibile contro la gola.
- Kagome... - lo sentì sussurrare.
Le sue dita giocose raggiunsero le sue orecchie morbide, da animale. Erano forse l'aspetto più singolare di tutto il suo corpo. Toccò con più attenzione della prima volta in cui le aveva viste la peluria candida che le ricopriva, scoprì la base cartilaginea così sottile da sembrare impalpabile. Disegnò voluttuose carezze con il pollice sulla parte interna e soffice delle orecchie, seguendo la curva naturale delle appendici, salendo e scendendo in veloci carezze. Il corpo premuto contro di lei tremò come se quel contatto bastasse, da solo, a sbrigliare le redini dello spirito di Inuyasha.
Le mani salde che aveva da poco finito di curare le strinsero i fianchi. Lei fu assalita da una corrente di puro fuoco che le incendiò le viscere, risalendo dal basso ventre fino al cervello. Schiuse le labbra, ospitò un altro bacio frettoloso. Non sentiva nemmeno la dolorosa forma del ciglio su cui era ormai stesa, si limitava a seguire la scia di sensazioni che non aveva mai provato prima.
Inuyasha era l'impeto della battaglia, l'aggressività, la violenza di uno spirito indomito. Nei suoi muscoli tesi, sulla linea dei nervi contratti nello sforzo, si assaggiava il sapore del pericolo, puro e semplice, tangibile quanto il filo di una lama e doppiamente pungente.
Kagome infilò una mano sotto alla scollatura della sua casacca rossa, mentre teneva le altre dita impegnate ad accarezzargli le orecchie. Sembravano essere il punto più sensibile del suo corpo.
Si scontrò con la stoffa ruvida della pelle di Inezumi, per poi arrivare alle cuciture ammorbidite dal tempo della veste candida. Scostò i due strati di stoffa, venendo in contatto con la sua pelle bollente: sembrava che entrambi avessero la febbre.
Seguì la definita tonicità delle spalle, tese per sorreggerla, ma la stoffa le impedì di assaggiare il calore delle braccia, dei muscoli sul suo petto. Erano così stretti l'uno all'altra che lei dovette stendere il braccio fino a cingere tutto il suo busto per arrivare a toccare la schiena muscolosa e asciutta.
- K...Kagome? - ansimò Inuyasha.
Lei rispose con un gemito quando sentì le mani di lui sollevarle il vestito, toccare la morbidezza dei fianchi.
- Vedi qual è l'effetto che mi fai...?
Il seno contro il suo petto lo stava facendo impazzire. Stava per affondare il viso nella sua scollatura quando, improvvisamente, risalì fino al suo viso e riprese a mordicchiarle labbra.
Lei rispose a quella serie di baci con un impeto che non aveva mai dimostrato prima, e che lo spinsero a farsi di volta in volta più audace. Quando la presa sui canini gli sfuggì contro le labbra di lei, sentì in risposta solo una presa più decisa sull'attaccatura dei capelli, laddove Kagome era ridiscesa con l'intento di togliergli del tutto la casacca.
Per un attimo i loro sguardi si incrociarono nuovamente. Gli occhi gialli di Inuyasha erano ora venati da sfumature più rosse di un tramonto estivo, sembravano risplendere di una nuova luce. Kagome li fissò con una nuova sensazione nel cuore, come se stesse finalmente scoprendo il lato di lui che non era mia riuscita a vedere prima. Quei baci, quelle furiose carezze, le stavano facendo assaggiare la parte demoniaca che il guerriero si era sempre premurato di tenerle nascosta.
Le venne da piangere per la felicità. In quel momento era consapevole di amare il giovane più di quanto lei stessa avesse mai ammesso, ed era pronta a lasciar affiorare in superficie i lati più nascosti di sé stessa, le emozioni più recondite del suo spirito.
- Sii ciò che non hai mai voluto essere di fronte a me, Inuyasha... - bisbigliò al suo orecchio.
Quel soffio caldo che pronunciò languidamente il suo nome lo mandò in visibilio.
Strinse i fianchi ora scoperti di Kagome, lasciò scie più chiare sulla sua pelle laddove aveva premuto i polpastrelli.
La sollevò di peso e lei, per tutta risposta, gli agganciò le gambe dietro la schiena, incatenandolo in un bacio infuocato. I capelli sciolti, l'espressione selvaggia, svestita per metà: davanti ai suoi occhi c'era una sconosciuta che profumava in modo seducentemente familiare.
Sconosciuta? No, quella era la donna che amava. Era sempre stata sotto ai suoi occhi ma, a causa della sua inettitudine, non l'aveva mai vista davvero.
Chiuse gli occhi, si inebriò dell'odore da cui era circondato.
Alzò la testa per un attimo ma, come si accorse sbirciando dalla porta semiaperta del bagno, non sarebbero riusciti ad arrivare alla camera da letto.
- So cosa stai pensando - mormorò lei al suo orecchio. - Va benissimo anche qui.
Era l'invito che gli serviva. La stese a terra con la massima cautela, senza mai lasciarla andare, e lasciò che lei lo spogliasse della casacca. Liberarsi da quella costrizione fu un vero e proprio sollievo per il demone.
Kagome fu subito circondata da uno schermo fatto di capelli che escluse il resto del mondo da lei. Gli prese il viso fra le mani, lo tenne stretto quando sentì che anche l'ultimo pezzo  di stoffa era stato tolto dal suo corpo per lasciarla libera di assaggiare fino in fondo quel contatto.
Inuyasha era così bello, così innamorato...e così suo.
Non esisteva nient'altro, solo lui.
Un giovane che amava alla follia la sua donna.
E lei che non avrebbe potuto essere più felice di ricambiarlo. 




ANGOLO AUTRICE:
Buongiorno, carissime!
Come potete notare, sono tornata!
Prima di ritornare nella mia caverna a progettare il prossimo capitolo, volevo solo spiegarvi come mai ho deciso di cambiare il rating di questa storia. Tranquille, non preoccupatevi: questa non è, e non sarà mai, una storia erotica. Infatti io non descrivo mai scene spinte per scelta, e il massimo a cui mi vedrete mai arrivare sarà questo. Perché? Non saprei; forse ogni personaggio, quand'è su di giri, diventa l'OOC di sé stesso e non vorrei forzare troppo la mano...chi lo sa.
Comunque, onde evitare di dovervi avvertire in caso di ulteriori scene di questo tipo (per vostra gioia) oppure episodi cruenti (per mia gioia), ho deciso di inserire il rating immediatamente successivo a quello verde; la storia, lo ripeto, non cambierà, andrà avanti con lo stesso tenore sino alla sua conclusione. Ma si tratta di una misura di sicurezza.
Vi ringrazio ancora una volta per la vostra attenzione e, se aveste altri dubbi in merito oppure desideraste semplicemente minacciarmi di morte, basta solo che me lo facciate sapere e io sarò disponibile nei vostri confronti! (ciò non significa che possa arrivare a soddisfare le vostre fantasie nel secondo caso, però...anch'io ho i miei progetti da portare a termine, eh).
Ah, e mi sembra anche corretto farvi sapere che non sono per nulla soddisfatta di questo capitolo, né di quelli che ho scritto in passato, quindi non posso assicurarvi quando arriverà il prossimo; fra tutte le modifiche e i tagli che applico di volta in volta, i testi diventano così corti che mi tocca riscriverli. Mi scuso in anticipo, dunque.
Grazie nuovamente per tutto quanto...ora me ne vado!
Alla prossima,
Dark Kisses.
The Queen (come sempre!) <3
 

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Capitolo 22
*** Dopo la tempesta ***


Il viso di Kohaku sembrava essere, per la prima volta dopo giorni, sereno.
La pelle emanava un biancore luminoso che spiccava tristemente contro il grigio spento della vestaglia funebre avvolta contro al suo corpo, le mani giunte sull'addome gli conferivano un'aria pacifica. 
Kaede, compostamente seduta in un angolo remoto della stanza adiacente, fissava la tazza di tè che la donna davanti a lei non aveva nemmeno sfiorato.
- Ho fallito - disse Sango, fissando un punto imprecisato del pavimento. - di nuovo. Avevo promesso a mio padre che mi sarei presa cura di lui fino a quando non sarebbe stato un vero guerriero, e invece...
La mano di Miroku, al suo fianco, cercò e strinse quella della moglie.
Kaede sorseggiò la bevanda calda e speziata. - I meccanismi del destino sfuggono alla nostra comprensione.
La sterminatrice fece una risata secca, affilata come una lama. I capelli erano scarmigliati e semi-sciolti sulle spalle e, come il monaco, aveva il viso sporco e graffiato, gli occhi arrossati dal pianto.
- Mio fratello è morto, venerabile Kaede. Lui non faceva parte di nessun progetto atavico, non aveva mai offeso i Kami di propria iniziativa e da quando era stato sottratto al giogo di Naraku aveva sempre onorato i morti. Che colpe aveva...?
Abbassò la testa, mordendosi il labbro inferiore.
La sacerdotessa non si scompose.
- Comprendo il tuo dolore, Sango...forse meglio di chiunque altro in questa stanza. Anch'io ho perso una sorella a causa dei piani misteriosi del cosmo.
Miroku strinse le spalle della moglie con affetto. Quando avevano miracolosamente fatto ritorno alla capanna alle prime luci dell'alba e la sterminatrice aveva scorto il cadavere del fratello, lei aveva mantenuto un contegno dignitoso e risoluto. Si era inginocchiata al fianco delle spoglie, aveva pregato e poi aveva chiesto di parlare con Kaede. Ma quando l'incontro era stato accordato nella stanza vicina, Sango era crollata: se non ci fosse stata la solida presenza di Miroku al suo fianco probabilmente non sarebbe riuscita a rimanere seduta composta.
- Il dolore... - mormorò Sango, flebilmente - ...il dolore sparirà?
- No - ribatté l'altra, semplicemente.
- Venerabile Kaede... - iniziò Miroku.
- Ma il tempo lo trascinerà via, lo renderà più mite, lo farà diventare l'ombra con cui convivere. Purtroppo per noi deboli mortali sono richieste fatiche difficili da sopportare persino per gli spiriti eterni, mia cara Sango; noi soffriamo perché abbiamo memoria. La vecchiaia, però, fa apparire tutto più mite; i colori sbiadiscono, la luce si attenua...
La sterminatrice si asciugò una lacrima con la manica del kimono.
- ...il mondo comincia a non essere più indelebile. Per te ci saranno i figli, la famiglia, la casa. Le donne fanno affogare il lutto nella quotidianità. E un giorno diventerà sopportabile.
Calò un lungo silenzio.
Trattenendo un singhiozzo disperato, Sango si coprì la bocca con una mano e parlò con voce bassa. - Solo una parete sottile mi separa da lui, Venerabile Kaede, appena un po' di legno, eppure non gli sono mai stata così lontana.
L'anziana sacerdotessa scosse la testa. - Ti sbagli. Lui ora è qui - premette l'indice sul proprio petto, all'altezza del cuore, - dentro di te, e qui rimarrà sempre.
- Ha ragione, Sango - intervenne Miroku, prendendole la mano. - Kohaku non morirà mai davvero.
La sterminatrice non era mai stata abituata a dimostrare il proprio affetto, era sempre stata educata in modo da mantenere un cortese distacco in pubblico. Ma la cupezza della situazione e la stanchezza sia fisica che mentale che le ottenebrava i pensieri abbatterono ogni barriera e, adagio, appoggiò il capo contro il petto di Miroku e lo ascoltò respirare.
- Venerabile Kaede, vorrei poter rendere omaggio a Rin - disse poi, - lei è rimasta a vegliarlo fino alla fine e...e...
- Ma certo - la sacerdotessa la guardò con comprensione sincera, - sarà qui a momenti.
Marito e moglie si scambiarono uno sguardo di intesa.
Intervenne Miroku: - Forse ora è un po' presto, non abbiamo fretta; sono quasi tre giorni che non dorme, per una bambina della sua età dev'essere stato uno sforzo notevole. Vorremmo che prima avesse il tempo di riposarsi.
Kaede bevve un altro sorso di tè senza dire nulla. In cuor suo, uno spirito irrequieto si stava agitando da ore.
Quando aveva visto la bambina barcollare, gli occhi velati da lacrime a stento trattenute, fuori dalla stanza, il petto le si era contratto in uno spasmo di dolore. Rivide la se stessa di molto tempo prima, quando aveva vegliato il cadavere poi destinato alla profanazione della sua amata sorella, e la fitta si acuì in modo intollerabile.
Non poteva dire a nessuno del perché l'avesse sottoposta a quella prova; confidava che Sesshomaru avrebbe capito. Ma del demone non c'era alcuna traccia, Rin versava in condizioni emotive impossibili da sanare e Kaede si ritrovava alle prese con un animo lordo di senso di colpa e peccati privi di espiazione, cuocendo sulle braci della propria ottusità, sperando fermamente che il demone arrivasse per dare un senso alle sue decisioni.
- Sta facendo un bagno - rispose, con voce neutra.
Rin voleva occuparsi della ricomposizione della salma - lavarla con acqua fredda e calda, vestirla, nascondere le cuciture, massaggiare la pelle del viso per nascondere gli spasmi che l'avevano deformata, cacciare l'odore di morte e putrefazione, sistemarla in una posa decorosa, applicare gli unguenti per farla bruciare più in fretta, sistemare le offerte - ma Kaede si era opposta; non poteva consentirle anche quell'ultima fatica.
- Posso... - Sango deglutì - ...posso vederlo un'ultima volta?
La sacerdotessa annuì. Si alzò faticosamente, aprì uno spiraglio fra i pannelli e la lasciò passare. Miroku rimase seduto, preoccupato e addolorato, ma non la seguì: sapeva che voleva rimanere da sola.
- Venerabile Kaede - esordì, dopo che si fu seduta nuovamente, - vorrei chiedervi di lasciarmi celebrare il funerale*.
- Immaginavo me l'avreste chiesto; rispetto questa decisione. L'allestimento dell'altare è un compito che vi lascio volentieri. E ritengo inoltre opportuno fare tutto il prima possibile.
L'altro fece un lieve sorriso. - Saranno giorni molto difficili.
Kaede svuotò il proprio bicchiere in un piccolo catino, lo bagnò con dell'acqua e lo deterse con un panno. - Per questo consiglio di cominciare al più presto.
Miroku fissò pensierosamente la superficie della propria bevanda, ormai fredda. La foglia di tè era rovesciata verso il basso, solo il picciolo emergeva.
- Che strano scherzo dei Kami - disse, senza traccia di divertimento.
Fece vedere la tazza a Kaede.
- Segna il buon auspicio**.

***

L'acquazzone estivo perse intensità fino a scomparire completamente.
Il bosco ne riemerse lucido e splendente come se avesse indossato un nuovo vestito, rilucente di piccole gocce di pioggia che erano rimaste impigliate fra gli aghi dei sempreverdi.
I tappeti di muschio erano pregni d'acqua, il terriccio si era fatto molle e scivoloso, ma compatto. Il silenzio irreale era interrotto di quando in quando dallo scivolare della rugiada dalle foglie verso il terreno.
Sesshomaru emerse dal proprio riparo. Quella notte era stata costituita, per lui, da una lunga meditazione che l'aveva trovato ormai privo di ogni dubbio.
Con la mano destra sfiorò l'elsa delle sue spade, guardando apparentemente verso il nulla, ma scrutando in realtà un punto ben preciso. Ora che la pioggia era cessata, aveva ripreso completa facoltà di odorare come prima. Talvolta le tracce olfattive più lontane o fievoli si perdevano e mescolavano tra loro a causa dell'aria ancora umida, ma non gli importava: il sentiero che stava percorrendo era infallibile.
Si fece strada fra la vegetazione maestosamente, camminò a passo preciso. Il cielo cominciò a tingersi delle più miti colorazioni d'azzurro verso l'alto, sfumando in un delicato color pesca avvicinandosi all'orizzonte.
Si sentiva in totale simbiosi con ciò che lo circondava, al massimo delle proprie forze.
Il suo incedere costante accompagnò la nascita del giorno.
L'elsa che stringeva fra gli artigli brillò.

***

La luce stava lentamente entrando nella stanza, spargendosi in ogni anfratto con la propria scia dorata.
Il colore benefico del sole sembrò pungerla, tanto che sentì il bisogno di ritrarsi verso le zone ancora in ombra della camera, completamente nuda e tremante; uscita dalla tinozza ricolma di acqua bollente aveva provato un'improvvisa repulsione per il magro piacere che aveva avvertito a stare distesa in mezzo ai sali profumati, e ora provava vergogna di se.
Il suo stomaco brontolava con insistenza dalla sera prima. Non era rimasta a digiuno, Kaede le aveva fatto trovare sempre dei pasti pronti, ma aveva deciso di restare affamata. Così facendo le sembrava che la sua anima riuscisse a liberarsi più facilmente delle sue spoglie mortali e confortare quella di Kohaku, già tesa verso dimensioni ultraterrene.
Ogni dettaglio che le faceva ricordare la propria vita, il fatto che il suo corpo sano fosse ancora in piena funzione, la disgustava.
Pensava e ripensava a Kohaku, che non era stata in grado di salvare. La loro breve amicizia, i 49 giorni di lutto che sarebbero seguiti, l'impossibilità di seppellirlo in una tomba di famiglia, il dolore di Sango, gli attimi prima della sua morte, la stanchezza, la rabbia.
Con lo spirito in pezzi si rivestì, lentamente e metodicamente, fino a quando il sole, da presenza tremolante, cominciò la sua scalata del cielo.
Nella sua testa si fece largo un frammento di ricordo; il morso di un lupo famelico le sbranò una caviglia.
Deglutì sonoramente e, a fatica, uscì.

***

Sango, improvvisamente, aprì i pannelli e rientrò nella stanza dove Kaede e il marito la aspettavano.
I due rimasero sbalorditi per un momento: la donna indossava la propria tenuta nera da battaglia ed era armata fino ai denti.
Il giorno prima, meditando la fuga, aveva coperto la tuta da sterminatrice con il kimono come quando era in viaggio; appena aveva compiuto questo semplice gesto, le era sembrato di stare subito meglio: la stoffa aderiva perfettamente al suo corpo molto più di quanto non facesse il semplice vestito di cotone che portava tutti i giorni.
- S...Sango - balbettò Miroku.
Lei, per tutta risposta, si strinse la fascia alla cintola.
- Sono stufa di stare qui a piangere - disse, con voce dura, - non dobbiamo dimenticarci che là fuori c'è ancora il bastardo che ha ucciso mio fratello. E non ho intenzione di fargliela passare liscia.
- Ma... - Miroku si alzò, acquistando maggiore convinzione - ...non puoi pensare alla vendetta in questo momento, Sango! Kohaku ha bisogno dei rituali funebri al più presto, non puoi mancare!
La moglie distolse lo sguardo, un lampo di dolore le fece fare una smorfia.
- Non ce la farei mai a stare a guardare, Miroku. In ginocchio, pregando, vicino alle sue ceneri...non potrei mai.
Lui le prese un avambraccio, strinse con fermezza ma senza intenzione di ferirla e le sue mani incontrarono la forma della lama che era lì sotto celata.
Scrutò gli occhi castani della donna che amava. Erano arrossati, ma brillavano di una nuova luce. Il lutto l'aveva messa in uno stato di sconvolgimento terribile, e quello era il suo modo di reagire: combattere.
Sango non era mai stata una debole, era una donna tenace e combattiva. Nonostante il dolore che la stava straziando dentro, lei aveva bisogno di pacificare lo spirito del fratello a  modo suo, ovvero uccidendo colui che aveva osato portarglielo via.
Lei aveva visto la sua intera famiglia venire sterminata a colpi di falce, e da allora non aveva mai smesso di lottare per onorare i loro spiriti.
- Lascia che venga con te.
Lei scosse la testa. - È una cosa che devo fare da sola. E tu lo sai. 
- Non posso lasciarti partire, Sango! Cosa farei se ti capitasse qualcosa? - esclamò.
- Venerabile Monaco - intervenne Kaede.
Lui si bloccò. Voltandosi, scoprì che l'anziana donna lo stava fissando.
- Lasciatela andare.
Miroku guardò prima la sacerdotessa, poi la moglie. Ci fu un attimo di incertezza. Poi ritirò la mano.
- Per tutti i Kami, Sango, fa attenzione.
Lei lo fissò, annuendo. Irraggiava un'aria di determinazione che la rendeva simile ad una vera e propria paladina: gli uomini dello Shogun potevano solo invidiare il suo coraggio e la sua forza.
- Serviranno provviste - fece notare la sacerdotessa, - cibo, acqua... In un'ora posso prepararti l'occorrente per il viaggio.
Sango declinò l'offerta con un cenno educato della mano. - No, grazie, Venerabile Kaede. L'unica cosa che vi chiedo è di occuparvi del corpo del mio povero fratellino...per il resto potrò badare a me stessa. 
La donna stava per insistere, quando sentirono uno scalpiccio concitato fuori dall'uscio. Le tre teste si voltarono all'unisono sentendo il richiamo di una voce acuta, per poi veder sbucare il viso di Rin dall'entrata, trafelata e dalle guance arrossate dalla fatica della corsa.
- Venerabile Kaede! - esclamò quando la vide.
I presenti si guardarono, confusi, senza capire il motivo di tanta agitazione, fino a quando, sotto i loro sguardi increduli, non videro la possente figura di Sesshomaru emergere dalla porta della capanna, composto ed imperturbabile come sempre.
- S...Sesshomaru? - balbettò Miroku, sbiancando.
Il demone non gli prestò la minima attenzione, ma si rivolse immediatamente a Kaede. - Lui dov'è?
- Che intenzioni hai? - Sango, bruscamente, gli si parò davanti, una mano posata sull'elsa della propria spada. In quel momento non le importava nulla di chi aveva di fronte: la sete di sangue l'avrebbe portata persino a sgozzarlo, se necessario.
Sesshomaru posò su di lei i propri occhi dorati. - Devo onorare un mio vecchio debito, donna. Fatti da parte.
La sterminatrice rimase a dir poco sorpresa da quelle parole. Sentì una manina tirarle una manica e, abbassando lo sguardo, vide Rin.
- Padron Sesshomaru ha ragione, Nobile Sango, non abbiate timore - disse, seria.
Rin era consapevole di star mentendo, ma si trattava di una "bugia a fin di bene": Sesshomaru aveva già chiuso i conti con Kohaku ma, avendo lei capito le sue intenzioni, era decisa a sostenere quella versione per farlo passare.
Sango, incoraggiata dallo sguardo della bambina, si spostò, permettendogli il passaggio; lo seguì a ruota insieme a Miroku e Kaede.
Il demone si pose ai piedi del defunto, ne osservò il viso disteso e riconobbe a fatica il ragazzino che l'aveva accompagnato in una parte del suo viaggio a causa del dolore che ne distorceva i connotati. Rimase qualche istante in silenzio; estrasse finalmente Tenseiga***.
Sango trattenne il respiro.
Rin si sentì colmare da una gioia indefinibile.
Sesshomaru menò un fendente appena al di sopra del cadavere, così vicino e con una sicurezza tale che sembrava stesse colpendo un bersaglio prestabilito.
La sorella del ragazzo cadde in ginocchio con un tonfo.
L'aria stessa vibrò a causa del colpo, conclusosi circondato da un silenzio tale che persino il suono prodotto sembrava tagliare; quando la spada venne rinfoderata, Sango si gettò ai piedi del cadavere e ne toccò il petto per vedere se il taglio aveva provocato delle ferite.
- Cosa...? - mormorò.
Rin, a lato della donna, fece un piccolo sorriso, rivolgendosi al demone; fra loro non c'era bisogno di parole, entrambi avevano capito che si erano intesi. Sesshomaru si beò per un istante dell'avere su di se l'attenzione della piccola la quale, recuperando la propria allegria, gli stava dimostrando tutta la propria comprensione. Era l'unica ad aver veramente capito, come sempre, le motivazioni che l'avevano spinto ad intervenire.
Il demone si voltò e uscì dalla stanza nel silenzio generale.
In quel preciso istante, Kohaku ricominciò a respirare.


* Il funerale mi ha messo un po' in difficoltà, ma qui ci si riferisce al rituale buddista tradizionale, in uso ancora oggi.
** In questo caso mi sono affidata alla memoria, visto che nell'anime se ne faceva cenno; se mi dovessi sbagliare, vi prego di correggermi! 
*** Mi sono permessa un'illegalità, spero mi possiate perdonare: Kohaku non potrebbe essere resuscitato ancora, visto che è già stato nell'aldilà. Ma in questo caso mi sono avvalsa di una certa libertà...licenza poetica, diciamo così. Posso contare sulla vostra complicità? :)

ANGOLO AUTRICE:
Salve a tutti/e!
Dopo un lungo periodo di incubazione, eccomi tornata: anno nuovo, capitolo nuovo.
Si è trattato di un passaggio molto difficile da elaborare, e pertanto spero vivamente che vi sia piaciuto!
Colgo l'occasione per farvi tantissimi auguri per un felice anno nuovo, anche se un po' in ritardo, con la speranza che ci siano sempre tempi migliori ad aspettarci.
Grazie mille per l'attenzione,
Baci!
The Queen :)

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Capitolo 23
*** Ningen ***


Kagome si agitava e cercava, invano, di guardare la propria schiena sullo specchio a parete.
- Allora? - chiese, le guance arrossate, - Come ti sembra?
Mi sembra meraviglioso, e vorrei strappartelo di dosso, pensava; ma ovviamente non lo disse. Si limitò a grugnire, per poi voltare la testa dall'altra parte.
La ragazza gli fece una linguaccia, sparendo nella stanza da bagno; poteva sentire il suo rovistare nervoso anche con le proprie orecchie umane.
Già, umane...la luna nuova l'aveva colto del tutto impreparato: vivendo la magia di stare vicino a Kagome si era quasi dimenticato di quale fosse la sua vera natura. Questo era dovuto anche all'influenza della giovane, però: non era stata proprio lei a convincerlo che le questioni di sangue non avevano la minima importanza?
- Inuyasha, hai visto il mio bracciale? Sai, quello argentato.
- No - rispose, laconico, coprendo uno sbadiglio con la mano.
- Che noioso! - il turbinio del profumo di Kagome tornò di nuovo e, veloce com'era entrato, scomparve.
Era da quel pomeriggio che la frenesia implacabile della ragazza continuava a scoppiettare per tutta la casa, e lui si sentiva irrequieto di riflesso. Ora che era umano - fastidiosamente umano - non sarebbe stato in grado di difenderla dalle numerose insidie del mondo moderno, ed era ormai risaputo quanto l'ingenuità di Kagome delle volte la mettesse a rischio, persino dove poteva ritenersi più al sicuro. Come il giorno prima, ad esempio: era forse impazzita quando si era messa a fronteggiare, impavida, quella specie di mostro ruggente a quattro ruote, chiamato "auto"?
No, senza Tessaiga a disposizione non si sentiva tranquillo; e il fatto che la ragazza si stesse agitando a quel modo faceva ribollire anche lui.
C'era però da dire che, in fondo, quella giornata aveva avuto moltissimi risvolti piacevoli. Kagome aveva preso l'abitudine di fare il bagno con lui, (nonostante la pudicizia di entrambi, soprattutto le prime volte, avesse rischiato di farli morire d'imbarazzo), e quella mattina l'acqua era stata più fredda del solito e aveva prodotto un piacevole - piacevolissimo! - effetto sulla pelle sensibile di lei.
Inoltre, Kagome aveva indossato un leggero yukata color verdemare, il quale le calzava a pennello, e il suo antico spirito aveva sospirato, lusingato dal vedere la figura sottile della sua donna abbigliata con abiti che gli erano familiari.
E per finire, aveva cucinato la cena completamente da sola, visto che sua madre era assente, e aveva raggiunto risultati splendidi. Rare volte aveva assaggiato il cibo da lei cucinato quand'era umano, e doveva ammettere che ogni sapore assumeva una sfumatura particolare sul suo palato meno sensibile.
- Inuyasha, mi stai ascoltando?
Il viso di Kagome era a due centimetri dal suo. La consapevolezza di essere stato colto in flagrante a perdersi in fantasticherie lo fece arrossire.
- E...eh?
- Lo sapevo... - sospirò - Ti ho chiesto se ti andrebbe di accompagnarmi in un posto.
Dicendolo, le sue guance si colorarono di un delizioso color pesca.
Inuyasha avrebbe voluto perdersi nel guardare il viso di Kagome mente arrossiva, ma si costrinse a mettere in fila i pensieri. E, dopo qualche secondo di elaborazione, emise la propria sentenza.
- C...cosa?
La mano fresca della ragazza si posò sulla sua fronte. - Non hai la febbre, eppure ti comporti come se stessi delirando.
Lui le prese il polso con delicatezza. - Stupida...cosa hai detto?
Kagome fece un sorriso. Dolce, meraviglioso sorriso. - Per la terza e ultima volta, ti ho chiesto se mi accompagneresti in un certo luogo. Capito?
Lo stava prendendo in giro, era evidente. Ma da quando aveva dichiarato, in quel pomeriggio di qualche tempo prima, i propri sentimenti senza possibilità d'errore, aveva cominciato a trovare adorabile persino i lati del suo carattere che, un tempo, gli facevano ribollire l'animo di frustrazione (mai un vero e proprio fastidio: anche quand'era arrabbiata, Kagome gli sembrava sempre bellissima).
Questa volta non fu difficile fare un collegamento fra il vestito per le occasioni speciali e l'agitazione che l'aveva animata per tutto il giorno; si sentì arrossire fino alla punta dei capelli quando comprese che il motivo di tanto affanno era proprio un'uscita con lui.
- Va...va bene.
Lei gli si sedette vicino, la schiena contro il materasso del letto e la mano intrecciata alla sua.
- Oh, è una festa a cui sono sempre voluta andare, ma non ho mai avuta una vera e propria scusa...così, visto che questa è una serata particolare, ho pensato che...
Lo sguardo di Inuyasha ricadde sulla mano morbida di Kagome, e incontrò le proprie unghie, corte e arrotondate come quelle di ogni altro essere umano. E il dorso, poi, manteneva vagamente l'aspetto che era abituato a vedere, con l'unica differenza che la pelle era più ruvida; il tessuto della pelle di Inezumi, che era risalito lungo il polso, pesava contro il proprio corpo, sensazione che quand'era mezzo demone non provava mai.
Un sentimento incerto si fece strada in lui. Gli occhi luminosi di Kagome tornarono a guardare i suoi: sembrava avesse percepito quel cambiamento.
- Inuyasha, non starai mica pensando a qualche sciocchezza sui mezzo-demoni, vero?
Colpito e affondato.
- Ma...ma certo che no, scema!
Un sospiro. - Lo sapevo...sei proprio incorreggibile. E poi non dirmi che non ti senti tranquillo perché non puoi difendermi...
Il secondo colpo lo raggiunse con una precisione infallibile. Lui voltò la testa da un'altra parte.
- Ah, ho indovinato! - esclamò la giovane. - Allora era davvero come pensavo...
- Non farti idee strane - Inuyasha preferì mettere le mani avanti. - Sai che in questo periodo del mese sono sempre nervoso, Kagome: si tratta di un riflesso.
Era vero: quand'era umano Inuyasha non osava neppure dormire. Quando calava la sera e il sole spariva oltre l'orizzonte, il suo viso si faceva scuro e l'espressione era assorta in chissà quale pensiero.
- Inuyasha...tu lo sai che per me non fa nessuna differenza, no? - disse lei, con voce dolce. - Tu sei e sempre rimarrai, nel mio cuore, la persona più importante della mia vita.
Inuyasha la guardò intensamente. Nonostante fosse Kagome la vera sentimentale fra i due, nemmeno lei si era mai lasciata andare ad una vera e propria dichiarazione, e udire tali parole lo riempì di sensazioni difficili da esprimere; da un lato c'era la gratitudine, il profondo amore per la donna che gli aveva insegnato come vivere una vita serena. Dall'altro la profonda consapevolezza che quelle parole erano state dette con il cuore, e ciò lo fece sentire, ancora una volta, amato.
La abbracciò stretta prima che potesse protestare e, anche se il suo fiuto non era lo stesso di sempre, poté chiaramente sentire il profumo che più preferiva in tutto il mondo.
Kagome, invece, era felice, perché era finalmente riuscita ad esternare ciò che più le premeva. Nonostante non fosse la prima volta che cercasse di far capire ad Inuyasha quanto la sua diversità fosse meravigliosa (e di quanto poco fosse importante, nel futuro) non era mai stata sicura di essere veramente riuscita a convincerlo. Ma promise a sé stessa che ci avrebbe provato, giorno dopo giorno, fino a risultato ottenuto.

***

Inuyasha aveva caldo, si sentiva oppresso e avrebbe di gran lunga preferito tornare a casa, nella stanza di Kagome, ma la felicità inequivocabile sul volto della compagna lo trattenne dal dire qualsiasi cosa.
Lei era emozionata come una bambina, e per tutto il tragitto gli aveva spiegato anche il minimo dettaglio sulla "festa del mare", alla quale lo stava portando.
"Si tratta di una ricorrenza bellissima, di gran lunga la mia preferita! Di solito si dovrebbe andare in spiaggia, ma non penso ti avrebbe fatto piacere prendere il treno, così ho pensato di farti vedere la festa in centro...oh, vedrai, ci saranno anche i fuochi d'artificio! A proposito, ti ho mai spiegato cosa sono?"
Per lui era un balsamo sentire la sua voce musicale, tanto allegra e quasi infantile; gli sembrava che quella situazione nel mondo di Kagome fosse destinata a durare.
Certo, la folla dentro alla quale si trovavano immersi gli faceva desiderare nostalgicamente le foreste solitarie, i villaggi sonnolenti nel primo pomeriggio, le distese infinite di natura incontaminata...quell'universo cacofonico lo confondeva. Tuttavia vedeva la rilassatezza che la avvolgeva e si sentiva felice, felice perché lei lo era a sua volta.
Pigiati fra altri corpi sudati, Inuyasha le prese la mano, e la strinse, timoroso di poterla smarrire in mezzo a quella babele di facce. Kagome rispose alla stretta, e gli appoggiò la testa sulla spalla.
In silenzio, la sacerdotessa si sentì tranquilla e in pace con sé stessa. Inuyasha aveva un fascino che attirava diversi sguardi: era infatti piuttosto insolito che un ragazzo all'apparenza così giovane portasse i capelli lunghi. I suoi arrivavano fino a metà schiena, lisci, compatti, forti e, in quell'istante, avevano lo stesso color dell'ebano: una meraviglia da accarezzare.
E poi il suo viso da ragazzino, perennemente teso in un'espressione a metà fra l'ostile e l'impertinente, metteva in evidenza i tratti armonici della sua pelle diafana.
Era ovvio che non si trovava a suo agio là in mezzo, povera anima: continuava a guardarsi attorno nervosamente, e a cercare conforto nel contatto con lei. Ma anche Kagome non si sentiva a proprio agio, non era più abituata alla calca e al suono assordante di mille voci che si accavallano, abituata com'era all'atmosfera del Sengoku.
"Beh, perlomeno un demone alato non planerà mai sulla folla, qui" pensò, e questa consapevolezza le restituì un po' di coraggio.
- Inuyasha, guarda, una panchina vuota! Seguimi! - esclamò.
- Attenta, Kagome! - con un abile mossa la attirò fra le proprie braccia, proprio mentre dei ragazzini disattenti passarono spingendo una bicicletta malconcia.
- Oh! - il suo corpo aderiva perfettamente a quello di lui e, grazie al tessuto leggero dello yukata, poté sentire la solidità dei muscoli oltre la stoffa.
- Devi prestare attenzione - le disse, con voce così bassa e profonda che le fu difficile udirlo.
Ah, santo cielo, adorava e odiava insieme quando si metteva a fare il romantico così all'improvviso, non sapeva mai come reagire!
- Ti...ti ringrazio - disse, con un sorriso. Poi, tenendolo per il polso, lo condusse verso il piccolo angolo che aveva notato.
Aveva il fiato corto, e sudava, ma si sentiva soddisfatta: la panchina si trovava parzialmente nascosta da una quercia, vicino all'entrata del parco, ed era un posto perfetto per riposarsi dopo aver affrontato una fiumana di persone. Di certo non aveva pensato che sarebbe accorsa così tanta gente per dei fuochi d'artificio!
Di sottecchi, guardò Inuyasha. Anche lui sembrava sollevato di essersi allontanato da quella bolgia, e teneva Tessaiga ben salda in mano, le gambe incrociate sulla panchina con disinvoltura. Era chiaro che, anche senza il suo udito demoniaco, tutto quel rumore lo confondeva e lo infastidiva, così come la calura serale e la cappa opprimente di odori diversi doveva rappresentare un bel peso, per lui...e tutto questo la fece rendere conto che aveva fatto bene ad aspettare il novilunio, per trascinarlo fuori di casa: di certo non sarebbe riuscito a sopportare nulla del genere, se fosse stato nel pieno delle proprie facoltà demoniache.
- Che c'è? - le chiese, d'un tratto.
Lei fu colta di sorpresa. - Eh?!
- Ti ho chiesto cosa c'è - ripeté lui, calmo. - Ho notato che mi stavi guardando.
- Ah! No, nulla...
Silenzio. Kagome arrossì. Quella sera lui aveva qualcosa di particolare che lo rendeva incredibilmente desiderabile, anche se non avrebbe saputo spiegare esattamente di cosa si trattasse...semplicemente, non riusciva a smettere di fissarlo.
Gli occhi castani di Inuyasha la guardarono di rimando. Erano occhi meravigliosi anche con quel colore così scuro, e a lei che non c'era abituata parvero due pozzi profondi e inesplorabili.
Silenziosamente, le loro labbra si sfiorarono. Fu il bacio più naturale del mondo.
- Inuyasha... - chiese, dopo un po' - ...a te fa piacere continuare a vivere al tempio?
Quella era una questione che le stava particolarmente a cuore; la loro permanenza nella casa di Kagome, fino ad allora, era stata sporadica e provvisoria, ma ora rischiava si diventare definitiva.
Certo, ancora non era chiaro quali fossero stati i piani della sfera, ma giorno dopo giorno aveva l'impressione che si trattasse di un progetto a lunga scadenza. Il liceo, e poi l'università...lei aveva un percorso già tracciato da seguire, ma per Inuyasha era diverso: quel mondo non era il suo, dopotutto, e avrebbe dovuto imparare lentamente ad ambientarsi.
Il ragazzo vicino a lei fece spallucce, nascondendo le mani nelle maniche, incrociando le braccia.
- Beh, sì...posso aiutare tuo nonno al magazzino, e rendergli il favore di insegnarmi l'alfabeto moderno. Perché?
Kagome giocherellava con una ciocca di capelli.
- Non lo so, dopo tutto quello che è successo in quello stesso posto pensavo che, alla lunga, vivere lì sarebbe stato troppo...
- Capisco - il guerriero annuì. - Non te lo so spiegare, ma il Goshinboku ha una forza difficile da ignorare, per me...sono stato legato a quell'albero per cinquant'anni, ogni tanto avverto ancora la sensazione. Dubito che riuscirei ad allontanarmene così facilmente.
- Anch'io provo lo stesso - rispose la ragazza. - In un certo senso, il mio spirito è legato a questi luoghi, e un po' soffre al pensiero di separarsene.
Forse dipendeva dalla sua affinità spirituale con Kikyo, la sua trisavola, ma non la nominò perché, nonostante ormai Inuyasha avesse superato il lutto, non voleva far riaffiorare altri dolori; quella morte aveva profondamente segnato anche lei.
- Kagome...quando hai spezzato il sigillo, ho avvertito una spinta straordinaria che mi attirava verso di te.
La ragazza arrossì, ma non lo interruppe. - È strano, ma più tempo passava, più sentivo questo legame acuirsi; all'inizio penso dipendesse dal fatto che il tuo spirito,dopo decenni che nessuno osava nemmeno avvicinarsi, era stato il primo a provare compassione per me, tanto da liberarmi. Ecco, quest'energia è scomparsa nel tempo, ma al suo posto è subentrato un qualcosa di indefinibile...
Lei vedeva lo sforzo che stava facendo nel confidarle tutto ciò, e per questo evitò accuratamente di imbarazzarlo con il sorriso che già sentiva affiorare sulle labbra, e decise di ascoltarlo sino in fondo.
- Quello che voglio dire - esordì, dopo una pausa, - è che non mi importa dove tu voglia stare, Kagome, se al tempio o in capo al mondo: io ti seguirò sempre. Ciò che mi unisce a te è di gran lunga più potente di qualsiasi altra forza.
Kagome sentì un grande calore invadere il petto, una sensazione rassicurante che levigò ogni ferita del suo animo e provocò la più completa e totale rilassatezza spirituale che avesse mai provato.
Lo amava. Oh, se lo amava! Disperatamente, dolcemente e assolutamente innamorata di lui, forse sin dalla prima volta in cui l'aveva visto e, spinta dalla curiosità, aveva accarezzato le sue orecchie morbide come ovatta.
Se tutto quanto quello che avevano passato insieme non fosse stato un manifesto sufficiente, ora lei aveva l'assoluta certezza che anche Inuyasha era, ormai, completamente suo. E questo spinse le sue labbra ad incurvarsi in un meraviglioso, allegro sorriso.
- C...cosa c'è? - le chiese, arrossendo. - Si può sapere che ti prende?
Se si fosse sentito a disagio avrebbe rischiato di rimangiarsi tutto solo per farle un dispetto, e lei non poteva permetterlo.
- Oh, niente, niente - gli si accoccolò contro.
- Guarda che non ho mica detto nulla di speciale...
- Lo so.
Inuyasha si grattò la nuca, ma subito dopo le circondò le spalle con un braccio.
- Lo sai, Kagome? È bello essere umani, quando ci sei tu.
Lei, sorridendo, lo strinse. - Inuyasha, sei sicuro di stare bene? Sei strano, ma in un modo così piacevole...
- Scema. 
Per un po' rimasero in silenzio, guardando il lento procedere della folla senza vederlo davvero, sereni.
- Ah, guarda! I fuochi d'artificio! - esclamò lei, ad un tratto.
Lui seguì la traiettoria del suo dito e rimase completamente affascinato: nel cielo scuro della notte stavano danzando fiamme multicolori, simili a dei fuochi fatui, che esplodevano in mille combinazioni diverse e sprizzavano scintille.
- Incredibile... - sussurrò, vedendo una raggiera gialla e verde dissolversi davanti al suo sguardo.
La risata fresca di Kagome lo deliziò. - Hai visto? Sono bellissimi!
Apparvero lampi rossi, verdi, bianchi e d'un blu frizzante, rimpiazzati continuamente da nuove trame e fantasie diverse.
I suoi occhi si perdevano nella vastità del cielo cercando di seguire per intero lo spettacolo, senza perdersi nulla. E, pian piano, con il comparire dei vari scoppi, gli parve di scorgere i visi di tutti coloro che si era lasciato alle spalle, vivi o morti, e che avevano popolato la sua vita negli ultimi tempi. Affascinato, seguì le ombre del suo passato, senza però permettere alla malinconia di insinuarsi nella tranquillità che gli era scesa sul cuore.
Kagome, ridendo, gli indicò una cosa che non capì, perché la sua voce fu sommersa dal rumore. Il suo corpo sottile era fasciato dallo yukata leggero, il collo da cigno, scoperto grazie ai capelli raccolti, brillava ricoperto da un velo di sudore e i suoi occhi erano lo specchio delle luci davanti a loro.
Era splendida.
Uomo o non uomo che fosse, si rese conto di essere davvero la creatura più fortunata sulla faccia della terra.

***

Il viaggio di ritorno fu più breve rispetto a quello d'andata, ma entrambi si sentivano sereni come da molto tempo non avevano avuto occasione di essere.
Era stata un'esperienza singolare, magica; liberarsi del peso delle parole non dette, un'ennesima e ultima volta, aveva rinsaldato definitivamente il loro legame.
Appena varcata la soglia del tempio, però, Inuyasha comprese subito che c'era qualcosa di diverso. Non era una sensazione connessa alla pace che gli scaldava il petto: si trattava di certo di una qualche forma di presenza estranea, e anche piuttosto potente, un filo di energia che non apparteneva sicuramente ai profili degli stabili addormentati attorno a loro.
Benigna o maligna? Non avrebbe saputo dirlo; essendo umano, la sua percezione era molto limitata, ma già il fatto che aveva sentito qualcosa gli faceva temere il peggio.
- Kagome...la senti anche tu?
Si voltò e scoprì che la ragazza era percorsa da un brivido. - Sì, decisamente.
- Dannazione! - schermò il corpo di lei con una manica della veste. Maledisse la propria natura ibrida, il destino, il proprio aver abbassato la guardia...e poi il suo sguardo ricadde su Tessaiga.
Accidenti, non avrebbe nemmeno potuto usare la spada! La lama arrugginita, priva del suo potere demoniaco, sarebbe servita a poco, di certo non sarebbe riuscita a sostenere uno scontro. E, anche se il fodero avrebbe potuto reggere qualche colpo, non sarebbe stato in grado di salvaguardare la vita di Kagome.
Se avessero subito un attacco, Inuyasha non avrebbe potuto reagire in nessun modo.
"Ti prego, fa' che non la perda!"
Sentì le mani sottili della giovane poggiarsi sul suo avambraccio. - Inuyasha, non mi sembra si tratti di un'aura demoniaca. Piuttosto...sembra un potere spirituale. Immenso, sconfinato...puro. Sì, di certo è potente, ma non malvagio.
- Ne sei certa?
Era inutile chiederlo, ma aveva bisogno si saperlo. Il panico aveva già cominciato a stringerlo al pensiero di dover assistere, impotente, alla morte di Kagome, soprattutto se in un mondo che non gli era familiare.
La vide annuire, pallida. Nonostante tutto, rimase in allerta, ma la situazione sembrava stabile.
- Può essere che provenga da uno degli oggetti di tuo nonno? - le chiese, pur non credendoci.
- No, sicuramente...non c'è mai stato nulla in grado di liberare un potere simile qui, al tempio. L'unica presenza ancestrale è il Goshinboku.
Come non detto.
- Kagome, ascoltami; tu va' in casa, io intanto cerco di...
- Non se ne parla! - la determinazione nella sua voce lo sorprese. - Inuyasha, non potrei mai permetterti di avanzare da solo, soprattutto non stasera! Vengo con te.
- Non essere testarda, non sappiamo cosa potrebbe succedere! - ribatté.
- Ne sono consapevole, ma non posso lasciarti andare. E poi...te l'ho detto, non mi ispira una sensazione negativa.
Lui sbuffò. - Fa' un po' come ti pare.
Se gli fosse successo qualcosa, lei almeno sarebbe potuta fuggire, o trovare il modo di chiedere aiuto: certo sollevare trambusto era meglio che morire per mano di un nemico sconosciuto. Ma seguendolo aveva più probabilità di ferirsi, o peggio; per di più, lei non aveva nemmeno con sé il suo arco. Concederle di seguirlo era stata decisamente una cattiva idea.
Capì che per rintracciare la fonte di quel solletico che gli stava punzecchiando lo spirito avrebbe dovuto lasciarsi condurre, e così decise di fare. Con le proprie facoltà umane non era possibile fiutare la posizione l'aura, e anche Kagome pareva piuttosto confusa; infatti sembrava proprio che quel potere impregnasse ogni elemento circostante. Evidentemente, quella creatura voleva che loro seguissero le sue indicazioni, che stessero al suo gioco.
Digrignò i denti per il nervosismo, sguainando Tessaiga: se, per una qualche benedizione atavica, fosse arrivata l'alba, allora avrebbe avuto già l'arma pronta.
Kagome notò la prese d'acciaio sull'elsa, ma non fece commenti. L'irrequietezza di Inuyasha era pienamente comprensibile, e lei stessa provava un sottile timore di fronte a quella nuova minaccia ignota.
Ma il suo coraggio si rinsaldava non solo grazie alla presenza del mezzo-demone, ma anche a causa di quelle strane energie positive che le sussurravano parole arcane all'orecchio.
Seguiva Inuyasha tenendosi alla sua veste. Avanzavano con cautela, seguendo però un percorso preciso: oltrepassarono il Goshinboku, lo spazio delle offerte, superarono l'intera piazzola e svoltarono oltre la casa di Kagome.
Si fermarono davanti al capanno che nascondeva il pozzo.
- Lo sapevo - mormorò il giovane.
- Credi che...?
Lui scosse la testa. - Non ne ho idea; non ci capisco più niente. Ma ormai, tanto vale arrivare fino in fondo, no?
Lei annuì con convinzione. Tirò fuori dalla borsetta minuscola un mazzo di chiavi e si fece avanti per aprire i pannelli.
- Perché hai portato le chiavi...?
- Ho preso quest'abitudine dopo le prime volte - disse, concentrata.
Ecco, una mandata, poi due. Lo scatto della serratura, un piccolo spiraglio sul buio. Appena dischiuse l'uscio, un torrente di energia spirituale li investì in pieno, e una luce abbagliante spalancò del tutto il passaggio.
Inuyasha e Kagome cercarono immediatamente l'uno la mano dell'altra, e strinsero la presa con una morsa di inquietudine. Ma quel bagliore aveva uno strano potere salvifico, poiché nemmeno una singola vena maligna ne percorreva la corrente.
Fu come se le sue potenzialità di sacerdotessa venissero scosse tutte in una volta, stimolate ad agire. Sentì fluire la propria forza in tutte le vene del suo corpo: non le era mai successo prima di sentirsi così colma del favore del cosmo, così nel pieno possesso delle proprie facoltà.
E Inuyasha sembrava stesse subendo un trattamento analogo: i suoi occhi splendevano come colmati da una spinta interna.
Si guardarono, e provarono una totale comunione degli spiriti.
Una figura emerse dalla luce azzurra, si delineò lentamente e rimase, sospesa, sopra l'apertura del pozzo.
- Ho molto aspettato questo momento - disse, con voce celestiale.
Kagome trattenne il respiro.
Finalmente, tutto fu chiaro.


ANGOLO AUTRICE:
Salve, miei cari lettori!
Come da rituale, giungo in ritardo; spero possiate perdonarmi, anche se abuso della vostra pazienza.
Mi sembra giusto comunicarvi che "Due cuori e l'effetto serra" si avvia ormai verso il gran finale, ovvero il capitolo 25. Mi sarebbe piaciuto allungarla almeno fino al 30, ma mi rendo conto che sarebbe stata soltanto una forzatura, e così mi sembra piuttosto equilibrato terminare fra 2 capitoli; se vorreste implorarmi di scrivere altri quarantamila episodi oppure semplicemente farmi presente che sarebbe ora di tagliare le doppie punte, sentitevi liberi di scrivermelo: cercherò di venire incontro a qualsiasi vostro desiderio.
Detto questo, mi fiondo a preparare il Grande Momento, che spero possa incontrare il vostro gusto!
Come sempre, alla prossima,
The Queen.

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