Droplets di theprophetlemonade (/viewuser.php?uid=826563)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Baby Blue ***
Capitolo 2: *** Welcome To The Black Parade ***
Capitolo 3: *** Give Me Convenience or Give Me Death ***
Capitolo 4: *** Old Pine ***
Capitolo 5: *** Who Are You? ***
Capitolo 6: *** Accidentally In Love ***
Capitolo 7: *** Hotel California ***
Capitolo 8: *** Rumours ***
Capitolo 9: *** You Give Love A Bad Name ***
Capitolo 10: *** Dreams ***
Capitolo 1 *** Baby Blue ***
Questa
è una traduzione di http://archiveofourown.org/works/1454983/chapters/3064105
“Droplets,
droplets: We are all
identical drips and drops of people, hovering, waiting to be tipped,
waiting
for someone to show us the way, to pour us down a path.”
–
Lauren Oliver,
Pandemonium
A
dire il vero, non so nemmeno perché abbiamo la
piscina. Io non ci nuoto. Mio padre non ci nuota (o non può
nuotarci, data la
paura di mamma che i vicini vedano quant’è
ingrassato invecchiando). E potrei
contare sulle dita di una mano il numero di volte in cui ho visto mia
madre
usare la piscina nelle ultime estati - casualmente ogni volta
coincideva con il
momento in cui il nostro vicino di venti-qualcosa anni decideva di
potare la
siepe che divide il loro cortile dal nostro.
Quindi,
a maggior ragione
non capisco perché, esattamente, secondo mia madre sia
necessario assumere un
inserviente per pulire la suddetta piscina-mai-usata.
A
quanto pare è perché la
siepe continua a perdere foglie, e le foglie bloccano il tubo di
scarico. Sì,
okay. Sono abbastanza sicuro di aver visto un totale di tre foglie
galleggiare
sull’acqua, dall’alto dello sgabello da bar in
cucina. Tamburello le dita sulla
tempia mentre guardo una foglia che si lascia trasportare sulla
superficie
dell’acqua, per poi arenarsi sulle piastrelle azzurre degli
scalini. È maggio.
Le foglie non dovrebbero neanche cadere in questo periodo
dell’anno. Dio mio.
Apparentemente,
quando si
hanno molti soldi la cosa più logica da fare è
spenderli tutti in beni di cui
probabilmente – senza dubbio – non si ha alcun
bisogno. Mia madre è parecchio
brava in questo.
Okay,
forse è bello essere
viziati ogni tanto. Non cercherò certo di nasconderlo
– soprattutto quando papà
mi ha portato la nuova Xbox One qualche settimana fa, per sdebitarsi
per non
aver cenato nemmeno una volta
a casa
negli ultimi dieci giorni. Non che me ne fossi accorto, comunque. Non
potrebbe
fregarsene di meno della vita qui in famiglia; so per certo che si
scopa la sua
segretaria ogni notte in ufficio. Quella bionda svampita è
stata così stupida
da chiamarlo al telefono di casa più di una volta quando
c’ero io.
“Jean,”
sento mia madre
chiamarmi a mezza voce mentre entra in cucina con i suoi tacchi neri
vertiginosamente alti e le ginocchia vacillanti. Sembra ridicola come
al
solito, la quintessenza di quella che una volta era la moglie perfetta,
con le
labbra e la fronte tirate dal Botox. “Jeeaaan, tesoro, hai
venti dollari? Ho
dimenticato di andare al bancomat stamattina.”
Le
rivolgo uno sguardo
esasperato e tiro fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans;
la
pelle screziata puzza ancora di conce chimiche, nonostante ce
l’abbia quasi da
un mese ormai. Non c’era niente che non andasse nel mio
vecchio portafogli,
ovviamente – ma mamma ha insistito dicendo che quello vecchio
fosse brutto. O è
Hugo Boss o niente, in questa
famiglia.
Ho
due banconote da dieci
stropicciate in bella vista; le porgo a mia madre, che le preleva
cautamente
dalle mie mani con i suoi artigli rosso scuro appena smaltati.
“Grazie,
tesoro – avevo
completamente dimenticato di prelevare dei contanti da dare
all’inserviente
della piscina” mi dice, accentuando drammaticamente le
vocali. Tira fuori una
semplicissima busta dal cassetto adiacente allo sgabello su cui sono
accasciato, vi ripone il denaro e la richiude prontamente. Nella sua
grafia
quasi illeggibile scrive qualcosa del tipo: Servizi
di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost.
Le
estati a Trost sono
dannatamente calde e iniziano più o meno verso la
metà di aprile. Sono certo
che molte case in questo quartiere abbiano la piscina –
un’attività niente male
in questo periodo dell’anno, questo è poco ma
sicuro. Ciononostante, non
ricordo esattamente a che punto dell’estate scorsa il ragazzo
della piscina
abbia semplicemente smesso di venire. Probabilmente aveva qualcosa a
che fare
con le occhiatine dolci che mia madre continuava a lanciargli, e mio
padre –
quel grandissimo, maledetto ipocrita – doveva essersene reso
conto.
Non
riesco neanche a
ricordare le fattezze di quel ragazzo, a dire il vero.
L’estate scorsa è stata
un po’ incasinata, tra tutto lo studio per gli esami alla
fine delle superiori,
e poi lo spegnimento totale del cervello dopo aver memorizzato tutto
quel
materiale, che è durato più o meno per tutto il
mese di luglio e agosto. Mi
ricordo di aver guardato un bel po’ di TV
quell’estate – principalmente perché,
ehi, il divano era assolutamente troppo comodo e proprio non riuscivo a
lasciarlo,
ma anche perché era il posto migliore per evitare di
assistere ai ridicoli
tentativi di mia madre di abbordare il suddetto ragazzo della piscina.
Sì, è
stato piuttosto imbarazzante. E con “piuttosto” sto
sminuendo.
Ma
ehi, sono riuscito a
guardare le prime quattro stagioni di Breaking
Bad in, tipo…tre settimane, in quel modo. La cosa
ha avuto i suoi lati
positivi, in fondo.
Inizio
a fantasticare su
quanto sia stato epico il finale della quinta stagione mentre mia madre
gironzola su e giù per la cucina, posando la busta sul
bancone di marmo vicino
a me. Cerca il suo volto riflesso nella finestra e inizia a ravviarsi i
boccoli
con le mani – tiro un sospiro molto evidente, di proposito.
“Che
c’è?” borbotta lei,
“Perché mi stai guardando
così?”
Ruoto
sullo sgabello fino a
trovarmi di fronte a lei, con un gomito appoggiato sul bancone e il
mento sulle
mani.
“Mamma”, sbotto seccamente.
Forse è per questo che abbiamo la
piscina. È una scusa per mia madre per macchinare una
sottile forma di vendetta
sul marito che forse-ma-non-sicuramente la sta tradendo, sbattendo le
ciglia
finte a qualsiasi ragazzo abbronzato in slip da bagno che ha appena
mollato il
college e si trova a sturare il tubo di scarico della nostra piscina da
foglie
inesistenti. Certo.
“Oh,
ma dai, Jean” mi
risponde lei, altrettanto esasperata, mentre sistema una ciocca di
capelli
biondo cenere dietro l’orecchio, guardandomi con la coda
dell’occhio. I suoi
capelli sono dello stesso colore dei miei (o, per lo meno, la parte
superiore
dei miei), ma non sono naturali. Suppongo che li tinga sempre di quel
colore
per il semplice fatto che non somiglio per niente a mio padre. Lui
è tarchiato
e tondeggiante, con pochi capelli scuri. Io sono piuttosto slanciato, e
credo
che il mio viso sia più ovale di quello di mio padre, poi ho
gli occhio molto
più chiari. Mia madre vuole far credere che io abbia preso
almeno da uno di
loro.
Soddisfatta
con il suo
riflesso, mamma muove qualche passo fuori e io torno a guardare
l’acqua
immobile della piscina, mentre il clip-clip
dei suoi tacchi mi rimbomba nelle orecchie. Il cancello del
cortile si apre
con uno scricchiolio quando una serie di grandi retini, spazzole e tubi
barcolla nel giardino (accompagnata, ovviamente, dalla persona che
lotta per
tenere tutta quella roba in un paio di braccia impacciate, coperte di
lentiggini e una leggera abbronzatura, e per metà nascoste
dall’orrenda polo
bluette dell’uniforme).
“Il
ragazzo della piscina è
arrivato” affermo categoricamente, allontanandomi
immediatamente dal bancone. È
anche in anticipo di un quarto d’ora. È arrivato
il momento per una rapida
uscita di scena. Potrei riguardare il finale di Breaking Bad, in
effetti.
“Oh
no, Jean, aspetta un
attimo”, mia madre mi chiama, posizionando un paio di
bicchieri cilindrici
sulla superficie marmorea. “Puoi prendere la limonata dal
frigo e versarci due
bicchieri?” Ondeggia nuovamente verso la porta sul retro,
afferrando
attentamente il pomello come se cercasse di non spezzare una delle sue
stupide
unghie. “E non dimenticare di mettere il ghiaccio,
okay?”
Fisso
la porta con sguardo
assente e la guardo accogliere una nuova vittima nel suo gioco da
predatrice,
incredulo. Grazie, mamma. Lo apprezzo molto, davvero.
A
quanto pare Walter White
dovrà aspettare.
Mi
trascino verso il
frigorifero – come mi aspettavo, una brocca piena della
limonata di mamma mi
aspetta proprio lì in uno scomparto dello sportello. Prendo
anche una lattina
di Coca-Cola per me e chiudo il frigo con il piede, probabilmente con
più
violenza di quella necessaria.
Mentre
verso la limonata nei
due bicchieri, provo ad aprire la lattina di Coca con una mano sola
–
ovviamente la limonata straborda dal limite del bicchiere mentre
rivolgo la mia
attenzione altrove. Cazzo, mi
lascio
scappare una o due imprecazioni sottovoce e mi precipito a prendere dei
tovaglioli.
A
questo punto vi starete
chiedendo: Jean, perché un ragazzo così bello,
carismatico, fantastico come te
gira per casa sbrigando faccende per quella disperata di sua madre,
mentre
dovrebbe essere fuori a fare quello che fanno normalmente gli studenti
universitari di diciannove anni nel weekend (ovvero non
studiare)?
Ebbene,
lasciatemi dire due
cose. Innanzitutto, sono piuttosto sicuro che la maggior parte degli
studenti
universitari preferisca gironzolare per casa senza fare nulla per tutto
il
giorno.
In
secondo luogo, e mi
vergogno un po’ ad ammetterlo,
non parlo
più a nessuno dei miei “amici” da circa
metà dell’ultimo anno delle superiori. Forse potrebbe avere qualcosa a che fare
con quella volta in cui ho dato libero sfogo ai miei pugni piazzandoli
dritti
nella faccia di un certo Eren Jaeger. È uno stronzo, okay?
Se l’è meritato.
Preferirei
di gran lunga
passare tutta la giornata con mia madre piuttosto che ricevere sguardi
torvi da
lui e la sua combriccola. (Anche se Mikasa rimane comunque
incredibilmente
sexy. Già.)
Aggrotto
le sopracciglia in
un’espressione più cupa del solito quando poso gli
occhi sulle fotografie che
ricoprono il frigorifero – quella con me, Connie e Sasha è ancora
lì, risale a quando abbiamo
fatto quel viaggio in macchina giù al sud, due estati fa.
È stato divertente. È
abbastanza triste che adesso anche loro mi evitino, anche se andiamo
alla stessa
università e ho tre corsi in comune con Connie. Ma mi sono
abituato a questa
solitudine, ormai.
Bevo
un altro sorso di
Coca-Cola, amareggiato, mentre getto il tovagliolo imbevuto di limonata
nel
cestino. Va bene così. Sono sopravvissuto per quasi un
intero anno di
università senza parlargli. E sto bene. Anzi, benissimo.
Con
la coda dell’occhio
scorgo mia madre, impegnata in una conversazione animata con il nuovo
inserviente; fa quella stupida risatina, nascondendo timidamente i
denti dietro
una mano ben curata. Nascondo il mio disappunto e prendo ciascun
bicchiere di
limonata in una mano.
“Oh,
Jean, eccoti qui!”
cinguetta mia madre, facendomi cenno dall’altra parte del
prato non appena
emergo dalla sicurezza della cucina, con le spalle curve.
“Vieni, così ti
presento Marco!”
Già
si chiamano per nome.
Wow, vacci piano, mamma.
Quando
la raggiungo, mi
toglie di mano entrambi I bicchieri, porgendone uno al ragazzo della
piscina e
tenendo l’altro per sé.
“Avrai
sete, immagino, fa
così caaaldo oggi!” sorride sbattendo le ciglia,
che le toccano le guance. “Ho
fatto della limonata, ne vuoi un po’?”
“Oh…sì,
grazie” risponde il
ragazzo, passandosi timidamente una mano fra i capelli corti e neri
sulla nuca,
“È incredibilmente gentile da parte sua, Signora
Kirschtein.”
Affondo
le mani nelle tasche
dei jeans, annoiato, sperando di svignarmela il più presto
possibile. Voglio
lasciare a mia madre tutto il tempo per flirtare ampiamente come
desidera,
ovviamente. Per non parlare di quanto sia pungente oggi il sole, cazzo.
“Chiamami
pure Céline, per favore” ridacchia lei,
piazzando una mano sulla mia spalla per avvicinarmi a lei “E
lui è mio figlio,
Jean.” Ormai sono abituato allo sguardo che mi rivolge.
Digrignando i denti
allungo una mano, rigida. Devo farlo per forza? Non potrebbe importarmi
di meno
di conoscere il nuovo giocattolo di mia madre.
“Marco,
giusto?” domando con aria assente, spostando
lo sguardo verso il volto del ragazzo, più alto di me. I
miei occhi vengono
catturati immediatamente dalla fitta trama di lentiggini che ricoprono
il suo
viso abbronzato dal sole, in particolare da quattro di esse, che
formano una
linea retta sul suo naso.
Troppo
tempo al sole, decisamente.
Marco
mi rivolge un sorriso accecante, posso
praticamente vedere una scintilla tra i denti bianchissimi. Mi stringe
la mano
con una presa salda.
“Sì,
esattamente”, sorride. “È un piacere,
Jean.” Ha
un tono di voce fin troppo allegro per i miei gusti.
Scomparirà presto,
credimi. Ancora non sa in che guaio si è cacciato.
Mia
madre rafforza leggermente la presa sulla mia
spalla quando ritiro la mano.
“Jean
non esce spesso, quindi probabilmente lo
troverai qui per la maggior parte del tempo, soprattutto quando
inizieranno le
vacanze estive.” Grazie, mamma. Davvero un gran bel modo di
presentare tuo
figlio. “Quindi se hai bisogno di qualcosa e io non ci sono,
probabilmente
potrai chiedere a lui.”
Abbasso
lo sguardo sull’erba, riesco praticamente a
perforare il terreno con i miei occhi infuocati. Ordino mentalmente a
mia madre
di lasciarmi andare a fare l’eremita in salotto per il resto
del pomeriggio.
Forse coglie qualcosa dalla mia postura rigida, perché
ritira il braccio.
“Bene,
torna pure a fare quello che fai sempre,
qualsiasi cosa sia.” Grandioso. Walter White, sto arrivando.
I
miei passi esitano impercettibilmente quando Marco
alza il bicchiere davanti a sé e grida alle mie spalle:
“Ehi, grazie della
limonata, Jean!”
Probabilmente
borbotto un “non c’è di che”
sottovoce,
ma non mi volto a guardare, finché non sento la superficie
fresca del pavimento
della cucina sotto ai piedi. Mi riprendo la lattina di Coca-Cola
lasciata a
metà e ne bevo un lungo sorso, guardando mia madre
barcollare verso il capanno
della piscina, mentre apparentemente gli indica la combinazione per
aprire il
lucchetto che tiene chiuse le porte di legno.
Alzo
la lattina in direzione della finestra, in un finto brindisi. Buona
fortuna a
te, Marco.
Guardo
l’episodio finale di Breaking Bad
comodamente steso sul divano, con l’aria condizionata
al massimo. È esattamente epico come lo ricordavo. Non posso
fare a meno di
picchiettare con le dita sui cuscini del divano, seguendo il ritmo di Baby Blue dei Badfinger mentre alla fine
Walt soccombe alla ferita da arma da fuoco. Una gran bella colonna
sonora.
Ho
dovuto chiudere le finestre più o meno a metà
episodio perché l’incessante chiacchiericcio di
mia madre era riuscito ad
attraversare tutto il vialetto e non so ancora quante delle risatine
imbarazzate di Marco sarei riuscito a sopportare.
Quasi
quando stanno per comparire i titoli di coda
squilla il telefono, la suoneria stridula mi fa fare un salto di circa
sei
metri per la paura, facendo attraversare mezza stanza alla lattina di
Coca-Cola
ormai vuota che un tempo si trovava sul mio petto. Totalmente privo di
grazia,
rotolo (leggi: cado) giù dal divano e afferro il cordless
dal tavolino,
portandolo all’orecchio rimanendo steso, faccia a terra, sul
pavimento di
legno.
“Pronto?”
rispondo goffamente, contorcendomi per
liberare l’altro braccio dal peso del mio corpo.
“Saaalveee,
c’è il Signor Kirschtein?”, ecco qui il
trillo della voce acuta che so già essere la causa delle mie
emicranie. “Sono
Charlotte, dall’ufficio.”
“Sai,
sei fortunata che non risponda mai mia madre
quando chiami qui” rispondo, impassibile. Inizio a tirare le
fibre del tappeto
peloso bianco che si trova sotto al tavolino. “Mio padre non
ti ha ancora detto
di smetterla di chiamarlo qui?”
Penso
che la rabbia si sia placata da tempo; quello
che sento adesso principalmente è un misto di irritazione
nei confronti di mio
padre per essere un idiota tanto distratto e insensibile, e il senso di
colpa
perché non sto facendo nulla per aiutare mia madre a
scoprire che suo marito è
un gran pezzo di stronzo infedele.
“Chiamalo
al cellulare se hai così tanta voglia di
scopare” aggiungo immediatamente, e senza aspettare una
risposta ripongo
bruscamente il telefono sul suo
supporto. Rimango per qualche minuto così, steso, a fissare
le venature del
pavimento. Riesco solo a pensare a quanto devo sembrare ridicolo.
“Chi
era?” la voce di mia madre riecheggia in tutta la
casa, accompagnata dallo scalpiccio dei tacchi sul pavimento della
cucina. Con
un lamento mi sollevo sulle ginocchia e uso il bordo del divano come
leva per
rialzarmi completamente. Stiracchio le braccia sulla testa e le mie
giunture
scrocchiano.
“Ancora
quei bastardi dei doppi vetri” rispondo
subito, mentendo con facilità. Le dico sempre le stesse
cose, venditori di
finestre o di
termosifoni. E, accidenti,
non dovrebbe essere così facile mentirle guardandola negli
occhi. Non posso che
sentire il dolore pulsante dei sensi di colpa attanagliarmi lo stomaco.
“Ah,
quando impareranno” sospira mia madre, mentre io
torno in cucina, muovendo ancora le spalle per allentare la tensione
accumulata
stando steso per tanto tempo senza muovere un muscolo. Lei mi
dà le spalle
mentre mette i due bicchieri di cristallo ormai vuoti nella
lavastoviglie.
“Comunque penso che tutti lascino le finestre aperte, con
questo caldo! Perché
mai dovremmo volere i doppi vetri?”
Torno
ancora una volta ad appollaiarmi sul solito
sgabello alto, girando distrattamente sul posto. Noto che la busta
bianca è
scomparsa dal bancone.
“Il
ragazzo della piscina ha già finito?”
“Oh,
sì, non si è trattenuto molto” mi
risponde mamma,
chiudendo la lavastoviglie con un movimento del bacino. “A
quanto pare abbiamo
uno…sbilancio del livello di cloro? Credo che abbia detto
qualcosa del genere.
Comunque, ha detto che tornerà domani e sistemerà
tutto. Domani però ho la
lezione di aerobica con le ragazze, quindi dovrai tenerlo
d’occhio tu e
occuparti del pagamento quando avrà finito, okay? Non potrai
dormire fino alle
tre come tuo solito.”
Veramente
grandioso, cazzo.
“L’hai
già stufato così tanto da mollarlo a
me?”
ribatto con sarcasmo, incrociando le braccia al petto. “Qual
è il problema, non
è abbastanza giovane per te, mamma?”
Mia
madre sbuffa esasperata, mimando la mia postura a
braccia incrociate mentre si appoggia al bancone.
“Jean,
ti prego, ti ho detto di smetterla di dire cose
del genere.” Per tutta risposta mi stringo nelle spalle senza
darle troppo
peso.
Trascorro il resto della giornata nella mia stanza a scorrere qualcosa
come due
chilometri di novità sul mio portatile, pregando
affinché la temperatura si
abbassi abbastanza perché non mi senta come se mi fossi
incollato
permanentemente a questi jeans con il mio stesso sudore. (Mi rifiuto di
indossare pantaloncini corti, okay? Mi farebbero sembrare un idiota.)
Di
tanto in tanto mi cade lo sguardo sulla pila
disordinata di libri e appunti che barcolla sul bordo della scrivania,
ricordandomi costantemente dell’incombenza degli esami che
dovrò sostenere fra
un mese e mezzo.
Dio,
quanto non vedo l’ora che questi esami diventino
solo acqua passata. Sono passati mesi e ancora non capisco quasi nulla
del
corso di filosofia (ancora non so esattamente cosa mi abbia convinto a
frequentarlo, a dire il vero). Probabilmente è solo colpa
mia, per il semplice
fatto che proprio non riuscivo a decidere quale materia scegliere per
la
specializzazione. E tuttora non ci riesco, per dirla tutta. Prima
arrivano le
vacanze estive e meglio è.
Almeno potrò
sguazzare nella mia esistenza miserabile al di fuori
dell’università. Perfetto.
Rovisto
nel cassetto della scrivania in cerca del
pacchetto di Marlboro che sicuramente è sotterrato
lì da qualche parte. Per
fortuna mia madre non pulisce qui. Si incazzerebbe a morte se trovasse
delle
sigarette. (Ad ogni modo, neanche la signora delle pulizie tende a
ficcare
troppo il naso tra le mie cose.)
Non
posso fumare in camera, quindi allungo una gamba
verso la finestra e mi arrampico sul tetto, facendo leva sulle tegole
grigio
ardesia per poi accomodarmi in cima al timpano. È un posto
accettabile per
sedersi – anche se in effetti stare seduto lì per
troppo tempo è una tortura
per i miei testicoli – si può vedere quasi tutta
Trost da qui. Un mare di tetti
suburbani, tutti identici, che si estende isolato dopo isolato, ma in
lontananza vanta anche di grattacieli e blocchi di uffici del centro,
posti
dove probabilmente mio padre sta scopando con la sua segretaria bionda
su
qualche scrivania.
Il
mio Zippo ha bisogno di un paio di tentativi prima
di funzionare – ecco, probabilmente l’accendino
è una cosa che avrei bisogno di
ricomprare – ma basta poco tempo perché senta il
dolce rilascio di nicotina bruciarmi
sul fondo della gola. Inspiro ed espiro profondamente diverse volte,
lasciando
che il fumo scavi a fondo nei miei polmoni per poi uscire nuovamente.
La cenere
cade dalle mie dita e rotola giù per il tetto e poi dentro
la grondaia.
Mi
chiamo Jean Kirschtein. Ho diciannove anni. Studio
all’Università di Trost e rischio di essere
bocciato in filosofia. Al momento
non ho amici e mi piace angosciarmi mentre fumo sigarette sul tetto di
casa
mia. Mio padre si scopa la sua segretaria e mia madre probabilmente
vorrebbe
scoparsi il nuovo ragazzo che pulisce la piscina, ma nessuno dei due sa
dell’altro. Solo io so di entrambi.
Benvenuti
nella mia vita.
Note
dell’autrice:
È da un po’ che non provavo a scrivere una long,
ma questi coniglietti
ispiratori di nuove trame mi saltellavano in testa durante tutte le
vacanze di
Pasqua. Quindi eccoci qui. Non ricordo nemmeno come sia iniziata
quest’idea. Probabimente
pensando a Jean che è sempre più distratto da
come le lentiggini di Marco
sembrano tuffarsi nel fondo della sua schiena. O qualcosa del genere.
Forse
volevo solo torturare il povero Jean con il pensiero costante del suo
lentigginoso angelo semi-nudo la maggior parte del tempo.
Dovevo
per forza buttare giù qualcosa. Spero che vada
a buon fine…dovrei avere una direzione generale per il resto
della storia.
Spero che l’inizio vi sia piaciuto. Jean è un
personaggio divertente da
scrivere (o almeno provarci).
Nel
prossimo capitolo: Jean è costretto a mandare
avanti una conversazione con un’altra persona della sua
età. E forse il ragazzo
della piscina non è così male come sembrava?
Sarei
felicissima di sentire i vostri pareri.
Su
tumblr seguo la tag “fic: droplets”, non vedo
l’ora
di parlare con voi lettori!
Note
della traduttrice:
Salve a
tutti! Non immaginate quanto mi senta
onorata a tradurre la mia fanfiction preferita. Spero di poter tradurre
e
pubblicare presto gli altri capitoli. Intanto fatemi sapere cosa ne
pensate, e
se avete consigli o errori da segnalare non esitate a dirmelo!
Un saluto
bebouska
|
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Capitolo 2 *** Welcome To The Black Parade ***
Chapter 2: Welcome To The Black Parade
Per
non so quale magnifico atto di coraggio, sono riuscito a
svegliarmi prima delle tre del pomeriggio.
E
con “magnifico atto di coraggio” ovviamente mi
riferisco al
fatto che il Jack Russell dei vicini ha pensato bene di mettersi ad
abbaiare al
gatto che passeggiava sul tetto del loro giardino d’inverno
più o meno intorno
alle sei. Le sei del mattino. Nessuna persona sana di mente dovrebbe
essere
costretta a vedere le lancette segnare quell’orario.
“Le sei del mattino” non è
neanche un orario. È uno stato d’animo a
sé.
Permettetemi
di dire che il mio
stato d’animo in quel momento era abbastanza fottutamente intrattabile.
Ho sopportato almeno un anno intero
di quel latrato incessante, finché i vicini finalmente hanno
deciso di tenere
quel cane bastardo dentro casa, probabilmente per evitare di ritrovarsi
con
qualche denuncia per rumori molesti o qualcosa del genere. Ma ormai il
danno è
fatto e il sonno non sembra avermi preso troppo in simpatia. Ho dovuto
optare
per un paio d’ore di dolce far niente sotto le lenzuola.
Mi
rigiro continuamente sotto le coperte, lottando per trovare
una posizione che possa mantenere per più di cinque minuti
senza morire di
caldo. Pare che quest’afa non abbia la minima intenzione di
andarsene presto.
Mi rigiro verso il lato del letto più vicino al muro, con le
caviglie
goffamente intrappolate tra le lenzuola, e inizio a cercare una cosa,
tastando
un po’ ovunque. Conservo sempre i miei sketchbook ben
nascosti dietro al lato
del materasso – certo che è ridicolo, li nascondo
anche meglio delle sigarette.
Sfoglio
qualche pagina piena di schizzi che ormai non mi
piacciono per niente,
finché non
arrivo alla prima pagina vuota.
A
volte mi chiedo perché al me di un anno fa non è
mai venuto in
mente di scegliere arte come materia secondaria, invece di quella
fottutissima
filosofia. Almeno so disegnare quasi decentemente. Ma mi ricordo
più di una
conversazione in cui i miei elencavano tutte le materie che valgono
come “vere
materie”. Arte sicuramente non era una di queste.
Tiro
un sospiro, inspiro profondamente dal naso mentre
picchietto con la matita sul blocco da disegno, aspettando che arrivi
l’ispirazione. …La mia mente è
praticamente vuota, cazzo! Potrei disegnare
Mikasa. Ma la disegno sempre. Se qualcuno vedesse questi sketchbook
probabilmente
mi crederebbe un perfetto stalker. Mi limito a tenere in bilico la
matita sul
labbro superiore mentre mi rigiro sulla schiena e mi accingo a guardare
quell’entusiasmante spettacolo del mio soffitto.
“Jean”,
la voce squillante di mia madre si incanala su per le
scale “Jeaaaaaaaan, sto uscendo! Mi raccomando, ricordati di
pagare Marco
quando arriva!”
Lascio
che la matita mi cada sul petto mentre allungo un braccio
verso il comodino per recuperare il telefono. 11:58. Be’, ho
passato un bel po’
di tempo a rigirarmi nel letto senza far nulla.
“Sì,
mamma!” grido in risposta, sebbene abbia ancora la voce
roca. Ad ogni modo, dubito che mi abbia sentito: è
già uscita, sbattendo la
porta d’ingresso.
Ripongo
lo sketchbook ancora vuoto nella fessura tra il letto e
il muro, sistemando un po’ il lenzuolo per coprire bene il
nascondiglio, per
poi provare a saltare fuori dal letto. Ho detto
“saltare”, sì, ma ho i piedi
ancora intrappolati nelle lenzuola, per cui, non appena provo ad
abbandonare la
comodità del mio materasso, finisco per cadere
rovinosamente, faccia a terra,
sul pavimento duro e legnoso.
“’Fanculo”,
mi lamento ad alta voce. Pare che accada più spesso
di quanto mi piaccia ammettere.
Resto
lì sul pavimento per un po’, contemplando lo
squallore
generale che contraddistingue la mia esistenza. Penso anche un
po’ al dolore
sordo che sto sentendo al polso…temo di esserci
maldestramente caduto sopra.
Alla
fine barcollo giù per le scale fino ad arrivare in cucina,
trascinando
i piedi sulle mattonelle color bianco sporco, con aria imbronciata. Sul
bancone
c’è una caffettiera ancora mezza piena, quindi mi
riempio una tazza. Il caffè è
tiepido e mi fa storcere il naso per il disgusto. Ma lo bevo comunque.
Di certo
non mi prenderò la briga di prepararne dell’altro.
Prendo
posto sullo stesso sgabello di ieri e non posso fare a meno di
pensare a quanto questa giornata non sembri per nulla promettente.
Mi
ci vogliono circa dieci minuti a fissare l’abisso di caffeina
nella mia
tazza prima di rendermi conto che il cancello posteriore si sta aprendo
e il
ragazzo della piscina, abbronzato e lentigginoso, è intento
a trascinare due
secchi dall’aria particolarmente pesante e un lungo tubo
flessibile nel prato
del cortile.
Sta
lì in piedi per un po’ di tempo, con le mani sui
fianchi e lo sguardo
concentrato sulla piscina – non mi sembra niente di
interessante, cazzo, è
semplicemente acqua! Correggetemi
se
sbaglio. Una brezza leggera gli scompiglia i capelli e il colletto di
quell’oscena polo bluette, e poi eccolo lì che si
incammina di gran carriera
verso il capannone. Da come continua a passarsi le mani fra i capelli,
mi pare
proprio che abbia completamente dimenticato la combinazione per aprire
la
serratura.
Lo
guardo con aria compiaciuta e mi sporgo per bussare forte sul vetro
della finestra. Fa un salto di un miglio per la paura, strappandomi un
verso
divertito.
Cinque-tre-cinque-uno,
gli faccio segno con le dita; al che Marco alza entrambi i pollici in
segno di approvazione e mi rivolge un sorriso smagliante. Che idiota.
Dopo
un po’ di tentativi riesce finalmente a rimuovere il
lucchetto, per
poi girarsi nuovamente verso di me e muovere le labbra in un
“grazie”
silenzioso. Lo guardo basito e salto giù dallo sgabello con
ancora in mano la
tazza di caffè, ormai troppo freddo per essere considerato
accettabile. Finisce
immediatamente giù per lo scarico del lavandino.
Afferro
uno strofinaccio e lo uso per aprire il rubinetto dell’acqua
calda
finché il getto irruento non aggredisce il lavabo. Prendo il
manico della tazza
fra pollice e indice e la mantengo sotto il flusso caldo, tenendo le
mani il
più distante possibile dall’acqua corrente.
Sciacquo il recipiente un paio di
volte, aiutandomi con una quantità generosa di detergente
liquido, per poi
mollarlo sullo sgocciolatoio con un rumore metallico. Chiudo il
rubinetto
storcendo il naso e mi asciugo le mani sui jeans energicamente.
Marco
sta ammirando una specie di strisciolina di carta, tenendola alta in
aria mentre si scherma gli occhi dal sole. Dev’essere una
sorta di
cromatografia, immagino. Ho studiato qualcosa di simile in chimica lo
scorso
trimestre.
Lo
guardo mentre fa su e giù tra il capannone e il tubo almeno
mezza
dozzina di volte, di corsa, prima di accorgermi di essermi imbambolato.
Quel
cane maledetto. Ho bisogno di dormire. Stringo la radice del naso fra
le dita,
tenendo gli occhi chiusi per un (lungo) secondo.
Quando
li riapro sono piuttosto sorpreso di trovare Marco a fissarmi
dall’altra parte della finestra, con il pugno sospeso davanti
al vetro. Mi
rivolge un sorriso mortificato e probabilmente anche leggermente
preoccupato –
per tutta risposta, provo a placare lo sguardo torvo che quasi
sicuramente ho
stampato in volto. Mamma dice che sembro perennemente arrabbiato.
Diamine, non
è colpa mia se ogni cosa mi infastidisce. (Giusto per la
cronaca, sto
scherzando.)
Alzo
le sopracciglia, in attesa, mentre lui lascia cadere il braccio, per
poi riportarlo dietro la nuca, strofinandosi il collo con aria
imbarazzata.
“Scusami”
sento la sua voce attraversare il vetro. “Per
caso…avete un
secchio o qualcosa del genere per mischiare delle sostanze chimiche?
Pensavo di
averlo portato, e invece…” I suoi occhi scuri
luccicano nel pieno della luce
solare quando incrocia il mio sguardo, con l’espressione
ancora ansiosa.
“Uh,
sì” farfuglio in risposta, prima di realizzare che
probabilmente non
riesce a sentirmi se parlo così piano. Indico la porta senza
dire nient’altro,
in un maldestro tentativo di spiegare che, sì,
la sto aprendo così magari riesco a risponderti.
“Scusa” inizio a parlare mentre muovo un primo
passo nel cortile. Un errore
madornale. Il cemento è caldo,
cazzo.
Riesco praticamente a sentire la puzza di bruciato provenire dai miei
piedi
nudi. “Oh, merda! È bollente!” saltello
in giro come un completo idiota, raggiungendo
con un ultimo salto l’erba, decisamente molto
più fresca.
“T-tutto
bene?” mi chiede Marco in una risata sempre più
imbarazzata,
guardandomi con le sopracciglia sollevate mentre continuo a borbottare
una
serie di imprecazioni sottovoce.
“Cazzo,
quanto odio questo caldo” mi lamento io, ispezionandomi
attentamente le piante dei piedi in cerca di eventuali danni. Sembrano
a posto.
Per ora.
“È
perfetto per nuotare, almeno” ridacchia, mentre attraverso il
prato per
raggiungere il capannone. Tutta quella roba che nessuno si prende mai
la briga
di gettare di solito finisce lì dentro.
“Sì,
immagino di sì” mormoro guardandomi dietro le
spalle, nascondendo le
mani nelle tasche dei jeans. Nuotare. O magari una bella maratona
completa di
Titanfall, accompagnata da quella fantastica invenzione che
è l’aria
condizionata. Questo sì
che è un
passatempo nelle mie corde.
Nel
capannone non c’è neanche un secchio, quindi sono
costretto a offrirgli
un vecchio annaffiatoio, sperando che vada bene comunque.
“Tieni”
dico bruscamente, distendendo il braccio con un’aria rigida.
A
quanto pare non sono solo le piscine e i miei piedi bruciati a farlo
sorridere.
Penso proprio che essere così felici per un cazzo di
innaffiatoio sia piuttosto
esagerato. “Mi dispiace, niente secchi.”
“No,
tranquillo, andrà benissimo!” risponde Marco con
aria contenta, vedo
qualche ruga comparirgli intorno agli occhi quando li strizza per
assicurarsi
che non ci siano buchi evidenti nel contenitore. “Grazie,
Jean.”
Alzo
le spalle
con sufficienza ed esco dal capannone a capo chino.
Nelle
ore successive mi ritrovo a girovagare per casa come al solito; gioco
un po’ a Titanfall, ma è pieno di cretini che
fanno gioco di squadra; dopo
circa mezz’ora già non riesco più a
sopportare il fatto di non essere il
giocatore migliore. Che andassero
tutti a fanculo.
Stupidi dodicenni senza una vita sociale.
Neanche tu hai una vita sociale, Jean,
aggiungo mentalmente. Aggrotto le sopracciglia, contrariato.
Non appena spengo la tv sento la voce stonata di qualcuno le cui
orecchie indubbiamente non sono
connesse al
cervello. Sono abbastanza sicuro che la canzone sia Welcome
To The Black Parade, ma non ci scommetterei, se capite cosa
intendo…
Ovviamente
è Marco a cantare. (Probabilmente sarebbe giusto un
po’ strano
se fosse qualche sconosciuto a caso che pensava che il mio cortile
fosse il
posto migliore per lanciarsi in una pessima interpretazione dei My
Chemical
Romance.)
Nel
corso per pulire piscine non davano lezioni di canto, questo
è poco ma
sicuro.
Mi
alzo per andare a chiudere la finestra, ma mi fermo appena vedo Marco
che imbraccia il retino come una chitarra in una maniera assolutamente
ridicola. Wow. Stavo quasi per urlargli qualcosa –
dovrò pur diligentemente
informarlo del fatto che sembra un completo idiota, no? – ma
riesco a tenere la
bocca chiusa; probabilmente sembrerei inquietante se si accorgesse che
sto spiando
il suo grande concerto da qui.
Gli
cade il retino in un assolo particolarmente energico, schizzandogli
tutti i pantaloncini color cachi. Riesco a stento a soffocare una
risata. Questo
ragazzo è veramente incredibile…
Inginocchiandosi
a bordo piscina prova a raggiungere il retino che
galleggia a un braccio di distanza – allunga le dita
più che può e sì, spero
quasi che cada in acqua, giusto per aggiungere la ciliegina sulla
torta. Ma non
cade. Recupera il retino e sistema le cuffie attorno al collo. Immagino
che si
sia divertito abbastanza, per oggi.
Sento
il mio stomaco brontolare, così mi allontano dalla finestra,
nel
tentativo di scivolare in cucina senza intoppi (tentativo decisamente
fallimentare, dato che i piedi si appiccicano alle mattonelle). Il
frigo vanta
un bel niente che possa placare il
mio stomaco affamato; prego in silenzio affinché mamma passi
dal supermercato
dopo la lezione di aerobica (io sicuramente
non mi prenderò la briga di prendere l’auto e
andare a fare la spesa).
Intanto
Marco sta raccogliendo le sue cose dal cortile – risciacqua
l’innaffiatoio nella piscina prima di riportarlo nel
capannone e riavvolge quel
lungo tubo di gomma bianca che aveva portato con sé (con
scarso successo, a
giudicare da come cerchi di sfuggire dalla sua presa più di
una volta).
Controllo il cassetto del bancone della cucina e, come mi aspettavo,
ecco la
busta bianca, con la grafia pazzesca di mia madre: Servizi
di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost
(Marco).
Almeno
non ci sono faccine con l’occhiolino.
Be’…per ora.
“Ehi, ho quasi finito qui” mi informa Marco appena
mi vede uscire dalla cucina
(saltellando rapidamente nel cortile). Ovviamente si può
tradurre in: ehi, puoi
darmi i soldi adesso, ma a quanto pare questo tipo non
solo è incredibilmente
allegro, ha anche l’educazione di un santo.
“Ecco
qui” dico semplicemente, porgendogli la busta bianca.
“Mia madre l’ha lasciata per te. Spero ci sia
tutto.” Prende la busta con un
sorriso colmo di gratitudine.
“Grazie”
mi risponde mantenendo il sorriso. Ripone la busta
in tasca senza nemmeno controllarne il contenuto, ma dà due
colpetti secchi
sulle tasche come per accertarsi della sua presenza.
“Tornerò mercoledì per
continuare il lavoro. Tua madre – uh, Céline
– ha detto che il mercoledì va
bene per voi, giusto? Mercoledì e sabato.”
Faccio
spallucce, come a voler dire
sì, penso di sì. Non ho
lezioni il mercoledì, quindi sono a casa e spesso
c’è anche mamma. E a papà
piace lavorare fino a tardi.
Marco
raccoglie tutto l’equipaggiamento tra le braccia e si
dirige verso il cancello. Mi volto per rientrare in casa, ma ho un
momento di
esitazione. Giro solo la testa, chiamandolo da sopra la spalla
“Ehi…”
Marco
si gira a guardarmi, sembra un giocoliere mentre lotta
con il tubo flessibile e cerca di non lasciarsi sfuggire il catenaccio.
Ha
strabuzzato gli occhi, come se fosse sorpreso dal fatto che proprio io
abbia
deciso di parlargli.
“…magari
la prossima volta lascia perdere i My Chemical
Romance, okay?”
Quando
le sue sopracciglia quasi raggiungono l’attaccatura
dei capelli la mia bocca si distende in un sorriso soddisfatto, mentre
le sue
guance diventano di un rosso che ricorda quello di un pomodoro.
“V-va
bene…!”
Rientro
in casa; adesso sì che posso dirmi abbastanza
soddisfatto di me stesso, cazzo!
Il
vero miracolo della
giornata
avviene quando mio padre si trova effettivamente a casa per
l’ora di cena. È
domenica, ma trova sempre una scusa per lavorare. Neanche ricordo
l’ultima
volta in cui abbia passato un’intera giornata a casa.
Si
toglie la giacca elegante nel minuto esatto in cui oltrepassa la porta,
lasciandola
sull’estremità della ringhiera della scala; la sua
pancia adesso è ben visibile
sopra la cintura – e poi dice a me che
sembro un fottutissimo sciattone.
La
mia maglietta dei Ramones non
è neanche tanto trasandata, alla fine. Certo,
avrà avuto giorni migliori. Ma
sono i Ramones, dai! Non devo mica
indossare giacca e cravatta a casa mia.
Sempre meglio di mamma, comunque. Lei probabilmente preferirebbe
vedermi
indosso dei gilet o qualcosa di altrettanto stupido. Ho già
una vasta gamma di
polo Ralph Lauren mai indossate a
occuparmi l’armadio, potrei indossarle per tutta la vita
senza bisogno di
lavare nulla per quante sono, l’ultima cosa di cui ho bisogno
sono i gilet Ralph
Lauren.
Comunque,
decido di indossare una giacca sportiva per accontentare mio
padre.
A
quanto pare questo non gli impedisce di farmi il terzo grado per tutta
la
sera. Sono piuttosto contento che il nostro tavolo da pranzo sia
così lungo,
così stiamo seduti abbastanza distanti perché io
non senta bisogno impellente
di affondare nella sedia. Solo un “leggero”
bisogno. Ugh.
Ovviamente
vuole sapere come va con filosofia. Non gli potrebbe interessare
un bel niente del fatto che, ehi, magari ho preso una bella A in
chimica!,
nonostante abbia un professore di merda. Mento spudoratamente: gli dico che sto ripetendo
alla grande e che tutte
quelle cazzate di Bertrand Russell mi vanno proprio a genio. (Odio
Bertrand
Russell con tutto me stesso, lasciatemelo dire.)
Così
il suo atteggiamento cambia nel giro di un istante. Inizia
immediatamente a informarmi delle copie di Battlefield
4 e Dead Rising 3 che
è riuscito
a ottenere da un tizio in ufficio – il che è
grandioso, visto che so già che mi
regala tutti questi giochi solo per compensare il fatto che stia
tornando alle
dieci passate ogni sera nelle ultime settimane, e non potrebbe
fregarmene meno
di così (perché ehi, preferisco di gran lunga
giocare alla Xbox piuttosto che
essere costretto a sopportare altre emozionanti conversazioni sulla mia
vita
universitaria con quest’uomo) – ma mamma si
acciglia subito.
Inizia
a blaterare qualcosa su quanto i videogiochi incoraggino la
violenza, comportamenti anti-sociali e sul fatto che forse
non sono uscito di casa neanche mezza volta se non per andare
e tornare dal college, ma mio padre la interrompe.
“Ma
dai, Céline – Jean ha diciannove anni. Lascia che
si diverta con i
videogiochi, se gli va.”
Ecco,
questo la dice veramente lunga su mio padre e la sua doppia faccia. A
volte ho come l’impressione che tutto il suo interesse per il
mio impegno
scolastico in fin dei conti sia solo di facciata. Non gli importa
realmente dei
miei voti. Ha già deciso che andrò a lavorare per
lui una volta finita
l’università.
Non
mi pare di essere mai stato coinvolto in questa
decisione.
Il
lunedì mattina sembra un trapano elettrico puntato in testa.
Il letto è
fin troppo comodo e sono disposto persino a soprassedere al caldo pur
di avere
altri cinque minuti. Per favore,
Dio,
Gesù, Buddha, chiunque.
Purtroppo,
anche pregare per circa cinquanta divinità diverse non aiuta
a
evitare la lezione di matematica delle 9.
In
matematica generalmente non ho grossi problemi. Voglio dire che o vai
bene o sbagli completamente, non c’è
quell’incomprensibile via di mezzo. Però
è
anche una delle lezioni che segue anche Connie.
Anche
Armin segue il corso di matematica, ma non è nulla di
sorprendente,
dato che è un tipo sveglio. Molto sveglio. È
anche una persona decente in fin
dei conti, perché ogni tanto si degna di rivolgermi la
parola, nonostante una
volta abbia gonfiato di botte il suo migliore amico. (Come ho
già detto
precedentemente: non è colpa mia, cazzo. Eren Jaeger ha
avuto solo quel che
meritava.)
In
effetti, oggi è una giornata particolarmente interessante
dal punto di
vista delle interazioni sociali (o almeno, per i miei standard lo
è).
“Stai
capendo meglio, adesso?” mi chiede Armin quando mi vede
posare
finalmente la matita, soddisfatto per essere riuscito a concludere
qualcosa con
queste cazzate sulla Serie di Taylor. “Penso sia
più facile farlo così rispetto
al metodo che ci ha insegnato il professor Pixis…”
Annuisco
fermamente, ripercorrendo ogni passaggio dei miei calcoli,
relativamente sicuro di averci capito qualcosa, stavolta.
“Già,
grazie, Armin, penso proprio di aver capito, adesso. Il tuo metodo
è
moooolto meglio.”
“Mi
fa piacere” mi risponde con un lieve sorriso
dall’aria soddisfatta.
“Sembri quasi sempre sul punto di strapparti i capelli in
questi giorni, Jean.
Sono contento di poterti aiutare un po’.”
“Tsk…sì”,
sbuffo, passandomi una mano tra i capelli. “La ripetizione
per
gli esami in questo periodo mi sta facendo impazzire.”
È una bugia innocente.
Passo la maggior parte del tempo a guardare la mole crescente di
appunti e
lezioni da ripetere e a deprimermi perché non ho un briciolo
di motivazione per
mettermi effettivamente a studiare. Non che Armin debba saperlo
– probabilmente
i compiti non gli sono mai sembrati una scocciatura in tutta la vita.
“Come
se avessi bisogno di passare questi esami” Connie mi rivolge
un mezzo
sorriso, una volta girato nella nostra direzione per unirsi alla
conversazione.
Non so esattamente quanta sorpresa si evinca dalla mia espressione, ma
Connie
sembra non notare nulla. “Sei fortunato ad avere la tua
famiglia. Hai già un
lavoro assicurato dopo tutto questo. Non sai quanto diavolo ti
invidio!”
Pixis
ci strilla contro, dicendo che o parliamo di matematica, o possiamo
portare il culo fuori dalla sua aula. Perciò ci azzittiamo
subito.
Ma
vi dirò la verità, sono piuttosto sorpreso,
cazzo. Non riesco neanche a
ricordare l’ultima volta che Connie mi rivolse la parola. Mi
mordo un labbro
per nascondere un sorrisetto compiaciuto.
Nel
pomeriggio, arrampicandomi sul tetto con una sigaretta di
autocommiserazione ben salda tra i denti, mi ripeto nella mente le
parole di
Connie, e le ripeto ancora e ancora. Provo a ricordare il suono della
sua voce,
ma più ripeto le sue parole e più mi sembra di
sentirlo distante.
Con
grande imbarazzo (anche se sono completamente e inequivocabilmente
solo), mi ritrovo a tossire via il fumo che mi blocca la gola. Continuo
a
tossicchiare, sono costretto a colpirmi il petto più volte
per evitare di
sputare via i polmoni.
Arriva
a ondate – tutto il fastidio di questa situazione, intendo.
Di
solito mi immergo abbastanza a fondo in tutti quei nuovi videogiochi
per l’Xbox
e non devo pensare a Connie, a Sasha o a Eren Jaeger.
Mi
chiedo cosa succederebbe se…morissi, così,
semplicemente? Proprio
adesso, qui su questo tetto. A quante persone importerebbe? Quante
invece farebbero finta di
importarsene
qualcosa?
Fanculo.
L’ultima
volta che sono stato
così male fu la
mattina dopo l’ultima
partita dei Titans – Connie ha sempre supportato la squadra
dei Trost Titans,
da che ne ho memoria, e quando i suoi riuscirono a regalargli un pass
per
un’intera stagione, all’inizio del secondo anno
delle superiori, diventò una
specie di tradizione, una cosa tra me e lui. Non ci perdevamo una
singola
partita (non che il football mi interessi più di tanto, ma
diciamo che
crescendo ho dovuto imparare ad apprezzarlo, ecco). Ebbene, dopo tutto
quel
fiasco con Eren Jaeger, avevo dato per scontato che questa tradizione
non fosse
più la nostra tradizione.
Ma la
partita dei Titan della scorsa settimana ha rigirato ancora di
più il coltello
nella piaga; Connie è andato a vedere la partita con Mikasa
ed Eren (e con
Sasha, ovviamente) e proprio non
riuscivano a parlare d’altro.
Faccio
un tiro, cautamente,
una volta placato il soffocamento generale. Il fumo mi raschia il fondo
della
gola.
Non
so neanche perché mi abbia
dato tanto fastidio – dopo più o meno un anno mi
ero abituato alla loro assenza
nella mia vita, ma questo fatto della partita mi è rimasto
impresso. Mi ricordo
di aver lasciato il pranzo a metà quel giorno,
l’appetito era improvvisamente
scomparso sentendo Eren che raccontava agli altri, entusiasta, dei
posti
fantastici che erano riusciti a rimediare.
Chissà
se Connie ha notato il
modo in cui sono uscito dalla caffetteria, a disagio, forse ha fatto
due più
due. E ha deciso di parlarmi oggi perché non mi sentissi
completamente,
totalmente di merda. Sì, probabilmente è per
questo che mi ha parlato. Figurati
se hanno superato quello che è successo con Eren.
Rido
a quel pensiero assurdo –
una risata vuota. Chi voglio prendere in giro? Nemmeno io ho superato
quello
che è successo con Eren. Ma a quanto pare ascoltare la mia
versione dei fatti è
fuori discussione.
Jean,
aggiungo
mentalmente. La tua versione dei fatti non si
è mai spinta oltre alla frase: sei
solo un coglione, Jaeger! Hai fatto una cazzata.
Spero
che la decisione di
Connie di parlarmi non sia stata solo una tantum, ma martedì
e mercoledì passano
senza che accada di nuovo. Avrei potuto sicuramente scavargli dei
solchi nella
nuca con l’intensità dei miei sguardi, ma
ovviamente non se n’è neanche
accorto. Oh be’. Estinguo ogni minimo, stupido briciolo di
speranza con cui mi
stavo aggrappando all’idea che le cose potessero tornare
com’erano un tempo. Diamine.
Quando
mi sveglio mercoledì
riaffiorano i ricordi del viaggio in auto che io, Connie e Sasha
abbiamo fatto
due estati fa. Sono decisamente contento di non avere lezioni oggi. Mi
siedo
con la testa fra le mani, ascoltando il tic-tic-tic
del mio orologio sulla mensola – finché non inizia
a diventare irritante,
cazzo, e faccio volare via quel coso con un colpo della mano. Atterra a
faccia
in giù sul pavimento. Spero proprio di non averlo rotto.
Indosso
un paio di jeans tra
quelli sparsi sul pavimento – e persino io riesco ad
ammettere che la mia
maglietta dei Ramones puzza un
po’ di
stantio, quindi prendo un’altra t-shirt
dall’armadio, alla cieca. Non mi
accorgo, fino a quando non vedo la scritta distesa sul petto, che
è una delle
magliette dell’Università di Trost, di quelle che
hanno certamente visto giorni
migliori. Mamma dovrà farsene una ragione.
Mi stropiccio gli occhi
– per la stanchezza,
ma anche per rendere un po’ più chiare tutte le
immagini che mi scorrono in
testa. E perché mi fa sentire incredibilmente bene. Non vi
capita mai di non
riuscire a smettere di strofinarvi gli occhi? Questa è
masturbazione oculare,
cazzo. Un attimo, probabilmente è una cosa inquietante da
dire…
Raggiungo
il piano di sotto
con passi incerti e mi faccio una tazza di caffè nero, forte, quasi roboticamente; intontito
come sono, ci metto qualche
secondo per realizzare che riesco a sentire distintamente la voce di
mamma,
anche se non riesco effettivamente a vederla. Oh dio, sta facendo la risata.
Mi
avvicino furtivamente alla
porta che dà sul cortile, tenendomi stretta la tazza di
caffè per il bene della
mia sanità mentale. Mia madre mi lancia un rapido sguardo,
adocchiando con
scetticismo il mio aspetto malconcio, e mi osserva mentre scivolo lungo
il muro
della cucina, attaccato alla finestra, nell’ombra proiettata
dalla casa,
evitando come la peste i punti del cortile illuminati dal sole. Sembra
proprio
un puma, stesa su una di quelle sedie reclinabili; i jeans sembrano
praticamente
dipinti sulla sua pelle, mentre la camicetta è fin troppo
scollata perché possa
sperare di guardarla senza farmi sentire il bisogno di lavarmi gli
occhi con la
candeggina per il resto della mia vita. Agguanta un bicchiere di
limonata fra
le unghie appena smaltate di color argento, mescolando delicatamente i
cubetti
di ghiaccio con un ombrellino da cocktail rosa. I suoi occhi sono
puntati su
Marco, immerso fino alle ginocchia nella parte meno profonda della
piscina,
intento a raschiare il fondo con il retino.
Povero,
povero Marco.
“Mamma”, le dico, impassibile.
“Cosa. Stai. Facendo.”
È
una domanda stupida, in
realtà. Vedo perfettamente cosa sta facendo. Sta cercando di
predare il ragazzo
della piscina.
Allontana
immediatamente lo sguardo da Marco per fissarmi
con aria severa, smettendo di mescolare la limonata.
“Marco
mi stava solo raccontando un po’ degli altri
clienti”, dice, con un tono di voce leggermente
più alto di quanto mi
aspettassi, strappandomi una smorfia e facendomi rizzare i capelli sul
collo.
“Dice che fra quelle che pulisce lui, la nostra è
la piscina più bella. E
anche la casa.”
Poi, sottovoce, aggiunge: “E lui non ha le
braccia più belle che abbia mai visto?”
Oh
cielo. Bevo un lungo sorso del mio caffè; mi brucia
la gola, ma mi sforzo di mandarlo giù. Ne ho bisogno.
Mia
madre si raddrizza improvvisamente sulla sdraio, posando
il bicchiere sul tavolino affianco a un altro bicchiere, pieno di
limonata.
“Marcoooo”,
canticchia lei (e io rabbrividisco),
facendo alzare lo sguardo dell’inserviente nella nostra
direzione, le
sopracciglia si sollevano per la sorpresa. “Starai morendo di
caldo lì, sotto
al sole! Vieni a bere qualcosa!”
Marco
– come ho notato l’altro giorno –
è
incredibilmente educato. Ci raggiunge con una breve corsetta senza
pensarci un
attimo, con un sorriso ampio e smagliante a occupargli il volto coperto
di
lentiggini. Man mano che si avvicina, noto che le lentiggini
più vicine agli
occhi sembrano scomparire nelle rughe d’espressione. Mi
chiedo: è solo
eccezionalmente ingenuo, o accetta di essere abbordato dalla mia
disperatissima
madre ultraquarantenne? (Mi vengono i brividi al pensiero.)
I
suoi occhi incrociano i miei per un breve momento
mentre ci raggiunge, ma sfrecciano su qualche altro soggetto con la
stessa
rapidità. Nascondo una risatina con un altro sorso di
caffè. Potrei scommettere
su cosa sta ricordando.
“Ecco
qui, caro”, trilla mia madre, passandogli
cautamente il bicchiere ancora pieno, che lui prende con entrambe le
mani
abbronzate, con aria colma di gratitudine. “Su, bevi! Sembra
che tu stia
facendo un gran lavoraccio
laggiù.”
Beve
un sorso veloce prima di adagiare nuovamente la
limonata sul tavolo.
“Niente
a cui non sia abituato, signora Kirschtein”,
cinguetta lui – cinguetta, cazzo.
“Sono nato a Jinae, laggiù le estati sono ancora
più calde.”
“Oh,
che bello”, mormora mia madre, posando
timidamente il mento nel palmo. “È una bellissima
città, vero? Ci siamo stati
un paio di volte in vacanza, no, Jean? Oh, tu però non la
sopportavi! Non
smettevi di lamentarti del caldo, non so se ricordi!” Ride
come un’oca; anche
Marco inizia a ridere, ma dalla sua risata traspare un chiaro imbarazzo.
“Non
ami particolarmente il caldo, eh, Jean?” aggiunge
Marco, girandosi verso di me con una mano sul fianco. Alzo gli occhi al
cielo,
esasperato, e borbotto: “già, pensavo
l’avessimo già constatato l’altro
giorno.” Non so dire se mi abbia
sentito, perché il telefono inizia a squillare in cucina.
“Scusami
un attimo, Marco” è mia madre a parlare,
mentre si alza in piedi barcollando. Digrigno i denti, ben oltre la
semplice
esasperazione. Penso che sarebbe grandioso sprofondare semplicemente
nel
terreno in questo preciso istante.
Traballa
fino in cucina e presto la sento rispondere
al telefono. Marco si gratta la nuca con aria imbarazzata mentre io
continuo a
guardare fisso nel punto in cui spero che il pavimento si apra per
ingoiarmi per
sempre.
“Tua
madre…è proprio particolare” pronuncia
le parole
con una leggera esitazione. Faccio un verso nasale, divertito, per poi
bere il
resto del caffè. “È sempre
così…gentile?”
Oh
mio dio, ma è un
idiota.
Mi
stringo la radice del naso e non riesco a fare a
meno di ridere sottovoce fra me e me. Con questo ha superato il limite
dell’“eccezionalmente ingenuo” da un
miglio, cazzo.
“Ci
sta provando
con te.”
Mi
guarda per un po’ di tempo a bocca aperta, interdetto.
“O-oh.
Oh. Oh
dio.”
La
sua trasformazione da
proprio-non-capisco-che-intendi fino all’orribile
consapevolezza è un cazzo di
spettacolo incredibile. Continua a passarsi una mano fra i capelli
corti sulla
nuca, prima di guardarmi con aria seriamente preoccupata.
“M-ma
sei sicuro? Pensavo che stesse solo--” si
blocca, sicuramente registrando la mia espressione come una risposta al
suo
divertentissimo panico. “Oh, ma come ho fatto a non
accorgermene…”
Alzo
le spalle, ma non riesco a togliermi quel sorriso
dalla faccia. Questo ragazzo. Questo
ragazzo. È in completo stato di panico, dovreste
vederlo per credermi. Wow.
“L’estate
scorsa non è riuscita a farsi il ragazzo
della piscina prima che mio padre minacciasse di tagliargli le
palle” ridacchio
io, davanti allo sguardo terrificato di Marco. “Probabilmente
dovresti iniziare
a pensare di…evitare di incoraggiarla, ecco.
Tipo…”
Mi
fermo a guardare la faccia di Marco, mentre lui
pende dalle mie labbra, sperando che io sia tanto gentile da offrirgli
delle
perle di saggezza che lo aiutino a evitare le molestie sessuali di mia
madre.
“Tipo…tutta
quella roba dei sorrisi. Magari evita un
po’ di tutta quest’allegria.” Non so
perché scelgo proprio questa fra tante
cose da dire, ma è la prima cosa che mi viene in mente.
Marco sembra arrossire,
le lentiggini sulle guance scompaiono lentamente.
“…E non accettare la limonata
in futuro, okay?”
Annuisce
con decisione, strofinandosi un braccio
timidamente. Apro la bocca per dire qualcos’altro, ma sono
interrotto dalle
urla di mia madre: “Jeeeeean, c’è la
nonna al telefono! Vieni a parlare con
lei!”
Alzo
gli occhi al cielo con aria terribilmente
drammatica e Marco mi rivolge un sorriso sia comprensivo che
riconoscente. Mi
giro verso la porta della cucina, ma gli sorrido guardandolo da sopra
la
spalla: “Buona fortuna. Ne avrai bisogno.”
Parlo
al telefono con mia
nonna per quasi un’ora intera. Be’, quello che
intendo dire è: mia nonna parla con
me per un’ora, e io le offro qualche
vago “sì” e “no”
ogni tanto.
È
la solita roba da nonna: a
scuola tutto bene? Stai studiando molto? Come va con gli amici, tutto a
posto?
L’hai trovata la ragazza?”
“No, nonna” sospiro,
tamburellando le dita sul bancone da cucina
dove sono appoggiato, guardando il linguaggio del corpo di Marco che
rivela
sempre più imbarazzo mentre mia madre continua a flirtare
con lui, nel cortile.
È così agitato che sembra si sia bruciato al sole.
Ce la
sta mettendo tutta per assicurarsi di pulire ogni
singolo frammento di sporcizia da quella piscina.
Finisce
più o meno nello
stesso momento in cui mia nonna molla la sua presa verbale su di me, e
posso
riattaccare il telefono. Mia madre sembra balzare su di lui appena lo
vede
posare il retino, sventolando per aria la sottile bustina bianca mentre
gli
parla animatamente. Guardo la scena pietosa dalla sicurezza
dell’altra parte
della finestra, in cucina, sogghignando con cattiveria.
In
qualche modo, per la grazia
di non so quale Dio misericordioso, Marco riesce a raggiungere
lentamente il
cancello sul retro, stringendosi tutto l’equipaggiamento al
petto come se fosse
una barriera protettiva. Decido di fare il bravo ragazzo e di salvarlo
da
quest’orrore senza fine.
“Ehi,
maaaaaammaaaaaa” grido,
per farla voltare, “Puoi aiutarmi un attimo con una
cosa?”
La
guardo mentre
saluta Marco, e inizia a barcollare
nuovamente nel prato verso di me. Il viso arrossito di Marco si
trasforma
rapidamente in un sorriso riconoscente quando allunga una mano in una
breve
forma di saluto nella mia direzione. Per tutta risposta gli rivolgo un
mezzo
sorriso compiaciuto. Idiota.
Porto
una sigaretta sul tetto come al solito, non
appena il cielo inizia a diventare veramente scuro. Non fa male come
l’ultima
volta, anzi, apprezzo il sapore della nicotina e del fumo, provando
– e
fallendo miseramente – a soffiare qualche anello di fumo.
Gandalf lo fa
sembrare così facile.
La
mia mente torna a lunedì appena aspiro l’aria
più
fresca. Penso a Connie e agli altri. A quella che probabilmente
è e sarà
l’unica conversazione “amichevole solo per fingere
di essere amici” al corso di
matematica.
E
poi, per qualche motivo, questo mi fa pensare a
Marco.
Faccio
un tiro profondo dalla sigaretta. Amichevole
solo per fingere amicizia. Spero che non sia questo il caso. Sembra un
tipo
piuttosto divertente.
Mi
accorgo di essere leggermente impaziente per la
prossima visita di Marco, in fondo.
Note
dell’autrice:
Stavolta
il capitolo è leggermente più lungo! È
ancora
molto introduttivo, dato che sto ancora impostando la scena e i temi
principali
che ho intenzione di approfondire più avanti.
Quello che è successo effettivamente fra Jean ed Eren (che
ha fatto sì che gli
altri iniziassero a ignorarlo) sarà spiegato più
avanti nella storia… ma è
abbastanza importante. È solo che ancora non voglio
rivelarlo.
Ho
scelto I MCR per Marco principalmente perché ormai secondo
tutto il fandom in
generale li adora. Per come immagino Jean, i suoi gusti musicali si
concentrano
sul rock classico anni 70/80 – ecco perché i
Ramones. Penso che abbia una vasta
collezione di dischi.
È
stato un capitolo divertente da scrivere! Spero che
lo sia anche da leggere.
Continuerò a lavorare sodo e sfornare nuovi capitoli!
C’è ancora tanto
divertimento e situazioni imbarazzanti da svelare (incluso Erwin in
slip da
bagno ???), quindi continuate a seguire.
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Capitolo 3 *** Give Me Convenience or Give Me Death ***
Chapter 3: Give Me Convenience or Give
Me Death
Quando
andavo alle medie, quasi tutti i miei
amici mi invidiavano per la mia casa. Ricordo che Connie tornava quasi
ogni
giorno qui dopo la scuola semplicemente per sedersi sul nostro divano
(che, a
detta sua, era praticamente grande quanto tutto il suo soggiorno), e
non tanto
per passare effettivamente del tempo con me. Quando veniva anche Sasha
era
sempre difficile trascinarla via dal freezer (Connie spesso scherzava
dicendo
che avremmo dovuto chiuderla direttamente lì dentro
perché ehi, probabilmente
era abbastanza grande per accoglierla e regalarle anche
un’esistenza piuttosto
agiata!) – poi Sasha provava a picchiare Connie con la prima
cosa che riuscisse
a trovare in giro: di solito con un cuscino, o la sua felpa, ma quella
volta in
cui usò il telecomando dell’Xbox la
ricorderò per sempre.
Non riesco neanche a ricordare l’ultima volta che ci siano
stati amici a casa –
a volte mi chiedo perché non abbia fatto il possibile per
renderla un’occasione
memorabile, in qualche modo. D’altro canto, però,
probabilmente non c’era
proprio nulla da ricordare; sarà stato un incontro per
qualche motivo banale –
forse Connie aveva dimenticato il telefono fra i cuscini del divano come sempre, o magari Sasha voleva che
le prestassi dei libri perché il suo cane aveva deciso che i
suoi Iams non fossero un mezzo di
sostentamento sufficiente. Ed è proprio la
banalità a fare così male.
Non
potrei mai essere invidioso di questa
casa. Più cresco e più mi sembra grande. O forse
mi dà solo fastidio il fatto
di dovermi alzare dal divano per prendere quel cazzo di telecomando da
sopra la
TV. Già. Dieci passi sono decisamente troppi.
Mi
sono quasi pentito di non aver cercato
alloggio nei dormitori dell’università quando ho
iniziato il college, l’anno
scorso – ho detto “quasi”,
perché nonostante sia pigro, per quanto sia restio a
muovere il culo per prendere qualsiasi cosa dall’altra parte
della stanza,
probabilmente sarei ancor meno contento di essere costretto a
condividere la
stanza con qualcun altro.
Inoltre,
non è che avesse molto senso per me
trasferirsi in un’altra città per il college
– da qui al campus sono solo
quindici minuti in auto, forse venti al massimo. E poi, se mi fossi
trasferito,
chi sarebbe rimasto a casa a intercettare tutte le chiamate della
segretaria di
papà al telefono di casa? Nessuno, esattamente.
Rimango
a poltrire sul divano, con un braccio dietro la testa mentre fisso la
TV.
Inizia la sigla di quel cazzo di Spongebob Squarepants. Ecco, ci sono
alcune cose per cui sono decisamente
disposto ad attraversare la stanza. I programmi televisivi del sabato
toccano
veramente il fondo.
Addio, finalmente, borbotto
arrabbiato nella mia testa mentre premo decisamente il bottone di
spegnimento
sul telecomando. La TV si spegne con un bip.
Con
l’assenza del coro di “sì, signor
capitano” a distruggermi i timpani, mi rendo conto che mamma
ha compagnia in
cucina. Tiro fuori il telefono dalla tasca dei jeans a fatica, e
controllo
l’orario: sono le due e mezzo del pomeriggio. Contraggo la
bocca in una smorfia.
Probabilmente Marco è già arrivato. Per il suo
bene, spero che qualsiasi cosa a
cui mia madre lo stia sottoponendo non stia traumatizzando quel povero
inserviente
lentigginoso a vita.
Con
mia sorpresa (e un leggero senso di sollievo),
non è Marco la persona che mia madre è riuscita a
trascinare in cucina – è
un’altra donna, probabilmente una delle sue amiche del corso
di aerobica, o del
parrucchiere, o di qualsiasi cazzo di
attività svolga mia madre nel suo tempo libero.
Sono entrambe appollaiate
sugli sgabelli da bar rivolti verso la finestra, e tutt’e due
stringono i
bicchieri da cocktail fra le mani con le unghie smaltate, parlottando a
bassa
voce.
Ho
tre ipotesi sull’oggetto della
conversazione.
“Mamma”
dico io, allertandola della mia
presenza sulla porta della cucina e facendole sobbalzare entrambe.
“Sta
iniziando a diventare una vera e propria molestia sessuale, ti sto
avvisando.”
“Jean”
si lamenta, inclinando il bicchiere
nella mia direzione, “Stiamo solo ammirando.”
La sua amica inizia a ridacchiare come una stupida, e mia madre le fa
presto
compagnia; per tutta risposta, io emetto un gemito contrariato.
Mentre
attraverso la cucina per ispezionare
il frigo, lancio uno sguardo fuori dalla finestra e mi fermo
immediatamente, a
bocca aperta. Certo che Marco non fa nulla per migliorare la situazione.
“Per
favore, dimmi che non hai niente a che
fare con quello” indico
spudoratamente l’abbronzatissimo,
lentigginoso
e molto, molto, uh… tonico
ragazzo
della piscina, che al momento non indossa alcuna maglietta.
“No”,
piagnucola mia madre – anche se dubito
fortemente che le sarebbe dispiaciuto essere il motivo della sua
semi-nudità, conoscendola.
“Ha fatto tutto da solo. È davvero quello che
pensi di me, Jean? Oh Dio!”
Penso
solo che sei piuttosto disperata, cazzo,
rimugino fra me e me – e comunque sono
convinto che mi stia solo assecondando. Continuo a camminare in linea
retta
verso il frigo, con lo sguardo incollato al pavimento.
La
luce del frigorifero è come un faro di
normalità in questa gabbia di matti; prendo una lattina di
Coca-Cola, sfiorando
con la mano la brocca di limonata nello sportello. Nel momento esatto
in cui
stringo le dita sull’alluminio fresco e rosso della lattina,
mia madre grida
qualcosa alle mie spalle:
“Ah,
offri qualcosa da bere a Marco, okay?”
Sul
serio. Cos’ho fatto per meritarmi tutto
questo.
Mormoro
una serie di imprecazioni sottovoce e
afferro una lattina di Dr. Pepper che pare non manchi mai nel nostro
frigo,
nonostante non piaccia a nessuno in famiglia.
Arranco
a fatica fuori in giardino,
trascinando deliberatamente i piedi a ogni passo, solo per far notare a
mia
madre quanto non sia d’accordo a fare…qualsiasi
cosa stia facendo. Marco alza
lo sguardo dalla porzione di acqua che sta setacciando con il retino e
un ampio
sorriso gli illumina il volto.
“Ehi”,
mi saluta con un tono di voce gioioso
mentre abbandona il retino a bordo piscina, assicurandosi le cuffie
attorno al
collo e avanzando a grandi passi verso di me per salutarmi. Ritiro
qualsiasi
cosa abbia detto in precedenza sulla tonicità del suo
fisico. Non è
semplicemente tonico. Si potrebbe
grattugiare il formaggio su quegli addominali.
Sento
la mia stessa ombra rimpicciolirsi se inizio
a pensare a quanto sono magro e flaccido. Non è per niente
giusto, cazzo. Dio
mio.
“Ti
ho portato qualcosa da bere” farfuglio,
porgendogli la lattina di Dr. Pepper estendendo un braccio rigido.
Provo a
recuperare quel poco di decenza che mi rimane. “…o
puoi prendere la mia
Coca-Cola, se preferisci.”
Le
lentiggini sembrano scomparirgli nelle
guance rosse. Per un breve momento mi domando se si degni di usare la
crema
solare o meno. Allunga una mano davanti a sé con un gesto
agitato.
“N-no!
Mi va benissimo la Dr Pepper! Grazie!”
Prende
rapidamente la lattina dalla mia mano
e fa scattare la linguetta. Io lo imito con noncuranza, ingoiando quasi
metà
della mia Coca in un unico sorso.
“…Sai
che non fai altro che peggiorare la
situazione così, vero?” aggiungo con un
po’ di esitazione, allontanando la
lattina dalle labbra. Indico la cucina con un cenno del capo, gli occhi
scuri
di Marco seguono attentamente il mio movimento. Sono quasi sicuro di
vederlo
indietreggiare leggermente. “Così…come?”
Gesticolo con la mano libera per indicare il suo petto nudo e il
rossore non fa
che aumentare sul suo viso, mentre si strofina la nuca con aria
imbarazzata.
“Mi dispiace” dice lui inclinando la testa. Non
capisco esattamente perché si
stia scusando con me, che sono fin troppo abituato alle
assurdità di mia madre.
“È che prima mi sono schizzato la maglia con la
soluzione di cloro. Quella roba
ha scolorito una macchia gigantesca proprio qui davanti, e puzzava tantissimo-”
Non
riesco a trattenere un grugnito
divertito, nascondendo un ghigno dietro la mano. Marco apre la bocca
per
aggiungere qualcos’altro ma poi si ferma, mordendosi il
labbro.
“Questa
sì che è sfortuna, eh…”
osservo,
spostando il peso sui talloni. Lancio uno sguardo rapido alle mie
spalle verso
la finestra della cucina – come pensavo, sono ancora
lì, con gli occhi
incollati alla mia conversazione con la loro preda –
cioè, con il loro…no,
credo che preda sia proprio il termine giusto. Mia madre alza una mano
per
mandarci un saluto con aria civettuola. Marco le offre un sorriso
educato con
non poca riluttanza.
“Dovrei
sapere cosa si stanno dicendo
laggiù?” mi chiede, incrociando le braccia al
petto come a volersi proteggere.
Scuoto
la testa, ormai incapace di nascondere
il sorriso sornione che mi occupa il volto.
“Meglio
di no” rido sotto i baffi,
sogghignando nel vedere le sue spalle abbassarsi per lo sconforto.
“Vuoi che ti
presti una maglietta? Sai, per mantenere un minimo di
decenza.”
Annuisce,
mentre io mi scolo gli ultimi sorsi
di Coca-Cola rimasti. Sento nel naso la fastidiosissima effervescenza
delle
bollicine di diossido di carbonio, quindi espiro con forza, il che
probabilmente sembra quasi un verso di scherno. Faccio scricchiolare la
lattina
in mano.
“Anche
se non posso garantire di avere
qualcosa che ti possa andar bene” aggiungo, sarcastico.
“Penso proprio che
tutti quei muscoli non siano umanamente possibili, Marco.”
Non posso che
rimanere soddisfatto dalla reazione agitata che gli si legge in volto.
Ridacchio fra me e me e torno verso casa, girandomi solo un attimo per
dirgli
“Vedrò cosa riesco a trovare.”
“Sto
andando a prendere una maglietta per Marco” affermo,
attraversando rapidamente
la cucina. Nonostante le proteste di mia madre, continuo: “Qualcuno dovrà pur salvarlo
dalle tue avances, okay?”
Salgo
due scalini alla volta, arrivando alla porta della mia stanza con il
fiato più
corto di quanto mi piaccia ammettere.
Guardati
un po’ mentre ti comporti
effettivamente da persona amichevole,
rimarca la mia mente. Dovresti scattare
una foto per fare tesoro di questo momento, Jean.
Sono sicuro che una delle polo Ralph
Lauren (con cui mia madre riempie regolarmente il mio
armadio) sia la
scelta migliore per Marco – mamma ha iniziato solo
recentemente ad azzeccare la
mia taglia (nonostante viviamo insieme da diciannove
anni, tengo a specificare), di solito sceglieva sempre misure
più grandi del
dovuto. Controllo la targhetta di qualche maglia, finché non
trovo quello che
cerco nel colletto di una polo piuttosto semplice, bianca: una M. La
strattono
via dalla gruccia, che cade sul pavimento. La raccoglierò
dopo.
Per
poco non inciampo nei miei stessi piedi mentre galoppo al piano di
sotto,
slittando in cucina sui miei calzini, rischiando quasi di schiantarmi
sul
bancone, che riesco a evitare per un pelo. Mamma e la sua amica non si
sono
mosse, ma sono animate in una conversazione piuttosto seria su
un’amica in
comune e sulle sue vicende amorose con il suo capo.
Quando
riemergo nel cortile, Marco mi dà le spalle, accovacciato
sul sistema di scolo
della piscina mentre smanetta con l’alimentatore. Una serie
di lentiggini segue
la curva della schiena, scomparendo sotto l’elastico dei
pantaloncini – mi
schiaffeggio mentalmente per essere rimasto a fissarlo.
Cosa stai facendo, Jean.
“E-ehi”
lo chiamo con un tono un po’ teso. Tossisco per schiarirmi la
voce. “Una Ralph Lauren
va bene? Non ho
nient’altro.”
“O-oh,
sei sicuro?” risponde lui, rimettendosi in piedi con un
respiro profondo. Ha
nuovamente il viso un po’ rosso. Troppo sole?
“Sbaglio o è
piuttosto…costosa?”
“Non
c’è problema” alzo le spalle con
nonchalance, lanciandogli la maglietta bianca,
che afferra maldestramente con entrambe le mani. “Ne ho un
sacco. E non le uso
più di tanto. È una fissazione di mia
madre.”
Marco
sembra ancora esitante mentre tiene stretta la polo fra le mani. Alzo
le
sopracciglia, in attesa. Alla fine accetta la sconfitta, infilando
l’indumento
sulla testa.
È
più alto di me di qualche centimetro e ha le spalle
decisamente più larghe
delle mie (come?, mi chiedo io, che esercizio fisico fa un ragazzo per
pulire
piscine? Ma, al solito, parla quello che passa le sue giornate a non
fare un
cazzo sul divano…), persino la M sembra andargli un
po’ stretta sul petto ed è
più corta del dovuto, lasciando visibile una striscia di
pelle fra la maglietta
e l’inizio dei pantaloncini color cachi. Si strofina
rapidamente lo stomaco con
il palmo della mano per allisciare la stoffa con aria soddisfatta.
“Quella
maglietta sta mille volte meglio a te, e non è neanche della
tua taglia”
mormoro fra me e me, ma riesce a sentirmi lo stesso, e un sorriso
insolito gli
illumina i lineamenti scuri. Ad essere sinceri, sono un po’
invidioso. Incrocio
le braccia davanti al petto-decisamente-troppo-magro in confronto al
suo, come
a volermi difendere. “Ma, sai com’è, ti
sto salvando da un potenziale assalto
di mia madre, quindi sei perdonato.”
Marco
inizia a ridere – è una risata musicale e
piacevole da ascoltare, di quelle che
riescono a trasformare il mio ghigno sarcastico in un sorriso genuino.
Il suo
volto sembra illuminarsi vedendo il cambiamento nella mia espressione.
“Penso
proprio di doverti un favore, Jean.”
Per
la prima volta in tutta la mia vita, quella sera
non sento il bisogno impellente di accendere una sigaretta. Invece,
arriva finalmente
l’ispirazione per disegnare,
dopo una vacanza piuttosto lunga.
La
matita viaggia sul foglio in linee incerte e
sconosciute – ho qualche difficoltà a ricordare
tutti i dettagli. Non è come
quando disegno Mikasa – l’ho disegnata
così tante volte che probabilmente
potrei fare uno schizzo anche a occhi chiusi (non credo che la cosa le
farebbe
tanto piacere, se lo venisse a sapere…probabilmente mi
picchierebbe a sangue. E
poi mi pesterebbe anche Eren, con altrettanta
probabilità…). L’anatomia sembra
un po’ strana e quasi sicuramente i muscoli non sono al posto
giusto, e poi
sono certo di non aver messo abbastanza lentiggini – ma in
qualche modo, più o
meno gli somiglia. Più o meno.
Passo
una mano sul foglio per togliere i residui della
gomma da cancellare, ma serve solo a imbrattare le linee di matita
sotto il mio
tocco. Borbotto infastidito. Tanto era solo un semplicissimo schizzo.
Volto
pagina e continuo a disegnare.
Non
viene fuori niente di che, ma è bello riuscire
finalmente a buttare giù qualche linea a matita ogni tanto.
Disegno Marco
qualche altra volta; disegno mia madre e la sua amica, accovacciate sul
bancone
mentre incombono sui loro cocktail; disegno mio padre e il modo in cui
si
accascia sulla sedia come un maiale quando siamo a cena. Finisco per
rappresentare un po’ tutta la mia giornata in una serie di
tratti disordinati e
quasi accennati.
A
mezzanotte mi accorgo di aver riempito mezza dozzina
di pagine con schizzi di questo genere. Probabilmente già
domani mattina non me
ne piacerà neanche uno. Ma credo oche ne sia valsa la pena
comunque, ha avuto
il suo valore terapeutico… Quando vado a dormire, mi sento
un po’ meno
arrabbiato con il mondo rispetto al solito.
Non
è domenica se non succede qualcosa.
Salto
giù dal letto maledicendo il caldo che non mi
permette di arrotolarmi nel piumino e sfoggiare lo stile-burrito in
casa per
tutto il giorno. Opto per l’abbinamento maglietta e pantaloni
di tuta
dell’Università di Trost; è deciso:
sì, oggi mi sento un barbone.
La
faccia di mia madre quando mi vede comparire sulle scale
ben oltre mezzogiorno è incredibile; mi guarda storto, con
il naso all’insù,
lamentandosi ad alta voce immaginando cosa potrebbero mai pensare i
vicini se
mi vedessero vestito così.
Le
ricordo seccamente che probabilmente ai vicini non
gliene fregherebbe proprio un cazzo.
Mi
fa compagnia in cucina mentre preparo una
caffettiera, indispensabile come carburante per tutta la mia giornata,
appoggiandomi al bancone per premere i tasti della macchina del
caffè con aria
assonnata.
“Ho
incontrato la signora Braus dal parrucchiere,
stamattina.”
Pronuncia
le parole di punto in bianco, con una
sfumatura nella voce che suggerisce che la sua affermazione non vuole
essere
una semplice conversazione tanto per parlare.
Mi
volto verso di lei, provando a infilare le mani in
tasca – per poi accorgermi che i pantaloni della tuta in
effetti non ce le
hanno, le tasche, finendo per sembrare un idiota mentre lascio cadere
le mani
inermi sui fianchi.
“Ah,
sì” provo a fingere noncuranza, “Come
sta, tutto
bene?”
“Mhm,
sì, sta bene” risponde mia madre con un cenno
del capo. “Sai, mi ha chiesto di te.”
“Ah
sì?” non mi piace per niente la piega che sta
prendendo la conversazione. Concentro tutti i miei pensieri sul
caffè, sperando
che sia pronto al più presto.
“Già.
Dice che Sasha non parla più di te tanto
spesso.”
Be’,
non mi sorprende affatto, mamma. Non è chissà che
notizia scioccante.
“…Continui
a non parlare con loro, Jean?”
La
macchina del caffè emette un “bip” acuto
e io mi
giro per ritirare la caffettiera colma di liquido nero intriso di
caffeina. Lo
travaso immediatamente in una tazza e ne bevo un sorso; è
così forte che sa
praticamente di petrolio. Mando giù il primo sorso,
ingoiandolo rumorosamente.
“Sì”
le rispondo, con il tono un po’ più sommesso di
quanto avrei voluto. Poi aggiungo: “Ma neanche loro hanno
intenzione di parlare
con me.”
Mia
madre sembra studiarmi ancora per un po’ di tempo,
quindi rimango lì a fissarla, stringendo saldamente la tazza
di caffè con una
mano. Ad ogni modo, non credo che riesca a capire più di
tanto guardandomi.
Quando riprende a parlare torna ad essere la mamma a cui sono
più abituato.
“Un
vero peccato, però. Sasha mi piaceva. È una
ragazza molto carina. Ed è anche di buona famiglia.
È il tipo di ragazza che
spero porterai a casa un giorno, lo sai.”
Le
rivolgo uno sguardo esasperato, soffiando sulla
tazza fumante. Perfetto, Jean. Quando non
le importa niente di te, ti dà fastidio. Quando
effettivamente le importa
qualcosa, ti dà fastidio lo stesso. Congratulazioni per
essere così difficile.
“Mi
dispiace deluderti, mamma. Non accadrà mai.”
La
seconda cosa terribile che rende questa domenica
ancora più merdosa, è il fatto che intercetto
un’altra chiamata dalla bionda
svampita.
Il
telefono squilla nel bel mezzo di una sparatoria
particolarmente avvincente su NCIS e rispondo con un tono decisamente
scorbutico: “sì? Chi è?”
Non
riesco a trattenere un’espressione di estremo
disgusto quando sento quello stridore orribile riecheggiare
dall’altra parte
della linea.
“Saaalve,
potrei parlare con il signor Kirschtein, per
favore?”
Non
mi degno neanche di risponderle, filando dritto al
piano di sopra nell’ufficio di mio padre, senza nemmeno
bussare.
“Da
quando non si bussa, Jean-“ inizia lui,
minimizzando il documento che teneva aperto sul desktop mentre gira la
sedia
per guardarmi duramente. Gli porgo il telefono con uno sguardo che
spero mostri
anche solo la metà di quanto sono incazzato in questo
momento.
“Dille
di smettere di chiamare al telefono di casa”, taglio
corto io.
“È
la mia segretaria, Jean. Quante volte te lo devo
dire? È per lavoro.”
Prova
a gettarmi il fumo negli occhi ogni volta. E
ogni volta mi viene voglia di tirargli un pugno in faccia.
Possibilmente mentre
ho ancora in mano il telefono.
Me
lo toglie di mano e copre il ricevitore con il
palmo. Ovviamente ha realizzato che non credo alle sue cazzate.
“Dovremmo
parlare”, mi dice.
E
di cosa?,
penso io. Perché
l’unica cosa che vorrei sapere è perché
ti sto ancora coprendo in questa situazione.
“No,
non dovremmo”, rispondo. Giro i tacchi e me ne
vado, assicurandomi di sbattere la porta. Mi fermo davanti alle scale
per
ascoltare. Dopo qualche secondo di silenzio, ecco la voce bassa di mio
padre al
telefono.
“Charlotte,
non ti avevo detto di non chiamare al
numero di casa? Non vorrei che rispondesse mia moglie.”
Non
credo di voler origliare il resto della
conversazione.
Provo
a concentrarmi sui libri, ripetendo per gli
esami nel resto della settimana – principalmente
perché la maggior parte dei
libri giace ancora sulla scrivania senza che li abbia mai aperti,
nonostante
manchi solo un mese agli esami, e la cosa mi sta terrorizzando,
cazzo! Ma anche per cercare di allontanare il più
possibile tutti gli altri pensieri che mi passano per la testa. Ho
addirittura
trovato qualche aspetto positivo in Bertrand Russell. Temo di essere
impazzito.
Persino
mercoledì mi comporto da eroe, sacrificando
una delle mie solite dormite prolungate per iniziare a svolgere qualche
problema di chimica la mattina presto. Apro il blocco di appunti su un
lato
della scrivania, scorrendo rapidamente fino alla pagina
sull’epossidazione.
Chimica organica, non hai scampo.
Dopo
un bel po’ di imprecazioni, accartocciando una
dopo l’altra circa una dozzina di reazioni non riuscite e
dopo essermi deciso a
mettere i Dead Kennedys a volume
altissimo,
sono circa a metà di una lunghissima relazione quando sento
il sole torrido
entrare dalla finestra e bruciarmi la spalla. Dev’essere
più o meno
mezzogiorno. Mentre riecheggiano le ultime note di California
Über Alles,
sento mia madre parlare ad alta voce giù in cortile. Abbasso
il volume del
computer per provare a capire cosa stia dicendo.
“-ascolta
quella roba terribile a volume fin troppo
alto e…oh, l’ha abbassato?”
Lascio
rotolare la sedia da scrivania vicino alla
finestra, facendo leva sul pavimento con i piedi. Abbasso la testa
sotto la
cornice superiore della finestra e mi accorgo che
l’interlocutore con cui mia
madre si sta lamentando non è altri che Marco. Certo
– è mercoledì.
“Lo
sai che non è carino parlare alle spalle della
gente!” grido, facendo sobbalzare mia madre, che si porta una
mano al petto per
lo spavento. Vederla camminare su e giù mentre cerca di
ricomporsi mi strappa
un sorriso subdolo.
“Jean!”
squittisce lei in protesta, gesticolando
ampiamente verso la finestra della mia camera al primo piano.
“Non gridare
così! Potevi farmi venire un infarto!” Marco
incrocia le braccia e soffoca una
risata dietro le dita. “Senti, puoi scendere un
attimo?”
“Sto
studiando, mamma!” ribatto, “Basta che urli
più
forte così ti sento anche da qui!”
Mia
madre apre la bocca per rispondere, ma Marco la
interrompe subito.
“Volevo
solo restituirti la maglietta, Jean”, sorride,
mentre mia madre sporge le labbra carnose in una smorfia esasperata.
“Te la
ridò dopo, quando finisci di studiare, se
preferisci!”
“Ah,
è vero!” esclamo in risposta, “No, puoi
darmela
adesso, non c’è problema! Potresti lanciarla
quassù? Sto cercando di finire una
relazione.”
Sembra
che Marco stia cercando di valutare la distanza
fra il terreno e la mia finestra, calcolando le probabilità
che finisca
intrappolata sulla grondaia prima di raggiungere la destinazione.
“F-forse
è meglio se te la porto su, se per te va
bene? Non credo di avere una mira abbastanza buona!”
Alzo
le spalle e mi allontano nuovamente dalla
finestra sulle ruote della sedia, girando un po’ troppo
energicamente – afferro
la scrivania con entrambe le mani per evitare di ribaltarmi
rovinosamente.
Poso
lo sguardo su qualche domanda sull’idrolasi, ma
le parole non trovano alcuna connessione con il mio cervello. Provo a
leggere
la domanda successiva, per poi sentire dei passi incerti nel corridoio.
“È
questa la stanza!” alzo la voce, senza staccare gli
occhi dal foglio nemmeno al rumore della porta che si apre.
“E-ehi”,
mi saluta Marco, scivolando lentamente dentro
la stanza. Nelle mani stringe la polo, piegata meticolosamente, proprio
come mi
aspettavo da quel poco che ho capito di lui. Pare non abbia intenzione
di
muoversi dalla porta, quindi mi giro fino a trovarmi di fronte a lui,
tendendo
una mano per ricevere la maglietta.”
“Passa
qui”
sorrido; lo sguardo di Marco rimbalza tra la maglietta ben piegata e la
mia
mano, e ha qualche momento di esitazione prima di lanciarmela.
Fortunatamente
per la mia dignità non la faccio cadere.
Rotolo
insieme alla sedia fino all’armadio, dove
inizio a cercare una gruccia vuota (il che si rivela un compito
più difficile
del previsto, dato che ho davvero troppi vestiti
inutilizzati…).
Marco
muove qualche passo e, con la coda dell’occhio,
noto che qualcosa ha catturato la sua attenzione.
“…
Sai disegnare?”
Mi
irrigidisco immediatamente, con la maglietta per
metà posizionata sull’appendiabiti. Merda. Ho
lasciato lo sketchbook sulla
scrivania.
“Uh…non
proprio”, rispondo imbarazzato.
“Faccio…uh…giusto qualche scarabocchio
quando mi annoio, niente di più. Non
sono molto bravo…”
“Posso…posso
dare un’occhiata?” Sento il bisogno
disperato di domandargli: perché, esattamente, il nostro
inserviente della
piscina è in camera mia a ficcare il naso nelle mie cose
private? Be’, lo
domando solo a me stesso. Ma lo sguardo pieno di curiosità
con cui guarda il
mio sketchbook, con quel sorriso gigantesco che gli nasconde le
lentiggini fra
le fossette, in qualche modo riesce ad addolcire i miei pensieri.
“Uh…se
proprio vuoi?”
Abbassa
la testa umilmente e inizia a sfogliare lentamente
il blocco di fogli, sfiorando appena le sottili pagine bianche.
Intanto
io rimetto a posto la gruccia – con tanto di
maglietta – nell’armadio, per poi posare nuovamente
lo sguardo su di lui,
guardandolo da una certa distanza. Il suo sorriso ha lasciato il posto
a
un’espressione profondamente concentrata che gli fa
increspare la pelle in
mezzo alle sopracciglia. Sfoglia una serie di disegni di Mikasa, gli
scarabocchi incerti che raffigurano i miei genitori, e sussulta quando
si
ritrova di fronte a quello che è senza dubbio un suo disegno
(anche se, a
proposito, ho realizzato che l’anatomia è una
completa schifezza). Stringe la
pagina successiva sospesa fra pollice e indice mentre continua a
guardare le
linee disordinate per un bel po’ di tempo. Posso praticamente
sentire il mio
sudore colare in questo silenzio imbarazzante.
“Sono…veramente
bellissimi, Jean”, mi dice finalmente,
alzando lo sguardo per incontrare il mio. Nient’altro. Non
accenna minimamente
al più-che-leggermente-inquietante problema di fondo. Mi
passo una mano tra i
capelli fino a posarla sulla nuca, dove sento il calore che mi
attanaglia il
collo per l’imbarazzo.
“…Ti
ringrazio, davvero.”
“È
questo che studi all’università? Arte,
intendo.”
“Oh…
uh, no” rispondo rapidamente – forse anche troppo
rapidamente, visto che le sopracciglia di Marco si sollevano per la
sorpresa.
Indico la pila di libri di chimica dall’altra parte della
scrivania. “Non mi
piaceva tanto.”
“Huh.
È fantastico.” Ho come l’impressione che
non
stia parlando direttamente con me in questo momento. Gira il foglio con
le
dita, per notare di essere giunto alla fine delle pagine disegnate. La
sua
postura si raddrizza e mi sembra come se non sapesse esattamente cosa
fare.
Rigiro
la lingua all’interno della guancia,
tamburellando le dita sul bordo della sedia da scrivania su cui sono
seduto. Ho
decisamente bisogno di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non
impazzire con
questo silenzio, non tanto per impazienza. Le labbra di Marco si aprono
con
l’intenzione di dire qualcosa, ma le richiude immediatamente;
noto che quand’è
imbarazzato tende a mordicchiare il labbro inferiore. Prova di nuovo a
dare
forma a quello che ha in mente.
“Pensi
che… uh, come posso dire…” Solleva una
mano
come a voler grattare i capelli corti sulla nuca. “Sono
veramente stupendi,
Jean. Pensi che potrei – ecco – potrei prendere
quello…dove ci sono io?”
Oh.
Oh, okay. Questa non me l’aspettavo. Penso si noti
chiaramente dalla mia faccia.
“Oh!
A meno che tu non voglia!” Marco si
rimangia in fretta la parola, allontanandosi
di un passo dalla scrivania, sollevando le mani nella mia direzione in
un gesto
quasi difensivo.
Non
mi ero neanche accorto di essermi alzato dalla
sedia, fino a quando non mi ritrovo davanti alla scrivania a chiudere
lo
sketchbook con una ventata di forza. Marco sembra spaventato a morte
all’idea
di avermi detto qualcosa di male.
“Quello
non era poi così bello” borbotto io,
sottovoce. Sono agitato. Molto, molto
agitato, cazzo. “Probabilmente è meglio se
– ecco – te ne disegno uno più
bello. Se per te va bene.”
Con la coda dell’occhio osservo ogni minimo cambiamento nella
sua espressione:
varia da impaurita a sorpresa fino a distendersi nel sorriso
più fottutamente
ridicolo che abbia mai visto sulla sua faccia. La mia
faccia è diventata bollente, nel frattempo.
“…
Cosa fai adesso, aspetti che la piscina si pulisca
da sola?” provo a mantenere l’espressione
più seria possibile, ma non riesco a
non lasciarmi sfuggire un sorriso imbarazzato.
Non
riesco proprio a tornare a scrivere una relazione di chimica dopo
quell’episodio, nonostante tutti i miei sforzi (che a dire il
vero non sono poi
tanti). Provo a studiare un po’ di filosofia ma arrivo a un
vicolo cieco nella
mia mente. Stessa cosa con matematica, idem per storia europea. Finisco
per aprire
il libro di francese, giusto per illudermi di essere produttivo. Posso
studiare
francese.
I
miei occhi provano a filtrare qualche capitolo sui cambiamenti della
letteratura francese del ventunesimo secolo dal punto di vista di
qualche
critico irrilevante ed estremamente noioso, e io mi sorprendo a
sorridere. Come
un fottutissimo idiota. Come Marco. Mi copro gli occhi con una mano e
premo le
dita sulle tempie, ma proprio non riesco a smettere di sorridere.
È una vera
fortuna che non ci sia nessun altro in questo momento.
Sai una cosa, Jean Kirschtein? Penso che
tu abbia appena ottenuto l’impossibile. Pare che tu abbia
appena stretto
amicizia.
Forse
qualcuno lassù da qualche parte mi sta guardando,
perché in quella stessa settimana, dopo il seminario di
filosofia di venerdì, è
successo qualcosa che ha del miracoloso.
Esco
dalla classe barcollando vistosamente, più che
contento di poter finalmente scappare lontano dall’eccessiva
razionalizzazione
del professor Dok su qualche strana teoria sulla conoscenza che quasi
sicuramente avrei già dovuto studiare a questo punto del
trimestre.
Appoggio
la borsa sul solito tavolo del bar, i libri
cadono sulla superficie di linoleum con un tonfo che ricorda
più una tonnellata
di mattoni. Stamattina ero in ritardo, quindi il mio zaino vanta solo
di una
barretta sciolta di Mars e un misero pacchetto di patatine. Non appena
apro il
pacchetto con un rumore secco, vedo Connie e Sasha entrare nel bar,
seguiti dal
gruppo più numeroso formato da Eren, Mikasa, Armin, Historia
e la sua
diciamo-abbastanza-spaventosa ragazza Ymir, del secondo anno. Parlano
tra loro,
vicinissimi; Connie gesticola selvaggiamente mentre Sasha fa una
smorfia da cui
traspare frustrazione. Il brusio generale del bar mi impedisce di
sentire una
parola, quindi decido di accingermi a leccare via dalle dita i residui
di
patatine.
Alzo
lo sguardo solo quando un’ombra bassa dai capelli
rasati si presenta al mio tavolo e uno zaino dall’aspetto
malconcio viene
gettato affianco al mio.
È
Connie. E non è il solito Connie con l’aria da sì-sto-cercando-di-evitarti.
Il mio
sguardo si indurisce. Si è seduto di fronte a me.
“Tutto
bene?” inizia a parlare, e riesco ad avvertire
giusto un pizzico di esitazione nelle sue parole. Ma sta provando con
tutto se
stesso a non farlo notare. “È da un po’
che non ci si sente.”
“…Già”,
rispondo io con aria sospettosa, affondando
nuovamente la mano nel pacchetto di patatine. Non ho idea di cosa si
aspetti
che gli risponda adesso che si è seduto qui di fronte a me
dopo avermi
spudoratamente ignorato per dodici mesi. Ovviamente avverte la
goffaggine di
tutta questa situazione – come potrebbe non
avvertirla, anche se stiamo parlando di Connie.
“Hai giocato a Titanfall,
ultimamente?” È sempre stato un po’
fuori di testa, ma questo sì che è strano.
Mangio
una patatina, le sopracciglia ancora
aggrottate. Forse se mi acciglio abbastanza riuscirò a
decifrare cosa vuole
realmente. O perlomeno mi lascerà stare.
“Cos’è
questa storia, Connie?”
Mi
sembra abbastanza spiazzato, gli occhi
castani-dorati spalancati. Incrocia le braccia sul tavolo e si sporge
leggermente in avanti.
“Che
c’è? Volevo solo sapere se ce l’avessi.
Immaginavo di sì.”
E
non si sbaglia. Ma non ci vuole certo un genio per
capirlo (tanto per la cronaca, lui non
è sicuramente un genio). Gioco a quella saga da prima
dell’incidente con Eren.
“Penso
che Sasha sia riuscita a contagiarmi,
parlandomene in continuazione”, continua lui, fermandosi a
stento per
riprendere aria fra un periodo e l’altro. “Sono al
livello quarantanove, sai?
Ancora uno e posso fare quella roba della rigenerazione. Oh, ho anche
sbloccato
due classi l’altro giorno, Ogre e Stryder. È
proprio fico.”
“Non
mi sorprende che ci sia riuscita”, mormoro. “Sei
veramente venuto qui a parlarmi di Titanfall,
Connie? O è solo un modo per chiedermi di passarti gli
appunti di filosofia?”
Connie
sospira, grattandosi la testa mentre pensa a
cosa dire. Per una volta in tutta la sua vita, mi sembra stranamente
riluttante.
“Non
voglio i tuoi appunti di filosofia” risponde in
un sospiro. “Voglio solo parlare di videogiochi.
Come facevamo un tempo.”
“Sai
anche tu che le cose sono cambiate da allora.”
“…
E chi lo dice?”
Alla
fine trovo abbastanza determinazione per guardarlo
negli occhi. Ha un’aria combattuta, mentre giocherella con i
polsini logori
della giacca. Sposto lo sguardo oltre le sue spalle, verso il tavolo
dove sono
seduti gli altri: Eren e Ymir stanno discutendo in maniera piuttosto
concitata,
con le braccia di lui che si agitano ovunque mentre lei sogghigna, e
Historia
si aggrappa al braccio della sua ragazza nel tentativo di rimetterla a
sedere.
Non riesco a vedere il viso di Mikasa, ma sono certo che li stia
fulminando con
lo sguardo. Sasha è seduta dall’altro lato di
Mikasa, e noto che i suoi occhi
si abbassano immediatamente quando si accorge che la sto guardando.
“Sasha
ci sta fissando”, osservo, facendo un cenno
nella sua direzione.
“Lo
so”, risponde Connie, guardando brevemente alle
sue spalle. In quel momento il suo telefono vibra con una suoneria
irritante.
“Le manchi, amico. Manchi a entrambi.”
Questo
mi sorprende oltremisura. Sforzo
incredibilmente il cervello per tentare di capire quale possa essere la
causa
di questa dichiarazione improvvisa, ma non mi viene in mente nulla.
Niente di
niente. Rimango qui a fissare quello che una volta era il mio migliore
amico,
mentre lui controlla i messaggi con il cellulare sotto al tavolo, in
silenzio. Si
lascia scappare una risata ansimante.
“Mi
ha appena chiesto di che cosa stiamo parlando”,
sorride, mostrandomi lo schermo del suo vecchio mattone di un Nokia.
Infatti, è
proprio quello che ha scritto. Solo con un po’ meno
alfabetizzazione in
generale, e con qualche dozzina di punti interrogativi in
più. Molto da Sasha.
“Cosa dovrei risponderle?”
Per
come immagino la situazione, potrebbe finire in
due modi. Il primo: potrei dirgli di smettere di sprecare il suo tempo.
Chiedergli se mi ha veramente perdonato per aver rotto il naso, una
clavicola e
due costole a Eren. Dirgli che Eren sicuramente non sarebbe felice di
vederci
chiacchierare così. Informarlo del fatto che sono uno
stronzo piuttosto
scontroso per la maggior parte del tempo, e che me la sono cavata
benissimo
senza di loro negli ultimi mesi.
Ma
so che non è del tutto vero. Ho fumato fin troppe
sigarette sul mio tetto per poter dire di non essere stato toccato da
questa
situazione.
Quindi,
vada per la seconda possibilità. Stare sempre
da solo fa schifo, cazzo. Voglio provare a sistemare le cose.
“Dille
che stiamo parlando degli chassis che abbiamo
sbloccato”, alzo le spalle. “E dille che
può unirsi a noi.”
Connie
sorride – e mi rendo conto di non aver visto
quel sorriso per un sacco di tempo. Veramente tantissimo tempo, cazzo.
“Certamente!”
Io
e il sonno non siamo esattamente in buoni rapporti,
stasera. Sono sul mio letto e fisso il soffitto per quelle che sembrano
ore,
steso a quattro di mazze. Stringo una sigaretta fra i denti, ma non
l’accendo.
La mastico per un po’ di tempo, finché non inizia
ad avere un sapore orrendo.
Io
e Connie abbiamo parlato di
Titanfall
per tutta la pausa pranzo – finché non
è arrivata Sasha per dirgli che dovevano
andare a lezione. Non era allegra come la Sasha che conoscevo un tempo,
e
sembrava sulla difensiva mentre tirava la giacca di Connie, che mi
stava ancora
spiegando animatamente come avesse risolto con una mano sola una mappa
su cui
io mi ero bloccato. In un modo o nell’altro comunque
è riuscita a trascinarlo
via, lasciandomi al divertimento della mia lezione di francese.
Ma
le parole con cui si è allontanato continuano a
ronzarmi in testa: “Ti devo portare questa specie di guida
che ho preso da
GameStop l’altro giorno, okay? Te la mostro
lunedì!”
Vorrei
essere felice. Completamente felice, al cento
per cento. E ci sono abbastanza vicino.
Ma
sento ancora distintamente una vocina nella mia
testa che mi dice: lo sai, non può
tornare semplicemente com’era prima. Hai fatto veramente un
casino, quella
volta. Ci vorrà molto tempo.
Mi
giro su un fianco, portando le ginocchia al petto
in posizione fetale. La mia mano sfiora la spirale dello sketchbook che
sbuca
dallo spazio che divide il letto e il muro. Passo le dita sul metallo
irregolare, immerso nei miei pensieri.
Voglio
il tempo passato a fumare sul cofano del pickup
di Connie nel punto d’osservazione dove andavamo sempre.
Voglio i messaggi
assurdi alle tre del mattino dove mi chiede perché il
minimarket notturno ha
finito il pane. Voglio i cori di “fallo per il
Vine!” mentre Connie tenta di
buttarsi fuori dalla finestra della sua camera da letto e poi sul
trampolino. Voglio
le maratone di videogiochi, i sassolini lanciati sulla mia finestra
(anche
quella volta in cui Sasha ha rotto il vetro), i viaggi in auto senza
una meta
precisa.
Voglio
veramente rimettere le cose a posto. Cazzo.
Notes:
Note
dell’autrice:
Questo
dovrebbe essere
conosciuto come il capitolo in cui non so niente di qualsiasi cosa che
riguardi
l’America. Vi dirò la verità, questo
sistema universitario mi confonde
terribilmente. Spero che la mia nazionalità inglese non sia
troppo ovvia.
A
parte questo, spero vi sia
piaciuto il capitolo. C’era un po’ più
di Marco, a petto nudo come promesso; lo
rivedrete.
L’amicizia tra Jean e Marco continuerà a crescere
nei prossimi capitoli e
inizieranno a conoscersi meglio. Sarà divertente.
Il
titolo del capitolo è il
nome di un album dei Dead Kennedys, per il semplice fatto che
è lo stesso che
stava ascoltando Jean in questo capitolo. Mi dispiace (in
realtà no) se gli ho
dato praticamente i miei stessi gusti musicali hahahaha
Vorrei
mostrarvi un bellissimo
disegno che ha fatto Sizzleart su tumblr per questa fanfiction:
http://sizzlesart.tumblr.com/post/82868404467/rich-kid-jean-and-pool-boy-marco-from-the-fic
E
giacché anche il mio tumblr:
theprophetlemonade.tumblr.com
|
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Capitolo 4 *** Old Pine ***
Chapter
4:
Old Pine
Andare
avanti per dodici mesi senza parlare con nessuno che non sia tua madre
(e avere
un padre che parla “a
te” e non “con
te”) è difficile. Posso testimoniarlo
perché l’ho provato sulla mia pelle.
Quindi,
ora che Connie è tornato improvvisamente nella mia vita
senza alcun preavviso,
mi sento in qualche modo nel mezzo, al limite tra
“cazzo-sono-piuttosto-esaltato!”,
e
“merda-sicuramente-non-può-essere-vero”.
So che mi viene piuttosto naturale
essere uno stronzo scontroso e pessimista, ma proprio non riesco a
impedire
alla mia mente di continuare a immaginare scene del prossimo
lunedì mattina, in
cui provo a parlare a Connie e lui torna a ignorarmi come aveva fatto
finora.
Pensieri
simili continuano a girare e girare vorticosamente nella mia testa, e
mi
ritrovo completamente incapace di stare seduto e calmo per
più di cinque minuti
senza agitarmi.
Provo
con i soliti espedienti per tenere il mio cervello lontano
dall’inevitabile
torrente di se e di ma:
ci metto tutto il tempo umanamente
possibile per scegliere cosa indossare, studiando attentamente quale
delle mie
magliette praticamente identiche di gruppi musicali potrebbe essere
quella
perfetta per oggi (finisco per scegliere una maglietta rossa e bianca
con la
copertina di London Calling che non
indossavo da un po’, e un paio di jeans neri attillati, per i
quali devo fare
una specie di balletto per riuscire a infilarli). Impiego almeno
mezz’ora a
sistemarmi i capelli, e come minimo altri dieci minuti ad accarezzarmi
la
faccia per decidere se sia necessario rasarsi o meno (la mia
abilità di
crescere la barba non è esattamente…miracolosa,
mettiamola così).
Mi
spruzzo una discreta quantità di Axe al cioccolato sul collo
e sui polsi – se
c’è una cosa che non mi tenta assolutamente, sono
i deodoranti costosi. Finché
ha un buon profumo, non importa se è super-economico. Uso
sempre la stessa
marca da quanto mio padre ha realizzato che comprarmi dopobarba costosi
probabilmente non fosse il modo migliore per guadagnarsi il mio affetto
(non
che i giochi dell’Xbox lo siano, ma, ehi, almeno li apprezzo
un po’ di più,
okay?).
Per
andare avanti nella mia missione “evitare di rimuginare sulla
conversazione con
Connie per cercare capire se fosse semplicemente frutto della mia
immaginazione
in stato di deprivazione sociale”, il prossimo passo
è aprire il libro di
chimica e provare a fare i conti con le idrolasi epossidiche con cui
stavo
lottando la settimana scorsa. Senza successo. È come se le
parole mi si
sciogliessero davanti agli occhi.
Tamburello
le dita sulle tempie e digrigno i denti per la frustrazione. Mia madre
mi
rimprovera sempre per questa mia abitudine; dice che finirò
per rovinarmi i
denti per nulla. Se ci penso, mi viene solo da digrignarli ancora di
più.
Fisso
il telefono per un po’ – è il nuovo
Samsung Galaxy S4 che ho infilato in una di
quelle cover a forma di Game Boy Nintendo classico –
chiedendomi se scrivere a
Connie sia socialmente accettabile. Se sia strano
o no.
Sono
riuscito a prendere il telefono in mano e a iniziare a scorrere nella
rubrica
poco popolata, quando realizzo di aver cancellato il suo numero da
mesi. Ben
fatto, perdente smemorato del cazzo.
Emetto
un gemito di protesta e lancio il telefono dall’altra parte
della stanza –
atterra sul mio letto con un tonfo secco.
Mi
accorgo di sentire un leggero ronzio di musica provenire da qualche
parte; dopo
aver stabilito che no, non
è il mio
computer e no, non è lo stereo, né
l’iPod o il giradischi che mi ha regalato
papà per il mio diciannovesimo compleanno, mi accorgo che
proviene
dall’esterno.
Mi
muovo sulla sedia girevole fino alla finestra e la tiro su a fatica
– con
questo caldo tende a bloccarsi.
Il
ritornello di Sing dei My Chemical
Romance rimbalza nell’aria fino a raggiungere le mie
orecchie, e io mi schermo
gli occhi dal sole per guardare nel cortile. C’è
un set di altoparlanti
collegati a una prolunga sui gradini del capannone della piscina,
circondato
dall’attrezzatura di Marco ammucchiata ordinatamente. Ma non
c’è nessun Marco
in vista.
Mi
sporgo ulteriormente dalla finestra, cercando di ottenere una visione
completa
del cortile, ma al momento sembra deserto. Per un attimo mi chiedo se
mia madre
sia scappata, fuggendo insieme a lui per farla finita. Una cazzata del
genere
effettivamente non mi sorprenderebbe più di tanto.
Sarebbe
un peccato se Marco venisse rapito da mia madre, pensandoci,
perché è un
ragazzo facile da comprendere. Non c’è dubbio che
se gli dici “ciao” ti
risponderà “ciao” a sua volta. Se solo
Connie e gli altri potessero essere così
semplici.
Marco
riemerge dal capannone vicino alla piscina in quel momento, cantando a
squarciagola qualche verso che dice di cantare per quelli che
più ti odiano (o
almeno questo è quello che riesco a capire), e battendo le
mani sulle cosce a
tempo mentre cammina. Posa lo sguardo quassù, sulla mia
finestra, e si ferma
immediatamente quando mi vede affacciato sul davanzale. Sorride con
consapevole
imbarazzo e si china per spegnere l’iPod.
“Non
pensavo che ci fosse qualcuno a casa”, grida nella mia
direzione, con una mano
sulla nuca come suo solito quand’è nervoso. Mia
madre dev’essere andata a fare
la spesa, o qualcosa del genere.
“Io non pensavo che avessi intenzione di
continuare con i My Chemical Romance”, gli grido di rimando,
sarcastico,
osservando il suo viso tingersi di rosso scuro. Ovviamente sperava che
non
assistessi al suo piccolo concerto per la seconda volta.
“Posso
spegnerlo se non ti piacciono”, risponde lui, “Se
stai cercando di studiare.”
Mi
giro a guardare i libri di chimica aperti. Cerco di studiare,
sì. Ma non ci
riesco lo stesso.
“Nah”,
ribatto, incrociando le braccia sul davanzale della finestra.
“Fai pure. Non
sto facendo niente di che.” Aggiungo dopo qualche secondo:
“Sentiti libero di continuare
a cantare le tue, uh…serenate
ai vicini
con la tua voce da canto. Non sarò io a fermarti.”
Marco
alza gli occhi al cielo – un gesto che non gli avevo mai
visto fare prima d’ora
– e riaccende gli altoparlanti, abbassando solo leggermente
il volume. Recupera
il filtro e lo lascia galleggiare sull’acqua a raccogliere un
po’ della
sporcizia inesistente che secondo mia madre infesta la piscina.
Devo
essere rimasto a fissarlo mentre lavoricchiava lì intorno
per almeno un paio di
minuti, prima di sentirlo richiamarmi.
“…Non
stai facendo proprio niente,
eh?”
Merda.
Non era mia intenzione fissarlo così. Mi alzo di scatto,
sbattendo la testa sul
telaio della finestra come un perfetto imbecille.
“Oh,
cazzo!” mi lamento ad alta
voce, stringendo
le mani sulla sommità della mia testa. Mi sento come se il
cranio si fosse
aperto in due. Dannazione!
“Stai
bene?” ridacchia Marco, provando a fingere almeno un
po’ di compassione, mentre
in realtà trova divertente il mio dolore incomparabile.
Che idiota.
“Sta’
zitto!” gli rispondo, strofinando le mani tra i capelli nel
tentativo di lenire
il dolore pulsante. “Sto bene!”
“Dovresti
metterci del ghiaccio”, sento la sua voce musicale mentre
strizzo gli occhi
chiusi. “Potresti avere una commozione cerebrale.”
Be’,
almeno questo sbatte qualsiasi
pensiero su Connie fuori dalla mia testa.
Barcollo
fino al piano di sotto, afferrando la ringhiera con tutte le forze che
ho; mi
sembra quasi di vedere letteralmente le stelle.
C’è un biglietto da parte di
mia madre sul bancone della cucina, gli do uno sguardo mentre passo
– c’è
scritto qualcosa del tipo vado da qualche parte per fare qualcosa
– oh cazzo, il dolore
alla testa mi sta uccidendo.
Prendo
una manciata di ghiaccio dal frigo e sto giusto per premerlo sulla
tempia,
quando le nocche di Marco si scontrano la finestra con un rumore fin
troppo forte.
Sta dicendo qualcosa, ma non riesco a sentirlo bene, dato il ronzio che
sento
nelle orecchie. Continuo a guardarlo stringendo gli occhi (come se in
qualche
modo potesse aiutarmi a sentirlo meglio?), e indico la porta sul retro.
Ha
capito il messaggio.
“Non
metterlo direttamente sul cuoio capelluto”, ordina mentre
apre la porta,
entrando in cucina. “Potresti danneggiare la
pelle.” Il suo sguardo analizza
rapidamente la cucina, notando uno strofinaccio posato sulla maniglia
dello
sportello del forno. “Tieni.” Me lo passa. Deve
praticamente posizionarmelo
nella mano lui stesso, perché la mia coordinazione
occhio-mano al momento è
piuttosto dubbia. “Avvolgi il ghiaccio qui dentro e poi
mettilo sulla testa.”
Faccio
come mi indica, e il ghiaccio torna nuovamente nel punto dove il dolore
lancinante si è leggermente affievolito. Il freddo fa ancora
più male e mi
scappa un’inevitabile imprecazione sottovoce. Marco quindi
allontana uno degli
sgabelli dal bancone, trascinandolo sul pavimento nella mia direzione.
“Siediti”,
mi ordina.
Ancora
una volta faccio ciò che dice, seppur barcollando un poco
mentre mi arrampico
sulla seduta così alta.
“Cazzo”, impreco nuovamente,
affondando
la fronte nello panno con il ghiaccio. “Non l’avevo
mai fatto prima. Cristo.”
“E
ti sconsiglierei di rifarlo altre volte”, aggiunge Marco,
facendomi sbuffare in
segno di scherno. Si posiziona alle mie spalle, mantenendo una distanza
inaspettata. “Ti dispiace se do
un’occhiata?”
“Buttati a capofitto”, scherzo
io,
vedendolo con la coda dell’occhio mentre scuote la testa al
mio pessimo gioco
di parole. “Oltre a pulire piscine sai anche come occuparti
di una commozione?”
“Sì”
risponde con voce tranquilla. Preme dolcemente le dita sul mio cuoio
capelluto,
dividendo i capelli accuratamente. Sposto l’impacco di
ghiaccio perché possa
guardare meglio. “Dove ti fa male?”
Un
sospiro lascia le mie labbra sotto forma di un sibilo acuto quando le
sue dita
tastano il punto dolente.
“Qui”, ringhio sottovoce. Il
tocco di
Marco si alleggerisce, ma continua a ispezionare quell’area
della mia testa
cautamente con i polpastrelli.
“Bene,
pare che si sia gonfiato”, afferma, “Ma
nient’altro. Fammi controllare solo
un’ultima cosa.”
Gira
intorno allo sgabello da bar fino a trovarsi di fronte a me; la sua
bocca si è
stretta in una linea sottile, e le sopracciglia sono aggrottate per la
concentrazione. Inspiro bruscamente – pentendomene
immediatamente quando sento
una fitta di dolore attraversarmi la tempia – e incontro il
profumo secco del
suo detersivo ovviamente aromatizzato alla camomilla, misto a un
distinto
sentore di cloro. Rimetto il ghiaccio sulla testa, stavolta
apprezzandone la
freschezza.
Alza
un dito di fronte al mio volto, e io lo fisso senza capire.
“Ho
bisogno che tocchi il mio dito, poi il tuo naso, poi di nuovo il mio
dito, più
velocemente possibile”, mi informa. “È
solo un normale esame per le commozioni
cerebrali.”
Aggrotto
le sopracciglia, ma faccio ciò che mi ha ordinato, colpendo
il suo dito con il
mio, poi toccandomi il naso per poi tornare nuovamente sul suo dito. La
bocca
di marco si distende in un sorriso, in un’espressione
soddisfatta.
“Non
penso ci sia una commozione”, afferma. “Era solo
una brutta botta. Tienici il
ghiaccio sopra ancora per un po’, okay?”
“Immagino
tu voglia essere pagato per la diagnosi oltre alla normale quota per la
piscina, questa settimana” scherzo io, mentre Marco muove un
passo indietro per
appoggiarsi al bancone. Non riesco più a percepire il
profumo dei suoi vestiti.
“Dove l’hai imparato? Cos’eri, un dottore
che ha deciso di mandare tutto
all’aria e dedicarsi a fare affari con la pulizia delle
piscine?”
Marco
si sfrega i capelli dietro l’orecchio in un gesto
imbarazzato, facendo
spallucce.
“Be’,
non sei molto lontano dalla verità”, ammette,
mentre io alzo le sopracciglia
con un’espressione sorpresa. “Studi
all’Università di Trost, giusto?”
“Sì”,
annuisco, spostando di poco la mano quando il ghiaccio inizia a
scivolare via
dalla mia presa. Deve aver visto il logo
dell’Università di Trost su una delle
mie magliette. “Ci andavi anche tu?”
È
strano, perché a quanto sembra non potrebbe avere
più di ventuno o ventidue
anni, ma se avesse finito sette anni di studio di medicina, adesso
avrebbe…quanto?, almeno venticinque anni, se non di
più. Non li dimostra. Forse
è per le lentiggini.
“Ho
fatto un anno”, ammette, “Il corso per
paramedico.” Be’, adesso si spiega
tutto. Probabilmente ha solo un anno più di me. Ancora non
si spiega la
discrepanza tra la pulizia delle piscine e il lavoro di medico. Anche
se fossi incosciente riuscirei a
cogliere la
differenza.
“Non
era nelle tue corde o qualcosa del genere?”
Si
morde il labbro, lasciando un momento di silenzio prima di decidersi a
rispondere. È un po’ strano raccontare la storia
della tua vita al figlio di
una tua cliente, posso capirlo.
“No”,
risponde lentamente, chiudendo le dita attorno allo spigolo del bancone
su cui
è appoggiato. “No, mi piaceva tantissimo.
Ma…problemi di famiglia, capisci che
intendo? Non si poteva evitare.”
Il
suo sguardo scuro torna a posarsi su di me mentre il tono di voce si
affievolisce in un instante.
“Non
pensavi davvero che avessi scelto
di
pulire piscine come ambizione nella vita, vero?” Sorride, ma
sembra un sorriso
vuoto. Gli offrirei una risata per sostenere la conversazione, ma
sembrerebbe
altrettanto finta.
Rievoco
le ipotesi che feci quando mia madre mi informò del nuovo
inserviente della
piscina. Slip da bagno, ritirato dal
college. Be’, almeno in parte avevo ragione. Niente
slip in vista, fortunatamente.
Ma ciò non toglie che io mi senta in colpa comunque. Non
pensavo avesse
abbandonato gli studi in questo senso.
Il
mio scopo è quello di tentare di alleggerire il tono della
conversazione.
“Dovresti
conoscere Bert allora”, medito io. “Fa il secondo
anno di medicina. Bertholdt
Hoover?”
Il
viso di Marco si illumina immediatamente nel ricordo.
“Sì,
lo conosco! Cioè, lo conoscevo, ma…sì,
lo conosco”, sorride. Quel sorriso è
contagioso. “Anche tu?”
Gli
racconto di come conosca più o meno Reiner Braun, il
difensore dei Trost
Titans, tramite Connie, e quindi di conseguenza conosco Bert. Marco
annuisce:
anche lui conosce Reiner. Gli racconto di quando li ho incontrati per
la prima
volta in una delle feste in casa organizzate da Connie e Sasha, e di
come Reiner
sia solito prendere la gente per il collo quand’è
ubriaco. Incluso me.
Soprattutto me.
“Com’è
piccolo il mondo”, ride Marco, mentre finisco di raccontargli
di come mi siano
rimasti i lividi intorno al collo per una settimana intera dopo quella
sera. Getta
uno sguardo al suo orologio e poi fuori in giardino, e mi sembra di
sentire un
leggerissimo sospiro quando si raddrizza.
“Allora,”
dice, “ho una piscina da sistemare.”
Mi
accorgo di sentirmi stranamente deluso quando mi rendo conto che
ciò debba
porre fine alla nostra conversazione. E significa che devo tornare
nella mia
stanza e prestare tutta la mia attenzione alla ripetizione di chimica
per il
resto del pomeriggio. Al pensiero sento il mal di testa aumentare.
“Ti
scoccia se mi siedo fuori con te?” mi azzardo a chiedere.
“Non credo di essere
fisicamente in grado di affrontare altro studio. Mi fa venir voglia di
saltare
fuori dalla finestra, invece di…sbatterci la testa e
basta.”
“Certo
che no”, ribatte Marco, “Non
c’è problema. Tua madre lo fa sempre.”
“Voglio
sperare che io e mia madre abbiamo intenzioni leggermente
diverse.”
Il
cortile è un po’ troppo lontano dalla piscina per
poter mandare avanti una
conversazione decente, quindi decido di appollaiarmi sui gradini del
capannone
della piscina, che perlomeno non si trova al sole. Il filtro sta
continuando il
suo percorso lungo i bordi della piscina, ma finora si è
lasciato indietro
qualche gruppo di foglie che galleggiano ancora al centro della vasca;
Marco
tira fuori il retino e inizia ad allungare un braccio per pescare i
residui.
“Quindi,
un dottore, eh?” osservo con noncuranza.
“È roba seria. Da quant’è che
vuoi
farlo?”
“…Da
un po’, credo?” risponde Marco, sorridendo tra
sé e sé, mentre svuota in un
secchio il contenuto del retino. “Sono una di quelle persone
che non hanno mai
cambiato idea su cosa vogliono fare da grandi da quando avevano cinque
anni.”
“Quindi
cos’hai intenzione di fare?
Riprenderai
gli studi di medicina quando non ci saranno più questi
problemi di famiglia?”
Il
suo sorriso vacilla un poco, acquisendo una nota decisamente triste.
Probabilmente sto ficcando il naso dove non dovrei. Di solito sono
piuttosto
bravo a farlo. Nonostante tutto, continua a rispondermi.
“Forse.
Mi piacerebbe. Cioè, pulire piscine quattro giorni a
settimana e fare il
barista nelle altre due sere non è veramente il sogno della
mia vita. Ma…sono
comunque soldi.”
Mi
sporgo in avanti, poggiando il gomito sulle ginocchia e il mento nel
palmo
della mano. L’impacco di ghiaccio nell’altra mano
inizia a perdere tutta la sua
freschezza.
“T’invidio”,
ammetto, con un sorriso beffardo. “Sai esattamente cosa vuoi
fare della tua
vita. Vorrei che fosse così anche per me.”
“Quale
hai scelto come materia principale?” chiede lui, con le mani
incrociate sulla
base del manico del retino, ora guardandomi dritto negli occhi. Il suo
sguardo
però non mi mette in imbarazzo – al contrario di
quando sono i miei parenti a pormi
la stessa domanda.
“Non
so”, gli rispondo onestamente, alzando le spalle.
“Non c’è niente che voglia
veramente scegliere. Sto studiando chimica, filosofia, matematica,
storia
europea e francese al momento, ma…be’, non sono grandioso in niente, capisci che intendo?
Credo che mio padre
vorrebbe vedermi laureato in qualcosa tipo economia o finanza, o
qualche altra
materia scientifica. L’unica ragione per cui sono andato
all’università
quest’anno è che mi serve una laurea per poter
lavorare nella sua azienda di
merda.”
“Pensa
ai tuoi disegni, però”, mormora lui, quasi senza
lasciarmi il tempo di prendere
fiato quando finisco di parlare. Sento il calore insinuarsi sulla mia
nuca.
Distolgo lo sguardo, premendo le dita dei piedi sull’erba.
“Hai decisamente un
talento naturale per l’arte, Jean. Potresti sceglierlo come
indirizzo all’università.”
Non
so bene come rispondere. Forse non sono abituato a complimenti
così genuini. Di
solito è tutto un: oh, hai preso
una A in
francese, ma com’è andata in chimica? E il voto di
matematica?
“Non
saprei”, rispondo sottovoce. Il ragazzo della piscina non
è la persona a cui
pensavo di dover raccontare la storia della mia
vita. A dire il vero, non pensavo affatto di poter dire a
qualcuno tutte queste cose, se devo essere onesto. Ma Marco
ha
quest’aria di approvazione così diversa da
chiunque io conosca. Le parole
scivolano via in un attimo, nonostante abbia cercato di tenerle per me
in
passato. “I miei non ne sanno niente. Non penso la
prenderebbero bene,
comunque.”
Non
posso negare che il pensiero di scegliere arte come materia principale,
o
addirittura di iscrivermi a un’accademia d’arte, mi
sia balenato in testa
almeno una volta. Ma, quand’è successo,
l’ho sempre vista come una fantasia
irraggiungibile. Quindi non mi sono mai sforzato più di
tanto per raggiungerla.
Mi sono semplicemente rassegnato.
Non
sono abbastanza coraggioso per provare a fare altrimenti.
“E
poi, non credo di essere abbastanza bravo”, aggiungo,
espirando dal naso. “È
solo un hobby. Nessuno vorrebbe veramente quegli scarabocchi di
merda.”
Sento
Marco sospirare e alzo lo sguardo. Sta fissando l’acqua della
piscina ai suoi
piedi, con la fronte corrugata in un’espressione di,
cos’è…frustrazione?
“Puoi
considerarmi come un…be’, non un tuo ammiratore,
Jean”, parla con tono tranquillo. “Devi aver
fiducia nelle tue capacità, devi
credere di essere abbastanza bravo per fare ciò che tu vuoi fare.”
Be’,
questo sì che è
spaventosamente…profondo.
“E
tu come faresti a saperlo?”, ironizzo io, allontanando dalla
testa l’impacco di
ghiaccio ormai sciolto, per appoggiarlo sui gradini accanto a me.
“Mi conosci
appena, Lentiggini.”
Fa
spallucce. “Lo so e basta.”
Questo
momento, però, ha vita breve: viene interrotto quando la
porta sul retro si
spalanca sul lato della casa, e mia madre trotterella nel cortile, con
la voce
squillante che mi martella in testa. Mostro il mio disgusto a Marco,
che per
tutta risposta mi rivolge un sorriso comprensivo, per poi tornare a
raccogliere
foglie dal pelo dell’acqua, sulle note dell’album Danger Days dei My Chemical Romance.
Domenica
mia madre vuole assicurarsi che io passi più tempo possibile
a letto a
riposarmi, nonostante Dottor Marco mi
abbia assicurato che non ho nessuna commozione cerebrale.
Penso
che sia segretamente contenta di avere qualcuno che dipende da lei. E
suppongo
non sia poi così male,
dato che mi
basta mandarle un messaggio perché mi porti un gigantesco
panino con pollo e
bacon.
L’unico
aspetto negativo è che ora non solo
sto pensando a come si comporterà Connie lunedì.
Continuo anche a soffermarmi
su quello che mi ha detto Marco sulla scelta di qualcosa di assurdo,
tipo
disegno, come specializzazione. Ora sì che sto anche meglio
di prima, grazie
tante.
Provo
a distrarmi disegnando, ma proprio mentre sto scarabocchiando
rapidamente
Mikasa, mi accorgo di averle disegnato le lentiggini.
Alzo
gli occhi al cielo, esasperato, e volto pagina senza neanche
preoccuparmi di
cancellare l’errore, iniziando da zero un disegno vero e
proprio del ragazzo
della piscina, ormai “confidente-per-caso”. Capelli
scalati, corti sulla nuca.
Le lentiggini di Ymir. Il sorriso di Historia. Sembra a posto.
E
così, è Lunedi. Matematica. Uno dei corsi che
segue anche Connie.
Arrivo
lì più presto del solito, principalmente
perché - avendo passato tutta la
domenica a letto - mi sono alzato prima che suonasse sveglia,
sentendomi sì
fresco e riposato, ma anche con la sensazione di aver sprecato un
weekend di
studio prezioso. Uso la mezz’ora prima dell’inizio
della lezione per iniziare a
soffocare un po’ del mio senso di colpa dando uno sguardo a
qualche problema di
matematica per conto mio.
Connie
è l’ultimo ad arrivare. Si precipita in aula senza
fiato, scandagliando con lo
sguardo tutta la stanza per assicurarsi che Pixis non sia arrivato
prima di
lui. È salvo.
Mentre
Armin occupa il posto alla mia sinistra, il banco a destra è
ancora libero,
quindi Connie lo raggiunge automaticamente descrivendo una linea retta
verso la
postazione, per poi gettare lo zaino malconcio sulla scrivania con un
tonfo
sonoro. È il rumore dello zaino di uno che sta studiando sia
filosofia che
storia europea.
“Non
puoi immaginare che casino nel parcheggio stamattina”, le
parole gli escono
confuse in un unico respiro affannoso. “Venti minuti per
trovare un posto.
Venti minuti!”
Be’,
questo risponde alla mia domanda principale.
“Hai
lo stesso problema ogni giorno,” dice Armin, sporgendosi
oltre la mia testa.
“Perché non esci di casa un po’
prima?”
“Io
esco prima,” si lamenta
ad alta voce
Connie, strappando qualche occhiataccia alle persone sedute nella fila
di
fronte alla nostra. “Se uscissi ancora
più presto praticamente dovrei uscire il giorno
prima. È che adesso devo
passare a prendere Sasha, e ci mette un
sacco di tempo per uscire da casa ogni mattina, oh mio
Dio!”
Mi
viene da chiedermi perché, esattamente, Connie faccia una
deviazione del genere
ogni giorno per passare a prendere Sasha, che abita
dall’altra parte della
superstrada rispetto a lui, ma sono interrotto dall’arrivo di
Pixis nell’aula.
La
lezione è monotona. Sono mentalmente assente per la maggior
parte del tempo,
scarabocchiando nell’angolo del mio blocco per gli appunti,
mentre Connie
accanto a me russa sempre più forte. Non so come faccia a
cavarsela così
spesso. Armin, ovviamente, sta astutamente prendendo appunti. Sono
contento che
qualcuno lo stia facendo. Ne avrò bisogno più
tardi.
Quando
Pixis finalmente annuncia la fine della lezione e se ne va, io mi
chiedo se
dovrei aspettare Connie o meno prima di andare a mensa a mangiare
qualcosa. Ma
non mi lascia il tempo per pensarci, perché appena Pixis
lascia l’aula lui è
sveglio.
“Ehi,
ho portato quel libro su Titanfall
di
cui stavo parlando venerdì!” sorride, aprendo lo
zaino, “Vuoi vederlo?”
“Uh,
ho un po’ di fame… ti va se andiamo a mangiare
qualcosa e lo vediamo lì?”
propongo io, grattandomi la nuca in una goffaggine che mi ricorda
Marco. È
tutto un po’ surreale. Sembra come se Connie abbia
dimenticato l’esistenza
degli ultimi dodici mesi.
“Certo!”
concorda, e lasciamo il dipartimento di matematica insieme; Connie mi
declama
rapidamente nelle orecchie qualsiasi cosa abbia fatto nel weekend,
mentre io
penso solo a concentrarmi a non essere così stordito da
andare a sbattere
contro qualche porta. Non lo faccio per poco.
La
mensa non è molto affollata e il tavolo che occupo di solito
è libero, quindi
gettiamo a terra gli zaini e io mi offro di andare a prendere un
caffè e
qualcosa da mangiare per entrambi. (Credo che Connie ricordi benissimo
il mio
portafogli, perché non prova nemmeno a fare finta di
protestare per cortesia.
Non mi interessa, comunque. Tanto sono sempre soldi di mio padre.)
Mentre
sono in coda per pagare, noto che il nostro tavolo è stato
circondato da un gruppetto
di persone; riconosco i capelli neri di Mikasa nel mezzo
immediatamente, e poi
Eren, al suo fianco, che parla con Connie. Lui scuote la testa in
risposta a
qualcosa che Eren gli sta dicendo, poi Eren alza le spalle, per poi
andarsene,
lasciando Connie nuovamente solo. Penso che gli stiano chiedendo
perché
improvvisamente stia frequentando un parassita come me. Vorrei
chiederglielo
anch’io, a dire la verità.
“Sul
serio, non capisco come faccia a piacerti il caffè
così zuccherato, cazzo,” gli
dico mentre mi avvicino, porgendogli il bicchiere in polistirolo
fumante. “Che
schifo.” Mi siedo di fronte a lui e controllo il mio
caffè. Ha ancora
approssimativamente la stessa temperatura di un vulcano.
“Colpa
di Sasha,” alza le spalle con noncuranza. “Neanche
mi piaceva il caffè prima di
iniziare l’università. Ma adesso se non lo bevo
per un giorno sono tipo…uno
zombie o qualcosa del genere. Tutto bleeeeggggh.” Contorce il
volto in una
smorfia per illustrarmi meglio la questione. Mi scappa una sonora
risata nasale.
Poi
la sua voce acquista un tono più tenue.
“Sono
contento che tu mi stia parlando di nuovo,” dice, tra un
sorso di caffè e
l’altro. Il suo sguardo non fissa niente in particolare, a
parte forse le
discutibili macchie marroni sul tavolo. “Ero davvero
preoccupato che potessi
ignorarmi di nuovo stamattina. Sono stato in pensiero per tutto il
weekend.”
Passo
e ripasso le dita sull’orlo del mio bicchiere, torturandomi
la bocca, immerso
nei miei pensieri. Ha pensato che io
avessi intenzione ignorarlo. Mi sento travolgere da un’ondata
di sollievo.
“Nah…non
lo farei mai.” Non realizzo immediatamente che potrei non
essere stato l’unico
a risentire della distanza degli ultimi dodici mesi. Mi sembra di aver
ottenuto
alcuni pezzi a forma di Connie necessari per riparare il buco che
probabilmente
io stesso ho contribuito a formare.
Non
solo probabilmente. Decisamente. Il re dei cazzoni colossali. Ecco cosa
sono.
Io
e Connie ci sediamo vicini in tutte e tre le lezioni che abbiamo
insieme, e
divento sempre più consapevole degli sguardi torvi che
ricevo dagli altri
quando li incrociamo nei corridoi, o quando Connie ignora il posto che
Eren
aveva riservato per lui alla lezione di storia europea.
Tutto
ciò continua martedì, fino al punto di non
riuscire a liberarmi dalla
sensazione che ogni singolo gruppo di persone che sorpassiamo stiano
bisbigliando cose del tipo guarda un
po’,
qualcuno parla di nuovo a Jean. Peccato che io non conosca la
maggior parte
di queste persone. Ovviamente è solo una buona dose di
paranoia. Comunque mi fa
impazzire.
Quando
arriva la pausa pranzo, mi si stanno letteralmente rizzando i peli per quanto sono teso.
“Senti,
ma sei stitico o qualcosa di simile?” commenta Connie con un
boccone di panino
fra i denti. Ricorda un po’ un criceto, quando si abbuffa
così. “Perché sembri
stitico.”
“Non
sono stitico,” sbotto io – ma sembra che a Connie
non importi, mentre continua
a masticare il suo pranzo. “È solo
che…sono io o tutti ci stanno fissando?
Questa cosa…non ti fa andare fuori di testa?”
Connie
alza le spalle.
“No,
veramente
no.”
“Probabilmente
stanno anche parlando di noi.”
“Non
è un mio problema.” Adocchia il mio piatto di
patatine fritte intonso, e agita
le sopracciglia. “Le mangi quelle?”
Sospiro
e spingo il piatto verso di lui. Ne afferra una manciata più
che generosa,
infilandosele in bocca.
“Perhhé
‘i pheohhupi hofhì ‘anfho?”
biascica. Traduzione: perché ti
preoccupi così tanto? Deglutisce il cibo mezzo
masticato
e continua: “Se si preoccupano del fatto che ti stia parlando
di nuovo è un
problema loro.”
Prendo
una patatina fritta e la ispeziono per un lungo momento, prima di
mordicchiare
un’estremità. Ci vuole il ketchup.
“Eren
e gli altri…ecco…parlano ancora di quello che
è successo?” Non mi
sorprenderebbe. Il naso di Eren è ancora traballante come la
patatina fritta
che sto manomettendo in questo momento. Conoscendo il suo ego,
probabilmente
non riuscirà mai a metterci una pietra sopra.
“Nessuno
ne parla più a dire il vero. È acqua passata,
ormai.”
“Ne
dubito,” borbotto io.
L’unica
persona che si sia mai degnata di avvicinarsi a noi da quando Connie ha
deciso
di mandare a fanculo la convenzione sociale –ovvero:
evitarmi- è stato Armin.
Ma non è che non lo facesse anche prima; semplicemente non
è da lui snobbare
fisicamente qualcuno in un modo così brusco.
Perciò
sono sorpreso nel vedere Sasha che cammina di soppiatto verso il nostro
tavolo,
con lo stesso sguardo riluttante che le ho scorto sul viso
venerdì, quando l’ho
sorpresa a spiarci dall’altra parte della mensa.
“Connie,
dobbiamo andare a teatro,” è tutto quello che
dice, facendo del suo meglio per
evitare di guardare troppo nella mia direzione. Non la biasimo.
Istintivamente
mi ingobbisco, poggiando la testa sulla mano. Connie inizia a
raccogliere le
sue cose, assicurandosi di afferrare un’altra manciata di
patatine dal mio
piatto mentre si alza in piedi.
“Ne
vuoi una?” le chiede, indicando il piatto. Sasha scuote la
testa. È la prima
volta da quando ho memoria in cui la vedo rifiutare uno spuntino a base
di
patate. Il che ovviamente preoccupa anche Connie, perché
un’espressione
accigliata prende posto sul suo viso. “Peggio per te,
Sash.”
Lancia
lo zaino sulla sua spalla e si gira nuovamente verso di me.
“Non
hai lezioni di mercoledì, vero?” Alzo lo sguardo
su di lui – Sasha ha già
iniziato ad allontanarsi, ma gira la testa per guardare oltre le
spalle, per
cercare di capire cosa stia trattenendo Connie. Mi sembra che esiti,
mentre
decide se sia meglio girarsi o meno. “Ti va di andare al
belvedere domani?”
“Non
dovresti avere delle lezioni?”
“Posso
saltarle,” risponde con nonchalance. “Passo da te
intorno all’ora di pranzo, se
per te va bene?”
Mi
ritrovo ad annuire. Lui mi rivolge un sorriso caloroso.
“Grandioso.”
Mercoledì
vengo svegliato dall’incessante vibrazione del mio telefono
sul comodino. Getto
una mano per cercarlo, ma con gli occhi ancora praticamente incollati
per il
sonno lo scaravento a terra. Un ugh
basso lascia la mia bocca, e mi sporgo sul pavimento senza un briciolo
di
grazia, stringendo la mano intorno alla cover del cellulare.
“Pronto?”
farfuglio nel ricevitore, strofinandomi gli occhi con le dita con aria
assonnata. “Che ore sono?”
“È
tipo mezzogiorno,” la voce di Connie arriva a volume alto
– fin troppo alto,
cazzo – attraversando la linea telefonica.
“Sbrigati a portare il culo fuori
dal letto! Sono parcheggiato sul retro.” Riaggancia
bruscamente, e io mi siedo
tenendo il telefono all’orecchio per un paio di minuti,
disorientato e ancora
mezzo addormentato.
Mi
trascino letteralmente fino al mio armadio, prelevando una maglietta e
un paio
di jeans, che non controllo neanche per assicurarmi che siano
socialmente
accettabili. La confusione non fa che aumentare quando finalmente mi
raddrizzo
e mi guardo allo specchio, realizzando di aver indossato la maglietta
al
contrario.
Riesco
a sembrare vagamente presentabile dopo aver passato dieci minuti a
scorrere una
mano tra i capelli; non mi faccio troppi problemi, perché,
se aveste visto lo
stato del pick-up di Connie, sapreste che la gente che ci
vedrà sicuramente non
commenterà il modo in cui io sono
vestito. Sembra che sia stato lanciato da un aereo e poi schiacciato da
un
carrarmato. E che qualcuno abbia provato a sistemarlo con una vernice
che non
si accorda esattamente con il colore verde militare originario.
Prendo
il mio pacchetto mezzo vuoto di Marlboro dal cassetto della scrivania e
lo
infilo nella tasca posteriore, insieme all’accendino. Avrei
dovuto proprio
comprarne altre al negozio ieri sera, ma riuscivo a pensare soltanto ad
affondare la testa nel cuscino. Penso che dovrei iniziare a fumare di
meno,
comunque.
Mia
madre è in cucina, la sento parlare amichevolmente al
telefono mentre mi muovo
di soppiatto verso la porta sul retro; le rivolgo un sorriso forzato
che spero
dica: sto uscendo, tornerò prima o
poi,
non provare a chiamarmi. Non mi sembra che se ne sia accorta.
Il
mercoledì, ovviamente, è la giornata-Marco. Di
fatto, eccolo lì a bordo
piscina, nel solito abbinamento di polo blu e pantaloncini color cachi,
con il
retino in mano. Stavolta ha un paio di occhiali sulla testa,
un’imitazione dei
Ray-Ban.
“Ehi,”
sorride non appena lo supero, “Come va con la
testa?”
“Sto
bene, stranamente,” rispondo io, mentre il telefono vibra
sonoramente nella mia
mano. Getto uno sguardo in basso verso lo schermo, e vedo le prime
righe di un
messaggio di Connie che scorrono sulla parte superiore dello schermo:
Da:
614-XXX-XXXX
smettila di sistemarti quella brutta faccia e porta il culo qua fuori
adesso
!!!
“Stai
uscendo?” mi chiede Marco, mentre infilo il telefono nella
tasca dei jeans,
senza rispondere. Il suo tono di voce sembra vagamente diffidente e io
realizzo
di avere ancora la fronte aggrottata. Provo a distendere la mia
espressione.
“Sì,
vado al belvedere,” rispondo. Marco annuisce in risposta, il
suo sorriso lo
abbandona mentre serra le labbra in una linea. “Ci sei mai
stato?”
Apre
la bocca per rispondere, ma siamo entrambi interrotti bruscamente da
Connie che
si getta selvaggiamente sul cancello.
“Jeeeeaaaaaaaaan,
sbrigati!” grida, facendomi trasalire, imbarazzato. Marco
sembra a dir poco
allarmato. “Ti sto aspettando da secoli!”
“Sto
arrivando, idiota!” urlo io in risposta, strappando una
smorfia a Connie. Intanto,
la mia mano raggiunge la tasca posteriore dei pantaloni per tirare
fuori una
sigaretta, che lascio scivolare tra i denti. Rimbalza su e
giù quando parlo.
“Scusami, Marco. Devo andare.”
Marco
sorride allegramente; è quel tipico sorriso da
Gesù con le lentiggini, che mi
fa sentire un po’ in colpa.
“Jeeeeaaaaaaaan,”
si sente nuovamente il lamento di Connie. Va
bene, va bene, sto arrivando, cazzo.
Se
il tetto di casa mia ha una bella vista, il belvedere ha una vista spettacolare.
Quando
dico belvedere non intendo effettivamente un belvedere. Forse lo era,
un tempo,
perché adesso c’è soltanto un vecchio
sentiero di terra che serpeggia intorno
alla cima della collina, per poi…fermarsi semplicemente al
limitare dell’altura;
ma c’è ancora abbastanza spazio per parcheggiarci
un paio di macchine.
A
quest’ora del giorno, siamo gli unici ad andarci.
Sto
già scivolando fuori dal sedile del passeggero quando Connie
tira il freno a
mano, e gira la manopola del volume del suo stereo di merda al massimo,
mentre
io mi godo il vento fresco sulla faccia per una volta in questo tempo
ridicolmente caldo. Trost sembra luccicare sotto di noi, con i
grattacieli del
centro che si stagliano traballanti sul cielo azzurro
all’orizzonte. Respiro a
pieni polmoni.
Connie
salta sul cofano del suo pick-up, accomodandosi contro al parabrezza.
Inizia a
rollare una canna.
“Ne
vuoi una?” offre, ma io scuoto la testa mentre mi arrampico
affianco a lui. Sto
bene con le mie sigarette normali. Inoltre, posso immaginare
perfettamente che
mia madre non esiterebbe a tagliarmi le palle se tornassi a casa
puzzando anche
vagamente di erba.
“Nah,
sono a posto,” rispondo io, accendendo la sigaretta che
stringo fra le labbra.
Inalo il fumo nei polmoni, per poi espirare lentamente. Le nuvole
bianche di
nicotina si alzano in cielo pigramente.
Il
DJ in radio presenta una canzone che non riconosco. È
tranquilla, si adatta
perfettamente a questo momento. Appoggio la testa
all’indietro sul vetro e
chiudo gli occhi, lasciando trapelare le parole malinconiche nelle mie
orecchie.
The summer shone beat down on bony backs / So
far from
home where the ocean stood / Down dust and pine cone tracks…
[L’estate
splendeva e picchiava su schiene ossute / Così lontane da
casa, là dove si stendeva
l’oceano / Lungo sentieri fatti di polvere e
pigne…]
“Era
da un sacco che non venivamo qui,” mormora Connie. Apro un
occhio per
rivolgergli uno sguardo pigro. “Non era lo stesso senza di
te. Sasha non fuma
più.”
“Non
ci vengo da allora,” ammetto io. “Un po’
mi mancava.” Il mio tetto non ha
niente a che vedere con questo posto, questo è certo.
Cade
nuovamente il silenzio, finché non finisce la canzone.
L’atmosfera viene
rovinata da una serie di pubblicità a volume odiosamente
alto.
“Sai,
io e Sasha abbiamo iniziato a frequentarci.”
Mi
cade la sigaretta dalla bocca, bruciandomi la coscia attraverso i
jeans. La
colpisco imprecando sottovoce. Connie non dice altro, ma continua a
guardarmi,
senza aspirare dalla sua sigaretta.
“Mi
stai prendendo in giro?” esclamo, strabuzzando gli occhi.
“No,
è vero.”
Lo
fisso per un bel po’ di tempo. Il problema è che
non è una sorpresa. No, non è
per niente una sorpresa, cazzo. Connie è follemente
innamorato di Sasha più o
meno da quando avevamo nove anni e lei lo batteva nelle lotte nel fango
nel
cortile di casa mia. Ricordo che Connie mi sussurrò
nell’orecchio, quando la
mamma di Sasha venne a prenderla (estremamente infastidita dalla sua
sporcizia), dicendomi che un giorno l’avrebbe sposata. Io gli
risposi che era
disgustoso.
La
sorpresa è che Connie abbia effettivamente fatto qualcosa a
riguardo. Mi
ricordo di quando siamo tornati alle scuole medie dopo
un’estate senza Sasha (i
suoi genitori l’avevano portata a nord per visitare dei
parenti per un paio di
settimane), e all’improvviso, non era più la Sasha
piena di fango. Era la Sasha
ehi-da-quand’è-che-non-hai-più-nove-anni?.
Connie era molto più sorpreso e
balbettante di me.
Ho
passato quasi tutte le medie a cercare di persuaderlo a chiederle di
uscire, ma
ogni volta non faceva che negare con veemenza che le piacesse in quel
senso,
perché siamo cresciuti insieme e la vedeva più
come una sorella. Sì, come no,
è quello che gli rispondevo
io.
Quando
Connie ha tagliato i capelli per la prima volta nel primo quadrimestre
delle
superiori – sfoggiando il taglio che porta anche adesso
– Sasha ha evitato di
rivolgergli la parola per tutta la settimana. Ogni volta che la
incrociavamo
nei corridoi chinava il capo e diventava tutta rossa, e a quel punto
Connie si
lamentava con me per tutto il giorno perché Sasha ci stava
nascondendo
qualcosa. Non nascondeva qualcosa a noi.
La nascondeva a te, sfigato che non sei
altro. Perché in realtà Sasha mi aveva
confidato che le piaceva molto il
nuovo taglio di Connie. Le piaceva
veramente, veramente tanto.
Alla
fine decisi che, dato che erano così ottusi da non capire di
piacersi tanto a
vicenda, non ne valeva la pena di continuare a sforzarmi
instancabilmente per
cercare di farglielo capire, e ho lasciato che se la vedessero da soli.
“Merda,”
mormoro. “Da quanto?”
“Tipo
tre settimane, credo?” risponde lui, soffiando via il fumo.
“Me l’ha chiesto
lei nel giorno del mio compleanno.”
Non
riesco a trattenere una risata. È tipico di Sasha.
“Che
tempismo,” gli rivolgo un sorrisetto, passandomi la lingua
sui denti.
Onestamente, non avrei mai pensato di vivere fino ad assistere a questo
evento.
Accendo un’altra sigaretta per sostituire quella che ho
dovuto gettare prematuramente.
“…Non
l’abbiamo ancora detto a nessuno,” aggiunge allora
Connie, sorprendendomi
ancora di più. Stavolta, allontana la sigaretta dalla bocca
e la tiene sul lato
dell’auto mentre cenere e carbone cadono chissà
dove, lontano da noi. “Non l’ho
detto neanche ai miei genitori. L’ho detto a te prima di dirlo a mia madre.”
“Mi
sento onorato,” gli dico, e sono sincero, cazzo. Stiamo
riprendendo questa
storia dell’amicizia da ben quattro giorni.
“Ciò non vuol dire che non ti
prenderò in giro, però.”
Connie
sfoggia un mezzo sorriso, e mi tira un pugno sul braccio per scherzare,
facendomi andare di
traverso il fumo sul
fondo della gola.
“Che
c’è?” farfuglio io attraverso un gran
sorriso, “È il mio lavoro. Farvi mettere
insieme è sempre stata la mia missione vitalizia da quando
avevamo nove anni, e
ora vengo a sapere che hai fatto tutto senza di me? Sei in debito con
me,
diamine.”
Ridiamo
insieme – mi sento letteralmente e figurativamente in cima al
mondo.
“E
tu?” mi rivolge un sorriso raggiante, “Che mi
racconti di nuovo?”
“Se
stai cercando di chiedermi se Mikasa si sia finalmente innamorata
perdutamente
di me—” mi fermo in una pausa drammatica, e Connie
ridacchia. “Be’,
sorprendentemente la risposta è no!”
“Non
fa niente! Abbiamo ancora la nostra amicizia romantica…anche
se adesso ho una
ragazza, niente può ostacolarci!” avvinghia con
forza un braccio intorno alle
mie spalle, bloccandomi la testa. Mi chiedo quanto di quello che sta
fumando
gli sia arrivato alla testa, e quanto di quello che sta dicendo invece
è solo
la solita dose di assurdità di Connie a cui ancora non mi
sono riabituato. Ad
ogni modo non importa, perché scoppio a ridere di nuovo.
“Non
respiro…non respiro!” rido, schiaffeggiandogli
l’avambraccio che ha stretto
attorno al mio collo, mentre lui mi strofina aggressivamente la testa
con le
nocche dell’altra mano. “Lasciami andare,
lasciami!”
Lui
mi asseconda, ma non prima che io l’abbia picchiato sulla
testa con il palmo
della mano.
“Quindi
nessuna sconosciuta sexy e bellissima si è imbattuta nella
tua vita
ultimamente?” Connie rabbrividisce, strofinando il punto dove
l’ho colpito; mi
lascio sfuggire una sonora risata nasale, soffiando una lunga nuvola di
fumo
via dalla bocca. Ahimè, no. Niente sconosciute bellissime.
Sconosciuti
alti, scuri e molto, molto
muscolosi,
d’altro canto…
Riesco
letteralmente a soffocare con la sigaretta.
“Cristo!”
esclama Connie, colpendomi la schiena mentre sputo un po’ di
saliva sul terreno
sabbioso affianco a me. “Da quanto
stai fumando, Jean?!”
Gli
faccio segno di smettere, flebilmente, strofinandomi la base del collo
con una
mano per cercare di alleviare il dolore. Mai
parlare di un pensiero scomodo…
Connie
cambia argomento, e inizia a immergersi in qualche racconto su quello
che combina
con le persone che un tempo anch’io potevo chiamare
“amici”. Mi racconta di
come Eren non riesca a smettere di parlare del tipo più
grande che vive
nell’appartamento al piano di sopra, nel palazzo dove vivono
lui e Mikasa.
Ricorda infelicemente una storia di qualche giorno fa, quando voleva
passare un
po’ di tempo con Bert e Reiner, che hanno pensato bene di
mollarlo nel salotto
con la loro vicina completamente asociale, Annie (che a quanto pare se
la gioca
bene con Ymir in quanto a mostruosità), mentre loro due sono
andati a pomiciare
rumorosamente al piano di sopra.
Borbotta
qualcosa sulla sua professoressa di biologia, Hanji, che l’ha
mandato in
punizione solo perché
stava provando
a rispondere a Sasha su Snapchat durante la lezione.
Assorbo
tutte le informazioni come una fottutissima spugna, fissando il cielo
terso
mentre lui continua a parlarmi, saltando da una storia
all’altra.
“È
il tuo turno per raccontare qualcosa,” ordina lui. Adesso che
lo guardo, ha gli
occhi così rossi che penso che potrebbe addormentarsi prima
ancora che io
riesca a rispondere. Ha un briciolo di forza di volontà in
più rispetto a
quello che credo.
“Non
ho niente di interessante da raccontare,” alzo le spalle.
Be’, niente che non
renda la conversazione terribilmente deprimente, questo è
certo. Connie
ovviamente nota le mie spalle incurvarsi nello sconforto, nonostante
quanto sia
probabilmente strafatto (e sembra decisamente molto
sballato).
“Be’,
sicuramente stai pensando a qualcosa,” mi sollecita,
avvicinandosi a me. Il suo
alito puzza terribilmente di erba, cazzo. “Quindi sputa il
rospo.”
Alzo
gli occhi al cielo, esasperato. Non è una cosa sola;
è una combinazione di
troppe cose diverse, potremmo stare qui tutta la notte se dovessi tirar
fuori
tutto quello che mi opprime il petto. Quindi opto per quella
più importante.
“Ho
scoperto che mio padre ha una relazione,” rispondo. Connie
non sembra reagire,
e mi chiedo se si sia letteralmente addormentato a occhi aperti.
“Si scopa una
delle sue segretarie. O forse tutte quante.
Chissà.”
Un
mormorio contrariato lascia le labbra di Connie, che scivola un
po’ più in
basso sul parabrezza. Preme il mozzicone del suo spinello contro la
vernice
merdosa del tettuccio.
“Be’,
è un po’ una situazione di merda,”
mormora. A
chi lo dici, penso io. “La signora K. lo
sa?”
Scuoto
la testa. “Non credo. Comunque dubito che sia tanto stupida
da non averlo anche
solo immaginato.” Mi sento un po’ male a dire
quelle parole. C’è una parte di
me – una parte piuttosto significante – che non
vorrebbe che lei lo sapesse.
Mai. Perché poi cosa succederebbe? Divorzierebbero? Cosa
accadrebbe alla casa?
Io con chi vivrei? O ancora peggio, mamma ignorerebbe la cosa e
rimarrebbe con
lui in un matrimonio di facciata solo per salvarsi la reputazione?
Chiudo
gli occhi e li stringo il più possibile.
“La
parte peggiore è che…diciamo che sto aiutando mio
padre a tenerglielo
nascosto,” mi lamento. Ecco che arriva
l’inevitabile ondata di vergogna.
“Intercettando telefonate e cose del genere. Ma è
che…voglio proteggere
mamma, capisci? Perché mio
padre è una testa di cazzo.”
“…che
sfiga,” è il massimo dell’eloquenza che
Connie offre alla situazione.
“Sicuramente non saprei cosa fare al posto tuo.”
Continuiamo
a oziare al belvedere per qualche ora, apprezzando lo strimpellio della
radio
del pick-up e la vista sulla città di Trost. Tuttavia, non
apprezzo affatto la
sensazione che le mie gambe si stiano sciogliendo sul cofano
dell’auto, che
alla fine è il motivo per cui decidiamo di andarcene.
Appena
rientriamo nell’abitacolo, Connie riceve una telefonata da
Sasha. La sua
suoneria è Boss Ass Bitch,
di Nicki
Minaj. Oh Dio. Per favore, ditemi che è uno scherzo.
“Ehi,
Sash,” risponde, appoggiandosi sullo sterzo. Tiro fuori
l’ultima sigaretta e la
butto fuori dal finestrino, distrattamente. “No, posso ancora
passare a
prenderti. Sì…sì, me ne stavo andando
proprio adesso dal belvedere. Sì…con
Jean. Ah-hah. Okay, nessun problema. Mettimene un po’ da
parte, va bene? Ci
vediamo fra un quarto d’ora.” Come se si fosse
ricordato dopo di voler
aggiungere qualcosa, continua con un esitante,
“…ti amo.” Gli rivolgo un
sorriso beffardo non appena riaggancia il telefono.
“Sta’
zitto.”
“Non
ho detto niente.”
Quando
Connie mi riaccompagna a casa, ormai ho perso l’occasione di
scusarmi con Marco
per il mio amico così odiosamente rumoroso,
perché se n’è già andato da
un po’,
lasciando la piscina pulita e scintillante (anche
se…è sempre così?).
“Ehi,
mamma,” la saluto, mentre entro in cucina puntando dritto al
frigorifero (sto
veramente morendo di fame, cazzo…probabilmente una specie di
fame chimica
passiva).
“Ciao,
tesoro,” mi sorride, alzando lo sguardo dalla
rivista aperta sul bancone. Ha una’espressione
serena da dolce mammina
stampata sul volto. “È l’auto di Connie
quella che ho visto là fuori?”
“Sì,”
rispondo con naturalezza, ma l’energia che irradia mia madre
riesce a strappare
anche a me un sorrisetto simile al suo. “Siamo stati al
belvedere.”
Prendo
posto sullo sgabello affianco a lei e do un morso alla fetta di pizza
fredda
che ho appena preso dal frigo. Lei si volta per guardarmi con
un’aria confusa.
“Che
succede?”
“Niente,”
la liquido rapidamente. Do un altro morso alla pizza e indico la
rivista con un
cenno del capo, in un tentativo di fare un po’ di
conversazione spicciola. “Che
stai leggendo?”
Alza
le sopracciglia per quanto la sua fronte piena di Botox glielo
permetta. Sa che
sto cercando di evitare il discorso, e me lo fa capire con
un’espressione del
volto.
“Che
succede?” ripete nuovamente, stavolta con un tono
più tranquillo. Espiro
dolcemente e mi arrendo, sporgendomi a colmare lo spazio che ci separa
e
avvolgendo le braccia attorno alle sue spalle. Lei si irrigidisce per
un
istante, ma poi si rilassa nell’abbraccio, portando le mani
sulla mia schiena
per poi muoverle su e giù sulle mie scapole in un movimento
rassicurante. Rimane
in silenzio senza dire nulla, e le sono infinitamente grato per questo.
Cerco
di fissare bene questo momento nella memoria.
Scusami,
mamma. È tutto ciò che posso fare per te al
momento.
Il
resto della settimana passa senza niente di particolarmente diverso dal
solito.
Non faccio più caso agli sguardi e ai sussurrii nei corridoi
come facevo prima;
non ho tempo per pensarci, adesso che prendere in giro Connie per la
sua
relazione top-secret occupa un posto molto più alto nella
mia agenda da
super-cattivo.
Una
cosa a cui faccio caso, però, è il modo in cui
mia madre ha iniziato a sfiorarmi
dolcemente la spalla ogni volta che ci incrociamo in giro per casa. Non
so
nemmeno se se ne rende conto, ma la cosa mi riempie con un misto di
contentezza
per la nostra vicinanza ma, allo stesso tempo, una tristezza terribile,
cazzo.
Perché ovviamente ha capito che c’è
qualcosa che non va. Ma non ho intenzione
di dirglielo. Non posso.
Quando
arriva Sabato, mi accorgo di non vedere l’ora che ci sia
un’altra persona nei
paraggi, qualcuno che non mi lanci sguardi penosi ogni volta che ci
troviamo
nella stessa stanza. Ti adoro, mamma. Ma questa cosa mi sta facendo
impazzire.
Esattamente
quattro settimane prima dell’inizio dei test di fine anno,
arrivo alla fatidica
conclusione: devo iniziare a ripetere
seriamente, o prepararmi all’idea di essere sicuramente
bocciato. E per
quanto non mi interessi nulla di tutte le materie che sto studiando,
proprio non
ci tengo a essere bocciato. Penso di essere piuttosto controverso per
natura.
La
mamma mi suggerisce di studiare in giardino (perché a quanto
pare sono così
pallido da sembrare uno zombie – grazie, ma’), e si
offre anche di aiutarmi a
studiare dalle schede – ma solo se la lascio guardare
lascivamente Marco senza
lamentarmi. Mi ritrovo ad accettare il compromesso non senza farle
notare la
mia esasperazione.
Appena
arriva, Marco è solare e allegro come al solito e mamma
sbatte le ciglia così
velocemente che potrebbe decollare da un momento all’altro.
“Mamma,” la riprendo,
“Occhi. Sul. Libro.
Di. Francese.”
“Sì,
sì, sto guardando,” dice – ma
è palese che non stia guardando neanche
lontanamente gli appunti di francese con cui teoricamente dovrebbe
aiutarmi. “Quelle partie veux-tu que
je lise?” Non
si gira nemmeno per guardare me, figurati se sta prestando attenzione
ai fogli.
Dio, quanto odio il fatto che sappia parlare correntemente il francese.
“Puoi
leggere la… Tu peux lire la
question sur
Alexandre Dumas?” le rispondo. Lei si acciglia.
“Pensavo
stessi studiando la letteratura del XXI secolo?” dice. “Et ton
accent
est épouvantable. Ta
mamie aurait honte.”
“Infatti
ci sarà pure un motivo per cui non parlo con mamie
in francese,” borbotto sotto voce, mentre mia madre inizia a
versare tre bicchieri di limonata. Ne agguanto uno appena possibile,
mandando
giù qualche sorso piuttosto rumorosamente. Lei mi rivolge
una smorfia
disgustata, per poi invitare Marco a venire a bere qualcosa.
Arriva
con una corsetta dall’aria gioiosa; mia madre gli passa uno
dei bicchieri alti.
“Parli
qualche lingua straniera, Marco?” gli chiede con tono
materno, con gli occhi
puntati…non sul suo viso. Marco beve un piccolo sorso prima
di allontanare il
bicchiere dalle labbra.
“No,”
risponde, con un sorriso imbarazzato. “Le lingue non sono mai
state il mio
forte a scuola, devo ammetterlo.”
“Oh,
che peccato,” cinguetta lei, trascinando lo sguardo lontano
dal petto di Marco
per posarlo su di me, che tengo il broncio sui miei appunti.
“Immagino tu sia
d’accordo con me sul fatto che l’accento di Jean
sia spaventoso, comunque.”
Contraggo
le labbra e ringrazio mentalmente mia mamma per aver parlato così bene di me.
“A
dire il vero a me sembrava abbastanza buono,” decide Marco.
Beve un altro sorso
di limonata, ma per un brevissimo momento il suo sguardo incrocia il
mio da
sopra l’orlo del bicchiere. “Il francese
è una lingua veramente bellissima da
ascoltare.”
“La
lingua dell’amore,”
mormora mia
madre, passando i denti sul labbro inferiore, suggestivamente. Stringo
la
radice del naso fra le dita e faccio del mio meglio per ignorare il suo
comportamento. “A Jean non piace per niente.”
“Può
essere la lingua di qualsiasi cazzata,
basta che riesco a prendere una A all’esame di fine
anno,” le rispondo a tono.
Mamma si sporge sul tavolo per schiaffeggiarmi il polso, sgridandomi
per il
linguaggio scurrile.
Marco
si congeda per finire di pulire la piscina e alla fine riesco a
persuadere mia
madre a farmi alcune domande dagli appunti, sebbene sempre con qualche
sporadica occhiata in direzione del nostro lentigginoso ospite.
Mi
sembra che i lunedì siano diventati giornate di cambiamenti.
Questo lunedì non
fa eccezione.
Sono
seduto a quello che io e Connie abbiamo ormai battezzato come il
“nostro
tavolo” a mensa, sfogliando un po’ gli appunti di
filosofia mentre aspetto che
il caffè si raffreddi, e mastico una porzione di patatine
fritte affogate nel
ketchup, sperando che Connie si sbrighi a uscire da quella cazzo di
aula di
biologia.
Mi
sorprende vederlo entrare nella sala senza la compagnia di Sasha o gli
altri,
per camminare direttamente verso il tavolo dove sono seduto io, con
un’espressione accigliata ben impressa sul volto.
“Che
è successo?” gli chiedo non appena sprofonda in
una delle scomode sedie di
plastica, gettando la borsa al suo fianco.
“Ho
appena avuto una delle solite discussioni con Eren,” sospira.
Alzo le
sopracciglia, mantenendo in alto la pagina di appunti di filosofia che
reggevo
tra le dita. Pensavo avessimo deciso di non prestare attenzione a
quello che
pensano gli altri. “Finalmente ha incassato il
colpo.”
“Vuole
sapere perché hai ripreso improvvisamente a parlarmi,
vero?”
“Qualcosa
del genere. Gli ho detto che ne ho avuto abbastanza di ignorarti per
tutto quel
tempo. E che non siamo più bambini di cinque anni. Sai
com’è fatto Eren.”
Immagino che la franchezza di Connie probabilmente non si sposi bene
con la
tempra di Eren. Non mi stupisco che Connie stia praticamente tremando
per la
rabbia.
“Ti
dispiace di averlo fatto, Jean?” mi chiede, di colpo. Lascio
cadere la pagina
di appunti e incontro il suo sguardo. “Di averlo picchiato a
sangue, intendo.”
“…No.”
Parlo lentamente e con cautela, senza abbassare lo sguardo. Dove vuole
arrivare
esattamente?
“E
avevi una ragione per farlo? Una buona ragione?”
“…Sì.”
Connie
respira profondamente, lo guardo letteralmente sgonfiarsi nella sua
sedia
mentre affonda nello schienale di plastica. Incrocia le braccia sul
petto, ma
non sembra arrabbiato.
“Be’,
per me è abbastanza.”
Il
fracasso della mensa attorno a noi cresce man mano che la gente arriva
dopo la
fine delle lezioni; continuo a sfogliare i miei appunti sulla teoria
della
conoscenza, mentre Connie sembra guardare in direzione della porta.
Poco dopo
arrivano Eren e gli altri, puntando un tavolo qualche fila dietro di
noi, dove
siedono già Ymir e Historia. Provo a far finta di non
accorgermene, ma è
praticamente impossibile, dato lo sguardo infuocato che Connie gli sta
rivolgendo. Sto per dirgli qualcosa, quando il suo telefono vibra sul
tavolo.
Non appena sta per afferrarlo, vibra un’altra volta; riesco a
scorgere il nome
del mittente: Eren.
Gli
occhi di Connie esaminano le poche righe di testo, e non fa che
accigliarsi
ancora di più. Mi passa il telefono senza dire una parola.
Da:
Eren
per quanto tempo hai intenzione di assecondarlo
Da:
Eren
e quindi adesso sei tu che ci ignori
Espiro
dal naso e sia io che Connie ci voltiamo per guardare verso il loro
tavolo;
come volevasi dimostrare, ecco Eren che guarda proprio nella nostra
direzione.
Quello
che accade alla fine ci coglie entrambi alla sprovvista.
Una
sedia striscia sul pavimento di linoleum con uno stridio assordante,
che
ricorda il rumore straziante delle unghie su una lavagna. Praticamente
tutti
nella mensa saltano per lo spavento, gli sguardi vagano fino a posarsi
su
Sasha, che si alza in piedi e sbatte
la mano sul tavolo fragorosamente. Il suono rimbomba in tutta la sala.
Mi
sembra che non dica una parola; non vedo le sue labbra muoversi per
tutto il
tempo in cui i miei occhi sono fissi su di lei. Assicura
la tracolla sulla spalla, gira i
tacchi, e marcia in linea retta verso il nostro tavolo. Eren
è rimasto a bocca
aperta, e per quello che vedo dai volti di Armin e Historia, hanno gli
occhi
sbarrati. Posso solo immaginare che espressione abbiano gli altri.
Sasha
prende posto sulla sedia affianco a Connie con la stessa ferocia che ha
dimostrato poco fa, e si siede con i palmi sul tavolo. Io e Connie
sembriamo
sicuramente dei completi idioti.
Connie
si riprende dallo shock ben prima di me.
“…
E-ehi Sash,” riesce a salutarla flebilmente, mentre la guarda
con cautela, come
se stesse girando intorno a una belva pronta a mangiarlo.
Senza
alzare la voce, Sasha afferma semplicemente: “Stavano facendo
gli idioti.”
Io
ci metto ancora di più per capire quello che sta succedendo,
mentre inizio a
processare quello che penso voglia significare. Cautamente –
molto cautamente,
cazzo – commento a bassa voce:
“Novità?”
Sasha
alza lo sguardo per incontrare il mio, e rimaniamo a fissarci per un
po’. Non
so esattamente cosa sto cercando, ma lei
sembra proprio aver trovato quello che cercava nella mia espressione.
Il suo
sguardo guizza verso il basso posandosi sul mio piatto di patatine
mezzo vuoto
e lei si inumidisce le labbra.
“…hai
intenzione di mangiarle, quelle?”
Probabilmente
sembro un po’ un pesce in questo in momento, con la bocca
aperta e tutto il
resto. Non aspetta una risposta, afferra il piatto per il bordo e lo
posiziona
fuori dalla mia portata. Guardo le mie patatine allontanarsi, confuso.
Dico
la cosa più eloquente che mi venga in mente in questo
istante.
“Che
rottura che sei.”
Sasha
porta una patatina alla bocca, mentre i suoi occhi marroni-dorati sono
di nuovo
fissati su di me. Scuote teatralmente i capelli, raccolti in una coda,
con la
mano libera.
“La
peggiore,” concorda.
Da:
Sasha
jean
Da:
Sasha
jean
Da:
Sasha
jean
Da:
Sasha
jeaaaaaan
Da:
Sasha
jean
Da:
Sasha
hai visto che ti ho mandato su snapchat
Da:
Sasha
rispondimi su snapchat
Da:
Sasha
jean
Ecco
cosa vedo appena mi sveglio mercoledì mattina di quella
settimana. Sono steso
supino sul mio letto, mantenendo il telefono in alto, sopra la mia
testa,
mentre scorro verso il basso per leggere la serie di messaggi che mi
hanno mandato
mentre dormivo. Ne arriva un altro proprio in quel momento, facendo
vibrare il
telefono nella mia mano.
Da:
il
ragazzo più fico che potrai mai conoscere
sasha mi ha detto di chiederti se hai letto su snapchat ?????
Perché
ho permesso a Connie di memorizzare il suo numero nella mia rubrica?
Abbasso
il braccio e poso il telefono sulla fronte, chiudendo di nuovo gli
occhi.
L’aria oggi è veramente calda – umida e
schifosa – e scalcio via le lenzuola
brontolando tra me e me. Sento le caviglie tutte appiccicose e sento il
sudore
troppo caldo dietro al collo.
Getto
il telefono sul cuscino, senza alcuna intenzione di rispondere adesso,
e
barcollo fino alla finestra. Provo a sollevare il vetro, ma con questo
caldo si
è attaccato al davanzale e non sembra intenzionato a mollare
la presa. Impreco
un paio di volte, con la speranza che qualche ‘fanculo,
finestra del cazzo, possa convincerla ad aprirsi. Ci
metto la forza dalle spalle e finalmente cede.
Non
che l’aria di là fuori sia meglio; forse
è meno consumata, ma è sempre
fottutamente calda. Mi chiedo quanto sia socialmente accettabile girare
in
boxer tutto il giorno. Probabilmente non molto. Mamma avrebbe
sicuramente
qualcosa da ridire.
Sbadiglio
sonoramente e stiracchio le braccia sopra la testa; praticamente ogni
articolazione
dalla spalla fino al polso fa rumore. Passo una mano tra i capelli con
aria
assonnata, fissando il cortile sul retro con gli occhi semichiusi.
Il
caldo estivo mi fa sentire incessantemente stanco. Anche se siamo
ancora solo
all’inizio di maggio. O forse è solo il risultato
di un giorno e mezzo passato
a cercare di stare dietro a doppi guai.
Cazzo, avevo quasi dimenticato quanta energia ci vuole per stare con
Connie e
Sasha contemporaneamente. A quanto pare ho dimenticato tutto
perché ero troppo
impegnato ad angosciarmi al loro pensiero negli ultimi dodici mesi.
Ieri
è stato un tantino diverso da quello che mi aspettavo
inizialmente. All’inizio,
pensavo che sarebbe stato dieci volte più imbarazzante
rispetto a quando
eravamo solo io e Connie a fare comunella. Ma a quanto pare non
è così. È stato
piuttosto divertente vedere come Eren abbia cercato di mantenere le
distanze
con noi tre a mensa, nei corridoi e persino nella lezione di storia
europea,
nonostante l’aula sia minuscola. Non si sarebbe potuto sedere
più lontano da me
e Connie senza dover letteralmente lasciare la classe.
Mi
sento stranamente felice. “Stranamente”
perché è quel tipo di contentezza che
senti sul fondo dello stomaco e che irradia in tutto il petto e,
diamine, non
pensavo di potermi sentire di nuovo così bene. Non sono un
tipo sempre felice.
Ma in questo momento mi sento piuttosto bene.
Il
sole è alto nel cielo, leggermente schermato da sprazzi di
nuvole bianche. La
scia di un aereo divide il blu proprio sopra la mia casa. Decido di
fare la
persona noiosa e rispondo allo snapchat di Sasha con una foto della
vista dalla
finestra della mia camera (un po’ più carina della
foto che mi ha mandato lei, che
raffigura lei con una serie infinita di doppi menti e Connie che le fa
le
orecchie da coniglio con le dita sullo sfondo).
Mi
risponde entro trenta secondi, con una foto dove sporge il labbro
inferiore in
un’espressione teatralmente triste, sovrapposta dalle parole:
fai schifo. Sullo sfondo, riconosco
l’esterno del dipartimento di arte nel campus
dell’università.
Stavolta,
rispondo con una foto del mio sorriso compiaciuto, mentre alzo i
pollici
davanti alla fotocamera.
Aggiungo
la didascalia: be’ non sono io lo
sfigato
bloccato all’uni tutto il giorno, ‘fanculo.
La
nostra battaglia su Snapchat continua per gran parte della mattinata,
mentre mi
impegno a mandare a Sasha una foto di ogni comodità di casa
mia, ricevendo in
risposta un’infinità di foto della sua espressione
sempre più triste. Dopo
circa una dozzina di botta e risposta di questo tipo, ha ovviamente
costretto
Connie a unirsi al suo fianco in questa guerra, perché lo
vedo comparire nelle
sue risposte.
Mi
accorgo presto di essere solo in casa; alla fine, quando mi dirigo in
cucina
per fare una foto al contenuto del nostro frigo da inviare alla nostra
amante
della patate, trovo anche un post-it che mamma ha attaccato alla
credenza.
Mangio
fuori, quindi riscalda degli avanzi oppure ordina qualcosa a domicilio,
leggo, con quei piccoli, presuntuosi cuoricini al posto dei puntini
sulle i. I soldi per Marco sono al solito
posto, mi
raccomando! Si è firmata con
“mamma” – perché altrimenti
non avrei mai immaginato il
mittente di quel
biglietto, certo – e una riga intera di baci.
Strappo
via il post-it dalla vernice bianca del mobile e lo accartoccio in una
mano
prima di gettarlo nella pattumiera. Faccio canestro al primo colpo.
Sistemo
il computer e i libri sul tavolo del cortile e, dopo un po’
di tempo passato a sforzarmi
per riuscire ad aprire l’ombrellone – fin troppo
tempo perché ne valesse la
pena -, mi siedo in un bel posticino all’ombra.
Sento
il motore di un mezzo pesante – probabilmente un furgone
– azionare i freni
dall’altra parte della siepe e ascolto il suono familiare
delle portiere che si
aprono nell’aria ferma. Passano solo pochi secondi e
Gesù con le lentiggini è
davanti al cancello. Sembra genuinamente felice di vedermi, a giudicare
dal
salto che fanno le sue sopracciglia e da come gli occhi castano scuro
accompagnano il suo sorriso.
È
un ragazzo bellissimo, se posso dirlo in maniera non-gay. Perfetto per
il ruolo
di uno di quei dottori super-affascinanti che si vedono nelle soap
opera in TV;
riesco a immaginarlo mentre cammina con passo sicuro nel reparto di un
ospedale, coperto da un lungo camice bianco e con lo stetoscopio
attorno al
collo.
“Ciao,
Jean,” mi saluta, raggiante; sembra la versione
più calma, più gentile del
sorriso di Connie. Genuino. Ma ho già usato questa parola.
“Come
va,” gli rispondo, con un raro sorriso senza un velo di
sarcasmo. Posso almeno
cercare di sfruttare il mio buonumore per provare che non so solo tenere il broncio per tutto il
tempo.
Ha
stampato in volto un’espressione amichevole ma confusa, con
la testa
leggermente piegata da un lato mentre
mi
analizza.
“Sembri
più allegro,” mi dice alla fine con
sincerità. Porto le braccia dietro la testa
e mi stendo un po’ più indietro sulla sdraio di
legno. Più allegro? Rispetto a
quando, all’ultima volta che ci siamo visti? Rispetto alla
settimana scorsa? O
in generale?
“Già,”
ammetto, guardando in alto verso il cielo; le nuvole sottili si stanno
dissipando, lasciando una vasta distesa blu sopra la mia testa.
“Credo di
essere più felice, in effetti.” Di solito non sono
un tipo così diretto e
sdolcinato, ma in questo momento sembra la cosa più giusta
da dire.
“Bene,”
sento il tono dolce di Marco. E poi aggiunge, con voce più
incerta: “…quel
sorriso ti dona.”
Al
suono di quelle parole sento un’ondata di felicità
invadere tutto il mio corpo,
partendo dal petto fino ad arrivare alla punta delle dita dei piedi e
delle
mani. Alzo un sopracciglio, guardandolo con aria divertita.
“Ci
stai provando con me, Lentiggini?” lo prendo in giro,
sarcastico; ridacchia e
svia lo sguardo, tenendosi impegnato mentre sistema la sua
attrezzatura. “Dovresti
stare attento, sai? È proprio dicendo cose del genere che
fai innamorare
follemente di te tutte le casalinghe che ti incontrano.”
“Ma
che dici,” continua con una risatina mentre assembla il
retino. “Non è per
niente vero. Cioè…quasi per niente. Credo che tua
madre sia un’eccezione.”
Gli
rivolgo un sorriso affabile.
“…E
poi non ti nascondo che la cosa è abbastanza
inquietante.”
“È
quello che meriti, sei troppo gentile,” lo canzono io.
“Quando rivolgi anche un
solo sorriso a mia madre cementi nella sua testa l’idea di
mollare tutto e
scappare con te o
cose simili!”
“Non
sorrido così tanto!” esclama, fingendosi afflitto.
“…o sì?”
“Oh
sì. Ci puoi scommettere.”
“Allora
devo averti contagiato.” Wow, Marco. Ancora con queste frasi
sdolcinate. Rido
sottovoce tra me e me. “Pensavo che il tuo viso fosse
irrimediabilmente
bloccato con quell’espressione scontrosa.” Fingo
orrore, guardandolo a bocca
aperta; vedo un’insolita nota sarcastica nel suo sguardo.
“Sei
incredibilmente scortese,” proclamo. “Di’
la verità, in realtà sei super astuto
e stai solo cercando di raggirare me e mia madre con il tuo
travestimento da inserviente
affascinante? Chi l’avrebbe mai immaginato!”
Questo
scambio di battute non fa che accentuare la sensazione di
felicità che credo di
sentire nel petto proprio adesso.
“Già,
mi hai beccato,” sospira Marco, premendo il dorso della mano
sulla fronte. “Sto
solo facendo finta di essere tuo amico per poter scappare con tua
madre. Il mio
piano è andato a monte.”
“Dannazione!”
gli rispondo, sentendo il mio sorriso allargarsi così tanto
da far male.
(Evidentemente non ho usato questi muscoli abbastanza, ultimamente,
dev’essere
per questo.) E poi mi soffermo sull’altra frase di Marco.
“Non mi ero neanche
reso conto che fossimo amici.”
Non
volevo dirlo in senso malizioso o…accusatorio; ho solo detto
ad alta voce quello
che mi è passato per la testa senza pensarci su. Ad ogni
modo, Marco la prende
in maniera scherzosa.
“Mi
hai prestato i tuoi vestiti e mi sono preso cura della tua testa
traumatizzata,”
sorride – un sorriso veramente angelico, cazzo, devo
ammetterlo. “Penso che
basti?”
Ultimamente
sembra che saltino fuori persone che vogliono fare amicizia con me da
ogni
angolo. A essere onesti, Marco è quel tipo di persona che
riesce a farti
sentire immediatamente a tuo agio, quando ci parli. Mi tranquillizza. E
credo
che sia la terapia di cui avrò più bisogno adesso
che sto ricominciando ad
avere a che fare con il casino di
Connie e Sasha.
“Sì,”
dico prima fra me e me, e poi a voce più alta, in modo che
possa sentirmi anche
lui. “Sì, hai ragione.” Faccio una breve
pausa, per poi riprendere. “Però mi
devi promettere che non fuggirai
con
mia mamma. Non sarebbe per niente carino.”
La
sua risata è musicale.
Dopo
la nostra conversazione torna a prestare attenzione alla pulizia della
piscina;
controlla i livelli del cloro, fa su e giù dal capanno della
piscina mentre
controlla alcuni strumenti chimici che a quanto pare si trovano
lì dentro (be’,
se è il capannone della piscina
ci
sarà un motivo, osservo fra me e me.)
Sto
cercando qualche esempio di problemi di chimica online, quando il mio
telefono
vibra sul tavolo ancora una volta. È la risposta di Sasha
alla foto del frigo.
(Evidentemente era a lezione e non ha avuto la possibilità
di rispondere di nascosto
fino ad ora.)
Sia
lei che Connie indossano gli occhiali da sole e hanno il naso rivolto
all’aria.
La didascalia recita: ah sì???
be’ puoi smettere
di considerarti nostro amico, jean kirschtein !!!
Per
tutta risposta ridacchio fra me e me. Il suo commento non mi turba
minimamente,
al contrario di quello che temevo (dato che ci siamo riuniti solo due
giorni fa,
eccetera). Mi volto, rimanendo seduto sulla sdraio, per fare un
autoscatto,
assicurandomi di far entrare Marco nello sfondo
dell’inquadratura, e alzando il
dito medio alla fotocamera.
La
didascalia che allego alla foto è: non
ho
più bisogno di voi sfigati quindi suuuucaaateeee
Dopo
un secondo, ricevo una risposta via sms.
Da:
Sasha
uhm e quello chi è
E
poi un altro. E un altro ancora.
Da:
Sasha
ci stai tradendo jean?
Da:
Sasha
cosa ne sarà delle nostre promesse jean
Da:
Sasha
mio amico leale, compagno fedele nella salute e nella malattia
Da:
Sasha
non posso crederci jean
Da:
Sasha
pensavo che la nostra relazione contasse qualcosa per te
Mi
domando sinceramente come faccia ad avere ancora credito sul cellulare,
se
questo è il modo in cui risponde a ogni messaggio che riceve
di solito. Spero
che lo finisca presto. L’ultimo messaggio della catena
è da parte di Connie.
Da:
il
ragazzo più fico che potrai mai conoscere
aiuto !!!!!
Rido
di gusto, lasciando cadere
la testa all’indietro. E, Dio, quanto mi sento bene.
Note
dell’autrice:
È
un capitolo piuttosto lungo, stavolta… più di
11mila parole! Spero vi sia
piaciuto~
Ho
cambiato i titoli dei capitoli uno e due con i titoli delle canzoni che
compaiono in quelle parti della storia [nota della traduttrice: quando
li ha
pubblicati, i primi due capitoli non avevano come titolo quello di una
canzone;
io li ho pubblicati direttamente con i titoli attuali];
continuerò con questo
tema d’ora in poi.
Purtroppo, ho menzionato molte canzoni diverse in questo capitolo
(forse avrei
dovuto mettere Boss Ass Bitch come titolo per questo qui?).
Il
titolo si riferisce alla canzone che Connie e Jean hanno ascoltato al
belvedere: Old Pine, di Ben Howard. Adoro la sua musica. È
molto nostalgica e
mi ricorda l’estate; e, ovviamente, questa storia
è ambientata in estate, e ha
a che fare con Jean che deve rivedere molte cose del suo passato.
Questa
canzone sarà anche di ispirazione per qualche capitolo
più avanti, quindi vi
consiglio caldamente di provare ad ascoltarla.
A
parte questo…le cose si stanno evolvendo, anche se
lentamente. Sono contenta
che Jean sia felice, anche se dovesse durare poco. Ma Connie e Sasha
saranno
sempre i miei preferiti.
E
Shingeki No Snapchat è la mia preferite di tutte le AU.
Per
favore lasciatemi altri commenti e ditemi quello che vi sta piacendo (e
anche
quello che non vi sta piacendo!) della storia finora, e quello che
sperate che
succeda. Leggerò e risponderò a tutti quanti!
Note
della traduttrice:
Scusate
tantissimo per il ritardo! Sono pessima, non volevo assolutamente farvi
aspettare tanto. Spero che chi seguiva la storia non abbia smesso di
leggere,
perché adesso avrò più tempo per
riprendere a tradurre più rapidamente e
aggiornare più spesso, i capitoli si fanno sempre
più lunghi e interessanti da
qui in avanti. Non esitate a recensire (:
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Capitolo 5 *** Who Are You? ***
Chapter
5:
Who
Are You?
Penso
proprio che mi stancherò presto della mia suoneria, e sono
vittima
dell’incessante bisogno di attenzioni di Sasha da soli tre
giorni. Non riesco a
ricordare l’ultima volta in cui ho tenuto il telefono in
modalità silenziosa
per così tanto tempo, ma una cosa la so per certo: non ho
intenzione di togliere il
silenzioso ancora per un bel
po’, cazzo.
È
sabato mattina, mancano ventitré giorni all’inizio
degli esami. (Okay, allora,
lo so soltanto perché sto facendo un conto alla rovescia dal
primo giorno di
vacanza. Lo giuro.)
A
svegliarmi è un raggio di sole che si infiltra in una
fessura tra le persiane
della mia finestra; evidentemente non l’ho chiusa bene ieri
sera, quando
finalmente ho deciso rinunciare alla sessione di studio notturna.
Strizzo gli
occhi e, portandomi un braccio stanco sul volto per schermarmi dalla
luce,
emetto un brontolio mentre mi giro sulla schiena. Sul mio comodino,
intanto, il
cellulare vibra contro il legno, facendo sì che il rumore mi
perfori i timpani.
Tasto alla cieca con le mani per cercarlo, imbattendomi invece nel
frattempo
nella sveglia e nella tazza di caffè ormai vuota che
è rimasta lì da ieri sera.
Quando
le mie dita si stringono intorno alla cover gommosa del telefono, mi ci
vogliono due tentativi per sbloccare lo schermo, poiché
continuo a sbagliare la
password nel mio stato di confusione da
non-è-mezzogiorno-perciò-sto-ancora-dormendo.
Messaggi
non letti: 9
Oh,
cazzo. Scorrendo nella casella dei messaggi, vedo che sette
di quei messaggi sono da parte di Sasha, uno è di Connie, e
l’ultimo è soltanto una delle solite promozioni
inutili dal mio operatore
telefonico. Cancello quest’ultimo senza neanche aprirlo.
Leggo quello più
recente che mi ha mandato Sasha; il mio cervello ci mette un
po’ a processare
le parole scritte sullo schermo.
Da:
Sasha
quindi è confermato per oggi vero?
Aggrotto
le sopracciglia. Cerco di ricordare se abbiamo preso accordi in
precedenza. Non
mi viene in mente niente.
Sto
iniziando a scrivere una risposta del tipo:
di che cazzo stai parlando?, quando sento dei rumori al piano
di sotto, la
porta principale chiudersi con un tonfo, e poi delle voci che parlano
animatamente. Sto giusto cercando di alzarmi per mettermi a sedere sul
letto,
quando la voce di mia madre riecheggia su per le scale e si fa strada
sotto la
porta della mia camera.
“Jeeeeeaaaaan!
Sei sveglio? Ci sono Connie e Sasha!”
Ho
approssimativamente dieci secondi per crogiolarmi nella mia confusione
da
appena sveglio prima che un distinto rumore di passi attraversi le
scale di
gran carriera e la porta della mia stanza venga spalancata con la forza
di un
uragano, mentre io vengo placcato da un ragazzo con i capelli rasati in
volo,
diventando un tutt’uno con il materasso.
“Ma
che-- !”
“Jean,
non dirmi che ti eri dimenticato che dobbiamo studiare
insieme!” proclama
Sasha, stagliata ai piedi del mio letto con le gambe leggermente
divaricate e
le mani sui fianchi. Sollevo il braccio di Connie dal mio volto, mentre
lui
continua a saltare su e giù con fin troppa veemenza per
questo momento della
giornata. “Connie non ti ha detto che saremmo
venuti?”
Guardo
storto il pelato saltellante in questione. Grazie, Connie. Grazie mille.
“No,”
le rispondo in un sibilo, “Non me l’ha
detto.”
“Invece
sì!” esclama lui, urlando come un matto, mentre
cade di peso sulle mie gambe.
“Te l’ho detto ieri durante la lezione di
filosofia!” Sono sicuro al centoventi
percento che quella conversazione sia avvenuta solo nella sua mente, e
non
nella vita reale. Ma che importa. Ormai
sono qui. Addio alla mia giornata tranquilla.
Addio
alla mia giornata tranquilla in cui avrei potuto chiacchierare
con Marco.
Dimeno
la mano bloccata sotto le lenzuola per cercare di fare leva per
togliermi
Connie di dosso, per poi barcollare fuori dal mio letto. Sono ancora in
mutande. Sasha lancia un fischio di approvazione.
“Oh,
sta’ zitta e andate ad aspettarmi al piano di
sotto,” dico in un sospiro,
afferrando un paio di pantaloni chino beige e la mia maglietta Jack Daniel’s bianca che avevo
lasciato
sul pavimento la settimana scorsa. Mi contorco per entrare nei
pantaloni,
passando i palmi delle mani sulle cosce per appiattire le pieghe,
mentre Connie
scende dal mio letto, dicendo a Sasha che dovrebbero proprio
andare a controllare cosa c’è nel frigorifero.
Dopo
aver mentalmente pregato di darmi la forza per non strozzare Dastardly e Muttley, arranco fino al
piano di sotto per trovarli entrambi seduti in cucina con mia madre.
Sono
ancora il solito, irritabile Jean appena sveglio, e tutto
ciò che faccio è
alzare un sopracciglio a mia madre, come per dire: quindi
sei stata tu a lasciar entrare questi due matti in casa nostra.
“Buon
giorno, tesoro,” mi saluta lei, “Non mi hai detto
di aver invitato Connie e
Sasha!”
Divertente,
rifletto.
“Scusa,
mamma. Non è un problema, no?” Per favore,
fa’ che sia un problema.
“Non
le staremo fra i piedi, signora K,” si intromette Connie, con
quello
stupidissimo sorriso stampato in faccia. “Non si
accorgerà nemmeno che siamo
qui!”
Tutto
il fottutissimo vicinato si accorgerà che siete qui.
Cammino
a grandi falcate verso la macchina del caffè mentre mia
madre ne versa una
tazza per lei. Prendo un’altra tazza dallo scolapiatti e
gliela passo
energicamente. Dolce, deliziosa caffeina, sbrigati a entrare nel mio
corpo.
“Dovreste
studiare in giardino,” propone mia madre, passandomi il
caffè, per poi soffiare
sulla sua tazza fumante. “Il papà di Jean ha
occupato tutto il tavolo della
sala da pranzo con le sue scartoffie, quindi, se avete bisogno di
spazio per i
libri, usate pure il tavolo del cortile.”
Sasha
gira la testa di scatto, guardando oltre la finestra della cucina;
sembra
tremare per l’emozione.
“Possiamo
usare anche la piscina?” chiede con un luccichio negli occhi,
stringendo le
mani davanti al petto. Alzo gli occhi al cielo per
l’esasperazione. Credo che
studiare sia l’ultima voce nella cortissima lista delle
priorità di questi due.
Primo: spazzolare tutto il cibo che c’è in casa.
Secondo: sfruttare al meglio
la piscina. Terzo: assicurarsi di saltare sul povero, vecchio Jean che
si è a
stento appena svegliato. Quattro: iniziare forse
a pensare a studiare per questi benedetti esami che dobbiamo fare fra
tipo tre
settimane.
“Certo
che potete, tesoro,” le risponde mia madre con un sorriso. Ha
sempre avuto un
debole per Sasha. Assottiglio lo sguardo mentre bevo un sorso del mio
caffè con
aria infastidita. “Volete che vi presti dei costumi da
bagno?”
“Non
si preoccupi, abbiamo portato i nostri!” Sasha le sorride di
rimando e schiocca
le bretelle del costume da bagno a righe blu e bianche che si intravede
appena
da sotto la scollatura della maglietta. Connie batte le mani sulle
cosce in
segno di conferma e noto che i suoi pantaloncini, in effetti, non sono
altro
che un costume da bagno.
“Almeno
li avete portati dei libri, o siete qui solo per oziare e vivere a
scrocco?”
dico con tono accusatorio. Entrambi sfoggiano un enorme sorriso idiota
come
risposta.
Abbandono
la pila di libri sul tavolo del cortile con un tonfo pesante
dall’aria stanca. Connie
si accinge a svuotare lo
zaino dai libri di biologia e storia europea, mentre Sasha…
si spoglia. E poi
corre attraverso il prato. E poi entra in piscina con un tuffo a bomba.
Rabbrividisco
nel vedere l’acqua della piscina sciabordare sui lati della
vasca, e Sasha
riemerge, con la frangia appiccicata alla faccia. Scosta i capelli
all’indietro
mentre cammina fra le onde.
“Venite,
l’acqua è me-ra-vi-glio-sa!” grida,
dall’altra parte del giardino. Sento gli
ingranaggi macchinare vorticosamente nella testa di Connie, mentre
valuta se sia
meglio correre fin lì e unirsi a lei, o cercare
effettivamente di evitarsi i
sensi di colpa per aver trascurato lo studio.
Sospiro,
espirando dal naso, e gli indico la piscina con un gesto della mano.
“Accomodati
pure,” gli concedo, prima di aggiungere, con un filo di
sarcasmo, “Io rimarrò
qui seduto. Sai com’è. Vorrei passarli,
‘sti esami.”
“Nuoterò
solo per, che ne so, cinque
minuti,”
promette, “E poi penserò solo alle conseguenze
della Seconda Guerra Mondiale.
Lo giuro.”
Guizza
immediatamente sull’erba, lanciando la maglietta oltre la sua
testa e ululando
come un matto, per poi tuffarsi (leggi: cadere di pancia)
nell’acqua. Il rumore
del suo addome sulla superficie è un dolorosissimo slap. Sasha scoppia a ridere
immediatamente.
Io
intanto tiro fuori una sedia dal tavolo e prendo posto, decidendo di
arrotolare
i pantaloni fino al ginocchio almeno per stavolta, perché fa
veramente caldo, cazzo; ma
sicuramente
non ho la minima intenzione di buttarmi in piscina con loro.
L’ombrello parasole al centro del tavolo offre almeno un
po’ d’ombra, quindi
non dovrei rischiare di bollire sul pavimento, ma mi ritrovo comunque a
farmi
vento con un vecchio quaderno, mentre apro il primo libro tra quelli
impilati
davanti a me.
Inizio
con qualche esempio dei problemi di cinetica dai miei appunti di
chimica,
ascoltando per tutto il tempo Connie e Sasha che si schizzano e
dimenano come
animali che affogano, mentre mordicchio
l’estremità della mia penna,
sovrappensiero.
La
sua idea di cinque minuti
è
decisamente particolare. Connie e Sasha non stavano pensando neanche
lontanamente di uscire dall’acqua, finché mia
madre non ha presentato una
caraffa piena della sua limonata sul tavolo. All’improvviso,
eccoli che si
affollano attorno a me, tutti gocciolanti e con quella puzza di cloro
addosso.
Mi sposto più lontano con la sedia mentre prendo un
bicchiere.
Sasha
indossa i grandi occhiali da sole sul viso, scivolando sulla sedia di
fronte a
me, con Connie al suo fianco.
“Quindi
cosa impareremo oggi, signor brontolone?” chiede con aria
innocente. La guardo
incredula, con un sopracciglio alzato.
“Non
so mica cosa devi studiare tu,
Sash,
dato che non frequenti nessun corso con me,” rispondo
bruscamente. “Io e Connie
faremo un po’ di storia europea.” Lancio uno
sguardo a Connie, che annuisce,
pensando che ovviamente sia meglio schierarsi dalla mia parte in questa
discussione (in caso contrario, lo strangolerei). Ripeteremo i trattati
del
dopoguerra, a costo di doverlo legare
a quella sedia. Suppongo che abbia riconosciuto le mie intenzioni
dall’espressione
che ho in volto.
“Oh,
be’, allora io potrei farvi delle domande!”
cinguetta Sasha allegramente.
“Diciamo che ho dimenticato i libri a casa.”
Quindi
è vero, è venuta qui solo per nuotare.
Espiro
lentamente e ammetto la mia sconfitta, spingendo gli appunti
dall’altra parte
del tavolo, nella sua direzione. Lei li solleva, lasciando impronte
bagnate su
tutte le pagine, mentre esamina il testo.
Spero per lei che non sbaffi l’inchiostro.
Per
non so quale notevole miracolo, riusciamo effettivamente a sgobbare un
bel po’,
nonostante l’interruzione di mia madre con il suo vassoio
pieno di sandwich
triangolari, che distraggono Sasha per il breve tempo che impiega a
infilarli
tutti in bocca contemporaneamente.
“Oh
mio Dio, sono fantastici,” farfuglia a bocca piena, provando
a mandar giù tutto
il boccone con un sorso poco elegante di limonata. “Avevo
dimenticato quanto mi
piacesse venire a casa tua.”
“Mi
fa piacere che apprezzi così
tanto la
mia compagnia,” commento io con aria severa, tamburellando
con la matita sulla
superficie del tavolo, mentre i miei occhi vagano sulle parole che ho
appena
scritto. Al margine del mio campo visivo, riesco a vedere dei movimenti
nell’angolo più lontano del cortile; il cancello
posteriore si apre,
vacillante, e qualcuno, entrando, lo afferra per un lato.
Il
primo pensiero che mi balena in testa è, ovviamente: oh, è Marco! Il secondo
pensiero è: oh Dio,
dovrò presentargli questi due piantagrane.
Sasha
osserva il mio sguardo scomparire oltre la sua spalla, per cui si volta
sul
posto mentre Marco lascia la sua attrezzatura a bordo piscina. Lei
abbassa gli
occhiali da sole dalla base del naso.
“Chi è quello?”
fischietta allusivamente.
“Uhm,
non il tuo ragazzo,”
sbotto io di
rimando; Sasha si gira di nuovo verso di me, e ride per
l’espressione appena
comparsa sul volto di Connie. Gli accarezza affettuosamente il braccio,
mentre
lui alza gli occhi al cielo.
“Però
guarda che braccia,”
aggiunge con
aria sfrontata. Pare che tu abbia una
rivale, mamma. “Che c’è? Solo
perché non devo ordinare non vuol dire mica
che non posso apprezzare i piatti nel menu quando voglio!”
Mi
copro la fronte con il palmo della mano e rivolgo il mio sguardo alle
venature
legnose del tavolo, riflettendo su quanto sia imbarazzante quello che
ha appena
detto, ma anche per evitare di guardare tutti i disgustosi baci con cui
Sasha
sta ricoprendo il viso di Connie in segno di scusa.
Inclino
leggermente la testa, per poter vedere Marco. Per
favore, non vuoi venire qui. Non farlo. Per il tuo bene. E per il mio bene.
Già,
a quanto pare non siamo ancora molto bravi con la telepatia. Una volta
sistemata
l’attrezzatura ed essersi tolto le scarpe, cammina a grandi
passi verso il
tavolo, con un sorriso smagliante stampato sul volto lentigginoso.
“Buon
pomeriggio!” saluta con la solita aria allegra, mentre io
affondo sempre di più
nella mia sedia. Vorrei tanto avere degli occhiali da sole dietro i
quali
nascondere la mia faccia, in questo preciso istante. Coglie
immediatamente il
mio disagio. “Jean?”
“…
Ehi,” borbotto in risposta; Marco inclina la testa, con aria
preoccupata. Spero
davvero che sia pronto.
“Oh!”
esclama allora Sasha, ed io sento un brivido di paura scorrermi lungo
la
schiena. Ti prego, ti prego, ti prego,
non dire niente di strano, Sash. Non voglio farlo scappare via per
sempre,
okay? “Sei il tizio dello snap chat di Jean
dell’altro giorno!”
Oh
Dio. Fra tutte le cose che avresti potuto dire, Sasha. Ecco come farmi
sembrare
un maniaco inquietante che gli fa foto di nascosto. Che, tecnicamente,
è proprio quello che è successo, ma non
è questo il
punto! Non è stato inquietante!
“Lo
snap chat di Jean?” Marco ripete la frase fra sé e
sé, tornando a posare i suoi
occhi su di me. Evito di proposito
di
incrociare il suo sguardo. “Di che parli?”
Per
favore, dimmi che non stai sorridendo, dimmi
che non stai sorridendo. Do una sbirciatina. Sta sorridendo.
Idiota.
“Oh
sì,” continua Sasha, spostando gli occhiali da
sole sulla testa. Appoggia la
schiena sulla sedia e porta una gamba al petto, mettendo le mani sul
ginocchio.
Connie intanto guarda la scena con un misto di serietà e
un’aria da
meglio-assicurarsi-che-non-stiano-flirtando. “Jean stava
facendo lo
stuuuupidooo.”
“Non
stavo facendo lo stupido!” ribatto, “Tu stavi
facendo la stupida…”
Raddrizzo
un po’ la postura (perché probabilmente avrei
rischiato di cadere se fossi
scivolato ancora di più su quella seria, siamo onesti), e mi
accorgo che la
mano di Marco è stretta intorno alla parte superiore della
mia sdraio. Non mi
appoggio allo schienale.
“Marco,”
prendo parola, controvoglia, “Lei è Sasha. E lui
è Connie. I miei stupidissimi
amici.”
Sasha
apre la bocca per farmi la ramanzina per la scelta di
quell’aggettivo, ma Marco
mi interrompe educatamente.
“È
un piacere conoscervi, ragazzi,” sorride con aria allegra,
“Jean mi ha parlato
tantissimo di voi.”
Bugiardo!
Non è vero!
Sasha
inizia a starnazzare con Connie di…be’, non sto
veramente ad ascoltarli, perché
finalmente guardo Marco negli occhi; se potessi descrivere qualcuno con
l’aggettivo scintillante,
sarebbe
letteralmente lui in questo momento. Gli do una gomitata
sull’addome in modo
brusco; sembra fatto di roccia,
sotto
quella polo blu.
“Guarda
cos’hai fatto,” mormoro sottovoce, ma sono sicuro
che mi abbia sentito; lo
sento ridere. Si avvicina di poco alla mia sedia. Ecco di nuovo il
profumo del
suo detersivo per il bucato. Camomilla. Con tono sarcastico, aggiungo,
“Dio,
adesso potrebbero addirittura pensare di piacermi,
mentre a stento li tollero.”
“Ti
ho sentito,” dice Sasha, incrociando le braccia al petto e
atteggiando il viso
in un broncio ridicolo. Alzo gli occhi al cielo con aria
drammaticamente
esasperata.
Fortunatamente,
Marco si congeda per iniziare a pulire la piscina; lo guardo
indietreggiare al
limitare dell’acqua, lascio che i miei occhi si soffermino a
esaminare le sue
spalle larghe, prima di affondare la testa negli appunti che devo
studiare.
Trattengo un sospiro fra le labbra.
Inizio
a esaminare le parole scritte sulla pagina – almeno qualche
rigo – prima di
accorgermi che Connie e Sasha mi stanno fissando, senza muovere un
muscolo.
“Cosa
vorrebbe dire tutto ciò?” mi domanda Sasha,
schiettamente. Si sporge verso di
me con aria interessata, poggiando una guancia nel palmo della mano. Il
suo
sorriso è il male allo stato puro.
“Cosa
vorrebbe dire cosa?”
Rispondo con
tono sospettoso.
“Questo.”
“Questo cosa?”
La
mia espressione si aggrotta nel solito cipiglio, non avendo la minima
idea di
cosa stia cercando di dirmi Sasha. Lei si scambia uno sguardo con
Connie; sono
evidentemente su una lunghezza d’onda completamente diversa
dalla mia, perché
Connie annuisce in segno di conferma.
Rimaniamo
seduti in silenzio per alcuni secondi e, proprio quando penso che
abbiano
lasciato stare l’argomento e mi accingo a tornare sui libri,
Sasha apre
nuovamente la bocca. E vorrei tanto non l’avesse fatto.
“Be’,
è carino,” dice.
Non
posso evitare di sputacchiare ovunque, incredulo. Cos’ha
detto esattamente?!
Il
mio sguardo si posa su Connie in quell’istante, ma lui non
sembra neanche
minimamente turbato. Alza le spalle come a voler dire di essere
d’accordo con
Sasha. Cosa cazzo mi sono perso?
“Perché
non ce l’hai presentato prima, Jean?” mi chiede
lei, sorridendo. Oh Dio – è quel
sorriso di Sasha, quello che urla
chiaramente: sto per crearti dei
problemi, Jean. “Volevi tenerlo tutto per te,
vero?”
Sono
letteralmente senza parole, apro e chiudo la bocca come se fossi un
pesce.
“È…è
l’inserviente della piscina,”
è tutto
ciò che riesco a tirare fuori alla fine. Ed
è anche mio amico, e a dire il vero lo conosco da
ben…quattro settimane, e poi
sì, probabilmente ha un bellissimo sorriso e tutto,
ma…non è questo il punto!
Dove
stanno cercando di arrivare questi due? Lascio andare un gemito basso e
flebile
in segno di lamentela.
“Per
favore, potreste evitare?” li imploro in maniera poco
convinta. “Siamo amici. E
vi sarei grato se magari evitaste
di
essere così fastidiosi da farlo scappare per sempre,
è chiaro?”
Connie
si sporge dall’altra parte del tavolo per raggiungere il mio
braccio, dandomi
una pacca rassicurante. Sembra sincero. Quasi.
“Tranquillo.
Non siamo gelosi. Be’, io no. Sasha potrebbe
esserlo.” Guarda in direzione di
Sasha e le rivolge un sorriso complice. “Lo capisco se vuoi
mollarci per il tuo
nuovo amante.”
Ma.
Che. Cazzo.
Inizio
a sperare che il terreno si apra e mi ingoi completamente. Sarebbe
proprio il
momento adatto.
Connie
e Sasha scoppiano a ridere della mia espressione nauseata.
“Ehi,
ti stiamo solo prendendo in giro!” grida Connie, dondolando
nella sedia.
“Dovresti vedere la tua faccia, è uno
spettacolo!”
Borbotto
una serie di imprecazioni molto, molto
forti fra me e me, provando a ignorare il rumore di quei due che
ridacchiano,
cercando di concentrarmi solo su me stesso. I
trattati di pace di Parigi, giusto. Concentrazione.
Alla
fine, anche Connie e Sasha tornano sui libri, Sasha ripete troppo
velocemente
delle schede di biologia e gli pone qualche domanda a bruciapelo.
Approfittando
della loro distrazione, colgo l’occasione per gettare uno
sguardo in direzione
di Marco; è dalla parte della piscina dove l’acqua
è più alta, setaccia con il
retino l’acqua cristallina e sembra stia fischiettando tra
sé e sé. A quanto
pare non si è accorto che lo sto fissando.
Quindi,
giacché ci sono, rubo qualche altra occhiata nella sua
direzione, grato del
fatto che non presti attenzione ai due piantagrane, evitando di dar
loro più
attenzioni di quelle che meritano. Mi congratulo con me stesso per
l’abilità a
non farmi notare.
Ma
mi accorgo di essere anche piuttosto infastidito perché non
dovrei cercare di non farmi notare.
Perché sabato è il
giorno di Marco, e penso di poter ammettere che in fin dei conti sono
contento
di avere la possibilità di parlare con lui, senza che questi
due idioti mi
disturbino di continuo. Ovviamente dovevano fare una capatina senza
preavviso proprio oggi.
Connie
sbatte i suoi appunti sul tavolo con uno scatto improvviso che mi fa
sobbalzare
sulla sedia.
“Non
ne posso più!” proclama, “A chi arriva
primo in piscina, Sasha!”
Sollevo
una mano per cercare di fermarli – perché, ehi,
aspettate, zucconi, Marco sta cercando di pulire—
Prima che io riesca a dire
anche solo una
parola, si stanno già precipitando sul prato. Be’,
merda.
Seguono
una serie di rumorose urla che acclamano “tuffo a
bomba!”, accompagnate da due
massicci splash. Sento il gridolino
di sorpresa di Marco, e poi un sacco di risate e schizzi vari. Chiudo
gli occhi
e li strizzo immediatamente, stringendomi la radice del naso fra le
dita, per
poi alzarmi in piedi.
Con
le mani in tasca, mi muovo di soppiatto verso di loro, per quanto
riesca a
osare ad avvicinarmi al bordo piscina. Strascico i piedi nudi
nell’erba, mentre
Sasha mi chiama a gran voce.
“Dai,
brontolone! Vieni anche tu!”
“Ho
ancora indosso i vestiti, imbecille,” rispondo, e poi
aggiungo, “Non vedete che
Marco qui sta cercando di lavorare?
Cosa che tra l’altro dovremmo fare anche noi!”
“Non
c’è problema, Jean,” mi sorride Marco,
poggiandosi sul retino, dall’altro lato
della piscina rispetto a dove mi trovo io. Il suo sguardo, finora
concentrato
sul caos che c’è nell’acqua, guizza
sulla mia goffa posizione a bordo piscina.
Infine, fissa lo sguardo su di me. “Avevo praticamente
finito.”
“Vedi?”
grida Sasha, cercando di schizzarmi con l’acqua della
piscina. Muovo un passo
all’indietro giusto in tempo perché
l’acqua mi arrivi solo sui piedi.
“Guastafeste!”
Incrocio
le braccia al petto e osservo – piuttosto sdegnosamente
– mentre Connie prova a
fare la verticale, senza alcun successo, e Sasha prova a emularlo a sua
volta.
Tutte quelle gambe che vacillano selvaggiamente in aria strappano una
risatina
a Marco. I nostri sguardi si incontrano. Gli chiedo mentalmente
perché li stia
assecondando. Continuiamo a non essere bravi con la telepatia.
Un
paio di lunghi istanti più tardi, mi rendo conto che Marco
non è più di fronte
a me; sta smontando il retino e si accinge a trasportare tutta
l’attrezzatura,
stringendo gli strumenti fra le braccia. È già
arrivata l’ora, eh?
“Aspetta,
ti do una mano,” gli offro il mio aiuto, indicando i due
contenitori pieni di
qualche composto chimico o cose del genere, che sta cercando di
afferrare con
una mano. Mi rivolge un sorriso colmo di gratitudine;
quell’espressione gli
illumina gli occhi scuri.
Non
credo che Connie e Sasha si siano accorti della nostra fuga
(più che fuggire,
barcolliamo sotto il peso di quei cazzo di strumenti per la piscina)
dal
cancello posteriore, che ci porta poi sulla strada su cui si affaccia
il retro
di casa mia. Il furgoncino di Marco è un tipico Vauxhall
Combo che
probabilmente ha avuto giorni migliori; è bianco, ma gli
pneumatici sono
coperti da uno strato di polvere. Su un fianco si legge la scritta: Servizi di Manutenzione e Riparazione
Piscine di Trost su un vivace sfondo di acqua azzurra.
Tenendo
l’attrezzatura in equilibrio sul ginocchio, preme il pulsante
di sblocco dal telecomando
della chiave del furgoncino, per poi aprire a fatica la portiera
scorrevole.
“Li
metto qui dentro e basta?” gli domando, mentre lui si sposta
di qualche passo
per lasciare che sia io a liberarmi dai pesanti strumenti che stringo
fra le
braccia per primo. Marco annuisce, così obbedisco, cercando
di non rovesciare i
due contenitori. Quando ci scambiamo di posto affinché Marco
possa riordinare
all’interno del furgoncino, mi ritrovo a grattarmi la nuca
con aria
imbarazzata.
“Ah,
comunque scusami,” dico alla fine, con aria dispiaciuta.
Marco si interrompe, e
gira la testa per guardarmi, aggrottando le sopracciglia.
“Per
cosa?” mi chiede lui ingenuamente, facendo leva sul lato del
furgone per
rimettersi in piedi. Fa scorrere la portiera fino a chiuderla, provando
a
tirare la maniglia per assicurarsi di averla chiusa bene. Solo allora
si
posiziona di fronte a me, con un’aria piuttosto perplessa.
“Uh,
per loro?” alzo le spalle, indicando con il pollice in
direzione del cortile,
da dove arrivano ancora le risate e i rumori della piscina.
“Sono…un po’ troppo
energici. Ecco, scusami se ti hanno dato fastidio. Non sapevo neanche
che
dovessero venire oggi…”
“Sono
i tuoi amici, no?” dice in una risata briosa, con mia grande
sorpresa. Ha le
mani sui fianchi, quasi come se mi stesse rimproverando. “Non
dovresti scusarti
per come sono, Jean.”
“Sì,
ma—” inizio, ma, vedendo lo sguardo di Marco, serro
immediatamente la bocca. Sì, ma
scommetto che non hai mai incontrato
persone come Connie e Sasha prima d’ora, ecco costa
stavo per dire.
“Niente
‘ma’,” mi corregge Marco,
“Sembrano molto divertenti.” Apre la portiera
davanti
e prende posto dietro allo sterzo. Mi sposto per appoggiare
l’avambraccio sul
tettuccio del furgone, guardandolo dall’alto della mia
posizione mentre
allaccia la cintura.
“Divertenti,” ripeto,
accompagnando
quella parola con un lungo sospiro, “O piuttosto
un’intensa e incasinata
montagna russa. Stessa cosa.”
Marco
ridacchia dolcemente, e guarda in alto, verso di me. Il suo sorriso
riesce a
strapparmene uno – seppur riluttante – a mia volta.
Sembra strano, dato che
sono stato praticamente sempre imbronciato sin dal brusco risveglio di
stamattina. Eppure ci stiamo davvero scambiando sorrisetti come degli
idioti,
qui.
“Vai
a divertirti, Jean,” mi dice in un sospiro. Sorrido beffardo
e mi allontano di
qualche passo quando Marco chiude la portiera del furgone. Quando mette
in
moto, abbassa il finestrino e tira fuori la testa per aggiungere
qualcosa. “Ci
vediamo mercoledì, d’accordo?”
“Sì.
Mercoledì.”
Connie
e Sasha restano a casa mia fin dopo cena, per colpa di mia madre che
ancora
prova compassione per loro, e di Sasha che continua a farle i
complimenti per
la cucina a ogni pasto che prepara. Quando alla fine se ne vanno, dopo
le otto,
tutto ciò che riesco a fare è affondare nei
cuscini del divano con uno sbuffo.
“Tesoro,
che c’è che non va?” mi chiede mamma
mentre svolazza in giro per la sala da
pranzo stringendo un bicchiere di vino nelle mani curate, per poi
sedersi
vicino a me. “Non ti senti bene?” Allunga una mano
per premerla sulla mia
fronte, ma la scosto debolmente.
“Sono
solo stanco,” le dico. A dir poco stanco. Sono esausto,
cazzo. “Ora come ora, penso che potrei dormire per almeno
cinque anni.”
Mi
rivolge un sorriso dolce (o almeno cerca di sorridere per quanto la
chirurgia
plastica glielo permetta, e suppongo
di
vedere della dolcezza) e sorseggia il vino.
“Sono
contenta di aver visto di nuovo Sasha e Connie,” mormora.
Chiudo gli occhi e
non provo neanche lontanamente ad aprirli. “Mi sono sempre
piaciuti.”
“Forse
è perché hai sempre cercato di farmi fidanzare
con Sasha,” borbotto io, sarcastico.
Mamma sbuffa, dandomi un colpetto sul bicipite, a cuor leggero.
“Non
l’ho mai fatto,” dice, fingendo un tono scioccato.
Per tutta risposta le
sorrido, tenendo gli occhi chiusi. “…Ma non mi
sarebbe dispiaciuto. Se ti fossi
messo con Sasha, intendo.”
“Mi
spiace, ma’. Sta con Connie, adesso.” E poi
aggiungo un’ulteriore riflessione,
più che altro come un promemoria per me stesso, con un tono
leggero: “Finalmente.”
“Oh,
be’,” risponde, mentre apro un occhio per guardare
la sua espressione. “È un
vero peccato.” Beve un altro sorso del suo vino, e sembra
pensierosa. “A quanto
pare dovrò trovare qualcun altro con cui sistemarti,
Jean.” Mi lascio scappare
una sonora risata nasale alla sua battutina, e poggio la testa
all’indietro sui
cuscini.
“Caspita,
grazie, mamma.”
La
chiacchierata sulla mia inesistente vita amorosa sembra essere
l’argomento di
conversazione più gettonato per il resto del fine settimana.
Domenica
sera a cena (ovvero l’unica cena in tutta la settimana a cui
mio padre si degna
di partecipare), mia madre tira fuori l’argomento della
relazione di Connie e
Sasha.
“Huh?
Pensavo che Jean fosse fidanzato con la figlia dei Braus?”
domanda mio padre,
con una forchettata di patate e insalata davanti alla bocca.
“Nooo,”
canticchia mia madre, “Avrei voluto
che si mettessero insieme, ma a quanto pare lei aveva occhi solo per
Connie,
che Dio lo benedica. O almeno, questo è ciò che
mi ha detto Jean.”
Ascolto
la conversazione mentre sposto il cibo nel piatto, scoraggiato. Ne
parlano come
se non fossi neanche nella stessa stanza. Per non parlare di quanto mio
padre
sia effettivamente interessato
alla
mia vita se non si tratta di scuola o di lavoro.
“Che
peccato,” dice mio padre, gesticolando rozzamente nella mia
direzione con le
posate. “Sono una bella famiglia, i Braus. Hanno un sacco di
soldi. E un bel
posto nella società. Stavo pensando di mettermi in affari
con il signor Braus –
qualsiasi sia il suo nome -, le azioni nel settore
dell’agricoltura
industrializzata sembrano promettenti in questo trimestre.”
Sono
più che certo di aver già sentito tutto questo
prima d’ora. Molte volte.
Credo
che mia madre abbia percepito il mio disagio di fronte a questa
predica. Prova
a indirizzare la conversazione altrove, ma non la porta poi
così lontano.
“Mi
stavi dicendo di avere qualche nuova stagista in ufficio,
caro?” chiede a mio
padre. “Non c’è qualche bella ragazza
che potresti presentare a Jean?”
Rischio
di soffocare con un boccone della mia cena, sono costretto a mandarlo
giù in
fretta e furia accompagnandolo con un paio di generosi sorsi
d’acqua.
“Hmm,
certo, c’è qualche nuova tirocinante,”
conferma lui. Lo fisso meticolosamente,
sperando che commetta un errore nel mantenere la solita facciata. Mi
chiedo
quante di quelle “nuove tirocinanti” si siano
già piegate sulla scrivania del
suo ufficio.
“No
grazie,” rispondo bruscamente, spingendo il piatto lontano da
me nello stesso
istante. “Mamma, non ho più fame. Ti dispiace se
vado a studiare?”
Non
aspetto nemmeno una risposta, e lascio il tavolo con tutta la
velocità fisicamente
possibile, mentre sento lo sguardo colmo di disprezzo di mio padre
sulla mia schiena
per tutto il tempo. Fanculo.
Se
dovessi nominare solo una cosa che proprio non mi piace delle lezioni
del
professor Dok, probabilmente non ci riuscirei. Tanto per cominciare,
sono sei
ore alla settimana di cazzate pretenziose e filosofiche che mi sarei
decisamente dovuto aspettare quando ho selezionato questo come ultimo
corso a
scelta, lo scorso autunno.
In
secondo luogo, hanno ancora quelle sedie orribili in stile anni
settanta;
quelle in plastica grigia, così dure, cazzo, che dopo i
primi dieci minuti non
riesci più a sentirti le chiappe, sempre se sei stato
così fortunato che la
sedia non si è chiusa di scatto nel momento esatto in cui
hai provato a
sederti. Ho assistito a scene simili un paio di volte, okay?
La
terza cosa che non sopporto è che al professor Dok non
sembra interessare un
bel niente del suono della campanella. Se sta ancora parlando, non puoi
muoverti di un centimetro dal tuo posto, devi aspettare che finisca. E
lui
proprio non capisce che alcuni di noi hanno degli impegni, dei tavoli
della
mensa da monopolizzare, caffè bollenti con cui bruciarsi.
Il
martedì ho la lezione di filosofia subito prima di pranzo,
quindi questo
problema si presenta piuttosto spesso. Questo martedì non fa
eccezione – riesco
a uscire dall’aula solo cinque minuti dopo
il suono della campanella.
Connie
è fuori dall’aula e corre come una saetta; lui e
Sasha si sono finalmente resi
conto che, sì, in effetti gli esami sono imminenti, e devono
ancora finire di
preparare lo spettacolo finale per il corso di teatro, quindi
continuano a
correre in giro a esercitarsi ogni volta che ne hanno la
possibilità.
Arranco
nel corridoio principale del dipartimento delle materie umanistiche
bramando
una sigaretta, più che altro per trovare qualcosa da fare
con le mani o con la
bocca. Mi sono già abituato a Connie e Sasha, alla loro
presenza costante,
mentre mi vomitano addosso discorsi senza senso
ventiquattr’ore su
ventiquattro. Mi tengono lontano dalla noia.
Controllo
il telefono; per una volta, non ho nuovi messaggi. Quando alzo lo
sguardo,
aggrotto le sopracciglia e abbasso nuovamente gli occhi
all’istante.
Eren
e gli altri sono proprio davanti a me.
Stanno
parlando in un gruppo molto stretto, ma non mi azzardo a guardarli in
faccia.
Il pavimento è veramente interessante. Già.
Guarda che deliziose mattonelle
screziate che ci sono.
Quando ormai li ho superati
di cinque o sei
passi, Eren alza la voce improvvisamente; non urla, ma parla come se
volesse
far sentire a qualcuno ciò che sta dicendo. Quel qualcuno
sarei io.
“…ma
non è strano che una persona dia di matto in quel modo?
Cioè, chi è che ha
paura di una cosa così stupida?”
Giro
la testa per guardarmi alle spalle, non riesco proprio a farne a meno.
Incontro
lo sguardo verde-azzurro di Eren, in mezzo fra Ymir e Historia, che mi
fissano
a loro volta. Armin increspa le labbra, Ymir mi scocca uno dei suoi
soliti
sguardi scontrosi, e Mikasa…be’, è
l’unica a non guardare da questa parte. A
giudicare dalla sua postura, mi sembra piuttosto infastidita. Historia
sembra…turbata? Sarà per le sopracciglia
sollevate nel mezzo, e la bocca
stretta in un piccolo cerchio.
E
quella cosa dovrebbe essere, compassione? Ma per favore. Non ho bisogno
di
queste cazzate.
Sto
benissimo con i miei quattro amici, grazie mille. (Tre,
Jean. Tua madre non conta.)
Non
è forse meglio così? Non voglio certo tornare
indietro a come era prima.
Preferisco soffrire sotto i loro sguardi e i commenti cattivi,
piuttosto che
tornare in quella cazzo di solitudine che mi attanagliava prima che
Connie
decidesse di andare controtendenza e ricominciare a parlarmi. Giusto? Giusto. Al momento sento un peso nel
petto che mi trascina verso il basso, rigirandosi in ogni spazio
concepibile
fra le costole. Fa malissimo.
Non
credo che Eren lo faccia con cattiveria. La sua mente ha un solo
binario, gli
piace fare le cose tanto per farle e basta. Per scatenare una reazione,
forse.
Ingoio
il nodo che mi stringe la gola, e inchiodo nuovamente lo sguardo sul
pavimento.
Non reagire. Non reagire.
…
Penso che questa sia già considerata una reazione.
È giunta l’ora di trovare un
posticino tranquillo per fumare quella sigaretta.
“Posso
vedere cosa stai disegnando?”
“No.
Top secret.”
È
mercoledì. Sono appollaiato sui gradini del capanno della
piscina, con l’album
da disegno in una mano, una matita nell’altra, mentre cerco
di proteggere i
miei scarabocchi da un impiccione lentigginoso.
Marco
prova a spiare oltre la barricata delle mie braccia per dare una
sbirciatina,
ma mi incurvo ancora di più su me stesso, tracciando linee
svelte sulla carta.
“Non
mi concedi neanche una piccola anteprima?” mi prega, fra una
risata e l’altra.
Sposta il peso sui talloni, poggiandosi sul retino; alzo un
sopracciglio in
un’espressione severa.
“Neanche
una piccola anteprima,” ripeto le sue parole, stringendo le
labbra e scuotendo
la testa.
In
realtà quello che sto disegnando non è neanche
minimamente accettabile. È
incasinato, e proprio non riesco ad azzeccare l’anatomia. Ma
non riuscivo a
disegnarlo a memoria. Sto parlando di Marco, ovviamente. Riesco a
disegnare
perfettamente le lentiggini, questo è certo –
quella piccola fascia di quattro
macchioline proprio sul naso – e sono piuttosto bravo a fare
i suoi capelli,
con quelle ciocche nere che restano sospese sulla fronte, e poi riesco
a
disegnargli gli occhi, ma, a parte quello, sono praticamente perso.
Provo
a mantenere i miei sguardi nella sua direzione più furtivi
possibili, per non
fargli capire che sì, ti sto
disegnando
dal vero, e giuro che non è per niente una cosa inquietante,
okay? Aggrotto
le sopracciglia e provo a correggere i piedi che gli ho disegnato
– faccio
veramente schifo con i piedi, devo ammetterlo.
“Lo
sai che tiri fuori la lingua quando ti concentri?” ridacchia
Marco; alzo gli
occhi per guardarlo con orrore.
“Non
è vero!”
“Invece
sì!”
Sento
il mio volto arrossire per l’imbarazzo, e inizio a
mordicchiare l’estremità già
rosicchiata della mia matita.
“S-sta’
zitto,” borbotto, “Non dovresti pulire una piscina
o qualcosa del genere?” Ho
iniziato ad accorgermi che quando Marco fa quel sorrisetto di sbieco,
invece
del suo normale sorriso, tende a sembrare piacevolmente diabolico.
Cioè,
arriva allo stesso livello di maliziosità di Sasha o Connie.
Fa
oscillare il retino nella mia direzione, e
cerca di muovere un affondo; io indietreggio per spostarmi
fuori dalla
sua portata, cadendo goffamente sulla schiena per sfuggire alle gocce
d’acqua
che rischiano di atterrare su di me e sul mio blocco da disegno.
“Attento
a dove agiti quel coso!” esclamo, accantonando
l’album da un lato, lontano
dalla sua portata. Afferro un’estremità del retino
e la strattono con forza,
per farmi valere.
A
quanto pare, ci ho messo troppa
forza.
Marco,
dal bordo piscina dove si trova, perde l’equilibro. E cade in
acqua.
Ci
metto un attimo per processare ciò che è appena
accaduto.
…
“Merda!”
Mi
muovo a gattoni incespicando, stringo le dita intorno al margine della
piscina
mentre Marco riemerge tossicchiando acqua da tutte le parti.
L’acqua non è troppo
profonda, gli arriva a stento sopra le ascelle quando sta in piedi. La
sua
polo, zuppa d’acqua, si avvinghia a ogni singolo muscolo
delle sue spalle e
braccia quando le muove per passarsi una mano tra i capelli, tirandoli
indietro
sulla testa. Alcune onde increspano la superficie dell’acqua
poco profonda e mi
bagnano le dita; lascio la presa quando vero che, sì, non è morto, e mi siedo sulle
caviglie.
“Wow,”
sorride fra un colpo di tosse e l’altro, sputando un bel
po’ di acqua di cloro.
“Me la sono cercata, in fondo!”
“Merda,
scusami!” esclamo io in risposta, anche se riesco a sentire
un sorriso
compiaciuto farsi strada sul mio volto. Faccio del mio meglio per
continuare a
fingere di essere preoccupato, ma…già, non sono
per niente bravo. “Stai bene?”
“Solo
un po’ umido,” scherza, pizzicando la maglietta sul
petto. Fradicia. Ed ecco di
nuovo quel barlume di malvagità nei suoi occhi.
“Non ti piacerebbe una nuotata,
Jean?”
“Uh,
temo proprio di no!” la prendo alla leggera, ridendo in uno
sbuffo, ciononostante
mi allontano dal bordo della piscina strisciando sul didietro. Marco
inizia a guadare
la piscina verso l’acqua bassa, i suoi movimenti sono lenti e
impegnativi,
appesantiti dai vestiti intrisi d’acqua. Non è
esattamente un’uscita alla Honey
Ryder, a essere onesti. Sale i
gradini e rimane in piedi sul bordo della piscina, sgocciolando
talmente tanta
acqua che probabilmente potrebbe riempire un paio di vasche da bagno.
Solleva
le sopracciglia mentre afferra la maglietta nelle mani strette in due
pugni per
strizzare la stoffa, un tempo di colore blu fiordaliso, nella sua presa
salda.
Mi allontano ancora un po’.
“Non
è che potresti, uh… andare a prendermi
l’asciugamano dal furgone, per favore?”
Guarda in basso verso i suoi pantaloncini, anch’essi di un
colore decisamente diverso da
quello che
avevano da asciutti. L’acqua scorre giù per le sue
gambe coperte di lentiggini
in una marea di piccoli rivoli. Si scosta nuovamente i capelli con un
gesto
impacciato, poiché gli sono caduti un’altra volta
sul viso.
“Certo,”
ridacchio fra me e me e mi alzo in piedi, assicurandomi di mettere
abbastanza
spazio fra di noi per star certo di non essere spinto a mia volta nella
piscina.
Ha
lasciato il furgone aperto e, come mi aspettavo, sbirciando
nell’abitacolo
trovo subito un asciugamano bianco e soffice sul poggiatesta del sedile
del
passeggero. Vi è ricamato il suo nome, e mi ricorda gli
oggetti che mi
etichettava mia madre quando andavo alle scuole elementari.
Con
l’asciugamano appeso al braccio, mi faccio strada nel cortile
entrando dal
cancello, ma mi fermo a metà del mio percorso. Ecco come mi
dà il benvenuto:
Senza
pantaloni.
Con
dei boxer di Superman molto, molto bagnati.
Ingoio
l’enorme nodo che mi si
è formato in gola. E, oh Dio.
I jeans
mi sembrano insolitamente stretti. Eccola qui. L’erezione più imbarazzante della storia.
No,
no, no, non può
succedere davvero. Non deve succedere. Non qui. Non
adesso. Pensa a quella matta che avevi come professoressa di inglese in
seconda
media. In mutande. Pensa a lei.
Ohmaguardaquellelentigginichesembranotuffarsinelsuofondoschiena.
Sento
quella frase risuonare nella mia mente con la voce di Sasha.
No.
Non pensarci. Cioè, è un
bel ragazzo, no? Non posso negarlo. Ci sarà un motivo se mia
madre è così
fissata con lui. Ma a me piacciono le ragazze. Mi
piace Mikasa.
Sicuramente
non mi piacciono le
schiene coperte di lentiggini, e gli addominali duri come la roccia,
e…
È
solo un’erezione di circostanza, Jean. Cose che succedono.
Non dare di matto.
Non dare di matto.
Tiro
la maglietta il più
possibile per coprirmi i fianchi mentre mi avvicino, e ringrazio
mentalmente
per aver scelto di indossare un paio di jeans piuttosto contenitivi
quando mi
sono vestito stamattina.
Lancio
un colpo di tosse
eccessivamente forte; Marco si gira fino a trovarsi di fronte a me, con
le
guance leggermente arrossate. Gli lancio l’asciugamano con
tutta la forza che
ho in corpo.
“Mettiti
dei vestiti!” gli
intimo bruscamente, distogliendo lo sguardo per fissarmi i piedi,
mentre lui
avvolge l’asciugamano intorno ai fianchi; rimane sospeso a
stento sulle ossa
del bacino.
“S-scusa!”
risponde, con un
tono di voce egualmente agitato. “H-hai detto che tua madre
non è in casa,
vero?”
Oh
Dio. A mamma potrebbe venire
un infarto se vedesse una scena del genere.
“No,
non c’è,” mormoro, e vedo
un’ondata di sollievo attraversare il viso di Marco con la
coda dell’occhio.
“Ehi, senti, c’è… uh, in casa
c’è l’asciugatrice, non so, magari
vuoi…?”
Disinvolto,
Jean. Perfettamente disinvolto, hai la situazione in pugno.
“Sì,
grazie!”
Cammino
in fretta e furia
dentro casa, assicurandomi di avere la maglietta calata sul cavallo dei
pantaloni per coprire la mia erezione decisamente non necessaria.
Marco
fa del suo meglio per
stare al passo, stringendo l’asciugamano attorno alla vita
con una mano e i vestiti
zuppi nell’altra.
Gli
faccio strada fino alla
lavanderia dalla cucina, e gli indico l’asciugabiancheria con
un braccio
rigido. Marco inclina la testa e, forse accorgendosi
dell’intensità del mio
sguardo infuocato, scaglia i vestiti nel cestello senza dire una
parola. Scelgo
un ciclo veloce, girando la manopola sulla prima tacca.
“Va
tutto bene, Jean?” si
azzarda a dire alla fine. Impallidisco. “M-mi sembri un
po’ pallido?”
“Mi
sento alla grande,”
rispondo a denti stretti. Cerco una qualsiasi via di fuga.
“Uh, scusami un
attimo, torno subito.”
Mi
dileguo immediatamente nella
sicurezza del bagno, senza voltarmi a guardare Marco.
Dopo
aver ricontrollato per tre
volte di aver chiuso la porta a chiave, inspiro più
profondamente possibile,
per poi espirare lentamente. Aveva ragione, penso, guardandomi allo
specchio.
Sono davvero pallido.
Afferro
i lati del lavabo con
entrambe le mani, e fisso il buco del lavandino. Mi passa per la testa
che
potrei semplicemente toccarmi un po’ e farla finita. Mi sono
masturbato
pensando alle mamme di alcuni amici, prima d’ora. Anche a una
o due
professoresse. È la stessa cosa. È un lavoro
sporco, ma qualcuno deve pur
farlo, dopotutto.
Ma,
Jean, questo sicuramente non vuol dire che puoi farti una sega pensando
al
ragazzo della piscina in mutande, mentre lui è praticamente
dall’altra parte
del muro.
Non va per niente bene.
Nonostante
ciò, sfioro il
bottone metallico dei jeans con il pollice.
Mi
mordo il labbro inferiore e
provo di nuovo a immaginare quella rugosa professoressa della seconda
media
ancora una volta. Stavolta funziona. Non c’è la
minima possibilità di rimanere
eccitato con quell’immagine in testa.
Apro
il rubinetto facendo
uscire il getto d’acqua più freddo possibile, e mi
bagno il viso.
Mi
ci vogliono almeno dieci
minuti prima di uscire dal bagno con la certezza che la mia erezione
sia
scomparsa, e questa è un’esperienza che mi auguro
di non ripetere mai, mai
più. Non ho intenzione di rovinare
la nostra amicizia in questo modo.
Marco
è seduto su uno sgabello
da bar in cucina, i capelli gocciolano ancora sulle sue spalle e sulla
schiena.
Si tira su quando mi vede arrancare nella stanza, con lo sguardo
d’acciaio.
“Sto
bene,” gli dico, prima
ancora che possa chiedermi come mi sento. “I vestiti si sono
asciugati?”
“Uh,
non ho controllato…?”
Faccio
strada ancora una volta
nella lavanderia, arrivando proprio quando la spia
dell’asciugatrice diventa
verde, indicando la fine del ciclo. Apro lo sportello rotondo e infilo
un
braccio per afferrare i suoi vestiti, tiepidi e asciutti.
“Ecco
qui,” dico, lanciando il
mucchietto di stoffa nella sua direzione. Lo afferra in maniera
impacciata,
incespicando per non far cadere l’asciugamano.
Gli
do le spalle mentre infila
maglietta e pantaloncini, e fisso apertamente le mattonelle sul
pavimento,
contandone il numero totale, finché non lo sento parlare in
tono mesto.
“Sai
che te la farò pagare per
questo.”
Mi
mordo la lingua, e sbircio
dietro le spalle con un sorrisetto che non riesco a trattenere.
“Provaci.”
Dopo
essermi imposto di non
avere mai più un’erezione così
imbarazzante in presenza di Marco, ho passato il
resto della giornata a evitare di avvicinarmi troppo alla piscina (per
paura
che, nonostante la sua natura buona, Marco potesse effettivamente
cercare
vendetta come aveva minacciato in precedenza), e a trascurare il mio
blocco da
disegno. Non penso che riuscirei a guardare oggettivamente il suo corpo
per
disegnarlo. Riesco almeno ad ammetterlo a me stesso.
Non
so dire se Marco abbia
notato il cambio di atmosfera o meno, ma prova a mantenere la
conversazione leggera
parlandomi un po’ di lui.
Mi
racconta del cane che aveva
da piccolo; in quel periodo, quando lui aveva circa dieci anni, il
suddetto
cane pensò bene di trascinarli entrambi nel fiume. Mi spiega
diligentemente di
come non fosse realmente un fiume, ma piuttosto un acquitrino molto
fangoso, e
che sua madre non fu per niente contenta quando lo vide tornare da quella passeggiata coperto di fango.
Mi
chiede se abbiamo mai avuto
animali; accenno alla paura di mia madre nei confronti di qualsiasi
cosa che
sia più grande di un porcellino d’India, e poi non
vuole niente che possa
graffiare i mobili. Aggiungo anche che ne ho già abbastanza
del Jack Russel dei
vicini, che ha l’abitudine di svegliarmi all’alba
più spesso di quanto mi
piaccia. E mi piacerebbe che non lo facesse mai.
Mi
accorgo di alcuni suoi tic,
oltre a quelli che ha quando si innervosisce (tipo quando si gratta la
nuca, o
si mordicchia il labbro); quando ride, e intendo una vera risata di
gusto e non
le solite risatine educate, getta la testa all’indietro,
assorto nella risata.
Quando parla del passato, gli piace strofinare una ciocca di capelli
fra il
pollice e l’indice. Quando ascolta le mie cazzate, tende a
sollevare le
sopracciglia nel mezzo. Come gioca con l’orlo della
maglietta, sovrappensiero.
Ed è solito chiamarmi per nome in una conversazione, anche
quando siamo solo io
e lui a parlare.
È
bello poter parlare in questo
modo, erezioni e gente spintonata in piscina a parte, perché
è una sensazione
pazzesca vedere qualcuno che ride di quello che gli dici, e non lo fa
perché ti
stai rendendo ridicolo. Marco è così. Penso che
mi trovi sinceramente
divertente.
“…e
tutto questo perché aveva
infilato una caramella gommosa nel naso,” dico, finendo il
racconto drammatico
di quella volta in cui io e Connie abbiamo fatto una gita memorabile
agli studi
A&E, per seguire un infelice episodio di “do it for
the Vine” sulle
caramelle gommose. È uno di quegli aneddoti con cui non
smetterò mai di mettere
Connie in imbarazzo, questo è poco ma sicuro.
“Oh
mio Dio, è… è incredibile,”
ridacchia Marco, assimilando ogni mia parola. “E quanti anni
avevate?”
“Diciassette,”
sorrido, passandomi la lingua sui denti. “Non me ne parlare.
Quel giorno
passerà alla storia, credimi.”
Quel
sabato continua pressoché
allo stesso modo; porto i libri in cortile e, fra un problema di
chimica e
l’altro, chiacchiero con Marco delle cose più
stupide. A quanto pare gli
piacciono le storie sui miei amici idioti, poiché mi fa un
sacco di domande, e
chiede “e poi che è successo?” dopo ogni
aneddoto che gli racconto. Quindi lo
accontento. L’avrei fatto in ogni caso, comunque. Ha
un’aria così… sincera
stampata in volto, che proprio non riuscirei a starmi zitto.
La
cosa bella di Marco è che
non è come Connie. È quel tipo di persona per cui
vorresti fare di tutto, pur
di diventare il suo migliore amico. Non è qualcuno con cui
hai passato le
peggiori battaglie nel fango quando avevate cinque anni (non che io
abbia
qualcosa in contrario alla mia amicizia con Connie,
assolutamente… è solo che
diventa estenuante più delle volte). Be’, diciamo
che… non mi dispiacerebbe
fare una buona impressione su di lui. Mi fa sentire bene quando prende
atto di
ciò che gli confido, con uno di quei sorrisi da
Gesù con le lentiggini.
Marco
non parla praticamente
per niente dei suoi, di amici;
cioè,
so che è amico di Bert, molto amico, o almeno lo era quando
frequentava ancora
l’università. E ogni tanto nomina qualche tizio
che lavora con lui –
specialmente uno che ha un vero e proprio feticcio per la pulizia che
va ben
oltre lo spolverare le foglie. Ma non sembra avere un rapporto simile a
quello
che io ho con Connie e Sasha con nessuno.
“Cosa
fai per divertirti?” gli
domando; la sfrontatezza della mia domanda gli fa fare quella cosa con
le
sopracciglia, per poi battere le palpebre lentamente. “Tipo
nel tuo tempo
libero e cose del genere?”
“Aspetta,
vorresti dire che non
vivo solo per pulire piscine?” ridacchia, ma io continuo a
guardarlo
insistentemente. A quel punto alza le spalle. “Non ho molto
tempo libero in
questo periodo. Credo che… tutto quello che ho lo passo con
la mia famiglia.”
Gli
faccio una smorfia che
spero esprima tutta la mia indignazione a riguardo (a parte il fatto
che, sì,
sono quello che ha appena passato gli ultimi dodici mesi prima di tre
settimane
fa praticamente solo con mia madre. Ma ssh.).
“Gioco
con mia sorella e cose
del genere, può valere?”
Sbuffo,
divertito, al pensiero
di Marco che gioca ai giochi da tavolo come passatempo. Potrebbe essere
più
casalingo di così? Probabilmente no. Dopotutto, stiamo
parlando di Marco.
“Una
sorella, eh?” sorrido. È
la prima volta che si sofferma a parlare della sua famiglia, senza
sviare
subito il discorso. “È figa?”
“Ha
nove anni, Jean.”
Espiro
bruscamente dal naso e
mi passo una mano fra i capelli disordinati con aria impacciata.
“Ooookay,
allora. Lo prendo
come un no.”
In
quel momento, mi arriva un
messaggio su snapchat al cellulare. Lo schermo si accende sulle note
del whoooooo are you? iniziale
della mia
suoneria, dall’omonima canzone degli Who.
Il
messaggio è di Connie, è una
foto dei suoi appunti di filosofia, coperti da una miriade di caramelle
gommose
di colori diversi. La didascalia recita: secondo
te quante me ne riesco a mettere in bocca contemporaneamente ????
“Di
chi è?” curiosa Marco,
notando il mio sorriso divertito. Si avvicina di un passo e si sporge
su di me
per vedere lo schermo.
“Dell’idiota
numero uno,” gli
dico, mostrandogli lo screenshot ce ho fatto alla foto prima che
scadesse il
suo limite di tempo di cinque secondi. Marco alza un sopracciglio.
“Sei
sicuro che sia una buona
idea lasciarglielo fare, dopo quello che mi hai raccontato
dell’ultima volta?”
osserva. Scuoto la testa,
scatto un selfie mentre aggrotto le sopracciglia, e digito una
risposta: a quanto vedo lo studio va alla
grande lmao
“No,”
rispondo a Marco,
“Aspetta e vedrai. Fra non più di
mezz’ora verrà a dirmi che ne ha mangiate
troppe e gli viene da vomitare.”
Ricevo
una risposta piuttosto
rapidamente. Stavolta la foto raffigura Connie, con la bocca piena di
caramelle
multicolore. Il testo dice: no mancano 2
settimane mi arrendo, vado a fare lo spogliarellista !!!!
“Ha
detto che ha deciso di
diventare uno spogliarellista,” mormoro, “Non
sembra una cattiva idea. Quasi quasi
lo seguo.” Fisso il libro che ho in grembo, soffermandomi
sulla pagina su cui
sono fermo da un bel po’ di tempo.
“I
tuoi genitori
apprezzerebbero la decisione, ne sono certo,” mi canzona
Marco, portando il
filtro fuori dall’acqua e posandolo vicino ai gradini del
capanno dove sono
seduto.
“Probabilmente
la
apprezzerebbero più di alcune delle possibilità
che sto prendendo in
considerazione.”
Marco
a quel punto mi guarda e
inclina la testa da un lato. È un’altra delle sue
abitudini che aggiungo alla
mia lista mentale.
“Quindi
stai davvero pensando di iscriverti
a una facoltà artistica?”
presume, e io annuisco, evasivo. Il suo tono si fa un po’
più serio. “Forse
dovresti dare una possibilità ai tuoi, Jean. Puoi mostrargli
cosa sei in grado
di fare.”
Non
è che non abbia mai pensato
di mostrare i miei album ai miei genitori prima d’ora. Sono
anche convinto al
settanta percento che a mia madre potrebbero addirittura piacere alcuni
dei
miei disegni. Ma…
“Pfft,
non hai mai conosciuto
mio padre. È fissato con… be’, direi
che è fissato con le regole, ma non è per
niente così, cazzo. Diciamo che è fissato con il
mio futuro, vuole per forza
che segua la strada che lui ha
deciso
per me. Andrebbe su tutte le furie se accennassi anche solo
lontanamente al
fatto di non voler lavorare per lui nella sua azienda.”
E
poi in realtà chi mi
ammetterebbe mai a un corso di arte vedendo un mucchio di disegni in
perfetto
stile stalker che raffigurano sempre la stessa ragazza e
l’inserviente della
piscina? Tutto ciò sempre se riuscissi a mandare la domanda
di iscrizione senza
essere prima strangolato da uno, o forse entrambi i miei genitori per
aver
“mandato all’aria il mio futuro” o
qualche cazzata simile. Scuoto la testa, e
Marco sembra piuttosto demoralizzato, vedendomi così.
“Non è
il loro futuro quello che stanno
cercando di pianificare,” mormora a bassa voce, concentrato a
guardare l’acqua
che bagna le piastrelle blu del bordo della piscina.
“Dovresti essere tu a
decidere, solo tu. Dovresti considerare le cose che, a quanto ho visto,
ti
piacciono sul serio. Jean, sei veramente bravo a disegnare. Molto bravo. Per favore, prova a
parlargliene.”
Mi
lascio scappare una risata
nasale e mi stendo all’indietro sugli scalini, intrecciando
le dita sulla
testa.
“Ehi,
vacci piano, Socrate,”
dico, al che Marco alza gli occhi al cielo e arrossisce. Tuttavia, le
sue
parole effettivamente mi toccano più nel profondo di quanto
la mia risposta
sarcastica possa dare a vedere. È la stessa sensazione di
quando mi ha fatto i
complimenti per i disegni che ha visto nella mia stanza, quella volta.
Orgoglio, forse? O
l’appagamento per
aver fatto qualcosa di buono? L’idea che a qualcuno importi
effettivamente qualcosa di me oltre
al voto dell’ultimo
esame o del fatto che indossi o meno dei vestiti firmati.
“Dico
sul serio, Jean,” insiste
Marco, distogliendomi dai miei pensieri. “Devi fare quello
che tu vuoi fare veramente. Lo sto
provando
sulla mia pelle, so quanto faccia schifo essere costretti a fare
qualcosa che…
non ti appassiona per niente.” Il suo tono di voce si
affievolisce quando
pronuncia quelle ultime parole e ha un’espressione cupa, con
un misto di
qualche altro sentimento che non riesco a cogliere appieno.
In
situazioni del genere,
normalmente reagirei facendo un commento divertente. Quindi
è proprio quello
che faccio. Non riesco ad approcciarmi a discorsi così
sentimentali in altro
modo.
“Ah,
ma se non avessi iniziato
a pulire piscine non avresti mai incontrato me,”
gli dico con un sorriso, “La tua vita sarebbe completamente
diversa. Pensa a
quanto saresti stato depresso senza il meraviglioso, affascinante, spiritoso Jean Kirschtein nella tua
vita.”
“Pensa
a quanto sarei stato
depresso senza tua madre che flirta
con me, forse è questo che volevi dire?” ribatte
lui sfrontatamente. Ma non sono
così cieco da non accorgermi che sta forzando quel sorriso
che ha stampato
sulle labbra, o del modo in cui sembra contrarre la mascella. I suoi
occhi
sembrano ancora piuttosto scuri (e non parlo solo del colore).
Marco
non sembra più lo stesso
dopo quella chiacchierata; offre solo una mezza risata alle mie
battutine di
merda, e fissa il vuoto per gran parte del tempo, come se stesse
contemplando
pensieri piuttosto seri nella sua testa. Provo a ripercorrere le mie
parole,
per capire se ho detto qualcosa di particolarmente offensivo, ma non mi
viene
in mente nulla.
Non
riesco a immaginare come
sia stato per lui dover abbandonare il suo sogno per il futuro;
specialmente
se, come mi ha detto in precedenza, è successo a causa di
alcuni “problemi
familiari”. Non che abbia la minima idea di ciò a
cui si stesse riferendo.
Credo che persino i miei si potrebbero considerare “problemi
familiari”. Ma
Marco non ne parla. Quindi non provo a ficcanasare.
Quando
arriva l’ora di andarsene, gli do i soldi e lo aiuto
nuovamente a mettere a
posto l’attrezzatura nel furgoncino, salutandolo e
ricordandogli che ci saremmo
visti mercoledì. L’ultimo augurio gli strappa un
sorriso più genuino sul volto
lentigginoso, e lo vedo addirittura salutarmi con una mano dal
finestrino abbassato
mentre si allontana dal marciapiede.
Quella
domenica mattina, mi
aspetto di poter ottenere il mio meritato riposo almeno fino a
mezzogiorno.
Ovviamente, non ci riesco. A volte mi chiedo sinceramente dove sia
nascosta la
mia fortuna.
È
intorno alle nove che, nel
mio stato semi-comatoso, ho come la vaga impressione di sentire
qualcosa
abbaiare. È uno di quei momenti in cui qualsiasi cosa accada
intorno a te
inizia semplicemente a far parte del tuo sogno – una parte
del sogno che ti lascia
piuttosto interdetto, perché in qualche modo riesci a sentire che non è del tutto
appropriata – ma continui a dormire
comunque.
Non
so esattamente cosa sto
sognando, ma so che comprende Connie, e Sasha, e
c’è anche Eren – e quando
quest’ultimo apre la bocca, invece di pronunciare parole, si
mette ad abbaiare?
Questo tipo di cazzate apparentemente è normale nel mondo
dei sogni di Jean;
non mi faccio problemi.
È
quando il latrato si ferma
per lasciare il posto a un distinto rumore di schizzi e lamenti che
vengo
distolto dal sonno. I miei occhi si aprono con qualche pigro battito di
palpebre, fisso il soffitto imbiancato sulla mia testa con occhi
pesanti per un
po’ di tempo, con il rumore dell’acqua nelle
orecchie, ma senza rendermene
veramente conto.
Mi
rigiro su un fianco, verso
il lato del muro, e tiro su le lenzuola per coprirmi la vita ancora un
po’ (ho
l’abitudine di scalciarle via inconsciamente durante la
notte) – e poi sento
abbaiare, di nuovo.
Oh,
per l’amor del cielo,
mi lamento dentro di me, afferrando il cuscino per poi coprirmi il lato
della
testa che non poggia sul materasso. Perché
diamine quel cazzo di gatto deve terrorizzare quello stupido cane
così spesso?
Ma
il latrato è ancora molto
forte. Troppo forte. Troppo forte perché provenga dalla casa
dei vicini. Sembra
quasi come se…
…
Cazzo.
Mi
precipito fuori dal letto e
poi verso la finestra che sovrasta il cortile sul retro. Quello
stronzo è nella piscina.
Colpisco
con forza il vetro
della finestra con un pugno, e urlo qualcosa di abbastanza osceno al
Jack
Russell; tuttavia, tutto ciò che fa è concedermi
uno sguardo rapido, per poi
continuare a sguazzare fra le onde, con la coda che si lascia
trasportare su e
giù sul pelo dell’acqua.
Percorro
le scale alla massima
velocità, mentre ho ancora indosso i miei boxer e
nient’altro, con la vivida
intenzione di scuoiare vivo quel
cane
non appena l’avrò catturato.
Il
resto della casa è deserto –
tipico.
Spalancando
la porta sul retro,
mi fermo immediatamente quando vedo il minuscolo bastardo arrampicarsi
sui
gradini della piscina, per poi iniziare a scuotere il pelo bagnato,
schizzando
il bordo con un piccolo tornado di goccioline. Sembra quasi girarsi per
guardarmi, e giuro che mi sta dicendo be’,
cos’hai intenzione di fare adesso? Fatti sotto!
Mi
rimbocco le maniche
immaginarie, e muovo ancora qualche passo, fumante di rabbia, in
direzione del
mio nemico, quando quest’ultimo compie un gesto inenarrabile.
Solleva una
zampa.
Gli
rivolgo uno sguardo
tagliente come un rasoio, e lui mi fissa di rimando.
“No,
cazzo, non ti azzardare a pisciare
in quella piscina, stronzetto,”
ringhio a denti serrati.
Al
che, ovviamente, inizia a
pisciare.
A
quel punto mi fiondo su
quello stronzetto, con l’intenzione di strangolarlo una volta
per tutte, ma lui
fugge immediatamente attraverso la siepe che collega il nostro cortile
a quello
dei vicini, accompagnato da un ululato soddisfatto. (È veramente soddisfatto, ve lo posso
giurare! È fiero di sé, cazzo!)
Mi
precipito a mia volta sulla
siepe in cerca del malfattore, sto praticamente ringhiando come se
fossi un
cane anch’io, ma le mie mani non trovano nessun bastardo
ossuto da stringere.
Emetto un respiro secco e mi alzo in piedi, voltandomi verso la
piscina, dove
la pipì sta iniziando a dissolversi nell’acqua.
Che.
Schifo.
Sì,
lo so, studio chimica. E
sì, lo so che il cloro
ha proprietà
disinfettanti ed è usato nelle piscine proprio
per questo motivo. Ma fa schifo lo stesso.
Rimetto
piede in cucina con uno
scopo ben preciso, respirando ancora furiosamente dal naso, e inizio a
rovistare freneticamente fra i cassetti dei banconi da cucina, mentre
cerco
quello che spero mia madre abbia avuto il buonsenso di conservare
lì dentro.
Non è qui. Con le mani sui fianchi, do uno sguardo al resto
della cucina e i
miei occhi si posano sullo sportello del frigorifero.
Aha!
Appeso
sotto alla foto che
ritrae me, Connie e Sasha nella gita di due estati fa,
c’è un rettangolo di
carta bianco, accompagnato da quel tocco di blu di un logo che
riconosco
subito. Il numero di telefono di un’attività
commerciale è stampato in caratteri
neri sotto a uno scontatissimo slogan del tipo: per
un’estate divina… lasciaci pulire la tua piscina!
Strattono
il biglietto da
visita per sfilarlo da sotto al magnete che lo tiene fermo, e poi
proseguo
precipitandomi sul telefono. Compongo il numero e mantengo il
ricevitore in
equilibro tra la spalla e l’orecchio, mentre rigiro il
cartoncino fra le mani.
Provo a immaginare quale sarà la reazione di Marco quando
gli racconterò del
modo in cui quello stronzetto di un cane cercava deliberatamente di
mandarmi
fuori dai gangheri. Riderà? O mi dirà di andarmene
a fanculo perché è domenica.
Merda,
è vero. È domenica. Saranno
aperti di domenica?
La
mia domanda trova presto
risposta quando il segnale di libero del telefono viene interrotto dopo
il
quinto squillo o giù di lì. Una voce bassa e
profonda risponde alla chiamata
con un discorso ben preparato.
“Salve,
ha contattato la ditta Servizi di
Manutenzione e Riparazione
Piscine di Trost. Io sono Erwin. Come posso
aiutarla?”
La
mia mente non si aspettava
che qualcuno al di fuori di Marco, che mi avrebbe riconosciuto
immediatamente,
potesse rispondere, quindi balbetto leggermente quando mi ritrovo ad
ascoltare
quella voce profonda e sconosciuta.
“Uh,
ciao? Sto… ehm, sto
cercando—” mi accorgo immediatamente di non sapere
neanche il cognome di Marco.
“Sto cercando uno dei
vostri dipendenti, si chiama Marco. Avrei bisogno di…
cioè, la piscina avrebbe
bisogno di… be’, ecco. Posso parlare con
Marco?”
“Potrebbe
dirmi il suo nome,
cortesemente?” domanda Erwin. Lo accontento.
“Kirschtein… Kirschtein. Eccolo!
Ah, sì, sei uno dei
clienti di
Marco.”
Increspo
le labbra in una linea
sottile, stringendo un po’ di più il telefono fra
la spalla e la guancia. Sento
un fruscio dall’altra parte delle linea, mentre immagino che
il mio
interlocutore stia coprendo il ricevitore per conversare con un altro
collega.
Riesco a stento a capire cosa stia dicendo.
“Ehi,
Levi, Marco lavora la
domenica?”
“No,
cretino, è il suo giorno
libero. Quante volte te lo devo ripetere?” risponde
l’altro, con una voce
altrettanto bassa e un tono piuttosto irritante.
La
linea è occupata nuovamente
da un fruscio, che precede il ritorno della voce di Erwin.
“Mi
dispiace, Marco non lavora
di domenica. Posso fissarle un posto nel suo programma di domani, se
vuole? È
il massimo che posso fare adesso.”
Mi
lascio scappare un mormorio
basso, concentrando lo sguardo sulla piscina, all’aperto.
“Diciamo
che è… un’emergenza?”
dico, forse esagerando leggermente.
“Non
avete un numero a cui posso contattarlo o qualcosa del
genere?”
Sento
che Erwin si rivolge
nuovamente al suo
collega:
“Levi,
abbiamo il numero di
casa di Marco da qualche parte? È nella sua
cartella?”
“Idiota,
non puoi sperperare in
giro il numero di telefono di una persona a qualche sconosciuto di
merda.” Wow.
Questo tizio ha proprio un palo nel culo. “Digli di andarsene
a fanculo e di
richiamare lunedì. Cristo.”
“Sono
un amico di Marco,”
aggiungo, cercando di persuadere Erwin, che ovviamente sembra il
più propenso a
prendere a cuore il mio caso. “Non sarà un
problema per lui. Dico davvero.”
Seguono
uno o due momenti di
silenzio, e mi chiedo per un istante se quel tipo chiamato Levi abbia
troncato
bruscamente la comunicazione chiudendomi il telefono in faccia.
Fortunatamente,
non è così.
“…Levi,
mi puoi passare il
dossier di Marco?”
“Cazzo,
Erwin, lascia in pace
quel povero ragazzo! Probabilmente in questo momento è a
casa a riposarsi e non
vuole essere disturbato dai tuoi problemi idioti! Ricordi?”
“E
se te lo chiedessi
gentilmente?” ribatte Erwin. “Perché fai
quella faccia?” Si sente un altro po’
di trambusto dall’altra parte della linea, prima che Erwin si
rivolga di nuovo
a me. “Devo solo andare a prendere il dossier di Marco, torno
subito. Ci metto
due secondi.”
Lo
sento posare il telefono
sulla scrivania a cui probabilmente è seduto, e poi vi
è una serie di
imprecazioni indistinte da parte di Levi quando immagino che Erwin gli
passi di
fianco. Inizio a sentire un lieve senso di colpa appesantirmi il fondo
dello
stomaco quando mi rendo conto che disturbare Marco al telefono di casa
nel suo
giorno libero potrebbe essere un comportamento un
po’ di merda da parte mia. Soprattutto per un
motivo che, sì, lo so,
è piuttosto sciocco.
“Oookay,
eccoci qui,” la voce
di Erwin attraversa la linea ancora una volta. “Hai carta e
penna?”
Mi
declama il numero di
telefono, che salvo in un promemoria sul mio cellulare. Il prefisso
è di una
zona dalla parte opposta della città, ora che ci rifletto.
Finalmente
riattacco, non senza sentire un ultimo borbottio seccato del collega di
Erwin.
Inizio
immediatamente a
digitare le cifre del numero di telefono di Marco per poi portare
nuovamente il
ricevitore all’orecchio. Questa volta la mia presa
è ben salda sulla plastica
dura.
Squilla
almeno sette volte (non
che io stia tenendo il conto, eh…) prima che qualcuno alla
fine mi risponda. Mi
accorgo di essere rimasto con il fiato sospeso per tutto questo tempo.
“Pronto?”
La voce appartiene a
una donna più grande.
Apro
e chiudo la bocca
molteplici volte, provando a formare delle parole. Cosa dovrei dire,
esattamente? Ciao, sono Jean, potrebbe
passarmi Marco per favore, perché un cane ha fatto la
pipì nella mia piscina e
non voglio pulirla da solo. Sono un coglione con la C
maiuscola.
“Pronto?”
ripete. “C’è qualcuno
in linea?”
“S-sì,
mi scusi! Uh, Marco vive
lì?” La mia voce esce praticamente in uno
squittio. Faccio una smorfia.
“…
Chi lo cerca?” sento un tono
sospettoso nella sua voce, insieme a qualcos’altro. Sembra
stanca. Veramente
stanca.
“Jean,”
rispondo, provando a
rendere la mia voce un po’ più stabile.
“Jean Kirschtein. Sono – uh –
un… amico
di Marco?”
Ascolto
più attentamente. Si
sentono dei rumori in sottofondo: il brusio leggero di una TV, e una
conversazione bassa voce, credo, ma non riesco a sentirne una parola.
“Marco,”
dice la donna in un
tono gentile, prima che io possa capire che non si sta riferendo a me.
“C’è
qualcuno per te al telefono. Dice di chiamarsi Jean.”
A
quel punto, la voce di Marco
sembra separarsi dal brusio generale di fondo.
“Jean?”
dice, con tono
sorpreso. Be’, certo che è sorpreso. “Ti
ha detto perché ha chiamato?”
“No,”
risponde lei, e mi sembra
che la sua voce sia diventata più bassa. Probabilmente non
vuole che senta
quello che sta dicendo. “Vuoi che gli dica che sei
impegnato?”
Be’,
mi sembra un atteggiamento
piuttosto maleducato.
“No,
mamma, non c’è problema!”
esclama Marco. La sua voce diventa più forte man mano che si
avvicina al
telefono. “È tutto a posto, puoi passarmelo. Vai
pure a sederti con papà.”
Si
sente un mormorio sommesso
di approvazione, o qualcosa del genere, e poi ecco la voce di Marco,
forte e
chiara. Ma dice solo una parola.
“Jean.”
Il mio nome sembra aver
lasciato le sue labbra in una specie di sospiro esasperato. Mi lascia
sconcertato.
“E-ehi,
ciao,” dico, passandomi
una mano fra i capelli ancora arruffati. “Scusa se ti chiamo
di domenica – uh,
i tizi al tuo ufficio mi hanno dato il numero comunque, quindi non ti
sto spiando
o cose simili—”
“Jean,”
ripete, con più enfasi.
“Cos’è successo?” noto una
vena di stanchezza nella sua voce, simile a quella
di sua madre. Ha un’aria praticamente esausta. Strascica un
po’ le parole. Non
mi piace sentirlo così.
“Be’,
uh, ti metterai a ridere,
okay?” ammetto impacciatamente. Ugh, forse ho sbagliato a
chiamarlo. “Quindi,
uh, c’era questo cane…”
Prendo
il suo silenzio come un
invito a proseguire.
“E
io, uh… be’, ho provato a
fermarlo, quello stronzetto. Ma lo stava facendo apposta per farmi un
dispetto –
e sì, lo so che i cani non dovrebbero provare sentimenti del
genere, ma
seriamente, questo è veramente uno str- senti, per farla
breve, il cane dei
vicini ha fatto pipì nella piscina.”
Un
momento o due di silenzio.
Ma poi la sua risatina anima la linea. Tiro un sospiro di sollievo.
“Sei
ridicolo,” medita lui, ma
la sua risata sembra ancora atona. “Spero
tu non gli abbia fatto del male,
Jean.”
“Oh,
ci ho pensato, cazzo, puoi
scommetterci,” ribatto io, poggiandomi sul bancone della
cucina mentre parlo. “Quel
piccolo pezzo di merda è scappato prima che potessi
prenderlo. Non immagini che
schifo.”
“Quindi
hai telefonato per
informarmi del fatto che sei stato sconfitto da un cane?”
“…
Non esattamente,” rispondo. “Io…
uh, pensi di poter passare un attimo e… uh, sai cosa
intendo, no? Fare quello
che fai di solito.”
“Jean,” ripete ancora una volta.
Rende il mio nome lunghissimo,
prolungando le vocali. Torno immediatamente sui miei passi.
“Cioè,
ovviamente solo se non
hai niente di meglio da fare e se ti va, eh! So che non è
per niente carino da
parte mia chiamare di domenica, ma troverò un modo per farmi
perdonare, lo
prometto! Ti pago il doppio del solito? Il triplo? È solo
che… oh, accidenti,
mi fa troppo schifo, okay?”
“Sai
che il cloro neutralizzerà
tutti i batteri presenti nell’acqua, vero?”
aggiunge Marco sommessamente,
evitando di rispondere direttamente a ciò che gli ho detto.
“Non ho capito
esattamente cosa vuoi che faccia, Jean.”
Espiro
attraverso il naso – il rumore
probabilmente arriva dall’altra parte della linea telefonica.
“Per
favore?”
A
giudicare dal modo in cui
sospira, sembra combattuto, e suppongo i aver oltrepassato il limite
dell’idiozia,
oramai. Ma mi sorprende.
“D’accordo.
Va bene, Jean. Sarò
lì fra mezz’ora. Avevo già intenzione
di controllare i livelli del cloro quando
sono venuto ieri, comunque.”
“O-oh,
okay!”
“Ci
vediamo fra poco, allora.”
Passo
i trenta minuti che Marco
impiega ad arrivare qui passeggiando per la cucina, dopo aver tirato
fuori un
paio di pantaloni di tuta e una vecchia t-shirt che usavo come pigiama
dal
bucato pulito nella lavanderia.
Sono
proprio a metà del cortile
quando sento il rumore del motore del suo furgoncino che si ferma
dall’altra
parte della siepe. Lo accolgo al cancello.
“Jean!”
esclama sorpreso,
praticamente precipitandosi giù dal furgone per raggiungermi
di corsa. Mi
guarda da capo a piedi, e vedo le sue pupille dilatarsi leggermente.
“Ma ti sei
letteralmente appena buttato giù dal letto? Guarda che
capelli!”
Alzo
una mano per allisciare il
nido d’uccello che sicuramente ho in testa al momento.
Probabilmente avrei
dovuto pensarci prima. Ci sono ciocche impazzite ovunque.
“Questo
è l’ultimo dei miei
problemi, adesso!” ribatto io, aprendo il cancello per farlo
entrare. Lo guardo
rapidamente, notando come la sua polo sia rimasta infilata nella
cintura dei
pantaloncini, probabilmente perché l’ha indossata
in fretta. Le lentiggini sul
suo volto sembrano più evidenti del solito –
sbaglio o è più pallido? Sembra
proprio di sì. Ha anche un paio di occhiaie scure sotto gli
occhi. Pare non
abbia chiuso occhio.
“Mi dispiace per questa storia,”
mi scuso, muovendo un passo nell’erba
mentre lui lascia uno dei contenitori sul bordo piscina. “Non
eri obbligato a
venire se avevi altri impegni, davvero. Ho solo—”
“Ora
sono qui, no?” sorride –
in maniera poco convincente. “Non c’è
problema, Jean. Non stavo facendo niente
di che.”
Bugiardo.
Non
sono un idiota. Be’, a volte lo sono. Ma so riconoscere a
colpo l’aspetto di
qualcuno che si sta ritirando in se stesso. È lo stesso
aspetto che ho
sfoggiato io per ben dodici mesi.
Provo
molte volte a iniziare
una conversazione mentre si accinge a misurare l’equilibrio
del cloro nella
piscina, ma ogni volta mi risponde con qualche parola educata che mi
impedisce
di fargli altre domande. È tutto molto distante. E molto
non-Marco.
Quando
annuncia di aver finito,
provo ad affrontare l’argomento.
“Allora
ci vediamo mercoledì,
giusto?” dico per prima cosa. “Spero che qualsiasi
cosa ti stia creando
problemi possa migliorare nel frattempo.”
Prova
– senza riuscirci – a fingere
di essere perplesso, alzando un sopracciglio. Incrocio espressamente le
braccia
al petto, in un gesto che dice chiaramente: non
mi bevo questa storia da te, okay?
Mi
rivolge un sorrisetto dall’aria
triste.
“Ti
ringrazio, Jean. Ci vediamo.”
Passo
gran parte della giornata
seduto in cucina, dopo aver trascinato il portatile e il suo
caricabatteria giù
dalla mia stanza poco dopo aver salutato Marco. Tento qualche domanda
sul sito
dell’università, ma lascio stare subito, optando
per scorrere la homepage di
Facebook per due noiosissime ore.
Intorno
alle sei, mi arriva un
messaggio di mia madre.
Da:
Mamma
Ehi tesoro, stasera esco con le ragazze, non mi aspettare. Anche
papà ha detto
che tornerà tardi, ordina qualcosa a domicilio. Ti voglio
bene xxx
E
va bene. Non rinuncio mai a
una buona occasione per ordinare una pizza.
Ne
ordino una grande, con tutti
i condimenti a base di carne che posso stiparci su senza correre il
rischio di
avere un infarto al primo morso. Venti minuti dopo, eccomi qui a fare
la mia
scorpacciata di cibo spazzatura.
Sul
mio Facebook compare un
aggiornamento di stato di Reiner – qualcosa sul football di
cui non potrebbe
importarmi meno di così – ma pensando a Reiner mi
viene in mente Bert, che
automaticamente mi fa pensare a Marco. Mi
chiedo quanto si conoscano bene. In
particolare, mi chiedo se lo conoscano così bene da sapere
cosa gli stia
succedendo.
Scuoto
la testa. Marco non parla
mai dei suoi amici, e l’unica volta in cui abbiamo
effettivamente parlato di
macho-man e del suo principino sudato è stata quando gli ho
raccontato un paio
di storie dalla mia vasta collezione di aneddoti imbarazzanti.
L’SMS
che ricevo da Connie
quando sono al terzo spicchio di pizza non può essere una
coincidenza.
Da:
il ragazzo più fico che potrai mai conoscere
ehi ti va di andare a studiare da bert martedì ???? ha detto
che mi aiuta un po’
in bio quindi magari anche tu puoi chiedergli qualcosa di chimica ????
Dato
che mancano solo due
settimane dal temuto primo esame non ho lezioni durante questa
settimana, solo
qualche ripasso ogni tanto. Per questo motivo, martedì
dovrei essere libero.
A:
il ragazzo più fico che potrai mai conoscere
certo, ci sono
Io
e Connie ci scambiamo
qualche altro messaggio per il resto della serata; parliamo
principalmente del
fatto che a quanto pare Reiner ha una PS4 e Connie vuole provarla per
forza,
dato che sia io che lui abbiamo l’Xbox.
Quando
l’orologio segna l’una
del mattino, sono ancora stravaccato in cucina, sfoggiando sempre lo
stesso mezzo-pigiama
che ho rimediato stamani. Il cortile sul retro è immerso in
una specie di
crepuscolo infinito, tipico del vicinato suburbano in cui vivo
– è una luce
soffusa di un giallo scuro e corposo, dall’aria pesante.
Sbadiglio
rumorosamente, stiracchiando le braccia sulla testa fino a far
schioccare le
spalle.
In
quel momento, sento una chiave
girare goffamente nella toppa del portone, e poi un rumore pesante di
passi
rozzi e incerti. Dopo qualche lungo secondo, mio padre approda in
cucina.
È
ubriaco. Riesco a sentire il
tanfo dolciastro del suo alito di birra da qui.
“E-ehi,
figliolo,” singhiozza,
afferrando il bancone per mantenere l’equilibrio. Chiudo il
portatile e gli
rivolgo uno sguardo severo. Striature di rossetto rosa aleggiano su
tutto il
colletto della sua camicia. “Tutto… tutto a posto
qui?”
Assottiglio
lo sguardo,
prendendo il computer sotto un braccio e raccogliendo il cavo con le
mani.
“Sei
un porco.”
È
troppo ubriaco per sentirmi. Lo sorpasso con una spallata, storcendo il
naso.
Non voglio neanche guardarlo.
Non
è mai troppo tardi per una
sigaretta di autocommiserazione.
Mi
arrampico sul tetto con la
stessa grazia di un pesce fuor d’acqua, e mi accomodo nella
solita posizione,
mettendomi a cavalcioni sul timpano che sovrasta la mia finestra. I
grattacieli
del centro di Trost luccicano distanti, tutti accesi come un albero di
Natale o
qualche cazzata simile. Mi sento arrabbiato anche solo a guardarli.
Faccio
un paio di tiri
terapeutici, aspettando che arrivi il flusso di nicotina. Non
è così grandioso
come vorrei. Quando espiro, nubi di fumo abbandonano le mie narici.
Mi
chiedo se tutti quelli della
mia età si sentano così, anche se nessuno ne
parla. Questo periodo della mia
vita dovrebbe essere stressante perché devo scegliere la mia
facoltà, o per le
app che si impallano, o perché cerco di smistare le tasse
dai miei risparmi.
Non
dovrei passare il mio tempo
a chiedere a Google perché gli uomini tradiscano le mogli
con cui sono sposati
da più di vent’anni.
Tossisco
quando il fumo che ho
in gola imbocca la via sbagliata.
La
maggior parte degli studi
che ho letto dice che gli uomini iniziano a tradire le mogli dopo aver
avuto
bambini. Mi chiedo da quanto tempo vada avanti questa storia, da quanto
tempo
prima che diventassi abbastanza grande da capire cosa fossero quei siti
strani
che ogni tanto vedevo aperti sul suo desktop.
Sento
il mio cuore cadere in un
abisso senza fondo. Provo a ricordare la data in cui ho deciso di dire
addio a
mio padre. Non ci riesco.
Mi
sento come se potessi
vomitare da un momento all’altro. Il mio stomaco si
attorciglia in tutti i modi
possibili e immaginabili, e quei conati improvvisi mi fanno venire i
brividi.
La
cenere ancora incandescente
si disintegra all’estremità della mia sigaretta, e
svolazza sulle tegole di
ardesia. I frammenti si accendono come vermetti luminosi nella
semi-oscurità
della sera. La mia mano scivola sulla coscia, fino alla tasca dove
conservo il
cellulare.
Il
vecchio Jean, quello dell’anno scorso, accettava di buon
grado questa storia di
soffrire in silenzio e basta. Riuscivo a ignorare migliaia di
telefonate da
ognuna delle segretarie di papà. Ma ora non è
più così. Sento un opprimente bisogno
di parlare e basta. Di parlare con
qualcuno. Con chiunque.
Note
dell’autrice:
C’è
stato un po’ più di Marco
in questo capitolo, dato che stanno pian piano instaurando
un’amicizia e stiamo
costruendo le fondamenta per i punti più importanti della
trama che leggerete
prossimamente.
Spero
che questo capitolo si
legga senza problemi; ero piuttosto preoccupata mentre scrivevo quella
delicatissima scena dell’erezione perché,
be’… è così imbarazzante.
Vorrei
tornare indietro nel tempo e chiedere alla me stessa di quindici anni
come
diamine facesse a scrivere qualcosa a sfondo sessuale senza battere
ciglio.
Perché la me attuale di diciannove anni sembra una
scolaretta imbarazzata,
lasciatemelo dire.
Ho
dovuto dividere il capitolo
a metà (il resto sarà parte del capitolo 6)
perché stava diventando lunghissimo…
questo è di 12'500 parole.
I
commenti che mi avete
lasciato sotto al capitolo 4 mi sono stati di grande aiuto! Apprezzerei
tantissimo altri commenti su quello che vi piace e che non vi piace,
come vi sembra
l’andamento della storia, quanto
sembra naturale il POV di Jean etc.
Le critiche costruttive sono ben accette!
La
prossima volta vedrete:
Bert, Reiner, Annie… e la collezione di CD di Marco. Ditemi
un po’ cosa vi
aspettate.
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Capitolo 6 *** Accidentally In Love ***
Chapter
6:
Accidentally In Love
“Le
famiglie felici si assomigliano tutte. Ogni famiglia infelice, invece,
lo è a
modo suo.” – Lev Tolstoj, Anna Karenina
Chiudo
gli occhi, e tutto ciò che riesco a vedere dietro alle mie
palpebre abbassate
sono le macchie di rossetto sulla camicia di mio padre. Voglio che
tutto questo
finisca. Non voglio che qualsiasi altro pensiero mi faccia arrivare
sempre lì,
a domandarmi chi si stia scopando, con chi stia parlando al telefono in
tono
sommesso, cosa stia facendo mia madre
mentre questa storia va avanti.
Odio
quella maledetta tonalità di rosa.
Il
dolore che mi pervade il petto, gli arti, la testa, non è
mai stato così reale.
È una cosa di cui la gente parla spesso, no?, il modo in cui
il dolore sembra
irradiare dal tuo corpo, inchiodandoti i piedi al pavimento e
aggrovigliandoti
le budella in tutte le forme più impossibili. E tu puoi solo
affogare nel tuo
dolore.
Mi
raggomitolo nel mio letto, tirandomi le coperte fino al collo,
nonostante lo
scintillio che il sudore inizia a formare sulla mia fronte, sui palmi e
dietro
le ginocchia. Assumo una posizione fetale e avvolgo le braccia attorno
alla
pancia, nella speranza che questa posizione possa aiutarmi a mantenere
la
calma.
Sono
arrabbiato. Mi viene da piangere in una maniera piuttosto vergognosa.
Ora come
ora, mi viene anche da marciare giù in cucina per afferrare
mio padre per quel
cazzo di colletto sporco di rossetto e gettarlo in mezzo alla strada.
Vedo
il volto di mia madre non appena chiudo gli occhi. Cos’ha
fatto per meritare
tutto questo? Controllare il peso per vent’anni e iniettarsi
la faccia piena di
schifezze chimiche solo per mantenersi giovane per lui? Vittima. Vittima. Siamo entrambi vittime in
questa storia.
No,
Jean. Tu sei un complice. Lo sai.
Adesso
sto tremando, sono
scosso da questi cazzo di sussulti che non riesco a fermare. Patetico,
patetico, patetico. Sono pessimo, proprio come lui.
Lunedì
mattina barcollo in università, invaso dai sintomi
post-sbornia, anche se in
realtà non bevo da un bel po’ di tempo. Ma
è il modo più adatta per descrivere
come mi sento. L’orribile calore che ingoia qualsiasi
pensiero nella mia testa,
il modo in cui il mio corpo assorbe tutte le mie forze solo per muovere
un
piede più avanti, passo dopo passo. Tutto sembra
riecheggiare a un volume un
po’ troppo alto, ma è allo stesso tempo
indistinguibile.
Controllare
i miei pensieri è incredibilmente difficile; è
come se qualcun altro stesse
correndo, portandoli con sé, e io mi lasciassi semplicemente
trascinare in
questa corsa. Concentrarsi è difficile, ma, allo stesso
tempo, non lo è
abbastanza. Mi accorgo del modo in cui respiro, affaticato; del nodo
che ho
nello stomaco, del ronzio costante nella mia testa. In effetti, riesco
a
concentrarmi fin troppo bene su tutte queste cose.
Passo
due ore seduto in un laboratorio di ripasso per gli esami, e mi ci
vorrebbero
degli stecchini per mantenere gli occhi aperti. Connie non sembra
accorgersene
– sta parlottando con Sasha di qualche progetto per
l’estate, o qualcosa di
simile. Sento solo una parola ogni tanto, e anche quelle poche parole
che sento
tendono a entrare da un orecchio e uscire direttamente
dall’altro, offuscate
dal mio stato generale di fanculo a tutto
quanto.
Siamo
seduti al nostro tavolo nella mensa e io sto sorseggiando un bicchiere
d’acqua,
quando Ymir si avvicina a noi, con il suo braccio esile e dinoccolato
avvolto
attorno alle spalle di Historia. Le
guardo di sbieco, chiedendomi se non sia semplicemente un miraggio.
I
pensieri di mio padre, delle sue puttane,
i pensieri di mia madre, tutto quanto si mescola al ricordo della
settimana
scorsa, lo sguardo scontroso di Ymir, quello compassionevole di
Historia, e poi
Eren. Eren. Vaffanculo, Eren. Non
riesco a pensare ad altri problemi oltre a quelli che ho già.
“Ehi,
Springer!” Ymir esordisce con naturalezza, facendo alzare lo
sguardo a Connie e
Sasha dalla lista dei brani musicali che stavano scrutando sullo
schermo del
telefono di lei. “Armin mi ha detto che state scegliendo le
canzoni per la
festa di quest’estate! Pensavo di offrirvi il mio prezioso
aiuto per
assicurarmi che non mettiate nessuna di quelle merde K-pop
che avete scelto l’anno scorso.”
“E
tu come faresti a ricordarlo?” ribatte Sasha, “Eri
così ubriaca che non
riuscivi neanche a stare in piedi senza l’aiuto di
Historia!”
“Non
è vero,” sbotta Ymir in una risata, accomodandosi
sulla sedia affianco a me e
trascinando Historia sulle sue ginocchia strappandole uno squittio
piuttosto
sorpreso. Continuo a fissarle come se fossi, non so come spiegarlo, più lento nei ragionamenti, o
qualcosa
del genere. Mi sento come se stessi pensando a rallentatore, come se il
mio
cervello fosse pieno di batuffoli di cotone.
“Sono
piuttosto sicuro di ricordare che io, Eren e
Mikasa siamo stati costretti a tirare il tuo culo ossuto su per le
scale e
metterti a letto ancor prima che sparassero i fuochi
d’artificio,
effettivamente,” Connie sorride beffardo, facendo accigliare
Ymir.
I
fuori d’artificio. Giusto. Inizio a mettere insieme i
pensieri e a capire di
cosa stanno parlando.
Connie
ha sempre organizzato una festa dopo la fine degli esami, da quando ho
memoria.
Be’, più che altro, da quando ubriacarsi
è diventato accattivante, quando
avevamo circa quindici anni. Mi ritrovo a desiderare ardentemente
qualcosa di
forte e alcolico sul fondo della gola, e il conseguente ronzio, caldo e
rassicurante, nella testa.
No,
dovresti berlo lentamente, per affogare il tuo dolore.
“Tu
ci sarai quest’anno, Jean?” mi chiede Historia; al
che la guardo nei suoi
bellissimi occhioni azzurri senza dire una parola. Dannazione, ci si
può
perdere in quegli occhi. (Peccato che lei sia decisamente
dell’altra sponda.)
“Jean?” Oh, giusto, sta parlando con me.
Aspetta
un attimo.
“È
tutto il giorno che sta con la testa fra le nuvole,” si
intromette Sasha a quel
punto, dandomi una gomitata dall’altra parte del tavolo.
“Tutte le ore passate
a studiare gli hanno fuso il cervello, alla fine. Se guardi
attentamente puoi
vedere che inizia a colargli dalle orecchie.”
“No,
sono—” inizio improvvisamente a parlare, rischiando
quasi di rovesciare il mio
bicchiere mezzo vuoto quando mi raddrizzo sulla sedia. Ymir e Historia
mi
fissano con aria incerta. “Cioè,
uh…” mi giro a guardare Connie.
“Sì, ci sarò?”
“Altrimenti
chi altri potrebbe pagare tutto l’alcol,” afferma
Connie con sincerità,
rivolgendomi un brusco cenno del capo. Vorrei
fare un commento sarcastico su quanto siano miei amici solo per una
questione
materialistica, ma tutto ciò su cui riesco a soffermarmi
è la conversazione che
stiamo avendo effettivamente in questi momento. Io. Connie e Sasha.
Ymir.
Historia.
Le
quali…non mi stanno ignorando? Già. Sembra un
giro di cinque minuti su una
montagna russa.
“Bene,”
sorride Ymir – anche se il suo sorriso ricorda più
un ringhio. “Ho sentito
diversi aneddoti su Jean ubriaco. Voglio vederlo di persona.”
(Probabilmente
dovrei fare presente che Historia e Ymir hanno iniziato a uscire
insieme solo
all’inizio dell’estate scorsa e che, be’,
sappiamo già tutti dove sono stato
negli ultimi dodici mesi. Comunque, a quanto pare Ymir da ubriaca tende
ad arrabbiarsi, quindi
probabilmente è
stato meglio così per la mia
incolumità…)
Historia
dà una gomitata leggera nelle costole della sua ragazza
– Ymir per tutta
risposta rafforza la sua presa sul girovita sottile della bionda, e
affonda il
viso nella base del suo collo.
Connie
e Sasha iniziano a parlare ininterrottamente dei loro piani per la
festa
leggendaria che stanno organizzando, e Ymir coglie
l’occasione per dispensare
liberamente i suoi consigli, mentre Historia prova a mitigare ogni cosa
sgarbata che riesca a scappare dalla
bocca della sua ragazza. Mentre io siedo lì semplicemente,
sbalordito.
Lunedì.
Ogni lunedì deve succedere qualcosa.
La
vaga confusione che avevo in testa
è…be’, è sempre una vaga
confusione, ma non
una di quelle che ti fanno sentire tutto scombussolato. È
più del tipo: tutto qui?
È tutto quello che ci voleva? Le
cose tornano normali così semplicemente?
Ma
in senso buono. Getto uno sguardo in direzione di Eren,
dall’altra parte della
stanza. Sta guardando da questa parte, con un’espressione
arrabbiata stampata
sui tratti scuri. Il suo sguardo verde-azzurro è penetrante.
Alla
fine, in mezzo al senso
generale di ripugnanza per me stesso che ho provato per tutto il
giorno, credo
di sentirmi leggermente compiaciuto.
Quando
ricordo come si faccia a parlare, mi ritrovo a unirmi, seppur esitante,
a
Connie e gli altri nei progetti per la festa. Ymir ci spiega che
probabilmente
riuscirà a rimediare qualche cassetta di birra dal posto
dove lavora, e Sasha
aggiunge che sta tenendo i soldi da parte da mesi per comprare della
vodka, in
vista di quello che improvvisamente ha iniziato a chiamare: l’evento sociale dell’anno.
Qualsiasi
pensiero che riguardi l’infedeltà di mio padre
viene accantonato in un angolino
sul fondo della mia mente quando Sasha mi porge il telefono
dall’altra parte
del tavolo, per mostrarmi la playlist che ha già iniziato a
mettere insieme. Mi
ritrovo a fissare lo schermo, ammutolito, forse per un po’
troppo tempo; probabilmente
quando sei stato trafitto da troppi coltelli, quando qualcuno ti
dà qualcosa di
bello, non riesci a distinguerlo subito. Ci vuole un po’ di
tempo.
“Terra
chiama Jean?” Sasha mi distoglie dai miei pensieri agitando
una mano di fronte
alla mia faccia. Credo di riconoscere una nota di preoccupazione nella
sua
espressione. Sa che c’è qualcosa che non va. Le
occhiaie che mi ritrovo sotto
gli occhi probabilmente non sono di grande aiuto. “Che ne
pensi?”
Scorro
la lista rapidamente – non è male, ma non
è neanche un granché. Con il dovuto
rispetto, offro la mia collezione di dischi per la causa, ottenendo un
ringraziamento da parte di Ymir. A quanto pare i nostri gusti musicali
sono
sorprendentemente simili.
Ad
ogni modo, non poteva rimanere tutto così perfetto per
sempre. Difatti, non ci
metto molto a realizzare che, sì, probabilmente io
farò la mia comparsa a
questa festa, ma ci sarà anche Eren. Eren, che sicuramente
sta ancora guardando
nella mia direzione in questo preciso istante, perché riesco
a sentire il suo
sguardo di merda bruciarmi la schiena. Bel problema.
“Non
posso venire,” sospiro, premendo la base dei palmi sugli
occhi. Tutte e quattro
le paia di occhi che mi circondano si girano a guardarmi.
“Eren sarà lì.
Succederà un casino, se ci saremo entrambi,”
spiego. Non penso di poter gestire
altri casini.
“Oh,
che se ne vada a fanculo,” brontola Ymir; sono più
che leggermente sorpreso.
“Non fa che comportarsi da testa di cazzo. Specialmente in
quest’ultimo
periodo.”
“Dovrebbe
crescere un po’,” conviene Sasha.
“Non
lasciare che ti rovini la serata, Jean,” mi dice Historia con
un sorriso.
“Basta
che non lo mandi al tappeto un’altra volta,”
aggiunge Connie. Alzo gli occhi al
cielo, ma quel senso di dubbio non accenna ad abbandonarmi il petto.
Anzi, sembra
serrarlo ancora più forte, come una morsa. “Mi
rifiuto di avere a che fare con
altre macchie di sangue nella mia auto se devo portarlo
un’altra volta in
ospedale, okay?”
“Penso
che Jean si sia dato una
calmata da allora,” dice Historia in tono pacato, allungando
una mano per
posarla delicatamente sul mio braccio in un gesto di conforto, come se
fosse la
cosa più naturale al mondo da parte sua. Quel tocco mi
prende di sorpresa.
Sento il tepore trapelare nelle crepe (seppur metaforiche) che solcano
la mia
pelle. “Sono certa che andrà tutto bene.”
Non
so come abbia fatto a sopravvivere al resto della giornata; diciamo che
mi sono
solo…lasciato andare alla deriva. Una, o forse due volte,
sento la mano di
Sasha sulla spalla, ma la scanso, dopo averle spiegato sommessamente
che va
tutto bene. La prima volta sorride dolcemente, sentendomelo dire. La
seconda
volta, la vedo rabbuiarsi. Ma non cerca di risollevare
l’argomento.
Decido
di saltare l’ultimo seminario di ripetizione della giornata;
principalmente
perché è di francese, una materia in cui mi sento
quasi del tutto sicuro, e non
so se riuscirei a sopportare una lezione senza i miei amici. (Come
diamine
facessi prima, nessuno può saperlo.) Il chiacchiericcio di
Connie in qualche
modo riesce davvero ad allontanare la nuvola grigia che incombeva sulla
mia
testa da stamattina.
Il
tragitto verso casa è breve; a stento ci faccio caso,
guidando con il pilota
automatico in mezzo al traffico pomeridiano del centro di Trost. I miei
pensieri iniziano a schiarirsi veramente solo quando sono seduto di
fronte al
mio portatile, scorrendo le notizie del giorno sulla homepage di
Facebook.
Mi
accorgo di avere una nuova richiesta di amicizia quando il piccolo
segno rosso
lampeggia nell’angolo dello schermo. Ci clicco su: Ymir. In
quel momento,
l’importanza di tutti gli eventi di oggi sembra colpirmi
all’improvviso.
Emetto
un gemito e mi rannicchio sulla mia scrivania, tenendomi la testa dalle
tempie,
con i gomiti posti su entrambi i lati della mia
tastiera.
Sembra
proprio così, quando succedono
cose
nuove devono sempre accadere tutte in una volta. Sono quel tipo di
persona a
cui piacciono le cose semplici, chiare. E
poi sono anche un cinico bastardo, lo so.
Voglio
essere felice; perché l’ultima volta che Historia
mi ha parlato è stata in
quarto superiore, il giorno dopo l’incidente con Eren, quando
mi ha chiesto di
restituirle i quaderni che mi aveva prestato in precedenza. Voglio
essere
felice perché, guardate un po’, altre
due persone hanno deciso di parlare a Jean il perdente. Felice.
Fortunato.
Confuso.
Tutto ciò è iniziato per colpa della mia stupida,
patetica –
Già,
non me la sento di pensarci, adesso.
Alla
fine clicco il pulsante per accettare la richiesta di amicizia, per poi
continuare a scorrere la pagina principale. E qualcos’altro
cattura la mia
attenzione.
È
solo un aggiornamento di stato di Reiner. Non lo leggo nemmeno (tende
ad
aggiornarlo fin troppo spesso, comunque…). Tuttavia, leggo i
commenti. Be’, il
terzo commento, perché come potrei ignorare quella piccola,
lentigginosa
immagine del profilo che attira il mio sguardo?.
Marco.
Marco Bodt.
Il
mio dito guizza così rapidamente sul touchpad che rischio
quasi di cliccare su
una pubblicità, invece del suo nome. A quel punto la pagina
si trasforma nel
profilo di Marco: la sua immagine di copertina è palesemente
vecchia, perché
ritrae lui e altri ragazzi nelle toghe del diploma delle scuole
superiori.
Marco afferra con fermezza il suo diploma nella mano destra, mentre
l’altro
braccio è intorno alle spalle del ragazzo affianco a lui, e
il suo volto è
illuminato da un sorriso smagliante.
Mi
mordo il labbro e continuo a scorrere il suo profilo.
Non
c’è molto – me lo immagino come uno che
non usa internet più di tanto, in ogni
caso – il suo profilo è costituito principalmente
da notifiche da applicazioni
dall’aria piuttosto stupida: oroscopi, Farmville (oh mamma) e
un bel po’ di
messaggi dei suoi parenti che gli augurano il meglio. Non scrive molti
stati,
insomma. Sono piuttosto deluso. (Non che volessi fare lo stalker,
eh…no, per
niente.)
Ciao
Marco, spero che a casa vada tutto bene. Ho sentito
cos’è successo, i nostri
pensieri e le nostre preghiere sono con tutti voi. Chiamami quando hai
tempo,
tesoro.
Mentre
scorro il suo profilo, quel commento appare all’inizio della
pagina, da parte
di quello che presumo sia un suo parente (a giudicare dalle lentiggini
che
invadono anche la sua immagine del profilo). Lo rileggo un paio di
volte,
aggrottando le sopracciglia.
A
quel punto compare la risposta di Marco in persona:
Grazie
per il messaggio. Ti chiamo quando finisco di lavorare.
Corta,
semplice. Ma non dolce. Almeno, non mi sembra. Vorrei scrivere una
risposta ma,
non essendo suo amico su Facebook, non compare alcuna barra per
inserire un
commento. Ci penso su, al fatto di mandargli la richiesta o scrivergli
un
messaggio privato, ma decido di non farlo. Cosa dovrei dirgli? Ehi Marco, sono io. Ho visto che
c’è
qualcosa che non va, e probabilmente ti stai sentendo di merda, a
giudicare da
come stavi ieri e, be’, anch’io mi sento di merda
ultimamente. Perfetto,
no?
Ciononostante,
mi ritrovo a desiderare quel sorriso amichevole, e qualcuno con cui
confidarmi.
Ho come la sensazione che anche solo ammettere a qualcun altro che mi
sento la
testa più incasinata del solito possa farmi bene in qualche
modo. Sarebbe come
togliersi un peso e cose così, giusto? Giusto. Non
succederà mai. Sono sempre
così bravo con i sentimenti,
dopotutto.
Chiudo
il portatile senza
minimizzare il browser e lo spingo a un lato della mia scrivania,
rimpiazzandolo, invece, con degli appunti che devo ripassare.
Io
e Connie saliamo a bordo del suo sporco, vecchio pick-up per andare a
casa di
Bert e Reiner il giorno successivo (per accettare l’offerta
di Bert di studiare
insieme); è più comodo se mi accompagna lui,
perché Connie deve passare dal mio
quartiere per attraversare la città da casa sua in ogni
caso. (Inoltre, forse la mia auto
è rimasta senza
benzina…)
“Ti
stai ancora preoccupando della festa?” mi chiede Connie,
fermando le dita che
tamburellavano sullo sterzo seguendo il tempo della musica alla radio,
e alza
lo sguardo su di me finché costeggiamo la tangenziale in
linea retta.
Sicuramente devo sembrargli ancora angosciato, vedendomi
così, poggiato al
finestrino sporco del pick-up nonostante il leggero dolore provocato
dal
contatto della mia tempia con il vetro tremolante. “Sasha ha
detto che sembravi
abbastanza a pezzi ieri in università, e ha pensato che ci
fosse qualcosa che
non andava.”
“Più
o meno,” alzo le spalle. “Più che altro,
sto pensando a ieri in generale. Sai,
con Ymir e Historia.”
È
una mezza bugia. Non solo Ymir e Historia. Penso anche a mio padre. E
anche al
modo in cui mia madre ha sorriso con un’aria così
orgogliosa quando le ho
detto che oggi
sarei uscito per andare a
studiare con degli amici, al
plurale.
Non sentivo esattamente di
meritarmi
un sorriso del genere.
“Che
intendi?”
Gli
rivolgo uno sguardo che chiede: sul serio
non capisci a cosa mi riferisco? Scommetto che si possa
praticamente
leggere sulla mia faccia.
“Sai…”
suggerisco, “Il fatto che abbiano fatto un giretto dalle
nostre parti e abbiano
iniziato a chiacchierare del più e del meno come se non
fosse mai successo
nulla?” Come se non avessi mai pestato Eren a sangue davanti
a tutti.
Connie,
per tutta risposta, scrolla le spalle con indifferenza.
“Te
l’ho già detto. Nessuno ne parla più. A
nessuno importa, ormai. Be’, a parte
Eren,” mi dice. Notando la mia espressione poco convinta,
aggiunge, “Ti hanno
visto parlare di nuovo con qualcuno. Era ovvio che si riavvicinassero
anche loro.
Non ero l’unico ad averne abbastanza di essere evitato da te
in ogni maniera
possibile.”
Mi
hanno visto parlare di nuovo con qualcuno.
Ma non ero io a—
No,
sai una cosa?, invece sì,
ero io a
evitarli. L’ho detto prima d’ora e lo ripeto
nuovamente. È anche colpa mia. Le
mura che ho eretto dopo l’incidente di Eren erano piuttosto
alte, cazzo. Quel
tipo di mura per cui servirebbero dei rampini o dei giganti
per riuscire a buttarle giù.
Temo
di aver fatto un bel po’ di casini. E l’unica
persona a cui posso dare la colpa
è seduta proprio qui, in questa macchina. (E non ha i
capelli rasati.)
“Scusami,”
rispondo sommessamente. “Probabilmente io… non
avrei dovuto chiudermi in me
stesso in quel modo…”
“Hai
maledettamente ragione.” Il pick-up rallenta e Connie lo
parcheggia,
sferragliante, dietro a una massiccia Dodge Challenger; non mi ero
neanche
accorto che avessimo lasciato la superstrada. “Abitano qui,
vero? Non riesco
mai a ricordare il numero civico, probabilmente perché
quando vado da loro sono
sempre ubriaco…”
Penso
proprio di aver già accennato al fatto che Reiner gioca per
i Trost Titans a
tempo pieno – e diamine,
quanto
guadagna. Lui e Bert vivono in un’enorme casa bianca (o,
perlomeno, enorme per
gli standard di uno studente…è comunque un
po’ più piccola di casa mia) nella
periferia della città, a metà della collina;
Connie dice che si sono trasferiti
qui solo due anni fa, quando Bert ha iniziato
l’università e lui e Reiner si
sono messi insieme.
Buono
a sapersi, sì. Ma sono sicuramente più
interessato alla PS4 di cui parlano
tanto, per cui Connie ha praticamente la bava alla bocca per
l’eccitazione.
No.
Siamo qui per studiare. Mancano quattro giorni, ricordalo.
Reiner
ci apre la porta non appena suoniamo il campanello; indietreggio di
fronte alla
sua stazza imponente, e sono quasi certo che la sua maglietta possa
strapparsi
in ogni momento perché oh mio dio
hai
visto che pettorali che ha? È come se mi
dimenticassi ogni volta di
quanto il suo aspetto ricordi quello di
uno che ha appena ingoiato un secchio intero di steroidi.
“Ehi,
ragazzi!” ci sorride; io e Connie proviamo a strisciargli
attorno, fra la sua
prorompente massa muscolare e lo stipite della porta. Se io mi sto
sentendo
così piccolo in questo istante, scommetto che Connie deve
sentirsi come se
potesse essere calpestato da un momento all’altro.
“Entrate, Bert è nel
salotto.”
Il
corridoio è decorato con un sacco di foto dei Titans; una
maglia da football
incorniciata è appesa al muro alla base delle scale, mentre
l’unico mobile
immediatamente visibile è una larga vetrina di legno, piena
zeppa di trofei e
attestati. Be’, Reiner non è affatto uno a cui
dà fastidio stare sotto ai
riflettori.
Come
ci era stato preannunciato, Bert è nel salotto, seduto
contro il divano,
circondato da un arsenale di quaderni sul pavimento, come in una specie
di
rituale satanico per invocare un buon voto.
Oppure no. Quando entriamo nella stanza mi pare di capire
che stia
semplicemente guardando la TV in tutta tranquillità. Una
ragazza bionda e
minuta, con quella che può essere descritta solo come
un’espressione omicida
sul volto, è rannicchiata sul divano e mastica placidamente
dei crackers; anche
il suo sguardo blu è puntato sullo schermo del televisore.
Ah,
quella dev’essere la famigerata Annie che Connie ha avuto il piacere di conoscere l’ultima
volta.
Riflettendo, arrivo alla conclusione che probabilmente sono stato
invitato soltanto
per prevenire che si ricreasse una situazione simile a quella.
Non posso prendermela con lui. Quella tipa è veramente
spaventosa. Riesco praticamente a sentire il mio amico farsi piccolo al
mio
fianco.
Io
e Connie disponiamo i nostri libri sul tappeto insieme a quelli di
Bert, dopo i
vari saluti iniziali, e alla fine riusciamo effettivamente a studiare
un bel
po’, nonostante il rumore incessante che proviene
dall’angolino del divano dove
Annie mastica rumorosamente, e i commenti inutili di Reiner del tipo
“che cazzo
significano tutti quegli strani simboli che sembrano degli
scarabocchi?” quando
gli capita di dare un’occhiata ai miei problemi di chimica da
sopra la mia
spalla.
Trovo
che Reiner abbia dei gusti molto
particolari in quanto a programmi televisivi, anche paragonandoli alle
schifezze che ci sono solitamente nelle ore del giorno. Salta da un
programma
terribilmente trash che parla di vendite all’asta (del quale
canta persino la
sigla), per poi diventare particolarmente coinvolto in una replica di
Jeremy
Kyle Show (quanto sono contento che quella merda sia stata cancellata
tempo
fa…).
Proprio
quando mi sto per appoggiare all’indietro sule cosce dopo
aver affrontato un
problema di chimica organica particolarmente ostico, il telefono di
casa
squilla con una suoneria personalizzata così priva di gusto
che mi fa dedurre
automaticamente che sia stata una scelta di Reiner.
“Rispondo
io,” annuncia Bert – né Reiner
né Annie sembrano controbattere. Il principino
sudato si alza in piedi e si affretta ad andare nel corridoio. Giro la
pagina
del mio quaderno per rivelare un’altra serie di domande,
prestando comunque un
po’ di attenzione alla conversazione di Bert.
“Oh,
ciao,” lo sento salutare la persona dall’altra
parte della linea, che
evidentemente conosce. “No, tutto a posto. Come stai?
Oh… oh no, certo. S-se
vuoi? Ovviamente per me non è un problema,
davvero.” Io e Reiner alziamo
contemporaneamente lo sguardo, riconoscendo un lieve tremore nella voce
di
Bert. “D-davvero, non c’è problema.
Quando vuoi tu, va bene. Sul serio.”
Bert
rimette la cornetta nel suo alloggio e Reiner crolla nuovamente sui
cuscini del
divano con un grugnito, spostando le gambe per provare ad accomodarle
dietro la
schiena di Annie. Sporge la testa sul bracciolo, guardando Bert a testa
in giù
mentre lo vede rientrare nel salotto.
“Di
nuovo, dolcezza?” domanda, criptico. Bert annuisce
semplicemente; un sospiro
silenzioso abbandona le sue labbra mentre si prende una mano
nell’altra in un
gesto pensoso. Tuttavia, non ho molto tempo per rimuginarci,
poiché Connie si
getta nuovamente di peso sul tappeto con un gemito soffocato che
esprime il suo
senso di completa sconfitta. Credo che sia pronto a offrire la sua
anima agli
dei della biologia.
“Non
capiscoooooooo,” si lamenta, portandosi una mano sul viso.
“Bert, amico, devi
aiutarmi!”
Le
lagne di Connie per qualche cazzata di biologia continuano per una
buona
ventina di minuti o giù di lì, nonostante Bert
stia usando i metodi migliori
per spiegargli i problemi. Le sue lamentele non fanno che rendere la
concentrazione ancora più difficile da mantenere (anche
perché c’è un limite
allo studio che puoi affrontare tutto in una volta prima di ammattire
completamente), quindi abbandono la mia penna e mi siedo ai piedi del
divano,
dedicando la mia attenzione alla TV, qualsiasi sia il canale di merda
che ha
scelto Reiner.
Non
devo sopportarlo a lungo, perché la mia attenzione
è dirottata verso il
brontolio di un motore proveniente dall’esterno. Bert alza
immediatamente lo
sguardo dal libro di Connie e si alza in piedi, diretto verso il
portone. Lo
seguo con lo sguardo mentre si allontana, per poi allungare il collo
con la
speranza di sbirciare fuori dalla finestra dal basso della mia
postazione sul
pavimento.
I
miei occhi guizzano immediatamente sul logo acquoso dei Servizi
di Manutenzione e Riparazione Piscine di Trost che ricopre
il fianco di un Vauxhall Combo bianco parcheggiato dietro al pick-up di
Connie.
“Aspetta
un attimo,” inizio, guardandomi dietro le spalle, in cerca di
Reiner. “Avete
una piscina qui?”
Reiner
non tentenna nemmeno per un secondo, rispondendomi prontamente,
“Perché,
Kirschtein, non dirmi che muori
dalla
voglia di vedermi nel mio succinto costume da bagno mankini?”
In
quel momento sento tutto il sangue che ho in corpo concentrarsi sul mio
volto,
mentre Reiner e Connie scoppiano a ridere e persino Annie offre una
risatina.
“Dovresti
procurarmi anche della candeggina con cui sciacquarmi gli occhi dopo
quella
visione,” borbotto, “Grazie per
quest’adorabile immagine mentale.”
“Sembri
un pomodoro,” mi dice Annie, impassibile.
“Ti ringrazio.”
Reiner
si mette a sedere sul divano, tirando fuori i piedi da sotto al corpo
di Annie;
lei lo gela con lo sguardo quando lo sente spostarsi. Dopo aver
guardato fuori
dalla finestra, sembra comprendere meglio la mia affermazione di prima.
“Oh,
già,” dice, “Il furgone. Ti spiego.
È solo Marco, uno degli amici di Bert.
Viene a trovarci ogni tanto.”
Marco?
Mi
sembra di sentire il mio cuore battere fin troppo forte quando vedo il
suddetto
ragazzo della piscina, ormai anche mio amico, emergere dal suo furgone
e
attraversare con passi decisi il sentiero che conduce alla porta
principale. Non
riesco a vederlo bene in
volto dalla mia posizione limitata, ma il modo in cui incurva le spalle
è
impossibile da ignorare.
“Marco?”
Connie si rianima di una nuova carica, trascinandosi sulle ginocchia
fino al
davanzale della finestra, “Non è il tuo
inserviente della piscina, Jean?”
“C-così
pare,” rispondo, ma la mia mente è lontana un
centinaio di chilometri, cazzo.
Be’, no, è una bugia bella e buona. La mia mente
è circa a dieci metri da qui,
effettivamente, ora che sento Bert aprire la porta di casa.
“E-ehi,
Marco,” sento la voce delicata di Bert. “Come
stai?”
“…tutto
a posto,” ed ecco la voce di Marco; è quello
stesso tono che ho sentito
domenica al telefono: stanco. Molto, molto stanco. Non la solita
melodia a cui
sono abituato. Non il solito scampanellio accompagnato dal sorriso.
“Si tira
avanti. Grazie ancora, Bert. Credo di aver bisogno soltanto di un
po’ di pace.”
“O-oh,
no, no, non devi ringraziarmi. Nessun problema! Mi fa piacere essere
d’aiuto.” Sento
i passi di entrambi sulle mattonelle del corridoio, e mi accorgo di
trattenere
il fiato. Espiro piano, sperando che nessuno degli altri se ne renda
conto.
“Vuoi che andiamo a parlare in cucina? Ci sono degli
ospiti…”
“Davvero?
Mi dispiace tantissimo, Bert, non volevo—”
Li
vedo comparire di fronte alla porta aperta in quel momento, e faccio di
tutto
per non fissarlo. A dire il vero, no, fanculo, non ci provo nemmeno a non fissarlo. Perché quello
è Marco!,
che mi fissa di rimando, a bocca aperta.
Ora
che ci penso, questa è la prima volta che ci incontriamo al
di là della pulizia
della mia piscina – oltre a essere la prima volta in cui lo
vedo senza
l’uniforme (se non contiamo i vari stadi di
semi-nudità che si sono susseguiti
nelle ultime settimane…). Indossa un paio di pantaloni
leggeri e una camicia
grigia dall’aria soffice, con le maniche arrotolate ai gomiti
e l’ultimo
bottone aperto. Sta bene.
Be’,
ho detto “bene”, ma in realtà sembra
così pallido, scarno, così diverso dal
Marco sorridente e in forma smagliante a cui sono abituato, quello che
vedo due
volte a settimana nel cortile di casa mia. Le sue spalle sembrano in
tensione.
“Jean!” esclama in uno squittio.
Potrei
ridere, se non fosse per la stranezza della situazione. Cavolo se ho un
bel po’
di domande in questo momento.
“E-ehi,”
rispondo con aria impacciata, grattandomi la nuca mentre provo a
guardare
ovunque purché non nei suoi occhi. Disinvolto come sempre.
“Tutto a posto?”
“Sì,”
risponde in un sospiro, e sono sorpreso dal sorrisetto gentile che
sembra
scivolare sulle sue labbra. Sento un leggero calore sulla nuca. E sulle
orecchie. “Tutto okay.”
“Vi
conoscete?” domanda allora Bert, interrompendo quel momento.
“Oh!
Sì, ci conosciamo,” sorride Marco – ma
stavolta è un sorriso diverso. Non
sembra altrettanto sincero, almeno secondo me.
“Io… uh, a dire il vero, pulisco
la piscina di Jean.”
“Siamo
amici,” mi ritrovo a dover
correggere
Marco, le parole traboccano senza neanche darmi il tempo di utilizzare
un tono
meno enfatico. Le sopracciglia di Marco sembrano saltare verso
l’attaccatura
dei capelli. “C-cioè, ecco…siamo amici,
e lui… a volte… pulisce anche la mia
piscina…”
“E
‘pulire la piscina’ sarebbe un eufemismo per
qualcos’altro?” si intromette
scaltramente Reiner. Riesco a sentire anche la risatina malvagia di
Connie.
Posso solo immaginare che aspetto debba avere la mia faccia –
be’, a dire la
verità, penso somigli a quella di Marco. È di
colore rosso acceso, le sue
lentiggini sono scomparse quando è arrossito violentemente.
“Potresti
chiudere quella cazzo di bocca,” esclamo, utilizzando il
libro di chimica più
vicino a me per picchiare il braccio di Reiner. Punto alla sua testa,
ma lui mi
sovrasta senza neanche sollevarsi a sedere, e mi ruba l’arma
di mano. “Ehi,
ridammelo!”
“Ah,
qualcuno qui protesta un po’ troppo per i miei gusti, non
avrò forse colto nel
segno?” ridacchia Reiner, trattenendomi con una delle sue
braccia gigantesche
mentre provo a lottare per riottenere il mio libro. Oh
mio Dio, per favore chiudi quella cazzo di bocca adesso, è
così
imbarazz—
Nel
mezzo della mia guerra contro Reiner, il mio sguardo si posa nuovamente
su
Marco – è ancora rosso in viso, certo, ma non mi
sta più guardando; piuttosto,
sta bisbigliando qualcosa a Bert, che annuisce solennemente. Mentre non
lo
guardo, Reiner usa il mio stesso libro per picchiarmi sulla testa
– forte.
Maledizione!
Sto
letteralmente per mettermi a urlare qualcosa del tipo: perché
cazzo l’hai fatto, quei neuroni mi servono!, quando
la voce
di Marco mi interrompe. È piuttosto bravo a farlo.
“I-io
e Bert dobbiamo solo discutere di alcune cose,” annuncia. Si
riferisce a tutti,
ma sta guardando me. Soltanto me.
“Scusate se ho interrotto la vostra sessione di studio,
ragazzi.”
Li
guardo girare i tacchi e andarsene, i miei occhi seguono il movimento
con cui
le spalle di Marco si incurvano sotto la camicia. Il mio solito
cipiglio prende
posto sul mio volto e inizio a masticarmi l’interno della
guancia
sovrappensiero.
“Povero
ragazzo,” dice a quel punto Reiner, dopo aver sentito la
porta della cucina
chiudersi. “Ma probabilmente anch’io farei lo
stesso, se fossi nella sua
situazione.”
Che
situazione sarebbe,
vorrei domandargli. Ma non lo faccio. Tengo la bocca chiusa in una
linea
sottile, ripercorrendo con gli occhi la fantasia del tappeto. Non mi
sembra
corretto nei confronti di Marco andare a chiedere in giro dei suoi
problemi
personali, soprattutto se non l’ha detto a nessun altro oltre
a loro. Se non
l’ha detto a me.
Dal
momento in cui Bert è fuori dalla stanza, Connie decide di
abbandonare completamente
il ripasso e cammina di soppiatto verso la PS4 posizionata affianco
alla TV,
mettendosi praticamente ad accarezzare la console in tutto il suo
splendore.
Reiner ride ad alta voce e lo sfida a una partita a Call
of Duty: Ghosts.
“Vuoi
giocare, Jean?” sorride Connie, passando un controller a
Reiner e un altro ad
Annie. (Perché ho l’impressione che
quest’ultima stia per fare il culo a
entrambi?) Fisso il controller che mi stanno porgendo, senza dire una
parola, e
scuoto la testa.
“Nah,
per ‘sta volta passo. Non sono molto bravo a COD,”
mento. Sono bravissimo a COD.
Ma non è questo il punto. “Reiner,
dov’è il bagno?”
Mi
dà qualche indicazione vaga su quale sia la porta giusta, e
io mi alzo in piedi
accompagnato dal distinto schiocco delle mie articolazioni. Era
un’altra bugia,
in effetti. Non devo andare veramente in bagno.
Mi
aggiro per il corridoio con l’aria più naturale
possibile, pregando che le mie
Converse non facciano troppo rumore sul pavimento di legno mentre mi
avvicino
alla porta – decisamente non quella che mi aveva indicato
Reiner.
Le
voci di Marco e Bert sono appena udibili dall’altro lato
della porta della
cucina; credo di provare un briciolo di vergogna, in fondo, quando
premo un
orecchio contro il legno per origliare.
“Quindi
cosa ne pensi?” È la voce di Marco.
“Marco…
sono solo uno studente del secondo anno di medicina, lo sai che non
capisco
neanche la metà di queste
prescrizioni…” Si sente il fruscio di un foglio di
carta. “I medici sanno cosa stanno facendo; sicuramente
sceglieranno le
medicine più efficaci che possano trovare, lo sai
già.”
“Fallo
per me, Bert…”
Non
so esattamente come dovrebbe reagire una persona sentendo questo genere
di cose
– qualcuno è malato? Marco
è malato?
Non sembra malato, solo…be’, solo un po’
triste.
Il
tono della sua voce risuona dentro di me, sollecitando i pensieri
oscuri che
sono stati motivo delle mie ansie negli ultimi giorni. So per certo che
non
augurerei quei pensieri a nessun
altro. Ancor prima di rendermene conto, stringo le dita attorno alla
maniglia,
annunciando la mia presenza.
“Ehilà?”
saluto, abbassando la maniglia e spingendo il legno. La cucina
è chiara e
soleggiata, illuminata dalle larghe finestre che affacciano sulle
colline sul
retro della casa. “Posso entrare? Avete tutti i vestiti,
no?”
Marco
e Bert alzano lo sguardo dalle scartoffie che stavano esaminando sul
tavolo; il
volto di Marco sembra rilassarsi quando incrocia il mio sguardo.
“Scusate,”
continuo, impacciato. “Uh… volevo solo bere
qualcosa.”
“Oh,
fai pure!” dice Bert, “Cosa posso offrirti,
Jean?”
“Nah,
tranquillo, faccio io,” dico con un gesto della mano quando
lo vedo girarsi
verso il frigo. “Comunque, credo che Connie stia cercando un
quarto giocatore
per COD… Pare che siano
passati al
lato oscuro e abbiano deciso di arrendersi con lo studio…
vuoi giocare?”
Wow,
Jean, molto sottile.
Mi
tengo alla larga dal tavolo della cucina, superando Marco. Irrigidisce
i
muscoli della schiena quando passo dietro di lui, e io mi ritrovo a
dover
trattenere il mio bisogno improvviso di mettergli una mano sulla spalla
o altri
gesti di conforto del genere. Proprio mentre apro il frigo, si sente un
lamento
riecheggiare per tutta la casa.
“Sembra
che Annie gli stia facendo il culo,” aggiungo. Stavolta
rivolgo a Bert lo
sguardo più eloquente che riesco a scoccargli. Posso vedere
le goccioline di
sudore comparire letteralmente sulla sua fronte.
“O-oh,
già,” dice, “Sarà meglio che
vada a controllare per assicurarmi che non stiano…
rompendo nulla…”
Bene.
Grazie, Bert.
Ora
che sono riuscito a far togliere Bert dai piedi, siamo rimasti solo io
e Marco,
in piedi uno di fronte all’altro, ai due lati opposti del
tavolo della cucina.
Non guarda in alto, il suo sguardo è concentrato sulla
piccola pila di fogli di
fronte a lui, anche se non li sta leggendo.
“Pensavo
volessi bere qualcosa, Jean.”
“Non
ho più sete,” faccio spallucce, cercando di
mantenere il tono di voce più
tranquillo possibile. Probabilmente non ci riesco poi così
bene, perché posso
sentire io stesso il tremolio che mi scuote la voce. Marco lascia
andare un
sospiro ansimante che fa abbassare completamente il suo petto.
Decido
di affrontare l’argomento.
“C’è
qualcosa che non va,” inizio. Che ovvietà. Vedo il
volto di Marco contorcersi
in un’espressione accigliata che non gli sta per niente bene.
“E non dirmi che
non è vero, perché anche un idiota riuscirebbe a
capire che menti. E io non
sono un idiota. Cioè, a volte sì,
però…”
Sto
sproloquiando, ovviamente, ma continuerei a parlare a vanvera per un
sacco di
tempo ancora, se solo questo riuscisse a garantirmi un altro
po’ di quel
sorriso che sta comparendo sulle labbra di Marco. Sembra quasi che stia
cercando di nasconderlo, dal modo in cui il suo labbro inferiore sembra
tremare, ma non può fare a meno di sorridere.
“Jean,”
mi dice in un sospiro; si ricompone, per poi riprendere. “Non
ci pensare, okay?
Non è niente di che.”
Sì,
certo, continua pure a dire queste cose a te stesso, Marco,
penso, incrociando le braccia al petto con aria ribelle. Conosco fin
troppo
bene quello sguardo.
“Dammi
le chiavi del furgone,” gli ordino all’improvviso.
Il volto di Marco si solleva
immediatamente, adesso mi guarda con uno sguardo completamente
disorientato.
Provo a mantenere il mio sguardo più fermo possibile e gli
porgo il palmo della
mia mano aperta. “Dai, dammi le chiavi.”
Connie
e Sasha mi hanno informato diverse volte del fatto che i miei sguardi
riescano
perfettamente a spaventare la gente a tal punto da costringerla a fare
qualsiasi cosa per me, quindi spero che valga anche questa volta.
“Se
non me le consegni di tua spontanea volontà sarò
costretto a prenderle con la
forza,” aggiungo. A quanto pare l’immagine mentale
della lotta basta a
convincere Marco a sbrigarsi immediatamente a tirare fuori le chiavi
dalla
tasca dei jeans, per poi lanciarmele. Riesco a prenderle appena in
tempo,
evitando di lasciarle cadere e rovinare di conseguenza la
serietà del momento.
“Perfetto,”
annuncio, avvolgendo le dita attorno al metallo freddo e alla plastica
delle
sue chiavi. “Io e te stiamo andando a farci un
giretto.”
“Jean,”
ripete ancora una volta – mi chiedo se sia l’unica
cosa che riesca a dire in
questo momento. Non che mi dispiaccia. Mi piace il modo in cui
pronuncia il mio
nome, persino quando lo fa con questo tono.
“Non
dire una parola. Non hai alcuna voce in capitolo,” commento.
I miei passi
intorno al tavolo sono ampi e decisi, e sento il mio corpo scosso da
una nuova
energia. Marco, d’altro canto, mi segue mestamente fuori
dalla stanza.
“Connie!”
lo chiamo, affacciandomi dalla porta del salotto, dove tutti e quattro
siedono
sul divano, concentrati sullo schermo del televisore.
“Che
vuoi, Jean?” risponde senza neanche guardarmi, pigiando
freneticamente i tasti
del controller. “Sono piuttosto impegnato in questo
momento!”
“Io
e Marco ce ne stiamo andando,” annuncio, facendo
sì che Bert si giri per
guardarci con un’espressione sorpresa. Rivolge uno sguardo
interrogativo a
Marco, ma sono io a rispondergli, allungando un braccio attorno alle
spalle del
mio lentigginoso amico ed esercitando una leggera pressione sul suo
braccio.
Lui salta sorpreso dal mio tocco, e si irrigidisce quasi
immediatamente.
“Connie, mi hai sentito? Non devi riaccompagnarmi a casa,
d’accordo?”
“Sì,
sì, ho capito!” ribatte Connie, ancora intento a
farsi stracciare da Annie, che
appare stoica come sempre. Alzo gli occhi al cielo, esasperato, e
strattono
leggermente Marco. Lui mi segue senza alcuna esitazione.
A
essere onesti, questo piano sembrava molto più sensato nella
mia testa. È
andato tutto bene, finché non prendo posto nel furgone di
Marco sul sedile del
guidatore, mentre lui si siede al mio fianco, con l’aspetto
di una persona che
ha appena visto un gatto nero attraversargli davanti o qualcosa del
genere.
“Dove
stiamo andando, Jean?” mi domanda, mentre giro le chiavi
nella toppa. Il
furgone borbotta un po’ prima che il rumore brusco del motore
diventi stabile.
“È
una sorpresa,” rispondo. Esco dal parcheggio a marcia
indietro, per poi
immettermi nella strada forse un po’ troppo violentemente. La
mano di Marco
guizza immediatamente sulla maniglia di sicurezza, stringendola
saldamente con
le dita. Giuro che non guido così
male.
Decido
in quell’istante dove siamo diretti; la casa di Reiner e Bert
è già a metà
strada sulla collina, quindi non siamo lontani dal belvedere, saranno
al
massimo dieci minuti in auto. Il silenzio non dura molto; è
già incredibilmente
imbarazzante dopo i primi trenta secondi.
“Jean,
io—”
“Ehi,
hai dei—”
Ci
fermiamo entrambi nel sentire il tentativo dell’altro di
parlare. Marco
ridacchia imbarazzato grattandosi la nuca, mentre io rivolgo nuovamente
lo
sguardo alla strada di fronte a me.
“Prima
tu, Jean.”
E
va
bene.
“Uh…
non è che hai della musica, no?”
Marco
sorride, ma è quel sorriso forzato che proprio non mi piace.
Mi indica lo
sportello più vicino a me.
“Ci
sono alcuni CD in quel comparto laggiù,” mi
informa con un tono delicato.
“Scegli tu.”
Inizio
a rovistare in giro con una mano, e alla fine riesco a tirare fuori una
serie
di quattro o cinque CD, come mi aspettavo. Li passo a Marco, cercando
di non
staccare gli occhi dalla strada nemmeno per un secondo, per assicurarmi
di non
mancare l’uscita.
“Leggimeli
tu,” lo istruisco, lasciandoglieli in mano. Sento il suo
sguardo spostarsi dai
CD su di me, per poi tornare nuovamente sui dischi, senza dire una
parola.
“Uhm,
okay,” inizia, con tono pacato.
“Però… non devi ridere dei miei gusti
musicali.”
“Croce
sul cuore,” ribatto.
“Be’,
questo… è dei My Chemical Romance. M-ma so
già che non vuoi ascoltarlo.”
“Giusto.”
“E
poi, uh… i Killers, Fall Out Boy, Snow Patrol, di nuovo i My
Chemical Romance,
e poi, uh… la colonna sonora di Shrek
2…”
“La
colonna sonora di Shrek 2?”
gli
domando in una risata. “Perché diamine hai quel
CD?!”
“È-è
un bell’album,” risponde Marco balbettando
leggermente, tuttavia riesco a
sentire chiaramente il sorriso che si sta facendo strada sotto le sue
parole.
“Sono tutti pezzi che non puoi fare a meno di
cantare.”
“Va
bene, va bene, allora metti
quello,” sorrido. Fa un po’ di fatica ad aprire la
custodia – mi accorgo che
gli tremano leggermente le dita – ma alla fine riesce a
inserire il disco nello
stereo. Accidentally In Love dei
Counting Crows esplode dalle casse a tutto volume e Marco si affretta
ad
abbassarlo. Ha una melodia piuttosto orecchiabile, gliene do atto; non
posso
fare a meno di tamburellare le dita sullo sterzo seguendo il ritmo
della
canzone, mentre imbocco la strada che culminerà sulla cima
della collina.
Gli
pneumatici del furgone non fanno che sollevare terra scura quando
imbocco la via
in terra battuta che collega la strada principale al belvedere. Abbiamo
ascoltato più o meno le prime quattro tracce della colonna
sonora di Shrek 2 (che forse sto apprezzando più di
quanto mi sarebbe piaciuto ammettere)
e Marco sembra essersi calmato un po’, dato che oramai siede
comodamente nel
suo sedile senza lanciarmi sguardi furtivi ogni dieci secondi. La
città, estesa
a macchia d’olio sotto di noi, diventa visibile non appena ci
avviciniamo al
limitare della collina; i tetti scintillano ai nostri piedi sotto il
sole
brillante.
Marco
a quel punto si tira su, tendendo il collo per poter scrutare meglio il
paesaggio che ci circonda.
“Cos’è
questo posto?” mi chiede – non è forse
un tono di apprezzamento quello che
sento nella sua voce? Mi fa sentire segretamente compiaciuto. Tiro il
freno a
mano e faccio per slacciarmi la cintura, liberando anche Marco nello
stesso
momento.
“È
fico, no?” rispondo io. “Era un belvedere o
qualcosa del genere, suppongo, ma
tutti i cartelli e quelle robe lì sono stati tolti anni fa.
Ora è solo un bel
posto dove venire se… ecco… se vuoi scappare da
tutto il resto,
almeno per un po’.” Gli offro un raro
sorriso sincero, al che lui si morde il labbro. “Dai, vieni,
così puoi vedere
il panorama come si deve.”
Usciamo
entrambi dal furgone incespicando un po’, mentre ci
schermiamo gli occhi dal
sole che ci sovrasta. Faccio cenno a Marco di seguirmi, per guidarlo
fino al
punto dove la terra rossa e le rocce si fermano in pendenza
sull’orlo del
precipizio, in un caos fatto di rovi e cespugli.
“Wow,”
commenta in un sospiro, “Non pensavo che Trost potesse
sembrare così bella.”
Scalcio
un ciottolo al limitare del precipizio, imbrattando con una striscia di
terra
marrone-arancio la punta in gomma bianca delle mie Converse.
“Già,
non è male,” ribatto. Do una sbirciata al viso di
Marco: la franchezza che sono
abituato a vedere è proprio lì nei suoi occhi in
questo istante. Decido di
sfruttare al meglio questo momento. “È il posto
perfetto per sfogarsi, per
togliersi un peso di dosso, sai? Nessuno può
sentirti.”
Mi
guarda con quella che interpreto come un’espressione
sospettosa, cogliendo
chiaramente il secondo fine per cui l’ho portato qui. Infilo
le mani nelle tasche
e scrollo le spalle.
“I-io
lo faccio sempre,” continuo. “O almeno lo facevo.
Venivamo spesso qui insieme a
Connie e Sasha. Di recente non tanto, ma stiamo riprendendo
l’abitudine. Basta
sedersi sul cofano della macchina, fumarsi un paio di sigarette,
lamentarsi
della propria vita…” la mia voce si affievolisce
strada facendo, mentre il mio
sguardo rimane saldo su di lui. I suoi occhi, invece, sono fissi
sull’orizzonte.
Non
voglio monopolizzare questo momento. Ma allo stesso tempo vorrei che
lui mi guardasse.
Sorridendo. Sono diventato quasi dipendente da quel sorriso.
“…
posso cominciare io, se vuoi. Ti mostro come si fa.”
Marco
mi guarda con la coda dell’occhio, incuriosito. Bene, non
posso più tirarmi
indietro. Ormai devo farlo. Be’, prima o poi dovrà
pur scoprire quanto sono
idiota.
Inspiro
profondamente, alzo le braccia in aria… e urlo
con tutto il fiato che ho nei polmoni.
“Fanculo,
esami! Fanculo a voi e a tutto questo stress! Non voglio avere un
fottutissimo
infarto ancor prima di compiere vent’anni, avete
capito?”
Marco,
al mio fianco, salta per lo spavento, afferrando la stoffa della sua
camicia
con le mani, all’altezza del petto. I suoi occhi sono
spalancati.
“Cristo
santo, Jean!” esclama, e io abbasso le mani solo per un
istante. “Potresti
almeno avvisarmi la prossima volta che hai intenzione di urlare
così?”
Sento
il mio viso esplodere in un ampio sorriso, e mi passo la lingua sui
denti in
un’espressione trionfante.
“Oh,
e non ho ancora finito!” lo informo in una risata, per poi
alzare la voce
ancora una volta: “Fanculo
all’università! Non voglio scegliere una
facoltà del
cazzo, mi sentite? Odio la filosofia! È un fottutissimo
spreco di tempo, cazzo!
E odio anche te, Bertrand Russell! Trovati un lavoro vero invece di
sparare
cazzate che poi sono costretto a studiare!”
Marco
continua semplicemente a guardarmi, con un misto di orrore e, forse, un
po’ di
timore.
“E
poi fanculo a te, stronzo di un Eren Jaeger! Hai reso la mia vita
avvilente per
dodici fottutissimi mesi, sei solo un gigantesco pezzo di merda!
Vaffanculo! E
fanculo, papà! Ti odio con tutto me stesso! Prenditi le tue
stramaledette responsabilità
nella tua merdosa esistenza ed esci dalla mia vita una volta per
tutte!”
Soffio
un sospiro deciso, e sembra come se parte della mia rabbia repressa mi
abbandoni insieme al mio fiato, dissolvendosi nell’aria
calda. Intreccio le
dita e le posiziono sulla sommità del capo, inspirando ed
espirando. Marco ha
indietreggiato di qualche passo, probabilmente per preservare la sua
incolumità,
dato che al momento devo avere decisamente l’aspetto di un
matto da legare.
“Jean…”
inizia, e sento il tremolio della sua voce. Lo sbircio, oltre la mia
spalla,
tornando a masticarmi l’interno della guancia.
Dall’espressione sul suo viso
non saprei dire cosa stia pensando. Ho appena spiattellato a gran voce
un sacco
di informazioni che non ho detto quasi a nessuno. E poi, non gli avevo
mai
raccontato dei problemi con Eren, o con mio padre.
Ma
non sono venuto qui per parlare di me. Non so neanche perché
sto facendo così…
non lo conosco poi così bene, e lui, a sua volta, non sa
molto di me.
No,
al diavolo, lo so, invece. So
perché
lo sto facendo. A un certo punto, non so dire quando, ho iniziato a
tenerci a
lui. Se dovessi indicare una data precisa… sì,
quella volta in cui mi ha
restituito la maglietta e si è complimentato con me per i
miei disegni per la
prima volta. Quello è stato il giorno in cui ho deciso di
voler diventare amico
di questo ragazzo. Volevo conoscerlo meglio.
E
se qualcuno avesse fatto la stessa cosa per me quando…
be’, non ne parliamo,
per adesso.
“Tocca
a te, Lentiggini,” sorrido, sperando che il mio sorriso non
sembri forzato come
quello che ha sfoggiato lui ultimamente. Gesticolo con enfasi indicando
il
vastissimo spazio aperto che ci circonda. Marco impallidisce, e credo
che stia
scuotendo la testa, seppur impercettibilmente. Forse sto esagerando un
po’.
Soprattutto per le urla da manicomio.
“Posso
allontanarmi un po’, se vuoi?” propongo.
“E se non vuoi, ecco… urlare come un
folle, diciamo che lo capisco. Però… aiuta
davvero a liberarsi.”
“…
Sei un pazzo, lo sai?”
“L’hai
notato soltanto adesso?” rido, rigirando la lingua contro
l’interno della
guancia come d’abitudine. Le braccia di Marco si incrociano
nuovamente davanti
al suo petto, mentre si pizzica la pelle dei gomiti nervosamente.
Decido di
lasciargli un po’ di spazio e giro i tacchi per dirigermi
verso il furgone. Sto
per sedermi sul cofano, quando Marco riprende a parlare.
“Ma
sei anche molto coraggioso.”
Sento
letteralmente il mio cuore esplodere e arrivarmi fino in gola, e mi
volto per
tornare a guardarlo. È arrossito completamente e non mi
guarda direttamente, ma
ha di nuovo quel sorriso smagliante stampato in volto, e… Oh, accidenti.
“Coraggioso?”
mi azzardo a chiedere spiegazioni.
Mi
dà le spalle, guardando ancora una volta il panorama; forse
è più facile
parlarsi senza guardarsi negli occhi.
“Sì,
coraggioso. Tutto quello che hai detto. È stato veramente
coraggioso da parte
tua, Jean.”
Mi
arrampico sul cofano e appoggio la schiena al parabrezza, come faccio
sempre
quando vengo qui. La vernice bianca fa sì che il metallo non
mi ustioni le
gambe, irradia solo un calore soffuso che perlomeno non mi fa bollire
vivo.
“Be’,
adesso è il tuo turno, d’accordo?”,
ribatto, con gli occhi fissi sulla sua
schiena. “Prenditi tutto il tempo che ti serve.
Però, se non hai intenzione di
urlare, devi pensarci molto intensamente. Non ti
giudicherò.”
Marco
dà un colpetto a un paio di pietre, che si sollevano in una
nuvola di terra
sull’orlo del precipizio, e le sue spalle sembrano rilassarsi
quando lo fa.
Provo a immaginare l’espressione concentrata che sicuramente
ha sul volto in
questo istante, mentre guardo il cielo terso sulla mia testa. Ho
bisogno di una
sigaretta. Sarebbe perfetta per questo momento. Peccato che abbia
lasciato l’ultimo
pacchetto a casa, sulla mia scrivania.
Marco
non si muove da lì per una buona mezz’ora, ma non
mi dispiace rimanere qui a
guardare semplicemente le sue spalle che si abbassano e si risollevano
a ogni
respiro, immaginando il sapore del fumo nei miei polmoni e godendomi il
brusio
leggero del CD che gira ancora nello stereo del furgone. Non riesco a
distinguere le parole, ma la melodia basta a rasserenarmi.
Come
molte altre volte, aggiungo questo momento alla mia lista di
‘cose di Jean che
meritano di essere ricordate’. Forse perché so
che, quando tornerò a casa,
probabilmente non riavrò questa tranquillità per
un bel po’ di tempo. Perché so
che dovrò fare i conti con mio padre. E poi anche con la mia
frustrazione per
il mio stesso comportamento passivo. Ma forse voglio ricordare questo
momento
per altre ragioni.
“Marco”,
lo chiamo, inizialmente in un tono delicato. “Hai
finito?”
Si
gira verso di me e,
per qualche motivo,
mi sembra come se non dovessi stare qui a guardarlo. Come se fosse
ancora
coinvolto in qualcosa di troppo privato, a cui non merito di prendere
parte. Ma
lui mi sorride, ed è quel cazzo di sorriso che riesce a
spazzare via tutte le
preoccupazioni del mondo in un colpo solo.
“Scusami,
Jean,” dice, “Credo di essermi un po’
imbambolato guardando il panorama.” Dà un
ultimo sguardo alla nostra Trost immersa nei raggi solari, per poi
incamminarsi
verso di me. Mi sposto un po’ sul cofano per fargli spazio,
dando un colpetto
al posto affianco a me. Quando si arrampica al mio fianco riesco a
sentire il
profumo di camomilla, delicato e terroso; sarebbe troppo inquietante se
dicessi
che è quasi afrodisiaco? Probabilmente sì. Ma al
momento non me ne frega nulla.
Sono
il primo a rompere il silenzio.
“Comunque,
mi dispiace tantissimo per domenica,” gli dico. Marco si gira
per guardarmi con
uno sguardo interrogativo. “Sono stato proprio un pezzo di
merda. Avrei dovuto
capire che c’era qualcosa che non andava. E un po’
l’avevo capito. Si sentiva
dalla tua voce, al telefono. Ma ti ho chiamato lo stesso per sistemare
quella
storia di quel dannatissimo cane. È stato veramente da
stronzi.”
Marco
sospira e affonda nel parabrezza. Il modo in cui sta lì
stravaccato sembra così
insolito da parte sua; non si addice molto a
‘Mister Perfezione’, suppongo.
“Non
devi scusarti, Jean.” Sento che vuole dirmi
dell’altro, e vorrei che
mi dicesse qualcosa in più, ma non aggiunge nulla.
“Fanculo
il mondo! Giusto?” gli dico in un sussurro. Marco, per tutta
risposta, mi
regala una risatina, stanca ma divertita.
“Fanculo
il mondo,” ripete. A quel punto non riesco a trattenere un
sorriso, e mi
appoggio sul parabrezza a mia volta, con la spalla a contatto con la
sua mentre
guardiamo entrambi la grandiosa distesa blu sopra le nostre teste.
Non
saprei dire esattamente per quanto tempo rimaniamo lì seduti
in quel modo; è
questo il bello di questo posto, tende ad assorbire il tempo come una
spugna.
Il sole si abbassa nel cielo, ma è ancora troppo distante
per toccare le cime dei
grattacieli in lontananza. A un certo punto, sento il peso della testa
di Marco
rovesciarsi sulla mia spalla, e lo guardo dall’alto, con la
sua massa
disordinata di capelli neri e gli occhi chiusi. Chissà se si
è addormentato.
Non
mi darebbe fastidio in nessuno dei due casi.
“Sono…
stati dei giorni difficili,” dice sommessamente a quel punto,
cogliendomi di
sorpresa. Provo a non sussultare troppo evidentemente.
“Sei
ancora triste?”
“…
No. No, non credo. Non sono triste. Sento un sacco di altre emozioni,
questo è poco
ma sicuro. Ma non la tristezza.”
Rispondo
con un mormorio di intesa, o di empatia, o di non-so-esattamente-cosa,
e mi
abituo a sentire il suo peso appoggiato sul mio braccio. Una melodia mi
riaffiora sulle labbra, e forse mi scappano anche una o due parole dal
testo
della canzone.
Hey now, you’re an All Star, get your
game on, go play
Hey now, you’re a Rock Star, get the show on, get paid
And all that glitters is gold
Only shooting stars break the mold
[Ehi, sei una stella, continua il tuo gioco,
vai, gioca,
Ehi, sei una rock star, fa’ lo spettacolo, fatti pagare,
Ed è tutto oro quel che luccica,
Solo le stelle cadenti rompono gli schemi]
“…
Te l’avevo detto io che la colonna sonora di Shrek
è grandiosa,” borbotta, ma credo stia sorridendo.
“Oh,
sta’ zitto.”
Lasciamo
il belvedere intorno alle cinque, quando alla fine ammetto di dover
tornare a
casa per cena prima o poi. Decido di togliere la colonna sonora di Shrek per il tragitto del ritorno,
preferendo, questa volta, un silenzio amichevole. Non
c’è niente di meglio di
un momento commovente come questo per avvicinare due persone
– o almeno, così
dicono.
Ci
aggiriamo nuovamente per la periferia della città, e devo
ammettere che Marco
guida molto meglio di me; inizia a parlare all’improvviso.
“Hai
paura?”
Lo
guardo, ma lui non stacca gli occhi dalla strada. Mi accorgo di come la
sua
presa sullo sterzo si faccia leggermente più salda, per poi
allentare
nuovamente.
“Di
cosa?”
Stavolta
si gira leggermente per guardarmi. Il suo sguardo è
amichevole, comprensivo.
“Di
fare i conti con tutte quelle cose di cui mi hai parlato
lassù. Ti spaventa?”
Contraggo
le labbra e rimugino sulle sue parole. Non direi spaventato, no. Un
po’
scoraggiato, arrabbiato, questo sì. Direi anche sollevato,
in un certo senso. Ammettere
finalmente tutta la merda che
devo affrontare e quanto faccia assolutamente schifo. Sì,
credo che sollevato
sia proprio la parola giusta.
Tuttavia,
non mi dà la possibilità di rispondere.
“Tu mi spaventi.”
Rimango
interdetto, e mi raddrizzo nel mio sedile.
“P-perché?”
domando, prima di accantonare la sorpresa per buttarla sul ridere, come
al
solito. “È per le urla? Già,
probabilmente ti sono sembrato un matto, cazzo. Ti
capisco.”
“No,”
Marco ride, ed è una risata genuina. Mi rasserena.
“No, no, non è per quello.”
La strada di casa mia è una traversa sulla destra, e Marco
scivola sulla corsia
di destra, facendo lampeggiare la spia della freccia sul cruscotto. Il
tetto di
ardesia grigia di casa mia entra presto nel nostro campo visivo non
appena
imbocchiamo la strada; Marco parcheggia il furgone dietro
un’altra automobile,
a qualche metro di distanza dal cancello posteriore.
Si
volta completamente nel sedile per guardarmi, e mi accorgo di non
riuscire a
distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
“Forse
mi spaventi perché mi viene voglia di dirti cose che non
riesco ad ammettere neanche
a me stesso.” Fa una pausa per esaminare la mia espressione
– che non credo sia
molto leggibile, se devo essere onesto. “…
È una cosa molto strana da dire?”
Assottiglio
lo sguardo, ma senza aggrottare le sopracciglia, e contraggo la bocca
in una
smorfia ridicola.
“…
Non più strana della maggior parte delle cose che mi dici di
solito.”
Credo
che mi voglia dire cosa stia succedendo nella sua vita –
c’è quasi, riesco a
sentire chiaramente che le parole sono lì, sulla punta della
lingua. Suppongo
di non essere l’unico a sapere cosa voglia dire sentirsi solo
e tenersi tutto
dentro.
Prendo
una decisione proprio lì, in quel momento.
“Aspettami
qui,” gli ordino. “Torno subito.”
Mi
slaccio la cintura e volo fuori dal furgone, scavalcando il cancello
posteriore
nella maniera meno impacciata possibile (che, ovviamente, risulta
comunque fin
troppo impacciata, perché alla fine stiamo sempre parlando
di me). La porta sul
retro è aperta e mia madre è stesa su una delle
sdraio nel cortile,
sorseggiando una bevanda mentre sfreccio sul prato
all’inglese.
“Jean!”
esclama quando la supero a tutta velocità, entrando in casa
senza fermarmi a
salutarla.
“Scusa,
mamma!” rispondo gridando, già a metà
strada della cucina. Salgo le scale due
gradini alla volta e mi dirigo in camera mia, con il fiato
pericolosamente
corto.
Bene.
Dove sta?
Do
un colpetto sul finestrino del furgone e faccio segno a Marco di
abbassare il
vetro in modo tale che possa passargli il largo involucro formato A4
che ho in
mano. Fa come gli ho chiesto e riceve il pacco con
un’espressione incuriosita.
“Non
aprirlo qui,” gli intimo con fermezza; sto decisamente
arrossendo come un
idiota. Nemmeno io potrei negarlo. “Devi aspettare
finché non arrivi a casa,
hai capito?”
Mi
chiedo se Marco abbia la minima idea di cosa ci sia in quella busta, ma
annuisce e la posa sul sedile del passeggero, vuoto.
C’è
un momento di imbarazzo, poiché non so più cosa
dire ma sono ancora poggiato
sul tettuccio della vettura, sporgendomi verso di lui, mentre Marco
guarda in
alto con un’aria d’attesa. Credo che
l’imbarazzo mi si legga in volto, perché a
quel punto prende in mano la situazione, solo per dire qualcosa che non
fa
altro che peggiorare le cose.
“Sono
veramente contento che tu sia mio amico, Jean.”
Oh
Dio
santissimo e misericordioso.
“Quanto
sei sdolcinato.”
“Ci
vediamo…domani?”
“Già.
Certo.” Mi allontano di un passo dal furgone e infilo le mani
nelle tasche
un’altra volta. “… Non vedo
l’ora.”
No,
okay, questa era una cosa
sdolcinata
da dire.
Non
resto nei paraggi per molto tempo dopo quell’affermazione,
piuttosto scivolo
nel cortile attraverso il cancello mentre la risata piacevole di Marco
risuona
nelle mie orecchie. Fanculo, riesce sempre a farmi sorridere.
“Tesoro?”
mia madre mi chiama in tono interrogativo quando sono nuovamente vicino
a lei.
Cammino in linea retta verso la sdraio affianco alla sua, crollandoci
su, pieno
di gratitudine. “Cos’è successo?
C’è qualche problema?”
“Nessun
problema.”
“Oh,
ma stai sorridendo, Jean.”
“Mamma.”
Ridacchia
fra sé e sé dietro un sorso di quella roba che
sta bevendo, e anche lei sembra
mettersi più comoda, assumendo una posa simile alla mia.
Alzo gli occhi al
cielo con aria esasperata, ma il sorriso che ho stampato in volto non
accenna
neanche minimamente a scomparire.
Be’,
alla fine scompare. Con l’arrivo di un SMS.
Da:
815-XXX-XXX
Jean! Quei disegni sono stupendi! Pensavo te ne fossi dimenticato? Non
so
davvero cosa dire :))))
Sono
sicuro di essere letteralmente impallidito di fronte al messaggio che
si
staglia sullo schermo del mio cellulare, mentre il mio stomaco si
contorce
annodandosi in ogni modo possibile e immaginabile. Bastardo
lentigginoso.
Riesco ancora a sentire il mormorio del motore del suo furgoncino
dall’altra
parte della siepe.
A:
815-XXX-XXX
oh dio ma che aspetti ad andartene!!!! non immagini che cazzo di
imbarazzo
A:
815-XXX-XXX
e se vedo quella faccia lentigginosa prima di domani ti tiro un pugno ok
Okay,
forse ho finito quei disegni che avevo promesso avrei fatto per Marco
quella
volta in cui è venuto nella mia stanza. E forse
glieli ho appena regalati, avvolti in quella busta marrone. Magari con
un
post-it dove ho scarabocchiato il mio numero. Sempre parlando
ipoteticamente,
eh.
Da:
815-XXX-XXX
Perché mi hai lasciato il tuo numero? :D
Vorrei
letteralmente spalmarmi una mano sul volto in questo istante, ma
resisto solo
per non far sì che mia madre mi faccia altre domande
imbarazzanti decisamente
non necessarie. Sento chiaramente che mi osserva da sopra la montatura
degli
occhiali da sole mentre i miei occhi esaminano i messaggi che
lampeggiano di
tanto in tanto sullo schermo.
A:
815-XXX-XXX
uhm forse xché è così che fanno gli
amici no??? e poi… se ti senti di parlare
un po’… di quello che vuoi, beh adesso hai il mio
numero quindi puoi
contattarmi più facilmente
A:
815-XXX-XXX
e ho pensato che fosse un gesto carino ok ma se devi ridere di me ti
giuro che
cambio numero ed emigro in qualche paese straniero e non mi vedrai mai
più,
SFIGATO
Da:
815-XXX-XXX
Grazie Jean :))))
Maledette
emoticon.
Quella
sera le stelle sono alte nel cielo. Cioè, ci sono sempre -
il cielo di Trost è
così limpido d’estate – ma solo stasera
mi prendo effettivamente la briga di
ammirarle.
Fumo
con aria pigra, perché non sento dolore e non ho bisogno
dell’afflusso
improvviso di nicotina o del fumo caldo. Probabilmente ho solo bisogno
di
qualcosa da fare con la bocca – perché, siamo
onesti, l’alternativa sarebbe
sorridere come un idiota, per quanto mi sforzi di nasconderlo.
Controllo
il telefono; lo schermo illumina il buio che mi circonda, ma non ci
sono nuovo
messaggi. Tuttavia, la cosa non mi sorprende; è
l’una e mezza del mattino e
spero che Marco sia a letto. Ne approfitto per registrarlo in rubrica
con
qualcosa di più appropriato di un mero numero.
Non
vedo l’ora che arrivi domani, semplicemente perché
so che varcherà il cancello
sul retro con un sorriso stampato in volto.
Mi
piace veramente tanto guardare quel sorriso. Non mi sento
più sopraffatto dal
dolore come prima.
Note
dell’autrice:
Tecnicamente
tutto questo capitolo doveva far parte del 5, ma è diventato
così lungo che ho
deciso di dividerlo e di aggiungere qualcosa a questa metà
per poterli
pubblicare separatamente.
Stavolta
è più emotivo degli altri, e sono contenta di
iniziare a scrivere le scene più
intime (penso che il ritmo della storia vada bene così, a
giudicare dai pareri
che mi avete lasciato, siete stati adorabili).
Non
rispondo esplicitamente alle domande, ma potete già fare le
vostre ipotesi
sulle storie di Jean e Marco sulla base degli indizi che ho lasciato
finora.
Come
sempre, apprezzo TANTISSIMO tutti i commenti (e i kudos) [n.d.t. I kudos, letteralmente applausi/complimenti
sono una funzione
di AO3 –il sito dove ha pubblicato la storia- con cui gli
utenti possono
mostrare il loro apprezzamento] che mi avete lasciato; ma ricordate che
i
commenti su quello che vi piace/non vi piace mi aiutano a sviluppare
meglio la
storia! Per favore ditemi se i pensieri e le emozioni di Jean vi
sembrano
realistici o meno.
Inoltre
sostenete nikkispartanva, che farà una podfic di questa
fanfiction per tutti
noi, dall’introduzione sembra fantastica! (Anche se per me
è terribilmente
imbarazzante riascoltare le parole che ho scritto lmao)
Nei
prossimi capitoli: più sentimenti, più dolore,
più piscina.
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Capitolo 7 *** Hotel California ***
Chapter
7:
Hotel California
Potrei
fare un elenco di tutte le cose in cui non sono bravo, ma credetemi se
vi dico
che ci vorrebbe veramente troppo tempo.
Potrei
dirvi che sono pessimo ad andare a letto presto, o a far durare un
pacchetto di
sigarette più di una settimana, o a mettere i vestiti nel
cesto della
biancheria dopo averli indossati. Che proprio non sono bravo a essere
onesto
con me stesso, nonostante solitamente non abbia peli sulla lingua
quando parlo
con chiunque altro. E
che quando si
parla di schifezze sdolcinate come i sentimenti,
preferirei mille volte scappare in mezzo alle montagne piuttosto che
guardare
una persona negli occhi per più di cinque secondi.
Che
non sono per niente bravo soprattutto con le situazioni imbarazzanti.
Ma,
come ho già detto, questa lista potrebbe continuare per molto tempo, davvero.
Purtroppo per me, proprio adesso mi
trovo di fronte a
quella che probabilmente posso classificare come una situazione
imbarazzante.
Il
cielo picchia sulla mia nuca, il che non aiuta per nulla, dato che al
momento
mi sento già come se potessi prendere fuoco spontaneamente.
Mi incurvo sui
libri che ho sparso sul tavolo del cortile, intrecciando le mani dietro
la
testa mentre lascio cadere la fronte sul diagramma di qualche
meccanismo
chimico che ormai dovrei sapere, cazzo; mi scappa un lamento basso.
Riprenditi,
idiota colossale che non sei altro. Smettila di fare tanto casino per
nulla!
Posso
ripetermi questa frase quanto voglio, ma non riuscirà a
cambiare il mio stato
di…ecco, agitazione.
Maledizione.
È
quel senso di trepidazione che ti mette in subbuglio lo stomaco,
rigirandoti le
budella finché non
sei incapace di
restare seduto per più di un secondo perché ti
senti veramente come se potessi
vomitare. Già, mi sento più o meno
così.
Se
la definissi una reazione esagerata… be’, starei
decisamente sminuendo.
Districo le dita per passarle tra i capelli biondi e incasinati che ho
sulla
testa, respirando energicamente dal naso. Mi siedo con una postura
dritta e
provo a costringermi a non fare
l’idiota,
tuttavia stringo il bordo del tavolo sicuramente con più
forza del necessario.
Cristo
santo, Jean. Gli hai solo regalato dei disegni!
Verissimo.
Tecnicamente gli ho solo regalato quei disegni. Ma ciò non
mi ferma
dall’immaginare ancora una volta il momento in cui
entrerà in giardino,
sorridendo come uno stronzetto tutto contento, ed io senza dubbio
manderò
all’aria tutto quello che gli avrei voluto dire, e mi
renderò ridicolo, e… e—
Okay,
tecnicamente non è ancora una situazione imbarazzante. Ma lo
sarà. Riesco a
sentirlo dentro di me.
Oh,
ma
dai, non te ne sei mica pentito… glieli avresti dati in ogni
caso, anche se
avessi saputo di dover passare tutto questo. Pensa a quanto
è sembrato felice
nei messaggi che ti ha mandato. Dio mio.
Giusto.
Pensiamoci razionalmente, adesso.
Cosa dovrei dirgli? Dovrei solo, che ne so, fare il disinvolto, come se
quella
non fosse la cosa più stupida
e
sdolcinata che potessi fare ieri?
Oh
Dio, eccome se lo era. Non posso negarlo. Veramente molto, troppo sdolcinato. Sono il re degli
idioti.
La
mia mente continua a fare avanti e indietro pensando a quanto mi
sentivo
disinvolto ieri, rispetto a quanto poco-disinvolto
mi sento oggi anche solo ripensando
a ieri; in tutto questo trambusto interiore, non mi sorprende il fatto
che non
senta il cancello posteriore scricchiolare fino ad aprirsi sulla siepe.
Faccio
un salto di un miglio per lo spavento quando una mano si posa sulla mia
spalla
dal nulla; il mio guaito sorpreso è letteralmente il verso più effemminato che sia mai
uscito dalla mia bocca.
“Gaaaaah!”
mi rigiro nella sedia, alzando le braccia per aria.
“M-Marco!”
La
sua espressione sorpresa (dovuta alle mie urla, senza dubbio) si
ammorbidisce
rapidamente in un sorriso gioioso e genuino. Usa la mano che aveva
posato sulla
mia spalla per rimettere a posto una ciocca di capelli che gli ricade
sulla
fronte.
“Scusa,
Jean,” ridacchia, “È che, uh…
mi è sembrato come se stessi affrontando una
brutta discussione con te stesso.”
“N-non
è vero…” borbotto, distogliendo lo
sguardo dal suo volto mentre contorco la
bocca in un broncio contrariato. “Tu, piuttosto,
uh… oggi sembri felice. Uh,
cioè… ecco, più felice rispetto
a… ieri?”
È
proprio come temevo. Per favore, qualcuno mi spieghi come ho fatto a
essere
impaziente per un momento come… questo? Maledetta
lingua annodata.
“Ah-hah,”
Marco sorride, ma non aggiunge nient’altro, lasciando che le
sue parole
aleggino nell’aria che ci divide. Si aspetta che sia io ad
affrontare
l’argomento. Lo giuro su Dio, mi pento di ogni singola volta
in cui ti ho
chiamato Gesù con le lentiggini, perché adesso capisco le tue vere intenzioni, stai solo
cercando deliberatamente
di farmi soffrire!
“Jean?”
mi chiama – alzo immediatamente gli occhi per incontrare il
suo sguardo, mentre
lui si picchietta una guancia con le dita. “Sei un
po’ rosso. Forse ti sei
scottato al sole.”
“Non
mi sono scottato,” farfuglio, girandomi nuovamente per
rivolgere il mio sguardo
truce alle parole scritte sul mio libro. Cloruri acidi. Anidridi.
Esteri. Acidi
carbossilici. Però guarda quanto
sembra
felice oggi rispetto a ieri.
Oh,
accidenti!
Mi
aspetto che abbandoni l’argomento – magari con una
risata – e si diriga verso
il bordo della piscina per iniziare a lavorare, con qualche commento
saccente
su di me. Ma non è quello che accade. La sedia affianco a me
scricchiola sul
cemento quando Marco ci scarica su tutto il suo peso senza alcuno
sforzo, e
appoggia le braccia sul tavolo. I suoi occhi non si staccano dal mio
volto.
Aggrotto
le sopracciglia – ed è ovvio che il motivo non
siano affatto i problemi di
chimica che sto facendo finta di leggere.
“Ero
davvero sincero nei messaggi di ieri,” mi dice dolcemente.
“Quei disegni sono
meravigliosi.”
Sento
le mie orecchie diventare sempre più calde, e concentro
tutta la mia forza di
volontà per guardare attentamente i caratteri neri stampati
sulla pagina che ho
di fronte.
“…
Eeeee a quanto pare
la cosa ti mette in
imbarazzo,” aggiunge a quel punto, con una risatina leggera.
La sedia emette
uno scricchiolio quando si appoggia allo schienale; lo sorprendo a
strofinarsi
una ciocca di capelli tra il pollice e l’indice. Non
è un gesto che fa quand’è
nervoso, mi appunto mentalmente. È il suo gesto da sto pensando.
“Non
sono… imbarazzato,” borbotto in tono esitante.
“È solo che… non sono bravo
con…
queste cose sentimentali, mi spiego?” Poi aggiungo come
un’ulteriore
riflessione: “Sono contento che ti siano piaciuti.”
Il
sorriso che gli illumina il volto non ha affatto un’aria di
sufficienza, o di
compassione per la mia abilità inesistente con le parole;
è solo… ecco, penso
di aver iniziato a chiamarlo un sorriso
da Marco, no? In mancanza di un termine migliore, almeno.
Ho
come l’impressione che voglia dirmi qualcos’altro,
ma veniamo interrotti
dall’arrivo di mia madre, che barcolla nel patio con i suoi
tacchi
spacca-ginocchia, tenendo in equilibrio due bicchieri alti impilati in
una mano
e una caraffa nell’altra.
“Ah,
Marco!” esclama, “Non pensavo fossi già
qui! Vuoi qualcosa da bere?”
Marco
si alza immediatamente in piedi, allontanando la sedia dal tavolo. Mi
ritrovo a
stringere la bocca in una linea sottile.
“Oh,
no, sto bene così,” risponde con un sorriso
educato. “Dovrei proprio iniziare a
lavorare.”
Mi
dedico nuovamente – stavolta per davvero – al mio
studio, conscio del
chiacchiericcio costante di mia madre con Marco a bordo piscina, mentre
quest’ultimo
l’accontenta con risatine imbarazzate come al solito. Riesco
a salvare la
situazione chiamando mia madre, dicendole che la limonata che tiene in
mano si
riscalderà se non la smette di importunare Marco, e
consigliandole di posarla
subito qui.
Marco
mi fa un cenno con la testa in segno di ringraziamento, mentre i suoi
occhi si
posano solo per un istante su mia mamma, che occupa la sedia di fronte
a me.
Lei toglie gli occhiali da sole dallo scollo tondo della camicetta e si
rilassa
nella sdraio, godendosi la vista migliore sul ragazzo della piscina.
Come
sempre.
Sotto
al tavolo, tiro fuori il telefono con aria furtiva, e scrivo un
messaggio
rapido con una mano sola, fingendo interesse nel libro che dovrei
leggere,
voltando pagina.
A:
Marco-Polo
scusa per mia madre
Rubo
uno sguardo furtivo al lato opposto del cortile, dove Marco ha
ovviamente
ricevuto il messaggio: le sue mani guizzano immediatamente verso il
telefono
che ha iniziato a vibrare nella sua tasca. Aggrotta un po’ le
sopracciglia,
vedendo il mittente, e sembra quasi lanciarmi uno sguardo interrogativo.
Ne
mando subito un altro.
A:
Marco-Polo
sembrava volessi dirmi qualcos’altro quando ci ha interrotti
lmao
Da:
Marco-Polo
Mi stai seriamente mandando SMS dall’altra parte del cortile,
Jean?
A:
Marco-Polo
si
A
quel punto alzo lo sguardo, e lo vedo
sforzarsi per reprimere un sorriso, mordendosi il labbro. È
appoggiato sul
retino mentre pigia le dita sul telefono; ed è fortunato che
mia madre sia
tanto attratta da lui da non accorgersi del fatto che non sta facendo
assolutamente nulla del suo lavoro.
I giorni seguenti passano agevolmente; per me è una
benedizione, considerando
la mole di sfortuna che sto ricevendo ultimamente in tutto. Non vengo
sottoposto ad alcuna telefonata dall’ufficio di mio padre da
parte di ragazze
della mia età e, quelle poche volte in cui vado in
università per i corsi di
ripasso, non incontro Eren.
Riesco
a persuadere Marco a scaricare Snap Chat sul
suo telefono – nonostante mi abbia assicurato che proprio non
capisce come si
usino le app – e apprezzo particolarmente i primi scatti
impacciati, con l’aria
da ancora-non-capisco-come-funzioni-questa-roba.
È
venerdì pomeriggio e sono seduto con Connie, Sasha e
Historia in biblioteca, quando ricevo una foto particolarmente bella
sul mio
telefono. È riuscito a scattare un selfie sfuocato che
ritrae la sua
espressione inorridita e la figura di una donna alle sue spalle, che
non
indossa altro che un bikini, stesa su una sedia a sdraio a bordo
piscina. La
didascalia recita: Aiuto! Un’altra!
Provo
a soffocare la mia risata, preparando una
risposta, ma apparentemente Sasha ha l’udito di un
pipistrello.
“C’è
qualcosa di divertente?” chiede, ma io riconosco
fin troppo bene quello scintillio di puramente diabolico
nei suoi occhi.
“No,”
rispondo bruscamente, forse troppo bruscamente,
perché fa un balzo dall’altra parte del tavolo per
provare a strapparmi il
telefono dalle mani, mandando all’aria quasi tutti i suoi
fogli di appunti.
Fortunatamente, i miei riflessi sono rapidi, e sollevo il telefono
fuori dalla
sua portata, spingendo via il suo viso con la mano libera. Non questa
volta!
“Vattene, Sasha!”
Mi
lecca la mano, facendomi indietreggiare disgustato,
mentre strofino vigorosamente il palmo sui jeans. “Che
schifo, cazzo!”
“E
allora non mettermi le mani in faccia,” fa il
broncio, sporgendosi ancora sul tavolo. Aspetta un’altra
occasione. La conosco
troppo bene. Ho la situazione in pugno.
Dondolo
all’indietro sulla sedia e, tenendo il
telefono più vicino possibile al mio petto, riesco a
scrivere la mia risposta: non credo che mia
madre abbia intenzione di
condividere lol, accompagnata da una foto incredibilmente
seducente della
mia faccia, che include un bel po’ di doppi menti e una bella
vista dal basso
delle mie narici. Marco dovrà accontentarsi. È
sempre meglio questo piuttosto
che Sasha metta le mani sul mio telefono un’altra
volta… non può che finire
male.
“Dai,
sei stato tutto il giorno attaccato al
telefono,” sottolinea Connie, la sua espressione si fa simile
a quella di
Sasha. Dispettosa. Pericolosa.
“Con
chi stai parlando?”
“Nessuno,”
aggrotto le sopracciglia, sperando che la
mia espressione li spaventi a tal punto da non pormi altre domande. Non
funziona come speravo.
“Sei
troppo sulla difensiva, è un comportamento
sospetto, Jean,” sorride maliziosa Sasha, stringendo il mento
tra il pollice e
l’indice. “Allora, dicci com’è
questa tipa, è figa?”
“N-no!
Non è—” farfuglio. Be’,
in effetti… “Voi due potreste evitare di
ficcare il naso nella
mia vita per tipo due fottutissimi
secondi?”
“Mamma
mia, che palle che sei,” si lamenta Sasha,
gettandosi nuovamente sulla sedia e incrociando le braccia al petto. Si
guarda
intorno, esaminando il caos di fogli sparsi su tutto il tavolo
– e sul
pavimento – ma non muove un muscolo per rimetterli in ordine.
Faccio
una smorfia, arricciando il naso nella sua
direzione, e provo a tornare a prestare attenzione ai libri. Non sono
preparato
quando una scimmia con i capelli rasati mi piomba addosso.
“Ahhh,
cazzo!” urlo, dimenando le braccia per provare
a non cadere, dato l’equilibrio precario della mia sedia.
Connie – quel piccolo
demone – coglie l’occasione per strapparmi di mano
il telefono, sbraitando in
segno di vittoria. “Ehi! Ridammelo, stronzetto che non sei
altro!”
Non
so esattamente per cosa mi stia preoccupando
tanto; ci sono solo un po’ di botta e risposta tra me e
Marco, e qualche
messaggio di mia madre che mi ricorda di comprare il latte dal
supermercato
prima di tornare a casa, ma mi preoccupo
lo stesso. Questi due non si lasciano mai scappare
un’occasione per
prendermi in giro.
Per
fortuna, c’è un
angelo dagli occhi azzurri a proteggermi. Historia preleva il
mio telefono
con mano esperta, liberandolo dalla presa di Connie, e preme il
pulsante di
blocco, facendo tornare lo schermo nero.
“Lasciatelo
stare, voi due,” dice, con l’aria più
severa che le riesca. “Siamo in una biblioteca,
l’avete dimenticato?” Divento
improvvisamente consapevole del fatto che ogni paio di occhi nelle
immediate
vicinanze è incollato al nostro tavolo e… non
sembrano particolarmente contenti
della nostra presenza. Ops…
Affondo
leggermente nella sedia, accettando il mio
telefono con gratitudine quando Historia lo fa scivolare sul tavolo
nella mia
direzione. Si accende con l’arrivo di un nuovo messaggio
proprio quando lo
prendo in mano.
Da:
Marco-Polo
Wow, sei TROPPO bello, Jean :P
Mi
assicuro che né Connie né Sasha mi stiano
guardando
– come mi aspettavo, hanno entrambi il naso sui libri con
aria impacciata,
facendosi sempre più piccoli sotto gli sguardi severi
rivolti a loro – e scrivo
furtivamente una risposta.
A:
Marco-Polo
devi sapere che non possiamo sembrare tutti dei chris evans con le
lentiggini
Non
ricevo alcuna risposta a quel messaggio; forse
facendogli notare la perfezione della sua proporzione spalle-vita ho
oltrepassato leggermente il limite. Vabbè. Ripongo il
telefono nella sicurezza
della tasca dei miei pantaloni, e torno a studiare.
“È. Troppo. Noioso.” Riesco praticamente
a sentire il mio cervello sciogliersi
in una poltiglia liquida e gocciolare dalle mie orecchie;
c’è un limite ai
verbi irregolari che una persona può imparare prima di dare
di matto. Perché
non possono seguire tutti le stesse regole grammaticali? Renderebbero
la mia
vita molto più facile, cazzo.
“Pensavo
ti piacesse il francese,” ridacchia Marco,
agitando il retino lungo le lastre di cemento e scolandolo in uno dei
secchi di
plastica bianca che si porta sempre dietro. Mi stendo sulle scale del
capanno
della piscina, sentendo il bordo di pietra affilato che mi spacca la
schiena,
senza trovare comunque la forza di spostarmi. Lascio cadere sul viso il
libro
aperto che stavo tenendo sollevato, schermandomi gli occhi dal sole.
È
sabato. Solo un normalissimo sabato. Caldo. Studio.
Marco. Sta diventando una routine. (Anche se sono avverso soltanto a
due di
quelle cose rispetto all’altra.)
“Non
ho mai detto che mi piace,” brontolo, con la voce
leggermente ovattata dal libro che mi copre la faccia.
“È solo che è una
materia in cui sono bravo, quindi non la vedo troppo come un compito,
capisci
che intendo? Ma è comunque noiosissimo.”
“Quando
hai gli esami?” chiede Marco, con il sorriso
risoluto di sempre. Spingo il libro un po’ più
giù, così posso vederlo meglio
da sopra al dorso piegato, ma non riesco a farlo stare bene in piedi.
“Lunedì,
non dopodomani, ma il prossimo,” rispondo io;
sono certo che la mia risposta sprizzi
entusiasmo. Marco mi fa una specie di
vago cenno con la testa, prima di affondare nuovamente il
retino
nell’acqua, rigirandolo seguendo la forma di un otto sul
pavimento di
mattonelle. “Ho chimica e francese la prima settimana, e gli
altri tre nella
settimana successiva. Il fottutissimo esame di filosofia è
praticamente
l’ultimo del programma – per mia grande fortuna.
Sasha finisce il dieci, e io
dovrò stare lì fino al sedici—”
“Il
sedici?” interviene Marco, con la voce colorata da
un accenno di sorpresa.
“Già,”
sospiro. Il cemento mi sta facendo addormentare
le chiappe; sono seduto qui fuori da quando è arrivato Marco
all’ora di pranzo.
Marco
mormora qualcosa che non riesco a cogliere del
tutto, ma riesco a vedere un vago rossore sulle sue guance che mi fa
chiedere
se si sia scottato al sole o molto probabilmente stia effettivamente
arrossendo.
“Scusami,
cos’hai detto?”
La
sua bocca si socchiude a forma di “o” quando
realizza che non l’ho sentito la prima volta, e si passa una
mano fra i capelli
sulla nuca. Ho notato che ultimamente gli stanno crescendo.
“Oh,
uh - ho detto: il sedici giugno è il mio
compleanno.”
Quell’affermazione
mi fa mettere immediatamente a
sedere, facendo cadere il libro di francese sulle mie gambe. Mi ritrovo
a
sfoggiare un ampio sorriso.
“Ah
sì? Allora dovrò prenderti qualcosa.”
Mi passa per
la testa per un istante che probabilmente avrei potuto conservare i
disegni che
gli ho dato la scorsa settimana per un’occasione come questa,
ma… be’, a quanto
pare, stavolta dovrò essere più creativo.
Guardare l’espressione di Marco che
diventa sempre più agitata mi dà un grande senso
di soddisfazione.
“No,
non ce n’è bisogno!” mi dice subito.
“Devi
studiare per gli esami, e n-non voglio che tu spenda soldi per me,
Jean—”
Forse
nella sua mente suona ancora un po’ strano che
io stia dicendo all’inserviente
della
piscina di voler celebrare il suo compleanno in qualche modo;
ma spero che
abbiamo superato quello stadio, ormai. Perché nella mia, di
mente, è
sicuramente prima: amico, e poi di
conseguenza: ragazzo della piscina.
“Lo
dici come se la mia famiglia non avesse
quantità di denaro extra da spendere,” gli rivolgo
un
sorriso sghembo. “Non è un problema, davvero. E
poi, mi conosci—” faccio una
pausa per dare un effetto drammatico, mettendo le mani sui fianchi per
quanto
la posizione da seduto me lo permetta. “Sono il re della procrastinazione. Ti
farò un regalo. Qualsiasi scusa è
buona per evitare lo studio.”
“A
me sembra che stia studiando piuttosto duramente,”
interviene Marco, indicando con un cenno del capo la pila di libri al
mio
fianco. Credo che non si stia sbagliando del tutto. Gran parte di
ciò che dico è
solo per spavalderia, non posso
nasconderlo. Non mi va proprio di non passare questi esami, per quanto
possa
essere un bel modo per far incazzare mio padre.
“Se
dici a qualcuno che segretamente
sono un
secchione, ti spezzo le ginocchia e ti spedisco in Antartica,
hai capito?”
sorrido, sperando che la mia minaccia non sia troppo cruenta per i suoi
gusti.
Marco, per tutta risposta, getta la testa all’indietro in una
risata.
“Vuoi
esercitarti un po’ in francese con me?” dice a
quel punto, con il sorriso più largo che suppongo riesca a
tirare. I suoi denti
sono di un bianco accecante, perfetti (e non mi aspettavo nulla di
meno).
“Tu
non parli il francese,” affermo, ma lui alza le
spalle semplicemente.
“No,”
conviene con me. “Ma forse anche parlarlo e
basta ti può aiutare. È così che mi
esercitavo a parlare con i pazienti; dicevo
tutto a mia madre, anche se non capiva la metà delle parole
che pronunciavo.”
Sembra diventare un po’ malinconico nel rivangare quel
ricordo, quindi rispondo
subito, prima che possa rimuginare troppo sui pensieri che lo fanno
stare male.
“Va
bene, dai,” dico, aggiustando leggermente la mia
postura per provare a far riacquistare un po’ di
sensibilità al mio didietro.
“Almeno non potrai dirmi che il mio accento fa schifo al
cazzo.”
Comincio
spiegandogli un po’ in linee generali i
cambiamenti che ci furono nella letteratura francese tra il ventesimo e
il
ventunesimo secolo – se ci fosse un argomento in grado di
farti chiudere
immediatamente gli occhi per la fottutissima noia, sarebbe proprio
questo – ma
Marco sembra crogiolarsi nel suono del mio accento americanizzato, e
sembra
quasi che si stia perdendo in mondi lontani (come dargli torto,
sicuramente
nella sua mente sembra solo un chiacchiericcio ingarbugliato e senza
senso).
Passo
a un discorso su una delle tesi di studio che
abbiamo visto in classe – qualche cazzata assurda sulla
traduzione dei libri di
Hugo e Dumas in francese moderno – ma cambio leggermente i
toni, sparando un merde e un putain qua e là, concludendo
addirittura con un sentitissimo c’est
vraiment des conneries, ma Marco
non si accorge della quantità di parolacce che sto inserendo
con dedizione nel
mio monologo.
“Hé
Marco, je pourrais dire n’importe quoi maintenant,
et tu ne t’en rendrais pas compte.” Ehi,
Marco, potrei dire qualsiasi cosa in questo momento, e non te ne
renderesti
conto.
Non
si accorge neanche di quando pronuncio ovviamente
il suo nome. Wow. Bene, allora è tempo di cambiare tattica.
Ecco, passare del
tempo con Connie e Sasha alla fine ti influenza in qualche modo, no?
“Alors, combien de
ménagères
as-tu baisé?” Allora,
con quante casalinghe sei andato a letto?
Ancora
nessun cenno.
“Je
parie que tu aimes toute l’attention. Qui n’aime pas les femmes
désespérées et d’âge moyen?” Scommetto
che in realtà adori tutte queste
attenzioni. Chi non ama le donne disperate e di
mezz’età?
Okay,
ancora niente. Che ne dici di questo, allora.
“Mais moi j’voulais une
moustache, une moustache, une
moustache.” È
con questo che si rende conto della
situazione.
“Jean,
okay che non parlo francese, ma non sono
stupido,” dice, provando ad assumere un’aria
intransigente, ma fallendo
piuttosto miseramente. Le rughe di espressione che si formano vicino ai
suoi
occhi quando sorride sono tutte in vista. “Perché
stai parlando di baffi?”
“È
una canzone,” gli sorrido di rimando, sperando di
sembrare più sfacciato possibile. “Si intitola Moustache. Prevedibile.”
“Dubito
che il tuo esaminatore abbia intenzione di
darti molti punti se gli scrivi le parole di una canzone che parla
della
peluria sul viso,” ridacchia.
“C’è
una prima volta per tutto.”
Marco
emette una sonora risata nasale; è un suono
veramente poco attraente, ma non
posso
che sentire un’esplosione di orgoglio per averlo fatto ridere
così. Mi sporgo
in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e il mento sulle mani,
mentre lo
guardo scuotere la testa verso di me, in un’espressione
scettica ma divertita.
“Sei
ridicolo, lo sai?”
“Dimmi
qualcosa che non so.”
“Sarò fuori città fino a
venerdì,” annuncia mio padre durante la cena di
domenica sera. Mia madre posa le sue posate nel piatto, e sembra
più sorpresa
di quanto vorrei che fosse.
“Di
nuovo, caro?” dice, “È la terza volta
questo mese.
Certe volte lavori troppo
duramente.”
Spingo
le verdure sul fondo del mio piatto con aria
impacciata, formando una piccola torre di piselli che proprio non mi
sta
andando di mangiare (e non è solo perché non sono
un grande fan delle verdure).
Nel mio stomaco va agitandosi il presentimento che questo viaggetto
potrebbe
non essere solo per questioni di
lavoro.
Sento
le parole formarsi nel mio stomaco; sento tutte
le cose che vorrei urlare a quell’uomo vecchio e grassoccio
seduto
all’estremità opposta del tavolo. Ma…
non bastano le parole per trovare il
coraggio di alzarsi in piedi e pronunciarle davvero. Serve coraggio. E
io non ce l’ho.
“E
io che sono anche andata a fare la spesa per questa
settimana, perché pensavo che saresti stato a
casa,” mia madre continua a
lamentarsi, atteggiando le labbra di colore rosso acceso in
un’espressione
imbronciata. “Tutto quel cibo sprecato.”
“Possiamo
semplicemente congelarlo, mamma,” borbotto,
e nessuno di loro si degna di voltarsi a guardarmi; mi chiedo
addirittura se mi
abbiano sentito parlare. Non che importi, in realtà. La
torre di piselli
crolla, e ne perdo uno a lato del mio piatto. Emetto un sospiro.
“Non
posso farci niente, Céline,” risponde bruscamente
mio padre, “È un periodo pieno d’impegni
nell’anno finanziario, lo sai. Ci sono
un sacco di contratti complicati da firmare, cose che nemmeno
capiresti, cara.”
Il modo in cui le parla mi mette a disagio; il modo in cui la sua voce
è
intrisa di superiorità, e il modo in cui le parla come se
fosse una stupida. Ho
iniziato a farci caso ultimamente.
Mamma
sembra scoraggiata; beve un sorso del suo vino,
senza insistere nella conversazione. Decido di tentare la fortuna.
“Mamma,
stavo pensando di organizzare una sessione di
studio questa settimana, magari,” mento. In realtà
non ci stavo pensando. Ma
voglio cercare di distogliere la sua mente (o meglio, la mia mente) da
ciò che
ha appena detto mio padre. “Cioè, se per te va
bene? Non dovremmo sprecare
tutto quel cibo, se invitassi un paio di amici.”
Funziona
a meraviglia.
“Oh,
che bell’idea, tesoro,” cinguetta lei. Riesce a
tranquillizzarmi un poco. “È stato squisito
rivedere Connie e Sasha qualche
settimana fa. Certo che possono venire di nuovo.”
Probabilmente
avrei anche potuto evitare di menzionare
lo studio, mia madre accetterebbe qualsiasi progetto che includa quei
due. Mio
padre, d’altro canto…
“Solo
se studiate veramente, Jean,” mi dice con aria
severa, gesticolando nella mia direzione con la forchetta. Lo fisso con
lo
sguardo più fermo possibile. “Non voglio che tu e
i tuoi amici vi approfittiate
di tua madre e trascuriate lo studio. Dovete lavorare seriamente
adesso. Devi
pensare al tuo futuro.”
Non gli dirò
che ho inventato tutto quanto in questo istante, ovviamente. Che in
realtà non
ho la minima intenzione di invitare teppista numero uno e numero due
un’altra
volta se non dopo gli esami. Ma,
come
avevo già accennato, quella scintilla di questa
cosa non ti piace, allora stai certo che la farò, cazzo,
si è innescata nel
mio cervello.
“Certo
che sto pensando al mio futuro, papà,” affermo,
facendo spallucce. “Ho detto che abbiamo intenzione di
studiare, no? Quindi,
magari, fidati di me per una
volta.”
Spero che colga la nota amara nel mio tono di voce. Spero che noti
quanto ho
enfatizzato la parola fidati. Spero
che si senta in colpa.
Riesco a beccare mia madre in cucina dopo la cena, una volta che mio
padre si è
rintanato lassù nel suo studio per
“lavorare”. La aiuto a caricare la
lavastoviglie, mantenendo ogni piatto tra i polpastrelli, tenendoli
più lontani
possibile da me, per evitare di toccare la schifosissima acqua dei
piatti che
gocciola dai vassoi di plastica. Mia madre alza gli occhi al cielo e
quando ha
finito chiude il portello con un colpo di fianchi.
“Quindi
per quale giorno pensavi di invitare Connie e
Sasha, tesoro?” mi domanda, asciugandosi le mani sul panno
appeso allo
sportello del forno; io, invece, opto per strofinarle frettolosamente
sui
jeans.
“…In
realtà non stavo pensando a Connie e Sasha,”
parlo lentamente, valutando la sua espressione. Il suo entusiasmo
sembra
spegnersi leggermente.
“Oh.”
Un’idea
mi balena in testa all’improvviso – e, sapete
che vi dico?, vale la pena di provarci.
“Stavo,
uh, pensando a qualcun altro… forse, sai, dato
che papà non ci sarà,
potremmo vedere
se… Marco… vuole rimanere per cena?”
Nel
mezzo secondo in cui mia madre mi fissa senza dire
una parola mentre processa ciò che le ho appena chiesto,
prendo in
considerazione due modi diversi in cui potrebbe andare a finire questa
conversazione. La prima ipotesi, ovviamente, è che mostri un
disgustoso
entusiasmo all’idea, poiché perché
mai
mamma dovrebbe rifiutare un’occasione come questa per avere
Lentiggini dentro
casa? La seconda possibilità è che rimanga
scioccata, perché sarà anche che lo
guarda con desiderio, ma invitare l’inserviente della piscina
a cena è un po’…
be’, probabilmente poco consono,
secondo
i suoi standard.
In
un certo senso spero che si verifichi la prima
opzione, se devo essere brutalmente onesto. In effetti,
però, non accade
nessuna delle due ipotesi.
“Marco…?”
Per
tutta risposta io non faccio altro che fissarla
con aria perplessa, pensando: sì,
mamma,
hai capito bene, la versione lentigginosa di Capitan America, quello
che viene
qui due volte a settimana e pulisce la piscina mentre tu sbavi
guardando i suoi
addominali. Quel Marco.
Ovviamente
rimane un po’ interdetta.
“Intendi
Marco, il ragazzo
della piscina?”
“Sì,
mamma, Marco.
L’unico Marco che conosciamo. Allora, che ne dici?”
C’è
un momento strano, perché nonostante non mi sembri
necessariamente confusa, sembra
guardarmi piuttosto come se stesse contemplando qualcosa. Qualsiasi
cosa sia,
non la esprime ad alta voce.
“Certo,”
risponde semplicemente. “Sembra un’idea
adorabile, Jean. Possiamo chiederglielo quando verrà qui
mercoledì.”
“Nah,
non c’è bisogno, gli mando un messaggio
adesso,”
rispondo io, e forse dovrei pentirmi del modo in cui la mia faccia si
contorce
in un sorriso, ma decisamente non
me
ne pento. Vedo mia madre alzare una delle sue sopracciglia finemente
sfoltite
nella mia direzione.
Mi ci vogliono almeno cinque tentativi per scrivere un messaggio che
non
sembri, per prima cosa, troppo smielato, oppure che non sembri troppo
come se
stessi invitando Marco per un appuntamento romantico o qualche cazzata
simile.
Ma alla fine riesco a formulare qualcosa che esprima il giusto grado di
chissenefrega, e lo mando
immediatamente
prima di poter cambiare idea.
A:
Marco-Polo
ehi senti mia madre voleva sapere se vuoi venire a cena un giorno di
questa
settimana
A
dire il vero, siamo realisti, non
dirà mai di sì se gli dico che è un
invito di mia mamma. Se
fossi in lui scapperei nella direzione opposta. Mando rapidamente un
altro
messaggio.
A:
Marco-Polo
beh in realtà non era un’idea di mia madre
gliel’ho chiesto io ma ha detto di
si
A:
Marco-Polo
quindi che ne pensi
A:
Marco-Polo
ho un’xbox se questo può aiutarti a decidere
A:
Marco-Polo
possiamo giocare a dead rising 3 è fico
A:
Marco-Polo
non so nemmeno se ti piace scusa
A:
Marco-Polo
cmq dovresti venire lo stesso ok
Aggrotto
le sopracciglia allo schermo del telefono,
quando mi accorgo che sembra stia sproloquiando. E non so
perché mai dovrei
farlo. È solo Marco; non sto mica chiedendo di uscire a
Mikasa per una serata
romantica (perché, fidatevi, ci ho già provato, e
nel caso vi foste mai chiesti
la definizione precisa di sfuriata
colossale…).
Ma,
cazzo, non riesco a staccare lo sguardo dalla mia
casella degli sms in arrivo; reggo il telefono sopra la testa mentre
sto steso
sulla schiena sopra alle coperte del mio letto, fissando tutti i
messaggi già
letti. La risposta non ci mette molto ad arrivare, tuttavia. Ci clicco
su per
aprirla, più velocemente possibile.
Da:
Marco-Polo
Verrò molto volentieri. :D
Emetto
un lungo, lungo
respiro mentre le mie dita partono a muoversi sulla tastiera del
touch-screen
del cellulare, componendo nervosamente una risposta.
A:
Marco-Polo
perfetto tu che giorno preferisci?
A:
Marco-Polo
e cosa ti piace mangiare ecc.
Da:
Marco-Polo
Mercoledì per me sarebbe perfetto. Magari posso rimanere
dopo che pulisco la
piscina? E mangio praticamente tutto. :D
Gli
mando un SMS in risposta per dirgli che va bene, e
poi lascio cadere il telefono sul mio petto con un rumore secco e
soddisfatto.
E quindi, eccomi qui; non era necessariamente qualcosa che avessi in
programma,
ma, ecco, adesso non vedo l’ora che arrivi
mercoledì. Per passare un po’ di
tempo con il ragazzo che forse
è
diventato la cosa più simile a un migliore amico che abbia
avuto in un bel po’
di tempo, e in realtà
non so nemmeno
quando sia accaduto. Ma va bene così. La cosa mi fa solo
piacere.
Ovviamente la settimana deve passare
lentamente, cazzo. Lunedì passo quasi tutto il giorno a
casa, immerso nello
stato di panico da oh mio dio, cazzo, non
ho studiato abbastanza e l’esame è la prossima
fottutissima settimana, ma
martedì e mercoledì mi sento leggermente
più calmo, principalmente perché se io
sono fottuto, Connie è sontuosamente
fottuto.
Siamo
seduti in biblioteca, intenti a compilare una
vecchia simulazione d’esame, e io divento sempre
più frustrato per il fatto che
lui ancora non abbia imparato la
serie di Taylor per matematica.
“Cristo
santo,” mi lamento, puntando il dito sul mio
quaderno, di fronte alla sua faccia. “Devi solo imparare la
formula! Ti blocchi
su questa cosa ogni volta che facciamo qualche domanda per
esercitarci.”
“Non
ci riesco, non riesco a ficcare più niente in
testa!” piagnucola Connie, gettando le mani in aria. La
biblioteca stavolta è
relativamente vuota, e quelli che sono ancora qui probabilmente sono
abituati
allo stato di isteria generale e agli esaurimenti nervosi che
accompagnano il
periodo d’esami. Io sicuramente ci sono abituato. Questa
è la terza volta che Connie
ha dato di matto nell’ultima ora.
Il
mio telefono in quel momento lampeggia,
ricordandomi di fermarmi al supermercato prima di tornare a casa per
comprare
qualche bene di prima necessità per mia madre. Sono
già le quattro passate; è
tempo di lasciare Connie a crogiolarsi nel suo dolore da solo.
“Senti,”
dico, lasciando scivolare tutti i miei
appunti incasinati nel mio zaino. “Devo scappare. Tu,
però, faresti meglio a
non andartene finché non avrai imparato quella formula.
Attento, ché ti chiamo
appena torno a casa per controllare che l’abbia imparata
veramente.”
“Ti
odio, Jean. Ma non quanto odio la matematica.”
Sono già le cinque e mezza quando parcheggio nel vialetto di
casa; la mia
Jaguar (un regalo ingiustificato che mi ha fatto mio padre quando ho
passato un
test) emette un ronzio basso simile alle fusa di un gatto quando mi
fermo
dietro la coupé di mia madre, spegnendo il motore. Il
tragitto non è stato
malaccio, ma il primo negozio dove sono andato aveva finito le
Marlboro, il che
ha comportato una deviazione di circa un vicinato per fare il dovuto
rifornimento.
Faccio
scivolare lo zaino su una spalla, e tengo in
equilibrio la busta della spesa su un fianco mentre apro il portone con
una
mano, a fatica. Incontro mia madre che scende dalle scale, e sono
genuinamente
sorpreso nel vederla indossare dei sandali bassi, invece delle sue
ridicole
paia di tacchi a stiletto che sono solito vedere quando
c’è Marco nei dintorni.
Mi
dà il benvenuto, e io la seguo in cucina mentre mi
domanda le solite, generiche domande del tipo: com’è
stata la tua giornata?. Le rispondo con qualche grugnito
disinteressato e qualche meh,
mentre
i miei occhi guizzano immediatamente nel cortile, dove Marco sta
fischiettando
fra sé e sé mentre mette a posto i suoi
strumenti. Poggio la busta della spesa
di carta marroncina sul bancone, e mi dirigo subito verso la porta sul
retro.
“Yoooooo,
Marco! La tua persona preferita è qui, e
ha portato del cibo!”
Alza
lo sguardo, smette di fischiare, e un sorriso si
allarga sulla sua faccia. Non posso far altro che ricambiarlo.
“Spero
tu abbia fame, perché abbiamo abbastanza cibo
per campare tipo una settimana!” gli rivolgo un sorriso
sghembo mentre lui
cammina a grandi passi verso di me. Scivolo nuovamente in cucina e
inizio a
tirare fuori dalle buste la spesa in cui mia madre sta già
ficcanasando. Meno
male che ho messo le sigarette nello zaino.
“Hai
comprato la birra, Jean?” mamma aggrotta le
sopracciglia, indicando la confezione da sei sul fondo della busta.
“Chi te
l’ha venduta senza chiederti la carta
d’identità?” faccio spallucce
scherzosamente, gonfiando le guance mentre strappo due lattine dal loro
alloggio
in cartone.
“Già,”
dico, guardando Marco mentre toglie le
infradito sull’uscio, per poi muovere un passo sul pavimento
di mattonelle
bianche, seppur con un po’ di esitazione. Sollevo una lattina
nella sua
direzione. “Ehi, ne vuoi una?”
In
realtà non ha molta la scelta, poiché gli lancio
una delle lattine di modo e di fatto; alla fine riesce ad afferrarla,
anche se
un po’ goffamente, con un’aria momentaneamente
confusa.
“Solo
una,” sorrido, piegando la linguetta della mia
lattina mentre appoggio la schiena al bancone. Per
festeggiare.
Non
che sappia esattamente cosa stia festeggiando, ma
mi sembra la cosa più opportuna da fare. Anche se sono
sommerso dallo studio, e
ho gli esami la prossima settimana, e mio padre è da qualche
parte dall’altro
lato del paese a scoparsi qualche ventenne sulla sua scrivania.
Ma
ho comprato la birra. Non riesco a ricordare
l’ultima volta in cui l’ho fatto – per
non parlare dell’ultima volta che ho
bevuto dell’alcol, di qualsiasi tipo. I miei occhi si posano
su Marco quando
lui beve un sorso della sua bibita, curioso, e le sue sopracciglia si
aggrottano in un’evidente repulsione per la bevanda amara. Le
mie labbra si
curvano verso l’alto in una risatina.
“Bada
che sia solo una anche per te, Jean,” mi ordina
mia madre, mettendo il broncio. Mentre guizza in giro per la cucina, mi
accorgo
che non è… ecco, civettuola come al solito.
Certo, lancia una bella occhiatina
a Lentiggini ogni tanto, ma…
“C’è
qualcosa in cui vuole che l’aiuti, signora
Kirschtein?” domanda allora Marco, e io mi acciglio.
Maledetto, sei proprio un santo.
Adesso anche io
sarò costretto ad aiutarla.
“Oh,
sarebbe carinissimo da parte tua, Marco,” sorride
mia madre. “Sarebbe perfetto se tu e Jean poteste affettare
le verdure.”
Marco
sembra più che contento di questi sviluppi, ma,
quando vede la mia espressione burbera, ride, roteando gli occhi.
Non
roteare gli occhi
per me, Lentiggini!
Bevo
un lungo sorso di birra; è solo un po’ troppo
secca per miei
gusti, ma è comunque
abbastanza fresca da attenuare quest’afa. Allungo un braccio
per prendere il
contenitore per i coltelli e i taglieri, mentre Marco si avvicina per
unirsi a
me; gli do una gomitata decisa in un fianco quando mia madre non
guarda, ma
lui, per tutta risposta, non fa altro che punzecchiarmi la spalla
scherzosamente.
A
quanto pare, fra le altre cose (come essere così
intelligente da entrare a medicina, e avere l’aspetto di un
Dio greco, ed
essere una persona perfetta in tutto e per tutto), Marco è
incredibilmente
bravo a tagliare le verdure. Lo fa in quella maniera così
professionale,
tagliando la cipolla in piccoli cubetti e sbucciando le patate in
un’unica,
lunga striscia di buccia. Paragonato a lui, io faccio schifo.
Be’, non solo
paragonato a lui. Cucinare non è mai stato il mio forte.
“Stai
facendo proprio un casino,” ridacchia,
sporgendosi sulla mia spalla per guardarmi mentre tagliuzzo a casaccio.
È così
vicino che sento il suo respiro sul mio collo. Mi irrigidisco
automaticamente.
“S-sta’
zitto,” sbotto di rimando, “Non è che lo
faccia molto spesso.”
“Già,
non lo fa,”
interviene mia madre dai fornelli, agitando un cucchiaio di legno nella
nostra
direzione. “È un piacere averti qui, Marco.
Dovresti trasferirti definitivamente.”
La
risata di Marco è musicale, e mi chiedo se sia il
caso di mettergli delle bucce di patata nella maglietta o meno, per
vendetta.
Tuttavia, decido di non farlo, ma solo perché allontana il
tagliere da me e mi
toglie il coltello dalle mani, sfiorando le mie nocche con le dita, per
poi
finire di affettare con mano esperta i miei ortaggi ormai dimezzati.
Bevo un
altro sorso di birra mentre guardo il modo in cui muove le mani, e il
modo in
cui il suo viso si contrae in un’espressione concentrata.
Quando ha
finito, prendo il frutto dei nostri sforzi combinati e lo riverso nella
padella
che sfrigola sul fornello, e mia madre ci dà il permesso per
andarcene.
Posiziono la birra di Marco nelle sue mani con fermezza, e gli faccio
cenno di
seguirmi.
“Tua
madre è veramente simpatica quando non ci prova
con me,” dice, una volta fuori dalla portata delle orecchie
di mia madre in
cucina. Emetto una rumorosa risata nasale e mando giù un
altro sorso di liquido
secco. La comodità del divano mi chiama dal salotto, ma la
voce di Marco mi
blocca a metà strada nel corridoio. “Oh—
Jean, questo sei tu?”
Mi
giro e, con grande orrore, lo vedo intento a
guardare alcune delle foto di famiglia appese sui muri.
“No,”
rispondo automaticamente, nonostante quello
nelle foto sia ovviamente io. Ce n’è una
particolarmente attraente che ritrae
me, un bambino cicciottello di tre anni, seduto sulle ginocchia di mio
padre al
mio compleanno. Ho chiesto a mia madre di toglierla molte volte, ma
trova
sempre una scusa per tenerla. (Potrei pensare a un
centinaio di scuse diverse per cui non la vorrei
lì, credetemi.)
“Cioè, sì, sono io,
ma smettila di
guardare quelle cazzate, Marco. Andiamo.”
“Non
pensavo che i tuoi capelli fossero naturalmente
così,” ride, mentre io mi avvicino a lui, che
indica la mia piccola faccia
grassottella. “Eri così carino da bambino,
Jean.”
…
“Stai
dicendo che adesso
non sono carino?”
Mi
pento delle mie parole nel minuto esatto in cui
escono dalla mia bocca.
Jean,
ti sei appena
reso palesemente gay. I ragazzi etero non fanno domande del genere.
Complimenti.
“…
Non con la faccia che stai facendo adesso, così non
sei carino.” A quanto pare, il mio cipiglio basta a
trattenere il rossore che
sento arrampicarsi sulla mia nuca.
Marco,
d’altro canto, sembra abbastanza in imbarazzo
per entrambi. Riesco letteralmente a sentire il rumore
dell’aria che inspira
immediatamente quando realizza che forse avrebbe potuto pensare un
po’ meglio
alla sua risposta.
Non
adesso, ma…
“Uh
io… quello che intendevo è –”
“T-tranquillo,
ho capito cosa intendevi,” balbetto io,
dandogli le spalle. “Nessun problema. No homo. Dai.”
Sembra
esitante a seguirmi in salotto, percorrendo i
miei stessi passi dietro di me, fino a quando non collasso sul divano,
stendendo le gambe sui cuscini bianchi. Marco si siede sul divano ai
miei
piedi, stringendo le mani tra le ginocchia. Non si appoggia allo
schienale,
dunque gli do un calcio nella coscia doverosamente.
“E
smettila,” sorrido. Sembra rilassarsi nel vedere il
mio sorriso.
Con
qualche altro calcio nel fianco riesco a farlo
iniziare a parlare; mi chiede come sta andando lo studio, come mi sento
riguardo ai vari esami, tutta roba noiosa di questo tipo. Unisce e
separa
nuovamente le mani più volte, e a un certo punto smetto di
ascoltare quello che
sta dicendo, ma rimango semplicemente a guardare il modo in cui
irrigidisce le
dita e si strofina la pelle sulle nocche con troppa forza.
“Perché
sei nervoso?”
“Io,
uh… sono nervoso?” domanda con aria innocente. La
mia bocca si stringe in una linea sottile, e mi sollevo in una
posizione
seduta, usando la spalliera del divano per fare leva. Avvolgo le
braccia
attorno alle mie ginocchia e mi sposto più avanti, un
po’ più vicino a lui.
“È
ovvio. Ti stai torturando le mani come un matto.
Cos’è successo?”
“No,
è solo –” Fa una pausa quando incontra i
miei
occhi, atteggiati nel cipiglio più duro che riesco a
formare. “Mi stavo solo
chiedendo, ecco, perché…”
“Perché
cosa?”
“…
Perché mi hai invitato?”
Mi
chiedo da dove gli sia venuta questa domanda,
perché era così sicuro di sé e
perfettamente a suo agio a prendermi in giro
bonariamente di là, in cucina. Ho detto qualcosa di strano?
Ho detto qualcosa
che gli ha fatto dubitare del perché io…
Il
filo dei miei pensieri gira e rigira intorno alla
domanda fondamentale: perché,
difatti? E non posso dire semplicemente: già, mio padre ha
deciso di andare
fuori città per scoparsi
delle puttane,
e a noi serviva qualcuno che ci aiutasse a mangiare tutto il cibo in
casa.
Anche se fosse vero (e, sì, credo che almeno in parte lo
sia), qualcosa dentro
di me mi sta dicendo che non è l’unica ragione.
“Non
saprei,” alzo le spalle, passandomi una mano tra
i capelli sulla nuca, sentendo i capelli corti e scuri che mi
punzecchiano la
mano. “Ho solo pensato che potesse farti piacere.
Perché me lo chiedi?”
Sicuramente
non è perché voglio passare del tempo con
te o qualcosa del genere. Non è che sono così
patetico che, non appena qualcuno mostra un vago interesse nei miei
confronti,
mi attacco a questa persona e faccio di tutto per attirare la sua
attenzione…
nooooo, per niente.
(Già,
quindi questo è il risultato degli ultimi dodici
mesi. Scusa, Marco. Pare che tu sia bloccato qui con me, ormai.)
Marco
sospira, e appoggia la schiena alla spalliera
del divano, affondando nei cuscini e abbassando le spalle. Si rigira i
pollici
in grembo, immerso nei suoi pensieri.
“No,
niente,” dice, con voce delicata. “Grazie, Jean.
È un buon pretesto per allontanare un po’ la mente
da… altre cose.”
Mi
avvicino ancora un po’, incastrando le dita dei
piedi sotto le sue gambe; un’espressione sorpresa gli
attraversa il volto, ma
non si allontana da me.
“Altre
cose?” Non c’è dubbio sul fatto che stia
alludendo a quello a cui pensava al belvedere. Proprio come allora, mi
sembra
di sentire come se le parole che mi vuole dire siano lì,
sulla punta della sua
lingua. Ma nessuno di noi ha l’occasione di parlare.
“Jean!
Marco! La cena è pronta!”
Mia
mamma è diventata veramente brava a interrompere
momenti importanti in questo modo, proprio quando penso che stia per
dirmi
qualcosa su di lui. Brava, mamma. Continua così.
Una delle cose che mi piacciono di più di Marco, ho deciso,
è il fatto che non
lo devo controllare al cento per cento quando è a casa mia.
Sa come parlare con
mia madre senza farmi vergognare così tanto da farmi
prendere fuoco
spontaneamente per l’imbarazzo, sorride quando
c’è da sorridere, ride
educatamente, non si riempie il piatto
fino a farlo diventare una piccola montagna quando ceniamo
(sì, Sash, mi
riferisco a te).
Seduto
di fronte a lui, mi ritrovo immerso ad ammirare
il modo in cui tiene in mano le posate, il modo in cui posa il
bicchiere sul
tavolo dopo aver bevuto senza che esso emetta alcun suono, e il modo in
cui non
dondola sulla sedia, al contrario di come faccio io. Mi raddrizzo un
po’,
cercando di imitare la sua postura, ma sembra solo che mi stia
sforzando
troppo.
Wow,
se mamma volesse
un figlio perfetto… fa queste cose come se fosse nato
apposta per essere così
bravo.
Sono
attratto nuovamente dalla conversazione quando
mia madre chiede qualcosa della vita personale di Marco.
“Niente
supera il cibo fatto in casa, non credi?”
mamma ride timidamente, posando il mento nei palmi delle mani e
sbattendo le
ciglia in direzione del povero Lentiggini; a quanto pare lui aveva
appena fatto
l’errore da principiante di complimentarsi sinceramente per
la sua cucina. “Tu
di solito cucini, a casa?”
“Sì,
quando posso,” risponde, piegando la testa da un
lato come un cucciolo. Smettila di
sembrare così tenero, gigantesco idiota che non sei altro.
“Di solito
cucino la cena per me e mia sorella, perché mia madre spesso
lavora fino a
tardi.”
“Oh,
che cosa incantevole,” cinguetta mia madre, “Amo
gli uomini che sanno cucinare. È una qualità
così affascinante.”
“Mamma,
ti fermo qui,” la interrompo rapidamente,
indicandola con la mia forchetta. “Prima che possa
imbarazzare te stessa. E me.”
“Forse
se mi aiutassi a cucinare una volta ogni tanto,
Jean, ti elogerei allo stesso modo,” ribatte lei, e okay,
sì, ho colto appieno
la scaltrezza con cui ha rigirato la frittata, devo concederglielo.
Torna
immediatamente a prestare la sua attenzione a Marco.
“Potrebbe imparare un paio
di cosette da te, Marco. Jean dovrebbe
farti venire più spesso.”
…
“…M-mamma!
Non puoi dire cose del genere!” E
soprattutto non con un’espressione
impassibile, Dio mio!
Lei
mi guarda, completamente confusa, per qualche
secondo, mentre io guardo Marco nel momento esatto in cui capisce il
doppio
senso e si tinge di una tonalità brillante di rosso scuro.
Sembra che abbia
appena visto un gatto messo sotto da una macchina o qualcosa di simile.
“Oh…
oh, Jean! Ma che hai capito, per l’amor del
cielo! Vedi con cosa devo avere a che fare, Marco? Pensavo di averlo
cresciuto
come un bel signorino a modo.”
Marco
si limita ad annuire, guardando il suo piatto vuoto con una tale
intensità che
potrebbe forarlo, evitando di guardare qualsiasi cosa che non sia il
nostro
servizio di porcellana, che non è neanche tanto lussuoso. Mi
rigiro la lingua
nella guancia e trattengo un sorriso, tirandogli un calcio secco sotto
al
tavolo.
Lo
sguardo che mi rivolge mordendosi il labbro sembra
urlare: per favore, cambia subito
argomento!
Alla
fine mi ritrovo a raccontare la storia di quella
volta della settimana scorsa in cui Ymir ha sfidato Connie
costringendolo a
flirtare con una delle cameriere della mensa; lo sguardo imbronciato di
mia
madre mi ricorda che non è un argomento di conversazione
abbastanza sofisticato
da affrontare durante una cena, ma Marco pende dalle mie labbra e,
quando
arrivo alla parte in cui vediamo Connie saltare da un tavolo della
mensa
all’altro con la suddetta cameriera infuriata - armata di
vassoio di plastica –
alle calcagna, anche mia madre sta sorridendo, ed emette addirittura
una
risatina quando le racconto del ritorno di Connie nell’ora
successiva, dopo
essere stato picchiato molteplici volte in testa con quel vassoio.
Aveva dei
lividi impressionanti.
Se
papà fosse stato qui, non avrei mai raccontato una
storia come questa. Non perché avrebbe dato di matto o cose
così. È solo che…
ecco, non so dire esattamente il motivo. Forse perché mi
avrebbe semplicemente
interrotto a metà del racconto con una delle cazzate che mi
vomita addosso
solitamente. O forse perché mia madre non avrebbe sorriso
come sta facendo
adesso, ma avrebbe solo annuito educatamente. O semplicemente
perché non me la
sento di condividere queste cose con quell’uomo.
Credo che non meriti di sentirle.
“A
volte mi chiedo come faccia a studiare qualcosa in
tutto ciò, Jean,” sospira mia madre, alzando gli
occhi al cielo con aria
teatrale. Non riesco a trattenere il sorriso sghembo che ho stampato in
volto.
“Bene, allora. Chi mi fa la gentilezza di lavare i piatti? Ho
appena fatto la
manicure e non mi va di rovinarla così presto.”
“Non
si preoccupi, signora Kirschtein, sicuramente io
e Jean lo faremo senza problemi. Ha cucinato una cena
splendida.”
Marco
aiuta mia madre a raccogliere piatti e
bicchieri, per poi seguirla nella cucina. A metà della sala
da pranzo si guarda
dietro le spalle, notando che io sono ancora seduto al mio posto, con
il
cervello apparentemente spento.
“Non
vieni, Jean?”
“Oh!
Uh, sì!”
Mi
trascino in cucina dietro di lui, strisciando i
piedi sul pavimento, quando sento il rumore delle posate gettate
nell’acqua del
lavandino. Un gemito-lamento piuttosto patetico abbandona le mie
labbra,
causando un commento da parte di mia madre.
“Non
cucina e non lava neanche i piatti,” dice mamma
con una risata secca, indicando a Marco di lasciare i piatti sporchi
sulla
griglia di scolo del lavabo. “Che figlio pessimo,
eh?”
Il
mio broncio è interrotto dal panno leggermente
umido - ma decisamente disgustoso – che mi viene lanciato in
faccia. Me lo
tolgo di dosso appena possibile, mantenendo lo squallido oggetto
più distante
possibile. Marco ride del mio disgusto.
“Dai
Jean, io lavo, tu asciughi.”
Quando mia madre alla fine lascia la stanza, accompagnata da un
bicchiere
(leggi: bottiglia) di vino, il Marco educato e perfettino se ne va
immediatamente a quel paese. Di solito sono felice del cambiamento, ma
non
questa volta.
Inizia
con uno schizzo d’acqua sul mio avambraccio.
“Cazzo,
no! Fermo!” esclamo, con un balzo
all’indietro. Asciugo frettolosamente l’acqua che
mi è finita sui pantaloni,
rischiando praticamente di bruciarmi la pelle per la foga con cui
strofino.
Marco ridacchia, e prova a schizzarmi di nuovo, ma stavolta
indietreggio e lo
gelo con lo sguardo.
“D-davvero,
no!”
“È
solo acqua, Jean,” mi sorride; per tutta risposta,
mi limito a frustargli il didietro con l’asciugamano che ho
in mano.
“Non
me ne fotte niente! È acqua dei piatti! M-mi fa
troppo schifo!”
Il
mio tentativo di asciugare i piatti è a dir poco
osceno ma, per quanto mi riguarda, quella merda può anche
asciugarsi all’aria
durante la notte. Inizio praticamente a tirare Marco per la maglietta
non
appena chiude il lavandino con un po’ di sforzo, prima che io
lo trascini fuori
dalla sua portata.
“Ancora
non capisco perché non abbiamo usato quella
cazzo di lavastoviglie…” borbotto tra me e me.
Mi
procuro l’Xbox dalla TV nel salotto, nonostante le
lamentele di mia madre perché sono davanti al televisore e
le impedisco di
vedere uno di quei programmi orribili che sta guardando; raggruppo
tutti i cavi
e i controller tra le mie braccia e blocco l’entrata con una
gamba per evitare
che Marco muova un altro passo nella stanza, con il rischio di essere
intrappolato, ovviamente, da mia madre.
“Al
piano di sopra,” indico, superandolo e stringendo
il mio prezioso tesoruccio – intendo
l’Xbox… - più forte possibile. (Ho
avuto
degli incubi in cui la lasciavo cadere sul pavimento di legno del
corridoio,
okay?) “Andiamo, muovi quel culo lentigginoso.”
Uso
la forza bruta per aprire la porta della mia
stanza; Marco non mi è di alcun aiuto mentre mi segue
passivamente, incantato
dalle imbarazzanti foto di famiglia che decorano le pareti del vano
scale. Il
televisore nella mia stanza non è neanche lontanamente
paragonabile al
cinquanta pollici che abbiamo al piano di sotto; è una
scatoletta di merda,
vecchia e impolverata, che possiedo da quando ho memoria (la prendemmo
quando
avevo ancora un videoregistratore), ma fa bene il suo dovere quando
devo
giocare ai videogiochi. (Anche se probabilmente dovrei iniziare a dare
indizi a
mio padre perché me ne compri una nuova ed entri nelle mie
grazie per questa
settimana.)
“Ehi,
vuoi scegliere un po’ di musica?” chiedo a
Marco, alle mie spalle, mentre lui indugia sull’uscio; non so
esattamente
perché, dato che non è neanche la prima volta che
entra nella mia stanza. Mi
incastro dietro al televisore, cercando a tentoni la multi-presa per
collegare
la console, e finisco per scoppiare in un fragoroso starnuto quando la
polvere
inonda le mie narici. Buono a sapersi, la domestica ha fatto proprio un
lavoro
coi fiocchi. “Ci sono un po’ di dischi
là, scegli quello che ti piace di più.”
A
parte l’arte, comportarmi da cinico bastardo e
fumare sigarette sul tetto quando mio padre mi rompe troppo le palle,
un’altra
cosa che mi piace molto è la musica. Parlo di buona musica,
però, mettiamolo in
chiaro. Dead Kennedys, Ramones, i Clash,
Guns ‘n’ Roses… in pratica, se
è rock classico, ce l’ho su vinile. Ecco
un’altra utilità del portafoglio di mio padre.
“Wow,
non ne ho mai visti così tanti,” commenta Marco,
accovacciandosi di fronte allo scaffale pieno di custodie da trenta
centimetri impilate
affianco al mio giradischi. Maneggia l’album con cura
tenendolo dalle
estremità, reggendolo con entrambe le mani come se fosse la
cosa più fragile
del mondo, mentre ammira il disegno sulla copertina. “Sbaglio
o costano
tantissimo?”
“Mh,”
mormoro, mentre la mia mano trova la presa nel
medesimo istante. Mi allontano dalla TV, e guardo il logo bianco e
verde che si
attenua sullo schermo. “Me li compra mio padre. I soldi non
gli mancano.”
Dovrò
pur sfruttarlo
in qualche modo.
“Non…
non conosco la metà di questi gruppi musicali,”
ammette Marco a quel punto, guardandomi con aria impacciata, mentre
regge un
altro LP tra le mani. “Consigliamene uno bello.”
“Sono
tutti
belli,” ribatto, allungandomi per prendere i controller; che
dio benedica la
tecnologia wireless, perché sbrogliare cumuli di cavi mi
faceva andare in
bestia con la 360. “Qual è quello che hai in mano
adesso?”
Marco
regge l’album di fronte a sé e legge
l’unica
parola visibile sulla custodia blu e nera.
“The Eagles…?”
dice, con un tono interrogativo. “Non credo di
conoscerli.”
“Certo
che li conosci,” dico scrollando le spalle con
noncuranza, prima di guardare il suo viso. No, non ne ha proprio idea.
“Cristo
santo, Marco! Vivi sotto una roccia? Tutti conoscono gli Eagles,
dai!” Be’, a quanto pare non proprio tutti.
Striscio
verso di lui e gli strappo il vinile di mano,
facendo scivolare il disco nero fuori dalla custodia; spolvero lo
strato
superficiale di polvere sul giradischi e lo posiziono a dovere.
“Considerala
come una lezione di musica,” dico,
smanettando un po’ con la puntina, finché la
melodia vibrante e familiare della
chitarra acustica di Don Felder non riecheggia nella mia stanza.
“Questa la
conosci sicuramente.”
“Oh,
sì!” La consapevolezza gli illumina il volto
quando il disco inizia a scandagliare le prime parole: on
a dark desert highway…. Gli faccio cenno di
avvicinarsi alla TV
insieme a me. “Uh…
com’è che faceva?
W-welcome to the Hotel California~”
“Vedi,
te l’avevo detto,” sorrido, lasciandogli il
controller che mi piace di meno. (Tutti hanno un controller preferito,
no?)
Questo non fa che peggiorare la confusione sul suo volto coperto di
lentiggini.
“Non…
uh, non so neanche
come si giochi all’Xbox.”
Niente
buona musica, niente videogiochi; non mi
sorprende che la cosa più eccitante a cui potesse pensare
l’altra volta siano
stati i giochi da tavolo con sua sorella. Povero ragazzo. Che infanzia
infelice.
Bene,
Jean, tocca a
te mostrargli cosa si è perso per tutto questo tempo. Questa
è la tua nuova
missione.
A
quanto pare – come del resto tutte le altre cose che
riguardano questo ragazzo – Marco ha un talento naturale per
i videogiochi. Ha
una coordinazione occhio-mano da paura. Combinata anche con la mia
solita
sfortuna e la mia abilità a morire piuttosto spesso, certo.
“È
la fortuna del principiante!” ride timidamente,
dopo la fine del primo match. Gli rivolgo uno sguardo di rimprovero e
seleziono
l’opzione di rivincita, ostinatamente. Non era la fortuna del
principiante. Mi
fa il culo in tutti e sei i round che giochiamo, anche
quando cambio mappa e aggiorno le mie armi.
“Oh,
‘fanculo,” borbotto, lasciandomi cadere sulla
schiena e gettandomi un braccio sul viso in segno di sconfitta.
“Non è giusto.
Non puoi essere bravo in tutto!”
“Non
sono bravo in tutto,” sbuffa scherzosamente,
dandomi persino un colpetto con il gomito. “Forse sei tu che
fai… particolarmente schifo
in questo gioco,
Jean.”
Ehi.
Non c’era
bisogno di farmelo notare.
“Dimmi
che non mi hai appena –” mi allungo per afferrare
uno dei cuscini sul mio letto, per poi lanciarlo sul suo viso. Lo
colpisce
dritto nella mascella con un oomph
soffocato.
Mi
preparo per un contrattacco, ma non arriva; Marco
rimane semplicemente lì seduto a fissare il cuscino come se
fosse un oggetto
alieno volato dal nulla sulla sua faccia. Un accenno di preoccupazione
mi passa
per la mente per tipo un millisecondo, prima di riconoscere quello
scintillio maligno nei suoi occhi
scuri.
Cazzo.
Mi
colpisce sul petto con il cuscino – forte. Faccio
del mio meglio per cercare di difendermi con le mie braccia, ma stare
steso a
terra sicuramente non è
la posizione
ideale da mantenere quando qualcuno dichiara una guerra con i cuscini
contro di
te.
Mentre
mi prende a randellate fino a morte certa,
Marco si trova in mezzo tra un sorriso malvagio e una risata vera e
propria.
“Non
è saggio iniziare una lotta coi cuscini con
qualcuno che ha dei fratelli, Jean!” sta praticamente morendo
dalle risate,
quando fa una pausa, reggendo il cuscino sopra la testa. “Ho
avuto anni per
fare pratica. Sei sicuro di volerlo fare?”
“Okay,
aspetta, aspetta!” sorrido, alzando le mani in
un gesto difensivo. “Devi almeno lasciarmi un’arma
per difendermi.”
Il
lato buono di Marco prende il sopravvento, e lui si
sporge su di me per afferrare l’altro cuscino dal mio letto.
E, a un certo
punto, vorrei tanto che non
l’avesse
fatto.
Vicino.
Molto vicino. Probabilmente troppo vicino.
Ancora una volta, sono
sopraffatto dalla mescolanza stranamente piacevole dell’odore
di cloro e detergente
alla camomilla.
Ho
il suo petto in
faccia! Non dovrei
eccitarmi per una cosa del genere!
Ogni
muscolo del mio corpo si irrigidisce, ed esalo un
respiro molto profondo, molto rumoroso.
“Oh,
scusami! Ti ho pestato le dita o qualcosa del
genere?” scherza con aria innocente, lasciandomi cadere in
grembo il suddetto
cuscino e appoggiandosi nuovamente all’indietro sulle sue
caviglie. Scuoto la
testa, mi contorco per raggiungere una posizione da seduto e avvolgo le
braccia
attorno al cuscino.
Jean,
se ti viene
un’altra erezione, giuro su Dio…
“Ho
bisogno di una sigaretta,” mormoro; Marco,
sentendo il cambiamento d’atmosfera, si sposta un
po’ più in là, abbandonando
il cuscino nello spazio che ormai ci divide. Continuo a stringere il
mio
cuscino anche mentre mi sporgo per raggiungere il cassetto del mio
comodino;
penso proprio che mi sia rimasta qualche sigaretta
nell’ultimo pacchetto.
Non
mi piace fumare dentro la stanza – perché mia
madre se ne accorgerebbe – ma sapete cosa si
dice sulla nicotina, che raffredda la situazione lì sotto. Gli occhioni da
cerbiatto di Marco non mi lasciano per un
secondo.
Sento
il pacchetto di cartoncino sotto le dita e, come
mi aspettavo, ecco le ultime due sigarette. Ne stringo una fra le
labbra e
offro l’altra a Marco, se non altro, per un puro gesto di
cortesia. Non mi
sembra molto il tipo.
“Vuoi?”
domando, mentre la sigaretta che ho in bocca
ondeggia su e giù quando parlo. Il suo sguardo è
sulle mie labbra – no, sulla
sigaretta, e non mi sembra particolarmente contento. Ah.
“Fumi?”
chiede in tono esitante, mentre ripongo la
sigaretta che ha rifiutato dietro il mio orecchio, per tenerla al
sicuro.
Solo
quando sono
stressato. O quando sto per dare di matto.
Ma non lo dico, perché non voglio affrontare
l’argomento. Mi limito ad alzare
le spalle con l’aria più indifferente che riesco a
falsare.
“Sì,
sai, una volta ogni tanto. Tu no?”
“No,”
risponde lentamente, avvicinando le
sopracciglia; e non riesce ancora a staccare lo sguardo dal rotolo
bianco di
tabacco che giace tra le mie labbra. Lo sta praticamente gelando con lo
sguardo. “… Volevo diventare un dottore,
ricordi?”
“Oh,
merda, già. Scusami.” Ah,
cazzo, quanto vorrei accenderla, però.
“Ti giuro che provo a
smettere di continuo. Credo sia una sorta di vizio proibito.”
Mi
sbrigo a rimettere entrambe le sigarette – e
l’accendino che tenevo nella tasca posteriore – sul
mio comodino. Più tardi,
penso.
Marco rimane nei paraggi più o meno fino alle nove, e se ne
va solo perché riceve
un messaggio di sua madre, che gli chiede quando tornerà a
casa (ricordandogli
che dovrà accompagnare sua sorella a scuola domattina). Non
mi piace la
sensazione che cresce in me, che mi ricorda che questo significa
tornare al
temuto ripasso per gli esami, poiché non avrò
più nessuno che mi possa
distrarre facendomi il culo all’Xbox o insultando
(involontariamente) la mia
collezione di musica.
Lo
accompagno alla porta sul retro, tenendo le mani in
tasca mentre superiamo in silenzio il rumore del programma che mia
madre sta
guardando in TV. Si rimette le scarpe, per poi tornare a guardarmi.
Sembra che
stia riordinando le parole che ha intenzione di dirmi, e mi sento come
se
potessi vedere gli ingranaggi girare nella sua mente. Decido di
batterlo sul tempo.
“Grazie
per essere venuto. È stato divertente.”
Il
suo volto si allarga in un sorriso – quel perfetto
sorriso da Marco.
“Grazie
a te per avermi invitato,” dice. La sua voce è
bassa, ma non perché è turbato, o triste, o
deluso, o qualcosa del genere. È più
per mantenere una certa…
intimità.
(Per quanto questa frase sembri decisamente non-etero.)
“Mi sono proprio divertito. Dovremmo rifarlo qualche
volta.”
“Sai che cos’ho scaricato ieri sera?”
“Cosa?”
“L’album
degli Eagles.”
Gli
rivolgo un sorriso sghembo, sentendo un’aria di
compiacimento trasudare da tutti i miei pori. Be’, convincere
Marco a giurare
fedeltà alla buona musica è stato un compito
relativamente facile. Missione
completata.
C’è
solo un modo per descrivere la giornata di oggi.
Fa un caldo del cazzo.
Non
che i cazzi siano caldi. È un modo di dire. Avete
capito.
Vabbè.
Mi sto praticamente sciogliendo nel sudore,
nonostante abbia arrotolato i jeans fino alle ginocchia (forse dovrei
tagliare
la testa al toro e comprare dei pantaloncini corti, cazzo), e ho scelto
di
indossare una delle poche canottiere che possiedo per far fronte alle
ondate di
afa. Se morirò per un’insolazione, sono contento
di sapere che me ne andrò con
l’aspetto di un completo idiota.
“Te
l’avevo detto che era bello,” gli dico
allegramente, indicandolo con l’estremità
mordicchiata della mia penna, mentre
spingo il libro giù dalle mie gambe per depositarlo sul
cemento rovente dei
gradini del capanno della piscina. “E pensare che hai
addirittura dubitato dei
miei gusti musicali. Cosa faresti senza di me, eh?”
Si
inumidisce le labbra e piega la testa da un lato
con aria di sfida, come se si stesse aspettando che gli spieghi quanto sarebbe miserabile, difatti, la sua
vita senza di me.
“Be’,
ascolteresti ancora quelle cazzate emo,” gli
spiego. “Per caso sei rimasto al duemilaotto o qualcosa del
genere?”
Appoggia
il retino sul lato della piscina,
assicurandosi che non scivoli nell’acqua, e si volta fino a
trovarsi di fronte
a me, con le mani sui fianchi. Inarca un sopracciglio.
“Sento
dell’ostilità nei confronti dei My
Chemical Romance, Jean.”
“Oh,
sì. Fanno cagare.” Mi passo la lingua sui denti
mentre Marco muove qualche passo verso di me, contagiandomi con il suo
sorriso.
Mi afferra per il polso e, per qualche ragione, lo assecondo, lasciando
che mi
alzi in piedi. Sembra irradiare calore, ma quel tipo di calore che mi
piace,
non il calore schifoso e appiccicaticcio come quello a cui il tempo ci
ha
spietatamente sottoposti ultimamente.
Cosa
sta…?
Non
molla la presa, le sue dita sono ben strette, e i
suoi palmi leggermente tiepidi e sudati. I suoi denti sono accecanti,
cazzo.
“Hmm,
penso che ti pentirai di averlo detto,” mormora
– e forse avrei dovuto cogliere il suo tono malizioso
– ma sono ancora così
accecato dal suo sorriso, così concentrato sulla sua presa
sul mio avambraccio
mentre mi conduce un po’ più avanti…
“Nessuno insulta i My Chemical
Romance davanti a me e rimane in vita per poterlo
raccontare, Jean.” Improvvisamente, sembra piuttosto
diabolico.
“Be’,
almeno potrò – ehi, Marco, aspetta, cosa stai
–”
Capisco
rapidamente cosa sta facendo. Mi sta spingendo
verso la piscina. Si sta vendicando per l’altra settimana.
No.
Merda.
“Ehi,
Marco, aspetta un attimo –”
Per
tutta risposta emette una risata; ma non è musica
per le mie orecchie, questa volta. Non lo è affatto.
È come una scarica
elettrica nel mio sistema nervoso e no, cazzo, non voglio finire in
piscina.
Per favore. No.
“Te
l’avevo detto che non l’avresti passata liscia!
Ora farai un bel tuffo, che ti piaccia o no, Jean!”
Il
cemento del bordo piscina è bollente sotto ai miei
piedi nudi.
“Aspetta
solo un –”
“Prendo
molto sul serio le minacce contro i My
Chemical Romance, credimi!”
Allenta
la presa, soltanto per un istante. Le sue mani
sono sulla mia schiena.
No.
Ti prego!
“Marco,
aspetta!”
Cazzo.
No. Non posso!
Ho paura d-
Mi
dà una spinta decisa. E cado di testa nell’acqua.
Mi
riempie i polmoni quando provo a respirare.
Superficie,
superficie.
Dov’è la superficie? Altra acqua mi opprime, mi
brucia gli occhi, mi soffoca.
Sto affogando. Non riesco a respirare. Dov’è la
superficie?
Nell’acqua
c’è solo silenzio. Un grande, pesantissimo
silenzio, e io vorrei gridare, vorrei dimenarmi, ho
bisogno di uscire fuori da qui.
Non
riesco a respirare. Non respiro. Finirò
per annegare.
Trovo
la superficie, e mi agito, grido, urlo parole
ingarbugliate e senza senso, dimenandomi per cercare il bordo.
Dov’è il bordo?
Dov’è? Ho bisogno di uscire. Adesso. Per favore. Non riesco a respirare.
Non
respiro.
Da
qualche parte, in lontananza, le urla di Marco
sciolgono momentaneamente il panico ma, altrettanto rapidamente, quel
suono
sembra scomparire, e tutto ciò che riesco a sentire
è il fruscio del rumore
bianco. Un rumore bianco che urla e crepita da tutte le parti, e allo
stesso
tempo è di un silenzio assordante. Ho caldo, e allo stesso
tempo ho freddo.
Freddo, freddo. Eppure sento la
gola
bruciare.
Nella
mia mente, nell’acqua che mi circonda, tutto ciò
che riesco a distinguere è l’espressione beffarda
di Eren, e le sue parole di quella
volta:
Come
fai ad avere
paura dell’acqua, Jean?
Note
dell’autrice:
Scusate
se ci ho messo tanto per un capito così
insipido .... Sono stata impegnata a studiare per gli esami, e ho avuto
una
specie di blocco dello scrittore. (A quanto pare è troppo
difficile per me
scrivere scene felici!)
Detto
questo, non sono soddisfatta al 100% con la
scena finale ..... mi sembra poco armoniosa. Ma il seguito
sarà molto meglio.
Non vedo l’ora di bloccarmi in quello che accadrà
nel prossimo capitolo.
Le
cose inizieranno a procedere più rapidamente d’ora
in
avanti, adesso che ho raggiunto il primo punto importante della trama
(finalmente!!) – anche perché l’amicizia
di Jean e Marco sembra essere
diventata abbastanza salda adesso. Sarà divertente (e
prometto ancora Erwin in
slip da bagno ok).
È
piuttosto imbarazzante vedere come io sia
praticamente uguale a Jean in questa storia. (Ma almeno così
mi è più facile
calibrare le sue reazioni agli eventi!)
Devo
ringraziare pubblicamente per le cinque (?) fan
art che ho ricevuto dall’ultimo capitolo! Quando sono andata
a casa di una mia
amica per guardare l’Eurovision l’altra settimana
ne ho trovata un’altra, e
giuro che l’ho terrorizzata per quanto mi sono messa a
squittire e a piangere.
(Sì, piangere .....)
Oh,
a proposito, non so se avete trovato il
riferimento all’Eurovision! Mi è piaciuta un sacco
la canzone francese .....
come ha fatto a prendere solo 2 punti?!
Per
favore continuate a commentare!! Apprezzo
tantissimo i vostri commenti (e mi aiutano veramente tanto a rifinire i
toni e
l’andamento della storia al meglio) ~~
Note
della traduttrice:
Scusate
per eventuali errori, lo sto postando senza ricontrollarlo
perché in questi giorni non so se avrò occasione
di connettermi per caricarlo e
non volevo farvi aspettare troppo dato che ormai avevo finito di
tradurre! E
poi vorrei cercare di aggiornare con una cadenza un po’
più regolare. Rileggerò
e correggerò a dovere appena possibile, intanto se ci sono
errori siete
liberissimi di farmeli notare, ve ne sarei grata ~
Ah,
riguardo le note dell’autrice: quando parla delle
canzoni Eurovision etc. si riferisce all’anno scorso (ovvero
quando ha
pubblicato questo capitolo in lingua originale)!
Non
vedo l’ora di passare al prossimo capitolo. A
presto!
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Capitolo 8 *** Rumours ***
Chapter
8:
Rumours
Mi
è consentito essere triste. Mi è consentito
piangere per le piccole cose. Sono
perfettamente cosciente del fatto che alcune persone hanno dei problemi
e,
probabilmente, stanno molto peggio di me. Non fatemelo presente quando
sono triste.
I
miei sentimenti sono validi. Io posso
lamentarmi.
Come
fai ad avere paura dell’acqua, Jean?
Ecco
il volto di Eren. Si distende in ogni angolo della mia mente, riesco a
vederlo
fluttuare nell’acqua che mi circonda, o galleggiare da
qualche parte sulla
superficie che ho di fronte, o calpestare l’acqua dietro di
me, mentre le sue
mani premono sulle mie spalle, spingendomi sul
fondo. L’espressione che sfoggiava,
un’espressione di scherno, una specie
ghigno, non so cosa fosse. Ma posso vederla
in questo momento.
Ci
sto rinunciando. Riesco a sentirlo: il flagello
dell’oscurità che si distende
lungo le mie braccia, che si avvolge attorno alle mie dita. Non sento
niente.
Cazzo.
Le
mie mani si fanno
strada nell’acqua, ma
non trovano nulla da afferrare; improvvisamente la sento
così densa, come
l’olio, come il sangue, come qualcosa di orribile e schifoso
che mi scivola in
gola e si riversa nei miei polmoni.
Ansimo
in cerca d’aria, e il respiro che alla fine riesco
a tirare non fa che farmi tossire, poiché inalo soltanto due
litri d’acqua. Il
cloro mi brucia gli occhi e offusca la mia visuale; non che ci sia
molto da
vedere, in ogni caso. Solo acqua. Tantissima acqua, cazzo.
Non
riesco a emettere alcun suono. Sento i rumori formarsi nel mio petto,
ma
l’acqua non fa che spingerli verso il basso, affogandoli nei
miei polmoni. Un
rantolo acquoso esplode dalla mia bocca, mentre provo a scalciare
più forte con
le gambe per mantenere la testa sopra la superficie. Posso sentire le
mie
ginocchia e i miei fianchi bloccarsi mentre il mio corpo si paralizza.
In
quel momento, dimenando la mia mano, incontro una crepa sul cemento
caldo: il
bordo! Grazie al cielo, cazzo!
Le
mie dita si stringono attorno alla superficie ruvida, e non ho mai
desiderato
così tanto che il cemento mi lacerasse i polpastrelli. Mi
trascino sui mattoni
cotti dal sole ed è in quel momento che sento un rantolo
tremolante sgorgare
dal mio petto. Continuo ad avanzare, affondando le dita
nell’erba oltre il
bordo, mentre la terra si accumula sotto le mie unghie, e mi spingo
più avanti,
con un unico pensiero in testa: uscire fuori dall’acqua.
I
miei jeans sono diventati così pesanti che non posso far
altro che dimenarmi
strisciando sul prato come un pesce fuor d’acqua, il che, in
fin dei conti, è
quello che sono.
Il
mio battito cardiaco mi rimbomba nelle orecchie insieme al mio respiro
affaticato, e l’intorpidimento dei miei arti si sta
trasformando in formicolio,
in dolore pulsante, e poi in tremore, come se una scarica elettrica da
mille
volt fosse stata sparata nel mio corpo attraverso le dita delle mani e
dei
piedi.
Premo
il volto sull’erba, inalando l’odore di terra,
chiudendo gli occhi, pregando
che tutto questo finisca e basta.
Concentrati
sul tuo respiro. Concentrati. Devi respirare.
Non
riesco a respirare.
La
pressione che sento sul petto è accecante, riesco a vedere
le stelle dietro
alle mie palpebre chiuse. È devastante. La maglietta mi
sembra stretta attorno
al collo. Ho un nodo in gola che non riesco a mandare giù.
Cazzo.
Aiuto.
Non
riesco—
Provo
a sollevarmi, ma riesco a stento a percorrere una ventina di centimetri
sull’erba prima di abbandonare le braccia sotto al peso del
mio corpo,
affondando nuovamente il viso nella terra con un piagnucolio flebile e
soffocato.
Da
qualche parte dietro allo sciabordio che sento nelle orecchie e le
palpitazioni
che mi rimbombano nel cranio, sento il suono smorzato del mio nome.
“Jean…!”
La
pressione sulle mie spalle è improvvisamente così
calda, così reale, mentre
vengo sollevato di peso.
Ah,
Marco …
La
sua faccia è proprio di fronte alla mia, mentre mi mantiene
con le braccia
tese, scuotendomi le spalle con veemenza. Sta andando fuori di testa.
Ma ancora
non riesco a sentirlo molto bene. È come se stesse urlando
attraverso metri e
metri di acqua profonda.
Mi
sento distaccato. In una maniera quasi surreale. È come se
stessi guardando
tutti questi avvenimenti dall’alto. Solo che non è
così. Gli occhi di Marco
sono indiscutibilmente qui, di fronte ai miei.
Lentamente,
abbasso lo sguardo per guardarmi le mani, che giacciono fiaccamente
sulle mie
cosce, e ne sollevo una verso il mio volto. Dio solo sa quanto sto
tremando.
Tutto sta fremendo, quasi vibrando, come se mi stessero sottoponendo a
una
scarica elettrica o qualcosa del genere. Non riesco neanche a sentire questo tremore. Va tutto oltre
al mio controllo. Non riesco a fermarlo.
Continuo
a fissare il mio palmo, come se fosse la cosa più strana che
avessi mai visto,
cazzo!, fino a quando la mano lentigginosa di Marco si avvolge attorno
al mio
polso e mi rimette braccio al suo posto.
“Jean,
guardami! Va tutto bene?!”
Apro
la bocca, ma il nodo è ancora lì. Non riesco a
parlare, non riesco a respirare.
Le
sue mani sono ancora sulle mie spalle, e gliene sono grato,
perché è l’unica
cosa che mi tiene ancorato alla realtà. Riesco a sentirlo
tremare a sua volta,
e la cosa mi tranquillizza. È qui, senza ombra di dubbio.
“Jean,
ascoltami.” Prova a stabilizzare la sua voce, ma
anch’essa è scossa dallo stesso
tremore. “Jean, stai avendo un attacco
di
panico. Devi fare esattamente quello che ti dico,
okay?”
Il
rumore che riesce a farsi strada su per la mia gola è un
verso soffocato e
gutturale, e mi permette di ansimare di nuovo in cerca di aria.
È come se avessi
espulso tutta l’acqua che avevo in corpo in un colpo solo. E
improvvisamente
riesco a percepire tutto.
Qualcosa
nel mio stomaco continua a saltare e rigirarsi e capovolgersi, e a
tirarmi
pugni nelle budella come se fossi un fottutissimo sacco da boxe.
È la stessa
sensazione che mi soffoca i polmoni e mi stringe il cuore, e io non
faccio che
sudare.
“Non
… Non riesco a respirare …!”
Non
sembra nemmeno la mia voce. Sembro un gatto strangolato. Ma scatena il
panico
negli occhi di Marco. Avvolgo le mani attorno alla pancia e mi
inginocchio,
accovacciandomi su me stesso. Se stringo abbastanza, forse—
“Jean,
Jean, devi sederti per bene,” la sua voce tuona nelle mie
orecchie, in un tono
improvvisamente troppo forte. Troppo
forte. Sento il bisogno impellente di farmi piccolo piccolo.
“Siediti
dritto, Jean, fallo per me – devi aprire le vie respiratorie.
Stai avendo uno
shock.”
Deve
fare leva per allontanare le mie braccia dal mio corpo con la forza
affinché io
possa fare come mi ha detto, ma alla fine riesce a sistemarmi
manualmente in
una posizione migliore, stringendo le mie mani unite sulla mia testa.
Avvinghio
volentieri le dita attorno alle ciocche umide dei miei capelli, e provo
a
concentrarmi sul dolore che provoco tirando con forza le radici.
L’aria
mi riempie i polmoni con più facilità.
L’accolgo avidamente, mentre l’afflusso
improvviso di ossigeno mi fa girare la testa.
Marco
è di fronte a me, con gli occhi sbarrati; è
praticamente seduto sulle mie
gambe, con la maglietta incollata alla pelle nel punto in cui mi ha
toccato per
sollevarmi, facendo sì che l’acqua penetrasse
nella trama della stoffa azzurra.
Voglio stare più vicino a lui. Voglio sentire di nuovo le
sue mani sulle mie
spalle. Ma, allo stesso tempo, voglio scappare più lontano
possibile.
Sto
ancora tremando, ma credo stia scemando. I brividi di freddo che mi
corrono
lungo la schiena, tuttavia, non accennano ad andarsene. Fanno quasi
male.
“Jean?”
mi domanda con esitazione. “Jean, tutto bene?”
Ogni
mio respiro è tremolante. Provo a concentrarmi su questo:
dentro, fori, dentro,
fuori. Respira. Riesco a sentire il panico che riaffiora. Dai, respira. Concentrati.
“Jean,
mi dispiace tantissimo.”
Eccolo
qui. Mi viene da piangere. Vorrei mettermi a singhiozzare,
accovacciarmi e
scomparire nel terreno.
Chi
è che ha paura dell’acqua? Quale ragazzo di
diciannove anni dà di matto come—
È
patetico. Io sono patetico. E Marco …
“Scusami
tanto, avrei dovuto capirlo quando— oh
Dio, sono proprio un idiota.”
Voglio
che stia zitto. Adesso. Ma non riesco ancora a trovare la mia voce.
Riesco solo
a rabbrividire quando inizia a scusarsi sentitamente, cercando di
confortarmi
sfiorandomi le braccia e le spalle, mentre le sue mani si agitano per
tutto il
tempo.
Smettila
di scusarti. Ti prego. Per favore, questa è tutta
colpa—
“J-Jean,
stai tremando in una maniera assurda.”
Oh.
È vero. Tuttavia, è come se la mia testa stesse
andando a fuoco. Bruciando.
Vampate bollenti di sudore incombono sulla mia nuca a ondate.
“Devi
cambiarti quei vestiti, Jean. L-lascia che ti aiuti a entrare in
casa.”
Le
prime parole che riescono a uscire dalla mia bocca suonano fredde come
i
brividi che mi scuotono.
“Posso
farcela da solo.”
La
sua espressione è terribile. Fa veramente male, cazzo.
Sembra come se stesse
dicendo: oh Dio, stavolta ho veramente
mandato tutto a puttane.
No,
non è colpa tua. Sono io
che ho
mandato tutto a puttane, idiota. Sono patetico. Sono inutile.
Trovo
nelle mie gambe una forza che non avrei dovuto cercare – i
brividi che mi
squarciano i muscoli mi fanno temere di poter crollare da un momento
all’altro.
Ma riesco a stare in piedi. A stento.
Barcollo
sul prato, stringendo la stoffa bagnata dei jeans in un pugno,
praticamente
trascinando la mia gamba più avanti a ogni passo che provo a
muovere.
Non
cadere. Non farlo. Devi camminare. Concentrati.
Nonostante
ciò, non so esattamente come riesca a entrare in casa, o
come faccia a salire
le scale che portano alla mia stanza. Eppure eccomi qui, in piedi con
la testa
poggiata sulla porta, le mani strette in due pugni serrati lungo i
fianchi, mentre
il mio corpo trema da capo a piedi.
Ed
ecco che scoppio a piangere.
Digrigno
i denti per cercare di fermare quel pianto umiliante, ma arriva lo
stesso, si
fa strada tra i miei denti serrati sotto forma di singhiozzi distinti.
Sbatto
la testa sulle venature del legno ancora e ancora.
Smettila!
Basta, cazzo!
Prego
di sentire il rumore dei passi sulle scale, di sentire le dita di Marco
piegarsi nuovamente attorno alle mie spalle. Ma non accade. Non mi
segue dentro
casa per consolarmi, per dirmi che è normale dare di matto a
quel modo quando
si ha paura, e che il mio comportamento infantile del cazzo
è giustificato.
Merda. Non è per niente giustificato,
cazzo.
Ovviamente
lo sa. Ovviamente io lo so.
Debole.
Patetico. Inutile.
Mi
spoglio dei miei vestiti in uno stato di torpore. Il tremore si placa,
ma non
c’è niente che lo sostituisca. Niente.
Mi
sfilo la maglietta come se fosse una seconda pelle, e la getto nel
cesto della
biancheria. Non fa centro, atterrando invece su una pila di abiti
stropicciati
sul pavimento. Lancio i jeans nella stessa direzione, insieme ai miei
boxer.
Avanzo lentamente verso il mio letto e mi avvolgo completamente nelle
coperte;
mi rifugio nella stoffa, strofinando il naso nell’odore della
biancheria sporca.
Inspiro profondamente. Ho bisogno di togliermi dalla testa
l’odore del cloro.
La sensazione dell’acqua che mi avvolge braccia e gambe. Lo
sciabordio
dell’acqua che sento ancora nelle orecchie.
Al
solo pensiero, il cuore mi batte all’impazzata nel petto.
Faccio del mio meglio
per fare respiri profondi e regolari. Con risultati piuttosto scarsi.
Le
ore passano lentamente, suppongo, ma io non mi muovo. Non credo di
avere
abbastanza energia per scendere dal letto. Rimango fedele al mio
giaciglio di
piume. Mi sento al sicuro. Protetto.
Non
so dire se Marco sia ancora laggiù, se stia aspettando che
torni, ma lui non
viene a cercarmi. Sento un vago accenno di una strana speranza quando
il
pavimento del pianerottolo scricchiola, ma non è lui a
bussare con decisione
sulla mia porta. È mia mamma.
Emetto
un grugnito sonoro, e lei fa capolino dalla porta.
“Jean,
tesoro?” La sua voce sembra esitante. “Ti sto
chiamando per la cena da dieci
minuti. Va tutto bene, amore?”
No,
mamma. Per niente.
Non
menziona Marco. Credo che se ne sia andato. Non gliene faccio una
colpa. È la
stessa cosa che è successa l’ultima volta che ho
dato di matto in questo modo,
dopotutto. Con la
differenza che quella
volta c’erano più persone.
Lascio
uscire dalla mia montagna di coperte un altro lamento turbato. I suoi
tacchi
schioccano sul pavimento, e sento un lato del materasso abbassarsi
quando si
siede al mio fianco. Faccio uno sforzo per tirare fuori almeno la testa
dalla
sicurezza del mio fortino. Fisso il suo volto con occhi appannati, e
lei si
acciglia.
“Hai
un aspetto terribile,” ammette.
Grazie,
mamma. Dimmi qualcosa che non so.
“Mi
sento di merda,” mormoro. Lei preme un palmo sulla mia
fronte, e vedo
addirittura una ruga di espressione formarsi sulla sua fronte piena di
Botox.
Incredibile.
“Scotti,
Jean. Non dovresti stare avvolto nelle coperte a quel modo con questo
caldo. Se
hai la febbre devi rinfrescarti. Vuoi fare un bagno
nell’acqua fredda?”
Probabilmente
è la cosa peggiore che potesse suggerire. Emetto un lieve
lamento, e provo a
calciare via le coperte. Sembrano solo attorcigliarsi attorno alle mie
caviglie, quindi mamma mi dà una mano.
“Ti
metto da parte qualcosa per cena, okay, tesoro? Chiudi gli occhi e
cerca solo
di riposarti un po’. Non vorrai certo ammalarti proprio
adesso che hai gli esami.”
Ah
già, certo. È quella la prerogativa. Credo
proprio di voler piangere.
Quando
chiudo gli occhi, c’è solo Eren. Ricordo la
sensazione del suo pugno nella mia
maglietta – o forse era il mio
pugno
nella sua maglietta? Respiravo sul
suo collo, mentre parole taglienti attraversavano i miei denti sotto
forma di
un sibilo … e poi c’era il volto di Armin, e
quello di Historia, e poi ancora i
volti di Connie e Sasha.
Come
fai ad avere paura dell’acqua, Jean?
Lo
disse sottovoce, con una risata pungente.
Non
ho
paura dell’acqua, sono soltanto— ho solo—
Quella
volta vidi tutto rosso. Questa volta era tutto nero, qualsiasi cosa che
riuscissi a scorgere con la coda dell’occhio. In un certo
senso, è stato
peggio. L’intorpidimento. Almeno, picchiando Eren, sentii
qualcosa, riuscii a
spingere la paura fuori dal mio corpo attraverso il rumore del suo naso
rotto
contro le mie nocche …
Chiudo
gli occhi stringendoli ancora più forte; forse riesco a
spremere via tutte
queste immagini terribili, forse ce la faccio … Sento il
bisogno di premere il
cuscino sulla faccia e urlarci dentro.
Non
so quando mi addormento; ore o minuti più tardi, proprio non
saprei dirlo. Ma
un continuo stato di coscienza continua a colare imperterrito dalle
crepe dei
miei sogni – o meglio, dei miei incubi – e mi
dimeno alla sensazione dell’acqua
che mi lambisce le caviglie, del tono canzonatorio di Eren, del volto
di Marco.
Non
so cosa succeda in realtà quella domenica. Il tempo
trascorre…e basta. Mia
madre viene a controllarmi un paio di volte durante la giornata
– almeno quando
sono cosciente – per dare un’occhiata alla mia
temperatura, cercando di farmi
trangugiare qualche cucchiaiata di uno sciroppo del cazzo, con un
terribile
sapore di anice. Riesco a stento a scacciarla con un borbottio e uno
sguardo
appannato, per poi affondare nuovamente la testa sul cuscino con un
sonoro whomph.
Mi
sento stanco. Veramente stanco, cazzo. Oscillo tra uno stato di
incoscienza e
di semi-incoscienza, ma non è una gran cosa, visto che,
persino a un giorno di
distanza, ancora non voglio chiudere gli occhi.
La
terza volta che mia madre si avventura nella mia stanza, sono
spaparanzato in
diagonale sul letto, con un avambraccio sugli occhi.
“Ehi,
tesoro,” dice, forzando un sorriso disgustoso. “Tuo
padre a cena mi ha chiesto
dove fossi, così gli ho detto che sei stato tutta la notte a
studiare e che
adesso stai recuperando il sonno perso.”
La
ringrazio mentalmente per aver liquidato quel porco con una scusa. Non
sarei
riuscito a sopportarlo se avesse portato qui il suo culo obeso a passo
di
marcia e mi avesse chiesto perché non sono buttato sui libri
per il mio esame
di chimica di domani. Urlandomi contro perché mi sto
crogiolando per… per cosa?
Non so. Ecco di nuovo quel senso di vuoto.
“Ti
ho fatto un panino, per favore, mangialo se te la senti.”
Sento il tintinnio
della porcellana sul comodino e il fruscio di altri oggetti che vengono
spostati in giro. Il mio stomaco brontola sonoramente al pensiero del
cibo …
non mangio dalla colazione di ieri, e questa non era che una misera
fetta di
pane tostato.
Mi
contorco fino a mettermi a sedere contro la spalliera del letto;
guardando mia
mamma, riesco praticamente a vedere il mio stato pietoso riflesso nel
suo
sguardo. Prova a reprimerlo, ma …
“Mamma…”
mi spremo le meningi in cerca di parole. Vorrei dirle qualcosa del
tipo: va tutto bene, ci sto lavorando. Non ti
preoccupare. Ma sono completamente ammutolito. Quindi, mi
limito a dirle un
mero: “Grazie.”
Il
suo sorriso è lieve e triste sulle sue labbra di colore
rosso acceso, e si
sporge in avanti per arruffarmi i capelli amorevolmente con le dita
curate, per
poi alzarsi in piedi, con uno scricchiolio delle sue giunture. Mentre
è
sull’uscio, si volta per trovarsi ancora una volta di fronte
a me.
“Il
tuo telefono ha suonato un sacco di volte prima, tesoro. Hai
risposto?”
Aggrotto
le sopracciglia. A quanto pare, in qualche modo ho eliminato ogni
ricordo del
mio telefono che squillava. Non ho sentito neanche il trillo
della mia suoneria dei messaggi negli ultimi due giorni. Mamma
chiude delicatamente la porta e io allungo un braccio per afferrare il
mio
Samsung.
Lo
schermo si accende con una di quelle scritte che non vorresti mai
vedere.
Messaggi
non letti: 15
Chiamate perse: 4
Si possono collocare nello
stesso stadio di
panico della frase “dobbiamo parlare”. Ma davvero
non ricordo affatto di aver
ricevuto niente di tutto ciò.
Non
è per niente una sorpresa che siano praticamente tutti da
parte di Marco. Ce ne
sono un paio da un numero che non conosco, ma il primo messaggio che si
legge
nell’anteprime recita:
Da:
899-XXX-XXX
Ehi Jean sono Bert! Marco mi ha detto di chiederti di rispondere ai
suoi
messaggi quando hai tempo :) Spero vada tutto bene!
Mi
basta questo. Decido di non aprire i messaggi di Marco –
anche se probabilmente
sarebbe la cosa più ragionevole da fare. Li lascio
così, senza leggerli, e
getto il telefono dall’altra parte della stanza.
Fanculo
a tutto quanto.
Se
definissi lunedì “raccapricciante”
starei seriamente sminuendo, cazzo. Tutta la
chimica che mi sono ficcato in testa nelle ultime settimane
è andata a farsi
benedire, e io sto qui a fissare il foglio per metà in
bianco con aria
perplessa, con un profondo odio per me stesso.
Intreccio
le dita sulla nuca e sotterro la testa in mezzo ai gomiti, pregando che
mi
venga in mente qualcosa, qualsiasi cosa. È come se potessi vedere le pagine di appunti nella testa,
ma senza riuscire a
carpire alcuna informazione.
Concentrati.
Dai. Devi farcela, patetica sottospecie di uomo che non sei altro.
Non
serve a molto. Sto ancora tamburellando con la biro su un lato del
banco,
sovrappensiero, quando il sorvegliante annuncia la fine della sessione
d’esame.
Ho
combinato proprio un casino.
Evito
di parlare con i miei compagni di classe mentre scivolo tra la folla
fuori
dall’aula d’esame; ci sono troppe persone che
discutono animatamente sulle loro
risposte per questa parte e quella domanda, mi fanno venire la
nausea.
Sto
pensando alla via più breve per raggiungere il bagno quando
qualcuno alle mie
spalle mi piomba addosso, stringendomi le braccia attorno al collo in
una presa
praticamente mortale. Mi blocco immediatamente.
“Jeeeean!”
mi urla Sasha nell’orecchio. Tiro un sospiro profondo e
tremolante, e provo a
costringermi a rilassarmi. “Com’è
andata!? Siamo appena usciti dall’esame di
teatro! Ed è andato super benissimo!”
Provo
a stampare in faccia un sorriso, ma non posso che pensare a quanto
debba
sembrare terribilmente forzato. Vorrei essere felice per loro
– anche se hanno
iniziato a lavorare sulla loro rappresentazione teatrale circa due
settimane
fa, e sarebbe dovuta uscire fuori una merda per il poco impegno che ci
hanno
messo – ma sentire la gioia di qualcun altro per il risultato
degli esami non
fa che infastidirmi, cazzo.
Credo
che Connie lo capisca, poiché si avvicina con disinvoltura e
cerca di scollare
Sasha dalla mia schiena tirandola per la coda di cavallo.
“Lascialo
stare, Sash,” le ordina, e Sasha fa il broncio.
“Non è andato molto bene?”
“Puoi
dirlo forte,” borbotto con aria cupa, passandomi le dita fra
i capelli, nervosamente.
“Mio padre mi uccide.”
“Tsk,
scommetto che non è andato poi così
male,” sorride Connie, ma torna serio non
appena vede che la sua affermazione non è stata per niente
d’aiuto per tirarmi
su di morale. Probabilmente sembro uno zombie che cammina, a giudicare
dalle
occhiaie viola che ho visto nello specchio stamattina.
“B-be’, non avevi
intenzione di fare chimica anche l’anno prossimo comunque,
no?”
Non
gli rispondo; mi limito a fare spallucce, per poi fare un cenno del
capo in
direzione del parcheggio e iniziare a camminare, aspettandomi che mi
seguano.
Sasha coinvolge Connie in una discussione entusiasta sul fatto che le
rimangono
solo due esami, o qualche cazzata del genere, e Connie annuisce,
nonostante io
sia praticamente sicuro di sentire i suoi occhi analizzare la mia
schiena curva
mentre cammino uno o due passi più avanti rispetto a loro.
Il
parcheggio è molto più vuoto del solito;
è sempre così nel periodo degli esami,
quando la gente viene solo per gli appelli e cose così.
Quindi la cosa strana è
che, con tutti i posti vuoti, qualcuno è andato a
parcheggiare proprio affianco
alla mia Jaguar.
A
primo acchito non mi rendo conto che è un furgone bianco
decisamente di mia
conoscenza.
“Ehi,
quello non è il ragazzo della piscina?” dice Sasha
in un sorriso, tirandomi uno
schiaffo sulla spalla e indicando la mia auto. Seguo la linea descritta
dal suo
dito indice e, sì, quello è proprio Marco,
appoggiato al cofano del suo
furgone, mentre legge qualcosa al cellulare. La sua faccia, solitamente
distesa, è piuttosto contorta in un cipiglio.
Quest’espressione non gli dona.
“Cosa
ci fa qui?” continua Sasha, interrompendo il flusso dei miei
pensieri. “Anche
lui va qui all’università?”
A
questo punto sono investito da un sacco di emozioni differenti. Sono
diffidente. Confuso. Ancora veramente molto stanco, cazzo.
Sasha
sta praticamente fremendo al mio fianco, mentre mi tira per un braccio,
portandomi verso la mia Jaguar. Sì, neanche per sogno, Sash.
“Ragazzi,
potreste—”
Sasha
mi guarda con gli occhioni da cucciolo da sotto la frangetta folta, ma
Connie,
per una volta, mi capisce.
“Ehi
Sash, il pick-up è da quella parte, andiamo.” Le
dice prendendola per mano, e
sbarra gli occhi con aria d’attesa, provando a farle capire
con quella
espressione di lasciarmi in pace “Mia madre oggi ha cucinato
i biscotti,
dobbiamo andare a casa appena possibile o si saranno già
finiti.”
Con
quella frase riesce a convincerla e, dopo una rassicurante pacca sulla
mia
schiena da parte di Connie, se ne vanno, chiacchierando per tutto il
parcheggio
fino a raggiungere l’angolo dove il furgone malmesso di
Connie era stato
malamente abbandonato.
Mi
volto fino a trovarmi nuovamente di fronte alla mia Jaguar, al furgone,
e a
Marco. Ancora non ha visto che sono qui, impegnato
com’è a prestare attenzione
al telefono, qualsiasi cosa stia guardando. Mi ritrovo a tirare un
profondo
respiro dall’aria molto teatrale, e a stringere i pugni un
paio di volte. I
miei piedi iniziano a muovere qualche passo in avanti prima ancora che
possa
finire di prepararmi mentalmente ad avvicinarmi.
Il
fatto è che – ed è un fatto anche
piuttosto importante, cazzo – lui è qui.
È ancora qui. È venuto… a cercarmi?
Ecco. Non come l’ultima
volta. Provo a ricordarlo a ogni passo.
Sono
a circa due metri dal furgone quando Marco finalmente alza lo sguardo,
sentendo
il rumore dei miei passi. Fa quasi cadere il telefono quando balza in
piedi, e
copre la distanza che ci separa in tre rapide falcate.
“J-Jean!”
“E-ehi,”
lo saluto con cautela, fissando il pavimento mentre sfrego un piede
sulla
terra. “Cosa ci fai qui?”
Emette
un autentico sbuffo di scherno e scuote la testa.
“Stai
scherzando, Jean?” dice con aria severa; non credo di averlo
mai sentito
parlare con un tono simile prima d’ora. Vorrei potermi
rimpicciolire,
scomparire sotto una delle auto, essere ingoiato dal
pavimento… qualsiasi cosa.
“Perché non hai risposto a nessuno dei miei
messaggi o delle mie telefonate? Va
tutto bene? Sono impazzito dalla preoccupazione per tutto il fine
settimana.”
Oh.
Oh.
“Sto
bene, va tutto bene,” mento a denti stretti, forzando lo
stesso sorriso di
prima. È un tentativo piuttosto patetico, però,
poiché non riesco neanche ad
alzare lo sguardo quel tanto che basti per guardarlo negli occhi.
“Davvero,
s-sto bene.”
Odio
il suono tremolante della mia voce, perché trasuda
debolezza. E io sono debole.
E vorrei tantissimo potergli dire: no, non sto bene. Voglio che
qualcuno mi
faccia stare meglio. Voglio che tu mi
faccia stare meglio, Marco.
Non
importa. Ovviamente non si lascia ingannare dalla mia bugia.
Non
so perché il suo volto sembra… be’,
piuttosto scioccato, per un breve istante.
Cosa c’è di così sorprendente? Il fatto
che gli abbia mentito così? Che stia
facendo del mio meglio per non essere un disgustoso, piagnucoloso
relitto
umano? Cristo, Marco. È di me
che
stiamo parlando.
“C-cioè,
chi è che impazzisce in quel modo per dell’acqua,”
dico in una risatina amara che risuona vuota e ferita nella mia gola.
“C-che
cavolata, eh?”
Rimango
interdetto quando si sporge e posa una mano sulla parte superiore del
mio
braccio, strofinando il pollice sulla mia spalla in un movimento
rassicurante.
Mi sento come se volessi balzare all’indietro a quel tocco e,
ma sì, dare di
matto ancora un po’, perché
no, ma
allo stesso tempo …
La
sua mano è tiepida, e mi fa affiorare dei brividi sulla
pelle. In senso buono.
Tiro
su col naso rumorosamente,
trattenendo
tutto il muco nelle mie narici con un unico, sgradevole respiro.
Cazzo,
no, dai Jean. Non qui.
Mi
strofino gli occhi con la base dei palmi delle mani con forza. Non qui.
Non
piangerò. Non sarò un—
“Lo
sai…” la voce di Marco è delicata,
gentile e, soprattutto, rassicurante.
Sento la sua mano stringersi un po’ più forte sul
mio
bicipite. “Non… non sei costretto a mentirmi. Va
bene se… hai capito… non
voglio che sia così tra
di noi, Jean.
Sai che non ti giudicherò.”
“…
Cazzo.”
Se
dice un’altra parola, finirò per—
finirò sicuramente per …
“Non
ti giudicherò,” ripete. Ah, ci siamo. La goccia
che fa traboccare il vaso. I
miei palmi sono improvvisamente bagnati, ed io emetto un brontolio,
strofinando
sempre più forte le mie orbite per rimuovere le lacrime
patetiche.
La
mano di Marco lascia il mio braccio per un secondo, e lo sento aprire
lo
sportello sul lato del passeggero del suo furgoncino, prima che mi
tocchi
nuovamente; questa volta preme la sua mano fra le mie scapole con
decisione,
conducendomi più avanti. Sento la sua voce vicina
all’orecchio mentre continuo
a strofinarmi gli occhi.
“Siediti
nel furgone,” mi suggerisce tranquillamente.
“È più intimo.”
Mi
lascio quasi cadere sul sedile del passeggero, ancora come il disastro
piagnucoloso che sono, mentre Marco scavalca il cofano con grazia e si
siede
sul lato del guidatore. Scivola dietro allo sterzo e si volta verso di
me, con lo
sguardo onesto e sincero. Potrei contare ogni singola lentiggine sul
suo viso.
Dannazione. Oggi ha più lentiggini del solito.
“Non
era necessario che…” inizio in modo burbero, la
mia voce suona veramente rude
mentre provo a battere le ciglia per mandar via il rossore dei miei
occhi e il
nodo che ho in gola. “Non c’era bisogno che
guidassi fin qui p-per questo. È-è
un mio problema, cazzo.”
“Non
importa.”
“Ma
non pensi che io sia—”
“No.”
Non
ho
neanche finito di parlare!
Apro
la bocca per dirgli che non sarei sorpreso se pensasse che sono una
palla persa
o qualcosa del genere, ma mi interrompe nuovamente.
“Qualsiasi
cosa tu stia per dire, Jean – e so che stai per dire
qualcosa, perché te lo
leggo negli occhi – smettila. Non dirlo. Non voglio
sentire.”
Riesce
a zittirmi più che bene.
Mi
sposto sul sedile con aria imbarazzata e finisco per poggiare i piedi
sulla
seduta, posando il mento sulle ginocchia e sbuffando.
Giacché ci sono, tiro su
col naso.
“Cosa vuoi che dica, allora?”
Domando a
bassa voce.
Appoggia
un braccio sullo sterzo e, con l’altra mano, si passa le dita
fra i capelli,
trascinando sul cuoio capelluto le ciocche scure, che ritornano
immediatamente
al loro posto, nonostante tutto.
“Dimmi
cos’è successo,” dice, con un lieve
movimento delle labbra e inclinando la
testa. “Dimmi quello che hai bisogno di dire per sentirti
meglio. Quello che
vuoi tu.”
Tsk.
Di cosa ho bisogno per sentirmi meglio. Se lo sapessi, sarei come Sasha
davanti
a un frigorifero.
Non
c’è alcun meglio. C’è solo meno peggio.
Abbraccio
più forte le ginocchia, stringendole al petto, e premo il
naso nel denim scuro
dei miei jeans.
“Non
ti lascio uscire da questo furgone finché non mi parli,
comunque,” aggiunge
Marco come un’ulteriore riflessione. Alzo gli occhi al cielo,
ma almeno adesso
li sento un poco più asciutti.
“Non
so cosa dire.”
“Be’…
inizia dal principio.” È
più facile a
dirsi che a farsi, Marco. “Sei, ecco…
sei sempre stato… così?” Come
un bambino nell’acqua, è questo che
intendi? Dillo e basta.
Studio
le fibre dei miei jeans per un po’ di tempo, seguendo con gli
occhi il modo in
cui ogni filo si intreccia sotto e sopra tutti gli altri. Inizio
persino a
tracciarne il percorso con un dito, ma Marco non ci ripensa, non dice
una
parola, mi guarda e basta.
Una
voce si fa strada da qualche angolo recondito – molto
recondito – della mia
testa. Mi piace chiamare quel posto: buone
idee. Non lo visito troppo spesso.
Finirai
solo per respingerlo, se non dici niente. Ricorda
cos’è successo l’ultima
volta. Solo adesso stai ricominciando a riavvicinarti ai tuoi amici
dopo
quell’avvenimento, ed è una gran bella fortuna.
Questo ragazzo è il miglior
amico che tu abbia mai avuto in tutta la tua vita, cazzo. Prova a
respingerlo,
e scommetto che finirai per vivere il resto della tua vita pietosa
avvolto in
quel rotolo di coperte.
Odio
tutto.
Tranne
Marco.
Quindi
glielo dico. Gli dico tutto. Obiettivo sbloccato: retroscena tragico.
Già.
Gli
racconto della prima volta in cui andai in spiaggia con i miei
genitori, quando
avevo tre anni, e urlai per ore dopo che mio padre decise che sarebbe
stato
divertente immergermi nel mare. Gli racconto di quando avevo otto anni
e stavo
portando fuori il cane dei vicini per ottenere un po’ di
soldi facili dal
vecchio signor Reeves, e mi ha trascinato nel ruscello per inseguire
uno
scoiattolo del cazzo. Mi sedetti sulla riva e singhiozzai
finché non calò il
buio. Gli racconto di quello che è successo con Eren
l’estate scorsa.
Era
aprile, la fine del secondo semestre del quarto anno delle superiori.
Prima
ondata di caldo dell’anno. Tre giorni di fila con temperature
superiori ai
venticinque gradi. Ti ritrovavi approssimativamente seimila zanzare in
faccia
anche al solo pensiero di mettere
piede all’aperto.
I
genitori di Connie si stavano disfacendo della loro strana piscina
gonfiabile,
che possedevano dall’alba dei tempi. A quanto pare stava
rovinando il cortile sul
retro e volevano che l’erba ricrescesse, o qualcosa di
simile; a essere onesti,
non ricordo esattamente quale fosse il ragionamento che li
portò alla decisione
di mandare quella roba nel cassonetto dell’immondizia.
Ma
non è questo il punto. Il punto è che, quando
Connie invitò tutti a casa sua
dopo la scuola, approfittarono tutti dell’occasione di usare
la vecchia piscina
per l’ultima volta prima che diventasse destinata alla
spazzatura.
Io
non ero entusiasta all’idea. Ovviamente no. Di solito ero
abbastanza bravo a
evitare la piscina. Ma Connie mi aveva battuto una pacca sulla spalla,
e Sasha
mi aveva convinto con qualche battuta terribilmente idiota,
così scrollai le
spalle e pensai: ehi, non devo nuotare
per forza. Andrà tutto bene.
La
casa di Connie fu costruita dal vecchio proprietario
dell’edificio prima che la
sua famiglia si trasferisse lì; ha un aspetto piuttosto
vecchio, l’intonaco
attorno alle finestre si è sgretolato così tanto
che ti viene da pensare che il
minimo soffio di vento possa buttarle giù, e alcuni dei
pannelli sul retro del
garage hanno sicuramente visto giorni migliori; ma il lato positivo, la
cosa
più importante, almeno per noi, era il fatto che la stanza
di Connie
affacciasse sulla tettoia parasole alla distanza ideale per saltare
nella
vecchia piscina.
Avevo
visto gli altri farlo prima di allora; mi sedevo sulla tettoia con una
sigaretta, e ridevo quando la pancia di Eren si scontrava con
l’acqua
sottostante, oppure ammiravo Mikasa in costume da bagno mentre eseguiva
un
perfetto tuffo a bomba con doppia capriola. Era tutto a posto. Riuscivo
a
sopportarlo. Purché non mi bagnassi.
Ci
affrettammo tutti quanti a lasciare il cassone del pick-up di Connie e
la mia
Jaguar, gli altri corsero immediatamente verso il tubo di scolo, che
era la via
più breve per salire sulla tettoia (senza arrampicarsi dalla
finestra di
Connie). Io li seguivo, mentre ascoltavo Eren che prometteva di battere
tutti
con la maestosità dei suoi tuffi a
bomba
o qualche cazzata del genere. Desideravo una sigaretta da tutto il
giorno, ma
il commesso del negozio si era rifiutato di vendermele senza carta
d’identità
quella mattina, quindi non vi era rimedio. Avrei dovuto prenderlo come
un
cattivo presagio.
Devo
aver guardato mezza dozzina di dolorose panciate sull’acqua,
prima che Eren,
alla sua quinta o sesta scalata sul tetto, nel mezzo di una discussione
con
Connie, pronunciasse quelle parole incriminanti.
“No,
ho assolutamente vinto io! L’unico che ancora non si
è tuffato è
Faccia-da-cavallo!”
Alzai
lo sguardo dalle tegole che stavo studiando nel sentire il mio
soprannome
preferito passare dalla bocca di quella testa di cazzo. Non avevo
sentito
l’intera conversazione, ma ne colsi il succo, vedendo Eren
avvicinarsi sul
tetto in pendenza nella mia direzione, gocciolando
sull’ardesia nera. Mi
allontanai immediatamente, ma lui allungò una mano per
afferrarmi per la
spalla.
“Dai,
Kirschstein, non ti sei ancora tuffato!”
Scostai
la spalla per sfuggire alla sua presa, ma mi stringeva con forza,
mentre si
voltava per guardare dietro alle sue,
di spalle, per rivolgere un ampio sorriso a Connie.
“Già,
dai, Jean! Fagli vedere come si fa!” disse Connie. Potreste
pensare che,
conoscendomi da tanto tempo, Connie si fosse accorto del fatto che,
prima di
quel momento sul tetto, non mi aveva mai visto nuotare. Ma
Connie… ecco, non è
mai stato il più sveglio del gruppo.
“N-no,
non mi sembra proprio il
caso!”
protestai ad alta voce, strattonando Eren a dovere. “Levati
dalle palle, Eren.”
Successe
tutto molto in fretta, ma anche molto lentamente allo stesso tempo.
Ricordo che
mi spinse verso il limite della tettoia, afferrandomi per le spalle.
Ricordo di
aver piantato i talloni nelle tegole della tettoia. Ricordo di aver
cercato di
strattonare le sue mani affinché mollasse la presa,
affinché mi lasciasse in
pace, cazzo, gli dicevo: Eren, fermati!
Ricordo
di aver mosso un passo in avanti mentre vacillavo, ma non trovai alcuna
tettoia
a sostenermi.
Il
salto dal tetto alla piscina non era poi così distante;
saranno stati al
massimo due metri. Ma quella caduta mi sembrò lunghissima.
L’impatto
con l’acqua fu doloroso; entrai di spalla, e lo schiaffo
della superficie
contro il braccio e il collo mi lasciò stordito. La cosa
peggiore fu il peso di
Eren, che saltò dopo di me con un deciso urlo di guerra,
facendo schiantare il
suo culo ossuto sulla mia schiena e sbattendomi sul fondo della piscina.
Con
la guancia premuta contro la superficie blu e viscida, ansimai in cerca
d’aria;
a quel punto, tutta l’acqua stantia si fece strada nel mio
naso e sul fondo
della mia gola, pungente e dolorosa, come della cartavetrata nelle
pareti della
mia bocca.
Riaffiorammo
in superficie nello stesso momento; Eren rideva selvaggiamente,
battendo le
mani nell’acqua e sollevando onde, mentre io feci leva sul
bordo, atterrando
con un sonoro splat
sull’erba fangosa
che vi era dall’altro lato.
Il
cielo era perfettamente azzurro quel giorno; nessuna nuvola, salvo la
scia di
un aereo, che divideva in due la mia visuale mentre giacevo disteso
sulla
schiena, stordito, senza fiato e intorpidito. Ma quel sentimento non
durò molto
tempo.
Mi
arrivò uno spruzzo d’acqua sul viso quando Eren
scavalcò a sua volta il bordo,
apparentemente portando con sé mezzo oceano intriso nella
stoffa del suo
costume da bagno. L’azzurro del cielo fu rimpiazzato
immediatamente dal rosso.
In
questi casi, le opzioni sono due: fuggire o lottare.
“Allora
cosa gli hai fatto?” domanda Marco in tono sommesso. Mi
accorgo di aver stretto
i pugni e le mie nocche sono bianche, e sto tremando di…
rabbia? Paura? Non lo
so. Ma l’energia si sta spargendo in tutto il mio corpo,
gonfiandomi le vene.
Chiudo gli occhi ed espiro bruscamente dal naso.
“L’ho
picchiato. Molto. Gli ho rotto il naso, la clavicola, due
costole.”
“Oh.”
Alzo
lo sguardo verso Marco e vedo il suo volto contrito. Odio
quell’espressione.
Non voglio che si renda conto di quanto io sia un coglione. Di che cosa
stupida
abbia fatto.
Non
voglio dirgli che mi piacque sentire il rumore del naso di Eren che si
rompeva
sotto le mie nocche, quel giorno. Ma allo stesso modo: sentire le
braccia di
Sasha avvinghiate attorno alle mie spalle mentre urlava nel mio
orecchio,
dicendomi: basta, Jean!, mi piacque
anche quello, perché sentii una fredda ondata di
autocontrollo investirmi,
anche se solo per un istante.
“Ho
fatto una cazzata,” mormoro. Marco non esprime accordo
né disaccordo. “Ho fatto
una grandissima cazzata. Sai cos’è successo dopo
quell’episodio? Hanno smesso
di parlarmi. Per un anno. Come avrei potuto dargli torto?. Ho fatto una
tale
cazzata, ed è tutta colpa della mia
stupida—”
E
io ho
smesso di parlare a loro,
rimarco significativamente a me
stesso. Sicuramente
non avrebbero voluto
avere nulla a che fare con qualcuno che impazzisce
così alla vista dell’acqua,
cazzo.
Ho
rovinato tutto per una paura dell’acqua di cui mi sarei
dovuto liberare quando
avevo cinque anni. Sono letteralmente la persona peggiore del mondo.
“Sono
patetico,” borbotto. “E lo capisco se…
se ne hai avuto abbastanza, Marco. Sono
veramente un caso perso, lo capisco, va bene.”
“Jean.”
“No,
Marco, seriamente. È comprensibile. L’ho picchiato
a sangue, cazzo. È una cosa
da pazzi. E, tipo, cosa sarebbe successo se gli altri non fossero stati
lì a
fermarmi? Cosa sarebbe successo se—”
No,
Marco. Tu non… non capisci. Non puoi, ecco—
“Jean,
ascoltami.” Tranquillo, paziente e comprensivo.
Ecco Marco. Fanculo a tutto quello che ho appena pensato. Uno sguardo
nei suoi
occhi scuri, e ho la sensazione che tutto ciò che odio si
stia semplicemente
dissolvendo. “Devi smettere di dare alla gente – di
dare alla tua paura – il
potere di controllare il tuo valore, il tuo
atteggiamento… il tuo sorriso.
Sul
serio. È normale sentirsi deboli, credimi. Ma tu non lo sei.
Tu sei forte.”
Questo
momento mi ricorda uno di quei diabolici film romantici da femminucce
– l’ho
detto sul serio – quando l’eroina improvvisamente
guarda il suo partner come se
lo stesse vedendo per la prima volta per quello che è
veramente, con tanto di
scintille e petali di rosa. È così, solo senza i
fiori di ciliegio.
Mi
sento come se lo stessi vedendo per la prima volta?
“Sei
terribile,” borbotto in tono burbero, strofinando il dorso
della mano sugli
occhi. Mi sento come se qualcosa si fosse smosso nel mio petto, un nodo
soffocante, fatto di senso di colpa e dolore e paura, che mi ha
impedito di respirare
per molto tempo – sicuramente da ben prima di due giorni fa.
Credo che un
piccolo sorriso affiori sulle mie labbra.
“P-perché
sono terribile?”
“Perché
sei così gentile, cazzo. Essere tanto gentili dovrebbe
essere illegale.”
Essere
così perfetti dovrebbe
essere
illegale. Cristo santo, come fa a sapere esattamente
cosa dire? Faccio i conti con questa cosa da diciannove fottutissimi
anni, e io stesso ancora non so
cosa dovrei
fare. Lui l’ha capito perfettamente in due giorni di merda.
Marco
fa spallucce umilmente, e fa quel solito gesto in cui prende una ciocca
di
capelli neri e la strofina tra il pollice e l’indice. Le sue
guance
arrossiscono leggermente.
“Tu
mi hai aiutato q-quando stavo passando un brutto momento, Jean.
V-volevo fare
la stessa cosa… per te.”
Mi
lascio scappare una risata flebile e scuoto la testa. Ripenso
all’anno scorso –
l’anno più solitario e miserabile della mia vita
– e penso: perché…
perché dovevo incontrarti proprio adesso,
Marco? Perché non poteva succedere allora? Vorrei aver avuto
qualcuno come te.
Dov’eri
negli ultimi dodici mesi, quando non avevo nessuno?
Mi
accorgo di volerlo abbracciare. Abbracciarlo per molto tempo, ed essere
sdolcinato, e premere il naso sulla sua spalla, e non lasciare la
presa. Cose
disgustose di questo genere.
Ma
per adesso devo farmi bastare quel sorriso che sta mantenendo per me.
Non lo
abbraccio.
Restiamo
seduti nell’abitacolo del furgone di Marco per molto tempo
(semplicemente a
parlare, per lo più, ma anche gli eventuali silenzi sono
abbastanza rassicuranti);
l’unica ragione per cui sono persuaso
ad andarmene è il messaggio di mia madre, preoccupata dal
fatto che non sono
ancora tornato a casa e potrei essermi ucciso dopo un esame disastroso.
Le
mando un breve SMS in risposta, informandola del fatto che sono ancora
completamente vivo e non mi sono effettivamente buttato da un ponte.
“Vuoi
venire a cena da me?” chiedo a Marco, facendo scivolare
nuovamente il telefono
nella tasca. “Mio padre è di nuovo fuori
città e credo che mia madre stia
facendo la crostata di frutta per dessert. Di solito è
abbastanza buona.”
Marco
si passa una mano tra i capelli sulla nuca con aria imbarazzata.
“Non
posso. Ho, uh…diciamo che, ecco, ho rimandato uno degli
appuntamenti di oggi
per venire a trovarti dopo l’esame, e quindi… devo
ancora finire di lavorare.”
Oh
mamma, il calore che irradia nel mio petto (nonostante io sia appena
stato
rifiutato) è opprimente. Trattengo un sorriso al pensiero di
Marco che salta il
lavoro per venire a trovarmi. Mi fa sentire bene. Veramente bene.
Forse
è da egoisti, ma l’idea di essere messo al primo
posto… cazzo, mi ci potrei
abituare, okay?
“Che
peccato.”
Marco
ride mentre io esco dal furgone, chiudendo la portiera. Abbassa subito
il
finestrino quando mi appoggio al tettuccio per salutarlo.
“Mandami
un messaggio quando arrivi a casa,” mi dice.
“Lo
farò.”
“Mandamelo
anche prima dell’esame di francese. E dopo.”
“Okay.”
“Ci
vediamo, Jean.”
“Arrivederci,
Marco.”
Gli
mando un SMS appena arrivo a casa. È la prima cosa che
faccio dopo aver
lasciato le scarpe sull’uscio della porta principale, mentre
mia madre gira
l’angolo sentendo il rumore.
“Eccoti
qui!” esclama. Ha dei guanti da forno su una spalla e i
capelli raccolti in una
coda lenta. Sembra stranamente casalinga. Stranamente mamma.
“Ero veramente preoccupata per te, Jean!”
“Scusa,
mamma.” Mando rapidamente il messaggio, guardando lo schermo
finché non appare
la scritta “inviato” sotto alle mie poche parole.
“Ho incontrato Marco dopo
l’esame. Ci siamo messi a parlare.”
“Oh.”
Sembra guardarmi da capo a piedi, e delle rughe di espressione vere e
proprie
appaiono sulla sua fronte. Non ha fatto un’iniezione di
recente, suppongo.
“Quindi ti senti meglio?”
Non
sarà una conversazione a cambiare ciò che
è accaduto. E non cambierà il fatto
che non sarà tanto facile affrontare questa situazione.
Comunque, sì. Mi sento
meglio. Decisamente molto meglio, cazzo.
“A
quanto pare un adulto su dieci soffre di qualche tipo ti
acquafobia.”
Marco
mi chiama intorno alle dieci quella sera; la suoneria inizialmente mi
sorprende,
perché sono semplicemente steso sul letto, mezzo
addormentato, mentre la
spossatezza degli ultimi due giorni mi raggiunge in un’unica
gigantesca ondata.
Ma, vedendo il nome del mittente, non potrei rispondere più
rapidamente.
“C-cosa?”
dico praticamente in uno squittio.
“È
molto di più di quanto ti aspettassi, vero? È una
cosa piuttosto comune. Sto
leggendo qualcosa a riguardo adesso.”
“Stai
leggendo qualcosa?” La mia voce acquisisce un tono
leggermente più alto di
quanto vorrei. Marco si limita a ridere, e riesco a sentire il click
della
tastiera di un computer dall’altra parte della linea.
“Ah-hah.
In effetti ho appena trovato un bellissimo articolo su Health
Central. Parla di come superarla. Ci sono un bel
po’ di cose
interessanti qui!”
Deglutisco
rumorosamente, e spero che il suono non viaggi attraverso la linea.
“…
Che scemo che sei.”
“E
sono più che contento di continuare a fare lo
scemo”, ribatte lui senza
pensarci un attimo. Idiota.
Mi
legge l’articolo, nonostante io gli dica che è,
be’, piuttosto ridicolo. Non lo
scoraggia. Mi dice che vuole aiutarmi. Farmi stare in piedi in piscina,
farmi
nuotare, mettermi “a mio agio”. (Qualsiasi cosa
voglia dire.)
Continuo
a dirgli che è uno stupido, ma lui continua semplicemente a
ridere ogni volta che
glielo dico. Quanto vorrei avere la sua stessa determinazione.
Sono
le due del mattino quando alla fine ci arrendiamo, e a quel punto
anch’io sto
ridendo alle cose folli che mi propone. Mi saluta con uno sbadiglio che
passa
chiaramente attraverso un sorriso.
“Dormi
bene, Jean.”
Riattacca
per primo, e io getto il telefono sul comodino, per poi premere
l’interruttore
della mia lampada. La stanza si immerge nel buio; fatta eccezione per
l’onnipresente luce dei lampioni fuori dalla finestra,
ovviamente. È una sorta
di perpetua oscurità tinta di arancione. Eppure ci sono
abituato.
Il
mio telefono lampeggia al mio fianco, proprio quando la mia testa
colpisce il
cuscino. Lo afferro, e c’è un nuovo messaggio
nella mia casella.
Da:
Marco-Polo
Dicevo sul serio sul fatto di aiutarti, Jean. Spero che tu abbia un
costume da
bagno! :D
Alzo
gli occhi al cielo, e mi limito a rispondere con un’emoticon
che esprima
appropriatamente il mio livello di: ah
davvero? Mentre premo invio, sfoglio il resto della posta in
arrivo, fino
ad arrivare all’infinità di messaggi che mi ha
mandato, e che ancora non ho
letto, da ieri.
Quelle
parole mi fanno arrivare il cuore direttamente in gola, cazzo.
Da:
Marco-Polo
Jean! Stai bene? Non so cosa fare, quindi ti prego rispondimi!
Da:
Marco-Polo
Tutto bene?
Da:
Marco-Polo
Per favore fammi solo sapere se stai bene.
Da:
Marco-Polo
Ehi, sono veramente preoccupato per te, Jean. Per favore rispondimi.
Da:
Marco-Polo
Ho chiamato, ma non hai risposto. Riproverò più
tardi.
Da:
Marco-Polo
Ti sto chiedendo soltanto una risposta, Jean.
Da:
Marco-Polo
Bert dovrebbe averti mandato un messaggio, nel caso tu non stia
ricevendo i
miei messaggi o qualcosa del genere. Proverò a telefonare di
nuovo.
Da:
Marco-Polo
Jean, mi dispiace tantissimo.
Da:
Marco-Polo
Sono stato proprio un idiota, e mi dispiace. Lo capisco se mi stai
ignorando
perché sei arrabbiato.
Da:
Marco-Polo
Jean, sei il mio migliore amico. Spero davvero di non aver rovinato
tutto.
Scusami, davvero. Per favore rispondimi.
Aggrotto
le sopracciglia, e posso solo immaginare cosa gli stesse passando per
la testa
mentre io marcivo nel mio letto per due giorni interi. Devo averlo
fatto
sentire proprio di merda. Sento il senso di colpa arrampicarsi sotto
forma di
dolore nelle mie budella, e mi fa rabbrividire.
Come
al
solito, hai fatto una cazzata. Sei in debito con lui, Jean.
Ho
il primo scritto di francese di mercoledì quella settimana;
il che è un po’ uno
schifo, perché vuol dire che non potrò passare
del tempo con Marco. La cosa
peggiore è che vorrei tanto… scusarmi di persona
con lui per essere stato una
merda prima.
Va
molto meglio rispetto all’esame di chimica di
lunedì; forse potrebbe essere
merito dello smiley incredibilmente insulso che Marco mi manda in
risposta al
messaggio che gli ho inviato prima di entrare nell’aula
d’esame. Cretino.
Penso
di poter addirittura definire quest’esame come una
passeggiata. Il francese non
è un problema. Mi sento persino abbastanza sicuro da unirmi
al dibattito, alla
fine, sulle risposte che abbiamo dato, contento di offrire la mia
modesta
opinione sulle domande a scelta multipla.
Dando
uno sguardo al mio telefono per controllare l’orario, noto la
piccola icona dei
messaggi nell’angolo in alto a sinistra.
Da:
Marco-Polo
Ho appena finito a casa tua… spero che sia andato tutto bene!
Mi
sbrigo a scrivere una risposta finché cavalco ancora
quest’onda di sicurezza.
A:
Marco-Polo
ho risposto bene a tutte le domande quindi è già
un inizio
A:
Marco-Polo
ma si è andato abbastanza bene
Il
mio telefono lampeggia dopo pochi secondi.
Da:
Marco-Polo
Fantastico! Sono super felice per te, Jean!
Sono
costretto a scusarmi (leggasi: scappare via) dalla folla, per andare a
sorridere tra me e me come un idiota nel parcheggio.
Uscendo
dall’esame orale di francese di venerdì, incontro
Connie, Sasha e Ymir, che
sono appoggiati alla trappola mortale
– volevo dire, furgoncino – di Ymir. È
un mostro di macchina, e non intendo in
senso buono. Tanto per cominciare, un Dodge Caravan Turbo
dell’ottantanove non
vincerà mai una gara di bellezza, e poi la sua verniciatura
marrone e il
pavimento fatto praticamente di lattine di birra schiacciate non
aiutano per
niente. Ymir però lo ama alla follia.
“Ehi,
Jean!” grida Ymir, salutandomi con la mano oltre le teste di
Connie e Sasha.
“Tutto a posto?”
Ho
deciso che Ymir mi piace. È sicuramente quella con i gusti
musicali migliori
nella nostra cerchia di amici. E bisogna restare uniti con persone come
lei
quando socializzi con degli imbecilli che prendono in considerazione
l’idea di
ascoltare Nicki Minaj o Katy Perry. Mi vengono i brividi.
“Ehi,”
li saluto con naturalezza, avvicinandomi alle spalle di Sasha e
tirandole uno
scappellotto dietro la testa. “Che ci fate ancora qui? E
Connie, tu che ci fai
qui e basta?”
“Aspetto
la mia bambola,” Ymir sorride beffarda, e io le scocco uno
sguardo da dici sul serio?, per la
scelta di
quell’appellativo gergale. “Historia ha
l’esame di educazione sanitaria.”
“E
Connie è venuto a prendermi!” interviene Sasha,
gettando un braccio attorno al
collo del suo ragazzo. Connie sfoggia un sorriso fiero, mentre io alzo
gli
occhi al cielo. “Sasha non ha padroni, Sasha è un elfo libero!”
Ah,
giusto, oggi era il suo ultimo esame. Che fortuna, cazzo.
“Aww,
Jean, perché quella faccia?” mi canzona lei, con
una gomitata nella cassa toracica.
Ahia.
“Oh,
non saprei, forse qualcuno di noi ha ancora esami fino alla prossima
settimana?” metto il broncio, strofinandomi il fianco e
gelandola con lo
sguardo per il suo comportamento fin troppo felice. Devo ancora
affrontare le
prove di filosofia la settimana prossima, accidenti.
“Dovreste
smetterla di lamentarvi,” si intromette Ymir, puntando un
dito lentigginoso
nella nostra direzione. “Quando sarete al secondo anno,
implorerete di tornare
indietro agli esami del primo. Credetemi. Vorrei strapparmi via il
cervello in
questo momento. Odio tutto.”
Sentiamo
una voce attraversare il parcheggio, e alziamo tutti lo sguardo, per
vedere
Historia che trotterella rapidamente verso di noi, con i capelli biondi
in una
coda bassa che le ricade su una spalla, i tacchi bassi che schioccano
sull’asfalto, e un sorriso abbagliante stampato in volto.
Divina.
“Tranne
lei,” aggiunge rapidamente Ymir, con una mano su un fianco
mentre valuta la sua
ragazza. Mi viene da vomitare. “Lei sì che mi
piace. Molto. Già.”
La
saluta con una serie di baci che vergono praticamente
sull’esplicito, quindi mi
sforzo di fissare intenzionalmente il pavimento, finché
Historia non riesce a
liberarsi dall’abbraccio di Ymir e si unisce al gruppo.
“Ciao,
ragazzi,” sorride angelicamente. “Ciao, Jean.
Com’è andato l’esame di
francese?”
“Bene,”
faccio spallucce, calciando un sassolino con la punta della mia scarpa
da
ginnastica. “A te com’è
andata?”
“Penso
di aver scritto abbastanza,” afferma, spumeggiante, mentre
cerca di allontanare
Ymir che prova a chinare la testa in un bacio sdolcinato sul collo
della
bionda. “Ymir!”
“Che
c’è?” le rivolge un sorrisetto,
appoggiando il mento sulla spalla di Historia e
strofinando il naso sul suo collo. Trovatevi una stanza, ragazze.
“Tu
quando finisci gli esami, Historia?” chiede allora Sasha, e
noto che lei e
Connie stanno dondolando le loro mani intrecciate. Ah. Il quinto
incomodo
definitivo. Eccomi qui. Tutto questo affetto mi farà sentire
male.
“L’ultimo
è martedì,” interviene lei.
“Come Ymir.”
“Fantastico!
Connie e Jean finiscono mercoledì, quindi potremmo uscire
tutti insieme dopo il
loro esame di filosofia; c’è un nuovo bar sulla
Rose Street che vorrei tanto
provare—”
“Solo
perché hai visto che vendono dei panini,” aggiunge
Connie.
“Forse è per i panini che ho
visto, sì.”
“Un
drink sarebbe un bel modo per celebrare, comunque,” conviene
Historia, e Ymir
annuisce furiosamente (ho capito che è praticamente
un’alcolizzata, a giudicare
dalla quantità di birre schifose che sembra sempre portarsi
dietro).
“Mercoledì
non va bene per me, ragazzi.”
Tutti
e quattro si girano a guardarmi non appena sentono la mia affermazione;
Sasha e
Connie sembrano offesi piuttosto che sorpresi. Ymir mi rivolge uno
sguardo di
rimprovero da sopra il margine degli occhiali da sole che giacciono sul
suo
naso lentigginoso, perché ho osato rifiutare
dell’alcol.
“Cosa?
Perché?” protesta Sasha, gonfiando le guance.
“Il college è finito, Jean! Cosa
devi fare di più importante di prendere una sbornia
colossale, eh?”
Bene,
come faccio a dirlo in una maniera che non sia al cento percento super
imbarazzante?
“È
il compleanno di Marco,” borbotto sottovoce; non so se Sasha
riesca
effettivamente a sentirmi, o se sia solo fin troppo felice per la
notizia. Si
limita a strillare un acuto ed entusiasta:
“cooooooosaaaa?!”
“Ho
detto che è il compleanno di Marco,” ripeto con
più enfasi, grattandomi la nuca
con aria imbarazzata.
“Chi
è Marco?” Historia si unisce alla conversazione,
unendo le mani difronte a sé
con un’aria d’attesa. Oh no. Ci siamo.
Gesù con le lentiggini, salvami. “E
perché non lo conosciamo, Jean?”
“Oh,
noi lo conosciamo,” si
pavoneggia
Sasha con un sorriso malizioso, scuotendo le sopracciglia.
“Moooooolto carino.
Già, davvero adorabile.”
“Sasha!”
Io e Connie gridiamo contemporaneamente, al che, per tutta risposta,
lei getta
indietro la testa e scoppia in una risata fragorosa.
“È
il tuo ragazzo, Jean?” chiede Ymir in un sorrisetto, mentre
Sasha prova a
placare Connie pizzicandogli le guance
e
parlandogli con vocine ridicole (perché ho una specie di
dejà vu con questa
scena?). Penso che mi stia letteralmente uscendo il fumo dalle orecchie.
“N-no!
E dai! È l’inserviente della piscina, cazzo!
Cristo santo!”
“Il
ragazzo della piscina? Questo si che è perverso.”
A
quel punto riesco a rispondere solo con un lamento in segno di
sconfitta, e
stringo la radice del naso con le dita.
“Perché
non lo inviti a uscire con noi, Jean?” chiede Connie. (Il che
è abbastanza
sorprendente, visto il modo in cui Sasha ha appena apprezzato
apertamente…l’aspetto di Marco.)
“Nah,
meglio di no,” rispondo. Decido di ignorare le beffe di Ymir
riguardo la mia
sessualità, e Historia che cerca di zittirla.
“Non, uh… non credo che sia
abituato a bere, ecco. Non so se si divertirebbe.”
Inoltre,
preferirei tenerlo il più lontano possibile da voi dopo
quello che è successo
l’ultima volta. Non voglio che corrompiate il mio Marco buono
e perfetto con la
vostra malvagità.
“Noiooooosoooo,”
canzona Sasha. “Farai meglio a non darci buca anche alla
festa. Porta anche
Marco. Vedremo di sistemare il suo problema con
l’alcol.”
Già,
non è una cosa molto rassicurante, Sash.
Non
avevo neanche pensato di invitare Marco a quella festa, ma in
effetti… già,
renderebbe tutto molto più sopportabile. Soprattutto se ci
sarà anche Eren. Non
è una cosa troppo egoista da dire, no? In più,
Bert e Reiner hanno detto che ci
saranno, quindi non sarò l’unico che
conosce…
“Jean?”
“Huh?”
“Ti
ho appena chiesto cosa hai intenzione di prendergli,”
Historia sorride
graziosamente, “come regalo.” Per essere qualcuno
che è appena venuto a sapere
di questo ragazzo, sembra già fin troppo
interessata… hmm. Dovrò tenerla
d’occhio. Potrebbe avere un pizzico di invadenza nascosta
come gli Springles
laggiù.
“Ho,
uh…” Non puoi tornare indietro una volta che lo
dici, Jean. “Stavo, uh… gli sto
facendo un mixtape.”
I
tentativi di Connie e Sasha di nascondere le risate li portano solo a
sputacchiare dappertutto su di me. Disgustoso.
“Ma
dai!” Esclama Connie, per poi continuare bisbigliando
sommessamente, “Non è un
po’… ecco, sdolcinato?”
Sento
il sangue affluire al mio viso, e inizio a sentire piuttosto caldo,
cazzo. Non
dirlo come se il pensiero non mi fosse già passato per la
testa, Connie.
Tra
tutti quanti, è Ymir a intervenire per mettermi in salvo.
“Ehi
ragazzi, smettetela! Credo che sia una cosa figa da regalare! Qualcuno deve pur educare tutti voi per
farvi vedere che musica dovreste ascoltare. È per questo che
la gente è così
stupida… i One Direction uccidono i neuroni. È
scientificamente provato.” Vedo
Historia alzare gli occhi al cielo con aria esasperata a
quell’affermazione.
“Che canzoni hai messo finora, Jean?”
Le
mostro qualche traccia che ho già scelto (è
letteralmente stressante pensare a
tutta la buona musica che Marco non ha ancora
ascoltato), e Ymir annuisce con aria ammirata, e commenta con un
mormorio
rassicurante la mia scelta di canzoni dei Fleetwood Mac; Connie e Sasha
non
fanno che lamentarsi teatralmente.
“Non
ascoltare quei perdenti, Jean,” mi dice in un sorriso.
“Non riconoscerebbero l’album
migliore di tutti i tempi nemmeno se Rumours
li colpisse dritti in faccia. Cioè, Connie ha Nicki Minaj
come suoneria, cazzo.
La sua opinione su qualsiasi discussione in ambito musicale
sarà irrilevante
fino alla fine dei suoi giorni.”
Quel
sabato è una giornata particolare. Inizia in maniera strana,
forse perché non ho
dormito abbastanza,
dato che sono stato sveglio fino alle due del mattino per trasferire
canzoni
sul CD per Marco (ho pensato che un’audiocassetta vera e propria fosse un tantino troppo
obsoleta, anche se lui fa un
po’ il vecchietto alle volte).
Marco
arriva intorno a mezzogiorno, e non sto esagerando se dico che sto
letteralmente correndo avanti e indietro per la cucina mentre aspetto
che
compaia davanti al cancello posteriore. (Quando lo vedo, premo il viso
sul
vetro della finestra, e vederlo ridacchiare del mio naso
all’insù spiaccicato
sulla superficie mi fa sorridere come uno sfigato.)
Scivolo
fuori dalla porta sul retro con una lattina di Coca-Cola per me e una
di Dr.
Pepper per lui, e cammino a grandi passi sul prato mentre posa i suoi
strumenti, finché non arrivo a circa due metri di distanza
dal bordo della
piscina. A quel punto mi blocco.
Oh,
già. La piscina.
Ancora
non l’avevo presa in considerazione.
È
strano, perché voglio
fare un altro
passo avanti. Prima passavo tutto il tempo seduto attorno alla piscina
insieme
a Marco. Diamine, mi sono persino inginocchiato proprio sul bordo
quella volta
in cui lui è caduto in acqua.
Eppure
adesso eccomi qui, con le gambe inchiodate al terreno, sembrano di
ghiaccio, o
d’acciaio, o di piombo, o qualsiasi cosa che sia
distintamente inamovibile.
Non
dovrebbe succedere una cosa simile. È passata una
stramaledetta settimana. Allora
perché questa stupida
paura è anche peggio di prima? Non riesco a muovermi, cazzo.
Non
voglio
passare di nuovo tutto questo. Cazzo.
Tuttavia,
sapete com’è Marco, no? Sembra che sappia sempre
cosa deve fare. Come quella
volta in cui venne a cena, ed era semplicemente un ospite fantastico. O quando sapeva come fare i
conti con una commozione
cerebrale. O quando sapeva esattamente come fare a tirarmi fuori dal
mio
silenzio.
Quindi
lascia tutti i suoi strumenti senza pensarci un attimo, e mi raggiunge
a metà
strada sul prato. Ora sto guardando lui, e non l’acqua che
lambisce il bordo
della piscina. Qualche accenno di vita sembra riaffiorare nei miei arti.
“Ehi.”
Ah, quel sorriso.
“E-ehi.
Ti, uh, ti ho portato una bibita.”
Gli
porgo rigidamente la lattina di Dr. Pepper. Lui l’afferra, ma
i suoi occhi
scuri stanno analizzando la mia faccia – non so esattamente
cosa stia cercando
– ma non riesco a trovare il coraggio di guardarlo negli
occhi, quindi
concentro il mio sguardo su… uh, sul suo petto. (Perché dev’essere
più alto di me…?)
Quella
polo non ha mai lasciato molto spazio all’immaginazione,
neanche da asciutta. (E con quel
pensiero, posso
praticamente sentire le risatine di tutti i miei amici, e la voce di
Ymir
trionfare in un “ve l’avevo detto”.)
Distogli
lo sguardo.
Non ci pensare, Jean. Le cose prendono una piega decisamente gay quando ci pensi.
“Mi
sei mancato mercoledì,” sorride. In maniera
perfettamente innocente. Ma riesce
a strapparmi una smorfia, cazzo. Di’ cose del genere, Marco,
e darai davvero a
quegli idioti del college delle prove per tutti i loro sospetti campati
per
aria. Potremmo evitare?
“G-già.
Anche tu. Diciamo che l’esame di francese non è il
mio passatempo preferito per
trascorrere il pomeriggio.”
“Se
qualche volta ti va di scambiare e vuoi essere importunato da qualche
quarantenne, fammi sapere,” dice con un sorrisetto. Per tutta
risposta, sbuffo.
“No, sto scherzando. Sicuramente stai messo peggio tu,
Jean.” Tira la linguetta
della lattina e beve un sorso colmo di gratitudine. Il suo pomo
d’Adamo
ondeggia su e giù a ogni sorso.
Non
dovrei guardare neanche questo.
Il
suo SMS delle due del mattino quella notte recita:
Da:
Marco-Polo
Oggi sei arrivato a due metri dalla piscina. Mercoledì
facciamo un metro e
mezzo!
Lascio
che il telefono mi cada sul viso, e tiro un sospiro. Il mio sorriso
è
riluttante, ma c’è.
Storia
europea, matematica e filosofia sono accumulate brutalmente
nei primi tre giorni della settimana. È come se
preferissero vedere gli studenti collassare nel bel mezzo
dell’esame piuttosto
che passarlo. Storia è okay. E se per
‘okay’ si intende la paura che la mia
mano possa cadere per quanto cazzo ho scritto, è andata
proprio così.
Anche
matematica è a posto; riesco a stento a tenere gli occhi
aperti, ma mi
destreggio nell’esame abbastanza bene da poter pensare che il
mio voto non sarà
così basso da farmi sbattere in strada da mio padre.
Non
si può dire lo stesso di Connie, tuttavia.
Gliel’avevo detto che avrebbe dovuto
imparare la serie di Taylor. (La gente dovrebbe ascoltarmi
più spesso.)
Nel
secondo in cui mettiamo piede fuori dall’aula
d’esame, Connie collassa
letteralmente a terra, e preme il viso sul pavimento con un urlo
soffocato.
“È
andata così male,
eh?” ridacchio
ironicamente, dandogli dei colpetti sulla gamba con il piede. Un paio
di
persone che passano vicino a noi ci fissano cautamente, vedendo un
tizio pelato
che giace a faccia in giù sul pavimento, e iniziano a
bisbigliare sottovoce tra
di loro.
“Huuuuuuuuuuuuuurghhhhh,”
ecco la risposta di Connie.
Credo che
sia rotto. L’unica cosa appropriata è fare una
foto alla sua disgrazia, e
mandarla a tutti i miei contatti su Snap Chat.
Ci
metto un po’ a raschiare il suo cadavere via dal pavimento
ma, quando ci
riesco, il mio stomaco mi ricorda che è ora di mangiare, e
ci dirigiamo verso
la mensa, mentre Connie mi costringe a giurare di non parlare mai
più
dell’esame di matematica fino alla fine dei nostri giorni.
Armin
ci ha già battuti sul tempo arrivando dall’aula di
matematica fino alla mensa
prima di noi (la cosa non mi sorprende, dato lo spettacolo di
auto-commiserazione di Connie) ed è seduto di fronte a Ymir
e Historia al
nostro solito tavolo. È piuttosto strano. Armin di solito
è appiccicato a Eren
e Mikasa come se fosse colla.
“Ehi,”
mi saluta Historia con un sorriso; senza dubbio il suo umore
è alle stelle,
dato che lei e Ymir ormai hanno finito con questi maledetti esami di
fine anno.
“Com’è andato
l’esame?”
“A
posto,” alzo le spalle, e poi ricordo il patto di Connie.
“Abbiamo, uh, abbiamo
deciso di non parlarne, comunque.” Connie annuisce con
decisione e prende posto
in una delle sedie di plastica dura con aria imbronciata. Scivolo sulla
sedia
affianco a lui e allungo un braccio per raggiungere il piatto di
patatine di
fronte a Ymir (che mi schiaffeggia la mano in maniera insensibile).
È qui che
interviene Armin.
“Oh
Jean, Mikasa ha detto che ti stava cercando, comunque.”
Questa
sì che è una deviazione inaspettata.
“Huh?”
“Sì,
ha detto che era qualcosa di importante.”
E
ora che succede? Mikasa si è finalmente resa conto del suo
sconfinato amore per
me e vuole dichiararsi di fronte a tutti i nostri amici?
Già,
solo nei miei sogni.
Non
riesco a ricordare l’ultima volta in cui ho scambiato una
parola con Mikasa,
figurarsi una conversazione vera e propria (che non fosse parte di
qualche
fantasia o qualche desiderio nella mia testa). Cosa diamine potrebbe
volere?
Considero
tutte le ragioni possibili (e anche quelle impossibili)
per cui potrebbe voler parlare con me, mentre Connie e Ymir iniziano a
parlottare su qualcosa che ha a che fare con la festa di fine anno
organizzata
da Connie.
“Allora,
c’è un imprevisto,” lo sento parlare.
“I miei vecchi mi hanno detto che non mi
lasciano la casa anche quest’anno, il che…
è un bel problema.”
“Stai
scherzando?” Ymir si lamenta ad alta voce, gettando la testa
all’indietro per
fissare il soffitto con uno sguardo truce. “È
terribile, cazzo.”
“Non
c’è nessun altro che possa mettere casa sua a
disposizione?” domanda Historia.
“Non
so… Bert e Reiner hanno una casa abbastanza grande,
però… non conoscono la metà
di voi, quindi diciamo che sarebbe un po’ strano,”
sospira Connie. “L’unica
opzione che rimane è…”
C’è
un gioco di sguardi decisamente poco sottile da parte sua. Non ci
pensare,
piccolo criminale che non sei altro. Non pensare di potermi convincere
a fare qualsiasi cosa.
“Quale
sarebbe quest’ultima opzione?” chiedo bruscamente,
unendomi alla conversazione
e spingendo Mikasa (purtroppo) sul fondo dei miei pensieri.
“Dillo e basta,
faccia tosta.”
“Be’…
casa tua è piuttosto grande, Jean.”
Prima
che possa anche solo iniziare a protestare in tutti i modi dicendo che
non
lascerò mai che accada una cosa del genere
(perché mio padre è un bastardo, e
mia madre probabilmente non vorrebbe che bevessimo, e dovrei stare
vicino alla
dannatissima piscina, e… e semplicemente Eren
in generale), Connie inizia a sparare cazzate sperando di farmi
cambiare idea.
“E
dai, hai un sacco di spazio, e il cortile, e la piscina.
Sarebbe grandioso. Per favore? Cerca di venirmi incontro.”
Il
mio monologo interiore fa una comparsa nella mia mente in
quell’istante.
Sai,
in
fondo non è una cattiva idea. È un modo per
sistemare definitivamente tutto
quello che hai rovinato l’anno scorso. Ti farebbe passare di
nuovo per un
ragazzo a posto. Non uno che impazzisce o evita la gente per altri
dodici mesi
per colpa di una stupida fobia.
Ma
c’è Eren. Voglio veramente Eren in casa mia?
Voglio Eren, in casa mia, vicino a
una piscina, con la
probabilità che
rivanghi sicuramente ciò
che è
successo, quando preferirei che non me lo ricordasse in quel modo? La
conclusione è un neanche per sogno
abbastanza immediato.
Però
cosa pensi che farebbe Marco al posto tuo?
Non
ci pensare. È piuttosto ovvio che cosa farebbe il mio
Gesù lentigginoso.
“Jean.”
Questo
non è Connie. Né Armin, Ymir o Historia. Mi volto
nella sedia per vedere Mikasa in
piedi dietro di me.
Dannazione. Una persona così spaventosa non dovrebbe essere
così sexy.
“E-ehi.”
Bene. Dov’è la
mia voce. Datti una
calmata, Jean. “Dimmi tutto, Mi—”
Ed
è qui che vedo Eren, che gironzola con aria imbarazzata
qualche metro dietro
Mikasa, strisciando un piede avanti e indietro sul linoleum, lanciando
occhiatacce ovunque tranne che a me. Oh.
“Eren
voleva parlarti.” Forse intendevi: tu
volevi che Eren mi parlasse.
…
Aspetta, cosa?
Fisso
Mikasa senza dire una parola mentre tira Eren per una manica, e tutti
quanti al
nostro tavolo si zittiscono improvvisamente. Come dar loro torto. Ogni
traccia
di lucidità ha abbandonato anche il mio cervello.
“Ehi.”
Cosa,
cosa, cosa, cosa, cosa.
Non
rispondo. Deglutisce rumorosamente e si gratta il braccio, visibilmente
in
imbarazzo. Probabilmente si aspetta che io dica qualcosa. Sembra
rafforzare la
sua espressione in qualcosa di più determinato. Io sembro
ancora un cerbiatto
abbagliato.
“Quindi,
uh, stavo pensando,” dice, prima di girarsi a guardare Mikasa
in cerca di uno
sguardo rassicurante. “Devo farlo sul
serio, Mikasa?”
Lei
si limita ad annuire severamente, incrociando le braccia al petto. Lui
borbotta
qualcosa, ma continua.
“Ascoltami.
Questa… cosa. Sta
andando avanti da
veramente molto tempo. E, ecco… stavo pensando che potremmo
dichiarare una
tregua, perché, uh…”
Cosa
dovrebbero essere? Delle scuse? Perché lo sta facendo? Chi
l’ha costretto? Mi
sento decisamente cinico, e continuo a squadrarlo da capo a piedi. I
suoi occhi
si posano per un istante sul pavimento, ma è troppo testardo
per essere messo a
tappeto da un mio semplice sguardo. Non è mai successo
finora.
“Perché,
uh… be’, mi mancano i tempi in cui uscivamo tutti
insieme, okay? E mi sono
rotto le palle di non sedermi con tutti gli altri a pranzo, e di
evitarci a
vicenda durante le lezioni. E di ignorarci nei corridoi. E di non
potervi
vedere dopo la scuola.” (Questo discorso è diretto
a me, o a tutti quanti?)
Eren continua, nonostante la mia distrazione. “E sono stato
una merda a
spingerti in piscina quella volta, dato che tu ovviamente non ci volevi
entrare, e mi dispiace per qualsiasi cosa ti abbia fatto impazzire,
anche se
proprio non capisco, perché ti sei comportato in modo
veramente strano e non è
per niente normale, ma penso che quello che sto cercando di dire,
è, uh…
cazzo—” Le sue parole a questo punto si susseguono
piuttosto velocemente, e
inciampa nelle sue stesse frasi per provare a chiudere il discorso al
più
presto. Ma riesce a evitare di menzionare il problema
dell’acqua prima di
qualsiasi altra cosa. Il che è sorprendente.
Perché stiamo parlando di Eren, che
di solito dice semplicemente la prima cosa che gli passa per la testa.
“Senti,
non è stato per niente carino da
parte mia, davvero. Me ne rendo conto, adesso. Me ne resi conto anche
allora.”
Per
niente carino da parte tua, hai dannatamente ragione, cazzo,
penso
io. Eren guarda Mikasa, che gli rivolge un piccolo, raro sorriso di
rimando,
prima che lui torni a posare lo sguardo su di me. Oh. Dovrei dire
qualcosa.
Merda.
“Io,
uh… quindi, siamo a posto?” mi chiede, vedendo che
la mia connessione tra il
cervello e la bocca si è apparentemente presa una pausa.
Forse se lo fisso
abbastanza a lungo riuscirò a vedere attraverso il suo
corpo. Non può essere
frutto di un genuino rimpianto da parte sua, giusto? Giusto?
“Jean?”
è la voce di Connie, accompagnata da un notevole colpo sul
mio piede sotto al
tavolo. Ahia! Gli rivolgo uno
sguardo
truce, ma lui non fa altro che strabuzzare gli occhi, provando a
gesticolare in
maniera decisamente poco sottile tra me ed Eren. Alle sue spalle, leggo
il
labiale di Historia, che mi suggerisce qualcosa del tipo:
“scusati”.
Davvero?
Dovrei scusarmi? Dodici mesi pieni di merda, di discorsi sottovoce nei
corridoi, di occhiatacce durante le lezioni, tutto viene annullato
semplicemente con uno stupido discorsetto?
Il
mio monologo interiore – che di recente è
diventato sempre di più (con mia
grande vergogna) un Gesù con le lentiggini interiore
– mi parla nuovamente.
Perdona e dimentica, Jean. Sii magnanimo. Sistema questa situazione del
cazzo.
“Io,
uh… scusami-“ inizio lentamente, le parole escono
prima ancora che io abbia il
tempo di processarle. “-per le costole. E, uh, per il naso… e per tutto il
resto.” Ma non credo di potermi scusare per
aver dato di matto.
Non
credo di averti mai odiato. Ero solo… spaventato, cazzo.
Eren
digrigna i denti, e per un secondo penso stia per esplodere di fronte
alle mie
patetiche scuse. Ma non lo fa. Inizia semplicemente a mordicchiarsi
l’interno
della guancia, e si gratta un lato del naso malmesso. Mi passa per la
testa
che, in effetti, forse anche lui si è sentito di merda per
tutto questo tempo.
Forse ha passato dodici mesi pensando – sapendo
– di aver fatto una cazzata. Era solo troppo orgoglioso per
ammetterlo.
“Nah,
è tutto a posto,” afferma. “Il mio naso
sta anche meglio così, no?”
Sento
Connie che soffoca una risata, e vedo Mikasa alzare gli occhi al cielo,
mentre
io sono immobilizzato dall’incredulità. Cosa.
“Mikasa,
Eren, perché non vi unite a noi?” interviene
Armin, indicando due sedie vuote
affianco a lui. A quanto pare lui
ha
deciso che queste scuse bastano. Già. Non ho ancora deciso
del tutto se per me
può bastare così. Dovrebbe bastare. Vorrei tanto
che bastasse questo.
Mikasa
obbedisce, ed Eren sembra tirare un enorme sospiro di sollievo che
stava
trattenendo, mentre la segue intorno al tavolo, per poi scivolare in
una delle
sedie con lo schienale duro. Mikasa intavola immediatamente una
conversazione
amichevole con Armin, mentre Ymir tira una pacca sulla spalla di Eren,
e Connie
si sporge sul tavolo per tirargli un pugnetto amichevole sul braccio.
Mentre
io sono… uh, ecco, sotto shock probabilmente sarebbe una
descrizione accurata.
Sopraffatto. Senza parole.
T-tutto
questo è appena successo davvero?
Eren
Jaeger è appena venuto da me per scusarsi? E io gli ho
appena offerto le mie -
patetiche – scuse a mia volta?
Non
riesco a definire come tutto questo mi faccia sentire. Guardo attorno
al
tavolo, e tutti sorridono, chiacchierano, ridono.
Connie avvinghia Eren in una morsa per strofinargli le nocche sulla
testa,
finendo quasi per mandare all’aria il piatto di patatine di
Ymir (fortunatamente
lei ha i riflessi troppo veloci perché avvenga una cosa del
genere, e le salva
con un fiero urlo di guerra). Io non riesco a sorridere, non riesco a
ridere,
però sento… qualcosa. Come se mi stessi liberando
di qualcosa di brutto,
raschiandolo via, una scaglia dopo l’altra.
Sento
il bisogno di strofinarmi gli occhi, di far dissolvere questo sogno. Non può succedere
davvero,
giusto? È troppo bello per essere vero. Non avrei mai
pensato… mai e poi mai…
Qualcosa
si rigira nelle mie viscere, strisciando fino al mio petto. Lo
comprime,
avvolgendo le mani attorno alla mia gola. Ah. È una
sensazione con cui ho fatto
i conti molto spesso ultimamente.
“E-ehi,”
dico, avvicinandomi a Historia, dato che è la più
vicina a me. “S-sto andando
un attimo in bagno, quindi… torno subito.” Lei
annuisce e mi rivolge uno
sguardo raggiante; è così contenta, e io sono
così fottutamente euforico,
e… cazzo. Devo andarmene.
Praticamente
me la do a gambe per uscire dalla mensa, e scappo verso il bagno
più vicino.
Fortunatamente è vuoto, e mi chiudo a chiave in una delle
cabine, crollando
sulla tavoletta abbassata del gabinetto. Espiro profondamente. E tutto
sembra
sopraffarmi così improvvisamente.
Merda.
Cazzo. Non piangere. Sei un perdente di merda. È una cosa
bella, cazzo!
Tiro
fuori il cellulare dalla tasca dei jeans, premendo i tasti fino a
formare un
messaggio abbastanza coerente.
A:
Marco-Polo
ho bisogno di parlarti adesso
A:
Marco-Polo
posso chiamarti
Qualcuno
entra il bagno, e io trattengo il respiro automaticamente quando lo
sento
pisciare nell’orinatoio, aprire il rubinetto, e infine
accendere l’asciugamano
elettrico. Cristo santo, sembra la pisciata più lunga che
abbia mai sentito.
Porto le gambe sulla tavoletta e poso il mento sulle ginocchia,
fissando lo
schermo del mio Samsung come se fosse un oracolo. (Diciamo che in
questo
momento lo è.)
La
porta si richiude quando quella persona esce dal bagno e, nello stesso
momento,
il mio telefono lampeggia con l’arrivo di un nuovo messaggio.
Da:
Marco-Polo
Certo! Tutto bene? È successo qualcosa?
Ovviamente
è preoccupato. Si preoccupa sempre.
Non
mi scomodo a rispondere, mi limito a scorrere semplicemente il dito sul
suo
contatto, avviando la telefonata. Premo il cellulare
all’orecchio non appena
inizia a squillare. Risponde ancor prima che si avvii il primo squillo
(facendomi saltare per la sorpresa).
“Jean?
Stai bene? Cos’è successo?” Wow, sembra allarmato.
Va
tutto bene, Marco, sto bene. Non c’è niente di cui
preoccuparsi. È solo che è
successo qualcosa di veramente grandioso.
È questo che vorrei dirgli.
Ma non è quello che riesco effettivamente a esprimere.
Riesco a stento a
emettere un suono strozzato. Cazzo.
“Jean?
Jean! Cosa c’è che non va?”
Appoggio
la fronte sulla mano libera, e provo a controllare il modo in cui il
nodo che
ho in gola prova a spingersi fuori dalla mia bocca. Sbatto le palpebre
per
allontanare le lacrime pungenti. Ci riprovo.
“Sto…
bene.” Respiro profondamente, e poi ripeto. “Sto
bene. Alla grande. Marco, sto
davvero, veramente benissimo,
cazzo.”
Ci
mette un minuto a realizzare, perché probabilmente sta
cercando di capire se
sto facendo il solito bastardo sarcastico. Non è
così. Credo che lo capisca,
perché il suo tono cambia leggermente, diventa meno agitato.
“Cos’è
successo?”
“È
che, uh… Eren, lui… ha ricominciato a parlarmi. E
anche Mikasa. Io, uh… cazzo.
Cazzo, scusami. Sono un po’ scosso adesso.”
C’è
quello che identifico come un silenzio sbalordito; riesco a sentire
solo il suo
respiro calmo dall’altra parte della linea. Il suono mi fa
rizzare i capelli
sulla nuca.
“…
Davvero?” la voce di Marco è bassa, ma, ecco,
riesco a sentire il suo sorriso. Lo
immagino nella mia testa.
“Già.”
Davvero. Non so perché.
Perché
proprio adesso? Perché ha deciso proprio oggi di averne
abbastanza? Eppure l’ha
fatto.
“Sei
con loro adesso?”
“Ah,
uh… no… ho, uh, dovuto…
cioè, so che è ridicolo,
ma…” Dovevo andarmene.
Stavo diventando troppo sentimentale.
“Ho
capito. Sono veramente felice per te, Jean. Dico sul serio.”
Sento le mie
orecchie riscaldarsi con quella frase, e vorrei quasi che non ci
fossero tanti
chilometri a separarci in questo momento. Vorrei vedere di persona la
sua
espressione. “Te lo meriti, Jean.”
Ci
sono momenti in cui vorrei chiedergli a cosa stia pensando.
Cioè, a cosa pensi
davvero. In effetti, accade la maggior parte del tempo. È
quel tipo di persona
con cui non mi dispiacerebbe parlare anche per tutto il giorno. Un
giorno
intero, una settimana intera, una vita
intera. Non importa.
Non
riesco a dirgli niente di tutto ciò. Quindi mi limito a
tirare su col naso
rumorosamente, strappandogli una risata.
“Sta’
zitto,” sibilo nella linea telefonica. “Smettila di
ridere!”
Ovviamente,
ottengo l’effetto contrario. Marco non fa che ridere ancora
di più, mentre io
affondo la testa fra le ginocchia con un sorriso veramente idiota.
“Sei
proprio uno sfigato,” ridacchia lui.
“Lo
so,” ribatto sottovoce. “Anche tu.”
“Allora
ci vediamo domani?”
“Sì.”
“Il
giorno del mio compleanno.”
“Già.”
“Non
vedo l’ora.”
Devo
dirgli “ciao” ben cinque volte prima che accetti di
riattaccare per primo. Il
che non è per niente
imbarazzante.
Aspetto altri cinque minuti affinché le mie guance perdano
un po’ di rossore e
io mi senta pronto a tornare nella mensa.
Armin
mi lancia uno sguardo quando torno a sedermi nella sedia di plastica
affianco a
Connie, ma non dice una parola. Ne sono contento. Mi chiedo se gli
altri si
siano accorti della mia fuga. Non importa. Mi unisco alla
conversazione, e una
bella sensazione irradia nel mio petto.
“Ehi,
Con,” lo chiamo, tirandogli un colpetto sulla spalla per
distogliere la sua
attenzione dal suo dibattito con Ymir su quale birra abbia il sapore
migliore: quella
in lattina o in bottiglia. “Credo, uh… credo che
non sarebbe un problema fare
la festa a casa mia, dopo tutto.”
La
brutale pacca sulla spalla, il coro di ululati assordanti, la
sensazione di
essere incluso, finalmente, finalmente…
mi fa sentire così dannatamente bene.
Note
dell’autrice:
La pausa è finita! /coriandoli da festa ovunque/
Povero
Jean…questo capitolo è stata una montagna russa
per lui! Ha tanti di quei
problemi…e non possono semplicemente scomparire, purtroppo.
Ho
fatto un sacco di ricerche prima di scrivere questo capitolo
– principalmente sugli
attacchi di panico e l’acquafobia, e su come fare i conti con
entrambi. Mi
hanno veramente aperto gli occhi, e spero di averli presentati entrambi
in modo
realistico e rispettoso.
Questo
è stato un capitolo Jean-centrico. Il prossimo capitolo
sarà un po’ più
Marco-centrico, per quanto riguarda gli avvenimenti che
descriverò. Il suo
compleanno non lo passerà in modo tranquillo, questo
è poco ma sicuro. Poveri
ragazzi. Sono terribile con loro.
Ma
vuol dire anche che nel prossimo capitolo comparirà Erwin in
slip da bagno. Non
vedete l’ora, eh?
A
parte ciò: Ymir ha ragione quando dice che Rumours dei
Fleetwood Mac è l’album
migliore di tutti i tempi. Almeno in questo non mi contraddite, gente.
Per
favore scrivetemi il vostro parere! Vivo per le vostre recensioni come
se non
ci fosse un domani! Fatemi sapere cosa vi piace, cosa non vi piace,
cosa sperate
che accada! Fatemi domande! Vi adoro tutti… ci vediamo al
prossimo capitolo!
Note
della traduttrice:
Come promesso, sono ancora viva, mi scuso pubblicamente per
l’attesa! (In un
modo o nell’altro mi coordino sempre con l’autrice
originale: anche in inglese
questo capitolo uscì con un bel po’ di
ritardo…ops!)
Giuro che non cercavo di farvi soffrire di proposito, è che
ero a Londra (per
il concerto dei Fleetwood Mac, ironia della sorte) e non avevo il
computer, né
tanto meno una connessione internet. Grazie a tutti coloro che mi hanno
mandato
messaggi sia qui che su tumblr, spero che sia valsa la pena di
aspettare… :D
corro già a iniziare il prossimo capitolo! Alla prossima.
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Capitolo 9 *** You Give Love A Bad Name ***
Chapter 9: You Give Love A Bad Name
Siamo
troppo giovani per essere così tristi.
“Jean,
tesoro, è il tuo telefono che continua a suonare?”
Alzo
lo sguardo dagli appunti di filosofia sparsi a casaccio sul mio petto e
provo a
spostare i piedi dal bracciolo del divano con nonchalance quando mamma
appare
sulla porta del salotto, con le mani sui fianchi. A giudicare dalla sua
espressione, non credo che sia contenta dei miei calzini pulitissimi
sui mobili. Il rumore della mia suoneria dei messaggi
si ripresenta, piuttosto attutito, dal punto del divano in cui
l’ho seppellito
sotto una pila di cuscini. È la trentasettesima volta,
cazzo. Sicuramente fra poco
perderò il conto.
“Non
rispondi?” mi interroga mia madre, spostando lo sguardo dalla
montagna di
cuscini su di me, e poi di nuovo sui cuscini.
“No,”
rispondo, incredulo. Che Connie voglia ricordarlo o no, abbiamo un
esame
domani. Anche se è di filosofia, e la odiamo entrambi con la
passione di mille
soli incandescenti.
Voglio
passare lo stesso quest’esame. Connie, a quanto pare,
preferisce mandarmi
messaggi senza sosta per la bellezza di tre ore, da che sono tornato a
casa.
I
primi SMS non erano un problema. Ho risposto, l’ho
accontentato. Non è poi così
sorprendente, dato che il mio umore
era alle stelle dopo aver lasciato il campus qualche ora fa e, ehi, il
suo
entusiasmo per la festa era veramente
contagioso.
Trentasette
messaggi dopo, diciamo che l’entusiasmo inizia a calare
leggermente.
“È
soltanto Connie,” spiego brevemente a mia madre, poggiando la
testa
all’indietro sul bracciolo del divano per guardarla
sottosopra. “Che spreca la
sua tariffa telefonica.”
“Soltanto
Connie,” ripete mia mamma, un po’ distrattamente.
Probabilmente si starà
chiedendo perché mai dovrei ignorare un amico
così affascinante. “Oh! A
proposito!” inizia a cianciare, sedendosi sulla strisciolina
di divano ancora
visibile tra il mio corpo e il bordo. Mi sposto un po’, per
lasciarle più
spazio, ma principalmente per non soffocare sotto al suo peso quando si
siede
praticamente su di me. “Mi ha chiamata la nonna stamattina.
Dato che tuo padre
è fuori città la settimana prossima, pensavo di
prenotare un volo per andare a
trovarla. Vorresti venire con me, tesoro?”
A
giudicare dall’aria d’attesa che trasuda dalla sua
espressione, spera in un sì.
Rimarrà delusa. Son un bastardo egoista.
“Uh,
ho già degli impegni, mamma,” affermo.
È una mezza bugia. Non ho impegni, non
ancora, ma mi piacerebbe molto organizzare
qualcosa se c’è la possibilità di avere
casa libera per qualche giorno. La sua
espressione si rabbuia leggermente, ma non sembra troppo affranta.
Credo di
poter continuare a vivere senza che il senso di colpa diventi un
fardello troppo pesante sul mio
cuore. “Scusami.”
“No,
no, tesoro, non c’è problema,” mi
rassicura, con delle pacche affettuose sul
braccio. “Sei un ragazzo di diciannove anni. È
ovvio che hai i tuoi impegni.
Vorrai passare l’estate con i tuoi amici.”
“Già.”
E sicuramente non rinchiuso in quella baracca
del cazzo nel bel mezzo del nulla che è la casa
di mia nonna. Niente
internet. Niente segnale telefonico. Niente aria condizionata. Tutti
parlano
francese per tutto il tempo. È praticamente
l’inferno. “Tu, uh…sei sicura che
vada bene, mamma? Prendere l’aereo fin lì da sola
e tutto…?”
“Starò
bene,” mi dice, con un sorriso che le tira le labbra rosse.
“Tuo padre non
dovrebbe essere l’unico a poter scappare ogni
tanto.”
Alzo
lo sguardo su di lei, colmo di curiosità, e di prudenza,
praticamente confuso. Il modo in
cui ha articolato
quella frase mi fa pensare che lei sappia.
Che abbia capito che alcuni di quei viaggi di lavoro non
c’entrano
effettivamente nulla con il lavoro.
“Jean?”
domanda lei; l’ho fissata attentamente in viso per un
po’ troppo tempo. Chino
nuovamente il capo sugli appunti di filosofia che stavo ripassando, e
non alzo
un polverone per nulla. Spero veramente che sappia,
cazzo.
“Niente,”
mormoro, sfogliando qualche pagina dei miei appunti disordinati su
Bertrand
Russell. “Sembra una buona idea. Proverò a
mantenere la casa tutta intera
finché starai via.”
Ride
tirandomi un altro schiaffetto sul braccio, e mi informa del fatto che
sono un
figlio fin troppo monotono per
darle
qualsivoglia preoccupazione. Dice che la cosa che la preoccupa di
più è che la
mia dieta potrebbe consistere unicamente in caramelle gommose alla
frutta.
Accidenti, grazie. (Comunque, le caramelle gommose sono
buone.)
Ovviamente
papà non torna a casa per cena, quindi siamo solo noi due e
i libri di
filosofia sul tavolo quella sera. A mamma non dà fastidio;
di solito fa storie
per il telefono, ma finché sono libri va tutto bene.
Tuttavia, non li guardo
più di tanto. La torta è troppo buona per pensare
ai libri.
“Quindi
per che ora devo aspettarti a casa domani?” mi chiede, mentre
porta via il mio
piatto vuoto. La seguo in cucina, portandole entrambi i bicchieri e
posandoli
sullo scolapiatti, mentre lei carica la lavastoviglie.
“Immagino tu abbia già
dei programmi?”
“Nah,
in realtà no,” ammetto, facendo spallucce.
“Oh?
Non si usa, tra voi giovani, uscire e ubriacarsi tantissimo dopo la
fine degli
esami?” Metto in dubbio il suo utilizzo dei termini
“si usa” e “giovani” con
un’espressione seria. Per favore, non parlare mai
più in quel modo, mamma.
“Mamma mia, Jean! Cos’hai che non va? Sei sicuro di
essere un adolescente
normale? A volte temo che in realtà ci sia un cinquantenne
intrappolato nel tuo
corpo.”
“Dovresti
esserne felice, lo sai,” metto il broncio, incrociando le
braccia davanti al
petto. “Potrei essere un drogato, o in prigione, o
chissà cosa.” Potrei essere
come papà.
“Tornerò a casa subito
dopo pranzo, probabilmente. Devo stare con Marco.”
“Ah,
Marco,” sorride mia madre. Oh no.
Sta
iniziando a imparare da Sasha. Non mi piace quello sguardo.
“Chi avrebbe mai
pensato che stessi assumendo un amico per
te, invece di assumere un inserviente per la nostra
piscina?” Si scosta i
capelli biondo cenere dalla spalla e sfoggia un sorriso
dall’aspetto
decisamente malizioso. Per tutta risposta, mi acciglio.
“Cristo
santo, ma sei completamente
spudorata?”
Lascio
mamma
a godersi una replica di Desperate
Housewives e mi ritiro al piano di sopra, nella sicurezza
della mia stanza.
(Dove ci sono meno probabilità di
dover sopportare la noiosissima TV, nonché meno
probabilità di venire assillato
per le mie scelte di vita.)
È
intorno
alle otto e mezzo che decido di premiarmi con un rapido sguardo alle
ultime
novità; accendo il portatile, e mi aspetto un’infinità di piccole notifiche
rosse nell’angolo in alto a destra
della mia homepage di Facebook, sicuramente da parte di Connie.
Fortunatamente,
sono meno numerose di quanto temevo.
Sfoglio
le
solite cose: Sasha Braus ti ha mandato un
poke, ad Armin Artlet e altre tre persone piace il tuo post, Historia
Reiss ha
commentato una tua foto. L’ultima notifica della
lista è quella su cui
clicco alla fine: Connie Springer ti ha
invitato al suo evento: ** FEEEESSSTAAAAAAAAA PER LA FINE DEGLI ESAMI**
Oh
cielo. Il
numero di lettere della parola festa
è già abbastanza odioso. Credo di essermi pentito
di aver cliccato su quella
notifica.
Analizzo
rapidamente la pagina dell’evento, gettando uno sguardo sugli
invitati (e su
quelli che hanno già confermato la partecipazione senza
neanche sapere la
data). Scrivo un nuovo commento sotto alle informazioni sparse di
Connie e a
quella cazzo di immagine di copertina atroce
che ha scelto di piazzare in cima alla pagina.
Jean
Kirschtein:
>> la casa è libera
il prossimo
weekend. venite per le 8. portate l’alcol o vi caccio
Praticamente
subito dopo aver cliccato invio, ottengo un “Mi
piace” immediato da Connie e
Sasha. È accompagnato da un commento di Sasha che contiene
fin troppi punti
esclamativi. A quanto pare è entusiasta.
Torno
a
guardare la lista degli invitati e, notando l’assenza di
Reiner e Bert, mi
sbrigo ad aggiungerli dalla lista dei miei amici. Siamo arrivati a
dieci. Be’,
undici, se portano quella ragazza inquietante, la loro vicina.
E
poi, ultimo ma non per importanza…
Sono
passati
due mesi, una manciata di crisi esistenziali, e un’esperienza
ai confini della
morte (o almeno secondo la mia opinione) e ancora non ho cliccato il
pulsante
per la richiesta d’amicizia in cima al profilo di Marco. Quel
piccolo pulsante
bianco … Credo di averlo evitato più che
volutamente, nell’ultimo periodo. Non
che Marco l’abbia mai menzionato. Probabilmente non
è molto avvezzo al buon
vecchio stalking su Facebook.
…
Non come
me.
Ma
per
poterlo aggiungere alla lista degli invitati, devo fare questo salto
metaforico. Quasi non riesco a guardare lo schermo del mio portatile
mentre clicco
il mousepad con aria esitante. Richiesta
d’amicizia inviata.
Hnnng.
Per
favore, potrei smettere di sentire il cuore in gola?, perché
un gesto simile non sarebbe dovuto
risultare così
snervante, cazzo! Un pulsante, Jean. Hai
solo premuto un pulsante. Cristo santo!
Il
bing di una notifica mi fa venire un
infarto. Pensavo di aver abbassato il volume, cazzo. Posiziono il
puntatore
sull’icona del globo in alto a destra sullo schermo.
Marco
Bodt ha accettato la tua richiesta d’amicizia.
Be’…è
stato veloce. Qui qualcuno
è entusiasta. (O
magari è solo online,
Jean.)
Ho
approssimativamente un millisecondo per processare gli ultimi sviluppi,
prima
che Marco compaia nella finestra di una nuova chat.
Marco
Bodt:
>> Ehi! :D
Fisso
quella
discreta faccina sorridente per veramente molto tempo, cercando di
decidere il
suo valore soggettivo. Perché sembra mostrare una certa
impazienza. Tuttavia,
non me ne sto lamentando. In effetti, forse
sto arrossendo fino a tingermi di un rosso piuttosto scuro, a giudicare
dal mio
riflesso nello schermo del computer, cazzo. Alzo di proposito la
luminosità,
così da non riuscire più a specchiarmi.
Jean
Kirschtein:
>> ehi
>> sei stato veloce
>> ad accettare la richiesta
intendo
>> lol
Non
sto
ridendo sul serio. Diciamo che, più che altro, sto fissando
attentamente i
puntini di sospensione che appaiono affianco al nome di Marco, a
indicare che
sta scrivendo qualcosa.
Marco
Bodt:
>> Haha già! Mi stavo
chiedendo se
fosse il caso di aggiungerti … ma a quanto pare mi hai
battuto sul tempo! :D
Posso
immaginarlo
mentre si gratta la nuca, o si mordicchia il labbro inferiore; di
solito lo fa
quando è piuttosto agitato.
Jean
Kirschtein:
>> quindi stavi facendo lo
stalker
sul mio profilo facebook eh?
>> non provare a mentirmi marco
Marco
Bodt:
>> Se dici
“stalker” la fai
sembrare una cosa inquietante! D:
Evito
di
fare un commento in proposito, ma non mi dimentico di… gioire dell’idea che abbia
sbirciato tra i miei post e le mie foto
su Facebook (come ho fatto io sul suo profilo molte più volte di
quanto mi
piaccia ammettere). Lancio uno sguardo rapido ai miei appunti di
filosofia,
dove un post-it tiene il segno
del punto
in cui ho interrotto la mia revisione. Diamine. So per certo
cos’è più
interessante. Spero di non pentirmene in seguito.
Un
altro
messaggio di Marco compare nel bel mezzo della mia riflessione sulla
possibilità di mandare a quel paese
lo
studio.
Marco
Bodt:
>> Quindi cosa ti ha spinto ad
aggiungermi? :D
>> … Non stai
procrastinando lo
studio, no?
Che
bastardo
insolente. A volte, mi rendo conto, ci prende fin troppo gusto a porre
domande
leggermente imbarazzanti come questa. Ma in effetti così mi
ricorda di
aggiungerlo alla lista degli invitati all’evento di Connie.
Jean
Kirschtein:
>> era per invitarti a una festa
>> ma se continui a fare la
faccia
tosta potrei ritirare la mia offerta
Digito
il
nome di Marco nella barra di ricerca, clicco sulla sua icona, ed ecco
fatto.
Marco
Bodt:
>> Oh, l’ho visto
proprio adesso!
>> Vuoi davvero che venga? Non
vorrei… inibirti di fronte ai tuoi amici o qualcosa del
genere!
Jean
Kirschtein:
>> dimmi che non
l’hai scritto
davvero
>> comunque si
>> devi esserci
>> sarebbe troppo noioso senza
di
te
>> non lasciarmi a sopportare
reiner da solo ti prego
O
Connie. O
Sasha. O tutte le storie che ho sentito su Ymir da ubriaca. Non avete
la minima
idea di come diventino quando sono ubriachi. Ho bisogno
del suo supporto morale.
Jean
Kirschtein:
>> poi sarai già a
casa mia
>> xke è sabato
>> quindi puoi rimanere
direttamente
>> ti prego devi venire per
forza
La
mia
supplica di aiuto trova risposta quando il numero di persone che hanno
scelto
di “partecipare” a quest’evento aumenta
di uno. Non posso che sorridere,
rigirandomi la lingua contro una guancia.
Jean
Kirschtein:
>> sapevo che non potevi
resister(mi)
Marco
Bodt:
>> Potrei cambiare idea
altrettanto
facilmente! :P
>> Ti va se ci sentiamo su
Skype,
magari?
Sbatto
le
mani sulla tastiera per la sorpresa. (E altrettanto rapidamente
cancello le
assurdità intellegibili che ho appena creato.) S-Skype? Cioè, con videochiamata e tutto?
Mi
guardo
alle spalle per un’occhiata rapida alla mia stanza. Sembra
che una piccola
bomba sia appena scoppiata qui dentro. Ci sono libri e fogli di carta
accatastati ai piedi del letto, davanti all’armadio,
praticamente in ogni punto
della stanza dove non ci sono vestiti sporchi gettati sul pavimento. Mi
chiedo
quanto di tutto ciò sia visibile con la webcam.
La
mia
camera è un porcile. Ma gli dico comunque di sì.
Jean
Kirschtein:
>> certo
>> aggiungimi
Gli
mando il
mio nickname e dal desktop apro il collegamento di Skype, che si avvia
con quel
rumore stranissimo. È da un po’ che non uso questa
roba, e mi ci vuole qualche
minuto di click a caso per riuscire a capire di nuovo come funziona.
C’è un
avviso arancione su un lato dello schermo che mi ricorda che ho una
nuova chat.
Da
Robodt. È semplicemente
fantastico. Non
mi aspettavo niente di meno.
Lo
informo
immediatamente delle mie opinioni sul suo nome utente.
Robodt:
>> Non che il tuo nickname sia
meglio!
KirschFINE:
>> ehi è stato un
lampo di genio
ok?
>> e poi dai robodt ma che roba
è
>> hai cinque anni per caso
Robodt:
>> E se ce li avessi? :P
>> Sei così gentile
con me, Jean.
Ci
sono
alcuni minuti di silenzio in cui fisso lo schermo, nessuno di noi
scrive nulla,
quando il mio portatile inizia a fare rumore. Non mi rendo neanche
conto che è
il suono di una nuova chiamata di Skype finché non mi
ritrovo davanti il
pulsante verde a forma di telefono, e continuo a fissarlo per circa
mezzo
minuto. Dietro la finestra della chiamata, vedo che Marco ha scritto
qualcos’altro.
Robodt:
>> Perché non
rispondi? D:
La
sua
faccina accigliata mi sprona a cliccare il pulsante per accettare la
chiamata,
scacciando ogni pensiero sullo stato della mia stanza, o sullo stato
dei miei
capelli (sono stato steso sul divano per tipo tre ore, quindi
chissà cos’ho
intesta), o sullo stato della mia
faccia.
Mi
rimangio
tutto. Sto decisamente pensando allo stato della mia faccia.
Perché dev’essere
di un rosso bello acceso, cazzo, quando Marco compare
nell’inquadratura della
webcam. C’è molta
pelle in vista.
KirschFINE:
>> ma non hai una cazzo di
maglietta ?!
Mi
rendo
conto, quando premo invio, che avrei potuto semplicemente dirglielo ad
alta
voce. Per tutta risposta, ride – il suono solitamente
così musicale è piuttosto
rovinato dalla qualità granulosa dei miei altoparlanti.
“Fa
troppo
caldo,” ridacchia e, già, ecco che si porta la
mano dietro la nuca, mentre
distoglie timidamente lo sguardo dalla webcam con aria imbarazzata.
“E qui non
abbiamo l’aria condizionata.”
“Neanch’io
ho l’aria condizionata nella mia stanza,” mi
acciglio, appoggiandomi allo
schienale della sedia da scrivania. La sua webcam non è un
granché; la stanza
intorno a lui è troppo scura perché possa
distinguere qualcosa a parte lui,
quello che credo sia un tavolo da pranzo, e forse una porta; e la
qualità è
troppo bassa per poter vedere la maggior parte delle lentiggini che a
quanto
ricordo ha sulle spalle … aspetta.
No. Non ci pensare.
“Giuro
che
non sono un esibizionista,” dice in un sorriso. So che
dovrebbero esserci delle
rughe di espressione agli angoli dei suoi occhi… ma non
riesco a distinguerle.
“Però non dirlo a tua madre, okay?”
“Tranquillo,
sei salvo. È impegnata a guardare qualche soap opera di
merda al piano di
sotto,” faccio spallucce, cercando di sfoggiare il sorriso
più malizioso che mi
riesca. Marco alza gli occhi al cielo e appoggia la testa nel palmo
della mano,
con un sorriso seriamente assonnato.
“Allora,
come stai?” mi chiede.
“Huh?”
“Come
stai?”
ripete, “Dopo questo pomeriggio.”
“Oh.”
Aspetta
pazientemente che il mio cervello recepisca le sue parole; vedo i suoi
occhi
vagare sul suo schermo, e spero proprio che non stia valutando lo stato
della
mia stanza sullo sfondo del mio video.
“S-sto
bene,” balbetto, disinvolto ed eloquente come sempre, cazzo.
“Scusa
per…sai…averti chiamato così, come uno
sfigato. È stato piuttosto
imbarazzante…”
“Non
era
affatto da sfigato,” mormora lui. Si sbaglia. Sono al cento
per cento uno
sfigato che arrossisce in questo
preciso istante. “Ti sei solo comportato da persona normale. Quindi Eren verrà a
questa festa a cui mi stai
costringendo ad andare?”
“Già,”
rispondo. “Ma è tutto okay. Siamo a
posto.”
“Sono
fiero
di te, Jean.”
Ah.
Hmm. Per
favore non dire mai più
una cosa del
genere con un’espressione seria. Potrei prendere fuoco
spontaneamente. E
sarebbe un bel casino.
“Q-quanto
cazzo sei sdolcinato.”
Incrocio
le
braccia al petto, e intimo alle mie orecchie e alla mia faccia di non
arrossire, anche se temo lo abbiano già fatto. Marco si
limita a ridere. Ho
deciso di odiare la sua stupida, fantastica risata. La odio.
“Dovresti
imparare ad accettare i complimenti, Jean. E sono davvero— oh no.”
Sembra
sorpreso, raddrizza improvvisamente la sua postura, e gira la testa per
guardare alle sue spalle in direzione – credo –
della porta della stanza in cui
siede adesso. Vedo la sua mascella contrarsi.
“Marcooooo!”
La
chiamata di
Skype riesce a farmi arrivare finalmente la voce che evidentemente
Marco aveva
già sentito.
“Mina,
sto
al—”
“Ma
mi serve
il tuo aiuuuuuutoooo!”
Ricordo
di
averlo sentito menzionare sua sorella forse una o due volte prima
d’ora; ma
ovviamente questa è la prima volta in cui la vedo. E sembra
proprio il suo
mini-me. È alta e smilza, non proprio come Marco, ma i suoi
capelli sono
lunghi, neri e piuttosto ribelli, e sembra avere la stessa pioggia di
lentiggini su tutte le guance (a meno che non sia solo la grana della
webcam,
non so dirlo con esattezza). Marco ha girato leggermente la sedia per
guardarla
mentre lei gli parla, reggendo in mano un foglio di carta e una matita.
Le sue
sopracciglia sono sollevate verso il centro proprio come fa lui.
Marco
sospira, e credo mi rivolga uno sguardo dispiaciuto, mentre si accinge
a
prendere il foglio.
“Lo
sai,
avresti già dovuto finire i compiti, Mina,”
afferma, anche se, a giudicare
dall’espressione della bambina, non potrebbe importargliene
di meno. “Dovresti
andare a letto fra poco.”
“Ma
mamma
non è ancora tornata, quindi non devo andarci per
forza!”
“Lo
sai che
comando io quando mamma non è in casa.”
Già, buona fortuna, Marco. Potrebbe
uccidere qualcuno, con quell’espressione.
“D’accordo,
dimmi cos’è che non capisci,” sospira.
Sua sorella sguscia al suo fianco e
guarda oltre la sua spalla, puntando un dito ossuto su quello che
deduco sia un
problema.
“Questo
qui,” annuncia. Provo a ricordare la sua
età… aveva detto otto o nove anni?
Qualcosa del genere. I suoi occhi scuri e brillanti incontrano i miei
attraverso la webcam. Mi blocco immediatamente.
“Chi
è
quello?”
“H-huh?”
dice Marco, alzando immediatamente la testa. “O-oh! Mina, lui
è Jean.”
“E-ehi,”
la
saluto nervosamente, con un gesto irrequieto della mano. Non sembra per
nulla
colpita, e contorce il volto in un cipiglio mentre guarda tra me e
Marco. A
quel punto, punta il dito verso lo schermo.
“È
il tuo
fidanzato?”
Avete
mai
vissuto quei momenti in cui avete un’illuminazione su quale
canzone dovrebbe
diventare la colonna sonora della vostra vita per
quell’esatto istante? Questo
è uno di quei momenti. Nella mia testa, posso sentire
intonare i primi versi di
You Give Love A Bad Name dei Bon
Jovi.
Shot
to the heart
[Colpito al cuore] probabilmente
è un eufemismo.
Non
c’è
tempo per un assolo di chitarra mentale, a causa dell’ondata
di imbarazzo che
mi si sta riversando addosso in questo preciso istante. Odio
le situazioni come questa.
“I-io,
uh—”
Marco
probabilmente è incoerente quanto me, ma almeno riesce a
formulare una frase,
nonostante la tonalità di rosso che sfoggia in questo
momento. La sua voce
sembra comunque quella di un gatto che annega. (Non che io sia meglio.)
“N-no!
Mina!
Non stiamo— Non è… non è il
mio fidanzato!”
Lei
non si
scompone.
“Bene.
Perché ha dei capelli verameeeente strani.”
Ecco,
adesso
sappiamo tutti perché odio tanto i bambini. Mi passo una
mano tra i capelli
arruffati, indignato.
“Ehi!
Non
sono strani, sono molto carini!” si intromette Marco, dando
un colpetto sul
naso di sua sorella con l’estremità della matita
che stringe in mano. La mia
faccia sta andando a fuoco. Potrei essere letteralmente in fiamme. Marcoooooooo, mi lamento nella mia
testa. Non riesco neanche a soffermarmi sul fatto che trovi carini i
miei
capelli. (Be’, mi ci soffermo, ma solo per circa cinque
secondi, giuro.)
“Adesso, per favore, potresti farmi il piacere di tornare a
fare quello che
stavi facendo prima, Mina?”
Le
restituisce il foglio di carta e si fanno la linguaccia a vicenda.
Normalmente
mi metterei a ridere, ma sto ancora cavalcando l’onda
dell’umiliazione qui.
“Fai
schifo,
Marco,” proclama lei, tirandogli un colpo in testa con il
foglio dei problemi.
Marco mormora qualcosa di incomprensibile e le fa un cenno del capo per
indicarle di andare lontano da lui.
Quando
è nuovamente
fuori dalla stanza, Marco crolla sulla scrivania con un lamento,
affondando il
volto nelle braccia.
“Difficile
la vita tra fratelli, eh?” dico con una risata debole, con la
voce leggermente
più stridula di quanto mi piacerebbe ammettere. Marco
sbircia nella mia
direzione dal basso delle sue braccia, con una smorfia imbarazzata.
“Scusami,
Jean. Un tempo era carina, ora è diventata soltanto
sarcastica e irritante. Non
so proprio come sia potuto succedere.”
“Ehi!
Ti ho
sentito, Marco! Non parlare di me alle mie spalle!” la voce
di Mina arriva da
qualche parte dall’altro lato della porta. Marco sussulta di
nuovo.
“Hmm,
sarcastica e irritante,” rifletto. “Mi ricorda il
sottoscritto.”
“Tu
non sei
irritante,” mi dice in un sorriso, accompagnato da un sospiro
liberatorio.
“Be’, almeno la maggior
parte del
tempo. Le sorelle di nove anni, invece…”
Il
silenzio
che segue le sue affermazioni è pesante, e piuttosto
imbarazzante, mentre
entrambi ci stiamo ovviamente spremendo le meningi per dire qualcosa
che
risollevi la conversazione. Io ci arrivo per primo… il che
probabilmente non
era la soluzione più auspicabile. Ma, ehi, è
meglio prendere il toro per le corna,
o finirà per attanagliarmi dalla curiosità fino a
quando diventerà troppo
imbarazzante per risollevare l’argomento.
“Quindi,
uh,
tua sorella ha detto… uh, ecco, ha chiesto se fossi il tuo fidanzato.” Le bandiere rosse
iniziano a erigersi nella mia testa,
e c’è decisamente una parte più che
significativa del mio monologo interiore
che mi intima di fermarmi immediatamente.
“Cosa, uh… cosa intendeva?”
“Oh,
uh, mi…
mi piacciono gli uomini.” Quando non rispondo immediatamente,
si sbriga ad
aggiungere: “Sono gay,
Jean.”
“Oh.”
Sembra
ci
sia rimasto piuttosto male. Merda.
“O-oh?”
Non
mi
sembra di aver detto nulla di male. È che non ho detto
niente, e basta. E
adesso mi limito a guardare senza dire una parola l’immagine
sfuocata della
webcam di Marco, che sembra decisamente più a disagio di
quanto vorrei che
fosse.
“B-be’,
uh…
credo… credo che questo spieghi perché fai
così schifo a capire quando le
casalinghe ci provano con te…”
Marco
emette
una risata delicata e sembra, fortunatamente, un po’
più sollevato.
“Già,
probabilmente è per quello,” concorda mestamente.
“Quindi… per te non è un
problema che… uh, che te l’abbia
detto…?”
“Un
problema?” Mi prende alla sprovvista, non capisco
perché pensa che io possa
avere qualche problema con il fatto
che lui… sia gay.
Cioè, l’ha mai
conosciuta Ymir? (Be’, in effetti no, ma avete capito il
senso.) È l’omosessuale
più scatenata che esista su questo pianeta. Ma è
anche mia amica. Come Historia, e
Reiner, e Bert. Diamine. Forse c’è qualcosa
nell’acqua da queste parti. “Ovvio che non
è un problema! Perché mai dovrebbe
esserlo?”
Il
suo
sguardo sembra girare un po’ intorno alla stanza prima di
guardarmi direttamente.
“N-non
so,”
dice. “È solo che… a volte,
soprattutto, hai capito, le persone sono un po’… e
pensavo—”
Credo
di
aver capito le sue ragioni. La gente che abita nel mio quartiere
è notoriamente
conservatrice. Mio padre
è
notoriamente dalla parte dei conservatori. Non vanno molto
d’accordo con
l’apertura mentale. Probabilmente questo pensiero deve aver
attraversato la
testa di Marco… ma spero che mi consideri una persona
migliore di così. Non
sono come il mio vecchio. Nemmeno fra un milione di anni.
“Io
non sono
così,” gli dico apertamente, puntandogli un dito
contro attraverso lo schermo.
“Dai, Marco, mi conosci meglio di così. Se
preferisci il cazzo invece delle
ragazze, fai pure. Non c’è alcun
problema.”
“Quindi
non
sei a disagio con—”
“Certo
che
no.”
“Oh.
Oh. Bene.”
La sua voce sembra aumentare di diverse ottave quando lo dice, e io mi
chiedo:
perché è così spaventato? Sono solo io.
Sospira
rumorosamente; abbastanza rumorosamente perché il microfono
riesca a
registrarlo, e perché io riesca a discernere il suono.
Sembra come se lo stesse
trattenendo da un bel po’. Decido di saggiare il terreno.
“Pensavi
che
avrei dato di matto o qualcosa del genere?”
“N-no,”
risponde rapidamente, praticamente interrompendomi. La sua espressione
a quel
punto diventa un po’ più remissiva.
“C-cioè, forse…? Io, uh, l’ho
detto solo
alla mia f-famiglia, e si stanno ancora abituando all’idea,
quindi ero un po’…
be’, hai capito.”
“Tua
sorella
sembra averla presa alla grande,”
sorrido. “Pensa già a trovarti il
fidanzato.” Risolvere le situazioni imbarazzanti
con l’umorismo. È l’unico metodo che
conosco. A quanto pare funziona abbastanza
bene, perché una specie di sorriso riluttante ma tranquillo
appare sul suo
volto lentigginoso.
“Già,
l’ha
presa pericolosamente
bene,”
concorda, scuotendo la testa. “È fin troppo
interessata alla mia vita
sentimentale. E ha soltanto nove anni. Credo… che
dovrò vivere costantemente
preoccupato quando diventerà un’adolescente.
Sembra
di
nuovo il solito Marco. Questo pensiero trascina un sorriso idiota sul
mio
volto, e mi rilasso nuovamente nella sedia (a quanto pare mi ero
avvicinato
sempre di più allo schermo del computer
all’aumentare della tensione dei miei
nervi/dell’imbarazzo/qualsiasi cosa fosse).
“…
E tu,
Jean?”
“Huh?
Io
cosa?”
“E-ecco,
intendo… ti piacciono le ragazze … o i r-ragazzi,
o…?”
Non
credo
che un ragazzo possa sentirsi andare a fuoco tante volte nella stessa
serata.
Ma non so esattamente perché sono di nuovo in fiamme
perché, ehi, è una domanda
piuttosto normale, vero?
A
essere
brutalmente onesto, questo genere di domande mi ha sempre imbarazzato.
Non solo
con Marco. Connie e Sasha sono soliti riempirmi
di questi dubbi, e non fatemi neanche iniziare a parlare di Ymir e del
suo
strano interesse per il mio orientamento sessuale (anche se giuro che
non so
cosa ci sia da insinuare, Mikasa è stata la mia unica e sola
cotta sin dalla
prima media…).
Sono
in
imbarazzo perché ho, come dire, zero
esperienza con… be’, con chiunque. E non mi piace
ammetterlo.
Nel
secondo
anno di superiori c’è stato qualcosa con una
ragazza di nome Hitch – e per
“qualcosa” intendo veramente qualcosa,
e non una vera e propria relazione, niente di che; giusto qualche
pomiciata
veloce dietro al parcheggio delle bici, semplicemente perché
a me piaceva
qualcun altro, a lei piaceva qualcun altro, ed eravamo entrambi molto,
molto
frustrati e arrabbiati e arrapati.
Tuttavia,
Hitch era spaventosa. Mi sgridava sempre, e si arrabbiava per le cose
più
stupide, e in realtà le piaceva semplicemente umiliarmi ogni
volta che ne
avesse l’occasione. In fin dei conti, ecco, la nostra storia
non si incentrava
sui baci (e sulle altre cose), ma più che altro sul farmi
sentire assolutamente
una merda.
Ma
in realtà
non mi aspettavo niente di diverso, perché era solo una
strategia affinché
Mikasa pensasse ehi, Jean è un
ragazzo
desiderabile, e per farla ingelosire, e tutte quelle robe
lì …
Ma,
effettivamente, quand’è stata l’ultima
volta in
cui hai visto Mikasa sotto la stessa luce in
cui la vedevi un tempo?
Marco
inclina la testa da un lato e mi guarda; forse il mio monologo
interiore è
evidente.
E
non farmi nemmeno iniziare a parlare di quando ti
vengono erezioni guardando l’inserviente della piscina mezzo
nudo.
Wow,
questo
è decisamente il momento migliore per far riaffiorare quel
ricordo. Pensavo di
averlo eliminato completamente dalla memoria per il resto della mia
vita?
Apro
la
bocca per dire… cosa,
esattamente? Ma
– grazie a Dio, o Gesù, o Buddha, o chiunque altro
– vengo salvato da una
situazione potenzialmente imbarazzante.
Mina,
ragazzina, rimangio tutto quello che ho sempre
pensato sul mio odio nei confronti dei bambini. Sei grandiosa. Grazie.
“Marco!
Non
riesco ancora a risolvere questo qui! Aiutamiiiii!”
Marco
sospira e si gira per accontentare nuovamente sua sorella, mentre lei
gli
lascia i compiti sulle ginocchia con un’aria decisamente
determinata.
“Okay,
okay,
prendi una sedia, Mina,” dice lui, prima di posare lo sguardo
su di me. “Non ti
dà fastidio, no, Jean?”
“N-no,
non
c’è problema,” rispondo, con un gesto
noncurante della mano. Sono contento che
abbiano cambiato argomento. “Che materia
è?”
“Matematica,”
si lamenta Mina ad alta voce, sovrastando lo stridio della sedia
aggiuntiva che
trascina fino alla porzione di stanza visibile dalla webcam.
“Fa schifo. La
odio.”
“A
chi lo
dici,” ribatto, sentendomi più che solidale nei
confronti della sua brutta
situazione. “Sono d’accordo con te,
piccoletta.”
“Non
sono
piccola,” aggrotta le sopracciglia in
un’espressione arrabbiata. “Guarda che ho
nove anni e tre quarti. Quasi dieci!”
“Dieci,
eh?”
controbatto in tono sarcastico. (Che c’è?
È più forte di me.) “Wow, errore mio.
Sei proprio grande!”
“Jean,”
mi
ammonisce Marco, con un sopracciglio inarcato, come se mi stesse
chiedendo cosa
diamine abbia appena fatto. Mina, tuttavia, sembra soddisfatta delle
mie scuse
tanto servili. “Dai, Mina. Siediti e sbrighiamoci a finire
prima che mamma
torni a casa.”
Guardo
in
silenzio mentre Marco spiega qualche problema di matematica a sua
sorella, toccandole
scherzosamente il naso con la matita ogni volta che si lamenta di non
aver
capito. Sento una specie di calore irradiare nel mio petto mentre li
guardo
prendersi in giro a vicenda, e mentre guardo il modo in cui gli occhi
di Marco
sembrano illuminarsi. (Sono certo che non sia uno scherzo dato dalla
cattiva
qualità della webcam.)
“Adesso
hai
capito?” Marco sorride, mentre Mina esamina i problemi con
un’espressione
accigliata.
“Ho
capito,”
risponde lei, riluttante, “… Grazie,
Marco.”
Marco
le
arruffa i capelli con affetto, nonostante
suoi tentativi di evitare le mani del caro fratello
maggiore, e poi la
invita, essenzialmente, a togliersi dalle palle.
“Mamma
tornerà presto,” afferma. “Quindi
assicurati almeno di essere a letto per
quando accadrà. Non devi per forza dormire…
Voglio essere generoso.”
Mina
sembra
reputarlo un accordo accettabile.
“’Notte,
Marco,” gli dice, scendendo dalla sedia, “A
domattina! Il tuo regalo ti piacerà
un sacco!”
Marco
si
gira nella sedia e torna a rivolgersi a me, con uno stupido sorriso da
principe
Disney, meno dispiaciuto di prima.
“Dov’eravamo
rimasti?” chiede con un ampio sorriso.
“Parlavamo
per il tuo amore per il cazzo,” sorrido beffardo, e Marco
sembra soffocare. Si
colpisce diverse volte alla base della gola con un pugno, strabuzzando
gli
occhi e deglutendo rumorosamente.
“J-Jean!”
“Che
c’è?”
ridacchio io, “è la verità.”
“Per favore, parla piano! Mia sorella
potrebbe sentirti!”
“Scommetto
che non sa nemmeno cosa significhi
la
parola ‘cazzo’, Marco.”
“Ma
potrebbe
chiedere.”
C’è del vero e proprio
terrore nel suo tono di voce al solo pensiero di quella conseguenza.
Rido
sotto i baffi, mentre Marco scuote la testa,
mortificato, ma senza alcun dubbio riesco a vedere il sorriso che sta
provando
a reprimere con tutte le sue forze, per non darmi la soddisfazione di
essere
riuscito a farlo ridere nonostante tutto. Missione compiuta.
“Ehi,
Marco.”
“Sì?”
“Ti
auguro di succhiare tanti cazzi quest’anno.”
La
volgarità della mia affermazione è ripagata anche
solo dalla sua espressione. Credo che potrebbe avere un aneurisma.
“J-Jean!
C-che razza di augurio di compleanno
sarebbe?!”
Getto
la testa all’indietro in una risata, tenendomi
disperatamente lo stomaco con le mani, e provando con tutte le mie
forze a non
cadere dalla sedia. Marco si regge la testa fra le mani, e sta fissando
la
tastiera con aria incredula.
“Sei
terribile,” mormora. Mi sporgo nuovamente in
avanti, verso la webcam.
“Lo
so,” sorrido sfacciatamente. So che non può farci
nulla; il suo viso è diventato di un bel rosso acceso,
ormai. L’ho scioccato.
“Mi
sono già pentito di avertelo detto,” afferma
debolmente.
“Fai bene a
pentirtene.”
Lo
prendo in giro per un po’ – guardarlo mentre
diventa sempre più agitato mi dà un senso
crescente di soddisfazione – ma
finiamo anche per scivolare in una conversazione normale. Gli chiedo
che cosa
spera di ricevere per il compleanno (ovviamente, mi dice che non vuole
niente
in particolare, e non si aspetta più di tanto), e poi inizia
a indagare quando
mi lascio scappare qualche informazione sul suo regalo. Lancio uno
sguardo
furtivo al CD che gli ho masterizzato, al suo posto sulla scrivania
fuori dalla
portata della webcam. Gli dico che non vedo l’ora di
darglielo e, a
quell’affermazione, si morde il labbro e distoglie lo sguardo
dallo schermo. Mi
fa arrossire di nuovo come un idiota. Siamo due
idioti con le guance rosse.
Intorno
alle undici e mezzo, si sentono dei rumori di
fondo a casa sua.
“Cos’è
stato?” domando, mentre lui si gira per
guardare verso una porta da qualche parte dietro di lui. I muscoli
della sua
schiena si tendono quando ruota il torso.
“Pare
che mamma sia tornata a casa,” risponde.
Diamine, è tardi. Mi chiedo se sia stata a lavoro.
Dev’essere dura per Marco e
sua sorella se lavora fino a quest’ora ogni giorno. (E non ho
mai visto né
sentito notizie del padre?) “Aspetta, torno subito, Jean.
Vado a vedere se è
tutto a posto.”
Si
alza in piedi, e ottengo un’imbarazzante, per
quanto piuttosto gradita, vista del suo petto quando spinge la sedia
lontano
dalla scrivania, e infine della sua schiena e della miriade di
lentiggini
proprio sopra la cintura dei suoi pantaloncini quando esce dalla
visuale.
Riesco
a stento a distinguerlo nello sfondo mentre
apre la porta e si affaccia all’esterno della stanza, mentre
parla ovviamente
con qualcuno là fuori. A un certo punto indica la stanza
alle sue spalle, gesticolando
ovviamente verso il computer.
Lo
guardo mentre muove un passo per spostarsi dalla
porta, e una donna bassa, dall’aspetto morbido e un
po’ stropicciato, entra
nella stanza. Dev’essere sua madre. Si avvicinano entrambi al
computer e Marco
scivola nuovamente sulla sedia, rivolgendomi un sorriso, nonostante sia
piuttosto nervoso, a quanto vedo.
“Jean,
lei è mia madre,” afferma, indicando con un
dito la donna che si sporge verso la webcam, con una mano sulla spalla
del
figlio. Non somiglia per niente alla mia,
di madre; ha il viso a cuore sgombro di ogni sorta di trucco, i capelli
scuri e
ricci sono raccolti in una coda e indossa una blusa e un cardigan
largo, molto da mamma. Ha molte
forme tondeggianti.
Dà un’idea di accoglienza,
se non è
una cosa troppo strana da dire. Ricorda molto Marco.
“P-piacere
di conoscerla, signora Bodt,” la saluto,
sedendomi un po’ più dritto sulla mia sedia,
passandomi una mano tra i capelli
per cercare di appiattirli. Prende gli occhiali dalla
sommità del capo, li posa
sul naso e assottiglia lo sguardo guardando lo schermo, continuando a
tenere
l’altra mano sulla spalla di Marco. Abbassa lo sguardo su suo
figlio.
“È
lui Jean?”
Marco
annuisce affermativamente. (E mi passa per la
testa il pensiero che abbia parlato a sua mamma di…
be’, di me.) Sua madre
sorride, e il suo volto
si illumina come fa ogni tanto quello di Marco. È un sorriso
veramente intenso,
e non posso far altro che ricambiarlo.
“Anche
per me è un piacere conoscerti, Jean,” mi dice.
Si gira nuovamente verso Marco. “Si sta facendo tardi,
tesoro. Non devi
lavorare presto domattina? E poi Mina vuole darti il suo regalo prima
che tu
esca da casa.”
Marco
dà uno sguardo all’angolo in basso del suo
schermo, dove immagino stia guardando l’orario. Le sue
sopracciglia si sollevano
leggermente. Stiamo parlando già da tre ore. Non sembra
proprio che sia passato
tanto tempo. Decido di intromettermi prima che Marco venga persuaso a
chiudere
la chiamata.
“Uh,
in realtà, vorrei aspettare la mezzanotte con
Marco,” affermo; sia Marco che la signora Bodt si girano a
guardarmi sullo
schermo del loro computer, con un’aria sorpresa.
“U-uh, ecco, per dargli gli
auguri di buon compleanno e quelle cose lì.”
Per essere il primo a
dargli
gli auguri, a dire la verità.
“Terrò
il volume basso, tranquilla, mamma,” aggiunge
Marco con entusiasmo. “E non preoccuparti per me,
è tutto a posto.”
La
signora Bodt esprime il suo accordo con una specie
di sospiro senza pretese, e stampa un bacio fra i capelli di Marco
prima di
augurare la buona notte a entrambi. Aspettiamo tutti e due in silenzio
per
qualche istante prima di assicurarci che abbia lasciato la stanza.
“Tua
madre sembra simpatica,” inizio per rompere il
silenzio. “Come una vera mamma.”
“Anche
la tua è una vera mamma, Jean,” ribatte lui.
“Hai
capito cosa intendo. Una mamma mammosa,”
approfondisco, tamburellando
con le dita sulla base di plastica del mio portatile. “Non
una schiava di
mariti di merda e tacchi alti e Zumba.”
“Quelle
cose non la rendono meno mamma delle altre.”
Lo so già. Mia madre è grandiosa. Ma una mamma
come quella di Marco sembra quel
tipo di mamma che non esiterebbe a stringerti in un forte abbraccio in
ogni
occasione. Questa è una cosa che gli invidio.
“…
Sì, lo so.”
Parliamo
ancora un po’ di cose abbastanza banali; principalmente di
quanto io debba
ancora guardare il finale della quarta stagione di Game
of Thrones, nonostante le proteste di Marco per quanto, cito
testualmente, quel programma sia “rozzo”.
È solo che non ha ancora visto la
luce. O i draghi.
Quando
l’orologio
del mio portatile segna le undici e cinquantanove, gli dico che deve
fare
silenzio, perché devo concentrarmi a beccare la mezzanotte
esattamente in
punto.
“Jean—”
“No,
Marco,
shh! Voglio farlo per bene!”
“Ma
sei—”
“Sssh!”
La
scritta
00:00 compare nell’angolo più in basso del mio
schermo. Sedici giugno.
“Marco?”
“Sì?”
“Buon
compleanno!”
Non
rimaniamo svegli ancora per molto dopo tutto ciò; Marco
sbadiglia di continuo,
facendo sbadigliare sempre anche me, perché
quegli sbadigli di merda sono contagiosi. Mi ricorda anche
del mio esame
di domani mattina. Oh, già.
“Tsk,
va
bene,” dico, ammettendo la mia sconfitta. Muovo le spalle e
faccio schioccare
il collo con un soddisfacente crack.
“Dovremmo chiuderla qui.”
“Probabilmente
è l’idea più saggia,” Marco
sorride con aria d’intesa. “Ci vediamo domani
– uh,
cioè, oggi. Più tardi.”
“Spero
tu
voglia vedere il tuo regalo,” gli dico in un sorriso.
“Penso che ti piacerà.
Oppure lo userai per picchiarmi. Non ho ancora deciso.”
“Hmm,
è una
bella idea,” ridacchia, e io faccio una smorfia indignata,
beffardamente. “No,
non vedo l’ora di vederlo. Davvero. Buona notte,
Jean.”
“’Notte.”
La
sua webcam si disconnette e
il mio schermo torna a mostrare la chat. Marco scrive
un’ultima faccina
sorridente come saluto, e poi la spunta verde del suo contatto lascia
il posto
all’icona che lo indica come offline. Mi disconnetto
anch’io, ma la sua buona notte
mi risuona ancora nelle
orecchie.
Non
lo
nascondo, mi sono quasi pentito di essere rimasto sveglio fino a tardi
nel
momento in cui ho sentito la sveglia suonare con la violenza di un
fottutissimo
trapano alle sette e mezza di questa mattina. Con un lamento/grido di
dolore,
rotolo su un fianco e sbatto una mano sulla sveglia alla cieca,
mancandola un
paio di volte, finché non riesco finalmente a zittire quel
trillo.
Il
sole si
infiltra nella stanza da una fessura tra le tende, illuminando il
centro del
mio letto con un raggio di luce gialla e abbagliante che mi colpisce
dritto in
faccia. Faccio una smorfia e mi copro gli occhi con i palmi delle mani.
Inizio
già a sentire caldo. Grandioso.
Decido
di
rinunciare al mare di magliette e jeans già indossati che
giacciono sul
pavimento della mia stanza, saltellando invece da uno spazio libero
all’altro,
fino a raggiungere l’armadio. Oggi mi sforzerò di
vestirmi meglio. (Lo faccio
per Lentiggini, ovviamente.) Prendo un paio di pantaloni chino beige,
che
cadono un po’ a vita bassa sui miei fianchi fin troppo
ossuti, insieme a una
cintura da abbinarci. Prendo una camicia di jeans: per una volta nella
vita
potrebbe giovarmi il fatto di uscire di casa con qualcosa che non sia
una
maglietta sudicia con il logo di una band musicale.
Mi
sento
come se mi fossi messo piuttosto in tiro,
e quel pensiero mi fa provare quella sorta di eccitazione che
normalmente non
mi aspetterei di sentire subito prima di un esame (soprattutto di un
esame di
una materia che odio sinceramente
con
tutto me stesso).
Do
uno
sguardo alla mia collezione di berretti sul fondo del mio armadio
… e prendo
quello nero. Quello rosso, il mio preferito, sembra un po’
più malconcio
(inoltre, non si abbina granché con l’outfit di
oggi). Lo indosso e passo
qualche minuto a pavoneggiarmi davanti allo specchio.
Bene
… occhiali da sole, chiavi dell’auto, libri per
un ripasso veloce all’ultimo minuto, c’è
tutto,
penso,
annotando gli oggetti nella mia lista immaginaria. Regalo
di Marco pronto per dopo… ecco qui. Il CD
troneggia sul mio
portatile con aria fiera, in una vecchia custodia che ho rimediato e
scarabocchiato a dovere (Immagino che a Marco non dispiacciano i miei
disegnini).
Il
tragitto
verso il campus fila liscio; ho tutti i finestrini della Jaguar
abbassati, e
riesco a stento a trattenermi dal tirare fuori la testa come un cane
che si
gode il vento sulla tangenziale. Quando entro nel parcheggio, sono
sorpreso di
vedere il furgone merdoso di Ymir parcheggiato qualche metro
più avanti.
La
gay
lentigginosa numero due (è stata surclassata automaticamente
dopo ieri sera,
okay?) solleva la testa dal bagagliaio quando mi avvicino a lei con la
mia
andatura rilassata; non c’era molto traffico, quindi posso
ammazzare il tempo
che mi resta parlando con lei.
“Ehi,”
la
saluto sollevando una mano. “Pensavo avessi finito
ieri.”
Mi
guarda da
capo a piedi e inarca un sopracciglio sottile, apparentemente divertita
da qualcosa.
“Wow,
sembra
che per una volta i pantaloni non ti stiano bloccando la circolazione
lì dove
non batte il sole, Jean. Qual è la grande occasione per
questo cambio di
stile?” sorride beffarda, con le mani sui fianchi. Alle sue
spalle, nel
bagagliaio, ci sono un paio di tele enormi, coperte da quelle che
definirei
pennellate di colori a caso. (Okay, diciamo che l’arte
moderna non è il mio
forte. Ma non oso insultarla davanti a Ymir. Mi taglierebbe le palle
senza
pensarci un attimo. Sul serio.)
“Accidenti,
grazie,” borbotto,
grattandomi la nuca
nel punto dove i miei capelli escono da sotto al berretto.
“Non hai risposto
alla mia domanda.”
Ride
tra sé
e sé e si gira su se stessa, chiudendo con forza la portiera
del furgone.
Strofina energicamente le mani completamente nere e impolverate sui
pantaloncini dall’aspetto malconcio. Quel furgone avrebbe
proprio bisogno di un
bel lavaggio.
“Sono
venuta
a prendere qualche dipinto che ho fatto durante
l’anno,” spiega. “Se non li
porto a casa, finiranno per appenderli qui o qualcosa di
simile.”
“E
tu non
vuoi?”
“Nah,”
fa
spallucce, mentre il suo sorriso prende una nota piuttosto compiaciuta.
“Un
tizio che lavora in non so quale galleria in centro ha detto che li
vorrebbe
esporre. E ha intenzione di pagarmi. Col cazzo che li lascio al
dipartimento di
arte dell’università.”
Mi
accorgo
di provare un’intensa invidia per lei.
Ymir
ha
scelto arte come corso principale (e uno secondario stranissimo di
storia
norrena, o qualcosa di altrettanto inutile), ma non le servirebbe
nemmeno
venire al college. Ci sono già molti professionisti
interessati ai suoi lavori,
persone che possiedono gallerie, esibizioni e tutta quella roba
lì, cazzo.
Ammassa un po’ di colore su una tela e la vende per almeno
cento dollari. Fa
esattamente quello che vorrei fare io.
“Ci
inviterai alla mostra, allora?” le chiedo in modo burbero,
mentre lei gira e
rigira le chiavi del furgone con il mignolo.
“Forse?
Se
vi va di venire, certo,” risponde.
“Cioè, Historia è già sulla
lista degli
invitati, ma se vuoi venire anche tu fammi un fischio e aggiungo anche
te.” La
sua espressione si illumina, come se avesse ricordato qualcosa di
fondamentale.
Non è per niente fondamentale. Mi fa arrossire fino alla
punta delle orecchie.
“Oh, ehi! Ho capito perché ti sei messo in tiro;
è il compleanno del ragazzo
della piscina per cui sicuramente non fai pensieri sconci, giusto? Ora
ricordo!
Ti senti fortunato oggi, eh?”
“Fanculo,”
dico in un sibilo. “Sul serio, perché perdo tempo
a parlarti?”
Ymir
si mette a ridacchiare,
quindi le mostro il dito medio e annuncio burberamente che ho un esame
da fare,
e che spero di non rivederla mai
più.
Incontro
Connie poco prima di entrare nell’aula di filosofia. Sembra
essersi ripreso
dall’esaurimento post-matematica, e non la smette di parlare
di quanto si
ubriacherà stasera con Sasha, Historia e Ymir. Prova ancora
una volta a
convincermi a unirmi a loro, quindi gli intimo di riportare la mente a
Russell.
L’esame
in
sé è … un po’ uno schifo. Le
domande sono poste in modo veramente strano, quindi
ci metto un po’ a capire cosa diamine stiano chiedendo
effettivamente; alla
fine, non scrivo quanto mi sarebbe piaciuto, ma non penso nemmeno che
sia un totale disastro.
Inoltre,
ormai non me ne importa più nulla. L’estate adesso
è così vicina che riesco a gustarla.
Quando il sorvegliante passa
per ritirare il mio foglio, riesco praticamente a sentire
l’agitazione di
Connie a tre file di distanza. Mi scocca un sorriso estatico e io alzo
gli
occhi al cielo, ma non posso che sentirmi tremendamente sollevato. Sono
contento che l’anno si sia concluso.
Connie
sta
praticamente saltellando quando lo allontano dalla folla dei nostri
compagni
del corso di filosofia, e ci dirigiamo entrambi verso il parcheggio. Il
furgone
di Ymir ormai non c’è più, e scorgo il
pick-up di Connie qualche posto più in
là rispetto a dove ho incontrato Ymir prima. Ci separiamo
quando raggiungo la
mia Jaguar.
“Sei
sicuro di non voler venire con noi
più
tardi?” prova un’ultima volta, poggiandosi sullo
sportello dell’auto mentre
prendo posto dietro allo sterzo. Abbasso il finestrino e chiudo la
portiera,
sottraendola alla sua presa.
“Sto
cercando di preservare il fegato,” rispondo con un sorriso
esasperato. “Per il
prossimo fine settimana.”
Connie
la
ritiene una scusa accettabile e sposta il peso sui talloni, infilando
le mani
nelle tasche dei pantaloncini.
“Cazzo
se non vedo l’ora. Sarà
una cosa da pazzi!”
Non
potrei
uscire dall’auto più rapidamente quando parcheggio
davanti al garage di casa
mia. La coupé di mia madre non c’è,
quindi presumo sia uscita a fare la spesa,
o per qualche lezione di fitness, o qualsiasi cosa; non me ne frega
niente, a
essere onesti, perché sto pensando soltanto a una cosa.
Getto
lo
zaino sulla fine della ringhiera delle scale nel preciso istante in cui
varco
il portone principale, e scalcio via le scarpe con così
tanta forza che
atterrano sul primo gradino. Scivolo in cucina, puntando il frigo, e do
uno
sguardo fuori dalla finestra della cucina.
Non vedo la polo blu che mi
aspettavo (e che non
vedevo l’ora) di vedere.
Be’,
non è
esattamente la verità. È
la stessa
polo. È blu fiordaliso, con un nome ricamato sulla parte
sinistra del petto.
Ma
sono più
che certo che non sia Marco a indossarla.
Mi
blocco e
mi sporgo verso la finestra, schermandomi gli occhi dal sole con una
mano. Il
tizio che indossa la polo blu è basso; ha tipo la statura di
un ragazzino delle
medie, ma sembra veramente arrabbiato con quel cazzo di retino che
tiene in
mano. Non ho molto tempo per chiedermi perché, dato che a
quel punto noto l’altro
tizio sul bordo piscina, intento a togliere il filtro
dall’acqua.
Ogni
singolo
stereotipo che mi ero prefissato sugli inservienti delle piscine trova
conferma
in un unico sguardo al culo di quel tipo. Rende giustizia persino agli
slip da
bagno. Passami la candeggina.
È
alto.
Abbronzato. Biondo. E ha degli addominali che fanno sembrare Marco come
un
quarantenne flaccido in confronto a lui.
Stanno
pulendo la piscina o filmano un cazzo di film
porno là fuori?!
Il
tizio più
basso inizia a parlare con il collega super-muscoloso che, per tutta
risposta,
sembra semplicemente ridere. Il primo pensiero che mi passa per la
testa è: mamma, dove sei?
Quanto se la
spasserebbe a guardare quegli addominali d’acciaio.
Non
è questo
il punto. Dov’è Marco? Ha detto che ci saremmo
visti oggi.
Prendo
il
telefono dalla tasca dei pantaloni, ma non ci sono messaggi non letti
né
chiamate perse. Stringo la bocca in una linea sottile.
Gli
mando un
messaggio che va dritto al punto.
A:
Marco-Polo
Ehi dove sei?
Prendo
una
Coca-Cola dal frigo, superando una cassa intera di Dr. Peppers, senza
scollare
gli occhi dallo schermo del mio Samsung. Marco di solito è
piuttosto rapido a
rispondere … ma non questa volta, a quanto pare. Tiro la
linguetta e bevo un
lungo sorso, pulendomi la bocca con il dorso della mano.
Potrei
chiedere a loro.
Apro
la
porta sul retro e metto piede nel patio, cautamente. Il tizio basso ha
un’aria
intimidatoria, nonostante sia circa mezzo metro più basso di
me. E il tizio più
alto … be’, basta dire che mi sto sforzando
terribilmente per cercare di
guardare qualsiasi cosa che non sia il suo culo. È
praticamente un faro nel buio. Un
culo-faro. Grandioso.
Perfetto. Letteralmente.
Non
mi
avvicino troppo alla piscina; il ragazzo più basso mi lancia
uno sguardo mentre
mi avvicino, e poi mi ignora apertamente, pensando che filtrare la
sporcizia
inesistente sia molto
più
interessante. Ma sono abbastanza vicino da riuscire a leggere il nome
ricamato
sulla sua maglietta: Levi. Come i
jeans, immagino. Il nome mi sembra familiare, ma non riesco a ricordare
perché.
“Uh,
ciao,”
saluto, in imbarazzo, reggendo la Coca-Cola vicino al petto. Il
biondino allora
si accorge della mia presenza, girando la testa per guardarmi quando mi
sente
parlare.
E
per
aggiungere la ciliegina sulla torta, anche il suo viso è
bellissimo. Cioè, ha
un viso da modello. Mi chiedo perché pulisca piscine per
vivere, con una faccia
e un corpo del genere. Io sicuramente non lo farei.
“Ehi,”
sorride, porgendomi una mano. Spero che non noti il modo in cui
strofino
furtivamente la mia mano sulla
coscia, perché il mio palmo è schifosamente
sudato. La mia stretta è quasi
inerme, mentre non ho idea di cosa dovrei guardare in questo istante.
Non
il suo pacco, questo è poco ma sicuro. Mantieni lo
sguardo in alto a tutti i costi!
“Io
sono
Erwin,” continua. Anche il suo nome mi ricorda qualcosa.
“Sei tu il
proprietario di casa?”
Ovvio
che non sono io il proprietario, cazzo,
medito
brevemente. Quanti anni dimostro?
Ma
ovviamente sta domandando solo per questioni di soldi.
“No,”
rispondo.
“Ma mia madre mi ha lasciato i soldi, quindi non
c’è problema.”
Erwin
distende il viso in un sorriso abbagliante, ma probabilmente finto, e
fa per
tornare a lavorare. Ma io non ho finito.
“Q-quindi,
uh, cos’è successo a Marco?”
“Marco?”
È
il tipo più basso, Levi, a parlare con
un’espressione accigliata. Sposta il
peso sul retino e inclina leggermente i fianchi. “Si
è preso qualche giorno
libero. Ci ha lasciati a coprire i suoi turni, quella merda. Giusto per
raddoppiare il lavoro e il numero di piscine sudice da
pulire.”
“Qualche
giorno libero?” ripeto in tono robotico. Marco non me ne ha
parlato, ieri sera.
“Quando ha—”
“Nel
bel
mezzo del suo stramaledetto primo appuntamento di
stamattina,” Levi risponde
ancora prima che abbia finito di formulare la mia domanda.
“Ha
spiegato
perché—”
“No.”
“Levi,”
lo ammonisce Erwin.
Gli rivolge uno
sguardo d’intesa e solleva le sopracciglia folte con
un’aria d’attesa. Levi
aggrotta la fronte, facendo cadere lo sguardo sull’acqua.
Ovviamente
ho capito che sanno qualcosa. E che
questo Levi proprio non vuole raccontare dei dettagli privati al primo
adolescente che trova, che si presume abbia poco a che fare con il loro
collega
lentigginoso. E il fatto che la pensi così, tanto per
cominciare, mi
infastidisce.
“Ma
stava bene
o sembrava—”
“Senti,
ragazzino,” dice Levi, agitando il retino fuori
dall’acqua e utilizzandolo per
gesticolare nella mia direzione. “Sono fatti suoi, non miei.
E probabilmente
neanche tuoi.” Ovvio che sono fatti
miei,
testa di cazzo. Sono suo amico. L’amico a cui Marco aveva
promesso di venire
oggi.
“Ma…
Marco
ha detto che sarebbe stato qui. Oggi.” È
il suo compleanno, aggiungo dentro di me.
“Mi
spiace,”
dice Erwin, con un po’ più di comprensione.
“Pare che tu ci debba sopportare, almeno
per oggi. Ci toglieremo dai piedi appena possibile.”
Non
è questo
il problema.
Arranco
di
nuovo fino alla cucina e bevo il resto della mia Coca-Cola in un unico
sorso.
Accartoccio la lattina tra le dita e la getto in direzione della
spazzatura.
Colpisce il bordo e non riesce a fare canestro, sferragliando sulle
mattonelle
del pavimento della cucina. Sono costretto a percorrere la camminata
della
vergogna per andare a gettarla con le mie mani.
Controllo
di
nuovo il telefono, ma non ha ancora risposto. Quindi gli mando un altro
messaggio.
A:
Marco-Polo
ehi oggi vieni? il signor palo-nel-culo e superman biondo stanno
pulendo la
piscina quindi che devi fare? hanno detto che ti sei preso qualche
giorno.
fammi sapere
Il
compleanno di Marco trascorre senza che Marco stesso si faccia sentire.
C’è una
distinta sensazione di vuoto nel mio petto quando considero diverse
possibilità… tipo che non voglia passare il
compleanno con me, costretto a
pulire la mia piscina. O che forse abbia raggiunto il limite della sua
sopportazione per assecondarmi vista la mia situazione. O che abbia
trovato
qualcosa di meglio da fare piuttosto che stare con me.
Non gliene farei una colpa.
Devo
letteralmente scuotere la testa per scacciare quei pensieri. No. Basta.
No. Non
è come prima. La gente non ti
dà buca
così semplicemente, Jean. Succede solo nella tua testa. Non
nella realtà.
Marco
non è
così.
Così
sorge
la domanda principale: cos’altro
può
essere successo?
Gli
mando
qualche altro messaggio durante il giorno e, appena prima che mia madre
torni a
casa, mi arrendo e provo con una telefonata, ma si attacca subito la
segreteria
telefonica.
“Ciao,
questo è il numero di Marco Bodt. Sapete come
si lascia un messaggio. Richiamerò appena mi sarà
possibile!”
Riaggancio
prima che il segnale acustico dei messaggi mi risuoni
nell’orecchio.
Forse
la sua
famiglia gli ha organizzato una festa. Forse qualcuno dei suoi amici ha
deciso
di portarlo da qualche parte per il suo compleanno. Forse… forse. Ci sono troppi forse. (Provo a non
rimuginare sul fatto che
una festa non richiede più di un giorno libero, e che il
gran numero dei suoi
amici ammonta a me, Reiner e Bert.)
Dai,
Marco, potresti anche rispondere. Hai lanciato il
telefono nell’oceano Pacifico o cosa?
Tutto
ciò mi
mette decisamente di cattivo umore. Non dovrebbe, eppure è
così, perché sono Jean,
ed è così che fa
Jean. Si arrabbia tantissimo, senza un motivo in particolare.
Per
peggiorare le cose, mio padre si presenta a cena. Mi fa piacere vedere
che sta
ancora cercando di adempiere ai suoi doveri di padre, venendo a
controllare
com’è andato l’esame. Ho il telefono
sulle gambe, sotto al tavolo, quando
comincia l’interrogatorio.
“Allora?
Tua
madre mi ha detto che pensi che matematica sia andata bene, no? E
chimica?” Non
nomina nemmeno le altre tre materie; non gliene frega proprio nulla.
“Tutto
a
posto,” rispondo, sbirciando lo schermo del telefono, tenendo
le posate sospese
sul piatto. Il mio sguardo non si avvicina neanche lontanamente a mio
padre che
siede all’altra estremità del tavolo. Non elaboro
il discorso, non provo a
innescare l’inevitabile bomba che scoppierebbe se gli dicessi
che era un esame
particolarmente difficile e che non mi aspetto molto. Non gli dico
niente e
basta.
“A
posto?”
dice mio padre in una risata secca (ma in
realtà non è divertito).
“È tutto quello che riesci a dirmi, Jean? Dicci
che domande c’erano.”
Mi
chiedo a
cosa possa servire, perché qualsiasi parola sulla chimica
non sfiorerebbe
nemmeno l’interesse di mia madre, e posso garantire che, non
appena aprirò
bocca e inizierò a parlare, verrei interrotto in ogni caso.
Do un altro sguardo
al telefono.
“Non
c’è
altro da dire,” ribatto nel tono più burbero che
riesco a osare. “Ormai l’ho
fatto, e in ogni caso non ho intenzione di riprendere chimica il
prossimo
anno.”
Merda.
Non
volevo dirlo.
“Non
ne
abbiamo mai discusso,” risponde mio padre, camuffando
l’affermazione in un tono
interrogativo. Sembra come se stesse cercando di non lasciar trapelare
i suoi
veri sentimenti, fallendo piuttosto miseramente. “La scelta
è fra chimica e
matematica, Jean. Devi sceglierne una di queste due come indirizzo
principale
per il prossimo anno. E preferibilmente mantenere l’altra
come materia
secondaria.” Il resto della frase nella sua testa
probabilmente continua con
qualcosa del tipo: francese, storia e
filosofia sono più che inutili, per quanto mi riguarda.
Riesco
a
vedere Ymir e il suo furgone di merda pieno di dipinti nella mia testa,
e devo
scacciare quell’immagine. Spingerla più indietro
possibile, sotterrarla sotto
equazioni, numeri e statistiche. Non va via così facilmente.
Sbircio
un’altra volta il telefono sotto al tavolo, ma stavolta mia
madre se ne
accorge.
“Cosa stai guardando, Jean?” mi
accusa,
sporgendosi verso di me. “Cosa ti ho detto riguardo al
telefono durante i
pasti?” Artiglia il mio cellulare tra le unghie e lo posa sul
tavolo di vetro
con un sospiro.
“Mamma,”
insisto, allungando un braccio per prenderlo e alzandomi dalla sedia.
Lei lo fa
scivolare sul tavolo, lontano dalla mia portata. “Mi serve,
dai.”
“Sai
che non
dovresti mandare messaggi mentre sei a tavola,” mi dice.
“E
soprattutto non mentre sto provando a fare una conversazione importante
con
te,” aggiunge mio padre. “È un discorso
serio, Jean. Vorrei che lo capissi,
almeno per una volta.”
Questo
mi
manda fuori dai gangheri nel modo peggiore in assoluto. Digrigno i
denti e mi
faccio strada a spintoni tra i pensieri che ho in testa.
“Dai,
mamma.
Mi serve,” ripeto, ignorando deliberatamente ciò
che mio padre ha appena detto.
“Non sto mandando messaggi a nessuno.”
Prego
tutte
le divinità perché non faccia la mogliettina
svampita in questo preciso
istante. Spero che capisca cosa sto cercando di dirle, senza che nomini
quella
cosa che sicuramente affonderebbe entrambi. Dai, mamma. Fai due
più due. Ridammi il telefono.
“Sei
incredibilmente maleducato con tua
madre,” mi stronca mio padre. “Adesso siediti e
finisci la cena, Jean.
Sono
maleducato. Io sono maleducato? E
tu
ovviamente no, eh? Tu non sei maleducato con mamma? A volte non riesco
proprio
a credere a quante cazzate spari da quella bocca.
“Mamma,
per favore.”
Mi
sembra
titubante, combattuta tra due opzioni: mettere il mio Samsung nella
tasca e
restare una brava casalinga fedele allo stronzo del secolo, oppure
realizzare
che sono davvero, sinceramente serio
in questo preciso istante.
“P-però
non
mandare più messaggi da sotto al tavolo,” mi
raccomanda. “Puoi aspettare fino
alla fine della cena, okay?”
“Céline,”
insiste mio padre. Che c’è, papà, che
c’è?
Lascia
cadere nuovamente il telefono nella mia mano tesa, e le mie dita si
avvolgono
saldamente intorno a esso. Incontra il mio sguardo per un brevissimo
istante, e
spero che riesca a vedere la mia gratitudine.
L’atmosfera
dopo quell’avvenimento è terribile.
Ma almeno papà non insiste con le domande sul mio
maledettissimo futuro,
limitandosi a ficcarsi carote in bocca in grandi cucchiaiate.
Dopo
tutto
ciò, non potrei uscire da quella stanza più
rapidamente di così, volando via
dalla mia sedia non appena mio padre abbandona finalmente le posate per
ultimo,
e corro verso la lavastoviglie, gettandovici dentro il mio piatto. Il
vassoio
bianco risuona sui cardini appena lo infilo nella macchina, e sono
così irritato, cazzo.
“Jean.”
Mia
madre è in piedi davanti alla porta della cucina, con in
mano il suo piatto e
quello di mio padre. Non si smuove. “Cos’era
tutta quella scenata, Jean?”
“Niente,”
borbotto, con l’intenzione di superarla senza degnarla di uno
sguardo, per
andare a fare l’eremita nella mia stanza con il mio
sketchbook per il resto
della serata. Il modo migliore per iniziare le vacanze estive.
Angosciandomi.
Ma
mia mamma
– solitamente debole di volontà, praticamente
ridotta a uno zerbino – allunga
un braccio per fermarmi.
“Jean,
guardami. Sono tua madre. So quando c’è qualcosa
che non va, piccolo mio.”
Rabbrividisco nel sentire quell’appellativo, ma mi ritrovo
incollato al
pavimento. “È ovvio che sia successo qualcosa se
stai così attaccato al
telefono, soprattutto di fronte a
tuo
padre.”
È
questo il
punto, mamma. Non so se sia effettivamente
successo qualcosa. E questo rende tutta questa situazione ancora
più ridicola,
perché non dovrei essere così dipendente da un
SMS, giusto? Forse mi aspetto
troppo.
“Oggi
è
venuto Marco?”
“No.”
Sospira
attraverso il naso e lascia cadere il braccio, avanzando nella cucina
per
posare la pila di piatti sul bancone. Le sue spalle sembrano incurvarsi
quando
si gira nuovamente a guardarmi, con quell’espressione da sono-una-mamma-e-ti-conosco-meglio-di-quanto-ti-conosca-tu-stesso
stampata in volto. Non la sfoggia molto spesso.
“Ah,
ecco,”
dice in un tono pieno di sottintesi. Non approfondisce, non mi
ringrazia per
non aver nominato il ragazzo della piscina davanti
all’irascibile papà, si
aspetta semplicemente che capisca cosa voglia dire con quel ah ecco. Non lo capisco.
“Senti,
mamma, non è successo niente.” Sembro praticamente
una ragazzina di tredici
anni che si agita perché il ragazzo che le piace non
l’ha ancora richiamata
come aveva promesso. È ridicolo, cazzo. Non pensate che non me ne sia reso conto.
È
a quel
punto che me ne vado, perché deduco che non abbia intenzione
di dire altro (e
anche se lo facesse, finirebbe solo per infastidirmi ulteriormente,
oltre a
caricarmi di un senso di frustrazione).
Mando
altri
tre messaggi a Marco e provo ancora una volta a sconfiggere la sua
segreteria
telefonica, mentre fisso il CD sulla mia scrivania, prima di decidere
di darci
un taglio. Ho l’album da disegno sulle gambe per tutto il
tempo, ma non riesco
a disegnare nulla. Ogni volta che prendo in mano la matita mi viene
voglia di
disegnare Marco e, quando voglio disegnare Marco, non riesco a non
pensare al
fatto che mi abbia dato buca senza una cazzo di parola. Alla fine, sono
stanchissimo per via degli esami e mi addormento per ben dodici ore.
Una
delle ultime cose che mi
passa per la testa è: perché
devi diventare
così fottutamente dipendente appena qualcuno ti presta un
minimo di attenzione,
eh?
Ancora
nessuna notizia di Marco giovedì. Mi sveglio intorno
all’ora di pranzo (e, per
un brevissimo istante finché non ricordo tutto
ciò che c’è di sbagliato nella
mia vita, mi sento assolutamente alla grande, cazzo), e mi concedo
approssimativamente dieci secondi di speranza quando vedo dei messaggi
non
letti sul telefono.
Tuttavia,
non sono da parte di Marco; c’è solo una caterva
di messaggi molto ubriachi e
molto incoerenti da parte di Connie
e
Sasha. Almeno loro hanno passato
una
bella serata per festeggiare la fine del semestre. Continuo a scorrere
tra quei
messaggi per divertimento, ma non mi prendo il fastidio di rispondere
in alcun
modo. Probabilmente staranno entrambi dormendo per smaltire la sbornia.
Trascino
il
mio portatile giù dalla scrivania, scostando il CD di Marco
da un lato, e mi
rifugio nuovamente nel letto, allestendo una montagna di coperte su cui
collassare. Tengo il computer in equilibrio sulle ginocchia e mi
connetto
velocemente su Facebook; solo tre notifiche, nessuna di cui
m’importi. Vado sul
profilo di Marco, ma non c’è alcuna
attività.
Controllo
anche su Skype, ma non l’ha riaperto dalla nostra
conversazione dell’altra
sera. Gli mando un messaggio comunque, perché è
destinato a vederlo prima o
poi. Vero?
KirschFINE:
>> yo ma sei scomparso dalla
faccia
della terra
>> xké sembra proprio
così
>> potresti tipo…
rispondermi agli
sms e dirmi che sei vivo o qualcosa del genere
Dovrebbe
bastare, ma sento l’urgenza di scrivere un ultimo rigo.
KirschFINE:
>> mi stai facendo preoccupare.
non
vedevo l’ora di vederti lol
Ecco.
Così dovrebbe andare.
Quel lol bilancia il sottotono
piuttosto gay. Così non è per nulla sospetto.
Venerdì
vado
da Connie per giocare un po’ all’Xbox.
Be’, quella era l’idea, ma riconosco
quella trappola mortale arrugginita della bici di Sasha appoggiata su
una
facciata della casa quando parcheggio la Jaguar su un lato della strada.
Sasha
insiste per giocare con noi, nonostante Connie abbia solo due
controller; loro
due finiscono per giocare a turno, nonostante Sasha abbia assolutamente
zero
esperienza di gioco in Call of Duty,
finendo per farci uccidere entrambi.
“Dai,
Sasha!” mi lamento ad alta voce, lasciando il controller
sulle mie gambe. “Non
sai proprio giocare, Cristo santo!”
“Non
è vero,
sei tu che non sai
giocare!” ribatte
lei in maniera infantile, facendomi la linguaccia.
“Sash,
fai
schifo a questo gioco,” concorda Connie in un sospiro.
“Jean ha ragione.”
“Be’
forse dovreste
calmarvi un po’,” scherza. “È
solo uno stupido gioco.”
Mi
lascio
sfuggire un grugnito e mi stendo sugli sgangherati cuscini del divano
mentre
Connie e Sasha iniziano una specie di discussione sulle
virtù di Call of Duty.
Tiro fuori il telefono
dalla tasca dei jeans come d’abitudine, e sblocco lo schermo.
No, nessun
messaggio. Ancora. Aggrotto le
sopracciglia. Ho perso il conto delle volte in cui si è
ripetuta questa scena
oggi. Non so perché conservo ancora un briciolo di speranza.
Non sento nemmeno
la vibrazione del telefonino in tasca o qualcosa del genere.
“Cos’è
che
continui a guardare?” sottolinea Sasha, “Al
cellulare, intendo.” Alzo
lo sguardo su di lei, e noto che stava
stringendo Connie in una presa di wrestling, ma si è fermata
per indicare il
Samsung che ho in mano con un cenno del capo.
“L’amante che ci stai nascondendo
ti sta punendo con il silenzio?”
“Non
rompere, Sasha.”
Guardo
Connie mentre si divincola, un po’ come un pesce, dalla sua
presa, per poi
spintonarla per la spalla. Sasha restituisce la spinta al suo ragazzo,
con
molta più forza.
“Non
puoi
prendermi in giro, Jean,” sorride beffarda. “Ho un
sesto senso per queste cose,
lo sai!”
“Come no,” diciamo io e Connie
in coro,
impassibili. Sasha si sporge per schiaffeggiarci entrambi sulla testa.
Che
amici premurosi che ho.
“Oh!
A
proposito!” esclama a quel punto Sasha, voltandosi per
trovarsi di fronte a me
dalla sua posizione sul divano. Le cose possono solo peggiorare quando
esordisce così. Faccio già una smorfia.
“Com’è andata mercoledì? Con
il mixtape
sdolcinato?”
Non
voglio
sapere perché la
conversazione
precedente le abbia ricordato tutto
ciò. Non ho molto tempo per pensarci, tuttavia,
perché il brontolio generale
che mi pervade inizia a vorticare nuovamente nel mio stomaco.
“Non è andata.”
“Coooomeee?”
esclama Sasha. “Che intendi? A Marco non è
piaciuto il regalo?”
“Non
lo so,”
rispondo, provando a scrollare le spalle con aria indifferente.
“Non gliel’ho
ancora dato. Non ci siamo visti.”
“Ohhhh,”
sussurra Sasha. “Oh no. E tu stai aspettando che lui ti
chiami? Oh cielo,
Connie, hai sentito? Non è sempre
tutto
rose e fiori.”
“So
che
questa non è casa mia, ma non pensare che non possa cacciarti a calci in culo fuori da qui,
Sash.”
“Oh,
e dai,
Jean, stai sempre incollato al telefono. Non pretendere che io non veda
quei
sorrisetti carinissimi che riesce a strapparti con un semplice
messaggio,”
ridacchia Sasha, e non nego che l’urgenza di picchiarla con
un cuscino del
divano sta aumentando esponenzialmente. “Sembra la storia di
una soap opera, è fantastico.”
“A
quanto
pare non guardiamo le stesse soap opera, allora,” ribatto
bruscamente.
“E
comunque,
ai nostri messaggi non rispondi mai,”
continua a lagnarsi. “Non è vero,
Connie?”
“Ha
ragione,
in effetti. A noi non rispondi
mai.”
Vorrei
ricordare loro che il punto è che Marco non
sta rispondendo ai miei, di messaggi. Sarei piuttosto felice se lo
facesse,
così potrei rispondergli.
“Te
l’immagini?
Lentiggini e capellone, potremmo chiamarvi così,”
dice Sasha con un ampio
sorriso, scompigliandomi i capelli biondi sulla sommità
della mia testa.
Rispondo
alla sua affermazione con un lamento e provo a rotolare
dall’altra parte del
divano. Sasha non demorde.
“Sai,
farebbe troppo ridere se finissi per succhiargli il cazzo dopo tutte
queste
proteste.”
È
la goccia
che fa traboccare il vaso, rotolo su un fianco e affondo il viso nella
spalliera del divano, soffocando un urlo di sconfitta. Huuuurrrrrrgh.
Sono certo che scopare con lui sia l’ultimo
dei miei pensieri … preferirei semplicemente
che mi richiamasse, cazzo.
“Ma
no,
Sash,” la interrompe Connie, che ha deciso di poter dire la
sua sulla mia vita
sessuale. “Andiamo, stai decisamente correndo un
po’ troppo.”
Forse
Connie
ha notato che mi sto praticamente fondendo con il divano.
Perché. Perché deve
succedere sempre a me. Non ho mai chiesto di ricevere questo
trattamento.
“Ve
l’ho
detto, so come vanno queste cose! È sempre il mio sesto
senso,” afferma Sasha
in tono serio.
“Sappiamo
tutti che il tuo gaydar fa cagare, Sash. Non ci hai creduto per tipo
tre mesi
quando ti abbiamo detto che Eren è gay.”
“Non
è gay. È un gesto evasivo con la mano.”
“Sì,
pensala
pure come vuoi. Comunque ho ragione io.”
A
quel punto
torno una volta per tutte nella conversazione, sentendo il bisogno di
prendere
aria tra un lamento e l’altro soffocato nel divano. Sollevo
la testa per
fissare Connie e Sasha nel bel mezzo del dibattito.
“Aspettate,
Eren è gay?”
“Gesto evasivo con la mano,” mi
corregge
Sasha, prima che Connie ci interrompa.
“Uh,
certo. Non hai ancora sentito
parlare del
suo vicino sexy con un complesso di superiorità che abita al
piano di sopra del
suo appartamento? Non parla d’altro.”
“No.”
“Bene.
Ringrazia il cielo di essere stato risparmiato, allora.”
Tuttavia,
a
Sasha non importa un bel niente di Eren. È ancora
interessata al discorso precedente.
“Scommetto
che Jean si scopa il ragazzo della piscina entro la fine
dell’estate,” afferma,
dando un colpetto al braccio di Connie per attirare ancora una volta la
sua
attenzione. Credo che non senta nemmeno la mia sfilza di no,
per favore, smettila. Connie sembra prendere in
considerazione
la proposta per circa due millisecondi. Grazie, amico mio. Sono
contento di
sapere che sei dalla mia parte.
“Vada
per la
scommessa. Dopotutto, mi serviranno dei soldi per sistemare il pick-up
prima di
settembre.”
A
quanto pare il mio relativo
interesse per gli uomini non è più il fulcro
della conversazione.
Da:
Ymir
allora ho sentito che c’è una scommessa in corso
se ti scopi o no il ragazzo
della piscina
A:
Ymir
nn so da dove hai ricevuto quest’informazione ma sono tutte
bugie
A:
Ymir
connie e sasha sono delle merde non credere a una sola parola di quello
che ti
dicono ok. il loro unico scopo nella vita è rendere la mia
vita un inferno
Da:
Ymir
come ti pare. partecipo comunque. mi servono soldi.
A:
Ymir
per cosa esattamente ?! sei tipo l’unica ad avere un lavoro
Da:
Ymir
per la birra. ovvio.
Quando
mi
sveglio sabato mattina (tecnicamente
alle dodici meno un quarto è ancora mattina, okay?), non
c’è nessuno nel
cortile posteriore. Mi precipito giù per le scale per
trovare mamma che sfoglia
una rivista sul bancone della cucina, sorseggiando qualche stupido
caffè che-non-è-veramente-caffè.
Avete capito,
quelle schifezze salutiste di merda.
“C’è,
uh…
dov’è… è già
venuto qualcuno, uh, per pulire la piscina, mamma?”
Alza
lo
sguardo su di me, lasciando cadere la pagina che stringeva tra le dita.
“No,
non
vengono oggi. Hanno chiamato questa mattina per dirmi che sono a corto
di
personale in questo momento, e hanno dovuto rimandare
l’appuntamento a domani. Il
che è un bel problema, in realtà,
perché non sarò a casa per quasi tutto il
giorno, e— tu ci sarai, tesoro?”
Huh.
Grandioso.
“Sì,
sarò in casa.”
Le
ore tra
mezzanotte e le sei del mattino hanno la strana abitudine di farti
sentire come
se potessi toccare il cielo con un dito, oppure come se fossi
schiacciato dal peso
del mondo. Sono un debole. Non
arrivo
neanche alle due del mattino che quel peso si fa sentire.
A:
Marco-Polo
allora senti sono le 2 di mattina quindi probabilmente non sono molto
lucido
A:
Marco-Polo
e so che non ci vediamo solo da una settimana e che abbiamo parlato
martedì
vabbè
A:
Marco-Polo
(lo so sono pessimo)
A:
Marco-Polo
ma X FAVORE puoi rispondermi xké prima ero solo un
po’ arrabbiato ma ora inizio
a essere piuttosto preoccupato x te
Domenica
è
una giornata da sigaretta (e spero seriamente che la mia estate non
trascorra
tutta in questo modo).
Non
sono in
piedi neanche da un’ora e sento già quel
disperato, patetico bisogno di
nicotina, e mi sto arrampicando sul tetto, con in mano un pacchetto di
sigarette e l’accendino.
L’aria
di
Trost è fottutamente immobile oggi; stagnante, calda e
secca. Riesco
praticamente a sentire le mie labbra disidratarsi e seccarsi con un
unico
respiro. Il solito profumo dell’estate, fatto di prato appena
tagliato, di cibo
arrostito sul barbecue, anche di cloro… non riesco a sentire
niente di tutto
ciò. Sembra esser stato rimpiazzato semplicemente dai gas
delle automobili
provenienti dal centro della città. Non è un
odore di fumo sopportabile; è
quella roba densa, nera e putrida, e mi arriva dritto alla testa,
facendola
girare. Ugh.
Incespico
un
po’ per provare a trovare una posizione comoda sulle tegole
grigio-nere (che, a
proposito, sono già bollenti). Il tizio basso –
Levi – si è presentato qui poco
fa, e sta lavorando più diligentemente di come Marco abbia
mai fatto per pulire
la piscina nel cortile che si estende ai miei piedi. È
peggio di mia madre
quando si tratta di vedere sporcizia immaginaria là dentro,
a quanto pare.
È
un peccato
che l’inserviente-superman non sia venuto con lui. A mamma
sarebbe piaciuto e
forse, è solo un’ipotesi, se Marco non dovesse
più farsi vivo, lei avrebbe
degli altri addominali a cui pensare.
Mamma
fa
capolino nel cortile per dare a Levi la busta bianca con la sua paga,
che lui
ritira senza dire molto, a quanto vedo. Mamma gira i tacchi per tornare
in
cucina, ma il suo sguardo si posa sul tetto, e poi su di me.
“Jean!”
grida, portando le mani sui fianchi. “Che
cosa stai facendo esattamente sul tetto?”
Fortunatamente
non ho ancora acceso, quindi nascondo furtivamente il pacchetto sotto
la
coscia. (Anche se dubito che riesca a vedere cos’ho in mano
da una distanza del
genere.)
“Mi
deprimo,”
le grido di rimando. Oggi non mi sta andando di dare spiegazioni.
Credo
che la
mia risposta la sconvolga, ma ha fretta di andare a non so che lezione
di
fitness o appuntamento dal chirurgo plastico, quindi non ha tempo per
indagare
sul mio comportamento. Opta per quel disgustoso tono da mamma che usa
ogni
tanto quando deve farmi una strigliata.
“A
volte non
ti capisco, Jean.”
Siamo
in
due.
Circa
cinque
minuti più tardi sento il rumore del motore della sua
coupé allontanarsi dal
vialetto e immettersi nella strada, quindi accendo una sigaretta.
(Dubito che l’inserviente
abbia intenzione di fare la spia, quindi sono fuori pericolo.)
La
nicotina
mi arriva dritta al cervello, ed è un bene,
perché proprio non voglio
pensare lucidamente in questo momento. Provo a
concentrarmi sul modo in cui il fumo mi graffia i polmoni e la gola; la
sensazione non è bella come sembrava un tempo, ma la
sopporto, perché ne ho bisogno.
Fumo
cinque
sigarette di seguito fin troppo rapidamente (se Marco fosse qui mi
picchierebbe
a sangue), guardando Levi mentre lavora, sovrappensiero. Si muove
rapidamente,
e tutti i movimenti sembrano decisi. Giurerei di averlo sentito
borbottare
qualcosa sullo stato del filtro una o due volte (a
quanto pare non gli piace la sporcizia).
Qualcosa
rumoreggia nel vialetto dall’altra parte della siepe sul
retro, e riesco a
stento a scorgere il tettuccio di una vettura bianca (il tetto di casa
mia non
è abbastanza per avere una vista più chiara della
strada, quella siepe andrebbe
proprio tagliata al più presto). Non ci penso più
di tanto, perché Levi, con i
suoi guanti di gomma tirati fino ai gomiti e una bottiglia di
candeggina in
mano, è accovacciato sulla griglia di scolo, e
apparentemente guardarlo è molto
più interessante di qualsiasi altra cosa. Non sono
sarcastico. Non credo di
aver mai visto nessuno così immerso nella pulizia.
Tuttavia,
alzo lo sguardo quando il cancello sul retro si apre.
Non
realizzo, per un istante, che quello lì è Marco,
che entra come se vivesse qui,
cazzo.
Non indossa gli abiti da lavoro, e sono così abituato a
vederlo vestito di blu
fiordaliso che devo battere rapidamente le palpebre per assicurarmi che
sì, in effetti pare proprio che non
sia
scomparso dalla faccia della terra, dopotutto. Indossa dei
pantaloncini
viola scuro, tagliati poco sopra alle ginocchia, e una maglietta a
righe bianca
e nera, con gli occhiali da sole appesi al collo. Semplice. Ma carino.
Ha dei
bei vestiti. Ma non mi pare proprio che lui
abbia un bell’aspetto.
Stanco,
esausto, si mantiene sveglio solo grazie alla caffeina, direi. Capisco
benissimo come ci si sente.
Attraversa
rapidamente il prato per salutare Levi a bordo piscina (non alza lo
sguardo
nella mia direzione, quindi credo non mi abbia visto appollaiato qui).
Levi si
raddrizza con un’espressione che probabilmente potrebbe far
inacidire il latte
o qualcosa del genere, come se parlare al suo collega fosse il compito
più
difficile del mondo. (Bastardo.)
Stanno
parlando. Non so di cosa, perché le loro voci sono basse e
non riesco a
sentirle. Non sto ascoltando, comunque, perché sono
impegnato a fissare Marco
come un fottuto maniaco. La sigaretta mi brucia le dita e mi fa
sussultare,
mentre scaglio via l’estremità ardente imprecando
a bassa voce in tono
sorpreso: cazzo!
Marco
deve
aver chiesto di me a Levi. È solo una mia ipotesi,
perché quel tappo mi sta
indicando direttamente con un dito. Resto immobile.
L’espressione
di Marco si distende quasi all’istante, e riesco a vederlo
mentre prova a nascondere
un sorriso, senza riuscirci troppo
bene. Il labbro inferiore gli trema inevitabilmente. Levi gli dice
qualcos’altro,
probabilmente qualche commento da sapientone di cui nessuno ha bisogno,
per poi
iniziare a mettere a posto i suoi strumenti. Marco muove qualche passo
lungo e
deciso nel prato, finché non si trova in piedi praticamente
sotto di me, con la
testa rivolta verso l’alto.
“Ciao,”
mi saluta,
quasi timidamente. Non dice nient’altro. Mi aspetto quasi che
inizi a recitare
qualcosa del tipo Raperonzolo,
Raperonzolo, sciogli i tuoi capelli. Perché, a
dire il vero, questa scena
lo ricorda molto.
“…
Ehi,”
rispondo lentamente. “Perché sei qui?”
Merda,
non
volevo dirlo così. Adesso sembro un perfetto
pezzo di merda (non che prima pensassi di non esserlo, certo che no.
È che
preferisco che la mia stronzaggine rimanga nascosta,
o perlomeno quando parlo con Marco. Deve ancora scoprire quanto posso
essere coglione.).
Mi
sento un egoista.
Perché voglio sapere dov’è stato,
voglio sapere perché non mi ha risposto ad
alcun messaggio, perché mi ha dato buca quando aveva promesso che ci sarebbe stato,
perché è qui adesso,
nonostante si veda chiaramene che c’è qualcosa che
non va. Sembra terribilmente
esausto,
cazzo. Mi spaventa l’idea di un Marco distrutto, debole, in
lacrime. Marco
dovrebbe essere quello forte in quest’amicizia. Mentre io mi
sento come un moccioso del cazzo.
La sua espressione è
così stanca e le lentiggini si stagliano sulle sue guance
come se fossero dei
pois; sembra molto più pallido del solito.
Ho
visto
tutto questo sul suo viso prima d’ora. Credo di sapere cosa
significa.
Marco
guarda
il giardino che lo circonda, prima di rivolgersi nuovamente a me.
“Come
si
sale lassù?”
C-cosa?
Non
aspetta
una risposta, perché sta guardando espressamente il capanno
della piscina,
valutando un modo per salirci sopra, per poi usare il tubo di scolo per
salire
sul tetto.
I-idiota!
A
quanto
pare, Levi capisce le sue intenzioni altrettanto bene, nonostante lo
credessi
troppo disinteressato per seguire le vicende della nostra imbarazzante
rimpatriata.
“Non
sarò io
a chiamare il 911 quando cadrai e ti ucciderai, Bodt,” sbotta
bruscamente,
mentre Marco si toglie le scarpe e si arrampica sul tetto del capanno
della
piscina. Vedo i muscoli delle sue braccia tremare.
Marco
porta
un piede sul supporto del tubo di scarico imbullonato su un fianco
della casa,
per poi arrampicarsi goffamente, fino a stringere entrambe le mani
sull’orlo
del tetto, per poi sollevare le gambe e mettersi in salvo. Non avrebbe
dovuto
funzionare così bene ma, ehi, stiamo parlando di Marco. Cosa vi aspettate. Lui
può fare tutto.
Arranca
sul
tetto, con le braccia aperte per cercare di mantenere
l’equilibrio, e riesce
persino ad attraversare la forma a L della casa, finché non
si trova in piedi (seppur
traballante) a pochi metri da me. Lo guardo da capo a piedi e sollevo
un
sopracciglio, afferrando automaticamente una sigaretta da sotto una
gamba e
facendola scivolare tra i denti.
“Sai,”
mormoro. “Se le pessime idee fossero uno sport olimpico,
avresti appena vinto
la medaglia d’oro.”
Alza
gli
occhi al cielo e, maledizione, vedo l’accenno di un sorriso
e, cazzo, sento di nuovo quella
strana sensazione
dentro di me.
“Hai
intenzione di sederti?” domando. “O devo cacciarti
da questo tetto a calci?”
Mi
sposto
leggermente dalla mia comoda posizione e do dei colpetti sullo spazio
accanto a
me. A quanto pare quell’idiota stava aspettando il mio
permesso per
avvicinarsi. (Ma, quando lo ottiene, non esita ad attraversare le
ultime tegole
per cadere di peso al mio fianco.)
Quando
la
sua spalla sfiora la mia, è come se mi desse la scossa.
Spero che non mi senta
rabbrividire.
“Pensavo
che
stessi cercando di smettere,” mi dice sommessamente,
indicando la sigaretta
sospesa fra le mie labbra. La rigiro tra i denti con aria riluttante,
ma mi
sorprende quando si avvicina, la rimuove dalla mia bocca con quelle
dita stupidamente vicine, e la
spegne sulle
tegole. La brace sibila, affievolendosi fino a spegnersi, un
po’ come la mia
sanità mentale, perché santo
cielo,
quanto eravamo vicini, è
così
imbarazzante, e sappiamo tutti come reagisco alle situazioni
imbarazzanti.
“Oi,”
borbotto, “Ci sto provando.” Marco getta il
mozzicone nella grondaia, per poi
strofinare le dita sui pantaloncini.
“A
chi vuoi
darla a bere, Jean.” Non c’è poi tanto umorismo
nel suo tono di voce, per una volta. La cosa mi snerva, e sento una
specie di
brivido freddo arrampicarsi su per le mie braccia.
Levi
lascia
finalmente il cortile, ma rimaniamo semplicemente in silenzio, mentre
Marco si
porta le ginocchia al petto e vi posa sopra le braccia. Non mi guarda,
intento
com’è a fissare il mare di tegole di ardesia tutte
uguali, e le punte dei
grattacieli in lontananza. Le sue sopracciglia sono sollevate al
centro,
dandogli uno sguardo piuttosto preoccupato.
“Quindi,
uh…
hai, uh, hai passato un buon compleanno?” Continua
così, Jean, evita il fulcro
della situazione come la pesta. Tanto valeva chiedergli direttamente
com’è il
tempo. Fanculo.
Lascia
andare un leggero sospiro che mi causa una dolorosa fitta nel petto.
Appoggia
la testa sulle braccia, girata da un lato, così da potermi
guardare.
“Scusami,”
mi dice in tono sommesso. “Li ho visti, i messaggi. Avrei
dovuto rispondere.”
“…
Tranquillo, non fa niente.” A parte il
fatto che sono stato uno straccio di merda per gli ultimi quattro
giorni e
mezzo. Ma non c’è bisogno che lui lo sappia. Sono
certo che i miei messaggi
sembrassero già abbastanza disperati.
“Volevo
rispondere, ma…” la sua voce si affievolisce e
deglutisce udibilmente. Vedo il
suo pomo d’Adamo viaggiare lungo la sua gola.
“C-cioè, ho provato a scrivere
qualche messaggio, ma… è solo che… non
ce l’ho fatta. Mi dispiace.”
“Vuoi,
uh,
dirmelo adesso?” indago, con una risata secca e priva di
divertimento. “Dove
sei scomparso eccetera?”
“No,”
risponde, ma poi sembra ripensarci. “No,
cioè… sì, ma… non posso.
Non penso di…
volerne parlare, non ancora. Scusami. Possiamo… pensi che
potremmo
semplicemente rimanere seduti così per un po’,
magari?”
“…
Certo.
Certo che possiamo.” Temo che il mio metodo vecchio stile di
urlare i problemi
al vento come un matto non sia appropriato questa volta.
Torna
il
silenzio, denso e pesante. Cazzo, vorrei una sigaretta. Marco gira
nuovamente
il viso per affondare il naso fra le mani e, Cristo santo, sembra che
stia soffrendo
così tanto, e non so neanche perché,
cazzo.
Se
la
situazione fosse ribaltata, se ci fossi io al suo posto, senza dubbio
lui non
accetterebbe un no come risposta. Riuscirebbe a tirarmi fuori delle
informazioni, per quanto sia difficile come cercare di tirar fuori del
sangue
da una roccia. Ma lui ci sa fare con le parole. Sa come far sentire
meglio le
persone con un semplice sorriso… o forse funziona solo con
me.
Sono
bravo
solo ad avere dibattiti mentali con me stesso, e ultimamente non riesco
mai ad
agire. Mi sento così perso, cazzo.
Deve
avere
qualcosa a che fare con quella volta a casa di Bert e Reiner. Per
forza. Non
che questa conclusione mi aiuti minimamente a capire che cazzo devo
fare oltre
a stare seduto affianco a lui come un cazzo di idiota incapace. Come
faccio a
fargli dire cosa sta pensando?
Decido
di
provare con la domanda che si è insidiata da qualche parte
nella mia testa da
quando ho sorpreso Bert e Marco in cucina quella volta, intenti a
parlare e a leggere
attentamente delle documentazioni mediche.
“Ehi,
Marco,
posso farti una domanda?”
Risponde
con
un mormorio vago, ma non si muove.
“…
Sei
malato?”
“No,”
ecco
la sua risposta, e il suo tono è calmo. Mi ritrovo a tirare
un sospiro di
sollievo.
“B-bene.
Sai, stavo iniziando a preoccuparmi. Da quella volta a casa di Bert.
Pensavo,
be’, hai capito cosa pensavo. Sono contento che non sia
così. Non so cosa farei
se…ecco. Hai capito.” Sento che la stranezza di
questa situazione sta iniziando
a tirarsi dietro una valanga di parole che non vorrei pronunciare, e
sto
iniziando a straparlare. Non ho mai detto di essere bravo a far sentire
meglio
la gente con la mia scelta di parole.
Il
fatto che
lui sia triste… non è affatto giusto.
È una cosa innaturale, un crimine nei
confronti dell’umanità, non so, qualcosa.
Un qualcosa che non mi piace per niente. Come faccio a renderlo di
nuovo
felice? Come faccio a fargli fare quel sorriso-da-Marco, e farlo ridere
delle
mie foto appese nel corridoio, e farlo tornare a picchiarmi senza
pietà con i
cuscini.
Mi
sento
come se volessi dirgli che non si merita
di sentirsi così triste, perché io lo conosco, e so che è la persona
più gentile che io abbia mai conosciuto, e so
che potrebbe ascoltarmi tutto il
giorno mentre mi lamento senza battere ciglio, so
che mi fiderei di lui per qualsiasi cosa, perché
è quel tipo di
persona di cui ci si può fidare sempre. Vorrei dirgli che
è stupidamente
perfetto, per quelle rughette di espressione che gli incorniciano gli
occhi
quando sorride, per il modo in cui il suo volto si illumina quando
parla di sua
sorella, o per
quella costellazione di
lentiggini che mia nonna chiamerebbe baisers
des anges, e avrebbe dannatamente
ragione, cazzo.
Vorrei
dirgli che non mi sono pentito neanche per un istante di aver
approfondito così
tanto il nostro rapporto. E io di solito non vado nel profondo. Sono
Jean
Kirschtein. Ho paura dell’acqua,
cazzo. La profondità è un incubo, per me.
Con
una
risatina terribilmente inappropriata, esprimo una parte di tutti quei
pensieri
in un sospiro.
“Tutto
questo è ridicolo. Siamo troppo giovani
per essere così tristi, cazzo.”
Alza
lo
sguardo a quell’affermazione.
“Sei
triste?”
mi chiede. Fantastico. Non volevo rigirare di
nuovo la situazione su di me.
Cazzo.
Sono un amico patetico.
“No.
Sì. Non
importa,” gli dico rapidamente, passandomi una mano fra i
capelli più e più
volte, nervosamente. Davvero non
importa. Sono praticamente sempre triste. Non è una
novità. A parte una cosa. “Tu
sei triste, e quindi lo sono anch’io. Se non è,
ecco, una… cosa strana… da dire?”
“Tu
sei pazzo, ecco cosa
sei,” sospira lui.
Districa una mano dalle sue ginocchia, e afferra il polso della mano
che sto
passando sporadicamente tra i capelli. Sento il fuoco nelle mie vene
quando
intreccia le nostre dita e posiziona i nostri palmi uniti sulla
porzione di
tetto che ci separa.
Perché…?
“Scusa,”
dice, indicando le nostre mani con un cenno del capo. “Non
volevo metterti a
disagio.” Ovviamente la mia espressione è
impagabile, ma non lascia la presa.
Anzi, sembra rafforzarla.
“Sono…
sono
stati solo dei giorni difficili, eh?” gli dico, utilizzando
le stesse parole
che mi disse lui tempo fa. Il sorriso di Marco è triste, ma
colmo di
gratitudine. Mi stringe di nuovo la mano. Per una volta, non
c’è alcuna traccia
di rossore imbarazzato sulle sue guance… mi dà
l’impressione che sia
determinato, forte. È forte.
Stare
seduto
sul tetto, mano nella mano con il tuo migliore amico, probabilmente
è più che
lontano dalla concezione di eterosessualità. Ma per Marco
farò un’eccezione. Ho
notato che per Marco farei sempre un’eccezione.
“Come
posso
fare… a farti sentire meglio, Marco?” mi azzardo a
chiedere, dando voce ai
pensieri che ho in testa. Non posso farcela da solo. Devi
dirmelo tu. Sono inutile.
“Devi
solo…
essere te stesso,” risponde quasi in un sospiro. La sua voce
è molto ansimante.
“Sii te stesso e basta, Jean.”
Devo
solo essere me stesso? E perché mai vorrebbe una cosa simile?
Rimaniamo
seduti così per un po’, perché
è quello che vuole. Le mie chiappe si stanno
addormentando, e il mio palmo è diventato sicuramente
schifosissimo e sudato,
ma provo a resistere. Devo. Essere.
Forte.
Dopo
un po’
inizia a giocare con le mie dita, piegandole e distendendole con
curiosità,
dopo aver lasciato il mio palmo. È come un bambino. (Un
bravo bambino, non un
bimbo capriccioso e bisognoso di attenzioni come me.) Mi fa formicolare
tutto
il braccio.
“Sai
una
cosa?” gli dico. Alza lo sguardo su di me con
un’aria d’attesa, e mi sento
sollevato nel vedere un po’ più del solito Marco
riaffiorare nella sua
espressione. “Ho ancora il tuo regalo nella mia stanza. Vado
a prenderlo?”
“Te
l’ho
detto, non dovevi—”
“Ti
butto giù da questo cazzo
di tetto se
dici un’altra parola. Volevo
farti un
regalo, okay?”
Striscio
il
sedere in maniera decisamente poco elegante sul tetto, e riesco a
sentire lo
sguardo preoccupato di Marco sulla mia schiena mentre mi avvicino
pericolosamente al bordo del timpano, che prelude una caduta di sei
metri e
rotti nel patio. Quella
sì che
sarebbe una brutta fine dopo tutto questo. Riesco a stento a
intrufolarmi nella
finestra aperta della mia stanza senza mandare all’aria le
tegole del tetto, ma
riesco più che bene a sbattere le dita dei piedi su una pila
di libri fuori
posto, lasciandomi scappare una serie di imprecazioni ad alta voce.
“Cazzo,
merda, cazzo, fanculo!” Addio, dita. È stato bello
conoscervi. Cazzo. Zoppico in giro
per la mia stanza
e afferro il CD di Marco dalla pila di robaccia sulla mia scrivania, e
un
brivido pervade i miei arti mentre le mie dita si stringono sulla
plastica
trasparente.
Devo
tenerlo
fra i denti (o così, oppure nei pantaloni, e credo che
quello vorrebbe dire
spingersi decisamente troppo in
là),
poiché mi servono entrambe le mani per arrampicarmi
nuovamente sul tetto. Marco
sta guardando il pacchetto di sigarette che ho lasciato la mio posto,
leggendo
attentamente l’etichetta. Temevo che avesse intenzione di
gettarle nella
piscina prima del mio ritorno.
“Hurghumph,”
borbotto intorno alla custodia di plastica. Pianto nuovamente le
chiappe sul
tetto, pulisco la saliva sul lato del CD con la maglietta e poi glielo
passo,
sentendomi improvvisamente piuttosto impacciato. “Ecco
qui.”
Lo
gira e
rigira più volte fra le mani, ammirando la mia collezione di
scarabocchi (la
maggior parte ha le lentiggini), e il sorriso che compare sul suo volto
non lascia
trapelare neanche un briciolo di tristezza.
“È
un
mixtape,” spiego, grattandomi la nuca con aria imbarazzata,
quando mi sembra
stia per chiedermi cosa sia. “Be’, non è
propriamente una cassetta, ma… sì,
ecco, l’ho riempito con un po’ di buona musica che
pensavo potesse piacerti.
Guarda.” Apre la custodia per rivelare il CD vero e proprio,
dove ho scritto la
lista dei brani con la mia grafia molto piccola e disordinata.
“Dobbiamo
ascoltarlo insieme,” mi dice in tono tranquillo accompagnato
da un sorriso
dolce, e ugh, Marco, mi stai uccidendo
così. Deve far sparire quella faccia idiota appena
possibile, perché se
continua così mi verrà un cazzo di infarto.
“Grazie, Jean.”
Spero
con
tutto me stesso che quelle parole risuonino più profonde di
un comune
ringraziamento per un regalo di compleanno. Sollevo una mano per
posarla sulla
sua spalla.
“Non
c’è di che.”
“Allora
ci
vediamo mercoledì, no? Per davvero, questa volta?”
“Sì.
Davvero.”
Vorrei
fargli notare che ho finito il college per quest’anno, quindi
non dobbiamo
limitarci a mercoledì e sabato. E che, ecco, non vorrei che
la nostra amicizia
fosse una cosa limitata a due incontri settimanali prefissati.
Tuttavia,
per adesso Marco sembra soddisfatto con la promessa di
mercoledì, quindi non
insisto.
Lo
accompagno fino al suo furgone (Non ci tengo a specificare come siamo
scesi dal
tetto, perché è un’esperienza che non
gli augurerei mai e poi mai di
ripetere, credetemi), trascinando i piedi mentre
cammino. Vorrei che rimanesse di più, ma immagino che
qualsiasi cosa sia
successa negli ultimi giorni non possa scomparire nel giro di un
pomeriggio.
Sono certo che abbia qualcosa da fare o, perlomeno, qualcosa su cui
rimuginare.
Vorrei soltanto poter stare ancora un po’ al suo fianco.
“Allora,
uh…
hai il mio numero…” balbetto.
“Sai
che ce
l’ho.”
“E,
ecco…
sai che puoi c-chiamarmi per qualsiasi cosa, sai, se ti va di parlare.
Di
quello che vuoi.”
Muove
un
passo verso di me e mi abbraccia, proprio lì, sul
marciapiede. Dev’essere come
abbracciare un’asse di legno, visto quanto sono cooperativo.
Avvolge entrambe
le braccia attorno alle mie spalle e mi avvicina al suo petto. Anche
lui è ben
saldo, ma in senso buono.
Ba-dump.
Emette
una
risatina vicino al mio orecchio, ed è una
sensazione così strana. Non so dove devo guardare;
cioè, non è esattamente
un abbraccio virile se affondi la faccia nella spalla
dell’altra persona,
giusto? Quindi opto per fissare con aria impacciata le gomme da
masticare
attaccate al marciapiede. Ce ne sono solo tre.
“Grazie,
Jean,” mi dice sottovoce; e io mi chiedo perché?
Non ho fatto niente, a parte stare seduto con aria imbarazzata sul
tetto,
desiderando ardentemente una sigaretta. Non gli ho offerto nessuna
parola per
consolarlo, nessun consiglio, oppure…
Tuttavia,
forse, e dico forse – e
sto parlando
solo per esperienza personale – anche solo vedere la faccia
di una persona può
fare la differenza. Forse è la mia faccia. Mi ritrovo a
sperare vivamente che
sia la mia faccia a fare la differenza.
Adesso
tutto
quanto profuma di detersivo alla camomilla; non
c’è nemmeno un accenno di
cloro. Non dimenticherò facilmente questo momento.
Decido
di
abbracciare il momento (il gioco di parole è voluto). Lo
stringo leggermente,
in un gesto rassicurante, prima che lui sciolga l’abbraccio.
I suoi occhi si
socchiudono fino a diventare due mezzelune e, cazzo, se potessi assorbire quel sorriso, lo farei.
Credo
che,
se provassi a chiedergli di nuovo cosa gli sta succedendo, rovinerei il
momento. È un pensiero egoista da parte mia? Probabilmente
sì. Sono un bastardo
egoista.
Ma
io mi
fido di lui, me lo dirà quando si sentirà pronto.
Note
dell’autrice:
Questo è stato il capitolo più lungo finora, ha
15.5k parole. Santo cielo.
Mi
scuso se
è un po’ malfatto… a volte non avere il
POV di Marco limita molto il racconto
della storia. Vi prometto che lo stile di scrittura
migliorerà
significativamente nei prossimi capitoli. I pensieri di Jean sono
difficili da
esprimere al momento, dato che stiamo muovendo i primi passi sul
confine tra
amici e forse-non-solo-amici. Per quanto riguarda la storia di Marco,
gli
indizi sono lì, ma rimarrà nascosta ancora per un
poco. E poi le cose si
faranno più serie.
La
prossima
volta tornerò a un po’ di fluff. (Con giusto un
pizzico di angst, perché sono pur
sempre io.) Ci sarà anche la prima parte della festa.
Sarà una cosa da pazzi.
Grazie
a
tutti i lettori – specialmente a quelli con cui parlo durante
la stesura, e
quelli che mi sopportano quando procrastino il lavoro! Sapete chi siete!
Per
favore
continuate a commentare, perché mi aiuta davvero a trovare
la motivazione per
continuare a scrivere. Adoro sentire i vostri pareri, quindi lasciatemi
commenti su quello che vi piace, che non vi piace, quello che sperate
che
succeda! Vi adoro tutti.
|
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Capitolo 10 *** Dreams ***
Chapter
10:
Dreams
Chiunque
trovi il tempo per essere gentile è bellissimo.
È
strano come tutto inizi con i telefoni.
Credo
sia piuttosto ironico, perché ogni volta che squilla il
telefono di casa mi
vengono i brividi; la possibilità che, ogni volta, ci sia
una bionda svampita
dall’altra parte della linea è un peso enorme
nella mia testa. Credo che questo
spieghi perché non rispondo mai al telefono quando Connie o
Sash mi chiamano o
mi mandano un messaggio. È una specie di abitudine che ho
sviluppato nel corso
degli ultimi anni … da quando è iniziata questa
storia con mio padre. È solo
che non mi piacciono i telefoni.
Allora
quand’è, esattamente, che sono diventato
praticamente incollato allo schermo
del mio Samsung?
Sono
sveglio, steso sul mio letto; l’insonnia di questa notte
è fin troppo
prevedibile, perché ogni volta che provo a chiudere gli
occhi, la scena di oggi
sul tetto si ripete nella mia testa più e più
volte. E non mi soffermo nemmeno
sulle parti importanti – tipo ciò che ha detto
Marco, o ciò che io avrei dovuto dire
– sto semplicemente
ricordando il colore di quel cazzo di cielo sopra le nostre teste, o la
sensazione del pacchetto di sigarette che mi premeva nella coscia ogni
volta
che la mia gamba si contorceva in uno spasmo nervoso, oppure il modo in
cui
l’orlo dei pantaloncini di Marco si spostava sulle sue gambe.
Cioè, perché?
Seriamente.
Mi
giro su un fianco e fisso i contorni sfuocati della sveglia sul mio
comodino
con uno sguardo arrabbiato, provando a concentrarmi sul suo tic-tic-tic costante. Ci metto circa
venti tic per realizzare che
è solo
terribilmente fastidiosa, cazzo.
Sto
letteralmente per afferrare il cuscino inutilizzato sul mio letto e
metterlo
sule orecchie – con la speranza, non so, di soffocarmi
fino a farmi addormentare – quando
l’oscurità tinta di arancione della mia
stanza si illumina di una luce blu, accompagnata dalle vibrazioni sulla
superficie di legno.
Cerco
il telefono sul comodino a tentoni, gettando la sveglia e tante altre
cose sul
pavimento con un baccano che mi fa sussultare. Quando lo afferro,
continua a
fare bzzt nella mia mano mentre
assottiglio lo sguardo per distinguere le parole scritte sullo schermo accecante.
Chiamata
da Marco-Polo.
Il
numero di volte in cui mi ha scritto messaggi a orari assurdi della
notte prima
d’ora non dovrebbe sorprendermi tanto. A quanto pare abbiamo
entrambi degli
orari terribilmente alterati. Non ci penso su un attimo prima di
accettare la
chiamata e premere il telefono tra il mio orecchio e il cuscino. Forse
avrei
dovuto. Considerando ciò che è successo oggi e
tutto il resto. Non ho troppo
tempo per rimuginarci, comunque, perché Marco non fa neanche
una pausa per respirare quando si
apre la
comunicazione.
“Mi
piacciono veramente tanto le canzoni dei Fleetwood Mac. Non me
l’aspettavo,
perché sono un po’ diverse da quello che ascolto
di solito, ma mi piacciono
davvero, davvero tanto. Davvero
davvero,” mi parla nell’orecchio in tono enfatico.
Non ha detto nemmeno pronto. Marco,
cos’è successo?
“…
Uh, ah s-sì?” Se potessi tradurre il flusso dei
miei pensieri per iscritto in
questo momento, non sarebbe altro che un rigo intero di punti
interrogativi,
letteralmente.
“Mhm.
Credo che la mia preferita sia, uh… vediamo. Ecco. La numero
ventuno,” dice,
mentre ovviamente legge la lista delle tracce che ho scribacchiato
malamente
sul CD che gli ho regalato. “Dreams.
Ecco il titolo. Questa mi piace tantissimo.”
“S-Stevie
Nicks è brava, eh?” dico in una risata –
be’, più che altro è una specie di
grugnito rauco mezzo addormentato che probabilmente suona anche peggio
dall’altra parte della linea – ma giuro che ho
tutte le buone intenzioni. Il
tono di Marco cambia in un istante, acquisendo una nota sospettosa.
“…
Ti ho appena svegliato, vero?”
Rido
di nuovo, e stavolta sembra un verso molto più umano. Marco
emette una specie
di verso di disprezzo per sé stesso.
“Non
è un problema,” lo tranquillizzo. Davvero
non c’è alcun problema. Gli ho detto io di
chiamarmi. (Ecco, magari non alle
due del mattino, ma mi ci posso abituare.) “Non mi ero ancora
addormentato.” Non riuscivo
ad addormentarmi, in
realtà.
“Non
pensavo fosse molto tardi,” afferma, e sento dei rumori
dall’altra parte della
linea mentre credo stia cercando qualcosa. Un orologio o qualcosa del
genere,
immagino. “Ah—oh, merda,
Jean,
avresti dovuto dirmelo. Sono le due passate!”
Credo
sia la prima volta in assoluto in cui lo sento dire una parolaccia
– così,
autenticamente, e non per farmi il verso
– e mi fa ridere ancora di più. Finisco per
afferrare il secondo cuscino da dietro
la mia spalla per utilizzarlo per cercare di attutire il rumore. Dio
solo sa
che aspetto ho in questo momento.
“Stai
ridendo di me?” dice in un sussurro, strappandomi una risata
nasale.
“Hai
appena detto una parolaccia. Non ti avevo mai sentito dire parolacce
prima
d’ora,” sorrido, girandomi per stendermi sulla
schiena sul mio materasso. Mi
allargo a quattro di mazze, con una mano sullo stomaco e una spalla
leggermente
sollevata per tenere il telefono in equilibrio. “È
innaturale,” aggiungo in
tono canzonatorio. “Dev’essere arrivata la
fine del mondo o qualcosa di simile.”
“È
la tua cattiva
influenza,” ribatte senza
pensarci un attimo. Mh, probabilmente non posso dargli torto.
“Mi
hai chiamato solo per insultarmi,
Marco?” l’ampio sorriso che ho stampato in volto
probabilmente rovina ogni
tentativo di mantenere un tono severo.
“Ovviamente
no,” piagnucola lui. Riesco praticamente a sentire la sua
espressione
imbronciata. “Uh…”
“Allora
hai chiamato soltanto per parlare del CD?”
“No…
uh, be’…
sì,” ammette
impacciatamente. “Scusami, so che prima ho detto che mi
sarebbe piaciuto
ascoltarlo insieme a te, ma… hmm, l’ho messo nel
lettore CD appena sono tornato
a casa dopo che ci siamo visti, ed è tutta la sera che lo
sto ascoltando.”
Hmm.
Sono io o inizia a fare caldo qui? No, è solo che mi sta
facendo arrossire come
un idiota un’altra volta. Sta diventando una brutta abitudine
di Marco.
“Quindi
mi hai rovinato il sonno solo per questo?” ridacchio,
guadagnando un gemito di
protesta da Marco. “Nah, tranquillo. Sto scherzando. Quel CD
l’ho fatto per te.”
“E
mi piace veramente tanto.”
“Sì,
l’avevo capito.”
Il
suo entusiasmo è fantastico, ma anche… piuttosto strano. Soprattutto messo a confronto con
il Marco che sedeva
affianco a me sul tetto circa dodici ore fa.
“…
Come stai? Va tutto bene?”
“Huh?
Uh, s-sì. Sto… bene,” balbetta e,
sì, ho fatto saltare la sua copertura, ormai.
Respiro profondamente, e deglutisco con aria determinata.
“Non
è un problema se, ecco, se mi vuoi dire che mi stai
chiamando per altre
ragioni. Magari non solo per
ringraziarmi per un CD. Tipo… hai
capito.”
Come
sei eloquente, Jean. Dovresti sapere che fai schifo con ogni forma di
comunicazione. Parlare è troppo difficile per te, ricordalo.
Hai le capacità
oratorie di una patata con gli occhi.
“T-tipo
cosa?” farfuglia Marco.
“Tipo:
hai capito.”
“N-non ho capito.”
Uh,
non farmelo dire ad alta voce. Cristo santo.
“Be’,
uh… se volevi, uh… chiamarmi per,
uh…”
“Per
sentirmi meglio?” finisce la frase per me.
“…
Sì.” Ecco. Ho
qualche speranza, no?
La
linea è occupata dal silenzio, interrotto solo da altri
rumori di fondo da
parte di Marco. Anch’io mi muovo un po’, spostando
il telefono sull’altra
spalla. Le luci dei fanali delle automobili che si susseguono sulla
strada
passano tra le fessure delle mie tende e si distendono sul soffitto,
allungandosi sempre di più, per poi affievolirsi
improvvisamente, prima di
scomparire evidentemente fuori dalla portata della mia finestra.
“Di
solito ti contorci dall’imbarazzo se dico cose del genere,
Jean,” medita Marco
sommessamente – forse timidamente? “E mi prendi in
giro perché sono troppo sdolcinato
e cose così.”
“Come
fai a sapere che non mi sto
contorcendo dall’imbarazzo in questo momento, eh?”
“Ti
conosco, Jean. Troppo bene, a
quanto
pare.” Accompagna quell’affermazione con una
risatina fra sé e sé. Ma non nega
il fatto che stia chiamando perché qualcuno lo consoli un
po’. Perché io
lo consoli. Si sta affidando a me
per una cosa del genere.
“Huh,”
sospiro. “Be’, credimi sulla parola, non
sto facendo nessuna smorfia imbarazzata. In effetti, non sono mai stato
così
lontano dall’imbarazzo in tutta la mia vita.
Sono impassibile, al cento percento. Sono praticamente Spock
in questo momento.” Col cazzo. La mia faccia va a fuoco, e
continuo a mordicchiarmi le labbra per bloccare questo stupidissimo
sorriso che
sta cercando di farsi strada.
“Il
tuo sarcasmo dà del filo da torcere persino a Mina,
sai?”
“Vorrei
proprio vedere quanto ci sa fare. Aspetta … detta
così sembra proprio una cosa
brutta.”
“Oh
mio Dio … Jean.”
C’è
qualcosa
di particolare nelle telefonate delle due del mattino. Ci si sente
– o,
perlomeno, io sento più
o meno la
stessa sensazione di quando sono ubriaco. Ci sono meno filtri. Solo
che, invece
dei singhiozzi, le parole sono interrotte dagli sbadigli.
Inizio
a
chiedermi cosa stia facendo Marco – oltre a parlare con me,
ovviamente – ad
esempio, in che punto della casa si trova? È nella sua
stanza? Com’è la sua
stanza? È rimasto steso
sul letto al
buio come me, ad ascoltare il CD per la maggior parte della serata? Mi
rendo
conto del fatto che ci sono tantissime cose che non so. Stringo un
patto con me
stesso, mentalmente, per iniziare a conoscere tutte queste piccole,
banali
abitudini.
Parliamo
di
musica per un po’ di tempo. Mi parla delle altre tracce che
gli sono piaciute
nel CD, principalmente per i testi. Ecco una cosa che gli piace. Le parole. Non è come me; io
ho bisogno
soltanto di un bell’assolo di chitarra e sono a posto.
Mi
consiglia
di ascoltare qualcosa che piace a lui ogni tanto (anche se ammette che
i miei
gusti sono nettamente superiori). Dopo un po’,
però, dalla sua bocca escono più
sbadigli che parole.
“Dai,
vai a
letto,” dico con un tono inflessibile. “Sei
stanchissimo, è palese.”
“Non
sono—”
sbadiglia sonoramente. “— stanco.”
“Oh,
sì che
lo sei. Non sai proprio mentire.”
“Gli
sbadigli non aiutano, eh?”
“Neanche
un
po’,” lo canzono.
C’è
un
momento di silenzio – uno di quei silenzi colmi di pensieri
– prima che Marco
parli nuovamente.
“Stai
andando a letto anche tu?”
“Sì,
penso
di sì.” Potrei riuscire finalmente a prendere
sonno, adesso. C’è qualche
speranza. Marco emette un verso di assenso. “Ehi, Marco,
domani hai da fare?”
“Devo
lavorare,” ammonisce lui. “Scusa, Jean.”
“Che
ne dici
di martedì?”
“Lavoro,
di
nuovo.”
“Anche
di
sera?”
Ridacchia
delle scuse affettuose nel mio orecchio. I peli sulle mie braccia
sembrano
rizzarsi, perché la sua voce sembra improvvisamente
così vicina.
“Devo
fare
dei turni extra al bar dove lavoro,” mi dice in un sospiro.
“E devo coprire
alcuni degli appuntamenti di Levi questa settimana, per sdebitarmi per
i giorni
liberi che ho preso. Ho bisogno di soldi, ora più che
mai.”
Tendo
a
dimenticare, a volte, che fa ben due lavori e che per lui i soldi che
guadagna
sono una necessità e non un lusso. Quello è un
mio privilegio. Le mie cose, la
mia auto, la mia casa certe volte devono sembrargli così
ridicole. Lui si
spacca il culo per arrivare alla fine del mese, e mio padre cosa fa per
la sua
vita piena di comodità? Fa un numero indefinito di viaggi di lavoro, a quanto pare.
Non
riesco a
vedere molto al buio, a parte alcune forme indistinte illuminate dalla
luce
soffusa semi-arancione proveniente dai lampioni al di là
delle mie tende.
Riesco a stento a individuare i riflessi tenui sulla TV che mio padre
mi ha
portato l’altro giorno, per rimpiazzare quella che avevo
prima. In quel momento
non ho battuto ciglio. Nella mia testa era un modo per compensare
l’ansia che
mi ha messo addosso per gli esami. Ma adesso mi sento in colpa anche
solo a
guardarla. Non ne avevo bisogno.
“Giovedì,
Jean. Te lo prometto,” dice Marco, insinuandosi tra i miei
pensieri. “Ho solo
due appuntamenti, e il tuo è l’ultimo. Quindi
posso rimanere per un po’ più di
tempo… se per te va bene, ovviamente.”
Ovvio
che va bene, stupido.
Papà
torna a
casa lunedì pomeriggio. È piuttosto inusuale
vederlo durante la settimana
ultimamente, ma è tornato soltanto per fare le valigie per
il prossimo viaggio.
Lo
incontro
in cucina, dove è intento a parlare con la domestica del suo
lavaggio a secco.
(Improvvisamente non ho più voglia di Coca-Cola, e prendo in
considerazione
l’idea di indietreggiare silenziosamente fino a uscire dalla
stanza e salire
nuovamente le scale.)
“Jean,”
mi
chiama, ostacolando il mio mesto piano di fuga. Mi fa segno con una
mano, ma
non si degna nemmeno di guardare nella mia direzione. Questa cosa mi
irrita,
per qualche motivo. “Volevo parlarti prima di
partire.”
Non
ho
scambiato una parola con lui dall’incidente della settimana
scorsa a cena.
Evitarlo era diventata la mia priorità (proprio come per lui è una priorità
evitare la sua famiglia). Non provo
neanche a nascondere l’espressione accigliata
che troneggia sul mio volto mentre prendo in considerazione
l’idea di darmela a
gambe; ma, in qualche modo, mi convinco ad attraversare la cucina nella
sua
direzione. La nostra domestica è abbastanza terrorizzata
dalla mia espressione
– o forse sa che è meglio non immischiarsi nelle
conversazioni tra me e mio
padre – da precipitarsi nella lavanderia dove, a quanto vedo,
cerca di tenersi
impegnata svuotando la lavatrice.
Mi
fermo
dall’altro lato del bancone da cucina rispetto a mio padre, e
cerco di
ostentare nonchalance cercando un bicchiere in uno degli armadietti che
sovrastano il forno. Mi fa sentire alto. Più alto di lui.
È questo
l’importante.
“Che
c’è?”
domando bruscamente, per fargli capire che non sono contento
di… qualsiasi cosa
voglia dirmi. Si acciglia, i suoi occhi piccoli e brillanti scompaiono
sotto le
sopracciglia folte.
“Quando
escono i risultati degli esami?”
Faccio
spallucce, e ispeziono l’interno del bicchiere che ho scelto
in cerca di
sporcizia. Sembra abbastanza pulito.
“Un
paio di
settimane,” rispondo. “Perché?”
Incrocia
le
braccia sul petto ampio e sulla pancia sporgente.
“Voglio
assicurarmi di essere qui per quel periodo,” ribatte. Rimango
interdetto per
circa un millisecondo, prima di tornare con i piedi per terra con uno
sguardo
alla sua espressione. E pensare che ho creduto per un istante che
potesse
essere interessato a suo figlio per il
bene di suoi figlio stesso. E invece no. Gli interessano solo
i numeri e le
lettere. I voti.
“Dobbiamo
assicurarci che tu faccia una scelta saggia quando dovrai selezionare i
corsi
del prossimo anno.”
“Quel
noi non mi sembra
appropriato.” Non
riesco a credere di aver mai permesso che ci fosse un noi.
“Jean.”
“Che
c’è?”
“Non
affronteremo un’altra volta questa discussione.”
Questa non è una discussione.
È un litigio.
“Mi assicurerò che tu
faccia la scelta giusta per il tuo
futuro. Non ti lascerò mandare all’aria la tua
carriera.”
A
quel punto
abbassa lo sguardo sul suo orologio da polso – il suo stupido
orologio da
tredicimila dollari – e a quanto pare questo significa che
è troppo impegnato
per portare avanti questa conversazione adesso. Non posso che pensare,
dato il
modo in cui l’espressione il tuo
futuro
si è destreggiata sulla sua lingua piena di inganni, di
essere in uno di quei
film da femminucce. Io dovrei essere l’eroe, che finalmente
si volta verso suo
padre e dice qualcosa del tipo: non
è il
mio sogno quello che sto mandando all’aria, è il
tuo, per poi scappare di
corsa, lasciando suo padre troppo scioccato per poter dire qualcosa.
Riesco
praticamente a vedere quella scena nella mia testa.
Ovviamente,
non accadrà mai una cosa simile.
“Un’auto
mi
sta aspettando fuori,” mi informa in tono severo.
“Quando torno, mi aspetto che
tu abbia riconsiderato le tue priorità, Jean. Lo spero
davvero.”
Raccoglie
entrambe le borse da sopra al bancone, e se ne va. Quando il rumore
della porta
principale che sbatte raggiunge le mie orecchie, mi accorgo di aver
stretto
entrambe le mani attorno al bordo del bancone di fronte a me, fino a
far
diventare le mie nocche bianche come il gesso. Cazzo.
Non
so come
facessi a sopportarlo prima. Forse ho solo raggiunto il limite che era
già
nascosto da qualche parte dentro di me, e le sue cazzate
sono diventate veramente troppe perché io le possa
sopportare. Il pensiero di essere incatenato a un computer per tutto il
giorno,
in prigioni di vetro e pavimenti in cemento, dalle nove del mattino
fino alle
cinque del pomeriggio … merda, come ho fatto a non dire
niente prima d’ora?
Perché, a quanto so adesso, non c’è
niente che possa odiare di più dell’idea di
lavorare per la sua compagnia.
Non
è quello
che voglio. Non voglio essere un robot nell’ufficio di
un’azienda. Non voglio
essere quell’uomo che risorge solo per fare qualche viaggio di lavoro per scappare da un
matrimonio privo d’amore. Non
voglio diventare come lui.
Spero
che questo sia il viaggio
da cui non farà ritorno. Su, fai pure. Scappa con la tua
ventenne inutile al
tuo fianco. E vedi se me ne frega qualcosa. (Non me ne fregherebbe
nulla.)
Sono
le due
del mattino quando mi viene voglia di mandare un messaggio a Marco,
invece di
stare qui a scoraggiarmi per i miei problemi. Credo che le due di notte
siano
un mondo tutto nostro, ormai. So che è ancora sveglio (e,
anche se non lo
fosse, immagino che sia il tipo di persona che dorme con il telefono
vicino
all’orecchio).
A:
Marco-Polo
ti è mai venuta voglia di rannicchiarti da qualche parte e
non pensare mai più
al futuro
Da:
Marco-Polo
Sempre.
È
mercoledì,
credo. Forse? Sì, è mercoledì.
Tip-tip-tip.
Tip-tip-tip.
Sussulto
dietro le palpebre chiuse, e rotolo sul letto per spostarmi fuori dalla
portata
del raggio di sole che mi colpisce dritto in faccia. Devo imparare a
chiudere
bene le tende ogni sera. Premo il naso nel cuscino ed emetto un
brontolio
mentre mi sgranchisco le spalle con un rumore soddisfacente.
Tip-tip-tip.
Le
lunghe
dormite come questa sono fantastiche (e ne avevo decisamente bisogno).
Lunedì
ho dormito fino alle due (e sarei dovuto rimanere a letto
più a lungo, per
evitare mio padre), e martedì fino alle dodici (solo
perché mia madre ha
insistito dicendo che sarebbe stato, cito testualmente, osceno
dormire fino al pomeriggio per due giorni di fila). Il mio
letto è così comodo. Non può capire.
Ho faticato per tutto l’anno con il solo
scopo di dormire tutto il giorno senza essere disturbato dal senso di
colpa.
Soffoco un mmmph soddisfatto nel
cuscino, e rigiro i piedi nel mio nido di coperte.
Tip-tip-tip.
Cos’è
quel
rumore? Sembra quasi come se qualcuno stia bussando alla porta. Non
può essere
già così tardi. Potrei decisamente dormire
per… qualche ora in più…
Tip-tip-tip.
No,
aspetta.
Il rumore non proviene dalla direzione della porta. Viene
dalla… finestra? Apro
un occhio con aria riluttante, mentre l’altro è
ancora pigramente spiaccicato
sul cuscino. La mia stanza è grigia, salvo
quell’unico raggio di sole. Qualcuno
sta proprio picchiettando sulla mia finestra.
Dannatissimi
uccelli. Non sanno che sono in vacanza?
Mi
sollevo,
con le braccia che crollano sotto al peso del mio corpo
(perché, probabilmente,
stare svegli fino alle tre di notte per giocare all’Xbox a
volte non è l’idea
migliore del mondo). Tutto mi sembra pesante, annebbiato, e abbastanza
confuso.
Getto via le coperte e porto le gambe sul bordo del letto; il pavimento
di
legno si incolla alle piante dei miei piedi. Un’altra
giornata caldissima. Che
felicità.
Tip-tip-tip.
Mi
strofino
gli occhi con aria assonnata e sistemo l’orlo della maglietta
che ho sollevato
mentre dormivo. Le assi del pavimento scricchiolano sotto al mio peso
mentre
cammino lentamente nella mia stanza, evitando per miracolo di sbattere
nuovamente le dita sulle mie pile disordinate di libri
dell’università. Non so
esattamente come, dato che il mio cervello è ancora
decisamente addormentato, e
la luce accecante che mi colpisce in viso rende tutto ancora
più annebbiato.
Piego
la
testa per guardare sotto le tende, mantenendo il tessuto soffice su una
spalla,
e assottiglio lo sguardo. Non ci sono uccelli. Ma
c’è qualcosa – qualcuno – di molto meglio.
È
proprio
strano che io riesca a dormire così bene da quella
telefonata di domenica sera,
eh?
Sollevo
la
finestra, che mi sembra molto più pesante di quanto
ricordassi. Marco mi saluta
dal cortile sotto di me con un enorme sorriso, appoggiato al suo retino
nel bel
mezzo del prato.
“Buon
giorno, bella addormentata,” sorride. “Immaginavo
stessi dormendo.”
Huh?
Mi
strofino
gli occhi con più decisione, provando a scacciare ogni
traccia di foschia dalla
mia testa. Merda. Già, è mercoledì.
Nonostante tutto, sono riuscito a dormire.
Wow.
“Mmm,
che
ore sono?”
“Le
dodici
passate,” risponde Marco in una risata. A volte mi chiedo
sinceramente cosa lo
renda così allegro sin dal mattino. Non che sia ancora
mattina, tecnicamente.
Ma avete capito che intendo.
“Stavi
lanciando qualcosa sulla mia finestra?”
Porta
le
mani in alto e mi guarda con un’espressione piuttosto
imbarazzata.
“Qualche
sassolino.
Scusami,” ammette. “Stavi veramente
dormendo, eh?”
Dannazione,
in quale film anni ottanta mi sono appena svegliato? Non sapevo che
John Hughes
fosse il regista della mai vita. Batto le palpebre con aria risoluta, e
provo
ad assottigliare ancora di più lo sguardo. Niente da fare.
Quello è proprio
Marco, e non John Cusack con uno stereo portatile.
“Mh-già,”
mormoro, appoggiando il mio peso sul davanzale della finestra. Rischio
seriamente di riaddormentarmi, ma mi risollevo immediatamente prima di
cadere
con il culo a terra. “Huh! Merda, cioè…
ah, giusto! Scendo subito! Aspetta.”
“Certo,”
risponde Marco. Il suo sorriso è affettuoso, ma in esso
c’è qualcosa che
definirei fragile. Ancora. Meglio
questo piuttosto che non sorridere affatto, giusto?
Lascio
cadere nuovamente la tenda sulla mia testa, e pesco un paio di jeans
tra quelli
buttati sul pavimento della mia stanza. Già, sono
leggermente sudici. Li lancio
nel cesto della biancheria, e provo con un altro paio di jeans
abbandonati,
premendoli contro il naso. Hmm, no. Non vanno bene. Ripeto
quest’operazione con
circa sei paia di pantaloni e quattro magliette che ho appeso senza
troppe
cerimonie nel mio pavimentarmadio
(come lo chiamerebbe mia madre). Provo con l’armadio vero e
proprio – perché so
che almeno la mia maglietta dei Ramones è sicuramente
pulita e pronta per essere indossata.
Mi
sfilo la
maglietta che uso come pigiama; mi fa abbastanza schifo il modo in cui
si sta
già incollando alla mia pelle, e sono in piedi da, quanto, cinque minuti al massimo?
L’estate è perfetta per dormire e cose
così, certo, ma mi sono decisamente stancato di questo
tempo, al cento per
cento. E mi aspettano almeno altri tre mesi di quest’inferno
sudaticcio.
Per
errore
noto il mio riflesso nello specchio mentre infilo la maglia dei Ramones
sulla
testa. Wow, qualcuno (sto guardando te, Marco)
avrebbe potuto dirmi che i miei capelli arruffati sono uno spettacolo
da
guardare. È una guerra di ciuffi ribelli, stamattina. Mi
lecco le dita e provo
ad allisciare alcune delle ciocche peggiori, ma… non ottengo
molto.
Le
occhiaie
danno un tocco in più, devo ammetterlo.
Dopo
aver
trovato un paio di pantaloni quasi sicuramente puliti (e non rimessi
nell’armadio dalla mia versione pigra del passato), barcollo
fino al piano di
sotto, e mi accorgo di non essere ancora interamente in grado di
controllare le
mie stesse gambe, quando rischio di saltare completamente
l’unico scalino.
Continuo a cercare di appiattire la massa di capelli che ormai sembra
avere
vita propria, ma non ho alcuna speranza di vincere questa battaglia. Mi
arrendo
mentre entro in cucina in scivolata.
Marco
è
appoggiato a una delle sedie fuori nel patio, sta giocherellando con le
guarnizioni del retino, ma alza lo sguardo su di me non appena nota la
mia
presenza, e si fa avanti per salutarmi quando apro la porta sul retro
con una
spinta. Ugh. Luce solare. La mia
nemesi.
“Sembri
ancora mezzo addormentato,” ridacchia lui, e io emetto una
specie di… grugnito in
risposta. “A che ora sei
andato a dormire ieri sera?”
“Non
so,”
biascico, strofinandomi con forza le guance e la pelle sotto gli occhi,
per
provare a scacciare questo senso di confusione. “Intorno alle
quattro, forse?”
“Le quattro,” ripete Marco,
scuotendo la
testa con un’aria quasi disperata. Si volta per camminare
nuovamente verso la
piscina, ma non me la sento tanto di seguirlo. Se ne accorge abbastanza
velocemente. “Va tutto bene, Jean?”
“Uh,
s-sì,”
rispondo, stringendo le dita di una mano nell’altra in un
gesto imbarazzato. “È
solo che, uh, sai… la piscina…
e,
uh…” è difficile perché,
senza il pretesto dello studio, la mia solita
abitudine di sedermi sui gradini del capanno della piscina sembra molto
più
vicina al bordo della piscina di quanto non sembrasse prima.
Aggiungeteci anche
il fatto che non sono arrivato a meno di due metri di distanza dalla
piscina
da… be’, da quella volta.
“Oh,”
dice
Marco, con la bocca aperta a forma di “o”. Credo
che gli fosse sfuggito di
mente; non posso fargliene una colpa, a essere onesti,
perché sono sicuro che in
questo periodo abbia cose molto più importanti a cui
pensare. “Perché non ti
siedi sui gradini del capanno della piscina? Non è troppo
vicino, no?”
Apro
la
bocca per parlare, ma la chiudo altrettanto rapidamente, mordendomi il
labbro
inferiore. Cristo santo. Lo fa sembrare facile come dovrebbe
essere. Mentre io lo faccio sembrare un gesto patetico
com’è effettivamente.
Ovviamente
so che è una cosa stupida. E che la mia reazione
è esagerata. Seriamente, come
potrebbe succedere anche lontanamente
qualcosa di male, se mi sedessi lì come facevo normalmente?
È vero: non può
succedere nulla di male. Non succederà. Nessuno mi
schizzerà. Nessuno mi
spingerà in acqua. Tuttavia, questo non aiuta a placare la
mia agitazione.
Marco
muove
un passo nella mia direzione, e mi sembra che stia pensando di porgermi
una
mano. (Non lo fa.) Si sforza di sorridere, ma è un sorriso
triste, oppure
falso, e non sono sicuro di riuscire a distinguere la differenza.
“Puoi
farcela, Jean.”
Lo
faccio.
Non perché abbia improvvisamente trovato il coraggio di
superare questa stupida
paura. Vorrei tanto che fosse così. Lo faccio
perché dargli un’altra
preoccupazione a cui pensare non rientra nei miei piani.
Deglutisco
rumorosamente e mi incammino verso il capanno della piscina. Provo a
tenere le
spalle dritte.
Il
gradino
più alto è leggermente in ombra, quindi il
cemento non ha ancora raggiunto la
temperatura degli inferi, perciò mi sembra la scelta
più ovvia. Mi sposto
all’indietro, finché le mie spalle non toccano i
pannelli di legno.
Marco
non
sembra convinto. È esitante, mi fissa per un po’
di tempo, non intenzionato a
mettersi a lavoro.
“Forse
dovresti bere o mangiare qualcosa, Jean?” suggerisce. Scuoto
la testa,
assottigliando le labbra in una linea sottile. Mi si stanno
già formando dei
nodi nello stomaco.
Sospira
attraverso il naso e si volta, calciando via le infradito prima di
affondare il
retino nella piscina. Lo fa vorticare nell’acqua descrivendo
la forma di un
otto, con le dita dei piedi piantate sul bordo di cemento. Mentre mi
dà le
spalle, la mia gamba destra pensa che sia un momento appropriato per
iniziare a
tremare visibilmente. Cioè, avete presente quel tremore
nervoso che arriva ogni
tanto con l’eccesso di zuccheri, o di caffeina, o cose del
genere? È una
sensazione simile. Solo che è dieci volte peggio, unita alla
sensazione che
qualcuno abbia versato del cemento a presa rapida in ogni vena che ho
in corpo.
Non
lasciare che la paura ti controlli. Dai, respira.
Smettila di fare tanto casino per niente, cazzo. Non hai il diritto di
essere
spaventato. Respira.
Marco
tira
il retino fuori dalla piscina e pesca le due o tre foglie della siepe
che è
riuscito a catturare. Un attimo prima di immergerlo nuovamente
nell’acqua,
getta uno sguardo alle sue spalle; forse per dirmi qualcosa, forse solo
per
assicurarsi che io non sia svenuto su un fianco. La sua espressione
cambia
all’istante; il suo volto sembra aprirsi. Empatia? Simpatia?
Per favore, non
farmi sentire più patetico di quanto mi senta già.
Provo
a
costringermi a non tremare quando abbandona il retino
sull’erba, e viene a inginocchiarsi
di fronte a me sui
gradini di cemento, cazzo!. Forse sto sognando. Forse questo
è davvero un film degli
anni ottanta.
Marco
posa
entrambe le mani sulle mie ginocchia, e mi guarda dritto negli occhi.
Non so
come faccia, ma riesce a sgombrare la sua espressione da ogni traccia
di
preoccupazione, e sembra così forte.
Basta uno sguardo. Quanto vorrei riuscirci anch’io.
Le
mie gambe
tremano ancora sotto le sue mani e, cazzo,
vorrei farle smettere, ma tutto quello che riesco a fare è
far diventare
bianche le mie nocche a furia di stringere le dita sul bordo del
gradino su cui
sono seduto. Non batto le palpebre. Non lo fa neanche lui.
“Jean,”
mi
dice in tono calmo. È bello sapere che uno di noi
è calmo. Mi sento come un
cerbiatto davanti ai fanali di un’auto. “Lo sai che
è normale avere paura,
vero?”
Deglutisco
rumorosamente e annuisco, nonostante nella mia mente stia scuotendo
violentemente la testa. Credo che Marco abbia una sorta di potere
telepatico,
perché non sembra convinto.
“Avere paura
è normale,” ripete. “Non odiarti
per questo. Accettala, e superala. Ci vorrà del tempo, ma
stai andando così bene.
Non scomparirà immediatamente, ma
non ti devi… buttare giù,
va bene?”
Che
tu sia dannato, Marco Bodt.
Vorrei
raccontargli di come questa stupida
fobia sia tutto ciò che conosco. Di come costruisce il mio
mondo, mi
imprigiona, mi insegna a mangiare, bere, respirare.
Vorrei dirgli che la paura esiste semplicemente sotto ogni pensiero
– perché non
devo pensarci sempre, ma sono
sempre conscio della sua presenza –
e che devo controllarmi per le cose più stupide, come
lavarmi le mani o radermi
la mattina. So che, se mi schizzo involontariamente, devo bloccare
tutto e
concentrarmi solo sul mio respiro per cinque minuti. È sempre lì. È come
quando sei in campeggio, e fa freddissimo, cazzo,
quindi ti metti dei calzini più pesanti, oppure un altro
maglione, ma non
riesci mai a scaldarti. Il freddo – la paura –
è penetrato nelle tue ossa.
“Ero
serio
quando ne abbiamo parlato qualche tempo fa. Ti aiuterò a
superarla, Jean.”
Tamburella
con le mani sulle mie ginocchia e inclina la testa. È
ridicolo. Ma ridicolmente le mie
gambe stanno
smettendo di sussultare, lasciando spazio solo per un leggerissimo
tremore.
Persino io riesco a sentirlo a
stento,
adesso.
Dice
queste
cose – queste cose così altruiste, cazzo
– perché pensa che mi facciano sentire
meglio. In un certo senso: ovviamente
ci riescono. Come potrei non
sentirmi
meglio quando mi fissa dritto negli occhi con un’espressione
così onesta? Ma, allo
stesso tempo… mi ricorda che non posso offrirgli alcun aiuto
in cambio.
Si
solleva,
facendo leva sulle mie ginocchia, e mi dà un colpetto al
piede con il suo. Alzo
gli occhi al cielo e provo ad allestire un sorriso forzato.
(Probabilmente
sembra più una smorfia.)
Allora
torna
a pulire, ma continua a parlarmi – ovviamente, per evitare
che mi metta a
pensare ad altro – e non mi dà le spalle a meno
che non sia strettamente
necessario.
Non
so dire
esattamente di cosa parliamo:
primo,
perché sappiamo tutti
qual è
l’argomento di cui io
vorrei
discutere e, secondo, perché proprio
quella cosa mi fa notare gli sguardi assorti, persi nel
vuoto, che rivolge
all’acqua quando la conversazione arriva a un punto fermo. Ci
sta pensando. Al
suo problema. Qualsiasi cosa esso sia.
Ma,
prima
che me ne accorga, siamo rimasti a parlare per ore.
“Marco,”
dico. La mia voce vacilla leggermente, e non mi sopporto per questo.
Respiro
profondamente e mi calmo. Guardo lui,
e non l’acqua, quando si gira a guardarmi con
un’espressione interrogativa.
“Dovremmo passare più tempo insieme. Prima di
sabato.”
“Non
voglio
sembrare come un disco rotto, ma… sono impegnato,”
mi rivolge un sorriso
dispiaciuto. “Dico sul serio.” La sua espressione
mi dice che probabilmente non
si parla degli stessi impegni di prima; non è impegnato a lavorare, ma più che
altro… ecco.
A risolvere le sue cose. Da solo. Maledizione.
Sbuffo,
ma
non per la frustrazione per essere stato scaricato. Ovviamente non lo
capisce.
“Hai
altri
amici che meritano il tuo tempo,” propone, “Sono
certo che tu non abbia voglia
di passare tutta l’estate
con il tuo
inserviente della piscina.”
Uhm.
Sì che ne ho voglia. Quando sono con te posso
essere me stesso. È importante.
“Ha,”
lo
canzono, “Li conosci
Connie e Sasha?
Riesco a trascorrere tipo… trenta minuti alla volta in loro
compagnia prima di
sentire il bisogno irrefrenabile di rifugiarmi sotto le coperte
– o sotto
un’automobile – per l’immediato futuro.
Una delle due cose va bene.”
“Non
sono
poi così male,” ridacchia Marco, “A me
sono sembrati abbastanza divertenti.”
“Ah-hah.
Be’, ne parleremo dopo la
festa di
sabato, quando li vedrai combinati con l’alcol,”
ribatto. “Comunque. Ti sbagli.
Non, uh… non mi dispiacerebbe…”
“Cosa
non ti
dispiacerebbe?”
“…
Passare
tutta l’estate insieme a te.”
Vedo
la sua
espressione contorcersi in un: “oh” interiore. E
poi diventa molto, molto
rosso.
Marco
è
fortunato, perché è in quel momento che mamma
– con il suo tempismo impeccabile
come sempre – arriva a casa, e tronca sul nascere gli insulti
che gli stavo per
rivolgere.
“Marco!”
canticchia. “Sei tornato!” Trotterella
sull’erba nella nostra direzione, e
Marco combatte a lungo per reprimere la gioia
che trasuda dalla sua espressione. Sono sarcastico, ovviamente. Non
posso farne
a meno. Credo che la mia, di espressione, sia una via di mezzo tra la
faccia di
uno che ha appena ricevuto una pacca sul sedere, e Katniss Everdeen in
quella
scena nell’ascensore in Catching
Fire.
Avete capito di quale sto parlando.
“Salve,
signora Kirschtein,” Marco le sorride amabilmente,
“Come sta?”
Mamma
ha i
suoi occhiali da mosca sollevati sulla testa, e la sua borsa
è ancora adagiata
nell’incavo del gomito, quindi deduco che sia letteralmente
appena tornata a
casa. Nella mia testa, le rivolgo un’espressione truce e la
rimprovero
mentalmente per aver interrotto un… momento
importante.
“Oh,
io sto
benissimo, dolcezza,” mia madre è praticamente spumeggiante. “Sono
così contenta che tu sia tornato. Ci sei
mancato!”
Intendi
effettivamente Marco, oppure semplicemente
qualcuno su cui fantasticare, mamma?
“Mi
dispiace
di non avervi avvisati prima,” si scusa Marco, posando
brevemente il suo
sguardo su di me a metà della frase. Non deve scusarsi. Non
ce n’è bisogno. Il
suo problema era più importante della mia depressione.
“Ho avuto dei problemi in famiglia senza preavviso, e ho
dovuto prendermi dei
giorni liberi d’emergenza.”
“Tesoro,
non
preoccuparti,” lo rassicura mia madre, con una pacca
affettuosa sul bicipite. È
difficile capire se abbia un secondo fine con quel gesto. (Se sia a caccia o meno.) “Succede a
tutti, non
ti devi scusare. Be’…” A quel punto
sposta lo sguardo su di me, e io inarco un
sopracciglio in aria d’attesa. “Ecco, forse
dovresti scusarti con Jean. Non
l’ho mai visto avvilirsi così tanto in giro per
casa.”
“Mamma!”
Ovviamente
decide di continuare, cazzo.
“Completamente dipendente dal
telefono,”
continua, senza mollare la presa su Marco. Lui non sembra troppo a
disagio,
perché è concentrato su di me, mentre mi contorco
dall’imbarazzo. “È stato
incollato al cellulare per giorni. Non riuscivo proprio a farglielo
lasciare,
neanche a cena.”
“Oh,
davvero?” Marco. Marco, no. Dai.
Non
incoraggiarla.
“Sono
contenta che abbia smesso di sentirsi messo da parte,”
cinguetta mamma. Muove
la sua mano libera per scompigliarmi i capelli, ma mi sporgo
più indietro per
quanto mi sia fisicamente possibile per uscire fuori dalla sua portata.
No.
Emette un lieve tsk dalle labbra di
colore rosso acceso. “Speravo avesse superato questa fase adolescenziale.”
“Mamma!”
“Sai,
Marco,
mi ricorda quella volta in cui aveva, quanto?, dodici o tredici anni,
credo, e
si rifiutava di—”
“Mamma,
basta così! Sono certo di
aver sofferto
abbastanza dall’imbarazzo, potrebbe bastarmi per il resto della mia vita, quindi per
favore… ti prego, smettila.”
Mamma
ride e
torna a focalizzare la sua attenzione su Lentiggini.
“Vedi
cosa
intendo? È così lunatico! A proposito di
lunatici…”
Inizia
a
parlare rapidamente delle sue interazioni con il collega di Marco
– quel tipo,
Levi – lamentandosi della sua maleducazione e, di nuovo,
dicendogli di quanto è
contenta di avere nuovamente Marco
al
posto di “un ometto così terribile con
un’espressione così arrabbiata”.
Marco
mi rivolge la solita
faccia da aiutami a sfuggire dalle
grinfie di tua madre ma, ehi, sai una cosa? Non questa volta.
Eh no. L’hai incoraggiata, Marco.
Quindi penso che
questa sia la punizione che meriti. È solo colpa tua.
Nei
giorni
successivi, mi ritrovo a –ecco, quando non dormo in ogni
momento utile – a
riempire i miei album da disegno. Era da un po’ di tempo che
non mi sentivo
abbastanza motivato da prendere in mano una matita e cose del genere,
ma è
diventato un buon modo per passare il tempo.
Adesso
mi è
più facile disegnare Marco. Non che prima non fosse facile, certo, ma mi sembra di conoscere
il modo in cui si muove,
quindi traccio le linee sul foglio quasi istintivamente. Soffro un
po’ al solo
pensiero della sua espressione dell’altro giorno sul tetto,
ma sento il bisogno
di imprimerla su carta dalla mia memoria, per essere certo di non
dimenticarmene.
È assurdo come uno schizzo di Marco triste sia il disegno
più realistico che
abbia mai fatto.
Entro
venerdì ho riempito ogni centimetro vuoto in ogni sketchbook
che riesco a
trovare nascosto nella mia stanza. Sfoglio le pagine sporche di
grafite, e mi
sorprendo nel notare da quanto tempo disegno solo e soltanto Marco.
Sono
passati mesi dall’ultimo disegno di Mikasa e, riguardando
quello, e guardando
ciò che sto disegnando adesso… be’, mi
imbarazzo per aver anche solo pensato di
mostrare a qualcuno questi disegni vecchissimi. (Mi imbarazza ancora di
più il
fatto che Marco li abbia visti tutti, una di quelle prime volte in cui
entrò in
casa.)
Tuttavia,
c’è uno schizzo che mi piace davvero tanto. Occupa
una pagina intera (non ho
riempito gli spazi bianchi con piccoli primi piani e cose
così); ho disegnato
Marco, appoggiato al cofano del suo furgone, quella volta in cui
è venuto a
trovarmi dopo l’esame di chimica. L’ho disegnato
quella sera stessa, quando
sono tornato a casa, perché c’era qualcosa nel suo
volto preoccupato rivolto a
qualsiasi cosa stesse leggendo sul telefono che mi è rimasto
impresso.
Di
solito
non faccio disegni a figura intera – principalmente
perché io e i piedi non
siamo esattamente in buoni rapporti – ma questa è
un’eccezione. Le linee sono
armoniose, e non rozzamente accennate. Pare che io sia riuscito a
cogliere un
po’ dell’essenza del vero Marco, e ne vado
abbastanza fiero. Servirebbe un po’
di colore, però. Forse dovrei…?
Non
ci vuole
molto perché io finisca a gambe incrociate su quel poco di
pavimento libero
della mia stanza, passando al setaccio con aria decisa tutta la
robaccia che ho
accumulato durante gli anni sotto al mio letto, perché da
qualche parte,
nascoste sotto la pista di macchinine che mi regalarono a dieci anni, e
sotto
questo calzino sporco e spaiato, so di avere dei colori acrilici.
Dopo
tre
scarpe da ginnastica spaiate, le mie dita si piegano su una custodia di
plastica, e – bingo!
La
custodia
è incrostata di pittura ormai secca, quindi devo faticare
per aprirla e, quando
finalmente cede, i tubetti di colore volano dappertutto. Ugh.
Dipingere
è molto più difficile
di quanto ricordassi. Non è di alcun aiuto il fatto che la
pittura sia così
vecchia, e fa quello che fanno tutti i colori vecchi, riempiendo il
foglio di
macchie grumose e striate, e alimentando progressivamente la mia
rabbia.
Da:
Marco-Polo
Ehi! Volevo chiederti se c’è bisogno che porti
qualcosa per domani? Devo
portare un sacco a pelo? Del cibo? Qualcosa da bere?
Uno
dei
pennelli con cui sto dipingendo sta per rotolare giù dalla
scrivania quando
faccio un balzo per salvarlo, notando l’icona di un nuovo
messaggio nell’angolo
dello schermo del mio telefono. Sono le sette passate. Ops. Non ho
proprio
sentito l’arrivo di un messaggio. Tutto d’un tratto
sono passate sei ore e sto
ancora dipingendo. Quand’è successo?
A:
Marco-Polo
scusa se non ho risposto stavo dipingendo
A:
Marco-Polo
comunque non devi portare niente
Da:
Marco-Polo
Cosa stai dipingendo? :D
La
mia sedia
da scrivania scricchiola rumorosamente quando mi sporgo
all’indietro,
stiracchiando le braccia sulla testa con uno schiocco soddisfacente.
Ispeziono
il lavoro che ho fatto finora. Non… non è male,
credo, per essere il mio primo
tentativo con questo stupido metodo di
colorazione per fare esattamente quello che avrei potuto ottenere con
le matite.
Valuto
quanto suonerebbe omoerotico se rispondessi alla domanda di Marco: te, ovviamente. Probabilmente se lo
facessi attraverserei decisamente il limite del disagio.
A:
Marco-Polo
mi sto solo esercitando con i colori
A:
Marco-Polo
è MOLTO difficile
Una
notifica
di Skype lampeggia nell’angolo in alto dello schermo del mio
portatile, e
minimizzo la finestra di Facebook che tengo sempre aperta per aprire
una nuova
chat.
Robodt:
>> Posso vedere? :D
KirschFINE:
>> posso accendere la webcam
>> se vuoi
Robodt:
>> Davvero? Mi farebbe piacere!
:o
KirschFINE:
>> okay
>> però niente
chiamata perché sarà
super imbarazzante quando vedrai cosa sto disegnando
Robodt:
>> Non è
pornografico, no? Perché
mia sorella è qui in casa da qualche parte.
KirschFINE:
>> no
>> cristo santo marco
Mi
sistemo
rapidamente i capelli, perché, come al solito, oggi non li
ho pettinati e, a
giudicare dal riflesso sullo schermo, un uccello potrebbe averci fatto
il nido.
KirschFINE:
>> ok ecco qui
>> non ridere
>> e niente commenti sdolcinati
O
altro,
penso. Premo il pulsante per la videochiamata,
controllando due – anzi, tre – volte che il
microfono sia spento e aspetto che
Marco accetti, con una smorfia imbarazzata. Ecco qui, Marco, ti
presento… Marco. Appare
sul mio schermo, con una
t-shirt a tinta unita e un asciugamano attorno al collo, e i capelli
intrisi di
goccioline d’acqua. Indietreggio e, distogliendo lo sguardo
dalla webcam, reggo
l’album da disegno per farlo entrare
nell’inquadratura. Non guardo
l’espressione di Marco, mentre noto il rettangolo arancione
lampeggiare
nuovamente nell’angolo dello schermo, e lo fisso con aria
incredula e le guance
che vanno a fuoco.
Robodt:
>> Jean! È veramente
bellissimo! :D
>> (Posso dirlo della mia
stessa
faccia?)
Sei
perdonato,
rifletto, mentre metto subito giù l’album,
sentendomi leggermente rincuorato. Mi concedo un breve sguardo al suo
viso, e
lo vedo sprizzare gioia da tutti i pori, con le lentiggini che si
stagliano
sulle sue guance come tante piccole stelle. Non posso negare il
sentimento di
orgoglio che va espandendosi nel mio petto, ma trattengo il sorriso che
minaccia di prendere posto sulla mia faccia, concentrandomi invece
ostinatamente sulla scelta dei pennelli più appropriati.
Continuano a spuntare
sullo schermo messaggi di Marco, quindi do loro uno sguardo distratto
quando
compaiono, fra una pennellata e l’altra.
Robodt:
>> Tu e Mina avete tante cose
in
comune, sai? Anche a lei piace molto disegnare!
>> Sono sicuro che se sapessi
disegnare le starei molto più simpatico hahaha :D
>> Purtroppo sono un fratello
maggiore terribile senza un briciolo di talento artistico.
>> Ehi Jean, sei sicuro che non
ti
posso chiamare? D:
>> Vorrei parlare con te mentre
disegni!
Finisco
di
stendere i punti di luce sull’auto dove il mio Marco
disegnato è appoggiato,
prima di decidermi a rispondere almeno all’ultimo messaggio.
La sua espressione
in webcam è supplicante, e si sta mordendo il labbro,
speranzoso. Gli rivolgo
uno sguardo truce e scuoto la testa.
KirschFINE:
>> no
>> cioè
>> ti sto disegnando, non
voglio
parlare con te contemporaneamente perché …..
>> beh è
già abbastanza
imbarazzante così ok?
Robodt:
>> Perché sei in
imbarazzo? D: è un
dipinto bellissimo da quel che ho visto finora!
Non
riuscirò
mai a finire questa roba se continua a distrarmi così.
Be’, in parte è anche
colpa mia, probabilmente. Mi lascio
distrarre continuamente.
La
barra
della chiamata di Skype appare al centro del mio schermo, insieme
all’orribile
suoneria. Aggrotto le sopracciglia e clicco il pulsante rosso per
rifiutare la
chiamata con aria di sfida.
Robodt:
>> D:
KirschFINE:
>> no
Robodt:
>> E se ti supplicassi in
ginocchio?
Ah…
oh. Per favore, qualcuno mi butti in piscina adesso,
perché
l’immagine mentale che è appena comparsa nella mia
testa non è neanche
lontanamente adatta ai minori di tredici anni. Oh Dio.
Perché ho appena pensato
a una cosa del genere? Marco… in
ginocchio… implorante…
alzo
stupidamente lo sguardo… e ha messo il broncio. Sporgendo il
labbro inferiore.
Pensieri
etero, solo pensieri etero.
Potrei
decisamente vincere un premio per la mia capacità di
sentirmi costantemente
sopraffatto. È per questo che non attivo il microfono,
Marco. Perché a quanto
pare non ho un minimo di controllo su questi cazzo di incontrollabili
pensieri gay, Cristo santo. Il
verso strozzato
che mi lascio scappare è assolutamente vergognoso, e affondo
la testa tra le
mani.
KirschFINE:
>> preferirei che non lo facessi
Sento
bussare delicatamente sulla porta della mia stanza, il rumore
è sufficiente a
distogliermi dal mio vortice di pensieri inappropriati; mi giro sulla
sedia
quando mamma scivola sull’uscio della porta.
“Ciao,
tesoro,” mi sorride, e a quanto pare nota il modo in cui sono
aggrappato ai
bordi della sedia come se la mia fottutissima vita dipendesse da essa.
“Sto per
partire, quindi ho pensato di controllare—” Il suo
sguardo supera la mia spalla
per posarsi sullo schermo del mio portatile, e poi sul set di acrilici
e album
da disegno sparsi sulla mia scrivania, e si blocca a metà
frase. È abbastanza
per costringermi ad agire, mi sporgo immediatamente
all’indietro e chiudo il
computer probabilmente con molta più forza di quanto sarebbe
consigliato, e
provo a coprire il dipinto con tutti i fogli di carta che riesco a
reperire nei
dintorni.
Merda.
Cazzo.
“Cosa
stavi
facendo, tesoro?”
“Niente,”
ribatto bruscamente, fissando le mattonelle ai suoi piedi.
“Non stavo facendo
niente.”
Mamma
supera
la mia stanza a grandi passi, evitando magicamente le pile di vestiti e
libri
sparsi letteralmente ovunque (sì, prima o poi
metterò tutto in ordine), fino a
posizionarsi affianco alla mia scrivania, dando un colpetto ai fogli di
carta
con un dito.
“Dai,
Jean.
Fammi vedere.”
Cosa
pensa che sia? Un porno?! Perché mai dovrei
disegnare dei porno? Diamine, probabilmente sarebbe meno imbarazzante,
cazzo.
Mi
lascio
scappare un lamento basso, ma lei non si muove. Bene,
cazzo.
Rimuovo
i
fogli di carta dal mio disegno; un po’ di pittura fresca si
trasferisce sulla
facciata inferiore ma, fortunatamente (anche se effettivamente in
questo
momento a chi importa? Sicuramente non a me), il dipinto non si macchia.
“Uh…”
“Jean,”
mi
dice, “L’hai fatto tu?”
Oh
Dio. Ci siamo. Prima o poi sarebbe dovuto
succedere. Addio a ogni speranza di fare dell’arte il mio
futuro. Certamente è
stato bello finché è durato.
“…Sì.”
“Perché
non
me l’hai mostrato prima?”
Aspetta,
che?
“Huh?”
Mamma
si
avvicina all’album da disegno, ispezionando il mio lavoro.
Mentre io sono in
uno stato di shock generale. Urrà.
“È
Marco,
vero?” chiede, “Jean, tesoro, è meraviglioso.
L’hai disegnato da zero?”
“T-ti
piace?”
Il
cuore mi
martella nel petto, e il suono del sangue che pompa è
abbastanza forte nelle
mie orecchie da rischiare di attutire le parole di mia madre. Porca puttana.
“Certo
che
mi piace,” risponde enfaticamente, “Vorrei solo
sapere perché è la prima volta
che vedo un tuo disegno, Jean! Ne hai altri?”
“Io,
uh—
cazzo, cioè, uh, sì! Scusa! Ne ho molti
altri!”
“Mi
piacerebbe molto vederli.” Mi rivolge un sorriso a trentadue
denti, e sto quasi
per imitare la sua espressione (seppur con un’aria
più precaria e decisamente
sbalordita, cazzo!), quando il suo telefono inizia a squillare.
“Ah!” esclama,
dando un’occhiata al numero mentre lo estrae dalla tasca
posteriore.
“Accidenti, è il mio taxi. Devo scappare, tesoro,
ma devi mostrarmi altri
disegni appena torno, va bene?”
“Uh…
certo.”
Si
flette
sulle ginocchia per piantarmi un bacio schifosamente sdolcinato sulla
fronte
(vorrei ricordarle che ho diciannove anni, e non cinque, ma il mio
cervello
probabilmente si è trasformato in poltiglia ed è
pronto a colarmi dalle
orecchie).
“Ti
manderò
un messaggio non appena sarò atterrata,” dice,
“Fai il bravo. Divertiti.
Telefona a casa della nonna se hai bisogno di qualcosa, okay?”
“…
Certo,
mamma. B-buon viaggio.”
Non
so
esattamente quanto ci metta a riacquisire le mie facoltà
cerebrali ma, quando
ci riesco, finisco praticamente per affondare nella sedia,
abbandonandomi a un
lungo sospiro che stavo trattenendo da tempo. È appena
successo davvero?
Non…non sono stato rinnegato?
No, a
parte gli scherzi. L’ha davvero presa
bene?
Riapro
la
mia conversazione con Marco su Skype e controllo i messaggi non letti
che si
sono accumulati nell’angolo. Il video ovviamente si
è spento quando ho chiuso
violentemente il portatile.
Robodt:
>> Ehi, il video è
appena diventato
tutto nero?
>> Tutto bene?
>> Sei ancora in linea?
KirschFINE:
>> scusa
>> è appena successa
una cosa molto
surreale
>> credo che mi abbia impallato
il
cervello
Robodt:
>> Cos’è
successo? :o
>> Tutto bene?
KirschFINE:
>> è appena entrata
mia madre
>> e ha visto cosa stavo
disegnando
>> e le è
piaciuto???????
Per
la
seconda volta questa sera, ricevo una chiamata su Skype. Tiro un
sospiro e premo
il tasto per alzare il volume sulla mia tastiera, prima di accettare la
chiamata.
La voce di Marco riempie immediatamente la mia stanza. Decido di non
accendere
la webcam, questa volta.
“Hai
visto, te l’avevo detto!”
mi canzona. “Ti avevo
detto di dare una possibilità a tua madre!”
“Va
bene, va
bene,” mi ritrovo a ridere; è una risata sommessa,
rincuorata. “Non c’è bisogno
di farmelo pesare, Lentiggini.”
“Ma
è
veramente grandioso, Jean! Sono così felice per
te,” continua, e sono contento
che non possa vedere la mia faccia in questo momento. “Forse
riuscirai a
parlarle per entrare nella facoltà di arte il prossimo anno,
eh?”
“Hah,
adesso stai correndo un
po’ troppo…”
Sabato
mattina mi pento di essermi mai offerto volontario di mettere a
disposizione la
mia casa per le bravate di Connie. Tanto per cominciare, devo
svegliarmi oscenamente
presto (e questo per me è già abbastanza per
farmi odiare tutto e tutti per
l’eternità), e cominciare a nascondere tutti gli
oggetti che devo portare in
salvo da quelle scimmie ubriache dei miei amici se voglio evitare che i
miei
genitori mi rinneghino. Il che implica principalmente spostare tutte le
foto
dalla mensola sopra il camino nel salotto; colgo l’occasione
per toglierne
qualcuna anche dalla tromba delle scale perché, credetemi,
se Ymir o Eren le
vedessero, di certo non sarebbero gentili come Marco con i commenti sul
piccolo
Jean di tre anni.
Quando
Marco
arriva per pulire la piscina, sto correndo in giro a gambe levate
provando a
riordinare, versando snack assortiti in qualche ciotola (è
così che si fa,
no?), e cercando il punto più fresco della casa dove poter
conservare la birra.
Sto trascinando una pila di coperte giù per le scale (il
che, in effetti, è
piuttosto difficile, perché inciampo nei miei stessi piedi
più di una volta e
rischio di fare un volo di tre metri fino ad atterrare di testa sul
pavimento
di legno), per portarle nel salotto, quando noto che Marco si
è stabilito in
cucina, e sta girando avanti e indietro su uno degli sgabelli da bar.
“Yo,”
lo
saluto, scaricando le coperte in un mucchio vicino alla porta del
salotto, e lo
raggiungo in cucina. Marco sussulta lievemente, ma la sorpresa
è rimpiazzata
subito da un sorriso.
“Ehi,”
sorride, “Scusa, sono entrato in casa senza dire niente! Ho,
uh… ho finito con
la piscina.”
“Nah,
non
c’è problema.” Mi avvicino a lui con il
pretesto di prendere qualcosa da bere
dal frigo, ma mi fermo quando vedo quello che indossa al posto dei
soliti
pantaloncini color cachi. “…Perché
indossi un costume da bagno?”
Ridacchia
con aria imbarazzata e si gratta la nuca, evitando intenzionalmente il
mio sguardo.
Non promette nulla di buono. (Ha
preso
lezioni da Sasha alle mie spalle?)
“Ecco…
avevo
pensato di provare una cosa,” mi dice. “Se non sei
impegnato, ovviamente.”
Non
so
perché accetto di seguirlo in cortile, eppure lo faccio;
suppongo abbia qualcosa
a che fare con la sensazione che mi assale quando guardo la pila di
coperte
accatastate nel corridoio, e decido che non è proprio il
caso di farmi
infastidire ancora da queste faccende di casa.
Marco
si
dirige intenzionalmente verso la scalinata della fottutissima piscina, e mi chiedo sinceramente se sia
completamente impazzito una volta per tutte. Mi fermo in mezzo al prato
e
incrocio le braccia, tamburellando con le dita sui miei bicipiti. Lui
entra
nella piscina, arriva al terzo o quarto gradino, dove l’acqua
gli arriva alle
ginocchia, e si volta nuovamente a guardarmi.
“Vieni
qui,
Jean.”
“Già,
meglio
di no,” scuoto la testa.
“Non so
cos’hai mangiato a colazione, ma ovviamente ti ha dato al
cervello.”
“Jean,”
sospira. Posa entrambe le mani sui fianchi, ma
quell’atteggiamento di
sufficienza non gli si addice per niente. “Accontentami
almeno per cinque
minuti. Vieni qui.”
Non
ho molto
tempo per crogiolarmi nelle mie insicurezze perché sento
già i miei piedi
muoversi sull’erba senza nemmeno aspettare un mio comando. Mi
fermo davanti
agli scalini della piscina e guardo Marco qualche gradino sotto di me,
con uno
sguardo che dice, per favore, illuminami,
dimmi in che piano diabolico mi stai per coinvolgere, e come pensi di
farmi
entrare in piscina. Perché stai pur certo che non
succederà, cazzo.
“Se
stai per
sparare qualche cazzata,” inizio, “… sul
mantenere quell’idiota promessa sul
fatto di aiutarmi ad… affrontare
questa cosa, allora stai tranquillo, Calypso,
io ti libero dai tuoi legami umani, o come diamine diceva la
citazione. Non
mi avvicinerò più di così.”
“Jean,
voglio solo che ci provi.”
“No.
Non ci
proverò. Qualsiasi cosa tu abbia in mente. No e poi
no.”
Marco
sale
un gradino, e il livello dell’acqua ora è
all’altezza delle sue caviglie. Le
goccioline luccicano sulle sue ginocchia coperte di lentiggini. Ugh. Sono ancora leggermente
più alto di
lui, ma i nostri occhi sono quasi alla stessa altezza.
Mi
porge
entrambe le mani e mi fa segno di avvicinarmi. Ecco, se potessi
eliminare tutta
quella piscina attorno a lui,
dietro
di lui, di fronte a me,
sì, non ci
sarebbe alcun problema. Ma…
“Ricordi
quell’articolo che ti ho letto al telefono?” mi
chiede, “Dobbiamo fare piccoli
passi alla volta. Consigliava di provare a mettere i piedi
nell’acqua per
cominciare. Penso che sia fattibile.”
È
come se
tutta la spavalderia che avevo in corpo fosse scomparsa in un istante
e, invece
di essere fiduciosamente ribelle e pronto a deplorare il suo
suggerimento,
improvvisamente sento quei brividi di freddo fin troppo familiari che
accompagnano il panico.
“Sai
che non
posso farlo,” mormoro sommessamente, incapace di nascondere
il tremore che
inizia a intaccare la mia voce, “Dai, devo finire i
preparativi per—”
Non
ho il
tempo di finire, perché Marco si sporge in avanti e prende entrambe le mie mani nelle sue,
avvolgendo le mie dita nei suoi
palmi. Non mi strattona in avanti – diamine, sa che non gli
conviene –
piuttosto mi sostiene lì dove sono.
“Un
passo.
Ce la puoi fare,” sorride; è quel suo sorriso che,
per uno stupidissimo, brevissimo
istante, mi fa credere che non ci sia niente
di impossibile. “E poi possiamo andare a versare patatine in
una ciotola, se
proprio vuoi.”
Le
mie
unghie sono conficcate nei suoi palmi oramai e, Cristo santo, non mi
sorprenderei se gli rimanessero i segni per
l’eternità.
Un
passo. È
tutto quello che vuole. Devi fare solo un
passo avanti.
“Non
ti
accadrà nulla di male,” aggiunge Marco,
“Sai che non lo permetterei.”
Le
mie gambe
stanno tremando, eppure alzo un piede dal cemento del bordo della
piscina e
faccio qualcosa che non avrei mai pensato di poter fare.
Scendo
un
gradino, nella piscina.
“Ha!”
rido
nella mia tremante incredulità, portando l’altro
piede affianco al primo,
sommersi fino alle caviglie sul primo scalino. L’acqua
è fredda, il modo in cui
lambisce le mie caviglie è letteralmente la sensazione
più disgustosa che abbia
mai provato, ma Marco… Il modo in cui mi sorride.
È raggiante, cazzo.
Rafforza
la
presa sulle mie mani tra di noi e mi concentro sulla stretta, sul modo
in cui
riesco praticamente a sentire la sua energia spumeggiante che si
trasmette
nelle mie dita. Guardatelo. È così felice,
cazzo.
Il
mio cuore
batte all’impazzata, alterato dall’adrenalina,
dall’euforia, dalla paura
più assoluta, insieme a tutte le
altri sensazioni che potrei provare, tutte stritolate in un unico
caotico, fantastico istante.
“Non
sei
poi… così santo… come
pensavo,” sussurro, mentre la voce si annoda nella mia
gola per il nervosismo. “Lentigginoso bastardo…
nascosto segretamente sotto
tutta quella… scorza di affettuosità.” Arriva
con il pretesto di pulire la mia piscina per poi in realtà
trovare nuovi modi
per t-torturarmi.
“Sapevo
che
ce l’avresti fatta,” dice in un ampio sorriso,
dondolando le nostre mani unite.
È così sdolcinato. Così ridicolo.
Così perfetto. “Vuoi provare a scendere un
altro gradino?”
Guardo
in
basso, verso l’acqua che circonda i miei piedi, e qualcosa si
contorce nel mio
stomaco. Al prossimo gradino l’acqua è
più profonda, e quel pensiero mi fa
arrossire la nuca con un’ondata di viscido calore. Contraggo
la mascella e
deglutisco a fatica.
“M-magari
un’altra volta.”
“Va
bene.
Sei stato già bravissimo oggi, Jean.”
Per
tutta
risposta, sbuffo.
“…
Non posso
crederci, sei venuto qui con il c-costume da bagno, cazzo. Avevi
intenzione fin
dall’inizio di trascinarmi in questa fottutissima
p-piscina.”
Avrebbe
eseguito il solito tic
nervoso – grattandosi la nuca, imbarazzato – se le
mie mani non fossero state
saldamente serrate nelle sue. Quindi opta per un’espressione
imbarazzata,
guardandosi i piedi. È il mio tremore generale a riportarlo
finalmente alla
realtà, e suggerisce di uscire dalla piscina. Continua a
tenermi le mani per
più tempo del necessario.
“Ehi,
quante
coperte ci sono lì?” grido in direzione delle
scale, per metà dentro l’armadio
a muro del corridoio. Riesco a trovare un po’ di cuscini
stipati dietro la
caldaia, e li trascino fuori, mettendoli in spalla insieme agli altri
cuscini
che ho collezionato dal resto della casa.
“Uh,
cinque
o sei, credo?” grida Marco di rimando, “Oh, e un
sacco a pelo!”
“Mmm,
probabilmente basta così allora,” rifletto,
più che altro con me stesso, mentre
esco lentamente dall’armadio, rischiando di sbattere la testa
sullo scaffale
sopra di me. “Ora ti lancio dei cuscini, okay?”
Afferro
tutti quelli che riesco a mantenere, e spingo gli altri in cima alle
scale con
i piedi. Guardando oltre la ringhiera, vedo Marco posizionato sotto di
me, con
un sorriso raggiante. Diamine, che faccia stupida.
“Perché
stai
sorridendo così, idiota,” grugnisco, mentre lancio
un cuscino direttamente
sulla sua faccia; colpisce il bersaglio con un oomph
soffocato.
“Ehi,”
mette
il broncio, stropicciandosi il naso lentigginoso, “Sei
proprio ingiusto. Ti
ricordo che sono un tuo ospite!”
Gli
lancio
un altro cuscino per tutta risposta, ma stavolta lo afferra a mezzaria.
“La
tua
espressione idiota mi fa venire da vomitare.”
“Ah
bene, allora in futuro mi
sforzerò di non essere felice per te,” sorride
beffardo. Prendo in
considerazione diverse possibilità per approssimativamente
un secondo, prima di
decidere di lanciargli in faccia tutti i cuscini da sopra la ringhiera.
A
quanto
pare, Marco non ha intenzione di
indossare costume da bagno e polo da lavoro per il resto della serata
(grazie
al cielo). Quando finisco di farlo lavorare come uno schiavo,
sgattaiola verso
il suo furgone e torna con un piccolo borsone nero appeso a una spalla.
“Ti
dispiace
se vado a cambiarmi, Jean?”
Sono
solo le
tre, ma ho già deciso di aprire una birra. Penso che ne
avrò bisogno prima che
cali la sera. Mi lecco le labbra per disfarmi dei baffi di schiuma, per
poi
indicare vagamente in direzione delle scale.
“Nah,
fai
pure,” rispondo. “Puoi lasciare tutto in camera
mia. Probabilmente lì saranno
più al sicuro.”
Mi
rivolge
un sorriso e poi si dirige al piano superiore; rimango ad ascoltare lo
scricchiolio familiare delle assi del pavimento della mia camera che
attraversa
il soffitto della cucina, prima di bere un altro sorso. Hmm. Sono
ancora in
quella fase orribile di: questa birra
è
una merda, quindi dovrei proprio berne dell’altra
affinché inizi a sembrare più
decente. Afferro un’altra lattina dalla cassa per
Marco, la posiziono sul
bancone e poi nascondo nuovamente la mia scorta in una delle ante della
credenza, per tenerle al sicuro.
(Probabilmente non è di grande utilità,
perché Connie e Sasha diventano
letteralmente dei segugi quando si
tratta di annusare l’alcol nascosto.)
Suona
il
campanello e, come si dice, quando parli
del diavolo… Sento il rumore sulla veranda prima
ancora di mettere piede in
corridoio e vedere le sagome dei miei amici preferiti
attraverso il vetro.
Con
un
sospiro deliberatamente eccessivo, apro la porta per trovarmi di fronte
a un
paio di facce sorridenti.
“Jean!”
grida Sasha, praticamente gettandosi fra le mie braccia. Mi scosto per
evitare
che il contenuto della mia birra venga versato ovunque. “Sei
pronto a
festeggiaaareeeeeeee?!”
“Ti
prego,
dimmi che non sei già ubriaca,” mi lamento,
spostandomi da un lato della porta
per farli entrare. “Cos’ha bevuto?”
“Niente,”
interviene
Connie, posando lo zaino che reggeva in spalla con un tonfo sonoro
(presumo sia
pieno di alcol e nient’altro). “Be’, a
parte due lattine di piscio di gatto, in
effetti, sì.”
“E
non hai
pensato al fatto che adesso dovremo sopportarla per il resto della
serata
finché non arrivano gli altri?”
“Uh…
no.”
“Bene.”
Trascino
entrambi in cucina, dove Sasha si mette a girare a più non
posso su uno degli
sgabelli della cucina, e Connie inizia a svuotare il suo zaino sul
bancone. Ha
portato alcol a sufficienza per inebriare un piccolo esercito, merda, ma ha portato anche un pacco
intero di bicchieri di plastica, quindi penso di poterlo perdonare,
perché
almeno è arrivato preparato.
Ispeziono
una delle bottiglie di vetro satinato, rigirandola nella mia mano
libera per
leggere il tasso alcolico. I miei occhi sembrano rifiutarsi di leggere
quel quarantaquattro percento
sull’etichetta.
“Merda,
ma
questa roba è etanolo puro?”
“Probabilmente
se lo bevessi diventeresti cieco all’istante,”
sorride Connie.
“È
quello
l’intento!” scherza Sasha, allungando un braccio
per prendere la bottiglia
dalle mie mani – è un rum bianco di qualche sorta,
a quanto pare – ma lo
allontano subito dalla sua portata.
“Uh,
assolutamente no, Sash. Non inizierai a bere alle tre del pomeriggio, Cristo santo.” Per tutta
risposta
borbotta un po’, ma la sua attenzione viene distolta quando
Connie le passa un
bicchiere di plastica e le versa mezza lattina di birra Bud Light,
tenendo
l’altra metà per sé.
“Quindi,
quando arrivano gli altri?” domanda Connie, bevendo qualche
sorso fin troppo
zelante di una birra che ho paragonato più a volte al sapore
del vomito.
“Più
tardi,”
rispondo. “Ve l’avevo detto di non venire
così presto.” Sento le scale
scricchiolare, e per qualche ragione sento il mio viso scaldarsi
leggermente.
“Oh, ma, uh… Marco
è già qui.”
Lentiggini
gira l’angolo in quel momento, e si ferma, sorpreso, nel
vedere la cucina più
piena rispetto a prima che andasse al piano di sopra. Ha sostituito il
look da
inserviente della piscina con un paio di pantaloni chino marrone chiaro
e una
camicia bianca, e vaffanculo, Marco,
devi ricordarmi costantemente di quanto tu sia attraente
e di quanto io sia ossuto?
Gli rivolgo uno sguardo di rimprovero da dietro la mia lattina di birra
mentre
bevo un altro – per quanto più scontroso
– sorso.
“Inserviente
sexy!” strilla Sasha, scendendo dallo sgabello e lanciandosi
nella direzione di
Marco. Che dio lo benedica, quell’idiota,
perché pensa bene di porgerle le mani per sostenerla, invece
di lasciare che
inciampi sui suoi stessi piedi come meriterebbe.
“Uh…
ciao!”
Marco ride con aria imbarazzata, guardandomi come se mi stesse
chiedendo: cosa dovrei fare con questa
persona
decisamente poco sobria, Jean? Per tutta risposta, mi limito
a fare
spallucce.
Connie
afferra la birra dalle mani di Sasha e la beve fino
all’ultimo goccio, prima di
portare il bicchiere al lavandino per riempirlo d’acqua. Lo
restituisce alla
sua ragazza senza un briciolo di compassione (e lei beve senza battere
ciglio,
il che è già una grande impresa).
“Stai
proprio bene così tirato a lucido,” dice allora
Connie, indicando Marco con la
lattina. “Vero, Jean?”
“Sta
provando a farci sentire tutti delle merde,” concordo io,
nonostante mi ci
voglia tutto il mio autocontrollo per non balbettare, vedendo Marco
arrossire
vertiginosamente ancora una volta. E poi sento che sto arrossendo a mia
volta.
Ed è diventata una gara di sguardi agitati e imbarazzati da
una parte all’altra
del bancone della cucina che ci separa. Connie tossicchia nella mano.
“Quindi,
uh, quand’è che arriva
Ymir con la sua birra schifosa?”
Ymir
e la
sua birra schifosa arrivano alle sei in punto e, per
quell’ora, Sasha ha fatto
in tempo a smaltire la sbornia e a ubriacarsi nuovamente. È
abbastanza
divertente guardarla mentre tenta di conversare disastrosamente con
Marco, che
cerca di calmarla con uno sguardo colmo di panico. Ha
l’espressione più
sollevata che gli abbia mai visto in volto quando viene letteralmente salvato dal suono del campanello, e le
orecchie di Sasha si drizzano immediatamente (ve l’ho detto
che ha un sesto
senso per l’alcol).
“È
Ymiiiiirrrrr!” canticchia, afferrando Connie per una mano per
correre ad
aprirle la porta. Marco tira un sospiro di sollievo e affonda nello
sgabello da
bar dov’è seduto con una risata incerta.
“Tutto
bene?” domando in un sorriso, dandogli un colpetto alla
caviglia con il mio
piede.
“Avevi
ragione… sul fatto che sono intensi,”
ammette. “Sono già esausto.”
“Heh.
E non
hai ancora visto nulla.” Infilo il braccio nella foresta di
bottiglie che
Connie ha lasciato sul bancone, e affetto la lattina di birra che avevo
preparato per Marco. “Vuoi bere qualcosa?”
La
lascio
fra le sue mani senza aspettare una risposta; in effetti, sono alla mia
terza
lattina, quindi le cose stanno lentamente scivolando nel piccolo mondo
di Jean-e-basta.
Rigira maldestramente la lattina fra le mani.
“S-sono
solo
le sei?” domanda con esitazione, “Non è
un po’… uh, preso?”
Emetto
uno
sbuffo di scherno, indicando tutte le lattine che noialtri abbiamo
già svuotato
nel frattempo. Ma un pensiero mi balena in testa in quel momento.
“Aspetta.
Mettiamo le cose in chiaro, Marco. Ti sei mai ubriacato prima
d’ora?”
Dopo
quella
domanda acquisisce un’aria leggermente imbarazzata, e tira la
linguetta della
sua lattina senza guardarmi negli occhi. Gli do un altro colpetto con
il piede.
“T-tecnicamente…
no.”
“Tecnicamente
no,” ripeto, sentendo un sorrisetto affiorare agli angoli
delle mie labbra.
“Cosa significa con esattezza?”
“Ecco,
s-sono diventato un po’ brillo al matrimonio di mio cugino,
quello conta?”
dice, ma prova subito a rimediare. “C-cioè,
uh… be’, mia madre… e, uh… no. No, mi spiace. Non mi sono mai
ubriacato.” Si morde il labbro. Non mi sorprende poi
così tanto, se devo essere
onesto. È esattamente il tipo di persona che aspetterebbe di
compiere ventun
anni prima di prendere anche lontanamente in considerazione
l’idea di
sbronzarsi. Però, d’altro canto…
“Aspetta,
fammi capire bene. Mi stai dicendo che sei amico di Reiner
Braun e non ti ha mai costretto – minacciandoti con
qualche
presa di wrestling – a ubriacarti? Neanche un
po’?
“No?
Non ho
mai… bevuto con Reiner, in realtà.”
“Ti
aspetta
una grande serata, allora,” sorriso, sporgendomi verso di lui
e sollevando la
sua lattina con le dita, costringendolo a bere un sorso di birra. La
manda giù
con una smorfia. “Il sapore migliorerà man mano
che la bevi,” gli prometto
maliziosamente. “Diamine, se è arrivata Ymir non vedrai l’ora di ubriacarti
appena possibile, così non dovrai
dare retta ai suoi discorsi di merda. Credimi, è quello che
farò io.”
“Ti
ho sentito,
Kirschtein!” l’urlo di Ymir attraversa il
corridoio. “Appena metto giù tutta
questa birra prendo a calci quel culo ossuto che ti ritrovi fino a
spedirti su
Giove.”
Ymir
entra
in cucina, con tre casse da dodici fra le braccia, che posiziona sui
banconi
ancora vuoti con un grugnito e uno schiocco delle articolazioni della
spalla. È
seguita da Historia, che trasporta le borse di entrambe, per poi
abbandonarle –
con più eleganza della sua ragazza – vicino alla
porta. (Connie e Sasha stanno
ancora ridacchiando nel corridoio, a giudicare da quello che riesco a
sentire.)
“Spero
che
ti piaccia bere la pipì di gatto, Marco,” gli dico
con aria di rimprovero per
Ymir, e Marco risponde con una risata educata.
“Spero
che
ti piaccia sentirei il mio piede su per il culo,” ribatte
Ymir,
schiaffeggiandomi il braccio con un’aria decisamente
più omicida del
necessario. Ahia, cazzo. “La birra di merda è la
migliore, snob che non sei
altro.”
“Abbiamo
portato anche alcune bevande analcoliche da mischiare,” si
intromette Historia
con un sorriso dolce stampato in volto. Ovviamente ha notato il disagio
di
Marco di fronte all’aggressività e alla pazzia
generale che contraddistingue i
miei amici. (E ha ragione, avrebbero tutti
bisogno di un buon terapista.) “Sai, nel caso in cui non ti dovesse piacere la
birra.” Si avvicina a Marco, prendendo
posto furtivamente sullo sgabello affianco a lui, e dice a bassa voce,
teatralmente: “Tranquillo, neanche
a me
piace la birra.”
Ymir
ringhia
e mi dà – perché
proprio a me – un
altro schiaffo.
“Farò
finta
di non aver sentito, solo perché sei carina,” dice
alla sua ragazza alle sue
spalle. “Jean, purtroppo, non lo
è.”
“Così mi offendi,”
metto il broncio.
“Oh,
sta’
zitto.”
Connie
e
Sasha tornano in cucina, anticipando impazientemente
l’apertura del bottino di
Ymir (nonostante avessero già abbastanza alcol prima, quindi
non capisco
esattamente il motivo). Questo distrae Ymir quel tanto che basta
perché io
riesca a scappare fuori dalla sua portata, unendomi alla conversazione
fra
Historia e Marco.
“Quindi,
tu
devi essere Marco?” dice, offrendogli una mano da stringere.
(Perfetta,
Historia, sei perfetta, che Dio
benedica tutta la tua normalissima
esistenza). Marco – che sembra sospettoso e leggermente
preoccupato – le
stringe la mano con un sorriso educato.
“Sì,
sono
io,” dice. “Non credo di—”
“Mi
chiamo
Historia,” interviene, “E lei è Ymir,
nel caso non l’avessi capito. Giuro che è
gentile, il più delle volte. È solo che diventa
stranamente possessiva quando
si parla della sua scelta in fatto di birre. Mi scuso in anticipo per
tutto
quello che farà nelle prossime ore.”
“Fai
bene a
scusarti,” mi intrometto io. “Se quando torna mia
madre trova la casa rasa al suolo,
so esattamente a chi chiedere il
risarcimento.”
Non
saprei dire se Marco sia
genuinamente terrorizzato, o solo leggermente sopraffatto
dall’euforia di tutti
gli altri (leggasi: Ymir e Sasha); beve un lungo sorso di birra, e
stavolta
sembra apprezzarla con gratitudine.
Quando
arrivano Eren, Mikasa e Armin, inizio a pensare che forse Marco
è semplicemente
un po’ nervoso in mezzo a tanta gente. Sorride educatamente
quando qualcuno gli
parla – e attacca subito bottone con Armin, nonostante
etichetti immediatamente
Eren come un matto come le altre (glielo leggo negli occhi) –
ma in generale si
limita a seguirmi come un’ombra mentre mi sposto in giro per
la casa, cercando
di evitare che accada qualcosa di ridicolmente stupido ancor prima che
diventi
buio.
Tuttavia,
non è l’unico. Io ed Eren ci scambiamo una specie
di cenno con il capo come
saluto, ma non andiamo oltre. Non so cosa dovrei fare. Non so
esattamente in
che rapporti siamo adesso – ha detto che siamo
a posto, e che mi ha perdonato per le ossa rotte –
ma … come può
accantonare tutta quella situazione così? Io non ci riesco.
Ci sono ancora
notti in cui mi ricordo … di quel momento. E mi sveglio
sudato e senza fiato, e
devo consolarmi dicendomi che non
è
andata così male come il mio cervello del cazzo vuole farmi
credere, e che
Eren non sapeva cosa stesse facendo, che è solo impulsivo e
non poteva sapere
che avrei reagito così. Non è stata colpa sua.
Eppure … in un certo senso, lo è
stata. Avevo così tanta paura. Anche adesso ho paura.
È
per questo
che non so cosa fare. Quindi ci giriamo intorno l’un
l’altro per il momento,
evitando qualsivoglia conversazione diretta, scusandoci a bassa voce a
vicenda
se ci urtiamo per sbaglio in cucina. Per adesso va bene
così. È una ferita che
deve ancora cicatrizzare.
Comunque,
Eren è più che felice di divertirsi con gli
altri. Vale lo stesso per me. In fin
dei conti, sia io che lui li abbiamo evitati per tanto tempo.
Sasha
prepara un gioco di carte nel salotto, e colgo l’occasione
come una buona scusa
per scappare in cucina, con l’intenzione di provare a
ristabilire una specie di
ordine nell’uragano causato da Ymir e dagli Springles
(perché ormai anche
Connie ha preso il treno per alticcio-landia).
Sto
sgombrando il bancone da una manciata di lattine che finiscono dritte
nella
busta dell’immondizia, quando Marco compare al mio fianco e
affonda in uno
degli sgabelli da bar vicino a me. Appoggia i piedi sull'asse
della
sedia e lascia cadere le mani in grembo, con le spalle curve. Questa
volta
mostro più compassione per
lui.
“Hai
bisogno
di una pausa, eh?” domando, mentre ispeziono una bottiglia di
vodka che ha già
subito un’infrazione. “A chi lo dici. Non sono
neanche le otto e sento già il
bisogno di nascondermi sotto al mio letto per il resto della
serata.”
Marco
mormora qualcosa per esprimere accordo, passandosi una mano fra i
capelli scompigliati.
Ha arrotolato le maniche della camicia e sembra arrossire leggermente.
“Già,”
sospira. “È, uh… un po’
imbarazzante quando sei l’unico che non conosce tutti.
È
un po’… difficile seguire tutte le conversazioni,
a volte.”
“Credimi,
ho
smesso di provarci molti anni fa. Limitati ad annuire quando Sasha ti
parla, e
sei a posto.” Riesco a strappare un sorriso a Marco e, di
conseguenza, sorrido
a mia volta. “Vuoi bere qualcos’altro?”
Ormai ha finito da un bel po’ la sua
prima lattina (nonostante ci abbia messo lo stesso tempo che ho
impiegato io a
berne due). Prima che possa rispondere, qualcuno bussa decisamente alla
porta
principale, e potrebbe essere solo una persona (cioè, chi
altri potrebbe
riuscire a far tremare una casa intera semplicemente bussando su una
porta,
accidenti). “Ehi, pare siano arrivati Reiner e gli
altri.”
“Vado
io!”
dice Armin mentre attraversa il salotto fino ad arrivare
all’ingresso, e sono
felice di vedere che non sono costretto a fare gli onori di casa da
solo.
“Grazie,
Ar!” grido di rimando, sperando che riesca a sentirmi tra le
risate che
risuonano nel resto della casa. Mi volto nuovamente verso Marco.
“Hai scelto
qualcosa da bere?”
“Uh…
Non so…
uh, prendo quello che prendi tu, credo?”
Sasha
entra
in cucina scivolando sui calzini, scontrandosi in pieno con il bancone.
Non le
invidio i postumi che avrà domattina quando la vedo
prepararsi un altro drink,
mischiando della vodka con del succo di frutta in parti uguali. Una
volta
finito, ne beve un sorso, trasforma la sua espressione in una smorfia
disgustata e, ciononostante, ne beve un altro sorso.
“Volete
provarlo?” ci chiede, notando la mia espressione annoiata.
Porge il suo
bicchiere di plastica a Marco. “Assaggia, assaggia!”
Metto
una
mano tra il bicchiere e il volto di Marco, respingendo
l’oggetto verso Sash.
“Già,
no.
Non credo proprio.”
“Aw,
Jean, ci
togli tutto il divertimento!”
“Be’,
non
voglio vederlo accasciato sul pavimento prima delle dieci,
okay?”
Afferro
la
bottiglia di vodka ormai quasi vuota e uso il tappo per dosare due
bicchieri
per me e Marco, diluendoli con un po’ di Coca-Cola. Guardo il
fondo della
bottiglia di vodka con aria pensierosa e, prima che Sasha abbia la
possibilità
di scolarsela fino all’ultimo goccio, faccio spallucce e
verso quello che
rimane nel mio bicchiere.
Già,
ora è
un po’ troppo forte. Senti come
bruuucia.
Marco
dà
un’annusata incerta (strappandomi una risatina) al bicchiere
che gli ho
passato, prima di assaggiarne il contenuto. L’espressione che
appare sul suo
volto è piacevolmente sorpresa.
“Oh…
è buono!”
A
quel punto
Marco sembra abituarsi all’atmosfera; credo sia anche merito
di Bert e Reiner,
che gli sono familiari e lo mettono a suo agio (oltre ad essere altri
due volti
conosciuti oltre al mio). Annie, la
loro vicina leggermente spaventosa, sta sgranocchiando delle patatine
che è
riuscita a sottrarre, in qualche modo, a Sasha, mentre intavola una
conversazione amichevole con Mikasa (i simili si attraggono, forse?)
Una
volta
calata l’afa del giorno, propongo di spostarci fuori
– principalmente perché
voglio allontanare i miei amici sempre più ubriachi dal
nostro costosissimo
televisore – ma, in effetti, è molto
più bello stare seduti in cerchio sul
prato, schiacciato tra Marco da un lato e Ymir dall’altro.
Il
cielo è
di quel bel colore azzurro rosato che si vede soltanto nei tramonti di
mezz’estate, di quelli che riescono a calmarti nella maniera
più profonda … a
parte il fatto che tutto ciò perde
qualsiasi significato, quando Sasha proclama ad alta
voce che dobbiamo
buttare giù qualche bicchierino. Ad ogni modo, la brezza
è rinfrescante e
l’erba è fresca sotto le mie mani quando mi sporgo
all’indietro, chinando il
collo per guardare in alto verso i ciuffi di nuvole di un arancione
pallido. È
diventato piuttosto facile distrarsi, vista la piramide di lattine di birra vuote che Marco sta
impilando fra di noi.
(Purtroppo, quel bulldozer che risponde al nome di Eren la distrugge
quando
balza dall’altra parte del cerchio per rubare qualcosa da
Ymir, facendo mettere
il broncio a Marco.)
Più
Marco
beve e più si lascia andare, e inizia a parlare con tutti
gli altri. Mi basta
rimanere a guardarlo per stare bene, noto il rossore che va formandosi
sulle
sue guance e il modo in cui la sua risata diventa sempre più
sonora e
spensierata. Quando Armin, che siede dall’altro lato di
Marco, dice qualcosa
che, a quanto pare, fa morire dal
ridere, la risata di Marco lo fa quasi cadere all’indietro,
se non fosse per la
mano che gli poso sulla schiena per mantenerlo in equilibrio.
“Ehi,
attento,” dico in un fiato, mentre lui volta la testa per
guardarmi, finendo
quasi per scontrare la sua fronte con la mia. “Caspita,
sei decisamente sulla buona strada per alticcio-landia.”
“N-non
sono
brillo!” balbetta lui per tutta risposta, e non posso che
alzare gli occhi al
cielo con aria teatrale. “O forse sì?”
“Oh sì,” gli sorrido.
Reiner inizia a
passare uno shot a ogni membro del cerchio (non fidandosi
dell’abilità di Sasha
di versare qualcosa), ma scuoto la
testa al bicchierino che mi viene offerto da Historia da dietro la
schiena di
Ymir. “Andiamo,” dico a Marco, “Dovresti
bere un po’ d’acqua finché riesci
ancora a camminare.”
Rimetto Marco in piedi
tirandolo da un
braccio, e lui non se ne lamenta. Barcolla un po’ per i primi
due passi, ma
raccoglie tutta la sua concentrazione per camminare dentro casa,
nonostante
abbia bisogno di utilizzarmi come se fossi la sua riluttante stampella.
Lo
faccio appoggiare su un bancone della cucina e mi precipito verso il
lavandino,
aprendo il rubinetto dell’acqua fredda.
“Ti
senti
bene?” gli domando, vedendolo intento a ispezionare la trama
del marmo del
bancone. “Uh, Marco?”
“Ah,
no! No,
stai bene… cioè, io sto
bene. Non
sono ubriaco, no? Assolutamente… forse. Merda.”
Sembra profondamente sconvolto, soprattutto quando emetto una sonora
risata
nasale nel sentire le sue imprecazioni. “Oh
Dio…”
Gli
passo il
bicchiere d’acqua con un sorriso soddisfatto. Mi guarda
pietosamente, le sue
lentiggini sono quasi scomparse sotto al rossore del suo volto. Che imbranato.
“Perché
tu non sei ubriaco?”
“Perché
so
già cosa dobbiamo fare dopo. Ci sto andando
piano,” sorrido beffardo, prendendo
qualche altra lattina di birra per me. “E poi qualcuno
dovrà pur trascinare il
tuo culo ubriaco dentro casa più tardi. Non credo che Armin
riesca a prenderti
in braccio.”
“N-non
voglio…
impedirti di divertirti.”
“Oh,
figurati, non preoccuparti per me. Questo è incredibilmente
divertente.” Guardarti mentre ti
ubriachi
completamente? È a dir poco grandioso.
A
quanto
pare, Marco riesce a trangugiare cicchetti con una facilità
impressionante. O
forse è solo molto bravo a reggersi in piedi anche quando
è sbronzo. Chissà. Lo
guardo buttare giù tre shot consecutivi di
Dio-solo-sa-che-bevanda quando
riprendiamo i nostri posti nel cerchio, acclamati da tutti gli altri.
Ymir
prova a passarmi un bicchierino ma, ancor prima che possa rifiutarlo,
Historia
lo strappa dalle dita della sua ragazza e lo butta giù in un
unico sorso. Chi
l’avrebbe mai pensato. Incredibile.
Io
continuo
a bere birra, che ormai ha un sapore migliore, e sento un bel ronzio in
testa,
ed è tutto così… bello.
Bellissimo.
Eren sfida Ymir a chi riesce a bere gli shot di tabasco che ha appena
preparato. Anche questo è bello? Reiner finisce gli ultimi
avanzi di rum bianco
di Connie, per poi stampare un bacio sdolcinato sul volto di Bert.
Bellissimo
(ma anche abbastanza disgustoso, non lo nascondo). Mikasa, che sta
ancora
chiacchierando amichevolmente con Annie, mostra un raro ma fantastico
sorriso a
una delle affermazioni della biondina spaventosa. È
bellissima. (Ha un sorriso
incredibile, cazzo.) Marco si
appoggia sulla mia spalla, e sento rimbombare la sua risata dentro di
me.
Questo è ancor più che bellissimo.
La
brezza
solleva un fruscio tra la siepe e l’erba tagliata corta, e
porta con sé l’unica
sensazione che mi sia mai piaciuta dell’estate. È
rinfrescante. E rasserenante.
Fa sembrare tutto più giusto.
Forse
non
sono poi così sobrio come pensavo. Non me ne lamento. La
calda confusione nella
mia testa è come una coperta stesa sui miei pensieri e, per
una volta nella
vita, mi sento a mio agio. Non accadeva da un po’.
“Ehi,
ehi,
ehi,” sento la voce implorante di Sasha, e mi accorgo di
essermi imbambolato a
tal punto da chiudere gli occhi. Ne apro uno, sollevato nel vedere che
non sono
io l’oggetto delle sue molestie, ma è Connie, al
quale tira una manica.
“Dovremmo giocare a never have I
ever!”
Bene.
Adesso
sì che la situazione diventerà brutale.
“Finiremo
solo per scoprire cose che non avremmo mai voluto sapere sulla vita
sessuale di
Bert e Reiner,” si lamenta Eren, “Di
nuovo!”
“Che
c’è,
hai troppa paura del grande, sconfinato mondo gay,
Jaeger?” urla Reiner, e Bert sembra desiderare che il terreno
lo ingoi in questo preciso istante. “Hai paura di imparare
qualcosa?”
A
quanto
pare questo basta per iniziare a giocare (non chiedetemi come o
perché). I
bicchieri vengono riempiti nuovamente, mentre io informo
un’Ymir sempre più
aggressiva del fatto che sì,
c’è ancora
tantissima birra nella mia lattina, ora fatti i cazzi tuoi.
Eren inizia il
giro, con uno schiettissimo “non ho mai fatto sesso con un
oggetto inanimato”.
Tutti sembrano sconvolti quando Reiner non beve un sorso; di solito
è lui ad
aver fatto tutte le cose più disgustose. Marco preme un
po’ più forte la sua
spalla contro la mia e mi sussurra nell’orecchio.
“E-ehi,
Jean, non so come si gioca.” Il suo alito è
intriso dell’odore di birra o, più
che altro, di vodka. Non ha
più
alcuno scrupolo di invadere i miei spazi personali ma, a dire il
vero… non mi dispiace per niente.
“Devi
bere
quando qualcuno dice qualcosa che hai fatto,” gli rispondo in
un sussurro a mia
volta. Contemporaneamente, il turno passa a Mikasa, affianco a Eren.
“Non
ho mai…
copiato a un test o un esame,” dice. Un paio di persone
alzano gli occhi al
cielo, e molte più
persone bevono, me
compreso. Trangugio un breve sorso di birra, per poi focalizzarmi
nuovamente su
Marco.
“Così.
Se
almeno una volta a scuola hai copiato, devi bere un sorso.”
“O-oh,
ho
capito,” risponde, “… Quindi tu hai copiato?”
Gli
do una
brusca gomitata nelle costole, al che lui sfoggia un sorriso malizioso,
lasciandosi sgomitare.
“Non
giocare
a fare il Gesù lentigginoso con me, stronzetto.”
Passa
il
turno di Bert, e poi Reiner (con non poca sofferenza, e credo che
potrei aver
bisogno di lavarmi le orecchie con del sapone dopo quello che ha
detto), e poi
tocca a Connie, a Sasha, a Historia, per poi arrivare a Ymir. Nel giro
di circa
dieci minuti, sono venuto a sapere che Connie una volta è
stato multato per
atti indecenti (chissà come mai, la cosa non mi sorprende),
a Bert è venuta
un’orticaria per averlo fatto in un parco (una domanda
stranamente specifica…),
e la cosa più oscena che Marco abbia mai fatto nella sua
perfetta, angelica
esistenza è stata usare lo spazzolino di qualcun altro. Per
la fortuna di tutti
i presenti, Ymir ormai è così ubriaca che
l’unica cosa che esce dalla sua bocca
è un biascichio incomprensibile, così decidiamo
all’unanimità di saltare il suo
turno (con le conseguenti accuse potenzialmente pericolosissime che
potrebbe
rivolgerci) per passare direttamente a me.
“Non
ho mai
vomitato addosso alla persona che stavo baciando,” affermo
senza battere
ciglio. Il secondo anno delle superiori si ripete nella mia mente,
vivido e
incasinato.
“È
successo
solo una volta!” Eren e Reiner urlano all’unisono,
prima di guardarsi l’un
l’altro con aria scioccata “Aspetta, cosa?!”
Gli
altri
scoppiano in una risata fragorosa e, tra Bert che consola dolcemente
Reiner ed
Eren che strilla qualcosa del tipo “Te l’ho detto
in confidenza!”, mi alzo
rapidamente in piedi e dico che devo andare a pisciare (principalmente
per
scappare prima che Eren decida di uccidermi).
“Aw,
devi
già vomitare, eh?” mi canzona lui,
cosicché alzo il dito medio nella sua
direzione mentre cammino verso la casa. È strano –
molto strano – perché, per
un momento, si sente un pizzico del rapporto che avevamo prima che
succedesse
tutto quel casino. Credo di sentire lo sguardo di Marco su di me (e mi
scuso
mentalmente con lui per averlo lasciato solo), ma pare che non duri
troppo,
prima che la gente inizi a tartassarlo perché giochi il suo
turno.
Nel
bagno
smaltisco un po’ la sbornia, grazie alla pisciata
più lunga nella storia
dell’uomo, e grazie all’acqua fredda con cui mi
sciacquo il viso quando noto il
rossore che ho raggiunto con l’alcol. Il ronzio in testa
c’è ancora, è solo più
attutito, e i miei pensieri sono meno osceni e annebbiati.
Bevo
un
bicchiere d’acqua quando passo dalla cucina, accartocciando
il bicchiere di
carta nella mano prima che gli altri possano prendermi in giro. La voce
di Eren
è ancora piuttosto chiara (nonostante tutto
l’alcol che gli ho visto bere).
“Sei
troppo
per lui, Marco. Scappa.
Finché sei
ancora in tempo,” proclama con fervore, provando a
punzecchiare il petto di
Marco, finendo soltanto per sporgersi pericolosamente in avanti,
rischiando di
cadere con la faccia sull’erba.
Marco
ride
imbarazzato, e lo vedo grattarsi la nuca, come al solito, e incrociare
le gambe
sotto al corpo.
“Ehi,
stai
solo citando Scott Pilgrim o sei veramente
una testa di cazzo, Jager?” tuono
dall’altra parte del prato, facendo voltare
alcuni di loro, mentre più di uno aspettava già
con aria impaziente – ed
esitante – la mia reazione. Non devono preoccuparsi (o
almeno, spero di no). In
effetti sono molto più curioso di sapere cosa sia stato
detto mentre ero dentro
casa; Marco sembra uno che ha appena visto la propria nonna nuda, a
giudicare
dal colore del suo viso.
Historia
prova ad attenuare la situazione squittendo un “dai, ragazzi,
tocca ad Armin!”;
mi sorprende che sia ancora in forze, perché Ymir continua a
farle avances
sempre più sdolcinate, e borbotta ogni volta che Historia
è costretta ad
allontanarla. Un’Ymir ubriaca non è solo
un’Ymir arrabbiata, ma anche un’Ymir
oscenamente arrapata. Questo basta
a
distogliere il mio cervello leggermente ubriaco dal tentativo di
tartassare
Marco di domande inquisitorie.
Armin
non è
molto bravo a giocare a never have I ever.
Probabilmente non aiuta il fatto che Connie e Sasha stiano provando a
far
trangugiare a Bert un miscuglio probabilmente velenoso, finendo solo
per
versargli tutto il bicchiere sul viso. Lui non ne è
contento. Reiner si limita
a ridere.
“Ragazzi,
state un po’ zitti, cazzo!” urla Eren, prima di
dare un colpetto ad Armin,
probabilmente fin troppo forte, nelle costole. “Vai, Ar,
fanne una buona!”
“Non…
n-non
mi viene in mente nulla! I-intanto andate avanti con il giro, ci penso
un po’,”
dice Armin, ma Eren non vuole sentire storie. Si sporge verso di lui e
sussurra
qualcosa nell’orecchio di Armin che lo fa diventare
immediatamente rosso come
un pomodoro.
“E-Eren!
Non
è un po’ troppo…?”
“No!
Dai,
dillo!”
Adesso
tutti
guardano Armin con aria impaziente (be’, per
“tutti” intendo tutti quelli che
riescono ancora a formulare pensieri dotati
di senso…).
“N-non
ho
mai… immaginato qualcuno tra quelli seduti in questo
cerchio… nudo.” Eren
borbotta qualcosa del tipo non è
quello
che ti avevo suggerito, ma gli altri sembrano più
divertiti dalla reazione
di Armin piuttosto che dalla domanda in sé. Alzo gli occhi
al cielo e bevo un
sorso, proprio quando Reiner costringe Bert a fare cin-cin per poi
mandare giù
insieme qualsiasi cosa stiano bevendo.
Quello
che
provo per Mikasa non è esattamente un segreto in questo
gruppo.
E
poi, ecco,
vorrei ricordarti quell’incidente quando hai buttato Marco in
piscina… direi
che quello conta,
aggiunge
il mio monologo interiore, sarcasticamente. Considerando
la conseguente erezione e tutto il resto. Provo a nascondere
la mia intensa
vergogna dietro alla lattina di birra, mentre bevo un altro sorso per
Marco.
Sia
Connie
che Sasha bevono un sorso spudoratamente, e lo fa anche Historia con un
sorriso
pieno di sottintesi (e credo che Ymir farebbe lo stesso, se riuscisse a
sollevarsi dalla spalla della sua ragazza e reggere il suo drink senza
il
rischio di farlo cadere), e beve anche—
Aspetta
un
attimo.
Marco
ha appena
bevuto. Marco ha appena bevuto?
Nessuno
sembra accorgersi del fatto che
Marco
abbia appena bevuto,
perché
all’improvviso sono tutti esaltati perché Anni ha
appena mandato giù un sorso
del suo cocktail, e adesso fa spallucce con nonchalance. Ma
Marco ha appena bevuto.
“Wow,
Annie!
Ci stai decisamente nascondendo
qualcosa!”
“Dai,
dai,
sputa il rospo!”
“Aspetta,
non voglio sapere se sono io!”
“Perché
mai
dovrebbe pensare a te, scimmia pelata che non sei altro?!”
Tutto
ciò
entra da un orecchio ed esce dall’altro in realtà,
perché sono bloccato qui con
gli occhi spalancati (o con lo sguardo confuso da ubriaco; forse
è quello il
problema), puntati su Marco. Lui non mi sta guardando, ma Cristo santo, cazzo se ha le guance
rosse!, e sta cercando di
nasconderlo scaltramente dietro al bicchiere, pensa di essere furtivo,
lo
stronzetto—
Sono
abbastanza ubriaco da decidere di sporgermi fin troppo vicino al suo
orecchio,
al che lui sobbalza immediatamente nel sentire il mio fiato sul suo
collo; ma
non si allontana. Anzi, in effetti… si sta avvicinando.
“Ti
ho
visto,” sussurro, e riesco letteralmente a sentire
l’odore di birra nel mio
fiato, per quanto è forte. La mia vista, tuttavia, non si
sta annebbiando;
probabilmente è un buon segno, altrimenti avrei rischiato di
dargli una
testata. “Non pensare nemmeno per
un
secondo che non ti abbia visto bere quel sorso,
Lentiggini.”
Volta
leggermente la testa, e il mio mento è praticamente
appoggiato sulla sua spalla
ormai (quando è successo?), e ci manca pochissimo per
sbattere la testa l’uno
contro l’altro.
Fa
del suo
meglio per non balbettare – o imprecare. Già,
probabilmente per non imprecare.
“E-e
quindi?”
“E
quindi chi è l’oggetto delle tue perversioni, Marco?” mormoro, mentre lui
dissolve
lentamente in un concentrato di guance arrossate e risatine nervose.
“Spero per
te che non sia Eren.”
“…
E se
invece fosse proprio lui?”
Mi
prende
alla sprovvista. Aspetta, no. Non dovrebbe essere così. Eren
è tutto— E
soprattutto, Marco merita— Non sono abbastanza ubriaco
per—
Non
voglio che
Marco pensi a—
La
linea
seria e sottile in cui ha costretto le sue labbra si disintegra nel
fragore di
una risata, e lui si allontana da me, affondando il volto tra le mani.
Mi ci
vogliono uno o due secondi di risatine strozzate prima che il mio
cervello ci
arrivi. Gli do un colpo sul braccio.
“Non
sono
abbastanza ubriaco per i tuoi scherzi di merda!” ringhio per
tutta risposta, ma
non posso nascondere il modo in cui le mie labbra si curvano in un
sorriso. Come se avessi potuto
crederti… cazzo!
Marco sfoggia un sorriso incerto e si morde timidamente il labbro.
È ancora
dello stesso colore di una fragola; soprattutto con quelle lentiggini
che si
stagliano sulle sue guance arrossate e, diamine, devo ammettere che
è carino—
“Tocca
a
me!” cantilena Eren, riportandomi bruscamente al presente e
facendomi
allontanare nuovamente da Marco. Non sono mai stato seduto
così dritto in vita
mia, e in questo momento è una vera e propria sfida,
perché le mie tempie
iniziano a pulsare decisamente più forte, e inizio a sentire
caldo, e Marco. Cazzo… Marco.
Il
gioco
diventa sempre più incasinato da qui in poi,
perché Ymir si è addormentata, e
Bert decide di cambiarsi la maglietta ormai intrisa della birra che gli
avevano
versato addosso, ed Eren inizia ad arrabbiarsi sempre di più
perché non riesce
a costruire una piramide decente con le lattine di birra. Sta calando
il buio,
e la luce della cucina colpisce i volti di tutti, illuminandoli di
bianco e di
giallo, mentre alle loro spalle incombe la luce arancione dei lampioni
oltre la
siepe. Le domande si susseguono nel cerchio, e diventa sempre
più assurdo
vedere chi beve a quale affermazione, mentre tutti si sforzano per
ricordare le
informazioni peggiori per potersi torturare l’un
l’altro.
“Non
mi
hanno mai fatto un pompino sul retro della piscina della nostra scuola
media,”
urla Sasha, gesticolando con troppa veemenza, schizzando Connie con un
cocktail
di vodka e Coca-Cola.
Devo
bere,
ovviamente, perché è perfidamente rivolto a me.
È successo solo una volta, cazzo!
“Vaffanculo,
Sash!” sbotto, pulendomi la bocca in maniera poco elegante
con il dorso della
mano. Lei, per tutta risposta, mi rivolge una risata malvagia.
“Be’, non ho mai
fatto un pompino a qualcuno sul
cassone del furgone di Connie!”
“Ehi,
così è
troppo specifico!” si lamenta, ma beve un sorso comunque.
“Non ho mai—”
“Ehi,
ehi,
ehi!” Ecco che tuona la voce di Reiner per interromperla.
“Hai già giocato il
tuo turno, ragazza patata! Che ne dite di questa: non ho mai fatto il
bagno
nudo in una piscina!”
“Cooooosaaaaa?”
Sasha e Connie urlano all’unisono. “Non
l’hai mai fatto?!”
“Proprio
così!” Reiner sorride beffardo, apparentemente
fiero di aver trovato una cosa un
po’ osé a cui non abbia
ancora partecipato. “Quindi sbrigatevi a bere, voi
due!”
Bevono
entrambi un sorso rapido, ma tornano immediatamente a torturare Reiner
come un
branco di iene.
“Ehi
Reiner,
sai cosa dobbiamo fare adesso, vero?” sorride Sasha,
sollevando le sopracciglia
con aria maliziosa. Riconosco lo scintillio demoniaco nei suoi occhi
(non posso
che sentirmi sollevato perché, per questa volta, non sono io
il suo obiettivo).
Reiner posa lo sguardo sulla piscina, e poi di nuovo su Sasha ma, a
giudicare
dalla sua espressione, è più che contento di
essere trascinato in una delle sue
stupidissime sfide.
“E
adessoooo
spogliatiiii!” urla Connie con aria trionfante. Per poi
iniziare a cantilenare.
“Spogliati! Spogliati! Spogliati!”
Non
credo
che qualcuno sia particolarmente contento di vedere Reiner fare uno
spogliarello (io sicuramente non lo sono), eppure è proprio
quello che fa.
Connie e Sasha gioiscono avidamente, Annie alza gli occhi al cielo e
Bert –
appena uscito dalla porta di casa mia con una nuova maglietta
– si ferma
immediatamente sul posto e sembra quasi sul punto di svenire. (Essere
il
badante… cioè, il ragazzo
di Reiner è
sicuramente un compito fin troppo difficile.) Marco, al mio fianco, non
la
smette di ridere; è una risata talmente intensa che lo fa
piegare in avanti e
lo fa tremare da capo a piedi.
“Non
entrerò
in piscina da solo!” arriva l’urlo di guerra di
Reiner, che ormai indossa solo
le sue mutande bianche fin troppo aderenti. “Dovete farlo
anche voi!”
Connie
e
Sasha non se lo fanno ripetere due volte. Credo che dovrebbero
rivalutare le
loro aspirazioni nella vita per quanto riescono a spogliarsi
rapidamente,
rimanendo in biancheria intima in men che non si dica (è
ancora più
sorprendente se prendiamo in considerazione la loro coordinazione
occhio-mano
in questo momento); ed ecco che tutti e tre corrono
sull’erba, mentre stringono
ancora in mano lattine di birra e bicchieri di carta, per poi tuffarsi
in
piscina biascicando a squarciagola “tuffo a
bombaaa!”. L’acqua straborda dalla
piscina, bagnando il cemento e l’erba circostante.
“Venite,
ragazzi!” Ci incita Sasha una volta tornata in superficie,
agitando le braccia
e lanciando un urlo quando Connie prova ad affondarla. Da qualche parte
in
fondo al mio cervello, penso: alcol e
piscina non mi sembrano un’idea grandiosa, ma
è tutto molto annebbiato e
confuso, soprattutto quando Annie decide di tirare su Mikasa e
trascinarla
verso la piscina, mentre Eren, Bert e persino Armin li seguono senza
alcuna
esitazione.
“Jeanbo,
Marco, venite anche voi!” grida Reiner, generando
un’onda gigantesca con le
braccia mentre Bert si tuffa nella parte più profonda della
piscina, tappandosi
il naso con le dita. Marco sta ancora ridacchiando fra sé e
sé, seduto a gambe
incrociate sull’erba, quindi credo che sia fin troppo
ubriaco. Io, d’altro
canto, non sono abbastanza ubriaco.
Per
quanto
possa esserlo, questa sarà sempre la situazione che odio
più di tutte.
“I-io
passo!” grido di rimando, alzando la lattina di birra nella
loro direzione come
a voler fare un brindisi. “Ci tengo a questa
maglietta!”
“Allora
toglila!” ribatte Sasha, affacciata a bordo piscina, con una
lattina di Bud
Light ancora miracolosamente stretta in mano.
“Spogliatiiiii!”
Deglutisco, e per un breve
istante decisamente
poco-sobrio, mi sembra di vedere uno sguardo compassionevole da parte
di Eren.
Possibile? È perché l’ha capito.
Perché proprio Eren dev’essere l’unico
tra i
miei amici ad aver capito?
Deglutisco
a fatica e in quell’unico istante spazzo via ogni residuo
dell’atmosfera
spensierata che ero riuscito a godermi fino a questo momento.
“Dai,
Jean!”
“Smettila
di
essere così scorbutico e vieni con noi!”
“Evidentemente
non hai bevuto abbastanza, Jeanbo!”
Un
peso
collassa sul mio braccio, un volto affonda nella mia spalla cogliendomi
completamente alla sprovvista. Faccio cadere la lattina che avevo in
mano per
la sorpresa, e la birra cola fra i fili d’erba.
“Cristo
santo, Marco!”
Avvolgo
un
braccio attorno a lui per evitare che cada rovinosamente a testa in
giù. Mi
rivolge un sorriso assonnato prima di girarsi con aria imbarazzata
verso gli
altri in piscina.
“Scusate,
ragazzi, penso che per questa volta sia meglio se restiamo
seduti!” Non so come
abbia fatto a dirlo senza biascicare, eppure ce l’ha fatta, e
ne sono colpito,
e anche molto, molto, molto grato.
Sasha e Connie rispondono alle parole di Marco alzando gli occhi al
cielo con
aria esasperata e sorridendo come lo Stregatto, per poi tuffarsi
nuovamente in
acqua, piombando sul povero, ignaro Bert.
“Problema
risolto,” dice Marco in un sussurro, più che
soddisfatto con se stesso. Il
mondo in cui lo dice riesce a stringermi il petto e farmi incespicare.
Provo a
sistemarlo meglio fra le mie braccia, facendo del mio meglio per
risollevarlo
sulla mia spalla. “Mooolto meglio.”
“Cazzo,
se sei
ubriaco,” gli dico, stringendolo leggermente con un braccio.
Quel gesto gli fa
fare un singhiozzo, che lo sorprende come se non avesse mai sentito un
suono
simile uscire dalla propria bocca. Idiota.
“E
tu sei
così… così…”
C’è qualche difficoltà a Marco-landia.
“Sono
così cosa?” Lo
incalzo con un ampio sorriso.
Si
limita a
rispondere con un mormorio incoerente e affonda nuovamente il viso
nella mia
spalla. Mi metto a ridere, ma la risata non può nascondere
il modo in cui
arrossisco. Almeno gli altri sono troppo distratti per fare caso a
queste
dimostrazioni d’affetto. (E se proprio gli dovessero
interessare delle vere
dimostrazioni d’affetto in pubblico, il modo in cui Ymir sta
praticamente
mangiando la faccia a Christa laggiù oscurerebbe le coccole
di Marco senza
alcun problema.)
Continuo
a
tenere un braccio avvolto attorno alla sua vita; principalmente
perché ho
davvero bisogno di tenerlo su ma anche perché, devo
ammetterlo, è una bella
sensazione, e lui è così caldo, e io mi
sento… ecco, non lo so. Qualcosa. Mi
sento qualcosa.
“Ehi,
Marco?”
“Nnn?”
si
leva un rumore dalla mia spalla.
“Hai
passato
una bella serata finora?”
Si
sforza di
alzare la testa, ma riesce a stento a guardarmi con gli occhi lucidi e
semichiusi. Tutto il sangue che si era concentrato sul mio volto si
sposta ben
più giù in quel preciso istante. Merda. Evita di
farti vivo proprio adesso, piccolo
Jean!
“Sì,”
risponde sommessamente, “Sì… anche
se…” la sua voce si affievolisce, forse
perché ha perso il filo del discorso. Sollevo leggermente la
spalla, per
provare a incitarlo ad andare avanti.
“…
Anche se
cosa?”
Emette
un
verso di protesta e lascia cadere nuovamente la testa, spiaccicando la
guancia
sul mio bicipite.
“Anche
se mi
sento in colpa…” borbotta, “…
a divertirmi.” Il calore abbandona il mio corpo
in un istante.
Oh.
Okay. Non
mi sorprende la velocità con cui trangugiava quei
bicchierini, allora. Nessuno
beve una bottiglia intera di vodka per divertimento. Credo sia normale
cercare
di allontanare i pensieri tristi affinché… non
ci infastidiscano almeno per un po’. E pensare che
tutti quei pensieri
sicuramente hanno gravato sulla sua mente per tutta la serata.
Non
so
proprio cosa dire; come sempre, d’altronde, perché
essere un cretino inutile
con le parole è la mia specialità. È
anche peggio quando il mio cervello è
intaccato dalla birra e ho Lentiggini appiccicato al braccio.
“Ti
stai, uh…
sentendo in colpa… adesso?”
“Mmm,
no…”
mormora in risposta. Il suo respiro mi solletica i peli sulle braccia,
e lui
assume una posa ancora più scomposta. “Ho
deciso… che posso essere un po’… egoista.” Non so esattamente a
cosa si
riferisca, ma lo invito a continuare.
“Ah
sì?”
“Sì,
perché…
perché ci sei tu, Jean…”
Non
riesco
più a reggerlo quando cade all’indietro,
trascinandomi con sé. La mia testa
colpisce il prato con una specie di whoomph
soffocato, mentre il mio braccio è intrappolato sotto al
peso del corpo di
Marco. Siamo entrambi stesi sulla schiena, l’uno affianco
all’altro; io sono
quello che somiglia di più a una tartaruga spiaggiata.
Marco
ride –
credo che abbia quel tipo di
sbornia:
trova tutto dannatamente divertente – ma non me ne lamento,
perché quelle
risatine gli illuminano il volto di una luce che non avevo mai visto
prima d’ora.
Per un istante, proprio adesso, è come se ci fossimo solo
noi due – senza il
frastuono che proviene dalla piscina, senza il rumore
dell’acqua e delle grida –
un istante in cui rimango steso qui a guardarlo, mentre il suo sguardo
è
rivolto al cielo. Mi sembra quasi di essere in un sogno.
Il
cielo è
nero, pieno di stelle; le notti a Trost non sono mai completamente
buie,
specialmente in estate. Marco solleva una mano, dispiegando un dito, e
sembra
tracciare delle linee tra le costellazioni; ed è un gesto
così presuntuoso che
lo trovo adorabile, cazzo!. Ma
quando
indica la luna – la luna, del colore della luce di una
finestra quando la
guardi dall’esterno – mi rendo conto di guardare
solamente la sua mano. Mi
sento così piccolo ma, in fondo, anche le stelle sembrano
piccole da una
distanza così grande. Cazzo, quanto amo le stelle. Mi
ricordano le sue
lentiggini, e—
E
nel mio
stato di ebbrezza, quelle stelle sembrano un mare luccicante di se. Cosa accadrebbe se
—
“Jean?”
“Sì?”
“Credo
di
dover vomitare.”
Note
dell’autrice:
È
stato un
capitolo lungo ... scusate per il ritardo. Ho passato un sacco di tempo
a creare
dei cosplay, quindi eccomi qui a postarlo alle 2 del mattino a casa di
una mia
amica dopo una lunga giornata passata a creare l’imbracatura
di SNK hahahaha
Ancora
una
volta, non sono soddisfatta al 100%; il capitolo sembra un
po’ incasinato e non
molto… ecco, graduale, ma è stato divertente da
scrivere! Sta certamente
nascendo qualcosa, anche se il fatto che Jean sia un ubriaco
presuntuoso che
sputa frasi filosofiche sulle stelle non aiuta per niente. Che sfigato.
Comunque
continua
così, Marco.
Il
resto
della festa sarà nel capitolo successivo, dove diventa tutto
più fluff e io
utilizzo fin troppe metafore, per la mia immensa gioia.
Come
sempre,
grazie mille per tutte le fan art del capitolo precedente; erano le
più belle
che abbia visto finora! Vi giuro che ho pianto …
Adoro
sentire i commenti di tutti, quindi le vostre recensioni sono
apprezzatissime,
sia qui che su Tumblr. Fatemi sapere cosa vi piace e cosa non vi piace
(le
critiche costruttive sono ben accette!), e quello che sperate che
succeda.
Riuscite sempre a risollevarmi il morale.
Note
della
traduttrice:
Scusate tantissimo per il ritardo, ancora una volta! ;_; Lo posto
anch’io alle
2 di notte senza rileggerlo per bene, quindi sopportate eventuali
errori fino a
domattina, quando rileggerò e correggerò tutto a
dovere! Non vorrei farvi
aspettare oltre quindi preferisco postarlo subito; spero che il bel
capitolo
compensi l’attesa infinita.
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