Anarchia: La Notte del Giudizio

di edoardo811
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kevin ***
Capitolo 2: *** Thia, Marianne e Dominick ***
Capitolo 3: *** Preparativi ***
Capitolo 4: *** Lo Sfogo ***
Capitolo 5: *** Problemi ***
Capitolo 6: *** Troy ***
Capitolo 7: *** Purificazioni ***
Capitolo 8: *** François/Kevin e Mary ***
Capitolo 9: *** Primo incontro ***
Capitolo 10: *** Amici e nemici ***



Capitolo 1
*** Kevin ***


 

America 2025

La disoccupazione è ridotta al 3%, la criminalità è quasi inesistente e ogni anno sempre meno persone vivono sotto la soglia di povertà.

 

TUTTO QUESTO GRAZIE A:

LO SFOGO

(ANARCHIA)

 

"Benedetta l’America, una nazione risorta. Benedetti i nuovi padri fondatori, che ci hanno permesso di poter sfogare e purificare le nostre anime."

 

Capitolo

 I

Kevin

 

21 Marzo, ore 16:38

Tempo rimanente allo sfogo annuale: 2 ore e 22 minuti.

Kevin camminava a testa bassa, mani in tasca, cuffie nelle orecchie e la testa tra le nuvole. Schivava tutte le persone indaffarate e frettolose che incontrava sul marciapiede, mentre dalla strada giungevano schiamazzi, colpi di clacson e imprecazioni, dovuti al disagio e alla fretta che quel giorno causava negli animi di tutti, tutti gli anni. Tutti tranne lui e i pochi altri nelle sue condizioni.

Passando accanto alla vetrina di un negozio di elettronica, alzò impercettibilmente la testa, volgendo lo sguardo verso la supertecnologica televisione a schermo piatto esposta, dove un giornalista nel suo studio, stava dicendo: «Il traffico cittadino si sta facendo più intenso,in vista dello Sfogo di questa notte. Se non siete interessati a parteciparvi, vi consigliamo di tornarvene nelle vostre case e al più presto. Se invece deciderete di liberare la "Bestia", allora vi auguriamo felice purificazione.»

Kevin scosse impercettibilmente la testa in segno di disappunto sentendo quei falsi auguri e raccomandazioni, poi riprese il suo cammino. Si risistemò l’auricolare, che si era tolto per poter sentire quanto il giornalista stava dicendo.

Era un ragazzo di diciassette anni, il tipico adolescente americano. Capelli corti e castani, tirati all’insù, ma nascosti sotto un berretto a visiera. Occhi marroni  nocciola e caldi, un po’ di peluria sul viso e abiti semplici, felpa e pantaloni da ginnastica, entrambi grigi scuri. Non era molto grosso, ma compensava con una statura leggermente al di sopra della media. Con la borsa a tracolla e l’aria di uno che non vedeva l’ora di potersene tornare finalmente a casa sua, per buttarsi nel letto e dormire fino a nuovo ordine, sembrava essere uno studente esausto di ritorno da scuola, cosa che tra l’altro era vera. Era stato trattenuto per aver avuto un "piccolo" battibecco con un suo compagno di classe, George Nicols. Piccolo battibecco nel senso che si erano azzuffati pesantemente, come capitava spesso. Il piccolo livido che aveva sotto l’occhio ne era dimostrazione. Non ricordava nemmeno il motivo del loro litigio, a dire la verità. Forse qualcosa sulle loro madri, o sorelle, chi lo sa. Erano dapprima volate parole, poi insulti, libri e per concludere cazzotti.  La loro adorabile professoressa li aveva fatti separare sbraitando all’impazzata, poi li aveva trascinati nell’aula di detenzione, dove erano rimasti fino alle quattro del pomeriggio, tre ore prima dello Sfogo, perciò quando di tempo da perdere in punizione decisamente non ce n’era. Solo che la suddetta era in macchina, quindi tornarsene a casa al calduccio e al sicuro per lei non era un problema. Il simpaticone di George invece aveva i suoi amichetti leccaculo che lo aspettavano, con i loro SUV lussuosi, regali dei loro genitori ultraricchi. Kevin, quale lo sfigato che era, non aveva nulla, se non le proprie gambe. I suoi genitori non erano disponibili in quel momento e abitava dall’altra parte della città. I pullman avevano smesso di passare dalle tre, perciò non aveva molta scelta. Sospirando rassegnato, si era messo le cuffie, sparandosi la musica rock dei Rise Against a tutto volume nelle orecchie, aveva infilato la borsa a tracolla e si era incamminato di buona leva. Dopo quaranta minuti, forse era a metà strada. Gli costò molto trattenere imprecazioni a tutto spiano.

Raggiunse una delle numerose vie principali, piena zeppa di traffico, negozi, locali di vario genere e uno schermo piatto gigante, piazzato sopra un alto edificio che, con la coda di altre costruzioni di cui era costituito, faceva da spartiacque tra due strade. Lo schermo rimase nero e spento per un breve attimo mentre precorreva quella strada, poi si accese all’improvviso e un uomo, con i capelli bianchi, corti e radi e un volto piuttosto segnato dall’età, si posizionò davanti all’obiettivo della telecamera. Sull’angolo in basso a destra era riportato in rosso il nome del suddetto:  Donald Talbot.

Era chiaramente in uno studio televisivo, ad un’intervista trasmessa in diretta .

Kevin lo sentì esordire, rivolto a tutti i cittadini che in quel momento potevano guardarlo e sentirlo: «Mi chiamo Donald Talbot. Il nostro regime fu votato undici anni or sono. In risposta all’epidemia criminale che opprimeva questa nazione, nacque "Lo Sfogo Annuale, per gestire al meglio...»

Il ragazzo fece una smorfia e alzò il volume della musica, per smettere di sentire quella trafila che ormai conosceva a memoria e che vedeva tutti gli anni. Lo Sfogo, un evento annuale realizzato per permettere a tutti i criminali di potersi, per l’appunto, sfogare e liberare da tutto ciò che li opprime. Stuprando, rubando, uccidendo. Così facendo, la criminalità si sarebbe ridotta drasticamente, in quanto i criminali avrebbero atteso quel momento per sprigionare la loro furia e non avrebbero fatto niente altro nel corso dell’anno. Infatti, da come dicevano i reperti, la criminalità era praticamente inesistente e la disoccupazione era ridotta a cifre insignificanti. Il tutto ovviamente portava enormi benefici alle casse dello Stato.

 Quello di uccidere o sfogarsi in generale durante quella sera era inoltre considerato un buon modo per "purificare la propria anima". In base a cosa si affermava questo, ancora non lo aveva capito. Cosa c’è di purificante nell’uccidere? Al massimo l’anima dovrebbe macchiarsi ulteriormente, non il contrario.

Ma Kevin sapeva qual’era la realtà celata dietro allo Sfogo. Era stato un uomo, Carmelo, a farglielo capire, grazie a dei video di protesta che aveva lanciato in rete due anni prima. Quella notte, non era fatta per motivi come la riduzione della criminalità, la disoccupazione o la purificazione. Tutto ruotava intorno ai soldi. Durante quella notte, le maggiori vittime chi erano? I ricchi, che se ne stavano tranquillamente nelle loro case, protetti da strettissimi e costosissimi sistemi di sicurezza? No, certo che no.

Le maggiori vittime erano i poveri, che non avevano i soldi per difendersi, magari comprando armi o sistemi di sicurezza. Erano i barboni, i mendicanti, i malati, i disoccupati. Tutte persone che intralciavano l’economia del paese e che venendo eliminate, smettevano di intralciarla di conseguenza. Per forza che non c’erano più disoccupati, morivano quasi tutti ogni anno.

A Kevin quella cosa causava enorme ribrezzo. Senza contare che lui stesso apparteneva alla categoria delle persone agiate, che non correvano alcun rischio. I suoi genitori infatti erano benestanti e sempre indaffarati, ragion per cui non erano andati e prenderlo a scuola.

Un’altra cosa che gli faceva salire la bile, era il fatto che i nobili fossero fissati a loro volta con lo Sfogo, in particolare con la storia della purificazione delle anime. Loro stessi approfittavano di quella sera per macchiarsi le mani con degli omicidi. Ma non lo facevano scendendo in strada durante quella notte. Troppo rischioso. Pagavano delle bande di teppisti per rapire i poveracci da uccidere e portarglieli, cosicché potessero purificarsi senza troppa fatica. Oppure andavano negli ospedali e reclutavano persone malate e morenti, promettendo loro in cambio vitalizi per le loro famiglie. Aveva anche sentito parlare di alcune aste, nelle quali i lotti erano le vittime che le bande rapivano. Disgustoso.

L’unica e piccola nota positiva in tutto ciò era che per lo meno i suoi genitori, anche se benestanti, non erano fissati con quella boiata della purificazione e la notte dello Sfogo se ne stavano tutti e tre, era figlio unico, al sicuro in casa loro.

Sentì una folata d’aria fredda e si strinse nelle spalle, per scaldarsi un po’. Abbassò il berretto a visiera, così da nascondere gli occhi marroni da sguardi sgraditi e a testa bassa affrettò il passo. Stava seriamente cominciando a stancarsi di quel viaggio di ritorno. Ma quanto cavolo abitava lontano? I suoi piedi gli stavano chiedendo pietà. Che bello avere i genitori ricchi che non ti possono mai aiutare perché troppo impegnati. Davvero, uno spasso. Alzò ulteriormente il volume della musica e sprofondò con la testa nel colletto della felpa, per riparasi meglio dagli spifferi.

«Spero che questa notte passi in fretta...» brontolò.

Svicolò in una viuzza secondaria e si allontanò dal caos delle strade principali. Pessima idea. Si ritrovò davanti uno di quei poveracci che approfittavano della vigilia dello Sfogo per guadagnarsi due soldi vendendo armi varie. Era un uomo di colore, vestito con abiti sgualciti.

«Ehi, nella notte dello Sfogo non puoi difenderti a pugni!» stava dicendo alle persone frettolose che gli camminavano accanto.

«Ti serve protezione, amico!» disse ad un uomo che gli passò vicino.

 «Massì, dai, difenditi a cazzotti, bravo!» gridò quando quell’uomo lo ignorò e tirò dritto.

Kevin gli passò accanto cercando di non guardarlo, ma fu tutto inutile. L’uomo gli si parò davanti e cercò di incrociare il suo sguardo, fallendo. «Ehi, ragazzo! E’ pericoloso sta sera, vuoi un arma? Uzi? M9? M1911? Magari un fucile a pompa?»

Kevin lo ignorò e gli girò intorno, al che l’uomo si accigliò per davvero. «Bene, allora fatti ammazzare anche te!»

Non credo pensò Kevin.

Andò avanti per un altro breve tratto poi vide qualcosa che non lo lasciò del tutto indifferente.

Era un gruppo di ragazzi, radunati intorno a delle moto da cross e un furgone beige. Tutti quanti avevano il volto coperto, o da della pittura di guerra o da delle maschere o da entrambe le cose. Ce n’erano di tutti i tipi. Maschere di teschi, diavoli, demonietti, marionette, anche la maschera degli Anonymus. Per quanto riguarda quelli con la pittura di guerra, si potevano trovare con il volto completamente bianco, nero e con ghirigori vari, tipo ghigni cattivi, fiamme, finte cicatrici... Era chiaramente una di quelle bande criminali che la notte dello Sfogo andava a rapire i poveretti da portare alle aste o ai nobili che volevano purificarsi. Da come si conciavano, sembravano prendere davvero sul serio quella sera. Tutti quanti parlottavano tra loro e non fecero caso a Kevin. Tutti tranne uno, che aveva indosso una maschera bianca, da marionetta, con la scritta "GOD", Dio, sulla fronte. Il suddetto fissò Kevin per un breve attimo, poi lo salutò con un rapido cenno delle dita. Il ragazzo fece di tutto per non guardarlo e ignorarlo e tirò dritto. Senti il sangue gelarsi nelle vene davanti a quei tizi e fu grato di avere una famiglia benestante che gli permetteva di avere un rifugio sicuro. Si sentì in colpa per tutti quei poveretti che invece si sarebbero trovati in completa balia di quei pazzoidi.

Camminò per un altro breve tratto, poi un fuoristrada nero lo affiancò. Kevin non lo sentì arrivare, visto che aveva le cuffie. Si accorse della sua presenza solamente quando spostò lo sguardo a sinistra. Vide il veicolo nero procedere a velocità contenuta, per restare al suo passo. Inarcò un sopracciglio guardandolo e si fermò. La macchina arrestò la sua marcia a sua volta, restandogli accanto. Chiunque vi fosse al suo interno, a quanto pare, voleva  lui. Il finestrino oscurato del sedile del lato passeggero si abbassò lentamente, rivelando un volto noto, che gli rivolgeva contro un sogghigno sghembo, beffardo e provocatorio. Non ci mise molto a riconoscerlo.

«Nicols.» disse scontroso, storgendo il naso. «Che cavolo vuoi?»

«Vendetta.» fu la risposta del ragazzo, un attimo prima che le portiere posteriori si aprissero e fuoriuscissero i suoi amici gorilla, armati di mazze da baseball. Kevin non riuscì a fare nulla per difendersi. Fu colpito alle ginocchia e alla testa con le mazze  e poi fu il buio.

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Capitolo 2
*** Thia, Marianne e Dominick ***


 

Capitolo

II

Thia, Marianne & Dominick

 

Ore 17:02

Tempo rimanente allo sfogo annuale: 1 ora e 58 minuti.

 

La porta d’ingresso di un piccolo appartamento si aprì e una ragazza sulla ventina sgusciò al suo interno. «Sono tornata, Mary!»

La voce della donna che aveva chiamato, giunse da un’altra stanza, il tono morbido, caldo e rassicurante, come sempre, questa volta anche con una punta di ironia: «Thia, eccoti finalmente! Mancano due ore allo Sfogo, cominciavo a temere che volessi farvi parte!»

Thia sorrise mentre si toglieva il cappotto marrone e lo appendeva al gancio subito a destra nell’ingresso, rimanendo con indosso una maglietta bianca e dei jeans. «Ti sarebbe piaciuto, vero? Se fossi rimasta fuori e fatta ammazzare!»

«Non sai quanto! Peccato, vorrà dire che spererò per l’anno prossimo!» fu la risposta dal tono divertito di Mary.

«Beh, puoi sempre uccidermi tu, tanto durante lo Sfogo si può fare tutto!» esclamò lei di rimando.

«Mh...sì, hai ragione, ci penserò su!» convenne Mary, il tono sempre allegro.

Thia ridacchiò divertita da quello scambio di battute, poi percorse il breve corridoio dal pavimento di legno, ornato da un simpatico tappeto color verde vomito. Le pareti gialle del corridoio erano ricoperte da mensole con sopra i più svariati soprammobili e fotografie appese. C’era così tanta roba che non si vedeva quasi più nessuno spiraglio di muro libero.

La ragazza arrivò fino alla fine del corridoio, ma prima di svoltare a destra ed entrare nel salotto, dove si trovava Mary, si fermò ad osservare una delle tante fotografie appese. Raffigurava lei, da bambina, una decina di anni prima, insieme ad un altro bambino e due adulti, una donna ed un uomo, seduti in riva ad un fiume. Tutti e quattro sorridevano felici di fronte all’obiettivo della fotocamera.

Per prima cosa esaminò sé stessa. Non era cambiata molto, nel tempo. Aveva sempre i capelli color oro e corti, gli occhi azzurri e cristallini, come lo specchio di un lago, la carnagione leggermente abbronzata, gli zigomi delicati, il naso piccolo e appuntito e le labbra rosee e sottili. Non era una che in genere se la tirava, ma era una ragazza piuttosto carina. Senza contare che adesso era molto slanciata e aveva delle belle gambe, lisce e morbide, con le giuste curve. L’unico difetto era il suo petto, che non strabordava proprio, ma poteva anche passarci sopra. Nessuna è perfetta. Beh, nessuna tranne Mary.

Ammirò la foto a lungo, facendo vagare lo sguardo da lei, al bambino identico a lei, ma con i capelli castani e più lunghi, e ai due adulti, dai quali aveva ereditato dall’una i capelli biondi, dall’altro gli occhi azzurri, che, paradossalmente, erano i geni più deboli.

Si morse un labbro e avvicinò una mano tremante alla foto, per poi farvi combaciare sopra il palmo. Abbassò la testa e chiuse gli occhi, rassegnata, triste e nostalgica. Era una cosa che faceva da diversi anni, nella vigilia dello Sfogo.

Quando riuscì a risollevarsi, spostò lo sguardo su una fotografia di Mary. La raffigurava diversi anni prima, il giorno del suo matrimonio. Era più giovane di cinque o sei anni, ma nemmeno lei era cambiata di molto. Era bellissima. Aveva i capelli neri, lunghi e lucenti, che ricadevano sulle sue spalle come una cascata. Gli occhi di un verde smeraldo, il colore più raro e bello che potesse esserci per gli occhi. Perfino i suoi occhi cristallini erano insignificanti rispetto ai suoi. Il viso era molto bello, gli zigomi delicati, che però non le davano un aria fragile, come quella di Thia, bensì una molto più forte. Ed era vero. Mary era la donna più forte che avesse mai conosciuto.

E poi, beh...era molto più prosperosa di lei e le curve delle sue gambe e fianchi sì che erano belle. Nella foto era in abito da sposa, che la rendeva ancora più meravigliosa, abbracciata ad un altrettanto bell’uomo, vestito in smoking. Aveva i capelli corti e castani, una lieve traccia di barba, né troppa, né troppa poca e occhi azzurri e limpidi, come quelli di Thia. Entrambi sorridevano all’obbiettivo e nei loro occhi si poteva cogliere anche a distanza di un chilometro l’amore che provavano reciprocamente e la loro felicità.

Thia riuscì a sorridere vedendo quella foto. Un sorriso triste, ma pur sempre un sorriso.

«Ci sei?» la voce di Mary la riportò alla realtà.

Thia trasalì, poi scosse la testa per allontanare la nostalgia che provava nel vedere quelle foto e si voltò per entrare nella sala.

Era una stanza squadrata e piuttosto piccola, con due finestre sulla parete opposta, che davano sulla strada. Era composta da mobili vari, scaffali con altre cianfrusaglie, un divano nero con davanti un tavolino da caffè e la televisione, messa su una cassettiera. Un altro tappeto di quel bellissimo verde vomito adornava il parquet. Subito alla sua sinistra, separata dalla sala da un muretto, vi era la cucina, nella quale Mary stava smanettando con coltelli vari.

«Ehi, allora? Come va?» la salutò Mary sollevando un coltello, con ancora attaccati i residui della verdura cruda che stava tagliando.

«Beh, il mio direttore è uno stronzo e oggi le molestie al lavoro hanno superato ogni record...»

Thia lavorava come cameriera in un bordello, dove un sacco di pervertiti arrapati la toccavano e corteggiavano a loro modo. Quel giorno il locale aveva aperto di pomeriggio in quanto di sera non poteva farlo, visto che ci sarebbe stato lo Sfogo. Cioè, se il direttore avrebbe voluto ritrovarsi tutte le ballerine con l’interno della coscia sfondato e la gola tagliata, avrebbe potuto anche aprire la sera. Per fortuna non era idiota a quei livelli, anche se poco ci mancava, visto che obbligava Thia, anche se era una semplice cameriera e non una ballerina, a vestirsi come una puttana e l’aveva fatta lavorare anche la vigilia dello Sfogo.

La risata cristallina di Mary intanto riempì la stanza, contagiando Thia e facendola sorridere. «Il solito, insomma!»

«Già.» convenne Thia. «Tu invece? Com’è andata?»

Mary si strinse nelle spalle. «Il solito anche per me. Ho rifiutato qualche milione di inviti a cena e protezione da parte di colleghi e dirigenti...»

Questa volta fu Thia a ridacchiare. Mary lavorava come impiegata in un’azienda e anche lei veniva puntata da molti uomini, che in vista dello Sfogo le avevano chiesto se volesse passare la notte al sicuro a casa loro, che, tradotto, significava scoparsela. A differenza sua, aveva lavorato solo fino a mezzogiorno.

«Sai...potresti accettare qualche invito, ogni tanto...magari sposarti qualche ricco beota a cui fregare un po’ di soldi...» disse scherzosa andando a sedersi sul divano. Anche se comunque non scherzava del tutto. Un po’ di soldi extra non avrebbero guastato a loro due.

Ma quando vide Mary abbassare la testa, incupirsi all’improvviso e il suo sorriso svanire, realizzò quanto stupida fosse stata quell’affermazione. Il matrimonio per lei era un tasto molto dolente. Ogni volta che lo accennava, anche solo per scherzo, come in quel caso, Mary aveva sempre una reazione molto simile a quella, se non identica.

Si portò una mano davanti alla bocca e cercò subito di riparare al danno, parlando mortificata: «Scusa...non...intendevo...»

Mary alzò una mano e la zittì, poi risollevò la testa. Espirò e riuscì a riacquistare il sorriso, anche se a Thia sembrò molto forzato. «Tranquilla...e comunque...no, non mi va di sposarmi qualche ricco beota. Anche perché io poi mi ritroverei con una palla di marito e compilare le carte del divorzio è una bella rottura di scatole. E poi non ti aspettare che condivida i miei e i suoi averi con te...»

«Ehi!» sbottò Thia, anche se non era realmente offesa.

Mary ridacchiò di nuovo e si rimise a sminuzzare la verdura. Thia si risollevò parecchio vedendola di nuovo ridere. Per fortuna il momento buio della donna era durato poco. Sì, era veramente forte. Un carisma duro e temprato, che teneva nascosto sotto quei bei sorrisi gentili.

Thia andò a sedersi sul divano e accese la televisione. Si mise a fare zapping tra decine di servizi televisivi riguardanti lo Sfogo e le precauzioni da prendere.

«La situazione fuori com’è?» interrogò di nuovo Mary.

Thia si strinse nelle spalle. «Come in ogni vigilia dello Sfogo. C’è un mucchio di traffico e gente che cammina indaffarata per strada. Alcuni stanno innalzando barricate di fortuna intorno a porte e finestre, altri vendono armi per strada...ho anche visto un gruppo di quei pazzi truccati e mascherati...mi hanno dato i brividi...»

«Mh, capisco...»

Thia annuì e si posizionò meglio sul divano.

 

***

 

Ore 17:34

Tempo rimanente allo sfogo annuale: 1 ora e 26 minuti.

 

«Ti prego, non puoi farlo per davvero!» implorò una ragazza con lunghi capelli rossi, strattonando per la manica della giacca di pelle nera un ragazzo dieci centimetri più alto di lei, con i capelli castani e arruffati.

Questo si divincolò dalla sua presa digrignando i denti. «Sì invece! E lo farò!»

Il ragazzo aprì con rabbia una porta ed entrò nella camera da letto di suo zio, seguito a ruota dalla ragazza con le lacrime agli occhi, che cercava in tutti i modi di farlo ragionare. Puntò all’armadio e lo aprì, mostrando diverse giacche da uomo appese al suo interno e diversi vestiti piegati e adagiati sotto di esse. Spostò un paio di maglioni e trovò quello che cercava, una scatola da scarpe. La prese e la portò sul lettone, dove ve l’adagiò, continuando ad ignorare la rossa. La aprì con lentezza, quasi come se il contenuto lo preoccupasse, cosa non del tutto falsa. Una volta scoperchiata, ne rivelò in contenuto. Una pesante rivoltella con l’impugnatura marrone e la canna grigia scura, una .44 Magnum.  

Tirò indietro il cane e fece scorrere di lato il caricatore a tamburo, vuoto. Prese i proiettili, riposti a casaccio dentro la scatola e cominciò a riempirlo, con mano molto tremante ed incerta. Era la prima volta che maneggiava in quel modo la pistola dello zio.

«Dom, ti prego, non puoi...» stava ancora cercando di dire la ragazza, per poi venire interrotta bruscamente da lui: «Smettila Hester! Ho deciso, fine della storia!»

«Ma non pensi a me?!» domandò lei disperata, mentre le lacrime le rigavano il volto. «Io ti amo, Dom! Non puoi uscire durante lo Sfogo, ti farai ammazzare!»

Dom rimase in silenzio, cupo in volto, mentre finiva di caricare la pistola e si metteva una generosa quantità di proiettili nelle tasche della giacca.

«Dom...» cercò di farlo ragionare lei, fallendo. Il ragazzo si voltò verso di lei, furibondo. «Tu non puoi capire! Nessuno può! Voglio farlo, fine della storia! Dovresti appoggiarmi, non il contrario!»

«Come?! Come posso appoggiarti in questa follia!? Ti stai praticamente suicidando!» esclamò lei, con voce rotta dall’emozione. Lo abbracciò e affondò il volto sulla sua spalla, inzuppandolo di lacrime. «Ti prego, ti prego, ti scongiuro...non puoi farlo...non lasciarmi...ti amo...»

Dom sospirò e posò la pistola sul letto, poi ricambiò l’abbraccio. Avvolse le braccia intorno alla fidanzata e cominciò ad accarezzarle la fulgida chioma di capelli rossi. Per un attimo si sentì assuefatto da quell’abbraccio e dal dolce profumo dei capelli di Hester. Stava quasi per dimenticarsi tutto e restare con lei, ma poi si ricompose. Non poteva restare lì. Era da mesi che aspettava lo Sfogo, non poteva certo tirarsi indietro e aspettare l’anno successivo. Afferrò la ragazza per le braccia e la allontanò da lui. Si fissarono per un breve momento. Occhi verdi di lei contro quelli marroni di lui. La ragazza aveva un’aria sconvolta. Il suo bel viso era deturpato dalle lacrime, dal rossore e la sua bocca era contorta in un’espressione disperata, per via di ciò che il suo amato aveva deciso di fare. E purtroppo sapeva meglio di chiunque altro che quando Dominick Power si metteva in testa qualcosa, nessuno, nemmeno lei, poteva farlo desistere.

«Hester...piccola...lo so che per te è dura, ma devi fidarti di me. Domani mattina, alle sette, sarò sano e salvo sotto casa tua e ti porterò ovunque tu vorrai. Saremo di nuovo solo più io, te...» le strinse le mani e se le avvicinò al petto. «...e il nostro amore.»

Avvicinò il volto a quello della ragazza, per unire le sue labbra a quelle di lei in uno dei loro stupendi baci pieni di dolcezza, ma la ragazza si ritrasse e si liberò dalla sua presa. «No!»

«Cosa?» domandò Dominick sorpreso, mentre lei si alzava in piedi.

«Se ritieni questa idiozia più importante di me, del nostro rapporto, mi dispiace ma...non può continuare tra noi.» disse indietreggiando, avvicinandosi alla porta.

Questa volta fu lui a cercare di farla ragionare. «Hester...»

«NO!» urlò lei, sporgendosi in avanti.

Dominick si portò l’indice davanti alla bocca. «Non urlare! Sveglierai mio zio!»

«BENE! SPERO CHE SI SVEGLI! ALMENO DOVRAI RENDERE CONTO ANCHE A LUI!» poi Hester si premette le mani sulle tempie e scrollò convulsivamente la testa, per poi ricomporsi lentamente. Si lisciò la maglietta nera e disse, con tono calmo, ma allo stesso tempo deciso, che non ammetteva ulteriori giri di parole: «Scegli, Dom. O me, o la tua stupida vendetta.»

«Hester...» la richiamò lui con tono altrettanto calmo. Non voleva certo essere messo di fronte ad una decisione così critica.

«HESTER UN CAZZO! SCEGLI!» tuonò lei stringendo i pugni e sporgendosi verso di lui.

Dominick indietreggiò per un breve momento, in parte intimorito dalla fidanzata. Era proprio per quel suo carisma forte nascosto sotto un corpo minuto e fragile che le piaceva, ma certe volte quel carattere era un’arma a doppio taglio e lui stesso doveva averci a che fare, finendo sempre con lo strisciare ai suoi piedi. Si ritrovò con le spalle al muro.

«Piccola...io...tu non sai come mi sento...questa faccenda è troppo importante per me...ti prego...» le si avvicinò e le prese una mano. «Non mettermi nella condizione di dover decidere...»

Si guardarono per un breve attimo. Hester per poco non cedette di fronte allo sguardo color ebano di Dominick. Quegli occhi sembravano quelli di un cagnolino abbandonato e desideroso di coccole, un po’ come lui, del resto, però proprio non poteva permettergli di uscire. Non voleva perderlo. Ritrasse la mano e rimase impassibile. «No, Dom. Devi scegliere. O io, o la tua questione. Ma, prima che tu risponda, rifletti su una cosa: credi che, ammesso che tu sopravviva e riesca ad ottenere la tua vendetta, tutto poi si risistemerà? Credi che poi sarai migliore di lui? Credi che...poi...loro torneranno? Credi che sarebbero fieri di te, se tu facessi una cosa simile?»

Ogni volta che gli poneva una domanda, lo puntellava con l’indice sul petto, facendolo indietreggiare. Senza neanche accorgersene, si ritrovarono al bordo del letto.

Dominick chiuse gli occhi ed espirò. Le domande che Hester gli aveva posto erano tutte molto sensate e legittime. Sapeva anche la risposta ad esse. Loro non sarebbero tornati e probabilmente non sarebbero stati fieri di lui. Non avrebbe dimostrato di essere migliore di nessuno e per finire nulla sarebbe tornato a posto. Ma l’idea che la fuori ci fosse il bastardo che gli aveva rovinato la vita, rigorosamente impunito, lo faceva imbestialire e perdere ogni qualsivoglia di razionalità. Vendicarsi, aveva la priorità su tutto. «Hester...mi dispiace...ma...devo farlo. Scusa...»

La ragazza lo fissò ammutolita per un breve attimo. Rimase in silenzio, immobile, pietrificata da quelle parole. Non poteva crederci. Il ragazzo che amava aveva appena scelto. Preferiva una inutile e suicida vendetta, a lei.

«Piccola...» mormorò Dom vedendo come la ragazza rimanesse in silenzio.

Avvicinò una mano a lei, ma questa si mosse all’improvviso. Allontanò la mano del ragazzo con uno schiaffo e urlò di nuovo: «BENE!»

Detto questo girò i tacchi e la sua chioma rossa ondeggio, poi si precipitò alla porta. Dominick la inseguì chiamandola, ma fu tutto vano. La ragazza percorse il corridoio bianco e spoglio che conduceva alla camera da letto e raggiunse un piccolo salotto, dove un uomo in mutande e canottiera, con i capelli lunghi e unti dormiva stravaccato sul divano. Hester puntò alla porta, furiosa, ma poi si bloccò di colpo. Andò dall’uomo e lo svegliò urlando: «SVEGLIATI!»

L’uomo sobbalzò e si guardò intorno spaesato, poi incrociò lo sguardo della ragazza. «E tu che ci fai qui? Ti stavi scopando quel...»

La ragazza lo interruppe puntandoli contro l’indice. Dominick capì quello che voleva fare. Cercò di fermarla, ma non lo fece in tempo. «TUO NIPOTE VUOLE USCIRE LA NOTTE DELLO SFOGO!»

Dominick si irrigidì come un chiodo. Lo zio guardò Hester per un momento, sorpreso, poi scrollò le spalle. Lui odiava il nipote. Era stata una palla al piede dal primo giorno in cui gliel’avevano affidato. «E allora?! Meglio, così magari me lo ammazzano e me lo tolgo dalle palle!»

Hester ammutolì di nuovo. L’ultima possibilità che gli era rimasta per impedire a Dom di ammazzarsi era sfumata. Fissò incredula lo zio del suo EX fidanzato mentre si rigirava nel divano e mugugnava qualcosa di incomprensibile, poi guardò Dom, sorpreso tanto quanto lei. Non avrebbe mai pensato che lo zio lo odiasse a tal punto da lasciarlo andare in giro la notte dello Sfogo. Infatti stava pensando di uscire di nascosto. Ma a quanto pare, non era più necessario. Si accorse dello sguardo della ragazza.

«Hester...» disse per l’ennesima volta, ma fu tutto vano.

«No, Dominick...tra noi è finita.»

La ragazza scoppiò a piangere e corse fuori dall’appartamento, lasciando soli Dominick e suo zio.

 Il ragazzo la fissò interdetto, poi, realizzando cosa fosse appena successo, venne gettato nello sconforto totale. Hester lo aveva appena lasciato. Voleva correrle dietro, ma non ne trovò le forze. Abbassò la testa e strinse i pugni, mentre sentiva gli occhi inumidirsi e riaffioravano alla sua memoria tutti i bei momenti passati con lei. Quando si erano conosciuti e avevano cominciato a frequentarsi.

«Sei strano...» gli aveva detto lei la prima volta, per poi sorridergli, appoggiare la testa sulla sua spalla e aggiungere, guardandolo con uno sguardo che aveva subito tradito le sue emozioni:  «...mi piace!»

I picnic al parco, le serate intorno al fuoco e le passeggiate al chiaro di Luna mano nella mano lungo la riva del mare, i bagni dentro di esso e le guerre di schizzi d’acqua, le risate, le emozioni, i sorrisi, gli abbracci...quando la stava ricorrendo per scherzo lungo la spiaggia, poi lei era inciampata e lui anche, su di lei. Si erano ritrovati l’uno sdraiato sopra l’altra e senza nemmeno un attimo di esitazione si erano scambiati il loro primo bacio, un ricordo che tutt’ora lo faceva sorridere. Non poteva credere che la loro storia fosse appena giunta al capolinea.

«Hester...»

 

                                                                                                                                  

 

 

 

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Capitolo 3
*** Preparativi ***


Capitolo

III

Preparativi

 

Ore 18:10

Tempo rimasto allo sfogo annuale: 50 minuti.

Kevin riaprì lentamente gli occhi, mugugnando di dolore. La testa gli faceva un male pazzesco e gli pulsava terribilmente. Ogni movimento degli occhi gli causava dolore, anche solo pensare gli arrecava sofferenza. Ci mise un attimo per ricordare cos’era successo. Erano scesi da un’auto e lo avevano aggredito con delle mazze, poi era svenuto. Quando riuscì a mettere a fuoco con la vista, ancora annebbiata, si rese conto di trovarsi proprio in una macchina, con tutta probabilità lo stesso fuoristrada da cui erano scesi i suoi aggressori. Riconobbe subito l’artefice di tutto quello, che dal sedile del passeggero lo fissava con quell’aria di superiorità. Fece per muoversi, ma realizzò di essere bloccato. Guardò prima a destra, poi a sinistra e vide quei gorilla che lo tenevano bloccato per le braccia, le mazze da baseball adagiate sui tappetini ai loro piedi.

Nicols allargò il ghigno sul volto. «Ti sei svegliato, Berrier!»

Kevin era immobilizzato, ma nulla al mondo gli avrebbe impedito di far sparire quel sorriso dal volto di quel bastardo. Gli sputò in faccia, ma non prima di essersi assicurato di avere sufficiente catarro in gola. Nicols fece un verso di sorpresa e disgustato. Fu il turno di Kevin a sorridere, ma durò poco. Si becco due pugni in faccia dai gorilla che lo tenevano bloccato. Fece un verso di dolore quando le nocche di quei vermi gli scorticarono il volto. Avrebbe voluto dimostrare di essere più forte di loro e rimanere impassibile di fronte al dolore, ma non ci riuscì.

Nicols nel frattempo si ripulì dello sputo che fino a poco prima gli colava sulla guancia e digrignò i denti. Sferrò un pugno a sua volta a Kevin, facendolo gemere di nuovo.

Kevin cominciò ad irritarsi. Senza quei due a tenerlo bloccato, Nicols non sarebbe mai riuscito a colpirlo. Si credeva furbo a difendersi dietro ai suoi amici, quel buono a nulla. Sono tutti bravi a fare i gradassi quando hanno il culo parato.

«Non dovevi farlo Berrier, no, no, no...» incalzò Nicols strofinandosi ulteriormente la manica sulla guancia, per poi guardarla schifato. «Ma guarda te...la mia maglia firmata...sei un ragazzo morto Berrier...»

Un ragazzo morto. Quella frase fece sgranare gli occhi a Kevin. Mancava poco allo sfogo, oramai. In giro non c’era più nessuno, se non i folli che avrebbero partecipato all’evento. Il fuoristrada nero vagava solo per quelle strade deserte e desolate. Era inquietante vedere la loro città così silenziosa e vuota. E loro lo avevano appena rapito. Elaborò quelle informazioni e cominciò lentamente a giungere ad una conclusione.

«Non vorrai mica...uccidermi durante lo Sfogo?» domandò cercando di apparire sicuro, non riuscendoci. La sua voce tremolò lievemente, per via della paura.

Nicols rispose con un ghigno divertito e scosse lentamente la testa. «Oh, certo che no! Non mi sporcherei mai le mani con la feccia come te! Ma, come puoi ben vedere, le strade sono deserte, e siamo molto lontani da casa tua. Inoltre manca meno di un’ora all’inizio dello Sfogo. No, no, non ti ucciderò io...semplicemente, ti scaricheremo in centro città a meno di mezz’ora dall’inizio. Ti ritroverai a piedi e da solo e quando lo Sfogo comincerà ti ritroverai addosso ogni qualsivoglia di malintenzionato presente nella zona. Saranno loro a farti fuori. Geniale, non trovi?»

Kevin inorridì. Il piano di Nicols era dannatamente contorno e, sì, sotto certi punti di vista pefino furbo. Voleva sbarazzarsi di lui, ma non aveva il coraggio di ucciderlo di persona, così lo scaricava in centro in piena balia di quei pazzi truccati con la pittura di guerra. Ma quando realizzò di apparire davvero spaventato, suscitando il divertimento nei suoi aguzzini, si ricompose e cercò di mostrarsi sicuro. «Oh sì, davvero geniale. Mi sorprende che un coglione del tuo calibro abbia studiato un piano del genere...»

Un altro pugno e un altro gemito di dolore. Kevin abbassò la testa, mentre sulla sua guancia compariva un lieve ematoma.

«Hai poco da fare il furbo, Berrier. Ormai stai per giungere al capolinea.»

Kevin tossì e sputò di nuovo, sul tappetino della lussuosa auto.

«Ehi!» esclamò indispettito l’autista. «Non sputarmi sulla macchina!»

Kevin sollevò di nuovo lo sguardo gemendo e fissò dritto negli occhi il folle che lo teneva prigioniero. «Perché vuoi che io muoia? Dopotutto, tra noi sono solo volate parole e pugni, e tra l’altro ogni volta hai sempre cominciato tu! Uccidermi...non ti sembra una cosa un po’ eccessiva?»

«Ma infatti non sarò io ad ucciderti, lo hai già dimenticato?» domandò Nicols senza far sparire quello strano sorriso. Quel sorriso...folle.

A quel punto Kevin capì. Nicols era completamente fuori di testa. Probabilmente aveva qualche malattia mentale. Ma non per scherzo. In effetti, i suoi genitori gli avevano detto di non dargli troppa corda, che non era molto a posto. Credeva che glielo avessero detto semplicemente perché non volevano che si azzuffasse con lui e ritrovarsi in casini penali di conseguenza. A quanto pare erano seri. Si voltò verso i due che lo tenevano bloccato. Sperò che almeno loro potessero farlo ragionare. Invece sorridevano allo stesso modo di Nicols. Anche loro erano fuori di testa. L’autista pure. Tutti in quel cazzo di paese ormai avevano perso la sanità mentale. I nobili soprattutto. Con quella storia della purificazione, avevano fatto il lavaggio del cervello a tutti i loro figli e conoscenti. Ma cosa c’era da aspettarsi da una nazione che permetteva una cosa orribile come lo Sfogo?

Si sentì piccolo e impotente sotto gli sguardi folli dei suoi aguzzini. Lo avrebbero scaricato in centro e lo avrebbero abbandonato al suo destino. Nessuno l’avrebbe salvato. Nessuno gli avrebbe aperto la porta e fatto entrare. Nessuno sarebbe andato a prenderlo, per paura. Un sacco di gente finge di essere in pericolo per poi accoltellare i propri salvatori all’inizio dello Sfogo. Era solo. Il panico si insinuò dentro di lui e non riuscì più a calmarsi. Cominciò ad agitare le braccia, a scalciare a urlare e fare di tutto per liberarsi della loro presa, scendere da quella macchina e fuggire finché era in tempo. L’unico risultato che ottenne, furono dei sorrisi ancora più folli e divertiti da parte dei tre ragazzi, Nicols in particolare.

«E’ tutto inutile, Berrier...sei mort...»

«VAFFANCULO!» sbraitò Kevin sferrando una pedata in pieno volto al ragazzo, facendolo indietreggiare e sbattere contro il cruscotto.

«Ahia...» si lamentò Nicols massaggiandosi il naso, per poi accorgersi che stava sanguinando. Fissò il sangue che gli imperlava le dita prima sorpreso, poi furibondo. «Tu...come hai osat...»

«LASCIATEMI!» urlò Kevin agitandosi ulteriormente, ammutolendo Nicols e riuscendo anche a sferrare delle gomitate ai due che lo tenevano bloccato. «LASCIATEMI ANDARE BASTARDI! LASCIATEMI!»

Non voleva morire. Era un ragazzo, con tutta la vita davanti. C’erano ancora un casino di cose che voleva fare. Tipo scopare, girare il mondo, provare nuove esperienze, scopare, guidare una Lamborghini, scopare... Tirò fuori una forza inaudita e vendette cara la pelle. Riuscì a liberare un braccio e a sferrare una gomitata sul naso ad uno dei due gorilla, poi morse la mano dell’altro, facendolo urlare e sanguinare. Sferrò altri calci, pugni, ginocchiate e gomitate, colpendo tutto quello che gli capitava a tiro. Volti, petti, gambe, braccia. Era diventato una furia incontenibile.

«Porca puttana, fermatelo incapaci!» ordinò Nicols, poco prima di beccarsi un altro calcio e venire spedito contro il cruscotto un’altra volta.

Kevin saltò addosso ad uno dei due aguzzini e cominciò a riempirlo di pugni in faccia. L’altro lo afferrò da dietro e lo trascinò via. Kevin si girò e gli morse il naso di traverso, come un cane rabbioso. Riuscì a sentire perfettamente l’osso del suo setto tra i suoi denti, poco prima che la sua bocca si riempisse del gusto metallico del sangue del poveretto. Arretrò di scatto con la testa e cominciò a sputarlo via, per allontanare quel saporaccio dalla bocca. Intanto il poveretto che aveva morso si stava tenendo una mano sul volto, ormai ricoperto da sangue rosso scuro e grumoso, quasi nero, urlando disperato.

Il gorilla numero due, quello che fino a poco prima di era beccato dei pugni in faccia, raccolse la mazza dal tappetino e cercò di colpirlo, ma Kevin afferrò l’arma improvvisata e cominciò a tirare, per cercare di strappargliela di mano. I due cominciarono ad urlare e a tirare verso le rispettive parti, per riuscire a tenersi la mazza, fino a quando l’autista non inchiodò la macchina di colpo. Gorilla n2 andò a sbattere contro il sedile di fronte a sé. Kevin invece, che si trovava in mezzo, si ritrovò catapultato davanti. Accadde tutto in una frazione di secondo. L’unica cosa che riuscì a vedere, poco prima di schiantarsi contro di esso, fu il parabrezza. Sbatté violentemente la testa e svenne sul colpo.

Nicols si ripulì del sangue, ansimando, imitato dagli altri due aguzzini. Non poteva neanche lontanamente immaginare che Berrier potesse essere così agguerrito.

«Figlio di puttana! Mi ha distrutto il naso!» si lamentò Gorilla n1 tenendosi una mano sul volto, solo che la sua frase risuonò più come "...distrutto il VASO".

Nicols sorrise di nuovo. In parte divertito dalla voce strana del suo compare, in parte vittorioso, per avere di nuovo Berrier tra le sue fauci. «Pazienza ragazzi, pazienza...tra poco lo abbandoneremo per strada, lasciandolo a morte certa, consolatevi con questo!»

 

***

 

Ore 18:15

Tempo rimasto allo sfogo annuale: 45 minuti.

Dominick era di nuovo in camera da letto dello zio, mentre si rigirava tra le mani la Magnum. La esaminò a lungo. Ne valutò il peso, la forma, le dimensioni. Era piuttosto grossa e pesante e, doveva ammetterlo, piuttosto ingombrante. Faticava a tenera sollevata con una sola mano. Se prendeva l’impugnatura con entrambe, allora non c’era problema, ma nella fretta di una sparatoria non sempre c’è il tempo per impugnare una pistola con entrambe le mani. Inoltre il mirino metallico dell’arma non era dei migliori. Era minuscolo, prendere la mira era quasi impossibile. Per non parlare del fatto del rinculo che i revolver in generale possedevano, la Magnum in particolare. Uno non abituato a sparare con quell’arma, come lui, avrebbe potuto ritrovarsi per terra a causa del contraccolpo dopo il primo colpo sparato. Senza contare il caricatore di soli sei colpi, che andavano sostituiti manualmente uno per volta.  Aveva un mucchio di difetti quell’arma, adesso che ci faceva caso. Ma ormai era tardi per i ripensamenti. Hester se n’era andata, tra loro era finita. Il danno era fatto.

Guardò l’orologio. Erano le sei e trenta. Mancava mezz’ora esatta all’ora X, le sette.

Sospirò e si rigirò di nuovo l’arma tra le mani. Si pentì leggermente di non aver comprato una M9 da quei tizi che le vendevano per strada. Quella pistola era molto più precisa, leggera, con un rinculo molto più contenuto, per non parlare del caricatore da quindici colpi, molto più capiente e veloce da ricaricare della Magnum.

Come faceva a sapere tutte queste cose sulle armi? Semplice, si era informato molto nei mesi precedenti alla vigilia dello Sfogo. Sapeva tutto, di quasi tutte le armi. Nemmeno a scuola aveva mai prestato tanto interesse ad un determinato argomento. Conosceva tutti i pregi e difetti di pistole, fucili a pompa, fucili automatici, semiautomatici e mitragliette.

Per esempio sapeva che l’Ak47 era più potente dell’M4, ma molto più impreciso. Sapeva che l’M1014 era uno dei fucili semiautomatici migliori in fatto di danno e portata, compensato però da un minuscolo caricatore che arrivava al massimo a sette colpi.

E sapeva anche che non disponeva di nessuna di queste armi. E che invece, la fuori, c’era gente che possedeva roba dieci volte peggio.

Le notti dello Sfogo venivano in genere riprese in buona parte dalle telecamere della città e trasmesse in diretta televisiva. Aveva visto gente con lanciafiamme, mitragliatrici a canne rotanti, granate, G36c, UMP45, P90, insomma, roba seria. E come se non bastasse, quella sera, oltre ai classici vandali truccati con la War Paint, c’erano anche persone con cani da caccia e veri e propri soldati, con corazze da Juggernaut e mitragliatrici pesanti, come l’MK46. Insomma, durante lo Sfogo poteva trovarsi di tutto davanti. Non si sarebbe neanche sorpreso se si fosse trovato di fronte ad un carro armato. Tutto era possibile.

Perciò...perché lui, un ragazzino di appena vent’anni, neanche, male armato, non addestrato, solo e senza uno straccio di protezione, stava per uscire fuori, tra l’altro causando una rottura con la ragazza che amava? Follia? Stupidità? Forse. Anzi, sicuramente. Non ci voleva coraggio per uscire da soli quella sera. Ci voleva follia. Senza la follia, non si poteva fare nulla. Ma la motivazione principale era sempre e solo quella: vendetta.

Guardò di nuovo l’ora. Meno venti minuti all’ora X.

Dominick sospirò e si alzò dal letto. Mise la pistola nell’orlo dei pantaloni e uscì dalla camera. Raggiunse la sala, dove lo zio dormiva ancora, ignaro di tutto. Dominick lo guardò schifato. Aveva odiato quell’uomo dal primo giorno in cui era andato a vivere con lui. E il sentimento era stato reciproco. Era un ubriacone, un fannullone ed un emerito cazzone. Il pavimento intorno al divano era circondato da un fiume di bottiglie di vetro vuote e lattine di birra. Visto che stava russando a bocca aperta, Dominick avvertì chiaramente il suo alito pestilenziale invadere la stanza e soffocarlo. Se avessero avuto delle piante, sarebbero sicuramente appassite.

Scosse la testa in segno di disappunto, poi si voltò verso la porta. Tirò un profondo sospiro e si avviò. Prese la maniglia e la aprì, ritrovandosi a fissare il pianerottolo. Ripensò a come Hester era uscita da quella stanza, in lacrime. Si sentì uno straccio. La ragazza che amava, che era riuscita a fargli tornare il sorriso dopo anni di sofferenza e solitudine... Poi ripensò a come suo zio non era parso minimamente preoccupato dalla sua decisione di uscire e sentì montare la rabbia. Davvero non gli importava nulla del figlio di sua sorella? Sangue del suo sangue? L’unico ricordo che avesse di lei, oltre alle fotografie? Schifoso verme. Si voltò un’ultima volta verso di lui gli rivolse un’altra occhiataccia. Quanto avrebbe voluto approfittare dello Sfogo e piantare una pallottola anche nella sua, di fronte. Ma non lo avrebbe mai fatto, in segno di rispetto verso sua madre.

Dom distolse lo sguardo e tornò a fissare il pianerottolo ricoperto di piastrelle bianche e luride. Tirò un profondo sospirò ed uscì.

Si mise le mani in tasca e incassò la testa tra le spalle mentre scendeva le scale.

Poco dopo camminava per strada. La città era buia e completamente deserta. Era innaturale tutta quella calma. Erano le sei, perciò un po’ di luce c’era ancora, ma sarebbe scomparsa nel giro di poco tempo. All’inizio dello Sfogo, all’incirca. Avevano studiato tutto a tavolino, i nuovi padri fondatori. Raggiunse la macchina, che aveva parcheggiato poco lontano dall’alloggio. Vi salì sopra e l’avviò. La vecchia e decrepita Chevelle dei genitori, altro ultimo loro ricordo, si avviò con il suo solito rombo semi morente. Poco prima di partire, aprì il vano portaoggetti e vi prese una fotografia, impolverata e sbiadita. La ammirò a lungo, sentendo le lacrime uscire di nuovo dai suoi occhi. In quella foto c’era lui, un paio di anni prima, insieme ai suoi genitori, sorridenti davanti ad un alberello. Lui non era cambiato molto. Era solo cresciuto, diventato molto più alto, uno e ottanta circa, i suoi capelli si erano fatti molto più ribelli e indomabili. E non aveva ormai da anni quell’espressione vispa che invece aveva in fotografia. Alla sua destra c’era suo padre, Sebastian, un uomo praticamente identico a lui, in fatto di capelli, occhi e corporatura. Alla sua sinistra c’era sua madre, Trisha, una donna molto bella e gentile, con occhi color ambra, capelli caramello e sempre raccolti in una coda. Il suo sorriso poteva illuminare le giornate più buie e tempestose e la sua bontà d’animo avrebbe potuto far convertire il più spietato dei criminali. Da lei aveva ereditato gli stessi zigomi belli e delicati e quell’aria da "cucciolo" con la quale aveva fatto breccia nel cuore di Hester. Si ritrovò a sorridere senza nemmeno accorgersene ripensando alla sua bella dai capelli rossi, poi ricordò cos’era successo e si incupì di nuovo.

Sospirò per l’ennesima volta logorato dai ricordi tristi e nostalgici, pensando a quei bei momenti trascorsi con i suoi genitori e con Hester, che mai sarebbero tornati. Quanto avrebbe voluto poter presentare la ragazza a sua madre e suo padre, vivere insieme a tutti loro, come una vera famiglia felice. Un sogno irrealizzabile, che non era nemmeno fattibile quando stava ancora con Hester. Posò la foto nel vano e la richiuse, cercando anche di nascondere lì dentro i ricordi per non farsi più logorare da loro. Accese la radio, per avere un po’ di compagnia nel viaggio a seguire. Avviò la compilation degli Offspring che teneva nella chiavetta USB collegata allo stereo e non si mise all’ascolto dei canali normali, visto che a quell’ora non avrebbero fatto altro che parlare dello Sfogo.

Con You’re Gonna Go Far Kid in sottofondo, canzone che calzava a pennello in quel momento, una pistola carica nei pantaloni e il desiderio di vendetta, il ragazzo  si avviò verso la sua meta.

Ripensò al detto che diceva: "Non conta la destinazione, ma il viaggio."

In quella circostanza, non c’era nulla di più sbagliato.

 

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Capitolo 4
*** Lo Sfogo ***


 

Capitolo

IV

Lo Sfogo

 

Ore 18:23

Tempo rimasto allo Sfogo annuale: 37 minuti.

Avete presente quelle volte in cui, quando siete seduti sul divano, riuscite a trovare la posizione perfetta? Quella in cui le vostre gambe si trasformano in burro e diventate un tutt’uno con il cuscino del divano? Quella posizione che, se poi vi alzate, non trovate più? Ecco, Thia riuscì a trovarla. Sospirò estasiata mentre abbandonava la testa all’indietro e si godeva quel momento di relax, dopo una lunga e stressante giornata a lavoro. Ma ovviamente, come ogni volta in cui si riesce a trovare la posizione perfetta, qualcuno bussò e, ovviamente, Mary non poteva andare ad aprire, visto che era impegnata in cucina.  «Thia, puoi andare a vedere chi è, per favore? Sono occupata...»

Thia strabuzzò gli occhi, non riuscendo a credere quanto sfortunata fosse. Si era appena messa comoda e qualcuno andava a rompere le scatole. Ma non si arrese subito. «Magari è solo qualcuno che ha sbagliato...»

Il tizio non aveva sbagliato, perché bussò di nuovo. Thia fece un verso furioso e si alzò dal divano, diretta indispettita verso la porta. Marianne se ne accorse e ridacchiò.

«Ma l’unico imbecille che poteva andare a bussare in giro a poco dall’inizio dello Sfogo, proprio qui e proprio adesso doveva venire?!»

Aprì la porta furibonda. «Chi è?!»

Si bloccò quando vide colui che aveva bussato. Era un uomo elegante, sulla quarantina. Capelli castani e ordinati e occhi dello stesso colore. Sembrava essere stato colto alla sprovvista dal tono rabbioso di Thia, che cercò subito di rimediare, un po’ impacciata: «Ehm...insomma, buondì...»

L’uomo la guardò pensieroso, poi annuì e si schiarì la voce. «Ehm, ok...tu devi essere la coinquilina di Marianne, giusto? Lei è in casa?»

Thia inarcò un sopracciglio. Se quell’uomo sapeva che era la sua coinquilina, e la chiamava Marianne anziché Mary, la spiegazione era solo una: era un suo collega di lavoro.

La ragazza si girò e chiamò a gran voce: «Mary! Ti cercano!»

«Arrivo subito, un attimo!»

«Ma...lavori per caso al "Devil’s Club"?» domandò intanto l’uomo a Thia, facendola girare di scatto.

Thia alzò di nuovo un sopracciglio, ma questa volta abbozzò anche un sorrisetto. Il Devil’s Club era il bordello in cui lavorava e se quello l’aveva riconosciuta, il motivo era uno solo. «Come fa a saperlo? Frequenta quel locale?»

L’uomo arrossì e si affrettò a scuotere la testa e a sbracciarsi. «Cosa? Nononono, è solo che...insomma...cioè...»

La ragazza ridacchiò. Colpito e affondato.

Mary arrivò poco dopo, pulendosi le mani con uno straccio. Affiancò Thia e non appena vide l’uomo storse il naso. «David...»

«Ciao Marianne...senti, sono venuto per chiederti...»

«Non verrò questa notte a casa tua, David. Io e Thia ce la sappiamo benissimo cavare da sole.» lo interruppe Marianne, con tono fermo e deciso, che non ammetteva obiezioni.

«Ma...»

«Non insistere. Non servirà a nulla. Tornatene a casa, si sta facendo tardi. Ci vediamo domani a lavoro.»

David non si arrese. Afferrò Marianne per una spalla e la guardò con espressione preoccupata. «Marianne, non puoi dire sul serio. Tu e la tua amica abitate nei bassifondi, i posti più pericolosi durante lo Sfogo. E poi, guardatevi, siete entrambe due belle fanciulle, siete dieci volte più a rischio! Sicuramente qualcuno proverà ad irrompere e violentarvi! Lascia che vi ospiti a casa mia, davvero, sarete al sicuro! Sia tu che la ragazzina!»

Marianne allontanò la mano dell’uomo e la sua espressione non cambiò. «No, David. Sappiamo badare a noi stesse. Davvero, tornatene a casa anche tu, non c’è più molto tempo.»

David aprì bocca per replicare, ma si bloccò. Non sarebbe riuscito a convincere la donna. Abbassò la testa sconfitto e fece dietrofront. Thia chiuse la porta e sorrise a Marianne. «Però, lo hai conciato per le feste!»

Marianne abbozzò un sorriso e si incamminò di nuovo per il corridoio.

«Fammi indovinare...» proseguì Thia seguendola. «...quel tipo è uno di quelli che ci prova con te al lavoro, giusto?»

«Cavolo, hai vinto il Nobel per l’acume?» la schernì Marianne sarcastica, ritornando in cucina e posando lo straccio.

Thia ridacchiò di nuovo, poi si fece pensierosa. «Non pensi che...si arrabbierà e cercherà di fartela pagare per i tuoi rifiuti durante lo Sfogo? Voglio dire...un sacco di uomini la fanno pagare alle donne che li rifiutano costantemente nella notte dello Sfogo...»

«Non credo. Tranquilla Thia. David non è come quegli uomini iper possessivi e gelosi. E’ uno sveglio. Lo sa che...da quando...sono...» si incupì all’improvviso e si bloccò. Thia la guardò preoccupata, poi la donna buttò fuori una boccata d’aria e riprese il discorso. «...insomma, lo sa che rifiuto gli inviti perché per me gli uomini sono una nota dolente. Sarà una notte tranquilla, fidati.»

«Va bene.» convenne Thia rassicurata, per poi andarsene di nuovo sul divano e cercare di ritrovare la posizione perfetta, facendo un verso di frustrazione quando, dopo dieci minuti, ancora non ci riuscì.

«Stupido David...» brontolò a denti stretti.

Mary la sentì e ridacchiò, poi posò il coltello e si rivolse alla ragazza: «Meglio tirare su le barricate.»

Thia si voltò e annuì, improvvisamente seria in volto. Si alzò di nuovo dal divano e seguì la donna nella sua camera da letto, dove presero assi di legno, una ventina di chiodi lungi una spanna e due grossi martelli, che trovarono accatastati alla parete.

Ritornarono nella sala e si divisero. Thia si occupò delle finestre. Chiuse le persiane con la serratura, poi cominciò a piantare i chiodi nell’asse con il martello. Così facendo rovinava il muro, ma quello era una cosa normale, per quelli che non potevano permettersi un vero sistema di sicurezza.

Marianne si occupò della porta di ingresso.

Poco dopo si ritrovarono in salotto, con le mani arrossate e dolenti. Marianne prese i martelli e li riportò in camera, poi tornò poco dopo, con una Beretta carica. La sollevò e la mostrò a Thia. «La prudenza non è mai troppa.»

Thia annuì, concordando con lei al cento percento. Tutto poteva accadere durante quella notte, lo sapevano una meglio dell’altra.

Marianne posò l’arma sul tavolino davanti alla televisione, sperando con tutta sé stessa di non doverla più toccare fino a quando non l’avrebbe rimessa a posto il mattino dopo.

 

***

 

Ore 18:36

Tempo rimasto allo Sfogo annuale: 24 minuti.

Si svegliò dopo aver ricevuto un forte schiaffo e sentendo le voci di qualcuno che lo chiamava: «Sveglia Berrier! Non vuoi vedere dove ti scaricheremo?»

Kevin riaprì a stento gli occhi, ritrovandosi di nuovo il ghigno provocatorio e divertito di Nicols.

«T-Ti prego...» implorò gemendo Kevin, capendo di essere davvero agli estremi. Ormai il tempo era giunto alla fine, combattere era inutile e controproducente.

Ma le sue suppliche non fecero altro che aumentare il divertimento di Nicols. «Guardatelo come implora! Patetico!» poi guardò l’autista. «Allora Rey, ci siamo?»

Il ragazzo al volante annuì e arrestò la macchina. Nicols si voltò di nuovo verso di Kevin. «Capolinea.»

I gorilla, di cui Gorilla N1 con una benda insanguinata sul naso, afferrarono Kevin uno per le braccia e l’altro per le gambe. Kevin cominciò a scalciare e urlare di nuovo all’impazzata, per liberarsi, ma questa volta gli energumeni mantennero salda la presa. Nicols scese e aprì la portiera. I due gorilla scagliarono Kevin fuori dalla macchina. Il ragazzo cadde a terra battendo la testa e scorticandosela. Fece un verso di dolore e si rialzò quasi subito, solo per ricevere un calcio in pieno volto da Nicols, che disse con tono malizioso: «Tocca a me adesso!»

Kevin cadde di nuovo a terra tenendosi una mano sul naso, poi Nicols salì in macchina e questa partì immediatamente, facendo fischiare le gomme. Vide Nicols e i due gorilla salutarlo con la mano e rivolgergli un ultimo sorriso di superiorità.

Kevin si alzò di nuovo e si mise a correre all’impazzata, per cercare di raggiungere il fuoristrada. Usò tutte le forze di cui disponeva. Non credeva di essersi mai sforzato tanto in una corsa, ma fu tutto inutile. Il fuoristrada lo allontanò quasi immediatamente. Kevin tese una mano verso la macchina e cominciò ad urlare: «Vi prego! No! Non lasciatemi qui! VI PREGO!»

Ma la sua voce non riuscì certo a raggiungere il veicolo, ormai ridotto ad una macchiolina nera all’orizzonte. Kevin crollò in ginocchio con le lacrime agli occhi, in mezzo a quella strada deserta, che gli faceva sembrare di essere in una città fantasma. Rimase immobile a fissare la strada davanti a lui, come in stato di trance, ancora incredulo a tutto quello che stava succedendo. Sperò che fosse tutto un brutto sogno. Fu una folata d’aria fredda che lo puntellò a farlo tornare in sé e realizzare che quella era la realtà. Si guardò intorno. Non c’era nessuno. Si alzò in piedi e cominciò a sentire il respiro farsi pesante. Fece vagare lo sguardo ovunque, ma trovava sempre le stesse cose: edifici, locali vari, grattacieli, case, tutti con porte di ingresso e finestre sbarrati.

Le sue gambe non sembravano voler obbedire ai suoi ordini. Rimase di nuovo fermo come una statua, conscio del proprio destino. Era stato scaricato in centro città, solo,  a poco dall’inizio dello Sfogo. Sentì le lacrime inondargli gli occhi mentre pensava a quanto giovane fosse, a quanto la vita gli dovesse ancora riservare. Fino a poco prima aveva passato una tranquilla mattinata di merda a scuola e se ne stava tornando a casa. E adesso era già morto. Tutto per colpa di un ricco pazzoide e dei suoi amici.

Il ragazzo si mise una mano nella tasca della felpa e cominciò a frugarci dentro, il tutto mentre singhiozzava. Prese il pacchetto di sigarette e lo tirò fuori. Ne prese una e se la mise in bocca, poi avvicinò l’accendino con mano tremante e se l’accese. Si rimise il pacchetto e il clipper arancione in tasca e fece qualche tiro, per cercare di calmarsi e raccogliere le idee. Ma fu solo quando sentì la voce robotica di una donna, proveniente da uno dei numerosi schermi giganti appesi per le vie della città, che riuscì a sbloccarsi. «Mancano quindici minuti allo Sfogo annuale.»

Kevin strabuzzò gli occhi. Quindici minuti. Non c’era più tempo da perdere. Anzi, non c’era più tempo e basta. Cominciò a correre, non sapeva nemmeno verso dove. Corse e basta. Andò sul marciapiede e cominciò a sbattere i pugni contro tutte le barricate che trovava. «EHI! EHI! APRITEMI! VI PREGO! NON VOGLIO PURIFICARMI, LO GIURO! SONO RIMASTO FUORI! APRITEMI, VI SUPPLICO IN GINOCCHIO!»

Ma nessuno lo aiutò. Era troppo rischioso aiutare uno sconosciuto un quarto d’ora prima dello Sfogo, ci si sarebbe potuti ritrovare di fronte qualsiasi malintenzionato. Anche se lui era solo un ragazzino, non significava nulla. Le stesse bande di criminali mascherati e truccati erano perlopiù composte da ragazzini poveri, rimasti magari senza genitori, che approfittavano dello Sfogo per guadagnare un po’ si soldi.

Kevin corse a lungo, sul bordo della strada, urlando e sbracciandosi, ma fu tutto inutile. Era solo, fine della storia. Si fermò per riprendere fiato e si appoggiò con la schiena ad una parete di un edificio, quello che sembrava essere un bar, anch’esso sbarrato. Si premette le mani sulle ginocchia e si piegò, stremato e ansimante. Sputò la sigaretta, non era il momento adatto per fumare. Un’idea gli attraversò la mente e gli tornò un barlume di speranza. Cercò il cellulare, per chiamare i genitori e farsi venire a prendere almeno da loro. A quell’ora ormai dovevano essere a casa e, anche se pericoloso, sarebbero sicuramente andati a prenderlo. Ma mentre cercava ovunque, nelle tasche dei pantaloni e della giacca, realizzò con orrore di non avere il cellulare. Nemmeno la borsa con dentro i libri scolastici aveva più, a dire la verità. Nicols e banda dovevano avergli preso tutto quanto, eccetto le sigarette e l’accendino. Si prese la testa fra le mani e cominciò a far strisciare la schiena contro la parete, mentre si metteva lentamente a sedere.

«No...» mormorò inorridito, sempre più sconvolto e rassegnato. «No...»

«Mancano dieci minuti all’inizio dello Sfogo annuale.»

Kevin gemette. «No...»

Un rumore proveniente da lontano gli fece sollevare lo sguardo, ormai vitreo e assente. Ma ciò che vide riuscì a farlo balzare in piedi e riaccendere la speranza in lui. Una macchina. Una vecchia Chevelle.

Corse in mezzo alla strada e cominciò a sbracciarsi per richiamare la sua attenzione. Non aveva idea di cosa ci facesse un’auto in giro a quell’ora, ma poco gli importava. Era pur sempre un mezzo di salvezza. Ma quando tutto sembrava volgere per il meglio, il conducente dell’auto, che inspiegabilmente era un ragazzo come lui, gli mostrò il dito medio e tirò dritto, senza fermarsi.

Kevin lo fissò esterrefatto per un breve attimo, poi, anche se quello era il momento meno opportuno, si accigliò. «FIGLIO DI PUTTANA!»

La macchina scomparve alla visuale, al che Kevin abbandonò le braccia a peso morto lungo i fianchi, demoralizzato per l’ennesima volta.

Un altro spiffero d’aria lo costrinse ad alzare lo sguardo e a riscuotersi. Scrollò la testa e riprese a correre. Senza che nemmeno se ne fosse accorto, il cielo si era fatto scuro all’improvviso. La sera stava scendendo, portando con sé lo Sfogo e la sua inevitabile morte.

Non sapeva che qualcuno lo stava seguendo, a bordo di moto da cross e un furgone beige. Dei ragazzi col volto coperto da maschere o pittura. Uno di loro con la scritta GOD sulla fronte della maschera bianca e sporca, lo osservò correre via, in quel disperato tentativo di mettersi in salvo. Lo salutò con un rapido cenno delle dita.

 

***

 

Ore 18:53

Tempo rimasto allo Sfogo annuale: 7 minuti.

Dominick procedeva a velocità sostenuta, incurante di tutto quello che gli scorreva accanto. Aveva perfino ignorato quel ragazzino con il cappello a visiera che chiedeva aiuto. Come se fosse stupido. Quel tipo lo avrebbe accoltellato non appena lo Sfogo sarebbe iniziato, lo sapeva bene. E poi non aveva tempo da perdere con altre persone. Erano solo lui, la radio, la strada e il suo obbiettivo. E la Magnum nei pantaloni, che gli stava dando un fastidio pazzesco. Era dannatamente fredda. Sollevò la maglietta e prese la pistola, poi la adagiò sul cruscotto, dove sarebbe stata facile da recuperare in caso di emergenza.

Sospirò guardandola. Gli fece tornare in mente il discorso con Hester e, di conseguenza, la ragazza stessa. Cominciò a dubitare della sua decisione. Ritrovarsi a vagare solo, per quelle strade buie e prossime al delirio totale, piuttosto che insieme ad Hester e al calore del suo corpo, gli sembrò un’idiozia. Non sapeva nemmeno cosa avrebbe fatto una volta trovato l’uomo che cercava. Non sapeva nemmeno se sarebbe sopravvissuto. Prima lo avrebbe fatto a tutti i costi, pur di rivedere la sua ragazza, ma adesso che avevano rotto, non gli importava più molto della sua vita.

Chiuse gli occhi per un breve momento e si immaginò il profumo di Hester che lo inebriava. Poi scese ancora più in profondità e ritornò alla sua infanzia, a quando sua madre lo abbracciava e lo accarezzava. Suo padre che lo portava a pesca e gli insegnava tutti i trucchi del mestiere. E poi...i fiori, la pioggia, i vestiti neri, il prete, le bare...

Com’era piccolo quando tutto era successo. Ricordò che aveva pianto tantissimo, inginocchiato sulla nuda terra e sporcandosi i pantaloni puliti, tirati a lucido per quell’occasione così lugubre. Aveva appoggiato la mano su quella pietra bianca con sopra diverse incisioni e aveva chiamato a gran voce sua madre e poi suo padre, non ottenendo nessuna risposta, ovviamente. Pioveva quella volta, per fortuna. Almeno...non era stato l’unico a piangere, quel giorno.  Il cielo gli aveva fatto compagnia. Ricordò come tutta la sua vita tranquilla e felice era stata sconvolta nel giro di un attimo e si era ritrovato a condividere lo stesso tetto con il fratello di sua madre. Era solo un bambino all’epoca e vivere con quell’ubriacone era stato dannatamente traumatico per lui, per lo meno fino a quando non era cresciuto, la sua tempra di era fatta più dura ed era riuscito a superare tutto l’accaduto, anche se i ricordi ogni tanto riaffioravano, come in quel momento. La prima vera svolta nella sua vita era stata quando aveva conosciuto Hester, a scuola. Si erano incrociati per puro caso. Dominick stava camminando guardando il cellulare, aveva girato l’angolo e si era letteralmente scontrato con lei. Il classico cliché di incontro. L’aveva aiutata a rialzarsi, si erano presentati entrambi un po’ imbarazzati e il resto era storia.

Vagò ancora per un breve tratto con la macchina, poi finì in una via principale, dove si ritrovò davanti ad uno spettacolo da far gelare il sangue nelle vene. Diversi pullman parcheggiati di traverso bloccavano il passaggio ed erano presidiati da un esercito di quei folli con la War Paint e mascherati. Avevano già un mucchio di armi. Pistole, mitragliette, coltelli, machete. Erano lontani, ma riuscì a percepire tutti i loro sguardi posarsi su di lui e la sua macchina. Sentì ogni singolo pelo delle sue braccia rizzarsi, poi si affrettò a fermare la macchina e a mettere la retromarcia. «Meglio...meglio andarsene da qui...»

Sentì una voce femminile metallica gracchiare dallo schermo gigante situato in un edificio in quella strada: «Mancano 3 minuti all’inizio dello Sfogo annuale.»

Non appena sentirono quella voce parlare, i criminali mossero dei passi verso di lui, agitando le armi.

«DECISAMENTE, devo andarmene...» ribadì Dominick premendo il piede sull’acceleratore, per poi ruotare bruscamente il volante e andare in testacoda. Con un’elegante mossa degna dei piloti più esperti si ritrovò a dare nuovamente le spalle ai pazzoidi intorno ai pullman e si allontanò alla svelta.

Rabbrividì di nuovo pensando a quei tizi e si domandò se lo stessero seguendo. Si girò di scatto, ma la strada dietro di lui era deserta, al che riuscì a tranquillizzarsi un po’. Non osò immaginare la fine tragica che avrebbero fatto tutti quei poveracci che si sarebbero trovati per caso in quella strada bloccata al traffico.

Alzò il volume della radio e meditò sulla strada da prendere dopo essere stato costretto a quella deviazione. Sicuramente anche le altre vie principali erano presidiate da eserciti di folli, perciò era meglio optare per le strade secondarie. Avrebbe allungato a dismisura la strada da percorrere, ma per lo meno i rischi si sarebbero ridotti al minimo. O meglio, così credeva.

 

***

 

Ore 19:00

Tutti gli schermi sparpagliati per la città si accesero, sia quelli giganti, che quelli delle televisioni nelle case, mostrando uno schermo blu con sopra il logo degli Stati Uniti. Una voce robotica e femminile fuoriuscì dalle casse di tutti essi e annunciò: «Attenzione, questo non è un test. E’ attivo il vostro programma di emergenza che annuncia l’inizio dello Sfogo annuale sancito dal nostro governo. Possono essere utilizzate tutte le armi di classe 4 o inferiore, le altre sono proibite. Ai funzionari amministrativi di livello 10 viene concessa l’immunità. Al suono della sirena, ogni crimine, incluso l’omicidio, sarà legale per le successive dodici ore. Tutti i servizi di emergenza saranno sospesi. Il governo vi ringrazia per la vostra partecipazione.»

Diverse persone erano all’ascolto.

Kevin singhiozzò, realizzando che la sua ora era scaduta e che per quanto forte stesse correndo, non poteva scappare dalla dura realtà: «No...»

Dominick strinse la presa intorno al voltante, facendo sbiancare le nocche. Stava per cominciare lo Sfogo. Poteva finalmente vendicarsi, senza correre in rischi penali. Si sentì improvvisamente carico. Fu come se gli avessero appena sparato una scarica di adrenalina dritta nelle vene. «Bene, sono pronto!»

Thia, angosciata, cercò la mano di Marianne per avere un po’ di conforto. Marianne, che era seduta accanto a lei sul divano,  gliela prese senza esitazione, continuando a non staccare gli occhi dalla televisione e tenendo le orecchie aperte.

Poi lo sentirono. Il suono della sirena riecheggiò per tutta la città, rimbombando in tutte quelle vie buie e deserte. Era molto simile ad un lamento agonizzante, il che rendeva tutta la situazione molto più inquietante.

Quando sentì quel lamento, Kevin gemette di nuovo e corse ancora più forte, i suoi polmoni gli bruciavano e supplicavano pietà. «NO, NO, NO, NO, NO! Non voglio morire! NO!»

Dominick, serio in volto, prese la pistola e fece scorrere di lato il tamburo, per assicurarsi della presenza di tutti e sei i proiettili. Richiuse il caricatore e annuì determinato, poi posò di nuovo la pistola e tornò a guardare la strada. «Vengo a prenderti, bastardo!»

Thia strinse ancora di più la mano di Mary e, senza staccare gli occhi dalla televisione, che adesso non trasmetteva più nulla, sussurrò con voce rotta e preoccupata: «E’ cominciato...mamma...»

Marianne abbracciò Thia e le baciò la fronte. La ragazza incassò la testa sotto il mento della donna, sentendosi un po’ più protetta da quell’abbraccio caldo e affettuoso. Quell’abbraccio che le ricordava molto quelli di sua madre, suo padre o suo fratello. Un ricordo che le incuteva raccapriccio e sicurezza nello stesso tempo.  Marianne si accorse di come la poverina che abbracciava stesse tremando come una foglia. Per forza, aveva perso tutto per colpa dello Sfogo. Strinse la presa delle sue braccia intorno al corpo esile della ragazza e mormorò rassicurante, subito dopo averla baciata un’altra volta, sulla testa: «Lo so...ma vedrai, andrà tutto bene, come l’anno scorso. Ci sono io con te, ci sarò sempre. Abbi fede...figlia mia...abbi fede.»

 

Ore 19:00

Tempo rimasto al termine dello Sfogo annuale: 12 ore.

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Capitolo 5
*** Problemi ***


Capitolo

V

Problemi

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore e 47 minuti.

In città era il caos. Le bande di criminali truccati e mascherati avevano iniziato la loro ronda alla ricerca di poveracci da rapire o da ammazzare. Diversi furgoni o pulmini pullulanti di bruti armati avevano cominciato a girare per le strade, sparando dai finestrini a chiunque capitasse a tiro. Decine e decine di uomini si erano appostati sopra dei tetti con i loro fucili di precisione e le confezioni da sei lattine di birra, pronti per una lunga notte di cecchinaggio, al fine di uccidere persone a caso e senza motivo. Camion blindati giravano per le strade, dentro i quali vi erano nascosti soldati super corazzati pronti per irrompere negli edifici e fare stragi. Alcuni si fermavano, poi lo portellone posteriore si apriva rivelando uomini con grembiuli da macellaio piazzati dietro a mitragliatrici con tripode, pronte a sputare proiettili contro chiunque capitasse a tiro. E una volta massacrati i malcapitati, lo portellone abbassava con un segnale acustico, tipo quello di un cancello automatico che si richiude. Gruppi di persone con volto coperto, armati con le armi più stravaganti, tipo lanciafiamme, asce, seghe elettriche e cani da caccia avevano cominciato il giro di perlustrazione a loro volta. Per strada si potevano già trovare colluttazioni o sparatorie di vario genere. Nella strada bloccata al traffico dai pullman di traverso era il delirio. Uno dei pullman era andato a fuoco ed era esploso, generando una reazione a catena che aveva massacrato tutti coloro che non erano abbastanza a distanza.

Lo Sfogo era cominciato.

Kevin corse. Corse a lungo. Le lacrime cadevano dai suoi occhi e schizzavano alle sue spalle, mentre la vita gli passava davanti, come un turbinio di fotografie confuse. Lui da bambino. Lui a scuola la prima volta. Lui con la sua prima fidanzata. Lui con i suoi genitori. Con sua madre Theresa. Con suo padre Robert. Due brave persone, che, sì, dedicavano poco tempo a lui, ma le amava comunque. Era grazie a loro se era quello che era. A loro doveva tutto. Il suo carattere, i suoi tratti fisici, la sua stessa vita. Giurò a sé stesso che se sarebbe riuscito a tornare a casa vivo, li avrebbe amati come mai aveva fatto in vita sua. Ma per il momento, doveva correre. Correre per la propria vita.

Non appena aveva sentito quella sirena infernale, aveva cominciato a sentire le sparatorie e le esplosioni anche a chilometri e chilometri di distanza. Erano come dei rimbombi lontani, tipo dei tuoni, che riecheggiavano per tutte quelle strade vuote, che nei restanti 364 giorni l’anno erano invece affollate e chiassose, piene di volti felici, spensierati o anche indaffarati e frettolosi. Insomma, le strade di quella città in cui era cresciuto, vissuto e che aveva amato. Quelle strade che erano così dannatamente sicure, per via dello stesso motivo per cui in quel momento quelle stesse erano il posto più pericoloso del mondo.

Singhiozzò di nuovo e affrettò il passo. Correndo in quel modo avrebbe potuto vincere ogni qualsivoglia di competizione sportiva scolastica di velocità. Avrebbe bagnato il naso ad atleti dieci volte meglio allenati di lui. Girò l’angolo e smise improvvisamente di correre, in quanto ciò che vide lo pietrificò. Un mucchio di auto parcheggiate in mezzo alla strada stavano andando a fuoco. Intorno ad esse, vi era almeno una ventina di uomini, i più brutti ceffi che Kevin avesse mai visto. Erano quasi tutti calvi, barbuti e tarchiati, con indosso sudici vestiti troppo stretti per le loro stazze e armati fino ai denti. Quasi tutti avevano in mano un fucile e sparavano per aria all’impazzata, ridendo di gusto, mentre altri brandivano dei grossi coltellacci, che usavano per fare letteralmente a pezzi un gruppo di poveri malcapitati che avevano incontrato. Kevin indietreggiò di scatto prima di farsi vedere da loro e ritornò dietro l’angolo, dove rimase lievemente esposto per poter vedere la scena. Il suo cervello gli diceva di non restare lì, di scappare il più presto possibile o si sarebbe fatto ammazzare. Ma...quella scena era talmente sconvolgente che lo lasciò inchiodato al suolo. Le sue gambe smisero di obbedirgli. Rimase quasi come calamitato con gli occhi a quello spettacolo orribile. Di tanto in tanto qualcuno di quei ceffi sollevava uno dei poveretti mezzi maciullati dalle lame che imploravano pietà e li lanciavano in mezzo alle fiamme dei veicoli in combustione. Ogni volta che uno di quei malcapitati finiva in mezzo alle fiamme e moriva bruciato vivo tra mille e atroci sofferenze, gli uomini intorno scoppiavano in delle ancora più fragorose risate. Kevin inorridì, e fu proprio quello il momento in cui riuscì a sbloccarsi. Vedere quegli psicopatici ridere di gusto di fronte alla sofferenza atroce altrui, gli diede quella scarica di adrenalina che gli concesse di muovere le gambe e fuggire al più presto da lì. Se non per il fatto che, appena si voltò, vide al fondo della strada dei volti noti. Si sentì come se avesse appena visto un mostro orribile. Le sue gambe quasi cedettero, il suo respiro si fece cinquanta volte più pesante e si sentì formicolare per via della pelle d’oca fin sopra i capelli.

Al fondo della strada c’erano quattro moto da cross, con sopra dei ragazzi truccati o mascherati. In piedi di fronte ad un furgone beige c’era un altro ragazzo. Era molto lontano, ma gli parve di distinguere quella parola, GOD, sulla sua maschera. E quando quel tizio lo salutò con quel rapido cenno delle dita, Kevin capì di essere fottuto. Il ragazzo con la maschera sollevò il machete che aveva in mano, poi lo puntò verso di Kevin. A quel segnale, i ragazzi accesero le moto da cross su cui erano seduti scalciando la pedalina. Tutte le moto si avviarono con un ronzio e i conducenti partirono all’unisono, due di loro impennando. Kevin rimase pietrificato, finché lo scoppio di un’altra risata fragorosa non lo riportò alla realtà. Le moto si avvicinavano, non c’era un altro secondo da perdere. Doveva scappare. E l’unica via di fuga era davanti a lui, quella strada occupata da quegli uomini che si divertivano a carbonizzare le persone. Superò l’angolo e corse dritto. Dapprima non sapendo dove andare con esattezza, poi capendolo vedendo un vicolo esattamente dall’altro lato della strada. Se lo avesse raggiunto, le moto avrebbero faticato per inseguirlo, considerando anche che i vicoli di quella città erano così fitti e intricati da sembrare una ragnatela. Li dentro si sarebbe messo in salvo, almeno per un po’. Ma il mondo evidentemente lo odiava.

«Ehi! Guardate!» esclamò uno di quei brutti ceffi con un tono di voce roco, accorgendosi di Kevin e indicandolo con un coltello. «Uccidiamolo!»

Vi furono urla di esultanza, poi, tutti quelli che ne possedevano uno, puntarono i fucili. Kevin corse di nuovo al massimo delle sue capacità, pensando anche a come quella, se non si fosse sbrigato, potesse essere l’ultima corsa della sua vita, visto che lo puntavano da dietro e da destra.

Poi accadde tutto in un lampo. Gli uomini aprirono il fuoco e le moto da cross entrarono in strada a loro volta. A quel punto si scatenò il putiferio. Gli uomini smisero di sparare a lui e concentrarono il fuoco sulle moto, percependole come una minaccia più grande. I piloti mascherati risposero al fuoco e furono costretti a fare dietrofront, o si sarebbero fatti ammazzare. E mentre quegli imbecilli si scannavano a vicenda, Kevin raggiunse il vicolo e vi si infilò. Passò accanto a file e file di cassonetti dell’immondizia, tombini scoperchiati che emanavano degli strani fumi bianchi e porte si servizio rigorosamente sigillate. Si fermò nei pressi di una recinzione. Si piegò portandosi le mani sulle ginocchia e riprese fiato per l’ennesima volta, poi si guardò intorno. Non c’era nessuno in giro, se non degli schifosi ratti nei pressi dei cassonetti. Pure gli spari risuonavano lontani, in quel posto. Quasi per un attimo si sentì, stupidamente, in un luogo sicuro. Poi vide dall’altra parte del vicolo delle persone correre verso di lui. Kevin per un momento temette che si trattassero di altri folli, ma cambiò idea quando si accorse delle loro espressioni terrorizzate. E quando si accorse dei cani da caccia che li inseguivano, ringhiando e sbavando, realizzò di essere di nuovo nei guai. Fece per scappare ritornando indietro, ma poi vide i brutti ceffi che poco prima lo avevano puntato. Erano dall’altra parte del vicolo e correvano verso di lui, urlando e schiamazzando. Nel frattempo i cani da caccia raggiunsero  le loro prede e gli saltarono addosso. Cominciarono a morderle sulle gambe e sulle braccia, strappando via i loro vestiti come se fossero fatti di carta. Vide i loro arti ricoprirsi di sangue, mentre nelle sue orecchie rimbombavano le loro urla disperate e di dolore. Kevin si ritrovò di nuovo imprigionato. Stormo di brutti ceffi armati davanti, belve assassine dietro. A quel punto fece l’unica cosa che poteva fare. Saltò sulla recinzione e vi si arrampicò sopra, infilando mani e piedi nelle fessure della rete.

Gli uomini lo videro cercare di scappare e urlarono di nuovo: «Tu non vai da nessuna parte, moccioso! Dobbiamo purificarci!»

Nel frattempo i cani smisero di addentare le loro prede e si accorsero degli altri uomini. Un altro gruppo di ragazzi raggiunse il vicolo e si misero alle spalle dei loro animali. Un gruppo notò l’altro e cominciarono a volare di nuovo proiettili. I due cani da caccia furono scotennati e caddero a terra guaendo, in una pozza di sangue. Diverse persone morirono, dall’una e dall’altra parte. Alcuni si beccarono proiettili su gambe o braccia e cadevano a terra urlando, altri vennero solo colpiti di striscio. Kevin nel frattempo scavalcò la recinzione e riprese a correre senza tregua. Lo Sfogo era cominciato da dieci minuti e aveva già rischiato di morire due volte, salvandosi solamente per dei colpi di fortuna. Paradossalmente, i suoi salvatori erano gli stessi che cercavano di ucciderlo.

Proseguì a lungo per la fitta rete di vicoli, poi si fermò di nuovo in quanto esausto. Non  credeva di aver mai corso così tanto, il suo cuore stava per esplodergli nel petto. Appoggiò una mano ad una fredda e lurida parete di mattoni e si piegò, in preda al fiato grosso. Nel frattempo continuò ad udire spari e urla giungere da lontano. Gemette di nuovo spaventato, poi senti diversi e preoccupanti rumori provenire da un vicolo vicino a quello in cui si trovava lui. Non poté credere alla sua sfortuna. Neanche un momento di tranquillità. Ma dopotutto era  fuori la notte dello Sfogo. La tranquillità non esisteva. Con il cuore in gola e prossimo all’infarto riprese a correre per la propria vita.

 

***

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore e 32 minuti.

Dominick stava guidando. Accanto a lui, la strada scorreva e mostrava i primi segni dello Sfogo. Si potevano già trovare risse, sparatorie varie e cadaveri. Un sacco di persone venivano accerchiate da grossi stormi di uomini e imploravano pietà. Il ragazzo faceva di tutto per ignorarli e tirare dritto. C’era una regola non scritta riguardante lo Sfogo:

Non salvare vite.

Durante lo Sfogo, le vite vengono prese, non salvate.

E Dominick era uno molto obbediente, quando gli era comodo. E non ficcare il naso nelle sparatorie altrui per salvare persone che nemmeno conosceva, era la cosa più comoda di quel mondo.

Vagò a lungo per le vie secondarie, dove lo spettacolo che gli si parava davanti era sempre quello. Risse, sparatorie, cadaveri. Alcuni cercarono di sparargli addosso, ma il ragazzo andava talmente forte che, anche se lo terrorizzavano, i proiettili non raggiungevano quasi mai la macchina. E poi per le vie secondarie il delirio era molto minore rispetto a quello delle vie principali.

Ormai doveva essere quasi arrivato. La Magnum fremeva sopra il cruscotto, anche lei voleva prendere una vita. E Dominick gliela avrebbe fatta prendere molto volentieri. Avrebbe preso quella vita che aveva portato via quelle dei suoi genitori. Afferrò la pistola e continuò a guidare con una mano. Si rigirò l’arma tra le mani, domandandosi se sarebbe riuscita a maneggiarla nella maniera più appropriata.

Non si accorse del furgone beige che gli tagliò la strada.

Quando lo vide, era troppo tardi.

Gli si schiantò addosso, sul fianco. Il ragazzo non sentì nulla. La macchina fu sbalzata verso sinistra, Dominick al suo interno venne scaraventato verso destra. Il veicolo sbandò e andò in testacoda. Si schiantò contro il bordo della strada. il muso dell’auto si accartocciò come una lattina per via dell’impatto. Dominick batté una violenta testata e si accasciò semisvenuto sul sedile. Sentì il gusto metallico del sangue nella sua bocca e sentì lo stesso liquido colargli lungo la fronte e macchiargli il naso. La sua vista si fece appannata e non riuscì più a distinguere bene cosa vedeva. La Magnum gli era scivolata di mano subito dopo l’impatto, non la trovò più.

Le portiere della macchina si aprirono e delle mani entrarono al suo interno. Dominick venne afferrato per la giacca e tirato fuori di peso.

Venne messo in ginocchio davanti a quello che sembrava un ragazzo. Aveva una maschera bianca, con una parola scritta sulla fronte, non capì cosa ci fosse scritto di preciso perché non ci vedeva ancora molto bene. Sentì qualcuno, probabilmente il ragazzo che aveva di fronte, dire: «Abbiamo perso quello col cappello a visiera, ma questo può andare altrettanto bene. Caricatelo sul furgone.»

Le mani si attorcigliarono di nuovo intorno al corpo di Dominick e venne sollevato un’altra volta. Non fece nulla per difendersi, ancora troppo stordito dall’urto. Forse doveva ringraziare di essere ancora vivo, a dire la verità. Ma non lo sarebbe stato ancora per molto. Mentre veniva scaraventato di peso dentro quello che doveva essere il vano di carico del furgone, il suo unico pensiero fu che aveva fallito prima ancora di cominciare. Non avrebbe mai avuto la sua vendetta. Aveva perso Hester per niente. Aveva perso tutto e basta.

Lo portellone del furgone si chiuse e il veicolo piombò nel buio. Sentì un rombo e il terreno su cui era poggiato cominciò a vibrare: il furgone era stato avviato.

Cominciò a muoversi e a portarlo chissà dove.

Dominick rimase in uno stato semicosciente durante il viaggio, ma riuscì comunque a distinguere diverse figure in quel vano di carico. C’erano i ragazzi truccati e mascherati che lo avevano rapito. Tutti armati fino ai denti. Oltre a loro c’erano molte altre persone, che sembravano trovarsi nella stessa condizione del ragazzo: feriti, spaesati e spaventati. Sicuramente erano stati rapiti come lui. A che pro, non lo sapeva, ma non trovò né la forza fisica, né il coraggio per domandarglielo. Non voleva finire crivellato seduta stante.

Nella penombra scorse un’altra figura, molto massiccia e imponente. Era un uomo, con i capelli ricci e un folto paio di baffi a manubrio. Anche lui sembrava essere dentro quel furgone non per propria volontà. La cosa particolare e che però non sembrava affatto spaventato di trovarsi li dentro. Anzi...si poteva dire che era tranquillo, quasi come se fosse normale per lui essere stato rapito da dei pazzi armati per essere portato chissà dove.

Dominick lo fissò intensamente, poi distolse immediatamente lo sguardo quando quello si voltò verso di lui.

Si guardò intorno. Era stato catturato ed era circondato da gente armata, ma per lo meno era ancora vivo. Se quei tizi avessero voluto purificarsi, lo avrebbero già ucciso, perciò escluse quella possibilità. Non volevano ucciderlo, ma allora cosa volevano? Perché avevano rapito lui e un paio di altre persone? Dove diavolo stavano andando? Perché era stato così coglione da uscire?

La risposta a quelle domande, eccetto l’ultima,  non avrebbe atteso molto.

 

***

 

Tempo rimanente al termine dello Sfogo annuale: 11 ore e 24 minuti.

Thia e Marianne cenarono in silenzio. L’unico rumore che si sentiva erano le loro posate che tintinnavano toccando il piatto di ceramica con dentro la cena, la verdura che aveva preparato la donna. Thia la odiava, preferiva di gran lunga il cibo spazzatura dei Fast Food fritto e strafritto, ma purtroppo era costretta ad accontentarsi di ciò che aveva.

Anche se il silenzio era opprimente e carico di nostalgia e brutti ricordi, le due erano piuttosto tranquille, per quanto tranquille si possa essere mentre fuori casa si scatenava lo stesso pandemonio che aveva sconvolto le loro vite.

«Allora...» ruppe il silenzio Marianne, sollevando la forchetta con ancora il pezzo di broccolo incastrato tra i suoi denti. «Ti piace la cena?»

«Moltissimo...» brontolò Thia con la testa appoggiata su una mano mentre puntellava la verdura, suscitando un sorriso a Marianne.

«Lo sapevo che avresti apprezzato!»

«Ha ha...»

Quel breve momento di divertimento fu interrotto da un forte bussare alla porta. Entrambe le donne alzarono lo sguardo e lo volsero verso l’ingresso.

«Chi può essere?» domandò intimorita Thia. Era cominciato lo Sfogo, perciò chiunque avesse bussato non doveva essere una persona con cui avere a che fare. Poteva essere un folle che avrebbe cercato di ucciderle, oppure qualche poveretto braccato e in fuga, che chiedeva aiuto. Ma aiutandolo non avrebbero fatto altro che decretare la loro fine. Non ci si doveva immischiare negli affari degli altri durante lo Sfogo, o non si sarebbe più riusciti ad uscirne indenni.

«Non lo so...ignoriamolo...» rispose Marianne altrettanto perplessa.

Ma fu difficile ignorare quel tizio che adesso stava letteralmente prendendo a pugni la porta.

«APRITE! BRUTTE PUTTANE APRITE!» gridò quel qualcuno, facendo sobbalzare le due donne. «GIURO CHE SE NON LO FATE FACCIO ESPLODERE QUESTA PORTA DI MERDA! TROIE! APRITEMI SUBITO!»

Thia sentì il terrore insinuarsi dentro di lei, sotto la cute della pelle. Cominciò a tremare come una foglia. Quelle urla la riportarono a due anni prima, quando l’ultimo componente della famiglia che le era rimasto era morto di fronte a lei. «M-Mary...»

Marianne, altrettanto spaventata, cercò di rassicurarla. Le prese la mano e la costrinse a guardarla. «Andrà tutto bene Thia, ok? Adesso...io prendo la pistola...e vado a vedere chi è, va bene? Tu resta qui, non succederà nulla, né a me, né a te, te lo prometto.»

Marianne le lasciò andare lentamente la mano e si alzò dalla sedia. Ma Thia non voleva che se ne andasse di là. Non voleva che la lasciasse sola. Non voleva perderla. Temeva che se se ne fosse andata, non sarebbe mai più tornata. «Mary, no...»

«Andrà tutto bene, figlia mia...» rispose calma Mary, mentre stringeva lentamente la mano intorno all’impugnatura della Beretta e si avviava cautamente verso l’ingresso. Sentire quello strumento nella sua mano fu una sensazione tanto famigliare quanto sgradita. Non voleva usare di nuovo un’arma. Gli era già bastato farlo una volta. Ma lo avrebbe fatto, se ciò avesse significato difendere la sua nuova famiglia.

Raggiunse la porta e avvicinò l’occhio allo spioncino, ma non ci riuscì. La porta le esplose addosso.

Venne sbalzata via e si ritrovò sdraiata a terra, con un mucchio di graffi sanguinolenti a deturpare il suo volto così tanto bramato dagli uomini. L’unica cosa che riuscì a sentire mentre le orecchie le fischiavano terribilmente per via dell’esplosione furono le urla spaventate di Thia. Gemette sentendo la sua bambina urlare in quel modo. Avrebbe voluto alzarsi, mantenere fede alla sua promessa e difenderla, ma non ci riuscì. L’esplosione l’aveva completamente inebetita. Le palpebre le si chiusero lentamente, oscurando completamente la sua vista già annebbiata dal colpo ricevuto, poi il mondo intorno a lei svanì.

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Capitolo 6
*** Troy ***


Capitolo

VI

Troy

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore e 14 minuti.

Il furgone arrestò la sua marcia all’improvviso, facendo sbilanciare Dominick di lato. Lo sportello posteriore si aprì ed entrarono diversi tizi mascherati ed armati. Il ragazzo e tutti gli ostaggi vennero presi di forza e condotti fuori dal veicolo. Fecero il giro intorno al furgone e si ritrovarono davanti ad un paio di uomini vestiti eleganti. Dominick era ancora troppo stordito per accorgersi della mazzetta di soldi che quegli uomini consegnarono al ragazzino con la maschera bianca. Non appena quello prese i suoi soldi, il gruppo di pazzi mascherati si diradò. Salirono nuovamente sul furgone e sulle moto e se ne andarono da lì, abbandonando Dominick, l’uomo con i baffoni e gli altri ostaggi, altri tre uomini e tre donne, nelle grinfie degli uomini eleganti, che non persero un secondo e puntarono gli Mp5 contro di loro. Gli ostaggi alzarono le mani, ognuno di loro venne afferrato per la giacca o maglia e trascinato verso una porta chiusa. Uno degli aguzzini bussò tre volte e la porta venne aperta dall’interno, poi gli ostaggi furono spinti dentro l’edificio.

Incitati dalle armi puntate su di loro, Dominick e gli altri proseguirono per una fitta rete di corridoi spogli, con pareti, soffitto e pavimento di un bianco accecante. Ogni volta che rallentava, anche solo per pochi secondi, veniva puntellato dalla canna della mitraglietta dei suoi aguzzini e veniva costretto ad affrettare il passo. Notò che era lo stesso per tutti gli altri. Tutti quanti di tanto in tanto rallentavano il passo e venivano costretti con le armi a riprenderlo. Gli uomini e le due donne che si trovavano nella sua stessa situazione di tanto in tanto gemevano spaventati o singhiozzavano. Lui stesso si stava letteralmente torcendo in due per la paura. L’unico che proseguiva impassibile e a passo sostenuto, senza necessitare incitazioni da parte dei mitra degli aguzzini, era, di nuovo, l’uomo con i baffoni a manubrio. Questo proseguiva eretto in tutta la sua statura e a testa alta, per nulla spaventato. Come diavolo facesse ad essere così tranquillo, Dominick non riusciva a concepirlo.

Camminarono a lungo, poi raggiunsero una porta chiusa, che si aprì quasi immediatamente, rivelando quello che sembrava uno spoglio retroscena di un palcoscenico. Vennero afferrati di peso e messi in ginocchio davanti a quello che era per l’appunto un sipario chiuso. Da dietro di esso si sentiva provenire il vociare di diverse persone, musica classica e risate. Gli uomini eleganti si misero dietro di loro e tennero le armi sollevate, pronti a fare fuoco sul primo di loro che avesse dato segni di ribellione. Gli ostaggi rimasero inginocchiati e immobili, mentre il sipario di apriva lentamente di fronte a loro, rivelando uno spettacolo molto insolito per la notte dello Sfogo. O meglio, era insolito per Dominick, che non sapeva affatto che durante tutto l’arco di quella notte quello spettacolo si susseguiva regolarmente, in più zone della città.

Alla sua visuale apparvero decine e decine di tavoli rotondi e ben allestiti, intorno ai quali erano seduti molteplici uomini e donne, tutti vestiti eleganti e la maggior parte di essi con bicchieri pieni zeppi di champagne in mano. Tutti quanti fissavano Dominick e gli altri ostaggi con aria di sufficienza. Dom rabbrividì, poi una donna bionda e piuttosto avanti con gli anni, che si trovava sul palcoscenico poco lontana da loro, avvicinò il microfono che aveva in mano alla bocca ed esordì con tono gentile, che nascondeva tutta la sua maliziosità e follia: «Molto bene, gentili ospiti. Il primo lotto dell’asta è finalmente arrivato.»

Un brusio di sottofondo andò a riempire la stanza. Erano gli uomini seduti ai tavoli, che parlottavano tra loro entusiasti. La donna accanto a Dominick singhiozzò, così fecero la maggior parte degli ostaggi, tranne l’uomo con i baffoni e lui.

«Come potete ben vedere, abbiamo otto persone, tutte in ottima salute, pronte ad essere usate per purificare le vostre anime!» disse la donna porgendo un braccio verso Dom e gli altri.

Un altro brusio si diffuse.

La donna fissò con lo sguardo pieno di soddisfazione tutti quegli uomini e donne che facevano vagare lo sguardo da un ostaggio all’altro, domandandosi quale di loro sarebbe stato il più facile da ammazzare. Dominick era il più giovane, ma le tre donne sembravano molto più indifese di lui. L’uomo con i baffoni stonava in mezzo a quel gruppetto. Era il più grosso di tutti e messo a confronto con gli altri, la sua stazza sembrava ancora più imponente.

«Siccome questo è solamente il primo lotto...» riprese la donna avvicinando nuovamente il microfono alla bocca. «...partiamo con una base d’asta di centomila dollari!»

Dominick riuscì lentamente a mettere insieme tutti  i pezzi. Un’asta. Lui e gli ostaggi erano un lotto. Stavano per essere venduti. E quei  tizi eleganti volevano purificarsi.

«Oh cazzo...» sussurrò, senza farsi sentire. Cominciò a far vagare lo sguardo in ogni direzione, alla ricerca di una via di fuga, ma non appena si ricordò degli energumeni dietro di lui che lo tenevano sotto tiro, fu costretto a desistere.

Nel frattempo le prime mani cominciarono ad alzarsi nella sala. Ad acquistare il primo lotto furono: due coppie di un uomo e una donna e un uomo con due ragazzi, probabilmente i suoi figli.

La donna sorrise e li acclamò con garbo: «Molto bene! Abbiamo i signori Royce e Froid e le loro graziosissime mogli Katlina e Sasha.»

Gli uomini e le donne sollevarono i calici colmi del liquido frizzante quando sentirono i loro nomi.

«E per finire abbiamo il signor Majestick e i suoi cari figlioletti Josh e Greg!»

L’uomo sollevò la mano per mettersi in mostra e i due ragazzi, che dovevano avere su per giù l’età di Dominick, gonfiarono il petto pieni di orgoglio. Cosa ci fosse da essere orgogliosi nello stare per uccidere dei poveracci e un ragazzo con la loro stessa età, non si sapeva.

Dom fissò inorridito quei ricchi psicopatici che da lì a poco avrebbero preso le loro vite.

«Molto bene, abbiamo i nostri acquirenti!» sancì la donna, un sorriso gelato le increspava il volto. «Prima di cominciare la caccia, voglio ribadire che abbiamo aggiornato il nostro assortimento. Abbiamo introdotto molte armi interessanti, tra cui quella che vi consiglio più caldamente: la Lupara Calibro 12.» disse il nome dell’arma con tono morbido, quasi lo stesse accarezzando con la lingua. «E’ così perfetta che sembra forgiata dagli angeli.»

Il sipario si richiuse lentamente davanti agli ostaggi e la visuale di Dom sugli uomini eleganti venne oscurata. Cominciò a tremare, mentre accanto a lui gli ostaggi riprendevano a singhiozzare, poi gli uomini dietro di loro li afferrarono nuovamente per le giacche o maglie e li trascinarono via.

Sentì ancora la voce della donna annunciare, mentre il sipario la nascondeva: «Andate a prepararvi, cacciatori, la vostra purificazione avrà inizio tra quindici minuti.»

Di nuovo, Dominick rabbrividì, conscio di cosa stava per accadergli e del fatto che possedesse solo più quindici minuti di vita. Guardò l’uomo con i baffi e, con suo enorme stupore, lo trovò perfettamente a proprio agio, senza alcuna traccia di paura nella sua espressione, anche se pure la sua vita stesse per giungere al capolinea.

 Cominciò seriamente a credere che quel tipo fosse fuori di testa.

 

***

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo annuale: 11 ore e 7 minuti.

Kevin proseguì la sua maratona del terrore ancora per molto tempo. Ogni volta che sentiva dei passi, un mormorio o degli spari, cambiava totalmente direzione e non smetteva di correre, se  non per brevissime pause. Ormai il trucco lo aveva capito. Bastava muoversi in continuazione.  Fu una strategia che si rivelò efficace, finché non capitò nel posto sbagliato al momento sbagliato. Beh, quella notte nessun posto e nessun momento erano giusti, però quella volta ebbe davvero una sfiga allucinante.

Stava correndo come aveva fatto fino a un’ora prima, aveva svoltato l’angolo e si era letteralmente scontrato con un uomo. Solo che quello era grosso il doppio di lui, perciò barcollò soltanto dopo lo scontro, mentre Kevin si ritrovò con il culo a terra in un batter di ciglia.

Stava per rialzarsi e scappare con la coda tra le gambe ad una velocità inaudita, ma si pietrificò seduta stante quando quel tizio grosso, calvo e barbuto gli puntò contro il fucile che teneva tra le mani. «Prova a scappare e ti trito, moccioso!»

Kevin si sentì morire dentro. Le sue gambe e braccia cedettero e gli sembrò di essere diventato un inutile ammasso di gelatina. Aprì la bocca, ma pure le parole gli morirono in gola. L’uomo lo afferrò per il colletto della felpa e lo issò in piedi con una facilità quasi allarmante. Sembrava un cucciolo di gatto sollevato per la collottola dalla madre. «Il capo sarà contento quando ti vedrà! Aveva proprio bisogno di carne fresca!»

«C-cosa?» riuscì a biascicare Kevin, per poi essere zittito da un’occhiata truce.

L’uomo lo condusse per la rete di vicoli finché non raggiunsero la strada. Qui, radunati intorno ad un pulmino scolastico, con decine di cadaveri sanguinolenti e mutilati ai loro piedi, si trovava uno stormo di ceffi dieci volte più brutti di quelli che Kevin aveva incontrato poco prima.

Venne trascinato per un braccio in mezzo a tutti loro. Gli uomini lo fissarono con sguardo famelico, desiderosi di poter mettere i loro denti su di lui. Kevin rabbrividì di nuovo e riprese a pensare ostinatamente di essere giunto alla fine. Venne condotto al cospetto di un uomo alto uno e novanta come minimo, ancora più grosso di quello che lo teneva bloccato. Aveva la barba corta e curata, i capelli altrettanto corti e castani. Era vestito con una divisa militare grigia e nera e teneva un fucile a tracolla. A differenza di tutti gli altri non si stava divertendo a massacrare i poveracci stesi a terra. Più che altro faceva da spettatore passivo.

«Ehi capo, guarda un po’ cos’ho trovato!» esordì l’uomo allegro, agitando il braccio della sua preda.

L’uomo, a quanto pare il capo, fissò attentamente lo scagnozzo, che stava sogghignando cattivo, poi spostò lo sguardo su di Kevin. Il ragazzino si sentì come folgorato da quegli occhi grigi e duri come la pietra. Lo osservò in silenzio per quelli che parvero secoli e secoli.

Intanto gli altri scagnozzi si erano radunati intorno a loro per vedere al meglio la scena. Tutti quanti agitavano le armi che tenevano in mano e dicevano la loro opinione.

Kevin ne sentì parecchie, tipo: «Spariamogli!»

 «Impicchiamolo!»

«Bruciamolo!»

«Picchiamolo a sangue!»

Kevin era diventato bianco come un lenzuolo e per poco non era svenuto sul colpo, suscitando così l’ilarità nei suoi aguzzini.

Alla fine fu il capo a riportare l’ordine, con un tono talmente autoritario che perfino un generale dei Marine si sarebbe zittito: «Silenzio!»

Il gruppetto smise di abbaiare e tacque istantaneamente. Quell’uomo sapeva davvero come imporre la sua autorità, si ritrovò a pensare Kevin ammirato, malgrado nel giro di pochi minuti lo avrebbe ucciso.

L’uomo prese la pistola che teneva nella fondina e fece scorrere il carrello all’indietro, poi si avvicinò a Kevin. Lo sovrastò di quindici centimetri buoni e lo fissò dall’alto. Kevin dovette attingere a tutte le sue forze per riuscire a reggere lo sguardo agghiacciante degli occhi grigi dell’uomo, che avvicinò la testa di scatto e la portò a pochissimi centimetri di distanza dalla sua, per poterlo osservare ancora più da vicino. Il ragazzino deglutì, ma non distolse lo sguardo.

Si fissarono a lungo, poi l’uomo abbozzò un tenue sorriso e si allontanò da lui. Sollevò la pistola e premette la canna contro la fronte di Kevin.

Il ragazzino gemette spaventato, ma non staccò gli occhi dall’uomo. Da quell’uomo che nel giro di poco tempo sarebbe diventato il suo assassino. Assassino che sarebbe rimasto impunito per sempre, agli occhi della legge. Un immagine dei suoi genitori che piangevano al suo funerale gli balenò per la mente. Per lo meno avrebbero finalmente dedicato un po’ di tempo a lui.

Lo sguardo dell’uomo era indecifrabile. Era freddo, ma nient’altro. Non coglieva tracce di cattiveria, sadico divertimento o crudeltà dentro di esso. Non coglieva nulla.

Il capo della banda avvicinò il dito al grilletto. Lo stormo di brutti ceffi si agitò, eccitato all’idea di vedere un’altra esecuzione, per di più del loro capo. Fu solo allora che Kevin chiuse gli occhi per non vederlo mentre poneva fine alla sua vita. Sentì il suo aguzzino dire: «Si purifichi con questo verme, capo!»

Non però vide l’uomo che allontanava di scatto il dito dal grilletto e colpiva violentemente con il calcio dell’arma la tempia di quel ceffo calvo che teneva bloccato Kevin. L’uomo crollò a terra facendo un verso di dolore, mentre Kevin, sentendo di nuovo il braccio libero, spalancò gli occhi sorpreso e si ritrovò quella scena di fronte. Il suo cuore cessò di battere per un istante, per la sorpresa.

Il gruppo intorno a lui si agitò di nuovo, sbigottito tanto quanto Kevin e l’uomo a terra, che si massaggiava la tempia gemendo, ma non fece nulla.

Il capo della banda guardò gli scagnozzi e accennò all’uomo a terra: «Sollevatelo e bloccatelo.»

Due uomini del gruppo, ancora piuttosto sorpresi, obbedirono e sollevarono l’uomo, per poi tenerlo bloccato per le braccia.

Quello se ne accorse e cominciò ad agitarsi, per poi guardare il suo capo in cerca di spiegazioni.«Ehi! Che cazzo vuole fare?! Ehi!»

L’uomo non rispose, puntò invece la pistola contro di Kevin. Il ragazzino sobbalzò e alzò le mani. L’altro abbozzò un altro sorriso, poi roteò la pistola con un abile gesto e si ritrovò a tenerla per la canna, mentre puntava verso di Kevin l’impugnatura.

Kevin lo fissò sbalordito mentre gli porgeva l’arma. Non ci stava capendo più niente.

«Prendila.» ordinò l’uomo.

Il ragazzino obbedì istantaneamente, quasi come in uno stato di trance. Chiuse la mano intorno all’impugnatura della pistola e l’uomo gliela cedette. Kevin si sorprese parecchio sentendo quanto pesante fosse quell’arma.

«E adesso...» incalzò l’uomo, portando l’indice contro l’uomo calvo e imprigionato dalla morsa degli altri. «...spara al tuo aguzzino.»

Kevin strabuzzò gli occhi. Il contatore del suo stupore ormai era schizzato dalle stelle a direttamente un altro universo. Prima voleva ucciderlo e adesso voleva che fosse lui stesso ad uccidere? Anche gli altri uomini cominciarono a porsi quella domanda, ma nessuno fece niente, si limitarono ad osservare Kevin e ad aspettare la sua mossa.

Sentendo tutti gli sguardi posati su di lui e la tensione salirgli vertiginosamente puntò l’arma contro il suo ex aguzzino, che lo incenerì con un’occhiataccia carica di odio. «Non oserai mica farlo, schifoso verme...»

La mano di Kevin tremò. Certo che no. Non avrebbe mai voluto ucciderlo. Non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Lui non era come tutti gli altri, non sentiva il bisogno di uccidere per stare meglio. Non se la sentiva di porre fine ad un’altra vita. Nessuno ha il diritto di farlo. Ma ciò che non avrebbe mai voluto fare, era quello che invece quel branco di uomini assetati di sangue si aspettava da lui. Era con le mani legate.

Poi guardò meglio quell’uomo e quella sua espressione disgustata e di superiorità. Quell’espressione che gli ricordava molto, troppo, quella di Nicols. Il bastardo che lo aveva trascinato in quel casino. Colui che aveva quasi posto la parola fine alla sua vita. E per cosa? Per un paio di litigi a scuola? Perché era pazzo? Non era una scusa valida. Solo perché non ci stava con la testa, non significava che poteva fare una cosa del genere ad un ragazzo come lui. E poi, perché cazzo non era in un manicomio?

Kevin digrignò i denti mentre l’uomo lo insultava di nuovo, per nulla spaventato: «Allora merdina, cosa pensi di...»

«STA ZITTO STRONZO!» sbraitò Kevin ammutolendolo, suscitando altro stupore negli uomini intorno a lui e un altro sorriso nel capo della banda. Il ragazzo aveva perso la pazienza. Era stato insultato e maltrattato fin troppo in quell’ora. Adesso era lui ad avere il coltello dalla parte del manico. Non sapeva quanto sarebbe durata quella situazione, ma non gli importava. Se proprio era destinato a morire, voleva farlo dopo essersi sentito potente a sua volta. «Non sei nella posizione per insultarmi! Ho io la pistola in mano e tu sei quello bloccato! Come ci si sente? Eh?! E hai perfino il coraggio di insultarmi! Dovresti strisciare ai miei piedi e implorare pietà, non il contrario, testa di cazzo!»

Ad ogni parola del ragazzo, il capo dei ceffi accentuava il sorriso sul suo volto. Un sorriso quasi...orgoglioso.

L’uomo calvo si zittì completamente e impallidì. Farfugliò qualcosa di incomprensibile, al che Kevin sparò per aria, facendo sobbalzare l’uomo. Per poco la mano di Kevin non si ruppe per via del contraccolpo, ma il ragazzino strinse i denti e mantenne i nervi saldi. Ripuntò l’arma contro l’uomo e lo incalzò: «Allora?!»

L’ex aguzzino divenne cupo in volto. «Se pensi di potermi convincere ad abbassarmi al tuo livello allora ti sba...»

Kevin gli sparò addosso. Non voleva ucciderlo, solo ferirlo, magari colpendolo ad una gamba. Invece calcolò male la traiettoria. Il proiettile raggiunse l’uomo allo stomaco, facendogli emettere un grido straziante. Kevin sbiancò. L’uomo sputò sangue e la presa intorno alle sue braccia si allentò. Lo lasciarono andare e si accasciò a terra, continuando ad urlare come impazzito. Si portò entrambe le mani sulla pancia e cercò di ostacolare la perdita di sangue, mentre tutti quanti fissavano attoniti la scena, Kevin in primis. La pistola gli scivolò lentamente di mano e cadde a terra, mentre fissava inorridito il suo stesso operato. Aveva appena sparato ad un uomo, probabilmente ferendolo mortalmente. Se non avessero fatto qualcosa, quell’uomo sarebbe morto per causa sua. Si aspettò di vedere i ceffi andare a soccorrerlo e mettersi a cercare di ucciderlo per aver appena sparato in quel modo ad un loro compagno, ma nulla di tutto ciò accadde. Tutti quanti rimasero immobili, ad osservare Kevin, interdetti, stupiti, sorpresi.

Il capo della banda affiancò Kevin, poi prese un’altra pistola e sparò dritto nella testa pelata dell’uomo già ferito dal ragazzo. Le sue urla cessarono all’improvviso. Kevin sobbalzò e fissò inorridito tutta la scena. Poi il capo della banda gli sorrise e gli porse la mano: «Sono Troy, il capo di questi pazzoidi. Tu invece, ragazzo?»

A Kevin girò la testa. Strinse la mano di Troy per inerzia e rispose, con sguardo vitreo: «Kevin...»

Troy allargò il sorriso e si separò dalla stretta. Si rivolse a tutto il gruppo di uomini intorno a loro ed esordì allargando le braccia: «Signori...date il benvenuto al nostro nuovo componente!»

Credeva di aver raggiunto il limite al suo stupore. E invece no. Kevin cominciò seriamente a pensare di non trovarsi più sulla Terra e di essere finito in qualche dimensione parallela. Tutto quello era impossibile. Ridicolo, addirittura.

Fissò gli uomini intorno a lui, che lo fissavano sbigottiti a loro volta, poi, all’improvviso, un boato si levò in mezzo a loro e tutti quanti si ritrovarono ad acclamare ed esultare il nuovo membro del gruppo.

Quello era troppo. Il suo giovane cervello non riuscì più a reggere tutto quello a cui stava assistendo.

Kevin roteò gli occhi e svenne.

 

 

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Capitolo 7
*** Purificazioni ***


 

Capitolo

 

 

VII

Purificazioni

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 11 ore

Intorno a lei c’era solamente buio. Non riusciva a vedere altro. Solamente un’enorme distesa scura, che si diramava in ogni direzione a perdita d’occhio. Riusciva a percepire quel buio, ma nient’altro, nemmeno il suo stesso corpo. Le sembrava di essere diventata un fantasma.

La sua mente era un turbinio confuso di ricordi e pensieri. Un sacco di frasi parole le rimbombavano dentro, sembravano una tempesta. Non riusciva neanche a metterne insieme due, di questi pensieri. Non riusciva più a ragionare, a riflettere.

Tutto questo continuò finché non sentì, sempre tra i suoi ricordi, delle urla spaventate, provenienti da una voce dolce ed esile molto famigliare. La stavano chiamando. Urlavano il suo nome disperatamente. Altre voci frapposero, si sentì uno strano rumore e le urla cessarono, rimpiazzate da un pianto. Non appena sentì quei singulti, il suo cervello ricevette un impulso. Non sapeva perché, ma non poteva permettere a chiunque fosse quella persona di piangere. Non quando c’era lei in sua compagnia. Doveva proteggerla.

Finalmente riuscì a percepire altre sensazioni. Riuscì a percepire la brezza fredda che le attraversò tutta la spina dorsale, facendola trasalire. Riuscì ad avvertire il proprio battito cardiaco. Perfino il tremolio delle sue palpebre.

Sentì altre voci, ma questa volta non erano dei ricordi. Erano lì, a poca distanza da lei. Erano molto offuscate e metà delle parole che sentì risuonarono distorte, ma ciò le permise comunque di realizzare di essere ancora viva, di squarciare quell’oscurità che la stava avvolgendo.

«Dannazione...» cominciò una voce. «...tu e il tuo dannato esplosivo artigianale! Hai visto che cosa le hai fatto alla faccia?»

«Smettila, sono solo un po’ di graffi e qualche ustione...» brontolò una seconda voce, molto più rilassata della prima.

«Un po’ di graffi?!» protestò ancora più accigliata l’altra voce. «Guardala! L’hai rovinata!»

«Ma chissenefrega! Il suo corpo è ancora immacolato! E se non ti piace puoi sempre prenderti la biondina!»

«Te lo scordi...»

Finalmente riuscì ad aprire gli occhi e a percepire anche cos’aveva intorno. La prima cosa che realizzò, fu il dolore pazzesco che provava alla faccia, più il gusto metallico del sangue in bocca. Le sue guancie erano umidicce, bagnate da qualcosa di caldo e viscoso, mentre i suoi lunghi capelli erano premuti sul suo volto in più punti, gli stessi che sentiva bagnati. Probabilmente si erano incollati alla sostanza viscosa.

I suoi occhi focalizzarono due macchie indistinte di fronte a lei, che andarono pian piano a mettersi a fuoco. Dopo un lungo momento, riuscì perfettamente a distinguere due sedili, con seduti sopra due uomini, un parabrezza, un volante, leva del cambio, finestrini. Una macchina, con lei e altri due uomini a bordo.

Ancora troppo intontita, non seppe cosa pensare. Fino a quando non sentì un gemito strozzato di fianco a lei. A quel punto si girò lentamente, provocandosi un’enorme fitta di dolore al collo, e vide da chi era provenuto quel verso. Seduta accanto a lei, c’era una ragazzina giovane e minuta, con i capelli biondi e corti, una benda davanti alla bocca e mani e piedi legati da altre bende. Aveva il volto e gli occhi arrossati, le guancie ancora con i segni lasciati dal passaggio di numerose lacrime.

Non ci mise un secondo di troppo per riconoscerla. La ragazza che avrebbe difeso al costo della vita. La sua nuova famiglia, la sua bambina.

Aprì la bocca per chiamarla, ma da essa non fuoriuscì alcuna parola, neanche un verso strozzato. Niente di niente. L’unica cosa che accadde fu che sentì l’ennesima fitta di dolore, questa volta alle labbra, sicuramente spaccate.

Allora cercò di muoversi per raggiungerla, per abbracciarla e rincuorarla in quel suo momento di debolezza, ma si rese conto a sua volta di avere mani e piedi bloccati. Spostò lo sguardo sui suoi polsi e vide le fasce che li tenevano intrecciati fra loro. Erano state legate in una maniera così stretta che le sentiva penetrarle nella carne. I polsi le bruciavano terribilmente.

Sentì un altro gemito soffocato e volse di nuovo lo sguardo verso la ragazzina. Aveva la testa sepolta fra le spalle e diverse lacrime, questa volta fresche, che le rigavano quel volto bello, ma allo stesso tempo così fragile che sarebbe bastato un po’ di vento per spezzarlo in più punti. La sua bambina. Stava piangendo di fronte a lei. Era troppo. Il suo affetto materno fu più potente di qualsiasi altra cosa e le permise di trovare la forza per superare il dolore e riuscire a parlare. Dalla sua bocca uscì finalmente una parola, che disse molto flebilmente, con un tono che sembrava starsi per spegnere da un momento all’altro: «T-Thia...»

La ragazzina sobbalzò e si voltò verso di lei, con gli occhi talmente spalancati che sembravano schizzare fuori dalle orbite. Lo stupore che fuoriusciva dalle iridi azzurre cristalline della sua bambina si poteva notare anche ad un chilometro di distanza. Ma nel giro di pochi attimi si trasformò in sollievo. Cominciò ad emettere altri versi strozzati, probabilmente per chiamarla, ma la fascia le offuscava la voce.

Quando gli uomini seduti davanti si accorsero del comportamento anomalo di Thia si voltarono. Individuarono immediatamente la causa di tutto quello, ovvero la loro ospite, dapprima addormentata, finalmente sveglia.

«Ben tornata fra noi, cara Mary!» la schernì quello al voltante. Aveva il volto coperto da un passamontagna e uno spesso giaccone nero, chiuso. Marianne non riuscì a riconoscerlo.

«Concentrati sulla strada, idiota!» lo rimproverò l’altro, anche lui con il volto coperto da uno scalda collo mimetico e un cappuccio alzato. Questa volta, però, alla donna parve di riconoscere la sua voce.

Il guidatore cominciò a muovere una mano a mo’ di una bocca che si apriva e chiudeva e blaterò: «Bla bla bla...» poi rivolse la sua attenzione di nuovo davanti a sé.

«Cosa...chi siete?» mormorò di nuovo Marianne, ancora stordita dal dolore.

Quello seduto sul sedile del passeggero rimase a guardarla e rispose, cercando di usare un tono più rassicurante possibile: «Non ha importanza...non vi faremo alcun male, ve lo prometto...»

Improvvisamente Marianne realizzò tutto quanto. Lei e Thia erano state rapite da quei due, per motivi che ancora non capiva, ma non ci voleva nemmeno molto per arrivarci. Thia era una bella ragazza, lei una bella donna, malgrado cercasse di nasconderlo pettinandosi sempre i capelli davanti al volto, e quelli erano due uomini. Di certo non le stavano portando ad una cenetta romantica.

«Parla per te!» tuonò intanto quello al volante sogghignando. «Io ho intenzione di darci dentro alla grande!»

«Ma vuoi stare zitto?!» esclamò l’altro guardandolo male, permettendo a Marianne di inquadrare perfettamente il suo tono di voce.

Quasi non credette a ciò che disse quando parlò di nuovo. «D-David?»

Sperò di essersi sbagliata. Sperò  che quell’uomo scoppiasse a ridere e le dicesse di aver fatto un enorme buco nell’acqua. Avrebbe di gran lunga preferito che così fosse. Che fosse solo un folle. Invece quello spalancò gli occhi, chiaro segno che era sorpreso. Sorpreso di essere stato riconosciuto.

«Sei tu, David?» insistette Marianne, quando si accorse che la risposta tardava ad arrivare.

Sperò fino all’ultimo che quello confutasse la sua tesi, ma così non fu. Con suo enorme orrore, l’uomo abbassò la testa. Fece per parlare, ma il guidatore lo interruppe bruscamente: «Ehi, bambola, perché non stai un po’ zitta? O vuoi che ti tappiamo la bocca come abbiamo fatto con la tua amichetta, che non ha smesso di urlare per un solo secondo?»

«Finiscila Greg...» brontolò l’altro.

Il guidatore si accigliò parecchio quando sentì il suo nome fuoriuscire dalla bocca del complice. «Che cazzo fai coglione?! Solo perché ti ha beccato non significa che devi far sgamare anche me! Vuoi anche dargli il mio cazzo di indirizzo?!»

David, ormai era chiaro che fosse lui, sbuffò e non rispose.

Marianne non credeva alle proprie orecchie. Non poteva concepire quella cosa. Non avrebbe mai pensato che David potesse fare una cosa del genere. Lei stessa aveva promesso a Thia che quell’uomo le avrebbe lasciate in pace. Non solo le aveva mentito quando le aveva detto che quella notte sarebbero state al sicuro, ma lo aveva pure fatto quando aveva parlato di quell’uomo. Aveva detto un sacco di menzogne alla sua povera bambina, che ora più di tutti ne pagava le conseguenze.

Intanto Thia, come volevasi dimostrare, fissava incredula prima David, poi Marianne, chiaramente sconvolta dalla verità.

Marianne si voltò verso di lei e i loro occhi si incrociarono. Davanti a quelle iridi azzurre, così belle, così fragili e innocenti, Marianne volle sprofondare. Lei non meritava tutto quello. Aveva sofferto fin troppo in tutta la sua vita. E adesso perfino la donna di cui si fidava di più l’aveva ingannata. Il mondo doveva starle cadendo addosso.

La donna non riuscì più a reggere quello sguardo e si spostò di nuovo su David. Lo fissò implorante. Se davvero credeva di conoscerlo, allora forse poteva ancora salvare la situazione. «David...perché lo hai fatto? Credevo che tu fossi meglio di così...»

Non conosceva affatto quell’uomo. Non appena finì di parlare, quello esplose. Il suo sguardo si caricò di rabbia e Marianne si spaventò. «Perché?! Osi chiedermi perché?! Sono ANNI che lavoriamo insieme e tu non mi hai nemmeno mai guardato! Tutti i giorni mi passi davanti senza neanche considerarmi, sembra che io per te non esista nemmeno! Sembra che tu ti creda la regina di tutti e tutto, in grado di poter ignorare bellamente chiunque ti pare! Non mi hai mai dato un’occasione, in tutti questi anni! Mai una volta che accettassi anche solo di prenderti un caffè con me, per cinque fottuti minuti! Non mi hai mai concesso nulla! Credi che mi faccia piacere sentirmi una merda calpestata da te?! EH?!»

La donna indietreggiò con la testa, intimorita da quell’uomo che stava mostrando un lato di sé che non pensava potesse esistere. Non era una brava persona. Era un mostro come tutti gli altri. Lo sapeva benissimo che lei faceva così perché era rimasta vedova, ma non gli importava. In lei non vedeva una donna affranta, che non poteva stare con gli uomini perché le ricordavano il defunto marito, la cui morte dopo due anni ancora rimpiangeva. Vedeva solo un bel viso e un bel corpo. Come tutti quelli che aveva conosciuto. 

«Questa notte...sarai finalmente mia, Marianne...ma puoi stare tranquilla, non ti ucciderò. Voglio solo...approfittare un po’ di questo evento. Se si chiama Sfogo ci sarà un motivo, dopotutto.»

«Ah, allora la bionda me la prendo io?» domandò Greg.

David scrollò le spalle. «Va bene, vacci solo piano.»

Greg scoppiò in una fragorosa risata, prima di rispondere malizioso: «Decido io come andarci con lei, hai capito?!»

Thia emise un altro verso strozzato sentendo cosa stavano confabulando quei due. All’idea di restare con quel porco di Greg la paura si insinuò in ogni centimetro della sua pelle e cominciò a dimenarsi come un’ossessa per cercare di scappare.

Marianne cercò di richiamarla, di calmarla, ma fu tutto inutile. Thia non ascoltava più nessuno, se non quella voce nella sua testa che le imponeva di scappare da lì, prima di ritrovarsi con l’interno coscia sfondato da un maniaco. Con le mani ancora legate cercò di aprire la porta tirando la maniglia, ma l’autista doveva averle bloccate con l’apposito pulsante da davanti.

«Thia! Thia calmati ti prego!» implorava Marianne con le lacrime agli occhi, senza risultati.

«David, porca puttana calma quella troia o giuro che lo faccio io!» esclamò Greg schiumante di rabbia, vedendo la sua gallinella fare i capricci. Per lui le donne dovevano sottomettersi e basta, perché erano inferiori all’uomo. Il mondo funzionava così: l’uomo comanda, la donna obbedisce. Se la donna non obbedisce, allora l’uomo usa le maniere forti. Quella stronzetta non era esclusa da quella sua particolare corrente di pensiero.

David digrignò i denti e guardò Marianne, poi le ordinò: «Hai capito? Dalle una tranquillizzata. Io non ci perdo niente se Greg la fa calmare a suo modo, ma è meglio per il suo bene che lo faccia.»

Marianne riuscì a schiudere le mani dapprima premute fra loro. Sentendo i polsi dolerle terribilmente a causa del bruciore provocato da quella fascia strettissima. Avvolse le mani aperte a mo’ di preghiera intorno alle guancie di Thia e la costrinse a guardarla negli occhi. Sentendo quel contatto così affettuoso e apprensivo, Thia venne pervasa da una piacevole sensazione di calore, quel calore materno che solo Marianne riusciva a donarle. Quella sensazione riuscì a farla calmare ed estraniare dalla mente tutti i pensieri negativi. Incrociò le iridi smeraldo della sua nuova famiglia e smise di agitarsi.

La donna la fissò implorante, con le lacrime agli occhi. Si sentì malissimo al pensiero di doverle mentire di nuovo, ma non c’era altra soluzione. Non voleva che quel viscido di un Greg le facesse qualcosa davanti ai suoi occhi.  «Thia...ti prego, ascoltami...andrà...tutto bene. Ok? Te lo prometto. Non ci faranno nulla, fidati di me...»

Per rafforzare ulteriormente quella richiesta di fiducia, la donna si sporse verso di lei e le baciò la fronte com’era solita fare. Non appena le sue labbra spaccate, ma morbide allo stesso tempo, toccarono la fronte della ragazza, questa si sentì ulteriormente protetta. Quel bacio che solo una vera madre avrebbe potuto darle la convinse che Mary stesse dicendo la verità, che tutto sarebbe andato bene.

«Non permetterò a nessuno di farti del male...figlia mia.» terminò Marianne separandosi di nuovo da lei e guardandola con degli occhi che avrebbero fatto coraggio a chiunque.

Thia annuì lievemente, rincuorata. Una parte di lei sapeva che non avevano speranze e che quella notte loro sarebbero state oggetto di purificazione per quei due. Era ovvio. Nessuno poteva salvarle veramente. Ogni possibile salvatore, poteva rivelarsi un’altra potenziale minaccia, quella notte. Ma un’altra parte invece non appena vide quell’appiglio di speranza, ci si aggrappò all’istante, sperando di poter riuscire a salire fino in cima.

Sentendo quelle parole, in particolare le ultime due, David strabuzzò gli occhi e guardò basito Marianne. «F-"Figlia mia?»

Anche Greg era piuttosto sorpreso, dopotutto Marianne non poteva essere più vecchia di Thia di dieci anni, come poteva essere sua madre?

Marianne si voltò verso la causa di tutta quella situazione e sibilò a denti stretti: «Fatti i cazzi tuoi.»

David ammutolì, mentre Greg scoppiò a ridere.

«Accidenti...» cominciò a dire con ilarità. «...sei una gallinella volgare, eh? Mi fanno impazzire. Quasi mi dispiace non potermela prendere con te questa sera...»

Marianne digrignò i denti. Non sopportava più la presenza di quei due. All’inizio ne era intimorita, ma non appena aveva visto quanto stessero terrorizzando Thia, aveva messo da parte la paura e lasciato spazio alla rabbia. Nessuno poteva maltrattare la sua bambina in quel modo, oltretutto in sua presenza. Lei non si meritava tutto quello. Era una vittima innocente, una ragazzina d’oro, coinvolta in un mondo troppo crudele e ingiusto per lei. Improvvisamente non le sembrò più di averle mentito, quando le aveva detto che sarebbe andato tutto bene. Anzi, si ripromise di salvarla in un modo o nell’altro.

E lo avrebbe fatto. A quella ragazza non sarebbe stato torto un capello di troppo, quella notte.

Te lo prometto.

 

***

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 55 minuti.

Un parco. Quel posto sembrava in tutto e per tutto un parco. Tipo quelli delle città, con panchine, alberi, fontane, bambini che corrono spensierati, cagnolini che giocherellano tra loro e così via. Solo che quello era completamente buio, illuminato solo da quattro lampioni verdi e soprattutto non c’erano bambini o cagnolini. C’erano Dominick, l’uomo con i baffoni e gli altri sei ostaggi, soli, spaventati e infreddoliti.

Erano stati condotti in quel luogo misterioso dagli uomini eleganti armati. Li avevano spinti oltre una porta, poi l’avevano barricata dall’interno e gli otto erano rimasti intrappolati lì. A quel punto ognuno aveva preso la propria strada. Dominick era rimasto così concentrato dal posto in cui si trovava, che non si era nemmeno accorto di essere rimasto solo. A quel punto aveva guardato in ogni direzione per trovare almeno uno di loro, per non rimanere da solo, ma era stato tutto vano. La vastezza di quel luogo e il buio che ne ricopriva buona parte gli aveva impedito di vedere anche solo le loro ombre.

Così si era messo anche lui a vagare per quel posto. Più lo guardava, più si convinceva che assomigliava ad un parco, con il suolo, però, completamente in cemento, senza nemmeno uno spiraglio d’erba. Ovvio, erano pur sempre in un edificio. Attraversò un piccolo marciapiede delimitato da due muretti con dietro delle alte siepi e si ritrovò nella piazzola centrale, dove c’erano i quattro lampioni che fornivano la fioca luce e una fontana circolare vuota. Da quella piazzola, altri tre marciapiedi partivano e conducevano in altri sentieri delimitati da muretti e siepi. Dominick si infilò in uno di essi e proseguì, continuando la sua ricerca di uno qualsiasi degli ostaggi. Si ritrovò fuori dalla piazzola e continuò a camminare lungo marciapiedi e accanto a siepi, guardando in ogni direzione, ma il buio non era d’aiuto.

Approfittò anche di quel momento per raccogliere le idee.

Inutile dire che si stava letteralmente cagando addosso per la paura. Era stato rapito, portato ad un asta, venduto e condotto in quel luogo buio, con l’unica certezza che gli restavano quindici minuti di vita. Quei ricchi pazzi volevano purificarsi e per farlo avrebbero ucciso lui e gli altri ostaggi. A quel punto forse capì. Quella specie di parco, era una qualche sorta di terreno di caccia. Loro erano i cacciatori, lui la preda. In effetti, ripensando al discorso della donna bionda, a come diceva di possedere una vasta gamma di armi, quella sembrava essere l’unica soluzione. E ciò non fece che confermare le sue teorie. Aveva solo più quindici minuti di vita. Anzi, di meno, visto che ormai era già da un po’ che vagava lì dentro senza meta. Degli altri neanche l’ombra, c’era solamente più lui. Senza nemmeno rendersene conto si ritrovò ai margini del terreno, in un’altra piazzola, dotata di una ringhiera di cemento che si affacciava su qualcosa. Si avvicinò e fece per sporgersi, quasi sperando di aver trovato una via di fuga, ma non appena sbatté la testa contro la parete, capì che quella piazzola non si affacciava su nulla. Era tutto ricreato ad hoc.

Imprecando e massaggiandosi la testa, riprese a camminare allo stato brado, dandosi anche dello stupido per aver pensato di aver trovato una via di fuga. E ti pareva veramente che la mettessero così a portata di mano? Sicuramente lì da qualche parte c’era una porta nascosta, magari un’uscita d’emergenza. Trovarla era il problema. Proseguì per un altro marciapiede, rasente alla parete della stanza e ad un’altra siepe.

Mentre il suo sguardo guizzava in ogni direzione, incrociò un paio di finestre rialzate di almeno tre o quattro metri, che si affacciavano dalla parete accanto a lui. Dietro il vetro di queste, individuò chiaramente la donna bionda che aveva diretto l’asta e buona parte dei ricconi seduti ai tavoli. A quel punto fu sicuro al cento percento.  Lui era la preda, loro erano i cacciatori e tutto quanto era in diretta davanti agli occhi di quei folli che avevano deciso di non partecipare all’asta.

Non appena li vide guardarlo con quei sorrisi freddi e rigorosamente fuori di testa, con quella loro aria di superiorità, Dominick sentì il sangue ribollire nelle vene per la rabbia. Digrignò i denti e si piantò le unghie nei palmi, poi cominciò a cercare per terra qualcosa da tirare contro quella cazzo di finestra e far sparire quei sorrisetti da quelle facce da culo. Non trovò nulla per terra, ma d’altronde poteva aspettarselo. Una pietra avrebbe potuto essere usata come arma di difesa dagli ostaggi. Ma loro erano le vittime sacrificali, le prede. Dovevano, con la loro morte, purificare le anime di quei ricconi. Perché era a questo che esistevano i più poveri, purificare i più ricchi. Guai a cercare di difendersi. Dovevano subire e stare zitti.

Quel pensiero non fece che aumentare la rabbia del ragazzo, che a quel punto, non potendo fare altro, sollevò entrambi i medi e li puntò a quelle persone che lo guardavano dall’alto. Vide i loro sorrisi vacillare quando si accorsero di lui e del suo gesto. Probabilmente non erano abituati a vedere un povero uscire fuori dal suo posto e osare mandarli a quel paese. Dominick stava anche per passare alle parole e fare uso di tutti gli insulti peggiori che conoscesse, ma si bloccò di colpo quando sentì un’altra porta aprirsi. Ed era poco lontano da lui. Una candida luce bianca invase parte del parco mentre le sette persone che avevano comprato lui e gli altri ostaggi entravano. Ognuno di loro possedeva dei bizzarri occhiali con lenti verdi scure. Avevano indosso abiti semplici, pantaloni e giacche da cacciatori, e non più i vestiti eleganti. Ognuno di loro aveva quel sorriso folle stampato in faccia e un fucile per le mani.

Non appena Dominick li vide si sentì mancare. Con un impeto di forza riuscì a scappare via e nascondersi tra le tenebre. Da lì li vide prendersi tutti quanti per mano e chinare la testa, come in preghiera.

«Benedetti i nuovi padri fondatori, che ci hanno permesso di poterci sfogare e purificare le nostre anime. Benedetta l’America, una nazione risorta.» recitarono in coro, prima di sciogliere i legami tra lo loro mani.

Dominick sentì la pelle accapponarsi quando sentì quei versi. Soprattutto perché quello che avrebbe permesso loro di purificarsi era lui.

Intanto quelli, non appena finirono di parlare, si voltarono tutti, ma proprio tutti, nel punto esatto in cui era rintanato Dominick. Allargarono i loro falsi sorrisi e puntarono i fucili.

Dominick non riuscì a concepire come diavolo riuscirono a vederlo, ma ciò non fu esattamente il suo primo pensiero. Non appena si voltarono verso di lui, una sola parola fuoriuscì dalla voce nella sua testa.

CORRERE

E chi era lui per non ascoltare quella voce?

Non rimase lì nemmeno per vedere quei tizi avvicinare le dita al grilletto. Veloce come mai prima di allora, si lanciò in mezzo alla fitta rete di marciapiedi e siepi, esattamente un attimo prima che i proiettili esplodessero all’unisono e crivellassero il punto in cui si trovava lui.

Mentre correva a perdifiato lungo i sentieri, realizzò come avessero fatto a vederlo. Quelli non erano occhiali da sole, come aveva pensato all’inizio, ma visori notturni. Era l’unica spiegazione.

I minuti successivi furono tutti uguali tra loro. Dominick, rintanato nell’ennesimo pertugio, sentiva spari, urla, pianti, richieste di pietà, poi altri spari. E quasi sempre delle risate, oppure dei complimenti, del tipo "Bel colpo figliolo!".

Ogni sparo che sentiva, Dominick sobbalzava per lo spavento. I suoi sensi erano affinati al massimo, il suo sguardo vagava convulsivamente in ogni direzione, per potergli permettere di individuare eventuali minacce e fuggire di conseguenza. Se volevano proprio ucciderlo, allora gliela avrebbe fatta sudare a quei bastardi.

Ma mentre pensava a quello, non poteva certo non negare di trovarsi lì per colpa sua. Avrebbe potuto essere a casa di Hester, in un quartiere abbastanza tranquillo e fuori pericolo, in compagnia di lei. Avrebbe potuto essere al sicuro, con l’amore della sua vita. In quel momento avrebbe potuto sentire il calore e la morbidezza del suo corpo, le sue labbra umide e soffici intrecciarsi con le sue. Avrebbero potuto passare insieme la notte dello Sfogo, amandosi come usavano spesso fare. Invece era lì, a lottare tra la vita e la morte per colpa di una stupidissima vendetta. Che idiota che era stato. Credeva che avrebbe potuto sostenere una simile situazione, invece per lui era una cosa del tutto estranea. Era fottuto e lo sapeva. L’unica cosa che poteva fare era chiedere scusa mentalmente ad Hester e continuare a cambiare nascondiglio, per ritardare l’inevitabile.

Altri spari. Questa volta più vicini. Altre urla. Richieste di pietà. Spari.

Dominick riprese a correre all’impazzata. Ma non appena svoltò l’angolo andò a schiantarsi contro qualcuno. L’urto fu terribile, gli parve di essere finito contro un muro. Cadde a terra all’indietro, ritrovandosi con il sedere a terra. Si massaggiò la testa dolorante per l’impatto, poi alzò lo sguardo. Stava per rimettersi in piedi e correre di nuovo alla velocità della luce, ma nella penombra riuscì a distinguere chiaramente una figura famigliare, non ostile. Era l’omaccione con i baffi a manubrio. Dopo l’impatto quello aveva barcollato un attimo, ma grazie alla sua grossa stazza era rimasto in piedi senza difficoltà. La cosa particolare era che aveva un fucile in mano e i bizzarri occhiali addosso.

«Ragazzo!» sussurrò rivelando una stramba R moscia e un tono profondo, ma caldo e rassicurante allo steso tempo. «Almeno tu sei ancora vivo!»

«C-Cosa?» domandò Dominick impacciato.

L’uomo lo sollevò per la giacca come se fosse un peso piuma e lo rimise in piedi. «A dopo le spiegazioni, adesso stammi incollato, ok?»

Non che Dom volesse continuare ad andarsene a zonzo da solo. E adesso che aveva trovato un altro ostaggio, per di più armato, cosa voleva di più? «Ehm...ok...»

L’uomo annuì e cominciò a correre. Dominick non perse un secondo e lo seguì a ruota, mentre nella sua mente si accendeva un piccolo barlume di speranza. Forse...sarebbe riuscito a rivedere la sua luce del giorno dai capelli rossi. E ovviamente anche il mattino. Ma Hester era più importante. Il mattino poteva attendere.

 

***

 

Tempo rimasto alla fine dello Sfogo annuale: 10 ore e 47 minuti.

Kevin si risvegliò quando andò a sbattere con la testa contro una superficie dura. La prima cosa che pensò fu un’imprecazione, ma non appena aprì gli occhi il suo cervello cessò di funzionare.

Era seduto per terra, su quello che sembrava essere un pulmino scolastico a cui avevano levato tutti i sedili. Non appena vagò con lo sguardo intorno a sé, vide un esercito di uomini grandi, grossi e brutti, tutti armati fino ai denti. Tutti quanti lo osservavano sogghignando e con gli occhi sfavillanti di malizia. Kevin sentì il sangue gelarsi nelle vene sotto tutti quegli sguardi posati su di lui e si acquattò contro la parete alla quale era appoggiato. Improvvisamente ricordò tutto quello che era successo.

Un uomo appartenente ad una banda di tagliagole lo aveva portato al cospetto del suo capo, il quale gli aveva puntato contro una pistola. Solo che non l’aveva ucciso, ma l’aveva salvato. Aveva colpito il suo aguzzino e poi gli aveva imposto di sparargli. Kevin lo aveva fatto, colpendolo allo stomaco. Il solo pensiero di quell’uomo a terra dolorante per causa sua gli fece salire la bile. Poi cos’altro era successo?

Ah, sì. Il capo di quella banda aveva finito il lavoro con quell’uomo, uccidendolo con un colpo alla testa, poi si era presentato. Troy, aveva detto di chiamarsi.

Gli aveva stretto la mano e gli aveva chiesto il suo nome. Kevin si era presentato, poi Troy aveva annunciato l’ingresso del ragazzo nella sua banda. E se adesso era seduto su quel pulmino, insieme a tutti quegli uomini...

«Ragazzo, ti sei ripreso!» esclamò una voce proveniente da regioni ignote.

Kevin sobbalzò e guardò in tutte le direzioni, poi incrociò l’uomo che lo aveva chiamato. Era in piedi e gli stava porgendo una mano e sorridendo. Ogni tanto il suo equilibro vacillava, per via del restare in piedi su un mezzo in movimento, ma comunque rimase sempre al suo posto. Dai suoi occhi grigi non traspariva alcuna malizia o altre brutte emozioni. Sembrava tranquillo.

Kevin fissò imbambolato l’uomo, riconoscendolo. Era quel Troy. A quel punto, ciò che fino a quel momento aveva reputato un miraggio, una proiezione della sua mente, divenne più reale che mai.

Troy avvicinò la mano, invitandolo chiaramente a prendergliela, poi lo incitò con tono calmo. «Forza ragazzo, in piedi, su!»

Kevin, non avendo molta altra scelta, prese la mano dell’uomo e venne aiutato a rimettersi in piedi. Non appena si ritrovò in equilibrio sulle gambe, un violento scossone colpì il pulmino. Troy non sembrò farci caso, ma Kevin barcollò pericolosamente. Sarebbe finito con il culo a terra in un nanosecondo se Troy non lo avesse afferrato per una spalla e tenuto in piedi.

Tutti i presenti ridacchiarono quando lo videro quasi cadere in quel modo, Troy invece non si scompose. «Qualche scossone passeggero, vedrai, ti ci abituerai.»

Kevin lo guardò rimanendo in silenzio, non avendo la minima idea di cosa rispondere. Di solito era uno che non si faceva problemi a parlare e a dire le cose come stavano, ma in quell’ambiente, con tutti quegli uomini dall’aria di potergli piantare con coltello in gola da un momento all’altro, le parole erano l’ultima cosa che riusciva a trovare. Semplicemente, si ritrovò ad annuire.

Troy fece per parlare di nuovo, ma qualcuno lo chiamò dal posto del guidatore. «Capo, carne fresca!»

L’uomo si fece serio e andò ad affacciarsi al finestrino per verificare la veridicità di quelle parole. O meglio, chiamare finestrino quel vetro sbarrato in più punti da assi di legno e con pochissimi spiragli era un po’ inappropriato. Troy si avvicinò ad una delle fessure e scrutò il paesaggio fuori di sé, poi annuì e ordinò con quel suo fare autoritario: «Bene, fermiamoci qui!»

Tutti gli uomini esultarono agitando le armi, poi si misero in piedi e cominciarono ad armeggiare con esse per prepararsi.

Anche Kevin buttò l’occhio fuori dal finestrino. Qui vide due bande di pazzi armati che si davano battaglia fra loro in una strada cosparsa di auto in fiamme. Sgranò gli occhi e guardò Troy incredulo. Davvero volevano scendere in mezzo a quel casino?

L’uomo non fece caso a lui e diede ordini a nastro, poi il pulmino si arrestò all’improvviso. Kevin per poco cadde di nuovo, ma questa volta afferrò il primo appiglio che trovò e si mantenne sulle proprie gambe. Una volta fermo, Troy aprì lo portellone scorrevole del pulmino e fece scendere tutti gli uomini, che non appena furono fuori cominciarono letteralmente ad ululare e ad aprire il fuoco.

Nel giro di poco tempo solamente Kevin e Troy rimasero sul veicolo, in silenzio.

Non appena si trovò in quel breve momento di tranquillità, la mente di Kevin impazzì. Un sacco di domande cominciarono a spuntare come funghi. Perché era lì, su quel pulmino? Perché Troy lo aveva salvato? In che punto della città si trovava? Quanto mancava alla fine dello Sfogo?

Troy si accorse del suo sguardo sbigottito e perso nel vuoto. Sorrise al ragazzo. «Sta tranquillo, sei al sicuro adesso. Ho ordinato ai miei uomini di non torcerti un capello. Sono un po’ euforici, ma a me obbediscono quasi sempre. So come farmi rispettare.»

Quel "quasi" non piacque per niente a Kevin, ma, di nuovo, non trovò la forza per farglielo notare. Si sentiva incredibilmente piccolo ed insignificante al cospetto di quell’uomo, non solo perché quello era il doppio di lui anche solo fisicamente. Troy irradiava forza e autorità da tutti i pori. Non era un caso che fosse a capo di quella banda di scalmanati, che nel frattempo da fuori il pulmino continuavano ad urlare, ridere e sparare.

«Non sei di molte parole, eh? Ma capisco. Immagino che devi ancora riprenderti da tutto quello che ti è capitato. Chissà da quanto tempo eri fuori durante lo Sfogo. Devi averne viste delle belle.»

Di nuovo, Kevin non riuscì a fare altro che annuire. Era vero. Se respirava ancora era un miracolo.

«Allora, da quant’era che giravi per le strade?»

Quando realizzò che quella domanda era indirizzata a lui, Kevin fu costretto a farsi coraggio e rispondere. «Un...un’ora, credo...forse di meno...»

Troy si prese il mento e lo guardò pensieroso. «Beh...per un ragazzino come te non è male...»

«Ci sono quasi rimasto per due volte...» aggiunse Kevin, ritrovando un po’ di coraggio. «E non solo per la paura...»

L’uomo ridacchiò. «Mi sarei stupito del contrario...»

Kevin si prese un braccio e cominciò a massaggiarselo per l’imbarazzo, mentre il silenzio calava di nuovo tra loro due. Era davvero opprimente. Il ragazzo avrebbe voluto tempestarlo di domande, farsi spiegare perché lo aveva salvato, per non parlare del fatto che voleva tornarsene a casa, ma non ci riuscì. Le parole gli morirono di nuovo in gola. Non se la sentiva di parlare. Temeva che se lo avesse fatto a sproposito, quell’uomo si sarebbe infuriato.

«Ma comunque sei ancora vivo, il che la dice già lunga sul tuo conto...» riprese Troy avvicinandosi, per poi posargli una mano sulla spalla. «Sento che insieme potremo fare grandi cose, ragazzo.»

Kevin lo fissò perplesso, domandandosi cosa volesse dire. Attribuendo a tutte le sue energie, riuscì a parlare di nuovo: «Che...che intendi?»

«Intendo che sarai un ottimo componente della mia squadra.»

Kevin sgranò gli occhi. Allora era vero. Lo aveva veramente inserito in quella banda di psicopatici. Non poteva crederci. Perché lo aveva fatto? Cosa ci aveva visto in lui? Era solo un ragazzo! Uno come tanti!

Deglutendo, quasi sentendosi in procinto di camminare su un campo minato, dove il minimo passo falso lo avrebbe ridotto in mille pezzi, domandò, flebilmente: «Ma...perché mi hai salvato...e...inserito nella tua banda?»

L’uomo allargò il sorriso e posò anche l’altra mano sulla spalla di Kevin, poi lo osservò dall’alto della sua statura. «Ho visto in te...qualcosa. Un grande potenziale. Farai faville, vedrai.»

«Ma...sono solo un ragazzo!» protestò, sempre con un tono più mite possibile. «Io...come puoi dire che...»

«In te, vedo lui, ragazzo. Vedrai, io e te diventeremo inarrestabili!» lo interruppe l’uomo, guardandolo questa volta con un bagliore negli occhi che Kevin aveva imparato a conoscere fin troppo bene. Follia.

Sentendosi di nuovo sul punto di vomitare, Kevin domandò: «Ehm...lui chi?»

Lo sguardo di Troy si fece vitreo, ma la follia non svanì. «Gli...gli assomigli tantissimo...vedrai...andremo alla grande...Travis...»

Kevin per poco non soffocò con la propria saliva. Lo aveva chiamato Travis. Ma era abbastanza sicuro che quello lo sapesse il suo vero nome.

 «Chi...chi è Travis?» domandò di nuovo, ormai sentendosi sempre più sul punto di svenire di nuovo.

Da Troy non giunse altro che un sospiro. I suoi occhi inoltre si contornarono di un alone di tristezza. Non rispose. Rimase in silenzio a lungo, con l’aria di uno che sembrava in preda ai propri travagli interiori, poi si separò dal ragazzo e si allontanò da lui. Si mise sul bordo dello portellone, dando l’idea a Kevin di voler scendere. Ma Troy rimase in piedi, immobile, con le mani intrecciate dietro la schiena, a fissare la strada davanti a lui.

«Vedrai ragazzo...vedrai...» disse semplicemente, con tono incolore, tipico di quelle persone che quando ti parlano lo fanno pensando a tutt’altro, in genere a ricordi dolorosi. «Vedrai Travis...da te mi aspetto il meglio. E non ti lascerò mai più andare...»

Fu allora che Kevin realizzò come stavano le cose. Non era in salvo. Era semplicemente finito nell’ennesimo casino, in compagnia di uno storno di schizofrenici e del loro capo, che sembrava ancora più fuori di testa degli altri.

Era in trappola, in compagnia di un uomo che vedeva in lui chissà cosa, che si aspettava da lui chissà cosa e che per chissà quale motivo lo chiamava Travis.

Non sarebbe mai arrivato al giorno successivo. Non avrebbe mai più visto i suoi genitori. Non avrebbe fatto quelle cose che tanto sognava di poter fare.

Non era salvo. Era fottuto. Di nuovo.

 

 

 

Chiedo scusa per l'assenza immane, ma ho avuto (e ho tutt'ora) altri progetti per le mani. Perciò eccovi questa parte un po' più lunga delle altre, sperando che possa bastarvi fino a quando non riuscirò a scrivere la prossima (tra tempo indefinito).

Scusate il disagio.

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Capitolo 8
*** François/Kevin e Mary ***


 

 

 

Chiedo scusa in anticipo per eventuali errori. Ho riletto il capitolo, ma sono più fuori che dentro al momento, potrebbero esserci degli errori o delle ripetizioni che mi sono sfuggiti.

 

 

Capitolo

VIII

François/Kevin e Mary

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10  ore e 40 minuti

Ormai erano minuti interi che vagavano per quel labirinto di siepi, senza, a detta di Dominick, alcun senso logico.

Il ragazzo si era semplicemente limitato a seguire quell’uomo come un cagnolino che segue il padrone. Non che avesse molta scelta. O quello, stare vicino a ciò di più simile ad una possibilità di salvezza, o girare senza meta per quei sentieri semibui nell’attesa di farsi ammazzare da qualche ricco psicopatico.

E non è il caso di dire che lui era troppo giovane e bello per schiantare nella notte dello Sfogo. E poi doveva vedere Hester, a tutti i costi. Porle delle scuse che erano doverossissime,  farle capire che era stato uno stupido e che l’amava ancora e alla follia. Ma prima doveva uscire da lì, insieme a...

Dominick sgranò gli occhi. Solo allora si rese conto di non sapere non solo le intenzioni, ma nemmeno il nome dell’uomo. Alla prima domanda aveva categoricamente risposto "A dopo le spiegazioni", ma almeno il suo nome lo avrebbe rivelato! O no?

C’era solo un modo per scoprirlo.

«Scusa ma...puoi dirmi almeno il tuo nome?» bisbigliò, per non farsi sentire da nessuno eccetto che lui, come già poco prima l’aveva messo in guardia.

«Mi chiamo François, ragazzo.»

«Ok, io sono Dominick.» si presentò lui, piacevolmente sorpreso dal fatto che quello avesse risposto ad almeno quella domanda. Inoltre, non poté non constatare come quel nome e il suo accento fossero tipicamente francesi. Questo spiegò quella sua particolare R moscia.

«Piacere di conoscerti, Dominick. Ma adesso è meglio che tu rimanga zitto.» ammonì François.

Dominick mise il broncio. Aveva appena fatto confidenza con lui e quello buttava tutto nel cesso per fare il rompiscatole. Realizzò che quello era il tipico adulto che non perdeva occasione di rimproverarti. In poche parole, il tipico uomo con cui non voleva avere nulla a che fare, né durante, né al di fuori della notte dello Sfogo. Lui era uno spirito libero e ribelle, odiava gli adulti rompiscatole e ammonitori.

Fece per brontolare qualcosa a suo modo e fargli capire che lui era un rompiscatole nato e non poteva farci nulla, ma François si fermò di scatto e alzò una mano, per fargli cenno di arrestarsi a sua volta. Dominick si bloccò obbediente, poi vide l’uomo accucciarsi, così lo imito. Si rese conto che erano arrivati nei pressi di un incrocio tra sentieri. Buttò di nuovo l’occhio su François e lo vide stringere la presa intorno alla sua Lupara e irrigidirsi. Fletté gambe e braccia. Non ci mise molto per capire che, per chissà quale motivo, stava per partire all’attacco di qualcosa. 

E quella cosa non ci mise molto ad arrivare. Infatti, dopo neanche dieci secondi, uno di quei ricchi pazzi girò l’angolo. Solo che questa volta non aveva alcun sorrisetto stampato sul volto. Anzi, la sua espressione diceva tutto il contrario. Camminava ingobbito, mentre teneva saldamente tra le mani il suo fucile da caccia. Guardava in ogni direzione convulsivamente, girando la testa in ogni angolazione possibile con una velocità talmente elevata che sembrava aver preso degli steroidi.

Era teso, pensò Dominick. Spaventato, addirittura.

Il ragazzo lo fissò quasi meravigliato. Non credeva che avrebbe mai visto un’espressione simile sui volti di quelle teste di cazzo. Si chiese anche il perché, fosse così teso. Ma soprattutto, perché fosse da solo. Insomma, che si fossero divisi era scontato, ma credeva che lo avessero fatto a gruppetti, non singolarmente. Dopotutto, quei tizi non erano altro che dei vigliacchi. Insomma, per purificarsi danno la caccia a degli innocenti indifesi, comprati all’asta perché rapiti da altri ragazzi durante lo Sfogo.

Se questa non è codardia...

I suoi pensieri vennero interrotti brutalmente quando François balzò addosso a quel tizio. Dominick sobbalzò quando vide l’omaccione muoversi con tutta quella rapidità. Il riccone non appena vide il francese arrivargli addosso urlò di spavento. Puntò il fucile, ma fu troppo lento. François lo disarcionò senza troppa difficoltà e gli sferrò un pugno alla mascella, ribaltandolo come una sedia.

Dominick spalancò la bocca quando vide con che facilità l’uomo avesse appena steso il loro cacciatore, che cadde a terra gemendo e chiudendo gli occhi, per poi rimanere immobile. Ma la cosa più sorprendente fu ciò che il francese disse mentre afferrava con entrambe le mani la sua Lupara: «E questo era l’ultimo.»

Il ragazzo sentendo quelle parole assunse un’espressione confusa. Inarcò un sopracciglio e fece per domandargli cosa volesse dire, ma si interruppe quando vide François puntare il fucile contro il corpo esanime di quell’uomo.

Lo fissò basito, temendo di aver capito le sue intenzioni.

 Non...non vorrà mica...

François fece fuoco. La fiammata che fuoriuscì dalla bocca dell’arma illuminò la zona per un breve attimo, poi la maglia dell’uomo esplose e il suo petto si tinse di rosso, mentre lembi di pelle volavano via e si intravedevano le sue viscere.

Dominick sobbalzò per lo spavento, poi cominciò a tremare come una foglia e a guardare il francese intimorito. Aveva appena ucciso a sangue freddo un uomo davanti ai suoi occhi. Quel tipo era privo di sensi, non poteva nemmeno difendersi. E lui gli aveva sparato in pieno petto con un fucile da caccia.

Non trovava le forze nemmeno per pensare. Figurarsi muoversi o parlare. L’unica cosa che riusciva a fare era guardarlo basito, con la mascella prossima a staccarsi dalla faccia e gli occhi che stavano per schizzare fuori dalle orbite.

François ricaricò il fucile come se nulla fosse, poi si voltò verso di lui. Notando la sua espressione a dir poco sbalordita, incurvò un sopracciglio. «Che c’è?»

Dominick trovò la forza sovraumana per riuscire a muovere una mano. Sollevò un indice, dire che tremava era riduttivo, e lo indicò, per poi biascicare un mucchio di parole sconnesse, dovute allo choc: «Lo hai...lo hai...tu...l’hai...il fucile...io...sangue...cazzo...»

«Ah, ho capito, sei sensibile alla vista del sangue. Mi spiace, ma vedi il lato positivo, adesso non cercheranno più di ammazzarci.»

Il ragazzo nemmeno lo sentì. Ci mise molto per riuscire a capacitarsi di cosa aveva appena visto e a riordinare quel pandemonio che era la sua mente. Aveva ucciso un uomo davanti ai suoi occhi. Certo, quello era un pazzo e stava dando loro la caccia, però che diavolo! Non poteva nemmeno difendersi!

«Dominick, vuoi uscire da qui o no?» domandò François posandogli una mano sulla spalla.

Quella domanda riuscì a far riscuotere il ragazzo. Sì, certo che voleva andarsene. Annuì.

«Bene, allora smetti di comportarti da ragazzina suscettibile e seguimi!»

Dominick trovò il coraggio di annuire e si mise a seguire l’uomo che aveva appena sparato senza pietà ad un indifeso, conscio anche del fatto che quella fosse la cosa più stupida di quel mondo. Cioè, se aveva appena ucciso quel cacciatore, cosa gli impediva di uccidere anche lui, un ragazzino disarmato e indifeso?

Una parte di lui la pensava così e non voleva fare altro che scappare a gambe levate.

Un’altra parte invece...gli suggeriva che forse poteva fidarsi. Dopotutto, se ucciderlo erano le sue  intenzioni, non lo avrebbe certo salvato in quel modo! Inoltre, quella era l’unica possibilità che aveva per poter uscire da lì.

«Ascolta ragazzo...» cominciò François mentre correvano per la fitta rete di siepi. «...non è questione di molto prima che quei bastardi pulciosi mandino i rinforzi per controllare cos’è successo ai cacciatori e farci la pelle. Dopotutto, gli altri ricconi hanno visto tutto lo spettacolo. Perciò stammi dietro e per nessuna ragione al mondo staccati da me.»

Dominick non capì nulla di tutto quello che aveva detto. «No, aspetta...cosa?»

«Ho ucciso tutti i cacciatori, ragazzo.»

«Tu hai fatto cosa?!» domandò il ragazzo incredulo alle proprie orecchie. Non riusciva a credere che quel tizio avesse fatto fuori sette uomini armati da solo.

«Mi hai sentito. Ho colto di sprovvista la coppia di un uomo e una donna. Li ho stesi, poi ho rubato un visore notturno e il fucile, poi li ho uccisi. A quel punto ho cominciato a setacciare tutta la zona, alla ricerca di altri cacciatori, per ucciderli prima che loro uccidessero gli ostaggi. Purtroppo, sono arrivato tardi. Tu sei l’unico rimasto, oltre a me.»

Dominick era sempre più stupefatto. Faticava a credere a tutte quelle parole, ma dopotutto la realtà dei fatti era chiara. In giro non c’era più nessuno, eccetto loro due. Inoltre, questo spiegava il perché quel cacciatore sembrasse così teso. François aveva appena ammazzato tutti i suoi compagni. Eppure continuava a suonargli strano. Com’era possibile? Cioè, sì, era grosso, ma nulla di più! Sapeva combattere? Era una qualche specie di soldato?

«Ma...cioè...come hai fatto? Sei...insomma...un poliziotto o robe del genere?»

François scosse la testa. «Sono solo uno che non crede in questa notte.»

«Che intendi?»

«Lo Sfogo. Io non ci credo. E’ un’enorme stronzata, fatta solo per uccidere i più poveri e dare una spinta all’economia. E’ per questo che sono qui. Avevo sentito di queste aste, così mi sono fatto catturare di proposito per poter essere venduto ad una di esse. Dopodiché ho ucciso quei bastardi. Voglio proprio vedere se ne faranno altre!  E questo è solo l’inizio! Ho intenzione di intrufolarmi in tutte le aste della città e far fuori tutti quei bastardi che si divertono a fare i cacciatori con gli innocenti. Lascerò una profonda cicatrice negli animi di coloro che credono nello Sfogo!»

Dominick lo ascoltò in parte tra il meravigliato e il riluttante.

Anche lui era a conoscenza della verità celata dietro allo Sfogo, cioè che era tutto legato ai soldi e all’economia. Perciò doveva ammettere che le intenzioni di François erano a dir poco nobili. Voleva mettere in pari le cose, far capire ai ricchi che loro non erano padroni delle vite degli altri.

Ma nonostante ciò, non poteva certo negare che quelle sue intenzioni sfioravano il limite della follia. Era una cosa a dir poco impossibile ammazzare tutti i bastardi che in città si divertivano a giocare con i più poveri. Erano talmente tanti e ben organizzati che, a detta di Dominick, era quasi un miracolo che François fosse ancora vivo.

Ma lui non era certo tipo da mettersi a discutere riguardo alle decisioni altrui. Lui che voleva uscire la notte dello Sfogo per uccidere un uomo e che per poco era svenuto davanti a François che uccideva quel tizio.

E poi una volta usciti da lì ognuno poteva fare quel diavolo che avrebbe voluto.

 

***

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10  ore e 30 minuti

«Ormai ci siamo, signorine!» esclamò Greg con un sorriso vittorioso. «Porca puttana, c’abbiamo messo mezz’ora! Tutta colpa di queste strade di merda piene di stronzi armati! Abbiamo dovuto prendere un casino di fottute vie secondarie!»

«Ce la fai a non infilare una parolaccia in ogni frase?» brontolò David, irritato dal comportamento immaturo del collega.

«Scusa, ma divento nervoso quando la mia scopata viene ritardata!»

Thia gemette di nuovo, Marianne lanciò un’occhiata velenosa al conducente, mentre David roteava gli occhi e lasciava perdere il complice con un sospiro.

Lo sguardo della donna poi andò a posarsi sulla sua bambina, che adesso si era accucciata sul lato del sedile, premuta contro la porta quasi sperasse che si aprisse da un momento all’altro.

Aveva ancora le guancie arrossate, gli occhi lucidi e la fascia che le impediva di parlare. Marianne aveva provato a togliergliela, ma Greg e David le avevano subito fatto capire che se lo avesse fatto sarebbero stati guai, per lei e Thia.

Così si era accomodata al meglio e aveva riflettuto a lungo su come poter salvare la ragazza da quella situazione, o per lo meno evitare che venisse violentata.

Un sacco di idee le erano venute, ma le aveva scartate quasi tutte. Ognuna di loro implicava qualche folle gesto ai limiti dell’eroicità, con annessi usi di armi o combattimento corpo a corpo. Ma Greg e David erano sicuramente più forti di lei e poi erano in due.

Accantonate le ipotesi più improbabili, solo una le rimase.

Era la più dolorosa di tutte, per lei, ma se serviva per liberare Thia, allora avrebbe optato per quella. Pur di difendere quella ragazza, avrebbe sacrificato sé stessa, come una vera madre dovrebbe fare per la figlia o il figlio.

Rabbrividì al pensiero di ciò che stava per dire, ma era l’unica maniera. Raccolse le forze, poi chiamò i suoi aguzzini: «Ehi.»

David si voltò pigramente verso di lei, mugugnando con fare sbrigativo: «Mh?»

Marianne inspirò, poi parlò con quanta più sicurezza possibile nella voce. Doveva far capire che era disposta a tutto: «Ascoltata, David. Anche tu, Greg. Io...non voglio che a Thia accada qualcosa. Ma voi ovviamente non la lascereste andare senza motivo, perciò...ho una proposta.»

Greg drizzò le orecchie, incuriosito. «Avanti, spara!»

Anche David le fece cenno di proseguire, al che Marianne obbedì. «La mia proposta è questa: potete...prendere me. Solo me. Potrete violentarmi a turno o insieme, non mi interessa. Ma Thia dovete lasciarla andare.»

Thia spalancò gli occhi quando sentì ciò che Mary stava dicendo. Cominciò ad agitarsi, ad emettere versi strozzati dalle fasce, a scuotere la testa, a dirle a suo modo di non fare una cosa del genere. In quella situazione c’erano tutte due e tutte due l’avrebbero affrontata, volenti o nolenti.

Marianne però la ignorò. Lo fece a malincuore, anche con una punta d’orgoglio nel vedere come la sua bambina tenesse a lei anche in quel momento. Ma se voleva proteggerla, avrebbe dovuto farlo.

Greg e David guardarono perplessi prima lei, poi il rispettivo complice.

Dopo un bel po’ di silenzio, David parlò: «Beh...se proprio ci tiene...»

«Col cazzo!» protestò Greg. «Io non condivido una donna con un altro uomo! Fanculo! Piuttosto mi tengo la bionda!»

David assottigliò le labbra, accigliato, ma non aggiunse altro. Si voltò di nuovo verso Marianne. «Spiacente, il mio socio non è d’accordo e francamente anche a me girerebbero le scatole nel condividerti con lui. Tu apparterrai solo a me.»

Marianne inorridì, mentre ogni traccia di colore svaniva dalle sue guancie. La sua idea non aveva funzionato. Non aveva salvato Thia.

Guardò affranta la ragazzina, che però non sembrava turbata. Anzi, non appena le loro iridi si incrociarono, Thia la rassicurò con un cenno del capo. Non le importava cosa sarebbe successo a lei, l’importante era che restasse con la sua nuova famiglia. Avrebbero affrontato quella notte e l’avrebbero superata. Il giorno dopo avrebbero ripreso con la loro vita di sempre e tutto quanto sarebbe diventato solo un brutto ricordo. Dovevano solo stringere i denti e trattenere il fiato. Letteralmente.

Thia strisciò verso la donna e, non potendo fare molto per via dei polsi legati, adagiò la testa nell’incavo del suo collo. Non poteva parlare, ma Marianne intuì cosa volesse dirle. Lo capì da come la guardava e da quel suo gesto. Le stava dicendo di non preoccuparsi.

Ma lei non poteva non farlo. Singhiozzò e appoggiò il mento sui capelli della ragazza. «Mi dispiace Thia...»

Un altro verso fuoriuscì dalla bocca tappata della ragazza, probabilmente un altro "non importa" oppure uno "smettila di preoccuparti".

Ciò non fece assolutamente tranquillizzare la donna, che singhiozzò un’altra volta. «Ti ho detto che questa notte non ci sarebbe successo nulla, invece...ti ho mentito, Thia...io...scusami...adesso mi odierai...e non posso biasimarti...»

Non appena finì di parlare Thia si allontanò da lei e la guardò di nuovo negli occhi, protestando di nuovo a suo modo. Scosse la testa più volte, mentre questa volta nelle sue iridi appariva un’ombra di determinazione. Di nuovo, per Marianne era impossibile capire, ma era ovvio che la ragazza la stesse rimproverando, le stesse dicendo di smetterla di scusarsi, che lei non aveva nessuna colpa. Ma soprattutto, che non avrebbe mai potuto odiarla.

«Mi dispiace...» mormorò ostinatamente Mary.

A quel punto Thia si rassegnò e adagiò la testa nell’incavo del collo della donna come aveva fatto prima. Marianne affondò la fronte tra i suoi capelli dorati, morbidi e profumati, mentre singhiozzava di nuovo. «Scusa...»

Thia non protestò più. Si limitò a sospirare esasperata dal naso e a rannicchiarsi meglio contro di lei. Chiuse gli occhi e venne pervasa da un piacevole senso di beatitudine nel trovarsi a così stretto contatto con quella donna. Non si separò più da lei, così come Mary non alzò la testa.

Restarono ferme in quel modo, in quella specie di affettuoso abbraccio madre e figlia. Un abbraccio che avrebbe potuto sciogliere come neve al sole perfino il più spietato dei criminali. Un affetto reciproco che avrebbe distrutto ogni male nel mondo.

«Oh, guarda che tenere! Secondo me con quelle due potremmo fare delle cose a tre niente male! Che ne pensi David?» commentò tagliente Greg.

David invece, vedendole abbracciate in quel modo, cominciò a dubitare di tutto ciò che aveva fatto. Stava veramente...cercando di violentare una donna e lasciare quella ragazzina che non poteva avere più di vent’anni a quel maniaco del suo complice? Quella donna che poi lo aveva sempre rifiutato solo per via del fattaccio che l’aveva colpita due anni prima, la morte di suo marito?

Improvvisamente, tutto ciò che aveva fatto gli sembrò una cosa orripilante. Lui stesso si reputò il peggiore dei mostri.

«Ehi, non dirmi che te la sei bevuta?!» sbottò Greg notando il suo sguardo affranto, ancora rivolto alle due donne.

La voce del suo complice lo fece rinsanire. Non poteva certo mostrarsi come uno che si faceva impietosire proprio di fronte a lui. «N-No, certo che no...»

Greg grugnì in assenso. «Bene, perché se no...oh cazz...!»

Non riuscì nemmeno a finire di parlare che un mucchio di persone armate fuoriuscì da dei vicoli e riempì di piombo la macchina. I finestrini e il parabrezza vennero fatti a pezzi. Marianne urlò, così fece Thia, a suo modo, ed entrambe si accucciarono sul sedile, per non farsi colpire.

«Imboscata!» sbraitò David mentre afferrava il suo fucile e sparava fuori dal finestrino.

Greg urlò disperatamente quando un proiettile lo raggiunse su un braccio, ma ciò non gli impedì certo di dare fondo a tutto il suo vocabolario di parolacce, afferrare la sua pistola e rendere pan per focaccia a quei bastardi. «Non rovinerete la mia scopata, figli di puttana!»

Thia cominciò a singhiozzare per la paura, mentre Marianne le  mormorava parole di conforto, anche se non sapeva quanto veritiere potessero essere.  Erano finiti in un imboscata, la loro vita era appesa a un filo. Sarebbe bastato un semplice proiettile vagante per uccidere anche loro. A quel pensiero, Marianne rabbrividì e cercò di fare da scudo umano alla ragazza accucciandosi sopra di lei.

David e Greg continuarono a sparare fino a quando un pulmino scolastico non sbucò da dietro l’angolo.

Quando Greg notò l’enorme veicolo giallo, era già troppo tardi.

Riuscì solamente a sgranare gli occhi.

L’impatto fu devastante.

 

***

 

Nel frattempo.

Erano di nuovo partiti. Avevano finito di massacrare quei poveretti ed erano di nuovo saliti sul pulmino, ululando, urlando, ridendo e anche sparando per aria, mentre si vantavano di come avessero ucciso quello, tagliato la gola a quell’altro, amputato il braccio a quell’altro ancora.

Kevin si era rintanato nel suo angolino. Si era abbracciato le gambe e aveva cominciato a dondolarsi in avanti e in indietro, ormai prossimo alla pazzia più totale.

Cominciava perfino ad avere dei dubbi sulla sua vera identità, visto che Troy ormai lo chiamava una volta Kevin e dieci Travis.

Che poi, perché diavolo lo chiamava così? Non riusciva a capirlo.

Sapeva solo che se voleva rivedere la luce del giorno, doveva scappare da lì. Meglio vagare da soli e senza meta nella notte dello Sfogo che con quella gabbia di matti.

Peccato che Troy si fosse seduto vicino a lui e non lo perdesse di vista nemmeno un secondo.

Kevin rabbrividiva ogni volta che si accorgeva dello sguardo dell’uomo. Perché lo guardava così? Che diavolo voleva da lui? Perché a Kevin non ne stava andando neanche una giusta?

Sospirò e appoggiò il volto fra le ginocchia.

«Stanco?» domandò Troy vedendolo.

«Già...» mugugnò Kevin.

Per un attimo sperò che Troy mostrasse un po’ di compassione, che magari lo riaccompagnasse fino a casa e gli dicesse di andare a dormire tranquillo. Ovviamente le sue speranze furono vane.

«Andiamo, Kevin! Tirati su! Abbiamo ancora dieci ore di Sfogo!»

Kevin piagnucolò qualcosa di incomprensibile e si tirò su. Per lo meno quella volta lo aveva chiamato per il suo vero nome.

Troy sorrise, ma nel giro di pochi attimi il sorriso svanì, in quanto un grosso urto fece scuotere il pulmino. Kevin, non abituato, andò a sbattere contro la parete accanto a lui.

Troy si alzò immediatamente in piedi e andò dall’autista. «Che diavolo è successo?!»

L’autista lenì il dolore alla tempia causato dall’urto, poi sogghignò nel vedere la macchina che avevano appena colpito. «Carne fresca!»

Troy guardò la macchina, poi si accorse che nella strada accanto a loro un mucchio di uomini armati stava correndo verso di loro.

Senza scomporsi, annuì e ordinò: «Molto bene, scendiamo!»

Di nuovo, il suo ordine venne accolto da un boato di urla e ululati, poi tutti gli uomini impugnarono le armi e scesero dal pulmino.

Kevin rimase acquattato al suo posto, ma Troy gli arrivò accanto e tese una mano: «In piedi, questa volta vieni anche tu!»

Il ragazzo gemette in silenzio. Ogni fibra del suo corpo di oppose, ma fu comunque costretto ad afferrare la mano dell’uomo e a mettersi in piedi. Troy gli mise in mano una pistola. «Tieni, sai già come usarla!»

Kevin trattenne un conato di vomito pensando a ciò che aveva fatto con quell’arma, poi si limitò ad annuire. Seguito da Troy, scese dal pulmino, girò da davanti al muso e si trovò di fronte ad uno spettacolo orrendo, ma famigliare allo stesso tempo.

Nella strada era guerra pura. Gli uomini di Troy si erano appostati in ripari di fortuna, come auto parcheggiate o vicoli. Da lì facevano piovere piombo sugli altri uomini, riparati a loro volta da macchine o vicoli.

«Non stare impalato, mettiti al riparo!» ordinò Troy.

Kevin si riscosse e seguì l’uomo fino al primo nascondiglio, una macchina ferma, dove già si trovava l’autista del pulmino.

«Ehi capo, la c’è la macchina contro cui abbiamo bocciato!» esclamò indicando un veicolo accartocciato sul bordo della strada poco lontano da lì. «Sembra il lavoro ideale per quello nuovo!»

Troy si illuminò e guardò Kevin. «Ottima idea. Kevin, va a controllare quella macchina. Guarda se ci sono superstiti e se sì portaceli. Poi vedremo cosa farcene!»

Kevin impallidì di nuovo, poi però si rese conto di una cosa, che gli fece tornare un po’ di sicurezza, ma soprattutto speranza. «Aspetta...da solo?»

«Certo, che domande sono? Vuoi compagnia per andare a controllare una macchina semidistrutta?»

Kevin non poteva credere a ciò che stava sentendo. Quello forse era il primo vero colpo di fortuna a cui andava incontro. Lo stavano mandando da solo lontano da lì! Era l’occasione migliore che potesse capitargli per scappare! Improvvisamente un’ondata di speranza lo travolse e lo rinvigorì. Forse sarebbe riuscito a rivedere i suoi, alla fine dei conti.

Sorridendo come un idiota, cominciò ad annuire come un forsennato e fece anche un saluto militare.

«Sissignore! Vedrà, la renderò fiero di me!» blaterò, dicendo ciò che Troy avrebbe voluto sentirsi dire.

Infatti l’uomo gonfiò il petto pieno d’orgoglio e ricambiò il sorriso. «Splendido! Allora vai!»

Senza farselo ripetere due volte il ragazzino corse come una scheggia impazzita verso la strada dove si trovava la macchina.

In quel breve tratto di strada si sentì più libero che mai prima di allora. Aveva percorso solo dieci metri, ma già pregustava la sua libertà, il suo ritorno a casa. E per di più aveva perfino una pistola in mano! Quale miglior souvenir di quella notte di merda?

Inspirò a pieni polmoni l’aria fredda che lo puntellava mentre correva a perdifiato verso la sua libertà. Avrebbe ignorato quella macchina e avrebbe tirato dritto. Che ci avessero provato ad inseguirlo, dopo. Lui non si sarebbe mai più fatto trovare, poco ma sicuro.

Mentre correva, arrischiò una breve occhiata verso quell’imbecille di un uomo che lo aveva appena preso in ostaggio. Ciò che vide lo pietrificò all’istante. Troy era la, fermo immobile, ad osservarlo. Improvvisamente il piano di Kevin sfumò. Non poteva scappare mentre quello lo guardava, o lo avrebbero raggiunto in tempo zero. Doveva aspettare almeno che si distrasse. Imprecando per colpa di quell’imprevisto, Kevin fu costretto ad andare per davvero a controllare la macchina. Solo che mentre lo faceva, la paura della presenza di qualche superstite armato si insinuò dentro di lui. E se lo avessero visto e gli avessero sparato?

O se no, se ci fossero stati superstiti disarmati, cosa diamine avrebbe fatto? Li avrebbe puntato la pistola fino a quando Troy non si fosse distratto?

Non lo sapeva, ma doveva fare buon viso a cattivo gioco. Lanciando occhiatine rapide a Troy, per vedere se lo stesse guardando o no, si avvicinò alla macchina e rallentò il passo, fino a camminare semplicemente.

Con il cuore che batteva a mille impugnò la pistola, con la tremarella più forte che avesse mai avuto.

Quando fu a pochi metri dalla carrozzeria crivellata dai proiettili e accartocciata si fermò.

Si voltò un’altra volta verso di Troy, che sollevò un pollice per incitarlo a continuare. A quel punto, Kevin non poté fare altro.

Buttò fuori una boccata d’aria, si fece coraggio, puntò la pistola e si avvicinò al cadavere dell’auto.

In primis, ciò che vide lo fece sobbalzare. C’erano due uomini seduti davanti, sembravano entrambi morti, o comunque privi di sensi. I loro volti adagiati sul cruscotto erano delle maschere di sangue.

Tirò un sospiro di sollievo, poi sentì un gemito strozzato che lo folgorò come una scarica elettrica per lo spavento. Si voltò di scatto verso il punto da cui era provenuto, sollevando la pistola. Ciò che vide, lo lasciò ancora più sbigottito.

Sedute sul sedile posteriore, premute contro la portiera, c’erano due donne. O meglio, una era una donna, l’altra non doveva avere molti anni in più di lui.

La donna aveva i capelli neri e scompigliati e gli occhi verdi. Era bella, peccato che avesse il labbro spaccato e le guancie graffiate e sporche di sangue, con i capelli incrostati su di esso.

Anche la ragazza era carina, capelli biondi e corti e occhi azzurri, solo che anche lei era piuttosto malridotta. Aveva un taglio su una guancia che doveva essersi fatto da poco, perché gocciolava copiosamente. Forse era dovuto all’impatto con il pulmino di Troy e compagnia.

Ma la cosa più strana erano i loro polsi legati e la fascia che copriva la bocca della ragazzina.

Entrambe avevano il respiro pesante e fissavano Kevin basite, sicuramente non sapendo cosa aspettarsi da lui. Era solo un ragazzo, ma dopotutto stava puntando loro una pistola. Pistola che abbassò lentamente, non appena si accorse che quelle due non potevano essere una vera minaccia.

Si guardarono ancora per un momento. Kevin non capì il motivo delle loro condizioni, non che gli importasse più di tanto, visto che Troy continuava a guardarlo. E quelle erano due superstiti.

«Cazzo...» imprecò sottovoce, mentre la situazione si faceva cento volte più complicata di quanto già non fosse.

Che cazzo doveva fare? Portare quelle due da Troy? Essere responsabile della loro morte, o peggio, del loro stupro? Perché quella banda di scalmanati di certo avrebbe dato ancora più di matto vedendo due come loro, tra l’altro già legate. Le avrebbero prese per delle amanti del bondage o stronzate di questo genere.

Si premette una mano su una tempia e digrignò i denti, mentre cercava di trovare una soluzione. Troy nel frattempo continuava a guardarlo.

«Fanculo, fanculo!» imprecò di nuovo, questa volta ad alta voce.

«Che...che vuoi farci?» domandò la donna, l’unica delle due che potesse parlare, mentre la ragazzina lo fissava con quegli occhi azzurri pieni di paura.

Kevin sospirò, mentre quella poneva la stessa domanda che lui stesso si era fatto. Si passò una mano sulla fronte, poi scosse la testa. «Nulla...nulla...devo...portarvi da...il mio capo...ma non voglio...»

La donna lo fissò chiaramente spiazzata, ma non fece domande a riguardo. Tutt’altro. Sollevò i polsi e mostrò le fasce che li tenevano legati. «Puoi...puoi liberarci da queste?»

Kevin la fissò pensieroso. Si voltò verso di Troy, che nel frattempo sembrava un po’ scocciato di aspettare. Il tempo stringeva.

Ormai era ad un bivio. Poteva scappare, a suo rischio e pericolo, oppure restare e fare ancora buon viso cattivo gioco, nella speranza di un’occasione migliore.

Di nuovo, non seppe cosa scegliere. Anche perché restare lì implicava consegnare quelle due. Quelle due che gli avevano appena chiesto se potevano essere liberate.

Non sapeva come fosse possibile che quelle due si trovassero in quella situazione, ma non gli importava. Perché avrebbe dovuto aiutarle? Chi aveva aiutato lui quando aveva bisogno? Nessuno.

Eppure, l’idea di consegnare quelle due gli faceva salire la bile. Soprattutto guardando gli occhi azzurri di quella ragazzina. Era terrorizzata. Tremava come una foglia.

Improvvisamente, Kevin si sentì più simile a lei di quanto non fosse. Erano due ragazzi, entrambi costretti fuori la notte dello Sfogo, a lottare tra la vita e la morte.

Troy si accigliò e lo chiamò: «Kevin! Trovato qualcosa?»

Il tempo stringeva. Nessuno poteva salvare lui. Ma lui poteva salvare quelle due ragazze. Se proprio quella notte sarebbe morto, lo avrebbe fatto compiendo almeno una buona azione.

«Kevin...puoi aiutarci?» domandò di nuovo la donna, che probabilmente aveva sentito Troy.

Il ragazzo non perse un secondo e annuì. «Certo.»

Cercò di aprire la portiera, ma era bloccata. Così infilò una mano attraverso ciò che rimaneva del finestrino e la sbloccò dall’interno. Entrò dentro e afferrò le fasce della donna. Cercò di slegarle in tutti i modi possibili, ma quelle erano strettissime. Allora ebbe un’idea. Posò la pistola e cercò il suo accendino. Lo trovò, poi lo usò per bruciare le fasce. Poco per volta, riuscì a liberare la donna.

«Grazie.» disse mentre si massaggiava i polsi scorticati da quelle fasce strettissime.

Kevin non rispose neanche. Alzò lo sguardo e vide Troy cominciare ad avvicinarsi a loro.

Gli venne la pelle d’oca. Ogni centimetro del suo corpo formicolò. «Merda...»

«Che succede?» chiese preoccupata la donna.

«Il mio capo...»

La donna si accorse di Troy e sbiancò. «No...»

Ormai era fregato. Non aveva più nessuna speranza, se non quella di prendere la pistola e costringere quella poveretta a venire con lui. Di nuovo, sentì la bile salire al solo pensiero.

Non che però avesse molte altre scelte. Quello, oppure affrontare le conseguenze del tentato tradimento. Qualcosa gli diceva che Troy e i suoi non erano molto clementi.

Ma quando tutto sembrava perduto, ecco che finalmente la buona stella di Kevin fece il suo lavoro. L’uomo seduto al posto del guidatore gemette, segno che era ancora vivo. Kevin, quando lo sentì, si tolse il peso del mondo dalle spalle.

Guardò la donna e chiese giusto per precauzione: «Quell’uomo lì davanti, cos’ha cercato di farvi? Perché siete legate?»

La donna fece una smorfia. «Voleva stuprarci.»

«Mi basta. Ti lascio l’accendino e la pistola. Buona fortuna.»

La donna lo guardò con degli occhi colmi di gratitudine. «Grazie Kevin.»

«Figurati...ehm...» Kevin non terminò la frase, lasciando intuire alla donna che volesse sapere il suo nome.

«Marianne. Mary per gli amici.» intuì lei.

«Figurati Mary.» rispose lui con un sorriso.

Poi guardò la ragazzina, che lo fissava colma di gratitudine a sua volta. «Ehm...anche tu, buona fortuna.»

Senza attendere la risposta, o il gemito strozzato, scese dalla macchina, aprì la portiera davanti e tirò fuori l’uomo semisvenuto, che protestò qualcosa di incomprensibile. Ignorando le sue lamentele, Kevin lo trascinò come meglio poté fino da Troy e la banda.

Lanciò delle occhiate furtive verso la macchina, dove Mary sicuramente stava liberando l’altra ragazza.

Sospirò rassegnato, mentre portava quel poveretto da Troy. Magra consolazione, il fatto che quello fosse un porco che aveva cercato di stuprare quelle due.

Consolazione un po’ più grande, il fatto che per lo meno aveva compiuto una buona azione, salvando Marianne e la biondina.

 Sperò che il karma ne tenesse conto o che per lo meno gli facesse guadagnare qualche punto. Ma per il momento, doveva solo prepararsi psicologicamente, alla prospettiva di restare ancora per chissà quanto con Troy e la sua banda.

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Primo incontro ***


 

 

Capitolo

IX

Primo incontro

 

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 10  ore e 15 minuti

Dominick e François avevano vagato a lungo per quell’edificio prima di riuscire a trovare un’uscita, ma furono comunque abbastanza veloci da riuscire a raggiungerla prima di essere trovati dagli uomini della security. Solamente due ne avevano incontrati, ma nessuno di loro avrebbe potuto raccontarlo, visto che François li aveva freddati entrambi, con una rapidità e una freddezza troppo elevate per uno che diceva di essere uno come tanti.

Affermava di essere spronato solo dal desiderio di farla pagare a quelli che facevano dello Sfogo una ragione di vita, ma non  poteva essere davvero solo quello a permettergli di usare così bene le armi. Dominick cominciava a sospettarlo. François non poteva essere un uomo qualsiasi. Era troppo abile. Sicuramente o era un poliziotto, che magari si era dimesso, o un ex militare, o comunque possedeva qualche legame con qualche corpo di forze armate.

Decise, tuttavia, di non indagare. Dopotutto, per lui era solo un bene che François fosse così. Certo, quando aveva ucciso quei due, il ragazzo se l’era di nuovo fatta addosso, ma a parte quello era ancora vivo, tutto grazie al francese. Perciò avrebbe dovuto ringraziarlo, in un secondo momento. Anche se non era molto bravo in quel genere di cose.

Finalmente riuscirono ad uscire. Si ritrovarono nello stesso vicolo angusto dal quale tutto quel casino aveva avuto inizio.

Dominick si appoggiò con la schiena ad una parete per riprendere fiato, dopo la maratona che aveva fatto per stare dietro all’uomo e orientarsi per quei corridoi.

Respirare quell’aria malsana e puzzolente che alleggiava in quel vicolo fu, paradossalmente, un vero toccasana per lui. Si ritrovò ad inspirarla a pieni polmoni, giusto per assicurarsi di essere veramente lì, di essere veramente riuscito ad uscire vivo da quella folle caccia.

Il suo respiro affannato e tremolante si fece più rapido e dalla sua gola cominciarono ad uscire dei versi sommessi. Quel suo riprendere fiato, cominciò a trasformarsi lentamente in una risata. Una risata che aumentò di intensità man mano che si tastava su tutto il corpo per poter constatare al cento percento di essere ancora vivo.

Ad un certo punto la sua sembrò quasi una risata isterica, di quelle tipiche dei malati rinchiusi nei manicomi. Non che gli importasse qualcosa. L’importante era avere ancora la possibilità di poter ridere.

François lo fissò con aria interrogativa per tutto il tempo, ma decise di lasciarlo fare. Certo, in quella notte c’era ben poco da ridere, ma dopotutto lui era appena scappato dalla sua morte. O forse l’aveva solo ritardata, in fondo era pur sempre lo Sfogo, poteva succedere di tutto.

Dominick ci mise un attimo per riuscire a ricomporsi. Soprattutto mentre rifletteva sul fatto che forse sarebbe riuscito veramente a rivedere Hester. Quel pensiero lo fece tornare serio all’istante. Non aveva tempo da perdere, la sua bella lo aspettava. Giurò sé stesso che si sarebbe fatto perdonare in tutti i modi possibili, pur di riaverla con sé. Avrebbe anche strisciato a terra, se necessario.

E detto da lui sembra quasi una cosa impossibile. Lui, orgoglioso come pochi, che strisciava ai piedi di una ragazza. Ma l’amava, per lei avrebbe fatto quello e altro.

I suoi pensieri si interruppero quando, annuendo deciso, alzò la testa e vide François, che nel frattempo era rimasto lì a guardarlo. Si sentì tremendamente stupido e imbarazzato. Aveva appena riso come un isterico psicopatico di fronte a lui. Che figura.

«Ehm...da...da quant’è che mi guardi?» biascicò cercando di sembrare il più normale possibile. Non sia mai che François lo scambiasse per un pazzo. Era solo un ragazzo che si era fatto scaricare dall’amore della sua vita per uscire in una notte dove i pericoli erano ovunque solamente per vendicarsi, quando alla sola vista del sangue per poco non era svenuto. Non era pazzo.

«Abbastanza.» rispose l’uomo abbozzando un sorrisetto sotto i baffoni.

Dominick si mordicchiò l’interno della guancia, ancora più imbarazzato. Si separò dal muro e si mise una mano dietro il capo, poi distolse lo sguardo da lui.

«Ok...beh...grazie per avermi salvato la pelle.» cambiò discorso per non pensare più all’accaduto, anche se dire grazie fu piuttosto difficile. In genere non ringraziava mai nessuno, al di fuori di Hester o pochi altri.

«Figurati.»

Dominick annuì di nuovo, poi riportò gli occhi su di lui. Ormai erano usciti, da lì a poco ognuno sarebbe andato per conto suo. Non che al ragazzo la cosa andasse molto a genio. Non voleva rimanere da solo in quella notte, per lo meno fino a quando non sarebbe tornato al sicuro.

«Quindi...che farai?» domandò, nel tentativo di girare intorno all’argomento per un po’, prima di chiedergli di rimanere con lui ancora per qualche attimo.

François si rigirò il mitra che aveva tra le mani. Lo aveva rubato ad uno degli agenti della security che aveva ucciso. Era un’arma decisamente migliore da usare in quelle strade. Automatica, precisa, con caricatore da trenta colpi. Molto meglio di quel fucile da caccia che andava ricaricato di continuo.

«Lo sai già, ragazzo.» cominciò a spiegare, mentre socchiudeva un occhio e alzava il mitra per provare il suo mirino metallico, per farci un po’ di pratica prima di usarlo. «Ho un mucchio di aste a cui partecipare...»

Dominick serrò le labbra e abbassò lo sguardo. «Quindi...ci separiamo qui?»

François distolse la sua attenzione dall’arma e squadrò Dominick piegando la testa. «Beh, se vuoi venire con me...»

«Non è questo...» si affrettò a spiegare il ragazzo, prima di raccogliere le forze e fare l’ennesima cosa che detestava, chiedere aiuto. «...è che...non voglio restare di nuovo da solo...mi ammazzerebbero seduta stante.»

François inarcò un sopracciglio, incuriosito. «Quindi?»

Dominick sospirò, mentre si preparava psicologicamente a strisciare ai piedi di qualcuno che non fosse Hester. «Non è che puoi...»

Si bloccò all’improvviso quando realizzò che però non sapeva nemmeno cosa fare. Come ci tornava a casa? A piedi? Sembrava l’unica soluzione, ma per quanta strada François sarebbe stato disposto ad accompagnarlo? Era già un miracolo che lo avesse aiutato, in quell’asta. Non poteva esagerare troppo col chiedergli i favori. Per un attimo pensò di telefonare a suo zio e chiedergli di venire a prenderlo. Peccato che aveva preso la macchina senza permesso e l’aveva distrutta. Inoltre l’idea di chiedere a suo zio di aiutarlo lo ripugnava. Se c’era una persona a cui non avrebbe mai e poi mai chiesto aiuto, quella era sicuramente quell’uomo.

Perciò, mentre meditava sul come comportarsi in quella situazione così particolarmente complicata, un altro pensiero balenò per la sua mente. Non sapeva nemmeno dove si trovavano. In quel momento, saperlo avrebbe potuto determinare molte cose. Deciso a scoprirlo, si voltò e corse fuori dal vicolo, per strada, sotto lo sguardo attonito di François.

 Fortunatamente la strada era deserta, priva di psicopatici armati. Roteò lo sguardo in più direzioni, tra carcasse di macchine, negozi ed edifici sbarrati e con le luci spente, fino a quando non trovò quello che cercava: un cartello che indicava la via in cui si trovava.

Era fissato ad un muro, vicino ad un incrocio, nei pressi di un semaforo con la sola luce gialla accesa, lampeggiante.

Non perse un secondo e lo raggiunse di corsa. François nel frattempo lo seguì con l’arma in mano, guardando furtivamente in tutte le direzioni.

«Ragazzo! Che ti salta in mente! La strada è pericolosa!» lo rimproverò a bassa voce, per non rischiare di attirare nessuno con la sua voce.

Dominick lo ignorò e si mise sotto la targa. Era grigia scura, con scritta in bianco la via: Breackdown Street.

Strabuzzò gli occhi incredulo, vedendo quanto fortunato – per così dire, visto l’accaduto – fosse stato. Perché poco lontano da lì abitava un suo amico, Lucas. Anzi, era il suo migliore amico. Un sorriso si dipinse sul suo volto, mentre si voltava verso François e trillava entusiasta: «Conosco questa via! Poco lontano da qui abita un mio amico! Se raggiungo casa sua lui mi ospiterà di sicuro! Aspetterò il mattino da lui, poi potrò andare da Hester!»

François, che aveva afferrato le prime parole, corrucciò la fronte sentendo le ultime. «Chi?»

Dominick realizzò di aver parlato a sproposito. Scosse la testa rimproverandosi, poi spiegò: «Nessuno, lascia stare...piuttosto, potresti accompagnarmi? Non è molto lontano, saranno cinque, sei, settecento metri. Solo fino a lì, poi chi si è visto si è visto! Allora? Puoi? Non lasciarmi da solo, ti prego...»

L’uomo lo fissò in silenzio, meditando sulle sue parole. Aveva tutt’altro da fare, però, in fondo, erano solo settecento metri. E la strada sembrava deserta. E poi, in fondo, quel ragazzo un po’ gli piaceva. Gli ricordava molto lui alla sua età, quando era impulsivo, chiacchierone, irritante, rompiscatole e girava per le vie di Lione importunando le ragazzine. Al pensiero dei bei momenti trascorsi da giovane, quando lo Sfogo nemmeno esisteva, si ritrovò a sorridere senza rendersene conto. Poi realizzò che Dominick era ancora lì, in attesa. Probabilmente non se ne stava nemmeno rendendo conto, visto che sembrava anche piuttosto orgoglioso, ma lo stava implorando con gli occhi.

A quel punto François scrollò la testa per allontanare i pensieri superflui e rispose: «Va bene, andiamo. Indicami la strada e stammi vicino, ok? E restiamo in prossimità dei vicoli, per avere una via di fuga rapida in caso di guai.»

L’euforia di Dominick si smorzò. "Fuga rapida in caso di guai". François era proprio un mago nel frenare gli entusiasmi. Chissà che persona pallosa doveva essere al di fuori di quella notte.

Brontolando qualcosa di incomprensibile, Dominick annuì, poi indicò la strada al francese e i due iniziarono a correre, François all’erta e con il fucile sempre pronto in caso di quei fantomatici guai.

Bisognava essere proprio sfigati per trovare guai in quel breve tratto di strada. Dominick infatti lo era, ma François a quanto pare no, perché nessuno si fece vedere. C’erano solo loro due a correre sul marciapiede. Di altri, non c’era nemmeno l’ombra.

Finalmente raggiunsero quella che, stando a ciò che aveva detto Dominick, era la casa del suo amico. Era un condominio alto una decina di piani, Lucas abitava al secondo con i suoi, sul lato che si affacciava alla strada.

Faticando a trattenere la felicità, Dominick cercò il cellulare e lo chiamò per spiegargli la situazione e farsi aprire. Ancora non riusciva a credere di essere arrivato ad un luogo sicuro, ma soprattutto di vedere come la sua salvezza si avvicinava. Una volta in casa del suo amico, sarebbe volato dritto dritto al mattino, poi via da Hester. Meglio di così!

François nel frattempo continuava a guardarsi intorno con aria vigile, onde evitare di farsi cogliere di sorpresa da eventuali aggressori.

Dominick cominciò ad accigliarsi nel sentire il quinto squillo del telefono di Lucas. Il buonumore svanì e si chiese perché ci stava mettendo così tanto a rispondere. Dopo dieci squilli, stava seriamente cominciando a temere il peggio. Ma non per Lucas, per lui. Perché se il suo amico non lo ospitava per la notte, era fregato.

Al quindicesimo squillo, stava per incassare la testa tra le spalle e sprofondare, sperando che la terra lo inghiottisse e non lasciasse più alcuna traccia di lui, poi Lucas rispose. Sentire la sua voce fu una manna dal cielo per Dom. Nonostante fosse alterata dal microfono dell’apparecchio e fosse anche piuttosto adirata: «COSA?!»

Sembrava quasi come se quella telefonata lo avesse appena interrotto mentre faceva qualcosa di importante.

Puoi capire cosa stesse facendo...devo ricordarmi di non sedermi sul suo letto... pensò Dominick, prima di rispondere calorosamente: «Lucas, amico mio!»

Lucas ammutolì, Dominick non poteva biasimarlo. Tutte le volte che lo salutava con un "amico mio" finiva sempre col chiedergli delle cose al di fuori dal mondo. Come prestargli duecento dollari per sistemare un’ammaccatura alla Chevelle o robe del genere. Non che chiedere asilo la notte dello Sfogo fosse una cosa molto più normale...

«C-Cosa c’è?» domandò incerto il suo amico.

«Affacciati dalla finestra fratello, sono qua sotto casa tua!»

«COSA?! Ma che ci fai qui?!»

«E’ un casino, sarò lieto di spiegarti se mi apri.»

«N-No, aspetta un momento...»

Lucas non sembrava riuscire a credere alle proprie orecchie. Sembrava quasi...spaventato. Dominick si interrogò sul perché fosse così, poi pensò che forse era tutto nella sua testa.

Nel frattempo la serranda di ferro cigolò, mentre Lucas la tirava su, apriva la finestra e si affacciava, per poi fissare incredulo Dominick. Sembrò credere al fatto che si trovasse sotto casa sua solo quando lo vide coi suoi occhi.

Dominick mise via il telefono, poi lo salutò sollevando l’indice e il medio, formando una V con le due dita, e un sorriso a trentadue denti sul volto.

Lucas lo fissò dieci volte più sbigottito. Aveva ancora il cellulare appoggiato all’orecchio, la bocca spalancata e gli occhi azzurri strabuzzati.

Aveva qualcosa di strano, però. Innanzi tutto, era senza maglietta. Aveva il torace completamente scoperto, rivelando il suo fisico atletico e asciutto. I capelli neri erano tutti arruffati e scompigliati, ed era chiaramente accaldato e spossato.

Improvvisamente, Dominick capì cosa stava facendo di importante mentre lo aveva chiamato. E, improvvisamente, l’idea di entrare in casa sua non lo allettava molto.

«DOM!» esclamò. «Che cavolo fai qui?!» poi si accorse di François, un omaccione minaccioso e armato. Per poco non gli venne un colpo. «E lui chi è?»

«Lui è con me, tra poco se ne va...piuttosto...mi ospiteresti per la notte?»

Lucas sbiancò, Dominick non faticò molto per capirne il motivo. Era senza maglia, sudato, probabilmente anche senza pantaloni. Chissà cosa stava combinando lì dentro.

«Ehm...ma...che diavolo è successo?»

Dominick si dimenticò dei suoi pensieri sentendo quella domanda e pensando alla risposta. Si passò una mano tra i capelli, con fare esausto. «Lascia perdere...ho combinato un casino...Hester mi ha piantato...sono stato venduto ad un’asta, per poco non ci sono rimasto secco...se mi apri ti spiego...»

Lucas sembrava sempre più incredulo e agitato, anche il suo tono di voce tremolò più volte mentre parlava. «No...aspetta...cioè...io...non posso aprirti...»

«Senti fratello, so che ti ho beccato in un momento delicato. Nemmeno io aprirei volentieri la porta di casa mia se ho, diciamo..."compagnia".» l’ultima parola la disse facendo le virgolette con gli indici e i medi. «Ma siamo amici e io sono nella merda. Non ti chiedo molto, solo che mi apri, poi se vuoi io me ne sto in un angolo mentre tu continui a fare...quello che stavi facendo.»

Lucas schiuse le labbra per replicare, poi però si voltò. Confabulò qualcosa di incomprensibile con qualcuno, poi si voltò con espressione mesta. «Senti, io...»

«Cos’è quella faccia?» lo interruppe Dominick guardandolo perplesso.

Lucas sospirò, poi biascicò tutto d’un fiato. «Non posso aprirti, mi dispiace.»

Dominick sgranò gli occhi. Sentire quella risposta fu come se Lucas gli avesse appena rovesciato addosso un secchio d’acqua ghiacciata. «Che...che significa che noi puoi? Cazzo amico, sono nella merda! Aiutami solo per questa sera, poi mi sdebiterò, te lo giuro!»

Lucas scosse la testa. Sembrava davvero dispiaciuto, ma rimase comunque impassibile. «Scusa Dom...ma proprio non posso farlo.»

Dominick ascoltò interdetto il suo migliore amico piantarlo in quel momento. Non poteva crederci. Non voleva crederci. Lucas era uno dei pochi, se non l’unico al di fuori di Hester, con cui riusciva a parlare, di cui credeva sempre di potersi sempre fidare. Invece lo aveva appena fottuto. La delusione e l’incredulità vennero presto sostituite dalla rabbia. Giurò a sé stesso che se avrebbe rivisto la luce del giorno lo avrebbe ucciso, subito dopo essere andato da Hester, ovviamente.

A tal pensiero, realizzò cosa doveva fare. Afferrò di nuovo il cellulare e cominciò a pigiare sullo schermo. A quel punto, doveva farlo. Doveva risentire la sua voce, dirle almeno che gli dispiaceva. Un’ultima volta, per precauzione. Dirle che se non sarebbe arrivato al giorno dopo, lo avrebbe fatto portandola nel suo cuore.

Lucas lo vide col capo chino sul telefono e inarcò un sopracciglio. «Ma che fai?»

Dominick alzò la testa dal display e lo fulminò con lo sguardo. «Chiamo Hester, l’unica persona di cui posso ancora fidarmi in questo posto di merda!»

L’altro sbiancò di nuovo. «C-Cosa?»

«Vaffanculo Lucas. Prega che io muoia questa sera, perché altrimenti domani sarai carne trita!» esclamò Dominick mentre cercava il numero di Hester nella rubrica.

«Se vuoi posso sparargli adesso.» commentò François, che fino a quel momento era rimasto in disparte, ad ascoltare lo scambio di battute tra i due ragazzi. Provò anche pena per Dominick. Era appena stato tradito dal suo amico, oltre che aver litigato con la sua ragazza. Ecco chi era quella Hester.

Lucas deglutì spaventato, ma Dominick scosse la testa. «No, ci penserò poi io a lui.»

François annuì, in parte anche divertito. «Ok allor...»

Non finì mai la frase. Da un vicolo poco lontano da lì sbucarono una mezza dozzina di uomini armati. Localizzarono subito il francese e il ragazzo, puntarono le armi e cominciarono ad urlare come impazziti.

Nello stesso momento, Dominick aveva appena telefonato ad Hester.

Accadde tutto in un lampo.

Dalla stanza di Lucas provenne il trillo di un telefono, seguito immediatamente da diverse imprecazioni, provenienti dallo stesso ragazzo e una voce femminile alquanto famigliare. Dominick strabuzzò gli occhi, ma non poté pensare a nulla che in strada si scatenò il pandemonio.

«Oh cazzo!» esclamò François mentre apriva il fuoco con il suo mitra, indirizzandolo verso i sei uomini.

Lucas urlò e abbassò la tapparella di ferro, isolando sé stesso, la sua compagna e quel fottutissimo trillo del telefono. Trillo cominciato non appena aveva telefonato ad Hester.

«Ragazzo, via da qui!» lo chiamò François tirandolo per la giacca, mentre impugnava con una sola mano il mitra per sparare.

Il rumore delle canne delle armi che esplodevano risuonarono per tutta la strada, riecheggiando lontani come boati. Le fiammate colorarono l’ambiente immerso nella penombra. Il proiettili fischiavano a pochi centimetri dalle orecchie dei due.

François continuò a sparare, più che altro il suo fu fuoco di soppressione, fatto per far correre al riparo i sei che cercavano di assalirli. Tirò di nuovo Dominick per la maglia. Il ragazzo, ormai in una dimensione a sé stante, cominciò a seguire di corsa François. Ma nemmeno se ne stava rendendo conto. Correva per inerzia, con uno sguardo vitreo negli occhi, mentre ripensava a cos’ avesse appena visto e assistito.

Si infilarono in un vicolo e cominciarono a correre a perdifiato.

«Ragazzo, tutto bene?» domandò François. Un po’ si riferiva allo scontro appena avuto, temendo che si fosse ferito, ma correva, perciò non doveva essere rimasto coinvolto fisicamente. Ciò non si poteva dire per quello che sicuramente stava accadendo nella sua testa. Anche lui aveva sentito il trillo di quel telefono provenire dalla camera di quel Lucas. Non ci voleva certo un genio per capire come stavano le cose.

«Io...io...» borbottò Dominick sommessamente. «Io...»

Cazzo...poveretto... pensò François mentre lo sentiva rantolare in quel modo.

Non giunse nessuna risposta dalla bocca del ragazzo. Continuarono a correre per la fitta rete di vicoli, per trovare un posto sicuro in cui riposare e raccogliere le idee.

 

***

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 9  ore e 58 minuti

Thia non aveva lasciato la mano di Mary per nemmeno un secondo. L’aveva seguita obbediente senza protestare lungo quei vicoli bui, angusti e puzzolenti.

L’aria fredda le sferzava i capelli, i polmoni le bruciavano, per via di quella lunga corsa estenuante. Lei non era abituata a certe cose, ma ciò non le impediva certo di non stare al passo con la donna. In primis, non voleva rallentarla, apparire come un peso. E poi c’era in ballo la sua vita. Avrebbe corso fino a quando il cuore non le fosse esploso nel petto, poco ma sicuro.

Innumerevoli lacrime scivolavano lungo le sue guancie, un po’ dovute alla paura, un po’ all’emozione dovuta all’essere ancora viva, ma soprattutto lontana da Greg e David. Il sangue fresco gocciolava dal taglio sulla sua guancia, causato da una scheggia di vetro che le si era conficcata a seguito dell’impatto con quel pulmino. Per fortuna lei e Mary non si erano fatte nulla di grave, non erano nemmeno svenute. Ciò non si era potuto dire di Greg e David. Entrambi aveva sbattuto violentemente la testa, causando la perdita di sensi di Greg e quasi sicuramente la morte di David.

Certo, a Thia quei due erano dei porci schifosi e non le erano assolutamente piaciuti, però comunque un po’ aveva provato pena per loro, per David soprattutto. Era un essere orribile, che pur di avere Mary l’aveva rapita insieme a lei, però era pur sempre un uomo. Non meritava di morire.

Mentre Greg invece...a lui forse era toccata una fine ben peggiore, visto che quel ragazzo lo aveva portato da quegli uomini. Chissà cosa gli avrebbero fatto.

A proposito di quel ragazzo, Kevin se non ricordava male.

Perché le aveva aiutate? Perché aveva poi portato via Greg, se non aveva brutte intenzioni? Da che parte stava? Ma soprattutto, che ci faceva con tutti quegli uomini?

Non lo sapeva, sapeva solo che a lui molto probabilmente doveva la vita. E se mai lo avesse rivisto, cosa molto poco probabile, lo avrebbe ringraziato con tutto il cuore.

Ma per il momento, l’unica cosa che lei e Mary dovevano fare era sopravvivere.

Anche Marianne stava pensando le stesse cose. Avrebbe protetto Thia a tutti i costi, fino a quando non sarebbero riuscite a trovare un posto sicuro in cui stare. Tornare a casa loro era fuori discussione, visto che non avevano nemmeno più la porta. Chiunque sarebbe potuto entrare.

Per fortuna, aveva mantenuto una delle promesse che le aveva fatto, cioè che l’avrebbe salvata da Greg e David. Sì, insomma, era in realtà stato tutto merito di Kevin, però dopotutto era stata lei a liberarla dalle fasce e a toglierle la benda da davanti alla bocca.

Non si sarebbe mai e poi mai dimenticata l’abbraccio che loro due si erano scambiate una volta libere.

Thia si era tuffata su di lei e aveva sepolto il volto sotto il suo mento. Aveva cominciato a singhiozzare e a mormorare quanto fosse felice di essere ancora viva e inviolata. Ma soprattutto felice che anche lei stesse bene. le aveva ribadito che non l’avrebbe potuta odiare per nulla al mondo, che era la sua nuova famiglia e che sarebbero state insieme per sempre.

Marianne, con le lacrime agli occhi, aveva ricambiato l’abbraccio, stringendola a sé quasi con forza, ma non era riuscita a fare altrimenti. Gli era uscito naturale cercare di infonderle quanto più amore materno possibile.

Dopo quel breve ma intenso attimo di riconciliazione, erano scese a passo felpato dalla macchina. Avevano visto Kevin in compagnia di quel gruppo di uomini, gli avevano entrambe rivolto un ringraziamento silenzioso, poi erano sgattaiolate via. Avrebbero voluto cercare di aiutarlo in qualche modo, visto che sembrava incasinato tanto quanto loro, ma purtroppo non c’era niente che potessero fare. Erano due donne, disarmate, fatta eccezione per la pistola semiscarica che Kevin aveva lasciato a Marianne, mentre quelli erano una ventina di bruti dotati dei peggiori fucili. Avrebbero fallito prima ancora di cominciare, se avessero cercato di aiutarlo. E poi, per lo meno, finché era in loro compagnia era al sicuro dai pericoli dello Sfogo. Certo, a quelli sarebbe bastato un momento storto per ucciderlo, perciò coloro che lo avrebbero protetto, potevano anche essere i suoi assassini, ma non si può prestare attenzione a tutte queste minuziosità. Lui era con loro, le due invece erano da sole e dieci volte più a rischio. Per questo Marianne non aveva smesso di correre per un solo istante, mentre Thia arrancava dietro di lei.

Non seppe quanto a lungo corsero, ma doveva essere già un bel po’.

«Ci siamo quasi Thia, giriamo ancora un paio di angoli, poi ci fermiamo a riposare, ok?» rassicurò, intuendo che per Thia quella corsa dovesse essere estenuante.

«Va...va bene...» annaspò l’altra, la quale non poteva certo negare la sua riluttanza nel rimanere in vicoli come quelli. In un posto molto simile, anzi, pressappoco identico, aveva perso l’ultimo componente rimasto della sua famiglia. Ogni cosa che guardava, ogni porta chiusa, ogni scala antincendio, ogni grondaia, ogni tombino e ogni cassonetto, riportavano a galla nella sua mente orribili ricordi. Ricordi che cercava in tutti i modi di esiliare dalla sua mente, senza però riuscirci. Dopotutto, erano passati solo due anni da quando tutto aveva avuto inizio.

Entrambe girarono l’angolo. «Va bene Thia, ci siamo quas...»

Marianne non terminò la frase. Due figure indistinte apparvero dal nulla. Le due vi si schiantarono contro violentemente.

Vi furono urla di sorpresa e gemiti di dolore. Una delle due macchie indistinte cadde a terra, l’altra barcollò, ma rimase in piedi.

Thia e Marianne, la cui più fisicamente grande corrispondeva alla più piccola degli altri due, caddero entrambe a terra.

Marianne lenì il dolore alla testa massaggiandosela, poi sgranò gli occhi quando si rese conto di cos’era appena successo. Alzò di scatto la testa e vide i due con cui si era schiantata. Erano due uomini, anzi, non proprio.

Quello caduto a terra come loro era un ragazzo, doveva avere l’età di Thia. Si stava massaggiando la testa a sua volta e fissava sbigottito prima lei, poi Thia.

L’altra figura era un uomo molto grosso e robusto, con un folto paio di baffi a manubrio. Sembrava ancora stordito dalla botta, ma era comunque rimasto in piedi. E aveva un’arma in mano.

I quattro di guardarono tra loro reciprocamente, con movimenti fulminei del capo. Gli occhi di Thia per poco non schizzavano fuori dalle orbite. Anche il ragazzino era atterrito. Marianne era un po’ più sicura, ma la visione di quell’uomo armato la inquietava abbastanza. Solo quest’ultimo non sembrava intimidito dalle due ragazze, non che ci fossero dei fattori ad imporgli il contrario. Era grande, grosso e armato, di cosa doveva avere paura?

Vi fu un attimo di silenzio carico di tensione. La si poteva tagliare col coltello.

Poi Thia e il ragazzo cominciarono ad urlare all’impazzata, facendo sobbalzare Marianne e l’uomo, che cominciarono a darsi da fare per calmare i rispettivi compagni.

 

 

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Capitolo 10
*** Amici e nemici ***


Capitolo

X

Amici e nemici

 

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 9  ore e 55 minuti

Marianne tentò in tutti i modi di calmare Thia. Inginocchiata davanti a lei, le prese il volto fra le mani e la costrinse a guardarla, per poi sussurrarle implorante: «Thia, Thia calmati, ti prego!»

Nulla fu più efficace degli occhi smeraldo della donna per calmare la ragazza, che decise di obbedire solo per fare un favore a quella donna a cui doveva praticamente la vita.

François non fu altrettanto accomodante. Per calmare Dominick gli sferrò un sonoro ceffone. «Contieniti ragazzo!» ordinò bruscamente, con la stessa autorità di un generale dell’esercito.

«AHIA!» protestò Dominick con la guancia in fiamme, riuscendo finalmente a smettere di urlare, senza però non riuscire a non pensare a come si sarebbe fatto chiedere scusa dall’uomo per averlo colpito in quel modo.

Ma non appena la calma tornò, i ragazzi si ricordarono del motivo per cui avevano cominciato ad urlare. Gli occhi di Thia e Dominick si inchiodarono gli uni sugli altri. Da entrambe le attonite coppie di iridi fuoriusciva sbigottimento  a fiumi. Entrambi rimasero immobili, col respiro pesante, a studiarsi a vicenda, troppo affannati per poter perfino cogliere qualunque dettaglio dei loro volti, fuorché gli occhi apparentemente spaventati, che però potevano nascondere una minaccia.

Lo stesso fecero François e Marianne, con l’unica differenza che i due erano armati. Con un gesto scattante delle braccia, si puntarono contro le rispettive armi, quasi all’unisono. Dominick e Thia, fino a quel momento rimasti seduti a terra, si rimisero in piedi e si nascosero dietro i rispettivi compagni, sperando che fossero loro a risolvere la situazione.

Thia si fidava ciecamente di Marianne, sapeva che era una donna forte, con un grande carisma, che sarebbe sicuramente riuscita a farsi valere e l’avrebbe salvata, poco ma sicuro. Lo Sfogo aveva portato via fin troppe cose da loro due, non erano intenzionate a perderne ancora per colpa di un omaccione con un ridicolo paio di baffi e di un ragazzino come tanti.

Dominick, dal canto suo, pensava più o meno le stesse cose su François. Aveva visto di cos’era capace in quell’asta maledetta, avrebbe fatto il culo a quelle due pazzoidi che giravano di notte durante lo Sfogo, poco ma sicuro.

Prima di fare qualsiasi cosa, però, François esitò. Non lo fece perché quelle di fronte a lui erano delle donne, durante lo Sfogo perfino un bambino potrebbe ucciderti. No, lo fece semplicemente perché quella che impugnava la pistola ancora non gli aveva sparato. Poteva voler dire un milione di cose, quel gesto. Magari era solo per farli abbassare la guardia, magari l’arma era scarica. Non poteva saperlo. Sapeva però che, nella maggior parte dei casi, quelli che non ti sparano a sangue freddo durante lo Sfogo, lo fanno perché non vogliono purificarsi. Assottigliò lo sguardo per esaminare meglio le due. Una cosa che subito saltò ai suoi occhi era la bellezza di entrambe. Della donna che impugnava la pistola soprattutto, malgrado i suoi lunghi capelli la coprissero su buona parte del volto. Ma ciò comunque non faceva che renderla più misteriosa, più attraente. Poi notò le loro ferite, i loro graffi e il sangue secco che copriva parte dei visi di entrambe. Gli ricordarono immediatamente il ragazzo che aveva accanto a lui. Anche Dominick era ferito, graffiato, con un taglio sulla fronte ancora ricoperto da sangue rinsecchito. A quel punto capì senza troppe difficoltà che quelle due non si trovavano per strada durante lo Sfogo per ammazzare qualcuno, quanto più perché costrette. Magari non avevano una casa, o ne erano rimaste chiuse fuori. Magari loro due, proprio come Dom aveva fatto con lui, si erano incrociate per caso e avevano deciso di stringere i denti insieme.

Abbassò il fucile, sorridendo impercettibilmente, colpito da quelle due e dalla loro resistenza. Dominick lo vide compiere quel gesto e partì alla carica. «Che cavolo stai facendo, non...»

«Sono innocue, Dom. Calmati» rassicurò l’uomo, prima che il ragazzo cominciasse a parlare a vanvera.

«Cosa?» domandò il ragazzo sbigottito, chiedendosi  per quale razza di motivo François potesse considerare innocuo qualcuno che puntava loro una pistola, ma l’uomo lo ignorò e si sporse verso le due. «Che ci fate qua fuori?» domandò loro.

Marianne e Thia si lanciarono due occhiate perplesse, sorprese entrambe dal comportamento dell’uomo e dal suo scambio di battute col ragazzo. Dopodiché, Mary decise di abbassare la pistola e di fare da portavoce per le due, il tutto, però, con una certa titubanza: «Siamo...siamo state rapite. Volevano...» si interruppe prima di entrare nei particolari, rabbrividendo. Inspirò e proseguì: «Ma siamo riuscite a scappare...»

«Non volete purificarvi, dunque?» indagò ulteriormente l’uomo.

Entrambe scossero la testa. Marianne si mise in piedi e aiutò la ragazza a fare lo stesso. «Cerchiamo solo di sopravvivere» concluse senza guardarli.

«Voi?» domandò Thia, intuendo, come la donna, che quei due non avrebbero fatto loro alcun male. In fondo, il ragazzo accanto all’uomo sembrava avere la sua stessa età, nonché le medesime condizioni e il medesimo aspetto sconvolto, ferito e spossato. E poi quell’omaccione avrebbe potuto sparare loro con molta facilità già da un pezzo. Dal momento stesso in cui lui aveva puntato loro il mitra avrebbe potuto sancire la loro vita o morte, ma non l’aveva fatto. Anzi, aveva detto al suo compare, che invece sembrava molto più paranoico – ma forse era per via della paura – che loro due erano innocue. Thia fu sollevata di incontrare, dopo di Kevin, altre persone con un po’ di sanità mentale. Anche se il ragazzo non le sembrava proprio a posto. Si era messo all’improvviso a fissare il vuoto di fronte a sé, con sguardo vitreo.

«Io sto aiutando questo qui a non tirare le cuoia» rispose François accennando a Dominick, che sentendosi chiamato in causa ritornò con i piedi per terra.

«Ehm...sì...ehm...» brontolò il ragazzo, non sapendo nemmeno con esattezza su cosa avesse appena concordato.

«Che...che significa?» domandò Marianne confusa.

François scosse la testa. «Lascia perdere. Facciamo così, noi proseguiamo per la nostra strada, voi per la vostra e chi si è visto si è visto, va bene?» Non attese nemmeno la risposta di una delle due. Afferrò Dominick per una spalla e lo trascinò via. «Buona fortuna» aggiunse, prima di avviarsi per proseguire il suo tour dei vicoli.

Thia e Marianne rimasero a fissarli stranite. L’attenzione di Thia fu catturata dal ragazzo, che si lasciava trascinare quasi senza accorgersene dall’uomo. Avanzava per inerzia e sembrava insofferente verso il mondo intorno a lui. Era estraniato dentro una sua bolla. Una bolla che scoppiava ogni volta che qualcuno si rivolgeva a lui e che riappariva alla prima occasione. La ragazza inarcò un sopracciglio. Che ci faceva quel fuori di testa insieme a quel francese armato e tutt’altro che rassicurante?

Marianne invece stava meditando su tutt’altra cosa. Lei e Thia erano imprigionate lì fuori. Quell’uomo stava proteggendo quel ragazzo e non voleva fare loro del male. Lei e Thia non avevano nessun posto sicuro dove andare. L’uomo se ne stava andando. Lei, per quanto avrebbe voluto, temeva che non sarebbe riuscita a fare lo stesso con Thia. A quel  punto, capì cosa, forse, era meglio fare.

Aprì bocca per chiamarlo, ma il suono di un veicolo che si arresta bruscamente sferzò l’aria all’improvviso. Lo stridore di freni, seppur lontano, giunse alle orecchie di tutti e quattro. L’uomo si arrestò di colpo, mentre il ragazzo vacillò per un momento, ancora isolato nella sua bolla. Si sentirono voi riecheggiare tra le mura fetide di quell’ambiente, risate, schiamazzi, rumore di passi, di corsa, più che altro. Marianne e Thia persero ogni traccia di colore dai propri volti, mentre avvertivano quelle presenze farsi sempre più vicine, cattive e minacciose. Sicuramente era qualche gruppo di uomini a caccia di vittime.

«Dominick!» urlò François al suo compagno, per farlo ridestare dal suo stato di trance, dovuto all’orripilante scoperta che aveva fatto poco prima e che probabilmente lo avrebbe tormentato a vita. Anche l’uomo aveva sentito quello stridore e aveva realizzato che era meglio andarsene da lì e al più presto.

Il ragazzo sussultò, sbatté più volte le palpebre, poi lo guardò con aria intontita. «Sì?»

«Dobbiamo correre, ora!» ordinò l’uomo.

Solo a quel punto il ragazzo sentì a sua volta i preoccupanti rumore che avevano mandato in ansia il suo compagno d’avventure. Sbiancando a sua volta, annuì ed entrambi partirono per la direzione opposta alla quale provenivano i rumori.

«Andiamo Thia!» fece eco Marianne prendendo la ragazza per mano e iniziando a correre a seguito dei due. Thia capì il motivo di quella scelta. E non poteva trovarsi più d’accordo.

François si accorse delle due donne a suo seguito e vide con quella con i capelli neri, che lo aveva affiancato nel giro di pochi secondi. Era molto più atletica di quanto non desse a vedere. Perfino la ragazzina se la cavava, restando al passo con Dominick, il quale però si stava trattenendo parecchio per poter seguire l’uomo.  Con il fiato pesante per via dello scatto improvviso, arrischiò una conversazione con lei: «Che stai facendo? Perché ci seguite?»

Qualcuno dal fondo del vicolo urlò. Li avevano trovati. Il gruppo allora girò immediatamente l’angolo per cercare di far perdere le proprie tracce. Avvertirono degli spari lontani, fischiare dietro di loro mentre, però, si trovavano già al sicuro. Ciò non impedì a Thia di lasciarsi scappare un grido di spavento e un imprecazione piuttosto colorita di Dominick.

«Pensavo che...» iniziò a spiegare Marianne, ansimando lievemente a sua volta. «...tu saresti stato più bravo di me a scappare da quei tizi...»

François roteò gli occhi. «Oh, grandioso! Adesso devo fare da babysitter a ben tre persone!» sbottò adirato, anche se, in fondo, non poteva pienamente biasimare la scelta di loro due. L’unione fa la forza, si dice. E nella notte dello Sfogo, la forza era ciò che più faceva comodo, per arrivare al mattino successivo.

«Ehi, se vuoi io e Thia ce ne andiamo, ma lo faremo solo quando saremo lontani da quei pazzi che ci inseguono!» ribatté la donna nel frattempo, senza tracce di sarcasmo o altro nella voce.

«La tua amica si chiama Thia? E il tuo nome qual è?» indagò François mentre giravano l’ennesimo angolo. Se proprio doveva averla tra i piedi, almeno voleva sapere come si chiamava.  E poi parlare in quel modo tranquillo gli faceva quasi dimenticare che stava scappando da qualche pazzo tagliagole. Non aveva paura, sia chiaro, però era meglio evitare gli scontri, per quanto possibile. Doveva risparmiare energie per le aste alle quali avrebbe partecipato non appena fosse riuscito a scaricare Dominick.

«Marianne» rispose intanto la donna. «Il tuo?»

«François.»

«Beh, François, lieta di fare la tua conoscenza in questa situazione di merda...» brontolò Marianne, con fiato sempre più pesante.

François riuscì a ridacchiare, quasi non sembrava che stesse venendo inseguito da qualche pazzo maniaco. «Piacere mio...»

Dietro di loro, Dominick e Thia non sembrarono aver trovato la stessa scioltezza, perché correvano uno di fianco all’altra nel silenzio più totale. Uno ancora troppo inebetito dagli ultimi eventi, l’altra troppo spaventata dagli inseguitori per riuscire a trovare la forza di parlare con qualcuno.

I quattro proseguirono la loro rincorsa alla salvezza lungo quei vicoli angusti. François guidava il gruppo, dando più fondo al suo istinto che alla sua scarsa conoscenza della planimetria dei vicoli della città. La sua unica speranza era quella di non finire in un vicolo cieco o trovarsi con le spalle al muro. Ma qualcosa gli suggeriva che, con due rompiscatole in più, le cose si sarebbero complicate, anziché semplificarsi. E Dominick non sembrava essersi ancora ripreso dall’incontro con Lucas. A quel punto, sperò anche che Marianne fosse una donna in gamba e che non si rivelasse un peso. Anche se, per il momento, non aveva ancora dato l’impressione di essere un’incapace. Tutt’altro. Se avesse continuato di quel passo, sarebbero andati d’amore e d’accordo, perlomeno fino a quando François non avesse trovato il modo per scaricarli e proseguire la sua opera di pulizia delle aste.

Girarono l’ennesimo vicolo e si trovarono di fronte ad una rete. François si bloccò, poi guardò prima Thia, poi Marianne, chiedendo loro mentalmente se sarebbero riuscite a scavalcarla. Quasi immediatamente, senza dire nulla, le due si arrampicarono sulla rete con rapidità. François annuì compiaciuto e iniziò a salire a sua volta.

Dominick fece per imitarli. Piantò il piede in un buco e afferrò i bordi di altri con le mani, per poi bloccarsi a mezz’aria. I pensieri che fino al momento della corsa erano stati alla larga da lui lo schiacciarono all’improvviso. Perché scappare? Perché combattere ancora? L’ultima persona di cui si fidava lo aveva fottuto nella maniera più atroce possibile. Certo, aveva detto che tra loro era finita, ma non riusciva a credere con che velocità Hester si fosse buttata tra le braccia di Lucas. Credeva, sperava, di riuscire a rivederla entro la fine dello Sfogo, di riuscire a farsi perdonare. Di ritornare insieme a lei. Invece non c’era più. Non c’era più lei, non c’erano più i suoi genitori, non c’era più nessuno. Suo zio, forse, ma quell’uomo era l’unico che Dom avrebbe preferito sparisse. Che diavolo di senso aveva continuare? Tanto non sarebbe nemmeno mai riuscito a vendicare i genitori, codardo e pappamolle com’era. Tanto valeva restare lì, farsi catturare, uccidere, qualunque cosa, e smettere di infastidire il povero François, che aveva di meglio da fare che badare a lui. Sospirò e abbassò il piede. Rimase in piedi, immobile, a fissare gli altri tre aggirare la rete e cadere dall’altra parte.

Una volta superato l’ostacolo, François fece per ricominciare a correre, ma Marianne lo trattenne afferrandolo per un braccio. «Aspetta!»

«Cosa?» brontolò l’uomo voltandosi verso di lei, per poi vederla mentre accennava alla rete con il mento. «Il tuo amico non viene?»

François vide Dominick ancora fermo e si accigliò. «Ragazzo, che diamine stai facendo?! Sbrigati!»

Dominick scosse appena la testa. «E che senso ha?» borbottò quasi impercettibilmente. «Ormai posso anche morire...non so nemmeno perché sono arrivato fin qui con voi...non ho più alcun motivo per continuare a resistere...»

François non credette alle proprie orecchie. Poteva benissimo immaginare che Dom fosse giù di morale, ma fino a quel punto? Mai più. «Non dire idiozie, Dom! Non ho rischiato il culo per salvarti solo per poi vederti morire così! Scavalca la rete e sbrigati!» cercò di farlo ragionare.

Dominick rimase immobile. Non sembrava quasi averlo sentito. Aveva lo sguardo basso e sembrava non volesse alzarlo. «Andate avanti senza di me. Sarei solo un peso.»

«Dom...» provò a dire François un’altra volta, per poi interrompersi. Non era un mago nei discorsi di incoraggiamento. Sapeva che Dom ne aveva bisogno, ma l’uomo non trovava nessuna parola utile alla situazione.

Marianne fissò il ragazzo perplessa, domandandosi cosa potesse essergli successo che lo avesse spinto al punto da volere la morte. Magari lo Sfogo gli aveva portato qualche caro...una sensazione che Mary conosceva fin troppo bene. Anche lei non credeva che sarebbe riuscita ad andare avanti dopo l’omicidio del marito. Poi, però, aveva incontrato Thia. A quel pensiero, sgranò gli occhi e vide la ragazzina alla sua destra. Aveva la stessa espressione furente, seria e decisa che l’aveva caratterizzata due anni prima, quando si erano incontrate. E, questa volta, la stava puntando esattamente verso di Dominick.

Thia odiava, odiava, quelli che si comportavano come Dominick. Quelli che dicevano di volerla far finita solo perché postumi da dei traumi. Quelli che credevano che la vita potesse essere buttata via solo perché si trovavano in un brutto momento di essa. Come se dopo quel brutto momento non potessero arrivarne altri di migliori.

«Ma che diavolo stai dicendo?!» inveì. Malgrado fosse la prima volta che si rivolgeva al ragazzo, fu decisamente poco garbata. «Scavalca la rete, razza di ebete!»

Dominick sgranò gli occhi e alzò la testa, per poi fissare con sguardo raggelante Thia. «Come, prego?»

Thia strinse i pugni e si sporse verso di lui. «Hai sentito, non fare il piagnone e scavalca questa dannata rete!»

«Credi di potermi dare ordini?» domandò minaccioso il ragazzo, avvicinandosi a lei a sua volta.

«Non voglio darti nessun’ordine, voglio solo farti capire che la tua decisione è la più colossale cazzata che tu probabilmente abbia pensato!» ribatté Thia avvicinandosi ulteriormente. Ora erano faccia a faccia, a pochi centimetri di distanza, separati solo dalla rete.

«E tu che ne sai?» indagò ulteriormente lui, infastidito.

«Ne so abbastanza per poterti dire che la vita è un dono e che non va sprecata solo perché sei triste!» proseguì lei decisa. «Ho capito cosa ti sta succedendo, sai? Ho capito perché vuoi farla finita!»

Dominick fece una smorfia. «Ma per piacere, tu non puoi capire...»

«Oh, sì che posso!» esclamò lei alzando la voce, facendo temere a Mary e François che i loro cercatori potessero sentirli. «Posso eccome! Non ho idea di cosa ti sia successo con esattezza, vero, ma non pensare anche solo per un momento che io non abbia mai sofferto in vita mia! Non pensare che il dolore per la perdita di un mio caro non sia quasi stato tale da spezzarmi in due, come sta succedendo a te. Non. Osare. Pensarlo.» Sferzò l’aria con un braccio e i suoi occhi si inumidirono. «Io ho perso tutto. TUTTO! Eppure guarda, sono ancora qui, e combatto per poter salvare il poco niente che mi è rimasto! Sto cercando di andare avanti, di lasciarmi il passato alle spalle!» Lei non aveva più la sua famiglia. Nessuno. Suo fratello, l’ultimo rimasto, era morto di fronte a lei due anni prima. Credeva che non sarebbe riuscita ad andare avanti. Ma poi aveva reagito, aveva lottato. E aveva incontrato Mary. E la sua vita aveva di nuovo preso una piega felice.

Nel frattempo l’espressione di Dominick non mutò affatto, mentre la ragazza lo travolgeva con le sue parole: «Io VOGLIO vivere! Anche se ho perso le persone più care che avevo, sono andata avanti! E ne ho trovate altre, per cui valeva la pena vivere! Solo perché sei un po’ giù di morale, non significa che tu debba farti ammazzare! E adesso scavalca questa maledetta rete!»

Finalmente, qualcosa sembrò smuoversi dentro al ragazzo, perché distolse lo sguardo da lei e assunse l’aria di uno che stava rimuginando su qualcosa.

«Ti muovi?!» lo incalzò ulteriormente Thia, stanca del comportamento idiota di Dominick. «Se non scavalchi la rete giuro che ti trascino da questa parte per le orecchie!»

Dominick digrignò i denti. «SÌ, SÌ, ho capito!» Afferrò la rete con un gesto rabbioso, puntò i piedi e nel giro di poco tempo riuscì a raggirarla.

François e Marianne fissarono sbigottiti il ragazzo compiere quel gesto, sorpresi da come Thia fosse riuscita a persuaderlo. C’era voluto un po’ di tempo, e maniere un po’ grezze, ma alla fine era  riuscita a far ragionare il ragazzo. François fu colpito dalla ragazzina. Aveva molta più grinta di quanto quel suo visino gracile desse a vedere.

Dominick nel frattempo saltò giù dalla rete, guardando Thia. «Razza di rompipalle che non sei altro! Ti conosco da cinque minuti...» Atterrò accanto a lei con un pesante tonfo. Si mise in piedi e spolverò la giacca, poi concluse la frase avvicinando di nuovo il volto a quello della ragazza e rivolgendole un’altra occhiataccia. «...e già mi hai scartavetrato i coglioni!»

Thia assottigliò le labbra e ricambiò lo sguardo di sfida del ragazzo, per nulla intimidita. «E tu sei...»

«Thia, basta» la interruppe Marianne trascinandola via da Dominick.

«Anche tu Dom, falla finita» brontolò François afferrando il ragazzo per la giacca.

I due ragazzi non si ribellarono, ma si rivolsero un’altra occhiata furente. E, non appena realizzarono che quello era l’inizio della loro collaborazione, ad entrambi venne la nausea. Evitando molto attentamente di non guardarsi più tra loro, ripresero a correre a seguito di Mary e François, sperando di non incrociare altri problemi lungo il tragitto.

 

***

 

Tempo rimanente alla fine dello Sfogo Annuale: 9  ore e 21 minuti

Consegnare quell’uomo alla fine non era stato poi così traumatico, per Kevin. Dopotutto, Troy gli aveva semplicemente sparato in testa, poco soddisfatto. L’uomo voleva una vittima degna di un uccisione di classe, quel tizio mezzo morto che Kevin gli aveva portato non entrava nei giusti parametri. Un’altra conferma per Kevin di quanto Troy fosse fuori di testa.

Sospirò esausto, abbandonando la testa contro la parete dietro di lui, sempre su quel pulmino scolastico. Navigò fra le tasche e trovò il suo pacchetto di sigarette. Lo estrasse e lo aprì, per poi prenderne una. Solo quando se la mise in bocca, però, ricordò che aveva ceduto il suo stupendo clipper pagato un dollaro a quella donna, Marianne. O Mary. Un pensiero che lo faceva sorridere e storcere il naso contemporaneamente. Sorridere perché per lo meno aveva salvato quella donna e la sua amica, storcere il naso perché, per l’appunto, non aveva più modo per accendere la sigaretta che stringeva tra le labbra. Sospirò di nuovo e si guardò intorno, per poi vedere ciò che faceva al caso suo, un uomo che gettava un mozzicone fuori dal finestrino. Sicuramente era un fumatore e, perciò, doveva avere un accendino.

Si alzò dal suo posto e si avvicinò a lui. Era un po’ titubante all’idea di rivolgersi ad uno di quei brutti ceffi, però si ricordò che nessuno di loro praticamente lo considerava. Inoltre era sotto l’ala protettrice di Troy, senza considerare il fatto che, quando aveva portato quell’uomo semisvenuto da loro, aveva inventato la balla di averlo steso con un pugno e ciò spiegava il suo stato. Stranamente gli avevano creduto, perciò era anche passato per un duro, ai loro occhi. Pertanto non doveva preoccuparsi troppo di come lo avrebbero trattato. Quel tizio gli avrebbe prestato l’accendino senza neanche guardarlo. Si avvicinò e richiamò la sua attenzione toccandolo appena su una spalla. L’uomo, stravaccato per terra e con lo sguardo assente, grugnì e spostò gli occhi su di lui.

Kevin si inginocchiò accanto a lui, mimando il gesto dell’accendono davanti alla sua sigaretta ancora premuta fra i denti. «Non è che hai l’accendino?»

L’uomo lo soppesò con lo sguardo per un attimo, poi sogghignò mostrando due stupende file di denti marci. Gli strappò la sigaretta di bocca e la pinzò con i suoi incisivi gialli, dopodiché tirò fuori il leggendario oggetto e si accese la sigaretta di Kevin davanti ai suoi stessi occhi. Il ragazzino lo guardò sbigottito, ma non disse nulla. Non appena l’uomo finì di accendersi la sua "nuova" sigaretta, passò l’accendino a Kevin con un sorriso sbilenco. Kevin lo prese, sentendosi preso per i fondelli, a dir poco. Ma decise di non protestare. Era solo una sigaretta, aveva ancora il pacchetto mezzo pieno. Lo tirò nuovamente fuori e lo aprì, per prendersene un’altra. Non lo avesse mai fatto. Aprendo quel pacchetto lì in mezzo ottenne la stessa reazione che avrebbe ottenuto se fosse stato un toast gigante circondato da piccioni affamati. Nel giro di tre secondi si ritrovò addosso uno stormo di uomini che gli fregarono una sigaretta dietro l’altra. Kevin venne travolto dall’orda e non riuscì a capire nulla. Non appena la sua vista tornò nitida, riuscì a vedere tutti gli uomini guardarlo divertiti, chi sogghignando chi ridendo, ognuno con una sigaretta stretta tra i denti. Ancora intontito, Kevin abbassò lo sguardo e vide il suo pacchetto trasformato da mezzo pieno a mezzo vuoto. Normalmente avrebbe dato i numeri. Odiava anche solo offrire le sigarette ai suoi compagni di classe, figurarsi vedersi svuotare il pacchetto da sotto il naso. Ma ovviamente l’idea di trovare qualcosa da ridire non gli sfiorò neanche la mente. Prese un’altra sigaretta e se la mise fra le labbra, l’accese più in fretta che poté, restituì l’accendino e si affrettò a togliersi dai piedi, prima che accadessero altre cose spiacevoli.

Non appena tornò al suo posto cercò d rilassarsi, coccolato dal fumo che gli entrava nei polmoni e lo inebriava. Sapeva che faceva male, ma non poteva farci nulla. Se proprio fumare lo avrebbe ucciso, allora sarebbe morto facendo ciò che amava. E poi ad ogni tiro di sigaretta gli sembrava che il peso del mondo gli si togliesse dalle spalle. Se c’era qualcosa che riusciva a placare tutto lo stress a cui veniva quotidianamente sottoposto, erano proprio le sigarette. Paradossalmente, quella volta il fumo gli fece tutt’altro che male. Se non avesse avuto quella sigaretta, probabilmente sarebbe rimasto a logorarsi dai dubbi e dalla preoccupazione ancora a lungo. Fu piacevole riuscire a staccare il cervello per cinque minuti, fino a quando non gettò via la sigaretta ormai ridotta ad un mozzicone. Era quasi tentato dal fumarsene un’altra – dopotutto, in mezzo a loro non sarebbe nemmeno suonato strano fumarsi due sigarette di fila. O tre. O quattro... – ma accantonò l’idea. Aveva di meglio a cui pensare. Quella pausa era stata gradita, ma non doveva dimenticarsi che se voleva arrivare vivo al mattino successivo, doveva andarsene da quel gruppo di pazzi. Certo, insieme a loro era al sicuro, ma non poteva fidarsi. Troy era pazzo, completamente. E quei tipi erano imprevedibili. E la notte era ancora lunga. Avrebbero potuto cambiare idea su di lui in qualsiasi momento e magari ucciderlo senza motivo. Un pensiero che lo faceva rabbrividire.

Dio, se penso che è tutta colpa di quel bastardo di Nicols...

Kevin sentì montare dentro di sé la rabbia. Giurò che se ce l’avesse fatta, il giorno dopo avrebbe ucciso Nicols. Letteralmente. Se si trovava lì era tutta colpa del capriccio di uno stupido ragazzino viziato. Si piantò le unghie nei palmi lasciando dei profondi segni senza neanche accorgersene.

«Ehi» salutò una voce all’improvviso, facendo trasalire il ragazzo. Si girò di scatto e vide chi l aveva salutato. Un uomo che fino ad allora era sfuggito al suo sguardo. Aveva i capelli neri e lunghi in centro, tirati all’insù, corti ai lati. Un singolare pizzetto da capra dello stesso colore dei capelli spuntava dal mento e di tanto in tanto l’uomo ci giocherellava. Aveva gli occhi marroni come quelli di Kevin e lo fissava con uno sguardo del tutto particolare. O meglio, lo era per quell’ambiente, in cui tutti quanti o non lo guardavano, o lo guardavano minacciosi. Quello invece lo fissava come qualsiasi persona con un briciolo di cuore guarderebbe un ragazzo come Kevin ridotto in quelle condizioni. Lo guardava con compassione, quasi con pena. Una cosa del tutto nuova per Kevin, quella notte.

«Sei Kevin, dico bene?» domandò l’uomo sedendosi accanto a lui.

Kevin lo fissò sbigottito, trovando la forza solamente per annuire. L’uomo sorrise e tese una mano. «Io sono Rick, piacere di conoscerti.»

Kevin esitò. Non sapeva cosa aspettarsi da quell’uomo. Poi, però, notò il suo sorriso rassicurante e, dai suoi occhi, realizzò che quella forse era l’unica persona che si avvicinava alla sanità mentale dentro quell’autobus. E comunque...cos’aveva da perdere? Ricambiò il sorriso e strinse la mano. «Piacere mio.»

Separate le mani, Rick cominciò a far vagare lo sguardo per l’autobus, sui suoi colleghi. «Allora...non è esattamente il luogo migliore per passare la sera, eh?»

Fu un tentativo piuttosto fiacco di smorzare la tensione, ma a Kevin andò più che bene. Annuì abbozzando un altro sorriso. «Già...uscire con una ragazza sarebbe decisamente meglio...»

Rick ridacchiò. «La prendi sul ridere, mi piace.»

«Beh, o quello, o mi metto a piangere come un bambino fino a quando qualcuno non mi apre un buco in fronte...» borbottò Kevin tornando serio, rabbrividendo di nuovo dopo quanto detto, senza però darlo a vedere.

Il sorriso svanì dal volto di Rick, che guardò il ragazzo con aria preoccupata. «Come...» cominciò a dire, interrompendosi. Studiò Kevin ancora per qualche istante, poi annuì e si decise a proseguire. «...come ci sei finito qui?»

«Dovresti chiederlo al tuo capo...è lui che ha deciso che dovevo far parte della sua cricca...» borbottò Kevin stancamente. Più pensava a come Troy lo aveva ficcato in quel casino per motivi a lui ignoti, più si sentiva esausto, nonché arrabbiato.

Nel frattempo Rick scosse la testa. «Non intendevo quello...volevo dire, cosa ci facevi in giro per i vicoli nella notte dello Sfogo? Ti sei bevuto il cervello?»

Pensare alla risposta di quella nuova domanda, causava a Kevin ancora più irritazione. Strinse di nuovo i pugni e si rabbuiò. «Uno stronzo mi ha incastrato...lui e due suoi amici mi hanno rapito, portato in centro città e abbandonato lì a poco dall’inizio dello Sfogo...»

«Oh.» Fu tutto quello che disse Rick. Probabilmente era rimasto senza parole. Certo, non capita tutti i giorni di sentire una cosa del genere. Anche se si trovavano durante la notte dello Sfogo, non dovevano trascurare il fatto che Kevin era stato rapito prima, quando ancora una simile azione era legale. Kevin fu sorpreso dalle reazioni di Rick. Gli sembrava quasi impossibile che potesse realmente preoccuparsi per lui e allo stesso tempo girare con quella banda di tagliagole.

«Tu invece?» domandò per cercare di tenere viva la conversazione, la prima vera e unica distrazione che Kevin avesse trovato fino ad allora, fuorché fumare. «Che ci fai con Troy e i suoi?»

Rick si strinse nelle spalle. «Mi servono soldi...»

Kevin inarcò un sopracciglio. «In che senso? Troy vi paga?»

«No, no...» Rick scosse la testa, con lo sguardo perso nel vuoto. Sembrava...triste. «Rapino i poveracci che incontro. Di solito non hanno molto, ma ci si accontenta...»

«Cos...perché lo fai?» indagò ulteriormente Kevin, che ancora faticava ad inquadrare bene l’uomo che aveva davanti.

Rick sospirò. «Ho...molti debiti da saldare. Anzi...la mia famiglia ne ha. Mi servono soldi. È un modo schifoso per procurarmene, lo so, però...non vedo altra soluzione.» Sogghignò amaramente, facendo schioccare la lingua. «Tsk...se solo qualcuno assumesse i poveracci come me, allora non sarei qui. Molte delle persone che vedi girare durante la notte dello Sfogo non lo farebbero. Ma ai ricchi conviene così...noialtri possiamo solo approfittare dello Sfogo per poter mangiare quei due o tre giorni in più...»

«Ma quindi...tu non uccidi?»

Rick scosse nuovamente la testa. «No. Non le vittime come me e te, per lo meno. Ovvio che se cercano di accopparmi rispondo al fuoco senza esitazione.»

Kevin annuì, colpito dal discorso e dalla persona che aveva davanti. Un altro come lui, uno che aborriva lo Sfogo. Che però, tuttavia, era costretto a farvi parte per poter provvedere alla famiglia, perché, altrimenti, non aveva altro modo per guadagnarsi da vivere. Sicuramente ciò che faceva Rick era sbagliato, però non poteva biasimarlo completamente. O quello, o elemosinare per strada. O farsi ammazzare durante lo Sfogo perché appartenente alla categoria dei poveri.

«Tu hai famiglia?»

Kevin annuì. «Sì...i miei genitori...» Sospirò e incassò la testa tra le spalle. Solo in quel momento si rese conto che i suoi genitori, probabilmente, stavano rivoltando il mondo da cima a fondo pur di trovarlo. Chissà cosa stavano pensando. «Staranno sicuramente morendo di preoccupazione...» disse più a sé stesso che a Rick.

L’uomo annuì, ma Kevin non vi fece caso. Era ancora troppo preso dal pensiero dei suoi genitori che rischiavano la vita per salvarlo. Quanto avrebbe voluto risentirli, per dirgli anche solo che stava bene e che non dovevano preoccuparsi. Non troppo, perlomeno. Ripensò al fatto che forse, ma proprio forse, se Troy non lo avesse sequestrato sarebbe potuto tornare a casa tempo prima. Oppure morire durante il tragitto. Ma a lui piaceva di più la prima opzione. Si voltò verso di Rick, con il volto smorto. «Tu...hai idea del perché Troy mi abbia ficcato in questo casino?»

«Non credo di saperlo...» rispose Rick con un’altra negazione con la testa, per poi accennare col capo agli uomini stipati nel resto dell’autobus. «Loro si sono fatti la stessa domanda, sai? Alcuni pensano che Troy sia fuori di testa, altri dicono che vuole tenerti come ultima vittima della notte, altri...»

«Cosa?!» domandò Kevin incredulo, sentendo l’ultima teoria. Sentì le sue gambe diventare di burro all’improvviso.

«Rilassati...» rassicurò Rick. «...sono solo loro teorie...io non le prenderei molto sul serio, dopotutto, neanche loro ci stanno molto con la testa. Io penso di essere l’unico con un minimo di sale in zucca, qua dentro. E ovviamente ci sei anche tu.»

Malgrado quelle parole, Kevin non riuscì a rassicurarsi del tutto. Un’altra cosa gli venne in mente e decise di tentare di far luce anche su quella. «Alcune volte Troy mi ha chiamato Travis anziché Kevin...hai idea di cosa possa voler dire?»

Rick si prese il mento e corrucciò la fronte. «Mh...Travis...» Meditò un attimo sulla risposta, poi alzò le spalle. «Ho già sentito questo nome, sempre dalla bocca di quelli là...» E indicò con un altro cenno gli uomini seduti che sghignazzavano tra loro. «...ma non ho idea di chi possa essere. So che riguarda Troy, però. Forse questo Travis era un altro ragazzo che, come te, Troy ha prelevato durante lo Sfogo, qualche anno fa...»

Quella risposta, per quanto potesse essere utile sotto alcuni punti di vista, non fece altro che far accapponare la pelle di Kevin. Per il fatto che, se Troy un tempo aveva avuto a che fare con questo Travis, che fine aveva fatto lui? Era morto? Troy voleva rimpiazzarlo con Kevin? Sarebbe morto anche lui? Un giorno, prima o poi, Troy avrebbe prelevato un altro ragazzo e avrebbe cominciato a chiamarlo Kevin? Sarebbe diventato tutto un unico, grande, enorme, fottuto circolo vizioso? O forse c’era qualcos’altro sotto? Qualcosa di più grosso, di più personale?

Non sapeva la risposta a nessuna di quelle domande. Probabilmente non l’avrebbe mai avuta. Non sapeva nemmeno se ringraziare Rick per essere stato così disponibile, o pentirsi di avergli posto tutti quei quesiti.

Alla fine non ebbe il tempo per fare nulla, perché l’autobus si fermò all’improvviso, facendolo sbilanciare di lato. Troy apparve dal sedile del passeggero con un’espressione folle. Spostò quello sguardo da psicopatico su tutti i presenti, poi annunciò spalancando le braccia: «Preparate i fucili, si scende!»

Rick e Kevin si scambiarono un’occhiata perplessa, poi l’uomo si alzò, dicendo: «Beh, buona fortuna ragazzo. Spero di vederti di nuovo sull’autobus alla fine di quest’altra pazzia.»

Kevin rimase ammutolito. Lo guardò allontanarsi con sguardo vitreo, poi Troy apparve alla sua visuale e lo issò in piedi. «Avanti ragazzo, diamoci da fare!»

Kevin, che da lì a poco avrebbe vomitato tutto ciò che teneva in corpo, si limitò ad annuire, preparandosi psicologicamente per l’ennesima folle scampagnata in mezzo a quelle strade piene di psicopatici.

 

 

 

Ok, dopo secoli e secoli sono riuscito a pubblicare il capitolo 10! Evviva! Scusate il ritardo, voi pochi seguite, ma ho davvero tanto altro da fare...trovare posto per questa fic sta diventando sempre più difficile...

 

 

 

 

 

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