Non brucia solo la pelle di Dark_Water (/viewuser.php?uid=35314)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
cap.1
Capitolo 1
Si
svegliò col lento ticchettio dell’orologio poggiato sul comodino accanto al
letto, restando semplicemente immobile mentre gli ultimi residui del sonno
scivolavano via dal suo corpo ridandogli un pigro controllo sulle sue membra intorpidite.
John
si alzò dal letto scostando elegantemente le lenzuola, portandosi le mani al
volto e lasciandole scivolare verso la testa, su nei capelli tirando indietro
il suo ciuffo ribelle che, durante la notte, aveva deciso deliberatamente di
coprirgli metà faccia; si diresse alla finestra per scostare con un delicato ma
rapido gesto lo spesso drappo di velluto blu che fungeva da oscurante per la
notte e lasciandosi irradiare completamente dal sole del mattino che si alzava
allegro tra i palazzi del circondario. John sospirò,lasciandosi scappare un
profondo sbadiglio prima di aprire la finestra e dirigersi verso il bagno.
Quando
uscì dalla camera da letto fu accolto da un leggero tintinnio di stoviglie con
in sottofondo il chiacchiericcio delicato di due voci allegre e familiari. Il
tutto accompagnato da un’epifania di profumi che avevano fatto lamentare il suo
stomaco vuoto in modo decisamente troppo poco elegante non appena gli avevano
inebriato le narici. Bacon, uova strapazzate e sicuramente pan cake alla crema
pasticcera. Il suo preferito.
Scese
le scale, raggiungendo il soggiorno al pian terreno ed attraversandolo senza
fare caso alle valigie ancora adagiate all’ingresso; una era aperta, con alcuni
capi d’abbigliamento femminile che disordinatamente si sporgevano verso il
pavimento senza cura alcuna di toccarlo ed un tubetto di dentifricio posato in
cima a fermarne una eventuale caduta.
Raggiunse
la cucina senza fretta, con un sorriso allegro sulle labbra che si allargò
quando il suo sguardo si fermò sulla coppia seduta al tavolo intenta a fare
colazione e ridere di chissà cosa.
“Buongiorno.
La camera era di vostro gradimento, Signori Pond?”
La
coppia si voltò verso di lui accogliendolo con un sorriso radioso, o almeno era
quello che si disegnava sul volto di porcellana della donna dai lunghi capelli
rossi. Sul volto dell’uomo biondo, sulle cui ginocchia era seduta lei, si formò
un sorriso di scherno mentre lasciava ricadere il cucchiaio nella scodella di
cereali con cui era intento a fare colazione e rispondeva:
“Williams.
Signori Williams.”
La
donna morse una fetta di pancake, lasciandosi scappare un risolino divertito
mentre alternava lo sguardo tra i due, facendo accentuare il fastidio del
marito.
“No.
Pond. Assolutamente Pond. Amy e Rory Pond.”
Rispose
John, sedendosi al tavolo e servendosi la colazione che, sicuramente, era stata
Amy a preparare.
Rory
sospirò, rassegnato al fatto che a portare i pantaloni in famiglia, per John,
non sarebbe mai stato lui ma sua moglie.
“Sono
felice che siate qui. Mi siete mancati.”
Le
parole di John arrivarono rapide e sincere tra un morso ad una fetta di bacon
ed un boccone di uova strapazzate. Ma se anche dette a bocca piena quasi
distrattamente, avevano riempito di gioia i cuori dei suoi due amici.
“Però
dillo con una faccia più allegra, brontolone. Ecco cosa ti succede a stare
troppo tempo da solo, senza di noi. Diventi triste e noioso!”
John
sorrise, mentre Rory ingoiava un cucchiaio di cerali e poi continuava.
“Anche
tu ci sei mancato. Ci voleva una rimpatriata dopo tutto questo tempo. Manca
solo….”
Rory
si interruppe forse troppo tardi, lasciandosi sfuggire un pensiero che come un
alito gelido di vento si era insinuato tra loro spaccando l’equilibrio che
avevano avuto fino a quel momento.
Nei
millesimi di secondo immediatamente successivi, Rory si ritrovò un gomito della
moglie piantato nel fianco, John invece con la mano ferma a mezz’aria,
attraversata da un fremito che si diradò anche attraverso la forchetta che
stringeva tra le dita lasciando cadere da essa un piccolo pezzo di bacon sul
tavolo. La bocca che si chiuse lentamente senza toccare cibo.
Negli
apparentemente interminabili attimi di silenzio che seguirono sembrava che il
mondo fosse rimasto sospeso, congelato in un solo momento senza tempo.
“John…”
La
voce di Amy era come un eco lontano.
“John…”
Rory
restava immobile. La mano di John lentamente discese verso il piatto, lasciando
ricadere la forchetta.
“Amy…no.”
Fu l’unica sottile ed incorporea parola che gli uscì dalle labbra
improvvisamente inaridite, un semplice sussurro.
“Sono
passati due anni…”
“Per
favore…” Una richiesta semplice e disperata da parte di John.
“Amy…
lascia stare.”
“No
Rory!” La donna insistette, piegandosi con la schiena in avanti a sporgersi sul
tavolo, in direzione dell’uomo seduto all’altro capo. “John… una telefonata.
Sono passati due anni, per l’amor di Dio! Dovresti parlarle. Ed anche..”
“Amy.
No. Basta.”
Un
colpo secco sul tavolo. Il pugno chiuso e tremante. Era bastato a chiudere lì
la conversazione.
Al
ritorno dal lavoro, quella sera, John aveva trovato la casa ancora vuota. Un
messaggio in segreteria lasciato da Amy lo avvisava che sarebbero rientrati più
tardi del previsto perché la presa in carico del suo nuovo lavoro aveva richiesto
più tempo del previsto e Rory l’avrebbe aspettata per rientrare insieme.
John
aprì il frigo, cercandovi dentro chissà cosa e richiudendolo pochi istanti dopo
senza aver preso nulla dal suo interno. Raggiunse il soggiorno, aprendo la sua
ventiquattro ore per tirarne fuori alcuni documenti. Sprofondò sul divano dando
uno sguardo distratto al progetto su cui stava lavorando già in ufficio prima
di lanciare il fascicolo sul tavolino di fronte.
L’orologio
segnava le 19:00, lo sguardo di John si fermò sul telefono mentre si portava
una mano al viso contratto in un’espressione meditativa. Lasciò scivolare la
mano fino al mento poggiando il gomito sul ginocchio. Sospirò pesantemente
mentre il pensiero che Amy a colazione forse aveva ragione gli si insinuava
nelle sinapsi.
Pochi
istanti dopo, si era allungato verso il cordless e le sue dita digitavano un
numero che mai aveva dimenticato, mai avrebbe potuto neanche volendo e, Cristo!
Quanto aveva desiderato farlo!
Oltre
il ricevitore sentì squillare a vuoto due, tre, quattro volte prima che una
voce rispondesse.
“Pronto?”
Il
suo cuore si fermò per un attimo, riprendendo poi a battere all’impazzata e
facendogli male in un modo disumano. Il torpore in cui aveva vissuto gli ultimi
due anni si stava dileguando, bruciandogli le carni dall’interno del petto ed
espandendosi disperatamente in tutto il corpo. Pensava di aver superato il
trauma. Ma in un solo attimo la fortezza di kevlar che si era creato attorno
negli ultimi due anni era caduta su se stessa come fosse stato un castello di
carte, la sicurezza che lo caratterizzava da sempre e che in questo lasso di
tempo pensava di aver potenziato esponenzialmente si era infranta come un
bicchiere di cristallo caduto al suolo.
Quella
voce allegra. Cristo quanto gli era mancata!
“Clara..?
Clara Oswald?”
La
voce incerta, nelle sue orecchie non gli sembrava nemmeno gli appartenesse.
“Si.
Sono io… Chi… parla?”
Per
un attimo ebbe la sensazione che anche la persona dall’altro lato del telefono
sembrasse incerta, un brivido gli attraversò la schiena credendo di avvertire
chissà quale recondita emozione che, ondeggiante, si insinuava tra loro. O
forse solo si illudeva di… chissà cosa!
“John…John
Smith… hemm… sono…”
Clara
lo interruppe:
“Ho
riconosciuto il numero sul display.”
Ecco
perché l’esitazione nella voce di lei che aveva avvertito all’inizio. Chissà
cosa aveva pensato vedendolo, se aveva in dubbio di rispondere oppure no. Il
cuore gli martellava nelle orecchie, pompando forse troppo sangue al cervello e
rendendogli difficile formare pensieri coerenti ed altrettanto difficili da
rendere quindi in parole.
“Eleven.”
John
tacque, col respiro mozzato al sentire quel soprannome. Era il suo soprannome, quello che Clara
usava per chiamarlo. Avvertì il sorriso di Clara in quell’unica parola anche se
non poteva realmente vederlo. Lo sentiva nella voce. E tanto bastò a far
rilassare in un sorriso anche le sue, di labbra.
Alcuni
anni prima…
Clara
Oswald si era fermata ad osservare il giardino innevato che le si mostrava
davanti, portandosi la mano sinistra al mento e poggiando il gomito dello
stesso braccio sul dorso della mano destra.
Strinse
il labbro inferiore tra i denti mentre piegava il polso sinistro in avanti e
rileggeva il foglietto che stringeva tra indice e pollice e sul quale vi erano
alcune annotazioni.
Non
vi era un cancello né reticolati a circondare la proprietà, ma la casa
indipendente che le si mostrava davanti sembrava essere proprio quella
descritta sula nota. L’indirizzo era sicuramente esatto, non poteva sbagliarsi.
Ignorando la neve ed il freddo pungente,
aveva girato un po’ per il quartiere prima di rifermarsi nuovamente davanti alla
stessa abitazione, sicura ormai che fosse quella giusta. A suggerirglielo, in
particolare, erano quelle due statue di Angeli poste l’una di fronte all’altra ai
lati del porticato in modo speculare: le ali ripiegate in posizione di riposo
dietro la schiena dritta, la testa piegata leggermente in avanti a nascondere
il viso tra le mani, quasi stessero piangendo, nascondendosi i volti l’un
l’altro.
Non
sapeva dire se quel particolare fosse semplicemente elegante e poetico o
estremamente depressivo. Si fece coraggio, però, attraversando il piccolo
viottolo, passando poi tra i due angeli col fiato sospeso e raggiungendo la
porta. Lesse il nome sulla targhetta dorata posta sul fronte porta, riguardando
nuovamente il foglietto che la sua compagna le aveva dato.
Dott. J. Smith
Si.
Era la casa giusta.
**
“Ancora
non ho capito perché siete a casa mia…si può spegnere questo stereo?”
John
era seduto sul divano, con il tavolino cosparso di appunti e diagrammi ed un
libro di Fisica.
Il
fuoco del camino si irradiava verso di lui scaldandogli dolcemente la pelle. Il
caldo lo aveva costretto a tenere addosso solo i pantaloni della tuta. Il
sottofondo musicale appena percettibile di Mozart.
“In
realtà, l’unica cosa anomala in tutto questo sei tu. E no. Il sottofondo
musicale è rilassante!”
Amy
si affacciò dalla cucina, con una fetta di pane tostato nella mano sinistra ed
un coltello sulla cui punta sembrava esserci residuo di burro e marmellata
nella mano destra.
“Perché?
Cos’ho di strano?”
Rispose
John, togliendo lo sguardo da un esercizio incentrato sui campi gravitazionali
e passandoselo addosso distrattamente.
Rory
era seduto sulla poltrona, un po’ più vicino al camino, con una coperta in pile
a coprirgli le gambe ed un libro di anatomia umana in grembo:
“John.
E’ metà Gennaio, fuori ci sono tre metri di neve e tu indossi solo i pantaloni
della tuta.”
“Bè,
è fuori che fa freddo. Dentro casa no!”
Rory
sospirò, tornando a concentrarsi sui suoi studi ed ignorando il broncio
infantile che John aveva messo sul viso in quel momento.
Erano
cresciuti insieme, loro tre. Pochi anni di differenza avevano tra loro, John
era il più grande ma avevano vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza
sempre insieme come fratelli. Anche quando tra Rory ed Amy le cose si fecero
più profonde, il loro rapporto non sembrava averne risentito anzi. Amy e Rory
erano la sua famiglia. Fu questo a spingerlo, in età adulta e pronti per il
college, ad offrirgli ospitalità a casa sua. Avevano accettato solo con l’intesa
che avrebbero diviso le spese di casa e pagato una quota mensile a solo scopo
figurativo, ma alla fine John li aveva convinti semplicemente a contribuire per
le bollette e viveri di varia natura. In pratica, condividevano tutto.
“Darò
in affitto la vostra camera se continuate a disturbare i miei studi. Mozart
potrebbe passare, ma il profumo di pane tostato e marmellata… questo è un
attentato alla mia concentrazione ed al mio impegno studentesco!”
Amy
si lasciò scappare una risata dalla cucina mentre Rory chiudeva il libro e si
alzava sospirando. Lanciò uno sguardo a John facendogli poi cenno con la testa
di andare in cucina quando i loro sguardi si incrociarono. John sorrise e si
alzò accennando un si con la testa.
“Ah.
A proposito di affitto…” Si lasciò sfuggire poi Amy. “Mi ero dimenticata di
avvertirvi… visto che c’e una camera libera… ho trovato un nuovo coinquilino.”
Mentre
Rory si sedeva al tavolo e rubava una fetta di pane tostato dal piatto di Amy,
John si fermò sulla soglia con uno sguardo confuso fisso sulla ragazza.
“Cosa?
Non abbiamo bisogno di un coinquilino.”
“Oh,
andiamo John! Le spese di casa aumentano e nessuno di noi ha un lavoro.
Approfittiamo già della tua ospitalità risparmiando sull’affitto, ma non
possiamo chiedere sempre soldi ai nostri genitori o… dipendere da te.”
Amy
era seria questa volta, con lo sguardo corrucciato mentre spalmava del burro su
una fetta un po’ troppo bruciacchiata.
“Sarebbe
un’entrata sicura che ci permetterebbe di risparmiare soldi da usare per
eventuali emergenze… so che avrei dovuto parlarne con te, ma…”
Rory
intervenne dopo aver ingoiato un boccone:
“Ho
capito cosa intendi, Amy. Ma metterci un estraneo in casa… non mi piace molto
come idea. E credo neanche a John.”
“Non è un estraneo. Frequenta i miei stessi
corsi da quando ho cominciato l’Università, procediamo di pari passo e ci
conosciamo quindi da… un anno e mezzo. Vi piacerà, fidatevi! E dovrebbe essere
qui tra…”
Il
campanello suonò, facendo voltare i tre verso l’uscio della cucina. Non
potevano di certo vedere chi fosse da quella distanza e con le pareti ed il
salotto da attraversare per raggiungere la porta. Ma il sorriso di Amy spinse
entrambi i ragazzi a sospirare.
“Puntuale!
Oswald ha spaccato il minuto, come al solito!”
Quando
John aprì la porta il suo corpo sembrò gelarsi. Non per il freddo pungente che
prepotentemente sembrava volersi spingere dentro casa e dissiparne il calore,
ma per lo sguardo profondo, sebbene incerto, della moretta che gli si era
presentata davanti. Il respiro mozzato mentre la fissava incapace di muoversi.
“Hemm…
credo… di aver sbagliato casa.”
Lo
sguardo di John ancora incatenato agli occhi sfuggenti di Clara; poteva leggere
in quelle pozze profonde di fango l’imbarazzo di… cosa? John non sembrava
capire.
“Oswald!
Vieni dentro!”
La
voce di Amy dall’interno persuase Clara ancora una volta che quella era proprio
la casa giusta, convincendola a piegare leggermente la testa di lato e la
schiena in avanti mentre con lo sguardo diretto oltre le spalle di John cercava
il volto della sua compagna.
“Amy?”
John
lasciò cadere le spalle quasi rilassate, mentre cercava di ritrovare la voce.
“Quindi…
tu sei Oswald?”
Clara
tornò con lo sguardo sul ragazzo alto di fronte a lei, notando quel ciuffo
ribelle che era ricaduto chissà quando a coprirgli l’occhio destro.
“Si.
E tu sei… nudo. Perché sei nudo?”
John
si portò inconsciamente le braccia ad incrociarsi sul petto, le mani che si
stringevano sotto le ascelle a voler quasi coprire il torace in una sorta di
velato pudore. Ma la sua espressione imbronciata ammorbidì un po’ quella tesa
di Clara mentre le rispondeva:
“Che
domande… è casa mia! E’ non sono nudo, ho i pantaloni.”
“Come
se facesse differenza. Posso tornare, se eravate impegnati in… qualcosa.” La
risposta impertinente di Clara lo lasciò in silenzio, con un’espressione quasi
sconvolta dall’insinuazione errata ed un calore improvviso che dalle guance si
espanse fino alle orecchie.
“Cos..?
No! No no no no!”
Cercò
di rispondere per dissolvere il malinteso, tirando la schiena indietro e
muovendo la mano destra in modo sconnesso e forsennato davanti al viso; cercò
qualche altra cosa da dire mentre Amy finalmente lo raggiungeva sul posto e lo
spostava bruscamente dall’ingresso. Vide la rossa tendere calorosamente una
mano sorridente alla sua compagna di corsi, ignara del fraintendimento.
“John,
fa freddo fuori, falla entrare!”
Mentre
la Amy trascinava dentro casa la nuova arrivata, John si ritrovò a chiudersi la
porta alle spalle e gli occhi puntati sulla schiena della moretta impertinente,
con il corpo intorpidito e le guance arrossate. Se fosse per colpa del freddo o
del caldo, non sapeva dirlo.
-------------------- Nota: Ecco, una AU perchè... perchè si! Mi andava, punto! Per il momento metto rating giallo, ma potrebbe variare a rosso, chi sa.
Spero che questo primo capitolo sia stato abbastanza interessante. O anche no. Ho
una linea da seguire riguardo alla storira, ma non so quanti capitoli
durerà, spero pochi, ma la porterò di sicuro a termine. Per il momento, comunque, avverto che l'unica
coppia affermata in essa è Amy/Rory, per il futuro di altre ed eventuali....
sappiate che il diavoletto che è in me non ha pace xD è un avvertimento xD
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
2
Capitolo 2
Per decidere, cominciare a sistemarsi e concludere alcune
faccende col suo vecchio alloggio Clara ci aveva impiegato una settimana e
mezza. Periodo in cui aveva avuto modo
di parlare e farsi conoscere anche da John.
In pratica - lo aveva informato – al ritorno dalle
vacanze di Natale lei e le sue due coinquiline si erano ritrovate sfrattate
dall’appartamento che condividevano, senza alcun preavviso. Non perché non
pagassero l’affitto, anzi lei era l’incaricata ai pagamenti ed era sempre puntuale
con le scadenze; ma a quanto sembrava il vecchio affittuario era morto e
l‘erede aveva deciso di impadronirsi personalmente della casa. Avrebbero potuto
sporgere denuncia e cercare di recuperare almeno la caparra… ma come potevano
delle semplici studentesse affrontare le grane che ne sarebbero seguite, le
spese legali ed allo stesso tempo studiare e trovare un nuovo appartamento?
Clara aveva arrangiato soggiornando in una pensione in
periferia, come tentativo di riprendere il controllo della situazione e
studiare un piano di riserva. Certo l’edificio in cui si era ritrovata era
fatiscente… ma in una cittadella universitaria di quei tempo era difficile
trovare un appartamento libero e le altre opzioni erano certamente più
terrificanti di un tetto umido e gocciolante.
Ogni volta che si incontravano, John le si era presentato
ben vestito e con i capelli ordinati, non seminudo o scompigliato come al loro
primo incontro. Anche in quel momento John era sicuro di apparire al meglio,
sebbene il breve sguardo di Clara fermo sul farfallino che si era messo per
l'occasione lo aveva turbato non poco. Cosa c'era che non andava stavolta? Era
il farfallino più bello che avesse nel suo cassetto dei farfallini e si
intonava con il completo fango che indossava!
Si rilassò quando lei sorrise e commentò con un semplice:
"Carino."
John le aprì la porta e la lasciò entrare in casa,
aiutandola con i bagagli e chiedendosi se la nota impertinente nella voce della
ragazza fosse reale o solo frutto della sua immaginazione. Di solito era bravo
a leggere le persone, ma con lei... dolce e impertinente al tempo stesso, non
capiva mai quando scherzava o diceva sul serio e si trovava a dover combattere
con quella strana sensazione di dejá-vù che la circondava. Una settimana non
era bastata a fargliela inquadrare e questo era... destabilizzante! Lo
scombussolava!
Mentre Amy accompagnava Clara per un tour veloce della
casa, John e Rory portarono le sue valigie nella camera che avevano deciso di
darle, tornando poi al piano inferiore.
Rory si sedette sul divano, John mise un tronchetto nel
camino per ravvivare un pò il fuoco.
"Allora John,cosa ne pensi? Alla fine Clara non é
proprio un'estranea. Amy mi aveva fatto preoccupare inutilmente..."
Rory sorrideva, mentre John lasciava vagare lo sguardo
per il soggiorno, un'espressione pensierosa sul viso.
"Quindi la conoscevi già anche tu?"
Rory corrucciò le sopracciglia, studiando John che
smuoveva la brace con l'attizzatoio facendo rinascere la fiamma.
"Un paio di volte abbiamo anche pranzato con lei
alla mensa universitaria..."
John si voltò verso di lui mostrando un’espressione quasi
offesa dicendo:
"E perché io non c'ero? Pranziamo quasi sempre
insieme e, casualmente, quando c'era lei io mancavo? Perché mancavo?"
Cos’era, avevano voluto tenergliela nascosta? Si era
sempre mostrato socievole e simpatico agli altri loro compagni di corso e con i
suoi stessi colleghi universitari che lo adoravano. Perché questo mistero
attorno a quella ragazza?
Rory sembrava spaesato,fissando l'amico con gli occhi
sbarrati e le labbra socchiuse:
"John... tu c'eri..."
"Cosa? "
"Si... avevi sempre la testa sepolta in un libro di
Tecnica delle Costruzioni o chissà quale altra materia ingegneristica che non
capisco… ma c'eri! Vi siete visti anche al pub in cui lei lavora il fine
settimana." Poi Rory si fermò un attimo a pensare prima di continuare:
"Ora che ci penso però. ..in effetti non vi abbiamo
mai presentati ufficialmente. Cavolo... ti é praticamente sempre passata di
fianco e non l'hai mai notata?"
Il silenzio scese tra loro mentre John si rendeva conto
di quanto sembrasse stupido. Trovando finalmente un senso anche a quella
sensazione di dejà-vù che avvertiva quando era con lei.
" Davvero tu non l’avevi notata? Insomma… è
carina!"
Rory sembrava scioccato. Sperava che John stesse
scherzando, ma l’espressione imbarazzata del suo viso gli chiarì che era serio
a riguardo.
John si voltò verso il camino, nascondendo il viso all'
amico e fingendo di rimettere l'attizzatoio al suo posto, sussurrando a se
stesso:
"...si... ed é impossibile!"
"Cosa hai detto?"
"Niente!"
***
La camera che le avevano preparato odorava di cuoio e
legno pregiato. Non vi erano segni distintivi che dimostrassero la sua
appartenenza a qualcuno, non sembrava nemmeno vissuta rispetto al resto della
casa. Eppure non odorava di chiuso, per nulla. Sulla mobilia in legno scuro non
vi era traccia alcuna di polvere, persino lo scaffale colmo di libri addossato
alla parete ad angolo tra il grosso armadio e la porta-finestra era lindo e
pinto. Clara vi si avvicinò passando distrattamente le dita sulle costine dei
libri, rendendosi conto finalmente che l'odore leggero di cuoio proveniva dalle
copertine di alcune edizioni limitate di opere della letteratura classica
latina. Lei, che studiava letteratura inglese, si ritrovò a chiedersi cosa ci
facessero quei tomi così rari e particolari nella casa di uno studente di
Ingegneria.
Troppo concentrata nella sua esplorazione, sobbalzò
quando sentì Amy entrare nella stanza con alcune lenzuola pulite.
"Ecco. Così cambiamo il letto e puoi cominciare a
sistemare le tue cose."
Clara le sorrise incerta, portandosi al centro della
stanza mentre la compagna adagiava le lenzuola pulite sulla sedia accanto alla
scrivania. Le lenzuola sul letto matrimoniale in realtà le sembravano già
fresche di bucato. Il materasso stesso non mostrava alcun segno di utilizzo,
rigido come se fosse stato appena comprato.
"Grazie. Amy... sicura che vada bene?" Chiese
titubante.
"Cosa?" Amy la guardò confusa mentre tirava via
il copriletto.
"Che io resti...insomma. Credevo si trattasse di
condividere un appartamento. Da quanto ho capito questa é praticamente casa
vostra."
Amy disfece completamente il letto, scostando col piede
le lenzuola con un piede in un angolo della stanza.
"É casa di John. Ma anche io e Rory paghiamo la
nostra quota per le spese di casa. Sempre meglio che stare in quella pensione
fatiscente in cui ti sei ritrovata. Quindi smettila con le tue manie di
controllo e per una volta lasciami fare. Ora zitta e aiutami."
Amy prese un lenzuolo pulito e con un rapido gesto lo
spiegò cercando di posizionarlo sul materasso. Clara non si sentiva a suo agio
con una situazione che sembrava sfuggirle di mano.
"Non sono una maniaca del controllo! É solo che
devo...adattarmi!"
La mora incrociò le braccia al petto , cercando
inutilmente di rigettare quella sensazione di disagio che non l'aveva
abbandonata da quando aveva messo piede in quella casa. Amy si lasciò scappare
una risata divertita mentre stendeva con le mani il lenzuolo per sistemarlo
adeguatamente sul materasso dal suo lato prima di alzare la schiena e dirle con
ironia:
"Quindi...ti faccio io il letto mentre ti adatti?"
Clara sospirò sciogliendo le braccia e portandosi una
mano alla testa guardando il disastro che la compagna aveva fatto con un solo
lenzuolo: il lato ruvido al rovescio,
gli angoli che non combaciavano con quelli del materasso e troppo lungo
sul lato sinistro da toccare il pavimento.
"No. Faccio io."
Amy le fece la linguaccia prima di sorridere e dirle
scherzando:
"Ecco. Maniaca del controllo!"
La rossa raccolse le lenzuola dismesse, lasciando il
copriletto su richiesta di Clara. Dopotutto era pulito ed il colore grigio
scuro non le dispiaceva.
Quando Amy fu fuori, Clara aprì l'armadio a specchio con
l'intenzione di studiare il modo migliore di sistemarvi dentro i suoi vestiti.
Dall' esterno non l'avrebbe mai detto, ma oltre la spessa struttura antica in
legno scuro sembrava esserci uno spazio immenso che probabilmente non avrebbe
colmato con tutti i suoi abiti. L'interno profumava di lavanda e muschio, le
ricordava la brughiera e le piaceva.
L’armadio era vuoto, meno per una cosa che aveva attirato
la sua curiosità e che sembrava farla da padrona in quello spazio sconfinato:
un capo d'abbigliamento maschile appeso ad una gruccia sul fondo a sinistra.
Era una giacca nera alquanto elegante ma particolare con il risvolto rosso. Per
un attimo Clara si chiese se in uno dei cassettoni avrebbe trovato un cilindro
con un coniglio. Poi allungò la mano a passarla come una carezza sul tessuto;
era morbido e piacevole al tatto. Clara si sporse leggermente in avanti ed allo
stesso tempo avvicinò un lembo ella manica al viso, annusando: il profumo che
tanto le piaceva e che le solleticava dolcemente le narici veniva proprio da
quell’abito. Sorrise, appiattendo la giacca contro il lato interno dell’armadio
attenta a non stropicciarla. Aveva deciso di lasciarla lì.
***
Le settimane erano passate velocemente e Clara si era
sistemata giusto in tempo per la fine dei corsi ed avere quindi la tranquillità
sufficiente ad affrontare gli esami della sessione invernale. L’ultima lezione di
approfondimento era finalmente finita, ma quando Amy si voltò verso Clara restò
sorpresa a vederla con la testa china e la penna che ancora sfilava sulle
pagine del quaderno. La mora sembrava essere immersa in chissà quali pensieri
che le avevano tardato la messa in ordine degli appunti.
Amy restò immobile al suo posto, lanciando uno sguardo
alla lavagna cosparsa di annotazioni Shakespeariani sconnessi che quella pazza
della Professoressa Missy vi aveva tracciato con un gessetto di colore rosso
fuoco.
La rossa si chiese per un attimo cosa fosse accaduto se
ad uno dei corsi di questa schizzata ci fosse stato un daltonico…
“Ho quasi finito… scusami.”
Amy sospirò, portando le braccia sul banco e poggiandovi
la testa sopra rispose con un semplice:
“Tranquilla. Questo era l’ultimo corso da seguire. Adoro
il fine settimana!”
Amy non le proponeva di lasciar perdere con la promessa
di passarle i suoi appunti non per cattiveria, ma solo perché sapeva che quelli
di Clara erano decisamente più completi ed approfonditi dei suoi. A volte si
chiedeva come facesse la moretta a ricordare ogni singola parola uscita dalla
bocca dei professori ed a tramutarle in adattamenti più coerenti ed ordinati.
La classe era ormai vuota quando Clara aveva finito; Amy
digitava qualcosa sul cellulare.
“E’ Rory? Dovevate incontrarvi?”
La moretta pose il suo quaderno per gli appunti nella
cartella assieme alla penna, parlando con un tono quasi di scuse per averla
fatta tardare ad un eventuale appuntamento con il fidanzato alla fine delle
lezioni.
“Si.” Rispose Amy. “ Torna tardi perché deve seguire un
seminario di approfondimento sull’infermieristica infantile.”
Si alzarono dal posto per dirigersi verso la porta ed
uscire quindi dalla classe.
“Stasera lavori?”
Clara annuì con la testa, continuando:
“Passate al locale, se Rory non è troppo stanco. E dì a
John di non mettersi quel fez in testa… è sufficiente il farfallino a farlo
sembrare strano.”
Amy scoppiò a ridere, mentre camminavano nel corridoio in
cui si attardavano solo gli ultimi studenti in viaggio verso casa.
“Per il fez posso provvedere, ma per il farfallino non
prometto niente.”
“Se riesci a convincerlo anche solo per il Fez puoi
prendere i miei appunti.”
Clara le sorrise. Amy finse un saluto militare. Entrambe
sapevano che John era imprevedibile e che la mora era troppo buona: gli appunti
glieli avrebbe passati comunque.
Quando Rory tornò a casa erano le nove di sera ed era
stanchissimo. Addosso aveva l’odore pungente di antibiotico e disinfettante, ne
era quasi nauseato. Gli avevano detto che si sarebbe abituato, ma dopo tre anni
di studio e tirocini di fine corso cominciava a dubitare che sarebbe mai
accaduto. Almeno faceva ciò che gli piaceva.
Posò la giacca sull’appendiabiti e si fece strada in
soggiorno. Amy era sul divano seduta con le gambe incrociate, un libro sulla
letteratura vittoriana in grembo ed un saggio sull’influenza della censura
letteraria sulle opere del tempo tra le mani. Un incarico apparentemente facile
che le dava una discreta libertà di stesura, ma altrettanto facilmente poteva
spingerla fuori tema.
Non si era accorta di Rory, concentrata a cancellare
forsennatamente un pezzo di tre righe che non la convinceva. Lanciò poi la
penna e parte del saggio sul tavolino di fronte a lei ed appallottolò il foglio
di carta con la correzione prima di lanciarselo alle spalle.
“Hei! Potevi uccidermi!”
Amy si voltò verso di lui poggiandosi col corpo contro lo
schienale; sporse il labbro inferiore in avanti, con le sopracciglia corrucciate.
Sembrava una bambina, ma Rory sorrise avvicinandosi e, prendendole il viso tra
le mani, le diede un bacio. Le labbra della ragazza si rilassarono
immediatamente e si dischiusero per permettere al ragazzo un accesso più
profondo. Subito dopo, le mani di Rory erano sulla sua schiena e le braccia di
Amy attorno al collo di lui a tirarlo con se sul divano. Le mani della rossa
salirono lungo la nuca dell’uomo ad intrecciare le dita tra i capelli biondi,
spingendo la testa con una certa urgenza più vicino a lei quando le labbra di
Rory le percorsero la mascella e si fermarono sul collo.
“Puzzi di ospedale…”
Rory girò la testa quel tanto che bastava per guardarle
il viso.
“Tirocinio. Vado a farmi una doccia.”
Fece per alzarsi, ma Amy lo fermò stringendo la presa su
di lui ed allargò le gambe in modo da accogliere i fianchi di Rory contro i
suoi.
“Fermo dove sei.” Le mani della rossa si spinsero lungo i
fianchi di lui tirandogli via la camicia dai pantaloni, le dita si insinuarono
sotto la stoffa sfiorandogli i fianchi e provocando un suono gutturale nella
gola dell’uomo prima di raggiungere i bottoni della camicia e aprire i primi
due.
“Amy…”
Rory provò a protestare, ma i fianchi di Amy si spinsero
maliziosamente contro di lui provocandone una reazione imbarazzante alla quale
bisognava porre rimedio il prima possibile.
“Amy… chi c’è in casa?”
Amy sorrise maliziosa:
“Clara lavora. John è in camera sua, credo dorma.”
Rory non aveva bisogno di sentire altro, prima di alzare
appena il busto e sfilarle, se non proprio strapparle di dosso, maglia e i
pantaloni. Le sfiorò i seni con le dita mentre si adagiava nuovamente tra le
sue gambe, spingendo volontariamente i fianchi contro quelli di lei e
provocandole un gemito incontrollato. C’era ancora la biancheria a tenerli
divisi.
Tra baci, carezze poco caste ed i successivi sospiri, non
si accorsero del rumore appena percettibile della porta d’ingresso che veniva
chiusa dall’esterno; ma almeno ebbero il buon senso di finire tra le lenzuola
del loro letto ciò che avevano cominciato.
***
Non c’era molto lavoro al Clever Boy quella sera, ma buona
parte dei clienti erano studenti universitari che in periodo d’esami erano
rintanati nelle loro case a studiare come matti.
Dietro al banco bar Clara stava colmando un boccale di
birra scura il cui aroma di caffè le pungeva le narici.
“Beamish… quella all’aroma di caffè. Ma se deve essere
scura, io preferisco una Chimay. Forte, ma il retrogusto di caramello la… addolcisce!”
Clara fermò il rubinetto evitando che la schiuma
fuoriuscisse dal boccale giusto in tempo, voltandosi sorpresa verso il suo
nuovo interlocutore. Non lo aveva visto arrivare, ma la sorpresa svanì dal suo
volto lasciandolo rilassare in un’espressione tranquilla.
“John!” Lei sorrise, sporgendosi vero di lui, lui si
lasciò contagiare e le baciò una guancia.
Clara consegnò il boccale al cliente al banco, tre
sgabelli più in là di John prima di tornare da lui.
“La Chimay è buona. Ma è belga. Ti facevo più il tipo da
birra Svedese.”
John fece una smorfia, raddrizzandosi sullo sgabello:
“Naaa, per favore! Sono per lo più bionde e a me
piacciono le brune. Anche le rosse, ma le brune sono più decise!”
Clara restò in silenzio pesando le parole di John prima
di poggiarsi con i gomiti sul bancone e sporgersi appena verso di lui per
sistemargli il farfallino:
“Stiamo parlando ancora di birre o di ragazze? Ci stai
provando con me per caso, dicendomi in modo velato che ti piaccio in modo
diverso da Amy?”
John si pietrificò, sentendosi infiammare le guance: un
calore improvviso che gli colorò di rosso il viso fino alla punta delle
orecchie mentre scattava sul posto e cercava di giustificarsi:
“Cos.... no… cioè… voglio dire… non intendevo… Oh!
Clara!”
La ragazza scoppiò a ridere mentre lui si sistemava
imbarazzato e confuso il colletto della giacca. L’espressione imbronciata
sebbene sapesse che Clara lo stava soltanto prendendo un po’ in giro, come al
solito.
“Va bene campione, questa birra te la offro io.” La
ragazza si diresse alla spillatrice e riempì un boccale di una qualche birra
scozzese bruna e la offrì all’uomo in segno di pace:
“Carino il farfallino. Nuovo?”
Le parole giuste al momento giusto fecero sorridere John,
trasformando la sua espressione imbronciata in quella di un bambino felice di
mostrare il suo giocattolo nuovo.
“Si! Amore a prima vista, non ho resistito!”
“Amy e Rory?” Chiese la ragazza vagando con lo sguardo ai
tavoli all’interno del locale.
“Sono a casa, erano stanchi. Io invece avevo voglia di
uscire.”
Clara lo guardò non convinta.
“Stavano pomiciando sul divano e sei scappato.”
“Esatto.”
Entrambi scoppiarono a ridere, con lo sguardo complice e
la stessa immagine sdolcinata ed a tratti anche inquietante che per un attimo
attraversò la mente di entrambi.
Nei trentacinque minuti successivi, Clara aveva avuto il
suo da fare con lo spillare le birre per i clienti nuovi e lavare boccali, così
che John ebbe tutto il tempo di ordinare patatine, finire la sua birra ed
ordinarne una seconda. Quando Clara tornò da lui il locale si era un po’
svuotato e si era meritata una pausa, accompagnando John ad un tavolo in
disparte adattato per lo staff e sedendosi con lui.
Parlarono del più e del meno, di come procedesse lo
studio, di quanto fossero difficili i calcoli strutturali per il prossimo esame
di John, della loro vita prima dell’università. La cosa che li accomunava,
però, era la più improbabile ma anche la più triste: entrambi orfani di madre.
“Quindi… tuo padre si è risposato tre anni dopo la morte
di tua madre e a diciotto anni sei andata a vivere da sola. La sua nuova moglie
non deve affatto piacerti.”
“Oh… la odiavo! Non riuscivo a capire come mio padre
potesse essersene innamorato. Era l’esatto opposto di mia madre. Lei era
meravigliosa. Dolce, premurosa, mi spingeva a conoscere il mondo ad ogni passo
insegnandomi però che ogni cosa andava affrontata con il dovuto rispetto e
precauzioni.” L’espressione di Clara mentre parlava di sua madre era di pura
adorazione. “Adesso però… Linda mi è indifferente. Quando a Natale torno a casa
non faccio più caso alle sue battutine pungenti sulla mia prolungata crisi adolescenziale oppure ai suoi commenti su quanto
sia inadeguata la mia voglia di indipendenza e quanto inutile sia studiare
letteratura perché ci sono corsi di
studio migliori e più redditizi per il futuro.”
“Ma tuo padre con lei sembra felice ed è per questo che
ingoi il rospo e vai avanti evitando gli scontri. Nel frattempo stai esplorando
il mondo; non come vorresti, ma come tua madre ti ha insegnato. La tua
impertinenza è solo una forma di autodifesa.”
Le parole di John la colpirono, costringendola a stare
zitta e sospirare. Infine iniziavano a capirsi.
Le labbra di Clara si piegarono in un leggero sorriso
mentre il suo sguardo era malinconico.
Incrociò le braccia sul bancone e vi poggiò sopra la
testa, guardando distrattamente la schiuma densa sulla parte alta della sua
bionda irlandese.
“Tu invece… come mai vivi da solo?”
“Ci sono Amy e Rory con me. Ora anche tu.”
Rispose John evitando il suo sguardo ed immergendo le labbra
nel secondo boccale ormai mezzo vuoto.
“Sai cosa intendo. Ma se non vuoi parlarne…” Rispose
semplicemente Clara.
John fissò lo sguardo su di lei, poggiando il boccale sul
tavolo. Sospirò e si passò la mano sul volto, tirando indietro il ciuffo che
gli copriva metà fronte.
“Ecco… quando mia madre morì avevo dodici anni. Non è
stato facile affrontare la cosa per me, tantomeno per mio padre. Non mi faceva
mancare nulla, si è sempre occupato dei miei bisogni ed era presente nei
momenti critici, mi ha cresciuto
praticamente da solo. Ma col passare del tempo restava sempre più spesso al
lavoro e trascurava tutto il resto. Un giorno, avevo quindici anni, decise che
dovevamo trasferirci, che la casa in cui vivevamo per lui era un tormento.
Avrei potuto ribellarmi, ma lo capivo. In quella casa c’era ancora il profumo
di mia madre, la sua presenza, la sua voce ed il suo viso. Mio padre doveva
averla amata tantissimo per non riuscire a superare il trauma della sua morte.”
John si prese una pausa, portando la mano destra al mento, il gomito puntellato
sul tavolo, poggiandovi sopra il peso
della testa. Clara gli prese l’altra mano stringendola appena tra le sue in un
tentativo di confortarlo. Gli diede il coraggio di andare avanti.
“Trovammo questa nuova casa, in una nuova città, in una
posizione strategica che mi permettesse di raggiungere facilmente la scuola.
Mio padre pensò anche al mio futuro universitario. Le cose però per lui non
cambiarono. A volte avrei voluto che la sua vita prendesse una svolta, che
incontrasse una donna che avrebbe potuto renderlo un po’ meno triste. Non è mai
successo. Cioè… una svolta nella nostra vita c’è stata; ma non come avrei
voluto per lui, comunque. Decise di partire come ufficiale medico per non
ricordo quale territorio di guerra. Lo sento di tanto in tanto ma… non torna
mai a casa. Sono anni che ci incontriamo di sfuggita prima che riparta per
chissà dove.”
Clara poggio la testa contro la spalla di John,
stringendogli il braccio tra le sue.
“Certo che siamo un disastro, io e te.”
John sorrise, poggiando la guancia contro la sua tempia.
“Naaa. Siamo dei bravi ragazzi. Non facciamo male a
nessuno, non ci droghiamo, non ci ubriachiamo…”
Clara si staccò appena per guardarlo e rispondere
ironicamente.
“Sull’ultima questione permettimi di dissentire.” Ed
indicò i due boccali di birra davanti a lui “Inoltre… io sono praticamente scappata di casa...”
John sorrise, scuotendo la testa.
“Non sei scappata. Sei diventata indipendente. È
diverso.” Clara non rispose. Il suo silenzio improvviso sorprese John, ma la
sua espressione rilassata gli faceva capire che in qualche modo lo ringraziava.
“A che ora stacchi?” Alla fine le chiese.
Clara sospirò, portandosi la mano al viso e poggiando il
gomito sul tavolo.
“Giorno di paga. Aspetto la chiusura.” Sospirò, scostando
la sedia e facendo per alzarsi: “E devo tornare al banco bar.”
“Allora aspetto con te e rientriamo insieme.” Rispose
John, scostando anche lui la sedia e facendo cenno di alzarsi con lei in un
gesto galante.
“Non è necessario. Ti annoierai se non ti addormenti
prima sul tavolo: si farà tardi!”
“A maggior ragione, insisto.”
Clara sospirò, ma si arrese. Amava la sua indipendenza,
ma tornare a casa da soli a notte inoltrata un po’ meno e la compagnia di John
non le dispiaceva.
“Perfetto. Avremo modo di parlare dell’affitto durante il
rientro, allora.”
John la guardò confuso. Aveva pattuito con lei che
avrebbero diviso le spese di casa come già faceva con Rory ed Amy, ma la
ragazza a quanto pare non ne era ancora del tutto convinta. Diceva che si
sarebbe sentita un ‘ospite’ e non una coinquilina e non le piaceva approfittare
della situazione.
“Clara…” John sospirò.
“John…”
Quella ragazza era impossibile!
“Devi sempre avere l’ultima parola, vero?”
Clara si strinse nelle spalle mostrando un sorriso
innocente. John scosse la testa lasciando cadere le spalle:
“Undici”
“Cosa?”
“Undici”
Clara lo osservò disorientata prima di continuare:
“Si. Ho capito… ma undici
cosa?”
“Sterline. Non voglio l’affitto, dividiamo le spese e mi
basta. Se però proprio insisti a volermi pagare questo benedetto mensile,
allora facciamo così: undici sterline l’undici di ogni mese. Per restare in
tema, alle undici precise! Se tardi o anticipi non prendo nulla!”
Clara pesò le parole di John, mutando la sua espressione
da turbata a sollevata dedicandogli un sorriso sereno. John era incontrollabile
quasi il più delle occasioni, ma stavolta lei sembrava averla avuta vinta.
“ Va bene. Undici sterline l’undici di ogni mese. Alle
undici del mattino o di sera?”
“E’ indifferente. Sei tu il capo!”
Da quel particolare della loro vita Clara aveva coniato
il soprannome giusto per John. L’undici di ogni mese, alle ore undici
(indipendentemente dal fatto che fosse giorno o sera e sempre in base agli impegni
della giornata) consegnava a John una
busta con dentro le sterline pattuite ed un bigliettino con su scritto ‘Eleven’.
A volte Clara semplicemente gli saltava alle spalle
abbracciandolo e dandogli un bacio sulla guancia mentre ripeteva allegra quella
parola. Entrambi erano tranquilli e contenti della complicità che un’unica
parola gli aveva fatto conquistare. E non poco contribuiva anche il fatto che,
con quelle undici sterline, John riusciva sempre a trovare un regalo adatto da
portarle il giorno dopo. Il primo, indimenticabile regalo, fu una targhetta da
affiggere alla porta della camera di Clara che riportava la scritta: Ragazza
Impossibile.
Clara pensava di avere il controllo, ma forse era
l’imprevedibile John ad averlo.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
cap.3
Capitolo 3
Il
Dottor Smith era un uomo di poche parole, lo sapevano bene i vicini. Ma quando
lo vedevano tornare a casa, evento più unico che raro, non potevano fare a meno
di andargli incontro con un sorriso di circostanza e fargli le solite frivole domande
di routine:
‘Come sta?’ oppure ‘Quanto resta questa volta?’ e peggio ancora il blando tentativo del
signor Donovan di ironizzare con un ‘Ha
più capelli grigi dell’ultima volta, si deve fermare!’
Il
Dottore mostrava la sua espressione fredda, non nascondendo affatto le sue
origini scozzesi marcando il suo accento mentre rispondeva con un neutro: ‘Sono stanco per il viaggio’ oppure un
misero: ‘Il bagaglio pesa.’ o ancora
il più brusco ‘Vado di fretta!’ E si
dileguava.
Aveva
ancora indosso la mimetica, quindi era riconoscibilissimo; eppure quel giorno,
nessuno gli era andato incontro nel tentativo di impicciarsi dei fatti suoi e
di questo era grato chissà quale forza misteriosa; o semplicemente erano tutti
in vacanza da qualche parte. Dopotutto Agosto lasciava poche persone a
sciogliersi in città piuttosto che in qualche luogo di villeggiatura marinara o
tra le Highlands scozzesi o ancora dove
cavolo gli pareva.
Aprì
la porta di casa con calma, trascinandosi dentro assieme al borsone militare
prima di abbandonarlo pesantemente poco più in là dell’ingresso. Si chiuse la
porta alle spalle e si trascinò fino al divano in soggiorno, rilassando la
schiena contro lo schienale e chiuse gli occhi, sospirando profondamente.
“John!”
La
sua voce rauca riecheggiò tra le pareti, ma nessuno sembrò rispondergli.
“Johnny!”
Chiamò
di nuovo, con meno calma ed un tono di voce più alto.
Ancora
nessuna risposta.
Il
Dottore si alzò, girovagando un po’ per la casa prima di rendersi conto che
John non c’era. Si trascinò nuovamente in soggiorno, alzando il telefono per
comporre un numero.
Attese
quattro, forse cinque squilli prima che dall’altro lato qualcuno rispondesse
con un allegro:
“Clara!
Sei già tornata?”
Il
Dottore corrucciò le sopracciglia allontanando per un secondo il telefono
dall’orecchio e dandogli uno sguardo torvo prima di riavvicinarlo al volto e
rispondere con un brusco.
“Ho
sbagliato numero. Scusi.”. Riagganciò
subito dopo.
Abbassò
il cordless tenendolo fermo però nel palmo della mano mentre guardava confuso
il display che in quel momento gli mostrava semplicemente il segnale orario e
la data. Mosse il pollice cercando l’ultima chiamata in uscita e rilesse il
numero che aveva digitato.
Si.
Era il numero di cellulare di John. A meno che non lo avesse cambiato con uno
nuovo e la compagnia telefonica avesse riassegnato il vecchio a qualcun altro,
lo facevano. Ma possibile che suo figlio non lo avesse avvertito? Inoltre,
anche la voce che aveva udito era la sua. Non vi era dubbio. Non poteva
confondere la voce di suo figlio con quella di un estraneo.
Mentre
il Dottore si perdeva nelle sue confusioni mentali, il telefono cominciò a
squillare. Sul display illuminato si leggeva lo stesso numero che aveva
chiamato lui in precedenza.
Rispose.
“Pronto?”
“Papà?
Sei a casa?”
Si,
era John. La voce suonava sorpresa, poteva intravedere anche oltre il telefono
il viso sbalordito di suo figlio. Il Dottor Smith sospirò, piegando lievemente
le labbra in un sorriso sprofondando nuovamente sul divano.
“Si.
Dove sei?”
Dall’altro
lato silenzio. Stava per parlare quando finalmente John rispose:
“Ecco…
Cardiff. Con Amy e Rory per il fine settimana. Dammi un paio di ore per tornare
e…”
“No.”
L’uomo lo interruppe.
“Resta
lì. Ci vediamo tra qualche giorno. Resto fino a metà Settembre. Salutami i
ragazzi.”
Ancora
silenzio. Ma nel successivo indistinguibile impeto vocale di John poteva capire
che suo figlio era contento. Il giovane sarebbe tornato a casa il giorno dopo
col primo treno del mattino.
Il
giorno del suo arrivo a casa il Dottor Smith non ci aveva fatto caso, forse per
la stanchezza, forse perché era semplicemente distratto… ma la sua camera da
letto aveva qualcosa di diverso, a cominciare dai testi universitari di
letteratura impilati ordinatamente sulla scrivania, accostati alla parete per
continuare con alcuni indumenti femminili invernali che riempivano per metà il
suo armadio.
Si
grattò la testa distrattamente, ricordando poi che Amy e Rory vivevano lì,
occupando la camera degli ospiti. Probabilmente quelli appartenevano alla
ragazza. Era incredibile quanto spazio richiedessero i vestiti delle donne! Ne
spostò alcuni distrattamente, chiedendosi come avrebbe potuto sistemare la sua
mimetica ormai lavata ed asciugata ed alcuni dei suoi vestiti all’interno di
esso senza rischiare di sgualcire quelli ‘presunti’ di Amy evitando di
incorrere nella sua ira. Si ritrovò però con lo sguardo sorpreso e fisso sulla
giacca nera col risvolto rosso, sul fondo. Aveva dimenticato ci fosse ancora.
Era
la sua vecchia giacca, quella che indossava quotidianamente quando si recava al
lavoro in ospedale. Diceva che era un modo per esorcizzare la tensione e l’aria
pesante del posto, più che altro era una giustificazione al suo alquanto
discutibile gusto nel vestirsi. La prese e la indossò sulla camicia bianca ed
il gilet che già aveva messo su.
Chiuse
l’armadio e lasciò la stanza, ma l’odore di gelsomino che inondava le lenzuola
del letto in cui aveva dormito sembrò non voler sparire dalle sue narici.
John
e suo padre si erano dati appuntamento in un ristorante italiano in centro. Era
caro, ma gli Smith potevano permetterselo.
John
in realtà avrebbe voluto lavorare per mantenersi gli studi, ma suo padre gli
aveva sempre risposto che i guadagni delle missioni gli permettevano di
provvedere a lui ed alle sue esigenze. Su questo il Dottor Smith non prevedeva
alcuna contrattazione. John doveva studiare e pensare al suo futuro, punto.
Quando
John raggiunse il Mancini’s Restaurant, trovò suo padre già seduto al tavolo
con una bottiglia di acqua già vuota a metà ed una fetta di pane sminuzzato tra
le mani, presa dal cestino al centro.
“Scusami,
ho perso la coincidenza alla stazione.”
Il
Dottor Smith si alzò, sorridendo a suo figlio.
“Tranquillo.
Sono appena arrivato anch’io.”
Forse
mentiva, forse diceva la verità. A John non importava. Sentì solo l’impulso
irrefrenabile di abbracciarlo e dargli il bentornato. Gli era mancato
incredibilmente ed averlo lì con lui sembrava un sogno.
La
stretta di John era salda, ma non pressante. Eppure non riusciva ad allontanarsi
da lui; quella del Dottore, invece, era incerta, impacciata e timida.
“Papà…
non ci sai più fare con gli abbracci.”
Risero
entrambi. John per l’emozione, suo padre per il nervosismo.
“Hai
ragione Junior… ormai non credo più di essere una persona da abbracci.”
La
nota triste nella voce del Dottore non era sfuggita a John. Ma entrambi ne
capirono il motivo. Un po’ la mancanza di sua moglie, un po’ le esperienze di
guerra. Il Dottor John Smith era cambiato e non poco.
“Non
chiamarmi Junior, non sono più un bambino.”
John
si allontanò, portando le mani sulle spalle di suo padre. Entrambi avevano gli
occhi lucidi ma privi di lacrime. Gli uomini Smith non piangono mai, non se lo
permettono.
“Sediamoci
Junior, ed ordiniamo. Ho fame di cibo vero!”
Ordinarono
lasagne e arista di vitello con contorno di patate al forno, accompagnato da
vino rosso della casa. Mangiarono parlando del più e del meno, soprattutto del
progredire degli studi di John: a Dicembre avrebbe finalmente finito il suo
lungo percorso. Sei anni, compreso il dottorato.
John
parlò di tutto con tranquillità, senza staccare lo sguardo dal viso di suo
padre. Gli anni lo avevano segnato, le rughe sul volto scavate gli davano
un’età quasi maggiore di quanto in realtà avesse. Gli occhi tristi sormontati da
un paio di aggressive sopracciglia da guerra ed i capelli ormai quasi
completamente grigi gli davano quasi un’aria austera, capace di creare
soggezione negli estranei, ma John sapeva che quella era solo apparenza.
Il
giovane non gli chiedeva mai com’era essere un medico di guerra; non per
disinteresse, ma conosceva abbastanza suo padre per capire cosa gli facesse
male e cosa no. Se voleva parlarne, lo avrebbe fatto lui.
“Quindi…
Clara. E’ la tua fidanzata?”
Il
Dottor Smith sorrise, girando un pezzo di carne con la forchetta senza però
infilzarlo.
John
tossì, cercando di evitare di soffocare con il boccone che quasi gli stava
andando di traverso.
“No!”
Disse subito dopo aver ripreso aria, tossendo un’ultima volta più per
nervosismo che per istinto di sopravvivenza.
“Oh,
andiamo John! Il modo in cui sorridi quando parli di lei! Ti piace!”
John
abbassò gli occhi verso il piatto, corrucciando le sopracciglia e mostrando
un’espressione tanto seria ed intensa da bruciare il tavolo sotto il suo sguardo:
“E’
la mia migliore amica.”
Il
dottor Smith rimase ad osservare suo figlio giocherellare con un lembo del
tovagliolo spiegato sul tavolo accanto al piatto, studiandone l’espressione
prima di infilzare un pezzo di carne e portarselo alle labbra. Ingoiò e portò
alle labbra il bicchiere di vino per berne un sorso.
“Rose…
non l’hai ancora superata. Sono passati anni, John.”
“Non
è questo. Ci siamo feriti a vicenda, ma ormai non provo più nulla per lei.
Solo… non ci riesco. A fidarmi ancora, a lasciarmi andare del tutto. Non sono
capace.”
“Sei
ancora giovane. Avrai altre occasioni per non diventare come me.”
John
tornò a guardare suo padre, gli occhi tristi di quando si perdeva nel ricordo
di River. Erano uguali loro due, con la differenza che John era più a suo agio
con il contatto fisico, forse anche troppo. Ma i loro cuori si capivano come se
fossero collegati. Forse lo erano.
“Sono
contento che resti, papà.”
Il
Dottore ingoiò un’altro boccone, facilitandone la discesa nella gola con un ennesimo
sorso di vino prima di rispondere:
“Una
pausa in attesa della prossima assegnazione. Forse mi mandano in Tunisia. Solo
qualche mese, poi un’altra pausa e di nuovo Afghanistan.”
John
sospirò, posando la forchetta nel piatto.
“Mi
accontento… anche se vorrei di più. Prima o poi dovrai fermarti. Mi manchi.”
“Anche
tu John. Ma… non riesco… a stare fermo in un posto. Dovresti saperlo.”
John
annuì, spostando lo sguardo dal volto del padre e versandosi del vino senza
parlare.
Si.
Loro due erano uguali, non avevano bisogno di parole per capirsi o per dirsi
quanto si amavano, cosa provavano.
Finirono
il pranzo in silenzio, ma senza alcuna tensione. Poi il Dottor Smith pagò il
conto e si diressero verso casa.
**
Mancava
ancora una settimana all’inizio dei corsi, ma Clara aveva deciso di tornare
prima. Adorava passare l’estate a Blackpool, con suo padre e sua nonna nella
sua vecchia casa. Ma quella volta Linda aveva superato il limite, continuando a
discutere delle sue scelte di vita disdicevoli e dandole della irresponsabile per aver infastidito i suoi
amici imponendo la sua presenza in una casa che non le apparteneva.
Ma
cosa ne sapeva Linda della sua vita? Delle difficoltà che affrontava ogni
giorno tra lavoro e studio, di quanto fosse difficile a volte arrivare a fine
mese perché la vita era cara ed il suo stipendio da barista misero?
Non
che suo padre non la aiutasse, anzi… ma Clara voleva essere indipendente!
Non
poteva vivere negli appartamenti del campus perché vi erano regole rigide da
rispettare, compresi gli orari di rientro serali che non combaciavano con
quelli lavorativi; tanto più che per il fine settimana si sarebbe praticamente
ritrovata sola in un campus vuoto, isolata dal mondo. Non una bella
prospettiva.
John,
Amy e Rory erano stati la sua scialuppa di salvataggio. Sapeva che non era
giusto ‘approfittare’, ma John le
aveva chiesto rigorosamente di tornare a settembre e lei… non aveva potuto
dirgli di no. Dopotutto le mancava un anno per la laurea, non aveva intenzione
di proseguire per un dottorato per cui… un solo anno e poi avrebbe trovato un
lavoro, cambiato vita, probabilmente anche cambiato città, libera ed indipendente
per davvero! E non avrebbe gravato sulle spalle dei suoi amici.
Era
mattino presto quando Clara aprì la porta di casa con la copia che John le
aveva dato; da essa pendeva il portachiavi a forma di cabina della polizia che
lui stesso le aveva regalato. Sorrise, con la parola ‘Eleven’ che le si formava
in mente.
Si
chiuse la porta alle spalle, spostando la valigia di lato accanto
all’appendiabiti, sfilandosi la giacca per riporvela su; poi chiamò il nome del
ragazzo ad alta voce.
Nessuna
risposta.
“John!”
Alzò
la voce, ma niente. Probabilmente dormiva ancora. Bene, lo avrebbe svegliato
tirandolo giù dal letto!
Si
precipitò verso le scale, fermandosi quando sentì la porta della cucina
aprirsi.
Si
voltò sorridendo con una mezza giravolta, facendo svolazzare i capelli e le
pieghe della gonna che si gonfiarono scoprendo appena un po’ di più le gambe.
Poi si bloccò: l’uomo che si trovò di fronte, con una tazza fumante tra le
mani, i capelli brizzolati scomposti e la camicia bianca aperta a metà e
sfilata dai pantaloni non era John, almeno non il John Smith che conosceva.
Restarono
a guardarsi immobili per un tempo indeterminato. Pochi attimi, minuti. Il volto
dell’uomo era marmoreo, non traspirava alcuna emozione mentre Clara al
contrario… il cuore impazzito per la paura di aver sbagliato casa misto
all’imbarazzo di una circostanza che le sembrava inappropriata, incapace di
articolare una sola sillaba ed il fastidio di vedersi scivolare dalle dita il controllo
della situazione.
“Clara?!”
Si
voltò nuovamente, con lo sguardo rivolto alla cima delle scale e John che ne
scendeva lentamente, con solo indosso i pantaloncini del pigiama, i capelli
arruffati e la faccia di chi si è appena svegliato.
Di male in peggio!
Ma cos’hanno gli abitanti di questa casa contro la compostezza?
“John!”
Quando
voltò lo sguardo in direzione dell’uomo brizzolato, ormai di lui non c’era più
alcuna traccia, solo la porta della cucina che ormai si chiudeva con un leggero
rumore.
John
portò Clara in giardino, un po’ per svegliarsi meglio lui stesso con l’aria
dolce ed il sole ancora caldo di Settembre a carezzargli la pelle ed un po’ per
far riprendere Clara che sembrava alquanto spaesata.
“Quindi…
quello è tuo padre?”
John
annuì, sorridendo. Clara si lasciò contagiare sorridendo di rimando,
constatando che l’espressione serena del ragazzo era impagabile in quel
momento. Probabilmente non lo aveva mai visto così se non in rari casi.
“Non
ti dispiace stare nella camera di Amy e Rory per i prossimi giorni,vero?”
Si
fermarono nei pressi di un’aiuola posta ai margini del giardino. La staccionata
in legno separava la proprietà degli Smith da quella dei Donovan.
Clara
sospirò incrociando le braccia al petto:
“Certo
che no, John. Ma… forse dovrei cercare un’altra sistemazione. Sai, ci pensavo
durante le vacanze e questa sembra l’occasione giusta per..”
“No!”
La
voce di John sembrò allarmata ed una tonalità più acuta del solito, tanto da
lasciare Clara sorpresa ed impossibilitata a controbattere. Il ragazzo le portò
le mani alle spalle, lasciandole salire poi a circondarle il viso in un tocco
delicato. Abbassò leggermente la schiena continuando:
“Abbiamo
fatto questo discorso milioni di volte e non voglio più rifarlo. Tu resti.
Intesi?”
“Non
è che mi fai restare perché hai intenzione di sedurmi, vero?”
John
si ritrasse come se fosse stato scottato, mostrando la solita espressione
sgomenta ed imbarazzata che tanto divertiva Clara.
“Tranquillo,
scherzavo! Inoltre, so che se anche fosse vero, preferiresti morire piuttosto
che ammetterlo.”
Gli
fece l’occhiolino, sorridendo alla mascella di John che si contrasse in una
morsa serrata.
Clara
allargò le braccia, chiedendo tacitamente un abbraccio in segno di pace al
quale John non potette sottrarsi. Non ci riusciva. La strinse tra le braccia,
posandole un bacio tra i capelli.
Clara
respirò il suo profumo, avvertendo il piacevole calore della pelle di lui quando poggiò il viso contro il suo petto. Poteva
sentire il battito tranquillo del suo cuore, la morbidezza tonica della pelle
di lui a contatto con il suo viso. Inconsciamente strinse l’abbraccio in un
blando tentativo di avvicinare ancora di più il suo corpo a quello di lui, ma
quasi istantaneamente John sciolse la sua presa su di lei, portando nuovamente
le mani sulle sue spalle ad allontanarla dolcemente.
Clara
si sentì stordita, con un improvviso brivido di freddo che attraversò la breve
distanza tra loro e che le si insinuò sotto i vestiti, penetrandole nella pelle.
John invece sorrideva sereno.
Fu
quello il momento in cui videro il Dottor Smith camminare sul selciato con
l’evidente intenzione di raggiungerli. Clara restò in silenzio, osservando il
modo lento ma elegante di camminare dell’uomo. Aveva i capelli ordinati, le
mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni neri, sopra indossava una camicia
bianca con un gilet che si intravedeva sotto quella ormai familiare giacca dal
risvolto rosso. Clara aprì leggermente le labbra smorzando un respiro quando
realizzò che era la stessa giacca che per mesi aveva stipato tra i suoi
vestiti. Capì da chi John aveva ereditato il gusto alquanto particolare per l’
abbigliamento.
“Così…
tu sei Clara.”
L’uomo
si fermò a pochi passi di distanza dai due, porgendo la mano verso la ragazza:
“Dottor
John Smith.”
“…
Clara Oswald.”
Clara
portò istintivamente la mano a stringere quella del Dottore con una presa salda
ma educata. La presa del Dottore invece era delicata, quasi incorporea, ma
calda. Si, la sua mano era piacevolmente calda e morbida.
Ancora
confusa dalla situazione e dalla presentazione, Clara lanciò un’occhiata
perplessa al John più giovane. Lui sembrò cogliere il significato di quello
sguardo rispondendo con una scrollata di spalle ed un semplice:
“Mia
madre ha voluto darmi il suo nome.”
In
altre occasioni Clara avrebbe pensato ad una sorta di egomania, ma conoscendo
la storia di John pensò invece che fosse una cosa dolce. I suoi genitori
dovevano essersi amati molto, ma soprattutto sua madre, per decidere di
chiamare loro figlio con lo stesso nome del marito, doveva esserne stata davvero
molto, molto innamorata. Sorrise.
Fu
il Dottore il primo a sciogliere il contatto delle loro mani, continuando con:
“Se
la cosa ti crea confusione, però, non chiamarmi Mr. Smith, non vado molto d’accordo
con il ‘signore’. Puoi chiamarmi Dottore.”
“Finchè
non lo divento io.” Ammiccò John. Chiaro riferimento al titolo che avrebbe
acquistato dopo la sua laurea.
“Oppure
può chiamare te Junior.”
John
mostrò un’espressione di sdegno, arricciando le labbra in un broncio mentre
rispondeva:
“Non
ci provare! Clara, te lo proibisco!”
Clara
annuì, alternando lo sguardo sui due uomini:
“
Dottore sta bene. Sempre meglio di Mr.Smith.” Poi si rivolse a John con tono
innocente: “ Ma l’occasione mi autorizza anche a chiamarti Eleven più spesso.”
John
arrossì, ma sorrise. Suo padre guardò entrambi con espressione incuriosita
mentre ripeteva mentalmente la parola, ma non chiese nulla a riguardo.
“Quindi…
lei è nell’esercito? E’ un Ufficiale?”
Il
Dottore si irrigidì, stringendo i pugni nascosti nelle tasche. La sua
espressione si indurì, lo sguardo di ghiaccio.
John
smorzò la tensione intromettendosi nella conversazione:
“No
no. Mi sono spiegato male! Mio padre è un Ufficiale Medico, ma non un soldato
vero e proprio. Non quel tipo, almeno.”
Lanciò
uno sguardo a suo padre chiedendogli tacitamente una spiegazione. Clara
mostrava un’espressione confusa mentre cercava di capire l’idea del ‘soldato non soldato’ che John le aveva
posto innanzi. Non aveva familiarità con le questioni militari, ma non poteva
di certo esistere un modo diverso di intendere la parola Ufficiale, medico o non medico che fosse.
Il
Dottore rimase immobile, con lo sguardo privo di emozioni fisso su Clara; la
ragazza si sentiva come gelata, attraversata da cristalli di ghiaccio in tutto
il corpo, una sensazione intensa che le fermò il respiro. Quell’uomo era in
grado di mettere in soggezione con una facilità incredibile, non poteva non
essere un soldato.
“Ho
seguito un addestramento militare.” La voce profonda del Dottore la scosse,
dandole un po’ di calore grazie al fatto che non sembrava trasparire disagio o
rabbia, ma il tono usato dall’uomo era tranquillo. “Alla fine mi hanno dato un
titolo solo per giustificare la mia presenza tra le linee. Sul campo hanno
bisogno di bravi medici, ma hanno anche bisogno di uomini che riescano a
sopportare le varie situazioni in cui si può incappare. E che siano anche in
grado di difendersi se occorre.”
Clara
annuì, rispondendo con un semplice: “Capito.”
Ma
un lieve tremore delle sue labbra la tradiva. Un solo secondo in cui le sue
labbra si piegarono in un’espressione di dubbio che forse John non colse. Ma
suo padre si.
L’uomo
sospirò, portando lo sguardo in un punto indefinito del giardino mentre
riprendeva la parola:
“Quando
ho fatto richiesta per partire come medico di guerra ero troppo vecchio per
arruolarmi, avevo un’unica scelta: volontario. Non era quello che volevo. Ma tramite amicizie influenti ed
un’esperienza giovanile prima dell’università mi hanno aiutato a saltare alcuni
ostacoli. Inoltre, avevo dimostrato di essere un ottimo medico, avevano bisogno
di persone come me. Quando vogliono, possono chiudere un occhio sulle questioni burocratiche. Ho seguito un
addestramento di un anno, periodo in cui ho dovuto rispolverare le mie
conoscenze giovanili sulle milizie ed aggiungere quelle nuove. Ho imparato ad
usare fucili, granate, varie armi; ho imparato l’autodifesa e tutto ciò che mi
sarebbe occorso. Con me c’erano altri medici che seguivano lo stesso percorso,
più giovani; erano dei ragazzini… eravamo partiti in sette. Alla fine dell’addestramento,
dopo la ‘prova finale’ eravamo rimasti
in tre.” La voce del Dottore si smorzò, i suoi occhi sembrarono scurirsi per
una qualche emozione che Clara non era in grado di definire, ma che le fece
sobbalzare il cuore nel petto ed amplificare il senso di colpa che cominciava
ad avvertire. Si rese conto che aveva riportato alla mente dell’uomo qualche
ricordo spiacevole.
“Mi
dispiace… non volevo…”
La
voce di Clara tremava, John le strinse la mano tra le sue.
Il
Dottore spostò lo sguardo sorpreso sul volto della ragazza tornando al presente,
chiedendosi come mai si fosse lasciato andare in quel discorso. Non amava
ricordare o parlare delle esperienze sul campo, eppure lo aveva fatto almeno in
parte. Si schiarì la gola, smuovendo le spalle come per scrollarsi quella
sensazione di pesantezza di dosso.
“Forse
è il caso di rientrare. Abbiamo molte cose da fare oggi, in primis aiutare
Clara a sistemarsi. E John…” L’uomo sospirò: “Va a vestirti!Non sei in piscina
o al mare!”
John
lasciò la mano di Clara, sospirando:
“Agli
ordini… una piscina però potremo anche scavarla in giardino. Pensaci papà!”
Il
ragazzo sorrise, lasciando un bacio sulla tempia di Clara e sussurrandole un
caloroso:
“Bentornata!”
Prima di allontanarsi verso casa a passo svelto.
Clara
lo osservò allontanarsi, sorridendo:
“Suo
figlio è un ragazzo d’oro. E’ stato gentile con me in un periodo non proprio
roseo, gli devo molto.”
Il
Dottore sorrise, come segno che apprezzava quel complimento. Fu la prima
emozione positiva e sincera che Clara vide sul volto dell’uomo. Continuò ad
osservarlo sporgersi verso l’aiuola, strappando una foglia secca da un arbusto;
la rigirò tra le dita tenendola per il picciolo mentre rispondeva:
“E’
un po’ troppo espansivo però. Questo lo porta molto spesso ad essere
frainteso.”
Clara
corrucciò le sopracciglia, avvertendo o immaginando una nota di rimprovero
nelle parole dell’uomo.
“Se
si riferisce al’abbraccio di prima, stia tranquillo. Non ho intenzione di
fraintendere nulla né approfittare della situazione.”
La
voce ironica nascondeva una velata nota di prepotenza, chiaro segno che Clara
era infastidita dall’insinuazione. Il Dottore portò lo sguardo sorpreso sulla
ragazza ritrovandosi con le labbra dischiuse in un’espressione confusa mentre smetteva di giocherellare con la foglia secca. Mosse le
labbra come se volesse parlare, prima di chiuderle e spostare lo sguardo. Abbassò
il braccio voltandosi completamente verso la ragazza trovando finalmente il
coraggio di continuare:
“E’ una cosa che ha ereditato da me. Essere
frainteso.” Il Dottore lasciò cadere la foglia schiarendosi la gola prima di
riprendere parola: “Deve essere il mio accento scozzese.”
Clara
arricciò le labbra in un’espressione incerta rispondendo:
“Voleva
essere una battuta?”
“Bè…
credo di non esserci riuscito…”
Un
lieve colorito roseo si sparse sulle guance dell’uomo, ma tanto bastò a far
rilassare il volto di Clara in un sorriso divertito mentre rispondeva:
“Decisamente
no. Ma posso constatare che John non ha ereditato solo questo da lei. Siete più
simili di quanto sembra.”
Clara
si lasciò scappare una leggera risata che cercò di nascondere girando il viso
di lato. Tornò a guardare il Dottore per un attimo facendogli un cenno col capo
per congedarsi, prima di girarsi e dirigersi dentro casa. Il Dottore rimase in
giardino, lo sguardo fisso sulla schiena della ragazza ed un’espressione
indecifrabile sul viso.
Quando
Clara fu dentro, il Dottore si abbassò a raccogliere la foglia che aveva
lasciato cadere in precedenza. La tenne tra le dita, portandola con se mentre
rientrava anche lui.
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Note:
Scrivere
questo capitolo non è stato facile. Non perché non avessi ispirazione, ma perché
la linea che avevo deciso di seguire sta mutando e prendendo vita propria… in
pratica non sono più io a decidere per i personaggi ma sono loro stessi a
decidere di fare quel che cavolo gli pare xD la bozza e l’idea originale di
questo capitolo era infatti totalmente diversa da quella che avete appena
letto. Il risultato… non so come sia, lo ammetto, spero però sia piacevole da
leggere.
Per
quanto riguarda la confusione dei nomi, John (Eleven) resterà John ed il
Dottore (Twelve) resterà il Dottore. Più avanti nella storia spiegherò meglio
il perché di questa scelta.
Sulla
questione militare invece, qualsiasi cosa abbia scritto o scriverò in futuro
proviene da esperienza di vita reale. Ho un conoscente che ha fatto la stessa
scelta ivi descritta da Twelve, per motivi però completamente diversi, ed inserirò
quindi dalla sua esperienza a riguardo stralci di vita. Credo già nel prossimo
capitolo inserirò una parte riguardante la
prova finale dell’addestramento militare del Dottore, e sarà effettivamente
un pezzo di realtà. Spero continuiate a seguire la storia, io continuerò
comunque a scriverla. Grazie a tutti : )
|
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
cap 4
Capitolo 4
Clara fu svegliata dal vociferare sotto la finestra della
sua camera. Bè, quella era la camera di Amy in realtà.
Non distingueva le parole con chiarezza, ma riconosceva
perfettamente la voce di John ed una più profonda che aveva imparato essere
quella di suo padre. Sembravano discutere di qualcosa, mentre si sentiva il
rumore di un oggetto pesante che strisciava e sbatteva infine da qualche parte;
ogni tanto John si lasciava sfuggire una risata.
Clara si girò sulla schiena, scostando un pò il lenzuolo
dal corpo e portò le mani a stropicciarsi gli occhi per svegliarsi.
Dando uno sguardo alla radiosveglia sul comodino vide che
mancavano quindici minuti alle sei.
Le voci dei due
uomini all' esterno continuavano a farsi sentire, incuriosendo la ragazza e
spingendola ad alzarsi dal letto, anche se controvoglia. Scostò la tenda
leggera dalla quale filtrava la prima luce del mattino ed aprì la finestra, non
curandosi del fatto che indossasse solo slip ed una leggera canotta bianca.
Quando si affacciò scoprì che John ed il Dottore avevano caricato una canoa sul
tettuccio della macchina; John la stava assicurando al portapacchi con delle
corde.
"Clara! Scusa, ti abbiamo svegliata." John le
si rivolse con un sorriso radioso, scorgendola alla finestra proprio nel
momento in cui aveva alzato lo sguardo per strattonare un capo di una delle
corde e cercare di indirizzarne la linea verso il lato opposto del tettuccio. Il
Dottore, invece, le diede semplicemente un rapido e freddo sguardo tornando poi
a concentrarsi sui nodi per assicurare bene la canoa.
Clara poggiò le braccia sul davanzale, sporgendosi
appena:
"Che state facendo?"
John continuò a tirare la corda, cercando di fissarla
all' asta del portapacchi, rispondendo innocentemente:
"Nella valigia hai un costume da mare?"
Clara ci pensò un pò su prima di rispondere incerta:
"Andiamo al mare?"
John fermò il suo lavoro usando un tono leggermente
spazientito, ma Clara sapeva che fingeva di esserlo:
"Ce l'hai un costume si o no?"
Clara scosse la testa in segno negativo, arricciando le
labbra in una smorfia di disappunto.
"L'ho lasciato a Blackpool....sai, qui non c'é il
mare..."
John sbuffò, stringendo alcune cinghie e si diresse sotto
la finestra.
"Quindi non hai nemmeno una muta da sub, surf o di
qualche tipo?"
Clara corrucciò le sopracciglia fissando John con aria
perplessa ed anche innervosita:
"Eleven, mi stai prendendo in giro? Sei serio? Se
non ho un costume da bagno come diavolo faccio ad avere una muta!"
"Bé... la muta non é un problema, la troviamo lá...
ma sotto dovrai tenere la biancheria intima"
Il ragazzo sembrava parlare più a se stesso che a Clara
la quale, poverina, si portò le mani al volto mostrando un' espressione confusa
e disperata.
Il Dottore finì di fissare la canoa in sicurezza al posto
di John, decidendo di interrompere Romeo e Giulietta e spiegare finalmente alla
ragazza le loro intenzioni:
"Partiamo per il fine settimana. Vi porto in Scozia,
sul fiume Orchy a fare Kayak."
Clara sollevò la testa ed il busto, osservando John che
annuiva contento con la testa prima di fermare lo sguardo perplesso sul volto inespressivo
del Dottore.
"Kayak? Ma..." guardò la canoa per un attimo
prima di continuare: " Io non so neanche cos'é!"
"Tranquilla!" Rispose John sorridendole: "
Io faccio Kayak, tu ed il Dottore, qui…” Ed indicò suo padre con un cenno della
mano: “… scenderete il fiume col gommone. Sai, Rafting!"
Il Dottore corrucciò le sopracciglia guardando suo figlio
ed incrociò le braccia:
"E chi lo ha deciso? Il kayak che abbiamo caricato é
il mio!"
John lo ignorò, parlando ancora alla ragazza:
"Coraggio,vestiti e prepara una borsa con ciò che ti
occorre che partiamo!"
Era inutile discutere sulla questione. Inutile anche
opporsi all' improvvisata che stavano organizzando lì per lì. Clara sospirò e
sorrise. Chiuse la finestra e corse a prepararsi.
Ci aveva impiegato mezz’ora per preparare un borsone con le cose che potevano servirle per un’escursione. Si era lavata, aveva indossato dei vestiti
comodi e scarpe da ginnastica, infilato in borsa qualche cambio di biancheria intima - forse
troppi - un pigiama, pantofole e due cambi di vestiti. Nulla di elegante per la
sera. Se andavano a fare escursione sul fiume probabilmente avrebbero
campeggiato; dubitava ci fossero locali eleganti nelle Highlands scozzesi!
Era scesa nel vialetto pronta per partire, ma quando
raggiunse l’auto non vide nessuno.
“John? Dottore?”
“Signorina Oswald! E’ di partenza?””
Si voltò verso sinistra, riconoscendo la voce del Signor
Donovan e vedendolo attraversare il vialetto pubblico, oltre la staccionata,
diretto chissà dove con il suo cagnolino al guinzaglio. Era un uomo sulla settantina,
non molto alto ed un po’ sovrappeso, ma con Clara era sempre stato gentile.
La ragazza lo salutò con un cenno e stava per
rispondergli quando l’uomo parlò di nuovo prevenendola:
"Ha trovato un nuovo appartamento ed è venuta a
riprendersi le ultime cose?" Indicò con un gesto innocente il suo borsone e poi
continuò con un sorriso: “Ha fatto bene!””
Il sorriso della ragazza si spense, sostituito subito da
un’espressione di fastidio e disagio.
“Mi scusi? Non credo di…”
L’uomo la interruppe, sporgendosi un po’ oltre la
staccionata con il viso e quasi sussurrando le disse:
“Sa, Smith è un tipo strano. Davvero, miss Oswald, non so come faccia a vivere in casa sua. Credo
abbia un pezzo di ghiaccio al posto del cuore.”
Sbalordita Clara rispose seria e con un tono leggermente
indurito:
“Credo stia parlando di qualche altro Smith, non del
meraviglioso ragazzo che conosco io.”
”Io parlavo di suo padre. Ma credo che la cosa possa
valere anche per il giovane. Ma se va via non deve più preoccuparsi!”
Poi si allontanò e riprese calmo il suo cammino, senza
accorgersi che dalla gola della ragazza era fuoriuscito un suono spiacevole che
somigliava quasi ad un ringhio. Il cuore le batteva forte mentre stringeva i
pugni. Cercò di rilassare la mascella, serrata a causa del nervosismo, per
parlare e non si rese conto di quanto infastidita e dura fosse diventata la sua
voce:
“Se lasciasse cadere dagli occhi quel velo di ignoranza e
pregiudizio capirebbe quanto è fortunato ad avere questi due uomini come vicini
di casa! John è meraviglioso ed il Dottore è un eroe!”
Non si preoccupò di vedere quale risultato avessero avuto
le sue parole sul Signor Donovan, aprì semplicemente la portiera posteriore dell’auto
e lanciò con rabbia sul sedile il suo borsone, sbattendo la portiera nell’istante successivo. Grugnì ed incrociò le braccia al petto, guardando un punto indefinito
della fiancata dell’auto.
“Sai. Forse Donovan non ha tutti i torti.”
Clara sobbalzò, portando lo sguardo verso il lato
guidatore. Né lei né Donovan si erano resi conto che alla guida del mezzo ci
fosse qualcuno. Il Dottore.
“Io non sono di certo un eroe.”
Clara sbuffò, rispondendo imbronciata.
“Salvi vite su territori di guerra. Metti in pericolo te
stesso, aiuti chi è meno fortunato. Eroe o non eroe, certe persone dovrebbero
pensare bene prima di aprir bocca e sputare stronzate!”
“Lingua.”
Clara stava per ribattere quello che sembrava essere un
rimprovero quasi paternale, ma trovò l’ombra di un sorriso sul volto del
Dottore che la costrinse a sorridere di rimando. E non potette rispondergli in
altro modo se non con una linguaccia impertinente.
***
C’era voluta quasi tutta la giornata per raggiungere
Dalmally. Questo perché avevano fatto anche un paio di soste in più rispetto a
quanto programmato, per godersi un po’ anche il panorama, scattare qualche foto e sgranchirsi le gambe per il
troppo stare in auto.
John ed il Dottore si diedero il cambio alla guida più o
meno a metà strada. Erano anche passati vicino Blackpool, ma Clara non aveva
voluto deviare per fermarsi e recuperare il costume da bagno, anzi aveva
insistito affinché non lasciassero l’autostrada.
“Dai Clara. Si tratta solo di mezz’ora in più di viaggio!”
“Eleven. No! Se vuoi ci fermiamo al ritorno. Adesso
voglio andare dritta alla meta!”
Erano circa le tre del pomeriggio, forse l’ora era passata da qualche minuto, quando raggiunsero
Glasgow e decisero di fermarsi lì per il resto della giornata. L’escursione in fiume era programmata per il giorno dopo e
John si era lasciato sfuggire che quella era la città natale di suo padre. Non
potevano non visitarla!
Così, era ormai tarda sera quando raggiunsero il piccolo
cottage che il Dottore aveva prenotato per il fine settimana e piovigginava già
da quando avevano lasciato Glasgow, un paio di ore prima.
Clara era preoccupata per la pioggia, ma John le aveva
assicurato che era normale e che non doveva temere nulla. Si separarono per la
notte; il cottage, oltre i servizi, prevedeva
anche due camere da letto.
Il mattino dopo c'era il sole e l'aria era fresca.
Settembre stava dando il meglio di se partendo in gran stile!
Al punto di incontro con la guida c'erano altri gruppi di
turisti, tutti emozionati ed ansiosi per la discesa. Molti avevano la propria
attrezzatura, altri invece dovettero utilizzare quella fornita dal Centro Kayak
& Rafting. Clara era tra quest'ultimi.
Uscì dallo spogliatoio tirando la muta che aderiva in
modo fastidioso sulle cosce e con il salvagente, indossato al di sopra della
giacca impermeabile, ancora slegato così come il caschetto di sicurezza, storto
sulla testa.
“Clara! Sei un disastro!” John le si avvicinò, ignorando
il broncio della ragazza e corse a sistemare quel pasticcio. Le chiuse gli
agganci del salvagente a gilet stringendo le fibbie ai fianchi e sulle spalle,
tirando forte. Qualche volta John si permetteva di indugiare nei movimenti e la
guardava per un attimo prima di distogliere lo sguardo. Non le toccava la
pelle, troppi strati tra loro, ma a Clara piaceva lo stesso, ed anche a lui.
“Hei! Troppo stretto!” Avvertì la ragazza espirando con
forza l'aria dai polmoni alla stretta dell’ultima fibbia.
“Deve essere stretto. É per la tua sicurezza.” Rispose
John tranquillo prendendo la misura del caschetto sulla testa della ragazza per
poi toglierlo e cominciare a regolare anche quello.
"Riesci a respirare bene?"
"Si."
John quindi le sorrise, le lasciò un bacio sulla fronte
prima di posarle nuovamente il caschetto in testa per poi far scattare il gancio
sotto il mento e regolare anche quello.
"Ecco. Sei pronta!" Le portò le mani sulle
spalle e poi indietreggiò un paio di passi per guardarla ed annuire.
"Quindi... tu scendi con il... kayak!?"
Clara trasudava eccitazione e timore. Non aveva mai fatto
nulla del genere e davvero non sapeva cosa aspettarsi dalla situazione. Strinse
la mano di John tra le sue per farsi coraggio. Il ragazzo la tirò a se e la
abbracciò, o almeno cercò di farlo attraverso gli spessi strati di roba di
sicurezza che li coprivano rendendo il loro contatto praticamente nullo ed
impacciato.
"Non preoccuparti. Al briefing ti daranno tutte le
istruzioni di base per affrontare il fiume e quelle di sicurezza. Fa ciò che ti
dirà la guida." Il sorriso di John la tranquillizzò un pò “E se cadi in
acqua non avere paura. Il tratto che faremo é tranquillo, cadere in acqua fa
parte del divertimento.”
Clara annuì, ma non era del tutto sicura a riguardo. Poi
avvertì il richiamo della guida e raggiunse il gruppo per il briefing mentre
John preparava il suo kayak per la discesa. Il Dottore era già seduto su un
tronco secco, probabilmente ciò che restava di un albero caduto o trascinato
dal fiume in piena. Sembrava annoiato ed imbronciato mentre cominciava la
spiegazione della guida, forse perché in canoa voleva andarci lui; Clara si
sedette accanto a lui e gli sorrise, ma la sua espressione restava preoccupata.
Il Dottore le sorrise di rimando e le strinse la mano sinistra con la sua
destra per incoraggiarla. Questo gesto la sorprese.
Tra lui e John il risultato però fu soddisfacente: Clara
trovò il coraggio necessario per salire su quel maledetto gommone col gruppo!
Seguire le istruzioni della guida, posta sul fondo del
gommone a tenere sotto controllo tutti, non si era rivelato affatto difficile.
In un punto calmo le aveva giocato un brutto scherzo spingendola in acqua con
la pagaia – per familiarizzare col fiume, diceva lui - creandole una mezza crisi respiratoria per
quanto l'acqua era fredda, ma erano bastati pochi attimi per abituarsi e
ritornata a bordo il movimento le aveva ridato calore. Inoltre la stessa sorte
era toccata anche agli altri passeggeri e, tutto sommato, si stava davvero
divertendo, godendosi anche il panorama. I boschi intorno erano ancora verdi,
il sole caldo ed il cielo azzurro. Ad un bivio, con una piccola isoletta a
diramare il corso del fiume, la guida aveva deciso di fermarsi e far osservare
i salmoni che risalivano la corrente su una serie di rapide sul lato che non
avrebbero percorso. John e Clara si spostarono abilmente su alcuni massi che
dalla riva giungevano fino a poco prima delle rapide per guardare meglio la
risalita dei pesci.
Quando tornarono alle imbarcazioni, la guida li informò
che avrebbero percorso un tratto un pò più impegnativo, una deviazione dovuta
ad un albero caduto sul lato che avrebbero dovuto percorrere. Ma i kayak
dovevano avanzare prima ed attendere al piccolo laghetto naturale alla fine
delle rapide. Poco più avanti c’era lo sbarco.
Clara puntò lo sguardo sulle canoe che già scomparivano
dietro la curva del fiume.
"Hei, sta tranquilla. Il tuo fidanzato è
tecnicamente preparato. E se voi sul gommone non foste in grado non vi
percorrere quel tratto." La guida cercò di tranquillizzare Clara, ma lei
sorrise senza rispondere, salendo a bordo e posizionandosi al fianco del
Dottore. Le sorrise.
Se era tranquillo lui, allora lo era anche lei.
Raggiunsero il punto indicato dalla guida, seguirono
prontamente le sue istruzioni. Le rapide erano tutto un turbinio di acqua che
si scontrava con le rocce e creava vortici, onde e faceva impennare
l'imbarcazione. Ogni due secondi gli ordini della guida si rinnovavano tra una
pagaiata ed un 'dentro' che li richiamava ad accucciarsi all' interno di esso
per evitare di essere sbalzati fuori durante un impatto con rocce a fior
d'acqua. Erano arrivati a poco più di metà del percorso quando un impatto un pò
troppo forte ed un ritardo nell' esecuzione del comando fece sbalzare fuori dal
gommone tre persone.
"Clara!"
Fu un attimo, Clara scomparve tra vorticosi flutti
biancastri per poi riapparire e lanciare uno sguardo terrorizzato verso
l'imbarcazione.
"La corda!" Il Dottore urlò verso la guida,
chiedendogli di lanciare la corda di salvataggio, ma il giovane tranquillamente
lo ignorò e si rivolse alle persone in acqua:
"Posizione di sicurezza, poco più avanti c'é una
morta! Lasciatevi portare dalla corrente!"
Tecnicamente era la cosa giusta da fare, ma Clara... oh,
Clara e la sua mania del controllo! Stava facendo l'esatto contrario! Ad ogni
tentativo di contrastate la corrente questa la spingeva nuovamente sotto.
Il Dottore sapeva, si lasciò cadere in acqua anche lui,
sorprendendo la guida in modo negativo e, lasciandosi portare dalla corrente,
cercò di raggiungere la ragazza, aiutandosi con qualche bracciata e trattenendo
il respiro quando veniva trascinato sotto. Quando risaliva, cercava di
visualizzare nuovamente Clara, finché non la raggiunse. La afferrò per il
giubbetto, avvicinandosela con la schiena contro il torace:
"Ci sono! Tranquilla. Rilassati!"
Clara tossì, seguendo poi con un verso indefinibile
mentre riprendeva a respirare affannosamente e cercava di non bere altro
liquido. Il Dottore le cinse i fianchi in una stretta più serrata, portandola
con lui a mettersi in posizione di sicurezza, usando il suo stesso corpo come
scudo a quello di lei contro eventuali massi mentre si lasciavano portare dalla
corrente verso la morta. I kayak in attesa nel laghetto. Gli altri due
passeggeri del gommone dalla morta raggiunsero la riva, ridendo tra loro, non
si erano accorti di nulla.
Era capitato tutto in pochi secondi, meno di un minuto;
ma a Clara sembrò essere passata un' eternità. Non sapeva dire come si era
ritrovata lì, seduta sulla riva con l'acqua fredda a lambirle i fianchi, a
farla rabbrividire, con la schiena premuta contro il torace del Dottore e le
mani serrate attorno al braccio destro di lui che ancora la stringeva mentre
tossiva acqua.
"Ce la fai?"
Il respiro accelerato per entrambi. John col kayak che si
dirigeva verso di loro.
"Tu e John... siete dei pazzi! "
"Mi... dispiace..."
La presa del Dottore su Clara si allentò, dispiaciuto per
il tono isterico e spaventato che lei aveva usato.
“Siete pazzi! Ma vi direi di nuovo si!”
Clara tossì ancora e poi gli sorrise. Le labbra del
Dottore tremarono per un attimo, ma non lasciarono uscire alcun suono dalla
bocca.
John li aveva raggiunti, col cuore in subbuglio ed
un’espressione preoccupata; sfilò dal kayak arenato sul pietrisco della riva e
si inginocchiò accanto alla ragazza e suo padre:
"Clara, tutto bene? Ti sei fatta male?"
Clara negò con la testa, allungando le braccia verso John.
Erano entrambi accanto a lei, non c'era un vero e proprio contatto fisico tra loro eppure non li aveva mai sentiti così
vicini.
“Papà…” Ora John guardava suo padre.
“Zitto. Lo so.” Aveva sbagliato.
Anche la guida si diresse a passo svelto ed espressione
dura verso di loro, il gommone parcheggiato sulla riva poco più avanti:
“Si può sapere cosa credeva di fare? Ha messo tutti in
pericolo con la sua…”
“Sono caduto.”
La voce del Dottore era secca, lo sguardo ancora rivolto
verso la ragazza davanti a lui che si sistemava il caschetto e John che le
prendeva le mani mentre la aiutava ad alzarsi per poi spostarle alcune ciocche
di capelli bagnati dal viso.
“L’importante è che nessuno si sia fatto male, no?” Solo
allora rivolse lo sguardo freddo verso la guida che, scuotendo la testa
esasperato, decise di allontanarsi.
Clara sputò un filo d’erba che le pizzicava la bocca,
abbracciò John per un attimo prima di voltarsi con un sorriso verso il Dottore:
“Il signor Donovan aveva torto marcio.”
Clara sorrise. John mostrò un’espressione interrogativa.
Il Dottore pensò che non era Donovan ad aver torto, ma lei che lasciava un
marchio a fuoco nelle persone senza rendersene conto.
Più tardi, nel pomeriggio, avevano acceso un falò al
centro di una radura accanto al fiume. Piovigginava ma non abbastanza fitto da
spegnere il fuoco ormai alto.
Il Dottore era sparito da un po’, forse mimetizzato tra
gli altri avventurieri.
John e Clara sedevano vicini accanto al fuoco, le gambe
incrociate sotto di loro.
“Lo fate spesso?” La voce di Clara era dolce e traspariva
curiosità.
John sorrise continuando a guardare il fuoco.
“Una volta, si. Lo facevamo spesso. Quando mia madre era
viva.”
La moretta lo guardò stupita, ritrovandosi a chiedersi
per la prima volta che tipo di persona fosse la signora Smith. Sicuramente
sarebbe piaciuta a sua madre, ed anche a lei.
“Tua madre andava in canoa?”
John annuì alla sua domanda, con lo sguardo lucido. Se
fosse per le fiamme o per il ricordo di lei Clara non sapeva dirlo, sapeva solo
che si ritrovò con la testa poggiata sulla spalla di John mentre le raccontava
di lei. Adorava troppo quel ragazzo, forse non sapeva ancora in che misura, ma
vederlo stare male faceva male anche a lei.
“Questo è uno sport estremo, non sono molte le donne che
lo praticano. Ma mia madre per me è stata la migliore delle madri, anche se non
era una che stava ferma a fare la calza, se capisci cosa intendo.”
Clara annuì, attendendo che John continuasse:
“Lei mi ha insegnato le basi del kayak quando ero un
bambino; era brava e le piaceva viaggiare. Lei ed il fiume erano come una cosa
sola. Il gruppo sportivo a cui apparteneva l’aveva battezzata così: River.”
“Qual’era il suo vero nome?”
Clara realizzò che John non glielo aveva mai detto ed ora
che ne parlavano quella domanda le uscì spontanea.
“Melody.” Rispose John.
“Melody. Un nome molto bello.” Clara sorrise.
“Melody Pond.”
“Pond? Come Amy?”
John si lasciò scappare una piccola risata annuendo:
“Si. In effetti io ed Amy siamo parenti alla lontana.”
Poi il suo sorriso si spense mentre si lasciava sfuggire la frase successiva:
“Sai… mia madre è morta a causa di un incidente in fiume. A volte purtroppo
capitano degli imprevisti ai quali non puoi rimediare, nonostante tu possa
possedere una tecnica perfetta…”
John si fermò, la voce cominciava a tremargli. Clara si
scostò guardandolo in volto con espressione scioccata, intuendo finalmente
quanto davvero fosse doloroso per lui e per suo padre essere lì.
“John… allora perché siamo qui? Ti fa male, lo vedo!”
Gli portò le mani al viso, costringendolo a girarsi verso
di lei e ne incrociò lo sguardo perdendosi in quegli occhi tristi. John piegò
le labbra verso l’alto ma la malinconia del suo sguardo rimase immutata:
“Non ho paura. Non mi fa male ripercorrere i suoi passi.
Forse all’inizio si, ma adesso sono sereno. Lei non si è mai pentita di nulla
ed anche quando tornava a casa ammaccata, con i lividi addosso o ricoperta di graffi diceva che era la cosa
più bella ed emozionante che avesse mai fatto. Era una dipendenza. E praticando
questo sport l’ho capita.”
Clara si sporse verso di lui baciandogli una guancia.
John chiuse gli occhi, avvertendo un sussulto al cuore che quasi gli spezzò il
respiro quando Clara gli portò le braccia al collo e strinse la presa. Non
potette fare altro che portare le mani dietro la schiena di lei, credendo di
avvertire il suo calore oltre la giacca impermeabile. Forse neanche lui sapeva
in quale misura tenesse a quella ragazza, forse non sapeva neanche quanto profondamente
gli fosse penetrata sotto la sua pelle. Sapeva solo che no, non poteva ferirla oltrepassando
la linea di confine, ma non poteva
neanche allontanarsi da lei.
Quando si separarono, Clara aveva gli occhi lucidi su di
un’espressione sofferente e muoveva le labbra in un tremito incerto ma non
parlava. John corrucciò preoccupato le sopracciglia sottili:
“Cosa… ti fa male qualcosa?”
Clara negò con un gesto della testa, cercando il coraggio
per parlare:
“E’ per questo che… prima, quando sono caduta in acqua.
E’ per questo che tuo padre si è tuffato? Non è caduto… l’ho visto.”
La ragazza poteva solo lontanamente immaginare cosa
avessero provato in quel momento entrambi. John le portò la mano destra sulla
testa, in una carezza delicata che scese fino alla guancia arrossata.
“Ha semplicemente fatto quello che avrei fatto anch’io.
Siamo responsabili per te, sei sotto la nostra protezione.”
Con l’indice le pungolò leggermente il naso, sciogliendo
definitivamente il loro contatto e provocandole un gemito di disappunto.
Fu in quel momento che il Dottore ritornò dopo essere
sparito per quasi un’ora. Non incrociò lo sguardo con i ragazzi mentre si
sedeva e porgeva loro un piatto con della carne da cuocere:
“Ho trovato da mangiare. I ragazzi del Rafting avevano
previsto una grigliata con della carne di Angus
e…”
Non finì la frase perché si ritrovò Clara avvinghiata al
collo che lo stringeva in un abbraccio serrato ed improvviso e gli sussurrava
un tiepido ‘scusami e grazie’ all’orecchio. I muscoli dell’uomo si tesero,
rendendolo una statua di marmo rigida mentre John cercava di recuperare il
piatto con la carne dalle mani tremanti e smorzava una risata.
“Anche lei è una persona da abbracci. Come me!”
Quando Clara si staccò, l’uomo riprese a respirare
sussurrando:
“Clara… non farlo mai più… o almeno avvertimi prima di
farlo…”
La ragazza scrollò innocentemente le spalle, lanciando
uno sguardo perplesso alla carne:
“Piuttosto… su cosa la mettiamo per arrostirla?”
Non importava cosa avrebbero fatto con quella carne e
come lo avrebbero fatto. Quel momento a loro tre appariva perfetto anche nei
difetti.
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Note:
Capitolo
più lungo degli altri ma anche questo, come il
precedente, doveva essere completamente diverso xD Forse è un pò lento,
magari si capisce solo il cambiamento di John ... ma avevo bisogno di
renderlo così. O magari non si capisce niente e se così fosse vi chiedo scusa.
Prossimo
capitolo si cambia un po’. Un po’ tanto forse... e poi.... scusate per
l'angst, ma credo peggiorerà con l'avanzare della storia, si si.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
Cap.5
Capitolo 5
I
corsi erano cominciati ed anche Amy e Rory erano tornati, trovando una
situazione nuova alla quale forse difficilmente si sarebbero adattati.
Il
Dottore non aveva ancora ricevuto la sua nuova assegnazione, il che complicava
un po’ le cose riguardo alla ‘sistemazione notturna’ ma né a John né a Clara
dispiaceva; forse solo ai due fidanzatini che si ritrovarono a dover dormire
separati.
Per
il resto, John era più euforico ed aperto del solito; Clara invece si sentiva
finalmente a casa, completa ed accolta come in una vera famiglia. Nel
frattempo, il Dottor John Smith aveva ripreso a lavorare all’ospedale civile,
ingannando l’attesa per la sua prossima assegnazione.
John
aveva spesso detto a Clara come la sola presenza di suo padre lo facesse sentire
protetto e col passare delle settimane, conoscendo meglio quel silenzioso uomo,
la giovane ne aveva capito il perché. Non era un uomo espansivo come suo
figlio,non amava il contatto e gli abbracci ma era ricco di piccole attenzioni
che lo rendevano unico: uno spuntino durante lo studio, la colazione già pronta
al mattino, un ciocco di legno nel camino a dare calore alla casa o, meglio
ancora, anche solo un sorriso e la frase giusta messa come supporto morale in
giornate nere ed interminabili. E quando i turni in ospedale richiedevano tutta
la sua presenza la casa ne risentiva invece l’assenza.
****
“John!
Togliti quel vestito di dosso!”
“Clara!
No!”
Si
guardavano negli occhi, Clara con un’espressione arrabbiata e John con
un’espressione quasi terrorizzata.
“Non
puoi presentarti al colloquio così!!!”
“Perché
no!?”
John
doveva incontrare l’Ingegnere capo presso il quale cominciare la gavetta. Lui e
Clara erano ai rispettivi capi opposti del divano in soggiorno, a studiarsi
vicendevolmente come un predatore con la sua preda.
Clara
era la tigre. John la gazzella.
“Perché
sembri…Willie Wonka!!”
John
indossava un abito vinaccio piuttosto elegante, ma decisamente fuori dal tempo.
I pantaloni scuri e la camicia bianca potevano anche andare, ma gli stivali
neri, la giacca lunga fino al ginocchio ed il cilindro erano troppo!
“Vuoi
dire che somiglio a Johnny Depp? Il nome c’è… e magari faccio colpo sull’Ingegnere
e decide di tenermi. E’ una donna!”
John
espose un sorriso sexy diretto a Clara, mentre si passava una mano sul viso e
poi si sistemava il ciuffo.
“No!
Intendevo il Willie Wonka dell’originale Fabbrica di Cioccolato! Non il
remake!”
Rory
era seduto sul divano, con le gambe stese ed il telecomando in mano mentre
cambiava canale alla tv. Sembrava indifferente al piccolo battibecco che stava
avvenendo attorno a lui, come se fosse una cosa del tutto normale.
Clara
mosse un passo verso sinistra come a voler preparare un eventuale scatto verso
di lui; specularmente, John mosse un passo a scopo difensivo: voleva scappare
nella direzione opposta a quella di lei. Concentrato sul movimento della
moretta, però, non si accorse di Amy alle sue spalle che gli strappò il
cilindro dalla testa.
“Cos…
no! Amy!”
Si
voltò di scatto verso di lei, aggirando il divano dal lato posteriore ed
indietreggiando dalla rossa. Clara approfittò di quell’attimo di distrazione
per avvicinarsi all’uomo e tirargli il colletto della giacca. Riuscì a
sfilargliela solo un po’ oltre le spalle prima che John si ribellasse,
girandosi ed allontanandosi da lei imbarazzato mentre si risistemava la giacca.
Clara non si arrese.
“No…
ferma… Clara… ti prego… non…”
“Smettila
di fare il bambino!”
Si
intromise Amy, portando le mani sulle spalle di lui e tirandogli via di dosso
la giacca con un’abilità e velocità tale da non permettere all’uomo di
accorgersene se non troppo tardi.
John
mise il broncio, borbottando qualcosa di incomprensibile tra se e se mentre si
allontanava al piano superiore per cambiarsi.
Amy
sorrise e fece l’occhiolino all’amica, piegandosi la giacca di John tra le
braccia ed allontanandosi verso il guardaroba all’ingresso per posarvela
dentro.
Clara
restò ferma al bordo del divano, con le dita delle mani leggermente poggiate
sullo schienale ed un’espressione pensierosa sul volto.
Era
passato poco meno di un anno da quando si era trasferita lì, aveva stabilito un
ottimo rapporto con tutti e tre loro, ma con John… era diverso. Tra loro c’era
sempre quella barriera invisibile che le impediva di avvicinarsi troppo a lui,
e non era lei ad averla innalzata. A volte le sembrava che quel muro invisibile
ed invalicabile le aprisse le porte, soprattutto quando John si comportava da
fidanzato premuroso pur non essendolo, quando la abbracciava o le baciava la
fronte. Ma i suoi gesti finivano lì, senza darle modo di capire se c’era
effettivamente qualcosa per cui valesse la pena fare il passo decisivo; senza
contare che la tensione che si creava tra i loro sguardi incatenati era sempre
lui a scioglierla allontanandosi da lei prima di oltrepassare la linea. Questo
la confondeva e non le piaceva restare in sospeso. Ma almeno si era difesa
imponendosi una regola fondamentale: ‘Non innamorarsi’. Stare lontani durante
le vacanze estive l’aveva convinta di esserci riuscita. Ma quando era tornata,
qualcosa le si era infiltrato nel cuore. Aveva conosciuto suo padre, aveva
capito di più John. Si era sentita accettata, curata ed amata, come in una
famiglia. Eppure quella barriera invisibile continuava a ferirla.
Una
volta gli aveva chiesto perché non avesse una fidanzata.
John
le rispose semplicemente che non ne aveva bisogno, preferiva restare da solo.
Poi aveva sorriso tristemente aggiungendo:
“Ho avuto le mie
delusioni. Mi hanno segnato. Chi mi ama resta inevitabilmente ferito,
preferisco proteggerli allontanandomi.”
Lei aveva
risposto con impertinenza:
“Ma dai! E’ così
che fai? E funziona? Le ragazze ci cascano e ti fanno fare i tuoi comodi senza
impegno?”
Clara sorrideva
maliziosa, John arrossì imbarazzato e mostrando un’espressione di sdegno:
“Clara!”
Lei rise:
“No. Sei troppo
timido ed affettuoso per ferire chi ami. Stai mentendo.”
Lui la guardò
per un attimo muovendo le labbra prima di chiuderle e spostare lo sguardo. Poi
sorrise appena dicendo:
“Ad Amy e Rory
non potrei mai fare del male. Sono la mia famiglia, i miei fratelli. Ora ci sei
anche tu. Neanche a te potrei mai fare
del male. Mai, mai mai.”
“Oh, andiamo!
Stare con te non può essere così male! Qualsiasi donna sarebbe fortunata! Chi è
la stronza che ti ha spezzato il cuore?”
“Chi ti dice
debba per forza esserci una lei?”
“C’è sempre una
lei stronza quando un uomo come te la pensa in questo modo.”
Sul volto di
John c’era ancora un lieve sorriso, ma il suo sguardo era improvvisamente cupo
e triste.
“Tutte le cose
belle hanno una comune: finiscono presto e fanno un male cane! Credimi Clara.
La felicità non è John Smith.”
Clara aveva i
suoi dubbi a riguardo, ma si sentiva anche come se John, in quel momento e con
quelle parole, le avesse volutamente tarpato le ali.
“Clara?”
La
voce di Rory la riportò alla realtà, costringendola a voltare lo sguardo vero
di lui.
“Tutto
bene?”
Notò
la sua espressione preoccupata, così decise di smorzare la tensione che le era
attorno sorridendo ed annuendo con la testa.
“Invece
no. Su, racconta!”
Rory
le fece cenno di sedersi accanto a lui, battendo la mano sul divano nel posto
accanto al suo.
Clara
sospirò, sedendosi accanto a lui e stese le gambe in avanti poggiando i piedi
sul tavolino. Le braccia incrociate al petto ed un’espressione imbronciata sul
viso.
“E’
solo… non lo so. John con me è diverso.”
“Diverso?
In che senso? Non mi sembrava come se steste litigando o altro…” Rory la guardò
perplesso.
“No,
non intendevo in quel senso. E’ che… forse è solo una mia impressione, ma con
voi due lui è diverso. A volte ho come la sensazione che attorno a John ci sia
un perimetro che non devo attraversare. Ma in quel perimetro voi invece
rientrate.” Clara guardava lo schermo della TV senza però vedere davvero le
immagini che si susseguivano su di esso, continuando il suo ragionamento e
senza accorgersi di Amy che si era avvicinata: “insomma, con voi è più…
sciolto. Con me a volte sembra porre dei limiti e non capisco perché.”
Clara
non era stupida. Le sensazioni che provava erano sempre dettate dall’istinto ed
il suo istinto non sbagliava mai. Quando aveva provato a togliergli la giacca
John era visibilmente a disagio; con Amy invece non aveva battuto ciglio. Negli
ultimi tempi questi stati d’animo sembravano essersi accentuati; John passava
da momenti in cui appariva il ‘fidanzato’ perfetto a momenti in cui era
semplicemente un estraneo e la cosa la faceva preoccupare molto, la feriva.
Amy
e Rory si scambiarono uno sguardo d’intesa, senza mutare l’espressione seria
che ad entrambi sagomava il viso.
Il
biondo le portò un braccio dietro le spalle, portandosela contro il petto e la
strinse in un abbraccio mentre cercava di consolarla.
“Tranquilla.
E’ solo una sensazione sbagliata. John è semplicemente preoccupato per la nuova
occasione che gli si è posta di fronte. Vedrai che non è nulla!”
Clara
nascose il viso contro la camicia dell’amico, lasciando uscire un gemito
sofferto dalle labbra mentre tirava su col naso.
Amy non provò gelosia, semplicemente meditava
sulla situazione capendo appieno ciò che stava accadendo.
Forse
Clara non aveva ancora consapevolezza di se, ma era chiaro che John era un
perfetto idiota!
“So
io qual è la soluzione!” Esplose Amy, seduta ormai sul bordo del tavolino
davanti a loro.
Clara
alzò la testa, scostandosi da Rory e guardando la rossa con gli occhi gonfi e
lucidi, ma privi di lacrime.
“Ti
organizzo un appuntamento! C’è un tipo all’università che spesso mi ha chiesto
di te.”
“Oh,
buon Dio…” La voce di Rory era uscita in un sospiro sconsolato, lasciando
cadere la mano dalla spalla di Clara per portarsela alla fronte mentre si
piegava in avanti. Doveva aspettarselo!
“Non
ho tempo per uscire. Devo finire gli esami e laurearmi quest’anno!”
Amy
la ignorò, portando entrambe le mani al viso della moretta per tirarle le
guance:
“Non
te lo devi sposare, ci devi solo uscire una volta!”
“Cioè
una botta e via? No grazie, non sono proprio il tipo!”
“Ok….
Io me ne vado. Certi discorsi non fanno per me!”
Rory
si alzò e si diresse al piano di sopra, salendo a passo pesante le scale non
curandosi di nascondere la sua espressione nauseata al povero John che invece
le stava scendendo. Amy si lasciò scappare una risatina divertita mentre diceva
a Clara di stare tranquilla, ci avrebbe pensato lei!
La
moretta non rispose. Ma il suo istinto le imponeva di essere assolutamente ed
indubbiamente diffidente.
“Che
avete fatto a Rory?”
John
tornò in salotto vestito finalmente in modo decente, osservando perplesso le
due ragazze sedute al divano e notando che Amy era fin troppo euforica.
“Amy
vuole organizzarmi un incontro al buio.” Rispose Clara con una nota di
scetticismo nella voce mentre Amy, con lo sguardo fisso sul ragazzo, mostrava
invece un’espressione furba ed orgogliosa assieme.
John
si bloccò, spalancando la bocca ed avvertendo un blocco allo stomaco che non si
seppe spiegare. Gli sembrò quasi di perdere l’equilibrio mentre un “NO!” secco
gli usciva dalla bocca sorprendendo sia Amy che Clara e facendole sobbalzare.
Provò a rimediare una qualche scusa quando Amy ne uscì con un malizioso:
“Sei
geloso?” che fece arrossire John e sorridere Clara.
John
sembrò andare in iperventilazione mentre agitava le mani davanti a se in modo
sconnesso:
“No.
Assolutamente. Semplicemente gli incontri al buio di Amy non sono affidabili.”
“Come
sarebbe che non sono affidabile?” Amy mise il broncio mentre John continuava:
“Un
solo nome: Tasha Lem!”
“E
allora?” Amy scrollo le spalle, non curandosi dell’espressione improvvisamente
seria di John.
Clara
socchiuse le labbra, chiedendo chi fosse questa fantomatica ‘Tasha Lem’.
John
inspirò profondamente prima di esplodere in un terrorizzato:
“Mi
è saltata al collo non appena ci siamo incontrati. Mi ha praticamente spinto
dentro casa sua e stuprato!”
“E
allora? Non mi sembrava ti fosse dispiaciuto all’epoca…”
“Col
cavolo! Ha provato a farmi cose che ad un uomo non dovrebbero neanche essere
proposte per scherzo!”
Clara
si irrigidì, provando un lieve sentore di gelosia acida che le scorreva nella
gola improvvisamente secca per bruciare poi nello stomaco; il fastidio più
grande era però che sapeva di non dover provare quelle sensazioni.
*****
A
volte Clara studiava troppo. O almeno era questo che Amy le ripeteva ogni volta
che si immergeva in studi non pertinenti ai corsi che frequentava. Ma Clara
sorrideva e continuava ciò che stava facendo.
Fuori
pioveva e l’orologio alla parete segnava le due di notte. Gli altri dormivano e
Clara, per non disturbare Amy con la quale ormai divideva la camera, era seduta
in terra nel soggiorno, ai piedi del divano con le gambe piegate sotto di se ed
alcuni libri distesi sul tavolino di fronte. Stava annotando qualcosa su un
quaderno, alla luce della lampada che aveva tolto dalla sua scrivania quando
avvertì una voce ormai familiare alle sue spalle:
“Cosa
ci fai ancora sveglia?”
Si
voltò verso l’ingresso, trovando il Dottore che si chiudeva la porta alle
spalle per poi togliersi l’impermeabile umido dalle spalle.
“Ciao!”
Clara lo salutò con un sorriso stanco accompagnato da uno sbadiglio. La ragazza
si stiracchiò un po’ prima di continuare:
“Sto
solo rimettendo a posto degli appunti. Questo fine settimana devo tornare a
Blackpool e non avrò tempo di farlo.”
L’uomo
si fece largo nella stanza portandosi le mani nelle tasche chiedendo:
“Hai
mangiato qualcosa?”
La
ragazza annuì, indicandogli un bicchiere vuoto ed un pacchetto di crackers
mezzo vuoto scostati nell’angolo più lontano del tavolo. Il Dottore mosse le
labbra in una smorfia, mentre si avvicinava all’improvvisata zona studio per
raccogliere bicchiere e salatini prima di sparire in cucina.
La
ragazza tornò ai suoi libri, immergendosi nella lettura senza rendersi conto
del tempo che riprendeva a scorrere finchè non udì di nuovo la voce dell’uomo:
“Credevo
studiassi Letteratura Inglese.”
Il
Dottore era in piedi dietro di lei, con la schiena piegata in avanti e lo
sguardo su alcuni dei libri posti disordinatamente sul tavolino. Aveva un
vassoio con due tazze di the caldo in una mano ed un piatto con qualche
sandwich nell’altra. Poggiò tutto nella zona sgombra del tavolino. Prese per se
una delle tazze, ma era chiaro che il resto lo aveva preparato per la ragazza.
Clara
non lo aveva sentito arrivare, ma puntò lo sguardo su di lui rilassandosi in un
sorriso mentre rispondeva:
“Si,
ma non significa che non posso apprezzare anche autori stranieri contemporanei.
Tu sei un medico, ma questo non ti impedisce di andare in territori di guerra
in divisa militare per svolgere il tuo lavoro.”
“…mhmm…
non è proprio la stessa cosa.” Ripose l’uomo in un sussurro, deviando lo
sguardo dal viso della ragazza per posarlo su alcuni libri per leggerne il
titolo.
“Già.
Non lo è. Forse avrei dovuto fare un esempio diverso, del tipo: essere un
cardiologo non impedisce di riconoscere una colica renale. Ma di medicina e
materie scientifiche non me ne intendo per nulla.”
La
voce imbarazzata di Clara costrinse il Dottore a rivolgerle nuovamente lo
sguardo e piegare le labbra leggermente verso l’alto.
“E
di certo l’ora tarda non aiuta.” Cercò di giustificarla, raccogliendo con la
mano libera un titolo che lo aveva attirato già prima e si sedette sul divano.
Con l’altra mano si portò la tazza alle labbra e soffiò prima di sorseggiarne
piano il contenuto.
Clara
fece lo stesso con la sua tazza, lasciando che il liquido le scendesse lungo la
gola con un brivido di soddisfazione
prima di voltarsi nuovamente verso l’uomo:
“Ti
ringrazio. Ma hai messo troppo zucchero.”
“Lo
so. Il cervello di chi studia ha bisogno di zuccheri.” Le linee del suo viso
mutarono in un’espressione innocente mentre nascondeva il sorriso dietro la
tazza e guardava la ragazza con una luce furba negli occhi. Clara si morse
diffidente il labbro inferiore prima di rispondere:
“
La tua espressione mi induce a pensare il contrario… cosa ci hai messo dentro?”
L’uomo
si lasciò scappare una lieve risata mentre si sporgeva in avanti a posare la
tazza sul tavolo prima di premersi contro lo schienale del divano ed
accavallare le gambe. Non si accorse che, nel movimento, il suo corpo aveva
praticamente sfiorato quello di Clara, provocandole un brivido inaspettato
mentre lei involontariamente ne respirava il profumo.
“Solo
zucchero, lo giuro. Ma in questo caso, la sua assunzione potrebbe comportare
una riduzione della capacità di attenzione.” Lui rise, lei invece incrociò
indignata le braccia al petto rispondendo:
“Volevi
distrarmi!”
“Ci
sono riuscito?”
“Si!”
Clara sospirò, voltandosi verso i suoi libri aperti. Li chiuse spostandoli di
lato prendendo un sandwich dal piatto. Si poggiò poi con il fianco contro il
bordo inferiore del divano e la testa sul braccio posto sulla seduta, restando
in silenzio mentre mordicchiava debolmente il sandwich. Non vi era alcun
contatto tra il corpo di Clara e quello del Dottore, ma la presenza dell’uomo
al suo fianco era quasi palpabile. Forse era la sua forte personalità, forse
era quell’aura invisibile ma intensa che lo circondava o semplicemente la sua
essenza che traspirava da ogni poro ad imporsi agli altri senza bisogno di
toccare. Clara non lo sapeva. Ma ora capiva perfettamente perché John le aveva
sempre detto che ‘lui c’era anche quando era assente’.
Lo
osservò mentre stringeva gli occhi e muoveva il libro che aveva preso dal
tavolino per leggerne il titolo.
“Il
cacciatore di aquiloni…”
Clara
sorrise, con gli occhi mezzi chiusi dal sonno ed il tramezzino ormai quasi
finito, mentre il Dottore estraeva gli occhiali da lettura dal taschino e li
posava sul naso, mostrando un sorriso soddisfatto quando finalmente vedeva
chiare le lettere stampate e si concentrò sulla lettura della presentazione in
copertina.
Dopo
alcuni attimi fu la voce della ragazza ad interrompere il silenzio:
“Era
davvero così?”
Il
Dottore abbassò il libro in grembo ed alzò lo sguardo verso di lei.
“Cosa,
l’Afghanistan?”
L’espressione
che gli si dipinse sul viso sembrava triste e sorpresa allo stesso tempo mentre
posava nuovamente il libro con cura sul tavolino. Clara si pentì della sua
domanda intuendo che non gli faceva piacere ricordare determinati avvenimenti.
Sapeva di non dover chiedere, ma era stato più forte di lei.
“Non
so cosa ci sia scritto in quel libro. Se l’autore abbia parlato di guerra o
altro. Quello che ho visto però è sicuramente infinitamente peggio.” La voce
del Dottore era un sussurro roco carico di un’emozione oscura che fece
rabbrividire Clara, il suo sguardo fisso in un punto indefinito davanti a lui e così lontano nella memoria. La
ragazza provò a muovere le labbra tremanti per dire qualcosa, ma il Dottore
riprese il suo discorso senza guardarla ed una voce innaturalmente fredda:
“L’ultimo
giorno di addestramento ci dissero che entro due giorni avremmo saputo la
nostra destinazione. Andammo a dormire tranquilli e soddisfatti, ma non ci
saremmo mai aspettati di ritrovarci, nel cuore della notte, gettati giù dal
letto, battuti e trascinati via con solo quello che indossavamo per la notte,
per essere gettati su un furgone senza vetri e portati chissà dove.”
Le
raccontò di come degli uomini armati, vestiti in abiti scuri e col viso coperto
da passamontagna, li avevano malmenati e chiusi in una specie di prigione in
cemento armato senza finestre. Alcuni parlavano arabo, o quello che sembrava
essere arabo. Ma lui aveva intuito fossero inglesi. Le raccontò di un giovane
medico che cercò di parlare con quei ‘soldati’, per capire la situazione ma non
fece altro che guadagnarsi un pugno in faccia:
“Quando
provò a reagire, tre di loro gli furono addosso e lo trascinarono fuori dalla
cella mentre altri quattro restarono dentro con noi a tenerci d’occhio.
Sentimmo uno sparo ed uno degli uomini in nero disse ‘uno andato’.” Il dottore
sospirò chiudendo gli occhi.
“Non..
lo avranno mica…” Chiese Clara con il fiato spezzato.
“No.
In seguito abbiamo saputo che lo avevano riportato alla caserma; credo lavori in
un ospedale nel nord dell’Inghilterra.” Il Dottore deglutì per poi continuare:
“Non
ti dico lo shock che provammo noi dentro in quel momento, però. Non so gli
altri, ma il mio cuore si era fermato. Ero lontano dalla porta, ma allungai lo
stesso il collo per dare uno sguardo fuori e mi ritrovai un fucile puntato al
viso ed un ‘no no no’ che mi martellava le orecchie. Ebbi la sfrontatezza di
guardare verso l’alto ed incrociare lo sguardo di quello che mi teneva sotto
tiro. Doveva averla presa come una sfida, perché mi ritrovai dolorante ed
ansante a contorcermi sul pavimento. Mi ero guadagnato un calcio al fianco
sinistro. Doveva avermi preso il rene perché mi ritrovai con tracce di sangue nelle urine per i tre
giorni successivi.” Le raccontò di come non riuscivano a quantificare il tempo
passato in quella cella, di come dormivano sul pavimento lordo dei loro
escrementi, di come all’improvviso due o anche tre di quei soldati entravano
urlando in arabo e loro non dovevano guardarli se non volevano essere malmenati
o ‘fatti fuori’, descrivendo gli eventi nei dettagli senza rendersene conto. La
voce diventava più fioca man mano che proseguiva nel racconto finchè non giunse
il silenzio assoluto, gli occhi vitrei mentre altre immagini di guerra gli
attraversavano la mente e gli facevano male dentro. A volte si chiedeva perché
continuasse a farsi mandare in giro per territori disagiati; si rispondeva che
anche una sola vita che salvava in più valeva la pena che scontava; ma per una
qualche ragione più egoistica doveva ammettere che l’impegno profuso nella sua
missione lo teneva lontano dal pensiero di River che non era più con lui.
Il
Dottore si riscosse, scattando con lo sguardo verso Clara nel momento in cui avvertì
la mano di lei stringergli il braccio sinistro e ritrovandosela seduta accanto
sul divano. I suoi muscoli si tesero a causa del contatto inaspettato e si rese
conto che, forse, aveva esagerato nel lasciarsi andare col racconto. Raramente
lo faceva, e solitamente solo con suo figlio. Ma era stato così naturale e
tonificante parlarne con lei, in quel momento, da lasciarlo sconcertato.
Cercò
di sorriderle per farle abbandonare quella piega sofferente che le scavava il
viso assonnato, ma non ci riuscì. Fu solo capace di dirle in un tono triste e
stanco:
“Anche
quello faceva parte dell’addestramento. Una simulazione di un sequestro ad
opera dei Talebani. Sai, i medici lì sono bersagli primari. Il tutto era durato
settantadue ore, ma a noi sembrarono essere passati settantadue giorni..” Ecco
spiegato perché, a partire per la missione, da un gruppo di sette erano rimasti
in tre.
Clara rabbrividì ed il suo corpo intorpidito cominciò
inconsciamente a tremare.
“Scusami.
Credo di essermi lasciato andare troppo nel raccontare.” La voce del Dottore
era tesa, così come il suo corpo sotto quella stretta improvvisa e la
realizzazione di aver turbato la ragazza con le sue parole. Incapace di
muoversi, si ritrovò a fissarla con sguardo preoccupato mentre pensava ad un
qualche modo per cercare di tranquillizzarla. Ma si ritrovò invece con le
braccia della ragazza al collo e la tua testa sulla spalla in un abbraccio
innocente che aveva lo scopo di consolarlo.
“No…
è colpa mia. Non avrei dovuto chiedere... ti ho fatto ricordare cose spiacevoli. Mi dispiace.” La voce spezzata ed appena
percettibile della ragazza, assieme al calore dolce del suo corpo, gli sciolse
il cuore. Si tolse gli occhiali dal naso con la mano destra per mascherare la
sua goffaggine riguardo al contatto fisico, stendendo poi il braccio sul
bracciolo del divano. Non si accorse che la sua mano sinistra, invece, si era
lentamente mossa da sola finendo col toccare la schiena di lei in una stretta
lieve ed impacciata. Quando si rese conto della cosa, osservò la mano
tremargli, ma non la rimosse. Percepì appena che la presa di lei era diventata
più morbida, avvertendo il suo respiro regolare sul collo. Spostò appena la
testa verso sinistra a cercare il volto di lei con lo sguardo e, sospirando, sprofondò ancora
di più sul divano nello scoprire gli occhi di lei chiusi dal sonno. Portandosi
una mano al viso, incapace ormai di formulare un qualche pensiero pertinente o
anche solo alzarsi da lì, chiuse gli occhi anche lui.
Alle
sei e mezza Clara si risvegliò stesa sul divano. Era sola, ma una coperta di
pile la teneva al riparo dal freddo mattutino. Si alzò lentamente, guardandosi
intorno nel tentativo di alleviare quella sensazione di smarrimento che la divorava.
Avvertì
dei rumori provenire dalla cucina e si chiese chi della casa potesse essersi
svegliato tanto presto. Poi il riaffiorare dei ricordi confusi di quella notte
le diedero una consapevolezza improvvisa e devastante: aveva addosso l’odore
del Dottore. Il suo profumo le impregnava le narici, i capelli ed i vestiti e
non le dispiaceva.
Mentre
portava le gambe giù dal divano e si sedeva composta, col cuore stretto
in una
morsa che le faceva male ed un fuoco inestinguibile che le bruciava
dentro, Clara realizzò che si trovava decisamente nei casini.
In
quel preciso momento espresse per la prima volta il desiderio, se non
la
necessità, che John ed il Dottore fossero un’unica e sola persona,
perché desiderarli
entrambi non poteva portare da nessuna parte. E realizzò anche che,
forse, Amy
aveva ragione: cambiare aria ed uscire con qualcuno avrebbe potuto
aprirle una
strada diversa, lenire le ustioni che dall'interno le stavano divorando
lentamente la carne ed evitare così un disastro assicurato.
---------------
Note:
Lo
so. E’ un capitolo lunghissimo. Ma siamo quasi alla fine, in teoria, quindi
resistete ancora un po’, vi prego :D Grazie comunque a chi segue ancora la
storia, so già come finirà e… non date nulla per scontato. Soprattutto dopo
aver letto questo capitolo :D
Arrivederci
al prossimo capitolo, dunque. Sperando che sarete ancora qui per vedere come proseguirà
^^
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
cap.6
Capitolo 6
John
si ritrovò a girare per casa senza avere una meta precisa. L’ambiente era
improvvisamente vuoto, nonostante Amy e Rory fossero sul divano a chiacchierare
sull’organizzazione della serata.
John
li guardò e storse appena le labbra, improvvisamente consapevole che lui era di
nuovo solo.
Dal
ritorno di suo padre erano state poste delle regole rigide. I ragazzi potevano
restare, ma finchè il Dottore aveva la responsabilità di sorvegliarli e
comportarsi da genitore, come era nella sua natura, avrebbero dormito in camere
separate. Dopotutto quella era casa sua e vigevano le sue regole. Ecco spiegato
il motivo per cui Amy e Clara condividevano l’ex stanza dei fidanzatini e Rory
si era ritrovato a dormire nella camera di John. Eppure, quando i turni del
Dottore lo impegnavano per la notte o per le 24 ore, la giovane coppia non si
faceva sfuggire l’occasione per dormire insieme, rilegando John (o Clara) a
dormire nella camera dell’uomo… e quel fine settimana era una di quelle
occasioni: un improvviso cambio di turno con un collega ed il Dottore si era
ritrovato con quello di 24 ore e rientro la domenica.
Clara
non c’era, suo padre nemmeno e quella sensazione di mancanza che John avvertiva
ed alla quale, ormai, non era più abituato gli faceva un male cane!
John
si diresse dapprima in cucina, aprendo la dispensa e raccogliendo un pacco di
biscotti alla crema pasticcera che si rigirò tra le mani prima di riposarlo al
suo posto senza neanche aprirlo. Si diresse poi al piano di sopra, fermandosi
davanti alla camera delle ragazze. Restò sulla soglia, guardandosi intorno e
sentendo il cuore battergli improvvisamente forte quando percepì l’odore di
Clara. Forse era solo una sua allucinazione, probabilmente la sua mancanza che
si faceva sentire in quel modo; ma doveva ammettere che la presenza soprattutto
di Clara era ormai radicata in casa sua e non voleva che la cosa finisse.
Il
giovanotto si ritrovò inspiegabilmente a camminare verso il lettino di lei. Si
sedette, toccando con la mano il cuscino. Credette di percepire il calore di
lei sul guanciale, mentre l’odore di Clara si faceva più intenso nelle sue
narici. Il cuore sembrava bruciargli, con la testa frastornata che gli fece perdere per un attimo equilibrio e
cognizione. Si ritrovò steso di traverso sul lettino, con una lacrima che gli
scendeva lungo il viso e le labbra imbronciate.
Domenica.
Doveva spettare fino a domenica. Due giorni. Due lunghissimi, interminabili e
noiosissimi giorni senza la sua Clara.
Si
era ripromesso più e più volte di non innamorarsi. Si era ripromesso più e più
volte di non fidarsi mai più di nessuno. Si era imposto di porre paletti alla
loro relazione ed aveva ormai paura di eliminarli. Si ripeteva continuamente
che non gli importava davvero di non poterla toccare in quel senso, purchè
Clara rimanesse accanto a lui. Ora si rendeva conto che forse, col suo
comportarsi da fidanzato affettuoso, era andato ben oltre i limiti posti da lui
stesso e non poteva tornare indietro. Non
voleva tornare indietro! Clara era via da solo un giorno ed era sembrato un
mese; gli mancava terribilmente, e lui non sapeva cosa fare.
Si
alzò di scatto, passandosi una mano sul volto ad asciugare quell’unica lacrima
che gli era sfuggita e che ormai era già secca sulla sua guancia. Aveva bisogno
di distrarsi e smettere di pensare!
Scese
velocemente per le scale ed altrettanto rapidamente attraversò il salotto
diretto all’ingresso.
“John?”
Chiesero Amy e Rory all’unisono.
“Dove
vai? Successo qualcosa?”
John
non si fermò, raccolse le chiavi della moto ed il casco per dirigersi
velocemente fuori lasciando ai ragazzi un semplice:
“White
Water.” E si chiuse la porta alle spalle, ignaro dei due fidanzati che si
scambiarono uno sguardo perplesso.
In
lontananza, si udì il rombo della moto pronta a portare il giovane al centro
sportivo di Londra. Un po’ di allenamento con la canoa da discesa forse lo
avrebbe aiutato a disperdere i pensieri tristi.
******
Clara
guardava la pagina bianca di word con quel maledettissimo trattino nero
intermittente che le stava praticamente facendo venire la nausea. Aveva portato
il portatile con se a Blackpool per non restare indietro con lo studio, ma i pensieri
sembravano non volere abbandonare la sua mente.
Col
Dottore non aveva avuto modo di parlare riguardo alla fatidica notte sul divano
e John… Oh, John! Quando l’aveva accompagnata alla stazione per prendere il
treno l’aveva salutata con un abbraccio serrato e gli occhi tristi da cucciolo
abbandonato, lasciandole il suo dolcissimo calore addosso ed il suo buonissimo
profumo di legno e rose. Quell’immagine di John l’aveva distrutta e quasi persuasa
a restare, se non fosse stato per l’obbligo di recarsi a Blackpool,
probabilmente lo avrebbe fatto.
Sospirando
nervosamente, Clara chiuse lo schermo e spinse il portatile un po’ più in là
sul tavolo.
Cercò
con lo sguardo il cellulare, notando che la lucina delle notifiche messaggi
brillava. Lo guardò perplessa ricordando che non aveva spento la suoneria;
possibile che fosse così concentrata a far nulla da non sentire il telefono
squillare?
Lo
prese e lo controllò, notando un messaggio in arrivo di Angie che le chiedeva
di vedersi. Clara scattò dalla sedia e le telefonò. Aveva bisogno di aria
fresca. Ed anche parlare con un’amica le avrebbe fatto bene.
Si
ritrovarono al bar, parlando del più e del meno come non facevano da tempo.
Clara ed Angie avevano colore diverso della pelle e pochi anni di differenza,
ma erano praticamente cresciute insieme come sorelle. Angie aveva lasciato gli
studi dopo il diploma e si era sposata giovane, suo marito era un avvocato di
dieci anni più grande e la loro precoce unione non era stata vista di buon
occhio. Clara invece l’aveva sempre appoggiata ed aiutata. Se c’era amore andava tutto bene, le diceva sempre. Non avevano
bambini però, perché ancora non era il momento e volevano godersi un po’ di
vita in due, così dicevano. Probabilmente il motivo era un altro e Clara sapeva
che Angie, con i suoi ventuno anni, si reputava ancora troppo giovane per
diventare madre.
“Dio
Clara… certo che ti sei messa proprio in un bel casino!”
Angie
la guardava con gli occhi spalancati dalla sorpresa, mentre Clara stringeva la
cannuccia tra i denti e con le labbra serrate senza però tirare su alcun sorso
del frappè che aveva ordinato.
“Insomma.
In una situazione normale… cioè più normale… ti avrei suggerito di frequentarli
entrambi e scegliere quello che ti piaceva di più ma in questo caso… cavolo!
Padre e figlio? Davvero?”
Clara
lasciò andare la cannuccia e si accasciò con la fronte sul tavolo e portandosi
le mani alla testa. Non parlò, ma si lasciò sfuggire solo un gemito sofferto e
frustrato.
Angie
la guardò per un attimo prima di diventare improvvisamente seria; le prese le
mani tra le sue cercando di farle alzare la testa per guardarla:
“Clara,
posso farti una domanda?” la moretta alzò lo sguardo sull’amica e scrollò le
spalle afflitta.
“Cosa
provi di preciso per uno e per l’altro? Insomma, deve essercene uno che ti
piace di più.”
Clara
sospirò, abbassando le spalle e lo sguardo.
“Oh,
Angie… io davvero non lo so. Ho provato a capirlo ma… dove manca uno arriva
l’altro ed è questo che… mi devasta! Non sai quante volte ho desiderato che
fossero una sola unica persona! Quando sono con loro mi sento completa, adesso
per esempio mi mancano terribilmente ed avverto un vuoto dentro che fa male…”
“E
tu a quale dei due credi di piacere?”
Questa
domanda fermò il cuore di Clara. Fissò lo sguardo confuso sul viso olivastro di
Angie, facendosi passare per la mente l’immagine sorridente di John e quella
seria e triste del Dottore. Quei due uomini erano come il giorno e la notte, ma
li adorava entrambi e non poteva farne a meno. Si fermò a pensare ad una
risposta chiara e sensata, mentre i secondi passavano in silenzio tra loro.
Infine,
Clara respirò profondamente e cercò di formulare una qualche risposta coerente:
“Io…
è complicato, Angie… John a volte si comporta da fidanzato apprensivo e premuroso,
mi fa sentire speciale come nessuno ha mai fatto; poi scappa come se lo avessi
scottato. Il Dottore invece… lui è sempre presente; … è pieno di piccole
attenzioni, ma lo fa anche con Amy e Rory in egual maniera, credo…”
Clara
fissò lo sguardo oltre la spalla dell’amica come se stesse guardando chissà
cosa, ma il suo sguardo era vuoto, perso nel ricordo della fatidica notte:
“
Eppure abbiamo dormito insieme. Cioè lui ha dormito con me. Non è molto a suo
agio con il contatto fisico, quindi ogni suo gesto ha un valore inestimabile e…
mi sono svegliata al mattino con i vestiti intrisi del suo profumo,
significherà qualcosa! Non me lo sono sognato…”
Clara
sbuffò, sbattendo nuovamente la fronte contro il tavolo e lamentandosi. Angie
poggiò il gomito sul tavolo ed il mento sulla mano dello stesso braccio
meditando sulla situazione confusa e decisamente pericolosa in cui si ritrovava
la sua amica. In effetti, un uomo disinteressato l’avrebbe lasciata dormire da
sola, al limite l’avrebbe portata in camera nel suo lettino indifferentemente.
Di certo non avrebbe dormito con lei però.
“Ascolta
Clara. Io potrei anche consigliarti come muoverti, ma sono sicura che tu
faresti l’esatto contrario ed agiresti di testa tua. Purtroppo comanda il cuore
adesso e non la mente.”
Clara
piegò la testa di lato, poggiandola sul braccio e lasciò uscire dalla gola un borbottio
che aveva l’intenzione di essere una risposta purtroppo affermativa alle parole
dell’amica.
“Però…
credo dovresti provare a parlare con entrambi. In tempi diversi ovviamente. Cercare
di capire se la barriera di John può essere abbattuta e cosa abbia significato
quella notte per il Dottore. Mettere in chiaro le cose credo abbia la priorità
ora, non pensi?”
Clara
guardò l’amica che le sorrideva dolcemente e le stringeva ancora una mano.
Portò lo sguardo proprio sulle loro mani unite e si sentì improvvisamente
sollevata, senza una particolare ragione. Decise di alzare la testa e portarsi
dritta con la schiena restituendo all’amica lo stesso sorriso, anche se i suoi
occhi erano tristi. Sapeva che l’amica aveva ragione, ma le appariva tutto così
difficile, impossibile quasi, da farle desiderare di scappare lontano. Aveva
perso il controllo e lei non lo perdeva mai.
“John
ha già detto che non può rendermi felice però. Sarà difficile riprendere lo
stesso discorso e fargli cambiare idea…”
La
mano di Angie si serrò più stretta attorno a quella di Clara riprendendola con
un tono dolce:
“Clara,
stando a quanto mi hai raccontato, in quel momento John parlava del perché non
aveva una fidanzata. Non parlava specificatamente di te. Ma permettimi una
domanda: quante cose sono cambiate nel corso dell’anno? E questa fantomatica
barriera di cui parli, la erge anche con altre conoscenze?”
“No…
cioè, non con Amy e Rory; e gli altri amici o compagni di università non hanno
con lui un rapporto tanto stretto da… renderlo necessario.”
“Ecco.
Appunto! C’è qualcosa sotto questa barriera! Quindi va e scoprila! E nel
frattempo, mentre pensi a come intavolare la discussione, cerca di capire anche
tu quale di questi due uomini ti piace di più.”
Clara
sbuffò:
“Facile
a dirsi…”
“Lo
so che non è facile. E mi dispiace non riuscire ad aiutarti come tu hai aiutato
me con Henry e tutto il resto…” La voce di Angie era sincera e con una nota di
rammarico: “Ma Clara… solo tu conosci i tuoi veri sentimenti.”
Angie
aveva dannatamente ragione, e Clara lo sapeva fin troppo bene. Quella chiacchierata
però le era servita: a Londra riuscì a tornarci con l’animo più leggero ed una
speranza maggiore di riuscire a risolvere la situazione, in un modo e
nell’altro. Doveva solo capire come.
****
Non
appena il treno si fermò alla stazione Clara raccolse la sua tracolla e si
catapultò letteralmente fuori dal mezzo. Si guardò in giro, con il viso
imbronciato nel rendersi conto che non c’era nessuno ad aspettarla. Non nascose
la delusione che avvertiva, avendo sperato che John fosse lì per lei ed invece si
era ritrovata sola. Sbuffò e sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime, con la
mancanza di lui che si faceva di nuovo intensa come quando era a Blackpool.
Poi
il suo cuore perse un battito quando due mani conosciute le coprirono gli
occhi. Non aveva bisogno di vedere o toccare per capire chi fosse. Il suo
sorriso si allargò istintivamente non appena avvertì il profumo di rose e legno
alle sue spalle:
“Eleven!”
Le
mani di John le lasciarono libero il volto, permettendole di girarsi e
saltargli tra le braccia. John la strinse e la sollevò, portandosela dietro
mentre girava su se stesso ignaro della gente che si scostava nervosa per non
scontrarsi con loro.
Quando
la mise giù, girava la testa ad entrambi, ma non riuscivano neanche a smettere
di sorridere e guardarsi. Forse il mondo intorno a loro girava vorticosamente,
ma in quel preciso momento, erano l’uno il punto fisso dell’altra e tutto il resto
non contava.
“Allora.
Hai fatto qualcosa di nuovo mentre non c’ero?”
“Bè…
ho contato le assi della staccionata in giardino.” Rispose John con un tono
serio.
Clara
rise aggiungendo:
“Ti
sei annoiato a morte!”
John
imbronciò le labbra sussurrando un misero “Forse…” Poi ricambio il sorriso di
lei, correndo alla panchina accanto ad una colonna per raccogliere due caschi,
uno dei quali lo porse alla ragazza.
“Sei
venuto in moto?” Clara prese istintivamente il casco, stringendo il gancio
nella mano destra giusto in tempo prima che John le prendesse la mano sinistra
e la trascinasse via.
“Si
ma… non voglio già andare a casa!”
“Tranquilla,
nemmeno io!”
Si
erano fermati lungo le sponde del Tamigi, seduti sull’erba ed un gelato tra le
mani. Alcune barche navigavano il corso del fiume, alcuni canoisti si
allenavano o semplicemente ‘giocavano’ con il fiume tranquillo.
“Sai
John… qualche altra volta dovremmo rifare quella cosa sul fiume. Potresti
insegnarmi.”
John
le sorrise, dando un morso al gelato prima di parlare:
“Come
sta tua nonna?”
Clara
sospirò:
“Sta
bene adesso. Ma è molto vecchia e… gli acciacchi non mancano di farsi sentire
ogni tanto. Ti manda i saluti, dice che le farebbe piacere rivederti.”
Clara
sospirò con un sorriso triste, mentre
John si era voltato a guardarla. Al ritorno dalla Scozia, l’estate scorsa, si
erano fermati in città per salutare la famiglia di lei.
“Magari
qualche volta posso venire con te a Blackpool.”
“Sono
sicura che le farebbe piacere. A me di certo.”
“Si,
ma solo se mi prometti che non le permetterai di palparmi il sedere.”
Clara si lasciò scappare una leggera risata
che nascose dietro la mano sinistra, rispondendo:
“Tu
sei riuscito a scappare l’altra volta. Tuo padre invece… aveva lo sguardo
scioccato ed il viso paonazzo!”
“Già,
credo l’abbia vissuta come una sorta di molestia… povero papà, è rimasto
traumatizzato!”
Sorrisero
e si guardarono in un improvviso silenzio. John aveva una dolcezza negli occhi
che lasciò Clara senza respiro e le fece battere il cuore all’impazzata.
Erano
così vicini che credette si sarebbe chinato a baciarla sulle labbra, ma quel
bacio si fermò sulla fronte. Non nascose la sua delusione, sperando che quella
barriera di cui aveva parlato con Angie crollasse proprio in quel momento, ma
si risollevò quando il braccio di John le circondò la vita e se l’ avvicinò.
Clara ricambiò, dando l’ultimo morso al gelato e stringendo le braccia in una
morsa serrata attorno al giovane e sprofondando il viso contro la spalla di
lui.
“Mi
sei mancato, Eleven.”
Si
strinse a lui timorosa che da un momento all’altro John si sarebbe allontanato,
come faceva sempre in occasioni come quella, ma restò colpita quando invece
anche la stretta di lui si fece più dolce e calda: John aveva lasciato cadere
il resto del gelato sull’erba e l’aveva stretta a se con entrambe le braccia,
lasciandole un bacio tra i capelli:
“Anche
tu Ragazza Impossibile. Mi sei mancata da morire.”
Forse
Clara avrebbe potuto usare quell’occasione per chiedergli di dare un nome al
loro rapporto. Ma la paura di rovinare quel momento tanto raro e prezioso era
troppa. Rimasero così per un tempo indefinito, col sorriso sulle labbra ed un
dolce tepore che si espandeva dentro di loro.
Forse
quella era una di quelle occasioni in cui Clara avrebbe dovuto semplicemente
gustarsi le emozioni che John le dava e capire quanto e come tenesse a lui.
Chiuse gli occhi e si lasciò andare, respirando appieno il suo profumo. Si
godette la tranquillità, il sole che tramontava oltre gli edifici all’orizzonte
e si rifletteva rosso sull’acqua in basso, il calore dolce dei loro corpi
vicini. Era tutto troppo perfetto e, forse, quel momento prezioso era bene
lasciarlo così.
-----------------------------
Nota:
Capitolo
forse un po’ di transizione. Ma nel prossimo scoppierà l’inferno X’D Siamo
quasi alle battute finali ^^ Grazie ancora a chi segue la storia, abbiate
ancora un po’ di pazienza per sopportarmi.
|
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
Cap.7
Capitolo 7
Clara stava parlando con la sua collega al banco bar
quando si sentì afferrare da dietro e stamparsi un bacio a schiocco sulla
guancia. Il suo cuore perse un battito prima di impazzire e sorridere
ampiamente:
“Eleven! Controllati!”
“No!”
John strinse la presa attorno a lei stampandole un altro
bacio sull’altra guancia e costringendola a piegarsi all’indietro contro di
lui, facendole perdere l’equilibrio volutamente per sostenerla.
La sua collega le fece un occhiolino complice e si
allontanò un po’ per servire alcuni clienti, prendendo anche un paio degli
incarichi di Clara.
La moretta strinse le mani attorno alle braccia di John,
fin troppo contenta di sentirlo così vicino.
Aveva la netta sensazione che qualcosa fosse cambiato da
quando era tornata da Blackpool, che John fosse diventato più aperto e
disponibile con lei e spesso avvertiva tra loro quell’energia speciale che solo
tra due persone innamorate poteva esserci.
Spesso si era ritrovata ad incrociarne lo sguardo e
capiva che la stava osservando. La cosa più bella e che la emozionava
infinitamente era che lui in quei momenti non rifuggiva i suoi occhi, anzi
continuava a fissarla e le sorrideva con quel suo sorriso dolce ed unico.
In quei momenti, Clara si chiedeva se non fosse il caso
di parlargli di loro due, chiedergli di provare a valicare il limite
dell’amicizia per raggiungere qualcosa di più. Ma erano quelli anche i momenti
che più la spaventavano.
Quando John si staccò da lei e la osservò sorridendo,
Clara piegò il viso di lato restituendogli uno sguardo carico di tenerezza.
John era un bambino incontrollabile che le sfuggiva ogni volta dalle mani, ma
quel momento lei sapeva che era totalmente suo e ne era appagata.
“Sono contenta che sei passato a salutarmi. Dove sei
stato stasera?”
“A casa. Ad annoiarmi.”
John arrossì, portandosi la mano destra al volto per
grattarsi la guancia con l’indice.
“Perché non mi hai chiamata? Mollavo il lavoro e
passavamo la serata insieme!”
Clara incrociò le braccia al petto e battè la punta del
piede destro sul pavimento con una finta aria imbronciata. John scrollò le
spalle rispondendo con un innocente:
“Stiamo già passando la serata insieme, no?”
Clara sospirò:
“Si… in un certo senso. Ma poteva essere meglio.”
Concluse sconsolata, ritornando al lavoro dietro il banco bar per riempire
alcuni boccali di birra e posarli su un vassoio che una delle cameriere prese
poco tempo dopo da portare ai tavoli.
John salì su uno degli sgabelli, ponendosi di fronte a
Clara senza perdere il suo buonumore:
“Mi basta stare qui.”
Si alzò appena dallo sgabello sporgendosi verso di lei e
le baciò la fronte sorprendendola, tornando poi in posizione seduta e
guadandola con quel visino furbo che voleva apparire innocente e non ci
riusciva.
“Bè, magari posso chiedere di uscire prima, tanto è solo mercoledì…”
John si voltò verso la sala, dando uno sguardo generale.
“Perché hai preso a lavorare anche nei giorni
infrasettimanali? Se è per i soldi…”
“No!” Clara lo interruppe forse con un tono troppo alto,
costringendo John a voltarsi verso di lei e guardarla allarmato. Clara arrossì,
cercando di sviare:
“Una ragazza si è licenziata. Hanno bisogno di coprire i
suoi turni mentre ne trovano una nuova.”
In parte era vero, ma la verità era indubbiamente
un’altra. Non erano di certo i soldi il motivo che l’aveva spinta, più che
altro, Clara non poteva dirgli che il motivo per cui la sera preferiva stare
fuori casa piuttosto che dentro era dovuto al fatto che aveva paura di stare da
sola con lui o con il Dottore. Non una paura paralizzante che riguardava una
qualche situazione di pericolo mortale, più che altro il contrario: Clara aveva
paura di se stessa, di come avrebbe potuto agire lei restando da sola con uno
qualsiasi di loro due. Soprattutto, come avrebbe potuto agire nei confronti del
Dottore dopo la notte sul divano. Ogni volta che pensava a quell’evento si
riscopriva sempre più confusa ed insicura su tutte le sue emozioni.
La giovane sospirò cercando di far deviare i suoi
pensieri quando sobbalzò nel vedere John scavalcare rapidamente il bancone e
nascondersi sotto di esso, accanto alle sue gambe, terrorizzato da chissà cosa.
“John!” Clara si guardò attorno preoccupata, cercando di
inquadrare i proprietari del locale e sperare che non avessero assistito alla
scena, prima di piegarsi verso il basso e dirgli:
“Non puoi stare qui! Alzati! Mi farai licenziare…”
Cercò di tirarlo su per un braccio, ma John le rivolse
uno sguardo allarmato portandosi l’indice alle labbra :
“Shhh! Non farmi scoprire!”
Clara lo guardò perplessa, cercando comunque di tirarlo
su inutilmente.
Poi John le disse:
“La vedi la tipa in piedi al tavolo al centro?”
Clara si mise dritta, dando uno sguardo di scuse alla sua
collega confusa dall’altra parte del banco bar. Poi cercò il tavolo indicatole
da John, inquadrando una donna sui 35 alta e magra, con un vestito nero sexy ed
aderente, coscia da fuori, tacco a spillo e lunghi capelli corvini che sembrava
traspirare la parola ‘sesso’ da ogni poro:
“Dici la cavallona alta vestita di nero, tacco cinquanta
ed un quantitativo di Eye-liner sugli occhi che puù competere con quello di una
Drag Queen?”
John deglutì, annuì e poi sospirò profondamente:
“E’ Tasha Lem. Non voglio che mi veda!”
A quel nome, tutti i recettori di Clara si attivarono, costringendola
a fissare lo sguardo su quella donna per giudicarla. La gelosia che aveva
provato per quella donna quando ancora non le aveva dato una forma si era
trasformata in delusione, prima, e rabbia poi. Come poteva John essersi
mischiato con una donna del genere? Poteva davvero preferire una notte di sesso
con quella creatura piuttosto che
provare a lasciarsi andare ed innamorarsi di lei?
“Quella!? Davvero ci sei andato a letto? Voi uomini…
tutti uguali!”
Non si accorse dell’asprezza della sua voce finchè non incrociò
lo sguardo lucido e dispiaciuto di John. In quello sguardo vi aveva letto che
la delusione ed una profonda ferita.
E John lo era. Deluso perché aveva deluso Clara. Ferito,
perché non voleva che lei lo considerasse uguale agli altri. Era per quello che
non voleva innamorarsi, perché all’amore corrisponde anche il dolore e lui non
riusciva a sopportarlo.
“Scusami… ho esagerato. Forse ero un po’ gelosa…”
Clara abbassò lo sguardo al pavimento, rendendosi conto
che forse aveva confessato qualcosa di troppo. Ma voleva essere sincera e…
perché no, provarci anche, tentare, rischiare qualcosa in più. Al peggio, John
l’avrebbe ignorata o si sarebbe allontanato come aveva sempre fatto e lei si
sarebbe leccata le ferite, ancora una volta, in attesa di una prossima volta.
John avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma una voce nota
lo aveva fatto sbiancare di colpo e trattenere il respiro: Tasha Lem!
Aveva raggiunto il banco bar e ordinato direttamente lì
la birra per lei ed i suoi due amici al tavolo. Il sorriso malizioso che le
disegnava le labbra in aggiunta a quello strano sguardo di sfida, troppo
intenso per ignorarlo, con cui la stava fissando infastidì Clara ulteriormente.
La moretta però non poteva tradire la sua professionalità e le servì quanto
ordinato in silenzio.
La donna si fermò a guardare i bicchieri posizionati sul
vassoio in silenzio. Clara la studiò dicendole:
“Te li porto al tavolo, ok?”
Tasha la guardò nuovamente con la medesima espressione
scuotendo la testa e rispondendole:
“No. Li porto io, grazie. Posso chiederti solo un
favore?”
Clara la guardò diffidente, ma non potè fare altro che
annuire.
“Dì a Johnny che aspetto il secondo round. Il primo è
stato molto interessante!”
John nascose la testa tra le gambe, ormai consapevole che
purtroppo era già stato visto. Clara strinse la mascella mentre la donna si
allontanava, avvertendo un improvviso raptus omicida salirle dal profondo.
Prese il cellulare dalla mensola dietro al ripiano dei
bicchieri ed inoltrò la chiamata verso Amy. Attese qualche squillo prima di
sentire la voce della ragazza all’altro capo:
“Amy, accetto quell’appuntamento.”
Quando interruppe la telefonata, si voltò solo per
trovarsi da sola dietro al banco. John se n’era andato. Come previsto, aveva
deciso di allontanarsi da lei.
*****
Come volevasi dimostrare, la serata organizzata da Amy
era stata un vero disastro. Era vero che aveva accettato solo per rabbia e già
non si aspettava nulla di buono dalla serata; certo, il ragazzo che le aveva
propinato Amy poteva anche risultare simpatico, se non fosse stato per la sua
predisposizione a parlare per metafore filosofiche e che fosse addirittura più
basso di Clara… e ce ne voleva, per essere più bassi di lei! Senza contare che
aveva ordinato porridge per cena e praticamente chiestole quanti figli avrebbe
voluto in futuro dopo neanche cinque minuti di conversazione! Clara, disperata,
aveva finto un malore dovuto ad una qualche allergia alimentare e se l’era data
a gambe dopo aver atteso dieci minuti solo per educazione!!
Erano solo le nove e quindici quando era rientrata in
casa!
Aveva trovato le luci al piano terra spente, nel vialetto
non c’era la moto di John ma l’auto del Dottore invece si. Si chiese se John
fosse uscito con Tasha Lem e quel pensiero la punse nel profondo facendola
arrabbiare ancora di più.
Raggiunse il piano superiore spegnendosi man mano le luci
alle spalle, notando la porta della camera da letto del Dottore chiusa e quella
di John aperta con la luce all’interno accesa. Rory ed Amy erano lì, uno alla
scrivania, l’altra sul lettino del fidanzato; entrambi alle prese con lo studio
dei rispettivi libri.
Clara bussò alla porta per attirare la loro attenzione,
Rory si voltò dandole uno sguardo di solidarietà, capendo già la situazione.
Amy invece la guardò perplessa lasciandosi sfuggire un inaspettato:
“Ma come, già sei tornata?”
Clara corrucciò le sopracciglia ed incrociò le braccia
sotto al seno esplodendo in un:
“Certo! Ma si può sapere che cavolo di appuntamenti mi
vai ad organizzare? Quello voleva portarmi a firmare il contratto di
matrimonio!”
“Bè… ma è ricco. Molto ricco! Quindi che problema c’è? Lo
sposavi stasera, domattina divorziavi e recuperavi anche una bella quota di
mantenimento a vita.”
Ovviamente Amy era ironica, ma Rory si portò le mani al
viso esasperato e Clara… si sbatté la porta alle spalle e si diresse a passo
nervoso nuovamente verso il piano inferiore.
Raggiunse la cucina, aprì la dispensa e ne prese un pacco
di pasta. Non aveva mangiato, ed il nervosismo non le aveva comunque chiuso lo
stomaco. Aprì una scatola di sugo già preparato e cercò di metter su qualcosa.
Nell’attesa, decise di tagliarsi un po’ di cipolla fresca da aggiungere al
sugo.
“Non è andata bene?”
Clara sobbalzò, non aspettandosi di essere raggiunta da
qualcuno. Soprattutto non dal Dottore in persona. Lo guardò imbronciata,
rispondendo con un isterico:
“Non mi aspettavo comunque niente. Ho accettato solo per
far star zitta Amy una volta per tutte!”
L’uomo si avvicinò al centro della stanza, passandosi una
mano tra i capelli scompigliati dal sonno e sbadigliando. Clara lo vide ancora
leggermente intontito e si sentì improvvisamente in colpa:
“Scusa… ho urlato e ti ho svegliato.”
Il Dottore si accostò al piano di cottura, dando uno
sguardo distratto alle pentole appena messe su, in cerca di chissà cosa:
“Uhmm? No. In realtà dovrei andare in ospedale in nottata
per il cambio di guardia, quindi…”
Clara riprese a tagliare la cipolla, senza rendersi conto
che ormai l’aveva ridotta ad una poltiglia inservibile con i fumi invisibili
che salivano e le facevano bruciare e lacrimare gli occhi. Cercò di rimediare ed
asciugarsi una lacrima fastidiosa, ma nel movimento ambiguo che fece con la
mano, ebbe come unica conseguenza quella di tagliarsi un dito.
“Ahi!”
Inconsciamente, con la vista annebbiata dalle lacrime
incontrollabili, si portò il dito alle labbra per succhiare via il sangue dalla
ferita e ‘disinfettare’.
“Ti sei tagliata?”
Il Dottore le si avvicinò e le portò la mano sull’avambraccio,
cercando di farle allontanare la mano dalle labbra:
“Sai che la bocca è un’incubatrice naturale per germi e
batteri?”
Le prese la mano e l’accompagnò verso la fontana, aprendola
e lasciando scorrere l’acqua fredda sul taglio. La lasciò lì andando ad aprire
il cassetto delle medicine e prendendone dall’interno acqua ossigenata, garza e
cerotti per medicarla.
“Wow… se la metti in questo modo, fai sembrare anche un
bacio un qualcosa di… disgustoso!”
Il Dottore si lasciò scappare una risata mentre chiudeva
la fontana e le asciugava la ferita, fortunatamente non profonda, con la garza:
“Secondo te come ci si mischia l’influenza o anche solo
un raffreddore? Per non parlare dell’orribile herpes labiale! Anche se per
quest’ultimo c’è un’altra spiegazione.”
Il tono di voce era ironico ma con quella nota da
sapientone che stava ad indicare che aveva comunque ragione, quel tono che
esasperava Clara e la faceva sempre sbuffare. Il Dottore prese la boccetta di
acqua ossigenata per disinfettarle il dito prima di ricoprirlo con un cerotto.
Si avvicinò la mano curata alle labbra e la baciò come si fa con i bambini,
dandole la chiara sensazione di una piccola presa in giro.
“Sai Dottore…
penso comunque che il gioco valga la candela.”
Lei sorrise maliziosa, mente con l’altra mano si
strofinava gli occhi ancora irritati e lacrimanti a causa dai fumi della
cipolla. Non si accorse dello sguardo di lui a quella affermazione, né che il
Dottore sembrava aver smesso di respirare.
“Smettila… così li irriti ancora di più…”
Il tono profondo e forse troppo dolce di lui la obbligò a
fermarsi, a stringere gli occhi con difficoltà per metterlo a fuoco. Lo
intravide aprire la fontana per bagnare qualcosa e poi avvicinarsi nuovamente a
lei. Sentì la mano dell’uomo sul viso, col cuore che cominciava a tamburellare
violentemente nel petto, e posarle un lembo di un’ altra garza che aveva
bagnato prima sull’occhio destro e poi sull’occhio sinistro. Al contatto con la
freschezza di quel pezzo di garza bagnato si lasciò scappare un piccolo gemito
di sollievo ed un sorriso, godendosi appieno la delicatezza e l’accuratezza con
cui il Dottore si prendeva cura di lei. Probabilmente era una deviazione
professionale che in quel momento muoveva l’uomo, ma Clara volle assaporarne
ogni attimo.
Portò la mano destra sulla sinistra di lui, ancora
ancorata al suo viso mentre finiva di pulirle gli occhi. Clara li aprì,
avvertendo immediatamente il sollievo e rendendosi però anche improvvisamente conto di quanto fossero vicini
i loro corpi ed i loro volti.
La moretta continuò a guardare il Dottore negli occhi, intrecciando
le dita della mano con quelle di lui, col cuore che batteva forte nel rendersi
conto che l’uomo non si ritraeva al suo tocco.
L’uomo non parlò, ma i loro sguardi si erano come
incatenati l’uno nell’altro. Clara sentì un brivido percorrerle la schiena,
sentendo che quello era il momento giusto per parlare, provare se Angie aveva
ragione:
“Dottore… l’altra sera…”
La voce le tremò, mentre una punta di insicurezza si impadronì
improvvisamente di lei. Il pollice del Dottore sembrò muoversi arbitrariamente
andando a carezzarle il dorso della mano mentre le allontanavano dal viso di
lei e le diceva:
“Quale altra sera?”
La voce dell’uomo era un sussurro profondo, ma dai suoi
occhi Clara poteva dedurre che avesse capito a ‘quale sera’ si riferisse. Si
accostò di più a lui, con la gola secca ed il cuore che le stava per scoppiare:
“Sul divano. Credo di essere crollata senza accorgermene e…
sei rimasto con me?”
Per un breve attimo la mano che le stringeva la sua si
contrasse, mentre lo sguardo dell’uomo si spostava verso un punto indefinito
alla sua destra e si lasciava scappare un leggero:
“Si…”
Clara portò l’altra mano al viso dell’uomo, rendendo lo
spazio vuoto tra i loro corpi ormai infinitesimale e costringendolo a
guardarla:
“Tutta la notte?”
“Si…”
“Perché?”
Lui non rispose, semplicemente la afferrò per i fianchi
alzandola di forza e mettendola a sedere sul ripiano della cucina. I suoi
fianchi tra le gambe divaricate di lei, senza però pressarla, mantenendo quel
minimo di decente distanza che impediva di compromettersi esponendo l’uno all'
altra la reazione alle emozioni del momento.
Clara aveva smesso di respirare, sorpresa e spaventata
insieme, incapace di muoversi, con la vertigine al basso ventre che era
aumentata di intensità nel momento in cui le mani del Dottore si erano strette su
di lei, con se stessa sprofondata nelle iridi dell' uomo divenute di un grigio
intenso. Forse era la mancanza di luce nella stanza a renderli più scuri, ma
sembravano nubi di un temporale impellente e violento.
La ragazza cercò di respirare, ma i battiti del suo cuore
erano così prepotenti da farla singhiozzare
“Clara... che stai facendo...”
La voce calda dell' uomo le solleticò i timpani, assieme
al tamburellare del suo cuore ed il fischio alle orecchie le sembrò una melodia.
“Io assolutamente niente...” Si sentiva quasi una bambina
ripresa su un misfatto, ma non abbassò lo sguardo:
“Tu, invece?” Continuò a fissare gli occhi del Dottore,
seguendo i movimenti istintivi della testa dell' uomo che si avvicinava ed
allontanava da lei come se la stesse studiando. Lo vide piegare la testa di
lato, avvicinandosi e sfiorarle la guancia col naso ed avvertì il suo respiro
irregolare sulla pelle. Poi sentì le mani di lui allentare la presa, lasciarla
e poggiarsi, con i palmi aperti, sulla superficie del ripiano, accanto alle sue
cosce, mentre si allontanava di nuovo per guardarla.
“Clara... sono pur sempre un uomo. Ma non riesco a
radicarmi in un posto, non più. E tu meriti di meglio...”
“Non merito di meglio. Nessuno merita di meglio. Merito
ciò che voglio.”
Ed in quel momento lei era sicura al cento per cento di
volere lui.
Clara si sporse in avanti, portando le mani al volto del
Dottore e spingendolo verso di se in un tentativo furbo di catturare le sue
labbra dischiuse. Arrivò solo a sfiorarle, sentendo appena il suo sospiro
profondo e tremante prima che tirasse indietro la testa e la guardasse serio:
“Chi vuoi realmente Clara?” La voce perentoria di lui la
fece tremare:
“Vuoi John...tu lo ami.”
Clara serrò le labbra, corrucciando le sopracciglia.
Portò le mani sulle spalle del Dottore e si sporse nuovamente verso di lui
dicendo:
“Tu sei John. Quello è il tuo nome.”
Lasciò salire una mano tra i capelli grigi dell’uomo e
l’altra dietro la sua nuca, raggiungendo finalmente il suo scopo ed incastrando
le sue labbra con quelle dell’uomo.
Il bacio che si scambiarono fu lento ed intenso. Il
respiro si prolungò in una profonda inspirazione per entrambi mentre le loro
labbra si legarono. Il Dottore dischiuse le sue inconsciamente, dando a Clara
la spinta per portare la lingua nella sua bocca e gustare interamente il sapore
dell’uomo. In una vorticosa estasi il Dottore non poté fare altro che
assecondare i movimenti della testa di lei. Fu un attimo in cui il cuore sembrò
scoppiare ad entrambi; perso in chissà quale frenesia, l'uomo strinse nuovamente
la presa delle sue mani sui fianchi di Clara e scontrando quasi rudemente i
loro bacini. La sorpresa costrinse Clara a fermarsi per espirare un gemito,
lasciando che lui ne approfittasse per invaderle la bocca così come prima aveva
osato fare lei. All' ennesimo gemito della ragazza, morto nella gola di lui, il
Dottore si fermò, separando le loro labbra tremanti. Un fuoco divampava non
solo sulla loro pelle appena umida di un' precoce sudore, ma era dentro l'anima
che entrambi bruciavano.
Si guardarono increduli e spaventati, con il respiro
veloce ed irregolare rendendosi conto che entrambi i loro corpi tremavano.
“Clara...” la voce del Dottore era un sussurro tremolante.
La ragazza continuava a guardarlo senza rispondere.
“Se...” l'uomo deglutì ed inspirò profondamente prima di
continuare: “Se adesso facessimo l'amore, riusciresti a guardare John negli
occhi con la stessa naturalezza di sempre?”
Se il bacio aveva sorpreso e spaventato Clara, questa
domanda l'aveva sconvolta e resa improvvisamente consapevole. I suoi occhi si
spalancarono, il suo cuore ed il suo respiro si fermarono. Le labbra dischiuse
ebbero un fremito mentre realizzava che no, non avrebbe mai e poi mai avuto il
coraggio di guardare John in faccia. Distolse lo sguardo...
“Io nemmeno, Clara…”
Il Dottore si scostò dal corpo improvvisamente gelido di
Clara, sorridendo amaramente:
“E se la situazione fosse al contrario, invece? Potresti
guardarmi?”
Clara abbassò il viso. Mosse le labbra per parlare e poi
le richiuse. Sospirò dicendo in un sussurro:
“Non... lo so...forse si... forse no…” Ammetteva di non
averci mai pensato.
Lui sorrise, apparentemente soddisfatto di chissà cosa,
come se quella frase senza senso fosse in realtà una rivelazione importante.
“Ci sono diverse forme d'amore a questo mondo, Clara. Io
conosco la sofferenza, conosco il dolore di perdere la persona che ami, non
voglio che questo accada anche a John. Ha perso già troppo, non posso fargli anche
questo. Clara.... tu ed io... entrambi amiamo John di più”
“Dottore... si, io amo John Smith. In ogni sua forma. Ma
nessuna forma di John Smith ama me.”
“Ti sbagli Clara... Non hai la minima idea di quanto ti sbagli!
John ti ama come non potrebbe fare mai nessun altro in questo mondo!” In quel
momento il nome John racchiudeva in se l'essenza di entrambi i suoi portatori.
In quel momento John Smith erano due in uno solo.
Clara abbassò lo sguardo mentre la distanza tra loro si
faceva più ampia. Man mano che la conversazione proseguiva, il Dottore
indietreggiava, col gelido vuoto tra loro a farsi più ampio ed a risucchiarla
in un vortice di paura e dolore:
“Clara... io vi amo entrambi. E voglio che siate felici,
questo mi basta e mi rende appagato.”
“Ma…” Clara avrebbe voluto contro ribattere qualcosa, ma
si ritrovò semplicemente a ripetere le stesse parole di lui, come un automa:
“… entrambi amiamo John di più…” Una lieve nota di
amarezza nella voce e poca convinzione che non riuscì a nascondere.
“Si.. entrambi amiamo John di più. Ti prego… parlagli. Il
primo passo, devi essere tu a farlo.”
Lui le sorrise triste, prima di lasciarla da sola nella
stanza improvvisamente troppo grande, troppo silenziosa, troppo solitaria e
decisamente troppo fredda. Quel senso di completezza che sentiva solo quando il
Dottore ed il suo Eleven erano con lei ormai scomparso.
Clara lentamente si tirò giù dal ripiano della cucina, si
aggiustò la gonna con una mano tenendosi al bordo del ripiano con l’altra mentre
le gambe riprendevano a funzionarle. La gola stretta che le faceva un male
cane, il respiro improvvisamente diventato faticoso e le lacrime che
riprendevano a scorrerle sul viso.
Aveva giudicato male John per una notte con una donna di
poco conto quando ancora non si conoscevano, ma lei in quel momento si stava
comportando in un modo ben più misero. Amava John ed amava suo padre, due
sentimenti che non potevano coesistere e non avevano una soluzione. Si sentì
una persona cattiva, colpevole ed ingiusta.
Non poteva amarli entrambi, non doveva, ma non poteva
nemmeno evitarlo! Clara si sentì lacerata in mille pezzi, il cuore diviso come
non lo era mai stato.
Il pensiero di John nella mente, il sapore del Dottore
ancora sulla sua lingua, la scelta che lui aveva compiuto per lei.
Faceva male. Il corpo, l’anima. Faceva male da morire!
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
Cap.8
Capitolo 8
La
moto sfrecciava tra le strade della città ormai deserte, con John che la
guidava oltre il limite senza dare alcuna importanza alla segnaletica stradale.
Non gli importava passare col rosso, non gli importava violare il limite di
velocità, non gli importava neanche violare i divieti di accesso a strade a
senso unico né di quella macchina in controsenso (o era lui in controsenso?)
spuntata da una curva e che gli aveva
sfiorato la scocca facendolo sbandare.
Si
era fermato lungo la sponda del Tamigi, fermando la moto senza spegnere il
motore. Si era tolto il casco con un movimento rapido e nervoso, lanciandolo in
malo modo al suolo ed ignorando il dolore al braccio ed alla gamba destra
feriti; si portò le mani alla testa, sopprimendo un urlo prima di lasciarsi
cadere esausto sull’erba della sponda, con la mascella serrata ed il cuore che
gli faceva un male cane. Cosa aveva ottenuto da quella notte? Un pò di
soddisfazione nei pantaloni ed un buco nero nel torace. Un buco nero che lo
stava risucchiando e lo rendeva folle.
Tasha
era voluttuosa ed esperta, ma non era Clara. Nessuna sarebbe mai stata anche
solo lontanamente simile a Clara.
Quando
Tasha lo toccava la sua pelle non veniva attraversata dal formicolio tiepido e
piacevole che caratterizzava invece il tocco di Clara.
Il
profumo di Tasha non lo stordiva come invece faceva il profumo di Clara.
Clara
lo ipnotizzava, lo seduceva, gli faceva perdere la ragione ed il controllo
sulla realtà anche solo con il suo sorriso. Clara Clara Clara… che lo chiamava
Eleven e lo faceva sorridere, che governava i suoi pensieri ed aveva sciolto
quella scheggia di ghiaccio nel suo cuore, che ora lo possedeva e John non
poteva più negarlo.
Eppure
era scappato, come aveva sempre fatto.
Si
ritrovò col viso inumidito da lacrime silenziose e lo scroscio delle acque
scure del fiume poco lontano da lui che gli colpiva duramente i timpani. Non
sapeva spiegare a se stesso il perché,
ma in quel momento gli sembrava di udire la voce di sua madre che gli
urlava contro e gli diceva quanto fosse stato idiota.
Ed
aveva ragione. Aveva sbagliato alla grande.
Chi
voleva punire? Clara? Se stesso? Aveva ottenuto solo un senso di colpa ed un
malessere fisico e mentale che gli stava lacerando corpo e anima.
In
quei momenti pensò alla sua adolescenza, a Rose. Alla loro rottura netta e non
voluta, alla sensazione di spaesamento ed apatia che si impossessò di lui nei
mesi successivi; ma non era niente in confronto a quello che provava in quel
momento. Perché questa volta era colpa sua, era stato lui a cercarsela.
Clara
non era la sua fidanzata, anche se a volte ne era convinto lui stesso; e non
poteva negare il rimorso, la delusione ed il senso di colpa che provava per
aver tradito l'amore che provava per lei.
Ci
stava provando John, aveva deciso di lasciarsi andare, perché Clara gli era
mancata troppo nel suo fine settimana a Blackpool, perché quando Clara non era
con lui si sentiva incompleto e solo come non si era sentito da secoli.
Voleva
darsi una possibilità John; aveva combattuto, aveva creato opposizione ma alla
fine aveva ceduto. Voleva mettercela tutta e costruire qualcosa. Poco alla
volta, con piccoli gesti e cautele. Sentiva che quella al pub era la serata
giusta per fare il passo decisivo, John lo voleva; aveva sperato, aveva sognato
un pò di felicità quando Clara si era annunciata 'gelosa'.
Se
solo non fosse arrivata Tasha a rovinare tutto, se solo Clara non gli avesse
spezzato il cuore con la telefonata ad Amy. Se solo… se solo…
“Ma
a chi vuoi darla a bere idiota! É solo colpa tua...” disse a se stesso
sprofondando il volto tra le mani.
L'amore
fa fare cose incredibili, ti fa sentire forte e pronto a tutto. La gelosia al
contrario uccide e distrugge. E John, quella notte, aveva distrutto se stesso
ed aveva paura di tornare a casa.
****
Clara
si era alzata alle sei quella mattina. Amy nel suo lettino l’aveva guardata,
aveva chiesto che ore fossero e si era rigirata dall’altro lato senza chiederle
niente.
John
non era tornato, Clara non aveva dormito, Amy sentiva di aver creato un casino
più grande di quanto avesse immaginato.
Sentì
Clara cercare qualcosa nell’armadio, ma non si voltò a guardare. Poi sentì il
rumore di qualcosa che strisciava sul pavimento, si voltò appena per vedere
Clara spingere qualcosa sotto il suo letto. Amy ancora non chiese niente ma
restò a guardarla.
Quando
Clara ne incrociò lo sguardo, corrucciò le sopracciglia voltandosi e sedendosi
sulla sponda del letto per togliersi le pantofole ed infilarsi le scarpe.
La
moretta ruppe il silenzio solo per dire:
“Non
è colpa tua. Vado prima all’università.”
Amy
si alzò col busto, scostando appena le coperte parlando con la voce ancora
impastata dal sonno irrequieto:
“Non
vuoi parlare un po’? E’ presto… i cancelli saranno ancora chiusi.”
Entrambe
sapevano che non era vero, che nel campus la vita studentesca cominciava alle
prime luci dell’alba con giardinieri, guardiani e ragazzi che facevano jogging
prima delle lezioni.
Clara
raccolse la sua borsa con i libri e quaderni per gli appunti ed uscì. Non
poteva parlarne con lei.
Passò
davanti alla porta della camera di John trovandola chiusa. Passò davanti alla
porta della camera del Dottore che invece era aperta. Vi diede un’occhiata
dentro, trovandola in ordine e col profumo dell’uomo che aleggiava leggero
nell’aria. Scosse la testa bruscamente, uscendo velocemente di casa.
L’auto
del Dottore mancava. Anche la moto di John.
Clara
aveva aspettato un’ora davanti all’ufficio. L’addetta allo smistamento degli
studenti sembrava essersela presa con calma, passeggiando per il corridoio con
una tazza di caffè fumante tra le mani che sorseggiava di tanto in tanto.
Lanciò uno sguardo perplesso alla moretta seduta lì in attesa, ma Clara
restituì lo sguardo osservandola aprire le porte dell’ufficio.
Dovevano
da poco esser passate le otto, ma i vari uffici (dalla segreteria a quelli dei
professori) generalmente in quel periodo dell’anno erano deserti se non per
casi del tutto eccezionali.
La
donna di colore con cui Clara era intenzionata a parlare si occupava delle
assegnazioni delle camere per gli studenti che venivano da fuori o che avevano
diritto con la borsa di studio. Clara la seguì senza aspettare che si sedesse
alla scrivania e si chiuse la porta alle spalle.
Non
appena si voltò, la donna la prevenne esternando le sue chiare intenzioni:
“Tutte
le camere sono già state assegnate, non posso fare cambi di destinazione.”
Clara
non si demoralizzò, avvicinandosi alla scrivania e sedendosi al capo opposto.
“Non
sono qui per un cambio di destinazione.” La donna sembrò sospirare sollevata,
ma Clara continuò: “Sono qui per una vera e propria assegnazione.”
“Non
hai sentito ciò che ho detto? Le camere per gli studenti all’interno del campus
sono tutte già assegnate.”
Non
c’era rabbia o nervosismo nella voce della donna, semplicemente una fredda
cortesia mentre spiegava a Clara che nulla poteva cambiare la situazione,
qualsiasi cosa le fosse capitato.
Clara
si era ripromessa di mantenersi composta, di non lasciare trasparire le sue
emozioni, di mantenere il controllo. Credeva di esserci riuscita. Sentiva di
esserci riuscita.
“Ascolti.
Può sempre accettare la mia richiesta. Compilerò qualsiasi documento debba
compilare ma… alla fine del primo semestre, o anche dopo le vacanze di Natale
c’è sempre qualche studente che si ritira… magari potrei mettermi, che so, in
una specie di lista d’attesa!”
La
donna tacque, fissando Clara senza espressione, portandosi la mano sinistra al
mento e battendo lievemente la penna sul tavolo con la destra in un gesto
inconscio.
“Clara
Oswald, giusto?”
Con
una piccola speranza che si era riaccesa, Clara annuì.
“Non
dico che ci sia una lista d’attesa, ma se anche ci fosse sai che non saresti
l’unico nome presente?”
L’espressione
di Clara si incupì, annuendo con un’incertezza un po’ più marcata in tutto il
suo essere.
“Perché
dovrei favorirti? Dovremmo seguire l’ordine alfabetico e…. bè il tuo sarebbe
praticamente in fondo alla lista, Oswald.”
“A
metà della lista, in realtà. Inoltre, avere una borsa di studio ed il massimo
dei voti in tutti gli esami finora sostenuti non mi da qualche punto in più?”
La
donna continuò a fissarla, interrompendo bruscamente il suo battere la penna
sul tavolo. Spinse un foglio formato A4 verso Clara mentre si avvicinava la
tastiera del computer e cominciava a digitare qualcosa mentre le parlava
formalmente:
“Compili
quel documento, Miss Oswald. Ma non le garantisco nulla.”
Clara
sorrise, impugnando penna e foglio per la compilazione. Anche una sola piccola
speranza, in quel momento, a Clara sembrò bastare.
***
Il
Dottore rincasò con un enorme mal di testa e la stanchezza del turno lungo in
ospedale che gli aveva distrutto i muscoli e parte della sua sanità mentale.
C’erano state diverse emergenze che avevano richiesto il suo intervento; la sua
esperienza traumatologica acquisita in territori di guerra aveva auspicato il
prosieguo di vita di due giovani coinvolti in un incidente stradale. Quella
notte, tra ubriachi e pazzi scatenati aveva segnato dieci punti sulla scala dei
turni da dimenticare.
Fermò
l’auto nel vialetto, con il profondo desiderio di mangiare qualcosa, farsi una
bella doccia ed andare a dormire per recuperare le energie prima della nuova
notte di lavoro da affrontare.
Uscì
dall’auto per notare praticamente all’istante i danni della moto di John:
scocca fuori asse, fanalino rotto così come la luce di segnalazione laterale,
specchietto destro spezzato e diversi graffi sulla fiancata dello stesso lato.
Si
precipitò in casa, trovandola deserta al piano inferiore. Visto l’orario
ipotizzò che i ragazzi dovessero essere all’università, ma a passo svelto salì
le scale dirigendosi direttamente in camera di John. Aprì la porta senza
bussare, trovando John disteso sul suo lettino, immerso nel buio e con indosso
solo i pantaloni del pigiama, profondamente addormentato.
La
luce che filtrava dal corridoio però gli diede visibilità anche su altro: sul
braccio destro di John erano visibili
diverse escoriazioni trattate col Betadine e qualche macchia rossa si
intravedeva anche sulla gamba dello stesso lato.
Non
sapeva se essere arrabbiato o preoccupato, sapeva solo che non voleva rivivere
quello che aveva vissuto in passato, che John era l’unico motivo che lo
spingeva ad andare avanti, l’unico porto sicuro al quale tornare.
Senza
aspettare altro, accese la luce e si diresse verso il lettino del figlio,
sedendosi sul bordo; prese il braccio di John e ne controllò lo stato, non
curandosi del ragazzo che trasaliva nel sonno ed apriva gli occhi con estrema
difficoltà prima di ritrarsi.
Bastò
uno sguardo reciproco per capire tutto, per capire quanto fossero simili e
quanto fossero stupidi entrambi in determinate situazioni, ma mentre John
incupì il volto per poi portarsi il braccio sinistro a coprire gli occhi, suo
padre si concentrò sulla sua gamba, tirando delicatamente su la stoffa dei
pantaloni a scoprirgli la gamba fino al ginocchio gonfio e livido. Toccò il
gonfiore, facendo trasalire e gemere il giovane che si tese sul lettino
stringendo le mani a pugno; ma John lasciò fare a suo padre rendendosi
pienamente conto che voleva solo assicurarsi non ci fosse nulla di rotto.
“Stai
bene?” La voce del Dottore era profonda e perentoria.
“Si.
Non è niente, ho perso il controllo e sono scivolato sull’asfalto oleato…”
Non
era vero, ma il fatto che avesse gli occhi nascosti allo sguardo di suo padre
gli lasciava sperare che lui ci credesse.
Lo
sentì sbuffare nervoso, mentre gli afferrava il braccio e lo allontanava dal
viso del figlio per poterlo guardare in faccia, accentuando la cadenza scozzese
nella sua voce per il nervoso che gli stava improvvisamente salendo:
“Ti
ho chiesto se stai bene!”
John
fissò lo sguardo annebbiato sia dal sonno sia dalle lacrime invisibili che non
riusciva a far uscire sul volto di so padre. Gli occhi di ghiaccio che lo
penetravano ed il viso indurito rappresentavano perfettamente il soldato che
c’era in lui, l’Ufficiale perentorio che non ammetteva reclami. Non gli stava
chiedendo se stavano le sue ferite esterne, ma come stavano quelle dell’anima.
John
si portò stancamente le mani al viso, strofinandosi la pelle con forza per
eliminare una contrazione involontaria del viso e, costringendosi a non
piangere si lasciò sfuggire un penoso:
“…no…”
“Dov’è
Clara.”
“Non
lo so… all’università, credo. Non c’era nessuno quando sono tornato.”
“Hai
passato la notte fuori?” Il terzo grado sembrava interminabile. John che si
innervosiva e si sentiva sempre più in colpa man mano che la voce di suo padre,
fredda ed incolore, scavava dentro di lui a cercare la sua colpa; il Dottore
che, al contrario, cercava forse una redenzione, una colpa che scagionasse la
sua. O semplicemente, cercava un modo per poter sistemare le cose nel giusto
ordine.
La
risposta di John non arrivò, ma d'altronde non aveva bisogno di un ‘si’ per
capire la verità:
“Da
solo?”
John
scosse la testa, chiudendo gli occhi e deglutendo. La gola improvvisamente
arida gli bruciava da morire, anche respirare era diventato doloroso.
“Ci
ho traditi…” Aveva tradito se stesso. Aveva tradito suo padre. Aveva tradito
Clara o si sentiva come se lo avesse fatto:
“…ho rovinato tutto.”
Suo
padre gli portò una mano alla fronte, esitando sul punto in cui ancora era
visibile una antica e terribile cicatrice, carezzandolo come faceva quando era
un bambino. Lo stesso modo in cui lo accarezzava quando cadeva e si feriva, lo
stesso modo in cui aveva posato la sua mano sulla sua testa quando sua madre
era morta e Rose lo aveva abbandonato. Lo stesso modo in cui gli aveva dato
forza e coraggio ogni volta che si sentiva perso e distrutto.
“Si
sistemerà tutto John. Te lo prometto.”
Restò
accanto a suo figlio finchè non fu profondamente addormentato, poi si recò nel
vialetto fuori casa con le chiavi della moto in mano. Girò nel quadro senza
avviare il motore e la trascinò all’interno del garage; notò che non solo la
scocca era fuori asse, ma anche il manubrio rispondeva male. La parcheggiò sul
fondo, inserendo il bloccasterzo per poi nascondersi le chiavi in tasca.
Aveva
già rischiato una volta di perdere suo figlio in un incidente stradale; fu
quella l’unica volta in cui si era permesso di pregare un qualche Dio affinchè
non gli togliesse l’unica cosa buona che gli era rimasta al mondo dopo la morte
di River. Col tempo, gli aveva concesso
di riprendere la moto a patto che fosse prudente, e John lo era sempre stato.
Quella notte però qualcosa lo aveva scosso.
Quella
notte qualcosa aveva scosso tutti e portato a compiere troppi errori.
Col
passare dei giorni l’aria in casa Smith sembrava farsi sempre più gelida e non
perché Dicembre era iniziato e l’inverno era ormai alle porte. Amy e Rory ne
parlavano tra loro, ma non riuscivano a parlarne né con John né con Clara.
Non
perché non ci provassero, ma semplicemente perché quei due sembravano come perennemente
assenti.
Clara
seguiva i corsi, pranzava velocemente per poi chiudersi a studiare in
biblioteca fino all’ora di chiusura. Tornava a casa per cambiarsi rapidamente e
correre al lavoro, restando al pub fino a notte inoltrata; per concludere, la
mattina si alzava di buon’ora per correre subito all’università. Il fine
settimana era tornata di nuovo a Blackpool come non aveva mai fatto nel corso
degli anni precedenti, ed Amy lo sapeva bene. Era partita con un borsone carico
di roba e ne era tornata col borsone vuoto esattamente come la volta precedente.
Ma il suo armadio non si riempiva di vestiti nuovi e quelli che le erano
rimasti le andavano leggermente larghi. Aveva perso peso, il viso era diventato
pallido, gli occhi stanchi.
John,
dal canto suo, seguitò a studiare per concludere finalmente il suo percorso
universitario e mancavano pochi giorni per la consegna della tesi per il suo
Dottorato. La mattina la impiegava nei laboratori della facoltà di Ingegneria,
il pomeriggio seguiva le indicazioni teoriche e pratiche dell’ Ingegnere Capo
presso il quale aveva cominciato a lavorare. La sera tornava a casa esausto,
richiudendosi nello studio di suo padre, isolato dal mondo, a completare i suoi
lavori.
A
volte John usciva dal suo guscio. Cercava Clara con lo sguardo e col corpo, ma
quando la ragazza incrociava i suoi occhi li rifuggiva, arrossiva e mordendosi
il labbro si allontanava. John la chiamava con la voce interrotta, ma lei si
era già richiusa la porta della sua camera alle spalle.
Altre
volte, invece era Clara a cercare John, ma quando poi se lo ritrovava di fronte
il suo coraggio sembrava sparire e gli occhi tornavano ad essere sfuggenti per
entrambi.
Presi
da Clara e John e dalla strana situazione che si era creata, nessuno si era
accorto dei cambiamenti avvenuti anche nel Dottor Smith.
Forse
era per il suo carattere sempre poco predisposto alla socializzazione il motivo
per cui nessuno aveva badato ai suoi silenzi, alla sua sempre minore presenza
in casa o al fatto che, più volte, aveva dormito in ospedale. Nessuno aveva
inoltre notato la sua divisa militare nuovamente stesa a prendere aria.
Nessuno
sembrava averlo notato, o meglio: John e Clara fingevano di non averlo fatto.
Il primo però ormai vi era abituato. La seconda, invece, si dava la colpa di
tutto.
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
cap.9
Capitolo 9
Clara
era sempre stata abbastanza razionale nella sua vita, permettendosi solo ogni
tanto di sognare di viaggiare per il mondo. Ma anche in quei casi il realismo
la faceva da padrone.
Clara
era sempre stata razionale anche nei sentimenti. Ma quello che le era accaduto
nell’ultimo anno aveva smantellato tutte le impalcature di sostegno che si era
costruita intorno.
Aveva
deciso di prendersi del tempo, capire bene quali fossero i suoi reali
sentimenti. Le era sembrato un assurdo cliché, ma aveva persino provato a
redigere una lista dei Pro e Contro per entrambi, rendendosi conto praticamente
all’istante che i contro erano persistenti per ambedue i loro nomi e che di
pro, invece, non era riuscita ad elencarne nemmeno uno: amava tutti e due e non
sapeva il perché.
Clara
sentiva il bisogno di allontanarsi, per questo il fine settimana tornava a
Blackpool. Persino la presenza della sua matrigna le scivolava addosso come un
velo di seta in confronto all’Inferno che le bruciava dentro. Ma più era
lontana da Londra più voleva tornarci. Più era lontana dagli uomini che le
avevano diviso cuore e anima in due più aveva voglia di vederli e anche solo
sfiorarli, sentire la loro voce o la loro presenza accanto.
Ogni
volta che i suoi occhi incontravano quelli del Dottore, avvertiva dentro di se
un’enorme sensazione di tristezza, una carica di malinconia e rammarico. Ogni
volta che invece incrociava lo sguardo di John, a torturarle l’anima c’era quel
maledetto senso di colpa che non le dava tregua e tanta, tantissima nostalgia.
Non
riusciva ad accettare che il Dottore avesse scelto per lei, ma era anche consapevole
che le sue parole erano giuste, che amare John le era necessario tanto quanto
respirare e che le mancava terribilmente. Il calore dei suoi abbracci, la
morbidezza dei suoi baci tra i capelli, il suo sorriso dolce, tutte cose che
ora le sembravano precluse ed il solo pensiero di non poterle più avere le
laceravano il cuore.
Poteva
dire lo stesso del Dottore? Clara ci aveva pensato.
Cercò
dentro di se una risposta, constatando che si, anche lui le mancava. In un modo
forse più dolce, con il cuore che le palpitava più svelto nel momento in cui
ricordava il sapore della sua bocca, la morbidezza delle sue labbra, il tocco
delle sue mani ed il calore della sua pelle. Era diverso da John, forse più
impacciato ed ansioso. Ma la scarica elettrica che entrambi le davano, quella
non mentiva.
Clara
aveva parlato di nuovo con Angie, in un tentativo di dissipare le foschie di
follia che le stavano lacerando il cervello. Lei le aveva chiesto quale
differenza avvertisse quando a baciarla era l’uno o l’altro. Clara non aveva
saputo rispondere. Perché era vero che il bacio del Dottore era rimasto impresso a fuoco dentro di lei,
con il desiderio di fare l’amore con lui ancora persistente nell’intimo; ma
John… lui non lo aveva mai baciato sulle labbra. Lo aveva desiderato, molte
volte. Ma non sapeva, Clara, quali emozioni avrebbe potuto suscitarle e di
quale intensità. Si rese conto, a malincuore, che un vero contatto con lui
fondamentalmente non lo aveva mai avuto. Lo aveva ricercato, continuamente. Ma
non lo aveva mai davvero avuto.
****
John
non aveva condiviso con nessuno la notizia della consegna della sua tesi finale
di Dottorato. Era diventato per lui un evento come tanti che si sarebbe poi
gettato alle spalle come se nulla fosse. Avrebbe voluto Clara al suo fianco,
avrebbe voluto sorridere con lei, abbracciarla e farla volteggiare, andare a
festeggiare e passare un’altra serata sulle sponde del Tamigi come avevano
fatto l’ultima volta.
Col
passare dei giorni avevano ripreso a parlare, ma qualcosa si era rotto tra loro
e lui lo intuiva. Clara a volte lo guardava, apriva la bocca come per dire
qualcosa e poi voltava lo sguardo. Si
parlavano, ma non si erano più toccati e John avvertiva un freddo sulla pelle e
nelle ossa che lo faceva sentire male. Resisteva alla voglia di stringerla,
baciarla come aveva sempre fatto; ed il corpo gli cominciava a tremare di un
tremore invisibile, appena percettibile che però lo annientava. Un terremoto di
scarsa intensità ma enorme potenza distruttiva.
A
volte si chiedeva se Clara gli leggesse addosso la sua mescolanza con Tasha. A
volte si chiedeva se, avvicinandosi a lui, la sua Ragazza Impossibile gli
sentisse addosso il sentore di lei che la nauseava. In quei momenti il cuore
gli si fermava e gli faceva male, rendendogli impossibile guardarla in viso ed
era lui a scappare. Sapeva che tutto quello che stava accadendo tra loro era solo
colpa sua e delle sue inutili stupide paure.
Con
ancora quei pensieri a sconvolgergli la mente, John uscì dal campus. Era a
piedi e zoppicava ancora percettibilmente; la moto nascosta in garage, sotto un
telo bianco, gli era stata categoricamente proibita e lui non aveva ribattuto,
rendendosi conto di aver tradito anche la fiducia che suo padre, per anni,
aveva riposto in lui.
Oltrepassò
la zona pedonale, stringendosi nel cappotto mentre raggiungeva la strada al di
fuori del complesso universitario. Suo padre poggiato alla carrozzeria della
sua auto lo attendeva a braccia conserte e gli occhiali da sole a nascondergli
lo sguardo. Il cielo era nuvoloso…
Non
si dissero nulla, semplicemente si scambiarono un lieve sorriso mentre John
saliva sul lato passeggero ed il Dottore si sistemava al posto di guida.
Il
viaggio verso casa era cominciato in silenzio, con il solo rumore del vento che
si infrangeva contro il finestrino di John aperto a metà e che gli scompigliava
il ciuffo ribelle.
Il
giovane si portò la mano sinistra al viso, tirandosi i capelli indietro per poi
poggiare il gomito sul bordo interno del finestrino. Lanciò un rapido sguardo
alla sua destra, inquadrando l’espressione imperturbabile di suo padre alla
guida cercando un modo per rompere il ghiaccio.
John
deglutì, lasciando poi uscire la voce leggermente rotta:
“Hai
tirato fuori la divisa.”
La
mascella del Dottore si contrasse per un secondo, ma restò in silenzio.
John
sospirò prima di voltare lo sguardo all’esterno e chiedere:
“Quando?”
Suo
padre ingoiò un boccone d’aria come per darsi coraggio, ma sapeva che stava
solo cercando il modo giusto per addolcire la pillola da mandare giù. Era il momento
meno opportuno quello per partire, ma il Dottore sapeva che era anche l’unica
cosa giusta che poteva fare.
“Ho
due date.” Rispose semplicemente.
Il
silenzio stava gelando l’aria, con il cuore di entrambi gli uomini che batteva
nervoso e faceva male. Il Dottore sospirò continuando a parlare:
“Una
prima di Natale; Afghanistan, di nuovo. L’altra a metà gennaio. Tunisia.”
“Quale
hai scelto?”
“Ancora
nessuna. Dipende… andrò dove ho bisogno di essere, suppongo.”
John
annuì, passandosi la mano sul viso per scacciare via quella sensazione di
tristezza che minacciava di farlo piangere. Stava attraversando un periodo di
sconforto così profondo, era uno di quei momenti in cui più aveva bisogno del
conforto di suo padre, l’unico punto fermo della sua vita sempre presente in
momenti come quello a dargli forza e sostenerlo ed ora… lui andava via.
“Perché
adesso? Credevo restassi questa volta. Era diverso, tu eri diverso… non è per
la mamma. E’ colpa mia? Perché ti ho deluso?”
Le
mani del Dottore si strinsero spasmodicamente sullo sterzo, voltando per un
rapido momento la testa verso John. Si concentrò nuovamente alla guida,
fermandosi ad un semaforo rosso giusto in tempo per non superare la linea dello
stop ed essere beccato dalla telecamera. Nessun pedone sulla strada, per
fortuna.
Il
Dottore si portò una mano tra i capelli spettinandoli nervosamente e cercando
poi di rimetterli a posto rispose al figlio:
“No.
Non è per la mamma e non è colpa tua.” Si voltò a guardare suo figlio. Un uomo
di vent’otto anni che in quel momento gli ricordava quel bambino spaventato e
triste per la morte improvvisa di sua madre. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma
l’unica cosa che riuscì a fare fu quella di posargli una mano sulla spalla in
un gesto impacciato che aveva lo scopo di farlo voltare verso di lui:
“Credevo
di poter restare questa volta. Ma ho sbagliato i conti. Sono un uomo rotto,
John, ma tu sei l’unico che tiene uniti ancora i pezzi. Nessuno a questo mondo
può ripararmi completamente se non lo faccio io da solo. Sono come i paesi di
guerra in cui vado in missione, distrutto ma con una speranza e quella speranza
sei tu John. Ma anche così devastato, se posso salvare anche solo una vita in
una delle mie missioni, allora per me è già una vittoria. E’ per questo che
vado.”
Non
era stato del tutto sincero, questo lo ammetteva: gli aveva raccontato solo una
parte della verità. Andava via perché era l’unico modo che conosceva per
allontanarsi da Clara e permetterle di dimenticarlo. Dopotutto i giovani
dimenticano in fretta le delusioni, bastava darle il tempo di capire che
l’amore che provava per John era più sano e giusto di quello che provava per
lui e permetterle di dare a lui il suo cuore senza indugi. Per quanto
riguardava il suo, invece, di cuore… bè, ormai con le ferite e le sofferenze ci
aveva fatto il callo. Aveva amato Melody per anni dopo la sua morte. Ancora la
amava adesso e gli mancava terribilmente. Ed amava Clara, quel fiore fresco spuntato
a sorpresa ai piedi di una roccia lungo il pendio di un vulcano. Lui era il
vulcano pronto ad esplodere e sapeva che un giorno lo avrebbe fatto; avrebbe
potuto offuscare la bellezza, la delicatezza e la giovialità di quel fiore,
l’avrebbe inaridita e bruciata. L’unico atto d’amore che poteva concederle era
lasciarla libera di andare, l’unica cosa giusta da fare era lasciarla libera di
amare John. Suo figlio avrebbe saputo curarla, amarla, custodirla. Suo figlio
avrebbe saputo valorizzare le sue qualità e prendersi cura di quel fiore
delicato come lui non avrebbe mai potuto fare. Perché lui era lava che bruciava,
John invece era come sua madre: acqua incontrollabile di un fiume che però
portava vita.
Il
Dottore portò una mano al volto del figlio in una carezza più sicura e gli sorrise.
Poi il semaforo divenne verde e riprese la marcia vero casa.
****
Quando
Clara tornò a casa era ancora giorno. Aveva saltato le lezioni del pomeriggio,
ben sapendo che John sarebbe stato in casa da solo e ne voleva approfittare per
poter finalmente affrontare con lui il discorso che da troppo tempo stavano
rimandando.
Quando
mise piede oltre la soglia, trovò John seduto sul divano davanti al camino
appena acceso, con in mano garza ed acqua ossigenata mentre cercava di
disinfettare la screpolatura residua al braccio. La ferita si era molto
ridotta, ma la parte centrale e più profonda si riapriva continuamente in
piccole crepe man mano che la crosta si asciugava ed il braccio si muoveva.
Clara
lo vide voltarsi verso di lei, scrutandola con uno sguardo sorpreso e, forse,
anche un po’ imbarazzato. Non si chiese il perché, ma da dov’era Clara non
poteva vedere che, si, John aveva indosso la camicia con le maniche tirate su
fino al bicipite, ma i pantaloni infilati solo sulla gamba buona.
“Ciao…”
“Ciao!”
Rispose John improvvisamente agitato, lasciando cadere la boccetta di acqua
ossigenata per terra mentre si infilava velocemente anche l’altra gamba dei
pantaloni, grato al divano di nasconderlo alla vista, continuando:
“Non
hai lezioni da seguire?”
Clara
sospirò, facendosi strada all’interno del soggiorno e posando infine la borsa
accanto alla poltrona di Rory. Non aveva fatto caso al comportamento ed ai
movimenti di John, o forse aveva deciso di fingere di non farvi caso. Notò solo
il piccolo batuffolo di ovatta con cui il ragazzo si stava pulendo la ferita
caduto sul pavimento assieme al disinfettante
e li raccolse, tamponando sul tappetino le poche gocce del liquido che
erano sfuggite durante la caduta.
La
ragazza continuò a stare in silenzio, mentre John, ormai seduto compostamente,
la guardava perplesso. Infine, si sedette accanto a lui fissandogli il braccio:
“Come
stai?”
John
si spostò appena con il corpo, teso come una corda di violino e lo sguardo al
pavimento.
“Zoppico
un po’, ma va meglio…”
In
realtà era l’opposto. Stava malissimo. Non fisicamente, delle ferite
superficiali non gli importava granché. Ma il suo cuore stava sanguinando e da
troppo tempo.
Clara
sospirò e sorrise tristemente lasciandosi sfuggire un dolce:
“Non
è vero…”
John
la guardò chiedendole:
“Come
lo sai?”
“Io
lo so sempre.”
John
sorrise ed arrossì, fingendo di concentrarsi sulla ferita residua sul braccio.
Clara invece sprofondò sul divano, poggiando la schiena contro il bracciolo pr
guardare John al suo fianco; le mani raccolte in grembo con le dita che si
intrecciavano nervosamente tra loro mentre diceva:
“John…
posso farti una domanda?”
Il
ragazzo smise di soffiare sulla ferita, come se stesse spegnendo chissà quale
bruciore, per guardare la ragazza con
espressione curiosa:
“Credo
di si… chiedi pure.”
Clara
abbassò lo sguardo alle mani che continuavano a stringersi tra loro, sospirò
pesantemente prima di trovare il coraggio necessario a pronunciare le parole
che le martellavano le sinapsi da troppi giorni. Era mai possibile che parlare
con John fosse diventato così difficile? Era assurdo il nervosismo, la paura
che le era montata su nel momento esatto in cui aveva deciso di chiarire la
situazione. Era così difficile trovare le parole giuste, era così difficile
cominciare una qualsiasi conversazione, col cuore in gola e la vista che si
offuscava innaturalmente. E più passava il tempo più sarebbe stato difficile
farlo!
Con
il respiro che le si mozzò in gola, un miscuglio di emozioni e la testa
improvvisamente vuota di ogni pensiero logico, Clara tentò di mettere insieme
una serie di parole coerenti:
“Ecco…
tu… stai ancora vedendo Tasha?”
L’aria
attorno a loro si gelò improvvisamente. Il cuore di John improvvisamente
stretto in una morsa serrata. Clara quindi sapeva, e questo lo feriva ancora di
più.
“Tu
stai ancora vedendo quel tizio… Porridge?”
“Chi?”
Clara strabuzzò gli occhi, raddrizzando la schiena quando capì a chi si
riferiva John: “Il tipo dell’appuntamento al buio? Ma scherzi? Il tutto è
durato dieci minuti, sono scappata via! Non ricordo nemmeno come si chiama!”
Poi Clara realizzò: “Porridge… hai parlato con Amy, vero?”
Il
soprannome che John aveva usato lo aveva coniato Amy durante la loro
chiacchierata sul disastro che le era capitato.
John scostò lo sguardo senza risponderle.
Clara invece sospirò, lasciandosi scappare un sofferto:
“Perché
sei uscito di nuovo con lei?”
John
voltò lo sguardo verso la moretta, leggendole negli occhi una sofferenza che
gli fermò il cuore. Per un attimo la speranza si fece nuovamente strada nel suo
cuore, ma fu solo un attimo incontrollato che venne poi soffocato nuovamente
dall’oblio emotivo fatto di confusione e rabbia repressa:
“Tu
perché sei uscita con Porridge?” Testardo e capriccioso. Non avrebbe mai ammesso
chiaramente ciò che provava. E questo peggiorava la situazione.
Clara
spostò lo sguardo sul viso di John. Le labbra tremanti volevano lasciar uscire
le parole che non le venivano, con la mente che sembrava bombardata da nozioni
ed immagini sconnesse. John non la guardava, con la schiena reclinata in
avanti, gli avambracci posati sulle ginocchia e le mani unite davanti a se; il
ciuffo ribelle che pendeva verso il basso gli copriva il lato del viso nascosto
alla vista di Clara.
“Perché…”
Ripetè la moretta come un’eco:
“Eleven
…Hai bisogno di chiederlo?”
Nel
silenzio che ne seguì Clara non sapeva dire se John avesse capito ciò che la
sua domanda in realtà nascondeva. Per lei era stato chiaro quella sera: era
gelosa, aveva reagito di conseguenza. E lo aveva ammesso apertamente. John
continuò a fissarla, le labbra dischiuse, immobile come una statua di pietra
senza respiro.
Clara
continuò a parlargli, con gli occhi che le bruciavano e la voce rotta dalle
lacrime invisibili che non le rigavano il volto:
“Avrei
voluto essere io al suo posto. Avrei voluto essere io al posto di Tasha.”
Con
la gola che le bruciava a causa dello sforzo di trattenere il pianto e
pronunciare a fatica quelle parole, Clara avvertì il suo cuore impazzire mentre
il sangue le raggiungeva troppo velocemente il cervello. I pensieri si
spensero, aspettando una qualche reazione di John che non tardò ad arrivare. Lo
vide sbattere gli occhi nervosamente prima di fermarsi; immobile, marmoreo e
quasi privo di vita finchè la mascella non gli si contrasse in un paio di
spasmi prima di parlare:
“Bè,
forse… io avrei voluto essere al posto
di… Porridge o… qualsiasi altro ragazzo con cui…”
Il
volto di John divenne di un porpora intenso; avrebbe voluto portare la mano
tremante a prendere quella di Clara e stringerla, ma aveva paura. Un timore
adolescenziale che in un uomo grande e grosso come lui sembrava stonare, ma non
poteva fare altrimenti. Non riusciva a combattere le emozioni contrastanti che
avvertiva, né la consapevolezza che tra loro una sorta di barriera ormai ci
fosse ed era così difficile abbatterla ora!
Non era quello
che volevi John? Non eri tu ad erigerle, quelle maledette barriere? Bene… ora
prova ad abbatterle, se ci riesci, idiota!
Era
quello il pensiero che gli correva nella mente, unico e doloroso e non riusciva
a respingerlo. Poi le parole di Clara lo fecero cedere:
“Avrei
voluto me lo dicessi prima. Se solo… se solo ne avessimo parlato prima…”
Questa
volta una lacrima era sfuggita al suo maniacale controllo e per Clara fu come
l’apertura di una diga. Con la prima lacrima ne scese una seconda, poi una
terza.
Un
brivido percorse la schiena di John, con la mente improvvisamente offuscata e
la testa che gli girava. Aveva paura di toccarla, sembrava così fragile in quel
momento la sua Ragazza Impossibile che anche solo sfiorarla gli avrebbe dato la
sensazione terribile di sentirsela sbriciolare tra le dita. La sensazione
terribile che ormai fosse tardi per entrambi, una sensazione così dolorosa e
contro la quale John aveva improvvisamente tutto il desiderio e la forza di
combattere!
“Clara…
tu e Porridge non avete mica...”
“No!
Certo che no!” Clara tirò su col naso, assumendo un’espressione quasi
disgustata al solo pensiero di un ‘qualcosa’ con quel tipo.
John
le prese le mani tra le sue, spostandosi più vicino a lei. Cercò il suo
sguardo, con gli occhi pieni di speranza e lucidi anche i suoi di lacrime
ancora represse:
“Clara,
ascolta!” deglutì e prese un profondo respiro prima di continuare: “Tasha é
stata un errore! Siamo ancora in tempo, se solo tu potessi perdonarmi, io...”
Lo
sguardo di Clara si fece più cupo, la piega tra le sopracciglia si fece più
profonda mentre le labbra le tremavano e posava un indice altrettanto tremante
sulle labbra del giovane:
“Non
sei il mio ragazzo… cosa dovrei perdonarti?” Era lei a dovergli chiedere scusa!
Ah, povero dolce ed ingenuo John che non sapeva quale, invece, fosse la sua di colpa!
Una colpa ben più grave che le opprimeva l’anima, gliela bruciava come lava, la
divorava dall’interno.
“John...tu
ti avvicinavi, io credevo ci fosse qualcosa, l’ho creduto per mesi...”
Il
cuore faceva male, John lasciò le mani di Clara per portarle le sue al viso;
con i pollici le asciugò le lacrime sulle guancie cercando di sorriderle mentre
avvicinava il volto a quello della ragazza. Poggiò la fronte contro quella di
lei, muovendo appena la testa come volesse lasciarle un marchio, farle sentire
i suoi pensieri, fare entrare le sue emozioni intense dentro di lei con quel
gesto. La voce ridotta ad un sussurro sofferto mentre continuava a guardarla in
quei profondi occhi marroni, resi ancora più scuri e lucidi dalle lacrime:
“C’era
qualcosa, c’é ancora! Ci sarà sempre!”
Clara
emise un singulto, chiudendo gli occhi. Portò le mani su quelle di John mentre
cercava di parlare tra un singhiozzo e l’altro:
“Però.
...poi mi respingevi e... c’era qualcun altro che invece...”
“...tu
e lui...voi avete...”
“No…”
Ma avrebbe voluto.
John
strinse la presa sul viso di Clara, allontanandosi appena per perdere il
contatto tra le loro fronti ed alzarle appena il viso:
“Allora
non é troppo tardi! É solo una svista, come quella che io ho preso per Tasha! Io
ti amo Clara, e anche tu mi ami!Vero? Vero?”
Clara
annuì, aprì le labbra per parlare, ma si
ritrovò zittita dalle labbra di John premute sulle sue, sulla lingua il suo
sapore.
“Clara...
mia Clara... non hai idea di quanto tempo ti ho aspettata...”
“John…
c’è molto altro da dire…”
“No.
Non importa. Non è successo nulla ed è questo che conta. Da adesso in avanti ci
siamo io e te. Dimentichiamo. Tasha, Porridge o chiunque altro. Solo tu e io,
Clara.” Le sorrise continuando: “Eleven e la sua ragazza impossibile.”
Le
labbra di John contro le sue, le sue mani strette sui fianchi di lui a reggersi
mentre la spingeva con la schiena contro il divano, il calore ed il peso del
corpo del ragazzo a schiacciarla delicatamente. Il suo cuore impazzito, col
respiro che, rapido ed irregolare si mischiava a quello del giovane in una
serie di gemiti dolci e disperati assieme; la vertigine di emozioni nel ventre
che aumentava in modo esponenziale ad ogni tocco, ogni bacio che John le
donava. Era tutto così giusto, persino i fianchi che improvvisamente o per
istinto, si agganciarono in modo perfetto, facendo maledire ad entrambi i
vestiti che li separavano. Nessun altro pensiero nella mente, nessun altro
desiderio se non quello di essere solo loro due, per quel momento e per il
futuro. Era il momento perfetto, era la situazione perfetta, le giuste
emozioni. John era giusto, la sua età era giusta, il suo corpo era giusto.
Eppure, in un angolo remoto del suo animo, sebbene cercasse di ignorare la
cosa, Clara aveva paura.
Le
mani del giovane si insinuarono tremanti sotto la maglia della ragazza,
staccandosi appena da lei per sfilargliela e lasciarla cadere sul pavimento.
I
loro visi arrossati, gli occhi lucidi e quello sciocco sorriso timido sulle
labbra. Clara allungò le braccia verso di lui, andando a sbottonargli esitante i
primi bottoni della camicia mentre John faceva lo stesso con lei.
Quando
anche quelle furono sul pavimento, John scese nuovamente su di lei, catturando
le labbra di Clara tra le sue. Fu un bacio lungo e dolce, mentre le succhiava
il labbro inferiore per poi permetterle di fare lo stesso con lui. Le mani di
lei che gli percorrevano la schiena, ritrovandosi poi sul suo viso come a voler
prolungare quel contatto il più possibile.
Le
labbra di John erano diverse da quelle di suo padre. Più morbide, più dolci e
timide. Il brivido stesso che il suo sapore sulla lingua le dava era più
intenso ed elettrizzante, forse perché Clara avvertiva il calore della sua
pelle a contatto con la sua, o forse perché in quel momento aveva paura, forse
perché Clara aveva bisogno di credere che fosse giusto. Ma sapeva per certo che
non voleva finisse.
Le
mani di John corsero lungo i fianchi di lei dandole un brivido intenso;
raggiunse la gonna e, alzando il bacino quanto bastava, prese a lavorare per
alzarne l'orlo ed insinuarsi con le dita appena oltre l'elastico dei collant,
tirandoli lentamente verso il basso.
Fu
solo un attimo, John riuscì a spostarli solo di pochi millimetri prima che il
rumore della porta che si apriva e richiudeva, seguita dal tintinnio di chiavi,
li costringesse a fermarsi.
John
si drizzò con la schiena portandosi seduto, il respiro irregolare ed i capelli
scompigliati a decorare lo sguardo
sconvolto mentre fissava suo padre che, girandosi verso di lui, si bloccò
guardandolo perplesso:
"Tutto
bene? Ti ho spaventato?"
Clara
premuta ancora contro il divano, nascosta e pallida, con le mani entrambe
incrociate su bocca e naso come se cercasse di impedirsi di respirare, gli
occhi lucidi non per la passione, ma lacrime che si forzava di non lasciare
scappare mentre desiderava di sprofondare il più possibile e non essere vista.
Il panico nel cuore e nello stomaco le facevano un male cane.
"Io...
stavo..."
L'espressione
sconvolta di John si fece confusa quando incrociò per un solo istante lo
sguardo fuggente della moretta, con la testa premuta contro il bracciolo del
divano, i capelli che le sporgevano oltre e cadevano verso il basso.
Il
Dottore fece un paio di passi verso il soggiorno con innocenza continuando:
"Se
stavi dormendo scusa, io non...."
Lo
sguardo del Dottore si posò su un punto indefinito prima di tremolare e poi incupirsi.
L'uomo sembrò bloccarsi, diventare una statua di marmo prima che uno spasmo
incontrollato gli scuotesse le spalle,
percorrendogli le braccia costringendolo infine a chiudere la mano a pugno.
"Papà?
"
Il
Dottore lasciò la stanza senza parlare, incedendo sulle gambe mentre lentamente
saliva i primi gradini per dirigersi al piano di sopra. Inutili i tentativi di
John che continuava a chiamarlo.
Nello
stesso tempo, Clara sgusciò via dalla presa ancora persistente delle loro gambe
intrecciate.
John
la guardò alzarsi e raccogliere velocemente la maglia ed indossarla di fretta
ed al rovescio:
“Clara…”
Lei
non lo guardò, semplicemente raccolse anche la camicetta e, con il viso basso e
mezzo nascosto dai capelli sussurrò:
“Mi
dispiace… io… non posso. Non adesso.” Fece un profondo respiro prima di
continuare: “Io… sono un cattiva persona. Perdonami.”
John
scatto dal divano definitivamente, allungando un braccio verso Clara ed
afferrandole la mano per trattenerla disse:
“Aspetta!
Spiegami!”
“Devo
andare via, John. Ora è chiaro, non posso restare…”
“Perché?
Perché mio padre ci ha beccati? E’casa sua, le regole che ha dato a Rory ed Amy
valgono anche per me e per te, ma non per questo devi sentirti in colpa o
considerarti una persona cattiva! Gli parlerò e sarà tutto a posto!”
Clara
scosse la testa, mostrando a John un’espressione supplichevole:
“No!
Eleven, ho perso il controllo; non riesco a gestire più nulla. Ogni azione che
compio ferisce qualcuno e… non voglio più continuare a ferire entrambi!
Lasciami andare, ti prego… forse se vado via avremo una possibilità!”
“No..
non capisco!” Disse con una confusione nella testa e la rabbia crescente che
non gli dava respiro: “Tu te ne vai. Mio padre se ne va… mi abbandonate tutti!
Dove ho sbagliato? Cosa ho fatto di così grave?”
“Non
è colpa tua John. E’ mia. Tuo padre, questa situazione… è tutto per colpa mia.”
“Cosa
intendi… perché dovrebbe…” Poi un pensiero, una domanda gli scivolò
incontrollata dalle labbra: “ Chi è?”
“Non
chiedere John. Ti prego, fa come ti dico: non chiedere mai!”
“Clara…
non farmi questo. Non adesso, non dopo che siamo andati così avanti! Tu più di
chiunque altro dovresti sapere quanto è difficile per me…”
Le
dita ancora intrecciate che si stringevano in una presa calda, dolce eppure
serrata. Il respiro di entrambi irregolare, così come i loro due cuori
tumultuosi che battevano nel petto percorso da spasmi.
Clara
smise di respirare nel momento in cui finalmente incontrò lo sguardo triste di
John, così innocente e carico di speranza. La luce nei suoi occhi brillava come
non aveva mai visto, li rendeva due stelle nell’oscurità di un Universo
infinito ed incontrollabile di emozioni. In quel momento, Clara ricordò le
parole di un libro che aveva letto diversi anni prima:
“Una
volta ho letto un libro. L’autore diceva che in alcune vite noi ci dividiamo. La
nostra anima si scinde in due, e ciascuna di queste nuove entità si suddivide
in altre due. Quando due parti si ritrovano nasce l’amore, un amore infinito ed
incontrastabile. Ma diceva anche che potevamo incontrare più parti della nostra
anima e quando accadeva l’unico risultato era sofferenza.” Pronunciò con una
sincerità ed una dolcezza inimmaginabile quelle parole, poi sorrise
avvicinandosi al giovane; gli posò un leggero bacio sulle labbra per poi
continuare a parlare:
“Forse
non è tardi per noi e so che non mi capirai. Ma se vogliamo darci una
possibilità ho bisogno di andare via. Eleven, è meraviglioso che tu esista e so
che esisti per me. Tu sei una parte di me. Lo sarai sempre…” ma doveva accadere
prima che baciasse il Dottore. Prima che i suoi sentimenti si confondessero in
quel modo. Amare John era giusto, ma non lo era in quel momento. E lei non
poteva e non voleva spiegargli ‘perché’ e ‘con chi’, lo avrebbe distrutto.
Avrebbe distrutto tutti.
Si
allontanò di corsa dal ragazzo lasciandolo da solo, in piedi, confuso e ferito
come non si era mai sentito. Dentro di lui qualcosa si era rotto per sempre, in
modo definitivo. La confusione regnava nel suo animo e nella sua mente; voleva
Clara lì con lui, a tenerlo per mano e salvarlo come aveva fatto il giorno in
cui si erano incontrati, come il giorno in cui aveva sciolto il suo gelido
cuore; ma Clara adesso non lo aveva fatto. Clara lo aveva rigettato in un
abisso oscuro e senza uscita.
L’amore
divenne dolore, il dolore divenne gelo. Il cuore caldo tornò ad essere una
scheggia di ghiaccio sotto un cumulo altissimo di neve.
Se
Clara avesse davvero deciso di andare, se Clara avesse davvero deciso di
oltrepassare quella porta, lui l’avrebbe chiusa per sempre.
--------------------------
NOTA:
Chiedo
scusa per il ritardo immane nel prosieguo di questa storia. Il fatto è che mi
sono concentrata sull’ispirazione per l’altra mia storia, sommandoci pure che
in questo periodo sto soffrendo di continue emicranie che mi stanno uccidendo
visto che le medicine non servono a farmele passare… ne ho una adesso, ma ho
voluto forzarmi a correggere il capitolo e prepararlo per la pubblicazione
prima di sentirmi ancora più male.
Una
piccola nota per la menzione al libro di cui parla Clara a fine capitolo: la
teoria esoterica dell’Altra Parte è tutta di Paulo Coelho, rendo omaggio a lui
in quelle righe. Nei giorni scorsi mi sono ritrovata con un suo libro tra le
mani ed ho pensato che quella citazione stesse bene in questo capitolo, anche
se la mia storia non ha nulla a che fare con la spiritualità, l’esoterismo ed
il Divino, o con quel romanzo in generale, anzi. Io tessa non ho nulla a che
fare con esoterismo e Divino xD
Ma
il caso ha voluto, e volevo rendere omaggio ad un libro che mi ha segnato in
positivo.
Grazie
ancora a chi è arrivato fino a qui e continua a seguire, aggiornerò presto,
promesso. Emicranie permettendo ;)
Alla
prossima!!
|
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
Capitolo 10
Capitolo 10
Presente….
Una
cosa che John Smith non era mai riuscito a correggere nel corso degli anni era
il suo inesistente senso del tempo: arrivava sempre in ritardo!
Eppure,
quella mattina, dopo aver lasciato Rory ed Amy a casa a fare colazione da soli,
John aveva battuto se stesso e raggiunto la meta con ben dieci minuti di
anticipo!
Aveva
ordinato un cappuccino, facendosi accostare accanto una serie di dolcetti della
casa. Alternava lo sguardo tra gli altri clienti del bar e la sua colazione,
scattando sull’attenti ogni volta che la porta si apriva e faceva suonare lo
scacciapensieri appeso appositamente per richiamare l’attenzione. Sempre più
spesso guardava l’orologio, sospirando ansioso e ricordando che Clara era
sempre stata puntuale, a differenza sua. Il giorno in cui si era presentata per
la prima volta a casa Smith, come disse Amy, aveva ‘spaccato il minuto’!
Eppure, adesso che l’ora era praticamente giunta, adesso che pochi secondi erano
passati dall’ora dell’appuntamento, John cominciò a sentirsi insicuro. Col
cuore che prendeva a battere irregolare e fare quasi male, temeva ogni secondo che
avanzava, sempre di più.
“Non
ci credo! Sono io ad essere in ritardo!”
Il
cuore di John si sciolse, riconoscendo quella voce dolce ed impertinente allo
stesso tempo. Chiuse per un attimo gli occhi, sorridendo mentre si godeva quei
pochi secondi prima di voltarsi. Un’estasi di emozioni gli scaldò il petto
mentre riconosceva quella vertigine che gli percorreva l’addome, contento di
scoprire che due anni di dormienza emotiva si erano risvegliati e riproposti
più intensi di quanto fossero mai stati. Il suo cuore di ghiaccio riprese a
sciogliersi come neve al sole, risvegliandosi dall’ibernazione di un lungo inverno
freddissimo e triste.
Immaginava
il sorriso di Clara sul suo viso tondo e sbarazzino, le fossette ai lati delle
labbra ed i capelli castani che le ricadevano ai lati del volto. Si alzò dal
suo posto deciso a vederla davvero, voltandosi verso di lei con un sorriso che,
era sicuro, su di lui non si lasciava vedere dal giorno in cui… bè, dal giorno
in cui tutto era cambiato.
“Ma
no, sono appena arrivat…” Clara era sempre uguale ai suoi occhi, bella e solare
esattamente come la ricordava, sebbene in realtà fosse più matura di quando
l’aveva lasciata. Ma la neve sciolta nel cuore di John tornò ghiaccio ed il
sorriso un’espressione di cera quando incontrò gli occhi grigio-azzurri di un
bambino piccolo tra le braccia della giovane, con il visino imbronciato, tondo
e paffuto incorniciato da radi e sottili riccioli castani che avevano un
qualcosa di estraneo e familiare assieme.
Un
sorriso amaro solcò le labbra di John, andando a sostituire quello raggiante
degli attimi precedenti.
Cosa
si aspettava? Dopotutto erano passati due anni o poco più. Lui si era fermato a
quel maledettissimo giorno, forse, ma il resto del mondo era andato avanti. Ed
a quanto sembrava, era andato avanti in modo inaspettato e crudele.
***
Passato….
Era
l’ora di pranzo quando il Dottore era uscito dalla sua camera per andare a
farsi una doccia. Aveva finto di dormire fino a tardi, con la scusa di dover
recuperare le ore di sonno rubate dal turno lungo, mentre in realtà ne aveva
approfittato per compilare la documentazione necessaria all’Ospedale per
giustificare la sua prossima partenza. Il Primario si era presentato seriamente
dispiaciuto, chiaramente convinto che lui sarebbe rimasto, dandogli un sincero
in bocca al lupo e rassicurandolo che, se avesse voluto, una volta tornato in
patria e deciso a fermarsi definitivamente un posto per lui tra il personale
c’era sempre. Il Dottore aveva sorriso debolmente e lo aveva ringraziato;
dopotutto un medico bravo come lui e con la sua esperienza faceva sempre comodo
ed il contratto che gli avevano proposto aveva i suoi vantaggi. Aveva anche
avuto il sospetto che il Primario lo avesse voluto come suo collaboratore o,
addirittura, suo successore. L’idea lo aveva allettato, finché ad allettarlo di
più non era giunta un’altra idea decisamente più stupida ed insana.
Mentre
si rivestiva, nel silenzio della casa vuota, pensò a quello che gli era
capitato da quando era tornato; pensò al dolce vento di primavera che aveva
trovato ad accoglierlo a casa, alla foglia trasportata dalla brezza che gli era
caduta tra le mani e che lo aveva risvegliato, fatto sentire ancora un uomo
vivo. Quella stessa foglia che conservava all’ultima pagina, accompagnata da
quell’ultima nota, di quel consunto diario dalla copertina blu in cui aveva
appuntato i pensieri di notti insonni sul campo di battaglia e quelli più
sereni del ritorno a casa.
Si
passò una mano tra i capelli bagnati ed arruffati, aprendo il cassetto della
scrivania per raccogliere quel diario. Lo aprì proprio all’ultima pagina,
raccogliendo con dolcezza quella piccola foglia ormai secca e diventata così
fragile, ruotando il gambo delicatamente tra indice e pollice per farla girare
su se stessa. Sorrise rileggendo la nota scritta in obliquo nella sua grafia
indecifrabile tipica dei dottori:
“L'amore è
una promessa. L'amore
è un ricordo.
Una volta donato non può essere dimenticato, non può
mai scomparire. (John Lennon)”
Per quanto lo riguardava, quelle parole lo avevano
accompagnato per praticamente tutta la sua vita ed era convinto di ogni parola.
Le parole di John Lennon, le sue canzoni, la sua musica, in qualche modo erano
sempre state per lui fonte di esempio ed ispirazione.
Sobbalzò
appena quando sentì bussare alla porta della sua camera, sorpreso nel vedere
Clara ferma sulla soglia, tra le mani uno scatolo con le ultime cose, ed un
sorriso triste sul viso. Credeva di essere solo, probabilmente non l’aveva
sentita rientrare, non aveva importanza. Sapeva solo che il suo cuore aveva
perso un battito e lo stomaco sembrava un vortice di sensazioni contrastanti.
Il
Dottore chiuse rapidamente il diario, con il viso che gli andava in fiamme,
nascondendolo nella valigetta che avrebbe usato per il suo, di viaggio. Senza
voltarsi verso di lei, fingendo di sistemare qualche foglio sparso sulla
scrivania, disse:
“Sai
che puoi restare. Tu e John avete bisogno di stare insieme.”
Clara
abbandonò lo scatolo sul pavimento nel corridoio, inoltrandosi nella stanza per
fermarsi a metà strada, distante da lui.
“Eleven
ha bisogno di te più di me, adesso. E… non posso restare perché non posso
continuare a vederti.”
Quelle
parole. Il Dottore capiva perfettamente quelle parole. Era lo stesso per lui.
Non poteva restare e continuare a vederla; soprattutto, non poteva restare e
vederla con John come l’aveva anche solo intravista alcuni giorni prima, su
quel divano che già loro due avevano condiviso in precedenza. Non lo avrebbe
mai ammesso, ma la gelosia faceva più male di quanto si aspettasse.
“Dottore,
hai scelto tu per tutti e… forse è la scelta giusta. Ma… non ce la faccio, non
posso continuare così…” A fare del male a lui, a fare del male a John.
Clara
sospirò, osservando la schiena del Dottore reclinarsi in avanti mentre l’uomo
poggiava lentamente le mani sulla scrivania a sostenersi, senza voltarsi, senza
guardarla.
La
moretta lanciò uno sguardo all’armadio aperto, notando l’ormai famosa giacca
dai risvolti rossi. Si avvicinò inconsciamente, allungando una mano a toccarne
il tessuto. Il Dottore piegò appena la testa, osservandola con la coda
dell’occhio. Una nuova prospettiva che gli lasciava credere quasi che, con le
sue dita delicate, Clara stesse accarezzando lui e non la sua giacca.
“La
prima volta che ho visto questa giacca pensavo appartenesse a John. Ne ho
respirato il profumo ogni giorno, si era infiltrato persino sui miei vestiti.
Mi piaceva.”
Il
Dottore questa volta si voltò di lato, raddrizzò la schiena e la guardò, con le
labbra dischiuse ma senza voce per dar vita alle parole che gli si ammassavano
non nella testa, ma nel cuore.
Clara
lasciò andare il tessuto e chiuse lentamente l’anta, poggiandovisi contro con
la schiena. Lo sguardo rivolto al pavimento e sempre quel sorriso triste che
confondeva:
“Dottore,
non so se un giorno ci rivedremo. Forse si, forse no...” Clara alzò la testa e
posò lo sguardo in quello del Dottore: “Ma voglio che tu sappia che ti ho
amato. Ancora prima che ci conoscessimo e… forse lo farò ancora per molto
tempo. Ma se non ti vedo… anzi se non ti ‘sento’ ovunque attorno a me è più
facile, o almeno sembra più facile.”
Un
fremito attraversò il corpo dell’uomo, le mani si chiusero a pugno in uno
spasmo nervoso. Inspirò profondamente, sciogliendo i loro sguardi e posando il
suo su un punto indefinito della scrivania al suo fianco. Quella superficie in
legno era diventata la sua scialuppa di salvataggio da una situazione che non
sapeva come sarebbe andata a finire, mentre cercava di resistere alle emozioni
che gli galoppavano dentro:
“Clara…
l’amore a volte non basta.”
“Lo
so. Me lo hai già detto.” La risposta di Clara fu rapida e sincera: “Volevo
solo sapessi.”
Lui
annuì, senza smettere di fissare quel punto indefinito sulla scrivania,
carezzandone con la mano la superficie levigata. Clara sbuffò, staccandosi con
un balzo dall’anta dell’armadio e, tirando su col naso, mentre cercava di
soffocare le lacrime invisibili che sicuramente le avevano gonfiato gli occhi
disse:
“Allora,
non ti chiedo un bacio d’addio. Ma un abbraccio? Che ne dici?”
Clara
allargò le braccia, con il Dottore che finalmente la guardò concedendosi un
sorriso sincero, dando finalmente voce ai suoi pensieri:
“Se
ti baciassi, non credo riuscirei a fermarmi, questa volta.” Il cuore di
entrambi sussultò a quella confessione decisamente inaspettata: “Per
l’abbraccio… possiamo provare.”
Si
avvicinarono lentamente l’uno all’altra, con le braccia che si intrecciavano
dolcemente tra loro e si andavano a stringere attorno al corpo dell’altro. Il
corpo del Dottore, inizialmente teso, si rilassava nella stretta dolce della
ragazza.
Il
viso di Clara premuto contro il petto del Dottore, con le narici intrise del
suo profumo di muschio e legno umido, il calore della doccia appena fatta
ancora sul corpo, percepibile oltre i vestiti. La guancia del Dottore poggiata
contro la tempia di Clara, con la schiena leggermente piegata in avanti ad
attenuare almeno un po’ la grande differenza di altezza tra loro ed il naso
sprofondato tra i capelli di lei, il profumo di gelsomino ad inebriarlo,
esattamente come la prima notte del suo rientro a casa, quando non sapeva di
dormire tra le lenzuola di lei. Il calore del corpo di uno a confondersi con
quello dell’altra per un’ultima volta e con un’intimità così intensa e carica
di significato, con un valore immenso, più importante forse persino di una
notte d’amore consumato e svuotato della sua purezza.
Non
sapevano quanto tempo restarono lì, in piedi, a stringersi e respirarsi. Ma
quando Clara si chiuse la porta di casa Smith alle spalle, oltrepassando i due
Angeli Piangenti posti a guardia dell’ingresso, avevano l’uno l’odore
dell’altra sui vestiti ed il cuore così pesante da far fatica a respirare.
Al
piano di sopra, nascosto dietro la tendina della finestra, dopo aver visto
Clara attraversare il vialetto senza voltarsi, il Dottore si stese sul suo letto,
un braccio a coprire gli occhi ed un formicolio fastidioso che gli attraversava
il corpo.
In
quel momento pensò a River ed al loro addio mai detto ed alla sensazione
costante di lei ancora accanto a lui, come se ci fosse ancora e sempre un
domani per loro, un’eco della loro vita che con Clara, invece, non ci sarebbe
mai stato.
In
quel momento, il Dottore pensò che i finali proprio non gli piacevano.
Clara
attraversò il giardino di casa Smith per metà prima di trovarsi Amy di fronte.
L’amica le andò incontro e le raccolse lo scatolone dalle mani con la chiara
intenzione di aiutarla. Clara la ringraziò con un tacito cenno della testa ed
un mezzo sorriso, Amy le rispose scrollando le spalle e lanciando lo sguardo
alla finestra dietro la quale il Dottore ancora si intravedeva. Con un cenno
della mano lo salutò, lui rispose con un rapido gesto della testa per poi lasciar
cadere rapidamente la tendina e nascondersi all’interno dell’abitazione.
Clara
si voltò, ma non lo vide.
“E’
per questo che mi hai chiesto di aspettare fuori?”
Nella
voce di Amy non c’era giudizio alcuno, ma nemmeno comprensione. Clara abbassò
la testa incamminandosi verso la strada rispondendole con un semplice:
“No.”
Proseguì
in silenzio per cinque metri prima di trovare il coraggio di continuare:
“Non
sapevo fosse in casa.”
Gwen
le aspettava con la sua auto poco distante dalla proprietà. Le vide uscire dal
cancello e segnalò con un gesto della mano la sua presenza, andando ad aprire
il bagagliaio come mossa cautelativa ed urlando dalla distanza con voce allegra:
“Dove
andiamo?”
“Notting
Hill.” La risposta incolore di Clara.
“Ah,
però!”
“La
zona dei mercati…”
“Ah…”
La delusione di Gwen, immaginando già il caos del quartiere e l’impossibilità
di studiare come si deve. Zona residenziale e rinomata, con prezzi
inaccessibili ai più ed appartamenti piccolissimi, di certo non l’ottimale per
studenti in via di laurearsi. La ragazza incrociò le braccia al petto
controllando lo spazio nel bagagliaio, poi le sciolse per spostare un paio di
oggetti e creare spazio per le cose di Clara.
Ritornando
ad usare un tono di voce più basso, Clara continuò parlando più a se stessa che
a Gwen, ancora distante, o Amy ancora a lei vicina:
“Era
l’unica casa libera che accettava come pagamento il soggiorno minimo di due
settimane, visto che a Natale torno a Blackpool. Mi è costato 275 sterline…”
“Clara…”
Amy si fermò, costringendo anche Clara a fermarsi prima di raggiungere l’auto
con la loro amica, ad una distanza ancora abbastanza lunga affinchè lei non
potesse sentirle:
“Mi
dici cos’è successo?”
Clara
si voltò verso Amy senza guardarla:
“A
cosa ti riferisci?”
“Non
sono stupida Clara.” Amy sbuffò: “Mi sono accorta che qualcosa è cambiato. Tra
te e John e tra te ed il Dottore. E li conosco entrambi abbastanza bene per
avere i miei sospetti.”
Clara
la interruppe sospirando e portandosi una mano alla tempia, spingendo indietro
i capelli:
“Amy…
non è successo niente, te lo assicuro. Ma non voglio fare più danno di quanto
già sia stato fatto…”
“Quindi
ho ragione. Mi sembrava strano che il Dottore restasse per così tanto tempo. E
va via perché tra voi, in realtà, qualcosa è successo.”
“No.”
La risposta di Clara fu rapida e secca, quasi convincente: “ Va via per
evitarlo. Ed anch’io. Non voglio ferire John perché… lo sai cosa provo per lui,
lo sai quanto per me sia importante; ma non voglio neanche ferire il Dottore
perché anche lui è importante. Vado via così lui può restare.”
Amy
scosse la testa, riprendendo a camminare mentre diceva più a se stessa che
all’amica:
“E
pensi di risolverla così? Lui se ne andrà lo stesso. E se lo conosco bene,
posso dire tranquillamente che non tornerà per molto, moltissimo tempo.”
Clara
riprese a camminare con una morsa che le stringeva il cuore e lo stomaco che le
bruciava come un fuoco infernale. Si morse un labbro per trattenere le lacrime
e sussurrare:
“Sono
una persona cattiva. E’ colpa mia e mi dispiace, ma non ho mai voluto accadesse… quindi ti prego, non giudicarmi male, io…”
“Sta
zitta Oswald… non è colpa tua. I sentimenti non nascono a comando.” Amy le
sorrise cercando di addolcire l’espressione del viso e la voce. Ma la tensione
della situazione che si era venuta a creare in casa nell’ultimo mese un po’ si
era trasmessa anche a lei ed a Rory e non poteva negare di metterla a
conoscenza dei fatti:
“
Certo la situazione non mi piace, perché tengo a loro due in modo particolare e
tengo a te… ma non posso farti una colpa per qualcosa di cui non so nulla. So
solo che stai cercando di porvi rimedio e… sebbene un po’ di fastidio e
malessere sia arrivato anche a me e Rory… non posso giudicare se il tuo
comportamento o il suo sia giusto o sbagliato; non posso condannare te o uno di
loro due, in questo momento. Però, voglio solo che pensi bene a quello che fai.”
Clara
avvertì un senso di gratitudine per quelle parole, pensando che Amy era davvero
più comprensiva di quanto pensasse. Non sapeva, però, che dietro quelle parole
piuttosto neutrali in realtà Amy nascondesse una leggera rabbia. Voleva essere
amica di entrambi (John e Clara) e voleva bene allo ‘Zio Smith’. E la guerra
che stava combattendo dentro di lei, era sicura, l’avrebbe portata a fare una
scelta un giorno o l’altro. Una scelta che già conosceva, ma che le avrebbe
fatto molto male.
***
Erano
seduti su di una panchinetta nel giardinetto interno dell’ospedale, Rory che
tirava una sigaretta per rilassarsi dalla fatica e John che camminava
sfogliando diligentemente alcuni progetti.
Non
parlavano da alcuni minuti ma, anche nel silenzio della fredda aria di Dicembre
che li costringeva a stringersi nei cappotti, si trovavano a proprio agio l’uno
accanto all’altro.
Alla
fine, mentre Rory espirava una nuvoletta di fumo che si disperse lentamente
nell’aria, confondendosi con i loro respiri condensati, John esplose in un
verso euforico nel correggere un paio di formule.
“Ti
ho trovato, maledetto errore!”
Rory
sorrise, scuotendo appena la testa ma senza dire nulla mentre l’amico riponeva
i fogli con i calcoli corretti all’interno della sua ventiquattrore.
“Perché
non sei andato a casa? Pensavo volessi passare più tempo possibile con il
Dottore prima che partisse.”
La
domanda di Rory lo sorprese, più di quanto si aspettasse. Avrebbe potuto
tranquillamente tornare a casa a finire i suoi calcoli visto che per il pomeriggio
il suo Ingegnere Capo non gli aveva dato impegni né in ufficio né ai cantieri;
ma John aveva preferito andare da Rory ed impegnarlo nella sua ‘pausa pranzo’.
“Ti
do fastidio?”
“No.
Solo che non sei mai venuto a trovarmi durante il tirocinio. Alla facoltà di Scienze
Infermieristiche si, ma non qui. Pensavo fosse successo qualcosa…”
John
sospirò senza rispondere.
“Il
reparto di chirurgia è in subbuglio. Ieri tuo padre ha richiesto i moduli per
la sospensione dal servizio. Un paio di infermiere hanno anche pianto!” Rory si
lasciò scappare una leggera risata nel tentativo di smorzare l’aria tesa e
cercare di capire quale fosse davvero il motivo per cui John gli avesse fatto
quell’improvvisata. L’amico si lasciò scappare un sorriso amaro mentre John finalmente
trovava il coraggio di parlare:
“Alle
improvvise partenze di mio padre sono rassegnato da anni. Non nego che mi
dispiaccia e che pensavo restasse, questa volta, ma… mi ci riabituerò. So che
tornerà. Ma… Clara…”
Rory
espirò un ultima nuvola di fumo prima di spegnere il mozzicone sotto al piede.
“Ti
ha detto perché va via?”
“Per
darci una possibilità. Ma sinceramente… non la capisco!” John tirò la schiena
all’indietro, contro lo schienale e portandosi le mani intrecciate sulla fronte
a guardare il cielo plumbeo su di loro che minacciava neve.
“Capisco…”
Anche Rory si spinse contro lo schienale della panchina, incrociando le braccia
al petto e fissando lo sguardo su un punto indefinito davanti a se. Non si
aspettava di certo la successiva risposta di John:
“No
che non capisci! Se Amy ti dicesse che vuole cambiare casa perché c’è un altro
e… per darvi una possibilità deve andare via!? Assurdo, come faccio a sapere
che non è con l’altro quando non è con me? Non voglio che ci sia ‘ l’altro’! E…
so che è colpa mia, perché sono stato un’idiota! Ma… adesso non so che fare! La
sto perdendo, Rory! Sto cercando una soluzione, ma l’unica che riesco a
considerare tale è lei a casa con me!” Era geloso. Maledettamente geloso ed
insicuro. Nascondeva le sue emozioni dietro i sorrisi, dimostrandosi affettuoso
come sempre quando Clara era con lui. Si concedevano abbracci più dolci e baci
più intimi negli ultimi giorni, ma quando lei andava via c’era sempre quel
vuoto che John non sapeva come colmare. Quel vuoto che con i minuti, le ore ed
i giorni si riempiva di insicurezze e pensieri scoraggianti.
Rory
lo stava ascoltando, ma nella sua mente girovagava anche un altro pensiero che
si lasciò sfuggire senza controllo:
“Sta
sicuro che dov’è adesso non lo vedrà più.”
“Certo
che non lo vedrà! E’ a casa nostra a prendere le sue ultime cose, ma casa
nostra è il posto in cui dovrebbe essere sempre! E’ lì che è al sicuro, con
me!”
Rory
spalancò gli occhi, deglutendo e lasciandosi scappare un sonoro:
“Avresti
fatto bene a stare a casa, allora. Ah…!”
Il
respiro gli si mozzò, con la bocca serrata e la mascella che si contraeva
mentre si forzava a non lasciarsi scappare alcun suono, consapevole di essersi
lasciato sfuggire qualcosa che non avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire. Lanciò
uno sguardo furtivo a John che sembrò finalmente metabolizzare il comportamento
e le parole dell’amico.
“Rory…
tu sai chi è?”
John
lo fissò, ma Rory deviò lo sguardo, con un fremito che gli percorse il corpo e
lo costrinse a contrarre involontariamente le mani.
“Rory!”
“John…”
Nella
mezz’ora successiva, Rory si ritrovò a correre tra i corridoi del reparto per
raggiungere lo spogliatoio dei tirocinanti. Sbagliò tre volte il codice del
lucchetto del suo armadietto ma alla fine, con un calcio mal piazzato ed un
pugno che gli gonfiò la mani, riuscì ad aprirlo ed a tirarne fuori il
cellulare. Attese che Amy rispondesse prima di farsi prendere completamente dal
panico e farfugliare cose sconnesse. Non solo per il senso di colpa per quello
che aveva appena combinato, ma soprattutto perché era consapevole che Amy lo
avrebbe ammazzato:
“Rory,
calmati! Non capisco cosa dici, si può sapere cos’è successo?”
Rory
fece un profondo respiro, portandosi la mano al viso e cercò di calmarsi:
“Ecco
tesoro… io… credo di aver fatto un
guaio… un grosso guaio!”
------------------------------
Nota:
Come
al solito…. Non date nulla per scontato!!! Soprattutto riguardo alla prima
parte xD Per il resto… prossimo capitolo in arrivo per il prossimo fine
settimana :D
|
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Capitolo 11 *** Capitolo 11 ***
Cap11
Capitolo 11
John aveva percorso il tratto di strada tra ospedale ed
ingresso della metro senza rendersene conto, cercando di controllare la rabbia
e la confusione che lo stavano divorando dall' interno. John in quel momento si
sentiva lacerato, ridotto in piccoli pezzi di carne putrida appena tritata e
pronta per le fiamme e ridotto in cenere. Il suo corpo era gelido, il viso
pallido e coperto da un sottile strato di
sudore freddo, ma la sua anima al contrario stava bruciando. Avvertiva
un formicolio inspiegabile al capo, come se mille insetti gli stessero
camminando tra la calotta cranica ed il cervello, con la vista leggermente
sfocata ed il respiro pesante.
Si era ritrovato seduto per caso su uno dei sedili del
vagone mezzo vuoto, con le mani morte in grembo e lo sguardo fisso sul viso
spiritato che si intravedeva in riflesso sul vetro di fronte a se. Nessuno gli
si avvicinava; gli altri pendolari gli lanciavano uno sguardo furtivo e si
fermavano a distanza fingendo che non esistesse ed a John non dispiaceva
affatto quel comportamento in quel momento. Probabilmente chi gli passava
accanto pensava a lui come ad un drogato in crisi d'astinenza, un pazzo che
aveva saltato la sua dose di calmanti. Ma nessuno poteva anche solo
lontanamente sospettare quanto dolore avesse dentro di se. Nella sua stessa
espressione vacua e priva di vita leggeva la disperazione, la delusione.... un
malessere così profondo da corroderlo dall’interno ed impedirgli di pensare
coerentemente e che non si avvicinava neanche lontanamente a quel piccolo
prurito provato quando Clara era uscita con Porridge. Questa volta era peggio,
un male elevato alla ennesima potenza.
Aveva voluto credere che per il suo cuore ci fosse
speranza, che il sole era tornato a splendere promettendogli una nuova vita
piena di giorni lieti. Poi la bocca dell' Inferno gli si era aperta sotto i
piedi e lo aveva risucchiato, masticandolo e sputandolo senza grazia in un lago
di dolore dalla consistenza melmosa.
Nel momento in cui Rory gli aveva confessato il suo sospetto
molte porte si erano aperte, molti veli si erano dissolti e le finestre
spalancate gli avevano lasciato vista completa su molti particolari che, messi
insieme, gli avevano dato una certezza: l'uomo che per Clara c'era sempre era
il Dottore. Era suo padre. E sapeva che non poteva essere altrimenti.
Il cuore gli faceva male, batteva irregolare mostrando
una accentuata tachicardia. La testa gli girava, si sentiva stranamente
debilitato con un enorme senso di nausea che lo assaliva ad ondate. Nella mente
annebbiata passavano sequenziali e senza logica solo immagini insensate:
Clara. Mio padre. Clara. Mio padre.
Clara. L'unica donna al mondo che amava ed alla quale
aveva ceduto, racimolando il coraggio necessario ad affidarle il suo cuore
ferito e stanco.
Suo padre. L'unico uomo al mondo che amava ed al quale
aveva dato sempre e comunque, incondizionatamente, la sua fiducia e di cui era
sicuro. Sicuro della sua protezione, sicuro che mai lo avrebbe deluso ne
tradito.
Clara e mio padre.
Le due persone più importanti della sua vita lo avevano
ingannato. Era uno scherzo di cattivo gusto. Doveva esserlo. A cosa era valso
abbassare le difese? A cosa era valso decidere di provare a fidarsi? Un altro
proiettile al cuore, un pugno nello stomaco, un colpo in testa e tutto il
dolore che arrivava insieme e continuava ad aumentare, sempre più intenso,
sempre più profondo!
Si riscosse appena quando sentì la voce registrata della
metro avvertire della prossima fermata. Aveva mancato la sua, tre fermate
prima.
Si piegò in avanti, portando la testa tra le ginocchia e
le mani tra i capelli urlando e piangendo. Non ci fu meraviglia che, nel panico
dell’ignoto, in pochi secondi gli altri passeggeri abbandonarono il vagone
lasciandolo solo con la sua disperazione.
Nessuno si curava di lui. Non lo faceva Clara, non lo
faceva suo padre. Perché avrebbero dovuto farlo degli estranei?
***
“Vengo con te!”
La voce preoccupata di Clara aveva assunto un tono più
alto e isterico del solito. Tremava, con tutto il corpo mentre gli occhi le si
inumidivano e le si gonfiavano di lacrime non espresse.
Amy portò il braccio in avanti, spingendola sul divano
ancora messo di trasverso nel piccolo soggiorno, con scatoloni e cianfrusaglie
varie che non valeva la pena di tirare fuori per sole due settimane.
“No!” Fu la risposta secca della rossa. Lo sguardo duro e
le labbra strette in un cuscinetto morbido che difficilmente avrebbe fatto
capire quanto in realtà la ragazza fosse arrabbiata: “Hai fatto già abbastanza,
non credi? Adesso ci penso io!”
Il cuore di Clara si fermò non appena gli occhi di Amy
lasciarono i suoi. Si diresse versò la porta, aprendola ed uscendone per metà
avvolta nella luce ombrosa del giorno. Fuori preannunciava tempesta.
“Ma, Amy…”
“Ho detto no!” Amy le puntò nuovamente lo sguardo contro
continuando in un tono leggermente meno duro, ma non ammorbidì la sua
espressione: “Ti chiamo appena si calma la situazione. Conosco entrambi molto
più di te. E’ meglio se tu resti qui.”
Un’ondata di panico le mozzò il respiro mentre la vedeva
allontanarsi e nasconderle definitivamente lo sguardo, quegli occhi nocciola
chiaro che con la luce del giorno assumevano una tonalità quasi rossastra, come
i suoi capelli. Amy era lo spiritello scozzese che le metteva sempre il buon
umore, che nell’arco della loro conoscenza si era insinuata con estrema
facilità e naturalezza nel suo cuore. In quel momento, non sapeva perché, ma le
venne da accostare l’immagine dell’amica a quella del Dottore e quel
particolare colore grigio degli occhi che con la luce del sole assumevano una
tonalità azzurra. Ed ora si rendeva conto che, per colpa della sua stupidità e
del suo egoismo, stava perdendo anche lei.
Si accasciò sul divano con la testa tra le mani. Urlò di
rabbia contro se stessa prima di afferrare il cellulare e comporre il numero di
John.
Urlò per l’ennesima volta quando le rispose la segreteria
telefonica. John aveva spento il cellulare.
***
Il Dottore era nel suo studio a sistemare varie
documentazioni prima della partenza; la cassaforte aperta con i libretti di
risparmio ancora sulla scrivania ed un paio di carte di credito nuove di zecca.
Quando John entrò dalla porta semiaperta il Dottore ne riconobbe il passo.
Diede una rapida occhiata al figlio sorridendo mentre
diceva:
“John, eccoti. Sono stato in banca, ho tolto la
limitazione per i prelievi mensili e puoi…”
Non finì la frase, ritrovandosi con la schiena dolorante
premuta contro la libreria, un braccio di John alla gola e la mano stretta
attorno alla stoffa della camicia sul petto.
Osservò sconvolto il viso di suo figlio, i cui capelli ribelli
gli coprivano metà dello sguardo spiritato su un viso pallido; il Dottore portò le mani istintivamente sul braccio del
ragazzo nel tentativo di alleviare la pressione che gli poneva sulla trachea, trovando
difficile respirare e persino parlare.
Furono attimi di silenzio teso durante i quali nessuno
dei due riuscì a formulare un pensiero coerente; il viso di John vicinissimo a
quello del padre, leggermente rivolto verso l’alto per compensare quei tre
centimetri di differenza in altezza che venivano però annientati dal vigore
giovanile del ragazzo. Un colpo di tosse proveniente dalla gola contratta del
Dottore spezzò il silenzio, costringendo l’uomo a stringere i denti e gli occhi
mentre col corpo ormai debilitato cercava un movimento che gli permettesse di
liberarsi. Gli anni da militare gli avevano insegnato di certo come reagire e
contrattaccare, ma quello di fronte a lui era suo figlio, non un nemico. Non
poteva e non voleva fargli del male.
“John… che Diavolo…”
“Eri mio padre!!”
Un urlo disperato e rabbioso che gli assordò le orecchie
rimbombandogli nella testa. Il Dottore riaprì gli occhi mentre John spingeva
più violentemente contro la sua gola prima di staccarsi bruscamente da lui,
lasciandolo accasciarsi su se stesso, con un braccio che si teneva ad una
mensola della libreria e l’altra mano alla gola mentre tossiva e riprendeva
aria che gli bruciava trachea e polmoni.
“Ma… di che parli…”
Una nuova ondata di rabbia si impossessò di John,
costringendolo a scagliarsi nuovamente contro l’uomo più anziano. Lo afferrò
per il colletto della camicia, spingendolo nuovamente con la schiena contro il
mobile alle sue spalle; alcuni tomi si inclinarono, altri mal sistemati caddero
al pavimento urtando prima sul corpo di entrambi, ma i due uomini erano
talmente presi dalla situazione da non rendersi conto di dove venivano colpiti
e come.
“Di cosa parlo?” Urlò il giovane: “Come hai potuto! Lo
sapevi! Sapevi cosa provavo per Clara… sapevi quanto era difficile per me e…
eri mio padre, maledizione!”
Lo sguardo di John era disperato, violento, accusatorio.
Il Dottore capì: John sapeva.
L’uomo abbassò lo sguardo per un istante, colpito dal
senso di colpa che aveva cercato di soffocare per mesi; un dolore lacerante che
gli percorse il cuore e gli strappò la carne mentre rispondeva un misero:
“Non l’ho toccata… te lo giuro Johnny. Non l’ho toccata!”
Sperava di risolverla, di calmare l’ardore di quel
ragazzo deluso e ferito, quel giovane che per troppo tempo gli aveva ricordato
un cucciolo abbandonato e per il quale avrebbe dato l’anima.
Ma quello che il Dottore ottenne fu solo più rabbia ed
una reazione del tutto inaspettata.
“Bugiardo. Lo so quando menti!”
Con lo stomaco che gli bruciava per la rabbia repressa,
la gelosia, la delusione per il peggiore dei tradimenti subiti, udire quelle
parole ed associarle ad un’immagine in cui accadeva l’esatto contrario, per
John fu come gettare benzina sul fuoco. Conosceva suo padre e conosceva le sue
reazioni e da cosa nascevano le sue decisioni.
Strinse i denti con una pressione talmente alta da
sentirli stridere tra loro, mentre tirava il braccio destro indietro per poi
impattarlo contro il volto di suo padre. Lo vide accasciarsi definitivamente
sul pavimento, incapace di tenersi sulle gambe o persino sostenersi contro la
libreria, con i segni dell’età che improvvisamente lo rendevano troppo vecchio
e più fragile di quanto in realtà fosse; la guancia arrossata, il labbro
spaccato che prendeva a sanguinare copiosamente.
Un brivido di terrore invase il cuore di John, finalmente
consapevole di quanto innaturale fosse stata la sua reazione, di quanto quello
che aveva appena fatto facesse più male a lui che all’uomo che aveva di fronte,
accasciato su se stesso, che si portava una mano al labbro e sputava sangue. Il
senso di colpa improvviso che gli fece tremare il corpo lo devastò come il pensiero
‘che cosa ho fatto?’ gli passava nella mente; ma come quel pensiero smise di
formularsi ed il senso di colpa sparì non appena una nuova ondata di rabbia si
impossessò di lui.
Non sono io a dovermi sentire in colpa! Non sono io a dovermi sentire male!
“ Hai idea? Hai idea di cosa si provi a… Dio! Tu meglio
di chiunque altro dovresti capirmi! Tu più di chiunque altro dovresti davvero
sapere quanto sia difficile per me fidarmi delle persone! Mi fidavo di Clara e... poi ci sei tu! Mi hai
abbandonato per anni! E nonostante questo eri l’unico ad avere tutto di me,
incondizionatamente! Come hai potuto?”
Continuava ad urlare contro suo padre, senza sosta e
senza remore. Il Dottore assorbiva passivamente ogni attacco, accettando ogni
accusa.
“Ti sei sfogato?”
Il Dottore si portò seduto, con la schiena premuta contro il bordo dello scaffale
ed un ginocchio piegato, la voce ridotta ad un sussurro. Guardava suo figlio,
consapevole che tutto quello che gli stava sputando addosso, compreso il pugno
che gli aveva tirato, era dovuto e giustificato.
“Sono ancora tuo padre. Lo sarò sempre.”
“La ami?”
Nessuna risposta per John, costringendolo a riformulare
la domanda con maggiore insistenza.
“Papà, tu la ami?”
L’uomo sospirò pesantemente, cercando di rimettersi in
piedi fallendo vergognosamente. Le gambe gli cedettero costringendolo a stare
ancora seduto ed ingoiare il suo stesso sangue. Il colletto della camicia
bianca ormai diventato scarlatto ed umido contro la pelle.
“John… me ne vado via, non la vedrò più. Cosa vuoi che
faccia di più?”
“Oh, il grande eroe! Quello che si sacrifica per il bene
degli altri! L’Ufficiale che protegge i più deboli! E’ così che vuoi
giocartela? Tenerla legata a te in questo modo?”
“Smettila di comportarti come un bambino!” Questa volta
era il Dottore ad urlare rabbioso. Un ritrovato vigore con il quale riuscì
finalmente a tirarsi in piedi, aiutandosi con le mani che correvano ad
afferrare le mensole della libreria man mano che saliva, con le gambe ancora
incerte e la testa che gli girava, intontito ancora dal colpo. Con una voce
nervosa l’uomo continuò:
“Non fare l’ipocrita ora, non era la tua fidanzata! L’hai
tenuta a distanza, in bilico, torturandola per mesi! Se non ci fossi stato io
ci sarebbe stato qualcun altro. Qualcuno che di certo non si sarebbe tenuto
tutto dentro e sicuramente non te l’avrebbe lasciata!”
“E quindi dovrei anche ringraziarti? Potrebbe essere tua
figlia, poteva esserlo! Non ti vergogni?”
“Si!” Quella parola era corsa fuori dalle labbra del
Dottore con un vigore violento e penetrante. Entrambi gli uomini restarono in
silenzio a fissarsi. John confuso, il Dottore invece finalmente cosciente.
John perché non
sapeva se quel ‘si’ si riferisse alla sua prima accusa o alla seconda. Il
Dottore perché aveva realizzato che il dolore che aveva provocato nel ragazzo
faceva più male a se stesso che a lui.
“Oh, si…” Continuò il Dottore: “Non ne hai idea, Johnny!
Non ne hai idea! Ma ti prego… non dare la colpa a lei. Ti ama più di quanto
pensi. Per questo, amala a tua volta, proteggila, rendila felice. Tu puoi
farlo.”
“Ma ti ascolti
papà? Come pensi che possa tornare tutto normale? Come pensi che possa
continuare a vivere con il pensiero che Clara abbia potuto amarti, che tu e lei
abbiate condiviso un qualcosa! Come posso vivere con il terrore continuo che in
futuro non potiate di nuovo… provare qualcosa l’uno per l’altra! Io non riesco
a pensarlo! E’ qualcosa di innaturale, mi fa impazzire!”
“Va bene, andrà tutto bene invece. Io scomparirò dalla
vostra vita, sarà come se non fossi mai tornato… ormai non ti sono più necessario, lo capisco.
Hai Clara, si sistemerà tutto.”
John scrollò le spalle e scosse la testa. Si portò le
mani tra i capelli tirandoseli indietro mentre camminava avanti ed indietro
come una tigre rabbiosa:
“Cazzo, è uno scherzo! Deve essere uno scherzo... mi
viene la nausea anche solo a pensarci!”
Suo padre mosse un passo in avanti, porgendo la mano come
ad afferrargli il braccio. John si tirò indietro, portando le mani avanti e
scuotendo la testa. Gli occhi sbarrati e rossi, le pupille dilatate:
“Non ti avvicinare, non toccarmi. Non osare neanche
pensare di toccarmi! Non voglio più vederti, mi fai schifo!”
John continuò ad indietreggiare e scuotere la testa. Le
parole di suo padre gli sembravano incoerenti e prive di ogni significato. Le
sue stesse emozioni erano come spente, assopite se non disintegrate sotto il
peso di un inganno fin troppo bene ordito. Perché era chiaro come il sole che
tra lui e Clara qualcosa doveva essere successo!
Alla fine spinse bruscamente suo padre lontano,
portandosi una mano alla bocca come a voler fermare un conato, lasciando uscire
dalle labbra un gemito di agonia prima di respirare profondamente e sussurrare:
“Ho bisogno di aria pulita. Devo andarmene da qui… non ce
la faccio. Non posso…”
Corse fuori dallo studio, scendendo le scale ad una
velocità incredibile, suo padre che lo seguiva incespicando leggermente sugli
ultimi scalini:
“John!”
La porta di casa si richiuse rapidamente dando al Dottore
la piena vista su una stanza vuota e silenziosa. Si avvicinò lentamente
all’ingresso, col sangue che continuava a colargli lungo il collo ed
intingergli i vestiti. Riaprì la porta solo per vedere John tirare fuori la
moto dal garage, metterla in moto e sfrecciare via lungo il vialetto, senza
casco.
Il Dottore si appoggiò stancamente allo stipite della
porta con la schiena, lasciandosi scivolare fino a terra. Si portò la testa tra
le ginocchia, ignorando il bruciore al viso ed il dolore al labbro ormai
gonfio. Ma non era il suo fisico a soffrire,
era abituato a trattamenti decisamente peggiori.
Era il suo spirito che stava cedendo, trascinando il
corpo con se.
***
Amy percorse il vialetto di casa Smith di corsa, sorpresa
nel notare la porta d’ingresso lasciata semiaperta. Si fermò sull’uscio,
scostando appena l’anta per penetrare lentamente nel disimpegno. Notò lo
specchio sulla sinistra, accanto all’attaccapanni, frantumato; alcune gocce di
sangue rappreso lungo le spaccature ed altre che segnavano un percorso
orizzontale sul pavimento. Si chinò a raccogliere alcune cornici con foto di
famiglia rovesciate sul pavimento e le ripose sul mobiletto.
“Johnny… Dottore?”
La voce ridotta ad un sussurro mentre seguiva con lo
sguardo il lieve percorso di quelle gocce. Si fece strada verso il centro del
soggiorno, trovando una testa dai capelli grigi e scompigliati che giaceva
contro il bordo dello schienale. Non poteva vedere l’espressione del Dottore,
ma con passo lento Amy aggirò il divano.
“Zio John?” Nessuna risposta. Con un tono di voce più
alto Amy riprovò: “Dottore?”
L’uomo si scosse, aprendo gli occhi arrossati. Lo sguardo
del Dottore vagò senza meta per la stanza prima di posarsi sul volto
preoccupato di Amy. La ragazza gli si avvicinò, notando la ferita al labbro
dalla quale ormai il sangue aveva smesso di uscire; Amy fermò lo sguardo sulla
mano sinistra dell’uomo, avvolta da uno straccio azzurro che aveva riconosciuto
come il centrino del comodino posto all’ingresso, sotto le foto di famiglia che
ricordava di aver notato appena entrata. Una chiazza scura si allargava sul
lato esterno della stoffa, lasciandole pensare che, a rompere lo specchio, era
stata quella mano in chissà quale occasione.
Nessuna parola ci fu tra loro, solo uno sguardo triste ed
un sospiro esausto da parte della ragazza.
Amy lasciò la stanza per tornarne subito dopo con la
cassetta del pronto soccorso tra le mani.
Si sedette accanto all’uomo, versando dell’acqua
ossigenata su una garza sterile e cominciando a disinfettare la ferita sul
labbro. Il Dottore trasalì, spingendosi più a fondo contro la testiera
emettendo un lieve gemito di dolore. Chiuse però gli occhi, lasciando che la
ragazza continuasse a disinfettare per
poi passare a pulire il sangue rappreso sul viso e sul collo.
“Lo sapevate tutti?”
Amy rimase in silenzio per alcuni secondi, senza guardare
l’uomo negli occhi. Cambiò il pezzo di garza ormai scarlatto con uno pulito:
“Non sapevamo niente.” Sospirò continuando: “C’era
qualcosa di strano nell’aria, ma non sapevamo cosa fosse. Poi quando Clara è
cambiata… il fatto che entrambi volevate andarvene così improvvisamente ha dato
da pensare. E Rory ha detto una parola di troppo quando non doveva, come fa di
solito. Ma non prendertela con lui… ci parlerò io ok? Ora però sta zitto e non
muoverti.”
Il Dottore rimase in silenzio, lasciando che la ragazza
continuasse la sua opera. Una volta finito, Amy prese cautamente la mano del
Dottore tra le sue, districandola con delicatezza dal groviglio che lui stesso
aveva fatto nel tentativo di fermare il sangue. Sul lato esterno c’era un
taglio profondo che riprese a sanguinare non appena Amy tolse il tampone
improvvisato.
“Ci vogliono dei punti…” Disse il Dottore con voce
incolore e lo sguardo vacuo. Parlava ma era come se la sua mente fosse altrove:
“C’era un pezzo di vetro conficcato… l’ho tolto. Se c’è
Rory può ricucirmi lui, ho tutto l’occorrente nella borsa.”
Amy non parlò, ma il Dottore si lasciò scappare una lieve
risata nervosa:
“Nella valigetta per il viaggio.” Un sospiro frustrato prima
di continuare: “Non ne vale più la pena… tutto quello che ho fatto non è valso a
nulla! Forse avrei dovuto cedere, allora avrei tutto il diritto di sentirmi
così! John avrebbe tutto il diritto di odiarmi!”
“John non ti odia…”
“Si invece…”
Il Dottore strinse la mano destra a pugno, serrando la
mascella ed avvertendo nuovamente il
sapore metallico del sangue nella bocca. Doveva avere un taglio anche
all’interno della guancia di cui non si era accorto, ma non gli importava.
“Se avessi ceduto… forse adesso farebbe meno male.”
Amy lo abbracciò, portando il viso del Dottore contro la
sua spalla e cominciando a dondolarsi come se lo stesse cullando:
“Shhh. Non dire niente. Niente di cui potresti pentirti.”
Con le mani a stringere il braccio di Amy, in un mezzo
abbraccio che avevano condiviso sin da quando lei era una bambina e lo chiamava
‘zio arrabbiato’ per le sue sopracciglia sempre naturalmente corrugate, il
Dottore si permise di lasciarsi sfuggire qualche singhiozzo, con le lacrime che
scendevano calde lungo il viso e bruciavano sulla pelle lesa.
“… ho fottuto tutto…”
Amy si lasciò scappare una sola lacrima mentre
accarezzava i riccioli grigi dello ‘zio arrabbiato’. Non osava immaginare
quanto fossero distrutti i due pilastri della sua infanzia, ma avvertiva il suo
stesso cuore pesante e faceva male.
“Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno.” Spinse appena
le spalle del Dottore per poterlo guardare in viso e fargli un sorriso gentile,
anche se triste:
“Una volta qualcuno mi ha detto che tutto ciò che viene
fatto per amore non é sbagliato. Amare non é mai sbagliato.”
L’uomo alzò lo sguardo verso Amy, sorpreso da quelle
parole così stranamente familiari:
“Forse é vero... o dipende.” Si passò una mano sulla
parte di viso sana per darsi una contegno prima di riprendere: “In quale
occasione ti è stato detto?”
“Bé.... sai... quando io e Rory... la prima volta che...
insomma! Mi imbarazza parlarne con te, è come se fossi mio padre!”
“Imbarazza di più me, fidati!”
Amy arrossì, ma cercò di nasconderlo dietro un sorriso
sbarazzino prima di esprimersi in una linguaccia impertinente verso l’uomo più
anziano, come a voler smorzare l’aria che si era creata attorno a loro. Un
lieve sorriso nostalgico, invece, piegò le labbra del Dottore mentre nella
mente saliva a galla il ricordo di tre bambini che correvano davanti casa quando
ancora vivevano a Glasgow. Poi continuò il discorso:
“Comunque.... River aveva ragione, soprattutto in un
momento come quello, suppongo.”
Amy annuì malinconica continuando:
“Sai... ero felice sul momento. Ma dopo... ho provato
paura e vergogna. Rory é stato dolce, ha cercato di essere comprensivo. Ma era
improvvisamente cambiato tutto! Quando sono scappata... zia Melody mi ha
aiutata e... si. Suppongo anch’io che, alla fine, avesse ragione.”
Amy sorrise dando un bacio sulla tempia del Dottore
continuando:
“Le sue parole sono state mie per tutto questo tempo. Ora
sono tue. E sai meglio di me che la nostra River sbagliava raramente.”
“No. Melody non sbagliava mai. Da quando sei diventata
così saggia?”
“Ormai sono una donna adulta, no?”
“Per me sarai sempre quella bambina lentigginosa, con la
coda di cavallo alta ed i capelli arruffati, che si sbucciava le ginocchia nel tentativo di
tenere il passo con un monello spericolato.”
Amy lasciò uscire dalla gola un grugnito di protesta,
arricciando le labbra in una smorfia offesa. Alla fine sospirò:
“Adesso chiamo Rory. Lo faccio tornare a casa e ci
occupiamo di questi tagli.”
Il Dottore chiuse gli occhi, sprofondando nuovamente
contro il divano rispondendo:
“Posso ricucirmi da solo. Non deve perdere ore di
tirocinio per me.”
Amy contenstò:
“Te lo deve.”
“Non mi deve niente… nessuno di voi mi deve niente.”
“Ci hai accolti in casa tua come figli. Sin da quando
eravamo dei bambini. Fidati di me: te lo deve.”
Senza più discutere, Amy raccolse il telefono e compose
il numero di Rory. Quando il ragazzo rispose gli ordinò di tornare a casa e che
non accettava reclami. Doveva farlo e farlo subito, era un’emergenza
incontestabile.
Quando riattaccò, vide il Dottore che cercava di
contenere un lievissimo sorriso e sopprimeva una smorfia di dolore:
“Sei testarda... Mi ricordi Melody. Me l’hai sempre
ricordata.”
“Bé, abbiamo lo stesso gene Pond, io e lei. Tale zia tale
nipote. Mi sembra ovvio!”
Il Dottore non contestò, spingendosi con la schiena
contro il divano e chiuse gli occhi, avvertendo su di se un’improvvisa
stanchezza. Amy gli strinse la mano destra tra le sue:
“Le cose andranno a posto, zio John.”
Forse nessuno dei due in quel momento ci credeva davvero.
Ma la vicinanza ed il calore della famiglia riusciva a lenire almeno
superficialmente il dolore in cui la famiglia Smith-Pond sembrava stesse
affogando. E dalle labbra del Dottore, con il pensiero ancora rivolto a sua
moglie, uscì solo una parola:
“…spoiler…”
-------------------------------------
Nota:
Chiedo scusa per il ritardo nel postare, ma purtroppo è
stata una settimana impegnativa ed il lavoro non mi ha dato tregua. Le prossime
due settimane saranno infernali, ma cercherò di aggiornare il prima possibile.
Intanto, spero che questo capitolo sia riuscito
abbastanza bene… ci sono due o tre riferimenti anche alla serie che spero siano
inseriti bene nel contesto. Mentre scrivevo poi mi sono resa conto che c’era
molto, troppo da scrivere per poter sistemare in qualche modo il casino
successo ed ho dovuto conservare qualcosa per il prossimo capitolo.
Per quanto riguarda la questione ‘Zio Arrabbiato’ xD Un po’
mi sono ispirata a Kiss me Licia, ma ci sta così bene questo soprannome in
riferimento alle sopracciglia di Twelve xD
Per quanto riguarda invece il bambino del capitolo scorso…
cercherò di inserire una spiegazione alla sua esistenza nel prossimo aggiornamento. ;)
Grazie ancora a tutti ed alla prossima ^^
|
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Capitolo 12 *** Capitolo 12 ***
Cap.12
Capitolo 12
Presente….
“Quindi, ora sei a tutti gli effetti un Dottore in
Ingegneria!”
John serrò la mascella al sentire quel nominativo che per
lui aveva un volto effettivo al quale accostarlo. Clara scostò lo sguardo ed
annullò il sorriso dolce che le illuminava il viso sin da quando si erano
incontrati:
“Scusami… ho scelto la parola meno opportuna…”
“Tranquilla. Ormai è passato tanto tempo.”
Mentiva. La ferita bruciava ancora. Ardeva, faceva male, suppurava
sin da quando si erano rivisti. In realtà sin da quando gli occhi di John si
erano posati in quelli azzurri ed innocenti del bimbo seduto in grembo alla sua
Ragazza Impossibile. E John in quel momento odiava tutto. Soprattutto odiava se
stesso per averla mandata via due anni prima, per non riuscire a distogliere lo
sguardo dal piccolo e sentirsi male nel considerarlo un ‘prodotto ignobile
della natura’ invece di un piccolo innocente.
Eppure, nonostante il suo sguardo fosse diretto più al
bambino che a Clara, John non era riuscito a trovare una somiglianza con lei.
Ogni tratto di quel bambino, compreso il broncio naturale del suo viso, non
facevano altro che ricordargli suo padre.
Clara forse non si era accorta a cosa o chi le attenzioni
di John erano rivolte, concentrata sul tenere il ferma-tovaglioli lontano dalle
piccole mani di quell’innocente dopo che ne aveva tirato dall’interno almeno
una decina.
Avevano avuto comunque il tempo di ordinare, prima che
Clara fosse costretta a tirar via dalla borsa le tovagliette imbevute con le
quali pulire le mani del piccolo che, non contento del gioco ‘tira il
tovagliolo’ aveva deciso di sporgersi e rovesciare il cappuccino di John sul
tavolo. Almeno i tovaglioli tirati via in precedenza si erano dimostrati utili…
“Scusami… è che non gli piace stare fermo in un posto.”
John sorrise amaramente, riscontrando una ennesima
somiglianza, mentre aiutava Clara a pulire il casino sul tavolo.
“Quanto ha?”
“Diciotto mesi.”
Un anno e mezzo. John strabuzzò gli occhi mentre la sua
mente cominciava a fare automaticamente dei calcoli… non tornavano. Due anni
distanti. Un anno e mezzo. Questo significava che… i conti decisamente non
tornavano. O tornavano nel modo sbagliato! In un modo che lui non voleva
credere fosse possibile, non doveva essere possibile perché faceva ancora più
male!
Avrebbe voluto
parlare, chiedere altre informazioni ma le parole non gli uscirono.
Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro
come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava
lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara:
“Ancora non parla, non perchè non è capace ma perchè non vuole. E di solito con gli estranei è… più timido. Devi
proprio piacergli!”
A quelle parole l’espressione di John divenne perplessa,
lasciandogli trovare il coraggio di parlare:
“Davvero? Mi guarda imbronciato… avrei detto il contrario.”
Clara si lasciò scappare una risata sincera continuando:
“Proprio per questo! Di solito tende ad ignorare i nuovi
volti per poi dimenticarli! Con te invece è diverso, ti guarda fisso. E sono
convinta che entro la fine della giornata sentirai anche la sua voce.”
John aggiunse un ennesimo tovagliolo per asciugare
l’ultimo residuo di cappuccino sfuggito alla precedente azione di pulizia; inavvertitamente
sfiorò con la sua mano quella di Clara, intenta a mettere da parte la tazzina da
caffè ormai vuota, prima di tirarla rapidamente indietro come se fosse stato
scottato. Ma Clara sembrò accorgersi del suo disagio, smettendo di respirare
nell’udire le successive parole del giovane:
“Avrà preso dal padre… sarà il richiamo del sangue.”
Clara corrucciò lo sguardo increspando le labbra nel
tentativo di capire il senso delle parole di John. Gli appariva confusa,
palesemente sorpresa quando i suoi occhi si spalancarono, come se finalmente
avesse inteso.
“John… lui…”
“Non mi hai detto come si chiama.”
Le sorrise, sospirando e tendendo un dito verso il
piccolo senza lasciare che Clara continuasse. Il piccolo guardò John negli
occhi, allungando timido la manina verso l’indice del giovane, avvolgendola
attorno alla punta; poi tirò la mano di John portandosi il suo dito in bocca.
John sorrise. E questa volta era un sorriso sincero.
Il cuore sembrò tremargli. E fu quello il momento in cui finalmente
trovò la somiglianza che tanto cercava in lui. Sapeva dargli emozioni come solo
sua madre era in grado di fare.
Passato…
Erano passati tre giorni da quando Clara se n’era andata
definitivamente. Ed erano passati tre giorni da quando John aveva litigato con
suo padre. Aveva dormito in un motel dimenticato di Chesham, nella campagna
londinese, passando le giornate a pensare e le sere ad affogare i pensieri del
giorno nella birra locale, in un qualsiasi pub di bassa categoria gli capitasse
a tiro.
Infine, era tornato a casa un giorno in cui era sicuro
non ci fosse nessuno in giro.
Aveva lasciato nuovamente la moto in garage, tirando
fuori il suo kayak blu con la scritta TARDIS sulla punta.
Lo aveva caricato sul portapacchi, sul tettuccio della
macchina, e lo stava assicurando con le corde quando il cuore cominciò a
battergli improvvisamente nel petto, mozzandogli per un attimo il respiro. Ne
capì il motivo quando, voltandosi per istinto, vide suo padre sul portico che
lo guardava dalla distanza.
Il richiamo del sangue, pensò sarcastico.
John incupì lo sguardo, tirando una estremità delle
fibbie di fissaggio per assicurare al meglio il carico.
“Johnny… dove vai?”
“Parto, non vedi?” La voce incolore, quasi meccanica e
priva di ogni emozione. Suo padre capì che John aveva chiuso il suo cuore anche
e soprattutto a lui. Il Dottore gli si era avvicinato, pur lasciandogli il suo
spazio di manovra.
“Per dove?”
John non avrebbe voluto rispondergli, avvertendo
un’improvvisa ondata di fastidio salirgli dallo stomaco. Un’ondata di fastidio
che lentamente si stava gonfiando dentro di lui come una bolla e che, quasi
sicuramente, sarebbe esplosa in una rabbia profonda.
“Che ti frega?”
“John. Sono pur sempre tuo padre e voglio sapere se
starai al sicuro.”
John tirò l’ultima cinghia, forse con eccessiva forza
facendo avvertire uno scricchiolio proveniente dall’attrezzatura da kayak che
aveva appena fissato. Sospirò esasperato, voltandosi infine vero di lui
ingiuriando:
“Quando ti fa comodo lo sei, vero? Per altri casi invece
si può sorvolare sul particolare!”
Sapevano entrambi a cosa si riferiva con quelle parole.
Ma il Dottore continuò a fissarlo serio senza indietreggiare ne abbassare lo
sguardo. John raccolse il borsone con gli abiti di ricambio dal selciato e lo
caricò nel bagagliaio continuando:
“Scozia, giro dei fiumi. Poi le alpi Francesi o Italiane,
forse Austriache… non ho deciso. Forse invece uso finalmente il passaporto e me
ne andrò in Nuova Zelanda… è da vedere.”
Il Dottore sospirò, tirando fuori dalla tasca la carta di
credito porgendola a John. Il giovane lo guardò freddamente rispondendo:
“Non ne ho bisogno. Ho ricevuto lo stipendio dall’Ingegnere
capo. A me stesso ci penso io.”
Il Dottore lo ignorò, aprendo lo sportello al lato del
guidatore e, aprendo la visiera parasole posò la carta di credito nel ferma
carte all’angolo dicendo:
“Sta attento. Non stare da solo in fiume. Fammi stare
tranquillo.”
Perché? Perché, John si chiedeva, quell’uomo continuava
ad occuparsi di lui, continuava a mettere a dura prova il suo orgoglio, la sua
rabbia, tutte le sue emozioni? Non poteva semplicemente stargli lontano e
lasciarlo in pace?
John non sapeva dire se la sua fosse una crisi
adolescenziale scoppiata con quasi quindici anni di ritardo o semplicemente
astio represso per un padre assente fisicamente. Lo aveva giustificato per
troppi anni, compreso per troppi anni…
Poi John realizzò una cosa: che non odiava nemmeno suo
padre, ma odiava se stesso. Perché in realtà suo padre si era sempre occupato
di lui, delle sue esigenze, dei suoi bisogni. Lo aveva sempre spronato,
supportato, fatto sentire speciale; non gli aveva mai fatto mancare niente
finchè non gli aveva portato via Clara. E quel pensiero bastava ad annullare
tutti gli anni passati, a spezzare il legame di sangue che li univa… Clara,
Clara, Clara! La sua Clara!
“Quando torno, se torno, non voglio trovarti qui.”
Il volto del Dottore si contrasse in una smorfia di
dolore, ma John finse di non vederlo. Salì al lato guidatore, mise in moto
l’auto e partì. Senza ancora una meta precisa, ma tanti pensieri da affogare e
lasciar scorrere via nelle fredde acque dei fiumi scozzesi.
Era ormai a due ore da Londra, sull’autostrada verso
Glasgow, quando il cellulare cominciò a squillargli. John aveva preso le ferie
dal lavoro, ma aspettava comunque un paio di telefonate dall’Ingegnere capo per
chiarire alcuni punti di un paio di progetti in via di approvazione. Non si
preoccupò di guardare l’identificativo del chiamante prima di rispondere con un
tranquillo:
“Pronto?”
“Eleven...”
Il cuore gli si fermò un millesimo di secondo prima di
fargli male, stretto in una morsa crudele, in una presa spinosa e serrata.
“Clara...” Un sussurro senza fiato, più simile ad un
gemito di agonia. Avvertì il corpo attraversato da un formicolio fastidioso che
lo spinse istintivamente a mettere la freccia per potersi fermare nella prima
area di sosta possibile: “cosa vuoi?”
“Voglio parlare. Per favore, voglio spiegarti....”
John accostò finalmente, fermando l’auto e portando la
fronte contro il volante chiuse gli occhi:
“ Spiegarmi cosa? Come sei finita a letto con mio padre?”
La interruppe con un ritrovato vigore ed un tono duro che non poteva essere il
suo. Clara si gelò prima di cominciare a tremare nel corpo e nella voce. Al di
là del telefono, John poteva accorgersi però solo del secondo particolare:
“Io... non sono andata a letto con lui...” Una nota
incerta nella voce della ragazza convinse ancora di più John del contrario:
“Sei una pessima bugiarda. Me ne accorgo quando menti,
Clara.”
“Non ho fatto sesso con lui!” E questa volta il tono di
Clara era più sicuro e deciso, quasi convincente:
“John, devi credermi.... io voglio stare con te. Io amo
te!”
“Forse é vero, forse no. E forse... forse non mi basta.
Perché ami anche lui. E lui ama te. Non ci posso convivere con questo.” Sospirò
ascoltando il silenzio tra loro prima di continuare:
“Sai, ho creduto che tu potessi salvarmi. Ho voluto
fidarmi di nuovo, innamorarmi di nuovo ed é stato....meraviglioso in un certo
senso e terrorizzante allo stesso tempo. Ed era eccitante, mi hai fatto sentire
di nuovo vivo. Mi hai resuscitato, Clara...” e poteva sentire il principio di
un singhiozzo dall’altro lato, Clara non riusciva a parlare e lui continuava:
“… ma mi hai anche ucciso. Mi hai dimostrato che alla fine non eri tu ad avere
ragione ma io: non mi é concesso di essere felice. Non potrò mai più fidarmi,
non potrò mai più innamorarmi. Di nessuno. Non più di te, di certo.”
“John… ti prego, ho bisogno di vederti, di stare con te…
non mandarmi via…”
I singhiozzi di Clara si erano fatti più intensi,
accompagnati da parole incomprensibili che potevano essere scuse, suppliche o
negazioni. John non sapeva dirlo, ma con fredda sorpresa scoprì che non gli
importava:
“Clara, io ti lascio andare. Mi hai tolto tutto: ogni
sentimento, ogni forma di amore.” Gli aveva sradicato dal cuore anche e
soprattutto l'amore per suo padre :
“Non voglio più vederti, non voglio più sentirti... per
favore, non chiamarmi più, non costringermi a bloccarti o cambiare numero. Addio
Ragazza Impossibile. Mi mancherai.”
Staccò la telefonata senza aspettare una risposta. Mise
il telefono in tasca e volse lo sguardo al cielo con la mente vuota da qualsiasi
pensiero ed il cuore di ghiaccio privo di ogni emozione. Un formicolio nuovo ed
anomalo gli percorse la pelle lasciando il corpo in una sorta di torpore. Avviò
nuovamente il motore dell' auto sorridendo inespressivo alla strada, lo sguardo triste, e
nella mente l’immagine di se stesso che percorreva il letto vorticoso di un
fiume.
***
Clara aprì la porta del suo appartamento provvisorio e
restò sorpresa nel trovarsi avanti proprio il Dottore. Aveva gli occhi
arrossati, come i suoi. Sul viso lo stesso sguardo che vedeva ogni volta che
lei stessa si guardava allo specchio.
Lo lasciò entrare, perché non poteva fare altro.
John era andato via, l’unico che invece sarebbe dovuto
restare. Loro due invece erano alle prese con i loro sensi di colpa ed i
rimpianti. Forse era un pensiero comune quel ‘e se invece’ silenzioso che si
insinuava tra le sinapsi, penetrava nel sistema nervoso e guidava i gesti. Non
sapevano dirlo con certezza. Così come non sapevano dire come di preciso erano
finiti in camera da letto, Clara schiacciata tra lui ed il materasso, la
camicia del Dottore sbottonata, i fianchi di lui incastrati in quelli di lei.
I respiri si scontravano, violenti. I baci erano duri e
sapevano di rimpianto. Il corpo di Clara tremava, con la consapevolezza assurda
che non era il bisogno ad unirli in quel momento ma la disperazione. Perché John non c’era per
nessuno di loro e, in qualche modo, lo cercavano l’uno nell’altra.
Avevano rinunciato al ‘noi’ e per cosa? John era andato
via lo stesso. John aveva deciso di estrometterli dalla sua vita, di spezzare
il legame paterno, di non amare Clara… e allora perché resistere ancora? Perché
respingersi ancora? Che senso aveva continuare a reprimere le emzioni?
Le carezze si alternavano a baci sempre più amari, con il
timore intenso di raggiungere e sfiorare posti più intimi man mano che gli
strati di tessuto sui loro corpi si annullavano. La pelle bruciava, ma il fuoco che li divorava
dall’interno era più intenso delle fiamme dell’ Inferno.
I corpi ricoperti di uno strato di sudore freddo
accompagnato da una strana foschia che annebbiava lo sguardo. Una nebbia rossa
che li circondava come un’illusione, un’allucinazione folle che dava a Clara la
sensazione di essere immersa nel cratere di un vulcano, con i fumi di zolfo a
stordirla ed il ribollire della lava incandescente sotto di lei che la bruciava.
C’era qualcosa di sbagliato in tutto questo, e lo sapeva.
Lo sentivano entrambi. Eppure le mani di Clara si insinuarono oltre il bordo
dei pantaloni del Dottore, raggiungendo velocemente il bottone sul davanti.
Quelle di lui si insinuarono invece sotto l’orlo del reggiseno, ma se ne tirarono
rapidamente via quando la punta delle dita sfiorò la morbidezza delle curve del
seno. Sgusciarono via come fossero state ferite, come fossero state ustionate da
un fuoco gelido, attraversate da un formicolio doloroso; gli sembrava di aver
toccato dell’acido, bruciava, eppure non riusciva a fermarsi, reagendo
d’istinto e spingendo ancora se stesso contro di lei.
Un gemito lasciò le labbra di entrambi, quando le loro
intimità si scontrarono con i vestiti ancora ad impedirgli di unirsi.
Le labbra si sfioravano, combattevano tra loro gonfie e
disperate. I loro sguardi incatenati erano la loro condanna, così magnetico
l’uno per l’altra da impedirgli ogni volontà di movimento volontario, lasciando
che solo l’istinto li guidasse; desiderosi di unirsi in quell’unico corpo, più
uniti di quanto in realtà non fossero mai stati, crogiolandosi nei fumi del
piacere e del calore di ciò che gli bruciava la pelle; i cuori indomiti
sembrava volessero esplodere, battendo fragorosamente l’uno contro l’altro
alternando pause e cadenza in un’unica melodia nei loro toraci ormai nudi che si
toccavano.
Le gambe di Clara avvolte attorno ai fianchi del Dottore,
le mani di lui ad alzarle l’orlo della gonna mentre lei gli tirava giù la zip e
gli spingeva via con forza i lembi dei pantaloni dai fianchi.
Gli occhi di Clara erano diventati due pozze scure, nel
cui calore però era dolce affondare. Quelli del Dottore, invece, erano
diventati l’oceano burrascoso di una grigia giornata di pioggia autunnale dalle
cui onde però era dolce farsi cullare. Un’oscurità profonda nella quale Clara
si sarebbe abbandonata volentieri, senza paura, quegli occhi che tanto, troppo
le ricordavano John.
Fu quel breve pensiero a farle battere le ciglia. Un solo
millesimo di secondo senza contatto visivo che indusse anche il Dottore a
realizzare la complicazione degli eventi che sarebbero derivati dal loro
rapporto.
“Clara… fermami…” Col corpo che si muoveva autonomamente,
oscillò contro di lei per un istinto che non riusciva a fermare da solo:
“ …per favore... fermami…”L’uomo affondò disperato il
volto contro il collo di lei, baciandone la pelle con dolcezza e continuando a
pregarla di fermarlo:
“… questo non è giusto…”
Avvertendo la durezza del Dottore che continuava a
premersi contro di lei, Clara soffocò un gemito incontrollato, finendo con
l’ingoiarlo dolorosamente mentre cingeva la testa del Dottore con le sue
braccia. Stese le gambe, lentamente, lasciando la sua presa sui fianchi
dell’uomo in un poco utile tentativo di allontanare il contatto tra le loro
intimità, ma avvertendolo ancora più duro contro il suo osso pelvico ed il
desiderio insoddisfatto che si contorceva alla base del ventre la torturava di
più.
Clara strinse l’abbraccio, ingoiando un ennesimo gemito,
stavolta però di dolore. Non fisico, ma dell’anima:
“Va bene. Va tutto bene.” E nel frattempo, portò le dita
ad intrecciarsi tra i riccioli grigi dell’uomo ad accarezzarlo: “ E’ sbagliato…
lo so anch’io. Va bene così.”
Il Dottore sospirò quasi sollevato. Sciolse lentamente la
presa delle sue mani sul corpo di Clara, carezzandole prima i fianchi per poi poggiarsi sugli avambracci ai lati di
lei, iniziando un tentativo di spostare il suo peso incombente e lasciarla
libera. Si ritrovò invece le mani tremanti di Clara a prendergli il viso ed
incatenare di nuovo i loro sguardi, prima di farle scivolare dietro la sua nuca
e spingerlo nuovamente contro di se. Le braccia avvolte attorno alla testa di
lui, col viso del Dottore sprofondato contro il suo collo.
“No… non muoverti. Voglio sentirmi il tuo peso addosso.
Per favore. Solo questo. Dammi solo questo.”
L’uomo non protestò, arrendendosi all’abbraccio della
ragazza. Limitandosi semplicemente a spostare i suoi fianchi da quelli di lei e
posarsi invece accanto,fianco contro fianco, premendo il bacino contro il
materasso.
I loro corpi erano finalmente fermi; freddi in superficie,
bruciavano all’interno per un desiderio doloroso, represso e non consumato. Un
desiderio sbagliato che ben presto si trasformò in un disagio nauseante per
entrambi. Le lacrime del Dottore si mescolarono con il velo di sudore che
ricopriva in piccole perle salate la pelle giovane di Clara, o forse erano le
lacrime della ragazza che, dai suoi occhi, scendevano lungo il collo e
raggiungevano il viso di lui.
Rimasero così, stretti in un disperato abbraccio nel
tentativo di farsi forza a vicenda.
Poco importava se l’erezione dell’uomo premuta contro il
materasso rientrava lentamente e provocava una compressione fastidiosa che gli
doleva notevolmente nel bassoventre. Poco importava se i loro respiri
faticavano a stabilizzarsi, scossi da lacrime inespresse per troppo tempo.
Ancor meno importava che il peso di lui le impedisse di respirare correttamente.
In loro vi era la necessità di prolungare quell’attimo, il bisogno impellente
di bruciarsi all’infinito. Per Clara, la sensazione inebriante di sentirsi
mancare il respiro con la sua sola vicinanza, sentirlo tremare contro di se.
Condividere un dolore che nessun’altro nell’Universo intero avrebbe mai potuto
comprendere.
In quell’abbraccio, in quel contatto più intimo di un
qualsiasi tipo di rapporto sessuale, entrambi trovarono la risposta al loro dolore.
John aveva riempito le loro vite e le aveva svuotate. Nessuno nell’Universo
avrebbe potuto sostituirlo, nemmeno l’uno per l’altra potevano compensare quel
vuoto lasciato.
Nella penombra della stanza si udivano solo gemiti di
pianto soffocato; solo dopo quelle che sembrarono ore i respiri divennero
regolari e gli occhi, incrostati di lacrime secche, si chiusero di stanchezza.
Il mattino si era presentato con nubi scure e la pioggia
battente che si frantumava contro il vetro della finestra. Gli oscuranti
lasciati aperti la sera prima lasciavano intravedere il cielo plumbeo di Londra
ed il vento che soffiava via foglie secche e la spazzatura dei mercati del
quartiere.
Clara aprì gli occhi, trovando il Dottore accanto a lei,
steso a pancia in su, le mani unite dietro la testa, intento a guardare concentrato
il soffitto.
“Buongiorno…”
“Buongiorno dormigliona. Come stai?”
“Non lo so. Un po’ frustrata, forse…” Lei si stiracchiò,
sospirando pesantemente. Lui invece si lasciò scappare una leggera risata capendo
il senso di quelle parole:
“Già. Ti capisco.”
Clara si mosse nel letto, girandosi di fianco per poter
guardare meglio l’uomo. Non provava imbarazzo, ma una strana sensazione di
familiarità ed un po’ di nostalgia. Tanta nostalgia.
“Sei sveglio da molto?”
“Si.”
“Sei rimasto…”
“Si.”
“Perché?”
“Perché…” Il Dottore sospirò: “ Ho pensato fosse
maleducato andare via senza salutarti. Per la seconda volta.” Le sorrise senza
guardarla.
“Non devi andare via.”
“Si, invece. Devo finire di preparare i bagagli.”
“Intendevo… non hai più bisogno di partire. Non devi più
andare via.”
“Si invece. Non vado via per John o per te. Vado via
perché è quello che sono, te l’ho già detto.”
Clara tirò un po’ le ginocchia verso il corpo,
chiudendosi quasi in una posizione fetale e finendo con il sfiorare il fianco
della gamba dell’uomo. Avvertì un sussulto del corpo di lui, ma non si tirò
indietro dal lieve contatto delle loro pelli.
“Mi dispiace. E’ che… so di aver rovinato tutto. Ho
distrutto la tua famiglia e non era quello che volevo.”
“Clara… non è colpa tua. Almeno non è solo colpa tua. E…
pensavo potessimo provarci, io e te…”
“Anch’io. Ma non funziona, vero?”
“No.”
“Sai, non mi dispiace. Nel senso, ci sto bene con questo;
il non noi intendo.”
“Già… in un certo senso anch’io. Quello che provo per te
resta, però. Ed è strano.”
“E’ lo stesso per me. Ma so anche che se ti amassi
completamente sarebbe come ieri sera, non lo sentirei giusto e so che per te è
lo stesso.”
“Si… vorrei poterci provare, però.”
Quelle parole aleggiarono tra loro come libellule dal volo
irregolare e nervoso, nuotavano nel denso silenzio che si era creato e gelava
l’aria. Nemmeno i loro respiri si sentivano, nonostante il torace del Dottore
si alzasse ed abbassasse regolarmente.
Infine, Clara si costrinse a portarsi lentamente seduta, stringendo
il lenzuolo con le mani davanti a se per coprirsi in un improvviso e ritrovato
pudore, cambiando totalmente discorso:
“Vuoi fare colazione?”
“Posso usare prima la doccia?” Lui semplicemente rispose,
chiudendo gli occhi.
“Certo. Non devi mica chiedermelo. Preparo qualcosa da
mangiare, nel frattempo.”
“Va bene.”
Clara si alzò dal letto, indossando una t-shirt presa a
caso dalla sedia finita chissà come accanto al letto e si diresse verso la
porta. Il Dottore rimase sdraiato sotto le lenzuola continuando a guardare il
soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi quando Clara
aprì la porta della camera per uscire in corridoio il Dottore la richiamò:
“Clara.” Si voltò a guardarla nell’esatto momento in cui
anche lei si voltò a guardare lui. Le sorrise continuando: “Sai… puoi
continuare a stare a casa, se vuoi.”
Casa Smith. Clara lo aveva capito. Guardò verso la
finestra scuotendo dolcemente la testa rispondendo:
“No. Dopo le vacanze l’Università mi darà un appartamento
provvisorio. A Maggio mi laureo e… poi chissà. Comincia una nuova vita. Forse
insegnerò in qualche scuola privata, per cominciare.”
Il Dottore la guardò senza respirare, con il terribile ed
acre sapore del sonno che gli rovinava la bocca. Non ripose, limitandosi a
pensare che nell’espressione che Clara aveva in quel momento vi leggeva più
anni di quanti in realtà la ragazza ne avesse davvero. Era come se
improvvisamente fosse diventata più donna, affascinante come sempre ma
irresistibile come non mai. Il cuore gli si serrò facendo male, mentre si
portava seduto al centro del letto e poggiava i gomiti sulle ginocchia, il
lenzuolo a coprirlo fino al bacino e lo sguardo perso chissà dove.
“Vado a preparare la colazione.”
Si alzò solo quando sentì rumori di stoviglie e mobiletti
che si chiudevano proveniente dalla cucina. Si lasciò scivolare via dalla pelle
ogni residuo di ciò che non avevano consumato durante la notte, rilassando i
muscoli tesi sotto il getto caldo.
La colazione fu silenziosa ma piacevole, con quel senso
di familiarità che c’era sempre stata anche in casa Smith. Era come se, nel non
fare l’amore, avessero trovato un’altra forma di intimità. Il desiderio era
ancora forte, chissà finchè sarebbe durata. Ma erano anche consapevoli che non
potevano andare oltre, che la loro unione non avrebbe dato risultati fruttuosi.
Semplicemente non erano l’uno il destino dell’altra.
Quando Clara accompagno il Dottore alla porta, entrambi
si sorridevano ma lo sguardo era triste.
“Tornerò tra sei mesi. Resto pochi giorni prima di una
nuova assegnazione.”
Clara annuì senza rispondere.
“Ci vediamo, allora?”
“Va Dottore, e salva il mondo.” Gli sorrise aggiungendo:
“E grazie per avermi fatta sentire speciale.”
“Grazie a te per lo stesso motivo.”
Un ultimo abbraccio, questa volta meno teso di qualsiasi
abbraccio avessero condiviso in precedenza, prima di dirsi addio.
Nessuno dei due ancora sapeva che quello sarebbe stato
l’ultimo.
***
John avrebbe
percorso ogni fiume percorribile in kayak della Scozia, si sarebbe rilassato
tra i fiumi alpini del confine Italo-austriaco, avrebbe conosciuto gruppi
sportivi con i quali unirsi in avventure estere emozionanti e spericolate. La
Nuova Zelanda in particolare gli sarebbe rimasta nel cuore, l’unico posto che
davvero era riuscito a strappargli emozioni sincere.
Avrebbe anche conosciuto altre donne; alcune dolci,
passionali, alcune voluttuose come e più di Tasha. Ma nessuna di loro però era
Clara. Il vuoto nel suo cuore non si sarebbe mai colmato né col sesso né con
l’amore di qualsiasi altra donna.
Nessuna sarebbe mai stata come Clara.
Voleva restare lontano da casa solo una quindicina di
giorni, inizialmente. Ne sarebbe stato lontano per cinque mesi. E probabilmente
non sarebbe tornato per altri sei se non avesse ricevuto quella
telefonata.
“Pronto?”
“John Connor Smith, figlio di John Duncan Smith?”
“Si, sono io… chi è lei?”
“Capitano Jack Harkness dell’Esercito Britannico. Chiamo
per darle notizie di suo padre e… c’è stato un attacco al campo medico in cui
era stanziato…”
E tutto l’odio era scomparso.
Ritorno al futuro…
Il primo sorriso del bambino spuntò non appena Clara
prese il cucchiaino, raschiò lo zucchero dal fondo della sua tazza di caffè e
la portò alle labbra del piccolo.
“Gli piace lo zucchero al caffè.” Clara sorrise
inconsciamente mentre osservava il piccolo succhiare il bocconcino dolce,
concentrando infine lo sguardo illuminato sul giovane di fronte a lei che le
rispose:
“Tu ami il residuo di zucchero sul fondo della tazza… una
volta ho provato a rubartelo e mi hai quasi ucciso col cucchiaino… era la tua
arma preferita, se ricordo bene! Mi sembra strano vedere che vi rinunci.”
Clara scoppiò a ridere, ricordando l’evento di anni prima
e l’immagine particolare di lei che inseguiva John per tutto il soggiorno con
un cucchiaino tra le mani come unica arma.
“Si, è vero! Ma con lui ho imparato che… per i figli si
può rinunciare a tutto ciò che ami. Per renderli felici sei disposto a tutto.
Soprattutto se sei da solo a crescerli.”
Lo sguardo nostalgico negli occhi della ragazza lasciò
intuire a John cosa o chi le stesse in quel momento attraversando la mente.
Anche lui pensò al Dottore, avvertendo un misto di emozioni represse per troppi
anni e con le quali mai aveva voluto fare i conti. La sensazione più strana,
però, era che, ad un certo punto, guardando il bimbo, gli sembrò quasi di
riuscire a comprendere il concetto prima che gli sfuggisse rapidamente dalla
mente lasciandolo nella confusione più totale.
Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro
come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava
lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara, più brava di lui a
cambiare o riprendere un discorso:
“Colin. Lo abbiamo chiamato Colin.”
“Un nome scozzese. Ovvio.” Un sorriso inespressivo sul
volto mentre continuava: “Senza offesa ma… somiglia più a lui che a te.”
Mentre Colin si lasciava scappare uno sbadiglio,
allungando poi le braccia verso John e farfugliando una parola incomprensibile,
Clara sospirò cercando di tenerlo in equilibrio:
“Ti sbagli.” Alzò Colin dalle sue gambe e lasciò si
sporgesse verso John il quale, senza possibilità di opporsi, non potette fare
altro che sporgere anche le sue di braccia e prendere il piccolo mentre Clara
continuava:
“Non è tuo fratello, se è questo che pensi. Ce l’ho in
affidamento. Non sono io sua madre.”
“Come? Io pensavo..”
Clara si lasciò scappare un sorriso amaro interrompendolo
con un tono serio:
“Se ti dicessi che io ed il Dottore non ci abbiamo
provato mentirei, ma… non stiamo insieme. Non c’è stato nulla di…fisico tra
noi. Avremmo voluto, non lo nego. Ma tu eri sempre lì, in mezzo a noi, a dirci
che era sbagliato. Ed avevi ragione.”
Colin si sistemò tra le braccia di John, fissandolo da
vicino con i suoi occhietti azzurri e luminosi.
John si sentiva come sospeso a mezz’aria, con una
confusione apocalittica nella menste e nel cuore una misera speranza che, come
brace sotto la cenere, desiderava solo di essere alimentata. Non sapeva come
prendere il discorso di Clara. Non sapeva come fare per osare e chiedere una
seconda opportunità e se era il caso di farlo.
Con quel bambino tra le braccia ora più di prima era
confuso. Perché quelle somiglianze che aveva visto in lui si erano dimostrare
un’illusione eppure erano visibili ancora. Perché sentiva che c’era altro ed
aveva paura di chiedere per non soffrire ancora. Erano passati due anni ed era
ancora quel ragazzo timoroso delle emozioni.
Nonostante questo, però, non potette fare altro che
sorridere ed arrendersi ad un lieve calore che si diramò nel suo petto quando l’espressione
imbronciata di Colin si rilassò in un sorriso timido mentre portava le manine sul
viso di John.
“Dadada”
“Sembrava essere un po’ indietro con il linguaggio, ma i
suoi occhi erano furbi. Forse c’era una qualche spiegazione, doveva solo
conoscerlo meglio. Voleva conoscerlo meglio, così come voleva ancora vedere
Clara.
“Visto? Avevo ragione. Gli piaci.”
John sorrise concludendo:
“Tu hai sempre ragione.”
E in quelle parole c’era un significato più profondo di
quanto sembrasse.
---------------------------------
Nota:
Scusate la lunga attesa, ma il lavoro non mi da tregua,
il caldo fa passare la voglia di accendere il pc (nonostante io ami il caldo e
sono l’unica a sopportarlo tranquillamente xD) ed ogni volta che apro un foglio
di word c’è sempre altro da fare nella vita reale. Ho voluto comunque
pubblicare un capitolo più lungo del solito, cercando di dare una spiegazione
ed una chiusura ad alcune cose lasciate in sospeso visto che Agosto molto
probabilmente lo prendo di pausa ed ad inizio Settembre forse sarò a Londra,
chissà xD.
Intanto voglio giustificare il ‘Connor’ ed il ‘Duncan’
aggiunto al ‘John Smith’ di Eleven e Twelve e dico solo: “Mi chiamo Connor ( dopo viene
Duncan) McLeod, del clan McLeod e sono l’ultimo degli Immortali. Perché? Perché si u.u Anche se li ho attribuiti al
contrario, Connor è il più vecchio dei due immortali, ma io l’ho dato ad Eleven
che il più giovane tra i due Dottori xD Per il resto della storia: spero non siate rimasti delusi
dalla vera origine del piccolo Colin. Non è figlio biologico di Clara, ma devo
ancora raccontare qualcosa su di lui. Inoltre, il prossimo capitolo sarà
interamente dal punto di vista del Dottore e concentrato totalmente su di lui e
ciò che davvero gli accade; quindi come al solito, vi chiedo di non dare nulla
per scontato né in questo capitolo né nel prossimo. Altra
premessa che faccio è questa: credo di aver fatto un pò di confusione
con gli appunti che avevo preso per questa storia (pezzi scritti non in
ordine cronologico da inserire in capitoli successivi) e che per
errore ho preso, modificato ed incollato non ricordo dove in
You're in my Soul e... ho fatto un pò di casino. Quindi se notate
qualche somiglianza (non dovrebbero essercene però perchè il contesto è
completamente diverso) in alcuni punti Twelve/Clara con questo
capitolo e qualcuno di quella storia, bè.... fa caldo, ho la testa
confusa, non ho la pazienza di controllare quale parte ho confuso e non
modificato come dovevo. Tanto nel caso ho copiato me stessa xD Grazie infinite comunque a tutti voi che seguite
ancora la storia. Spero che abbiate goduto di questo capitolo. Al prossimo
spero ci sarete ancora <3
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Capitolo 13 *** Capitolo 13 ***
13
Capitolo 13
La
casa era immersa nel silenzio mentre il Dottore preparava alcune cose da
riporre nel bagaglio per il viaggio. Aveva acquistato un nuovo kit per la sala
operatoria, non perché non si fidasse di ciò che avrebbe trovato una volta
raggiunta la sua destinazione (e solitamente faceva bene a non fidarsi), ma
semplicemente perché con i ferri personalizzati che si adattavano alle sue mani
si sentiva più sicuro in un campo in cui l’arte dell’arrangiarsi poteva
decidere della vita o della morte di una persona. Dare una mano alla sorte a
volte poteva essere un vantaggio. Operare su un campo di battaglia, tra la
polvere del deserto ed i germi pronti ad infierire, era del tutto diverso
dall’operare nella comodità e tranquillità sterile di una sala operatoria, le
infezioni erano all’ordine del giorno e preferiva prendere tutte le precauzioni
del caso mentre era ancora in uno Stato civile e fare scorta di tutto
l’occorrente necessario. Filo chirurgico in primis, senza risparmiarne affatto
perché là, era sicuro, non ne avrebbe trovato.
Aveva
riposto tutto in un borsone che aveva adibito a raccogliere tutto ciò che man
mano avrebbe deciso di portarsi in viaggio; poi si ritrovò a raccogliere la sua
giacca con il risvolto rosso dal letto e stenderla tra le mani. Gli era
piaciuto indossarla di nuovo, aveva adorato ogni giorno che aveva vissuto dal
suo ritorno come non gli era capitato da anni, avvertendo nella gola un leggero
sentore amaro all’idea di dover rinunciare a quei giorni. Raccolse una gruccia
per sostenere la giacca e la ripose per l’ennesima volta della sua vita
all’interno del suo armadio. La nascose sul fondo, ancora ignaro che non
l’avrebbe mai più indossata.
Un
volo civile per una base ISAF, missione internazionale della NATO per
l’Afghanistan. Da lì volo per Herat.
Il
Dottore non aveva acquistato cibo se non un pacco di biscotti al cioccolato per
il viaggio di andata. Una volta giunto alla base militare gli diedero un kit di
sopravvivenza e quelle disgustose monoporzioni incellofanate ermeticamente che
gli davano il voltastomaco, esattamente come si aspettava ogni volta. Il solo
pensiero di dover mangiare cibo militare per i prossimi mesi lo nauseava, ma
non poteva fare altrimenti. I cuochi non si risparmiavano di certo nel cucinare
pasta scotta ed insapore. E per il momento, lo standard militare da viaggio non
permetteva altro che fare colazione con quel misero tubetto di latte
concentrato ed una monoporzione di marmellata o miele da spalmare con le dita
su una galletta che sapeva di cartone bagnato. Mentre attendevano l’aereo che
li avrebbe condotti a destinazione, alcuni giovani soldati, scherzando tra
loro, le avevano ribattezzate ‘Pane Elfico’. Il Dottore non aveva capito il
significato finchè non gli avevano nominato Il Signore degli Anelli. A quel
punto, mentre si sedevano a bordo del velivolo, lui aveva partecipato allo
scherzo con un impacciato e poco convinto:
“Quindi…
noi siamo la Compagnia dell’Anello?”
I
ragazzi avevano riso mentre i motori dell’aereo venivano avviati, poi uno di
loro gli rispose:
“Dottore,
lei sarà il nostro Gandalf!”
Il
Dottore non sapeva come rispondere a quella cosa, ma non ne avrebbe mai avuto
il tempo: l’aereo cominciò a rollare ed impennò praticamente subito,
schiacciandolo nel sedile a causa della pressione. Il decollo tattico, come al
solito, gli provocò una pressione ai timpani con un conseguente fischio
fastidioso all’orecchio ed un groviglio allo stomaco che si sarebbe portato fino
a due ore dopo l’atterraggio. Si pentì subito di aver mangiato quella stupida
galletta.
Il
volo era stato scomodo, ma avere quei ragazzi al suo fianco gli aveva alleviato
il viaggio ed alleggerito il peso che si portava sull’anima.
Aveva
scoperto che il ragazzo che lo aveva battezzato ‘Gandalf’ aveva la sua stessa
assegnazione iniziale, che era la seconda volta che tornava in Afghanistan e
che:
“Non
ci credo! Davvero lei è il Dottore? Quel Dottore?”
“Sono
il Dottore, punto. Non so se sono lo stesso dottore di cui parli tu.”
“Si
fidi, lei è proprio il Dottore di cui parlo, guardi che sul campo di battaglia
è famoso!Lei parla il Pashtun ed il Farsi, vero?” In realtà, con gli anni
passati a fare missioni internazionali aveva imparato anche un po’ di spagnolo
ed italiano. Ma le due lingue ufficiali Afghane, per lui che in Afghanistan
c’era stato innumerevoli volte, era d’obbligo conoscerle.
“Quindi,
se io sono Gandalf, tu chi saresti invece?” Il Dottore aveva risposto alla
domanda con un’altra domanda, per deviare il discorso. E ci era riuscito:
“Legolas!”
Rispose il giovane, stringendo a se il suo fucile d’assalto: “Assolutamente
Legolas!”
“Ma
non sei biondo.” Protestò lui, notando i capelli neri e ricci del giovane e la
sua pelle scura.
“Però
sono un cecchino di prim’ordine!” Orgoglio negli occhi del ragazzo.
Il
Dottore sorrise appena, ma il suo sguardo era distante e triste mentre il
silenzio si insinuava denso tra loro, interrotto solo dall’assordante rombo del
motore del velivolo. Qualche settimana dopo, nella base operativa di Bagram
dove erano solo di passaggio per una nuova assegnazione, quello stesso ragazzo
gli avrebbe detto:
“Sa…più
che Gandalf, lei in realtà mi ricorda Aragorn.”
Il
Dottore aveva sospirato, ma non aveva risposto. Si sarebbero separati da lì a
poco.
Dopo
le prime settimane di calma, lontano dai campi di battaglia e limitandosi
semplicemente a visitare alcuni soldati alle prese con un’epidemia di
gastroenterite, finalmente fu assegnato ad una base decisamente più attiva
prendendo un passaggio dagli Americani.
Il
compito principale che gli fu assegnato, in qualità di Ufficiale Medico, era
quello di tenere sotto controllo l’infermeria ed il Gate, al quale accedevano i
civili che avevano urgente bisogno di cure.
Più
spesso giungevano bambini, fingevano un malessere per farsi dare il sacchetto
con la porzione di cibo standard: tubetto di latte condensato, un pacchetto di
biscotti, monoporzione di marmellata e le solite gallette. Il Dottore di
nascosto aggiungeva qualcosa in più in ogni sacchetto.
I
malati ed i feriti che gli portavano erano diversi ogni giorno. Una volta giunse un bimbo con quattro dita della
mano amputate da un ordigno esplosivo, probabilmente un LED, uno di quelli
artigianali, ed il Dottore notò che c’era stato un primo tentativo di cura. Fu
quello il momento in cui capì che al
villaggio vicino doveva esserci qualcuno che di medicina se ne intendeva.
Sapeva benissimo che i Talebani permettevano ai civili di rivolgersi al campo
medico militare solo ed esclusivamente per le emergenze.
Comunque,
una volta sistemati i monconi e ricucito le ferite con filo chirurgico e quel
po’ di pelle rimasta attorno sapeva già che, nonostante l’avvertimento di farsi
rivedere il giorno dopo, quel bambino non sarebbe più tornato. I malati
andavano una volta, poi sparivano. Parlando con l’uomo che lo aveva
accompagnato aveva avuto conferma ai suoi sospetti: tra parole non dette e
sguardi nervosi aveva capito che un primo tentativo di cura c’era stato. Gli
aveva quindi consegnato degli antidolorifici e qualche antibiotico che si era
portato da casa, da far prendere al bambino nei giorni successivi. Lo aveva
fatto per coscienza e perché era il suo lavoro, la sua missione. In fondo,
però, sapeva già che quelle medicine sarebbero state vendute per procurarsi una
dose di oppio.
***
I
giorni si alternano ai giorni. Tra visite al Gate e quelle all’infermeria, dove
i soldati si rifugiano per lo più per gastroenterite causata dalla maledetta
polvere, di cui l’Afghanistan è completamente avvolto, ed i suoi germi.
Un
giorno fanno il giro dei villaggi. Aiutano a scavare pozzi, lasciano provviste.
Anche a quelli che non vogliono collaborare in nessun modo per paura di
ripercussioni da parte dei Talebani: se ne vanno via con l’amaro in bocca, cacciati,
ma lasciano le provviste lo stesso. Sempre meglio quelle, che vedere centinaia
di bambini uscire da chissà dove e scavare nella loro spazzatura alla ricerca
di cibo.
Al
ritorno percorrono nuovamente la strada che attraversa i campi di oppio.
Papaveri che si espandono a vista d’occhio, teste che si vedono appena un po’ al
di sopra dei fiori. Sembrano non dare alcuna attenzione ai mezzi militari di
passaggio, agli elicotteri che sorvolano la zona e si esibiscono nel loro Show
of Force. Poi arriva via radio l’ordine di fermarsi. Più avanti sono stati
avvistati degli uomini che, lungo la strada, scavano, piazzano e si allontanano. Devono
aver seppellito degli ordigni. Una camionetta va in avanscoperta, il Dottore
resta nel blindato, con il suo fucile pronto (perché è pur sempre un militare
ed ha il suo fucile) e lo sguardo
concentrato sul campo di papaveri che si estende al di fuori del suo oblò,
pronto ad avvisare per qualsiasi anomalia. Sembra deserto; in effetti è deserto e nella camionetta si muore
dal caldo. Le persone che stavano lavorando nei campi fino a qualche secondo
prima sono scomparse ed un silenzio innaturale circonda la zona, interrotto
solo dal rumore degli elicotteri che sorvolano rasoterra per il loro Show of
Force.
Poi
un esplosione. L’ordigno, realizzato con una tanica di benzina, è stato fatto
esplodere, ma probabilmente lungo la strada ne sono stati piazzati altri.
Procedono
con estrema lentezza, fermandosi continuamente per far brillare gli ordigni fatti
in casa. Si fa buio, la copertura aerea viene a mancare. La tensione è alle
stelle, ma non viene ingaggiato nessuno scontro. Gli è andata bene.
Ni
giorni successivi c’è una calma apparente. Si spara poco, poche esplosioni. I
suoi compagni giustificano il tutto con un: “Adesso sono concentrati sulla
raccolta dell’oppio! Quando finisce la raccolta si concentreranno su di noi.”
Il
Dottore sa che hanno ragione. Ma non parla. Invece, pensa a suo figlio. Pensa a
John, che lo ama, gli manca e che vuole rivederlo. Il desiderio di parlargli lo
spinge successivamente a cercare un contatto che gli viene rifiutato, ma anche
solo sapere che suo figlio sta bene e continua la sua vita gli basta. Fa
comunque male, ha bisogno di essere più impegnato per non pensare.
Chiama
anche Amy, con lei si sente più spesso che può. A volte su Skype, altre volte
solo comunicazione telefonica su una linea sicura. Non le racconta della
guerra, finge quasi di non essere lì quando parlano. Lei invece gli racconta
dell’Università, di Rory che è tornato a Glasgow per cercare lavoro in una clinica
privata, per cominciare; poi vedrà in qualche ospedale. Lei lo raggiungerà
appena avrà in mano il certificato di Laurea. Aggiunge che ha un sospetto: Rory
è strano, a volte emozionato a volte spaventato; il sospetto è che lui voglia
chiederle di sposarla perché è la stessa reazione che aveva quando le ha
chiesto di fidanzarsi. Il Dottore sorride, pensando che quei bambini
scapestrati che si rincorrevano nel giardino della loro vecchia casa scozzese
ormai erano diventati uomini e donne. E piange quando Amy gli dice:
“Zio
John, lo sai, vero? Devi tornare per quel giorno. Mi devi accompagnare
all’altare. Ho solo te.”
Amy
non ha un padre e lui è la cosa più vicina ad una figura paterna che lei abbia
mai avuto.
Accetta
tra le lacrime, commosso e forse anche stanco di tutto il peso che
l’Afghanistan gli ha messo addosso. Anche Amy si lascia scappare qualche
lacrima.
Il
Dottore le chiede anche di John, ogni volta. Lei risponde sorridendo, gli
racconta quello che John le racconta dei suoi viaggi. Gli dice che sta bene,
sembra sereno. Il Dottore sorride, triste ma sollevato. Non le chiede di Clara
e lei non ne parla. Mai. Non se lo dicono, ma pensano che sia un bene, e va
bene così.
Poi
arriva la destinazione finale. Riparte.
Mentre
sorvolano la zona, il Dottore sembra mostrarsi indifferente alla desolazione,
ai villaggi abbandonati o ai campi di papaveri dove alcune teste dei
raccoglitori di oppio si intravedono appena, chini sul loro operato. Non pensa
molto al fatto che la base in cui si fermerà fino alla fine del suo periodo di
permanenza è in un punto caldo. Ma sorride al pensiero che rivedrà ‘Legolas’.
***
Qualche
mese dopo, nei pressi di un villaggio tra le montagne aride, nella piccola
costruzione diroccata che avevano scelto come obitorio nell’accampamento
medico, si ritrovò a togliere le illeggibili piastrine militari dal cadavere di
quel ragazzo mentre lo richiudeva in un sacco nero, con il rimorso di non
avergli chiesto nemmeno quale fosse il suo nome di battesimo. In quel momento pensò
di nuovo a John, al sicuro a casa.
Nello
stesso preciso momento pensò anche a Clara, appena laureata, che viveva la sua
vita in chissà quale città dell’Inghilterra. Il suo cuore ormai tranquillo
quando pensava a lei gli faceva capire che il fuoco si stava spegnendo e non
bruciava più. Eppure, non poteva fare a meno di continuare a pensare ad un ‘e
se…’. Nella moltitudine di emozioni che, in quel momento, smossero le ceneri
ancora calde che coprivano i suoi sentimenti contrastanti, si accorse in
ritardo della chiamata all’attivazione, si accorse in ritardo degli spari che
provenivano dall’esterno dell’accampamento; si accorse in ritardo delle
esplosioni che sembravano sempre più vicine; si accorse in ritardo della parete
che crollava e di un violento e troppo caldo spostamento d’aria che gli soffiò addosso
prima di sbalzarlo sulla parete opposta. Avvertì solo un improvviso dolore in
tutto il corpo, i polmoni che gli bruciavano, la sabbia del deserto tra i denti
ed infine il freddo troppo innaturale che improvvisamente gli percorreva la
superficie del corpo.
Infine,
percepì solo il buio.
Il
rumore degli elicotteri sembrava lontano. Così come erano lontani i colpi di
kalashnikov. Sparavano su di loro da una postazione più alta, con una visione
sufficiente ad oltrepassare le barriere ed il filo spinato.
Il
fischio nelle orecchie invece era fisso ed assordante. Lo sguardo concentrato a
focalizzare le figure indefinite che lo circondavano. Sentiva il suo respiro,
era faticoso e quasi inutile. Perché il petto gli faceva un male cane ed ad
ogni boccata d’aria l’ossigeno sembrava non raggiungere la destinazione. Un
polmone era collassato. Il giubbetto tattico lo affliggeva e gli pesava addosso
in un modo sconcertante, cercò di toglierselo, ma lo fermarono.
Su
di lui si piegavano l’infermiere che lo assisteva durante le uscite ed un altro
militare che gli forniva copertura. Sulla targhetta apposta sul suo petto poteva
leggerne il cognome, riconoscendo in lui il Brigadiere Lethbridge-Stewart. L’infermiere era italiano, di passaggio per un
paio di settimane ancora, ma masticava l’inglese.
Boccheggiando,
il Dottore fece intuire al giovane infermiere che doveva fare lui il lavoro:
“Dottore,
non sono un chirurgo, non l’ho mai fatto alla cieca… e se sbaglio?”
Con
la vista che si annebbiava nuovamente ed una forza innaturale, il Dottore lo
afferrò per il bavero della divisa militare e lo guardò negli occhi. Il giovane
intuì:
O mi infili un
ago nel petto ora e muoio più tardi, oppure muoio adesso soffocato. Siamo in
guerra, non alla Facoltà di Medicina!
L’infermiere
non potette fare altro. Aprì quel tanto che bastava il giubbetto tattico, la
casacca della divisa e tagliò la t-shirt. Seguì le direttive rapide ma precise
dell’uomo che gli indicò il punto sul torace in cui operare. Il Dottore si era
ritrovato così con un ago infilato nel petto ed una valvola da aprire ogni
quindici minuti per far uscire l’aria che si era formata nello spazio pleurico.
Ma almeno poteva respirare meglio.
“Posso
durare al massimo tre ore…” Aveva detto con un filo di voce ed il respiro che
si stabilizzava. Doveva essere evacuato, portato all’ospedale più vicino e,
probabilmente, rimpatriato. Ma erano sotto attacco. Non potevano essere
evacuati.
“Non
mollare Dottore! Ci sono gli elicotteri che sputano fuoco su quei bastardi! Ti
portiamo via!”
Parole
dette in un mezzo inglese ed un mezzo italiano dall’accento troppo meridionale.
Tra polvere che offuscava la vista e proiettili che radevano rumorosamente il
muretto dietro il quale erano riparati, il Dottore sembrò aver improvvisamente
dimenticato le lingue che negli anni di esperienza su campo multietnico aveva
voluto, più che dovuto, imparare. Cercava con gli occhi il suo fucile, perso
chissà dove sotto le macerie della parete che gli era crollata addosso. Cercò
di prendere la pistola dalla fondina sul fianco, rispondere al fuoco per
istinto di sopravvivenza, ma mentre il Brigadiere al suo fianco continuava a
rispondere al fuoco nemico lui doveva concentrarsi a respirare. Era questo che
l’infermiere gli ripeteva.
Il
brigadiere invece non faceva altro che dargli ordini che capiva e non capiva.
Ed ai quali non voleva obbedire, ma si ritrovò costretto a farlo lo stesso:
“Dottore
stai giù. Sta calmo che qua ci penso io!”
Per
tutta risposta un colpo di fucile, dopo aver attraversato di striscio il muro
spesso dietro cui si rifugiavano, lo aveva colpito ad un braccio. La divisa
militare si sporcava di rosso.
“Stai
sanguinando. Sei ferito!”
“Non
ho tempo di sanguinare!” Fu la risposta del Brigadiere mentre alzavo lo sguardo
consapevole ed allarmato.
Rosso
era diventato anche il cielo. I fumogeni di segnalazione. Erano troppo vicini
ad un obiettivo; o l’obiettivo si era avvicinato troppo a loro. I missili dei
rinforzi via aria sarebbero arrivati a minuti, forse secondi.
“Via!
Via!”
L’urlo
del Brigadiere che di forza tirava su il Dottore costringendolo a correre ed
inciampare quasi su se stesso; lo trascinava via in una corsa a zig zag
interamente fatta a testa bassa per rendere più difficile ai nemici il compito
di sparargli alle spalle. Poi un boato, uno spostamento d’aria che lo fece
sbalzare in avanti per la seconda volta nel giro di… un’ora? Pochi minuti?
Quanto davvero fosse durato quell’attacco non avrebbe saputo dirlo né
calcolarlo. Nel silenzio che ne seguì, interrotto subito dalle urla di guerra
dei compagni intuì che avevano vinto la battaglia e mantenuto la base.
Infine,
di nuovo il buio e stavolta più profondo e definitivo.
***
John
percorreva a passo molto lento il corridoio sterile dell’ospedale militare. I
camici bianchi gli sfilavano accanto come fantasmi, senza toccarlo né
prestargli alcuna attenzione. Il tutto aveva un qualcosa di surreale, con la
vita che fuori da quell’edificio continuava mentre lì il tempo sembrava
fermarsi, come se fosse appena entrato in un mondo parallelo, un universo
nascosto.
Un
universo tasca piccolo, fragile, bloccato nel tempo ma con un timer sempre
attivo pronto ad azzerarsi ed esplodere da un momento all’altro, collassare su
se stesso.
Dal
vetro in plexiglass che dava sulla camera d’isolamento sterile osservava suo padre steso su un lettino troppo piccolo.
Un sondino infilato nel naso che arrivava giù nello stomaco, un altro che
partiva da un buco incerottato sul suo torace, scendeva appena al di sotto del
materasso per poi risalire sino ad un sostegno metallico, biforcarsi a metà
percorso per poi finire con ogni nuovo capo in due ampolle trasparenti,
probabilmente di vetro o chissà cosa. Uno a metà pieno di liquido giallastro.
L’altro apparentemente vuoto.
Qualche
altro macchinario muoveva qualcosa, una ventola o una sorta di compressore a
fisarmonica che si alzava ed abbassava per chissà quale motivo. Non sapeva
neanche se fosse collegato a suo padre o al paziente comatoso nel letto
accanto. Forse a suo padre. Suppose servisse a dargli aria, o a toglierla dalla
pleura; nella confusione mentale in cui si trovava non riusciva a ricordare se
il polmone avesse bisogno di aiuto per prendere ossigeno o avesse bisogno di
aiuto per toglierlo.
Ricordava
appena ciò che il medico gli aveva detto: polmone collassato ed una sorta di
cuscino d’aria che si era formato nell’aera pleurica a causa di un forte trauma,
doveva essere assorbito.
Ricordava
precisamente però le parole ‘attacco nemico’ e ‘quasi morto’.
John
si era occupato di tutto. Del rimpatrio una volta stabilizzate le condizione di
suo padre, del ricovero e di tutta quella carta straccia necessaria che passava
sotto il nome di ‘burocrazia’. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto ad un comune
essere umano in quelle stesse condizioni se non si fosse trattato di prendersi
cura del Dottore. Quel Dottore al quale avrebbero dato una medaglia al valore
per i servizi svolti negli anni. Potevano
tenersela la medaglia!
Si
chiese anche se fossero stati altrettanto scrupolosi se il Brigadiere
Lethbridge-Stewart non si fosse interessato quotidianamente di loro, con il suo
braccio fasciato e quelle escoriazioni che gli coprivano il resto del corpo.
Aveva
chiamato Amy e Rory. Gli facevano compagnia, gli portavano da mangiare. Qualche
cambio d’abito e qualche battuta stupida di Rory sempre troppo fuori luogo ma
capace lo stesso di procurargli un sorriso, nell’attesa che il Dottore si
svegliasse: alternava momenti di veglia confusa a momenti di sonno profondo. I
medici dicevano che era colpa delle medicine per la terapia.
Rory
a volte arrivava con indosso la sua divisa ospedaliera. Era l’unico modo per
avere notizie certe, parlare con i medici e vedere le continue analisi che gli
venivano fatte. Piccoli miglioramenti c’erano ogni giorno. Ma a volte si
alternavano a crisi respiratorie. Almeno ogni giorno che passava il Dottore era
sempre più consapevole di se stesso e cosciente di cosa lo circondava.
Una
settimana dopo, sempre dalla finestra in plexiglass, John vide qualcosa che non
si aspettava.
Clara
stringeva la mano di suo padre. Lui aveva gli occhi chiusi ma sorrideva. Nei
secondi successivi la ragazza si voltò verso John e lo guardò, come un istinto
improvviso, una chiamata particolare o semplicemente la risposta al suo ‘Clara’
che gli attraversava la mente come un urlo.
Lei
gli sorrise, lui restò impassibile prima di allontanarsi.
***
Quando
Clara mise piede in quella camera asettica l’odore di disinfettante le bruciò
nelle narici. Le lacrime minacciarono di affacciarsi dagli occhi nel momento in
cui inquadrò la figura magra – troppo magra- del Dottore. Si avvicinò
lentamente, correndo istintivamente a stringergli la mano tra le sue. Era
freddo, forse a causa delle continue flebo che gli gelavano il sangue, e
sembrava più fragile del cristallo. Quando l’uomo aprì gli occhi l’azzurro
delle sue iridi era diventato un arido grigio. Clara diede colpa alla scarsa illuminazione
di quella stanza mentre soffocava un singhiozzo.
Lui
le sorrise, salutandola con un ‘ciao’ pronunciato appena in un sussurro. Lei
non riuscì a parlare.
“Guarda
che per uccidermi ce ne vuole… dammi solo un paio di settimane e rimpiangerai
questi momenti.”
“Un
paio di mesi, forse! E di certo non rimpiangerò questo.” Rispose finalmente con
la voce rotta e tirando su col naso prima di sorridere e continuare: “Almeno
adesso penserai bene di fermarti una volta per tutte.”
“Non
contarci…” Rispose lui di rimando, lasciandosi sfuggire un sorriso.
“Dovresti,
invece.”
“Per
favore, non rifacciamo questo discorso…” Riprese respiro, muovendosi appena nel
letto: “ Lo sai. Potrei dirti che lo farò, ma mentirei. Non posso negare quello
che sono.”
Clara
restò in silenzio. Consapevole che non poteva obiettare nulla, e consapevole
che non doveva agitarlo come invece stava facendo.
“Sono
contento di rivederti.”
“Anch’io.
Ma se continui a dimagrire ho paura che sparirai.” La preoccupazione e l’ansia
nella voce rotta di Clara era palpabile. Il Dottore guardò i suoi occhi rossi e
lucidi di lacrime stringendole appena la mano con quella poca forza di cui era
capace.
“Impossibile.
Nelle flebo che mi danno ci sono tutti i nutrimenti di cui ha bisogno il mio
corpo. Senza grassi e senza coloranti.” Le sorrise, per confortarla e
rasserenarla. In realtà era la presenza di Clara a confortare e rasserenare lui.
“Non
fare il medico con me. Un po’ di grasso in realtà non ti farebbe male.”
“Preferirei
un soufflè…”
“Allora
te ne preparerò uno speciale per quando uscirai di qua.” Stavolta erano
entrambi a sorridere.
Il
successivo silenzio era interrotto solo dal bip bip continuo
dell’elettrocardiogramma. Stabile, senza sbalzi. Lasciava intuire che il cuore
del Dottore era forte e calmo. Con una nota di orgoglio l’uomo pensò che, con
Clara lì a tenergli la mano e parlargli, quella calma poteva solo significare
che tutto era passato, che tutto era chiuso e che questo non poteva che essere
un bene. Era la prova decisiva per lui, in quel momento lo era per entrambi.
Il
momento fu interrotto da un medico di passaggio all’esterno. Aprì la porta
richiamando Clara:
“Non
può stare qui, signorina. Solo i familiari hanno accesso ai pazienti e non è
questo l’orario.”
Il
cuore di Clara in quel momento invece perse un battito. Perché non voleva andare
ancora via, e perché non le piaceva essere richiamata in quel modo.
“E’
mia figlia.” La risposta del Dottore la sorprese, indubbiamente sorprese anche
il medico in questione.
“Non
è vero. L’unico nome a cui è consentito l’accesso è John Connor Smith.”
“Infatti.
Lei è la fidanzata di mio figlio. Quindi è mia figlia. La lasci stare. Se sta
qui mi tranquillizza.” Il Dottore sembrò agitarsi, incupendo lo sguardo fisso
sul medico ancora in piedi sull’uscio. Non potendo obiettare e non volendo
destabilizzare le condizioni del paziente (conoscendone il carattere
particolare per fama) l’uomo non potette fare altro che arrendersi e lasciar
stare.
Pochi
minuti dopo Clara osò parlare di nuovo:
“Hai
mentito.”
Il
Dottore riaprì gli occhi quel che bastava per poterla vedere e capire a cosa si
riferisse.
“A
quel medico? No.”
“Non
sono tua figlia. E non sono la fidanzata di John.”
“Non
lo hai visto?”
Lei
scosse la testa, lo sguardo triste e la sensazione di una morsa stretta attorno
al cuore.
Il
Dottore chiuse gli nuovamente gli occhi, rispondendo con un filo di voce
assonnato:
“Nemmeno
io. Ma so che è qui. Va da lui.”
Il
Dottore si addormentò nell’istante successivo. Clara avvertì il cuore battere
più veloce ed il desiderio incomprensibile di voltarsi.
Erano
passati mesi. Ma il calore nel cuore che si scioglieva per poi far male quando
vedeva il volto di John non era passato.
La
Ragazza impossibile si ritrovò a rincorrere il suo Eleven tra i corridoi
bianchi dell’ospedale. Tutti uguali, tutti puzzavano di disinfettante e tutto attorno
a lei ricordava un enorme labirinto senza uscita nel quale sembrava essersi
persa.
Infine,
trovò John affacciato ad una delle finestre della sala d’attesa, scuro in
volto, la mascella serrata che si contraeva in lievi spasmi.
Clara
si avvicinò in silenzio, col cuore impazzito e le gambe che le tremavano. Mosse
le labbra per parlare, ma John fu più veloce di lei.
“No.
Per favore, Clara.”
“Invece
dovresti ascoltare.” Fu la risposta di Clara. Secca, disperata ed arrabbiata.
“Non
è come pensi! E dovresti ascoltarmi una volta per tutte! Tra me e tuo padre non
c’è niente! Sono qui per te, perché voglio starti vicino. Vorrei solo… se tu
potessi darmi una seconda possibilità, per favore…”
John
scosse la testa interrompendola:
“Clara,
se davvero tieni a me. Se davvero ci tieni così tanto a me ed a mio padre come
dici, ti prego: va via.”
C’era
ancora troppo odio, ancora troppo dolore in lui. Ancora non riusciva a
dimenticare, ancora non riusciva a perdonare. E doveva avere un autocontrollo
disumano per parlare con calma e senza alzare la voce in nessun momento, mentre
continuava:
“Non
ci riesco a vedervi vicini. Pensavo di averla superata ma non è così, non lo
sopporto. Per favore… va via. O vado via io”
Clara
doveva arrendersi. Non poteva fare altro. Il Dottore aveva bisogno di John più
che di lei.
“John…
qualsiasi cosa sia successa tra me ed il Dottore ormai non ha più senso. Non
aveva senso nemmeno prima. L’uno nell’altra cercavamo solo un modo per
avvicinarci a te. In lui io vedevo te quando mi tenevi a distanza. Ed ho sbagliato.”
“Ma
guarda… dal ‘non è successo nulla’ siamo passati al ‘qualsiasi cosa sia successa’.
Sono oltremodo confuso, Clara.” Il sarcasmo sulle labbra di John aveva un
effetto devastante. Sembrava improvvisamente un uomo adulto con troppi anni e
troppe delusioni compresse nel corpo di un ragazzo.
“Ho
commesso un errore. Lo abbiamo commesso entrambi. Vuoi che sia sincera? Non mi
pento di quello che ho provato per lui, perché mi ha fatto capire quanto tengo veramente
a te. Quanto tengo a quel ragazzo dallo stile troppo vintage e quel sorriso
furbo capace di far sparire le nuvole per dare via libera al sole.”
Gli
si avvicinò per stringergli la mano, vedendolo ritrarsi non appena i loro corpi
si sfiorarono. Faceva male ad entrambi.
“Io
posso perdonarti la notte o le notti folli con Tasha…” Aggiunse Clara con un
sussurro per continuare poi con più decisione:
“Ho
il volo per Liverpool alle otto di stasera. Amy ha ancora il mio numero, non
l’ho cambiato. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi un bacio, Eleven.
Niente di più. Quando accadrà chiamami; se anche le nostre vite per quel giorno
fossero mutate profondamente, io resterò
sempre la tua Ragazza Impossibile.”
Si
alzò sulle punte dei piedi, tirando allo stesso tempo un lembo della giacca in
tweed di John per costringerlo a calarsi, per stampargli un rapido bacio
all’angolo delle labbra.
Negli
istanti successivi, Clara sparì oltre la curva in fondo al corridoio; lo
sguardo di John restava fisso su di lei con quel bacio che gli bruciava il viso
come acido al sapore di mela sulla lingua che andò istintivamente a toccare l’angolo
delle labbra.
Non
l’avrebbe più vista nei successivi due anni. E non avrebbe visto più nemmeno
suo padre. Si sarebbe occupato di tutto ciò che occorreva al Dottore durante il
ricovero, ma non appena fu dimesso non volle più saperne. Non aveva voluto
incontrarlo, non aveva voluto parlargli. Nella sua mente un unico pensiero:
Non sono forte
abbastanza per sopportarlo.
Persino
al matrimonio di Amy e Rory, un anno e mezzo dopo, si sarebbe presentato solo a
cerimonia ormai finita.
---------------------------------------
NOTA:
Eccomi.
Avevo in mente di pubblicare questo capitolo a settembre, ma visto che è pronto
ormai da qualche mese, eccolo qua. In effetti la parte iniziale con il Dottore in Afghanistan, quella era pronta da mesi ed ho dovuto un pò modificarla in un paio di punti. Spiegherò nel prossimo aggiornamento il perchè ed il percome xD
Nel
prossimo capitolo si tornerà al presente, probabilmente sarà anche l’ultimo
capitolo della storia T.T Mi viene da piangere…. Mi mancherà scrivere di Clara,
John e del Dottore T.T Magari faccio una raccolta di One-shot su avvenimenti da ‘aggiungere’ al corso della
storia principale, chissà.
Nel
frattempo, spero questo sia un capitolo di vostro gradimento. Avevo detto che
sarebbe stato completamente incentrato sul Dottore, ma la parte finale con Clara
e John era d’obbligo inserirla.
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Capitolo 14 *** Capitolo 14 ***
Cap.14
Capitolo 14
John
e Clara si ritrovano a passeggiare nel parco, Colin che sgambettava poco
distante da loro. Aveva piovuto durante il loro caffè e l’aria era frizzante,
chiara dimostrazione che l’estate a Londra non voleva proprio arrivare,
quell’anno.
Colin
si fermò ai bordi di una piccola pozzanghera, piegandosi sulle sue malferme
gambette per allungare la mano verso l’acqua, ignorando il richiamo di Clara
che voleva proibirglielo. Ma che altro poteva fare la donna? La mano del
bambino era già a schiaffeggiare la superficie dello specchio d’acqua e le sue
risa si espandevano nell’aria. Clara si portò una mano alla fronte, sospirando:
“Adesso
dovrò portarlo a casa e cambiargli tutti i vestiti…”
Non era così disastroso l’aspetto del bimbo,
solo qualche macchia di fango sui pantaloni ed un po’ d’acqua sulla maglietta, ma
l’esasperazione della giovane madre sembrava quasi d’abitudine.
John
invece sorrise prima di fermare lo sguardo sul bambino dicendo:
“Clara…
davvero Colin non è..” Si fermò incerto per poi finire: “… vostro figlio?”
“Non
mi credi?” Chiese Clara, fissando l’espressione perplessa di John.
“E’
solo… che somiglia così tanto a lui. E così tanto anche a te.”
“Eleven,
non riuscirai mai a fidarti di me, vero?” Il sorriso amaro di Clara lo fece sospirare,
ma tacque mentre lei continuava:
“Cambia
qualcosa se Colin è o non è mio figlio biologico?”
John
rimase in silenzio, spostando il peso del corpo su una sola gamba ed
incrociando le mani dietro la schiena. Clara raggiunse Colin per prenderlo in
braccio, non curante del fatto che le mani bagnate del bambino furono subito su
di lei mentre premeva il suo corpicino contro la sua spalla, in un abbraccio. L’ora
del pisolino era passata e la stanchezza si stava impadronendo di lui. Clara
sorrise, avvertendo la fronte del piccolo e le sue braccia attorno al collo.
Cercò dei fazzoletti puliti all’interno della borsa con la mano libera e ne
prese alcuni per asciugare un po’ il disastro che il bambino aveva fatto con le
sue manine ed i vestitini. Infine si voltò verso John con un’espressione
malinconica dicendo:
“Tu
non riuscirai mai ad accettare il fatto che tuo padre è una parte importante
della mia vita. Non potrai mai conviverci vero?” Non era un’accusa; più che
altro una consapevolezza che le permise di mantenere il tono della voce dolce,
sebbene si leggesse anche una nota rassegnata:
“John.
Perché hai voluto incontrarmi? Ho bisogno di sapere il vero perché.”
E
quella domanda era l’unica domanda. Quella alla quale John voleva rispondere ma
ancora non lo aveva fatto; l’unica domanda della quale aveva anche paura, anzi ne
era terrorizzato.
“Io…
credevo di saperlo. Adesso non lo so più…”
Colin
cominciò a mostrare i primi segni di cedimento, con gli occhi che gli si
stavano arrossando, resi lucidi dai primi segni di un capriccio in arrivo.
Clara cominciò inconsciamente a dondolarlo, guardando però John.
“Te
l’ho detto, sono stata sincera su questo… abbiamo provato, io e tuo padre; e
non è andata. Il nostro rapporto è del tutto platonico, lo è sempre stato. Ma
Colin… è comunque tanto suo figlio quanto mio. Biologico o no. Legalmente o
meno. Non è il DNA o un documento a farne mio figlio. E non è lui il problema,
lo sappiamo entrambi.”
Clara
vide John abbassare lo sguardo al selciato su cui stavano passeggiando, gli
occhi improvvisamente tristi, le guance arrossate e quel broncio che lei capiva
sempre. Gli si avvicinò e gli prese la mano:
“Stai
bruciando Eleven…”
“Non
è solo la pelle a bruciare, Clara…”
Clara
lo sapeva. Ed anche John sapeva cosa significavano davvero le parole di Clara.
Ma quello che non sapeva era che quelle parole per Clara erano già fin troppo
familiari.
“Sono
le stesse parole che tuo padre mi ha detto un anno e mezzo fa, quando si è
presentato alla mia porta con lui tra le braccia… tu e lui siete così uguali…”
Quelle parole le erano sfuggite dalle labbra senza rendersene conto. Non
volevano essere parole dette per ferire, nelle sue intenzioni; al contrario, per
lei era un ricordo piacevole che le lasciava intuire quanto i due uomini più
importanti della sua vita fossero simili ed allo stesso tempo molto stupidi.
John
sospirò, non sicuro di cosa però quelle parole davvero volevano significare.
Osservò Colin sbadigliare di nuovo mentre si sistemava meglio contro la donna
per poi richiudere gli occhi, con il visino premuto contro la spalla di lei e
le piccole braccia attorno al suo collo sottile.
“Clara…
ti va di parlarmi di lui?”
Clara
sorrise, annuendo:
“Cammina
con me verso la metropolitana, ne parliamo durante il tragitto.”
“Ho
l’auto, posso accompagnarti io a casa. Oppure ovunque tu voglia…”
“Preferisco
camminare. Ti prego Eleven.”
John
annuì; Clara invece cominciò la storia del piccolo Colin e di suo padre.
***
Clara
aveva trovato un lavoro presso una scuola privata di Liverpool. Aveva lasciato
Londra, aveva lasciato il suo appartamento ed aveva lasciato il ricordo di John
e del Dottore alle sue spalle.
Era
quello che si ripeteva ogni giorno, come un mantra. Era quello in cui voleva
credere senza però riuscirci. Il tempo passava monotono ed inconsistente; aveva
provato a frequentare un collega di lavoro, ma non riusciva ad avere emozioni
per le quali valesse la pena continuare la frequentazione, così aveva deciso di
chiudere.
Poi,
un giorno di primavera, qualcuno bussò alla sua porta. Qualcuno che non si
aspettava di vedere e che stringeva un
fagotto tra le braccia.
Il
Dottore le chiedeva aiuto in una situazione complicata, una situazione delicata
in cui non lo avrebbe di certo abbandonato: durante una missione umanitaria –
non militare – con un’organizzazione a difesa di minori, avevano intercettato
un camioncino carico di ‘merci da inserire sul mercato nero’. Le merci in
questione erano bambini ed adolescenti tra i dieci ed i diciassette anni. Il
‘mercato’ era quello dei minori assegnati allo sfruttamento della
prostituzione. Avevano sventato un tentativo di traffico di umani, ma le
condizioni di questi adolescenti erano pietose e.. tra loro c’era Laila. Una
dodicenne afghana dai profondi occhi blu, spaventata, sola, giaceva sul fondo
del camioncino tra i suoi stessi liquidi amniotici, con un pancione quasi più
grande di lei ed una sofferenza fetale in atto.
Il
Dottore fece di tutto per aiutarla, parlandole nella sua lingua,
tranquillizzandola. Ma Laila chiuse gli occhi nel momento esatto in cui il
bambino appena uscito da lei li aprì. Laila emise il suo ultimo respiro mentre
Colin prendeva il suo primo. L’uomo provò a rianimarla, ma tutto fu inutile. Ed
il momento in cui il Dottore incrociò lo sguardo ancora cieco del neonato fu
quello in cui capì che non poteva lasciarlo, che loro due erano in qualche modo
legati.
Il
Dottore decise di adottarlo, ma le questioni legali e burocratiche erano
complesse, soprattutto a livello internazionale; si parlava di un minimo di due
anni per avere un’adozione ufficiale, ma l’Afghanistan non avrebbe mai dato il
nulla osta per uno dei suoi figli; nemmeno se era stato ritrovato in uno Stato
straniero, nemmeno se era afghano solo per metà, perché l’altra metà era di
nazionalità ignota.
Quando
Clara aprì la porta di casa si ritrovò di fronte un Dottore più magro del
solito, malmesso, con un occhio nero ed una labbro spaccato, eppure le ferite
sembravano vecchie. Lesse nei suoi occhi che qualcosa lo aveva cambiato, che
aveva bisogno di lei. Il Dottore aveva solo Clara, in quel momento era l’unica
di cui poteva fidarsi, e lei non si sarebbe rifiutata di aiutarlo.
Non
chiese i particolari di quella adozione, sapeva solo che non era del tutto
completa; sapeva che, al momento, Colin era una sorta di rifugiato politico e
che il Dottore aveva attraversato momenti non del tutto piacevoli per portarlo al
sicuro in Inghilterra. Non le avrebbe mai raccontato, né quel giorno né in
futuro, cosa gli fosse accaduto per ridursi in quello stato e Clara non glielo
avrebbe mai chiesto. Non perché non le importasse, ma solo perché sapeva che
non avrebbe ricevuto una risposta, o comunque non la verità completa.
Tre
settimane dopo, però, al Dottore fu imposto l’obbligo di vivre a Londra, almeno
nella fase iniziale della messa in regola di tutta la burocrazia necessaria a
rendere Colin effettivamente Inglese e suo figlio. Ma aveva bisogno di
lavorare, aveva bisogno di lasciare la città. E Clara ancora non si tirò
indietro, diventando una sorta di affidatario per il bambino.
L’aria
di Londra era particolare. Umida e triste, ma anche piena di vita e frizzante,
carica di profumi che le erano mancati. I primi mesi avevano tirato avanti solo
con lo stipendio del Dottore, ma Clara si sentiva a disagio con questo. Inutili
erano le rassicurazioni di lui sul suo impegno con Colin, un impegno che lui non
aveva mai voluto imporle, pesarle sulle spalle. Quella fu la sera in cui Clara
gli prese per la prima volta la mano da quelli che sembravano secoli,
rispondendo:
“Ho
scelto io di venire qui con te. Ed ho scelto io di essere la sua affidataria.
Non so se sia giusto o meno… ma sento di essere una sorta di madre per lui.
Anzi, io sono assolutamente sua madre. Siamo legati, io e lui.”
Il
Dottore ritirò la mano portandosela al petto, stringendola con l’altra mentre
le dava le spalle:
“Clara…
però io non posso esserlo per te. Non posso essere ciò di cui hai bisogno.”
Clara
si avvicinò a lui, affiancandolo con la consapevolezza dell’implicazione
nascosta nelle parole dell’uomo:
“Se
proprio vogliamo rifare questo discorso… una volta mi hai detto che avresti
voluto. Ed anch’io volevo. Potrei richiedertelo all’infinito finchè non
cederesti. E tu cederesti, ma lo faresti in un momento in cui sarebbe troppo
tardi, e lo sai anche tu.”
Il
Dottore si voltò verso di lei, muovendo incerto le mani davanti a se prima di
lasciarle cadere lungo i fianchi. Clara portò la mano sulla guancia dell’uomo
guardandolo negli occhi e sorprendendosi di quanto calda fosse la pelle di lui
contro la sua:
“Stai
bruciando, Dottore.”
Lui
la guardò con uno sguardo triste e pieno di dolore concludendo:
“Non
è la pelle a bruciare, Clara. Sono io che sto bruciando. Io in tutto il mio
essere.”
Clara gli sorrise capendo pienamente:
“Lo
so. E per essere chiari: non ti sto chiedendo nulla, Dottore. E non lo farò. Solo,
lo so.”
E
quello fu il momento in cui capirono finalmente entrambi che il legame che
avevano era più profondo di un amore corrisposto, era un legame che non aveva
bisogno di sfociare in qualcosa di sentimentale, qualcosa di effimero come
l’amore romantico o animalesco come il sesso. Era qualcosa di più, qualcosa che
poteva essere trascinato per secoli e non affievolirsi ne incrementarsi
ulteriormente. Era un tipo di amore diverso, che forse non aveva una
definizione vera. Ma era di sicuro un amore per il qual non potevano rendersi
completamente felici a vicenda.
Colin
nella culla dormiva, era un pezzo in più nella loro vita, qualcosa che li
teneva legati. Ma c’era ancora quel pezzo che mancava, quel pezzo che avrebbe
completato la felicità del Dottore ed avrebbe dato a Clara l’amore di cui aveva
davvero bisogno. Quel pezzo, lo sapevano entrambi, era John.
***
“Quindi
lo hai seguito…” Disse Eleven con voce quasi meccanica.
“Si…
cos’altro potevo fare?” Clara portò lo sguardo verso Colin che ormai dormiva
con il viso premuto contro il suo collo.
Avevano
ormai raggiunto l’ingresso della metro, con il cuore di John che batteva sempre
più veloce man mano che scendevano le scale verso il basso, il nervosismo e
l’ansia ch aumentavano e che gli facevano desiderare sempre di più che il treno
tardasse e tardasse ancora, perché non voleva separarsi da lei.
“E’
come se tu e lui aveste questa sorta di dipendenza l’uno dal’altra. Non lo
capisco.”
Clara
lanciò uno sguardo verso il giovane, senza però interromperlo notando il
tremolio delle sue labbra. Conosceva fin troppo bene il suo Eleven per capire
che aveva pensieri contrastanti nella mente ai quali stava cercando di dare un
senso, e quel tremolio delle labbra stava ad indicare che avrebbe continuato il
discorso entro pochi attimi.
“O
forse…. forse è solo strano. Come lo era il rapporto che avevo io con lui… solo
in modo diverso?”
“Il
punto focale è: puoi accettarlo, John?”
Avevano
raggiunto i binari, fermandosi nella zona di attesa. Nell’eco della galleria
c’erano i rumori più disparati e confusi dell’Universo; c’era il suono del
vento che soffiava nella galleria dei treni, lo scalpiccio delle persone che
correvano apparentemente senza una destinazione con le loro borse e le loro
valigie, le voci degli stranieri che si sovrapponevano a quelle dei residenti
ed il fischio di un treno in lontananza. John non sapeva se quello in arrivo
era davvero il treno di Clara oppure no, ma si rese conto che il loro tempo
stava per scadere. Si fermò a fissarla intensamente, col cuore che gli batteva
feroce nel petto e quella sensazione di leggerezza nella testa che gli dava la
sensazione di essere sospeso nel tempo e nello spazio mentre affogava nelle
pozze scure che erano gli occhi della sua Clara. Abbassò lo sguardo sconfitto,
lasciandosi scappare un sorriso triste prima di scuotere la testa in segno quasi
di resa.
“Eleven…”
La voce triste e rassegnata di Clara lo scosse.
John
alzò improvvisamente lo sguardo su di lei, le labbra dischiuse e tremanti. Si
fermò con gli occhi in quelli di lei, chiedendosi come potesse, a distanza di
anni, quella ragazza leggergli dentro come nessuno aveva mai fatto prima.
Infine
John sospirò arrendendosi definitivamente:
“Non
so se potrei accettarlo, in futuro. Però Clara… è incredibile!” John avanzò di
un passo verso di lei, portando la mano destra a carezzare i capelli scuri di
Colin prima di correre con la stessa mano al viso di Clara aggiungendo:
“Dopo
tutti questi anni, io non ho mai smesso di amarti! E… non voglio… lasciarti
andare.”
Lo
sguardo emozionato di John era ancora incastonato in quello sorpreso di Clara.
La donna avrebbe voluto parlare, ma il cuore le si era come fermato in gola.
Avvertiva nel corpo uno strano contrasto tra il freddo del vuoto attorno a lei
ed il caldo della mano dell’uomo che accompagnava il tepore del corpicino di
Colin premuto contro una piccola porzione di se. Ed in quel momento si rese
conto che avrebbe voluto le braccia di John attorno a lei per poter scacciare
via quella sensazione spiacevole, come da completamento ad un guscio protettivo
attorno a se; ma sapeva che le cose erano più complicate di come apparivano in
quel momento.
“Ed
io non ho mai smesso di pensare a te, John. Solo che… dopo tutto questo tempo è
difficile, e non riesco ancora a capire: cosa mi stai chiedendo, John?”
In
realtà Clara capiva, ma aveva bisogno di certezze, aveva bisogno che John
parlasse e mettesse le cose in chiaro una volta per tutte anche con se stesso.
La
mano del giovane si mosse dalla guancia per salire un po’ più su e lasciar
scivolare le dita tra i capelli di Clara, avvicinando appena il viso a quello di
lei. Il fischio delle rotaie segnalavano il treno della metro in arrivo, i
freni già attivi per la fermata, ma sia John che Clara decisero di ignorarlo.
“Clara…
la prima volta che ti ho chiesto di bere un tè con me, lo ricordi?” John si
prese qualche secondo per fissare gli occhi ancora confusi della giovane prima
di continuare: “Eravamo a casa, tu stavi preparando una tesina su Jane Eyre.
Cosa mi hai detto?”
Lo
sguardo di Clara si fece per un attimo vuoto mentre si perdeva nei ricordi di
quei giorni a casa di John. Quando quel pomeriggio d’inverno le tornò in mente
portò di nuovo lo sguardo verso di lui rispondendo:
“Ti
ho detto: Chiedimelo domani.”
John
annuì, continuando:
“Io
ti ho chiesto ‘perché’. Tu mi hai
risposto ‘perché potrei dirti di si’.
Ed il giorno dopo mi hai effettivamente detto di si.”
“Si,
ma cosa…”
Clara
avrebbe voluto chiedergli cosa c’entrava questo con loro due adesso, ma John le
portò il dito sulle labbra e gli sorrise dolce, mentre la metro ripartiva
lasciandoli con un soffio di vento contro i vestiti:
“Ti
sto chiedendo: permettimi di accompagnarti a casa, per oggi. Permettimi di
offrirti un tè domani ed una cena dopodomani. Permettimi di recuperare due anni
di silenzi ed altri due di cose non dette. E non rimandare a domani.”Sorrise
allontanando la mano dal viso della donna per lasciarla cadere lungo il suo
fianco:
“Non
so cosa potrei essere per Colin…” Lanciò uno sguardo sorridente al bambino
prima di fissarlo nuovamente su Clara: “ Ma so cosa potrei essere per te. Non
un amico, non un fratello. Voglio essere qualcosa di più: un fidanzato non so
se riesco ad esserlo, non sono molto allenato in quello… ma almeno, voglio
essere il tuo Eleven.”
Le
labbra di Clara si dischiusero ed i suoi occhi si inumidirono di un’emozione
troppo forte per esser messa in parole. Il suo cuore sembrava voler uscire dal
petto, battendo violento contro la cassa toracica e chiudendole la gola,
rendendole difficile non solo parlare, ma anche respirare.
“E
con tuo padre? Lui è un punto fisso nella nostra vita.”
“Io…
ci proverò. In futuro. Ma devo muovermi un passo alla volta, il primo passo per
me sei tu. Dammi solo una possibilità, Clara. La metropolitana puoi prenderla
un altro giorno.”
Si
rendevano ormai conto entrambi che il tempo trascorso non poteva essere
recuperato, che ciò che avevano perso era già troppo, ma era anche così
difficile riprendere il filo!
“Non
sarà facile, John. E ci vorrà del tempo… Gli ultimi anni sono stati un incubo
per me. E se davvero vuoi recuperare qualcosa, devi capire che le cose saranno
complicate, ed a volte ci spaventeranno. Io sono spaventata già adesso, devi
essere sicuro di voler affrontare tutto questo, perché non voglio illudermi di
essere felice e poi vedermi buttata di nuovo nel baratro.”
In
quel momento, John capì perfettamente le parole di Clara. Capì che in qualche
modo Clara era diventata come lui, ferita nel cuore e nell’anima e con una
paura incredibile di legarsi nuovamente a qualcuno. E che era stato lui a
renderla così simile a se stesso.
“Sono
disposto a provare, assumermi il rischio, Clara. Un passo alla volta.” John si
avvicinò ulteriormente e con cautela le prese la mano sinistra:
“
Eleven e la Ragazza Impossibile.”
Clara
gli sorrise, rendendosi conto del sacrificio che quel ragazzo stava imponendo soprattutto
a se stesso. L’unico che davvero aveva avuto diritto a perdere ogni speranza,
ogni tipo di fiducia nel genere umano le stava dando invece la prospettiva di
un futuro insieme, anche se incerto.
Non
era facile fidarsi di una nuova persona piombata all’improvviso nella propria
vita, ma loro due non erano estranei, si conoscevano e sapevano di cosa avevano
entrambi bisogno. O almeno volevano credere questo. E la risposta più sensata
era che, per essere felici, per essere completi, avevano bisogno l’uno
dell’altra.
Ci
sarebbe voluto tempo, ci sarebbero voluti molti sforzi da parte di entrambi per
combattere le paure e le incertezze, accettando infine la consapevolezza che
l’amore, in qualsiasi forma si fosse presentata, avrebbe avuto la meglio su
tutto. A volte questo effimero sentimento poteva sembrare insufficiente, quando
le gelosie si insinuavano nell’anima seminando dubbi e nuove paure, ma
sarebbero poi scomparse del tutto il giorno in cui, attraverso una navata, un
bambino nei primi anni dell’infanzia avrebbe consegnato un cuscino blu e due
anelli dorati ad una coppia di innamorati. Avrebbe dato un bacio alla sua mamma
ed un altro al suo papà giovane, correndo poi a seguire il resto di una
cerimonia bellissima in prima fila, tra le braccia del suo papà più grande, con
gli occhi innocenti e felici di un bambino emozionato che vedeva ingenuamente nel
mondo solo la bellezza.
La
famiglia Smith poteva sembrare una famiglia strana, agli occhi degli estranei, ma
decisamente felice. E dopo tanto dolore e tanti sacrifici, un po’ forse se lo
meritavano.
--------------------------------
NOTA:
Eccomi
finalmente alla conclusione di questa storia. Ho molto da dire a riguardo, ma
innanzitutto devo le mie scuse a chi ha seguito ed atteso pazientemente per
questo, il problema che mi ha bloccata è
stato davvero difficile da affrontare: Eleven!
Amo
Eleven, l’ho sempre amato e continuo a farlo, ma avevo cominciato a scrivere
questa storia whouffle con l’idea di concluderla con un finale Whouffaldi.
Colin doveva a tutti gli effetti essere figlio biologico di Clara e Twelve ma….
Ma c’è un ‘ma’:
Avevo
scritto il primo capitolo ed avevo scritto già anche il capitolo finale. Ma man
mano che la storia proseguiva Eleven diventava sempre più protagonista, sempre
più capriccioso e sempre più prepotente nella mia testa. Ha preso il
sopravvento, mi ha imposto di lasciargli Clara perché Clara era la sua Ragazza
Impossibile e non potevo togliergli tutto in un colpo solo. Eleven ha preso
vita propria ed ho avvertito tutta la sua sofferenza in ogni capitolo, in ogni
sua parola ed in ogni sua sfumatura. E mi sono resa conto che aveva ragione.
Aveva
ragione perchè avevo impostato il suo rapporto con il padre in un modo troppo
forte, come una sorta di dipendenza, la stessa dipendenza che Clara e Twelve
avevano nella serie TV e riadattata anche in questa storia. Che un rapporto
padre/figlio così forte non poteva essere distrutto dalla contesa di una
ragazza, non avrebbe avuto il valore forte che volevo dargli e non sarebbe
stato giusto perché Twelve è il punto fisso nella vita di entrambi. E mi sono
accorta che Clara e Twelve avrebbero funzionato, ed anche bene, si sarebbero
curati a vicenda ed avrebbero avuto la loro dose di felicità; ma
paradossalmente mi sono accorta soprattutto che Clara ed Eleven avevano bisogno
del loro riscatto, che Clara ed Eleven erano la via più giusta, quella che
avrebbe spento le fiamme che bruciavano e distruggevano, che insieme avrebbero
funzionato come un balsamo rigenerante per tutti i personaggi coinvolti. Ho
quindi eliminato la parte del concepimento di Colin, ho eliminato la parte di
Twelve e Clara sposati con prole perché ho capito che Eleven non avrebbe mai e
poi mai potuto perdonare questo, e non era giusto togliergli tutto, non era
giusto togliergli l’amore del padre, non era giusto togliergli l’amore di
Clara.
Mi
rendo conto che cambiare la storia ha reso le cose più difficili, che
l’influenza sui capitoli è stata molta e si nota. Ma ripeto: Eleven ha puntato
i piedi per terra, ha urlato, combattuto, anche implorato per tutta la stesura
della storia a cominciare dal primo capitolo… ed alla fine non ho potuto fare
altro che cedere e dargliela vinta. Non so ancora se inserire un capitolo
extra, la tentazione è forte, ma suppongo che anche questo finale possa essere
accettabile e forse non è il caso di rovinarlo, non lo so…
Quindi,
chiedo scusa a chi ha seguito fin’ora e si sente un po’ tradito. Chiedo scusa a
chi ha invece abbandonato disperando che una conclusione non sarebbe mai
giunta. Ma spero che almeno a qualcuno questa conclusione abbia dato un po’ di
emozione, anche se si trattasse solo di un lieve sorriso o una lacrima di
disgusto.
Nel
frattempo, grazie e tutti voi che pazientemente avete tenuto la storia da
conto, con la speranza di leggerne la fine, e grazie soprattutto a chi ha
lasciato un segno con i propri commenti, sono stati per me importantissimi,
davvero!
Grazie,
grazie, grazie, grazie!!
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