Miseria del romanticismo

di DavidCursedPoet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prefazione a: Miseria del romanticismo ***
Capitolo 2: *** Parte prima ***
Capitolo 3: *** Parte seconda ***
Capitolo 4: *** Parte terza ***
Capitolo 5: *** Parte quarta ***
Capitolo 6: *** Parte quinta ***
Capitolo 7: *** Parte sesta ***
Capitolo 8: *** Parte settima ***
Capitolo 9: *** Parte ottava ***



Capitolo 1
*** Prefazione a: Miseria del romanticismo ***


Questa è la brevissima prefazione del mio primo racconto: Miseria del romanticismo.
Come prima cosa vorrei spiegare perchè ho scelto questo titolo. Innanzitutto, devo ammettere che ho preso spunto da un saggio del filosofo tedesco Karl Popper, chiamato "Miseria dello storicismo" scrisse di voler dedicare quella sua opera a tutte quelle che erano state le vittime delle filosofie della storia(idealismo, marxismo e sopratutto, i fascismi). Dunque, un paragone davvero pretenzioso, considerando che sono un giovincello che di filosofia conosce ben poco. 
La mia pretesa, dunque, è quella di dedicare questo racconto ai giovani che soffrono, e che in alcuni casi arrivano a gesti estremi come il protagonista della storia, Ernest, perchè vittime di ideali ormai passati. Quanti adolescenti, travolti dall'idea di "Amore" sono spinti a fare atti folli? Sono sicuro che sono davvero tanti! Ed è dunque da qui che nasce il racconto.

Detto questo, vorrei ringraziare tutti coloro che mi hanno letto, supportato ed aiutato, in particolare alcune persone. 
Poi, vanno dei ringraziamenti al signor Roberto, che mi ha suggerito di inserire i flashback per rendere meglio ciò che le ragazze dicevano al detective Redson. 
Un ringraziamento a Pietro, il quale mi sta aiutando a revisionare la forma delle parti meno eleganti e scorrevoli del racconto, ed a mio fratello minore Gabriele, che ha battuto al computer al posto mio, quando non avevo voglia di farlo io stesso. 
Infine, ringrazio tutti i miei amici del Foro Italico di Kongregate.com che, con grande pazienza, hanno tollerato che parlassi e parlassi e parlassi di questo racconto ogni giorno, per più di due settimane, e che mi hanno spronato a continuare ed a fare sempre meglio.

In conclusione, si ricorda al gentile pubblico che ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale. 

Davide Livrieri                                                                                 
                                                                                                                                                                                                                                         30/03/2015 
Corato(Ba)

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Capitolo 2
*** Parte prima ***


Quella mattina fu alquanto frenetica per Adam Redson: il commissario Jules gli aveva telefonato alle ore nove in punto dalla stazione di polizia di Bethnal Green per affidargli un nuovo caso: sembrava che un giovane, senza alcun apparente motivo secondo i suoi genitori, avesse deciso di togliersi la vita mentre era solo in casa. La cosa più curiosa riguardo la vicenda è che proprio non si poteva presagire un tale atto.  Il ragazzo non aveva problemi psichici di alcun tipo, viveva una vita perfettamente nella norma, frequentava la facoltà di Psicologia presso la Brunnel Academy con assiduità ed era al secondo anno di studi senza alcun inconveniente nella carriera universitaria; inoltre, non aveva mai avuto problemi legati alla droga o alla microcriminalità suburbana.
Redson non aveva tempo da perdere: frettolosamente uscì di casa e si diresse a Minerva Street 19, l'indirizzo indicatogli dal commissario. Dopo svariati minuti di cammino giunse davanti a un'abitazione al piano terra, con tanto di giardinetto ben curato, ricco di una gran varietà di fiori dai colori variopinti: primule, margherite, gerani e gigli, tutti sembravano rimandare a un'armonia che, a causa dell'ultimo evento che aveva coinvolto la famiglia, doveva essersi infranta.Suonò il campanello del cancelletto esterno, e dopo alcuni secondi la voce di una donna rispose "Chi è?"
"Buongiorno, sono il detective Redson, il commissario Jules mi ha incaricato di indagare sul caso di suo figlio.". La donna singhiozzò, e disse sconfortata: "Entri pure, signor Redson, la prego!".Redson oltrepassò il cancello e con calma entrò in casa. Il primo particolare che saltò agli occhi dell'investigatore fu la presenza di alcuni poliziotti che si guardavano intorno con aria disorientata ed un uomo vestito con una camicia bianca e dei pantaloni blu notte, scuro in volto, mentre fumava nevroticamente una sigaretta, seduto su un dondolo in legno, che sembrava quasi cedere al peso dell'uomo, che non crollava sulle proprie ginocchia quasi per miracolo. Un agente si avvicinò a Redson e con un sussurro gli spiegò la situazione: "Quell'uomo è il padre del defunto, abbiamo cercato di carpirgli qualche informazione su suo figlio, ma è così scosso che non riesce a spiccicar parola, se non "Non è possibile! Dove abbiamo sbagliato?!"Il detective, scosso dal comportamento dell’uomo, decise di ignorarlo, e rivolgendosi all’agente, domandò: ”Dov’è la madre del ragazzo?” “In cucina, oltre la porta scorrevole sulla destra.”Così, salutato l’uomo con un leggero cenno del capo, si diresse verso la cucina: lì, una donna sulla quarantina, vestita a lutto, strofinandosi gli occhi occhi con un fazzoletto in stoffa bianca, aspettava di riceverlo, tra singhiozzi e gemiti di dolore.
La donna, appoggiata con i gomiti ad un lungo tavolo in legno, gli indicò una sedia e lo pregò di sedersi, per ascoltare ciò che aveva da dire.” Era un tesoro, Ernest!” esordì” Non doveva andare così!” Mentre la madre di Ernest parlava, Redson tirò fuori dalla sua tracolla penna e taccuino, iniziando a prendere appunti. “Sette giorni fa io e John eravamo andati a trascorrere la nostra settimana libera a Manchester. Nostro figlio aveva insistito per rimanere qui. Non era molto responsabile, ma questa volta aveva promesso che si sarebbe impegnato a mantenere la casa in ordine, avrebbe fatto del suo meglio...E mio marito ha acconsentito a lasciarlo da solo. Non che voglia biasimarlo, aveva ormai vent’anni! Avrebbe passato il tempo a scrivere racconti e poesie, così ci aveva detto... Coltivava quest’hobby da tempo, ci metteva davvero anima e corpo... Ma sembrava vergognarsene davanti a noi...” Il discorso, già intervallato da molte pause e sospiri, si interruppe in un pianto. La donna scoppiò in lacrime e si portò nuovamente il fazzoletto agli occhi. Dopo alcuni secondi si alzò: ”Venga con me... Lei deve vedere!”
 La signora proseguì in un lungo corridoio e aprì la porta in fondo, con le mani tremanti: era evidente che non volesse entrare, ma era anche consapevole della necessità di farlo. La stanza da bagno si presentava ampia. Oltre i servizi igienici vi era una finestra coperta da una tendina color panna, riccamente ricamata con molti motivi floreali verdi; il pavimento e le piastrelle erano in ceramica bianca ed immacolata, così come la vasca. O, almeno, così doveva essere fino a poco tempo fa. La vasca da bagno. Era quello il posto in cui il giovane aveva posto fine alla sua vita. Il corpo era disteso nella vasca, l’acqua tinta di rosso, un polso penzolante lungo il bordo, le vene recise; del sangue era gocciolato per terra ed era ormai asciutto. Il volto pallido del ragazzo, i suoi occhi chiusi, contrastavano coi capelli neri; l’espressione facciale non lasciava trasparire alcuna sofferenza. Una lametta da barba era vicina al rivolo di sangue per terra. La donna interruppe l’attenzione di Redson tirandogli la manica della giacca, e lo avvisò:” Mi perdoni, ma io non ce la faccio...Torno in cucina.”
 La porta si chiuse, il detective rimase da solo col morto. Subito, si inginocchiò ad esaminare la lametta: la raccolse con un fazzoletto per non contaminare la prova, osservò le tracce di sangue presenti, dopodiché la rimise lì dove l’aveva trovata. In seguito, si avvicinò al cadavere e prese ad esaminarlo con cura: anche le vene dell’altro braccio erano state tagliate. Non c’erano dubbi sulla causa del decesso; il resto del corpo, ad ogni modo, non presentava ferite o tagli. Avrebbe chiesto a quelli della scientifica di verificare con esattezza l’orario della morte, anche se sembrava che non fosse avvenuta da più di un giorno a giudicare dal corpo ancora relativamente caldo. Redson diede un’occhiata al resto della stanza: oltre ai tipici oggetti che si trovano in una stanza da bagno vi era anche un sonnifero. L’avrebbe fatto vedere alla madre, magari l’aveva comprato proprio Ernest per darsi una fine indolore. Prese inoltre il cellulare del ragazzo, decidendo che l’avrebbe temporaneamente requisito per capire chi frequentasse. Dovevano esserci alcuni dettagli della vita di Ernest di cui i genitori non avevano idea. Ci doveva essere qualcosa di nascosto.
“Cosa potrà mai averlo spinto a morire tagliandosi le vene in una vasca da bagno? Non può essere una scelta del tutto casuale...” Redson ebbe un sussulto:” Un attimo! Sua madre ha detto che scriveva! Magari ha lasciato qualcosa che lasciasse presagire la tragedia! Qualcosa da cui è possibile scoprirne le motivazioni! Deve essere così, certo...” Così, anziché essere preso dallo sconforto della scena che gli si era parata davanti, si lasciò dietro entusiasta la vasca con il cadavere di Ernest. Nota per i lettori: questa è la prima storia per cui ho concepito un'idea completa. La pubblico a capitoli solo per una questione di tempistica. Sarei felicissimo se qualcuno mi dicesse di aver letto, ed ancora più felice di ricevere delle recensioni, che siano positive o negative.

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Capitolo 3
*** Parte seconda ***


Tornato in cucina, la madre del suicida era di nuovo seduta e gemente, al che, in un impeto di commozione, Redson, quasi rinnegando la sua professionalità, manifestò un po’ di tristezza:” Sono davvero dispiaciuto, signora…Tuttavia, se non farete del vostro meglio per aiutarmi, potreste non sapere mai la verità. Ad esempio, qualcuno in famiglia fa uso di sonnifero? Ho trovato una scatola di compresse.” La donna allungò il braccio e guardò la scatola con attenzione, provando a ricordare. Alla fine, scosse la testa. “Suo figlio deve averlo assunto prima di morire. La Scientifica dovrà verificare questa ed altre cose; devo requisire il telefono cellulare del ragazzo, forse riuscirò a trarne alcune informazioni. Poi, volevo chiederle di farmi vedere la sua stanza.” La signora, titubante, prima annuì e si alzò in piedi, ma un attimo dopo domandò:” Davvero è necessario?” La risposta fu un secco:”Assolutamente.” La signora fece strada a Redson e lo condusse in una stanza a metà del corridoio, sulla sinistra.
Le pareti della camera di Ernest erano verniciate di celeste; erano presenti un paio di poster di videogiochi, una libreria, una cassettiera, una scrivania con un PC ed una sedia d’ufficio, una piccola finestra, che mai sarebbe stata grado di illuminare adeguatamente la stanza.  Redson cominciò ad osservare la libreria: oltre ai testi universitari, vi erano alcuni fumetti che si leggevano al contrario e dei classici della letteratura inglese, soprattutto dell’età vittoriana; notò anche un libro di poesie scritto da un celebre autore francese, intitolato “Les fleurs du mal”. Dopo aver verificato che non ci fossero note o biglietti all’interno dei libri, li ripose al ripiano di appartenenza con cura.
Si dedicò dunque alla cassettiera. All’interno trovò alcune figurine di un gioco di carte collezionabili, “Magic”, con tanto di bustine plastificate, alcuni caricatore di cellulari rotti, una console Nintendo portatile ed alcuni quaderni. “Bingo!” si disse Redson, aprendone uno e leggendo la scritta: ”Quaderno delle poesie di Ernest Wight” alla prima pagina. Si sedette, e, poggiato il quaderno sulla scrivania, si immerse nella lettura.

Gran parte delle poesie aveva come tematiche il dolore e la tristezza: erano tutti dei componimenti molto generici, puramente speculativi. Non vi erano soggetti particolari, umani; spesso di trattava di concetti astratti come “l’anima” e “lo spirito”, che si presentavano distrutti ed annichiliti dalle pene e dalle difficoltà della vita. Alcune poesie parlavano di creature mitologiche come draghi, folletti o fantasmi. Appartenevano tutte almeno a tre mesi prima della morte, eccetto una, in fondo al quaderno: l’ultima poesia arrecava la data del giorno in cui i genitori erano partiti per la vacanza a Manchester.
La pagina del quaderno su cui era scritta presentava alcuni scarabocchi; il titolo del componimento era assente. Il testo in versi recitava così:
“Amore… Dici che possiamo amarci? Io fermo le tue labbra,
Chiudo gli occhi, ti do un peccaminoso bacio.
Amore… Possiamo amarci. Mordo la pelle sul tuo collo,
Chiudo gli occhi, ti do un peccaminoso bacio.
Non possiamo tornare, va bene.
Aspettando mezzanotte, beviamo del vino.
Amore… Stai dicendo che possiamo amarci. Sembra che impazzirò per la sete,
Chiudo gli occhi, ti do un peccaminoso bacio.
Il tuo profumo mi fa impazzire,
Camminando a mezzanotte, mi ubriaco della follia dell’amore.
Vieni qui, fra le mie braccia. “Lì l’oscurità è amara!”
Tu sei un’illusione tremolante.
Alla fine diventeremo eterni! “E’ dolce l’oscurità lì!”
Finalmente mi unirò a te.”
“E se fosse stato innamorato? Magari era stato deluso. No! La poesia doveva essere fittizia, come tutte le altre. Non resta che controllare il cellulare, allora. Se non dovessero esserci altri indizi il caso verrà semplicemente archiviato, con mio gran dispiacere.” Redson era rimasto piuttosto insoddisfatto dal contenuto di quel quaderno: si stava aspettando confessioni di una doppia vita, una vita immorale ed illegale; non c’era nulla di tutto ciò. Solo quelle noiose e ripetitive poesie.
Negli altri quaderni vi erano le stesse poesie, scritte con una grafia migliore, più chiara e curata, senza cancellature o scarabocchi. Nel terzo ed ultimo quaderno era presente una storia fantasy che narrava le peripezie di due giovani aristocratici in fuga verso la libertà, interrotto bruscamente dopo qualche pagina.
 

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Capitolo 4
*** Parte terza ***


Redson controllò l’orario: mezzogiorno era passato senza che nemmeno se ne rendesse conto. Era l’ora di andare. Avrebbe dovuto stendere una relazione per la Scientifica e per Jules. Uscì dalla cameretta di Ernest, chiuse la porta e tornò in cucina; lì si congedò dalla signora Wight, dicendole che forse sarebbe tornato nel pomeriggio, verso le tre.  Arrivato in salone, notò che il padre del ragazzo era uscito. Chiese ad un poliziotto perché fosse andato via: si era recato ad un’agenzia di pompe funebri per organizzare il funerale; un agente lo accompagnava.

L’investigatore si era appena avviato verso casa sua quando il cellulare squillò. Era Martha Finell. “Pronto, Martha!” rispose. “Ciao, Adam! Stasera sono al Re London Hotel, vicino a casa tua. Ti aspetto alle nove in punto. Camera 349.” La voce della donna era melliflua. “Ci vediamo.” Redson riattaccò senza pensarci e proseguì verso casa sua.
Dopo essere rincasato, preparò velocemente un piatto di carne di manzo ed insalata. Dopo averlo consumato si diresse nel suo studio e prese a scrivere il rapporto per la Scientifica. Finita la stesura, erano giunte le tre e mezza; lo inviò tramite mail al commissario, chiedendogli di inviarlo anche alla Scientifica e di tenersi in contatto con lui per qualsiasi scoperta circa le circostanze della morte e le condizioni del cadavere. Quel pomeriggio non sarebbe tornato a casa Wight: non c’era più nulla da cercare lì, almeno per il momento.
Prese dalla tasca il cellulare di Ernest. Senza perdere tempo aprì un’applicazione di messaggistica istantanea molto in voga tra i giovani; infatti, vi erano moltissime conversazioni. La prima cosa che saltò all’occhio di Redson fu che quasi tutte le persone con cui il ragazzo parlava erano donne. L’ultima conversazione era con una tale “Lady Lysbeth”. Quattro giorni prima del suicidio lei aveva scritto: ”Perché non mi rispondi da più di due giorni? Cos’è successo?” Scorrendo indietro la conversazione, notò che fino ad una settimana fa i due parlavano molto frequentemente. La ragazza era una compagna universitaria di Ernest, ogni giorno si incontravano per andare a lezione, ogni tanto studiavano insieme dopo l’università. Arrivato a circa due mesi prima del suicidio di Ernest alcuni messaggi colpirono Redson particolarmente.
“Mi dispiace che sia andata così.Davvero! Mi piaci tantissimo come persona…” scriveva Lady Lysbeth. “A me dispiace molto di più…A proposito, lo sa?” “Sa tutto, ma non ti preoccupare, non è successo nulla. Ora mi eviterai? Come funziona il fatto?” “Ci sto pensando, ma non voglio. Ora scusami ma devo andare. La metro è quasi arrivata. Ciao.”
Nel corso della conversazione Ernest si presentava come un giovane con scarsa autotima, molto negativo nel giudicarsi, mentre la ragazza non faceva altro che rispondergli che non era vero. Le uniche cose di cui egli sembrava essere fiero erano la sua intelligenza ed i suoi componimenti letterari. Sosteneva spesso che gli sarebbe piaciuto pubblicare i suoi lavori; l’unico problema, a suo avviso, era l’insufficienza delle sue poesie, numericamente parlando. Inoltre, affermava di star perdendo l’ispirazione a causa della ripetitività degli eventi della sua vita.
Redson era parecchio seccato dall’atteggiamento del ragazzo:” Uno di quei noiosissimi adolescenti che si vogliono atteggiare a letterati disadattati e che non combinano mai nulla. Una di quelle persone convinte che scrivendo del proprio disagio potrebbero cambiare il mondo, ma che, alla resa dei conti, sono portati a scrivere solo dalla passione e dalla frustrazione del momento. Non appena il momento brutto passa queste persone tornano a vivere normalmente, si adeguano alla realtà. Tuttavia, questa volta non è andata così. Ha deciso di non adeguarsi, che stupido!” Uscì a fumarsi una sigaretta immerso in questi pensieri. Il sole stava ormai tramontando. Decise che all’indomani avrebbe telefonato a Lady Lysbeth per incontrarla e parlarle: lei sicuramente non aveva idea di ciò che era successo ad Ernest. Glielo avrebbe detto, poi l’avrebbe interrogata circa quei messaggi che l’avevano incuriosito. L’idea del suicidio d’amore di stava facendo strada nella sua mente.

Mentre scriveva un rapporto riguardante la conversazione, arrivarono le otto e trenta. Dopo essersi lavato e preparato, si recò al Re London Hotel, a pochi minuti di cammino da casa sua. Chiese alla receptionist dove fosse la camera 349, “terzo piano, corridoio a destra, non può sbagliarsi, signore.” Arrivato davanti alla porta, bussò; la voce di squillante di Martha disse: “Adam?” “Sì, sono io.” La porta si aprì, la donna lo accolse con un abbraccio ed un bacio.
“Ne è passato di tempo, tenebroso detective!” scherzò Martha, portandosi indietro una ciocca di capelli castani. “Entra pure…” La stanza dell’albergo era piccola ma confortevole; il letto matrimoniale in legno era sfatto, il tavolino al centro della stanza era apparecchiato, Martha doveva aver chiamato il servizio in camera, sulla destra si trovava una porta che portava ai servizi della camera; la finestra, leggermente aperta, lasciava entrare un venticello fresco.
Redson gettò la giacca sul letto e si accomodò. Martha si sedette di fronte a lui ed appoggiò le braccia sul tavolo, guardandolo con espressione sognante. “Di cosa ti stai occupando, Adam?” esordì la donna. “Un caso di suicidio. Un ragazzo si è svenato. Letteralmente. I genitori non sanno nulla di loro figlio. Era un poeta.” Rise fragorosamente alla parola poeta, sottolineandone l’ironia. Martha sorrise e domandò: “E cosa hai scoperto?” “Forse era innamorato. Gli piaceva molto parlare con le ragazze. Ce n’era una con cui chattava ogni giorno.” “Ah, abbiamo un donnaiolo qui?” “No, non direi. Non ci sono allusioni a rapporti amorosi. Però, sembra che volesse qualcosa da quella ragazza, e non l’ha avuta…” “Vogliono tutti la stessa cosa!” “Ad ogni modo, Martha, perché sei qui?” “Sono di passaggio, ho un incontro a West Ham domani. Avevo pensato di incontrarti.”
Dopo alcuni minuti un cameriere bussò, portando un carrello con la cena, a base di pesce e verdure, il tutto accompagnato da champagne. Finito il pasto, Redson riprese la giacca e disse:” Devo andare, Martha. Grazie per la cena. A presto!” La donna, proprio sulla porta, lo prese per mano e lo dirò a sé, sussurrandogli all’orecchio: “E no no, caro mio. Stanotte resti qui!”
Adam rimase.

L’investigatore si svegliò di buon’ora; Martha dormiva ancora, erano le otto e trenta.  Si rivestì e scrisse un bigliettino: “Ti ringrazio ancora per la cena e per tutto il resto. Il lavoro mi attende. Fa’ in modo di star bene. Adam.” Fece colazione al bar dell’hotel, dopodichè si recò a casa sua. Subito controllò se ci fossero mail. Nulla.
Alle dieci in punto telefonò a Lady Lysbeth. “Pronto! Parlo con Lysbeth?” “Veramente mi chiamo Elisa…E lei è?” “Sono il detective Adam Redson. C’è una questione urgente di cui necessito parlarle. Dobbiamo incontrarci. Lei è libera per pranzo?” “Sì, ma di che si tratta?” “Riguarda il suo collega Ernest Wight. Le spiegherò dopo. Dove posso incontrarla?” “Venga a Camden Town. La aspetterò all’uscita della metropolitana.” La voce di Elisa suonava preoccupata: “In che guaio si è cacciato quello lì stavolta?” “Ogni cosa al suo tempo, signorina. Ci vediamo all’una in punto a Camden Town. Buona giornata.”
Redson era intendo a preparare le domande che avrebbe rivolto alla ragazza quando il telefono squillò di nuovo. Era Jules. “Buongiorno, ispettore Jules. Ci sono problemi?” “A dir la verità sì. Sembra che sarà necessaria l’autopsia per verificare ciò di cui lei ha bisogno. I genitori non sono ben disposti; ci metteremo del tempo per convincerli.” “Dannazione! Ma non sanno che è necessario? Sono loro ad aver chiesto il nostro intervento, ora non possono mica tirarsi indietro! Ad ogni modo, sto seguendo una buona pista. Oggi incontrerò una ragazza con cui il giovane era solito conversare.” “Ottimo, Redson, ottimo. Non mi deluda. Questa storia non mi piace molto. Prima la chiuderemo, meglio sarà! La lascio al suo lavoro, adesso. “La informerò quanto prima, nel caso in cui ci fossero novità. Buon lavoro anche a lei, commissario.”
Quando Redson uscì di casa pioveva a dirotto; fortunatamente, casa sua era vicina alla stazione. Dopo alcuni minuti di metropolitana giunse alla fermata di Camden Town. All’uscita una ragazza vestita con una lunga gonna multicolore ed un maglioncino verde scuro si muoveva avanti e indietro, in maniera irrequieta, brandendo un ombrello. A giudicare dall’immagine che aveva visto sul cellulare di Ernest, doveva essere Elisa. Si avvicinò a lei e chiese: “Lei è la signorina Elisa?” “Sì, sono io. Si può sapere che succede?” “Andiamo a pranzo, le spiegherò. Il resto lo spiegherà lei a me.”

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Capitolo 5
*** Parte quarta ***


Camden Road era come rinata nel periodo estivo: le strade quasi deserte, spesso popolate di individui poco raccomandabili, adesso si riempivano di turisti; i negozi, i ristoranti ed i pub brulicavano di clienti, così come bancarelle all’aperto. Le chiacchiere e le risate delle persone creavano un brusio gioioso molto insolito per quell’ambiente, noto per la propria desolazione.

Elisa condusse il detective in un ristorante cinese per il pranzo. Il locale, ricco di raffigurazioni tipiche, aveva pochi tavoli e stranamente non c’erano altri clienti in quel momento. Un cameriere si avvicinò ai due, porgendo dei menù e chiedendo con gentilezza le ordinazioni. Dopo che se ne fu andato, Elisa squadrò Redson, alquanto accigliata e domandò:” Allora, si può sapere perché mi ha chiamato? Cosa è successo?” “Mi duole informarla di ciò...Ma è accaduta una tragedia” il tono di voce dell’investigatore era pacato e non lasciava trasparire alcun dispiacere. “Il suo collega Ernest Wight si è suicidato, tra ieri ed avantieri.”
La ragazza si portò la mano alla bocca, come per soffocare un grido. I suoi occhi si chiusero per alcuni secondi. Nessuno dei due parlò, finché non giunse il cameriere che portava due piatti di riso alla cantonese ed i ravioli a vapore che avevano preso. Redson lo ringraziò. “Lei se lo aspettava?” Elisa lanciò un’occhiataccia all’investigatore “Ma questo qui come fa a stare così tranquillo?” si ritrovò a pensare. “In verità, era l’ultima cosa che mi sarei aspettata.” “Capisco, e che rapporto aveva lei con Ernest? Che tipo di persona era?” Tra un boccone l’altro, provò a spiegare:”Ecco...Beh, direi che avevamo un rapporto particolare, in un certo senso. Mi considerava la sua... musa ispiratrice. Mi diceva continuamente che ero una persona fantastica. Se devo essere sincera, penso che nutrisse un sentimento...Puro...nei miei confronti.” Si interruppe per schiarirsi la voce e per bere un bicchiere d’acqua. “Era sempre così garbato, mai fuori posto. Cercava di mettermi sempre a mio agio, in qualsiasi circostanza. Non mi avrebbe mai fatto del male, né io mai ne avrei fatto a lui! Ed ora...No..Lei sta scherzando?” Redson scosse la testa. “Capisco, capisco...Ed eravate ancora in ottimi rapporti, da quanto ho potuto constatare. Ad ogni modo...” le disse tirando fuori il cellulare di Ernest dalla tasca della giacca. “In un certo punto della conversazione il ragazzo manifestava il proprio disappunto nei suoi confronti, e si chiedeva se una persona sapesse qualcosa a riguardo. Sto parlando di alcuni messaggi che risalgono a circa due mesi fa. Me ne parli, per favore.”

Elisa trasalì alla vista del cellulare. Gli ricordò proprio quel giorno: era l’inizio della sessione estiva degli esami.
Lei ed Ernest non si conoscevano da molto tempo, ma già frequentavano insieme tutte le lezioni: si era affezionato velocemente a lei. Quella mattina, come al solito, aveva incontrato il suo collega all’entrata dell’università, mentre stava fumando una sigaretta. Il giorno ancora precedente le aveva detto:” Senti, Elisa, c’è qualcosa che domani vorrei dirti.” Non appena si incontrarono, lei chiese cosa dovesse dirgli, e lui rispose, con aria indifferente:” Non ricordo…Nulla di importante, ad ogni modo.” Così, si erano recati normalmente a frequentare il corso di psicologia dei rapporti sociali. Verso la fine della lezione, tuttavia, Ernest le aveva sussurrato:” Ho ricordato. Te ne parlerò mentre usciamo.” I due erano usciti dall’università per dirigersi alla fermata dell’autobus. Durante il tragitto, lei chiese:” Allora, cosa c’è?” Una pioggia lieve ma pungente iniziò a scendere in quell’esatto momento. Ernest rise, ed ironizzò:” Lo sapevo! Questo è un segno! Ho già fallito!” “Di cosa parli?” “Eh. Non sono mai stato bravo in queste cose, anzi, ti dirò, è la prima volta!” “Avanti!” Ernest si era fermato di colpo e le aveva tirato il braccio per farla fermare.  “Ecco...Diciamo che...Io potrei essere interessato a te!” Il ragazzo era scoppiato in una risata, saltò, agitando un braccio in aria, ed aveva urlato:” Sì! Sì! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta, dannazione! Andrà tutto male, ma ce l’ho fatta!” “Mi dispiace, ma penso che la risposta potrebbe non farti piacere…” Ernest aveva alzato lo sguardo e schioccato lle dita, come se avesse capito tutto. “Tu…Sei fidanzata!” Ernest rise. Anche lei rise. Entrambi avevano riso insieme per alcuni molto tempo. Poco dopo avevano ripreso a camminare insieme. “Quindi…Davvero?” “Sì.” “Perché non lo sa nessuno?” “Perché...Il mio ragazzo è arabo. Purtroppo nella mia famiglia i pregiudizi sono molto diffusi…” “Capisco…Mi dispiace…” Poi Ernest prese a cercare il cellulare nelle tasche della sua felpa. Non c’era. Poi nei pantaloni, nello zaino: era visibilmente molto agitato, affrettandosi a tornare all’università, aveva detto:” Questo potrebbe essere il peggior giorno della mia vita. Se perdo il cellulare sono morto.” Ernest se ne andrò. Rimase sola. Aveva pensato che non sarebbe tornato mai più, a dire il vero: forse era troppo per lui. Inziò a fare avanti e indietro, colta da pensieri tetri:” Povero Ernest” pensava “Perché gli è toccato tutto ciò? Dopotutto, è stato così coraggioso! Ma perché con me? Non ci conoscevamo nemmeno tanto. Devo riscattarmi in qualche modo. Vorrei poterlo aiutare. Non lo abbandonerò. Non se lo merita!” E aspettò lì, imperterrita, il ritorno del ragazzo.  La gioia fu impagabile, quando, pochi minuti dopo, Ernest tornò trionfante, col cellulare in mano, andandole incontro. “Grazie al cielo!”
Continuarono a parlare ancora per lungo tempo. Ernest le aveva spiegato come fosse stato difficile per lui riuscire a confessarle i propri sentimenti. Le aveva raccontato che prima di lei c’era stata un’altra ragazza, sempre conosciuta in università, che l’aveva trattato malissimo, come se fosse non avesse avuto dignità. Era così giù, che, da quel momento, aveva pensato che non sarebbe mai più riuscito a rivolgere la parola ad altre ragazze. La questione fra i due era rimasta ancora in sospeso, ma Ernest avrebbe voluto risolverla, in qualche modo. Si sentiva chiaramente oltraggiato nella propria dignità: affermava che quella ragazza l’avesse rovinato.

Elisa riferì a Redson tutto quanto, cercando di essere molto dettagliata, mentre il ciò che diceva veniva annotato scrupolosamente. Alla fine, domandò:” Signor Redson, lei pensa che sia colpa mia? Da quel momento in poi, Ernest mi sembrò sempre tranquillo, anzi…Non era nemmeno giù di morale, ed io gli stavo sempre accanto…”  Il detective la interruppe, e disse:” Si calmi, signorina, non è colpa sua! Piuttosto, sa dirmi il nome della ragazza di cui mi ha parlato?” “Ecco, sì, mi faccia ricordare…Si chiama Roxanne Truffaut, se non ricordo male.” “Va bene…La ringrazio, penso che non sia necessario che le domandi altro, almeno per ora Faccia comunque in modo di essere reperibile.”
Finirono di pranzare abbastanza celermente, e, pagato il conto, Redson si congedò da Elisa, avviandosi verso la stazione metropolitana.
 

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Capitolo 6
*** Parte quinta ***


“Tempo perso!” Redson era frustrato. “Ore buttate via, praticamente! E non si è nemmeno ammazzato per questa qui!” Tornò a casa e subito andò a fumarsi una sigaretta. Diede un’occhiata a Bethnal Street: la gente passava ignara, i turisti si accalcavano per prendere i treni ed andare in centro, magari a bere, a divertirsi.
E lui, il detective Adam Redson, era lì! Costretto ad indagare in un caso di suicidio, che solo inizialmente si era rivelato interessante, ma ora, stava risultando estremamente stucchevole.  “Forse non avrei dovuto accettarlo! Mi ha già seccato! Perché si è ammazzato proprio qui? Perché è toccato proprio a me?” Avrebbe voluto indagare su altro: quei casi di killer seriali tipici delle serie TV, magari, sì; quegli omicidi per problemi legati alla droga; quei pericolosi ed eccitanti pestaggi che avvenivano fra membri della criminalità organizzata. Era questo ciò che si aspettava quando aveva deciso di intraprendere la strada dell’investigazione; di certo non pensava che si sarebbe trovato ad inseguire le ragazze di cui un giovane depresso si era invaghito.

“Martha dopotutto ha ragione!” pensò “Vogliono tutti la stessa cosa. Ma… Perché? Non aveva senso ammazzarsi… Eppure…” Il detective tornò dentro: si stava ormai facendo sera. Cenò e si recò nel suo studio. Jules gli aveva inviato un’e-mail. Aveva scritto che erano finalmente riusciti a convincere i genitori del morto ad eseguire l’autopsia e che l’indomani avrebbero ottenuto i risultati dell’analisi.  Redson ringraziò l’ispettore ed iniziò a redarre il resoconto dell’incontro con Elisa, marcando il fatto che, nonostante il suo impegno, non fosse riuscito ad ottenere alcuna informazione davvero rilevante, se non il nome di un’altra ragazza. Era punto e a capo. Forse avrebbe dovuto incontrare molte altre persone prima di giungere ad una conclusione plausibile e sensata circa le ragioni della morte di Ernest Wight. Inviata la mail, andò a dormire, nonostante fosse abbastanza preso: avrebbe iniziato a lavorare subito il giorno dopo.

Redson si era svegliato da pochi minuti quando ricevette una chiamata dalla stazione di polizia di Bethnal Green, pensò che avessero scoperto qualcosa di rilevante durante l’autopsia. Rispose:” Qui Redson!” “Signor Redson, qui in centrale c’è una ragazza che dice di essere preoccupata per le condizioni di Ernest Wight. Evidentemente non sa cose è successo. Per favore, si sbrighi!” “Arrivo!”. In pochi minuti, arrivò alla centrale. A quell’ora all’interno non c’era nessuno. Oltrepassò velocemente l’ingresso, e si diresse nella sala d’aspetto, dove la ragazza e l’agente che l’aveva telefonato dovevano essere ad attenderlo. Entrato in sala, infatti, un poliziotto era lì, con una ragazza. La guardò: i capelli neri tutti disordinati, gli occhi grigi e lucidi lasciavano trasparire una certa agonia, il viso era rigato di lacrime, le guance ed il naso rossi. Si stava continuamente mordendo le labbra. L’agente, visto Redson, lo salutò con un cenno e disse: “Io torno in ufficio. Buon lavoro.” E se ne andò.

Non appena ebbe lasciato la stanza, la ragazza si avventò verso Redson e gli urlò contro, piangendo:” Si è ucciso? Si è ucciso? Io sono venuta qui perché ero preoccupata per lui! E si è ucciso! Ingrato, stupido!” “Stia calma, tanto per incominciare. Non siamo a scuola di teatro. Questa è una stazione di polizia! Lei si chiama?” “Roxanne Truffaut, sono una compagna di corso di Ernest. Redson la guardò con aria interrogativa:” Mi spieghi il motivo della sua preoccupazione, allora.” “Ecco… Quasi una settimana fa, Ernest ed io ci siamo incontrati ed abbiamo avuto un litigio, al termine del quale è corso via. Mi ha detto che avrebbe fatto qualcosa di folle…Ed è morto! Morto, capisce?!” La ragazza porse le mani al detective, come se volesse farsi ammanettare, ed aggiunse:” Sono stata io! La colpa è mia! Io l’ho ucciso!” Redson tossì. “Signorina Truffaut, la prego! Io l’avrei chiamata proprio stamattina per parlarle ed interrogarla circa il suo rapporto con Wight. Quindi, per favore, con molta calma, mi racconti della sua relazione col ragazzo…” Roxanne respirò profondamente, per provare a tranquillizzarsi, ed iniziò:” Lo conobbi ad Ottobre dell’anno passato. Entrammo in confidenza da subito: era abbastanza freddo e cupo, ma mi dava molte attenzioni. Dopo alcuni mesi capii che si era preso una cotta per me- non che io fossi una persona degna di alcuna attenzione da parte sua, per carità. E così, il giorno dell’equinozio di primavera, mi invitò ad uscire con lui...” La ragazza si interruppe e scoppiò in un fragoroso pianto. “Ed è tutta colpa mia! Gli ho mentito!” Molto seccato, Redson la spronò ancora a continuare:” Va bene, va bene! E cosa accadde poi?” Io… Gli dissi di sì, ma poi… Beh, non mi piaceva, era così freddo, così distaccato, ripetitivo, talvolta... E alla fine, nonostante la sua insistenza, non gli risposi più. Lo vede che è colpa mia, signor detective? E da quel momento non parlammo più, finchè, sei giorni fa, ci incontrammo per caso a Leicester Square, mentre stavo facendo shopping.” “Mi racconti gli avvenimenti di quella giornata…”

Roxanne aveva incontrato Ernest in un negozio di manga, mentre cercava un regalo per il compleanno di una sua amica. Dopo averla salutata con un sorriso smagliante e terminato gli acquisti, le aveva chiesto di andare a farsi un giro con lui. Non avendo scuse per andar via, era stata costretta ad accettare. Subito, e senza giri di parole, Ernest le aveva chiesto perché non avesse più risposto al suo invito di alcuni mesi prima. “Ho dimenticato” aveva detto lei, cercando di essere quanto più evasiva possibile. Ernest l’aveva guardata molto contrariato, anche se continuava a sorridere: “Eh… Ma tu studi psicologia! Sai benissimo che zio Sigmund affermava che noi non dimentichiamo le cose per caso. Ci deve essere una motivazione, cara mia!” La ragazza iniziò a pensare che avesse già programmato tutto ciò che lei avrebbe detto ed annuì. “Andiamo in un cafè, Roxanne, ti pago la colazione, su!”

Inizialmente aveva rifiutato, ma il ragazzo stava insisendo così tanto da costringerla ad andare con lui. Avevano preso un tavolino a Starbucks lì vicino. Dopo essersi accomodati, Ernest le aveva chiesto:” Allora, perché hai dimenticato?” “Forse… Perché… Oh… Non lo so per certo! Dovrai dirmelo tu!” Ci fu un sospiro da parte del ragazzo. “Avanti… Pensi che ti avrei detto qualcosa di spiacevole?” “Beh, non esattamente spiacevole…” “E cosa, allora?” Roxanne non sapeva cosa dire. Tacque. Allora, aveva proseguito Ernest:” Ma è ovvio!” alzò la voce “Io, Ernest Wight, mi sono innamorato di te! Oh, quale triste destino ti è toccato, oh, povera sciagurata! Immagino che ora mi dirai che non ne avevi idea!” Alcuni clienti si erano voltati per lanciare delle occhiate torve al ragazzo, che si era alzato e stava girando intorno al suo tavolo. Roxanne, sconvolta da quanto aveva sentito-Ernest, infatti, più e più volte le aveva detto delle sue difficoltà ad approcciarsi con le ragazze- prese coraggio ed ammise la sua verità:” No, ecco, io lo sapevo. Lo sapevo da sempre. Ma sai, purtroppo, queste cose non sono sempre corrisposte, non vanno sempre come vuoi tu… Ed io, non volevo arrecarti la tristezza di un rifiuto! Ti ho sempre visto come una persona molto sensibile, mai avrei potuto prevedere la tua reazione… Così ho deciso di non farti sapere più nulla, di ignorarti.” Dopo aver bevuto un sorso al suo caffè americano, aveva concluso il suo pensiero, aggiungendo:” A volte, la gente merita più della verità.” Sentito ciò, Ernest si era fermato e l’aveva squadrata, si era seduto ed aveva sorriso, con aria innocente:” Ah, capisco!” Aveva iniziato ad applaudire ed alzata nuovamente la voce, disse:” Signore e signori! Avete sentito, vero? Oggi, in questo Starbucks è stato formulato un aforisma degno di Oscar Wilde! Incidete a caratteri d’oro nelle vostre abitazioni:” A volte, la gente si merità più della verità!” e sarete tutti più saggi. Come avete fatto a non pensarci prima?” “Smettila, imbecille! Hai idea del casino che stai facendo?” In seguito, Ernest si era calmato. “Va bene, va bene. E quindi… La tua immeritata verità è che non sono degno nemmeno di un rifiuto?” “No! Solo che non volevo offenderti!” “Oh, già, che grave offesa! Ma sarebbe stato un rifiuto come altri! Pensavi che mi sarei ammazzato! Per te?” 

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Capitolo 7
*** Parte sesta ***


 “Dunque... Mi disse che per lui sarebbe stato fondamentale riuscire a dichiarare i propri sentimenti. Perché dopo la sua “prima fiamma” aveva perso ogni speranza. Aveva deciso che con me sarebbe arrivato fino in fondo. Io glielo ho impedito. Ed è stato un colpo alla sua dignità. Me ne pento, me ne pento. Avrei voluto chiedergli scusa. Infine, mi disse che grazie ad un’altra, tale Lysbeth, aveva trovato il coraggio di parlarmi, di essere onesto e anche molto duro, forse crudele nei miei confronti. Mi spiegò che grazie a lei era tornato a vivere pienamente. Ad essere una persona più pratica…”

Un’altra ragazza?! Pensò Redson “Ma qui non se ne può più! E’ assurdo! È dannatamente assurdo!” Annuì ed interruppe Roxanne: “Grazie tante… Lei sa come si chiama questa “prima fiamma” di Ernest?” “Mh… Sì, sì, ne parlava abbastanza, è una studentessa delle superiori, si chiama Jane Whitehill… Sì, è proprio lei!”

Redson segnò il nome in fondo agli appunti e lo sottolineò svariate volte, dicendo a se stesso: “Il suo primo amore… Che sia la fine di questa mia inutile Odissea?” “La ringrazio davvero, signorina Truffaut, ora è libera di andare.” La giovane si alzò, visibilmente più calma: “Non mi farete nulla, davvero?” Redson fece cenno di sì con la testa. “Allora le auguro buon lavoro, mi scusi per essere stata così… Irrequieta, ma io ho problemi a gestire l’ansia… Poi… Dopo una notizia del genere, io…” Redson, con tono serio, ma con intenzioni ironiche la fermò: “Le consiglio di andare da uno psicologo! Buona giornata.”

Roxanne si affrettò a lasciare la stazione di polizia. Redson si fermò in centrale ed utilizzò uno dei computer per stendere il resoconto circa l’incontro di quella mattina. Questa volta enfatizzò la sua speranza di essere arrivato alla fine, all’anello iniziale di quella catena di ragazze, l’origine del caso. Forse il giorno stesso sarebbe riuscito a concludere il tutto. Riferì ad un agente che il file degli avvenimenti di quella mattina era stato scritto su quel computer e se ne andò.

Tornando a casa per il pranzo, pensava che avrebbe potuto incontrare Martha, magari lei avrebbe saputo rincuorarlo, avrebbe potuto fargli sfogare la sua frustrazione. Così, le telefonò. “Ciao, Martha!” le disse “Ehilà, caro mio… Come mai mi chiami così presto?” “Mi chiedevo se oggi volessi essere mia ospite.” Alcuni attimi di silenzio. “Mi dispiace, davvero, Adam. In questi giorni sono carica di lavoro ed altri impegni… Ti chiamo io non appena mi libero, promesso!” Il rumore dello schiocco di un bacio risonò nel microfono del cellulare. “Ci si sente…” Rispose Redson un po’ sconsolato, riattaccando.

“Questa non ci voleva!” si disse Redson “Avevo proprio bisogno della sua compagnia… Quando vuole lei è così disponibile… E se per caso avessi qualche obiezione, mai che regga! Già, lei è la donna!” Lei ha in mano le redini del gioco e non ci possiamo far nulla. Quel Wight! Ecco! Ha provato ad opporsi a ciò… E com’è finito male! Ridicolo! Ah, non aveva capito come funziona il mondo… Bah!”

Una volta rincasato l’investigatore pranzò con calma. Alle tre in punto, dopo aver cercato sul cellulare di Ernest il numero di Jane Whitehill, le telefonò. Dopo alcuni squilli rispose: “Chi è?” “Buongiorno, sono Adam Redson, investigatore del distretto di Bethnal Green. La sto chiamando perché c’è bisogno di una sua deposizione sul caso Wight.” “Che? E’ venuto da voi? Impossibile! Vi raggiungo tra mezz’ora, sarò alla stazione metropolitana! A presto!” “A dopo!”

Trenta minuti dopo si incontrarono. La ragazza non sembrava affatto scossa, al contrario, era piuttosto allegra. Strinse la mano a Redson e si presentò: “Piacere di conoscerla, signor Redson! Io sono Jane Whitehille” Come sta Ernest? “Veramente…” “Immagino che non se la stia passando molto bene…” “Signorina… Lei forse non sa quel che è accaduto…” La giovane guardò Redson sorpresa: “Che è successo?” “Ernest Wight si è tolto la vita alcuni giorni fa!” “Non ci posso credere… O meglio… No!” “Adesso andiamo alla stazione di polizia, continueremo a parlare lì.”

I due giunsero in centrale e si accomodarono in una stanza vuota. Redson prese a sedere dietro una scrivania, Jane si sedette di fronte a lui. Il detective iniziò ad interrogarla: “Dunque… Mi sembra che lei conosca abbastanza bene il giovane Wight! Mi racconti, avanti!” “Ecco, ci conosciamo da tre anni ormai. Con me è sempre stato sgarbato, scortese, nonostante dicesse di amarmi… Una brutta persona; pieno di sé, violento, tutt’altro che raffinato e romantico, dall’inizio alla fine… “Questo non corrisponde affatto a quanto mi è stato detto fino ad ora… E’ sicura di quel che dice?” “Assolutamente sì! Ma quattro giorni fa ha esagerato…” “E’ morto quattro giorni fa…” “Oh… Allora… Deve essere stato poco dopo il nostro incontro… Capisco…” Con una certa apprensione, la ragazza iniziò a narrare gli eventi circa il suo ultimo incontro con Ernest Wight.

Di mattina Ernest le telefonò da casa sua e la invitò ad andare da lui quella sera: c’era qualcosa di cui assolutamente doveva parlarle, sembrava molto entusiasta. Lei accettò, dopotutto, non aveva meglio di niente da fare quella sera ed incontrare un suo vecchio conoscente sicuramente non poteva nuocerle. Forse avrebbero riallacciato i rapporti, avrebbero fatto pace dopo tutto il tempo-quasi un anno–in cui non si erano parlati.

Alle ore otto di sera lei si presentò davanti al cancelletto della casa dei Wight. Ernest la accolse con un abbraccio: “Quanto tempo! Come stai, Jane?” Le sembrava che fosse diverso dal solito: in genere non l’avrebbe mai abbracciata, tantomeno l’avrebbe fatto dopo tutto quel tempo. “Sto bene… E tu, piuttosto?” le rispose lei, entrando a casa sua. “Non c’è male, seguimi in cucina, Jane. Ho preparato la cena!” Non aspettandosi una cosa del genere, gli domandò: “Ma siamo soli?” “Sì, sì, i miei genitori sono andati a Manchester, ma torneranno domani.” “Ah, capisco… Per fortuna non abito troppo lontano da qui e non sarà un problema a casa.” “Meglio così!”

Era tutto troppo strano. Ernest non era più la persona che conosceva; questo Ernest era gentile, dolce, affettuoso e premuroso. Ma che diavolo era successo durante quell’anno?

I due entrarono in cucina. L’odore di carne e patate impregnava la stanza. Diede un’occhiata ad Ernest. Era vestito in maniera estremamente elegante, per essere in casa: un completo di giacca e pantaloni grigi e rigati, una camicia in seta bianca da sotto, persino le scarpe erano abbinate al tutto. Sembrava che dovesse andare ad una cena di gala. Il tavolo era apparecchiato con cura, come ai ristoranti: vi erano svariate posate, piatti e bicchieri, una bottiglia di vino stappata al centro. Sotto la bottiglia vi era un foglio bianco, piegato in quattro parti. Si sedettero. “Come mai tutto questo?” “Beh, volevo mostrarti una cosa… Ti ricordi com’ero? Sono cambiato!” Le sorrise: “Sono una persona nuova!” Lei sorrise al sorriso con un risolino e disse: “Sono contenta! Hai capito come ci si comporta?” Ernest annuì, dopodiché, prese il bicchiere della ragazza e la bottiglia. Fece per versarle del vino, ma il bicchiere stava per sfuggirgli ed infrangersi a terra. Fortunatamente lo prese al volo. “Oh, dannazione.” Le versò il vino con calma, dopodiché le porse il bicchiere. Fece la stessa cosa con il suo. Andò a prendere lo spezzatino di manzo dal forno e servì i piatti. Brindò: “Alla nostra amicizia rinata!” “Alla nostra amicizia!” Ed entrambi bevvero il vino in un solo sorso.

Ciò che Jane ricordava dei momenti poco successivi era che il tempo sembrò rallentarsi. Aveva mangiato i pezzi di carne e le patate molto lentamente. Ernest la stava fissando, insistentemente. Le palpebre si stavano facendo sempre più pesanti. Faticava a portarsi la forchetta alla bocca. Non riusciva a sostenere il peso della propria testa. Appoggiò i gomiti al tavolo e provò a reggersi la testa sulle nocche. Voleva andare in bagno a sciacquarsi il volto, ma non riusciva ad alzarsi per le gambe indolenzite. “Ernest…” chiese “dov’è il bagno?” Il giovane si alzò per farle strada:"Seguimi, Jane..." disse a bassa voce, quasi impercettibilmente. I suoi occhi si chiusero.

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Capitolo 8
*** Parte settima ***


Jane non sapeva quanto tempo fosse passato quando riprese conoscenza. Sbatté le palpebre alcune volte ed aprì gli occhi una volta per tutte. Sentì la mano bollente di Ernest toccarle la guancia. E non erano più in cucina Senza dire una parola, provò ad alzarsi. “Ma cosa?” Non riusciva a muovere le braccia, era legata.  Agitò le gambe freneticamente ed urlò: “Ma sei impazzito? Sei impazzito?! Aiuto! Polizia! Mi stuprano! Aiuto!” Ernest le tappò la bocca finché non le mancò il respiro. Dopo alcuni istanti boccheggiò. Era distesa su un letto matrimoniale, il ragazzo stava seduto davanti a lei. Le sua mani erano legate alla spalliera con delle cinture di cuoio. Provò a divincolarsi, ma erano troppo strette; inoltre, i suoi muscoli erano ancora indolenziti per il sonnifero. Iniziò a scalciare sempre più violentemente, ma Ernest sedette sulle sue gambe e la fermò. “Fermati! Maniaco! Pezzo di merda!” urlò disperata. Stava sudando freddo per il terrore, il suo cuore batteva ad un ritmo pazzesco, i polsi le pulsavano fortissimo per l’agitazione: l’idea che si stava aprendo un varco nella sua mente la fece impazzire. Non ci credeva. Era impossibile che Ernest si macchiasse di un crimine tale: non ne avrebbe mai avuto il coraggio, ma soprattutto, non pensava che fosse così vile. Sperò di trovarsi in un incubo, uno di quelli che sembrano reali anche dopo il risveglio. Ernest interruppe i suoi pensieri poggiando il dorso della mano sulla fronte, dicendole con calma: “Se ora ascolterai quel che ho da dirti e smetterai di gridare, non ti farò del male, Jane…” “Liberami! Ti faccio sbattere dentro! Ti farò rimpiangere di essere nato!” Ernest le sorrise: “No, no…Ora tu sei in trappola, sei mia. Se io volessi, tu potresti non uscire da questa casa mai più.” Si sporse nel letto e prese un lungo coltello da cucina dal comodino che si trovava accanto al letto. Urlò di terrore di nuovo. Sentì il freddo dell’acciaio del coltello toccarle la gola. “Silenzio, ti prego! Non voglio farti del male!” Tacque. “Parliamo…” Jane provò a tranquillizzarsi, per quanto fosse possibile in quella situazione disperata. “Ma devo essere legata necessariamente?” Ernest annuì, senza aggiungere nulla. “Cosa vuoi? Vuoi distruggermi? Vuoi violentarmi?” “In verità, vorrei raccontarti la mia storia… Soprattutto, vorrei raccontarti del perché, ora, io sto facendo questo…”

Raccolse la bottiglia di vino da terra e fece un sorso molto lungo. Probabilmente era già ubriaco. “Mi fai paura… Ti prego, liberami…” “Non se ne parla! Ora, ti prego di ascoltarmi in silenzio.” Posò il coltello sul comodino. “Quando ti ho conosciuto ero cattivo. Irrispettoso, facevo pena, non avevo idea di cosa fosse l’affetto, di cose fosse il… Romanticismo. Poi dopo che tu mi hai detto che non ero degno… Ho cambiato vita… Ho studiato, ho letto imparato la via del Romanticismo! Sentivo che era questo l’unico modo per essere amato. Forse io non sono come tutti gli altri? Non ho forse il diritto e la necessità di amare ed essere amato?” “Certo che tu hai questi diritti…” intervenne Jane, interrompendo il discorso. “ma non è certo in questo modo che…” “Zitta! Zitta!” Le sbraitò contro Ernest. “Dopo aver passato più di un anno a comprendere l’amore e le sue dinamiche… Pensai di essere pronto… Finalmente avrei trovato l’amore, l’amore ideale, romantico! Quello che ti coinvolge in un turbine infinito di piacere e passione… Così, incontrai una ragazza… Mi innamorai di lei… Era molto colta, molto raffinata, ma lei… Mi odiava, mi disprezzava, non mi ha mai sopportato. Si è divertita a giocare con me, ad offendere i miei sentimenti, per mesi e mesi, non mi ha nemmeno permesso di confessarle i miei sentimenti. E pensare che ero io quello che all’inizio era spaventato… Lei aveva paura di me… Capisci Jane? Le facevo senso…” “Probabilmente aveva ragione ad aver paura di te!” Le parole sprezzanti do Jane furono seguite dal sonoro rumore di uno schiaffo. “Grazie tante, dolcezza… Ora, taci e non interrompermi più! Dopo questa… ne venne un’altra… E nulla, ancora nulla di fatto… Nonostante la poesia, nonostante l’impegno, nonostante il mio amore! Te ne rendi conto?! Sono solo e solo rimarrò. E’ così che ho realizzato che è tutto inutile! Il romanticismo, l’amore… Che falsità! Che miseri ideali… Ho gettato via due anni della mia vita per cose così inutili! Tutti dovrebbero ridere di me! Ed eccoci arrivati a questo punto, Jane!” “Si interruppe e bevve un altro sorso di vino. “Tu mi fai questo… Perché?” “Ma non è ovvio? Se ho sprecato così tanto tempo è perché sei stata tu ad instillarmi quelle cose nel cervello… Ora… Devi riscattarti! Ho scritto una poesia.. Leggiamola…”
Prese da terra un foglio pieghettato e lo aprì, dopodiché, iniziò a recitare, con tono solenne:
“Amore… Dici che possiamo amarci?” Ernest avvicinò le sue labbra a quelle di lei. “Che diavolo vuoi fare?”
“Io fermo le tue labbra, ti do un peccaminoso bacio." “Stai per…” Non fece in tempo a finire la frase che Ernest l’aveva baciata. Ritrasse le labbra e trattenne il respiro, non gli avrebbe dato la soddisfazione di un bacio. Ma subito le sue mani si fiondarono sulla sua faccia e la costrinsero a cedere. La baciò per alcuni secondi. “Mi avevi detto che non mi avresti fatto nulla… Stupratore!” Jane le urlò contro, piangendo, ma il giovane continuò la sua interpretazione, impassibile:
“Amore… Possiamo amarci.” “Smettila, smettila!” Il peso del corpo di Ernest sulle sue gambe le impediva qualsiasi movimento. “Mordo la pelle sul tuo collo” proseguì, bloccandole la testa e tirando un morso sul suo collo. Dopodiché, dicendo :“Chiudo gli occhi, ti do un peccaminoso bacio.” La baciò nuovamente, ancora più a lungo. Il suo alito puzzava di alcol. “Fermati! Anzi… No! Ammazzami, ammazzami!"
La ignorò.“Non possiamo tornare, va bene.Aspettando mezzanotte, beviamo del vino.” Ernest bevve un sorso dalla bottiglia. Trascurando il fatto che la ragazza avesse sigillato la bocca, le versò del vino sul volto. La bevanda fredda scorreva lungo il suo collo ed arrivò a bagnarle i capelli lunghi. “Tu sei completamente pazzo! Basta!”
“Amore , stai dicendo che possiamo amarci. Sembra che impazzirò per la sete.” Bevve ancora.
“Chiudo gli occhi, ti do un peccaminoso bacio.” E la baciò, ancora una volta: ogni tentativo di resistenza era inutile. Jane stava pensando come fosse possibile che stesse facendo quelle cose in maniera così spontanea, senza mostrare titubanza, alcun rimorso, mantenendo una calma tale; doveva essere impazzito veramente.
“Il tuo profumo mi fa impazzire.” Ernest proseguì imperterrito nonostante gli strilli, alzando leggermente il tono di voce.
“Camminando a mezzanotte, mi ubriaco della follia dell’amore.” Dopo un ultimo, lungo sorso gettò per terra la bottiglia vuota, che non si infranse.” Si avventò su di lei e la cinse fra le sue braccia, sussurrandole:
“Vieni qui, fra le mie braccia.” Jane sentì il respiro affannoso di Ernest. Poi Ernest tirò fuori qualcosa dalla sua giacca. Era una benda. Gliela infilò, ancora sordo dalle sue imprecazioni ed alle sue preghiere, dicendo:
“Vieni qui, fra le mia braccia. L’oscurità lì e amara.” “Toglimela! Fermati, che fai?” Jane provava a divincolarsi con tutta la forza che aveva in corpo.
“Tu sei un’illusione tremolante.” “Basta! Basta! Uccidimi!” Le lacrime scorrevano abbondanti lungo le guance di Jane. Sentì le mani di Ernest scivolarle lungo i fianchi, giù, giù, fino ai pantaloni, glieli sbottono, noncurante delle sue grida:
“Alla fine diventeremo eterni! E’ dolce l’oscurità lì!” Il giovane premette il suo ginocchio tra le gambe di Jane, dopodiché  anche Ernest tirò giù i pantaloni e le avvolse le gambe con le sue.
“Finalmente mi unirò a te.” Le dita di Ernest armeggiavano con la sua biancheria intima. Stava per farlo.

“No!” Ernest urlò. Jane urlò. “Non posso… A chi voglio darla a bere?”

Nota per coloro che sono arrivati a leggere fino a questo punto: miei cari lettori, spero che la storia vi stia piacendo. Ormai siamo alle battute finali. Dovrei riuscire a concludere tutto a breve. Ovviamente, come al solito, sarei lietissimo se qualcuno di voi mi recensisse il lavoro, sottolineando i miei errori. ^_^ Buona lettura. 

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Capitolo 9
*** Parte ottava ***


Si fermò. “No…Non posso! Non posso diventare uno stupratore…Non ne ho il coraggio!” Il ragazzo scoppiò in un pianto di lacrime amare, si gettò sul letto accanto a Jane e l’abbracciò, teneramente. “Che cosa ho combinato…” “Stammi lontano!” le gridò contro Jane, piangendo e gemendo a sua volta. “Non penserai mica di passarla liscia dopo tutto questo?” Ernest mollò la presa e si rannicchiò. “Non so che dirti…Adesso…Penso che per me sia la fine…Non potrò più vivere! Te ne rendi conto?” Jane, trionfante, sussurrò:” Se la scelta spettasse a me, ora ti sbatterei in cella e butterei via la chiave. Sei un mostro!” “Lo so…Lo so...Non merito nulla, non merito nemmeno la vita…” Dopo alcuni secondi di silenzio ed immobilità assoluti, Ernest rivestì Jane e le tolse la benda.  La ragazza, ironicamente, lo ringraziò. “Se non ti dispiace, adesso, dovresti anche slegarmi!” Ernest la guardò e disse:” Ascoltami, ormai io non potrò più avere una vita normale…Non dopo questa storia…Forse è tanto, troppo, ma devo chiedertelo…Potresti avere pietà di me?” La ragazza non si fece alcuno scrupolo a ridere in faccia a lui, dopodichè rispose:” Mio caro Ernest, forse non ti sei accorto di quel che hai fatto. Mi hai drogata! Mi hai legata! Mi hai quasi stuprata, mi hai minacciato di morte…In che modo io potrei aver pietà di te e non dirlo a nessuno?” “Beh…Questo è stato un errore madornale! Ero disperato! Ora lo sono ancora di più…Non so se potrei ancora guardarmi allo specchio dopo tutto ciò…” “No che non potresti...” “Tuttavia, almeno devi riconoscermi una cosa… Mi sono fermato… Non ti ho fatto nulla…Ora sto per lasciarti andare… Lo farò in ogni caso, anche nel caso in cui tu decidessi di…” Jane rise ancora. “Ci penserò, ci penserò… Ma ora, te ne prego, lasciami andare…” Ernest trasalì: “Aspetta alcuni minuti, prima devo ripulire tutto a casa. Non voglio lasciar traccia di quel che è successo stasera.”
Il giovane si alzò e raccolse la bottiglia vuota. In seguito, stette via per un po’ di tempo. Non sapeva dire quanti minuti fossero passati quando tornò, barcollante. “Bene… Adesso io ti lascerò andare. Però, davvero, prima di fare qualsiasi cosa contro di me pensaci…Non voglio infangare la memoria che tutti hanno di me… Sono cambiato, non farò mai più una cosa del genere! Questo, Jane, posso assicurartelo! Non ho alcun dubbio, ti scongiuro.” Ernest stava sudando freddo e respirava affannosamente, si muoveva avanti e indietro per la stanza, in maniera irrequieta, non stava fermo un attimo. Di tanto in tanto tirava dei pugni contro il muro. “Non posso garantirtelo, sarò io a decidere…” Si avvicinò a lei. Dopo un ultimo abbraccio, la slegò. “Grazie tante…Ora, se non mi ti dispiace, tornerei a casa. Se domani troverai la polizia a casa tua, saprai chi è stato. Grazie per avermi rovinato la serata e tutto il resto! Che persona di merda!” Voleva sputargli in un occhio.
“Ora come farò a vivere col peso di un tentato stupro sulla coscienza?” le disse. “Questo non è un problema mio…” rispose Jane con sufficienza mentre si apprestava ad uscire. “Va bene… Allora, penso che farò un bagno! I bagni sono sempre un’ottima soluzione per pensare lucidamente, non credi?” Jane pensò che stesse farneticando:” Fa’ quel che vuoi! A mai più rivederci, spero!” Durante il percorso verso casa sua, maturò la decisione di non farne parola a nessuno, almeno per il momento:” Ernest è solo un povero disperato… Non avrebbe mai fatto una cosa del genere, lo sapevo sin dall’inizio, anche se mi ha terrorizzata…E poi, io non vorrei mai che si diffondesse una notizia del genere su di me, non mi piace stare al centro dei riflettori. Questa cosa farebbe scandalo…” Giunta a casa, inaspettatamente, riuscì ad addormentarsi. Erano circa le due di notte.
“Lei è un’incosciente!” sbraitò Redson contro la giovane, che, senza alcuna titubanza, aveva raccontato tutta la storia di quella sera. “Si rende conto del rischio che una persona del genere poteva comportare per la società, signorina?” Con un lieve sorriso, annuì:” E tuttavia, adesso siamo sicuri che non farà del male a nessuno! Ernest Wight è morto! Morto, signor Redson!” “Sì, ma…” “In queste circostanze non esistono ma…La realtà è quello che succede, niente di più e niente di meno!” lo sguardo determinato della ragazza spaventava il detective, in un certo qual modo. “Come si permette di farmi la morale in una situazione del genere? Non si è accorta della gravità del fatto?” “Come vuole lei, signorina, come vuole lei…” farneticò “La ringrazio, sembra che siamo finalmente giunti alla conclusione: Wight si è suicidato in stato di ebbrezza, a causa della vergogna di aver tentato uno stupro, ritenendo che per lui sarebbe stato impossibile inserirsi nella società dopo un atto del genere.” “Sì, penso che sia andata proprio così. Ora, se non le dispiace, potrei andar via?” “Sì, la ringrazio ancora.” Jane lasciò la stazione di polizia.
“Così questa è la conclusione della vicenda? Davvero… Non voglio immaginare cosa mi diranno i genitori di Wight dopo esserne venuti a conoscenza. In effetti, è proprio stupido… E lei è stata ancora più stupida decidendo di non venire in commissariato. Cos’hanno nella testa i giovani? Ormai il senso di responsabilità non esiste più… Mi sarei vergognato, se fossi stato in lei… Alla fin fine, quel ragazzo era una vittima: vittima della propria stupidità. Vittima degli ideali. Non ha mai capito che non sono gli ideali a guidare il mondo, né le relazioni con le donne… Avrebbe dovuto conoscere Martha, altrochè!” Così, Redson, redasse l’ultima relazione, in cui poteva finalmente dichiarare di essere giunto alla conclusione del caso.
Verso mezzogiorno, incontrò il commissario Jules, e gli disse:” Bene, Jules, qui ho scritto un documento dettagliato circa l’ultima notte di Wight. La vicenda può dichiararsi conclusa.” “La ringrazio, signor Redson. A breve, avrà anche i risultati dell’autopsia. Aspetti qui.” Il pomeriggio, di fatti, si ebbero i risultati dell’autopsia.
Ernest Wight era morto fra le 2:00 e le 2:15 per dissanguamento, dopo essersi reciso con un rasoio da barba le vene dei polsi. La quantità di alcol etilico presente nel suo sangue era tripla rispetto a quella consentita dalla legge, inoltre, aveva assunto un sonnifero per lenire il dolore mentre commetteva il suicidio. Tutto era andato come Redson aveva dedotto. Alla centrale di polizia molti si congratularono con l’investigatore per la celerità con cui aveva risolto il caso. Egli continuava a ripetere che si trattava solo di una lunga serie di colpi di fortuna, dato che era riuscito a beccare con estrema facilità tutte le persone coinvolte nella vicenda.
I genitori del giovane, non poterono che essere sconcertati nell’apprendere la notizia circa l’ultima notte di Ernest. Non volevano credere che avessero un figlio tale. Purtroppo era l’amara verità. Non volevano credere che si fosse suicidato per una motivazione così frivola: avrebbe potuto ricominciare da zero. Invece non l’aveva fatto. Il dolore, nella mente dei genitori di Ernest, si mescolò a disgusto e ribrezzo nei confronti del figlio.
Passarono due settimane. Quella sera Adam Redson era appena tornato dal commissariato per compilare alcune pratiche inerenti a dei vecchi casi ormai archiviati, quando Martha si fece viva alla sua porta. Le aprì. “Ciao, Adam!” “Ciao…” Martha si accomodò come se fosse a casa sua, e chiese a Redson:“ Dimmi, alla fine, com’è andata con il caso del ragazzo che si è ammazzato?” “L’ho risolto… La notte in cui si è suicidato ha quasi stuprato una ragazza… E per la vergogna…Ha fatto quel che ha fatto!” “Tutto qui?” “Sì, sì.“ “Mi sembra abbastanza inutile come motivazione…”  Martha guardò accigliata l’investigatore:” Sei assolutamente sicuro che non ci sia nient’altro?” “Beh, la morte del ragazzo è avvenuta esattamente pochi minuti dopo il tentato stupro. Questa è l’unica conclusione possibile.” “Capisco…Capisco…”

I due cenarono insieme. Finito il pasto, Redson, si avvicinò a Martha e le disse:” Senti, Martha, c’è qualcosa che devo dirti…” Il tono serio dell’uomo la sorprese.  “Sì?” “Ecco… Io non penso che noi due possiamo continuare questa relazione! Lo so che andiamo avanti da anni in questo modo, ma non me la sento più…” “Eh?” Martha diventò paonazza per la rabbia. “Ma tu sei un idiota! Che stai dicendo?” “Dopo tutto questo tempo, ho realizzato che non ho più l’età… Inoltre, non lo so, forse è per la storia di Wight… Che non mi sento più a mio agio… Se vuoi davvero stare con me, dovrai sposarmi. Ormai sono anni che ci conosciamo e ci frequentiamo!” Martha scoppiò a ridere:” Sposarti? Ma scherzi? Io sono una donna di mondo, non ci penso proprio a sposarmi. Poi…Con uno come te? Un apatico senza sentimenti? Non ci penso proprio!” Redson, affranto, disse: “Allora, vedi Martha? Quello che dicevi tu non è vero! Lo ricordo come se fosse ieri: vogliono tutti la stessa cosa, mi dicevi!  No, non è vero!” Martha si alzò e fece per andar via, ma Redson la prese per il braccio e le impedì di andarsene. “Sei tu! Sei tu che per tutto questo tempo non hai voluto fare altro che giocare… Magari io ho acconsentito, è vero, non ho mai obiettato nulla. Sono stato uno stupido a lasciarmi sedurre da te.” Martha rise di nuovo. “Sì, sei stato uno stupido… E adesso che fai? Sputi nel piatto in cui hai mangiato, mio caro Adam? Credo che fino ad ora, ci siamo visti solo per soddisfare i nostri desideri carnali…Cos’è? Hai capito improvvisamente che non è questo ciò che volevi? ” Adam scosse la testa:” No…Non è questo il punto…In realtà io non volevo dirtelo perché sospettavo che tu mi avresti risposto proprio in questo modo! Ed effettivamente è andata proprio così! Comunque, davvero…Dovresti prendere più seriamente la mia proposta, non credi? Dopo tutto questo tempo… Come puoi liquidarla con due parole?” “Semplicemente, non ho mai provato nulla per te, né per nessun’altro uomo.” Redson la spinse via, essendo fortemente irritato da quelle parole così crudeli. “Allora, ti invito ad uscire da questa casa, e non tornare mai più.” “Come vuoi tu, mio caro e tenebroso detective.” Ormai, non avevano più nulla da dirsi. Nonostante Redson volesse urlarle contro, decise di mantenere il silenzio, non tanto perché rispettava Martha, ma più che altro, per non darle la soddisfazione di vederlo arrabbiato per colpa sua: dopotutto, durante quegli anni, era sempre stato molto pacato.

Mentre Martha prendeva la sua roba e si accingeva ad andarsene, Redson l’accompagnò all’uscita, e prima che lasciasse l’abitazione, come un lampo, gli affiorarono in mente le ultime parole di Ernest Wight. “Allora, penso che farò un bagno! I bagni sono sempre un’ottima soluzione per pensare lucidamente! Non credi, Martha?” “Certo, mio caro Adam, lo farò anche io.”

Il giorno successivo fu monotono per Adam Redson. Si era recato a lavoro, sperando in qualche altro caso da risolvere, cosciente, ormai, di aver buttato via troppo tempo della sua vita, nella convinzione della miseria del romanticismo. 


Nota per i lettori: Vi ringrazio molto, se siete arrivati a leggere fin qui. ^_^ La storia è finalmente completa, anche se, forse, farò alcuni aggiustamenti vari, sopratutto nella parte finale. Vi ricordo di recensirmi etc. etc. etc. Davide.

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