Un Campo Di Tulipani Rossi

di Relie Diadamat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Panta Rei ***
Capitolo 2: *** Un uomo distrutto ***



Capitolo 1
*** Panta Rei ***


Un Campo Di Tulipani Rossi
 
I.Panta Rei 
 
Entrava pochissima luce nelle stanze.
La casa era un labirinto di confusione. Chiunque vi fosse entrato in quel momento, magari l’avrebbe scambiata per una casa colpita da un urgano, tanto era elevato il disordine nelle camere.
Nel soggiorno, c’era una tivù accesa, tenuta a muto. Le immagini si muovevano e non emettevano suono, era come… avere un’idea di ciò che succedesse al mondo, senza volerne dare realmente importanza.
Tutto scorre. Niente rimane sempre uguale per più di un secondo.
Niente vive in eterno.
Adagiate al pavimento c’erano delle siringhe, sottili quanto basta per un’iniezione di Morfina. Quella giornaliera, quella che era ormai diventata indispensabile.
Con la mano teneva tremante una siringa piena, poggiandola sul suo braccio. In quell’esatto momento, cercava come ogni volta di tirarsi indietro, ma non lo faceva mai. Premeva la punta metallica nella sua pelle, poi faceva pressione sul pistone della siringa, iniettandosi quella roba nelle vene.
L’effetto era immediato.
Tutti i pensieri scemavano e rimaneva solo uno stranissimo senso di benessere. Un calore incontrollato invadeva ogni centimetro del suo corpo. Era sempre così che si sentiva quando la sostanza entrava dentro di lui; il peggio era il dopo. Un improvviso senso di nausea lo attanagliava ed era costretto a correre in bagno, per quanto gli fosse possibile e ficcare la testa nel water, per cacciare tutto fuori.
Era disgustoso, ma ne era ormai dipendente.
Cosa l’aveva portato a quello stato? Forse il motivo per cui la maggior parte delle persone inizia a drogarsi o ad autodistruggersi, con qualsiasi mezzo a sua conoscenza. La sete di successo e la mancata notorietà.
Una vita che crolla per un nulla di reale. Una vita, così dipendente da altre vite che si distrugge da sola. Eppure lui, una vita al suo fianco ce l’aveva ed era bellissima.
 
Oliver, nonostante la tossicodipendenza, era un bell’uomo di appena venticinque anni. I suoi occhi erano spruzzi d’acqua cristallina dell’Atlantico ed i suoi capelli erano castani, quanto un legno pregiato, rigorosamente corti e perennemente arruffati.
Non era particolarmente muscoloso, ma il suo fisico era attraente. La sua pelle non era né particolarmente chiara, né eccessivamente scura. Aveva una comunissima carnagione, tipica di New York city.
Le sue mani erano strumenti divini, donategli da chiunque esistesse lassù per suonare armoniosamente qualsiasi tipo di melodia. Affusolate e delicate, le mani di Oliver incantavano. La musica che ne producevano ipnotizzava.
Oliver Castro sognava il successo, la fama, la notorietà. Desiderava arrivare in alto ed invece era caduto in basso. Troppo in basso.
All’età di diciassette anni già si esibiva nei pub, suonando il piano. Tutti coloro che assistevano alle sue performance erano strabiliati dalla bravura di quel giovane moro, dagli occhi dell’Atlantico. Le sue mani scorrevano sul piano, con la stessa semplicità e la stessa armonia della pioggia che cade dal cielo.
La sua sembrava una vita tutta in salita, piena di nuove soddisfazioni. Era giovane e inesperto e tutto ciò che sognava era essere il migliore. Vedeva i visi della gente persi nelle sue note e ne rimaneva soddisfatto. Chi suonava, si ripeteva a quel tempo, aveva un modo alternativo di comunicare col mondo.
Eppure nessuno aveva mai creduto fermamente in lui, nessuno a parte Laura Ferrari. Sedicenne piena di vita e in continua sfida con la vita, era riuscita ad entrare nel cuore del giovane pianista con spaventosa facilità.
I genitori provenivano dall’Italia, eppure Laura, non aveva nulla d’italiano a parte il nome e l’amore verso la cucina. Quella ragazza, era una bellezza senza nazione, appartenente interamente a se stessa.
Gli occhi erano d’un innaturale color topazio imperiale, un misto tra il caramello e l’ambra. Oliver ne rimase incantato, mentre lei, iniziò a perdersi nella sua musica.
I lisci capelli corvini le arrivavano più o meno al fondo schiena ed odoravano di pesca. Perennemente.
Oliver la conobbe una sera, nel pub dove suonava ogni Venerdì. Aveva i capelli sciolti e del rossetto scarlatto le tingeva le labbra. Dio, se era bella, pensò appena la vide.
La bellezza di Laura lo convinse nell’immediato che non esistessero altre perfezioni dopo quella. Perfino la musica di Mozart stonava alla sua visione.
Il loro amore sbocciò come un fiore a primavera. Puro, candido e profumato. Un amore fatto di tenerezza e di passione. Dopo l’estate però, com’è giusto che sia arriva sempre l’inverno. Ed arrivò anche per loro.
Come Eraclito aveva affermato, tutto scorre. Nulla, nella vita, rimane immutato. È l’eterno supplizio di ogni amore che crede e s’illude di essere infinito quando invece, esistono solo infiniti mutamenti.
Erano passati cinque anni da quando Laura Ferrari era uscita definitivamente dalla sua vita, varcando la soglia della casa che avevano scelto insieme.
La dipendenza di Oliver per la droga era aumentata vertiginosamente, portandolo ad una caduta lenta e dolorosa. Il giovane Castro pensava di aver rotto ogni legname col passato, ma fino a quando si lascia in sospeso qualcosa, il passato non potrà mai divenire passato.
 
I rumori nella sua casa, come ogni altro giorno, erano nulli anche quel lunedì mattina. Se un tempo la sua vita era dipendente dalla musica, adesso era dipendente dal silenzio.
Un’altra iniezione lo avrebbe aiutato a superare la giornata. C’erano momenti in cui il suo umore cambiava drasticamente. La tristezza era troppo intensa e la rabbia… troppo forte. Necessitava di quella sostanza che, se in un primo momento poteva essere una medicina, per tutto il resto del tempo si rivelava un dolore atroce.
Era come cadere da un’altezza di duemila metri, dimenticando di portare con te il paracadute.
La sua mano destra tremava, la testa gli doleva così forte anche se erano solo le nove del mattino. Si scoprì il braccio, ormai segnato dalle continue e puntuali iniezioni. Poggiò delicatamente la punta di metallo della siringa, piena di quella roba, sulla sua pelle sudata. Stava per fare pressione nella pelle, quando il campanello suonò. Oliver rimase immobile, impietrito da quel suono.
Non riceveva visite da così tanto tempo, che si era anche dimenticato dell’esistenza di un campanello alla sua porta.
Aspettò che il suono si ripeté prima di convincersi ad alzarsi, nascondendo il più in fretta possibile la siringa piena, ricoprendola con dei cuscini. Al terzo trillo del campanello, Oliver aprì la porta, mentre tutto il suo corpo s’irrigidì sul posto.
«Dio, Oliver… Cosa sei diventato.»
Il giovane Castro rimase per una decina di secondi a scrutare l’immagine familiare che gli si era disegnata di fronte. La conosceva benissimo, mai avrebbe potuto dimenticarsela.
La donna aveva un fisico snello, forse anche troppo, con forme non troppo eccessive né tanto vistose. Indossava una camicia di seta bianca, coperta da un giubbotto in pelle beige. Le gambe erano avvolte in blu jeans. I capelli erano stati raccolti malamente in una coda bionda.
«Eleonora…» biascicò l’uomo, rendendosi conto che non era sotto effetto della morfina.
Quando le labbra rosee di lei s’incurvarono in un leggero sorriso, Oliver sentì qualcosa aggrapparsi alla sua gamba. Abbassò lo sguardo e ritrovò due occhi di topazio imperiale a fissarlo, sorridenti «Ciao papà!»
L’uomo, credendo di trovarsi ancora sotto l’effetto di una qualsiasi sostanza stupefacente scosse il capo, ridendo appena.
La piccola, dai lunghi capelli castani, sembrò prenderlo come un saluto amichevole, quindi lo imitò.
«Avrei bisogno di parlarti, Oliver.» disse pacata la bionda, cogliendo lo sguardo smarrito dell’uomo.
 
La donna avanzò nell’abitazione con passo cauto, attenta a non calpestare nulla in tutto quel disordine. Ma non era un’impresa facile.
Mentre Eleonora e Oliver si accomodarono in soggiorno, la bambina sfuggì dalla loro vista andando a curiosare per la casa.
«Cos’è questa storia?!» la incalzò l’uomo, cadendo a peso sul divano.
La donna, invece di sedersi, continuò a girare su e giù, cercando magari il coraggio mancato «Mi piacerebbe tanto che fosse solo una storia uscita da un libro qualsiasi, credimi, ma non lo è. Quella bambina è davvero tua figlia.»
«Io non ho figli.» rispose secco Oliver, volendo liquidare quanto prima la questione.
Eleonora scosse lievemente il capo, trattenendo quanto più fiato poté, prima di continuare a parlare «Qualche settimana dopo averti lasciato, Laura ha scoperto di essere incinta, ma non ha mai voluto contattarti… sai…»
L’oceano profondo che popolava gli occhi dell’uomo sembrò agitarsi di colpo, ferito e mutato da un vento gelido ed impetuoso. Aveva una figlia, ma la sua ex gliel’aveva tenuta nascosta per tutto quel tempo. Non sapeva esattamente cosa provare, sapeva soltanto che, in un certo senso, faceva male, peggio della morfina.
«Laura è molto malata e… non è in grado di badare alla piccola.» la voce della donna s’era incupita d’un tratto, mentre arrestò il suo continuo su e giù per il salotto.
«Quindi ha pensato bene di affidarla a me.» presumete l’uomo, con fare sbrigativo e seccato.
Eleonora dissentì immediata «No. Tu sei l’ultima persona alla quale mia sorella vorrebbe affidare la sua bambina. È stata una mia idea.»
Oliver storse il volto, sbottando infastidito «Bell’idea di merda!»
«Quella bambina è tua figlia, Oliver! Non puoi abbandonarla al suo destino!» sputò fuori lei, indicando col braccio sinistro il corridoio.
L’uomo si avvicinò minaccioso alla donna, fissandola con due occhi spaventosi, iniettati di rabbia «Ti ho già detto che non ho figli.»
Sarebbero andati avanti a scannarsi ancora per un po’ se un suono non avesse richiamato la loro attenzione.
Delle note.
Qualcuno stava suonando il vecchio pianoforte che Oliver aveva accantonato in un angolo della casa. Le sue mani non toccavano quei tasti d’avorio da almeno cinque anni ed adesso note discordanti tra loro riecheggiavano in quella casa vuota.
«Visto…» valutò la bionda voltandosi verso l’uomo «E’ proprio tua figlia.»
Il moro alzò un sopracciglio stizzito, avvicinandosi quanto più possibile per sembrare minaccioso «Senti Eleonora, questa storia è durata già abbastanza per i miei gusti, pretendo che entrambe abbandoniate casa mia, all’istante
La bionda lo sfidò, sostenendo il suo sguardo senza battere ciglio «Lei resterà.» decretò autoritaria, quando l’ennesima nota stonata arrivò alle loro orecchie.
Oliver parve perdere improvvisamente l’interesse per il battibecco con la donna, puntandolo unicamente verso quel rumore sgradevole. Serrò i pugni e la mascella, sentendo le pupille vibrare febbrilmente dalla rabbia. Eleonora sentì il cuore perdere un battito quando vide l’uomo avanzare in preda alla collera verso la bambina. Lo seguì, seriamente preoccupata per una sua possibile brusca reazione.
La piccola stava ancora smanettando sul piano forte quando il moro con un gesto stizzito lo richiuse e per poco non le mozzava anche una mano.
«Voglio che ti porti via questa marmocchia, immediatamente!» tuonò irato, lasciando uno sguardo così intimidatorio alla piccola, da farla lacrimare.
Oliver non sarebbe stato così cruente in circostanze normali, ma era sotto l’effetto di quella roba e tutti i suoi sentimenti erano amplificati, senza il suo volere. Più sentiva il suono di quel pianoforte più un forte dolore gli si riaccendeva nel petto e lo portava a stizzirsi, se lo si accostava al ricordo di Laura poi, ne si otteneva un effetto devastante.
«No.» insistette la zia della bambina, dimostrando grande coraggio nel fronteggiare un uomo strafatto – anche se lei non ne era a conoscenza – mantenendo un tono austero «Ti prenderai cura di lei, dimostrando per la prima volta in tutta la tua vita di essere un uomo! Guardati, sei ridotto ad uno straccio ed è inutile che cerchi di opporti perché so che ormai non hai neppure una vita sociale nella quale riversare tutte le tue frustrazioni. Sembri un morto che cammina, Oliver Castro, allora prenditi le tue responsabilità!»
Il silenzio regnò per un minuto, mentre il viso paonazzo della donna ritornò al suo colorito naturale. La piccola scrutava con i suoi occhioni di topazio imperiale tutta la scena, riuscendo tutta via a trattenere le lacrime e rigettarle dentro.
Oliver soppesò con lo sguardo la situazione con circoscrizione, per poi ricadere a peso morto su una poltrona, ricolma di fogli stracciati e vestiti sporchi, poi scoppiò in una risata lasciando attonita la bionda.
«Una Ferrari che sfida Oliver Castro, sembra essere un vizio di famiglia il vostro!»
L’uomo si portò una mano al viso per asciugarsi gli occhi inumiditi, cercando di calmare il fragoroso sghignazzo.
Eleonora scosse il capo con una smorfia di delusione sul volto «Puoi essere meglio di così, Oliver.» per poi voltarsi, prendendo per mano la piccola.
Era chiaro che Oliver non fosse nel suo momento di miglior lucidità e che molto probabilmente tutta la stima e la fiducia che aveva riposto in quell’uomo si fossero rivelate mal riposte.
«Aspetta.» la richiamò l’uomo, diventato serio tutto d’un tratto «Mi prenderò cura della bambinetta finché la madre non si rimetterà in forme; dopodiché voglio che sparisca dalla mia vita.» ribadì, inchiodando i suoi occhi d’Atlantico in quelli fondenti della donna.
Eleonora si fermò nel centro del corridoio, soppesando mentalmente le parole dell’uomo. Lo guardò con un viso privo d’espressione, non lasciando intendere ad Oliver cosa stesse pensando. Qualche secondo dopo, puntò le sue iridi scure in quelle ambrate della piccola.
La bambina la guardava, supplicandole riparo con i suoi occhioni grandi; le mani avvinghiate alle dita della donna.
Si domandò per la prima volta da quando quell’idea era nata nella sua mente, se fosse davvero la cosa giusta da fare. Oliver aveva un passato difficile alle spalle e chiunque ne fosse a conoscenza non si sognerebbe mai di dargli in affido una piccola vita umana.
La bambina era stata abituata alle cure amorevoli della madre e a quelle della zia e, anche se in un primo luogo rivedere il padre l’aveva entusiasmata, adesso si ritrovava dianzi agli occhi un perfetto sconosciuto con modi bruschi ed atteggiamenti insoliti.
Forse pretendo troppo da entrambi? S’interrogò la bionda, mordendosi distrattamente l’interno labbra.
«Non osare a trattarmela male, Castro. Giuro sul mio onore che se solo la farai piangere anche mezza volta, io prenderò il primo volo dall’Italia e verrò qui a strangolarti.» puntò un dito contro l’uomo con fare intimidatorio, per poi abbassarsi all’altezza della piccola, proiettando le sue iridi scure e in quelle magnifiche della bimba.
La guardava con la stessa espressione di un soldato mandato in guerra e teneva le mani lungo i fianchi mostrando impotenza.
Eleonora poggiò le sue mani delicate sulle spalle esili della piccola, ricoperte da boccoli castani. Le sue labbra piccole e sottili erano già serrate tra loro, mentre la pelle tendava tristemente al rosso.
«Andrà tutto bene, non hai motivo di piangere.» la consolò, strofinandole le mani contro le spalle con fare materno «La mamma e la zia torneranno presto a prenderti, te lo prometto.» le sorrise affettuosamente, cercando con dolcemente di tranquillizzarla.
La bimbetta tirò su col naso imbronciando il muso «Ma lui è cattivo!» protestò, incurante di essere udita dall’uomo.
Oliver, che l’aveva udita fin troppo bene, roteò gli occhi al cielo, assumendo un’espressione seccata. Perché le cose più assurde capitavano solo a lui? Continuava ininterrottamente a chiedersi.
Eleonora rise intenerita della schiettezza della piccola, scostandole delle ciocche dalla fronte, portandole dietro l’orecchio «Ma no… il tuo papà è solo… particolare. Però ti vuole bene.»
L’uomo storse il viso rilasciando un verso infastidito, un attimo prima che la donna lo guardasse con aria di rimprovero.
La piccola tirò su col naso, convincendosi che le parole della zia fossero vere, ma senza staccarsi da lei.
«Adesso devo andare.» Eleonora si staccò dolcemente dalla presa della piccola, carezzandole i capelli «Fa’ la brava.»
Gli occhi d’azzurro Atlantico si posarono su zia e nipote e un qualcosa all’interno dell’uomo si smosse. Erano così unite, così legate, che sarebbe stato impensabile credere che Eleonora potesse anche solo pensare di lasciarla nelle sue mani.
Non seppe dire perché sentì gli occhi pizzare… probabilmente era la roba in circolazione, si convinse.
Quando accompagnò la giovane Ferrari alla porta, la vide ansiosa, forse non ancora sicura di ciò che stava facendo.
«Come si chiama?»
Le parole uscirono come un vento sordo, quasi impercettibile, dalle labbra sottili dell’uomo, contornate da una barba folta ed inguardabile.
Il marrone degli occhi di Eleonora si concentrò sul viso dell’uomo, cadendo in quei magnifici occhi magnetici. Quella era la prima domanda sensata che quell’uomo le avesse fatto da quando erano entrate in casa sua.
Eleonora aveva fiducia in lui. Si era sempre fidata di Oliver… ma quella era un’altra storia.
«Marleen.» rispose, alzando pigramente un angolo della bocca in un mezzo sorriso «Marleen Ferrari.»
In un certo senso le fece male dirglielo, sputargli in faccia anche quella cruda realtà: Laura non aveva mai parlato realmente alla sua bambina del padre, intenta a voler cancellare ogni traccia di Oliver dalla loro vita.
Ma ancora di più le fece male ciò che vide: lo sguardo cristallino e limpido dell’uomo s’incupì nuovamente, abbassandosi inesorabilmente sulle sue ciabatte consumate, per poi rialzarsi dopo un secondo e incatenarsi in quello della bionda.
«Te la tratterò bene, Eleonora.»
«Sì.» asserì col capo, mentre strinse nervosamente il manico della sua borsa con la mano sudata «So che lo farai.»
Si salutarono timidamente e senza contatto. Un’alzata di mano ed un ‘ciao’ appena accennato.
Oliver la vide incamminarsi e fermare un taxi nell’angolo della strada. Eleonora non si era voltata, almeno lui non l’aveva vista.
Sospirò, decidendo finalmente di ritornare dentro e chiudere a chiave la porta di casa sua.
 
Eleonora si sistemò sui sedili posteriori di un taxi americano, portandosi una ciocca ribelle, caduta dalla stretta dell’elastico, dietro l’orecchio. Dopo un minuto sentì il cellulare vibrare nella borsa e frugò con la mano per trovarlo. Si portò il telefonino all’orecchio, rispondendo senza neanche vedere chi la chiamasse.
«Pronto?»
«Ciao sorellina, come va lì in Italia?» la voce cristallina quanto decisa di Laura risuonò nel suo orecchio, facendola rabbrividire per un istante.
«B-benissimo. E… in Australia come va?» Eleonora tentò quanto più possibile di mantenere la calma, cercando di conferire un tono più pacato possibile.
«E’ dura, ma conto di ritornare a casa fra un mese. La piccola come sta?»
«Bene. Ora… è in bagno, ma sono sicura che sarà felice di sapere che hai chiamato.»
Non era brava a bluffare, ma quel giorno pregò di sembrare quanto meno credibile, almeno in minima parte.
«So che è in ottime mani.» la voce di Laura ebbe un’inflessione di tenerezza «Ti voglio bene, Eleonora.»
La bionda guardò fuori dal finestrino, il cellulare ancora contro il suo orecchio. Alzò un angolo della bocca, accennando un mezzo sorriso. Si era cacciata in una bruttissima situazione e per quanto il senno le ripetesse che stava sbagliando, non si sentì in grado di stoppare quella falsa.
«Anch’io.» rispose solamente, per poi sentire riagganciare.
 
*
Oliver si guardò intorno, nel casino più totale della sua casa. La piccola Marleen se ne stava rannicchiata a terra, tra una rivista di qualche mese addietro e canotte sudate. I piccoli occhietti ambrati erano puntati in un punto morto del pavimento, quasi fosse ipnotizzata.
L’uomo si avvicinò per comprendere al meglio la situazione e sentì il cuore irrigidirsi nel petto quando vide Marleen prendere tra le mani la siringa piena.
«Chi ti ha dato il permesso di prenderla?!» Oliver si avvicinò a lei come una furia, strappandole bruscamente l’oggetto dalla mano «Non ti permettere mai più!»
La piccola si sentì intimorita dall’irruenza e dall’indelicatezza dell’uomo nei suoi confronti, tanto che per un secondo i suoi occhi si inumidirono, poi però presero a brillare in modo battagliero, mentre le sopracciglia si crucciarono a mo’ di rimprovero «Non dovresti lasciare le cose per casa, la mamma dice sempre di non farlo.»
«Tua madre diceva tante cose!» rispose di rimando, gettando immediato quell’oggetto nel cestino più vicino, sentendolo risuonare al contatto con la siringa, dal momento che era vuoto.
Per una frazione di secondo fu l’unico suono che si udì nella stanza.
«La mamma non parla mai di te.» Marleen aveva alzato lo sguardo innocente verso il padre, cercando solo di zittirlo per puerile orgoglio.
Fu come ricevere un colpo basso per Oliver. Lui, che le uniche cose che gli rimanevano di Laura erano solo i ricordi… e da quel momento anche quella bambina dai capelli mossi e dagli occhi ambrati, che parlava con uno strano accento italiano un inglese incerto.
«Non lo farei neanche io.» ammise a denti stretti, per poi voltare lo sguardo verso il corridoio «Ti mostro la tua stanza.»
La piccola volse la testa di lato con fare interrogativo, per poi porgere ingenuamente la domanda «Perché?»
C’era della luce che colpiva la finestra, lasciata distrattamente socchiusa, mentre lieve colpiva il viso di Marleen. Gli occhi, quelli ambrati, rischiarati dalla fievole luce del mattino, sembravano gli stessi di cui tempo addietro Oliver si era innamorato, gli occhi della sua Laura.
Deglutì a vuoto, stringendo d’istinto la mano destra in un pugno «Perché è così.» liquidò categorico, per poi avviarsi verso il corridoio «Muoviti o dormirai per terra.»

 
** Angolo Autrice**
E' la mia prima storia orginale, quindi sinceramente non so cosa ne verrà fuori. L'avevo scritta per un contest, ma non sono riuscita a terminarla in tempo per la scadenza. Ad ogni modo, ringrazio chiunque abbia passato parte del proprio tempo a leggerla e ringrazio chiunque vorrà seguirla o commentarla. A me non farebbe altro che piacere :)

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Capitolo 2
*** Un uomo distrutto ***


II. Un uomo distrutto
 


La notte arriva silenziosa alle porte del mondo. Scende piano, adombrando ogni cosa.
Anche quella sera, a new York, scese la notte; picchiò il volto barbuto di Oliver, sdraiato sul suo letto. L’uomo chiuse gli occhi, mentre una stella tremò nel cielo nero della Grande Mela.
Nell’altra stanza, quella in fondo al corridoio, dormiva una bambina dalle onde castane e gli occhi di topazio imperiale: Marleen. Sua figlia.
Com’era potuto succedere? Ringhiò a se stesso, comprendendo di scivolare nel baratro dei ricordi: non si era neanche fatto, quella sera!
 
 


8 anni prima…
 
 
 
«Clark mi ha dato buca, maledetto!»
Il volto arrabbiato del paffuto omone del locale, Grayson Acosta, era diventato un pomodoro in piena maturazione, crucciato come un cane famelico. «Quell’imbecille! Mi ha rovinato! Dove lo trovo, adesso, un pianista alle sei della sera?!»
«Ehi, Gray, no problem».
La voce festosa, sempre in vena di burla di Axel, s’intromise nella scena, insieme alla zazzera bionda del ragazzo. Lasciò due pacche sulle spalle di Grayson, prima di circondargliele con un braccio. «C’è qui il tuo amico Axel».
L’altro lo guardò in cagnesco. «Un Acosta non ha amici deficienti, Williams».
Gli occhi verdi del biondo brillarono nella luce soffusa del locale, in quel grigio venerdì sera. «Oh, andiamo Gray! Non puoi avercela con me, ancora per quella storia.»
«Non ce l’ho con te per quella storia, Axel. Che sei un idiota è un dato di fatto».
«Ad ogni modo, my friend, io ho la soluzione al tuo problema.»
Per la prima volta, Grayson gettò un’occhiata al ragazzino dagli occhi d’Atlantico, silenzioso e mansueto, al fianco di Axel.
«Oliver Castro», fece nota il biondo, posando la propria mano fredda sulla spalla del diciassettenne. «Il mago del pianoforte!»
«Axel, io…»
«Un prodigio di razza newyorkese», continuò il giovane, zittendolo con una pacca, sorridendo sornione a Grayson. «L’unica pecca è la modestia».
«Uhm.» Acosta lo scrutò bene, quasi stesse valutando l’autenticità di un quadro, guardandolo diffidente. «Spero che tu suoni meglio di come ti vesti».
Oliver annuì incerto, mezzo interdetto dall’insulto celato, poi sentì il braccio del suo amico circondargli le spalle. «Ci si può fidare di Oliver Castro», gli disse fiero, spostando i suoi occhi sul ragazzo. «Io gli affiderei la mia vita».
E fu così che, convinto dalle parole di un giovane incosciente, Grayson Acosta distolse lo sguardo da Oliver Castro, liquidandolo con un gesto distratto della mano, che per lui valeva come una stipulazione di un contratto.
 
 
 
 
«Sei sicuro che sappia suonare quel coso?»
Grayson, il solito diffidente, aveva consentito ad Oliver Castro di armeggiare col pianoforte del locale, osservandolo dal bancone con un cipiglio scettico.
«Calma, Grayson, no problem», recitò il biondo, dopo essersi scolato la sua birra tedesca. «Sta familiarizzando».
«A me, sembra uno che ha visto per la prima volta una tastiera d’avorio».
Oliver si era seduto al pianoforte, osservandolo in silenzio. Con le mani, aveva sfiorato delicato i tasti bianchi, quasi carezzandoli. Proprio come aveva detto Axel, Oliver stava facendo amicizia con lo strumento. Chiunque sano di mente lo avrebbe allontanato da lì.
Il biondo, seduto malamente sul suo sgabello, aveva inchiodato i suoi occhi magnetici sul ragazzo, portandosi lentamente la bottiglia di vetro verde alla bocca. «Aspetta solo…»
La mano fredda e affusolata di Oliver pigiò un tasto d’avorio, dando il via ad una catena di note ipnotiche, quasi ammaliatrici. Scivolava con facilità da una parte all’altra della testiera, quasi gli riuscisse naturale.
In quel momento, il mondo si fermò; c’erano solo loro: il ragazzo dagli occhi d’Atlantico e quel pianoforte di un locale notturno di New York.
Axel sorrise orgoglioso, dietro il vetro della sua bottiglia. Grayson impiegò qualche secondo per chiudere la bocca e concentrarsi sul suo lavoro.
 
 
 
 
2015, ore 2.40
 
 
 
La porta della sua stanza si spalancò, senza svegliarlo. Oliver era miracolosamente sprofondato tra le braccia di Morfeo, serrando con le palpebre due fette d’oceano.
Dei passi delicati s’incamminarono, forse incerti, accanto al materasso; i piedi nudi rimasero ancorati al pavimento, mentre una manina sudata afferrò il lembo della t-shirt dell’uomo, scuotendola.
Ricevette solo un ringhio come risposta, ma la piccola non si scompose: c’erano dei dannati mostri sotto il suo lettino, maledizione!
Così, Marleen si morse il labbro inferiore, scuotendo ancora il padre.
Quando gli occhi di Oliver si riaprirono, gli ci volle un po’ per far combaciare alla figura esile e spettinata – e fastidiosa -, quella di “piccola-marmocchia-appena-conosciuta: figlia”.
Finse di non essersi spaventato, rimanendo con la pancia ed il torace schiacciati contro il materasso, brontolando da dietro la stoffa bianca del suo cuscino: «Che vuoi?»
«Ci sono dei mostri nella mia stanza!»
Oliver sollevò un sopracciglio, guardandola come se fosse pazza. «Hai toccato ancora quelle siringhe?», volle informarsi.
«No!», lo rimproverò imbronciata la piccola, incrociando le braccia al petto. «Ci sono i mostri», rimarcò ancora, sperando si essere ascoltata.
L’altro la guardò interdetto per qualche secondo, per poi richiudere gli occhi e voltarsi dall’altro lato. «Allora sparisci».
La bimba, offesa, batté un piede a terra, senza ricevere attenzioni.
Oliver sentì Morfeo cingerlo con le sue braccia, fin quando non avvertì il materasso riabbassarsi, e la rete metallica fare rumore. Aprì di scatto gli occhi azzurri, sentendo la schiena di Marleen contro la sua.
«Cosa diamine stai facendo?», chiese accigliato.
«La mamma dice i mostri non attaccano mai il lettone!», spiegò secca la piccola, avvinghiandosi al cuscino dell’uomo, tirandoselo a sé.
Oliver sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Tua madre non ti dice mai che non si dorme nel letto di uno sconosciuto?»
«Non sei uno sconosciuto», lo rimbeccò lei, tirandosi le coperte di lino dalla sua parte. «Sei il mio papà.».
Il moro rimase azzittito, fermo nella sua posizione. «Va bene», sbuffò, «ma solo per questa volta».
Ci fu un attimo di silenzio, poi il padre si tirò a sé il lenzuolo.
 
 
 


New York… Quanto l’era mancata!
Respirò a pieni polmoni l’aria mattutina americana, ad occhi chiusi.
Ci era praticamente cresciuta in quella parte del mondo e ritrovarvisi era stato come aprire un vecchio diario delle medie.
Aveva preso la sua decisione, anche se titubante, e non poteva – o meglio, voleva – tirarsi indietro.
Eleonora aveva raccolto i suoi capelli dorati in una coda sbrigativa, difendendosi dal caldo afoso di New York.
Prendere il bus era stato anche più divertente: quei cinque anni lontana dalla sua America le avevano chiuso lo spirito newyorkese nello stomaco e, man mano, si stava risvegliando.
Scese alla terza fermata – seguita da una decina di persone -, per poi incamminarsi alla sua destra.
L’era mancata. New York le era mancata tanto.
«Non ci posso credere!».
Gli occhi scuri della donna brillarono come due diamanti alla vista della figura snella della bionda, entrata nel pub.
Eleonora aveva deciso di farsi un giro per la città, ritrovandosi, quasi distrattamente, accanto al locale di suo zio, quello che le aveva segnato la sua giovane vita…
«Eleonora!», trillò la donna sulla cinquantina, bloccandola nel suo abbraccio. «Sembrano secoli!»
La giovane rise lievemente, ricambiando goffa la stretta dell’altra. «Ciao, zia».
Anika Acosta – o meglio, Allen – era una donnona dalle forme di una brocca di vetro, abbellita da un cespuglio color carota e due occhi castani.
Si scostò dall’abbraccio, posando una mano callosa sulla guancia della nipote. «Sei diventata una donna stupenda».
Eleonora sorrise impacciata, arrossendo un po’, prima che la voce burbera dello zio la richiamasse: «La piccola Ferrari», l’appello, andandole vicino. «E’ quello riaverti qui.»
«Già».
«Dopo Axel, la rottura tra Oliver e Laura…»
«Sono cambiate molte cose, zio.»
Stavolta fu il turno di Grayson Acosta di abbassare lo sguardo e la voce. «Già.»
«Basta perdersi in questi discorsi!», s’intromise la donna, sventolando una mano nell’aria. «Piuttosto… Come sta la mia stellina Marleen?»
«Bene!» squittì la bionda, presa alla sprovvista, per poi deviare subito il discorso su un altro argomento. «Avete sentito la mamma?»
«Sì», rispose Anika, «mia sorella mi ha parlato della partenza di Laura, ma non mi aveva parlato della tua visita».
«Beh, sono tornata», disse decisa, lasciando scivolare le braccia lungo i fianchi. «Ho deciso di ricominciare da New York.»
Un sorriso mal contenuto allungò vistosamente le labbra sottili della zia, mentre un lampo di gioia balenò negli occhi di Grayson.
«Ma è stupendo, ‘Nora!», continuò la donna, dietro il suo cespuglio arancio. «Questa… Questa sì, che è una bella sorpresa!».
Lo zio, Grayson Acosta, si staccò dal bancone del suo pub, quasi consolato da quella notizia: erano successe troppe cose in quegli ultimi sei anni; sapere sua nipote di nuovo a casa – perché per Grayson era quella casa sua -, lo rendeva felice.
Due fossette comparvero sulle guance della bionda, mentre raggiante – e metà timida – spiegava ai suoi zii: «Pensavo di cominciare in un ristornante italiano… Ma so che è difficile».
«Sciocchezze!», mise lì la coniuge Acosta. «Non c’è niente che una Allen non possa fare!»
«Ferrari, zia…»
Anika, sorella minore della bella Melaine Allen, era un urgano; bassina e rotonda, sua zia aveva un carattere forte e colorato, tanto da volere mantenere il proprio cognome, dopo il matrimonio.
«Marleen? E’ rimasta dalla nonna?»
«No.» rispose sincera lei, con un sorriso incerto. «E’… col padre».
Il sorriso svanì dal viso dei due coniugi, andando a sostituirsi con facce pallide e preoccupate.
«Cosa?!»
Fu il vecchio Acosta a parlare per primo, perentorio con la sua barba grigia. «Tu… Hai affidato la piccola ad Oliver?!»
La bionda abbassò gli occhi scuri sul pavimento in mattonelle, stringendo forte la cinghia della sua borsa. «E’ suo padre», si giustificò lei, alzando lo sguardo.
«No», la rimproverò l’uomo, dandole le spalle. «E’ un uomo distrutto. Solo quello».











 
Angolo Autrice:
Salve!
L'estate mi ha dato alla testa, così ho deciso di riprendere questa mia originale tra le mani. Spero possa piacervi e vi devo davvero un grazie di cuore per aver creduto in questa storia, sin dal primo capitolo.
Vi lascio, sperando che anche questo capitolo sia di vostro gradimento e che mi lascerete i vostri pareri.
Grazie ancora.
Alla prossima!

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