Solo Affari

di La Setta Aster
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Blues ***
Capitolo 2: *** Sono Solo Affari ***



Capitolo 1
*** Blues ***


SOLO AFFARI
 
Un tavolo, una sedia, sulla quale sedeva un uomo leggermente impaurito; tra le sue mani una tazza fumante di caffè. Gli giravano attorno come sciacalli altri due uomini, che tentavano di nascondere l’impazienza. Erano ben rasati in viso, e sembravano usciti da una catena di montaggio, con tanto l’aria da agenti venuti su imboccati dalla burocrazia. Infidi esseri. Sullo sfondo, oltre le finestre, si stiracchiava in tutta la sua maestosità il quartiere finanziario dell’immane metropoli, dall’alto del cinquantesimo piano – circa a metà – del lucido e titanico palazzo che fungeva da sede delle attività ufficiali e segrete federali. Era una immensa struttura dalla architettura molto particolare: aveva una base di quasi un chilometro, e s’innalzava restringendosi radicalmente fino a formare una punta vitrea, sulla sommità della quale era posta l’antenna che trasmetteva ogni trasmissione sul pianeta Terra. Nulla passava che non fosse stato controllato.

“mi ascolti:” disse uno dei due uomini in piedi, due agenti della EFI (Earthlings Federal Intelligence) “questo dipartimento è diviso in tre zone di interrogatorio, dislocate nel palazzo. Questa è la prima, in cui si parla con una tazza di caffè in mano. Nella seconda, scordati pure il caffè, perché sei in una stanza buia, con uno psicologo criminale e una luce accecante puntata negli occhi. Nella terza, invece, cominciano le botte; e pestano duro, quei signori” fece una pausa.

Il secondo uomo era stato zitto a fumare una pipa elettrica. L’aggeggio era costituito da un fornello trasparente che era in grado di creare esso stesso una combustione per incenerire la miscela di erba contenuta, e un bocchino in madreperla. L’interrogatore si pose di fronte al pover’uomo. Il caffè, che ancora riempiva la tazza, era percorso da piccole onde che partivano dal centro, espandendosi, e formavano, un’immagine distorta, come una pozzanghera durante un diluvio. Ciò era dovuto al tremore delle mani dell’interrogato, che avevano iniziato a fremere già da prima di stringere la tazza. Il respiro si era fatto più smorzato. L’interrogatore si protese verso lui per avvicinarsi, e per guardarlo bene negli occhi. “e non ti dico che succede nel seminterrato...” disse con voce bassa come un sospiro. Non aveva mai accennato ad un quarto piano, ed  ecco spiegato il perché: la gente veniva torturata con metodi che erano generalmente vietati sulla Terra. Ora il caffè straripava dagli orli della tazza. Dei rivoli sporcavano i bordi. La bevanda iniziò a colare, e delle gocce si andarono a rovesciare sul pavimento pulito e immacolato.

“se parlo mi uccideranno, e uccideranno anche la mia famiglia!” si difese.

“beh, se non parli, priverai tua moglie e i tuoi figli della tua presenza per parecchi anni, amico: andrai in prigione, o peggio: c’è sempre la catabasi negli inferi di questo palazzo, ricordi? Se invece parli, sarai protetto da noi, da agenti che avranno come unico compito quello di proteggere te e la tua famiglia” insisteva l’altro “fino alla morte”.

Si prese del tempo per pensare. La tazza gli scivolò dalle mani, e l’intero contenuto imbrattò tutto, tra i suoi piedi.
“non ti preoccupare” disse con voce amichevole l’agente, chinandosi per raccoglierla. Poi, porgendogliene una nuova: “lo fai per la tua famiglia”.

Piombò il silenzio. E chi tace acconsente.

*

“sono...” la mano tremava “solo...” mentre inseriva il proiettile nel tamburo di uno degli ultimi revolver sopravvissuti all’avvento delle armi laser. “affari” disse infine, con voce febbrile, prima di premere il grilletto. Un boato, un lampo seguito da un tuono, un solenne suono che nessuna arma di quegli anni avrebbe mai potuto eguagliare: la voce stessa del cavaliere pallido, Morte. Il proiettile perforò il cranio della vittima. Tutto il resto pareva buio: solo il revolver e il cranio forato, dal quale uscivano dei fiotti di sangue, che scivolavano come ruscelli sul viso contorto in una smorfia di disperazione.

Mi chiamo Howard. Sono un assassino. Mi occupo di eliminare i bersagli dei criminali che pagano di più. Mi capita spesso di dover fermare il cuore pulsante di un innamorato. È una cosa strana, ma quando uccido un innamorato, o un’innamorata, temono terribilmente la morte, ma la affrontano con più dignità. L’amore non l’ho mai conosciuto. Però amo uccidere. Lo trovo terapeutico. Perché lasciare la vita alle mie vittime quando io di vita non ho più, dentro di me? E poi quei poliziotti che garantiscono l’incolumità dei testimoni... non hanno scampo, sempre che stiano effettivamente facendo il loro lavoro. Chi  rivela qualcosa dei pezzi grossi ha solo due possibilità: venire folgorati da un laser, o trapassati da un proiettile del mio vecchio revolver. Mi piace vederli mentre si dimenano e strillano preghiere con la voce smorzata dai singhiozzii. Adoro, quando mi temono. E mi diverte il loro credersi al sicuro. Invece m’innervosisce quando questa illusione della salvezza li porta ad avere un atteggiamento di sfida. Ma alla fine, io uccido sempre il mio bersaglio. Con calma. Senza odio, ma con passione. Un brivido mi percorre ogni volta che sento la vita abbandonare un corpo freddo e morto. Mi vengono le lacrime dalla commozione, come se la Morte stessa mi stesse compatendo, e mi parlasse con calde parole.
Sono un assassino.

Howard, tornato al suo appartamento, si lavò via il sangue dal corpo con una doccia calda, che distese tutti i muscoli tesi, e riscaldò l’anima fredda come quella città. Ancora in accappatoio, domandò alla cucina un bicchiere di whiskey. Un braccio meccanico, sbucando dalla credenza, glielo porse. Era ghiacciato. Lo prese, e sentì sotto le dita la condensa gelata sul vetro, reso umido da essa. Ordinò anche che le mura riproducessero della musica. Un malinconico blues aleggiò. L’uomo si diresse verso il suo balcone, che dava su una strada stretta, diversi metri più sotto, tra i palazzi gotici della metropoli. Era il quartiere povero. La gente normale aveva sempre tanta fretta di andarsene da lì. Le navicelle sfrecciavano verso la fine di quella strada, passavano sotto i ponti di collegamento dei palazzi, e sfociavano là dove la strada si apriva bruscamente, come una falla tra i palazzi, uno squarcio, una ferita in mezzo a quel complesso sistema di grattacieli addossati l’uno all’altro, verso un’enorme punto d’incrocio fra svariate strade, il Crocevia, uno spazio di circa sei chilometri – che visto da un pilota, in mezzo alla città che lo inghiottiva pareva di pochi metri – che serviva ai piloti per indirizzarsi in una delle altre strade, per dirigersi alla zona degli agglomerati, oppure fuggire verso sezioni più ‘civili’. Ma nessuno prendeva mai quella via: punto d’accesso al quartiere povero, un ghetto dove il tempo sembrava essersi fermato al 2030. Nessuno aveva il coraggio di vagare per quei vicoli. E mai nessuno ne era uscito, degli abitanti. Chi povero nasceva, povero moriva. Il che, di solito, non si faceva attendere. Howard guardò verso il basso. I quaranta piani si notavano dall’aria più leggera e meno fetida che c’era invece nei piani più bassi. L’uomo si godeva inoltre una visuale che amava, dall’ultimo piano: a destra, s’intravvedeva, oltre il portale dall’arco a sesto acuto, tra gli edifici, il Crocevia; a sinistra, le tenebre andavano infittendosi sempre di più, accolte dalle luci rossastre dei lampioni che spuntavano come spine dalle pareti di cemento armato, fino ad ottenebrare il quartiere povero, svariati chilometri di morte e silenzio, un luogo che se smettesse un giorno di esistere, nessuno se ne accorgerebbe. Traeva piccoli sorsi dal bicchiere, che pian piano si svuotava. Sentì degli spari, lontani, che si perdevano nell’immensità del quartiere. Il rumore serpeggiava fra le strade bagnate di sangue e vino, fra vicoli oscuri, che puzzavano di carogna, fra le case, covo di terrore e disperazione, e totale depravazione. Ma gli spari, le urla, tutto il frastuono veniva presto dissipato da un silenzio prepotente, più forte del suono stesso.

Mi trovo al confine tra diversi mondi: – pensava – da una parte l’inferno di questa metropoli, – guardò verso sinistra, dove la strada si restringeva ed incupiva – dove persino la legge è fuggita per la paura; dall’altra,  - spostò il suo sguardo pensieroso sul punto di scambio delle varie astrostrade – l’accesso per la parte della città che non dorme mai, gli agglomerati, un condensato di etnie e specie aliene impressionante, un’esplosione di vita, e, a volte, anche di morte. Il confronto delle morti fra quartiere povero e agglomerati sarebbe comunque imparagonabile. Là però non c’è lavoro per me: i miei bersagli sono pezzi grossi, che si nascondono alla luce; nel quartiere povero muoiono i ragazzi, gente che non avrà mai peso nemmeno nella propria casa. Comunque, continuando per una strada interminabile che sembra volersi allontanare da tutto quel caos per cedere il posto al quartiere d’intermezzo, ci sono case più belle, tranquille, e si respira aria nauseante di pace. Infine, il più squallido e falso di quest’insulso immondezzaio di imponenti palazzi e grattacieli diroccati: il quartiere alto, a sua volta diviso in varie zone, come quella finanziaria o quella cittadina. L’unica cosa interessante è il mercato. E, certo, le armi, quelle da fuoco, perché solo nei quartieri alti si trovano armi che funzionino, e che non siano di ennesima mano. Ma i proiettili per il mio revolver me li procura un mio amico, che mi procura anche la droga. Non ha più le gambe, quel mio amico: perse durante il servizio militare di frontiera, durante la guerra contro i Venatori, una specie aliena xenomorfa che infestava dapprima il pianeta Atlas, chiamato così perché scoperto dall’astronave militare Atlas 07, la settima nave stellare sbarcata dalla Terra alla ricerca di pianeti che si allontanino più della nostra patria alla somiglianza con la merda. Questa specie aliena si è poi espansa come un morbo tramite le astronavi. Quei maledetti si nascondevano negli anfratti degli scafi, poi scendevano agli scali e si riproducevano in maniera asessuata creando intere colonie in pochi giorni. Hanno alzato stati d’emergenza su diversi pianeti per anni. Il mio amico perse le gambe nell’Emergence Day del pianeta sul quale era stanziato, e sul quale credeva non sarebbe successo mai nulla: Ilium Proximum.

Howard amava quei momenti: lui, il suo bicchiere di Whiskey, il suo appartamento, e i suoi pensieri. Ricordava spesso il passato, ma quando la mente tornava alla sua infanzia, scrollava la testa con foga, e si stringeva le tempie con le mani, dandosi colpi sulla testa. La sua gioventù regnava nei suoi incubi. Vuotato il bicchiere, rientrò nel suo caldo appartamento, illuminato da una luce rossa, quella delle lampade climatizzanti al plasma. Era in contrasto con la glaciale anima dell’uomo. Alcuni esotici oggetti rendevano la stanza piuttosto accogliente. In mezzo alla sala, stava da solo un tavolo, sul quale l’uomo mangiava. Una parete-schermo vi stava proprio davanti, mentre sulla sua destra rientrava Howard dal balcone. Camminò dritto, superando il tavolo, fino al bancone posizionato davanti alla cucina. Passando dietro al tavolo, sulla sinistra, si apriva la camera da letto, non rinchiusa fra mura, ma parte del monolocale. Il letto a due piazze era posto sopra una tappeto rosso che si stendeva per tutta la zona letto. Tutt’attorno, altri svariati oggetti extraterrestri. Erano dalle forme più strane e vaghe: da inquietanti statue aliene rappresentanti la morte e la sofferenza attraverso forme che facevano reagire il cervello, alla vista, in maniera tale che provasse ribrezzo, a oggetti che faceva persino piacere guardare. Quadri dalla forte caratterizzazione Vegana, del sistema solare della stella Vega, paragonabili all’arte terrestre di Picasso, ma con un piglio più gotico che a Howard ricordava le storie Edgar Allan Poe; o almeno gli incubi che ne erano scaturiti. Oppure vi erano le famose opere d’arte moderna Venusiana, di Venere Secundo, che, alla loro visione, facevano scaturire un intenso piacere sessuale, nonché desiderio afrodisiaco; tutto potevano ricordare meno che la Terra. Molte delle opere moderne erano parte di una corrente astrattista psicoidanica, cioè che attraverso forme particolari e una sorta di emanazioni energetiche inviano al cervello di chi le osserva dei segnali che lo portino a provare determinate emozioni.  Raggiunta la cucina, Howard richiamò il braccio meccanico, che afferrò il bicchiere e lo lavò immediatamente nel lavabo in marmo serpentino, poi lo ripose in una credenza.

Rivestitosi per la notte, si mise a letto senza esitare. Ed ecco che si fanno risentire quegli incubi...

*

Era sdraiato sul letto, lei al suo fianco, con la schiena liscia e dorata in balia dell’aria umida della mattina della favela. Lui era già sveglio da un po’, a guardarla. Quando anche lei aprì gli occhi bellissimi, neri e profondi, gli sorrise. È il sorriso più splendido che il cuore di una persona avrebbe mai potuto pretendere, quello della donna amata. Si sentì pervadere da un’immensa felicità. Lui tentò di tenere gli occhi fissi su quelli di lei, quando ella si rialzò, per andare a vestirsi. Le coperte le scivolarono lungo il corpo perfetto, scoprendolo. Si dissero qualcosa, ma nel sogno erano solo sospiri nel vento.

Tutto ciò che ricordava ancora, in quel sogno, era che, quando le grida della sua amata cessarono per mai più ritornare, lui fece a chi aveva ucciso la donna che amava cose che a nessun altro essere umano e non umano piacerebbe immaginare. Oltrepassava lo scibile di ogni etnia, di ogni pianeta e costellazione. Tentò di far rivivere il suo dolore a quegli esseri. Sentiva dentro di se come la voglia di vomitare, come se sapesse di meritarsi una morte atroce. Ma questo non faceva che eccitare in lui un piacere perverso, pensando a ciò che aveva fatto. Tutto ciò che gli assassini dissero prima di compere quel male massacrante, fu “sono solo affari”.

*

Si svegliò di colpo, Howard, come se fino a quel punto una montagna d’acqua lo avesse afferrato per la gola e soffocato. Respirava affannosamente. Si picchiò forte i pugni sulla testa, e si strappò dei capelli.

“sono solo affari sono solo affari sono solo affari...” ripeteva frettolosamente. Si tappò la bocca con le mani per smettere di ripeterlo come un riproduttore musicale in cortocircuito.

Subito si alzò. Il cuscino e le lenzuola erano inzuppati di sudore, e i suoi capelli grondanti. Lui stesso era ricoperto di gocce di sudore, che fuoriuscivano dalla pelle, ed era fradicio. Traeva profondi respiri isterici, tanto che gli girò la testa, e dovette sedersi. Scoppiò presto in lacrime, come un bambino quando la madre o il padre tardano a tornare dal lavoro, la notte. Si accoccolò sul letto come fa un cane sgridato. Questo lo costrinse ad alzarsi, furioso, ed estrarre dalla sua borsa di ‘lavoro’ una droga aliena, una piccola batteria che irradiava il cervello con raggi elettrochimici molto potenti, in grado di indurre il sonno senza sogni, o comunque una estrema rilassatezza. Ormai ne faceva uso solo quando aveva quegli incubi. Non gli creava assuefazione, come con gli altri esseri umani e non umani, ma lo aiutava a dormire senza sogni. Disse di non aver mai conosciuto l’amore; mentì: l’amore era tutto ciò che ancora lo rendeva umano. Inserì la batteria in un aggeggio che somigliava tanto a una pistola, poi appoggiò la canna alla tempia, e premette il grilletto. Sentì una scossa alla testa, come se l’avesse sbattuta contro un muro. Poi le palpebre si fecero pesanti, gli occhi gonfi, la mente non riusciva più a pensare. Una goccia di bava stava colando dal bordo della bocca di Howard. Cadde all’indietro, dove il letto lo attendeva.

Quando si svegliò, il mattino seguente, l’oscurità non s’era levata. Ormai da anni,da decenni, un costante stato di maltempo si era steso sul pianeta Terra come una coperta. Le nuvole erano nere di inquinamento. Solo durante la primavera, le nuvole si aprivano un poco, lasciando trasparire un opaco raggio di sole, ma i fiori e il verde erano ormai un ricordo lontano. Questo solo nei quartieri dove i missili spazza nuvole non erano ‘necessari’. La Terra, comunque, era data per spacciata, quindi era questione di altri pochi decenni, prima che una terza era glaciale si abbattesse sul pianeta, per colpa dell’inquinamento. Durante la seconda, riuscirono a domarla in alcune zone importanti. Persino il ghiaccio aveva schifo, a ricoprire certi posti, come il quartiere povero. Gli animali erano ormai tutti cloni creati in laboratorio. Solo uomini potevano vagare in una terra così martoriata. Eppure, lontano nello spazio, vi sono colonie umane in luoghi verdeggianti e lussureggianti, dove molti trovano l’amore e mettono su famiglia, e regna un costante stato di locus amoenus. Cose che Howard non sopportava, perché aveva perso la possibilità di viverle. Mentre si sciacquava la faccia, l’assassino pensava ai compiti del giorno: nulla da fare. Howard odiava quando non doveva né uccidere, né fare commissioni, né portare la droga da qualche parte; insomma, quando aveva la giornata libera. Provava odio anche per la noia, perché lo costringeva a pensare. Così, passeggiava per il quartiere povero con il suo fido revolver e una pistola laser di riserva. Prese il cappello – che ormai non serviva che a nascondere il volto, non essendoci più sole, laggiù – e impermeabile: anche quel giorno aveva intenzione di farlo.

 
Nel frattempo...      quartiere finanziario ; sede EFI ; 9.00am 

Due agenti discutevano in un ufficio.

“hanno ucciso un altro dei nostri testimoni” disse uno, che era appoggiato ad una scrivania.

“l’assassino è lo stesso degli altri?” domandò l’altro, che invece andava avanti e indietro per la stanza, lentamente, e senza degnare il collega di uno sguardo.

“sì. E usa sempre la stessa firma: proiettili. Lui è l’assassino delle armi da fuoco. Anzi, ‘l’assassino del revolver’. Ah, i giornali ci andrebbero a nozze”

“i giornali dicono solo ciò che noi vogliamo che dicano. C’è un tale via vai di gente da tutto lo spazio, qui, che se muoiono i testimoni di losche attività in questo buco di merda di pianeta, non gliene frega un cazzo a nessuno”

“giusto. Finora nessuno dei nostri testimoni era al corrente che gli altri erano morti”

“finora i nostri interrogatori hanno lavorato bene, e il seminterrato resta sgombro. Voi continuate a dir loro che sono al sicuro, e che noi li proteggeremo. Quando parlano, allora non ci serviranno più”

“e inoltre con le famiglie dei testimoni trucidate, nessuno può far trapelare la notizia, visto che gli amici non sanno mai niente”.

Ovviamente, le famiglie non venivano uccise da un revolver. Fecero una pausa di silenzio. Alle spalle della scrivania, si poteva vedere, all’orizzonte, lontano,  il confine della barriera creata dal missile spazza nuvole, oltre la quale vigevano urla e silenzio, pioggia e tuoni.

“se venissero a saperlo i media, sarebbe la fine” osservò il tizio seduto.

“la fine? E cosa potrà mai fregarne, alla gente, se noi continuiamo? Non sono i media, il problema, ma le associazioni extraterrestri di giustizia. Secondo loro il nostro operato non gioverebbe alla giustizia”

L’altro rise.

“perché...” continuò quello in piedi, fermandosi e guardando il collega “secondo loro a noi importa qualcosa? Sulla Terra i peggiori criminali sono invisibili e intoccabili, e noi non possiamo nulla contro di loro. Hanno preso il potere, ma lo tengono solo nei loro quartieri, e a noi sta bene così. A volte arrestiamo qualcuno per far bella figura con i media, e sugli ologiornali extranet. Proteggiamo ciò che non vogliamo perdere: il potere”

“se non è giustizia, la nostra, allora cos’è? Le cose che facciamo, cosa sono? Crimini?”.

Scoppiando a ridere, l’uomo in piedi si avvicinò all’altro. “sono solo affari”.

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Capitolo 2
*** Sono Solo Affari ***


Tutto ciò che lasciava intendere che in quel momento non fosse notte era il fatto che tutto era ancora tranquillo, non si vedevano in giro morti né si sentivano vomitare i laser dalle pistole. Howard, però, doveva sfogare il suo odio; così, si mise sulla strada, la via oscura, per ‘La Caverna’, uno squallido locale di periferia, dove si rimediava sempre un cadavere per l’inceneritore. Vi arrivò senza troppi problemi. Si piazzò davanti alla porta, e prese dall’impermeabile un sigaro termico elettrico. Era un semplice involucro di materia cristallizzata isolante, che conteneva del tabacco alieno, e anche di ottima qualità. Howard entrò nel locale lasciando che le porte si spalancassero da sole. Dentro, l’aria era pesante e satura di alcool; c’era chi beveva, e chi aveva già bevuto, e barcollava per il locale. Ma non era quel bere allegro che si trovava negli agglomerati: era un bere velenoso, nel tentativo di dimenticare la propria posizione, oppure per morire. C’erano barboni, e c’erano gruppi gangster di basso livello, poiché quelli di alto livello agivano negli agglomerati. I drogati avevano il loro angolo di isolamento. C’erano anche delle ballerine, al centro del locale, che ballavano su cubi fluttuanti che cambiavano colori al ritmo della musica martellante; una musica che andava ancora di moda solo nel quartiere povero, poiché era tanto rumorosa e caotica che non induceva ad alcun pensiero, tanto avrebbe tormentato le orecchie e la testa, e se non si pensa, non ci si ricorda di essere un rifiuto ambulante. Fra tutte quelle danzatrici, aliene e umane, verdi, blu, bianche, solo una dorata catturò gli occhi di Howard. La sorella gemella della sua amata. La sua pelle inumidita dal sudore riluceva, facendo come da specchio d’oro per le luci del locale.

“Howard!” lo chiamò felice, vedendolo.

Lui sorrise.

“ciao, Sarah” salutò.

Lei scese dal cubo gravitazionale sul quale stava dando mostra della sua sensualità, e andò verso di lui. Fece per abbracciarlo, ma lui si tirò indietro.

“ti spiacerebbe rivestirti?” domandò.

“la mia offerta resta sempre valida”

“sai che non posso. L’amore che provavo per tua sorella non mi ha mai abbandonato. Mi sentirei come se la tradissi”

“lei vorrebbe che tu ti rifacessi una vita. Tanto vale farlo con me”.

Howard sospirò.

“lasciami ancora del tempo”.

Lei sorrise con dolcezza, tentando di rasserenarlo dal ricordo che certamente gli era affiorato.

“mi rivesto” disse poi la ragazza. Aveva circa trentadue anni, ma ben portati dal suo fisico da danzatrice. Prima lei, e sua sorella, vivevano negli agglomerati. Sarah sognava di diventare una ballerina per i più grandi teatri del quartiere che non dorme mai. Quando tutto si infranse, alla morte della sorella, lei reagì con una forza ammirevole. Ancora nel quartiere povero non smetteva di sognare.

Mentre attendeva, Howard si diresse al bancone. Vide che un grosso impermeabile che avrebbe dovuto contenere un uomo, in realtà fluttuava nel vuoto: al di sotto di esso non si vedevano piedi. Si accostò, e lo salutò chiamandolo per nome “buonasera, Rick”. Questo si voltò, mostrando che era seduto su una sedia gravitazionale, per paralitici.

“ciao, Howard” rispose una voce che tradiva l’età dell’uomo, così come il volto, che ancora si nascondeva sotto un cappuccio. “ancora qui ad autocommiserarti?”

“e tu ancora qui a cercare conforto in una bottiglia?”

“già” si affrettò a rispondere l’amico.

Howard lo guardò per un momento, ricordandosi meglio dello stato d’animo del compagno.

“passamene un po’ ” disse poi.

Così fece.

“ti ostini ancora a non fare uso della droga che ti vendo, e a rivenderla soltanto?” chiese Rick ad Howard mentre questo beveva.

“ho perduto già troppo la mia umanità” rispose “uso solo Morpheus per dormire”

“come vuoi”. Gli strappò la bottiglia dalle mani per continuare a bere.

Continuarono a parlare del passato, e di quanto fosse doloroso viverci. Howard soleva dire “in questo mondo falso, solo i pazzi sono felici; ma la felicità è un’illusione che annebbia la vista. Chi è triste, dunque, ha una visione più chiara delle cose. E non c’è visione più pulita di quella di un pazzo che diventa triste”. Mentre le loro bocche proferivano parole roventi per i loro cuori, un rumore colse l’attenzione di Howard, un rumore che odiava oltre tutti: un grido di donna, alle sue spalle. Un gruppo di ragazzi tentava di stuprare una ballerina Venusiana, così, davanti a tutti. Subito, l’assassino si alzò e gli si pose davanti. Il capo della banda era chino sulla ragazza, che tentava di dimenarsi, e gridava, e implorava aiuto. Doveva essere nuova, altrimenti si sarebbe lasciata stuprare in silenzio, o li avrebbe uccisi.

“signori,” cominciò a parlare Howard, con tono ironico calmo ma velatamente isterico “quello che fate… non è esattamente un gesto di galanteria che si confà a dei galantuomini quali siete voi”.

Il ragazzo si alzò, lasciando perdere la ballerina, accompagnato dalle arroganti risate dei suoi compari. I vestiti erano decisamente giovanili: i pantaloni mostravano diversi squarci, tra cui un all’inguine, che lasciava le vergogne pensolare allo scoperto.

“e tu che cazzo vuoi, stronzo? Credi di essere un eroe? Beh, ti sei ficcato nell’olofumetto sbagliato!” la voce irritante cominciava ad innervosire Howard, che però parlava con disinvoltura e tranquillità, come fosse tutto normale.

“ahia, quante parole poco cordiali, sto udendo. Perché non provi ad essere un po’ più educato?”.

A queste ultime parole di Howard, il ragazzo fece per estrarre una pistola, ma la sua mano finì per diventare un ammasso di ossa frantumate e sangue, macellata da un proiettile di arma da fuoco, quella dell’assassino. Il teppista si mise ad urlare. Due suoi compagni perirono per mano di Howard, mentre altri due finirono trapassati dai proiettili di un fucile termico, che sprigionava dei raggi che incanalavano una temperatura vicina a quella del sole in quel singolo raggio. Per ricaricarsi, però, doveva, attraverso una pompa, espellere dall’arma la batteria rovente, che sarebbe stata sostituita subito da quella seguente, nel caricatore. Era impugnato da Sarah – uscita dal camerino struccata e vestita con jeans e una leggera canottiera senza maniche, che la rendeva troppo fatale da guardare, agli occhi di Howard –  che per caricare la pompa, la teneva ben salda in una mano, e lanciava il corpo del fucile verso l’alto. I bossoli venivano scaraventati fuori dall’arma e rimbalzavano a terra con un gradevole tintinnio. Ma se solo qualcuno li avesse toccati, ne avrebbe ricavato un’ustione che si sarebbe scavata la strada nella carne. Poi, Sarah si avvicinò al capo banda, e, tenendo il manico del fucile con una mano, glielo puntò alla tempia.

“che dici?” si fece avanti Howard “ci aggiungiamo una palla?” così dicendo, puntò il revolver all’inguine dello stupratore.

“no! Vi prego!” implorava.

Howard guardò Sarah.

“troppo tardi” disse l’assassino. Così, con rapidi colpi l’assassino sparò prima laddove stava puntando, poi alla testa.

“volevo ucciderlo io!” protestò lei.

“sai quanto ci tenevo” ribatté lui.  

Di tutta risposta, Sarah scaricò i restanti proiettili del fucile contro il cadavere già freddo del ragazzino, finché non ne rimase che una poltiglia. A qualcuno infastidì il frastuono degli spari, ma per quanto riguarda quella visione indecente, ormai era abitudine. Certo, un corpo in quelle condizioni sorprendeva comunque. Sospirando, Sarah accompagnò Howard al bancone. Lo fece accomodare, ordinando un drink.

Però, qualcuno, nascosto nell’angolo più oscuro e indiscreto del locale, osservava Howard, attanagliato da ricordi che non sapeva di avere.
“sei stata fantastica” si complimentò Howard. “e lo sei, fantastica. Però... sai... potresti coprirti, ti prego? Sei troppo bella, e...”

“mi dispiace vederti così. Ogni giorno stai male per quello che è successo, ma sono passati tanti anni! Anche io le volevo bene...” fece una pausa, e strinse il braccio di Howard con la mano. “però voglio bene anche a te. Sento che insieme, tu e io, saremmo felici. È una cosa rara da trovare, quaggiù, la felicità. So che tu la odi, ma forse odi solo quella degli altri, quella che tu non puoi avere pur meritandola più di altri. Pensa: tu avrai ancora il tuo mestiere, solo con una casa più bella, e io sarei una ballerina classica...” sognava la ragazza.

Era vero: non esisteva molto amore, nel quartiere povero; gran parte dei bambini nascevano in rapporti con prostitute, e venivano affidati all’unico orfanotrofio della zona fino al compimento dei sette anni, e poi abbandonati per le strade. Era più simile a una caserma che a un orfanotrofio, e si insegnava ai bambini a sopravvivere. Howard ebbe la fortuna di vivere i primissimi anni della sua vita lontano dalla violenza, sebbene nella povertà. Lui si alzò, quasi per difendersi, e fece qualche passo verso la porta. Lei era rimasta immobile, aspettando un suo sguardo. Arrivò: Howard si voltò verso Sarah. “ti amo” le disse, prima di fuggire fuori dal locale. Si era messo a piovere, e quando Sarah uscì per cercare l’uomo, egli si era ormai dileguato tra le gocce fitte, nella migliore tradizione degli assassini. Restò ferma, ad aspettare qualcosa, o forse solo per riflettere. Non si potevano distinguere le lacrime dalla pioggia.

Intanto, l’uomo nell’ombra, possessore di quegli occhi che avevano scrutato Howard nel locare, si era deciso a seguire l’assassino, convinto di aver trovato il killer che stava cercando. Prima, però, avrebbe domandato alla ragazza come precederlo a casa sua. Non avrebbe mai rivelato l’indirizzo, ma l’uomo l’avrebbe importunata solo per il gusto di sopprimere l’unica persona che ancora concedesse all’assassino un barlume di luminosità. Si avvicinò, il volto coperto da un ampio cappello.

“andiamo di fretta, signorina?” domandò con voce roca, che non poteva appartenere ad un uomo più giovane di Howard. La strattonò.

“lasciami!” tentò di divincolarsi la ragazza.

“dove sta andando quell’uomo? Dov’è, che abita?” ruggì l’altro.

“fottiti, stronzo!”.

La risposta che voleva: con un teaser stordì Sarah. Quando fu a terra, le strappò i vestiti, e prese un coltello. Con la lama lucente accarezzò il ventre, tempestato dalla pioggia. Poi, lasciò che i suoi più infimi e schifosi istinti parlassero per mano dell’arma bianca.

Howard giunse a casa sua, affranto dal dolore dei suoi ricordi. Prese a picchiarsi le tempie nervosamente, prima di entrare nell’ascensore gravitazionale. Là dentro, mentre saliva, pensava. Fu destato dal suono del campanello che avvisava dell’arrivo al quarantesimo piano. Entrò nel suo appartamento e, richiesto un bicchiere di whiskey al braccio meccanico, si lasciò cadere sul divano. Beveva sorsi insicuri. Ad un certo punto gli cadde lo sguardo verso l’indicatore dell’ascensore. Vide che era diretto verso il suo appartamento: qualcuno stava salendo. Non pensò che sarebbe potuta essere Sarah, anzi, era talmente certo che lei non sarebbe andata da lui senza avvisare che non si pose nemmeno il problema. Lasciò subito cadere il bicchiere, prese la pistola e disattivò il generatore della corrente del suo piano, di modo tale da bloccare la sua porta. Questo non impedì al misterioso inseguitore di farla saltare. Senza esitare, Howard si precipitò dentro, per uccidere lo stolto predatore. Non era poi così stolto, perché si era rifugiato sul tettuccio dell’elevatore. Gli piombò addosso. Howard fu svelto a divincolarsi e a rifugiarsi nella sicura oscurità. Approfittando di quell’attimo di distrazione, agguantò un jet pack che stava sempre in un piccolo armadietto di fianco al balcone, e si catapultò fuori dalla finestra. Accese gli invertitori gravitazionali, che lo fecero sfrecciare verso il tetto dell’edificio, dove, tra le altre, riposava la sua navetta, simile a un’auto, solo più appiattita, per essere aerodinamica. Gli altri velivoli appartenevano a chiunque abitasse quel palazzo insieme ad Howard, ma la gran parte ormai non erano più proprietà di nessuno. Nessuno di vivo, s’intende. Entrò di corsa nell’abitacolo, e accese i terminali ologrammatici, sentendo i motori attivarsi quasi silenziosamente, come un sibilo. Si alzò di qualche metro, e, girando la cloche, voltò la navetta verso la strada. Riuscì a notare che il suo inseguitore aveva utilizzato un canale di scolo che percorreva in verticale l’intero palazzo per tutta la sua altezza, ed era riuscito a raggiungere il parcheggio a cielo aperto. Nemmeno ci badò. La navetta scivolava sull’astrostrada come una serpe d’acqua. Si sentiva già più al sicuro, passando attraverso gli ologrammi pubblicitari che invadevano la strada, protraendo l’immagine tridimensionale del prodotto nel bel mezzo dell’aerocorsia. E non poteva aspettarsi un proiettile laser alle spalle, che centrasse il motore, surriscaldandolo, che invece fu ciò che accadde. Un tremore avvertì Howard che doveva trovare al più presto un luogo per atterrare. Tentò di tenere stabile il velivolo, ma alla fine, andò a sfondare la parete di un palazzo, parcheggiandosi in una stanza buia. A fatica, si portò fuori dall’abitacolo. Aveva una gamba rotta, e quando se ne accorse gemette di dolore, ma la pistola non pareva essersi danneggiata. Il velivolo dell’inseguitore, che doveva aver rubato tra gli altri parcheggiati, invece, si andò a parcheggiare sul tetto. Ogni navetta aveva un jet pack di soccorso, del quale sicuramente il cacciatore avrebbe fatto uso. Quello di Howard era distrutto, e non volava. Doveva alzarsi, ma la gamba doleva. Si ricordò della droga che avrebbe dovuto vendere. Per questa volta, farò un’eccezione pensò. Così, inghiottì delle pillole verdi dalla consistenza molle, e il dolore svanì quasi subito, ma ancora la gamba non poteva essere usata se non zoppicando, poiché cedeva. Howard si preparò dietro la porta d’entrata dell’ufficio per accogliere l’uomo. Non tardò a presentarsi. Cominciò uno scontro corpo a corpo. Una scarica elettrica di un cavo sprizzò scintille di luce in ogni dove, illuminando il volto del nemico: era un uomo sui cinquanta anni, età rimarchevole, dall’aspetto vissuto ed esperto, che vantava una serie di cicatrici di ogni forma e dimensione. Somigliava tanto ad un serpente, come quelli che si vedevano nelle fotografie di quando ancora gli animali vagavano per la Terra. I capelli bianchi non gli conferivano affatto un aspetto meno pericoloso. Comunque, Howard riuscì metterlo a terra: era comunque molto più vecchio. Gli puntò la pistola alla testa.
“uccidere” Howard cominciò a parlare “è un’arte. Noi siamo degli artisti, e lei dovrebbe saperlo. Potremmo paragonarci a Da Vinci, o Mozart. Il nostro pennello, è la pistola, il nostro violino è il coltello. Le nostre tempere sono il sangue, e il rombo di un’arma, è la nostra sinfonia. Dobbiamo abbracciare questo dono.

“sai,” disse cambiando discorso “cosa dicevano, gli assassini, i soldati, quando massacravano la gente senza che alcuna legge potesse impedirglielo? Quando stupravano e uccidevano le nostre donne?” ebbe un immagine veloce come un flash della sua amata. “sono...” aprì il tamburo del revolver e lasciò scivolare i proiettili a terra. Tintinnarono, quando toccarono il pavimento. “solo...” raccolse un proiettile da terra e lo inserì nel tamburo, che fece girare, poi puntò nuovamente la canna dell’arma alla testa del vecchio. “affari”. Premette il grillettò, il cane scattò, e il cacciatore sussultò. Non si udì che un rumore metallico: il destino che Howard aveva scelto come suo giudice aveva deciso che era giunta la sua ora. L’avversario approfittò della resa al volere del fato che il suo nemico stava ostentando, per utilizzare degli elettrodi posti nei guanti per stordire Howard. La testa gli parve esplodere.

Prima che il proiettile laser gli forasse il cranio, nella mente balenarono immagini felici di lui e della sua amata, tanto tempo prima, durante un lungo e appassionato bacio. Poi rivide anche Sarah, e si consolò del fatto che le aveva detto ciò che si teneva dentro. Sorrise nel cuore.
“sono” disse il predatore “solo” il dito fremeva sul grilletto “affari”.

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