Let's Make This Better!: Twilight

di outofdream
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** A prima vista ***
Capitolo 2: *** Libro aperto ***
Capitolo 3: *** Fenomeno ***
Capitolo 4: *** Inviti ***
Capitolo 5: *** Gruppo sanguigno ***
Capitolo 6: *** Racconti del terrore ***
Capitolo 7: *** Incubo ***
Capitolo 8: *** Port Angeles ***
Capitolo 9: *** Teoria ***
Capitolo 10: *** Interrogatori ***
Capitolo 11: *** Complicazioni ***
Capitolo 12: *** Equilibrio ***
Capitolo 13: *** Confessioni ***
Capitolo 14: *** Ragione e sentimento ***
Capitolo 15: *** I Cullen ***
Capitolo 16: *** Carlisle ***
Capitolo 17: *** La partita ***
Capitolo 18: *** La caccia ***
Capitolo 19: *** Addii ***
Capitolo 20: *** Salto nel buio ***
Capitolo 21: *** Scintilla ***
Capitolo 22: *** Alba ***
Capitolo 23: *** Un giorno - Epilogo ***



Capitolo 1
*** A prima vista ***


Nota dell’autrice: poiché questa non può essere considerata una fanfiction in senso stretto, ma è piuttosto ascrivibile alla categoria dei ‘remakes’, ci tengo a precisare che (per chi non lo sapesse), la storia NON è mia, NON ho creato io questi personaggi, né la storia o le ambientazioni, io mi baso sul libro scritto da Stephenie Meyer, ‘Twilight’ (traduzione di Luca Fusari, collana Lain Books, Fazi Editore, 2006). La mia NON è, quindi, un'opera di plagio.

P.S. - Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.

                                                                                         
                                                                                           A prima vista


Masticai una risata nervosa quando colsi quel suo sguardo triste perdersi nella ragnatela di finissime e minuscole rughe che le incorniciavano gli occhi verde acqua.
«Capisco che tu sia triste, ma mi aspettavo almeno una colonna sonora degna di questo momento», sorrisi bonaria – mia madre, davanti a me, schioccò la lingua, infastidita. Ma la curva delicata delle sue labbra screpolate mi rasserenò immediatamente. «Ah, che ariolina», sospirai, cercando di levarmi di dosso tutti quei sentimenti, provando a liberarli nel cielo terso di Phoenix. Si avvicinò a passi incerti, arrivando a scostarmi una ciocca di capelli. «Puoi rimanere, se vuoi», disse, di nuovo.
«Mamma, sì. Andrà benone».
Avrei voluto chiederle di non rendere le cose ancora più difficili e impacciate di così, ma immagino che non mi avrebbe capito. Forse si trattava soltanto di una paura solo mia, temevo che non potesse sopportarlo, che non fosse abbastanza forte per tutto quello, che ne sarebbe rimasta schiacciata e quel terrore gelido di poterla vedere scoppiare in lacrime mi faceva tremare le ginocchia.
Lanciai un’occhiata timida alla smorfia di insicurezza dipintasi sul suo volto abbronzato, a quella punta di dolore che scorgevo nel fondo dei suoi occhi profondi.
«Va bene», rispose stanca lei, sotto quel sole acceso di vita, «Fai la brava», mi abbracciò, stringendo anche quella mia vaga malinconia, stropicciando la camicia di sangallo bianca.
«Come sempre», risi.
Quel muro che cominciava a formarsi fra noi, che ci allontanava fisicamente era il distacco che principiava a farsi reale, delinearsi. Era tutto lì: le valigie, il mio impacciato modo di fare, il tenero addio che non riuscivamo proprio a cavarci fuori dalla bocca.
«Ci sentiamo, va bene?», sentii la mia voce tradire l’emozione.
«Mi raccomando».
La folla dell’aeroporto ci divise più in fretta di quanto avrei potuto immaginare – girandomi la vidi sporgersi aldilà di quel mare infuriato di colori e vestiti poi, piano e con estrema riluttanza, sparire.
Sembra quasi la fine e a me veniva da piangere.
Quanto sono stupida, pensai, vergognandomi di me stessa.
Andrà tutto bene dopotutto, rivedere papà sarà bello. Tornare a Forks, forse, un po’ meno. All’idea di rimettere piede in quel bigio agglomerato urbano, costantemente coperto da una coltre pesante di nuvole, un brivido mi salì lungo la schiena.
Forse era solo un errore, a cosa stavo rinunciando? No, forse non sarei dovuta salire davvero su quell’aereo. E papà,.. Lui avrebbe capito. Avrebbe capito, vero?
Non ero semplicemente pronta, non a quella pioggia così fine, così rada, non a tutto quel buio e freddo. Non ero pronta a tornare di nuovo in quella casa, non avevo ancora messo piede nel gate e già il sole accecante di Phoenix mi mancava immensamente, disegnava i contorni del vuoto che principiava a mangiarsi il mio cuore e a farmi pulsare di un dolore muto, acutissimo.
Provai a girarmi, in un ultimo slancio, presumibilmente dovuto al panico, l’ansia.. I ricordi. Mia madre era già scomparsa, nessun volto familiare fra la folla. Quando mi voltai, ancora e per l’ultima volta, l’hostess di fronte a me domandava le carte di imbarco con un sorriso falso e tirato.
Nella mia vita, questo era uno di quegli addii che sembravano davvero per sempre.


Quando atterrai a Port Angeles, pioveva.
Non lo interpretai come un presagio: era inevitabile. Eppure, per un attimo, nel mio cuore si creò una crepa e da quella traboccò un po’ d’amore, del tutto inaspettato. Ah, io mi ricordavo di quel posto. Mi ricordavo di quel grigio, delle strade alla sera dopo la pioggia, degli inverni rigidi. Mi ricordavo anche delle estati trascorse lì, dopo il divorzio dei miei. Fu strano per un momento, ma fu quasi come intravedere una scintilla di bellezza pura in quei tetti sporgenti e in quelle grondaie storte che si disegnavano sotto un orizzonte tagliato da una pioggia fittissima. «E’ un piacere rivederti, Bells», quella voce rauca mi fece sussultare dalla sorpresa. «Ciao papà», tirai su un mezzo sorriso.
Riconoscevo in lui molti dei tratti che mi contraddistinguevano: goffaggine, timidezza, riserbo, difficoltà nell’esprimere sentimenti che ricordassero bei posti caldi, accoglienti, come l’amore. Riconoscevo i suoi occhi tinti d’un nero corvino, lo sguardo severo che nascondeva l’uomo gentile e docile che era, eppure per un attimo fu come non vederlo davvero. Fu come trovarsi di fronte a un’altra persona, una che non mi era troppo familiare, che mi ricordava qualcuno che un tempo avevo conosciuto bene, che avevo a lungo amato, eppure faticavo a riassemblare un’immagine nitida della nostra storia nella mia mente.
Durò appena un attimo, giusto il tempo che provasse a sorridere.
«Sarà meglio andare a casa ora, no?», tentennò lui, dopo aver ficcato la mia valigia nel portabagagli.
Annuii e silenziosamente mi infilai in auto.
Il cielo continuava a tremare agitato e la pioggia cominciava a farsi violenta. La sensazione che provavo ora era un misto di dolore e angoscia, simile al sentimento che ti tocca il cuore quando sprofondi troppo velocemente nei tuoi ricordi e non trovi appigli durante la discesa. Eppure in essa vi era del buono e questo mi consolava. Mi rilassai, distendendo piano le gambe, sotto l’influenza del riscaldamento acceso. Guardavo fuori dal finestrino mentre Charlie mi informava che mi aveva già iscritto a scuola.
Diceva che mi aiuterà a trovare una macchina tutta per me, anche.
«Così potrai andare dove vuoi», disse.
Charlie somigliava alla pioggia leggera che faceva brillare di mille piccole luci tutte le strette viuzze di Forks, era delicato, piacevole come persona, ma ogni bruciante passione e lacerante amore faticava sempre a venir fuori. Appariva spento, costantemente al buio – forse era per questo che mamma l’aveva così colpito: lei che era come il sole che bruciava la terra africana gli aveva rubato il cuore.
Ma quando persone così diverse si incontrano e si scontrano, non può mai durare.
E infatti non durò.
Mia madre lo lasciò qualche giorno dopo il mio terzo compleanno. Non ricordo molto di quel giorno, solo la pioggia e gli occhi di mio padre, fissi su di noi.
«Grazie», risposi quasi sottovoce io, cercando di dimenticare.
«Sarà bello», continuai sorridendo, giusto con un briciolo di convinzione in più.
La debole luce che vidi tremare nei suoi occhi fu per me una risposta sufficiente.
Quando arrivammo a casa, mi accompagnò nella mia nuova stanza.
Le sue mani dure aprirono la porta su un angolo di mondo che il tempo aveva cancellato dalla mia memoria. Le pareti ruvide, il letto dal materasso troppo morbido e i comodini, la vernice screpolata ai bordi dei cassonetti,.. Ah, ma guarda. Le foto di famiglia sulla mensola a destra. I miei capelli infantili corti e lucidissimi, il giorno del saggio di danza, il sorriso giovane e smagliante di mia madre. Le dita scorrono lente sulle costole dei libri impolverati, sulle favole della notte, sui ninnoli e i balocchi. Era così strano a pensarci, pensare a come avevo vissuto una vita come se fossi stata un’altra persona prima di diventare così. Rimasi per un attimo così, in contemplazione, a occhi semichiusi. Quando li riaprii, Charlie non era più sulla soglia della camera, e mi chiamava a gran voce. Abbandonai a malincuore la mia stanza e scesi le scale in fretta.
«Che c’è?», lo cercai, sbirciando un po’ in ogni stanza.
«Sono qui, vieni a vedere».
Uscii di casa, guidata dalla sua voce.
Lo trovai riparato sotto un sottile pannello di legno bianco verniciato male, che proteggeva lui e la mia sorpresa, dai colpi incessanti dell’acqua.
«Oh..», esitai un momento, «Questo è..».
«Quasi nuovo», si affrettò a dire lui, «Un pick-up, un Chevy.. Sai non se ne vedono più così a giro», disse in uno slancio d’orgoglio, con quella sua voce roca. «E ci sarà pure un motivo..», bofonchiai io, prima di incontrare i suoi occhi mortificati. Scoppiai a ridere, «Sto scherzando!».
Mi avvicinai cauta, lanciando un’occhiata ai sedili sdruciti e al volante ormai già consumato.
«Sai, va ancora bene per andare a scuola», iniziò lui, «L’ho comprato da Billy, ricordi Billy?».
Scrollai le spalle, «Così e così, credo».
Aprii lo sportello arrugginito, «È in una sedia a rotelle, adesso, sai?», continuò e i suoi occhi si fecero immediatamente seri, «Lui non lo usava più comunque».
«Mh-mh..».
«Comunque», si schiarii la voce, «Spero ti piaccia».
Mi sedetti dietro al volante, prendendo confidenza con il mezzo. Non mi dispiaceva stare lì dentro, mi sentivo al sicuro. Un odore lieve di erba secca e aria viziata mi arriva al naso – chissà da quanto tempo era fermo. Sorrisi a malapena, assorta fra i miei pensieri.
«Bells?», Charlie richiamò la mia attenzione, «Allora?».
«Mi piace», risposi io, «È.. È forte».
Sembrò piuttosto soddisfatto di questa mia reazione e il modo in cui si aggiustava i capelli e la cintura mi faceva venire voglia di abbracciarlo. Era come se tutto, ogni elemento di questo preciso istante, mi facesse sentire ancora di più, ancora meglio chi sono. Tornava in me, a momenti alterni, questo sentimento che mi fa sentire fragile, che rimarca con estrema precisione ogni tratto del mio spirito. Tu sei così, dice questo sentimento, Sei così e è questa la tua storia. E anche questa è la tua vita, anche questa sarà casa tua. E adesso sei qui fra questi alberi, sotto questa pioggia scrosciante e sotto questo cielo bizzoso, ma nulla di tutto questo ti è avverso, poiché tutto di questa vita ti appartiene.
Ero finalmente, anche se sapevo sarebbe durato solo per poco, serena.
«Andiamo a mangiare adesso? Ho una fame», risi.
Sì, non sarebbe durata.
Ma tanto valeva godersi l’attimo.

La notte mi lanciò in preda a sconforti ben più grandi, non riuscii a prendere sonno che dopo mezzanotte. Vivere le oscurità nelle case altrui non è mai stato semplice per me. Avrei avuto bisogno di tempo – una vera e propria sofferenza. Il tempo che io passo a dormire è per me assolutamente indispensabile e questi attimi di silenzi nervosi e continui rigirii nel letto, cercando un nuovo punto ancora e ancora, me lo ricordavano perfettamente. Queste angosce violente che mi attraversavano come coltelli mi facevano dubitare di ogni ma singola qualità e temere le peggiori situazioni. Sentivo il mio cuore pompare il sangue nel mio corpo a una velocità disumana, agitando ogni cellula del mio minuscolo essere. Prima che me ne potessi rendere conto, stavo già singhiozzando, con le mani fra i capelli, spaventatissima.
Sembrava di cadere, cadere da un punto altissimo, in un vuoto infinito.
Sembrava e invece ero sempre su quel letto e tutta quella pressione, tutta la velocità con cui mi pareva di volare sul nulla, si schiantava sul mio corpo intero, schiacciandomi.
Facendomi credere che mai più nella vita sarei stata in grado di abbandonarmi alle piacevolezze del sonno. Ma mi sbagliavo.
La mattina dopo mi svegliati con il viso rosso e i capelli appiccicati alle tempie, ancora leggermente umidi. Scesi nella piccola cucina con i pavimenti in linoleum bianco e gli armadietti colorati da tinte vivaci. La sete che mi bruciava in gola era talmente violenta che non mi presi nemmeno il disturbo di afferrare un bicchiere, ma ficcai direttamente la faccia sotto la cannella aperta del lavandino.
«A Phoenix fate così quando vi svegliate?», commentò ironico mio padre, fisso nel rettangolo di legno.
Entrò nella stanza, dirigendosi verso il tavolo, «Avevo sete», mugugnai asciugandomi la bocca con il braccio.
Qualche goccia cadde a terra, qualcuna sui miei piedi pallidi.
«Capisco», fece lui, aprendo il giornale.
La colazione fu tranquilla, mangiai poco in realtà. Charlie uscì prima di me da casa, mi salutò augurandomi buona fortuna e con le sue parole, sbatté la porta. Lo guardai andarsene dalla finestra dalla cucina.
Bevvi un altro sorso d’acqua e andai a vestirmi piuttosto in fretta, scesi di nuovo le scale e mi precipitai fuori di casa. Ero in anticipo, ma non potevo stare lì senza far nulla un minuto di più.
Quando arrivai a scuola, il parcheggio era ancora deserto. Un velo leggero di nebbia avvolgeva tutto ciò che mi circondava. Sgattaiolai velocemente verso la Segreteria, cercando di trovare un po’ di conforto.
La stanzina in cui arrivai era piccola, ma più luminosa di quanto mi aspettassi. Dietro una scrivania di quello che probabilmente era un pannello in simil-legno, se ne stava una donnona dai capelli di fuoco. Le sue dita grassocce ticchettavano velocemente sulla tastiera del suo computer.
«Mi dica», le sue parole erano totalmente prive di qualsiasi emozione, si muoveva  e interagiva con me con la pratica e l’esperienza che solo una routine frustrante poteva regalare.
«Mi chiamo Isabella Swan», accennai con un fil di voce.
Non sapevo nemmeno io su cosa concentrarmi di più, se sulla sua scollatura esagerata o se su quei suoi pacchiani anelli. «Sono quella nuova», aggiunsi.
Alzò lo sguardo per controllarmi un momento, «Ah, certo», sorrise poco interessata, e ficcò la sua mano luccicante e piena di braccialetti tintinnanti in una caterva di scartoffie. «Questi sono tuoi, gli orari, la mappa della scuola e via dicendo». Rimasi per un attimo ferma a osservarla, come estasiata. Era davvero strana e la mia mente viaggiava liberamente, provando a capire che tipo di vita vivesse una donna così.
Ma per lei, il mio soggiorno nel suo ufficio era bell’e che terminato e così, alzando di nuovo lo sguardo dal suo monitor, con quei suoi minuscoli occhietti mi fissò e poi disse, «Serve altro?».
«No,.. Credo», feci io uscendo.
Chiusi la porta dietro di me e me ne ritornai al parcheggio, che si stava già cominciando a riempire. Mi guardai intorno, poco convinta, e mi infilai fra il flusso rado delle persone che si stavano dirigendo, come me e con poco entusiasmo, verso ore di lezione, libri, campanelle e cibo scadente.
Prima lezione, letteratura – Mr. Mason, un uomo sulla quarantina, dall’aria sprovveduta, mi accolse non troppo calorosamente. I suoi occhietti somigliavano a quelli di un ratto e la sua voce era lasca, priva di tono e fascino. Non mi piaceva. Non mi piaceva che parlasse di Emily Brontё in quella maniera sciatta, insulsa. Mi feriva e mi disturbava profondamente, con quei suoi occhietti di ratto e quel suo tono inadeguato. Non era giusto lì, non era quello il suo lavoro, non era nelle sue corde, si vedeva dal modo in cui si muoveva. Era insignificante. Stava rovinando il bello, delle parole, una persona intera. E la cosa peggiore era che non gli importava nemmeno, che visione, che spreco di tempo allucinante! Mi era già insopportabile.
Chissà se sarebbe stato poi così grave saltare le sue lezioni da qui fino alla fine dell’anno.
Degli anni. Per sempre.
Il suono della campanella fu una liberazione, e di certo tutti quegli occhi puntati su di me e gli eventuali coraggiosi che mi si avvicinavano per fare conoscenza furono un’utile distrazione.
Durante le ore seguenti, trigonometria e spagnolo, feci amicizia con una ragazza riccioluta e bassina. Si era presentata prima, ma onestamente parlava così tanto,.. Non avevo più idea di come si chiamasse, ma badai bene a non tradire questa mia mancanza. Mi accompagnò in mensa e mi fece posto accanto a lei.
Iniziai a mangiare lentamente, ascoltando però con molto interesse, le conversazioni fra la ragazza accanto a me e le sue amiche, sedute al tavolo con noi.
«Non posso credere che sia ancora marzo», sbuffò una di loro, rovistando con la forchetta fra le sue foglie di insalata, «La scuola era così noiosa anche a Phoenix, eh Isabella?», mi chiese.
«Bella», precisai io, «..Abbastanza, comunque. Ma i ragazzi là non erano male», feci, tradendo un sorrisetto malizioso. La tavolata esplose in un boato di gridolini e risatine, «Saranno stati tutti abbronzati come atleti!», esclamò un’altra. «Tutti con i capelli biondi, muscolosi e bellissimi come modelli», rise la sua amica. Quella reazione mi divertiva, sembravano come impazzite, con le gote rossissime e le mani preda di una frenesia incontrollabile. Non mi dispiaceva che parlassero fra loro, che bastasse così poco per distrarle. Se non altro, io potevo starmene in silenzio – rivelare fatti della mia vita privata non era un’idea che mi esaltava granché. In definitiva, ero proprio come Charlie. L’improvviso, ma senz’altro ovvio paragone con mio padre mi fece un po’ stizzire, ma d’altro canto non era vero?  Eravamo davvero simili.
Per quanto in me si potesse scorgere il fuoco di mia madre, esso rimaneva pallido, intaccato da quella mia solita diffidenza, così simile alla paura di un animale randagio che qualcuno prova a avvicinare. A volte, avrei desiderato essere più spigliata, ma immediatamente, da subito e poter essere interamente come mia madre. «Ma allora», la ragazza riccioluta mise per un attimo fine a quello starnazzare, «Perché tu sei così?». La guardai con aria seria, «Così come».
«Jessica, ma che dici!», sbottò la ragazza di fronte a lei, «Come sei sfacciata».
«Non è vero», alzò le spalle lei, «Non volevo offenderti, sai? Intendevo, perché sei così bianca. Ma a Phoenix non c’è sempre il sole e roba simile?».
«Sì infatti», risposi poco interessata, «Io non mi abbronzo. È genetica, immagino».
Jessica sgranò gli occhi e mi fissò per un momento interminabile, «È per via della melanina. La mia pelle sembra esserne sprovvista».
«Ah.. Ho capito», rispose davvero poco convinta e si gettò con lo sguardo sul vassoio di plastica e sul suo pranzo. Io dubito, pensai fra me e me e continuai a mangiare.
Dopo qualche secondo, anche la conversazione riprese normalmente.
Fu la ragazza di fronte a me, Angela, a spezzare quel sereno chiacchiericcio e fu come gettare una manciata di sassi in uno specchio d’acqua.
«Ei, Jessica, guarda chi c’è», tese timidamente il suo esile dito aldilà della spalla della sua amica.
«Mh», fu la sua risposta, «Guarda che Edward non mi interessa più».
«È un ragazzo che ti piace?», domandai io, senza prendermi nemmeno la briga di voltarmi.
«No, cioè, sì, diciamo che c’è stato una sorta di.. Breve connessione fra noi», tirò su un sorriso amaro, «Ma a quanto pare nessuna è carina abbastanza per uno così».
«Non dire sciocchezze, Jess, tu sei carina come tutte le altre, se non gli vai bene.. Allora è un problema solo suo», saltò su Angela.
«Come ti pare», bofonchiò quella.
Mi veniva da ridere. Cos’era una breve connessione? Era davvero possibile instaurare qualcosa di simile con un’altra persona? Non mi voltai, comunque. Non mi interessava. Ero più che altro concentrata a non perdere il filo del discorso, non che avessi un grande contributo da apportare alla conversazione, ma pensai fosse giusto sforzarsi di essere più aperta. E sicuramente era un ottimo espediente per allontanare dalla mente il pensiero di tutte quelle persone che ancora continuavano a fissarmi, quasi fossi stata una specie di attrazione turistica: ancora contavo gente che si voltava a fissarmi, i ragazzi che parlottavano fra loro indicandomi con ben poca discrezione e seguito. La troppa attenzione mi infastidiva e mi metteva a disagio, ma che c’era di male se non amavo il centro dell’attenzione? E comunque, avrei preferito di gran lunga che si fossero venuti  a presentare di persona a quel vociferare infetto che riempiva l’aria fino a farmi soffocare. Scossi la testa, «Magari è stupido», feci spallucce io, riprendendo il discorso, «Quindi ti sei forse risparmiata una lagna, che ne sai».
Jessica non fece in tempo a rispose che Angela smentì subito la mia teoria, «In realtà ha i voti più alti dei suoi corsi. Quindi..», guardò Jessica, quasi per assicurarsi di avere il permesso di continuare la frase, «..In realtà è anche molto intelligente, oltre a essere veramente,.. Veramente carino», arrossì dolcemente.
«Ah sì?», dissi stupita.
«Già», rispose in tono secco Jessica, «Possiamo parlare di altro? Per esempio del fatto che io e la trigonometria non riusciremo mai a combinare nulla di buono insieme?».
Per un attimo, smisi di mangiare. Diventata improvvisamente curiosa, mi voltai, lanciando lo sguardo aldilà della mia spalla e lì li vidi, cinque ragazzi dai volti statuari e dai lineamenti delicati e misurati, la pelle bianca come un velo sottile di neve. Non avevo idea di chi fosse Edward e la mia pazienza, come la mia voglia di andare in fondo a quella questione, si esaurì molto prima di quanto immaginassi.
Tornai a mangiare, indifferente.

L’ora seguente mi aspettavano il Signor Banner e la sua lezione di Biologia II. Nemmeno lui si dilungò in troppe presentazioni e moine, mi mise in mano un libro dalla copertina stropicciata e mi chiese di sedermi. Angela, lei aveva già un compagno di laboratorio, come tutti, del resto.
Realizzai solo dopo aver peso posto che, accanto a me, c’era uno di quei ragazzi. L’avevo riconosciuto dalla pelle bianchissima, forse perfino più della mia. Non sembrava molto amichevole e tutto il corpo pareva stretto in una morsa incandescente che lo lasciava teso e inteccherito come se fosse appena morto assiderato. «Mi chiamo Bella», mi sforzai di presentarmi, pensandolo unicamente vittima di una timidezza esagerata. Lui non rispose affatto e si limitò a voltarsi dall’altra parte.
«Il piacere è tutto mio», risposi sarcastica. Irritante.
Per tutta la lezione non fece che coprirsi ostentatamente il viso con le mani, dietro il colletto della camicia, senza mai trovare pace, quasi come se al mio posto avessero messo un cadavere putrefatto. Ma non era colpa mia, non poteva esserlo, pensai mentre continuavo a prendere appunti, cercando di non dargli troppo peso. Io avevo un buon odore, e su questo non c’era alcun dubbio. Quando suonò la campanella, feci appena in tempo a vederlo schizzare via dall’aula. «Sei tu Isabella Swan?», mi voltai verso gli occhi lucidi e teneri di un ragazzo alto e biondo. «Chiamami Bella», feci, mentre mi alzavo.
«Io sono Mike», si presentò, «Serve aiuto per trovare la prossima lezione?».
«No, non credo», risposi garbatamente, «Ho ginnastica, credo di potermela cavare».
«Anche io», sorrise lui dolcemente. Uscimmo insieme fuori dall’aula.
«Scusa ma hai pugnalato Edward Cullen con una matita o cosa?», chiese a un certo punto con un mezzo sorriso. Ci misi un po’ a rispondere, perché assorta fra i miei pensieri. E perché credevo che stesse ancora farneticando dei suoi affari personali. «Mh?».
«No, dico. Non l’ho mai visto così», ripeté.
«Chi è Edward?», chiesi senza capire.
«Il ragazzo che ti sedeva accanto», m’informò lui.
«Ah. Non so. Si vede che non gli piace la compagnia», scrollai le spalle noncurante, cercando di infilare il mio nuovo libro nello zaino e di soffocare il senso di inadeguatezza che quello strano individuo mi aveva messo addosso. «Se ci fossi stato io al suo posto..», si fermò subito, arrossendo, «Beh, se ci fossi stato io, sarei stato molto più gentile con te», si corresse.
Scoppiai a ridere: ne parlava come se si fosse trattato di un caso nazionale.
«Stai tranquillo, sto bene. Non è poi così grave», assicurai.
«Sì, beh. E’ un tipo strano. Fai attenzione magari», mi disse, prima che ci dividessimo davanti agli spogliatoi.
«Lo farò, papà», sospirai divertita, vedendolo sparire dietro la porta di legno.
L’ora di ginnastica passò più in fretta di quanto mi aspettassi – poiché ancora non avevo una divisa, ebbi l’immenso piacere di godermi, dalla tributa d’onore – la panca della palestra –, mandrie di studenti sbuffanti che si affannavano a correre dietro una palla.
Molto divertente.
Molto irritante invece era pensare che, alla fine, sarebbe toccato pure a me.

Quando suonò la campana, mi diressi in fretta verso la Segreteria per restituire un paio di moduli e poi, con sommo piacere, infilarmi nel pick-up e tornarmene a casa. L’ufficio mi accolse caldo e luminoso, proprio come stamattina. Quando entrai, davanti a me si disegnavano le spalle large e grosse di un ragazzo ben piazzato che si voltò immediatamente verso di me, fissandomi, quasi con odio. Edward Cullen, di nuovo davanti a me. Oh, io voglio sperare, pensai fra me e me, che la signora dai capelli rossi non abbia osato presentarsi. Se è così, spero almeno in una punizione divina.
Si voltò bruscamente verso il viso paffuto della donna, continuando insistentemente a chiedere di poter cambiare corso di Biologia, di poter frequentare durante un altro orario.
La donna non gli fu molto d’aiuto, in realtà.
Questo lo fece infuriare ancora di più, e andarsene sbattendo la porta.
Io e lei ci lanciammo un’occhiata, «Allora, Isabella», fece lei, riconoscendomi.
«È andato bene il primo giorno di scuola?».
«Sì, abbastanza. La gente qui è strana».
«La gente è strana dovunque», rispose lei, prendendo i moduli.

Senza dubbio.

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Capitolo 2
*** Libro aperto ***


 

Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.
                                                                                                        Libro aperto


Mi muovevo sotto un cielo dubbioso e una fitta coltre di nuvole. Nessuna pioggia, quel lunedì. Tanto meglio. Mi infilai nel pick-up e detti gas, imboccando la strada che mi portava dritta a scuola.
Ero più rilassata, più a mio agio. Più tranquilla mentre mi infilavo fra la folla e davo il mio corpo in pasto a occhi che, ormai, parevano aver imparato a riconoscermi. Perfino lo stupore iniziale degli studenti cominciava a scemare: ottimo. Lanciai un’occhiata all’orologio storto appeso alla parete – ancora venti minuti all’inizio delle lezioni? Sospirai. Ce ne vorrà prima che riesca ad abituarmi al tempo di questa mia nuova vita. Mi trascinai in aula studio, sedendomi sull’unica panca libera, in attesa. Sfilai dallo zaino il mio specchietto e detti un’occhiata al mio viso, e subito ogni mia critica riempì quelle profonde fosse viola scavate dall’insonnia. Le mie notti si ripetevano tutte uguali, senza pietà. Mi sentivo consumata, privata di ciò che più era mio e ciò che più mi necessitava. A volte, guardandomi nel riflesso dello specchio del bagno, quasi mi spaventavo: non sembravo nemmeno più io. I segni grigiastri che mi trascinavo sotto le ciglia mi sembravano solo cicatrici, solchi disegnati delle mie stesse lacrime, dai miei medesimi acuti sconforti e nulla in tutto questo riusciva a portarmi sollievo. Volevo solo dormire, non chiedevo altro. Eppure, ogni notte andavo a letto per addormentarmi solo pochi minuti prima dell’alba. Lanciai un ultimo sguardo ai miei occhi color nocciola e chiusi lo specchietto, sbuffando. Trovavo ingiusto come il buio fosse riuscito a sottrarre così tanto fascino a una parte di me che avevo sempre amato sinceramente.
«Guarda chi si vede!», esclamò una voce.
Alzai lentamente il viso per incontrare quello radioso di Mike, «Come va, Bella?».
Scrollai le spalle e abbozzai un sorriso, «Stanca, direi».
«Mi dispiace», borbottò sedendosi vicino a me.
«Già».
«Eppure ero convinto di averti visto sorridere, qualche secondo fa», borbottò goffamente, «Credevo tu fossi felice, sai».
«In realtà», dissi volgendo la testa altrove, «Stavo solo pensando a Phoenix, sai».
«Ti manca la tua vita là?».
«Mh. Non proprio».
Ci fu un momento di silenzio.
«Ti manca una persona.. In particolare?».
Osservai il suo volto piegarsi sotto il peso bruciante di una vergogna innocente e tale fu la mia sorpresa nel notare il modo agitato in cui non faceva che stropicciarsi le mani l’una con l’altra, che non potei far a meno di sorridere dolcemente. «Sì, diciamo di sì», risposi, «Pensavo a una persona in particolare».
«Ah», commentò lui, ferito e misero nella sua delusione, «Il tuo ragazzo?», ridacchiò nervoso, guardando altrove. «No», dissi io, «Ma era una persona a cui volevo bene, in effetti».
Ci pensai su per qualche secondo.
«Lui mi diceva sempre che avevo un bellissimo taglio degli occhi». Ci volle poco perché mi rendessi conto dell’intima confessione che mi ero lasciata sfuggire e in quell’istante, tutto il mio viso sembrò andare a fuoco. Mike si voltò e notando la mia espressione stupita e innervosita si lasciò scappare un sorriso, «Aveva ragione». Mi limitai a ringraziarlo e mi affrettai a cambiare argomento.
Parlammo per qualche istante, prima che il suono della campanella ci interrompesse.
Quello stesso giorno, Mike mi seguì durante quasi tutto il giorno e ben presto, a noi, si unì Eric, un ragazzino dai tratti morbidi e coi capelli di un nero brillante. A pranzo mi sedetti a mangiare con loro e altri ragazzi, Angela e Jessica comprese. Tutto sommato, la giornata trascorse senza particolari intoppi.
Durante l’ora di Biologia II, notai l’assenza di Edward.
Non mi toccò granché, se non altro non mi sarei dovuta sforzare di essere gentile con nessuno. Mike invece si sedette qualche banco più in fondo, vicino a una ragazza coi un’aria selvaggia e un’infinità di capelli in testa. Nell’aria si respirava un senso di calma e serenità. O forse ero solo io, io che mi portavo dietro il sole accecante di Phoenix e quel ragazzo, quel giorno in cui mi disse che i miei occhi erano la cosa più bella che avesse mai visto. Fu incredibile rendersi conto di quanto tempo era passato da quella volta, di come avessi, quasi senza rendermene conto, cancellato quel bellissimo sole di fine agosto e i suoi movimenti delicati, il sale del mare sulla sua pelle, quel sorriso. Quasi non me ne capacitavo. Non riuscivo più nemmeno a essere triste all’idea che quel giorno era infine svanito, come tutto di lui – ormai era solo passato, ormai non faceva più paura. Ero così immersa fra i miei pensieri che quasi sussultai quando la campanella suonò.
«Dio», sbottai fra me e me, «A questo suono non mi abituerò mai abbastanza in fretta».
La giornata trascorse e si concluse brevemente.
Quando tornai a casa controllai un paio di e-mail, risposi a mia madre per esempio, che nel giro di una settimana era già riuscita a intasarmi completamente la casella di posta. La rassicurai, ero viva, stavo bene, nessun terrorista da queste parti, Charlie è ancora vivo, i comunisti non hanno ancora preso il sopravvento, me la cavo, baci baci ci sentiamo, però stai calma che non controllo le e-mail ogni venti secondi.
«Bells?»
«Sono in camera!», gridai a Charlie, che era appena rincasato, «Scendo fra cinque minuti», mentii.
Appoggiai la testa sulla scrivania, con lo sguardo perso nel vuoto. Avevo bisogno di leggere, di guardare un film, di quelli che ti fanno credere che la vita non è solo questa miseria, ma che è tutta un’altra cosa, che c’è un modo per vincerla, per scappare lontanissimi via, in posti dove ogni cosa meravigliosa accade.
Ma la biblioteca di Forks non era granché fornita e questo mi intristiva: sulle mensole avevo solo libri per bambini, tutti scarabocchiati, strappati ai lati. Chissà se mia madre avrebbe potuto spedirmi la scatola di libri che mi ero lasciata a casa. Sospirai. Non era male stare con Charlie, aveva infatti moltissimi lati positivi – per esempio era perennemente fuori casa, a causa del suo lavoro di sceriffo. Era come vivere da sola e la nostra convivenza si basava quasi esclusivamente sul dividere cena e colazione. A volte guardavamo la tivù insieme, ma nulla di eccezionale. Spesso mi parlava del suo amico Billy, del suo incidente, di suo figlio. Ma io non prestavo mai troppa attenzione, mi limitavo a ascoltare e guardarlo mangiare. Pensai che c’erano molte cose che non sapevo di mio padre, eppure condividevamo un legame unico e indistruttibile. Io non lo conoscevo e vivevo con questo uomo che a volte mi sorrideva, che mi augurava la buona notte, che mi salutava prima di uscire di casa, ma ignoravo quale fosse stata la sua vita prima di me, il mondo prima che i nostri occhi si incrociassero – in me non esistevano i suoi dolori, il ricordo dei tempi in cui rideva molto spesso, di quando il suo viso non era stato ancora offeso dalla minaccia del tempo. Esistevano in me questi dubbi e in qualche modo, la mia completa, totale indifferenza a essi, mi feriva profondamente. E mi faceva vergognare della persona che ero.
«Si mangia!», gridò lui, dal pian terreno, con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
«Arrivo», risposi con poco entusiasmo, sollevando il mio corpo pesante con stanchezza.
Scesi le scale, arrivai in cucina.
«A Phoenix cinque minuti durano un’eternità o sbaglio?», rise lui, sotto i baffi.
Storsi la bocca ma lo lasciai fare, sembrava di ottimo umore. E mi limitai a sorridere.
«Allora», disse sedendosi a tavola, «Ti sei fatta qualche amico?».
«Alcuni, sì», risposi, iniziando a mangiare, «Ho fatto amicizia con un paio di ragazze e qualche altro ragazzo».
«Ti trattano bene?».
«Sì, abbastanza», risi io, «Sono tutti gentili. Mike mi accompagna sempre a lezione e mi dice dove sono le classi in cui devo andare, così non mi perdo».
«Mike Newton?», chiese lui.
«Sì, credo.. Non lo so, penso sia lui. Non mi ricordo troppo bene i cognomi di nessuno», ammisi, con un filo di imbarazzo. «È un bravo ragazzo, suo padre lavora giù al negozio di articoli sportivi», commentò.
Non che fossi molto interessata, in realtà, «Capisco».
«C’è qualcuno che ti da fastidio?», domandò lui – quando alzai gli occhi dal piatto incrociai quel viso burbero cercare di celare una punta di preoccupazione.
«Ma no, te l’ho detto», lo rassicurai io, sorridendogli, «La gente di qui è forte. I ragazzi a scuola hanno anche smesso di guardarmi come un fenomeno da baraccone, lo ritengo un gran successo», risi.
«Anche se», continuai io, «Di gente maleducata ce n’è anche qui».
Charlie mi guardò senza capire.
«Papà, tranquillo. Non è nulla di grave», lo consolai, sfoggiando il tono di voce più accogliente e dolce di cui disponessi. «Di che si tratta?», insisté, «Bells, lo sai.. Noi non abbiamo un gran rapporto ma,.. Quello che voglio dire, lo sai, a me puoi parlare insomma», bofonchiò impacciato.
Che tenerezza.
«Ero al corso di Biologia e accanto a me era seduto un ragazzo di nome Edward», bevvi un sorso d’acqua, «E mi sembrava imbarazzato, quindi ho pensato che se mi fossi presentata sarebbe andata meglio. Ma lui non si è nemmeno disturbato a rispondermi. Tutto qui», finii di raccontare.
«Questo è strano, sai», disse lui, con aria più serena, «I Cullen sono bravi ragazzi, tutti molto maturi, non hanno mai dato problemi, nonostante siano tutti figli adottivi. Il dottor. Cullen, poi, loro padre adottivo, è una risorsa per tutta la nostra comunità», aggiunse lui in un moto d’orgoglio. «Un chirurgo che potrebbe aver scelto qualsiasi altra città, guadagnare magari dieci volte di più e invece,.. Sì, siamo fortunati. Mi dispiace che ti abbia dato questa impressione, sono certo che si è trattato di un malinteso».
Annuii, lasciandolo continuare in quel suo delirante sproloquio sui Cullen.
Ma quale malinteso, pensai io, mi ha sentita che lo salutavo. E si è voltato altrove. Maturo questo gran paio di.. «Bells?», Charlie interruppe i miei pensieri.
«Eh?».
«Ci sei rimasta così male?», mi chiese costernato.
«Per cosa?».
«Per via di Edward. Vuoi che parli con suo padre?».
«Dio no!», esclamai io, «Papà, sono una donna fatta e finita, so cavarmela da sola. Non ti preoccupare. Se dovesse risuccedere lo tramortirò col libro di Biologia», risi e lui con me.
«È che mi sembravi sovrappensiero», commentò.
«Stavo solo pensando se sia il caso di chiedere a mamma di spedirmi i miei libri. Mi manca non poter leggere spesso».
La conversazione, così come la cena, non fu tirata molto per le lunghe – prima che potessi rendermene conto ero di nuovo infilata sotto le coperte della mia stanza, le luci erano spente e il cielo era infuriato. Mi preparai a un’altra notte insonne.

Il mattino dopo, stanca come al solito, mi trascinai, senza nascondere un certo malessere, a scuola.
La giornata, di nuovo, fu priva di sorprese. A parte forse il fatto che,..
«Bella! Guarda! La neve!», Angela mi correva incontro sorridente, indicando il cielo.
«Wow», ebbi appena il tempo di dire.
Non avevo mai visto la neve, non avevo idea di cosa si provasse a guardare il cielo durante momenti simili. Grossi fiocchi bianchi mi si appoggiavano addosso, si scioglievano sulla mia pelle calda. Angela scuoteva i suoi capelli, che il freddo dell’inverno aveva striato d’argento. Tutti erano felici e tutti giocavano come bambini. Scoppiai quasi a ridere dalla sorpresa quando vidi Mike venir colpito da una palla di neve. Eric, dall’altra parte, lo prendeva in giro. Rimasi un po’ così, sospesa, a guardare gli altri come se non esistessi davvero, come se il mio stesso corpo non fosse lì, ma altrove. Ogni cosa era bianca e pallida, come la mia carne. I vestiti, le auto, le strade, tutte uguali. Sembrava tutto così innocente. Un sentimento di assoluta adorazione mi pervase: non me ne sarei mai voluta andare da quel posto – c’era troppo amore perché potessi smettere di guardare.
Quando la campanella suonò, mi diressi a malincuore in classe, insieme a tutti gli altri. Spesi quasi tutto il mio tempo a contemplare il mondo aldilà delle finestre della scuola. Così immobile, paralizzato, mi ricordava la Dublino di Joyce, i volti emaciati dei suoi personaggi, le loro inesistenti decisioni e i loro devastanti cambiamenti. Il cielo continuava a cadere, un fiocco alla volta e ben presto, le lezioni finirono.
Ci avviammo in massa in mena, io Mike, Jessica, Eric e Angela. Continuavo a fissare le mani rossissime di tutti e i loro capelli spettinati, con un sorriso adorante.
«Non nevicava da te, Bella?», chiese Eric, avvicinandosi.
«No», ammisi.
«Scherzi?», saltò su Jessica, «Non avevi mai visto la neve?».
«Mai», le rivolsi un sorriso tirato, «In realtà non è che ne avessi mai avuto desiderio. Non sapevo di cosa si trattasse e non mi interessava molto», commentai.
La conversazione si mantenne su questa linea fin quando non fummo fisicamente dentro la mensa.
Mentre stavamo riempiendo i nostri vassoi di cibo scadente e bicchierini di plastica, Jessica mi tirò una gomitata, «Guarda lì», disse, «Sembrano usciti da una pubblicità».
Mi voltai, seguendo la riga tracciata dal profilo sottile del suo indice puntato a mezz’aria: vidi tutti e cinque i fratelli Cullen spintonarsi e ridere fa loro. Pensai che era vero, sembravano quasi finti: non avevano nemmeno le gote rosse, come Eric o Angela. Era come se non subissero mai nessun tipo di effetto, nessun tipo di momento. Quasi come se il tempo li attraversasse, dimenticandosi di loro. Le due sorelle, una bionda e l’altra mora, badavano a stare ben distanti da loro, per non intercettare la traiettoria di nessuno schizzo di acqua gelida.
«Ti pare possibile che esista gente così?», sbuffò amaramente, «La mia autostima ne risente. E molto!».
«È anche tornato Edward!», Angela si infilò nella discussione, «Era un po’ che non veniva a scuola», disse.
«Come se mi interessasse», biascicò Jessica, mentre ci dirigevamo al tavolo.
Era affascinante notare come tutti fossero così assolutamente attaccati alle vite di quei ragazzi, nutriti da una curiosità morbosa per ogni loro gesto, parola. Non lo capivo. «Oh mio Dio!», gridò Angela sottovoce, «Edward Cullen ti sta guardando, Bella!».
Mi voltai per controllare e in effetti era così: mi guardava, con un sorriso nemmeno troppo celato, i capelli di uno strano color bronzo scompigliati un po’ coperti di neve. Tirai un sospiro, voltandomi.
«Ok», feci io, iniziando a mangiare.
Calò un pesantissimo silenzio, ma durò poco. Purtroppo.
«È solo ok?», parlò sbigottita Jessica.
«Già», dissi io, sperando disperatamente che il mio disprezzo non destasse sospetti – in realtà Edward sembrava anche un bravo ragazzo, sveglio, magari simpatico ma ancora potevo percepire il pungolo che mi si rivoltava in cuore al pensiero della prima volta che l’avevo visto. Non sembravo piacergli granché, senza alcun motivo in particolare e questo mi infastidiva terribilmente, mi incattiviva.
«Da quando sono in questa scuola sono abituata a essere fissata, ormai non mi da più neanche fastidio», commentai stizzita. «Wow», sospirò Angela fra sé e sé.
«Ma lui non è tutta la scuola è,.. Voglio dire, è uno schianto!», continuò Jessica, fissandolo insistentemente.
Mi passai una mano fra i capelli, «Non mi interessa Jessica, smetterà di fissarmi alla fine. Lo so».
Feci una pausa, «Dovrà sbattere le palpebre prima o poi», scoppiai a ridere, ma nessuno colse il mio sagace umorismo. Peggio per loro.

Quando entrai nell’aula di Biologia II, il mio banco era vuoto e Edward non c’era. Ne approfittai per sedermi immediatamente vicino alla finestra. Avrei ancora potuto guardare la neve cadere lenta, bucherellare il cielo e trasformarlo in una trina d’argento. Cinque minuti prima che la lezione cominciasse disposi i miei libri sul tavolo e iniziai a scarabocchiare su un foglio pulito.
«Ciao», una voce mi arrivò vicina, calda e accogliente.
Mi voltai – di fronte a me Edward Cullen.
Non risposi, mi limitai a un cenno. «Mi chiamo Edward Cullen», continuò.
«La risposta a una domanda che non ti ho fatto», sbottai io, ancora scocciata per l’ultima volta.
Lo vidi interdetto, ma lo stesso sembrava non aver perso la sua voglia di chiacchierare.
«Sei sempre così cordiale o sono solo fortunato?», mi chiese con aria di sfida, ma sempre con quel sorrisetto sghembo. «Sei fortunato», risposi seccata.
«Che bella sensazione», fece lui sfregandosi il collo, «La settimana scorsa non ho avuto occasione di presentarmi come si deve».
«Me ne ero accorta».
Lui rise, «Scusami». Mi voltai verso un sorriso radioso e smagliante.
«Quella era proprio una giornata no. Ma sei stata molto gentile a presentarti».
«Ci puoi giurare», ribattei, guardandolo dritto negli occhi.
«E tu sei?», chiese lui, con un cenno garbato.
«Bella», risposi io.
In quel momento il signor Banner iniziò a spiegare l’esperimento del giorno. I vetrini poggiati sul nostro banco erano da analizzare, il professore passò a consegnarci dei fogli: si trattava di un esercizio da fare in coppia. Quando ebbi la consegna fra le mani e potei leggere meglio, fui toccata da una punta di delusione. Avevo già fatto quell’esercizio a Phoenix, non c’era nulla di nuovo e questo mi annoiava.
Mi strinsi nelle spalle, senza dare a vedere il mio fastidio.
Edward mi domandò se avessi desiderato fare gli onori di casa: risposi senza pensarci che avevo già fatto quell’esercizio. «Qui usano le radici di cipolla, a Phoenix ci dettero embrioni di coregone. Posso anche evitare di fare le stesse cose. Il primo vetrino è profase».
«Permetti che controlli?», chiese lui, con un’aria innocente.
«Come vuoi», dissi io, volgendo di nuovo lo sguardo aldilà del vetro.
Non mi dispiaceva questa scuola, in realtà, e alcuni insegnanti erano perfino bravi insegnanti, ma io ero molto più avanti col programma rispetto ai miei compagni e questo mi annoiava. Non potevo concentrarmi su cose già dette, già fatte, già scoperte – avevo necessità del nuovo, delle prime volte. Con quelle spiegazioni, quegli identici discorsi io mi perdevo. Era inevitabile per me scollarmi dal reale e cadere nel bosco gonfio dei miei pensieri intricati.
«Profase», affermò Edward, «Vogliamo proseguire?».
«Il prossimo è anafase», feci io voltandomi leggermente e spostando il microscopio verso di lui, «Nel caso in cui non ti fidassi», sottolineai.
A lui scappò una risata, «A questo punto suggeriscimi tutte le domande, no?», inarcò il sopracciglio sinistro.
«E risparmiarti tutto il lavoro? Fossi matta», sorrisi con aria di sfida, «Prego», dissi, spingendo il microscopio ancora più vicino al suo braccio, «Divertiti».
Nonostante mi fossi rifiutata di aiutarlo, sbrigò il lavoro in pochi momenti. Dopodiché ci restava tutto il tempo necessario per un’amabile chiacchieratina. Evviva.
«Allora», fece lui, avvicinandosi a me, «Sei quella nuova, ho saputo».
Annuii, senza particolare entusiasmo.
«E vieni da Phoenix».
Continuavo a non rispondere, così aggiunse, «È una posto diverso da Forks».
Mi voltai, con un’aria estasiata e un’espressione di totale sbigottimento, «Già! Posti diversi! Wow! Hai delle qualità serie, la CIA ti ha già contattato?».
Lui rise, di nuovo, «Va bene, ho capito, non ti sto simpatico. Ma dammi la possibilità di recuperare terreno». «Per ora stai camminando in aria», risposi io, tentando di soffocare una risata.
Mi domandò se mi piacesse la neve, dissi che me ne ero innamorata – «No, sono seria, smettila di ridere. Io non avevo mai visto la neve. Se ci pensi non è la cosa più assurda di sempre? È come non aver mai visto il mare».
«È per questo che ti trasferita qui?», mi domandò.
«Non direi proprio».
«E allora perché?», insisté.
«Non so. A volte cambiare fa bene», tagliai corto io.
Per un attimo cadde ogni discorso e io mi misi a sfogliare il libro di biologia.
«Ti do fastidio?», domandò poi.
«Così e così», ammisi, «Potresti migliorare».
‘Potrei migliorare’, ripeté lui fra sé e sé.
Mi rimisi a guardare fuori dalla finestra. Sotto quei debolissimi raggi di luce invernale, la neve scintillava preziosa. Sembrava che l’intero parcheggio e gli alberi e i capelli delle persone fossero stati ricoperti di polvere di diamante. Avevo passato una vita senza neve. Che stupidaggine, a pensarci. Ma era così: una vita senza neve. E non avevo mai provato la voglia primordiale di chiedere a me stessa, «Cosa sarà?, Come sarà?, Posso andare a vederla?». Mai una volta, sotto quel sole bruciante della Arizona, mi ero chiesta a come sarebbe stato vedere qualcosa di simile. E ora che potevo vedere, ora che potevo toccare, quasi ero commossa dalla felicità. Mi domandai di quante cose speciali esistevano e succedevano e io nemmeno ci pensavo, nemmeno avevo voglia di andare a scoprirle. Una parte di me era ancora rimasta in Arizona, senza voglia di domandarsi alcunché. Quando suonò la campanella, con lentezza mi tirai su e me ne andai. Edward mi fece un cenno di saluto e io ricambiai.
Appena uscita dall’aula fui assalita da Mike, che iniziò a sommergermi con un fiume di parole.
«Allora», disse poi, «Hai una bacchetta magica o cosa?».
«Cosa?», chiesi senza capire.
«No, dico, Edward Cullen. Non l’avevo mai visto così allegro», quella frase tradì un filo di gelosia.
«Che posso farci», sorrisi io, senza dargli troppa importanza, «Faccio questo effetto alle persone», scoppiai a ridere mentre uscivamo nel parcheggio.

Lanciai un’occhiata all’orizzonte, l’aria brillava e io ero felice.

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Capitolo 3
*** Fenomeno ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.
                                                                                                   Fenomeno


A terra tremante, gli occhi sgranati. Intorno a me tutto sembrava impazzire, selvaggio, folle. Potevo sentire ogni voce, ogni grido, tutto il freddo dell’inverno, una lacrima rigarmi il viso. Mani pallidissime affondavano nella lamiera scintillante, i suoi occhi su di me. Le sue labbra, quelle si muovevano in fretta. Lo vedevo respirare, come fosse stato affannato o piegato in uno sforzo sovrumano. Mi sovrastava pallido come una statua, come un altissimo muro di ghiaccio.
Avrei voluto dire qualcosa di sensato, rispondere alla sua voce flautata, al suo modo angosciato di chiamarmi insistentemente («Bella, Bella!»), era solo che non potevo. Il luogo in cui mi trovavo era senza suoni, senza parole, senza pensieri, situato da qualche parte giù, giù nel profondo abisso dei suoi occhi, proprio nel centro esatto di essi.
La verità era che non capivo, non lo capivo, no.
Non avevo idea di cosa fosse successo.
Nelle mie orecchie sentivo ancora la voce di Keaton Henson, le sue poesie timide fatte di amori sconfitti – ma pensa. Non avevo fatto nemmeno in tempo a togliermi le cuffie. Ero solo scesa dal pick-up, mi ero solo voltata. L’auto di Tyler aveva sbandato e qualcuno mi aveva gridato di spostarmi.
Poi quelle gambe sottili e rigide che si intrecciavano rapidissime alle mie, mi facevano scivolare, due mani pronte. E un tonfo sordo. Si era tutto risolto unicamente in quei brevi istanti e io ancora ero attraversa da quei fremiti convulsi. Non faceva che chiamarmi.
Ti sento. Sono qui, ti sento. Ti vedo, gridava in tono supplice una voce nascosta in chissà quale oscura parte del mio cuore. Nulla, nemmeno una parola mi usciva di bocca.
Lo vidi appoggiarmi a terra con aria mortificata e sgattaiolare via, nascondersi. Rimasi a lungo così, con il viso appoggiato sull’asfalto ghiacciato, senza dire nulla, respirando piano, esaurendomi in deboli fremiti.
La canzone proseguiva.
Wait, they don’t love you like I love you, wait, they don’t love you like I love you. Ma-a-a-aps. Wait, they don’t love you like I love you.
Sembravo morta, finita. Nemmeno i miei occhi avevano il coraggio di spostarsi, cercare, dare un segno di vita. Era stato come essere colpiti in pieno petto da un’unica, precisa, freccia.
Potevo solo sentire Jessica gridare.
Sto bene, sul serio. È tutto ok, ma smettila di urlare, per favore. Mi stai facendo male.
Nessun rumore.
Schiusi lievemente le labbra, provai a disegnare in aria una nuvola di respiro, ero viva, c’ero ancora.
Ci sono ancora, ci sono poco, ma sono qui. E qui dove sono fa un freddo tremendo. Portatemi via. Vi prego.
Vi prego.

Chiusi gli occhi, per un momento volevo solo scomparire, che tutti smettessero di parlare, che qualcuno arrivasse lì per tirarmi su con delicatezza, toccandomi come si coglie un fiore, con fragilità, con ogni debolezza e premura. Volevo essere portata via, via in un posto caldo, al sole. Sul mare.
A Phoenix.
Volevo tornare nell’agosto rosso dei miei infiniti ricordi. E risentirlo di nuovo dire, «Hai un taglio degli occhi bellissimo». Ma nulla di tutto ciò sarebbe successo, vero?

Vero?


Quando riaprii gli occhi, ero in ambulanza, sotto il sorriso buono di una paramedica. Non dissi nulla, lei fece lo stesso. L’ululare profondo delle sirene mi faceva venire i brividi.
La prima domanda che mi posi fu, dove sono?
Sono in ambulanza. Mi stanno portando via, stiamo andando in ospedale.
Ma perché, perché sono in ambulanza? Provai a ricordare la mattina, la colazione, i corn flakes mangiati controvoglia, lo zaino in spalla. Charlie che mi dice di stare attenta, che con queste strade di ghiaccio non bisogna scherzare. Io guido, allora, guido piano come mi ha detto lui. Mi fermo cauta ai semafori, non supero nessuno. Io guido lentamente e intanto penso, penso a tante cose. Arrivo nel parcheggio della scuola e già la gente inizia a farsi tanta in quel minuscolo fazzoletto di cemento.
Cerco un posto per il mio pick-up.
Guido lentamente. Mi fermo.
Tolgo le chiavi, esco dall’auto. Sbatto lo sportello, faccio un cenno a Angela, che se ne sta aldilà di una fila di macchine. Il cielo è terso e l’aria gelida, non nevica, ma le strade sono fisse, immobili, vivono il loro personalissimo inverno. Sento un clacson, di questo mi ricordo bene.
Si tratta più che altro di un distante eco che mi distrae dalla canzone, ma giusto per un momento: non percepisco quell’urlo metallico come una minaccia, come qualcosa che potrebbe riguardarmi, lo ignoro, senza cattiveria, ingenuamente, finché non sento, proprio a qualche passo da me, il suono stridente di un paio di freni. È Tyler. Grida. Non lo sento, ma capisco. Capisco che sta per schiacciarmi, che mi sta per venire addosso con tutto il furgoncino. No, non lo sento.
Ma so che sto per morire.
La mia mente è completamente svuotata, ridotta, paralizzata da un dolore acutissimo e un dispiacere, una tale disperazione che non avrei mai creduto possibile provare. Sto per morire e il mio corpo non reagisce.
Muoio mentre Keaton Henson canta e ho un’improvvisa voglia di piangere.
Voglio tornare a casa, voglio tornare da mia madre, subito.
Ma l’unico subito che posso vivere è questo e sarà l’ultimo.
È la fine.
E invece no.
Tento di portare alla mente più dettagli, più frammenti di quell’istante, ma non ce la faccio. Scoppio a piangere davanti a tre paramedici che subito si allarmano, si agitano.
«Che succede, ti senti male?», inizia a controllarmi la donna.
Non rispondo, continuo solo a piangere.
Piango finché non arriviamo in ospedale, vergognandomi di tutto, della mia voce, dei miei singhiozzi, della mia bocca, del mio viso. Piango fino a consumarmi, di dolore, di gioia, di follia, di disperazione.
Piango fin dentro il sonno, perfino nei miei stessi, agitatissimi, sogni.
Piango, piango perché sembrava la fine.
E invece no.

Riaprii gli occhi di fronte a quelli preoccupati di mio padre, che immediatamente mi assalì con mille domande, mille gentilezze, mille parole. Non fui in grado di arginare la diga che era diventata la sua mente e così mi limitai a ascoltare, annuendo a volte.
«Stai bene?, Ti gira la testa?, Cosa è successo?».
Non lo so.
Mi limitai a alzare le spalle.
Tirò un lievissimo sospiro di sollievo.
«La patente quello se la dimentica, io lo sbatto in carcere per tutta la vita, giuro su Cristo..», iniziò a borbottare lui. Ero stanca, davvero stanca e priva di qualsiasi sentimento. Non esisteva in me più nulla di concreto, palpabile. Ero solo un corpo, solo carne e ossa senza alcuna forza.
Entrò in quel momento, nel mio campo visivo, un uomo giovane, snello e slanciato, i capelli biondi gli incorniciavano l’ovale del volto. I suoi occhi gentili si posarono su di me.
«Sceriffo Swan», fece un cenno a mio padre.
«Dottor. Cullen», rispose l’altro, non senza una certa riverenza.
«Tu devi essere Isabella», si avvicinò piano, «Come ti senti?».
Provai a sorridere, per rassicurarlo, ma avrei desiderato parlare e spiegarmi, capite? Avrei desiderato che lui avesse potuto vedere quello che c’era nel mio cuore – uno strano sentimento, a metà strada fra una tristezza grande quanto l’oceano e la felicità tipica di rivedere chi ami, di poterlo riabbracciare, capire che è vivo, che esiste ancora con te e nello stesso momento in cui esisti tu.
Ma non c’era davvero un nome per ciò che mi animava.
Lui mi rivolse la sua espressione più delicata, «Non ti preoccupare. Non sembrano esserci danni, salvo qualche graffio. Starai bene», mi assicurò, «Sei stata molto fortunata».
Mio padre gli domandò per quanto tempo sarei dovuta rimanere in ospedale – il Signor Cullen lo tranquillizzò: «Bella potrà tornare a casa oggi stesso, non si preoccupi. Se ci dovessero essere dei problemi, non esiti a informarmi direttamente».
Era tutto lì, tutto in quelle parole. «Grazie mille», «Arrivederci».
«Stammi bene».
In tre frasi la visita si era conclusa, l’intero episodio era stato archiviato, cancellato.
Eppure in me principiava a delinearsi un dubbio, un sospetto, una sorta di irrisolvibile questione: ero viva, respiravo, potevo ancora muovermi, ma questo non era possibile. Tyler avrebbe dovuto uccidermi, nel migliore dei casi distruggere e sfregiare per sempre il mio esile corpo. E invece..
Invece Edward, le sue mani.
Concentrandomi, potevo ancora sentirle sul mio corpo: gelide come il marmo, tese come una corda di violino. Potevo ancora sentire il suo lieve profumo circondarmi tutta, vedere la sua mano affondare nello sportello del furgoncino di Tyler. Ma non poteva essere possibile.
I miei occhi si erano creati una realtà tutta loro, forse? Era così quindi? Ma se escludevo Edward dalla mia articolata equazione mentale di eventi, allora cosa poteva giustificare ancora la mia esistenza su questo pianeta? In macchina con Charlie, sul ritorno verso casa, non parlai molto. Lo convinsi a pensare che era solo la stanchezza, era stata una giornata pesante. Fine della storia.
Appena a casa, mi infilai sotto le coperte e lì vi rimasi fino al giorno seguente. Pensavo, a volte riuscivo a dormire qualche ora, ma il ricordo di quell’atroce suono, di quel tonfo sordo era in me ancora così vivo che ogni volta finivo per svegliarmi di soprassalto. Non capivo e non capire mi faceva impazzire.
Ormai non badavo nemmeno più al fatto di essere ancora viva, tutta la mia attenzione era rivolta verso Edward, il ricordo poco preciso che avevo di lui.
Fissavo il soffitto, mi costringevo a ripensare a quella mattina, anche a costo di soffrirne terribilmente. Tentavo di ricostruire una versione plausibile. Ma niente poteva avere un senso logico.
Mi pareva di averlo visto correre verso di me, prima dell’impatto, ma non ne ero sicura. Lui era, nella mia memoria, più che altro un’ombra, una striscia di colore, quasi un soffio improvviso. Chiudo gli occhi e sono di nuovo nel parcheggio, lui è accanto a me, mi stringe, mi spinge a terra delicatamente. Io non faccio che fissare il suo collo, la sua camicia, i suoi capelli. Non capisco cosa succede e prima che mi accorga realmente del suo braccio teso a proteggermi passano alcuni minuti. Poi tutto si confonde e l’unica cosa chiara che riesco a percepire è la sua voce.
Mi chiama.
«Bella, Bella».
Non dice altro che il mio nome. Guardo i suoi denti, le sue labbra, non posso parlare.
Apro di nuovo gli occhi, al sicuro in camera mia.
Mi aveva salvato la vita, quindi? L’aveva fatto davvero? E con una forza disumana piegato un’intera portiera senza farsi il minimo graffio. Poi era scappato via, come un gatto al crepuscolo.
Da allora non l’avevo più rivisto.
Ripensai ai suoi occhi su di me, e quel pensiero mi cullò nel sonno.

La mattina dopo, Charlie mi lasciò dormire. Esitò un po’ prima di svegliarmi e chiedermi se fosse stato il caso di andare a lavoro. Lo tranquillizzai, scendendo dal letto, «Sto bene, ora, è tutto ok».
«Se succede qualcosa, qualsiasi cosa, chiamami immediatamente e io arriverò da te», mi disse con gli occhi puntati nei miei. Annuii. Lo sentii scendere le scale, uscire di casa. Sbattere la porta e andarsene.
Ricaddi a letto, devastata dalla stanchezza.
Quella stessa mattina, ricevetti molti sms, molte chiamate, di Mike, Jessica e altri. Anche Tyler chiamò. Volevano tutti sapere come stavo, fu una distrazione dopotutto, e l’accettai di buon grado.
Jessica mi informò che Edward le aveva chiesto di me o meglio, lo accennò inserendolo fra una valanga di dettagli e commenti sui suoi occhi, la sua altezza, i suoi capelli. A sentire il suo nome un brivido mi fece sussultare. Non capii immediatamente perché.
Infine, la realtà dei fatti, mi parve assolutamente chiara.
Mi spaventata. Ciò che creava tesi incongruenti nella mia mente era proprio lui, l’elemento discorde che non potevo inserire in nessun modo e da nessuna parte. Lui non c’entrava nulla, era un’altra cosa e questo mi turbava. Non lo capivo, sapevo cosa era successo, cosa avevo visto, ma non potevo accettarlo.
Non era logicamente plausibile. Ero a metà fra la mia voglia assoluta di carpire ogni verità e dettaglio segreto e la mia vigliaccheria, che mi suggeriva di non rivolgergli mai più parola.
Quando le telefonate cessarono, decisi di scendere in cucina. Feci colazione piluccando dalla scatola di corn flackes. Guardai la tivù avvolta fra due coperte. Non mi sforzai a fare molto altro.
Charlie sarebbe tornato tardi e non era il caso di tentare di uscire o vestirsi: se mi fossi sentita male sarebbe letteralmente impazzito. Rimasi in quelle condizioni fino a mezzogiorno passato, finché non suonarono alla porta. Raggiunsi la soglia dopo qualche minuto. «Chi è?», chiesi con voce roca.
«Sono io», rispose una voce suadente.
Per un attimo non parlai.
«Sono Edward», lo sentii dire.
Mi si gelò il sangue nelle vene.
«Ciao», balbettai, schiudendo la porta.
«Ei», si limitò a dire lui.
«Non mi fai entrare?», chiese dopo un po’, con quel suo sorriso sghembo.
Annuii e lo feci passare, spostando con un piede gli strascichi delle coperte che mi portavo appresso.
«Cosa vuoi?», chiesi, a testa china, facendo attenzione a usare il tono giusto di voce.
«Sono venuto a vedere come stavi», disse lui. «Posso sedermi?», indicò il tavolo in cucina.
«Mh-mh».
Si sedette sulla sedia di quercia intagliata e rimanemmo così per un po’, a fissarci, senza dire nulla.
«Mi hai spaventato ieri», ammise lui, schiarendosi la voce. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra, esaminando il nostro piccolo giardino, «Non mi rispondevi e per un attimo», rise nervosamente, «Pensa credevo pure che tu fossi morta».
Me ne restai ritta nel mio silenzio, fissa su di lui.
«Mi hai..», le parole caddero in un vuoto sconfinato, fino sotto la sua pelle, le sue mani rigide. E quegli occhi terrorizzati.
«Mi hai spaventato», si liberò sinceramente di quella confessione, ma senza guardarmi, quasi come se fosse stato troppo da sopportare per lui.
«Perché sei scappato?».
La mia domanda rimbombò nella stanza come se fosse stata vuota, completamente liscia e priva di qualsiasi dettaglio. Dopo quella domanda, sì, c’eravamo solo noi al mondo, nessun altro avrebbe avuto il coraggio di respirare quella stessa nostra aria elettrica. Le mie parole taglienti lo misero in difficoltà, agitarono le placide acque del suo essere, fomentando l’incendio nel suo spirito.
«Non lo so», provò lui.
«Non lo sai», feci scettica. «Se credevi che fossi morta, allora perché mi avresti lasciata lì a terra? Non era meglio restare con me forse?», tremavo, ma cercai di darmi un contegno.
In quell’istante provai una tale rabbia, un tale dolore nel guardarlo che il mio cuore parve stringersi fra rovi di filo spinato – lo odiavo in quella cucina, lo odiavo in quei vestiti, nel modo strascicato in cui era entrato in casa mia. Lo guardavo e lo odiavo perché vedevo in lui un codardo e forse questa era la parte che mi feriva più di tutte: era scappato da me nel momento in cui avevo più bisogno di non rimanere sola.
Credeva che fossi morta e mi ha lasciata andare, come se non gliene fosse importato davvero nulla alla fine, come se fosse andato bene abbandonarmi nell’ultima parte della mia vita. Come se io non avessi meritato di vedere un viso amico, prima. Come se non avessi meritato del bene.
Scrollò le spalle, senza rispondermi.
Sì, lo odiavo.
«Io non so cosa è successo», gli confessai, serrando la mascella, «Non lo so come hai fatto», proseguii, «Ma devo essere onesta, non so se lo voglio sapere». I suoi occhi si tinsero immediatamente di uno sconforto che svanì rapido, così come rapidamente era comparso. Per un attimo, parve quasi sollevato. Poi tornò a nascondersi sotto un’espressione cupa. «Però.. Edward», richiamai la sua attenzione,
«Grazie», in quel sussurro volevo che fosse piazzato il più nitido degli addii, la più solida fra le rotture.
«Prego».
Lo odiavo, sì.
Lo odiavo, eppure.. Il modo in cui aveva risposto, così meccanico e sbigottito, quasi senza crederci mi toccò il cuore in un maniera che non avrei creduto possibile. Improvvisamente, apparve ai miei occhi come la creatura più indifesa di questo pianeta, come se davvero non esistesse in lui l’ombra di una singola certezza, un appiglio che fosse uno e per la prima volta da quando lo conoscevo, provai compassione per lui, nel senso più genuino e puro del termine. E il mio cuore si riscaldò.
«Mi hai salvato la vita e io non me lo dimenticherò», promisi mentre si alzava, con forse meno durezza nella voce. Provò a sorridermi, uscendo di casa.
Nel giro di una manciata di minuti, se n’era già andato.

«Bells?», mi chiamò Charlie alla sera, appena rincasato.
Uscii dalla mia stanza, «Come stai?», mi domandò guardandomi dall’alto della rampa di scale.
«Papà», parlai e la mia voce era di nuovo decisa e ferma, «Voglio che mi insegni a usare un fucile».

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Capitolo 4
*** Inviti ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.
                                                                                                      Inviti


Era passato un mese e ancora Charlie non sembrava molto entusiasta di avere accettato. Ogni mattina, prima di uscire, si soffermava sulla soglia più del dovuto e guardandomi mi chiedeva se fossi sicura.
Da un mese a questa parte, la mia risposta, sottolineata da un bel sorriso, era sempre la stessa.
«Come la morte».
Avremmo iniziato fra qualche giorno a fare pratica e io non potevo credere che quel periodo di convincimento, discorsi e altri infiniti tentativi stesse finalmente per giungere al termine.
Non era l’unico di cui occuparmi, comunque. Dopo l’incidente mia madre mi chiamava costantemente, disinteressandosi completamente del fatto che avessi degli orari da rispettare, una scuola, una vita mia. E i miei compagni di classe avevano ripreso a sommergermi di attenzioni – primo in coda Tyler che, forse per espirare la sua gravissima colpa, mi seguiva dovunque andassi, mi offriva il pranzo e ripeteva solo un’unica parola. «Scusa».
«Ti ho già scusato, Tyler, passiamo oltre», rispondevo io seccata a volte.
Alla fine, ero ancora viva. Lo si poteva considerare un successo.
Le lezioni si ripetevano più o meno noiose, più o meno uguali le une dalle altre. Non parlai più molto con Edward – ogni volta che mi avvicinavo a lui avevo l’impressione che qualcosa di non sapere più le parole giuste da usare. Era come se l’incidente avesse cancellato il nostro linguaggio, il modo, seppur embrionale, che avevamo di parlarci – si ha uno speciale vocabolario e linguaggio con ogni persona della nostra vita, e io non conoscevo più quello che legava me e Edward, era come se l’unica cosa a essere stata orrendamente mutilata, nell’incidente, fosse stata la mia capacità di spiegarmi a lui o più semplicemente di guardarlo negli occhi senza timore o senza che in me si scatenassero sentimenti selvaggi. Eravamo sempre noi, solo che non esistevamo più nella maniera in cui esistevamo prima, eravamo come due completi estranei.
Di nascosto, lo guardavo quando eravamo a mensa. Cercavo di decifrare le sue mutevoli espressioni facciali, ma era sempre molto difficile per me. Avevo l’impressione che fosse triste, però.
Non era un dolore accecante il suo, era più come se si stesse spegnendo. Non l’avevo più sentito ridere dall’incidente. Di solito, a mensa, scherzava coi suoi fratelli e quando scoppiava di gioia il suo timbro sovrastava l’aria in un modo assoluto, unico. Pur senza voltarmi quasi mai, lo riconoscevo sempre.
Adesso che occhieggiavo verso il suo tavolo, aveva gli occhi fissi sul suo piatto, intento a rimescolare la brodaglia che aveva sotto il naso con la forchetta. Uno dei suoi fratelli gli tirò una pacca sulla spalla, ma questo non sortì alcuna reazione. Nessun moto improvviso di complicità o tenerezza. Solo altro vuoto.
«Bella?», Jessica richiamò la mia attenzione.
«Cosa fai?».
«Nulla», feci, rimettendomi a mangiare.
«Guardavi Edward?», si avvicinò a me, «Ti piace?».
«No», scossi la testa, «Mi sembrava solo di aver visto qualcosa..», borbottai, «Tutto qui».
«Che farai oggi pomeriggio, Bella?», si fece timidamente avanti Angela.
«Nulla di che. Resterò a casa», dissi.
«Ah! Ma allora possiamo uscire questo pomeriggio», esultò Jessica, «Non hai ancora visto nulla di Forks!».
Tirai su un sorriso lasco, «Mi dispiace, Jess, questo pomeriggio lo passerò con mio padre».
«Eh?», sbottò lei, «Ma per fare cosa?».
«Gli ho chiesto se poteva insegnarmi a usare un fucile», dissi pulendomi le mani leggermente sporche di ketchup. Le due si lanciano occhiate perplesse, «Un fucile?», obbiettò Angela con un filo di voce.
Annuii.
«Per farci cosa?», Jessica era già allarmata. A quanto pare l’avevo sottovalutata, anche lei riusciva a lavorare bene di fantasia. A giudicare dalla sua espressione sbigottita, già mi immaginava in piedi su una montagna di cadaveri o mentre iniziavo a sparare a zero sui miei stessi compagni di classe.
«Ho paura dei ladri», mentii, «Charlie mi ha raccontato che un suo vecchio amico è stato derubato la notte scorsa. Erano in tre e l’hanno aggredito senza che lui potesse difendersi», sorrisi inarcando un sopracciglio, «Sarebbe bello se non mi succedesse».
Jessica tirò un sospiro di sollievo, «Sei coraggiosa però», commentò Angela a quel punto, «A me le armi fanno paura». In effetti anche a me, pensai. Ma c’è qualcosa che mi spaventa di più – i miei occhi si rivolsero improvvisamente verso quelli di Edward, che mi guardava, dall’altro lato della stanza.
Non ci fu nemmeno un cenno fra di noi, solo un’occhiata imbarazzata. Poi ognuno tornò ai propri discorsi.

Il resto della giornata trascorse tranquillo, perfino affrontare l’ora di Biologia non mi dette troppo pensiero.
Edward era sempre lì, al suo posto, con gli occhi puntati sui suoi libri.
Mi sedetti senza dire nulla, mentre il Signor. Banner ci accennava qualche dettaglio riguardo alla gita di oggi. Mi limitai a ascoltare, senza troppo entusiasmo e accettare la compagnia di Mike durante tutto il tragitto in pullman. Cianciava di cose, mi raccontava di posti, persone. Tutte cose che mi interessavano meno delle scuse di Tyler. Quando arrivammo, finalmente, si staccò un po’ da me, a malincuore e andò a salutare un suo amico. Rimasi sola per la maggior parte del tempo durante la visita guidata alla serra. C’erano così tante piante e un odore così forte che quasi mi girava la testa.
I fiori mi piacevano. Quando ero piccola, mia madre mi aveva insegnato a fare le corone con le margherite: me le faceva indossare e un sentimento di bontà mi pervadeva tutta. Mi sentivo incredibilmente amata. Chi ti regala un fiore non può volerti male, deve per forza esserci del buono in chi compie un atto simile, in chi ti infila petali fra i capelli solo per vederti ridere. Davanti a quegli immensi vasi, ripensai a mia madre e mi scappò un sorriso. «Lo sai che qui non si possono cogliere fiori?», una voce richiamò la mia attenzione.
Edward davanti a me sorrideva con aria innocente, «Non lo sapevo mica», ridacchiò.
«Sei scemo o cosa?», sbottai io, «È una serra, è ovvio che non si possa cogliere fiori qua dentro».
Da dietro la schiena comparve questo bocciolo rosso vermiglio, in tutta la sua fragilità, attaccato con tutte le sue forze alla vita. Il suo era un vasetto minuscolo e di un nero scintillante.
«Mi hanno detto che non potevo coglierlo, allora ho preso l’intero vaso», rise lui, «Tieni».
Restai interdetta per un attimo, «Che significa?».
«Che ho rubato un fiore per te e adesso sono diventato un pericoloso criminale», la sua voce era accogliente, mi avvolgeva e mi faceva intenerire.
Ancora non capivo, «È per dirti che sono felice che non sei morta».
Ci fu un silenzio imbarazzato per qualche momento.
«Mi piaci più così che come frittata di Bella», rise divertito, ma sempre con quell’aria triste, mortificata.
Presi il vaso fra le mie mani e me lo portai vicino. Il mio cuore iniziava a battere all’impazzata e io non capivo come mai. Forse era solo quella sua gentilezza a rendermi fragile.
«È stato merito tuo», sottolineai io, fissando il fiore ancora nel sonno.
Lui scrollò le spalle, senza rispondermi.
Rimanemmo a lungo così, quasi durante tutta la gita, vicini, senza parlare, chiusi nei nostri mondi tutti presi a rimuginare idee e teorie. Riuscii comunque a non farmi scoprire da nessuno e il fiore se ne tornò a casa con me. A volte lo guardavo, silenziosa. Riposava sotto la tiepida luce invernale, fra le note dei The XX che riempivano la stanza. Si prendeva il suo tempo e io lo invidiavo – niente lo toccava, nessuna paura lo attraversava. Nel rosso vivo del suo fuoco mi sembrava quasi percepire un etereo senso di tranquillità.
Era come se dicesse, Poi si vedrà.
Il resto non importa.
Forse anch’io avrei dovuto adottare quella filosofia di vita, scegliere strade e prendere decisioni seguendo unicamente il mio istinto. E se poi andava tutto male? Non ci pensare, poi si vedrà.
Quando scesi le scale per uscire con mio padre – e il suo fucile – pensai molto a Edward. Non tanto a lui in quanto persona, no, pensavo più che altro a quel suo modo di muoversi, al suo viso chino sotto il peso di una vergogna che non riuscivo a decifrare. Immagino ci fossero anche in lui dei segreti così profondi che quasi gli facevano mancare il fiato per il tanto dolore.
Lo potevo capire.

«Ok, devi tenerlo così», spiegava con aria cupa Charlie. «Questo è il grilletto. Per ora è un fucile caricato a salve«. Gli lanciai un’occhiataccia, «Senza offesa, tesoro, ma preferirei non morire oggi», tentò di sorridermi, poco convinto. Davanti a me uno spiazzo deserto fra gli alberi, un prato rado e una staccionata, a qualche metro da me. «Prova a colpire i barattoli, vuoi?», mi incoraggiò lui, prima che mi mettessi le cuffie. Annuii.
Il primo colpo venne sparato a mezz’aria e non colpì nulla. Io caddi a terra sotto la spinta allucinante dell’arma e lì rimasi, per qualche istante. Mi levai le cuffie, e intanto sentivo mio padre ridere di gusto.
«Sei sicura di voler continuare?», mi prendeva in giro.
Fu una domanda su cui riflettei seriamente. Sono sicura di voler continuare? Ripensai all’incidente e al modo in cui mi ero sentita. Debolissima, incapace. Priva di speranze: io non avevo strumenti, dalla mia avevo solo la speranza che qualcosa di miracoloso accadesse. Nient’altro. Non mi ero mai sentita così profondamente umiliata nell’orgoglio e inerme. Se Edward non fosse stato lì, se non fosse stato per lui sarei morta. Certo, un fucile non mi avrebbe salvato da una macchina senza controllo, ma mi faceva stare meglio. Mi faceva sentire come se potessi avere una possibilità, e se ne avessi avuto l’occasione, avrei potuto contare su me stessa, invece che affidarmi completamente a qualcun altro – il mio corpo, come realizzai nelle settimane a seguire, questo corpo, era l’unico che mi era stato concesso e era mio. Era piccolo e inadeguato e spettava a me proteggerlo, con ogni mia forza, con ogni mezzo a mia disposizione. Non si trattava di scegliere, si trattava di cominciare. Quindi, la risposta alla mia domanda era, sì. Sono sicura.
Lanciai un ultimo sguardo al cielo.
«Posso farlo ancora», dissi rialzandomi,
«Posso farlo meglio».

La stessa forza che era sbocciata in me come un’improvvisa primavera fu la stessa che mi spinse a segnarmi a un corso di auto-difesa. La palestra era piccola e i frequentanti quasi tutte donne sulla quarantina, ma non mi interessava. Ogni volta che mettevo piede in quel posto, il mio corpo entrava in una perfetta sintonia col mio spirito: ero in pace con me stessa. Capii in quei giorni che tutto quello che facevo lo facevo perché mi amavo, mi amavo di un amore così forte e indissolubile che non poteva essere espresso in nessun modo conosciuto. Nessuno si sarebbe mai preso così cura di me come stavo facendo io, mentre calciavo l’aria e svuotavo la mente. Era come se, improvvisamente, avessi smesso di essere sola.
Nei giorni a seguire venni a sapere del ballo di primavera, che si sarebbe tenuto nelle prossime settimane. Il primo a invitarmi fu Tyler, seguito a coda da Mike e dall’impacciato Eric. Furono tutti e tre rifiutati senza troppe moine. «Mi dispiace, sarò a Seattle quel giorno», rispondevo a tutti con aria desolata, «È proprio un impegno inderogabile».
Tutti, chi prima, chi poi, rinunciavano e se ne andavano via, senza dire una parola.
Non che mi interessasse granché. Le feste mi piacevano, ma avevo altri pensieri per la testa al momento. Alle fine delle lezioni, raggiunsi il pick-up parcheggiato e gettai lo zaino sui sedili. Mi infilai dento, detti gas.
«Ciao».
Spensi l’auto. «Ciao Edward», risposi.
Mi preparai fin da subito per un’altra conversazione criptica e imbarazzante.
«Guarda», disse lui, indicando la sua t-shirt dei Black Sabbath, «Figa, eh?».
«È carina», ammisi alzando le spalle, stupendomi della leggerezza che mi procurava vederlo così sorridente.
«Non essere invidiosa, dai», ghignò lui coi gomiti appoggiati alla portiera, «Te ne compro una se ci tieni».
Gli lanciai un’occhiata attenta: sembrava divertito, tranquillo. C’era in lui qualcosa che mi faceva pensare che forse, dopotutto, il nostro rapporto non era completamente perduto.
«Ah davvero?», ribattei con aria sarcastica, celando il mio ovvio divertimento, «E poi andiamo in giro a fare i gemelli siamesi?».
«Dai non fare la cattiva con me», s’imbronciò, «Ho sentito che vai a Seattle».
Mi voltai con espressione stupita nella sua direzione, per incontrare i suoi occhi intelligenti, «Come lo sai?».
«Forks è piccola, la gente mormora, ormai fai anche tu parte della famiglia, è ovvio che tutti sanno tutto di te», iniziò a punzecchiarmi lui, «Vorrei venire con te, se non ti dispiace».
«È fuori discussione», risposi dura questa volta, «Vado là per stare tranquilla», lo fulminai con lo sguardo, «Ma stare tranquilli con te è un’impresa».
Rimase un po’ offeso da quelle mie parole e si fece improvvisamente serio, «Ma che dici», riprese a sorridere, «Non lo sai che è un mondo pericoloso là fuori? Per le donne non è sicuro viaggiare sole».
«Grazie tante, ma no grazie», sbottai.
«Permalosa», insisté lui senza spostarsi.
«Devo partire, levati».
«Il tuo pick-up a Seattle ci arriverà cubettato. È un vero catorcio. Pure per gli standart americani».
Ci pensai effettivamente su un momento e lui colse quell’unico spiraglio per infilarcisi a corpo morto. «Finisco i compiti per te, ti salvo la vita, ti offro passaggi,.. Wow Edward Cullen candidato a miglior ragazzo di sempre!», rise, inumidendosi le labbra, «Praticamente se fossi in te mi sentirei quasi obbligata».
«Come ti pare», tagliai corto io, cercando di non dare a vedere la mia indecisione, «Ci penserò. Ti farò sapere».
«Mi piace già di più», si spostò lui, allontanandosi dal pick-up, «Ci si vede!», lo sentii gridare.
Sul ritorno verso casa mi domandai se sarebbe stato considerato illegale fare una brusca inversione a U e iniziare a guidare con una matta provando a investirlo.

Probabilmente sì.

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Capitolo 5
*** Gruppo sanguigno ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.


                                                                                               Gruppo sanguigno


«Grazie per essersi unita a noi, signorina Swan», disse piccato il professor Mason.
«La sveglia non ha suonato», cercai di giustificarmi.
«È una cosa che non mi interessa», ribatté lui, continuando la lezione.
Mi sedetti al primo banco libero, disponendo davanti a me i libri in fretta, cercando di sopportare la stizza che quell’uomo mi procurava. Mi passai una mano fra i capelli, misurando attentamente una frustrazione che mi stava veramente facendo impazzire: ero sicura di aver messo la sveglia, ieri sera. E in realtà anche di aver già preparato la cartella, cos’era successo? Sospirai.
Questa stanchezza non faceva che debilitarmi, forse avrei soltanto dovuto bere una tazza di camomilla oppure andare a letto immediatamente dopo cena. Seguii a stento il resto della lezione e per il resto del tempo mi limitai a scarabocchiare sul quaderno. Disegni senza senso più che altro.
Ancora pensavo alla proposta di Edward e anche alle precarie condizioni del mio pick-up. Chissà se sarebbe riuscito davvero a portarmi fino a Seattle o se mi avrebbe abbandonata a metà strada.
Un pieno sarebbe bastato? Quante miglia c’erano fra Seattle e Forks? Cento? Centocinquanta?
Un brivido mi percorse la schiena, avrei dovuto accettare un passaggio sul serio. Che frustrazione, continuai a pensare mentre mi spostavo, scortata da Eric e Mike, verso la mensa.
Appena entrati in mensa, presi un vassoio con poca voglia e mi trascinai fino alla cassa, dopo aver preso il mio pranzo. Jessica, di fianco a me, continuava a parlare col niente, per quel che mi riguardava – ero troppo concentrata sui miei affari, per poter dar retta al suo farfugliare sconnesso.
«Oh mio Dio!», gridò a un certo punto, «Edward. Cullen. Ti. Sta. Fissando», scandì le parole con malizia.
Se ne stava solo al tavolo (ma abbandonato forse era il termine che gli si addiceva di più) e provava malamente a nascondere quella solita aria da cane bastonato che ultimamente lo caratterizzava.
Non ci fu molto di cui ragionare, appena lo vidi lì presi subito la decisione di andargli a parlare.
«Oggi non mangio con voi», dissi seria a Jess, «Devo fare una cosa».
Presi la mia roba e lo raggiunsi, sedendomi senza nemmeno chiedere.
«Ah, ciao Edward, ciao Bella! Posso sedermi? Ma certo», bofonchiò lui, sarcastico.
«I tuoi fratelli non pranzano oggi?».
«A quanto sembra», scrollò le spalle lui, «A cosa devo l’onore?», mi guardò incuriosito.
«A Seattle ci vuoi ancora andare?».
La mia domanda sembrò coglierlo di sorpresa e questo lo rese in qualche modo, e per qualche ragione a me aliena, felice. Era radioso, perfino i suoi occhi sembravano essere diventati più grandi.
«Certo», rispose in tono mellifluo, «Allora verrai con me?».
Rimasi un attimo in silenzio.
«Forse», parlai.
Lui tornò improvvisamente cupo, «Che problema hai, mh?», mi chiese guardando con poco interesse il suo cibo. Non risposi.
«Io non ti sto simpatico, è questo?», chiese.
Il suo sguardo cambiò improvvisamente, due fessure si strinsero lentamente sul suo volto – provava a capire. E ecco di nuovo, mutava: inaspettatamente, improvvisamente guardava altrove, schiudendo appena le labbra. Ogni cosa in lui sembrava piegarsi tremendamente sotto le mie parole. Potevo sentire il suo intero cuore subire ogni schianto.
«A volte mi piaci», ammisi, «Ma tu un po’ mi spaventi».
A quelle parole, il suo corpo si irrigidì e gli occhi divennero lucidi. Il modo in cui mi fissò in quel momento mi spezzò letteralmente il cuore. «Che significa?», domandò con affanno.
«Significa che..», lasciai cadere la frase a mezz’aria.
C’erano risposte che davvero non potevo concedergli; avrei voluto spiegargli che lui non mi sembrava come gli altri. Non capivo come mai, non avevo idea di cosa mi spingesse a pensare una cosa simile, era più che altro un lieve sentire che si era fatto più acuto dopo l’incidente. Avrei voluto dirgli che non coglievo con esattezza le precise differenze che lo distinguevano, nella mia mente, così nettamente dagli altri, ma che c’erano e mi ferivano. Le potevo sentire addosso, come una minaccia, un fantasma, una maledizione.
Avrei voluto, ma scelsi di non confessarmi.
Erano i suoi occhi, e il modo in cui ogni volta sembrava che una lama puntuta gli si rivoltasse sotto la carne.
Come se non fosse abbastanza forte per sopportarlo.
«Non penso che tu sia cattivo», provai a dire, «Io anzi.. Io penso che tu sia buono, anche se a volte ti tratto male. E se ti prendo in giro. Non penso davvero che tu sia una brutta persona».
«Ma io non ti capisco», lo guardai negli occhi, sperando che comprendesse, che ci riuscisse anche con il mio silenzio. Sperando che fosse stato lo stesso capace di completare quella frase anche senza bisogno delle mie parole.
Io non ti capisco. E quando ti vedo, io non ti vedo sul serio. Vedo solo qualcosa che sembra vivo, che si comporta nello stesso modo di tutti gli altri, che fa le loro stesse cose, ma semplicemente non è come loro.
Scrollò le spalle, «Pensi davvero che io sia una brava persona?».
«A volte sì», sorrisi io, cominciando a mangiare.
«Quando ti ho regalato il fiore, quel giorno ero una brava persona?», domandò.
«Teoricamente sì, è stato solo un bel gesto. Ma praticamente mi hai trascinata nel mondo della criminalità, quindi, se ci pensi,..», lasciai la frase in sospeso in modo ironico: questo lo fece ridere.
«Allora», iniziò lui, «Vuoi andare a Seattle ma non con me. Però vuoi un passaggio comunque. Anche se ti spavento». «Sì più o meno», sorrisi divertita.
«Tu non mangi?», domandai qualche istante dopo, lanciando un’occhiata perplessa al suo cibo ancora intatto nel piatto. «Mh», rispose lui, «Non mi fa impazzire questa roba. Io sono più un tipo naturale sai, questi cibi precotti mi fanno venire l’orticaria. A me piacciono cose vive».
«Sei inquietante».
Lui sghignazzò, «Stai tranquilla, tu sembri comunque troppo morta per potermi interessare», fece un cenno verso le mie pallide mani.
«Disse l’uomo che sembrava cresciuto fra gli albini», dissi strizzando lievemente gli occhi.
Ridemmo, insieme.
In quei momenti mi sembrava come chiunque altro. Mi sembrava vero, e in me non v’erano più dubbi. Poi smetteva e di nuovo tornava a tormentarlo qualche oscuro segreto, qualche ricordo tremendo e qualcosa in me si spezzava. Se solo, pensai, se solo avessi potuto dare una spiegazione a tutto ciò, allora forse non lo avrei sentito più così distante da me. Forse mi sarei potuta abituare. Ma con quei pensieri irrisolti, quei misteri, esisteva ancora in me qualcosa che mi supplicava, ogni istante, di correre via da lui, il più lontano possibile e non fare mai più ritorno. «Ti piacciono i Clash?», mi chiese.
Annuii con decisione, buttando giù un altro boccone, «Li adoro». Il sorriso che gli si dipinse in faccia somigliava all’amore e questo, per un attimo, mi pizzicò il cuore.
«Ho tutti i loro CD, sai», parlò con un’aria di finta presunzione, «Potremmo ascoltare quelli mentre andiamo a Seattle». Ridacchiai, «Adesso non ti allargare troppo».
«Bella», disse lui, e io, piano alzai gli occhi verso i suoi, caldi, dorati, rilucenti di una luce tutta nuova.
«Mi piacciono i tuoi capelli», disse con quella sua aria era seria, delicata.
Arrossii violentemente, tanto inaspettato era un simile commento. Guardava le mie ciocche color cioccolato con adorazione, quasi, perso fra i riflessi lucidi. Abbassai lo sguardo immediatamente.
«Mh..», risposi poco convinta, «Grazie», bofonchiai.
«Spero che non li taglierai mai», continuò lui, con un flebile sospiro. Qualcosa in me si mosse, facendomi tremare. C’era una tale debolezza nella sua voce, una tale lontananza da farmi quasi venir voglia di piangere. Era come se stesse per sparire, come sentirlo sprofondare. Quella fu la prima volta che lo sentii realmente vicino e quella vicinanza mi sconvolgeva.
Sapevano che c’erano parti in noi che si somigliavano, eppure..
«Bella», una voce richiamò la mia attenzione: era Angela.
«La campanella è suonata! Sbrigati o farai tardi a Biologia», disse, uscendo dalla mensa.
«Dobbiamo andare», annunciai andandomene, quasi nella speranza, sempre più forte di quanto mi piacesse ammettere, che quella conversazione sarebbe potuta durare più a lungo.
«Mh, non credo», rispose lui con un sorrisetto, «Penso che questa lezione la salterò», ridacchiò.
Per un attimo fui quasi delusa, ma mi ripresi immediatamente. Scrollai le spalle e lo lasciai lì.
Andandomene, mi sarei voluta voltare indietro, almeno una volta.
Ma non lo feci.
Ancora non so perché.

«Oh Dio. Così va male, va malissimo», cominciai a farfugliare, con la testa vuota.
«Ti senti bene? Bella?», Mike mi chiamava. Il professor Banner si avvicinò a noi con una certa preoccupazione in viso. «Non è nulla», provai a mentire, «È solo la vista del sangue che mi disturba», mugolai. Il fatto che tutti in quell’aula si divertissero come matti a bucherellarsi la pelle e a far colare sangue sui loro vetrini solo per sapere il loro gruppo sanguineo mi dava il volta stomaco. «Io so già che tipo di sangue.. È il mio..», provai a dire, ma mi dovetti fermare. Stavo per vomitare.
Mike mi portò fuori dall’aula e mi fece sedere su una panchina.
«Non sapevo che ti facesse così effetto un po’ di sangue», ridacchiò – sembrava meno preoccupato di qualche momento fa. «Già», dissi, «A Phoenix la sapevano tutti questa cosa e questo diciamo mi ha quasi sempre salvata da situazioni simili..», la testa mi girava vorticosamente, «Chissà perché ho dato per scontato che anche voi..», non riuscii a terminare la frase.
«È tutto ok», mi tranquillizzò Mike.
Annuii, poco convinta.
Già. A Phoenix era diverso.
Un piccolo brivido mi corse lungo la schiena.
«Bella!», mi voltai a malapena verso Edward. Camminava veloce verso di noi – Mike ne fu infastidito.
«Che succede?», chiese allarmato.
«Non è nulla, Cullen, me ne occupo io», si intromise Mike, «Puoi tornare da dove sei venuto».
«Ti sei fatta male?», Edward lo ignorò, accovacciandosi vicino alle mie ginocchia.
Sembrava preoccupato.
«Non si è neanche punta il dito», disse Mike, come se Edward potesse capire quello a cui si stava riferendo.
«Forse dovresti distenderti», suggerì, tirandosi su in tutto il suo metro e novanta.
«Vieni, ti porto io», aggiunse poi.
«Il Signor Banner l’ha affidata a me», saltò su Mike, in uno scatto d’orgoglio. E di gelosia.
Edward lo fulminò con lo sguardo, «A te non lascerei in mano nemmeno un calzino, Newton».
Quello parve stizzirsi parecchio, cominciò a strillare qualcosa su quanto Edward fosse spocchioso e irritante. Ma io non ce la facevo a ascoltarlo. Continuavo a pensare al sangue, alla mia testa che penzolava da un lato e a quel fastidiosissimo senso di disgusto. Non sentivo nulla, non facevo nulla. Cercavo soltanto di isolarmi, di non pensare. Poi, improvvisamente, mi parve di essere una piuma, un piccolo soffio d’aria.
Quasi non avevo più peso – schiusi gli occhi, scoprendomi fra le braccia robuste di Edward, che mi portava via. Mi colse un inverno improvviso fra le sue braccia, impossibile che la sua carne fosse così fredda nonostante il suo maglione di cashmere. Eppure iniziai lo stesso a tremare.
«Mi dispiace», lo sentii sussurrare, mentre ancora mi sembrava di essere in uno stato profondo di dormiveglia, «Non sono molto caldo, mi rendo conto», sorrise amaramente.
A me in realtà, non importava. Il freddo non mi infastidiva più di tanto e in realtà era unico il senso di tranquillità che mi aveva avvolta quando mi aveva toccata: era di nuovo come il giorno dell’incidente, avevo freddo, mi sentivo sola e triste, spaventata, ma poi, per qualche secondo, solo qualche e sempre rapidamente come faceva lui di solito, mi aveva toccata. Mi aveva tenuta con sé come la bambina che ero e in quei vaghi momenti che tornavano a me come onde sul bagnasciuga, io ero stata tranquilla. Non felice, non divertita, solo tranquilla. Ero in pace con tutto, perfino la morte non era più il punto che avrebbe messo fine a tutto, ma soltanto un’altra virgola, soltanto un altro verso. Somigliavano al sonno quegli istanti, a un paio d’occhi che serenamente si chiudono sul mondo senza rimpianti, senza ansie, senza paura di lasciarsi andare. Edward a volte mi spaventava, ma nessuno riusciva a farmi sentire in quel modo, impiegando così poca fatica. Quando ci fermammo, i miei occhi si aprirono nell’ufficio caldo e luminoso della Segreteria.  «Ah, poverina! Eccone un’altra», commentò la donna dai capelli di fuoco, «Le vado a prendere del ghiaccio». Appena uscita, Edward rise, «E così mi hanno detto che volevi fare la dura e poi se vedi una goccia di sangue cadi a terra tramortita», continuò divertito, «Che tipo».
Provai a tirargli un pizzicotto, ma senza ottenere troppi risultati.
«Stai zitto», borbottai io, «Ti sembra una cosa giusta deridere chi soffre? Ma tuo padre non era un dottore forse? Non ti ha insegnato proprio nulla». «Carlisle non è il mio vero padre, sai. Quindi non vale», mi sorrise, scostandomi dal viso una ciocca di capelli, «Lui è bravo, io no. Io prendo in giro chi mi pare».
«Vedi, quando fai così sei meglio», parlai io, quasi senza rendermene conto.
«Che significa?», chiese lui, curioso come al solito.
«Quando sei così, come me. E scherzi. Gli altri non scherzano come te», borbottai, completamente intontita, «Gli altri non mi fanno ridere come fai tu, non sanno giocare».
Ci fu qualche minuto di silenzio. I miei occhi ancora schiusi bruciavano da morire, avevo solo bisogno di un letto caldo in quel preciso istante. Spostai delicatamente la testa verso Edward, poggiandomi sulla sua spalla. Il suo maglione era morbido e lui così freddo.
««Perché la tua pelle è così gelida?», domandai candidamente, «Non ti fa freddo?».
«No».
«Perché no?».
«Non me lo ricordo perché», sussurrò lui, con la voce rotta.
Quel dolore mi fece aprire gli occhi, spalancarli quasi. Quando mi parlava così, quando mi guardava così, quando si rivelava in quel modo, da qualche parte, in me, si aprivano profonde ferite che non riuscivano a rimarginarsi mai. La donna dai capelli di fuoco interruppe quell’attimo, entrando nella stanza, «Ecco qui, cara», si chinò su di me porgendomi del ghiaccio, «Stai meglio ora?».
Annuii, restando sempre vicina a Edward.
«Sì», rispose lui per me, «Prima ha anche riso», sghignazzò.
La donna gli sorrise amabilmente, «Meno male che eravate insieme, allora», disse.
Nello stesso momento, fece la sua comparsa Lee Stephen, accompagnato dal barcollante Mike che si faceva carico delle sofferenze del compagno. Lee aveva la bocca storta e un’espressione contorta.
«Si sente male», disse Mike.
«Anche lui!», sbottò la donna, preoccupata.
«Bella come stai?», disse rivolgendosi a me Mike, «Meglio, ti ringrazio», lo tranquillizzai con un cenno leggero. «Verrai lo stesso a La Push, questo sabato?», mi parlava, ma avevo la sensazione che quella domanda non fosse rivolta esclusivamente a me. «Certo che sì», risposi, «Alle dieci davanti al negozio di tuo padre».
Mike sorrise speranzoso.
«Va bene, mi pare che tu stia meglio, possiamo anche andarcene, no?», s’intromise Edward, rivolgendo un’occhiata tagliente a Mike. «Non ti preoccupare, Newton, mi assicurerò che Bella sia in ottima forma per questo sabato», soffocò una risata divertita, mentre mi apriva la porta, «Sono uno che ci tiene a fare felice gli altri», disse prima di chiudersi la porta alle spalle.
Una volta che la porta della Segreteria fu chiusa, una parte di me non poté fare a meno che domandare a Edward se anche lui sarebbe venuto con noi a La Push. «No», si passò una mano fra i capelli scompigliati, guardando altrove, «Io e la mia famiglia andremo a fare una gita, immagino. A volte capita, è per stare insieme», mi rivolse un'occhiata insicura. «Ah», feci io, provando a nascondere l'ormai già evidente delusione, «E dove andrete?». «Goat Rocks
», rispose lui. Provai a dire qualcosa, a dare anche una risposta qualsiasi, ma la testa continuava a girare vorticosamente, e il mondo intorno a me cominciò a rifarsi di nuovo confuso, poco nitido.
«Ce la fai a camminare?», si rivolse a me con una serietà che gli avevo visto solo pochissime altre volte in viso. Annuii, ma sempre poco convinta.
«Appoggiati a me», disse avvicinandomisi e per la prima volta giurai d’aver sentito del calore in quel tocco così delicato – poggiai la testa sulla sua spalla e lasciai che lui mi passasse il suo braccio intorno alla vita.
«Ti riporto indietro, fra qualche momento dovrebbe finire la lezione di Biologia. Dovresti stare meglio».
«Grazie», dissi un po’ imbarazzata, «Non dovevi per forza», tentai di giustificarmi.
Lui scrollò le spalle, «Non è un problema per me, non avevo nulla da fare comunque».
Arrivammo di fronte la porta dell’aula e lui mi fece sedere sulla stessa panca su cui prima mi aveva trovata e soccorsa, «Ecco qui. Posso lasciarti sola o rischi di prendere fuoco?», ghignò.
«Simpatico», commentai sforzandomi di ridere, quando in me nulla suscitava più divertimento – sapevo bene che il momento del distacco era prossimo e per qualche ragione quell’idea mi stringeva il cuore in una morsa dolorosissima.
«Va bene», sospirò lievemente lui lanciandomi un’occhiata indecifrabile, «Allora ti lascio qui. Mi prometti che farai attenzione?».
Scrollai le spalle, «So badare a me stessa».
«Questo lo so. Ma sei così fragile», mi sfiorò con due dita e quando si rese conto di ciò che aveva fatto e di quella frase, che in quell’istante era parsa più quasi un inconfessabile segreto rotto dalla distrazione, si ritirò immediatamente e se ne andò, senza troppi convenevoli.
E guardandolo, pensai che non mi sarei mai davvero abituata a vederlo allontanarsi da me, così quel giorno come ogni altro giorno.

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Capitolo 6
*** Racconti del terrore ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.

                                                                                          Racconti del terrore


Il fuoco si mangiava il blu e il verde accesissimo che sfumavano nell’aria fresca.
Guardavo salire al cielo quelle fiammelle, confondersi fra i lumini appesi in cielo, toccare il nero della sera in maniera sfacciata. Il mare, in lontananza, ci osservava con occhi profondi, cantando per noi. L’odore del sale mi entrava fin dentro le ossa, mi sembrava quasi di essere parte di una galassia lontana, figlia di amori universali, di misteri inconfessabili. Per un attimo, ogni ricordo in me si cancellò, presente e passato avevano cessato di esistere. Non pensavo nemmeno più a Edward.
O al ragazzino dagli occhi color del mondo, di un verde accecante. Lo stesso che con me faceva lo stupido e correva giù per la strada solo per vedermi. Rideva mentre mi guardava mentre mi arrampicavo sull’albero di ciliegie vicino a casa mia, per arrivare alle ciliegie più mature, fra le foglie più calde. Io lo rivedevo ancora nel frusciare lento dell’erba bagnata, alle prime luci dell’alba. Lo sentivo ancora nella pioggia furiosa che si abbatte contro le tettoie spioventi e ricurve che penzolano sulla mia testa quando passeggio. E’ ancora con me eppure è sempre più lontano. Lieve fu il sospiro che mi sfuggì in seguito a quei pensieri, ma folle fu l’agitazione che provai nel toccare di nuovo con mano quei momenti.
Lanciai un’occhiata ai visi illuminati dei miei amici – in uno degli angoli più appartati di La Push se ne stavano una manciata di persone, con le loro giacche a vento e i loro sorrisi accesi, a riscaldarsi vicino alla legna in fiamme.
«È bello, no?», disse Mike a un certo punto.
«Sì», sorrise Jessica, avvicinandosi alle sue braccia tese sulle sue gambe piegate.
«Bella, eri mai stata a un falò a Phoenix?», chiese timidamente Angela.
Il modo che aveva di rivolgersi a me e a me esclusivamente mentre parlava, la sua totale assenza di cattiveria o malizia mi riscaldava sempre il cuore.
«Sì, una volta, ma mi ricordo poco», risi.
«Sai», iniziò lei, abbassando con un velo di imbarazzo il suo viso pulito, «Credevo che avresti invitato anche Edward. L’altro giorno sembravate divertirvi molto, mentre parlavate a mensa. E poi», disse con aria assorta, «Ho saputo che ti ha portata in Segreteria quando ti sei sentita male».
«Sì, è stato molto gentile», risposi.
«Infatti», annuì convinta, «Sai, l’ho sempre giudicato male forse», si morse il labbro inferiore con aria di colpevolezza, «Credevo che a lui non importasse molto di nessuno, ma con te è così buono che forse ho davvero sbagliato tutto».
Buono.
Per un attimo questa parola mi fece ripensare all’incidente, al modo in cui mi aveva guardata prima di fuggire. Nei suoi occhi era sovrano lo sconforto – nonostante tutto sono convinta di averlo sentito tremare mentre mi poggiava sulla terra ghiacciata, quasi come se vi fosse stato costretto, come se fosse stato per sempre. Ripensai, per una frazione di secondo, alla sua voce dietro la porta, al suo profilo in controluce seduto al tavolo di casa mia e il modo con cui, in tutta la sua vergogna, si era scusato.
Quello che provai fu calore, calore esploso nella mia pancia, in un punto nascosto in me che credevo non esistesse più. «Sì, è una brava persona», ammisi, rossa in viso.
«Perché allora non c’è anche lui qui, stasera?».
Rimasi un attimo in silenzio e questo sembrò metterla in agitazione, «Scusami, sono davvero un’impicciona», ridacchiò nervosamente, «Non sono certamente affari miei del resto».
Le rivolsi un sorriso sincero, «Stai tranquilla, stavo solo cercando di ricordare cosa mi aveva detto. Allora,.. Fammi pensare.. Ah! Credo che sia andato a Goat Rocks con tutta la famiglia, per un’escursione o qualcosa del genere». Lei sembrò poco convinta. «Qualcosa non va?», chiesi io.
«No nulla è che, è strano..», commentò, «Goat Rocks non è certo il posto migliore per un’escursione in famiglia.. È pieno di orsi», disse con aria preoccupata, «Non è molto sicuro in effetti, qui ci vanno solo durante la stagione di caccia, sai».
Scrollai le spalle, «Forse ho capito male io».
Angela mi sorrise. La conversazione non durò per molto altro tempo – una qualità davvero apprezzabile di Angela è che sapeva concederti i tuoi spazi. Era la persona con cui mi trovavo in assoluto più in sintonia, per il momento. Mi guardai intorno, mi piaceva La Push. Gran parte dei miei ricordi estivi erano legati a questa sabbia, a quelle onde. Mi alzai dal posto in cui ero seduta con fare risoluto, «Mi piacerebbe andare a fare una passeggiata».
«Va’ pure, noi ti raggiungiamo!», rispose con cattiveria Lauren, una ragazza di un’antipatia estrema.
«Ci conto», sorrisi invelenita, addentrandomi nell’oscurità.
Camminai a lungo e più che altro senza una meta. Mi fermai soltanto quando mi sentii stanca e allora mi abbandonai su un grosso tronco d’albero, precipitato forse dalla ripidissima salita che mi sovrastava e che dava sul mare. Nella mia direzione ascoltavo provenire l’eco distante dei chiacchiericci dei miei amici, nella direzione opposta, qualche voce sconosciuta che si avvicinava a me sempre di più.
Pensai di andarmene, quasi spaventata, ma venni chiamata.
«Scusa?».
Il tono era caldo, gentile. Somigliava molto a quello di Edward ma in questo risiedeva una scintilla che l’altro non possedeva. «Stiamo cercando un falò e della gente, sai».
«Jacob, idiota, non la vedi la luce laggiù? Di cosa pensi che si tratti? Di Dio?», lo rimbeccò il suo compagno.
Quando i due mi furono più vicini, mi scoprii a parlare con due ragazzi, di età quasi sicuramente differente e dai capelli tinti di un nero corvino. La loro pelle era macchiata dal sole e i loro volti caldi, dolci.
«Ciao», fece quello che fra i due sembrava il più giovane, «Che fai, stai scappando?», rise, mentre l’altro, senza troppi convenevoli, si congedò con un lieve cenno, raggiungendo gli altri.
«Più o meno, ma credo di aver dimenticato il passaporto falso sotto il letto, quindi,..».
Lui rise, «Sei proprio un tipo. Che ci fai qui tutta sola?».
Scrollai le spalle, «Non so, mi andava di stare per i fatti miei».
«Ah, che asociale», mi prese in girò lui, «Che faccio allora, me ne vado? O ti va bene se resto?», disse, con ancora il viso un po’ coperto dall’ombra.
«Puoi restare, dai», feci io divertita.
«Jacob Black», mi porse la mano in un gesto cordiale, «Tu sei?».
«Bella Swan».
«Ma dai», esclamò lui, «Sei quella Bella? È mio padre che vi ha venduto il pick-up».
«Sei il figlio di Billy?», dissi io stupita, «Fico, il mondo è proprio piccolo».
«È uno sputo», rise lui, «Passavi l’estate a giocare con le mie sorelle, ti ricordi?».
«Ah ma sì», tentennai io, «Lynda e Vanessa?», provai.
Lui esplose in una risata fragosa, «Rachel e Rebecca», mi corresse, «Ma apprezzo il tentativo».
Ci sedemmo sull’immenso tronco nodoso, «Di me ti ricordi?», sfoderò un sorriso smagliante, «Ero quello col pannolino che escludevate sempre».
Risi, «No, mi dispiace».
«Ma come, mio padre diceva che ero molto affascinante», scherzò lui.
«Quanti anni hai adesso, diciassette? Sedici?».
«Quindici», rispose lui con aria lusingata.
«Come mai non ti ho mai visto a scuola?», feci.
«Vado a scuola nella riserva, come i miei fratelli. Nessun viso pallido nel nostro gruppetto di amici», sghignazzò. «Questa è davvero discriminazione», saltai su, fingendo di essere offesa, «Vorresti dire che non possiamo essere amici?».
«Per te potrei fare uno strappo alla regola, dai».
«Mi sento onorata», risi.
Continuammo a parlare in questo modo più o meno per tutto il resto della serata. Jacob aveva un buon profumo e mi piaceva il modo che aveva di porsi, era affabile, gentile. Sembrava una brava persona. Mi disse della sua passione per le auto, le moto. Si divertiva coi pezzi di ricambio e mi chiese anche di venire a vedere i mezzi che era riuscito a rimettere in piedi, «Faccio tutto da solo, sai?».
Gli domandai cos’altro facesse, «In questo periodo poco», sorrise lasco, «Uno degli anziani della riserva non si sente molto bene ultimamente, sai. Quindi siamo tutti concentrati su di lui, capisci. Dobbiamo portarlo fino a Seattle ogni volta che ha bisogno di farsi visitare, una vera scocciatura».
«A Seattle?», esclamai incredula e lui, per tutta risposta, scoppiò a ridere.
«Mio padre mi ha detto che adesso Forks ha fra la sua équipe un medico veramente esperto. Conosci Carlisle Cullen?», domandai io, «C’è lui, siete davvero sicuri che sia necessario fare viaggi così lunghi? Non è rischioso?».
Jacob rimase per un attimo in silenzio, «È un anziano, sai. E loro, diciamo,.. Sono molto superstiziosi».
«Che significa?».
«Nulla, vecchie leggende. Sono tutte scemenze, dai retta a me», mi rivolse un sorriso affettuoso, «Gli anziani sono convinti che il mio popolo discenda dai lupi», borbottò, «E che quelli come, mh.. Come i Cullen discendano da una razza che loro chiamano dei freddi».
«Dei freddi?».
«Già. Ma sono come le favole della buonanotte, sai, è più che altro una tradizione. Ma c’è chi ci crede davvero e chi ne paga le conseguenze? Chi?».
«Chi?», ripetei io con aria divertita.
«Io! Che scemenza», sbuffò.
«Quindi, in pratica, tu dovresti essere un licantropo», soffocai una risata, «E Carlisle..».
«Un vampiro», parlò lui, ma con un’aria così improvvisamente seria da turbarmi.
«Te lo immagini che dissangua le vecchine di Forks?», disse lui, dopo attimi di gelido silenzio.
«Già», risi nervosa.
Lui mi rivolse un’occhiata indecifrabile, «Sai che queste sono tutte leggende, vero?»
Annuii, ma non più convinta come prima. «Preferirei che tu non dicessi a Charlie di questa storia di Seattle, sai.. Lui non è molto felice di questa nostra diffidenza nei confronti del dottor. Cullen».
«Ma certo, nessun problema».
«Allora noi siamo amici fino alla prossima luna piena», rise lui, tirandomi una gomitatina.
«Ci conto», sorrisi.
Da lì a poco, Angela venne a cercarmi – a quanto pare gli altri reclamavano la mia presenza e io decisi che fosse meglio non farmi pregare. Jacob venne con me, ma per il resto della serata non parlammo più.
A notte inoltrata, ce ne andammo.
E durante tutto il viaggio, io non feci che ripensare al suo tono di voce e a quello sguardo serio.
Il modo in cui il suo viso scuro parve immobile quando disse la parola vampiro.

La routine della nuova settimana scacciò via l’ansia che mi aveva accompagnata durante tutto il week-end. Se ripensavo a quella serata, ancora mi venivano i brividi – non riuscivo nemmeno a pensare a quella parola, la sola idea mi gelava il sangue nelle vene e nello stesso tempo mi faceva bruciare di curiosità. Sfortunatamente la mia sete non poté essere soddisfatta che mercoledì, quando felicemente, in un cupo giorno di pioggia e dopo lunghe assenze, Edward si rifece vivo a scuola. Lo vidi un paio di volte sfilare per i corridoi sotto gli occhi adoranti di almeno una dozzina di ragazze. Non sembrava rendersene granché conto. Rimasi per un po’ così, a guardarlo di sbieco, finché, in maniera del tutto inaspettata, lui si voltò.
Non che fosse cosa strana, ma il modo in cui occhi setacciavano la folla mi insospettì – stava ovviamente cercando una persona ben precisa. Sembrava quasi che avesse sentito qualcuno chiamarlo per nome.
I nostri occhi s’incrociarono quasi subito e lui non ci mise molto a raggiungermi al mio armadietto.
«Swan», disse lui con falsa aria di sfida.
«Cullen», strizzai gli occhi io.
«Allora sei ancora viva. Dopo la faccenda del sangue, ormai pensavo che il tuo cadavere fosse già stato occultato», fece lui, soffocando una risata di scherzo.
«Sei io muoio il primo a cui vengono a cercare sei tu», gli toccai il naso con la punta dell’indice e il contatto con la sua pelle marmata mi rese subito più rilassata.
«Me? Con questa faccia così innocente?», piagnucolò lui.
«Innocente? Non penso proprio», ghignai.
«A proposito..», disse aprendosi in un sorriso lieve, «Sembra che il falò sia stato un successone. Mike potrebbe pavoneggiarsi di più con gli amici solo se avesse una corona di piume sul culo», scoppiò a ridere.
Sorrisi, ma solamente per non dargli troppa soddisfazione, «Lascialo stare», dissi, «Mi sta simpatico».
«Lui?», sbottò incredulo, «Hai dei gusti tremendi».
«Tu piuttosto, vai a fare trekking con gli orsi?».
Questa mia domanda per un attimo parve spiazzarlo, ma fu questione di un attimo e si riprese immediatamente, «Non avrai mica chiesto in giro dov’è Goat Rocks per sapere dov’ero, vero?».
Sentii le mie orecchie avvampare, «Sciocchezze», provai a difendermi.
«Sei furba, eh», ridacchiò lui con aria maliziosa, «Allora ti manco».
«Non dire cretinate», ringhiai, andando via. Lui mi stava dietro. «Sei davvero un egocentrico, sai?».
«Il mio fascino è irresistibile, è un lavoro duro mi rendo conto, ma a qualcuno doveva pur toccare», mi venne vicino lui, «Forse invece della t-shirt dei Black Sabbath preferiresti una con la mia faccia stampata sopra?». Provai a spingerlo via, «Guarda che non mi offenderei mica, mi lusingheresti».
«Forse dovresti pensare a cose più serie», dissi io, tentando disperatamente di deviare la conversazione,
«Tipo al compito in classe di Biologia che è fissato per venerdì».
«Questo venerdì?», chiese lui preoccupato.
«Già».
«Studiamo insieme».
Mi voltai esterrefatta verso di lui, «Cosa?».
«Sì, mi sembri abbastanza presente, mentalmente parlando. E io sono sempre così solo», mugolò sporgendo il labbro inferiore, «Non ti faccio proprio pena?».
«Più del solito, sì», dissi io, inarcando un sopracciglio.
«Allora?», insisté lui.
«Va bene», dissi io dopo averci pensato un attimo, «Ci vediamo oggi pomeriggio. Ti aspetto alla fine delle lezioni, nel parcheggio», dissi entrando in classe.

Quando mi sedetti al mio banco, volsi un’occhiata rapida nella direzione di Edward – era ancora lì, sulla soglia. Sorrideva dolcemente. Quando se ne andò, l’unica cosa a cui potei pensare, per il resto delle lezioni, furono i suoi denti. Bellissimi, scintillanti denti bianchi.
E quella leggera sporgenza, in direzione dei canini, nascosta ad arte da espressioni perfette e un paio di labbra morbidissime. Un brivido mi corse su per la schiena.
E di nuovo quella parola nella mia testa.
Vampiro.

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Capitolo 7
*** Incubo ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.

                                                                                                            Incubo


«Tu con quella così non ti muovi».
«È il mio pick-up, ci faccio quello che voglio».
«Anche porre fine alla tua vita? Sarei più tranquillo all’idea di bendarmi e fare una corsetta in autostrada», rispose lui, sarcastico. «Nessuno ti obbliga a salire sul mio Chevy, sai?», sbottai io.
«Questa cosa ha un nome?», mi guardò lui con espressione basita.
«Smettila», ribattei io, «Io uso questo. Se non ti piace monta sulla tua Volvo scintillante, razza di spocchioso», lo fissai con odio aldilà del finestrino abbassato.
«Non posso, se io mi prendo l’auto i miei fratelli come torneranno?», provò a sorridere, «E poi le chiavi le ha Emmett», sospirò.
«E allora entra e poche storie», dissi con aria offesa.
Gettò gli occhi al cielo rassegnato e si decise a entrare in auto. Appena fu dentro, una bolla di profumo esplose nell’abitacolo e spazzò via il vago sentore di erba secca e muschio. Lo guardai di sottecchi mentre si sistemava e ebbi come una specie di tuffo al cuore – anche la mattina dell’incidente profumava così.
Deglutii, tentando di distrarmi e detti gas.
Erano poco più delle tre quando partimmo e il cielo già cominciava a tingersi di rosso e macchiare ogni cosa. La strada si apriva davanti a noi, sui nostri profili le ombre delle fitte trame nere degli alberi spogli. L’aria invernale era perfetta, immobile, velata di un senso di unica solitudine.
Gli rivolsi un’occhiata discreta – guardava dritto davanti a sé, come se nulla potesse toccarlo.
Per un attimo, di nuovo quella strana sensazione: i suoi occhi non sembravano come i miei, minacciati dal futuro, né pareva che qualcosa potesse davvero raggiungerlo. Edward era solo. Ma non solo come qualsiasi altra persona; lo capii quando la sua pelle cominciò a striarsi di un intenso arancio – fra i piccoli punti di luce che incominciavano a brillare sui suoi capelli scompigliati comparve anche una consapevolezza più forte di qualsiasi altra cosa: era solo in un punto in cui nulla si muoveva, nulla cambiava mai. Era solo per sempre, come se lo fosse stato dalla prima boccata d’aria, dalla prima passione d’amore, dal primo attimo, dalla prima volta che aprì gli occhi sul mondo. Era solo in un posto in cui non c’era luce e io non potevo raggiungerlo. Questa era la sensazione che avevo e questo ciò che mi cresceva in petto, alimentando le mie tristezze. Nei suoi occhi c’era una devastazione tale, potevo scorgere un tale dolore a volte che quasi rischiavo di scoppiare a piangere. Sospirai lievemente.
«Sei molto strano», lo provocai.
Lo vidi sorridere appena, «Pensi?».
«Sì. Per esempio.. Perché sei così gentile con me e con gli altri no?», domandai.
Lui scrollò le spalle, «Perché mi va».
«Non avete molti amici voi, vi isolate», sottolineai io e Edward si voltò verso di me – quando capì che parlavo di lui e dei suoi fratelli si rivolse di nuovo alla strada.
«È un fatto d’abitudine. Ci trasferiamo spesso e stare insieme è più.. Comodo», mi spiegò, «Fare amicizia con gente che sai che poi dovrai lasciare dopo qualche anno non mi interessa».
«Molte persone che conosco sembrano avere pura di voi», risi e lui con me.
«Fanno bene», sussurrò appena.
«Ci sono un sacco di ragazze che ti muoiono dietro, te ne sei accorto?», sorrisi.
«E tu sei una di loro?», mi punzecchiò. Non risposi, mi limitai a fare spallucce, «Ragazze del mio gruppo», specificai dopo. «Ti hanno chiesto di me?», mi guardò incuriosito e con un sorriso malizioso in faccia. Mi voltai per un rapido momento – le sue labbra erano rosse, rosse come la luce che era esplosa in tutto il cielo e i suoi occhi brillavano toccati dai raggi del sole.
Provai a concentrarmi, «Sì, lo fanno spesso. Mi chiedono anche di Emmett a volte», mentii, solo per osservare la sua reazione. «Emmett è già impegnato».
«Sul serio? E con chi?», sembrava non piacergli la mia curiosità.
«Con Rosalie», disse.
«Come?», feci io incredula, «Ma non erano fratelli? È legale questa cosa?».
Lui scoppiò a ridere, «Mica siamo fratelli veri, sai. Non esistono legami di sangue fra noi. Anche Jasper e Alice sono fidanzati».
«Ah», dissi lievemente. Ci pensai su un attimo.
«Quindi», ripresi la conversazione, «La prossima volta che le mie amiche mi chiedono di te posso dir loro che per avere il tuo cuore basta firmare una carta o due e diventare tua sorella. È un po’ perverso, ma se è questo che ti arrapa, io non giudico».
Ci fu un momento di silenzio. Mi voltai lentamente verso di lui, cercando di trattenere una risata. Lui mi guardava con aria divertita senza dire nulla, solo con in faccia stampato quel sorriso sghembo.
«Sei proprio idiota», disse inumidendosi le labbra e tornando a guardare la strada.
Poi rise e qualcosa in me si mosse.
Non l’avevo mai sentito ridere così, era come se improvvisamente fosse diventato più leggero – come se si fosse dimenticato di grossi dispiaceri o immense tristezze. Rise a lungo e forte, senza mai smettere, per una manciata di minuti. Rise quasi fino alle lacrime e io rimasi lì, in silenzio a guidare, a ascoltarlo.
Quando smise, gli lanciai un’occhiata; ma la serenità nata in me in quegli istanti svanì all’istante.
Non c’era traccia di quei momenti passati in lui, sul suo viso nemmeno un lieve rossore, nemmeno una punta di colore. Le sue labbra pallidissime erano tornate del loro vero colore, liberatesi della luce invernale che splendeva su di loro come un gioiello, un’intera fila di pietre preziose, erano di nuovo di gesso, di ghiaccio. Sorrideva ancora, ma non era la stessa cosa. Di nuovo quella sensazione: simile a tutti gli altri, ma diverso in ogni senso. Cosa viveva in Edward da separarlo così nettamente dal mondo in cui vivevamo?
«Siamo arrivati, gira qui», disse lui, facendo un cenno con la mano.
Ero talmente assorta nei miei pensieri che i movimenti successivi furono automatici, del tutto privi di qualsiasi ragionamento. Parcheggiai l’auto, scesi, salii per il vialetto in granito, entrai in casa dopo Edward, che mi faceva strada. «La tua roba la puoi mettere lì», lo sentivo dire a volte, «Vuoi qualcosa da bere?», «Che vuoi fare?». Continuavo a essere altrove, sperando a volte che quell’altrove dove mi trovavo fosse vicino al punto in cui era lui. «Bella. Bella», alzai gli occhi.
«Mh?».
«Mi stai ascoltando?», chiese lui, sedendosi sul grande divano.
Mi sedetti anche io, sul bordo, piano, «No», confessai candidamente, «Che stavi dicendo?».
«Se vuoi qualcosa da bere», mi sorrise teneramente.
«Ah. No, no grazie», borbottai, «Non dovremmo studiare?».
Scrollò le spalle, «Credevo che tu fossi in una classe per bambini speciali quando eri a Phoenix, no? Questa roba non l’hai già fatta?», disse spingendo via il mio zaino.
«E te allora?», sbottai infastidita da quell’improvviso cambiamento di piani.
«Io credo che me la caverò in qualche modo», mi tranquillizzò.
«E allora che si fa?», dissi io, dopo averci un po’ pensato.
Lui non rispose – quando alzai il viso verso il suo arrossii immediatamente: essere sola con lui mi metteva a disagio. Parlò solo dopo un tempo interminabile, mi disse che potevo fare quello che volevo. Che significa?, Ma sì, cosa fai di solito?, questo scambio di battute andò avanti per un po’ finché non dissi che leggevo.
«Mi piace leggere. E ascoltare la musica. E mi piace non lo so, disegnare. A volte canto», non riuscivo nemmeno io a capire perché, tutto a un tratto, ero diventata più loquace.
«Davvero canti?», disse incredulo, «Fammi sentire allora».
«Scherzi?», saltai su io, «Non ci penso proprio!».
«E perché no?».
«Perché mi vergogno», ribattei io, fissandolo negli occhi. Questo lo fece ridere, come al solito.
«Farai così anche quando andremo a Seattle?».
«Per tua informazione», incrociai le braccia, «Non lo so ancora se verrò con te. Sappi che questo sabato sarò a Port Angeles con Jessica e..», mi bloccai. Non so perché lo feci. Una parte di me quasi non voleva metterlo al corrente dei miei piani.
«Ah sì? E quando l’avesti deciso questo?», sembrò molto interessato all’argomento.
«Qualche giorno fa», ormai ero entrata in questo discorso, tanto valeva andare fino in fondo, «Jessica e Angela vorrebbero andare là per trovare dei vestiti per il Ballo di Primavera. Sarà figo, non ho mai visto Port Angeles», aggiunsi. «Quando partirete?», chiese lui.
«Mh.. Penso dopo le mie lezioni in palestra», dissi, «Nel primo pomeriggio, immagino».
Per un po’ rimase in silenzio, con aria preoccupata, «Forse non dovresti andare».
«E perché no?», chiesi stizzita io.
«Port Angeles non è un posto molto sicuro per delle ragazze da sole. Specialmente di sera», Edward parlava piano e seriamente, con sguardo accigliato e cupo.
«So difendermi», parlai.
Lui mi lanciò un’occhiata perplessa. «Sono seria. So difendermi», ripetei, «Faccio un corso di difesa personale. Anche se ancora sono una principiante», guardai altrove.
«Certo, non mi hanno ancora insegnato a fermare un furgoncino in corsa a mani nude, ma il mio istruttore ha detto che per Natale forse possiamo cominciare a provare», parlai senza nemmeno prendere fiato.
Calò un silenzio tremendo fra noi. Edward smise perfino di guardarmi.
Non sapevo perché l’avevo detto, non c’era davvero una ragione plausibile al mio modo di fare. Qualcuno in me premeva per conoscere la realtà a tutti i costi, qualcuno mi spingeva a provare. Era doloroso toccare punti simili, perché non sapevo mai cosa sarebbe potuto accadere, in situazioni simili, non riuscivo a prevedere le reazioni di Edward e così tutto sembrava trasformarsi in un agghiacciante salto nel vuoto.
Temevo le sue tristezze e gli scoppi di improvviso dolore che ogni volta gli leggevo in viso, temevo i suoi gesti, le sue occhiate. Ma più di qualsiasi altra cosa, temevo che mi dicesse la verità.
«Ho lasciato un bel buco su quel catorcio, eh?», ridacchiò nervosamente.
«Già».
«Vorresti sapere come ho fatto?», parlò, rivolgendomi un’occhiata concentratissima.
Ci pensai su un attimo, poi mi avvicinai, «Dammi le mani», chiesi con dolcezza aprendo le mie.
Edward non disse nulla, rimase solo a guardarmi per un momento lunghissimo. Si muoveva lentamente verso di me e con la stessa lentezza portò le sue mani sopra le mie. Ebbi un sussulto quando si avvicinò e cominciai a sentire il freddo che lo avvolgeva. Sembrava che nel suo corpo scorresse idrogeno liquido, faceva impressione. Quando mi toccò, un brivido mi corse su per la schiena. Provai a non darlo a vedere, ma a giudicare dal modo in cui mi guardò se n’era accorto. 
Tenni le sue mani nelle mie, provando a riscaldarle, senza mai volgere il mio sguardo altrove. Tutto ciò che lui era si riduceva a quelle mani ghiacciate, immobili. Piano piano sulle loro pallide estremità cominciò a diffondersi un po’ di calore, il mio. Sì, era così, lui era come le sue mani e le sue mani erano belle, affusolate, lisce e morbide, simili quindi a quelle di chiunque altro, eppure completamente diverse. Non avevo mai visto mani così, eppure era vero che non avevano nulla di strano. Non erano deformi, non nodose e secche, non piccole e rotonde. Io non avevo mai visto mani così, perché niente di simile era mai esistito nella mia vita e vederle sotto i miei occhi, in tutta la loro normale perfezione mi turbava.
Provai a voltarle sul dorso e puntai il mio indice sul suo palmo sinistro, lo stesso che era affondato nella portiera del furgoncino. Non aveva nemmeno un graffio.
«È sorprendente», sussurrai alzando gli occhi, incontrando i suoi.
«Sei sempre stato così forte?», provai a chiedere, ma lui non disse nulla, si avvicinò un altro po’ e poi si accomodò vicino a me, con la testa immersa fra due cuscini.
«Hai freddo?», mi chiese dopo un po’.
«Sì», dissi io, comprendendo che nella mia risposta sincera c’era anche una spina affilata che lo aveva toccato, almeno superficialmente. «Tu sei calda, invece», parlò con voce dolce e triste.
Sorrisi appena. «Non sono il massimo d’inverno, eh?», provò a ridere.
Non dissi nulla.
«Credevo di non piacerti, comunque», proseguì lui, fissandomi di sottecchi.
Continuai a fissare le sue mani, a passare il mio dito caldo fra le sue nocche, sulla linea delle sue falangi, «E adesso la pensi diversamente?», chiesi, senza guardarlo, chinandomi sui suoi polsi, lasciando cadere qualche boccolo sulla sua pelle.
«Non lo so ancora. Però questa è la prima volta che mi guardi così».
«Così come?», domandai assorta.
«Come se fossi umano».
Alzai lo sguardo di scatto, colpita improvvisamente dai ricordi della sera passata a La Push, di Jacob, delle sue parole. Strinsi le sue fredde mani fra le mie, in uno scatto di paura.
«Mi dispiace», commentò lui il mio cambiamento d’umore, «Sono sempre il solito stronzo», sorrise.
«Non volevo farti paura».
«Non ne ho, infatti», mentii.
«Edward», dissi, abbassando di nuovo la testa, «Un giorno me lo dovrai dire», parlai corrucciata, «Me lo dovrai dire come hai fatto a fermare quell’auto».
«Va bene», rispose nel silenzio assoluto della casa.
«E poi cosa succederà?», domandai, ma quasi unicamente a me stessa, escludendolo dalla conversazione. Cosa succederà dopo? Dopo che sarà stato sincero?
«Non lo so», la sua risposta mi colse impreparata, «Continueremo a fare le stesse cose di sempre, credo».
«Te ne andrai quel giorno?», chiesi allarmata, per ragioni che non riuscivo a capire.
«Se vorrai, lo farò», disse lui, serio.
In quel momento non eravamo noi, non più. Sembravamo qualcos altro, due persone che io non avevo mai visto né conosciuto, ma identiche a noi in ogni aspetto fisico, in ogni piccolezza. Eppure, quella ragazzina spaventata, con le ginocchia poggiate sulle sue gambe non sembravo più io. Non ridevo più e ero seria, il mio volto corrucciato e pensoso escludeva qualsiasi accenno di risa. E lui non mi sorrideva più con quel fare divertito e sfuggente, no, adesso era triste, a tratti dolce. Mi spaventava sentirci così, vederci in quel modo in cui non ci eravamo mai visti. «Va bene», parlai, fissandolo, con quegli stessi pensieri in capo.
Era un cambiamento, quello, a cui non ero stata preparata.
Nessuno nella mia vita mi aveva avvisato dell’avvento di questo giorno, che qualcuno mi avrebbe mai guardata così, con quella stessa attenzione precisa che Edward mi rivolgeva sempre.
Nessuno mi aveva mai parlato di quel divano, di quelle mani. Mi domandai allora se il nostro incontro fosse stato voluto o del tutto causale. Una parte di me avrebbe gradito non farlo, ma non potei fare a meno di essere contenta di essere lì, in quel preciso spazio, fra quei cuscini.
Sorrisi lievemente, «Ei Edward», dissi,
«Ascoltiamo un po’ di musica».


«Bella? Bella!», mi voltai verso Jessica, «Siamo arrivate», disse scuotendomi lievemente il braccio.
«Mh», feci appena in tempo a rispondere. Saltai già dall’auto ancora con un piede nel sonno. Avevo dormito per tutto il viaggio, crollata un secondo dopo che Jessica aveva messo in moto.
La notte prima non ero riuscita a chiuder occhio, il sonno agitato che m’aveva colta sembrava deciso a ricordarmi un mare in tempesta durante un temporale, imprevedibile e inarrestabile mi aveva sospinta verso la spossatezza e annegata in una stanchezza indelebile.
Jessica però, nonostante tutto, non conosceva pietà: mi aveva vista salire in auto con Edward il giorno prima e adesso voleva sapere ogni più piccolo dettaglio, «Non crederai di cavartela così facilmente vero?», diceva. In realtà la mia era più una speranza, pensai.
«Allora? Che avete fatto?», mi chiedeva, volgendo ogni tanto il suo sguardo verso di me mentre camminavamo veloci verso l’unico grande magazzino della zona. Ogni volta che si girava i suoi luminosi capelli lisci disegnavano un cerchio in aria e la nascondevano dall’attenzione del mondo, per qualche attimo. Poi cadevano sulle spalle e a accogliermi trovavo il suo volto smaliziato, acceso di curiosità.
«Sai Jessica», provai a dire, «Non è successo granché. E poi.. Io sapevo che Edward ti piaceva quindi..», bofonchiai. «Sciocchezze!», rise, «È storia vecchia. Adesso preferisco pensare a Mike. Sai che mi ha invitata al ballo?». Sì, lo sapevo. Qualche ora prima che lo facesse, mi era venuto a cercare e mi aveva trovata in aula studio. Era un mercoledì buio perfino per gli standart di Forks e la sua voce tremava mentre mi parlava. Aveva la cartella su una spalla e stringeva fortissimo quelle cinghie nere che gli penzolavano vicino ai fianchi. Mi chiese se fossi certa della mia scelta – «Sul serio non verrai al ballo?».
Gli dissi di sì, guardandolo stare fermo sotto le lampade al neon accese.
«Il mio invito è sempre valido, sai», provò a rinfrescarmi la memoria, e io allora con aria fra il triste e l’impietosita gli suggerii di portare Jessica al ballo, «Lei ne sarebbe felicissima».
A giudicare dalla sua espressione lo avevo colto alla sprovvista.
Invitò davvero Jessica, alla fine, e la cosa alleviò i miei pulsanti sensi di colpa.
«È stato così carino!», continuava a dire Jessica, «Vedessi com’era timido. E tu Angela? Con chi ci andrai?», chiese lei non appena fummo alle porte del grande magazzino.
«Io con Eric», rispose piano, arrossendo.
Scoppiammo a ridere io e Jess e questo stizzì Angela che cominciò a dirci di smetterla. Era adorabile.
Quando fummo dentro, fui di nuovo sottoposta al terzo grado della mia amica e raccontai, almeno per sommi capi, cos’avevo fatto in quel giorno a casa Cullen. Per lo più si trattava di riferire dettagli inventati e mentire. Il resto della giornata trascorse fra le risate acute di Jessica e i borbottii imbarazzati di Angela. Scelsero due bei vestiti, una si potrò via un’appariscente nuvola blu elettrica e l’altra un velo rosa pallido. Angela comprò anche un paio di scarpe, che riprendessero i toni chiari del suo abito. Lo shopping, in definitiva, durò meno di quanto pensassimo e alla fine Jessica propose di lasciare gli acquisti in auto e di arrivare a piedi sino al molo. Da una parte, l’idea mi entusiasmava, però dall’altra mi resi conto che non avevo ancora chiesto a mia madre di spedirmi i miei libri e che quindi potevo approfittarne per fare un salto in una libreria. Dissi che le avrei raggiunte più tardi, le avrei chiamate io.
Mi avviai fra una folla di sconosciuti – ogni tanto mi voltavo verso le schiene già lontane delle mie amiche e ebbi per un attimo lo stesso presentimento del giorno in cui partii. Deglutii, tentando di pensare ad altro.
Non avendo idea di dove si potesse trovare la libreria, vagai per qualche ora ma senza nessun risultato.
Ogni tanto il mio sguardo si levava al di sopra delle strade trafficate, cercando di individuare un luogo, un punto meno affollato, l’orizzonte magari. Ma mi resi conto, dopo quel continuo scarpinare per borghi sconosciuti, che non riuscivo a capire dov’ero e in definitiva, mi scoprii persa.
Ero sola e non avevo idea di dove fosse il molo, né il mare e per quanto continuassi a muovermi, sembravo soltanto infilarmi in posti sempre più interni a Port Angeles. Il cielo cominciava a addormentarsi sotto una sottile striscia di nero e questo cominciò a preoccuparmi. Sfilai di tasca il cellulare, continuando a camminare, volgendo la mia più totale attenzione a quello. Provai a chiamare Jessica, ma il mio credito era esaurito. Provai anche a mandarle un messaggio, con la speranza che i miei soldi potessero bastare, ma non successe. Rimasi per qualche momento a fissare lo schermo luminoso, senza dire nulla, cercando di pensare in fretta a cosa avrei potuto fare, quando sentii delle risate alle mie spalle. Alzai istintivamente lo sguardo e cominciai a notare l’oscurità che si stava iniziando a diffondere per le strade. Intorno a me, capannoni industriali e poche luci – non mi ero nemmeno resa conto di dove ero. Continuavo a camminare senza avere la più pallida idea di dove fossi finita. Per un attimo ebbi la voglia di chiedere, al gruppo di ragazzi dietro di me, delle informazioni, ma a uno sguardo più attento notai che erano probabilmente già quasi tutti ubriachi. E questo significava solo che non potevo fermarmi per nessun motivo al mondo.
Accelerai il passo, cercando di dare meno nell’occhio possibile.
«Ei», cominciò a gridare uno di loro, dopo un po’, «Ei ciao!».
Sentivo gli altri ridere e cominciare a scherzare, «Perché non ti fermi?», gridò un altro.
Non parlai, continuai solo a camminare.
Finché potei.
Finché non li sentii iniziare a correre.
A quel punto, smisi perfino di respirare e cominciai a fare lo stesso. Corsi finché non iniziarono a dolermi le gambe, sperando, da un momento all’altro, di intravedere qualcuno, una luce, un punto brillante che indicasse una folla, un po’ di vita. Ma ogni volta che svoltavo un angolo, le via cominciavano a farsi più rade e le case, a un certo punto, scomparirono del tutto.
Continuai a correre lo stesso, finché non mi infilai in una strada cieca.
«Da qui non si esce, sai», uno dei cinque si infilò sotto la fioca luce di un lampione.
Gli altri non tardarono ad arrivare.
«Che carina», disse quello più grasso e tarchiato, lasciando cadere a terra la bottiglia, «Te ne andavi in qualche posto speciale stasera?».
«Mi sa che ti abbiamo rovinato i piani», rise quello col berretto da baseball e i capelli rossicci.
«Ha ragione», disse l’uomo accanto a lui, che fa tutti sembrava il più robusto e ben piazzato, «Dai, non ti preoccupare, ci faremo perdonare», ghignò avvicinandosi.
«Ho pochi soldi con me», confessai, tentando di non sembrare terrorizzata, «Posso darvi quelli».
Loro scoppiarono a ridere e qualcuno, in me, scoppiò a piangere.
In quel momento, il cellulare squillò.
Non feci in tempo a sfilarlo dal giacchetto che l’uomo grasso mi fu addosso, strappandomelo dalle mani, «Uh, Jessica», disse leggendo il display, «Diciamo a Jessica che fai tardi, ok?», mi sorrise.
Il suo alito fetido mi arrivava direttamente in gola e mi faceva venir voglia di vomitare. La sua maglia era sporca e i suoi capelli unti. Era disgustoso, come le sue intenzioni, come tutti gli altri. Ma a parte tutto, non era questa la cosa peggiore. Non era sapermi sola, o in trappola a farmi ribollire così di rabbia. Era la stessa sensazione che avevo provato la mattina dell’incidente – provavo di nuovo quel dispiacere acuto, come se non avessi più scelta, né più alcuna speranza. Come se fossi già finita.
Ma io non volevo più sentirmi così, non potevo, non di nuovo.
E allora attesi. Attesi che l’uomo mi fu più vicino e allungasse il suo braccio flaccido e indecoroso verso il mio corpo e l’afferrai. L’afferrai e lo spezzai, all’altezza del gomito. L’urlo che cacciò l’uomo fu più forte di qualsiasi cosa avessi mai sentito, «Questa puttana!», cominciò a gridare, «Questa puttana mi ha spezzato il braccio», fra le lacrime e le bestemmie si fecero largo i suoi amici, che provarono a afferrarmi.
Potei appena raggiungere il secondo e colpirlo al basso ventre, per poi provare a rompergli la gamba, ma lui si spostò troppo in fretta e quella che speravo si sarebbe tradotta in una frattura fu a malapena una lussazione. Il terzo si beccò una gomitata sul naso, lo vidi cadere, col viso che sgorgava sangue in ogni direzione, ma servì comunque davvero a poco. Perché, in definitiva, io non ero invincibile e loro erano in cinque. Prima che potessi rendermene conto, uno mi aveva già afferrato i capelli e un altro aveva già stretto le sue gelide mani sulle mie caviglie. Provai a mordere, graffiare, urlare, ma l’unica cosa a cui pensavo era che questa volta, davvero, non c’era speranza per me. Forse non ce n’era davvero mai stata.
E nonostante tutto, ci avevo provato, avevo lottato comunque. E avevo perso.
Sapevo cosa sarebbe successo dopo, ma non volli immaginarlo.
Era un incubo quello in cui stavo precipitando? Era tutta una fantasia, pensai per qualche breve istante, quando aprirò gli occhi io sarò di nuovo a casa. A scuola. Nel mio pick-up.
No.
Non quella volta.
Provai a lanciare un altro, disperatissimo, urlo, che si tradusse unicamente in una smorfia silenziosa. No, non riuscii a dire nulla. Ma a urlare fu uno dei cinque, e dopo di lui, anche gli altri. Mi lasciarono cadere a terra, immediatamente. Mani pallide afferravano gli uomini, uno dopo l’altro, scaraventandoli nel buio, lontani da me. Non capivo, potevo solo sentirli gridare. Ebbi appena il tempo di schiudere le labbra fra le lacrime.

«Edward?», sussurrai.

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Capitolo 8
*** Port Angeles ***


Nota dell’autrice: Sto modificando ulteriormente la storia, perciò se notate delle differenze fra questo e altri capitoli, è tutto ok: sto soltanto aggiornando i capitoli.

                                                                                                  Port Angeles


Continuai a cercare una risposta aldilà del buio. Volevo intensamente addentrarmi fra le maglie fitte della notte, ma il mio corpo era irrigidito, indolenzito e non rispondeva più ai miei ordini. Annullato ogni pensiero, c’era solo in me questa voce che continuava ossessivamente a ripetere, «Sei stata brava, bravissima. Ti sei difesa, bravissima. Sei stata coraggiosa». Continuava così, in un ciclo infinito di interne botte e risposte che non trovavano mai una vera e propria conclusione. A volte, aldilà della parete nera udivo qualcuno urlare, quando provai a alzarmi e avvicinarmi, potei distintamente udire qualcuno gridare pietà. E poi dei passi, velocissimi, erano i cinque uomini che correvano via. Qualcuno di loro piangeva.
Mi avvicinai di più al cono di luce del lampione e provai a ripensare a ciò che avevo visto.
Occhi nerissimi, color dell’ebano e poi quelle mani, pallide.
Il resto era caduto nel nero.
Ma potevo ancora percepire la presenza di qualcuno e ero abbastanza sicura di chi si trattasse.
Lo chiamai ancora, un’altra volta; il suono si perse nell’aria e parve svanire senza trovare risposta. Poi, quei passi. Sul bordo brillante della luce che illuminava l’asfalto, intravidi le sue scarpe.
«Vieni sotto la luce», sussurrai io.
Quando finalmente trovò il coraggio di mostrarsi, mi apparve di fronte questa persona che io avevo già visto, avevo già visto in una mattina d’inverno, la mattina in cui sarei dovuta morire.
Lo stesso sguardo cupo, a metà strada fra la vergogna e la ferocia di un vero mostro, la stessa mascella serrata, quegli stessi pugni strettissimi. Mi guardava con occhi che parevano non avermi mai guardata prima, neri come il petrolio, profondi quanto uno strapiombo. Sulla pelle diafana, piccole chiazze di sangue. Dai pugni ciondolavano manciate di fili rossi, che si traducevano in una radissima pioggia rossastra.
Trattenni le lacrime e qualsiasi altra emozione, mi limitai a dire soltanto, «Andiamo via» e lui parve accettare di buon grado questa mia decisione, tanto che perfino il colore dei suoi occhi mutò, ma il mio corpo ancora sotto shock non voleva muoversi. Continuavo a tremare e a ritrarmi ogni volta che si avvicinava. Ancora avevo in mente le facce di quelle cose, perché di certo persone non si sarebbero potute definire. Mi forzavo a ripensare a La Push, alle parole di Angela, al modo in cui mi disse che alla fine, Edward era buono. Era buono sul serio e non facevo che ripetere nella mia mente quella scena, attenta a ricreare ogni colore, ogni dettaglio. Ma non serviva a nulla – per quante volte lui provasse ad avvicinarsi, io mi ritraevo sempre. Alla fine lo sentii tirare un sospiro profondo.
«Mi dispiace per quello che sto per fare», disse con voce fioca.
Lo guardai senza dire nulla, tremante. Lo vidi avvicinarsi, prima piano, poi con più decisione. Feci qualche passo indietro, poi in me crebbe la voglia di fuggire. E ci provai, provai a scappare, ma mi sentii riprendere per le braccia. Urlai, subito, fortissimo, con tutta la voce che fino a pochi momenti fa credevo d’aver perso.
Mi girò verso di sé e mi abbracciò, stringendomi a sé con tutto il sentimento che aveva.
Provai a liberarmi, ma fu tutto inutile. Dopo poco, mi arresi. Infine, non volevo quasi più lasciarlo andare.
Nemmeno se il suo corpo era la cosa più fredda che avessi mai toccato. Nemmeno se non riuscivo a sentirgli battere il cuore in petto. In quei momenti, avrei voluto dire molte cose, ma in definitiva, potei solo rimanere zitta. In lontananza, udivo il cellulare squillare. Forse è Jessica, pensai. Magari è preoccupata.
Edward provò a staccarsi da me, quasi a fatica, e andare a raccattare il telefono, ma io non mollavo la presa. Mi disse che era tutto finito e andava tutto bene, ma io non facevo altro che stringerlo più forte. Quando finalmente mi decisi a mollare la presa, poté finalmente raggiungere il punto luminoso in mezzo al buio e rispondere al cellulare. Lo sentii dire a Jessica che andava tutto bene, che per fortuna che ci eravamo trovati, perché io mi ero persa e ero finita in un quartiere poco raccomandabile. Ma andava tutto bene, stavamo bene, diceva, potete stare tranquille, mi occuperò io di riportarla a casa. La chiacchieratina si risolse in pochi momenti e quando fu il tempo, Edward mi porse il cellulare, «Adesso però è macchiato», disse ritraendo la mano, «Lo terrò io, così non ti sporchi. Va bene?», mi limitai a annuire. Lo infilò nella tasca della giacca e poi rimase un attimo così, a guardarsi le mani.
«Forse dovresti mangiare qualcosa», azzardò, alzando gli occhi su di me.
«Ti posso portare in un ristorante», propose. Scossi la testa energicamente.
«Cosa vorresti fare allora?».
Ci pensai su un attimo. Per il momento, volevo tenermi più possibile vicina a lui, e nient’altro. «Voglio che andiamo in macchina», parlai, dando per scontato che fosse venuto fin lì con la sua.
«Devi mangiare», obbiettò lui, con aria severa.
«Allora voglio mangiare in macchina», risposi meccanicamente.
Ci avviammo verso un take-away cinese, a piccoli passi, senza parlare. Ci infilammo in questo piccolo anfratto di periferia, sotto un soffitto di luci al neon, di quelle tremende, in cui è più facile sentire l’abbandono. Edward puntò al bagno, per andarsi a lavare e io rimasi lì nelle vicinanze, in attesa. Quando ebbe finito, ordinai qualcosa dal menu e prendemmo un paio di bottigliette d’acqua.
La macchina era parcheggiata nelle vicinanze.
Quando ci sedemmo dentro, lui accese il riscaldamento al massimo e a me tornò in mente Charlie, e al giorno in cui ero arrivata a Forks. Provavo la stessa sensazione di tranquillità di quel giorno, era come una melodia che mi cullava verso il sonno, che mi attraversava il corpo e distendeva con tenerezza le mie membra, i miei muscoli temporaneamente anchilosati, mi rilassava.
Mi chiese come stavo.
Non risposi immediatamente, non ne avevo idea. Per me, quello che era successo era ancora qualcosa di indefinito e irrisolvibile – nella mia mente quei momenti si confondevano coi sogni, con l’inventato, col passato. Non c’era nulla di davvero reale e la mia memoria iniziò a vacillare.
Così cominciai a dire le prime cose che mi vennero in mente, «Credo di aver spaccato il naso a uno. E a un altro sono riuscita a spezzare un braccio».
«L’ho visto», commentò lui. Mi voltai lentamente verso di lui, «Li hai uccisi?».
«No», disse e stranamente mi sentii meglio. Per quanto potessi averli odiati in quei brevissimi momenti, per quanto fossero state tremende le loro intenzioni, l’idea della loro morte sapevo che non mi avrebbe portato alcun conforto.
«Ma avrei voluto», aggiunse, serrando i pugni.
Fra le mie mani tenevo la mia cena, buttata dentro una scatolina di carta bianca. Non sapevo nemmeno cos’avevo ordinato, ma quando ci fu un attimo più di ordine fra i miei pensieri, la fame fu la prima cosa che potei percepire distintamente. Mi buttai sugli spaghetti e cominciai a mangiare senza quasi riprendere fiato. Edward continuava a fissarmi, probabilmente con lo stesso sguardo preoccupato.
Quello stato di grazia in cui in me vigeva soltanto un unico desiderio e io mi occupavo unicamente di soddisfarlo svanì presto e alla fine, smisi di mangiare.
«Che c’è? Non ti piace? Ti viene da vomitare?», chiese lui, allarmato.
«No», risposi io con un fil di voce.
E improvvisamente, dovetti parlare.
«Ero innamorata di un ragazzo, a Phoenix», dissi, fissando i tappetini dell’auto, senza nemmeno fare caso alle sue reazioni. «Ero innamorata di un ragazzo di nome Joshua», un sorriso lieve mi affiorò sulle labbra screpolate.
«Io non penso di aver mai amato così intensamente qualcuno. Io lo amavo e lui amava me e non c’era nient’altro a parte questo. C’eravamo solo noi».
«Bella», provò a interrompermi lui – con una voce che tradiva l’evidente fastidio. Forse anche una punta di dolore. Ma io lo ignorai. «Joshua era il ragazzo più bello che avessi mai visto, ma la sua vita bruciava in fretta. Non aveva una famiglia, non aveva un posto, ogni volta che lo guardavo sembrava solo al mondo, senza speranza. Era pieno di cicatrici», presi tempo, «A me non importava nulla di tutti i problemi che aveva, non mi importava dei suoi occhi che apparivano così cattivi e famelici, come quelli di un lupo, non mi importava perché ero la sua bambina e lui mi faceva giocare e ogni volta che mi guardava era come se stesse volando, come si fosse trovato a vedere il mare dall’origine stessa dell’universo, come se piangesse di fronte a un miracolo. Nessuno mi aveva mai guardato così, come se in me ci fosse della magia», una lacrima mi rigò il viso. «Però a volte, sai, mi rendevo conto che il tempo, il nostro, era poco. Era come un conto alla rovescia con lui, con Joshua. Era come correre nella peggiore fra le oscurità, come se ogni passo potesse essere l’ultimo, prima dello strapiombo».
Cadde il silenzio, ma solo per qualche istante.
«Morì nell’estate dei miei sedici anni, cinque giorni prima del mio diciassettesimo compleanno. Morì in un incidente stradale, libero e selvaggio. E io pensai di non aver mai provato un dolore così estremo. Credevo che il mio corpo si sarebbe sciolto, avrebbe preso fuoco, sarebbe esploso come una bomba. Uno come lui, uno come Joshua, credevo che sarebbe morto diversamente sai – con la gente che frequentava, quelli te li raccomando. Ma non così, mai così. Non mi fecero vedere nemmeno il suo viso, era stato sfigurato dalle fiamme», la mia voce tremava.
«Sai cosa mi disse dieci mesi prima di morire?», risi fra le lacrime, «Mi disse che se fosse morto in quel preciso istante, l’ultimo pensiero sarebbe stato rivolto a me. Che mi avrebbe pensato fino alla morte e amato anche oltre. Gli credetti subito, perché Joshua, lui non mi avrebbe mentito mai», dissi con un filo d’orgoglio, «E allora anche io gli feci la stessa promessa, perché ero certa che l’avrei potuta mantenere. E invece io pensai a te», confessai, voltandomi verso di lui,
«Il giorno dell’incidente, io pensai a te, pensai alla prima volta che mi avevi salutata. E allora ho ripensato a te anche stanotte».
«E quando sei arrivato, quando sei sparito nel buio è stato come l’estate di miei sedici anni», dissi prima che potesse aprir bocca, «Credevo che ti avessero ammazzato, che tu fossi morto. Credevo di aver perso anche te», parlai con un fil di voce.
Lui mi guardò serio, «Questo è impossibile».
Gli lanciai un’occhiata senza capire.
«Io non posso morire comunque», parlò.
Sorrisi lievemente, «Ma Edward», dissi, «Tutti muoiono. In un modo o nell’altro», e lui parve stupirsi e mi guardò senza capire, «Tu pensi che ci sia un’unica via per la morte ma ti sbagli», sentenziai.
«Quando morì Joshua, quel giorno sono morta anche io».
Tornai a fissarlo.
«Eppure eccomi qui, e respiro ancora e mi muovo. E grazie a te sono qui».
I suoi occhi si accesero di uno sconforto incalcolabile che mai prima d’ora gli avevo visto disegnato in viso. Aveva cancellato, in un sol colpo, ogni tristezza passata, ogni dispiacere, qualsiasi cosa o peso si trascinasse dietro. E la sua fonte, la sua unica origine, parevo essere proprio e le mie stesse parole.
«Lo amavi così tanto?», mi chiese, quasi impaurito.
«Di più», dissi io, «E quando ami qualcuno in quel modo, quando ami così è come stare sul bordo del mondo», appoggiai la testa al finestrino, «Sei lì e lì dove sei puoi vedere l’universo, le stelle, qualunque cosa e è bellissimo». Edward continuava a fissarmi, concentrato.
«Poi, cadi», finii col dire.
«Perché hai pensato a me?», ebbe appena la forza di dire a un certo punto.
«Non lo so. Forse non avrei dovuto», sorrisi, fissando la strada. La cena nelle mie mani cominciava a raffreddarsi. «Come mai?», mi chiese.
«Perché tu non sei come me, vero?», gli dissi, «Tu non sei come nessuno. È per questo che sei riuscito a fermare l’auto di Tyler, per questo sei riuscito da solo a far fronte a cinque uomini. È così, vero?».
«Sì», rispose, guardando altrove.
«Come hai fatto a trovarmi?», chiesi a quel punto.
«Ti ho seguita», ammise, leggermente infastidito. Non dissi nulla, «Avevo paura che succedesse qualcosa. Ho provato a starti dietro per un po’, ma poi ti ho persa e allora ho provato a seguire.. Il tuo odore».
«Il mio odore», ripetei io.
«Già».
«E ti è bastato questo?».
«Diciamo..», borbottò lui.
«Sei serio?», sbottai io, lui parve non capire subito, »Pensi che io sia stupida? Dopo tutto quello che è successo ancora non vuoi dirmi la verità?».
«Ho provato a leggere i pensieri degli altri», disse, velocissimo, «Per sapere se qualcuno ti aveva vista ma poi c’era così tanta gente a giro e io non sono più abituato come un tempo a leggere le persone, di solito cerco di annullare queste voci, e sono talmente pratico in questo che mi sono dovuto sforzare più del solito. Poi ho sentito quegli uomini e la scia del tuo odore e quello che ho visto è stato tremendo», balbettò. Era nel panico, lo vedevo, «Erano pensieri disgustosi», serrò i denti.
«Li ho odiati dal primo momento che ho potuto entrare in contatto con loro e ancora adesso avrei voglia di ammazzarli, tutti», prese fiato, «Ti vedevo nei loro pensieri e vedevo la tua faccia e..», mi lanciò un’occhiata, sembrava quasi distratto, pensare a qualcos’altro, «Picchi duro, cazzo», disse con un mezzo sorriso.
«Te l’ho detto che sapevo difendermi».
«Non me lo sarei aspettato», abbassò gli occhi, sempre sorridente.
«Tu non ti fidi di me, vero?», gli lanciai un’occhiata.
«Non è questo», provò a giustificarsi, «È che sembrate tutti così deboli..».
«Sembrate chi?».
Alzò piano il viso, «Voi esseri umani».
Quelle tre parole bastarono a confondermi, subito. Non sembrava nemmeno una vera conversazione, cosa mi stava dicendo? Allora era vero? Non era come me? Eppure quella confessione mi turbò: sapevo che in lui c’era qualcosa di diverso, ma addirittura questo.. Credevo che la differenza fosse lieve, immagino di averci sempre un po’ sperato. A quanto pare mi sbagliavo.
«E siete anche sleali», commentò, lanciandomi un’occhiata.
«Sì, è così», ammisi, tranquillamente.
«Anche tu sei così?».
«Non lo so», risposi sincera, «Immagino di no. Hai paura che ti tradisca?».
Scrollò le spalle, «Non dovrei?».
Sorrisi, fra me e me, abbandonandomi completamente al calore dell’abitacolo, «Penso che sarò in grado di mantenere questo segreto. D’altronde, ho scelta? Voglio dire, quanto potresti mai metterci a tapparmi la bocca, se fosse necessario?».
«Non dire idiozie», ringhiò, «Non potrei mai farti del male».
«Non fare promesse che non puoi mantenere, Edward», sorrisi.
«Bella», disse avvicinandosi di scatto a me, «È così e basta», parlò infuriato, «Non ci devi nemmeno pensare». Così vicino a me, così intensi quegli occhi. Il suo profumo riempiva tutta l’auto. Presi il suo capo fra le mie mani e lo strinsi a me, tremando per il freddo e l’emozione.
«Grazie, Edward».
Lui rimase un po’ interdetto sulle prime, poi si abbandonò all’abbraccio, stringendosi a me.
«Prego», lo sentii bisbigliare.
I suoi capelli profumavano di buono, qualcosa che sulle prime non riuscii a identificare. Rose, mi sembrava, un odore dolce e intenso. La sua fronte cominciava a farsi tiepida, nascosta nell’incavo del mio collo. Non sapevo perché gli parlavo nel modo in cui gli parlavo, né tanto meno avevo idea di quale fosse stato il motivo che mi avesse spinto a confessargli dettagli così intimi della mia vita passata. Forse, in quegli istanti, quella sembrava l’unica cosa davvero giusta da fare. Da una parte, le sue parole mi avevano turbata. Era quindi davvero un essere così diverso da me? Davvero la sua carne, le sue ossa, tutto in lui era così nettamente distaccato dal mio mondo? Ero spaventata, ma non travolta completamente dal sentimento – certo, era difficile immaginare concretamente qualcosa di così strano, eppure il motivo per cui non riuscivo a essere davvero agitata, se vicina a lui, era che finalmente, era come se l’avessi trovato. Prima Edward era distante da me e in un punto in cui nessuna mia parola avrebbe mai davvero potuto raggiungerlo. Era come non riuscire nemmeno a vederlo, come andare a tentoni nel buio. Tuttavia, dopo le sue parole, finalmente qualcuno aveva acceso una piccola fiammella, un lumino che silenziosamente aveva squarciato il buio e mi aveva portato da lui. Adesso lo vedevo, anche se con occhi diversi, era lì. E non mi sembrava più così distante e nemmeno nella sua voce riuscivo più a trovare quel velo di tristezza che percepivo ogni volta.
Mi tranquillizzava.
«Dovresti mangiare, sai», borbottò lui a un certo punto, senza dare però segno di volermi lasciare andare.
«Mh-mh», risposi, lasciandolo con delicatezza.
«Stai meglio adesso?».
Annuii, «Forse dovrei tornare a casa».
«Dovresti, sì», disse lui, lanciando un’occhiata poco convinta alla mia cena fredda, «Quella roba di che sa?».
Scrollai le spalle, «Di fritto, più o meno», rigirai gli spaghetti di manzo fra i bastoncini di legno, «Non che mi importi più, in realtà», ammisi, «Non ho più tanta fame».
«Sei sicura? Non ti piace quello?», si avvicinò per annusare il cibo, «Sembra roba che qualcuno ha già digerito», commentò con un’espressione disgustata, «Forse avresti fame se quella cosa fosse più buona. Ti porto in un ristorante se vuoi..».
«Non ho soldi con me», tagliai corto io.
«Pagherei io», provò lui.
«Non dire scemenze», lo fulminai, pizzicandogli la guancia con cattiveria, «Sei proprio stupido. Non voglio che tu spenda altri soldi. Mi sembra che per questa sera tu abbia fatto abbastanza».
«Sai, non è un problema, mica sono povero in canna come te», rise spingendomi via, «Posso permettermi di offrirti qualcosa che non sembri vomito».
«Non voglio», conclusi risoluta, «Ma.. Mh. Se tu mi potessi dare uno strappo fino a casa te ne sarei grata», distolsi lo sguardo imbarazzata. «Va bene», rispose lui, mettendo in moto, «Ce ne andiamo di qui allora».
Ripensai soltanto al ristorante cinese, alle luci blu e bianche, l’odore opprimente di fritto. Le persone sedute ai tavoli, con sguardi onnubilati e assenti. I piccoli rumori di sottofondo, come lo sciabordare dell’acqua sui piatti, lo sfrigolare delle pietanze nelle padelle, la radio accesa ma dal segnale disturbato che grattava l’aria. Un gatto nero che entrava di straforo dietro un altro cliente, senza temere alcuna conseguenza. Ripensai al modo in cui, per un attimo, dopo aver visto Edward sparire aldilà della porta del bagno, mi sembrò quasi di sprofondare. O di sparire. Era così, era come cadere e sparire nel buio assoluto e non sentire più nulla, nemmeno il mio corpo. Quando lo vidi riapparire, con le mani di nuovo pulite e il viso bianco senza nemmeno un tocco lieve di rosso vermiglio, il mio cuore sembrò ricominciare a battere. Era come svenire e non capivo come, tutt’a un tratto, potessi sentirmi così legata a lui, quasi da non poterne fare a meno.
«Ei», Edward mi destò dal mio sognare ad occhi aperti, «Bella».
«Dimmi», risposi io, mentre ci infilavamo in autostrada.
«Secondo te, io», prese tempo lui,
«Secondo te io cosa sono?».

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Capitolo 9
*** Teoria ***


                                                                                                          Teoria


«Sei scorretto», provai a dire, «Non farmi sembrare anche stupida, adesso».
«E comunque», proseguii, «Non lo trovi veramente irresponsabile chiedermi una cosa del genere?».
Mi lanciò uno sguardo interrogativo.
«Potrei davvero spaventarmi, sai? E correre a dirlo a tutti».
Dapprima sembrò agitato ma poi, quando colse l’ironia, si rilassò, «Non ti crederebbe comunque nessuno», ridacchiò. «Ah no?», sbottai io, «Basterebbe dare un’occhiata all’auto di Tyler. Nella sua portiera adesso campeggia il Grand Canyon», sorrisi sorniona.
«Già, a proposito di questo», trattenne una risata, «Ci ha pensato Emmett. D’altro canto, non è poi così difficile sfuggire al controllo delle forze locali. È bastato qualche istante, dopo l’incidente e un po’ di pressione dal lato opposto. I poliziotti che erano lì nemmeno se ne sono accorti e quando finalmente hanno potuto mettere le mani su quel catorcio», prese tempo, «Ormai non si notava già più nulla».
Per un attimo non dissi niente, cercando di capire se questa versione dei fatti potesse effettivamente reggere. «Anche lui è piuttosto veloce, sai? Ma poi i vostri occhi sono così inadeguati», mi punzecchiò, «Che non riuscireste a vederci muovere nemmeno se vi sforzaste, quindi possiamo fare davvero quello che ci va», mi guardò divertito.
«Allora», riprese, «Cosa sono secondo te?».
«Che ne so», scrollai le spalle, evidentemente contrariata, «Non sei umano».
«Ma questo te l’ho già detto io, dai», insistette, «Voglio sentire un po’ di teorie. Non è la prima volta che ci pensi, vero?».
«No», sbuffai.
Ci riflettei su per un attimo.
«Sei Deadpool?», mi voltai con un lampo di speranza negli occhi.
Lui scoppiò a ridere, «Magari», continuò a ridere, «Sarebbe davvero una figata».
«Però», indicò il suo petto con l’indice, «Niente tutina rossa-nera. E niente spade», mi sorrise.
«In realtà sapevo che non poteva essere vero, ma un po’ ci speravo», sospirai.
Guardai la strada fondersi al cielo, al di là del finestrino – mille fasci di luce ci indicavano la via e la notte, adesso che ero con lui, sembrava più limpida. Il cielo più aperto e il mio cuore più leggero.
«Ti posso fare una domanda?», chiesi.
«A questo punto..», indugiò lui, «Dimmi».
«Come funziona questa cosa del pensiero? Puoi davvero leggere nella mente altrui?», la mia voce era fin troppo incredula, tuttavia, nonostante una parte di me nutrisse ancora dei dubbi a riguardo, per un attimo detti per scontato che mi stesse dicendo la verità. E i pensieri che seguirono non furono piacevoli: improvvisamente ero nuda, di fonte a lui. Se era vero che aveva di questi poteri, che poteva scavare fra i dettagli indiscreti e segreti delle vite degli altri senza che nessuno potesse mai venirne a conoscenza, allora, allora anche io potevo essere letta? Anche io potevo essere vista in quella stessa maniera, nei miei momenti più intimi e privati? Arrossii violentemente, ripensando a tutte le cose spiacevoli che avevo pensato di lui, specialmente nei primi giorni del nostro rapporto, ma ancora di più, a farmi profondamente vergognare di me stessa erano le cose piacevoli che avevo pensato di lui.
Come per esempio le volte in cui avevo notato i suoi vestiti o il modo in cui si era messo i capelli e avevo pensato a quanto fosse davvero,.. Bello. A quanto mi piacessero le sue mani o il modo in cui guardava attentamente le cose, in cui si distraeva a volte, perso nelle sue mille congetture.
Il mio cuore impazzito a quelle rivelazioni che si risolvevano unicamente nella mia anima mi fece quasi mancare il fiato.
«Scusa», dissi senza rendermi conto di averlo interrotto – nemmeno l’avevo sentito chiacchierare, tanto ero presa dall’ansia. Per un attimo parve smarrito, poi mi chiese perché mi stessi scusando.
«Per quello che ho pensato di te a volte», riuscii a malapena a balbettare.
Questo sembrò confonderlo e interessarlo al tempo stesso, «Quali cose?», chiese con un mezzo sorriso, «Cose carine?».
Per un attimo, fui quasi sul punto di dirglielo, ma poi mi bloccai.
«Aspetta. Ma non potevi leggere nel pensiero? Non dovresti saperle già queste cose?», chiesi con voce rotta. «Mh, beh», borbottò, «Con te è diverso. Con te non posso».
«Stai scherzando, vero?», ribattei io, incredula, «E ti dovrei credere?».
«Se vuoi. Anche se in effetti, se tu non lo facessi, sarebbe molto più facile», sorrise amaramente.
Lo fissai per un attimo, indecisa se credergli o meno, «In effetti, sono più felice così», fece.
«Che vuoi dire?».
«Se lo potessi fare anche con te, se fossi capace allora non penso mi piacerebbe stare in tua compagnia».
«E perché no?», chiesi perplessa.
«Non te lo dico», scherzò, eppure sembrava teso.
«Così però non vale», commentai io.
«Vale eccome, il giochino è mio, e le regole pure», mi punzecchiò.
Rimasi zitta, a volte riusciva a essere così frustrante. Improvvisamente, non avevo più voglia di parlare.
«Non hai ancora risposto alla mia domanda, comunque», disse lui a un certo punto.
«Che domanda?».
«Cosa sono, secondo te?», provò a non guardarmi.
«Uno stupido», risposi irritata.
«Sii seria adesso», mi rimbeccò lui.

«Sei un vampiro».

Il tono della mia voce era fin troppo calmo e freddo per passare inosservato. Edward non mi rispondeva, né sembrava pensare alcunché, l’unica sua reazione fu quella di girare bruscamente l’auto e fermarsi nel primo punto di sosta che trovò. Stemmo lì per un po’, senza parlarci. In auto, solo il suono della radio rompeva ogni silenzio e io non avevo il coraggio di intromettermi in quel flusso di note e parole.
Non so a cosa pensasse Edward ma per un attimo, il suo profilo, contornato dalla fioca luce dei lampioni, frastagliato da quel timido bagliore, mi ricordò Joshua.
Mi ricordò il modo in cui anche lui sembrasse sempre perdersi, a volte, con gli stessi occhi pensosi, enormi come tutto il mare. Guardandolo, avevo sempre l’impressione che non l’avrei mai capito realmente.
Lui non aveva nessuno, nessuno al mondo e nessuno poteva sconfiggerlo, toccarlo in qualche modo, perché lui era insolito, selvaggio, folle. Scappava, non apparteneva a nessuno, non aveva nulla.
Solo le sue cicatrici.
Ma poi, poi quando mi guardò per la prima volta parve come sconvolto. Mi disse che ero la sua unica estate e l’unica cosa che voleva fare era ridere e piangere e stare con me e svegliarsi con me e venir consumato da me. C’erano quei pochi anni di differenza, due e mezzo a malapena, eppure io ero comunque la sua bambina. E lui mi diceva che forse non avrei capito, non avrei potuto farlo comunque, ma col tempo ci sarei riuscita e allora quelle parole avrebbero avuto completamente senso per me. Ne parlava come se quando le udii per la prima volta, non potessi capire o sentire. Ma io potevo. Potevo davvero, ma solo adesso, solo in quel momento in auto, con Edward, compresi realmente il significato di quelle parole.
E la sua ossessione di essere libero, di voler andarsene.
Rivedevo quelle stesse emozioni sul volto di Edward. Anche lui sembrava intrappolato e ossessionato dal pensiero di non poter semplicemente fare ciò che desiderava, di non potersi dichiarare, dire, sentire.
Mi resi conto solo dopo aver parlato, che quelle tre parole dovettero suonare come una gravissima offesa alle sue orecchie, poiché mai pareva entusiasta o realmente contento e soddisfatto della sua vita.
Mai.
Non c’era stato un giorno, da quando l’avevo visto, mai una volta che avesse sorriso, senza subito spegnersi dopo. Mi chiesi quanto potesse essere devastante essere così com’era, senza via di fuga.
Probabilmente, quella non era la vita che si era scelto.
Questa non era la vita che avrebbe voluto per sé.
Ma ecco che ce l’aveva e non poteva farci nulla, condannato a essere se stesso nel più tremendo dei modi.
«Sei triste adesso?», provai a essere gentile, ma lui non mi rispose.
«C’erano delle cose che avrei voluto fare», disse tutt’a un tratto, «Sai.. Cose stupide».
«Cose che mi avrebbero fatto felice», appoggiò la testa sul volante, voltandosi verso di me. Sorrideva piano.
Mi avvicinai a lui, chinando lievemente il capo in modo da poterlo guardare in viso.
«Puoi ancora fare queste cose», dissi, «Puoi fare comunque quello che vuoi».
«Se dovessi fare comunque quello che voglio», rispose lui, spostandosi, «Tu saresti morta, adesso».
Quella confessione mi colse del tutto impreparata, sconvolgendomi, «Che significa?».
«Non voglio spaventarti, sai», guardava aldilà del parabrezza, «Ma stare accanto a te.. Il tuo odore è così forte e incredibilmente buono..», si nascose il viso fra le mani, «Che la prima volta che mi sei venuta vicino, avrei voluto soltanto sgozzarti e bere ogni goccia di ciò che c’era nel tuo corpo».
Provò a guardarmi, cercando nei miei occhi un bagliore di compassione, ma tutto ciò che vi trovò fu paura e disgusto. «Non è vero», dissi.
«Scusa».
«Tu mi ucciderai? È così?», gridai, presa dal panico.
«Non dire idiozie!», mi urlò contro, «Non potrei mai fare una cosa del genere.. Io non sono un mostro».
Chiuse gli occhi, tirando un lungo sospiro.
«Io non faccio male alle persone, quindi..», allungò la mano verso il mio polso, il mio corpo teso, «Quindi non ti farei mai del male e io», disse avvicinandosi e stringendo lievemente la mia pallida carne, «non ti stringerò mai più forte di così», i suoi occhi erano totalmente concentrati su di me, sul mio viso. Su ogni cosa in esso vi risiedesse – la mia iride, le mie piccole lacrime che facevano luccicare le mie nere ciglia e le mie gote rosse.
«Anche se la prima volta avrei voluto», sospirò abbassando la testa, «Ma noi, siamo amici, vero?», la sua voce tremava, «Vero? Non sarebbe stato carino se avessi fatto una cosa del genere», rise nervosamente, «E io non avrei mai più potuto vivere con i sensi di colpa e poi io, io mangio solo animali».
«Tipo gli orsi?», parlai, ripensando a Goat Rocks.
«Tipo gli orsi. Perciò ora non avere più paura», alzò lo sguardo, «E non dire più cose così. È una vera cattiveria», lasciò andare il mio polso.
«È stato involontario», borbottai, «Non è facile,.. Tutte queste cose sono strane per me».
«Già. Lo so», rimise in moto, «Mi dispiace», si rinfilò in carreggiata quasi subito.
Forks ormai non era più così distante, non era più un posto lontano da noi, ma era comunque un pensiero difficile da affrontare, «Adesso ti faccio paura?», mi chiese.
Casa mia già si intravedeva e fra gli alberi scuri e le loro teste puntute  e affilate, ebbi il coraggio di essere sincera. «Sì, molta».
«Ma..», dissi prima che potesse avere qualsiasi reazione, «Io proverò a fidarmi. Non so quale sia il tuo passato e non so quali cose tu abbia fatto, io non conosco la persona che eri. E non ti conosco nemmeno adesso a dirla tutta», l’auto si fermò, nel vialetto davanti casa mia, «Ma io ti parlo e tu scherzi e ridi con me. E mi hai salvata, tu mi hai protetta e nessuno ti aveva chiesto di farlo, ma tu l’hai fatto comunque. Perché potevi e hai scelto così», mi voltai verso di lui, «Io penso che tu sia buono. Quindi va bene, io proverò a fidarmi».
«Ma tu non mi devi tradire», lo fulminai con lo sguardo.
Annuii, con un’espressione indecifrabile in viso. Pareva colpito, in qualche modo addirittura leggermente sollevato. Forse questo perché ero stata sincera con lui e questo gli aveva fatto male, ma anche bene.
Le ferite che si aprirono in lui in quei momenti parevano avvolgerlo in un dolore dolce, tiepido. Sembrava quasi felice e ero così presa da questi pensieri che non feci immediatamente caso al suo improvviso cambiamento. «Che c’è?», chiesi allarmata.
«Ti ho macchiata», disse afferrandomi il braccio, «Guarda! Sei sporca di sangue!».
«Eh? Ma io sto bene», borbottai agitata, senza capire.
«Questo non è sangue tuo», sospirò lui, «Ti ho macchiata io quando ti ho abbracciata, prima di lavarmi le mani». Quando finalmente capii ciò a cui si riferiva, ebbi un sussulto.
Cosa avrei detto a Charlie? «Ma allora anche sulla schiena..», ebbi appena il tempo di dire, che Edward mi voltò senza problemi. «Che disastro», lo sentii sospirare esasperato.
«Mi dispiace», si scusò lui, «Non avrei voluto.. Come posso..», cadde in un altro dei suoi soliti ragionamenti. Quando mi girai, si stava togliendo la giacca. «Tieni», disse porgendomela, «Mettitela addosso e copriti con questa». Lo feci, senza batter ciglio. Da una parte, sperai che Edward pensasse che tutta la fretta che avevo di indossarla fosse nata dalla mia voglia di nascondere scomodi dettagli a Charlie.
Ma la verità è che, quando potei finalmente averla addosso, mi sentii quasi sollevata al pensiero di poter tenere qualcosa di suo per me soltanto.
«Grazie», borbottai.
Uscii dall’auto. «Verrai domani a scuola?», lo sentii urlare.
«Che domande, certo», mi voltai, leggermente irritata.
Ma poi sorrise e chissà per quale motivo non avevo più voglia di parlare.
«'Notte», disse, chiudendo la portiera.
Rimasi a lungo sul vialetto, a guardarlo andare via, pensando.
C’erano dettagli, di quella storia, che stentavo a capire e altri ancora che non riuscivo nemmeno a ricordare. Mi domandai cosa lo avesse spinto a compiere un simile gesto, avvicinarsi a me provare a difendermi, confessarsi. Ci vuole del coraggio per rendersi così vulnerabili davanti a un’altra persona, e lui ne aveva avuto. Mi aveva affidato questa parte della sua vita per motivi che, ancora, non riuscivo a comprendere.
E anche se da un lato ero rimasta sconvolta dalla scoperta dei suoi più tremendi desideri, non riuscivo ad avere più paura. Continuavo a pensare ai suoi occhi, al modo in cui si era infilato sotto la luce, in cui mi aveva guardata – come se non esistesse nulla più importante della mia vita. Ero lì, sotto la luce e stavo bene e ogni sua più profonda preoccupazione sembrò esplodere e dividersi in milioni di piccole stelle, abbandonando insanguinato. Non c’era niente che contasse in quel momento, ecco cosa mi disse in quel preciso istante, senza nemmeno bisogno di fiatare. Niente a parte me.
Niente a parte che ero ancora lì e respiravo e non ero stata distrutta e cancellata, ma c’ero ancora e potevo lo stesso continuare a fare le cose che desideravo, essere libera, bella, selvaggia. La mattina dell’incidente era diverso, penso che abbia avuto davvero paura che fossi morta. Io non rispondevo e lui non faceva che chiamarmi, con quella disperazione nella voce, proprio come se stesse per impazzire.
Sembrava quasi una supplica, ‘Non te ne andare, non mi lasciare, resta con me’, sembrava che dicesse.
Mi incamminai verso casa, lanciando un’occhiata alla strada fusa al nero del cielo.
Infilai le chiavi nella serratura e sgattaiolai nel caldo tepore di casa mia.
Finalmente.

La mattina dopo, il viso di Charlie mi ricordò perché fossi così felice di essere di nuovo fra quelle quattro mura. E perché, la sera prima, addentrarmi di nuovo nel salotto e scoprirlo addormentato, davanti al televisore, mi avesse così riempito il cuore di gioia.
«Ieri sera non ti ho sentita tornare», disse con tono severo, «A che ora sei arrivata a Forks?».
«Non me lo ricordo a dire il vero», ammisi, «Ma tu stavi dormendo davanti alla tivù», trattenni una risata, «Sono convinta che non fosse poi così tardi».
«Beh, spero che tu non abbia fatto nulla di irresponsabile», bofonchiò goffamente.
«No, nulla», abbassai lo sguardo, cercando di cancellare dalla mia mente i ricordi di quegli uomini.
«Vi siete divertite?».
«Oh sì», sussultai, ripensando a Jessica e a tutti i messaggi che mi aveva lasciato, a cui ancora non avevo avuto le forze di rispondere. In quell’istante, avrei davvero voluto vedere di nuovo il suo viso sorridente e senza preoccupazioni e abbracciarla, solo per il semplice fatto che potevo.
«Jessica e Angela hanno comprato dei bei vestiti», commentai, «E Angela ha anche comprato delle scarpe».
«Sembra divertente», provò a sorridere lui, «Roba da femmine, carino», arrossì.
«Già, roba forte», risi io.
Finì presto di mangiare la sua colazione e con un’ultima occhiata, dopo avermi augurato buona giornata, se ne andò. Mi domandai come sarebbe stata la vita di Charlie se io non fossi mai tornata a casa, la notte scorsa. Se avessi semplicemente continuato a camminare, senza Edward. Pensai a come sarebbe stato raccattare il mio corpo abbandonato e rimettersi in piedi, sapendo di non essere più nessuno, e andare via. Così, come se non fosse davvero successo nulla.
Camminare lungo il raccordo, al di là dei guardrail arrugginiti, sulla terra nera, camminare fino alla fine, fino a piangere, fino a perdermi del tutto. Sospirai sollevata, tentando di cancellare quei momenti dalla mia mente. Era tutto apposto adesso, potevo andare avanti.
Presi il telefono fra le mani e chiamai Jess – probabilmente non era ancora uscita di casa.
«Pronto?», la sua voce squillante mi fece sorridere.
«Ciao Jess».
«Bella!», esclamò lei, «Stai bene?».
«Sì, sì sto bene», la tranquillizzai, «Scusa se non sono venuta a cena ieri sera», provai a dire.
«Scema», la sentii sorridere dall’altra parte, «Sono felice che tu stia bene, chi se ne importa della cena».
Risi. «Certo che fortuna sfacciata», sbottò lei, «Non ci posso credere, tu ti perdi e quello schianto di Edward Cullen ti salva. Se mi fossi persa io, a quest’ora sarei ancora a vagare per le strade di Port Angeles», sospirò.
«Che vi siete detti?», chiese con impazienza.
«Uhm, beh, un sacco di cose», tentai di rimanere sul vago.
«Oh, Bella, ti prego», sospirò.
«Beh mi ha presa in giro per essermi persa per quasi tutto il tempo. Poi mi è venuta fame e allora siamo andati a cercare qualcosa da mettere sotto i denti», ci pensai su un attimo.
«Siamo stati nella sua macchina a mangiare roba cinese d’asporto e poi mi ha riportata a casa. Guida come un pazzo, ma non gliel’ho detto».
La sentii ridere, «Perché no?».
«Perché scemo com’è, come minimo avrebbe accelerato, solo per spaventarmi», mi lasciai scappare un sorriso. «E poi?», chiese, avida e ancora affamata di dettagli.
«E poi», dissi io, lanciando un’occhiata fuori dalla finestra, «Poi..».
Sorrisi nel vederlo di fronte al vialetto di casa mia, che mi faceva la linguaccia, al di là del vetro spesso.
«E poi mi ha fatta ridere», sussurrai, alzandomi dal tavolo, mentre lo salutavo con la mano.

E poi mi ha fatta ridere.

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Capitolo 10
*** Interrogatori ***


                                                                                                      Interrogatori


Spensi il telefono e uscii fuori di casa, facendo attenzione a non scordare di prendere nulla. Mi mossi lentamente nell’aria fresca del mattino, alzando piano il mio sguardo per cercare il suo.
Ma davanti a me non vidi nessuno.
Per un attimo ebbi quasi un dubbio, mi ero davvero immaginata tutto? No, impossibile.
Provai a ripercorrere brevemente i momenti appena trascorsi – io che dicevo a Jess che dovevo andare, che ci saremmo sentite a scuola, che le avrei detto altre cose poi e mentre parlavo lui era sempre lì, con quel suo sorriso acceso. Ero uscita di casa e poi cosa? Avevo sfilato le chiavi del pick-up dalla tasca dei miei jeans e avevo chiuso con attenzione la porta. Girandomi, mi aspettavo di incontrare il suo viso, ma non accadde.
Forse se n’era andato, pensai.
Scrollai le spalle e mi avvicinai al pick-up, quando un enorme frastuono per poco non mi fece cadere a terra per lo spavento. Poi, quella risata.
«Dovresti vedere che faccia da stupida hai proprio adesso», disse Edward, in piedi dentro il cassone sbiadito. «Idiota!», gridai io, rossa in viso, «Si può sapere da dove sei saltato fuori».
Balzò a terra con un’agilità inquietante e mi fece cenno di guardare in alto: il grosso albero nato nel giardino di casa mia ci sovrastava, con i suoi secchi, nodosi rami.
«Sei salito fin là sopra», sussurrai, sempre con il capo alzato, «Bene, cioè.. Ok», dissi, lanciandogli un’occhiata perplessa. «Pensavo fosse divertente», scrollò le spalle, «No?», mi lanciò un’occhiata ingenua.
«Sì, immagino di sì», borbottai, «Che ci fai qui?».
«Andiamo a scuola, no?», sorrise, «Guarda qui che figa», si tirò la maglietta, pizzicandola ai bordi con le sue dita pallide. Lanciai un’occhiata al tessuto sbiadito e alle parole scritte in colori sgargianti.
«Ti piace Star Wars?», chiesi, accennando al disegno di Darth Vader.
«È davvero forte», mi sorrise, «Anche te non sei vestita niente male», ammiccò nella mia direzione. Abbassai lo sguardo sulla mia felpa nera, costellata di facce di Bart Simpson.
«Certo, io sono a un livello completamente diverso», rise, «Ma apprezzo l’impegno».
«Simpatico», dissi strizzando gli occhi, «Dai fammi salire in auto».
«Sai non penso di aver mai sottolineato abbastanza quanto questo pick-up mi metta i brividi», lanciò un’espressione disgustata al mezzo. «Vogliamo fare questa cosa di nuovo?», inarcai un sopracciglio.
«Sei sempre così ostinata?», mi venne vicino lui.
«Ah, Bella», mi richiamò, mentre aprivo la portiera del pick-up.
«Dimmi», feci io, senza nemmeno voltarmi.
«Ti ricordi quando eravamo in auto, ieri sera», si appoggiò alla lamiera fatiscente e ormai consumata, «E a un certo punto ti sei scusata?».
«Mh», lanciai in auto lo zaino, «Per le cose che avevi pensato di me..», continuò.
Cadde un silenzio improvviso e io mi voltai verso di lui, smarrita. «Erano cose carine o no?», mi sorrise.
Arrossii violentemente, «Questi non sono certo affari tuoi», sbuffai, provando a spingerlo via.
«Non erano cose carine, quindi?», lui mise su il più adorabile dei bronci.
«Lascia perdere Edward, quello che penso non ti riguarda», risposi stizzita.
Mi fissò per un attimo, con un’espressione accigliata in volto che, però, non tardo a mutare in un sorriso smagliante, «Ah..», disse lui con fare malizioso.
«Cosa?».
«Ho capito..», sospirò lui dolcemente, avvicinandosi di nuovo, «Erano cose sconce, eh?».
«Sei proprio idiota!», urlai, spingendolo ancora più forte.
«Invece è così, vero? Sei diventata paonazza», rise divertito.
«Figurati! Noi siamo amici, no? Non potrei mai pensare a te in questo senso», sbottai, cercando di non guardarlo. «Sei davvero cattiva, Isabella», mi prese una ciocca di capelli e se la rigirò fra le dita, guardandola con occhi adoranti e un sorriso divertito.
La usa iride si fece ancora più chiara, striata di piccole venature color del miele mentre le sue delicate ciglia carezzavano l’aria, piano. Non mi aspettavo una reazione simile, né quel suo modo di muoversi – persino la maniera in cui aveva pronunciato il mio nome, Isabella, sembrava quasi l’inizio di una canzone.
«Non sapere quello che pensi è una vera tortura», sorrise debolmente, «Non è giusto».
Non dissi nulla, ma continuai a sentirmi bruciare il viso, come se fossi stata gettata nel bel mezzo di un incendio. Eppure era una visione avvolgente, suggestiva – vederlo così vicino a me, così simile nei miei piccoli comportamenti, curioso, era come poter tendere la mano per la prima volta verso una creatura mistica, o come ritrovarsi sospesi in aria, proprio sopra al Blue Dragon River e guardare, guardare e non smettere mai, non averne mai abbastanza, sempre a occhi spalancati, sempre in volo, sempre più vicino.
Avrei voluto distogliere lo sguardo, spostarmi immediatamente, non lasciarmi prendere, ma sembrava tutto così inevitabile. Ecco, più che semplice era inevitabile.
Era inevitabile rimanere colpiti da quegli occhi, come inevitabile era rimanere paralizzati davanti alla sua figura, ai suoi spostamenti. In quel momento realizzai che, se avesse voluto, Edward avrebbe potuto uccidermi. Subito, all’istante. E io non avrei mosso un dito (non ne avrei avuto il tempo!). Questa mia consapevolezza creò un varco in me, una voragine di ansie e timori, ma anche di sentimenti nuovi, particolari, cui io non riuscivo ancora a dare un nome preciso. «Dovremmo andare a scuola, sai», provai a liberarmi io, dalla sua presa. Le sue dita si aprirono come un fiore, lasciandomi andare e io ne fui quasi stupita e un po’ anche delusa.
«È vero, è vero, il dovere prima di tutto», ghignò lui, montando nel pick-up.
«Che stai facendo?», mi voltai di scatto io, seguendo i suoi rapidissimi movimenti.
«Mi siedo al mio posto, no?», sorrise, mettendosi comodo.
«Niente scintillante Volvo per spocchiosi oggi?», domandai, montando al posto di guida.
«Mh, no. Sono venuto qui a piedi stamattina», lanciò un’occhiata aldilà del finestrino. «Dai», disse voltandosi verso di me, «Vediamo come tiri fuori questo catorcio».
Non dissi nulla, mi limitai a fare retromarcia, continuando a ignorare i commenti di Edward che durarono per quasi metà del viaggio. «Sei irritante», sbottai dopo un po’, «Perché vieni in auto con me se non ti piace come guido?», il mio tono di voce sottolineava la mia esasperazione.
«Perché stare con te è divertente», mi girai verso di lui, stupita. Lui mi guardava come un bambino, con la stessa ingenuità, la stessa sincerità negli occhi. Qualcosa mi pizzicò il cuore – chissà come doveva essere, Edward da bambino. Chissà com’era sua madre, chissà quali facce avranno avuto i suoi amici. Chissà se gli mancava il mondo prima, se a volte non riusciva a concentrarsi, nemmeno a parlare, perché sopraffatto dai ricordi. Quanto tremenda poteva essere una vita così? Quanto difficile da sopportare?
Dopo Port Angeles non facevo che pensare alle sue parole, «Io non posso morire comunque».
Quella notte, mi ricordo di aver pensato e quasi involontariamente dato risposta a quella stessa frase.
«Tu no, ma io sì».
Già, sarei morta, era un momento inevitabile, da cui nessuno mi avrebbe potuta salvare, eppure rimaneva un passaggio necessario. Un giorno, le mie ossa si sarebbero iniziate a fare più fragili e infine la mia stessa pelle avrebbe seguito questo stesso processo e sarebbe avvizzita, proprio come un fiore sotto il sole bruciante dell’estate. Un giorno, avrei respirato e sarebbe stata l’ultima volta.
E lui invece, lui invece no. E molti, molti anni ancora sarebbero trascorsi, molti giorni, molti altri mesi.
Ma io non sarei stata lì, non avrei potuto parlargli, non avrei potuto ridere. O sapere di lui, né lui di me. Ci avrebbe divisi la vita, infine. Ci avrebbe divisi il mio corpo, la mia fine, la polvere.
Mi domandai se avesse provato tristezza, nel pensare a quelle cose.
«Davvero non hai paura di me?», chiesi, quasi in un sospiro.
Lui scoppiò a ridere, «Bella, hai presente chi è il vampiro qui dei due? Sono io che dovrei spaventarti».
«Sì ma non hai paura che dica tutto a tutti?», gli lanciai un’occhiata per osservare la sua reazione.
«E tu non hai paura di morire?», rispose seccato lui.
«A volte», ammisi, «E quindi che altro fai nella tua vita, a parte fare a botte con gli orsi e salvarmi la vita ogni tanto?».
«Mh, non so, a volte mi richiudo nella mia bara e ci resto per qualche giorno», borbottò.
«Davvero dormite nelle bare?», esclamai stupita, sempre con gli occhi fissi sulla strada.
«Ma quanto sei idiota», abbozzò una risata lui, «A che mi serve una bara se non posso morire? E poi io non dormo», disse.
«Cosa?», mi girai verso di lui, esterrefatta, «Scherzi? Mai?».
«Mai», scrollò le spalle, «Non mi ricordo nemmeno più com’è. Non ne abbiamo bisogno».
Ci pensai su per un attimo, «Che cesso di vita che hai», scoppiai a ridere.
Lui non sembrò molto divertito da quella mia frase e continuò a fissarmi con odio per un po’, «Oh, andiamo», dissi io sorridendo, «Dormire è la cosa più bella di sempre! Io non potrei immaginare la mia vita senza un letto e quelle otto, dieci ore di sonno».
«Che spreco di tempo», mormorò, irritato.
«E allora che fai quando è notte?», domandai curiosa.
«Guardo Buffy l’Ammazzavampiri», rise.
«Dai!».
«Gioco a Risiko con tutta la famiglia. L’Africa è mia!».
«Ma basta!».
«Mi vesto da donna e scendo in città a fare festa, puoi chiamarmi Barbara d’ora in poi».
«No», risi.
«E allora che faccio?», chiese con fare innocente.
«Che ne so! Sei te quello che non dorme», gli tirai un pizzicotto.
«Mh, beh», sembrò rifletterci su un po’, poi fu come colto da una specie di rivelazione, «Ah, già..».
«Cosa?».
«Ti volevo dire questa cosa che, cioè, è successa e pensavo fosse il caso di metterti al corrente», borbottò, un po’ insicuro. «Eh. Cosa?», insistei io.
«Una volta sono entrato in camera tua, e tu mi sa che eri in bagno e credo di aver fatto un po’ un casino», provò a sorridere di fronte alla mia espressione chiaramente contrariata.
«Dai, era sera e ero curioso, mica ho fatto nulla di male, solo che hai una camera così piccola che sono andato a sbattere contro la sedia e ti è tipo caduto lo zaino e ci ho rimesso un po’ di libri a caso..».
Silenzio.
«..E poi mi è cascata la sveglia e credo di avertela un po’ scombinata. Era la mattina in cui sei arrivata in ritardo, credo», attese per un attimo una risposta e poi disse, «Poi me ne sono andato. A parte quello, tutto apposto».
Mi voltai e lo fulminai con uno sguardo traboccante d’odio, «Sei entrato in camera mia senza permesso?».
«È stata una buona idea dirtelo mentre guidi, dopotutto. Almeno non puoi farmi del male», tirò su un sorriso smagliante. «Sei un cazzo di imbecille, ma come ti è saltato in mente?», gli ringhiai contro.
Lui scrollò le spalle, «L’ho fatto solo una volta», promise, «Mica sono entrato tutte le volte..».
«Che dovrebbe significare?».
«Beh», si voltò verso di me, accomodandosi con le gambe ben distese sul sedile e la schiena poggiata al finestrino, «Sono quasi sempre stato fuori, a gironzolare per la zona. Non sapevo che fare», sorrise, «Avevo voglia di giocare, ma tu dormivi, e io mi annoiavo. Così a volte sono venuto a vedere che facevi. Sembri una triglia quando dormi», ridacchiò divertito, ma smise subito quando incrociò il mio sguardo furente.
«Che c’è? Non sono mica entrato in camera tua mentre dormivi, ma devi ammettere che lasciare la finestra aperta, senza chiudere le persiane, è una bella tentazione», si grattò il collo, «Ho fatto il bravo, davvero».
Parcheggiai l’auto nel solito spiazzo davanti alla scuola e spensi il motore. Mi voltai verso di lui, le sue lunghe gambe e la sua espressione maliziosa. Chiusi gli occhi, tirando un lungo sospiro.
«Edward..», dissi riaprendoli piano, avvicinandomi a lui, «Davvero hai fatto il bravo?», mi avvicinai quasi gattonando al suo corpo disteso, sempre di più, finché lui stesso si ritrasse un po’.
Sorrisi dolcemente, passandogli una mano dietro la schiena, «Scusa se mi sono arrabbiata..», gli sussurrai all’orecchio, «Non succederà più, te lo prometto».
Per un attimo, mi parve di sentirlo tremare – di certo era teso, non si muoveva neppure: i suoi occhi erano fissi su di me, concentratissimi. La mia mano destra salì lungo tutta la linea precisa del sedile, mentre la sinistra sfiorò lentamente la maniglia interna della portiera. Lo fissai a lungo, sorridendogli amorevolmente. Provò ad allungare una mano verso i miei capelli, quando feci scattare la serratura dell’auto e, con tranquillità, spinsi la portiera e mi levai in fretta da sopra il suo corpo, facendolo rotolare a terra.
«Perché se lo rifai ti uccido direttamente», conclusi con un sorriso sarcastico, fissandolo dall’alto. Gli spinsi lo zaino addosso e lo chiusi fuori, lasciandolo a gambe in aria per un po’. Scesi dall’altra parte senza farmi troppi problemi e mi incamminai a passo svelto verso la scuola.
Non potei fare a meno, durante la mia traversata, di notare tutti gli sguardi che mi si posavano addosso, ma provai a non farci caso, e continuai decisa sulla mia strada.
«Bella!», mi voltai, richiamata dalla voce di Jessica, «Che è successo?», mi chiese con un mezzo sorriso stralunato. «Nulla», feci spallucce io, senza capire.
«Edward è venuto a scuola con te.. Ma poi..?», domandò, probabilmente riferendosi al volo pindarico di pochi attimi fa.
«Cullen ha fatto un bel volo, eh?», Mike si avvicinò a noi, divertito come non l’avevo mai visto.
«Zitto», gli tirai una gomitata io, «Se lo meritava. E non c’è nulla da ridere», conclusi, ancora nervosa per prima. Jessica mi venne dietro, a passo svelto, «Avete litigato?», chiese.
«L’hai fatto cadere tu?», soffocò una risata Mike.
«Forse», mormorai a denti stretti.
«Pensavo ti piacesse», disse Jessica, mentre entravamo in classe.
«Che significa adesso questo?», chiesi, sedendomi.
«Che dopo Port Angeles.. È stato carino con te, no?», insisté lei, «In realtà credevo che voi due..», lasciò cadere in sospeso la frase. «Noi cosa?», incalzai.
«Che vi foste baciati», strinse le labbra in una smorfia deliziosa che mi fece arrossire di nuovo.
«Non dire sciocchezze», ribattei, voltandomi nella direzione opposta.
«Ma perché, non stai bene quando sei con lui?», quelle parole catturarono di nuovo la mia attenzione, «Ti vedo sempre così felice quando ti parla. Ti diverti un sacco, si vede, sai», sorrise, «E poi scherzate sempre, ti ha portata in infermeria.. Ti ha aiutata quando ti eri persa..», contò sulle dita ogni sua prodezza, snocciolando attentamente fatti e sottolineando dettagli, «Io ero convinta che vi foste già fidanzati, in realtà», ridacchiò.
«Beh, non è vero», sbuffai.
«Ma lui non ti piace nemmeno un po’?», a quella frase arrossii, di nuovo.
Che domanda sfacciata, pensai, sfacciata come Jessica. Però, nel tempo che avevo trascorso insieme a Edward, anche nei primissimi momenti, non mi ero mai realmente posta questa domanda. Nemmeno una volta mi era mai passato per la mente che una cosa simile potesse essere possibile – eppure in me esistevano sensazioni che non riuscivo a spiegare. Succedeva anche quando stavo con Joshua.
A volte lui mi sorrideva o mi prendeva per mano, mi portava a ballare e in me qualcosa cominciava a brillare, irradiando tutto il mio spirito e il mio cuore di una luce dallo splendore accecante. A volte, quando Edward mi parlava o rideva, ancora in me si riaccendevano piccoli fuochi radi che mi riscaldavano e mi chiedevo se questo potesse realmente definirsi amore o semplice interesse.
«Bella? Allora? Che pensi di lui?», Jessica mi punzecchiò con la matita.
«Che è uno stupido», risposi, con un tono che suggeriva rabbia e irritazione ma con un lieve sorriso che, come temevo, significava tutt’altro.

Dopo la fine delle lezioni ci avviammo in mensa e Mike non faceva che ripetere quanto fosse stato esilarante veder piombare Edward a terra, «È un tale montato, se lo meritava proprio».
«Ma come è successo?», chiese Angela.
«Oh non so», le sorrisi dolcemente, «Sai, la mia auto è vecchia e io gli avevo detto di non sedersi così, con le spalle rivolte al finestrino, ma lui non mi ha voluto dar retta».
«E come mai era in auto con te?», si fece avanti Mike, cercando di nascondere la solita gelosia.
«Ci siamo incontrati per strada», scrollai le spalle, «La sua auto l’aveva lasciato a piedi», a quelle parole, Mike esplose in una grassa risata.
«Che giornatina per Mr. Perfezione», si gongolò, «Mi domando cos’altro gli capiterà oggi».
Il suo entusiasmo durò appena il tempo di un paio di passi – «O cosa capiterà a te», sibilò una voce alle sue spalle: davanti a noi, Edward in tutta la sua stizza e la sua irritazione. Ah, ci risiamo, pensai, i suoi occhi sono di nuovo neri. Forse avrei dovuto smetterla di stuzzicarlo così.
Mike si irrigidì completamente e Jessica divenne paonazza, esattamente come Angela.
«Stavamo scherzando», borbottò Mike, rimpicciolito dinnanzi al suo cospetto.
«Ei Edward, pensavo che i tuoi riflessi fossero più pronti», sorrisi con aria innocente.
Lui mi fulminò con lo sguardo, parve anche sul momento di controbattere, ma poi qualcosa sembrò attirare la sua attenzione – si voltò rapidamente verso Jessica e rimase qualche secondo così, fermo, quasi come se fosse in ascolto e, improvvisamente, il suo sguardo si illuminò.
«Già», disse con un sorriso, «Sono proprio uno stupido», mi fissò, assicurandosi di scandire per bene le parole. Poi, se andò.
«Quello è tutto matto», disse Eric, guardandolo andare via, «Avete visto che sbalzi d’umore?».
Eppure, qualcosa mi sfuggiva. Ma non avevo idea di che cosa si trattasse.
Continuai a ragionarci anche mentre me ne stavo in fila a mensa. Certo, non che fosse strano assistere a dei così repentini cambi di umore quando si trattava di stare in sua compagnia, ma non l’avevo mai visto passare così in fretta da un’emozione a un’altra. Si trattava di qualcosa che Mike aveva detto? O di qualcosa che si era improvvisamente ricordato? Non mi era dato sapere.
«Bella?», alzai lo sguardo, «Mi hai sentito?», parlò con un filo di voce Jess.
Scossi la testa, assorta. «Sei la solita», sospirò, «Ti piacerebbe baciarlo?».
Sulle prime non capii. «Dai, Bella», mi sorrise complice, «Edward. Ti piacerebbe baciarlo?».
Presa in contropiede, non potei far altro che borbottare pensieri confusi e arrossire terribilmente.
Quanto odiavo quella mia caratteristica, era come non poter avere una privacy – ogni cosa che pensavo, ogni piccolo dettaglio, qualsiasi imbarazzo o sconcerto, affioravano sulla superficie del mio viso con una facilità tale da risultare irritante.
«Chissà di cosa sanno le sue labbra», sospirò, «Magari sono soffici», sghignazzò.
«E chissà quante ragazze ha avuto», disse mentre prendevamo posto a sedere, «Insomma», continuò, non appena notò il mio interesse, «Probabilmente è uscito con modelle o che so io.. Io avrei un po’ d’ansia da prestazione», rise lei.
«Jessica, non essere cattiva», ribatté Angela, «Non dire queste cose. Non credo ci sia da preoccuparsi, comunque, si vede che Bella gli piace», mi sorrise, cercando di tranquillizzarmi.
«No aspettate.. Vi sbagliate», provai a infilarmi io nel discorso, ma fui di nuovo travolta dalla valanga di parole che uscivano fuori dalla bocca di Jessica come una pioggia di proiettili – i suoi discorsi e le sue teorie spaziavano dal modo in cui Edward, secondo lei, si comportasse durante i primi appuntamenti, delle sue capacità amatorie e delle sue eventuali prodezze sessuali.
«Chissà quanta esperienza avrà», sospirò Jessica, appoggiando la testa sulle mani, «Beata te, Bella, se non altro sembrerà pazzo, ma come minimo ci passerai delle nottate piene di passione».
Mi coprii il viso fra i capelli, divorata dalla vergogna. Che discorsi faceva? Perfino Angela aveva delle perplessità riguardo a certi argomenti e continuava a fissare Jessica, senza dire una parola.
«Scusa, ho esagerato? Sei tutta rossa», mi prese in giro lei.
«No, tranquilla», risposi sarcastica.
«Uh-oh. Parli del diavolo..», Jessica raggiunse le mie mani e mi toccò con delicatezza, «Edward ti sta fissando». Mi voltai verso di lui, per riflesso involontario più che altro e lo trovai al suo tavolo, girato nella mia direzione con un gran sorriso in faccia, che mimava un applauso. Sulle prime non afferrai troppo bene l’ironia, ma quando realizzai che era probabilmente riuscito a cogliere ogni dettaglio della nostra conversazione, fu più semplice notare come le sue labbra si pregarono in fretta nella parola, «Complimenti».
E fu anche più immediato capire il motivo di quel suo cambiamento repentino di umore.
Aveva letto la mente di Jessica.
Aveva visto ogni mia più piccola reazione alle sue parole e adesso anche questo.
Aveva sentito tutto.
«Oh Cristo..», sussurrai.
«Spero tu ti renda conto di quanto tu sia fortunata», sentenziò Jessica.
«Ti prego..», mormorai in tono supplice.
Jessica alzò un sopracciglio, «Dai non fare la santarellina, mica parliamo di chissà cosa!», sorrise.
«Fra l’altro.. Chissà quanto ce l’ha lungo».
Quelle parole bastarono per farmi scattare come una molla: «Jessica!», gridai, paonazza, perfettamente concia di ciò che stava succedendo. Mi voltai verso Edward d’istinto e lo vidi mentre tentava senza successo di soffocare le risate, senza davvero riuscire a fermarsi.
«Bella, che hai?», chiese Jess.
«Sei sempre la solita», commentò Angela, «Smettila di dire cose imbarazzanti».
«Mamma mia, che suore», rispose lei piccata, «Che male c’è? Eh?».
Appoggiai la testa al banco, provando a nascondermi sotto i miei capelli e le mie braccia,
«Bella? Ma che ho detto di male?».

Buon Dio.

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Capitolo 11
*** Complicazioni ***


Nota dell’autrice: per rendermi le cose più facili (ammetto di essere lievemente pigra) la storia verrà ambientata ai giorni nostri (nel libro, era ambientata, se non erro, nel 2008/9 – si tratta di uno slittamento di circa 5/4 anni circa). Volevo sottolinearlo, visto che non penso capiterà l’occasione di specificarlo, nel corso della trama, e quindi lo dico qui, giusto per non confondere le idee a nessuno.


                                                                                                       Complicazioni


Provai a sgattaiolare verso l’aula di biologia, cercando di non dare troppo nell’occhio, ma ebbi un sussulto quando intravidi la porta della classe e Edward, che vi entrava dentro tutto sorridente.
No, decisamente non potevo frequentare quel giorno.
Potevo solo immaginare l’imbarazzo in cui sarei sprofondata una volta che mi sarei seduta vicino a lui.
Avrebbe sicuramente approfittato di questa cosa per chissà quanto altro tempo. Come se non bastasse, ero assolutamente certa del fatto che si fosse premurato, con estrema cura e sospettavo anche con incredibile felicità, di ascoltare i ragionamenti intimi di tutti coloro che mi si fossero avvicinati nelle ultime ventiquattr’ore. Probabilmente aveva colto ogni dettaglio e ripassato perfettamente ogni mia espressione, qualsiasi reazione, tutti i miei rossori.. Stargli vicino cominciava a diventare snervante.
Non potevo sapere quando e quanto sentisse i pensieri altrui e si mettesse a ficcanasare in discorsi che, in tutta onestà, non lo riguardavano neppure. Per un attimo ripensai a Joshua – lui non aveva quasi mai idea di ciò che mi passasse per la testa, ma non si curava mai di chiederlo con troppa insistenza anzi, preferiva che i miei pensieri arrivassero a lui; come l’onda portata dal moto del mare tocca la sabbia bagnata, nella stessa maniera, lui attendeva. Quando era il momento, era lì. E mi ascoltava, con quella sua solita pazienza e tenerezza negli occhi,.. Ebbi una dolorosissima fitta al cuore: mi mancava terribilmente.
Ripensare al giorno della sua morte mi feriva tremendamente e il pensiero di non potergli nemmeno più parlare.. Era semplicemente terrificante. Il suo viso ancora mi ossessionava e mi veniva a trovare nel sonno. C’erano notti così dolorose, così tremende da superare e forse era questo il motivo per cui mi ero così arrabbiata con Edward. Io ancora lo sognavo, ancora sognavo Joshua. Sognavo di parlare con lui, di stare seduta al suo fianco, poggiata alla sua spalla, sul muretto davanti a scuola.
Sognavo che mi lasciava dormire, che mi lasciava parlare, che mi raccontava delle cose – infine, alle prime luci dell’alba, quelle parole svanivano col freddo livido della notte e io non ero mai capace di ricordarmi ciò che mi aveva detto. Mai. Non volevo svelarmi così, ero certa di piangere spesso, nel sonno. E non volevo essere vista così da nessuno, nemmeno da Edward. Anche se lui stesso avrebbe potuto pretendere delle libertà simili da parte mia, dal momento che mi aveva così tante volte salvata.
Ma non poteva, non volevo.
Erano i miei momenti di tristezza privata, mi appartenevano, a me e a nessun altro. Il solo pensiero che Edward avesse potuto infilarsi fra i miei sonni e guardarmi a mia insaputa mi fece rabbrividire.
Sospirai.
Forse non andrà poi tanto male, pensai, occhieggiando verso la porta dell’aula. Forse dovrei solo entrare.
Mossi qualche passo, tenendo lo sguardo inchiodato a terra, cercando di ritardare il più possibile il momento dell’incontro, ma fu inevitabile ritrovarsi davanti all’aula in pochi secondi.
Se così dev’essere, che sia, pensai, cercando di farmi forza.
Entrai in classe, il signor Banner chiuse la porta dietro di me, andando a sistemarsi dietro un trabiccolo di metallo su cui poggiava un piccolo televisore. Mi sedetti, cercando di svuotare la mente.
Lanciai un’occhiata rapida a Edward, pareva serio e anche più calmo di prima e questo mi fece rilassare.
«Senti», parlò e il mio cuore saltò un battito. Si voltò con aria torva verso di me: «Non credo di essere molto bravo in questo, perciò dimmelo tu..». Lo fissai con aria interrogativa.
«Ti devo dare le esatte misure adesso o dopo?», mi lanciò un’occhiata seria e poi scoppiò a ridere quando mi vide arrossire. «Smettila subito», sibilai, «Non è proprio il caso. È Jessica che pensa a queste cose, di certo non io. Divertiti pure a leggere la sua mente e smettila di infastidirmi», sbottai nervosa.
«Scusa, dai», si avvicinò a me, appoggiando il mento sul banco.
«Non volevo fare lo stronzo, ma mi fanno ridere queste cose», sghignazzò, «Tu mi fai ridere», disse, perdendosi nel groviglio dei suoi pensieri. «Sei ancora arrabbiata con me per prima?», chiese.
«Per prima quando?».
«Per quando ti ho detto che ho dato un’occhiata mentre dormivi», ci pensò su un attimo, «Ma non sono entrato, ho solo aperto un po’ la finestra e sono stato un po’ lì», scrollò le spalle, «Poi me ne sono andato», mi sorrise. «Davvero?», chiesi, con forse troppa emozione nella voce.
«Davvero, davvero», socchiuse gli occhi, «Quindi puoi stare tranquilla».
Il signor Banner spense le luci, «Che succede?», sussurrai, quasi spaventata.
«Guardiamo un film oggi», rispose lui, rimettendosi a sedere per bene.
Nel buio, era più semplice sentire la sua presenza.
Ma era anche più facile abbandonarsi alla stanchezza. Appoggiai la testa sul tavolo, cercando di risultare più discreta possibile e provai a chiudere gli occhi. Il rumore del filmato e il mormorio soffuso che a volte serpeggiava in classe mi rilassava. Mi tornò in mente mia madre, senza alcun motivo particolare e il giorno in cui entrò in camera mia, mentre piangevo. Oh, ero disperata, tremendamente disperata e sola, sola in un modo inspiegabile, sola dentro, sola per sempre. Avevo l’impressione che quel dolore sarebbe durato per un tempo incalcolabile e mi avrebbe infine consumata, facendomi sparire.
Di me poi, non sarebbe rimasta alcuna traccia.
Piangevo Joshua e mia madre si sedette sul mio letto e mi disse che ero sempre stata una ragazza particolare e avevo un’anima camaleontica. Non avevo una direzione precisa e ero sempre così indecisa, ma fiera e forte e lei era sempre un po’ spaventata per me – «Tu spesso segui solo il tuo istinto Bella, il fatto che tu riesca a fidarti così tanto delle tue percezioni mi ha sempre preoccupata». Mi disse anche che credeva che Joshua fosse stato un cattivo ragazzo al che il mio cuore fu vittima di una rabbia feroce, le gridai contro che non sapeva nulla di lui, assolutamente nulla e non capiva niente. Allora lei mi fissò a lungo, con quei suoi immensi occhi tristi e mi disse che avevo ragione, l’avevo sempre avuta e che Joshua era buono – si vedeva da come parlava. Dalle volte in cui rideva. A volte, ci aveva visti giocare insieme e camminare tranquillamente e si era ricreduta, così mi aveva confessato, era stata ingannata dal suo aspetto, forse. Penso sapesse che c’erano in lui segreti che non potevano essere rivelati e che avesse qualche sospetto sulla sua vita, ma poiché non era a conoscenza di ogni dettaglio, si limitava a osservare la sua espressione beata quando era con me. Mi disse che doveva amarmi davvero e che capiva il mio dolore. Poi, mi carezzò i capelli, a lungo, dolcemente, con tenerezza. Con amore. In quello stesso buio, mi parve di risentire le sue mani lunghe.
E invece era il freddo.
Alzai leggermente la testa, lanciando un’occhiata al di là della mia spalla.
Edward mi carezzava i capelli e lisciava una ad una le mie morbide ciocche. Quando si accorse che lo stavo guardando, il lieve sorriso che si era steso sulle sue labbra, si ritrasse. Ritirò la mano, convinto di infastidirmi e rimase un po’ così, a fissarmi, in attesa di una qualunque risposta. Avvicinai lentamente la testa verso il suo polso e mi rimisi a guardare il filmato, senza dir nulla. Lui riprese a toccarmi i capelli, il capo. Infine, mi addormentai profondamente. Non ricordo di nessun sogno, nemmeno un’immagine, soltanto un sonno profondo e senza turbamenti. Senza segreti. Senza pianti.
Ricordo di essere caduta in questo stato di completa assenza mentale, risucchiata in luoghi oscuri e senza tempo. Non esisteva più nulla, nemmeno un pensiero – mi avvolgeva questa aria di libertà che rasserenava il mio viso, distendendo in esso ogni muscolo, ogni più piccola parte. Ero nel vento, ero nel buio, ero nell’aria del mondo e con un soffio mi spostavo altrove, percependo nessuna pesantezza nelle carni e nelle ossa. Esisteva solo questa parte di me, questo spirito selvaggio che si librava in cielo fra uno stormo impazzito di figure nere – poi, cominciai a cadere. Non avevo paura, non temevo la fine di quell’attimo, ero solo un fiore che volteggiava impazzito fra venti che lo spingevano qua e là. E guardavo il cielo farsi immenso, sempre meno definito, sempre più lontano da me: avevo raggiunto l’inizio del mondo, ero arrivata alle stelle e infine era giunto anche il mio turno di precipitare: non era importante, ero pronta. Lo ero davvero. Cadevo ma non avevo paura, non temevo lo schianto. Sentivo che qualcuno mi avrebbe ripresa ancor prima di toccare terra – e poiché in me non esisteva nessun timore, proprio a causa di quel mio stato di beatitudine, chiusi gli occhi. Quando gli riaprii, ero di nuovo in classe.
Edward ancora si rigirava i miei capelli fra le mani ma fu rapido a ritrarre la mano quando le luci furono di nuovo riaccese. Tirai un lungo sospiro, ancora fra il sonno, e mi alzai.
Stiracchiai le braccia e raccolsi i miei libri.
«Dormito bene?», Edward si avvicinò a me.
«In effetti sì», dissi, incamminandomi verso l’uscita, «È stato strano», commentai assorta.
«Hai ginnastica adesso?», chiese.
Lanciai un’occhiata alla gente che cominciava a sparpagliarsi intorno a noi – ci guardavano tutti. Che cosa fastidiosa, pensai. «In teoria», borbottai.
«In pratica?», incalzò lui.
«In pratica salto. Non ho proprio voglia di correre dietro a una palla per un’ora e mezzo. Mi sembra di non avere più tre anni», sbottai sarcastica.
Lui sorrise, ma rimase in silenzio. Mi domandavo a cosa stesse pensando.
«Stare con te è impossibile», gli lanciai un’occhiata storta.
«Che significa?», mi chiese lui, senza capire.
«Ci fissano tutti», mormorai, «Ma che vogliono?».
«Beh, questo dipende dal fatto che io sono praticamente un semi Dio, e sono bello come il sole. Nessuno guarda te, stai tranquilla», rise divertito. Gli tirai una gomitata.
«O forse dipende dal fatto che hai sempre quella faccia lì», indicai la sua espressione.
«Che faccia?».
«Una faccia da pazzo», sospirai, «Credo che la gente abbia paura di te».
«Fanno molto bene», tirò su un’espressione minacciosa.
«Già, l’invincibile Edward Cullen, quello che usa i grizzly come palla per fare canestro e poi se gli apri la portiera senza dirglielo piomba a terra come una novantenne».
Lui tirò su un’espressione contrariata.
«No, davvero», continuai, «Sono molto colpita, bravo».
«Ero concentrato su altro», mormorò sottovoce.
«Attento a non distrarti così, la prossima volta che vai a fare il bullo con gli orsi della zona», risposi.
«Questa tua mancanza di fiducia nelle mie capacità mi ferisce, Swan», mi dette una spinta leggera.
«Senti», dissi mentre uscivamo nel parcheggio, «Spiegami meglio questa cosa dei vampiri, come funziona essere te? Che altro sai fare a parte cambiare colore degli occhi?».
Mi fulminò con lo sguardo.
«Che c’è?», ribattei, «In effetti è un gran bel potere, spaventa i nemici o qualcosa del genere? Quando lotti contro i tuoi avversari fai loro l’occhiolino? Oppure li confondi cambiando colore solo a un occhio e lasciando l’altro uguale?», provò a trattenere una risata, per non darmi soddisfazione.
«È una tattica che funziona anche con i vampiri ciechi? Con loro come fai?».
Scoppiò a ridere, «A loro tolgo il cane guida».
«Sei veramente uno scorretto», risposi fingendo disgusto.
«Me ne rendo conto», sorrise, «Che vuoi fare?».
«Non so, l’idea era quella di andare sul mio pick-up a leggere o qualcosa del genere».
«Ci risiamo», schioccò la lingua infastidito, «Guarda che io la vita te l’ho salvata perché tu potessi continuare a vivere, non a montare su quella specie di trappola».
«Fai silenzio, quella trappola funziona alla grande». Aprii la portiera dell’auto e ci gettai dentro lo zaino, come al solito. «Te che vuoi fare?», mi voltai verso di lui.
Scrollò le spalle, «Boh».
Cercai di carpire i suoi pensieri aldilà del suo sguardo. Pareva come imbarazzato, lievemente toccato da un’insicurezza che non conoscevo troppo bene. «Vuoi restare con me?», domandai e subito i suoi occhi agganciarono i miei. «Però non farmi di nuovo cadere», sbottò a testa basta.
«Va bene», ridacchiai, «Dai, sali».
Si intrufolò di nuovo nel pick-up e io con lui. Ci sedemmo, abbastanza vicini da permettere alle nostre spalle di toccarsi: il contatto lo rese teso e nervoso, più del solito.
«Vuoi che mi sposto?», domandai, conscia a ciò a cui stava probabilmente pensando.
«Mh.. No», disse, provando a rilassarsi.
Ci fu un breve momento di silenzio. «Perché sei sempre così freddo?», domandai a un certo momento, poggiando la testa sul volante. «Perché sono morto, Bella», distolse lo sguardo.
Fu come assistere all’esplosione di una bomba; dopo che parlò, le sue parole mi arrivarono addosso come un’onda d’urto e poi arrivarono le fiamme, i detriti, le schegge di metallo e quelle mi trafissero, distruggendomi pur lasciandomi intatta. Nell’estremo dolore di quei miei complicati meccanismi interni, compresi che non l’avrei mai potuto capire, né spiegare. Non c’erano parole per Edward.
Lui era morto ma io ancora non potevo realizzarlo fino in fondo.
Era morto sul serio? E quando? Come? In che circostanze? Nacque in me l’irrefrenabile voglia e bisogno di capire, andare a fondo, ma nel vederlo così, nel scorgere la sua vergogna e la tristezza che si intricavano sul suo volto, decisi che avrei dovuto rinunciare, almeno per adesso porre un limite a determinate domande.
Io non avevo idea di quello che si potesse provare (o sarebbe meglio dire patire?) in condizioni simili.
Abbassai lo sguardo, pentendomi amaramente di quella mia curiosità così odiosa.
«Mi dispiace», mormorai.
Lui scrollò le spalle, «Non è importante, è così ormai, nessuno ci può fare niente», si voltò verso di me, «È normale che tu sia curiosa». Mi morsi il labbro inferiore, cercando di distogliere lo sguardo.
«Puoi chiedermi altre cose, se vuoi», indugiò lui.
Tentennai un attimo, ma alla fine cedetti, «E quindi? Se sei morto come.. Cioè, come funzioni..», provai a spiegarmi, ma probabilmente senza successo.
Rise amaramente, «Vediamo», alzò il viso verso il tettuccio, «Per esempio non avrei bisogno di respirare», si voltò verso il mio sguardo sbigottito. «Ma io ti ho visto che, cioè..», provai a dare una spiegazione logica a questa nuova informazione. «Sì, è normale, lo faccio. Immagino che le persone potrebbero insospettirsi se facessi diversamente». «Ah», ebbi solo la forza di dire.
«E poi non so abbastanza sicuro di quello che mi scorre nelle vene», ci rifletté su un attimo, «Carlisle una volta ha provato anche a spiegarmelo ma.. In tutta onestà non stavo troppo attento», sghignazzò fra sé e sé. «Credo veleno, e qualcosa che forse un tempo era sangue.. Mh», abbassò lo sguardo, pensoso.
«Ma non penso che questa roba scorra in me come un tempo, cioè, il mio cuore non batte come il tuo. Batte pochissime volte in capo a una giornata, ci sono momenti in cui non lo riesco nemmeno a sentire», si sfiorò delicatamente il petto, «È strano».
Vedendolo così, provai a immaginare come dovesse essere stato il suo primo giorno in quella sua nuova vita, a cosa avesse potuto pensare a come avesse reagito alla consapevolezza di essere stato separato dal resto del mondo, per sempre. Si appoggiò al sedile, abbandonandosi completamente a quel sostegno e rovesciò la testa all’indietro, quasi fosse stato vittima di un’improvvisa ed estrema stanchezza.
La mia vicinanza era indubbiamente motivo di sconforto per lui – gli ricordavo costantemente, sottolineandolo semplicemente con la mia sola presenza nel mondo, che era diverso da me e aveva desideri oscuri dei quali lui stesso era vittima. Provai a immaginarmi cosa dovesse passargli per la testa, ogni volta che mi vedeva arrossire o mi toccava e mi sentiva calda, viva. Forse mi invidiava o semplicemente soffriva al pensiero di non poter essermi più simile e perciò più vicino.
«Edward», lo chiamai, tentando di distrarlo, «Ti piace la musica?».
«Sono morto, mica sordo», ghignò, sempre con la testa puntata verso l’alto.
Sorrisi, avvicinandomi, «E cosa ascolti?».
«CD per vampiri, registrazioni di un sacco di gente che urla e che supplica pietà,.. Roba forte», scherzò, levando lo sguardo su di me. «Sei proprio scemo», sospirai, «Sono seria».
«Anche io», rise, «Ti posso fare delle domande anche io però?».
«E che vorresti sapere?», feci spallucce.
«Che ne so», disse lui, passandosi una mano fra i capelli, «Com’eri da bambina?», mi guardò di sottecchi.
«Oh, beh..», fui colpita da quella domanda quando io stessa mi chiedevo esattamente le stesse cose di lui. Forse non eravamo poi così diversi. «Ero davvero insopportabile», ammisi.
«Eri?», mi lanciò un’occhiata storta.
«Stai zitto!», sbottai, «È la verità. Ero una peste. Picchiavo tutti i bambini e correvo dietro ai gatti randagi. Mia madre impazziva per tenermi d’occhio». Questa confessione lo fece esplodere in una risata davvero fragorosa, «Ti immagino, guarda», disse fra le risa, «E poi?».
«Poi.. Vediamo», ci pensai un po’, «Non so. Ero una specie di selvaggia. Mi divertivo un sacco a stare per conto mio. Non avevo molte amiche in realtà, ma non mi importava molto.. Non piacevo tanto agli altri, credo», borbottai infine, abbassando il capo.
«Adesso piaci a tutti invece», sorrise, ma sul suo viso nacque un sentimento controverso, stridente.
«Che significa?», domandai.
«Significa che dovresti vedere cosa pensa la metà dei ragazzi di questa scuola di te», sbuffò.
«Perché, cosa pensano?», insistei.
Mi rivolse un’occhiata perplessa, «Robe abbastanza divertenti, tutto sommato», si grattò il collo con fare teatrale, «Nelle ultime tre settimane ti avrò vista più volte nuda io che tua madre in tutta la sua vita».
Calò un silenzio imbarazzante.
«Come?», balbettai inorridita.
«I ragazzi di qui lavorano bene di fantasia, non c’è che dire», si voltò verso di me, rivolgendomi un sorriso smagliante, «A volte è un po’ fastidioso, ma d’altro canto che vuoi farci, sono in preda ai loro ormoni».
Evidentemente la mia espressione doveva essere abbastanza eloquente, visto che Edward scoppiò a ridere, di nuovo. Infilai la testa fra le mani, senza dire nulla. C’erano decisamente cose che avrei preferito che tenesse per sé. «Dai, mi dispiace», provò a consolarmi lui, avvicinandosi, «Che fai? Sei triste?».
Nessuna risposta.
«Vuoi che li picchio?», il suo capo toccò il mio, facendomi dondolare.
«O vuoi che faccio a tutti l’occhiolino?», provò a ridere.
Sorrisi, ma fin troppo debolmente perché questo potesse soddisfarlo. Si avvicinò a me e io mi rinchiusi ancora di più nel mio silenzio, poggiando la fonte sulle ginocchia rannicchiate.
«Allora li picchio, è deciso», mi passò una mano dietro la schiena, facendomi scivolare verso di lui.
«Non voglio, dai», dissi piano, «Però è veramente imbarazzante, perché mi devi far sapere certe cose?».
«Non lo so, forse volevo vedere come reagivi, ma non sono felice adesso», parlò dolcemente.
«Mh-mh..», borbottai io.
«Se può consolarti», disse schiarendosi la voce, «A volte pensano anche a me».
Alzai gli occhi verso i suoi, senza capire. «Alcuni ragazzi dico», precisò con un’espressione di leggero disgusto in faccia, «Ce ne sono solo due o tre, è abbastanza inquietante».
Provai a soffocare una risata, «E imbarazzante», mi lanciò un’occhiata tranquilla.
«Adesso che lo sai ti senti un po’ meglio?», domandò.
Annuii, ridacchiando sotto i baffi.
«Sai», disse lui, «Non dovresti andare a Seattle».
«Se questo è un pretesto per rimettersi a offendere il mio Chevy, allora sappi che non ti ascolterò», sbottai, spostandomi da lui. «In realtà no», borbottò, «Pensavo che forse potevamo andare da qualche parte», indugiò lui. «Beh, dovresti offrirmi qualcosa di davvero speciale per farmi cambiare idea», risi maligna, incrociando le braccia. Mi resi conto solo dopo dell’evidente doppio senso e voltandomi di scatto lo trovai intento a fissarmi, con un sopracciglio alzato e un’espressione maliziosa.
«N-non è quello che intendevo», balbettai, paonazza.
«No, certo», scoppiò a ridere lui, «Vogliamo chiamare Jessica? Mi interesserebbe sentirvi di nuovo parlare».
Gli tirai un pizzico, «Chiudi quella bocca, idiota. È stato un errore», provai a difendermi, ma con un tono di voce che, evidentemente, suonava ancora troppo intriso di vergogna per poter sortire l’effetto desiderato.
«Va bene, va bene», alzò lui le mani in segno di resa, «Hai vinto. Facciamo che se vieni con me ti porto nel mio posto preferito», mi lanciò uno sguardo complice.
«Se ci sono gli orsi a questa festicciola, io passo», risposi sarcastica.
«Non ci saranno orsi», promise divertito.
«Non è una specie di cimitero, vero?», continuai a punzecchiarlo.
«Ti fidi davvero poco di me, eh?», mi guardò e per un attimo ebbi l’impressione che fosse triste. Volsi immediatamente lo sguardo altrove, «Beh, io ti faccio la cortesia di non portarmi dietro aglio o paletti di legno, penso di meritare un po’ di garanzie in cambio».
Scoppiò a ridere e quel suono così improvviso, così simile a una canzone, mi tranquillizzò, «L’aglio mi fa ben poco», ammise lui, «Te ne potrei tirare una treccia intera addosso».
«Ah, certo, allora cambierebbe tutto», ribatté ironico.
«E allora cosa ti mette fuori gioco? La luce del sole?», domandai d’un tratto.
I suoi occhi si accesero, quasi colti da un ricordo improvviso, una vera e propria rivelazione, «Beh, non esattamente..», provò a incuriosirmi lui.
«Te lo dico sabato se vieni con me», sorrise sornione.
Ci pensai su un attimo, «Non ti scioglierai in una pozza di fango, vero?».
«Tu hai una fantasia troppo sviluppata», sospirò.
«Va bene», dissi dopo un lungo silenzio.
Lui si voltò verso di me, senza capire. «Verrò con te, sabato».
Le mie parole parvero come un balsamo sulle ferite per lui, che subito si aprì in un sorriso meraviglioso, di quelli che piacevano tanto anche a me e che mi spingevano a volergli stare più vicina.
Solo, non quel giorno, pensai con un lieve imbarazzo. Chinai il capo e raccattai lo zaino, «Dovremmo andare», dissi a un certo punto.
«Sì, dovremmo», mi continuava a guardare con dolcezza.
Aprii la portiera e scesi dal pick-up. Rimettere i piedi a terra fu un vero sollievo: nei momenti in cui ero rimasta in compagnia di Edward era come se mi fossi dimenticata del resto del mondo – un senso di delicata tenerezza mi avvolgeva e mi faceva star bene.
«Devo tornare in Segreteria», dissi, sentendolo di nuovo al mio fianco.
«Suona divertente, ma passo. Ho da fare», mi sorrise lui.
«Cosa?», mi voltai nella sua direzione.
«Vado a caccia con Alice», si avvicinò piano al mio viso, «O così oppure fatti sotto e vediamo chi la spunta», ghignò amaramente.
«Vincerei io di sicuro», sbottai, tentando di velare la mia lieve preoccupazione.
«Non ho dubbi», mi sorrise.
E quella fu l’ultima volta che potei parlargli, quel giorno. In un attimo era svanito. Rimasi per qualche istante lì, a osservare il posto che prima occupava nel mondo e che adesso era vuoto. Pensai al giorno dell’incidente, nemmeno quella volta l’avevo visto arrivare. Non riuscivo ancora a rendermi conto di quanto potesse essere veloce e quest’inarrivabile ricerca di una fine, una conclusione, non faceva altro che obnubilarmi la mente. Quando ero in palestra, quando sparavo con Charlie, quando ricaricavo l’arma, quando lanciavo rapide occhiate al fiore rosso che stava sulla mia scrivania, quando studiavo – non potevo esimermi dal rimuginarci su. Per quanto lui mi spiegasse, e anche molto accuratamente, ciò che non riuscivo a capire con estrema pazienza, finivo sempre per confonderlo con un vero e proprio essere umano e ogni volta che la realtà dei fatti tornava a bussare a ogni mia porta, io sprofondavo in una confusione profonda. Perché nessuno avrebbe potuto essere così forte, nessuno così veloce, così agile, così capace.
Ma lui non era come nessuno e quindi lui poteva.
Ogni volta che venivo piazzata di fronte questa tremenda verità, tremavo.
Quando tornai a casa, la prima cosa che fui capace di fare fu distendermi sul letto, esausta. Stare in mia compagnia si trattava per lui forse di uno sforzo esagerato, ma anche io cominciavo ad accusare il colpo.
Prim’ancora che potessi accorgermene, caddi in un sonno profondo.

«Bella? Bella», fui svegliata dalle grosse mani screpolate di Charlie e dalla sua voce roca.
«Ciao papà», borbottai, lanciandogli un’occhiata stanca.
«Credevo che tu non fossi a casa, mi ero preoccupato», disse.
«Mi dispiace», feci tirandomi su mollemente, stropicciandomi gli occhi.
«Sei stanca?», chiese con aria circospetta. «Sì, un po’. Non riesco a dormire molto bene», ammisi.
Lui mi lanciò un’occhiata preoccupata.
«Stai tranquillo, penso me la caverò», ridacchiai, prendendolo in giro.
«Hai ancora intenzione di andare a Seattle?», mi domandò, sedendosi sulla sponda del letto.
«In realtà no», volli essere del tutto onesta, «Pensavo di fare un giro per qua con degli amici».
A quella frase parve insospettirsi, ma feci appena in tempo a tranquillizzarlo, «Non ci allontaneremo, non infrangeremo la legge e via dicendo. Puoi stare tranquillo», sorrisi.
«Mh», chinò il capo in segno di assenso, «Ha chiamato la mamma», mi informò.
«Cos’ha detto?».
«Voleva sapere come stavi, ho detto tutto bene e che ti stai facendo degli amici», si lisciò i baffi neri, «Ma forse non avrei dovuto dirlo. Adesso si è insospettita», mi prese in giro con un’occhiata.
«Ah, certo, sei molto simpatico», sorrisi, «Sono una sfigata che bello!».
Lui mi fissò a lungo, «Io penso che tu sia speciale invece».
«Per forza, sono tua figlia», mi girai su un lato, ridendo.
«No, è la verità. Mi ricordi tua madre», si stropicciò le mani, senza col capo chino.
«La mamma è forte», sorrisi, guardandolo di sbieco. A lui scappò una risata, «Che c’è?», chiesi, tirandomi su un braccio. Lui scosse la testa, «Nulla, sembri di buon umore».
«Sì, abbastanza», ammisi.
«Successo qualcosa di bello?», si voltò con discretezza.
«Sto facendo amicizia, Forks non è poi così male. Le persone sono simpatiche».
«Con Edward Cullen..», si schiarì la voce goffamente, «Con lui sei sempre arrabbiata? Ti ha tratta di nuovo male?», la sua preoccupazione, così delicata, che domandava quasi il permesso di avvicinarsi a me e che poi in punta di piedi mi arrivava alle orecchie e mi entrava nel cuore, mi scaldava dentro.
«Sì, abbiamo risolto», lo tranquillizzai, «È un bravo ragazzo, e quello era solo un giorno storto per lui».
Per colpa mia, pensai.
«È simpatico, ho scoperto», ridacchiai, «Sembrano così pallosi..», mormorai, fingendo un tono grave e cupo. «Chi?», chiese lui.
«I Cullen. Sembrano dei manichini, gente tutta d’un pezzo sai.. Poi quando mi hai detto che erano i figli del mega-super dottor. Cullen li ho subito presi tutti in antipatia», risi.
«Sei la solita», mi rimbeccò lui, «Adesso sei.. Loro amica?», indugiò lui.
«Solo di Edward per ora», scrollai le spalle, «Lui mi sembra il più simpatico».
«Capisco», lanciò uno sguardo verso la soglia, con fare imbarazzato, «Hai fame? La cena tra poco è pronta».
Annuii, «Scendo fra un attimo».
Si levò da sedere e così com’era venuto se n’era andato.
Mi stesi di nuovo sul materasso caldo.
Sapevo già che mi avrebbe atteso un sabato molto, molto difficile.

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Capitolo 12
*** Equilibrio ***


                                                                                                        Equilibrio


«Resto a casa oggi, va bene lo stesso?».
Mi guardò dall’alto della sua accigliata espressione, ci pensò su un attimo, «Mh. Solo per oggi», borbottò, lasciando la soglia di camera mia. Mi distesi di nuovo a letto, «Quando torni?», gridai, sperando che la mia voce potesse raggiungerlo lì dov’era, in fondo alle scale.
«Stasera», lo sentii rispondere, «Ricordati che oggi pomeriggio dovrebbe passare Billy Black», mi fece presente, prima di chiudersi dietro la porta.
Mi rigirai un po’ nel letto, cercando di riappisolarmi, ma fu tutto inutile.
Cercai di non pensare a niente, di chiudere di nuovo gli occhi, sprofondare di nuovo nel sonno, come il giorno prima nell’aula di Biologia. Non potevo. Mi domandavo cosa mancasse perché tutto fosse rilassato e perfetto come quella volta. Tirai su il mio corpo stanco dal letto e uscii dalla stanza. Feci colazione, guardai la tv. Studiai e scrissi un’email a mia madre, domandandole se poteva spedirmi i miei libri.
Lanciai un’occhiata all’orologio appeso alla parete della cucina.
Ancora le undici e dieci, avevo tempo per fare un salto nella piccola e poco fornita libreria di Forks. Presi la giacca a vento e uscii di casa e raggiunsi il centro del paese dopo qualche rapida falcata.
Mi piacevano le persone di Forks, erano calme, quiete nel loro vivere. Mi piacevano anche quelle di Phoenix ma forse, dopo quell’estate, dopo la morte di Joshua, non avrei mai potuto passeggiare tranquillamente per le strade senza avere, almeno ogni venti passi, un tuffo al cuore. Rivivere i luoghi che hanno reso grande un amore non è mai impresa semplice – addentrarsi in posti già vissuti, conosciuti, toccati con mano creava in me sempre forti incongruenze. Non riuscivo più a immaginare o a sperimentare la bellezza di ceri posti. Nemmeno il mare riusciva più a calmarmi. Prima di partire per Forks, detti un ultimo sguardo al mare, che dall’inizio del mondo sfida il tempo, per annunciare alle sue onde la mia partenza.
Mi avvicinai alla spuma salata e immersi i piedi nell’acqua, rimanendo così a lungo, attendendo il momento giusto per andarmene, partire e mai più voltarsi indietro ma nulla in me si muoveva. Fu forse un movimento più brusco, una folata di vento più forte delle altre che, arrivandomi addosso con tutta la sua delicata furia mi fece ridere, ridere come quando ancora il cielo era nuovo e il mio cuore pieno di prime volte e qualcosa in me bruciava forte e mi infiammava di vita. Improvvisamente, mi voltai a cercarlo.
La curva dei miei occhi, che un tempo faceva il giro del suo cuore, non trovò nessuno ad attendermi.
Nessuno più.
Solo un vuoto infinito e in quell’istante capii che così era il mio cuore, come quella spiaggia. Prezioso, costellato di piccole scintille, di emozioni forti, risa e ricordi, una forza indomabile, ma a vedere più da vicino, a addentrarsi, a cercare di capire, in definitiva, al suo centro vi era solo un vuoto a perdere che non poteva essere riempito in nessun modo. Quando mi voltai verso il mare, non ridevo più.
Qualcuno dentro di me, una piccola voce, mi sussurrò che doveva essere davvero la fine. Ma io preferii non crederle. Me ne andai così, cercando di non cedere a nessuna debolezza, cercando di non concedermi nemmeno un’ultima occhiata ma fu impossibile.
Più mi allontanavo dal mare e più volte tornavo a guardarlo, sperando in qualche cambiamento, anche piccolo. Sperando di riudire quella voce chiamarmi e di rivederlo sorridermi e corrermi incontro.
Ma non successe. Non sarebbe successo mai più.
E adesso che ero a Forks e adesso che lì tutto era puro e intatto, e che niente poteva davvero ferirmi, pensai che forse avrei riprovato quelle sensazioni di nuovo, che un giorno, infine, molto prima di me, Edward se ne sarebbe andato. Mi avrebbe detto che non sarebbe potuto restare comunque e mi avrebbe preso in giro, sofferente, mi avrebbe detto magari che se ne andava a cercare una nuova amica e che non vedeva l’ora di stare con gente più simpatica di me. Un giorno sarebbe sparito, proprio come quella volta nel parcheggio. Infine, pensai con un sorriso, anch’io avrei dovuto seguire lo stesso destino e non l’avrei mai più rivisto. Poi, chissà fra ancora quanti anni, sarei morta. Sarei morta e l’avrei lasciato nell’estate della sua giovinezza. Proprio come Joshua aveva fatto con me.
Pensieri così deprimenti non potevano che farmi allentare il passo, sotto il cielo incerto di quel venerdì mattina. Lanciai un’occhiata al mondo sopra la mia testa e provai a scacciare via ogni ansia.
Entrai nella piccola libreria dalle pareti scalcinate, salutando la commessa e mi infilai fa gli scaffali, toccando piano la costola di ogni libro, leggendo con attenzione ogni titolo, sfogliando piano le pagine.
Non che ci fosse nulla di interessante, intendiamoci. Più che altro vecchie edizioni di libri già letti e vagamente poco interessanti. Tirai un lungo sospiro.
«Mi scusi?», provai a richiamare l’attenzione della commessa che mi raggiunse quasi immediatamente.
«Mi dica», doveva essere giovane, non più di venticinque anni, brunetta dai capelli cortissimi e gli occhi verdi, mi guardava nel suo stretto metro e sessanta e mi sorrideva dolcemente.
«Avete qualcosa di mh..», ci pensai su un attimo, «Di Aleksandr Puškin?».
Lei ci pensò su un attimo e poi annuii con decisone. Mi fece cenno di attendere qualche minuto e la vidi scomparire dietro una grossa pila di libri. Quando tornò, il suo profumo impregnò l’aria e mi arrivò addosso come una folata di vento primaverile. Era indubbiamente una bellissima ragazza e pensare a questo, mi fece provare una punta di dispiacere mescolata a un filo di invidia.
«Abbiamo questo», mi porse “La Dama di Picche”.
Le sorrisi e le sfilai il libriccino dalle mani, «È perfetto, grazie», abbassai lievemente il capo in segno di gratitudine. Pagai e uscii di corsa, impaziente di tornare a casa.
Fu sulla via del ritorno, quando potei intravedere il profilo di casa mia, che notai due figure muoversi sul mio vialetto. Mi avvicinai con cautela, ma mi rilassai immediatamente quando fui in grado di riconoscere il viso sorridente di Jacob. «Jacob!», la chiamai, agitando la mano.
Vicino a lui, un uomo in sedia a rotelle – doveva essere Billy.
«Bella», disse l’uomo con la sua voce rauca, «Sei cresciuta tantissimo», sorrise.
Mi lasciai sfuggire una risatina, «Hai visto, eh?».
«Spero di non disturbare», si affrettò ad aggiungere.
Scossi la testa, «Nemmeno per sogno, ma vi aspettavo per questo pomeriggio. Se sapevo che sareste stati qui per pranzo, vi avrei cucinato qualcosa», commentai.
«Non diciamo sciocchezze», rise, «Siamo qui solo per una visita. E comunque io devo solo riprendere un paio di video cassette, quindi se non ti spiace entro in casa e le recupero».
Annuii in segno d’assenso, e li precedetti – aprii loro la porta e lasciai Billy fare. Sembrava un brav’uomo, ma aveva in sé qualcosa che non riuscivo troppo bene a comprendere. Erano forse quegli occhi neri, così intensi che mi inchiodavano al mio posto ogni volta che si posavano su di me?
«Beh, ne avrà per un po’», borbottò Jacob con un sorriso, sedendosi al tavolo di cucina.
«Vuoi qualcosa da bere?», provai a chiedere io, ma lui scosse il capo.
«Va bene così», rispose, «Come va?».
«Tutto bene», mi sedetti anche io, «Qual buon vento ti ha convinto ad addentrarti nel villaggio dei visi pallidi?». Lui rise, «Ogni tanto fa bene uscire dalla riserva».
«Non lo metto in dubbio», gli sorrisi.
Era proprio un ragazzino, con quei capelli scompigliati e la pelle morbida, colorita. Sembrava inoltre molto più furbo di quanto non volesse dare a vedere e questo mi faceva sempre un po’ sorridere – con Jacob era semplice sentirsi a proprio agio forse per quella sua perenne aria sfacciata e divertita.
«E tu come mai non sei a scuola?», mi punzecchiò.
«I ragazzi grandi a volte la saltano le lezioni, non lo sai? E comunque potrei farti la stessa domanda!», risi io, facendo spallucce. «Beh, io oggi dovevo aiutare mio padre a sbrigare un paio di faccende», fece il vago, «E mica sei tanto più grande di me», bofonchiò, «Abbiamo solo due anni di differenza, dopotutto».
«Ah sì?», alzai un sopracciglio io, «Strano, non me n’ero accorta. Sembri ancora un pulcino».
«Ma se sabato scorso hai detto che sembravo più grande», parlò, fa lo sbigottito e il divertito.
«Ho detto una bugia allora», gli feci la linguaccia io e lui si mise a ridere.
«Bella, trattalo bene», mi ammonì Billy, con tenerezza, «Ci teneva tanto a rivederti».
Mi voltai verso Jacob sorridendogli mentre lo vedevo diventare rosso –  «Papà», ringhiò sottovoce.
«Che ho detto? È la verità», scrollò le spalle l’altro.
Jacob distolse lo sguardo, rossissimo in viso.
«Ho trovato le mie cose», disse Billy, avvicinandosi al tavolo.
«Siete sicuri di non voler rimanere?», domandai di nuovo.
Billy alzò la mano, «No, ma grazie», mi sorrise, «Sei sempre molto gentile. Sono felice che tu sia tornata, Bella. Tuo padre è molto più felice da quando sei qui», questa confessione mi colse del tutto impreparata, facendomi arrossire, «Già», borbottai alzandomi.
«Allora noi andiamo».
«Di già?», esclamò Jacob, con forse troppa delusione nella voce.
«Di già», lo rimbeccò Billy, con un’occhiata severa, ‘Saluta la tua amica, ti aspetto alla macchina’.
Aprii la porta a Billy e lui scivolò agilmente giù per il vialetto, muovendosi sulla sua sedia a rotelle nera.
«Allora ci dobbiamo salutare», dissi io, ferma nel rettangolo di legno.
Jacob rimase un attimo in silenzio, poi chiese, «Pensi davvero che io somigli a un pulcino?».
Scossi la testa, «Figuriamoci. Sei anche più alto di me», gli sorrisi teneramente.
«Bella», borbottò, «Grazie per non aver detto a Charlie quella cosa sui Cullen».
«Ei, una promessa è una promessa».
Lui si passò una mano sulla nuca, «Tu non ci parli con loro, vero? Con i Cullen, dico».
«Veramente sì, ma solo con uno di loro, Edward. Non conosco gli altri», ammisi senza problemi.
«Beh..», si guardò per un attimo le mani, «Stai attenta ok?».
L’occhiata che mi rivolse mi ributtò immediatamente a quel sabato sera, davanti al mare, lontano dal fuoco. Potei quasi udirlo, mentre nei miei ricordi pronunciava quella parola. Vampiro.
Edward non mi aveva ancora domandato come mai sapessi ciò che sapevo, né come mai quando mi chiese cosa lui fosse secondo me, io risposi immediatamente in quella maniera, senza nemmeno lasciar trapelare un velo di incertezza. Immaginai che forse doveva già essere a conoscenza dell’ostilità dei Quileute e anche dei miei rapporti con Jacob, anche se ancora mi sfuggiva qualche dettaglio riguardo a tutta la faccenda.
«Più attenta di sempre», dissi io, deglutendo e cercando di apparire sempre forte e sicura.
Lui mi sorrise, mestamente questa volta, e se ne andò via. Sentii il furgoncino accendersi e lo vidi partire, sparire oltre la linea dell’orizzonte.
Rientrai in casa, un po’ riluttante. Quando fui di nuovo in cucina, feci per la prima volta caso al profumo di Jacob – era diverso da quello di Edward, somigliava più che altro al bosco dopo la pioggia era selvaggio, inarrestabile. Forse era questa la grande differenza fa Jacob ed Edward – il primo era libero.
Il secondo..
No.
Chinai il capo con un lieve sospiro.
Andai a leggere, avevo bisogno di distrarmi.
Davvero.


Fu solo alle prime luci dell’alba che mi accorsi di quell’ossessivo picchiettare sul vetro della mia finestra.
Aprii gli occhi, ancora brucianti, e mi voltai verso la debole luce del mattino.
Furono quei suoi capelli scompigliati la prima cosa che notai, vicino i bordi di legno della finestra appannata e poi, quasi subito dopo, il suo viso sbucare lentamente.
«Posso entrare?», lo sentii chiedere.
Feci cenno di sì con la mano e mi rimisi a dormire. Mi fu accanto in un attimo, «Non sei venuta a scuola ieri», commentò, lievemente stizzito. «Mh..», fu la mia unica risposta.
Rimase chinato su di me, inginocchiato sul letto, «Credevo tu stessi male».
«Mh», di nuovo.
«Andiamo via adesso?», chiese impaziente, «Bella? Bella», mi toccò la spalla.
«Sei adorabile di prima mattina», risposi acida. Lui ridacchiò, «Ma non sei stanca di dormire?».
«Ti sembrano cose da dire il sabato mattina?!», mi tirai il piumino fin sopra la testa, «Mettiti giù e dormi anche te». Lo sentii sbuffare, «Ma io come faccio?».
«Impari», ribattei, «Che ore sono?».
«Boh, forse le otto e mezzo», rispose lui.
«Le otto e mezzo! Gesù! Sei malato?», mi voltai di scatto, ancora con gli occhi abbottonati, «Dormi!».
«Bella, ovviamente non hai  capito che io non posso..», provò a dire, ma lo tirai giù sul letto. «Ssh», bisbigliai, «Zitto. Ti ho detto di dormire, quindi puoi. Io posso cambiare le leggi dei vampiri».
Lui mi lanciò un’occhiata storta. «Ti dico che è così, fidati», mi girai dall’altra parte, «Andiamo via fra un paio d’ore». Infine anche lui si arrese alla mia testardaggine e si gettò a letto, senza dire nulla.
Ma riuscì a restare zitto per poco.
«Non vuoi sapere che abbiamo fatto a scuola ieri?», chiese.
«No», ribattei io, mezz’addormentata.
«Sei sempre così carina di mattina?».
«Gesù..», infilai la testa sotto il cuscino.
«Bella?», mi chiamò dopo un altro po’.
«Cosa!», gridai seccata, con il capo ancora nascosto.
«Posso venirti più vicino?», mi tirai fuori e gli lanciai un’occhiata contrariata.
«Farai cose stupide?», ringhiai.
«Nossignora», mi sorrise innocente.
«Parlerai di nuovo?».
Lui scosse il capo.
«Allora sì», mi ributtai giù.
Lui si avvicinò lentamente, infilò piano il naso fra i miei capelli, inspirando profondamente.
Per un attimo, tremai. Credevo che per lui fosse difficile starmi vicino, che per lui fosse una vera sfida, ma la sua vicinanza mi fece ricredere su molte cose. Sul suo auto-controllo, per esempio. Sulla sua forza di volontà, anche. Mi rilassai, poco a poco, sentendo anche le sue braccia riscaldarsi fu più semplice tranquillizzarsi. Dormii poco, comunque, ormai ero quasi del tutto sveglia.
Passò giusto un’ora, forse un’ora e mezza prima che rinunciassi definitivamente al sonno.
E pensare che l’avevo anche convinto a stare zitto. Tutta fatica sprecata.
«Andiamo adesso?», chiese quando si accorse dei miei rapidi movimenti.
«Ti odio», sibilai io, da sotto le coperte, e per un attimo questo lo zittì.
«Davvero?», mi chiese avvicinandosi.
«No», borbottai dopo un po’, provando a spingerlo via, «Ma quanto sei scemo, però», commentai con un sospiro. «Dammi tregua», sghignazzò lui, «Lo sai che mi annoio senza fare nulla».
«Cosa vuol dire “senza far nulla”? Se io sapessi fare la metà delle cose che puoi fare te a quest’ora sarei già schizzata nello spazio», questo mio pensiero lo fece ridere più del solito.
«Sono un vampiro, non sconfiggo mica le leggi della fisica, sai», disse, avvicinandosi ancora.
«No, è vero, giochi solo a fare Dio, con l’immortalità e tutto il resto..», ribattei, sempre a occhi chiusi.
Lui scrollò le spalle, «Sì, ma che posso farci se io mi annoio senza te», immerse il viso fra i miei capelli sciolti. «E che facevi prima di conoscermi, scusa?».
«Non so. Cose pallose, immagino», borbottò lui.
«Beh, allora ti conviene goderti questi momenti prima che io diventi un’attempata signora», lo informai, alzandomi la letto. Quando mi volsi verso di lui, notai la sua evidente tristezza.
«Che c’è?», chiesi.
«Nulla», guardò altrove.
«Ti disturba l’idea di me con la dentiera e il viso pieno di rughe? Magari potrei mettermi anche i mutandoni», provai a ridere, ma lui continuò a rimanere in silenzio. Di certo non mi servivano superpoteri per capire ciò a cui stava pensando. Sarebbe infine giunto il momento del distacco e un addio non è mai semplice.
«Eh sì», riuscì appena a spiccicare parola, «Sarà dura continuare a frequentarci quando sarai un’ottantenne. I tuoi amici inizieranno ad avere dei dubbi, quando noteranno che stai sempre con un diciassettenne».
Continuai a dargli le spalle, con lo sguardo fisso sul pavimento.
Già.
Non sarebbe stato semplice. L’avrei perso per sempre, lo stavo già perdendo. Qualsiasi fosse il nostro rapporto, non sarebbe mai potuto durare – era certamente la condizione e la terribile punizione sotto cui si piegava tutto il genere umano, ma in quel preciso frangente, l’idea della fine divenne quasi insopportabile.
Non avevo mai pensato molto al modo in cui sarei morta, ma da quando lo conoscevo mi sembrava di annegare ogni momento, di essere in mare aperto, sopra gli occhi aperti e mostruosi dell’oceano, pronta per essere risucchiata da un vortice buio e non riapparire mai più in superficie.
Pensai a tutte le cose che non avrei mai avuto la possibilità di fare, al modo tremendo in cui la vita ci aveva separati ancor prima di unirci. Non c’era speranza, non ce n’era davvero e ogni attimo in più, ogni momento in cui gli stavo accanto la sua pelle, i suoi gesti, i suoi occhi me lo ricordavano.
Mi avrebbe persa, un giorno.
Me ne sarei andata. Io non l’avrei potuto rivedere mai più.
Di questi pensieri si riempirono i miei occhi, lasciandosi sfuggire qualche piccola goccia brillante che cadde a terra, una sui miei piedi nudi, un’altra sulle mie ginocchia. Stava già finendo. Ero senza alcuna possibilità di riuscita, ero una brava ragazza e stavo morendo, stavo morendo in un luogo lontano dove ogni mia paura si scontrava, dove i demoni mi trascinavano via, dove per quanto potessi correre non ero mai abbastanza veloce. Potevo sentire le mie urla disperate, silenziose, che si consumavano nel mio cuore e mi distruggevano. «Devo andare a fare colazione», annunciai, provando a nascondere la voce rotta.
«Ok», rispose lui, alzandosi.
«Vado un attimo in bagno prima», dissi alzandomi in fretta, senza farmi vedere.
Sbattei la porta dietro di me e mi aggrappai al lavandino. Piangeva la ragazza riflessa nello specchio, piangeva fino allo sfinimento, con la cannella aperta per non farsi sentire, in silenzio per non essere scoperta, nel suo dolore per non doverlo dividere.
Rossissima in viso, continuava a struggersi, a crollare sotto il peso di un’angoscia troppo a lungo trattenuta – qualcosa si mosse appena sotto la sua pelle, un demone che premeva per uscire e gridava che non c’era tempo, non ce n’era mai stato e qualsiasi cosa avrei fatto o cercato di fare non sarebbe comunque servita per evitare l’inevitabile. Mi passai una mano sulla faccia, tentando di asciugarmi, ma era tutto inutile. Ancora non capivo perché quelle parole mi avessero sconvolta a tal punto.
Non ero forse forte? Non ero forse sicura? Vero? Non ero lo stesso brava?
«No», mormorai davanti allo specchio, con le labbra spaccate dai tremiti e il freddo nell’anima. No, non potevo esserlo, non così, non davanti a quelle parole, non di fonte alle sue pene che si riflettevano in me. Perché quando faceva così, quando mi trattava così, io capivo che era distrutto anche  lui, nello stesso modo in cui lo ero io, capivo il suo sconforto dinnanzi a tanta ingiustizia e come potevo restare indifferente? Come potevo sopravvivere a queste consapevolezze?
Piansi ancora e piansi a lungo, senza tregua, finché non ne ebbi abbastanza, finché ogni centimetro del mio corpo cominciò a dolere, finché non ebbi più fiato. Allora spensi la cannella, mi asciugai, respirai a lungo e lanciai un’ultima occhiata alla brava ragazza riflessa nello specchio che stava morendo e provai a sorridere.
Provai a farmi bastare ciò che mi era stato concesso, quel sabato per esempio.
E allora, quando fui pronta, uscii dal bagno.
«Allora? Non scendi?», dissi con ancora il pianto in gola, lanciandogli un’occhiata.
Se ne stava seduto sulla sponda del mio letto e non diceva nulla, lo sguardo torvo, cupissimo.
«Edward?».
Mi lanciò un’occhiata indecifrabile. «Allora? Vieni?», insistei io, sorridendo.
«Sì», mormorò lui, venendomi vicino.
«Vuoi qualcosa anche te? Non ho orsi», dissi scendendo l’ultimo gradino, «Ma credo di avere ancora qualche gazzella, se ti va bene uguale», ridacchiai.
Mi voltai verso di lui, cercando di capire, ma lui non parlava, si limitava a fissarmi con la solita espressione.
«Che hai? Eh?», chiesi io, facendo finta di nulla.
«Nulla», scrollò le spalle lui, «Ho già fatto colazione, comunque», abbozzò un sorriso.
«Allora le gazzelle te le tengo per la cena?», feci io, aprendo il figo.
«Sì, direi che va bene», disse sedendosi a tavola.
Presi una tazza e ci versai dentro un po’ di latte e di cereali.
Mi sedetti anch’io e iniziai a mangiare, «Devi per forza fissarmi mentre mangio?», domandai stizzita.
«Che facevi in bagno?», chiese lui, guardandomi dritto negli occhi.
«Ma che..», dissi io, sgranando gli occhi, «Certo che sei sfacciato!», risi, incredula, sapendo bene però a ciò cui si stava riferendo: mi aveva probabilmente sentita piangere molto meglio di quanto non avessi voluto ammettere. Ancora faticavo a tenere a mente quanto fossero sviluppati i suoi sensi.
«Non è vero», sbottò lui, con un filo di vergogna in viso, «Volevo solo saperlo..».
«Ti sembrano domande da fare a una signorina?», ribattei io, piccata, «Quello che faccio in bagno non ti riguarda. Dio, certo che sei curioso, eh», gli sorrisi.
Lui fece spallucce, «Visto che non posso leggerti..».
«Visto che non sono un libro», gli feci eco io, enfatizzando il tono della mia voce.
«Piuttosto, dove mi porterai oggi?», dissi io, infilandomi in bocca un’altra cucchiaiata di latte e cereali.
 Mi guardò di sbieco, sorridendo, «Certo che sei curiosa, eh».
«Simpatico».
«Perché non sei venuta ieri a scuola?», chiese, di nuovo.
«Non avevo voglia. Ero stanca. Avevo sonno. Cose così», parlai con una certa noncuranza, «Che importanza ha?». Mise su un’espressione da cane bastonato, «Non mi hai nemmeno chiamato o detto nulla».
«Pensavo che mi avresti potuto leggere nel pens.. Ah, già, è vero», risi.
«Allora vuoi davvero sfidare la sorte oggi, eh?», afferrò la scatola dei cereali, tirandomene una manciata addosso. «Guarda che io questa roba la pago!», provai a difendermi.
«Come se mi importasse!», mi fu subito vicino e mi pizzicò la guancia, tirandomela un po’.
«Edward!», sbottai io, provando a spingerlo via.
«Non sei abbastanza forte, mi dispiace», mi sorrise all’orecchio.
Lasciò la presa prima di quanto immaginassi, «Sei bravo», commentai, quasi senza rendermene conto.
«Che vuol dire?».
«Ti sai controllare bene, cioè.. Credevo di no, ma vedo che sei migliorato dalla prima volta», dissi, ripensando al nostro incontro. «Vero?», sorrise felicissimo, trascinando la sua sedia vicino alla mia, «Hai visto? Sono migliorato un sacco. Non c’è davvero limite alla mia perfezione», ghignò incrociando le braccia.
«Attento», gli toccai la fonte con il mio indice, «Vedo che la tua autostima vacilla, penso che potrebbe essere un problema per te».
Lui mi sorrise, «Ci farò caso, in effetti mi sentivo un po’ giù ultimamente. Sai cosa mi aiuterebbe?».
«Cosa?», inarcai il sopracciglio.
«Sentirmi dire quanto sono bello, magnifico, eccezionale.. Puoi cominciare quando vuoi, sono un tipo paziente», mi sorrise beffardo.
«Cristo santo», scossi la testa, «Ne ho già abbastanza di te.. Come facciamo stare insieme tutto il giorno?».
«Non essere cattiva con me», appoggiò la testa sul tavolo, sopra le lunghe braccia avvolte da un maglione nero, «Lo sai che sono sensibile», rise.
Mi rimisi a mangiare, più tranquilla di prima, ma sempre col ricordo del pianto nel cuore.
In quei momenti ero felice che non potesse capirmi fino in fondo.
«Vado a vestirmi», annunciai, alzandomi da tavola, «E tu», lo fissai dritto negli occhi, «Resta qui e fai il bravo, ci siamo capiti?».
Mi sorrise divertito e annuì, rimanendo così, chinato sul tavolo a guardarmi di sbieco.
Salii le scale con un filo di riluttanza e mi infilai in bagno. Mi lavai, mi vestii, mi pettinai.
Lanciai un’ultima occhiata alla brava ragazza nello specchio e mi domandai perché stesse facendo quello che faceva, perché non scappava, perché non lo respingeva senza far storie, perché si rifiutava di imboccare la via più sicura. Ma non ottenni nessuna risposta.
Uscii dal bagno e scesi le scale. Quando entrai in cucina, la ritrovai pulita e in ordine.
«E qui che è successo?», chiesi riferendomi al tappeto di cereali che avevo lasciato prima di andare a vestirmi e alla tazza della colazione, al latte. «Ho messo in ordine», rispose tutto felice.
Questa si che era una cosa inaspettata. Gli lanciai un’occhiata incuriosita, notando la sua espressione concentrata. «Che c’è?», domandai, notando il modo in cui mi fissava.
«Mi piace come ti sei vestita», commentò lui, con un lieve sorriso, «Stai bene».
«Grazie», borbottai io, distogliendo lo sguardo, «Andiamo adesso?».
«Sì», mi passò vicino, «Sta per uscire il sole».
Aprì la porta di casa e uscì, tranquillamente. Rimasi qualche momento a guardarlo farsi più piccolo, solo un po’, e sorrisi, andandogli incontro. Era come rivedere il mare.

Prendemmo il mio pick-up e ci avviammo verso parti di Forks a me sconosciute.
Percorremmo le strade di periferia solo per un breve tratto, prima di infilarci in un piccolo sentiero che si snodava fin dietro la linea dell’orizzonte, fra una fitta schiera nera di alberi.
«E adesso?», dissi io, spengendo il motore.
«Adesso si va a piedi», mi sorrise lui.
«Ho capito», borbottai scendendo dall’auto, «Di sabato noi non ci possiamo vedere. Mi svegli alle otto, mi fai camminare fra i boschi..», mi avvicinai a lui, «Insomma mi avevi detto che sarebbe stata dura stare con te, ma non avevi mai specificato quanto». Lui mi lanciò un’occhiataccia.
«Non avevo idea che tu fossi così pigra», commentò, leggermente infastidito, mentre mi guardava attraversare quel labirinto di sassi, radici e terra umida in maniera poco aggraziata e traballante.
«Credevo tu fossi una specie di macchina da guerra, che è successo alla Bella che spacca nasi e braccia e prende a testate poveri malcapitati?», cercò di soffocare una risata.
«Stai zitto, l’unico che potrei pestare in questo momento sei tu», sibilai, «Quindi pensaci bene prima di prendermi in giro».
«Ti confesso che queste tue minacce stanno iniziando a diventare davvero spaventose», sorrise lui in tono divertito, «Dai vieni», disse porgendomi la mano. «Che devo fare?», sbottai, cercando di raggiungerlo.
«Prenderla, no?», mosse la mano lui, con aria imbarazzata, «Sbrigati o non arriveremo più».
Arrivai a lui con lentezza, cercando un modo per nascondere il mio rossore. Quando toccai le sue dita fui quasi felice di ritrovare quel solito, atteso gelo. Riusciva in qualche modo a rendermi più calma.
«Da questa parte», bofonchiò lui, voltandosi e cominciando a camminare.
Seguii la lieve scia di profumo, il profilo delle sue spalle incerto fra l’oscurità della boscaglia.
I miei passi erano ancora tremanti e mi muovevo timidamente sopra quel labirinto di sterpi e foglie secche, ma a Edward questo sembrava non importare più di tanto – pareva essere sicuro, anzi, più che sicuro. Non parlò molto, dopo che le nostre mani si intrecciarono, si limitò a camminare e qualche volta voltarsi verso di me per accertarsi che stessi bene. Ricordando quei momenti, ho sempre pensato al modo in cui il suo pollice si muoveva sulla mia pelle, in senso antiorario, creando un minuscolo cerchio sul dorso della mia mano. Faceva così, di quando in quando, quasi volesse accertarsi che fossi ancora lì, quasi desiderasse premurarsi del fatto che esistessi, che fossi reale. Non c’era nient’altro in quel gesto, solo un senso di estremo conforto e tranquillità. Ero viva, esistevo e ero fra le sue mani e a lui non importava altro.
A volte, a toccarlo così, riuscivo anche a immaginarlo vivo.
E potevo sentire il suo sangue scorrere nelle vene.
E il suo cuore battere.
«Siamo arrivati», la sua mano lasciò la mia, infrangendo la catena dei miei pensieri. Immediatamente, ritrassi la mia, vergognandomi di aver esitato così tanto, di aver quasi desiderato sussurrare, «Tienimi ancora».
Si voltò verso di me, con un sorriso raggiante in viso, «C’è il sole», rise, «Vuoi vedere?».
Mi avvicinai lentamente, quasi con timore, a passi incerti. Lui rimaneva lì, fra quelle fauci oscure, sotto l’ombra verdeggiante del bosco. A un passo da lui, la luce.
«Prima te», indicò lo spazio aperto al di là della linea, il centro della luce dopo il buio.
Esitai per qualche istante prima di muovermi, poi avanzai verso il confine. Quando i miei occhi si abituarono al sole, mi si aprì davanti questo immenso spazio di fiori e tenere erbe che si arrampicavano debolmente verso il cielo infuocato. Mi voltai verso lui, ancora coperto dalla linea oscura, e lo chiamai con un’occhiata serena e curiosa. La punta delle sue scarpe sbucava sotto quell’unico cerchio di luce e a me tornò in mente Port Angeles – anche quella volta aveva esitato, prima di avvicinarsi. Si era ritirato nel mio personale incubo, in una notte cieca che mi circondava tutta. Mi aveva sottratta a quel blu denso e mi aveva spinta via, lasciandomi sotto quell’unica sorgente abbagliante, nell’unico luogo sicuro – lui no, lui poteva starsene anche là dove i demoni lo avrebbero rincorso e assalito, a lui sembrava non importare.
Quando tesi la mia mano, rivoltando il mio palmo tremante verso il suo corpo celato da quelle fittissime trame, lui mi guardò, mi guardò attraverso quello schermo invisibile e attese. Nel breve tempo che gli era stato concesso e che lo separava da me, mi resi conto che stava combattendo una guerra sanguinosa fra la voglia morbosa di fuggire e non farsi mai più rivedere e quella di potersi far guardare un’ultima volta.
Temeva forse di aver preso le sembianze di un mostro, quella notte, per aver troppo sostato entro i frastagliati confini del mio Inferno? Temeva di guardarmi in viso, per paura che la sua stesse carne fosse stata sfigurata, divenuta irriconoscibile e congestionata da una rabbia folle che a fatica e con dolore riuscì a soffocare. Si mosse appena, nel chiarore del giorno e poi, chinando il capo, uscì sotto il sole.

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Capitolo 13
*** Confessioni ***


                                                                                                         Confessioni


Per un attimo non fui in grado di riconoscerlo, ma quando mi fu più vicino, potei con esattezza iniziare a definire i suoi contorni in tutto quell’eterno splendore. La sua pelle pallidissima aveva ripreso a vivere sotto un velo sottilissimo di polvere di diamanti che lo ricopriva per intero e lo faceva assomigliare a un gioiello dalle fulgide sfaccettature. Improvvisamente, mi mancò quasi il fiato.
«Edward..», sospirai, girandogli intorno.
Lui mi seguiva con lo sguardo, con lievi movimenti rapidi, ci giravamo intorno come se fossimo stati, l’uno per l’altra, i primi volti visti in capo a un’intera vita.
Il suo collo, il suo viso, le punte delle sue mani, i polsi, tutto in lui risplendeva come un fuoco d’argento vivissimo e gelido. Era una tempesta di neve distrutta da un vento luminoso, un’incredibile meraviglia a cui i miei occhi non sapevano abituarsi: più lo guardavo, più l’avrei voluto guardare, la mia affamatissima curiosità, il mio intero cuore erano stati trafitti da quell’immane bellezza, ne ero sopraffatta, consumata, non bastava mai. Sarei rimasta lì a fissarlo per ore.
Quando finalmente rise, io ancora non gli potevo levare gli occhi di dosso.
«Ti piace così tanto?», chiese, con un’incredulità quasi commovente nella voce. Era come se per la prima volta, anche lui vedesse del bello in sé – si rigirava le mani sotto il naso, assaporando ogni istante, godendosi quella vista del suo stesso corpo, quasi come se si fosse dimenticato le fattezze del suo stesso essere, della sua pallida carne. Pareva anche lui essere colpito da quella reazione così affascinante.
«È stupendo..», riuscii appena a balbettare.
Lui rise ancora, di nuovo con la stessa, amabile cadenza.
Provai a accennare un sorriso, ma ero rimasta talmente folgorata da quel momento che non riuscivo nemmeno più a formulare un pensiero degno di questo nome.
«Tu sei.. Questo?», afferrai il suo braccio, tenendolo fra le mani come si farebbe con qualcosa di estremamente prezioso e fragile.
«Voglio dire.. Tu sei anche questo?».
Lui per un attimo parve colpito e estremamente toccato da quella mia domanda e io sapevo che aveva capito – sapeva cosa volevo dirgli. E, osservandolo di sbieco riflettere e rimuginare su chissà quali pensieri, sorrisi: avevo ottenuto l’effetto desiderato, infine.
Tu sei anche questo.
Come per fargli notare, ma senza esprimermi più del dovuto, che percepivo la sua sofferenza, ma coglievo in lui anche qualcosa di bello. Qualcosa che di certo era lontano dal potersi definire “umano”, ma che era comunque di sua esclusiva appartenenza, che lo rendeva chi era, che era la stessa ragione per cui mi faceva ridere e piangere, la stessa che mi aveva spinto a fidarmi di lui, nonostante tutto.
Era stato anche questo a farmi scegliere di andare, di stare con lui, di provare a capirlo, di impegnarmi, magari senza darlo a vedere, impegnarmi così tanto che faceva quasi male, solo per avere un po’ meno paura, solo per stargli vicino un altro po’, quei pochi istanti che poteva concedermi prima della fine.
Sorrise, abbassando lo sguardo e timidamente, quasi provando a non farsi scoprire.
«È incredibile», commentai.
«Già», borbottò lui, con un sorriso che ancora non gli si voleva levare di dosso.
«È molto meglio di tutte quelle leggende», provai a ridere io, continuando a guardare la sua mano.
Lui rise, poggiando il suo palmo contro il mio, «Siamo davvero diversi», disse, con un filo di amarezza nella voce. Le mie dita si distendevano perfettamente sulle sue, leggermente più piccole a contrasto. La sua pelle di solito freddissima era ormai calda e solo quell’avvolgente bagliore riusciva a sottolineare in maniera così netta le nostre differenze. «È importante?», chiesi a un certo punto io.
Lui mi lanciò un’occhiata, non sapendo cosa dire.
«Voglio dire, sono qui», dissi, quasi senza rendermene conto, «Siamo chi siamo, ma siamo qui. Non basta?», mormorai, assorta nei miei pensieri, così assorbita dalla mia stessa mente da non rendermi conto dello sguardo di incredibile sorpresa, gratitudine e dolcezza che si era appena posato su di me.
«E poi?», dissi a un certo punto, quasi risalendo in superficie, staccandomi da lui, «Che altro sai fare?», chiesi con un sorriso divertito. Lui rimase un attimo in silenzio, fisso su di me, con aria serena.
Si spostò con una velocità terrificante dall’altra parte del prato, a qualche metro da me, di nuovo vicino ai bordi neri del mondo. Mi correva intorno, così, facendomi quasi impazzire per provare a tenerlo d’occhio e stargli dietro. Si avvicinò poi a un albero e sparì. Quando tornò, mi era già vicino, di qualche passo, con in mano un tronco di almeno un metro di diametro.
«E adesso?», dissi io, concentratissima, senza nemmeno più sapere come avrei dovuto sentirmi in una situazione simile. «E adesso?», mi fece eco lui, ghignando.
«Rompilo», sussurrai io, cercando di trattenere una risata.
E lui lo fece, divelse il legno a metà con la stessa facilità con cui io avrei potuto spezzare uno stuzzicadenti.
Scoppiai a ridere, «Non è possibile!», me ne uscii io, incredula.
«Ho fermato una macchina in corsa, Bella», disse lui, divertito dalla mia stessa ingenuità, «Credevi davvero che non potessi farlo?».
«Sì, ma fa effetto lo stesso», scrollai le spalle io, «Io non lo so fare», commentai, senza rendermene conto, forse con aria un po’ troppo afflitta e invidiosa. Lui scoppiò a ridere, «Mi pare abbastanza normale».
«Era per dire», mi ripresi io, lievemente rossa in viso, dopo essermi accorta di ciò che avevo appena detto.
«Però mi sembra che sei brava a fare a botte», si avvicinò a me, «Fammi vedere».
«Cosa?», volevo suonare incredula, ma in realtà ero talmente colpita da non riuscire a risultare seria, nemmeno per un attimo. «Avanti», mi sfidò lui, saltellando qualche passo lontano da me, «Fammi vedere».
«Ti farai male», scherzai io, avvicinandomi.
«Sono già morto, cosa può succedermi di peggio?», chiese ironico, continuando a saltellare sul posto, «Andiamo», insisté, «Fammi vedere».
Mi avvicinai a lui, tendendo i muscoli, mantenendo una posizione. Sferrai il primo pugno con tutta la mia forza, sapendo già che lo avrebbe schivato con una facilità imbarazzante e poi provai con un calcio, a arrivare a bloccargli le mani, a toccare i polsi e lui ogni tanto si faceva sfiorare, prendere e non appena la mia presa sulla sua carne si faceva salda, si liberava con delicatezza e senza farmi del male.
Gli venni più addosso, provando a mangiarmi tutto lo spazio disponibile, tentando di sferrargli una gomitata, ma fu tutto inutile – i miei attacchi non facevano che farlo ridere e divertire.
Quando fra noi cadde qualsiasi distanza, mi afferrò con un’agilità spaventosa e cominciò a farmi il solletico.
«Così non vale! Non vale!», gridai io, disperata fra le risate.
Lui mi stringeva senza farmi male, toccandomi come si tocca un cerbiatto, un fiore, con cura, tremenda attenzione e pazienza. Quasi non mi resi conto quando mi poggiò a terra, da quanto il passaggio dall’essere in piedi a essere sdraiati fu immediato.
Lui mi si distese vicino, continuando a ridere, «Sei veloce», commentò.
«Bugiardo», risposi, un po’ seccata dall’inefficacia delle mie mosse.
«No, davvero sono esterrefatto», mi prese in giro lui, «Ci è mancato tanto così che tu mi spaccassi la faccia». Gli tirai un pizzico, «Silenzio», intimai con fare minaccioso.
«Sei forte però», dissi dopo un po’, rompendo il silenzio.
«Lo so», mi voltai verso di lui, vedendolo a occhi chiusi, sorridente sotto il cielo.
«I tuoi genitori e fratelli, sanno che io sa cosa siete?», domandai, forse con troppa ingenuità, «Voglio dire.. Non che sia importante. Ero solo curiosa», borbottai, notando la sua espressione, farsi improvvisamente seria. Lui rimase in silenzio e per un po’, non si azzardò a dire nulla. I suoi occhi erano di nuovo aperti, tesi sotto un sentimento che io non riuscivo a comprendere e lui perso fa i suoi pensieri sembrava star scegliendo con cura le prossime parole da pronunciare.
«Sì», disse dopo un tempo lunghissimo, «E non ne sono molto felici».
«Oh», sussurrai io, punta da una sorta di gelida delusione.
«Non sono cattivi», si volse verso da me, con la guancia di gesso posata su un ciuffo di morbidi fili verdi, «Davvero. Sono buoni. Solo.. Non volevano che ti salvassi», parlò in un soffio.
In me si creò e si distrusse tutto in quell’attimo, non avevo idea perché in me nascesse quella rabbia muta, mista a quell’amaro sentire, non so perché il mio cuore si imbizzarrì in quella maniera selvaggia – riuscii solo a fissare Edward con occhi pieni di sgomento. Lui abbassò lo sguardo, chiedendo silenziosamente perdono, «Mia sorella Alice può vedere nel futuro», mormorò lui, rispondendo alle mie accuse prim’ancora che riuscissi a formularle, «Non con una precisione assoluta, in realtà. Dipende da tanti fattori.. Generalmente le sue capacità sono circoscritte alle conseguenze delle decisioni umane»,
tornò a fissare il cielo.
«Qualche ora prima che il sole sorgesse, lei ti ha vista morire».
Quelle parole mi fecero ghiacciare il sangue nelle vene.
«Ha visto cosa sarebbe successo e io con lei..», si picchiettò la tempia con l’indice, «Posso leggere nel pensiero, ricordi?», mi sorrise, rivolgendomi un’occhiata rapida.
«È stata una visione tremenda. E poiché aveva avuto un assaggio di quel futuro.. Poiché aveva già visto il tuo sangue colare sull’asfalto.. Ci aveva pregato di rimanere a casa, quel giorno. Lei, di sicuro, sarebbe rimasta con Jasper – lui è stato trasformato di recente e sopportare il nostro stile di vita, non cibarsi di sangue umano ma solo di quello animale lo annienta, per lui è dolorosissimo. Se fosse stato presente, avrebbe distrutto la nostra copertura in un secondo, fiondandosi sulla tua carcassa», fece una breve pausa.
«Ma tu quel giorno eri a scuola..», mormorai, ancora scossa.
Annuì, «Io e Emmett eravamo lì infatti. Dissi che a scuola ci volevo andare comunque – il mio autocontrollo ormai è affinato e nemmeno un evento simile potrebbe scuoterlo, almeno così dissi. Emmett mi seguì, più che altro per caso e noia. Non era previsto. Non avevo idea di cosa fare», si alzò a sedere e io con lui, quasi fossimo stati legati da fili di metallo. Lui si muoveva – io mi muovevo.
Poggiò i gomiti sulle ginocchia, abbassando lo sguardo, «In un primo momento ho sperato che le previsioni di Alice fossero fallate, sai, almeno per quell’unica volta, ma.. Devo ammetterlo, quando ho capito che non poteva essere così, io ho davvero pensato di lasciarti morire», sussurrò, evitando i miei occhi.
«Sarebbe stato tutto più semplice e io non avrei mai più desiderato di ucciderti. Saresti sparita, insieme al tuo odore, e io sarei stato libero. Quando sono arrivato nel parcheggio, sarei voluto andare via. Emmett mi chiamava e continuava a dirmi di non fermarmi ogni venti passi, ma io non facevo che voltarmi a cercarti, fra la folla – continuavo a tenermi vicino alla fila di auto, per essere visto appena dagli altri e intanto continuavo a aspettare il tuo pick-up», scosse la testa, «Quando sei arrivata, credevo che sarei impazzito. Sapevo cosa stava per accadere e tutto ciò che sono stato in grado di pensare, quando ho visto il furgoncino di Tyler sbandare sulla strada ghiacciata, è stato “Non lei, ti prego. Qualsiasi altra persona, ma lei no”. Io non..», si voltò verso di me, ma si ritrasse immediatamente, con aria colpevole.
«Non facevo che ripensare alla prima volta in cui ci eravamo parlati e al modo in cui mi sentivo bene solo standoti vicino», scrollò le spalle, «Era semplice dirti le cose.. O scherzare. E a me non era mai successo», curvò di nuovo la schiena, chinando il capo, «E Tyler stava per distruggere ogni cosa. Non mi sono potuto trattenere», strinse i pugni. «È stato più forte di me».
Ci fu un lungo silenzio.
«Mi ricordo ancora la musica», sorrise, con aria assorta, volgendo il viso al cielo, «Wait, they don’t love you like I love you..», canticchiò, voltandosi verso di me.
«L’hai sentita?», borbottai, come se fosse stato quello il dettaglio più importante di tutti quei discorsi.
Annuì, «Ero abbastanza vicino, direi».
«Era una bella canzone», disse dopo, «Era una bella canzone e io avevo commesso un atroce errore», così almeno, definì, in un primo momento, il mio essere ancora viva su quel mondo.
«Ma quando ti ho guardata e tu non ti muovevi e non parlavi e tutti urlavano.. Quando per un attimo ho pensato che tu fossi morta.. Di essere arrivato troppo tardi.. O di averti stretta solo troppo forte, di averti fatto sbattere la testa», si passò una mano sulla faccia, sospirando, «Mi sembrava di essere lì lì per esplodere o per essere risucchiato da un buco nero», provò a ridere, ma durò poco.
«Si sono arrabbiati tantissimo», confessò dopo un po’, «La mia famiglia, dico», sottolineò.
«Alice non faceva che gridare, Rosalie non faceva che ripetere quanto fossi stato fortunato che lì con me ci fosse stato Emmett, che se non fosse stato per lui, se non fosse riuscito a coprire le prove.. A tirare anche il freno a mano nel furgoncino, per lasciar intendere che si fosse soltanto trattato di un fortunatissimo evento..», sospirò, esausto, «Non avevamo mai litigato così tanto».
«Alice non è cattiva», si affrettò a dire, serissimo, «Nessuno di loro lo è, ma quando viene il momento di scegliere fra la famiglia e chiunque altro, loro scelgono la famiglia. Non è la cosa più naturale da fare?», scoppiò a ridere, guardandomi, «Noi non abbiamo nessun altro, siamo soli e siamo tutto ciò che abbiamo che ci ricordi del mondo prima. Non è la cosa più ovvia da fare? Non c’è nessun altro che ci protegga e così ci pensiamo da noi, e non è forse giusto così? Loro hanno scelto la famiglia».
«E io invece ho scelto te», disse, con tono grave e cupo.
Sussultai a quelle parole.
«Li ho traditi. Tutti quanti. Ma io..», trattenni un attimo il fiato, in attesa delle sue parole,
«Ma io non riesco a pentirmene».
Il modo in cui sorrise quel giorno, mi infiammò il cuore.
«Allora», mi rigirai una ciocca di capelli fra le mani, distogliendo lo sguardo, sperando che non potesse smascherare ciò che dal mio cuore cominciava a traboccarmi in viso, «In poche parole.. Non sto simpatica al tuo gruppetto di amici». Lui rise, «Non è così. Hanno solo paura di te».
Mi voltai con uno sguardo sbigottito, «Come?», scandii bene le lettere.
«Forse non mi sono espresso bene», soffocò una risata.
«No, no, in effetti era una frase piuttosto sensata», sbottai sarcastica.
«Hanno paura che tu vada a spifferare tutto», mi si avvicinò, con quella sua espressione affascinante, «In effetti hai un po’ la faccia di chi potrebbe traditi da un momento all’altro», ghignò maligno.
«Non è vero!», esclamai io, «Non dovrei essere io a avere paura poi? Sono l’equivalente biologico di un sandwich ai tuoi occhi!».
Lui esplose in una risata fragorosa, «Bella, lo so».
«Io mi fido di te», si distese di nuovo a terra, «E comunque ormai ti ho salvata e loro non possono farci proprio un bel nulla. Prima o poi lo accetteranno e basta», disse, con un tono di voce che mi convinceva poco. Rimasi un po’ così, a sedere, «Edward..».
«Dimmi», mormorò lui, beandosi dei raggi del sole.
«Ma noi possiamo rimanere amici lo stesso?».
Lui si voltò verso di me.
«Anche se non piaccio ai tuoi fratelli o anche se sei così come sei», quelle mie parole lo fecero sorridere.
«Direi proprio di sì», si mise su un fianco.
«Ok», borbottai, senza dargli troppa relazione. Lui balzò di nuovo in piedi e, dritto sulle sue gambe piegate, mi guardava con delicatezza, avvicinandosi lentamente. «Ok», mi fece eco lui.
«Allora, amica mia», si sedette vicino a me, «Raccontami un po’ della tua vita, dimmi qualcosa di te», si dondolò un po’, facendomi oscillare leggermente.
«Che devo dirti?», abbozzai un sorriso e lui, «Non so, cose a caso. Tipo qual è il tuo film preferito?».
Ci pensai su un attimo, «Direi Badlands. O Hanna, ma è difficile da dire.. Ho gusti strani», risposi pensosa.
«E poi?».
«Poi cosa?», mi voltai verso di lui.
«Dimmi altro», poggiò il suo mento sulla mia spalla, «Parla ancora», la sua assomigliava quasi a una supplica. Decisi di accogliere la sua richiesta, ma ad una sola condizione: «Se tu mi fai una domanda, io te ne farò un’altra». Sbuffò, «No, dai».
«E invece sì», mi voltai, sfiorando i suoi capelli con la punta del mio mento.
«Guarda che ti mangio», rise lui.
«O così o nulla», insistei.
«Va bene», cedette lui, rimanendo immobile come una statua, «Che vuoi sapere?».
«Quando sei nato? E dove?», tentai di celare la mia rovente curiosità. Lo sentii ghignare.
«A Chicago, nel 1901», rispose e io non potei fare a meno di trasalire. Più di un secolo fa.
«Tocca a me», catturò fra le sue pallidissime dita una ciocca dei miei capelli caldi, «Qual è il tuo libro preferito?». «Domanda scontata», commentai divertita io.
«Rispondi e basta», borbottò stizzito.
«Il maestro e Margherita, di Bulgakov. Mi piace la letteratura russa», aggiunsi, «Che tipo di persona eri? Cioè, come eri quando.. Quando eri come me?», mormorai, sperando di non aver in qualche modo aver ferito la sua sensibilità, ma dall’alto della mia posizione, non potevo dirlo comunque.
«Vediamo», ci pensò su un attimo, «Non so. Direi arrogante. Mi piaceva fare a botte», quella confessione mi sorprese, «Mi piaceva sentirmi forte,.. Volevo fare la guerra, avere gloria, soldi, donne, roba così. Ero arrabbiato, quasi sempre».
«Perché?», domandai, involontariamente.
«E chi se lo ricorda perché», lo sentii sorridere e sapevo che mentiva, «Tocca a me», mi punzecchiò col suo tono di voce, «Com’è tua madre?».
Le sue parole per un attimo mi lasciarono perplessa – che c’entrava mia madre?
«Che domanda è?», borbottai, voltandomi verso di lui. Edward alzò leggermente il viso, senza capire, «Una normale», disse, «O no?», aggiunse quasi subito, velato da una leggera preoccupazione.
«Sì, ma cioè, che vuoi sapere?», mi strinsi nelle spalle.
«Non so. Che tipo è, se ti piace.. Roba così. Tuo padre ho già più o meno presente com’è», soffocò una risata, «E ha completo accesso a tutte le armi del dipartimento di polizia quindi preferisco non addentrarmi troppo nel discorso», disse in tono ironico. Sorrisi, «Mh. Diciamo che non siamo molto simili, io e lei. È più carina di me e molto più estroversa. Io non sono brava con le persone, lei sì, molto. È svampita, molto più di quanto tu possa immaginare», risi al ricordo di qualche sua frase bizzarra o del modo in cui si metteva le mani nei capelli se non riusciva a trovare ciò che cercava, «È molto buona. E generosa», conclusi.
«Tutto qui?», chiese.
«Tutto qui», risposi.
«Mh», ci rifletté per un po’. Fui costretta a interrompere quel flusso di pensieri, «Edward».
Lui si spostò lievemente, poggiando la testa nell’incavo del mio collo, «Devo tornare a casa».
Questo, per un attimo, lo destabilizzò. Si alzò verso di me, rapidamente, «Eh? Di già?».
Cercai di non guardarlo direttamente in viso, non mi ero ancora abituata a quella luce, «Di già», accennai un sorriso. «Ma ci stavamo divertendo», sbuffò lui, «Che noia».
Soffocai una risata, tentando di non infierire quand’ecco che il suo sguardo si illuminò, «E stasera cosa fai?». Scrollai le spalle, senza impegnarmi troppo per celare il mio stupore,
«Non so. Starò a casa, immagino».
Lui sorrise sornione, «Va bene».
«Non fare il furbo», gli puntai il dito contro.
«Non faccio il furbo», si morse il labbro inferiore.
«Come no, lo conosco quello sguardo», borbottai alzandomi, «Andiamo, Cento Watt», gli feci un cenno, «Dobbiamo tornare a casa». Lui rise, venendomi vicino. Mi prese per il braccio non appena ci fummo addentrati nella boscaglia.
«Che c’è?», chiesi allarmata.
Lui mollò immediatamente la presa, quasi pentendosi di quel gesto improvviso, «Nulla», bofonchiò.
Si schiarì la voce, «Sei troppo lenta», commentò.
«Che significa?», parlai con tono lievemente stizzita.
«Significa che ci metteremo tanto tempo se andiamo del tuo passo ma se tu.. Ecco..», indugiò, «Se ti portassi io, allora faremmo in un attimo».
«Non se ne parla, sono troppo pesante», sbottai, imbarazzata.
Lui mi lanciò un’occhiata traboccante di sarcasmo e pungente ironia, «Non mi dire».
«Avanti», insisté prim’ancora che potessi proferire parola, «Ti porto in spalla», disse chinandosi.
Mi avvicinai con cautela, cercando, in quel breve lasso di tempo, di valutare attentamente l’opzione che mi si era posta di fronte. Quanto mai potrà essere veloce, dopotutto?, pensai, poggiando le mani sulle sue spalle forti. Le sue dita si attorcigliarono intorno ai miei polsi e sospinsero con leggerezza le mie braccia intorno al suo collo.
«Così», mi guidò lui, «Tieniti forte, va bene?», mi lanciò un’occhiata rapida.
Annuii, ma decisamente poco convinta.
E poco dopo, realizzai il motivo di quella mia preoccupazione. Edward era velocissimo – quando cominciò a correre, il mondo intorno a noi semplicemente svanì. Gli alberi, il cielo, i raggi di sole che filtravano fra le fittissime trame nere, la terra – tutto si mescolava in un'unica macchia indistinta. La mia testa era vuota e incapace di reagire, di concentrarsi su un dettaglio particolare. Non riuscivo nemmeno più a respirare – provai a quel punto a serrare gli occhi, ma era impossibile.
Quando finalmente arrivammo al pick-up, Edward rideva, «Hai visto? Te l’ho detto che sei lenta e che così avremmo fatto prima», ma io non risposi. Continuavo a affondare le unghie in lui, credendo che sarei precipitata da un momento all’altro.
«Bella? Bella», mi chiamò, il tono nella sua voce era variato, «Stai bene?», si voltò, quasi per assicurarsi di non avermi perso durante la strada.
«Credo che vomiterò», mormorai, premendo le labbra sulla sua schiena.
Lui scoppiò a ridere, abbandonando ogni nervosismo, «Dovresti scendere allora», ma io continuavo a stringerlo, senza dargli ascolto. Ci pensò lui a sciogliere le mie braccia e a poggiarmi a terra.
Vacillai, per qualche istante, perdendo immediatamente l’equilibrio, «Scusa», chinò il capo, fra il dispiaciuto e il divertito, «Forse dovresti sederti. Ti senti meglio?», si chinò su di me.
Annuii debolmente, «Come mai su di te non ha effetto?», lui mi sorrise amorevolmente, ma non si disturbò a rispondere. «Vieni», disse, passando un braccio intorno ai miei fianchi. Tirò un lungo, forse molto più doloroso di quanto non potessi capire, sospiro, «Appoggiati a me, ti riporto a casa».
Mi fece accomodare nel pick-up, ma non dietro al volante, «Che significa?», sbottai ancora stordita.
«Significa che guido io. Non sei nemmeno in grado di stare in piedi adesso e io non ti ho salvato la vita per vederti cappottare in mezzo di strada», parlò lui, con tono severo. Provai a ribattere, ma i miei sensi, ancora così deboli, me lo impedivano, «Se graffi il mio Chevy ti picchio», mormorai, tentando di suonare minacciosa, ma lui non fece che ridacchiare. «Stai tranquilla. I miei riflessi sono di gran lunga più affinati dei tuoi, Swan. Se non sei riuscita a distruggerlo tu, dubito che io potrò», commentò, mettendo in moto.
Gli sorrisi, non riuscendo nemmeno più a nascondere il mio evidente divertimento.
Il motore si accese e Edward mi guidò fino a casa.
Avrei voluto rimanere su quell’auto per sempre.
O almeno, solo per cinque minuti in più.

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Capitolo 14
*** Ragione e sentimento ***


Nota dell’autrice: Salve a tutti! Colgo questa occasione per augurarvi (con un leggero ritardo) buon anno e fare a chiunque mi segua tanti auguri. Mi scuso anche per non aver aggiornato la storia per così tanto tempo – in quest’occasione posso dire con certezza di aver superato i limiti della mia già incommensurabile pigrizia. Ringrazio comunque tutti coloro che, durante questo break, mi hanno scritto messaggi privati, chiedendomi con un’insistenza adorabile (non scherzo) quando avrei aggiornato la storia e non posso dirvi quanto questo mi abbia fatto piacere, sul serio. Mi ha proprio gratificata :). Detto ciò, vi auguro buona lettura e spero anche che questo capitolo sia valso la vostra attesa.

                                                                                            Ragione e sentimento


«Ti devo portare in braccio fino a letto oppure..?».
«Stai un po’ zitto. Mi sono ripresa, sai? È solo questione di abitudine».
«Non lo metto in dubbio».
Scesi dal pick-up, poggiai i piedi a terra, e in me si liberò questo senso di insopportabile calma che quasi mi faceva mancare l’aria e obbligava ogni cellula del mio corpo a rilassarsi, a distendersi a un punto tale da portarmi quasi a star male a temere di essere sul punto che il mio corpo venisse smembrato.
Stare con Edward a volte mi faceva dimenticare dove mi trovassi, i luoghi della mia realtà e quelli della mia memoria si confondevano, si mischiavano e io mi perdevo, scivolavo lentamente fra momenti e pensieri sconosciuti e là lo ritrovavo, là lui mi accompagnava prendendomi per mano e mi portava via dal mondo. Abbandonarsi era piacevole, ma ogni volta che il tessuto del presente veniva lacerato, dilatato, risvegliarsi diventava sempre più faticoso e la realtà dura come l’asfalto. A un tratto, senza lui perfino l’aria sembrava pesa come cemento e io ero lì immobile, pronta a farmi schiacciare.
«Forse dovresti tornare a casa», dissi, senza guardarlo, «I tuoi si staranno iniziando a chiedere che fine tu abbia fatto». Nel mio tono di voce c’era fin troppo astio, improvviso quanto inaspettato, perché lui non potesse notarlo. Non mi volsi nemmeno a guardarlo, non mi aspettavo una risposta, in quel momento desideravo soltanto che se ne andasse, sì, lo desideravo proprio perché in me cominciava a farsi largo la consapevolezza che con lui era meglio, qualsiasi cosa fosse, che si trattasse della realtà, della mia vita, di una sola porzione della sua, dell’ignoto, era meglio, con lui era meglio e io ancora non riuscivo a farmene una ragione. Avrei dovuto riporre ogni mia speranza che nutrivo per quel rapporto, riporla in un luogo lontano e sconosciuto della mia mente e infine minimizzarla, cancellarla, scordarmi tutto per sempre – tanto, si trattava solo di questo, vero? Si trattava soltanto di un momento, infine le nostre vite si sarebbero separate e a ricordarmelo bastavano le confessioni di Edward: soltanto agli occhi dei suoi fratelli io rappresentavo una minaccia, uno sbaglio, una vita come un’altra. Se avevo assunto un ruolo di qualche rilevo nelle loro vite lo dovevo solo al fatto che non ero morta, come previsto da Alice, ma ero ancora qui e ancora respiravo e già sapevo tutto e di nuovo potevo provare tristezza e dolore all’idea di un futuro astratto che desideravo soltanto appartenesse a qualcun altro. Prima o poi anche lui avrebbe abbandonato la presa, lasciandomi in quel luogo dove la memoria e il reale si fondevano e non sarebbe mai più tornato.
Mi avrebbe cancellata e una parte di me sarebbe sparita.
E anche se fosse rimasto, anche se avesse deciso di ribellarsi a ogni legge o divieto, a che sarebbe valso?
A cosa sarebbe servito? In quel caso, allora, sarei stata io, io con la mia forma umana, la mia debolezza, la mia condanna a svanire. Non l’avrei mai visto crescere, non l’avrei mai visto cambiare, non avrei mai visto in lui neanche un accenno della vita e del tempo che avrebbero investito me, e con tutta la loro forza. Non avrei mai scorto in lui debolezza o affranto, sconforto magari, rassegnazione. Io sarei passata e allora tanto valeva che se ne andasse adesso, che tornasse fra chi non l’avrebbe mai potuto abbandonare, fra chi non aveva più in corpo un cuore che potesse spezzarsi.
«Figurati», fu la sua risposta, «Non hanno bisogno di chiedersi dove sono. Lo sanno già».
«Questo non dovrebbe essere un motivo in più per andartene? Del resto, non è che la tua famiglia nutra un affetto particolare nei miei confronti», continuai io, dura, aprendo la porta di casa.
Lui non rispose. Una parte di me sapeva che non avrei dovuto proseguire, continuare a trattarlo in quel modo, ma non appena fui sul punto di rimangiarmi ciò che avevo detto, di voltarmi con apprensione per dirgli che se voleva poteva rimanere («Almeno finché non torna Charlie», così gli avrei detto, fingendo insofferenza e accondiscendenza), mi tornò alla mente la sua pelle e il sole che si rivolgeva ad essa come a un diamante facendola brillare e dividendola in mille piccole parti splendenti e il mio cuore si strinse in una morsa dolorosissima al ricordo di quanto tutto in noi differisse così terribilmente. Non c’era nulla che ci potesse legare, se non l’apparenza, se non il suo aspetto di adolescente, ma anche in esso vi erano così tante anomalie, così tante piccole imprecisioni rispetto al viso di un essere umano, che era difficile considerarla come una piccola vittoria o rivalsa verso un destino che ci aveva voluti trattare nel modo più spregevole di tutti. «Sì, hai ragione», disse lui, arrendendosi, attendendo però che mi voltassi, anche con distrazione e poco sentimento, «Dovrei andare», insisté allora, parlandomi con un’altra voce, chiedendomi domande che non avevano parole, che non si facevano veicolo altro che dei nostri pensieri.
Lui diceva, «Dovrei andare» e in realtà domandava, «Mi guarderesti, solo per un’ultima volta?».
Io invece, crudele, non fui capace che di dire, «Okay, ci sentiamo».
Lo sentii muoversi, lievemente, e poi fu il vento a trafiggermi come una lama – fui veloce  a voltarmi, a mettere insieme un richiamo, quell’unico nome, ma lui era già scomparso e di nuovo in me si aprì una ferita, profonda come il mare, che mi riportò al giorno in cui eravamo nel parcheggio e lui se ne andò, senza salutarmi come avrei voluto, che mi spinse ancora con la faccia sulla spalla di Edward, mentre eravamo in infermeria, che mi rimise davanti allo specchio quella stessa mattina con di fronte agli occhi il riflesso di quella brava ragazza con un cuore così bianco e un viso così rosso, così addolorato, spento, rassegnato. Ero di nuovo sola e non fui abbastanza veloce nemmeno nel trattenermi, così che, prima che potessi rendermene conto, dalle mie labbra uscì un roco suono e quel suono faceva così,
«Edward aspetta».
Ma alla fine, solo all’aria fu rivolta quella supplica.
Entrai in casa, chiudendomi la porta alle spalle, respirando piano mi feci largo fra lo spazio vuoto e salii fino in camera mia. Ebbi quasi un cedimento alla vista del mio letto ancora sfatto e senza pensarci troppo mi ci gettai sopra a corpo morto, distrutta. Coprii il viso con le mani, nella speranza di liberarmi da quell’inquieto sentire che da un po’ di tempo agitava le mie notti e annacquava il ricordo dei giorni passati, belli o brutti che fossero. «Edward aspetta», una vocina piccina si fece largo fra i miei pensieri ed ebbi un sussulto quando lo vidi al mio fianco, «Tu!», gridai io, senza nemmeno sapere come fosse giusto comportarsi in quei casi. Lui scoppiò a ridere, seduto sul mio letto, «Eri così triste quando ti sei voltata che non ho proprio resistito».
«Tu sei uno sfacciato!», brontolai, rossa in viso, «Ti avevo detto di non entrare qui dentro senza il mio permesso!». «Ma se lo avessi fatto non avrei più potuto prenderti in giro, ti pare?», si giustificò scrollando le spalle, «Io voglio solo giocare», rise.
Provai a spingerlo via, «Ti ho detto che devi andartene. E poi, Charlie sarà qui da un momento all’altro».
«Eri triste per quello che ti ho detto? Di Alice?», si fece serio tutt’a un tratto lui.
«Non ero triste, semmai arrabbiata, non sei nemmeno capace di riconoscere le emozioni umane adesso?», parlai io, forse con troppa enfasi, perché più che una domanda parve uno strillo.
«Ma la rabbia improvvisa non è mai rabbia autentica, giusto? Si tratta sempre di qualcos altro, come un’esagerata felicità o un’esagerata tristezza nascondono sempre qualcosa di diverso. No?», si distese sul letto, facendo dondolare le gambe fuori dal materasso.
«Allora ti chiedo: è per via di Alice che ti senti così? Cioè, comunque sia sei viva, no? Che ti importa di lei, che ti importa di quello che ha visto o detto, tu non sei morta. Va tutto bene, mi pare», provò a sorridere, lasciando trasparire una punta di malinconia.
Fui sul punto di contraddirlo, dirgli qualcosa, qualunque cosa, fargli un discorso anche solo per farlo arrabbiare, infuriare ferocemente, spingerlo a non volermi nemmeno più stare accanto, sempre che fosse possibile, pensai fra me e me, ma infine rinunciai.
«Alice non c’entra nulla», ammisi, dopo un po’, «Anzi. Sai bene quanto me che lei aveva ragione. In confronto a quello che potrebbe succedere se si venisse a sapere cosa siete la mia vita si trasforma davvero in un dettaglio insignificante. E se è arrabbiata nei tuoi confronti non fa altro che bene, ha tutta la mia approvazione sappilo: avresti dovuto lasciare che Tyler mi uccidesse e a quest’ora sarebbe stato tutto molto più semplice per tutti. Con questo, non è che non sia capace di apprezzare tutto quello che hai fatto per me..», aggiunsi, mordendomi il labbro.
«E allora?», incalzò lui, leggermente irritato.
«Allora te l’ho detto: Alice non c’entra nulla».
«E chi c’entra?», si rivoltò su un fianco, poggiando la testa sul dorso della mano, reggendosi sull’angolo dritto creato fra la punta del gomito e l’avambraccio.
«C’entri tu», borbottai.
Lui non rispose e in un primo momento ebbi l’impressione che non fosse stato capace di sentirmi, che avesse, che so, confuso le parole o capito male, che a momenti mi avrebbe chiesto di ripetere e allora io avrei rifiutato con decisione e avremmo lasciato fare quel discorso così spinoso.
Ma fui sciocca anche solo a sperare in qualcosa di simile, visti suoi sensi così sviluppati.
«Spiegami», mi guardò fisso lui, concentratissimo.
Tentennai, in un primo momento, ma poi fu inevitabile giungere alla rivelazione, «Tu non sei come me. Per quanto tu ti possa impegnare e per quanto tu possa provare a controllarti, non sarai mai più un essere umano. È così, no? Ormai sei quello che sei e immagino vada bene, immagino che spetti a te decidere cosa farne della tua vita e se vuoi passare del tempo con me va bene è solo che mi rendi triste a volte. Mi rende triste pensare a quanto siamo diversi. Al fatto che un giorno morirò, e che prima ancora invecchierò e tu invece no, io crescerò e cambierò e tu rimarrai.. così. Per sempre. Io vorrei stare.. tanto tempo con te. Un tempo che ancora non sono capace di calcolare, ma è un tempo comunque troppo lungo perché il mio corpo lo possa sostenere e allora a volte penso, egoisticamente, che se tu fossi umano come me, che se tu non fossi come sei allora forse il tempo che vorrei passare con te sarebbe adeguato alle mie aspettative. Ma invece», mi trattenni dal piangere, provando a non riflettere sul fatto che una dichiarazione simile doveva di certo ferire più lui che me, dal momento che Edward era il primo a soffrire di quella sua condizione, «Invece tu sei diverso e io mi sento sola».
«Bella», provò a dire lui, ma io lo respinsi immediatamente, chiudendomi in un silenzio ostile, cercando di forzarmi a non parlare, a non aggiungere altro peso a quel peso. «Mi dispiace», bisbigliò lui e nella sua voce non v’era nemmeno una punta del risentimento che mi aspettavo, «Io non posso farci nulla, lo capisci, vero? Se potessi, tornerei a essere quello che ero in questo momento esatto, ma come faccio? Lo so che quando ti tocco non è come quando ti tocca Mike o Angela, loro sono caldi, loro sono morbidi e se ti abbracciano non rischiano di sbriciolarti la spina dorsale. Loro sono le persone con cui dovresti passare il tuo tempo, loro non si comporterebbero mai come io mi sono comportato con te: io sono stato ingiusto nei tuoi confronti, lo sai? Lo sai vero? Conosco benissimo i rischi a cui ti espongo ogni volta che provo a avvicinarmi a te, che ti rivolgo la parola, sono perfettamente al corrente che potrebbe bastare un attimo per ucciderti, che non ci vorrebbe niente, che sei così fragile, debole rispetto a me, ma non me ne importa nulla. Io sono stato così egoista con te, così tanto che arrivo a darti ragione: avrei dovuto lasciare che Tyler ti uccidesse, sarebbe stata la scelta più saggia. Ma ormai ti avevo vista. Io ti avevo vista e ti avevo parlato. E tu sembravi buona e gentile e ti guardavo riflessa nei pensieri degli altri e le tue battute e le tue espressioni mi facevano ridere come un matto. Ero felice e volevo rimanere felice e non mi importava di nient’altro. Avrei dovuto resistere, quel giorno, serrare i pugni e seguire Emmett, rispettare il volere di Alice, voltarmi e attendere lo schianto, il colpo, le urla e così saresti stata libera. E invece.. Poi ho trovato mille giustificazioni, mi sono detto che d’altro canto eri così giovane e sarebbe stata una tragedia, che avevo le possibilità di fare qualcosa di giusto per redimermi da questa mia condizione di mostro e allora era bene che la cogliessi, che tuo padre ne sarebbe morto e con lui tua madre, che se Emmett avesse fiutato il tuo sangue sparso a terra sarebbe probabilmente impazzito a dispetto di ogni suo discorso, che non era per me, era un favore che facevo a te e a tutti i tuoi amici a tutti coloro che costellavano la tua vita, che se tu avessi potuto avresti fatto lo stesso, che non avevo scelta.. Ma invece ce l’avevo. Potevo davvero lasciarti morire. Ma non l’ho fatto. E anche adesso che ti vedo così, anche adesso che so che sei così triste e distrutta, io non ce la faccio a pentirmi. Il mio egoismo non ha davvero limiti, sai?», sorrise infine, quasi a voler alleggerire tutti quei discorsi così tremendi. Il suo tono di voce era così amaro, così profondamente contrito e macerato, che non potei far a meno di sporgermi verso di lui con affanno e gridare, stroncata dal dolore,
«È che mi mancherai così tanto!».
Lui si voltò verso di me, senza capire.
«Quando morirò mi mancherai così tanto! Non so in che posto andrò, a volte ci penso, non so cosa mi succederà e mi spaventa, capito?», cominciai a piangere senza ritegno, come una bambina, come la brava ragazza riflessa nello specchio, come se fossi proprio sul punto di morire, «Se un giorno mi troverai però, vieni a cercarmi, hai capito? Vieni da me subito», strillai sopraffatta dal sentimento, nemmeno io sapevo con precisione di cosa si trattasse, ma mi attanagliava il cuore e gli occhi, pungeva il mio corpo e la mia mente e non mi lasciava quasi respirare.
«Vieni da me subito», urlai ancora un paio di volte, prima che lui mi raggiungesse e mi abbracciasse: per un attimo, era caldo. Lui era caldo, le sue braccia, la sua guancia poggiata sulla mia fronte, le sue mani intrecciate ai miei capelli ed io ebbi, per un momento, la sensazione che tutto di lui fosse vivo, che il suo cuore battesse, che anche per lui il tempo rappresentasse una minaccia. Io ebbi come la sensazione di somigliargli davvero in qualcosa, non nell’apparenza, non nei pensieri, non tanto nel modo di fare, quanto in qualcosa di ben più profondo e forse, pensai affondando il viso nell’incavo del suo collo, c’era davvero un legame fra noi, non me l’ero solo immaginato. Forse c’era davvero qualcosa in lui che rappresentava il riflesso di qualcosa che c’era in me e allora cominciai a calmarmi, distendere il mio corpo, ma con dolcezza questa volta, abbandonarmi.  
Strinse le sue gambe intorno a me, chiudendosi sul mio corpo quasi come per proteggerlo o mescolare le nostre membra e io mi rannicchiai al suo petto, con le gambe spinte sul suo addome, egoista anche io, egoista perché sapevo quanto per lui fosse difficile starmi così vicina, egoista perché avrei dovuto respingerlo, essere più forte, egoista perché non avevo avuto la creanza di morire e basta e liberarci entrambi e non me ne importava nulla. Quindi era anche mia la colpa, era sempre stata anche mia. Forse era proprio quella che condividevano le nostre vite: un colpa, una colpa innocente però, una di quelle che si scusano volentieri, che si fa fatica a giudicare con occhi severi.
«Verrò da te subito», sussurrò lui, «Immediatamente. Però tu adesso resta così, va bene?», finì in una risatina imbarazzata quella richiesta, e mi strinse a sé con più forza, «Resta buona in questo modo».
Sorrisi, annuendo, informandolo anche del fatto che Charlie sarebbe tornato a breve, ma in quel momento non m’interessava più di tanto una risposta vera e propria, mi importava solo di dire qualcosa che non mi facesse apparire così coinvolta com’ero.
«Lo so, è tutta la sera che me lo ripeti», sbottò lui, «Tanto tornerò, lo sai che non ho nulla d fare. Fuori mi annoio, e tu sei l’unica con cui posso giocare».
«Allora è vero che sei egoista», bisbigliai.
Questo lo fece ridere, «Sì, è vero. Ma che t’importa? Gli amici si dovrebbero accettare così come sono».
«È proprio un bel discorso questo, sì!», sbottai, «E se il tuo amico è un serial killer?».
«Allora gli passi una pistola», ghignò lui.
«E se è un drogato?», lo stuzzicai.
«Allora gli stringi un laccio emostatico intorno al braccio», rise.
«Ma questo è un ragionamento balordo! È proprio da scemi, davvero, non c’è che dire!».
Edward continuava a ridere, il capo poggiato sulla mia testa – potevo sentire le sue labbra schiudersi in un sorriso enorme e senza pensieri, il dolore di quei momenti, tutti quei discorsi, belli o brutti che fossero erano svaniti e di nuovo eravamo in un posto solo nostro, dove non esistevano tempo o ricordi, ma c’eravamo solo noi e era un po’ come essere a casa, magari non proprio casa tua, ma la casa in campagna, al mare forse, quella che ti infonde un senso di quiete e calma, in cui entri solo in occasioni speciali, in momenti in cui la tua vita rallenta, si prende una pausa e accoglie, filtra solo la parte bella di questo mondo: in questa casa non esistono lo stress, non esiste una routine, non esistono le persone, il caos, solo te e le cose splendenti e meravigliose che questo momento può offrirti. Certo, col tempo avresti potuto iniziare a sentire la mancanza della tua vera casa e infine saresti tornato, avresti lasciato quel posto, anche un po’ per dovere non solo per volere tuo soltanto, un po’ come facevo io con Edward quando lui se ne andava e al suo posto subentravano la realtà, i compiti da fare, la scuola, Charlie, e via dicendo. Ma per ora mi andava bene stare come stavo, stare in lui e rallentare.
«Tu sei balorda», disse e mi morse.
«Edward!», sbottai, «Che schifo!», mi pulii l’orecchio dalla saliva e lui mi sorrise divertito.
«Le ragazze della nostra scuola ammazzerebbero per una cosa del genere e tu mi dici che ti faccio schifo? Sei proprio irriconoscente», mi tirò un pizzicotto lui.
«Ma loro sono delle tonne, non capiscono nulla, infatti sono tutte innamorate di te».
«Guarda che stronza che sei!», mi spinse sul cuscino, «Io ti consolo e te che fai? Mi infami? Ti pare giusto?», gridò cominciando a farmi il solletico e io non riuscivo nemmeno a implorarlo di smettere da quanto ridevo, da quanto ero agitata, per questo, a ripensarci, forse solo quel grido, quell’improvviso suono riuscì a bloccarci – era mio padre che mi chiamava in fondo alle scale, alla fine era tornato davvero e Edward mi lanciò solo una rapida occhiata prima di sorridermi e sussurrare, ‘Mi sa che dobbiamo rimandare’.
In un attimo, era già scomparso.
«Bella?», Charlie continuava a richiedere la mia presenza e attenzione, «Sono qui!», gridai, ma col fiato rotto, tanto che questo mio insolito tono di voce lo spinse a chiedermi se andasse tutto bene.
Dissi che sì, non c’erano problemi, ma lui salì lo stesso a controllare – la sua mancanza di fiducia nei miei confronti a volte mi atterriva. «Che hai fatto? Sei tutta rossa», domandò scrutandomi circospetto.
«Ero fuori con Jessica e credevo di aver fatto tardi, così, ecco», borbottai, «Ho fatto una corsa per arrivare a casa,.. Non volevo farti arrabbiare». Lui mi lanciò un’occhiata poco convinta, «Davvero?», cominciò a guardarsi intorno, a scrutare con attenzione camera mia, «Sei sicura che Jessica non sia anche entrata in casa?», mi domandò, enfatizzando la pronuncia del nome, con aria diffidente.
«Sicura», sorrisi, divertita.
«Al cento per cento?», insisté lui.
«Al cento per cento».
Osservai i suoi occhi posarsi su di me, li vidi schiudersi come boccioli di rosa e notare un guizzo in me, probabilmente un lampo di gioia, qualcosa che comunque mi attraversò ma durò brevemente e sciolse in lui quell’espressione riottosa e severa, plasmando lentamente quel viso, cambiandolo piano in qualcosa di dolce, affettuoso – in quel momento, Charlie parve intenerirsi di fronte al mio viso rubicondo e umido di lacrime e comparve, sulle sue labbra spaccate, un flebile sorriso.
«Mangiamo cinese d’asporto stasera», borbottò lui, ma senza quell’aria scontrosa, «Vai a lavarti le mani, ti aspetto giù». Mi limitai ad annuire. Rifeci il letto, sistemai, per quello che potevo, la stanza e corsi a lavarmi le mani. Quando scesi giù e mi affacciai in cucina, scorsi Charlie già seduto a tavola, che mi aspettava, con le braccia incrociate vicino ai piatti colorati che mamma aveva portato con sé, qualche anno fa, come regalo di Natale. Li usava ancora e in quell’istante, mentre mi sedevo e cominciavo a parlargli, mi chiesi se teneva quei piatti per semplice pigrizia o solo per non scordarsi del dolore. Forse pensava proprio a mia madre quando mangiava da quei piatti, alle loro estati, al modo in cui si erano conosciuti, a cose belle e divertenti, ma forse anche tristi a volte, o piene di rimpianti, cose che non condivideva con nessuno, magari a fatica perfino con se stesso. Cose con cui semplicemente conviveva, senza troppe pretese.
Durante la cena quasi mi dimenticai dei miei sconvolgimenti interni e mi lasciai trasportare dalla quiete familiare, dalla routine, dalla voce increspata di Charlie e dai suoi ragionamenti. Quando fui già sulle scale, a fine serata, ero così spossata, quasi senza saperne il vero motivo, proprio come se la mia mente si fosse indebolita e i pensieri intorpiditi e tutto mi risultava improvvisamente distante, stravolto, inconsistente, che non potei far altro che chiudermi in bagno per lavarmi e prepararmi per la notte. Non so cosa mi avesse reso così, non so cosa mi avesse trasformata in questa creatura così sconvolta e pesante, immaginai lo si potesse attribuire a quelle dichiarazioni, quelle esplosioni di sentimenti che rimbombavano fra le mie ossa e ancora bruciavano contro le pareti interne del mio stomaco e petto, che mi consumavano, mi assottigliavano, dissipando le mie resistenze e vanificando ogni mio sforzo di rimanere lucida.
Mi feci una doccia calda, più lunga del previsto così che, quando uscii le mie estremità si erano tutte tinte di un rosso furioso e pulsante, abbastanza fastidioso a vedersi. Mi misi la crema, mi lavai i denti e m’infilai in qualcosa di più comodo, pantaloni della tuta e maglietta logora. I capelli erano ancora gocciolanti, ma bastò un leggero colpo di phon a renderli soltanto un po’ umidi – in appena mezz’ora tornarono ad essere di nuovo gonfi e morbidi. A toccarli avevo l’impressione che Joshua si muovesse attraverso di me, attraverso le mie mani, che fosse ancora presente e vivo e che non fosse mai davvero cambiato niente. Lui mi parlava spesso, con quelle sue labbra grandi, di quanto gli piacessero i miei capelli, di come fossero belli e bello era per me sentirlo dire in quel tono supplice che mi faceva morire, «Per favore, non tagliarli mai», arrossivo ogni volta come una bambina, e sempre lo rivedevo con gli stessi occhi, anche con quelli del pensiero, anche solo andando a cercarlo fra i miei ricordi perché era tutto lì, tutto come lo avevo lasciato, tutto come quella sera in cui mi chiese di ballare per la prima volta, i The Killers suonavano e io avevo questo abito blu scuro e lui mi disse che per me voleva essere buono, per me e nessun’altra e io ripensai immediatamente a quello che diceva mia madre, che ogni ragazza vuole per sé un ragazzo cattivo che sia buono solo con lei.
Per la prima volta dopo anni, ripensavo a lui senza crollare, senza sentire il bisogno di piangere per ore, piangere ogni lacrima, piangere in silenzio nel più disperato dei modi. Non mi rendevo nemmeno conto di come questo fosse possibile. Uscii dal bagno, a passi lenti e pesanti, trascinandomi fino in camera e una volta lì mi infilai sotto le coperte, completamente assorta fra i miei pensieri, ignara di ciò, di chi anzi, mi stavo dimenticando. Finché non fu lui stesso a riportarmi alla realtà.
«Pensavo che non saresti tornata più».
Mi voltai di scatto, e lo trovai con le braccia conserte poggiate alla mensola della finestra e il mento appoggiato sopra. «Che ci fai lì?».
«Ti aspettavo», scrollò le spalle.
«No, sì, cioè lo so. Ma che ci fai ? Perché non sei già entrato?», sembrai coglierlo di sorpresa perché impiegò più tempo del previsto a rispondere
«Non dici sempre che non posso entrare senza il tuo permesso? Che sono sfacciato?».
«Tu ascolti sul serio?», bisbigliai sorpresa e lui mi lanciò un’occhiataccia.
«Dai, entra», annuii, ributtandomi sul cuscino. Ascoltai i suoi passi incerti e il suo modo premuroso di chiudere le ante della mia finestra, io non lo vedevo, ma potevo immaginarmi le sue dita affusolate muoversi con una precisione quasi chirurgica – lo stesso modo in cui spesso toccava me.
Per sua natura, lui era invincibile, era la pietra antica che rotola giù dal picco più alto della montagna più fredda e travolgeva tutto ciò che trovava sul suo percorso: per contrasto, tutto intorno a lui sembrava essere fatto di finissimo cristallo, come se ogni cosa fosse rivestita e rappresentata da un’unica, sottilissima ostia di vetro. Lui viveva cercando di non infrangere, di non distruggere, di non creare disagi e sapevo quanto gli costasse, quanto potesse costare a chiunque remare con un tale affanno verso la propria natura.
«Posso venire lì con te?», mi voltai, osservandolo con non poca compassione negli occhi e gli feci cenno di stendersi. «Basta che non fai troppo rumore, Charlie è di sotto».
Lui annuì, sghignazzando felice come un bambino, «E adesso che facciamo?».
«Non lo so. Tu ancora non puoi dormire, eh?».
«No», confermò lui.
«Peccato», in risposta ai miei lamenti ricevetti un altro pizzico.
«Com’è?», aggiunsi infine, sovrappensiero.
«Che cosa?».
«Non poter dormire».
Lui rimase un attimo in silenzio, forse per trovare le parole giuste, forse per trovare solo una buona scusa con cui zittirmi, infine disse, «Non so. Mi confonde un po’, a volte».
«Cioè?».
«Cioè, a volte non capisco più che giorno della settimana è», ammise e io scoppiai a ridere, come una bambina, proprio come faceva lui a volte. «Che c’è? È vero. Vorrei vedere te. Io ancora non riesco a abituarmi. Prima invece non avrei fatto che dormire. Non faceva molto piacere ai miei genitori, a ripensarci», era la prima volta che lo sentivo nominare i suoi genitori; io ancora non riuscivo a immedesimarmi completamente in lui, e come avrei potuto?, per questo spesso capitava che vi fossero in me molte domande inespresse, che non potevano risolversi in nessun modo perché bloccate dalla paura di ferirlo ulteriormente e senza motivo del resto. Ma la mia curiosità riguardo certi argomenti era veramente spropositava e non potei far a meno, quella sera, di chiedere di più.
«Si arrabbiavano spesso con te?», tentai.
«A volte».
«Scoprirono mai quello che eri diventato?», osai, senza più riuscire a star zitta.
Lui rise malinconico, «Morirono prima di me, a dirla tutta».
«Oh.. Scusa, io non lo sapevo», mi voltai a cercarlo nel buio.
«Lo so», mi sorrise, «A volte penso che sia stato meglio così. Subito dopo essere stato trasformato poi, non ero proprio una buona compagnia. Ero sempre così arrabbiato, anche più di prima, anche più di quando ero ragazzo e volevo fare la guerra».
«E cosa facevi?», domandai, senza preoccuparmi di celare una punta di terrore.
«Mi accanivo su case abbandonate, distruggendole, spaccavo rami e interi albero. E poi avevo una sete incredibile, sai, quando vieni trasformato il tuo unico pensiero è il sangue, non vorresti altro e immagino fosse anche questo a rendere i rapporti col resto del mondo così invivibili», ridacchiò, «È solo.. Non lo so. Ero triste, davvero. L’ultimo ricordo della mia vita da umano è il viso di mia madre, distrutto dal morbo, sfinito dalla malattia e quell’ospedale, lì dentro faceva così caldo, Dio.. Posso ancora ricordarmi la puzza dei morti, ammassati tutti in un angolo lontano dalle altre sale, ma lì c’era una tale afa che quel tanfo arrivava in ogni posto, non c’era modo di sfuggirli, tutto sapeva di morto, di putrefatto, di malato.. Era una cosa indegna e più tutti si sforzavano a levare quei corpi, più che altra gente moriva, non finiva mai. Mia madre è scomparsa prima che io venissi trasformato e come ultimo gesto mi affidò alle cure di Carlisle, lui esercitava la professione anche allora. Gli disse, anzi gli ordinò, perché mia madre non chiedeva, lei esigeva, imponeva, “Lei deve fare qualsiasi cosa per salvare il mio Edward. Lui è mio, è mio, deve fare qualsiasi cosa”, e immagino che lui la prese alla lettera. Carlisle mi morse e mi trasformò, salvandomi la vita. Quando mi svegliai ero io, ma non ero più io. E allora ero triste e arrabbiato, specie quando la sete cominciò a placarsi.. Prima non riuscivo a pensare a altro. Ma poi.. Poi quando ebbi meno fame, quando potei concentrarmi su altro, mi resi conto di quello che ero, ero solo, non potevo più fare nulla di quello che volevo..», prese tempo, per un momento lunghissimo rimase in silenzio, si limitò soltanto a avvicinarsi a me. «Lo so che è stupido. Io non è che avevo quei grandi sogni.. Ero piuttosto nella media, quindi so che forse a ripensarci adesso, non fu poi quella grande perdita. Ma erano cose mie, cose che non potrò mai più avere. Ancora oggi, non so come affrontare questo pensiero».
Mi alzai su di lui, poggiando la testa sulla mia mano tesa e lo fissai a lungo, «Adesso sei triste?».
«Un po’ meno».
«Avevi tanti amici, quando ancora eri un essere umano?», insistei.
«Un po’, ma non mi ricordo se il nostro fosse un legame profondo. Del resto, non sono mai stato una bella persona, anzi a quei tempi meno che mai. Me la rifacevo con chiunque, specie con chi non poteva difendersi e ho l’impressione che i ragazzi che mi frequentavano lo facessero più che altro per paura che mi mettessi a picchiare anche loro».
«Doveva essere una crema stare con te», lo presi in giro.
«Sì, infatti», rise lui.
«E poi? Che altro?».
«Che vuoi sapere?», fece e io rimasi zitta per un po’. C’era in effetti una domanda, una che non so perché volevo fargli né perché avevo archiviato fra i discorsi da tacere in sua presenza, ma premeva adesso dietro le mie labbra serrate come un proiettile vagante, come una forza insormontabile.
«Eri fidanzato?», parlai tutt’a un tratto e nel momento esatto in cui mi azzardai, in cui le parole sfumarono nell’aria, mi resi conto di quanto infantile e sciocca potesse risultare la mia richiesta. Cosa avrebbe pensato di me Edward? Che ero forse troppo invadente o magari si sarebbe accorto che già occupava un posto preciso nella mia vita, forse perfino nel mio cuore, e che fin da quel momento iniziavo a trattarlo quasi come una mia proprietà? Magari si sarebbe ritirato nei suoi silenzi, avrebbe inventato una scusa qualsiasi e se ne sarebbe andato, lasciandomi ai miei imbarazzati ragionamenti interiori.
Presi un respiro profondo, in attesa di un suo qualche cenno, finché la risposta non giunse, e fu la più inaspettata: «A dire il vero no».
Potevo percepire il suo imbarazzo con una chiarezza spiazzante, «No?», gli feci eco io, sinceramente stupita, «Mai?».
«No», borbottò.
Accesi l’abatjour quasi di scatto, in preda a una qualche frenesia, ma forse solo per vederlo meglio e lo fissai dritto negli occhi, senza preoccuparmi di celare, quantomeno velare il mio stupore.
«Che c’è? Si può sapere che hai da fissare?», sbottò lui.
«Mi prendi per il culo», sibilai.
«No! Sei stupida per caso?». Quant’era irritato! Non faceva altro che farmi venir ancora più voglia di ridere.
«Ma non ti è mai piaciuta nessuna?».
«Beh una ragazza c’era, lei era carina, frequentava il mio liceo..», tentennò.
«E come si chiamava?», lo interruppi.
«Jane, credo.. Può darsi non me lo ricordo. Abbiamo parlato qualche volta, ma non è che, cioè, era diverso», borbottò, ingarbugliandosi fra le parole, «Allora non avevamo tutte queste libertà, baciavi una ragazza e te la dovevi sposare e io mh.. Non feci in tempo nemmeno a arrivare a quel punto diciamo.. Visto che mi ammalai e poi fui trasformato», si schiarì la voce.
«Aspetta..», gli lanciai un’occhiata divertita, «Quindi tu non hai mai fatto.. niente», ghignai io, cercando di trattenere le risa che adesso si facevano quasi incontrollabili.
Lui sbuffò, voltandosi dall’altra parte, «No».
A quel punto fu inevitabile – finii per esplodere in una risata clamorosa, priva di alcun riguardo verso l’orgoglio ferito di Edward. Forse il mio tono di voce fu fin troppo forte, perché Charlie ci mise poco a piombare in camera mia, ritrovandomi sola, seduta sul letto a fissare il vuoto, con ancora la bocca semi aperta e le lacrime agli occhi, «Che stai facendo?», mi chiese, quasi frastornato.
«Ridevo», balbettai io, senza sapere che altro dire.
«Bella. Chi c’è qui con te?», chiese con tono severo.
«Nessuno, sono sola. Mi stavo solo ricordando una cosa che aveva detto Jessica, davvero..», bisbigliai, iniziandomi a chiedere dove fosse finito Edward.
Charlie ispezionò la stanza da capo a fondo, premurandosi perfino di controllare sotto il letto, accompagnato ogni momento dal mio tono supplice e imbarazzato che non faceva che ripetersi nella solita cantilena, «Ti giuro che sono sola!»; ma solo quando fu assolutamente convinto di questo e forse un po’ affranto per le mie evidenti tare mentali, se ne tornò in salotto, ricordandomi di fare la brava e augurandomi la buona notte.
Non appena chiuse la porta, Edward ricomparve alla finestra, questa volta seduto sulla mensola e pareva non aveva intenzione di spostarsi di lì, «Sei veramente chiassosa», commentò acido, «Sei fortunata che posso muovermi in fretta». «Lo so», sorrisi, «Ti sei offeso perché ho riso?».
Non rispose.
«Dai, è solo che mi sembra pazzesco.. Se penso a quello che Jessica dice di te, su come ti immagina..», lasciai cadere la frase in maniera maliziosa e mi alzai da letto, a piccoli passi lo raggiunsi e gli fui di fronte, «Non c’è mica nulla di male, è solo che è divertente».
«Sarà divertente per te», brontolò lui, lanciandomi un’occhiata torva.
«Va bene, non rido più», dissi mordendomi il labbro, «Faccio la buona».
«Mh».
«Cosa posso fare per farti stare meglio?», mi piegai verso di lui, cercando i suoi occhi, ma lui continuava a evitarmi. Non capivo cosa potesse esserci di così terribile in ciò che avevo detto, ma immagino fosse normale – raramente teniamo conto dei nostri errori, delle nostre piccole o enormi mancanze, dei toni di voce inappropriati se propri del nostro corpo. Non è semplice capirsi, ci vuole tempo.
Me ne tornai sul letto e gli feci segno di tornare lì con me, «Se vieni qui ti canto una canzone».
Lui mi guardò come si guarda il mare per la prima volta e mi fu vicino in un attimo, poggiò il capo sul mio petto e si fece carezzare come un gatto, stirandosi nello stesso modo, muovendosi con lo stesso velo di sonno negli occhi. Io mi schiarii la voce e presi un profondo respiro.
«I'm lying on the moon. My dear, I'll be there soon.. It's, a, quiet starry place. Time's we're swallowed up in space, we're here, a million miles away. There's things I, wish, I knew. There's no thing I'd keep from you. It's, a, dark and shiny place but with you my dear I'm safe and we're a million miles away.. We’re lying on the moon, it’s a perfect afternoon. Your shadow follows me all day, making sure that I'm okay and we’re a million miles away», per lui cantai sottovoce e nella maniera più dolce che conoscessi. Cantai per lui con una voce che somigliava a qualcosa di sacro, che non aveva nulla a che fare con questo mondo, che ci rendeva importanti, che lo rendeva importante come essere vivente, come presenza su questo mondo. Io non cantavo mai per nessuno, nemmeno per Joshua, ma lui era diverso, lui aveva bisogno di una voce, di un conforto e non capii bene da che genere di male cercassi di difenderlo finché non lo sentii bisbigliare,
«Posso rimanere a dormire con te, stanotte?».
A quel punto seppi tutto ciò che dovevo sapere su Edward Cullen. Era solo, solo come non lo era mai stato nessun altro, solo in quel momento più che in tutta la sua vita, se così si poteva definire l’infinito cordone di eventi, giorni e persone che lo attraversavano, quasi come se lui fosse stato aria, o meno inconsistente addirittura. Quel suo tono, quel suo piangere senza dover spendere una sola lacrima mi atterriva. Probabilmente, negli ultimi tempi, non era riuscito più nemmeno a parlare con la sua famiglia, si era isolato anche da quella piccola parte di mondo e gli rimaneva solo la mia presenza, ma ero fin troppo cosciente di me stessa per poter pensare che questo gli bastasse: certamente le differenze che ci separavano dovevano lacerare anche lui, così come laceravano me. E ora più che mai questo sentimento angosciante avanzava, strisciando fra le tenebre, cogliendolo nel momento di maggiore vulnerabilità, quando il mondo si addormentava e lui rimaneva così, sveglio, incapace di chiudere gli occhi, smettere di esistere, sognare. Lui non aveva più nulla con sé che potesse confortarlo prima che l’alba giungesse di nuovo, e nemmeno la mia vita poteva spezzare questa maledizione che gravava su di lui come una spada di Damocle.
E allora io cantai, cantai per lui fino alla fine della notte, fino alle porte dei miei sonni, dove le nostre strade si separarono, per qualche ora o forse più. Cantai affinché avesse qualcosa, cantai per dargli un ricordo. Per dargli qualcosa che rimanesse imperturbato nei suoi infiniti giorni, che mi sarebbe sopravvissuto. E allora forse, anche dopo la fine del mio tempo, lui avrebbe cantato quella canzone e pensato a me, e pensato a qualcosa che forse non era perfetta, non era bellissima né magica, che non era stata certamente in grado di offrirgli tutto ciò che gli era stato tolto, ma almeno c’era. E nessuno avrebbe potuto portargliela via.
In quel modo allora mi addormentai, cantando e pregando per lui.

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Capitolo 15
*** I Cullen ***


                                                                                                         I Cullen


Credo fu la luce per prima, ma non posso dirlo con precisione. Quella forse, sì, quella e il profumo, profumo nel respiro, profumo fra le dita, dita che si infilavano fra i miei capelli e arrivavano a toccare ogni ciocca, a sfiorarmi la nuca, per capire di cosa e come fossi fatta, dita che potei sentire anche sulla punta delle mie ciglia scure, che come mani di ballerine si muovevano all’unisono, spinte da quell’unico, silenzioso movimento che come un’onda mi cullava, mi spingeva a riaffacciarmi alla vita dopo un sonno così profondo, che più che sonno avrei volentieri definito torpore totale o completa perdita di conoscenza, poiché non riuscivo a ricordare nulla di quella notte, nemmeno un volto aveva popolato la mia mente e il mio eterno vagare in quel buio infinito. Era come se per un breve lasso di tempo, avessi cessato di esistere.
Come se non fossi stata più nessuno per molto, moltissimo tempo e tornassi a essere solo in quell’istante, al richiamo di quel tocco, di quel lento muoversi sulla mia pelle.
Quando aprii gli occhi, Edward ritrasse la mano e mi lanciò un’occhiata indecifrabile.
«Che ore sono?», ruppi io per prima il silenzio.
«Le nove, credo», mormorò lui, stiracchiandosi, «Ti ho svegliata?».
«No», dissi girandomi su un fianco, «Non avevo più sonno. Che hai combinato stanotte, mentre dormivo?».
«Sono rimasto qui a vederti sbavare sul cuscino», rise, «Uno spettacolo emozionante, te lo giuro. Avessi avuto una macchina fotografica..».
«Che vorrebbe dire? Io non sbavo, non è vero».
«Eccome», continuò lui, «Perfino tuo padre è rimasto perplesso alla visione.. Stamattina si è scapicollato in camera tua per assicurarsi che fossi ancora viva e quando ha visto il tuo bel faccino spiaccicato sul materasso si è come congelato. Ha indietreggiato lentamente e è scappato dai suoi amici poliziotti».
«Ma cosa dici!», sbottai io, «Tu sì che inventi un sacco di fesserie».
«E adesso che fai di solito? Mangi? Ti vesti?».
«Mi rimetto a dormire».
«Cosa? Di nuovo?», la sua impazienza mi toccò il cuore.
«È tutta la notte che ti aspetto», disse con un rapido sospiro, avvicinandosi a me, «Perciò.. Adesso che vuoi fare?». Gli risposi con un sorriso.
Mi alzai e andai a lavarmi e vestirmi, rispuntando dal bagno poco dopo, con una maglietta extra-large che lo fece ridere e dei jeans stretti, ai quali si limitò a lanciare semplicemente un’occhiata più lunga delle altre, abbassando lo sguardo poco dopo. Andammo in cucina e feci colazione, provò ad assaggiare un po’ dei miei cereali, finendo per definirli il peggior pasto di tutta la sua vita.  Mi raccontava tranquillamente dei suoi momenti, di quello che gli piaceva mangiare, «La marmellata di ciliegie è la più buona», insisteva facendomi ridere, di suo padre e dei suoi capelli folti e così simili ai suoi, lucenti, che lui pettinava con cura ogni mattina e sfiorava ogni volta che era assorto. Mi parlava della sua vicina di casa, «Quella più grande di me», disse così, tradendo un filo di imbarazzo e malizia, la stessa che tendeva le sue gonne a asciugare sulla terrazza davanti alla finestra di camera sua, quelle e le sue camicette gialle, con lo scollo rotondo; quella che si affacciava ogni mattina alla finestra e lo salutava con il braccio teso e un grosso sorriso stampato in volto. Quella che morì nell’estate dei suoi ventidue anni lasciando la finestra di camera sua chiusa e senza nessuno che la riaprisse mai più. E poi si ricordò del suo primo maggio a New York, di quel cappotto di panno grigio e di quella scarpa bianca scendere vorticosamente dall’Empire State Building, e di quel tonfo sordo – si ricordò del corpo di Evelyn McHale precipitare giù dall’ottantaseiesimo piano di quel grattacielo scintillante e volteggiare fra i venti come un fiore, chiudersi in un sonno senza respiro fra le lamiere della limousine delle Nazioni Unite, parcheggiata al lato della strada. Lei era scivolata nel vuoto, in attesa dello schianto, e lui, così mi diceva, era qualche kilometro distante, ma fu comunque capace di distinguere il tragico canto delle sue lacrime. Per anni quella melodia tormentò le sue notti, tanto che, stremato dal ricordo di quella donna piegata a braccia distese in quella scintillante bara aperta, provò a dormire, provò a tornare agli antichi ritmi, ignorando completamente la sua nuova natura o forse semplicemente incapace di adattarvisi. «Sono certo di aver sognato, una volta. Sognai Jane e la sognai nella mia classe, nel mio vecchio liceo. Carlisle ha sempre cercato di spiegarmi di come questo non fosse possibile, di come i suoi studi, condotti nel corso degli anni, lo provassero, ma io sono convinto, perché ero proprio lì, lì con lei, seduto al mio posto, mentre quella vecchia dispotica della nostra professoressa di inglese la faceva stare in piedi, in piedi davanti a tutti mentre le urlava contro la sua invidia di donna avvizzita, ma più precisamente di come il vestito che indossasse fosse troppo corto, che era una ragazzina stupida e una svergognata a presentarsi a scuola vestita in quel modo. Allora lei si risiedeva con educazione, strofinandosi con fare meccanico le labbra con la punta del suo pollice e nascondeva le lacrime fino alla fine della lezione. Poi correva nei bagni. E io ero lì, lì improvvisamente al suo fianco, vedevo le sue piccole mani aggrapparsi alla mia camicia e la sua voce flebile chiedermi, “È vero Edward? È vero? Sono una svergognata? Non va bene questo vestito?”. Io le dicevo che secondo me era la più bella di tutte e allora lei tirava su col naso e rideva felice. Quando finì il sogno, ero di nuovo solo. Provai a cercarla, perché io non le avevo mai detto quelle cose, non le avevo mai detto nulla e non so cosa mi passasse per la testa, forse volevo solo rimediare, volevo solo provare qualcosa a me stesso, dopotutto c’era ancora tempo, erano passati solo 29 anni e non sarebbe stato un problema tornare a Chicago per me. Mi immaginavo che l’avrei trovata donna, moglie e madre, con una bella casa e un bel marito, un’auto anche e magari un cane – quando eravamo a scuola non faceva che dire quanto le piacessero i cani. Ma quando fui di nuovo fra le nostre antiche vie, quelle che un tempo ai miei occhi avevano significato qualcosa, lei non c’era più. Chiesi in giro e a lungo finché non seppi che era morta in un incendio, prima ancora che potesse aver avuto tempo di sposarsi o di viaggiare o che ne so, di guardare più film. O di sapere che io l’avevo sempre trovata bella. Me ne andai da Chicago quel giorno stesso e così come fuggii da quella città fuggii dall’America stessa e mi stabilii a Madrid, per un po’, tenendomi sempre in contatto con Carlisle. Lui ancora non crede al sogno che feci, ma immagino fosse semplicemente l’ultimo sospiro della mia vita, così come la conoscevo prima e credevo che l’avrei sempre conosciuta. Forse dovevo solo ricordarmi questo, quel viso, forse era importante e basta».
Ascoltavo quelle parole con un’avidità feroce, una curiosità rovente che non conosceva limiti e non poteva mai essere saziata in alcun modo: mi accorsi in quel momento dell’universo dietro i suoi occhi, del modo gentile con il quale mi parlava e condivideva con me ogni dettaglio. Quando raccontava, quando tornava in quei luoghi, quando spariva senza cambiare posto i suoi occhi assumevano un’espressione particolare, direi quasi tranquilla e raramente lui osservava il mondo con tale espressione: proprio in quella maniera lo fissavo io, sorridente, ripensandolo umano, giovane, sui suoi primi banchi di scuola, nei suoi primi vestiti, con occhi avidi e golosi, affamati di vita, furiosi e lo stesso liberi. Non sarebbe mai più stato così, non avrebbe mai più potuto e so che non se l’immaginava quando tornava a casa la sera, per la cena, o quando ascoltava la radio, quando non faceva i compiti, rispondeva male ai professori, urlava divertito con i suoi amici, pensando che ancora la vita poteva avere tanto da offrirgli, che sarebbe finita nel migliore dei modi, che era invincibile e nessuno l’avrebbe mai piegato. E pensai allora anche a Jane, provando a immaginarmi che tipo di ragazza fosse, che modo avesse di parlare, come fosse quel vestito. Forse era davvero bella, la più bella di tutte e quel pensiero mi fece soffrire un po’, quasi come se il ricordo di quella ragazza, morta in chissà quali misteriose circostanze, fosse talmente imponente da oscurarmi e rendermi invisibile.
Mi domandai se anche Edward si sentisse così, quando la ripensava, ma decisi di non indagare oltre.
«Dovremmo guardare un film io e te», parlai a un certo punto, arricciando le labbra.
«Oh, ti prego.. Questa è una di quelle cose che vorrei non dover fare», si portò una mano sul viso lui, fingendo sconforto, «Che vorrebbe dire?».
«Che mi posso solo immaginare», continuò lui, sempre coprendosi gli occhi, «Che razza di spazzatura guardi.. Film melensi e noiosissimi. Non mi stupirei proprio».
«Allora vattene», risposi piccata, ferita nel mio orgoglio, «Vorrà dire che mi troverò qualcun altro per guardare Trainspotting».
Le sue dita si separarono appena, schiudendosi, lasciando intravedere solo uno dei due occhi, che adesso mi osservava interessato, «Ti ascolto», disse, portando lentamente la mano sul tavolo e scoprendo la carnagione pallida e un’espressione furba e divertita che sembrava non avere nulla a che fare con i demoni che lo perseguitavano. «Troppo tardi, evidentemente se dubiti così tanto dei miei gusti non possiamo rimanere amici», mi alzai, mettendo tazza e cucchiaio nel lavandino, «Vai, vai», insistei poi, andando in salotto, ma lui fu rapido a raggiungermi. «Non credevo che la figlia dello sceriffo guardasse certe cose», tranne una risata.
«È solo un film, mica mi faccio di eroina».
Ci fu un attimo di silenzio, poi mi voltai verso di lui, «Se un vampiro si droga cosa succede?», il mio sguardo allarmato e quella domanda dovettero coglierlo parecchio impreparato, perché rise per un bel po’, prima che riuscisse a spiccicare parola.
«Ma che domande fai!».
«Sono seria, dimmelo!», lo tenni per un braccio, «Edward! Che succede? Impazzisce tipo?».
«Non lo so! Non ho mai sentito di vampiri che facessero uso di eroina».
«Però potrebbe essere possibile? Carlisle che ne pensa?», insistei finché lui non poggiò il palmo della sua mano fredda sulla mia fronte: «Dovresti stare un po’ zitta e far riposare la tua testa.. Nel tuo cervello ci dev’essere un inferno», disse.
Sbuffai, «Non mi dici mai nulla di interessante».
«A parte che sono un vampiro», commentò.
«Sì, a parte quello».
«E che ho qualcosa come cento anni», continuò, «E che posso fermare un’auto in corsa con una mano».
«Quello non me l’hai detto, lo sapevo già», precisai pignola.
«Ah certo, questo cambia tutto», il tono era sarcastico ma il suo volto disteso e rilassato, lanciai uno sguardo ai suoi occhi dorati, così incredibilmente brillanti, e mi domandai se la notte precedente non fosse andato a caccia, non riuscivo a tenere il conto di quanti giorni fossero trascorsi dall’ultima volta, quando sparì nel parcheggio, dopo avermi detto che se ne sarebbe andato con Alice. Dopo le sue confessioni, iniziai a dubitare che si fosse fatto accompagnare da lei: ciò che era successo, il fatto stesso che io fossi ancora viva ma più terribile fra tutti che io fossi a conoscenza di ogni particolare e indiscrezione riguardo la loro famiglia, doveva essere motivo di attrito fra i rapporti familiari. Chissà se era stata solo una scusa.
«Dai, metti il film», mi disse e io annuii, sovrappensiero.
Preferivo non soffermarmi troppo su quei dettagli, l’idea di lui solo faceva sì che il mio cuore si stringesse sempre un po’, tanto che alle volte non avrei mai voluto lasciarlo andare via. Guardammo il film, fra battutine e scherzi, di quando in quando mi voltavo a guardarlo e una parte di me, facendomi vergognare, sperava che lui facesse lo stesso, tanto che spesso mi trovavo a lanciargli rapide occhiate soltanto per soddisfare questa mia curiosità. Ogni tanto si lasciava sfuggire un commento, qualcosa che gli riportava alla memoria cose brutte e belle del suo passato, diceva, «Sai non sono mai potuto andare a vedere questo film, al cinema dico. Carlisle non voleva – non che me lo avesse esplicitamente vietato, soltanto aveva paura che potesse succedere qualcosa, che l’odore di tutte quelle persone potesse darmi alla testa, che potessi fare una carneficina», oppure, «Quando ero piccolo impazzivo per i popcorn, quelli che preparava mia madre erano i più buoni, ma ci metteva una quantità di burro allucinante, ancora non mi spiego come abbia fatto a non diventare un obeso affetto da serie cardiopatie».
Gli chiesi se avesse foto di lui, di quando ancora era piccolo, e lui scrollò le spalle, «Forse, saranno da qualche parte a casa». Chissà se aveva anche una foto di sua madre.
O di Jane.
Finimmo di guardare il film e parlammo a lungo dopo quel momento, di musica specialmente, di libri e arte. Avevamo questo modo di dirci le cose, così entusiasta, così pieno di vita, così selvaggio che quasi facevo fatica a tenere a mente la vera e ormai indelebile natura di Edward, a pensare che la mia vita era sempre in pericolo finché stavo con lui, che sarebbe potuta bastare una carezza, una spinta più forte delle altre, anche solo un suo dito avrebbe potuto smascherare l’insopportabile debolezza del mio corpo: contro di lui, contro la sua forza smisurata, contro la sua velocità non avevo scampo e ancora non potevo immaginare il dolore che dovesse provare nel respirare la mia stessa aria, pregna del mio odore per lui così irresistibile, traccia incancellabile del mio sangue vivo, pulsante. Sarebbe bastato un suo morso, uno solo a lacerare le mie membra e a porre fine alla mia vita e questo pensiero mi sconvolse a tal punto che pur di esorcizzarlo, scacciarlo dalla mia mente, avventata domandai come avesse fatto Carlisle a trasformarlo.
«Mi morse, che domande fai?».
Allora aggiunsi frettolosa, «Cosa hai provato?».
«Dolore», scrollò le spalle, «Un caldo asfissiante,.. No.. Non rende l’idea. Mi sembrava di bruciare vivo, non capivo più nulla, dentro di me c’era come un mostro che voleva uscire, me lo sentivo proprio qui», disse indicando lo stomaco, «Come in Nightmare, hai presente?», rise per alleggerire l’atmosfera.
Io rimasi un po’ sulle mie.
«Quando lei è nella vasca, e spunta la mano di Freddy Krueger».
«E poi lei si sveglia all’improvviso!», dissi, felice di essermi ricordata.
Rise, «Sì proprio così».
«Che schifo», lo presi in giro, sghignazzando.
«Guarda stai molto attenta ragazzina, sennò ti trasformo, eh», mi punzecchiò.
«Se fossi un vampiro ti spaccherei il culo, non potresti più pavoneggiarti e fare il figo perché scintilli al sole o perché ti mangi gli orsi», incrociai le braccia, con aria di sfida.
«Ti piacerebbe, stupida scema», mi spinse via lui, «Sarei comunque molto più forte, non farti illusioni».
Risi alle sue parole, risi e seppi di essere felice, felice per davvero, perché per un attimo tutto era perfetto.
Poi, quell’attimo finì.
Edward si irrigidì, divenne più duro del marmo, fermo come una statua, gli occhi improvvisamente neri e densi – stava in ascolto. Chiesi quale fosse il problema, ma non ebbi risposta. Almeno, non subito.
Fu solo dopo qualche attimo che disse, irrequieto, «Devo andare».
«Cosa? Perché?», lanciai un’occhiata all’ora, non era nemmeno mezzogiorno, Charlie non sarebbe tornato che stasera e allora perché tanta fretta? Ero forse io la causa di quel suo improvviso malessere?
«Ho fatto qualcosa che non va?», chiesi subito, provando a toccarlo, ma lui si era già alzato.
«No», rispose freddo, «Ma devo andare».
«E che fretta c’è», parlò una voce, che per un attimo, scambiai quasi per mia, ma di gran lunga più suadente e melodiosa – a quel suono, Edward si bloccò nel mezzo della stanza, senza più muovere un muscolo.
Lanciai un’occhiata aldilà del divano, verso quei lunghi capelli biondi color della sabbia poggiati su spalle dal profilo morbide, avvolte in una sottile camicetta nera che scendeva sulla sua vita di ape quasi come una seconda pelle. Rimasi senza parole quasi, a quella visione, di fronte alla magnificenza di Rosalie, la sorella adottiva di Edward, che adesso ci fissava entrambi, con aria piuttosto contrariata, a braccia conserte.
«Non sapevo ti piacesse giocare col cibo», fece un cenno nella mia direzione, avvicinandosi con passo fermo, con aria così seria che Edward si chinò sul divano, rivolgendomi le spalle, tendendo le braccia quasi a volermi proteggere – addirittura mi parve di udire un ruggito, profondo boato nato dalle sue viscere.
«Oh, per favore, non c’è proprio bisogno», il suo tono di voce era seccato, «Non toccherei questo schifo nemmeno con i denti di un altro, figurati».
Edward parve rilassarsi.
«Cosa ci fai qui?», sibilò.
«Sono venuta a riportarti a casa», Rosalie rispose con la stessa freddezza che aveva mostrato il fratello.
«Allora puoi anche tornare da dove sei venuta», ribatté Edward, senza battere ciglio.
«Io dubito», sorrise maligna lei, volgendo gli occhi aldilà delle nostre teste.
«Edward», bisbigliò una voce alle nostre spalle.
Accanto a me, lui tirò un sospiro, passandosi le mani sul viso, quasi come se quell’unica parola avesse spazzato via dal suo cuore ogni speranza: anche Alice era lì, insieme a Jasper. Quei suoi grandi occhi di cerbiatto risplendevano come l’acqua sulle ferite della terra, nelle piccole pozzanghere colte da un debole raggio di luce dopo il temporale e la sua voce era una supplica delicata, eppure le sue parole nascondevano un mistero che non riuscii a cogliere immediatamente: era il risentimento, forte e amaro che le si leggeva in volto ogni volta che il mio viso entrava nel suo campo visivo.
«Edward», ripeté, poggiandogli una mano sulla spalla, «Andiamo a casa».
Lui non si mosse e allora fui io a parlare, commettendo forse uno fra gli errori più gravi.
«Sapete, dovreste essere voi ad andarvene», parlai con foga, rivolgendomi anche al biondo ragazzo smilzo e silenzioso che se ne stava appoggiato alla parete del salotto, «Questa è casa mia, e a casa mia esistono le porte e visto che non le avete usate per entrare, vi consiglio di usarle per portare i vostri culi fuori da qui».
Rosalie provò a dire qualcosa, ma Alice la fermò, ritraendo la mano con freddezza, fissandomi intensamente negli occhi per darmi un’idea e una misura di quanto fosse difficile per lei non sventrarmi come un maiale, in quell’istante preciso. Perfino Edward mi guardava esterrefatto, livido di paura e siccome non riusciva, nemmeno lui, a dire qualcosa, io continuai.
«Andatevene subito. Il mio non è un invito».
Rosalie mi fu addosso in un attimo: non feci nemmeno in tempo a vederla, né Edward a muoversi. Stringeva le sue freddissime mani intorno ai miei polsi, schiacciandomi lo stomaco con il ginocchio sinistro costringendo il mio corpo all’immobilità totale. «Io ti dovrei ammazzare, inutile schifosa», sussurrò vicino al mio orecchio, spaventandomi così tanto da farmi venir voglia di piangere, ma non abbastanza da farmi star zitta. «E allora fallo», dissi, col fiato rotto in gola.
«Cosa?», i suoi occhi si aprirono, colpiti da una sorpresa autentica, che piegò il suo viso in un’espressione adorabile.
«E allora fallo!», gridai con tutta la voce che mi era rimasta, «Fallo! Ammazzami! E sarete costretti a andarvene di nuovo! Vallo a dire a Carlisle, vediamo cosa ne pensa», ghignai, ormai senza più inibizioni.
«Rosalie», Alice richiamò la sua attenzione, «Ti devi calmare».
Quel tono di voce, così inespressivo eppure pesante mi ricordava le parole di Edward («Mia madre non chiedeva, lei esigeva, imponeva»). Alice, a modo suo, di certo non per via del calore nelle sue frasi o cenni, mi ricordava la madre di Edward, una donna che non avevo neanche mai visto, eppure che le somigliava, potevo vederla e sì, ne ero certa: le somigliava moltissimo, ma solo nel modo di fare, quello era identico.
«Edward, anche te», per un attimo non capii, ma quando Rosalie mi si tolse di dosso, potei vederlo di fronte a me, chiuso fra le braccia di quel ragazzo silenzioso, educato perfino nel modo di piegare suo fratello al suo volere, quasi come se i suoi gesti offensivi e fulminei dicessero, «Per favore, mi permetteresti di farti del male? Sei molto gentile, ti ringrazio». I suoi occhi neri erano impazziti e andavano a fuoco fra quelle lunghe ciglia nere, era furente e cercava con ogni sua forza di liberarsi, ma Jasper non glielo consentiva.
«Ti avevo chiesto di non salvarla, Edward. Lo capisci perché? Lo capisci che è una sofferenza per tutti? Pensi che per Jasper sia facile stare qui, con lei, in questa casa? Per essere qui oggi ha fatto un grande sacrificio, lo fa per te», sospirò Alice, ignorandomi, «Torniamo a casa. Cosa c’entri tu con lei? Morirà comunque, Edward. Non puoi salvarla per tutta la vita. Un giorno, lei morirà. Forse non adesso o fra vent’anni, ma quando comincerà a invecchiare, quando gli anni si saranno fatti troppi, cosa farai? Pensi che allora sarà più semplice? Già fra vent’anni si cominceranno a notare differenze fra voi, se già non le noti adesso. Quando avrà cinquanta o sessanta anni in più di adesso, cosa farai? Salirai sempre dalla sua finestra e ti metterai a dormire con lei? E pensi che sarà semplice per lei vivere una vita se tu le starai vicino? Un giorno potrebbe sposarsi, avere dei figli magari, anche un lavoro, cose sue a cui pensare e di cui tu non farai mai parte. E anche se così non fosse, quando ti morirà fra le braccia per un attacco di cuore o un ictus, quando magari non riuscirà più nemmeno a riconoscerti, cosa farai? Rimarrai al suo capezzale e poi di fronte la sua tomba per tutto il resto della tua vita? O magari ti ucciderai?», ogni domanda era una lama che Alice conficcava nel petto del fratello, senza nemmeno un filo di rimorso o un attimo di esitazione chiedeva e chiedeva ancora, domande di cui tutti conoscevano la risposta ma che nessuno aveva mai osato, prima di allora, pronunciare ad alta voce. La odiavo, la odiavo con una ferocia più unica che rara, con ogni centimetro, molecola, muscolo del mio corpo, odiavo tutto in lei, l’odiavo anche se sapevo che voleva solo il meglio per Edward e per questo motivo l’odiavo ancora più forte perché sapevo che il meglio che lui si meritava non ero io. E capivo fino in fondo il ruolo che avevo in quello spettacolo, solo che non potevo accettarlo.
«Adesso smettila!», gridai alzandomi di scatto, «Il giorno in cui non lo vorrò più nella mia vita te lo farò sapere, te lo garantisco».
Alice mi fulminò con lo sguardo, ma non perse comunque la calma, «Nulla di tutto questo ti riguarda, tu sei solo un’ingenua, nessuno si sarebbe potuto aspettare una reazione diversa da te, era chiaro come il sole che non saresti riuscita a stroncare questo rapporto, ma da mio fratello», rivolse uno sguardo maligno a Edward, «Mi sarei aspettata un atteggiamento diverso. Specie nei confronti della sua famiglia. Ma nei tuoi,.. Figurati. Cosa credi di essere tu per lui? Cosa pensi di significare, ti chiedo. Faresti bene a lasciare perdere e a metterti l’anima in pace, è un favore personale che ti chiedo».
«Andiamocene», Rosalie mi passò accanto, «Mi sto incominciando a innervosire. Se non vuoi che finisca in un bagno di sangue questa adorabile chiacchieratina fra amiche ti conviene portarlo via di qui».
Alice si limitò a fare un cenno nella direzione di Jasper e l’espressione di Edward da atterrita che era si trasformò in una preghiera, una supplica silenziosa poi tradotta in un’unica, singola frase:
«Jasper ti prego..».
Si guardarono per una manciata di secondi, prima che il fratello parlasse, «Scusa Edward, davvero».
Edward sapeva che era sincero, che davvero gli dispiaceva, che se fosse toccato a lui scegliere avrebbe fatto tutto in modo diverso, che non avrebbe mai voluto che una cosa così accadesse, non dopo simili parole, ma che non c’era altro modo. In una frazione di secondo, vidi il corpo di Edward rilassarsi e il suo volto mutare ancora una volta in un’espressione che non significava nulla e non esprimeva che gioia, tranquillità, dolcezza: Jasper lo lasciò andare e con quel sorriso stampato in volto Edward si lasciò guidare da lui fino alla porta di casa, ben lieto di togliere il disturbo, proprio come se per tutta la vita non avesse atteso che di varcare quella soglia, che di darmi le spalle e allontanarsi da me. Era tutto lì, accadeva tutto sotto i miei sconfitti occhi eppure non aveva nulla di autentico, nulla di tutto ciò che adesso riguardava Edward era vero o reale, nemmeno quel sorriso. «Cosa gli hai fatto?», balbettai, fissandolo atterrita, ma Jasper si limitò appena a guardarmi e io sono certa di aver scorto in quegli occhi una scusa, una anche per me, una che non fece che fomentare il mio sconforto, «Dove lo portate?».
«A casa», disse Rosalie tirandomi per i capelli e sbattendomi al muro, «E tu farai bene a stare qui dove sei, va bene? Farai bene a non pensare nemmeno di muovere un passo verso casa nostra».
Ma ciò che nasceva in me in quegli istanti dovette toccarla nel profondo, portare a galla ricordi a lei molto cari, poiché per un solo secondo, parve tenera, buona, gentile e perfino le sue mani allentarono un po’ la presa, «Tu non sei come lui», strillò sottovoce, ma con un dolore tale da farmi venir voglia di morire, «Non lo sarai mai. È successo e tu non puoi farci nulla. Credi che mi diverta? Credi che goda nel trattare così mio fratello.. O te? Ma è già successo una volta. Lui non può superarlo di nuovo. Non può perdere di nuovo un’altra persona, il fuoco non può sempre cancellare ogni cosa».
Abbassò lo sguardo, «Non è abbastanza forte. Non lo sarà mai», così disse prima di sbattermi al muro, facendomi cadere a terra, prima di andarsene con le sue ultime parole,
«Tu con lui non c’entri niente. E questo non significa nulla comunque».
La porta si chiuse alle sue spalle, lasciandomi sola, in casa mia, sotto la luce opaca di un mezzogiorno come un altro, e forse era vero, questo non significava nulla comunque.
Non significavano nulla le risate, non era valso a nulla aver scherzato, aver imparato a conoscerci, che mi avesse raccontato della sua vicina, quella più grande di lui, quella che morì lasciando la finestra di camera sua chiusa e non significavo nulla io, con quelle lacrime che una dietro l’altra rigavano il mio viso, scendendo copiose sul mio collo, gocciolando sui miei vestiti. Non significavamo nulla noi, non significava nulla che io avessi cantato per lui, che avessi pregato, che ci fossimo divisi davanti alle porte del sonno, che avesse imparato a toccarmi come si tocca un fiore.
Ma allora perché non riuscivo a alzarmi da terra? Perché non riuscivo più a guardare il divano dove, pochi minuti prima, eravamo seduti? Perché allora, perché mi chiedevo non facevo altro che ripetere, nella mia testa, quella frase? Il fuoco non può cancellare sempre ogni cosa.
A risentirla così spesso, quasi come una canzone, mi venne subito in mente Jane, ma non seppi bene il motivo, poiché ciò che si muoveva in me adesso non aveva nome né forma, ma sapevo quanto male si portava dietro e adesso eccolo, all’altezza del mio stomaco, che si divincolava e premeva frenetico per uscire – pensai immediatamente a Edward, al modo in cui aveva descritto il dolore della trasformazione e allora pensai che magari nessuno mi aveva morso, magari non c’era veleno nel mio sangue, veleno che infettava il mio corpo e il mio cuore, magari non stavo per diventare anche io, come tutti loro, affamata di sangue, ma di certo stavo morendo.
Di certo ero lì distesa e non riuscivo più a sentire che quel dolore e il tempo cominciava a farsi lento, inconsistente, vago, quasi un ricordo lontano, dal valore insignificante. Presi un altro respiro, più profondo e provai a alzarmi, tentando di vincere me stessa e ogni altra cosa, di abbattere quel senso di tristezza e desolazione, avvilimento che m’avevano colta, ma l’unica cosa a cui potevo pensare era che se n’era andato. Se n’era andato, forse per sempre e non mi avevano permesso nemmeno di salutarlo.
Nemmeno un cenno.
E io non l’avrei potuto vedere mai più.
Aveva ragione Rosalie, il fuoco non può cancellare sempre ogni cosa, poiché quello era un dolore impossibile da dimenticare. O da perdonare.

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Capitolo 16
*** Carlisle ***


                                                                                                      Carlisle


Dopo quella domenica non rividi più Edward, almeno, non lo rividi più per un lungo periodo di tempo. Smise perfino di venire a scuola e solo di tanto in tanto avevo occasione di scorgere Alice o Rosalie fra i corridoi le quali badavano bene a entrare nel mio campo visivo soltanto per lanciarmi occhiate intimidatorie. Spesso e volentieri erano sole o in compagnia di Jasper, talvolta compariva anche Emmett, ma non erano mai tutti insieme e questo mi fece pensare al fatto che forse qualcuno di loro doveva sempre rimanere a casa, per impedire a Edward di tornare da me. O meglio, la mia era una speranza infantile, ma con tutta probabilità la realtà dei fatti era molto distante da ogni mio più piccolo desiderio: Edward forse semplicemente non voleva più vedermi e basta. Fu anche a causa di questo dubbio che i primi tempi mi piegai avvilita a questa nuova situazione, cercai anche di farmene una ragione: del resto, potevo dare torto ai ragionamenti di Alice? Poteva chiunque darle torto? Lei aveva una panoramica piuttosto chiara dell’ordine delle cose e della loro natura, questo unito alle sue visioni di certo non poteva che rinforzare le sue tesi. Mi domandai se, anche solo una volta, durante una delle sue premonizioni, mi avesse vista davvero vecchia, velata di rughe e al crepuscolo della vita mentre me ne stavo, che so, in panciolle come un gatto assonnato sulla poltrona di casa mia, una casa che esisteva solo in un futuro astratto e non ancora nei miei giorni, con lo sguardo perso nel vuoto della mia mente obnubilata e Edward lì, al mio fianco – capezzale, come l’aveva definito lei – che mi parlava o semplicemente mi osservava, affranto, con quei suoi occhi giovani per sempre, invincibili. Magari mi aveva vista che lo mandavo via, che gli chiedevo chi fosse, senza ritrovare nel suo viso alcunché di familiare. Preferii non pensarci.
Cercavo soltanto di svuotare il mio cuore, quasi fosse stato un vaso e Edward acqua: io rovesciavo via tutto, appiattendo i miei giorni e trasformando la mia mente in un luogo bigio, opaco, senza gusto e senza anima. Credevo che sarebbe stato più facile, credevo che così la lama che tenevo conficcata nel cuore smettesse di rivoltarsi, torturandomi per portarmi allo stremo delle forze, ma non succedeva mai. Ogni volta che entravo nell’aula di Biologia e vedevo la sedia accanto alla mia vuota, mi tornava in mente quella domenica. A volte mi sedevo sulla sua sedia, solo per smettere di fissare con apprensione quel punto in cui pareva non muoversi nemmeno l’aria, in cui non esisteva nulla, nemmeno la materia – io ogni momento mi voltavo, in attesa che lui si facesse vivo, che si intravedesse la sua figura aldilà della strada, qualcosa che mi desse la certezza che era al sicuro e stava bene, ma non accadeva mai, e allora preferivo dimenticare, continuare a fare le mie cose, allenarmi, sparare, studiare, parlare con Jessica o Angela. Questo alleviava il dolore, concentrarmi su altro aiutava molto e in certi momenti, Edward appariva più come un ricordo lontano, come il viso di qualcuno che si è intravisto un tempo, fra la folla, una persona con cui pensavamo di aver condiviso qualcosa, ma che in effetti non era altro che un altro fantasma, un altro corpo di passaggio. E non significava nulla. Smisi anche, subito dopo un certo periodo di tempo, a pensare alle parole di Rosalie e a quella frase che in me scatenava profonde angosce e inspiegabili paure.
Uscivo con Jessica e Angela, Mike e Ben, li invitavo a casa mia, facevamo i compiti insieme, uscivamo il sabato sera, pensando sempre che era questa la vita per cui ero stata preparata e non c’era nulla di sbagliato in questo, non dovevo certo sentirmi in colpa o afflitta, per chi poi? Per cosa? Per il modo in cui mi avevano trattato i fratelli di Edward? Per lo strano sorriso che proprio lui mi aveva rivolto poco prima di andarsene? Un sorriso che nemmeno sembrava suo. Non aveva senso – loro tutti avevano ragione riguardo l’amicizia fra me e lui e per quanto riguardava quel ragazzo dai capelli color del bronzo e dallo sguardo furbo, sapevo che sarebbe stato bene anche senza di me, voglio dire, aveva fatto a meno della mia presenza per un secolo intero, cosa sarebbe mai potuto cambiare se avessimo smesso di frequentarci? Se lui avesse, che ne so, smesso definitivamente di venire a scuola o addirittura cambiato città?
Se avesse.. Se avesse deciso di andarsene.
«Bella? Qualcosa non va?», Angela richiamò la mia attenzione.
«No, tutto bene», le assicurai con un caldo sorriso, ricominciando a mangiare il cibo scadente della mensa.
«Che volete fare stasera?», trillò Jessica, entusiasta, «Che ne dite di andare in discoteca?».
«A Forks non ci sono discoteche», commentò Ben, un nuovo ragazzo che, da qualche tempo, aveva preso a sedersi con noi.
«A Forks non c’è un bel nulla, Ben», lo rimbeccò lei, «La discoteca di cui parlo è un po’ fuori città, non troppo distante comunque, la possiamo raggiungere in qualcosa come venti minuti di auto. Che ne dite?».
Mike parve eccitato all’idea, «Dico che non vedo l’ora».
Perfino Eric si unì al coro, soltanto Angela esitò un momento, prima di accettare e chiedermi, con tono premuroso, «Tu verrai stasera, Bella?».
«Certo», finsi entusiasmo, «Non vedo l’ora. Che vestito vi metterete?», lanciai un’occhiata a Jessica, sapendo che quella era la domanda giusta da farle se la si voleva tenere impegnata per un po’.
Parlò tanto che Mike, Eric e Ben finirono di mangiare e se ne andarono in classe per i fatti loro.
«Credi che stasera Mike mi dirà qualcosa?», domandò Jess.
«A che proposito?».
«Non so, a proposito del vestito, magari farà qualche apprezzamento.. O mi bacerà!», saltò su tutta emozionata, «Non vedo l’ora! Sarà un sabato sera da urlo!».
Risi insieme a loro, ma solo per accertarmi che il mio corpo fosse davvero ancora lì, presente in quel momento e in quel luogo gremito di gente; quel suono mi dette la certezza che ero ancora viva e respiravo e potevo muovermi e non c’era nulla che non andasse, anzi. Andava tutto bene.
Solo che.. Mi voltai verso il tavolo che occupavano di solito i Cullen, ora vuoto e perfettamente in ordine.
Solo che non sono felice, pensai.
Finimmo di mangiare e portammo via le nostre cose, io mi avviai con le due verso l’aula di Trigonometria. Mentre camminavamo assieme, Angela mi venne vicino, «Potremmo studiare insieme oggi pomeriggio».
La sua proposta mi colpì. «Mi porto il vestito per stasera e i trucchi e ci prepariamo insieme. L’avevo detto anche a Jessica, ma lei questo pomeriggio aveva preso già altri impegni, quindi non potrà venire. Allora? Che ne dici?», c’era qualcosa nel suo tono di voce che mi dava l’impressione che lei potesse capirmi, mi tranquillizzava, rasserenando il buio che oscurava la mia mente. Era come un canto, una poesia, arrivava alle mie orecchie come l’acqua calda che lambisce le spiagge, con la stessa tenerezza e premura – sapeva che il mio modo di fare così meccanico e indifferente nascondeva qualche dolore nuovo di zecca, ma non mi ero mai accorta di quanto i suoi occhi potessero scavare a fondo finché non mi rivolse quella domanda.
Le dissi che sì, andava bene, che non vedevo l’ora e ci demmo appuntamento a casa mia alle quattro meno venti. Quando il campanello suonò e potei scendere giù dalle scale, sapendo che era arrivata, non riuscivo più a stare in me dalla gioia: per un attimo fu come ritornare ai tempi, chiusi in un passato non così remoto, in cui era Edward a farmi visita. Angela mi rivolse un sorriso affettuoso, «È stato difficile arrivare fino qui?», chiesi io, ma lei scosse la testa: «Non preoccuparti. Dove posso mettere il cappotto?».
«Dallo a me», tesi la mano e aspettai che se lo levasse di dosso, per appenderlo sull’attaccapanni, poi volsi un’occhiata alla sua borsa stracolma, «Quella puoi portarla in camera mia, staremo lì a studiare».
Lei annuì e mi seguì, complimentandosi per la casa e anche per la mia camera, «Che bel letto!», notò anche il fiore rosso sulla mia scrivania, ormai già sbocciato e cresciuto, «E questo?».
Scrollai le spalle, fingendo noncuranza, «È un regalo».
«È bellissimo», sorrise, «Una rosa muscosa rossa».
Le sorrisi, cercando di non dar troppo peso a quelle sue attenzioni nei confronti di quel fiore che in troppi modi mi ricordava Edward. «Allora. Che vuoi fare?», domandai.
Studiamo qualche ora, ripetendo le lezioni di inglese e di trigonometria, evitando accuratamente quelle di biologia e poi ci perdemmo nei nostri chiacchiericci – Angela aveva il potere straordinario di farmi star bene anche soltanto rimanendo in silenzio, quasi mi ero dimenticata del mio dolore, anche se fu solo una questione di minuti, visto che poi lei cominciò ad avanzare le prime scomode domande.
«Bella, posso chiederti una cosa?», le mi fece quella domanda con così tanta gentilezza che io non potei dire di sì, che non c’erano problemi.
«Tu sai perché Edward non viene più a scuola?».
«No», mentii.
«Sta perdendo un sacco di lezioni», commentò, come sovrappensiero, «È malato?».
«Non ne ho idea», risposi, ma più dura nel tono e nei modi.
«Credevo foste amici», sorrise lei, ma in maniera triste, poiché non era nella sua natura porre domande così cattive verso gli altri, lei che era così riguardosa nei confronti di chiunque, che sapeva osservare ogni cambiamento, che ne coglieva ogni sfaccettatura, ma quello pareva un momento speciale, uno in cui era giusto infrangere le regole e trasgredire ai suoi ferrei dettami. Sapeva che soffrivo, lo capivo dal modo stesso in cui mi guardava a volte, lo sapeva e sapeva anche di quanto avessi bisogno di un’amica, una persona fedele, in quei momenti di sconforto.
«Anche io», balbettai, chinando lo sguardo.
«Sai», disse volgendo gli occhi aldilà della finestra, guardando il mondo con un’incredibile dolcezza, «Edward è una persona buona. Ti dissi che eri stata tu a farmi cambiare idea, che da quando lo frequentavi sembrava meno cattivo, ma non era vero. Io l’ho sempre saputo, in realtà. Ha un modo strano di comportarsi, spesso non ne capisco il motivo, sembra imbarazzato il più delle volte, come se non sapesse cosa dire o fare, ma non mi è mai sembrato come i suoi fratelli, sai.. Sembrano tutti così duri e imperturbabili. È l’unico fra loro che ride o parla anche con qualcun altro, anche prima che tu arrivassi. Non mi sorprende che siate diventati amici così in fretta, e adesso è così strano non vederlo sempre voltato verso di te o notarlo appoggiato alla sua macchina mentre aspetta il tuo arrivo».
Ci fu un silenzio imbarazzato per qualche momento. «Avete litigato?», domandò, senza malizia.
«Non lo so nemmeno io», capitolai, «Se n’è solo andato».
Sapevo di non poter coinvolgerla in questa situazione, che sarebbe stato da egoista e da irresponsabile, ma avevo così bisogno di parlare, esprimermi, soltanto per coltivare la speranza che ciò che mi si agitava in petto potesse trovare luogo altrove, trovare nella mia gola un varco e nella mia bocca un’uscita e svanire per sempre. «Andava tutto bene..», provai a dire, ma mi zittii subito.
«Bella, so che forse non ci conosciamo da molto.. Non so se a Phoenix hai lasciato qualche amica importante, ma puoi credermi quando ti dico che nessuno, né Mike o Jessica o chicchessia saprà nulla di quello che mi dirai», disse e io sapevo che era sincera perché non mi aveva mai parlato con una tale serietà e fermezza. «Sapevo già di non essere simpatica ai suoi fratelli, anche da prima che arrivassero a casa mia e cominciassero a litigare con Edward, mi hanno sempre guardata come se fossi insignificante e fastidiosa, ma a me non è mai importato nulla. Se lui voleva stare con me e frequentarmi, che male c’era? Io non ho mai rivolto a loro mezza parola, perciò.. È solo che lui se n’è andato via,.. Se n’è andato via», ripetei, ma più a me stessa che a lei. «Come se non significasse davvero nulla. Non mi ha nemmeno salutata o detto, che so, qualcosa, qualunque cosa!», mi asciugai gli occhi con la manica della felpa.
«Non che mi importasse nulla», ringhiai arrabbiata, per camuffare la vergogna e la rabbia, il modo in cui si mescolavano nel mio cuore facendomi girare la testa, «Però.. Mi ha sempre salutata. Lo faceva sempre», abbassai il capo, cercando di cancellare tutte quelle volte, tutti quei rapidi, odiosi saluti dal mio cervello – in qualche modo, la loro presenza nella mia vita, dopo che Edward era venuto a mancare, mi riportavano alla mente Joshua e adesso perfino le parole di Angela («Non so se a Phoenix hai lasciato qualche amica importante»), perché no, a Phoenix non c’era mai stato nessuno tranne Joshua e lì intorno al suo viso si risolveva tutto il mio mondo e la mia anima intera, eravamo selvaggi e in fuga costante dalla vita e in quei momenti pensare al suo ultimo saluto prima dell’incidente era inevitabile.
Aveva ragione Rosalie. Era vero – il fuoco non può cancellare sempre ogni cosa.
Per esempio, non era riuscito a cancellare Joshua e anche adesso che il mio cuore era in fiamme e capitolavano le ultime resistenze del mio spirito, adesso che mi pareva di ardere senza possibilità di salvezza, adesso che mi sentivo già cenere, Edward non poteva comunque venir cancellato via.
E il mio cuore batteva così forte e ancora non ne capisco il motivo.
Angela posò una mano sulla mia, stringendola forte, «Io non credo che non volesse salutarti.. O che volesse andarsene». «Ma l’ha fatto», brontolai frastornata.
«Sono certa che ci fosse una ragione valida, Bella. Non pensi? Non pensi che qualcuno che ti guarda nel modo in cui ti guarda lui, che ti ride, chinando sempre il capo verso le tue labbra, che ti sta sempre vicino e scherza e ti parla, abbia una ragione per andarsene così? Mia mamma diceva sempre che le persone non se ne vanno mai quando hanno chiesto e non hanno mai ricevuto risposta, quella risposta è il motivo per cui restano, diventa la loro ancora, il loro cemento. La ragione della loro attesa ma mai dell’abbandono», a quelle parole sorrise, come se la sapesse lunga. Io sulle prime non capii e allora lei fece un cenno rapido nella direzione della rosa, «Tanto meno se ne vanno quando una la risposta che aspettano è quella per una confessione d’amore».
«Che stai dicendo?», chiesi, sempre più spaesata.
«La rosa muscosa te l’ha regalata lui, vero?».
A quelle parole trasalii: Angela seppe di aver ragione in un attimo.
«È una confessione d’amore, è il suo significato. Lo sapevi?».
Non risposi, mi limitai solo a guardarla intensamente, «Sono certa che non se ne sarebbe voluto andare».
Quelle parole furono come un balsamo sulle ferite e mi dettero la possibilità di cominciare a far chiarezza sugli eventi di quella domenica: era vero, Edward non desiderava andarsene, ancora potevo ricordarmi del modo in cui, prima di cambiare in maniera così snaturata, aveva supplicato Jasper, con ogni sua forza, («Jasper, ti prego..»), e la maniera in cui il fratello aveva chinato impercettibilmente il capo, scusandosi. Poi tutto era cambiato. Che anche Jasper possedesse dei poteri, come Alice o come Edward stesso? Magari era riuscito a convincerlo in quel modo. No, aveva ragione Angela: non se ne sarebbe voluto andare.
Ma l’aveva fatto.
Eppure nel suo sorriso non esisteva nulla di ciò che avevo visto in lui, non esisteva quella punta di malizia, unita alla nostalgia che toccava le corde del cuore, erano sparite la spavalderia e la felicità autentica, era solo un fantoccio di carne fredda che se ne andava via, senza nemmeno degnarmi d’un’occhiata.
«Pensi che tornerà?», le domandai candidamente, come se lei potesse saperlo.
«Non penso che se ne sia mai andato, Bella», rispose sovrappensiero, con il mento chino sulle nostre mani intrecciate e i capelli a incorniciarle il viso, «E comunque, non devi per forza stare qui a aspettarlo, sai?», suggerì d’un tratto e nel suo viso che si alzava, come il sole che sorgeva, vidi un lato di quella ragazza che mai prima d’ora credevo potesse esistere. «Puoi anche andare tu da lui», mi sorrise decisa e fiera.
La guardai esterrefatta, con in corpo una nuova forza e speranza che mai avrei creduto di poter sentir rinascere in me, certo, si trattava comunque di sfidare sei vampiri, quando sarebbe bastato appena uno schiaffo di Rosalie, ma che dico, anche una leggera spinta, per fracassarmi la testa e uccidermi, si trattava di andare contro la loro volontà e accettare ogni conseguenza che questo avrebbe comportato.
In quel momento non mi sentivo pronta, avevo ancora bisogno di tempo, ma presto il momento sarebbe giunto – la vita mi attraversava velocemente e ai miei occhi appariva breve e fugace, avrei perso tutto questo un giorno, sarebbe successo, perché allora non potevo fare quello che mi rendeva felice? E adesso era la presenza di Edward a rendermi felice. Col tempo, chissà. Magari un giorno avrei preferito altro, fra dieci, anche meno, magari solo sette, anni me ne sarei andata, avrei deciso diversamente per me stessa e il nostro rapporto ne avrebbe sofferto e infine si sarebbe sciolto, dissipandosi all’aria come polvere, o magari avrei sofferto immensamente nel salutarlo per l’ultima volta, col viso intrappolato in una ragnatela di rughe e entrambi avremmo pianto a lungo, ma finché stavo così bene, finché ridevo in quel modo, chinando come lui la testa verso le sue labbra, finché ancora potevo scegliere, io sceglievo Edward.
E nessuno poteva avere il diritto di dirmi che non potevo, che non dovevo, io decidevo per me stessa, io decidevo per la persona che ero. Il resto non significava nulla.
«Grazie, Angela», mormorai con un sorriso appena accennato, lei scrollò le spalle, come se non avesse fatto nulla di importante. «Dovere», rispose.
«Sei ancora dell’idea di venire in discoteca, stasera», mi chiese con aria comprensiva.
«Certo», dissi tirando su col naso, un po’ imbarazzata, «Certo, non vedo l’ora».
Ed era vero, non vedevo l’ora. Per il momento, del resto, non mi avrebbe portato alcun beneficio pensare troppo a Edward o a ciò che dovevo fare, meglio distrarsi e provare a recuperare le forze, questo includeva anche divertirsi, truccarsi, ridere, preparare il caffè a Angela. Ogni tanto, fra un discorso e un altro, mi ritornavano in mente gli occhi fulvi di Alice, quello sguardo gelido, penetrante, furente, che mi imponeva il silenzio, che mi faceva accapponare la pelle.
Squillò il telefono: era Charlie. «Ciao Bells», parlò impacciato, «Come stai?».
«Tutto bene, grazie», sorrisi.
«Stasera tornerò più tardi del solito, quindi non mi aspettare.. Mi dispiace», si affrettò ad aggiungere, «Non volevo lasciarti da sola». «Oh, non preoccuparti.. Ho invitato Angela a casa, stasera andiamo in discoteca con Jess e gli altri. Ma come mai non puoi tornare? È successo qualcosa?».
«Nulla di grave», mi spiegò lui, il tono di voce più rilassato, «È solo.. In questo periodo sono scomparse delle persone, e ne sono state ritrovate alcune.. Morte nel bosco..».
«Ah», dissi, fra lo stupore e lo spavento.
«Ma non preoccuparti, si tratterà sicuramente di qualche grosso animale, un puma magari..».
«Un puma così vicino a una città?», chiesi incredula.
«Non è così raro, credimi, e non sarebbe nemmeno la prima volta che qualche idiota va a caccia senza sapere come comportarsi e finisce sbranato da un orso o incornato da un cervo», si schiarì la voce, «Comunque sia ci sono un sacco di scartoffie da compilare e sono ancora in alto mare.. Tu divertiti stasera con le tue amiche, ma fate attenzione».
«Sì, papà», risposi dolcemente.
«E non parlate con gli sconosciuti», aggiunse.
«E non bevete», gli feci il verso io, «Non drogatevi, non uccidetevi, evitate frontali con i tir».
«Mh. Vedo che le regole te le ricordi», un filo di umorismo nella sua voce, «Salutami Angela», disse prima di riattaccare. Lo feci e poi mangiammo in fretta per correre a prepararci. Angela aveva un portato con sé i suoi trucchi e un tubino color rosso, molto elegante, che le scopriva un piccolo pezzo di pelle sopra il ginocchio. «Wow, sei sexy», commentai, vedendoglielo indosso. Questo la fece arrossire e chinare il capo,
«Tu cosa ti metterai?».
«Oh, non so, pensavo un paio di jeans..», dissi vaga.
«Cosa? Niente vestito?», fece lei.
«Beh, in realtà ne ho uno.. Ma mi sembra un po’ esagerato», questa mia ammissione la fece ridere più forte del solito.
«Avanti, fammi vedere».
Obbedii e mi andai a cambiare, infilandomi nel corto vestito a maniche lunghe, che lasciava la schiena scoperta e mi lambiva il petto con un delicato scotto a cuore. Quando uscii, Angela mi rivolse un’occhiata stupefatta, che parve mozzarle il fiato e mi fece abbassare lo sguardo, provando a scacciare l’imbarazzo tentai di concentrarmi sulle paillettes color blu, nere e verde acqua che risplendevano di mille piccole sfumature diverse sotto la luce della stanza. «Ti prego, metti questo!», mi supplicò così teneramente che io non potei fare che accettare. Fra una risata e l’altra il tempo passò veloce e ben presto anche Jessica fu dei nostri, la quale, senza un velo di imbarazzo, non appena mi vide gridò, «Questo vestito sì che ti mette in risalto le tette! Guarda che roba», borbottò avvicinandosi, «Le mie non sono così».
Rivolsi un’occhiata divertita a Angela, che già era arrossita.
Salimmo in auto di Jess e ci dirigemmo davanti al negozio dei Newton, dove ci aspettavano Ben e Mike.
Arrivammo abbastanza in fretta in discoteca, come aveva detto Jess, il resto della serata lo passammo a divertirci e a ballare, per un attimo, quando mi riportarono a casa, avrei voluto fosse durato di più.
Dopo che la macchina di Jessica fu sparita dalla mia vista, di nuovo davanti a casa mia, pensai che Alice aveva davvero ragione: io non c’entravo nulla con tutti loro, i Cullen dico. Io davvero non avevo nulla a che fare con quella parte di mondo, io che ero debole e finita, che di quell’universo potevo cogliere così poco e di certo non celavo in me abilità sorprendenti. Il mio cuore batteva ancora a un ritmo normale e il sangue mi scorreva nelle vene, se toccavo la mia pelle potevo percepirne il calore di una creatura viva e pulsante, quindi era vero. Io non c’entravo nulla, ma loro un tempo erano stati ciò che io ero in quell’istante – erano nati umani e in una vita che li rappresentava, li rispecchiava: non erano stati diversi da me, il loro cuore un tempo batteva, batteva forte, se sfiorati da una lama avrebbero sanguinato, se baciati sarebbero arrossiti. E non era forse vero che era esistito un momento in cui le loro ossa si potevano rompere? E il loro corpo non era meno fragile di quello di qualsiasi altra creatura? E sbagliavo a pensare che sarebbe infine giunto il momento della loro morte, se non fossero stati trasformati? Quindi Alice aveva ragione, ma le sue parole non erano del tutto sincere poiché io c’entravo qualcosa con loro, dal momento che ero un essere umano, come lo erano stati loro molto tempo fa, forse troppo, perché sembravano tutti quanti essersene dimenticati. C’era davvero qualcosa che mi legava a loro, qualcosa che ci rendeva simili.
Rivolsi un’occhiata al cielo, ripensando alle parole di Angela.
Capii che io e Edward non eravamo poi così dissimili, che comunque condividevamo lo stesso destino, le stesse acute sofferenze, e non era forse vero che i nostri demoni si erano ormai incontrati nella nostra comune colpa? Io non sarei rimasta di certo ad aspettarlo, avrebbero fatto meglio a prepararsi, pensai, rientrando in casa e lanciando un ultimo sguardo alla strada vuota dietro di me.
Avrebbero fatto meglio a farsene una ragione, e subito, perché io non avevo più alcuna intenzione di piegarmi al volere altrui.


Avrei deciso che il primo passo da compiere per raggiungere Edward fosse quello di trovare un ponte, una sorta di intermediario fra i fratelli Cullen e me, sarebbe stato sciocco e irresponsabile da parte mia affrontare Rosalie o, peggio ancora, Alice, da sola, così mi decisi a dirigermi verso l’Ospedale di Forks.
Il mio obiettivo era Carlisle Cullen.
Edward mi aveva sempre parlato poco della sua famiglia, giusto lo stretto indispensabile a voler essere sinceri. Quell’uomo pallido, con gli occhi scavati da chissà ormai quanti notti insonni poi, era comparso ben poche volte fra i nostri discorsi. Inoltre, a voler essere fiscali, l’ultima volta che ci eravamo parlati era stato dopo il mio incidente e anche allora non c’eravamo detti praticamente niente, eppure sapevo che lui non si sarebbe lasciato trasportare dalle emozioni come Rosalie o Alice e non si trattava di sperare o pregare che non scatenasse la sua collera sul mio corpo, la mia era una certezza ferrea: Carlisle era il capofamiglia, non poteva permettersi passi falsi – lui si premurava più di chiunque altro di proteggere sua moglie e i suoi figli, avrebbe potuto essere altrimenti? Lui più di tutti si sarebbe guardato bene dal commettere passi falsi. Nonostante questi miei ragionamenti, quando arrivai davanti all’Ospedale mi ci volle qualche minuto per entrare – le ginocchia mi tremavano. Infine vidi uscire dalle porte di vetro automatiche una minuta infermiera e colsi l’occasione per muovermi, entrare, infilarmi fra i corridoi sterili e mille altri sconosciuti, tutti malati o quasi, malati nel corpo o nella mente, poiché un tempo qualcuno disse che si muore sempre di malattie che non sono malattie, il corpo muore in un modo, la mente invece, lei ha le sue particolari e personalissime vie per giungere all’annichilimento totale e l’auto-distruzione.
Mi domandavo quale la mia avrebbe preferito, fra le tante.
Chiesi a un infermiere dove avrei potuto trovare l’ufficio del dottor. Cullen e quello m’indicò la via, informandomi del fatto che si sarebbe potuto liberare solo fra quaranta minuti circa; annuii e passai oltre, dirigendomi in sala d’aspetto. L’attesa fu snervante.
Chiusi gli occhi per concentrarmi sui rumori che mi circondavano, nella speranza di cogliere i passi rapidi di quell’uomo alto e biondo, cui l’ultima volta avevo appena rivolto un cenno. Erano quelli gli istanti in cui avrei voluto per me i sensi sviluppati di Edward, il suo udito più affilato di una lama di un rasoio, quegli occhi splendenti che chissà quali minuscoli particolari riuscivano a cogliere che a me sfuggivano quotidianamente e poi, la sua mente, ricettacolo di pensieri rubati, anticamera dei suoi più temibili segreti. In un primo momento avevo pensato a quanto snervante potesse essere per lui stare al mio fianco, non soltanto per via dell’ovvio dolore fisico che l’odore del mio sangue gli causava, ma proprio per il fatto che lui non potesse sentire quella mia voce segreta, supplementare mi piaceva definirla: ai suoi sensi la mia mente si presentava come uno scrigno, la porta alla quale non avrebbe mai potuto avere accesso.
Era questo che avevo creduto fino a qualche tempo fa, ma poi.. Poi quel suo viso intristito mi fece cambiare idea: penso che quel dettaglio per lui fosse più che altro un sollievo, poiché magari vi era ancora qualcosa, qualcuno intorno a lui a riuscire a regalargli l’illusione di essere ancora un essere umano, non una creatura senza tempo e senza Dio. E magari, a guardarmi, aveva l’impressione che il suo cuore battesse come il mio.
O almeno, ci speravo e con ogni mia forza pregavo perché fosse così, perché potessi vedere un po’ di sollievo in quello sguardo e non più solo fuoco, il fuoco di cui parlava Rosalie, che vedevo ogni volta che mi voltavo a cercarlo fra la folla, quando sfiorava con le sue dita la linea della mia nuca, le punte dei miei capelli profumati – vedevo il fuoco e quel fuoco si divorava ogni cosa.
Era un fuoco di cui non capivo la natura, nato dalla tempesta o caduto dal cielo come pioggia, un fuoco inarrestabile, insaziabile che non trovava mai tregua né pace, proprio come colui che lo custodiva.
«Bella», una voce melodiosa richiamò la mia attenzione e furono quei suoi zigomi alti o quel corpo dai tratti scultorei a farmi trasalire, esitare per una manciata di secondi.
«Salve, dottor. Cullen», iniziai io, rimanendo seduta al mio posto, quasi a non volergli dare importanza.
«Ti senti bene?», mi domandò, quasi con la stessa premura di Edward e questa somiglianza mi impedì di cogliere il senso della domanda, tanto che Carlisle mi si avvicinò con passi misurati e avvicinando le sue pallide dita alla mia spalla, incalzò, «Come mai se all’ospedale?».
«Dovrei parlarle», sorrisi affabile, o almeno tentai di velare il mio risentimento, «Mi rendo conto che sarà molto impegnato.. Ma sarà questione di un attimo. Ad ogni modo», dissi, scostandomi con noncuranza dal suo tocco, «Se sono capitata in un brutto momento, lo dica pure: tornerò un altro giorno».
Lui scosse la testa e sorrise, «Figurati. Accomodati pure», tese il braccio nella direzione del suo ufficio, ma senza particolare entusiasmo – nonostante non fossero consanguinei notai non poche differenze fra l’uomo che avevo di fronte e Rosalie e non si trattava solo di quei visi, corpi così assurdamente belli, era più che altro un modo di fare, una serietà mista a una patina di sottile invidia, quasi impalpabile, rivolta in egual misura verso chiunque, verso ogni parte di questo mondo in cui vivevano e di cui non avrebbero mai più completamente fatto parte; evidentemente, Edward non era l’unico della sua specie a commiserarsi e a detestarsi per ciò che era. Mentre mi sedevo nel grande ufficio del dottor. Cullen mi domandai se Edward nutrisse qualche genere di gelosia nei miei confronti – gelosia per il mio essere umana, per la mia vita, per il mio fragile corpo. «Vuoi qualcosa da bere?», Carlisle mi rivolse  un’occhiata traboccante di dolcezza e fu inevitabile capire il suo sforzo di temporeggiare.
«No grazie», sorrisi a malapena, «Sto bene così».
«Allora», disse con un sospiro, sedendosi alla sua scrivania, «Cosa posso fare per te?».
«Volevo un suo parere riguardo un livido.. Un livido che ho da quasi una settimana ormai».
«Oh», fece sorpreso lui, «Hai sbattuto da qualche parte?».
Scossi la testa, sorridendo, «Non esattamente», dissi, cominciando a sbottonarmi la camicetta rossa che indossavo – quel gesto dovette prenderlo parecchio in contropiede e la sua indecifrabile espressione mi fece venir quasi voglia di ridere, ma comunque non m’impedì di desistere dal mio intendo.
Quando finalmente la camicetta fu completamente slacciata, drizzai bene la schiena, lasciando che potesse vedere le ramificazioni viola e giallastre che percorrevano il mio addome, rendendolo gonfio in alcuni punti. Se mi concentravo abbastanza, ero quasi capace di risentire su di me il ginocchio teso di Rosalie.
«Le piace?», chiesi, con un filo di sarcasmo nella mia voce.
Lui continuò a fissare l’ematoma, il modo in cui gonfiava la mia pelle, rendendola dolorante solo al tocco.
«Potrebbe ringraziare Rosalie da parte mia per questo regalino? E dirle che davvero, non doveva disturbarsi», sorrisi, lasciando in bella mostra la pancia. A quelle parole, il suo volto si contrasse in un’espressione di fastidio, quasi al suo naso fosse giunto qualche sgradevolissimo odore o fosse stato spettatore di una scena disgustosa, espressione che durò pochissimo e lasciò il suo volto in una manciata di secondi, facendolo ritornare a uno stato di calma apparente.
«Non ti seguo», mentì.
«Io penso di sì», mi limitai a ribattere, tagliente.
Ci guardammo per un periodo di tempo che la mia mente percepì come eterno, quasi mi persi in quello sguardo, tanto era intenso – per un attimo, pensai che Carlisle si sarebbe anche potuto risparmiare il disturbo di parlare, poiché bastava una sua occhiata perché i suoi pensieri venissero espressi e in questo era certamente uguale ad Alice, la quale sembrava usare le parole quasi come mezzo di comunicazione secondario, che le facesse da intermediario tra menti a lei inferiori. Mi riabbottonai la camicetta, conscia di aver attirato la sua attenzione e di aver sortito in lui l’effetto desiderato, poi dissi,
«Non sono qui per parlare di sua figlia, comunque», a quella confessione, parve rilassarsi un po’, «Ma per sapere come sta Edward», continuai, «Visto che sono quasi due settimane che non lo vedo più.. Dopo che i suoi figli l’hanno portato via da casa mia».
«Sta bene», rispose, secco, «È solo un po’ malato», mi sorrise, ignorando deliberatamente la mia ultima frase. «Malato? E come?», quasi mi scappò da ridere, «I vampiri possono ammalarsi? Da quando?».
Carlisle si lasciò sfuggire un sorriso, «Tu non sei una ragazza molto semplice, giusto?».
Non risposi.
«Speravo non si fosse spinto così in là, a dire il vero», mormorò fra sé e sé.
«E io speravo che sua figlia non rischiasse di sbriciolarmi le costole con le sue gambe di fata, ma si sa, la vita fa schifo per tutti», risposi acida.
«Non ero a conoscenza di ciò che volevano fare», parve scusarsi, «O che fossero giunti alla conclusione di arrivare a rimedi così estremi. Il fatto è che, Bella. Noi non abbiamo niente contro di te, mi segui? Se le circostanze fossero state diverse, lo capisci.. Non ci sarebbero stati problemi. Se fosse dipeso unicamente dalla decisione mia o di quella di Esme, mia moglie, tu saresti stata la benvenuta nella nostra famiglia, anche nella nostra vita, in ogni momento. Se non riguardasse Edward ma Emmett, o anche Alice, ecco, se tu fossi amica di Alice allora nessuno avrebbe visto niente di male in tutto questo. Ma Edward.. Ha una forza spropositata e talvolta non la riesce a controllare», disse alzandosi e trascinando senza sforzo alcuno la grossa sedia di legno dietro di sé – le gambe strisciavano sul pavimento, seguendo i passi stanchi dell’uomo – mi si mise accanto, vicinissimo, guardandomi dritta negli occhi, «Lui è pericoloso per te».
«È quello che è», sbottai, fingendo irritazione e fermezza, quando invece ogni più piccola parte del mio corpo tremava, «Immagino che avrà ucciso delle persone, per potersi sfamare,.. Almeno all’inizio. Ma adesso non è più così, no? La vostra famiglia si nutre soltanto di sangue animale», parlai, sempre più a bassa voce, per paura di essere sentita. Carlisle si passò una mano sul viso, rilassando il suo corpo sullo schienale della sedia, guardando altrove, «Non è solo questo.. Quando dico che ha una forza spropositata, io sono serio. Per lui ucciderti sarebbe semplice come strappare un filo d’erba.. Non che qualsiasi altro vampiro la troverebbe un’impresa difficile, ma magari, qualsiasi altro vampiro non rischierebbe di distruggere completamente il tuo corpo soltanto provando a toccarti», si strofinava meccanicamente il labbro superiore con la punta dell’indice, e a me sembrò quasi un rituale, un gesto che era solito fare nei momenti di serietà o mentre rifletteva su questioni dolorose o di cui non gradiva granché parlare e fu in quel momento che ebbi il peggior presentimento di tutti. E in quel presentimento, vidi il fuoco.
«È già successo, Bella», il suo volto si rabbuiò, «E detto francamente, vorrei evitare di bruciare un’altra casa fin dalle fondamenta», i suoi occhi erano lame, affilatissime lame senza pietà su cui avrei pianto volentieri ogni mia lacrima per lavare via il dolore che si stava prendendo possesso del mio corpo.
«Jane non era diversa da te, sai», a quel nome trasalii, «Era una ragazza nel fiore degli anni, con dei sogni, progetti suoi e Edward, d’altro canto, non avrebbe mai voluto ferirla. Ma lo fece. Lo fece comunque».
«La morse?», chiesi, frastornata.
Ricordavo ciò che Edward mi aveva detto di quella ragazza così distante dal mio presente – ero sempre stata certa che avesse nascosto o cambiato qualche dettaglio di proposito: bastava vedere il modo in cui ne parlava, era chiaro che si trattava ancora di ricordi vivissimi nella sua memoria e che c’erano verità troppo dolorose per essere riesumate.
«No. Si presentò a casa sua, un giovedì sera, mi disse che avrebbe soltanto salutarla, ignorando completamente le conseguenze che questo avrebbe comportato: lui in ventinove anni non era cambiato di una virgola, nell’aspetto era rimasto il diciassettenne che era quando lo trasformai – solo per questo non si sarebbe nemmeno dovuto avvicinare a lei. Ma ormai.. E lei lo accolse come un fratello nella sua casa, ignara del pericolo che correva, a quei tempi era ancora incapace di imbrigliare la sua energia, anzi, non era minimamente in grado. L’abbracciò soltanto, con ingenuità, come un bambino e con troppo entusiasmo, lei era pur sempre l’ultima traccia della sua vita passata, ognuno di noi ha provato simili sentimenti nella propria vita dopo essere stati morsi, è naturale, si vuole soltanto un contatto, l’illusione di poter ancora condurre una vita come tante. Ma in quell’abbraccio io non penso che lei ebbe nemmeno il fiato necessario per gridare – la stritolò, distruggendo completamente il suo busto e la sua vita, tanto che quando arrivai sul posto, di quel corpo potei riconoscere distintamente soltanto le gambe e le mani, perfino il volto era sfigurato dal sangue, sangue che aveva scatenato in lui la una sete violentissima, inarrestabile. Lo ritrovai in stato di shock, seduto sul divano, col viso vermiglio e lo sguardo spento. Credo che se avesse potuto piangere, forse sarebbe stato più semplice per lui, ma ogni dolore gli si fermò in gola. Dovemmo bruciare la casa, distruggere ogni cosa, fare in modo che sembrasse tutto un incidente – non fu semplice. Ancora oggi non posso immaginare il senso di vergogna che prova ripensando a quei momenti », mi lanciò un’occhiata colma di tenerezza e di compassione, «Stiamo solo cercando di vivere in pace, Bella, di salvare te e salvare noi. Non resteremmo qui a Forks a lungo comunque, immagino tu sappia perché, ti chiedo soltanto di smettere di parlargli o di stare con lui, per quanto possibile».
«Io non posso», mormorai dopo un lungo silenzio, con gli occhi velati di lacrime.
Non mi domandò il motivo, immagino sapesse già, immagino l’avesse capito dalla prima volta che mi aveva guardata in viso. Ero irrimediabilmente compromessa, compromesso era il mio cuore e la mia anima, e il fuoco non poteva cancellare questa mia condizione.
Avrei voluto dire altro, qualcosa che spiegasse meglio la persona che ero diventata in quel momento, ma sapevo che non c’era modo: mi trovavo in luogo vuoto, ero nei silenzi fra una parola e un’altra, negli spazi bianchi fra il nero dei discorsi stampati, abitavo posti che non esistevano, che non riconoscevo, in cui mi perdevo senza bisogno di muovermi e fu allora che ripensai a Edward, ma chiaramente, con estrema precisione, ripensai al modo in cui gridai, ‘Vieni da me, vieni da me subito!’, e alla sua risposta rotta dall’emozione, da tutti i dolori che gli erano rimasi fermi venti centimetri sopra il cuore, al modo in cui mi aveva stretto a sé – per tutto questo tempo avevo dato per scontato il suo auto controllo, la sua maniera naturale di muoversi, di toccarmi, di respirare la mia stessa aria; ignorato la sua sete, la sua forza straordinaria, per me era più semplice, per la mia mente migliore e quindi meno doloroso. Anche se spesso pensavo alla sua natura così diversa dalla mia, era solo un pensare relativamente consistente, distratto, vago. Ma adesso vedevo il fuoco, vedevo il sangue, vedo le macerie di una vita distrutta e improvvisamente vedevo un mostro di fronte a me, un mostro avvolto fra le tenebre, con occhi brillanti e terribili, un mostro che mi sfiorava nel sonno e mi sorrideva benevolo.
Un mostro che mi disse, «Verrò da te subito».
Disse così.
Lo disse con le labbra vicino al mio orecchio come se stesse recitando il più sacro fra i giuramenti.
E allora, io non potevo. Io non potevo lasciare andare, nemmeno se vedevo il fuoco e quel fuoco mi ustionava la pelle, perché anche se faceva male rimanere aggrappati, lasciare andare sarebbe stato peggio.
Carlisle provò a riprendere la parola, ma io lo interruppi prima ancora che potesse fiatare,
«Io non posso e non è che non dia valore alla mia vita o che non abbia paura. Io non posso perché ormai ho scelto così», serrai i denti, «Non faccia l’errore di sottovalutare la mia determinazione, dottor. Cullen».
Mi alzai, dirigendomi a passo sostenuto verso la porta dell’ufficio, e ebbi appena il tempo di udirlo rispondere, «Non lo farò». Mantenni questo ritmo fino all’uscita dell’Ospedale, senza rendermi conto che, se fosse dipeso da me, sarei crollata sulle mie ginocchia e sarei svenuta tanta era l’angoscia che provavo in quell’istante, perciò in quel caso fu il mio corpo stesso, le mie gambe da sole a trascinarmi via da quel luogo di tormenti, ma non appena fui nei paraggi di casa mia, davanti alla porta ingiallita dal tempo, sotto l’albero secco e nodoso del mio giardino, corsi a rifugiarmi nel mio pick-up, come un animale ferito, scoppiando in un pianto violento e convulso che della mia resistenza esaurì tutte le forze.
Ero sola, sola più di quanto lo fossi mai stata e terrorizzata dal mio stesso cuore che vedeva il fuoco e non riusciva ad averne paura, non riusciva a volersi salvare, a voler scappare.
Lo stesso cuore agitato che mi diceva che se avessi dovuto scegliere fra una vita senza Edward e il fuoco, allora avrei scelto il fuoco. Avrei scelto il fuoco per sempre.

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Capitolo 17
*** La partita ***


                                                                                                           La partita


«I'm lying on the moon. My dear, I'll be there soon.. It's, a, quiet starry place. Time's we're swallowed up in space, we're here, a million miles away. There's things I, wish, I knew..».
La mia voce si dissolse in un rapido sospiro.
Seduta lì, davanti alla finestra, osservavo il mondo passare, il frusciare placido degli alberi, lo svolazzare di qualche passero, foglie, foglie secche dappertutto, che venivano spazzate via da un’ariolina fresca.
Erano ormai un paio d’ore che me ne stavo così, con gli occhi rivolti al cielo, a canticchiare e solo adesso mi accorgevo di quanto mi annoiassi – superato lo sconvolgimento iniziale delle parole di Carlisle, passata la prima notte di acutissimo dolore, adesso in me v’era solo un vuoto gigantesco e anche io, come Edward, cominciavo a voler qualcuno con cui giocare. Qualcuno che mi facesse correre o che semplicemente rendesse sopportabili le ore della mia esistenza, riempisse tutto lo spazio, il tempo che adesso mi sembrava di avere, tutt’a un tratto, a disposizione. Nei giorni seguenti l’improvviso sconforto in cui Carlisle mi aveva gettata incominciai quasi a patire la mancanza di quei sentimenti, seppur luttuosi, che mi rodevano il cuore: erano comunque mille volte meglio di quel piattume, dell’apatia totale in cui ero immersa.
E allora cantavo, nell’imbarazzante speranza che Edward tornasse.
Ma non succedeva mai.
Erano ormai passate quasi tre settimane da quella domenica, soltanto una dal mio incontro con Carlisle.
Il mio intervento non aveva sortito l’effetto desiderato – era abbastanza prevedibile – e questo significava che mi sarei dovuta presentare a casa dei Cullen di persona e andare probabilmente incontro alla stessa fine che era toccata a Jane (al solo pensiero, mi si accapponò la pelle). Desideravo salutarlo.
Sapevo che, dopo ciò che era successo, i Cullen non avrebbero tardato a rifare i bagagli e trasferirsi fuori Forks, ma non m’importava nulla: ormai avevo intenzione di andare fino in fondo.
Socchiusi gli occhi, rannicchiandomi sulla sedia piazzata davanti la mia finestra, trono da cui osservavo con aria infastidita il mondo, e ripresi da dove avevo lasciato,
«There's no thing I'd keep from you. It's, a, dark and shiny place but with you my dear I'm safe and we're a million miles away..».
«Come canti bene», sorrise una voce, nata dalla terra come un fiore.
Ebbi un sussulto, «Come dici?», domandai al vuoto, in attesa un altro sussurro, anche lieve, che mi aiutasse a capire. «Dico che canti bene», fece eco quello, un sottile respiro dai toni caldi e familiari, ma molto distante dal timbro di Edward.
«Chi sei?», parlai, rimanendo seduta.
«Sono Jacob», rise quello.
«Non ti avevo riconosciuto», una punta di delusione nella mia voce.
«Sfido io, non ti affacci nemmeno».
Mi chinai sula mensola, sporgendo la testa aldilà del rettangolo di legno, sfoderando un sorriso che lo facesse sentire accolto, «Qual buon vento ti porta qui?».
«Ma quale vento, mi ha portato qui quel pazzo di mio padre», sbottò lui, ma sempre con quell’aria maliziosa, scozzata. «Quello che se si sbuccia un ginocchio va a farsi curare nel sud della Francia?», lo presi in giro. Lui scoppiò a ridere, «Sì, è uno di quelli.. Ma tu cosa fai? Aspetti che ti crescano i capelli?».
«I capelli?», chiesi senza capire.
«Sì, così puoi giocare a fare Raperonzolo».
«Pensavo più a un taglio alla Jacob Black», restituii la frecciatina, ridacchiando.
«Guarda che il mio taglio di capelli è pregiato», fece, lisciandosi i lunghi capelli neri con fare provocante, «Allora cosa facciamo? Scendi tu o salgo io?».
Gli feci un cenno, «Dai entra idiota».
Ci misi poco a raggiungere la piccola cucina, dove lui mi aveva già preceduta e se ne stava a parlare con suo padre e Charlie. Non appena feci capolino dalla porta fui accolta dall’esuberanza di Billy,
«Ecco la donna di casa, meno male che ci sei tu in questa casa, si vede proprio la differenza», rise, prendendo in giro mio padre, che lo fissava con sguardo torvo, «Prima qui c’era un tale porcile!».
«Faccio quello che posso», sorrisi.
«È sempre bello sentirvi parlare di me, davvero», sbottò sarcastico Charlie.
Il suo tono di voce strappò una risata a tutti, tanto che alla fine perfino lui si unì al coro.
Ad ogni modo, non ci volle molto perché i due, Billy e Charlie, si mettessero a chiacchierare fra loro e mi lasciassero in compagnia di Jacob, il quale pareva non aspettare altro.
«Usciamo, ti va?», proposi io, senza quasi guardarlo.
Lui annuì e entrambi ci dirigemmo nel giardino dietro casa mia, laddove la strada asfaltata diventava solo una linea tracciata per separare la città dalla fittissima foresta poco distante.
Mi strinsi nella giacca a vento, ripensando a Carlisle, alle sue parole, al fuoco e a come, d’un tratto l’intero mondo sembrava essersi trasformato in una vera e propria catena di pericoli che attentavano alla mia vita – in quei momenti perfino gli alberi che si innalzavano al cielo cominciavano a somigliare alle punte lucenti di coltelli. O di denti.
«Va tutto bene?», Jacob appoggiò una mano sulla mia spalla.
«Sì, alla grande.. Ho solo un po’ di freddo», dissi masticando le parole, «Tu piuttosto sei caldissimo, com’è possibile?». Lui scrollò le spalle e un enorme sorriso gli accese il volto, «Che posso dire, ho un corredo genetico vincente. La selezione naturale non ci andrà piano con te».
Mi voltai verso di lui con aria divertita, «No, eh?».
«No, non penso», annuì convinto, «Sei fortunata che ci avviamo verso la primavera, ma non so quanto durerai, il prossimo inverno».
«Beh, dipende, se anche il resto della tua famiglia sembra discendere di termosifoni, allora potrei trasferirmi da voi», ridacchiai.
«In questo modo avresti qualche chance, non lo nego», disse lui, passandosi una mano fra i capelli, «Anche se.. Non so quanto saresti la benvenuta», borbottò, cambiando improvvisamente espressione.
Solo un breve momento di silenzio precedette le mie parole.
«Li odiate proprio tanto i Cullen, eh?».
Lanciai un’occhiata al ragazzo alto che mi stava vicino e che spostava mucchi di foglie con la punta del piede, sparpagliando punti di rosso cremisi e di giallo per tutta la terra, «Sono solo superstizioni, lo sai».
«Lo so».
«È solo che.. Non sembrano davvero spaventosi? Eh? A me mettono i brividi», disse, costringendo sempre le sue ultime parole in una risatina nervosa.
«Già», sospirai, «A vederli così non sembrano proprio l’anima della festa».
«Però li frequenti lo stesso», commentò e io credetti quasi di cogliere una nota di rimprovero in quella frase. «In realtà ho fatto amicizia soltanto con Edward. Non che abbia più importanza», scrollai le spalle, «Non credo che gli parlerò più comunque».
Con la coda dell’occhio mi accorsi di me come, in un primo momento, la mia confessione lo rallegrò e allora tutto il suo viso venne punto da un’allegria innocente, pura, che donò alle sue guance un tiepido rossore ma quando notò la tristezza nella mia voce, il riflesso di una debolezza di cui mi vergognavo fin troppo nei miei occhi scuri, quella vena di dolcezza abbandonò il suo volto e vidi come le prime tinte di una macerata tristezza (si trattava di pura empatia? O semplice compassione?) cominciarono a infilarsi nei suoi occhi vivaci e piegargli in una curva finissima e precisa, che tracciava su di lui il disegno di un lieve sconforto.
«Avete litigato?», provò a interessarsi.
«Qualcosa del genere», risposi.
«Ti rende così triste non stare con lui?».
«Di certo mi rende annoiata».
La prima manciata di foglie secche mi arrivò addosso senza che io avessi il tempo nemmeno di accorgermene. «Che stai facendo?», gridai indispettita.
«Faccio passare la noia», rispose, lanciandomi addosso un’altra nuvola di punti rossi e gialli.
Scoppiai a ridere e raccolsi la sfida, avventandomi sul mio nuovo avversario – giocammo in quella maniera, come due bambini eccitati, per non so quanto tempo, senza stancarci mai e per un attimo, sotto quel velo gonfiato dall’aria, mi dimenticai le mie preoccupazioni e pensai a lungo, fra le risa, a una vita così per me, una vita avvolta da toni caldi e colori accesi, dalla morbidezza nei gesti, priva di qualsivoglia antico terrore. Pensai a come sarebbe stato se avessi potuto vivere con la stessa foga la mia di vita, sarei stata felice? Perché è questa la domanda che tutti si fanno, non è così? Se le cose fossero andate diversamente, se solo non fossi il risultato di tutte le scelte sbagliate commesse nell’arco di una vita, se non avessi visto il fuoco, fuoco nei miei ricordi e fuoco negli occhi di Edward, allora sarei stata felice? Sarei stata libera?
Le foglie ci circondavano, si impigliavano ai nostri abiti e capelli, toccavano i nostri visi rossi e folli d’emozione e in una carezza erano già volate tutte quante a terra e allora noi ricominciavamo, correndoci incontro, proprio come due stupidi avrebbero fatto, nello stesso modo e io non temetti nemmeno un momento per la mia incolumità, né temetti che Jacob potesse perdere il controllo e aggredirmi, strapparmi via dalla vita, anche senza volerlo. Non temetti di infastidirlo con la mia presenza, con il mio stesso sangue, l’odore del mio corpo, perché lui era come me e questo mi tranquillizzava, mi faceva sentire parte di un posto a cui ero sempre stata legata e per il quale ero stata creata. E fu proprio in quell’istante di dolcezza che mi tornò alla mente il tavolo vuoto della mensa – non so perché proprio quell’immagine s’insinuò fra i miei pensieri, non so perché quella e non semplicemente il volto di Edward o le sue spalle, mentre usciva da casa mia, non so perché proprio quel momento preciso e non altri mille, tutti ugualmente o più importanti. Non esisteva nessun motivo plausibile, così pensai.
Ma poi mi ricordai del modo in cui il mio cuore aveva saltato un battito solo al pensiero di quell’immagine pallida: io ero stata creata per questa parte di mondo in cui giocavo, in cui mi divertivo, in cui mi guardavo riflessa nei grandi occhi di Jacob, tratteggiati da una linea di ciglia lunghissime, ero stata creata per una vita fragile e debole, per essere ferita e per essere colpita dalle mie emozioni quasi fossero state un vero treno in corsa, era così e non potevo farci nulla, ma dopo il suo arrivo ero venuta a conoscenza di un’altra parte, un altro spicchio di questa realtà e ne ero entusiasta, volevo esplorarlo, volevo capirlo.
Non volevo lasciarlo andare, non volevo fingere che non fosse mai successo nulla.
Era bello starsene anche così, semplicemente lì con Jacob a divertirsi e a giocare, e fino a quel momento avevo pensato di poter fare una scelta semplice, netta: la parte di Edward o la mia.
Per molto tempo avevo scelto la mia, ultimamente ero più propensa a scegliere la sua, ma in entrambi i casi, ciò che capii quel pomeriggio scosse profondamente ogni mia più piccola certezza: mi resi conto che non c’era più nessuna scelta da fare, che i nostri due mondi, proprio come due stanze collegate da un’unica entrata, erano collegati e non potevano più essere separati. Non si trattava di fare una scelta, bensì di accettare questa realtà.
«Jacob!», la voce di Billy interruppe il flusso libero dei miei pensieri, «Si torna a casa! E lascia stare Bella, non vorrai mica attaccargli la tua stupidaggine».
Il ragazzo rise goffamente, «Credo di doverti salutare».
«È stato un piacere. Dovremmo rifarlo», sorrisi io.
«Quando vuoi».
Li vidi salire sulla loro auto nera e, proprio come erano arrivati, andarsene.
Ringraziai Jacob silenziosamente e forse mai abbastanza per quello che, grazie soltanto alla sua presenza, era stato in grado di farmi capire e alla paura che era stato capace di cancellare.


Il cielo cadde in fretta vittima dell’oscurità della notte e i primi punti brillanti cominciarono a cospargere l’aria rarefatta di Forks. Mi feci una doccia calda in fretta, e me ne tornai in camera, nella mia chiesa personale, lì dove pregavo o immaginavo, lì dove attendevo ogni giorno con più ansia.
Per quanto l’idea che i nostri fossero diventati ormai mondi inseparabili non riuscivo a cancellare il vuoto che aveva ripreso ad allargarsi in me poco dopo che Jacob aveva fatto ritorno a casa. La casa era di nuovo completamente vuota adesso che Charlie era così impegnato con quei nuovi casi di misteriose sparizioni, così non avevo nemmeno lui con cui parlare – se n’era andato qualche ora dopo cena, dopo aver ricevuto una chiamata dalla centrale. «Nulla di grave», mi aveva rassicurata.
Cercai distrazione e rifugio nella musica, miglior alleata contro quel silenzio quasi sul punto di farmi schiantare i timpani. Accesi lo stereo, lo fermai su Instant Crush, dei Daft Punk e provai a dondolarmi, a ballare avvolta da quel ritmo così piacevole.
«And we will never be alone again ‘cause it doesn’t happen every day.. Kinda counted on you being a friend, can I give it up or give it away? Now I thought about what I wanna say but I never really know where to go, so I chained myself to a friend, ‘cause I don’t know what else I.. I don’t understand, don’t get upset that I’m not with you – we’re swimming around, it’s all I do when I’m with you», la mia voce un po’ assonnata si perse fra le mie buone intenzioni e il mio corpo stanco di muoversi, di provare a cessare di essere così vivo e pulsante, talmente tanto che sotto la superficie della mia pelle sembravano strisciare tutti quei pensieri, ricordi, momenti vissuti dall’addio di mia madre a adesso. Mi stropicciai gli occhi, convincendomi a cambiare canzone e a ballare ancora, certa di non aver ancora raggiunto il punto di non ritorno, di non essere stata ancora capace di esaurire tutte le mie forze e così, non appena mi voltai, smarrita nella mia stessa stanza, alla ricerca dello stereo, lo vidi: era proprio lì e per un momento non credetti ai miei occhi.
Rimasi immobile in quel modo, rossa in viso, coi piedi scalzi e i capelli arruffati, lo sguardo fisso su di lui.
Non ero spaventata, ma non sapevo nemmeno cosa fosse giusto fare.
Le sue mani delicate sfiorarono i contorni rigidi della finestra e ne spostarono con leggerezza le ante, facendo entrare nella stanza un’aria pungente, fredda e morbida. Provò a sorridermi, ma sapevo che in quel momento la sua tristezza non conosceva confini e quando lo capii, non potei resistere: corsi verso di lui, gettandogli le braccia al collo e stringendolo a me.
Oh, Edward.
Lo abbracciai con una tale forza, un tale trasporto, quasi non riuscivo a credere che fosse di nuovo lì, lo immaginavo solo un’estensione della mia mente disorientata e mi aspettavo di sentirlo sparire fra le mie braccia quasi fosse stato una statua di sale. Lo strinsi nella stessa maniera in cui avrei stretto un fratello, con un’angoscia, un tale sollievo improvviso, un così incredibile sforzo che mi tremavano le ginocchia – ancora non potevo credere che fosse lì. Mi accorsi solo dopo che la mia esuberanza quasi lo aveva fatto scivolare e lo aveva costretto a stringersi al cornicione, affondando le sue dita di pietra nella sottile linea di legno. ‘Anche tu mi sei mancata’, abbozzò un sorriso e attese una mia risposta, una qualunque.
Io non volevo lasciarlo, sapevo che mi avrebbe detto che stava per andarsene, sapevo che sarebbe stata l’ultima volta e non ero ancora pronta a affrontare di nuovo quel vuoto che mi faceva smettere di credere nelle mie forze, nella mia mente. Sapevo che non sarebbe stato impossibile ricominciare, che avrei dimenticato, che sarebbe stato molto più semplice sotto così tanti punti di vista, eppure davvero non potevo lasciare la presa, non riuscivo a accettare l’idea che non l’avrei più rivisto.
Se fosse stata una sua scelta.. Se mi avesse detto che era ciò che desiderava allora sarebbe stato diverso, ma così, così era insopportabile, intollerabile l’assenza, ancora peggio la presenza proprio perché ogni volta che mi si ripresentava davanti capivo che la porta fra i nostri mondi non poteva più essere serrata, che non sarebbero bastati i film, i libri, i giorni di scuola, quelli al mare, tutti i regali di questo mondo e i migliori ricordi a ostruirne il passaggio: stando così le cose, lo avrei sempre aspettato.
Credo che a un certo momento provò anche a dire qualcosa, ma io lo battei sul tempo,
«Dove sei stato? Hai idea di quanto mi hai fatto stare in pensiero? Sei solo uno stupido! Te ne sei andato con i tuoi fratelli e non mi hai nemmeno salutata! Credevo di dover venire fino a casa tua e trascinarti di peso a scuola», mi staccai per guardarlo dritto negli occhi, «Tre settimane! Hai idea di quanto io sia arrabbiata adesso?». Lui provò a tapparmi la bocca con la mano, con in volto un’aria a metà strada fra il divertito e il preoccupato, ma io mi ritrassi immediatamente: «Non ci provare neanche!», gridai, «No, arrabbiata non è la parola giusta, sono furiosa! Letteralmente! Dovrei proprio gettarti giù dalla finestra, in questo istante preciso!».
«Ti sono mancato, eh?», ridacchiò sotto i baffi e quella sua totale mancanza di tristezza mi offese più di quanto avrei voluto. Non risposi nemmeno, mi sciolsi dall’abbraccio e andai a spengere lo stereo.
«Bella?», provo a richiamare la mia attenzione. Sospirai.
Lui non capiva e io non potevo spiegare.
«Stai per andare via?», mi sedetti sul letto, guardando la sua figura rannicchiata, le ginocchia puntute sporgere oltre la mensola, creando una sottilissima ombra che oscurava il pavimento.
«Cosa?», parve spaesato.
«Stai per andare via?».
«Da cosa lo deduci?», mi fissò con aria interrogativa lui.
«Non so. Dalla ginocchiata di tua sorella. O dal fatto che non ti sei fatto più vivo in settimane. O magari», dissi sfoderando il mio miglior sorriso, «Soltanto dal modo in cui te ne sei andato via, domenica, con un sorriso da vero imbecille».
Lanciai una rapida occhiata alla rosa muscosa poggiata sulla mia scrivania, ripensando alle parole di Angela, al modo in cui mi aveva fatto capire che sicuramente non era nei piani di Edward lasciarmi sola; potevo toccare con mani la veridicità di quei ragionamenti, ma lo stesso, al solo pensare alla maniera con la quale mi aveva guardata, il semplice fatto che se ne fosse andato davvero, anche dopo aver detto che non l’avrebbe fatto era sufficiente per renderlo detestabile ai miei occhi.
Si sedette con fare gentile e composto sulla mensola della finestra, «Non volevo andarmene».
Non parlai.
«Lo sai», incalzò.
Di nuovo non ebbe nessuna risposta.
«Jasper ha la capacità di controllare le emozioni altrui, per questo Alice se l’è portato dietro. Sapeva che non me ne sarei ami andato di mia spontanea volontà..», si passò una mano fra i capelli, «E di certo non potevano mettersi a distruggere la casa dello sceriffo».
«Questo non spiega comunque perché sei di nuovo qui», incrociai le braccia.
«Ho fatto il bravo», mi rivolse un sorriso sghembo, «Dopo le prime resistenze ho detto loro che non avevo comunque più intenzione di vederti, che non me ne importava più nulla e che era stato un errore e via dicendo. Così si sono sentiti più tranquilli a lasciarmi andare a caccia da solo, ma come vedi.. Sono un po’ bugiardo», rise.
«Rosalie ti odia», continuò, con un filo di allegria nella voce, vedendo che io non spiccicavo parola.
«Rosalie è una gran troia», ribattei secca.
Lui scoppiò in una risata fragorosa, «Vedi, era soprattutto questo a mancarmi».
A quelle parole sciolsi l’intreccio delle mie braccia e distolsi lo sguardo, per non concedergli nessuna soddisfazione nel vedermi crollare. «Ci sono dei vampiri a Forks», disse, guardandomi serio.
Io gli rivolsi un’occhiata traboccante di sarcasmo, e strabuzzando gli occhi dissi, «Sul serio? No! Vampiri? Dove?». «Quanto sarai scema?», mi sorrise, «Altri vampiri oltre noi. Sono in tre e non abbiamo ancora avuto modo di capire quali siano le loro intenzioni, è una situazione un po’ complicata. Forse è stato meglio che io non facessi continuamente avanti e indietro da casa tua,.. Avrebbe potuto dare nell’occhio».
«Ah», risposi, tornando a guardarlo. C’era qualcosa di strano in lui in quel momento, era come se volesse venirmi più vicino, ma al tempo stesso non fosse in grado – perfino nell’abbraccio c’era un certo distacco, una sorta di divisorio fra i nostri corpi. Riflessi nel suo volto v’erano vergogna e tristezza, sentimenti che non poteva camuffare, di cui io ignoravo l’origine.
«Credi che siano pericolosi?», chiesi a un tratto, immaginando Charlie e temendo per la sua incolumità.
«Non so. Non credo. Carlisle e Emmett si danno i turni con Jasper e Rosalie nel tentativo di tenere d’occhio i loro spostamenti, pattugliano la zona.. Immagino sia anche per questo che mi abbiano un po’ lasciato stare – hanno altro a cui pensare».
Mi morsi un labbro, soffocata dalla colpa, «Edward, mi dispiace».
«Perché?», mi chiese, sistemandosi più comodamente nel suo angolo.
«Perché per colpa mia, tu e i tuoi fratelli..», lasciai cadere la frase in sospeso.
«Bella, forse non l’avrai notato, ma io non sono mai stato corretto nei loro confronti da quando ti ho conosciuta. Egoista lo sono sempre stato, è solo che.. Mi piace stare con te. Mi piace tanto, così tanto che penso solo a me stesso, fregandomene dei rischi a cui espongo tutta la mia famiglia e tutti gli abitanti di Forks. Non me ne importa nulla, cioè.. A volte ci penso, penso davvero ad andarmene o a smettere di chiacchierare con te, ma poi tu dici qualcosa di divertente o mi canti una canzone.. In realtà non ho proprio una resistenza d’acciaio», mi rivolse un sorriso morbido, gentile.
«Adesso le cose torneranno come prima?», domandai, fingendo un’aria ingenua. Sapevo già che sarebbe stato impossibile. Si rabbuiò in volto e distolse lo sguardo, senza dire nulla.
«Capisco», mormorai, «È per questo che non ti avvicini?».
«So che hai parlato con Carlisle», gli tremava la voce.
«Hai letto i suoi pensieri?».
Annuì, «Ha sviluppato una certa resistenza nel corso dei secoli, per questo mi ci è voluto così tanto per capire cosa fosse successo – ti vedevo nella sua mente, ma non capivo in che modo tu fossi correlata all’Ospedale, per un attimo ho temuto che ti fosse successo qualcosa. Vi vedevo nei suoi ricordi ma Carlisle è stato in grado, per un certo periodo di tempo, di eliminare qualsiasi tipo di suono, quindi era come starsene davanti a un film muto, ma il fatto stesso che tentasse così strenuamente di nascondermi la verità non faceva che aumentare d’intensità la mia insistenza».
Per un momento, nessuno di noi disse o fece nulla: lui se ne stava al suo posto, io al mio, intrappolati fra i nostri stessi pensieri. La sua espressione mi ricordò il racconto del dottor. Cullen, il modo in cui disse di averlo ritrovato, col sangue di Jane addosso e la consapevolezza che era stato soltanto lui, lui e la sua natura a distruggere l’ultima cosa che lo legasse alla sua vita passata, una vita innocente, una ragazza che aveva ancora molto da vedere, fare.. E quello non doveva essere stato nulla: provai a pensare al dopo – Carlisle che sfondava la porta della casa di Jane, che cercava di far tornare Edward in sé, di risvegliarlo da quello stato catatonico, di portarlo via. Provai a pensare al modo in cui doveva averlo guardato: era come essere lì. Vedevo Edward e le sue silenziose suppliche, il modo che il suo viso aveva di chiedere senza sforzo, la sua bocca ricurva, tutta la piega presa dal suo stesso corpo, morto nella desolazione della vergogna – per un attimo aveva provato a ribellarsi, pregare Carlisle di non farlo e a lui, d’altro canto, non erano servite parole per convincerlo, ma solo un silenzio più lungo degli altri.
Lo vedevo e con lui il modo con cui lasciava quella casa, mentre gli orli delle tende, i cuscini sulle poltrone, i tappeti, tutto diventava fuoco, tutto era brillante e lucente, infernale – se chiudevo gli occhi potevo immaginarmi tutto il suo viso illuminato da quel violento furore tanto che fui turbata dalla mia stessa mente. A vederlo adesso, a vederlo così, nulla di tutto questo sembrava mai essere successo e lui assomigliava a un adolescente del tutto comune, con problemi normali, una famiglia come un’altra..
«Forse Alice ha ragione..», bisbigliò a un tratto, «Forse tutto questo è sbagliato».
Tirai un profondo respiro, cercando di ordinare i pensieri, «Edward, se è quello che pensi, allora dovresti andartene. Dico davvero», lo guardai dritto negli occhi, «Posso solo immaginare quanto debba essere difficile per te stare con me e non ti fermerò. Puoi farlo. Lo so che non è semplice. Non lo è nemmeno per me, ma posso capire che per te sia diverso – se tu perdessi il controllo, io alla fine morirei e basta. Si tratterebbe di una volta soltanto, no? La morte è unica e per sempre. Ma so che tu rivivresti quei momenti per tutto il resto della tua vita. Perciò se vuoi andare, vattene, vattene sapendo che mi mancherai davvero e che ti ricorderò fino alla fine. Ma per quanto mi riguarda, io non ho intenzione di muovermi da dove sono. Non sei qui per scegliere al posto mio – e anche se le tue intenzioni fossero queste, sappi che arrivi in ritardo, perché io ho già scelto – tu scegli per te stesso e nessun altro. Il tuo cuore forse non batte più, ma desidererà pure qualcosa, desidererà pure fare una scelta. O forse l’ha già fatta».
«Non voglio farti del male», mi disse con tutta la vita che ancora gli rimaneva attaccata addosso.
«Lo so», sorrisi.
«Vorrei essere come Mike o Ben..», ammise imbarazzato, «A quel punto potremmo essere amici e non ci sarebbe nulla di male in tutto questo».
«Ma noi siamo già amici», chinai il capo di lato, cercando di incontrare i suoi occhi bassi, «Non è così? E poi, se tu fossi stato come quell’idiota di Mike Newton probabilmente ti avrei evitato costantemente».
Quelle parole riuscirono a strappargli un sorriso.
«Ah sì? Credevo ti stesse simpatico», disse, sempre evitando il mio sguardo.
«Sì, beh, mentivo. Le persone lo fanno. E comunque sono anche uscita con lui e gli altri venerdì sera, siamo andati in discoteca. Quando balla assomiglia a un canguro sotto anfetamine», risi, «Ha anche provato a baciare Jessica, ma i suoi cinque minuti di gloria sono finiti quando le ha rovesciato metà drink fra le tette. Jess era così arrabbiata che le si stava per sciogliere la faccia».
Scoppiò in una risata, «Quindi Mike Newton è da evitare».
«Decisamente».
«E se fossi come Jacob?», mi chiese, lanciandomi un’occhiata indecifrabile.
«Jacob?».
«Sì. Con lui sembri divertirti un sacco», commentò con fare disinvolto, «O almeno, questa era l’impressione che davate oggi, mentre nuotavate fra le foglie».
Arrossii, «Per quanto tempo sei stato davanti casa mia?».
«Un po’. Se non fosse stato per lui, mi sarei fatto vivo prima», nelle sue parole c’era qualcosa di diverso, un fastidio particolare che non capivo.
«Quindi mi vuoi dire», sospirai io alzandomi, «Che preferiresti essere Jacob Black piuttosto che Edward Cullen?». Lui scrollò le spalle, guardandomi mentre trascinavo la mia sedia di nuovo davanti alla mensola della finestra. «E magari vorresti vivere in una riserva e ballare fra gli altri ragazzi indiani.. Oppure gli invidi solo il taglio di capelli?», mi accomodai, lanciandogli un’occhiata ironica, «Sì, scommetto che sono i capelli, lunghissimi capelli neri.. Che invidia!».
Si ritrasse lievemente, «Sai cosa voglio dire. Se fossi come lui magari assomiglierei al culo di un asino, ma almeno..», provò a ridere di sé, della sua situazione, del modo in cui lo guardavo, ma sembrò tutto inutile.
«Potrei fare lo stesso ragionamento anche io, allora», quell’affermazione, così spontanea e imprevedibile attirò la sua attenzione, «Se io fossi come Rosalie o Alice, o la nipote di quinto grado di Nosferatu.. Oppure la terza figlia di Dracula.. Allora sarebbe tutto a posto, giusto? Potremo andare avanti così per ore, Edward. Questo non ti farà diventare per magia un essere umano, o Jacob Black. Non ti farà diventare il cugino da parte di mamma di Mike o la sorellastra di Jessica. E vale lo stesso per me».
Ci fu un momento di silenzio.
«E comunque, per quanto mi riguarda, tu assomigli già al culo di un asino», risi e lui con me, chiuse le sue angosce in quel suono che si esaurì in fretta e finì per risolversi in un sospiro delicato. «Non possiamo scegliere cosa essere, ma possiamo scegliere cosa fare», poggiai la mia mano sulla sua, «Tu cosa vuoi fare?».
«Vorrei restare qui», ammise e ne ero certa, se fosse stato capace di arrossire, l’avrebbe fatto.
«Allora entra», gli feci spazio.
Balzò nella mia stanza, impadronendosi immediatamente del letto, rannicchiandosi fra le coperte – sorrisi a quella visione, con una calma che non avevo potuto assaporare in quelle settimane. Poteva provare paura per me, paura di ferirmi, addirittura di uccidermi, ma a volte avevo l’impressione di provarne più io ogni volta che si allontanava da me: era come se lo considerassi come un qualunque essere umano, nei momenti in cui era distante temevo sempre per la sua incolumità, come se ce ne fosse stato realmente bisogno, dico io. Eppure, non potevo farne a meno: vedevo nei suoi occhi l’ombra del ragazzino che era stato un tempo, vedevo la curiosità ardergli in volto, la fame di vita, la voglia di cacciarsi nei guai, di fare a proprio gusto e parere e senza l’aiuto di nessuno e mi sembrava quasi di doverlo sempre tenere d’occhio, perciò averlo lì, dopo molte settimane d’assenza era un sollievo per il mio cuore spaventato, tanto che sentivo quasi di poter dormire serena sapendo che stava bene. «Ora la sa anche Jacob», sbuffò a un punto lui, cominciando a giocherellare con i miei cuscini.
«Sa che cosa?».
«La canzone. L’ha sentita», parlò imbronciato, «Era la mia canzone».
«Ma si può sapere per quanto tempo sei stato a spiarmi?», mi alzai contrariata. Avrei voluto sapere cosa gli passava per la testa, davvero: quando si comportava in quel modo non lo capivo.
Scrollò le spalle, «Che ti importa? Volevo vedere cosa facevi, mica è un reato».
«Potevi avvisarmi», dissi prendendo un libro dalla scrivania. «Tanto avevi già Jacob a farti compagnia. Quel tipo puzza da morire», ghignò maligno.
«Non è vero», lo rimbeccai io.
«Invece sì. È solo che i tuoi stupidi e ottusi sensi umani non possono percepirlo».
«E di cosa puzzerebbe, sentiamo?», chiesi con fare ironico.
«Di cane», ribatté.
«Questa è buona. Secondo me è il tuo cervello che è ottuso, anzi, otturato del tutto! O forse è solo la vecchiaia.. Dopotutto non sei più di primo pelo, vero?», gli rivolsi un’occhiata sarcastica e in tutta risposta ricevetti una cuscinata in faccia, «Edward!», gridai, ma sentirlo ridere fece subito sbollire la rabbia.
«Vedi, questo non lo posso fare con i miei fratelli», sorrise alla visione dei miei capelli ora tutti spettinati.
«Già. Loro la vedono già nel futuro la tua stupidità», sbottai, stringendo il cuscino fra le mani.
Rise di gusto e si accomodò con ancora più naturalezza sul mio letto, «Che hai fatto in queste settimane?».
«Che ti importa?», ribattei, rivolgendogli un’espressione imbronciata.
Scrollò le spalle, «Nulla, volevo sapere se avevi fatto qualcos altro a parte spogliarti davanti a Carlisle».
Al pensiero di quel sabato, all’idea che anche lui, pur non essendone stato diretto testimone, aveva potuto assistere indisturbato alla scena mi si gelò il sangue nelle vene. Arrossii tremendamente sentendolo dire, «Bel reggiseno, comunque. Se vuoi toglierti la maglietta anche adesso», schiuse le mani in segno di invito, «Io non te lo impedirò». Gli restituii la cuscinata, «Il solito cafone!», gridai.
Sorrise, ma tornò serio quasi subito, «Ti fa ancora molto male?».
Istintivamente abbassai lo sguardo verso il mio ventre, forse attendeva con angoscia un «sì», magari sperava in un debole «no», poco convincente, ma la verità era che a ferirmi più di quel livido così esteso era il ricordo delle parole di Rosalie, lo sguardo di Alice, le confessioni di Carlisle – quelle erano le tinte del mio dolore, erano il giallo e viola della mia pelle, il gonfiore che andava sparendo o meglio, veniva assorbito dal mio corpo e mi si infilava dentro senza che io potessi ribellarmi.
Scossi la testa, sapendo che non avrei comunque potuto spiegargli ciò che provavo, «No. Sto meglio».
Lui non rispose.
«Se avesse voluto avrebbe potuto uccidermi, no? Direi che per aver affrontato un vampiro ne sono uscita piuttosto bene», ghignai soddisfatta.
«Tu fai tutto così semplice, non so come ci riesci», mormorò, «Sei proprio la persona peggiore che potevo trovare, in questo senso.. Riusciresti a ridere anche di una tragedia e allora io quasi mi sento autorizzato a continuare a stare con te, e va a finire che quella che si fa male», alzò gli occhi verso di me, scintille penetranti che solcavano il mare gelato dentro di me, «Sei solo tu».
«Sei un vero egocentrico», commentai con ritrosia, «Parli di questa situazione quasi come se tu fossi l’unico motivo plausibile per cui potrei morire. Ma la verità è che, per quanto ne sappiamo, potrei morire domani».
A quelle parole lo vidi trasalire, ma questo non mi zittì comunque, «Non è così? Potrei attraversare la strada, mentre, che ne so, tu sei a caccia, e essere falciata da un camion. Oppure potrei farmi un’innocente passeggiata per i boschi e finire nella traiettoria di un albero che si schianta al suolo. Potrei scoprire tra due mesi che ho un tumore incurabile, a quel punto che faresti? Ti daresti la colpa anche di quello? O magari dovrei smettere del tutto di uscire di casa e vivere sotto una campana di vetro. Oppure vuoi farmi da guardiano tutta la vita e seguirmi perfino quando vado al bagno? La trovi una soluzione migliore?».
Si passò una mano fra i capelli, cercando di dire qualcosa, qualcosa che avesse senso o che potesse mettermi a tacere, ma a giudicare dal suo silenzio stava fallendo miseramente.
«Ascolta, se hai intenzione di preoccuparti così tanto per me, per tutto il resto della mia vita, allora devo dirtelo.. Non posso proprio stare con te», accompagnai quelle parole con tutto il mio corpo, avvicinandomi verso di lui, già sprofondato nel panico e raggiunsi le sue mani, sfiorai la punta delle sue dita, inginocchiandomi vicino al suo corpo imperlato di minuscole sfaccettature lucenti.
«Andrà tutto bene, guardami».
Si voltò lentamente verso di me, provando ad abbozzare un timido sorriso,
«Andrà tutto bene», ripetei, «Non avere paura».
«Dovrei essere io a dirti queste cose», ammise imbarazzato.
«Sì è vero, ma tu sei un piccolo stupido idiota, non nutro particolari aspettative nei tuoi confronti», annuii convinta e questo mi costò un’altra cuscinata, «Non sei per nulla capace di stare al gioco», sbottai, sdraiandomi al suo fianco. Il suo corpo imitò il mio, disegnando una curva che partiva dalla sua mascella che scendeva giù, dai muscoli laterali del collo fino a toccare la punta delle sue ginocchia e ancora più giù gli stinchi e i piedi. Non respirava, probabilmente per ridurre il dolore che l’arsura, il bisogno del mio sangue gli procurava, solo ogni tanto si muoveva impercettibilmente verso di me, inspirava profondamente e tornava al suo posto; mi domandai come fosse possibile per qualcuno lottare così strenuamente contro la propria natura, mettersi contro alla logica, alla più tremenda fra le torture e questo soltanto per toccare con mano un po’ di felicità, o almeno era quella che gli leggevo in viso quando ridevamo di gusto, insieme. Per un momento mi sentii quasi lusingata – meritavo davvero un simile trattamento? Certo, a vederlo così, non faceva paura e potevo toccarlo se volevo, potevo far scorrere l’indice lungo tutto il profilo del suo corpo disteso, anche parlargli, andargli più vicino del dovuto e lo stesso sapevo che non avrebbe reagito, che mi avrebbe lasciato fare, senza attaccarmi. Quella domenica mi tornò in mente in un secondo: ripensavo ai suoi occhi neri come pece, folli, i muscoli di tutto il suo corpo tesi e i denti semi scoperti dalle labbra; in quegli istanti il motivo di tanta ira era Rosalie e lui non voleva altro che attaccare lei, se non altro allontanarla da me, eppure era un’immagine spaventosa, anche se i suoi ruggiti non mi venivano rivolti direttamente, anche se non era me che attaccava o che desiderava ferire, sapevo che poteva farlo, tutti loro, gli altri vampiri, potevano. «Edward», richiamai la sua attenzione.
«Mh», mormorò a occhi chiusi, vicino ai miei capelli sciolti.
«Credi che Charlie si troverà alle prese con quei vampiri? Che lo feriranno?», il mio tono tradì inevitabilmente quell’ansia improvvisa che si era impadronita di me.
«Se Charlie dovesse trovarsi davanti a uno di quei tre verrebbe circondato dalla famiglia Cullen al completo nel giro di cinque secondi.. La nostra famiglia ci tiene che il corpo di polizia resti intatto e illeso», cercò di trattenere una risata, «Ma sono sicuro che se la caverebbe alla grande anche da solo, sai? Lui potrebbe.. Mh.. Potrebbe tirare fuori dal portafogli una foto di te mentre dormi e nuoti in un oceano di bava!».
Gli tirai una gomitata e lui si mise a ridere.
«Davvero», continuò lui, «Era una cosa indecorosa, non puoi capire». Non risposi.
«Bella, non succederà nulla a tuo padre. Non pensare a quei tre, non ci daranno noia, sono solo di passaggio», mi sfiorò l’incavo del collo con la punta delle sue dita, «Mi credi?».
«Sì», cedetti a quel tono supplice e a quegli occhi sorridenti.
«Sei ancora preoccupata?», domandò.
«No. Ma,.. Non lo so», sospirai, «Avrei solo bisogno di distrarmi, credo». A quelle mie parole si alzò su di me così rapidamente che fu impossibile per me anche realizzare la parabola entro la quale si era mosso il suo corpo – quelli erano indubbiamente i momenti in cui lo temevo di più, per lui era normale comportarsi così, lasciarsi andare in mia presenza, non misurare i gesti, la loro potenza, ma dava a me una giusta misura di quanto io gli fossi inferiore, fisicamente parlando. Avrebbe potuto farmi qualunque cosa e io non avrei potuto opporre resistenza, nemmeno per un momento.
«Che succede?», chiesi allarmata, ma il sorriso che gli riempì il volto mi prese in contropiede.
«Domani ci sarà un temporale», i suoi occhi brillavano.
«E quindi?».
«Un temporale!», esultò, come se lo potessi capire.
«Eh, e comprati un ombrello», ribattei perplessa.
Schioccò la lingua infastidito, «Non capisci. Non pioverà qui a Forks, ma saremo comunque coperti di nuvole.. E ci saranno i tuoni. Sai cosa vuol dire?».
Mi passai una mano sul viso, esasperata, «No, Edward. Cosa vuol dire?».
«Che possiamo andare a giocare a baseball», sorrise tutto contento.
«Non voglio nemmeno sapere cosa c’entrano i tuoni, guarda», soffocai una risata.
«Dai, vuoi venire?», cominciò a strattonarmi piano, muovendo il mio corpo, «Allora? Andiamo? Vicino casa mia c’è uno spiazzo dove giocare. Facciamo una partitella, io e te. Ti faccio vincere se vuoi».
«Casa tua? No grazie! Ho ricevuto ordini ben precisi da quella pazza di tua sorella», ribattei seccata.
«Ma ti proteggerei io», disse e a quelle parole le sue labbra si allargarono in un dolcissimo sorriso.
Non dissi nulla.
«Oh, per favore», insisté abbassandosi su di me,
«Per favore, per favore, per favore. Ci divertiremo un sacco».
«Ma i tuoi familiari e relativi parenti e le zie alla lontana, tutti loro ecco, non mi odiavano a morte?», chiesi, tanto per metterlo in difficoltà. «Non è che ti odiano, ce l’hanno con me..», borbottò, «Ma se fossimo tutti più o meno vicini, se Carlisle potesse controllarmi, allora non ci sarebbe nulla di cui preoccuparsi, no?», rise.
«Tu ci tieni proprio a essere disconosciuto, eh?».
Edward rise, «Che posso farci se sono così cattivo?». Il modo che ebbe di pronunciare quelle parole, di mettere quell’enfasi particolare proprio sulle ultime lettere mi fece quasi arrossire; il suo viso aveva un che di sensuale, di accattivante e il modo in cui mi guardava diventava di secondo in secondo più insostenibile.
«Mh.. Beh.. Nulla», bofonchiai, «Comunque io domani pensavo di andarmi a fare una corsetta.. Quindi magari ci troviamo là», gli lanciai una rapida occhiata e, a giudicare dal mio sguardo, non aveva colto la marea di pensieri che mi affollavano la mente.
«Mi sta bene», disse alla fine, staccandosi da me.
«Dove vai?», chiesi con aria spaesata.
«A casa», scrollò le spalle lui, già arrampicato sulla finestra, «Ci si vede domani. Svegliati presto, mi raccomando!». L’ultima cosa che sentì, quella sera, fu, «Ma è domenica!».


«È ufficiale: sfuggirti è impossibile».
«Non sono io che ho bisogno della sveglia, sai?».
«Non sono io che non dormo dal dopo guerra!».
Rise, «Dai, andiamo, o ci perderemo la tempesta perfetta».
«Cosa hai contro le mie domeniche? Davvero. Io ci tengo a loro», sbuffai, sistemandomi le scarpe da ginnastica e infilandomi la giacca a vento, «Ci tengo a dormire!».
«A essere pigra..», commentò.
«Esatto! Sai, sto cominciando a dare ragione a Alice: la nostra amicizia è impossibile!».
Mi lanciò un’occhiata stranita, ma non per il commento, più che altro per la mia nuova divisa.
«Che vuoi?», lo brontolai, spingendolo, «Che c’è che non va adesso?».
«Nulla», borbottò lui, distogliendo lo sguardo, «Andiamo adesso?».
Lanciai un’occhiata agli shorts e alla t-shirt, controllando che fosse tutto a posto e poi cominciai a correre, seguendo Edward, il quale camminava placidamente – tre passi miei equivalevano a una sua falcata.
«Hai intenzione di farmi innervosire?», gridai.
«Che vuol dire? Siamo quasi arrivati, non ho fatto nulla», parlò con fare innocente.
«Mi fai sentire una schiappa», sputai le parole fra i denti.
«Questo perché tu sei una schiappa. Non c’entra nulla il mio essere vampiro.. Ti straccerei anche se non avessi i piedi. O le gambe!», rise.
Provai a raggiungerlo, ma ogni mio sforzo fu vanificato dalle sue straordinarie abilità, che lo facevano passare da una parte all’altra del sentiero senza problemi: si serviva di qualsiasi cosa fosse all’interno e all’esterno del tracciato e dovunque poggiasse i piedi riusciva sempre a mantenere un equilibrio perfetto.
Irritante.
«Ecco, il campo è là!», gridò, sporgendosi in avanti.
Lanciai un’occhiata alla radura che si apriva davanti ai miei occhi, incorniciata dal verde screziato dalla luce fioca che riempiva l’aria; raggiungerla fu semplice, dopotutto e, anche se segretamente, nutrivo per quella giornata moltissime aspettative, semplicemente perché stare con lui era semplice, era divertente e per la prima volta, dopo intere settimane, potevo dirmi tranquilla e rilassata.
Il suo volto mi faceva sentire così, ma di più, il fatto stesso che esistesse come realtà tangibile, che fosse lì e che potesse parlarmi. Io non sapevo molto di lui, ma solo stargli accanto mi rasserenava.
Ero felice.
Ancora non avevo idea di cosa fosse la paura.

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Capitolo 18
*** La caccia ***


                                                                                         
                                                                                           La caccia



«E adesso?».
«E adesso aspettiamo».
«Edward, probabilmente non ci sarà nessun temporale, sai..», arricciai il naso in direzione del cielo, poco convinta. «Ci sarà. Alice me l’ha detto, è meglio di una stazione metereologica quando vuole», ghignò.
Non dissi nulla: quel nome riportò alla mente molti ricordi sgradevoli  tanto che finii per domandarmi cosa fosse successo fra Edward e i suoi familiari – davvero farci vedere così, insieme, vicini a casa Cullen non avrebbe creato nessun problema? L’idea di ritrovarmi a fronteggiare un’intera famiglia di vampiri non mi esaltava e anche se d’altro canto sapevo bene che Edward mi avrebbe difesa a spada tratta, sapevo anche che non avrebbe avuto vita lunga con Jasper nei dintorni. O Rosalie.
E in effetti solo alcune delle potenzialità della famiglia Cullen mi erano state rivelate (Alice poteva vedere il futuro, Edward leggere il pensiero, Jasper era capace di controllare le emozioni altrui.. Per non parlare poi della forza e senz’altro violenza di Rosalie), ma ero abbastanza sicura che avessero tutti qualche altro asso nella manica da sfoderare e in quei momenti pregavo soltanto di non essere presente quando questo sarebbe avvenuto – tremavo alla sola idea.
«Che hai?», Edward mi guardava con espressione concentrata.
«Uhm.. Nulla», scrollai le spalle io, «Pensavo».
«Hai paura?», si avvicinò a me, cauto.
Avevo paura? Non lo sapevo. Il sentimento che provavo in quei momenti era distante dalla paura, ma in qualche modo ad essa simile – ero felice, per certi versi, felice di poter stare nuovamente al suo fianco, parlargli, felice anche se costantemente in pericolo, anche se fragile, ma ero anche triste, arrabbiata, atterrita dalla possibilità che qualcosa o qualcuno potesse distruggere quella piccola quiete, quell’angolo di mondo in cui eravamo riusciti a ripararci. Provavo dispiacere per Edward, e senso di colpa nei confronti di Carlisle: lui era stato così corretto da mettermi al corrente di quella verità così nera, così sporca e macchiata di orrori, era stato giusto e imparziale e aveva parlato, spiegandomi meglio il tipo di vicende che si erano susseguite nella vita di Edward, e io lo stesso non gli avevo voluto prestare nessuna attenzione.
In quel momento anche io mi scoprii molto più egoista di quanto avrei mai creduto possibile, forse più di Edward stesso: pur di stare con lui, pur di avere anche solo un’altra ora a disposizione, pur di ritardare il momento dell’inevitabile distacco ero disposta non solo a mettere a rischio me stessa, ma a incrinare il rapporto di una famiglia, quella dei Cullen, a mettere a dura prova i sentimenti di mio padre e mia madre (cosa sarebbe successo a loro se Edward mi avesse uccisa? Se mi fosse capitato qualcosa? Loro non contavano nulla?) e quelli di quel ragazzo sveglio e furbo, quello freddo come il marmo e selvaggio oltre ogni immaginazione.
Già, lui.
«Edward», dissi con appena un fil di voce, ignorando completamente la sua precedente domanda, «è proprio difficile stare con me, vero?». Per un attimo parve non capire, ma poi infine colse il vero significato di quelle parole riferite al mio profumo, alle nostre ovvie differenze, a quel rapporto più simile a una specie di tiro alla sorte che altro. «Va bene, me lo puoi dire, sai», sospirai a voce bassa cogliendo quella sua espressione così insicura, distante. Non disse nulla e a me cominciarono a tremare le ginocchia: era proprio così, doveva essere terribile per lui starmi vicina e non c’era alcun modo in cui avrei potuto alleviare la sua sofferenza. Alzai gli occhi piano, da bassi che erano, fin verso il cielo, cercando di reprimere ogni scomodo sentimento e poi, lui. Mi venne vicino così in fretta che non ebbi tempo nemmeno per reagire: eravamo ormai distanti solo pochi centimetri, due o tre al massimo e io non capivo a cosa fosse dovuto quel repentino cambio d’emozione nel suo sguardo.
E poi, senza che io potessi nemmeno aver tempo di ragionare,
mi abbracciò.
Mi tenne a sé così stretta che quasi mi vennero i brividi – potevo addirittura sentire il suo lentissimo cuore battere (Tum,.. Tum,.. Tum..) e tutto il suo intero corpo essere percorso da un unico, potentissimo brivido.
«Ho provato a starti vicino e lontano e per esperienza so che è più difficile sopportare la tua assenza che la tua presenza», affondò il viso fra i miei capelli e io non potei fare a meno di stringerlo a me, più forte che mani, come la volta in cui lo vidi affacciato alla mia finestra dopo quelle interminabili, lunghissime settimane. «L’hai detto tu, del resto: non possiamo essere diversi da chi siamo, giusto? Non possiamo proprio farci nulla. E comunque», si staccò da me, prendendomi il viso fra le mani, «ormai mi stai troppo simpatica, non me la sento di mangiarti», rise e io poggiai la fronte sul suo petto, consolata.
«Il solito idiota», mormorai sorridendo.
«Dico davvero, e poi sei così magrolina.. Cosa dovrei farci con te? Uno spiedino? Lo spuntino di metà giornata?», provò a cercare i miei occhi, sfiorandomi il mento con le sue dita diafane e tirando il mio viso verso il suo. «Ma che fai?», sbottò, tentando di celare la sua preoccupazione, «Adesso piangi?».
«Non sto piangendo», mi scostai io, cercando di nascondere lo sguardo.
«Mi sembra di sì», sorrise venendomi vicino.
«Piango per la tua stupidità!», strillai, tentando di asciugarmi gli occhi. Lui rise continuando a tenermi vicino a sé e io ero così assolutamente felice, tranquilla, serena.
«Io mi preoccupo per te e tu», tirai su col naso, «non fai che dire queste scemenze, cosa devo fare con te?».
Mi preparai a un’altra risposta delle sue, ma quando incrociai il suo sguardo mi accolse unicamente un tenero sorriso che allargandosi piano mostrava i suoi denti bianchissimi.
Per un attimo, parve volersi avvicinare, provare a toccarmi le labbra, piano, sfiorarmi la guancia con la punta del naso – i suoi occhi così concentrati sui miei mi fecero quasi vacillare, nella mia mente solitamente caotica e affollata di pensieri calò un silenzio impressionante che, col passare dei secondi, si trasformava in vibrazione, una lenta scia emotiva che mi attraversava cuore e cervello in un colpo solo.
Socchiusi appena gli occhi, non potendo reggere a quello sguardo penetrante e più che sentivo il suo freddissimo respiro vicino al mio viso, più che i brividi che m’attraversavano il corpo somigliavano a una scarica elettrica – pensai per un attimo (che sciocchezza!) che fosse sul punto di baciarmi.
Ma poi il cielo cominciò a ruggire infuriato e Edward fu lesto a levarmisi di dosso.
«Sta cominciando! Sta cominciando!», gridò eccitato mentre correva verso la jeep parcheggiata lì dalla notte precedente, evidentemente, per prendere le mazze da baseball, i guantoni e quant’altro.
«Bella! Bella! Vieni, ti faccio vedere adesso», il suo tono di voce era così entusiasta che non potei davvero tenergli il broncio per avermi, per un attimo, fatto sperare in qualcosa di straordinario.
«Arrivo, arrivo», lo ammonii sorridente.
Non ero davvero triste, vederlo così felice, vedere il modo in cui sembrava ancora umano, vederlo e basta mi rendeva calma, cancellava ogni malinconia – persino in quell’abbraccio avevo ritrovato quei sentimenti precisi e così rari in me, pur essendo a conoscenza della vicenda che aveva coinvolto Jane e Edward, in un giovedì scuro come pece e tremendo come una maledizione. Non avevo davvero paura, non di lui: in quegli istanti avevo dato per scontato che non mi avrebbe potuto far del male e in me non esistevano dubbi. Per rispondere alla domanda di Edward, però, sì, avevo paura. Ma di un mondo in cui non avrei più potuto ritrovarlo, per esempio. Tuttavia, finché era lì, finché potevo restargli vicina e ridere con lui, allora non riuscivo davvero più a temere nulla.
«Tieni», Edward mi mise in mano guantone e palla da baseball.
«Vuoi davvero che te la tiri?», inarcai un sopracciglio.
«Cosa sarebbe quell’aria scettica?», sbottò lui.
«È che sembri un po’ una fichetta negli sport, tu», soffocai una risata io.
«Ah è così?», mi tirò una spinta lui, «Prendi per il culo, eh? Vai, vai, appena abbiamo finito di giocare ti sbrano». Scoppiai a ridere e lui con me (era sempre così assolutamente privo di serietà quando pronunciava certe frasi che non riuscivo a mettere in dubbio nemmeno per un secondo la sua bontà).
«Mi metto qui?», chiesi, un po’ più distante, verso il centro della vasta radura in cui ci trovavamo.
«Un po’ più in là..», disse lui accompagnando le sue parole con un gesto della mano.
«Qui?», domandai di nuovo.
«No, un po’ di più..».
«Dimmi dove devo arrivare, così facciamo prima, no?», sbottai io.
«Guarda, li vedi quegli alberi? Ecco, vai il più in là possibile finché non sparisci e poi te ne torni a casa».
La mia espressione contrariata dovette sortire proprio una grande ilarità in lui, perché non la smetteva più di ridere. «Dai, cominciamo sì o no?», incalzai, impaziente di vedere ciò che aveva in serbo per me.
«Ok, ok», rispose con quella solita aria affabile. Prese la mazza da baseball in mano e, piegandosi sulle ginocchia la portò appena dietro la sua testa – fece un cenno nella mia direzione, e il cielo cominciò a tremare, di nuovo. «Avanti, fammi vedere che sai fare!», gridò dall’altra parte del campo.
Annuii, curiosa. Lanciai la palla con tutta la forza che avevo in corpo e quello che vidi, mi sbalordì: non appena la palla arrivò nelle immediate vicinanze di Edward, lui colpì quel piccolo puntino di pelle bianca con una tale forza che fu quasi come sentire la terra spaccarsi a metà. Con una potenza disumana la mazza grigio metallizzata aveva spedito la palla dall’altro lato del campo, troppo veloce perché potessi notarla o prenderla – quel lancio fu così potente da farmi svolazzare i capelli e da distruggere qualche ramo e frasca.
«Cristo santo!», gridai io, con ancora le orecchie che mi fischiavano; attendevo una risposta, ma di Edward nessuna traccia. «Edward?», domandai all’aria, guardandomi intorno.
«Edward!», cominciavo a agitarmi.
«Hai visto?», lo sentii sghignazzare alle mie spalle.
Quando mi voltai mi ritrovai di fronte a un ragazzino felice e spettinato, che teneva una palla in mano e non riusciva proprio a smettere di sorridere, «Guarda qua, non solo ho battuto, ma ho dovuto anche correre a riprenderla! Sei così schiappa che tocca fare tutto a me», mi fece una linguaccia.
«Ma come..», balbettai allibita, «Non l’ho nemmeno vista».
Scoppiò a ridere, «Meno male che ero una fichetta».
Non sapevo nemmeno cosa dire: se non altro adesso avevo capito a cosa servivano i tuoni! Per coprire simili boati poteva bastare solo la forza sconfinata della natura.
«Dai, prendi la mazza, lancio io, altrimenti non mi diverto», mi sorrise, sfilandomi il guantone di mano.
«Scherziamo?», dissi allibita, «Mi staccherai la testa! Con i lanci che fai..».
«Sarò buono», scrollò le spalle lui, «farò finta di star giocando con neonato, o con un cane.. Posso farcela».
Gli tirai un pizzico, «Un cane, eh? Razza di cafone».
In effetti, a essere sinceri, fu più semplice del previsto: Edward riusciva a controllarsi molto meglio di quanto avessi creduto, le palle che lanciava erano tutte abbastanza semplici e per me non era un  grande sforzo riuscire a rispondere a tono. Ma anche se a una prima occhiata poteva apparire una normale partita fra amici, vederlo muoversi era straordinario: in un primo momento non riuscivo a cogliere bene i suoi spostamenti, i miei occhi non si erano mai realmente abituati, ma passato un po’ di tempo, riuscivo almeno, e se non altro, a vederlo scattare o saltare per aria per recuperare la palla, con il guantone di pelle.
Era in effetti così..
Bello.
Non si trattava tanto della sua pelle o del suo corpo, ma più che altro del modo che aveva di passarsi una mano fra i capelli, di ridere, di rimanere attentamente concentrato su qualcosa.. Gesti umani, semplici, lo rendevano bello. Lo rendevano così spontaneo, vivace. Sapevo che i ragionamenti che mi fiorivano in testa erano di un’ovvietà assurda, ma io davvero non avevo mai conosciuto nessuno così: e non c’entrava affatto la sua condizione di vampiro, perché in quei momenti davanti a me c’era solo un ragazzo.
Un essere umano, come me.
E io sapevo di non aver mai conosciuto, mai in tutta la mia vita, una persona così – dolce, gentile, capace, intelligente. Nemmeno Joshua era così, non riuscivo a rivederlo in Edward perché nessuno mi aveva mai trattata con così tanta tranquillità, nessuno aveva mai giocato così tanto con me o mi aveva mai fatta così divertire. Nemmeno Jacob. E mentre lo vedevo correre da un lato all’altro del campo, senza il minimo sforzo, pensavo al fatto che ero felice di averlo conosciuto. Di poter stare con lui.
«Ora tocca di nuovo a me», mi venne vicino, rapidissimo. Annuii, leggermente rossa in viso.
«Sei stanca?», si chinò su di me lui, «Vuoi che cambiamo gioco?».
Scossi la testa, «No, tranquillo», dissi, provando a coprire il viso coi capelli – mi stavano andando a fuoco le orecchie per l’imbarazzo: in quei momenti ero lieta che non potesse leggermi la mente.. Non avrei nemmeno potuto guardarlo in faccia se avesse capito il genere di sentimenti che mi animavano il cuore in quei momenti. «Sei bravino..», osai io, distogliendo lo sguardo.
«Perfetto, la parola che cerchi è perfetto», mi apostrofò divertito.
«C’è qualcosa che non sapete fare?», sbottai io, fingendo irritazione.
Lui fece spallucce, «No, siamo praticamente l’equivalente biologico di uno schiaffo in faccia alla miseria».
Scoppiai a ridere.
«Dico davvero», proseguì, «non ci dobbiamo nemmeno provare, cioè, guardati mentre ti dibatti per fare.. Non lo so,.. Qualunque cosa..? Sembri una foca monaca che tenta di stare in equilibrio su due trampoli», mi prese in giro. Avrei voluto ribattere, ma non ce la facevo a smettere di ridere.
«È la verità», borbottava divertito, «noi siamo toppo superiori, siamo il gradino successivo nella scala evolutiva capisci. Io: geniale e brillante essere capace di qualsiasi cosa», disse battendosi le mani sul petto, «Tu: foca sui trampoli», sorrise pizzicandomi con tenerezza la guancia.
«Molto spiritoso», risposi sarcastica io, strizzando gli occhi con falsa aria di sfida.
«No, no è tutto vero, la vostra specie è un rutto in confronto alla nostra», rise.
Alzai gli occhi al cielo, «Ho capito, siamo entrati nell’angolino del buonumore», sorrisi, «meglio che me ne vada di qui, dammi il guantone, sono certa di poter ricevere».
«Addirittura», inarcò un sopracciglio lui.
«Sì, sono pronta, ho tutto l’allenamento che mi serve, adesso sono diventata imbattibile», ridacchiai.
«Quindi significa che sei ancora umana e inadeguata ai miei lanci..», indugiò lui.
«Già».
«..E che dovrò lanciare la palla come se stessi giocando con una persona cerebralmente compromessa».
«Infatti».
«E magari dovrò anche far finta di non star sprecando tutto il mio potenziale», mi sorrise.
«Io stessa non avrei potuto dirlo meglio», annuii.
«Ok, allora andiamo!», mi mise il guantone in mano, «Fa’ del tuo meglio».
Mi avviai dall’altro lato del campo, ma feci appena in tempo a arrivare verso il centro che Edward mi era già accanto. «Che c’è?», chiesi osservandolo.
Oh, quell’espressione.
Cattivo segno, cattivo segno.
Le sue sopracciglia aggrottate e quegli improvvisi silenzi non erano mai indice di buona fortuna.
«Edward..», provai a dire, ma la mia voce si confuse con quella di un ragazzo riccioluto e ben piazzato, che se ne stava ai bordi del campo, appena fuori dal recinto di alberi. Edward non pareva particolarmente teso, ma era abbastanza evidente che non gradiva l’interruzione. Il ragazzo ci fu di fronte in un attimo.
«Tu vuoi proprio che Rosalie ti strappi le palle, eh?», trattenne a stento una risata divertita.
Edward fece spallucce. Il ragazzo mi squadrò dall’alto in basso, sempre con in volto lo stesso sorriso beffardo di qualche momento fa, «Allora tu devi essere.. Bella? Ho ragione? Io sono Emmett», si presentò.
«Uhm, sì.. Ciao», provai io, senza ben sapere cosa fare.
«Stavate giocando?», chiese Emmett. Non sembrava essere particolarmente a disagio di fronte alla mia natura né, pur standomi così vicino, sembrava essere troppo disturbato dal mio odore che, a detta di Edward, era irresistibile. «Stavamo giocando», rispose Edward.
«Che palle, eh?», Emmett mi tirò una gomitatina e l’altro per un momento parve irrigidirsi.
«Come?», non riuscivo a capire.
«Voglio dire, ti porta a giocare a baseball.. Con questo tempo. È da maleducati, no? Quando piove e ci sono tuoni e lampi, si rimane a casa a scopare, o sbaglio?», rise Emmett.
Inutile dire che sia io che Edward diventammo paonazzi (almeno, a giudicare dalla sua espressione, lo sarebbe diventato se avesse potuto).
«Si può sapere cosa dici..», sbottò Edward visibilmente irritato.
«Scusa, scusa..», alzò le mani i segno di resa, «Provo a non essere così esplicito sai, ma con una ragazza così graziosa..», ammiccò nella mia direzione, «Bisogna proprio essere donne mancate per non fare nulla», scherzò divertito e io arrossii nuovamente.
Edward parve spazientirsi e Emmett gli passò un braccio intorno al collo, «Stai tranquillo, sto solo facendo l’idiota. Piuttosto, penso che rimpiangerai a lungo la scelta di averla portata qui», disse e il suo tono mi fece aggricciare la pelle. «Che vuol dire?», chiese Edward.
«Beh, quei tre vampiri che bazzicano la zona da un po’ di tempo hanno deciso di fare una scampagnata da queste parti quindi, per unire l’utile al dilettevole tutta la famiglia si è riunita per una battuta di caccia straordinaria e anche per perlustrare la zona.. Sai, in caso di un incontro ravvicinato. Quindi siamo tutti nei paraggi e questo appuntamentino galante si sta per trasformare in una bella rimpatriata di famiglia», sembrava scherzoso, ma era evidente che nel suo tono c’era un’inquietudine molto più che reale.
Al pensiero di ritrovarmi faccia a faccia con Rosalie e Alice mi vennero i brividi. E anche incontrare nuovamente gli altri maschi della famiglia, Carlisle e Jasper, non mi entusiasmava più di tanto.
«Dobbiamo andare via», sussurrai io, lanciando un’occhiata a Edward.
«O meglio, io devo andare», mi affrettai a correggermi, «Non preoccuparti, la strada da qui a casa mia non è poi così lunga, prenderò una scorciatoia..».
«Non dire scemenze», mi rimbeccò lui, «verrò con te, stupida».
«Troppo tardi», disse Emmett in un sibilo e tutti alzammo gli occhi verso i bordi più remoti del campo: erano tutti lì, si avvicinavano lentamente, Carlisle in testa, Jasper e Alice alla sua destra, Rosalie dietro di loro e nel gruppo c’era anche una donna che non avevo mai visto, sicuramente la madre adottiva di Edward e moglie del dottor. Cullen.
È finita, pensai. È finita e basta. Mi uccideranno.
Mi spostai più che potei vicino a Edward, con una mollezza che sottolineava più che egregiamente le gambe tremanti e la paura che si stava appropriando del mio corpo: provai a fare forza su me stessa, ma in un primo momento lo sconforto ebbe la meglio.
Quando tutto il gruppo al completo ci fu davanti, perfino Emmett perse quella sua aria maliziosa e lasciò andare il fratello. «Mi prendi per il culo», ringhiò Rosalie non appena ci fu di fronte, ma la donna, di cui non conoscevo il nome, l’ammonì.
«Che stavate facendo di bello?», sorrise Carlisle.
«Tranquilli.. Giocavano a baseball. Nessun affronto verso Dio, nessun accoppiamento selvaggio fra specie diverse», ghignò Emmett scherzoso, cercando di alleggerire la tensione.
Edward lo fulminò con lo sguardo e Jasper si fece scappare un risolino.
«Capisco», disse Carlisle.
«È un piacere rivederti, Bella», si rivolse nella mia direzione.
«Sì,.. Immagino», mormorai, «anche per me è un piacere. Forse però dovrei andare via, adesso».
Alice schioccò la lingua infastidita, «A che pro, se tanto continuerete a fare queste scampagnate?».
«A questo punto», si intromise la donna dai capelli raccolti e dal portamento regale, zittendo Alice, «forse potremmo fare conoscenza. Io sono Esme, la moglie di Carlisle», si presentò.
«Bella», mi affrettai a rispondere.
«Che nome dolce», mi sorrise, «perché non vieni a casa con noi? A momenti pioverà, vero Alice?».
Alice annuì seccata.
«Non voglio disturbare», insistei, «posso tornare a casa mia, andrebbe bene lo stesso».
«Nessun disturbo, mi farebbe molto piacere conoscerti», alle parole di Esme, Rosalie rivolse un’occhiata incredula alla donna. Provai a rifiutare ulteriormente, ma Carlisle si intromise, «Non devi essere spaventata». Già, era una parola.
«E comunque, credo davvero che sarebbe meglio per tutti andarsene, adesso», l’insistenza nella sua voce mi rese insicura e perfino Edward era più cupo del solito. Cosa stava succedendo?
«Ci stiamo mettendo troppo», sbottò Jasper, «stanno arrivando».
Rosalie mi fulminò con lo sguardo, «Un motivo in più per mollarla qui». A quelle parole, nel corpo di Edward si creò come una voragine, un vuoto immenso e da esso nacque il più terrificante dei ruggiti.
Rosalie indietreggiò impercettibilmente, ma sempre sostenendo lo sguardo duro e fiero che la contraddistingueva. «Adesso basta», tuonò Esme.
«Tutti e due, smettetela immediatamente!», rivolse un’occhiataccia ai due litiganti, proprio fosse stata la loro vera madre. «Esme ha ragione», puntualizzò Carlisle, «Edward, non avresti potuto scegliere momento peggiore per portarla qui..», aggrottò le sopracciglia.
«Dobbiamo andare via di qui immediatamente», incalzò Jasper, spazientendosi.
«Sono pericolosi?», chiese Edward allarmato.
«Non so, a giudicare da tutti i cadaveri che stanno seminando intorno alla zona direi che no, sono dei simpaticoni, forse se ci manteniamo in contatto a Natale possiamo mandar loro dei biglietti d’auguri», sbottò sarcastico. «Già, a patto che Bella non diventi la cena», precisò crudele Rosalie e questo le costò un’altra occhiataccia da parte dei suoi genitori adottivi.
«Andiamocene e basta, insomma!», strillai io, rabbiosa, tesa, senza avere idea di cosa stesse per succedere.
«Troppo tardi», Alice levò gli occhi da terra e li rivolse verso la fitta radura di alberi distante pochi metri e noi la imitammo. Ai bordi dell’immenso spazio verde e intricato di terra e erba, comparvero tre figure – due uomini e una donna. Questa era vestita con una semplice t-shirt e un paio di jeans, i capelli raccolti in una coda alta che le incorniciava il viso toccato da una malizia deliziosa, impossibile da nascondere. Stessa divisa per l’uomo dai rasta neri, la pelle bronzea e le labbra carnose: t-shirt bianca, giacca di pelle, jeans scuri.
Apparivano come persone tranquille, così pacate, delicate. Poi, fra i due, si fece largo il terzo, fra tutti il più alto. Il suo viso austero era toccato da qualche ciocca dei capelli biondo cenere, lunghi, scompigliati, il naso aquilino gli conferiva un aspetto decisamente serio, attento e rimarcava ancora di più i suoi zigomi alti, il corpo fine ma muscoloso e gli occhi circospetti.
Il suo modo di muoversi era inquietante, assomigliava a un presagio, al male che avanzava, ai deserti di sale sotto un sole di fuoco. «Tutti calmi», sibilò Carlisle, «e cercate di stringervi il più possibile intorno a Bella».
Gli altri obbedirono e io mi ritrovai mischiata in un inaspettato schieramento di vampiri.
«Non mi sbagliavo allora», sorrise quello coi rasta, «mi era sembrato di sentire la presenza di un altro gruppo nei dintorni», ci guardò tutti, dal primo all’ultimo – la donna lo imitò, solo l’uomo biondo pareva non voler distogliere lo sguardo da me.
«Sono Laurent», disse, scoprendo i denti bianchissimi che creavano un contrasto suggestivo con la sua pelle scura, «e questi sono Victoria e James», disse accompagnando le sue parole con un pacato gesto della mano. «Piacere», sorrise cordialmente Carlisle, «io sono Carlisle, questa è mia moglie Esme, i miei figli adottivi, Rosalie, Emmett, Bella, Edward, Jasper e Alice», il mio nome, fra tutti gli altri, parve perdersi quasi per strada e per un momento non potei fare a meno di esserne felice: il mio scopo in tutta quella commedia era di non attirare l’attenzione.
«Siete un gruppo numeroso», commentò con gentilezza la ragazza che, a una prima occhiata, sarebbe potuta essere scambiata tranquillamente per una persona dai modi cordiali, sicuramente molto più bella di una comune essere umana, ma di certo il look che si era scelta la faceva passare abbastanza inosservata.
Ma era palese che ella portava su tutto un altro livello il detto “Le apparenze ingannano”: ero infatti abbastanza sicura che fossero proprio quei tre i vampiri di cui Edward mi aveva parlato e che avevano seminato il panico a Seattle, uccidendo tutte quelle persone. Questo significava che il mondo era la loro zona di caccia e per loro non c’erano davvero limiti: agivano fra l’oscurità e la complicità delle fittissime foreste del Nord Pacifico, come nelle affollatissime città. Sicuramente nemmeno Edward aveva tardato a arrivare alla mia stessa conclusione: erano pericolosi, se non addirittura letali e non potevamo fare passi falsi. «È vero», sospirò benevolo Carlisle, «ma d’altro canto, quando si ha un insediamento stabile.. Oh, beh, a questo proposito, vi chiederei di non cacciare in questa zona. Sapete, non vorremmo che dei sospetti ricadessero su di noi,..», indugiò.
Laurent parve molto colpito e sicuramente affascinato dal portamento elegante e composto del dottor. Cullen. «Stabile?», domandò incredulo, «Come ci riuscite?».
L’altro scrollò le spalle, «Roba da nulla».
Emmett e Jasper si lasciarono scappare una risata divertita e l’atmosfera si rilassò immediatamente.
«Ci nutriamo della fauna locale», spiegò Carlisle, «in questo modo possiamo vivere fra gli esseri umani e non essere costretti a spostarci da un luogo a un altro ogni settimana. Riusciamo a rimanere negli stessi luoghi per periodi piuttosto prolungati, questo ci rende la vita più comoda».
«Sangue animale?», sbottò incredula Victoria, «Roba da pazzi! Non c’è paragone col sangue umano!», rise guardando James, il quale continuava a non voler spiccicare parola.
«È singolare», commentò Laurent.
«E riuscite a mantenervi in forze?», domandò Victoria.
«Tu che ne pensi?», si pavoneggiò Emmett mostrando i muscoli.
Rosalie alzò gli occhi al cielo, «Il solito».
Questo scatenò di nuovo l’ilarità generale: persino i nuovi arrivati parevano godersi quella improvvisa e senz’altro inaspettata tranquillità, tanto che le maglie dello scudo che i Cullen avevano creato per confondere il mio odore si allargarono di un po’.
«Beh, ad ogni modo non sapevamo che questa fosse la vostra zona», si scusò Laurent, «ce ne stavamo andando comunque, pensavamo di spostarci verso Nord, ma ancora è da decidere».
Pensai che fosse troppo presto per tirare un sospiro di sollievo e preferii concentrarmi sugli occhi dei nostri nuovi ospiti, se non altro per rinfrescarmi la memoria: erano ben diversi da quelli di Edward o dei suoi fratelli – mentre i loro cangiavano da un topazio caldo a un nero pece, quelli di Laurent, Victoria e James erano neri, ma con striature rosso rubino che, ci avrei giurato, avrebbero saputo come risplendere perfino sotto la più oscura delle notti. Mi vennero i brividi.
«Non vi preoccupate», minimizzò Carlisle, «anzi, ci farebbe piacere se tornaste a trovarci, qualche volta, magari potremmo approfondire la conoscenza», propose con calma.
«Magari torneremo già a stomaco pieno», rise Victoria e Laurent con lui.
«Potreste fermarvi anche adesso», si mostrò disponibile Carlisle, «immagino che sarete stanchi, vorrete rilassarvi, tanto non saremmo stati comunque tutti a casa, stasera, alcuni di noi andranno a caccia», sorrise e era più che evidente, almeno per me, a chi si stesse riferendo.
«No, grazie», rispose James, prendendo la parola per la prima volta.
Laurent lo guardò senza capire.
«Non vogliamo trattenerci troppo», parlò, e un sorriso torvo piegò le sue sottili labbra.
Nulla di quella situazione, né del suo modo di muoversi e parlare riusciva a tranquillizzarmi: sentivo di doverlo temere profondamente, che era sensato quel gelo nelle vene che mi faceva rabbrividire.
Sparirono in fretta, Victoria fece appena in tempo a voltarsi verso di noi un’ultima volta e a salutarci con un sorriso a trentadue denti – già. Era davvero straordinario il modo naturale che aveva quella creatura di muoversi, come se quella condizione fosse per lei la più naturale e congeniale. Nei suoi occhi non c’era la minima ombra di rimorso per ciò che aveva fatto insieme ai suoi amici, a Seattle.
«È stato più semplice del previsto, eh?», tremai, tentando di spezzare il silenzio, ma nessuno mi prestò attenzione: tutti si erano rivolti verso Edward, che ancora non la smetteva di osservare lo spazio ora vuoto dove prima si trovavano i tre. «Cosa hai visto?», chiese Alice.
Edward non rispondeva e Carlisle cominciò a spazientirsi.
«Allora?», ripeté Alice.
«L’ha capito», mormorò, gli occhi completamente sgranati.
Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla.
«Ha capito che è umana», la su voce si faceva di sillaba in sillaba più flebile.

«La vuole».


«Devi darci qualche altra informazione, Edward», fu Carlisle a spezzare il silenzio per primo.
«Cosa c’è ancora da dire?», l’altro era totalmente nel panico, completamente spaesato, si muoveva nervosamente avanti e indietro nella cucina di casa sua senza che nessuno riuscisse a calmarlo, «James è un segugio, questo è quello che fa, scova le prede e le caccia!».
«Cosa farà?», domandò Esme, cercando di rimanere calma.
«Di tutto», sibilò Edward, «questa è la sua vita, ama cacciare, ama seguire le tracce,.. L’odore di Bella lo ha colpito immediatamente, ma la mia reazione.. L’ha fatto scattare», si passò una mano sul volto.
«Non riuscivo a rimanere lucido e così sono rimasto con gli occhi fissi su di lui, ero troppo teso.. Non è mai stato abituato a trovarsi un muro di fronte, è stato come innescare una bomba e adesso lui non si fermerà finché non..», lasciò cadere la frase in modo drammatico.
«Dobbiamo proteggerla», disse Esme, con calma.
La sua proposta sortì ovviamente l’effetto che mi immaginavo: la totale incredulità della maggior parte dei membri della famiglia. «No», obbiettò con fermezza Rosalie, «la ucciderà lo stesso. Non ne vale la pena», a quelle parole Edward fu sul punto di scattare, ma la sorella non gli dette peso e proseguì, sta volta diretta esclusivamente a me: «Ecco a cosa siamo arrivati. Noi tutti ti avevamo avvisata e sono certa che, per quanto possa sembrare privo di intelletto, persino Edward ti avrà notificato l’enorme differenza che intercorre fra le nostre specie. Non era che questione di tempo. Ti abbiamo dato una seconda possibilità, perché è solo grazie a noi se sei ancora viva, non ti è bastato? Quante persone possono vantare la stessa fortuna? E guarda in che situazione ti sei messa! A questo punto», fece rivolgendosi di nuovo ai suoi familiari, «saremo più caritatevoli a ammazzarla in questo momento! Se non altro sarebbe più umano».
Esme apparve come sconcertata di fronte a una simile eventualità, ma fu Alice a prendere la parola, immediatamente prima che fosse la madre ad agire.
«Rosalie ha ragione. Dio solo sa a quali perversioni potrebbe sottoporti», disse con fare austero e risoluto.
«Alice!», saltò su Esme incredula e Edward non tardò a rivolgerle un ringhio spaventoso.
«È una possibilità da non scartare», ruggì Alice verso il fratello, «quali altre brillanti idee hai? Lo sai il primo posto in cui si dirigerà quale sarà?».
A quella domanda mi crollò la terra sotto i piedi – Charlie! No! Non potevo lasciare che gli accadesse qualcosa, non a causa mia! Anche a costo della mia stessa vita lo avrei protetto da quella colpa unicamente mia, da quel capriccio di troppo che non mi sarei dovuta permettere. Ero così debole e in quel momento, la persona più a rischio non ero io, ma bensì mio padre!
«Vi prego..», provai a dire, ma Jasper mi interruppe: «Non possiamo farla tornare a casa. Rischiamo che Charlie si trovi a fronteggiare James. Morendo entrambi sicuramente il nostro segreto rimarrebbe intatto, ma non potremmo comunque nascondere i loro cadaveri e ci troveremmo di fronte a un impasse, abbastanza imbarazzante anche: non potremmo lasciare Forks, solleveremmo troppi sospetti in quel caso, ma non potremmo nemmeno rimanere, a quel punto la situazione diverrebbe inevitabilmente compromessa».
«No, dobbiamo tenerla qui», mormorò Carlisle sfregandosi il labbro superiore, «magari di fronte a un clan così numeroso, l’interesse di James potrebbe scemare..», nelle sue parole non avevo mai udito minor convinzione.
«Non potremmo rimanere in questa casa per sempre, ogni tanto avremmo bisogno di andare a caccia e se anche ci sfamassimo uno alla volta», constatò Alice, «gli altri sarebbero comunque troppo deboli per poter fronteggiare James, il quale chissà a quali sotterfugi potrebbe ricorrere per allontanarci. Inoltre, più ci indeboliamo, più invitante diverranno l’odore e il sangue di Bella – in sostanza, in quelle circostanze, rischieremmo di ucciderla noi stessi».
Chiusi gli occhi, cercando di trovare in me stessa la concentrazione necessaria per affrontare una situazione simile: adesso che mi trovavo a casa di Edward dopo che tutta la famiglia, in fretta e in furia, aveva deciso di fare ritorno in luoghi ben più sicuri, non ero più sicura di quello che stesse succedendo.
Ero lì, ma non c’ero veramente.
I miei primi, confusi pensieri volarono a Charlie, ignaro della guerra che stava scoppiando nel mio cuore, assolutamente sicuro che sarei ritornata a casa quella stessa sera, che nulla avrebbe potuto infrangere la nostra, ormai consolidata quotidianità: lui era il primo a essere in pericolo e in quel momento mi interessava soltanto proteggere la sua salute. Perché alla fine, io..
Mi passai una mano sul viso, ormai non riuscivo più a seguire la conversazione che continuava a procedere a ritmo serrato fra i componenti della famiglia Cullen, ma non me ne importava più niente – a loro non interessavo e lo capivo: la mi esistenza rimaneva un disturbo per loro e non era difficile per me coglierne la ragione. Magari per Edward sarebbe stato triste vedermi morire o semplicemente in pericolo, ma alla fine avrebbe potuto sopravvivere anche senza di me – anche lui, alla fine mi avrebbe dimenticata. Del resto, io ero comparsa nella sua vita per un periodo di tempo talmente insignificante.. Aveva passato cento anni senza di me, avrebbe potuto trascorrerne altri cento nello stesso modo.
Ma non potevo permettere che a Charlie accadesse qualcosa a causa mia: era il momento di prendere in mano la situazione.
«Ho un piano», dissi, usando il tono di voce più risoluto che possedessi.
Rosalie a quel punto scoppiò in una risata argentina, così incantevole da commuovere, ma Carlisle la zittì,
«Dicci».
«Esiste un modo per fermare James? Per farlo desistere dal suo intento?», domandai tremante.
Tutti fissarono Edward per un momento incalcolabile, finché lui non capitolò: «No. Lo dobbiamo uccidere».
Trasalii ma tentai di mantenere la calma.
«Quindi o muore lui o muoio io», sospirai.
Nessuno ebbe il coraggio di dire nulla.
«Finché io rimango qui, insieme a voi, lui non attaccherà mai, giusto? Sarebbe un errore troppo grossolano affrontare una famiglia intera, per quanto possa essere temibile parliamo di un’evidente superiorità numerica: non avrebbe mai la meglio», lanciai una rapida occhiata per scrutare il pallore dei visi, improvvisamente interessati, che mi stavano tutti rivolti, nessuno escluso.
«Rimarrò qui, per stasera almeno.. Chiamerò Charlie e gli dirò che rimarrò a dormire, che mi avete invitato a cena. In un modo o nell’altro si farà piacere questa novità. Poi ve ne andrete, e mi lascerete qui da sola, fingendo di andare a caccia – James sarà comunque nei paraggi, dubito che se ne vada da qualche altra parte, no? Se sarò sola, se nessuno darà nell’occhio.. Allora lui verrà. Cercherò di tenerlo impegnato e quando sarà il momento, voi interverrete,.. Così lo ucciderete, senza dargli la possibilità di scappare», finii, con appena i fiato sufficiente per tirare un altro respiro.
«No!», gridò Edward, prendendomi per le spalle, «Ti ucciderebbe! Non posso lasciarti sola, è solo colpa mia». «Hai altre idee?», domandai con lo sguardo assente.
«Sì, partiremo, dirai a Charlie che andiamo.. Non lo so! Potresti tornare a casa tua, a Phoenix..», era completamente caduto nel panico. Mi tirai su, sulla punta dei miei piedi e gli presi il viso fra le mani,
«Edward», dissi con macerato dispiacere, «Ci vorrebbero venticinque ore per arrivare a Phoenix in auto – di certo è esclusa l’idea di infilarsi su un aereo. Morirei prima di poter infilare le chiavi nella toppa della serratura, nella mia vecchia casa. E si tratta comunque di un posto troppo soleggiato perché voi vi possiate mostrare. Ci sono sicuramente molte alternative a questo piano, ma non sono migliori, purtroppo..», sospirai, cercando di sorridere.
«Vorrei soltanto che vi occupaste di sorvegliare casa mia, sapete, per Charlie..», lanciai un’occhiata a Carlisle, «Non voglio che gli succeda nulla», ormai trattenevo a stento le lacrime.
«No!», cominciò a urlare Edward ma ad uno a uno i volti dei suoi familiari si fecero più cupe, serie – era naturale che per loro fosse la scelta migliore, ma lui non lo poteva accettare. Il suo affanno mi appariva così astruso, eppure, pur non capendone la natura, pur immaginando che un semplice senso di colpa o sentimento di compassione potesse sconvolgerlo così tanto, fui grata del terrore che scorgevo nei suoi occhi: ero importante per lui, il suo dispiacere mi confortava. Sapevo che a nessuno in quel posto interessava di me, eccezion fatta per Edward e questo mi rese improvvisamente commossa e felice. La mia morte lo rattristava, l'idea che potessi ferirmi irreparabilmente lo spaventava, destabilizzandolo. Temevo sempre la sorte che io stessa stavo costruendo intorno a me, ne ero sconvolta. Ma per una qualche ragione a me ignota, quei suoi lamenti mi fecero sentire meno sola, a casa. Si preoccupava per me, aveva paura per me e questo mi faceva sentire voluta. Mi faceva sentire come se, il fatto che io fossi ancora in vita, nonostante tutto, non fosse uno sbaglio.
«Non è detto che muoia..», provò Emmett a quel punto.
«Non potete essere d’accordo con questa cosa!», sbraitò l’altro, fuori di sé, «Morirà!».
«Edward», richiamai la sua attenzione, «andrà tutto bene».
Mi guardò esterrefatto, senza riuscire a muovere un muscolo e in quel momento captai con chiarezza i sentimenti che lo animavano: erano gli stessi che provavo io. Dolore, un dolore acutissimo e un dispiacere così tremendo e freddo che mi rendeva una vittima a testa china, senza speranze.
Ero spacciata – pochissime erano le probabilità che mi salvassi, nessuna che mi salvassi senza riportare danni gravissimi, eppure non c’era altra soluzione che quella: non sarei scappata.
Se sarebbe servito a salvare Charlie, allora sarebbe potuta valere la pena.
Sulla mia morte, ero certa che i Cullen avrebbero potuto ricamare una bella storia e anche parecchio convincente che li avrebbe scagionati del tutto e Charlie non avrebbe sospettato nulla: nessun altro carico si sarebbe aggiunto alla pena già enorme che stavo per infliggergli.
Guardai attentamente Edward negli occhi, decisa a carpire ogni più piccolo dettaglio di quel colore così caldo e accogliente, nella speranza di poter portare con me almeno quell’ultimo, dolcissimo ricordo.
Era la fine.
«Sì, andrà tutto bene», sorrisi senza convinzione,
«Mi credi?».

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Capitolo 19
*** Addii ***


Nota dell’autrice: mi scuso, nuovamente, per il ritardo con cui posto questo capitolo (davvero, sono lentissima) e per la sua brevità! Il prossimo sarà più lungo, promesso.

 
                                                                                                              Addii


«Pronto?», quella voce rauca mi fece traballare, tanto che mi ci volle un bel po’ per far forza su me stessa e rispondere. «Sì, pronto? Ciao papà..», mormorai.
«Bells tutto ok?», domandò incerto.
«Mh-mh, qui va tutto alla grande.. Senti uh.. Mi domandavo se.. Se potevo rimanere a dormire qui, stanotte», chiesi timidamente.
«Precisamente, qui dov’è?», potevo vedere la sua espressione perplessa anche senza averlo di fronte.
Sorrisi senza volerlo, «A casa di Edward».
Sentii che stava per dire qualcosa, ma lo bloccai prim’ancora che potesse fiatare, «In realtà.. Ho fatto amicizia con le sue sorelle e sono tipe.. Forti. Mi hanno invitato a stare con loro stanotte, mi presteranno loro dei pigiami, sai. Non farti idee strane comunque, io e Edward siamo solo amici».
Rimase in silenzio per un momento.
«Mh», mugugnò, «Va bene. Se ai genitori di Edward va bene..».
«Va bene», dissi, ormai senza più espressione nella mia voce, «A loro va benissimo».
«Allora divertiti, Bells», un rapido sorriso sulla curva di quelle ultime parole, «Buona notte tesoro».
«Buona notte papà», sospirai, invece di urlare, invece di scatenare il mio dolore e la mia furia, invece di chiamarlo a gran voce, di strapparmi i capelli dalla disperazione, di chiedere aiuto, di pregarlo affinché corresse a salvarmi. Spensi il telefono e solo allora mi accorsi delle lacrime che scendevano copiose rigando le mie gote, bagnando il display del cellulare.
Ancora potevo sentire Edward gridare al piano di sotto, disperatissimo, lo sentivo supplicare («Lasciatemi fare, non fatele chiamare suo padre!»), ma erano forze spese invano le sue: l’evidente superiorità del mio piano rispetto ai suoi era talmente schiacciante che nessun membro della famiglia Cullen si stava dispiacendo più di tanto a trattenerlo con la forza, affinché io potessi telefonare a mio padre e salutarlo.
C’erano cose che avrei voluto dirgli, posti in cui mi sarebbe piaciuto andare o tornare con lui. C’erano momenti che avrei voluto rivivere, in quel preciso istante: tornare bambina e essere di nuovo al mare con Charlie che mi alzava in braccio e sopra il mondo, mentre rideva e mi teneva così in alto che a me pareva possibile perfino toccare il cielo. Avrei voluto..
«Bella!», gridò Edward, quasi sfondando la porta di camera sua, nella quale mi ero rifugiata, finalmente libero. «Perché?», mi fu addosso in un istante, «Sei solo una stupida!», urlò con una ferocia che non gli avevo mai visto in volto, «Come hai potuto fare un gesto così avventato? Non hai idea di quello a cui stai andando incontro! Sei solo un’egoista!».
Alzai il viso verso il suo, colpita da quelle parole.
«Solo un’egoista! Fai tanti bei discorsi, hai tante belle idee ma poi resti solo questo! Un’egoista! Non pensi a Charlie? Pensi che vivere una vita senza sua figlia sia meglio che morire? Non pensi a quanto lo farai soffrire? Non posso credere che tu sia umana, che tu sia viva, che tu abbia un cuore, perché altrimenti in questo momento si starebbe spezzando all’idea di ciò che stai per fare!», tuonò fuori di sé e a sentire quelle parole una rabbia, un tale odio mi salì in corpo, mi avvelenò il sangue nelle vene che per un attimo mi parve di star morendo arsa viva. «Come ti permetti!», strillai così forte che perfino Emmett si affacciò alla porta di camera. «Sei solo un inutile pezzo di merda!», lo spinsi via con tutta la forza che avevo in corpo, «Preferirei morire cento volte piuttosto che scappare e lasciare Charlie da solo! Preferirei sgozzarmi in questo momento, gettarmi da questa stessa finestra! Per te non significa nulla, vero? Tu probabilmente nemmeno ti ricordi di com’è, avere una famiglia! Tutto questo è accaduto per colpa mia, perché sono stata debole, perché ho pensato solo a me stessa, quando infatti Rosalie aveva ragione! Alice aveva ragione! Tutti avevano ragione e a me non è mai importato nulla, perché preferivo pensare che sarebbe semplicemente bastato stare con te per risolvere tutto, perché credevo che potessimo bastare da soli! Ma in realtà non sono stata altro che cieca..», mi alzai dalla sponda del letto, serrando i pugni, «E adesso guarda! Tutto questo è solo colpa mia, ma sto cercando di rimediare! E tu.. Vieni qui, con questa arroganza.. Dici che sono egoista.. Non lo siamo tutti allora? Non siamo tutti soltanto degli egoisti e dei bugiardi? Ma che possiamo farci? Che posso farci io? Voglio soltanto che Charlie sopravviva, voglio soltanto che non corra rischi, è sciocco forse? È mio padre! Io lo amo. E se dovrò morire..», singhiozzai, «Allora morirò».
Edward rimase lì, di fronte a me, senza riuscire a dire nulla, totalmente inerme di fronte alla realtà dei fatti. Nessuno di noi riusciva a lasciare le proprie posizioni, fermi l’uno davanti all’altra, come le due metà esatte di uno specchio – sapevo che non poteva lasciarmi andare, ma non c’era altra possibilità che correre quel rischio. Per un attimo, solo per un momento, ripensai a mio padre e alla sua buona notte. Ripensai a tutte le volte che me l’aveva data, rimboccandomi le coperte, ripensai a mia madre e la mia mente volò lontana, nei luoghi più soleggiati dell’Arizona, come un uccello da mia madre, per posarsi sul suono della sua risata un po’ storta che mi ricordava tanto il mare, ai suoi capelli corti un po’ brizzolati, ai biscotti che preparava volentieri quando mi ammalavo. Avrei voluto chiamarla, tornare fra le sue braccia perché in fondo non ero altro che questo di fronte all’inevitabile: una bambina che lanciava i suoi primi sassi alle sue prime paure.
E non ero pronta.
Edward mi prese il viso fra le mani, fissandomi con i suoi grandi occhi tristi – sì, Carlisle aveva ragione. Se avesse potuto piangere per lui sarebbe stato più semplice e invece, le tristezze gli si fermavano in gola.
«Non puoi e basta», tentò di essere sicuro nel tono e nei gesti, ma la debolezza che scorsi aldilà delle sue parole lo rese di nuovo umano ai miei occhi.
«Non puoi, Bella. Io non ce la faccio, non posso rischiare di perderti di nuovo. Ti prego. Vattene. Ti porterò dovunque vorrai, ce ne andremo, staremo insieme e andremo dove mi chiederai, James non ti farà mai del male finché ti sarò vicino. Troveremo una soluzione anche per Charlie, va bene? Lo tratterò come se fosse mio padre..», mormorò e quando pronunciò quelle parole il cuore mi si ruppe in petto, schiacciato dal peso della crudeltà delle mie precedenti affermazioni: come avevo potuto rivolgere a quel ragazzo triste parole così violente? Oh, le tremende offese che avevo pronunciato conservavano in loro una crudeltà senza confini, come avevo osato tanto? Strizzai gli occhi, trafitta da mille spade, chinando il capo senza più riuscire a aprir bocca.
«Te lo prometto, Bella, guardami», la sua voce cominciava a rompersi, piegarsi come metallo sotto i violentissimi colpi del cielo e della terra, «Guardami per favore. Non posso lasciartelo fare. Non devi, non puoi», balbettò, «Non è giusto».
Alzai lo sguardo verso un ragazzo distrutto, a testa basta come me, che non riusciva più a voler giocare, a sorridere, che stava crollando inesorabilmente sotto il peso del suo dolore.
«Non è giusto, non puoi farlo», mormorò.
«Io cosa farò senza di te?», mi strinse a sé così forte e per un attimo somigliò quasi all’amore.
Lo strinsi a me più forte che potei, cercando di assaporare qualunque cosa di quel momento: l’odore della sua pelle, il corpo freddo, la camicia stropicciata, i capelli morbidissimi sulla mia pelle arrossata dalle lacrime. «Devi fidarti di me», sussurrai, «Non puoi salvarmi per sempre».
«Se tutto andrà bene, magari non morirò», a quelle parole un sorriso isterico comparì e svanì dal mio viso con la stessa rapidità con cui riuscivano a cambiare i miei sentimenti in quei momenti.
«Ma tu devi lasciarmi andare».
«Non posso», balbettò lui, «Non sono abbastanza forte».
«Non lo è mai nessuno», piansi io.
«Edward..», la voce melodiosa di Carlisle ci destò da quell’attimo infinito, «Forse dovremmo occuparci di organizzare il contrattacco. Abbiamo bisogno di te,.. E forse Bella sopravvivrà».
«Vi prego», sussurrò da ultimo il giovane, prima di lasciarsi portare via dalla stanza dal padre,
«Vi prego, lasciatemi con lei».

Sentivo la voce di Edward, e notavo con macerato dispiacere le sue espressioni preoccupate e il tono di voce flebile, il modo sicuro in cui diceva che James non cacciava in gruppo e che viveva in lui la ferma convinzione di voler agire senza aiuti, né da parte di Laurent né da parte di Victoria. Sentivo Carlisle, la maniera delicata e precisa in cui spiegava ai tutti e improvvisamente obbedienti membri della famiglia come posizionarsi all’esterno della casa («Aspetteremo qui, io e Esme insieme a Jasper ci occuperemo di coprire questo lato della casa, cercando di mantenerci a debita distanza, ma lo stesso da essere abbastanza vicini per poter agire nel minor lasso di tempo possibile. Alice, tu e Edward vi occuperete di coprire la parte della casa più prossima all’entrata principale. In quanto a Rosalie, lei si occuperà di rimanere nelle vicinanze dell’entrata di servizio, la più nascosta, ma certamente la più efficace da un punto di vista strategico, perché immediatamente adiacente alle finestre della stanza di Edward al primo piano e della cucina, al pian terreno. Emmett: a te il compito di proteggere Charlie e di appostarti fuori casa di Bella nella maniera più discreta possibile. Ci affidiamo anche e soprattutto a te», diceva l’uomo con fare più che risoluto).
«Bella, per quanto riguarda te..», mi lanciò un’occhiata indecifrabile, «..C’è qualcosa che vorresti facessimo?».
Impalata di fronte a tutti loro avrei voluto dire qualcosa di sensato, una frase che andasse oltre la mia tenera carne e la mia giovane età, un discorso che mi facesse apparire forte e tranquilla, come s’io fossi stata un albero travolto dal fiume che straripa dagli argini, travolgendo la terra sotto di lui con violenza e noncuranza e proprio come quell’albero avrei desiderato lasciarmi trascinare con la medesima serenità dal tumulto del disastro, dalle onde inferocite e spietate, proprio come quell’albero avrei voluto lasciar fare, avrei voluto lasciare che l’acqua mi portasse via, in terre e luoghi a cui non appartenevo, solo per trasformarmi, pure senza il mio consenso, in qualcos altro. Qualcosa di bello. Ma proprio non riuscivo, proprio non sapevo farmi una ragione di quella paura, proprio non c’era verso. Avrei voluto correre verso Edward e cominciare a piangere come una bambina e gridare di portarmi al mare, di portarmi in India, sulle terre selvagge dell’Australia, avrei voluto rimangiarmi ogni singola parola, ma poi il pensiero di abbandonare Charlie, l’idea di lasciarlo per sempre, di non tentare nemmeno quasi mi strozzavano. Quindi non dissi nulla. Mi limitai a scrollare le spalle e a sedermi sul grande divano in salotto.
«Mi piacerebbe stare un po’ per conto mio», dissi con non troppa convinzione, cercando di non guardare nessuno negli occhi. Piano piano, il modesto campanello di persone che in principio mi circondava cominciò a diradarsi, finché lì ritto di fronte a me non rimase che Edward.
Lo guardai con aria supplice negli occhi: non volevo che mi vedesse crollare a pezzi.
«Edward..», tentai di mandarlo via, ma lui non mi ascoltò e si sedette lì vicino a me.
«Quando tutta questa storia sarà finita, ci penserò io a ucciderti per come mi stai facendo soffrire adesso», provò a sorridere. «Ti importa davvero di cosa dicono Alice e Rosalie, cosa dicono tutti?», avvicinò la sua fronte per toccare la mia.
Un «No» piegato mi uscì dalle labbra strette e torte dal dolore.
«Allora non importa nemmeno a me», sorrise, «Resterò qui per un po’, va bene? Non ti lascio sola».
«Ok», dissi avvicinando a lui a tentoni, cercando conforto e sentii come le sue mani affusolate si infilavano fra i miei capelli, proprio come quella volta, nell’aula di scienze – allora le cose erano più semplici, più semplici davvero.
«Ti ricordi quando hai cantato per me?», chiese al ché io annuii. «Anche io conosco una canzone», sorrise tristemente, accomodandosi sul divano, distendendo le sue lunghe gambe sotto le mie, facendo riposare il mio viso sul suo petto. «Vuoi sentirla?», mi accarezzò dolcemente.
«Sì».
«I have never loved someone the way I love you. I have never seen a smile like yours and if you grow up to be king or clown or pauper, I will say you are my favorite one in town. I have never held a hand so soft and sacred; when I hear your laugh I know heaven’s key. And when I grow to be a poppy in the graveyard, I will send you all my love upon the breeze. And if the breeze won’t blow your way, I will be the sun. And if the sun won’t shine your way, I will be the rain. And if the rain won’t wash away all your aches and pains, I will find some other way to tell you you’re okay. You’re okay..».
Forse in quel momento potevo meglio di prima capire il genere di improvviso calore che si era scatenato in lui quando, per la prima volta, avevo cantato per lui, poiché in quel momento anch’io percepivo la medesima sensazione: era la pace, il più sereno fra i sentimenti, il più quieto e il più difficile da arrivare a cogliere. E io ero un albero e una parte di me cominciava a tranquillizzarsi perfino di fronte l’onda anomala che sapevo stava per raggiungermi e far schiantare sotto l’urto la mia durissima corteccia, spezzare i miei delicati rami, disperdere la mie foglie preziose e infine portarmi via, farmi sparire – non riuscivo più a provare paura in quell’istante, fra quelle note melodiose, fra le sue braccia. Sapevo che in lui nasceva la stessa tristezza che provavo io e lo stesso dolore nel pensare a quale sfortunata sorte ci fosse toccata, ma in quel momento non riuscivo nemmeno più a piangere. Lo strinsi più forte, sentendolo ricominciare la canzone da capo, «I have never loved someone the way I love you. I have never seen a smile like yours and if you grow up to be king or clown or pauper, I will say you are my favorite one in town. I have never..» e così con quella dolcezza che mi si scioglieva in petto, silenziosamente e senza rendermene conto,
mi addormentai.

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Capitolo 20
*** Salto nel buio ***


Nota dell’autrice: Salve a tutti quanti! Ho, come penso potrete ben notare da soli, “fuso” insieme i due capitoli del libro (Capitolo 20 – Inquietudine; Capitolo 21 – Telefonata), dandogli anche un titolo diverso, affinché si adattasse meglio alla mia variante della storia. Perciò, presumibilmente, la mia rivisitazione, presenterà un capitolo in meno (o almeno, ora come ora credo che andrà così).


                                                                                                         Salto nel buio


Ancora le sue mani a farsi largo fra le mie fini ciocche di capelli, ancora i suoi nivei polpastrelli a sfiorarmi delicatamente lo scalpo, la nuca, il collo e poi di nuovo su, muovendosi in una spirale ripetitiva e dolce – non avevo coscienza, non ancora almeno, di dove mi trovassi precisamente, nemmeno di quale fosse stata la mia effettiva posizione su quel divano: il mio corpo era slacciato dalla mia mente e io non vi esercitavo più alcun controllo, non potevo più capirlo, né muoverlo. Era come essere al centro esatto di un oceano particolarmente caldo, senza forze né desiderio di voler combattere la corrente, solo lasciandosi muovere, guidare docilmente dal lento danzare delle onde increspate – volevo così disperatamente rimanere al centro di quell’oceano. Lo volevo più di quanto fossi disposta ad ammettere.
«Bella..», un eco profondo richiamò la mia attenzione, ma forse non nella maniera più convincente, tanto che, in un primo  momento, non gli detti veramente peso. «Bella?», di nuovo quella voce, la sua.
Più che i miei sensi intorpiditi si facevano vigili e di nuovo completamente funzionanti, più sentivo che qualcosa premeva per farmi sparire sotto il pelo dell’acqua, annegare in un buio profondo e agghiacciante – ma io volevo restare su, volevo rimanere a galla, volevo restare viva, io che non ero come quell’albero a cui tanto mi sarebbe piaciuto somigliare, io che non riuscivo a non provare a lottare contro il disastro, io che non riuscivo a farmi ragione di dover finire, di dover arrendermi di fronte a questo male che portava un nome e un volto: quelli di James. Agghiacciante era il pensiero di dover lasciar andare, di dover abbandonare ogni speranza e più che quella voce mi chiamava, provava a svegliarmi, più che io cominciavo a tremare. «Bella, svegliati», disse in un sospiro Edward, uno di quelli che tradivano la tristezza nell’insicurezza. «Per piacere», sussurrò.
Aprii cautamente gli occhi.
«Dobbiamo andare..», mormorò, senza però dar segno di volermi lasciare andare.
Non dissi niente.
«Non ti succederà nulla, te lo prometto», mi accarezzò i capelli.
«Promesso?».
«Promesso. Sono talmente sicuro di questa cosa che sto già pensando a cosa fare domani, a quando ci vedremo la prossima volta», ridacchiò incerto a quel punto.
Lo strinsi a me più forte che potei, «Se mi succede qualcosa,..».
«Ma non succederà», esclamò lui, alzandosi di scatto e guardandomi dritta negli occhi, «Non succederà».
Ricambiai l’occhiata seria, «Ma se succedesse».
«Bella..».
«Se succedesse, per favore.. Per favore ricordati di me», sussurrai crudele, fissandolo dritto negli occhi che già senza bisogno di doversi spiegare, mi facevano capire che probabilmente lui non si sarebbe mai scordato di me e che qualcosa, ancor peggio di tutte le vite che avrebbe vissuto dopo la mia e dell’idea di non poter mai cambiare la condizione a cui era stato condannato, l’avrebbe perseguitato per tutta l’eternità. Avevo il sospetto che quel qualcosa fossi proprio io.
Mi strinse a sé con un tale dispiacere che potevo quasi sentire il suo cuore spezzarsi.
«Non ti lascio andare, tu resta qui, e non avere paura. Non lascerò che ti porti via».
Le sue braccia si fecero ancor più strette intorno a me, abbastanza strette da non lasciarmi possibilità di muovermi ma mai troppo da ferirmi. Una parte, nascosta nel più profondo del mio cuore, temeva quello che purtroppo sapevo essere un fatto fin troppo veritiero: Rosalie, Alice.. Avevano ragione. Avevano ragione su di noi, su tutto, su qualunque cosa potesse venirmi in mente e avevano ragione nell’elencare tutte quelle nostre differenze, tutti i motivi per cui non sarebbe valso la pena nemmeno provare a proteggermi.
Avevano ragione su tutto, ma non sapevano nulla.
Non sapevano di come Edward somigliasse a niente, a nessuno, ma solo a una parte di me che io non sapevo facesse parte di chi ero: era il frammento più vivo della mia anima, pulsante, vibrante, eccitato per la vita, avventuroso, coraggioso. Era la parte che si era illuminata riconoscendolo, vedendolo arrivare sorridente come se nulla potesse realmente toccarlo e io, senza rendermene minimamente conto, mi ero scoperta: questa parte di me, così imprevedibile e selvaggia era l’energia che mettevo in tutto – nei progetti e sogni, in tutte le mie stupide sciocchezze di bambina, nei miei giocosi modi di fare – era diventato, col tempo e il susseguirsi dei giorni, il motore del mio cuore, la bellezza nei miei difetti, la perfezione nei miei gesti, la determinazione del mio spirito e loro questo non lo sapevano. Non sapevano che non somigliava al mondo, non era simile al cielo, non era uguale alle stelle, ma mi ricordava una vita di cui mi sarebbe piaciuto fare parte, delle sfide che avrei voluto vincere, viaggi che avrei desiderato fare, persone con cui mi sarebbe andato di condividere pensieri rivoluzionari e gesti gentili. Mi ricordava me stessa, mi ricordava la parte migliore di me, quella che non era brutta, putrefatta, malata. E non sapevano quanto io adorassi tutto questo, per questo non sapevano quanto mi costasse lasciarlo andare, quanto mi avrebbe ferito staccarmi da lui e trattenere le lacrime, che già premevano forte per uscire.
E sapevo di essere odiata da loro, lo capivo da ogni cosa, ogni gesto o parola, nemmeno troppo sottile, o sguardo che mi rivolgevano, lo sapevo e in verità lo accettavo. Lo accettavo perché sapevo che avevano ragione ma che in fondo, come ho detto, non sapevano nulla.
«Non è giusto», lo sentii sussurrare, proprio vicino al mio orecchio.
«Edward», Carlisle si intromise in quel momento, avvicinandosi a noi con cautela, e con delicatezza provare a muovere via il figlio, «dobbiamo andare».
Si staccò da me più facilmente di quanto avrei potuto immaginare, ma senza guardarmi, come faceva di solito quando non poteva sostenere il mio sguardo, o era immerso totalmente nei suoi personalissimi ragionamenti. Piano piano, quindi, la casa principiò a svuotarsi: i primi a andarsene furono proprio Carlisle, Jasper e Esme seguiti, una ventina di minuti dopo, da Rosalie. Anche Emmett dopo poco se ne andò, rivolgendomi, prima di congedarsi, un sorriso affettuoso.
Infine, Alice e Edward.
«Torno presto, va bene?», mi guardò lui prima di andarsene, seguito dalla sorella.
Prima che me ne potessi rendere conto, la casa era vuota e io ero sola.


Non ricordo per quanto rimasi seduta su quel divano, rigida, in ascolto di ogni più piccolo rumore che potesse, in qualche modo darmi un’idea, anche vaga, di cosa stesse succedendo anche nei più remoti angoli di quell’enorme casa. Nulla. Silenzio.
Odiavo ogni cosa di quel momento – la solitudine, l’attesa snervante, i ricordi, belli o brutti che fossero. L’aria di superiorità che aleggiava intorno a Rosalie e Alice, ogni volta che mi rivolgevano un’occhiata. “Rivolgevano” forse non era la parola giusta – sarebbe stato molto più preciso dire “ogni volta che mi degnavano d’un’occhiata”. Immagino che, se fossi morta, per loro sarebbe stato un sollievo e quel pensiero mi fece venir un po’ voglia di piangere: perché dovevano per forza guardarmi così? Sapevo bene da sola che, fra al massimo un paio d’anni, Edward se ne sarebbe andato e che, con tutta la famiglia si sarebbe trasferito da qualche altra parte, perciò non potevano proprio concederci quegli ultimi momenti?
Non potevano proprio..
Un rumore improvviso mi fece sussultare – il sangue nelle mie tempie cominciò a pulsare convulsamente, per un attimo tutta la mia sicurezza, i miei duri modi di fare si sciolsero come neve al sole.
«Edward?», la mia voce si perse come un lento, trasognato boato per tutta casa.
Perché lo chiamavo? Ma cosa mi saltava in mente? Dio, avevo la bocca impastata e un senso di nausea molto più che accennato. Per un attimo avevo davvero sperato in una risposta che mi rassicurasse, una di quelle che mi lasciasse rilassata, calma, che mi facesse passare la voglia di piangere.
Mi alzai in piedi, a scatti mi mossi verso la rampa di scale che portava al piano di sopra: misi il piede sul primo scalino e poi, di nuovo, quel rumore, come un lento frusciare, un respiro affannoso che mi fece gelare il sangue nelle vene e scattare in avanti, spinta da un terrore che, come un’onda anomala, minacciava di spazzarmi via, me con tutto ciò che amavo di più.
Caddi, sbucciandomi il ginocchio, all’altezza del penultimo gradino.
«Merda», un brontolio che mi si strozzò in gola quando vidi quelle piccole gocce di sangue orlare il gradino di legno di quercia. Calmati Isabella, pensai serrando i pugni.
Salii lentamente le scale e mi intrufolai nella stanza di Edward, chiudendo la porta. No, forse non era stata la scelta più saggia. Come avrei fatto a sentire James arrivare se mi fossi barricata lì dentro? Certo, probabilmente, per uno come lui, una porta non sarebbe di certo stata un vero e proprio impedimento.
Poggiai la fronte madida di sudore contro la parete liscia di mogano, cosa stavo facendo?
Dove era Edward? Quando sarebbe tornato? Magari si sbagliava su James.
Magari lui era già tanto, tanto lontano da me. Era con Victoria e Laurent. Correva veloce nei miei pensieri, più veloce di quanto io stessa potessi sopportare, tanto che non riuscivo nemmeno a immaginarmelo e per un attimo, quel pensiero mi sollevò. Oh, Dio.
Chinai la testa, trattenendo a stento le lacrime.
Non voglio morire.
Non voglio morire, non voglio andarmene.
Mi voltai verso l’interno della stanza, sopraffatta da un dolore così acuto da piegarmi in ginocchio, da tramortirmi e lasciarmi lì, come sul ciglio della strada a sanguinare nella notte, senza che nessuno si accorgesse di me o venisse a prestarmi soccorso. Mi strinsi nelle spalle – oh, com’ero fredda.
Fredda quasi come.. Edward.
Un dettaglio colpì improvvisamente la mia attenzione, distorcendo in un momento tutto l’insieme che era quella stanza – una maglietta, poggiata sulla sedia della scrivania. La maglietta dei Black Sabbath, un po’ sgualcita, larga, immobile.
«Guarda. Figa, eh?», sentivo Edward nei miei ricordi, mentre mi guardava con quell’aria sempre un po’ mortificata che sembrava dire, «Non sono cattivo, è solo dolore».
Un gemito proruppe dalle mie labbra increspate quando mi mossi per afferrarla – la tenni per un po’ fra le mani, guardandola, non sapendo che fare. In ginocchio sul pavimento freddo rivolsi un’occhiata al soffitto.
Oh, Dio.
Non voglio morire.
Nella mia testa la litania si ripeteva più o meno così, a intervalli più o meno regolari.
No, non voglio morire, non voglio.
Mi sciolsi i capelli dalla coda e mi sfilai la maglietta aderente di dosso, la poggiai con cura sulla sedia di Edward e m’infilai la sua maglietta nera, larga, profumata; quel contatto mi rasserenava, mi infondeva una pace che sol in poche altre occasioni avevo avuto l’opportunità di sperimentare.
Rimasi per qualche momento lì così, rannicchiata su me stessa, distesa sul pavimento, in ascolto. In attesa.
Ma tutto sembrava muoversi così lentamente che io,..
Senza volerlo..
Mi addormentai.


Mi svegliai di soprassalto, confusa e disorientata, senza rendermi conto di cosa esattamente stesse succedendo. Drizzai le orecchie, tesa come una corda di violino.
Silenzio.
Il mio cuore parve placarsi per un attimo – lanciai un’occhiata alla finestra e al buio, alle tenebre che sembravano aver catturato ogni singolo dettaglio del mondo esterno; per quanto avevo dormito?
Chiusa in camera di Edward non riuscivo a vedere un palmo dal naso, tanto che fui costretta a alzarmi e a cercare l’interruttore della luce a tentoni. Cazzo, le ginocchia mi facevano così male.
Click.
La stanza improvvisamente era illuminata e ogni più piccolo dettaglio, dalla scrivania alle pile di libri disordinate riassumevano di nuovo contorni precisi e ben definiti. Abbozzai un sorriso, sollevata.
Mi sedetti sul letto, stringendomi nelle spalle. Forse James aveva veramente cambiato direzione. Forse Edward l’aveva trovato prim’ancora che lui potesse muovere un passo e probabilmente a breve la casa sarebbe stata di nuovo popolata – in quella situazione, perfino rivedere il viso austero di Rosalie o l’aria scocciata dipinta sul volto di Alice mi avrebbero fatto fare i salti di gioia.
Forse se fossi scesa in salotto, avrei potuto vederli arrivare.
Mi voltai verso la porta e,..
Oh, Dio.
Era semi aperta.
Oh, no.
Oh, Dio.
Mi avventai sulla soglia con una tale isteria da sconvolgermi: sbattei i palmi sulla porta e la chiusi di scatto, allontanandomi. Calma Bella, calmati, Gesù. Signore. Strizzai gli occhi, ripercorrendo mentalmente ogni mia azione. Avevo chiuso la porta? L’avevo fatto? L’avevo chiusa! Mi ricordavo di aver sentito scattare la maniglia. E allora? Edward era tornato? Era a casa? Non voleva svegliarmi, per questo non l’avevo sentito?
Trattenni il fiato: nemmeno il suono del mio respiro doveva interferire col silenzio che regnava in quel luogo. No, non riuscivo a sentire nulla, nulla! Ansimai, quasi strozzata dalla mia stessa paura, presa alla gola da un presagio che cominciava a farsi reale. Oh, Dio. Chiusi gli occhi, cercai di concentrarmi, ma più provavo, più mi tornava in mente la volta in cui mi svegliai di soprassalto nel bel mezzo della notte, quando ancora ero bambina, e corsi da mia madre piangendo.
«Il lupo è alla porta, il lupo è alla porta!», gridavo terrorizzata, lanciando sguardi spaesati un po’ in qua un po’ in là, temendo di essere inseguita da quel lupo gigantesco, sfregiato in volto, che dai miei sogni usciva per venire a cercarmi, prendermi e per sempre portarmi via.
«Il lupo è alla porta!».
Provai a alzarmi, dirigermi verso il rettangolo di legno, affacciarmi al di là della soglia, solo per tranquillizzarmi. Silenzio. Mi sporsi leggermente più in avanti, dimostrando molta più audacia di quanta in realtà ne avessi. Per un attimo non fui certa di aver visto bene, strizzai gli occhi e cercai di focalizzare la mia attenzione su quell’unico punto, sul bordo del penultimo gradino.
Il mio sangue, dov’era? Dov’erano quelle gocce che io stessa avevo versato? Lanciai un’occhiata orripilata al mio ginocchio sinistro: mi ero proprio sbucciata.
Mi faceva male il cuore, mai me l’ero sentito stretto in una morsa di tale violenza, crudeltà, come se qualcuno fosse riuscito a sfondarmi la cassa toracica con un pugno e a raggiungermi nei miei luoghi più profondi e strizzare via da me tutta la vita – mi aggrappai alla maglietta di Edward come se fossi stata sul punto di cadere, sprofondare in un baratro senza fondo e più buio della morte.
«Non è giusto», piagnucolò divertita una voce alle mie spalle, scimmiottando quella di Edward.
Quella voce.
Mi voltai di scatto, senza poter trattenere uno strillo. I suoi capelli biondo cenere, sciolti sulle spalle, mi facevano venir voglia di piangere, quel suo sguardo poi, affilato come una lama, una disgrazia, una maledizione. Provai a scappare, ma lui fu lesto a riprendermi per i capelli e sbattermi al muro – in quell’esatto istante compresi quanto si era trattenuta Rosalie, la prima volta che mi aveva spinto via, perché solo quel dolore, definito, rotondo, pulsante, solo quello mi sembrava reale in quel momento.
Non ero un corpo, non ero un’anima, ero solo circoscritta a quel dolore.
«Rimani qui», mi sorrise, chinandosi su di me, «Isabella».
Scandì con cura le lettere del mio nome, mentre avvicinava le sue mani fredde e nodose verso di me, sporche di terra e di piccoli schizzi di sangue raggrumato, «Cosa pensi di me?».
Vedevo i miei occhi sbarrati riflettersi nei suoi, ora di un rosso purpureo, sanguineo; sembrava di guardare nella bocca dell’Inferno. «Co.. Cosa?», tentennai io.
«Pensi che io sia stupido?», sorrise.
«Cosa..».
Mi afferrò per il collo, tirandomi su, verso di lui, sempre più vicino alla sua bocca, i suoi denti d’argento e madreperla, quel sospiro algido che gli usciva di bocca come fosse stato composto da milioni, miliardi di minuscoli invisibili ragni dalle gambe secche e lunghissime, «Pensi che io sia stupido?», ringhiò.
Non riuscivo a respirare.
Il «No» che mi uscì di bocca era così misero e soffocato, piccolo in confronto al terrore che mi stava attanagliando. Mi aggrappavo così saldamente alla sua presa, alle sue mani d’acciaio che mi toglievano, momento dopo momento, la forza di muovermi – le graffiavo, avessi potuto morderle avrei fatto anche quelle, provavo a levarmele di dosso, a dimenarmi: non serviva a nulla.
«E allora perché mi tratti da stupido?», piegò la testa di lato, godendo del mio patimento, della mia agonia. Non ce la facevo più – rovesciai gli occhi all’indietro, schiudendo le labbra ormai violacee. Una lacrima mi rigò il viso e a me parve di star scomparendo: non sentivo più nulla, dalla punta dei miei piedi sino alla punta delle dita, il mio corpo era in un tale torpore, una tale apatia.
Fu a quel punto che forse, spinto da un moto perverso e divertito, mi liberò, lasciandomi cadere sul pavimento. Lo odiavo più di qualsiasi altra persona avessi mai conosciuto in tutta la mia vita, ma quando mi ritenne di nuovo degna di poter respirare, quando mi lasciò cadere e io potei di nuovo prendere una boccata d’aria, tossire, sputare fuori la saliva che colava dalle mie labbra come sangue, a fiotti, provai quasi amore nei suoi confronti – avrei voluto baciarlo, se me l’avesse lasciato fare, da quanta gioia provavo nel non essere morta. «Pensavi sul serio che il tuo piano funzionasse?», premette il suo anfibio contro la mia gota arrossata, schiacciando la mia faccia al muro, «Sai perché sono qui?».
Lui parlava, parlava, io provavo solo a spostarlo, scacciarlo da me, ma nulla nella mia vita era stato in grado di prepararmi a quel genere di forza, a quel tipo di violenza e in un attimo capii: non ero pronta. Non lo ero mai stata realmente. E allora perché avevo rischiato così tanto? Perché, molto più semplicemente, non mi ero lasciata proteggere? Credevo di combattere per me stessa, ma era davvero così?
Per cosa stavo lottando così strenuamente?
Per chi?
I capillari nell’interno guancia cominciavano a scoppiare sotto la pressione del suo piede – Gesù! Mi schiaccerà la testa!, gridò una voce dentro di me. «Ho un conto in sospeso con i tuoi amici. Specie con quella troia dai capelli corti», lo sentii sorridere e quasi me lo potevo immaginare, quel volto rilassato, disteso, gli zigomi alti e quegli occhi famelici, assetati. «Diciamo che tu sarai il mio regalo di consolazione. Mi prendo te, loro si tengono lei, mi pare uno scambio equivalente».
Ma di cosa accidenti stava parlando?!
«Mh? Cos’è quella faccia?», domandò divertito, chinandosi su di me, spingendo ancora più forte il suo piede contro il mio viso, «Non ce l’avrai mica con me, vero?».
Lasciò libero il mio viso e a me sembrò che mi avesse ricreata – ripensai alle parole di Alice, a quello che aveva detto su James sulle sue.. Perversioni. Mi afferrò per i capelli e mi trascinò nella stanza di Edward con una tale forza da farmi pensare che mi avrebbe potuto letteralmente strappare lo scalpo.
«Non ti preoccupare, farò in modo che il tuo amico ti ritrovi ancora un po’ calda», rise, gettandomi di traverso sul letto, «non voglio che si perda tutto il divertimento».
«Se lo desideri posso evitare di prosciugarti del tutto, ma sai.. Non so se ne sarò in grado», si leccò le labbra, «il tuo sangue è così dolce, così gustoso, perfino se si trova su delle luride scale».
Si avvicinò a me, poi rivolse un’occhiata al di là della finestra, rimuginando su qualche suo pensiero e in quell’unico attimo di lucidità, l’unica cosa che mi venne da pensare era che un tempo, chissà quanto lontano e dal mio presente distante, James era stato un essere umano, così diverso dalla creatura che in quel momento mi sovrastava, immobilizzandomi sotto una presa che faceva dolere ogni più piccola giuntura del mio corpo. Era stato un essere umano anche lui, con dei sogni, delle ambizioni. Aveva avuto una mamma e un papà, dei fratelli forse, una casa, era stato un bambino, aveva giocato, era andato a scuola. Si era innamorato anche lui, aveva pianto e riso e adesso era solo.. Questo.
Un involucro di rabbia e angoscia che mi si riversava addosso come petrolio, soffocandomi. Provai pena per lui, più di quanta ne avessi mai patita per Edward. James era solo, solo nel suo mondo, solo dagli umani, solo dai suoi simili rinchiuso in una bolla di desideri neri e torbidi che soddisfaceva di quando in quando. E la cosa peggiore è che non gli importava, si vedeva così chiaramente. Non gli importava nulla.
Se fossi stata sua madre, probabilmente mi avrebbe uccisa comunque, soltanto per regolare vecchi conti, per soddisfare la sua voglia di cacciare, di avere, di non perdere mai. Mi accorsi di quanto poco gli fosse rimasto in mano della sua vita, di quanto miseri fossero i suoi gesti, la sua eccitazione alla vista del dolore altrui; di quanto vuoto fosse.
E in quel momento, non ebbi più paura di lui.
«Ti conviene uccidermi subito», sorrisi, con gli occhi lucidi. Quelle parole parvero prenderlo in contropiede.
«Se aspetti ancora, Edward arriverà. Non vorrai essere qui quando succederà».
Afferrò il mio braccio in una morsa, pressandolo, storcendolo – il dolore che provavo era immaginabile: così vicina a rompermi il gomito, ma mai abbastanza da poterlo rompere effettivamente. Trattenni un grido.
«Pensi di essere furba, eh?», la sua fronte toccò la mia.
«Edward ti strapperà gli occhi», risi fra le lacrime, «E poi ti ammazzerà. Ti conviene uccidermi ora».
Strinse ancora più forte il mio braccio, alzandosi sopra di me, sovrastandomi; mi afferrò di nuovo per il collo, tirandomi vicino alla sua bocca, «Non mi piace assecondare gli altri, ma per te potrei anche fare uno strappo alla regola», ghignò.
«Supplicami», la sua voce, così suadente e melodiosa, s’insinuò nelle mie orecchie, facendomi tremare, «Pregami di non farlo. Oh, è la mia parte preferita», disse lui.
E io gli sputai in faccia.
«Fottiti, stronzo». Il sorriso che si allargò sul mio viso quando vidi il suo sporco di sangue e saliva non potei proprio riuscire a nasconderlo e questo mi costò uno schiaffo – poteva essere definito tale? Non sentivo più nulla, mi sembrava quasi che gli occhi mi fossero saltati fuori dalle orbite per il dolore. Credevo che mi avesse rotto il collo, spezzato a metà come un ramoscello, tanto fu forte la spinta sotto la quale mi piegai.
«Oh, con te mi divertirò», mormorò, ma il suo tono era duro, freddo, improvvisamente diverso da quello di pochi momenti fa. Faceva sul serio. Adesso.
Chiusi gli occhi.
No, non avevo paura, non più.
Non ero pronta, non ero forte, non ero la migliore persona di questo mondo e forse c’erano cose che avrei dovuto fare, parole che avrei dovuto dire, momenti di cui mi ero scordata, ma non avevo più paura.
Mi avrebbe uccisa, era ormai chiaro che Edward non avrebbe fatto in tempo ed era vero quello che aveva detto su James: un segugio formidabile, questa descrizione lo calzava a pennello. C’erano ben sette vampiri a proteggere me e mio padre, sparsi nelle immediate vicinanze dell’abitazione in cui mi trovavo e non uno di loro era stato capace di captare James, scorgerlo, accorgersi che aveva capito il nostro piano molto prima di quanto a chiunque di noi sarebbe piaciuto ammettere.
Era la fine.
Che ironia.
Mi veniva quasi voglia da ridere.
Per questo, forse, il terribile tuono che si infranse sopra di noi non mi spaventò più di tanto – schegge di legno e pezzi di calcestruzzo volavano in un vortice, sopra le nostre teste. Che bello, pensai.
Poi, quel ruggito.
Volsi gli occhi verso James, ma la sua attenzione era interamente rivolta a quella creatura mostruosa che, senza che nemmeno lui potesse accorgersene, l’aveva già preso e spinto via.
In un attimo, quelle due figure erano già balzate fuori dalla finestra, sfondandola, lasciandomi lì, sola, stesa sul letto. Chiusi gli occhi.
Non capivo, ma andava bene.
Non avevo più paura.
Non più.

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Capitolo 21
*** Scintilla ***


                                                                                                                  Scintilla


Il cielo era terso, così limpido, privo di imperfezioni e il sole sopra di me scintillava benevolo, talmente raggiante da essere circondato da un’aureola violacea striata d’oro e d’argento. Sentivo il mare, in lontananza, il suo respiro profondo, increspato. Dove ero?
Non mi muovevo, continuavo a fissare il sole, la cui luce oscillava, dinnanzi ai miei occhi, come una lenta vibrazione, dal bianco al giallo intenso. Non mi muovevo, ma non ce n’era bisogno – non volevo.
Volevo rimanere così, al caldo.
Qualcuno chiamava il mio nome, o almeno così mi sembrava, ma poteva essere qualsiasi altra cosa – il fischio del vento, gli schiamazzi di un paio di ragazzini sguaiati, il tintinnio dei braccialetti di una ragazza poco distante – non potevo dirlo con certezza. Chiusi gli occhi sotto il sole, pensai a qualcosa di poco complicato, una congettura che sfumò immediatamente e mi abbandonò – non ricordavo nulla. C’erano così tante parole, immagini, suoni nella mia testa, e la cosa più sorprendente era che nessuno di quelli sembrava reale. Vedevo una stanza, se chiudevo gli occhi, un paio di chiavi anche, vedevo una maglietta nera, sfocata, distante – era come crollare, di tanto in tanto, in un dormiveglia. Incosciente, ecco come mi sentivo. Confusa. Non capivo.
Di nuovo quel suono, lontano, pesante, non riuscivo a distinguerlo bene.
Il calore del sole andava via via intensificandosi – maledizione, pensai, mi sta spaccando la faccia.
Provai a voltarmi di lato, per proteggere la mia gota sinistra da quel bruciore, ma non serviva a nulla – in qualunque posizione mi spostassi, quel bruciore continuava a far pulsare la mia carne.
«Bella!». Mamma?, pensai.
Mamma?
No, era un timbro più profondo, grottesco quasi, non assomigliava per nulla alla voce di mia madre, non c’erano quelle note, in quel suono, così simili ai temporali primaverili, a un maggio particolarmente sereno, all’odore di caffè. Assomigliava più che altro a.. Alla voce di un uomo. Un ragazzo.
«Joshua?», parlai a fatica, piegando le mie labbra secche, attaccate le une alle altre.
Era lì con me? Che giorno era? Che anno era? Avrei voluto stringere forte la sua mano, ma quando mi voltai per cercarlo accanto a me, Joshua non c’era. Solo chilometri e chilometri di sabbia, una spiaggia, il mare, altre figure indistinte e quel sole, Cristo santissimo, me ne dovevo andare di lì, mi sembrava di andare a fuoco. Per un momento provai a muovermi, senza riuscirci. Cosa mi tratteneva?
Oh, certo.
Forse si trattava di quella tristezza, di quella solitudine così marcata che provavo nel mio cuore ogni volta che realizzavo che Joshua era morto e non sarebbe mai più tornato da me. Ecco perché non potevo muovermi, il dolore mi schiacciava, mi rendeva impotente. Cosa farò senza di te?, piangevo senza versare una lacrima. Perché mi hai lasciata da sola? Perché non sei restato?
Io non ho più nessuno, da quando non ho più te, singhiozzò una vocina, rintanata negli angoli più remoti del mio cuore. Poi, di nuovo, chiusi gli occhi e l’immagine di quella maglietta mi sventolò di nuovo davanti, nera, dei Black Sabbath, larga e sgualcita. Mi venne voglia di ridere.
No, non sono sola, contestò divertita un’altra voce, nascosta nella mia testa, C’è Edward con me. È proprio scemo, però. Sbarrai gli occhi, di scatto: Edward! Dovevo andarmene di lì! Dov’era Edward?
«Dio.. Sembra in stato catatonico», disse una voce.
«Ha gli occhi aperti, però..», obbiettò l’altra.
«Ma non ci vede. Guarda. Non vede nulla, nessuno. È come se non ci fosse».
Non capivo. Cosa stava succedendo? Provai a muovermi. Provai a scappare da dove ero e, oh quel sole! Mi sembrava che la faccia andasse a fuoco! Quella luce bluastra mi accecava. Dovevo andare via di lì.
«Morirò..», mugolai, «Il sole.. Mi brucia».
«Bella? Bella! Siamo qui!», gridò quella stessa voce, così tenera, dolce.
«Brucia dappertutto», piagnucolai, «Brucia tutto..».
Mi strofinai gli occhi – era reale tutto quello? Dio, le mie braccia sembravano di piombo, a stento riuscivo a muoverle, sembravano anchilosate. Rivolsi un’ultima occhiata al sole coronato dai suoi splendidi raggi guardarmi come un Dio guarda una sua creatura malforme e poco riuscita e poi, prim’ancora che potessi accorgermene, il dolore andò mano a mano a scemare, adesso solo alcuni punti del mio corpo pulsavano e dolevano così intensamente, come se un fuoco primitivo, antico bruciasse proprio al di sotto della mia pelle. La sabbia svanì, il mare si ritirò, il cielo scomparve.
I miei occhi erano sempre stati aperti per tutto quel tempo, ma solo adesso vedevo.
Alice e Jasper erano chini su di me e mi fissavano con aria inesperta, come se avessero avuto di fronte un bambino, un cerbiatto, una creatura con il cui corpo non avevano alcuna dimestichezza e quando sbattei le palpebre, assistei al più strano degli eventi: Alice sorrise.
«Eccola qua», strinse le labbra sottili in una curva delicata.
«Ciao, Bella», Jasper tirò come un sospiro di sollievo.
Provai a tirarmi su, ma un dolore acutissimo si sprigionò all’altezza del mio collo, del mio gomito destro, ogni parte del mio corpo si spezzava e si riattaccava, a scatti, sotto il peso immenso dei miei lenti movimenti. «Stai giù», si affrettò a spingermi sul letto Jasper, «devi restare qui. Alice rimarrà con te, non sei più da sola». «No, no», brontolai stordita.
«Riesci a muoverti?», chiese lui.
Cos’avevano? Li guardavo e nei loro occhi c’era una sorta di ansia, di impazienza. Lo vedevo nei loro occhi, vedevo ogni cosa; vedevo anche il modo in cui tentavano di escludermi, di trattarmi con condiscendenza e provare a nascondermi qualcosa. Ripensai a cos’era successo prima che James scomparisse.. Un rombo, un tuono, boato violentissimo e il vetro dell’enorme finestra che andava in frantumi, scoppiava come si scoppia a ridere o a piangere, schegge brillanti e lucenti erano volate dappertutto, seguendo la traiettoria precisa dell’aria. Un ruggito, ricordavo anche quello.
E il resto? Era come se qualcuno avesse intinto un dito nel più nero degli inchiostri e avesse tracciato una striscia lungo tutta la mia memoria – vedevo alcune cose, molto chiaramente, ma il resto era oscurato.
Cosa mi nascondevano?
«Dov’è Edward?», provai di nuovo a alzarmi. La testa mi scoppiava, e il mio collo.. Al solo pensiero mi tornarono in mente le mani di James, strette intorno a me. Alice rivolse un’occhiata rapida a Jasper, il quale annuì impercettibilmente e si defilò, sgattaiolando via, più rapido di una saetta, al di là della finestra sfondata. «Vieni, ti porto in bagno», Alice provò a toccarmi, ma io fui rapida a scostarmi.
Provai a alzarmi, traballante. Era la prima volta che rimanevo sola con Alice e questa era una ragione sufficiente per farmi dubitare di ogni cosa: non era normale, il suo sguardo non era normale, leggermente forzato, ostentava dolcezza ma sapevo che c’era qualcosa che non andava. Dov’era finito tutto il suo risentimento, il disgusto che provava nei soli confronti della mia mera esistenza?
La squadrai un momento, scegliendo con cura le parole da usare – non ero di certo in grado di sopportare un altro attacco da parte di un alto vampiro. «Ti fa male?», domandò, improvvisamente preoccupata, accennando al mio viso. Scrollai le spalle, «Ti interessa?».
Non la capivo, sul serio e quell’attesa era snervante. Cosa c’era che non voleva dirmi?
Le sue labbra si strinsero leggermente e io fui sinceramente convinta, almeno in un primo momento, che il sentimento che le si era dipinto in volto fosse soltanto il riflesso di una leggera stizza, ma guardando più attentamente mi resi conto di come gli angoli della sua bocca fossero amaramente piegati verso il basso, il volto contratto in una smorfia di.. Rimorso? Si passò una ciocca dei suoi cortissimi capelli dietro l’orecchio e distolse lo sguardo, «Dovrei curarti quel taglio».
«Quale taglio?», lanciai istintivamente un’occhiata al mio ginocchio e Alice schioccò la lingua in segno di disappunto. «Il taglio che hai qui», portò l’indice sulla sua gota nivea.
Sfiorai lievemente i contorni del mio viso umido, sudato, sporco – potevo sentire sulla mia pelle giovane una traccia di quella che era stata una parte della mia vita, sulla quale si annidavano nodi di sangue raggrumato, piccole lacrime vermiglie che mi rigavano la gota: secche, anche loro.
«Oh..», mormorai.
Doveva essere successo quando James mi aveva tirato quello schiaffo, doveva avermi involontariamente graffiata con le sue unghie. «È.. È profondo?», borbottai spaesata, «Si vedrà la cicatrice, che dici?».
Lei scosse la testa, «È un graffio superficiale».
«Mh. Forse dovrei almeno levarmi il sangue», le parole mi uscirono fuori masticate e come incollate le une alle altre, «o mettermi del ghiaccio», carezzai la gota che James aveva schiacciato con al suola della sua scarpa. «Hai avuto paura?», chiese.
«All’inizio sì», mi passai una mano sulla nuca.
Le lanciai una rapida occhiata: la sua espressione era incerta, interrogativa. In un primo momento credetti di non aver semplicemente desiderio di parlarle, di spiegarmi, perché in sua presenza solo ricordi dolorosi mi tornavano in mente, nient’altro – a lei collegavo la scomparsa di Edward, una realtà più difficile da accettare di quanto potessi immaginare e la mia miserabile natura umana che rendeva così difficile la convivenza con quelle creature così potenti e di una bellezza sfacciata – ma la verità era che vedere James aveva fatto nascere in me nuovi sentimenti, pesanti come piombo che lentamente affondavano nella mia anima, forandomi la pelle del cuore: io provavo una pena sincera per loro, per quelli come lui, anche se più simili a Edward. Provavo pena per delle creature simili, legate a un passato indelebile e continuamente rimarcato dallo stesso mondo in cui vivevano. Quanto doveva essere faticoso per loro vivere fra noi.. Umani?
Non volevo dire a Alice quelle cose, non volevo che si dimenticasse di non essere più viva.
Non volevo causare ulteriore sofferenza.
«Ma alla fine, ciò che conta è che sono ancora viva, no?», sorrisi, cambiando argomento, «Anche se forse non era ciò che tu o Rosalie avreste voluto..».
«Mi dispiace, sai? Farò il possibile per non ferirvi di nuovo. Non è semplice per nessuno. E quando Edward.. Mh.. Voi tutti, ecco, quando ve ne andrete, non farò storie. Mi ricorderò di voi, comunque». Sembrava essere sul punto di dire qualcosa ma poi, nella sua mente, qualcosa in lei trillò come un campanello.
Sbarrò gli occhi in uno slancio di terrore, «Edward!», un sospiro doloroso proruppe dalle labbra di rosa.
«Che c’è? Che c’è?!», esclamai di nuovo tesa.
Mi guardava, ma non mi vedeva realmente – la sua attenzione pareva interamente rivolta a un mostro rannicchiato alle mie spalle, più simile al presagio di una tragedia che a un vero e proprio umanoide; in quei momenti non potevo far altro che immaginare quali scenari prendessero luogo nelle lande sconfinate della sua mente, pregando soltanto che non si trattasse di qualcosa di tremendo.
Sgranò ancora di più gli occhi e la pupilla sembrò annegare nell’oro della sua iride tanto era diventata piccola – un minuscolo punto in mezzo a un oceano di maledizioni – non sembrava davvero nemmeno più essere in sé, no, era altrove, con la mente veloce, indistruttibile, fortissima, sempre protesa verso un futuro dalle inimmaginabili sfumature: la chiave degli eventi dell’universo pareva esserle caduta fra le mani, quasi come se un Dio benevolo avesse voluto farle un favore, un regalo, ma solo temporaneo, nella speranza che quello bastasse a portare un po’ di luce in quei pensieri intricati.
«Edward», sospirò impercettibilmente, sempre fissa davanti a me.

«Sta per morire».


«Che cosa significa? Sta succedendo adesso? Succederà? Dov’è adesso Edward?», strillai, cercando di attirare la sua attenzione, ma lei era distante, era altrove, si muoveva a scatti – la mente, invece, viaggiava per vie privilegiate, sulle quali i pensieri sfrecciavano più veloce di quanto lei avrebbe mai potuto e lì dentro c’era il suo mondo, in quel momento, i suoi ragionamenti e segretissimi stratagemmi, le soluzioni che tirava fuori una dietro l’altra senza mai darsi pace, con in viso quello sguardo fermo, fisso, eppure corrucciato in un’espressione d’inquietante tristezza. «Alice! GUARDAMI!», urlai a pieni polmoni e questo la scosse dal suo torpore. Perfino le pupille tornarono di grandezza normale.
«Devo andare», fece per uscire dalla stanza.
«No!», gridai, tentando di fermarla, ma fu decisamente inutile, «Vengo anche io!».
«Non se ne parla. Devi restare qui. Non saresti di nessun aiuto, la verità è che non lo sei mai stata, anzi! È solo colpa tua! Stai qui finché non torniamo», ruggì, gli occhi striati da un nero velenoso.
La sua incertezza, quei silenziosi momenti in cui la sua rabbia nei miei confronti si fosse placata erano svaniti del tutto, nello stesso modo in cui cominciava a svanire nel mio cuore la speranza di poter rivedere Edward. Oh, ero così.. Disperata. Il mio corpo era spezzato, sembrava staccato in tocchetti, le mie articolazioni dolevano e in me non esisteva più nessun appiglio, nessuna certezza, eppure non avevo la minima intenzione di lasciarla andare. Non così.
La vidi balzare giù dalla rampa di scale.
«Se te ne vai lo dirò a tutti, hai capito?», strillai a pugni serrati.
Alice si bloccò, quasi pietrificata. «Come?», mormorò con disgusto.
«Lo dirò a tutti», ribattei, «Tu vattene e io lo dirò a tutti. Mi farò ancora più male, mi taglierò con i vetri, mi lascerò cadere dalle scale e dirò che siete stati voi. Dirò cose tremende sulla vostra famiglia, vi costringerò ad andarvene, non vi darò più pace fino al giorno in cui morirò! Ne farò la mia ragione di vita, te lo giuro, te lo giuro!».
«Ma portami con te, portami da Edward, posso aiutarvi. Portami da lui e io,.. Vi lascerò stare. Non parlerò nemmeno più con Edward, lo prometto. Ma portami con te, portami da lui».
Ero talmente sofferente, mi vergognavo a tal punto di quelle parole, di tutte le promesse che in quelle frasi minacciavo di infrangere,.. Cosa avrebbe detto Edward se mi avesse sentita? Oh, non si sarebbe mai, mai più fidato di me, ma che altro modo c’era di raggiungere Alice? Lei che era così distante da me, che non aveva nessun punto in comune con l’anima che ero, che non mi degnava nemmeno di uno sguardo, che m’incolpava di tutto, come potevo trovarla nel luogo dove era? Come potevo farle vedere cosa c’era nel mio cuore, affinché capisse che non potevo più sopportare la mia vita senza lui?
Alle sue parole io mi ero come accartocciata su me stessa («Sta per morire», aveva detto lei e sapevo che sforzo le era costato. Oh, se avesse subito potuto correre da lui, senza curarsi di me, dell’intralcio che ero, forse sarebbe stata più felice), non potevo restare lì, non in quella casa. Non sapevo nemmeno cosa stava succedendo, maledizione! «Va bene», disse lei e nel suo tono udii come una nota di compassione.
Non ne compresi il motivo finché, dopo averla raggiunta in fondo alle scale, lei mi lanciò un’occhiata rapida: «Asciugati le lacrime», disse porgendomi un fazzoletto ricamato.
Avevo iniziato a piangere e non me n’ero nemmeno accorta, talmente ero assorbita dai miei terribili pensieri – piangevo per Edward, per le mie parole, per le bugie, per il dolore, per la mancanza. Per quella vita che non capivo e mi confondeva a tal punto da portarmi sull’orlo del precipizio, farmi cadere e poi tirarmi di nuovo su. «Cosa sta succedendo?», chiesi tirando su col naso.
«Un casino dietro l'altro, ecco cosa succede. Edward è stato il primo a sentire James», cominciammo a avviarci a passo di carica verso il garage della casa, «so che forse tu credi di conoscere mio fratello, e forse in parte hai ragione, ma non hai idea del suo potenziale. In realtà, nessuno ce l’ha. Edward è il solo padrone dei suoi misteri. Quando eravamo fuori dalla casa, quando si è accorto che eri in pericolo, per una pura associazione di pensieri, nati grazie a una lieve scia d’odore lasciata dal segugio, Edward è come.. Non so nemmeno dirlo. Non definirei “follia” il sentimento che pareva animarlo, anzi. Era fin troppo lucido – non l’ho nemmeno visto muoversi, è semplicemente sparito, come se fosse stato risucchiato dalla terra, dall’aria intorno a noi. Correva a una velocità sconvolgente, non ho nemmeno fatto in tempo a arrivare a casa che era già sparito con James. Quello che voglio dire è che.. Edward potrebbe essere più forte di qualsiasi altro vampiro, invincibile oserei dire, ma poiché ha scelto questo stile di vita non è allenato. E l’allenamento è indispensabile: a lui manca completamente. James, al contrario, è più debole, ma molto resistente. E furbo. E Dio sa solo cosa. Sono abbastanza certa, inoltre, che anche Victoria e Laurent siano usciti allo scoperto per dare man forte al compagno. Jasper e gli altri sono là, stanno cercando di contrastarli ma.. Sono forti. Davvero forti. Perciò», si rivolse a me, «cerchiamo solo di sbrigarci, siamo ancora in tempo».
Annuii. Alice aprì in fretta l’armadietto di metallo scintillante che era nel garage: la quantità di armi che mi si parò davanti agli occhi fu impressionante.
«Armi? Ma.. Perché? A che vi servono?», domandai sbigottita.
«A nulla. Jasper è un collezionista sui generis», ghignò. «Sai lui, quando ancora era vivo..», cominciò ma si interruppe immediatamente, forse imbarazzata dalla confidenza che mi stava dando in quegli attimi.
«Avanti, prendine uno», mosse la testa in direzione dell’armadietto spalancato davanti a noi.
«Come sai che so usarlo?».
«Si scoprono un sacco di cose semplicemente ascoltando», mormorò e io fui abbastanza certa che avesse origliato qualche mia conversazione. E anche più di una volta.
La mia mano si mosse velocemente e senza pensarci verso il sovrapposto al centro dell’immensa griglia di armi da fuoco che si trovavano, perfettamente allineate le une vicine alle altre, su quegli scaffali: lo stesso che usava Charlie. Sorrisi, sovrappensiero.
«Andiamo», Alice mi caricò in spalla senza che io potessi nemmeno accorgermene, «reggiti forte, questa non è una passeggiata».
Annuii decisa, «Sono pronta».


Alice correva più veloce di quanto mi aspettassi, ma era di certo meno cauta di Edward: quasi con una sottile noncuranza e, ne ero certa, una punta di piacere nel sentirmi mentre mi aggrappavo spasmodicamente alle sue spalle, nel tentativo di non cadere o di perdere il fucile per la strada, saltava letteralmente da un punto all’altro. Non osavo nemmeno aprire gli occhi, tanta era la paura di cadere di nuovo in trance o di essere di nuovo stordita da tutta quella velocità. Non avevo nemmeno idea di dove fossimo dirette, né come stesse Edward. Che cosa stava succedendo? Alice non mi aveva mai realmente detto, in quei pochi momenti, cosa avesse realmente visto – non avevo altro che i pochi dati che mi aveva fornito, ma speravo nelle sue parole. Speravo così tanto che Edward non fosse solo, che non patisse il dolore di sparire nel più totale e misero degli abbandoni. Non volevo che i suoi occhi si chiudessero per l’ultima volta riflessi in quelli sanguinei e ardenti di James. Volevo che vedesse il buono di questo mondo, volevo per lui qualcosa di migliore e,..
Ebbi un sussulto.
Strinsi ancora più forte il sovrapposto – non volevo che se ne andasse. Non anche lui.
Alice rallentò gradualmente e quando finalmente si fermò, tutti e cinque i miei sensi cominciarono di nuovo a lavorare a pieno regime. Ma per dirla tutta, avrei preferito diversamente.
Potevo sentire l’odore delle cortecce degli alberi divelsi, delle grandi zolle di terra che, una dietro l’altra, saltavano in aria come mine, quello era nitido, preciso perché conosciuto e poi eccone un altro, acre, più debole, strisciante, assomigliava a saliva, sudore, sale. Udivo i grugniti di sforzo e i ruggiti feroci di Rosalie, la voce di Carlisle. Grida, strilli. Ruggiti. Sulla mia pelle, di tanto in tanto, piccole schegge di legno, fili d’erba mi si depositavano addosso. Avrei voluto annullare tutti quei dati che, man mano, il mio cervello recepiva: semplicemente non volevo muovermi di lì, alzare il viso dalla spalla di Alice per confrontarmi con la realtà. Cosa avrei fatto se avessi capito che non c’erano più speranze? Cosa avrei fatto di fronte all’inevitabile?
Provai a concentrarmi su me stessa, ma l’unica cosa a cui riuscivo a dare retta, quando facevo in me un po’ di ordine mentale era il sapore che avevo in bocca, un sapore inesistente, creato solo dalla paura, dall’angoscia del momento, dai miei sensi obnubilati: simile a sangue, mi impastava la bocca e mi inondava la gola. Strinsi Alice, più forte di quanto avrei dovuto, ma lei mi lasciò subito andare e corse via.
Caddi in ginocchio, sorretta soltanto dal fucile.
Riprenditi maledizione! Riprenditi! Ora!, gridava una voce nella mia testa.
Alzati e combatti!
Quando aprii gli occhi, davanti a me prendeva luogo il più terribile degli scenari.
Sporco. Era il viso di Carlisle quando si piegava sotto i colpi di Laurent, mentre provava a difendere Esme.
Lucenti. I capelli di Rosalie e di Jasper, intrecciati in un valzer di fuoco e violenza contro la bellissima Victoria, che si dimostrava più che all’altezza di tenere testa ai due, anche da sola.
Devastante. Il colpo a sorpresa che Alice sferrò in quel momento, colpendo in pieno viso Laurent.
Profondo. Lo scricchiolio delle ossa di quel ragazzo dai denti brillanti e i rasta nerissimi che parve riposizionare tutte le vertebre della sua possente spina dorsale.
Teso. Il corpo di Edward mentre si protendeva verso James.

Infuriato. Il cielo straziato dalle nuvole sopra di noi.

La battaglia si faceva cruenta, devastante, pezzi di terra volavano in aria insieme alle grida che parevano nascere dalle viscere del mondo stesso e io ero lì, in mezzo a loro che si battevano, che non avevano tempo né soluzione, che si muovevano fra le ferite e le pieghe dei loro visi contratti in smorfie di acuta sofferenza e sforzo. Ero lì ma non c’ero davvero. Continuavo a fissare Edward, a guardarlo sperando che lui non guardasse me, che non si distraesse, ma davvero altro non potevo fare. I miei pensieri si intensificavano intorno alle parole di Alice, come un dolore acceso che pulsa intorno a una ferita fresca.
Sta per morire.
Sta per morire.
Sta per morire.
Seguivo la lotta fra i due con un’attenzione che avrei definito avida, se non ossessiva, provavo a non perdermi un colpo, non una mossa, ma era tutti così veloce, troppo veloce. Cristo! Strizzai gli occhi, ma questo non servì a nulla. E nemmeno la mia presenza servì – James sferrò un calcio a Edward, il quale accusò il colpo e fu a terra in un momento. L’altro gli si avventò addosso con una tale eccitazione negli occhi che sembrava quasi di vedere un fuoco ardere nel profondo delle sue viscere.
Sta per morire!
James spalancò le sue fauci fameliche, un lupo pronto a sfoderare l’ultimo colpo, asso nella manica, era pronto. Sta per morire!, urlò ancora quella voce.
Impugnai il sovrapposto, provando a annullare il tremore che mi pervadeva tutta.
I denti di James brillarono sotto il grigiore brillante delle nuvole, crudeli. Nessuno l’avrebbe aiutato, in quel momento, nessuno degli altri Cullen sembrava nemmeno accorgersi della tragedia che si stava per consumare, proprio lì, davanti ai miei stessi occhi.
Punta alla faccia!
Sta per morire! Morirà!, ormai l’angoscia mi stava strozzando.
«Edward!», gridai, con tutta la forza che avevo in me.
E per un attimo, tutto cominciò a rallentare – si voltò verso di me e così pure James. Intorno a me venti punti brillanti, rossi, neri e d’oro si rivolsero al mio viso tumefatto: ero l’attrice sul punto di salutare il pubblico davanti a me, prima di calare il sipario sul gran finale.
Lanciai un’occhiata a James e premetti il grilletto.
E in quel momento capii.
Per chi stavo lottando veramente? Per chi facevo tutto questo?
Guardai Edward, trattenendo le lacrime.

Per lui.

Il colpo fu secco, assordante, ma a me parve come di aver scoccato una leggerissima freccia che piano piano diventava più sottile, ancora più sottile, fino quasi a perdersi fra i contorni della fitta boscaglia.
Edward si tese ancora di più, tratteneva James nella sua presa d’acciaio e di cemento e intanto la freccia si faceva più vicina, finché non toccò la mascella del segugio, una carezza che divenne rapida esplosione, boato frastagliato da grida laceranti. La freccia non era più una freccia ma un proiettile e il viso di James non era più un viso. Con la lingua ciondoloni, ormai privato della sua mascella, il segugio provò a divincolarsi dalla presa di Edward, a scappare, a salvare almeno quell’ultima parte di sé, ma l’altro, implacabile, lo spinse a terra, in un attimo gli fu sopra e gli staccò la testa. Di netto.
Fu in quel momento che fui certa che né in cielo né in terra potesse esistere dolore più accecante di quello di Victoria – era lì per James, come io ero lì per Edward, e anche lei si era accorta di quello che stava succedendo, proprio come Alice, Jasper e gli altri; la lotta doveva essere scoppiata in pochi momenti.
Urlava, con le lacrime agli occhi alla visione di quel terribile sfregio che si apriva lungo tutto il collo di James proprio come in quel momento si apriva nel suo cuore. Vidi Laurent provare a portarla via, ormai conscio che non ci sarebbero state comunque possibilità per loro due – il suo viso si piegò in un’espressione talmente terrorizzata alla vista di James, così, rotto, immobile, ormai solo un fantoccio e in quel momento compresi che Laurent stesso, proprio come Victoria, era talmente certo della superiorità di James rispetto a Edward da non porsi realmente nessun tipo di problema. Fino a quel punto quei due si fidavano di lui e questo mi dette subito una misura di quanto dovesse essere stato forte James. E di quanto lo fosse Edward.
Ci misero poco a sparire, ma quelle urla, il volto di Victoria, il modo in cui mi guardò, a metà strada fra l’odio più feroce e velenoso e il più completo smarrimento, quasi avesse voluto prendermi a schiaffi piangendo, chiedendomi come avessi potuto farle una cosa simile, si impressero nel mio cuore per sempre.
Quando perfino quelle grida strazianti si fecero via via più flebili e distanti, lasciai cadere il fucile a terra, esausta come lo erano tutti. Lanciai un’occhiata a Edward, in ginocchio in mezzo alla radura di fronte a me.
Per un tempo che io percepii come eterno nessuno parlò, nessuno si mosse, tutti cercavano di riprendere le forze e la calma. Chiusi gli occhi.
Volevo chiedere scusa a Alice in un modo talmente sentito, talmente sincero da farmi venir voglia di piangere, di ridere, di tremare, di gridare per la rabbia e qualsiasi altra ragione possibile. Sì, volevo scusarmi, scusarmi per quello che stavo per fare, ma non c’era altra soluzione.
Le avevo promesso che, se mi avesse portato con lei, se mi avesse portato da lui, io sarei sparita per sempre, che non avrei più parlato con Edward o lo avrei toccato, o lo avrei sognato. E chissà, magari lei ci aveva creduto, magari l’aveva fatto anche senza sapere che ero una donna di parola, magari ci avrebbe creduto anche se fossi stata una bugiarda, perché se lo fossi stata quella sarebbe stata la prima promessa sincera che avrei detto.
«Ma portami con te, portami da Edward, posso aiutarvi. Portami da lui e io,.. Vi lascerò stare. Non parlerò nemmeno più con Edward, lo prometto. Ma portami con te, portami da lui», così avevo detto, vero? Vero?
E ero sincera, così sincera! Pur di vederlo avrei sacrificato qualunque cosa.
Per questo, in quel momento avrei voluto scusarmi.
Stavo per infrangere la mia promessa.
Scusa Alice, scusa tanto, avrei voluto dire. Scusa per sempre.
Aprii gli occhi e corsi verso Edward, raccogliendo le ultime forze che mi restavano e caddi in ginocchio, vicino a lui, gli lanciai le braccia al collo, stringendolo a me.
Era vivo.
Era lì con me.
Non se n’era andato.
Potevo ancora toccarlo, potevo sentirlo, potevo sentire anche il suo cuore.
Era lì con me e al solo pensiero scoppiai a piangere.
Non avevo più paura per me, ma quanta ne avevo avuta per lui! E non combattevo più per me stessa, ma per lui! Per lui! Non mi importava cosa diceva Alice, quanto forte poteva arrivare a diventare Edward, non mi interessava nulla perché ogni volta che lo guardavo davanti ai miei occhi c’era sol un ragazzino di diciassette anni, spaventato proprio come me, solo, proprio come lo ero io, e io non potevo lasciarlo davanti alle avversità senza stringergli la mano, senza fargli capire che non m’importava nulla di tutto il male che c’era nel mondo, se potevo combattere al suo fianco.
Perché con lui, io ero pronta.
E non avevo più paura.
Sì, volevo scusarmi, scusarmi mille volte con Alice, perché sapevo che era lì, che mi guardava e forse con che odio!, scusa per tutto, e anche per quello che stavo per fare.
Mi sciolsi dall’abbraccio, guardai Edward in viso
e
lo baciai.
In quel singolo bacio tutta la realtà che ci circondava cominciò, piano piano, ad avere sempre più senso, come un foglio di carta accartocciato che uno prendeva per caso e rimetteva a posto, spianando bene anche gli angoli. Adesso capivo così tanti sentimenti, la rabbia tenue costellata di piccoli punti accesi di gelosia, la felicità nel vederlo arrivare, la serenità che provavo sentendolo vicino a me, di mattina appena sveglia, il tumulto che i suoi sorrisi creavano in me, il batticuore quando mi abbracciava, la tristezza, l’amarezza, tutto, ogni cosa. Strinsi la sua faccia fra le mie mani e cominciai a dargli così tanti baci che quasi mi girava la testa e mi veniva da piangere, perché nulla in me assomigliava alla certezza, alla sicurezza, nulla in me sapeva se lui avrebbe mai ricambiato ciò che io nutrivo per lui, eppure era come se non avessi scelta: riuscivo solo a baciarlo. Piano piano, insieme ai baci, spuntarono come fiori dai miei occhi altre lacrime e poi furono solo baci e risate e alla fine baci e piccole parole come «Ciao», «Scusa», «Sono qui», «Non mi lasciare». E speravo che tutte queste, da sole, bastassero perché lui sentisse l’unica parola, frase che ormai da giorni volevo dirgli. «Baciami».
Lo sentii sorridere fra un bacio e l’altro e mi strinse a sé più forte che poté.
«Ciao», sussurrò anche lui, commosso.
Fronte contro fronte, non riuscivo nemmeno a aprire gli occhi e guardarlo, tale era l’emozione.
«Grazie», mi baciò, «mi hai salvato la vita».
«Tu a me. Siamo pari», sorrisi.
Rimanemmo così e a me sembrò per sempre, per tutto il tempo del mondo, della galassia, dell’universo intero. Non volevo lasciarlo andare, non volevo mai più. Mai, mai più.
Per la prima volta dopo tutto quel tempo, avevo ritrovato casa mia.
Era successo per davvero.

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Capitolo 22
*** Alba ***


                                                                                             Alba


«Non ci posso cedere. State scherzando vero?».
«Oh santo Dio, non puoi passarci sopra e basta?».
«Mi prendete per il culo? Mi sono perso tutto il meglio! Mentre voi eravate là a divertirvi, io me ne stavo con le mani in mano davanti a casa Swan! Perché non mi avete detto nulla?!».
«Se questa è la tua idea di divertimento..», mormorò Rosalie.
«È esattamente la mia idea di divertimento!», sbottò Emmett, nascondendo il viso fra le braccia incrociate sull’isola della cucina. Mi ricordavo il momento in cui ero entrata in quella casa, scortata dalla famiglia Cullen al completo: adesso che la notte era superata, che avevo attraversato quell’alba tumultuosa, sentivo che tutta la tensione, l’ansia di quegli attimi, era crollata, svanita fra le mie braccia come sabbia.
Sotto la debole luce della mattina che ormai cominciava a farsi di momento in momento più nitida, i volti stanchi e macerati dei Cullen cominciavano a rilassarsi, distendersi. «Hai fatto un gran bel casino qui, eh fratello?», Jasper ammiccò all’entrata della stanza di Edward, e questo suscitò una risatina generale, ma quello non si curò proprio della domanda, anzi.
Mi guardava come se avesse altro per la testa.
«Forse ci costerà un po’, ma immagino che nel giro di un paio di settimane sarà tutto di nuovo come prima», mormorò rilassato Carlisle.
«L’importante è che tutto sia andato per il meglio», sussurrò Esme lasciandosi cadere su una sedia, «credevo che sarei morta», ridacchiò, un pizzico divertita e eccitata da quello che era stato certamente un evento al di fuori della sua routine. «Te la sei cavata bene», osservò Carlisle guardandola, e un lampo d’amore brillò nelle profondità di quelle pupille scavate nel viso stanco. In quei brevi istanti mi resi conto di una cosa: adoravo guardarli così. Non solo per via della loro, ben nota e più che ovvia, bellezza, ma per la normalità che emanavano in quei momenti. Mi colpì il modo in cui somigliassero proprio a dei veri esseri umani, alla loro unità e la flebile gioia che nutrivano per la serenità delle loro vite tranquille.
«Nemmeno Bella scherza, eh», ghignò Emmett tirandosi su e poggiando la testa sul dorso della mano.
Mi lanciò un’occhiata ammiccante e per un attimo mi tornò in mente James.
E le garze e i cerotti che mi ricoprivano – non c’era che dire, Alice era precisa e decisamente molto più efficiente di quanto mi aspettassi (in questo assomigliava veramente in una maniera inquietante a Carlisle): non appena eravamo tornati a casa si era occupata di me in tutto e per tutto, mi aveva curato le ferite, fasciato gli avambracci, graffiati dai pezzi di vetro che mi erano praticamente esplosi in faccia dopo l’arrivo di Edward, aveva persino messo un cerotto sul mio ginocchio. In genere avrei opposto resistenza, le avrei detto: «Non preoccuparti, puoi andare, faccio io», e l’avrei rassicurata con un cenno della mano, ma in quelle circostanze, non mi sentivo in vena di fare obbiezioni. In realtà, dopo quel bacio – quei baci – non riuscivo molto a guardarla in viso: non avevo idea di cosa pensasse di me, in quei frangenti.
Mi odiava? Mi disprezzava per aver infranto la mia promessa? Oppure, molto più semplicemente, si lasciava ancora cullare dall’astio che le era nato in corpo sin dal giorno in cui Edward mi aveva salvata?
«Le hai prese di santa ragione, eh?», trattenne una risata Emmett e Rosalie gli tirò un pizzico.
«Che c’è? È forte. È tosta, ho capito perché gli piaci», ammiccò in direzione del fratello.
Cadde un silenzio imbarazzato.
«Mh..», mormorai, «Grazie.. Ma se non fosse stato per Alice non sarei nemmeno potuta arrivare sul posto, quindi..». Lei scrollò le spalle, «Però è vero, sei stata bravina, te lo concedo».
Le lanciai un’occhiata al di là della stanza: mi stava rivolgendo un sorriso!
Piccolo, composto, appena accennato, ma era un sorriso. E allora, allora forse poteva esserci un posto nel suo cuore per me? Forse avrebbe potuto accertarmi, magari poco a poco. Ripercorsi gli attimi passati col pensiero, rividi Alice nella mia memoria, il modo, i molti modi, in cui mi aveva guardata in quella notte, dapprima con sollievo, poi con rammarico e una lieve punta di rimorso, infine con rabbia, ma anche con paura, serietà, calma. Non potevo dire di volerle bene, né di fidarmi di lei, non completamente almeno, ma quel lieve sorriso mi fece ripensare alle sue durissime parole, taglienti come le lame di un rasoio («Non se ne parla. Devi restare qui. Non saresti di nessun aiuto, la verità è che non lo sei mai stata, anzi! È solo colpa tua! Stai qui finché non torniamo», aveva gridato, preda della più cieca fra le paure), ma non riuscivo davvero a odiarla per questo: sapevo che non era così che era, sapevo che non era ciò che pensava. L’avevo sentita parlare sinceramente, la volta che portò via da casa mia Edward e quando eravamo insieme sulle scale, lì, no, non era sincera. Forse c’era una vena di risentimento nascosta fra le linee del discorso, ma in fondo al cuore percepivo il suo desiderio di spingermi via per proteggermi. Perché l’avevo visto riflesso sulla superficie del suo pallido viso quando avevo ripreso conoscenza: non desiderava la mia morte e il fatto che avessi riaperto finalmente gli occhi su quel mondo così meraviglioso e anche così ingiusto l’aveva sollevata, gonfiandole il cuore di gioia. Voleva che mi salvassi e forse non tanto per preservare la mia vita in quanto tale, ma per non distruggere quella di suo fratello: immagino che Alice avesse capito già da prima che non avrei potuto mantenere la mia parola e di questo la ringraziavo.
«Bella, a proposito delle ferite..», disse Carlisle, «Andrebbe bene dire a tuo padre che sei caduta mentre facevi una girata nei dintorni della casa, di sera. Le garze copriranno il più.. E impediranno che si insospettisca».
Oh, beh, credibile.
Ma,..
Le dita sfiorarono il mio collo che ancora doleva – quando ero andata in bagno, di ritorno dal campo di battaglia, avevo potuto osservare con estrema chiarezza e turbamento le impronte violacee e profonde che le dita di James avevano lasciato sul mio corpo. Dio, al solo pensiero ancora mi scoprivo scossa da mille tremori e dovevo focalizzarmi sull’attimo esatto in cui Edward l’aveva ucciso e in cui Jasper e Carlisle gli avevano dato fuoco («È così che si fa», aveva detto Esme quando mi era venuta vicina, «È così che un vampiro muore»). Quelle orme scure, come avrei potuto giustificare quelle?
«Ti metterò un po’ di fondotinta», Alice mi precedette, «non si noterà nemmeno».
«Oh.. Grazie», mormorai serena.
«Ah! A proposito», mi voltai di scatto verso Jasper, «ho preso in prestito il tuo sovrapposto. Te lo avrei dovuto dire subito ma.. Mi è passato di mente».
Jasper mi sorrise, «Va bene, lo so. Sei stata molto coraggiosa».
Scrollai le spalle, cercando di non arrossire.
«Avrei voluto esserci», grugnì Emmett scontento, «maledizione, la prossima volta Charlie tocca a voi».
Al suono di quel nome sussultai.
«Tranquilla, Bella, sta benone. Ho passato le ultime ore a sentirlo russare. Se la passa meglio di me», sorrise e a me sarebbe venuto voglia di abbracciarlo, quel ragazzo così simile a una montagna e dai capelli neri come piume di corvo, nella stessa maniera con cui avrei potuto stringere un fratello o il più caro fra gli amici. Emmett sembrava sempre così perfettamente a proprio agio quando mi aggiravo nei dintorni di suo fratello, era l’unico che mi avesse mai sorriso, dopo l’incidente, l’unico che non mi facesse venire i brividi solo a guardarlo. L’unico che non avesse provato a separarci, me e Edward.
Gli sorrisi, «Grazie Emmett».
«Quando vuoi, sorellina», ridacchiò.
Rosalie gli lanciò un’occhiata perplessa, ma perfino lei pareva più rilassata, «Forse dovremmo andare tutti a riposare. Non so voi ma io sono a pezzi. Come se non bastasse, guarda qui», si prese una ciocca di capelli sporchi e annodati fra le mani, «Quella figlia di puttana di Victoria mi ha rovinato tutti i capelli! Per non parlare dei vestiti! Dio, che schifo».
Emmett le prese teneramente la piccola mano delicata fra le sue grandi e grosse e la baciò piano, «Ma sei bella comunque». Quella tirò su un’espressione di finta noncuranza, ma io la vidi sorridere.
«Rose ha ragione, io di certo avrò bisogno di un bagno», Jasper esaminò le sue lunghe braccia ricoperte di terriccio e erba. «Amen», sospirò Alice.
«Abbiamo tutti bisogno di un po’ di tempo per noi, per riprenderci.. Era da molto che non affrontavamo un’emergenza simile», sorrise rivolto verso di me e Edward, il quale ancora non aveva spiccicato parola.
«Ci farà bene, ci rimetterà in sesto».


Lanciai un’occhiata al salotto vuoto e mi morsi un labbro, nervosa. Se n’erano andati tutti. Chi a farsi una doccia, chi a leggere un libro, chi a fare una passeggiata.. Gli altri membri della famiglia Cullen avevano preso alla lettera le parole di Carlisle e, inoltre, avevo il vago sospetto che volessero lasciarci da soli.
Passati quei momenti terribili, di ansia e confusione, non riuscivo più con la stessa sicurezza a guardare Edward negli occhi: ora che avevo esaurito la mia scarica di adrenalina, non riuscivo più nemmeno a pensare lucidamente. Dio mio. Lui, dal suo canto, non mi aiutava granché, non faceva che starsene zitto, seduto sul divano vicino a me e per un attimo fui colta da una tristezza improvvisa – forse non mi voleva.
O non voleva legarsi a me. L’avrei capito, in realtà.
Per lui doveva essere già difficile starmi vicino, seduto su quel divano come adesso, potevo solo immaginare cosa dovesse significare baciarmi o tenermi semplicemente più stretta.
Sospirai.
«A Charlie prenderà una sincope quando mi vedrà arrivare a casa così conciata», forzai una risata.
Lui non disse nulla.
Forse ricordargli le mie precarie condizioni fisiche non era stata una buona idea, dopotutto.
«Già..», borbottai fissandomi le ginocchia, «La prossima volta limitiamoci a giocare a Monopoli, eh?».
Nessuna risposta.
Lo guardai di sottecchi: non mi stava nemmeno prestando attenzione! Soffiai irritata, si poteva sapere cosa gli passava per la testa? Gli lanciai un’occhiata perplessa e mi accorsi di come, in quel preciso istante, sarei anche potuta implodere, probabilmente non se ne sarebbe accorto. Una parte di me sapeva già come sarebbe finita quella conversazione. Non avrei dovuto baciarlo, avevo decisamente scavallato un limite, forse era per questo che Alice appariva così tranquilla e rilassata: sapeva che non ci sarebbero stati problemi in ogni caso e non perché Edward non mi volesse, ma perché perfino lui capiva quanto stupido fosse imbarcarsi in una relazione simile con un essere umano. Inoltre, stando a quanto aveva detto Alice, i Cullen si sarebbero comunque trasferiti di lì a due anni, forse meno, cosa avrei fatto allora? Mi sarei infilata in una relazione a distanza? Con un vampiro? Buon Dio, perfino il pensiero aveva un che di surreale, figurarsi la pratica. «Hai la mia maglietta», disse a un certo punto, fissandomi.
«Ah, sì..», risposi io.
Mi lanciò un’occhiata perplessa, al ché io feci: «Quando ve ne siete andati avevo così paura che non sapevo più nemmeno cosa fare.. Quindi mi sono messa la tua t-shirt, perché, uhm», arrossii violentemente, «ha un buon profumo e quando me la sono infilata mi sono sentita meglio. Più tranquilla».
Di nuovo, nessuna risposta.
«Mi dispiace, te la lavo e te la restituisco domani», dissi nervosa.
Per un attimo, sembrò non capire, poi un sorriso radioso illuminò il suo viso.
«Puoi tenerla, sai? È tua se la vuoi».
«Edward, mi dispiace», feci tutt’un tratto, avvalendomi di quel piccolo spiraglio che si era aperto in lui e nel mio cuore in quel momento.
Scrollò le spalle, «Ti ho detto che va bene, non mi da fastidio».
«No, non hai capito», lo fissai dritto negli occhi, «non mi riferivo alla maglietta. Ma a quello che.. Al fatto che io, insomma. A quel bacio».
Quei baci, enfatizzò una vocina nella mia testa.
«Non avrei dovuto. Mi dispiace di averlo fatto, deve esserti preso un colpo, avermi così vicina tutt’a un tratto. È che a volte io mi dimentico. Mi dimentico di cosa sei, capisci? A volte mi scordo delle nostre differenze, molto più spesso di quanto dovrei e anche di quanto debba essere difficile per te starmi vicina, quanto debba frustrarti il fatto di non poter assecondare la tua natura. Perciò, mi dispiace. Non lo farò più».
Le sue mani toccarono le mie braccia e, stringendomi in una presa lieve, mi tirarono verso di lui, spingendomi verso il suo petto, lasciando che la mia fronte si posasse, delicata come una farfalla, sull’incavo del suo collo e mi passò una mano fra i capelli.
«Vedi?», lo sentii sorridere, le labbra poggiate sui miei capelli.
«Vedi? Non fa più così male. Ho passato così talmente tanto tempo con te che ormai non ci faccio nemmeno più caso. Sento solo il profumo, il dolore non è più così intenso come la prima volta che ti sei seduta accanto a me. Posso baciarti, se voglio», mi prese il viso fra le mani, «posso baciarti il naso, la fronte, le guance..». Si avvicinò ancora di più, fino a lasciare che le sue labbra sfiorassero le mie.
«Certo magari», soffocò una risata sentendomi tremare, «mi ci vorrà un po’ di pratica, che ne pensi?».
«Naturalmente», mormorai io schiarendomi la voce e tentando di darmi un tono, «la pratica è.. Fondamentale». «Allora è deciso. Sappi che sono uno studente molto entusiasta, quindi per quanto mi riguarda possiamo cominciare anche subito», schiuse le labbra e sfiorò delicatamente il mio labbro inferiore con la punta della sua lingua.
Passai una mano fra i suoi capelli bronzei scompigliati e sporchi e lo tirai verso a me, un guizzo di gioia fece accelerare il mio battito cardiaco: mi stupii nel rendermi conto da quanto tempo volessi che qualcosa del genere succedesse.
«State già pensando di creare una nuova razza voi due?», la voce di Emmett ci fece girare di scatto. Eccolo lì, con quell’aria divertita, a guardarci al di là dello schienale del divano.
«Oh ma,.. Santo Dio che vuoi?», sbottò Edward visibilmente irritato.
«Ssh», lo ammonii io con una pacchetta sulla testa, «lascialo stare, mi sta simpatico».
«Oh, che carina che sei», mi sorrise Emmett, «tieni, per te», mi passò la maglietta che avevo lasciato sul letto di Edward prima dell’arrivo di James. «Grazie, me ne stavo quasi per dimenticare!».
«Allora, quindi.. Voi due..», lasciò cadere la frase con fare allusivo.
Lanciai un’occhiata a Edward.
«Sì, noi due», rispose scocciato il fratello, con un’espressione imbronciata.
«Oh, Bella», Emmett si portò una mano sul petto, «ti prenderai cura di questo verginello inesperto?».
Dall’altra stanza sentimmo Jasper scoppiare a ridere.
«Hai un cuore così grande!». Jasper stava morendo.
Soffocai una risata, mentre Edward diventò livido di rabbia, «Spero tu muoia», sibilò a denti stretti.
«Di nuovo?», rise Emmett.
«Dai Edward, non ti preoccupare, si vede che ti vuole bene anche se sei un po’ imbranato», urlò Jasper, lontano. «Io vi giuro che..», ringhiò Edward, sul punto di balzare giù dal divano per darle di santa ragione ai due, ma io lo strinsi a me, senza alcuna difficoltà e poggiai la sua testa sul mio petto.
«Non vi preoccupate, ci penso io a lui», ridacchiai.
Era incredibile come il suo corpo aderisse perfettamente al mio, la sua tempia fredda si riscaldò immediatamente al contatto col mio petto – era così naturale, sembravamo proprio una coppia qualsiasi e questo mi fece sorridere. «Lo spero», Emmett ridacchiò e Edward gli fece una linguaccia.
«A proposito», dissi io, «siete sicuri che non sia un problema che io resti qui con voi? Non vi da fastidio il mio odore?». Edward mi strinse a sé; «A me piace», borbottò affondando il viso nell’incavo del mio collo.
Emmett scrollò le spalle, «In realtà la storia dell’odore è molto soggettiva, per noi non è veramente un problema starti vicina, almeno non adesso. Ci abituiamo anche noi, sai? E poi vorrei ricordarti che stiamo per lunga parte del giorno fra voi umani molliconi. Questa è la vita che abbiamo scelto», disse lui, fingendo un sospiro esasperato.
Ero così felice che avrei potuto mettermi a ballare. Era tutto lì, quello per cui avevo lottato – la mia meritata ricompensa, il mio tesoro, la mia rivincita, e tutto in me, la mia faccia, i miei occhi, la mia pancia, le mie gambe, tutto sembrava sciogliersi dalla gioia, dalla commozione. Edward era lì, fra le mie braccia e io non ero debole, non ero spaventata, non ero sola, non  più, ma finalmente pronta e capace.
E c’era in me questa forza che mi animava e mi muoveva e mi faceva ridere e piegare la testa, poggiarla su quella di lui, parlare, respirare il suo odore. C’erano in me ancora domande, tutte senza risposta – a cosa si riferiva Jasper quando parlava di un equo scambio? Che relazione aveva con la famiglia Cullen? Cosa mi nascondevano gli attenti occhi di Carlisle che mi avevano tenuta d’occhio per tutta la mattinata, in quella casa in rovine? Cosa ne sarebbe stato di Victoria? – ma riuscivo a prestar loro ben poco del mio interesse. Con lui lì, fra le mie braccia, sorridente, vivo, e per ora felice, di cos’altro mi sarei potuta preoccupare?
«Quando tornerò a casa, verrai a trovarmi? Voglio guardare un film stasera», mi abbassai su di lui e lo sentii come sorrideva contro la mia pelle e per un attimo quel dolore così piacevole mi bucò il cuore facendo uscire l’amore. «Sono praticamente già lì», rispose.


«Cristo santo..».
«Non è male come sembra», mi schiarii la voce, «potevo farmi più male».
«Più male? E come?».
In quel momento pregai che il trucco di Alice avesse funzionato e che mio padre non si fosse accorto dei lividi sul mio collo. «È stata colpa mia, me ne assumo tutta la responsabilità», affermò serio Carlisle, infilato nella sua camicia bianca immacolata. Quell’ammissione di colpa parve prendere in contropiede Charlie, che rimase imbarazzato dall’improvvisa confidenza che si era permesso di dare al dottore.
«Non avevo avvertito né Bella né Edward che era pericoloso gironzolare nel boschetto vicino casa nostra», tirò fuori un sorriso ammaliante, «sono solo ragazzi», ridacchiò, camuffando così perfettamente ogni traccia di quell’angosciosa notte che quasi mi misi a ridere perfino io.
Charlie alzò la mano destra, palmo aperto, polpastrelli duri e pelle tagliata dal vento, l’alzò così, in segno di pace, di resa, di benevolenza, fu quasi come una dolce benedizione.
«Poteva farsi più male», sorrise, «va bene. Può succedere», si schiarì la voce e mi lanciò un’occhiata divertita: «Del resto non è mai stata molto coordinata».
Carlisle rise, Charlie anche.
Sbuffai per sottolineare la stizza nella presa in giro, ma venni ben presto coinvolta dal loro buonumore. Erano così rari quei momenti, quella semplicità – solo due padri e una figlia un po’ sbadata nella piccola anticamera della casa dello sceriffo, una risata, vite normali intrecciate nella tranquilla serenità di una mattinata piacevole. Mi sembravano passati secoli da quel genere di vita, quel mondo di esseri umani e tempo e morte e scadenze. Quel mondo in cui l’amore aveva arpionato il mio cuore ingenuo e io ero finita per innamorarmi di un cattivo ragazzo che era buono solo con me. Che mi faceva mangiare le ciliegie e dormiva sulla mia pancia scoperta nei pomeriggi estivi e era morto nel fuoco della sua rabbia e mi aveva lasciata su quel letto arancione illuminato sotto la finestra. Quel mondo dove Joshua mi aveva baciata e poi Edward mi aveva trovata, agli angoli del mio mondo e mi aveva teso la mano con quella sua aria di tristezza spezzata, un po’ riluttante, seria, composta, dolce, calda. E io avevo conosciuto un nuovo tipo di dolore, ma anche un nuovo tipo di gioia e adesso per la vita era quella – più ampia, più piena, densa di nuovi misteriosi segreti, arcani significati, sentimenti proibiti.
E quel momento, quella tranquillità erano a me così estranee, dopo tutto ciò che era successo: quella notte avevo creduto di avere e perdere tutto, di salire sulle più alte montagne russe e scendere in picchiata dentro un nerissimo vortice nero, a una velocità devastante. E poi ero riemersa.
Tornata indietro.
Ma Charlie non poteva sapere e questo mi fece sorridere: ero riuscita a proteggerlo, nello stesso modo in cui avevo protetto Edward.
«Mi occuperò personalmente di sgridare Edward a lungo», Carlisle mi sorrise, rilassato e poi a Charlie: «Per qualsiasi problema comunque, venite a trovarmi pure all’ospedale quando volete».
Ci salutò dal rettangolo di legno, con il gomito alzato e la mano stesa in aria, i capelli biondi sotto la luce del mattino. Charlie sorrise mesto, un po’ goffo, imbarazzato e mi rivolse un’occhiataccia prima di scoppiare a ridere: «Sei tutta tua madre. Veramente imbranata!».
Feci una smorfia, risi anche io.
Era tutto finito. E apparentemente, era questa la mia vita adesso. Non che non andasse bene, comunque.
Salii su in camera mia e quasi fui sopraffatta dall’emozione: mi ero preparata così bene a non rivedere mai più quei luoghi, a non sedermi più su quel letto, a non sentire più tutti quei suoni quotidiani – Charlie che apre il frigo e prende una birra, si stende sul divano, accende la televisione, tossisce un po’, cambia canale, si alza di nuovo, risponde al telefono. Ero pronta a svanire, a svoltare l’angolo della vita e dimenticarmi ogni cosa, fino al più piccolo dettaglio. E poi, Edward come una meteora nel mio cielo, in una pioggia di vetro e scintille, tuffandosi nella notte più oscura mi aveva strappata alle mani del più amaro fra i destini.
Aveva detto che non mi avrebbe lasciata e non l’aveva fatto.
Sorrisi.
Andai in bagno, mi cambiai, mi infilai in qualcosa di più comodo e lanciai un’occhiata allo specchio.
Che cosa strana, pensai guardandomi riflessa su di quella splendente superficie. Sfiorai la guancia sinistra – ero convinta che James avesse graffiato quella gota, l’avevo sentita pulsare e vista sanguinare, e quel bruciore.. Dio, al solo pensiero mi venivano i brividi.
E adesso? Adesso di quel segno rovente non era rimasta traccia.
Col senno di poi, avrei dovuto interrogarmi su quel cambiamento, ma non appena sentii la finestra della mia stanza schiudersi, sapendo perfettamente l’identità dell’estraneo che si era appena intrufolato in camera mia, abbandonai il bagno e lì relegai ogni mia dolorosa memoria.
«Allora? Charlie vuole ancora ficcarmi il suo fucile su per il culo e premere il grilletto?», ghignò lui, divertito da qualche personale monologo interiore di cui Charlie forse credeva di detenere esclusiva proprietà, mostrandosi dinnanzi a me in tutta la sua tranquillità, disteso sul letto, fra le pieghe delle lenzuola e delle coperte. Sorrisi, correndo da lui, in ginocchio accanto al suo torso, china sul suo viso sorridente.
«Sono felice che sei ancora qui», sussultò, e i suoi occhi si gonfiarono d’emozione.
Carezzai il suo viso, e mi lasciai cadere al suo fianco, con aria sofferente dissi: «Oh, io no!».
Le mie parole gli si appiccicarono addosso e gli conferirono un’aria piuttosto stranita.
«Sono ancora viva!», mi portai il polso alla fronte, con fare drammatico, «Quanto altro tempo ancora dovrò passare con te? Oh, Dio, perché mi hai fatto questo? Credevo che il mio piano fosse inattaccabile! Guardami adesso con che rompipalle dovrò trascorrere i miei giorni! Ti diverti a vedermi soffrire, forse?», aprii un occhio e rivolsi un sorrisetto a Edward.
«Eh, senti», disse lui tirandomi una guancia, «stai molto attenta a fare la fantastica con me».
Scoppiai a ridere e improvvisamente tutto il mio cuore si riempii di schegge di gioia brillante che bucavano il mio corpo in ogni direzione, facendomi il solletico; passai una mano sui suoi capelli folti, premendo l’indice sul suo scalpo, toccando dalla punta alla radice, guardando ogni riflesso. Il mio riso si esaurì e lasciò posto a una piacevole sensazione di serenità.

«Penso che io e te ci divertiremo un sacco, insieme».
Mi sorrise, vicinissimo e sfiorò la curva delle mie labbra, «Oh, penso anche io».

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Capitolo 23
*** Un giorno - Epilogo ***


                                                                                                                      Un giorno


«Ah».
Lo fissai per un lungo momento, quel suo sguardo accigliato e un po’ torvo, il modo in cui si strofinava meccanicamente la barba rada sull’estrema linea massiccia del mento – continuavo a ripetermi quel monosillabo uscito a forza da quelle labbra ruvide in testa come un mantra. «Ah», aveva detto e si era messo a riflettere. Tirai uno o due colpetti di tosse, come a voler spiegargli che non c’era davvero troppo da tirarla per le lunghe. «Sì, va bene», borbottò ritornando in sé, «Mi stavo solo domandando cosa ti avesse spinto a cambiare idea così.. Radicalmente. Non sei mai stata tipo da questo genere di cose. C’è qualche ragione particolare che ti ha fatto prendere questa decisione?».
Scrollai le spalle con aria noncurante sotto lo sguardo di Charlie, che mai mi era sembrato più affilato.
«Va bene, va bene», trattene una risata, «ma fatti delle foto per tua madre. Sai che impazzisce per queste cose». Sorrisi un po’ imbarazzata e me ne tornai in camera mia, ripensando ancora all’espressione esterrefatta di Charlie. Certo questo genere di decisioni potevano pure spiazzarlo, senza dubbio, ma mi domandavo se questo genere di reazioni sarebbero diventate una sorta di routine nei giorni avvenire.
Ancora dovevo comunicare la mia decisione a Angela, a Jess. A Edward.
Avvampai alla sola idea e nascosi in fretta il viso nel cuscino, provando a concentrarmi sul fatto che a breve Charlie si sarebbe infilato nel suo liso giubbotto di pelle, avrebbe inforcato gli occhiali da sole schizzati dalla pioggia e un po’ graffiati, avrebbe annunciato la sua partenza, una semplice visita al buon vecchio Billy Black, sbattuto la porta alle sue spalle e finalmente non avrei più dovuto pensare a quella breve conversazione, che ancora un po’ mi coglieva sul vivo. Tirai un sospiro di sollievo quando quella blanda rassicurazione che continuava a roteare in un loop infinito nel mio cervello finalmente si concretizzò e io potei gridare a pieni polmoni: «Ciao, papà! Divertiti con Billy!».
Mi buttai sul letto, continuando a stringermi sul viso il cuscino.
Volevo morire! Mi stavo già pentendo di quella decisione.
Non avevo nemmeno un vestito e.. Improvvisamente, le ante della finestra cigolarono e una voce, più simile a un flebile eco alle mie orecchie otturate dalla stoffa del cuscino, si fece spazio nel silenzio della stanza. «..lla?», mormorava con insistenza l’eco, «..ella?».
Sollevai appena il cuscino per andare incontro a quel suono. «Dimmi», borbottai un po’ imbronciata di fronte all’immagine piegata di Edward, di nuovo e ormai come sempre da quasi un mese, in bilico sul bordo della mia finestra. «Che stai facendo», mi lanciò un’occhiata stranita entrando con un balzo nella stanza.
«Rifletto sull’esistenza», dissi.
«Sembra noioso», rise lui arrampicandosi sul mio letto.
«Lo è».
«Allora non farlo. Andiamo a fare una girata», sorrise eliminando con le sue lunghe dita la barriera di stoffa e piume che difendeva il mio viso arrossato, di fronte al quale la sua espressione cambiò.
«Che hai?», mi venne vicino, «La febbre?».
«Mh, no», mormorai io, distogliendo lo sguardo.
«Sei paonazza».
Ancora?, pensai io, con un moto di imbarazzo che non servì a far altro che far affluire altro sangue alle mie gote. «Vuoi un bicchiere d’acqua?», tentò lui, ancora sopra di me, gli occhi ancorati ai miei.
«No me troppa fatica bere acqua no no», trattenni una risata di fronte al suo sguardo interrogativo, premendogli dolcemente il palmo caldo della mia mano contro il suo viso duro, gelido.
Sentirlo sorridere contro la mia pelle tesa mi fece un po’ venir voglia di piangere e ridere nello stesso momento. Edward si chinò su di me, spostando delicatamente la mia mano. Poggiò la sua fronte sulla mia, schiuse le labbra delicatamente e cominciò a cercare le mie labbra con la punta della sua lingua. Mi avvicinai a lui, stringendolo a me più forte mentre ci abbandonavamo a quel bacio sensuale, quasi fosse stata l’onda del più selvaggio dei mari.
Ogni tanto sentivo i nostri respiri allacciarsi, trovare un unico ritmo e mi sfuggiva un sorriso fra i baci, mentre la sua lingua tracciava un’umida linea dal punto più alto e nascosto del mio collo fino alle clavicole sporgenti. «Che ridi», sussurrava ogni tanto, senza dar l’impressione di voler smettere.
«Pensavo che i vampiri non avessero bisogno di respirare».
«Mh, qualcosa del genere», sorrise sornione, poggiando la fronte qualche centimetro al di sopra della mia scollatura a barca, «ma in alcune circostanze..».
Il modo in cui lasciò cadere la frase, in maniera così allusiva, per un attimo si trasformò in un brivido che mi corse su per tutta la schiena. Mi guardò intensamente, pronto per ricominciate, posare ancora una volta le sue labbra algide sulla mia carne di crema e indugiare con dolcezza sulle mie gote, la punta del naso, la superficie rovente delle mie labbra rosse e pulsanti quasi come fossero state annaffiate di vino. Premette di nuovo la punta della lingua sulla mia prima di alzarsi di scatto, facendomi quasi cadere da letto.
«Edward!», gridai al suo profilo teso, «Si può sapere che ti prende?».
«Sento puzza di cane», grugnì contraendo il viso in un’espressione di leggero disgusto.
Mi passai una mano sulla faccia, «Non ci posso credere».
«Non mi riferivo a te», alzò le spalle lui, come per rassicurarmi.
«Ma non mi dire», sbottai in tono sarcastico appoggiandomi sui gomiti. Restammo un attimo in silenzio, lui ancora cavalcioni sopra di me. «Dobbiamo restare a fissare il vuoto per ancora molto altro tempo?», ammiccai con ironia velata al suo corpo immerso nella più completa immobilità.
Lui si voltò verso di me, rivolgendomi uno di quei suoi soliti, imperdibili sorrisi e con un sospiro si abbassò su di me sussurrando un debole: «Ci vediamo».
Non feci nemmeno in tempo a dire: «Che vorrebbe dire?», che già era svanito, dissoltosi come una brezza finissima fra le mie braccia, senza nemmeno fare il più piccolo rumore. Rimasi ferma per qualche secondo, tempo necessario per poter rendermi conto del trillo del campanello: con uno sbuffo divertito mi precipitai giù dalle scale, credendo di aprire la porta e ritrovarmelo lì davanti, Edward con quel suo sorriso sghembo e il suo modo arrogante di prendermi in giro («Credevi che me ne fossi andato davvero, eh?»), ma trovai Jacob Balck, ritto nel suo metro e ottanta sul vialetto di cemento, a un passo dal mio viso agitato e dai miei capelli arruffati. «Ah,.. ciao», dissi.
«Ciao», rispose lui raggiante e «Aspettavi qualcuno?».
«Non lo so», risposi sovrappensiero.
«Non lo sai?».
«No, no, volevo dire.. No. Non aspettavo nessuno. Vuoi entrare?».
Lui accettò di buon grado. «Qual buon vento ti porta qui? Sapevi che mio padre è uscito con il tuo?», ghignai divertita. «Ah, sì», sorrise strofinandosi non senza un po’ di imbarazzo la parte bassa della nuca, «lo sapevo. E siccome passavo di qui..».
Alzai le spalle sorridendo, «Hai fatto bene. Vuoi qualcosa da bere? Mangiare? Abbiamo questa torta in frigo che è proprio extra», risi voltandomi verso la sua maglietta blu slavata e i suoi jeans un po’ strappati, decorati da gocce d’olio nero brillante, così simili ai suoi lucidi capelli lunghi.
«No, grazie, passerò per questa volta. Piuttosto, tu come stai?».
«Tutto ok. Tu?», chiesi mentre afferravo dalla dispensa un bicchiere.
«Più o meno. Ma la vita nella riserva è talmente noiosa, sai. Devo sempre aspettare che qualcuno sia lì lì per tirare le cuoia o che capiti un cataclisma, così posso farmi un viaggetto dall’altra parte del mondo..».
«Per portare qualche nonno o zio a farsi curare», scoppiai a ridere.
«Sì, preciso. Quindi a volte me ne vado un po’ a spasso», scrollò le spalle e appoggiandosi allo stipite della porta, le grandi mani in tasca, aggiunse: «Non credevo che ti avrei trovata in casa, è un bella giornata oggi».
«Sì, beh, sono un tipo pigro, che vuoi farci».
Lui rise, «Ho saputo che voi visi pallidi farete un ballo di fine anno, me lo confermi?».
«Affermativo», risposi in tono meccanico io.
«E ci andrai?».
Rimasi un attimo in silenzio, chinando appena lo sguardo sul bicchiere che tenevo in mano. «Ah, mh.. Penso di sì», borbottai poco convinta. Avrei voluto avere quel genere di conversazione con Edward, in tutta onestà. Jacob mi rivolse un sorriso folgorante, di quelli che non mi sarei mai aspettata potesse fare un ragazzino come lui, «Mi piacerebbe vederti con un vestito da sera».
«Non ce l’ho nemmeno, e il ballo è fra una settimana!», risi io, passandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Per la verità, non avevo nemmeno un cavaliere. Non avevo detto a nessuno che sarei andata, avevo sempre prontamente rifiutato ogni invito e dopo ciò che era successo, con Victoria e James né io né Edward ne avevamo più parlato. Sapeva che non ero tagliata per questo genere di cose, «Quale ballo?», aveva domandato con aria elusiva qualche tempo prima mentre camminavamo per i corridoi, quasi a volermi togliere ogni peso di dosso, o a rimarcare la sua indifferenza verso un evento simile.
Ma c’erano dettagli impossibili da nascondere, perfino per uno come lui: il modo in cui ascoltava rapito Rosalie e Emmett discutere dei rispettivi outfit per la grande serata, o le affettuose conversazioni di Alice e Jasper traboccanti di aspettative ingenue e innocenti. Il mio cuore andava in frantumi e si ricomponeva a una velocità tale da farmi mancare il fiato ogni volta che lo sorprendevo assorto nei suoi pensieri, perché per quanto impenetrabile potesse sembrare a volte, io riuscivo a capire in quali luoghi segreti il suo cuore si rifugiava. Volevo solo che fosse felice.
«Sei la solita», rise lui, piegandosi leggermente nella mia direzione.
«Con chi..», cominciò lui e poi si bloccò, con lo sguardo che mi superava e dritto come una lancia puntava verso la grande vetrata della finestra della piccola cucina.
«Jacob?», dissi io, poi seguendo la linea tracciata dai suoi occhi attenti mi voltai solo per trovare Edward al di là della vetrata con un sorriso da imbecille stampato in volto, mentre sventolava la mano e picchiettava sul vetro alternando il tamburellare allegro delle dita sul vetro con trillanti, «Ciao!». «Oh, ma santo Dio», sbottai io, andando a aprire la finestra, «ti apro la porta, andiamo. Che stai facendo?». Edward si appollaiò sulla cornice di legno, la schiena contro la solida anta di vetro. «Ciao», sorrise rivolto a Jacob.
Quello parve irrigidirsi non poco e si limitò a commentare la scena con un semplice: «Allora avete fatto pace tu e lui». «Sì, sì, è carino da parte tua interessarti», lo ammonì Edward con un gesto della mano.
«Ah, Edward lui è Jacob..», cercai di infilarmi nella conversazione, ma il mio tentativo non venne minimamente considerato, tanto che Jacob disse, «Sono una persona gentile, che posso farci».
Mi domandavo da cosa nascesse quell’ostilità improvvisa che pareva unicamente essersi rinnovata quel pomeriggio, ma nata già parecchio tempo fa.
«Praticamente un santo», sorrise Edward con una certa arroganza.
«Praticamente», ribatté Jacob.
«Senti ma è Bella che si occupa del tuo meraviglioso taglio di capelli? Ci pensa lei a tosarti? Sei qui per questo?». «No, credevo che fosse troppo impegnata a rifare il trucco a te», fece l’altro ammiccando al colorito più che spento di Edward.
«Bella è troppo impegnata in generale quando è con me», disse lasciando cadere la frase in maniera allusiva Edward. Jacob parve venir colto sul vivo, ma si rilassò immediatamente quando colpii Edward sulla testa con una rivista. «Adesso smettila», ordinai, puntando la rivista arrotolata contro di lui, «e non fare il maleducato». Edward mi sorrise e ben preso quelle sue labbra incurvate si trasformarono nella più adorabile delle smorfie, così simile in tutto a quella di un bambino vivace che mi ricordai con un improvviso sussulto il motivo della mia scelta. «Scusalo», dissi rivolta a Jacob, «è scemo poverino».
Provai a sorridergli ma l’altro ormai sembrava aver perso qualsiasi entusiasmo.
«Come ti pare», sbottò e poi, riprendendosi subito, con un moto di vergogna, «forse dovrei andare».
«Sì, sì, ti prego!», disse Edward riserbando a Jacob il più luminoso dei sorrisi. E per questo si beccò un’altra botta. «Puoi restare, adesso si calma», rivolsi un’occhiata torva al mio colpevole preferito, che se ne stava vicino a me tirando i lembi della mia camicetta. Proprio come un bambino, pensai esasperata.
«No, meglio tornare a casa».
«Nella capanne, si chiamano capanne», precisò Edward. Questa volta riuscì a spostarsi in tempo dalla traiettoria della rivista. «Se continui così mi cancella per sempre dalla lista degli amici», gli intimai, ma senza sortire grandi effetti, e rivolta verso Jacob: «Puoi tornare quando vuoi».
Lui sorrise e per un attimo mi sentii un po’ meglio di fronte la scomparsa di quell’espressione tanto offesa.
«Ti accompagno alla porta?».
Jacob annuì.
«Ciao! Ciao-o!», gridò Edward, che ormai si era impadronito completamente della cucina, «Mi raccomando scrivi! E se non puoi scrivere, i segnali di fumo vanno bene comunque».
Mi passai una mano sulla faccia, «Ha dei seri problemi».
«I dottori avranno perso le speranze», rise lui.
«Anche il tuo parrucchiere, Jacob!», gridò Edward dall’altra stanza.
«Sei sicura che uno così possa essere amico tuo?», mi sorrise, incrociando le braccia al petto, le mani infilate sotto le ascelle. «Che posso farci, sono una che si accontenta».
Ci fu un momento di silenzio, poi Jacob disse: «Stai attenta, va bene?».
Cercai di guardare al di là di quell’espressione preoccupata, di cosa si nascondesse dietro quelle parole e, forse, di quella sua visita casuale. «Come sempre», risposi strizzandogli l’occhio.
A lui quello parve bastare. Si allontanò salutandomi piano, ma il suo sguardo era distante.
Chiusi la porta dietro di me e tornai in cucina.
«Sei impossibile», sbottai, i pugni puntati suoi fianchi, «davvero impossibile, io non.. E si può sapere perché te ne sei andato?». «Puzza di cane, è un efficace repellente», sorrise, seduto sul tavolo di cucina.
«Ancora con questa storia?», soffocai una risata, «E visto che il suo odore è così intollerabile per te, perché sei tornato?». «Mi interessava partecipare alla conversazione».
«Ah, ecco! Quale parte in particolare ha colpito la tua immaginazione?», risi.
«Quella in cui parlavate del ballo di fine anno», sorrise nella cucina illuminata dalla fioca luce pomeridiana.
Rimasi un momento interdetta, «Ah, quella..».
«Vuoi davvero andarci?», chiese serio.
Annuii, tentando di nascondere le gote rosse fra le ciocche dei capelli: non ero preparata a questo genere di cose. Alzai lentamente gli occhi verso l’immagine di Edward che si stagliava in controluce nella mia cucina, senza sapere cosa aspettarmi. Lui mi guardava con un’aria divertita, un misto fra felicità e eccitazione.
Sapevo cosa stava per succedere.
«Edward, no», ebbi appena il tempo di dire, prima che lui mi prendesse di peso e mi portasse su in camera fra le risate generali.


«Non ci penso nemmeno. Proprio no. Non succederà mai nella vita del mondo, ciao. Addio. No. No. No-o».
«Bella, ti prego. Ma quanti anni hai? 86? Mia zia è più audace, per Dio. E è morta. No, per dire!».
«Allora, prima di tutto, no. Quanti colori ci sono sopra questo affare? E cos’è questo?», presi fra le mani l’enorme fiocco tutto strass e perline che penzolava dalla vita del manichino anoressico strizzato in un vestito ancor più striminzito. «Va bene che vogliamo fare le cose in grande, ma preferisco continuare a dare l’impressione di essere mentalmente presente».
Jess si passò una mano fra i capelli e mi lanciò un’occhiata torva, «Non li capisco i tuoi gusti, proprio no».
«Noto», mormorai guardandola negli occhi e dopo appena una manciata di secondi stavamo già ridendo.
«Ragazze, è inutile», mi lasciai cadere su un pouf violetto del negozio di vestiti in cui Jess mi aveva trascinato, «è stasera. Il ballo. È stasera, il ballo. Sta-se-ra. Non posso credere di non avere ancora un vestito! E di aver detto questa frase! Oh, santo Dio che mi sta succedendo?».
Angela e Jess si lanciarono un’occhiata interrogativa e poi si abbandonarono a una fragorosa risata.
«Mi sono sempre chiesta come dovesse essere una Bella sotto stress per questo genere di cose», sorrise Angela. «È un po’ come assistere all’aurora boreale», rise Jess, «una specie di miracolo».
Le rivolsi una linguaccia. «Piuttosto, cosa ti ha fato cambiare idea?», proseguì, mentre lanciava occhiate di cupidigia all’inventario color arcobaleno di vestiti che si apriva dinanzi a noi, alternando occhiate fugaci verso il mio viso affranto a frasi del tipo: «Come vorrei comprarmeli tutti» e, «Vorrei potermi vestire così tutti i giorni! Dio..». Feci spallucce, «Nulla in particolare. Sembrava una cosa divertente».
«Te l’ha chiesto Edward?», chiese innocentemente Angela.
«No, in realtà l’ho fatto io», sbottai.
«Lui non voleva venire? Siete più simili di quanto pensassi allora», sorrise Jess con quella sua solita cattiveria di passaggio, sempre più debole e rara. «Non è questo..», mi strinsi nelle spalle: chissà perché quella domanda mi veniva fatta più e più volte da persone con cui non avrei mai voluto condividere una simile verità, e l’unico a cui avrei potuto volentieri rispondere, non me l’aveva chiesto! Ah, l’ironia.
«Forse dovremmo provare in un altro negozio e basta», dissi distogliendo lo sguardo, cercando pure di cambiare argomento. «Questo è l’unico in zona, altrimenti dobbiamo andare a Port Angeles».
Al solo sentir pronunciare quel nome mi vennero i brividi.
«No, no, meglio di no», mormorai.
«Magari se prendi questo», propose Angela, tirando il lembo di un altro vestito, «e poi lo modifichi.. Non so». Mi passai una mano sulla faccia. Non poteva funzionare.
«Farei meglio a andare nuda», sbottai esasperata.
«A Edward certamente farebbe piacere», Jess scoppiò a ridere e Angela con lei.
«Divertente», sorrisi io.
«Già, piuttosto.. A che punto stiamo?», chiese con malizia Jess.
A che punto stavamo? Ripercorsi mentalmente i movimenti del corpo di Edward sotto il mio, steso sul mio letto, quel pomeriggio di qualche giorno fa, le sue mani che si infilavano sotto la stoffa sottile della mia maglietta, arrivando piano a toccare le estremità del mio reggiseno, il modo che aveva di poggiare le sue labbra tiepide sul mio mento, mordermi le orecchie. Se solo Charlie fosse rimasto più a lungo con Billy, noi.. Avvampai. «Mh, a nessuno», mormorai, ma Jessica ci mise poco a vedere oltre le mie parole e cominciò a tartassarmi con una raffica di domande, una più imbarazzante dell’altra, suscitando qualche risata nelle commesse poco lontane da noi. «Ok, Jess, lasciamo stare, di questo passo ti verrà anche in mente di chiedermi dei video porno», dissi. «Ah, perché, sarebbe possibile?».
Angela rise e io le lanciai un’occhiata torva, feci per dire qualcosa quando il mio cellulare squillò.
«Pronto?», feci io, allontanandomi un momento.
«Ah, Bella? Sono io»

«Alice».


Cattivo segno, cattivo segno.
Passai mentalmente in rassegna ogni cosa successa negli ultimi giorni, mesi, anni, diavolo, in tutta la mia intera esistenza, cercando di capire e trovare qualche macchiolina, qualche pecca. Qualcosa di andato terribilmente storto. Certo, Alice non aiutava la mia già precaria stabilità psicologica chiamandomi nel bel mezzo del giorno, limitandosi solamente a pronunciare criptiche frasi («Dovresti farmi un favore e venire a casa nostra. C’è qualcosa che devo dirti», ripetevo quelle parole, rivoltandole come un calzino per riuscire a tracciare la più piccola forma di incertezza, di inquietudine, di qualsiasi elemento che mi avrebbe potuto ricondurre a che cosa stesse succedendo e al motivo di una tale richiesta, mentre guidavo a una velocità folle per le strade di Forks, a bordo del mio Chevy). Era successo qualcosa? Qualcosa che coinvolgeva Edward? Charlie? Non riuscivo mai a rilassarmi quando Alice faceva la sua comparsa sul grande palcoscenico della mia vita. «E ci sarà pure un cazzo di motivo», dissi a denti stretti, stringendo il volante fra le mani. Ma al pensiero del rapido sorriso che mi aveva rivolto la mattina dopo la morte di James riuscii a rilassarmi, almeno un po’. Forse non era nulla di grave. E tuttavia non potei esimermi da entrare come una furia nel parcheggio di casa Cullen, sbattere la portiera con più forza di quanta ne avrei dovuto usare e precipitarmi sulla soglia dell’immensa magione. «Bella», Alice comparve in tutta la sua fiorente bellezza, un rivolo di gemme lucenti le cingeva il collo di gesso, dividendo la luce del giorno in mille piccole sfaccettatura color arcobaleno. La sua figura longilinea infilata in un modesto golfino di cashmere blu scuro e una camicetta bianca, jeans. I piedi erano nudi. Di fronte a quell’immagine, mi sarei forse dovuta vergognare per i miei capelli arruffati, per il fiatone e le gote rosse, il mio affanno, eppure c’era qualcosa nei suoi occhi, una certa malinconia che sembrava invidiare profondamente la mia umana condizione.
«È successo qualcosa? Qualcosa di grave, intendo», dissi.
Lei sorrise, «No, nulla di che».
«Ah», rimasi interdetta e lei mi fissò con aria interrogativa.
«Allora sono qui perché..?», mossi la mano in maniera allusiva, sperando che lei potesse chiarire la situazione. «Entra, vuoi?», si spostò leggermente per farmi passare.
«Vuoi qualcosa da bere?».
«No, grazie», il mio tono tradì forse l’impazienza che mi pungolava.
«Edward mi ha detto che andrete.. Bella? Vieni?», fece lei voltandosi verso di me, incoraggiandomi a seguirla al piano superiore, «Dicevo. Edward mi ha detto del ballo. So che non hai ancora trovato un vestito adatto». Tremai al solo pensiero del vestito che Jess voleva farmi comprare: era di una bruttezza angosciante. Mi domandai se non me l’avesse voluto proporre di proposito.
«Mh, diciamo che i miei sono.. Gusti difficili». “Difficili” era una grossa parola da usare nei confronti di quell’oscenità di vestito: qualcosa tipo “da persona normale” o “non raccapriccianti” sarebbe andato meglio. «Sì, lo immagino», sorrise Alice mentre salivamo le scale, lei di fronte a me.
«Non ti sei trovata bene con le tue amiche, quindi».
«Non è questo,.. È che ci sono pochi negozi a Forks. Ma è colpa mia: avrei dovuto pensarci prima, credo».
Lei non rispose e per un momento nessuna disse nulla, almeno finché non ci trovammo sulla soglia di quella che presto capii essere la stanza di Alice. Pareti di una leggera sfumatura di crema davano alla camera un aspetto morbido, rilassato; la finestra ampia le dava respiro; gli scaffali alle pareti, le foto di famiglia, un senso d’amore e delicatezza. Tende di un blu velato si gettavano verso terra come una cascata, incorniciando gli stipiti di legno della finestra, morbidi cuscini ornavano l’accogliente divano posto nel luogo estremo della stanza. Una moltitudine di punti brillanti pendevano sulle nostre teste, una pioggia incantata ferma nel tempo che non sarebbe mai caduta sui nostri volti. Alice si diresse sull’armadio, poggiò le mani diafane sulle maniglie di metallo intarsiato e poi mi rivolse un’occhiata tranquilla. «Puoi sederti», disse indicando il divano. «Mh», borbottai, «però che ci facciamo qui».
Lei strinse le piccole labbra in un’espressione indecifrabile.
«È ancora difficile fidarsi di me, eh», disse.
«No, no», mi affrettai a rispondere.
Lei mi rivolse un’occhiata.
«Ok, sì», ammisi, «ma il lato positivo è che mi fido più di te che di Rosalie, quindi..», provai a ridere, ma lei non disse nulla. «Scusa», parlò dandomi le spalle.
«Non volevamo fare le cose.. Che abbiamo fatto. Fidarsi è difficile».
«Lo capisco». Quella mia risposta la fece voltare.
Non c’era condiscendenza nelle mie parole, adesso la fissavo dritta negli occhi.
«Era così anche con Edward, prima. Non mi piace ammetterlo, ma ho imparato a usare il fucile proprio perché non mi fidavo di lui. E avevo paura. Eppure mi aveva salvato la vita, no? Uno pensa che questo possa bastare a confermare la bontà di una persona. E invece. Ma per voi era diverso. Io non avevo fatto niente per dimostrarvi che ero degna della vostra fiducia. Spero che adesso questo sia cambiato», provai a sorriderle. Lei fece lo stesso, «Sì».
Ci fu un altro silenzio.
«Vorrei provare», disse distogliendo lo sguardo, «a essere amiche».
Quella frase mi stupì profondamente. Era seria? «Per questo ti ho chiesto di venire qui, adesso che gli altri sono a caccia», quel tono così timido, vulnerabile – Dio, era seria!
«Ah, sì», ribattei con fare deciso, improvvisamente attenta a ogni minimo dettaglio.
Alice si avvicinò all’armadio, spalancò le ante, tirò fuori una scatola tonda, di un grigio elegante, con un grande fiocco a stringerne le due estremità.
«È per te», me lo porse con dolcezza.
«Non capisco, non è il mio compleanno». A quelle parole lei esplose in una risata argentina che riempì la stanza, poi disse, «Lo so. Dai, aprilo».
Sciolsi il fiocco madreperlato non senza una cera diffidenza e scoperchiai la scatola. Fasciato in una delicata cara velina color celeste pastello, si nascondeva un frammento di cielo stellato.
«Cos’è?», chiesi, ma più a me stessa che a lei.
«Andiamo, tiralo fuori», sorrise impaziente Alice, mordendosi la nocca dell’indice.
Feci come disse e fra le mie mani si srotolò come una lacrima un abito color del buio tempestato di sfavillanti e minuscoli punti luce. Mi alzai in piedi, esterrefatta, facendo cadere, senza rendermene conto, la scatola poggiata sulle mie ginocchia: il vestito arrivava a toccare perfino la punta delle mie scarpe, e dagli orli ondulati questo risaliva e si apriva come un bocciolo prezioso in un suntuoso scollo a cuore.
«No, ma..», riuscii solo a dire, «Sei seria?».
Alice rise di nuovo mentre io non facevo che ripetere le stesse parole, «Sì, sì, sono seria. È tuo», disse.
«Io non.. Ma quanto è costato? Io non ho nulla per te!».
La mia ingenuità la fece sciogliere in un’espressione di indescrivibile tenerezza.
«Non è necessario, infatti. Il ballo è stasera, e tu non hai nulla. Ho pensato che potesse essere un buon modo per farmi perdonare».
«Io e te dobbiamo litigare più spesso», parlai senza riflettere e lei di nuovo non poté trattenere le risa.
«Ci prepariamo insieme stasera, poi andiamo. Ho già avvisato tuo padre».
Ancora non potevo credere ai miei occhi. Alice mi stava già elencando le mille cose di cui occuparsi: «Una bella doccia», «I capelli», «Il trucco, il trucco!» e io me ne stavo lì, senza parole, senza riuscire nemmeno a capire cosa stesse succedendo.
Di fronte a tanta incredulità, quella si limitò a dire, «Tu hai fatto molto per noi. Molto più di quanto chiunque altro avrebbe mai fatto. E hai salvato Edward».
«E ci hai perdonato», sorrise mesta. «Sto solo cercando di ricambiare».
Quel pomeriggio scoprii in Alice una persona molto diversa da come me l’ero immaginata – parlava molto, era vivace, curiosa, forse addirittura più pettegola di Jess (credevo fosse impossibile), incredibilmente dotata quando si trattava di trucchi e acconciature. Era diversa dalla ragazza che se ne stava ritta nel bel mezzo del mio salotto ombroso con quell’espressione dura e minacciosa dipinta in volto e forse, pensai, anche quello doveva essere un’altra faccia del dolore.
Capii di avere molte più cose in comune con lei di quanto credessi: serie televisive, vestiti, libri, viaggi. La tensione fra noi si sciolse più in fretta del previsto e prima di quanto potessi accorgermene stavamo già ridendo e scherzando, lei con le mani infilate nei miei capelli e io con lo sguardo rivolto in alto, verso di lei.
«Te l’avranno già chiesto, quindi sta bene se lo faccio anche io», disse a un certo punto lei, «non sembri tipo da balli e vestiti da gala. E so che Edward non ti ha mai proposto nulla, proprio per questo motivo. Cosa ti ha fatto cambiare idea?». Inutile provare, la verità mi uscì dalle labbra senza che io nemmeno ci facessi caso. «A vote ho semplicemente l’impressione che Edward non abbia avuto l’occasione di vivere molte cose, per via di quello che è successo e poi della sua condizione. Ne parliamo, molto spesso. A me piace sapere di lui, ma è triste accorgersi del poco che ha realmente vissuto, nonostante abbia più di un secolo. Ho l’impressione, fra l’atro, che vi abbia invidiato per molto tempo. Te e Jasper, e Rosalie e Emmett. Voi sembrate sempre felici. Lo sembravate anche il primo giorno che vi vidi tuti insieme, a mensa. Lui non più di tanto. Era come se si arrovellasse sempre il cervello su qualcosa, convinto di non possedere questa o quell’altra caratteristica. Ma forse era solo un’impressione. Adesso quell’atteggiamento un po’ sofferente si è attenuato, mi piace pensare che dipenda da me, ma lo stesso, io non posso salvarlo. Non posso farlo diventare chi.. Cosa non è. Penso che quindi sia solo giusto che, quando ho la possibilità di calmare o diminuire un po’ della sofferenza che lui prova, di farlo. Tutti pensano che sia un grande sacrificio per me questo ballo, ma alla fine è poca cosa di fronte al modo in cui si sacrifica lui con me ogni giorno, solo per salvaguardare la mia vita e non diventare lui stesso il mio carnefice. Quello che ho fatto io è insignificante, ma l’ha reso felice. Non sarà poi questo dramma sopportare un po’ di fronzoli e festoni di cartapesta, di chiasso.. Si tratta solo di una sera. Lui rimarrà così per il resto dell’eternità». Stupefatta era la parola adeguata: mi ero lasciata andare così liberamente, che fu istantaneo capire, e in egual misura incredibile, che la persona con cui desideravo essere così sincera era proprio Alice.
Mi voltai verso di lei portando le mani alle labbra e lei mi rivolse un sorriso materno.
«Vorrei ancora poter piangere».
La sua risata somigliava di molto a uno strettissimo nodo di singhiozzi.
Forse anche lei aveva scoperto in me qualità che credeva impossibile mi potessero calzare e di fronte alla finestra colorata dal crepuscolo infiammato la conversazione venne ripresa, interrotta a intervalli più o meno regolari da qualche commento sui vestiti che ci eravamo messe, già impazienti per poter far girare svariate decine di teste verso di noi, quella sera. Poco dopo rincasò anche Rosalie, scortata da suo marito, Jasper e ovviamente Edward. Alice fu svelta a tirare nella stanza Rosalie e a intimare ai ragazzi, col suo tono più cupo e minaccioso, di stare ben alla larga dalla stanza.
Ovviamente chiunque avrebbe capito che mi trovavo là, visto che il mio Chevy campeggiava ancora nel vialetto dei Cullen. Edward provò a entrare più volte e si arrese soltanto quando Alice gli sbraitò di andarsene, o mi avrebbe mangiato -- «E addio al ballo!».
«Ma io ho già lo smoking!», sbottò lui dall’altra parte.
«Grazie della considerazione», risposi e lui rise.
Anche Rosalie, superata l’iniziale diffidenza, si cominciò a preparare. Ma lei non era granché eloquente e bendisposta come Alice. Probabilmente ancora non si fidava abbastanza.
Vederli insieme in quell’occasione era molto diverso dall’ultima volta: i visi non erano più duri e tesi, ma lasciati liberi di potersi muovere nelle ampie stanze di sentimenti naturali, così umani, così simili ai miei.
Potevo sentire i ragazzi al piano di sotto ridere e prendersi in giro, me li immaginavo alle prese con le camicie pulite, le giacche inamidate. Ogni tanto la risata gutturale di Emmett ci raggiungeva fino quasi a darci l’impressione di aver lasciato la porta della stanza completamente spalancata.
Pensai che non mi sarebbe dispiaciuto far parte della loro vita e sorridevo mentre tiravo indietro i corti capelli di Alice, scoprendo la bianca nuca e la punta della spina dorsale. Mi offrii di aiutare perfino Rosalie, non senza una certa tensione, ma lei rifiutò. «I capelli li lascio sciolti», disse passandosi quattro dita fra foltissime ciocche di biondi capelli. I suoi occhi attenti mi seguivano con cautela, ogni tanto, quasi volesse capirmi meglio, o capire meglio sua sorella e l’improvvisa disponibilità che dimostrava nei miei confronti.
«Guarda», disse lei stessa a un certo punto, avvicinandomi all’anta del suo altissimo armadio, che solo di poco non toccava il soffitto e porgendomi allo specchio ad essa attaccata, perché potessi rimirarmi.
Avvampai di fronte alla visione di me stessa: quel cielo stellato mi scendeva addosso come un rivolo d’acqua scuro e misterioso, punti di luce mi circondavano, incorniciavano la mia scolatura profonda, mettendo in risalto le clavicole sporgenti sotto la pelle tesa. I capelli erano raccolti in una coda lasciata cadere morbida, e ciocche brune si aprivano come petali di rosa intorno alle mie gote rosee.
Alice non era da meno; il suo corpo snello come un fuso infilato in un vestito color cipria con un ampio scollo sulla schiena e i capelli raccolti in un piccolo chignon basso. Le sorrisi, cercando di dissimulare la vaga agitazione che cominciava un po’ a pervadermi: «Grazie», mimai co movimento delle mie labbra e lei mi ammonì con un lieve gesto della mano.
«Direi che è ora, no?», fece poi, occhieggiando al finissimo polso cinto da un orologio. E poi bussando alla porta del bagno per avvertire Rosalie, «Rose, ci sei?».
«Sì», fece lei, uscendo dal bagno, i tacchi alti di un rosso scarlatto, un vestito nero con uno spacco vertiginoso che lasciava scoperta il fianco della coscia soda.
«Allora?», si avvicinò alla porta sotto lo sguardo sbigottito mio e di Alice, muovendo lentamente le labbra di un rosso pulsante, scandendo ogni lettera.
«Sì, andiamo», le sorrise Alice, che aprì la porta della stanza, cedendo il passo alla sorella, poi a me – ci dirigemmo in un’ordinata fila indiana verso la porta di casa, laddove, immersi in una nuvola di profumo e eccitazione, ci aspettavano Edward, Emmett e Jasper. No, decisamente non ero portata per quel genere di attenzione – tentai allora di concentrarmi esclusivamente su Edward ma fu ancora peggio: infilato nel suo smoking dal taglio perfetto, coi capelli pettinati all’indietro, gli occhi più affilati di un rasoio e quel suo sorriso sghembo. La mia mente viaggiava alla velocità della luce verso il letto di camera mia.
Lanciai un’occhiata a Jasper e a Emmett tendere le mani alle loro rispettive consorti e poi mi votai di nuovo verso di lui. «Ciao», mi disse, le mani infilate in tasca.
«Ciao», lo guardai io, un po’ rossa in viso.
Provò a dire qualcosa, ma non riuscì a far altro che a guardarsi le scarpe, inumidirsi leggermente le labbra con la lingua e passarsi una mano sulla nuca. «Riesco a sentire il tuo pene esploderti nelle mutande», sussurrò con aria drammatica Emmett e tutti scoppiarono a ridere.
«La prossima volta che andiamo a caccia ti uccido, te lo giuro», sibilò duro.
Emmett mi rivolse un sorriso a trentadue denti: «Vacci piano con lui stasera, deve ancora abituarsi».
Risi e lanciai un’occhiata a Edward, cogliendo con piacere il modo in cui i suoi occhi indugiavano sulla mia vita stretta, sulla scollatura ampia. «Farò del mio meglio», dissi.


«Vuoi già morire o pensi di poter sopravvivere?», Alice mi venne vicino, offrendomi un bicchiere stracolmo di punch. «Meh», sorrisi, «pensavo peggio. Forse sopravvivrò», strizzai gli occhi, cercando di individuare Edward fra la folla, notandolo mentre cerva di liberarsi da qualche ragazza troppo invadente.
Pensai che quella sua aria tenebrosa e da duro proprio non gli si addiceva, mentre ripercorrevo mentalmente gli attimi felici e tristi e il modo in cui aveva messo su quel suo adorabile broncio quando si era accorto dei ragazzi che mi guardavano fare la mia entrata in scena con indosso quello splendido abito.
Mi faceva venir voglia di abbracciarlo.
Quando mi venne più vicino, Alice ci lasciò soli.
«Ciao», ripetei io, sorridente.
Lui distolse lo sguardo, si scusò. Alzai le sopracciglia e posatogli una mano sull’avambraccio cercai di incrociare i suoi occhi. «Emmett ha ragione, non sono abituato», provò a sorridere.
«Sei molto bella», poggiò la sua fronte contro la mia, come sempre quando voleva sentirsi meno solo.
«Anche tu», ridacchiai, socchiudendo appena gli occhi.
«No, davvero», disse dopo un breve istante di silenzio, «sei davvero molto, molto, mo-olto bella. Molto. Molto bella. Davvero tanto». Scoppiai a ridere, non riuscendo nemmeno più a trattenermi.
«Non vedo l’ora di piacerti quel tanto che basta per convincere Carlisle ad adottarmi, diventare tua sorella e sposarti», ormai avevo le lacrime agli occhi.
«Madonna mi piscio sotto dalle risate», sbottò lui in tono sarcastico e questo mi fece solo ridere più forte.
Mi avvicinai per schioccargli un bacio sulla guancia, «Sono felice di averti conosciuto».
Lui mi guardò, nei suoi occhi un luccichio lontano.
«Credo che io e te ci divertiremo un sacco», sorrise, chinandosi su di me, posando le sue labbra sulle mie.
«Oh, sì. Credo anche io», dissi.



Nota dell’autrice: oh dio come ho fatto a finire? Ma? Sarà successo davvero? Sembrava l’impresa più impossibile degli ultimi vent’anni (visto anche che a volte aggiornavo eeeeehhhmm.. ah, sì. mai). Adesso che il primo capitolo della saga ha finalmente visto la fine (wow ancora stento a credere ai miei occhi), colgo l’occasione per ringraziare tutti quelli che hanno recensito, seguito o semplicemente letto questa mia rivisitazione (fa sempre piacere). E anche per sapere se volete che revisioni anche i successivi capitoli della saga. Fatemi sapere, mi raccomando!
E grazie ancora a tutti! (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧

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