Come d'autunno le foglie

di _A m a l i a_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


La storia di Cesare e Clarissa procederà lungo un excursus temporale che racchiude il periodo dal 1939 al 1946. Ogni capitolo sarà introdotto dalla data relativa all’evento descritto.
Buona lettura!
 



 
Come d’autunno le foglie
 

 

~ prima parte ~

 



Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
(Soldati – Giuseppe Ungaretti)


 



1.

Milano.
Dicembre, 1945


Una giovane donna con una sbiadita sciarpa rossa intorno al collo e un cappello a cloche, vecchio regalo di tempi lontani, camminava spedita tra i corridoi del Tribunale. Il ticchettio delle scarpe seguiva ogni suo passo e attirava l’attenzione delle centinaia di persone in fila, da interminabili ore, fuori dall’ ufficio ‘Dispersi e Prigionieri di guerra’.

Come ogni giorno, da più di quattro mesi, si aggregava silenziosa alla fila e attendeva. Gli inservienti avevano imparato a riconoscerla, i giudici che le passano accanto non potevano evitare di deriderla e invitarla a spendere le sue giornate in attività più proficue, ma nulla di quello che le dicevano arrivava a toccarla. Rimaneva ritta per l’intera giornata, mentre la fila avanzava con inimmaginabile lentezza. E quando, verso sera, finalmente arrivava il suo turno, sapeva già cosa sarebbe accaduto..

Anche quella volta, si avvicinò allo sportello di una delle addette dell’ufficio, che sventolava un foglio di carta sulle guance rosse. Sbuffò quando la vide arrivare. «Signorina, pensa davvero che le cose siano cambiate rispetto ieri?»

«Mi lasci parlare con il giudice Fremagli, non ho sue notizie da due settimane.»

La segretaria scosse la testa e prese a limarsi le unghie con un tagliacarte. «Il giudice Fremagli è stato trasferito in un paesino del centro, per carenza di personale.»

«Ma come trasferito? Perché non sono stata avvisata? E’ lui che segue il caso di mio marito.»

«Signorina.» alzò gli occhi al cielo. «Nessuno si sta occupando del caso di suo marito perché, come le abbiamo già detto ieri e l’altro ieri e il giorno prima ancora, non esiste nessun caso che sia mai stato aperto nei riguardi di questa persona, di cui peraltro non sappiamo niente se non quello che lei ci racconta e le fotografie che si ostina a portarci.»

La giovane donna strinse tra le mani le piccole fotografie, in bianco e nero, che anche quel giorno aveva portato con se.

«Mi ascolti bene.» riprese la segretaria. «non perda tempo venendo in quest’ufficio perché di tal Cesare Poggi non avremo mai comunicazioni da riportare. Non risulta nella lista dei dispersi, né in quella degli attuali internati in campi di prigionia stranieri e sebbene vorrei che le cose cambiassero, quanto meno per non vederla più qui,» disse, squadrandola. «non cambieranno mai.»

«Ma l’altro giorno mi avete detto che non risultava nemmeno nella lista delle vittime. Questo vorrà pur dire qualcosa?»

«Vuol dire tutto e niente. Quelle liste riportano solo la metà degli effettivi decessi che ci vengono comunicati, dal momento che la maggior parte non può essere identificata. In ogni caso, l’ufficio ‘Vittime di guerra’ è quello accanto al nostro. Vada a tormentare loro, da brava.» si schiarì la voce. «Il prossimo!»

La giovane donna insistette imperterrita, fino alla stregua dell’imbarazzo. Mostrò di nuovo le fotografie, mentre le altre segretarie commentavano divertite l’aspetto dell’uomo ritratto, come fosse stato l’attore di uno dei loro fotoromanzi. Mostrò la carta d’identità di Cesare Poggi, la pagina dell’Albo degli insegnanti che riportava il suo nome da oltre quindici anni, la sua cravatta preferita che teneva sempre nella borsetta. Qualunque cosa che lo facesse apparire reale. Poi, solo quando capì che, una volta ancora, non ci sarebbe stato nulla da fare, se ne andò.

Uscì dal Tribunale e corse verso la sua corriera; se l’avesse persa non sarebbe riuscita a rincasare prima che l’ora del coprifuoco scattasse. Erano mesi che la guerra era finita, eppure se ne respirava ancora l’odore come se non fosse mai andata via. Si vedevano più uomini per le strade, l’orario del coprifuoco era stato prolungato e meno carri armati occupavano le piazze, ma rimaneva la paura, rimaneva il dolore e l’accecata speranza. Si credeva non sarebbero spariti mai.

Dell’antica villa che aveva visto sbocciare la sua vita, avanzava solo un angusto sottoscala. Era lì che Clarissa viveva, insieme a Gemma e suo marito. Li aveva incontrati poco dopo la fine della guerra, quando vagavano alla ricerca di un posto in cui poter crescere due bambini. Sarebbero stati stretti in quel sottoscala, Clarissa li aveva avvisati, eppure per loro fu come entrare nel Paradiso terrestre.

Quando la vide arrivare, Gemma capì senza bisogno di spiegazioni. Sfoggiò un enorme sorriso, per smorzare la tristezza di Clarissa. «Il migliore minestrone di tutti i tempi, non ci sono dubbi. Clarissa non ci crederai, ma è più buono di quello che viene servito ai reali inglesi. Siediti e dimmi se non ho ragione.»

Giorgio, il maggiore dei due bambini, allungò il piatto in direzione di Gemma. «Come fai a sapere cosa mangiano i reali inglesi?»

«Soprattutto come fai a sapere che è più buono il loro brodo del nostro, fatto di acqua e sedano.» commentò sarcastico il marito, raggiungendoli a tavola.

«O insomma, come siete indisponenti. Clarissa, mia cara, perché non bevi un po’ di vino rosso, sei così pallida.»

Clarissa si sforzò di sorridere. «Penso di esserlo sempre stata. Voi mangiate pure, io andrò a riposarmi un po’, ma ti prometto che assaggerò il tuo brodo non appena mi sentirò meglio. Scusatemi.»

Così dicendo, si chiuse in camera da letto. Una stanza che divideva con la figlia di Gemma, la piccola Maria, che riposava serena nella sua culla. Appariva così delicata che l’ accarezzò appena, per timore di farle del male e si stese sul letto.

Le bastò chiudere gli occhi per sprofondare in un lungo sonno.

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Come d’autunno le foglie


~ prima parte ~
 
 
 
2.

1939


La villa in cui Clarissa viveva era, in alcuni giorni dell’anno, teatro di sfarzose feste. Donne e uomini sfoggiavano i loro abiti eleganti e reggevano tra le mani calici di spumanti delle migliori marche, rigorosamente italiane.

Quando era solo una bambina s’intrufolava nelle stanze dove si raccoglievano gli uomini; aveva sempre creduto che i loro discorsi fossero più interessanti di quelli soporiferi a cui era obbligata, stando in braccio alla madre.

Delle stanze piene di ufficiali e autorevoli uomini di Stato, ricordava le risate fragorose che riempivano l’ambiente, di cui aveva un’ immagine oscura impressa nella mente; come se la luce al suo interno rimanesse sempre flebile. Ricordava le carezze sui suoi capelli chiari di qualche mano forte e i rimproveri del padre quando si accorgeva della sua presenza e obbligava la domestica a farla coricare, ma dei discorsi e delle ideologie che lentamente prendevano forma, non comprendeva nulla.

Con il passare degli anni le feste aumentavano e con loro, il numero degli ufficiali. Sempre più spesso gli uomini sceglievano di vestire abiti che sottolineassero il rispetto dovuto al loro grado e sempre più spesso si chiudevano dietro le porte delle loro stanze, lasciando a un’ orami adolescente Clarissa, l’inarrestabile desiderio di poterli spiare.


 
«Sfilerai alla parata di domenica?»

«Come dici?» Clarissa si voltò distratta verso una ragazza dalle lunghe trecce more. Era la figlia di una delle amiche di sua madre e frequentava il suo stesso Liceo, eppure non era sicura di quale fosse il suo nome.

«La parata femminile organizzata dalla nostra scuola.. è questa domenica mattina, dopo la messa.. tu ci sarai?»

«Non ti sembra che ci siano un po’ troppe parate ultimamente? Ho sentito che il Liceo scientifico in zona Dante ne ha organizzata una proprio qualche giorno fa. Che bisogno c’è di far vedere a tutti che siamo studenti, che vestono l’ uniforme studentesca e che abbiamo incantevoli quaderni rilegati su cui scrivere?»

La ragazza mora cominciò a giocare, quasi maniacalmente, con le sue trecce. Non capiva quel che Clarissa le stava dicendo, ma era buon uso nella sua famiglia avere sempre l’ultima parola, così si sforzò di rispondere. «E’ per la nostra patria che sfiliamo. Per il Duce.»

Clarissa alzò un sopracciglio. «Per il Duce?»

«Si.»

«Deve essere un gran amatore di uniformi studentesche il nostro Duce, non trovi?» commentò ironica.

«Sai come chiama mio padre chi parla male del Duce o usa frasi scherzose nei suoi riguardi? Deliranti diffamatori. Proprio così.» il suo mento si alzò, con fierezza.

«Ah si?»

«Si, certo. Deliranti diffamatori.»

«Beh, eviterò di dirti come li chiamo io quelli come tuo padre.»


Clarissa raggiunse la cucina come fosse stata l’ ancora di salvezza che ancora le rimaneva. Si avvicinò a Denise, la cuoca che le aveva fatto da tata durante tutta l’ intera infanzia e le sussurrò qualcosa all’orecchio.

«Non ci provi neanche, signorina Marchesi. L’ultima volta vi avevo detto che sarebbe stata l’ultima volta

«Oh ti prego, Denise. Mi sto annoiando a morte, sai che solo tu puoi salvarmi. Sarò così rapida che non se ne accorgerà nessuno.»

Denise scosse la testa, mentre con le braccia robuste estraeva un enorme teglia fumante dal forno. «Vogliamo parlare di quando vostra madre vi ha scoperta in fragrante? Ho ancora gli incubi per colpa delle minacce che mi ha rivolto.»

«In quel caso sei stata poco intelligente tu, lasciatelo dire Denise. Non sai proprio tenerlo un segreto. Invece di andare a dire a mia madre che la colpa era tua, avresti dovuto lasciar parlare me. Mi sarei inventata una bugia qualunque.» Clarissa si avvicinò a lei e l’abbracciò con tutte le sue forze. «Denise! Sei così pura di cuore, non le fanno più quelle come te.»

«Se questo è un modo per convincermi…» allontanò Clarisse da lei e la guardò fissa nella meravigliosa luce che emanavano i suoi occhi. Così spensierati, così giovani. Sbuffò, sapendo di poter solo perdere contro di loro. Rovistò nella tasca del suo grembiule e le parlò a bassa voce. «Che questa sia l’ultimissima.» disse, passandole una Marlboro.

Clarissa saltellò dalla gioia. «Grazie, grazie.»

«Cercate almeno di non farvi scoprire questa volta. Andate nel sottoscala, forza! Vi avviso io se arriva qualcuno.»

La baciò su una guancia e scivolò via.

A quindici anni, Clarissa, pensava che la vita fosse tutto quello che la vita non mostrava. Le sigarette fumate nel sottoscala, mentre ai piani alti si teneva una festa; la sua mente che fantasticava, mentre il volto fingeva di ascoltare la lezione della professoressa; le fughe d’amore adolescenziali in qualche cinematografo del centro, mentre la madre la credeva a casa di un’amica.
Tutto quello che la mera superficie non mostrava, tutto quello che si nascondeva, quella era vita.  


 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***



Come d'autunno le foglie



~ prima parte ~
 




 
3.


Febbraio,1942

Il funerale di Benedetta De Blasi risultò più lungo di quanto ci si aspettasse. Non si limitò alla celebrazione della messa, né alla magnificenza della sepoltura nella tomba famigliare, ma continuò per giorni e giorni.

Clarissa non era stata lasciata sola, nemmeno un istante. Chiunque credeva di poter colmare la perdita di una madre nel cuore di una giovane ragazza e così parenti, amici, sconosciuti, le rimanevano accanto e le tenevano la mano o ancor peggio la sottoponevano all’odiosa tortura di parole confortanti, espresse senza sentimento.

Per lei nessuno di loro aveva un volto, nemmeno suo padre, che si chiudeva nel suo studio e rimaneva fino a dimenticare chi fosse e cosa fosse successo.

Nel frattempo la situazione economica a suo comando deteriorava tanto velocemente quanto si diffondevano gli effetti della guerra. Voci maligne sostenevano che la moglie dell’impresario Marchesi fosse morta perché consapevole dell’abisso in cui presto sarebbe caduta la sua famiglia.

Clarissa non pianse mai. Un giorno, quando la villa si svuotò dell’ipocrisia che l’aveva riempita e si ritrovò sola, in camera da letto, aprì una busta speditale dalla scuola, contente la lettera delle condoglianze poste dal preside in persona. Non fece in tempo a leggere la lettera perché l’indice della sua mano sinistra si taglio con la carta. Un taglio quasi invisibile, eppure Clarissa pianse. Pianse per l’intero pomeriggio e la sera, fino a quando si addormentò stremata.


I mesi successivi accolsero un inverno glaciale. Il padre di Clarissa le comunicò, durante una delle silenziose cene, che presto si sarebbero trasferiti nell’appartamento di sua madre, la nonna di Clarissa; una donna terribilmente esaminatrice, con la quale sarebbe stato un incubo condividere anche un grande appartamento come il suo. Ma così fu e per molto tempo la sua vecchia casa venne data in affitto ad un ufficiale fascista e alla consorte.

«Ti comporti come una libertina di basso rango.» le disse una sera la nonna, non appena la sentì rincasare ben oltre il coprifuoco, per l’ennesima volta. «Ringrazia che tuo padre si è trasformato in un’ anima in pena, sorda e cieca, altrimenti Dio solo sa come ti avrebbe fatto rigar dritto. Ah, ma bada bene che la prossima volta le alzo io le mani sul tuo bel visino. Eccome se lo faccio!»
 


Una mattina, Clarissa approfittò dei timidi raggi di un sole che non si vedeva da giorni, per deviare la quotidiana strada che la portava a scuola e raggiungere uno dei parchi ancora aperti al pubblico.

Fu proprio all’entrata che vide due addetti alla polizia militare trattenere per le braccia due ragazzini.

Non dovevano avere più di quattordici anni. Uno di loro cercava di mantenere sul capo un berretto marrone, come se la cosa più importante in quel momento fosse l’eleganza della sua presentazione, mentre l’altro si disperava in un pianto dirotto. Non appena Clarissa superò le porte del cancello, i due ragazzi vennero buttati fuori e caddero sul ghiaioso terriccio. I due uomini puntarono le pistole contro di loro e li fecero scappar via rapidi.

Pietrificata, Clarissa ritrovò i due uomini davanti a sé.

«Che cosa ci fate fuori da scuola, signorina?»

Non ascoltò la domanda. «Per quale motivo quei due ragazzi sono stati cacciati via?» chiese, in risposta.

«Gli animali e gli ebrei non possono entrare. Ammesso che sia davvero necessario distinguerli.»

I due uomini risero e le si avvicinarono ancora di più. Tentavano forse di intimidirla con il loro petto eroico portato fuori e la postura altezzosa, senza notare quanto disprezzante la loro immagine apparisse.  «Consegnateci un documento, prego.»

Uno di loro esaminò la carta d’identità e poi tornò a guardarla. «Marchesi Clarissa! Finalmente ho l’onore di fare la tua conoscenza.»

«Chi diavolo è?» chiese l’altro.

«Usciva con mio fratello, qualche tempo addietro. Su di te ho ascoltato solo racconti piacevoli.» disse, squadrandola. Clarissa poté giurare che con la viscida punta della lingua si accarezzò il labbro inferiore. «Sai, ero arrivato a pensare che fossi una fatina inventata dalla perversa immaginazione di mio fratello.»

Aveva una vaga idea di chi fosse il fratello di cui parlava. Gli occhi, quanto meno, erano molto simili, benché i geni sgraziati della famiglia fossero interamente toccati al fratello maggiore.

Clarissa tolse il documento dalle sue mani e lo rimise nella borsa scolastica.

«Certo, ricordo bene tuo fratello. Portagli i miei saluti.» gli disse.

«Lo farei se non fosse occupato a combattere per la propria patria.» il suo sguardo si fece ancor più maligno. «Ma stai pur certa che glieli porterò non appena rincaserà e avrò la cura di non farlo davanti alla sua docile nuova fidanzatina.» diede una pacca al suo compagno e insieme risero di gusto.

«E’ davvero incredibile quanto è piccolo il mondo.» continuò l’altro.

«Eppure abbastanza grande da riuscire ad accogliere milioni di idioti.» sfregiò Clarissa. A rimanere pietrificati, questa volta, furono loro.

«Sei tosta, piccola Marchesi, non c’è dubbio, mio fratello mi raccontava anche questo. Ma di questi tempi ti conviene soppesare l’utilizzo di quella linguina tagliente, lo dico per il tuo bene.» così dicendo, diede una pacca sullo stomaco dell’altro uomo.«Andiamo, compagno, abbiamo ancora metà parco da supervisionare. I topi si scovano meglio con la luce del sole.»

Il soldato si allontanò di qualche passo, sebbene non poté evitare di girarsi poco dopo. «Se dovessi ritrovarvi a gironzolare durante l’orario scolastico, provvederò ad avvisare la vostra famiglia, signorina Marchesi.»


 

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***



Come d’autunno le foglie



~ prima parte ~





 
 
4.

Ottobre, 1944

Ci scopriranno. Questa volta ci scopriranno tutti.


Clarissa non poteva smettere di pensarlo, mentre attraversava alla rinfusa la scala di un palazzo dismesso, con la sua piccola mano tra la mano di Cesare, che davanti a lei faceva luce con la fiamma di un accendisigari.

Oltrepassarono una porta e un lungo corridoio, oltrepassarono un’altra porta e percorsero altre scale, ancora più ripide. Quante volte i piedi di Clarissa avevano varcato quella strada, eppure mai erano stati tremanti come ora.

«Clarissa parlami. Ci sei ancora?» le chiese Cesare voltato di spalle, non abbandonava la stretta della sua mano, neanche il tempo di un secondo. Stringeva anche quando lei non aveva la forza di farlo.

«Si.»

«Riesci a sopportarlo?»

Respirò. E una volta ancora, respirò. «Si.»

Arrivati davanti alla porta verso cui erano diretti, Cesare la spostò sul muro di una parete. Lo spazio era stretto ed immerso nel buio. Non disse niente e iniziò a baciarle il viso; ogni singola parte. Le baciò la fronte, le palpebre, il naso gelato, gli incavi della bocca e lasciò a quest’ultima il bacio più affamato, assaporando con la lingua un momento infinito, fino a quando sentì che i battiti del cuore di Clarissa calmarono l’accelerazione.

Rimase colpita da quel gesto. Non era un uomo passionale o impulsivo Cesare, né mai lo era stato con lei. Se davvero fosse esistito il potere decisionale, sarebbe rimasta incollata a quel muro, persa nei suoi baci, da lì all’ infinito.

«Quando sentirai di non farcela, avvicinati a me. Fallo Clarissa e non essere orgogliosa.» Le accarezzò maldestro la guancia, per quel che il buio potesse permettere. «Non mi perdonerò mai per averti coinvolto in tutto questo.»

Clarissa si alzò sulla punta dei piedi e sollevò la testa per portare le sue labbra su quelle di Cesare e respirare con lui, un’ultima volta.
 

Aprirono la porta e trovarono tutti in silenzioso subbuglio. Avevano già indossato i capotti e chiuso le valige. Il piccolo Paolo Spitzer corse verso Cesare e gli prese una mano. «Io sono pronto.» disse, con gli occhi di un valoroso combattente di appena otto anni, che attende indicazioni dal suo più fedele comandante. Cesare gli sistemò il cappello di lana, creato qualche mesa prima dalla zia. Gilda Spitzer e Igor Basevi, gli zii di Paolo e gli unici parenti che la guerra non gli aveva ancora strappato, si avvicinarono alla porta d’ingresso con due valigie malridotte e una candela accesa.

Non uscivano da quel luogo da un anno e quattro mesi.

Dietro di loro si fece spazio la famiglia Moscato, i cui coniugi avevano avuto le due figlie in età avanzata; una di loro, Carla, era incinta di sei mesi. Il marito era stato imprigionato soltanto qualche settimana prima con l’accusa di aver sposato una donna ebrea. Una volta interrogato aveva detto di aver assistito all’uccisione della moglie e della sua famiglia, da parte di soldati fascisti, ottenendo che nessuno investigasse sul reale accaduto. La figlia più piccola, Francesca, di pochi anni minore di Clarissa, aveva instaurato con lei uno speciale rapporto che nessuna delle due avrebbe mai dimenticato.

«E’ stato tutto ben disposto?» chiese il Gastaldi, l’ultimo degli otto nascosti, avvicinandosi a Cesare. Solo lui e Cesare conoscevano il suo vero cognome, ma come patto di lealtà nessuno dei due poteva rivelarlo; il Gastaldi nei confronti dei Partigiani con i quali aveva combattuto e Cesare nei confronti del Gastaldi.

Cesare annuì. «Non possiamo uscire tutti insieme dal palazzo e sperare di passare inosservati.» disse. «La famiglia Moscato uscirà per prima e raggiungerà una volante medica parcheggiata sullo sbocco della prima via a destra. C’è un compagno fidato ad aspettarvi, che ha già ricevuto tutte le indicazioni su dove condurvi.»

I coniugi Moscato si infrondarono coraggio con un semplice sguardo e così fece Clarissa verso l’amica Francesca.

«Al momento giusto,» continuò Cesare. «usciranno Gilda e Igor. Camminate come se nulla fosse quando sarete fuori e non ci sarà motivo per sospettare di voi. Sotto l’insegna di una farmacia - la riconoscerete perché è l’unica rimasta nell’intera via - ci sarà una macchina nera e al suo interno una coppia di amici che si è offerta di aiutarci. Anche a loro ho dato le informazioni necessarie.»

Il Gastaldi sbuffò e si portò alla bocca una sigaretta spenta. «Avevamo detto di evitare qualsiasi contatto con persone estranee eppure fino ad ora ne conto già tre. Come possiamo fidarci di tre dannate persone se non dovremmo fidarci nemmeno di noi stessi?»

Dante Moscato, la cui voce risuonava pacata e imperturbabile in ogni occasione, distese lo spirito del Gastaldi. «Sii ragionevole, l’aiuto di qualcuno era prevedibile e inevitabile. Il minimo che possiamo rendere a Cesare e a quello che ha fatto per noi, è concedergli una fiducia cieca»

Non del tutto convinto, il Gastaldi decise comunque di non replicare.

«So di chiedervi molto.» disse Cesare, risoluto. «Gastaldi lo so, posso assicurartelo. Ma vi metto nelle mani delle uniche persone che sono certo darebbero la vita, pur di salvare quella di altri.»

Qualcosa all’interno di Clarissa si mosse, come un rapido brivido. Sapeva si riferiva anche a lei.

«E io? Io quando esco?» chiese ansioso il piccolo Paolo.

«Tu, campione, uscirai con Clarissa. Io e il Gastaldi vi seguiremo con l’ultima vettura che abbiamo a disposizione, perché voi sarete gli unici a raggiungere il nuovo rifugio a piedi. Clarissa è la sola a poter camminare senza rischiare di essere fermata, ma in qualsiasi momento dovesse notare qualcosa di insolito.. in qualsiasi momento..» sottolineò di nuovo, questa volta girandosi a guardarla. «Fermerò il furgone e vi farò salire. Sebbene continuo a pensare che sia molto meno pericoloso farvi percorrere il tratto a piedi, che nascondervi in un furgone.»

«No.» disse contraria, Clarissa. «Avevamo detto che avresti raggiunto il luogo senza preoccuparti di seguirci.»

«La ragazza è molto più saggia di te, Cesare. Pensi che non dia nell’occhio un furgone che cammina a passo d’uomo?» affermò il Gastaldi.

«La strada che faremo non ha blocchi di controllo e poi ho deciso così e basta.»

«E’ una decisione stupida.» replicò Clarissa, troppo debolmente per poter essere convincente.

«Rimane la mia ultima decisione e continuare a parlarne è solo tempo perso. Ci sono persone che ci aspettano là fuori.» L’irremovibilità di Cesare era l’ arma più complicata da fronteggiare. Ognuno di loro lo sapeva.

 
Si salutarono tutti, senza avere il coraggio di pronunciare parola. Persino il Gastaldi si concesse un attimo di debolezza e scambiò pacche sulla spalla come promesse di un arrivederci, dopo la guerra, se mai avesse trovato fine. Da quel momento il loro viaggio avrebbe seguito strade lontane, alloggi distanti, destini diversi.

Ma come si guarda negli occhi qualcuno che per mesi è stato parte delle tue ore, delle tue parole, delle risate e dei pianti?

Le indicazioni vennero osservate tutte con estrema precisione. Clarissa, prima di abbandonare il rifugio segreto, sfiorò la mano di Cesare. Lui si chinò verso di lei e con quel suo sguardo serioso ma delicato, le disse per la prima volta che l’amava. Camminando, poco più tardi, con Paolo tra le braccia e l’echeggiare di spari lontani, non avrebbe pensato ad altro. Avrebbe ripetuto quelle parole nella sua mente, fino a consumarle.


Quella sera stessa, come previsto dalle fonti arrivate a Cesare pochi giorni prima, l’intera zona in cui si trovava il palazzo che nascondeva i Moscato, i Basevi e il Gastaldi, venne rasa al suolo da un bombardamento di aerei nemici.
Decine d’ innocenti civili morirono e solo otto persone, benché nessuno lo sapesse, si salvarono.


 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***



Come d’autunno le foglie



~ prima parte ~



 
 
 
5.
 

24 ottobre, 1942

Denise teneva sottobraccio Clarissa, mentre insieme si dirigevano verso una delle panetterie del centro, a ritirare la dose prevista dai razionamenti.

Passeggiare per le vie della città aveva perso l’eccitazione di un tempo, quando ancora si presentava il miglior abito che si aveva, ci si pitturava gli occhi nella speranza di poter alzare lo sguardo rapido e malizioso verso quello di un giovane passante; quando le coppie di fidanzati camminavano fianco a fianco, con la cura di non sfiorarsi, se non in accidentali strappi alla regola; quando i bambini precedevano le madri, smaniosi di raggiungere le giostre montate in piazza per questa o quell’altra festività.

La guerra aveva cancellato ogni colore e così il grigio dell’asfalto era il grigio dell’ insegna del cinematografo, dell’ altalena, del carro armato e del soldato che marciava compiaciuto.


«Ecco! Come volevasi dimostrare..» commentò Denise, non appena arrivarono alla panetteria. «Se sua maestà, la principessina, si fosse alzata di buon ora, non saremmo costrette a fare questa fila infinita. Speriamo almeno rimanga qualche briciola quando sarà il nostro turno.»

«Come sei brontolona, Denise.» rise, Clarissa. Stringendosi forte contro il braccio della domestica.

«Sarò anche brontolona, ma non resterò in silenzio a guardare come rovinate la vostra vita, signorina Clarissa. Da quando avete finito la scuola passate le giornate a dormire o a bighellonare con le vostre strane amichette.»

Clarissa alzò gli occhi al cielo. «Quando parli così sei uguale a mia nonna. Anzi peggio! Almeno quello che dice lei non mi sfiora minimamente.»

«E invece dovrebbe.» Per quanto fosse lunga, la fila avanzava a passo spedito e loro con essa. «Signorina, sapete bene quanto mi costi parlar bene di vostra nonna, eppure non sarebbe un male ascoltarla quando vi suggerisce di iscriversi all’ Università o almeno occupare il vostro tempo con attività socialmente utili.»

«Siamo in guerra, non esistono attività socialmente utili. A parte fermare la guerra. Mi aiuti tu a farlo?»

Denise strattonò la ragazza, mentre la guardava divertirsi dietro un sorriso. Si girò per controllare che nessuno l’avesse sentita. «Non parlate cosí nei luoghi pubblici. Buon Dio, se esistesse una cura per la vostra impertinenza…»

D’un tratto, la moglie del panettiere chiuse le porte vetrate del negozio ed espose un cartello che tutti si avvicinarono a leggere. Non sarebbero più state consegnate razioni di pane fino l’indomani mattina.

A stento Clarissa trattene una risata. «Nonna andrà su tutte le furie.» commentò caustica, solleticando la pazienza della cara vecchia Denise.
 


In quei tempi, le vendite sul mercato nero erano ancora tacitamente relegate al margine delle questioni sociali. Prendevano piede lentamente, benché fossero destinate a diffondersi più rapide di un’epidemia. Di certo, non era comune vedere gente di alto rango chinarsi per rivolgersi a loro e se questo avveniva, vi era sicuramente qualche provvisoria ragione.

Evitare di adirare la nonna di Clarissa, quel giorno, fu la loro ragione.

Denise insistette per occuparsi della faccenda da sola e pregò Clarissa affinché rientrasse a casa, ma non ebbe nemmeno l’illusione di riuscire a persuaderla.

Raggiunsero la periferia della città con uno dei tram ancora in funzione. L’autista, per pura apprensione nei loro riguardi, disse che sarebbe tornato a riprenderle di lì a una mezz’ora, dirottando il suo abituale tragitto.
 

Della miseria che videro e del degrado che esprimeva ogni singola abitazione, non ebbero il coraggio di parlare.


«Sbrighiamoci o non avrà più farina nemmeno lui.» Denise si avvicinò spedita ad un giovane ragazzo, adagiato ad un furgone verde. Aveva una folta barba nera e un’ enorme voglia marrone sotto l’occhio sinistro, che si confondeva con un’ occhiaia di stanchezza.

Mentre i due discorrevano a bassa voce, l’attenzione di Clarissa si perse altrove. Un gruppo di bambini giocava in mezzo alla strada, disegnando quadrati sul cemento con piccoli sassi bianchi e saltando al loro interno.

Non appena si accorsero di Clarissa, ormai irrimediabilmente vicina, la guardarono come se provenisse da una terra lontana. Alcuni si nascosero all’interno di un cortile; altri, i più impavidi, si avvicinarono per accarezzare i fiori dipinti sulla sua  gonna o toccarle le scarpe. Non avevano mai visto scarpe così lucide.

Da quel cortile uscirono alcune donne e avanzarono verso di lei, con la stessa bramosia degli occhi dei bambini e la stessa povertà nei tessuti dei vestiti, troppo leggeri per resistere all’imminente inverno.
 

«Sono zingari, non lo vedi?!» gridò un soldato fascista alle spalle di Clarissa. Levò la pistola al cielo e scatenò una serie di colpi. Le donne presero i bambini e rientrarono immediatamente nel cortile. I loro volti, però, non sembravano scossi quanto quello di Clarissa; come se quello fosse, per loro, un suono familiare.

«Brucia le scarpe che indossi non appena rientri a casa, ormai le hanno contaminate.» le disse il soldato. Sputò il mozzicone che reggeva tra le labbra e continuò dritto per la sua strada, con le mani dietro la schiena, serrate in un pugno.

 

Sarebbe corsa da Denise e le avrebbe raccontato, tutto d’un fiato, quanto aveva visto fare a uno di quegli uomini che disprezzava. Avrebbe pianto raccontandolo, tanto era l’odio che sentiva e non poteva rivelare a nessuno. A nessuno, tranne che a Denise.

Sarebbe corsa da lei, l’avrebbe fatto. Se la guerra non le si fosse presentata davanti, improvvisamente.


L’allarme risuonò dai megafoni per ben due volte. Centinaia di persone si riversarono sulla strada, fino a quel momento desolata. Sembravano tutti capire cosa stesse succedendo, mentre Clarissa naufragava in un mare in tempesta.

Sebbene la corrente di persone si spostasse nella direzione opposta, lei si voltò e corse senza riuscire a trovare Denise. Corse, mentre le sirene dell’allarme echeggiavano acute ed estenuanti.

Una prima bomba cadde a pochi metri di distanza. Il tonfo fu tale da paralizzare ogni movimento e un terriccio polveroso si sollevò, offuscando l’ambiente. Corse, non appena si rialzò dalla caduta, senza più sapere dove stesse andando. Corse e un'altra bomba demolì un’enorme palazzo. Corse, corse.

Fino a quando un braccio la fermò all’altezza dello stomaco. La sollevò come fosse stata fatta di carta e la portò via, verso la direzione in cui tutti si dirigevano.

Clarissa ascoltò il suo respiro sconosciuto, senza guardarlo in faccia. Sentì contro il petto il ritmo del suo cuore; in mezzo alle grida e ai pianti del feroce dolore che si consumava intorno a lei, chiuse gli occhi e si concentrò solamente sul ritmo irregolare di quel cuore.

Fu così che, tra le macerie di guerra, la sua vita si scontrò con quella di Cesare.


 
Ore dopo, quando fu possibile abbandonare i rifugi sotterranei, costruiti in caso di attacco militare, ci si sarebbe resi conto delle infinite perdite causate dal bombardamento. Edifici crollati a terra, scuole, botteghe, biblioteche rese polvere.

Tra le morti di civili, si sarebbe parlato a lungo di una domestica dal cuore gentile e l’animo vigoroso. Qualcuno giurò averla vista chiudere gli occhi e sussurrare un nome femminile, quasi fosse la sua ultima preghiera.
 





 
*  Il bombardamento riportato in questo capitolo è realmente avvenuto in data 24 ottobre 1942. La città di Milano venne colta di sorpresa da attacchi aerei, a partire dal tardo pomeriggio.
Il resto degli eventi narrati è interamente dettato dalla fantasia.

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***



Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~
 





 

 
6.


1946

Il mondo cambiò con estrema velocità, con il soccombere del nuovo anno. Dimenticare diventò un bisogno vitale, quasi quanto mangiare e dormire.

Si credeva che provando a non pensare alle atrocità che i propri occhi avevano visto, queste sarebbero svanite nel nulla. Relegate nel cassetto più nascosto dell’inconscio.

Clarissa e la famiglia di Gemma festeggiarono il nuovo anno brindando con un bicchiere di vino rosso e un pezzo di pane e marmellata. Nessuno di loro ricordava più quanto delizioso fosse il sapore dei lamponi.
 


Il marito di Gemma propose a Clarissa di ristrutturare un piano della villa, un tempo edificata sopra il piccolo sottoscala. Si sarebbe occupato lui di materiali e manodopera, in segno di riconoscimento per averli accolti con lei senza mai chiedere nulla in cambio.

Con l’arrivo febbraio, parte del primo piano era già stato strutturato e laddove un tempo ergeva un’enorme cucina, riempita dai sapori dell’eccellente cuoca di Clarissa, ora era stata costruita una stanza matrimoniale perché Gemma e il marito potessero godere della loro intimità e un’altra, più piccola, per i bambini. Clarissa aveva più volte rifiutato di abbandonare il sottoscala; o almeno non prima del ritorno di suo marito, sebbene le apparisse sempre più lontano.
 


Ma proprio quel giorno, il 27 febbraio, quando ricorreva un anno dalla sua scomparsa, qualcosa era destinato a cambiare.
Una cartolina, raffigurante la città di Milano nei suoi momenti migliori, le era stata recapitata da un certo Lorenzo Silvatti, il quale le chiedeva di presentarsi in tal via, a tal ora, non appena le fosse stato possibile.

In basso, con una calligrafia ancor più piccola, era stato scritto il nome ‘Gastaldi’.

Il cuore cominciò a batterle cosi forte che persino le punte delle sue dita riuscivano ad avvertirlo. Non aveva sue notizie da quell’ultimo pomeriggio di due anni fa, quando insieme avevano abbandonato il rifugio in cui si nascondeva con gli altri; Cesare non l’aveva mai più nominato e lei aveva preferito tenere le sue curiosità per sé.



 
Quello stesso pomeriggio si presentò davanti all’indirizzo indicato. Entrò nella libreria che risultava al numero civico riportato sulla cartolina e domandò di Lorenzo Silvatti. Un’ anziana signora, austera nei modi, l’accompagnò nel retro e le indicò un lungo corridoio, al termine del quale un’ insegna citava ‘Lorenzo Silvatti – avvocato civile’.


«Lei deve essere Clarissa. Molto piacere, mi chiamo Lorenzo Silvatti.» un uomo, sulla trentina, con un buffo papion a quadri e un paio di occhiali tondi, strinse energicamente la mano di Clarissa.

Le sue speranze di trovare il Gastaldi, dietro il nome di Lorenzo Silvatti, caddero all’istante.

«La prego si sieda signorina, mi fa impressione vederla sbiancare così all’improvviso. La vuole un po’ di acqua e zucchero?»

Senza attendere risposta si avvicinò a lei e le porse il bicchiere d’acqua. «Ammetto di averla immaginata un pochino più grande. Almeno dalle descrizioni che mi sono state date.» le disse, tornando a sedersi.

«Chi le ha parlato di me?» chiese Clarissa, con voce flebile, quasi in un sospiro.

L’avvocato accennò un sorriso. «Ed eccoci al motivo per cui l’ho fatta venire. Mi dispiace solo che la carta che le ho inviato sia arrivata con ritardo, ma cosa vuole farci… le corriere postali riprendono il loro passo lentamente dopo i tempi oscuri che abbiamo passato.»

«Certo. Immagino anche non sia stato facile trovarmi. Ho cambiato residenza pochi mesi fa.»

«E’ ritornata nella villa che apparteneva ai suoi genitori, non è vero? In un sottoscala, se non vado errato.»

Clarissa lo guardò incuriosita, tanto dalle domande quanto dalla situazione. «Avvocato, mi scusi, come ha trovato queste informazioni?»

L’avvocato Lorenzo Silvatti sembrò soppesare le parole una ad una, finse di iniziare a parlare cosi tante volte da confondere le idee di Clarissa, che lo guardava silenziosa. «Sono più che sicuro che il motivo che l’ha spinta ad accettare di vedermi, sia stato trovare riportato il nome del Gastaldi nella lettera.»

«Lo conosce?»

Il volto dell’avvocato s’incupì. «Temo di dover parlare di lui al passato. Lo conoscevo, si. Lo conoscevo molto bene. Si può dire fosse uno dei più cari amici che la guerra mi abbia regalato.»

«E’…è morto? Quando è successo?»

«Immagino sapesse che faceva parte di un gruppo di partigiani dell’Alto milanese? Uno dei più grandi gruppi della Resistenza, nel capoluogo, nato ancor prima che questa parola s’insinuasse con disprezzo nella propaganda fascista. Lui e altri nostri commilitoni sono stati arrestati una notte di gennaio, nel ’45. Fucilati la mattina seguente, all’alba, come prezzo pagato per la morte di un tenente tedesco catturato qualche settimana prima.» Sospirò, fissando un punto indefinito del tavolo di mogano che aveva davanti. «Se solo sapesse quanto sangue era scivolato dalle mani di quel tenente, signorina. Mentre il Gastaldi, per quanto burbero e scontroso, non avrebbe tolto la vita nemmeno a un cane se fosse stato innocente. Che infame sa essere il destino, in tempo di guerra.»

Senza darlo a vedere, Clarissa asciugò una lacrima furtiva. Ricordò il volto sempre imbronciato del Gastaldi e il suo animo energico, che non lo abbandonava mai, persino quando perdeva una partita di carte o quando tentava di insegnare al piccolo Paolo Spitzer ad accendere un fiammifero.

«Ho sentito il suo nome, per la prima volta, uscire proprio dalla bocca del Gastaldi.» ricominciò l’avvocato, guardandole il volto, oltre gli occhiali. «Quando rientrò nel gruppo, nel 1944, io ero uno dei nuovi; quelli a cui si deve solo indifferenza e sospetto, come è normale che sia. Eravamo circondati da possibili traditori e il meglio che potessimo fare era diffidare persino della nostra ombra. Ma il Gastaldi mi prese a cuore. La notte facevamo sempre la guardia insieme e sottovoce mi raccontava la storia di chi si è era occupato di lui,  quando il suo nome era nella lista dei partigiani ricercati. Mi sembrava così bello che al mondo esistesse ancora un po’ di umanità. Ho sempre pensato a voi come ad angeli in mezzo all’inferno.»

Clarissa scosse la testa. «Io non ero niente di tutto questo, glielo assicuro.» commentò, ma la morte del Gastaldi era l’unica cosa a riempirle la mente.

«Lei è molto umile, signorina.» disse l’avvocato. «Rischiava la vita ogni giorno per proteggere due famiglie ebree, un partigiano socialista e un disertore, simpatizzante per il Partito d’Azione.»

Disertore. A quella parola Clarissa sorrise, accarezzandosi nervosamente le mani da sopra i guanti. «Cesare odia sentirsi chiamare così. Preferisce definirsi obbiettore di coscienza.» parlare di lui al presente, era uno dei piccoli sotterfugi che usava per ingannare il dolore che provava, nel non averlo con sé.

«Già, molti miei compagni erano dello stesso avviso. Loro malgrado alla guerra non interessavano queste differenze e all’ora di impugnare le armi per i fascisti, nessuno poteva tirarsi indietro.»

Entrambi sospirarono, persi in ricordi ancora troppo vividi.

«Clarissa, mi permette di darle del tu? Spero voglia fare lo stesso anche lei.» Allungò le mani sul tavolo, sperando che Clarissa porgesse le sue. Sembrava un uomo gentile d’animo, quanto meno erano i suoi occhi a parlare laddove i suoi gesti buffi lo male interpretavano.

«Ora che sono riuscito a conoscerti di persona, voglio trasmetterti il mio completo appoggio.» le disse. «Se hai bisogno di un amico per le tue ricerche, di qualsiasi genere esse siano, sono pronto ad esserlo. Voglio esserlo. Lo devo alla buonanima del Gastaldi e a tutti coloro che tu e Cesare Poggi avete aiutato.» incontrò la mano esitante di Clarissa. «Ma ho bisogno di sapere. Ho bisogno di sapere tutto. Perciò non perdiamo più tempo, raccontami ogni cosa, dall’inizio..»


 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***



Come d’autunno le foglie






~ prima parte ~







 
 
7.


Primi mesi, 1943

Incontrava quell’uomo per puro dispetto nei confronti di suo padre.

Questa, nei primi tempi, era stata la sola ragione che spingeva Clarissa a pedinare le giornate di Cesare Poggi, come una mosca fastidiosa.
In cuor suo lui lo sapeva bene e per questo la lasciava fare.

Si ribellava all’autorità paterna, che incarcerava il suo diritto ad avere idee proprie o seguire valori lontani dalla morale fascista. E di idee rivoluzionarie, di valori genuini, ne aveva da vendere quella strana ragazza, dal viso pallido di bambina e gli occhi di una donna. Avrebbe conquistato il mondo, sola, con le sue forze. Cesare se ne accorgeva, ma non le diceva niente.

Lasciava che la seguisse nei suoi silenziosi pomeriggi al bar, mentre correggeva i compiti dei suoi alunni.
In quale scuola insegni?  gli chiedeva e lui destreggiava la risposta con grande maestria, da riuscire a nascondere la verità senza mostrare alcuno sforzo.

Lasciava che lo accompagnasse quasi fin sotto casa; salivano sul tram insieme, dove lui non voleva sedersi mai. Attraversavano la strada senza pronunciare parola, mentre i suoi occhi curiosi dal basso lo guardavano; guardavano i suoi maglioni antichi, le mani nascoste nelle tasche, le gambe lunghe che non le permettevano di reggere il passo.
A volte si voltava per vedere a che punto fosse… allora, forse, di lei qualcosa gli importava?


 

Cesare era un antifascista. A quei tempi, Clarissa racchiudeva in quella categoria tutti coloro i quali detestavano la guerra e negavano l’utilizzo delle armi. Le spiegazioni di Cesare, la fecero ricredere.
Esistevano milioni di sottigliezze in ogni gruppo, non si stancava mai di dirglielo. Avrebbe dovuto imparare a qualificare l’uomo come uomo e non come mera macchina al servizio di ideali politici, qualunque essi fossero.

«Quando parli così sembri proprio un professore.»

«Ti ricordo che lo sono.» le disse, un pomeriggio, mentre attraversavano il ponte in legno di un laghetto, immerso nel silenzio di un parco. Camminando aveva l’abitudine di lasciare a lei la destra, in un gesto di galanteria d’altri tempi. Probabilmente lui nemmeno lo notava, ma a Clarissa provocava sempre un tacito sorriso.

«Ah, si? E allora cosa ci fai qui con me, invece di lodare le virtù del tuo Duce in un’ aula scolastica?» chiese, sarcastica. I modesti raggi solari di marzo, riuscivano a cogliere la bellezza del suo volto.

«Ci sarei andato se non avessero indetto uno sciopero, proprio oggi.» Risero insieme.



Le leggi razziali avevano strappato il ruolo d’insegnante non solamente ad ebrei o coniugi di ebrei, ma anche a coloro i quali intrattenevano rapporti con la razza giudea o simpatizzavano per partiti che minacciavano la dittatura fascista. Cesare non insegnava da oltre un anno, sebbene ancor prima si fosse sempre accontentato di incarichi temporanei, attendendo che qualche denuncia giungesse al preside della scuola.

Quando aveva incontrato Clarissa, lavorava già da diversi mesi come operaio in un’ industria bellica, benché gli fosse impossibile rinunciare alla sua passione. Capitava impartisse lezioni illegali a chi era stata vietata un’istruzione, perlopiù figli di famiglie disagiate e di religione ebraica.

«Si dice che la guerra finirà entro dicembre.» commentò Clarissa, per rompere il suo silenzio. «Mi piacerebbe partire per l’America, non appena accadrà. Al sud, magari.. sì, il sud America sembra pieno di misteri.»

Cesare le indicò una panchina e la spinse leggero sulla schiena, perché si sedesse.

«Chi lo dice?» chiese, improvvisamente serio.

«Non lo so, credo di averlo sempre immaginato così.»

«Chi dice che la guerra finirà a dicembre?»

Clarissa lo guardò incupirsi. «Ho sentito mio padre mentre parlava al telefono.»

«Non perdere tempo con fantasie sterili, Clarissa. Non ha senso credere che la guerra finirà in così breve tempo.»

«Ma dicembre è tra nove mesi! Per quanto ancora dovrebbe andare avanti?»

«Non lo so. Ma di certo è da insensati sperare che si concluda con la fine dell’ anno. E’ questo che sei, un’insensata?»

Clarissa sbuffò e s’indispettì. Non sopportava i momenti in cui avvertiva un enorme varco tra loro due. Rovistò nella borsetta, alla ricerca di una sigaretta e accese l’unica che riuscì a trovare, per quanto rovinata fosse. Lo fece sapendo quanto lui detestasse vederla fumare.

«Sono un’insensata sì, perché passo il mio tempo con un ricercato come te. Potrebbero uccidermi sai? E tutto per colpa tua.» gli gridò. Pentendosi l’istante successivo.

Senza il minimo preavviso, Cesare si avvicinò a lei come non aveva mai fatto. Le si abbassarono gli occhi dalla vergogna che pensava di non avere e una morsa all’interno dello stomaco non le dava tregua.

Accarezzò la sua guancia e le buttò via la sigaretta. «Come fai ad avere la pelle così chiara?» per un attimo guardò lontano e si schiarì la voce. Poi si avvicinò al suo orecchio, perché nessuno ascoltasse, e le sussurrò. «Sono molto più pericoloso per te di quello che credi. Se ti chiedessi di non cercarmi mai più, lo faresti?»

Una sirena suonò. Era segno che il parco stava per chiudere i cancelli, ma nessuno dei due si mosse da quella panchina.

«Lo faresti, Clarissa?» chiese, guardandola. Guardandola davvero  per la prima volta.




 
Quel giorno aveva acconsentito che lo raggiungesse a casa sua.

Con il passare dei mesi e l’aumento dei bombardamenti, le passeggiate all’aria libera si erano fatte sempre più rare, così come rara era la presenza di Cesare in luoghi che non fossero a lui familiari; uno su tutti il bar dove si tenevano le riunioni del Partito d’Azione, delle quali preferiva non fare parola.

Clarissa, seduta sul tram che l’avrebbe portata da lui, sembrava la ragazza più felice della terra. E forse lo era. Non c’era più tristezza nei suoi occhi, né grigiore per le strade, né sofferenza sotto le macerie. Per un attimo, non c’era più guerra. 
 
«Mi è piaciuto molto più questo romanzo, di tutti quelli che mi hai prestato fin ora.» disse a Cesare, ridandogli ‘Anna Karenina’.

Cesare mostrò appena un sorriso e le porse una tazza di the fumante. Che non aveva nulla del sapore del the e nulla del calore fumante, ma era quello che quei tempi offrivano. «Una giovane donna che si ribella alle convenzioni della società.» alzò il sopracciglio. «Chissà perché sapevo ti sarebbe piaciuto.»

La sua casa era ricca di lui. L’odore dei libri, degli antichi mobili di legno, la foto dei genitori e della sorella, morti nella guerra che aveva combattuto quando era solo un ragazzino.

Desiderava vivere in quel piccolo angolo di mondo, ma era troppo spaventata per decidersi a confessarglielo. Tutte le volte che andava da lui, Cesare le permetteva di rimanere solo in salotto, lasciandole immaginare come fosse il resto che non vedeva.
 



Un pomeriggio, prima di salutarlo e non rivederlo per chissà quante ore e quanti giorni, gli prese la mano e la portò sulla sua guancia. Chiuse gli occhi e inspirò.

«Clarissa..» lui pronunciò il suo nome con rimprovero, cercando di togliere la mano dal suo viso.

«Ti prego, ti prego. Un secondo ancora.» si decise a guardarlo e con estrema audacia gli chiese di poter rimanere da lui per quella notte. Le sue guance arrossirono.

Cesare sorrise. «Tuo padre muoverebbe monti per cercarti e quando ti troverebbe qui, che scusa potremmo inventare?»

«Mio padre non sa neanche se sono ancora in vita. E’ colpa sua se posso vederti solo nascondendomi, se viviamo sempre con la paura di morire, se siamo in mezzo a questa merda»

«Non parlare così.» le disse, con il tono risoluto che aveva imparato a conoscere, e sospirò. «Sai cosa ha detto Churchill?»

Clarissa si allontanò dalla porta d’ingresso e camminò fino alla finestra per allentare la rabbia che avvertiva. «Si, so cos’ha detto Churchill. Me l’hai detto tu la scorsa settimana e quella prima ancora: la popolazione italiana non ha colpe per quello che sta succedendo, di cui il solo responsabile è il Duce. Al diavolo! Non ti sto parlando di guerra, né di politica. Perché con te non si possono fare discorsi che non tocchino quegli argomenti?»

Cesare sistemò alcuni libri sparsi sulla scrivania e mise le mani in tasca.  «Che altri discorsi vuoi fare?»

Rise nervosa. Perché doveva essere così complicato ammetterlo? «Ti sto cercando di dire che sono innamorata di te.»

Rimase immobile, come colpito all’improvviso. Eppure bastarono pochi istanti per farlo tornare quello di sempre, nel suo animo trattenuto e pacato, razionale in ogni gesto. «Clarissa, per favore... sei poco più che una bambina.»

«Che cosa c’entra questo?» le si strozzò la voce e gli occhi si bagnarono. D’istinto si voltò per non farsi vedere.

Era un uomo grande Cesare, molto più grande di lei, ma quel che davvero la spaventava era la grandezza dell’amore che irrimediabilmente provava per lui e che non avrebbe mai trovato cura, per quanto indelebile era stato marchiato. 

«Non fare la sciocca, sai bene che c’entra molto.» sospirò e guardò l’orologio. Di lì a poco avrebbe avuto una lezione da impartire ad una classe di ragazzini, a cui era stato tolto il diritto all’istruzione.

Era illegale e pericoloso, esattamente come lui.  «E ad ogni modo, se non bastasse questo come ostacolo, ce ne sarebbero altri mille.» disse, sforzandosi di mostrarsi distaccato. «Sapevamo che sarebbe arrivato il momento di separarci, Clarissa. E’ meglio che vada così.»
 


Non si rividero per un tempo, che parve ad entrambi infinito.



 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***



Come d’autunno le foglie






~ prima parte ~




 
 
 
8.


10 giugno,1940

«Popolo italiano! Corri alle armi! e dimostra la tua tenacia.. il tuo coraggio.. il tuo valore!* » 


 
La principale piazza milanese, piazza del Duomo, era un tripudio di gente. Giovani, anziani, madri, bambini, operai, imprenditori, contadini e proprietari terrieri.
Ammiravano la loro bella Milano, città dei monumenti illuminati fino tarda notte, dello swing che risuona da qualche locale periferico, delle romantiche passeggiate sulla riva dei Navigli, la ammiravano spalancare le porte alla follia. E festeggiavano, festeggiavano, festeggiavano.


Al limpido cielo – non una sola nuvola aveva il coraggio di guardare quel che avveniva sotto i suoi occhi -  venivano rivolti fazzoletti bianchi, dove lacrime di gioia o forse di mascherata preoccupazione, erano appena state asciugate.

La distesa umana si riversava in ogni angolo della piazza; nell’ immensa Galleria Vittorio Emanuele II e nella prestigiosa omonima via che ricopriva l’ala sinistra del Duomo. Alcuni vantavano alle orecchie di qualche passante, la loro orgogliosa presenza sin dalle prime ore del mattino, nell’attesa di quelle tanto agogniate parole.

Dalle cime di alcuni lampioni e dalle verande di balconate in granito bianco, giungeva con brutale violenza, la voce di Benito Mussolini.

Non c’erano che semplici megafoni a trasmettere il suo discorso, eppure dall’euforia che si respirava tra la folla, sembrava fosse proprio lì, in mezzo a loro.


Il ‘discorso del Duce’. Lo si era atteso, venerato, persino sognato ed ora lo si ascoltava con incosciente consapevolezza.


 
Quella mattina, si annunciava l’entrata in guerra dell’Italia. I più profondi valori militari e patriarcali avrebbero solleticato l’animo di ogni singolo civile, che ben presto sarebbe stato chiamato a scendere in campo contro il nemico.

Di chi fosse il nemico, di quale fosse la guerra e di quali armi si usassero per combatterla, la giovane Clarissa Marchesi preferiva non sapere nulla, nonostante la scuola, la famiglia e gli amici, la spingessero verso un’ unica via davvero percorribile.


«Viva il Duce! Viva l’Italia!»

Gridavano le persone, da ore. Le parole le entravano nelle orecchie come un suono assordante, che si fa sempre più familiare.
 



Come molte altre scolaresche, Clarissa e le sue compagne erano state chiamate a sfilare per le vie del centro, accompagnate dal rigore severo della professoressa di Lettere. Una donna bassa, dal portamento malinconico e gli occhi spaventosamente vigili.

«Marchesi metti immediatamente via quella sigaretta.» la redarguì appena gliela vide estrarre dalla calza.

«Ma siamo qui in piedi a far nulla, da questa mattina.» sbuffò, trattenendo una risata. «La noia mi ucciderà se non faccio qualcosa.»

«Magari lo facesse davvero, insolente di una ragazzina!» La professoressa, da qualche tempo a quella parte, aveva preso l’uso di sventolare una bacchetta di legno per enfatizzare la sua rabbia. Non era capace di liberarsene mai e il timore era che la portasse con sé persino per coricarsi. Ma per quanto cercasse di risultare più intimidatoria, agli occhi di Clarissa risultava solo molto buffa.

«Professoressa non datele corda.» intervenne Beatrice Morani, l’alunna più stimata dell’ universo scolaresco milanese e la più detestabile per contro. «Probabilmente non è noia quella che sente, ma sonno. Si dice abbia trascorso l’intera notte a far baldoria con i collegiali dell’istituto.» cercò lo sguardo di Clarissa, che scoprì essere molto più calmo di quanto si aspettasse. «Scommetto che non ti ricordi neanche delle loro facce..»

«Chissà perché ogni volta che ‘si dice’ qualcosa, tu sei l’unica a sentirla, Beatrice.» le rispose, Clarissa. Ormai annoiata dalle sue frecciatine. «Non hai di meglio da fare che infastidire me? Io fossi in te concentrerei le mie attenzioni su quel cespuglio di capelli che ti ritrovi.»

«Maleducata.» commentò rabbiosa, la compagna. Clarissa si finse terribilmente scossa da quell’insulto, finché intervenne la professoressa a riportare l’ordine nella fila di alunne.


Le radunò affinché ognuna di loro riuscisse ad avere una buona visuale di quel che stava accadendo. Alle poverette capitate al suo fianco, sistemò maniacalmente le camicette bianche con il logo della scuola e le gonne nere le cui pieghe dovevano ricadere alla perfezione.

A pochi passi da loro marciavano alcuni ufficiali, simbolo di un paese pronto ad affrontare con onore ciò da cui si era fin ora nascosto.

Reggevano fucili sulle spalle, bandiere tricolore nelle impugnature delle mani e muovevano le braccia come burattini. Al loro seguito una schiera di giovani balilla avrebbe camminato per la città fino a notte fonda, tra le grida e i pianti orgogliosi dei loro genitori.
 

Uno dei soldati incrociò lo sguardo di Clarissa e lo mantenne per alcuni secondi. Seppur non tra i più alti di statura, era fiero nei suoi lineamenti e tutt’altro che sgradevole, ma qualsiasi bellezza potesse esprimere risultava completamente offuscata ai suoi occhi. Lo guardava e non vedeva altro che lo sguardo di suo padre, lo sguardo degli uomini che gridavano il nome del loro comandante, lo sguardo di quei giovani ragazzi che vedeva indossare divise nere e sentirsi superiori al mondo. Non c’era spazio per la bellezza in sguardi come quelli.

Si concentrò altrove. Alzò gli occhi verso il cielo e si accorse della totale assenza di nuvole.
 



 
Quella sera, a tavola, nella sala dove si consumava abitualmente la cena, suo padre sembrava più euforico che mai; si era persino ricordato di ringraziare Denise quando gli aveva servito il piatto.

La madre li raggiunse poco dopo aver risposto al telefono. Camminava a passi soppesati, ma eleganti, nel suo tailleur cremisi. La moda era il suo più grande svago, l’unico che sentiva di avere da quando aveva sposato il giovane impresario di buona famiglia. Ma fin dai primi mesi del matrimonio, suo marito era stato molto chiaro: svago e null’altro doveva rimanere.

Si sedette e guardò silenziosamente Clarissa che sedeva poco distante da lei. Indossava ancora l’uniforme scolastica, ma i suoi piedi, nascosti sotto il tavolo, erano nudi e toccavano il tessuto soffice del tappeto.

«Cos’è successo?» chiese suo marito che, guardandola, smorzò ogni entusiasmo.

«Tua figlia è stata sospesa. Di nuovo.» gli rispose. La sua voce non era poi diversa dal solito. Distante, persa in un mondo a cui nessuno aveva accesso.

Il signor Marchesi buttò le posate sul piatto e si tolse il fazzoletto dal collo. «Me l’avevi promesso.» disse, rivolgendosi alla figlia. «Avevi promesso che ti saresti risparmiata dal farmi vergognare per l’ennesima volta. In un giorno come questo, per giunta!»

«Dovresti esserne ancora più felice.» rispose Clarissa, con l’ incoscienza e la grinta dei suoi sedici anni. «Lontana da quel manicomio di scuola, ci sono meno possibilità che torni a farti vergognare di me, papà.»

«Mi chiedo che male posso aver fatto per meritare una figlia come te.»

 
La madre si alzò e andò via. Farfugliò qualcosa su un improvviso mal di testa.

Rimasero soli nella stanza, sebbene Denise stesse rallentando il suo lavoro per non abbandonare Clarissa. Dalle grandi vetrate, ben aperte accanto a loro, il sole serale smorzava la sua luce, lentamente.


«In ogni caso, questa volta non te la farò passare liscia.» affermò con vigore il signor Marchesi, camminando per la stanza. «Domani non appena sarai sveglia, mi accompagnerai alle riunioni del Partito e mi farai da segretaria, annotando una per una le frasi che pronunceranno. Poi scriverai un resoconto della giornata e lo presenterai al preside, con l’augurio che possa bastare per revocarti la sospensione.»

Clarissa rise, amareggiata. «Certo, perché è esattamente questo quello che fate voi. Costringere con la forza a piegarsi alle vostre idee.. quando a me basta sentirle echeggiare da lontano per aver voglia di correre in bagno a vomitare.»

«Signorina Marchesi…» sussurrò Denise, rossa in viso, mentre guardava il padre di Clarissa avvicinarsi sempre di più a lei.

Guardava la figlia con gli unici occhi che sapeva rivolgerle. Come fosse un suddito al suo comando.

«Domattina, tu verrai con me. Farai sempre quello che ti dirò di fare. Penserai quanto ti dirò di pensare, parlerai quanto ti dirò di parlare.» le ordinò. «E stai pur certa che ti passerà la voglia di rovinare l’immagine del mio nome.»









* Tratto dal discorso di Mussolini.
10 giugno, 1940. Piazza Venezia, Roma.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***



Come d’autunno le foglie






~ prima parte ~




 
 
9.


Maggio, 1943

Lo rivide per semplice caso, di ritorno da una delle infinite lezioni di cucito alle quali sua nonna l’aveva obbligata. Considerando fossero le uniche a farla uscire di casa, dopo l’ ennesima punizione a vita che suo padre le aveva scagliato contro e i minacciosi reclami radiofonici che suggerivano di evitare passeggiate solitarie lungo la città, sapeva di non potersi lamentare.
 

Per qualche ragione si ritrovò in quel quartiere, dove non passeggiava quasi mai. Un quartiere isolato, le cui vie s’intersecavano in un labirinto di murature.

Lo vide camminare con altri uomini. Superava tutti di almeno una spanna e ascoltava uno di loro parlottare energicamente, con il giornale sotto braccio, i classici occhiali da sole scuri e una delle sue anonime giacche grigie, troppo vecchie per sembrare eleganti e troppo serie per non esserlo.
 
Lo osservò, rintanata a pochi metri di distanza, fino a quando notò qualcosa di strano. Il gruppo di uomini si divise, di colpo, senza nemmeno salutarsi. Alcuni girarono l’angolo di una via, altri fecero strani segni mentre controllavano il lato parallelo della strada. Un altro piccolo gruppo, tra cui c’era anche Cesare, entrò in un bar.

Di sicuro rimasero chiusi là dentro più della mezz’ora in cui Clarissa fissò la porta di quel bar, prima di decidersi ad andar via.



Nell’ultimo loro incontro, era stato terribilmente schietto nella sua decisione e Clarissa aveva ricevuto il messaggio con grande chiarezza. I sentimenti di Cesare erano ben lontani dai suoi; per quanto ne sapeva, vagavano in un universo radicalmente opposto. E a questo si doveva rassegnare.

Ma lo aveva rivisto e le sue montagne di buoni propositi si erano fatte polvere di terra tra le mani.


Resistette solo pochi giorni. Poi tornò.

Le bastò sedersi sul tram per riprovare quella strana emozione di paura e inevitabile allegria, che la faceva sentire viva. Non erano i vestiti colorati che continuava ad indossare, a discapito degli sguardi accusatori della gente e non era nemmeno il sorriso che tornava a riempirle il viso, dopo mesi di assenza.

Era l’illusione di un istante rapido in cui poterlo guardare da lontano, a farla sentire così.
 

Tre soldati salirono alla fermata successiva e salutarono, così come il regime imponeva, gli altri ufficiali già sul tram. Si sedettero davanti a Clarissa, troppo assorti nei loro discorsi per notare la sua presenza minuta.

«Dicono di aver smascherato ben tre gruppi nella zona sud, ieri sera.» commentò uno di loro.

«Stupidi idioti! Pensano di essere furbi quando si nascondono nei retro bottega o nelle cucine delle scuole? A discutere su come salvare il mondo in mezzo all’odore di brodo.»

Risero divertiti della battuta, la cui sottile ironia malevola sfuggì a Clarissa.

«Che si nascondano pure quanto vogliono.» riprese il terzo soldato, il più giovane tra loro e all’apparenza il più intimidatorio. «Tra pochi mesi verranno fuori dalle loro tane, senza bisogno di farci muovere di una virgola. Ormai sono più soli che mal accompagnati. Il popolo è troppo spaventato per fidarsi di loro e i loro cari esponenti vengono appesi in piazza, come sorci in bella mostra.»

«Bè hanno pur sempre i partigiani imboscati tra i monti a dargli corda. Almeno fin quando non avremo finito di uccidere anche loro.»
Uno dei soldati, il primo ad aver parlato e l’unico a non aver tolto il berretto, tirò fuori dalla tasca la sua pistola e cominciò a pulirla con cura, come fosse stato l’oggetto più raro che avesse mai tenuto in mano.

«Intanto preoccupiamoci di portare a termine l’incarico di oggi. Il sergente Manni vuole che Milano venga ripulita prima dell’arrivo dei tedeschi.» commentò con autorità, riponendo la pistola.

L’eccitazione traboccava dai sorrisi degli altri. «Che zona ti ha indicato?»

«L’angolo di largo Vincenzi. Ci deve essere un bar o qualcosa simile. Si parla di una trentina di oppositori politici, a quest’ora dovremmo trovarli in una delle loro classiche riunioni.» il suo sguardo vanitoso si perse a contemplare la sua mano, serrata in un pugno. «Pensate se riuscissimo a prenderli tutti e trenta in un solo colpo?»
 

Nell’impatto di un attimo non previsto, Clarissa capì. O almeno le sembrò di capire e questo bastò per spingerla ad agire, senza nemmeno darsi il tempo di pensare.

L’agitazione fu tale da farle dimenticare la borsetta sulla sedia del tram, mentre si dirigeva verso le porte laterali. Scese non appena si aprirono e cominciò a correre.

Per quanto confuso potesse apparire tutto quello che aveva sentito, non c’erano dubbi che il bar di cui i soldati parlavano era lo stesso in cui aveva visto entrare Cesare. Sapeva che per raggiungere largo Vincenzi avrebbe dovuto aspettare altre due fermate di tram, ma per la follia che voleva compiere non doveva far altro che correre.

Arrivata davanti all’insegna del bar, aprì il portone verde ed entrò ancor più nervosa. Le luci erano spente e le finestre tappate da alcuni pezzi di giornale. Come poteva un bar completamente dismesso apparire del tutto normale al suo esterno?

Si concesse solo pochi secondi per riprendere fiato, ma a nulla servirono. Né l’agitazione, né la paura se ne andarono. Né tanto meno la sua volontà di continuare.
 


 
«State fermi!» intimò qualcuno. E tra tutti gli uomini calò il silenzio. «Avete sentito anche voi?»

«Sembrano dei passi…»

«Che cosa facciamo?»

«In mano le armi!»


 
 
Al termine di una stretta scalinata, Clarissa aprì l’unica porta che trovò davanti a sé. Gridò quando, oltrepassandola, si trovò puntate addosso decine di pistole e fucili.

«E questa da dove diavolo salta fuori?»

Mario, il leader di quel gruppo, si avvicinò a lei carico di pessime intenzioni, se non fosse che Cesare la raggiunse un attimo prima.

«Sei impazzita?» gli chiese furioso, prendendola per un braccio.

«No..» cercando di divincolarsi dalla stretta. L’ odore di nicotina e di carta da giornale, nella stanza, era inebriante. «Non capite.. dovete andarvene immediatamente da questo posto.. ho sentito, ho sentito parlare… dobbiamo scappare via, stanno arrivando.» chiunque, persino lei, si sarebbe presa per una pazza fanatica.

L’unico dettaglio che riuscì a notare, oltre l’ appariscente quantità di ritagli e manifesti sparsi lungo le pareti, furono alcuni ripiani carichi di bottiglie di vetro verde, vuote. Doveva trattarsi di una cantina o di una piccola dispensa.

Ritornò rapidamente alla realtà, quando i bisbigli di tutti quegli uomini si scatenarono in un fragoroso rumore.

«Scommetto che è una spia fascista. Guardate com’è vestita bene.» disse qualcuno e non bastò molto perché anche gli altri gli dessero corda.

«Abbassa l’arma Pietro, non è nessuna spia.» Cesare allontanò lo sguardo serioso da lei, per calare la pistola più vicina al volto di Clarissa. «Abbassate le armi!» era la prima volta che lo sentiva urlare.

«Garantisci tu per lei, professore. Se ci succede qualcosa a causa sua…»

«Non c’è dubbio che vi succederà qualcosa se non uscite da qui subito.» riprese la parola Clarissa. «Ero sul tram e ho sentito alcuni soldati parlare di questo posto… hanno detto qualcosa su un incarico… ripulire… non ne ho idea, ma non deve essere poi tanto diverso da quello che accade di solito a quelli come voi.»

Pietro alzò un sopracciglio, squadrandola. «Quelli come noi… Lo dicevo io che era una piccola fascista. Cosa dite, la potremmo usare come formula di scambio?»

«Non faremo niente del genere.» rispose severo Cesare, che tornò a prenderla per un braccio. Era così arrabbiato da dimenticarsi del garbo a cui era solito. «Vuoi deciderti a spiegarti bene? Come facevi a sapere di questo posto e come fai ad essere sicura che i soldati si riferissero proprio a noi?»

«Perché li ho sentiti!» disse, disperata. «Sapevo che venivi qui, ma credevo non fosse altro che un semplice bar e non appena mi sono resa conto di tutto, sono scesa dal tram e ho iniziato a correre, per arrivare prima di loro e avvisarti. Per avvisarvi tutti.» la sua voce suonava affidabile quanto quella di un bambino in pieno piagnisteo e questo la faceva agitare ancora di più. «Dobbiamo andarcene, subito! Perché non volete ascoltarmi?»

Nessuno di loro si mosse.

Presa dal panico, Clarissa si strinse forte alla camicia di Cesare, che la guardava incupito. Immobile. Avvertì il suo respiro, come quella lontana volta in cui l’aveva salvata. «Cesare, ti prego…ti prego…»

 

Quella fu la seconda volta che la guerra le si presentò davanti e la trovò, di nuovo, tra le braccia di Cesare.


Una miccia esplose ai piani alti. Si sentì il rumore del frantumarsi di vetri e un terriccio si rovesciò sopra le loro teste. Poco dopo, una seconda miccia esplose lungo le scale. Caddero tutti a terra.

Clarissa si rese conto di non riuscire a percepire il minimo suono quando, guardando gli altri disperarsi, recuperare i fucili, correre agguerriti verso la scala, non sentiva che un fastidioso fischio. 

Ancora prima di permetterle di riprendersi dalla confusione, Cesare le prese la mano e gliela portò sul naso e sulla bocca, intimandola a non respirare la sottile polvere che cospargeva l’ambiente. La sollevò e si accorse che un dolore cieco le percorse la gamba.


Aprì una porta secondaria e corse, mantenendola tra le braccia. Quando raggiunsero l’esterno, si assicurò che non ci fosse nessuno alle loro spalle e salì su una macchina.

Ora fu la macchina a correre e ad ogni svolta improvvisa, il suo braccio tratteneva il corpo di Clarissa, contratto sul sedile accanto. Percorse quasi un chilometro, prima di fermarsi davanti al portone di un palazzo.

Sostenne Clarissa e per quel che vedeva, fu sollevato di saperla in uno stato di semi coscienza. Le prese il viso e lo appoggiò appena sotto il suo collo, catturandolo nel riparo della sua mano.

Bussò tre volte, quando finalmente una donna, con un leggero scialle chiaro intorno alle spalle, aprì.


 
Di quel che accadde oltre quella porta, Clarissa non avrebbe mai ricordato nulla.
 


Dopo un lungo sonno, Clarissa riaprì gli occhi, presa dall’ inquietudine di un incubo appena terminato.

Cesare era seduto accanto al letto su cui era stata sdraiata. La tranquillizzò, toccandole appena la mano.
 
«Dove siamo?» fu la prima cosa che gli chiese, con voce ancora addormentata.

«Riesci a sentire ora?»

Lo guardò confusa. E lo divenne ancor più, quando si accorse della presenza di un uomo, di bassa statura e con un panciotto marrone sbottonato, alle spalle di Cesare. Fu lui a parlare.

«E’ normale che abbia ricordi vaghi, povera ragazza. L’ antibiotico agisce in fretta, ma è molto forte.»

«Grazie, Dante. Me ne occupo io, adesso che si è svegliata.»

L’uomo lasciò la stanza. Clarissa si accorse di quanto fosse piccola. Probabilmente non sarebbe riuscita a contenere l’altezza di Cesare. L’umidità aveva rovinato gli angoli delle pareti, sebbene non facesse freddo in quel momento.

«Dove siamo?» chiese di nuovo.

Cesare sospirò e il suo volto sembrò infastidito da quella domanda. Versò dell’acqua in un bicchiere. «Non posso dirti dove siamo, Clarissa. Forza, bevi un po’ d’acqua, sarai frastornata.» aspettò che finisse di bere. «Che cosa ricordi esattamente?»

«Che sono venuta da te e ho cercato di convincerti a scappare. Poi un forte rumore e nient’al...» dovette fermarsi, perché avvertì uno strano fastidio. «Oh Dio..» Notò una fasciatura sulla gamba destra. Dal precario panno bianco con cui le era stata legata la ferita, traspariva del sangue.

«L’uomo che hai visto poco fa è un veterinario, un amico. Non potevo portarti da un medico e lui era quel che si avvicinava di più.» disse e il suo tono era ancora introverso. «Non sono serviti punti, per fortuna. E’ bastato disinfettare tutti i tagli.»

 
Cesare si alzò dalla sedia e sebbene non fosse stato necessario per rimarcare quanto incollerito fosse in quel momento, la guardò sconfortato. Si domandava dove quella ragazza trovasse la forza di sorridere, mentre il suo viso riportava alcuni graffi accanto le sopracciglia e sulle guance, che avevano perso il naturale pallore.

Avrebbe voluto riuscire a guardare i suoi occhi, che gli parlavano d’amore senza ancora saperlo fare o le labbra che si aprivano in un sorriso puro, ma ciò che guardava erano solamente le ferite e la loro lacerante capacità di destabilizzarlo.

 
D’improvviso Clarissa allungò un braccio verso di lui. Erano mesi che non lo vedeva e anche in quella situazione, relegata chissà dove, con una gamba fasciata e la testa che le scoppiava, non riusciva a nascondere un sorriso, per potergli essere ancora vicina.

Naturalmente comprese che Cesare non era dello stesso avviso.

«Fino a quanto vuoi mettere alla prova la tua pazzia? Dimmi. Fino a dove vuoi arrivare?» le chiese.

«Arrabbiati pure se vuoi, ma non riuscirai a farmi smettere di essere felice per averti rivisto.»

«Dio, Clarissa.» gli sfuggì un sorriso nervoso. «Hai quasi perso la vita per rivedere me. Non ti basta per capire che devi starmi lontana il più possibile?»

Clarissa scosse la testa. «Siamo in guerra, posso perdere la vita ogni secondo» disse solamente, sperando capisse quello che nemmeno lei capiva.

«Ah si? Allora dimmi quante volte nei mesi in cui non ci siamo visti, hai subito un attacco dalle forze armate o sei stata incarcerata o uccisa a sangue freddo? Quante?» le chiese, alzando la voce. Cercò di calmarsi, portandosi le mani sulla faccia e tornando a sedersi. «Perché è esattamente questo quello che rischi ogni volta che mi stai accanto.»

Approfittando della sua vicinanza, riuscì a stringergli forte la mano. «Sai di cosa mi sono resa conto oggi? Che non ho la minima idea di cosa succeda ogni giorno per le strade, finché mio padre mi tiene rinchiusa in casa. Mi sento una stupida perché il maggior pericolo che corro è quello di ferirmi mentre affetto la verdura. Poi un bel giorno, una bomba cadrà proprio sopra l’ appartamento dove vivo relegata e lì morirò.» portò la mano alla sua bocca e le dita di Cesare, per un istante, si mossero sulle sue labbra. «Non puoi farci nulla. Nessuno può farci nulla, se questo è il mio destino, questo è quello che accadrà.»

Stravolto dalla sua testardaggine, Cesare pronunciò le parole lentamente, nella speranza che si decidesse ad accettarle. «Ci sono meno probabilità che accada, se ascolti quello che dice tuo padre. E quello che continuo a ripeterti io.»

Clarissa gli si avvicinò, ancora di più. «No. No. Non voglio chiudere gli occhi e fare finta di non sapere. Fare finta di non averti a due passi e non poterti vedere.» Avvertì una fitta alla gamba, non appena si mosse, ma continuò a spostarsi. Mai era stata così vicina al suo viso. Notò le piccole rughe intorno allo sguardo. La punta del naso toccava la sua e gli occhi, stanchi di combattere, abbassati, solo ora prendevano il coraggio di guardarle le labbra.

 
Avvolte nella quiete che si respira dopo una tempesta, quelle anguste mura gli osservavano e rimanevano silenti ad ascoltare.


«Se almeno non ti avessi mai conosciuta, piccola matta.» Cesare carezzò leggero quelle labbra. «Non saresti dietro ogni mia decisione, come un’ombra.» disse. «E invece ora…»

«Ora?» domandò Clarissa, quasi senza fiato. E le sfumature scure degli occhi verdi di Cesare erano solo sue.

«Ora» la pronunciò come se il mondo intero si nascondesse, dietro quella piccola parola. «Mi ritrovo a camminare sotto la finestra della tua stanza, la sera, e aspettare che si spegna la luce, per assicurarmi che quella piccola matta sia ancora viva.» la sua voce vicina, risuonava bassa. Calda. Clarissa sapeva con certezza di aver perso ogni barlume di lucidità.

E poi accadde. Quando nient’ altro sarebbe potuto accadere.

Le labbra riuscirono a sfiorarsi, timide. Cesare prese il suo viso pallido tra le mani e non riuscì a chiudere gli occhi, mentre lei lo baciava. Assecondò ogni suo movimento, incapace di fare altro. Lasciò che giocasse incerta con la sua lingua e che improvvisamente lo baciasse con una passione infinita, inappropriata per una giovane donna come lei.

Che gli dicesse con quel bacio che non importa quante altre volte l’ avrebbe allontanata, perché sarebbe tornata a cercarlo. Che non avrebbe fatto altro che cercarlo, per sempre.
 
 

Fu quello il giorno in cui la vita di Clarissa cambiò. Lo stesso in cui molti dei compagni di Cesare morirono, per mano di bande fasciste. Lo stesso in cui Clarissa conobbe Dante Moscato e la sua famiglia, quando ancora abitavano nella loro residenza e di loro, Cesare, non poteva dirle nulla.

Lo stesso in cui, nella notte buia, una giovane donna spegneva la luce della sua stanza e dalla finestra, cercava lo sguardo dell’uomo che amava.
 


 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***



Come d’autunno le foglie





 ~ prima parte ~ 





 
10.


1946

Un pomeriggio piovoso, alle soglie di aprile, Clarissa si trovava nello studio di Lorenzo Silvatti.

La quotidianità con cui lo frequentava, le aveva permesso di memorizzarne ogni singolo angolo. La lampana rotta, relegata alle spalle della libreria; le pareti di cartongesso color deserto; l’ammasso di fogli, abbandonati in un’apparente confusione nella quale Silvatti si muoveva con destrezza; la macchina da scrivere risalente ai primi anni del Novecento, che per quanto fosse affascinante era ancor più malfunzionante e quella piccola mensola chiara, dove l’avvocato lasciava sempre una bacinella piena d’acqua fresca, un asciugamano pulito, un rasoio e una boccetta di dopobarba che inebriava l’ambiente. 


«Sei sicuro che sia davvero lui?» chiese Clarissa, leggendo e rileggendo i documenti che Lorenzo le stava mostrando. «Insomma, quanti altri Cesare Poggi possono esistere in Italia?»

Lorenzo bevve un sorso dalla sua tazza di caffè. «Ricordi di avermi detto che il tuo ultimo incontro con Cesare è avvenuto verso la fine di febbraio? Ebbene, il Cesare riportato su queste carte è stato trasferito alla caserma della legione Muti *in data 28 febbraio, non molto tempo dopo la sua sparizione dunque.»

«La caserma in via Rovello?» domandò, senza nemmeno notare il bicchiere che le porse l’avvocato.«Mio padre sovrintendeva un gruppo di soldati che lavorava lì.»

Lorenzo annuì. «E’ questo il punto. La firma del mandato di arresto è quella di tuo padre, esattamente come prevedevano le tue ipotesi. Inoltre, guarda, questo Poggi viene registrato come ‘ oppositore politico ’.» si schiarì la voce e tornò ad indossare gli occhiali, che aveva precariamente appoggiato in fronte. «Ci sono troppe coincidenze, capisci?»

Sorrise, impietrita per quanto leggeva. In cuor suo sapeva che suo padre non poteva essere estraneo alla scomparsa di Cesare, ma averne la riprova tra le mani era quanto di più doloroso avesse mai provato.

«Se è stato mio padre a catturarlo, significa che sapeva di me e di Cesare.» le sue parole assomigliavano molto più ad un’ affermazione.

«O forse sapeva semplicemente che era un antifascista e come aggravante gli bastava per rinchiuderlo alla Ettore Muti. Quella caserma era un ammasso di partigiani e di disertori.»

Clarissa lo guardò sconcertata. «Quindi erano vere le voci che circolavano sugli interrogatori e le torture?» ripensò a quel che sentiva dire per le strade e alle minacciose lettere anonime che suo padre riceveva, da quando aveva accettato l’incarico alla caserma fascista. E ripensò alla facilità con cui aveva chiuso gli occhi, di fronte a tutto.«Come potevo essere così stupida da non ascoltarle?»

«Che cosa sarebbe cambiato, Clarissa? Persino chi sapeva non poteva fare nulla.» sospirò e nei suoi occhi abbassati, Clarissa lesse la minaccia di qualcosa ancor più crudele. «Ad ogni modo, non mi focalizzerei troppo su quel che è accaduto alla caserma; per Cesare è stato solo un punto di passaggio. La notte stessa del suo arrivo, è stato trasferito insieme ad un altro gruppo di persone.» le disse.

«Traferito dove?»

L’ avvocato aprì un’altra cartelletta, dalla quale estrasse alcuni fogli visibilmente malridotti, che teneva in mano con la stessa cura con cui si regge il cristallo. Guardò Clarissa con pudore.

«Lorenzo, avevi promesso di non lasciarmi all’oscuro di niente.» lo pregò, lei.  «Sai che posso sopportarlo, posso farlo. Dimmi dov’è stato mandato»

Per quanto vile potesse sembrare, Lorenzo non riuscì a trovare la forza di alzare le sguardo. «Secondo questi appunti, dei quali per altro non sono riuscito ad ottenere i diritti di utilizzo, Cesare Poggi è stato trasferito al campo di concentramento di Bolzano, dove è arrivato nelle prime ore della mattina seguente.»


Qualcosa si ruppe dentro di lei. Fu un secondo, rapido, fulmineo. Ma sentì, vividamente, che qualcosa si ruppe dentro di lei.


Campo di concentramento. Quante volte lei e gli otto rifugiati avevano ascoltato ripetere quella parola, recuperata dalle scarse notizie che i compagni antifascisti diffondevano in patria o dalle emissioni clandestine di Radio Londra. Avevano imparato cosa significasse avere paura, terrore, di qualcosa che non si conosce ma che si avverte terribilmente vicino. E ora scopriva che anche Cesare aveva messo piede in uno di loro.

Si trattenne con tutte le forze ai margini della sedia e scacciò l’impulso di piangere. Più di ogni cosa lottava perché la sua mente rimanesse vigile, mentre il resto del corpo pensava a soffrire.

«Dove..» parlò, senza rendersene conto. «dove si trova?» non ebbe nemmeno il tempo di vergognarsi per la sua pessima conoscenza geografica. O per non aver pensato ad una qualunque frase migliore da pronunciare.

«Bolzano è in Trentino, tutto sommato neanche troppo lontano da qui.» rispose Lorenzo, a fil di voce. «Purtroppo non ho ancora molti dati sull’ esatta posizione del campo.»

Solo quando si decise a guardarla, si accorse della fragilità che quella giovane donna non gli aveva mai mostrato e per tale ragione, trattenne l’ impulso di raccontarle i macabri dettagli che fino ad ora era riuscito a scoprire. «Devi sapere che…sì, insomma non so che informazioni tu abbia a riguardo, ma…i campi di concentramento italiani sono stati meno brutali di quelli tedeschi.»

Clarissa scosse la testa e allontanò infastidita una lacrima. «Le cose erano cambiate dopo l’armistizio, Cesare ce l’aveva spiegato. La maggior parte era un punto di transito per gli internati, nell’ attesa di arrivare in Germania e morire senza diritto di replica. E’ questo che accadeva, non nascondermelo solo perché credi non sia in grado di sopportarlo.» 

«Non è per questo che te lo dico, Clarissa. Cerco solo di aiutarti a contestualizzare gli eventi.» si avvicinò a lei, per sederle a fianco. «Hai ragione. Il campo di Bolzano, soprattutto negli ultimi tempi, era diventato uno dei principali campi di transito italiani. Per quel che ne so, al momento dell’arrivo di Cesare raccoglieva soprattutto cittadini rastrellati, oppositori politici come lui e i pochi uomini di origine slava o croata che ancora mancavano all’appello del regime. Ed erano tutti destinati al lavoro coatto per il Terzo Reich, non mi metterò certo a negarlo, ma devi capire che la guerra era al suo epilogo e persino i tedeschi lo avvertivano.»  Lo sguardo della ragazza era avvinghiato a lui, con avido desiderio di sapere e paura di ferirsi ad ogni nuova scoperta.  «Il convoglio diretto in Germania e radunato la seconda settimana di aprile, al quale anche Cesare era destinato, non ha mai ottenuto la firma di nessuno. Guarda queste carte.»

Lorenzo passò alcuni documenti a Clarissa. Si alzò di nuovo dalla sedia, agitato come mai, allentando il colletto del papion marrone. «Questo ci dice due cose. Primo, che gli ultimi sopravvissuti del campo non hanno mai lasciato l’Italia, a meno non per volontà dei tedeschi e secondo, che sono notevolmente aumentate le probabilità che Cesare fosse vivo, quando il campo è stato liberato.»
 
 


Nei giorni seguenti, Clarissa si mise alla ricerca di alcuni uomini riportati nella lista dei sopravvissuti del campo di concentramento, consegnatale da Lorenzo. La maggior parte di loro aveva cambiato indirizzo o si rifiutava di parlare con una sconosciuta desiderosa di riaprire ferite, ancora troppo sanguinanti.

Uno solo acconsentì di vederla.

Beppe Dilagni era un pastore dall’aria solitaria. Abitava in un paesino disperso tra le Alpi, in quel che avanzava della sua fattoria. Gemma insistette nel voler accompagnare Clarissa, ma non ebbe da ridire quando le venne chiesto di attendere fuori, durante l’incontro.

Beppe fece sedere Clarissa su una sedia spartana e le passò, in un movimento rapido e rude, un pezzo di pane e un bicchiere di vino che fuoriusciva dai bordi. Non era sicura che quell’uomo fosse completamente in sé, ma nemmeno per un secondo lo giudicò.

«Si, si, non ho bisogno di fotografie. So di chi stiamo parlando.» le disse, allontanando le immagini che ritraevano Cesare.

«Un mio amico,» cominciò lentamente Clarissa. «mi ha aiutata a scoprire che entrambi eravate nella lista di un convoglio ferroviario diretto in Germania, pochi giorni prima della liberazione. Ma nessuno ha fatto in modo che questo convoglio partisse, non è vero? Voglio dire, lei…lei è qui… e molti altri presenti nella lista sono tornati a casa…»

«Definisca ‘molti’, signorina.» disse solamente Beppe, prima di cominciare a sorridere nervosamente e versarsi un altro bicchiere di vino. Il movimento delle sue mani era pesante, tanto quanto i ricordi che trascinavano i suoi occhi.

«Mi dispiace, non volevo essere insensibile.»

Beppe guardò un punto impreciso del tavolo, estraniandosi all’improvviso, mentre la fredda brezza primaverile oltrepassava le mura di legna che circondavano la casa.

«Era uno degli ultimi arrivati, quel Cesare. Pover uomo. Farsi beccare proprio alla fine, che sorte! Non ci si crederebbe a vederlo.» prese a parlare, senza alcun preavviso. «Aveva ancora la forza e l’energia che noi avevamo perso in poche settimane e allora doveva vederlo quando si prendeva in carico anche il lavoro di altri, che strisciavano invece che camminare. Prendi quello! Fai questo! Veloce!  Veloce dicevano.. E noi non ci reggevamo in piedi e ogni giorno era un terno al lotto.»

Per quanto confusa fosse la sua spiegazione, rimase ad ascoltarla, appesa ad ogni parola.

«…e allora lui… lui aiutava anche gli internati peggiori, quelli che era meglio non guardare neanche negli occhi se ci tenevi alla vita. Gli jugoslavi, gli ebrei. E lui, stupido, faceva il lavoro anche per loro e allora… allora erano dolori.»

Clarissa tremò e guardò Beppe svuotare, fino all’ultima goccia, il suo bicchiere di vino. Le sue braccia riportavano varie ferite, si chiese come stessero le braccia forti di Cesare, che un tempo la sollevavano e la portavano a lui.

«Mi scusi eh, signorina. Mi scusi.» rise, inebriato dall’alcool. «Il ‘maestro buono’. Così lo chiamavamo, noi che riuscivamo a capire quello che diceva. La sera eravamo tutti stanchi ma prima di andare a dormire volevamo sentire la sua voce mentre parlava. E come parlava bene. Sembrava di ascoltare la radio. Una radio nel mondo dei morti.»

«… un mio compagno di baracca ha cercato di uscire dal campo. Diceva, io voglio uscire dal campo, voglio uscire dal campo! Continuava a ripeterlo, che non ce la facevamo più a sentirlo e non gli abbiamo fatto niente solo perché non avevamo le forze. Un giorno, si mette a correre verso il recinto del muro. Era alto quattro metri quel muro. Due sentinelle gli sparano dopo che ha fatto appena cinque metri.» si fermò quando la sua voce raggiunse un tono troppo basso, e le parole quasi si strozzarono in gola. «Voglio uscire dal campo, diceva, ed è uscito. E’ uscito nell’unica maniera possibile.»

«Il maestro buono, poi, quando lo scoprivano erano dolori.» tornò a ripetere, poco dopo.«Erano dolori anche per quei medici internati che curavano le nostre ferite, senza permesso. Ma a me dispiaceva più per il maestro buono, perché ormai mi ero affezionato alla sua voce… c’era un piazzale nel campo dove le infrazioni venivano punite davanti agli occhi di tutti. E quella volta toccava ancora al maestro buono. L’hanno lasciato lì appeso al palo centrale per… no, no questo non glielo racconto, povera signorina. Questo non glielo posso dire. E allora… io non so gli altri cosa facevano mentre lo guardavano, ma io pensavo alla poesia che recitava sempre. La recitavo anche io, mentre lo guardavo. Non mi ricordavo le parole, non tutte. La sa la poesia di quel Saba, la sa? Era di quel Saba la sua poesia preferita.»

Recitò alcune parti della poesia, mischiandole e confondendole. Clarissa avvicinò una mano al suo braccio, e chinò la testa in un pianto dirotto. La giovane ragazza in lei le implorava di scappare, di nascondersi sotto un enorme lenzuolo e dimenticare ogni singola parola. Ma rimase, per la donna che si sforzava di diventare.

Con il volto rigato e i respiri che andava recuperando, tornò a parlargli. «Mi dica se si ricorda di lui, quando sono arrivati a liberarvi? Lui… lui era ancora con voi?» gli chiese, tremando.

Beppe la guardò, fissandole gli occhi ambrati che sembrava incontrare per la prima volta. «Allora è lei. E’ lei quella che riempiva il cuore del maestro buono. Lo sapevo che ci doveva essere qualcuna, altrimenti non si spiegava come faceva a resistere…come faceva?»

«Beppe, la prego…» tentò in ogni modo di fermare le lacrime e aiutarlo a concentrarsi. «si ricorda il giorno che è uscito dal campo? Cesare dov’era? Il maestro buono dov’era?»

«No, no. Io non so niente, non ho fatto niente. Ero solo. Ero solo.»

«Cerchi… le chiedo solamente di dirmi dov’era il maestro buono… era… era morto?»

«No.» Beppe si alzò sbattendo forte le mani sul tavolo, le cui gambe per poco non si spezzarono. Gemma entrò all’istante e chiese a Clarissa di andare via, quando si accorse che quell’ uomo iniziava ad alterarsi. In paese avevano detto loro di lasciarlo solo, non appena succedeva.

Ma Clarissa si avvicinò di nuovo a lui. «Beppe non voglio farle del male e odio doverla obbligare a ripensare a quei momenti, ma lei voleva bene al maestro buono, vero? Si fidava di lui. Provi a pensare all’ultima volta che lo ha visto. Se la ricorda l’ultima volta?»

Beppe sbuffò e lasciò, una volta ancora, che il suo sguardo vagabondasse. «I tedeschi ci hanno fatti uscire dalle treno, due giorni dopo essere rimasti fermi in stazione. Due giorni fermi, senza bere. Hanno aperto le porte e ci hanno fatti andare via e poi sono scappati anche loro. Abbiamo iniziato a correre, alcuni li seguivano, altri tornavano nel campo, io sono tornato nel campo. Altri andavano verso il bosco. Lui è andato verso il bosco. E non l’ho più visto, mai più.»
 



Quella sera, tornata a casa e chiusa alle sue spalle la porta del sottoscala, Clarissa scagliò lontano il soprabito, disfò i capelli, lasciandoli ricadere oltre le spalle. Si avvicinò all’ enorme cassettone che teneva ai piedi del suo letto e lo spalancò.

Aprì alla rinfusa tutti i libri scolastici che le erano rimasti, nascosti sotto una cima di lenzuola che profumavano di timo e lavanda. Aprì i quaderni rilegati, che portavano il nome del suo liceo. Ma niente.

Aprì i quaderni di Cesare, gli appunti, le note che ancora custodiva e finalmente trovò la poesia.


Si addormentò con quelle parole sul petto e il segno delle lacrime sulle guance.
 


Avevo - Umberto Saba
Avevo una bambina, oggi una donna. 
Di me vedevo in lei la miglior parte. 
Tempo funesto anche trovava l’arte
di staccarla da me, che la radice 
vede in me dei suoi mali, né l’occhio 
mi volge, azzurro, con l’usato affetto. 
Tutto mi portò via il fascista abbietto ed il tedesco lurco.  
Avevo una città bella tra i monti rocciosi e il mare luminoso [...]
[...]Vivere si doveva. Ed io per tanto
scelsi tra i mali il più degno.

 
 
 
 
 

 
* Legione ‘Ettore Muti’: corpo militare fascista della Repubblica Sociale Italiana.
 


** Piccolissima nota, non sentitevi obbligati a leggerla :)

Ci sono alcune frasi, pronunciate dai personaggi, dalle quali non posso che dissociarmi (nonostante sia stata io a fargliele pronunciare). L’ atrocità dei campi di concentramento è di per sé brutale e irripetibile, siano essi italiani o tedeschi.
Scusate l’intrusione, ma sentivo il bisogno di dirlo..
A presto!
_A m a l i a_

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***



Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~





 
11.


Settembre, 1943

Le sfiorava la guancia con il palmo delle dita e si avvicinava per lasciarle con dolcezza un bacio sulle labbra. Lo faceva sempre quando lei diceva qualcosa di buffo o quando gli faceva domande troppo grandi, persino per lui. Lo faceva lontano da occhi indiscreti, passeggiando in un cortile desolato o sul divano del suo piccolo salotto, nascosto in un punto incerto della terra. 

A volte lasciava che gli prendesse la mano, nelle vie deserte di una Milano in lutto, avendo cura di allontanarla quando al loro fianco passavano militari fascisti, dal 13 settembre sotto l’ ufficiale e spietato comando delle direttive tedesche della Wehrmacht. 
 


Quel giorno sembrava particolarmente esausto, come se non dormisse da troppe ore. Imboccarono una via traversa di Piazza Diaz e si sedettero su una panchina.

«Allora? Che te ne pare del nuovo regalo di mia nonna?» chiese euforica Clarissa, sollevando maliziosa le pieghe azzurre del vestito che a mala pena le copriva le ginocchia. Cesare sorrise, senza darle grande attenzione.

«Tua nonna sospetterà ti piacciano sempre di più le lezioni di cucito, se scomodi il vestito nuovo per andarci.» La sua voce pacata era così bassa da sembrare rauca. Sottolineava la sua stanchezza o forse l’imperturbabile distacco che non lo abbandonava mai.

Clarissa gli si avvicinò ad un orecchio. «Infatti mi piacciono sempre di più.» Gli baciò la guancia.

«Qui no, piccola matta.» disse, allontanandola. «La vedi quella signora che cammina sotto i portici? Quella con il cappello marrone. E’ la moglie dell’impresario Foschi, un fermo sostenitore del governo. Sai quanti oppositori politici sono finiti in galera solamente perché i coniugi Foschi non hanno saputo tenere la bocca chiusa?»

Clarissa sbuffò. «Ti ho già detto che se finisci in galera io vengo con te.»

«E io ti ho già risposto di non tornare a dire una sciocchezza simile, se non sbaglio.» le parlò, in tono risoluto, sapendo di non sbagliare. «Non farmi preoccupare Clarissa, te lo chiedo per favore, almeno tu.» nonostante fossero coperti dagli occhiali da sole, Clarissa sapeva che i suoi occhi erano tornati ad accigliarsi.

«Chi altro ti fa preoccupare?»

Non rispose e con grande naturalezza cambiò argomento. Era talmente abile in quell’arte.



Più tardi suonarono, impreviste ed incalzanti, le sirene d’allarme, annunciando un possibile attacco aereo. Accadeva con frequenza quasi regolare, in quelle settimane.

Cesare la portò in una delle cantine per la protezione di civili; la più vicina alla loro zona e lì vi rimasero fino al tardo pomeriggio. Non sentirono cadere nessuna bomba.
 
Quanto folle doveva essere per non riuscire ad avere paura, mentre aspettava in silenzio tra le braccia di quell’uomo e quanto egoistico era il desiderio di rimanere in quel rifugio per l’intera notte; ascoltando le madri intonare il verso di una serenata per placare i pianti dei loro bambini e guardando scivolare tra le mani di alcune anziane donne, un rosario consumato.
 
Accanto a loro si sedette una bambina, con due lunghe trecce scure che arrivavano a toccarle la punta della schiena. La debolezza incisa nei suoi grandi occhi azzurri, non riusciva a diminuirne la bellezza. Guardò Cesare e piena di speranza gli domandò se avesse del cibo con sé. Lui frugò nella tasca e prese alcune gallette di farina nera, nonostante le avesse comprate poche ore prima con l’intento di regalarle al piccolo Paolo Spitzer.

Quando terminò di mangiarle, la bambina chinò la testa verso Cesare, l’appoggiò al suo braccio e per qualche minuto si sentì meno sola.
 


«C’è una cosa che devo dirti.» disse Cesare a Clarissa, mentre abbandonavano la cantina. Dietro di loro una fiumana di persone si trascinava con impazienza sulle scale.

«Dovrò allontanarmi da Milano, settimana prossima.» riprese, poco dopo, cercando di guardare oltre il suo viso, mentre le parlava. Sfiorò appena la testa della bambina dalle lunghe trecce, che gli passò a fianco e agitò una mano per salutarlo. La guardò sparire tra il miscuglio di gente.

«Perché? E’ successo qualcosa?» chiese Clarissa.

«Non è successo niente, ma ho bisogno che tu mi prometta di andare alle lezioni di cucito, quando non ci sarò. Sarà un bene farsi vedere da quelle parti, servirà a destare meno sospetti.»

La fermò non appena la vide pronta a replicare. C’erano troppe facce sconosciute attorno a loro, sarebbe stato prudente aspettare di essere più isolati.

Nella strada verso la fermata del tram, Clarissa camminava imbronciata.

«E’ soltanto una settimana.» sussurrò lui, accarezzandole velocemente i capelli, prima che lei si divincolasse.

«Non sono arrabbiata perché sparisci per una settimana, ma perché ovviamente non mi dirai mai il motivo per cui te ne vai. Il che significa che continui a non fidarti di me.»

«Io mi fido cecamente di te.» rispose, impassibile. «Per questo so che farai come ti ho chiesto e andrai alle lezioni di cucito.»

Clarissa s’ indispettì ancora di più. «Lo vedi? Mi tratti come una bambina stupida. Sai che non intendevo quello. Non ti fiderai mai abbastanza da dirmi cosa sta succedendo, perché sono sicura che qualcosa sta succedendo.»

«Sta arrivando il tuo tram.»

Clarissa lo fermò per una mano. «Cesare..»

«Una settimana, Clarissa. Solo una settimana.» insistette, abbandonando a malincuore la sua mano. Attorno a loro almeno quattro soldati armati aspettavano lo stesso tram di Clarissa. Se anche solo uno di loro avesse voluto chiedere i documenti a Cesare, com’era nelle sue facoltà, tutto avrebbe trovato fine. Le passeggiate, le mani che si cercano, le parole sottovoce, tutto. Ciò che le chiedeva era solamente una settimana.

La fissò negli occhi, chiedendole implicitamente di non contestare.

«Penserò a questo vestito ogni giorno.» furono le ultime parole che pronunciò, sfiorandone il tessuto sui fianchi, mentre la aiutava a salire.
 



Cesare non lasciò Milano, la settimana successiva.


 
«I giornali parlano chiaro.» disse il Gastaldi, sbattendo una copia dell’ Unità sul tavolo. Non si parlava d’altro, negli ultimi giorni. Era la notizia che nessuno avrebbe voluto ricevere. «I carnefici tedeschi sono arrivati e si sono presi quello che gli spettava. Possiamo girarci intorno quanto vogliamo, ma è ovvio che non sono venuti solo per bersi un caffè e togliere il disturbo.»

«Chiaramente no.» commentò Cesare. Di solito fumava di rado e ancor meno quando si trovava nel rifugio segreto. Eppure quello che spegneva era il secondo mozzicone della serata e di sicuro non sarebbe stato l’ultimo. «E le notizie che arrivano da Roma ne sono la riprova. Sembra siano entrati nel quartiere ebraico pochi giorni fa, senza andarsene con meno di millecinquecento persone.»

La moglie di Dante Moscato si portò le mani alla bocca, per smorzare un grido di sconforto.

«Si sa che fine hanno fatto?» chiese Igor Basevi. Era il più timido tra gli uomini del sottoscala e sentirlo parlare sorprendeva sempre tutti.

« Alcuni di loro hanno raggiunto un campo di lavoro a Fossoli.» gli rispose Cesare, con freddezza. Era quella, la sua migliore arma di resistenza. «altri a quest’ora saranno già in Germania…»

«E sappiamo bene cosa significa la Germania.» commentò amareggiato il Gastaldi.

Il piccolo Paolo aveva cercato di rimanere in silenzio fino a quel momento, ascoltando le conversazioni degli adulti senza che la sua innocente curiosità le interrompesse. «Che cosa significa la Germania?» si fece sfuggire.

Nessuno di loro ebbe il coraggio di rispondere. Sua zia gli accarezzò il berretto che indossava con ostinazione giorno e notte e con lo sguardo più dolce che potesse mostrargli, lo convinse ad andare a giocare in un’altra stanza.


«Esattamente qual è obbiettivo delle trovate fasciste? Far arrivare i tedeschi per metterci più paura?» chiese Carla, stringendo la mano del marito che a quel tempo trascorreva quasi tutte le sue giornate al rifugio. «Non capisco come potrebbero, ci hanno già tolto la possibilità di frequentare scuole, di lavorare, di sposarci con chiunque non appartenga alla nostra razza. Non possiamo nemmeno camminare all’aria aperta. Cosa possono portarci via ancora?»
 
«Probabilmente l’ultima cosa che vi rimane.» disse Cesare, attorcigliando il giornale riverso sul tavolo e buttandolo via. Che senso avrebbe avuto farsi del male, continuando a rileggerlo? «Non si tratta più di perseguire i vostri diritti, Carla, si sono stancati persino loro di farlo. Ora passano alla fase successiva, cominciano a perseguire le vostre vite. E allora chi meglio dei compagni tedeschi per aiutarli?»
 
Non parlarono per molti minuti, tanto che una candela riuscì a consumare tutta la sua cera.
 
«Adesso cosa faremo?» Carla chiese a Cesare quel che tutti avrebbero voluto urlare.

Cesare trascinò lo sguardo su ognuno di loro. «Cercheremo di stare ancora più attenti.» affermò, con le mani nelle tasche e il tono serioso. «Ridurremo il consumo di carbone e serreremo le finestre. So che suona terribile, ma sono misure di sicurezza inevitabili.»

«E chi pensa alla tua di sicurezza, Cesare?» domandò Dante Moscato. La sua gentilezza era spontanea come ogni sua altra parola. «Ci nascondi qui da giugno e mai una volta ti ho sentito parlare di come fai a proteggerti quanto sei là fuori.»

Cesare sorrise appena, gli mise una mano sulla spalla e liquidò l’argomento. Non fece parola dell’unica cosa a cui realmente pensava quando era là fuori.

Per l’intera settimana lui e gli uomini del rifugio segreto si adoperarono per renderlo ancor più inosservato. Cesare e il marito di Carla – gli unici a poterlo abbandonare - tentavano di recuperare le razioni di cibo al mercato nero e le poche informazioni, incensurate dal regime, che ancora circolavano tra la popolazione.
 


Fu la domenica pomeriggio, di quell’interminabile settimana, che la vide aggirarsi intorno al palazzo dove si nascondevano gli otto rifugiati.

Avrebbe riconosciuto la bellezza dei suoi capelli, senza nemmeno bisogno di guardarla in faccia.

Alle sue spalle, sentì avanzare un piccolo furgone militare. Si nascose all’angolo di una via, ma in quello stesso istante lei si voltò e lo vide. Il furgone si fermò e dal suo interno ne scese un soldato in uniforme nera e berretto. Si avvicinò a lei con fare ispezionante e poco dopo Clarissa gli mostrò dei documenti. Appariva così indifesa davanti a lui. Cesare si ritrovò a pregare un Dio a cui non credeva, perché quel soldato non la caricasse sul furgone.

Fece appello a tutte le sue forze per trattenersi dall’avvicinarsi e con violenza strinse un pungo contro il muro, fino farsi male. Il soldato parlottava e a tratti rideva, mentre il volto di Clarissa era inverosimilmente serio. Prima di decidersi a lasciarla andare si chinò sulla sua guancia e la baciò. Clarissa guardò gli occhi lontani di Cesare.
 
«Dimmi che sei finita in questa zona per puro caso.» furono le prime parole di Cesare, poco dopo, quando Clarissa lo raggiunse.

Non poté trattenersi dal correre verso di lui e abbracciarlo cosi forte, da percepire i battiti del suo cuore oltre la camicia bianca, ma lui la scostò con lo stesso vigore.

«Rispondimi Clarissa, se vuoi che mi calmi.»

«Non credo ti farà calmare la mia risposta.» disse lei, sorridendogli.

Cesare la spostò energicamente sul muro della via. Le sue braccia le impedivano di scappare, sebbene fosse l’ultima cosa che intendesse fare. La guardava furibondo, senza parlare, eppure sapeva che i suoi sguardi non le importavano, che avrebbe continuato a fare ciò che voleva.

«Dimmi qualcosa, ti prego.» gli chiese Clarissa, avanzando con la bocca verso le sue labbra, troppo lontane.

«Sei una stupida incosciente.» disse, serrandole i polsi perché rimanesse ferma. «E non ti arrenderai mai, fino a quando ti uccideranno.» sospirò. «Riesci a metterti in testa che non voglio che accada? Perché io non so più come dirtelo.. non so più come fare con te. Cosa diavolo devo fare, spiegamelo tu...»

Poteva avvertire i suoi sospiri sulla fronte, il suo odore, la pelle a centimetri dalla sua. Alzò le punte dei piedi più che riuscì. «Baciami e basta.»

«Fermati. Clarissa, basta sul serio. Basta giocare.» Cesare si allontanò, di colpo, passandosi nervoso, una mano sul volto. «Sai cosa farai ora? Ritornerai immediatamente a casa e non ti farai mai più vedere. Mi hai capito bene? Mai più.»

Clarissa scosse la testa. «Non sto giocando. Perché pensi sempre che stia giocando?» rispose, bloccata nella posizione in cui l’aveva lasciata. «E non me ne andrò perché non è quello che vuoi che faccia.»

«Sei tu che mi porti a volerlo, maledizione! Visto che di quello che veramente voglio non ti importa niente, altrimenti riusciresti a rimanere una misera settimana lontana da me, invece di pedinare ogni mio movimento e metterti costantemente in pericolo.»

Quando sentirono il motore del furgone tornare a riempire il muto deserto della strada accanto a loro, Cesare coprì il corpo di Clarissa con il suo. «Sono i soldati di prima?» chiese lei.

Lo sentì imprecare. Poi lo vide farle segno di non parlare.

«Ascolta bene quello che sto per dirti.» le disse a bassa voce, mentre il suono del motore si faceva sempre più nitido. Insieme alla rabbia, ora le sembrava di leggere una nota di paura sul suo volto. «Proseguendo per questa strada, conta tre vie a destra e imbocca la terza…»

«No.»

«Ci sarà un sottopassaggio, attraversalo e…»

«NO.»

Alzò gli occhi al cielo. «Attraversa il dannato sottopassaggio e poi mantieni la sinistra, aspettando che passi la prima corriera. Qualsiasi andrà bene, non troverai molti passeggeri a quest’ora e chiederai all’autista di portarti a casa.»

Clarissa si asciugò una lacrima sulla camicia di Cesare e si aggrappò a lui, sempre più forte. «Non intendo muovermi da qui.»

Il rumore del furgone si era ad un tratto fermato. Affacciandosi, Cesare notò che lo stesso soldato che poco prima aveva parlato con Clarissa, si stava pericolosamente avvicinando al palazzo dismesso.

Si agitò, lasciandola ancor più confusa. «Clarissa vai.» le ordinò, dandole le spalle.

Anche lei si affacciò per guardare il soldato. «Che cosa c’è dentro quel palazzo? Perché ci vieni così spesso?»

Sospirò, esausto. «Per piacere, vuoi deciderti ad andare via?» la implorò.

Questa volta non lo contraddisse, andò via, sebbene non nella direzione che Cesare sperava.

«Cosa diavolo…Clarissa…» gridò in un urlo sussurrato Cesare, mentre la guardava allontanarsi.


Svoltò l’angolo e camminò decisa verso il soldato. Quando gli fu abbastanza vicina, finse di corrergli incontro. Sarebbe riuscita a distrarlo, accettando un passaggio che solo pochi minuti prima aveva rifiutato. Arrivati a casa, il padre di Clarissa lo avrebbe ringraziato con fervore e sua nonna avrebbe insistito perché rimanesse per la cena. Il soldato avrebbe rimandato cordialmente l’invito e prendendo la mano di Clarissa avrebbe preteso di porvi un bacio, quale promessa di un arrivederci. 
 



 
«Non sei più da solo a combattere questa guerra, deciditi a capirlo Cesare Poggi.» gli disse, il giorno seguente, quando si incontrarono nel retro bottega di un vecchio negozio, da anni incustodito.
Quei momenti sarebbero rimasti con lei per molto tempo, avvinghiati al dolore dei ricordi. «Per quanto piccola i tuoi occhi continuino a vedermi, sono più forte di mille montagne e se ti dovessi trovare in pericolo, lo affronterei insieme a te senza avere paura. Quindi, lascia che ti aiuti. Vuoi camminare sulla cenere rovente? Vuoi scavalcare una diga a piedi nudi? Vuoi attraversare un giardino in pieno bombardamento?» scrollò le spalle e sorrise. «Non m’importa. Fammelo fare con te.»


Era lì. Davanti a lui. Viva. La guardava e vedeva vita, in mezzo a tanta morte, vedeva vita. E ormai sapeva di amarla. Non glielo avrebbe detto, né tantomeno mostrato, ma l’amava.

Era la variabile imprevista dei suoi piani. La tempesta che allontana il dolore. E ora l’amava, più di quanto amasse la sua vita.

Cesare si abbassò sul suo volto e ne inspirò il profumo. «L’unica cosa che voglio.» cominciò serio. «E’ che nessuno, mai più, baci questa guancia.» l’ accarezzò con il palmo del dito e la baciò.

Baciò le labbra con bisogno vitale, si avvicinò al suo corpo, stringendo la pelle candida della sua schiena tra le mani, portandola a sé, per avvertirne ogni angolo, ogni ossa.

E poi, quando terminarono i respiri, scosse la testa, chiedendosi in che punto della sua vita avesse deciso di perdere la ragione e chiedendosi, con maggior sospetto, se ci fosse mai stata vita prima di allora.

 
 
Com’era prevedibile, Clarissa avrebbe vinto.

Cesare le avrebbe permesso di conoscere i rifugiati, soltanto qualche settimana dopo. Dividendo con lei il peso del suo più grande segreto.
 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***



Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~





 
12.

3 Giugno, 1944

Ore  10.30

La bellezza dei vent’ anni era tutta sul suo viso. Il corpo era smagrito con il tempo e il riflesso che la guardava dallo specchio glielo riconfermava.
 

Protetta dalle mura del piccolo stanzino, fece scivolare una mano sulle costole troppo marcare e risalì, con disagio, fino a toccare il tessuto del suo reggipetto. Le venne spontaneo voltarsi e controllare la porta chiusa alle sue spalle, oltre la quale sua nonna e la sarta del negozio, l’ attendevano da minuti.

Non avrebbe voluto sprecare il suo tempo in quel modo, ma a ben poco erano servite le sue obbiezioni, mentre si era vista trascinare nell’atelier di fiducia di sua nonna. Aveva persino creduto di vomitare quando si era accorta del cartello esposto al suo esterno: ‘Questo è un negozio fascista.’. Un marchio nero, indelebile, copriva quelle parole, scritte dal pugno di una mano onorata di poterle mostrare ad occhi esterni.

 
Quando, guardando il suo corpo una volta ancora, si rassegnò all’idea che ciò che vedeva non erano certo prosperose forme femminili per cui smaniare di desiderio, scelse uno dei vestiti datole dalla sarta e lo indossò, con il solo scopo di coprire quel che preferiva nascondere ed uscì dal camerino.

Notò, all’istante, lo sguardo malcontento della nonna. «No.» sentenziò. «E’ enorme. Non sei in grado di accorgertene da sola? Che cosa hai fatto là dentro per tutto questo tempo?»

Clarissa alzò gli occhi al cielo; non era affatto imbarazzata quanto la sarta per la durezza di quelle parole, perché conviveva quotidianamente con l’umore dispotico della signora Marchesi.

«Sarà il caso di provare modelli di una taglia inferiore.» commentò la sarta. «Oppure potremmo pensare di commissionare un abito su misura.» si avvicinò a Clarissa e le cinse un metro in vita, senza attendere risposta. Lo stucchevole profumo della cipria che le ricopriva il viso si muoveva ad ogni suo spostamento.

«Faremo così.» confermò la signora Marchesi, levandosi i guanti neri dalle mani e chiedendo alla sarta di mostrarle il catalogo dei tessuti leggeri.
 

 
Ore  11.42

Il silenzio che precede la tragedia è facilmente riconoscibile. Lo è da sempre. Dalla notte dei tempi, alcuni si arrischierebbero a dire.

E’ un silenzio accompagnato da una strana sensazione d’impotenza, che permette di definire l’imminente pericolo con lucidità, di abituare ogni fibra del proprio corpo a lui, ma mai potrà concedere la libertà di agire perché nulla d’irreversibile accada. Se è destinato ad accadere, accadrà.

 
In quel silenzio, Clarissa era finalmente sola.

Aveva indossato di nuovo il suo vecchio vestito, nascosta dietro uno degli enormi cassoni della spazzatura e con gioia calpestava quello appena acquistato nel negozio fascista, dalle traboccanti tasche di sua nonna.

Ed ora lasciava che le sue scarpe lo pestassero con infinito piacere. Con incoscienza, forse, ma cosa poteva importare di fronte il bisogno di scaricare un po’ di sana rabbia. La bloccò soltanto uno strano vociferare, che si muoveva sempre più nitidamente verso il luogo in cui si trovava.

Si sistemò il vestito e fece qualche passo, per avvicinarsi ad una via più popolata. Il barbiere, davanti al suo sguardo, serrò la tenda del negozio con urgenza e una signora richiamò a gran voce, dalla finestra del suo appartamento, alcuni bambini radunati sulla strada.
In pochi istanti, l’unica a riempire quella via rimase Clarissa.

Le sembrava di distinguere lo strusciare delle suole di scarpe, che avanzavano sul terreno ghiaioso. Fu immediato dare un volto a quel suono, quando un gruppo di uomini – di primo acchito non si accorse che si trattava di giovani ragazzi – svoltò l’angolo e si riversò sulla via. Uno di loro, nella foga, si scagliò sulla sua spalla, insultandola e rischiando di farle perdere l’equilibrio.

Nell’abbassare lo sguardo a terra, Clarissa notò che il loro passaggio seguiva una scia di volantini, sparsi per la strada, che ricadevano dalle loro mani, dalle loro giacche o da sotto i loro cappelli. Si chinò per raccoglierne uno. Era rosso e incitava parole che aveva imparato a conoscere molto bene. Libertà, resistenza, coraggio.

Un sorriso di eccitazione e di adrenalina le sfuggì alla razionalità. Sapeva a cosa portavano le incursioni partigiane organizzate al centro della città, nel cuore della tana nemica, ma mai ne era stata testimone così ravvicinata.

Si voltò, appena in tempo ad evitare che una bicicletta la investisse. Il ragazzo sterzò e frenò al suo fianco.

«Scappa! Scappa!» le urlò, spingendole la schiena.

Quelle lentiggini marcate e quei ricci rossi. «Davide.» sussurrò, Clarissa, guardando meglio il suo volto.

«Mio Dio! Marchesi.» d’un tratto sbiancò. Si guardò le spalle e si accorse di essere l’unico rimasto del suo gruppo. «C-cosa ci fai? Tuo padre è con te?»

«No. No, Davide, sono sola.» si affrettò a dire. Non ci sarebbe stato bisogno di chiedere spiegazioni. Sapeva che la fama di suo padre lo precedeva e, per quanto s’impegnasse nel contrario, quella stessa fama precedeva anche lei. «Non avevo idea che facessi parte della Resistenza, ero convinta fossi partito per la guerra, come tutti gli altri.»

«Avrei dovuto.» Davide montò sulla sella e fece per ripartire, ma Clarissa lo fermò  «Andrai a spifferare tutto a tuo padre?»

«Sei il solito fifone, non sei cambiato di una virgola.»  scosse la testa. «No, che non andrò da mio padre. A patto che non lo faccia nemmeno tu.» così dicendo, gli mostrò il volantino che aveva tra le mani. Lo richiuse e lo nascose in una tasca del vestito.

Davide rise, sebbene la paura rimanesse ben visibile sul suo volto. «Lo ripeteva sempre il preside Colombi che eri la disgrazia della tua famiglia.»

«Si, beh, non era l’unico a pensarlo.»

I tempi della scuola era recenti eppure troppo lontani per essere riportati in memoria. Clarissa non ne aveva mai avuto occasione. Aveva preferito perdere i contatti con ognuno dei suoi compagni. Troppo superficiali, troppo altezzosi, troppo crudeli. Nessuno era come lei. Persino quel timido ragazzo della classe maschile, accanto alla sua, con quei folti capelli rossi e le lentiggini che gli costavano tremendi oltraggi da chi si era sempre ritenuto superiore. Lo stesso ragazzo che scriveva poesie, occultandole tra le pagine dei quaderni. Persino lui, aveva pensato fosse diverso da lei. O, forse, non si era mai fermata a considerarlo come avrebbe dovuto.

«E’ meglio se torni a casa.» le disse, Davide, pensando a quanto avrebbe impiegato per raggiungere il resto del gruppo.

«Potrei accompagnarti, invece. Vi posso aiutare, qualsiasi cosa stiate facendo. Dove state andando?»

«Non ne posso parlare.»

«Allora ti seguirò, senza costringerti a dirmi niente.»

«No.» cominciò a pedalare, troppo lentamente perché Clarissa non riuscisse a mantenere il suo andare. «No, penso sia meglio di no. Torna a casa.»

«Non ti metterai a discutere con me, vero Davide?» sorrise. «Non è proprio nel tuo stile. Su, forza, fammi spazio.» Si sistemò sulla canna della bicicletta ed il foglio del manifesto partigiano, nascosto nella sua tasca, le scivolò via senza che se ne accorgesse. Davide rischiò di perdere il controllo della bici. In un’ altra situazione, forse, sarebbe arrossito per essere il solito maldestro.

Ma non ebbe nemmeno il tempo di vergognarsi.


Davanti a loro tornarono, a passi spediti, i ragazzi passati accanto a Clarissa soltanto pochi istanti prima. Le sembrò naturale cercare tra di loro qualche volto famigliare, ma si accorse di non conoscere nessuno, seppur non dimostrassero molti anni più dei suoi. Si spaventò nel trovare anche un ragazzino a cui non avrebbe dato più di dieci anni. Aveva lo sguardo scavato, ma vigile e caricava sulle spalle, con eroico coraggio, uno zaino quasi più grande della sua schiena.

Un ragazzo del gruppo si avvicinò a Davide. «Ci hanno visti quando abbiamo attraversato la piazza e hanno iniziato a sparare.» mise una mano sulla sua spalla. «Hanno preso Sergio, Davide. L’hanno preso. Era dietro di me e l’ ho sentito cadere.»

Davide non reagì. Il suo corpo sembrò paralizzato, totalmente incapace di replicare a quanto aveva appena sentito.

«Lascia la bicicletta, Davide. Saranno qui a momenti.» gridò un altro, scuotendolo. «Dobbiamo rifugiarci da qualche parte.»

«Sì, ma dove?» chiese un terzo ragazzo, dal volto arrossato e il respiro faticante.

«Chiediamo a qualcuno di farci entrare.»s’intromise, Clarissa, indicando le abitazioni attorno a loro.

La guardarono, ma non le chiesero chi fosse. Senza aspettare una loro riposta, Clarissa bussò ad ognuna delle case e incitò gli altri a fare lo stesso, pur sapendo che non l’avrebbero mai ascoltata.

I suoi sforzi non ottennero altro che silenzio. Terrorizzato ed egoistico silenzio.

Alcune vetture svoltarono l’angolo alla loro destra e, nel giro di pochi secondi, una schiera di uomini armati avanzava dal lato opposto, con la lentezza di chi sa di avere la sorte dalla propria parte.

In quel preciso istante, una porta si aprì a pochi passi da Clarissa. Una donna le strinse il braccio. «Sbrigati, ragazzina.» parlò sottovoce e la spinse verso di sé, per farla entrare.

Le vetture si fermarono e ne scesero tre ufficiali e una manciata di soldati di grado inferiore. Alcuni di loro sputarono per terra, con disprezzo, altri raccolsero le pistole dalle loro cinture e le puntarono contro il gruppo di partigiani. Ammassato in un cerchio, senza vie di fuga.

Per quale motivo, lei avrebbe dovuto averne una? Era forse migliore di loro? Meritava di essere salvata, più di quanto non lo meritassero loro? Non trovò una risposta sufficiente a convincerla e abbandonò la stretta della donna, che si affrettò a chiudere la porta con la stessa velocità con cui l’aveva aperto.
 



Quando la sua faccia venne scagliata contro il muro di una stradina isolata, dove il resto dei ragazzi era già stato allineato – con le mani rinchiuse in alcuni lacci di corda ruvida e lo sguardo basso - , l’impatto fu meno violento di quanto si aspettasse, nonostante sentisse alcune gocce di sangue scivolarle oltre la tempia.
 
«C’era anche lei, comandante.» commentò un solato, portandole le braccia dietro la schiena e intimandola a non muoversi.

Un bisbiglio di voci, dietro i loro corpi, si consumava con ferocia. Non era semplice seguire i loro discorsi, o distinguere chiaramente le parole che pronunciavano, quando i battiti del cuore coprivano ogni singolo rumore.

Accanto a Clarissa, Davide muoveva le labbra senza emettere alcun suono. Stava forse tremando o recitava preghiere che lo accompagnavano lentamente verso il suo destino?

Clarissa si spostò verso di lui, così che i loro gomiti potessero toccarsi. Al solo contatto, Davide trasalì e si girò verso di lei.

Mai, nella loro giovane e spensierata vita, avevano incontrato sguardi come i loro;che raccontavano di paura, di rassegnazione, di delusione e di gioia. Una vita breve sembrava immensamente lunga e in quegli sguardi ripercorreva i suoi momenti cruciali.

Uno sparo sovrastò la gelida attesa e un primo corpo cadde a terra, incidendo le tinte del suo passaggio sul muro,dove altri continuavano ad attendere.

I soldati, alle loro spalle, risero. Avrebbero continuato quel gioco fino ad annoiarsene.

 
«Cosa ci rimane, Clarissa?» sussurrò Davide. Era già lontano da quel mondo crudele. Nelle sue parole, nello scoraggio del suo volto, Clarissa comprese quanto fosse già lontano. «Dimmi. Cosa ci rimane?»

Il respiro di Clarissa accelerò, quando il secondo colpo di pistola si scagliò e un altro corpo cadde.

Ci rimangono i momenti. Quelli rapidi che si confondono nel tempo, ma che non lo abbandonano mai. Quelli che si appiccicano alla pelle. Le mani, ci rimangono. Le mani sul collo che potrebbero stringerlo perché ne hanno la forza, eppure non fanno altro che accarezzarlo con delicatezza.

Sentì il bisogno di urlare, di gridare al mondo quanto ancora desiderava vivere.

Ci rimane la profondità del sentimento appena scoperto e quello che si conosce da sempre.

Clarissa guardò Davide abbassare il collo e lasciarsi andare. «Davide, no. Non ancora. Continua a parlarmi. Davide.» lo chiamò con disperazione, dimenticando per un istante gli uomini accanto a lei.

Il comandante che dirigeva la squadra di soldati fascisti, le si avvicinò, non appena la sentì parlare. Si levò il berretto dalla testa e lo mantenne sotto il braccio, curvando il petto all’infuori in una posa terribilmente innaturale. Scrutando la ragazza con viscida curiosità, fece segno ad uno dei suoi subordinati di perquisirla.

Clarissa si dimenò per sfuggire alle mani che correvano su di lei. Appoggiò la testa al muro e serrò forte gli occhi, per reprimere l’odio che non avrebbe controllato le sue azioni.

Una forza maggiore, dentro di lei, le impose di non muoversi, di non reagire.

Le venne strappata la borsetta che le cingeva la spalla. «Faceva parte del gruppo? Chi lo conferma di voi?» domandò il comandante. Nessuno dei suoi uomini rispose.

«Allora?» gridò. «Mandria di idioti.» li guardò con sufficienza e rovistò nella borsa di Clarissa. «E’ stata trovata in mezzo agli altri, oppure no?»

«Quasi, signore.» qualcuno osò dire.

«Cosa significa quasi, soldato Perni?»
 


Il brusio di voci continuò, senza che Clarissa consumasse le sue energie per concentrarsi in esso. Avvicinò una mano a quelle di Davide, ancora legate dietro la schiena.

«Parla con mia madre.» disse lui, all’improvviso. Le parve di non capire e rimase in silenzio, ma Davide tornò a dire la stessa frase.

«Le parlerai tu.» rispose, chiudendo gli occhi e lasciando che una lacrima solitaria scivolasse. Forse stava già pensando al loro futuro, al luogo in cui sarebbero finiti di li a poco. E il suo era un farneticare che non aveva senso contraddire. 

«No, Clarissa.» la richiamò con decisione, come fosse rianimato all’improvviso. «Devi andare da mia madre e parlare con lei.»

«Davide, come posso..»

Prima ancora di tutti gli altri, Davide aveva già capito cosa sarebbe successo.

La interruppe, guardandola con la fame di chi ha urgenza di dire e avverte in lontananza il ticchettio dell’ orologio finale; quello conclusivo. «Va da lei e dille che l’ ho amata sinceramente. Che sono stato troppo stupido per non ricordarglielo, come meritava.» appoggiò la fronte al muro e le sue labbra tornarono a tremare. «Dille che sapevo quanto soffriva nei giorni in cui non c’ero e raccontale che combattevo anche per lei e che ho fatto del mio meglio per essere un compagno fedele alla sua Patria.»

«Marchesi Clarissa!»  Clarissa sentì pronunciare il suo nome alle sue spalle. Non era un richiamò, quanto più una rilevazione. Non si voltò, non avrebbe mai abbandonato il volto di Davide.

«Ti lasceranno libera, vedrai.» le disse, Davide. «Ma tu devi andare da lei, perché merita di sapere. E’ una donna buona e merita di sapere.» sospirò. «Dille che la porto nel cuore anche ora. Che penso a lei e me ne vado sereno. E non ho paura, perché sono forte. Dille che non era vero tutto quello che dicevano su suo figlio, perché nessuno lo conosceva bene quanto lei.»

Clarissa annuì, presa dal panico.

«E se piange, dille che mi hai visto sorridere. Guardami.» Davide si sforzò di sorridere. «Devi ricordarti di dirglielo. Devi ricordati di abbracciarla, per me.»

«Non posso andarmene, Davide. Non sono così codarda.»

«Devi, invece. Altrimenti lei non saprà mai niente. Ho bisogno che lei sappia quello che ti ho detto.»

Alla sua giovane età, Clarissa non poteva sapere che esiste un coraggio dimostrato scegliendo di vivere, per chi non può più farlo.

«E’ giusto così.» sussurrò Davide.  «Non ero destinato a rimanere. Non mi metterò certo a discutere con il destino, no? L’hai detto anche tu; non sarebbe nel mio stile.»

«No che non è giusto. Nulla di tutto questo è giusto.»

 
I soldati presero Clarissa, che urlò loro di lasciarla andare. La strinsero per farla stare ferma, ma il comandante li richiamò ad avere più cura. «Abbiamo già commesso l’errore di confonderla con uno di loro, se la riportiamo a casa piena di lividi vi giustificate voi con Marchesi!» gridò.


Costretta ad allontanarsi, Clarissa allungò una mano verso Davide che non si girò. Le lacrime le impedirono di urlare il suo nome, con la stessa foga con cui rimbombava nella sua testa.

Si dimenava nella morsa del nemico, alla quale, con disgusto, si accorse di appartenere, mentre veniva chiusa in una delle loro macchine.


 
Ore 12.30

Un campanile rintoccò la mezz’ora.

Quante cose, in un preciso minuto possono accadere tra gli aggrovigliati viali di una grande città. In quelli nascosti e in quelli ben visibili. Quante cose possono accadere senza che nessun occhio riesca a raccontarle.

Gli occhi di Clarissa rimasero ben aperti sullo specchio retrovisore della macchina, che immortalava con scrupolosi dettagli l’intera scena.

Quando la macchina svoltò l’angolo, allontanandosi per sempre da quel luogo, assecondando il destino nella sua decisione, gli occhi di Clarissa continuarono a fissare quella scena, fino a quando sparì.

Il fuoco venne aperto e il suono echeggiò lungo i viali della grande città. E negli occhi di Clarissa, che in quel piccolo specchio ora, trovavano solo la sua immagine riflessa.

La bellezza dei vent’anni sarebbe sparita, per un po’.

 
 
 
 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***



Come d'autunno le foglie



~ prima parte ~




 
13.


14 gennaio, 1945

Clarissa raggiunse il sottoscala della sua antica villa, poco dopo l’alba, quando le strade erano troppo dormienti per accorgersi di lei. Cesare non voleva vi rimanesse per troppo tempo, da quando, tre mesi prima, era stata nascosta la famiglia Moscato, insieme al piccolo Paolo Spizter.


Se malauguratamente qualcuno avesse scoperto ciò che accadeva in quel sottoscala e avesse trovato anche Clarissa lì.. quella era l’unica cosa che riusciva a tormentarlo. Molto più delle bombe, molto più delle minacce fasciste e dei rastrellamenti tedeschi.
 


Il giorno in cui abbandonarono il primo rifugio, l’auto che trasportava gli zii di Paolo, Gilda Spizter e Igor Basevi, imboccò una strada traversa e fu tradita da un blocco di controllo dell’occupazione tedesca.

Poche ore dopo vennero destinati ad un treno diretto ai campi di sterminio, dove i loro corpi si sarebbero spenti lentamente, prima della fine della guerra. I due coniugi che si erano offerti di accompagnarli al nuovo luogo segreto, vennero fucilati nell’immediato con l'accusa di alto tradimento.
 


Clarissa avrebbe voluto ci fossero stati anche loro, in quel giorno così importante; avrebbe voluto persino lo scorbutico Gastaldi; avrebbe voluto la dolce Denise e lo sguardo confortante che solo lei poteva darle...


Non c’era tempo da perdere. Cesare voleva concludere il tutto prima di mezzogiorno, così che Clarissa fosse già di ritorno a casa per quell’ora. Era stata la sua unica pretesa, quando si era arreso alla testardaggine della ragazza, che non sembrava comprendere quanto incredibilmente pazzo fosse ciò stavano per fare.

Il sottoscala, al suo arrivo, era un tripudio di candele, fin tanto che ogni finestra doveva rimanere barricata.

In una delle piccole camere, Carla, con il suo meraviglioso pancione e la sorella minore Francesca, si occuparono di Clarissa. Le diedero il calore che mille doni non le avrebbero mai trasmesso; pettinarono le onde dei suoi capelli, le sistemarono le pieghe del vestito bianco, che tempo addietro aveva incoronato l’amore dei loro genitori. La signora Moscato aveva trascorso giorni interi a ricucirlo perché entrasse nel corpicino della nuova giovane sposa.

«Sei pronta, Clarissa?» le chiese Francesca, stringendole forte la mano.

Non era pronta e non lo sarebbe mai stata, ma lo desiderava come niente al mondo. Come se fino a quel momento ogni suo desiderio passato si rivelasse frivolo, incapace di reggere il paragone.

Allo specchio vide il volto di una ragazza talmente emozionata da perdere il controllo del respiro. Si tranquillizzò solo quando, pochi istanti dopo, aprendo la porta della camera, trovò lo sguardo di Cesare.

L’attendeva, in piedi, in fondo alla stanza che faceva da cucina, da salotto e da camera da letto; la stanza, dove pochi anni prima, quando Clarissa era una solo ragazza ingenua, si rifugiava a fumare le sue prime sigarette e dove correva per sfuggire alle ramanzine del padre; la stessa stanza dove cinque silenziose anime erano state relegate per salvaguardare la propria vita e ora si giravano ad ammirare una ragazza, vestita di semplici abiti nuziali, dimenticando improvvisamente quanto male ci fosse, lontano da tutto quell’amore.

 
Era la prima volta che vedeva Cesare in abiti eleganti e ad ogni passo sentiva il peso dell’amore che covava dentro. Sentiva che niente, mai, sarebbe riuscito ad allontanarlo. Davanti a lei, appariva meravigliosamente bello. Gli abiti grigi richiamavano le sfumature sui suoi capelli scuri e i suoi occhi le parevano quasi emozionati, alla luce povera delle candele.

Cesare allungò una mano e raccolse le sue piccole dita.

Si guardarono, durante l’intera cerimonia, scambiandosi promesse per cui ancora non erano state inventate parole.

Sapevano che niente di tutto ciò sarebbe mai stato riconosciuto. Le leggi razziali vietavano la celebrazione di matrimoni ebraici, senza contare che Dante Moscato non era un rabbino, non esistevano documenti, né le firme di testimoni ufficiali. Eppure a loro bastava immaginare che qualcuno li guardasse da lassù e che giudicasse puro il loro amore, tanto da permettergli di unirsi da lì all' eternità.


 
«Sia consacrato il vostro legame, per mezzo di questi umili anelli. Secondo la legge di Mosè e d' Israele.»


 
Paolo porse loro gli anelli nunziali. Piccoli pezzi di ferro, modellati dal fuoco rovente della stufa e dalle doti di Dante Moscato. Era tutto ciò che la loro condizione di marginalità poteva donargli.

 
Nella quiete mite e quasi surreale di quelle mura, vennero dichiarati marito e moglie.

«Signora Poggi.» disse solamente Cesare, chinandosi verso di lei.

«Signor Poggi.» disse Clarissa e si ritrovò a baciarlo.

La signora Moscato pianse e Paolo corse ad abbracciare le lunghe gambe di Cesare. Aprirono una bottiglia di vino rosato che Cesare era riuscito a rimediare e festeggiarono quanto più silenziosamente riuscirono.

 

Accanto alla porta d’ingresso, i due sposi clandestini si accontentarono di pochi istanti di intimità.

«Mi guardi come non mi merito, mia bellissima moglie.» le disse sottovoce, prendendole il viso gioioso tra le mani.

«Ti amo.» sussurrò anche lei, per non guastare le parole. «Non puoi nemmeno immaginare quanto.»

Sorrise. Uno dei suoi rari sorrisi, che coglievano sempre di sorpresa. «Posso, invece.» le accarezzò il singolare anello e si girò verso gli altri, sperando di trovarli occupati in altre faccende. Tornò a guardare lei, la sollevò per portarla alle sue labbra e baciarla con passione.

«Detesto dovermene andare, perché non posso restare ancora un po’?» le chiese, lasciandogli baci sul mento, sul collo. Inspirando il suo profumo.

«Perché conosco i tuoi ‘ ancora un po’ ’, finiresti per rimanere qui fino a domani.» la allontanò con delicatezza. «Sai bene che faccio uno sforzo enorme a dirti di no, ma ti voglio al sicuro e qui non lo sei.»

Clarissa alzò gli occhi al cielo, certa di non poter vincere contro la razionalità di quell’ uomo. Non le restava che stringerlo forte, un’ultima volta.
 
«Non mi hai ancora detto cosa desideri come regalo di nozze, amore mio.» le sussurrò, prima di lasciarla andare.

«Posso chiedere qualunque cosa? Prometterai di esaudirla?»

Cesare sorrise, scompigliandole i capelli. «Sì, qualunque cosa, piccola matta.» …
 


Quella sera, mentre Clarissa riposava tra le coperte del suo letto, senza riuscire a smettere di toccare l’anello che le riempiva l’indice e mentre Cesare, lontano chilometri dalla sua sposa, non pensava che alla bellezza del suo pallore e alla dolcezza delle sue labbra, una nuova vita avrebbe riempito il silenzio del sottoscala.
Carla aveva partorito un’ incantevole bambina.
 


…  «Prometti di gridarmi che mi ami e che il suono delle tue parole mi arrivi anche sopra gli spari e lo scoppio delle bombe. Prometti di custodire una parte della mia vita nella tua, così che saprò che non ti lascerai mai morire, per non uccidere anche me.»
 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***



Come d’autunno le foglie




~ prima parte ~



 
 
14.

1946

Vennero a prenderla due di loro, in una rispettabile auto nera. Gemma si offrì di accompagnarla, chiedendole insistentemente di lasciala venire con lei, ma Clarissa la pregò di farla andare sola.

Il viaggio non fu lungo. E per sua fortuna i due uomini non erano di molte parole. Uno di loro accese l’ autoradio e malgrado la musica giungesse ad intermittenza, fu felice fosse l’unico suono a riempire l’attesa.

Non aveva ricevuto nessuna informazione.

Non sapeva i loro nomi, non sapeva il nome del paese verso cui erano diretti, non conosceva le dinamiche della situazione. Qualcuno le parlò di una località di lago, ma non aggiunse molto di più.

Guardò oltre il finestrino, durante tutto il tempo, con le mani appoggiate alla borsetta, fingendosi una di quelle donne americane dall’aspetto valoroso ed impenetrabile, che i rotocalchi amavano sfoderare in prima pagina.

Solo quando si accorse di uno spiraglio di lago, avvertì la certezza di essere prossima all’arrivo.


Così fu. La macchina si fermò al municipio del primo paesino che incontrarono. Furono cortesi nell’aprirle la portiera della macchina e farle strada. Una volta entrati un’ uomo, con una lunga barba nera, le chiese i documenti e si soffermò a leggerli.

«E’ il suo compleanno oggi, signorina Marchesi?» chiese, squadrandola. Il suo tono era mortificato.

Clarissa annuì. Era stata Gemma a ricordarglielo quella stessa mattina.

«Mi rincresce debba passarlo in questo modo.» parlò, di nuovo, l’uomo. «Se lo avessimo saputo, probabilmente avremmo stabilito l’incontro in un giorno diverso.»

«Non fa differenza.» rispose distaccata. Avrebbe solo voluto si concludesse tutto con rapidità. Si sforzò comunque di sorridere, per il pensiero gentile. «Grazie.» disse, sottovoce.

Venne accompagnata in una stanza, priva di finestre, con due lampade a parete. Si sedette su una delle sedie ad un lato del tavolo centrale e guardò l’altra sedia, davanti a lei. Le sue mani si strinsero forti, in un gesto involontario, che in qualche modo riusciva a darle sollievo.

 
Poco dopo, entrò.

Scortato da due partigiani. Il più basso tra i due, fu l’unico a parlarle.

«Rimarremo fuori, signorina Marchesi. Ma la conversazione verrà ascoltata da quegli apparecchi che vede appesi al muro.» si girò e agli angoli vide due specie di megafoni. Annuì. «Le basterà richiedere un intervento ed entreremo subito.»
 

Tra i giochi d’ombra che la stanza creava, lo vide divincolarsi dalla presa dei partigiani e andare a sedersi di fronte a lei.

«Non richiederà un bel niente, giovanotto. Lasciateci in pace.» 

Clarissa respirò e prese le forze per guardarlo in faccia. «Papà.» disse, quasi naturalmente.

Lui emise uno strano suono, come un brontolio e tentò di sorriderle, ma il suo volto non ci riuscì. «Guardati. Ti sei fatta donna in così pochi mesi?»

Non ebbe il coraggio di parlare. Che cosa avrebbe dovuto dire? Che parole si dovrebbero pronunciare in incontri come quelli?

«Vai mai a piangere sulla tomba di tua nonna?» chiese, di soppianto, il padre. Il suo tono era formale e superiore. Come lo era sempre stato.

Respira.

«O su quella di tua madre?»

Respira.

«Devo aspettarmi che non andrai nemmeno sulla mia.» rise, agitato. «Ad ogni modo, ti risulterebbe complicato, dal momento che non credo vorranno darmi nessuna sepoltura.»

Si accorse solo ora del suo viso scavato; un viso per il quale si sarebbe persino potuto provare umiltà. Cercò di non fissarlo negli occhi, per paura di arrivare a provarla. «Quando… quando sarà?»

«Domani, nel pomeriggio. Se ne occuperà un plotone di quindici partigiani. Uno a testa. Ci disporranno sulla banchina del lago e ci spareranno in fronte.»

La freddezza con cui glielo diceva, le fece scorrere un brivido lungo l’intero corpo.

«Sei felice di sapere che sia già domani?» le domandò.

Clarissa lo guardò allibita. Avrebbe giocato al suo stesso gioco. «Non ho tue notizie da quasi un anno. Credevo fosse già successo.»

«Ed eri felice?» insistette.

«Papà, ho perso Denise, ho perso mamma, ho perso i miei amici…pensi non possa sopportare di perdere anche te?»

I suoi occhi la guardavano con fermezza. «Hai perso quel tuo disgraziato.» sputò, all’improvviso. «Coraggio, aggiungi anche lui alla lista.»

Respira. «E’ quello che avresti voluto, vero? Che lo perdessi. L’hai fatto incarcerare solo per la gioia di rubare l’ultimo accenno di felicità che mi rimaneva nella vita.» sorrise, mentre le lacrime minacciavano di offuscarle la vista. «Ma che scempio sarebbe stato! Che offesa alla tua morale.. sapermi felice.»


Aveva deciso d’ incontrare il padre, non appena le era stata recapitata una lettera in cui le veniva spiegato – molto velatamente – ciò che gli sarebbe successo.

Lei, del bisogno di vendetta che spingeva i partigiani e le milioni di persone che chiedevano a gran voce la morte di quanti più fascisti riuscissero a trovare, lei di tutto questo non voleva sapere nulla. Quasi la spaventava immaginare che fosse necessario altro sangue per ripulire il ricordo del sangue che era scorso in passato, ma per il resto aveva egoisticamente deciso di rimanere all’oscuro di tutto.

Si era limitata ad un’ unica decisione che l’aveva portata lì, davanti a suo padre. A parlare dell’uomo che lui stesso le aveva strappato.


«Sei così stupida da non capire che se non avessi fatto niente, a quest’ora saresti morta.» le disse, lui.

Clarissa si passò un fazzoletto chiaro al lato degli occhi e gli rivolse un sorriso desolato. «E ora, papà, che cosa sono? Sono forse viva?»

«E’ assurdo che tu lo chieda ad un condannato a morte.»

Non parlarono per lunghi minuti, né ebbero il coraggio di guardarsi. Clarissa alzò lo sguardo solo quando sentì i singhiozzi del padre. Era la prima volta che lo vedeva piangere. Le lacrime cadevano con naturalezza e il suo viso contratto, sembrava quasi il viso di un bambino. Puro, pulito.

Mai le si era mostrato come si mostrava ora.

Pianse insieme a lui e con rammarico si accorse di come quello fosse il loro primo e unico legame.

 
«Nella mia intera vita, ho maturato ogni scelta pensando esclusivamente a te, bambina mia. E non me ne pento.» il suo tono di voce era insolito, come se non gli appartenesse.

«Non ti ho mai chiesto di fare scelte pensando a me.» gli rispose Clarissa e furono le ultime parole che gli rivolse. «Mi sarei accontentata di sapere che, qualche volta, mi pensavi.»
 


Tornando a casa avrebbe di nuovo guardato il lago e pensato a suo padre; l’ ufficiale fascista che sarebbe caduto davanti alle sue sponde.

Realizzando con grande consapevolezza che un altro piccolo pezzo, dentro di lei, sarebbe sparito. Per una volta ancora, sarebbe stata un po’ meno Clarissa e per una volta ancora, avrebbe dovuto cedere parte delle sue forze per far fronte al dolore. Una sensazione che odiava e verso la quale non sarebbe mai riuscita ad abituarsi.
 
 


Uno dei giorni seguenti, nella pace del suo studio, Lorenzo Silvatti le versò del the caldo, mischiando due zollette di zucchero e della vaniglia, come piaceva a lei.

C’era sempre una bizzarra confusione di fogli sulla scrivania di legno dell’avvocato e con il passare delle settimane trascorse là dentro, Clarissa notava con piacere che i piccoli regali che gli portava in segno di ringraziamento per esserle a fianco, come amico ancor prima di avvocato, venivano da lui conservati con cura, in mezzo al gran disordine.

«E’ una buona notizia.» commentò Lorenzo, appoggiandole una mano sulla spalla.

«Si.» rispose lei, ancora un po’ confusa, ma sorrise notando il suo viso felice.

Lorenzo aveva ottenuto che la procura di Milano stabilisse un ‘piano di ricerca dispersi’ in cui figurava – sopra molti altri -  il nome di Cesare Poggi. La sua storia, il suo appoggio alla Resistenza a discapito della propria vita, sarebbe stata resa nota. Le radio ne avrebbero parlato, alcune conoscenze di Lorenzo ne avrebbero dedicato righe sulle testate principali. Le acque si sarebbero finalmente smosse.

E se ancora si trovava in Italia, qualcuno non avrebbe tardato a farne arrivare informazioni.
 


Le informazioni arrivarono, ma furono le più inaspettate.
 


«Cosa diavolo mi stai dicendo?»

«Clarissa, mi dispiace.»

«Non ti dispiacere. Non c’è nulla di cui dispiacersi. Sono solo stupide dicerie, completamente false.» camminava agitata intorno al suo piccolo studio. «Non ha senso che tu perda tempo a riferirmele.»

Nel vederla in quello stato, Lorenzo soppesò i tempi, prima di infierire ancora di più. «Ho parlato io stesso con la sorella di Anita Damasco e mi ha riconfermato quanto mi aveva detto l’avvocato della donna.» si fermò e poi sputò, ancora una volta, quelle parole. «Lei e Cesare si sono sposati in...»

Clarissa scosse la testa. «No.» lo interruppe.

«Si sono sposati in data 17 maggio 1928. La data e il luogo di nascita coincidono con quelli di Cesare, persino la caratteristiche del suo aspetto fisico che ha rilasciato la sorella della moglie.»

Avrebbe voluto gridare e se non fosse bastato avrebbe pianto, tanta era la rabbia che provava. «Non esiste nessuna moglie. Sono io la moglie di Cesare.» nel pronunciare quella frase avvertì con timore, la vana illusione che l’ accompagnava.

«Per quanto vorrei poterti dare ragione, non ci sono prove che legalizzano la vostra unione. Mentre l’ avvocato della signora Damasco sostiene di averle.» sospirò.

«E’… è completamente insensato… è… Voglio dire, ci sono un milione di cose che non quadrano.» rifletté, lottando contro la confusione nella sua mente. «La carta d’identità! Io ho la carta d’identità di Cesare e lì non risulta come spostato.»

«Si, ci ho pensato anche io. Ma sappiamo bene quali fossero le conoscenze di Cesare e tu stessa mi hai detto che ha procurato documenti falsi ad ognuno dei rifugiati, qualche settimana prima di abbandonare il primo rifugio.»

«E per questo dovrebbe essere falso anche la suo? Che senso può avere falsificare un documento d’identità per poi mantenere ogni dato e cambiare soltanto lo stato civile?»

«Non lo so. Sto solo cercando di capire, Clarissa. Anche io mi faccio mille domande, esattamente come te, eppure non posso evitare di dare ascolto a tutte le chiamate anonime che ho ricevuto in una sola settimana, da quando è stato pubblicato l’annuncio. E credimi, ognuna di loro sostiene quanto mi è stato detto dall’avvocato.» Lorenzo sospirò, appoggiando le mani sul tavolo, come fosse stremato da quella conversazione.

«Possibile che Cesare non ti abbia mai raccontato nulla del suo passato?» tornò a parlare, poco dopo.«Questa Anita Damasco arriva da un paesino del Piemonte, lo stesso in cui è nato Cesare e lo stesso in cui si sono sposati.» glielo disse, quasi come rimprovero. Questo la fece infuriare ancora di più.

«Smettila di ripeterlo!» gridò, Clarissa. Dentro di sé, lottava per proteggere il suo sentimento, convincendosi che Lorenzo o qualsiasi persona al suo posto, non avrebbe mai compreso quanto comprendevano lei e Cesare. Ma da sola, la capacità di lottare si esauriva persino in una ragazza forte come lei.

Per un attimo si pentì di non aver mai chiesto nulla a Cesare del suo passato, eppure questo non le bastò per dubitare di lui.

«Ascoltami Clarissa, quando dico che non è un male dar retta a queste informazioni, non intendo dire che non abbia anche io i miei sospetti. Ma, lasciandoli da parte per un momento, ho almeno la lucidità per capire che tutto questo può giocare a nostro vantaggio.» si sistemò gli occhiali tondi e la guardò risoluto. «Cesare può aver tentato di mettersi in contatto con Anita Damasco, una volta evacuato dal campo di concentramento. Forse questi signori sanno più cose di quelle che ci vogliono far credere.»

Fu incapace di replicare. Sorrise, agitata. «Aspetta, lasciami capire. Non solo affermi che l’uomo che amo, l’unica persona su questa terra per la quale trovo ancora il coraggio di aprire gli occhi la mattina, è spostato con un’altra donna.» ora il suo tono era basso, ferito. «Ma sei persino convinto che, una perfetta sconosciuta, sia la prima persona da cui andrebbe se fosse ancora vivo?»

Nell’uscire dalla piccola stanza dell’avvocato, tornò a sentirsi sola, come un tempo.
 

 
Prima di rientrare a casa passeggiò per la città senza avere una meta precisa. Il vento le scompigliava i capelli, ma asciugava le lacrime ancor prima che i passanti potessero accorgersi di loro.

Le vetrine dei negozi cominciavano a chiudere le serrande e le strade si riempivano di lavoratori d’ogni genere, smaniosi di rincasare sotto un tetto familiare.

Clarissa si sedette su una panchina, accanto ad una signora che stringeva una bambina dai capelli chiari e setosi, esattamente come i suoi. Le guardò e per un istante si chiese quale fosse la loro storia e cosa si nascondesse dietro i loro sorrisi.
 

Chi diceva che la fine di una guerra portava con sé gioia e speranza, che metteva un bando al dolore, alla morte, alle perdite?

Nella sua personale fine della guerra, lei perdeva suo padre.

Perdeva Lorenzo.

E per quanto fingesse di non pensarci, ogni singolo giorno che passava, ogni singolo minuto, perdeva un po’ di più, anche Cesare.


 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***



Come foglie d’autunno




~ prima parte ~





 
15.

Febbraio, 1945

La nudità non l’aveva mai imbarazzata, conosceva il suo corpo, le sue forme, i suoi particolari. Eppure non conosceva il corpo di nessun altro al mondo ed era forse questo ad intimorirla.

Cesare aveva lasciato che fossero le sue mani a scoprirlo dei vestiti, serrandole i polsi solo per rallentare la sua curiosità, la smania di un desiderio nuovo. E le parole che le aveva rivolto nel sentirla agitata, Clarissa non le avrebbe mai scordate; mentre implorava al suo corpo di non reagire in quel modo, di non tremare, di non fremere ad ogni suo tocco, di mostrare la stessa audacia che mostravano i suoi occhi.

Le aveva scostato la biancheria chiara e si era fatto spazio dentro di lei, cercando il suo sguardo, soppesando ogni movimento. Si allontanava ed entrava con lentezza quasi crudele, mentre la mano di Clarissa si aggrappava alla pelle della sua spalla, forte dapprima e poi sempre più leggera, come se le sottili dita concentrassero le uniche energie che le rimanevano. Si era chiesta che cosa provasse lui in quei momenti. Come poteva rimanere così lucido, mentre lei perdeva ogni controllo?

Quando il suo movimento era accelerato, le si era avvicinato ancora di più, aveva appoggiato le labbra alle sue, aperte in un grido muto pieno di sospiri. Di gemiti inarrestabili. Ma aveva scelto di tenere gli occhi aperti per guardare la piccola Clarissa farsi donna, sotto la morsa del suo corpo. 

Era stato annientante. Lento, interminabile. Rapido, inaspettato. 

Forse era stato anche doloroso, ma di un dolore di cui solo ora, Clarissa, scopriva l’esistenza. Un piacevole dolore che da quel momento non avrebbe mai smesso di desiderare.
 


Nelle sue fantasie non aveva mai fatto l’amore con Cesare. Non lo aveva mai privato delle sue camice, di quell’aria saggia e antica. Non era dunque preparata al corpo che le giaceva accanto.

Si mise a percorrere le linee della muscolatura, che sotto la sua mano pallida mostravano una carnagione ancora più scura di quanto avrebbe immaginato. Con la stessa mano percorse il torace e scese fino a disegnare un cerchio intorno all’ombelico, avanzò ancora più giù. Fu Cesare a fermargliela, portandola sulla sua bocca e baciandone le dita.

In penombra i suoi occhi sembravano quasi serrati. Lo sentì sorridere.

Rimasero lì, rintanati tra le mura della casa di Cesare. Tra quello che rimaneva di quelle mura. Vuota, silenziosa, distrutta, sembrava il luogo più romantico dell’intero pianeta. Fecero l’amore ancora e un’ altra volta ancora, senza sprecare una sola parola durante molti minuti.


 
«Lacci disfatti?» chiese stranita Clarissa, nel cuore della notte. Si girò per appoggiarsi al petto di Cesare e guardarlo negli occhi.

Lui rise. «Mi hai chiesto tu di essere sincero.»

«Lo so, ma.. lacci disfatti?» si fermò, regalandogli una buffa espressione sbigottita. «Come è possibile che la prima cosa che hai notato di me sono dei lacci disfatti?»

Cesare sorrise, di nuovo, e le carezzò la fronte. «Erano quelle scarpe nere che portavi, finivano sempre per disfarli. Mi domandavo come facessi a non accorgertene.»

«Avresti potuto avvertirmi, professore.»

«Si, ma vedi…in tal caso non avrei potuto sorreggerti.» disse, stringendola ancor di più. «quando puntualmente rischiavi d’ inciampare.»

Ora, Clarissa, dava un altro significato a quei lontani sguardi scuri, quasi imbronciati, e le braccia forti che la sostenevano appena un attimo prima di cadere goffamente a terra. Pensò a quelle scarpe, a dove fossero, a perché diavolo le aveva gettate via.
 


Non parlarono per lunghi minuti, poi Cesare sospirò. E fece quel che mai aveva fatto. «Ti strofinavi le dita della mano, quando aspettavamo che arrivasse il tuo tram. Non riuscivi ad evitarlo.» si fermò. «Lo fai quando sei imbarazzata e l’imbarazzo ti rende nervosa. Ma allora pensavo fosse solo per il freddo.»

Continuò. Parlare così intimamente gli costava una grande fatica, ma non per questo avrebbe smesso. «C’erano giorni in cui le tue labbra… avevano qualcosa di diverso. Erano meno chiare del solito.» Clarissa ascoltava la sua voce ad occhi chiusi. «E così ti immaginavo mentre ti toglievi agitata il rossetto, appena prima di raggiungermi.»

Senza darlo a vedere, Clarissa sorrise, avvertendo le sue gote pallide infiammarsi dalla vergogna.

«..ai nostri primi incontri ti stringevo la mano quando ti vedevo, ricordi? Nessun convenevole, nessun saluto. Solo una formale stretta di mano. Tu non mi guardavi mai negli occhi quando lo facevo, così potevo rimanere a fissarti i capelli mentre non te ne accorgevi. Ti assicuro che non c’era volta in cui non sentissi il bisogno di chinarmi a baciarli e l’istinto era così forte che per reprimerlo non potevo far altro che arrabbiarmi.»

Clarissa sentì aumentare il ritmo del suo cuore e d’istinto vi appoggiò una mano. Cesare si spostò sopra di lei, nascondendone il corpo minuto, ma la mano di Clarissa non si mosse.

«Mi arrabbiavo quando ti vedevo arrivare da lontano, mi arrabbiavo quando sbucavi fuori dal nulla, mi arrabbiavo quando parlavi e quando sorridevi. Mi arrabbiavo perché quelle parole e quei sorrisi non avrebbero dovuto far innamorare me. Io non avevo nessun merito.»

Clarissa gemette, quando entrò dentro di lei. Riavvertì di nuovo un calore offuscante.

«Guardavo i lacci disfatti,» respirò Cesare, spingendosi più profondamente. «per non guardare le dita… le labbra… i capelli.»

Le baciò le dita, le labbra e ispirò il profumo dei suoi capelli, prima di raggiungere il culmine di un piacere disarmante.



 
Si fece quasi l’alba.

«Dobbiamo andare, Clarissa.»

Lei si strinse forte a lui. Non era certa di essersi mai addormentata, in tutte quelle ore. «No. Non ancora.»

Le baciò i capelli e la sentì tremare. La piccola stufa aveva smesso di funzionare e le poche coperte non reggevano il freddo di febbraio. «Dobbiamo davvero andare, o ti ritroverò congelata tra le mia braccia.»

Sorrise e scosse la testa, certa di un’ unica cosa. «Non può succedermi nulla tra le tue braccia, Cesare. Nulla.»



 
Prima di lasciare quelle mura decrepite e spoglie, dove ancora rimbombava l’eco dei ricordi passati, Cesare le fece indossare il suo maglione scuro, passandolo oltre la piccola testa. Le maniche erano troppo lunghe e superavano le dita delle sue mani. La riscaldò stringendole le spalle e rimase a guardare i suoi occhi assonnati, pieni di amore.

«Grazie.» gli disse, guardandolo con enorme tenerezza.

Faticò a rispondere. Faticò a dire.

«Clarissa.» sospirò, come se fosse stata la parola più pesante dell’intero universo. Perdonami, amore mio.
 
 


27  febbraio, 1945

Di quel 27 febbraio poteva ricordare ancora tutto. La mente rimaneva lucida nel ripercorrere ogni aspetto della giornata, persino i più insignificanti.

Sua nonna l’aveva sgridata così tanto da arrivare a seguirla, per la prima volta, oltre il portone del palazzo in cui vivevano e serrarle un braccio. Sapeva che non era diretta alle lezioni di cucito, benché non sapesse dove fosse diretta. L’aveva pregata di rientrate in casa; non era prudente camminare a cielo aperto in quei giorni.

Che crudele le appariva. Nei suoi capelli grigi ben raccolti, nello scialle chiuso fino al collo e negli orecchini di perla, mentre si accorgeva della guerra, soltanto ora.

Clarissa si liberò dalla stretta e corse via, sull’ eco lontano degli insulti che le rivolgeva.

Su una cosa, però, sua nonna aveva ragione. La prudenza in quei giorni doveva essere la sua unica preoccupazione. Si respirava qualcosa di diverso nell’aria, come se la fine fosse vicina.

Sebbene la guerra avesse insegnato che la fine non si presenta mai tacita e silenziosa.

Soltanto qualche giorno prima, si era sparsa la voce dell’ennesimo mitragliamento a raso in una delle vie principali, mentre gli arei delle forze anglo-americane si muovevano sopra Milano, pronti a rispondere alle offensive fasciste.
 

L’ultima volta che lo aveva visto, tre giorni prima, aveva promesso a Cesare di non tornare al sottoscala per almeno due settimane. Nel solo pronunciare quella promessa, sapeva che non l’avrebbe rispettata: due settimane erano un infinità di tempo.

 
Attraversando piazzale Maciachini notò una fila di persone intente ad entrare in una delle mense collettive, stabilite dal Comune per il razionamento dei viveri. Una coppia attirò la sua attenzione. Il braccio dell’uomo cingeva il corpo della donna. Il suo volto sembrava stanco, assente e le sue mani erano raccolte in grembo. Intorno a loro c’erano quattro bambini, di età diverse, ma non si muovevano impazientiti dalla monotonia di quell’immensa fila, non giocavano, non si agitavano. Fissavano i loro genitori, senza dire nulla. Pensò ai Moscato, a quanto fossero potenti i loro sguardi silenziosi. Parlavano un linguaggio che solo i legami famigliari sapevano tradurre. Si ripromise di raccontarglielo una volta arrivata al sottoscala.


 
Ma qualcosa andò storto.

Attese più di un’ora il tram alla fermata, fin che un signore le si avvicinò. La guardò di sott’occhi. «In che zona sei diretta?»

Clarissa glielo disse.

«E’ dismessa da mesi quella zona.» commentò apatico. «Comunque, fossi in te cambierei idea. Qui oggi non passa nemmeno una mosca.»

«Per quale motivo?»

L’uomo rise divertito. «Per quale motivo?! Questa è bella.» disse. «In guerra esiste un solo motivo. La morte, ragazza mia. La morte.» Se ne andò scuotendo la testa e parlottando tra sé.
 

Senza indugiò, decise di farlo. Percorse quattro chilometri a piedi. Quattro lunghi chilometri in cui non aveva fatto altro che pensare a dove era diretta. Se Cesare l’avesse saputo, se l’avesse saputo l’amica Francesca che al suo contrario era così tranquilla, se sua nonna l’avesse anche solo immaginato…

 
Quando arrivò al sottoscala, lo sentì. Sentì che c’era qualcosa di diverso. Lo sentì mentre attraversava le scale. Era il suo corpo, era la sua mente, che la preparavano a quanto avrebbe visto.

Era il cuore che affannava nel trovare la prima porta spalancata; erano le mani che tremavano nel non riconoscere nessuna voce;
Era la sua bocca aperta ed erano i suoi respiri a riempire l’intero sottoscala.

Vuoto.

Le inferrate delle finestre erano state rimosse con violenza. Il tavolo gettato a terra, i piatti, i ritagli di giornale, tutto giaceva in un disordine muto. Era l’incubo che prendeva vita.

Erano le sue ginocchia che cadevano a terra;

erano le sue lacrime;

erano le sue grida;

erano i suoi implori;

ed era la fine, che non si presenta mai tacita e silenziosa.
 


Al centro di quel sottoscala, improvvisamente enorme, si chiudevano gli occhi di Clarissa Marchesi. E come si sentono le foglie, in pieno autunno, così si sentiva lei. Si staccava lenta dal ramo e scivolava verso terra.

Stremata, senza forze, senza coraggio, scivolava.
 

 

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***


*Nota autrice:
Scusate il ritardo con cui pubblico questo nuovo capitolo! Spero vi possa piacere e spero vi stia piacendo anche la storia :)

Un enorme ringraziamento alle dolci anime pie che mi hanno sempre fatto sapere cosa ne pensavano, grazie di cuore..
Buona lettura!


 
 
Come d’autunno le foglie




 ~ prima parte ~



 
16.

1946

In una lunga collana d’orata, un ciondolo ovale appartenente a Clarissa si muoveva tra le mani della piccola Maria.

Clarissa le accarezzava le guance rosate e sorrideva, notando come i suoi occhi si facevano, con il passare dei giorni, sempre più simili a quelli della madre.

Gemma entrò nella stanza. «Clarissa cara, c’è quel tuo amico.»

Clarissa, si girò, guardandola disorientata. «Quale amico?»

«Quell’avvocato. Ti sta aspettando in salotto.» le disse. Quando Clarissa fece per uscire, incrociò il volto contrariato di Gemma. «Sai quanto poco mi fidi di quel ragazzo, vero?»

Clarissa annuì e appoggiò una mano sulla sua.

«E dopo l’ultima trovata che ti ha rifilato.» sbuffò Gemma. «Come se Cesare possa davvero essere…» s’interruppe e strinse più forte la mano di Clarissa, lasciandola andare solo quando ebbe la certezza che la forza d’animo nascosta in quella giovane donna, era maggiore di qualsiasi sua preoccupazione.

«Lascia che me ne occupi io.» Clarissa le baciò la guancia, per rasserenarla e raggiunse Lorenzo.

Il papion che indossava quel giorno era grigio, in perfetta tinta con le scarpe e meno appariscente di molti altri che gli aveva visto vestire. La sua visita portava le migliori intenzioni e a mostrarlo erano i suoi occhi, pentiti e felici di rivederla al contempo. Dall’ultimo loro infelice incontro erano passate settimane.

Senza scambiarsi troppe parole, per timidezza o per pudore, si sedettero e bevvero il the che Gemma aveva preparato pochi minuti prima.

«Sono sempre stato così.» disse, dopo pochi sorsi, lui. «Do fiducia cieca a tutto quello a cui, in cuor mio, so di non credere. E’ davvero strano, non posso negarlo. Ma credo di averlo sempre fatto.»

«E’ giusto tenere in considerazione ogni nuova segnalazione. E’ quello che un avvocato dovrebbe fare.»

Lorenzo sorrise. «Significa che hai già perdonato il mio comportamento?»

«Il tuo comportamento come avvocato non ha bisogno di nessun perdono. Sei la persona che più mi ha aiutato nelle mie ricerche e senza mai chiedermi nulla in cambio.» sospirò Clarissa. «e il tuo comportamento come amico… certo che l’ho già perdonato.»

Il viso di Lorenzo cambiò. «Sono felice, Clarissa. Sono davvero felice.»

«Sono felice anche io.» disse, e lo era davvero. Le sue amicizie più leali si sarebbero potute enumerare sulle dita di una mano e Lorenzo era una di quelle.

In quell’ istante entrò, dalla porta principale, il piccolo Giorgio con un pallone guastato sotto il braccio. Le sue ginocchia erano completamente ricoperte di terriccio e i suoi occhi spargevano una gioia contagiosa. Clarissa, divertita, lo richiamò a sé e gli mosse i capelli.

«Lui chi è?» chiese Giorgio a gran voce, fissando curioso l’avvocato.

«Questo signore è il mio amico Lorenzo. Va’ a stringergli la mano, come un bravo ometto.» lo incitò Clarissa che prima di farlo allontanare, pulì la sua piccola mano sul suo vestito color violetta. «Ecco, ora vai.» sorrise, incrociando lo sguardo di Lorenzo.

Giorgio gli porse la mano con innocente fierezza, senza smettere di studiare l’estraneo che aveva di fronte. «Anche mio padre aveva gli occhiali. Erano tondi come i tuoi, ma non così scuri» gli disse. «Li ho nascosti in un cassetto della mia stanza, li vuoi vedere?»

Clarissa si alzò per ritirate le tazze da the. «Giorgio ora non hai tempo, devi correre in bagno a ripulirti, prima che Gemma ti trovi in questo stato.»


Lorenzo guardò Giorgio sbuffare e saltellare verso il bagno e decise di aiutare Clarissa a ripulire la tavola. Per un attimo si chiese se insistere. Certe volte odiava quel suo sesto senso; un piccolo sensore che lo avvertiva, in cuor suo, che qualcosa non quadrava. Si stupì di sentirlo proprio in quel momento e fece il possibile per non dargli corda. Conoscendo quella ragazza sapeva che un accenno troppo diretto a ciò a cui pensava l’avrebbe fatta richiudere in un guscio. «Che bambino pieno di vitalità.» disse, solamente.

«Si.» Clarissa, sorrise. «Una piccola peste.»

«Certo non deve tenere annoiati i suoi genitori.» guardò Clarissa, aspettando una sua reazione. Alle volte bastava un leggero colorito sulle sue pallide guance, per dare certezze ai suoi dubbi. «Mi è sembrato parlasse del padre al passato, o sbaglio?» le chiese.

«Come?» una tazza minacciò di scivolare dalle mani di Clarissa, mentre la riponeva nel lavello.

«Voglio dire…» sorrise, per distendere la tensione che sembrava essersi creata. «nasconde gli occhiali che portava suo padre. E’ strano che lo faccia… insomma, o il marito di Gemma è guarito dalla miopia oppure che ragione avrebbe di tenere i suoi occhiali?» non terminò la frase.

Clarissa si schiarì la voce e avvertì vivido un formicolio. «Giorgio non è il figlio naturale di Gemma e di suo marito.» rispose, strofinandosi le dita della mano. «Ti andrebbe di andare a fare una passeggiata? Sembra ci sia una bella giornata.»

«C’è un sole meraviglioso, sì.» commentò, appoggiandosi meglio alla credenza della cucina e guardandola negli occhi. «Clarissa non ti ho infastidita con la mia curiosità, vero? Ho come l’impressione di aver chiesto qualcosa di sbagliato.»

Clarissa si sforzò di sorridere. «Non hai chiesto niente di sbagliato, Lorenzo.»

Poco dopo fu Lorenzo a rompere l’ inconsueto silenzio che si era creato. «Accetto l’invito per una passeggiata, molto volentieri. Ma prima non posso evitare di chiederti un’ ultima cosa. Già che sono qui, mi sembra impossibile trattenermi dal farlo.»
 


 
Accompagnò Lorenzo nel sottoscala, dietro sua richiesta. Esclusa la famiglia di Gemma, Lorenzo era il primo che vi entrava e, percorrendo la scalinata, Clarissa riuscì ad avvertire il peso per l’aspettativa che si era creata in lui.

«Sono l’unica a dormire qui.» disse Clarissa, accendendo le poche lampade a parete. «Anche se ogni volta mi addormento pensando a quanto sia enorme per una sola persona.»

Lorenzo, invece, rifletté su quanto fosse immensamente inadatto anche per un’ unica persona, ma non lo disse, né disse quel che provava nel pensarlo come dimora di molte più persone. Eppure il sapore del passato era impresso in ogni angolo di quelle murature, chiunque l’avrebbe avvertito, persino chi non conosceva la storia che aveva custodito per lunghi mesi.

«Ora che lo vedo,» sussurrò, come se gli risultasse persino scortese parlare ad alta voce in quel luogo. «credo di averlo sempre immaginato così.»

Camminò per la stanza, mentre Clarissa avvertiva il bisogno di uscire da lì e ritornare ai piani alti. La presenza di un estrano, per quanto quell’estraneo fosse a lei vicino, non la lasciava indifferente, come aveva sempre immaginato.

Lorenzo accarezzò un mobile su cui erano state appoggiate alcune fotografie in bianco e nero. Riconobbe Clarissa, nei suoi occhi giovani e sorridenti, in un lungo abito elegante e al suo fianco, a cingerle il corpo, un uomo a cui solo ora riusciva a dare un volto. Uno sguardo serio, come glielo aveva sempre descritto, che non guardava l’obbiettivo, ma guardava lei. Uno sguardo che pur nella sua integrità non riusciva a nascondere la lealtà per l'amore che provava per quella ragazza e per ciò entrambi facevano, all’ insaputa di tutti.

Nascosta dietro altre fotografie che ritraevano l’incanto di Clarissa, nei suoi primi anni di vita e nella sua adolescenza, trovò una fotografia; molto più piccola, molto più rovinata. Cadde dalle sue mani, quando realizzò chi rappresentava.


Si girò verso Clarissa, che lo guardava senza sospettare. «Temo dovremmo rimandare la passeggiata.» pronunciò con un tono troppo brusco, dirigendosi verso la scalinata per abbandonare il sottoscala.

«Lorenzo?» lo chiamò Clarissa, confusa, seguendo il suo passo rapido.

Tornato ai piani alti, Lorenzo raccolse la valigetta nera dalla quale non si separava mai e la sua giacca, abbandonata in una delle sedie del salotto e camminò, deciso ad andarsene.

«Mi dici cosa ti è preso?»

«Cosa mi è preso?» gridò. «Tutti quei discorsi sulla fiducia, sull’amicizia che ci lega... Sono stato in pensiero un’ intera settimana sapendo di averti ferito quando ho sospettato della sincerità di Cesare e adesso scopro che quella che non è mai stata sincera sei sempre stata tu.»

Clarissa lo guardò, senza avere la forza di replicare. Per lo meno riuscì a reggere il suo sguardo accusatorio.

«Perché non la chiami?» riprese, Lorenzo. «La cara Gemma, chiama anche lei.. scommetto che è partecipe di tutta questa menzogna. Quanto meno, abbi il coraggio di chiamarla con il suo vero nome.»

«Lorenzo, ascolta..» sospirò. I battiti del cuore accelerarono ancora prima che la mente realizzasse quanto stava accadendo.

«Tieni.» le passò la fotografia che aveva rubato dal sottoscala. «Mi hai sempre fatto credere che fossero tutti morti, come diavolo riuscivi a trovare il coraggio di fare una cosa simile?» sorrise, nervoso. «Fin dal primo giorno, mi avevi promesso di raccontarmi solo la verità.»

«Ed è quello che ho fatto.» ribatté Clarissa. Si sentì indifesa, sotto le sue accuse, pur non pentendosi di nulla. «Ma non potevo spiegarti questo.»

«Perché non potevi? Sono mai andato a raccontare qualcosa a qualcuno? Ti ho mai tradita?»

Carla, o meglio Gemma, così come riportava la sua nuova carta d’identità, si avvicinò a Lorenzo «Basta cosi!» disse, aprendo la porta dell’ingresso principale per invitarlo ad uscire. «E’ già a conoscenza di molte più cose di quelle che merita di sapere, avvocato.»

Lorenzo Silvatti la guardò. Era la stessa donna ritratta nella fotografia, con una neonata in fasce. Aveva forse qualche chilo in più e i suoi capelli erano raccolti in forma diversa, ma era pur sempre lei; così come Giorgio era lo stesso bambino dal berretto sul capo. Erano parte di un’ istantanea di gruppo, scattata nel sottoscala. L’intero gruppo dei rifugiati.

«Sa che cosa le dico?» rispose Lorenzo a Carla, guardando Clarissa per un’ ultima volta prima di uscire. «Che ha perfettamente ragione. Non merito di sprecare il mio tempo così.» Disilluso dalla lealtà di quella ragazza, lasciò la casa.


 
 
«Carla, perché l’hai mandato via?» le chiese Clarissa, infastidita.

«Perché non è con lui che devi parlare.» la guardò come mai, prima di allora. «C’è qualcosa che il tuo avvocato non potrà mai spiegarti, Clarissa. Qualcosa che Cesare mi ha chiesto di non riferirti. E così ho fatto, sperando che un giorno tornasse e ti raccontasse tutto lui.» le prese la fotografia dalle mani e la guardò con rimpianto. «Ma adesso mi sono stancata di stare ferma a guardarti soffrire, senza che tu sappia la verità su come sono andate realmente le cose.»

 
 

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***



Come d’autunno le foglie






 ~ prima parte ~





 
 
17.

24 Febbraio, 1945

«Voltatevi.» pronunciò, ancora.

L’uomo, forte delle sue convinzioni, con il respiro regolare e gli occhi fissi verso il suo carnefice, non si mosse. «Vi manca il coraggio di spararmi guardandomi dritto negli occhi?»

«Ve lo ripeto un’ ultima volta. Voltatevi e appoggiate quelle maledette mani alla nuca.»

Quella notte la brina era calata, rispetto ai giorni precedenti. I lampioni illuminavano le strade con una luce intensa, accesa. Ma non in quella strada. In quella strada i colori erano flebili e tutto sembrava riposare nel cupo silenzio. Uno sparo avrebbe tradito l’atmosfera e sarebbe echeggiato oltre i tetti dormienti, a risvegliare l’intero vicinato.

L’uomo continuò a non muoversi. Non per l’insana volontà di mostrarsi audace e nemmeno per fanatica arroganza. Non si mosse per non dare le spalle alla sua condanna; l’avrebbe guardata in faccia, l’avrebbe accolta lottando, fino all’ultimo, contro di lei e mai si sarebbe piegato per subirla inerte.

La mano del carnefice, che reggeva la pistola da interi minuti, accarezzando il grilletto tremava, per quanto era stanca. «Sapete chi sono?»


«Si, so chi siete.» rispose l’uomo, nell' immediato. «E anche voi sapete chi sono io.»

«Certo che lo so. Ho desiderato questo momento da mesi. Da mesi. E ora, finalmente, siete qui davanti a me.» di colpo, abbassò la pistola e sospirò così violentemente da sembrare di aver appena abbandonato la presa di un pesante macigno. «Abbiamo molto da dirci voi e io. Non è vero, Cesare Poggi?»
 



Gli occhi erano quelli di Clarissa, se ne accorse subito. La stessa grandezza, le stesse ciglia marcate. Ogni altra somiglianza, però, spariva, come se non esistesse nessun legame tra loro.

Entrarono in uno degli uffici sotterranei dell’ imponente Comune. Cesare si stupì della capacità propria dell’ impresario Marchesi - da tempo ufficiale Marchesi – d’ inventare bugie con naturale rapidità. Mentì ad ogni uomo in divisa che incrociarono. Mentì alle sentinelle, mentì ai soldati di pattuglia al Comune, mentì agli ufficiali del suo stesso grado. A tutti loro disse che il signore al suo fianco aveva bisogno di un rinnovo della licenza. Era notte fonda e gli uffici erano chiusi, ma nessuno si mostrò sospettoso.

O forse era semplicemente un linguaggio in codice, puramente fascista. Forse rinnovare la licenza significava sparargli un colpo in testa, nella stanza più nascosta dell’ edificio.



 
«Sedetevi.»

La stanza era piccola e poco arredata. Un' unica lampada era stata accesa. Cesare si sedette sulla sedia alla destra del tavolo, così avrebbe potuto guardare la porta e assicurarsi di ogni entrata.

Il signor Marchesi si sbottonò il colletto della giacca grigio-verde, irrorata di medaglie e riconoscenze. Buttò alcuni fogli sul tavolo e anche lui si sedette, dando le spalle alla porta.

Dopo un lungo silenzio, rise. Rise, molto nervosamente. Le rughe sul suo viso olivastro si fecero più marcate. «Ho condotto all’incirca milleduecento.. milletrecento.. interrogatori, in questa stanza. Con l’esperienza ho imparato a toccare i tasselli giusti, a incriminare il colpevole ancora prima che fosse lui a implorarmi di farlo.» si fermò e smise di ridere. «Ho ucciso.» disse, con tranquillità. «Ho ucciso tanta gente, qui dentro. Ma in tutta franchezza vi posso assicurare che, al momento, non ho la più vaga idea di come procedere. Ditemi se non vi sembra assurdo.» tornò a ridere, mentre esaminava orgoglioso le sue mani.

Cesare lo guardò, ma non rispose.

«Sono di fronte all’unico uomo che valga la pena ammazzare e non so come comportarmi.» quando si decise a interrompere le risate, si alzò per avvicinarsi ad una cassaforte scura, attaccata alla parete. Il tacchettio dei suoi stivali riempì il silenzio.

Cesare distese le braccia sul tavolo e involontariamente cercò un orologio nella stanza, senza riuscire a trovarlo.

Quando il signor Marchesi tornò a sedersi, portò con sé due bicchieri di vetro e una bottiglia di liquore, quasi vuota.

Bevve due volte dal suo, prima di riempire anche l’altro bicchiere e offrirlo a Cesare.

«Dobbiamo brindare alla vostra cattura, Marchesi?» domandò Cesare, svuotando in un sol colpo il bicchiere. Il sapore amarognolo sorprese la sua gola e la dissetò. «Ne siete orgoglioso?»

«Orgoglioso.» ripeté il padre di Clarissa. «Cosa mi dite di voi? Siete orgoglioso di aver deviato mia figlia, più di quanto quella scellerata non fosse in grado di fare da sola?»

Cesare si sistemò meglio sulla sedia e incrociò le braccia. «Non conoscete abbastanza vostra figlia, se credete sia facile deviarla.»

Bastò questa frase perché il signor Marchesi scaraventasse la bottiglia di liquore contro il muro. I pezzi si frantumarono e caddero come foglie sgualcite. «Risparmiatemi le vostre lezioncine morali Poggi e toglietevi quell’aria superiore, non lo capite che sono io ad avere il coltello dalla parte del manico?»

Il signor Marchesi inspirò l’odore di liquore che andava inebriando l’aria. Per un istante si dispiacque di averla buttata; sentirsi più ebbro lo avrebbe aiutato. Ricominciò a parlare dopo un lungo silenzio, che altro non faceva se non accrescere il senso d’ inferiorità che avvertiva davanti a quell’uomo.

Decise che era giunto il momento di fare qualcosa per scacciare quella sensazione.

«Conosco i nomi delle persone che state coprendo. Di ognuno di loro. Conosco anche il luogo in cui li state nascondendo.» disse, guardandolo. «Rispondete a questa domanda. Avete costretto mia figlia a farvi dare il sottoscala che apparteneva alla sua famiglia?»

Cesare odiava dover parlare di lei. Odiava buttarla su un tavolo di una stanza misera, che non meritava di ascoltare niente che la riguardasse. «L’unica costrizione che ho imposto a vostra figlia è stata quella di starmi lontano. Pensate l’abbia fatto?»

«Limitatevi a rispondere alle domande che vi faccio, professore.» contestò, rimarcando l’ultima parola. «Credete che non mi ricordi di voi? Chi altro immaginate vi abbia fatto cacciare da quella scuola, appena dopo aver saputo che ci avevate messo piede?» assottigliò lo sguardo. «Avete fatto in tempo a conoscere mia figlia quando insegnavate nella sua scuola?»

«Sono sicuro siate pieno di fonti che possono rispondere a questa domanda.»

«Rispondetemi voi!» gridò.

La serietà di Cesare rimase impassibile; sembrava una di quelle statue antiche, nei grandi musei, che ti osservano dall’alto e ad ogni tuo passo non distolgono lo sguardo valoroso. «No. Non l’ho mai incontrata allora.» Mentì.

Quasi sollevato, il signor Marchesi si lasciò sfuggire un sospiro. «Come l’avete trascinata a seguire i vostri malsani piani? Come diavolo è possibile che mia figlia combatta dalla parte del nemico?»

«Vostra figlia non combatte da nessuna parte, non è un soldato di guerra.»

Rise, agitato. «L’avete fatto di nuovo. Mi sputate una frase, con la convinzione di conoscere mia figlia meglio di me.»

«Perché continuate a parlarmi di lei? Guardatemi, sono davanti a voi. Avete un’ arma in mano e fuori da quella porta ci sono decide di persone che pagherebbero per avermi tra le mani. Avete già tutte le informazioni che vi potrei dare: sapete dove si trova il sottoscala, sapete chi c’è dentro. E allora, cosa diavolo stiamo facendo? Cosa state aspettando? Che cosa vi ferma?»

«Che cosa mi ferma?!» alzandosi, sbatté energicamente le mani sul tavolo. «Perché voi? Perché mia figlia ha scelto voi e non me?» avvicinò la pistola alla tempia di Cesare e sentì pulsare il sangue nelle vene, così forte da fargli scoppiare la testa. La caricò.

«E’ questo che vi da tanto fastidio?» quando si voltò a guardarlo, il padre di Clarissa allontanò la pistola dal suo viso. Avrebbe potuto ucciderlo mentre i suoi occhi non lo fissavano, ma così sarebbe stato difficile anche solo puntargli contro una pistola. «Dite la verità, non vi ha preoccupato nemmeno per un secondo pensare che quello che stava facendo, poteva ucciderla in qualsiasi momento. A voi importava solo sapere che con la sua scelta, lei rinnegava suo padre.»

«State zitto!»

Cesare si alzò. Il padre di Clarissa era alto poco più di lei, il che lo rendeva decisamente più basso rispetto a Cesare. «Starò zitto non appena mi sparerete, non temete. Prima, però, ditemi cosa credete di fare con le informazioni che avete in mano. Se le passate alla brigate nere, ci metteranno poche ore ad arrivare anche al nome di Clarissa, lo sapete vero?»

L’impresario Marchesi camminò per la stanza, affannando alla ricerca di un respiro d’aria sana. In quei momenti affrontava una guerra che vedeva schierate le sue più grandi forze. Sua figlia o la Repubblica Sociale in cui tanto credeva? Chiuse gli occhi e vide il viso di sua moglie. Pallido come quello di Clarissa.

Appoggiò la pistola al tavolo e si sedette. Dopo molti minuti, si sedette anche Cesare.

«Avete idea di cosa sono queste, voi che sapete tutto?» chiese Marchesi, indicando i fogli riversi davanti a loro.

Cesare nemmeno li considerò, preferì continuare a fissare la faccia di chi aveva davanti. Scosse la testa.

«Sono le carte di richiesta d’asilo per un collegio di suore, in Svizzera. Ci spedirò Clarissa sotto falso nome, tra pochi giorni.»


Cesare abbandonò il suo controllo per un solo istante. Strinse forte i pungi sotto il tavolo e ascoltò morire qualcosa dentro di sé. Come d’impatto, capì che sarebbe successo. Non l’avrebbe più rivista, non avrebbe più avvertito le sue labbra leggere sulla pelle, le dita sottili che stringevano i lembi delle sue giacche, quei capelli. Respirò e sentì il profumo di quei capelli.

«Mi date la parola che non le accadrà niente?» domandò, tornando in se. La voce suonava ancora più cupa.

Il signor Marchesi lo guardò con disprezzo. «Vi fidate della mia parola adesso?»

«Siete suo padre.» sospirò, tornando a mostrare il suo solito distacco. «Immagino che volerla al sicuro sia l’unica cosa che ci accomuna.» commentò.


La sua risposta tardò ad arrivare. Non c’era fretta, nel limbo in cui si trovavano. Erano lì per decidere della sorte di un’ unica persona e avrebbero proceduto secondo i loro tempi. Mentre tutto fuori correva, laggiù non c’era fretta.

«Avete la mia parola, Poggi.»

Con scrupolo e sincerità, due mani nemiche si strinsero energicamente.
 
 


Erano passate ore e se non avessero sentito dei passi muoversi nelle stanze dei piani più alti, probabilmente sarebbero rimasti in quello stato di incoscienza per ancora molto tempo. L’odore del liquore si era impossessato del loro olfatto tanto da sparire completamente. La pistola era immobile sul tavolo.

Quando il signor Marchesi aprì del tutto gli occhi, di soprassalto, fu la prima cosa che cercò con lo sguardo. Poi guardò Cesare e forse si stupì di averlo ancora davanti. I suoi occhi chiari erano severi e tormentati. Le maniche della camicia scoprivano gli avambracci di un lavoratore abile nel carico di grandi pesi. Quasi insoliti per un professore. Immaginò sua figlia tra quelle braccia e il suo stomaco bruciò.

«Vi rimangono cinque giorni.» biascicò, schiarendosi la voce subito dopo.

«Cinque giorni per cosa?» chiese, Cesare, asciugandosi il sudore dietro il collo.

«Perché vi trovino. Il Comando Provinciale della GNR * ha ricevuto parecchie denunce sospette sulla zona in cui si trova il sottoscala. Sono stato avvertito perché alcuni di loro sapevano che avevo vissuto lì. Mi è bastato fare poche chiamate per scoprire i dettagli.» disse, il padre di Clarissa. «Le SS hanno insistito per intervenire personalmente, molto probabilmente vogliono..»

«Si, so cosa vogliono fare.» lo interruppe Cesare.
Assicurarsi che la maggior parte degli ebrei italiani finisse in campi di prigionia era diventato un loro bisogno vitale. Era necessario ristabilire il terrore, soprattutto dopo la notizia della liberazione del campo di Auschwitz, mentre l’esercito tedesco perdeva potere con estrema velocità.

Lo guardò confuso. «Che cos’è questo, Marchesi, un gioco malsano? Mi fate capire che potrei ancora salvarli, ma mi uccidete per non farmelo fare?»

«No, non vi ucciderò io. Anzi vi dirò di più, vi lascerò andare molto presto.» Il signor Marchesi sorrise, accecando gli occhi già stanchi. Sembrava aver perso ogni barlume di lucidità. «Ho bisogno che convinciate mia figlia a stare lontana dal sottoscala, almeno fino a quando verrà ripulito. Quando poi accadrà e lei si rassegnerà ad avervi perso, non avrò problemi a convincerla a seguirmi in Svizzera.»

Il sorriso di Cesare era amaro e meno convinto di quello di Marchesi. La conosceva, la conosceva troppo bene.

«Le parlerò, ma non basterà ad assicurarsi che non torni al sottoscala.» commentò, deciso.

«Che cosa dovrei fare, allora?» chiese, preso dalla disperazione, il padre di Clarissa.

Solo ora Cesare si accorse di odiarlo. Era per lui qualcosa di nuovo, l’odio. Lo teneva a dedita distanza per paura di come avrebbe reagito il suo corpo di fronte ad un sentimento così alienante.

In quel momento, però, si lasciò pervadere dal profondo odio che sentiva verso di lui; un uomo misero che pretendeva di proteggere la figlia, quando mai lo aveva fatto. A lui doveva affidare Clarissa. Non aveva altra scelta.


«Dopo che le avrò parlato, chiudetela in camera e buttate la chiave… inventatevi qualcosa, Cristo! Qualsiasi cosa che non la faccia uscire da casa vostra. E’ questo l’unico modo, l’unico
 


 
Nella stanza, la lampadina esauriva la sua forza e concedeva luce ad intermittenza.

«Poggi…»

Cesare lo guardò. Erano entrambi stremati, ma nessuno dei due avrebbe ceduto per primo. C’era troppo orgoglio in un’ unica stanza.

«Quello che voglio è che lei vi sappia tutti morti.» sospirò, il signor Marchesi. «Ti ho dato una preziosa informazione, sta a te usarla a tuo favore. Non mi importa come farai. Non mi importa dove finirai, né dove finiranno quelli che nascondi. La mia guerra finisce qui. Mi basta sapere che Clarissa non opponga resistenza a trasferirsi in Svizzera, almeno fino alla fine di tutto. Poi si vedrà.»

 
La mia guerra finisce qui, aveva detto. Cesare ripeté quelle parole nella mente e pensò che la sua, di guerra, aveva un’ ultima battaglia da portare a termine.

Sapeva che qualsiasi uomo con un briciolo di amor proprio avrebbe usato a suo favore le informazioni di Marchesi. Si sarebbe protetto, scappando al Nord magari, raggiungendo i compagni partigiani in vista dell’ ormai prossima resa delle forze italo-tedesche.

Ma non lui.

Dietro le sue spalle c’erano otto persone, nascoste in un sottoscala, denunciato alla GNR che per nulla al mondo avrebbe accettato di trovarlo vuoto.

C’era una ragazza dai capelli castani e il pallore infantile che avrebbe dovuto guardare in faccia un’ultima volta, sforzandosi di non mostrare la minima esitazione per non farla sospettare.
 
No, scappare non era da lui.



Prese la sua decisione, senza dire nulla al signor Marchesi e abbandonanó l’edificio del Comune, sorpreso da un sole mattutino. Camminò per le strade di Milano, godendo di ogni singolo passo, come non faceva da anni. Accorgendosi che non c’era bisogno di versare nessuna goccia, perché stava già piangendo.

Piangeva sul volto asciutto e la mascella serrata. Piangeva, senza sprecare lacrime. 
 
 
 
 



 
*La Guardia Nazionale Repubblicana (GNR) fu una forza armata istituita in Italia dal governo fascista, l'8 dicembre 1943, con compiti di polizia interna e militare.

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