Vita in te ci credo

di germangirl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. Primipara attempata ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2. Mattie ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. Tom Johnson ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. Bentornata ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Notizie da San Diego ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. Momenti concitati ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. L'alba di una nuova famiglia ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. Primipara attempata ***


Capitolo 1. Primipara attempata

Primipara attempata.

Questo era riuscita a sbirciare Mac dalla sua cartella clinica appoggiata sulla scrivania della dottoressa Sullivan del Naval Medical Center di San Diego che l’aveva presa in cura dietro consiglio della sua storica ginecologa di Bethesda. Fare avanti e indietro da una costa all’altra del Paese per nove mesi non avrebbe avuto molto senso, in particolare nelle sue condizioni, pertanto la scelta di trovare qualcuno che la seguisse in California era stata obbligata. La gravidanza non aveva creato grossi problemi, anche se l’endometriosi non deponeva certo a favore di Sarah.

Tantomeno la sua età.

Mac era consapevole di non essere più una ragazzina, ma quelle due parole le erano arrivate come un pugno in pieno petto e, se non fosse stata seduta, probabilmente l’avrebbero fatta vacillare. La sua prima reazione era stata quella di ricordare al tenente medico Judith Sullivan di essere il Colonnello Sarah MacKenzie Rabb, ergo un suo superiore, e pertanto di rivolgersi a lei con il dovuto rispetto, altro che primipara attempata. Poi però si era repentinamente pentita di aver solo pensato una cosa del genere: la nuova ginecologa l’aveva assistita con grande attenzione, disponibilità e competenza sin dal primo appuntamento e certo non si meritava un trattamento del genere.

Così non le era restato che tornare a casa rimuginando su quella definizione. Suo marito non era riuscito ad accompagnarla alla visita di controllo per un delicato problema di lavoro che gli aveva impedito di lasciare l’ufficio, sebbene fino a quel momento le fosse sempre stato vicino, vivendo con lei le gioie e le ansie di quel periodo straordinario della loro esistenza. E quel giorno, più che mai, avrebbe voluto averlo accanto a sé. Per togliersi dalla mente quella condanna, attempata, che sembrava non lasciare nessuna speranza. Quello stupido aggettivo l’aveva fatta sentire una vecchia babbiona che si era ritrovata inspiegabilmente incinta.

Dopo aver attraversato la porta di ingresso della loro villetta, Sarah raggiunse il divano e sprofondò su di esso, lasciando cadere la borsa per terra. Non aveva nemmeno la forza di togliersi il cappello. Era entrata nella trentesima settimana della sua gravidanza. Nonostante fosse solo inizio maggio, a San Diego splendeva un sole impietoso che le faceva gonfiare caviglie e piedi a dismisura e la faceva sentire più simile a una balena spiaggiata che a un essere umano. Meno che mai a un essere umano di sesso femminile.

Attempata.

Quell’aggettivo continuava a ronzarle nella testa, senza darle tregua. Accarezzò dolcemente il pancione, poi si passò una mano stancamente sulla fronte e infine si massaggiò le tempie. Dopo aver superato il primo trimestre, nel quale tutto sommato le nausee erano state sopportabili anche senza far ricorso all’addestramento militare, Mac aveva cominciato ad accusare spossatezza e sonnolenza più o meno a tutte le ore del giorno. Dava la colpa alla mancanza di caffeina, visto che per il bene della creatura che portava in grembo aveva dovuto rinunciare al suo caffè forte, stile marine, per convertirsi alle tisane che suo marito a casa, e la sua fedele assistente Coates al lavoro, non le facevano mai mancare. Certo che quella bevanda scura, aromatica e corroborante era tutta un’altra storia…

Doveva essersi assopita sul divano perché quando riaprì gli occhi si ritrovò distesa, senza scarpe e cappello e con un cuscino sotto la testa e uno sotto le caviglie. Sorrise e alzò gli occhi in direzione del responsabile di quel cambiamento.

“Ben svegliata marine, come è andata la visita?” le chiese Harm, che la osservava dalla poltrona di fronte al suo improvvisato giaciglio.

“La visita bene, lui è in forma” gli rispose Sarah.

“O lei…” la corresse immediatamente Harm. Non avevano voluto sapere il sesso del nascituro, preferendo mantenere la sorpresa fino all’ultimo, ma erano entrambi convinti che si trattasse, rispettivamente, di un maschio e di una femmina e, tanto per cambiare, nessuno dei due aveva voluto dar ragione all’altro. Come da copione.

La risposta della moglie, però, non aveva pienamente convinto Rabb che continuò a indagare: “E’ successo qualcosa?”

Sarah si limitò ad annuire muovendo impercettibilmente la testa.

Harm si spostò dalla poltrona e si avvicinò immediatamente al divano dove Mac era ancora sdraiata. “Cosa c’è? Stai male? Avevi detto che la piccola stava bene… allora sei tu? Ancora l’endometriosi? Ti accompagno in ospedale?” Il panico si era impossessato di lui. Era capacissimo di affrontare situazioni estremamente pericolose sotto il fuoco nemico, magari a 80000 piedi di altezza, e mantenere una calma glaciale, ma quando si trattava di Sarah e della loro bambina (“o bambino”, come lo correggeva sempre lei) perdeva la testa e andava immediatamente in iperventilazione.

“Harm respira. Stiamo bene entrambi, è solo che…” cercò di calmarlo sua moglie.

“Solo che cosa?”

“La dottoressa mi ha etichettato come primipara attempata. Harm, sono vecchia!” dichiarò Mac, non riuscendo ad evitare un tono piagnucoloso che non riconosceva come suo, ma che ultimamente le capitava di assumere sempre più spesso. Accidenti agli ormoni, pensò fra sé.

“Tutto qui?” replicò lui.

“Come tutto qui?” si risentì Sarah, colpita dalla mancanza di sensibilità di suo marito. Ah già, è pur sempre un uomo, si disse.

Mentre stava pronunciando quelle parole, Harm si morse la lingua. Sapeva che questa uscita avrebbe fatto infuriare Sarah. Aveva imparato che era più semplice e salutare far atterrare un Tomcat su una portaerei grande come un francobollo in mezzo a una tempesta di neve al largo della Groenlandia piuttosto che sorbirsi l’ira di sua moglie, così la prese fra le braccia e le sussurrò dolcemente in un orecchio: “Sarah MacKenzie Rabb, mi hai fatto prendere un colpo. Per me sei la donna più affascinante, meravigliosa, sexy e giovane che abbia mai incontrato e l’unica che voglio avere al mio fianco per il resto della mia vita. Quell’etichetta non ti definisce, né ai miei occhi né a quelli di chi ti sta intorno. L’ho visto, sai, come ti guardava quello sbarbatello del maggiore Smith, sì, l’ultimo arrivato del tuo staff, alla cena di gala del mese scorso. Avrei avuto voglia di spaccargli la faccia e ricordargli che non sei più sul mercato!”

Mac si lasciò coccolare da suo marito, che sapeva bene come usare il suo fascino e la sua dialettica per tranquillizzarla. Sarah conosceva tutti i trucchetti del famigerato avvocato Rabb in tribunale, ma da quando si erano messi insieme continuava a stupirsi per la capacità con cui, con poche parole, il suo marinaio riusciva a mettere ordine nel suo mondo.

La crisi sembrava passata, così Harm la aiutò ad alzarsi dal divano e le consigliò di fare una doccia rinfrescante mentre lui avrebbe pensato alla cena. Sarah non se lo fece dire due volte e si diresse verso la zona notte, lasciando suo marito di corvée in cucina.

Togliendosi la divisa che cominciava di nuovo a starle stretta, nonostante fosse già passata alla linea premaman, e la biancheria, Sarah fece un profondo respiro che si trasformò in un sospiro di sollievo appena percepì l’acqua fresca scorrerle sulla testa e sul corpo. Bastarono pochi gesti per farla sentire subito meglio. Si avvolse nell’accappatoio e frizionò velocemente i capelli con una salvietta, senza pensare ad asciugarli con il phon: faceva troppo caldo per sottoporsi a quell’inutile tortura. Si limitò a tenerli su con una pinza e indossò una t-shirt di suo marito e un paio di pantaloni corti, dopo essersi regalata un bel massaggio sul suo pancione con la crema idratante alla vaniglia, un’essenza che piaceva molto anche ad Harm.

Recandosi in cucina, si fermò sulla porta ad ammirare suo marito che riusciva ad essere tremendamente affascinante anche mentre scolava la pasta indossando degli improbabili guanti da forno a forma di aragosta.

Avevano appena finito di consumare le pietanze preparate da Rabb quando udirono squillare il telefono. Entrambi si immaginarono beghe lavorative: ricoprivano posizioni per le quali l’orario degli impegni era estremamente variabile e spesso di lunga durata. Però, se fossero state questioni professionali, probabilmente sarebbero stati contattati ai rispettivi cellulari.

“Sarà tua madre? Le avevo promesso che le avrei fatto sapere come andava la visita ma mi sono dimenticata di chiamarla” disse Mac.

Harm annuì e disse: “Può darsi. Rispondo io e poi te la passo”

Si alzò e andò nell’ingresso dove si trovava l’apparecchio: “Rabb”

Una voce femminile, molto diversa da quella di Trish, gli chiese: “Comandante Rabb? Sono l’infermiera Wilson del reparto di terapia intensiva dell’ospedale di Blacksburg. Lei risulta fra le persone da contattare per Matilda Grace Johnson, è corretto?”

Ad Harm si gelò il sangue. “Corretto. Sono stato il suo tutore fino all’anno scorso, mentre suo padre era in riabilitazione. Cosa le è successo?”

“Purtroppo ha avuto un brutto incidente.”

 

Nota dell’autrice

Qualche giorno fa, messaggiando con un’amica, siamo giunte alla conclusione che entrambe siamo affette da “personaggite acuta”. Dicesi personaggite acuta quella malattia per cui un autore – o nel caso specifico un’autrice – non riesce a staccarsi dai personaggi che ha creato e sente l’impulso irrefrenabile di accompagnarli ancora per un po’ lungo la loro strada.

Ecco dunque il risultato di quella sindrome: alcuni capitoli su Harm e Mac, post miracolo di Natale.

Grazie al mio angelo custode che ha avuto la pazienza di leggere la storia in anteprima e mi ha regalato tantissimi preziosi consigli e grazie a tutti voi per avermi donato un po’ del vostro tempo ed essere arrivati fino qui.

Deb

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Capitolo 2
*** Capitolo 2. Mattie ***


Capitolo 2. Mattie

 

Harm impallidì. Vedendo la sua reazione, Mac si precipitò accanto a lui.

“Come sta Mattie?” riuscì a chiedere all’infermiera Wilson con voce strozzata dall’angoscia.

“E’ in coma, signore. Ha subito una lesione spinale in seguito a un incidente durante una lezione di volo. Il suo aereo è precipitato e l’istruttore è morto sul colpo. Suo padre è stato con lei la prima sera, poi è sparito e sono due giorni che non lo vediamo. Mi scusi se mi sono permessa, signore, ma la situazione è seria.”

“Ha fatto bene a chiamare. Sarò da Mattie domani in giornata.” Rispose risoluto Harm e riagganciò.

Mac abbracciò suo marito, che si appoggiò su di lei. Quella notizia lo aveva annichilito, tanto che sembrò essere invecchiato di dieci anni in un minuto. Da diverso tempo, Mattie si era riavvicinata a suo padre e le cose stavano andando bene fra loro: Tom Johnson si manteneva sobrio e aveva un lavoro stabile, così che la ragazzina era potuta tornare alla vita da adolescente che si meritava di vivere. Con Harm e Mac si sentivano ogni settimana al telefono. Aveva accolto con grandissimo entusiasmo la notizia che presto avrebbe avuto un ottimo motivo per tornare in California dopo il matrimonio dei Rabb: la nascita del bambino (o della bambina) di Harm e Mac era prevista per quell’estate.

“Le abbiamo parlato solo pochi giorni fa…” disse Rabb, ancora stordito dalla telefonata che aveva ricevuto. “Era così felice per quelle lezioni di volo… diceva che avremmo volato insieme. Le avevo promesso di farle fare un giro su Sarah la prossima volta che veniva a trovarci…”

Mac si strinse al marito. Anche lei era molto affezionata a quella ragazzina, ma doveva ammettere che Harm nutriva un profondo amore paterno per lei. Proprio vedendolo alle prese con Mattie, Sarah aveva avuto la conferma che sarebbe stato un padre meraviglioso anche per la creatura che stava portando in grembo, per il loro miracolo di Natale.

“Ti cerco il primo aereo per Washington. Tu intanto chiama il tuo superiore e comunicagli la tua situazione. Vedrai che non ti negherà una licenza.”

Rabb fu grato al senso pratico della moglie, che contattò immediatamente l’aeroporto internazionale di San Diego. Il primo volo sarebbe partito la mattina dopo alle 6.30, così che prima di sera Harm avrebbe potuto raggiungere l’ospedale di Blacksburg. Nel frattempo, suo marito telefonò al suo superiore, il quale gli concesse solo tre giorni, poi avrebbero dovuto trovare un’altra soluzione. In mancanza di meglio, Rabb lo ringraziò e si congedò da lui.

In tutto questo turbinio di eventi, l’affascinante aviatore aveva quasi dimenticato di avere una moglie incinta.

Le accarezzò il volto e le disse: “Sarah, perdonami. Non ti ho nemmeno chiesto se vuoi venire, anche se nel tuo stato preferirei saperti qui”

“Non ti preoccupare, marinaio. Ti aspetto a casa e, se avessi bisogno di qualsiasi cosa, c’è Coates e ci sono i tuoi genitori. Ah, dovremmo avvertire Jennifer, anche lei è molto legata a Mattie. Ma lo faccio io domattina di persona. Adesso cerchiamo di riposare almeno un po’: i prossimi giorni saranno faticosi per te.”

 

Il volo da San Diego a Washington gli sembrò infinito. Aveva percorso quella tratta numerose volte in entrambe le direzioni, sia per lavoro sia per andare a trovare sua madre e Frank nei lunghi anni trascorsi al JAG. A quell’altitudine si sentiva sempre a suo agio, ma mai prima d’ora gli era pesato così tanto. Con una mano strinse nervosamente uno dei braccioli e con l’altra afferrò il bicchiere che la giovane assistente di volo gli aveva servito poco prima, accompagnandolo con un sorriso seducente e uno sguardo ammiccante che la dicevano lunga su quanto quel passeggero l’avesse affascinata, ma che non sortirono alcun effetto su quest’ultimo, con grande disappunto della donna. Sorseggiando quel liquido ambrato, la sua mente gli riproponeva di continuo immagini di momenti passati con Mattie: quando aveva lavorato per lei alla Grace Aviation, la prima volta che lei aveva incontrato Chegwidden, chiamandolo “pelato”, il Natale che avevano trascorso insieme, quando Mac aveva convinto suo padre a concentrarsi sulla riabilitazione e a lasciarla sotto la tutela di Harm. E adesso, quella ragazzina vivace e intelligente, che la vita aveva già messo duramente alla prova privandola della madre e facendola crescere fin troppo in fretta, si trovava da sola in un letto d’ospedale e per di più in condizioni serie.  

Quando finalmente il velivolo toccò la pista del Dulles, Harm tirò un sospiro di sollievo. Ormai mancavano pochi minuti e finalmente avrebbe potuto prendersi cura di Mattie. E capire dove fosse finito suo padre e cosa diavolo avesse combinato.

All’uscita dalla hall degli arrivi, Rabb si diresse spedito verso la fila dei taxi e salì sul primo disponibile, chiedendogli di portarlo a Blacksburg. Ripensandoci, forse avrebbe dovuto noleggiare un’auto per avere maggiore libertà di movimento, ma si disse che se ne sarebbe occupato il giorno successivo.

Si era appena accomodato sul sedile posteriore quando sentì squillare il cellulare. Pensò che si trattasse di sua moglie che voleva sapere come fosse andato il volo. Invece sul display comparve il numero dei Roberts.

“Rabb” rispose automaticamente.

“Harm? Sono Harriett. Ho appena parlato con Mac. Vuoi venire a stare da noi?” gli chiese con la consueta dolcezza e il suo tipico senso pratico, rafforzato dal suo ruolo di madre di una famiglia molto numerosa e decisamente matriarcale.

“Ciao Harriett, ti ringrazio ma ho prenotato una stanza in un albergo poco distante dall’ospedale di Blacksburg” rispose Harm.

“Ti va comunque di venire a cena qui? Dovrai pur mangiare” insistette la signora Roberts.

“Voglio prima vedere come sta, Harriett. Ti dispiace se ti chiamo più tardi?”

“Certo, non ti preoccupare. Ricordati che puoi contare su di noi, ok?”

Si salutarono e Harm mentalmente ringraziò il cielo per avergli donato degli amici come Bud e Harriett Roberts, sui quali avrebbe sempre potuto fare affidamento.

Giunto di fronte all’ospedale, Rabb pagò il tassista e si diresse velocemente verso il reparto di terapia intensiva. Si fermò al punto informazioni e si presentò: “Sono Harmon Rabb, sono qui per Matilda Johnson” disse semplicemente, senza sfoderare né il suo grado né il suo fascino. In un altro tempo e in un’altra situazione, avrebbe sfoggiato il suo sorriso brevettato, che avrebbe indubbiamente fatto una strage fra le infermiere, ma in quel momento quel pensiero non gli attraversò nemmeno l’anticamera del cervello.

“Buonasera signor Rabb, sono l’infermiera Wilson, ci siamo sentiti ieri sera” gli rispose una signora bionda, di un’età indefinibile, ma dallo sguardo buono. “La accompagno dalla paziente, poi potrà parlare con il medico che la sta seguendo”

Harm annuì e la seguì nel corridoio verso la stanza di Mattie.

Aprendo la porta della camera, la vide e temette che il suo cuore si fermasse. Aveva il volto e le braccia coperte dalle escoriazioni e un collare le teneva immobile la testa. Perse il conto dei tubi che collegavano quel corpicino ai macchinari. Gli sembrò ancora più minuta in quel letto, circondata da aggeggi elettronici che monitoravano costantemente il suo stato ed emettevano dei beep inquietanti.

Si sedette sulla sedia vicina al suo capezzale e le prese delicatamente una mano fra le sue.

“Ciao, Mattie, sono Harm…” le disse dolcemente. Poi si voltò verso l’infermiera Wilson e le chiese: “Quando uscirà dal coma?”

“Non lo possiamo sapere. Potrebbe svegliarsi fra 5 minuti o fra 5 giorni… o anche oltre. Però le posso dire che adesso non sta soffrendo” gli rispose, cercando di confortarlo in qualche modo.

“Ha mai ripreso conoscenza?” si informò Rabb.

L’infermiera scosse la testa, poi aggiunse: “Credo che abbia perso i sensi appena l’aereo è precipitato.”

“Quali conseguenze potrebbe avere?”

“A questa domanda posso risponderle io” annunciò una voce maschile dalla porta della stanza di Mattie. “Sono il dottor Daniels. Lei è il tutore di Matilda?”

Harm si alzò e strinse la mano al medico: “Piacere, dottore. Sono il Comandante Harmon Rabb. Sono stato il tutore di Mattie in passato e sono rimasto in contatto con lei, anche dopo che è tornata a vivere con suo padre. Come sta?”

“La situazione è stazionaria. Purtroppo non sappiamo quali saranno le conseguenze della lesione spinale finché Mattie non riprende conoscenza. Potrebbe avere seri problemi di deambulazione, con una paralisi più o meno permanente degli arti inferiori” dichiarò Daniels con tono asciutto.

Harm chiuse gli occhi davanti a quella diagnosi lapidaria e pregò il cielo che la sua piccola Mattie uscisse presto dal coma e non riportasse danni irreparabili.

 

Nota dell’autrice

Quella telefonata ha riportato Harm a Washington con il cuore assai più pesante di quando aveva lasciato la capitale a dicembre, dopo il loro miracolo di Natale: la situazione di Mattie è seria e suo padre è sparito.

Grazie di cuore per l’affetto con cui avete accolto questa storia e per aver letto anche il secondo capitolo!

Al prossimo,

Deb

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. Tom Johnson ***


Capitolo 3. Tom Johnson

 

Il giorno successivo Harm si recò in ospedale nel primo mattino. La situazione purtroppo non era cambiata rispetto alla sera precedente. Trascorse alcuni minuti al capezzale di Mattie e le raccontò di San Diego, del suo lavoro alla base Nato, della gravidanza di Sarah e di quanto sarebbe piaciuto loro che lei li andasse a trovare appena fosse arrivata la sua sorellina o il suo fratellino.

Non poteva fare molto per aiutare quella ragazzina dal punto di vista medico, pertanto la lasciò nelle sapienti mani del personale sanitario. Però indubbiamente poteva intanto cercare suo padre. La sua licenza non gli permetteva di perdere tempo. Per prima cosa noleggiò un’auto, così da potersi muovere per la città in modo indipendente. Partì dal magazzino dove Tom lavorava e lì alcuni colleghi gli dissero che non lo vedevano dal giorno dell’incidente. Rabb temeva di sapere dove avrebbe potuto trovare Johnson: la tragedia che aveva colpito sua figlia doveva aver rappresentato un terremoto devastante per il suo fragile equilibrio, faticosamente raggiunto dopo mesi di disintossicazione. E la tentazione di cercare rifugio nell’oblio dell’alcol doveva essere stata irresistibile.

Washington offriva una scelta decisamente troppo ampia di bar e locali e le chance di individuare immediatamente Johnson erano scarse. In ogni caso, Harm non voleva nemmeno che Mattie si svegliasse da sola in quel letto di ospedale, senza un volto amico accanto a sé. Decise dunque di ritornare a Blacksburg e di dedicarsi a quella ragazzina.

Mangiò un sandwich al volo, rigorosamente vegetariano, nel bar dell’ospedale e si avviò di nuovo verso il reparto di terapia intensiva. L’infermiera Wilson lo riconobbe e lo accolse con un sorriso: “Venga, signor Rabb, i parametri vitali di Mattie stanno dando segnali incoraggianti!”

Harm si precipitò nella camera e si sedette di nuovo accanto al letto. Le prese una mano e le parlò con dolcezza: “Andiamo, Mattie, sono qui con te. Prova ad aprire gli occhi, forza…”

I monitor indicarono un cambiamento dell’attività cerebrale per alcuni minuti, poi ritornarono di nuovo alla loro calma piatta. Harm sospirò.

“Signor Rabb, deve avere pazienza. Vedrà che si sveglierà appena sarà abbastanza forte da farlo. Il corpo umano segue dei percorsi non sempre spiegabili scientificamente e ha i propri tempi” lo consolò il dottor Daniels. Harm non si era nemmeno reso conto che il medico fosse entrato nella stanza. “Possiamo comunque essere moderatamente ottimisti. Sta facendo piccoli progressi ogni giorno e questo è un buon segno. Dovremo però prendere delle decisioni appena vedremo quali saranno le sue effettive condizioni al risveglio. Dalla cartella clinica della signorina Johnson sappiamo che la madre è deceduta anni fa e non abbiamo più visto suo padre. Lei ha la tutela legale?”

Harm scosse la testa. “Sono stato il tutore di Mattie quando suo padre si stava disintossicando, ma da un po’ si era rimesso in riga e aveva ripreso il suo ruolo genitoriale. Lo sto cercando anche io, ma finora non ho avuto successo.”

“Capisco” fu l’unico commento del medico. Poi riprese: “Se trova il signor Johnson, gli dica di contattarmi quanto prima” Detto questo, si congedò e uscì dalla stanza, lasciando Harm in compagnia dei suoi pensieri e del beep emesso dai macchinari che monitoravano lo stato di Mattie.

 

Nei due giorni successivi l’unico cambiamento fu rappresentato dalla telefonata che Harm ricevette dal suo superiore. Questi gli concesse di rimanere a Washington solo a patto che si fosse appoggiato alla base Nato della capitale per poter riprendere quanto prima a lavorare da lì. Si organizzò con la sua assistente affinché gli inviasse i fascicoli dei casi di cui si stava occupando e si mise in contatto con un collega per attivare in poche ore una postazione con una scrivania, un telefono e una presa per il suo portatile. Non era certo il massimo, ma questo almeno gli permetteva di stare accanto a Mattie. Era preoccupato anche per sua moglie, ma ogni sera parlavano a lungo al telefono e lei stessa gli aveva ricordato che il suo posto al momento era accanto a quella ragazzina. Sarah era un marine e se la sarebbe cavata anche al settimo mese di gravidanza. E comunque non sarebbe stata da sola nell’assolata San Diego: avrebbe sempre potuto contare su Jennifer e sui Burnett.

Il resto della settimana trascorse in modo frenetico. Harm sfruttava le tre ore di differenza di fuso orario per rimanere con Mattie la mattina e lavorare la sera fino a tardi, per poi farsi qualche giro nei bar alla ricerca di Tom Johnson, riducendo drasticamente le ore di sonno.

Quando ormai stava per perdere le speranze, finalmente lo individuò in un locale squallido in cui l’odore acre di liquori di pessima qualità si mischiava a quello di sudore e di fumo, creando una combinazione vomitevole che colpì Harm come un gancio destro sferrato violentemente alla bocca dello stomaco, togliendogli quasi il respiro. Tom Johnson era seduto al bancone e con sguardo vacuo fissava il bicchiere contenente un liquido ambrato. Harm riuscì a stento a trattenersi dal prenderlo a pugni. Gli si sedette vicino, gli mise una mano su un braccio e gli disse: “Johnson, hai bevuto abbastanza. Andiamo, vedi di fare il padre almeno per una volta nella tua vita”

“Ah, guarda chi è arrivato… il comandante Harmon Rabb, il cavaliere puro dall’armatura scintillante… ma chi ti credi di essere, eh? Vieni qui e pretendi di darmi lezioni su come si fa il genitore…” gli rispose con una voce strascicata, la lingua impastata da chissà quanto alcol e gli occhi iniettati di sangue.

“Mattie ha bisogno di te, Tom” riprese Harm.

“E’ ancora in coma?” gli chiese, tenendo lo sguardo basso.

“Sì e le serve suo padre” replicò Rabb, tentando di controllare la rabbia.

“Io non sono di nessuna utilità” ammise Tom. “Non sono in grado di aiutarla, Rabb. Guardami, sono un completo fallimento” aggiunse, abbassando il tono della voce.

“Johnson, Mattie ha bisogno di suo padre, ha bisogno di qualcuno che la aiuti a risvegliarsi. Non puoi abbandonarla adesso” cercò di nuovo di convincerlo, ma Tom scosse la testa e lo interruppe: “Se ci tieni tanto, è tutta tua, Rabb. E ora vattene e lasciami in pace, voglio finire il mio whisky”

Harm lo guardò per pochi secondi, poi si alzò e si allontanò, sconfitto. Sentiva tutta la stanchezza di quei giorni pesargli sulle spalle come un macigno. Appena fuori da quel sudicio bar, prese un respiro profondo e cercò di ripulire polmoni, cuore e cervello dalla schifezza che aveva respirato. L’aria fresca lo aiutò a far chiarezza nella sua mente e capì che gli rimaneva solo una cosa da fare: parlare con sua moglie, con la roccia della sua vita.

La consueta telefonata serale con Sarah fu più lunga del solito. Sin dal tono della voce con cui l’aveva salutata, Mac si era resa conto che c’era qualcosa che non andava.

“Harm, è successo qualcosa a Mattie?” gli chiese preoccupata.

“No, non è cambiato niente… è ancora in coma. Ma ho rintracciato suo padre. Mac, lui…” sospirò. Non riusciva a capacitarsi di come un genitore potesse rinunciare a una figlia. Lui non lo avrebbe mai fatto. Scosse la testa e riprese: “Se ne è lavato le mani, Sarah”

Da ex alcolista, Sarah poteva comprendere almeno in parte lo stato d’animo di Johnson, il suo senso di fallimento e di inadeguatezza. Ma da quasi mamma sentiva che non avrebbe mai potuto abbandonare la sua creatura. E quella ragazzina le faceva una gran pena: il destino si era accanito fin troppo contro di lei.

“Harm, dobbiamo prenderci cura di lei. Possiamo avviare le pratiche per richiederne la custodia legale. Te l’hanno concessa quando eri da solo, vedrai che adesso che siamo sposati sarà più semplice. Puoi rivolgerti a Bud affinché ti rappresenti in Tribunale, sono sicura che sarà più che felice di aiutarci” disse Sarah, con un tono di voce dolce ma deciso.

Il marine e la moglie erano entrati in azione!

Harm chiuse gli occhi per trattenere le lacrime e formulò una silenziosa preghiera nella sua mente, ringraziando il cielo per avergli donato una donna straordinaria come Mac.

“Hai idea di quanto ti amo?” le disse sottovoce, temendo di svelare quanto le parole di sua moglie lo avessero commosso.

“Mai quanto ti amiamo io e tuo figlio” gli rispose Sarah, accarezzandosi la pancia in un gesto che ormai le era diventato spontaneo.

“O mia figlia” replicò Harm.

 

Nota dell’autrice

Harm è riuscito a trovare Johnson, ma quest’ultimo non ha intenzione di occuparsi di sua figlia. Fortunatamente, dalla costa occidentale del paese arriva la soluzione: saranno i coniugi Rabb ad accogliere Mattie nella loro famiglia.

Ora basta solo che si svegli…

Grazie per aver letto anche questo capitolo!

Al prossimo,

Deb

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Capitolo 4
*** Capitolo 4. Bentornata ***


Capitolo 4. Bentornata

 

Dopo la telefonata fiume con sua moglie, grazie alla quale era riuscito a ritrovare un livello di serenità insperato, il comandante Rabb digitò il numero del suo fidato amico Bud Roberts. Questi fu ben lieto di mettersi a sua disposizione per supportarlo dal punto di vista legale e concordarono di vedersi il giorno successivo a pranzo per discutere in dettaglio come procedere, così da risolvere la questione nel modo più rapido e indolore per tutti, avendo a cuore principalmente il bene di Mattie. In questo modo, la mattina Harm avrebbe potuto trascorrere un po’ di tempo in ospedale con lei e darle la notizia, per poi concentrarsi di nuovo sul suo lavoro.

Quando entrò nel reparto di terapia intensiva, notò immediatamente l’assenza del volto amico dell’infermiera Wilson dalla sua consueta postazione, ma si disse che probabilmente era in giro per prestare assistenza a qualche paziente o che forse non era di turno. A uno sguardo più approfondito, si rese conto che c’erano dei movimenti strani nella camera della sua quasi figlia adottiva. Affrettò il passo e, quando giunse alla porta, il suo cuore ebbe un sussulto.

Mattie si era svegliata e stava rispondendo alle domande del dottor Daniels, che stava passando una specie di martelletto sugli arti inferiori e superiori, mentre l’infermiera Wilson annotava prontamente i risultati di quella specie di test sulla cartella clinica della ragazza.

Appena lo inquadrò nel suo campo visivo, Mattie accennò un sorriso, per quanto glielo permettessero i graffi sul volto e il rigido collare, e pronunciò il suo nome, con voce roca.

Ad Harm parve di non aver mai udito una musica più celestiale in tutta la sua vita.

Si avvicinò al letto e le sorrise a sua volta, non sapendo bene come comportarsi in quella situazione. Da una parte avrebbe voluto abbracciare quella ragazzina, per dimostrarle il suo affetto e la sua felicità nel vederla di nuovo nel mondo dei vivi, ma dall’altra temeva di intralciare il lavoro di medico e infermiera. Si limitò a sussurrare un “Bentornata, Mattie” e a continuare ad avere un sorriso estatico e commosso stampato sul volto, rimanendo in piedi in fondo al letto, con le braccia incrociate sul petto, senza perdere di vista le mosse dei due sanitari davanti a lui nemmeno per un secondo.

Appena terminata la visita, il dottor Daniels si rivolse ad Harm: “Signor Rabb, credo che lei e Mattie vogliate parlare un po’, ma mi raccomando, non la affatichi troppo: ha ancora bisogno di riposo. La aspetto nel mio ambulatorio, d’accordo?”

Rabb annuì al medico, si sedette accanto al letto e prese dolcemente una mano della ragazza. “Come stai?”

“Ho la mente un po’ confusa e non riesco a sentirmi le gambe… La tua mano invece è bollente!” rispose Mattie, facendo una smorfia con il naso e parlando a fatica. Poi continuò: “Il dottor Daniels mi ha fatto un sacco di domande sull’incidente… non ricordo tutti i particolari…”

“Vedrai che la memoria tornerà. A me è successo così dopo essere finito a mollo nell’oceano qualche anno fa: ho sofferto di amnesia per un po’, ma poi i ricordi sono affiorati piano piano” le disse, cercando di consolarla.

La ragazza si schiarì la gola e riprese: “Quando sei arrivato?”

“Qualche giorno fa”

Rimasero in silenzio per alcuni secondi, poi Mattie gli pose la domanda che Rabb temeva di più: “Papà dov’è?”

“Non preoccuparti per lui adesso, pensa solo a rimetterti. Sai che quando mi sono eiettato è stata Mac a dire alle squadre di soccorso dove localizzarmi, in mezzo all’oceano in tempesta? Pensa, avevano ormai deciso di interrompere le ricerche, che erano state infruttuose per diverse ore, e continuare a cercarmi significava mettere a repentaglio anche la vita dei soccorritori. Ma lei ha avuto una visione, lo so che sembra strano, ma…” l’avvocato stava cercando di portare il discorso su un altro argomento, ma non aveva fatto i conti con la determinazione adolescenziale, per nulla indebolita dall’incidente e dal coma, di una ragazzina sveglia che aveva già vissuto fin troppe esperienze traumatiche nella sua giovane età.

Mattie strinse a malapena la mano dell’uomo: “Harm… ha ricominciato a bere, vero?”

Rabb si limitò a fare un breve cenno di assenso con il capo e le disse: “Adesso riposa, Mattie. Sappi solo che non sarai più da sola: io e Sarah non abbiamo alcuna intenzione di abbandonarti. Ci sono alcune cose da sistemare, ma vorremmo che tu venissi a stare con noi. E con la tua sorellina. Anche se Mac continua a sostenere che sia un maschio, sai quanto è testarda quando ci si mette… Da questo punto di vista, siete proprio identiche!”

Conversarono ancora per qualche minuto, spostandosi su temi più leggeri, poi Harm si congedò da lei per lasciarla riposare e si recò nell’ambulatorio del medico. Essere riuscito a parlare con lei gli aveva riempito il cuore di un quieto ottimismo, ma aveva bisogno di sentirsi dire quali fossero le sue reali condizioni fisiche e quali danni avesse effettivamente riportato. L’angoscia non era stata ancora del tutto sopita.

La porta era aperta e il dottor Daniels era seduto alla scrivania, chino su alcuni fogli che sembravano aver catturato la sua totale attenzione. Rabb bussò allo stipite e il medico, sollevando lo sguardo, gli fece cenno con la mano di entrare.

“Si accomodi, signor Rabb” lo invitò con un tono di voce molto serio, che fece vacillare l’atteggiamento moderatamente fiducioso di Harm.

“Dottore, qual è il suo responso?”

“Dovrei parlare di queste cose con il padre di Mattie, è riuscito a trovarlo?”

Harm gli raccontò brevemente cosa era successo il giorno prima con Johnson e quali fossero le intenzioni, sue e di sua moglie, a proposito della ragazza. Il medico lo guardò fisso negli occhi per qualche istante, poi annuì impercettibilmente, quasi avesse seguito un ragionamento interiore, si schiarì la gola e disse: “Mattie ha mantenuto la motilità agli arti superiori, che a un primo esame sembrerebbero non aver riportato alcun danno grave dall’incidente, se non qualche contusione ed escoriazione superficiale.”

“Mi ha stretto debolmente una mano e si è lamentata che la mia mano era troppo calda” confermò Rabb. “Però mi ha anche detto che non si sentiva più le gambe.”

“Infatti, come già le avevo accennato, il problema serio pare riguardare gli arti inferiori. La visita neurologica cui ha in parte assistito ha rivelato una ridotta sensibilità alle gambe. Dovremo effettuare altri test per capire la gravità della situazione e stabilire quanto possa recuperare tramite il ricorso alla fisioterapia o a eventuali interventi chirurgici” spiegò Daniels.

“Cosa posso fare per aiutarla?”

“Al momento le stia vicino. Quando avremo il quadro completo della situazione di Mattie decideremo insieme come procedere”

Harm ringraziò il medico e prese subito il telefono per informare sua moglie del risveglio della ragazza. Poi si recò nel suo ufficio, lavorò per un paio d’ore e infine incontrò Bud a pranzo. Il suo amico e legale gli disse che la cosa migliore sarebbe stata la rinuncia formale da parte di Tom Johnson al suo ruolo genitoriale, così da non far intervenire in maniera ridotta i servizi sociali che avrebbero reso la faccenda molto più squallida, lunga e dolorosa per tutte le parti coinvolte. La precedente esperienza di Rabb in qualità di tutore legale di Mattie deponeva certamente a suo favore, così come il fatto che adesso, con Sarah, avrebbero potuto offrirle una vera famiglia. Il Capitano di Corvetta Roberts si sarebbe poi impegnato a raccogliere le deposizioni da parte di altri membri influenti della comunità che avrebbero perorato la causa, sostenendo l’idoneità dei coniugi Rabb. Aveva già in mente chi contattare ed era certo che nessuno di loro si sarebbe tirato indietro.

Ora bastava solo avere pazienza.

 

Nota dell’autrice

OK, anche questa è sistemata! Mattie si è svegliata e Bud si occuperà della questione legale, così che la ragazza possa essere affidata ai Rabb.

Tutto sembra volgere al meglio, dunque.

Al prossimo capitolo,

Deb

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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Notizie da San Diego ***


Capitolo 5. Notizie da San Diego

 

Accarezzandosi con entrambe le mani il pancione, sempre più ingombrante, Mac sospirò pesantemente.

Le mancava suo marito. Terribilmente.

La sua parte razionale le diceva che Harm era nel posto giusto, a prendersi cura di una ragazzina che aveva bisogno di lui, molto più di lei. Ma la sua parte emotiva, quella che ultimamente stava prendendo sempre più il sopravvento, le ripeteva che avrebbe voluto averlo lì con sé subito, seduta stante, per potersi rifugiare nelle sue braccia grandi e forti, per farsi coccolare e rassicurare che tutto stava andando nel migliore dei modi. Accidenti agli ormoni.

Quanto era cambiata da quando stavano insieme!

Aveva imparato ad appoggiarsi a qualcuno, a poter fare affidamento su una persona che mai l’avrebbe abbandonata, che si sarebbe presa cura di lei. Sempre. Era una sensazione che aveva cominciato a provare solo da quando aveva fatto entrare Harm nella sua vita da vero coprotagonista: durante l’infanzia e l’adolescenza, infatti, i suoi genitori non erano stati certo in grado di proteggerla e di coccolarla, come si sarebbe meritato ogni bambino. Ma dopo il bagno in quel lago dorato, l’amore sconfinato di Rabb aveva nutrito la sua fame ancestrale di affetto e adesso che lui era lontano l’impressione di essere stata ancora una volta lasciata sola si stava affacciando di nuovo nel suo cuore, rendendola inquieta e sofferente.

Sospirò di nuovo.

Harm mancava da casa da un mese e mezzo ormai. In quel lungo periodo era tornato a San Diego solo una volta, per una delicata questione di lavoro che non poteva gestire a distanza, ma era riuscito a trascorrere con sua moglie solo poche ore prima di volare nuovamente a Blacksburg.

Non si era pentita minimamente di aver suggerito a suo marito di far venire Mattie a vivere con loro, ma non poteva negare a sé stessa che la cosa la impensieriva un po’, visto il carico emotivo che quella scelta avrebbe comportato.

Sentì il bambino muoversi nella sua pancia e, rivolgendosi a lui, gli chiese: “Piccolo marinaio, manca anche a te, vero? Senti anche tu la nostalgia per le canzoni che ci cantava papà accompagnandosi con la chitarra?”

Una lacrima le scivolò furtivamente su una guancia.

Qualcuno bussò alla porta e la distolse dal suo dialogo con il figlio. Non aspettava nessuno a quell’ora, ma sollevandosi con qualche difficoltà dal divano, si asciugò gli occhi e, prima di aprire, controllò dallo spioncino. Ciò che vide la sorprese, ma tolse immediatamente il chiavistello e fece entrare i due visitatori.

“Frank, Trish, entrate, tutto bene?” li salutò, facendo loro cenno di accomodarsi.

“Ciao Sarah, ti disturbiamo? Passavamo da queste parti e volevamo sapere se avevi bisogno di aiuto per sistemare la casa…” disse Trish.

Mac sorrise. Nonostante fosse stanca e il suo programma per la serata avesse previsto di starsene sdraiata sul letto, con l’aria condizionata accesa, possibilmente in mutande e con i piedi sollevati, non poté far a meno di essere grata per l’affetto che i suoi suoceri nutrivano nei suoi confronti.

“Non solo. Come al solito, Trish ha esagerato in cucina e ci è avanzato un sacco di roba, quindi mi faresti davvero un favore se tu ci aiutassi a smaltire questi manicaretti, altrimenti a me toccheranno per le prossime due settimane!” aggiunse Frank, facendole l’occhiolino.

“Grazie, siete davvero gentili. Posso offrirvi del tè freddo?” disse Mac, genuinamente riconoscente.

“Volentieri! Come procedono i lavori delle camere?” si informò l’uomo.

“Venite, vi faccio vedere” li invitò Sarah.

Da quando avevano deciso di accogliere Mattie a casa loro, Mac si era fatta carico di allestire una stanza per la ragazza in modo da venire incontro alle sue esigenze. Gli esami approfonditi cui era stata sottoposta avevano infatti rivelato che la lesione spinale causata dall’incidente era meno grave di quanto temessero e che un intervento chirurgico, seguito da una lunga fisioterapia, le avrebbe restituito la quasi completa capacità di camminare senza ausili. La notizia aveva rallegrato tutti, da un capo all’altro degli Stati Uniti. Non sarebbe stato un processo immediato, ma con grande pazienza e determinazione Matilda Grace Johnson si sarebbe rimessa in piedi. E specialmente la seconda dote non le mancava di certo. Fortunatamente la villetta di Carmel Valley era a un piano, così per lei sarebbe stato più facile muoversi anche con la sedia a rotelle, almeno all’inizio, o le stampelle. Anche l’assistente sociale che aveva fatto visita a Mac, dietro richiesta del Giudice Minorile di Washington, aveva espresso parere favorevole sulla sistemazione logistica.

E, naturalmente, c’era da arredare anche la stanza del bebè! I futuri genitori pensavano che avrebbero potuto occuparsene insieme, poi però avevano ricevuto quella telefonata da Blacksburg e tutti i loro piani erano stati stravolti.

Così nelle ultime settimane Mac aveva dedicato il suo tempo libero a svuotare la camera degli ospiti e lo studio, in modo da fare spazio alla nursery e alla stanza di Mattie. Certo, avrebbe voluto condividere quei preparativi con Harm, ma l’assenza di suo marito era dovuta a un motivo più che valido. La vita dell’uomo a Washington, poi, non era certo una passeggiata: fra il lavoro, l’assistenza a Mattie e la questione della richiesta di tutela le sue giornate si susseguivano con un ritmo infernale. Fortunatamente, come lui stesso le aveva raccontato, qualche giorno dopo che la ragazza aveva subito l’intervento, ben riuscito, si era visto arrivare in ospedale Harriet Beaumont Sims Roberts con piglio deciso e a passo di marcia. La dolce moglie di Bud lo aveva – metaforicamente – sollevato di peso dalla sedia accanto al capezzale della ragazzina e lo aveva spedito a casa a dormire. Alle rimostranze di Harm, Harriet gli aveva risposto di aver contattato la tata e di averle affidato la sua ciurma di bambini, così che lei avrebbe dato il cambio a Rabb per farlo finalmente riposare. “Se crolli non servirai a nessuno, Harm” gli aveva sussurrato dolcemente. “Va’ a dormire e torna stasera. Io e Mattie ce la caveremo, stai tranquillo”. A quelle parole, ad Harm non era restato altro che ubbidire all’ordine perentorio dell’ex tenente Sims, ormai membro della riserva navale, e concedersi qualche ora di sonno.

Frank e Trish si affacciarono alla camera che avrebbe accolto il loro nipotino, come sosteneva Sarah (o nipotina, come invece precisava Harm) e notarono gli scatoloni ammucchiati e i mobili della nursery in parte montati.

“Mac, non ti sarai mica affaticata eccessivamente?” le chiese con sguardo severo, eppure benevolo, la suocera.

“Tranquilla, Trish, me la sono presa comoda. Infatti, come vedi, siamo ancora in alto mare” commentò la futura mamma, sospirando davanti a quel caos che avrebbe dovuto accogliere suo figlio (perché era convintissima che fosse un maschietto, in barba all’assoluta certezza di suo marito che invece si aspettava una femminuccia).

“Beh, si dà il caso che io abbia la mia cassetta degli attrezzi in macchina, magari potrei terminare di montare almeno la culla mentre voi signore fate due chiacchiere in salotto, che ne dite?” propose Frank.

Sarah gli rivolse uno sguardo riconoscente e non se lo fece ripetere due volte. Sebbene avesse detto a Trish di non essersi stancata troppo, in realtà non si era certo risparmiata in quegli ultimi giorni. Ma anche se al parto mancavano ancora quattro settimane, Harm e Mattie sarebbero rientrati prima e lei non voleva far trovare loro una casa che assomigliava a un campo di battaglia su cui era stato sganciato un ordigno devastante.

Mentre l’uomo si dava da fare con viti e tasselli, dimostrando notevoli capacità di bricolage, le due donne si sedettero sul divano, sorseggiando il tè freddo in silenzio.

“Mac, va tutto bene?” le chiese Trish.

“Sì… sono contenta che Harm fra poco torni a casa” rispose Mac, sforzandosi di sorridere.

“Con Mattie” aggiunse Trish.

“Con Mattie” ripeté Sarah.

“Sei preoccupata per lei?”

Mac annuì. “Mi impensierisce l’idea di passare da zero bambini a un neonato e un’adolescente nel giro di poco tempo. Non posso certo far ricorso ai miei ricordi di figlia per capire come si fa la madre…” aggiunse, aggrottando la fronte al pensiero di cosa era stata la sua infanzia e quale modello avessero rappresentato i suoi genitori per lei.

Trish le strinse una mano e le disse: “Non sei da sola in questa avventura, Mac. Non ho mai visto mio figlio tanto felice come da quando ha saputo che avreste avuto un bambino. E poi ci siamo anche noi e, se ce lo permetterete, saremo ben lieti di darvi una mano. Sia con il piccolo che con Mattie. Vedi, anche Frank è stato, in qualche modo, un genitore adottivo per Harm. E, credimi, si è preso una bella gatta da pelare, perché il giovane Harmon Rabb junior era tutt’altro che un ragazzino facile da gestire! Ma Frank ha una cosa in comune con te: entrambi avete un cuore grande. E questo ti permetterà di trovare il tuo equilibrio con Mattie”

Sarah le sorrise con gli occhi colmi di lacrime e  si sentì più sollevata. Sì, ce l’avrebbe fatta. E, in ogni caso, avrebbe potuto contare sul loro aiuto e, più che altro, su quello di suo marito.

Quando i coniugi Burnett si congedarono, oltre un’ora più tardi, Mac infilò nel microonde uno dei manicaretti che le avevano portato e si apprestò a cenare. Improvvisamente, una fitta dolorosa al ventre le tolse il respiro. Le sembrò che una lama appuntita le avesse trapassato le viscere da parte a parte.

Fece per alzarsi dallo sgabello cui si era appoggiata e sentì un liquido caldo e viscido colarle fra le gambe. Abbassò lo sguardo e vide con orrore una macchia vermiglia sbocciare come una rosa sui suoi pantaloni chiari.

Il panico si impossessò di lei.

 

Nota dell’autrice

Le cose si stavano sistemando troppo bene e troppo velocemente ma, lo sappiamo tutti per esperienza diretta, la vita è imprevedibile.

Cosa succederà a Mac e al suo piccolo marinaio? Pochi giorni e lo saprete.

Al prossimo capitolo,

Deb

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. Momenti concitati ***


Capitolo 6. Momenti concitati

 

Nooooooo, il mio bambino nooooooooooooo.

Pensa, Mac, pensa, non ti far prendere dal panico.

Oh Dio mio, non voglio perderlo, Harm aiutami!

Harm non è qui con te ma ce la puoi fare lo stesso.

Noooooooooo, non può nascere ora, è troppo presto!

Forza Mac, concentrati, Harm non c’è ma non sei da sola.

Nella mente di Sarah, sconvolta dal dolore e dalla paura, si alternavano momenti di lucidità e altri di terrore nello spazio di pochi secondi. Le fitte lancinanti che le trafiggevano le viscere le impedivano di pensare in modo coerente. Il senso di colpa non le dava pace: nelle ultime settimane non si era certo risparmiata e adesso temeva che tutto questo stesse succedendo a causa sua. Aveva messo a repentaglio la vita di suo figlio spostando mobili e scatoloni.

Come aveva potuto essere tanto stupida?

Se gli fosse successo qualcosa non se lo sarebbe mai perdonato. Mai.

Il suo addestramento militare, che l’avrebbe dovuta mantenere razionale e concentrata, era completamente svanito di fronte alla paura di perdere il suo amato bambino, il loro miracolo di Natale. Improvvisamente, si ricordò le parole di Trish: “se ce lo permetterete, saremo ben lieti di darvi una mano”. Era il momento di approfittarne. Dopo aver sentito la prima sciabolata di dolore era scivolata sul pavimento, così si trascinò a fatica fino al tavolinetto accanto al divano e afferrò il cellulare. Digitò il numero della suocera.

Irraggiungibile.

Di nuovo un’ondata di panico si impossessò di lei. La sensazione di essere stata ancora una volta abbandonata si diffuse nel suo cuore sconvolto dal dolore. Era un sentimento che l’aveva accompagnata per buona parte della sua esistenza e che si era assopito solo a partire da quell’incontro sul lago dorato.

Poi si rammentò che Trish le aveva detto che sarebbe andata al cinema con un’amica, quindi probabilmente aveva spento il telefonino.

Allora contattò Frank.

Al secondo squillo, l’uomo rispose.

Sarah riuscì solo a dire “Frank, aiutami, sto male… il bambino…”

Lui le disse semplicemente: “Chiamo l’ambulanza e arrivo”

Nel giro di pochi minuti, dapprima il suocero e poi i paramedici giunsero alla villetta a Carmel Valley. Le prestarono le cure immediate e, quando Frank disse loro che Mac era un colonnello dei marine, contattarono immediatamente il Naval Medical Center. La mente di Sarah, annebbiata dal dolore e dall’angoscia, riuscì a percepire soltanto emorragia antepartum, probabile distacco di placenta. E si sentì morire. Sapeva che quest’ultimo costituiva una delle cause principali di morte perinatale.

Nel cervello di Mac si formò un unico devastante pensiero: Nooooooo, non posso perdere il nostro bambino!

I barellieri la fecero distendere sulla lettiga e poi la issarono sull’ambulanza. Mentre l’angoscia e il senso di abbandono si facevano sempre più spazio nel suo cuore, sentì una mano stringere la sua: non si era accorta che Frank era salito sul mezzo e si era seduto accanto a lei. Le accarezzò paternamente i capelli e disse: “tranquilla, Sarah, adesso ti portiamo in ospedale. Vedrai che andrà tutto bene”.

Giunsero al centro medico militare a sirene spiegate e durante il viaggio la mano di Frank non lasciò mai quella di Sarah. L’uomo seguì la barella fino alla porta del blocco operatorio, poi dovette arrendersi alle insistenze dei paramedici che lo invitarono ad accomodarsi nella sala d’attesa e a permettere loro di fare il proprio lavoro, senza stargli fra i piedi.

Si lasciò scivolare in una delle poltroncine e si passò le mani fra i capelli. Aveva il battito cardiaco accelerato e il respiro affannato. Pregò il cielo di non sentirsi male: ora non sarebbe proprio stato il momento per farsi venire un infarto. Si impose di inspirare ed espirare lentamente, ad occhi chiusi, per calmare l’angoscia che gli saliva dalle viscere. Mise una mano in tasca e tirò fuori un portapillole, dal quale estrasse le sue medicine per il cuore. Ne ingoiò una al volo, senza nemmeno pensare a cercare dell’acqua. Poggiò la testa al muro dietro di lui e prese un respiro profondo. All’inizio il rapporto con Harm non era stato facile: si era dovuto scontrare con l’assenza ingombrante di un padre eroe, scomparso in Vietnam. Con gli anni era riuscito a farsi accettare e poi a farsi voler bene da quel ragazzo, divenuto uomo e adesso in procinto di diventare genitore a sua volta. Non avrebbe potuto essere più fiero di lui nemmeno se fosse stato suo figlio biologico. Mac era arrivata nella loro vita da poco tempo, eppure aveva subito conquistato il suo affetto e quello di Trish ed entrambi l’avevano accolta a braccia aperte nella loro famiglia, visto che era palese quanto rendesse felice Harm. E adesso lei rischiava la propria vita e quella del loro nipotino, mentre suo marito era all’altro capo del paese a prendersi cura di Mattie, che presto li avrebbe raggiunti in California. Anche quella ragazzina si meritava un po’ di pace e serenità.

Nella concitazione del momento si rese conto di non aver ancora avvertito Harm. Del resto, a distanza non avrebbe potuto fare molto per aiutare sua moglie. Però aveva il diritto di sapere come stavano le cose. Completamente immerso in questi pensieri, sentì il cellulare vibrare: un messaggio lo informò che il telefonino di sua moglie era nuovamente raggiungibile. Evidentemente Trish era uscita dal cinema. Non fece in tempo a digitare il suo numero che la donna lo richiamò.

“Frank, cosa è successo? Ho visto che Mac mi ha cercato. Ho provato a telefonarle ma il suo numero squilla a vuoto” gli chiese la donna con voce preoccupata.

“Trish, siamo al Naval Medical Center. Sarah ha avuto un’emorragia e adesso è in sala operatoria” le disse, pentendosi subito dopo per essere stato così franco con sua moglie, per non essere riuscito a indorarle la pillola.

“Oh mio Dio, arrivo” rispose lei e riattaccò.

In un’altra stanza, non distante da dove si trovava Frank, Mac era terrorizzata. Non si era mai sentita tanto sola e spaventata come in quel momento, nonostante fosse circondata da diversi infermieri e medici che si prendevano cura di lei.

Aveva freddo.

Un freddo che non aveva mai provato prima.

Un freddo che le partiva dal cuore.

“Colonnello, sono la dottoressa Sullivan” le disse una figura coperta da una mascherina. Mac la riconobbe dalla voce e dagli occhi e si sentì un po’ più al sicuro. La ginecologa conosceva bene il suo quadro clinico. “Purtroppo c’è stato un distacco di placenta e dobbiamo far nascere il suo bambino”

“Mancano ancora quattro settimane…” riuscì a dire Sarah.

“Lo so, colonnello, ma non possiamo aspettare. Il suo battito cardiaco si sta facendo più debole” replicò il medico, con tono calmo ma determinato.

“Vi prego, salvate il mio bambino”

“Siamo qui per questo. Dobbiamo ricorrere a un cesareo d’urgenza, non c’è tempo da perdere. Adesso l’anestesista le farà un’epidurale. Ma ho bisogno della sua collaborazione, colonnello. Si deve rilassare. Si metta seduta con le braccia avanti e la testa piegata sul petto….” Mac ubbidì e la ginecologa riprese: “Ecco, così. Sentirà un po’ di fastidio all’inizio ma vedrà che durerà poco. L’importante è che stia ferma, non si deve muovere. Capito? … OK, colonnello, bene così, brava… Sentirà gradualmente una sensazione di intorpidimento negli arti inferiori” le spiegò la dottoressa Sullivan.

Mac si limitò ad annuire e ad eseguire gli ordini, non riuscendo ad impedire alle lacrime di scorrerle lungo il volto. In quel momento, la mancanza di suo marito le invase completamente il cuore.

In pochi minuti l’anestesia fece effetto e Sarah smise di provare quel dolore lancinante che l’aveva trafitta poco più di un’ora prima, anche se le sembrava fosse passata un’eternità da quando la prima stilettata l’aveva fatta scivolare a terra. Perse la sensibilità alle gambe, ma i suoi sensi erano completamente allertati da ciò che si svolgeva al di là di quel telo grigioazzurro che le impediva la visuale sul suo ventre. Avrebbe voluto accarezzare il suo pancione per prendersi cura di suo figlio, ma aveva le braccia immobilizzate e un infermiere le stava applicando un ago per facilitare l’accesso venoso, qualora ci fosse stato bisogno di una flebo. Udiva il parlottio di medici e infermieri, che si passavano strumenti e istruzioni, ma il suo cuore aspettava con ansia di sentire il primo vagito del suo bambino, pregando affinché tutto andasse bene.

 

Nota dell’autrice

Mai un momento tranquillo, vero? Viste le condizioni di Sarah, l’unico modo per salvare lei e suo figlio è il cesareo, nonostante manchino ancora quattro settimane.

Per la stesura di questo capitolo devo ringraziare davvero di cuore il mio angelo custode, senza il cui aiuto non sarei proprio riuscita a scrivere una storia sensata.

Spero che perdonerete le eventuali imprecisioni mediche: prendetele come una licenza poetica della sottoscritta.

Al prossimo capitolo,

Deb

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. L'alba di una nuova famiglia ***


Capitolo 7. L’alba di una nuova famiglia

 

In quelle stesse ore, a Washington fervevano i preparativi per il trasferimento a San Diego. Da una settimana Matilda Grace Johnson era stata affidata legalmente ai coniugi Rabb. Era stato il giudice Johanna Houghton del Tribunale dei Minori a decretarlo ufficialmente. Le sue parole riecheggiavano continuamente nella mente di Harm: “Ricopro questo incarico da molti anni ormai e nella mia lunga carriera ho giudicato innumerevoli casi di minori coinvolti nelle situazioni più dolorose, assurde o violente. Mi è capitato molte volte di dover togliere dei bambini ai propri genitori e non sempre è stato facile collocarli presso famiglie affidatarie. Questa volta però il mio istinto mi dice che voi rappresentate la soluzione ideale per Matilda. E lo dimostrano anche le numerose testimonianze della vostra idoneità, raccolte dal Capitano di Corvetta Roberts, fra le quali spicca la dichiarazione di un ammiraglio in congedo, Albert Jethro Chegwidden. Una vera arringa da manuale! Se anche mi fosse rimasto qualche dubbio, le sue quattro pagine, fitte e manoscritte, me lo avrebbero tolto definitivamente.”

Ancora una volta, AJ si era comportato come un padre per Harm e Sarah.

Il comandante Rabb non vedeva l’ora di poter avere tutta la sua famiglia riunita finalmente sotto lo stesso tetto. La mancanza di sua moglie gli faceva male fisicamente, contraendogli lo stomaco ogni volta che pensava a lei, e la data del parto si stava avvicinando a grandi passi e per niente al mondo se la sarebbe voluta perdere.

Dal canto suo, sebbene fosse felice di andare a vivere con Harm e Sarah a San Diego, Mattie era molto nervosa all’idea di salire nuovamente su un aereo. Certo, il 747 che li avrebbe portati in California non aveva nulla a che spartire con il biposto con il quale si era schiantata al suolo nemmeno due mesi prima, ma il ricordo dell’impatto era troppo vivo per affrontare il viaggio senza ansia. Si consolava dicendo che aveva ancora qualche giorno per farsene una ragione, procrastinando il momento in cui avrebbe dovuto fare i conti con le sue paure.

Harm stava concordando con il dottor Daniels le accortezze da usare per rendere le lunghe ore di volo meno stressanti per Mattie quando il suo cellulare squillò. Il display lo informò che si trattava di Frank. La cosa lo sorprese, perché di solito era sua madre a chiamarlo, così rispose immediatamente: “Frank, va tutto bene?”

“Harm, dovresti anticipare il rientro a San Diego. Sarah è in ospedale” gli disse.

“Come… cosa… come sta?” riuscì a chiedergli appena il cuore riprese a battere più o meno regolarmente.

“I medici si stanno prendendo cura di lei e del bambino, ma ha bisogno di suo marito”

No, Frank non poteva aver detto bambino. Mancavano ancora quattro settimane alla data del parto. E poi Sarah aspettava una femminuccia, su questo non c’erano dubbi.

“Il bambino?” gli chiese titubante.

“Le hanno fatto un cesareo d’urgenza. E’ un maschietto, Harm. Sei diventato papà!” lo informò Frank, con un tono di voce che mischiava gioia e preoccupazione. “Sono entrambi monitorati e stanno rispondendo bene, ma la fase critica non è ancora completamente superata” aggiunse.

“Arrivo con il primo volo. Ah, Frank?”

“Dimmi, figliolo”

“Prenditi cura di loro” lo esortò.

“Sono la mia famiglia, Harm, non potrei fare altrimenti” lo rassicurò l’anziano, con un tono sicuro e determinato.

Harm chiuse la comunicazione e appena riuscì a fare mente locale spiegò brevemente al dottor Daniels cosa era successo. Dovevano anticipare il trasferimento a San Diego e non si sarebbe mosso senza Mattie. Si recarono pertanto entrambi nella stanza della ragazza.

Appena li vide entrare, Mattie capì subito dall’espressione corrucciata del suo tutore che era successo qualcosa di serio.

 

Dopo aver concluso la telefonata con Harm, Frank tornò in camera di Sarah. Sua moglie era seduta al capezzale della puerpera e le stringeva una mano. L’uomo si avvicinò a lei dall’altro lato del letto e le accarezzò i capelli. In quel momento, Sarah comprese, per la prima volta in tutta la sua vita, cosa volesse dire essere figlia e avere dei genitori che si prendessero cura di lei. Anche se Harm era lontano, anche se il loro bambino era nato prematuro e riposava in una culla termica, sua moglie cominciò nuovamente ad avere fiducia che tutto si sarebbe risolto nel modo migliore. Aveva una famiglia che le voleva bene.

 

Il volo verso San Diego gli parve interminabile. Dietro consiglio del dottor Daniels, avevano prenotato in business, così che Mattie avrebbe potuto distendere completamente le gambe e assumere una posizione più comoda. Gli era costato un patrimonio, ma per i suoi figli era disposto a tutto.

Figli.

Si ripeté quella parola più volte nella mente.

Adesso aveva una figlia adolescente e un maschietto. Era diventato doppiamente papà e non poteva chiedere altro alla vita. Era riuscito a parlare con Sarah al telefono pochi minuti prima di salire a bordo dell’aereo e le parole della moglie lo avevano rassicurato che lei e il piccolo si stavano riprendendo. Avrebbero dovuto trascorrere ancora qualche giorno in ospedale, ma la fase critica era stata superata e non vedevano l’ora di abbracciarlo di nuovo e di accogliere Mattie nella loro famiglia.

Si ritrovò a sorridere al pensiero di poter finalmente rivedere Mac e conoscere il loro bambino. Il suo stato d’animo era decisamente molto diverso rispetto a quello che lo aveva accompagnato un mese e mezzo prima, quando si era recato a Washington con il cuore pesante per le condizioni di Mattie. Adesso stava ritornando a casa con la famiglia al completo.

Appena arrivarono al San Diego International Airport, Harm aiutò sua figlia ad accomodarsi sulla sedia a rotelle che ancora usava per percorrere i tragitti più lunghi, poi raccolse i loro bagagli e si avviarono all’uscita. Ad attenderli c’era il sottufficiale di prima classe Jennifer Coates che abbracciò entrambi con grande trasporto, in barba al protocollo e alla divisa e con buona pace di Rabb. Le due ragazze nutrivano un profondo affetto reciproco che si era consolidato durante il periodo in cui avevano vissuto insieme nell’appartamento accanto a quello dell’affascinante comandante Rabb.

“Signore, lascio lei all’ospedale e accompagno Mattie a casa, d’accordo?” propose Jennifer.

“Harm, voglio venire anch’io a trovare Mac!” protestò immediatamente Mattie.

“Non se ne parla, ragazzina. Il volo è stato lungo e faticoso, hai bisogno di riposare” decretò Rabb con un tono di voce che non ammetteva repliche.

“Ma se ho dormito per la maggior parte del tempo! Dai, voglio venire anch’iooooooooo” insistette.

“Matilda Grace, ci verrai domani. Promesso. Adesso va’ a casa con Jennifer e fa’ la brava” ordinò Harm e con queste parole concluse la diatriba, nonostante il volto imbronciato della figlia che riusciva a passare da un comportamento infantile e sbraitante a un atteggiamento maturo e posato nello spazio di un battito di ciglia. Benedetta adolescenza.

Come concordato, Jennifer fece tappa al Naval Medical Center e poi proseguì verso Carmel Valley.

Sceso dall’auto, Harm si precipitò al reparto maternità. Nella hall incontrò sua madre, che lo abbracciò e lo accompagnò a conoscere il resto della famiglia.

Appena entrato nella stanza di sua moglie, Harm si avvicinò al suo letto e la strinse forte a sé. Rimasero così, persi l’uno nell’altra, per alcuni minuti. Poi si staccarono e, mentre asciugava teneramente le lacrime di commozione che avevano bagnato il bel volto dell’uomo, Mac disse: “Questa volta non sono la sola a piangere”

Sorrisero entrambi al ricordo di quando invece tanti anni prima, mannaggia, era stata lei l’unica a piangere perché Harm aveva deciso di abbandonare il JAG per tornare a volare i suoi amati Tomcat in servizio attivo sulla USS Patrick Henry, lasciandola senza nemmeno una pianta da annaffiare nel suo appartamento. Quanto tempo era passato da allora! Quanti anni avevano sprecato!

Poi Rabb, per alleggerire la situazione, aggiunse: “Marine, devo ammettere che avevi ragione: in quel pancione nascondevi un maschietto”

“Ebbene sì, marinaio. Ricordati che noi berretti verdi siamo sempre avanti!” rispose a tono Mac. Poi qualcun altro si aggiunse alla loro conversazione. Udirono un vagito provenire dalla culla posta accanto al capezzale di Sarah.

Entrambi si voltarono nella sua direzione e Harm, titubante, domandò: “Posso prenderlo?”

“Certo, è tuo figlio!” gli rispose Sarah.

Con grande cautela, il comandante Rabb sollevò il piccolo dal lettino e questi lo osservò con attenzione, chiedendosi chi fosse quel gigante dall’odore buono e dalle mani calde che lo stava cullando. La mamma aveva il profumo più buono del mondo, ma anche questo non era male.

Un’ondata di amore puro travolse il cuore di Harm appena le sue iridi cerulee incontrarono quelle madreperlate del figlio.

“Vedo che sul braccialetto c’è ancora scritto “baby Rabb”… non avevamo detto che se fosse stato un maschietto lo avremmo chiamato Matt come tuo zio?” chiese a sua moglie appena quel groppo di commozione che gli stringeva la gola gli permise di pronunciare una frase con un tono di voce percettibile.

“Ti ho aspettato perché ho cambiato idea” gli sussurrò.

Harm le rivolse un’espressione interrogativa, continuando a cullare fra le sue braccia quel frugoletto con il pagliaccetto azzurro con la scritta Proprietà congiunta del corpo dei marines e della Marina – ma dove caspita l’aveva trovato Sarah? – dal quale sembrava non riuscire a staccarsi.

“Vorrei che avesse un secondo nome” riprese Sarah. Poi spostò lo sguardo sulla coppia anziana che li osservava con affetto dalla porta della stanza, si schiarì la gola e disse decisa: “Vorrei che nostro figlio si chiamasse Matthew Frank Rabb”

Sollevando gli occhi, Harm incontrò quelli commossi dell’uomo che era stato accanto a lui e a sua madre per la maggior parte della loro esistenza e disse semplicemente: “E’ perfetto”

 

Nota dell’autrice

Forse avrei dovuto intitolare questa ff “Padri”, perché in fin dei conti presenta figure paterne diverse fra loro: Harm, Tom, Frank e persino AJ. Ma quella canzone racchiude un messaggio troppo importante per non farvi riferimento. Nonostante tutto, nonostante le difficoltà e gli ostacoli, vita in te ci credo. Lo dicono – con i loro comportamenti – i protagonisti di questa storia e prova a farlo anche questa umile autrice.

Grazie per avermi regalato il vostro tempo e la vostra attenzione ed essere arrivati fino qui.

Un abbraccio,

Deb

 

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