Anarchia: La Notte del Giudizio di edoardo811 (/viewuser.php?uid=779434)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kevin ***
Capitolo 2: *** Thia, Marianne e Dominick ***
Capitolo 3: *** Preparativi ***
Capitolo 4: *** Lo Sfogo ***
Capitolo 5: *** Problemi ***
Capitolo 6: *** Troy ***
Capitolo 7: *** Purificazioni ***
Capitolo 8: *** François/Kevin e Mary ***
Capitolo 9: *** Primo incontro ***
Capitolo 10: *** Amici e nemici ***
Capitolo 1 *** Kevin ***
America 2025
La disoccupazione è ridotta al 3%, la
criminalità è quasi inesistente e ogni anno
sempre meno persone vivono sotto la
soglia di povertà.
TUTTO
QUESTO GRAZIE A:
LO
SFOGO
(ANARCHIA)
"Benedetta
l’America, una nazione risorta. Benedetti i nuovi padri
fondatori, che ci hanno
permesso di poter sfogare e purificare le nostre anime."
Capitolo
I
Kevin
21 Marzo, ore 16:38
Tempo rimanente allo sfogo annuale: 2 ore e 22
minuti.
Kevin
camminava a testa bassa,
mani in tasca, cuffie nelle orecchie e la testa tra le nuvole. Schivava
tutte
le persone indaffarate e frettolose che incontrava sul marciapiede,
mentre
dalla strada giungevano schiamazzi, colpi di clacson e imprecazioni,
dovuti al
disagio e alla fretta che quel giorno causava negli animi di tutti,
tutti gli
anni. Tutti tranne lui e i pochi altri nelle sue condizioni.
Passando
accanto alla vetrina di
un negozio di elettronica, alzò impercettibilmente la testa,
volgendo lo
sguardo verso la supertecnologica televisione a schermo piatto esposta,
dove un
giornalista nel suo studio, stava dicendo: «Il
traffico cittadino si sta facendo più intenso,in vista dello
Sfogo di questa
notte. Se non siete interessati a parteciparvi, vi consigliamo di
tornarvene
nelle vostre case e al più presto. Se invece deciderete di
liberare la
"Bestia", allora vi auguriamo felice purificazione.»
Kevin scosse impercettibilmente la testa
in segno di disappunto sentendo quei falsi auguri e raccomandazioni,
poi
riprese il suo cammino. Si risistemò l’auricolare,
che si era tolto per poter
sentire quanto il giornalista stava dicendo.
Era un ragazzo di diciassette anni, il
tipico adolescente americano. Capelli corti e castani, tirati
all’insù, ma
nascosti sotto un berretto a visiera. Occhi marroni nocciola
e caldi, un po’ di peluria sul viso e
abiti semplici, felpa e pantaloni da ginnastica, entrambi grigi scuri.
Non era
molto grosso, ma compensava con una statura leggermente al di sopra
della
media. Con la borsa a tracolla e l’aria di uno che non vedeva
l’ora di
potersene tornare finalmente a casa sua, per buttarsi nel letto e
dormire fino
a nuovo ordine, sembrava essere uno studente esausto di ritorno da
scuola, cosa
che tra l’altro era vera. Era stato trattenuto per aver avuto
un
"piccolo" battibecco con un suo compagno di classe, George Nicols.
Piccolo battibecco nel senso che si erano azzuffati pesantemente, come
capitava
spesso. Il piccolo livido che aveva sotto l’occhio ne era
dimostrazione. Non
ricordava nemmeno il motivo del loro litigio, a dire la
verità. Forse qualcosa
sulle loro madri, o sorelle, chi lo sa. Erano dapprima volate parole,
poi
insulti, libri e per concludere cazzotti. La
loro adorabile professoressa li aveva fatti
separare sbraitando all’impazzata, poi li aveva trascinati
nell’aula di
detenzione, dove erano rimasti fino alle quattro del pomeriggio, tre
ore prima
dello Sfogo, perciò quando di tempo da perdere in punizione decisamente non ce n’era. Solo
che la
suddetta era in macchina, quindi tornarsene a casa al calduccio e al
sicuro per
lei non era un problema. Il simpaticone di George invece aveva i suoi
amichetti
leccaculo che lo aspettavano, con i loro SUV lussuosi, regali dei loro
genitori
ultraricchi. Kevin, quale lo sfigato che era, non aveva nulla, se non
le
proprie gambe. I suoi genitori non erano disponibili in quel momento e
abitava
dall’altra parte della città. I pullman avevano
smesso di passare dalle tre,
perciò non aveva molta scelta. Sospirando rassegnato, si era
messo le cuffie,
sparandosi la musica rock dei Rise
Against a tutto volume nelle orecchie, aveva infilato la
borsa a tracolla e
si era incamminato di buona leva. Dopo quaranta minuti, forse era a
metà
strada. Gli costò molto trattenere imprecazioni a tutto
spiano.
Raggiunse una delle numerose vie
principali, piena zeppa di traffico, negozi, locali di vario genere e
uno
schermo piatto gigante, piazzato sopra un alto edificio che, con la
coda di
altre costruzioni di cui era costituito, faceva da spartiacque tra due
strade.
Lo schermo rimase nero e spento per un breve attimo mentre precorreva
quella
strada, poi si accese all’improvviso e un uomo, con i capelli
bianchi, corti e
radi e un volto piuttosto segnato dall’età, si
posizionò davanti all’obiettivo
della telecamera. Sull’angolo in basso a destra era riportato
in rosso il nome
del suddetto: Donald
Talbot.
Era chiaramente in uno studio
televisivo, ad un’intervista trasmessa in diretta .
Kevin lo sentì esordire, rivolto a tutti
i cittadini che in quel momento potevano guardarlo e sentirlo: «Mi
chiamo Donald Talbot. Il nostro regime fu votato undici anni or
sono. In risposta all’epidemia criminale che opprimeva questa
nazione, nacque
"Lo Sfogo Annuale, per gestire al meglio...»
Il ragazzo fece una smorfia e alzò il
volume della musica, per smettere di sentire quella trafila che ormai
conosceva
a memoria e che vedeva tutti gli anni. Lo Sfogo, un evento annuale
realizzato
per permettere a tutti i criminali di potersi, per l’appunto,
sfogare e
liberare da tutto ciò che li opprime. Stuprando, rubando,
uccidendo. Così
facendo, la criminalità si sarebbe ridotta drasticamente, in
quanto i criminali
avrebbero atteso quel momento per sprigionare la loro furia e non
avrebbero
fatto niente altro nel corso dell’anno. Infatti, da come
dicevano i reperti, la
criminalità era praticamente inesistente e la disoccupazione
era ridotta a
cifre insignificanti. Il tutto ovviamente portava enormi benefici alle
casse
dello Stato.
Quello
di uccidere o sfogarsi in generale durante
quella sera era inoltre considerato un buon modo per "purificare la
propria anima". In base a cosa si affermava questo, ancora non lo aveva
capito. Cosa c’è di purificante
nell’uccidere? Al massimo l’anima dovrebbe
macchiarsi ulteriormente, non il contrario.
Ma Kevin sapeva qual’era la
realtà
celata dietro allo Sfogo. Era stato un uomo, Carmelo, a farglielo
capire,
grazie a dei video di protesta che aveva lanciato in rete due anni
prima. Quella
notte, non era fatta per motivi come la riduzione della
criminalità, la
disoccupazione o la purificazione. Tutto ruotava intorno ai soldi.
Durante
quella notte, le maggiori vittime chi erano? I ricchi, che se ne
stavano
tranquillamente nelle loro case, protetti da strettissimi e
costosissimi
sistemi di sicurezza? No, certo che no.
Le maggiori vittime erano i poveri, che
non avevano i soldi per difendersi, magari comprando armi o sistemi di
sicurezza.
Erano i barboni, i mendicanti, i malati, i disoccupati. Tutte persone
che
intralciavano l’economia del paese e che venendo eliminate,
smettevano di
intralciarla di conseguenza. Per forza che non c’erano
più disoccupati,
morivano quasi tutti ogni anno.
A Kevin quella cosa causava enorme
ribrezzo. Senza contare che lui stesso apparteneva alla categoria delle
persone
agiate, che non correvano alcun rischio. I suoi genitori infatti erano
benestanti e sempre indaffarati, ragion per cui non erano andati e
prenderlo a
scuola.
Un’altra cosa che gli faceva salire la
bile, era il fatto che i nobili fossero fissati a loro volta con lo
Sfogo, in
particolare con la storia della purificazione delle anime. Loro stessi
approfittavano di quella sera per macchiarsi le mani con degli omicidi.
Ma non
lo facevano scendendo in strada durante quella notte. Troppo rischioso.
Pagavano delle bande di teppisti per rapire i poveracci da uccidere e
portarglieli, cosicché potessero purificarsi senza troppa
fatica. Oppure andavano
negli ospedali e reclutavano persone malate e morenti, promettendo loro
in
cambio vitalizi per le loro famiglie. Aveva anche sentito parlare di
alcune
aste, nelle quali i lotti erano le vittime che le bande rapivano.
Disgustoso.
L’unica e piccola nota positiva in tutto
ciò era che per lo meno i suoi genitori, anche se
benestanti, non erano fissati
con quella boiata della purificazione e la notte dello Sfogo se ne
stavano
tutti e tre, era figlio unico, al sicuro in casa loro.
Sentì una folata d’aria fredda
e si
strinse nelle spalle, per scaldarsi un po’.
Abbassò il berretto a visiera, così
da nascondere gli occhi marroni da sguardi sgraditi e a testa bassa
affrettò il
passo. Stava seriamente cominciando a stancarsi di quel viaggio di
ritorno. Ma
quanto cavolo abitava lontano? I suoi piedi gli stavano chiedendo
pietà. Che
bello avere i genitori ricchi che non ti possono mai aiutare
perché troppo
impegnati. Davvero, uno spasso. Alzò ulteriormente il volume
della musica e
sprofondò con la testa nel colletto della felpa, per
riparasi meglio dagli
spifferi.
«Spero che questa notte passi in
fretta...» brontolò.
Svicolò in una viuzza secondaria e si
allontanò dal caos delle strade principali. Pessima idea. Si
ritrovò davanti
uno di quei poveracci che approfittavano della vigilia dello Sfogo per
guadagnarsi due soldi vendendo armi varie. Era un uomo di colore,
vestito con
abiti sgualciti.
«Ehi, nella notte dello Sfogo non puoi
difenderti a pugni!» stava dicendo alle persone frettolose
che gli camminavano
accanto.
«Ti serve protezione, amico!»
disse ad
un uomo che gli passò vicino.
«Massì,
dai, difenditi a cazzotti, bravo!» gridò quando
quell’uomo lo ignorò e tirò
dritto.
Kevin gli passò accanto cercando di non
guardarlo, ma fu tutto inutile. L’uomo gli si parò
davanti e cercò di
incrociare il suo sguardo, fallendo. «Ehi, ragazzo!
E’ pericoloso sta sera,
vuoi un arma? Uzi? M9? M1911? Magari
un fucile a pompa?»
Kevin lo ignorò e gli girò
intorno, al
che l’uomo si accigliò per davvero.
«Bene, allora fatti ammazzare anche te!»
Non
credo
pensò Kevin.
Andò avanti per un altro breve tratto
poi vide qualcosa che non lo lasciò del tutto indifferente.
Era un gruppo di ragazzi, radunati
intorno a delle moto da cross e un furgone beige. Tutti quanti avevano
il volto
coperto, o da della pittura di guerra o da delle maschere o da entrambe
le
cose. Ce n’erano di tutti i tipi. Maschere di teschi,
diavoli, demonietti,
marionette, anche la maschera degli Anonymus. Per quanto riguarda
quelli con la
pittura di guerra, si potevano trovare con il volto completamente
bianco, nero
e con ghirigori vari, tipo ghigni cattivi, fiamme, finte cicatrici...
Era chiaramente
una di quelle bande criminali che la notte dello Sfogo andava a rapire
i
poveretti da portare alle aste o ai nobili che volevano purificarsi. Da
come si
conciavano, sembravano prendere davvero sul serio quella sera. Tutti
quanti
parlottavano tra loro e non fecero caso a Kevin. Tutti tranne uno, che
aveva
indosso una maschera bianca, da marionetta, con la scritta "GOD",
Dio, sulla fronte. Il suddetto fissò Kevin per un breve
attimo, poi lo salutò
con un rapido cenno delle dita. Il ragazzo fece di tutto per non
guardarlo e
ignorarlo e tirò dritto. Senti il sangue gelarsi nelle vene
davanti a quei tizi
e fu grato di avere una famiglia benestante che gli permetteva di avere
un
rifugio sicuro. Si sentì in colpa per tutti quei poveretti
che invece si
sarebbero trovati in completa balia di quei pazzoidi.
Camminò per un altro breve tratto, poi
un fuoristrada nero lo affiancò. Kevin non lo
sentì arrivare, visto che aveva
le cuffie. Si accorse della sua presenza solamente quando
spostò lo sguardo a
sinistra. Vide il veicolo nero procedere a velocità
contenuta, per restare al
suo passo. Inarcò un sopracciglio guardandolo e si
fermò. La macchina arrestò
la sua marcia a sua volta, restandogli accanto. Chiunque vi fosse al
suo
interno, a quanto pare, voleva lui.
Il
finestrino oscurato del sedile del lato passeggero si
abbassò lentamente, rivelando
un volto noto, che gli rivolgeva contro un sogghigno sghembo, beffardo
e
provocatorio. Non ci mise molto a riconoscerlo.
«Nicols.» disse scontroso,
storgendo il
naso. «Che cavolo vuoi?»
«Vendetta.» fu la risposta del
ragazzo,
un attimo prima che le portiere posteriori si aprissero e
fuoriuscissero i suoi
amici gorilla, armati di mazze da baseball. Kevin non riuscì
a fare nulla per
difendersi. Fu colpito alle ginocchia e alla testa con le mazze e poi fu il buio.
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Capitolo 2 *** Thia, Marianne e Dominick ***
Capitolo
II
Thia, Marianne
& Dominick
Ore 17:02
Tempo rimanente allo sfogo
annuale: 1 ora e 58 minuti.
La
porta d’ingresso di un piccolo appartamento si
aprì e una ragazza sulla ventina
sgusciò al suo interno. «Sono tornata,
Mary!»
La
voce della donna che aveva chiamato, giunse da un’altra
stanza, il tono
morbido, caldo e rassicurante, come sempre, questa volta anche con una
punta di
ironia: «Thia, eccoti finalmente! Mancano due ore allo Sfogo,
cominciavo a
temere che volessi farvi parte!»
Thia
sorrise mentre si toglieva il cappotto marrone e lo appendeva al gancio
subito
a destra nell’ingresso, rimanendo con indosso una maglietta
bianca e dei jeans.
«Ti sarebbe piaciuto, vero? Se fossi rimasta fuori e fatta
ammazzare!»
«Non
sai quanto! Peccato, vorrà dire che spererò per
l’anno prossimo!» fu la
risposta dal tono divertito di Mary.
«Beh,
puoi sempre uccidermi tu, tanto durante lo Sfogo si può fare
tutto!» esclamò
lei di rimando.
«Mh...sì,
hai ragione, ci penserò su!» convenne Mary, il
tono sempre allegro.
Thia
ridacchiò divertita da quello scambio di battute, poi
percorse il breve
corridoio dal pavimento di legno, ornato da un simpatico tappeto color
verde
vomito. Le pareti gialle del corridoio erano ricoperte da mensole con
sopra i
più svariati soprammobili e fotografie appese.
C’era così tanta roba che non si
vedeva quasi più nessuno spiraglio di muro libero.
La
ragazza arrivò fino alla fine del corridoio, ma prima di
svoltare a destra ed
entrare nel salotto, dove si trovava Mary, si fermò ad
osservare una delle
tante fotografie appese. Raffigurava lei, da bambina, una decina di
anni prima,
insieme ad un altro bambino e due adulti, una donna ed un uomo, seduti
in riva
ad un fiume. Tutti e quattro sorridevano felici di fronte
all’obiettivo della
fotocamera.
Per
prima cosa esaminò sé stessa. Non era cambiata
molto, nel tempo. Aveva sempre i
capelli color oro e corti, gli occhi azzurri e cristallini, come lo
specchio di
un lago, la carnagione leggermente abbronzata, gli zigomi delicati, il
naso
piccolo e appuntito e le labbra rosee e sottili. Non era una che in
genere se
la tirava, ma era una ragazza piuttosto carina. Senza contare che
adesso era
molto slanciata e aveva delle belle gambe, lisce e morbide, con le
giuste
curve. L’unico difetto era il suo petto, che non strabordava
proprio, ma poteva
anche passarci sopra. Nessuna è perfetta. Beh, nessuna
tranne Mary.
Ammirò
la foto a lungo, facendo vagare lo sguardo da lei, al bambino identico
a lei,
ma con i capelli castani e più lunghi, e ai due adulti, dai
quali aveva
ereditato dall’una i capelli biondi, dall’altro gli
occhi azzurri, che,
paradossalmente, erano i geni più deboli.
Si
morse un labbro e avvicinò una mano tremante alla foto, per
poi farvi
combaciare sopra il palmo. Abbassò la testa e chiuse gli
occhi, rassegnata,
triste e nostalgica. Era una cosa che faceva da diversi anni, nella
vigilia
dello Sfogo.
Quando
riuscì a risollevarsi, spostò lo sguardo su una
fotografia di Mary. La
raffigurava diversi anni prima, il giorno del suo matrimonio. Era
più giovane
di cinque o sei anni, ma nemmeno lei era cambiata di molto. Era
bellissima.
Aveva i capelli neri, lunghi e lucenti, che ricadevano sulle sue spalle
come
una cascata. Gli occhi di un verde smeraldo, il colore più
raro e bello che
potesse esserci per gli occhi. Perfino i suoi occhi cristallini erano
insignificanti rispetto ai suoi. Il viso era molto bello, gli zigomi
delicati,
che però non le davano un aria fragile, come quella di Thia,
bensì una molto
più forte. Ed era vero. Mary era la donna più
forte che avesse mai conosciuto.
E
poi, beh...era molto più prosperosa di lei e le curve delle
sue gambe e fianchi
sì che erano belle. Nella foto era in abito da sposa, che la
rendeva ancora più
meravigliosa, abbracciata ad un altrettanto bell’uomo,
vestito in smoking.
Aveva i capelli corti e castani, una lieve traccia di barba,
né troppa, né
troppa poca e occhi azzurri e limpidi, come quelli di Thia. Entrambi
sorridevano all’obbiettivo e nei loro occhi si poteva
cogliere anche a distanza
di un chilometro l’amore che provavano reciprocamente e la
loro felicità.
Thia
riuscì a sorridere vedendo quella foto. Un sorriso triste,
ma pur sempre un
sorriso.
«Ci
sei?» la voce di Mary la riportò alla
realtà.
Thia
trasalì, poi scosse la testa per allontanare la nostalgia
che provava nel
vedere quelle foto e si voltò per entrare nella sala.
Era
una stanza squadrata e piuttosto piccola, con due finestre sulla parete
opposta, che davano sulla strada. Era composta da mobili vari, scaffali
con
altre cianfrusaglie, un divano nero con davanti un tavolino da
caffè e la
televisione, messa su una cassettiera. Un altro tappeto di quel
bellissimo
verde vomito adornava il parquet. Subito alla sua sinistra, separata
dalla sala
da un muretto, vi era la cucina, nella quale Mary stava smanettando con
coltelli vari.
«Ehi,
allora? Come va?» la salutò Mary sollevando un
coltello, con ancora attaccati i
residui della verdura cruda che stava tagliando.
«Beh,
il mio direttore è uno stronzo e oggi le molestie al lavoro
hanno superato ogni
record...»
Thia
lavorava come cameriera in un bordello, dove un sacco di pervertiti
arrapati la
toccavano e corteggiavano a loro modo. Quel giorno il locale aveva
aperto di
pomeriggio in quanto di sera non poteva farlo, visto che ci sarebbe
stato lo
Sfogo. Cioè, se il direttore avrebbe voluto ritrovarsi tutte
le ballerine con
l’interno della coscia sfondato e la gola tagliata, avrebbe
potuto anche aprire
la sera. Per fortuna non era idiota a quei livelli, anche se poco ci
mancava,
visto che obbligava Thia, anche se era una semplice cameriera e non una
ballerina, a vestirsi come una puttana e l’aveva fatta
lavorare anche la
vigilia dello Sfogo.
La
risata cristallina di Mary intanto riempì la stanza,
contagiando Thia e
facendola sorridere. «Il solito, insomma!»
«Già.»
convenne Thia. «Tu invece? Com’è
andata?»
Mary
si strinse nelle spalle. «Il solito anche per me. Ho
rifiutato qualche milione
di inviti a cena e protezione da parte di colleghi e
dirigenti...»
Questa
volta fu Thia a ridacchiare. Mary lavorava come impiegata in
un’azienda e anche
lei veniva puntata da molti uomini, che in vista dello Sfogo le avevano
chiesto
se volesse passare la notte al sicuro a casa loro, che, tradotto,
significava
scoparsela. A differenza sua, aveva lavorato solo fino a mezzogiorno.
«Sai...potresti
accettare qualche invito, ogni tanto...magari sposarti qualche ricco
beota a
cui fregare un po’ di soldi...» disse scherzosa
andando a sedersi sul divano.
Anche se comunque non scherzava del tutto. Un po’ di soldi
extra non avrebbero
guastato a loro due.
Ma
quando vide Mary abbassare la testa, incupirsi all’improvviso
e il suo sorriso
svanire, realizzò quanto stupida fosse stata
quell’affermazione. Il matrimonio
per lei era un tasto molto dolente. Ogni volta che lo accennava, anche
solo per
scherzo, come in quel caso, Mary aveva sempre una reazione molto simile
a
quella, se non identica.
Si
portò una mano davanti alla bocca e cercò subito
di riparare al danno, parlando
mortificata: «Scusa...non...intendevo...»
Mary
alzò una mano e la zittì, poi
risollevò la testa. Espirò e riuscì a
riacquistare il sorriso, anche se a Thia sembrò molto
forzato. «Tranquilla...e
comunque...no, non mi va di sposarmi qualche ricco beota. Anche
perché io poi
mi ritroverei con una palla di marito e compilare le carte del divorzio
è una
bella rottura di scatole. E poi non ti aspettare che condivida i miei e
i suoi
averi con te...»
«Ehi!»
sbottò Thia, anche se non era realmente offesa.
Mary
ridacchiò di nuovo e si rimise a sminuzzare la verdura. Thia
si risollevò
parecchio vedendola di nuovo ridere. Per fortuna il momento buio della
donna
era durato poco. Sì, era veramente forte. Un carisma duro e
temprato, che
teneva nascosto sotto quei bei sorrisi gentili.
Thia
andò a sedersi sul divano e accese la televisione. Si mise a
fare zapping tra
decine di servizi televisivi riguardanti lo Sfogo e le precauzioni da
prendere.
«La
situazione fuori com’è?»
interrogò di nuovo Mary.
Thia
si strinse nelle spalle. «Come in ogni vigilia dello Sfogo.
C’è un mucchio di
traffico e gente che cammina indaffarata per strada. Alcuni stanno
innalzando
barricate di fortuna intorno a porte e finestre, altri vendono armi per
strada...ho anche visto un gruppo di quei pazzi truccati e
mascherati...mi
hanno dato i brividi...»
«Mh,
capisco...»
Thia
annuì e si posizionò meglio sul divano.
***
Ore 17:34
Tempo rimanente allo sfogo
annuale: 1 ora e 26 minuti.
«Ti
prego, non puoi farlo per davvero!» implorò una
ragazza con lunghi capelli
rossi, strattonando per la manica della giacca di pelle nera un ragazzo
dieci
centimetri più alto di lei, con i capelli castani e
arruffati.
Questo
si divincolò dalla sua presa digrignando i denti.
«Sì invece! E lo farò!»
Il
ragazzo aprì con rabbia una porta ed entrò nella
camera da letto di suo zio,
seguito a ruota dalla ragazza con le lacrime agli occhi, che cercava in
tutti i
modi di farlo ragionare. Puntò all’armadio e lo
aprì, mostrando diverse giacche
da uomo appese al suo interno e diversi vestiti piegati e adagiati
sotto di
esse. Spostò un paio di maglioni e trovò quello
che cercava, una scatola da
scarpe. La prese e la portò sul lettone, dove ve
l’adagiò, continuando ad
ignorare la rossa. La aprì con lentezza, quasi come se il
contenuto lo preoccupasse,
cosa non del tutto falsa. Una volta scoperchiata, ne rivelò
in contenuto. Una
pesante rivoltella con l’impugnatura marrone e la canna
grigia scura, una .44 Magnum.
Tirò
indietro il cane e fece scorrere di lato il caricatore a tamburo,
vuoto. Prese
i proiettili, riposti a casaccio dentro la scatola e
cominciò a riempirlo, con
mano molto tremante ed incerta. Era la prima volta che maneggiava in
quel modo
la pistola dello zio.
«Dom,
ti prego, non puoi...» stava ancora cercando di dire la
ragazza, per poi venire
interrotta bruscamente da lui: «Smettila Hester! Ho deciso,
fine della storia!»
«Ma
non pensi a me?!» domandò lei disperata, mentre le
lacrime le rigavano il
volto. «Io ti amo, Dom! Non puoi uscire durante lo Sfogo, ti
farai ammazzare!»
Dom
rimase in silenzio, cupo in volto, mentre finiva di caricare la pistola
e si
metteva una generosa quantità di proiettili nelle tasche
della giacca.
«Dom...»
cercò di farlo ragionare lei, fallendo. Il ragazzo si
voltò verso di lei,
furibondo. «Tu non puoi capire! Nessuno può!
Voglio farlo, fine della storia!
Dovresti appoggiarmi, non il contrario!»
«Come?!
Come posso appoggiarti in questa follia!? Ti stai praticamente
suicidando!»
esclamò lei, con voce rotta dall’emozione. Lo
abbracciò e affondò il volto
sulla sua spalla, inzuppandolo di lacrime. «Ti prego, ti
prego, ti
scongiuro...non puoi farlo...non lasciarmi...ti amo...»
Dom
sospirò e posò la pistola sul letto, poi
ricambiò l’abbraccio. Avvolse le
braccia intorno alla fidanzata e cominciò ad accarezzarle la
fulgida chioma di
capelli rossi. Per un attimo si sentì assuefatto da
quell’abbraccio e dal dolce
profumo dei capelli di Hester. Stava quasi per dimenticarsi tutto e
restare con
lei, ma poi si ricompose. Non poteva restare lì. Era da mesi
che aspettava lo
Sfogo, non poteva certo tirarsi indietro e aspettare l’anno
successivo. Afferrò
la ragazza per le braccia e la allontanò da lui. Si
fissarono per un breve
momento. Occhi verdi di lei contro quelli marroni di lui. La ragazza
aveva
un’aria sconvolta. Il suo bel viso era deturpato dalle
lacrime, dal rossore e
la sua bocca era contorta in un’espressione disperata, per
via di ciò che il
suo amato aveva deciso di fare. E purtroppo sapeva meglio di chiunque
altro che
quando Dominick Power si metteva in testa qualcosa, nessuno, nemmeno
lei,
poteva farlo desistere.
«Hester...piccola...lo
so che per te è dura, ma devi fidarti di me. Domani mattina,
alle sette, sarò sano
e salvo sotto casa tua e ti porterò ovunque tu vorrai.
Saremo di nuovo solo più
io, te...» le strinse le mani e se le avvicinò al
petto. «...e il nostro amore.»
Avvicinò
il volto a quello della ragazza, per unire le sue labbra a quelle di
lei in uno
dei loro stupendi baci pieni di dolcezza, ma la ragazza si ritrasse e
si liberò
dalla sua presa. «No!»
«Cosa?»
domandò Dominick sorpreso, mentre lei si alzava in piedi.
«Se
ritieni questa idiozia più importante di me, del nostro
rapporto, mi dispiace
ma...non può continuare tra noi.» disse
indietreggiando, avvicinandosi alla
porta.
Questa
volta fu lui a cercare di farla ragionare.
«Hester...»
«NO!»
urlò lei, sporgendosi in avanti.
Dominick
si portò l’indice davanti alla bocca.
«Non urlare! Sveglierai mio zio!»
«BENE!
SPERO CHE SI SVEGLI! ALMENO DOVRAI RENDERE CONTO ANCHE A
LUI!» poi Hester si
premette le mani sulle tempie e scrollò convulsivamente la
testa, per poi ricomporsi
lentamente. Si lisciò la maglietta nera e disse, con tono
calmo, ma allo stesso
tempo deciso, che non ammetteva ulteriori giri di parole:
«Scegli, Dom. O me, o
la tua stupida vendetta.»
«Hester...»
la richiamò lui con tono altrettanto calmo. Non voleva certo
essere messo di
fronte ad una decisione così critica.
«HESTER
UN CAZZO! SCEGLI!» tuonò lei stringendo i pugni e
sporgendosi verso di lui.
Dominick
indietreggiò per un breve momento, in parte intimorito dalla
fidanzata. Era
proprio per quel suo carisma forte nascosto sotto un corpo minuto e
fragile che
le piaceva, ma certe volte quel carattere era un’arma a
doppio taglio e lui
stesso doveva averci a che fare, finendo sempre con lo strisciare ai
suoi
piedi. Si ritrovò con le spalle al muro.
«Piccola...io...tu
non sai come mi sento...questa faccenda è troppo importante
per me...ti
prego...» le si avvicinò e le prese una mano.
«Non mettermi nella condizione di
dover decidere...»
Si
guardarono per un breve attimo. Hester per poco non cedette di fronte
allo
sguardo color ebano di Dominick. Quegli occhi sembravano quelli di un
cagnolino
abbandonato e desideroso di coccole, un po’ come lui, del
resto, però proprio
non poteva permettergli di uscire. Non voleva perderlo. Ritrasse la
mano e
rimase impassibile. «No, Dom. Devi scegliere. O io, o la tua
questione. Ma,
prima che tu risponda, rifletti su una cosa: credi che, ammesso che tu
sopravviva e riesca ad ottenere la tua vendetta, tutto poi si
risistemerà?
Credi che poi sarai migliore di lui?
Credi che...poi...loro torneranno?
Credi che sarebbero fieri di te, se tu facessi una cosa
simile?»
Ogni
volta che gli poneva una domanda, lo puntellava con l’indice
sul petto,
facendolo indietreggiare. Senza neanche accorgersene, si ritrovarono al
bordo
del letto.
Dominick
chiuse gli occhi ed espirò. Le domande che Hester gli aveva
posto erano tutte
molto sensate e legittime. Sapeva anche la risposta ad esse. Loro non sarebbero tornati e
probabilmente non sarebbero stati fieri di lui. Non avrebbe dimostrato
di
essere migliore di nessuno e per finire nulla sarebbe tornato a posto.
Ma
l’idea che la fuori ci fosse il bastardo che gli aveva
rovinato la vita,
rigorosamente impunito, lo faceva imbestialire e perdere ogni
qualsivoglia di
razionalità. Vendicarsi, aveva la priorità su
tutto. «Hester...mi
dispiace...ma...devo farlo. Scusa...»
La
ragazza lo fissò ammutolita per un breve attimo. Rimase in
silenzio, immobile,
pietrificata da quelle parole. Non poteva crederci. Il ragazzo che
amava aveva
appena scelto. Preferiva una inutile e suicida vendetta, a lei.
«Piccola...»
mormorò Dom vedendo come la ragazza rimanesse in silenzio.
Avvicinò
una mano a lei, ma questa si mosse all’improvviso.
Allontanò la mano del
ragazzo con uno schiaffo e urlò di nuovo:
«BENE!»
Detto
questo girò i tacchi e la sua chioma rossa ondeggio, poi si
precipitò alla porta.
Dominick la inseguì chiamandola, ma fu tutto vano. La
ragazza percorse il
corridoio bianco e spoglio che conduceva alla camera da letto e
raggiunse un
piccolo salotto, dove un uomo in mutande e canottiera, con i capelli
lunghi e
unti dormiva stravaccato sul divano. Hester puntò alla
porta, furiosa, ma poi
si bloccò di colpo. Andò dall’uomo e lo
svegliò urlando: «SVEGLIATI!»
L’uomo
sobbalzò e si guardò intorno spaesato, poi
incrociò lo sguardo della ragazza. «E
tu che ci fai qui? Ti stavi scopando quel...»
La
ragazza lo interruppe puntandoli contro l’indice. Dominick
capì quello che
voleva fare. Cercò di fermarla, ma non lo fece in tempo.
«TUO NIPOTE VUOLE
USCIRE LA NOTTE DELLO SFOGO!»
Dominick
si irrigidì come un chiodo. Lo zio guardò Hester
per un momento, sorpreso, poi
scrollò le spalle. Lui odiava il nipote. Era stata una palla
al piede dal primo
giorno in cui gliel’avevano affidato. «E allora?!
Meglio, così magari me lo
ammazzano e me lo tolgo dalle palle!»
Hester
ammutolì di nuovo. L’ultima possibilità
che gli era rimasta per impedire a Dom
di ammazzarsi era sfumata. Fissò incredula lo zio del suo EX
fidanzato mentre
si rigirava nel divano e mugugnava qualcosa di incomprensibile, poi
guardò Dom,
sorpreso tanto quanto lei. Non avrebbe mai pensato che lo zio lo
odiasse a tal
punto da lasciarlo andare in giro la notte dello Sfogo. Infatti stava
pensando
di uscire di nascosto. Ma a quanto pare, non era più
necessario. Si accorse
dello sguardo della ragazza.
«Hester...»
disse per l’ennesima volta, ma fu tutto vano.
«No,
Dominick...tra noi è finita.»
La
ragazza scoppiò a piangere e corse fuori
dall’appartamento, lasciando soli
Dominick e suo zio.
Il
ragazzo la fissò interdetto, poi,
realizzando cosa fosse appena successo, venne gettato nello sconforto
totale. Hester
lo aveva appena lasciato. Voleva correrle dietro, ma non ne
trovò le forze.
Abbassò la testa e strinse i pugni, mentre sentiva gli occhi
inumidirsi e
riaffioravano alla sua memoria tutti i bei momenti passati con lei.
Quando si
erano conosciuti e avevano cominciato a frequentarsi.
«Sei
strano...» gli
aveva
detto lei la prima volta, per poi sorridergli, appoggiare la testa
sulla sua
spalla e aggiungere, guardandolo con uno sguardo che aveva subito
tradito le
sue emozioni: «...mi
piace!»
I
picnic al parco, le serate intorno al fuoco e le passeggiate al chiaro
di Luna
mano nella mano lungo la riva del mare, i bagni dentro di esso e le
guerre di
schizzi d’acqua, le risate, le emozioni, i sorrisi, gli
abbracci...quando la
stava ricorrendo per scherzo lungo la spiaggia, poi lei era inciampata
e lui
anche, su di lei. Si erano ritrovati l’uno sdraiato sopra
l’altra e senza
nemmeno un attimo di esitazione si erano scambiati il loro primo bacio,
un
ricordo che tutt’ora lo faceva sorridere. Non poteva credere
che la loro storia
fosse appena giunta al capolinea.
«Hester...»
|
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Capitolo 3 *** Preparativi ***
Capitolo
III
Preparativi
Ore 18:10
Tempo rimasto allo sfogo annuale: 50 minuti.
Kevin
riaprì lentamente gli
occhi, mugugnando di dolore. La testa gli faceva un male pazzesco e gli
pulsava
terribilmente. Ogni movimento degli occhi gli causava dolore, anche
solo
pensare gli arrecava sofferenza. Ci mise un attimo per ricordare
cos’era
successo. Erano scesi da un’auto e lo avevano aggredito con
delle mazze, poi
era svenuto. Quando riuscì a mettere a fuoco con la vista,
ancora annebbiata, si
rese conto di trovarsi proprio in una macchina, con tutta
probabilità lo stesso
fuoristrada da cui erano scesi i suoi aggressori. Riconobbe subito
l’artefice
di tutto quello, che dal sedile del passeggero lo fissava con
quell’aria di
superiorità. Fece per muoversi, ma realizzò di
essere bloccato. Guardò prima a
destra, poi a sinistra e vide quei gorilla che lo tenevano bloccato per
le
braccia, le mazze da baseball adagiate sui tappetini ai loro piedi.
Nicols
allargò il ghigno sul
volto. «Ti
sei svegliato, Berrier!»
Kevin era immobilizzato, ma nulla al
mondo gli avrebbe impedito di far sparire quel sorriso dal volto di
quel
bastardo. Gli sputò in faccia, ma non prima di essersi
assicurato di avere
sufficiente catarro in gola. Nicols fece un verso di sorpresa e
disgustato. Fu
il turno di Kevin a sorridere, ma durò poco. Si becco due
pugni in faccia dai
gorilla che lo tenevano bloccato. Fece un verso di dolore quando le
nocche di
quei vermi gli scorticarono il volto. Avrebbe voluto dimostrare di
essere più
forte di loro e rimanere impassibile di fronte al dolore, ma non ci
riuscì.
Nicols nel frattempo si ripulì dello
sputo che fino a poco prima gli colava sulla guancia e
digrignò i denti. Sferrò
un pugno a sua volta a Kevin, facendolo gemere di nuovo.
Kevin cominciò ad irritarsi. Senza quei
due a tenerlo bloccato, Nicols non sarebbe mai riuscito a colpirlo. Si
credeva
furbo a difendersi dietro ai suoi amici, quel buono a nulla. Sono tutti
bravi a
fare i gradassi quando hanno il culo parato.
«Non dovevi farlo Berrier,
no,
no, no...»
incalzò Nicols strofinandosi ulteriormente la manica sulla
guancia, per poi
guardarla schifato. «Ma guarda te...la mia maglia
firmata...sei un ragazzo
morto Berrier...»
Un ragazzo morto. Quella frase fece
sgranare gli occhi a Kevin. Mancava poco allo sfogo, oramai. In giro
non c’era
più nessuno, se non i folli che avrebbero partecipato
all’evento. Il
fuoristrada nero vagava solo per quelle strade deserte e desolate. Era
inquietante vedere la loro città così silenziosa
e vuota. E loro lo avevano
appena rapito. Elaborò quelle informazioni e
cominciò lentamente a giungere ad
una conclusione.
«Non vorrai mica...uccidermi durante lo
Sfogo?» domandò cercando di apparire sicuro, non
riuscendoci. La sua voce
tremolò lievemente, per via della paura.
Nicols rispose con un ghigno divertito e
scosse lentamente la testa. «Oh, certo che no! Non mi
sporcherei mai le mani
con la feccia come te! Ma, come puoi ben vedere, le strade sono
deserte, e
siamo molto lontani da casa tua. Inoltre manca meno di un’ora
all’inizio dello
Sfogo. No, no, non ti ucciderò io...semplicemente, ti
scaricheremo in centro
città a meno di mezz’ora dall’inizio. Ti
ritroverai a piedi e da solo e quando
lo Sfogo comincerà ti ritroverai addosso ogni qualsivoglia
di malintenzionato
presente nella zona. Saranno loro a farti fuori. Geniale, non
trovi?»
Kevin inorridì. Il piano di Nicols era
dannatamente contorno e, sì, sotto certi punti di vista
pefino furbo. Voleva
sbarazzarsi di lui, ma non aveva il coraggio di ucciderlo di persona,
così lo
scaricava in centro in piena balia di quei pazzi truccati con la
pittura di
guerra. Ma quando realizzò di apparire davvero spaventato,
suscitando il divertimento
nei suoi aguzzini, si ricompose e cercò di mostrarsi sicuro.
«Oh sì, davvero
geniale. Mi sorprende che un coglione del tuo calibro abbia studiato un
piano
del genere...»
Un altro pugno e un altro gemito di
dolore. Kevin abbassò la testa, mentre sulla sua guancia
compariva un lieve
ematoma.
«Hai poco da fare il furbo, Berrier.
Ormai stai per giungere al capolinea.»
Kevin tossì e sputò di nuovo,
sul
tappetino della lussuosa auto.
«Ehi!» esclamò
indispettito l’autista. «Non
sputarmi sulla macchina!»
Kevin sollevò di nuovo lo sguardo
gemendo e fissò dritto negli occhi il folle che lo teneva
prigioniero. «Perché
vuoi che io muoia? Dopotutto, tra noi sono solo volate parole e pugni,
e tra
l’altro ogni volta hai sempre cominciato tu! Uccidermi...non
ti sembra una cosa
un po’ eccessiva?»
«Ma infatti non sarò io ad
ucciderti, lo
hai già dimenticato?» domandò Nicols
senza far sparire quello strano sorriso.
Quel sorriso...folle.
A quel punto Kevin capì. Nicols era
completamente fuori di testa. Probabilmente aveva qualche malattia
mentale. Ma
non per scherzo. In effetti, i suoi genitori gli avevano detto di non
dargli
troppa corda, che non era molto a posto. Credeva che glielo avessero
detto
semplicemente perché non volevano che si azzuffasse con lui
e ritrovarsi in
casini penali di conseguenza. A quanto pare erano seri. Si
voltò verso i due
che lo tenevano bloccato. Sperò che almeno loro potessero
farlo ragionare.
Invece sorridevano allo stesso modo di Nicols. Anche loro erano fuori
di testa.
L’autista pure. Tutti in quel cazzo di paese ormai avevano
perso la sanità
mentale. I nobili soprattutto. Con quella storia della purificazione,
avevano
fatto il lavaggio del cervello a tutti i loro figli e conoscenti. Ma
cosa c’era
da aspettarsi da una nazione che permetteva una cosa orribile come lo
Sfogo?
Si sentì piccolo e impotente sotto gli
sguardi folli dei suoi aguzzini. Lo avrebbero scaricato in centro e lo
avrebbero abbandonato al suo destino. Nessuno l’avrebbe
salvato. Nessuno gli
avrebbe aperto la porta e fatto entrare. Nessuno sarebbe andato a
prenderlo,
per paura. Un sacco di gente finge di essere in pericolo per poi
accoltellare i
propri salvatori all’inizio dello Sfogo. Era solo. Il panico
si insinuò dentro
di lui e non riuscì più a calmarsi.
Cominciò ad agitare le braccia, a scalciare
a urlare e fare di tutto per liberarsi della loro presa, scendere da
quella
macchina e fuggire finché era in tempo. L’unico
risultato che ottenne, furono
dei sorrisi ancora più folli e divertiti da parte dei tre
ragazzi, Nicols in
particolare.
«E’ tutto inutile,
Berrier...sei mort...»
«VAFFANCULO!»
sbraitò Kevin sferrando
una pedata in pieno volto al ragazzo, facendolo indietreggiare e
sbattere
contro il cruscotto.
«Ahia...» si lamentò
Nicols
massaggiandosi il naso, per poi accorgersi che stava sanguinando.
Fissò il
sangue che gli imperlava le dita prima sorpreso, poi furibondo.
«Tu...come hai
osat...»
«LASCIATEMI!» urlò
Kevin agitandosi
ulteriormente, ammutolendo Nicols e riuscendo anche a sferrare delle
gomitate
ai due che lo tenevano bloccato. «LASCIATEMI ANDARE BASTARDI!
LASCIATEMI!»
Non voleva morire. Era un ragazzo, con
tutta la vita davanti. C’erano ancora un casino di cose che
voleva fare. Tipo
scopare, girare il mondo, provare nuove esperienze, scopare, guidare
una
Lamborghini, scopare... Tirò fuori una forza inaudita e
vendette cara la pelle.
Riuscì a liberare un braccio e a sferrare una gomitata sul
naso ad uno dei due
gorilla, poi morse la mano dell’altro, facendolo urlare e
sanguinare. Sferrò
altri calci, pugni, ginocchiate e gomitate, colpendo tutto quello che
gli
capitava a tiro. Volti, petti, gambe, braccia. Era diventato una furia
incontenibile.
«Porca puttana, fermatelo
incapaci!»
ordinò Nicols, poco prima di beccarsi un altro calcio e
venire spedito contro
il cruscotto un’altra volta.
Kevin saltò addosso ad uno dei due
aguzzini e cominciò a riempirlo di pugni in faccia.
L’altro lo afferrò da
dietro e lo trascinò via. Kevin si girò e gli
morse il naso di traverso, come
un cane rabbioso. Riuscì a sentire perfettamente
l’osso del suo setto tra i
suoi denti, poco prima che la sua bocca si riempisse del gusto
metallico del
sangue del poveretto. Arretrò di scatto con la testa e
cominciò a sputarlo via,
per allontanare quel saporaccio dalla bocca. Intanto il poveretto che
aveva
morso si stava tenendo una mano sul volto, ormai ricoperto da sangue
rosso
scuro e grumoso, quasi nero, urlando disperato.
Il gorilla numero due, quello che fino a
poco prima di era beccato dei pugni in faccia, raccolse la mazza dal
tappetino
e cercò di colpirlo, ma Kevin afferrò
l’arma improvvisata e cominciò a tirare,
per cercare di strappargliela di mano. I due cominciarono ad urlare e a
tirare
verso le rispettive parti, per riuscire a tenersi la mazza, fino a
quando
l’autista non inchiodò la macchina di colpo.
Gorilla n2 andò a sbattere contro
il sedile di fronte a sé. Kevin invece, che si trovava in
mezzo, si ritrovò
catapultato davanti. Accadde tutto in una frazione di secondo.
L’unica cosa che
riuscì a vedere, poco prima di schiantarsi contro di esso,
fu il parabrezza.
Sbatté violentemente la testa e svenne sul colpo.
Nicols si ripulì del sangue, ansimando,
imitato dagli altri due aguzzini. Non poteva neanche lontanamente
immaginare
che Berrier potesse essere così agguerrito.
«Figlio di puttana! Mi ha distrutto il
naso!» si lamentò Gorilla n1 tenendosi una mano
sul volto, solo che la sua
frase risuonò più come "...distrutto il VASO".
Nicols sorrise di nuovo. In parte
divertito dalla voce strana del suo compare, in parte vittorioso, per
avere di
nuovo Berrier tra le sue fauci. «Pazienza ragazzi,
pazienza...tra poco lo
abbandoneremo per strada, lasciandolo a morte certa, consolatevi con
questo!»
***
Ore 18:15
Tempo rimasto allo sfogo annuale: 45 minuti.
Dominick era di nuovo in camera da letto
dello zio, mentre si rigirava tra le mani la Magnum. La
esaminò a lungo. Ne
valutò il peso, la forma, le dimensioni. Era piuttosto
grossa e pesante e,
doveva ammetterlo, piuttosto ingombrante. Faticava a tenera sollevata
con una
sola mano. Se prendeva l’impugnatura con entrambe, allora non
c’era problema,
ma nella fretta di una sparatoria non sempre c’è
il tempo per impugnare una
pistola con entrambe le mani. Inoltre il mirino metallico
dell’arma non era dei
migliori. Era minuscolo, prendere la mira era quasi impossibile. Per
non
parlare del fatto del rinculo che i revolver in generale possedevano,
la Magnum
in particolare. Uno non abituato a sparare con quell’arma,
come lui, avrebbe
potuto ritrovarsi per terra a causa del contraccolpo dopo il primo
colpo
sparato. Senza contare il caricatore di soli sei colpi, che andavano
sostituiti
manualmente uno per volta. Aveva
un
mucchio di difetti quell’arma, adesso che ci faceva caso. Ma
ormai era tardi
per i ripensamenti. Hester se n’era andata, tra loro era
finita. Il danno era
fatto.
Guardò l’orologio. Erano le
sei e
trenta. Mancava mezz’ora esatta all’ora X, le sette.
Sospirò e si rigirò di nuovo
l’arma tra
le mani. Si pentì leggermente di non aver comprato una M9 da
quei tizi che le
vendevano per strada. Quella pistola era molto più precisa,
leggera, con un
rinculo molto più contenuto, per non parlare del caricatore
da quindici colpi, molto
più capiente e veloce da ricaricare della Magnum.
Come faceva a sapere tutte queste cose
sulle armi? Semplice, si era informato molto nei mesi precedenti alla
vigilia
dello Sfogo. Sapeva tutto, di quasi tutte le armi. Nemmeno a scuola
aveva mai
prestato tanto interesse ad un determinato argomento. Conosceva tutti i
pregi e
difetti di pistole, fucili a pompa, fucili automatici, semiautomatici e
mitragliette.
Per esempio sapeva che l’Ak47 era
più
potente dell’M4, ma molto più impreciso. Sapeva
che l’M1014 era uno dei fucili
semiautomatici migliori in fatto di danno e portata, compensato
però da un
minuscolo caricatore che arrivava al massimo a sette colpi.
E sapeva anche che non disponeva di
nessuna di queste armi. E che invece, la fuori, c’era gente
che possedeva roba
dieci volte peggio.
Le notti dello Sfogo venivano in genere
riprese in buona parte dalle telecamere della città e
trasmesse in diretta
televisiva. Aveva visto gente con lanciafiamme, mitragliatrici a canne
rotanti,
granate, G36c, UMP45, P90, insomma, roba seria. E come se non bastasse,
quella
sera, oltre ai classici vandali truccati con la War Paint,
c’erano anche persone
con cani da caccia e veri e propri soldati, con corazze da Juggernaut e
mitragliatrici pesanti, come l’MK46. Insomma, durante lo
Sfogo poteva trovarsi
di tutto davanti. Non si sarebbe neanche sorpreso se si fosse trovato
di fronte
ad un carro armato. Tutto era possibile.
Perciò...perché lui, un
ragazzino di
appena vent’anni, neanche, male armato, non addestrato, solo
e senza uno
straccio di protezione, stava per uscire fuori, tra l’altro
causando una
rottura con la ragazza che amava? Follia? Stupidità? Forse.
Anzi, sicuramente.
Non ci voleva coraggio per uscire da soli quella sera. Ci voleva
follia. Senza
la follia, non si poteva fare nulla. Ma la motivazione principale era
sempre e
solo quella: vendetta.
Guardò di nuovo l’ora. Meno
venti minuti
all’ora X.
Dominick sospirò e si alzò
dal letto.
Mise la pistola nell’orlo dei pantaloni e uscì
dalla camera. Raggiunse la sala,
dove lo zio dormiva ancora, ignaro di tutto. Dominick lo
guardò schifato. Aveva
odiato quell’uomo dal primo giorno in cui era andato a vivere
con lui. E il
sentimento era stato reciproco. Era un ubriacone, un fannullone ed un
emerito
cazzone. Il pavimento intorno al divano era circondato da un fiume di
bottiglie
di vetro vuote e lattine di birra. Visto che stava russando a bocca
aperta,
Dominick avvertì chiaramente il suo alito pestilenziale
invadere la stanza e
soffocarlo. Se avessero avuto delle piante, sarebbero sicuramente
appassite.
Scosse la testa in segno di disappunto,
poi si voltò verso la porta. Tirò un profondo
sospiro e si avviò. Prese la
maniglia e la aprì, ritrovandosi a fissare il pianerottolo.
Ripensò a come
Hester era uscita da quella stanza, in lacrime. Si sentì uno
straccio. La
ragazza che amava, che era riuscita a fargli tornare il sorriso dopo
anni di
sofferenza e solitudine... Poi ripensò a come suo zio non
era parso minimamente
preoccupato dalla sua decisione di uscire e sentì montare la
rabbia. Davvero
non gli importava nulla del figlio di sua sorella? Sangue del suo
sangue?
L’unico ricordo che avesse di lei, oltre alle fotografie?
Schifoso verme. Si
voltò un’ultima volta verso di lui gli rivolse
un’altra occhiataccia. Quanto
avrebbe voluto approfittare dello Sfogo e piantare una pallottola anche
nella
sua, di fronte. Ma non lo avrebbe mai fatto, in segno di rispetto verso
sua
madre.
Dom distolse lo sguardo e tornò a
fissare il pianerottolo ricoperto di piastrelle bianche e luride.
Tirò un
profondo sospirò ed uscì.
Si mise le mani in tasca e incassò la
testa tra le spalle mentre scendeva le scale.
Poco dopo camminava per strada. La città
era buia e completamente deserta. Era innaturale tutta quella calma.
Erano le
sei, perciò un po’ di luce c’era ancora,
ma sarebbe scomparsa nel giro di poco
tempo. All’inizio dello Sfogo, all’incirca. Avevano
studiato tutto a tavolino,
i nuovi padri fondatori. Raggiunse la macchina, che aveva parcheggiato
poco
lontano dall’alloggio. Vi salì sopra e
l’avviò. La vecchia e decrepita Chevelle
dei genitori, altro ultimo loro ricordo, si avviò con il suo
solito rombo semi morente.
Poco prima di partire, aprì il vano portaoggetti e vi prese
una fotografia,
impolverata e sbiadita. La ammirò a lungo, sentendo le
lacrime uscire di nuovo
dai suoi occhi. In quella foto c’era lui, un paio di anni
prima, insieme ai
suoi genitori, sorridenti davanti ad un alberello. Lui non era cambiato
molto.
Era solo cresciuto, diventato molto più alto, uno e ottanta
circa, i suoi
capelli si erano fatti molto più ribelli e indomabili. E non
aveva ormai da
anni quell’espressione vispa che invece aveva in fotografia.
Alla sua destra
c’era suo padre, Sebastian, un uomo praticamente identico a
lui, in fatto di
capelli, occhi e corporatura. Alla sua sinistra c’era sua
madre, Trisha, una
donna molto bella e gentile, con occhi color ambra, capelli caramello e
sempre
raccolti in una coda. Il suo sorriso poteva illuminare le giornate
più buie e
tempestose e la sua bontà d’animo avrebbe potuto
far convertire il più spietato
dei criminali. Da lei aveva ereditato gli stessi zigomi belli e
delicati e
quell’aria da "cucciolo" con la quale aveva fatto breccia nel
cuore
di Hester. Si ritrovò a sorridere senza nemmeno accorgersene
ripensando alla
sua bella dai capelli rossi, poi ricordò cos’era
successo e si incupì di nuovo.
Sospirò per l’ennesima volta
logorato
dai ricordi tristi e nostalgici, pensando a quei bei momenti trascorsi
con i
suoi genitori e con Hester, che mai sarebbero tornati. Quanto avrebbe
voluto
poter presentare la ragazza a sua madre e suo padre, vivere insieme a
tutti
loro, come una vera famiglia felice. Un sogno irrealizzabile, che non
era
nemmeno fattibile quando stava ancora con Hester. Posò la
foto nel vano e la
richiuse, cercando anche di nascondere lì dentro i ricordi
per non farsi più
logorare da loro. Accese la radio, per avere un po’ di
compagnia nel viaggio a
seguire. Avviò la compilation degli Offspring
che teneva nella chiavetta USB collegata allo stereo e non si
mise
all’ascolto dei canali normali, visto che a
quell’ora non avrebbero fatto altro
che parlare dello Sfogo.
Con You’re
Gonna Go Far Kid in sottofondo, canzone che calzava a
pennello in quel
momento, una pistola carica nei pantaloni e il desiderio di vendetta,
il
ragazzo si
avviò verso la sua meta.
Ripensò al detto che diceva: "Non conta la destinazione, ma il viaggio."
In quella circostanza, non c’era nulla
di più sbagliato.
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Capitolo 4 *** Lo Sfogo ***
Capitolo
IV
Lo
Sfogo
Ore
18:23
Tempo
rimasto allo Sfogo annuale: 37 minuti.
Avete presente quelle volte in cui,
quando siete seduti sul divano, riuscite a trovare la posizione
perfetta?
Quella in cui le vostre gambe si trasformano in burro e diventate un
tutt’uno
con il cuscino del divano? Quella posizione che, se poi vi alzate, non
trovate
più? Ecco, Thia riuscì a trovarla.
Sospirò estasiata mentre abbandonava la
testa all’indietro e si godeva quel momento di relax, dopo
una lunga e
stressante giornata a lavoro. Ma ovviamente, come ogni volta in cui si
riesce a
trovare la posizione perfetta, qualcuno bussò e, ovviamente,
Mary non poteva
andare ad aprire, visto che era impegnata in cucina.
«Thia, puoi andare a vedere chi è,
per
favore? Sono occupata...»
Thia strabuzzò gli occhi, non riuscendo
a credere quanto sfortunata fosse. Si era appena messa comoda e
qualcuno andava
a rompere le scatole. Ma non si arrese subito. «Magari
è solo qualcuno che ha
sbagliato...»
Il tizio non aveva sbagliato, perché
bussò di nuovo. Thia fece un verso furioso e si
alzò dal divano, diretta
indispettita verso la porta. Marianne se ne accorse e
ridacchiò.
«Ma l’unico imbecille che
poteva andare
a bussare in giro a poco dall’inizio dello Sfogo, proprio qui
e proprio adesso
doveva venire?!»
Aprì la porta furibonda. «Chi
è?!»
Si bloccò quando vide colui che aveva
bussato. Era un uomo elegante, sulla quarantina. Capelli castani e
ordinati e
occhi dello stesso colore. Sembrava essere stato colto alla sprovvista
dal tono
rabbioso di Thia, che cercò subito di rimediare, un
po’ impacciata: «Ehm...insomma,
buondì...»
L’uomo la guardò pensieroso,
poi annuì e
si schiarì la voce. «Ehm, ok...tu devi essere la
coinquilina di Marianne,
giusto? Lei è in casa?»
Thia inarcò un sopracciglio. Se
quell’uomo sapeva che era la sua coinquilina, e la chiamava
Marianne anziché
Mary, la spiegazione era solo una: era un suo collega di lavoro.
La ragazza si girò e chiamò a
gran voce:
«Mary! Ti cercano!»
«Arrivo subito, un attimo!»
«Ma...lavori per caso al
"Devil’s
Club"?» domandò intanto l’uomo a Thia,
facendola girare di scatto.
Thia alzò di nuovo un sopracciglio, ma
questa volta abbozzò anche un sorrisetto. Il
Devil’s Club era il bordello in
cui lavorava e se quello l’aveva riconosciuta, il motivo era
uno solo. «Come fa
a saperlo? Frequenta quel locale?»
L’uomo arrossì e si
affrettò a scuotere
la testa e a sbracciarsi. «Cosa? Nononono, è solo
che...insomma...cioè...»
La ragazza ridacchiò. Colpito e
affondato.
Mary arrivò poco dopo, pulendosi le mani
con uno straccio. Affiancò Thia e non appena vide
l’uomo storse il naso. «David...»
«Ciao Marianne...senti, sono venuto per
chiederti...»
«Non verrò questa notte a casa
tua,
David. Io e Thia ce la sappiamo benissimo cavare da sole.» lo
interruppe
Marianne, con tono fermo e deciso, che non ammetteva obiezioni.
«Ma...»
«Non insistere. Non servirà a
nulla.
Tornatene a casa, si sta facendo tardi. Ci vediamo domani a
lavoro.»
David non si arrese. Afferrò Marianne
per una spalla e la guardò con espressione preoccupata.
«Marianne, non puoi
dire sul serio. Tu e la tua amica abitate nei bassifondi, i posti
più
pericolosi durante lo Sfogo. E poi, guardatevi, siete entrambe due
belle
fanciulle, siete dieci volte più a rischio! Sicuramente
qualcuno proverà ad
irrompere e violentarvi! Lascia che vi ospiti a casa mia, davvero,
sarete al
sicuro! Sia tu che la ragazzina!»
Marianne allontanò la mano
dell’uomo e
la sua espressione non cambiò. «No, David.
Sappiamo badare a noi stesse.
Davvero, tornatene a casa anche tu, non c’è
più molto tempo.»
David aprì bocca per replicare, ma si
bloccò. Non sarebbe riuscito a convincere la donna.
Abbassò la testa sconfitto
e fece dietrofront. Thia chiuse la porta e sorrise a Marianne.
«Però, lo hai
conciato per le feste!»
Marianne abbozzò un sorriso e si
incamminò di nuovo per il corridoio.
«Fammi indovinare...»
proseguì Thia
seguendola. «...quel tipo è uno di quelli che ci
prova con te al lavoro,
giusto?»
«Cavolo, hai vinto il Nobel per
l’acume?»
la schernì Marianne sarcastica, ritornando in cucina e
posando lo straccio.
Thia ridacchiò di nuovo, poi si fece
pensierosa. «Non pensi che...si arrabbierà e
cercherà di fartela pagare per i
tuoi rifiuti durante lo Sfogo? Voglio dire...un sacco di uomini la
fanno pagare
alle donne che li rifiutano costantemente nella notte dello
Sfogo...»
«Non credo. Tranquilla Thia. David non
è
come quegli uomini iper possessivi e gelosi. E’ uno sveglio.
Lo sa che...da
quando...sono...» si incupì
all’improvviso e si bloccò. Thia la
guardò
preoccupata, poi la donna buttò fuori una boccata
d’aria e riprese il discorso.
«...insomma, lo sa che rifiuto gli inviti perché
per me gli uomini sono una
nota dolente. Sarà una notte tranquilla, fidati.»
«Va bene.» convenne Thia
rassicurata,
per poi andarsene di nuovo sul divano e cercare di ritrovare la
posizione
perfetta, facendo un verso di frustrazione quando, dopo dieci minuti,
ancora
non ci riuscì.
«Stupido David...»
brontolò a denti
stretti.
Mary la sentì e ridacchiò,
poi posò il
coltello e si rivolse alla ragazza: «Meglio tirare su le
barricate.»
Thia si voltò e annuì,
improvvisamente
seria in volto. Si alzò di nuovo dal divano e
seguì la donna nella sua camera
da letto, dove presero assi di legno, una ventina di chiodi lungi una
spanna e
due grossi martelli, che trovarono accatastati alla parete.
Ritornarono nella sala e si divisero.
Thia si occupò delle finestre. Chiuse le persiane con la
serratura, poi
cominciò a piantare i chiodi nell’asse con il
martello. Così facendo rovinava
il muro, ma quello era una cosa normale, per quelli che non potevano
permettersi
un vero sistema di sicurezza.
Marianne si occupò della porta di
ingresso.
Poco dopo si ritrovarono in salotto, con
le mani arrossate e dolenti. Marianne prese i martelli e li
riportò in camera,
poi tornò poco dopo, con una Beretta carica. La
sollevò e la mostrò a Thia. «La
prudenza non è mai troppa.»
Thia annuì, concordando con lei al cento
percento. Tutto poteva accadere durante quella notte, lo sapevano una
meglio
dell’altra.
Marianne posò l’arma sul
tavolino
davanti alla televisione, sperando con tutta sé stessa di
non doverla più
toccare fino a quando non l’avrebbe rimessa a posto il
mattino dopo.
***
Ore
18:36
Tempo
rimasto allo Sfogo annuale: 24 minuti.
Si
svegliò dopo aver ricevuto un
forte schiaffo e sentendo le voci di qualcuno che lo chiamava: «Sveglia
Berrier! Non vuoi vedere
dove ti scaricheremo?»
Kevin
riaprì a stento gli occhi, ritrovandosi di nuovo il ghigno
provocatorio e divertito di Nicols.
«T-Ti
prego...» implorò gemendo Kevin, capendo di essere
davvero agli
estremi. Ormai il tempo era giunto alla fine, combattere era inutile e
controproducente.
Ma
le sue suppliche non fecero altro che aumentare il divertimento di
Nicols. «Guardatelo come implora! Patetico!» poi
guardò l’autista. «Allora Rey,
ci siamo?»
Il
ragazzo al volante annuì e arrestò la macchina.
Nicols si voltò di
nuovo verso di Kevin. «Capolinea.»
I
gorilla, di cui Gorilla N1 con una benda insanguinata sul naso,
afferrarono Kevin uno per le braccia e l’altro per le gambe.
Kevin cominciò a
scalciare e urlare di nuovo all’impazzata, per liberarsi, ma
questa volta gli
energumeni mantennero salda la presa. Nicols scese e aprì la
portiera. I due
gorilla scagliarono Kevin fuori dalla macchina. Il ragazzo cadde a
terra
battendo la testa e scorticandosela. Fece un verso di dolore e si
rialzò quasi
subito, solo per ricevere un calcio in pieno volto da Nicols, che disse
con
tono malizioso: «Tocca a me adesso!»
Kevin
cadde di nuovo a terra tenendosi una mano sul naso, poi Nicols
salì in macchina e questa partì immediatamente,
facendo fischiare le gomme.
Vide Nicols e i due gorilla salutarlo con la mano e rivolgergli un
ultimo
sorriso di superiorità.
Kevin
si alzò di nuovo e si mise a correre
all’impazzata, per cercare
di raggiungere il fuoristrada. Usò tutte le forze di cui
disponeva. Non credeva
di essersi mai sforzato tanto in una corsa, ma fu tutto inutile. Il
fuoristrada
lo allontanò quasi immediatamente. Kevin tese una mano verso
la macchina e
cominciò ad urlare: «Vi prego! No! Non lasciatemi
qui! VI PREGO!»
Ma
la sua voce non riuscì certo a raggiungere il veicolo, ormai
ridotto
ad una macchiolina nera all’orizzonte. Kevin
crollò in ginocchio con le lacrime
agli occhi, in mezzo a quella strada deserta, che gli faceva sembrare
di essere
in una città fantasma. Rimase immobile a fissare la strada
davanti a lui, come
in stato di trance, ancora incredulo a tutto quello che stava
succedendo. Sperò
che fosse tutto un brutto sogno. Fu una folata d’aria fredda
che lo puntellò a
farlo tornare in sé e realizzare che quella era la
realtà. Si guardò intorno.
Non c’era nessuno. Si alzò in piedi e
cominciò a sentire il respiro farsi
pesante. Fece vagare lo sguardo ovunque, ma trovava sempre le stesse
cose:
edifici, locali vari, grattacieli, case, tutti con porte di ingresso e
finestre
sbarrati.
Le
sue gambe non sembravano voler
obbedire ai suoi ordini. Rimase di nuovo fermo come una statua, conscio
del
proprio destino. Era stato scaricato in centro città, solo, a poco
dall’inizio dello Sfogo. Sentì le
lacrime inondargli gli occhi mentre pensava a quanto giovane fosse, a
quanto la
vita gli dovesse ancora riservare. Fino a poco prima aveva passato una
tranquilla mattinata di merda a scuola e se ne stava tornando a casa. E
adesso
era già morto. Tutto per colpa di un ricco pazzoide e dei
suoi amici.
Il
ragazzo si mise una mano nella
tasca della felpa e cominciò a frugarci dentro, il tutto
mentre singhiozzava.
Prese il pacchetto di sigarette e lo tirò fuori. Ne prese
una e se la mise in
bocca, poi avvicinò l’accendino con mano tremante
e se l’accese. Si rimise il
pacchetto e il clipper arancione in tasca e fece qualche tiro, per
cercare di
calmarsi e raccogliere le idee. Ma fu solo quando sentì la
voce robotica di una
donna, proveniente da uno dei numerosi schermi giganti appesi per le
vie della
città, che riuscì a sbloccarsi. «Mancano
quindici minuti allo Sfogo annuale.»
Kevin strabuzzò gli occhi. Quindici
minuti. Non c’era più tempo da perdere. Anzi, non
c’era più tempo e basta. Cominciò
a correre, non sapeva nemmeno verso dove. Corse e basta.
Andò sul marciapiede e
cominciò a sbattere i pugni contro tutte le barricate che
trovava. «EHI! EHI!
APRITEMI! VI PREGO! NON VOGLIO PURIFICARMI, LO GIURO! SONO RIMASTO
FUORI!
APRITEMI, VI SUPPLICO IN GINOCCHIO!»
Ma nessuno lo aiutò. Era troppo
rischioso aiutare uno sconosciuto un quarto d’ora prima dello
Sfogo, ci si
sarebbe potuti ritrovare di fronte qualsiasi malintenzionato. Anche se
lui era
solo un ragazzino, non significava nulla. Le stesse bande di criminali
mascherati e truccati erano perlopiù composte da ragazzini
poveri, rimasti
magari senza genitori, che approfittavano dello Sfogo per guadagnare un
po’ si
soldi.
Kevin corse a lungo, sul bordo della
strada, urlando e sbracciandosi, ma fu tutto inutile. Era solo, fine
della
storia. Si fermò per riprendere fiato e si
appoggiò con la schiena ad una
parete di un edificio, quello che sembrava essere un bar,
anch’esso sbarrato.
Si premette le mani sulle ginocchia e si piegò, stremato e
ansimante. Sputò la
sigaretta, non era il momento adatto per fumare. Un’idea gli
attraversò la
mente e gli tornò un barlume di speranza. Cercò
il cellulare, per chiamare i
genitori e farsi venire a prendere almeno da loro. A
quell’ora ormai dovevano
essere a casa e, anche se pericoloso, sarebbero sicuramente andati a
prenderlo.
Ma mentre cercava ovunque, nelle tasche dei pantaloni e della giacca,
realizzò
con orrore di non avere il cellulare. Nemmeno la borsa con dentro i
libri
scolastici aveva più, a dire la verità. Nicols e
banda dovevano avergli preso
tutto quanto, eccetto le sigarette e l’accendino. Si prese la
testa fra le mani
e cominciò a far strisciare la schiena contro la parete,
mentre si metteva
lentamente a sedere.
«No...» mormorò
inorridito, sempre più
sconvolto e rassegnato. «No...»
«Mancano
dieci minuti all’inizio dello Sfogo annuale.»
Kevin gemette. «No...»
Un rumore proveniente da lontano gli
fece sollevare lo sguardo, ormai vitreo e assente. Ma ciò
che vide riuscì a
farlo balzare in piedi e riaccendere la speranza in lui. Una macchina.
Una
vecchia Chevelle.
Corse in mezzo alla strada e cominciò a
sbracciarsi per richiamare la sua attenzione. Non aveva idea di cosa ci
facesse
un’auto in giro a quell’ora, ma poco gli importava.
Era pur sempre un mezzo di
salvezza. Ma quando tutto sembrava volgere per il meglio, il conducente
dell’auto, che inspiegabilmente era un ragazzo come lui, gli
mostrò il dito
medio e tirò dritto, senza fermarsi.
Kevin lo fissò esterrefatto per un breve
attimo, poi, anche se quello era il momento meno opportuno, si
accigliò. «FIGLIO
DI PUTTANA!»
La macchina scomparve alla visuale, al
che Kevin abbandonò le braccia a peso morto lungo i fianchi,
demoralizzato per
l’ennesima volta.
Un altro spiffero d’aria lo costrinse ad
alzare lo sguardo e a riscuotersi. Scrollò la testa e
riprese a correre. Senza
che nemmeno se ne fosse accorto, il cielo si era fatto scuro
all’improvviso. La
sera stava scendendo, portando con sé lo Sfogo e la sua
inevitabile morte.
Non sapeva che qualcuno lo stava
seguendo, a bordo di moto da cross e un furgone beige. Dei ragazzi col
volto
coperto da maschere o pittura. Uno di loro con la scritta GOD sulla
fronte
della maschera bianca e sporca, lo osservò correre via, in
quel disperato
tentativo di mettersi in salvo. Lo salutò con un rapido
cenno delle dita.
***
Ore
18:53
Tempo
rimasto allo Sfogo annuale: 7 minuti.
Dominick procedeva a velocità sostenuta,
incurante di tutto quello che gli scorreva accanto. Aveva perfino
ignorato quel
ragazzino con il cappello a visiera che chiedeva aiuto. Come se fosse
stupido.
Quel tipo lo avrebbe accoltellato non appena lo Sfogo sarebbe iniziato,
lo
sapeva bene. E poi non aveva tempo da perdere con altre persone. Erano
solo
lui, la radio, la strada e il suo obbiettivo. E la Magnum nei
pantaloni, che
gli stava dando un fastidio pazzesco. Era dannatamente fredda.
Sollevò la
maglietta e prese la pistola, poi la adagiò sul cruscotto,
dove sarebbe stata
facile da recuperare in caso di emergenza.
Sospirò guardandola. Gli fece tornare in
mente il discorso con Hester e, di conseguenza, la ragazza stessa.
Cominciò a
dubitare della sua decisione. Ritrovarsi a vagare solo, per quelle
strade buie
e prossime al delirio totale, piuttosto che insieme ad Hester e al
calore del
suo corpo, gli sembrò un’idiozia. Non sapeva
nemmeno cosa avrebbe fatto una
volta trovato l’uomo che cercava. Non sapeva nemmeno se
sarebbe sopravvissuto.
Prima lo avrebbe fatto a tutti i costi, pur di rivedere la sua ragazza,
ma
adesso che avevano rotto, non gli importava più molto della
sua vita.
Chiuse gli occhi per un breve momento e
si immaginò il profumo di Hester che lo inebriava. Poi scese
ancora più in
profondità e ritornò alla sua infanzia, a quando
sua madre lo abbracciava e lo
accarezzava. Suo padre che lo portava a pesca e gli insegnava tutti i
trucchi
del mestiere. E poi...i fiori, la pioggia, i vestiti neri, il prete, le
bare...
Com’era piccolo quando tutto era
successo. Ricordò che aveva pianto tantissimo, inginocchiato
sulla nuda terra e
sporcandosi i pantaloni puliti, tirati a lucido per
quell’occasione così
lugubre. Aveva appoggiato la mano su quella pietra bianca con sopra
diverse
incisioni e aveva chiamato a gran voce sua madre e poi suo padre, non
ottenendo
nessuna risposta, ovviamente. Pioveva quella volta, per fortuna.
Almeno...non
era stato l’unico a piangere, quel giorno. Il
cielo gli aveva fatto compagnia. Ricordò
come tutta la sua vita tranquilla e felice era stata sconvolta nel giro
di un attimo
e si era ritrovato a condividere lo stesso tetto con il fratello di sua
madre.
Era solo un bambino all’epoca e vivere con
quell’ubriacone era stato
dannatamente traumatico per lui, per lo meno fino a quando non era
cresciuto,
la sua tempra di era fatta più dura ed era riuscito a
superare tutto
l’accaduto, anche se i ricordi ogni tanto riaffioravano, come
in quel momento.
La prima vera svolta nella sua vita era stata quando aveva conosciuto
Hester, a
scuola. Si erano incrociati per puro caso. Dominick stava camminando
guardando
il cellulare, aveva girato l’angolo e si era letteralmente
scontrato con lei.
Il classico cliché di incontro. L’aveva aiutata a
rialzarsi, si erano
presentati entrambi un po’ imbarazzati e il resto era storia.
Vagò ancora per un breve tratto con la
macchina, poi finì in una via principale, dove si
ritrovò davanti ad uno
spettacolo da far gelare il sangue nelle vene. Diversi pullman
parcheggiati di
traverso bloccavano il passaggio ed erano presidiati da un esercito di
quei
folli con la War Paint e mascherati. Avevano già un mucchio
di armi. Pistole,
mitragliette, coltelli, machete. Erano lontani, ma riuscì a
percepire tutti i
loro sguardi posarsi su di lui e la sua macchina. Sentì ogni
singolo pelo delle
sue braccia rizzarsi, poi si affrettò a fermare la macchina
e a mettere la
retromarcia. «Meglio...meglio andarsene da qui...»
Sentì
una voce femminile
metallica gracchiare dallo schermo gigante situato in un edificio in
quella
strada: «Mancano
3 minuti all’inizio
dello Sfogo annuale.»
Non appena sentirono quella voce
parlare, i criminali mossero dei passi verso di lui, agitando le armi.
«DECISAMENTE, devo
andarmene...» ribadì
Dominick premendo il piede sull’acceleratore, per poi ruotare
bruscamente il
volante e andare in testacoda. Con un’elegante mossa degna
dei piloti più
esperti si ritrovò a dare nuovamente le spalle ai pazzoidi
intorno ai pullman e
si allontanò alla svelta.
Rabbrividì di nuovo pensando a quei tizi
e si domandò se lo stessero seguendo. Si girò di
scatto, ma la strada dietro di
lui era deserta, al che riuscì a tranquillizzarsi un
po’. Non osò immaginare la
fine tragica che avrebbero fatto tutti quei poveracci che si sarebbero
trovati
per caso in quella strada bloccata al traffico.
Alzò il volume della radio e
meditò
sulla strada da prendere dopo essere stato costretto a quella
deviazione.
Sicuramente anche le altre vie principali erano presidiate da eserciti
di
folli, perciò era meglio optare per le strade secondarie.
Avrebbe allungato a
dismisura la strada da percorrere, ma per lo meno i rischi si sarebbero
ridotti
al minimo. O meglio, così credeva.
***
Ore 19:00
Tutti
gli schermi sparpagliati
per la città si accesero, sia quelli giganti, che quelli
delle televisioni
nelle case, mostrando uno schermo blu con sopra il logo degli Stati
Uniti. Una
voce robotica e femminile fuoriuscì dalle casse di tutti
essi e annunciò: «Attenzione,
questo
non è un test. E’ attivo il vostro programma di
emergenza che annuncia l’inizio
dello Sfogo annuale sancito dal nostro governo. Possono essere
utilizzate tutte
le armi di classe 4 o inferiore, le altre sono proibite. Ai funzionari amministrativi di livello 10 viene concessa l’immunità. Al suono della sirena,
ogni crimine, incluso
l’omicidio, sarà legale per le successive dodici
ore. Tutti i servizi di
emergenza saranno sospesi. Il governo vi ringrazia per la vostra
partecipazione.»
Diverse
persone erano all’ascolto.
Kevin
singhiozzò, realizzando che la sua ora era scaduta e che per
quanto forte stesse correndo, non poteva scappare dalla dura
realtà: «No...»
Dominick
strinse la presa intorno
al voltante, facendo sbiancare le nocche. Stava per cominciare lo
Sfogo. Poteva
finalmente vendicarsi, senza correre in rischi penali. Si
sentì improvvisamente
carico. Fu come se gli avessero appena sparato una scarica di
adrenalina dritta
nelle vene. «Bene,
sono pronto!»
Thia, angosciata, cercò la mano di
Marianne per avere un po’ di conforto. Marianne, che era
seduta accanto a lei
sul divano, gliela
prese senza
esitazione, continuando a non staccare gli occhi dalla televisione e
tenendo le
orecchie aperte.
Poi lo sentirono. Il suono della sirena
riecheggiò per tutta la città, rimbombando in
tutte quelle vie buie e deserte. Era
molto simile ad un lamento agonizzante, il che rendeva tutta la
situazione
molto più inquietante.
Quando sentì quel lamento, Kevin gemette
di nuovo e corse ancora più forte, i suoi polmoni gli
bruciavano e supplicavano
pietà. «NO, NO, NO, NO, NO! Non voglio morire!
NO!»
Dominick, serio in volto, prese la
pistola e fece scorrere di lato il tamburo, per assicurarsi della
presenza di
tutti e sei i proiettili. Richiuse il caricatore e annuì
determinato, poi posò
di nuovo la pistola e tornò a guardare la strada.
«Vengo a prenderti, bastardo!»
Thia strinse ancora di più la mano di
Mary e, senza staccare gli occhi dalla televisione, che adesso non
trasmetteva
più nulla, sussurrò con voce rotta e preoccupata:
«E’ cominciato...mamma...»
Marianne abbracciò Thia e le
baciò la
fronte. La ragazza incassò la testa sotto il mento della
donna, sentendosi un
po’ più protetta da quell’abbraccio
caldo e affettuoso. Quell’abbraccio che le
ricordava molto quelli di sua madre, suo padre o suo fratello. Un
ricordo che
le incuteva raccapriccio e sicurezza nello stesso tempo. Marianne si accorse di come
la poverina che
abbracciava stesse tremando come una foglia. Per forza, aveva perso
tutto per
colpa dello Sfogo. Strinse la presa delle sue braccia intorno al corpo
esile
della ragazza e mormorò rassicurante, subito dopo averla
baciata un’altra
volta, sulla testa: «Lo so...ma vedrai, andrà
tutto bene, come l’anno scorso.
Ci sono io con te, ci sarò sempre. Abbi fede...figlia
mia...abbi fede.»
Ore
19:00
Tempo
rimasto al termine dello Sfogo annuale: 12 ore.
|
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Capitolo 5 *** Problemi ***
Capitolo
V
Problemi
Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore
e 47 minuti.
In
città era il caos. Le bande di
criminali truccati e mascherati avevano iniziato la loro ronda alla
ricerca di
poveracci da rapire o da ammazzare. Diversi furgoni o pulmini
pullulanti di
bruti armati avevano cominciato a girare per le strade, sparando dai
finestrini
a chiunque capitasse a tiro. Decine e decine di uomini si erano
appostati sopra
dei tetti con i loro fucili di precisione e le confezioni da sei
lattine di
birra, pronti per una lunga notte di cecchinaggio, al fine di uccidere
persone
a caso e senza motivo. Camion blindati giravano per le strade, dentro i
quali
vi erano nascosti soldati super corazzati pronti per irrompere negli
edifici e
fare stragi. Alcuni si fermavano, poi lo portellone posteriore si
apriva
rivelando uomini con grembiuli da macellaio piazzati dietro a
mitragliatrici
con tripode, pronte a sputare proiettili contro chiunque capitasse a
tiro. E
una volta massacrati i malcapitati, lo portellone abbassava con un
segnale
acustico, tipo quello di un cancello automatico che si richiude. Gruppi
di
persone con volto coperto, armati con le armi più
stravaganti, tipo
lanciafiamme, asce, seghe elettriche e cani da caccia avevano
cominciato il
giro di perlustrazione a loro volta. Per strada si potevano
già trovare
colluttazioni o sparatorie di vario genere. Nella strada bloccata al
traffico
dai pullman di traverso era il delirio. Uno dei pullman era andato a
fuoco ed
era esploso, generando una reazione a catena che aveva massacrato tutti
coloro
che non erano abbastanza a distanza.
Lo
Sfogo era cominciato.
Kevin
corse. Corse a lungo. Le
lacrime cadevano dai suoi occhi e schizzavano alle sue spalle, mentre
la vita
gli passava davanti, come un turbinio di fotografie confuse. Lui da
bambino.
Lui a scuola la prima volta. Lui con la sua prima fidanzata. Lui con i
suoi
genitori. Con sua madre Theresa. Con suo padre Robert. Due brave
persone, che,
sì, dedicavano poco tempo a lui, ma le amava comunque. Era
grazie a loro se era
quello che era. A loro doveva tutto. Il suo carattere, i suoi tratti
fisici, la
sua stessa vita. Giurò a sé stesso che se sarebbe
riuscito a tornare a casa
vivo, li avrebbe amati come mai aveva fatto in vita sua. Ma per il
momento,
doveva correre. Correre per la propria vita.
Non
appena aveva sentito quella
sirena infernale, aveva cominciato a sentire le sparatorie e le
esplosioni
anche a chilometri e chilometri di distanza. Erano come dei rimbombi
lontani,
tipo dei tuoni, che riecheggiavano per tutte quelle strade vuote, che
nei
restanti 364 giorni l’anno erano invece affollate e
chiassose, piene di volti
felici, spensierati o anche indaffarati e frettolosi. Insomma, le
strade di
quella città in cui era cresciuto, vissuto e che aveva
amato. Quelle strade che
erano così dannatamente sicure, per via dello stesso motivo
per cui in quel
momento quelle stesse erano il posto più pericoloso del
mondo.
Singhiozzò
di nuovo e affrettò il
passo. Correndo in quel modo avrebbe potuto vincere ogni qualsivoglia
di
competizione sportiva scolastica di velocità. Avrebbe
bagnato il naso ad atleti
dieci volte meglio allenati di lui. Girò l’angolo
e smise improvvisamente di
correre, in quanto ciò che vide lo pietrificò. Un
mucchio di auto parcheggiate in
mezzo alla strada stavano andando a fuoco. Intorno ad esse, vi era
almeno una
ventina di uomini, i più brutti ceffi che Kevin avesse mai
visto. Erano quasi
tutti calvi, barbuti e tarchiati, con indosso sudici vestiti troppo
stretti per
le loro stazze e armati fino ai denti. Quasi tutti avevano in mano un
fucile e
sparavano per aria all’impazzata, ridendo di gusto, mentre
altri brandivano dei
grossi coltellacci, che usavano per fare letteralmente a pezzi un
gruppo di
poveri malcapitati che avevano incontrato. Kevin
indietreggiò di scatto prima
di farsi vedere da loro e ritornò dietro l’angolo,
dove rimase lievemente
esposto per poter vedere la scena. Il suo cervello gli diceva di non
restare
lì, di scappare il più presto possibile o si
sarebbe fatto ammazzare. Ma...quella
scena era talmente sconvolgente che lo lasciò inchiodato al
suolo. Le sue gambe
smisero di obbedirgli. Rimase quasi come calamitato con gli occhi a
quello
spettacolo orribile. Di tanto in tanto qualcuno di quei ceffi sollevava
uno dei
poveretti mezzi maciullati dalle lame che imploravano pietà
e li lanciavano in
mezzo alle fiamme dei veicoli in combustione. Ogni volta che uno di
quei
malcapitati finiva in mezzo alle fiamme e moriva bruciato vivo tra
mille e
atroci sofferenze, gli uomini intorno scoppiavano in delle ancora
più fragorose
risate. Kevin inorridì, e fu proprio quello il momento in
cui riuscì a
sbloccarsi. Vedere quegli psicopatici ridere di gusto di fronte alla
sofferenza
atroce altrui, gli diede quella scarica di adrenalina che gli concesse
di
muovere le gambe e fuggire al più presto da lì.
Se non per il fatto che, appena
si voltò, vide al fondo della strada dei volti noti. Si
sentì come se avesse
appena visto un mostro orribile. Le sue gambe quasi cedettero, il suo
respiro
si fece cinquanta volte più pesante e si sentì
formicolare per via della pelle
d’oca fin sopra i capelli.
Al
fondo della strada c’erano
quattro moto da cross, con sopra dei ragazzi truccati o mascherati. In
piedi di
fronte ad un furgone beige c’era un altro ragazzo. Era molto
lontano, ma gli
parve di distinguere quella parola, GOD, sulla sua maschera. E quando
quel
tizio lo salutò con quel rapido cenno delle dita, Kevin
capì di essere fottuto.
Il ragazzo con la maschera sollevò il machete che aveva in
mano, poi lo puntò verso
di Kevin. A quel segnale, i ragazzi accesero le moto da cross su cui
erano
seduti scalciando la pedalina. Tutte le moto si avviarono con un ronzio
e i
conducenti partirono all’unisono, due di loro impennando.
Kevin rimase
pietrificato, finché lo scoppio di un’altra risata
fragorosa non lo riportò
alla realtà. Le moto si avvicinavano, non c’era un
altro secondo da perdere.
Doveva scappare. E l’unica via di fuga era davanti a lui,
quella strada occupata
da quegli uomini che si divertivano a carbonizzare le persone.
Superò l’angolo
e corse dritto. Dapprima non sapendo dove andare con esattezza, poi
capendolo
vedendo un vicolo esattamente dall’altro lato della strada.
Se lo avesse
raggiunto, le moto avrebbero faticato per inseguirlo, considerando
anche che i vicoli
di quella città erano così fitti e intricati da
sembrare una ragnatela. Li
dentro si sarebbe messo in salvo, almeno per un po’. Ma il
mondo evidentemente
lo odiava.
«Ehi! Guardate!» esclamò
uno di quei brutti ceffi con un tono di voce roco, accorgendosi di
Kevin e indicandolo
con un coltello. «Uccidiamolo!»
Vi furono urla di esultanza, poi, tutti
quelli che ne possedevano uno, puntarono i fucili. Kevin corse di nuovo
al
massimo delle sue capacità, pensando anche a come quella, se
non si fosse
sbrigato, potesse essere l’ultima corsa della sua vita, visto
che lo puntavano
da dietro e da destra.
Poi accadde tutto in un lampo. Gli
uomini aprirono il fuoco e le moto da cross entrarono in strada a loro
volta. A
quel punto si scatenò il putiferio. Gli uomini smisero di
sparare a lui e
concentrarono il fuoco sulle moto, percependole come una minaccia
più grande. I
piloti mascherati risposero al fuoco e furono costretti a fare
dietrofront, o
si sarebbero fatti ammazzare. E mentre quegli imbecilli si scannavano a
vicenda, Kevin raggiunse il vicolo e vi si infilò.
Passò accanto a file e file
di cassonetti dell’immondizia, tombini scoperchiati che
emanavano degli strani
fumi bianchi e porte si servizio rigorosamente sigillate. Si
fermò nei pressi
di una recinzione. Si piegò portandosi le mani sulle
ginocchia e riprese fiato
per l’ennesima volta, poi si guardò intorno. Non
c’era nessuno in giro, se non
degli schifosi ratti nei pressi dei cassonetti. Pure gli spari
risuonavano
lontani, in quel posto. Quasi per un attimo si sentì,
stupidamente, in un luogo
sicuro. Poi vide dall’altra parte del vicolo delle persone
correre verso di
lui. Kevin per un momento temette che si trattassero di altri folli, ma
cambiò
idea quando si accorse delle loro espressioni terrorizzate. E quando si
accorse
dei cani da caccia che li inseguivano, ringhiando e sbavando,
realizzò di
essere di nuovo nei guai. Fece per scappare ritornando indietro, ma poi
vide i
brutti ceffi che poco prima lo avevano puntato. Erano
dall’altra parte del vicolo
e correvano verso di lui, urlando e schiamazzando. Nel frattempo i cani
da
caccia raggiunsero le
loro prede e gli
saltarono addosso. Cominciarono a morderle sulle gambe e sulle braccia,
strappando via i loro vestiti come se fossero fatti di carta. Vide i
loro arti
ricoprirsi di sangue, mentre nelle sue orecchie rimbombavano le loro
urla
disperate e di dolore. Kevin si ritrovò di nuovo
imprigionato. Stormo di brutti
ceffi armati davanti, belve assassine dietro. A quel punto fece
l’unica cosa
che poteva fare. Saltò sulla recinzione e vi si
arrampicò sopra, infilando mani
e piedi nelle fessure della rete.
Gli uomini lo videro cercare di scappare
e urlarono di nuovo: «Tu non vai da nessuna parte, moccioso!
Dobbiamo
purificarci!»
Nel frattempo i cani smisero di
addentare le loro prede e si accorsero degli altri uomini. Un altro
gruppo di
ragazzi raggiunse il vicolo e si misero alle spalle dei loro animali.
Un gruppo
notò l’altro e cominciarono a volare di nuovo
proiettili. I due cani da caccia
furono scotennati e caddero a terra guaendo, in una pozza di sangue.
Diverse
persone morirono, dall’una e dall’altra parte.
Alcuni si beccarono proiettili
su gambe o braccia e cadevano a terra urlando, altri vennero solo
colpiti di
striscio. Kevin nel frattempo scavalcò la recinzione e
riprese a correre senza
tregua. Lo Sfogo era cominciato da dieci minuti e aveva già
rischiato di morire
due volte, salvandosi solamente per dei colpi di fortuna.
Paradossalmente, i
suoi salvatori erano gli stessi che cercavano di ucciderlo.
Proseguì a lungo per la fitta rete di
vicoli, poi si fermò di nuovo in quanto esausto. Non credeva di aver mai corso
così tanto, il suo
cuore stava per esplodergli nel petto. Appoggiò una mano ad
una fredda e lurida
parete di mattoni e si piegò, in preda al fiato grosso. Nel
frattempo continuò
ad udire spari e urla giungere da lontano. Gemette di nuovo spaventato,
poi
senti diversi e preoccupanti rumori provenire da un vicolo vicino a
quello in
cui si trovava lui. Non poté credere alla sua sfortuna.
Neanche un momento di
tranquillità. Ma dopotutto era fuori
la
notte dello Sfogo. La tranquillità non esisteva. Con il
cuore in gola e
prossimo all’infarto riprese a correre per la propria vita.
***
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo annuale: 11
ore e 32 minuti.
Dominick
stava guidando. Accanto
a lui, la strada scorreva e mostrava i primi segni dello Sfogo. Si
potevano già
trovare risse, sparatorie varie e cadaveri. Un sacco di persone
venivano
accerchiate da grossi stormi di uomini e imploravano pietà.
Il ragazzo faceva
di tutto per ignorarli e tirare dritto. C’era una regola non
scritta
riguardante lo Sfogo:
Non
salvare vite.
Durante
lo Sfogo, le vite vengono
prese, non salvate.
E
Dominick era uno molto
obbediente, quando gli era comodo. E non ficcare il naso nelle
sparatorie
altrui per salvare persone che nemmeno conosceva, era la cosa
più comoda di
quel mondo.
Vagò
a lungo per le vie
secondarie, dove lo spettacolo che gli si parava davanti era sempre
quello.
Risse, sparatorie, cadaveri. Alcuni cercarono di sparargli addosso, ma
il
ragazzo andava talmente forte che, anche se lo terrorizzavano, i
proiettili non
raggiungevano quasi mai la macchina. E poi per le vie secondarie il
delirio era
molto minore rispetto a quello delle vie principali.
Ormai
doveva essere quasi
arrivato. La Magnum fremeva sopra il cruscotto, anche lei voleva
prendere una
vita. E Dominick gliela avrebbe fatta prendere molto volentieri.
Avrebbe preso
quella vita che aveva portato via quelle dei suoi genitori.
Afferrò la pistola
e continuò a guidare con una mano. Si rigirò
l’arma tra le mani, domandandosi
se sarebbe riuscita a maneggiarla nella maniera più
appropriata.
Non
si accorse del furgone beige
che gli tagliò la strada.
Quando
lo vide, era troppo tardi.
Gli
si schiantò addosso, sul
fianco. Il ragazzo non sentì nulla. La macchina fu sbalzata
verso sinistra,
Dominick al suo interno venne scaraventato verso destra. Il veicolo
sbandò e
andò in testacoda. Si schiantò contro il bordo
della strada. il muso dell’auto
si accartocciò come una lattina per via
dell’impatto. Dominick batté una
violenta testata e si accasciò semisvenuto sul sedile.
Sentì il gusto metallico
del sangue nella sua bocca e sentì lo stesso liquido
colargli lungo la fronte e
macchiargli il naso. La sua vista si fece appannata e non
riuscì più a
distinguere bene cosa vedeva. La Magnum gli era scivolata di mano
subito dopo
l’impatto, non la trovò più.
Le
portiere della macchina si
aprirono e delle mani entrarono al suo interno. Dominick venne
afferrato per la
giacca e tirato fuori di peso.
Venne
messo in ginocchio davanti
a quello che sembrava un ragazzo. Aveva una maschera bianca, con una
parola
scritta sulla fronte, non capì cosa ci fosse scritto di
preciso perché non ci
vedeva ancora molto bene. Sentì qualcuno, probabilmente il
ragazzo che aveva di
fronte, dire: «Abbiamo
perso quello col cappello a visiera, ma questo può
andare altrettanto bene. Caricatelo sul furgone.»
Le mani si attorcigliarono di nuovo
intorno al corpo di Dominick e venne sollevato un’altra
volta. Non fece nulla
per difendersi, ancora troppo stordito dall’urto. Forse
doveva ringraziare di
essere ancora vivo, a dire la verità. Ma non lo sarebbe
stato ancora per molto.
Mentre veniva scaraventato di peso dentro quello che doveva essere il
vano di
carico del furgone, il suo unico pensiero fu che aveva fallito prima
ancora di
cominciare. Non avrebbe mai avuto la sua vendetta. Aveva perso Hester
per
niente. Aveva perso tutto e basta.
Lo portellone del furgone si chiuse e il
veicolo piombò nel buio. Sentì un rombo e il
terreno su cui era poggiato
cominciò a vibrare: il furgone era stato avviato.
Cominciò a muoversi e a portarlo
chissà
dove.
Dominick rimase in uno stato
semicosciente durante il viaggio, ma riuscì comunque a
distinguere diverse
figure in quel vano di carico. C’erano i ragazzi truccati e
mascherati che lo
avevano rapito. Tutti armati fino ai denti. Oltre a loro
c’erano molte altre
persone, che sembravano trovarsi nella stessa condizione del ragazzo:
feriti,
spaesati e spaventati. Sicuramente erano stati rapiti come lui. A che
pro, non
lo sapeva, ma non trovò né la forza fisica,
né il coraggio per domandarglielo.
Non voleva finire crivellato seduta stante.
Nella penombra scorse un’altra figura,
molto massiccia e imponente. Era un uomo, con i capelli ricci e un
folto paio
di baffi a manubrio. Anche lui sembrava essere dentro quel furgone non
per
propria volontà. La cosa particolare e che però
non sembrava affatto spaventato
di trovarsi li dentro. Anzi...si poteva dire che era tranquillo, quasi
come se
fosse normale per lui essere stato rapito da dei pazzi armati per
essere
portato chissà dove.
Dominick lo fissò intensamente, poi
distolse immediatamente lo sguardo quando quello si voltò
verso di lui.
Si guardò intorno. Era stato catturato
ed
era circondato da gente armata, ma per lo meno era ancora vivo. Se quei
tizi
avessero voluto purificarsi, lo avrebbero già ucciso,
perciò escluse quella
possibilità. Non volevano ucciderlo, ma allora cosa
volevano? Perché avevano
rapito lui e un paio di altre persone? Dove diavolo stavano andando?
Perché era
stato così coglione da uscire?
La risposta a quelle domande, eccetto
l’ultima, non
avrebbe atteso molto.
***
Tempo rimanente al termine dello Sfogo annuale: 11
ore e 24 minuti.
Thia
e Marianne cenarono in
silenzio. L’unico rumore che si sentiva erano le loro posate
che tintinnavano
toccando il piatto di ceramica con dentro la cena, la verdura che aveva
preparato la donna. Thia la odiava, preferiva di gran lunga il cibo
spazzatura
dei Fast Food fritto e strafritto, ma purtroppo era costretta ad
accontentarsi
di ciò che aveva.
Anche
se il silenzio era
opprimente e carico di nostalgia e brutti ricordi, le due erano
piuttosto
tranquille, per quanto tranquille si possa essere mentre fuori casa si
scatenava
lo stesso pandemonio che aveva sconvolto le loro vite.
«Allora...»
ruppe il silenzio Marianne, sollevando
la forchetta con ancora il pezzo di broccolo incastrato tra i suoi
denti. «Ti
piace la cena?»
«Moltissimo...»
brontolò Thia con la testa appoggiata su una mano mentre
puntellava la verdura, suscitando un sorriso a Marianne.
«Lo sapevo che avresti
apprezzato!»
«Ha ha...»
Quel breve momento di divertimento fu
interrotto da un forte bussare alla porta. Entrambe le donne alzarono
lo
sguardo e lo volsero verso l’ingresso.
«Chi può essere?»
domandò intimorita
Thia. Era cominciato lo Sfogo, perciò chiunque avesse
bussato non doveva essere
una persona con cui avere a che fare. Poteva essere un folle che
avrebbe
cercato di ucciderle, oppure qualche poveretto braccato e in fuga, che
chiedeva
aiuto. Ma aiutandolo non avrebbero fatto altro che decretare la loro
fine. Non
ci si doveva immischiare negli affari degli altri durante lo Sfogo, o
non si
sarebbe più riusciti ad uscirne indenni.
«Non lo so...ignoriamolo...»
rispose
Marianne altrettanto perplessa.
Ma fu difficile ignorare quel tizio che
adesso stava letteralmente prendendo a pugni la porta.
«APRITE! BRUTTE PUTTANE
APRITE!» gridò
quel qualcuno, facendo sobbalzare le due donne. «GIURO CHE SE
NON LO FATE
FACCIO ESPLODERE QUESTA PORTA DI MERDA! TROIE! APRITEMI
SUBITO!»
Thia sentì il terrore insinuarsi dentro
di lei, sotto la cute della pelle. Cominciò a tremare come
una foglia. Quelle
urla la riportarono a due anni prima, quando l’ultimo
componente della famiglia
che le era rimasto era morto di fronte a lei.
«M-Mary...»
Marianne, altrettanto spaventata, cercò
di rassicurarla. Le prese la mano e la costrinse a guardarla.
«Andrà tutto bene
Thia, ok? Adesso...io prendo la pistola...e vado a vedere chi
è, va bene? Tu
resta qui, non succederà nulla, né a me,
né a te, te lo prometto.»
Marianne
le lasciò andare
lentamente la mano e si alzò dalla sedia. Ma Thia non voleva
che se ne andasse
di là. Non voleva che la lasciasse sola. Non voleva
perderla. Temeva che se se
ne fosse andata, non sarebbe mai più tornata. «Mary, no...»
«Andrà tutto bene, figlia
mia...»
rispose calma Mary, mentre stringeva lentamente la mano intorno
all’impugnatura
della Beretta e si avviava cautamente verso l’ingresso.
Sentire quello
strumento nella sua mano fu una sensazione tanto famigliare quanto
sgradita.
Non voleva usare di nuovo un’arma. Gli era già
bastato farlo una volta. Ma lo
avrebbe fatto, se ciò avesse significato difendere la sua
nuova famiglia.
Raggiunse la porta e avvicinò
l’occhio
allo spioncino, ma non ci riuscì. La porta le esplose
addosso.
Venne sbalzata via e si ritrovò sdraiata
a terra, con un mucchio di graffi sanguinolenti a deturpare il suo
volto così
tanto bramato dagli uomini. L’unica cosa che
riuscì a sentire mentre le
orecchie le fischiavano terribilmente per via dell’esplosione
furono le urla
spaventate di Thia. Gemette sentendo la sua bambina urlare in quel
modo.
Avrebbe voluto alzarsi, mantenere fede alla sua promessa e difenderla,
ma non
ci riuscì. L’esplosione l’aveva
completamente inebetita. Le palpebre le si
chiusero lentamente, oscurando completamente la sua vista
già annebbiata dal
colpo ricevuto, poi il mondo intorno a lei svanì.
|
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Capitolo 6 *** Troy ***
Capitolo
VI
Troy
Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore
e 14 minuti.
Il
furgone arrestò la sua marcia
all’improvviso, facendo sbilanciare Dominick di lato. Lo
sportello posteriore
si aprì ed entrarono diversi tizi mascherati ed armati. Il
ragazzo e tutti gli
ostaggi vennero presi di forza e condotti fuori dal veicolo. Fecero il
giro
intorno al furgone e si ritrovarono davanti ad un paio di uomini
vestiti
eleganti. Dominick era ancora troppo stordito per accorgersi della
mazzetta di
soldi che quegli uomini consegnarono al ragazzino con la maschera
bianca. Non
appena quello prese i suoi soldi, il gruppo di pazzi mascherati si
diradò.
Salirono nuovamente sul furgone e sulle moto e se ne andarono da
lì,
abbandonando Dominick, l’uomo con i baffoni e gli altri
ostaggi, altri tre
uomini e tre donne, nelle grinfie degli uomini eleganti, che non
persero un
secondo e puntarono gli Mp5 contro di loro. Gli ostaggi alzarono le
mani, ognuno
di loro venne afferrato per la giacca o maglia e trascinato verso una
porta
chiusa. Uno degli aguzzini bussò tre volte e la porta venne
aperta
dall’interno, poi gli ostaggi furono spinti dentro
l’edificio.
Incitati
dalle armi puntate su di
loro, Dominick e gli altri proseguirono per una fitta rete di corridoi
spogli,
con pareti, soffitto e pavimento di un bianco accecante. Ogni volta che
rallentava, anche solo per pochi secondi, veniva puntellato dalla canna
della
mitraglietta dei suoi aguzzini e veniva costretto ad affrettare il
passo. Notò
che era lo stesso per tutti gli altri. Tutti quanti di tanto in tanto
rallentavano il passo e venivano costretti con le armi a riprenderlo.
Gli
uomini e le due donne che si trovavano nella sua stessa situazione di
tanto in
tanto gemevano spaventati o singhiozzavano. Lui stesso si stava
letteralmente
torcendo in due per la paura. L’unico che proseguiva
impassibile e a passo
sostenuto, senza necessitare incitazioni da parte dei mitra degli
aguzzini,
era, di nuovo, l’uomo con i baffoni a manubrio. Questo
proseguiva eretto in
tutta la sua statura e a testa alta, per nulla spaventato. Come diavolo
facesse
ad essere così tranquillo, Dominick non riusciva a
concepirlo.
Camminarono
a lungo, poi
raggiunsero una porta chiusa, che si aprì quasi
immediatamente, rivelando
quello che sembrava uno spoglio retroscena di un palcoscenico. Vennero
afferrati di peso e messi in ginocchio davanti a quello che era per
l’appunto
un sipario chiuso. Da dietro di esso si sentiva provenire il vociare di
diverse
persone, musica classica e risate. Gli uomini eleganti si misero dietro
di loro
e tennero le armi sollevate, pronti a fare fuoco sul primo di loro che
avesse
dato segni di ribellione. Gli ostaggi rimasero inginocchiati e
immobili, mentre
il sipario di apriva lentamente di fronte a loro, rivelando uno
spettacolo
molto insolito per la notte dello Sfogo. O meglio, era insolito per
Dominick,
che non sapeva affatto che durante tutto l’arco di quella
notte quello spettacolo
si susseguiva regolarmente, in più zone della
città.
Alla
sua visuale apparvero decine
e decine di tavoli rotondi e ben allestiti, intorno ai quali erano
seduti
molteplici uomini e donne, tutti vestiti eleganti e la maggior parte di
essi
con bicchieri pieni zeppi di champagne in mano. Tutti quanti fissavano
Dominick
e gli altri ostaggi con aria di sufficienza. Dom rabbrividì,
poi una donna
bionda e piuttosto avanti con gli anni, che si trovava sul palcoscenico
poco
lontana da loro, avvicinò il microfono che aveva in mano
alla bocca ed esordì
con tono gentile, che nascondeva tutta la sua maliziosità e
follia: «Molto
bene, gentili ospiti. Il primo lotto dell’asta è
finalmente arrivato.»
Un brusio di sottofondo andò a riempire
la stanza. Erano gli uomini seduti ai tavoli, che parlottavano tra loro
entusiasti. La donna accanto a Dominick singhiozzò,
così fecero la maggior
parte degli ostaggi, tranne l’uomo con i baffoni e lui.
«Come potete ben vedere, abbiamo otto
persone, tutte in ottima salute, pronte ad essere usate per purificare
le
vostre anime!» disse la donna porgendo un braccio verso Dom e
gli altri.
Un altro brusio si diffuse.
La donna fissò con lo sguardo pieno di
soddisfazione tutti quegli uomini e donne che facevano vagare lo
sguardo da un
ostaggio all’altro, domandandosi quale di loro sarebbe stato
il più facile da
ammazzare. Dominick era il più giovane, ma le tre donne
sembravano molto più
indifese di lui. L’uomo con i baffoni stonava in mezzo a quel
gruppetto. Era il
più grosso di tutti e messo a confronto con gli altri, la
sua stazza sembrava
ancora più imponente.
«Siccome questo è solamente il
primo
lotto...» riprese la donna avvicinando nuovamente il
microfono alla bocca. «...partiamo
con una base d’asta di centomila dollari!»
Dominick riuscì lentamente a mettere
insieme tutti i
pezzi. Un’asta. Lui e
gli ostaggi erano un lotto. Stavano per essere venduti. E quei tizi eleganti volevano
purificarsi.
«Oh cazzo...»
sussurrò, senza farsi
sentire. Cominciò a far vagare lo sguardo in ogni direzione,
alla ricerca di
una via di fuga, ma non appena si ricordò degli energumeni
dietro di lui che lo
tenevano sotto tiro, fu costretto a desistere.
Nel frattempo le prime mani cominciarono
ad alzarsi nella sala. Ad acquistare il primo lotto furono: due coppie
di un
uomo e una donna e un uomo con due ragazzi, probabilmente i suoi figli.
La donna sorrise e li acclamò con garbo:
«Molto bene! Abbiamo i signori Royce e Froid e le loro
graziosissime mogli
Katlina e Sasha.»
Gli uomini e le donne sollevarono i
calici colmi del liquido frizzante quando sentirono i loro nomi.
«E per finire abbiamo il signor Majestick
e i suoi cari figlioletti Josh e Greg!»
L’uomo sollevò la mano per
mettersi in
mostra e i due ragazzi, che dovevano avere su per giù
l’età di Dominick,
gonfiarono il petto pieni di orgoglio. Cosa ci fosse da essere
orgogliosi nello
stare per uccidere dei poveracci e un ragazzo con la loro stessa
età, non si
sapeva.
Dom fissò inorridito quei ricchi
psicopatici che da lì a poco avrebbero preso le loro vite.
«Molto bene, abbiamo i nostri
acquirenti!» sancì la donna, un sorriso gelato le
increspava il volto. «Prima
di cominciare la caccia, voglio ribadire che abbiamo aggiornato il
nostro assortimento.
Abbiamo introdotto molte armi interessanti, tra cui quella che vi
consiglio più
caldamente: la Lupara Calibro 12.» disse il nome
dell’arma con tono morbido,
quasi lo stesse accarezzando con la lingua. «E’
così perfetta che sembra
forgiata dagli angeli.»
Il sipario si richiuse lentamente
davanti agli ostaggi e la visuale di Dom sugli uomini eleganti venne
oscurata.
Cominciò a tremare, mentre accanto a lui gli ostaggi
riprendevano a
singhiozzare, poi gli uomini dietro di loro li afferrarono nuovamente
per le
giacche o maglie e li trascinarono via.
Sentì ancora la voce della donna
annunciare,
mentre il sipario la nascondeva: «Andate a prepararvi,
cacciatori, la vostra
purificazione avrà inizio tra quindici minuti.»
Di nuovo, Dominick rabbrividì, conscio
di cosa stava per accadergli e del fatto che possedesse solo
più quindici
minuti di vita. Guardò l’uomo con i baffi e, con
suo enorme stupore, lo trovò
perfettamente a proprio agio, senza alcuna traccia di paura nella sua
espressione, anche se pure la sua vita stesse per giungere al capolinea.
Cominciò
seriamente a credere che quel tipo
fosse fuori di testa.
***
Tempo
rimanente alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore e 7 minuti.
Kevin proseguì la sua maratona del
terrore ancora per molto tempo. Ogni volta che sentiva dei passi, un
mormorio o
degli spari, cambiava totalmente direzione e non smetteva di correre,
se non per
brevissime pause. Ormai il trucco lo
aveva capito. Bastava muoversi in continuazione. Fu
una strategia che si rivelò efficace,
finché non capitò nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Beh, quella notte
nessun posto e nessun momento erano giusti, però quella
volta ebbe davvero una
sfiga allucinante.
Stava correndo come aveva fatto fino a
un’ora prima, aveva svoltato l’angolo e si era
letteralmente scontrato con un
uomo. Solo che quello era grosso il doppio di lui, perciò
barcollò soltanto
dopo lo scontro, mentre Kevin si ritrovò con il culo a terra
in un batter di
ciglia.
Stava per rialzarsi e scappare con la
coda tra le gambe ad una velocità inaudita, ma si
pietrificò seduta stante
quando quel tizio grosso, calvo e barbuto gli puntò contro
il fucile che teneva
tra le mani. «Prova a scappare e ti trito,
moccioso!»
Kevin si sentì morire dentro. Le sue
gambe e braccia cedettero e gli sembrò di essere diventato
un inutile ammasso
di gelatina. Aprì la bocca, ma pure le parole gli morirono
in gola. L’uomo lo
afferrò per il colletto della felpa e lo issò in
piedi con una facilità quasi
allarmante. Sembrava un cucciolo di gatto sollevato per la collottola
dalla
madre. «Il capo sarà contento quando ti
vedrà! Aveva proprio bisogno di carne
fresca!»
«C-cosa?» riuscì a
biascicare Kevin, per
poi essere zittito da un’occhiata truce.
L’uomo lo condusse per la rete di vicoli
finché non raggiunsero la strada. Qui, radunati intorno ad
un pulmino
scolastico, con decine di cadaveri sanguinolenti e mutilati ai loro
piedi, si
trovava uno stormo di ceffi dieci volte più brutti di quelli
che Kevin aveva
incontrato poco prima.
Venne trascinato per un braccio in mezzo
a tutti loro. Gli uomini lo fissarono con sguardo famelico, desiderosi
di poter
mettere i loro denti su di lui. Kevin rabbrividì di nuovo e
riprese a pensare
ostinatamente di essere giunto alla fine. Venne condotto al cospetto di
un uomo
alto uno e novanta come minimo, ancora più grosso di quello
che lo teneva
bloccato. Aveva la barba corta e curata, i capelli altrettanto corti e
castani.
Era vestito con una divisa militare grigia e nera e teneva un fucile a
tracolla. A differenza di tutti gli altri non si stava divertendo a
massacrare
i poveracci stesi a terra. Più che altro faceva da
spettatore passivo.
«Ehi capo, guarda un po’
cos’ho trovato!»
esordì l’uomo allegro, agitando il braccio della
sua preda.
L’uomo, a quanto pare il capo,
fissò
attentamente lo scagnozzo, che stava sogghignando cattivo, poi
spostò lo
sguardo su di Kevin. Il ragazzino si sentì come folgorato da
quegli occhi grigi
e duri come la pietra. Lo osservò in silenzio per quelli che
parvero secoli e
secoli.
Intanto gli altri scagnozzi si erano
radunati intorno a loro per vedere al meglio la scena. Tutti quanti
agitavano
le armi che tenevano in mano e dicevano la loro opinione.
Kevin ne sentì parecchie, tipo:
«Spariamogli!»
«Impicchiamolo!»
«Bruciamolo!»
«Picchiamolo a sangue!»
Kevin era diventato bianco come un
lenzuolo e per poco non era svenuto sul colpo, suscitando
così l’ilarità nei
suoi aguzzini.
Alla fine fu il capo a riportare
l’ordine, con un tono talmente autoritario che perfino un
generale dei Marine
si sarebbe zittito: «Silenzio!»
Il gruppetto smise di abbaiare e tacque
istantaneamente. Quell’uomo sapeva davvero come imporre la
sua autorità, si
ritrovò a pensare Kevin ammirato, malgrado nel giro di pochi
minuti lo avrebbe
ucciso.
L’uomo prese la pistola che teneva nella
fondina e fece scorrere il carrello all’indietro, poi si
avvicinò a Kevin. Lo
sovrastò di quindici centimetri buoni e lo fissò
dall’alto. Kevin dovette
attingere a tutte le sue forze per riuscire a reggere lo sguardo
agghiacciante
degli occhi grigi dell’uomo, che avvicinò la testa
di scatto e la portò a
pochissimi centimetri di distanza dalla sua, per poterlo osservare
ancora più
da vicino. Il ragazzino deglutì, ma non distolse lo sguardo.
Si fissarono a lungo, poi l’uomo
abbozzò
un tenue sorriso e si allontanò da lui. Sollevò
la pistola e premette la canna
contro la fronte di Kevin.
Il ragazzino gemette spaventato, ma non
staccò gli occhi dall’uomo. Da
quell’uomo che nel giro di poco tempo sarebbe
diventato il suo assassino. Assassino che sarebbe rimasto impunito per
sempre,
agli occhi della legge. Un immagine dei suoi genitori che piangevano al
suo
funerale gli balenò per la mente. Per lo meno avrebbero
finalmente dedicato un
po’ di tempo a lui.
Lo sguardo dell’uomo era indecifrabile.
Era freddo, ma nient’altro. Non coglieva tracce di
cattiveria, sadico
divertimento o crudeltà dentro di esso. Non coglieva nulla.
Il capo della banda avvicinò il dito al
grilletto. Lo stormo di brutti ceffi si agitò, eccitato
all’idea di vedere
un’altra esecuzione, per di più del loro capo. Fu
solo allora che Kevin chiuse
gli occhi per non vederlo mentre poneva fine alla sua vita.
Sentì il suo
aguzzino dire: «Si purifichi con questo verme,
capo!»
Non però vide l’uomo che
allontanava di
scatto il dito dal grilletto e colpiva violentemente con il calcio
dell’arma la
tempia di quel ceffo calvo che teneva bloccato Kevin. L’uomo
crollò a terra
facendo un verso di dolore, mentre Kevin, sentendo di nuovo il braccio
libero,
spalancò gli occhi sorpreso e si ritrovò quella
scena di fronte. Il suo cuore
cessò di battere per un istante, per la sorpresa.
Il gruppo intorno a lui si agitò di
nuovo, sbigottito tanto quanto Kevin e l’uomo a terra, che si
massaggiava la
tempia gemendo, ma non fece nulla.
Il capo della banda guardò gli scagnozzi
e accennò all’uomo a terra: «Sollevatelo
e bloccatelo.»
Due uomini del gruppo, ancora piuttosto
sorpresi, obbedirono e sollevarono l’uomo, per poi tenerlo
bloccato per le
braccia.
Quello se ne accorse e cominciò ad
agitarsi, per poi guardare il suo capo in cerca di
spiegazioni.«Ehi! Che cazzo
vuole fare?! Ehi!»
L’uomo non rispose, puntò
invece la
pistola contro di Kevin. Il ragazzino sobbalzò e
alzò le mani. L’altro abbozzò
un altro sorriso, poi roteò la pistola con un abile gesto e
si ritrovò a tenerla
per la canna, mentre puntava verso di Kevin l’impugnatura.
Kevin lo fissò sbalordito mentre gli
porgeva l’arma. Non ci stava capendo più niente.
«Prendila.» ordinò
l’uomo.
Il ragazzino obbedì istantaneamente,
quasi come in uno stato di trance. Chiuse la mano intorno
all’impugnatura della
pistola e l’uomo gliela cedette. Kevin si sorprese parecchio
sentendo quanto
pesante fosse quell’arma.
«E adesso...»
incalzò l’uomo, portando
l’indice contro l’uomo calvo e imprigionato dalla
morsa degli altri. «...spara
al tuo aguzzino.»
Kevin strabuzzò gli occhi. Il contatore
del suo stupore ormai era schizzato dalle stelle a direttamente un
altro
universo. Prima voleva ucciderlo e adesso voleva che fosse lui stesso
ad
uccidere? Anche gli altri uomini cominciarono a porsi quella domanda,
ma
nessuno fece niente, si limitarono ad osservare Kevin e ad aspettare la
sua
mossa.
Sentendo tutti gli sguardi posati su di
lui e la tensione salirgli vertiginosamente puntò
l’arma contro il suo ex
aguzzino, che lo incenerì con un’occhiataccia
carica di odio. «Non oserai mica
farlo, schifoso verme...»
La mano di Kevin tremò. Certo che no.
Non avrebbe mai voluto ucciderlo. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio.
Lui non
era come tutti gli altri, non sentiva il bisogno di uccidere per stare
meglio.
Non se la sentiva di porre fine ad un’altra vita. Nessuno ha
il diritto di
farlo. Ma ciò che non avrebbe mai voluto fare, era quello
che invece quel
branco di uomini assetati di sangue si aspettava da lui. Era con le
mani
legate.
Poi guardò meglio quell’uomo e
quella
sua espressione disgustata e di superiorità.
Quell’espressione che gli
ricordava molto, troppo, quella di Nicols. Il bastardo che lo aveva
trascinato
in quel casino. Colui che aveva quasi posto la parola fine alla sua
vita. E per
cosa? Per un paio di litigi a scuola? Perché era pazzo? Non
era una scusa
valida. Solo perché non ci stava con la testa, non
significava che poteva fare
una cosa del genere ad un ragazzo come lui. E poi, perché
cazzo non era in un
manicomio?
Kevin digrignò i denti mentre
l’uomo lo
insultava di nuovo, per nulla spaventato: «Allora merdina,
cosa pensi di...»
«STA ZITTO STRONZO!»
sbraitò Kevin
ammutolendolo, suscitando altro stupore negli uomini intorno a lui e un
altro
sorriso nel capo della banda. Il ragazzo aveva perso la pazienza. Era
stato
insultato e maltrattato fin troppo in quell’ora. Adesso era
lui ad avere il
coltello dalla parte del manico. Non sapeva quanto sarebbe durata
quella
situazione, ma non gli importava. Se proprio era destinato a morire,
voleva
farlo dopo essersi sentito potente a sua volta. «Non sei
nella posizione per
insultarmi! Ho io la pistola in mano e tu sei quello bloccato! Come ci
si
sente? Eh?! E hai perfino il coraggio di insultarmi! Dovresti
strisciare ai
miei piedi e implorare pietà, non il contrario, testa di
cazzo!»
Ad ogni parola del ragazzo, il capo dei
ceffi accentuava il sorriso sul suo volto. Un sorriso
quasi...orgoglioso.
L’uomo calvo si zittì
completamente e
impallidì. Farfugliò qualcosa di incomprensibile,
al che Kevin sparò per aria,
facendo sobbalzare l’uomo. Per poco la mano di Kevin non si
ruppe per via del
contraccolpo, ma il ragazzino strinse i denti e mantenne i nervi saldi.
Ripuntò
l’arma contro l’uomo e lo incalzò:
«Allora?!»
L’ex aguzzino divenne cupo in volto.
«Se
pensi di potermi convincere ad abbassarmi al tuo livello allora ti
sba...»
Kevin gli sparò addosso. Non voleva
ucciderlo, solo ferirlo, magari colpendolo ad una gamba. Invece
calcolò male la
traiettoria. Il proiettile raggiunse l’uomo allo stomaco,
facendogli emettere
un grido straziante. Kevin sbiancò. L’uomo
sputò sangue e la presa intorno alle
sue braccia si allentò. Lo lasciarono andare e si
accasciò a terra, continuando
ad urlare come impazzito. Si portò entrambe le mani sulla
pancia e cercò di
ostacolare la perdita di sangue, mentre tutti quanti fissavano attoniti
la
scena, Kevin in primis. La pistola gli scivolò lentamente di
mano e cadde a
terra, mentre fissava inorridito il suo stesso operato. Aveva appena
sparato ad
un uomo, probabilmente ferendolo mortalmente. Se non avessero fatto
qualcosa,
quell’uomo sarebbe morto per causa sua. Si aspettò
di vedere i ceffi andare a
soccorrerlo e mettersi a cercare di ucciderlo per aver appena sparato
in quel
modo ad un loro compagno, ma nulla di tutto ciò accadde.
Tutti quanti rimasero
immobili, ad osservare Kevin, interdetti, stupiti, sorpresi.
Il capo della banda affiancò Kevin, poi
prese un’altra pistola e sparò dritto nella testa
pelata dell’uomo già ferito
dal ragazzo. Le sue urla cessarono all’improvviso. Kevin
sobbalzò e fissò
inorridito tutta la scena. Poi il capo della banda gli sorrise e gli
porse la
mano: «Sono Troy, il capo di questi pazzoidi. Tu invece,
ragazzo?»
A Kevin girò la testa. Strinse la mano
di Troy per inerzia e rispose, con sguardo vitreo:
«Kevin...»
Troy allargò il sorriso e si
separò
dalla stretta. Si rivolse a tutto il gruppo di uomini intorno a loro ed
esordì
allargando le braccia: «Signori...date il benvenuto al nostro
nuovo componente!»
Credeva di aver raggiunto il limite al
suo stupore. E invece no. Kevin cominciò seriamente a
pensare di non trovarsi
più sulla Terra e di essere finito in qualche dimensione
parallela. Tutto
quello era impossibile. Ridicolo, addirittura.
Fissò gli uomini intorno a lui, che lo
fissavano sbigottiti a loro volta, poi, all’improvviso, un
boato si levò in
mezzo a loro e tutti quanti si ritrovarono ad acclamare ed esultare il
nuovo
membro del gruppo.
Quello era troppo. Il suo giovane
cervello non riuscì più a reggere tutto quello a
cui stava assistendo.
Kevin roteò gli occhi e svenne.
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Capitolo 7 *** Purificazioni ***
Capitolo
VII
Purificazioni
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 11
ore
Intorno
a lei c’era solamente
buio. Non riusciva a vedere altro. Solamente un’enorme
distesa scura, che si
diramava in ogni direzione a perdita d’occhio. Riusciva a
percepire quel buio,
ma nient’altro, nemmeno il suo stesso corpo. Le sembrava di
essere diventata un
fantasma.
La
sua mente era un turbinio
confuso di ricordi e pensieri. Un sacco di frasi parole le rimbombavano
dentro,
sembravano una tempesta. Non riusciva neanche a metterne insieme due,
di questi
pensieri. Non riusciva più a ragionare, a riflettere.
Tutto
questo continuò finché non
sentì, sempre tra i suoi ricordi, delle urla spaventate,
provenienti da una
voce dolce ed esile molto famigliare. La stavano chiamando. Urlavano il
suo
nome disperatamente. Altre voci frapposero, si sentì uno
strano rumore e le
urla cessarono, rimpiazzate da un pianto. Non appena sentì
quei singulti, il
suo cervello ricevette un impulso. Non sapeva perché, ma non
poteva permettere
a chiunque fosse quella persona di piangere. Non quando c’era
lei in sua
compagnia. Doveva proteggerla.
Finalmente
riuscì a percepire
altre sensazioni. Riuscì a percepire la brezza fredda che le
attraversò tutta
la spina dorsale, facendola trasalire. Riuscì ad avvertire
il proprio battito
cardiaco. Perfino il tremolio delle sue palpebre.
Sentì
altre voci, ma questa volta
non erano dei ricordi. Erano lì, a poca distanza da lei.
Erano molto offuscate
e metà delle parole che sentì risuonarono
distorte, ma ciò le permise comunque
di realizzare di essere ancora viva, di squarciare
quell’oscurità che la stava
avvolgendo.
«Dannazione...» cominciò
una voce. «...tu e il tuo dannato esplosivo artigianale! Hai
visto che cosa le
hai fatto alla faccia?»
«Smettila, sono solo un po’ di
graffi e
qualche ustione...» brontolò una seconda voce,
molto più rilassata della prima.
«Un po’ di graffi?!»
protestò ancora più
accigliata l’altra voce. «Guardala! L’hai
rovinata!»
«Ma chissenefrega! Il suo corpo
è ancora
immacolato! E se non ti piace puoi sempre prenderti la
biondina!»
«Te lo scordi...»
Finalmente riuscì ad aprire gli occhi e
a percepire anche cos’aveva intorno. La prima cosa che
realizzò, fu il dolore
pazzesco che provava alla faccia, più il gusto metallico del
sangue in bocca.
Le sue guancie erano umidicce, bagnate da qualcosa di caldo e viscoso,
mentre i
suoi lunghi capelli erano premuti sul suo volto in più
punti, gli stessi che
sentiva bagnati. Probabilmente si erano incollati alla sostanza
viscosa.
I suoi occhi focalizzarono due macchie
indistinte di fronte a lei, che andarono pian piano a mettersi a fuoco.
Dopo un
lungo momento, riuscì perfettamente a distinguere due
sedili, con seduti sopra
due uomini, un parabrezza, un volante, leva del cambio, finestrini. Una
macchina, con lei e altri due uomini a bordo.
Ancora troppo intontita, non seppe cosa
pensare. Fino a quando non sentì un gemito strozzato di
fianco a lei. A quel
punto si girò lentamente, provocandosi un’enorme
fitta di dolore al collo, e
vide da chi era provenuto quel verso. Seduta accanto a lei,
c’era una ragazzina
giovane e minuta, con i capelli biondi e corti, una benda davanti alla
bocca e
mani e piedi legati da altre bende. Aveva il volto e gli occhi
arrossati, le
guancie ancora con i segni lasciati dal passaggio di numerose lacrime.
Non ci mise un secondo di troppo per
riconoscerla. La ragazza che avrebbe difeso al costo della vita. La sua
nuova
famiglia, la sua bambina.
Aprì la bocca per chiamarla, ma da essa
non fuoriuscì alcuna parola, neanche un verso strozzato.
Niente di niente.
L’unica cosa che accadde fu che sentì
l’ennesima fitta di dolore, questa volta
alle labbra, sicuramente spaccate.
Allora cercò di muoversi per
raggiungerla, per abbracciarla e rincuorarla in quel suo momento di
debolezza,
ma si rese conto a sua volta di avere mani e piedi bloccati.
Spostò lo sguardo
sui suoi polsi e vide le fasce che li tenevano intrecciati fra loro.
Erano
state legate in una maniera così stretta che le sentiva
penetrarle nella carne.
I polsi le bruciavano terribilmente.
Sentì un altro gemito soffocato e volse
di nuovo lo sguardo verso la ragazzina. Aveva la testa sepolta fra le
spalle e
diverse lacrime, questa volta fresche, che le rigavano quel volto
bello, ma
allo stesso tempo così fragile che sarebbe bastato un
po’ di vento per
spezzarlo in più punti. La sua bambina. Stava piangendo di
fronte a lei. Era
troppo. Il suo affetto materno fu più potente di qualsiasi
altra cosa e le
permise di trovare la forza per superare il dolore e riuscire a
parlare. Dalla
sua bocca uscì finalmente una parola, che disse molto
flebilmente, con un tono
che sembrava starsi per spegnere da un momento all’altro:
«T-Thia...»
La
ragazzina sobbalzò e si voltò
verso di lei, con gli occhi talmente spalancati che sembravano
schizzare fuori
dalle orbite. Lo stupore che fuoriusciva dalle iridi azzurre
cristalline della
sua bambina si poteva notare anche ad un chilometro di distanza. Ma nel
giro di
pochi attimi si trasformò in sollievo. Cominciò
ad emettere altri versi
strozzati, probabilmente per chiamarla, ma la fascia le offuscava la
voce.
Quando
gli uomini seduti davanti
si accorsero del comportamento anomalo di Thia si voltarono.
Individuarono
immediatamente la causa di tutto quello, ovvero la loro ospite,
dapprima
addormentata, finalmente sveglia.
«Ben tornata fra noi, cara
Mary!» la
schernì quello al voltante. Aveva il volto coperto da un
passamontagna e uno
spesso giaccone nero, chiuso. Marianne non riuscì a
riconoscerlo.
«Concentrati sulla strada,
idiota!» lo
rimproverò l’altro, anche lui con il volto coperto
da uno scalda collo mimetico
e un cappuccio alzato. Questa volta, però, alla donna parve
di riconoscere la
sua voce.
Il guidatore cominciò a muovere una mano
a mo’ di una bocca che si apriva e chiudeva e
blaterò: «Bla bla bla...» poi
rivolse la sua attenzione di nuovo davanti a sé.
«Cosa...chi siete?»
mormorò di nuovo
Marianne, ancora stordita dal dolore.
Quello seduto sul sedile del passeggero
rimase a guardarla e rispose, cercando di usare un tono più
rassicurante
possibile: «Non ha importanza...non vi faremo alcun male, ve
lo prometto...»
Improvvisamente Marianne realizzò tutto
quanto. Lei e Thia erano state rapite da quei due, per motivi che
ancora non
capiva, ma non ci voleva nemmeno molto per arrivarci. Thia era una
bella
ragazza, lei una bella donna, malgrado cercasse di nasconderlo
pettinandosi
sempre i capelli davanti al volto, e quelli erano due uomini. Di certo
non le
stavano portando ad una cenetta romantica.
«Parla per te!»
tuonò intanto quello al
volante sogghignando. «Io ho intenzione di darci dentro alla
grande!»
«Ma vuoi stare zitto?!»
esclamò l’altro
guardandolo male, permettendo a Marianne di inquadrare perfettamente il
suo
tono di voce.
Quasi non credette a ciò che disse
quando
parlò di nuovo. «D-David?»
Sperò di essersi sbagliata.
Sperò che
quell’uomo scoppiasse a ridere e le
dicesse di aver fatto un enorme buco nell’acqua. Avrebbe di
gran lunga
preferito che così fosse. Che fosse solo un folle. Invece
quello spalancò gli
occhi, chiaro segno che era sorpreso. Sorpreso di essere stato
riconosciuto.
«Sei tu, David?» insistette
Marianne,
quando si accorse che la risposta tardava ad arrivare.
Sperò fino all’ultimo che
quello
confutasse la sua tesi, ma così non fu. Con suo enorme
orrore, l’uomo abbassò
la testa. Fece per parlare, ma il guidatore lo interruppe bruscamente:
«Ehi,
bambola, perché non stai un po’ zitta? O vuoi che
ti tappiamo la bocca come
abbiamo fatto con la tua amichetta, che non ha smesso di urlare per un
solo
secondo?»
«Finiscila Greg...»
brontolò l’altro.
Il guidatore si accigliò parecchio
quando sentì il suo nome fuoriuscire dalla bocca del
complice. «Che cazzo fai
coglione?! Solo perché ti ha beccato non significa che devi
far sgamare anche
me! Vuoi anche dargli il mio cazzo di indirizzo?!»
David, ormai era chiaro che fosse lui,
sbuffò e non rispose.
Marianne non credeva alle proprie
orecchie. Non poteva concepire quella cosa. Non avrebbe mai pensato che
David
potesse fare una cosa del genere. Lei stessa aveva promesso a Thia che
quell’uomo le avrebbe lasciate in pace. Non solo le aveva
mentito quando le
aveva detto che quella notte sarebbero state al sicuro, ma lo aveva
pure fatto
quando aveva parlato di quell’uomo. Aveva detto un sacco di
menzogne alla sua
povera bambina, che ora più di tutti ne pagava le
conseguenze.
Intanto Thia, come volevasi dimostrare,
fissava incredula prima David, poi Marianne, chiaramente sconvolta
dalla
verità.
Marianne si voltò verso di lei e i loro
occhi si incrociarono. Davanti a quelle iridi azzurre, così
belle, così fragili
e innocenti, Marianne volle sprofondare. Lei non meritava tutto quello.
Aveva
sofferto fin troppo in tutta la sua vita. E adesso perfino la donna di
cui si
fidava di più l’aveva ingannata. Il mondo doveva
starle cadendo addosso.
La donna non riuscì più a
reggere quello
sguardo e si spostò di nuovo su David. Lo fissò
implorante. Se davvero credeva
di conoscerlo, allora forse poteva ancora salvare la situazione.
«David...perché
lo hai fatto? Credevo che tu fossi meglio di
così...»
Non conosceva affatto quell’uomo. Non
appena finì di parlare, quello esplose. Il suo sguardo si
caricò di rabbia e
Marianne si spaventò. «Perché?! Osi
chiedermi perché?! Sono ANNI che lavoriamo
insieme e tu non mi hai nemmeno mai guardato! Tutti i giorni mi passi
davanti
senza neanche considerarmi, sembra che io per te non esista nemmeno!
Sembra che
tu ti creda la regina di tutti e tutto, in grado di poter ignorare
bellamente
chiunque ti pare! Non mi hai mai dato un’occasione, in tutti
questi anni! Mai
una volta che accettassi anche solo di prenderti un caffè
con me, per cinque
fottuti minuti! Non mi hai mai concesso nulla! Credi che mi faccia
piacere
sentirmi una merda calpestata da te?! EH?!»
La donna indietreggiò con la testa,
intimorita da quell’uomo che stava mostrando un lato di
sé che non pensava
potesse esistere. Non era una brava persona. Era un mostro come tutti
gli
altri. Lo sapeva benissimo che lei faceva così
perché era rimasta vedova, ma
non gli importava. In lei non vedeva una donna affranta, che non poteva
stare
con gli uomini perché le ricordavano il defunto marito, la
cui morte dopo due
anni ancora rimpiangeva. Vedeva solo un bel viso e un bel corpo. Come
tutti quelli
che aveva conosciuto.
«Questa notte...sarai finalmente mia,
Marianne...ma puoi stare tranquilla, non ti ucciderò. Voglio
solo...approfittare
un po’ di questo evento. Se si chiama Sfogo ci
sarà un motivo, dopotutto.»
«Ah, allora la bionda me la prendo
io?»
domandò Greg.
David scrollò le spalle. «Va
bene, vacci
solo piano.»
Greg scoppiò in una fragorosa risata,
prima di rispondere malizioso: «Decido io come andarci con
lei, hai capito?!»
Thia emise un altro verso strozzato
sentendo cosa stavano confabulando quei due. All’idea di
restare con quel porco
di Greg la paura si insinuò in ogni centimetro della sua
pelle e cominciò a
dimenarsi come un’ossessa per cercare di scappare.
Marianne cercò di richiamarla, di
calmarla, ma fu tutto inutile. Thia non ascoltava più
nessuno, se non quella
voce nella sua testa che le imponeva di scappare da lì,
prima di ritrovarsi con
l’interno coscia sfondato da un maniaco. Con le mani ancora
legate cercò di
aprire la porta tirando la maniglia, ma l’autista doveva
averle bloccate con
l’apposito pulsante da davanti.
«Thia! Thia calmati ti prego!»
implorava
Marianne con le lacrime agli occhi, senza risultati.
«David, porca puttana calma quella troia
o giuro che lo faccio io!» esclamò Greg schiumante
di rabbia, vedendo la sua
gallinella fare i capricci. Per lui le donne dovevano sottomettersi e
basta,
perché erano inferiori all’uomo. Il mondo
funzionava così: l’uomo comanda, la
donna obbedisce. Se la donna non obbedisce, allora l’uomo usa
le maniere forti.
Quella stronzetta non era esclusa da quella sua particolare corrente di
pensiero.
David digrignò i denti e
guardò
Marianne, poi le ordinò: «Hai capito? Dalle una
tranquillizzata. Io non ci
perdo niente se Greg la fa calmare a suo modo, ma è meglio
per il suo bene che lo
faccia.»
Marianne riuscì a schiudere le mani
dapprima premute fra loro. Sentendo i polsi dolerle terribilmente a
causa del
bruciore provocato da quella fascia strettissima. Avvolse le mani
aperte a mo’
di preghiera intorno alle guancie di Thia e la costrinse a guardarla
negli
occhi. Sentendo quel contatto così affettuoso e apprensivo,
Thia venne pervasa
da una piacevole sensazione di calore, quel calore materno che solo
Marianne
riusciva a donarle. Quella sensazione riuscì a farla calmare
ed estraniare
dalla mente tutti i pensieri negativi. Incrociò le iridi
smeraldo della sua nuova
famiglia e smise di agitarsi.
La donna la fissò implorante, con le
lacrime agli occhi. Si sentì malissimo al pensiero di
doverle mentire di nuovo,
ma non c’era altra soluzione. Non voleva che quel viscido di
un Greg le facesse
qualcosa davanti ai suoi occhi. «Thia...ti
prego, ascoltami...andrà...tutto bene. Ok? Te lo prometto.
Non ci faranno
nulla, fidati di me...»
Per rafforzare ulteriormente quella
richiesta di fiducia, la donna si sporse verso di lei e le
baciò la fronte com’era
solita fare. Non appena le sue labbra spaccate, ma morbide allo stesso
tempo,
toccarono la fronte della ragazza, questa si sentì
ulteriormente protetta. Quel
bacio che solo una vera madre avrebbe potuto darle la convinse che Mary
stesse
dicendo la verità, che tutto sarebbe andato bene.
«Non permetterò a nessuno di
farti del
male...figlia mia.» terminò Marianne separandosi
di nuovo da lei e guardandola
con degli occhi che avrebbero fatto coraggio a chiunque.
Thia annuì lievemente, rincuorata. Una
parte di lei sapeva che non avevano speranze e che quella notte loro
sarebbero
state oggetto di purificazione per quei due. Era ovvio. Nessuno poteva
salvarle
veramente. Ogni possibile salvatore, poteva rivelarsi
un’altra potenziale
minaccia, quella notte. Ma un’altra parte invece non appena
vide quell’appiglio
di speranza, ci si aggrappò all’istante, sperando
di poter riuscire a salire
fino in cima.
Sentendo quelle parole, in particolare
le ultime due, David strabuzzò gli occhi e guardò
basito Marianne. «F-"Figlia
mia?»
Anche Greg era piuttosto sorpreso,
dopotutto Marianne non poteva essere più vecchia di Thia di
dieci anni, come
poteva essere sua madre?
Marianne si voltò verso la causa di
tutta quella situazione e sibilò a denti stretti:
«Fatti i cazzi tuoi.»
David ammutolì, mentre Greg
scoppiò a
ridere.
«Accidenti...»
cominciò a dire con
ilarità. «...sei una gallinella volgare, eh? Mi
fanno impazzire. Quasi mi
dispiace non potermela prendere con te questa sera...»
Marianne digrignò i denti. Non
sopportava
più la presenza di quei due. All’inizio ne era
intimorita, ma non appena aveva
visto quanto stessero terrorizzando Thia, aveva messo da parte la paura
e
lasciato spazio alla rabbia. Nessuno poteva maltrattare la sua bambina
in quel
modo, oltretutto in sua presenza. Lei non si meritava tutto quello. Era
una
vittima innocente, una ragazzina d’oro, coinvolta in un mondo
troppo crudele e
ingiusto per lei. Improvvisamente non le sembrò
più di averle mentito, quando
le aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Anzi, si ripromise di
salvarla in
un modo o nell’altro.
E lo avrebbe fatto. A quella ragazza non
sarebbe stato torto un capello di troppo, quella notte.
Te
lo prometto.
***
Tempo
rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 55 minuti.
Un parco. Quel posto sembrava in tutto e
per tutto un parco. Tipo quelli delle città, con panchine,
alberi, fontane,
bambini che corrono spensierati, cagnolini che giocherellano tra loro e
così
via. Solo che quello era completamente buio, illuminato solo da quattro
lampioni verdi e soprattutto non c’erano bambini o cagnolini.
C’erano Dominick,
l’uomo con i baffoni e gli altri sei ostaggi, soli,
spaventati e infreddoliti.
Erano stati condotti in quel luogo
misterioso dagli uomini eleganti armati. Li avevano spinti oltre una
porta, poi
l’avevano barricata dall’interno e gli otto erano
rimasti intrappolati lì. A
quel punto ognuno aveva preso la propria strada. Dominick era rimasto
così
concentrato dal posto in cui si trovava, che non si era nemmeno accorto
di
essere rimasto solo. A quel punto aveva guardato in ogni direzione per
trovare
almeno uno di loro, per non rimanere da solo, ma era stato tutto vano.
La vastezza
di quel luogo e il buio che ne ricopriva buona parte gli aveva impedito
di
vedere anche solo le loro ombre.
Così si era messo anche lui a vagare per
quel posto. Più lo guardava, più si convinceva
che assomigliava ad un parco,
con il suolo, però, completamente in cemento, senza nemmeno
uno spiraglio d’erba.
Ovvio, erano pur sempre in un edificio. Attraversò un
piccolo marciapiede delimitato
da due muretti con dietro delle alte siepi e si ritrovò
nella piazzola centrale,
dove c’erano i quattro lampioni che fornivano la fioca luce e
una fontana
circolare vuota. Da quella piazzola, altri tre marciapiedi partivano e
conducevano in altri sentieri delimitati da muretti e siepi. Dominick
si infilò
in uno di essi e proseguì, continuando la sua ricerca di uno
qualsiasi degli
ostaggi. Si ritrovò fuori dalla piazzola e
continuò a camminare lungo
marciapiedi e accanto a siepi, guardando in ogni direzione, ma il buio
non era
d’aiuto.
Approfittò anche di quel momento per
raccogliere le idee.
Inutile dire che si stava letteralmente cagando
addosso per la paura. Era stato rapito, portato ad un asta, venduto e
condotto
in quel luogo buio, con l’unica certezza che gli restavano
quindici minuti di
vita. Quei ricchi pazzi volevano purificarsi e per farlo avrebbero
ucciso lui e
gli altri ostaggi. A quel punto forse capì. Quella specie di
parco, era una
qualche sorta di terreno di caccia. Loro erano i cacciatori, lui la
preda. In
effetti, ripensando al discorso della donna bionda, a come diceva di
possedere
una vasta gamma di armi, quella sembrava essere l’unica
soluzione. E ciò non
fece che confermare le sue teorie. Aveva solo più quindici
minuti di vita. Anzi,
di meno, visto che ormai era già da un po’ che
vagava lì dentro senza meta. Degli
altri neanche l’ombra, c’era solamente
più lui. Senza nemmeno rendersene conto
si ritrovò ai margini del terreno, in un’altra
piazzola, dotata di una
ringhiera di cemento che si affacciava su qualcosa. Si
avvicinò e fece per
sporgersi, quasi sperando di aver trovato una via di fuga, ma non
appena sbatté
la testa contro la parete, capì che quella piazzola non si
affacciava su nulla.
Era tutto ricreato ad hoc.
Imprecando e massaggiandosi la testa,
riprese a camminare allo stato brado, dandosi anche dello stupido per
aver
pensato di aver trovato una via di fuga. E ti pareva veramente che la
mettessero così a portata di mano? Sicuramente lì
da qualche parte c’era una
porta nascosta, magari un’uscita d’emergenza.
Trovarla era il problema. Proseguì
per un altro marciapiede, rasente alla parete della stanza e ad
un’altra siepe.
Mentre il suo sguardo guizzava in ogni
direzione, incrociò un paio di finestre rialzate di almeno
tre o quattro metri,
che si affacciavano dalla parete accanto a lui. Dietro il vetro di
queste,
individuò chiaramente la donna bionda che aveva diretto
l’asta e buona parte
dei ricconi seduti ai tavoli. A quel punto fu sicuro al cento percento.
Lui era la preda,
loro erano i cacciatori e
tutto quanto era in diretta davanti agli occhi di quei folli che
avevano deciso
di non partecipare all’asta.
Non appena li vide guardarlo con quei
sorrisi freddi e rigorosamente fuori di testa, con quella loro aria di
superiorità,
Dominick sentì il sangue ribollire nelle vene per la rabbia.
Digrignò i denti e
si piantò le unghie nei palmi, poi cominciò a
cercare per terra qualcosa da
tirare contro quella cazzo di finestra e far sparire quei sorrisetti da
quelle
facce da culo. Non trovò nulla per terra, ma
d’altronde poteva aspettarselo. Una
pietra avrebbe potuto essere usata come arma di difesa dagli ostaggi.
Ma loro
erano le vittime sacrificali, le prede. Dovevano, con la loro morte,
purificare
le anime di quei ricconi. Perché era a questo che esistevano
i più poveri,
purificare i più ricchi. Guai a cercare di difendersi.
Dovevano subire e stare
zitti.
Quel pensiero non fece che aumentare la
rabbia del ragazzo, che a quel punto, non potendo fare altro,
sollevò entrambi
i medi e li puntò a quelle persone che lo guardavano
dall’alto. Vide i loro
sorrisi vacillare quando si accorsero di lui e del suo gesto.
Probabilmente non
erano abituati a vedere un povero uscire fuori dal suo posto e osare
mandarli a
quel paese. Dominick stava anche per passare alle parole e fare uso di
tutti
gli insulti peggiori che conoscesse, ma si bloccò di colpo
quando sentì un’altra
porta aprirsi. Ed era poco lontano da lui. Una candida luce bianca
invase parte
del parco mentre le sette persone che avevano comprato lui e gli altri
ostaggi
entravano. Ognuno di loro possedeva dei bizzarri occhiali con lenti
verdi scure.
Avevano indosso abiti semplici, pantaloni e giacche da cacciatori, e
non più i
vestiti eleganti. Ognuno di loro aveva quel sorriso folle stampato in
faccia e
un fucile per le mani.
Non appena Dominick li vide si sentì
mancare. Con un impeto di forza riuscì a scappare via e
nascondersi tra le
tenebre. Da lì li vide prendersi tutti quanti per mano e
chinare la testa, come
in preghiera.
«Benedetti
i nuovi padri fondatori, che ci hanno permesso di poterci sfogare e
purificare
le nostre anime. Benedetta l’America, una nazione risorta.»
recitarono in
coro, prima di sciogliere i legami tra lo loro mani.
Dominick sentì la pelle accapponarsi
quando sentì quei versi. Soprattutto perché
quello che avrebbe permesso loro di
purificarsi era lui.
Intanto quelli, non appena finirono di
parlare, si voltarono tutti, ma proprio tutti, nel punto esatto in cui
era rintanato
Dominick. Allargarono i loro falsi sorrisi e puntarono i fucili.
Dominick non riuscì a concepire come
diavolo riuscirono a vederlo, ma ciò non fu esattamente il
suo primo pensiero. Non
appena si voltarono verso di lui, una sola parola fuoriuscì
dalla voce nella
sua testa.
CORRERE
E chi era lui per non ascoltare quella
voce?
Non rimase lì nemmeno per vedere quei
tizi avvicinare le dita al grilletto. Veloce come mai prima di allora,
si
lanciò in mezzo alla fitta rete di marciapiedi e siepi,
esattamente un attimo
prima che i proiettili esplodessero all’unisono e
crivellassero il punto in cui
si trovava lui.
Mentre correva a perdifiato lungo i
sentieri, realizzò come avessero fatto a vederlo. Quelli non
erano occhiali da
sole, come aveva pensato all’inizio, ma visori notturni. Era
l’unica
spiegazione.
I minuti successivi furono tutti uguali
tra loro. Dominick, rintanato nell’ennesimo pertugio, sentiva
spari, urla,
pianti, richieste di pietà, poi altri spari. E quasi sempre
delle risate,
oppure dei complimenti, del tipo "Bel colpo figliolo!".
Ogni sparo che sentiva, Dominick
sobbalzava per lo spavento. I suoi sensi erano affinati al massimo, il
suo
sguardo vagava convulsivamente in ogni direzione, per potergli
permettere di
individuare eventuali minacce e fuggire di conseguenza. Se volevano
proprio
ucciderlo, allora gliela avrebbe fatta sudare a quei bastardi.
Ma mentre pensava a quello, non poteva
certo non negare di trovarsi lì per colpa sua. Avrebbe
potuto essere a casa di
Hester, in un quartiere abbastanza tranquillo e fuori pericolo, in
compagnia di
lei. Avrebbe potuto essere al sicuro, con l’amore della sua
vita. In quel
momento avrebbe potuto sentire il calore e la morbidezza del suo corpo,
le sue
labbra umide e soffici intrecciarsi con le sue. Avrebbero potuto
passare
insieme la notte dello Sfogo, amandosi come usavano spesso fare. Invece
era lì,
a lottare tra la vita e la morte per colpa di una stupidissima
vendetta. Che
idiota che era stato. Credeva che avrebbe potuto sostenere una simile
situazione, invece per lui era una cosa del tutto estranea. Era fottuto
e lo
sapeva. L’unica cosa che poteva fare era chiedere scusa
mentalmente ad Hester e
continuare a cambiare nascondiglio, per ritardare
l’inevitabile.
Altri spari. Questa volta più vicini.
Altre urla. Richieste di pietà. Spari.
Dominick riprese a correre all’impazzata.
Ma non appena svoltò l’angolo andò a
schiantarsi contro qualcuno. L’urto fu
terribile, gli parve di essere finito contro un muro. Cadde a terra
all’indietro,
ritrovandosi con il sedere a terra. Si massaggiò la testa
dolorante per l’impatto,
poi alzò lo sguardo. Stava per rimettersi in piedi e correre
di nuovo alla velocità
della luce, ma nella penombra riuscì a distinguere
chiaramente una figura
famigliare, non ostile. Era l’omaccione con i baffi a
manubrio. Dopo l’impatto
quello aveva barcollato un attimo, ma grazie alla sua grossa stazza era
rimasto
in piedi senza difficoltà. La cosa particolare era che aveva
un fucile in mano
e i bizzarri occhiali addosso.
«Ragazzo!»
sussurrò rivelando una stramba R moscia e un tono profondo,
ma caldo e
rassicurante allo steso tempo. «Almeno tu sei ancora
vivo!»
«C-Cosa?» domandò
Dominick impacciato.
L’uomo lo sollevò per la
giacca come se
fosse un peso piuma e lo rimise in piedi. «A dopo le
spiegazioni, adesso stammi
incollato, ok?»
Non che Dom volesse continuare ad
andarsene a zonzo da solo. E adesso che aveva trovato un altro
ostaggio, per di
più armato, cosa voleva di più?
«Ehm...ok...»
L’uomo annuì e
cominciò a correre.
Dominick non perse un secondo e lo seguì a ruota, mentre
nella sua mente si
accendeva un piccolo barlume di speranza. Forse...sarebbe riuscito a
rivedere
la sua luce del giorno dai capelli rossi. E ovviamente anche il
mattino. Ma
Hester era più importante. Il mattino poteva attendere.
***
Tempo
rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 47 minuti.
Kevin si risvegliò quando
andò a
sbattere con la testa contro una superficie dura. La prima cosa che
pensò fu un’imprecazione,
ma non appena aprì gli occhi il suo cervello
cessò di funzionare.
Era seduto per terra, su quello che
sembrava essere un pulmino scolastico a cui avevano levato tutti i
sedili. Non appena
vagò con lo sguardo intorno a sé, vide un
esercito di uomini grandi, grossi e
brutti, tutti armati fino ai denti. Tutti quanti lo osservavano
sogghignando e
con gli occhi sfavillanti di malizia. Kevin sentì il sangue
gelarsi nelle vene
sotto tutti quegli sguardi posati su di lui e si acquattò
contro la parete alla
quale era appoggiato. Improvvisamente ricordò tutto quello
che era successo.
Un uomo appartenente ad una banda di
tagliagole lo aveva portato al cospetto del suo capo, il quale gli
aveva
puntato contro una pistola. Solo che non l’aveva ucciso, ma
l’aveva salvato. Aveva
colpito il suo aguzzino e poi gli aveva imposto di sparargli. Kevin lo
aveva fatto,
colpendolo allo stomaco. Il solo pensiero di quell’uomo a
terra dolorante per
causa sua gli fece salire la bile. Poi cos’altro era successo?
Ah, sì. Il capo di quella banda aveva
finito il lavoro con quell’uomo, uccidendolo con un colpo
alla testa, poi si
era presentato. Troy, aveva detto di chiamarsi.
Gli aveva stretto la mano e gli aveva
chiesto il suo nome. Kevin si era presentato, poi Troy aveva annunciato
l’ingresso
del ragazzo nella sua banda. E se adesso era seduto su quel pulmino,
insieme a
tutti quegli uomini...
«Ragazzo, ti sei ripreso!»
esclamò una
voce proveniente da regioni ignote.
Kevin sobbalzò e guardò in
tutte le
direzioni, poi incrociò l’uomo che lo aveva
chiamato. Era in piedi e gli stava
porgendo una mano e sorridendo. Ogni tanto il suo equilibro vacillava,
per via
del restare in piedi su un mezzo in movimento, ma comunque rimase
sempre al suo
posto. Dai suoi occhi grigi non traspariva alcuna malizia o altre
brutte
emozioni. Sembrava tranquillo.
Kevin fissò imbambolato
l’uomo,
riconoscendolo. Era quel Troy. A quel punto, ciò che fino a
quel momento aveva
reputato un miraggio, una proiezione della sua mente, divenne
più reale che
mai.
Troy avvicinò la mano, invitandolo
chiaramente a prendergliela, poi lo incitò con tono calmo.
«Forza ragazzo, in
piedi, su!»
Kevin, non avendo molta altra scelta,
prese la mano dell’uomo e venne aiutato a rimettersi in
piedi. Non appena si
ritrovò in equilibrio sulle gambe, un violento scossone
colpì il pulmino. Troy
non sembrò farci caso, ma Kevin barcollò
pericolosamente. Sarebbe finito con il
culo a terra in un nanosecondo se Troy non lo avesse afferrato per una
spalla e
tenuto in piedi.
Tutti i presenti ridacchiarono quando lo
videro quasi cadere in quel modo, Troy invece non si scompose.
«Qualche
scossone passeggero, vedrai, ti ci abituerai.»
Kevin lo guardò rimanendo in silenzio,
non avendo la minima idea di cosa rispondere. Di solito era uno che non
si
faceva problemi a parlare e a dire le cose come stavano, ma in
quell’ambiente,
con tutti quegli uomini dall’aria di potergli piantare con
coltello in gola da
un momento all’altro, le parole erano l’ultima cosa
che riusciva a trovare.
Semplicemente, si ritrovò ad annuire.
Troy fece per parlare di nuovo, ma
qualcuno lo chiamò dal posto del guidatore. «Capo,
carne fresca!»
L’uomo si fece serio e andò ad
affacciarsi al finestrino per verificare la veridicità di
quelle parole. O
meglio, chiamare finestrino quel vetro sbarrato in più punti
da assi di legno e
con pochissimi spiragli era un po’ inappropriato. Troy si
avvicinò ad una delle
fessure e scrutò il paesaggio fuori di sé, poi
annuì e ordinò con quel suo fare
autoritario: «Bene, fermiamoci qui!»
Tutti gli uomini esultarono agitando le
armi, poi si misero in piedi e cominciarono ad armeggiare con esse per
prepararsi.
Anche Kevin buttò l’occhio
fuori dal
finestrino. Qui vide due bande di pazzi armati che si davano battaglia
fra loro
in una strada cosparsa di auto in fiamme. Sgranò gli occhi e
guardò Troy incredulo.
Davvero volevano scendere in mezzo a quel casino?
L’uomo non fece caso a lui e diede
ordini a nastro, poi il pulmino si arrestò
all’improvviso. Kevin per poco cadde
di nuovo, ma questa volta afferrò il primo appiglio che
trovò e si mantenne
sulle proprie gambe. Una volta fermo, Troy aprì lo
portellone scorrevole del
pulmino e fece scendere tutti gli uomini, che non appena furono fuori
cominciarono letteralmente ad ululare e ad aprire il fuoco.
Nel giro di poco tempo solamente Kevin e
Troy rimasero sul veicolo, in silenzio.
Non appena si trovò in quel breve
momento di tranquillità, la mente di Kevin
impazzì. Un sacco di domande
cominciarono a spuntare come funghi. Perché era
lì, su quel pulmino? Perché Troy
lo aveva salvato? In che punto della città si trovava?
Quanto mancava alla fine
dello Sfogo?
Troy si accorse del suo sguardo
sbigottito e perso nel vuoto. Sorrise al ragazzo. «Sta
tranquillo, sei al
sicuro adesso. Ho ordinato ai miei uomini di non torcerti un capello.
Sono un
po’ euforici, ma a me obbediscono quasi sempre. So come farmi
rispettare.»
Quel "quasi" non piacque per
niente a Kevin, ma, di nuovo, non trovò la forza per
farglielo notare. Si
sentiva incredibilmente piccolo ed insignificante al cospetto di
quell’uomo,
non solo perché quello era il doppio di lui anche solo
fisicamente. Troy
irradiava forza e autorità da tutti i pori. Non era un caso
che fosse a capo di
quella banda di scalmanati, che nel frattempo da fuori il pulmino
continuavano
ad urlare, ridere e sparare.
«Non sei di molte parole, eh? Ma
capisco. Immagino che devi ancora riprenderti da tutto quello che ti
è
capitato. Chissà da quanto tempo eri fuori durante lo Sfogo.
Devi averne viste
delle belle.»
Di nuovo, Kevin non riuscì a fare altro
che annuire. Era vero. Se respirava ancora era un miracolo.
«Allora, da quant’era che
giravi per le
strade?»
Quando realizzò che quella domanda era
indirizzata a lui, Kevin fu costretto a farsi coraggio e rispondere.
«Un...un’ora,
credo...forse di meno...»
Troy si prese il mento e lo guardò
pensieroso. «Beh...per un ragazzino come te non è
male...»
«Ci sono quasi rimasto per due
volte...»
aggiunse Kevin, ritrovando un po’ di coraggio. «E
non solo per la paura...»
L’uomo ridacchiò.
«Mi sarei stupito del
contrario...»
Kevin si prese un braccio e cominciò a
massaggiarselo per l’imbarazzo, mentre il silenzio calava di
nuovo tra loro
due. Era davvero opprimente. Il ragazzo avrebbe voluto tempestarlo di
domande,
farsi spiegare perché lo aveva salvato, per non parlare del
fatto che voleva
tornarsene a casa, ma non ci riuscì. Le parole gli morirono
di nuovo in gola.
Non se la sentiva di parlare. Temeva che se lo avesse fatto a
sproposito, quell’uomo
si sarebbe infuriato.
«Ma comunque sei ancora vivo, il che la
dice già lunga sul tuo conto...» riprese Troy
avvicinandosi, per poi posargli
una mano sulla spalla. «Sento che insieme potremo fare grandi
cose, ragazzo.»
Kevin lo fissò perplesso, domandandosi
cosa volesse dire. Attribuendo a tutte le sue energie,
riuscì a parlare di
nuovo: «Che...che intendi?»
«Intendo che sarai un ottimo componente
della mia squadra.»
Kevin sgranò gli occhi. Allora era vero.
Lo aveva veramente inserito in quella banda di psicopatici. Non poteva
crederci. Perché lo aveva fatto? Cosa ci aveva visto in lui?
Era solo un
ragazzo! Uno come tanti!
Deglutendo, quasi sentendosi in procinto
di camminare su un campo minato, dove il minimo passo falso lo avrebbe
ridotto
in mille pezzi, domandò, flebilmente:
«Ma...perché mi hai salvato...e...inserito
nella tua banda?»
L’uomo allargò il sorriso e
posò anche l’altra
mano sulla spalla di Kevin, poi lo osservò
dall’alto della sua statura. «Ho
visto in te...qualcosa. Un grande potenziale. Farai faville,
vedrai.»
«Ma...sono solo un ragazzo!»
protestò,
sempre con un tono più mite possibile. «Io...come
puoi dire che...»
«In te, vedo lui, ragazzo. Vedrai, io e
te diventeremo inarrestabili!» lo interruppe
l’uomo, guardandolo questa volta
con un bagliore negli occhi che Kevin aveva imparato a conoscere fin
troppo
bene. Follia.
Sentendosi di nuovo sul punto di
vomitare, Kevin domandò: «Ehm...lui chi?»
Lo sguardo di Troy si fece vitreo, ma la
follia non svanì. «Gli...gli assomigli
tantissimo...vedrai...andremo alla
grande...Travis...»
Kevin per poco non soffocò con la
propria saliva. Lo aveva chiamato Travis. Ma era abbastanza sicuro che
quello
lo sapesse il suo vero nome.
«Chi...chi
è Travis?» domandò di nuovo, ormai
sentendosi sempre più sul punto di svenire
di nuovo.
Da Troy non giunse altro che un sospiro.
I suoi occhi inoltre si contornarono di un alone di tristezza. Non
rispose. Rimase
in silenzio a lungo, con l’aria di uno che sembrava in preda
ai propri travagli
interiori, poi si separò dal ragazzo e si
allontanò da lui. Si mise sul bordo
dello portellone, dando l’idea a Kevin di voler scendere. Ma
Troy rimase in
piedi, immobile, con le mani intrecciate dietro la schiena, a fissare
la strada
davanti a lui.
«Vedrai ragazzo...vedrai...»
disse
semplicemente, con tono incolore, tipico di quelle persone che quando
ti
parlano lo fanno pensando a tutt’altro, in genere a ricordi
dolorosi. «Vedrai
Travis...da te mi aspetto il meglio. E non ti lascerò mai
più andare...»
Fu allora che Kevin realizzò come
stavano le cose. Non era in salvo. Era semplicemente finito
nell’ennesimo
casino, in compagnia di uno storno di schizofrenici e del loro capo,
che
sembrava ancora più fuori di testa degli altri.
Era in trappola, in compagnia di un uomo
che vedeva in lui chissà cosa, che si aspettava da lui
chissà cosa e che per
chissà quale motivo lo chiamava Travis.
Non sarebbe mai arrivato al giorno
successivo. Non avrebbe mai più visto i suoi genitori. Non
avrebbe fatto quelle
cose che tanto sognava di poter fare.
Non era salvo. Era fottuto. Di nuovo.
Chiedo scusa per
l'assenza immane, ma ho avuto (e ho tutt'ora) altri progetti per le
mani. Perciò eccovi questa parte un po' più lunga
delle altre, sperando che possa bastarvi fino a quando non
riuscirò a scrivere la prossima (tra tempo indefinito).
Scusate
il disagio.
|
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Capitolo 8 *** François/Kevin e Mary ***
Chiedo scusa in anticipo per eventuali errori. Ho
riletto il capitolo,
ma sono più fuori che dentro al momento, potrebbero esserci
degli errori o
delle ripetizioni che mi sono sfuggiti.
Capitolo
VIII
François/Kevin
e Mary
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10 ore e 40 minuti
Ormai
erano minuti interi che
vagavano per quel labirinto di siepi, senza, a detta di Dominick, alcun
senso
logico.
Il
ragazzo si era semplicemente
limitato a seguire quell’uomo come un cagnolino che segue il
padrone. Non che
avesse molta scelta. O quello, stare vicino a ciò di
più simile ad una
possibilità di salvezza, o girare senza meta per quei
sentieri semibui
nell’attesa di farsi ammazzare da qualche ricco psicopatico.
E
non è il caso di dire che lui
era troppo giovane e bello per schiantare nella notte dello Sfogo. E
poi doveva
vedere Hester, a tutti i costi. Porle delle scuse che erano
doverossissime, farle
capire che era
stato uno stupido e che l’amava ancora e alla follia. Ma
prima doveva uscire da
lì, insieme a...
Dominick
sgranò gli occhi. Solo
allora si rese conto di non sapere non solo le intenzioni, ma nemmeno
il nome
dell’uomo. Alla prima domanda aveva categoricamente risposto
"A dopo le
spiegazioni", ma almeno il suo nome lo avrebbe rivelato! O no?
C’era
solo un modo per scoprirlo.
«Scusa
ma...puoi dirmi almeno il
tuo nome?»
bisbigliò, per non farsi sentire da nessuno eccetto che lui,
come già poco
prima l’aveva messo in guardia.
«Mi chiamo François,
ragazzo.»
«Ok, io sono Dominick.» si
presentò lui,
piacevolmente sorpreso dal fatto che quello avesse risposto ad almeno
quella
domanda. Inoltre, non poté non constatare come quel nome e
il suo accento
fossero tipicamente francesi. Questo spiegò quella sua
particolare R moscia.
«Piacere di conoscerti, Dominick. Ma
adesso è meglio che tu rimanga zitto.»
ammonì François.
Dominick mise il broncio. Aveva appena
fatto confidenza con lui e quello buttava tutto nel cesso per fare il
rompiscatole.
Realizzò che quello era il tipico adulto che non perdeva
occasione di
rimproverarti. In poche parole, il tipico uomo con cui non voleva avere
nulla a
che fare, né durante, né al di fuori della notte
dello Sfogo. Lui era uno
spirito libero e ribelle, odiava gli adulti rompiscatole e ammonitori.
Fece per brontolare qualcosa a suo modo
e fargli capire che lui era un rompiscatole nato e non poteva farci
nulla, ma
François si fermò di scatto e alzò una
mano, per fargli cenno di arrestarsi a
sua volta. Dominick si bloccò obbediente, poi vide
l’uomo accucciarsi, così lo
imito. Si rese conto che erano arrivati nei pressi di un incrocio tra
sentieri.
Buttò di nuovo l’occhio su François e
lo vide stringere la presa intorno alla
sua Lupara e irrigidirsi. Fletté gambe e braccia. Non ci
mise molto per capire
che, per chissà quale motivo, stava per partire
all’attacco di qualcosa.
E quella cosa non ci mise molto ad
arrivare. Infatti, dopo neanche dieci secondi, uno di quei ricchi pazzi
girò
l’angolo. Solo che questa volta non aveva alcun sorrisetto
stampato sul volto. Anzi,
la sua espressione diceva tutto il contrario. Camminava ingobbito,
mentre
teneva saldamente tra le mani il suo fucile da caccia. Guardava in ogni
direzione convulsivamente, girando la testa in ogni angolazione
possibile con
una velocità talmente elevata che sembrava aver preso degli
steroidi.
Era teso, pensò Dominick. Spaventato,
addirittura.
Il ragazzo lo fissò quasi meravigliato.
Non credeva che avrebbe mai visto un’espressione simile sui
volti di quelle
teste di cazzo. Si chiese anche il perché, fosse
così teso. Ma soprattutto,
perché fosse da solo. Insomma, che si fossero divisi era
scontato, ma credeva
che lo avessero fatto a gruppetti, non singolarmente. Dopotutto, quei
tizi non
erano altro che dei vigliacchi. Insomma, per purificarsi danno la
caccia a
degli innocenti indifesi, comprati all’asta perché
rapiti da altri ragazzi
durante lo Sfogo.
Se questa non è codardia...
I suoi pensieri vennero interrotti
brutalmente quando François balzò addosso a quel
tizio. Dominick sobbalzò
quando vide l’omaccione muoversi con tutta quella
rapidità. Il riccone non
appena vide il francese arrivargli addosso urlò di spavento.
Puntò il fucile,
ma fu troppo lento. François lo disarcionò senza
troppa difficoltà e gli sferrò
un pugno alla mascella, ribaltandolo come una sedia.
Dominick spalancò la bocca quando vide
con che facilità l’uomo avesse appena steso il
loro cacciatore, che cadde a
terra gemendo e chiudendo gli occhi, per poi rimanere immobile. Ma la
cosa più
sorprendente fu ciò che il francese disse mentre afferrava
con entrambe le mani
la sua Lupara: «E questo era l’ultimo.»
Il ragazzo sentendo quelle parole
assunse un’espressione confusa. Inarcò un
sopracciglio e fece per domandargli
cosa volesse dire, ma si interruppe quando vide François
puntare il fucile
contro il corpo esanime di quell’uomo.
Lo fissò basito, temendo di aver capito
le sue intenzioni.
Non...non vorrà mica...
François fece fuoco. La fiammata che
fuoriuscì dalla bocca dell’arma
illuminò la zona per un breve attimo, poi la
maglia dell’uomo esplose e il suo petto si tinse di rosso,
mentre lembi di
pelle volavano via e si intravedevano le sue viscere.
Dominick sobbalzò per lo spavento, poi
cominciò a tremare come una foglia e a guardare il francese
intimorito. Aveva
appena ucciso a sangue freddo un uomo davanti ai suoi occhi. Quel tipo
era
privo di sensi, non poteva nemmeno difendersi. E lui gli aveva sparato
in pieno
petto con un fucile da caccia.
Non trovava le forze nemmeno per pensare.
Figurarsi muoversi o parlare. L’unica cosa che riusciva a
fare era guardarlo
basito, con la mascella prossima a staccarsi dalla faccia e gli occhi
che
stavano per schizzare fuori dalle orbite.
François ricaricò il fucile
come se
nulla fosse, poi si voltò verso di lui. Notando la sua
espressione a dir poco
sbalordita, incurvò un sopracciglio. «Che
c’è?»
Dominick trovò la forza sovraumana per
riuscire a muovere una mano. Sollevò un indice, dire che
tremava era riduttivo,
e lo indicò, per poi biascicare un mucchio di parole
sconnesse, dovute allo
choc: «Lo hai...lo hai...tu...l’hai...il
fucile...io...sangue...cazzo...»
«Ah, ho capito, sei sensibile alla vista
del sangue. Mi spiace, ma vedi il lato positivo, adesso non cercheranno
più di
ammazzarci.»
Il ragazzo nemmeno lo sentì. Ci mise
molto per riuscire a capacitarsi di cosa aveva appena visto e a
riordinare quel
pandemonio che era la sua mente. Aveva ucciso un uomo davanti ai suoi
occhi.
Certo, quello era un pazzo e stava dando loro la caccia,
però che diavolo! Non
poteva nemmeno difendersi!
«Dominick, vuoi uscire da qui o
no?»
domandò François posandogli una mano sulla spalla.
Quella domanda riuscì a far riscuotere
il ragazzo. Sì, certo che voleva andarsene.
Annuì.
«Bene, allora smetti di comportarti da
ragazzina suscettibile e seguimi!»
Dominick trovò il coraggio di annuire e
si mise a seguire l’uomo che aveva appena sparato senza
pietà ad un indifeso,
conscio anche del fatto che quella fosse la cosa più stupida
di quel mondo.
Cioè, se aveva appena ucciso quel cacciatore, cosa gli
impediva di uccidere
anche lui, un ragazzino disarmato e indifeso?
Una parte di lui la pensava così e non
voleva fare altro che scappare a gambe levate.
Un’altra parte invece...gli suggeriva
che forse poteva fidarsi. Dopotutto, se ucciderlo erano le sue intenzioni, non lo avrebbe
certo salvato in
quel modo! Inoltre, quella era l’unica possibilità
che aveva per poter uscire
da lì.
«Ascolta ragazzo...»
cominciò François
mentre correvano per la fitta rete di siepi. «...non
è questione di molto prima
che quei bastardi pulciosi mandino i rinforzi per controllare
cos’è successo ai
cacciatori e farci la pelle. Dopotutto, gli altri ricconi hanno visto
tutto lo
spettacolo. Perciò stammi dietro e per nessuna ragione al
mondo staccati da me.»
Dominick non capì nulla di tutto quello
che aveva detto. «No, aspetta...cosa?»
«Ho ucciso tutti i cacciatori,
ragazzo.»
«Tu hai fatto cosa?!»
domandò il ragazzo
incredulo alle proprie orecchie. Non riusciva a credere che quel tizio
avesse
fatto fuori sette uomini armati da solo.
«Mi hai sentito. Ho colto di sprovvista
la coppia di un uomo e una donna. Li ho stesi, poi ho rubato un visore
notturno
e il fucile, poi li ho uccisi. A quel punto ho cominciato a setacciare
tutta la
zona, alla ricerca di altri cacciatori, per ucciderli prima che loro
uccidessero gli ostaggi. Purtroppo, sono arrivato tardi. Tu sei
l’unico
rimasto, oltre a me.»
Dominick era sempre più stupefatto.
Faticava a credere a tutte quelle parole, ma dopotutto la
realtà dei fatti era
chiara. In giro non c’era più nessuno, eccetto
loro due. Inoltre, questo
spiegava il perché quel cacciatore sembrasse così
teso. François aveva appena
ammazzato tutti i suoi compagni. Eppure continuava a suonargli strano.
Com’era
possibile? Cioè, sì, era grosso, ma nulla di
più! Sapeva combattere? Era una
qualche specie di soldato?
«Ma...cioè...come hai fatto?
Sei...insomma...un poliziotto o robe del genere?»
François scosse la testa.
«Sono solo uno
che non crede in questa notte.»
«Che intendi?»
«Lo Sfogo. Io non ci credo. E’
un’enorme
stronzata, fatta solo per uccidere i più poveri e dare una
spinta all’economia.
E’ per questo che sono qui. Avevo sentito di queste aste,
così mi sono fatto
catturare di proposito per poter essere venduto ad una di esse.
Dopodiché ho
ucciso quei bastardi. Voglio proprio vedere se ne faranno altre! E questo è solo
l’inizio! Ho intenzione di
intrufolarmi in tutte le aste della città e far fuori tutti
quei bastardi che
si divertono a fare i cacciatori con gli innocenti. Lascerò
una profonda
cicatrice negli animi di coloro che credono nello Sfogo!»
Dominick lo ascoltò in parte tra il
meravigliato e il riluttante.
Anche lui era a conoscenza della verità
celata dietro allo Sfogo, cioè che era tutto legato ai soldi
e all’economia.
Perciò doveva ammettere che le intenzioni di
François erano a dir poco nobili.
Voleva mettere in pari le cose, far capire ai ricchi che loro non erano
padroni
delle vite degli altri.
Ma nonostante ciò, non poteva certo
negare che quelle sue intenzioni sfioravano il limite della follia. Era
una
cosa a dir poco impossibile ammazzare tutti i bastardi che in
città si
divertivano a giocare con i più poveri. Erano talmente tanti
e ben organizzati
che, a detta di Dominick, era quasi un miracolo che François
fosse ancora vivo.
Ma lui non era certo tipo da mettersi a
discutere riguardo alle decisioni altrui. Lui che voleva uscire la
notte dello
Sfogo per uccidere un uomo e che per poco era svenuto davanti a
François che
uccideva quel tizio.
E poi una volta usciti da lì ognuno
poteva fare quel diavolo che avrebbe voluto.
***
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10 ore e 30 minuti
«Ormai
ci siamo, signorine!»
esclamò
Greg con un sorriso vittorioso. «Porca puttana,
c’abbiamo messo mezz’ora! Tutta
colpa di queste strade di merda piene di stronzi armati! Abbiamo dovuto
prendere un casino di fottute vie secondarie!»
«Ce la fai a non infilare una parolaccia
in ogni frase?» brontolò David, irritato dal
comportamento immaturo del
collega.
«Scusa, ma divento nervoso quando la mia
scopata viene ritardata!»
Thia gemette di nuovo, Marianne lanciò
un’occhiata velenosa al conducente, mentre David roteava gli
occhi e lasciava
perdere il complice con un sospiro.
Lo sguardo della donna poi andò a
posarsi sulla sua bambina, che adesso si era accucciata sul lato del
sedile,
premuta contro la porta quasi sperasse che si aprisse da un momento
all’altro.
Aveva ancora le guancie arrossate, gli
occhi lucidi e la fascia che le impediva di parlare. Marianne aveva
provato a
togliergliela, ma Greg e David le avevano subito fatto capire che se lo
avesse
fatto sarebbero stati guai, per lei e Thia.
Così si era accomodata al meglio e aveva
riflettuto a lungo su come poter salvare la ragazza da quella
situazione, o per
lo meno evitare che venisse violentata.
Un sacco di idee le erano venute, ma le
aveva scartate quasi tutte. Ognuna di loro implicava qualche folle
gesto ai
limiti dell’eroicità, con annessi usi di armi o
combattimento corpo a corpo. Ma
Greg e David erano sicuramente più forti di lei e poi erano
in due.
Accantonate le ipotesi più improbabili,
solo una le rimase.
Era la più dolorosa di tutte, per lei,
ma se serviva per liberare Thia, allora avrebbe optato per quella. Pur
di
difendere quella ragazza, avrebbe sacrificato sé stessa,
come una vera madre
dovrebbe fare per la figlia o il figlio.
Rabbrividì al pensiero di ciò
che stava
per dire, ma era l’unica maniera. Raccolse le forze, poi
chiamò i suoi
aguzzini: «Ehi.»
David si voltò pigramente verso di lei,
mugugnando con fare sbrigativo: «Mh?»
Marianne inspirò, poi parlò
con quanta
più sicurezza possibile nella voce. Doveva far capire che
era disposta a tutto:
«Ascoltata, David. Anche tu, Greg. Io...non voglio che a Thia
accada qualcosa.
Ma voi ovviamente non la lascereste andare senza motivo,
perciò...ho una
proposta.»
Greg drizzò le orecchie, incuriosito.
«Avanti, spara!»
Anche David le fece cenno di proseguire,
al che Marianne obbedì. «La mia proposta
è questa: potete...prendere me. Solo
me. Potrete violentarmi a turno o insieme, non mi interessa. Ma Thia
dovete
lasciarla andare.»
Thia spalancò gli occhi quando
sentì ciò
che Mary stava dicendo. Cominciò ad agitarsi, ad emettere
versi strozzati dalle
fasce, a scuotere la testa, a dirle a suo modo di non fare una cosa del
genere.
In quella situazione c’erano tutte due e tutte due
l’avrebbero affrontata,
volenti o nolenti.
Marianne però la ignorò. Lo
fece a
malincuore, anche con una punta d’orgoglio nel vedere come la
sua bambina
tenesse a lei anche in quel momento. Ma se voleva proteggerla, avrebbe
dovuto
farlo.
Greg e David guardarono perplessi prima
lei, poi il rispettivo complice.
Dopo un bel po’ di silenzio, David
parlò: «Beh...se proprio ci tiene...»
«Col cazzo!»
protestò Greg. «Io non
condivido una donna con un altro uomo! Fanculo! Piuttosto mi tengo la
bionda!»
David assottigliò le labbra, accigliato,
ma non aggiunse altro. Si voltò di nuovo verso Marianne.
«Spiacente, il mio
socio non è d’accordo e francamente anche a me
girerebbero le scatole nel
condividerti con lui. Tu apparterrai solo a me.»
Marianne inorridì, mentre ogni traccia
di colore svaniva dalle sue guancie. La sua idea non aveva funzionato.
Non
aveva salvato Thia.
Guardò affranta la ragazzina, che
però
non sembrava turbata. Anzi, non appena le loro iridi si incrociarono,
Thia la
rassicurò con un cenno del capo. Non le importava cosa
sarebbe successo a lei,
l’importante era che restasse con la sua nuova famiglia.
Avrebbero affrontato
quella notte e l’avrebbero superata. Il giorno dopo avrebbero
ripreso con la
loro vita di sempre e tutto quanto sarebbe diventato solo un brutto
ricordo.
Dovevano solo stringere i denti e trattenere il fiato. Letteralmente.
Thia strisciò verso la donna e, non
potendo fare molto per via dei polsi legati, adagiò la testa
nell’incavo del
suo collo. Non poteva parlare, ma Marianne intuì cosa
volesse dirle. Lo capì da
come la guardava e da quel suo gesto. Le stava dicendo di non
preoccuparsi.
Ma lei non poteva non farlo. Singhiozzò
e appoggiò il mento sui capelli della ragazza. «Mi
dispiace Thia...»
Un altro verso fuoriuscì dalla bocca
tappata della ragazza, probabilmente un altro "non importa" oppure
uno "smettila di preoccuparti".
Ciò non fece assolutamente
tranquillizzare la donna, che singhiozzò un’altra
volta. «Ti ho detto che
questa notte non ci sarebbe successo nulla, invece...ti ho mentito,
Thia...io...scusami...adesso mi odierai...e non posso
biasimarti...»
Non appena finì di parlare Thia si
allontanò
da lei e la guardò di nuovo negli occhi, protestando di
nuovo a suo modo.
Scosse la testa più volte, mentre questa volta nelle sue
iridi appariva
un’ombra di determinazione. Di nuovo, per Marianne era
impossibile capire, ma
era ovvio che la ragazza la stesse rimproverando, le stesse dicendo di
smetterla di scusarsi, che lei non aveva nessuna colpa. Ma soprattutto,
che non
avrebbe mai potuto odiarla.
«Mi dispiace...»
mormorò ostinatamente
Mary.
A quel punto Thia si rassegnò e
adagiò
la testa nell’incavo del collo della donna come aveva fatto
prima. Marianne
affondò la fronte tra i suoi capelli dorati, morbidi e
profumati, mentre
singhiozzava di nuovo. «Scusa...»
Thia non protestò più. Si
limitò a
sospirare esasperata dal naso e a rannicchiarsi meglio contro di lei.
Chiuse
gli occhi e venne pervasa da un piacevole senso di beatitudine nel
trovarsi a
così stretto contatto con quella donna. Non si
separò più da lei, così come
Mary non alzò la testa.
Restarono ferme in quel modo, in quella
specie di affettuoso abbraccio madre e figlia. Un abbraccio che avrebbe
potuto
sciogliere come neve al sole perfino il più spietato dei
criminali. Un affetto
reciproco che avrebbe distrutto ogni male nel mondo.
«Oh, guarda che tenere! Secondo me con
quelle due potremmo fare delle cose a tre niente male! Che ne pensi
David?»
commentò tagliente Greg.
David invece, vedendole abbracciate in
quel modo, cominciò a dubitare di tutto ciò che
aveva fatto. Stava
veramente...cercando di violentare una donna e lasciare quella
ragazzina che
non poteva avere più di vent’anni a quel maniaco
del suo complice? Quella donna
che poi lo aveva sempre rifiutato solo per via del fattaccio che
l’aveva
colpita due anni prima, la morte di suo marito?
Improvvisamente, tutto ciò che aveva
fatto gli sembrò una cosa orripilante. Lui stesso si
reputò il peggiore dei
mostri.
«Ehi, non dirmi che te la sei
bevuta?!»
sbottò Greg notando il suo sguardo affranto, ancora rivolto
alle due donne.
La voce del suo complice lo fece
rinsanire. Non poteva certo mostrarsi come uno che si faceva
impietosire
proprio di fronte a lui. «N-No, certo che no...»
Greg grugnì in assenso. «Bene,
perché se
no...oh cazz...!»
Non riuscì nemmeno a finire di parlare
che un mucchio di persone armate fuoriuscì da dei vicoli e
riempì di piombo la
macchina. I finestrini e il parabrezza vennero fatti a pezzi. Marianne
urlò,
così fece Thia, a suo modo, ed entrambe si accucciarono sul
sedile, per non
farsi colpire.
«Imboscata!» sbraitò
David mentre
afferrava il suo fucile e sparava fuori dal finestrino.
Greg urlò disperatamente quando un
proiettile lo raggiunse su un braccio, ma ciò non gli
impedì certo di dare
fondo a tutto il suo vocabolario di parolacce, afferrare la sua pistola
e
rendere pan per focaccia a quei bastardi. «Non rovinerete la
mia scopata, figli
di puttana!»
Thia cominciò a singhiozzare per la
paura, mentre Marianne le mormorava
parole di conforto, anche se non sapeva quanto veritiere potessero
essere. Erano
finiti in un imboscata, la loro vita
era appesa a un filo. Sarebbe bastato un semplice proiettile vagante
per
uccidere anche loro. A quel pensiero, Marianne rabbrividì e
cercò di fare da
scudo umano alla ragazza accucciandosi sopra di lei.
David e Greg continuarono a sparare fino
a quando un pulmino scolastico non sbucò da dietro
l’angolo.
Quando Greg notò l’enorme
veicolo
giallo, era già troppo tardi.
Riuscì solamente a sgranare gli occhi.
L’impatto fu devastante.
***
Nel
frattempo.
Erano di nuovo partiti. Avevano finito
di massacrare quei poveretti ed erano di nuovo saliti sul pulmino,
ululando,
urlando, ridendo e anche sparando per aria, mentre si vantavano di come
avessero ucciso quello, tagliato la gola a quell’altro,
amputato il braccio a
quell’altro ancora.
Kevin si era rintanato nel suo angolino.
Si era abbracciato le gambe e aveva cominciato a dondolarsi in avanti e
in
indietro, ormai prossimo alla pazzia più totale.
Cominciava perfino ad avere dei dubbi
sulla sua vera identità, visto che Troy ormai lo chiamava
una volta Kevin e
dieci Travis.
Che poi, perché diavolo lo chiamava
così? Non riusciva a capirlo.
Sapeva solo che se voleva rivedere la
luce del giorno, doveva scappare da lì. Meglio vagare da
soli e senza meta
nella notte dello Sfogo che con quella gabbia di matti.
Peccato che Troy si fosse seduto vicino
a lui e non lo perdesse di vista nemmeno un secondo.
Kevin rabbrividiva ogni volta che si
accorgeva dello sguardo dell’uomo. Perché lo
guardava così? Che diavolo voleva
da lui? Perché a Kevin non ne stava andando neanche una
giusta?
Sospirò e appoggiò il volto
fra le
ginocchia.
«Stanco?» domandò
Troy vedendolo.
«Già...»
mugugnò Kevin.
Per un attimo sperò che Troy mostrasse
un po’ di compassione, che magari lo riaccompagnasse fino a
casa e gli dicesse
di andare a dormire tranquillo. Ovviamente le sue speranze furono vane.
«Andiamo, Kevin! Tirati su! Abbiamo
ancora dieci ore di Sfogo!»
Kevin piagnucolò qualcosa di
incomprensibile e si tirò su. Per lo meno quella volta lo
aveva chiamato per il
suo vero nome.
Troy sorrise, ma nel giro di pochi
attimi il sorriso svanì, in quanto un grosso urto fece
scuotere il pulmino.
Kevin, non abituato, andò a sbattere contro la parete
accanto a lui.
Troy si alzò immediatamente in piedi e
andò dall’autista. «Che diavolo
è successo?!»
L’autista lenì il dolore alla
tempia
causato dall’urto, poi sogghignò nel vedere la
macchina che avevano appena
colpito. «Carne fresca!»
Troy guardò la macchina, poi si accorse
che nella strada accanto a loro un mucchio di uomini armati stava
correndo
verso di loro.
Senza scomporsi, annuì e
ordinò: «Molto
bene, scendiamo!»
Di nuovo, il suo ordine venne accolto da
un boato di urla e ululati, poi tutti gli uomini impugnarono le armi e
scesero
dal pulmino.
Kevin rimase acquattato al suo posto, ma
Troy gli arrivò accanto e tese una mano: «In
piedi, questa volta vieni anche
tu!»
Il ragazzo gemette in silenzio. Ogni fibra
del suo corpo di oppose, ma fu comunque costretto ad afferrare la mano
dell’uomo
e a mettersi in piedi. Troy gli mise in mano una pistola.
«Tieni, sai già come
usarla!»
Kevin trattenne un conato di vomito
pensando a ciò che aveva fatto con quell’arma, poi
si limitò ad annuire.
Seguito da Troy, scese dal pulmino, girò da davanti al muso
e si trovò di
fronte ad uno spettacolo orrendo, ma famigliare allo stesso tempo.
Nella strada era guerra pura. Gli uomini
di Troy si erano appostati in ripari di fortuna, come auto parcheggiate
o
vicoli. Da lì facevano piovere piombo sugli altri uomini,
riparati a loro volta
da macchine o vicoli.
«Non stare impalato, mettiti al
riparo!»
ordinò Troy.
Kevin si riscosse e seguì
l’uomo fino al
primo nascondiglio, una macchina ferma, dove già si trovava
l’autista del
pulmino.
«Ehi capo, la c’è la
macchina contro cui
abbiamo bocciato!» esclamò indicando un veicolo
accartocciato sul bordo della
strada poco lontano da lì. «Sembra il lavoro
ideale per quello nuovo!»
Troy si illuminò e guardò
Kevin. «Ottima
idea. Kevin, va a controllare quella macchina. Guarda se ci sono
superstiti e
se sì portaceli. Poi vedremo cosa farcene!»
Kevin impallidì di nuovo, poi
però si
rese conto di una cosa, che gli fece tornare un po’ di
sicurezza, ma soprattutto
speranza. «Aspetta...da solo?»
«Certo, che domande sono? Vuoi compagnia
per andare a controllare una macchina semidistrutta?»
Kevin non poteva credere a ciò che stava
sentendo. Quello forse era il primo vero colpo di fortuna a cui andava
incontro. Lo stavano mandando da solo lontano da lì! Era
l’occasione migliore
che potesse capitargli per scappare! Improvvisamente
un’ondata di speranza lo
travolse e lo rinvigorì. Forse sarebbe riuscito a rivedere i
suoi, alla fine
dei conti.
Sorridendo come un idiota, cominciò ad
annuire come un forsennato e fece anche un saluto militare.
«Sissignore! Vedrà, la
renderò fiero di
me!» blaterò, dicendo ciò che Troy
avrebbe voluto sentirsi dire.
Infatti l’uomo gonfiò il petto
pieno d’orgoglio
e ricambiò il sorriso. «Splendido! Allora
vai!»
Senza farselo ripetere due volte il
ragazzino corse come una scheggia impazzita verso la strada dove si
trovava la
macchina.
In quel breve tratto di strada si sentì
più libero che mai prima di allora. Aveva percorso solo
dieci metri, ma già
pregustava la sua libertà, il suo ritorno a casa. E per di
più aveva perfino
una pistola in mano! Quale miglior souvenir di quella notte di merda?
Inspirò a pieni polmoni l’aria
fredda
che lo puntellava mentre correva a perdifiato verso la sua
libertà. Avrebbe
ignorato quella macchina e avrebbe tirato dritto. Che ci avessero
provato ad
inseguirlo, dopo. Lui non si sarebbe mai più fatto trovare,
poco ma sicuro.
Mentre correva, arrischiò una breve
occhiata verso quell’imbecille di un uomo che lo aveva appena
preso in
ostaggio. Ciò che vide lo pietrificò
all’istante. Troy era la, fermo immobile,
ad osservarlo. Improvvisamente il piano di Kevin sfumò. Non
poteva scappare
mentre quello lo guardava, o lo avrebbero raggiunto in tempo zero.
Doveva aspettare
almeno che si distrasse. Imprecando per colpa di
quell’imprevisto, Kevin fu
costretto ad andare per davvero a controllare la macchina. Solo che
mentre lo
faceva, la paura della presenza di qualche superstite armato si
insinuò dentro
di lui. E se lo avessero visto e gli avessero sparato?
O se no, se ci fossero stati superstiti
disarmati, cosa diamine avrebbe fatto? Li avrebbe puntato la pistola
fino a
quando Troy non si fosse distratto?
Non lo sapeva, ma doveva fare buon viso
a cattivo gioco. Lanciando occhiatine rapide a Troy, per vedere se lo
stesse
guardando o no, si avvicinò alla macchina e
rallentò il passo, fino a camminare
semplicemente.
Con il cuore che batteva a mille impugnò
la pistola, con la tremarella più forte che avesse mai
avuto.
Quando fu a pochi metri dalla
carrozzeria crivellata dai proiettili e accartocciata si
fermò.
Si voltò un’altra volta verso
di Troy,
che sollevò un pollice per incitarlo a continuare. A quel
punto, Kevin non poté
fare altro.
Buttò fuori una boccata
d’aria, si fece
coraggio, puntò la pistola e si avvicinò al
cadavere dell’auto.
In primis, ciò che vide lo fece
sobbalzare. C’erano due uomini seduti davanti, sembravano
entrambi morti, o
comunque privi di sensi. I loro volti adagiati sul cruscotto erano
delle
maschere di sangue.
Tirò un sospiro di sollievo, poi
sentì
un gemito strozzato che lo folgorò come una scarica
elettrica per lo spavento. Si
voltò di scatto verso il punto da cui era provenuto,
sollevando la pistola. Ciò
che vide, lo lasciò ancora più sbigottito.
Sedute sul sedile posteriore, premute
contro la portiera, c’erano due donne. O meglio, una era una
donna, l’altra non
doveva avere molti anni in più di lui.
La donna aveva i capelli neri e
scompigliati e gli occhi verdi. Era bella, peccato che avesse il labbro
spaccato e le guancie graffiate e sporche di sangue, con i capelli
incrostati
su di esso.
Anche la ragazza era carina, capelli
biondi e corti e occhi azzurri, solo che anche lei era piuttosto
malridotta. Aveva
un taglio su una guancia che doveva essersi fatto da poco,
perché gocciolava
copiosamente. Forse era dovuto all’impatto con il pulmino di
Troy e compagnia.
Ma la cosa più strana erano i loro polsi
legati e la fascia che copriva la bocca della ragazzina.
Entrambe avevano il respiro pesante e
fissavano Kevin basite, sicuramente non sapendo cosa aspettarsi da lui.
Era solo
un ragazzo, ma dopotutto stava puntando loro una pistola. Pistola che
abbassò
lentamente, non appena si accorse che quelle due non potevano essere
una vera
minaccia.
Si guardarono ancora per un momento. Kevin
non capì il motivo delle loro condizioni, non che gli
importasse più di tanto,
visto che Troy continuava a guardarlo. E quelle erano due superstiti.
«Cazzo...» imprecò
sottovoce, mentre la
situazione si faceva cento volte più complicata di quanto
già non fosse.
Che cazzo doveva fare? Portare quelle
due da Troy? Essere responsabile della loro morte, o peggio, del loro
stupro?
Perché quella banda di scalmanati di certo avrebbe dato
ancora più di matto
vedendo due come loro, tra l’altro già legate. Le
avrebbero prese per delle
amanti del bondage o stronzate di questo genere.
Si premette una mano su una tempia e
digrignò i denti, mentre cercava di trovare una soluzione.
Troy nel frattempo
continuava a guardarlo.
«Fanculo, fanculo!»
imprecò di nuovo,
questa volta ad alta voce.
«Che...che vuoi farci?»
domandò la
donna, l’unica delle due che potesse parlare, mentre la
ragazzina lo fissava
con quegli occhi azzurri pieni di paura.
Kevin sospirò, mentre quella poneva la
stessa domanda che lui stesso si era fatto. Si passò una
mano sulla fronte, poi
scosse la testa. «Nulla...nulla...devo...portarvi da...il mio
capo...ma non
voglio...»
La donna lo fissò chiaramente spiazzata,
ma non fece domande a riguardo. Tutt’altro.
Sollevò i polsi e mostrò le fasce
che li tenevano legati. «Puoi...puoi liberarci da
queste?»
Kevin la fissò pensieroso. Si
voltò
verso di Troy, che nel frattempo sembrava un po’ scocciato di
aspettare. Il tempo
stringeva.
Ormai era ad un bivio. Poteva scappare,
a suo rischio e pericolo, oppure restare e fare ancora buon viso
cattivo gioco,
nella speranza di un’occasione migliore.
Di nuovo, non seppe cosa scegliere. Anche
perché restare lì implicava consegnare quelle
due. Quelle due che gli avevano
appena chiesto se potevano essere liberate.
Non sapeva come fosse possibile che
quelle due si trovassero in quella situazione, ma non gli importava.
Perché avrebbe
dovuto aiutarle? Chi aveva aiutato lui quando aveva bisogno? Nessuno.
Eppure, l’idea di consegnare quelle due
gli faceva salire la bile. Soprattutto guardando gli occhi azzurri di
quella
ragazzina. Era terrorizzata. Tremava come una foglia.
Improvvisamente, Kevin si sentì
più
simile a lei di quanto non fosse. Erano due ragazzi, entrambi costretti
fuori
la notte dello Sfogo, a lottare tra la vita e la morte.
Troy si accigliò e lo chiamò:
«Kevin!
Trovato qualcosa?»
Il tempo stringeva. Nessuno poteva
salvare lui. Ma lui poteva salvare quelle due ragazze. Se proprio
quella notte
sarebbe morto, lo avrebbe fatto compiendo almeno una buona azione.
«Kevin...puoi aiutarci?»
domandò di
nuovo la donna, che probabilmente aveva sentito Troy.
Il ragazzo non perse un secondo e annuì.
«Certo.»
Cercò di aprire la portiera, ma era
bloccata. Così infilò una mano attraverso
ciò che rimaneva del finestrino e la
sbloccò dall’interno. Entrò dentro e
afferrò le fasce della donna. Cercò di
slegarle in tutti i modi possibili, ma quelle erano strettissime.
Allora ebbe
un’idea. Posò la pistola e cercò il suo
accendino. Lo trovò, poi lo usò per
bruciare le fasce. Poco per volta, riuscì a liberare la
donna.
«Grazie.» disse mentre si
massaggiava i
polsi scorticati da quelle fasce strettissime.
Kevin non rispose neanche. Alzò lo
sguardo e vide Troy cominciare ad avvicinarsi a loro.
Gli venne la pelle d’oca. Ogni centimetro
del suo corpo formicolò. «Merda...»
«Che succede?» chiese
preoccupata la
donna.
«Il mio capo...»
La donna si accorse di Troy e sbiancò.
«No...»
Ormai era fregato. Non aveva più nessuna
speranza, se non quella di prendere la pistola e costringere quella
poveretta a
venire con lui. Di nuovo, sentì la bile salire al solo
pensiero.
Non che però avesse molte altre scelte.
Quello,
oppure affrontare le conseguenze del tentato tradimento. Qualcosa gli
diceva
che Troy e i suoi non erano molto clementi.
Ma quando tutto sembrava perduto, ecco
che finalmente la buona stella di Kevin fece il suo lavoro.
L’uomo seduto al
posto del guidatore gemette, segno che era ancora vivo. Kevin, quando
lo sentì,
si tolse il peso del mondo dalle spalle.
Guardò la donna e chiese giusto per
precauzione: «Quell’uomo lì davanti,
cos’ha cercato di farvi? Perché siete
legate?»
La donna fece una smorfia. «Voleva
stuprarci.»
«Mi basta. Ti lascio
l’accendino e la
pistola. Buona fortuna.»
La donna lo guardò con degli occhi colmi
di gratitudine. «Grazie Kevin.»
«Figurati...ehm...» Kevin non
terminò la
frase, lasciando intuire alla donna che volesse sapere il suo nome.
«Marianne. Mary per gli amici.»
intuì
lei.
«Figurati Mary.» rispose lui
con un
sorriso.
Poi guardò la ragazzina, che lo fissava
colma di gratitudine a sua volta. «Ehm...anche tu, buona
fortuna.»
Senza attendere la risposta, o il gemito
strozzato, scese dalla macchina, aprì la portiera davanti e
tirò fuori l’uomo
semisvenuto, che protestò qualcosa di incomprensibile.
Ignorando le sue
lamentele, Kevin lo trascinò come meglio poté
fino da Troy e la banda.
Lanciò delle occhiate furtive verso la
macchina, dove Mary sicuramente stava liberando l’altra
ragazza.
Sospirò rassegnato, mentre portava quel
poveretto da Troy. Magra consolazione, il fatto che quello fosse un
porco che
aveva cercato di stuprare quelle due.
Consolazione un po’ più
grande, il fatto
che per lo meno aveva compiuto una buona azione, salvando Marianne e la
biondina.
Sperò
che il karma ne tenesse conto o che per lo meno gli facesse guadagnare
qualche
punto. Ma per il momento, doveva solo prepararsi psicologicamente, alla prospettiva di restare ancora per chissà quanto con Troy e la sua banda.
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Capitolo 9 *** Primo incontro ***
Capitolo
IX
Primo incontro
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10 ore e 15 minuti
Dominick
e François avevano
vagato a lungo per quell’edificio prima di riuscire a trovare
un’uscita, ma
furono comunque abbastanza veloci da riuscire a raggiungerla prima di
essere
trovati dagli uomini della security. Solamente due ne avevano
incontrati, ma
nessuno di loro avrebbe potuto raccontarlo, visto che
François li aveva
freddati entrambi, con una rapidità e una freddezza troppo
elevate per uno che
diceva di essere uno come tanti.
Affermava
di essere spronato solo
dal desiderio di farla pagare a quelli che facevano dello Sfogo una
ragione di
vita, ma non poteva
essere davvero solo
quello a permettergli di usare così bene le armi. Dominick
cominciava a sospettarlo.
François non poteva essere un uomo qualsiasi. Era troppo
abile. Sicuramente o
era un poliziotto, che magari si era dimesso, o un ex militare, o
comunque
possedeva qualche legame con qualche corpo di forze armate.
Decise,
tuttavia, di non indagare.
Dopotutto, per lui era solo un bene che François fosse
così. Certo, quando
aveva ucciso quei due, il ragazzo se l’era di nuovo fatta
addosso, ma a parte quello
era ancora vivo, tutto grazie al francese. Perciò avrebbe
dovuto ringraziarlo,
in un secondo momento. Anche se non era molto bravo in quel genere di
cose.
Finalmente
riuscirono ad uscire.
Si ritrovarono nello stesso vicolo angusto dal quale tutto quel casino
aveva
avuto inizio.
Dominick
si appoggiò con la
schiena ad una parete per riprendere fiato, dopo la maratona che aveva
fatto
per stare dietro all’uomo e orientarsi per quei corridoi.
Respirare
quell’aria malsana e
puzzolente che alleggiava in quel vicolo fu, paradossalmente, un vero
toccasana
per lui. Si ritrovò ad inspirarla a pieni polmoni, giusto
per assicurarsi di
essere veramente lì, di essere veramente riuscito ad uscire
vivo da quella
folle caccia.
Il
suo respiro affannato e
tremolante si fece più rapido e dalla sua gola cominciarono
ad uscire dei versi
sommessi. Quel suo riprendere fiato, cominciò a trasformarsi
lentamente in una
risata. Una risata che aumentò di intensità man
mano che si tastava su tutto il
corpo per poter constatare al cento percento di essere ancora vivo.
Ad
un certo punto la sua sembrò
quasi una risata isterica, di quelle tipiche dei malati rinchiusi nei
manicomi.
Non che gli importasse qualcosa. L’importante era avere
ancora la possibilità
di poter ridere.
François
lo fissò con aria
interrogativa per tutto il tempo, ma decise di lasciarlo fare. Certo,
in quella
notte c’era ben poco da ridere, ma dopotutto lui era appena
scappato dalla sua
morte. O forse l’aveva solo ritardata, in fondo era pur
sempre lo Sfogo, poteva
succedere di tutto.
Dominick
ci mise un attimo per
riuscire a ricomporsi. Soprattutto mentre rifletteva sul fatto che
forse
sarebbe riuscito veramente a rivedere Hester. Quel pensiero lo fece
tornare
serio all’istante. Non aveva tempo da perdere, la sua bella
lo aspettava. Giurò
sé stesso che si sarebbe fatto perdonare in tutti i modi
possibili, pur di
riaverla con sé. Avrebbe anche strisciato a terra, se
necessario.
E
detto da lui sembra quasi una
cosa impossibile. Lui, orgoglioso come pochi, che strisciava ai piedi
di una
ragazza. Ma l’amava, per lei avrebbe fatto quello e altro.
I
suoi pensieri si interruppero
quando, annuendo deciso, alzò la testa e vide
François, che nel frattempo era
rimasto lì a guardarlo. Si sentì tremendamente
stupido e imbarazzato. Aveva
appena riso come un isterico psicopatico di fronte a lui. Che figura.
«Ehm...da...da
quant’è che mi
guardi?»
biascicò cercando di sembrare il più normale
possibile. Non sia mai che
François lo scambiasse per un pazzo. Era solo un ragazzo che
si era fatto
scaricare dall’amore della sua vita per uscire in una notte
dove i pericoli
erano ovunque solamente per vendicarsi, quando alla sola vista del
sangue per
poco non era svenuto. Non era pazzo.
«Abbastanza.» rispose
l’uomo abbozzando
un sorrisetto sotto i baffoni.
Dominick si mordicchiò
l’interno della
guancia, ancora più imbarazzato. Si separò dal
muro e si mise una mano dietro
il capo, poi distolse lo sguardo da lui.
«Ok...beh...grazie per avermi salvato la
pelle.» cambiò discorso per non pensare
più all’accaduto, anche se dire grazie
fu piuttosto difficile. In genere non ringraziava mai nessuno, al di
fuori di
Hester o pochi altri.
«Figurati.»
Dominick annuì di nuovo, poi
riportò gli
occhi su di lui. Ormai erano usciti, da lì a poco ognuno
sarebbe andato per
conto suo. Non che al ragazzo la cosa andasse molto a genio. Non voleva
rimanere da solo in quella notte, per lo meno fino a quando non sarebbe
tornato
al sicuro.
«Quindi...che farai?»
domandò, nel
tentativo di girare intorno all’argomento per un
po’, prima di chiedergli di
rimanere con lui ancora per qualche attimo.
François si rigirò il mitra
che aveva
tra le mani. Lo aveva rubato ad uno degli agenti della security che
aveva
ucciso. Era un’arma decisamente migliore da usare in quelle
strade. Automatica,
precisa, con caricatore da trenta colpi. Molto meglio di quel fucile da
caccia
che andava ricaricato di continuo.
«Lo sai già,
ragazzo.» cominciò a
spiegare, mentre socchiudeva un occhio e alzava il mitra per provare il
suo
mirino metallico, per farci un po’ di pratica prima di
usarlo. «Ho un mucchio
di aste a cui partecipare...»
Dominick serrò le labbra e
abbassò lo
sguardo. «Quindi...ci separiamo qui?»
François distolse la sua attenzione
dall’arma e squadrò Dominick piegando la testa.
«Beh, se vuoi venire con me...»
«Non è questo...» si
affrettò a spiegare
il ragazzo, prima di raccogliere le forze e fare l’ennesima
cosa che detestava,
chiedere aiuto. «...è che...non voglio restare di
nuovo da solo...mi
ammazzerebbero seduta stante.»
François inarcò un
sopracciglio,
incuriosito. «Quindi?»
Dominick sospirò, mentre si preparava
psicologicamente a strisciare ai piedi di qualcuno che non fosse
Hester. «Non è
che puoi...»
Si bloccò all’improvviso
quando realizzò
che però non sapeva nemmeno cosa fare. Come ci tornava a
casa? A piedi?
Sembrava l’unica soluzione, ma per quanta strada
François sarebbe stato
disposto ad accompagnarlo? Era già un miracolo che lo avesse
aiutato, in
quell’asta. Non poteva esagerare troppo col chiedergli i
favori. Per un attimo
pensò di telefonare a suo zio e chiedergli di venire a
prenderlo. Peccato che
aveva preso la macchina senza permesso e l’aveva distrutta.
Inoltre l’idea di
chiedere a suo zio di aiutarlo lo ripugnava. Se c’era una
persona a cui non
avrebbe mai e poi mai chiesto aiuto, quella era sicuramente
quell’uomo.
Perciò, mentre meditava sul come
comportarsi in quella situazione così particolarmente
complicata, un altro
pensiero balenò per la sua mente. Non sapeva nemmeno dove si
trovavano. In quel
momento, saperlo avrebbe potuto determinare molte cose. Deciso a
scoprirlo, si
voltò e corse fuori dal vicolo, per strada, sotto lo sguardo
attonito di
François.
Fortunatamente
la strada era deserta, priva di psicopatici armati. Roteò lo
sguardo in più
direzioni, tra carcasse di macchine, negozi ed edifici sbarrati e con
le luci
spente, fino a quando non trovò quello che cercava: un
cartello che indicava la
via in cui si trovava.
Era fissato ad un muro, vicino ad un
incrocio, nei pressi di un semaforo con la sola luce gialla accesa,
lampeggiante.
Non perse un secondo e lo raggiunse di
corsa. François nel frattempo lo seguì con
l’arma in mano, guardando
furtivamente in tutte le direzioni.
«Ragazzo! Che ti salta in mente! La
strada è pericolosa!» lo rimproverò a
bassa voce, per non rischiare di attirare
nessuno con la sua voce.
Dominick lo ignorò e si mise sotto la
targa. Era grigia scura, con scritta in bianco la via: Breackdown
Street.
Strabuzzò gli occhi incredulo, vedendo
quanto fortunato – per così dire, visto
l’accaduto – fosse stato. Perché poco
lontano da lì abitava un suo amico, Lucas. Anzi, era il suo migliore amico. Un sorriso si dipinse
sul suo volto, mentre si voltava verso François e trillava
entusiasta: «Conosco
questa via! Poco lontano da qui abita un mio amico! Se raggiungo casa
sua lui
mi ospiterà di sicuro! Aspetterò il mattino da
lui, poi potrò andare da Hester!»
François, che aveva afferrato le prime
parole, corrucciò la fronte sentendo le ultime.
«Chi?»
Dominick realizzò di aver parlato a
sproposito. Scosse la testa rimproverandosi, poi spiegò:
«Nessuno, lascia
stare...piuttosto, potresti accompagnarmi? Non è molto
lontano, saranno cinque,
sei, settecento metri. Solo fino a lì, poi chi si
è visto si è visto! Allora?
Puoi? Non lasciarmi da solo, ti prego...»
L’uomo lo fissò in silenzio,
meditando
sulle sue parole. Aveva tutt’altro da fare, però,
in fondo, erano solo
settecento metri. E la strada sembrava deserta. E poi, in fondo, quel
ragazzo
un po’ gli piaceva. Gli ricordava molto lui alla sua
età, quando era impulsivo,
chiacchierone, irritante, rompiscatole e girava per le vie di Lione
importunando le ragazzine. Al pensiero dei bei momenti trascorsi da
giovane,
quando lo Sfogo nemmeno esisteva, si ritrovò a sorridere
senza rendersene
conto. Poi realizzò che Dominick era ancora lì,
in attesa. Probabilmente non se
ne stava nemmeno rendendo conto, visto che sembrava anche piuttosto
orgoglioso,
ma lo stava implorando con gli occhi.
A quel punto François scrollò
la testa
per allontanare i pensieri superflui e rispose: «Va bene,
andiamo. Indicami la
strada e stammi vicino, ok? E restiamo in prossimità dei
vicoli, per avere una
via di fuga rapida in caso di guai.»
L’euforia di Dominick si
smorzò.
"Fuga rapida in caso di guai". François era proprio un mago
nel
frenare gli entusiasmi. Chissà che persona pallosa doveva
essere al di fuori di
quella notte.
Brontolando qualcosa di incomprensibile,
Dominick annuì, poi indicò la strada al francese
e i due iniziarono a correre,
François all’erta e con il fucile sempre pronto in
caso di quei fantomatici
guai.
Bisognava essere proprio sfigati per
trovare guai in quel breve tratto di strada. Dominick infatti lo era,
ma
François a quanto pare no, perché nessuno si fece
vedere. C’erano solo loro due
a correre sul marciapiede. Di altri, non c’era nemmeno
l’ombra.
Finalmente raggiunsero quella che,
stando a ciò che aveva detto Dominick, era la casa del suo
amico. Era un
condominio alto una decina di piani, Lucas abitava al secondo con i
suoi, sul
lato che si affacciava alla strada.
Faticando a trattenere la felicità,
Dominick cercò il cellulare e lo chiamò per
spiegargli la situazione e farsi
aprire. Ancora non riusciva a credere di essere arrivato ad un luogo
sicuro, ma
soprattutto di vedere come la sua salvezza si avvicinava. Una volta in
casa del
suo amico, sarebbe volato dritto dritto al mattino, poi via da Hester.
Meglio di
così!
François nel frattempo continuava a
guardarsi intorno con aria vigile, onde evitare di farsi cogliere di
sorpresa
da eventuali aggressori.
Dominick cominciò ad accigliarsi nel
sentire il quinto squillo del telefono di Lucas. Il buonumore
svanì e si chiese
perché ci stava mettendo così tanto a rispondere.
Dopo dieci squilli, stava
seriamente cominciando a temere il peggio. Ma non per Lucas, per lui.
Perché se
il suo amico non lo ospitava per la notte, era fregato.
Al quindicesimo squillo, stava per
incassare la testa tra le spalle e sprofondare, sperando che la terra
lo
inghiottisse e non lasciasse più alcuna traccia di lui, poi
Lucas rispose.
Sentire la sua voce fu una manna dal cielo per Dom. Nonostante fosse
alterata
dal microfono dell’apparecchio e fosse anche piuttosto
adirata: «COSA?!»
Sembrava quasi come se quella telefonata
lo avesse appena interrotto mentre faceva qualcosa di importante.
Puoi
capire cosa stesse facendo...devo ricordarmi di non sedermi sul suo
letto... pensò
Dominick, prima di rispondere calorosamente: «Lucas, amico
mio!»
Lucas ammutolì, Dominick non poteva
biasimarlo. Tutte le volte che lo salutava con un "amico mio" finiva
sempre col chiedergli delle cose al di fuori dal mondo. Come prestargli
duecento dollari per sistemare un’ammaccatura alla Chevelle o
robe del genere.
Non che chiedere asilo la notte dello Sfogo fosse una cosa molto
più normale...
«C-Cosa
c’è?» domandò incerto il suo amico.
«Affacciati dalla finestra fratello,
sono qua sotto casa tua!»
«COSA?!
Ma che ci fai qui?!»
«E’ un casino, sarò
lieto di spiegarti
se mi apri.»
«N-No,
aspetta un momento...»
Lucas non sembrava riuscire a credere
alle proprie orecchie. Sembrava quasi...spaventato. Dominick si
interrogò sul
perché fosse così, poi pensò che forse
era tutto nella sua testa.
Nel frattempo la serranda di ferro
cigolò, mentre Lucas la tirava su, apriva la finestra e si
affacciava, per poi
fissare incredulo Dominick. Sembrò credere al fatto che si
trovasse sotto casa
sua solo quando lo vide coi suoi occhi.
Dominick mise via il telefono, poi lo
salutò sollevando l’indice e il medio, formando
una V con le due dita, e un
sorriso a trentadue denti sul volto.
Lucas lo fissò dieci volte
più
sbigottito. Aveva ancora il cellulare appoggiato
all’orecchio, la bocca spalancata
e gli occhi azzurri strabuzzati.
Aveva qualcosa di strano, però. Innanzi
tutto, era senza maglietta. Aveva il torace completamente scoperto,
rivelando
il suo fisico atletico e asciutto. I capelli neri erano tutti arruffati
e
scompigliati, ed era chiaramente accaldato e spossato.
Improvvisamente, Dominick capì cosa
stava facendo di importante mentre lo aveva chiamato. E,
improvvisamente,
l’idea di entrare in casa sua non lo allettava molto.
«DOM!» esclamò.
«Che cavolo fai qui?!»
poi si accorse di François, un omaccione minaccioso e
armato. Per poco non gli
venne un colpo. «E lui chi è?»
«Lui è con me, tra poco se ne
va...piuttosto...mi ospiteresti per la notte?»
Lucas sbiancò, Dominick non
faticò molto
per capirne il motivo. Era senza maglia, sudato, probabilmente anche
senza
pantaloni. Chissà cosa stava combinando lì dentro.
«Ehm...ma...che diavolo è
successo?»
Dominick si dimenticò dei suoi pensieri
sentendo quella domanda e pensando alla risposta. Si passò
una mano tra i
capelli, con fare esausto. «Lascia perdere...ho combinato un
casino...Hester mi
ha piantato...sono stato venduto ad un’asta, per poco non ci
sono rimasto
secco...se mi apri ti spiego...»
Lucas sembrava sempre più incredulo e
agitato, anche il suo tono di voce tremolò più
volte mentre parlava.
«No...aspetta...cioè...io...non posso
aprirti...»
«Senti fratello, so che ti ho beccato in
un momento delicato. Nemmeno io aprirei volentieri la porta di casa mia
se ho,
diciamo..."compagnia".» l’ultima parola la disse
facendo le
virgolette con gli indici e i medi. «Ma siamo amici e io sono
nella merda. Non
ti chiedo molto, solo che mi apri, poi se vuoi io me ne sto in un
angolo mentre
tu continui a fare...quello che stavi facendo.»
Lucas schiuse le labbra per replicare,
poi però si voltò. Confabulò qualcosa
di incomprensibile con qualcuno, poi si
voltò con espressione mesta. «Senti,
io...»
«Cos’è quella
faccia?» lo interruppe
Dominick guardandolo perplesso.
Lucas sospirò, poi biascicò
tutto d’un
fiato. «Non posso aprirti, mi dispiace.»
Dominick sgranò gli occhi. Sentire
quella risposta fu come se Lucas gli avesse appena rovesciato addosso
un
secchio d’acqua ghiacciata. «Che...che significa
che noi puoi? Cazzo amico,
sono nella merda! Aiutami solo per questa sera, poi mi
sdebiterò, te lo giuro!»
Lucas scosse la testa. Sembrava davvero
dispiaciuto, ma rimase comunque impassibile. «Scusa Dom...ma
proprio non posso
farlo.»
Dominick ascoltò interdetto il suo
migliore amico piantarlo in quel momento. Non poteva crederci. Non
voleva
crederci. Lucas era uno dei pochi, se non l’unico al di fuori
di Hester, con
cui riusciva a parlare, di cui credeva sempre di potersi sempre fidare.
Invece
lo aveva appena fottuto. La delusione e
l’incredulità vennero presto sostituite
dalla rabbia. Giurò a sé stesso che se avrebbe
rivisto la luce del giorno lo
avrebbe ucciso, subito dopo essere andato da Hester, ovviamente.
A tal pensiero, realizzò cosa doveva
fare. Afferrò di nuovo il cellulare e cominciò a
pigiare sullo schermo. A quel
punto, doveva farlo. Doveva risentire la sua voce, dirle almeno che gli
dispiaceva. Un’ultima volta, per precauzione. Dirle che se
non sarebbe arrivato
al giorno dopo, lo avrebbe fatto portandola nel suo cuore.
Lucas lo vide col capo chino sul
telefono e inarcò un sopracciglio. «Ma che
fai?»
Dominick alzò la testa dal display e lo
fulminò con lo sguardo. «Chiamo Hester,
l’unica persona di cui posso ancora
fidarmi in questo posto di merda!»
L’altro sbiancò di nuovo.
«C-Cosa?»
«Vaffanculo Lucas. Prega che io muoia
questa sera, perché altrimenti domani sarai carne
trita!» esclamò Dominick
mentre cercava il numero di Hester nella rubrica.
«Se vuoi posso sparargli
adesso.»
commentò François, che fino a quel momento era
rimasto in disparte, ad
ascoltare lo scambio di battute tra i due ragazzi. Provò
anche pena per
Dominick. Era appena stato tradito dal suo amico, oltre che aver
litigato con
la sua ragazza. Ecco chi era quella Hester.
Lucas deglutì spaventato, ma Dominick
scosse la testa. «No, ci penserò poi io a
lui.»
François annuì, in parte
anche divertito.
«Ok allor...»
Non finì mai la frase. Da un vicolo poco
lontano da lì sbucarono una mezza dozzina di uomini armati.
Localizzarono
subito il francese e il ragazzo, puntarono le armi e cominciarono ad
urlare
come impazziti.
Nello stesso momento, Dominick aveva
appena telefonato ad Hester.
Accadde tutto in un lampo.
Dalla stanza di Lucas provenne il trillo
di un telefono, seguito immediatamente da diverse imprecazioni,
provenienti
dallo stesso ragazzo e una voce femminile alquanto famigliare. Dominick
strabuzzò gli occhi, ma non poté pensare a nulla
che in strada si scatenò il
pandemonio.
«Oh cazzo!» esclamò
François mentre
apriva il fuoco con il suo mitra, indirizzandolo verso i sei uomini.
Lucas urlò e abbassò la
tapparella di
ferro, isolando sé stesso, la sua compagna e quel
fottutissimo trillo del
telefono. Trillo cominciato non appena aveva telefonato ad Hester.
«Ragazzo, via da qui!» lo
chiamò
François tirandolo per la giacca, mentre impugnava con una
sola mano il mitra
per sparare.
Il rumore delle canne delle armi che
esplodevano risuonarono per tutta la strada, riecheggiando lontani come
boati.
Le fiammate colorarono l’ambiente immerso nella penombra. Il
proiettili
fischiavano a pochi centimetri dalle orecchie dei due.
François continuò a sparare,
più che
altro il suo fu fuoco di soppressione, fatto per far correre al riparo
i sei
che cercavano di assalirli. Tirò di nuovo Dominick per la
maglia. Il ragazzo,
ormai in una dimensione a sé stante, cominciò a
seguire di corsa François. Ma
nemmeno se ne stava rendendo conto. Correva per inerzia, con uno
sguardo vitreo
negli occhi, mentre ripensava a cos’ avesse appena visto e
assistito.
Si infilarono in un vicolo e
cominciarono a correre a perdifiato.
«Ragazzo, tutto bene?»
domandò François.
Un po’ si riferiva allo scontro appena avuto, temendo che si
fosse ferito, ma
correva, perciò non doveva essere rimasto coinvolto
fisicamente. Ciò non si
poteva dire per quello che sicuramente stava accadendo nella sua testa.
Anche
lui aveva sentito il trillo di quel telefono provenire dalla camera di
quel
Lucas. Non ci voleva certo un genio per capire come stavano le cose.
«Io...io...»
borbottò Dominick sommessamente.
«Io...»
Cazzo...poveretto...
pensò
François mentre lo sentiva rantolare in quel modo.
Non giunse nessuna risposta dalla bocca
del ragazzo. Continuarono a correre per la fitta rete di vicoli, per
trovare un
posto sicuro in cui riposare e raccogliere le idee.
***
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 9 ore e 58 minuti
Thia non aveva lasciato la mano di Mary per
nemmeno un secondo. L’aveva seguita obbediente senza
protestare lungo quei
vicoli bui, angusti e puzzolenti.
L’aria fredda le sferzava i capelli, i
polmoni le bruciavano, per via di quella lunga corsa estenuante. Lei
non era
abituata a certe cose, ma ciò non le impediva certo di non
stare al passo con
la donna. In primis, non voleva rallentarla, apparire come un peso. E
poi c’era
in ballo la sua vita. Avrebbe corso fino a quando il cuore non le fosse
esploso
nel petto, poco ma sicuro.
Innumerevoli lacrime scivolavano lungo
le sue guancie, un po’ dovute alla paura, un po’
all’emozione dovuta all’essere
ancora viva, ma soprattutto lontana da Greg e David. Il sangue fresco
gocciolava dal taglio sulla sua guancia, causato da una scheggia di
vetro che
le si era conficcata a seguito dell’impatto con quel pulmino.
Per fortuna lei e
Mary non si erano fatte nulla di grave, non erano nemmeno svenute.
Ciò non si
era potuto dire di Greg e David. Entrambi aveva sbattuto violentemente
la
testa, causando la perdita di sensi di Greg e quasi sicuramente la
morte di
David.
Certo, a Thia quei due erano dei porci
schifosi e non le erano assolutamente piaciuti, però
comunque un po’ aveva
provato pena per loro, per David soprattutto. Era un essere orribile,
che pur di
avere Mary l’aveva rapita insieme a lei, però era
pur sempre un uomo. Non meritava
di morire.
Mentre Greg invece...a lui forse era toccata
una fine ben peggiore, visto che quel ragazzo lo aveva portato da
quegli uomini.
Chissà cosa gli avrebbero fatto.
A proposito di quel ragazzo, Kevin se
non ricordava male.
Perché le aveva aiutate?
Perché aveva
poi portato via Greg, se non aveva brutte intenzioni? Da che parte
stava? Ma soprattutto,
che ci faceva con tutti quegli uomini?
Non lo sapeva, sapeva solo che a lui
molto probabilmente doveva la vita. E se mai lo avesse rivisto, cosa
molto poco
probabile, lo avrebbe ringraziato con tutto il cuore.
Ma per il momento, l’unica cosa che lei
e Mary dovevano fare era sopravvivere.
Anche Marianne stava pensando le stesse
cose. Avrebbe protetto Thia a tutti i costi, fino a quando non
sarebbero
riuscite a trovare un posto sicuro in cui stare. Tornare a casa loro
era fuori
discussione, visto che non avevano nemmeno più la porta.
Chiunque sarebbe
potuto entrare.
Per fortuna, aveva mantenuto una delle promesse
che le aveva fatto, cioè che l’avrebbe salvata da
Greg e David. Sì, insomma,
era in realtà stato tutto merito di Kevin, però
dopotutto era stata lei a
liberarla dalle fasce e a toglierle la benda da davanti alla bocca.
Non si sarebbe mai e poi mai dimenticata
l’abbraccio che loro due si erano scambiate una volta libere.
Thia si era tuffata su di lei e aveva
sepolto il volto sotto il suo mento. Aveva cominciato a singhiozzare e
a
mormorare quanto fosse felice di essere ancora viva e inviolata. Ma
soprattutto
felice che anche lei stesse bene. le aveva ribadito che non
l’avrebbe potuta
odiare per nulla al mondo, che era la sua nuova famiglia e che
sarebbero state
insieme per sempre.
Marianne, con le lacrime agli occhi,
aveva ricambiato l’abbraccio, stringendola a sé
quasi con forza, ma non era
riuscita a fare altrimenti. Gli era uscito naturale cercare di
infonderle
quanto più amore materno possibile.
Dopo quel breve ma intenso attimo di
riconciliazione,
erano scese a passo felpato dalla macchina. Avevano visto Kevin in
compagnia di
quel gruppo di uomini, gli avevano entrambe rivolto un ringraziamento
silenzioso, poi erano sgattaiolate via. Avrebbero voluto cercare di
aiutarlo in
qualche modo, visto che sembrava incasinato tanto quanto loro, ma
purtroppo non
c’era niente che potessero fare. Erano due donne, disarmate,
fatta eccezione
per la pistola semiscarica che Kevin aveva lasciato a Marianne, mentre
quelli
erano una ventina di bruti dotati dei peggiori fucili. Avrebbero
fallito prima
ancora di cominciare, se avessero cercato di aiutarlo. E poi, per lo
meno,
finché era in loro compagnia era al sicuro dai pericoli
dello Sfogo. Certo, a
quelli sarebbe bastato un momento storto per ucciderlo,
perciò coloro che lo
avrebbero protetto, potevano anche essere i suoi assassini, ma non si
può
prestare attenzione a tutte queste minuziosità. Lui era con
loro, le due invece
erano da sole e dieci volte più a rischio. Per questo
Marianne non aveva smesso
di correre per un solo istante, mentre Thia arrancava dietro di lei.
Non seppe quanto a lungo corsero, ma
doveva essere già un bel po’.
«Ci siamo quasi Thia, giriamo ancora un
paio di angoli, poi ci fermiamo a riposare, ok?»
rassicurò, intuendo che per
Thia quella corsa dovesse essere estenuante.
«Va...va bene...»
annaspò l’altra, la
quale non poteva certo negare la sua riluttanza nel rimanere in vicoli
come
quelli. In un posto molto simile, anzi, pressappoco identico, aveva
perso l’ultimo
componente rimasto della sua famiglia. Ogni cosa che guardava, ogni
porta
chiusa, ogni scala antincendio, ogni grondaia, ogni tombino e ogni
cassonetto,
riportavano a galla nella sua mente orribili ricordi. Ricordi che
cercava in
tutti i modi di esiliare dalla sua mente, senza però
riuscirci. Dopotutto,
erano passati solo due anni da quando tutto aveva avuto inizio.
Entrambe girarono l’angolo. «Va
bene Thia,
ci siamo quas...»
Marianne non terminò la frase. Due
figure
indistinte apparvero dal nulla. Le due vi si schiantarono contro
violentemente.
Vi furono urla di sorpresa e gemiti di
dolore. Una delle due macchie indistinte cadde a terra,
l’altra barcollò, ma
rimase in piedi.
Thia e Marianne, la cui più fisicamente
grande
corrispondeva alla più piccola degli altri due, caddero
entrambe a terra.
Marianne lenì il dolore alla testa
massaggiandosela, poi sgranò gli occhi quando si rese conto
di cos’era appena
successo. Alzò di scatto la testa e vide i due con cui si
era schiantata. Erano
due uomini, anzi, non proprio.
Quello caduto a terra come loro era un
ragazzo, doveva avere l’età di Thia. Si stava
massaggiando la testa a sua volta
e fissava sbigottito prima lei, poi Thia.
L’altra figura era un uomo molto grosso
e robusto, con un folto paio di baffi a manubrio. Sembrava ancora
stordito
dalla botta, ma era comunque rimasto in piedi. E aveva
un’arma in mano.
I quattro di guardarono tra loro reciprocamente,
con movimenti fulminei del capo. Gli occhi di Thia per poco non
schizzavano
fuori dalle orbite. Anche il ragazzino era atterrito. Marianne era un
po’ più
sicura, ma la visione di quell’uomo armato la inquietava
abbastanza. Solo quest’ultimo
non sembrava intimidito dalle due ragazze, non che ci fossero dei
fattori ad
imporgli il contrario. Era grande, grosso e armato, di cosa doveva
avere paura?
Vi fu un attimo di silenzio carico di
tensione. La si poteva tagliare col coltello.
Poi Thia e il ragazzo cominciarono ad
urlare all’impazzata, facendo sobbalzare Marianne e
l’uomo, che cominciarono a
darsi da fare per calmare i rispettivi compagni.
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Capitolo 10 *** Amici e nemici ***
Capitolo
X
Amici e nemici
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo
Annuale: 9 ore e 55
minuti
Marianne
tentò in tutti i modi di
calmare Thia. Inginocchiata davanti a lei, le prese il volto fra le
mani e la
costrinse a guardarla, per poi sussurrarle implorante: «Thia,
Thia calmati, ti
prego!»
Nulla fu più efficace degli occhi
smeraldo della donna per calmare la ragazza, che decise di obbedire
solo per
fare un favore a quella donna a cui doveva praticamente la vita.
François non fu altrettanto accomodante.
Per calmare Dominick gli sferrò un sonoro ceffone.
«Contieniti ragazzo!» ordinò
bruscamente, con la stessa autorità di un generale
dell’esercito.
«AHIA!» protestò
Dominick con la guancia
in fiamme, riuscendo finalmente a smettere di urlare, senza
però non riuscire a
non pensare a come si sarebbe fatto chiedere scusa dall’uomo
per averlo colpito
in quel modo.
Ma non appena la calma tornò, i ragazzi
si ricordarono del motivo per cui avevano cominciato ad urlare. Gli
occhi di
Thia e Dominick si inchiodarono gli uni sugli altri. Da entrambe le
attonite
coppie di iridi fuoriusciva sbigottimento
a fiumi. Entrambi rimasero immobili, col respiro pesante,
a studiarsi a
vicenda, troppo affannati per poter perfino cogliere qualunque
dettaglio dei
loro volti, fuorché gli occhi apparentemente spaventati, che
però potevano
nascondere una minaccia.
Lo stesso fecero François e Marianne,
con l’unica differenza che i due erano armati. Con un gesto
scattante delle
braccia, si puntarono contro le rispettive armi, quasi
all’unisono. Dominick e
Thia, fino a quel momento rimasti seduti a terra, si rimisero in piedi
e si
nascosero dietro i rispettivi compagni, sperando che fossero loro a
risolvere
la situazione.
Thia si fidava ciecamente di Marianne,
sapeva che era una donna forte, con un grande carisma, che sarebbe
sicuramente
riuscita a farsi valere e l’avrebbe salvata, poco ma sicuro.
Lo Sfogo aveva
portato via fin troppe cose da loro due, non erano intenzionate a
perderne
ancora per colpa di un omaccione con un ridicolo paio di baffi e di un
ragazzino come tanti.
Dominick, dal canto suo, pensava più o
meno le stesse cose su François. Aveva visto di
cos’era capace in quell’asta
maledetta, avrebbe fatto il culo a quelle due pazzoidi che giravano di
notte
durante lo Sfogo, poco ma sicuro.
Prima di fare qualsiasi cosa, però,
François esitò. Non lo fece perché
quelle di fronte a lui erano delle donne,
durante lo Sfogo perfino un bambino potrebbe ucciderti. No, lo fece
semplicemente perché quella che impugnava la pistola ancora
non gli aveva
sparato. Poteva voler dire un milione di cose, quel gesto. Magari era
solo per
farli abbassare la guardia, magari l’arma era scarica. Non
poteva saperlo.
Sapeva però che, nella maggior parte dei casi, quelli che
non ti sparano a
sangue freddo durante lo Sfogo, lo fanno perché non vogliono
purificarsi.
Assottigliò lo sguardo per esaminare meglio le due. Una cosa
che subito saltò
ai suoi occhi era la bellezza di entrambe. Della donna che impugnava la
pistola
soprattutto, malgrado i suoi lunghi capelli la coprissero su buona
parte del
volto. Ma ciò comunque non faceva che renderla
più misteriosa, più attraente.
Poi notò le loro ferite, i loro graffi e il sangue secco che
copriva parte dei visi
di entrambe. Gli ricordarono immediatamente il ragazzo che aveva
accanto a lui.
Anche Dominick era ferito, graffiato, con un taglio sulla fronte ancora
ricoperto da sangue rinsecchito. A quel punto capì senza
troppe difficoltà che
quelle due non si trovavano per strada durante lo Sfogo per ammazzare
qualcuno,
quanto più perché costrette. Magari non avevano
una casa, o ne erano rimaste
chiuse fuori. Magari loro due, proprio come Dom aveva fatto con lui, si
erano
incrociate per caso e avevano deciso di stringere i denti insieme.
Abbassò il fucile, sorridendo
impercettibilmente,
colpito da quelle due e dalla loro resistenza. Dominick lo vide
compiere quel
gesto e partì alla carica. «Che cavolo stai
facendo, non...»
«Sono innocue, Dom. Calmati»
rassicurò
l’uomo, prima che il ragazzo cominciasse a parlare a vanvera.
«Cosa?» domandò il
ragazzo sbigottito, chiedendosi
per quale razza di
motivo François
potesse considerare innocuo qualcuno che puntava loro una pistola, ma
l’uomo lo
ignorò e si sporse verso le due. «Che ci fate qua
fuori?» domandò loro.
Marianne e Thia si lanciarono due
occhiate perplesse, sorprese entrambe dal comportamento
dell’uomo e dal suo
scambio di battute col ragazzo. Dopodiché, Mary decise di
abbassare la pistola
e di fare da portavoce per le due, il tutto, però, con una
certa titubanza: «Siamo...siamo
state rapite. Volevano...» si interruppe prima di entrare nei
particolari,
rabbrividendo. Inspirò e proseguì: «Ma
siamo riuscite a scappare...»
«Non volete purificarvi,
dunque?» indagò
ulteriormente l’uomo.
Entrambe scossero la testa. Marianne si
mise in piedi e aiutò la ragazza a fare lo stesso.
«Cerchiamo solo di
sopravvivere» concluse senza guardarli.
«Voi?» domandò Thia,
intuendo, come la
donna, che quei due non avrebbero fatto loro alcun male. In fondo, il
ragazzo
accanto all’uomo sembrava avere la sua stessa età,
nonché le medesime
condizioni e il medesimo aspetto sconvolto, ferito e spossato. E poi
quell’omaccione avrebbe potuto sparare loro con molta
facilità già da un pezzo.
Dal momento stesso in cui lui aveva puntato loro il mitra avrebbe
potuto
sancire la loro vita o morte, ma non l’aveva fatto. Anzi,
aveva detto al suo
compare, che invece sembrava molto più paranoico –
ma forse era per via della
paura – che loro due erano innocue. Thia fu sollevata di
incontrare, dopo di
Kevin, altre persone con un po’ di sanità mentale.
Anche se il ragazzo non le
sembrava proprio a posto. Si era messo all’improvviso a
fissare il vuoto di
fronte a sé, con sguardo vitreo.
«Io sto aiutando questo qui a non tirare
le cuoia» rispose François accennando a Dominick,
che sentendosi chiamato in
causa ritornò con i piedi per terra.
«Ehm...sì...ehm...»
brontolò il ragazzo,
non sapendo nemmeno con esattezza su cosa avesse appena concordato.
«Che...che significa?»
domandò Marianne
confusa.
François scosse la testa.
«Lascia
perdere. Facciamo così, noi proseguiamo per la nostra
strada, voi per la vostra
e chi si è visto si è visto, va bene?»
Non attese nemmeno la risposta di una
delle due. Afferrò Dominick per una spalla e lo
trascinò via. «Buona fortuna»
aggiunse, prima di avviarsi per proseguire il suo tour dei vicoli.
Thia e Marianne rimasero a fissarli
stranite. L’attenzione di Thia fu catturata dal ragazzo, che
si lasciava
trascinare quasi senza accorgersene dall’uomo. Avanzava per
inerzia e sembrava
insofferente verso il mondo intorno a lui. Era estraniato dentro una
sua bolla.
Una bolla che scoppiava ogni volta che qualcuno si rivolgeva a lui e
che
riappariva alla prima occasione. La ragazza inarcò un
sopracciglio. Che ci
faceva quel fuori di testa insieme a quel francese armato e
tutt’altro che
rassicurante?
Marianne invece stava meditando su
tutt’altra cosa. Lei e Thia erano imprigionate lì
fuori. Quell’uomo stava
proteggendo quel ragazzo e non voleva fare loro del male. Lei e Thia
non
avevano nessun posto sicuro dove andare. L’uomo se ne stava
andando. Lei, per
quanto avrebbe voluto, temeva che non sarebbe riuscita a fare lo stesso
con
Thia. A quel punto,
capì cosa, forse,
era meglio fare.
Aprì bocca per chiamarlo, ma il suono di
un veicolo che si arresta bruscamente sferzò
l’aria all’improvviso. Lo stridore
di freni, seppur lontano, giunse alle orecchie di tutti e quattro.
L’uomo si
arrestò di colpo, mentre il ragazzo vacillò per
un momento, ancora isolato
nella sua bolla. Si sentirono voi riecheggiare tra le mura fetide di
quell’ambiente, risate, schiamazzi, rumore di passi, di
corsa, più che altro.
Marianne e Thia persero ogni traccia di colore dai propri volti, mentre
avvertivano quelle presenze farsi sempre più vicine, cattive
e minacciose.
Sicuramente era qualche gruppo di uomini a caccia di vittime.
«Dominick!» urlò
François al suo
compagno, per farlo ridestare dal suo stato di trance, dovuto
all’orripilante
scoperta che aveva fatto poco prima e che probabilmente lo avrebbe
tormentato a
vita. Anche l’uomo aveva sentito quello stridore e aveva
realizzato che era
meglio andarsene da lì e al più presto.
Il ragazzo sussultò, sbatté
più volte le
palpebre, poi lo guardò con aria intontita.
«Sì?»
«Dobbiamo correre, ora!»
ordinò l’uomo.
Solo a quel punto il ragazzo sentì a sua
volta i preoccupanti rumore che avevano mandato in ansia il suo
compagno
d’avventure. Sbiancando a sua volta, annuì ed
entrambi partirono per la
direzione opposta alla quale provenivano i rumori.
«Andiamo Thia!» fece eco
Marianne prendendo
la ragazza per mano e iniziando a correre a seguito dei due. Thia
capì il
motivo di quella scelta. E non poteva trovarsi più
d’accordo.
François si accorse delle due donne a
suo seguito e vide con quella con i capelli neri, che lo aveva
affiancato nel
giro di pochi secondi. Era molto più atletica di quanto non
desse a vedere.
Perfino la ragazzina se la cavava, restando al passo con Dominick, il
quale
però si stava trattenendo parecchio per poter seguire
l’uomo. Con
il fiato pesante per via dello scatto
improvviso, arrischiò una conversazione con lei:
«Che stai facendo? Perché ci
seguite?»
Qualcuno dal fondo del vicolo urlò. Li
avevano trovati. Il gruppo allora girò immediatamente
l’angolo per cercare di
far perdere le proprie tracce. Avvertirono degli spari lontani,
fischiare
dietro di loro mentre, però, si trovavano già al
sicuro. Ciò non impedì a Thia
di lasciarsi scappare un grido di spavento e un imprecazione piuttosto
colorita
di Dominick.
«Pensavo che...»
iniziò a spiegare
Marianne, ansimando lievemente a sua volta. «...tu saresti
stato più bravo di
me a scappare da quei tizi...»
François roteò gli occhi.
«Oh,
grandioso! Adesso devo fare da babysitter a ben tre persone!»
sbottò adirato,
anche se, in fondo, non poteva pienamente biasimare la scelta di loro
due.
L’unione fa la forza, si dice. E nella notte dello Sfogo, la
forza era ciò che
più faceva comodo, per arrivare al mattino successivo.
«Ehi, se vuoi io e Thia ce ne andiamo,
ma lo faremo solo quando saremo lontani da quei pazzi che ci
inseguono!» ribatté
la donna nel frattempo, senza tracce di sarcasmo o altro nella voce.
«La tua amica si chiama Thia? E il tuo
nome qual è?» indagò
François mentre giravano l’ennesimo angolo. Se
proprio
doveva averla tra i piedi, almeno voleva sapere come si chiamava. E poi parlare in quel modo
tranquillo gli
faceva quasi dimenticare che stava scappando da qualche pazzo
tagliagole. Non
aveva paura, sia chiaro, però era meglio evitare gli
scontri, per quanto
possibile. Doveva risparmiare energie per le aste alle quali avrebbe
partecipato non appena fosse riuscito a scaricare Dominick.
«Marianne» rispose intanto la
donna. «Il
tuo?»
«François.»
«Beh, François, lieta di fare
la tua
conoscenza in questa situazione di merda...»
brontolò Marianne, con fiato
sempre più pesante.
François riuscì a
ridacchiare, quasi non
sembrava che stesse venendo inseguito da qualche pazzo maniaco.
«Piacere mio...»
Dietro di loro, Dominick e Thia non
sembrarono aver trovato la stessa scioltezza, perché
correvano uno di fianco
all’altra nel silenzio più totale. Uno ancora
troppo inebetito dagli ultimi
eventi, l’altra troppo spaventata dagli inseguitori per
riuscire a trovare la
forza di parlare con qualcuno.
I quattro proseguirono la loro rincorsa
alla salvezza lungo quei vicoli angusti. François guidava il
gruppo, dando più
fondo al suo istinto che alla sua scarsa conoscenza della planimetria
dei
vicoli della città. La sua unica speranza era quella di non
finire in un vicolo
cieco o trovarsi con le spalle al muro. Ma qualcosa gli suggeriva che,
con due
rompiscatole in più, le cose si sarebbero complicate,
anziché semplificarsi. E Dominick
non sembrava essersi ancora ripreso dall’incontro con Lucas.
A quel punto, sperò
anche che Marianne fosse una donna in gamba e che non si rivelasse un
peso. Anche
se, per il momento, non aveva ancora dato l’impressione di
essere un’incapace.
Tutt’altro. Se avesse continuato di quel passo, sarebbero
andati d’amore e d’accordo,
perlomeno fino a quando François non avesse trovato il modo
per scaricarli e
proseguire la sua opera di pulizia delle aste.
Girarono l’ennesimo vicolo e si trovarono
di fronte ad una rete. François si bloccò, poi
guardò prima Thia, poi Marianne,
chiedendo loro mentalmente se sarebbero riuscite a scavalcarla. Quasi
immediatamente, senza dire nulla, le due si arrampicarono sulla rete
con
rapidità. François annuì compiaciuto e
iniziò a salire a sua volta.
Dominick fece per imitarli. Piantò il
piede in un buco e afferrò i bordi di altri con le mani, per
poi bloccarsi a
mezz’aria. I pensieri che fino al momento della corsa erano
stati alla larga da
lui lo schiacciarono all’improvviso. Perché
scappare? Perché combattere ancora?
L’ultima persona di cui si fidava lo aveva fottuto nella
maniera più atroce
possibile. Certo, aveva detto che tra loro era finita, ma non riusciva
a
credere con che velocità Hester si fosse buttata tra le
braccia di Lucas.
Credeva, sperava, di riuscire a
rivederla entro la fine dello Sfogo, di riuscire a farsi perdonare. Di
ritornare
insieme a lei. Invece non c’era più. Non
c’era più lei, non c’erano
più i suoi
genitori, non c’era più nessuno. Suo zio, forse,
ma quell’uomo era l’unico che
Dom avrebbe preferito sparisse. Che diavolo di senso aveva continuare?
Tanto
non sarebbe nemmeno mai riuscito a vendicare i genitori, codardo e
pappamolle
com’era. Tanto valeva restare lì, farsi catturare,
uccidere, qualunque cosa, e
smettere di infastidire il povero François, che aveva di
meglio da fare che
badare a lui. Sospirò e abbassò il piede. Rimase
in piedi, immobile, a fissare
gli altri tre aggirare la rete e cadere dall’altra parte.
Una volta superato l’ostacolo,
François
fece per ricominciare a correre, ma Marianne lo trattenne afferrandolo
per un
braccio. «Aspetta!»
«Cosa?» brontolò
l’uomo voltandosi verso
di lei, per poi vederla mentre accennava alla rete con il mento.
«Il tuo amico
non viene?»
François vide Dominick ancora fermo e si
accigliò. «Ragazzo, che diamine stai facendo?!
Sbrigati!»
Dominick scosse appena la testa. «E che
senso ha?» borbottò quasi impercettibilmente.
«Ormai posso anche morire...non
so nemmeno perché sono arrivato fin qui con voi...non ho
più alcun motivo per
continuare a resistere...»
François non credette alle proprie
orecchie. Poteva benissimo immaginare che Dom fosse giù di
morale, ma fino a
quel punto? Mai più. «Non dire idiozie, Dom! Non
ho rischiato il culo per
salvarti solo per poi vederti morire così! Scavalca la rete
e sbrigati!» cercò
di farlo ragionare.
Dominick rimase immobile. Non sembrava
quasi averlo sentito. Aveva lo sguardo basso e sembrava non volesse
alzarlo. «Andate
avanti senza di me. Sarei solo un peso.»
«Dom...» provò a
dire François un’altra
volta, per poi interrompersi. Non era un mago nei discorsi di
incoraggiamento. Sapeva
che Dom ne aveva bisogno, ma l’uomo non trovava nessuna
parola utile alla
situazione.
Marianne fissò il ragazzo perplessa,
domandandosi cosa potesse essergli successo che lo avesse spinto al
punto da
volere la morte. Magari lo Sfogo gli aveva portato qualche caro...una
sensazione che Mary conosceva fin troppo bene. Anche lei non credeva
che
sarebbe riuscita ad andare avanti dopo l’omicidio del marito.
Poi, però, aveva
incontrato Thia. A quel pensiero, sgranò gli occhi e vide la
ragazzina alla sua
destra. Aveva la stessa espressione furente, seria e decisa che
l’aveva
caratterizzata due anni prima, quando si erano incontrate. E, questa
volta, la
stava puntando esattamente verso di Dominick.
Thia odiava, odiava,
quelli che si comportavano come Dominick. Quelli che
dicevano di volerla far finita solo perché postumi da dei
traumi. Quelli che
credevano che la vita potesse essere buttata via solo perché
si trovavano in un
brutto momento di essa. Come se dopo quel brutto momento non potessero
arrivarne altri di migliori.
«Ma che diavolo stai dicendo?!»
inveì. Malgrado
fosse la prima volta che si rivolgeva al ragazzo, fu decisamente poco
garbata. «Scavalca
la rete, razza di ebete!»
Dominick sgranò gli occhi e
alzò la
testa, per poi fissare con sguardo raggelante Thia. «Come,
prego?»
Thia strinse i pugni e si sporse verso
di lui. «Hai sentito, non fare il piagnone e scavalca questa
dannata rete!»
«Credi di potermi dare ordini?»
domandò
minaccioso il ragazzo, avvicinandosi a lei a sua volta.
«Non voglio darti
nessun’ordine, voglio
solo farti capire che la tua decisione è la più
colossale cazzata che tu
probabilmente abbia pensato!» ribatté Thia
avvicinandosi ulteriormente. Ora erano
faccia a faccia, a pochi centimetri di distanza, separati solo dalla
rete.
«E tu che ne sai?»
indagò ulteriormente
lui, infastidito.
«Ne so abbastanza per poterti dire che la
vita è un dono e che non va sprecata solo perché
sei triste!» proseguì lei
decisa. «Ho capito cosa ti sta succedendo, sai? Ho capito
perché vuoi farla finita!»
Dominick fece una smorfia. «Ma per
piacere, tu non puoi capire...»
«Oh, sì che posso!»
esclamò lei alzando
la voce, facendo temere a Mary e François che i loro
cercatori potessero
sentirli. «Posso eccome! Non ho idea di cosa ti sia successo
con esattezza,
vero, ma non pensare anche solo per un momento che io non abbia mai
sofferto in
vita mia! Non pensare che il dolore per la perdita di un mio caro non
sia quasi
stato tale da spezzarmi in due, come sta succedendo a te. Non. Osare.
Pensarlo.»
Sferzò l’aria con un braccio e i suoi occhi si
inumidirono. «Io ho perso tutto.
TUTTO! Eppure guarda, sono ancora qui, e combatto per poter salvare il
poco
niente che mi è rimasto! Sto cercando di andare avanti, di
lasciarmi il passato
alle spalle!» Lei non aveva più la sua famiglia.
Nessuno. Suo fratello, l’ultimo
rimasto, era morto di fronte a lei due anni prima. Credeva che non
sarebbe
riuscita ad andare avanti. Ma poi aveva reagito, aveva lottato. E aveva
incontrato Mary. E la sua vita aveva di nuovo preso una piega felice.
Nel frattempo l’espressione di Dominick
non
mutò affatto, mentre la ragazza lo travolgeva con le sue
parole: «Io VOGLIO
vivere! Anche se ho perso le persone più care che avevo,
sono andata avanti! E
ne ho trovate altre, per cui valeva la pena vivere! Solo
perché sei un po’ giù
di morale, non significa che tu debba farti ammazzare! E adesso
scavalca questa
maledetta rete!»
Finalmente, qualcosa sembrò smuoversi
dentro al ragazzo, perché distolse lo sguardo da lei e
assunse l’aria di uno
che stava rimuginando su qualcosa.
«Ti muovi?!» lo
incalzò ulteriormente
Thia, stanca del comportamento idiota di Dominick. «Se non
scavalchi la rete
giuro che ti trascino da questa parte per le orecchie!»
Dominick digrignò i denti.
«SÌ, SÌ, ho
capito!» Afferrò la rete con un gesto rabbioso,
puntò i piedi e nel giro di poco
tempo riuscì a raggirarla.
François e Marianne fissarono sbigottiti
il ragazzo compiere quel gesto, sorpresi da come Thia fosse riuscita a
persuaderlo. C’era voluto un po’ di tempo, e
maniere un po’ grezze, ma alla
fine era riuscita a
far ragionare il
ragazzo. François fu colpito dalla ragazzina. Aveva molta
più grinta di quanto
quel suo visino gracile desse a vedere.
Dominick nel frattempo saltò
giù dalla
rete, guardando Thia. «Razza di rompipalle che non sei altro!
Ti conosco da
cinque minuti...» Atterrò accanto a lei con un
pesante tonfo. Si mise in piedi
e spolverò la giacca, poi concluse la frase avvicinando di
nuovo il volto a
quello della ragazza e rivolgendole un’altra occhiataccia.
«...e già mi hai scartavetrato
i coglioni!»
Thia assottigliò le labbra e
ricambiò lo
sguardo di sfida del ragazzo, per nulla intimidita. «E tu
sei...»
«Thia, basta» la interruppe
Marianne
trascinandola via da Dominick.
«Anche tu Dom, falla finita»
brontolò
François afferrando il ragazzo per la giacca.
I due ragazzi non si ribellarono, ma si
rivolsero un’altra occhiata furente. E, non appena
realizzarono che quello era
l’inizio della loro collaborazione, ad entrambi venne la
nausea. Evitando molto
attentamente di non guardarsi più tra loro, ripresero a
correre a seguito di
Mary e François, sperando di non incrociare altri problemi
lungo il tragitto.
***
Tempo rimanente alla fine dello Sfogo
Annuale: 9 ore e 21
minuti
Consegnare
quell’uomo alla fine
non era stato poi così traumatico, per Kevin. Dopotutto,
Troy gli aveva
semplicemente sparato in testa, poco soddisfatto. L’uomo
voleva una vittima
degna di un uccisione di classe, quel tizio mezzo morto che Kevin gli
aveva
portato non entrava nei giusti parametri. Un’altra conferma
per Kevin di quanto
Troy fosse fuori di testa.
Sospirò
esausto, abbandonando la
testa contro la parete dietro di lui, sempre su quel pulmino
scolastico. Navigò
fra le tasche e trovò il suo pacchetto di sigarette. Lo
estrasse e lo aprì, per
poi prenderne una. Solo quando se la mise in bocca, però,
ricordò che aveva
ceduto il suo stupendo clipper pagato un dollaro a quella donna,
Marianne. O
Mary. Un pensiero che lo faceva sorridere e storcere il naso
contemporaneamente. Sorridere perché per lo meno aveva
salvato quella donna e
la sua amica, storcere il naso perché, per
l’appunto, non aveva più modo per
accendere la sigaretta che stringeva tra le labbra. Sospirò
di nuovo e si
guardò intorno, per poi vedere ciò che faceva al
caso suo, un uomo che gettava
un mozzicone fuori dal finestrino. Sicuramente era un fumatore e,
perciò,
doveva avere un accendino.
Si
alzò dal suo posto e si
avvicinò a lui. Era un po’ titubante
all’idea di rivolgersi ad uno di quei
brutti ceffi, però si ricordò che nessuno di loro
praticamente lo considerava.
Inoltre era sotto l’ala protettrice di Troy, senza
considerare il fatto che,
quando aveva portato quell’uomo semisvenuto da loro, aveva
inventato la balla
di averlo steso con un pugno e ciò spiegava il suo stato.
Stranamente gli
avevano creduto, perciò era anche passato per un duro, ai
loro occhi. Pertanto
non doveva preoccuparsi troppo di come lo avrebbero trattato. Quel
tizio gli
avrebbe prestato l’accendino senza neanche guardarlo. Si
avvicinò e richiamò la
sua attenzione toccandolo appena su una spalla. L’uomo,
stravaccato per terra e
con lo sguardo assente, grugnì e spostò gli occhi
su di lui.
Kevin
si inginocchiò accanto a
lui, mimando il gesto dell’accendono davanti alla sua
sigaretta ancora premuta
fra i denti. «Non è che hai l’accendino?»
L’uomo lo soppesò con lo
sguardo per un
attimo, poi sogghignò mostrando due stupende file di denti
marci. Gli strappò
la sigaretta di bocca e la pinzò con i suoi incisivi gialli,
dopodiché tirò
fuori il leggendario oggetto e si accese la sigaretta di Kevin davanti
ai suoi
stessi occhi. Il ragazzino lo guardò sbigottito, ma non
disse nulla. Non appena
l’uomo finì di accendersi la sua "nuova"
sigaretta, passò l’accendino
a Kevin con un sorriso sbilenco. Kevin lo prese, sentendosi preso per i
fondelli, a dir poco. Ma decise di non protestare. Era solo una
sigaretta,
aveva ancora il pacchetto mezzo pieno. Lo tirò nuovamente
fuori e lo aprì, per
prendersene un’altra. Non lo avesse mai fatto. Aprendo quel
pacchetto lì in
mezzo ottenne la stessa reazione che avrebbe ottenuto se fosse stato un
toast gigante
circondato da piccioni affamati. Nel giro di tre secondi si
ritrovò addosso uno
stormo di uomini che gli fregarono una sigaretta dietro
l’altra. Kevin venne
travolto dall’orda e non riuscì a capire nulla.
Non appena la sua vista tornò
nitida, riuscì a vedere tutti gli uomini guardarlo
divertiti, chi sogghignando
chi ridendo, ognuno con una sigaretta stretta tra i denti. Ancora
intontito,
Kevin abbassò lo sguardo e vide il suo pacchetto trasformato
da mezzo pieno a
mezzo vuoto. Normalmente avrebbe dato i numeri. Odiava anche solo
offrire le
sigarette ai suoi compagni di classe, figurarsi vedersi svuotare il
pacchetto
da sotto il naso. Ma ovviamente l’idea di trovare qualcosa da
ridire non gli
sfiorò neanche la mente. Prese un’altra sigaretta
e se la mise fra le labbra,
l’accese più in fretta che poté,
restituì l’accendino e si affrettò a
togliersi
dai piedi, prima che accadessero altre cose spiacevoli.
Non appena tornò al suo posto
cercò d
rilassarsi, coccolato dal fumo che gli entrava nei polmoni e lo
inebriava.
Sapeva che faceva male, ma non poteva farci nulla. Se proprio fumare lo
avrebbe
ucciso, allora sarebbe morto facendo ciò che amava. E poi ad
ogni tiro di
sigaretta gli sembrava che il peso del mondo gli si togliesse dalle
spalle. Se
c’era qualcosa che riusciva a placare tutto lo stress a cui
veniva
quotidianamente sottoposto, erano proprio le sigarette.
Paradossalmente, quella
volta il fumo gli fece tutt’altro che male. Se non avesse
avuto quella
sigaretta, probabilmente sarebbe rimasto a logorarsi dai dubbi e dalla
preoccupazione ancora a lungo. Fu piacevole riuscire a staccare il
cervello per
cinque minuti, fino a quando non gettò via la sigaretta
ormai ridotta ad un
mozzicone. Era quasi tentato dal fumarsene un’altra
– dopotutto, in mezzo a loro
non sarebbe nemmeno suonato strano fumarsi due sigarette di fila. O
tre. O
quattro... – ma accantonò l’idea. Aveva
di meglio a cui pensare. Quella pausa
era stata gradita, ma non doveva dimenticarsi che se voleva arrivare
vivo al
mattino successivo, doveva andarsene da quel gruppo di pazzi. Certo,
insieme a
loro era al sicuro, ma non poteva fidarsi. Troy era pazzo,
completamente. E
quei tipi erano imprevedibili. E la notte era ancora lunga. Avrebbero
potuto
cambiare idea su di lui in qualsiasi momento e magari ucciderlo senza
motivo.
Un pensiero che lo faceva rabbrividire.
Dio,
se penso che è tutta colpa di quel bastardo di Nicols...
Kevin sentì montare dentro di
sé la
rabbia. Giurò che se ce l’avesse fatta, il giorno
dopo avrebbe ucciso Nicols.
Letteralmente. Se si trovava lì era tutta colpa del
capriccio di uno stupido
ragazzino viziato. Si piantò le unghie nei palmi lasciando
dei profondi segni
senza neanche accorgersene.
«Ehi» salutò una
voce all’improvviso,
facendo trasalire il ragazzo. Si girò di scatto e vide chi l
aveva salutato. Un
uomo che fino ad allora era sfuggito al suo sguardo. Aveva i capelli
neri e
lunghi in centro, tirati all’insù, corti ai lati.
Un singolare pizzetto da
capra dello stesso colore dei capelli spuntava dal mento e di tanto in
tanto
l’uomo ci giocherellava. Aveva gli occhi marroni come quelli
di Kevin e lo
fissava con uno sguardo del tutto particolare. O meglio, lo era per
quell’ambiente, in cui tutti quanti o non lo guardavano, o lo
guardavano
minacciosi. Quello invece lo fissava come qualsiasi persona con un
briciolo di
cuore guarderebbe un ragazzo come Kevin ridotto in quelle condizioni.
Lo
guardava con compassione, quasi con pena. Una cosa del tutto nuova per
Kevin,
quella notte.
«Sei Kevin, dico bene?»
domandò l’uomo
sedendosi accanto a lui.
Kevin lo fissò sbigottito, trovando la
forza solamente per annuire. L’uomo sorrise e tese una mano.
«Io sono Rick,
piacere di conoscerti.»
Kevin esitò. Non sapeva cosa aspettarsi
da quell’uomo. Poi, però, notò il suo
sorriso rassicurante e, dai suoi occhi,
realizzò che quella forse era l’unica persona che
si avvicinava alla sanità
mentale dentro quell’autobus. E
comunque...cos’aveva da perdere? Ricambiò il
sorriso e strinse la mano. «Piacere mio.»
Separate le mani, Rick cominciò a far
vagare lo sguardo per l’autobus, sui suoi colleghi.
«Allora...non è esattamente
il luogo migliore per passare la sera, eh?»
Fu un tentativo piuttosto fiacco di
smorzare la tensione, ma a Kevin andò più che
bene. Annuì abbozzando un altro
sorriso. «Già...uscire con una ragazza sarebbe
decisamente meglio...»
Rick ridacchiò. «La prendi sul
ridere,
mi piace.»
«Beh, o quello, o mi metto a piangere
come un bambino fino a quando qualcuno non mi apre un buco in
fronte...»
borbottò Kevin tornando serio, rabbrividendo di nuovo dopo
quanto detto, senza
però darlo a vedere.
Il sorriso svanì dal volto di Rick, che
guardò il ragazzo con aria preoccupata.
«Come...» cominciò a dire,
interrompendosi. Studiò Kevin ancora per qualche istante,
poi annuì e si decise
a proseguire. «...come ci sei finito qui?»
«Dovresti chiederlo al tuo
capo...è lui
che ha deciso che dovevo far parte della sua cricca...»
borbottò Kevin stancamente.
Più pensava a come Troy lo aveva ficcato in quel casino per
motivi a lui
ignoti, più si sentiva esausto, nonché
arrabbiato.
Nel frattempo Rick scosse la testa. «Non
intendevo quello...volevo dire, cosa ci facevi in giro per i vicoli
nella notte
dello Sfogo? Ti sei bevuto il cervello?»
Pensare alla risposta di quella nuova
domanda, causava a Kevin ancora più irritazione. Strinse di
nuovo i pugni e si
rabbuiò. «Uno stronzo mi ha incastrato...lui e due
suoi amici mi hanno rapito,
portato in centro città e abbandonato lì a poco
dall’inizio dello Sfogo...»
«Oh.» Fu tutto quello che disse
Rick. Probabilmente
era rimasto senza parole. Certo, non capita tutti i giorni di sentire
una cosa
del genere. Anche se si trovavano durante la notte dello Sfogo, non
dovevano
trascurare il fatto che Kevin era stato rapito prima,
quando ancora una simile azione era legale. Kevin fu
sorpreso dalle reazioni di Rick. Gli sembrava quasi impossibile che
potesse
realmente preoccuparsi per lui e allo stesso tempo girare con quella
banda di
tagliagole.
«Tu invece?» domandò
per cercare di
tenere viva la conversazione, la prima vera e unica distrazione che
Kevin
avesse trovato fino ad allora, fuorché fumare.
«Che ci fai con Troy e i suoi?»
Rick si strinse nelle spalle. «Mi
servono soldi...»
Kevin inarcò un sopracciglio.
«In che
senso? Troy vi paga?»
«No, no...» Rick scosse la
testa, con lo
sguardo perso nel vuoto. Sembrava...triste. «Rapino i
poveracci che incontro. Di
solito non hanno molto, ma ci si accontenta...»
«Cos...perché lo
fai?» indagò
ulteriormente Kevin, che ancora faticava ad inquadrare bene
l’uomo che aveva
davanti.
Rick sospirò. «Ho...molti
debiti da
saldare. Anzi...la mia famiglia ne ha. Mi servono soldi. È
un modo schifoso per
procurarmene, lo so, però...non vedo altra
soluzione.» Sogghignò amaramente,
facendo schioccare la lingua. «Tsk...se solo qualcuno
assumesse i poveracci
come me, allora non sarei qui. Molte delle persone che vedi girare
durante la
notte dello Sfogo non lo farebbero. Ma ai ricchi conviene
così...noialtri
possiamo solo approfittare dello Sfogo per poter mangiare quei due o
tre giorni
in più...»
«Ma quindi...tu non uccidi?»
Rick scosse nuovamente la testa. «No.
Non le vittime come me e te, per lo meno. Ovvio che se cercano di
accopparmi
rispondo al fuoco senza esitazione.»
Kevin annuì, colpito dal discorso e
dalla persona che aveva davanti. Un altro come lui, uno che aborriva lo
Sfogo. Che
però, tuttavia, era costretto a farvi parte per poter
provvedere alla famiglia,
perché, altrimenti, non aveva altro modo per guadagnarsi da
vivere. Sicuramente
ciò che faceva Rick era sbagliato, però non
poteva biasimarlo completamente. O quello,
o elemosinare per strada. O farsi ammazzare durante lo Sfogo
perché
appartenente alla categoria dei poveri.
«Tu hai famiglia?»
Kevin annuì.
«Sì...i miei genitori...»
Sospirò e incassò la testa tra le spalle. Solo in
quel momento si rese conto
che i suoi genitori, probabilmente, stavano rivoltando il mondo da cima
a fondo
pur di trovarlo. Chissà cosa stavano pensando.
«Staranno sicuramente morendo di
preoccupazione...» disse più a sé
stesso che a Rick.
L’uomo annuì, ma Kevin non vi
fece caso.
Era ancora troppo preso dal pensiero dei suoi genitori che rischiavano
la vita
per salvarlo. Quanto avrebbe voluto risentirli, per dirgli anche solo
che stava
bene e che non dovevano preoccuparsi. Non troppo, perlomeno.
Ripensò al fatto
che forse, ma proprio forse, se
Troy
non lo avesse sequestrato sarebbe potuto tornare a casa tempo prima.
Oppure morire
durante il tragitto. Ma a lui piaceva di più la prima
opzione. Si voltò verso
di Rick, con il volto smorto. «Tu...hai idea del
perché Troy mi abbia ficcato
in questo casino?»
«Non credo di saperlo...»
rispose Rick
con un’altra negazione con la testa, per poi accennare col
capo agli uomini
stipati nel resto dell’autobus. «Loro si sono fatti
la stessa domanda, sai?
Alcuni pensano che Troy sia fuori di testa, altri dicono che vuole
tenerti come
ultima vittima della notte, altri...»
«Cosa?!» domandò
Kevin incredulo,
sentendo l’ultima teoria. Sentì le sue gambe
diventare di burro all’improvviso.
«Rilassati...»
rassicurò Rick. «...sono
solo loro teorie...io non le prenderei molto sul serio, dopotutto,
neanche loro
ci stanno molto con la testa. Io penso di essere l’unico con
un minimo di sale
in zucca, qua dentro. E ovviamente ci sei anche tu.»
Malgrado quelle parole, Kevin non riuscì
a rassicurarsi del tutto. Un’altra cosa gli venne in mente e
decise di tentare
di far luce anche su quella. «Alcune volte Troy mi ha
chiamato Travis anziché
Kevin...hai idea di cosa possa voler dire?»
Rick si prese il mento e corrucciò la
fronte. «Mh...Travis...» Meditò un
attimo sulla risposta, poi alzò le spalle. «Ho
già sentito questo nome, sempre dalla bocca di quelli
là...» E indicò con un
altro cenno gli uomini seduti che sghignazzavano tra loro.
«...ma non ho idea
di chi possa essere. So che riguarda Troy, però. Forse
questo Travis era un
altro ragazzo che, come te, Troy ha prelevato durante lo Sfogo, qualche
anno
fa...»
Quella risposta, per quanto potesse
essere utile sotto alcuni punti di vista, non fece altro che far
accapponare la
pelle di Kevin. Per il fatto che, se Troy un tempo aveva avuto a che
fare con
questo Travis, che fine aveva fatto lui? Era morto? Troy voleva
rimpiazzarlo
con Kevin? Sarebbe morto anche lui? Un giorno, prima o poi, Troy
avrebbe
prelevato un altro ragazzo e avrebbe cominciato a chiamarlo Kevin?
Sarebbe
diventato tutto un unico, grande, enorme, fottuto circolo vizioso? O
forse c’era
qualcos’altro sotto? Qualcosa di più grosso, di
più personale?
Non sapeva la risposta a nessuna di
quelle domande. Probabilmente non l’avrebbe mai avuta. Non
sapeva nemmeno se
ringraziare Rick per essere stato così disponibile, o
pentirsi di avergli posto
tutti quei quesiti.
Alla fine non ebbe il tempo per fare
nulla, perché l’autobus si fermò
all’improvviso, facendolo sbilanciare di lato.
Troy apparve dal sedile del passeggero con un’espressione
folle. Spostò quello
sguardo da psicopatico su tutti i presenti, poi annunciò
spalancando le
braccia: «Preparate i fucili, si scende!»
Rick e Kevin si scambiarono un’occhiata
perplessa, poi l’uomo si alzò, dicendo:
«Beh, buona fortuna ragazzo. Spero di
vederti di nuovo sull’autobus alla fine di
quest’altra pazzia.»
Kevin rimase ammutolito. Lo guardò
allontanarsi con sguardo vitreo, poi Troy apparve alla sua visuale e lo
issò in
piedi. «Avanti ragazzo, diamoci da fare!»
Kevin, che da lì a poco avrebbe vomitato
tutto ciò che teneva in corpo, si limitò ad
annuire, preparandosi
psicologicamente per l’ennesima folle scampagnata in mezzo a
quelle strade
piene di psicopatici.
Ok,
dopo secoli e secoli sono riuscito a pubblicare il capitolo 10! Evviva!
Scusate
il ritardo, voi pochi seguite, ma ho davvero tanto altro da
fare...trovare
posto per questa fic sta diventando sempre più difficile...
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