I canti del popolo del drago

di Malvagiuo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Torre degli Dei ***
Capitolo 2: *** Figlio del fuoco ***
Capitolo 3: *** La volontà del Dio Drago - Parte 1/2 ***
Capitolo 4: *** La volontà del Dio Drago - Parte 2/2 ***



Capitolo 1
*** La Torre degli Dei ***




 
Aldiron si svegliò di soprassalto. Quel mattino le fitte erano lancinanti. Avvertiva un torrente di fuoco scorrergli in  corpo, divampando sotto ogni lembo di pelle dalle gambe alla sommità della testa.
Aveva avuto un altro incubo, quella notte. Ma il dolore continuava a tormentarlo, ricordandogli che il vero incubo era quello in cui era costretto a vivere, giorno dopo giorno.
Tutto era buio, intorno. La coltre di nero lo avvolgeva completamente, celando alla vista qualunque cosa. Il buio più intenso non bastava a celare lo sguardo che lo fissava dalla parete opposta al letto. Sapeva che due occhi, intensi e immobili, lo scrutavano nel silenzio.
Aldiron si strappò le coperte di dosso. Appoggiò il piede a terra, con troppa foga, come si rese subito conto. Una fitta di dolore risalì lungo la schiena, talmente rapida che riuscì a stento a trattenere un grido. Si alzò, avanzando malfermo fino alla parete. Non aveva bisogno di protendere le mani nel buio, per evitare gli ostacoli. La stanza era vuota, non c’erano mobili o altro che potessero farlo inciampare, o che potessero ricordargli la sua vita passata. Delle due cose, non sapeva quale fosse la più sgradevole.
Si arrestò un istante prima di sbattere il naso contro il muro. Ebbe l’impressione di sentire qualcuno respirare, un naso che non poteva essere il suo. Le sue narici non potevano più produrre quel suono regolare, il suono dell’aria che passa morbida attraverso canali intatti. Doveva essere un altro scherzo della sua mente. Il rantolo roco che conosceva bene riempì la stanza, coprendo qualsiasi altro rumore, vero o fittizio che fosse.
– Che cosa vuoi?– disse all’ombra. –Lasciami in pace. Devi lasciarmi in pace.–
Gli rispose il silenzio.
 
Quando scoprì i pesanti tendaggi di velluto, un fiotto di luce dorata penetrò attraverso le vetrate. Il sole del mattino illuminò un luogo spoglio, impolverato, talmente desolato da sembrare abbandonato. La sagoma di Aldiron si stagliava contro la superficie illuminata della finestra dalla punta acuminata. Osservò il cielo oltre il vetro, e il mare di nubi sottostante. Fu tentato di aprire la finestra, ma ricordò che il freddo poteva essergli fatale, a quell’altitudine. Senza contare che avrebbe potuto ispirargli ulteriori propositi, ai quali non si era ancora deciso a cedere.
Stava per allontanarsi, quando qualcosa attirò la sua attenzione. Una nuvola biancastra, a poca distanza dalla Torre, fu squarciata dal passaggio di un drago in picchiata. Il Dio si era tuffato nella superficie impalpabile della nuvola, scomparendo in meno di un battito di ciglia. Aldiron aveva appena fatto in tempo a scorgere la sfumatura dorata delle sue scaglie.
Poteva essere... lui?
Senza pensare, Aldiron afferrò il Tagliasangue. Produsse un taglio netto sul palmo della mano e spalancò la finestra. Protese la mano verso l’esterno, mentre il sangue iniziava a gocciolare sul bordo di marmo.
Rimase immobile, con il braccio sollevato, per un tempo che parve interminabile.
Non accadde nulla. Il sangue si incrostò sulla nuda pietra.
 
Tornò verso il letto e protese la mano verso il mobiletto a fianco del capezzale. Afferrò la maschera e la indossò. La luce illuminò il volto privo di espressione, bianco come latte, incorniciato dai fluenti boccoli candidi della parrucca. Di fronte allo specchio, diede gli ultimi ritocchi alla capigliatura, sistemandola nella maniera più ordinata possibile. Le labbra rimasero serrate nella loro immutabile linea retta, incise appena al di sotto degli zigomi pronunciati, sui quali si riflettevano i raggi del sole, facendo apparire la maschera come di porcellana.
Poi suonò il campanello, affinché i servitori arrivassero per vestirlo.
L’abito era ricco, uno dei migliori. Elegante, ma non pacchiano. Una giubba nera dai bottoni dorati, che ricopriva una camicia di seta d’argento dai motivi floreali. Sul velluto nero della giubba, una fitta rete di ricami che ritraeva due draghi avvinghiati in una lotta, oppure in un amplesso caotico, a seconda dell’interpretazione di chi guardava.
Aldiron l’aveva scelto con cura. Era davvero magnifico. Abbastanza da distogliere l’attenzione dall’essere deforme che lo indossava.
 
La corte era sempre la stessa. In mezzo ai vestiti sgargianti, alle parrucche dai colori inverosimili, si annidavano le stesse persone che, dietro il velo dell’apparente rispetto e della considerazione, lo osservavano nutrendo il disprezzo riservato agli sconfitti o, nel migliore dei casi, la commiserazione dedicata agli esseri patetici. Aldiron sapeva di essere miserabile e patetico al tempo stesso, informe nella sua menomazione. Maschera, parrucca e abiti maestosi non bastavano a rendere la sua vista sopportabile ai cortigiani della Torre degli Dei.
Torre degli Dei... un nome appropriato per un luogo che non era più casa sua. Se ne sarebbe andato volentieri, se solo avesse avuto un altro posto dove andare.
Il salone delle udienze era più pieno del solito, notò Aldiron. Dovevano essere stati convocati perfino i nobili dei livelli inferiori. Scorse alcuni uomini che sapeva provenire da Sotto le Nubi. Quello di oggi doveva essere un giorno diverso.
Aldiron comprese l’importanza del momento quando vide il Drakonikan in persona apparire nella sala. La schiena lievemente curva, i capelli bianchi raccolti in una lunga treccia, le rughe disseminate sul viso, riusciva ancora a trasmettere la potenza della propria autorità sugli astanti. Quegli occhi grigi inducevano soggezione persino ad Aldiron, nonostante la protezione della maschera.
Il ciambellano scandì tre rintocchi battendo il bastone cerimoniale sul pavimento di marmo, imponendo il silenzio. I sussurri e i mormorii concitati cessarono di colpo. La Voce degli Dei parlò.
–Gli Dei sono eterni, ma i loro vicari devono sottostare alle leggi del tempo– esordì il Drakonikan, rifiutando di sedersi sul proprio seggio, nonostante l’evidente affaticamento. –Il momento della mia Caduta si avvicina. Presto gli Dei avranno un nuovo Drakonikan. Farò del mio meglio per offrire loro il candidato che considero meritevole di succedermi.–
Una tensione vibrante si diffuse tra i nobili. Aldiron scoprì di essere coinvolto da quello stato d’animo. Quante probabilità c’erano per lui di essere scelto? Facendo una rapida considerazione, una possibilità esisteva. Dopotutto, era un Grande nel Fuoco. Non era stata forse la fiamma del drago a ridurlo così? Chi più di lui poteva considerarsi vicino alla vera essenza degli Dei, essendo stato travolto dall’alito del più maestoso tra i draghi della Torre?
Senza pensare, Aldiron avanzò facendosi strada tra la calca, faticando non poco a causa del dolore che gli provocava ogni passo. Ignorò gli sguardi della gente che lo circondava, per la prima volta dopo molto tempo. “Che mi guardino pure, oggi” pensò. “Dovranno imparare a dissimulare meglio il disgusto, quando diventerò il loro signore. Sono stanco di nascondermi.”
Giunto in prima fila, una cintura di guardie impediva l’accesso alla parete nord della sala, quella dove il Drakonikan stava tenendo il suo discorso. Anche se in cuor proprio Aldiron sapeva che la propria presenza non era necessaria a ricordare al proprio signore l’importanza dei servigi che gli aveva reso, ritenne opportuno non trascurare alcun particolare.
Ma il Drakonikan non aggiunse altro. Egli abbassò lo sguardo e si ritirò dalla sala, procedendo lentamente verso l’uscita a lato del trono, scortato da due guardie. La folla non riuscì ad attendere che la porta si chiudesse prima di ridare vita a un vortice di mormorii, sussurri e frasi concitate, il cui argomento era assai facile da indovinare.
Aldiron rimase immobile nella propria posizione, il peso appoggiato per intero sul bastone di osso di drago. I boccoli candidi della parrucca gli ricadevano sulle spalle, ma non fece nulla per scostarli all’indietro, com’era sua abitudine. Ogni suo pensiero era indirizzato verso l’imminente decisione del Drakonikan.
–Pensi così forte che riesco a leggerti nella mente.–
Aldiron non si voltò. In parte perché un movimento brusco gli avrebbe provocato una fitta lancinante al collo, in parte perché aveva riconosciuto la voce. Non era sicuro di volerla guardare in faccia.
–Sono felice che Eliveus abbia colpito la tua attenzione. Era da tempo che non ti vedevo così vivo.–
–A te interessano solo le persone vive. Dico bene, Atwil? I quasi-morti non fanno per te.–
–Non risolleviamo vecchie questioni. Non sono state le tue ferite ad allontanarmi da te.–
–Giusto– disse Aldiron, voltandosi finalmente verso di lei. –Ad allontanarti è stato qualcun altro.–
Atwil indossava un veste scarlatta che Aldiron non aveva mai visto prima di allora. Non era un suo dono. Qualcuno doveva avergliela regalata dopo che si erano separati. Lo stesso poteva dirsi della cintura di draghi d’oro che le ornava i fianchi, e della collana di rubini che le accarezzava il collo, uno dei quali talmente grande da protendersi verso l’incavo dei seni. Era meravigliosa, come sempre. Nonostante si sforzasse con tutto se stesso, Aldiron non riusciva a odiarla.
–Il fuoco non è bastato a cambiarti, vedo.–
–Che cosa vuoi?– disse Aldiron, augurandosi che il suo tono di disprezzo risultasse convincente.
Atwil gli girò intorno. Cinque passi, non di più. Non serviva a nulla spostarsi, Aldiron lo comprese subito. Ma quei passi, lenti e calibrati come solo una donna è in grado di fare, fecero risaltare le morbide curve del suo corpo in movimento, mostrando una grazia i cui ricordi erano sopiti da tempo nella memoria di Aldiron. La maschera nascose i suoi occhi, che per un istante si erano socchiusi, mentre un torrente di immagini inondava la sua vista. Ricordava bene ogni frammento della pelle nascosta sotto quell’abito.
–Avrai bisogno di me, in questi giorni.–
–C’è stato un tempo in cui avevo bisogno di te. Ora è tardi per offrire aiuto.–
–Finiscila. Sono stanca di sentirti sputare fiele. Avveleni solo te stesso, di certo non me– disse Atwil. –Ti voglio offrire una grande opportunità.–
–Di cosa parli?–
–Non qui– bisbigliò Atwil, gettando un’occhiata eloquente verso la folla che li circondava. –Al parco, quando il sole tramonta.–
Senza aggiungere parola, si allontanò. Aldiron rimase a fissarla, impietrito. Una cascata di capelli d’oro, che arrivava a sfiorare i fianchi, avvolgeva una sublime schiena nuda. Sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta in cui l’aveva accarezzata.
 
Non c’erano uccelli a quell’altitudine. L’unico suono era il fruscio delle foglie, scompigliate dal soffio dei venti gelidi che aleggiavano intorno alla Torre degli Dei. I draghi erano lontani, nelle terre di pietra, impegnati a cacciare. Avvolto nella pelliccia d’orso, Aldiron fu colto da un brivido. Era stata una buona idea, accettare quell’appuntamento? Non poteva fidarsi di Atwil, non più, dopo quello che era successo. Perché si trovava lì, allora?
“Perché non riesco a dimenticarla, nonostante tutto” si ritrovò a pensare. “Lei è più forte di me. Lo è sempre stata, anche se ho sempre cercato di negarlo.”
Un flebile rumore di passi lo costrinse a voltarsi. Atwil era arrivata, ricoperta da un ricco mantello bruno, che nonostante l’avvolgesse per intero, non poteva celare le sue forme armoniose. Aldiron rimase un istante a osservare i suoi occhi. Azzurri come il cielo in primavera, quando le nubi si sciolgono dopo essersi liberate dalla pioggia. Distolse subito lo sguardo, nonostante la maschera lo proteggesse.
“Se la guardi, sarà più difficile rimanere distante. Non lasciare che ti irretisca.”
–Fa sempre freddo, quassù. Per questo adoro venirci.–
Il calore della sua voce era in netto contrasto con il gelo che li circondava.
–Non riesco ad amare il freddo– fu la risposta di Aldiron.
–Non l’avrei detto. Considerando... insomma, considerando quello che...– Atwil non concluse la frase. Aldiron non riusciva a capire se si fosse interrotta in segno di rispetto o per qualche altro motivo. Per evitare di scoppiargli a ridere in faccia, per esempio.
–Tante cose ci provocano dolore. Questo ci impedisce di continuare ad amarle?– disse Aldiron, obbligandosi a mantenere lo sguardo altrove. –Io lo so meglio di chiunque altro.– “Questo non dovevi dirlo, idiota.”
Atwil si avvicinò. Aldiron avvertì il lembo del suo mantello sfiorargli la mano.
–Mi dispiace per quello che ti è successo. Che tu ci creda o no.–
–Di che cosa vuoi parlarmi?–
Una nuvoletta di respiro si condensò appena oltre le sue labbra. Un sbuffo di vapore argenteo, niente di più. Aldiron avrebbe dato qualsiasi cosa per immergersi in quel respiro, e percepire ancora una volta il profumo che emanava da lei.
–Voglio parlare della sola cosa che conti, al mondo. Il futuro.–
–Proprio nessuno è rimasto sordo alle parole di Eliveus, vedo.–
–Saresti stato il suo degno erede, e ti prego di credermi quando lo dico, Aldiron. Non c’è mai stato un Cavaliere che potesse starti alla pari.–
–Uno c’è stato, invece. Dovresti saperlo, dato che dividi il letto con lui ogni notte.–
–È stato favorito dal caso. La sua mediocrità è palese a chiunque abbia un paio di occhi.–
–È stata quella mediocrità a conquistarti? O sei andata da lui perché non sopportavi la puzza di carne bruciata?–
–Non fare l’ingenuo, Aldir. Sai bene come funzionano queste cose.–
Sì, Aldiron lo sapeva. Forse era per questo che non riusciva a fuggire da quella terrazza, voltandole le spalle una volta per sempre. Sapeva che, nei suoi panni, si sarebbe comportato allo stesso modo.
–Smettila di far finta di non capire. So che vuoi diventare Drakonikan, più di ogni altra cosa.–
–Pensi di conoscermi così a fondo?–
–Ti conosco quanto basta per sapere che a tormentarti non sono né il dolore, né la deformità.–
Era vero. Lo conosceva meglio di chiunque altro, ma non l’avrebbe mai ammesso in sua presenza. Non l’aveva ammesso neppure durante i giorni felici, quando la loro unione pareva inscindibile.
–E cos’è a tormentarmi?–
Atwil sorrise. Il sorriso di una donna che sta per infliggere il colpo di grazia.
–Lo sguardo di un nobile di rango inferiore, nel quale leggi pietà e commiserazione. Gli occhi di un alto nobile che, dietro il finto riguardo, ridono di te e ti augurano una lunga vita, in modo tale che la tua sofferenza si protragga ancora per molti, molti anni. Dare ordini a un servo e scoprire che guarda in basso non perché ti teme, ma perché non sopporta la vista del tuo corpo martoriato. Il disgusto negli occhi di una donna. La consapevolezza di non incutere più timore a nessuno. La paura di fronte alla prospettiva di vivere a lungo, senza uno scopo– disse Atwil, schiacciando Aldiron sotto il peso dei suoi occhi azzurri. –Queste sono le cose che ti tormentano.–
Aldiron rimase in silenzio. Non c’era niente che potesse dire.
–Sai che, come Drakonikan, tutto questo sparirebbe.–
Lentamente, Aldiron annuì. Fu un gesto inconscio, una diretta emanazione dei suoi desideri più profondi.
–Ma anche il braccio destro del Drakonikan avrebbe lo stesso potere. Specialmente con un Drakonikan debole.–
Aldiron si voltò di scatto. Ignorò il dolore lancinante scatenato da quel gesto brusco.
–Di cosa stai parlando?–
–Di prospettive. Un tempo ne avevi molte, mentre oggi tutto quello che può portarti il giorno sono sferzate di dolore e occhiate di scherno– disse Atwil. –Davvero non ci arrivi?–
–Parla chiaro, se vuoi che continui ad ascoltarti.–
–Taured sarà scelto come nuovo Drakonikan. Come primo atto, ti affiancherà nelle decisioni di governo.–
Trascorsero pochi attimi di silenzio, interrotti solo da sporadici soffi di vento gelido. Poi, una risata ancor più gelida risuonò nell’aria, talmente roca da sembrare il guaito di un animale morente.
–È veramente la cosa più ridicola che abbia mai sentito.–
–Non diventerai mai Drakonikan, Aldiron. Questo devi saperlo.–
–Ne sei certa?– ribatté Aldiron, senza riuscire a nascondere una sfumatura di astio nella propria voce. –In dieci anni ho servito la Torre e gli Dei meglio di quanto abbiano fatto generazioni di nobili in secoli di inchini e cerimoniali. Eliveus ricorda bene le incursioni della Falange Rossa nelle pianure sotto la Torre, così come ricorda a chi apparteneva la spada conficcata nel petto di Breiveg Corno-di-sangue. Non dimenticherà chi, in più di un’occasione, ha raddrizzato la corona che ha in testa, evitando che cadesse.–
–Non dimenticherà nemmeno che Taured ti ha sconfitto, e che ora sei uno storpio deforme, deriso dal resto della corte.–
Un fiume di collera si riversò nelle membra di Aldiron, animandolo di un’energia che non lo dominava da tanto tempo. Sollevò il braccio, nell’intento di colpire duramente il volto di Atwil. In passato, non avrebbe mai osato un gesto di quella violenza verso la donna che amava. Qualcosa era cambiato in lui, comprese. Ma nemmeno in quel momento riuscì a picchiare Atwil. Non per un ripensamento, ma perché un lampo di dolore lo accecò, bloccandogli il braccio e facendolo quasi cadere a terra.
Non era più padrone del proprio corpo. Ancora tendeva a dimenticarlo.
Atwil lo fissava. Aldiron non riuscì a capire se quello nei suoi occhi fosse disprezzo o pietà. Non sapeva cosa fosse peggio.
–Perdonami– disse Atwil. –Sono stata crudele.–
–Non chiedermi scusa, se devi mentire in maniera così evidente.–
–Non sei stanco di questo?– domandò Atwil. –Di veder calpestato il tuo onore? Di dover subire senza poter reagire? Io ti sto offrendo la Torre degli Dei, e tu esiti.–
–Perché mai dovresti farlo? Cos’hai in mente, in nome del Dio Drago?–
–Non c’è niente da capire, Aldiron. Io voglio il potere. È semplice. E tu sei il modo più facile per ottenerlo.–
–Taured non mi chiamerà mai tra i suoi consiglieri.–
–Lo farà eccome, perché io gli dirò di farlo.–
–Vorresti farmi credere che è il tuo burattino?–
–No, certo che no. Ma è un uomo facile da convincere– disse Atwil, mentre un sorriso indecifrabile si delineava sulle sue labbra sottili. –Il tuo difetto è sempre stato questo: non sei abbastanza stupido da lasciarti convincere. Almeno in questo, Taured è migliore di te: non ama farsi troppe domande.–
Il piano di Atwil continuava a suonare ridicolo alle orecchie di Aldiron. Troppe cose non tornavano. Tuttavia, sentiva il rancore sciogliersi e abbandonare il suo cuore, mano a mano che trascorreva il tempo accanto a lei. Era quasi come essere tornati indietro negli anni, quando si sentiva degno di averla accanto. All’epoca, era certo di essere un uomo di pari valore. Ma adesso, che cos’era diventato? Una creatura orrenda, divorata dalle fiamme, i cui segni mutilavano il suo corpo, al punto da dover indossare maschera e parrucca per celare i tratti inguardabili del suo viso. Dove c’era uno sguardo fiero, ora prendeva posto una faccia priva di espressione, candida come la neve e altrettanto fredda. Quello che era stato un portamento eretto, in grado di indurre soggezione e rispetto in chiunque, si era ridotto a una schiena curva e a un passo malfermo, che gli rendevano necessario l’uso del bastone per sorreggersi. Di ciò che era, era rimasto solo... solo...
–Hai ancora il ritratto, in camera?–
Aldiron, distolto dalla propria meditazione, si obbligò ad assumere un tono di voce impassibile.
–No. Non saprei che farmene.–
Sperò con tutto se stesso che la menzogna suonasse convincente.
–Non l’avrai distrutto, mi auguro. Era una vera opera d’arte.–
–Taured ne ha appeso uno, accanto al letto?–
Atwil sollevò gli occhi, esasperata.
–Fosse solo uno. Sono così tanti che ormai li scambio per tappezzeria.–     
–Preferisce fornicare con se stesso anziché con te?–
–Questi non sono affari che ti riguardano.–
–Mi riguardano eccome– disse Aldiron. –Non ho intenzione di diventare la pedina di uno stupido gioco di vendetta.–
–Non avrei bisogno di pedine, se volessi una vendetta.–
Aldiron cominciava a spazientirsi. Quella conversazione non aveva scopo, decise. Taured non sarebbe diventato Drakonikan: Eliveus era un uomo troppo saggio per commettere un simile errore. Come Cavaliere era senz’altro audace, ma raramente Aldiron aveva osservato un monumento tanto imponente all’ottusità e alla vanagloria. “Ma non può essere così ottuso”, sussurrò subito una vocina insidiosa dentro di lui, “dopotutto, ti ha sconfitto. E anche piuttosto facilmente.”
–Che cosa ci guadagni, Atwil?– chiese Aldiron. –Dimmi la verità, e prometto che penserò alla tua proposta.–
–Te l’ho già detto cosa ci guadagno.–
–Ma perché hai bisogno di me? Non hai detto di poter convincere facilmente Taured a fare qualsiasi cosa tu voglia?–
Atwil attese un momento, prima di rispondere. Il momento necessario a porsi nello spazio fra Aldiron e la balaustra di pietra che li separava dallo strapiombo.
–Perché Taured non durerebbe un anno senza te al suo fianco. Non è in grado di governare, anche se vorrebbe convincere tutti del contrario. Appena diventerà Drakonikan, la sua inettitudine sarà evidente per chiunque. Ha bisogno di qualcuno che sappia proteggerlo dalla sua stessa incapacità, indicandogli le decisioni giuste.–
–E dovrei essere io? Perché non tu?–
–Io non sono stata Cavaliere degli Dei per dieci anni, Aldiron.–
Aldiron comprese finalmente il succo della questione. Atwil gli chiedeva di diventare la balia di Taured, di evitare all’uomo che lo aveva ridotto in fin di vita di scivolare dal trono e andare a sbattere la testa contro un pugnale. In cambio, gli veniva offerto il ritorno alla tavola del potere, da dove sarebbe stato di nuovo padrone delle vite degli altri. A patto di rimanere nell’ombra, osservando i propri meriti che venivano attribuiti a qualcun altro. Per la precisione, a qualcuno che già una volta lo aveva derubato di ogni cosa.
–No.–
L’espressione di Atwil era inesistente. Impossibile dire se a causa del freddo o della risposta ricevuta.
–Pensaci ancora.–
–Ho detto di no.–
Aldiron non aggiunse altro. Si voltò, percorrendo il sentiero di pietra che conduceva all’interno della Torre. Ogni suo passo scricchiolava sotto il sottile strato di neve. Non c’era nessun altro, sulla terrazza. Solo il vento che soffiava, gli alberi che ondeggiavano mollemente e uno sguardo tetro, che lo fissava alle spalle, il cui peso era greve come quello di una colpa.
 
–Non accetterò una cosa simile. È inutile anche starne a parlare. Taured non sarà mai scelto come nuovo Drakonikan.–
Aldiron era vagamente consapevole di parlare ad alta voce da solo, ma la cosa non lo turbava. I suoi servi ci erano abituati. Inoltre, non era davvero solo. C’era il ritratto ad ascoltarlo, e la sua opinione era l’unica che contasse davvero.
–L’uomo che mi ha quasi ucciso e la donna che mi ha tradito... perché dovrei aiutarli? Non possono darmi niente. Niente!–
Il bel volto del ritratto lo fissò con sguardo gelido. L’alta uniforme gli conferiva un portamento altero, rispecchiando perfettamente il prestigio di chi la indossava.
–Eliveus non lo sceglierà mai. Sono io che devo essere scelto. Nessuno lo merita più di me. Ho dato ogni cosa alla Torre, questo Eliveus non può ignorarlo.–
Lo farà.
–Non oserà!–
Avrebbe scelto me. Ma tu non sei me. Non più. Sei uno storpio deforme.
–Questo storpio deforme rimane Aldiron il Fiammeggiante, il più grande cavaliere di draghi che la storia ricordi!–
Aldiron il Fiammeggiante è un ritratto appeso a una parete. Qui ci sono solo ceneri fumanti che urlano al muro.
–Sarà Eliveus a deciderlo, non tu.–
Il buio rimase silenzioso. –Mi hai sentito? Non sei tu a deciderlo! È il Drakonikan che decide, non tu!–
Un vaso di terracotta attraversò in volo la stanza, infrangendosi contro la pietra. Ancora silenzio.
–Solo il Drakonikan! Il Drakonikan, il Drakonikan, il Drakonikan!–
 
Lei non era nella sala. Aldiron la cercò a lungo con lo sguardo, ma non la vide. Non sapeva come interpretare la sua assenza. Un segno di resa, forse? Conosceva troppo bene Atwil per cullarsi in quell’illusione.
Eliveus non aveva ancora raggiunto il grande salone, dove meno di un mese prima aveva dato il suo annuncio. La convocazione aveva raggiunto tutti in maniera inaspettata, poiché nessuno credeva sarebbe trascorso così poco tempo fino al momento della sua decisione.
Che cosa avrebbe detto, il suo antico signore? E se, dopotutto, Atwil avesse avuto ragione? Se davvero ogni impresa che aveva compiuto, ogni sacrificio sopportato, si fossero dimostrati inutili di fronte a Taured? Aldiron non sapeva come avrebbe reagito. Quella situazione stava solleticando un lato di sé di cui egli stesso aveva paura.
Il portale di legno massiccio lungo il lato nord della stanza venne spalancato, ed Eliveus fece lentamente il proprio ingresso. Il suo aspetto non era migliorato affatto dall’ultima volta che era stato visto in pubblico. Pareva anzi ancora più emaciato, più claudicante nella sua andatura. Appena un mese era passato, ma sul suo corpo aveva avuto il peso di almeno dieci anni.
Una malattia, comprese Aldiron. Ecco spiegata la ragione della nomina di un successore.
Il banditore sbatté l’estremità inferiore del bastone sul duro pavimento di marmo, il tonfo secco che risuonò impose il silenzio tra tutti gli astanti.
–Ho fatto la mia scelta– esordì Eliveus, la cui voce era appena udibile, nonostante il silenzio. –Ho pregato a lungo il Dio Drago affinché mi concedesse la saggezza necessaria. Sperando che le mie preghiere siano state esaudite, annuncio che a succedermi sarà Taured Tilgwandar.–
Un brusio concitato animò la folla, mentre il torrente di commenti veniva a stento represso.
–Prego che saprà essere un degno Drakonikan, e che gli Dei lo accettino al più presto come loro Entramite.–
Atwil era nella sala, da qualche parte. Non c’erano dubbi, ma non c’era motivo di cercarla. Aldiron si allontanò, zoppicando. Parecchi corpi lo urtarono, incuranti della sua menomazione, badando a malapena alla sua presenza. Un uomo per poco non gli fece perdere l’equilibrio, mentre avanzava precipitoso verso il centro della sala, dove la maggior parte dei presenti stava convergendo. Era là che doveva trovarsi Taured. E Atwil. Cercò di allontanarsi più rapidamente che poté, ma qualcuno gli pestò il piede destro. Il suo urlo di dolore fu schiacciato dal tumulto della calca, che aveva cominciato a inneggiare al futuro Drakonikan.
Aldiron tenne stretto il bastone, con cui arrancò fino all’uscita, fuggendo verso la propria dimora.
 
Le fiamme lambivano la cornice. La parte inferiore del ritratto cominciava a screpolarsi, i colori sulla tela sbiadivano e gonfiavano, formando grottesche bolle in procinto di scoppiare.
–Hai smesso di esistere. Per tutti loro non ci sei più. Rimango solo io. Lo storpio. Il deforme. Aldiron il Bruciato. Aldiron l’Incenerito.–
Il fumo riempiva la stanza. Una serie di colpi secchi alla porta interruppe il crepitio delle fiamme. Aldiron rimase seduto sulla poltrona, fissando indifferente l’incendio alla base della parete, le lingue di fuoco che accarezzavano il dipinto.
Ci fu un colpo violento. Poi un altro. I tonfi si ripeterono a lungo, finché la porta venne abbattuta. I servitori si precipitarono all’interno, uno di loro urlò qualcosa e in tre si precipitarono a spegnere le fiamme, sferzandole con le proprie livree.
Aldiron badava appena a quello che succedeva. Non era nemmeno seccato per il fatto che avessero osato violare la sua dimora, o interferire nei suoi intenti. Non badò neppure alla mano vellutata che si era appoggiata sulla sua spalla. Una mano che emanava un profumo di lavanda.
–Che cosa stai facendo, Aldiron?– Non c’era alcun rimprovero nella sua voce. Era un sussurro intriso di una dolcezza che non udiva da lungo tempo.
–Ho paura.–
L’aveva detto a voce bassa, ma chiunque sarebbe stato in grado di sentirlo. Compresi i servi impegnati a salvare il ritratto.
–Di che cosa?–
–Di essere morto, in qualche punto della mia vita, e di non essermene reso conto. Che cosa resta di me, se non quell’uomo che sta bruciando? O forse nemmeno lui è rimasto, dal momento che nessuno sembra ricordarlo.–
Atwil si voltò verso il ritratto. Le fiamme erano state domate, i servitori stavano rimettendo a posto il disordine che si era creato. –Andatevene.–
I servi alzarono lo sguardo, ma nessuno accennò a ribattere. Il loro signore non sembrava avere intenzione di contraddire l’ordine. Abbandonarono quello che stavano facendo e uscirono dalla stanza, in fila silenziosa, come fantasmi che abbandonano un maniero spettrale.
Atwil afferrò i bordi della maschera di Aldiron, che d’istinto sollevò le mani, nel tentativo di impedirglielo. Ma la sua presa era debole, e la volontà vacillante. Che senso aveva nascondersi, ormai? Era chiaro a tutti quanto poco contasse nella Torre. Anche senza maschera, nessuno si sarebbe accorto della sua esistenza. Aldiron il Fiammeggiante era morto, non aveva più senso negarlo. Che cosa stava cercando di nascondere, esattamente?
–Non farlo.–
–Hai portato questa troppo a lungo.–
Il bianco volto di porcellana volò sul letto, atterrando con un morbido tonfo. Atwil rimase impassibile. Doveva essere preparata a quello che avrebbe visto. O forse, davvero non le faceva impressione ciò che vedeva? Se mai un volto era stato orrendo, era il suo. Inguardabile, insostenibile, una mostruosità tale per cui era naturale essere rifiutati dai propri simili.
Atwil si abbassò. Le sue labbra toccarono prima la sua fronte. Si appoggiarono, nulla di più. Un fremito percorse Aldiron, mentre la bocca di Atwil scendeva in basso, verso i suoi denti. Non aveva più labbra con cui offrire un bacio, rimanevano solo due file di denti bianchi, con saltuarie tracce di gengive. Atwil le baciò, un bacio vero, lento, amorevole. Prolungato. Non c’era passione, in quell’atto, ma c’era la ferma intenzione di amare.
–Credi che bacerei un morto?–
Gli occhi di Aldiron rimasero fissi su di lei, senza sapere dove guardare. Una fiamma nuova, diversa da ogni altra, bruciava nel suo petto, ravvivata dopo un gelo durato anni.
–Sono vivo, dunque?–
–Lo sarai, sei verrai con me.–
Sostenendosi sui bracciali della poltrona, Aldiron si alzò. Per un attimo, sembrò del tutto eretto, alto come era stato un tempo. La guardò negli occhi.
Aveva preso la sua decisione.
 
***
 
La salma di Eliveus giaceva, composta, al centro dell’Ultima Torre, solitaria in mezzo alla superficie piatta in cima all’edificio. I quattro pinnacoli la sovrastavano, ospitando i nobili giunti ad assistere.
Faceva freddo, il cielo era carico di neve. Gli abitanti della Torre non dovettero attendere molto prima che uno degli Dei, un drago rosso dalle ali giallo oro, atterrasse sulla sommità dell’Ultima Torre, incombendo su Eliveus. Annusò il corpo a lungo, sovrastandolo con la propria ombra possente. Dopo quella che parve un’attesa interminabile, le fauci si spalancarono e il cadavere venne dilaniato. Spruzzi di sangue circondarono il luogo delle esequie. Nessuno respirò mentre il Dio portava a compimento il rito. Quando fu sazio della carne del proprio Entramite, si incuneò nello spazio tra due dei pinnacoli e spiccò il volo, aleggiando sopra il baratro di rocce innevate e valli color ossidiana. Aveva ricominciato a nevicare.
Il rito era quasi terminato. Mancava solo l’atto di successione.
La botola dell’Ultima Torre si aprì sul pavimento, rivelando l’accesso alla rampa sottostante. Dalla scalinata emerse Taured. Si fece strada attraverso i resti martoriati di Eliveus, mentre la corte osservava in silenzio. Si fermò in prossimità di quello che forse era un braccio. Da quella distanza, era difficile distinguere i dettagli.
–Eliveus è ora carne della carne del Dio Drago. Possa vegliare su di noi e benedirci con la sua fiamma.–
La sua voce si era alzata forte, baritonale, chiara a tutti nonostante la lontananza. Si inginocchiò, intingendo le mani nel sangue sgorgato dalle carni dilaniate di Eliveus. Premette i palmi insanguinati sul proprio viso, sulle guance e sulla fronte, tingendo i suoi lineamenti di rosso.
–Il sangue non muore mai. Il sangue continua a scorrere!–
Il silenzio fu rotto da un’acclamazione festosa. Duecento voci si alzarono all’unisono per festeggiare il nuovo signore della Torre degli Dei. I fiocchi di neve ricadevano sul suo volto, inumidendo il sangue che aveva cominciato a seccarsi. Sarebbe stato un giorno dei giorni, se una seconda figura non fosse emersa dall’apertura sulla sommità dell’Ultima Torre. Un uomo curvo, zoppicante, sostenuto da un bastone.
Taured si accorse di lui quasi subito. Non ebbe difficoltà a riconoscerlo. Un fremito di collera si impadronì immediatamente di lui. Come osava interrompere il rito, quel relitto umano?
Si impose di controllarsi. Ricordò le parole di Atwil, riconoscendo di aver bisogno di quell’uomo. Ma non poteva permettergli di prendersi simili libertà. Era chiaro ciò che intendeva fare: sottolineare il loro legame fin da subito, in modo tale da incutere rispetto nel resto della nobiltà. Che razza di individuo! Non era neppure in grado di aspettare il giorno successivo, quando Taured avrebbe nominato i suoi consiglieri.
–Che ci fai qui? Ti rendi conto di quello che stai facendo?–
–Meglio di quanto tu possa immaginare, mio signore.–
–Hai interrotto il cerimoniale. Pensi che mi dimenticherò di questo?–
–Mi auguro di no, con tutto il cuore.–
 
Atwil osservava dal Terzo Pinnacolo. Il suo cuore batteva all’impazzata. Che cosa stava facendo Aldiron? Stava rovinando tutto. Quello stupido non poteva avere idea della fatica che le era costata convincere Taured a prenderlo sotto la propria ala. Pregò che non fosse impazzito, e che avesse in mente qualcosa che andasse a beneficio di tutti e tre. Atwil, tuttavia, non riusciva a intuire che cosa. Taured sarebbe andato su tutte le furie. Placarlo non sarebbe stata un’impresa facile.
Aldiron stava frugando nel proprio mantello. Estrasse qualcosa di piccolo, impossibile distinguerne i dettagli da così lontano. Tuttavia, sembrava un...
No.
Non stava per succedere. Non davanti ai suoi occhi.
 
–Mi stai minacciando?– Una nota di divertimento si era insinuata nella voce di Taured.
La lama era corta, un sottile pugnale istoriato con l’effigie di un drago. Non un pugnale qualsiasi, si rese conto Taured.
Un Tagliasangue da Cavaliere.
Solo i benedetti dagli Dei potevano possederne uno, ma quello di Aldiron era rimasto inutilizzato da... quanto tempo era passato dalla sconfitta? Tre anni, forse. Un tempo troppo lungo per essere ancora efficace.
–Atwil mi ha voluto tra i tuoi consiglieri. Lascia che ti dia il mio primo consiglio. Abbandona la Torre.–
–Non so cosa sia passato per la testa di Atwil quando ha proposto il tuo nome, ma so per certo quello che farò io. Ti butterò giù dalla Torre entro un istante, se non te ne vai immediatamente. Sia maledetto il giorno in cui ho dato retta a quella donna.–
Uno sprizzo di sangue schizzò dalla mano di Aldiron. Una miriade di puntini rossi si sparsero sulla pietra imbiancata dalla neve. Aldiron sollevò la mano, lasciando che rivoli purpurei colassero lungo l’avambraccio.
–Che ti salta in mente, razza di...–
Taured ammutolì di colpo. Era ovvio ciò che Aldiron stesse facendo.
Stava Chiamando.
Per poco non scoppiò a ridere.
–Mi fai una gran pena, Aldiron– disse Taured. –Gli Dei non rispondono agli sconfitti. Sei caduto e sei stato bruciato. Hai perso il tuo...–
Taured ammutolì di nuovo. Un ruggito spezzò il silenzio dell’aria. Una sagoma gigantesca emerse in volo dalle nubi, discendendo dalle vette insondabili della montagna. L’ombra oscurò di nuovo la cima dell’Ultima Torre.
Un paio di possenti zampe posteriori si aggrapparono sull’orlo del precipizio, mentre le ali lambivano le pareti del Secondo e del Terzo Pinnacolo. Due occhi dorati scrutavano le esili figure in attesa, mentre un cupo brontolio, amplificato dalle pareti di roccia che circondavano la Torre, veniva amplificato al punto da sembrare una valanga.
Il drago li scrutava entrambi, dilatando le narici, riconoscendo l’odore del sangue. Di quel sangue, in particolare. Chissà da quanto non lo percepiva. Tre anni, forse di più.
–Cosa serve, Taured, per cavalcare un Dio?–
Taured udì a malapena la domanda. La sua attenzione era rivolta unicamente al drago. Non aveva il controllo della situazione. Doveva andarsene da lì il prima possibile. Era troppo rischioso usare il proprio Tagliasangue. Con un drago così vicino, la reazione sarebbe stata imprevedibile.
–L’avevo dimenticato, quando fui bruciato. Bastò un istante, ma fu sufficiente per distruggermi– mormorava Aldiron. –Avevo dimenticato che non bisogna avere paura.–
–Che cosa hai in mente di fare?–
–Liberarmi della paura. Per sempre.–
Aldiron avanzò spedito verso il drago. Zoppicava, ma la sua andatura era risoluta. Procedeva verso quella creatura possente senza la minima esitazione, alzando lo sguardo quanto glielo consentiva la schiena curva. Il drago lo fissava di rimando, e Taured fu certo che gli si sarebbe avventato addosso entro breve. Ma così non fu. Il Dio continuava a osservare quell’essere patetico che si avvicinava, senza accennare ad attaccarlo. Sembrava che lo riconoscesse. Solo in quel momento, Taured intuì l’orrenda verità dietro quella situazione.
Il drago sull’Ultima Torre era l’ultima cavalcatura di Aldiron. Era la belva che lo aveva ridotto in fin di vita, che nessuno aveva più visto dopo la sua caduta. Era tornato, contro ogni aspettativa. I draghi degli sconfitti non tornavano mai.
Cos’era cambiato?
–Per tutti questi anni, ho sperato che tornassi da me– Taured sentì sussurrare Aldiron, rivolto al Dio. –Ti ho deluso, non è vero? All’ultimo, ho avuto paura. E tu lo hai sentito. Mi sono illuso di potertelo nascondere, ma non potevo farlo. Non potevo, no. E alla fine te ne sei accorto, e mi hai allontanato. Cos’è che ti ha offeso di più? La mia paura, o il fatto che abbia tentato di nascondertela? Ma le cose sono cambiate. Non sono più quello di prima. Sono diverso, lo senti che il mio sangue è diverso? C’è qualcosa di nuovo. Qualcosa che mancava da tanto tempo, da prima che cadessi.–
Un ringhio sommesso fece rabbrividire l’intera corte, ammutolita ad assistere.
–Ho trascorso anni a chiedermi come fosse successo. Come avessi cominciato ad avere paura– continuò a sussurrare Aldiron. –Passavo i giorni a guardare me stesso, l’immagine di me tracciata su una tela, chiedendomi perché fosse scomparso. Poi ho capito che non era scomparso. Io l’avevo lasciato andare. Le persone si allontanano, quando dai la loro presenza per scontata. Ora so cos’ero diventato, e l’ho allontanato da me. Sono tornato quello di prima. Sono tornato a credere in me stesso, a sperare in quello che potremmo realizzare, uno accanto all’altro. Non lascerò un’altra volta che la mia meschinità ci divida. No, questa volta andremo fino in fondo.–
La mano di Aldiron si appoggiò sul muso del drago. Nemmeno i Cavalieri più esperti osavano un contatto con le fauci dei propri draghi. Quello che Taured vedeva non aveva senso.
–La paura ti rende prigioniero, la speranza può renderti libero. Io voglio essere libero.–
 
Lentamente, il Dio sollevò il collo massiccio, squadrando ogni cosa dall’alto della sua mole gigantesca. In quell’attimo, il tempo si congelò, in attesa che il destino dei signori della torre si compisse. Ciò avvenne, nell’unico modo consentito nel dominio del Dio Drago.
Un torrente di fuoco si sprigionò dalle fauci del drago, investendo l’Ultima Torre e i Quattro Pinnacoli. Le fiamme si levarono alte, inghiottendo mura, scale, pietra e carne. Centinaia di nobili, di sguardi alteri, di occhiate di spregio, cancellate in meno di un istante.
Un ruggito furioso echeggiò tra le montagne, mentre uno stormo di draghi si sollevava per danzare intorno alla Torre degli Dei, trasformata in una torcia solitaria in mezzo agli strapiombi della valle nascosta.
 
Il fuoco non si placò per anni. Quando le prime piogge caddero, per molto tempo le gocce evaporarono, al contatto con la pietra rovente.
Dalle macerie, una figura esile, stretta nel suo mantello grigio, si stagliava su quella che era stata la sommità dell’Ultima Torre. La pioggia cadeva su di lei, il volto rigato da innumerevoli gocce.
–Cercavi la libertà, Aldiron– disse la donna. Dicevano che fosse folle, perché nessuno comprendeva i suoi discorsi. –Non avevo capito fin dove eri disposto ad arrivare, per averla. Non avevo capito, quanto pesanti fossero quegli sguardi per te.–
Non c’era più nessuno ad ascoltarla. Solo un’immagine confusa e bruciata, appesa a un muro diroccato, che un tempo doveva essere stata il ritratto di qualcuno. Ma di chi, nessuno avrebbe saputo dire.
 

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Capitolo 2
*** Figlio del fuoco ***


Il dolore era insopportabile. Rolgar avvertiva che l’esplosione di sofferenza presto l’avrebbe travolto come un fiume in piena.
Il braccio sinistro era avvolto in diversi strati di tessuto bagnato, ma l’acqua gelida non sarebbe bastata a placare il bruciore. La pelle nascosta sotto quei panni era ormai rossa, di una sfumatura vicina a quella della carne cruda. Ma non poteva fare nulla per impedirlo, né gli impacchi né gli unguenti erano stati utili a qualcosa.
Si trovava nel bel mezzo della pianura desolata. L’erba era secca e rada, spuntoni di roccia nera protrudevano dal terreno come denti, gli alberi erano rari. Correva veloce quanto le gambe gli consentivano di farlo, sorreggendo il braccio sinistro che aveva cominciato a tremare. Avrebbe dovuto trovarsi il più lontano possibile dal villaggio, quando sarebbe successo. Le crisi erano imprevedibili, ma stavano diventando più frequenti. Non era ancora riuscito a capire che cosa le scatenasse, ammesso che fosse davvero qualcosa di preciso a scatenarle. Forse, obbedivano semplicemente a una volontà propria.
Ancora pochi passi e avrebbe raggiunto la pozza d’acqua. Rolgar la conosceva bene, poiché ormai era divenuto il suo unico rifugio sicuro. Vi avrebbe immerso il braccio all’apice del dolore, benché non servisse a molto. Anche sott’acqua la pelle e i muscoli avrebbero continuato a bruciare, fino a farlo gridare, e avrebbe dovuto sopportarlo per lunghi, interminabili minuti.
Con la vista ormai offuscata, vide che lo spazio che circondava la pozza non era vuoto come al solito. Qualcuno era seduto sulle sponde dell’acqua, affiancato da un piccolo mulo carico di bagagli. Rolgar non aveva idea di chi fosse, cosa ci facesse laggiù o da dove provenisse. Non era un uomo del villaggio, su questo non c’erano dubbi. Era un pessimo momento per incontrare qualcuno. Non esistevano altri luoghi nelle vicinanze dove avrebbe potuto nascondersi e lasciare che il fuoco che lo divorava si sfogasse, lontano da chiunque potesse esserne ferito.
Si arrestò a poca distanza dall’uomo, che gli dava le spalle mentre rimaneva seduto in riva alla pozza. Non si era accorto della sua presenza; Rolgar doveva decidere al più presto come comportarsi. Non poteva in nessun modo nascondere il proprio stato di sofferenza o le manifestazioni del morbo che lo perseguitava, così come lo straniero non avrebbe potuto evitare di sorprendersi e spaventarsi di fronte a lui, quando il fuoco fosse divampato. Come avrebbe reagito? Sarebbe fuggito, oppure lo avrebbe affrontato, magari arrivando a ucciderlo? Rolgar non sarebbe stato in grado di difendersi, in preda ai dolori lancinanti. Che cosa doveva fare?
Prima che potesse prendere una decisione, il fuoco esplose. Una vampata di fiamme crepitanti prese vita dal suo braccio, divorandolo come una torcia. La momentanea perdita di concentrazione era stata sufficiente perché la forza dentro di lui prendesse il sopravvento e sfuggisse al suo controllo. Ora che era libera, sarebbe stato consumato e le sue ceneri si sarebbero sparse per tutta la pianura.
 
Si risvegliò molto tempo dopo, senza la minima cognizione su dove fosse o su quanto tempo fosse trascorso dal suo ultimo ricordo.
La vista era sfocata e la bocca era secca. Sembravano trascorsi secoli dall’ultima volta che una goccia d’acqua si era posata sulla sua lingua. Emise un rantolo, tentando di sollevarsi. Era privo di forze, eppure si sentiva lucido. Riusciva a percepire la presenza di qualcun altro, accanto a sé. Un blando tepore lo circondava e un profumo di carne arrostita si faceva strada, morbido, dentro le sue narici. Infine percepì qualcosa che lo destò del tutto, un odore che non poteva in alcun modo essere lì, ovunque egli si trovasse. Era odore di casa. C’era qualcosa, nell’aria, che costringeva la sua memoria a risvegliarsi e a rievocare momenti che doveva lasciarsi alle spalle.
Rolgar scorse la figura accovacciata a pochi passi di distanza. Era china su un pentolino fumante, all’interno di un luogo che sarebbe stato completamente buio senza il cono di luce proiettato dalle fiamme sotto il pentolino. Si rese conto che erano in una grotta. Il pavimento era pietroso, ma la superficie su cui si trovava disteso era liscia, resa comoda da una stuoia che non aveva portato con sé. Tuttavia, si trattava di un oggetto familiare.
«Mamma...» mormorò Rolgar, con voce roca. «Come hai fatto a trovarmi?»
Ynda voltò lo sguardo verso il figlio, ma nella sua espressione non vi erano tracce di ansietà o di sollievo. Sapeva che suo figlio si sarebbe ripreso, ma era evidente che quel pensiero non la riempiva di felicità.
«Ti cercavo da due giorni. Ho pensato che cercassi l’acqua» rispose lei, semplicemente.
Rolgar si drizzò a sedere. In quel momento, una fitta lancinante pervase l’intero braccio sinistro, dalla punta delle dita fino all’interno della spalla. Per un istante, Rolgar temette che il fuoco si stesse nuovamente risvegliando.
«Non muoverti» disse Ynda. «Devi restare immobile.»
In effetti, Rolgar lo sapeva bene. Ma la sorpresa di vedere sua madre, apprendere che l’aveva inseguito e ritrovato dopo appena due giorni di ricerca, era troppo grande.
Ynda raccolse la cena dal pentolino e la travasò in una scodella. Si avvicinò al figlio con l’oggetto fumante, il cui calore ridestò in Rolgar un’angoscia profonda, quando fu a pochi centimetri dal suo viso.
«Devi mangiare. Il caldo ti farà bene.»
Rolgar non pareva convinto di questo. Aveva conosciuto troppo dolore a opera del fuoco per considerare il calore come qualcosa di positivo. Ma riconobbe di avere fame e lo stomaco brontolante lo aiutò a superare le riserve che ancora serbava verso la zuppa fumante. La carne era tenera e priva di spezie, e solo quando iniziò a masticarla si accorse di avere una fame da lupi. Aveva un sapore strano, non riusciva a capire a quale animale appartenesse, ma era davvero ottima.
Cominciò a rendersi conto della possibilità di essere rimasto incosciente per giorni.
«Quanto ho dormito?»
«Un giorno e una notte. Ti sei ripreso prima del solito.»
Rolgar sospirò. Se era rimasto privo di sensi per un tempo così breve significava che era stata una crisi di lieve entità. Con tutta probabilità presto se ne sarebbe presentata un’altra, di forza ancora maggiore.
«Dove siamo?» continuò a domandare.
«Al sicuro. Questo è tutto quello che conta» rispose Ynda.
Rolgar posò la scodella, ripulita fino all’ultima goccia, e racimolò il coraggio necessario a parlare.
«Mamma... non posso tornare al villaggio.»
Ynda annuì.
«Non ci torneremo, infatti.»
«Volevi dire che io non ci tornerò. Tu non puoi venire con me, è...»
Ynda fissò il figlio negli occhi. Rolgar si interruppe, ricordando che sua madre non aveva mai sopportato che le proprie parole venissero corrette o contestate. Lei si allungò per raccogliere dell’altra zuppa dal pentolino.
«Prendine un altro po’. La debolezza ti fa dire idiozie.»
«Mamma, è pericoloso. Lo sai, io sono...»
«Tu sei mio figlio. Ci sono molte cose che temo, ma tra queste non ci sei di certo tu.»
Rolgar stava per ribattere, quando un ricordo all’improvviso gli si riaffacciò  alla mente. Ricordò l’uomo seduto sulle riva della polla d’acqua che aveva tentato di raggiungere, prima di svenire. Aveva perduto i sensi senza poter scoprire chi fosse o che cosa lo avesse portato in quell’angolo sperduto di mondo.
«Dov’ero quando mi hai trovato? C’era qualcuno con me?»
Ynda socchiuse le palpebre.
«Qualcuno c’era. Un viaggiatore, presumo. È fuggito dopo aver visto... quello che c’è nel tuo corpo.»
Rolgar capì le implicazioni di quel fatto.
«Se è fuggito, questo posto non è sicuro. Ovunque sia andato, racconterà quello che ha visto e porterà qui altri uomini. Ci staneranno.»
«Non sono preoccupata. È andato a est; non c’è nulla, da quella parte.»
Rolgar si tranquillizzò, ma non del tutto. Sapeva che a est c’erano le grandi praterie, dove un uomo poteva viaggiare per interi cicli di luna senza incontrare anima viva. Ma al villaggio aveva sentito dire che talvolta potevano farsi vivi i cavalieri delle steppe, famosi per la loro venerazione per la caccia. E se il viaggiatore misterioso avesse incontrato i cavalieri e questi avessero realizzato che un Figlio del Drago era una preda di valore inestimabile? Come si sarebbero difesi, lui e Ynda? Non sapeva controllare il potere che si annidava dentro di lui: andava e veniva, senza schemi, senza regole. Non avrebbe potuto evocare il fuoco in un momento particolare nemmeno se fosse stata in gioco la sua vita, o quella di sua madre.
«Non ho detto che resteremo qui» disse Ynda, intuendo i pensieri di Rolgar.
«E dove andremo?»
«In un posto dove sarai davvero al sicuro.»
Prima che Rolgar potesse domandare qualcosa, Ynda si alzò e uscì dalla grotta. Era tipico di sua madre troncare le conversazioni a quel modo. Comunicava solo l’essenziale, per lei non era importante che suo figlio conoscesse il piano per intero. Forse, temeva quel che avrebbe potuto fare se fosse stato al corrente di ogni cosa. Rolgar sapeva che sua madre, nonostante si sforzasse di non darlo a vedere, lo aveva a cuore. Qualunque cosa meditava di fare, era per il suo bene.
 
La mattina dopo si rimisero in cammino. L’aria era fredda e Rolgar si sentì rinvigorito dalla brezza che spirava da nord. Il braccio gli doleva ancora, un lieve bruciore ardeva sotto lo spesso strato di fasciature, ma nulla che non potesse sopportare. Le gambe e il resto del corpo rispondevano bene, si sentiva pronto per una giornata di marcia. Ynda aveva un’espressione indecifrabile. Rolgar non riusciva a immaginare quale progetto avesse preso forma nella sua mente, in tutti gli anni nei quali aveva dovuto convivere con un figlio dotato di un potere tanto spaventoso. Avevano vissuto segregati per quanto possibile, ma non era facile vivere isolati nelle Terre Rosse. Alla fine, erano stati costretti a trasferirsi in un villaggio, all’interno del quale risiedevano i primi ricordi di Rolgar. C’era un’immagina confusa, un suono distorto, un odore acre che spesso gli facevano visita, durante il sonno. Con tutta probabilità, si trattava del suo primo ricordo. Il tetto di paglia di una capanna bruciava, le fiamme danzavano vorticose verso il cielo, generando un bagliore rossastro e una coltre opprimente di fumo nero. Qualcuno urlava, molte voci unite in un coro di grida terrorizzate. Il ricordo del calore di quelle fiamme sul volto era ancora vivido. A chi erano appartenute quella capanna e quelle grida? La sua vita, fin dai primordi, era stata tormentata dal fuoco.
Rolgar e Ynda procedettero di buon passo per tutta la mattina, facendosi strada attraverso un percorso costellato di rocce acuminate, praterie sterminate e alberi dai tronchi contorti e rinsecchiti. Era un luogo desolato, privo di abitanti, dove l’unico riparo era offerto dalle sinistre formazioni frastagliate di roccia, nei quali l’acqua e il vento avevano scavato cunicoli insidiosi, nei quali potevano trovare rifugio i rari viaggiatori... o le creature solitarie che dominavano quei luoghi.
Il cielo si era oscurato quando si fermarono per una breve sosta. Un tuono in lontananza faceva presagire l’imminenza di un temporale. Era inutile accendere un fuoco all’aperto, così Rolgar si mise alla ricerca di un’insenatura nelle rocce circostanti. Individuò un anfratto che si apriva all’imboccatura di una parete di basalto costellata da alcuni agrifogli. Il terreno era ricoperto di pietre, che scricchiolarono sotto il peso di Rolgar e Ynda. Trovarono rifugio all’interno della caverna, dove accesero il fuoco. Di lì a poco, esplose il nubifragio.
Per molte ore l’acqua non accennò a voler smettere di precipitare. Ynda, raggomitolata in un angolo, aveva un’espressione cupa. Non parlava e si teneva a debita distanza da Rolgar. Lei non amava la sua vicinanza. I gesti di affetto nei suoi confronti erano sempre stati rari, era così da quando aveva memoria. Rolgar ancora non capiva che tipo di legame ci fosse tra loro. Erano madre e figlio, ma nessuno avrebbe potuto intuirlo dal loro comportamento.
Rolgar non osava avvicinarsi. Sapeva che Ynda l’avrebbe respinto con fastidio. Voleva solo ringraziarla, dirle che le voleva bene. Non pretendeva che lei facesse altrettanto, gli sarebbe bastato che lei accettasse quello che voleva offrirle.
Un brontolio lo distrasse dai suoi pensieri. Era un rumore che non aveva nulla a che fare con il temporale fuori dalla grotta. Più debole, più sordo, ma molto più vicino. Rolgar si voltò di scatto, e scorse una figura muoversi nell’ombra fitta della caverna.
Quel luogo era la tana di qualcosa: una creatura gigantesca, ricoperta di pelo e probabilmente affamata. Una creatura che aveva vinto il timore degli intrusi che avevano invaso il suo territorio e si preparava ad attaccare. Ynda si accorse del pericolo qualche istante dopo Rolgar.
Un altro brontolio sommesso, ora molto più simile a un ringhio vero e proprio, echeggiò nello spazio angusto della grotta. Rolgar aveva già visto orsi nelle foreste che circondavano il villaggio, ma non si era mai trovato di fronte a una creatura tanto imponente. Dovevano fuggire ed evitare a tutti i costi di scatenare l’ira della belva.
Una serie di versi striduli echeggiò da qualche parte alle spalle dell’orso. Aguzzando la vista, Rolgar distinse nella penombra due cuccioli, che si mantenevano a debita distanza dalla madre e dagli intrusi. L’agitazione sembrava evidente nei loro guaiti. Tutto questo non poteva che aumentare la ferocia della padrona di casa. Il fuoco era la loro unica salvezza, senza di esso sarebbero stati aggrediti prima di potersi avvicinare all’entrata della grotta. D’istinto, Rolgar raccolse dal fuoco l’estremità integra di un ramo e agitò la torcia improvvisata davanti al muso dell’orsa, che parve esitare per qualche secondo. Per un breve istante si illuse di aver ottenuto un netto, seppur fugace, controllo sulla situazione. Un istante di respiro che fu sufficiente a far precipitare tutto.
Forse turbata dalla fiamma, forse nel tentativo di distrarlo, l’orsa scattò di lato e caricò verso una delle pareti della grotta, nella direzione di Ynda. Sua madre era rimasta immobile fino a quel momento, senza sapere cosa fare. Fu quell’immagine di sua madre appiattita contro la parete, con gli occhi sbarrati dal terrore e le mani premute contro la roccia, come se sperasse di sprofondarvi, a spaventare più di tutto Rolgar. Non aveva mai visto sua madre in un simile stato di debolezza, lei che era sempre così dura e così forte.
Dopo lo sgomento e il terrore, venne il dolore al braccio.
Il ramo del falò cadde in una pozza d’acqua e si spense, ma la luce continuò a brillare accanto a Rolgar. Il suo braccio era in fiamme, le medicazioni erano in cenere e la pelle bruciava con un’intensità mai raggiunta prima. Qualcosa, nel profondo di Rolgar, reagiva al pericolo e si muoveva per proteggerlo... o forse per proteggere se stessa. Un’ondata di fuoco si sprigionò dal corpo di Rolgar, investendo in pieno la sagoma gigantesca dell’orsa e riversandosi in ogni punto in ombra della grotta, come se volesse cacciare di propria iniziativa l’oscurità. Il dolore era accecante, ma c’era qualcosa di diverso in quella crisi, Rolgar lo avvertì nitidamente. Le fiamme agivano per conto proprio, furiose e inarrestabili come sempre, eppure per la prima volta percepì un flebile controllo su di esse. Un grido eruppe dalla sua bocca quando non poté più resistere alla sofferenza. Ma fu in quel momento che, imponendo al fuoco di cessare la sua opera distruttrice, questo per la prima volta obbedì.
Il vortice di fuoco che aveva preso forma dal suo braccio ora pervadeva anche il torace e la gamba sinistra, ma la sua forza scemava e ben presto rimasero solo fiammelle isolate sparse per il corpo. La pelle era ricoperta di ustioni e abrasioni, il dolore era accecante, ma tutto questo non bastò a distrarlo dalla consapevolezza di aver dominato, anche se per poco, il suo demone.
L’interno della grotta era invaso dal fumo e l’aria era diventata irrespirabile. La consapevolezza di questo forzò Rolgar a reagire e a ignorare l’atroce agonia che provava. Ynda era crollata a terra, la schiena appoggiata contro la parete e la testa reclinata di fianco su una spalla. Non sembrava ferita, ma era incosciente. Rolgar la afferrò per le braccia e iniziò a trascinarla verso l’uscita. Mentre procedeva in quella dolorosa operazione, sollevò per un momento lo sguardo alla ricerca dell’orso: nella direzione dove pochi istanti prima si trovavano la bestia e i suoi cuccioli, ora si intravedevano solo rocce annerite e cumuli di cenere. Rolgar vide delle ossa bruciacchiate e resti di carne incenerita. Abbassò di nuovo il viso e si concentrò solo su Ynda.
 
Fuori, la pioggia cadeva ancora con forza. L’acqua scrosciante fu una benedizione per le ferite di Rolgar, il refrigerio delle gocce gelide gli diede l’impressione di essere immerso in un lago ghiacciato. Protese la testa verso l’alto, chiuse gli occhi e per qualche fugace momento lasciò andare la mente, godendosi il sollievo donatogli dall’acquazzone. Ynda tossì, si girò su un fianco e vomitò. Il fumo inalato l’aveva fatta svenire, ma era sopravvissuta.
Mentre la pioggia lo inzuppava fino alle ossa, Rolgar si soffermò nuovamente a pensare a quello che era successo. Che cosa aveva fatto? Quell’orsa era un belva feroce e stava per aggredirli, ma erano stati loro a intrufolarsi nel suo rifugio. Era una madre che difendeva la propria casa e i propri cuccioli da intrusi pericolosi, che avevano persino osato accendere un fuoco entro i confini del suo regno. E lui li aveva distrutti, aveva permesso che le fiamme ingoiassero la madre, i suoi figli innocenti e la grotta che era stata la loro dimora. Li aveva cancellati dall’esistenza. Fu solo allora che Rolgar comprese a fondo l’entità del suo potere, il suo potenziale di distruzione e quanto egli fosse davvero pericoloso per chiunque gli stesse vicino. Avrebbe potuto distruggere intere famiglie in un solo istante, se una crisi fosse esplosa nel momento sbagliato. E ogni volta, dopo, avrebbe rimirato lo scenario di una distruzione nera, rovente e irrimediabile.
Ma era riuscito a controllare quel potere, seppur per breve tempo. Forse, dopotutto, c’era una speranza. Era un mostro, ma esistevano modi per controllarsi. Che cos’era cambiato in lui? Pur sforzandosi al massimo, non era mai riuscito in una simile impresa. Non aveva impiegato più volontà o più forza delle altre volte. Che cosa era successo, in quella grotta?
Trovò un riparo all’aperto poco lontano, sotto uno sperone a forma di lama. Faceva freddo e non potevano accendere il fuoco, ma era abbastanza comodo per riposare.
«Stai bene, mamma?»
Ynda continuava a tossire. I suoi respiri erano rochi, affannati.
«Hai fermato le fiamme da solo?»
«Sì. Non so come, ma l’ho fatto.»
Per la prima volta da lungo tempo, Rolgar vide sua madre sorridere. Non ricordava di aver mai visto prima d’allora un’espressione simile sul suo volto. Era orgogliosa.
«Bravo figliolo» disse, e lo carezzò sulla guancia. Dopodiché, si addormentò di un sonno inquieto fino alla mattina successiva.
 
All’alba si rimisero in cammino. Ynda non aveva ancora recuperato pienamente le forze, ma non c’era verso di convincerla a riposare. Pareva determinata a raggiungere una misteriosa destinazione, senza badare al proprio stato di salute. Camminava di buona lena, con un’energia superiore a quella che il suo corpo poteva consumare.
Viaggiarono per due giorni a un ritmo quasi frenetico, quasi che fossero inseguiti. E forse lo erano davvero. Rolgar non aveva dimenticato la storia del viaggiatore che si era accampato presso la polla d’acqua. Il pensiero che uno stuolo di nemici potesse tendere loro un agguato lo ossessionava di continuo. In previsione di una simile eventualità, passava la maggior parte del tempo a rimuginare su quanto era avvenuto pochi giorni prima. La sua mente lavorava febbrilmente alla ricerca di un qualsiasi elemento che potesse spiegare con esattezza quegli eventi. Se davvero esisteva un modo per controllare il fuoco, poteva significare la fine di un supplizio durato da quando aveva memoria. La sola prospettiva bastava a galvanizzarlo e a fargli dimenticare la fatica della marcia forzata. E persino il senso di colpa per aver ucciso l’orsa e i suoi piccoli.
Rolgar era così concentrato sui propri ragionamenti da dimenticarsi una domanda con implicazioni molto più immediate: dove stavano andando? Quando finalmente gli si affacciò alla mente, si rese conto di aver seguito ciecamente sua madre, senza interrogarsi sui suoi obiettivi.
«Stiamo andando a nord» esordì.
Ynda si limitò ad annuire.
«Che cosa c’è a nord?» continuò Rolgar, deciso a non lasciare quel punto in sospeso.
«La salvezza» rispose Ynda.
«La salvezza da che cosa?»
«Quella che cerchi da sempre. La salvezza da te stesso.»
Rolgar accelerò il passo e si parò dinnanzi a sua madre, costringendola ad arrestarsi.
«Ti sembra che abbia voglia di giocare agli indovinelli?»
«Devi fidarti di me, Rolgar.»
«Sarebbe più facile, se volessi dirmi...»
«Sta’ zitto e togliti di mezzo.»
Rolgar rimase immobile. Non voleva assumere un atteggiamento minaccioso, ma il suo sguardo rivelava una fermezza che Ynda non aveva mai visto prima. La sua altezza lo rendeva più intimidatorio di quanto non fosse nelle sue intenzioni.
«Perché non vuoi dirmi niente? Perché devi sempre trattarmi così?»
«Taci! Ogni cosa che ho fatto da quando sei nato l’ho fatta per il tuo bene! E gli Déi sanno bene quanto m’è costato!»
«Nessuno ti obbligava a farlo.»
Uno schiocco secco risuonò nell’aria tersa del mattino. Il bruciore dello schiaffo sulla guancia di Rolgar era di un tipo molto diverso da quello che lui conosceva così bene, e provocava un dolore ancora più forte, se possibile.
«Hai ragione. Nessuno mi ha obbligata a prendermi cura di te, quando tutti volevano che ti gettassi nel fiume. Nessuno mi ha obbligata a lasciare la mia famiglia, quando potevo semplicemente abbandonare te in mezzo ai cani. Nessuno mi ha obbligata a uccidere tuo padre, per impedire che lui uccidesse te. Nessuno mi hai obbligata a fare niente, eppure sono qui! Io sono tua madre, e anche se odio quello che sei dal più profondo del cuore, farò ogni cosa in mio potere per salvarti.»
Rolgar rimase in silenzio. Sovrastava ancora Ynda, ma la sua figura era un pallido barlume della sagoma possente che era stata fino a poco prima.
Ynda cominciò a tossire, fino a piegarsi in due. Rolgar cercò di sostenerla, ma le sue braccia vennero respinte da un gesto brusco. Terminato l’accesso di tosse, Ynda scostò il corpo di Rolgar con un braccio e riprese a camminare. Non le servivano parole per intimare al figlio di seguirla.
 
Al tramonto del settimo giorno, giunsero in vista di uno strano paesaggio. La prateria si diradava, i soffici fili d’erba venivano sostituiti da sassi e sterpi, e in lontananza tutto, dal cielo alla terra, appariva nero o grigio. Promontori frastagliati si ergevano ovunque, come spine dallo stelo di una rosa. Avanzando nel cuore di quel territorio, Rolgar scoprì un altro elemento curioso: la terra si trasformava, man mano che procedevano, in una nera superficie levigata percorsa da sottili linee di un rosso vivido e brillante, come rivoli di sangue dal cui interno venisse emanata una luce di origine inspiegabile.
Giunto fin laggiù, Rolgar fu colto da un improvviso barlume di coscienza. Una parte recondita della sua mente richiamò a galla un frammento di ricordo, il racconto di una storia udita tanto tempo prima. Non poteva ricordare chi gliel’avesse narrata, forse sua madre, forse un’altra donna del villaggio. L’unica cosa certa era che aveva già sentito parlare di quel luogo e dei suoi abitanti. La consapevolezza lo invase, le informazioni dimenticate del suo passato, inutili fino a quel preciso istante della sua vita, proruppero tutte insieme come la marea che infrange una diga.
Si stavano dirigendo al tempio dei Figli del Drago.
Rolgar si arrestò immediatamente. Non sapeva cosa lo paralizzasse. La paura giocava sicuramente un ruolo di primo piano, ma non era da escludere la meraviglia. Tutti i bambini del villaggio erano cresciuti con le storie dei seguaci del Dio Drago, il più terribile fra gli Déi del popolo. Nonostante il collegamento fosse ovvio, Rolgar non aveva mai accettato l’idea di poter veramente far parte di quella schiera di uomini mitologici. I Figli del Drago appartenevano alla fantasia, esistevano eppure non esistevano, vivi e reali quando un abile narratore ne cantava le gesta con la propria voce, per essere relegati nuovamente nella favola non appena la voce si spegneva. Non si poteva credere in loro perché erano troppo straordinari per essere veri, ma anche perché accettare che i Figli fossero reali significava vivere con un opprimente senso di timore nel cuore. Rolgar non poteva credere che sua madre lo volesse davvero condurre al cospetto di una leggenda incarnata. A quale scopo, inoltre?
Quando Ynda si accorse che Rolgar rimaneva immobile, ritornò sui propri passi. Non era frettolosa, non più. Ora, in vista della destinazione, sembrava timorosa.
«Siamo quasi arrivati...»
«Perché vuoi che vada da loro?» domandò Rolgar. La sua voce era atona, priva di qualunque emozione.
Ynda non ebbe bisogno di chiedere a chi si stesse riferendo.
«Voglio che tu smetta di soffrire.»
«Perché dovrebbero aiutarmi?»
«Perché sei uno di loro.»
Rolgar aveva riflettuto molte volte sulla natura del proprio demone. Al villaggio l’avevano considerata una maledizione, una punizione inflitta dagli Déi. Non aveva faticato a crederci, a tormentarlo era non sapere cosa avesse fatto per meritare una simile tortura. Il fuoco aveva martoriato il suo corpo fin da quando era bambino, e che colpe poteva aver commesso come bambino, per attirare un simile castigo?
C’erano stati anche momenti, quando ascoltava le storie sui Figli del Drago, in cui aveva fantasticato di essere come loro. Poi, aveva persino creduto diessere uno di loro. Ma era impossibile, naturalmente. I Figli del Drago dominavano il loro potere, c’era chi lo utilizzava per proteggere i deboli e chi per infliggere una morte orrenda, ma erano tutti padroni del fuoco che creavano. Le storie li dipingevano come possenti, magnifici, in grado di eruttare fuoco dalla bocca e dagli occhi. Tutto questo non combaciava con Rolgar.
“Ma negli ultimi giorni ho dominato per la prima volta il demone.”
Quel pensiero si affacciò spontaneo, una risposta che mise in moto sentimenti contrastanti. Da una parte, un’estasi indescrivibile per la possibilità che tutto ciò che fosse vero. Che lui, il reietto e dannato Rolgar, potesse essere in verità un prescelto, un uomo dai poteri incredibile, uno strumento del Dio Drago. Dall’altra, l’angoscia. Che cosa significava essere un Figlio del Drago? Come poteva essere vera quella follia, quella panzana da cantastorie? Era un’angoscia che celava il terrore profondo di non essere nessuno, di essere solo un comune essere umano destinato a una vita di atroce sofferenza.
«Rolgar... fidati di me. Io so quello che sei.»
Ynda si avvicinò e protese una mano per toccarlo. Rolgar indietreggiò.
«E se scappassi?»
«Ti ritroverei» disse Ynda. Entrambi si resero conto della menzogna, ma questo non scalfì la forza di quelle parole.
«Se scappassi per paura? Se ti disonorassi fuggendo come un codardo? Mi uccideresti?»
Ynda lo fissò negli occhi, inchiodandolo con lo sguardo.
«Ci sono stati tanti momenti in cui avrei voluto ucciderti. Ma non l’ho mai fatto. Né lo farò ora, a un passo dal tuo destino.»
«Perché ora?»
«Perché sei pronto.»
Prima che Rolgar potesse comprendere appieno le parole di sua madre, Ynda fu colta da un violento accesso di tosse. Uno sbocco di sangue comparve a un angolo della bocca. La donna era crollata in ginocchio, ormai in preda alle convulsioni. Rolgar si precipitò a sorreggerla, tentando di rimetterla in piedi. Quando fu chiaro che non sarebbe riuscita a reggersi sulle gambe, la sostenne in un abbraccio. In lontananza, un nitrito spaziò nell’aria silenziosa fino alle sue orecchie. Voltandosi, vide sette uomini a cavallo stagliarsi su un crinale di cenere. Non avevano l’aspetto dei Figli del Drago, questo era sicuro. Ma non parevano nemmeno comuni viaggiatori. Aguzzando la vista, notò che uno di loro impugnava una spada. Chi erano quegli uomini?
«Proprio adesso, a un passo dalla fine!» gemette Ynda. «Se solo non ti avessi rallentato, almeno tu saresti stato salvo.»
Rolgar volse nuovamente l’attenzione verso sua madre. Era la prima volta che gli parlava così.
«Chi sono?»
«L’uomo che incontrasti giorni fa, vicino all’acqua, non era solo. Aveva un compagno. È tornato in forze. Cercano vendetta.»
«Vendetta per cosa? Di che stai parlando?»
Ynda fissò suo figlio negli occhi. In essi era impressa una grande tristezza, un’infelicità sopportata troppo a lungo che, alla fine, cominciava a straripare dal suo cuore.
«Ti dissi che quell’uomo era fuggito, spaventato, alla vista del tuo potere. Non è andata così. Ho ucciso quell’uomo. E dopo averlo ucciso, ne ho conservato la carne.»
Rolgar rifletté sul significato di quelle parole. Una parte profonda di sé aveva già intuito quanto sua madre stava per confessargli, ma la parte razionale della sua mente ancora si rifiutava di accettarla. Non poteva essere vero, non voleva che fosse vero.
«Perché lo hai fatto?»
Ynda esitò.
«Ora riesci a controllare il fuoco, non è vero? Almeno in parte...»
Rolgar si sentì bruciare. Una nuova ondata di fuoco stava per esplodere. Sentiva che stava per travolgerlo la crisi più distruttiva che gli fosse mai capitata. L’apprendere di essersi cibato, seppur inconsapevolmente, di un essere umano, e lo scoprire che l’unico modo di porre limiti alla sofferenza inflittagli dalla maledizione del fuoco consisteva proprio nel commettere un atto tanto orrendo, equivaleva a sostituire una maledizione con un’altra, forse ancor più terribile. Di colpo, tutto l’odio, tutta la rabbia del mondo lo sommersero. Non aveva scelto un simile destino, non aveva commesso azioni che lo avessero instradato in quella direzione, eppure la sua vita era contrassegnata dal dolore. Da una parte, il fuoco. Dall’altra, il cibarsi di uomini come unica soluzione per placarlo. Non era giusto. Perché doveva essere costretto a un dilemma tanto atroce?
Ynda tossì ancora, un fiotto di sangue e siero proruppe dalla bocca.
«I miei polmoni sono bruciati» esalò. «Non sei obbligato a salvarmi, Rolgar. So ti averti ingannato, e di non averti amato quanto avrei dovuto. Ma ho cercato... ho cercato di renderti l’esistenza più sopportabile. Non sapevo che altro fare.»
Rolgar tacque. Non la guardò più, né diede segno del tormento che lo affliggeva da dentro. Si limitò a voltarle le spalle e a dirigersi verso gli uomini a cavallo, che stavano scendendo dalla collina e galoppavano veloci nella sua direzione.
Camminava piano, senza fretta, come se ogni passo dovesse essere l’ultimo. Il suo sguardo era a terra, si poggiava sul suolo cinereo e osservava il sottile strato di cenere che sollevava nuvolette sotto la pressione dei suoi piedi. In lontananza, i cavalli caricavano. I cavalieri avevano le spade sollevate, ancora pochi istanti e le lame si sarebbero abbattute sul suo collo, tranciandolo di netto.
Rolgar sollevò le braccia, ma non la testa, che si mantenne piegata verso il basso. La linea che congiungeva l’estremità della mano sinistra a quella della destra era retta. Le fiamme iniziarono a lambire le spalle, le braccia, le mani. I vestiti bruciarono. Il corpo nudo di Rolgar divenne una torcia, le fiamme vorticarono come una tromba d’aria, sempre più veloci, finché il vortice si ingrandì a dismisura e tutto intorno fu solo fuoco.
I nitriti e le grida degli uomini furono sovrastati dal crepitio delle fiamme.
Come tutto era iniziato, tutto si spense, nel silenzio più assordante. Braci e cenere ricadevano dall’alto, quelle di uomini e animali mischiate a quelle sollevate dal terreno.
Ynda vide il corpo di Rolgar fumante, annerito, insanguinato. Ma suo figlio era in piedi, saldo, senza dar segni di provare dolore. Si voltò, e lo vide in faccia. Il corpo era dilaniato dai segni del fuoco, ma i suoi occhi era lucidi, perfettamente coscienti di quello che aveva fatto e che avrebbe fatto. Non c’era sofferenza nel suo sguardo, nonostante le orrende ferite che lo martoriavano. Non sarebbe crollato sotto il peso della maledizione che lo affliggeva.
Rolgar avanzò verso di lei. Non la guardò in faccia, ma Ynda seppe che non si sarebbe fermato. Passò accanto a lei, alla distanza di una mano. Lo spazio che li separava era minuscolo, eppure così vasto, incolmabile. Non avrebbe potuto trattenerlo. Rolgar procedette senza guardarla, senza parlare. Passò oltre, addentrandosi nella terra dei Figli del Drago. Non vide paura nei suoi occhi, non vide esitazione nei suoi passi. Era cambiato. Non era più suo figlio. Questa consapevolezza, per la prima volta, scatenò in lei quell’amore che non aveva mai osato provare fino in fondo. Le lacrime le inondarono gli occhi, e non riuscì a trattenerle. Voleva chiamarlo, supplicarlo di perdonarla, di restare con lei, di non abbandonarla per quei pochi momenti che ancora le restavano da vivere.
Ma ormai non era più Rolgar, figlio di Ynda.
Era Rolgar, Figlio del Drago.

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Capitolo 3
*** La volontà del Dio Drago - Parte 1/2 ***


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I




Astyr protese la mano oltre il bordo della barca e la immerse nell’acqua gelida del mare. Quando la sollevò, osservò i rigagnoli che colavano lungo il braccio e precipitavano nel vuoto, ritornando all’oceano da cui provenivano. Il sole sorgeva di fronte ai suoi occhi, distaccandosi sempre più dalla linea blu scuro all’orizzonte.

«Guarda, Volfin» disse Astyr, posando la mano bagnata sulla spalla del figlio. «Il Dio Drago benedice il nostro viaggio.»

Volfin si voltò a guardare il padre. I suoi occhi azzurri brillarono di meraviglia.

«Come lo sai?»

Astyr sorrise. Indicò al bambino il disco solare, rosso come un tizzone ardente.

«L’occhio del Drago ci osserva. Si alzerà sempre di più, fino alla sommità del cielo, illuminando il giorno e rivelandoci i banchi di pesce sotto il pelo dell’acqua.»

Volfin si sporse oltre la fiancata della barca. Guardò la propria immagine riflessa sulla superficie increspata dal mare verdastro, cercando di individuare i primi pesci. Ma tutto ciò che vide furono due grandi occhi blu che lo osservavano, dapprima con espressione curiosa, poi sempre più perplessa.

«Io non vedo pesci, papà.»

Due occhi dello stesso colore blu gli sorrisero.

«È presto. L’occhio è aperto, ma la testa deve ancora sollevarsi.»

Astyr affondò un remo nell’acqua e cominciò a vogare, lasciandosi alle spalle una scia di spuma, mentre si avvicinavano all’orizzonte. Il cielo cominciava a tingersi di azzurro quando, in lontananza, intravidero la terra. Una sponda rocciosa, un ripido promontorio che fendeva la marea come una lama protesa contro di loro. In lontananza, nell’entroterra, si scorgeva una nube di fitto fumo nero salire verso il cielo. Un sinistro bagliore rosso scuro sembrava emanare da quel luogo. In un’insenatura in mezzo alle rocce, si scorgeva una spiaggia sabbiosa dove sarebbe stato facile approdare.

«È là che stiamo andando?»

«Non proprio» rispose Astyr. «Quella terra è sacra. Non possiamo sbarcare senza motivo. Ma nelle acque che la circondano vivono molti pesci.»

«Che terra è? Chi ci vive?» domandò con apprensione Volfin, che di colpo non sembrava più molto interessato alla pesca.

Astyr gli diede le spalle. Raccolse la rete poggiata nell’angolo di prua della barca, la districò e si alzò in piedi reggendola con entrambe le mani. Un’estremità era già legata alla piccola testa di drago scolpita a prua, quindi la scagliò più lontano che poté nelle fredde acque del mare, in quel momento accarezzate da una sottile brezza che pareva il respiro del vulcano.

«La chiamano Fauce. È un’isola deserta, quasi certamente. So che un tempo ci abitava qualcuno, ma credo che ormai sia morto.»

«Perché viveva laggiù tutto solo?»

«Fu una sua scelta. Voleva servire il Dio Drago. Ma è stato tanti anni fa.»

«Non aveva amici? Qualcuno che volesse servire il Dio Drago insieme a lui?»

«Sì, certo. Ci fu chi lo seguì. Ma presto rimase solo.»

«Gli altri non stavano bene sull’isola?»

Astyr osservava l’acqua nel punto in cui aveva lanciato la rete. La sua attenzione si concentrò per un attimo in quella direzione. Trascorsero alcuni istanti prima che rispondesse alla domanda del figlio.

«Volfin, è il Dio Drago a scegliere i suoi servitori. E chi viene scelto, non può condividere la sua fortuna con altre persone.»

«Perché?»

Astyr esitò. Sapeva di essersi inoltrato in un discorso difficile. Volfin aveva solo cinque anni, era ancora troppo presto per iniziarlo alla conoscenza dei riti del popolo di Yngrun. Per un bambino di quell’età non sarebbe stato facile capire, e Astyr temeva di turbarlo. La volontà del Dio Drago, spesso, faceva vacillare anche la fede dei valorosi. Ma doveva dare una risposta a suo figlio. Si soffermò a pensare per un minuto, alla ricerca delle parole più adatte.

«Yngrun è un grande dio, Volfin. Tuttavia, possiede molti difetti da uomo. Non è sempre un buon padre: ama solo alcuni dei suoi figli, mentre gli altri, quelli che non lo compiacciono, li scarta. Vidi gli uomini che si recarono alla Fauce, molti anni orsono, in cerca del suo favore. Io ero poco più grande di te adesso, ma ricordo bene quei guerrieri. Salparono verso l’isola sacra, vigorosi, forti, il fuoco della giovinezza che divampava nei loro occhi. Tornarono poco tempo dopo, invecchiati, gli sguardi spenti, la pelle martoriata dalle cicatrici e dal morso delle fiamme, e non ritrovarono mai più la loro forza. Morirono anzitempo, divorati da un male che nulla aveva a che fare con le loro ferite. Tornarono tutti, tranne uno.»

«Uno di loro era morto sull’isola?»

«No, Volfin» rispose Astyr. «Uno era stato scelto per rimanere, anche se non aveva superato la prova.»

«Ma se non superò la prova, perché lui poté rimanere e gli altri no?»

Astyr scrollò le spalle.

«Nessuno lo sa. Dopo qualche tempo, tutti smisero di chiederselo. La volontà del Dio Drago è difficile da interpretare.»

«E quale fu il premio per essere stato scelto?»

«Alcuni dicono la vita eterna. Altri la forza del fuoco. In realtà, nessuno lo sa. Quella persona non è più stata vista da anima viva. E anche se si fosse mostrata, nessuno ne avrebbe sopportato la vista.»

«Perché mai?»

Astyr cominciò a sentirsi a disagio. Era un discorso opprimente. Non avrebbe voluto proseguire, ma le parole gli uscirono di bocca prima che potesse frenarle.

«È il destino di coloro che sopravvivono alla fiamma del Dio Drago. Diventano i Non-Morti. La voce di Yngrun, i suoi servi. Gli artefici della sua volontà.»

Mille altre domande esplosero nella mente di Volfin, ma Astyr chiese silenzio. Cominciava la pesca, non era più tempo di domande.

La corda che teneva la rete legata alla barca si tese. Astyr vi poggiò la mano, per assicurarsi che non fosse troppo secca. Il sole era alto, l’aria diventò più calda, lo scafo di legno ondeggiava dolcemente sotto la spinta della marea. Volfin rimase in silenzio, rimuginando su ciò che aveva appena sentito. I suoi occhi erano fissi sulla costa della Fauce, il corpo proteso in avanti. Astyr per un folle istante si domandò se non avesse intenzione di gettarsi a nuoto per raggiungere la riva. La storia della prova l’aveva incuriosito, proprio come aveva incuriosito Astyr la prima volta che suo padre gliel’aveva narrata: ricordò che la notte stessa aveva sognato di partecipare alla prova, immaginando di passare indenne attraverso fiamme vorticose, per giungere al cospetto del Signore delle Creature. Volfin gli assomigliava molto, sia di aspetto che di spirito, ed era orgoglioso di questo.

 
***
 
A mezzogiorno, recuperarono la rete. La pesca era stata buona, una dozzina di pesci si dibattevano ancora tra le maglie della rete nel disperato tentativo di liberarsi. Alcuni guizzarono sul fondo della barca, ma il piccolo Volfin fu rapido a immobilizzarli. Astyr afferrò il remo e cambiò la rotta, vogando verso casa.

«Tu là ci sei mai stato, papà?»

«Io? No, non ci sono mai stato» rispose Astyr. «Sono felice di quello che ho. Non ho bisogno di chiedere nulla al Signore delle Creature. E spero che vada sempre così.»

Volfin, durante la navigazione, rimase per tutto il tempo concentrato sull’isola della Fauce, che diventava sempre più piccola man mano che si allontanavano. Astyr credette di vederlo fremere dall’eccitazione, a un certo punto.

«E tu cosa chiederesti, al Dio Drago?»

Volfin si voltò immediatamente, radioso in viso. Non aspettava altro che quella domanda.

«Vorrei vivere per sempre!» esclamò.

Astyr rimase interdetto. Non si aspettava una risposta del genere. Non sapeva come interpretare quelle parole.

«È una richiesta strana, Volfin. Perché mai lo vorresti?»

«Per stare sempre accanto a te e alla mamma!»

Un sorrise si dipinse sul volto austero di Astyr. Scrollò il capo, divertito.

 
***
 
Astyr fissò la costa. Il fumo nero si sollevava in spesse volute dal suolo, mentre in lontananza si poteva intravedere l’incendio che le generava. Sbarrò gli occhi, il cuore che gli batteva forte nel petto. Affondò il remo nell’acqua con tutto il vigore che aveva, sforzandosi di giungere alla riva il prima possibile. Non aveva armi a bordo, ma non importava. Per un istante dimenticò persino che non era solo, scordò che Volfin era alle sue spalle, che fissava sgomento la cupa nuvola nera sempre più alta nel cielo.

La risacca li sospinse sulla spiaggia, Astyr si precipitò a terra e sollevò di peso Volfin, reggendolo in braccio mentre correva a perdifiato verso l’entroterra. Una parte di lui lo avvertiva che non era saggio portare là suo figlio, ma l’angoscia mise a tacere la ragione. Doveva sapere. Perché ormai era chiaro che quelle fiamme divampavano nel suo villaggio.

Superò la collina che riparava la pianura dal vento del nord, oltre la quale si ergevano le capanne della sua gente. Le vide, finalmente. Molte andavano fuoco, c’erano uomini e donne che tentavano di spegnerle, mentre attorno a loro, nei cortili bagnati di sangue, giacevano abbandonati i corpi senza vita. Animali e persone, alcuni uccisi con armi da taglio, altri recanti segni di bruciature. Erano tutti morti. I sopravvissuti cercavano di salvare il poco che era rimasto.

Astyr gridò, sorreggendo il figlio, verso il villaggio.

 
***
 
Fehyri era tra i morti. Astyr la trovò dopo aver affidato Volfin al vecchio Gîrkal, che in quel momento aiutava chi era rimasto in vita. Separarsi da Volfin era l’ultima cosa che desiderava, ma non c’era scelta. Doveva trovare Fehyri, e una parte del suo cuore, quella che rifiutava di ascoltare, lo avvertiva di non portarlo con sé. Quella parte di sé aveva ragione, come Astyr constatò quando, dopo una penosa ricerca in mezzo ai ruderi e ai cadaveri sparsi per il villaggio, rinvenne il corpo di sua moglie, nudo e sfregiato da una lama. Immerso nella pesante coltre di fumo, Astyr respirò a pieni polmoni. Lasciò che la cenere gli penetrasse in bocca, bruciandogli la gola e la lingua, sperando che il dolore lo distraesse da ciò che vedeva. Ma nessun dolore fisico poteva cancellare una simile visione.

 
***
 
«Razziatori. Sono arrivati molto prima del previsto.»

«Quanti erano?» domandò Astyr.

Gîrkal rimase per un attimo a fissare le braci ardenti nel falò. La notte era tiepida, l’unico rumore nei dintorni era quello della risacca.

«Più del solito. Almeno cinquanta. Anche preparati, non so se saremmo riusciti a respingerli.»

Astyr non smetteva di contorcersi le mani. Nei suoi occhi brillava una luce febbrile, resa ancora più sinistra dai bagliori riflessi delle fiamme.

«Non ti devi torturare, Astyr. Non avresti potuto fare nulla.»

«È questo pensiero che non mi dà pace: se anche ci fossi stato, non sarei riuscito a salvare mia moglie. Non posso accettarlo.»

«Non devi vederla così. Andando a pesca, hai salvato tuo figlio.»

«La mia famiglia è spezzata, Gîrkal. La mia e quella di molti altri. E cosa accadrà quando i razziatori torneranno di nuovo? Dovremmo aspettare di perdere anche chi ci è rimasto?»

«No. È ora di preparare le navi.»

Astyr fissò lo sguardo sul vecchio. Un impeto di rabbia pervase i suoi lineamenti, ma Gîrkal non si scompose. Astyr sapeva bene cosa stava per proporre l’anziano del villaggio, era un argomento che avevano affrontato più volte, ma non avevano mai trovato un punto su cui accordarsi. Difficile pensare che l’avrebbero raggiunto quella notte.

«E perché mai dovremmo preparare le navi?» disse Astyr, con accento provocatorio.

«Lo sai perché. Non possiamo più restare qui. Sono anni che te lo ripeto.»

«E sono anni che ti do la stessa risposta. Questa terra è nostra. Non siamo noi a dovercene andare.»

Gîrkal sospirò. La sua fronte si aggrottò, e di colpo dimostrò molti più anni di quanti ne avesse in realtà.

«Astyr, ero convinto che questa tragedia ti avesse finalmente aperto gli occhi. Vuoi che tua moglie sia morta invano? Desideri lo stesso destino per Volfin? Non possiamo più restare qui.»

«Mia moglie è stata violentata e massacrata a colpi d’ascia!» esplose Astyr, la gola secca e gli occhi gonfi di lacrime. «Mi stai chiedendo di scappare, come un ratto nella merda, lasciando impunite quelle bestie? Vuoi che abbandoniamo tutto quello che hanno costruito i nostri padri, e i padri dei nostri padri prima ancora?»

Gîrkal lo fissò tristemente.

«Ormai, tutto quello che i nostri padri hanno costruito, o abbiano mai avuto intenzione di costruire, è già in cenere. Vuoi diventare cenere anche tu, Astyr?»

«Io voglio essere libero. Libertà significa non dover fuggire.»

«Le belle frasi non ricostruiscono villaggi e non riportano in vita il bestiame. Vorresti rimanere? Molto bene. Rimaniamo. Aspettiamo la prossima orda. Magari questa volta ne verranno cento. O di più. Sacrifichiamo pure le nostre vite in modo che la tua sete di vendetta possa dissetarsi alla fonte della stupidità.»

Alle dure parole di Gîrkal, Astyr si alzò di scatto e si allontanò. Si diresse verso il mare, mentre gli stivali affondavano nella sabbia viscida. Non degnò di uno sguardo il vecchio compagno, né tantomeno di una risposta.

 
***
 
“Maledetto vigliacco d’un vecchio” non faceva che pensare Astyr, in preda alla collera. “Non parlerebbe così, se a essere stuprata e macellata fosse stata sua moglie.”

Ma Gîrkal aveva ragione. La consapevolezza di ciò acuiva la sua furia, al punto che Astyr aveva dovuto allontanarsi, temendo di non riuscire a dominarla. Avrebbero dovuto andarsene. Prima di quel giorno, persino lui aveva considerato l’idea. Aveva avuto in mente di parlarne al vecchio pescatore, prima o poi. Dopo anni di ripensamenti, si era infine deciso ad accettare il suo consiglio. Ed ecco che giungeva quella disgrazia a colpirlo. Se prima la fuga era un’idea sensata, adesso si era trasformata in una prospettiva ripugnante. La vergogna l’avrebbe perseguitato fino all’ultimo dei suoi giorni. Come avrebbe potuto guardare Volfin negli occhi, sapendo che l’assassino di sua madre vagava da qualche parte libero e impunito? Come avrebbe potuto guardarsi riflesso in una pozza d’acqua, senza che il ricordo del corpo mutilato di Fehyri lo perseguitasse?

D’altra parte, come era possibile restare? Volfin era in pericolo. Una seconda incursione avrebbe potuto portargli via anche suo figlio, e Astyr non poteva accettarlo. Poi, le scorte di cibo erano distrutte o depredate, gli animali morti, le case bruciate. La volontà di ricostruire vacillava di fronte alla prospettiva di una seconda distruzione.

Tormentato dai dubbi, Astyr si sedette sul litorale bagnato, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, il volto fisso sul mare color notte, a osservare i bagliori lunari riflessi sull’acqua increspata dalle onde. Rimase lì fino all’alba, quasi senza muoversi, la mente che iniziava a ottenebrarsi di pensieri sinistri.

 
***
 
«Ti voglio chiedere perdono, Astyr.»

Gli occhi di Astyr erano gonfi per la stanchezza, ma la mente era ancora lucida. Riconobbe subito la voce di Gîrkal, che l’aveva raggiunto zoppicando sul far del giorno.

«Ti ho parlato in maniera troppo dura. Non meritavi un simile trattamento, dopo quello che è successo.»

«È tutto dimenticato, vecchio amico. Non sei stato tu a provocarmi tanta pena» rispose Astyr, la voce arrochita dalla sete. «Ma se senti il bisogno di farti perdonare, ho una richiesta da farti.»

«Parlami, dunque.»

Astyr si alzò in piedi. Scrutò negli occhi Gîrkal, preparandosi a osservare le sue reazioni. Voleva capire se gli avrebbe detto la verità. Non dubitava della lealtà del vecchio, ma esistevano ricordi che potevano generare menzogne.

«Che cosa rammenti della Fauce?»

La reazione di Gîrkal non fu quella prevista da Astyr. Si era aspettato un fremito d’inquietudine, l’impossibilità di mantenere il contatto visivo, una frase balbettata. Niente di tutto questo. Gîrkal rimase impassibile. Gli occhi erano tristi, ma sereni. La piega della sua bocca era inclinata verso il basso, dipingendo un’espressione rassegnata.

«Astyr, sapevo che me l’avresti chiesto. Sono venuto anche per dirti questo: non pensarci nemmeno. Per quanto grande sia la disgrazia, questa non è la soluzione.»

«Ti prego, rispondi alla mia domanda.»

«È in nome della nostra antica amicizia che parlo. Ti dirò tutto, perché confido nella tua ragione. Inoltre, sento di avere un debito con te.»

«Quale debito?»

Gîrkal sospirò, e i suoi occhi si abbassarono. «Io sono vecchio e inutile, ma avrei potuto dare un senso a questi ultimi giorni della mia vita, se mi fossi immolato per salvare tua moglie. Ma non sono riuscito a fare neanche questo.»

Astyr non disse nulla. Lasciò che il vecchio si tormentasse ancora per qualche istante con quel pensiero, così che si mostrasse più incline a rispondere alle sue domande.

«Parla, adesso.»

«Eri poco più di un bambino quando io e altri nove del popolo del Drago partimmo per l’isola sacra. Ricordo perfettamente il tuo sguardo di allora, mentre mi fissavi partire. Uno sguardo che non è cambiato molto, con il passare del tempo» disse Gîrkal, abbozzando un sorriso. «Quando raggiungemmo quelle sponde, tirammo in secca le barche e avanzammo nel cuore dell’isola, fino ai fiumi di fuoco congelato, oltrepassando i crepacci roventi e arrampicandoci fino al cuore fiammeggiante delle Fauci.

«Il primo a gettarsi nel lago incandescente fui io. Il dolore che provai quel giorno torna ogni notte a tormentarmi negli incubi. Tentai con tutto me stesso di varcare le fiamme, ma guadagnai solo un’agonia impossibile da descrivere a parole. Dovetti rinunciare. Era chiaro che il Dio Drago non mi avrebbe permesso di giungere al suo cospetto.»

«Mi rendo conto solo ora di non avertelo mai domandato, Gîrkal» lo interruppe Astyr. «Che cosa avresti chiesto al Signore delle Creature?»

«È passato così tanto tempo che credo di averlo dimenticato» rispose Gîrkal, rabbuiandosi. «Di sicuro, qualcosa riguardante la forza o il generare una stirpe duratura. Eravamo semplici guerrieri, Astyr. Non c’era molto altro da desiderare. Ma quel giorno non fui l’unico a venire rifiutato. Anche gli altri che erano con me subirono lo stesso martirio, senza ricavarne nulla. O almeno così parve.»

Gîrkal si soffermò a guardare il mare, lasciando che il silenzio riempisse quella breve pausa.

«Trascorsero dieci giorni. Ci fu chi tentò ancora di oltrepassare il lago di fuoco, sopportando ferite atroci, nonostante quelle dei giorni precedenti non fossero ancora guarite. Fu tutto inutile. Le fiamme non si dischiusero. Il Dio Drago ci rifiutava.

«Sconfitti, provati duramente nel corpo, abbandonammo la montagna. Le nostre condizioni non erano affatto buone, la discesa fu molto più ardua della salita. Eravamo in prossimità delle barche, quando Igridyne si rifiutò di proseguire.»

«Igridyne? È un nome di donna.»

«Era l’unica donna della nostra spedizione. L’unica a cui il Dio Drago concesse udienza, quel giorno.»

«Che intendi dire? Nemmeno lei riuscì a varcare le fiamme.»

Astyr si accorse di fremere d’impazienza. Il racconto aveva catturato la sua attenzione, facendogli quasi dimenticare l’affanno del giorno precedente.

«Igridyne era diversa da tutti noi. Non era un guerriero, il suo corpo era esile, aveva le forme di una fanciulla appena sbocciata. Noi tutti, io compreso, eravamo attratti da lei, ma non la sfiorammo con un dito. Non è concesso toccare una donna, durante il pellegrinaggio alle Fauci. Ma ci avvicinammo a lei in altri modi, o tentammo, tempestandola di domande. Chi era? Perché aveva scelto di intraprendere un viaggio simile, per di più senza la protezione di un familiare o di un amico? Dov’era la sua famiglia? A parte il nome, tuttavia, non riuscimmo a cavarle molto altro. Eravamo preoccupati per lei, Astyr, davvero. La scalata fino al lago di fuoco è pericolosa, si snoda attraverso i rigagnoli di lava che trasudano dalla roccia, sotto il costante pericolo di un’esplosione sotterranea. L’aria che circonda il tempio è impregnata di cenere e zolfo, il calore è insopportabile, e questo è nulla in confronto a ciò che viene dopo! Per Igridyne non fu facile, ma ce la fece. Raggiunse il lago, patì le nostre stesse sofferenze e tornò con noi alla spiaggia. E fu lì che Yngrun la scelse. Rimase immobile di fronte a noi, eretta, gli occhi sbarrati, nera per la fuliggine, le labbra tremanti, i vestiti ridotti a brandelli. La sua pelle, liscia e desiderabile fino a tre giorni prima, era ricoperta da ustioni inguardabili, eppure non era questo a turbarci: erano i suoi occhi. Il suo sguardo era rivolto a noi, ma non era noi che guardava. Vedeva qualcosa, che si trovava al di là delle nostre membra lacere, al di là del mare, al di là di questo mondo. Vedeva lui, il Dio. La stava chiamando, e lei non esitò a rispondere. Non ci fece alcun cenno di saluto, né ci spiegò nulla. Tornò indietro, sui passi che aveva appena percorso, verso l’inferno di fuoco. Io volevo trattenerla, ma non potevo farcela: avevo a stento le forze per restare in piedi. I miei compagni, poi, erano decisi a conservare le ultime energie per tornare a casa. Volevano dimenticarsi dell’isola al più presto, e anche di Igridyne. Quando siamo salpati, per tutto il tempo ho guardato verso la riva, cercandola con lo sguardo, pregando perché la follia che si era impadronita di lei si dissipasse, ritornasse alla spiaggia, supplicandoci di tornare. Se l’avesse fatto, mi sarei buttato in acqua per raggiungerla. Ma non andò così. Non la vidi più, e per tutti questi anni ho cercato di dimenticarla.»

Astyr non disse nulla. Quando il silenzio cominciò a protrarsi per troppo tempo, e fu chiaro che Gîrkal non aveva altro da aggiungere, riprese la parola.

«Che cosa vuoi dirmi, con questa storia?»

Gîrkal lo guardò. I suoi occhi grigi, di solito così freddi, tradivano una grande emozione. C’era malinconia, un dolore che era affiorato in superficie dopo anni di sepoltura nelle profondità della sua anima.

«Igridyne è un Non-Morto. È stata scelta. Io credo che sia ancora là. Non so perché lei sia rimasta e noi no. Quello che so è che il Dio Drago la voleva, e la sua volontà ha sempre un fine. Questo fine, però, non si cura del destino di chi viene scelto per eseguirlo.

«Se andrai alle Fauci, Astyr, non tornerà l’uomo che è qui dinanzi a me. Chi torna da quell’isola non è mai la stessa persona che vi è approdata. E chi vi rimane, è nelle mani del Dio Drago. Non so quale delle due cose mi atterrisca di più.»
 



NOTE AUTORE
Ciao a tutti, o voi che siete giunti indenni fino alla fine di questa lunga prima parte. Innanzitutto, grazie per esser arrivati fin qui. Spero di avervi incuriosito e mi auguro che la seconda parte sia all'altezza delle vostre aspettative. Se vi siete divertiti, annoiati, se siete perplessi o avete un commento da fare, beh, non esitate a scrivermi! Ogni recensione, anche negativa, è assolutamente ben accetta. Fatevi sentire ;)

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Capitolo 4
*** La volontà del Dio Drago - Parte 2/2 ***


Astyr osservò Volfin seduto di spalle sul bordo dell’abbeveratoio. La schiena curva, il capo chino, i capelli sciolti che ricadevano sulla nuca. Per qualche oscuro motivo, quella vista gli impedì di procedere oltre. Si sentì la testa completamente vuota. Gli parve di non avere nulla di significativo da dire a suo figlio prima di congedarsi. Aveva preso la sua decisione, niente l’avrebbe fatto vacillare. Fece appello al proprio coraggio e costrinse i piedi a staccarsi da terra.

«Volfin, figliolo...»

«Perché vai via?»

La voce di Volfin non era incrinata dal pianto, o scossa dai singhiozzi. Al contrario, era ferma e glaciale, impregnata di tutta la rabbia che poteva contenere il cuore di un bambino di otto anni. Astyr sentì un pesante fardello gravargli sul petto. La mano destra cominciò a tremare, senza spiegazione. Lentamente, si avvicinò al bambino e gli si sedette accanto.

«Devo farlo.»

«Ma perché?»

«Perché amavo la mamma, e non posso perdonare chi le ha fatto del male.»

«La mamma non avrebbe voluto che mi lasciassi solo. Portami con te!»

Astyr sentiva la propria voce impastata, articolare le parole diventò difficile.

«Non posso, Volfin. Non posso e basta.»

Il labbro inferiore di Volfin cominciò a tremolare, ma i suoi occhi rimasero asciutti. Il piccolo si sforzava con tutto se stesso di non cedere, di non piangere.

«Prima la mamma, e adesso anche tu. Io che cosa faccio?»

«Tornerò presto, Volfin. Non ti abbandonerò mai.»

Ma Volfin si era già alzato, allontanandosi con passo rabbioso. Astyr rimase seduto, voltandosi a guardarlo. Voleva alzarsi e corrergli dietro, abbracciarlo e dirgli che non sarebbe partito, che sarebbero saliti insieme su quelle maledette navi e avrebbero cercato una nuova casa. Immaginò Volfin sciogliersi in lacrime contro la sua spalla, felice che il padre rimanesse con lui e lo consolasse della perdita della madre. Ma Volfin continuò ad allontanarsi, e lui continuò a rimanere seduto, in silenzio, senza fare nulla.

Rimase in quella posizione a lungo, circondato da rovine incenerite e dal tanfo di bruciato ancora presente, in quel luogo che fino a pochi giorni prima era la sua casa.

 
***
 
Astyr aveva sperato di trascorrere le ultime ore prima della partenza in compagnia di suo figlio, ma Volfin era fuggito nei dintorni del villaggio, una terra piena di boschi e anfratti, che il bambino conosceva molto bene. Non sarebbe mai riuscito a trovarlo prima dell’alba.

«Ritornerà, Astyr. Non è di lui che mi preoccupo» aveva detto Gîrkal, appoggiandosi al bastone. Astyr era di fronte a lui sulla battigia, in procinto di salpare sulla barca da pesca.

«Sono stato io a fabbricarti questo guscio di noce, vent’anni fa» mormorò il vecchio, accarezzando con la mano ustionata la superficie di legno liscia e sbiadita. «Se avessi saputo dove l’avresti condotta, l’avrei fatta a pezzi seduta stante.»

«Ma ora è troppo tardi» rispose Astyr, con un sorriso mesto sulle labbra.

«Ma ora è troppo tardi» confermò Gîrkal, scuotendo la testa. «Vecchio amico, presta fede a quello che ti dico. Il Dio Drago non consegue i nostri fini, ma i propri. Se mai ti concederà qualcosa – e prego perché non lo faccia –, il suo favore avrà un prezzo, un prezzo enorme.»

«Lo so bene. Gli darò quello che vorrà.»

«È questo che mi preoccupa, Astyr. So che lo farai.»

 
***
 
Le acque erano placide, il viaggio di Astyr procedette senza intoppi. Era come se il Dio Drago volesse facilitargli il percorso fino alla propria dimora. Astyr non sapeva se interpretare ciò come un segnale del favore del dio o come qualcosa di più sinistro.

Sbarcò la sera stessa, tirò in secca la barca e si guardò intorno. L’oscurità avvolgeva buona parte dell’isola, ma fulgidi bagliori rossastri divampavano sui fianchi della montagna, ruscelli infuocati che scorrevano con una sinuosa immobilità. Aguzzando le orecchie, Astyr percepì il tetro gorgoglio della lava che scivolava verso i crateri dell’entroterra. Sarebbe stato saggio attendere la luce del giorno, per cercare la strada attraverso i ripidi sentieri che conducevano alla valle di fuoco. Ma Astyr non poteva più attendere.

La terra era calda sotto i suoi piedi. La scarna vegetazione presto lasciò il posto a un selciato duro e brullo, inframmezzato da alberi spogli e montagnole di sabbia fumante. Man mano che si addentrava nel cuore dell’isola, Astyr percepì un netto cambiamento nell’aria che respirava. L’aroma salmastro della sponda era stato sostituito da una coltre di nebbia fuligginosa, permeata da un forte odore di zolfo. Astyr fu costretto a coprirsi la bocca e le narici con un lembo del proprio vestito, mentre gli occhi cominciavano a lacrimare. Continuò ad avanzare per tutta la notte, seguendo le rive fiammeggianti dei fiumi di lava.

La mattina dopo, raggiunse il tempio. Non era una costruzione eretta dall’uomo, ma era impossibile non notare la sua diversità rispetto al resto del paesaggio. Due alberi giganteschi stagliati contro il cielo, ritti nonostante fossero morti, costeggiavano l’ingresso a un avallamento che sprofondava nel terreno. Sul fondo della conca, un lago di lava rossa come sangue, dove non si immetteva alcuno dei rivoli di fuoco provenienti dal vulcano.

L’Occhio di Yngrun.

Come ogni uomo del popolo del drago, Astyr ne conosceva l’esistenza, anche se non avrebbe mai pensato di trovarsi un giorno al suo cospetto. Ancora indeciso se avvicinarsi, i suoi piedi si immobilizzarono quando vide una sagoma muoversi nel fondo della conca, lungo il bordo frastagliato che costeggiava l’Occhio. Una figura nera e ricurva, avvolta nell’ombra, si muoveva cautamente, come un animale sorpreso in trappola nella propria tana.

«Chi è là?» domandò Astyr, con una nota di nervosismo nella voce.

La creatura non rispose. Lentamente, scivolò fuori dalle ombre e il suo aspetto fu delineato dal bagliore rossastro del fuoco liquido. Astyr comprese che doveva trattarsi di un uomo, ricoperto di stracci neri e ridotti a brandelli. Una cappa dai bordi sfrangiati gli celava il volto, il resto del corpo era molto magro e annerito da strati di cenere. Astyr ebbe la sinistra impressione di uno scheletro dalle cui ossa penzolavano i residui carbonizzati della propria carne.

La creatura gli si avvicinò furtiva, strisciando come un verme. Astyr indietreggiò di qualche passo. Sebbene gli ispirasse perlopiù repulsione, un moto di pietà si fece largo nel suo cuore. Era un essere debole, provato dagli stenti e senza dubbio legato in qualche oscura maniera al Dio Drago.

Di colpo, una rivelazione si fece strada nella sua mente.

«Tu sei Igridyne.»

La creatura sollevò lo sguardo. Nel viso oscuro celato dalla cappa, Astyr scorse due occhi vacui, grigi come perle. Nessuna voce gli rispose.

«Capisci quello che dico?»

Dalla cappa non giunse alcun suono. Igridyne tuttavia rimase immobile, rinunciando ad avvicinarsi oltre. Il suo sguardo cieco rimase fisso su Astyr, mentre il resto del suo corpo indebolito rimaneva paralizzato.

Che cosa sei venuto a richiedere?

Un brivido scorse lungo la schiena di Astyr. Quelle parole non erano state prodotte da una bocca, ma le aveva sentite echeggiare nella propria mente. Era una voce che non apparteneva né a una donna né a un uomo, sembrava che qualcuno gli stesse parlando da molto lontano, attraverso una folata di vento gelido. Ricordava la voce di un essere umano, eppure ne differiva sotto ogni aspetto. Astyr non sapeva descriverla, poiché non aveva mai udito niente del genere. Esitò a lungo prima di parlare a sua volta.

«Desidero trovare l’uomo che ha ucciso mia moglie e distrutto il mio villaggio» disse, inginocchiandosi.

Cosa offri, Astyr di Drokval?

«Qualunque cosa desideri da me è tua.»

Igridyne ruppe la propria immobilità. Si sollevò in piedi, rimanendo inclinata da un lato, come se la schiena fosse spezzata in più punti.

Ti ho aspettato a lungo. Entra.

Astyr non ebbe bisogno di domandare a cosa si riferisse. Si spogliò e avanzò fino al bordo dell’Occhio. Il calore era insopportabile.

«È il mio sangue che è richiesto? Se è così, lo accetto. Ma in seguito sarò in grado di fare ciò che devo?»

Igridyne rimase immobile e silenziosa. Astyr pregò per una risposta, un cenno, qualunque cosa che potesse placare i suoi timori. Ma dalla vecchia ricevette solo un cupo mutismo. Non si sarebbe mossa e non avrebbe proferito parola, prima dell’offerta. Astyr esalò tutta l’aria che aveva nei polmoni e si gettò nel lago.

Sarai in grado di fare ciò che io mi aspetto che tu faccia.

 
***
 
Volfin sollevò la mano sopra gli occhi, riparandoli dalla luce abbagliante di mezzogiorno. Il mare era terso e rifletteva bagliori argentei, producendo una morbida sinfonia di scrosci e risacche sulla spiaggia. Nessuna barca all’orizzonte, nemmeno quel giorno.

Ormai venti giorni separavano Volfin dall’ultimo ricordo del padre. Poche ore dopo la sua partenza, una fitta di dolore aveva cominciato a gravare nel suo petto. Astyr era tutto ciò che gli rimaneva, e una cieca rabbia gli aveva impedito di fare ciò che veramente avrebbe voluto: abbracciarlo ancora una volta, baciarlo, supplicarlo di non partire. Ma non lo aveva fatto, se n’era andato senza voltarsi. E così Astyr.

Sarebbe tornato presto? La mancanza si faceva sempre più insopportabile. Il vecchio Gîrkal tentava di tenerlo impegnato in ogni modo, ma il pensiero del piccolo ritornava sempre al genitore, disperso chissà dove in mezzo all’oceano. Forse, già sul fondo del mare, assieme ai relitti di centinaia di altri uomini. Volfin scrollava la testa ogni volta, nel furioso tentativo di liberarsi di quell’immagine così opprimente.

«Tuo padre tornerà presto» gli ripeteva ogni volta Gîrkal, ma ormai Volfin aveva imparato a decifrare il tono nascosto nella sua voce. Una triste rassegnazione covava dietro le parole del vecchio pescatore sfigurato.

Volfin si incamminò verso il villaggio. Molte capanne erano state ricostruite, ma i ruderi di quelle vecchie adombravano ancora il paesaggio, ricordando a tutti una ferita ancora aperta, rinnovando una paura mai sopita. Avanzando lungo i sentieri anneriti in mezzo alle case, Volfin si imbatté in un gruppetto di uomini che discutevano in toni concitati. In mezzo a loro c’era Gîrkal, che sembrava l’unico a non partecipare alla conversazione. Le voci erano così alte che Volfin non ebbe bisogno di avvicinarsi oltre per ascoltare i loro discorsi.

«Le isole a est sono in fiamme, le ho viste!»

«Non ci sono villaggi, laggiù.»

«Non è quello che ho sentito. C’è chi dice che sia proprio lì il rifugio dei razziatori!»

«E quindi? Vorresti dire che adesso i razziatori bruciano le loro stesse basi?»

«Assurdo» si intromise una voce.

«Impossibile» fece coro un’altra.

«Voglio dire» riprese parola l’uomo dal tono più euforico, che era appena stato interrotto «quelle isole appartengono ai razziatori, no? Per arrivarci, bisogna costeggiare Drokval, giusto? Sì, perché oltre le isole a est non c’è terra per migliaia di leghe! Quindi, chiunque abbia messo a ferro e fuoco le basi dei razziatori dev’essere passato davanti alla nostra isola senza sbarcare, altrimenti ci saremmo accorti dell’intruso. Questo che cosa vi dice?»

«Che quel qualcuno è cieco?»

Brevi risate proruppero dagli ascoltatori, eccetto che da Gîrkal e dall’uomo che era stato interrotto per la seconda volta, che finalmente Volfin riconobbe come un tale chiamato Beru.

«Vuol dire che qualcuno ha attaccato i razziatori e lasciato in pace noi!»

«Chi ti dice che i razziatori siano stati attaccati? Magari è stato solo un incendio...»

«Certo!» esclamò Beru, sarcastico. «Un incendio naturale su isole dove non ci sono foreste, propagato attraverso l’acqua da un’isola all’altra, dopo tre giorni di pioggia ininterrotta. Sul serio, Jorik, se fossi un po’ più acuto riusciresti a trovarti il buco del culo senza aspettare di dover cacare.»

Jorik non prese bene il commento di Beru, e quella che fino a un attimo prima era una conversazione animata degenerò in una rissa. Quando il primo pugno di Jorik si infranse contro il mento di Beru, Gîrkal si era già allontanato. Un’espressione dubbiosa aleggiava sul suo viso. Gli occhi erano rivolti verso terra, la fronte aggrottata, tormentata da chissà quali pensieri. Volfin gli si avvicinò, desideroso di sentire la sua opinione.

 
***
 
La dimora di Gîrkal era un luogo accogliente, benché spoglio di qualsiasi comodità. All’interno della piccola capanna trovavano posto solo un pagliericcio, un rudimentale tavolo di legno e una mensola sulla quale erano stipati tutti gli averi del vecchio pescatore. Le riserve di cibo erano seppellite nel rifugio scavato al di sotto del pavimento, una pietra piatta dove accendere il fuoco e cucinare era disposta all’esterno, a una decina di passi di distanza.

«Che cosa voleva dire Beru?»

Volfin fremeva d’impazienza. Aveva già intuito quello che potevano significare le parole che aveva udito, ma preferiva che fosse Gîrkal a fornire un’interpretazione. Il piccolo rispettava l’anziano amico di suo padre, anche se sapeva molto poco di lui.

«Difficile dirlo» disse Gîrkal, cedendo ad Volfin il proprio posto sul pagliericcio, mentre lui si accomodava sul nudo pavimento. «Forse nulla... forse tutto.»

«Spiegati. Per favore.»

«Sono dell’idea che Beru ha espresso, pur nella sua rozza maniera, in modo chiaro: dubito anch’io che l’incendio che i pescatori hanno visto a est sia dovuto a una causa naturale. Ma non saprei dirti di più.»

«Menti, Gîrkal. Non sei bravo a dire bugie.»

«Deve essere vero, visto che non riesco a mentire a un bambino» disse Gîrkal, mentre un sorriso amaro si delineava sotto i folti baffi grigi. «Vuoi sapere se credo che tuo padre sia coinvolto in questo strano episodio? Ebbene sì, lo temo.»

«Ma questo vuol dire che papà è vicino! Sta tornando a casa!»

Gîrkal non ribatté. Il sorriso era di nuovo scomparso dalle sue labbra. Un’espressione angosciata si dipinse sulla sua faccia, rendendo evidente il suo sconforto. Nonostante la tenera età, un simile cambiamento non sfuggì ad Volfin, che ne avvertì la gravità.

«Perché sei preoccupato, Gîkki? Non vuoi che mio padre torni a casa?»

«Lo vorrei eccome, se significasse incontrare lo stesso uomo che era partito» sospirò il vecchio. «Ma tuo padre ha scelto un cammino senza ritorno. Giovane Volfin, io vorrei davvero risparmiarti i giorni che verranno, se fosse in mio potere. Ma devi essere preparato, per questo ti racconterò quello che so.

«Astyr è andato incontro al Dio Drago, si è immerso nel suo fuoco per riceverne la benedizione, un dono che ai più viene rifiutato. Lo so perché anche io, spinto dall’ardore della mia gioventù, cercai quel potere. Osserva ciò che ritornò da quell’isola.»

Volfin conosceva da sempre il vecchio Gîrkal, ma prima di quel momento si rese conto di non averlo mai guardato davvero a fondo. Per lui Gîkki era una figura esistente da sempre, qualcosa di cui non si poteva fare a meno, impossibile a immaginare in maniera diversa. Vederlo sotto una luce diversa era uno strano esercizio, era come immaginare l’aspetto della pianura che aveva preceduto l’ascesa delle montagne verso il cielo. Per la prima volta, Volfin si rese conto che Gîrkal un tempo doveva essere stato un uomo come suo padre, vigoroso, forte e agile. Qualcosa che non aveva nulla a che fare con il gracile vecchietto deforme che gli stava seduto di fronte sul pavimento di paglia, dalle pelle bruciata, le dita delle mani scomparse e gli occhi profondamente incavati nelle orbite. D’un tratto, Volfin ebbe paura per suo padre.

«Il mio corpo è stato distrutto, ma fui fortunato. Mi rimase la vita. Una vita mia» sottolineò Gîrkal. «A una donna che viaggiava con me non fu concessa una simile grazia. Sopravvisse al contatto del fuoco, a differenza di molti altri, e fu scelta. Di lei, su questa terra, rimase solo il corpo a testimoniarne l’esistenza. La volontà che lo guidava, i desideri che lo muovevano, non le appartenevano più.»

«Io non capisco.»

«Dalle Fauci gli uomini non tornano vivi. Non davvero. Spero che non sia successo a tuo padre.»

«Ti riferisci ai Non-Morti? Mio padre ha detto qualcosa su di loro.»

Gîrkal fissò il bambino con uno sguardo ormai vitreo.

«Se tuo padre è diventato uno dei Non-Morti del Dio Drago, non voglio vivere tanto a lungo da rivederlo.»

«Mi fai paura.»

«Io ho avuto paura ogni giorno della mia vita, da quando ho lasciato quell’isola.»

 
***
 
Quando il suono della campana echeggiò nell’aria, Volfin comprese immediatamente cosa significava. Navi all’orizzonte. Il terrore si diffuse nel villaggio a macchia d’olio, uomini e donne correvano a raccogliere le poche armi rimaste dopo l’ultimo assalto dei razziatori. Volfin udì bambini piangere, vide il panico negli occhi degli adulti. In mezzo alla confusione crescente, solo un vecchio rimase fermo e composto, come se le vicende del mondo ormai non fossero più cose che lo riguardassero. Gîrkal scrutava gli uomini affannarsi per approntare una difesa, gli occhi stanchi, lo sguardo perso nel vuoto.

«Moriremo, Gîkki?»

Le parole di Volfin lo ridestarono dal torpore.

«Forse. Ma non sarebbe la cosa peggiore.»

«E cosa c’è peggio della morte?»

«Non lo so. Ma sento che qualcosa c’è.»

Il sole volgeva all’imbrunire quando le navi toccarono la terra di Drokval. Per tutto il giorno gli abitanti avevano fissato quelle imbarcazioni avvicinarsi alla riva, ondeggiando sulla cresta limpida dell’acqua, indecifrabili nei loro contorni neri e frastagliati. Le vele erano nere, ma non si trattava di una tintura, come avevano creduto da lontano: si trattava di macchie di cenere, e alcune non erano nemmeno nere. C’erano chiazze di un colore rosso scuro, una sfumatura sporca che ricordava sangue incrostato. I razziatori remavano senza sosta, spingendo in avanti le navi come se i tentacoli di Hyddraval li inseguissero per affondarli.

«Non è trascorsa nemmeno una luna!» gridarono delle voci. «Perché tornano? Si sono già presi tutto! Cos’altro sperano di trovare?»

Ma quelle domande non avevano importanza. Il nemico si avvicinava e non potevano respingerlo. Aste e coltelli non potevano nulla contro le corazze di cuoio e le asce dei razziatori. Raggruppati al confine della spiaggia, il villaggio osservò gli uomini che mettevano piede sulla costa.

Non erano i razziatori ai cui assalti erano abituati. O meglio erano loro, ma mai visti prima sotto un simile aspetto. Non c’erano corazze o elmi a proteggere i loro corpi, non portavano spade né asce. Molti di loro erano nudi, altri indossavano una semplice tunica ridotta a brandelli. Tutti erano ricoperti di fuliggine, gli occhi due cavità bianche in mezzo a volti distrutti dalle fiamme, alcuni privi di mani, braccia o gambe. Non parlavano, non emettevano versi. Barcollarono sulla spiaggia, stremati dalla fatica del viaggio, ma nessuno di loro crollò a terra, benché fosse chiaro che non desiderassero altro.

«Chi sono?» sussurrò Volfin, osservando impaurito le sagome di quegli uomini macilenti.

Gîrkal non rispose. Il suo sguardo spaziava da uno all’altro di loro, come alla ricerca di un volto conosciuto.

I razziatori, o quello che di loro era rimasto, rimanevano sulla spiaggia, sorvegliati a debita distanza dagli abitanti di Drokval. Erano in piedi, curvi come a sostenere un fardello, gli occhi fissi sui piedi, tremanti. Erano rivolti verso una nave ancora in acqua, che si avvicinava rapidamente. L’imbarcazione non era diversa dalla decine di altre che l’avevano preceduta, eppure i razziatori la attendevano come se portasse un carico preziosissimo. Lo scafo urtò contro il fondale, a un gruppetto di derelitti a terra vennero lanciate le cime affinché tirassero in secca il resto della barca. Quando questa fu assicurata sulla spiaggia, altri uomini sbarcarono, in condizioni del tutto identiche a quelle dei compagni prima di loro.

Poi sbarcò qualcun altro, e sia Volfin che Gîrkal compresero di chi si trattasse.

Il volto e il corpo erano nascosti, ma l’uomo che era approdato a Drokval con un seguito di razziatori non poteva essere altri che Astyr. Indossava una maschera di cuoi priva di qualsiasi carattere distintivo, salvo due fori per gli occhi, oltre i quali non si scorgeva nulla. Un mantello e un cappuccio di stoffa bagnati era tutto ciò che lo ricopriva, celando ogni parte di lui. Volfin, nel vederlo, fu scosso da una strana sensazione. Aveva percepito immediatamente chi si nascondeva dietro quella maschera inquietante, ma ciò non bastava a cancellare il senso di paura che suo padre ora gli incuteva. Era lui, eppure al tempo stesso era qualcuno di totalmente estraneo.

«Papà...»

Astyr si rispose. Si avvicinava con passo sicuro, ma lento, come se con ogni movimento dovesse spostare un oggetto particolarmente pesante.

D’un tratto, furono circondati da grida. Volfin e Gîrkal si guardarono intorno. La gente del villaggio era impazzita, colse lo sguardo di orrore sui volti delle persone, udì le loro parole sconnesse. Astyr cercò intorno la ragione di quel comportamento, ma vide solo suo padre, gli uomini che lo avevano seguito e nient’altro. Non c’era niente che giustificasse quell’accesso di follia.

In breve, Volfin e Gîrkal rimasero soli, mentre il villaggio fuggiva urlando da qualcosa che i due non capivano.

Astyr, il volto coperto, avanzava silenzioso tra due ali di rematori, inginocchiati o prostrati al suo passaggio. Alcuni erano scossi da sussulti. Tutti tremavano. I piedi erano l’unica parte del corpo scoperta, affondavano nella morbida sabbia del bagnasciuga, due appendici nere e scheletriche che fecero gelare il sangue nelle vene di Volfin.

«Papà!» gridò Volfin.

Avrebbe voluto corrergli incontro, ma qualcosa lo tratteneva. Di sbieco, Volfin si era accorto della rigidità di Gîrkal, un vecchio cacciatore all’erta in prossimità di un grave pericolo. Ma non era solo questo: Volfin, pur nella sua tenera età, intuiva la presenza di qualcosa di anomalo, di malvagio, nella presenza che si avvicinava sempre più.

Un sussurro rimbombò nella sua mente.

Vieni.

Volfin rimase immobile. Era sicuro di aver sentito quelle parole, ma da dove provenivano?

Vieni, figlio.

Volfin guardò davanti a sé. Non c’era nulla, oltre i fori in quella maschera di cuoio nero. Solo ombra e oblio.

«Papà, sei tu?»

La figura si arrestò, imponente. Astyr era alto, ma non era mai sembrato così minaccioso. Volfin indietreggiò. Nulla si muoveva nell’aria o nei dintorni. Le grida degli abitanti del villaggio si erano spente in lontananza. L’unico suono era lo sciabordio delle onde e il lento, ossessivo mugolare degli schiavi che Astyr si era trascinato dietro da chissà dove.

Senza che Astyr pronunciasse una parola, due dei derelitti alle sue spalle si mossero e trascinarono al suo cospetto qualcosa. Da lontano, Volfin e Gîrkal credettero che si trattasse di un mucchio aggrovigliato di stracci. Quando fu sotto i loro sguardi, videro che era un uomo. Ciò che restava di un uomo. Non aveva più arti, la pelle era completamente bruciata, la testa calva, le membra tremolanti. Un rantolo di agonia sibilava fuori da quella che un tempo era la sua bocca.

Gîrkal si soffermò a guardare quell’essere moribondo. I suoi occhi si riempirono di una profonda tristezza.

Uccidilo.

Volfin sollevò lo sguardo e fissò sgomento la maschera senza espressione.

«Perché?»

Costui è il motivo per cui mi sono allontanato da te. 

Il bambino osservò di nuovo la creatura mutilata abbandonata ai suoi piedi.

«È lui ad avere ucciso la mamma?»

Sì.

«No, Astyr» intervenne Gîrkal. Astyr rimase immobile. Non diede segno di aver udito le parole del vecchio. «Hai cercato vendetta, e l’hai trovata. Non coinvolgere tuo figlio in questo orrore.»

«Non voglio farlo, papà. Ti prego, non voglio farlo.»

Uccidilo.

«Astyr, vecchio amico, ascoltami» disse Gîrkal, sforzandosi di non zoppicare e frapponendosi fra Volfin e suo padre. «Abbandonarti al Dio Drago è stata una tua scelta. Non puoi trascinare anche tuo figlio in questa...»

Volfin non seppe mai in cosa Gîrkal temesse che suo padre lo stesse trascinando. Ma un’idea molto nitida la ricevette da quello che accadde subito dopo. La pelle del vecchio cominciò a emettere fumo. I radi capelli bianchi si incenerirono e scomparvero, soffiati via da un vento caldo di provenienza ignota. E poi, di colpo, il fuoco. Un vortice di fiamme esplose a pochi passi dal bambino, inondandogli il volto con il proprio calore bruciante. Le fiamme avvolgevano Gîrkal, consumando la sua carne e le sue parole. Il vecchio crollò sulla sabbia, ridotto a poco più di un cumulo di cenere, lasciando Volfin solo di fronte a suo padre.

Il bambino sentì morire ogni parola in gola. Si accasciò al suolo, l’orrore dipinto in volto, gli occhi fissi sui resti di Gîrkal.

Uccidilo, figlio mio.

Volfin trovò la forza di scuotere il capo.

Ti prego.

Nonostante il terrore, Volfin percepì una supplica nella voce che gli parlava dentro.

«Non lo farò. Non ce la faccio.»

L’uomo mascherato si avvicinò di più. Si piegò verso di lui.

Uccidilo. Ti prego. Ti imploro. Uccidilo.

Volfin guardò attraverso i due fori nella maschera. Trovò il coraggio per porre la richiesta che non osava fare.

«Non lo farò, se a chiedermelo è un uomo mascherato. Solo mio padre, guardandomi negli occhi, può chiedermi di farlo.»

Non c’è niente di me, dietro questa maschera. C’è solo una voce.

«Allora è la voce di un morto che mi parla. Non posso uccidere perché è un morto a ordinarmelo.»

Volfin seppe di essersi spinto troppo oltre. Percepì la furia di un’entità misteriosa vibrare attraverso l’aria, tanto che la avvertirono anche gli oscuri servitori dell’uomo mascherato, che presero a urlare e nascondersi la testa tra le mani adunche.

Volfin chiuse gli occhi, non osando sostenere oltre la presenza fisica della creatura che un tempo era suo padre.

Calore. Vento. Onde che si infrangevano sulla spiaggia. Un crepitare roboante di fiamme.

Passò molto tempo prima che Volfin riaprisse gli occhi. Dinanzi ai suoi occhi, corpi senza vita bruciavano immobili sulla spiaggia, mentre le navi, in fiamme, affondavano lentamente nell’acqua bassa. Dell’uomo mascherato non c’era traccia.

 
***

Le navi furono pronte in meno di una settimana. Nessuno era disposto a restare oltre sull’isola. La minaccia dei razziatori era finita, ma questo non importava. Anche se era impossibile da spiegare a livello razionale, tutti percepivano qualcosa di diverso aleggiare sulla loro terra, un cambiamento che coinvolgeva tutti, la cui natura non poteva essere definita. C’era pace sull’isola, ma era una pace di morte, una sensazione con la quale nessuno riusciva a convivere. Volfin comprendeva più di tutti, ma non sapeva rivelarlo ai grandi. Gîrkal ci sarebbe riuscito, ma non poteva più farlo. Lo aveva seppellito il giorno stesso della venuta dell’Uomo del Mare, come a Drokval era stata chiamata l’oscura creatura che era giunta sui quei lidi. La mattina della partenza, Volfin si fermò a guardare la sua casa, la tomba di sua madre. La sua fine aveva portato sulla sua famiglia una sciagura ben più grande di quanto si potesse immaginare. Gîrkal giaceva sulla spiaggia, poco più lontano. Di suo padre, non c’erano notizie. Ovunque fosse, Volfin pregava perché la tomba in cui si era calato con le proprie mani non fosse troppo oscura, e riuscisse a ritrovare la luce della superficie.

La nave salpò, veleggiando sul mare placido, verso il sole nascente.




NOTE AUTORE
Eccoci alla fine del racconto. Spero che lo abbiate gradito, voi impavidi che l'avete letto fino alla fine. Concludo le note con un breve ringraziamento e un augurio di rivedervi presto! 

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