Asylum di RedLolly (/viewuser.php?uid=3654)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carne che brucia [Roy Mustang] ***
Capitolo 2: *** II – Cure amorevoli di una ragazza sola [Winry Rockbell] ***
Capitolo 3: *** III – L’uomo triste e la principessa di pezza [Hohenheim] ***
Capitolo 4: *** IV – Il rito [Riza Hawkeye] ***
Capitolo 1 *** Carne che brucia [Roy Mustang] ***
Salve
a tutti, sono RedLolly ed eccomi qui con una nuova e delirante
creazione!^^ Durante una tristissima serata di San Valentino mi è
venuto in mente di scrivere questa piccola raccolta che spero
apprezzerete: ogni capitolo sarà incentrato su un personaggio di
Fullmetal Alchemist, e cercherò di dare ad ognuno di loro i tratti
di una malattia psichiatrica (una delle branche mediche che trovo più
interessanti). I racconti saranno tutti scollegati fra loro e
avranno questo unico filo conduttore…
Fatemi
sapere se quest’idea malatissima vi piace, e quali personaggi
vorreste vedere, perché io ho già imbastito alcune storie ma sono
aperta a tutti i vostri suggerimenti!
Le
vostre recensioni mi farebbero immensamente felice!
RedLolly<3
Asylum
I
- Carne che brucia
[Roy
Mustang]
La luce
della luna filtrava delicatamente dalla finestra dell’ufficio. Era
così leggera, così fredda. Era una luce che lui
detestava, eppure non poteva farci nulla. Di giorno c’era troppo
sole, troppa gente che brulicava nell’ufficio, e non aveva avuto
tempo per stare tranquillo, per pensare. No, non era di certo
una persona che amava buttarsi sul lavoro, e difatti non se ne stava
minimamente occupando. Aveva in testa elucubrazioni più pressanti,
il colonnello.
Una notte
come quella gli pareva solo un incubo, con quella luna gelata
(ma perché in quel momento aveva solo quell’aggettivo in testa?),
e la pioggia scrosciante che picchiava sulla finestra. Quello era un
avvenimento decisamente detestabile, sicuramente il più irritante
evento atmosferico che esistesse.
Quel
rumore, quel tic-tic continuo pareva bucargli il cervello! Era
straziante!
Roy
Mustang cercava di mantenere un certo controllo, anche se in quella
stanza era completamente solo. Le dita incrociate davanti al viso, il
volto serio e gli occhi fissi in uno sguardo glaciale, ci stava
mettendo tutto se stesso. Solo i capelli neri scarmigliati tradivano
l’agitazione che lo stava segretamente rodendo.
Era solo,
lui al sicuro nell’ufficio, le gocce d’acqua rimanevano fuori
nonostante provassero in tutti i modi ad entrare, battendo furiose
sui vetri, sua unica protezione. Un sorriso mutò lievemente la sua
espressione: era tutto così sciocco, così insensato. Roy Mustang
non aveva paura di niente, non doveva temere quella pioggia che di
certo non poteva fargli nulla di male. Era vero, spegneva
letteralmente le sue mirabolanti capacità d’alchimista di fuoco,
eppure non avrebbe dovuto temere di uscire in quel modo quella sera.
Pensò
che forse era colpa dell’incidente avvenuto qualche tempo prima,
nel Laboratorio 5. In effetti definirlo incidente era troppo, dato
che per definizione quella parola aveva una connotazione negativa.
No, per Mustang non era andata così male. Sì era ferito gravemente,
aveva sperimentato una sofferenza fisica smodata tanto da perdere la
ragione, mentre quello sciocco di Havoc si era fatto addirittura
spezzare la spina dorsale da quella reietta, quella strega, quella
puttana…
Mustang
scosse la testa, subito pentito di aver fatto quei pensieri sul suo
fidato sottoposto. Jean Havoc non si era certo ferito in quel modo di
sua spontanea volontà, ma era stato quell’Humunculus.
Ecco, gli
era tornata di nuovo in mente, e stava per ricominciare quel circolo
vizioso che lo stava tormentando sempre più spesso senza dargli
pace. La situazione si stava decisamente aggravando.
Sentiva
le mani fremere e formicolare, il sudore caldo colargli sulle tempie
e tra le scapole sotto la divisa.
Era stato
bello, era stato meraviglioso, era stato orgasmico. Una parte di lui
gli ricordava che non doveva dirlo a nessuno, un’altra gli
suggeriva di esplodere, di farlo di nuovo. Gli era piaciuto, eccome
se gli era piaciuto. Ormai sapeva che non poteva negarlo a sé
stesso, la bestia che era in lui poteva assopirsi, ma prima o poi
tornava sempre all’attacco, ed era sempre più feroce.
Stava
rivivendo quegli attimi minuto per minuto, assaporando il tempo che
era scivolato via tra le sue dita. Quante volte le aveva schioccate
quelle dita? Dieci, cento, mille volte? Non se lo ricordava. Quello
che però rammentava benissimo erano le sensazioni che aveva provato,
intense e travolgenti, bollenti e pericolose.
Aveva
avvertito l’odore della pelle di Lust che si ustionava ad ogni
fiammata, e quell’effluvio lo aveva inebriato. Aveva osservato
estasiato il fuoco consumarne le carni in uno spettacolo raggelante e
maestoso, e le sue urla di dolore per le sue orecchie erano solo una
dolce musica. Quello che aveva fatto lo aveva mandato in estasi.
L’Homunculus mozzava il fiato, era bellissima, procace, crudele. La
visione di quel corpo perfetto che bruciava più e più volte era
stato incantevole.
Ormai ne
era consapevole, e l’eccitazione permeava interamente il suo
ricordo. La pioggia poteva infuriarsi e picchiare alla finestra,
tanto lui sarebbe rimasto al sicuro, insieme ai suoi eccitanti
ricordi. Non si vergognava ad ammettere a se stesso che
l’incenerimento di un corpo vivo e pulsante era eccitante quanto il
sesso. Le cose si assomigliavano, le sensazioni di piacere immenso
che provava erano le stesse.
Il
tenente Riza Hawkeye pareva gelida come il ghiaccio, seria e
diligente quando si trovava in servizio, eppure quante volte si era
attardata sotto la medesima scrivania alla quale era seduto ora? La
conosceva bene, pareva coscienziosa e inflessibile solo
all’apparenza. Tutte le sue viscere bruciavano di passione, quando
le intimava quei tipo di ordini. Lei eseguiva tutto con uno sguardo
quasi stizzito, ma alla fine entrambi sapevano che era una specie di
farsa, di protocollo.
Effetti
collaterali dell’essere una donna bellissima e un’amica di lunga
data…
Lei non
era esente dalle sue immaginazioni. Aveva iniziato con quelle
fantasie erotiche e perverse quando lo aveva supplicato di cancellare
i tatuaggi sulla sua schiena, tanti anni prima. All’inizio si era
rifiutato con fermezza, tuttavia quando le sue preghiere
autolesionistiche lo avevano convinto si era ritrovato in paradiso.
Riza
era in ginocchio, urlava e piangeva di dolore, e
Mustang non riusciva a distogliere lo sguardo. La pelle si squagliava
e sfrigolava, i disegni parevano colare via, i muscoli e i tendini
pulsavano di vitalità mentre cercava di resistere a quel dolore
intollerabile. Quel giorno fu come fare l’amore con lei per la
prima volta. Riza Hawkeye era diventata la su bellissima e
personale martire, divorata dalle sue fiamme.
Ogni
volta che ci pensava il suo cuore iniziava a battere forte come un
tamburo, e non c’era verso di farlo smettere. Era una sensazione
malata, disordinata, straordinaria.
Sapeva
che Riza aveva un debole per lui, lo aveva sempre avuto ed era
combattuta tra il suo spiccato senso del dovere e i suoi sentimenti.
Ovviamente non poteva rivelare a quella donna la verità su ciò che
provava quando facevano sesso di nascosto, silenziosi, con quel
brivido che percorreva le loro schiene mentre si gustavano quelle
sensazioni proibite. Alla fine erano semplicemente sveltine,
tuttavia per lui significavano molto di più… E ogni volta avrebbe
voluto bruciarla e consumarla come quella stramaledetta volta dopo la
guerra di Ishval, quella che aveva dato inizio al quel delirio
allucinante! Se lo avesse fatto nuovamente avrebbe anche potuto
ucciderla. Era troppo facile perdere il controllo, ne aveva avuto
prova nel combattimento contro Lust, e Riza era troppo importante per
lui. Se l’avesse ammazzata non avrebbe mai potuto perdonarsi.
Immerso
nei suoi pensieri, Mustang rise di gusto. Se fosse entrato qualcuno
nella stanza lo avrebbe preso per matto, e non avrebbe avuto forse
ragione?
Si
sentiva le guance bollenti, la sua pelle ormai era fradicia e
accaldata, tanto che resisteva a stento dalla voglia di spogliarsi e
di stendersi sul pavimento completamente nudo. Era davvero solo la
possibilità nemmeno troppo remota che qualcuno potesse spiarlo a
farlo desistere. Sapeva perfettamente di non essere ben visto dalle
alte sfere dell’esercito e di potersi fidare solo del suo personale
team… E non era nemmeno sicuro che i suoi devoti sottoposti
potessero capirlo.
Non aveva
mai accennato a niente del genere nemmeno con il povero Maes Hughes
per paura di perdere la sua amicizia… E adesso era morto, quindi al
massimo poteva parlarne con la sua tomba. Quella ferita aveva
decisamente peggiorato le cose all’interno della sua mente, non
poteva farci nulla. La costante sensazione di non avere più nessun
confidente lo torturava nel profondo dell’animo. Nessuno poteva
prendere il posto di Hughes, nemmeno Riza, ma lei era un caso
particolare…
Poi c’era
quell’Edward Elric…
Mustang
si incurvò nella propria sedia, gemendo, mentre il cervello gli
ribolliva nel cranio.
Era un
ragazzo interessante. Non che lo conoscesse benissimo, non avevano
alcun tipo di confidenza al di là dei rapporti lavorativi, ma aveva
visto subito che era una persona sopra le righe ed estremamente
talentuosa come alchimista. Aveva notato che era anche una testa
calda, sfrontato e testardo. Il rispetto non faceva parte delle sue
qualità, però aveva altri assi nella manica: appunto, aveva
un’inclinazione smisurata per l’alchimia rispetto alla sua
giovane età, l’ostinazione nel raggiungimento dei suoi obiettivi,
la lealtà totale verso il suo sfortunato fratello Alphonse... La sua
personalità stuzzicava la mente del colonnello.
Se a
causa di quel suo carattere irruente si fossero scontrati nel giorno
sbagliato, lo avrebbe torturato bruciandolo vivo come aveva fatto con
Lust? No, avrebbe dovuto fare più attenzione, perché lui non
avrebbe avuto tutte quelle possibilità di rinascere.
Nella sua
mente prese forma un’allucinazione paradisiaca: il giovane Edward
cuoceva lentamente nell’armatura del suo stesso fratello,
alimentato dal fuoco alchemico che arroventava il metallo ad ogni
fiammata. Lo immaginava contorcersi senza trovare pace, gridando,
mentre il suo corpo nudo si ustionava.
Quel
pensiero iniziò a tormentarlo, e no, non c’era più traccia di
alcuna lucidità nella sua mente ormai.
La sua
pelle e i suoi capelli inceneriti sarebbero stati una visione
celestiale?
La sua
carne bruciata avrebbe avuto lo stesso splendido odore?
Le sue
urla di dolore lo avrebbero altrettanto entusiasmato?
Mustang
aveva quasi paura di rispondere a quella domanda… Ovviamente sì.
Gli sarebbe piaciuto, e sapendo che carattere aveva quel biondino
impertinente non sarebbe stato nemmeno troppo difficile trovare una
scusa per giocare con lui. L’idea che tutto questo non fosse poi
una teoria così azzardata lo mandava in estasi. Il suo autocontrollo
gli avrebbe impedito di bruciarlo vivo, ma nel fantasticare non c’era
niente di male, vero?
Febbricitante
d’eccitazione, Mustang sollevò la cornetta del telefono appoggiato
sulla scrivania. Sapeva di essere tracciato, e non avrebbe detto
nulla di troppo sconveniente.
Al di là
del filo, una voce femminile assonnata rispose qualche parola poco
comprensibile.
«Tenente,
Hawkeye, sono Mustang. Deve venire nel mio ufficio, qui c’è un
problema grave.»
Certamente
era un problema grave il suo. Era difficile rimanere serio,
sconvolto com’era.
«Colonnello…
Ma sa che or…»
«Certo
che so che ora è, tenente, non mi faccia domande stupide. Venga qui
immediatamente, ho detto. Ho bisogno di lei, non me lo faccia
ripetere.»
«Va
bene, arrivo subito…»
Sarebbe
stata una lunga notte per Mustang, ne era certo.
Nel
frattempo, nel buio della notte, aveva smesso di piovere.
a
Pirofilia:
disturbo psicoaggressivo facente parte delle parafilie,
per
il quale il malato riceve gratificazione di natura sessuale
nell'incendiare qualcosa.
Chi
ne è affetto utilizza il fuoco come mezzo per provare piacere,
in
quanto vedere i risultati dei propri incendi gli provoca una grande
euforia.
Non
sono in genere presenti altri sintomi.
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Capitolo 2 *** II – Cure amorevoli di una ragazza sola [Winry Rockbell] ***
II
– Cure amorevoli di una ragazza sola.
[Winry
Rockbell]
Era sola.
Completamente sola.
Tutti si
erano congratulati con lei, eppure nessuno le era mai parso realmente
accanto. Le persone che la circondavano le erano sembrate lontane,
indistinte, estranee.
Winry
Rockbell odiava la sua condizione, e malediva il giorno
detestabile in cui aveva dato una possibilità ad Edward Elric.
Avrebbe dovuto ascoltare quella vocina nascosta che le diceva “Stai
facendo una cretinata, stupida che non sei altro!” mentre lei
cos’aveva fatto? Aveva ascoltato il suo sciocco cuoricino
palpitante e aveva gioito nello scoprire che Ed teneva a lei molto
più di quanto si aspettasse. Lui, quel ragazzo testardo, incapace di
stare fermo, scapestrato, attaccabrighe, distruttore
di automail! Non c’era una persona al mondo
che poteva competere con lui nel farla infuriare… Eppure lo amava,
lo aveva sempre amato e ammirato, quindi poteva definirsi lei stessa
l’artefice della propria rovina.
Winry
non poteva non pensarci anche in quel momento,
abbandonata stancamente su una sedia in legno scricchiolante al piano
di sopra della sua piccola casetta a Resembool, casetta che
continuava a dividere con l’anziana nonna Pinako… E da poco,
anche con il suo bambino. Quella piccola creatura rugosa e urlante
che aveva sgravato nemmeno da un mese.
Almeno
una cosa era migliorata, lo ammise tra sé e sé, guardando il
tramonto rosato e spruzzato di pagliuzze aranciate: non doveva più
sopportare quel peso gravoso nella sua pancia. Gli ultimi mesi della
gravidanza erano stati un inferno. Si era sentita goffa, pesante,
perennemente sudata, con le caviglie che assomigliavano a due
zampogne violacee, incapace di muoversi come avrebbe voluto e di
costruire di conseguenza i suoi amati automail. Aveva passato notti
insonni in cui non trovava una posizione comoda e si sentiva
continuamente soffocare, aveva avuto dei picchi ipertensivi ed era
stata terrorizzata dal parto. In parte si era resa conto che il suo
malessere era semplicemente una conseguenza delle poche informazioni
che aveva ricevuto durante tutta la sua vita riguardo ad un momento
così particolare. I suoi genitori erano morti, e Pinako… Era
comunque una donna di un’altra generazione, non era in grado di
spiegarle in modo dettagliato cosa le stesse succedendo. Non aveva
amiche della sua età che aspettassero figli, non aveva nemmeno una
suocera amichevole con cui confidarsi, era sola. Lo era sempre
stata.
Tante
volte aveva pensato di telefonare a Riza Hawkeye, oppure alla signora
Hughes… Ma per dire loro cosa? Che si sentiva gonfiare, che aveva
la nausea, che le cedevano le gambe, che aveva paura di partorire?
Ogni volta che aveva afferrato la cornetta aveva poi desistito
scuotendo la testa. Erano dilemmi stupidi. Pinako le aveva detto che
una donna sapeva per istinto cosa fare quando portava una vita in
grembo, e Winry si era sentita terribilmente inadeguata. Perché lei
non era serena come tutte le madri che aveva conosciuto?
Ancora in
quel momento, dopo che quella tortura era terminata, dopo che aveva
partorito in quella stessa stanza, sostenuta unicamente dall’anziana
e dal medico di Resembool, la sua Anima non era per nulla in pace.
Girando
un poco il capo, si guardò allo specchio sulla parete, e vide solo
una ragazza. Una bionda ventenne con i tratti da bambina che era
dovuta crescere troppo in fretta. Sì, lei e Edward avevano avuto una
svista, non sapeva nemmeno bene come fosse successo… Eppure alla
fine pareva quasi che l’unica che stesse patendo le conseguenze di
quell’imprecisata notte di passione fosse lei. Lui era partito come
al solito mesi prima. Non riusciva a stare fermo, era più forte di
lui, doveva viaggiare, cercare, sperimentare… Lui, che si era
sempre lamentato di come Hohenheim aveva abbandonato la sua famiglia,
pareva comportarsi nello stesso modo con lei, tuttavia non riusciva
ad odiarlo. Non ce la faceva.
Winry
sospirò, dondolandosi appena contro lo schienale di
legno ruvido. Il neonato dormiva in un lettino contro la parete a
destra, ne percepiva il respiro lieve e regolare. Aveva sul capo una
rada peluria dorata, e somigliava così tanto a suo padre… Se
non fosse stato per il fatto che fosse malato. Chiamava il dottore
tutti i giorni, eppure costui non era in grado di dare nessuna
spiegazione certa. Le diagnosi erano incerte, talvolta anche
fantasiose. Il medico aveva provato ad immaginare qualsiasi cosa, da
un occlusione del piloro ad un’infezione gastro-intestinale, da un
allergia al latte materno ad un’epatite. Gli esami non confermavano
nessuna di queste problematiche.
Quando
era venuto al mondo sembrava sano, eppure dopo pochi giorni aveva
iniziato a prendere pochissimo peso ed era diventato pallido, smunto.
Sì, era stato un errore, eppure non voleva che il piccolo morisse…
Era sempre il suo bambino, ed era così spaventata, ma anche
fiduciosa che prima o poi sarebbe guarito… Se solo Edward fosse
tornato, si sarebbe tutto risolto, ne era sicura.
Quando il
telefono squillò Winry saltò sulla sedia, persa com’era nei suoi
torbidi pensieri. Scattò in piedi velocemente e si diresse
trepidante verso la scrivania, per sollevare la cornetta
dell’apparecchio che strepitava. Se il piccolo si fosse svegliato
sarebbe stato difficile farlo riaddormentare, e quella piccola
creatura indifesa si meritava un po’ di riposo per quell’Inferno
che stava passando.
«Pronto.»
rispose con voce infastidita.
«Winry,
sono Ed! Come stai?»
Le guance
di lei si scaldarono imporporendosi. Avrebbe voluto urlare e
insultarlo, tuttavia quella volta non ci sarebbe riuscita. Non voleva
che le sbattesse in faccia la telefonata, non voleva più essere
sola…
«Io…
Più o meno… Sono molto stanca… Ed… Ti prego, devi tornare…»
«Sto
tornando, Winry! Te l’ho promesso! Come sta il bambino?»
«Come
ieri… Ho paura, Ed, per favore… Non voglio che… Che gli succeda
qualcosa di brutto… E tu nemmeno l’hai visto, non l’hai preso
in braccio neanche una volta, ti prego…»
Aveva le
lacrime agli occhi, e Ed non poteva nemmeno vederla. Tutta quella
situazione la faceva stare tanto, troppo male, era un maledetto
incubo. Ascoltare la voce del suo amato al telefono era uno strazio,
così piangeva silenziosa, inerme.
«Winry,
calmati. Ancora pochi giorni e arriverò da te, te l’ho detto che
sto tornando indietro, ma ci vuole tempo, i treni sono lenti!
Davvero, tra tre giorni al massimo sarò arrivato! Tu devi stare
tranquilla!»
La faceva
facile, Edward. Non era lui quello isolato dal mondo nella sua
casetta, in un villaggio delizioso alla vista ma popolato da gente
ignorante e irrazionale che non l’aveva
minimamente aiutata durante la gravidanza. Non aveva dovuto subire le
occhiatacce delle pettegole che sparlavano di quella giovane e
avvenente biondina che non aveva saputo tenere chiuse le gambe.
Le
brave ragazze sanno utilizzare le precauzioni e l’uomo, si sa, è
cacciatore di natura. Queste erano le cose
che aveva udito dire alle sue spalle e l’avevano ferita così
tanto. Anche Pinako all’inizio si era infuriata con lei e l’aveva
riempita d’insulti, ma per fortuna poi le era passata… Era sempre
sua nonna, e l’affezione che provava sia per la nipote che per quel
ragazzo testardo l’aveva avuta vinta sulla rabbia che aveva
provato.
Adesso
poi che il bambino era malato un sacco di gente veniva a casa sua a
darle un poco di solidarietà, e anche se il modo di fare di certi
individui era a dir poco stucchevole, tutto sommato le faceva un po’
di piacere. Anelava al sentire parole confortevoli come un assettato
all’acqua nel deserto.
«Grazie,
Ed… Io ti aspetto…»
«Non
vedo l’ora di rivederti! Adesso ti lascio o i padroni di
quest’albergo mi fanno pagare un sacco di soldi per questa
telefonata! Ti voglio bene!»
«Anche
io, buona serata…»
Ti
voglio bene, certo. Edward non diceva quasi
mai di amarla, e non sapeva nemmeno il perché. Questo la confondeva,
la inquietava. Era sempre gentile e premuroso, allora perché non
confessava liberamente i suoi sentimenti? Si vergognava ancora dopo
tutto quel tempo che era passato dal giorno in cui aveva fatto una
fatica del Diavolo a chiederle un appuntamento? O forse stava
frequentando qualcun altro?
Quella
telefonata le lasciò l’amaro in bocca. Riagganciò con un gesto
sfibrato la cornetta, per poi dirigersi verso il lettino. Osservò
silenziosa il neonato che fortunatamente aveva continuato a riposare,
poi lo accarezzò dolcemente su una guancia. Era così piccolo ed
indifeso…
Risollevatasi,
uscì in punta di piedi dalla stanza e scese al piano di sotto per
controllare come fosse la situazione nella casa.
Pinako
sedeva incastrata in una poltroncina foderata di stoffa
verde, e si scaldava coprendosi le gambe con una pesante coperta
tartan. Appena vide giungere la nipote nel modesto salottino, le
indirizzò un sorriso sdentato e rugoso.
«Allora,
come stai? Non ti sei fatta molto vedere questo pomeriggio, non avevi
voglia di mangiare i biscotti che ti avevo preparato per merenda?»
le chiese premurosa.
«E’
che il piccolo sta male, nonna, lo sai. Voglio passare tutto il mio
tempo con lui, mentre aspetto che Edward torni…»
«Quel
mascalzone quando arriva mi sentirà! Possibile che ci metta così
tanto tempo? E’ proprio sconsiderato, l’ho sempre detto! Cocciuto
e irresponsabile, non come te che sei una ragazza matura! Ti prendi
proprio bene cura del piccolino, non l’avrei mai detto! Sei
un’ottima madre… Bambina mia, vedrai che andrà tutto bene, e poi
ci sono qui io con te! Non ti lascerò certo da sola!»
Winry
annuì sedendosi sul pavimento, vicino alla nonna. Le
accarezzò lentamente una mano segnata dalle macchie della vecchiaia,
scarna e ossuta, per poi darle un delicato bacio affezionato.
Alla fine
quel bambino malato non era una sventura così grande. Aveva
ovviamente paura che morisse, la cosa l’avrebbe distrutta, eppure
sentiva rivolta verso di sé un’attenzione che probabilmente in
pochi le avrebbero riservato se fosse andato tutto bene: le persone
di Resembool avrebbero continuata ad additarla come una meretrice,
Pinako avrebbe continuato a non parlarle e a trattarla male, Edward
forse non avrebbe nemmeno voluto tornare. In questo modo invece anche
se si sentiva sola, il modo iniziava ad accorgersi di lei e del suo
stato d’animo.
«Winry,
tesoro, perché non mi porti giù la creaturina? Non posso fare le
scale, lo sai… Ma vorrei tenerlo in braccio un po’, così tu puoi
riposarti. Ha una faccia stravolta, lasciatelo dire piccola. Metti
qualcosa sotto i denti che mi sembri uno scheletrino pure tu, con
tutte le energie che gli dedichi.»
«Va
bene, nonna, sei molto gentile… Però prima devo dargli da
mangiare. Te lo porto subito di sotto appena ho finito!»
La
ragazza si rialzò e tornò a piano di sopra velocemente, ormai
completamente rasserenata. Quando si sentiva sola poteva sempre
contare sull’effetto che il suo figlio malato faceva sugli altri.
Sorrise
amabilmente, mentre sollevava con dolcezza il frutto del suo ventre
dal lettino, svegliandolo con parole dolci. Il neonato distorse il
viso in una smorfia contrariata, e aprì la bocca sdentata per
emettere un grido di disappunto.
Winry
non ci avrebbe messo molto tempo a dargli da mangiare.
Aveva a portata di mano un biberon preparato già dal pomeriggio, con
dentro la sua pappa speciale fatta di caffè nero e un po’ di
lassativo.
Strinse
teneramente al petto il bambino singhiozzante, per trasmettergli un
po’ del suo calore.
Sì, era
spaventata, ma sarebbe andato tutto bene dopo che Edward sarebbe
tornato. Sapeva che loro figlio sarebbe guarito.
A
Sindrome
di Münchhausen per procura:
si
tratta di un disturbo mentale che affligge perlopiù donne madri,
e
le spinge ad arrecare un danno fisico ai figli
(solitamente
neonati o comunque piccoli)
per
farli credere malati e attirare l'attenzione su di sé.
Il
genitore viene così a godere della stima e dell'affetto delle altre
persone perché apparentemente si preoccupa della salute dei propri
figli.
Quello
che stupisce è che queste madri sono straordinariamente cooperative
e
vengono considerate affettuose e amorevoli.
I
metodi usati per creare sintomi nei figli sono eterogenei e spesso
crudeli,
e
le madri affette non provano alcun senso di colpa o rimorso.
Il
ruolo del padre è misterioso e incerto.
Il
più delle volte è assente dalla vita familiare,
lasciando
sola la moglie nel periodo delicato del puerperio.
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Capitolo 3 *** III – L’uomo triste e la principessa di pezza [Hohenheim] ***
III
– L’uomo triste e la principessa di pezza. [Hohenheim]
Lo studio
era tetro. L’unica fonte di luce era una piccola lampada ad olio,
che rischiarava la piccola stanza con una luce giallina e tremula.
Hohenheim
aveva bisogno di stare in quella stanza con le persiane
sbarrate, seduto curvo sulla sua scrivania.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Non
sapeva che ora fosse, poteva essere anche già calata la notte, non
era importante. Le finestre dovevano rimanere oscurate, lui doveva
rimanere nascosto, rintanato nella sua tana.
Quella
vita era così ingiusta ed intollerabile! Aveva vissuto per centinaia
e centinaia di anni, e nel momento in cui gli era parso di trovare
finalmente ciò che cercava si era ridotto in quello stato. C’era
tensione in lui, il suo sesto senso gli diceva di stare all’erta,
perché il Piccolo Uomo nell’Ampolla di certo non si era fermato,
non dormiva, lui tramava, ingarbugliava, disfaceva, confondeva le sue
tracce, complottava, spostava le sue pedine, ne era certo… E lui
cosa faceva invece? Si era lasciato trasportare mollemente dalle
acque tranquille e sicure della vita familiare.
In quei
pochi anni in cui si era imposto di rilassarsi non aveva fatto altro
che sentirsi in colpa. Paradossale, no?
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Con la
coda dell’occhio era perennemente all’erta in ogni istante: tutti
potevano essere dei nemici, il mondo era un luogo ostile, lo aveva
imparato a proprie spese, e di anni per apprendere ne aveva avuti fin
troppi.
Era tanto
tempo che non usciva più dalla casetta di Resembool. Il mondo ormai
lo aveva visitato tutto palmo a palmo.
Avvertiva
ansia. Perfino il silenzio con cui cercava di circondarsi alla fine
era assordante e lo innervosiva in modo terribile. Non
esisteva nulla che non lo facesse impazzire di preoccupazione: dal
vento al buio, dalla folla al vuoto, dalle risate al pianto. Si
sentiva delirare e si isolava, tutto poteva essere una minaccia in
quel mondo crudele. Passava così le giornate in quello scuro studio
che sapeva di aria stantia, di polvere e di vecchio, proprio come
lui.
Non
sapeva dire nemmeno da quanto tempo si fosse rifiutato di vedere
Trisha, forse erano passate ore, forse addirittura giorni. Gli era
evidente di essere un gran codardo, oltre che un incapace.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Lei non
lo disturbava mai, come se comprendesse a sua volta la gravità della
situazione. Era proprio una moglie devota, che provava con tutta sé
stessa a compiacerlo e ad aiutarlo… Era straordinaria nella sua
infinita semplicità.
Hohenheim
una cosa la ammetteva perfettamente: non aveva mai
provato un tale sentimento per nessun altro al mondo. Strano a dirsi,
si era innamorato proprio di lei, che era così poco appariscente,
senza alcun tipo di istruzione, spensierata come se fosse rimasta
bambina. Lui, con tutte le conoscenze che aveva acquisito, provava un
amore trascendentale e profondo per una donna che aveva difficoltà
persino a scrivere una lettera formale, e le cui conoscenze
matematiche e scientifiche si fermavano alle quattro operazioni,
possibilmente senza numeri decimali.
Quando le
aveva confessato la verità sulla sua longeva vita lei aveva sorriso,
solo sorriso, quella povera, piccola, ignorante Trisha Elric,
Principessa di Pezza nel suo piccolo mondo di polvere…
La verità
era che lei non capiva proprio nulla. Per quanto si sforzasse non era
in grado di comprendere il pericolo che la circondava da quando lo
aveva conosciuto, e Hohenheim prima o poi sarebbe stato costretto a
prendere dei provvedimenti. La cosa lo terrorizzava, eppure un giorno
avrebbe dovuto andarsene per proteggerla, per non vederla morire.
Doveva solo convincersi…
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
L’imponente
uomo si asciugò le gote tirando nel frattempo su con il naso, ingoiò
lo spesso nodo che gli si era formato in gola e si alzò dalla sedia
scricchiolante. Il suo passo era incerto e lento, stanco, come se
sentisse sulle spalle il peso di tutti gli anni che aveva vissuto e
di tutte le anime che aveva assorbito involontariamente dopo essere
stato ingannato. No, non sarebbe più successo, nessuno lo avrebbe
più tradito.
Aprì la
porta lievemente, permettendo ad una lama di luce artefatta di
entrare della stanzetta. Era sera o notte, evidentemente.
«Trisha…»
Il suo
richiamo era basso e roco, lamentoso.
«Trisha,
dove sei?»
Avvertì
un rumore di passi e aspettò.
La donna
arrivò in poco tempo e sul suo viso pallido e insalubre poteva
notare un’espressione sollevata e felice. La sua pelle emanava
costantemente l’odore tipico e malsano della malattia: odorava
lievemente di sudore, di latte e di cavolo.
Povera
Principessa degli Stracci, non capiva proprio nulla…
«Finalmente
sei uscito da lì… Volevo portarti la cena, ma avevo paura di
disturbarti, e così l’ho lasciata in cucina. Ho fatto una minestra
di cereali, però sarà diventata fredda, se vuoi mangiare vado a
darle una scaldata veloce…»
«Hai
chiuso le imposte?»
La sua
domanda affettata non la colse nemmeno tanto di sorpresa, era
abituata a quel genere di domande.
«Sì,
caro, ho chiuso tutto come al solito, stai tranquillo… Non
succederà nulla… Non piangere…»
Come
faceva ad esserne così sicura? Era evidente che fosse troppo
ottimista, Trisha. Ottimista, infantile, bellissima, incolta, malata.
Non riusciva ad adirarsi con lei per la sua ingenuità, anche se
avrebbe voluto. L’emozione che provava maggiormente era un profondo
senso di angoscia e di paura che potesse succederle qualche
disgrazia. Il Piccolo Uomo nell’Ampolla conosceva le sue debolezze,
sapeva che il suo più grande desiderio era stato quello di avere una
famiglia, e ora che era riuscito ad ottenerla viveva nel terrore che
quell’infame potesse fare a pezzi tutto ciò che amava.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
Trisha
era meravigliosa come un angelo anche in quel momento.
La sua voce era delicata, il suo sorriso delizioso. Non c’era una
singola parte di lei che non adorasse, dai suoi capelli al modo
impacciato con cui gli chiedeva di aiutarla nelle situazioni più
disparate. In quel momento non c’era nulla di più gradevole alla
vista della curva dolce del suo ventre carico di vita. Era in attesa
del suo bambino, il suo secondo figlio. Come poteva pensare, la
povera Trisha, che quella sottile barriera di pelle e tendini potesse
essere una protezione sufficiente per lui? Chiunque avrebbe potuto
ferirli entrambi, far loro del male, e la malattia già la consumava
irrimediabilmente da tempo… Possibile che non se ne rendesse conto
da sola, che dovesse pensarci lui? Era così nervoso e
preoccupato… Aveva desiderato quei figli con tutto sé stesso, non
poteva perderli… Amava già alla follia anche quello che ancora
doveva vedere la luce, nonostante le difficoltà e i pensieri crudeli
che continuavano incessantemente a tormentarlo. Amava Edward, il suo
primogenito nato circa un anno prima, a dispetto di tutto quello che
gli sembrava di percepire: quel bambino così piccolo pareva non
essere in alcun modo legato a lui, viveva esclusivamente in simbiosi
di sua madre.
«Edward…
Sta dormendo?» chiese timidamente ora che gli era venuto in mente il
figlio.
«No, sta
gattonando per casa, penso che sia giusto che faccia le sue scoperte…
Però tra poco lo metto a dormire… Anche io sono molto stanca…»
rispose lei sorridendo, prima di pendergli una mano umida di lacrime
e di appoggiarla dolcemente sul suo ventre gonfio «Oggi non ha
smesso un attimo di scalciare! Ho bisogno di riposare… In più Ed
consuma tutte le mie energie.»
«Hai
visto che lui con me non ci vuole stare. Non gli piaccio.»
«Ma sei
suo padre, non puoi non piacergli! Secondo me devi solo passare più
tempo con lui… Non lo prendi mai in braccio, non gli racconti le
favole, non lo fai addormentare… Perché non ci provi almeno? Io so
che tu lo ami… Però glielo devi dimostrare…»
Povera,
piccola, ignorante Trisha.
Hohenheim
aveva un figlio che già lo odiava, lo aveva letto nei
suoi occhietti dorati così intelligenti. Non sapeva spiegarsi
nemmeno troppo bene come facesse a presagire una cosa del genere, era
quella solita maledetta sensazione che non smetteva un attimo di
tormentarlo… Eppure nonostante tutto, si era promesso che non
avrebbe mai smesso di proteggere il suo piccolo Ed…
Non
avrebbe avuto il coraggio di assistere anche alla sua morte, quando
questa era la punizione spietata a cui il destino (o forse era meglio
dire Il Piccolo Uomo nell’Ampolla?) lo aveva condannato… E ciò
lo spaventava, aveva il terrore che gli riempiva l’animo al solo
pensare che sarebbe stato inevitabile, e li avrebbe visti spirare
tutti quanti. Come avrebbe voluto proteggere i suoi cari anche dalla
Morte…
Non
poteva fare a meno di pensare che alla fine fosse solamente colpa
sua. Con il suo egoismo, con la sua voglia smodata di avere una
famiglia, aveva condannato la dolce Trisha e i suoi figli ad una vita
difficile e pericolosa.
Sì, era
stato uno stupido a lasciarsi trasportare in quel modo dai suoi
sentimenti… Per il suo bene non avrebbe mai dovuto dichiararsi
durante quella serata estiva, non avrebbe dovuto baciarla, sfiorarla,
fare l’amore con lei, permettere a quei bambini infelici di venire
al mondo… Ora era tutto troppo difficile e doveva sbarrare le
finestre e chiudersi in quello stupido studio a fare i conti con i
propri demoni, mentre nella sua testa i pensieri contrastanti
lottavano furiosamente. Voleva rinchiudere sua famiglia nel suo
piccolo nido sicuro, eppure sapeva che quell’oppressione avrebbe
potuto spezzare il cuore della sua giovane moglie, oltre che il suo
fisico già affaticato e cagionevole.
Con
questi pensieri in mente si voltò lentamente scostando la sua mano
piccola e leggera.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
«Mi
dispiace per tutto questo, Trisha… Io non volevo… Non voglio
farti soffrire… Non voglio che Edward mi disprezzi… Tutti a
questo mondo mi odiano. Prima o poi lo farai anche tu…»
«Non ti
odio, caro… Non potrei mai odiarti…»
Lei
sorrideva ignara, cercando di consolarlo.
Lo
accompagnò nella stanza appoggiandosi al suo fianco forte, beandosi
del suo calore, pronta a confortarlo amandolo ancora una volta,
regalandogli il suo corpo nudo e morbido nelle forme.
Trisha
Elric era una moglie amorevole e devota al proprio
marito.
Hohenheim
pianse. Pianse tutto il tempo abbracciato
spasmodicamente al corpo fin troppo perfetto di lei, mentre due
piccoli occhi dorati ed intelligenti scrutavano le ombre protagoniste
di quella scena surreale, che di lì a poco si sarebbe persa
nell’oblio della mente di bambino di poco più di un anno.
Hohenheim
non se ne accorse mai.
E le
sue grandi mani tremavano leggermente, le lacrime colavano sulle sue
guance, il suo cuore batteva irrequieto.
A
Disturbo
paranoide di personalità:
è
un disturbo di personalità
caratterizzato
dalla tendenza persistente ed ingiustificata
a
percepire e interpretare le intenzioni, le parole e le azioni degli
altri
come
malevole, umilianti o minacciose per la propria persona
o
per le persone a cui il paranoico vuole bene (figli, genitori,
famigliari...).
Il
mondo esterno è vissuto come ostile e guardato con diffidenza e
sospettosità,
con
conseguente predilezione per uno stile di vita solitario.
Tutto
questo porta le persone che soffrono di questo disturbo ad avere un
atteggiamento ipervigilante (ricercano segnali di minaccia, di
falsità e di pericolo).
La
sensazione che si vive è quella dolorosa di essere escluso, in
quanto non voluto,
di
essere emarginato, e prevarranno ansia, tristezza, senso di
solitudine e astenia,con la conseguente tendenza ad isolarsi, a
ritirarsi dal mondo.
Gli
individui con questo disturbo possono sospettare, senza reali motivi,
che il partner sia infedele o gli altri familiari li disprezzino.
La
sensazione di minaccia non viene mai considerata come una fantasia o
un’ipotesi, ma come un dato di realtà assoluto e certo.
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Capitolo 4 *** IV – Il rito [Riza Hawkeye] ***
Per
Alice, che stalkerizzo in continuazione! Grazie per come mi
sopporti!<3 Semplicemente, ti adoro!
Ringrazio
anche tutti quelli che leggono questa mia strampalata raccolta, in
particolare coloro che recensiscono! Grazieeeee! Mi fate venir voglia
di essere sempre più cattiva con questi poveri personaggi… Spero
che questo capitolo sia di vostro gradimento, anche se, vi avverto, a
mio avviso è particolarmente crudo e non adatto a chi è
particolarmente sensibile, tanto che valuterò se cambiare il
rating e metterlo rosso… Vedrò cosa fare!
Grazie
nuovamente!
Lolly
IV
– Il rito. [Riza Hawkeye]
L’aria
nella stanza aveva un odore bizzarro. Sapeva di profumo fruttato da
donna, di deodorante ambientale al patchouli, di colonia maschile, di
sudore, di lenzuola pulite. Quello era l’odore del sesso,
l’effluvio che precedeva il rituale che si sarebbe consumato poco
dopo. Era sempre così, ormai ne era consapevole. Unirsi carnalmente
all’uomo che amava, che adorava in modo talmente viscerale
che si sarebbe fatta uccidere per lui, era il preambolo sacro alla
sua personale e profana funzione. Il tutto aveva un qualcosa di
mistico, di estatico, di espiatorio, nonostante il tutto fosse così
carnale e terreno.
Li
poteva sentire tutti, i suoi vischiosi organi interni, che si
contraevano e si rilassavano in continuazione… Merito
dell’autocontrollo che aveva imparato ad assumere sul proprio
corpo. Una tiratrice come lei era in grado di governarsi alla
perfezione.
Riza
Hawkeye sapeva di non essere una
ragazza come le altre. Dal suo punto di vista la su vita era
stata straordinaria, avventurosa, eppure anche triste. Terribilmente
triste.
Sua
madre era morta quando lei era una bambina, suo padre non si era mai
troppo curato di lei, anzi, per lui era solo un contenitore
alchemico, un guscio vuoto. Non l’aveva mai amata. Avrebbe dato
qualsiasi cosa, quando era piccola, per ricevere un abbraccio,
qualche parola di conforto, un complimento per le sue eccellenti doti
di mira, e invece tutto questo all’uomo che le aveva dato la vita
non era mai interessato. Solo la sua schiena aveva per lui un qualche
tipo di malsana attrattiva, con quei tatuaggi che le aveva fatto
costringendola con la forza. Quante cose aveva fatto subire con la
forza… Solo a
ripensarci, Riza non sapeva se ridere o piangere. Forse era stata una
stupida, non aveva mai detto nulla a nessuno, nemmeno al colonnello
Mustang, nonostante fosse sicura che lui sospettasse, che lui avesse
visto ma non voleva parlarne. Riza era solo una bambina che voleva
cancellare tutte le cose orribili che le erano capitate…
Suo
padre non l’aveva veramente violata, ma per lei era lo stesso.
Anche se la sua verginità non era stata intaccata, con le sue
parole, con il modo disumano con cui l’aveva sempre trattata,
l’aveva stuprata, l’aveva violentata nel profondo della
sua Anima. Lei era stata solo carne da macello da toccare, da
studiare. Aveva odiato le sue mani quando le accarezzavano con
reverenza la sua schiena nuda, l’unica parte di lei che valeva la
sua attenzione, le parole affettate e rivoltanti che le dedicava in
quei momenti. Era stata un misero pezzo di pelle e null’altro per
quell’uomo maledetto. No, non l’aveva violata mai, eppure si
sentiva come se lo avesse fatto: colpevole, lurida dentro e
esecrabile. L’aveva sporcata e oltraggiata sfiorandola e ferendola.
Ricordare il suo tocco, il dolore dell’ago che iniettava
l’inchiostro nel derma, la sua voce maniacale le faceva salire la
nausea.
“Bambina
mia, sei perfetta!”
“Lo
sai anche tu che lo devi fare! Ci siamo votati ad una causa superiore
e tu sei il fulcro di tutto!”
“Non
devi dirlo a nessuno, sarà il nostro piccolo segreto!”
La
donna scosse la testa, cercando di scacciare via tutti quei pensieri
che la disturbavano e che in quel momento non la facevano dormire.
Soffriva di insonnia sempre più spesso, ma le compresse di
Fenobarbitale che il medico dell’esercito le aveva prescritto erano
rimaste nella loro confezione immacolata, appoggiata ordinatamente su
una mensola del bagno, in bella vista. Erano lì, le procuravano una
sensazione di sicurezza. Il dottore le aveva garantito che si
trattava di un farmaco scoperto da poco e che era molto efficace
contro l’insonnia e le situazioni ansiogenee. Riza aveva annuito,
evitando di rivelare quello che già era ovvio: non ne avrebbe
assaggiata nemmeno una. Se le avesse volute avrebbe potuto prenderle
quando non si sarebbe più sentita abbastanza forte.
Forse
era addirittura meglio così: quelle poche volte che riusciva ad
addormentarsi la sua mente partoriva incubi terrificanti. Le visioni
di donne che donne non erano, di scheletri coperti di pelle macilenta
che si massacravano a vicenda a mani nude, scorticandosi, e poi
ridevano di lei, le dicevano che era disgustosa, eppure lei cercava
sempre di aiutarli, di farsi perdonare portando loro da mangiare
perché erano così deperiti… E loro invece vomitavano…
Era tutto così nauseante…
Sdraiata
nel letto, si era rannicchiata tra le lenzuola in posizione fetale.
Uno spiffero entrava dalla finestra appena socchiusa.
La
sua schiena nuda, illuminata dalla gelida luce lunare, era devastata
da profonde ustioni, dilaniata da simboli ormai incomprensibili che
mai avrebbe voluto vergati sulla sua pelle. Non c’era stata altra
soluzione, aveva dovuto sopportare un dolore spaventoso, avvertire il
proprio corpo sciogliersi e bruciare per liberarsi di quell’incubo.
Accanto
a lei, il giovane uomo che all’epoca aveva acceso quelle fiamme,
dormiva. Avvertiva il respiro profondo e regolare del Colonnello. Lui
non aveva alcun problema con il sonno. Dopo l’estasi ardente che
lei gli regalava durante quelle notti proibite si addormentava sempre
appagato come un bambino, senza dirle nulla.
Riza
tremò appena, l’epidermide
che si accapponava per pochi attimi prima di rilassarsi nuovamente
avvertendo il calore del corpo di Mustang accanto al suo.
Preferiva
di gran lunga restare così, sveglia e in tensione, preparata ad
alzarsi e sparare al minimo segno di pericolo con la pistola che
teneva incastrata tra il muro e il materasso; con gli occhi color
nocciola spalancati come fanali nella semioscurità grigia e fredda,
piuttosto che rimanere insonnolita e instupidita dai barbiturici. Sì,
erano dei farmaci che aveva già visto utilizzare, inventati e messi
in commercio di recente. Molti militari li utilizzavano per attenuare
l’ansia, i sensi di colpa e gli incubi ricorrenti. Tanti, troppi
soldati si erano ritrovati in quelle condizioni dopo la guerra di
Ishval, le loro menti si erano ammalate a causa di tutte quelle
brutture a cui avevano assistito, ed ecco che ognuno cercava di
trovare un dolce veleno con il quale dimenticare almeno in parte
quegli orrori: c’era chi annegava la tristezza nell’alcool fino a
quando il fegato non diventava un pezzo di legno, c’era chi passava
intere nottate nei bordelli incurante della lue che prima o poi lo
avrebbe contagiato e ucciso, chi ancora nei barbiturici, farmaci che
annebbiavano la mente, creavano una dipendenza fisica e conducevano
chi ne faceva uso ad una specie di letargo cerebrale, mentre il corpo
ne chiedeva sempre di più per ricevere dei benefici...
Riza
aveva orrore di tutto questo.
Lei non era tanto debole, era forte, determinata. Aveva passato di
tutto durante la sua vita travagliata, la sua moralità, il suo senso
profondo del dovere e la sua fedeltà erano il pilastro saldo su cui
il Colonnello poteva sempre contare. Se si fosse ridotta ad uno stato
larvale in quel modo, come avrebbero fatto tutti quanti? Il Team
Mustang si aggrappava a lei e alla sua operosità, senza riuscire a
capire quanta corazza aveva dovuto costruirsi da sola, pezzo dopo
pezzo.
Una
bambina bionda sdraiata a pancia in giù su un vecchio tavolo di
legno piange in silenzio, la guancia destra arrossata appoggiata
sulla superficie ruvida, già umida di lacrime. Cerca di mantenere il
controllo, di essere coraggiosa e resistere al dolore di quella
tortura. Gli aghi le bucano incessantemente la pelle virginale,
rivoletti di sangue scuro colano pigramente sui suoi fianchi. Suo
padre lavora febbrilmente su di lei senza ascoltare i suoi lamenti e
le sue suppliche, completamente rapito dalla solennità del momento,
in preda ad un delirio estatico.
La
bambina è cresciuta, ed è diventata una donna. L’allievo di suo
padre, un giovane bello e brillante la trascina con sé
nell’esercito, contagiandola con i suoi onesti e giusti ideali. E’
diventata una cecchina, una tiratrice dal talento innegabile, che
spara senza sbagliare un colpo dalle torrette, i capelli corti
coperti da un velo per proteggersi dal Sole rovente e insopportabile
delle terre di Ishval. Quello è il caldo dell’Inferno in cui si è
ritrovata senza nemmeno accorgersene.
Quando,
all’interno del suo campo militare, vede per la prima volta un
gruppo di donne dai capelli bianchi, la pelle scura e gli occhi rossi
trascinate in catene come bestie fin dentro alcune tende non realizza
nemmeno bene cosa stia succedendo. Tutto attorno a lei è ovattato.
Le
donne sono tutte di età diverse, ci sono anziane, giovani,
ragazzine, alcune di loro sono incinte, altre sono ferite, e hanno
una cosa in comune oltre alla loro fisicità: piangono. Alcune
silenziosamente, altre singhiozzano, altre ancora pregano, tutte
piangendo di paura. Intuiscono già il loro destino, cosa che Riza
realizza solo quando avverte le urla e i rumori dentro le tende.
E
qualcosa dentro di lei inizia nuovamente a sanguinare, e si ricorda
di quando era bambina, di quando suo padre le ammirava la schiena e
le diceva che era bellissima e che quello era il suo compito, che
doveva stare zitta… Le stesse parole che in quel momento sente
pronunciare da quei soldati senza cuore né sentimenti.
Quando
sente le grida e i gemiti provenire dalle tende le si gela il sangue
nelle vene. Prova a protestare con i superiori, i quali la ignorano,
litiga violentemente con gli altri soldati, uomini che non capiscono,
che la scherniscono, che non hanno alcuna idea di cosa voglia dire
quella mortificazione… Perché per loro è giusto così, mentre
ogni fibra di del corpo di quella bambina ormai adulta sanguina,
sanguina copiosamente.
«Ma
non rompere le palle, Hawkeye!»
«Guarda
che è normale, in guerra ci vogliono delle ricompense anche per i
poveri soldati come noi! E poi sono sicuro che sotto sotto piace pure
a loro!»
«Facevi
meglio a stare a casa a cucinare torte come tutte le donne normali
invece di giocare a fare il soldato. Sarai anche brava a sparare, ma
io ho sempre detto che la carriera militare non è roba da femmine…»
«Ehi,
Hawkeye! Se vuoi metterti tu al posto loro non hai bisogno di fare
queste scenate, basta che chiedi… Ti darei volentieri una
ripassata!»
«Bravo,
così almeno per una volta terrà in mano qualcosa di diverso da un
fucile!»
«Chiediamo
a Mustang se oltre che lamentarsi sa fare qualcos’altro con quella
bocca…»
Deve
difendersi con le unghie e con i denti perfino dai suoi commilitoni,
minacciandoli a vuoto di farcirli di piombo, riempiendosi di quel
poco orgoglio che le rimane, tra le loro risate crudeli. Si sente
umiliata per l’ennesima volta, umiliata perché donna, e le donne
non devono fare altro che tacere e soddisfare gli uomini. Il primo è
stato suo padre, poi quando pensava di essere finalmente libera,
l’incubo è tornato a torturarla. Lo vede negli occhi di quelle
povere sventurate terrorizzate e mutilate nelle loro anime.
Nemmeno
il suo amico le è d’aiuto, poiché quando gli racconta le oscenità
a cui ha appena assistito lui le risponde che ormai non possono fare
nulla oltre a sperare che quell’orrore finisca presto. Quelle
parole la fanno sprofondare ancora di più nell’abisso delle
proprie paure. E in quella voragine spaventosa tocca il fondo nel
momento in cui decide di mettersi in gioco lei stessa quella notte.
Di nascosto prova ad entrare nella tenda dove sono tenute le
prigioniere.
Sono
legate, umiliate, inermi, nude, ferite, disperate, private della
dignità. Alcune non si muovono, potrebbero essere morte o svenute in
quell’Inferno che sa di sudore, di sangue, di umori, di urina.
Si
rivede in loro, la bambina che è cresciuta, vorrebbe aiutarle perché
quella visione le strappa via il cuore e lo riduce a brandelli. Ha
portato loro qualcosa da mangiare, qualche razione che è riuscita a
avere in più dalle cucina dell’accampamento. Sorride mentre porge
loro qualche pezzo di pane e una borraccia d’acqua. Pensa di fare
qualcosa di buono per quelle sventurate…
Una
donna anziana, con il volto deturpato da un lungo squarcio che le
percorre la fronte, fresco e sanguinante, la fissa con odio e sputa
per terra.
«Non
abbiamo bisogno della pietà di una puttana dell’esercito.
Mangiatela tu questa roba. Non vogliamo l’aiuto di una cagna come
te, non provarci! Non sei meglio degli altri, non cercare di
convincermi con la tua falsa carità. Stermini il nostro popolo
esattamente come tutti gli altri, vero? E giuro… Giuro che pregherò
Ishvala che tutte le carogne come te subiscano quello che abbiamo
patito noi devote! Spero proprio che qualcuno ti prenda, ti bastoni,
ti deturpi e ti stupri, soldatessa…»
Il
cuore della bambina è ormai dissanguato. Nemmeno se ne rende conto,
ma dopo quei sibili spietati scappa via in lacrime.
Riza
non vuole più essere una
donna. Riza vorrebbe quasi sparire.
Riza
Hawkeye si risvegliò da quella
specie di sogno ad occhi aperti. Era sicura di non aver dormito,
aveva semplicemente lasciato che il flusso di ricordi sfilasse da un
capo all’altro del suo cervello, ferendola nuovamente. Non si era
neanche accorta che la piccola abat-jour sul comodino del lato
opposto al suo fosse accesa e che la figura che riposava al suo
fianco non c’era più. Si voltò lentamente, socchiudendo gli occhi
a causa della luminosità violenta della lampada e scorse la figura
statuaria del Colonnello proprio accanto al letto. Aveva già
indossato i pantaloni di sartoria, si stava accingendo ad abbottonare
la camicia, dalla quale si intravedeva il suo petto muscoloso.
Riza
avrebbe fatto davvero qualsiasi
cosa per lui. Gli era indispensabile nel lavoro, non era abbastanza
sicura però di esserlo anche nella vita sentimentale. L’esercito
proibiva le relazioni tra soldati, e il tutto veniva consumato in
modo clandestino, in quei mordi e fuggi a cui lei si aggrappava
dolorosamente, sperando con tutta se stessa che Roy Mustang non la
stesse usando finendo così per macellare crudelmente il suo povero
cuore.
Si
vedevano di nascosto, spesso a casa di lei, facevano sesso (o
facevano l’amore?), quasi disperatamente, avvinghiati l’uno
all’altra… Poi l’uomo se ne andava in silenzio, salutandola in
modo freddo e formale, chiamandola Tenente, lasciandole sul
cuscino quell’odore di dopobarba muschiato. E lei doveva stare al
gioco, doveva controllarsi, ricordarsi del suo ruolo. Era la sua
sottoposta, rigorosa, dedita alla sua mansione. Non si lamentava mai.
«Non
sei riuscita ancora a dormire, Tenente?»
Mustang
parlò girandosi di spalle, mentre si infilava un cappotto scuro.
«No.»
«Sei
andata dal medico? Ho visto una confezione di Fenobarbitale nel
bagno. Era ancora sigillata.»
«Non
voglio prenderlo, Colonnello. Non ne ho bisogno.»
L’uomo
annuì.
«Fai
bene, Tenente. Mi servi lucida. Non posso perderti a causa di quelle
porcherie, il tuo lavoro è importante per me.»
Riza
avrebbe voluto chiedergli se lo
era come soldato o come amante, e invece rimase in silenzio,
aspettando il rumore della porta dell’appartamento che cigolava
chiudendosi. Lui non l’aveva nemmeno salutata, non lo faceva mai.
Era a quel punto che cominciava il rituale, ogni volta dopo che se ne
andava.
Riza
si alzò lentamente, come
posseduta, piangendo in silenzio, e si recò in cucina. Hayate
dormiva placidamente nella cuccia, non si accorse di nulla.
Lei
aprì il frigorifero. Divorò una mela, quattro budini al cioccolato
con panna, una scatola di acciughe, una confezione di carne cruda.
Poi una confezione grande di yogurt bianco, un intera fetta di
formaggio stagionato, due banane, cinque carote, un cespo intero di
insalata, e poi tre scatolette di tonno dalla dispensa, dei biscotti,
cereali a manate direttamente dalla scatola, mezzo barattolo di crema
di cioccolato e nocciole, uno intero di cipolle sotto aceto, tre
fette biscottate, qualche sorso di latte e di una bibita all’arancia,
una scatola di ravioli crudi, tre mandarini, mezzo limone…
Divorava
tutto quello che trovava come fuori di sé, senza avere il controllo
di nulla. I quei momenti finalmente poteva dirsi libera. Il suo
cervello si spegneva, non era più una donna che rischiava la dignità
ogni maledetto giorno, era solamente un’umana che riempiva il suo
stomaco fino a che non fosse stato ingombro, e più quell’organo
era pieno e più la sua testa era vuota. Era proprio bello avere la
mente così leggera durante la prima parte del suo rituale… Quando
sarebbe arrivata la seconda si sarebbe resa conto che così non
poteva andare bene, che aveva mangiato decisamente troppo, e che
faceva un po’ schifo. Per fortuna aveva i suoi metodi per
purificarsi...
Hayate
si sveglio e osservò uggiolando
la sua padron che si dirigeva lentamente in bagno.
A
Bulimia
Nervosa:
è
un disturbo del comportamento alimentare
che
colpisce al 90% il sesso femminile
e
per il quale il soggetto sente un bisogno compulsivo di ingerire
spropositate
quantità di cibo, correlato ad una sensazione
di
incapacità di controllo sul proprio comportamento.
Spesso dopo le abbuffate
vengono eseguite delle condotte di eliminazione,
che
vedono il soggetto ricorrere regolarmente a vomito autoindotto,
oppure
all'uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi.
Il
fine di questo comportamento (che spesso come per l’Anoressia
Nervosa
diventa
“rituale”) è quello di neutralizzare l'abbuffata.
È
un modo per poter provare ad attenuare il senso di colpa
procurato
dall'abbuffata e di ridurre al minimo ogni aumento di peso
che
potrebbe aver luogo conseguentemente.
Le cause della bulimia
possono essere culturali
(
difficile accettazione del proprio corpo rispetto all’ideale di
bellezza),
famigliari,
traumatiche (violenze, stupri, fonti di stress,
forti
pressioni sociali e lavorative),
personali
(odio per il proprio aspetto fisico,
incomunicabilità,
sensazione di perdita di controllo) e biologiche.
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