Vera

di Clairy93
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 16 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 17 ***
Capitolo 18: *** Capitolo 18 ***
Capitolo 19: *** Capitolo 19 ***
Capitolo 20: *** Capitolo 20 ***
Capitolo 21: *** Capitolo 21 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Mi chiamo Vera Bernardis.
Sono una scrittrice.
E mi sento felice.

Questi ultimi cinque anni sono stati per la mia vita l’origine di un cambiamento irreversibile.
Evasa dal campo di concentramento di Mauthausen dove sono stata deportata e tenuta prigioniera per due anni, ho fatto ritorno nella mia Trieste.
Ho perso la mia famiglia. Ho subito impotente gli atti deplorevoli di uomini alienati dai pregiudizi. Ma sono sopravvissuta.
La mia grande paura era non riuscire a convivere con il mio passato, sopportarlo in tutta la sua atrocità. Eppure la mia realtà inizialmente così fragile, ha cominciato ad acquisire una maggiore stabilità per merito di ciò che posso senz’altro definire "l’occasione della mia vita".
Aver pubblicato un mio romanzo.
Quei semplici fogli sparsi nella mia stanza, un poco sciupati. Ricordi e dolore impressi sulla carta inumidita dalle mie lacrime. Niente di più. Nessuna pretesa.
Per questo mai avrei immaginato di poter realizzare un libro.
La scrittura è stata la mia ancora di salvezza appena tornata a Trieste. Non uscivo, non parlavo. Volevo rimanere nella mia camera, sola ma al sicuro da ciò che temevo la realtà mi riservasse. Ho vissuto un’esperienza tanto traumatica che ne porterò i segni per il resto dei miei giorni, scrivere era una distrazione, la mia valvola di sfogo.
Non è stato facile tuttavia portare alla luce quei momenti. Né tantomeno sapere che divulgando il mio lavoro, avrei condiviso aspetti della mia vita che persino io stessa avevo difficoltà a rivivere e trasporre sulla carta.
Eppure sapevo che era la cosa giusta da fare, perché nessuno dimenticasse. Perché io non volevo dimenticare.
E la mia storia ha avuto un buon riscontro, è piaciuta.
Se fosse stato per me, mai avrei pensato di pubblicare il libro e tutti i miei sogni sarebbero rimasti chiusi in un cassetto.
E non posso che essere grata a Filippo. Se ho trovato la forza di reagire e rompere le catene che mi vincolavano al passato, lo devo a lui.
Alla successiva pubblicazione del mio romanzo, la mia esistenza si è colorata di una vitalità nuova e ciò mi ha permesso di vedere Filippo sotto una luce diversa.
In sua compagnia mi sembrava di essere rinata una seconda volta, di vivere sensazioni e momenti di cui temevo non poter più godere. Filippo mi ha permesso di innamorarmi di nuovo della vita.
E io mi sono innamorata di lui.
Ci siamo fidanzati e dopo un anno sono rimasta incinta. Ricordo che in un primo momento non sapevo come reagire, è stato un insieme di emozioni contrastanti. Certo, ero felice del dono che Filippo ed io avremo potuto avere. Tuttavia ricordo bene le notti trascorse a fissare il soffitto, colta da un’ansia irrefrenabile di non essere all’altezza, di non avere le capacità per assumermi una responsabilità tanto grande. Non ho mai rivelato a Filippo le mie inquietudini, non me la sentivo di impensierirlo più del necessario. E ripensandoci penso di aver fatto la scelta giusta.
Appena il bambino è nato infatti, tutti i miei dubbi sono svaniti all’istante. Una gioia immensa è divampata in me non appena ho incrociato i grandi occhi di quell’esserino tra le mie braccia. Il nostro Tommaso ora ha quattro anni e mezzo e l’amore che porta ogni giorno nelle nostre vite è una ventata di vivacità e tenerezza.
Con la fortuna del mio romanzo e l’indennità di guerra di Filippo, abbiamo acquistato una graziosa villetta vicino al centro di Trieste. La nostra vita è modesta, ma nella sua semplicità è ciò che di meglio avrei potuto desiderare.
Diventare una scrittrice mi ha permesso di tornare a credere in me stessa, poter finalmente urlare a gran voce “Sì, ci sono anch’io!”.
E l’inaspettato successo del libro ha spianato la mia strada anche nel mondo del giornalismo, collaboro infatti con alcune redazioni triestine.
E questa è stata una fortunata opportunità per incontrare nuovamente Umberto Saba. Nel ’46 si trovava a Trieste, ho potuto vederlo solo una volta prima che partisse per Roma. In quell’occasione mi meravigliò il suo tono affettuoso e paterno, nonostante avessimo avuto solo una breve chiacchierata ben quattro anni prima. Eppure sembrava che il tempo dopotutto non fosse trascorso, forse perché entrambi abbiamo avuto la sventura di condividere un passato analogo, la disperata condizione di perseguitati. Saba dimostrò i suoi sinceri apprezzamenti per il mio libro e mi propose di usufruire della sua libreria per documentarmi nel comporre i miei articoli.
Da quel momento non ho più visto Saba. La libreria è stata affidata a Carlo Cerne, un collega e amico del poeta, con il quale si è creato un ottimo rapporto di collaborazione, di studio e di affetto.
Trascorro molto tempo nella libreria. Trovo ancora un poco faticoso rimanere completamente sola e la casa mi sembra così vuota e malinconica quando Tommaso è all’asilo e Filippo è via per lavoro.
A Filippo è stato retribuito un congedo per la guerra, tuttavia si occupa di compiti vari in caserma. In realtà è sempre piuttosto vago sulle mansioni che gli affidano, Filippo ritiene che mi annoierebbe sapere i dettagli. Eppure tutto ciò ci ha consentito di condurre una vita dignitosa, vantaggio non così diffuso finita la guerra.
Come dimenticare le vicende che ancora oggi vedono Trieste campo delle prepotenze del maresciallo Tito.
Nell’aprile del '45 quando mi trovavo ancora a Mauthausen, si registrarono alcuni scontri a svantaggio dei tedeschi, sconfitti dalle brigate dei partigiani jugoslavi guidate da Tito. Venne proclamata la liberazione di Trieste, presentando così i suoi uomini come i veri liberatori della città.
L'esercito jugoslavo assunse il potere e dilagò il terrore: attuarono confische, requisizioni, arresti e prelevarono dalle proprie case numerosi cittadini, semplicemente sospettati di nutrire scarse simpatie nei confronti della ideologia jugoslava. Trieste visse momenti difficili, la popolazione era esasperata dagli eventi bellici e dal recente esito del regime fascista. E le speranze dei triestini di un intervento degli Alleati svanirono quando quest’ultimi raggiunsero un accordo con il comando jugoslavo sull'occupazione di Trieste. La città fu divisa in due zone, una controllata dagli angloamericani e l’altra tutt’ora occupata dagli jugoslavi.
Ma nonostante alcuni momenti di forte tensione, questi anni hanno portato con sé la voglia di rialzarsi, di ricominciare e ricostruire. Ripenso a quel 2 giugno 1946 ad esempio, quando per la prima volta anche noi donne fummo chiamate al voto.
Nessuno vuole più ricadere nell’oblio della guerra, ne abbiamo avuto abbastanza di morti e distruzione. E’ ora di dire basta.
Tuttavia devo ammetterlo, non è facile. Ci sono giorni in cui temo di ricadere nella depressione e i ricordi sembrano soffocarmi.
Ma sono viva. E non ho nessuna intenzione di permettere alle mie paure di prendere il sopravvento. Mai più.

Sono Vera Bernardis.
Ho una famiglia ora.
E sono ormai cinque anni che non ho notizie di Massimo.




Angolino dell'Autrice: Ciao mie cari! Come state? Innanzitutto vi auguro un felice e sereno 2014!
Sono tornata con il primo capitolo del seguito della mia storia "Mi avevano portato via anche la luna" (se siete interessati, ecco il link http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1580892)
.
Voglio ringraziare dal profondo del mio cuoricino tutti coloro che mi hanno seguita e sostenuta in questa avventura, senza i quali probabilmente non avrei realizzato questo seguito. Grazie per aver creduto in me! Spero mi seguirete in questo nuovo capitolo della mia storia e grazie di tutto! Un abbraccio forte!
Clairy.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Il delicato profumo delle lenzuola mi sveglia dolcemente, mentre in casa ancora regna un profondo silenzio.
Sfrego i piedi per scaldarli e mi raggomitolo tra le coperte. Di fronte a me, osservo assonnata i giochi di luce proiettati sulla parete da alcuni timidi raggi di sole.
Mi giro sull’altro fianco e scorgo Filippo intento a guardarmi.
“Buongiorno.” sbadiglio con poca grazia.  
“Buongiorno splendore.” Filippo mi sorride e appoggia il gomito sul cuscino, reggendosi il capo con la mano.
“Perché continui a fissarmi?” chiedo imbarazzata, mentre affondo il viso nel cuscino “Non sono proprio uno spettacolo appena sveglia.”
“E invece sei meravigliosa.”
Filippo sposta una ciocca dei miei capelli scoccando un sonoro bacio sulla guancia, mentre i suoi ricci ribelli mi solleticano il viso. Agguanto con energia il lembo delle coperte e le tiro fin sopra il capo.
Ma Filippo è molto più rapido. Mi afferra per i fianchi attirandomi a sé e scoppio in una sonora risata.
Filippo mi fa cenno di abbassare la voce ed io porto istantaneamente una mano alla bocca, temendo che il trambusto possa aver svegliato Tommaso. Tuttavia risulta complicato trattenermi mentre la mano di Filippo si insinua sotto la mia camicia da notte.
Con una rapida spinta sono sopra di lui e riesco a bloccargli le braccia. Entrambi ridiamo, sereni, come due ragazzini.
“Adoro svegliarmi ogni mattina accanto a te.” sussurra Filippo, incatenando il suo sguardo al mio e inarcando le labbra in un sorriso sensuale.
Sento il mio cuore compiere una doppia capriola prima di rendermi conto dell’espressione imbambolata che devo aver assunto.
“Mi hai conquistato dal primo giorno che ti ho incontrata. Vera Bernardis, tu hai completamente sconvolto la mia vita.”
Mi avvicino a Filippo, intrecciando le dita tra i suoi capelli, e mi perdo nei suoi bellissimi occhi, di quel verde incantevole nei quali adoro abbandonarmi ogni volta.
Le labbra di Filippo trovano le mie, affamate, quasi volesse possederle e farle sue per sempre. Le sento scivolare lungo il collo, per poi raggiungere il mio orecchio.
“Sposami Vera…”
Un macinio sembra precipitare nel mio stomaco.
Non respiro. Provo a deglutire, faticosamente.
 Coraggio Vera, dì qualcosa. Qualsiasi cosa!
Nel momento in cui temo che fingere un mancamento sia l’unica, folle, soluzione, la porta della camera si spalanca e scorgo il piccolo Tommaso irrompere allegro nella stanza.
Mi allontano rapidamente da Filippo, scorgendo la sua espressione comprensibilmente delusa.
Tuttavia ogni mia inquietudine sembra svanire non appena incrocio il dolce sguardo del mio Tommaso, adorabile mentre giocherella divertito con la maglia del suo pigiama.
“Forza Tommy, vieni nel letto insieme a noi!”
Alla mia allettante proposta il suo viso pare illuminarsi e ci raggiunge in un istante, cercando di darsi la spinta giusta per riuscire a salire.
Filippo osserva divertito il piccolo Tommaso quando decide di porre fine alle sue fatiche, sollevandolo in aria per poi sprofondare tra le coperte. Gli occhi di Tommaso sprizzano pura vivacità e non posso che unirmi alla sua contagiosa risata.
Ma il mio sorriso muore lentamente sulle labbra non appena sono colta da un’ondata di malessere. Capita sempre allo stesso modo, nei momenti allegri un tremendo senso di colpa e d’inadeguatezza sembra impossessarsi di me. Sono viva, e allora perché sento che questo non sia il mio posto? A volte mi chiedo se non fosse stato meglio seguire la mia famiglia, porre la parola fine e smettere di lottare. Sono sopravvissuta, ma a quale prezzo se non potrò condividere le gioie e i dolori della mia esistenza con i miei genitori? Come riuscirò a spiegare a mio figlio cosa è accaduto ai nonni, o giustificare quei numeri marchiati sul mio avambraccio…
“La mamma si è di nuovo incantata. Proviamo a farle una linguaccia Tommy, vediamo se si accorge di qualcosa.”
Il velo di nebbia che copre i miei occhi svanisce insieme ai pensieri che affollano la mia mente. Vedo Filippo e Tommaso osservarmi divertiti, dopo essermi ripresa dal mio stato d’incantamento.
Scuoto la testa e accenno un sorriso.
“Andiamo a fare colazione, la tata sarà qui a momenti.”
I miei piedi sfiorano il freddo pavimento e indosso la vestaglia.
Non voglio apparire debole, non davanti a mio figlio.
Abbasso le palpebre per un istante, prendo un bel respiro e riapro gli occhi. Sono pronta.
Sto per uscire dalla camera quando vedo sfrecciare Tommaso sulle spalle di suo padre fuori dalla stanza.
“Non correte sulle scale, è pericoloso!” raccomando, mentre li raggiungo al piano di sotto.
Come ogni mattina, il profumo del caffè comincia a diffondersi piacevolmente per la casa mentre apparecchio la tavola. Ripongo disordinatamente le fette di pane caldo su un piatto evitando di scottarmi ma, s’intende, senza grande successo.
“Vieni Tommy, a tavola!”
Ma lui pare troppo indaffarato in uno dei suoi giochi preferiti, saltellare sul pavimento cercando di evitare le mattonelle bianche e calpestando solo quelle nere.
“Se continui così, finirai per farti venire il torcicollo Tommaso.” dichiara Filippo entrando in cucina con il quotidiano in mano. Arruffa i capelli di Tommaso riuscendo finalmente a distrarlo dal suo bizzarro passatempo.
“Vai in redazione oggi?” mi chiede Filippo, intento a sfogliare il giornale.
“Forse in mattinata, credo lavorerò qui.” rispondo mentre gli porgo una tazza colma di caffè “Ho un articolo da scrivere e devo consegnarlo entro domani pomeriggio.”
E’ da qualche mese che collaboro con il signor Vittorio Tranquilli, direttore del rinomato quotidiano triestino “Il Piccolo”, pubblicando alcuni articoli di storia e attualità. Dopo il successo editoriale del mio libro ed essendo stato “Il Piccolo” molto critico verso l’antisemitismo durante la guerra, il signor Tranquilli mi ha proposto una collaborazione che si sta rivelando sempre più coinvolgente.
Offro una fetta di pane colma di marmellata alla ciliegia a Tommaso che la addenta con voracità, sporcandosi le dita e i lati della bocca. Lo osservo divertita mentre sorseggio il mio tè, bollente ed estremamente zuccherato, perfetto per scacciare la stanchezza.  
“Forse oggi potrei rimanere a casa anch’io…” bisbiglia Filippo, reclinando il capo verso di me.
Mi volto confusa e per poco la tazza di tè non sfugge dalla mia presa quando avverto la sua mano risalire lunga la mia coscia.
Forse potevo presumere che la domanda di Filippo non mostrasse alcun effettivo interesse verso i miei programmi per la giornata…
Fortunata coincidenza, suona il campanello e mi alzo dalla sedia con tanta rapidità da produrre un fastidioso stridio.
Appena varcata la soglia della cucina, esalo un lungo, alleviante, sospiro mentre mi dirigo alla porta.
Ad attendermi c’è Dorina, la tata di Tommaso, una donna robusta e amante degli abiti a stampa floreale. E’ emigrata dall’Albania con la sua famiglia un anno fa, ha ancora qualche difficoltà con la lingua ma è una donna dolce e affidabile. Quasi ogni giorno accompagna Tommaso all’asilo e lo riporta a casa.
Accolgo Dorina con un sorriso e la faccio accomodare.
“Ciao Tata!” il piccolo Tommaso corre dalla sua Dorina la quale lo accoglie raggiante, in un energico abbraccio.
“Corri a prendere il tuo zaino Tommy.” dico indicando lo schienale della sedia in cucina.
Lui annuisce e saltella fino all’altra stanza, niente affatto intenzionato a lasciare la mano di Dorina.
“Buongiorno signor Bassani.” saluta educatamente la tata, chinando un poco il capo.
Filippo accenna un rapido saluto con la mano, senza distogliere nemmeno per un secondo l’attenzione dal suo quotidiano.
Incrocio lo sguardo di Dorina e abbozzo un sorriso impacciato.
“Noi usciamo, signora Vera.” dichiara la tata, non appena Tommaso ha infilato il suo zaino sulle spalle “Riporto il bambino a casa per le quattro.”
“Se potete aspettare un minuto, Filippo stava giusto per andare in caserma. Non è vero tesoro?”
Lui alza gli occhi dalla tazza fumante, corruga le sopracciglia e mi squadra deluso.
I suoi piani erano ben altri, questo è certo.
“Potreste uscire insieme oggi.” gli propongo e, abbassando il tono di voce, aggiungo “A Tommaso farebbe piacere.”
Tommy osserva di sottecchi Filippo desiderando, è comprensibile, che il padre accetti la proposta. Dopotutto le occasioni in cui Filippo trascorre del tempo con suo figlio fuori casa, sono alquanto rare. Temo purtroppo che Filippo non abbia del tutto affinato il suo senso paterno, ancora non comprende quanto sia importante per Tommaso ottenere le sue attenzioni.
Tuttavia riesco a persuadere Filippo il quale, terminata velocemente la sua colazione, corre di sopra a prendere il necessario per il lavoro.
E devo ammetterlo, ciò mi tranquillizza. Se Filippo non fosse uscito, sono certa avrebbe fatto di tutto per ritornare sul famigerato argomento del “matrimonio”. E preferisco non discuterne, finché potrò evitarlo.
Nel frattempo raggiungiamo la porta di casa.
“Ehi, sei contento che papà ti accompagni a scuola oggi?” m'inginocchio di fronte a Tommaso e gli allaccio un bottone del maglione.
Lui annuisce e quando poso l’indice sulla mia guancia, Tommaso mi dà un bacio leggero.
“Buona giornata tesoro, divertiti e fai il bravo.”
Filippo scende le scale due gradini alla volta e con un balzo mi raggiunge.
Poso le labbra sull’angolo della sua bocca ma lui m’imprigiona tra le sue forti braccia e mi bacia con tanto ardore da rubarmi il fiato.
“Filippo! Non davanti a tutti!” lo rimprovero non appena scorgo l’espressione di Dorina, la quale distoglie imbarazzata lo sguardo. Per tutta risposta, Filippo scoppia in una profonda risata e bisbiglia un “ci vediamo questa sera” al mio orecchio.
Quando Filippo stringe la mano di Tommaso, scorgo i suoi occhioni brillare di gioia prima che la porta si accosti dietro di loro.
Adoro vederli insieme, penso mentre torno in cucina a lavare le stoviglie.
Mi accorgo tuttavia di strofinare un piatto con troppo vigore, mentre rammento il bacio di Filippo e l’imbarazzo in cui a volte mi pone. Io lo amo, ovviamente, eppure si presentano occasioni in cui lo trovo eccessivo. Dopotutto, per manifestare affetto non è necessario essere tanto esuberanti. L’amore si può dimostrare in altri modi, con gesti semplici e quotidiani. Ricordo quella volta in cui Massimo…
Nell’istante in cui mi rendo conto della piega che i miei pensieri hanno assunto, mi scopro completamente paralizzata.  
Perché. Perché con tutti gli esempi possibili, proprio Massimo? E’ stato un pensiero involontario, a dir poco fulmineo! E questo mi spaventa. Gli ho permesso di entrare nella mia testa, ancora.
Quando ho compreso che non avrei più rivisto Massimo, mi sono obbligata a dimenticare. Relegare in un angolo buio i ricordi, questa mi sembrava la soluzione migliore per impedire che essi mi perseguitassero.
Ripenso al periodo in cui ogni, singolo giorno confidavo segretamente che Filippo portasse qualche aggiornamento su Massimo. Meno frequenti erano le informazioni dalle autorità, più deboli divenivano le mie speranze con il trascorrere delle settimane. Così giunsi ad una conclusione: se Filippo avesse avuto notizie, qualsiasi segnalazione utile, me lo avrebbe riferito. A cosa sarebbe valso continuare ad angosciarlo? Dopotutto Massimo era quasi un fratello per lui, non deve essere stato facile accettare la perdita del suo migliore amico.
Ed io nel frattempo dovevo provvedere alla mia vita. E se avessi allontanato tutto ciò che mi ricordava Massimo, sarebbe stato più facile. Eppure ci sono momenti in cui i pensieri sembrano sottrarsi dal mio controllo, riaffiorano uno dopo l’altro in una catena continua e senza fine. Mi appoggio al bordo del lavabo, provando a porre fine a quel flusso insistente di ricordi e allontanarli dalla mia mente.
Poi il mio sguardo cade sulla radio. La osservo per pochi secondi quando al fine, mi decido ad accenderla.
“No signora Consuelo, la risposta è la B, il grano saraceno! Ma non facciamoci prendere dal panico e proseguiamo con la prossima domanda!”
Ascoltare Corrado Mantoni e i suoi quiz, si rivela sempre piuttosto terapeutico per scacciare le preoccupazioni.


Ho trascorso il pomeriggio davanti alla mia adorata macchina da scrivere, una Olivetti M-80, un regalo di Filippo. Ho quasi ultimato il mio articolo sull’ultimo libro di Francesco Jovine, “Le terre del Sacramento”. Domani lo consegnerò in redazione, prima però
vorrei effettuare qualche ricerca nella libreria del mio amico Carlo Cerne.
Alle quattro è arrivato Tommaso, e poco fa è rincasato anche Filippo.
“Com’è andata oggi al lavoro?” gli domando, mentre infilzo con la forchetta una patata arrosto.
“Bene.” risponde Filippo, lapidario.
“Ti hanno affidato molti incarichi?”
Filippo mi rivolge un’occhiata infastidita e piuttosto eloquente.
“Sì, lo so! In caserma è tutto molto complicato e probabilmente non susciteresti la mia curiosità. Lo ripeti ogni volta…”
“Sono certo ti annoieresti nel sapere i dettagli.” sostiene lui.
“Non si tratta di dettagli Filippo, tu non racconti mai niente. Mi piacerebbe sapere cosa fai durante la giornata, quali compiti ti affidano. Tutto qui.”
“Perché Vera? Non ti fidi?” incalza Filippo, con tono sprezzante.
“Non essere sciocco, certo che mi fido!”
“Allora smettila una buona volta di farmi sempre la stessa domanda!”
Cade il silenzio. Io resto immobile. Mi limito a fissare Filippo, incredula. Lui sembra ignorarmi, agguanta la forchetta e infilza nervosamente le verdure sparse sul piatto.
“Fate pace?” propone Tommaso in fin di voce.
“Tesoro mio, non preoccuparti.” lo rassicuro “Senti, perché non vai di sopra e fai vedere a papà il bellissimo disegno che hai fatto a scuola?”
Non appena Tommaso, un poco titubante, esce dalla cucina correndo su per le scale, mi alzo e raccolgo fulminea le stoviglie, quasi gettandole nel lavabo. Un bicchiere si scheggia e vorrei urlare dalla rabbia finché la tensione sembra abbandonarmi quando avverto le braccia di Filippo stringermi da dietro, il suo petto aderire alla mia schiena.
“Mi dispiace.” Filippo mi dà un bacio sul collo e sono percorsa da un brivido.
Tuttavia mi divincolo dalla sua presa e lo osservo seria.
“Non era necessario reagire in quel modo.”
“Hai ragione Vera, sono stato un cretino.” Filippo poggia la sua fronte sulla mia “E’ un periodo difficile. Ci sono i rimborsi di guerra da consegnare ma non si trovano fondi a sufficienza e la preoccupazione che si respira in caserma è soffocante. Quando torno a casa vorrei solo lasciarmi tutto alle spalle, capisci? Voglio godermi questi momenti con la mia famiglia senza pensare al lavoro.”
“Avresti dovuto dirmelo Filippo, non avrei insistito. E poi scattare in quel modo di fronte al bambino! Sei stato davvero inopportuno.”
“Vera dai, non esagerare! Tommy è grande, può sopportare qualche discussione ogni tanto.”
“Lui è tuo figlio, Filippo! Ed è un bambino. Ancora non ti rendi conto di quanta stima Tommaso abbia per te. Lui ha bisogno di punti di riferimento. E mi dispiace, ma tu non lo sei.”
Filippo mi guarda sbigottito, come se avesse ricevuto un potente schiaffo.
Intanto Tommaso corre in cucina e porge il disegno al padre il quale, destandosi dal suo stato confusionale, afferra il foglio.
S’inginocchia accanto a Tommy che gli indica con il dito le figure presenti nel disegno.
“Questo sei tu papà. E questo sono io. E la mamma è questa qui.”
Siamo tre manichini colorati, sorridenti, che si tengono per mano, accanto ad una casetta con il giardino e qualche nuvola nel cielo.
Filippo si volta verso suo figlio, baciandogli il palmo della mano.
“E’ bellissimo Tommy.”


Angolino dell'autrice: Se qualcuno se lo stesse chiedendo, "Mi dispiace signora Consuelo, la risposta è la B, il grano saraceno!", è la risposta alla domanda qual'è l'ingrediente principale dei pizzoccheri. Forse avevo fame mentre ho scritto quella parte... :P
Ne approfitto per ringraziare tutti coloro che leggono, recensiscono e mi supportano (e mi sopportano!!!).
Grazie di cuore! Un abbraccio fortissimo a tutti!

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Sussulto, nel panico.
Spalanco gli occhi che nel frattempo si abituano all’oscurità.
Dov’è la mia stanza? Perché non sento Filippo?
Mi trovo in una baracca.

No, ti prego no!
Sono accerchiata da prigioniere. Dormono, ammassate una sull’altra in posizioni innaturali.
Voglio uscire, ma sono incastrata tra i corpi.
Forza Vera, respira.
Non ci riesco, sto soffocando!
Scalcio con forza e la donna davanti a me cade. Come un inquietante fantoccio, atterra al piano di sotto.
Non stanno dormendo. Sono morte.
Mi alzo, inciampo. Mi rimetto in piedi, cado ancora.
Non voglio guardarli, i cadaveri. Ho paura di scorgere i volti dei miei familiari. Allora perché non riesco a sollevare gli occhi da terra?
Raggiungo l’uscita, grazie al cielo.
Spalanco il portone del dormitorio e sono vessata da una raffica di gelo.
Davanti a me, si estende l’immenso campo di Mauthausen.
Non c’è un’anima.
Si respira morte.
Persino la neve pare aver perso il suo candore, furiosa nell’inghiottire ogni cosa.
Mi volto e intravedo Tommaso. Mi saluta, sorridente.
Dietro di lui, tre tedeschi dalle fattezze bestiali si avvicinano al mio bambino, con sguardi famelici.
Urlo, disperata. Imploro Tommaso di allontanarsi, di correre da me. Ma la mia voce è poco più che un rantolo.
I soldati lo afferrano con brutalità. Le urla di Tommaso squarciano le mie viscere.
Voglio correre da mio figlio, sottrarlo dalla stessa, terribile, sorte a cui io invece sono stata destinata.
Ma avverto di avere le gambe congelate.
No, no, no!
Lasciate il mio bambino! Perché non riesco a muovermi dannazione!
Nascondo il volto tra le mani. Le lacrime si ghiacciano e trafiggono il mio volto.
Poi noto il braccio sinistro, imbrattato di sangue.
Scosto la manica della camicia da notte, ormai quasi un tutt’uno con la mia pelle.
Il numero. Ha ripreso a sanguinare.

Gocce cremisi scivolano silenziose e cadono al suolo. Seguo la macchia di sangue espandersi per tutto il campo fino a che non circonda una figura rannicchiata sull’erba.
Tommaso!
Corro da mio figlio, nonostante il mio corpo intorpidito gridi pietà.
Santo cielo quanto è pallido! E’ così piccolo, e indifeso.
Lo scuoto, invoco ormai allo stremo delle mie forze il suo nome.
All’improvviso Tommaso sbarra gli occhi. Sono immobili. Vitrei…


Mi sembra di rinvenire da uno stato di apnea.
Ho la fronte madida di sudore. Gli occhi colmi di lacrime. Il respiro rapido e ansante. 
Le primissime luci dell’alba rivelano le sagome di un mobilio familiare.
Mi metto a sedere e mi stringo nelle spalle, tremante e infreddolita.
No, non sono tornata a Mauthausen, era solo un incubo. Sempre lo stesso, identico, orrendo incubo.
Ogni notte le emozioni appaiono più intense, spaventosamente reali. A volte mi sembra persino di percepire il freddo penetrare nelle ossa, i crampi allo stomaco per la fame. E il mio timore è non riuscire a svegliarmi. O peggio, scoprire che la mia vita presente non è stato altro che un gioco malato della mia debole mente, mentre in realtà sono ancora prigioniera.
Pensieri poco confortanti si riversano nella mia testa e prego che Filippo si svegli. Vorrei mi stringesse forte a sé, respinga lontano le mie angosce e mi accudisca con premura. Eppure sembra non essersi accorto di niente. Mi sporgo lievemente, seguendo con il dito il profilo dei suoi muscoli. Filippo geme e si gira sull’altro fianco, ignaro. Lui sa bene che ho degli incubi, ma non ha idea della loro frequenza.
Chino il capo, afflitta, e mi sfugge un sospiro.
Lo sguardo si posa sul mio braccio sinistro. Risvolto la manica della camicia da notte e fisso la cifra incisa sulla mia pelle, l’indelebile testimonianza che rievocherà il più grande strazio a cui un essere umano sia mai stato sottoposto. Quattro numeri, contro i quali dovrò combattere una lotta estenuante fino alla fine dei miei giorni.
Affondo la testa nel cuscino, incrocio le dita al petto e osservo il soffitto. Immobile.

“Mamma!”
Dischiudo gli occhi e la luce del mattino filtra tra le mie palpebre addormentate. Sono seduta scomodamente sul pavimento, la testa appoggiata di lato sul materasso. Questo spiegherebbe gli spiacevoli dolori alla schiena e al collo.
“Mamma! Sei sveglia?”
Mi trovo nella cameretta di Tommaso. In un primo momento, non saprei con esattezza come ci sia arrivata e mi spaventa il solo pensiero di aver lasciato la mia stanza senza rendermene conto.
Fortunatamente un barlume di coscienza rende tutto più sensato. Subito riaffiora alla mia mente l’incubo di questa notte. Non riuscivo a prendere sonno, dopotutto ero ancora molto scossa e vulnerabile. Se solo ardivo a socchiudere gli occhi, quelle immagini atroci ed umilianti sembravano riapparire più impetuose, pronte per infliggermi altri tormenti. Mi sono alzata e in assoluto silenzio, ho raggiunto Tommaso.
Lui riposava serenamente, abbracciato al suo orsacchiotto e rannicchiato sotto le coperte.  Mi sono accovacciata accanto al letto di Tommy, incantata dall’incredibile dolcezza che traspare da ogni suo più piccolo gesto, il nasino arricciato, l’ombra delle sue lunghe ciglia sulle gote, le labbra dolcemente dischiuse. Le mie angosce si sono dileguate in un attimo e, senza rendermene conto, devo essermi addormentata.
“Perché sei qui?” la testolina bruna di Tommaso spunta da sotto le lenzuola mentre, strofinando gli occhi, si appoggia allo schienale del letto.
“Non riuscivo a dormire.” Mi siedo accanto a lui, assonnata e ancora intorpidita per la notte trascorsa.
“Hai fatto un brutto sogno?”
Davvero, non so come sia possibile, eppure ci sono occasioni in cui mio figlio riesce a capirmi meglio di chiunque altro. Uno sguardo, un semplice gesto, sono sufficienti perché comprenda la mia inquietudine.
Tommaso sfiora la mia guancia, dandomi un bacio leggero.
“Io odio i brutti sogni. E ho anche paura dei mostri...”
Passo una mano tra i suoi capelli arruffati e gli sorrido rassicurante, perlomeno ci provo.
“Te l’ho detto Tommy, non ci sono mostri sotto il tuo letto. Vedi?” mi abbasso e fingo di controllare con attenzione per tranquillizzarlo “Non c’è nessuno, non devi preoccuparti. Forza, vieni con me.”
Gli offro la mano e Tommaso l’afferra con gesto repentino, tanto che l’incontrarsi dei nostri palmi produce un sonoro schiocco.
Usciamo dalla cameretta, seguendo divertiti i fasci di luce proiettati sul pavimento, saltellando a destra e poi a sinistra.
Passiamo davanti alla mia stanza, sollevo lo sguardo e constato, lo ammetto, con un po’ di delusione che Filippo riposa ancora profondamente. Mi chiedo se si sia accorto della mia assenza…
“Tommy, tesoro, perché non vai a svegliare papà?”
Lui tuttavia si nasconde dietro le mie gambe, intimorito, e sento la sua manina stringere più forte la mia.
“Cosa c’è che non va?” domando, sorpresa per la sua insolita reazione.
Tommaso scuote debolmente la testa e comincia a giocare nervosamente con le dita.
M’inginocchio e prendo le sue mani, racchiudendole con premura nelle mie.
“Tesoro mio, cosa succede? Vuoi dirlo alla mamma?”
Lui china timidamente il capo e curva il labbro inferiore in un broncio. Da dietro le sue ciglia scure, Tommaso scruta la stanza di fronte a lui prima di compiere un piccolo passo, lo sguardo attento sempre puntato su suo padre. Tuttavia ritorna svelto al mio fianco e incrocio i suoi grandi occhi verdi, lucidi e imploranti, mentre mi tira lievemente per un braccio, esortandomi a proseguire.
L’atteggiamento schivo di Tommaso comincia a preoccuparmi, appare spesso intimorito e per questioni futili entra nel panico. Indubbiamente è un bambino molto solitario, anche le sue maestre d’asilo l’hanno notato, eppure non mi sento di obbligarlo nel fare qualcosa finché lui non si sentirà pronto.
E dopotutto, non credo a Filippo dispiacerà se lo svegliamo tra qualche minuto.
“D’accordo Tommaso.” gli pizzico la punta del naso ed emetto un sospiro sommesso “Noi nel frattempo andiamo a fare colazione. Lasciamo dormire papà ancora un po’.”
Tommaso annuisce deciso, stringendo le labbra in un timido sorriso.
Scendiamo piano i gradini delle scale, io alquanto impensierita, Tommaso sicuramente più sollevato.

Sono trascorsi una ventina di minuti quando Filippo, ancora in pigiama e con i capelli arruffati, varca la soglia della cucina annunciandosi con un energico sbadiglio.
“Buongiorno tesoro!” lo accolgo briosa. Addento un frollino spalmato di marmellata e prendo un tovagliolo per pulirmi i lati della bocca.
Dopo la consueta spettinata a Tommaso, Filippo si rivolge verso di me e gli porgo la guancia, ma lui prende il mio mento tra le dita e lo solleva, baciandomi con slancio.
“Mmh…che buono” mormora allontanandosi dolcemente e leccandosi il labbro superiore “Pesca?”
“E’ albicocca, veramente.” rettifico, mentre districo con una mano la matassa ribelle di ricci davanti ai suoi occhi.
Filippo ruota gli occhi e digrigna i denti nella buffa espressione che spesso assume per burlarsi del mio essere, a suo parere s’intende, eccessivamente pignola.
“Non mi avete svegliato questa mattina.” osserva Filippo, riempiendo d’acqua il bollitore della caffettiera.
“Dormivi così bene, sarebbe stato un peccato.”
Strizzo l’occhio a Tommaso e scorgo il suo sorriso d’intesa, prima che affondi il viso nella tazza.

Separarmi da Tommaso, anche per le poche ore in cui si trova all’asilo, non mi è mai tanto semplice. Ogni mattina ho la sensazione di smarrire una parte sostanziale di cui riesco a rimpossessarmi solo quando mio figlio ritorna a casa, stanco per la giornata trascorsa ma illuminato dal più bel sorriso che si possa immaginare.
Dopo aver salutato e augurato una buona giornata a Tommaso e alla sua tata Dorina, celando la mia apprensione ingiustificata, mi obbligo a respingere le innumerevoli preoccupazioni e concentrarmi sulla giornata che mi attende. Salgo in camera per prendere borsa e giacca, per poi recarmi alla libreria di Saba, gestita ormai da mesi dal mio amico Carlo Cerne.
Entro nella stanza e trovo Filippo sdraiato sul letto, appoggiato allo schienale con le braccia incrociate dietro la nuca, mentre rivolge uno sguardo pensieroso fuori dalla finestra.
“Giornata all’insegna del riposo oggi?” gli domando e mi chino sulla specchiera per mettere il rossetto.
Scorgo il riflesso di Filippo il quale, con movimenti lenti e pacati, si mette a sedere per poi indirizzarmi un’occhiata inaspettatamente penetrante.
“Hai pensato alla mia proposta Vera?”
Filippo deve aver notato la mia espressione confusa attraverso lo specchio, poiché rapido aggiunge “Riguardo al matrimonio.”
“Sono in ritardo Filippo, adesso non è proprio il momento adatto per parlarne.” lo liquido sbrigativamente, chiudendo la confezione del rossetto e poggiandola sul ripiano “Devo correre in libreria, Carlo mi starà aspettando.”
Dal riflesso, miro di sottecchi Filippo alzarsi dal letto e dirigersi con passo spavaldo verso di me.
“Inizio a sospettare che tu mi stia tradendo con quel commesso.”
Trattengo una risata mentre apporto gli ultimi ritocchi all’acconciatura.
“Dai Filippo non fare il permaloso, non ti si addice.” mi volto e gli do un bacio sulle labbra, provando ad addolcire la tensione che trapela dai suoi lineamenti “Ti ho promesso che ne discuteremo, e così sarà. Ma non adesso.”
Vado per prendere la borsa quando Filippo mi afferra svelto per un braccio, cingendomi in una presa vigorosa.
“Perché sono quasi certo che tu debba pensare alla tua risposta?” sbotta lui, gelido.
“Perché questa è la verità Filippo! E’ una decisione molto, molto importante. Ho bisogno di tempo, per pensarci.” cerco di allontanarmi tuttavia mi stringe più forte al suo petto, sfiorando le mie labbra con le sue “E ora se non ti dispiace, lasciami andare!”
“Sai Vera, regolarmente mi ripeti che hai bisogno di tempo e credimi, ho sopportato fin troppo la tua costante indecisione. Adesso però, inizio a credere che questo sia solo un pretesto.”
Il suo atteggiamento sprezzante mi ferisce con inaudita ferocia, lasciandomi basita e incredula.
Con gesto secco mi divincolo dalla presa di Filippo, scostando infastidita le sue braccia dai miei fianchi, ghermisco la borsa posata sulla sedia ed esco spedita dalla stanza.
“Vera! Fermati per favore!” mi prega lui, scendendo rapidamente gli scalini e raggiungendomi al piano di sotto.
Ma io sono già sulla soglia di casa, mai come in quel momento così impaziente di uscire, mentre inserisco con mano tremolante le chiavi nella serratura.
“Lascia perdere Filippo. Non vorrei tu dovessi sopportarmi più del necessario.”
“Vera non dicevo sul serio...”
Lo ignoro, intenzionalmente, stanca dei suoi assurdi sbalzi d’umore che, è ovvio, riversa poi su di me. E vorrei capisse che io non posso gestire anche i suoi drammi. Ci provo, certo, ma come potrei esserne capace se a malapena riesco ad affrontare i miei?
“Guardami Vera!”
Io persisto nel tenere lo sguardo puntato a terra, fingendomi affaccendata, ma Filippo mi afferra per le spalle, imponendomi di guardarlo negli occhi.
“Mi dispiace Vera, non so cosa mi sia passato per la mente. Non avrei dovuto.”
“No infatti, non avresti dovuto.” spero che il mio sguardo truce possa esprimere meglio di qualsiasi rimprovero la mia profonda delusione.
“Ma Vera, sono mesi ormai che ne parliamo e in un modo o nell’altro qualcosa ci porta sempre a rimandare. Se vuoi aspettare, d’accordo, io lo accetto! Ma almeno sii sincera. Mi sembra che tu voglia fuggire dal fatto che prima o poi dovrai prendere una decisione.”
“Non sto fuggendo Filippo, ma tu devi imparare a rispettare anche i miei tempi! Per me gestire ogni, singola giornata è un’impresa, mille cose mi terrorizzano. Ci sono mattine in cui vorrei solo rimanere a letto e dimenticare tutte quelle responsabilità e gli obblighi. E’ vero, sono passati cinque anni ormai, ma è ancora tutto, spaventosamente difficile! Perciò non permetterti più di parlarmi in quel modo.”
La bomba che ho gettato pare sia deflagrata in quella serena, ma altrettanto fittizia, realtà che Filippo si è creato. Noto il tremolio del suo labbro inferiore, i pugni stretti lungo i fianchi e i muscoli tesi sotto la maglia.  
“Hai ragione.” mormora Filippo, avvilito, in un sussurro quasi impercettibile.
Solleva il capo e sotto le palpebre calate, i suoi occhi osservano il mio braccio sinistro. Filippo lo percorre, sfiorandolo con le dita, risalendo vicino al lembo di stoffa che cela il mio tatuaggio. Io tuttavia mi ritraggo.
“Ci vediamo questa sera.” lo saluto apatica, aprendo la porta e rivolgendogli un rapido sorriso.
Quando, finalmente, esco di casa, ricaccio le lacrime per la rabbia che mi stanno inondando gli occhi. Sono fiduciosa che la frizzante brezza primaverile e una camminata sul lungomare, ridestino il mio umore.   
Purtroppo però, non questa volta.

“Vera, mi stai ascoltando?” Carlo Cerne schiocca le dita davanti ai miei occhi per attirare la mia attenzione, chiaramente lontana in quel momento.
Mi trovo nella libreria, seduta ad un tavolo ricolmo di libri, documenti ingialliti e fogli sparsi.
“Hai sentito una parola di quello che ho detto?” chiede divertito il libraio, alzandosi e riponendo un tomo su un alto scaffale.
“Perdonami Carlo. Questa mattina ho la testa altrove.”
“Sei distratta, è evidente. Vuoi parlarne?”
Basta rivolgergli un’occhiata sconsolata perché Carlo colga abile il mio malumore, distenda con le mani la sua camicia verso il basso e si accomodi di fronte a me, manifestando un interesse che raramente riscontro in altri.
E come un fiume in piena, gli racconto dell’atteggiamento di Filippo, della discussione di quella mattina e della sua insistenza per il matrimonio.
“Filippo però in parte ha ragione Vera, merita una risposta e tu dovrai scegliere. La domanda a questo punto è una sola: cosa t’impedisce di farlo?”
“Non lo so Carlo. E’ un passo importante e mi sembra tutto così complicato.”
“Non se al tuo fianco hai la persona giusta.”
Apro bocca per ribattere, eppure le sue parole m’inducono a non rispondere subito.
“…Pensi che Filippo non sia la persona giusta?” domando poi, titubante.
La mano di Carlo si blocca a mezz’aria, sospesa per qualche secondo. Sposta di lato una pila di fogli e si china verso di me, indirizzandomi uno sguardo perplesso.
“Io non l’ho detto, mia cara. Tu lo hai pensato.”



Angolino dell'Autrice: Ringrazio immensamente chi mi segue, commenta e mi accompagna in questa avventura. Grazie di cuore per il vostro supporto, vi adoro! :)
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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


E’ inutile, non posso fare a meno di riflettere sulle parole di Carlo.
Anche in questo momento, seduta su una panchina piuttosto scomoda in Via Roma, mi sento attraversata da immagini e sensazioni contrastanti. E il tutto converge irrimediabilmente nello stesso punto: il matrimonio.
Sono convinta che i rimproveri di Filippo della scorsa mattina, siano stati conseguenti ad un momento di esasperazione a cui la mia incessante esitazione lo ha condotto.
Eppure tale certezza, non impedisce all’interrogativo del mio amico libraio di insinuarsi nella mia testa e farsi sempre più martellante.
Cosa t’impedisce di prendere una decisione?
Mi sono resa conto di non avere una risposta definitiva, o perlomeno non vi sono ancora giunta. In mia difesa, il matrimonio è un passaggio fondamentale e attraversarlo significherebbe essere sottoposta a cambiamenti irreversibili. Forse non sono tanto sicura di poter affrontarli, lo devo ammettere.
Eppure avverto una rassicurante sensazione, come se i miei timori siano in realtà del tutto immotivati e, una volta compiuto il grande passo, la mia vita non sarà poi tanto differente da com’è adesso.
Questi sono stati i pensieri che mi hanno tempestato nelle ultime ventiquattro ore, caotici e indomabili dal momento in cui ho consegnato l’articolo in redazione e per l’intero corso del pomeriggio, durante il quale mi sono concessa una passeggiata per schiarirmi le idee. O almeno per provarci.
Sono arrivata alla sospirata conclusione che la preoccupazione sia dovuta a cosa possa riservarmi il futuro, ai miei occhi un’entità minacciosa e di fronte alla quale opporsi è vano. Tuttavia che vita sarebbe se potessimo programmarla in ogni suo attimo? Di per sé essa implica incertezza, ma anche infinite possibilità da cogliere. Il rischio è una condizione inevitabile, a mio parere spaventosa, ma con la quale posso imparare a convivere.
Al momento però le mie preoccupazioni sono rivolte su un altro versante e non è un caso che io mi trovi in Via Roma. Sono dieci minuti che passeggio avanti e indietro, incurante di ciò che i passanti potrebbero pensare vedendomi in questo stato di agitazione.
Ho un colloquio con il pediatra di Tommaso questa mattina e dire che ho un groviglio allo stomaco per l’ansia non rende affatto l’idea. In fin dei conti essermi recata dal suo medico, comporta che io non potessi più ignorare alcuni atteggiamenti e celare la mia apprensione. Parlare con un esperto potrebbe rivelarsi utile, soprattutto se può aiutare mio figlio a gestire la sua timidezza.
Purtroppo Filippo non è potuto venire, aveva un’importante riunione in caserma alla quale non poteva mancare.
Perciò eccomi qui, con una mezz’ora abbondante di anticipo e i piedi già doloranti per il camminare.
Evitando di consumare ulteriormente la suola delle scarpe, mi convinco nel fare un tentativo e controllare se il dottore possa comunque ricevermi.
Attraverso il vialetto incorniciato da cespugli fioriti, salgo qualche gradino e leggo la targa dorata alla sinistra del portone:
 
Dott. Gianfranco Morselli
Ortopedia e Traumatologia Pediatrica

Inspiro a fondo e deglutisco a fatica, prima di lasciare uscire l’aria e premere con mano tremante il bottone. Avverto uno strimpellio rauco dall’altra parte e dopo una manciata di secondi la segretaria, una ragazza in tailleur grigio e dai capelli raccolti in un elegante chignon, mi accoglie sulla soglia con un ampio sorriso.
“Salve, sono Vera Bern…”
“La Signora Bernardis, ma certo!” anticipa lei, con voce squillante “Prego, si accomodi in sala d’attesa. Il dottore la chiamerà a momenti.”
La donna indica un breve corridoio e mi sistemo su una delle sedie. Esamino i colori inquietanti dei quadri alla parete, accentuati dalla fredda luce proveniente dalle lampade appese al soffitto. Mi domando chi possa aver mai concepito per un posto di questo genere un arredamento tanto lugubre. Ma forse in questo momento sono io che vedo tutto nero, non riesco proprio a ragionare lucidamente sapendo dei disagi del mio Tommaso.
Una porta si apre all’improvviso e compare un uomo in camice bianco, dal colorito abbronzato e la barba incolta. Lancia una rapida occhiata attorno a sé e sorride non appena incrocia il mio sguardo, invitandomi ad entrare nel suo studio.
“E’ un piacere rivederla Signora Bernardis!” il dottor Morselli mi stringe con vigore la mano e sprofonda nella sua poltrona “Dalla sua telefonata di ieri pomeriggio ho avvertito una certa preoccupazione per Tommaso.”
Mi fa cenno di accomodarmi dall’altra parte della scrivania, colma di cartelle, documenti e due portafotografie ritraenti la sua famiglia.
“Sì, infatti. Non l’avrei disturbata se non lo ritenessi un problema serio.”
Mi esorta a continuare, poggiando i gomiti sul tavolo e incrociando le dita.
“Lei conosce bene Tommaso e avrà notato la sua grande timidezza. E temo che gli stia impedendo di vivere serenamente, di relazionarsi con i suoi compagni. Lo vedo spesso ansioso, spaventato. Piomba in un assoluto mutismo per questioni trascurabili che tuttavia sembrano recargli forte inquietudine.”
“La paura è una fase naturale Signora Bernardis, e si manifesta proprio verso i quattro anni, quando il bambino inizia a riflettere e la sua immaginazione diviene più fervida.” il dottor Morselli si gratta febbrilmente i capelli radi “I bambini si convincono che ci siano mostri dentro gli armadi, oppure sotto il letto, pronti a terrorizzarli! E se vi sono queste premesse, per Tommaso il mondo potrebbe sembrare un posto enorme, minaccioso! Un posto dove non potrà sentirsi al sicuro poiché non sa di chi fidarsi. Io conosco bene il forte legame che la lega a suo figlio, ne abbiamo parlato in numerose occasioni. Ma con il padre, Tommaso come si comporta?”
Trasalisco, sorpresa come la sua domanda abbia intuito in un modo tanto risoluto il nodo delle mie angosce, una circostanza che forse avrei preferito nascondere. Il dottore coglie il mio palese imbarazzo e subito aggiunge:
“Sono stato in qualche modo indiscreto, signora?
“No dottore, assolutamente no!” mi affretto a rispondere “In realtà, temo che sia proprio questo il problema…”
“Tommaso non le sembra sereno in compagnia di suo marito?”
Sarei tentata nel constatare che Filippo non è mio marito, bensì il mio compagno, ma capisco non sia il momento più opportuno per le puntualizzazioni.
“Ci sono tante occasioni in cui si divertono e trascorrono del tempo insieme.” affermo, faticando però nel tradurre i pensieri in parole “Ma se devo essere sincera, non riesco a percepire complicità tra di loro. Mio…marito è molto impegnato con il lavoro ed è spesso fuori casa. Non dedica grandi attenzioni a Tommaso, perlomeno non quante il bambino se ne aspetterebbe. E Tommaso sembra quasi in imbarazzo, come se temesse dal padre chissà quale reazione.”
Il dottor Morselli aggrotta le folte sopracciglia, massaggiandosi le tempie, per poi tornare a rivolgere la sua attenzione verso di me.
“E’ riscontrato che alcuni bambini sentano maggiormente la pressione dei giudizi o delle critiche altrui e questo può farli sentire molto spaventati. Alcuni si ritraggono in mondi abitati da amici immaginari, altri scappano da casa, e poi ci sono coloro che, come Tommaso, smettono di parlare cercando di difendersi dalle richieste del mondo esterno.”
“Non capisco dottore. Perché mai Tommaso dovrebbe sentirsi giudicato dai suoi genitori?”
“Suo figlio è un bambino estremamente sensibile e prova una profonda ammirazione per voi. Lei riesce a farlo sentire a suo agio, il padre forse non ha del tutto affinato il suo senso paterno e questa mancanza di dimostrazioni d’affetto sembra, agli occhi di Tommaso, un disinteresse nei suoi confronti. Questo lo rende insicuro, ma ciò lo porterà a rimanere attaccato sempre e solo a ciò che conosce rischiando di perdersi tante cose buone e arricchenti per la sua vita.”
“Non voglio che accada!” reagisco allarmata, stringendo nervosamente il lembo della gonna “E’ solo un bambino ed è giusto che viva serenamente.”
“Ed io sono d’accordo con lei, Signora Bernardis, per questo le consiglierei di parlarne con suo marito. Gli riferisca quanto ci siamo detti ed esponga le sue preoccupazioni. Inoltre…” il dottore si schiarisce la voce “Mi sentirei di suggerirle di organizzare qualche uscita in famiglia, magari una gita. Insomma, ponga il suo bambino in una condizione tale in cui possa sperimentare, divertirsi e uscire dal suo guscio. E magari entrare in maggior sintonia con il padre. Se non si sentisse tranquilla, può sempre tornare con Tommaso e faremo una chiacchierata di persona.”
Dopo aver ringraziato il dottor Morselli, la segretaria mi riaccompagna all’uscita augurandomi un buon pomeriggio e richiudendo la porta dietro di sé. Percorro rapida il vialetto e, appena svoltato l’angolo, sento un tremendo nodo alla gola e scoppio in lacrime.
Quando si tratta del mio Tommaso, la preoccupazione pare uno scoglio insormontabile e sembra voler soffocarmi. Ma la verità è una soltanto: avrei tanto voluto che oggi Filippo mi fosse stato accanto.

Appena varco la soglia di casa, appoggio la schiena alla porta e tiro un lungo sospiro. I miei occhi stanchi s’illuminano quando dalla cucina intravedo Tommaso corrermi incontro, notando divertita i lati della sua bocca impiastricciati di cioccolato. Getto il cappotto sul divano e accolgo Tommy tra le mie braccia, celando ogni mio turbamento.
Dorina ci saluta dopo pochi minuti, pronta per tornare dalla sua famiglia, e mio figlio ed io ci sediamo al tavolo della cucina, mentre lo osservo gustare la sua merenda. 
“Ehi Tommy! E’ giovedì, ricordi? Oggi papà torna prima dal lavoro. Sei contento?”
Difficile cogliere la sua risposta, ma non così arduo da afferrarne il senso.
“Qualcosa non va tesoro?” lo incoraggio, passando le dita tra i suoi capelli.
Lo sguardo di Tommaso tradisce un disagio che tenta di nascondere con scarsa maestria.
“Sai Tommy, quando si è preoccupati non bisognerebbe tenersi tutto dentro. E’ molto coraggioso parlarne, si possono affrontare i problemi insieme. E vedrai, le paure sembreranno meno spaventose.”
Tommaso emette qualche parola, impacciato per la timidezza che pare sempre incombere su di lui.
“Papà è…” s’interrompe “Papà è sempre molto impegnato. E stanco…”
Provo una spiacevole fitta al cuore nel vedere mio figlio tanto mortificato, forse perché comprendo bene il suo stato d’animo.
“Hai ragione tesoro mio, papà è spesso indaffarato. Ma questo non significa che non adori trascorrere del tempo con te. Hai capito Tommy?”
Lui annuisce più convinto, abbozzando un dolce sorriso.
In quel momento riaffiorano fulminee le parole del pediatra, riguardo al creare un’atmosfera serena in casa. Divenire più uniti, essere una vera famiglia, probabilmente aiuterebbe Tommaso a vincere le sue insicurezze.
Bacio mio figlio sulla fronte e gli suggerisco di andare a giocare nella sua stanza.
Tommy si avvia trotterellando verso le scale e nel frattempo avverto lo scatto della serratura e il tintinnio delle chiavi posate sul mobile.
“Ciao papà!” Tommaso accoglie vivace Filippo e, non appena raggiungo l’ingresso, ci scambiamo uno sguardo d’intesa prima che salga svelto i gradini e si rintani nella sua cameretta.
“Bentornato tesoro.” dò un rapido bacio a Filippo “Com’è stata la riunione di oggi?”
“Molto stancante.” risponde lui, mostrando un’espressione a dir poco sfinita “Cosa dovrebbe significare quella tua strana occhiata di poco fa con Tommy?”
Si stravacca sul divano, stremato, e adagia la testa sullo schienale.
“Quale occhiata?” chiedo, con aria fintamente confusa.
“Vera, non mentire. Sai di non essere brava.” sottolinea Filippo, rivolgendomi un sorriso malizioso.
“E’ un piccolo segreto con mio figlio.” mi accomodo accanto a lui, posando le mani sul suo petto “Sono così contenta che oggi tu sia tornato presto.”
“Beh, se ti rende così felice, devo farlo più spesso!”
Filippo prende il mio volto tra le mani e mi trascina con sé in un bacio da levare il respiro. Mi allontano leggermente dalle sue labbra, suscitando in lui un lieve gemito di protesta.
“Questa mattina è andato tutto bene dal pediatra. Abbiamo parlato di Tommaso e mi ha davvero rassicurata. Non avevo idea che la timidezza fosse causa di grande sofferenza per i bambini di quest’età.”
Filippo corruga la fronte e, dopo un impercettibile attimo di smarrimento, sembra ritrovare un senso nelle mie parole.
“Sono molto, molto sollevato. Ma ti preoccupi troppo piccola, te l’ho sempre detto!”
“Lo so, hai ragione. Ma è stato comunque utile per fare un po’ di luce su alcune questioni…”
“Ah sì? Sentiamo!” mi esorta lui, cingendomi le spalle con un braccio.
“Innanzitutto dovremmo organizzare più uscite insieme, magari qualche gita nei fine settimana.”
Filippo annuisce con vigore e un sorriso compiaciuto rallegra il suo volto. “E’ un’ottima idea Vera! Con l'arrivo della bella stagione potremmo andare al mare, che ne pensi? Ogni tanto possiamo affittare una barca al porto.  A Tommaso piacerebbe da impazzire!”
Percepisco una stretta di gioia allo stomaco, piacevole e catartica, nell’ammirare il sentito entusiasmo di Filippo alla mia proposta.
“Sì, credo lo renderesti davvero felice.” mormoro tra me, sorridendogli ammaliata.
“E infine ho preso una decisione.” dichiaro all’improvviso, senza però interrompere il nostro gioco di sguardi.
“Riguardo a cosa?” domanda lui, ponendo una ciocca di capelli dietro il mio orecchio.
“Voglio sposarti.”
Filippo butta indietro la testa e scoppia in una profonda risata.
“Ma che reazione dovrebbe essere la tua?!”
“Questa Vera, ” dice posando la fronte sulla mia “è la reazione alla notizia più bella che potessi darmi.”
Le sua bocca cerca e si congiunge subito alla mia e le sue mani trovano la via intorno alla mia vita. Gli cingo il collo con un braccio e faccio aderire le mie labbra alle sue. Seguo con le dita il profilo dei suoi addominali sotto la camicia, quando sento uno sfrigolio nel taschino. Ne sfilo un ritaglio di carta spiegazzato e scorgo una lista di nomi, alcuni dei quali tracciati con una linea rossa.
“Cos’è questo Filippo?”
Lo sento irrigidirsi inaspettatamente e veloce mi sfila di mano il foglio.
“Niente d’importante.” sostiene Filippo, inserendo in modo disordinato il pezzo di carta nella tasca dei pantaloni “E’ l’elenco dei soldati a cui siamo riusciti a restituire il compenso per la guerra.”
“Allora ci sono dei miglioramenti, per fortuna! Mi avevi detto che era difficile trovare i fondi per tutti.”
“Sì, va molto meglio. Ma non voglio parlare di questo. Preferirei riprendere da dove ci siamo interrotti…”
E seguita a baciarmi con ardore.
Che strano, mi dico ripensando al foglio di Filippo. Eppure sono certa di avervi letto anche qualche nome femminile…

Oggi è una giornata da non dimenticare.
Mi sento finalmente bendisposta nei confronti della vita, orgogliosa di aver compiuto un passo che sembrava spaventarmi tanto. Filippo ed io ci sposeremo, e da ieri sera non penso ad altro. Nemmeno ricordo l’ultima volta in cui mi sono sentita così elettrizzata, incredibile! 
Non sono riuscita a scrivere una parola questo pomeriggio, la mia concentrazione riesce sempre a rivolgersi verso tutt’altro. Ho messo da parte l’articolo e mi sono recata in cucina per preparare la merenda per Tommaso, in attesa che torni dall’asilo.
Sobbalzo al suono improvviso del campanello e osservo l’orologio. Devono essere Tommaso e Dorina, anche se in leggero anticipo rispetto al solito.
Accorro all’entrata, sistemando alcune ciocche di capelli sfuggite dalla crocchia.
“Siete già tornati a casa!” il sorriso raggiante con il quale apro la porta, si gela all’istante sulle mie labbra.
Il mio cuore perde un battito, forse due, mentre arretro sconvolta. Porto una mano alla bocca e guardo con occhi sbarrati e increduli la figura di fronte a me.
Sì, oggi sarà una giornata che non potrò mai dimenticare.
Perché sull’uscio di casa mia, c’è Massimo.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


                                           

M’impongo di non tremare. Né urlare. E tantomeno fuggire.
Eppure questo non è sufficiente per placare la tempesta che infuria dentro di me.
Massimo.
Massimo è davvero qui, alla mia porta.
Un sorriso stanco appare sul suo volto smagrito e irsuto. Sebbene un’ombra paia velare il suo sguardo, vi scorgo ancora quel bagliore familiare, impossibile da dimenticare.
Anni fa trascorrevo infinite giornate a sperare che questo momento si presentasse, tante volte da perdere il conto.
Invece adesso guardo Massimo, più robusto e imponente di come ricordassi, e avverto solo un’asfissiante tensione.
Lo so. Lui sta aspettando una mia reazione. Una parola, un gesto, qualsiasi cosa. 
Ma non ci riesco.
Cinque anni.
Sono trascorsi cinque, lunghissimi anni.
Giorni, settimane, mesi interminabili in cui l’incertezza mi ha divorato. Credevo fosse morto. Io mi sono convinta che Massimo fosse morto, altrimenti sarei rimasta vincolata per sempre al passato, al ricordo del suo ultimo abbraccio, delle sue ultime parole sussurrate al mio orecchio, prima che saltasse dalla camionetta per salvarmi.  
Come biasimarmi quindi, se oso affermare che l’arrivo di Massimo mi ha travolto come un treno in corsa. Con forza inaudita ha sconvolto tutte le mie certezze, o forse quelle che credevo tali.
Massimo posa a terra una sacca di tela piuttosto sciupata. Il suo aspetto è trasandato, gli abiti sgualciti e la chioma spettinata suggeriscono un suo completo estraniamento dalla realtà. E il volto incavato e le palpebre pesanti infatti, ne sembrano la conseguenza.
“Rimarrai lì a fissarmi ancora per molto Vera?” domanda Massimo, spostando il peso da una gamba all’altra.
Strano, pensavo di aver dimenticato il suono della sua voce. In realtà è solo uno dei tanti ricordi reclusi in un angolo della mia mente, ma che all’improvviso sembrano riversarsi e scorrermi davanti.
Sistemo con gesto nervoso i capelli dietro le orecchie, per poi incrociare le braccia al petto.
“Cosa ti aspetti che faccia?”
“Niente. E’ solo che sembra tu abbia visto un fantasma.”
“Sì, in effetti è proprio così.”
Gli rivolgo un’occhiata penetrante. Mi accorgo tuttavia di non riuscire a sostenere il suo sguardo.
Massimo compie un passo in avanti.
Io subito indietreggio, scuotendo con vigore il capo, e gli intimo di non avvicinarsi ulteriormente.
Colgo un lampo di sconforto nei suoi occhi, ma Massimo non demorde.
“Hai un nuovo taglio di capelli. Ti dona.”
Roteo gli occhi e mi sfioro la fronte, provando a celare il mio disagio.
“Massimo, per favore, smettila. Voglio una spiegazione.”
Ardisco con tono più austero, ma la voce si spezza non appena scorgo Tommaso e Dorina percorrere il vialetto.
Mio figlio percepisce subito la palpabile tensione dovuta all’insolita presenza sulla nostra soglia. Tommy mi corre incontro e si nasconde dietro le mie gambe, avvinghiandosi con le sue manine alla gonna.
“Chi è questo signore?” borbotta lui, squadrando la figura possente di Massimo.
“Vai in cucina tesoro.” lo sollecito con qualche lieve pacca sulle spalle “La merenda è pronta sul tavolo. Io ti raggiungo subito.”
Lui però rimane immobile, si limita ad osservare incuriosito lo sconosciuto davanti a lui.
Massimo avverte l’espressione attenta di Tommaso e gli rivolge un allegro saluto e, stranamente, il piccolo risponde con un timido sorriso.
Benché l’incredulità di fronte alla reazione inaspettata di mio figlio, voglio comunque porre fine a questo intreccio di sguardi.
Dirigo un’occhiata decisa ed eloquente a Dorina la quale, con passo goffo, spinge Tommy dentro casa bisbigliando qualche parola per persuaderlo.
Voltandomi verso Massimo, noto la sua difficoltà nel realizzare la circostanza di fronte alla quale si è trovato. Si passa una mano tra i capelli e reprime un sospiro.
“Hai un figlio.” mormora infine, con una nota di amarezza nella voce.
Mi stringo nelle spalle e annuisco debolmente.
“Si chiama Tommaso.”
“E’ bellissimo. Ha i tuoi stessi occhi.”
Abbozzo un sorriso di rimando, senza riuscirci molto bene poiché cerco subito di mascherarlo.
“Chi è il padre?” domanda Massimo all’improvviso.  
“Non sono affari tuoi.”
La mia brusca risposta non ha però l’effetto sperato.
Forse dimentico che Massimo mi ha conosciuto meglio di chiunque altro, io stessa gli ho rivelato gli aspetti più reconditi del mio animo come mai con nessun altro. I suoi occhi scuri, due specchi profondi in cui ricordo fin troppo bene quanto fosse facile perdersi, mi scrutano con insistenza, come potessero leggermi dentro.
“Ho il diritto di sapere Vera! Come ne avevo nel ricevere una dannata risposta da parte tua! Ti avrò spedito decine di lettere negli ultimi anni, mai che tu mi abbia degnato di una risposta.”
Scuoto freneticamente la testa, confusa e sconvolta nell’udire i suoi ingiusti rimproveri.
Tuttavia Massimo alza la voce e non mi dà la possibilità di ribattere.
“Smettila di fingere Vera! Lo sai, avresti potuto scrivermi. Avrei compreso il tuo desiderio di avere una famiglia, di proseguire con la tua vita. E anche se io non avrei più potuto farne parte, non mi sarei mai opposto alla tua felicità.”
“Massimo ma di cosa stai parlando?!” grido esasperata, abbassando però subito il tono per non attirare l’attenzione “Ti rendi conto che fino a dieci minuti fa credevo tu fossi morto? Compari alla mia porta dopo cinque anni in cui sono rimasta in un limbo d’incertezza, non sapevo se fossi morto o sopravvissuto, né dove potessi trovarti. Come puoi permetterti addirittura di accusarmi?!”
La mia fermezza sembra placare il suo impeto. Massimo si sfrega irrequieto la barba incolta sul mento, incrociando afflitto il mio sguardo.
Intravedo in lui grande confusione, una condizione che ad essere sinceri tormenta entrambi. I miei occhi si posano sulla sua mano abbandonata lungo il fianco, tremante e irrequieta. Avverto le mie dita tendere impercettibilmente verso quelle di Massimo, come volessero intrecciarsi con le sue…
“Io davvero non capisco!” trasalisco alla sua imprecazione e richiudo subito la mia mano in un pugno “Ho intrattenuto una lunga corrispondenza con il mio colonnello. Gli ho raccomandato più volte di recapitare a Filippo le lettere che lui avrebbe poi consegnato a te.”
“Massimo io non ho mai ricevuto nessuna lettera.”
“Da quanto non lo vedi?”
“…Chi?”
“Filippo!” grida lui.
Il mio silenzio è eloquente. Osservo Massimo di sottecchi e l’amaro sorriso sul suo volto non m’incoraggia.
“Ma certo, che cretino. Filippo è il padre del bambino, non è vero?”
Sento il mio corpo raggelarsi e le ginocchia vacillare.
“Maledizione Vera, rispondi!”
Massimo sbatte un palmo contro lo stipite della porta, spaventandomi.
“Se evitassi di buttarmi giù la casa…”
Lui non sembra cogliere il mio tentativo di smorzare la tensione. Anzi, per tutta risposta mi lancia un’occhiata stizzita.
“Massimo, te lo ripeto. Non intrometterti, la mia vita non ti riguarda.”
“Porca puttana Vera, invece sì!”
“Massimo!” lo rimprovero, furente.
“Filippo è un impostore! Possibile che non te ne sia resa conto? Deve averti minacciata per essere riuscito ad ingannarti così facilmente!”
“Massimo smettila…”
Lui si mette le mani nei capelli e solleva gli occhi al cielo, offuscato dalla rabbia.
“Filippo ti ha mentito! Ti ha raccontato migliaia di bugie solo per portarti a letto!”
“Smettila!” urlo e d’impulso gli do una spinta, incapace di trattenere ancora la frustrazione che fluisce come una scarica attraverso le mie dita.
La mia forza non è tale da colpire Massimo, che a malapena barcolla, ma è sufficiente perché capisca di aver superato il limite.
Tuttavia l’impeto ben presto mi abbandona e quando realizzo cosa ho fatto, indietreggio intimorita e gli chiudo la porta in faccia.
Boccheggio mentre un senso si soffocamento mi schiaccia.
“Mamma! Mamma vieni!”
Tommy mi chiama a gran voce dalla cucina.
Provo a regolare il respiro e asciugo rapida gli occhi umidi, per non allarmare mio figlio.
Mi volto e vedo Dorina corrermi incontro, incapace di celare la sua evidente curiosità.
Ma prontamente la afferro per un polso e la induco a guardarmi dritto negli occhi.
“Non farne parola con nessuno. Ci siamo intese?”

Ieri sera è stato faticoso nascondere alla mia famiglia le mie angosce, ma ho deciso di non rivelare ancora nulla riguardo il ritorno inaspettato di Massimo. Mi sono imposta, nel limite del possibile, di non pensarci e fingere che rivederlo non mi abbia scalfito.
Che illusa.
Ora che sono sola in casa e non ho motivo di tenere sotto controllo i miei pensieri, realizzo che la mia vita non è stata altro che un’immensa, rassicurante bugia, a cui io stessa ho dato adito.
Credevo di essere riuscita ad accettare la perdita di Massimo, convincermi che vivere senza di lui sarebbe stata la soluzione migliore.
Forse non è mai stato così, forse non sono mai riuscita a dimenticarlo.
Per questo non ero sicura di voler sposare Filippo. Nonostante io gli fossi grata per essermi stato accanto dopo il mio ritorno da Mauthausen, sentivo che il mio posto non era accanto a lui.
Eppure io non volevo ferirlo. E porre fine alla nostra relazione, avrebbe reso tanto più palese l’impegno che ancora nutrivo verso Massimo.
Ma cosa sarebbe successo dopo? Sarei partita, da sola, senza sapere dove andare né come iniziare a cercare qualche indizio?
Per non parlare di Tommaso! Sarei stata in grado di badare a mio figlio? O peggio, se Filippo avesse cominciato una battaglia legale per portarmelo via?
E solo adesso, a distanza di anni, forse riesco ad analizzare la mia vita dalla giusta prospettiva: io sono vincolata a Filippo.
Senza di lui, cosa ne sarebbe stato di me? Mi sentivo in dovere nel ricambiare, questa è la verità. Dopo tutto l’affetto e le attenzioni che mi aveva dimostrato, come avrei potuto abbandonarlo? Sarei stata davvero tanto egoista?
Un vivace bussare interrompe quel flusso di domande assillanti.
Sento un vuoto allo stomaco, temendo che Massimo possa essere tornato. Scosto la tendina della finestra della cucina e, anche se avrei preferito non ricevere visite, riprendo a respirare quando intravedo Clara, la mamma di un compagno d’asilo di Tommy.
“Ciao tesoro!” mi saluta con un bacio sulla guancia appena apro la porta “Ho appeno sfornato questa meravigliosa torta alle mele e te ne ho portato un pezzetto.”
“Che gentile, grazie Clara. Non dovevi disturbarti.”
Fisso prima il pacchetto nelle sue mani, poi mi rivolgo verso Clara. Lei mi guarda raggiante, chiaramente non disposta ad andarsene. Dovevo immaginare che la torta fosse solo un pretesto.   
“Posso…offrirti qualcosa?” le propongo infine, segnando la mia condanna, e i suoi occhi s’illuminano all’invito in cui stava confidando.  
“Volentieri! Un tè sarebbe perfetto, se non ti dispiace.”
Clara entra con esuberanza in casa e comincia a curiosare in giro, toccando e spostando tutto ciò che attiri la sua attenzione.
“Prego, accomodati. Fai come se fossi a casa tua.” penso infastidita e mentre richiudo la porta, sopprimo un sospiro e mi preparo a sfoggiare un sorriso che appaia il meno finto possibile.
“Andiamo in cucina Clara?”
Lei annuisce con foga. Le indico di proseguire lungo il corridoio e precedendomi, non posso fare meno di notare assai sbigottita il suo vestito attillato e i tacchi vertiginosi.
Clara si siede al tavolo, sgranocchia un biscotto e ammira sognante gli anelli lussuosi alle sue dita, mentre io metto a bollire l’acqua per il tè.
“Domani sera organizzerò una cena tra le mamme dell’asilo, a casa mia. Ovviamente mia cara, l’invito è rivolto anche a te. Sarà una serata tranquilla, di sole donne! Mangiamo qualcosa, parliamo…Insomma, ci sarà da divertirsi!”
“E’ una bella idea, ma non penso di riuscire a farcela Clara.”
“Vera! Non posso credere che tu non abbia nemmeno qualche ora da dedicarci!” Clara accavalla le gambe e arriccia il labbro inferiore con aria infantile “Non dirmi che devi lavorare, non me la bevo questa volta!”
“No, non è per quello…”
“Oh tesoro, tu mi stai nascondendo qualcosa. Hai un faccino così pallido! Aspetta, ti do una mano con il tè…”
Clara mi raggiunge e sfila dalle mie mani una delle due tazze fumanti.
“Sicura di mangiare abbastanza Vera? Guardati, sei un grissino!”
“Clara, sul serio, non devi preoccuparti. Sto benissimo!”
All’improvviso Clara sbatte rumorosamente i palmi sul tavolo e per poco non mi rovescio il tè addosso. 
“Oh santo cielo Vera! Ma sei incinta?!”
Strabuzzo gli occhi e mi viene da sorridere se penso fin dove la sua fervida fantasia l’ha condotta.
“Clara no! Non sono incinta.”
Lei si scosta con gesto enfatico una ciocca di capelli dagli occhi e incrocia le braccia al petto, osservandomi con uno sguardo indagatore.
“Ci sono problemi con Filippo?”
“Qualcosa del genere...”
“Oh tesoro, è assolutamente normale sai?”
La mia espressione dubbiosa la esorta a proseguire.
“Guarda, ti ricordi della Titti quando stava attraversando quel periodaccio con Renato?”
Io fingo di sapere di cosa stia parlando, giusto per evitare che mi racconti l’infinita epopea di questa sfortunata coppia.
“Bene, loro si sono concessi una bella vacanza. Non ricordo dove esattamente, sarà stata qualche località marittima, molto romantica, tranquilla. Beh, ci credi che quando sono tornati, a stento li riconoscevo? Erano felici, affiatati, mai visti così innamorati! Tu potresti fare lo stesso con Filippo, no? Per Tommaso non devi preoccuparti, posso occuparmene io e accordarmi con la tua tata.”
Clara stringe la mia mano tra le sue, sorridendomi impietosita, e provo una smania irrefrenabile di allontanarmi.
“Mia piccola, dolce Vera. Sai, noi donne abbiamo un compito faticoso. Dobbiamo sempre apparire belle, eleganti, ordinate e soprattutto compiacere i nostri mariti esigenti. Alcune di noi magari ci riescono meglio di altre, ma se ci trascuriamo non facciamo che allontanarli! Fidati di me tesoro, non c’è niente di meglio che un po’ di svago per risaldare l’affinità di coppia e ritrovare il romanticismo perduto.”
“Grazie Clara, proverò a proporlo a Filippo.”
Finalmente mi sottraggo della sua presa e adagio la mia tazza nel lavello.
“Oh mannaggia! Si è fatto proprio tardi. Devo scappare.” esclama Clara, sorseggiando velocemente il suo tè e afferrando ancora un biscotto prima di accompagnarla verso l’uscita.
“Miraccomando Vera, pensa alla mia proposta.” afferma lei mentre si guarda allo specchio dell’ingresso, aggiustandosi l’acconciatura “E non abbatterti, tutto si risolverà!”
Le sorrido, richiudo la porta e finalmente in casa torna a regnare il silenzio.
Forse allontanarsi per qualche tempo da Trieste sarebbe l’ideale. Ma solo Tommy ed io, così potrei fuggire da una realtà che senza alcun preavviso sembra essersi fatta soffocante.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


                                                                

“Cos’hai Vera? Non hai praticamente toccato cibo.” nota Filippo, portando un pezzo di arrosto alla bocca.
In effetti il mio piatto è rimasto intatto. Mi limito a mischiare distrattamente con la forchetta le verdure, ma il mio appetito è assente.
Esalo un sospiro sommesso e appoggio la posata sul tovagliolo.
“Massimo è tornato.”
Filippo s’immobilizza, lasciando il boccone a mezz’aria.
Scorgo di sottecchi il pallore improvviso apparso sul suo volto, come se una bomba fosse appena deflagrata sotto i suoi piedi.
Posa rumorosamente la forchetta sul piatto e si porta il tovagliolo alla bocca.
“Tommaso, vai in camera tua.”
La voce ferma e autorevole del padre riporta il piccolo Tommy alla realtà, fino a un momento prima indaffarato nel giocare con una macchinina.
“Ma io voglio la cioccolata.” borbotta lui, sbattendo i piccoli pugni sul tavolo.
“Ti ho detto di salire nella tua stanza!”
Filippo punta con gesto aggressivo il dito verso Tommy, spaventandolo.
“Filippo piantala! Non prendertela con il bambino!”
Mi alzo rapida e intrecciando le mie dita con quelle di Tommaso, lo esorto a seguirmi. Raggiungo il bancone, stacco una tavoletta di cioccolato dalla stecca e la porgo a mio figlio.
“Ecco tesoro. Vai in camera tua adesso.”
Gli occhi di Tommaso si riducono a due fessure, ma riflettono con chiarezza la triste consapevolezza dell’imminente litigio tra i suoi genitori.
“Non lo voglio più.”
Lui sfugge riottoso dalla mia carezza. Provo a fermarlo ma già lo sento salire rumorosamente le scale e chiudere con violenza la porta.
Mi risiedo al mio posto, estenuata, appoggiandomi allo schienale. Filippo fissa il vuoto, le braccia abbandonate lungo i fianchi.
“Quando lo hai visto?” domanda lui.
“Ieri pomeriggio.”
Filippo serra le labbra e guarda altrove.
“E’ venuto qui?”
Annuisco debolmente.
Filippo allontana il piatto e appoggia i gomiti sul tavolo, reggendosi il capo tra le mani.
“Non so, pensi di darmi qualche spiegazione entro la fine della serata?” domando risoluta, cercando il suo sguardo.
“Non c’è molto da dire.”
“Senti” scandisco, rivolta a Filippo “forse non ti rendi conto. Massimo è tornato! E’ apparso alla nostra porta…come un fantasma!”
“Non capisco questa tua agitazione…”
Mi sfugge una risata sardonica.
“Vuoi scherzare?! Pensavo di morire appena l’ho visto!”
“Aspetta, lasciami indovinare.” m’interrompe lui, alzandosi con lentezza dalla sedia “Ti avrà raccontato delle sue gesta eroiche e un’infinità di balle sul mio conto. O sbaglio?”
“Si può sapere cosa ti prende? Mi pare tu non stai afferrando fino in fondo la gravità della situazione.”
“Sei incredibile Vera.” afferma Filippo, scuotendo rassegnato il capo “Andava tutto bene. Era tutto, dannatamente perfetto! Perché il suo ritorno dovrebbe cambiare qualcosa?!”
“Non lo era affatto Filippo!” obietto furiosa, mentre lo raggiungo dall’altra parte del tavolo “Tu mi hai fatto credere che Massimo fosse morto! Ti rendi conto, mi ha riempito la testa con un’infinità di bugie!”
“Ti ha detto questo, non è vero?” dice Filippo a denti stretti “Che sono solamente uno stronzo egocentrico?!”
“Quello era il suo intento, in effetti, ma non gli ho dato l’opportunità di spiegarsi. Voglio prima di tutto un chiarimento da parte tua.”
Tuttavia Filippo abbassa le palpebre, massaggiandosi nervosamente le tempie. Lo imploro con lo sguardo, sperando che mi conceda la possibilità di comprendere le sue azioni e giustificarle, in qualche modo. Ma intravedo il buio nei suoi occhi e dalla sua bocca affiora solo un sospiro inquieto.
“Massimo ha parlato di alcune lettere...” proseguo io, sopprimendo la smania di scuoterlo dal suo stato catatonico “Si è arrabbiato perché non ha mai ricevuto risposta. Ah, dimenticavo! Ha incontrato Tommaso, mentre tornava dall’asilo. Ha ascoltato la nostra discussione, com’è probabile tutto il vicinato, e non ho potuto dargli nessuna spiegazione. Sei stato egoista Filippo, non solo mi ha tenuto all’oscuro ma hai coinvolto anche nostro figlio, quando non dovrebbe avere niente a che fare con tutto questo!”
Finalmente distoglie il suo sguardo dal soffitto, lanciandomi un’occhiata velenosa.
“Vera non tirare in ballo Tommaso e sii sincera, almeno per una volta.”
“Sincera io?!” ripeto allibita “Filippo tu mi hai del tutto scavalcato, mentre avevo il diritto di essere inclusa! Perché non mi hai consegnato le lettere di Massimo? Perché non mi hai detto la verità?!”
Filippo sbatte con violenza il palmo sul tavolo, facendomi trasalire.
“Mi chiedi perché?! Saresti corsa da lui, a cercarlo! E mi avresti abbandonato, come uno stupido.”
“Non lo avrei mai fatto Filippo.”
Sfioro con le dita il dorso della sua mano, ma lui la scansa con gesto solerte.
“Ah no? Pensi che non sappia il motivo per cui hai sempre sviato la questione del matrimonio?”
“Non starai tornando di nuovo sull’argomento spero? Avevo bisogno di tempo, te l’ho già ripetuto decine di volte!”
“No Vera. Un mese, due anni, non avrebbe fatto alcuna differenza.” Filippo si passa brusco una mano tra i capelli e scorgo le sue labbra tremare “…Tu provi ancora qualcosa per lui.”
“Filippo tu sei la mia famiglia!”
Intuisco che vorrebbe dissentire ma le parole, qualunque esse fossero, muoiono labili sulle sue labbra.
“Ma hai commesso un’azione imperdonabile. Hai tradito la mia fiducia Filippo! Ed è terribile.”
“Come tuo solito, stai ingigantendo la questione.”
“No, tu la minimizzi!”
“E tu stai ingannando te stessa Vera! E sai cosa ti dico? Sei libera di credere alle tue bugie ma fammi il piacere, non mentire davanti a me.”
Filippo afferra impetuoso il mio polso ma sfuggo dalla sua stretta.
“Pensi davvero che avrei abbandonato te e Tommaso per correre dietro a Massimo?!”
“Sì diamine! Lo avresti fatto!” ringhia lui “E sai il motivo? Perché anche adesso, a distanza di anni, il solo nominare il suo nome non ti lascia indifferente!”
“Stai delirando…” arretro impaurita, fino a che non urto lo spigolo del tavolo.
“No, ti sbagli Vera. Anzi, per la prima volta la situazione mi appare chiara. Tu ancora ami Massimo. E ho sempre sperato che lo dimenticassi. Invece ogni volta che ti guardavo, in fondo sapevo che avresti voluto che di fronte a te ci fosse lui, e non io.”
“Filippo…”
Lui scuote deciso il capo, impedendomi di ribattere.
“Ma potevo sopportarlo. Perché pur di averti vicino, avrei vissuto con la consapevolezza che il tuo cuore appartenesse ad un altro. Ti ho mentito, hai ragione. Ho nascosto le lettere e ti ho fatto credere che Massimo fosse disperso. E per quanto tu possa considerarmi egoista, non mi pento di ciò che ho fatto. Perché ti amo Vera, ti amo da impazzire! Hai dato un senso alla mia esistenza, tu mi hai fatto provare un sentimento così sconvolgente che mai avrei creduto potessi sentire. Volevo fossi solo mia, e di nessun altro...“
La voce tremante di Filippo si spezza in un debole singhiozzo. Compie un altro passo e disperato posa la fronte sulla mia spalla, stringendomi a sé.
Io resto immobile, timorosa nel muovere un muscolo, mentre tutto intorno sembra vorticare e inabissarsi in un’enorme voragine.
“…Se mi ami come dici Filippo, come hai potuto mentirmi per tutti questi anni?”
Lui solleva con inaspettata sicurezza il capo, a pochi centimetri dal mio viso, indirizzandomi un’occhiata cupa.
“Avrei fatto di tutto pur di averti Vera.”
“Anche basare il nostro matrimonio su un’immensa bugia?!” gli domando, cercando tuttavia di ristabilire una maggiore distanza tra noi “Hai abbandonato il tuo migliore amico, quando il solo pensiero che gli eravamo vicino gli sarebbe stato di conforto!”
“Massimo era sopravvissuto, e stava bene. Non aveva certo bisogno della tua compassione Vera.”
“Questo è ciò che pensi tu!”
“Vera basta!” urla Filippo “Smettila di pensare che tutto graviti intorno a Massimo!”
“E’ impossibile ragionare con te! Vedi come fai? Sei sempre pronto a sviare una discussione e non hai la volontà di affrontarla!”
“Se lo pensi, sei completamente fuori strada.”
“Allora ti prego, dimostrami che mi sto sbagliando...” ricaccio indietro il doloroso nodo alla gola che ha imprigionato le mie parole “Parlami Filippo. Non chiuderti, non con me! Guarda a cosa ci ha portato…”
Lui posa le mani sullo schienale della sedia, stringendolo con forza.
“Tutto quello che ho fatto Vera, è stato per proteggerti. Perché avrei dovuto alimentare false speranze? Non volevo soffrissi ancora…”
“Ma da cosa volevi proteggermi?!” ribatto confusa “Credevi veramente che non avrei sofferto venendo a sapere tutto ciò che mi hai nascosto?”
“E tu pensi che non me ne rendessi conto?!” insorge lui, lanciandomi uno sguardo sbieco “Avrei dovuto dirti la verità, lo so. Ma ogni giorno che passava, realizzavo quanto tu fossi vicina. Finalmente ti eri accorta di me, mi desideravi al tuo fianco. Non potevo perdere la possibilità di averti. Se ti avessi riferito di Massimo, io sarei tornato a essere solo una presenza marginale nella tua vita, un amico qualunque che presto avresti ignorato. Io volevo essere di più. Non avrei permesso a nessuno di farti allontanare da me.”
Avverto le ginocchia vacillare al peso insopportabile che improvvisamente sembra farmi sprofondare. Mi appoggio sfinita al bancone, osservando i ricci di Filippo ottenebrare il suo viso.
“Massimo mi ha salvato la vita. L’ha salvata ad entrambi Filippo. Non posso credere tu non abbia provato alcun senso di colpa.”
“Perché dovrei preoccuparmi della felicità degli altri? Massimo era vivo, e finalmente si era fatto da parte. Era giunto il mio turno.”
“…Quindi è questo che sono ai tuoi occhi? Un premio?”
Il suo silenzio è come un pugno dritto nello stomaco.  
“Forse è il caso che te ne vada.” dichiaro in fin di voce, mentre sento le lacrime bruciare nei miei occhi.
“Vera, ti prego…”
Filippo mi raggiunge a rapide falcate. Sfiora la mia guancia, asciugando una lacrima con il pollice.
“Vattene, Filippo.” gli intimo, allontanandomi dal suo tocco “Per favore.”
Fisso i suoi pugni stretti lungo i fianchi, ma non ho il coraggio di sollevare il capo e incrociare il suo sguardo.
Filippo sale silenzioso le scale e dopo poco ricompare con una borsa sulle spalle, diretto verso l’uscita.
I nostri occhi s’incontrano per un momento, rapido e lancinante, come il suo sbattere la porta non appena uscito di casa.



Angolino dell'Autrice: Miei adorati! Ne approfitto per augurare a tutti voi una serena Pasqua e delle belle vacanze! Vi ringrazio immensamente per la vostra vicinanza e le parole meravigliose che ogni volta mi riservate. Vi adoro! <3

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***





E’ da tre giorni che non vedo Filippo.
Mi sorprende non abbia insistito nel vederci. Ammetto che ciò mi tranquillizza, non sono pronta ad affrontarlo di nuovo, ma non sono nemmeno convinta che rimandare la discussione sia il comportamento più maturo.
Soprattutto se quest’atteggiamento può avere delle ripercussioni su Tommaso.
Dopo l’infuocato litigio della sera scorsa, Tommy non ha voluto alcun chiarimento. A malapena mi ha rivolto la parola quando mi sono recata nella sua stanza per augurargli la buona notte.
Per quanto mi riguarda, ho trascorso una nottata insonne, alternando momenti di pianto convulso a ore passate a fissare il soffitto.
La mattina seguente, a colazione, Tommy mi ha chiesto dove fosse suo padre ed ero sull’orlo di scoppiare in lacrime di fronte a lui. Precisamente non ricordo cosa gli abbia risposto, penso di aver farfugliato alcune di quelle vaghe spiegazioni che si danno in queste circostanze ad un bambino, forse sperando che sia ancora troppo piccolo per capire. Ma in realtà penso che Tommaso abbia colto che la situazione è ben più grave di come io cerchi di ritrarla. Tuttavia da quel momento, non ha più chiesto niente del padre.
Ha trascorso l’intera giornata con il broncio, chiudendosi in un silenzio insopportabile. E’ stata una vera tortura. Sapevo di essere io la causa del suo malumore e ogni qual volta cercavo il suo sguardo, Tommy si allontanava rintanandosi in camera sua. Dopo un’altra, estenuante notte in bianco, il giorno successivo il nodo allo stomaco è parso allentarsi, ammirando il bel sorriso riapparso sul viso del mio bambino.
Tommaso era più sereno ma anche poco fa, quando l’ho accompagnato all’asilo, ho avuto la strana impressione che stia indossando questa maschera per non accrescere le mie preoccupazioni.
Passo una mano tra i capelli scompigliati dalla brezza, sospirando mestamente.
Di solito passeggiare sul lungomare di Trieste, mi aiuta a fare ordine tra i pensieri. Ma a quanto pare, non questa volta.
Ho l’impressione di aver imboccato un vicolo cieco, giro in continuazione ma non intravedo una via d’uscita. Io confidavo che Filippo mi cercasse, almeno per stabilire un modo di agire che potesse essere il meno doloroso per nostro figlio. Eppure così non è stato. E la verità purtroppo, è che lo sospettavo e incassare l’ennesima delusione diventa sempre più arduo.
Distolgo lo sguardo da quella distesa infinita di acqua, nella quale vorrei gettare tutte le mie paure, e mi blocco all’improvviso.
Un brivido freddo scivola lungo la mia schiena quando scorgo Massimo, seduto su una panchina a pochi passi da me. Appoggia i gomiti sulle ginocchia, contemplando ammaliato l’orizzonte, e portando una sigaretta alla bocca.
Mi sembra di tornare a cinque anni fa, quando ci incontrammo la prima volta, proprio davanti a questo splendido mare.
Io, così giovane e ingenua. Lui, fiero ed elegante nella sua divisa.
Avverto le ginocchia cedere non appena Massimo percepisce la mia presenza, voltandosi sorpreso e lasciando la sigaretta a mezz’aria.
Mi mordo il labbro inferiore e compio qualche passo guardandomi attorno, inquieta.
“Vedo che il vizio del fumo non se n’è andato.”
Massimo abbozza un sorriso e slitta su un lato per permettermi di sedere accanto a lui.
Lo sfioro con il gomito e i nostri timidi sguardi s’incrociano per un attimo, tale però da togliermi il fiato. Chino rapida il capo, schiaffeggiandomi mentalmente.
Massimo aspira una lunghissima boccata e poi lancia la sigaretta sul selciato, spegnendola con la suola. Io cerco di rivolgere la mia attenzione sul mozzicone accartocciato a terra, fidando che l’imbarazzo nel trovarmi così vicina a Massimo possa diminuire.
Che illusa.
“Mi dispiace per l’altro giorno Vera.” dichiara lui, schiarendosi la voce “Comparire in casa tua così…all’improvviso. Deve essere stato uno shock, lo capisco. E non dovevo permettermi di alzare la voce.”
Tormento nervosamente le mie dita e reprimo un sospiro.
“Beh, allora mi scuso anch’io, per averti sbattuto la porta in faccia.”
Massimo si china in avanti, accenna una risata e si volta verso di me.
“Perché ridi?” gli domando.
Lui scrolla le spalle.  
“Deve esserci per forza un motivo?”
Non riesco a sostenere il suo sguardo, non quando riconosco quel bagliore familiare attraversare le sue iridi e che scatena in me una tempesta inarrestabile di ricordi.  
“Hai parlato con Filippo?”
Mi stringo tra le braccia, allacciando e slacciando con insistenza il bottone più alto della camicetta.
“Ha ammesso di avermi mentito.”
“Ha ingannato entrambi Vera. Ha raccontato solo quello che gli poteva essere più comodo, mettendo in scena una gran bella recita.”
“Massimo, so bene cosa ha fatto Filippo. Ma non mi sento di accusarlo.”
Lui strabuzza gli occhi.
“Vera sii obiettiva per un momento! Sono riuscito a mettermi in contatto con lui e te l’ha tenuto nascosto, per quanto? Cinque anni?! Cos’altro ti serve per capire che razza di uomo sia?!”
Massimo si abbandona sullo schienale, massaggiandosi le tempie, poi aggiunge in un sussurro “Sentivo di non potermi fidare di lui…”
“E allora tu avresti potuto farti vivo in altri milioni di modi!” lo interrompo decisa “Se eri così convinto di non poterti fidare, perché non mi ha contattata direttamente? Non ho ricevuto una sola notizia da parte tua. E per quanto Filippo possa averti intralciato, non posso credere fosse impossibile dirmi dove fossi!”
“Pensi davvero non avrei fatto qualunque cosa pur di farti sapere che ero vivo?!”
Gli occhi di Massimo si riducono a due fessure e mi mordo l’interno della guancia, come se il dolore potesse ridurre il rimorso per la mia avventatezza.
“Non ho potuto Vera.” riprende lui, nascondendo le mani nelle tasche ”Sono stato in prigione.”
“In prigione?! Dove?”
“Appena fuori da Berlino, in un carcere militare.”
Mi passo una mano sulla fronte, confusa e con centinaia di domande che premono per trovare risposta.
“Il giorno in cui mi hai liberata da Mauthausen, sei sceso dalla camionetta e ho sentito degli spari. Cos’è accaduto dopo?”
“Erano quattro nazisti. Riuscì a ferire uno di loro prima di rifugiarmi nei boschi. Ma avevano già chiamato i rinforzi, erano troppi non…non avrei potuto affrontarli. Mi hanno catturato, ricondotto a Mauthausen, in uno squallido stanzino e torturato…”
Porto all’istante una mano alla bocca, soffocando un grido.
“La mia copertura era saltata. Volevano sapere tutto: chi fossi, chi stessi proteggendo…”
I nostri volti s’incrociano per uno sfuggevole istante, svelando però lo stesso dolore, le ferite e la paura che hanno irrimediabilmente marchiato entrambi.
Non è necessario che Massimo prosegua, so bene che ha subito atroci sofferenze per proteggermi. Avrebbe potuto fare il mio nome, evitare quel supplizio e riottenere la libertà. E invece ha rinunciato alla sua possibilità di salvezza…per concederla a me.
“Dopo la liberazione, un contingente americano mi ha portato in salvo.” continua lui, grattandosi distrattamente la guancia “Ma non potevo lasciare la Germania.”
“Perché no?”
“Avevo commesso un reato.”
“…Che genere di reato?”
“Non ho commesso nessuna follia, se è questo che ti preoccupa.” risponde Massimo, notando il mio sguardo preoccupato “Ma ho disertato, il che durante una guerra è considerato ancora peggio.”
“Cos’è accaduto?”
“Dovevo raggiungerti a Mauthausen, ma non me lo avrebbero consentito. Così ho abbandonato i miei compagni, disobbedendo di conseguenza agli ordini. Avevo approfittato di una sosta del treno per un guasto. Sono uscito dal vagone e sono corso a nascondermi. Dopo di che mi sono liberato della divisa, ho recuperato un’uniforme tedesca e ho raggiunto il campo, fingendomi un soldato delle SS.”
“Non hanno mai sospettato?”
Massimo scuote il capo, poi butta indietro la testa e volge lo sguardo al cielo.
“Mettiamola così, ho interpretato bene la mia parte. Ma sapevo di essere sul filo dal rasoio. La farsa non sarebbe durata a lungo ed ero ricercato per defezione. Quando poi mi hanno scoperto, non avevano certo l’intenzione di lascarmi andare tanto facilmente...”
Sfioro con le dita il dorso della sua mano. Appena realizzo il valore del mio gesto e vorrei ritrarmi, Massimo intreccia le sue dita con le mie e sono invasa da un’ondata inaspettata di calore.
“Mi hanno tenuto sotto torchio per qualche tempo...” riprende lui, assorto nei ricordi “Sai, prima di stabilire la mia pena. Poi mi hanno rinchiuso in una cella, e lì sono rimasto fino a poche settimane fa.”
Due bambini vivaci, seguiti dai loro genitori, transitano davanti a noi ed io sfuggo rapida dalla presa di Massimo.
“Non posso crederci…” mormoro non appena discende la quiete.
“A cosa?”
“Che tu abbia affrontato tutto questo, per salvarmi.”
Massimo si china su di me, socchiudendo gli occhi e distendendo gli angoli della bocca in un sorriso.
“Vera, avrei fatto qualunque cosa pur di proteggerti.”
Io abbasso le palpebre, con il cuore che batte prepotente nel mio petto.
“Ora è tutto così complicato.” dico estenuata, reggendomi la testa con le mani “Non so come comportarmi con Filippo. In realtà, non so nemmeno dove sia in questo momento, non lo sento da alcuni giorni.”
“Non ti ha detto niente quando se n’è andato?”
“Ad essere sincera, l’ho cacciato io.”
Scorgo un’espressione compiaciuta sul volto di Massimo, anche se tenta subito di nasconderla.
“Hai fatto la cosa giusta Vera, per la tua sicurezza e quella di tuo figlio. Filippo è pericoloso.”
“Adesso non ti sembra di esagerare?”
“Non direi, se il tuo fidanzato è un sostenitore di Tito!”
Un improvviso nodo alla gola m’impedisce di ribattere.
“…Non ne sapevi niente?” domanda Massimo, sbigottito.
Il mio sguardo sconvolto pare una risposta più che esauriente.
“Che strano, chissà perché non ne sono stupito…” afferma lui, incrociando le mani dietro la testa.
Non posso credere, non voglio credere che Filippo possa davvero collaborare con il maresciallo Tito, l’uomo che ha messo a ferro e fuoco Trieste alla fine della guerra e che tuttora ha posto il suo esercito jugoslavo a controllare una parte della città.
“Ma tu come fai a esserne certo Massimo?”
“Sono andato alla caserma. Mi hanno riferito che Filippo è stato cacciato da mesi.”  
“Da mesi?!” ripeto scioccata, ormai annebbiata dal dolore e dalla rabbia.
“Hanno scoperto che faceva il doppio gioco con Tito.”
Le parole di Massimo sono come una scarica di pugni dritti allo stomaco.
Per tutti questi mesi io non ho mai dubitato della sincerità di Filippo, e invece adesso tutte le mie certezze si stanno sgretolando, una alla volta, e non c’è modo per frenare questo irrimediabile crollo.
E’ vero, Filippo era spesso vago e irascibile quando parlava di lavoro, ma come potevo immaginare mi stesse mentendo?
Poi un pensiero fulmineo mi attraversa.
“Una sera, ho trovato nella tasca della giacca di Filippo un foglio con dei nomi sbarrati. Tu dici che…”
“Una lista di sospetti e nemici che gli jugoslavi hanno l’incarico di eliminare. Sì, suppongo di sì Vera.”
Chiudo gli occhi e nascondo scoraggiata il viso tra le mani.
“Come ho potuto non accorgermene! Sono stata così cieca, e ho messo in pericolo la vita di Tommaso. Sono stata una grandissima stupida…”
“Vera, lo sai, non colpa tua.” Massimo posa una mano sulla mia spalla e mi esorta a voltarmi “Ora, è importante che voi siate al sicuro. Filippo presto tornerà e devi permettermi di proteggerti.”
“Non mi serve il tuo aiuto Massimo, so badare a me stessa.”
“Ma io non voglio lasciarti Vera!” scatta lui, stringendo i pugni “Voglio starti accanto, io vorrei…vorrei che riprovassimo a mettere le cose a posto. Noi due, insieme.”
Massimo sfiora la mia guancia con le dita ma quando lo vedo chinarsi sulle mie labbra, lo allontano con gesto solerte.
“Massimo, no.”
“…Perché?” domanda disorientato.
“E’ vero, ho lasciato Filippo. Ma non per stare con te. Ormai sono passati anni, siamo praticamente due estranei! Il nostro è stato…un amore giovanile, non sarebbe durato in ogni caso. E io avevo bisogno di andare avanti, di pensare alla mia vita. Ma per farlo dovevo dimenticarti. E ora che sei tornato, non voglio che tutto quel dolore riaffiori. Ora sono madre, devo badare a mio figlio. Non sono più la ragazza ingenua che ricordi.”
“Non l’ho mai pensato Vera.”
“E io ti ringrazio, e ti sarò per sempre debitrice per avermi salvato la vita. Ma se dipenderò sempre da questo pensiero, non potrò mai svincolarmi dal passato. E non voglio rimanere bloccata a delle illusioni.”
“Il nostro amore non era un’illusione Vera, è stata ciò di più autentico io abbia mai provato!”
“…Forse non per entrambi.”
Cala un abissale silenzio, interrotto solo dalle onde che si schiantano fragorosamente contro gli scogli.
Inspiro, e l’aria salmastra mi riempie i polmoni. Poi mi alzo, e mi prende questa voglia incontenibile di correre e rintanarmi in casa.   
“Ti ho scritto molte lettere durante la prigionia.” afferma Massimo, con gli occhi fisso nel vuoto “In quei momenti, mi rendevo conto quanto il mio amore per te fosse tutt’altro che un’illusione. Mi ha permesso di non impazzire, perché sapevo di dover sopravvivere. Per te. Quindi non venirmi a dire che la nostra storia non ha significato niente, perché stai mentendo a te stessa!”
Distolgo rapida lo sguardo, incapace di ascoltarlo un minuto di più.
M’incammino verso casa, lasciando Massimo da solo, a fissare il mare.



Angolino dell’Autrice: Ciao ragassuoli belli! Come state?
Ho aggiornato con qualche giorno di ritardo rispetto a quanto mi ero programmata perché ho avuto una sorta di illuminazione/ispirazione e ho pubblicato una breve OS che vi linko…qui! http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2589829&i=1
E’ ispirata ad una canzone che sto ascoltando in modalità “all’infinito”. Sto troppo in fissa! Se avete voglia di farci un salto, mi fa solo tanto piacere!
Come sempre vi ringrazio con il cuore per il vostro sostegno e l’incredibile forza che mi infondete ogni volta!
Un grazie particolare lo rivolgo alle mie adorate _joy, Nadie, Queila, Nadine_Rose, Helmwige, Araba Shirel Stark e Jennytestatralenuvole.

Un bacione grandissimo!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***






"Non hai fame tesoro?” domando preoccupata a Tommaso, notando il suo piatto ancora intatto.
Lui appoggia i gomiti sul tavolo, infilzando svogliatamente le pietanze.  
“Cosa c’è che non va Tommy?”
Silenzio.
Si limita a posare la forchetta, per poi sfregarsi le guance paffute.
“E’ accaduto qualcosa all’asilo?”
Il piccolo annuisce piano.
“Ti hanno fatto qualcosa?!” scatto subito io, tuttavia Tommaso scuote rapido il capo.
Scosto alcune sue ciocche di capelli dalla fronte e gli sollevo il mento con le dita, affinché mi guardi. I suoi grandi occhi verdi fissano i miei con intensità.
“Ehi, perché non racconti alla mamma cosa è successo?”
Lui si mordicchia il labbro inferiore.
“Oggi la maestra ci ha chiesto di disegnare i momenti più belli che passiamo con il nostro papà.”
Davvero, quale tempismo per assegnare un compito del genere!
Dallo sguardo schivo di Tommy, afferro molto bene l’imbarazzo che può aver provato di fronte alla classe, attorniato dai compagni che raccontano entusiasti le avventure trascorse con il loro padre.
Mentre lui, già così piccolo, si ritrova ad assistere impotente alla separazione delle due persone a cui tiene di più.
E’ devastante per me contemplare la rovina della famiglia.
Posso solo immaginare per Tommaso.
“Tesoro mio, ti prometto che le cose si sistemeranno. Ora tutto ci appare sotto il lato peggiore, ma ti assicuro che la situazione migliorerà. Ti fidi di me?”
Lui annuisce, piegando le labbra in un debole sorriso.
“Il signore con la barba lunga, quello che è venuto l’altro giorno a casa nostra, lui è qui per aiutarci mamma?”
Mi viene da sorridere.
Non è la prima volta che Tommy mi pone qualche chiarimento su chi sia Massimo, ormai soprannominato “Il signore dalla barba lunga”.
L’arrivo insolito di quell’uomo alto e scarmigliato alla nostra porta, ha catturato in maniera inspiegabile la curiosità di mio figlio.
“No Tommaso, il signore dalla barba lunga non è qui per questo.”
“E allora chi è?” insiste lui.
“E’…un amico. Forza, non fare il furbo e finisci le verdure!”
Tommy infilza una carota e, instancabile e con la bocca piena, aggiunge:
“Se è un amico, perché litigavate?”
“Non stavamo litigando. Solo discutendo. Non ci incontravamo…da un po’.”
“Però il signore sembrava felice di vederti.”
Aggrotto la fronte e lo squadro divertita.
“E questo da cosa lo hai capito?”
“…Me l’ha detto la tata.”
“Ah, Dorina ti ha detto questo?” replico, fintamente arrabbiata.
Anche se, ripensandoci, mi sembrava di essere stata piuttosto risoluta con la tata. Cosa non era stato chiaro nella frase “non farne parola con nessuno”?
“Ma anch’io l’ho notato!” aggiunge subito Tommaso, forse capendo di aver incastrato la sua adorata tata “Quel signore ti guardava…come faceva papà.”
Cala un silenzio momentaneo, denso di tristezza e di vuoti incolmabili.
“Quindi…rivedrai presto il signore dalla barba lunga?” domanda Tommy, con fare innocente.
“Signorino, non sei un po’ troppo curioso?”
Tommy lancia un grido divertito quando lo acchiappo e affondo le dita nei suoi piccoli fianchi, dando il via alla nostra battaglia del solletico.  
Sfiniti dalle risate, Tommy sale a giocare in camera sua mentre io mi siedo alla macchina da scrivere.
Ma non appena mi accomodo, quel senso di benessere che avvertivo fino ad un attimo prima svanisce all’improvviso, sostituito da un’ansia martellante.
Per l’intera giornata ho finto di ignorare la conversazione avuta con Massimo quella mattina. E devo ammetterlo, con estrema fatica.
Eppure la quiete piombata in salotto, ora sembra permettere ai pensieri di riemergere, più rumorosi che mai.
E’ inutile, non riesco a concentrarmi sull’articolo.
Mi appoggio allo schienale, reclinando la testa all’indietro ed esalando un lungo, sofferente sospiro.
Il volto di Massimo è sempre lì, impresso nella mia mente. Indelebile, come la consapevolezza che forse le nostre vite avrebbero potuto prendere una piega differente.
Medito sulle mie parole, la gelida indifferenza con cui le ho pronunciate e l’espressione smarrita di Massimo nell’udirle, proprio dalle mie labbra.
Poi penso alle lettere, quelle che Massimo mi ha scritto durante la sua prigionia e che non ho mai avuto la possibilità di ricevere...
D’istinto mi alzo dalla sedia, do una scorsa rapida alla stanza e mi fiondo a controllare tutti i cassetti dei mobili in soggiorno.
Come una forsennata rovisto tra le vecchie carte e i documenti sgualciti, senza nemmeno sapere perché io ci stia provando. Filippo avrebbe potuto sbarazzarsi delle lettere senza problemi, perché conservarle?
Ma non mi perdo in queste supposizioni. Continuo a perquisire ogni angolo, anche i nascondigli più ostici, ma non trovo niente.
Ho bisogno di fermarmi per riprendere fiato. Poso le mani su fianchi e cerco di regolare il respiro.
L’attenzione ricade sulle scale alla mia destra. Deglutisco a fatica e, sostenendomi al corrimano, raggiungo correndo il piano superiore.
Transito davanti alla cameretta di Tommaso e lo vedo seduto a terra, mentre giocherella con un trenino, troppo indaffarato perché si accorga della mia presenza.
Proseguo silenziosa fino alla mia stanza e nel giro di pochi minuti, la confusione che si crea è ancora peggio di quella in salotto. Apro i cassetti, spalanco le ante e vi spargo l’intero contenuto sul pavimento. 
Ghermisco rapida la sedia accostata alla parete, così da arrivare agli scaffali più alti dell’armadio.
Con la mano tasto alla cieca i ripiani, fin quando non sfioro qualcosa che mi pare sospetto. Mi sporgo lievemente e, rischiando perfino di perdere l’equilibrio, afferro una scatola.
Le mie mani sono completamente sudice, al contrario però del misterioso contenitore che sul dorso non presenta nemmeno un lieve strato di polvere.
La spiegazione è unica: deve essere stato aperto poco tempo fa.
Avverto le gambe vacillare e con un tonfo poco aggraziato, scendo dalla sedia.
Sbatto i palmi uno contro l’altro per liberarmi della polvere che rende l’aria irrespirabile, e mi siedo pensierosa sul letto.
Curvo le spalle delusa e amareggiata non appena levo il coperchio e ne scopro il contenuto: una ammasso disordinato di fogli stropicciati. Smuovo sbadatamente quel cumulo di carta quando scorgo in un angolo della scatola, un mazzo di lettere tenute assieme da un filo di spago.
Sento un improvviso tuffo al cuore nel momento in cui leggo l’indirizzo a cui sono state recapitate: Caserma Vittorio Emanuele III a Trieste, ad un certo Colonnello Pier Paolo Furlan.
Sciolgo il nodo e, con dita tremanti, afferro l’ultima busta del mazzo, la più ingiallita dal tempo.
La rigiro inquieta tra le mani, esaminandone ogni particolare, ogni macchia e piegatura. Riconosco l’inconfondibile grafia di Massimo, lievemente inclinata e con le sue “a” che scambiavo sempre per delle “o”.  
Apro piano la busta e vi sfilo una lettera piegata a metà.
Tuttavia distolgo subito lo sguardo e la porto al naso. Percepisco quell’odore di cui solo la carta invecchiata può impregnarsi.
Sa di muffa, di vecchio. Ma sa anche di ricordi lontani, che emergono come tante piccole tessere di un mosaico e via via si ricompongono.
E ho timore nel scoprire quale potrà essere il disegno che ne apparirà se apprenderò il contenuto della lettera. Ma sento che è giunto il momento di conoscere la verità.
Chino così lo sguardo sulla lettera.
E’ datata 17 luglio 1945…

17 Luglio 1945

Mia adorata Vera,
dopo quelle che mi sono parse infinite settimane, mi hanno finalmente dato carta e penna e posso scriverti.
In questo momento mi trovo in una cella. Già m’immagino il panico sorto sul tuo visino, ma non devi preoccuparti.
Lo ammetto, non è il massimo della comodità. Ma sto bene.
Vorrei rivelarti altro ma non posso, tutte le lettere vengono lette e controllate. Sappi purtroppo che non potrò tornare a casa prima di qualche tempo.
Ti porto sempre nel cuore. Sto pregando con tutte le mie forze perché tu abbia fatto ritorno a Trieste, sana e salva.  
Scrivimi, appena puoi.

Ti amo.
Tuo per sempre.
Massimo


Prendo impaziente un’altra lettera, quella a me più vicina…

25 Dicembre 1945

Mio tesoro,
Non ho ancora ricevuto tue notizie. Spero sia solo un ritardo nella spedizione.

Filippo avrebbe già dovuto ricevere le lettere che ho spedito al colonnello Furlan. Ma conoscendolo, si sarà scordato di consegnartele.
Non passa giorno in cui non pensi a te, mia dolcissima Vera.
Che cosa darei per trascorrere questo Natale insieme a te, invece che in una cella umida.

Queste quattro pareti iniziano ad apparirmi ostili. Ci sono momenti in cui quasi mi sembra di impazzire. Ma poi li vedo, i tuoi occhi verdi. Io li sogno, loro mi tengono compagnia. Mi ricordano che più i giorni passano, più si avvicina il momento in cui ti riabbraccerò. E allora non ti lascerò più.
Rispondimi presto, ho bisogno di sapere che stai bene. E che pensi a me.
Buon Natale.
Ti amo, tanto.
Tuo Massimo


Poi ne afferro un’altra…

2 Marzo 1946

Mia cara Vera,
Non avrei mai pensato che il contenuto di un misero pezzo di carta, potesse avere la forza di distruggermi con tanta violenza.
Dopo mesi d’indescrivibile tormento, sono finalmente stato degnato di una risposta.
Ma avrei preferito fosse da parte tua.

E non di Filippo.
“Vera ha bisogno di pensare alla sua vita, senza di te. Non scriverle più. Con affetto, Filippo.”
Ora Vera, prova a pensare. Hai la minima idea di cosa io stia provando rileggendo una follia come questa?!
Io non voglio intermediari Vera. Voglio sapere la verità solo da te.
Ammetti che tra noi è finita, e che non t’importa più niente.
Rispondi.
Perlomeno concedimi una spiegazione.
Massimo.


E un’altra ancora…

30 giugno 1946

Vera,
non so se mai aprirai questa busta o la cestinerai senza troppi convenevoli.
Ancora non ho ricevuto una tua risposta.
Il tuo silenzio mi uccide. Il dubbio mi sta consumando. La paura di averti persa mi soffoca.  
Eppure qualcosa non torna. Penso che Filippo ti stia ingannando.
E quel che è peggio, è che non posso fare niente per provarlo finché sarò bloccato in questa maledetta cella.
Ma appena potrò, tornerò a Trieste. Tornerò da te.
Voglio sentire la verità dalle tue labbra, anche se le tue parole dovessero distruggermi.
Ma fino ad allora, continuerò a nutrire una seppur lieve speranza di riaverti.
Ti ho donato il mio cuore Vera. Puoi farne quello che vuoi. Ma sappi che ti appartiene.
Ti amerò per sempre.
Tuo Massimo


Adagio l’ultima lettera sulle ginocchia. Cerco di elaborare cosa mi stia accadendo ma l’impatto è stato troppo violento.
Mi volto piano e osservo il letto, disseminato da un mare di fogli ingialliti e buste spiegazzate.
Il mio mondo sta crollando.
Ed io sto precipitando con lui.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***




Dal momento in cui ho trovato le lettere di Massimo, una sola, martellante domanda ha continuato a frullarmi nella testa.
Se avessi ricevuto prima sue notizie, come sarebbe stata la mia vita?
Chissà, forse avrei davvero atteso che scontasse la sua pena. Poi Massimo sarebbe tornato a Trieste e avremo potuto avere la vita che sognavamo.
Insieme.
E Filippo?
Se fossimo rimasti semplici amici, io non avrei avuto Tommaso. Ed ora sarebbe impossibile pensare una vita senza il mio bambino, il dono per me più prezioso al mondo.
Il respiro inizia a farsi pesante. Mi accorgo infatti di camminare ad una velocità eccessiva, così mi fermo prima di voltare l’angolo. Appoggio la schiena al muretto, focalizzando l’attenzione sul battito fin troppo accelerato del mio cuore.
Emetto un profondo sospiro.
Poi un altro.
Il tremore alle ginocchia sembra svanire. Resta solo una sgradevole sensazione di secchezza alla bocca.
Avverto in lontananza lo strimpellio della campanella e i festosi schiamazzi dei bambini da poco usciti dall’asilo.
Questo pomeriggio la tata non è potuta andare a prendere Tommy, così ho pensato di fargli una sorpresa. Ma non voglio mostrarmi turbata. Perciò mi scrollo di dosso tutte queste malsane preoccupazioni ed entro con passo deciso nel piccolo cortile dell’asilo, accolta dai bambini che corrono e s’inseguono scalmanati.
Appena intravedo Tommy, un sorriso radioso appare sul mio volto ma svanisce con altrettanta rapidità quando scorgo la persona al suo fianco.
Massimo.

Per quale assurdo motivo Massimo sta parlando con mio figlio?
E soprattutto, perché si sorridono completamente a proprio agio?
Il visino di Tommaso s’illumina appena incrocia il mio sguardo e caracolla verso di me. Avvolge le braccia intorno al mio collo ed io lo accolgo nel mio petto.
Quando vedo Massimo avvicinarsi, gli rivolgo un’occhiata raggelante.
“Cosa ci fai tu qui?” chiedo indispettita.
Massimo si sfrega distrattamente la nuca, guardando altrove.
“Non ho ancora avuto l’occasione di conoscere tuo figlio. Se avessi aspettato che lo facessi tu…”
“E con questo cosa vorresti dire?!”
“Mamma, non arrabbiarti!” Tommaso scioglie l’abbraccio e, incatenando i suoi occhioni verdi ai miei, sottovoce mi dice “Ho scoperto il nome del signore con la barba lunga!”
Io sto al suo gioco, fingendomi sorpresa.
“Volevo chiederti se…Massimo può accompagnarci fino a casa.”
“Non lo so tesoro.” dico, sistemandogli il colletto della camicia “Dovresti chiederlo a lui, non trovi?”
Massimo ci osserva, le labbra inarcate in un sorriso.
“Ehm…ti va di venire con noi Massimo?” domanda Tommaso un poco impacciato, mentre le sue guance s’imporporano.
Massimo gli scompiglia i capelli e si volta fiducioso verso di me, in attesa del mio consenso.
Ed io non posso che concederglielo.
Non sono sicura sia una buona idea, lo ammetto. Ma negare a Tommy questo desiderio sarebbe ingiusto e implicherebbe ulteriori discussioni. E per il momento, ne ha dovute affrontare fin troppe.
Così usciamo dal cortile e ci avviamo lungo la via del ritorno.

E mi sento in grande imbarazzo.
A quanto pare non posso dire lo stesso per Tommy, che trotterella allegro con il suo zainetto sulle spalle. Massimo, invece, cerca il mio sguardo ma io tengo gli occhi ben piantati a terra.
“Sai, Tommaso è estremamente timido.” dichiaro all’improvviso, quando il silenzio inizia a farsi davvero insopportabile “Ha qualche difficoltà ad aprirsi con le altre persone. Mi ha sorpresa vederlo così sereno insieme a te.”  
“Tommaso ha una grande sensibilità."
Massimo abbozza un sorriso "E’ un bambino molto intelligente. Non quel tipo d’intelligenza che chiunque potrebbe acquisire, ma la capacità di leggere le persone, di capirle. E’ un’importante qualità, e penso lo porterà lontano.”
Mi volto, e lo guardo sbalordita.
Non so, aspettavo la tipica risposta consolatoria, un qualche incoraggiamento o magari una battuta, tanto per smorzare la tensione.
E invece Massimo ha espresso con autentica naturalezza ciò che da sempre io vedo in Tommaso. La sua timidezza non è altro che uno strumento di difesa, un guscio all’interno del quale si cela una ricchezza inestimabile.
E che speravo scorgesse anche Filippo...

Ritorno alla realtà quando si avvicina Clara, la mia vicina di casa e mamma di Marco, un compagno di Tommy, che attira la mia attenzione con uno squillante saluto. Tuttavia il mio sguardo cade inevitabilmente sull’abito di Clara, oltremodo attillato e con una scollatura che lascia intravedere fin troppo.
E noto che a Massimo non è sfuggito...
“Marcolino mi ha trascinata per raggiungere Tommaso!” dice Clara, affaticata e con il respiro corto “E correre con questi tacchi, non si può proprio definire una comodità! Ma che possiamo farci, no? Dopotutto, se belle vogliamo apparire…”
Clara interrompe uno dei suoi consueti, estenuanti soliloqui quando si accorge dell'insolita presenza al mio fianco. Esamina Massimo con un interesse alquanto sfrontato e gli offre una mano.
“Noi non ci conosciamo! Io sono Clara. E lei è…”
“Piacere, Massimo.” lui ricambia la stretta, ad una debita distanza che Clara cerca in tutti i modi di annullare.
E sì, provo fastidio.

Non verso l’atteggiamento di Clara, per quanto sfacciato possa apparire, ma per un inspiegabile senso di malessere che mi sta invadendo.
Quasi non mi accorgo dell’espressione di Clara fissa su di me, terribilmente curiosa di avere maggiori dettagli su quest’uomo misterioso.
“Lui è…mio cugino. Sì, mio cugino da…Torino. E’ venuto a trovarmi.”
La mia risposta però non sembra aver convinto Clara.
Tiro una lieve ma decisa gomitata a Massimo. Lui sobbalza e si schiarisce la voce.
“Ehm…sì, sono suo cugino!” Massimo mi circonda le spalle con un braccio “Cugini molto stretti, in effetti.”
Mi pare trascorsa un’eternità se ripenso all’ultima volta in cui mi ha stretta a sé. Ma non permetto ai ricordi di riaffiorare e mi divincolo subito dalla sua presa.  
“Lei Massimo sa già dove alloggierà?” domanda Clara, sistemandosi i capelli e corrucciando le labbra in maniera chiaramente provocante.
“Ancora non ho deciso, in realtà. Per ora sono ospite da una zia, in una cascina fuori Trieste.”
“Oh ma se può farle comodo, in casa mia abbiamo posti letto a volontà! Ci farebbe piacere ospitarla qualche volta. Magari per una cena...”
Non mi sfugge il colpo di tosse nervoso di Massimo, comprensibile di fronte all’audacia di Clara.
“La ringrazio…ehm, lo terrò presente.”
“Ma si figuri! Gli amici di Vera, sono anche amici miei. E ditemi, quanto pensate di fermar…”
“Tommaso! Torna subito qui!” caccio un potente urlo appena vedo mio figlio allontanarsi con il suo amico Marco, provocando per un attimo il panico generale.
…Ammetto che potrebbe essere stato un pretesto per porre fine a quella pagliacciata.
“Oh mannaggia!” asserisce Clara, dispiaciuta “Devo proprio salutarvi, noi dobbiamo girare in questa stradina. Marcolino! Forza, andiamo tesoro!”
Il bambino raggiunge a passo strascicato sua madre, la quale lo riprende con un buffetto sul mento.
Poi il suo sguardo sognante ritorna su Massimo.
“E’ stato un vero piacere conoscerla Massimo. E mi raccomando, tenga presente la mia offerta. Oh guardi, ho appena avuto una splendida idea! In uno di questi giorni potrei farle da guida! Trieste è una città incantevole, sarebbe un gran peccato non visitarla.”
“E’ molto gentile da parte sua.”
“Ma ci mancherebbe! A presto allora…”
Clara gli rivolge un’occhiata ammiccante, prende la mano di suo figlio e si incammina.
Non prima però di essersi resa conto di non avermi degnata nemmeno di uno sguardo. Si volta verso di me, scusandosi per la sua sbadataggine e sfoggiando un sorriso dispiaciuto.
Io ricambio il saluto con un lieve cenno e un rapido sorriso che scompare con altrettanta velocità non appena Clara si allontana.

La mia attenzione ritorna su Tommaso, impegnato a rincorrere i gabbiani che subito si librano in cielo.
“Non allontanarti troppo Tommy!”
“No mamma!” mi rassicura lui.
In realtà non voglio rimanere da sola con Massimo. Sento che se ne uscirà con qualche commento su Clara...
“Simpatica la tua amica. E’ un tipetto…originale!”
Ecco, appunto.
“Se devi fare qualche osservazione, falla e basta!”
“Come sei acida! Chissà, forse accetterò l’invito di Clara...”
Punto i piedi, mi volto e lo incenerisco con lo sguardo.
“Sai che ti dico?! Vai da lei, così per una buona volta mi lascerai in pace!”
Aumento il passo, ma Massimo è subito al mio fianco.
“Dai Vera! Stavo scherzando!” dice lui, sghignazzando.
“Io non ci trovo niente di divertente! E che non capiti più che io ti trova fuori dall’asilo di mio figlio!”
“Abbiamo solo parlato Vera, non credo di aver fatto niente di grave. Tommaso ed io andiamo d’accordo...”
“Non m’interessa Massimo! Non voglio che ti avvicini a lui!”
“Stai esagerando, come tuo solito.”
“Esagerando?!” ripeto infastidita “Non ti rendi conto delle conseguenze? Prima o poi le persone inizieranno a farsi domande su di te e sul perché sei in nostra compagnia! Ed io non voglio essere oggetto di pettegolezzi.”
“Sul serio t’interessa cosa potrebbero pensare?”
“Sì Massimo, m’interessa! Perché c’è in gioco la sicurezza di Tommaso!”
“Pensi davvero sia io la minaccia?”
Non rispondo. So bene che in questo momento il vero pericolo è rappresentato da Filippo. E il non aver avuto sue notizie da più di una settimana non mi conforta.
“Devi rispettare le mie scelte Massimo.” dico infine, risoluta “Non presentarti più all’asilo di Tommaso. E non intrometterti a tutti costi nella nostra vita.”
Lascio cadere la discussione quando scorgo Tommy correre verso di noi, accaldato e con le guance arrossate.
“Mamma! Massimo può restare per cena?”
La sua richiesta mi prende in contropiede. Imbarazzata, farfuglio un banale “magari un’altra volta” e distolgo lo sguardo per non leggere la delusione nei suoi occhi.
E in quelli di Massimo.

Tommaso corruccia le labbra e incrocia le braccia al petto con gesto deciso.
“Ehi ometto.” Massimo s’inginocchia di fronte a mio figlio, posandogli una mano sulla spalla “Niente capricci. Sarà per un’altra volta. Guarda, ti faccio vedere una cosa…”
Massimo estrae dalla tasca un boccone di pane e fa cenno a Tommy di seguirlo in silenzio. Si accostano cauti ad una transenna, sulla quale è appollaiato un gabbiano che li osserva incuriosito.
Non appena Massimo lancia una briciola di pane, il gabbiano si libra in cielo, la acciuffa e con grazia ritorna sul parapetto.
Tommaso batte eccitato le manine e saltella sul posto.
Io li guardo incantata, mentre i miei occhi si velano per le lacrime di fronte a quella dolcezza disarmante. E mi ritrovo tristemente a pensare di non aver mai visto Tommy così spensierato.
Nemmeno con suo padre.
 
Rinvengo dal mio torpore quando Massimo posa un pezzetto di pane nel piccolo palmo di Tommaso.
“Assolutamente no!” li ammonisco decisa e li raggiungo in un lampo. Il rumore dei miei tacchi spaventa il gabbiano che vola via, provocando il profondo dissenso di Massimo e Tommaso.
“Voglio provarci anch’io mamma!” borbotta lui.
“Ho detto di no! E’ ora di tornare a casa.”
Tommy mi rivolge un’occhiataccia e anche se prova a sfuggire dalla mia presa, gli afferro con vigore la mano.
Mi volto verso Massimo e sospiro esasperata.
“Mi fai anche passare per guastafeste?”
Lui scoppia in una profonda risata. E il fatto che trovi tutto così divertente mi sta iniziando a dare sui nervi.
Ma d’un tratto la tensione sembra abbandonarmi.
Intravedo Tommaso incrociare le sue piccole dita con quelle di Massimo. La sua manina è così minuta che quasi scompare in quella dell’uomo al suo fianco.
Sul volto di Massimo spunta un sorriso beato, sereno.
Ed anch’io mi scopro a sorridere di fronte all’immediata complicità che è venuta a crearsi tra loro, grata nell'ammirare lo sguardo vispo di Tommaso accanto alla presenza rassicurante del signore con la barba lunga.
 
Raggiungiamo la nostra casa e si prospetta il momento temuto, quello dei saluti.
“Tommy inizia ad avviarti e aspettami in cucina. Io arrivo subito.”
Il piccolo rivolge un ultimo cenno a Massimo, il quale ricambia affettuosamente e gli passa una mano tra i capelli prima che percorra il vialetto d’ingresso e si rintani in casa.

Massimo ed io ci scrutiamo, in un insopportabile silenzio.
I nostri sguardi si rincorrono, si cercano incuriositi per poi deviare da tutt’altra parte appena s’incrociano, in una danza vana e impacciata.
“A cosa pensi?” mormora Massimo socchiudendo gli occhi, come se sperasse di capire cosa mi passa per la mente.
“A niente…”
Lui accenna un sorriso sghembo.
“Non sei mai stata brava a mentire.”
“Ti ho detto che non sto pensando a niente!”
Massimo leva i palmi in segno di resa e abbozza un sorriso.
Poi esala un sospiro sommesso, alzando lo sguardo verso la mia casa.
“In questi anni non ti sei mai chiesta come sarebbe stato avere un nostro bambino? Una famiglia tutta nostra?”
Io non reagisco. Forse per non peggiorare la situazione, già dannatamente complicata.
“Io sì, tantissime volte.” continua lui, nascondendo le mani nelle tasche “Durante la prigionia lo immaginavo spesso, come sarebbe stato costruire una vita insieme. Mi aiutava a sperare che un giorno ti avrei rivista. E magari avremo potuto avere una seconda occasione, per ricominciare.”
“Forse avremo potuto.”
“Lo dici come se non nutrissi più nessuna speranza per noi due.”
Alzo le spalle con apparente indifferenza.
Massimo mi osserva insistentemente. Sa che sto mentendo.
Compie un passo verso di me. I suoi occhi scuri mi leggono dentro, frantumano ogni mia barriera.
Lui si china sul mio viso e non appena le sue labbra sfiorano le mie, io scuoto il capo freneticamente. Mi volto dall’altra parte e mi dirigo a passo solerte verso l’entrata.
“Buona serata Massimo.” e richiudo rumorosamente la porta.
E’ già la seconda volta che prova a baciarmi. Alla terza giuro che gli tiro uno schiaffo.
O dovrei darlo a me stessa, dato che gli permetto comunque di avvicinarsi.
Mente passeggio lungo il soggiorno per scaricare la tensione, scosto leggermente la tenda della finestra per controllare se Massimo è ancora sul mio vialetto.
E gli sforzi compiuti per calmarmi appaiono vani quando intravedo Massimo. Insieme a Filippo.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Massimo

“Dopotutto non mi sbagliavo. Vera non vuole davvero più avere niente a che fare con te.”
Distinguo subito la sua voce. E quel suo tono sprezzante che mi fa prudere i palmi dalla rabbia.
Filippo.
L’amico che mi ha mentito.
L’amico che ha approfittato della mia assenza per posare le sue luride mani sulla mia Vera.
Un amico che credevo tale. Ma che si è rivelato un grande bastardo.
Avverto una scarica d’ira percorrere ogni centimetro del mio corpo. Mi spinge a stringere con più vigore i pugni, fino a che non percepisco le unghie ferire la carne.
Mi volto lentamente, pronto se fosse necessario ad affrontarlo.
Tuttavia appena scorgo il suo volto, mi sento di esibire un sorriso beffardo.
Filippo è ridotto peggio di uno straccio.
Mi fa pena.
“Guardandoti, mi sembra che tu non sia nella posizione per permetterti questo tipo di commenti.”
“Ti diverti a infierire Massimo?”
“Non ne ho bisogno. Direi che sei stato perfettamente in grado di ridurti in questo misero stato da solo.”
Filippo serra la mascella.
Dopotutto il suo aspetto parla chiaro. La chioma è più indomabile che mai, penso non si rada da giorni e le profonde occhiaie che circondano i suoi occhi sono ben visibili anche a questa distanza.
“Se tu non fossi tornato.” Filippo mi fissa, furente “Se fossi rimasto dov’eri…”
“Che cosa?! Saresti ancora in quella casa?” inveisco, indicando la villetta alle mie spalle “Magari a vivere la tua comoda vita, mentre riempi la testa di Vera delle tue bugie?”
“Lei sarebbe stata felice perlomeno.”
“Ancora sei convinto che mentirle sia stata la mossa giusta?”
“Io l’ho fatto per proteggerla! Ma cosa vuoi saperne tu...” Filippo scuote il capo, sdegnoso “Pensi che scriverle qualche stupida lettera potesse aiutarla a superare il trauma vissuto a Mauthausen?”
“Le sarebbe stato di conforto, certo! Avrebbe saputo che ero vivo, e che sarei tornato da lei.”
“Non dire cazzate Massimo.” sibila a denti stretti “Vera aveva già fin troppi demoni da affrontare. Confidare in un tuo ritorno l’avrebbe vincolata ulteriormente al passato, finendone soffocata. Dì la verità, ti ha parlato delle sue crisi di panico? Dei deliri e degli incubi che la tenevano sveglia notti intere? E chi c’era a rassicurarla?! Chi le è
sempre stato accanto? Io! Io maledizione!”
“Cosa credi, che mi sia divertito negli ultimi cinque anni?!” 
“Non m’interessa cosa tu abbia fatto! Quello che so, è che nei momenti peggiori non sei stato accanto a Vera.”
“Io l’ho liberata dal campo!” inveisco con voce tuonante, battendo un pugno chiuso sul petto “O vuoi che ti rinfreschi la memoria? Eppure dovresti ricordare, su quella camionetta c’eri anche tu Filippo. E sono stato io a salvarti il culo! Se mi hanno rinchiuso in una gattabuia, è stato per permettervi di fuggire!”
“Ma certo! Eccolo, il tenente Riva! Un esempio per tutti noi! Cosa vuoi, le congratulazioni?” grida Filippo, sollevando esasperato le braccia “Ti sei sempre creduto il migliore. E il tuo ego smisurato non poteva tollerare che Vera avesse scelto me. Così sei tornato, quando però ti ha fatto più comodo. E hai sfasciato la mia famiglia.”
Gli rido in faccia.
“Sei patetico Filippo! Cosa vuoi fare, scaricare la colpa su di me? Cercare un capro espiatorio non nasconderà il fatto che se Vera non vuole più avere niente a che fare con te, non è stato per il mio rientro ma per le tue scelte!”
Lui non ribatte. Si limita ad accarezzare nervosamente la barba irsuta.
Le mie parole gli sembreranno una scarica di pugni.
Ed io rincaro la dose.
“Sei stato meschino. Hai approfittato della sua vulnerabilità, divertendoti nel presentarti come il suo eroe. Lei si è fidata di te. E tu come l’hai ripagata? Riempiendole la testa delle tue ridicole bugie!”
“Lei mi avrebbe amato comunque.” mormora lui, indirizzandomi un’occhiata di fuoco.
Tuttavia non mi scalfisce. Anzi, ostento con maggior spavalderia un sorriso sardonico.
“Ed è proprio su questo che ti sbagli Filippo! Vuoi convincerti che sia così perché hai sempre avuto un debole per Vera. Ma lei amava me! Era la mia ragazza e avresti dovuto rispettarlo!”
“Ma chi cazzo ti credi di essere?!” impreca lui, puntandomi un dito con fare minaccioso “Sei uno schifoso egoista se pensi che Vera avrebbe smesso di vivere in attesa del tuo ritorno! Lei aveva tutto il diritto di rifarsi una vita, di ricominciare! E aveva deciso di farlo con me!”
“Sai bene che se tu fossi stato sincero e avessi riferito a Vera mie notizie, lei non sarebbe caduta così ingenuamente tra le tue braccia!”
Filippo sospira irritato, assottigliando gli occhi in due impenetrabili fessure.
“Ma tu questo lo sapevi bene, non è vero?” dichiaro, levando il mento in segno d’incontrastata superiorità “Non avresti avuto nessuna speranza se io fossi rimasto nella vita di Vera. Ma ero fuori dai giochi, e finalmente l’avresti avuta tutta per te.”
Colpito. E affondato.
Filippo rivolge il capo altrove e china flebilmente le palpebre.
“Io la amo.” mormora in un mesto brusio “Avrei fatto qualunque cosa per averla...”
“Già Filippo, e le tue pessime azioni negli ultimi anni ne sono la prova.” ribatto, sarcastico “Ma sai cosa è davvero ridicolo? Hai gettato la tua unica, preziosa occasione, raccontando a Vera bugie su di me, sul tuo lavoro. E la tua incoscienza mette a rischio lei e Tommaso!”
Filippo torna a rivolgermi uno sguardo infiammato.
“Non nominarlo nemmeno…”
“Ti sei schierato con il nemico! Con Tito!” insisto io, ignorandolo e inasprendo il tono di voce “Maledizione Filippo, cosa diamine ti è saltato in mente?! La tua condotta potrebbe rivelarsi una minaccia per la tua famiglia! Ma che razza di padre sei?!”
Scorgo un lampo d’ira nelle sue iridi.
Afferra violento il bavero della mia camicia, sollevandomi e accostando il mio viso al suo.
“Se dici un'altra parola Riva, giuro che ti spacco la faccia!”
Lo scanso con una spinta decisa, che lo porta vacillante ad arretrare.
“Non provare ad avvicinarti di nuovo Filippo.”
“No! Tu devi stare lontano da Vera! Lei è mia!”
La sua voce trema, come le sue mani, incapaci di restare ferme.
Filippo mi fissa con uno sguardo infervorato, totalmente fuori di sé.
L’ho provocato.
E lo so, potrei aver esagerato.
“Sei pericoloso Filippo. Questo lo capisci? Lo sei per te stesso, e soprattutto per Vera e il bambino.”
“Chiudi quella bocca!” grida lui, furioso.
“Vuoi un consiglio? Se ti è rimasta ancora un minimo di dignità, vattene da Trieste. E lascia in pace Vera.”
“Ti ho detto di tapparti quella cazzo di bocca!”
Mi appresto a parare il pugno che Filippo ha evidentemente intenzione di dirigere verso di me, ma entrambi ci arrestiamo non appena avvertiamo alle nostre spalle lo scatto della serratura.
Vera.
I suoi occhi brillano, sono due perle che ci scrutano con profonda attenzione. Esse rischiarano il suo volto, e risaltano le sue labbra dolcemente dischiuse e tremanti.
Vera si scosta dallo stipite della porta, visibilmente incerta e a disagio.
Eppure nel suo sguardo scorgo forza e tenacia, quella stessa voglia di vivere che ho potuto ammirare nel momento in cui l’ho ritrovata a Mauthausen.    
“Andatevene immediatamente da casa mia.” intima lei, decisa ma pacata “O chiamo la polizia.”
Filippo mi scansa con una gomitata, avvicinandosi barcollante a Vera. Lei tuttavia, distoglie lo sguardo e richiude rapida la porta con un tonfo.
Lui s’inginocchia stremato, i pugni tesi lungo i fianchi mentre la implora di aprirgli. Urla instancabile il nome di Vera, le sue grida squarciano l’aria e catturano l’attenzione dei curiosi.
Potrei abbandonarlo su quel vialetto, lasciarlo crogiolare nel suo dolore e andarmene.
Ma non ci riesco.
Perché nonostante quella sua melensa scenata, mi sento male per Filippo.
Lo raggiungo, levando esasperato gli occhi al cielo, e tento di sollevarlo.
“Hai finito di dare spettacolo? Forza, rimettiti in piedi e andiamocene.”
Ma non appena gli tocco la spalla, Filippo volta veloce la testa verso di me, folgorandomi.
Si solleva da terra e, sferrandomi un’energica spallata, si allontana con ampie falcate.
Per la prima volta scorgo nei suoi occhi la più totale, e accecante disperazione.



Angolino dell'Autrice: Buon pomeriggio miei adorati!
Capitolo un po' diverso dal solito, dal punto di vista di Massimo. Non è facile mettersi nei panni maschili, quindi sono in dubbio sugli esiti di questo esperimento. Ditemi voi, sono curiosa di conoscere i vostri pareri e aperta a qualsiasi consiglio.
Ne approfitto per annunciarvi che tra poco parto. E voi mi direte: che ci importa?! E io vi rispondo che aggiornerò la storia per i primi di agosto, quando ritornerò a bomba con il nuovo capitolo! E rimangerete il periodo in cui ero fuori dalle scatole... xD
Io vi auguro una bellissima estate, divertitevi, mangiate tanto gelato, prendete il sole (ma con attenzione!) e soprattutto riposatevi!
Vi ringrazio per l'immenso supporto che mi date ogni volta, grazie per accompagnarmi in questa meravigliosa avventura.
Ci rivediamo i primi di agosto, sempre su questi schermi, per il nuovo capitolo!
Un bacione e un abbraccio forte!
Vostra Clairy.
:-)

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***





Uno strano trambusto mi sveglia nel cuore della notte.
Mi libero dalle coperte, mettendomi a sedere con un tale scatto da farmi girare la testa.
Tommy.
Il mio primo pensiero è subito rivolto a lui.
Ma prestando attenzione, capisco che i lamenti non sono i suoi. Provengono da fuori.
Deve essere un ubriaco, penso. O magari un gruppo di giovani un po’ su di giri che sta rincasando.
Così, confortata da queste mie supposizioni, mi rimetto a letto.
Tuttavia il nodo alla gola riaffiora appena odo battere violentemente contro la porta d’ingresso.
“Vera!”
Sento gridare, ma mi convinco di aver sentito male e mi rannicchio sotto le coperte.
“Vera!”
Strabuzzo gli occhi e sono pervasa da un fastidioso tremore.
E’ Filippo.  
Il mio istinto mi suggerisce di non alzarmi dal letto, di non muovermi per nessuna ragione.
Poi però un dubbio s’insinua in me: da quando l’ho cacciato, non si è mai fatto vedere. Ad eccezione di due giorni fa, quando l’ho ripreso l’attimo prima che si avventasse su Massimo, evitando che il mio vialetto diventasse un ring per un improvvisato scontro di pugilato.
Perciò se Filippo è venuto, forse ha davvero bisogno di aiuto.
Per quanto provi a ignorare l’insistente battere alla mia porta, il pensiero che possa essergli capitato qualcosa di grave non mi permette di riprendere sonno.  
E decido di andare a controllare.
Mi alzo, infilo le pantofole ai piedi e mi stringo la cintura della vestaglia attorno alla vita.
“Vera apri questa cazzo di porta!”
Sento un brivido freddo lungo la schiena.
Quella non assomiglia alla voce di Filippo. Sembra davvero fuori di sé.
E questo m’infonde un senso di pericolo.
Sto per voltarmi e tornare al sicuro nel mio letto, ma mi convinco perlomeno a capire cosa ha indotto Filippo a recarsi alla mia porta, in piena notte, rischiando tra l’altro di svegliare l’intero vicinato.
Esco dalla mia stanza e mi affaccio all’uscio della cameretta di Tommy. Riposa sereno e indisturbato, accoccolato al suo orsetto preferito.
Accosto la sua porta e mi dirigo in punta di piedi verso le scale.
Nonostante la mia vista si sia abituata all’oscurità, le mie mani sono ben salde al corrimano.
Ad ogni gradino, sento le ginocchia tremare e sebbene mi stia impegnando a non fare rumore, mi pare che la scala non abbia mai cigolato tanto.
Nel frattempo mi accorgo di non sentire più il frastuono all’ingresso.
Forse si è rassegnato, penso sollevata.
Poso le mani tremanti alla porta e accosto l’orecchio sinistro, nel caso sentissi qualcosa.
Sobbalzo appena i colpi riprendono, più violenti e perseveranti.
“Vera! Lo so che sei lì dietro!”
Mi porto istintivamente le mani alla bocca, ricacciando con fatica un urlo in gola.
Sto tremando, non riesco a controllarmi.
“Fammi entrare ti prego, voglio parlare. Solo parlare…” biascica Filippo, mentre i pugni alla porta si fanno sempre più deboli.
“Ti amo Vera. Ti amo tanto…Io non vivo senza di te. Io morirò senza di te Vera…”
Lo sento singhiozzare e gemere sottovoce.
In quello stato, quanto potrà essere pericoloso?
Così, giro pianissimo il pomello e nell’istante in cui scatta la serratura, la porta si spalanca all’improvviso e Filippo quasi non capitombola a terra.
Lo afferrò subito per le spalle e cerco di tirarlo su, ma non ha nemmeno la forza per reggersi in piedi.
E’ ubriaco fradicio.
“Filippo ma cosa hai fatto?!” bisbiglio spazientita, mentre riesco con immensi sforzi a trascinarlo dentro casa.
Non posso che provare compassione per la misera condizione in cui si è ridotto.
“Sei bellissima Vera…” borbotta Filippo.
Ma s’interrompe. Contempla frastornato lo spazio attorno a sé, arricciando il naso. Qualcosa ha attirato la sua attenzione, tanto che sul suo volto spunta un sorriso inebetito.
“Hai usato un profumo diverso…Non è vero?”
Lo ignoro volutamente, compresa la serie di frasi incomprensibili che bofonchia in seguito.
“Stai fermo qui Filippo.” gli raccomando non appena riesco ad adagiarlo sul divano “Vado a prenderti un bicchiere d’acqua.”
Corro in cucina e apro l’acqua del rubinetto.
Tuttavia sono colta da un momento di puro sconforto.
Mi sostengo al lavello, massaggiandomi la fronte.  
Mi maledico mentalmente per averlo fatto entrare.
Non avrei dovuto cedere alle sue suppliche. Non importa se a malapena si regge in piedi, già il fatto che si sia ridotto in quello stato vergognoso doveva essere un campanello d’allarme.
Ma l’ho ignorato, mentre era ovvio che il suggerimento fosse proprio quello di non lasciarmi ancora coinvolgere dalla sua imprudenza ed evidente mancanza di giudizio.
Devo mandarlo via. Subito.
Annuisco decisa, prendo rapida un bicchiere dalla credenza e lo riempio d’acqua.
Ma quando ritorno in salotto, il divano è vuoto.
Mi guardo attorno, stranita. E appena realizzo fino in fondo la pericolosità della situazione in cui mi sono immischiata, è troppo tardi.
Sento dei rumori dietro di me, mi volto di scatto e faccio per allontanarmi ma Filippo mi afferra per le braccia.
E incrocio sconvolta il suo sguardo.
Il bicchiere sfugge dalla mia presa e cade a terra, frantumandosi in mille pezzi.
Lui preme una mano sulla mia bocca.
“Se urli, ti ammazzo.”
Avverto il suo alito caldo, misto ad alcool, sul collo.
“Filippo, ti prego lasciami...”
Ma lui m’ignora, gettandomi invece con foga sul divano.
Io provo a rialzarmi ma lui mi blocca i polsi in una morsa vigorosa.
Lo imploro di non avvicinarsi ma non mi ascolta. E’ completamente fuori di sé.
E’ sopra di me, mi afferra per i capelli e mi tira indietro la testa, avventandosi sulle mie labbra.
Gemo una protesta tra i singhiozzi, mentre le lacrime inondano il mio viso.
“Frigni in questo modo anche quando sei con Massimo, vero?
Sibila lui al mio orecchio, mentre il peso del suo corpo mi leva il respiro.
“Tu non mi ami Vera! Non mi hai mai amato. Sei solo una schifosa bugiarda!”
“No, no non è vero!” lo supplico, premendo le mani sul suo petto e tentando di allontanarlo “Io ti amo Filippo! Ti amo, te lo giuro!”
Lui finalmente alza lo sguardo e mi osserva disorientato, come sorpreso nell’udire le mie parole.
Cerco di abbozzare un sorriso e Filippo ricambia, mentre avverto la sua stretta farsi meno intensa, tanto da permettermi di divincolarmi.
Ma non appena provo ad alzarmi, Filippo m’imprigiona di nuovo e mi rigetta con rabbia sul divano.
Lo sento abbassarsi con impazienza la cerniera dei pantaloni.
“Ti servivo solo come ripiego, mentre aspettavi il ritorno di quel cretino di Massimo!”
Poi mi sferra un pugno sul viso.
Non riesco nemmeno a elaborare la gravità del gesto compiuto da Filippo, che lo sconcerto è rimpiazzato da una fitta lancinante all’occhio destro.
La vista si annebbia e il dolore alla testa diventa insopportabile.
Sono stremata. Ma continuo a scalciare e a dimenarmi, pur amaramente consapevole dell'incapacità di bloccare Filippo.
Anche ora, ferita e umiliata dall’uomo che amavo, nutro ancora fiducia che riprenda il controllo di sé.
Ma le mie speranze purtroppo svaniscono quando Filippo prova a strapparmi con foga la vestaglia.
In quel momento capisco che quella figura violenta e minacciosa sopra di me, non è Filippo.
Non può essere il mio Filippo.  

“Mamma…”

E all’improvviso tutto pare fermarsi.
Mi volto di scatto e nella più soffocante oscurità, intravedo Tommaso.
E’ sulle scale, impaurito. Stringe il suo orsacchiotto al petto e osserva confuso i suoi genitori, di nuovo insieme ma non nel contesto che immaginava.
Filippo allontana la sua bocca dal mio corpo e lo sento irrigidirsi.
Giro subito il capo dall’altra parte, perché Tommaso non si accorga dello scempio sul mio viso.
“Tesoro va tutto bene. Torna a dormire.” gli ordino con il tono più pacato possibile, nonostante il nodo alla gola non mi faciliti.
“No…” replica lui in un flebile sussurro.
“Tommaso vai immediatamente in camera tua!”
L’insolita aggressività nella mia voce lo spaventa. Lo sento correre su per le scale e sbattere la porta della sua stanza.
E finalmente Filippo allenta la presa su i miei polsi indolenziti.
Si alza un poco barcollante, richiude la cerniera dei pantaloni ed esce da casa mia.
Mi sembra di riprendere a respirare.
Ma non riesco a muovere nemmeno un muscolo.
Mi fa male tutto, la testa mi scoppia e i polmoni bruciano.
Poi sono scossa da un tremore spasmodico.
Ho paura nel provare ad alzarmi, credo di poter svenire da un momento all’altro. Ma chissà perché questa eventualità non mi pare tanto malvagia, perlomeno cadrei nell’incoscienza per qualche ora.
Vorrei andare da Tommy. Potrei chiamarlo, vorrei stringerlo forte.
E invece rimango immobile sul divano.
E penso, penso e penso ancora.
La mia mente non mi dà tregua.
Scoppio in un pianto nervoso.
E ho paura di non riuscire a fermarmi.

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***





E’ possibile credere di conoscere intimamente qualcuno, e in realtà rendersi conto che hai solo cercato di nascondere a te stessa la vera natura di quella persona?
Questa è l’assillante domanda che s’insinua nella mia mente, spargendo una macchia di amarezza nel mio animo.
Io volevo solo dargli un’ultima occasione. Riporre ancora una speranza, seppur disperata, di poter perdonare Filippo e riunire la famiglia.
E invece, ho solo cercato di celare ai miei occhi cosa è diventato.
O forse, cosa è sempre stato.
Dopotutto le persone non cambiano solo perché lo vogliamo.
E l’ho capito, adesso.
A mie spese.
E i lividi bluastri comparsi questa mattina attorno al mio occhio e ai miei polsi, ne sono stati l’esito.
Rabbrividisco ripensando al rischio corso la notte scorsa, il velo di rabbia che offuscava lo sguardo di Filippo e il terrore di soffocare sotto il suo peso...
Poi compare lui. Il mio Tommy.
Rivedo i suoi occhi brillare nel buio, lo sconcerto apparire sul suo visino.
Ed io che gli urlo contro. Grido di correre in camera sua perché non veda, o quantomeno ancora non realizzi, quanto le persone che ami possano farti crollare.
Ma Tommaso non è ingenuo. E’ una sua qualità, e la sua disgrazia.
Prima di uscire con la tata, è corso verso di me, mi ha abbracciata, ha sfiorato con un ditino il mio occhio e vi ha posato le labbra. Poi è corso via.
Qualcosa era scattato in me.
Forse la voglia di poter cancellare tutto quel dolore dal suo cuore, e piuttosto caricarlo sulle mie seppur gracili spalle.
E mentre esco dalla farmacia e impreco contro la busta di ghiaccio secco che non vuole aprirsi, inizio a credere di non poter affrontare tutto questo.
Non da sola.
E questa maledetta confezione di ghiaccio non mi aiuta!
Distolgo lo sguardo frustrata. Vorrei gettare la busta ma mi trattengo quando vedo sopraggiungere Massimo.
Il respiro inizia subito a farsi affannato, i palmi sudare mentre mi guardo attorno come una forsennata nella speranza di una via di fuga.
Se mi vedesse in questo stato, per me sarebbe la fine.
Lui cammina svelto e con il capo chino. Non si è accorto di me.
Rapida porto qualche ciocca davanti agli occhi, affrettando il passo e fissando il selciato.
“Vera! Sei tu?”
Mi mordo l’interno della guancia ma continuo, imperterrita, ad avanzare.  
“Vera! Perché tutta questa fretta?”
Ignoralo. Prosegui, e non voltarti.
Lo sento toccarmi il polso tuttavia mi scanso con rapidità.
“Ehi!” inveisce lui e questa volta la presa sul mio braccio si fa più vigorosa.
Cerco di divincolarmi ma mi obbliga a voltarmi e sono costretta a sollevare la testa.
Massimo sbianca non appena il suo sguardo si posa sul mio occhio destro.
“Vera cosa cazzo è successo?!”
Comincio ad avvertire un nodo alla gola. Abbasso il capo imbarazzata, cercando di apparire ferma e decisa.
“Ti prego Massimo, lasciami in pace.”
Approfitto dell’allentarsi della sua stretta per allontanarmi, ma lui mi riprende svelto per le spalle.
“Ti ho detto di lasciarmi in pace!” grido esasperata, con voce tremante.
E quando capisco di non riuscire più a frenare le lacrime, Massimo mi stringe a sé.
Mi aggrappo alla sua camicia, come temessi che da un momento all’altro una voragine si aprisse sotto i miei piedi, inghiottendomi.
Ma tra un singhiozzo e l’altro, lui sussurra al mio orecchio che non mi lascerà, che non mi lascerà mai.
Io in fondo lo so. So che non mi lascerà.
E comprendo che questo è il tempo di sfogarsi, di liberare la mia anima schiava e sperare di ricavarne un po’ di sollievo.
Perché Massimo mi afferrerà se dovessi cadere.

Massimo mi ha accompagnato al pronto soccorso.
Mi hanno sottoposto ad un breve accertamento, dato una pomata per il gonfiore e ghiaccio a volontà.
Massimo mi è sempre rimasto accanto.
Alla domanda della giovane infermiera sul come mi fossi procurata un colpo di quel genere, lui ha risposto prontamente, raccontando di come io sia scivolata da un gradino nonostante le centinaia di volte mi abbia ripetuto di non correre sulle scale.
Poi deve aver fatto una battuta o altro, non saprei con certezza. Ricordo che l’infermiera gli ha sorriso.
Dopo di che si è chinata su di me e ha bisbigliato qualcosa, riguardo alla mia incredibile fortuna nell’avere un fidanzato tanto premuroso.
Non ho replicato, non mi sembrava la circostanza adatta per le precisazioni.
Massimo era già riuscito a smorzare la tensione e inventare una scusa piuttosto convincente da non incitare l’infermiera a pormi ulteriori domande.
Eventualità che, nella mia condizione, non sarei riuscita a gestire.
Ma lui è fatto così, gli basta un sorriso per far sentire chiunque a proprio agio.
Io, invece, chiusa nel mio mutismo e imbarazzata persino a guardarlo in faccia, non concepivo come riuscisse a esibire una tale tranquillità e sicurezza.
E intanto mi chiedevo, seppur non fiduciosa nella risposta: cosa starà pensando Massimo vedendomi ridotta in quello stato, pallida da far spavento e con un occhio gonfio?
Ve lo assicuro, è semplice intuirlo.
Le occhiate di fuoco che m’indirizza mentre mi aiuta a tenere il ghiaccio sul livido, sono decisamente eloquenti.
Sono quasi più fastidiose del bruciore, ma non mi lamento. Anzi, concentrarmi sul dolore mi permette di non pensare a quanto Massimo mi sia troppo vicino.
Che illusa! Io che volevo mostrarmi forte ai suoi occhi, indipendente e capace di badare a me stessa, non solo mi ritrovo con un occhio violaceo, ma tra le milioni di persone al mondo è proprio Massimo a reggermi la borsa del ghiaccio.
Percepisco il suo sguardo, so che vorrebbe una spiegazione ma non si azzarda a chiedermi chiarimenti.
Ma tutto ciò è anche peggio del greve silenzio tra noi. Una spiacevole sensazione s’insinua in me, viscidi pensieri che si tramutano in rocce e precipitano dolorosamente nel mio stomaco.
Sprofondo sullo schienale della panchina, ma mi raddrizzo in fretta.
Ormai è fatta, tanto vale raccontargli cosa è accaduto la sera scorsa con Filippo…
“Sei una stupida Vera.”
E’ il commento finale di Massimo. Rapido, e letale.
“Grazie, sei di grande aiuto...” rispondo io, priva della forza per replicare.
La verità è che ha ragione.
“E cosa vuoi che ti dica? Preferisci il classico te lo avevo detto?” irrompe lui come un fiume in piena, violento ed incontrollabile “Porca puttana Vera! Dillo se non ti avevo avvertito che di Filippo non c’era da fidarsi! Ti ho mostrato le prove, hai avuto la sua confessione! Finalmente riesci a cacciare quel bastardo e poi cosa fai, lo lasci entrare in casa tua?! Ma cosa diavolo ti passa per la testa?!”
Non ho mai visto Massimo tanto furibondo. I suoi occhi emettono scintille di rabbia e la presa sulla confezione del ghiaccio è così vigorosa che temo possa esplodere.
Tuttavia si accorge di avermi turbata e cerca di riprendere il controllo.
Massimo pronuncia il mio nome con una tale dolcezza e apprensione da farmi trattenere il fiato, e prego di non scoppiare di nuovo in lacrime.
“Se penso a quello che poteva farti…” s’interrompe, angosciato “Filippo è pericoloso, te ne sei resa conto? E’ una minaccia per te e per il bambino.”
“L’ho capito, adesso. Ma la verità è che conservavo ancora una speranza di poter ricomporre la famiglia, di ricominciare da capo.”  
“Puoi farlo Vera! Tu puoi superare tutto questo. Sei una donna forte...”
“Ti sbagli Massimo!” lo interrompo decisa “Io non sono la persona combattiva che tu pensi io sia. Vorrei fosse così, vorrei gettarmi tutto alle spalle e andare avanti con la mia vita. Ma non posso! Perché Filippo è il padre di Tommaso! Ed io cosa gli racconterò del suo papà? Che è un impostore?! Un violento?!“
Mi porto le mani tremanti alla bocca e vi ci nascondo il viso, sfinita.
“Ieri notte Tommy ha assistito alla scena. Ha visto suo padre, completamente fuori di sé. Poi mi ha guardato. E mi ha vista in questo stato pietoso…”
Mi sento sempre più male e la voce mi si spezza.
Massimo posa il mio capo sulla sua spalla. Sento il suo tocco dolce e protettivo sfiorarmi la nuca.
“E’ solo un bambino...” mormoro, fissando il vuoto “Non è giusto che sopporti tutto questo dolore.”
“Non dipende da te Vera, non puoi fartene una colpa. Tommaso è intelligente, e molto sensibile. Se fosse stato facile ingannarlo sarebbe vissuto tranquillo, è vero, ma come vivono tutti gli sciocchi.”
Le sue parole indugiano nella mia mente, come lettere roventi che delicatamente affondano nella neve e vi restano impresse.
“Supererai tutto questo. Sei la persona più coraggiosa che io abbia mai incontrato Vera.”
“Lo dici solo per farmi stare meglio...”
“Non è così.” replica Massimo, abbozzando un sorriso “Ricorda cosa hai passato Vera, ricorda come sei sopravvissuta all’inferno e hai ripreso possesso della tua vita. La tua immensa forza di volontà può portarti ovunque vorrai, abbi solo più fiducia in te stessa.”  
Alzo lo sguardo e i nostri volti sono così vicini da potersi toccare.
Massimo sfiora il mio mento con le dita e si china su di me. Avverto il suo profumo, socchiudo gli occhi…
Trattengo una risata quando invece sento le sue labbra posarsi sulla mia fronte.
“Vi proteggerò Vera.” promette lui, stringendo le mie mani tra le sue “Proteggerò te e il piccolo. Ti prego, permettimi di starti accanto.”
Sollevo il capo dalle nostre dita intrecciate ed ammiro i grandi occhi di Massimo brillare.
E sorrido.
Perché nonostante qualche ruga attorno agli occhi e la barba più ispida, rivedo quel giovane soldato che cinque anni fa, tra le macerie della guerra, è riuscito a colorare la mia esistenza di una ricchezza infinita.
“Chissà se tu non sia davvero il mio angelo custode.”
Massimo alza le spalle, guardandomi.
“Per te Vera, sarei qualunque cosa. Dipende solo da te.”



Angolino dell'autrice: Ciao miei dolcissimi cannoncini alla crema! Come state? Come sono andate le vacanze?
Finalmente torno con un nuovo capitolo! Ne approfitto per scusarmi per l'assenza, ma non avendo avuto il pc per qualche tempo non sono riuscita ad aggiornare nei tempi che mi ero fissata. Spero di farmi perdonare!
Vi ringrazio infinitamente per l'enorme affetto che mi dimostrate. Vi auguro un buon rientro e una buona ripresa di scuola/lavoro.
Un bacione e grazie di cuore per tutto!
<3

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***





Dopo una settimana il livido è quasi scomparso.
La delusione ancora no.
Massimo però mi è stato vicino, condividendo le mie pene e sopportando numerose sfuriate di rabbia.
E’ rimasto a cena da noi, qualche volta. Dopotutto devo ammettere che l’idea di rimanere a casa da sola non mi allettava. E il pensiero di avere un ospite mi consentiva di distrarmi, o perlomeno tenere a bada i pensieri negativi.   
Massimo avrebbe voluto che mi ripresentassi in ospedale, per un ulteriore controllo.
Ma non ho voluto, avevo paura di tornarci.
Il solo ricordo dell’odore pungente di disinfettante e le luci fredde sospese al soffitto, mi riportavano alla mente il motivo per il quale mi ero dovuta recare in quel luogo.
Tra l’altro io stavo bene. Mi ero rimessa completamente e la vicinanza di Massimo mi ha aiutata più di quanto volessi ammettere.
Non è facile scalfire il mio guscio, e so bene di essere stata glaciale in alcune occasioni. Ma questo è, ed è sempre stato, il mio modo per difendermi.
Solo ora capisco che non era necessario.
Massimo non è mai stato una minaccia. Io ho voluto credere fosse tale, per mostrarlo ai miei occhi come la causa della rottura tra me e Filippo.
Il fatto è che il nostro rapporto era crollato da tempo, ed io non ho avuto il coraggio di accettarlo.
Da quella terribile notte, Filippo non si è fatto più vedere.
Questo mi conforta, certo. Ma ho uno spiacevole presentimento, un senso di angoscia che mi tiene sveglia la notte e mi fa sobbalzare appena sento bussare alla porta.
Temo possa ripresentarsi da un momento all’altro, o compia altre stupidaggini.
E se mai incontrasse Massimo, sono certa che finirebbero per farsi del male.
Tuttavia ciò che più mi spaventa, è che Filippo decida di portarmi via Tommaso.
Non perché all’improvviso sia colto da un'inattesa indole paterna, ma per semplice ripicca nei miei confronti.
Filippo sa come affondarmi, conosce fin troppo bene le mie debolezze e purtroppo, non mi stupirei se le sfruttasse. Ora che è persuaso di essere una vittima perseguitata dall’infelicità, ho terrore possa condannarmi alla stessa sorte, conducendomi nell’oblio insieme a lui.
E se mai questa dovrà essere la mia fine, prima farei qualunque cosa per mettere al sicuro il mio Tommy.
Mi sembra impossibile, vederlo finalmente sereno.
Insieme a Massimo poi, realizzano un’accoppiata perfetta. Si è instaurata una profonda sintonia tra loro, adoro osservare i loro giochi di sguardi e i sorrisi complici.
Tommaso stravede per Massimo. E’ un modello, quel solido punto di riferimento che gli è mancato in questi anni, ma a cui ora può aggrapparsi.
E la dolcezza e la premura con la quale Massimo si prende cura del piccolo, mi pervade di una straordinaria e rassicurante fonte di serenità.  
In questi momenti spensierati però, mi sorge spesso il sospetto che il pericolo si celi dietro un angolo.
Lo vedo beffeggiarsi di me, mentre attende il momento opportuno.
Il momento in cui forse sarò davvero felice, ma più volubile.
Quando sarà così facile farmi cadere…
 

Era troppo tempo che non mi recavo in redazione.
In realtà sono trascorsi solo quattro giorni, giusto il tempo necessario perché il livido sull’occhio si sgonfiasse e non suscitasse domande eccessive da parte dei colleghi.
Eppure mi è parsa un’eternità.
Dopotutto amo il mio lavoro. E stato grazie ad esso che ho riacquistato fiducia in me stessa dopo l’incubo di Mauthausen. Scrivere mi ha donato una spinta sorprendente per affrontare la vita e le sue sfide con maggiore coraggio.
Ma per quanto mi sia mancato l’ambiente lavorativo, sono sempre felice di tornare a casa, dove il mio piccolo Tommaso mi sta aspettando.
Oggi infatti non è andato all’asilo, non si sentiva bene.
Penso sia dovuto alla nostra uscita dell’altro giorno, quando siamo andati al mare, insieme a Massimo.
E’ stata una bella giornata, davvero.
Ma l’acqua era fredda, e nonostante ciò Tommaso ha insistito nel fare il bagno. E questa mattina si è svegliato con un bel raffreddore, e penso anche qualche linea di febbre. Così ho preferito non andasse a scuola e l’ho lasciato in compagnia della tata.
All’improvviso distinguo un gran frastuono provenire da Piazza Unità d’Italia, esattamente nella strada parallela a quella che sto percorrendo.
Potrei proseguire e ignorare il trambusto, ma al fine mi decido ad imboccare un vicolo e approdo nell’ampia piazza.
Davanti a me, il caos.
Un corteo capeggiato da una bandiera a strisce blu, bianca e rossa con una stella al centro, attraversa caotico e rumoroso le strade di Trieste.
Jugoslavi.
Uomini sbraitano senza decenza e si spingono tra loro. Alcuni sono a terra, altri riportano delle ferite, altri ancora si guardano attorno smarriti.
Poco lontano intravedo una ragazza incinta arrancare sul marciapiede a lei più vicino, quando con violenza inaudita è spinta a terra da un uomo almeno il doppio di lei. Quello si limita a rivolgerle una rapida occhiata e proseguire indifferente nella sua marcia.
Accorro verso la giovane donna per aiutarla a rimettersi in piedi, ma presa dalla foga non mi accorgo della calca che avanza minacciosa verso di me e ne vengo travolta.
Metto male il piede, inciampo e mi ritrovo inevitabilmente a terra.
Per un momento fisso agghiacciata la fiumana di manifestanti che mi sovrasta, una folla disordinata e incontrollabile annebbiata dalla polvere sollevata dalla loro stessa, pesante camminata.
“Tutto bene signorina?”
Giro il capo e in controluce vedo un anziano signore dal volto cordiale offrirmi la mano.
Io annuisco, disorientata.
“E’ ferita. Venga, lasci che la aiuti.”
Abbasso la testa e, in effetti, ho una lieve sbucciatura al ginocchio.
“Sto bene, non è grave.”
Il che è vero, non mi ero nemmeno accorta di essermi fatta male. Tuttavia accetto volentieri la sua mano per alzarmi.
“Ma cosa sta succedendo?” gli domando turbata.
“Ne so quanto lei signorina. Quello che vedo però dimostra come nonostante tutto il male che la guerra ha portato, alcuni sembrano non averne mai abbastanza…“
Mi risulta addirittura faticoso riuscire a udire la sua voce, tanto per capire in quale putiferio siamo stati scaraventati.
M’illumino quando, poco lontano, scorgo Massimo.
Sta scortando una madre zoppicante con la sua bambina in una zona più riparata della piazza.
“Signore dovrebbe tornare a casa.” affermo gridando, mentre torno a rivolgermi all’anziano e confidando che la mia voce prevalga su quel baccano “Qui è pericoloso.”
“Anche lei dovrebbe, signorina.”
Non faccio a tempo a voltarmi per cercare Massimo con lo sguardo e indicare all’anziano l’amico che potrebbe aiutarlo, che il signore è sparito nel nulla.
Allarmata, mi guardo attorno ma la confusione è tale che mi decido a raggiungere Massimo.
Non appena mi vede arrancare verso di lui, strabuzza gli occhi e si precipita rapido al mio fianco.
“Vera! Il tuo ginocchio!”
“Non è niente Massimo.” provo, invano, a rassicurarlo “Perché stanno manifestando?”
“Non è questo il momento Vera, stai sanguinando. Vieni, allontaniamoci subito.”
Massimo è impaurito e il caos attorno pare turbarlo profondamente. Dal suo sguardo vacuo sembra che con la mente non sia davvero qui, come se si fosse perso in qualche orrendo ricordo...
Lui mi sta trascinando lontano dalla piazza quando io, tra la folla, scorgo Filippo.
“Massimo! L’ho visto! Ho visto Filippo!”
“Lascia stare Vera!” dichiara lui risoluto, soffocando in un istante il mio entusiasmo “Vuoi farti ammazzare per corrergli dietro?! Forza, andiamocene via da qui!”
Per un attimo il tempo pare congelarsi e cala un silenzio carico di tensione: la polizia irrompe nella piazza.
Gli agenti disperdono i manifestanti, colpendoli con brutalità, quando all’improvviso si avverte una raffica di spari.
Urla di terrore squarciano l’aria.
Massimo mi fa da scudo con il suo braccio, proteggendomi, ed è in quel momento che vedo Filippo accasciarsi a terra.
E non ragiono più.
La mia vista si ottenebra e l’unica fonte luminosa giunge da Filippo, disteso scompostamente sul selciato.
Con gesto repentino sfuggo dalla presa di Massimo.
“Vera, no!” grida lui, provando ad afferrarmi il polso per trattenermi.
Ma non posso fermarmi.
Scanso la gente che s’interpone nella mia corsa disperata e mi getto sul corpo riverso di Filippo.
Un proiettile ha traforato il suo petto dal quale sgorga una quantità spaventosa di sangue.
“Filippo! Filippo sono io!”
I suoi occhi verdi, sbarrati e iniettati di terrore, fissano il vuoto ma sul suo volto pallido appare un lieve sorriso.
Premo le mie mani sulla ferita, sperando di frenare quel fiume cremisi che imbratta i suoi abiti e le mie dita.
“Filippo resisti! Ti prego!”
Lui cerca di dire qualcosa ma viene colto da un violento conato. Tossisce con forza e un rivolo di sangue scivola da un angolo della bocca.
“Vera…” gorgoglia Filippo.
Con fatica solleva la sua mano tremante e con l’indice sfiora il mio mento.
Io la stringo tra le mie dita e la porto alle labbra.
“Mi…dispiace…”
“Shhh…stai zitto stupido!”
Scosto dalla sua fronte i capelli incrostati di sangue.
“Andrà tutto bene Filippo.” gli sussurro, scossa dai singhiozzi “Te lo prometto. Andrà tutto bene…”
E in quel maledetto istante, percepisco la sua mano scivolare inesorabilmente dalla mia presa.
Mi sento sollevare e, di peso, vengo portata lontano.
“Massimo no! Lasciami! Non posso lasciarlo lì! Lui morirà! Morirà!”
Urlo e scalcio con impeto, ma Massimo prosegue imperterrito allontanandosi dalla piazza.
Intanto le lacrime erompono implacabili, e lavano il sangue rappreso dal mio viso.
Scorgo un’ultima volta il corpo di Filippo, immobile.
Un fantoccio abbandonato sul ciglio della strada.
Giace da solo, tra la polvere e il sangue.
Poi, il nulla.

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***





Sobbalzo quando sento bussare alla porta.
Con fatica sollevo il capo, incredibilmente pesante, e mi alzo dalla sedia.
Esco dalla cucina con passo trascinato e mi dirigo all’ingresso.
Transito davanti allo specchio appeso in corridoio e trasalisco non appena vi scorgo il mio riflesso.
Fisso stancamente i miei occhi arrossati, gonfi e lucidi dovuti all’ennesimo, estenuante pianto. Le labbra sono secche e il tono scuro dei miei capelli sembra risaltare il pallore del mio viso.
Asciugo con gesto repentino le guance umide e sistemo alcune ciocche dietro le orecchie.
Poi, inspirando, raggiungo la porta e ruoto il pomello.
Esalo un sospiro sommesso appena riconosco la figura ormai familiare sull’uscio.
Alto, con le spalle curve e una maglia stropicciata inserita scompostamente nei pantaloni, Massimo mi rivolge un sorriso appena accennato.  
Io ricambio, o almeno ci provo.
Ma la sofferenza che mi provoca anche un gesto così banale, mi convince a spostarmi per permette a Massimo di accomodarsi.
Incerto, solleva lo sguardo verso le scale. Poi torna a guardarmi.
“Tommaso è…”
“Sta riposando.” lo interrompo subito “Andiamo in cucina.”
Mi segue lungo il corridoio e arrivati in cucina, mi abbandono sgraziata su una sedia, reggendomi il capo con una mano.
Massimo si accosta al bordo del tavolo, osservandomi con un’insistenza che quasi m’infastidisce.
“Come stai?”
Sollevo le spalle, laconica.
“Ti va una tazza di tè?”
Annuisco a testa china.
Lo sento accarezzarmi la schiena prima di dirigersi verso il bancone.
E’ da sciocca prendermela con Massimo, lo so.
Eppure mi pare che il solo modo per attutire questo instancabile dolore, sia riversare la mia frustrazione su chi mi circonda. Sono così irritata da tutti coloro che si dispiacciono per la mia perdita, e li odio perché non hanno la minima idea di cosa io stia attraversando, di quanto trovi ipocrite ed insignificanti le loro condoglianze. E odio ancora di più me stessa, perché non riesco a trovare il coraggio di palesare ad alta voce questo mio malessere. Soffocarlo non fa che avvelenarmi, ma la sola eventualità di parlarne mi terrorizza.
Massimo fa del suo meglio. Mi resta vicino nonostante i miei sbalzi d’umore e le frequenti crisi di pianto.
Mi chiedo perché continui a perseverare. Non ho la voglia, né la forza, di reagire. Eppure lui non demorde e si prende cura di me.
E in fondo, non posso che essergliene grata.
Temo che se non fosse al mio fianco, crollerei definitivamente in tanti, piccoli pezzi. E non so se poi riuscirei a rimetterli insieme.
L’acqua inizia a bollire e Massimo accorre per spostare il bricco dal fuoco. Ma non appena afferra l’impugnatura, allontana svelto la mano soffiando su di essa.
Sorrido. E quando me ne rendo conto, mi rimprovero.
Non devo ridere.
Non posso.
Non sarebbe giusto.
Filippo è morto. Lui non c’è più. Perché dovrei meritare di essere felice?
Fortunatamente Massimo irrompe nel mio spaventoso vortice di pensieri e mi porge una tazza fumante di tè.
“Zucchero?” mi chiede.
Annuisco, indicandogli con un gesto del capo quando fermarsi.
Massimo si siede alla mia destra, incrociando le braccia sul tavolo e osservando le lingue di fumo intrecciarsi e dissolversi nel nulla.
Si morde il labbro inferiore, esitante.
“Come sta Tommaso?”
Circondo con le dita la tazza bollente, finché non inizio ad avvertire la pelle bruciare.
“Ancora non sa niente.”
“Non ha fatto domande?”
Scuoto il capo.
“Dovrò parlargli prima o poi. Ma non so come dirglielo. Non so nemmeno se sarò in grado di raccontargli la verità su suo padre.”
“Perlomeno eviterai che tuo figlio venga a saperlo da altri e si faccia un’idea sbagliata. Vera, ascolta.” si china e abbassando il tono di voce, mi si avvicina “Solo tu puoi spiegargli come stanno le cose, per quanto ti faccia star male.”
Trattengo il respiro, massaggiandomi le tempie indolenzite.
“Sai qual è la cosa più difficile?” prorompo all’improvviso, battendo un pugno sul tavolo “Accettare tutto questo. Ripercorrere tutti i momenti che ho trascorso con Filippo e chiedermi se tra noi c’è mai stata sincerità. E mi sale una rabbia…Si è privato della possibilità di essere un marito. E un padre. E non c’è niente che io possa fare perché ritorni, perché mi dia almeno uno straccio di spiegazione.”
“Vera non dire assurdità! Filippo ha fatto delle scelte, ed era consapevole delle conseguenze verso cui andava incontro. Spiegazioni o meno, che differenza avrebbe fatto?”
“Non lo so…Forse nessuna.”
“Filippo si è cacciato in qualcosa più grande di lui. E quando collabori con uomini come Tito, tirarsi indietro non è previsto negli accordi.”
Sollevo lo sguardo e osservo il cielo terso oltre la finestra. Nemmeno quei caldi raggi di sole che filtrano dal vetro sembrano rischiarare il grigiore del mio stato d’animo.
“Vorrei solo sapere perché. Perché ha distrutto tutto ciò che avevamo costruito.”
Massimo avvicina la sua mano al mio pugno teso, dischiudendolo con delicatezza.
Lentamente fa scorrere la manica della mia maglia, scoprendo il numero tatuato sul mio esile avambraccio.
4753
Lo guardo e la cicatrice sembra bruciare. Ho l’impressione di avvertire l’ago penetrare nella carne, lentamente ma con disumana ferocia.  
Massimo sfiora la cifra tatuata con le dita.
Sono scossa da un fremito.
Dopo giorni di buia apatia, sento una linfa vitale tornare a scorrere dentro di me.
D’impeto sollevo lo sguardo e trattengo il respiro accorgendomi di quanto il viso di Massimo sia vicino al mio.
Non riesco ad allontanarmi.
O forse non voglio.
Perché finalmente ricordo quanto fosse naturale perdermi nei suoi occhi, quanto la loro singolare e seducente oscurità mi attraesse senza timore.
Dischiudo le palpebre, inebriandomi del suo profumo così familiare, rassicurante.
Le labbra di Massimo cercano le mie. Delicate ed esperte, trovano la mia bocca, la sfiorano desiderose…
“No!”
Sbarro gli occhi impaurita e rapida mi ritraggo.
Scosto rumorosamente la sedia e mi allontano di qualche passo, così che Massimo non noti il terrore apparso sul mio viso.
Lo sento alzarsi e porsi alle mie spalle.
“Vera…” sussurra lui, impensierito.
Porto una mano alla bocca, conficcando nervosamente i denti nel palmo.
Mi volto con indescrivibile fatica, incapace tuttavia di alzare lo sguardo.
Le mani di Massimo salgono carezzevoli sulle mie braccia, lambiscono il collo e si posano sulle tempie. Mi sorregge la testa, costringendomi a fissarlo negli occhi. 
Posa le sue labbra sulle mie, dolcemente.
Sto tremando.
Non capisco come tutto questo non mi appaia terribilmente inopportuno, sbagliato.
Invece, avverto la mia bocca ardere contro quella di Massimo.
Sento di appartenergli.
E lui a me.
Nonostante il tempo, la distanza e gli ostacoli sorti, nel profondo so che le nostre strade erano destinate a ritrovarsi, ed intrecciarsi di nuovo in quella danza così spontanea e travolgente che ha lasciato in me una traccia indelebile.
Mi abbandono al suo abbraccio, finalmente senza timore.
Per un solo momento allontano dalla mente i miei doveri, le infinite preoccupazioni e le paure.
Perché adesso, sentirmi di nuovo protetta tra le sue braccia, mi permette di realizzare quanto mi sia mancato.
Dischiudo le labbra e Massimo posa la fronte sulla mia, tenendomi stretta al suo petto.
Minuscole gocce d’acqua piovono dal rubinetto del lavandino, e il loro lento ticchettio riecheggia tra le pareti della cucina, accompagnando i nostri sospiri.
“Vera…”
Fremo quando percepisco il suo respiro sul collo.
Le sue labbra scivolano sulla mia pelle, sfiorano la gola e risalgono lente fino alla bocca.
Ma con un gesto che mi richiede più forza di quanto pensassi, lo fermo.
“Massimo. Forse...è meglio che tu vada.”
Lo sento irrigidirsi.
“Se ho esagerato, in qualche modo, mi dispiace...”
Scrollo la testa decisa.
“No Massimo. Io…ho solo bisogno di stare un po’ da sola.”
Massimo aggrotta le sopracciglia.
“Rispetto la tua scelta. Ma Vera, non sarà un sollievo chiuderti in te stessa. Non serrare il mondo fuori. Io sono qui, permettimi di starti vicino. Non allontanare tutto. Non allontanarmi da te.”
Stringe le mie mani tra le sue, portandole alle labbra.
“Tornerò domani.” mormora Massimo, mentre un sorriso rischiara il suo volto “Tu cerca di riposare.”
Annuisco, chinando il capo sommessamente.
Massimo mi dà un lieve bacio su una tempia e si dirige verso l’uscita.
Quanto vorrei fermarlo, chiedergli di restare, di non lasciarmi da sola a fronteggiare questa rovinosa realtà.
Invece, rimango immobile, i pugni tesi lungo i fianchi.
Resto a fissare le mattonelle bianche e nere sul pavimento, stordita dalla tempesta che si eleva furiosa dentro di me.



Angolino dell'Autrice: Buona sera cannoncini alla crema!
Ci tenevo a farvi un breve saluto e ringraziarvi immensamente per l'affetto che mi dimostrate leggendo la mia storia.
Grazie di cuore, mi riempite di gioia! Un abbraccio fortissimo.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15 ***





Sto per incontrare Massimo.
Ci siamo dati appuntamento in Piazza della Borsa.
Percorro le familiari vie di Trieste, così silenziose e tranquille a quest’ora del pomeriggio.
Le case ai lati della strada appaiono modeste, alcune in dissesto, eppure ognuna è unica a suo modo.
Molte di esse ancora presentano le ferite causate dalla guerra e dai bombardamenti.
Tuttavia è straordinario osservare l’impegno dei triestini, tenaci nel rialzarsi con dignità dalle macerie, per restituire alla nostra città l’immagine del suo illustre passato.
In questo momento, percepisco in modo ancora più intenso il legame con la mia Trieste.
Entrambe, siamo a pezzi.
Stiamo provando a rimetterci in piedi nonostante un dramma devastante sia franato su di noi, inermi ed impreparate.
Ma ci proviamo, a rimetterli insieme questi pezzi. Con fatica, con sacrifici, ma con la speranza un giorno di sentirci più stabili, sicure.
Sovrappensiero, non mi accorgo di aver imboccato proprio il vicolo che mi conduce di fronte alla Caserma Vittorio Emanuele. Solitamente cerco di evitarlo, è un luogo intriso di troppi ricordi perché io vi transiti restando impassibile.
Così tengo il capo chino, fisso sul selciato, e proseguo a passo spedito finché non raggiungo Piazza della Borsa.
Appoggiato alla colonna in pietra che si erge al centro della piazza, scorgo Massimo. Guarda un punto indefinito davanti a sé, mentre accosta alle labbra la sigaretta che regge tra le dita.
Quando mi vede, pare illuminarsi.
Inspira una profonda boccata, getta la sigaretta a terra spegnendola con la suola, e rapido mi raggiunge.
L’imbarazzo che scende su di noi è evidente dal modo impacciato con cui ci salutiamo. Ripensando all’ultima volta in cui ci siamo visti e a quel momento d’intimità che abbiamo condiviso, non riesco a reggere il sorriso raggiante che invece compare sul viso di Massimo.
Inizio a tormentarmi le mani, osservando le righe rosse e verdi incrociarsi sulla sua camicia.
“Ti va di fare quattro passi?” propone Massimo, forse intuendo il mio palese nervosismo.
Io annuisco, sollevata.
Camminare mi consente di non doverlo guardare negli occhi e sentire inevitabilmente le ginocchia vacillare.
Ci inoltriamo in una stradina secondaria, immergendoci nel cuore di Trieste.
L’estate è alle porte.
I balconi e le inferriate delle case si ravvivano con cascate di campanule colorate, mosse da una brezza leggera e illuminate dai caldi raggi del sole.
Alcune anziane signore sono sedute sull’uscio, ricamano e chiacchierano allegre con le amiche. Alcune sollevano il capo al nostro passaggio, sorridendoci cordiali.
Rivolgo lo sguardo verso il cielo.
Mi chiedo se sia mai stato così azzurro.
Forse il cielo di Trieste ha davvero qualcosa di unico. Fin da bambina mi piaceva credere che quella tonalità così limpida di azzurro, fosse tale perché il cielo a Trieste s’incontra con il mare, fondendosi in un magico tutt’uno.
Mi soffermo su questi dettagli, e mi rendo conto di quanto sia difficile rivelare ad alta voce la vera ragione per cui ho voluto incontrare Massimo quest’oggi.
“Voglio lasciare Trieste.”
Lui non risponde.
Continua a camminare, in un greve silenzio, fissando il vuoto.
Provo a decifrare la sua reazione ma non appena mi volto, Massimo mi rivolge uno sguardo così intenso che sembra trafiggermi.
“Non era proprio quello che mi aspettavo, quando hai chiesto di vederci.”
In risposta chino all'istante la testa, mordendomi il labbro.
“E dove pensi di andare?” domanda Massimo, cogliendo distintamente una nota di sdegno nella sua voce.
“A Roma.”
“Roma?!”
“Dall’uscita del mio romanzo, la redazione del Messaggero mi ha scritto più volte per offrirmi un lavoro. Ho intenzione di accettarlo.”
“E Tommaso?”
“Verrà con me, ovviamente.”
La notizia lo disorienta. Ma conosco Massimo, so che è ben lontano dalla sua indole limitarsi a condividere in ligio silenzio la mia scelta.
“Perché vuoi andartene Vera?” mi domanda infatti.
“Non posso più restare. Ho bisogno di ricominciare da zero, e per farlo devo allontanarmi da questa città.”
“E pensi che scappare ti aiuterà a superare il dolore?” chiede sfrontato.
“Non parlarmi così!”
“E come vuoi che ti parli Vera?!” Massimo irrompe con voce tuonante “Cazzo, mi stai dicendo che andrai a Roma! Come dovrei reagire secondo te?”
“E’ molto difficile per me prendere questa decisione...”
“Stronzate!” grida lui, sovrastandomi “Lo sai che andartene sarebbe la soluzione più facile! Invece di affrontare i problemi, sali sul primo treno e sparisci!”
Mi manca l’aria. La vista si annebbia. Mi sostengo ad un muro, cerco di regolarizzare il respiro.
Con fatica alzo il capo e pur essendo intorno a me ancora tutto sfocato, scorgo Massimo di spalle, a pochi passi da me.
Ha la schiena inarcata, i pugni stretti lungo i fianchi.
Improvvisamente si volta, mi raggiunge in due rapide falcate e con mio stupore mi stringe al suo petto, avvolgendomi protettivo tra le sue forti braccia.
“Perdonami…” sussurra al mio orecchio.
Io nascondo la testa nell’incavo del suo collo.
“Resta Vera. Non voglio perderti di nuovo.”
Lui mi accarezza dolcemente la nuca, baciandomi ripetutamente i capelli.
“Non posso. Sento di dovermi allontanare da te.”
Sciolgo l’abbraccio con uno sforzo indescrivibile, tuttavia Massimo mi trattiene per le spalle, per nulla intenzionato a lasciarmi andare.
“Quando parti?”
Aggrotto la fronte, mentre con fatica cerco di ingoiare quel fastidioso nodo alla gola.
“Vera, quando lasci Trieste?” mi sprona, scrollandomi per un braccio.
“…Domani!”
L’espressione sconvolta di Massimo è un macigno deflagrato nel mio stomaco.
“Vera…” mormora il mio nome, incredulo.
I suoi bellissimi occhi neri m’implorano. Nel silenzio disceso tra noi, li sento gridare e gemere in modo straziante tanto che la testa sembra scoppiare.  
“Massimo, ti prego. Non pretendo che tu approvi. Ma ti prego, cerca almeno di capire. Sento che è la cosa migliore, per me e per Tommaso.”
“Sai che non è così.” replica lui, risoluto.
“Perché continui a mettere in discussione le mie decisioni?! Sono in grado di fare le mie scelte!”
“Tu sei certa che questo trasferimento non confonderà Tommaso?”
“Non sta a te giudicarlo. Io sono sua madre, so cosa è meglio per lui.”
“E sei sicura che questo sia il meglio per te?” mi domanda Massimo, serio.
La fermezza che trapela dal suo sguardo mi fa indugiare per un momento.
“…Non importa. Al primo posto ci sarà sempre mio figlio. Ha provato fin troppo dolore, voglio che viva la sua infanzia serenamente. Roma gli piacerà, e sarà felice.”
“Ti limiti a considerare solo una faccia della medaglia. Perché sconvolgere Tommaso con questi cambiamenti? Perché non restare qui, e provare a rimettersi in piedi!”
“Perché qui non possiamo farlo.”
“Perché no Vera?! Ci sono io, sai che puoi contare su di me.”
“Ed è proprio questo…”
“Che cosa?!” m’interrompe, esasperato dalla mia esitazione “Ho fatto qualcosa di sbagliato?”
“No!”
“E allora perché vuoi allontanarti da me?!” tuona lui.
“Perché Tommaso si sta affezionando a te!”
Massimo mi scruta, ancora più confuso.
“Posso essere un punto di riferimento per lui, posso aiutarlo! Vuoi dirmi cosa c’è di male in questo?”
“Perché tu non sei suo padre!”
Le mie parole esplodono e squarciano la pacifica atmosfera pomeridiana.
Vorrei poter rimangiarmele, ma mi maledico mentalmente quando realizzo che è tardi.  
“…E non potrei mai diventarlo, giusto?” asserisce Massimo, ostentando un sorriso che cela malamente il dispiacere provocato dalla mia affermazione.
“Tommy ha tanta confusione in testa. Allontanarci gli farà bene.”
“E’ Tommaso confuso, o lo sei tu?”
“Perché continui ad insistere?! Te l’ho già detto, so cosa è meglio per mio figlio. E so che per assicurargli una vita serena questo non è il posto adatto.”
“Vedi come fai?!” prorompe lui “Ti imponi questa eroica missione di assicurare la felicità a chi ami. Ma non puoi controllare tutto Vera! Ci sono delle cose che vanno oltre le tue intenzioni, e non ci sarà niente che tu possa fare! E se ti ostini a proseguire su questa via, perderai tutto ciò che di bello la vita potrà offrirti, perché sarai troppo presa dal preoccuparti dalle sventure che forse potrebbero accadere!”
Chino lo sguardo, cosciente della veridicità delle sue parole.
Per questo mi fa ancora più male sentirle e cacciarle dalla mia mente mi richiede un arduo sforzo.
“Qualunque cosa dirò non ti convincerà a restare, lo so.” continua Massimo, con voce sommessa “Se è quello che vuoi, non posso che lasciarti andare.”
Massimo sfila una mano dalla tasca dei pantaloni e mi sfiora la guancia, prendendo delicatamente il mio mento tra le dita.
“Ma ti aspetterò.” aggiunge in un lieve sussurro.
Esalo un sospiro e lo osservo avvilita.
“Anche tu devi ricominciare Massimo.”
“Vorrei fosse così semplice, davvero. Ma non ci riesco…” Massimo s’interrompe all’improvviso, chinando il viso verso il mio “Lo sai che ti amo, vero?”
Io annuisco, timidamente.
“…E tu mi ami?” mormora al mio orecchio.
M’immobilizzo, trattenendo il respiro e serrando i denti.
Massimo mi osserva combattuto, posando lo sguardo sulla mia bocca.
Si china lentamente su di me ma, per quanto le mie labbra sembrano premere verso le sue, mi obbligo a fermarmi.
Interpongo una mano tra di noi, allontanandolo.
“Quel bacio, a casa tua, non ha significato niente?” domanda lui, profondamente scoraggiato.
“Massimo, finiamola qui. Ti prego.”
Tuttavia i suoi occhi, pur arrossati ed ammantati dalle lacrime, restano fissi su di me, senza darmi tregua.
“Non posso. Non ci riesco Vera. Dopo tutti questi anni…Come faccio a lasciarti andare?”
“Rispetta la mia decisione…” mi si spezza la voce mentre avverto le lacrime affiorare prepotenti.
E infine, mi lascia andare.  
Ho trattenuto ogni emozione.
Ho dimostrato una freddezza ed un’indifferenza nei confronti di Massimo di cui non mi sarei mai ritenuta capace.
Ma ancora un momento, e sarei crollata.
Mi sforzo di non voltarmi perché lui vedrebbe anche le mie, copiose, calde e inutili lacrime.
Certo che ho pensato al nostro bacio.
Non avrei potuto fare altrimenti.
In quel momento, dopo tanto tempo, mi era sembrato di destarmi da un torpore paralizzante. Di tornare a vivere.
Ma non posso permettermi di indugiare.
Voglio solo scappare.
Lontano.  


Angolino dell'autrice: Buon lunedì mie meringhette spumose!
Dopo un capitolo come questo penso vogliate prendermi a sassate... Ma mi conoscete, mi piace complicare le cose!
Ne approfitto per ringraziarvi del vostro immenso supporto e dell'affetto enorme che mi dimostrate. Grazie di cuore!
E....beh! Se proprio mi volete bene e vi va di fare un salto, ecco il link alla mia pagina Facebook:  https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl
Vi auguro una serena settimana! Un bacione.
Clairy.

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Capitolo 16
*** Capitolo 16 ***





Due anni dopo…


“Vera? Mi stai ascoltando?”
E’ successo, ancora.
E’ già la terza volta che mi scopro divagare con la mente verso chissà quali pensieri.
Sono distratta.
E il mio interlocutore sembra essersene accorto.
Il punto è, che se fosse stato per me, non avrei mai accettato l’appuntamento di Vincenzo.
Lui è dolce, paziente e, lo ammetto, molto affascinante. E’ di una modestia e semplicità disarmante, che lo rendono uno splendido collega. 
Ma niente di più.
Vincenzo è il vicedirettore del Messaggero, il giornale romano per cui lavoro da un paio di anni.
Non sono in vena di uscite con uomini.
Certo, ho instaurato delle amicizie con alcuni collegi. Ma non sono affatto interessata a stringere con loro legami più…intimi.
E’ stata Bianca, giornalista e cara amica che ho conosciuto in redazione, a farmi notare con una certa sagacia le occhiate che Vincenzo mi lanciava da oltre la scrivania.
Io, ovviamente, non mi ero mai resa conta di aver attirato l’attenzione di un collega, a maggior ragione del vicedirettore!
Tuttavia dall’osservazione maliziosa di Bianca, ho iniziato a riscontrare un’inaspettata cordialità da parte di Vincenzo, per esempio nel tenere la porta aperta al mio passaggio (senza ripetere la stessa cortesia nei confronti della segreteria dietro di me), la sua condiscendenza a qualche mio ritardo nella consegna degli articoli e soprattutto lo sfolgorante, seducente sorriso che mi rivolge ogni qual volta incrocio il suo sguardo.
E ieri pomeriggio, la situazione ha preso una direzione che avrei voluto evitare.
Avevo terminato il turno e mi stavo dirigendo verso l’uscita della redazione, quando all’improvviso Vincenzo è sbucato alle mie spalle, rischiando tra l'altro di farmi prendere un infarto.
Non l’avevo mai visto tanto nervoso. Composto e impeccabile in ogni situazione, il vicedirettore faticava addirittura a parlare, mentre un velo di sudore imperlava la sua fronte.
Il tutto stava diventando davvero molto imbarazzante. Soprattutto perché temevo che la causa della sua tensione, fossi io. 
Così gli ho detto: “Adesso devo proprio scappare. Mio figlio ha finito gli allenamenti di calcio. Mi starà aspettando...”
Insomma, Vincenzo mi aveva lasciata andare, seppur palesemente frustrato.
E quando speravo di essermela cavata, lo sento gridare il mio nome, chiedendomi: “Ti andrebbe di prendere un caffè, domani magari?”, suscitando una risatina generale tra i presenti, e qualche frecciata d’invidia dalle colleghe.
Sul momento, ero così imbarazzata che avrei voluto sotterrarmi.
Ma ho accettato. Ho dovuto!
Ed eccomi qui, seduta al tavolino di un’elegante caffetteria in centro, con una tazza di caffè, freddo, che mi osserva sconsolata e con un altrettanto demoralizzato Vincenzo.
“Se ti sto annoiando, basta dirlo.” dichiara lui, allentandosi il nodo della cravatta.
“No! No, certo che no.”
“Vera. Non devi mentirmi solo perché sono un tuo superiore.” incurva le spalle, incrociando le dita sul tavolo “Mi ritieni quel tipo di persona che per ripicca, farà di tutto per renderti la vita impossibile in ufficio?”
Mi mordo il labbro, accennando un sorriso titubante.
Lo ammetto, l’ho pensato.
“Capisco quando una donna non è interessata. Ma è stato divertente vederti provare.”
“Mi dispiace da morire.” dico sinceramente amareggiata, pur consapevole che ciò non cancellerà il dispiacere che traspare negli occhi cerulei di Vincenzo.
Lui solleva le spalle.
“Non esserlo Vera. Mi spiace essere stato troppo insistente. Dovevo capirlo, una ragazza bella come te non poteva che essere già occupata.”
“Non c’è nessun altro Vincenzo. Davvero, tu sei molto dolce, e gentile…”
“Ma non sono il tuo tipo. Ho capito.” m’interrompe lui.
“…Ma questo non è il momento giusto per impegnarmi in una relazione.” lo correggo “Non sono pronta.”
Vincenzo socchiude le palpebre, scrutandomi come se potesse leggermi dentro.
La mia giustificazione non l’ha persuaso.
Io però persisto nel reggere il suo sguardo. Riprendo a respirare solo nel momento in cui Vincenzo china il capo e accartoccia tra le dita la bustina vuota di zucchero.
“Sai, per un momento ho temuto fosse per i miei capelli bianchi. Non è per quello vero?” mi domanda con fare teatrale “Non sono poi così vecchio!”
So che non dice sul serio, ma riesce ad allentare la tensione.
E cosa più importante, mi fa ridere.
Forse non è stato poi quel totale disastro che mi ero immaginata...


“Non è stato un totale disastro?! Vera, ma ti sei bevuta er cervello?!”
Questo è il commento conclusivo della mia amica Bianca, in seguito al riassunto del mio appuntamento pomeridiano.
Con uno scatto plateale da tipica romana, si alza dal divano e comincia a camminare irrequieta per il salotto.
“Potresti non gridare? Non vorrei ricevere le lamentele dei vicini. Ancora.” dico io, nascondendo il viso nella mia tazza di tè.
“E che dovrei fare?” Bianca si passa spazientita una mano tra i ricci “C’è chi farebbe follie, follie! Per avere l’opportunità che tu hai avuto oggi con Vincenzo! E sì, me compresa!”
La osservo perplessa, trattenendo una risata.
“Bella mia, nun fare quella faccia, dico sul serio. Chissà come si sarà sentito mortificato quel poveretto…Conoscendoti, sarai stata un pezzo di ghiaccio.”
Bianca m’indirizza una frecciata eloquente prima di lasciarsi sprofondare goffamente nella poltrona.
“Esageri, come al solito. Vincenzo ha compreso le mie ragioni, e alla fine è andato tutto bene.”
Lei scoppia in una risata sardonica.
“Su quale scala di riferimento vieni a dirmi che l’appuntamento è andato bene?”
Sbuffo, seccata.  
“Lo vedi?” scatta lei, puntandomi contro un dito minaccioso “Lo vedi come fai? Sei di un’apatia spaventosa Vera! Ti fai scivolare tutto addosso! E gettati in qualcosa di nuovo per una buona volta!”
Poso gentilmente la tazza sul tavolino, inspirando piano.
“Senti Bianca. Ma qual è il problema? Non mi va di impegnarmi in una relazione, a maggior ragione con un mio superiore!”
Bianca si ricompone sulla poltrona, allentando la tensione alla mascella.
Si china e mi osserva con sguardo inaspettatamente tenero.
“Questa tesoro, è una scusa bella e buona.”
“Ma non è vero!”
“Oh sì che lo è!” dichiara, drizzando la schiena e incrociando le braccia al petto.
“Se ne sei sicura…”
“Certo che lo sono! E ti dirò di più: se continuerai a tenere il paraocchi, perderai tutto ciò che di bello la vita saprà offrirti.”
“Io non ho il paraocchi!”
“Mia cara, ce l’hai eccome! Tanto da non accorgerti dell’enorme occasione che hai sprecato oggi. Quel Vincenzo è un uomo d’oro!”
Non mi va di replicare.
So che Bianca non ha tutti i torti. Ma non ho intenzione di ammetterlo.
E m’illudo che il mio silenzio possa far cadere qui la conversazione.
“Ma…senti po’ Vera. Dimmi na' cosa. Così, giusto per curiosità.” si accomoda accanto a me, appoggiando il mento su entrambi i palmi “Non è che stai ancora pensando a quell’uomo? Come si chiama…Massimo! Giusto?”
La sua domanda mi prende completamente in contropiede.
Gli avrò raccontato di Massimo solo un paio di volte.
“C'ho azzeccato!”
Bianca fraintende la mia esitazione come una riprova alla sua supposizione. Il suo sguardo s’illumina e porta le ginocchia al petto, dondolandosi come una bambina.
“Bianca! Ma cosa vai a pensare! Ormai è passato.”
“A me sembra tutt’altro che passato...Sei arrossita.”
Distolgo rapida lo sguardo.
E’ la solita, inconfondibile, straziante sensazione. Se ripenso a Massimo, il cuore pare esplodermi nel petto.
“In ogni caso sarebbe troppo tardi…”
“Vera, hai solo 29 anni. Parli come se ne avessi 80!” afferra le mie mani e le stringe tra le sue “Non è mai tardi per essere felici.”
Abbozzo un sorriso triste.
“Da quanto non vi sentite?” mi chiede.
“Da troppo tempo.”
“Allora perché non torni a Trieste e vai da lui? Sarebbe l’occasione per riallacciare i rapporti!”
“Non posso prendere e partire così all’improvviso! E non voglio lasciare Tommaso.”
“E dov'è il problema? Starà da me! Quanti anni ha ormai? Sette? Penso sopravvivrà senza sua madre per qualche giorno, nun credi?”
“Non lo so Bianca. Lasciamo perdere, ti va?”
Bianca mi sorride.
“Tesoro, i tuoi occhi sembrano dire tutto il contrario.”


Si alza un’improvvisa folata di vento. Poso una mano sulla nuca per trattenere il cappello.
Persone in ritardo, persone smaniose, persone irritate.
Persone, persone, persone. Mi scorrono davanti in un flusso frenetico.
Proseguono indifferenti, con passo sostenuto e la faccia puntata sul pavimento.
Sono davvero l’unica che osserva il cielo?
L’unica che sta provando a guardare oltre?
Si ode un fischio e in lontananza intravedo il treno. Sopraggiunge alla stazione ad una velocità tale da farmi sussultare.
Interrompe la sua corsa, causando uno stridio così fastidioso da penetrarmi i timpani.
Stringo più forte il manico della valigia.
Sfilo dalla tasca del cappotto il mio biglietto.
Lo guardo.
Una parola, per la precisione.
La mia destinazione.
Trieste.
Le imposte del treno vengono spalancate da uomini e donne che scendono di tutta fretta dal mezzo, mentre altrettante spintonano per salire e accaparrarsi un posto.
Ora devo decidere.
Entrare in quel vagone o aspettare che le porte si richiudano e lasciare che il treno si allontani.
Indipendentemente dalla mia scelta, avrò cambiato il mio destino.
In un caso riaprirò un varco verso il mio passato. Nell’altro, lo chiuderò per sempre.
“Possa aiutarla signorina?”
Il capotreno mi osserva con aria cordiale.
“Come?” chiedo, disorientata.
“Con il bagaglio. Le do una mano a caricarlo?”
Lo guardo per un momento, poi mi volto verso la porta aperta del vagone.
E sorrido.
“No. La ringrazio. Ce la faccio.”
E così, afferro la mia valigia e salgo sul treno.
Non so a cosa mi condurrà questo viaggio ma, da qualche parte, dovrà pur portarmi.


Angolino dell'Autrice: Ciao miei pandorini ricoperti di mascarpone! Come state? Pronti per il Natale?
Io sì, ho dato ieri un esame/macigno e posso riposarmi. Ne approfitto infatti per chiedervi scusa, ho tardato parecchio nella pubblicazione del capitolo.
Spero non sia stato fastidioso l'inserimento di qualche parolina in romanesco. E' un dialetto che mi diverte da matti!
Vi auguro un sereno Natale e buon anno nuovo! Grazie per essere stati con me anche in questo 2014 che, grazie a voi, è stato molto ma molto più bello.
Un abbraccio a tutti voi e BUONE FESTE! 
Vostra Clairy. 
Approfitto per fare tantissimissimi auguroni alla mia strepitosa e fantastica Nadie Efp!!! Tanti auguri Mon Amie bellissima! :D
https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl  <-- la mia pagina Facebook, se volete farci un salto. ;)

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Capitolo 17
*** Capitolo 17 ***






Arrivata a Trieste, la sera era già calata da un pezzo e sono subito andata alla ricerca di un posto dove passare la notte.
Non ho dormito molto.
Anzi, credo di non aver quasi chiuso occhio.
Non riuscivo a smettere di pensare.
Mi sentivo entusiasta per aver compiuto un’azione impulsiva, così insolita dallo scorrere pacato della mia quotidianità.
Ma allo stesso tempo avvertivo un peso sullo stomaco, un logorante senso di colpa per aver lasciato Tommaso e dato retta a Bianca.
Ho compiuto centinaia di chilometri per ritrovarmi in una stanzetta fatiscente, con le lenzuola impregnate di umidità e gli schiamazzi di uomini brilli al piano di sotto.
E tutto questo per cosa? Per inseguire un qualche sogno di gioventù?
Fatto sta che dopo ore a rigirarmi tra le coperte, non ho retto più la stanchezza. Sono crollata e, fortunatamente, anche i pensieri hanno taciuto.

Dischiudo le palpebre e scorgo fasci di luce filtrare dai pesanti tendaggi. Decido quindi di porre fine a questa folle nottata.
Indosso una camicetta che abbino al mio tubino beige, un poco di colore sulle guance e sono pronta per scendere nella sala da pranzo.
Appendo il soprabito allo schienale e mi accomodo sullo sgabello.
Posato sul bancone, trovo il listino. Lo leggo almeno una decina di volte prima di decidermi, e al fine opto per un semplice cappuccino.
Il barista mi porta anche un cornetto caldo, omaggio della casa, ma il mio stomaco si rifiuta di ingerire qualsiasi cosa che non sia liquida.
Approfitto però per chiedergli come raggiungere il centro città.
Seguendo le indicazione dell’uomo, esco dall’ostello e mi dirigo in fondo alla strada dove un cartello segnala la fermata dell’autobus.
L’attesa è breve. Pochi minuti e il mezzo si arresta proprio di fronte a me. Faccio scorrere la porta un poco cigolante e mi accomodo su uno dei sedili disponibili.
Il tragitto è piuttosto movimentato. Sono sballottata in continuazione e mi risale alla gola uno sgradevole sapore di caffè.
Provo a concentrarmi su un punto preciso, fuori dal finestrino.
Noto qualche bandiera americana issata sugli edifici, proprio come quando ho lasciato Trieste. In un primo momento mi sorprende, poi ragionandoci mi rendo conto che la città è ancora sotto il controllo degli alleati.
Dopotutto sono passati solo un paio d’anni, è per me che sembra trascorsa un’eternità.
Nel frattempo tengo attentamente il conto delle fermate, abitudine che ho appreso a Roma dove muoversi con i mezzi pubblici è indispensabile.
E se non ho sbagliato, la mia destinazione dovrebbe essere proprio questa.
Scesa dall’autobus mi servono giusto pochi secondi per orientarmi. Riconosco il palazzo dalle finestre ovali, l’insegna della drogheria all’angolo e con sicurezza imbocco Via Rossetti. Tutto appare invariato, quasi familiare, come se fino a ieri fossi passata di qui. Sarà perché anni fa ho percorso questa strada tante, tantissime volte.
Eppure mai ricordo di aver provato una sensazione come questa, non appena raggiungo il viale alberato che conduce alla Caserma Vittorio Emanuele III.
Il cuore batte forte, troppo forte.
Ricordi riaffiorano con inaspettata delicatezza.
Rivedo due giovani, vicino alla ringhiera, stretti uno all’altra. Sono così maledettamente ingenui. Ed innamorati. Lei sfila dalla bocca di lui la sigaretta, lui con un balzo la acciuffa, la stringe e nasconde il viso tra i suoi capelli. Ridono.
Distolgo lo sguardo e ammiro al centro del cornicione lo stemma del reggimento.
“Fedele. Sempre.”
Con le gambe che tremano e lo stomaco in subbuglio, mi avvio verso l’ingresso. Attraverso l’ampia piazza d’armi, delimitata dagli imponenti corpi di fabbrica. Ma di fronte a tanta maestosità, all’improvviso mi sento indifesa e istintivamente mi stringo nel cappotto, sollevando il bavero, come potesse offrirmi un qualche conforto.
L’atrio è esattamente come ricordavo: la stessa quiete, la sobrietà delle pareti, scandite dalle fotografie degli eroi di guerra, e quel grattare del pennino sulla carta.  
Mi avvicino alla scrivania e dall’altra parte un uomo pienotto e dagli occhi cadenti, mi rivolge un’occhiata incuriosita.
“Buongiorno. Sono Vera Bernardis...”
“Bernardis? Lo sa, il suo cognome non mi è nuovo…” mormora tra sé, grattandosi la nuca stempiata.  
All’improvviso il suo sguardo accigliato si rischiara.
“Bernardis! Ora ricordo! Lei era la compagna del Sergente Filippo Bassani.”
Il mio mesto sorriso sarebbe più che sufficiente per accorgersi che non ho voglia di parlarne.
Ma lui non demorde.
“Al funerale sono venuto a porgerle le condoglianze di persona, rammenta?”
“A dire il vero, no.”
Non ricordo granché di quella giornata, come se non l’avessi vissuta in prima persona. O forse, nei mesi successivi la mia mente ha solo tentato di rimuovere gli attimi più terribili di quel periodo.
“Non importa.” l’uomo al fine sembra comprendere il mio disagio “Mi dica, come posso aiutarla signorina Bernardis?”
“Sto cercando il Tenente Massimo Riva. E’ in caserma?”
“No signorina.”
“E saprebbe dirmi dove posso trovarlo?”
“Mi spiace. Non abbiamo più notizie del Tenente Riva da mesi ormai.”
Mesi.
“Non avete proprio idea di dove abiti? Avrà lasciato un recapito, un indirizzo!”
“Purtroppo no. L’abbiamo visto in caserma qualche volta. Poi d’un tratto è scomparso. Non sono nemmeno sicuro si trovi ancora a Trieste...”
Mi ci vuole qualche secondo per capire che rimanere qui ferma a fissare l’uomo alla scrivania, non farà apparire magicamente un indizio su dove si trovi Massimo.
Così ringrazio, ed esco.
Percorro ancora una volta questo sconfinato cortile. Ad ogni maledetto passo mi sento sempre più insignificante. E stupida.
Devo fermarmi. Gli occhi si velano, sbatto le palpebre freneticamente ma bruciano da impazzire. Copiose lacrime scivolano lungo il mio viso e, come le mie speranze, si disperdono a contatto con il suolo.

Cammino, per quelle che penso siano ore, guidata dal mormorio delle onde.
Questo mare che tanto mi è mancato, di cui ho avuto una logorante nostalgia, nemmeno lui riesce a darmi conforto.
Ma cosa mi aspettavo? Tornare e ritrovare tutto come prima?
Guarda il mare Vera. Osservalo bene. Nemmeno lui, nel suo moto apparentemente perpetuo, è rimasto uguale. Ogni onda è unica a modo suo, mai identica a quella prima, sempre imprevedibile.
Sono trascorsi due, lunghi anni.
Ho detto chiaramente a Massimo di non provare niente. Come biasimarlo quindi, se avesse voluto cominciare una nuova vita nella quale poter liberarsi del peso della mia presenza.
Intanto, per colpa di queste scarpe, i piedi mi fanno un male insopportabile.
E un inquietante brontolio, mi ricorda che è da ieri sera che sono a stomaco vuoto.
Sarà anche il rimorso più grande della mia intera esistenza, ma non per questo ho intenzione di morire di fame.  
Entro in un panificio.
Una stridente campanella annuncia il mio ingresso. I due clienti che mi precedono e la signora alla cassa mi rivolgono una rapida scorsa.
Mi avvicino al bancone, attirata dalle golosità esposte di là del vetro.
“Come posso aiutarla signorina?”
Gli occhi scuri e vivaci di una donna dagli arruffati boccoli argentei, si posano su di me portandomi a sorriderle di rimando.
“Un pezzo di focaccia per favore.”
Lei però mi osserva con leggera apprensione.
“Sa che il miglior rimedio per scacciare la tristezza, sono i dolci?” bisbiglia, sporgendosi un poco dal bancone “Abbiamo sfornato uno strudel che è una meraviglia!”
D’acchito non so come reagire alla sua affermazione. Per un attimo credo stia solo provando a rifilarmi il suo dolce.
Ma se fosse davvero così lampante il mio malessere? Dopotutto il fatto che io non sia mai stata un portento nel dissimulare, è noto.
Perciò mi sento di credere nell’onestà di quella singolare signora, forse perché incrociando i suoi occhi mi sento pervadere da un’inspiegabile senso di benessere.
“Prendo anche un pezzo di strudel allora.”
La panettiera mi sorride di sottecchi.
Pago, ringrazio e mi dirigo verso l’uscita.
“Signora Riva! Come sta?”
Punto i piedi a terra.
Mi volto rapida verso l’anziano cliente che si è appena rivolto alla panettiera.
“Signor Ruggero!” risponde allegramente lei “Non la vedevo da un po’!”
Ha detto Riva.
Come il cognome di Massimo.
E se avessi frainteso?
Potrei aver sentito male. Potrebbe essere stato uno scherzo della mia immaginazione, ancora scompaginata dagli eventi di questa giornata.
“Ha bisogno di qualcos’altro signorina?”
Mi domanda la panettiera, osservandomi alquanto incuriosita.
Forse perché la sto fissando come se avessi visto un fantasma?
“…Sì. Io…volevo sapere…se per caso conosce un certo Massimo Riva.”
“Certo! E’ mio nipote.”
Lei risponde con una tale ovvietà, come fosse la cosa più normale di questo mondo.
Ma non lo è per me. E tutto ciò non fa che ingigantire in maniera inquietante quel senso di pesantezza al petto.
E’ uno sforzo immane anche il solo formulare una frase senza balbettare.
“Sarebbe c-così gentile da dirmi d-dove posso trovarlo?”
“Lavora con mio marito, nella nostra tenuta di campagna. Una mezz’ora da Trieste.”
La donna si accorge però che quella che per lei può sembrare una normale risposta, ha fatto scattare qualcosa in me, come una molla che ha risvegliato dal torpore ogni più piccolo angolo del mio animo.
Il suo sguardo si addolcisce.  
“Posso sapere chi è lei?” mi chiede.
“…Un’amica.”  
Ma la mia non può essere la reazione di una semplice amica.
E dall’occhiata ammiccante della signora, sembra aver già inquadrato la situazione abbastanza chiaramente.
Si allontana dal bancone e mi si avvicina.
“Ascolta. Per me non è un problema portarti da mio nipote. Puoi venire con me, ho la macchina.”
“Lo farebbe davvero?”
“Ma certo! Tra un’ora e mezzo finisco di lavorare. Fai un giro qui attorno nel frattempo. Ci vediamo fuori dalla panetteria.”
Annuisco.
E sorrido.
Sorrido raggiante, senza più controllo. Non riesco a smettere, come se i miei lineamenti fossero paralizzati! 
Forse perché mi sto rendendo conto che se non mi siedo all’istante, la possibilità che io svenga sul pavimento è molto alta.



Angolino dell'Autrice: Miei carissimi torroncini glassati al cacao! Come state? Ne approfitto per farvi ancora tanti auguri di un sereno 2015!
Spero il capitolo vi sia piaciuto e ci tengo a ringraziarvi per il vostro immenso supporto. Cosa voglio da questo nuovo anno? Instaurare un legame sempre più stretto con voi. Grazie di tutto!
Vi lascio come sempre la mia pagina Facebook se volete farci un salto -->  https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl
Un bacione e buon proseguimento di settimana!

Clairy.

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Capitolo 18
*** Capitolo 18 ***





Sussulto, appena lo strillo gracchiante della campanella irrompe nella quiete di questo pomeriggio nuvoloso.
La panettiera dai capelli arruffati, quella che per assurdo ho appreso essere la zia di Massimo, esce svelta dal suo negozio chiudendolo a chiave. Calando la pesante saracinesca, la donna si volta e incrocia la mia espressione, tesa e vigile.
“Non ti sei mossa da lì, non è vero?”
Sollevo le spalle, accennando un sorriso colpevole.
Perché ha ragione.
Da quando la signora Riva mi ha offerto di accompagnarmi da Massimo, mi sono seduta su questa panchina e qui sono rimasta.
La mia mente ha iniziato a viaggiare per poi perdersi in intricate e spaventose costruzioni mentali, rimanendone aggrovigliata fino a non riuscire più a distinguere il confine tra realtà e illusione.
Un paio di volte mi sono persino alzata per andarmene, troppo spaventata dal solo pensiero di rivedere Massimo e leggere nei suoi occhi la più avvilente indifferenza.
Eppure sono ancora qua. Perché questa volta non posso scappare. Mi sono confinata per troppo tempo nell’oblio dell’indecisione e, per quanto ne sia terrorizzata, è giunto il momento di una svolta.
“Non ci siamo ancora presentate.” dichiaro io, porgendole la mano “Mi chiamo Vera Bernardis.”
Lei strabuzza gli occhi sorpresa, poi il suo volto s’intenerisce.
“Finalmente ti conosco! Ero curiosa di dare un volto alla fanciulla dei racconti di Massimo.”
“Le ha parlato di me?”
La donna annuisce decisa.
“Sei la ragazza che ha salvato da Mauthausen.”
Distendo appena le labbra in un sorriso.
Un semplice gesto che mi richiede un immenso sforzo perché, ogni volta che sento quella parola infernale, un brivido gelido mi attraversa.
“Io sono Amelia.” riprende lei, spezzando il silenzio calato tra noi “Sono la sorella del padre di Massimo.”
Ora capisco perché i suoi occhi mi avevano tanto colpita.
Sono gli occhi di Massimo.
L’auto della signora Amelia, una Fiat 500 di un giallo sbiadito, è parcheggiata a pochi metri di distanza.
Con un cenno del capo, la donna m’invita ad entrare.
L’abitacolo è piuttosto angusto, ma ordinato ed accogliente e pervaso da un gradevole odore di pelle.
“Ha una bella macchina.” affermo in fin di voce, tanto che temo non mi abbia udito.
“Mi fa piacere!” risponde invece lei, entusiasta “E’ di mio marito. Ma non la usa mai. Preferisce andare a piedi lui! Mah! Io, personalmente, adoro guidare. E’ rilassante. E qualunque posto tu voglia raggiungere, puoi farlo.”
La signora Amelia introduce la chiave nell’apposita serratura, ma gira a vuoto e gli insoliti rumori che provengono dal cofano non sono rassicuranti.
“…A meno che la tua macchina abbia deciso di non voler collaborare…” mormora lei, a denti stretti, tentando stizzita di mettere in moto.
E finalmente, l’auto si accende e possiamo immetterci nel quieto flusso delle strade triestine.
Vorrei dire qualcosa, qualsiasi cosa. Fare una battuta o una banale osservazione sul cielo grigio sopra le nostre teste. Ma oltre a danneggiare le cuticole delle mie dita, non riesco a proferire parola.
Mi limito ad osservare il crocifisso intarsiato appeso allo specchietto retrovisore.
“Ti piace?” mi domanda.
“Come dice?”
“Il rosario.” Amelia indica con l’indice il ciondolo “Viene dal convento della Madonna di Rosa, a Pordenone. Ce lo regalò mia madre, uno a me ed uno a mio fratello.”
“Dove sono i genitori di Massimo?”
“Sono morti, tanti anni fa. La madre era armena, fu vittima del genocidio del ’16 in Turchia.”
Amelia sterza all’improvviso, imboccando una curva forse con troppa velocità.
“Massimo non ti ha mai parlato della sua famiglia?”
Scuoto il capo, e chino lo sguardo avvilita.
“Non te la prendere, non è mai stato di grandi parole sull’argomento.” mi rinfranca lei, dandomi una lieve pacca sul braccio “E’ ancora difficile per lui conviverci. Sai, mio fratello non fu un padre molto presente. Una volta perduta sua moglie, qualcosa morì in lui. Purtroppo, me ne resi conto troppo tardi…”
I suoi occhi neri si coprono di un velo di tristezza, ma strofina rapida la manica del maglione per asciugarli.
“Comunque. Io e mio marito ci siamo occupati di nostro nipote. E’ cresciuto con noi.”
Il suo racconto, seppur breve, mi turba profondamente.
Obbligarla però ad addentrarsi nei particolari, sarebbe un atto di vile insensibilità da parte mia. Parlarne la fa stare male. E forse sappiamo entrambe che non dovrebbe essere lei a raccontarmi la vita di Massimo...
“Ma mio nipote non si è mai buttato giù.” dichiara però Amelia con fermezza, tirando su con il naso “Il fatto che Massimo non ne parli può indurre a credere che non gli interessi, invece è una realtà con cui fa i conti ogni singolo giorno. Tuttavia non ha mai desistito, si è arruolato, è diventato tenente ed è un grande lavoratore. Insomma, da sposare!”
Rido di rimando alla sua sbirciata ammiccante.
“So cosa vuol dire.” dico, ammirando i campi scorrere fuori dal finestrino “Perdere qualcuno e dover trovare comunque la forza di rialzarsi.”
“Avete due caratteri forti, tu e Massimo. In modi diversi, emerge una grande tenacia dai vostri sguardi.”
Arrossisco.
“Grazie. E’…un bel complimento.”
Amelia mi rivolge un ampio e luminoso sorriso.
“Sei così piacevole che non mi sono nemmeno accorta di avere un’estranea nella mia macchina! Raccontami un po’ di te Vera. Dimmi, com’è che sei diventata tanto amica di Massimo?”
E così iniziamo a parlare. Di lei, di me, di Massimo, colmando con una naturalezza impensabile tutti i vuoti di silenzio. Chi avrebbe detto che dopo un primo momento d’imbarazzo, riuscissi a sentirmi così a mio agio.
“Signora Amelia?”
“Solo Amelia cara.” dice “Non mi sento ancora così vecchia.”
“Volevo dirle grazie. Davvero.”
Lei distoglie per un secondo lo sguardo dalla strada.
E strizza l’occhio.
“Non c’è di che tesoro.”

Dopo un tragitto piuttosto tortuoso, con curve strette e stradine pericolanti, giungiamo ad una cascina che si staglia imponente nell’aperta campagna.
L’auto si arresta bruscamente prima del viale d’ingresso.
Ma malgrado la lontananza, è facile riconoscere il viso dell’uomo che sta spostando le balle di fieno.
Porto una mano alla bocca. Il cuore mi sta esplodendo in petto.
Sobbalzo quando Amelia posa una mano sulla mia gamba, sfoggiando un sorriso rassicurante.
Ma continuo a sentirmi un pezzo di cemento.
Amelia esce fulminea dall’auto ed io, con movimenti incerti ed impacciati, la seguo richiudendo la portiera con mano tremante.
“Ciao Massimo!” grida lei, agitando le braccia al cielo.
Il gesto energico di Amelia, attira subito l’attenzione di suo nipote. Massimo appoggia un mucchio di fieno, si asciuga la fronte con il dorso della mano e ricambia il saluto della zia.
Ma si pietrifica, vedendomi al fianco della signora.
Amelia raggiunge svelta il nipote. Posa una mano sulla sua spalla e prima di dirigersi verso casa, gli sussurra qualcosa che però non capisco.
Così mi dirigo verso Massimo, abbozzando un sorriso poco convincente dato l'irrefrenabile tremolio delle mie gambe.
La maglietta che indossa aderisce perfettamente al suo petto sudato.
Abbasso il capo per riporre l’attenzione sui suoi stivali di gomma, ricoperti da fili di paglia.
“Come stai?” mormoro, alzando gli occhi.
Il suo sguardo è indecifrabile, una maschera inespressiva.
“Non saprei.” risponde lui “Sconvolto credo sia la parola giusta.”
Primo pugno, dritto allo stomaco.
Ma incasso.
E’ arrabbiato, non potevo aspettarmi altrimenti.
“Sono andata alla Caserma questa mattina. Mi hanno detto di non averti più visto. Pensavo avessi lasciato Trieste.”
“In città non c’era più niente che mi spingesse a restare.” constata con voce atona “E ad essere sincero, mi ero stancato delle domande dei ficcanaso.”
Secondo pugno. Fa ancora più male del primo.
Se Massimo si è sentito assillato, è stato anche per causa mia. Per la mia relazione con Filippo, per la mia partenza avventata.
“Tommaso come sta?”
La sua domanda mi coglie in contropiede.
“Sì…bene. Lui sta...benissimo.”
“Quanti anni ha adesso? Sette?”
“Quasi sette, sì.”
La tensione tra noi è così palpabile da poter tagliarla con un coltello.
“Cosa ci fai qui Vera?”
Alla sua domanda mi ravvivo, sentendomi pervadere da un ardore così trascinante da persuadermi che questa è l’occasione per essere davvero sincera con Massimo.
“Avevo bisogno di vederti. Sentivo che venire qui era la cosa giusta da fare. So di essere andata via all’improvviso e, me ne rendo conto, senza una reale spiegazione. Ma mi sei mancato, moltissimo. Più di quanto avrei potuto immaginare. Vorrei solo avere la possibilità di rimettere insieme i pezzi.”
Ma il mio entusiasmo precipita, esaminando la sua espressione sdegnosa.
“Fammi capire.” mormora lui, sfregandosi la corta barba “Decidi di partire, gettando l’opportunità di ricostruire qualcosa insieme, e mi fai capire piuttosto chiaramente che di me, non ti importa niente. Non ti fai sentire per due anni, né una lettera né tantomeno una visita. Poi un bel giorno, ricompari alla porta di casa mia. E speri che tutto torni come prima?”
“No, lo so che non è possibile ma pensavo che noi…”
“Pensavi cosa, Vera?!” erompe lui “A cosa stavi pensando quando hai fatto le valigie e mi hai lasciato qui come un coglione?”
“Avevo appena perso Filippo, stavo male. Ero confusa, avevo bisogno…”
“Ho già sentito queste parole.” m’interrompe bruscamente “Mi è dispiaciuto per Filippo, davvero. Ma perché scappare? Perché, cazzo? Ho trascorso giorni interi a chiedermi se fosse stata colpa mia, se avessi fatto qualcosa per allontanarti. E sai alla fine, cosa ho capito?”
Massimo leva gli occhi al cielo, iniettati di rabbia e veleno. Poi mi scruta, con uno sguardo di ghiaccio, puntando un dito minaccioso contro di me.
“Non te ne importava niente.”
“Questo non è vero!” obietto “Non sarei qui!”
“Dopo due anni?!” la sua voce, colma d’odio, sovrasta prepotente la mia ed arretro impaurita “Pensi davvero basti così poco? Potrei essermi rifatto una vita! A questo non hai pensato?”
“S-stai…Tu stai con qualcuno?” biascico, guardando da un’altra parte.  
“No, non c’è nessuno.” mormora lui “Ma questo non cambia niente. Io non riesco a perdonarti.”
“Massimo mi dispiace…”
“E’ tardi per le scuse Vera. E’ davvero troppo tardi.”
Massimo si allontana, con la schiena china e i pugni stretti, rintanandosi rapido nella stalla.
Mordo con forza il labbro inferiore, tanto da percepire in bocca il sapore metallico del sangue.
Il cielo nel frattempo è diventato di un nero minaccioso e odo in lontananza il boato di un tuono. Una raffica di vento si solleva all’improvviso, scuotendo la paglia ai miei piedi e inclinando spaventosamente le chiome degli alberi.
Mi stringo forte nelle spalle, illusa di poter ancora tenere insieme i brandelli in cui il mio animo si è ridotto.
Guardo disperata il cielo, mentre le mie lacrime si confondono con la pioggia.
La signora Amelia si avvicina, sconquassata dal vento, e mi passa un braccio attorno alle spalle.
“Vieni dentro cara.”
“No! La prego, mi riaccompagni in città.” imploro tra i singhiozzi “Devo prendere il mio bagaglio e andare in stazione…”
“Vera, sta arrivando un brutto temporale. Non è sicuro scendere con la macchina.”
La guardo confusa e stremata.
“Voglio solo tornare a casa. La prego Amelia, mi dia un passaggio.”
“No cara. Tu rimani qui. Il temporale passerà presto, vedrai.”
Non ho nemmeno la forza di replicare.
Sono fradicia e sto tremando.
Il tepore che mi pervade appena entrate in casa mi è un minimo di conforto.
Saliamo le scale e Amelia mi scorta fino ad una piccola camera da letto.
“Ora ti do dei vestiti asciutti.” afferma, spalancando l’armadio all’interno della stanza “Mia figlia deve aver lasciato qualcosa, penso abbiate più o meno la stessa taglia.”
Ne tira fuori degli abiti che getta sul letto.
Poi mi porge un asciugamano accuratamente piegato.
“Quando ti sei sistemata, scendi per la cena.”
Ma prima di chiudersi la porta alle spalle, aggiunge: “E non voglio sentire scuse. Ho fatto il polpettone e non permetto a nessuno di rifiutare il mio polpettone.”
Amelia sfugge via, senza lasciarmi il tempo di oppormi.
Prima di tutto levo questi vestiti umidi e fastidiosi. La sensazione di asciutto sulla pelle è decisamente più gradevole.
Mi siedo ai piedi del letto, frizionando i capelli con enorme lentezza, mentre osservo le gocce di pioggia scivolare sui vetri della piccola finestra.
Al fine mi decido a raggiungere Amelia.
Stare da sola, al momento, mi spaventa troppo.
Scendendo le scale, rischio tra l’altro di inciampare un paio di volte, per la scarsa luce esterna ma soprattutto per la gonna troppo lunga.
“Vera? Tutto bene?”
Il mio trambusto deve aver allertato Amelia. Ma almeno la sua voce mi permette di capire da dove proviene e posso raggiungerla in cucina.
“Vieni cara!” mi accoglie lei, con un caloroso sorriso “Giusto in tempo! Vedrai come starai meglio dopo aver messo qualcosa di caldo nello stomaco.”
Di Massimo, neanche l’ombra.
Molto titubante, mi siedo al tavolo.
Amelia posa due fette di polpettone e un’abbondante cucchiaiata di purè sul mio piatto. Al solo vedere tutto quel cibo mi sale un groppo alla gola che mi sforzo, comunque, di mandare giù.
“Mio marito è via per lavoro. ” dichiara lei, nel tentativo di instaurare una conversazione.
Ma io mi limito ad un cenno del capo.
Sono troppo agitata. Temo che Massimo possa entrare da un momento all’altro.
“Massimo mangerà più tardi.” Amelia sembra aver notato la mia inquietudine “Deve finire di strigliare i cavalli.”
Esalo un sospiro, posando tristemente lo sguardo sul mio piatto.
Afferro la forchetta e la infilzo con eccessivo vigore nel polpettone.

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Capitolo 19
*** Capitolo 19 ***





Calcolare per quanto tempo io abbia percorso avanti e indietro la mia stanza, sarebbe un’impresa.
E’ notte fonda. Il silenzio avvolge ogni cosa con il suo manto invisibile.
Viene interrotto solo dal cigolio prodotto dai miei passi sulle assi di legno.
Da quando mi sono rintanata nella mia camera, ho camminato così tanto che temo di aver lasciato i solchi sul pavimento.
Sembrava l’unico modo per scacciare la tensione.
Sdraiarmi sul letto e provare a riposare? Impossibile.
All’improvviso mi trovo nella più totale oscurità.
Si è consumata l’ennesima candela. Apro il tiretto per accenderne un’altra ma mi fermo.
Il buio non è poi così male.
Forse perché l’oscurità della notte pare in sintonia con il mio stato d’animo.
Ho sbagliato tutto.
Mi sono fiondata qui, egoista e pretenziosa, sottovalutando quanto male io abbia inconsapevolmente procurato. Come biasimare Massimo, per aver pronunciato quelle parole di veleno.
Sfinita, crollo sulla poltroncina di vimini accanto al comodino e mi abbandono sullo schienale.
Socchiudo gli occhi, giusto per un attimo, non più in grado di reggere al peso delle mie palpebre.
Quando le riapro, una palla di fuoco ferisce con i suoi fasci luminosi i miei occhi.
E’ già mattina.
Mi sistemo sulla sedia, massaggiandomi la schiena indolenzita.
La ragione che m’incita ad alzarmi da questa poltrona, è il dolce pensiero di rivedere presto il mio Tommaso.
Lavo rapida il volto impastato di sonno e lacrime, poi scendo al piano di sotto.
“Oh buongiorno Vera! Dormito bene?”
Amelia mi accoglie con una tale esuberanza che quasi mi infastidisce. Ma provo comunque a mostrarmi cordiale, ignorando l’insopportabile torcicollo.  
“Caffè?” mi offre lei, porgendomene una tazza fumante.
La afferro quasi con bramosia, inalando l’aroma caldo ed invitante.
Mi siedo al tavolo, ammirando lo splendido spettacolo fuori dalla finestra. Il sole inonda con i suoi raggi la campagna circostante, creando incantevoli giochi di luci ed ombre.
Dischiudo gli occhi, mentre una brezza leggera sfiora il mio viso. Sento l’odore dell’erba fresca, del pane tostato, del caffè.
Sa di cose buone.
Sa di casa.
Vedo mia madre…e papà accanto a lei. Poi c’è la zia Baba… E anche Tommaso, accanto alla gonna della nonna che non ha mai potuto conoscere…
Avverto gli occhi inumidirsi e subito li spalanco, pervasa da un senso di logorante nostalgia. E di paura, per essermi abbandonata così spontaneamente tra i ricordi, quando mi sono imposta tante volte di non farlo.
“Amelia.” la chiamo, e lei si volta inquieta, forse cogliendo l’insolito tremolio nella mia voce “Quando può accompagnarmi in stazione?”
“Ma oggi è domenica cara!”
“Non capisco...”
“Non scendo in città di domenica.” risponde lei, con ovvietà disarmante “Il panificio è chiuso.”
Vorrei ribattere, ma le parole muoiono sulle mie labbra non appena scorgo Massimo entrare in cucina con passo fiacco, fregando gli occhi con una mano.
Io mi alzo di scatto, con il cuore in gola, mentre tutto attorno a me pare ovattarsi. Tranne la sua figura, così nitida e tangibile.
Lo stridio della sedia sul pavimento richiama la sua attenzione e, accorgendosi della mia presenza, tronca subito lo sbadiglio e s’irrigidisce.
“Ben alzato Massimo!”
Al brioso saluto di Amelia, lui bofonchia un impacciato buongiorno di risposta.
“La colazione è pronta.”
“Sono di fretta.” risponde lui, lapidario.
Massimo afferra un frutto, palleggiandolo spavaldo tra le mani prima di addentarlo.
Poi, inaspettatamente, posa il suo sguardo su di me.
Solo per un momento, giusto un’occhiata, prima di darmi le spalle e uscire dalla cucina.
Tale però, da sentire le farfalle divorarmi lo stomaco.
Non sono riuscita a proferire parola, imbrigliata com’ero nel mio groviglio di reticenza, e ho permesso a Massimo di guardarmi ancora una volta con quella fredda impassibilità.
Scuoto il capo, stanca e frustrata, per rivolgermi di nuovo ad Amelia.
“Cosa vorrebbe dire che non scende in città di domenica?”
“Significa, Vera cara, che ti darò un passaggio nel tardo pomeriggio.”
“Signora Amelia.” inspiro, ricacciando indietro le lacrime che già mi bruciano negli occhi “Aveva promesso che mi avrebbe riaccompagnata.”
“E così farò.”
“Questa mattina!”
Il mio prepotente tono di voce la infastidisce. Amelia mette decisa le mani sui fianchi mentre i suoi occhi si riducono a due impenetrabili fessure.
“Senti cara. Io questa mattina non mi muoverò di qui. Le vedi quelle?” dice, indicandomi una catasta di frutta “Devo sbucciare mele e pere per prepararci le conserve. E poiché tra noi due sono io quella con la macchina, ti darò un passaggio più tardi. A meno che tu non voglia andare a piedi, ma in questo caso ti consiglio di trovarti un bel paio di scarpe comode perché la strada è lunga e fangosa. Nel frattempo però, puoi darmi una mano con la frutta. Un aiuto sarebbe ben accetto.”
Ci squadriamo in cagnesco per qualche istante.
Amelia non desiste, conserva quel sorriso che ostenta con fierezza.
Di primo acchito vorrei davvero alzarmi e scappare, scarpe adatte o meno. 
Tuttavia scarto subito l’ipotesi. Mi sto comportando come una sciocca e la sua lavata di capo è stata chiara al riguardo. Molto chiara.
Mi alzo, afferro con gesto deciso qualche mela e le poso sul tavolo.
Torno a sedere, seria e composta.
“Mi può dire dove trovare un coltello o devo cercarlo da sola?”

Dopo un’intera giornata a sbucciare montagne di frutta, mi ritrovo con i polpastrelli raggrinziti ma con la consolazione di poter finalmente scendere in città.
Mi sto recando in camera a prendere i miei abiti, per poi raggiungere Amelia nella sua auto.
Lei mi ha consigliato di salutarlo, prima di partire.
Io invece, dubito sia una buona idea.
Penso di essere l’ultima persona con cui Massimo voglia avere a che fare...
Persa nei miei pensieri, non mi rendo subito conto di essere finita da tutt’altra parte rispetto alla mia stanza. Quando mi volto per tornare indietro, scorgo Massimo venirmi incontro.
Lui alza il capo.
Mi ha vista.
Ma pianta subito gli occhi a terra.
Imploro che dica qualcosa, che mi guardi.
Ti prego, parlami!
Niente.
Massimo mi passa accanto, ignorandomi.
Punto i piedi a terra. Mi giro e con poche falcate sono alle sue spalle.
“Massimo!”
Lo afferro per un braccio per farlo voltare.
Lui corruga la fronte, sorpreso di fronte al mio gesto istintivo.
Ad essere sincera, ne sono sorpresa anch’io.
Massimo sta per dire qualcosa ma questa volta, sono più svelta.
“No! Non dire niente. Lasciami parlare. Dopo potrai decidere di non rivolgermi più la parola e, se vorrai, la finiremo qui. Ma prima, ti prego, ascoltami.”
Lui incrocia le braccia al petto, spostando il peso sull’altra gamba.
Ma non si allontana.
Non so se abbia scorto qualcosa nei miei occhi, se le mie suppliche lo abbiano in qualche modo impietosito, oppure tutto ciò sarà per lui la riprova definitiva per porre la parola fine.
Eppure Massimo mi sta guardando, finalmente. Ed era quello che volevo: una possibilità.
“Quando ho deciso di partire per Roma, ciò che speravo di trovare era un posto che potessi di nuovo chiamare casa, dove stare bene con gli altri e con me stessa…” sospiro “Ma per quanto Roma sia meravigliosa, mi sono sempre sentita fuori posto. Ero convinta che tornando a Trieste, sarei stata di nuovo serena, avrei colmato quel senso di vuoto…”
“…Ed è stato così?” chiede lui, ostentando un’impassibilità che i suoi occhi tradiscono.
Scuoto il capo, accennando un lieve sorriso.
“No, non è stato così. Quando ieri ti ho visto invece, è stato in quel momento che mi sono sentita a casa. Perché tu sei la mia casa Massimo, lo sei sempre stato.”
Lui distoglie lo sguardo, allentando però la tensione alla mascella.
“Ma me ne sono resa conto troppo tardi...” continuo io “Sei stato disposto a tutto per me, persino sacrificare la tua vita. E quando mi hai proposto l’opportunità di ricominciare da capo, insieme, io sono scappata. Da grande egoista, non mi sono nemmeno fermata a pensare quanto tu potessi soffrire. O quanto già avessi sofferto, per causa mia… Quando ti ho detto che non ti amavo è stata la cosa più difficile, e stupida che io abbia mai fatto. Ero così spaventata... Ma quello che più mi fa paura adesso, è immaginare la mia vita senza di te al mio fianco.”
Cerco implorante il suo sguardo ma Massimo sembra ignorarlo di proposito, mantenendo gli occhi ancorati a terra.
“Sono stata così presuntuosa. Ho sempre pensato alla mia esistenza come una perenne salita, durante la quale il mio passato sarebbe sempre tornato a darmi il tormento. Tu invece, ti sei sempre offerto di accompagnarmi, condividendo un peso che non avrei mai potuto portare da sola. E ora capisco che quando sono con te, quel peso non c’è più. Mi dispiace, immensamente. E se non vorrai più vedermi, lo capisco ma…”
Ma non so cos’altro potrei dire. Massimo non reagisce.
La voce mi si spezza. Ho fallito. Sono sul punto di crollare.
Ma non accade.
Perché lui inaspettatamente prende il mio volto tra le mani.
E mi bacia.  
Le sue labbra, calde e familiari, sciolgono come raggi di sole il gelo annidato da tempo nelle mie ossa.
Ora tutto è più limpido. In questi anni, non ho vissuto realmente. Sono rimasta sospesa in una sorta di limbo, in cui io stessa ho deciso di relegarmi, dove mi sembrava di stare bene solo perché abituata al grigiore che vi regnava.
Adesso sento di aver ritrovato la strada. La vedo, chiara e precisa, che mi conduce verso Massimo.
Le deviazioni, i bivi e gli ostacoli sono parte del cammino, ma in questo momento, tra le sue braccia forti ed accoglienti, so per certo che i nostri percorsi saranno sempre destinati ad incontrarsi.
“Non sei arrabbiato?” gli domando, ormai inebriata dalle emozioni più dolci.
Massimo sfiora le mie guance con i pollici.
“Lo ero, molto. Tu e la tua indecisione stavate per farmi diventare matto! Ma sei tornata da me, come potevo non perdonarti.”
“Oh Massimo!”
Gli getto le braccia al collo.
Rimaniamo stretti, ebbri uno dell’altra, in un abbraccio che sa di casa, senza bisogno di parlare perché i nostri respiri già riempiono ogni distanza.
“Ma se non ti avessi fermato?” gli domando, allarmata “Mi avresti lasciata andare?”
Massimo posa la sua fronte sulla mia.
“Mai. Avrei bloccato quell’auto con le mie mani piuttosto.”
“Dio quanto ti amo!”
Lo bacio ripetutamente finché lui non s’impossessa delle mie labbra, divorandole con un fremito che mi toglie il fiato.
“E questa volta, qualsiasi sia la scusa a cui vorrai appigliarti, non ti permetterò di allontanarti di nuovo da me.” minaccia lui, in tono bonario.
“Non voglio più scappare. Ho rischiato di perdere tutto. Di perdere te.”
Massimo fa scorrere le dita tra i miei capelli.
“Vera Bernardis, giura che resterai.” mormora serio, scandendo ogni parola come volesse imprimerle in modo indelebile nelle nostre anime.
“D’accordo ma…su cosa possa giurare?”
Lui abbassa lo sguardo, assorto, quando il suo interesse è catturato dal fascio di luce riflesso sul pavimento.
Massimo sfodera un sorriso raggiante, prende la mia mano e mi trascina alla finestra. Cingendo i miei fianchi, mi fa sedere sul davanzale.
“Giura sulla luna Vera.” dichiara lui, indicando con il dito l’eterea sfera nel cielo “Come lei, che ogni sera appare e attenua anche le notti più buie, giura che da oggi fino alla fine dei nostri giorni, saremo uno la luce dell’altra.”
Prendo il suo volto tra le mani e mi chino sulle sue labbra.
“Lo giuro.”




Angolino dell'Autrice: Ciao miei caramellosi biscottini croccanti!
Siete contenti che è venerdì? Io spero di avervi tenuto compagnia e aver reso la vostra giornata un po' più...dolce!
Mancano solo due capitoli alla conclusione e come vedete stiamo per decretare un bel lieto fine!
Vi ringrazio infinitamente per starmi vicino. Voi siete la mia luce, grazie di cuore!
Buon fine settimana! Ve amo 'na cifra!
Se volete fare un salto sulla mia pagina FB e fare quattro chiacchere --> https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl

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Capitolo 20
*** Capitolo 20 ***




Cos’è questa meravigliosa sensazione?
E’ un piacevole tepore che si diffonde nel mio corpo, inoltrandosi nelle ossa, nei muscoli, per farsi poi strada nella parte più recondita del mio animo.
Che sia…felicità?
Ho come l’impressione di aver assorbito una quantità di energia tale da poter fare qualsiasi cosa io desideri.
E forse è proprio così.
Perché per la prima volta, non ho più paura.
Voglio vivere. Vivere davvero.
Ho avuto tante seconde possibilità, ma le ho sempre valutate come condanne piuttosto che nuove opportunità.
Ora basta.
Basta indecisione, basta rimproverarsi di colpe che vanno al di là del mio controllo, basta lacrime per ciò che ho perso ma essere grata dei doni ricevuti.
“Cosa pensi?” bisbiglia dolcemente Massimo al mio orecchio.
Mi volto e trovo le sue braccia pronte ad accogliermi.
I nostri corpi nudi si sfiorano, stretti sotto le pesanti coperte.
“A quanto sia perfetto questo momento. Vorrei durasse per sempre.”
“E chi ha detto che debba finire? Possiamo restare qui per tutto il tempo che vogliamo, in questo letto caldo ed accogliente, e se qualcuno oserà disturbarci…beh, dovrà vedersela con me!”
Lui mi stringe forte. Appoggia le dita sui miei fianchi per poi risalire con una lunga carezza fino al seno.
Affondo la testa nell’incavo della sua spalla, soffocando una risata che temo possa attirare l’attenzione di Amelia.
“Tu invece, a cosa pensi?” gli domando, dischiudendo le labbra contro le sue.
Massimo mi dà un lungo bacio, intenso, indugiando sulla mia bocca.
“Penso a quanto tu sia bella.”
Roteo gli occhi al cielo e gli do un buffetto sul mento.
Tuttavia Massimo è serio, mi osserva con quel suo sguardo dolce, disarmante e così intenso che pare possa leggermi dentro.
Sfioro con le labbra il suo collo, per poi rintanarmi sul suo petto.
“Perché non mi hai mai raccontato dei tuoi genitori?”
Per un secondo avverto la mano di Massimo irrigidirsi, prima di riprendere ad accarezzarmi il braccio.
“Tu non me l’hai mai chiesto.” specifica lui.
“Pensavo me ne avresti parlato tu. Non volevo obbligarti.”
“E come mai ti sei decisa proprio ora?”
“Ho domandato ad Amelia...” rispondo, sfoderando un sorriso innocente.
“Mia zia non aveva niente di meglio da fare che spifferare i dettagli della mia giovinezza?”
Pianto decisa il gomito nel cuscino, reggendo la testa con il palmo della mano.
“Non essere duro con lei!” lo rimprovero “Non mi ha rivelato niente. Forse perché ha ritenuto che non dovesse essere lei a farlo…”
“Non fraintendermi Vera, adoro mia zia. Non sarei quello che sono se non fosse stato per lei. E, cosa più importante…” si china per stamparmi un lieve bacio sulla spalla “Ti ha riportata da me.”
Massimo m’invita a riaccomodarmi accanto a lui, tuttavia dal suo tocco incerto trapela inquietudine.
“Cosa ti ha raccontato mia zia?” mi chiede infine, in un lieve e timido sussurro.
“Poco, molto poco. Ha accennato a tua madre e al genocidio del ’16.”
“E’ proprio in quell’anno in cui tutto è cominciato.” afferma, esalando un greve sospiro “Durante la Grande Guerra, mio padre fu chiamato ad arruolarsi. Il suo contingente fu mandato in Turchia, all’epoca nemica dell’Intesa. Lì conobbe una donna armena, mia madre. Era il settembre del 1915. I turchi già perseguitavano gli armeni in quanto considerati spie russe, li rapivano e si ignorava dove venissero portati, e d’altronde nessuno tornò mai per testimoniare. Mia madre aveva da poco partorito, convinse mio padre a portarmi in Italia, al sicuro. Lui accettò. Ma quando tornò da lei, era scomparsa. Nonostante fossero stati insieme per poco più di un anno, penso che lui l’abbia amata profondamente.”
“Tuo padre ti parlava tanto di lei?” gli chiedo, levando in alto il capo in cerca del suo sguardo.
Massimo scuote la testa.
“No, raramente.” risponde lui, mettendo le braccia dietro la nuca “Io crescevo e mio padre era come se non esistesse. Si gettava a capofitto nel lavoro, ore e ore trascorse nei campi. Non si fermava mai, come se non sentisse la stanchezza. E quando non lavorava, passava la notte a bere.”
I suoi occhi scurissimi si velano di malinconia, persi in quelle stanze di ricordi che con fatica sta riaprendo per condividerne il contenuto con me.
“Tu non gli hai mai domandato di tua madre?”
“Così tante volte da smettere. Lui era sempre elusivo... Ma un episodio lo ricordo bene. Nei momenti più improbabili, a cena, durante la notte o mentre era incollato alla canna della bottiglia, all’improvviso diceva: Me l’hanno portata via. E non ho potuto fare niente per salvarla…”
Cade il silenzio.
Un silenzio fatto di ricordi, di cose non dette, di atteggiamenti sbagliati.
Quel silenzio impossibile da colmare per chi, come il padre di Massimo, è sopravvissuto alla guerra, durante la quale si è visto strappare la propria essenza e l'ha riottenuta ammaccata e compromessa per sempre.
“Nel frattempo eravamo riusciti a mettere da parte una bella somma di denaro.” prosegue Massimo, accarezzando i miei capelli con tocco tremante “Mio padre decise di investirli. Ma con la grande depressione del ’29, perdemmo tutto. E in quell’istante mio padre toccò il fondo. Una mattina mi svegliai, avevo tredici anni. Invece di trovarlo steso sul divano, avvinghiato alla sua bottiglia di vino, vidi due carabinieri e mia zia Amelia, seduta su una sedia, che mi guardava con gli occhi colmi di lacrime. Lui era morto, si era ucciso, proprio dietro casa nostra.”
Mi metto a sedere e passo piano una mano tra i suoi capelli, sistemando alcune ciocche arruffate, per poi accarezzargli il viso.
I suoi occhi arrossati sembrano più neri e densi, profondi come quella sofferenza che traspare dal suo volto ma che tenta di smorzare con un sorriso.
“Dopo di che sono andato a vivere con mia zia, qui alla fattoria. A sedici anni mi sono arruolato. In questo modo fu più semplice reperire i documenti su mio padre, ricostruire la sua storia, soprattutto durante quell’anno trascorso in Turchia. Scoprì il nome di mia madre, si chiamava Hande. Significa “risata”, o qualcosa del genere. Risalii al nome del campo dove fu deportata e uccisa. Apparteneva ad un generale, un certo Ebert Schröder. Non ci misi molto a scoprire che era ancora in vita e abitava a Dresda, in Germania. Ricordi Vera, la prima volta che abbiamo dormito insieme?”
“Certo, era il marzo del 1943.” confermo, stringendomi più a lui.
“Ti dissi che mi avrebbero mandato in Germania, senza poter rivelarti altro. Ho mentito. Andai a Dresda, a cercare Schröder. Quando tornai a Trieste tu non c’eri più, ti avevano portata alla Risiera di San Sabba. Subito mi esplosero nella mente le parole di mio padre, me l’avevano portata via e non ho potuto fare niente per salvarla. Io non sarei finito come lui, con il rimpianto di aver abbandonato a morte sicura la donna che amavo. Avevano osato portarti via da me, io avrei fatto qualsiasi cosa per riportarti a casa.”
Mi sciolgo dal suo abbraccio per potermi voltare, appesantita da un improvviso e acuto senso di colpa.
“Massimo. Tu hai disertato, ti sei infiltrato tra le SS per farmi evadere da Mauthausen, ti hanno catturato, torturato e sei rimasto in carcere per cinque anni solo per salvare me?”
Lui intreccia le sue dita con le mie, posando per un istante lo sguardo sul mio avambraccio lungo il quale, seppur leggermente sbiadito, è ancora inciso il numero.
“Solo per salvarti?” ripete lui, sbigottito “Vera, la tua vita è ciò di più prezioso io abbia mai voluto custodire. Ti avevo mentito e abbandonata per portare a termine una mia folle vendetta, quando sarei dovuto rimanere a Trieste per proteggere te e la tua famiglia.”
“E alla fine, lo hai trovato quel generale?” chiedo, lasciando trapelare la mia apprensione.
“Sì…”
La voce di Massimo è poco più che un incerto sussurro.
“…Lo hai ucciso?”
Lui esala un lungo e silenzioso sospiro che sembra però amplificarsi all’infinito, insinuandosi nel profondo.
“No, non ci riuscii.” risponde all’improvviso “Andai da lui, ma feci in modo che non si accorgesse di me. Vive in una piccola villa in campagna, a pochi chilometri da Dresda. E’ sposato e ha tre figli. Sua moglie era incinta del quarto. Lui giocava con i ragazzi in riva ad un lago. Si riconcorrevano. Uno di loro aveva spruzzato dell’acqua, bagnando la madre seduta sotto la fronda di un albero. Schröder corse da lei, la baciò sulla fronte e l’asciugò. Avevo il dito sul grilletto, sarebbe bastata una lieve pressione…ma dio, quanto tremavo! Non ci sono riuscito. Non potevo permettere che quei ragazzi vivessero un’infanzia come la mia…”
Prendo il suo volto tra le mani, così da poter incatenare il suo sguardo al mio e porlo in salvo da quel mare oscuro e turbinoso che intravedo nei suoi occhi.
“Sei un uomo straordinario Massimo. Hai sempre dimostrato una bontà e un altruismo immenso. E con questo gesto, non hai solo risparmiato la vita di un uomo. Hai salvato una famiglia. E hai salvato te stesso.”
Lui mi bacia con irresistibile dolcezza.
Rimaniamo così, stretti l’uno all’altra, in un abbraccio che ha il profumo della notte.
Finché noto Massimo accigliarsi, turbato da alcuni piccoli graffi presenti sui miei palmi.
Lui afferra le mie mani rigirandole delicatamente tra le sue, per poi indirizzarmi un’occhiata confusa.
“Sbucciare frutta per ore intere può causare qualche piccolo infortunio.”
Così gli racconto di Amelia e della spropositata quantità di frutta da pulire. Ho capito solo dopo che quello è stato il suo stratagemma per temporeggiare e darmi la possibilità di riappacificarmi con Massimo.
“Dovrò dire a mia zia di smetterla di schiavizzarti.” dichiara lui e scoppiamo in una fragorosa risata “E di darci un taglio anche con questi assurdi piani tattici!”
Ridiamo ancora di più.
“Sai, è bello qui.” affermo, accoccolandomi vicino a lui “Mi piace la quiete che si respira, poter stare a contatto con la natura, lontano dai rumori…”
“E allora torna a Trieste. Vieni a vivere qui!” m’interrompe prontamente Massimo “Con Tommaso!”
“Come faccio con il lavoro? E la scuola di Tommy?”
“E dove sta il problema Vera? Ci organizzeremo. Non ti piacerebbe ricominciare da dove tutto è iniziato?”
Lui sfiora la mia fronte con un bacio e sorrido serena.
“Sarebbe bellissimo.”



Angolino dell'Autrice: Ciao miei gommosi e zuccherosi marshmallows! :3
Con questo capitolo abbiamo letteralmente fatto un salto nel passato di Massimo. E purtroppo, il prossimo sarà il capitolo conclusivo.
Mi spiace tantissimo, ma sono così felice perchè con questa storia ho avuto l'occasione di conoscere voi, che siete delle persone straordinarie!
Però! C'è un però! Mi sono lanciata in un'avventura. Ho iniziato a scrivere una nuova storia che potete trovare qui: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3047712&i=1.
Si intitola "Come compromettere la carriera...e vivere felici", è un giallo ed è un genere con cui non mi sono mai confrontata prima.
Questo mi spaventa, ma allo stesso tempo ho voglia di mettermi alla prova!
Se volete rimanere sempre aggiornati o magari fare quattro chiacchere, passata nella mia pagina Facebook --> https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874?ref=hl
Grazie di cuore per tutto quello che fate per me! Ve amo 'na cifra!
Buona domenica!
Clairy.

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Capitolo 21
*** Capitolo 21 ***






                                                    Epilogo

Ottobre 1970.

“E’ arrivata! E’ arrivata!”
Le mie grida di gioia fanno saltare Massimo dalla sedia a sdraio su cui si è comodamente assopito.
“C-cosa è arrivata?!” domanda lui, con aria smarrita.
I capelli scompigliati e la sua buffa espressione hanno l’effetto di farmi ridere ancora di più.
“La lettera! Di Tommaso!”
Sventolo allegra la busta e corro verso il porticato per raggiungere Massimo, inseguita dal nostro pastore tedesco, Isotta, altrettanto euforica.
“Cosa aspetti? Aprila!” mi esorta.
Con dita tremanti dispiego la lettera e appena riconosco la scrittura fitta e precisa di Tommaso, avverto un piacevole calore al cuore.
Ne contemplo ogni dettaglio, ogni peculiarità, la più lieve sbavatura presente sulla carta ingiallita dall’umidità.
“Allora, cosa scrive il nostro ragazzo?”
Massimo posa le mani sulle mie spalle e vi si sporge un poco per esaminare la lettera.
“Dice che sta andando tutto bene.” gli riferisco, scorrendo con frenesia le frasi che si succedono sul foglio “Ora si trova alla Caserma di Gorizia…Gorizia! Non è tanto lontano vero?” chiedo conferma, voltandomi fiduciosa verso di lui.
“Saranno una quarantina di chilometri da Trieste. E no Vera, non andremo a trovarlo.”
“Perché no?” uso un tono sprezzante, giusto per nascondere il mio disappunto nel constatare che Massimo aveva già previsto dove volessi parare.
“Vuoi davvero che tuo figlio diventi lo zimbello del gruppo perché ha ricevuto la visita di sua mamma?”
“No, certo che no...” bofonchio amareggiata.
“Brava.” mi scocca un bacio sulla tempia “Forza, continua a leggere.”
“D’accordo. Qui dice che si trova bene con i compagni, sono simpatici. Dormono tutti insieme, in grandissime camerate. Ha anche incontrato un suo vecchio amico delle scuole medie, un certo Giorgio Baretti…Ma tu ricordi chi è questo Baretti?”
“Ma sì! Quel bambino con quegli assurdi capelli rossi. Erano talmente impregnati di brillantina che pareva fosse stato leccato da una mucca.”
“Massimo!” lo rimprovero con una lieve gomitata sul fianco.
“Che c’è?!” reagisce lui, sghignazzando sotto i baffi “Tu non continuare a interromperti e leggi questa benedetta lettera fino alla fine!”
“Va bene, va bene! Dunque…ah sì, ecco qui! Dice che è obbediente ed esegue tutti gli ordini e ciò è molto gradito ai suoi superiori. Ma per il resto sa di essere negato. Fa fatica anche solo ad impugnare un fucile! Povero tesoro…”
Massimo mi dà un’energica scrollata di spalle.
“Non angosciarti! Il fatto che la sua disciplina sia stata notata dal generale è positivo. Vedrai, gli sarà utile.”
“Se lo dici tu…” sospiro, incapace di controllare quella naturale quanto divorante apprensione materna “Termina scrivendo: non vedo l’ora di tornare a casa e rivedervi. Tu, cara mamma, prima di tutti. Abbraccio forte papà e se potete date un bacio alla mia dolce Cristina. Riempite Isotta di tante coccole anche da parte mia… Hai visto bella, Tommaso ti saluta!”
Il pastore tedesco inclina il muso di lato e con i suoi grandi occhi neri mi scruta incuriosita.
Stringo la lettera di mio figlio al petto, come per imprimere nel mio cuore ogni sua singola parola e immaginare in questo modo di ridurre la distanza che ci separa.
Tommaso è a metà della Naja, l’anno di servizio militare obbligatorio.
Sei mesi fa è arrivato il richiamo. Ha dovuto impacchettare le sue cose ed è partito per seguire l’addestramento.
Tommaso non voleva andare, e come biasimarlo!
Aveva appena deciso di iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza, a Udine, dove tra l’altro abita la sua fidanzata, Cristina, una ragazza adorabile, sempre sorridente.
Tommy ha dovuto accantonare i suoi progetti.
Tuttavia così doveva essere.
La Naja non è una scelta. E’ un obbligo.
Ma per fortuna è a metà del servizio, tra qualche mese sarà di nuovo a casa ed io sarò più tranquilla.
Salgo i quattro scalini che conducono al porticato e vedo Massimo appoggiato alla ringhiera, assorto.
“A cosa pensi tesoro?” gli domando, circondandogli un braccio.
“Mi ha chiamato papà.” risponde, con voce fremente “Non l’aveva mai fatto prima.”
I suoi occhi neri si velano di lacrime e la gioia che ne trapela non può che contagiarmi.
Esplodiamo insieme in un sorriso raggiante e ci stringiamo forte.
Tommaso si è sempre trovato benissimo con Massimo. Il rapporto tra loro è sempre stato di profondo affetto ed incredibile intesa.
Quando mi trasferii nella fattoria della signora Amelia e di suo marito, portai il piccolo Tommy con me e non potei dargli gioia più grande.
Amava la campagna, l’aria aperta, occuparsi degli animali e dedicarsi alle loro cure.
Ma i momenti che Tommaso trascorreva con Massimo, quelli erano i più belli.
Indimenticabili, dolcemente impressi nella mia memoria.
Era la figura paterna che Tommaso meritava di avere vicino e di cui temevo averlo privato per sempre.
E invece Massimo è stata quell’indispensabile metà che ha permesso a mio figlio di vivere un’infanzia felice e spensierata, come ogni bambino merita.
Eppure Tommy ha sempre preferito evitare di rivolgersi a Massimo chiamandolo papà.
Ma con questa bella lettera, abbiamo entrambi ricevuto un’inaspettata sorpresa.


Abitiamo alla fattoria da parecchi anni.  
E se ve lo state chiedendo no, non ci siamo sposati.
Massimo non è mai stato un cattolico particolarmente devoto. Per quanto mi riguarda, dopo l’esperienza di Mauthausen, ho vissuto un rapporto turbolento con la fede, fino ad allontanarla dalla mia vita.
Non avevamo bisogno di un pezzo di carta che sancisse legalmente la nostra unione.
Bastavamo noi due per renderla tale.
Amelia e suo marito decisero generosamente di lasciarci la loro tenuta in eredità. Erano così affezionati alla casa che non avevano il coraggio di venderla a degli sconosciuti. E per noi sarebbe stato un sogno poter vivere qui e occuparci della fattoria.
Massimo lavora nei campi mentre io gestisco la contabilità.
Tuttavia capita ancora che io scriva qualche articolo, per i giornali che mi richiedono una collaborazione.
Questa è la nostra vita.
Semplice.
Ovvio, non facile.
Ma è perfetta, perché siamo insieme.
E dopo tutto ciò che abbiamo passato, è quello che conta.


Il numero inciso sul mio avambraccio è ancora ben visibile, come vividi sono i ricordi che da esso riaffiorano.
Ma se prima non riuscivo nemmeno ad osservarlo senza sentirmi crollare, ora avverto una forza maggiore dentro di me.
So che non deve essere qualcosa di cui vergognarmi, o da tenere celato sotto la manica di un abito.
Anzi, devo mostrarlo. Voglio mostrarlo.
Questo marchio svela fino a quale punto la cattiveria umana possa spingersi, ma è anche l’incentivo per non compiere gli stessi, terribili errori.
Queste quattro cifre, mi ricordano che sono sopravvissuta.
E non voglio più relegarmi nel buio.
Ciò non significa che non abbia paura.
Massimo ed io abbiamo dei momenti di crollo, durante i quali ci sembra di ripiombare nell’oblio.
Siamo due anime sconvolte dagli orrori di una guerra che ha lasciato in noi ferite permanenti.
Tuttavia non vogliamo ignorare. Stiamo tuttora imparando a convincerci.
Il cammino è duro, ma insieme la strada sarà meno ostica.
Perché entrambi sappiamo che se di notte un incubo ci darà il tormento, l’altro sarà sempre pronto ad accoglierci tra le sue braccia.


Miei cari lettori,
non mi piace pensare di dover porre la parola fine.
Dopotutto non è proprio la fine, ad implicare sempre un inizio?
Ecco.
In questo momento termina solo un capitolo della mia vita, perché uno nuovo già mi attende per essere scritto.
Questo mi spaventa. Da morire.
Ma permettetemi di darvi un consiglio.
Troppe volte siamo così intimoriti dalle nostre paure che alla fine non facciamo che materializzarle, giusto per avere la soddisfazione di dire “Ecco, lo sapevo che andava male!”.
Non permettiamolo.
Troviamo la volontà di apprezzare ogni singolo momento e ciò che ha da offrire.
La vita può essere ingiusta, recare un dolore disumano, privarci, illuderci e chissà cos’altro!
Ma è un dono, un dono straordinario.
Io amo la vita, le sorprese che può riservarci, il suo essere così maledettamente imprevedibile.
Amo la vita.
Altrimenti non avrei potuto essere qui, a raccontarvi la mia storia.

Vostra, Vera Bernardis.


Angolino dell'Autrice: Ciao miei cari!
Oh mamma. Ho un senso di vuoto indescrivibile. Ma allo stesso tempo, mi sento profondamente arricchita.
Ho imparato tanto, ho vissuto un'avventura incredibile ed è stata tale soprattutto grazie a VOI.
Grazie per aver letto, recensito, avermi dato le vostre opinioni, i vostri riscontri, aver gioito, pianto, provato rabbia, confusione insieme a me.
Grazie per avermi dato fiducia, grazie per avermi accompagnata fino a qui, grazie per avermi supportata.
Siete stati meravigliosi, non avete idea della gioia e della forza che mi avete dato. Mi ritengo così fortunata ad avervi vicino.
E' stato bellissimo, voi avete reso questa esperienza un viaggio bellissimo.
Vi lascio il link alla mia Pagina Facebook, se volete fare due chiacchere e rimanere aggiornati https://www.facebook.com/pages/Clairy93-EFP/400465460046874
E se volete fare un salto, ho pubblicato una nuova storia "Come compromettere la carriera...e vivere felici."  http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3047712&i=1
Grazie ancora di tutto ragazzi! Ve amo 'na cifra!
Clairy

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