and I'll be remembering you di penny berry (/viewuser.php?uid=19706)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. prefazione ***
Capitolo 2: *** 01. foto ricordo ***
Capitolo 3: *** 02. vieni con me? ***
Capitolo 4: *** 03. chiamata ***
Capitolo 5: *** 04. è tempo di crescere ***
Capitolo 6: *** 05. taglio netto ***
Capitolo 7: *** 06. saper aspettare ***
Capitolo 8: *** 07. indifferenza ***
Capitolo 9: *** 08. reazione ***
Capitolo 10: *** 09. il muro crolla ***
Capitolo 11: *** 10. inizio ***
Capitolo 12: *** 11. un freno alle parole ***
Capitolo 13: *** 12. nuovo ***
Capitolo 1 *** 00. prefazione ***
00
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: prefazione
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note
dell’autrice:
Salve a tutte... spero
che vi ricordiate di me... ^-^
Beh... so che avevo
già intrapreso "Dark Storm", e... so anche che alcune di voi
mi stanno lanciando maledizioni Cruciatus (@.@ aiutoooo!)
affinché io prosegua nella scrittura ^-^' Ma non temete, lo
farò... il nuovo chap è a buon punto, parola di
Lupetto U_U
Parlando invece di
questa mia nuova creatura.
Era nata inizialmente
come ONE SHOT!... ma, non ho saputo resistere: ho voluto trasformarla
in una storia "vera", nel senso... una normalissima storia, che
però nasconde in se i diversi sensi della vita.
Consideratela come una
specie di Diario di ricordi di una ragazza di vent'anni, che io
riempirò ogni volta che un pensiero, o un'emozione....
qualsiasi cosa, mi passerà per la mente, tanto da scuotermi
fino nell'animo.
E dedico dunque questo
mio nuovo lavoro (ohè, è ufficiale!) a tutte
coloro che hanno ancora speranza. Quella... speranza... che brucia
nell'animo sin dal primo momento, quando ci alziamo dal letto,
all'ultimo attimo, quando ci addormentiamo.... Quella speranza che
guiderà i nostri passi alla ricerca di lui, che
guiderà i nostri occhi... nell'intenzione di incrociare i
suoi, e scorgere il riflesso dello spirito, celato dietro l'apparenza.
Non deve essere per
forza Robert. Potete anche leggerlo come Orlando Bloom. Jared Leto.
Russel Crowe. Fa lo stesso... Situazioni diverse? Le emozioni sono le
stesse.
E infine. Dedico
questo nuovo racconto a tre persone, in particolare:
> La
mia Marzia....
Una delle sorelle che, purtroppo, non ho mai avuto l'onore di avere. E
che avrò la forza di amare fino alla fine.......
>
armony_93....
Lo so, bambina, sono un po' in ritardo. Ma che ci vuoi fare, vivo in
ritardo ^^" Ma come vedi, forse sono riuscita a farmi
perdonare? Non posso scrivere di Corbin, non gli renderei onore... ma
spero che quello che provo io, posso riflettersi ugualmente in te.
>
strowberry_sin.....
Beh, scrivere di Orlando, manco m'azzardo. Mi vergogno troppo. Tu l'hai
reso vita e realtà. Tu continuerai a farlo. Io... Beh io, mi
limito a darti quel poco di sentimenti che mi reggono in piedi, giorno
dopo giorno. Lo faccio per starti vicino. Lo faccio perchè
ti voglio bene.
Eeeeeee... ora basta,
perché se no mi bannano da EFP per eccesso di sdolcinatezze!!
Un bacio a tutte.... e
buona lettura
{prefazione}
and
I’ll be remembering you…
Scrivere
una lettera, non sarebbe bastato.
Scrivere un poema… sarebbe stato sprecato.
Scrivere una poesia… forse non l’avresti capita.
Scrivere lusinghe… non te le saresti meritate.
Scrivere recensioni cinematografiche… beh, non è
il mio lavoro.
Scrivere gossip sulla tua vita privata… ho di meglio da fare.
Scrivere battute idiote… ci sono sempre i tuoi amici.
Scrivere la verità.
Scrivere dei giorni mondani che ti hanno segnato sul viso cicatrici
invisibili, ma letali…
Scrivere di parole sussurrate al tuo orecchio da coloro che fanno del
desiderio vizioso la loro arte…
Scrivere di luci abbaglianti che illuminano il tuo viso, rendendolo
candido come quello di uno spettro…
Scrivere di personaggi eroici che ti cuciono indosso un abito troppo
stretto e fuori moda per il tuo carisma infantile…
Scrivere di canzoni intrappolate nelle corde della tua chitarra, la tua
unica musa…
Scrivere di diari segreti che scarabocchi strillando silenziosamente
quello che sei troppo fragile per dire…
Scrivere di giorni passati che hanno generato il ragazzo nascosto che
solo a pochi rivelerai…
Si, scrivere questo.
Perché è quello che farò.
Scaverò nelle pagine di una vita fantastica agli occhi dei
molti.
Sveglierò lo spirito che ti porti dentro, sotterrato sotto
una montagna di vergogna mal celata.
Solleverò il bambino in pezzi che hai abbandonato dietro di
te, incapace di saperlo trattenere dentro il tuo cuore…
perché credevi che non vi fosse più spazio per le
debolezze umane.
E salverò i ricordi.
Quei ricordi… che hanno impresso nella mente di chi sapeva
ascoltare, il tuo sorriso.
La tua risata rumorosa.
Il tuo sopracciglio corrugato ad una domanda imbarazzante.
Le tue mani affusolate sui tasti di un pianoforte.
La tua sbadataggine per l’affanno di afferrare ogni singolo
sorso di vita.
La beata stanchezza che hai dipinta sul viso, quando torni vittorioso
da un progetto ambito andato a segno…
Il tuo abbraccio affettuoso e spontaneo che riservi a chiunque.
Il tuo sguardo attento, che carpisce al di là di una frase
non detta.
E la tua maledetta profondità d’animo che ogni
volta mi travolge come un treno in corsa.
Si. Questo è quello che farò.
Forse non sono la persona più indicata per prendermi cura di
te. Lo ammetto, alle volte a stento riesco ad avere attenzione per me
stessa…
Ma ti prego, non negarmi tale piccolo egoismo: raccogliere in pagine di
un diario, tutto ciò che, se possibile, mi aiuta ad esserti
accanto…
No. Non è una confessione, o una dichiarazione. Non sono
così teatralmente brava.
Solo un pensiero. Seguito da un altro… ed un altro ancora.
Una lunga storia… che spero che, un giorno, quando ci
guarderemo indietro, possa dipingere nella mente di entrambi, e di
quelli che ci stanno accanto, il forte affetto che mai… e
poi mai rinnegherò per un qualcuno che continuerà
a sorprendermi, nel bene… e nel male.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** 01. foto ricordo ***
01
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 1° capitolo –
Foto ricordo
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note
dell’autrice:
Eccomi qui!
Come avevo
già avuto modo di dirvi, ho trasformato la shot iniziale in
una
prefazione di una storia alla quale tengo molto…
È il
racconto di un semplice ragazzo di ventitre anni che cresce, che matura
attraverso i suoi errori, attraverso un lavoro che lo pone sotto i
riflettori, e che vive a contatto con quelli che sono i suoi amici e
affetti di sempre… e i nuovi incontri fatti sul cammino.
Ma non voglio
anticiparvi di più, altrimenti è già
finito il divertimento ^_^
Spero che possa
piacervi…
Un bacione e buona
lettura <3
1
“Foto
ricordo”
Era una stanza ampia,
spaziosa… e illuminata di sole.
Le tende azzurro chiaro gettavano una piccola penombra sulle pareti
aranciate, piene di stampe di cartoni animati e macchie di colore
irregolari.
Nel centro quattro
file ordinate
di lettini facevano la loro figura, dove avvolti in copertine formato
minuscolo dormivano o scalciavano i nuovi venuti al mondo. Erano
così piccoli… così
perfetti… così
profondamente puri e unici. Nell’aria riecheggiavano le loro
prime risatine, risuonavano i loro brevi pianti di sconcerto e
brillavano i loro sorrisi timidi…
Oltre la vetrata che
occupava
metà di una parete, stavano eccitati ed emozionati i
papà
che, con le mani incollate sulla superficie trasparente, quasi avessero
delle ventose, continuavano a ripetere fieri “Quello
è mio
figlio… Eh già, assomiglia tutto a
me!”. E alle
volte capitava anche di veder spuntare dal bordo del vetro della manine
più piccole e sguardi altrettanto entusiasti, mentre si
sentiva
dire, “Papà è quello lì il
nuovo
fratellino?”
Sembrava di essere in
una di
quelle cosiddette isole felici, che spesso vengono narrate dagli
scrittori come luoghi di pace. Era quel ritaglio di terra in cui
l’esplosione della pura essenza della felicità
raggiungeva
l’apice e portava l’animo al di là di
ogni possibile
preoccupazione… Inebriava la mente, scendeva ad illuminare
gli
occhi e poi allargava il cuore.
E anche quella
mattina, vicino
all’angolo della vetrata, attorniato da altri papà
impazienti, stava un uomo alto e dai capelli ramati che a passo lento
si avvicinò e sussurrò alla creaturina di un anno
che
stringeva in braccio “Hei… piccolo, guarda
lì”, indicando uno fra gli infiniti lettini
dall’altra parte. “Vedi quella culla lì?
La vedi si?
È lei… è la piccola Charlotte. La
figlia di James e Alice” sorrise,
“La vedi, campione? È appena arrivata, dovrai fare
il
bravo con lei, è una personcina speciale” aggiunse
prima
di posare un bacio delicato sulla fronte del figlio.
Quattro
anni dopo…
Un bimbetto stava
seduto a terra,
con i pantaloncini blu zuppi di fango. La melma lo ricopriva per i tre
quarti del corpo, le braccine magre erano letteralmente scomparse, per
non parlare dei capelli biondi ridotti ad un’unica chiazza
marrone intenso. Era felice. Profondamente felice.
Le manine impastavano
nella terra
con precisione, e quel sorrisino di vittoria posato sul viso paffuto
gli dava un’aria da conquistatore del mondo ancora in fasce.
Stava costruendo una pista… o forse era un fossato per il
suo
castello immaginario, lui lo trovava bellissimo.
Ed era
così intento nel suo
lavorio da non accorgersi che, pian piano, una bambina con un paio di
treccine gli si avvicinava, per poi fermarsi e dondolarsi sul posto con
faccia titubante.
Il bimbo
alzò il capo arruffato e piantò gli occhioni
verde acqua sul viso della nuova arrivata.
“Sì?”
“Poffo
‘ocare anche
io?” domandò lei incrociando le gambine, rossa di
vergogna. Era carina, simile ad una di quelle bamboline di porcellana
che si collezionano per intrappolarne la perfezione nel corso del
tempo. I capelli corvini formavano un ciuffo ribelle sulla fronte e le
nascondevano in parte il volto candido, segnato da due pomelline.
L’altro la
osservò
per un poco, con il ditino sporco di fango appoggiato sul mento a mo di
grande intenditore. Infine esordì con un sonoro,
“No”.
“E
picchè?”
“Picchè
hai quella!” esclamò indicando la gonnellina a
fiorellini rosa della bambina.
La poverina
sgranò gli
occhi color cioccolata, si osservò il vestitino nuovo
comprato
dalla mamma, alzò lo sguardo già colmo di lacrime
sul
bambino… e cominciò a piangere a pieni polmoni:
una
trivella a pochi centimetri dall’orecchio sarebbe stata un
suono
più delicato.
Dal canto suo, il
provetto
architetto trasalì e si schiaffò le mani sul viso
con
espressione di sgomento, pari a dire “Oh cielo, che ho
combinato!”.
“Charlotte!”
si
sentì urlare dal portico dall’altra parte del
giardino. La
signora Sullivan si affacciò con sguardo preoccupato.
“Cosa succede?”
“ROBERT!”
si
sentì sopraggiungere più deciso dalla zona del
barbecue,
il signor Pattinson. “Cosa le hai fatto?”
Cinque
anni dopo…
Una ragazzina con una
buffa
zazzera di capelli scuri si dondolava su un’altalena in un
piccolo parco giochi, al tramonto di una tiepida giornata autunnale.
Si lanciava in aria,
sempre
più in alto dandosi la spinta con le gambe minute e gridando
di
gioia ogni qual volta lo stomaco si chiudeva per l’ebbrezza
del
volo.
Chiuse gli occhi, ed
immaginò di essere una di quelle nuvole tinte
d’oro e
amaranto, lassù nel cielo d’Ottobre, sospinta
dalla ali
del vento… e portata chissà dove, su quali terre
straniere e ancora inesplorate.
“Fammi
salire”. Una voce la riportò bruscamente a terra.
Aprì gli
occhi castani e
fissò davanti a lei un ragazzetto immobile a braccia
incrociate,
appoggiato contro il tronco di un albero, i capelli ramati spettinati e
la bocca storta in una smorfia di disapprovazione. “Fammi
salire”, ripeté.
La ragazzina non vi
badò e continuò a dondolarsi.
“Ci sono
salita prima io”.
“È
un anno che sei là in cima. Scendi”
sbuffò lui, “O lo dico alla mia mamma”.
“Lasciami
in pace”
“Se non
scendi ti tiro giù per i piedi”.
“Prima devi
riuscire a
prendermi” ribatté lei, dando spinte
più forti. Il
vento le fischiava fra i capelli e le solleticava il collo.
“Se ti
prendo ti lego intorno all’albero”.
“Prima devi
riuscire a prendermi”.
“Ho detto
scendi, l’altalena non è tuaaa!”
puntò i piedi il ragazzino.
“Ci sono
salita prima iooo!”
Accadde
così che il rosso
prese la carica e si lanciò come un razzo verso la ragazzina
sospesa per aria; si aggrappò con tutte le sue forze ai
piedi
ciondoloni dell’altra e si lasciò trascinare
avanti e
indietro come un sacco morto strillando come un disperato. E a lui si
unirono le grida isteriche della mora che si avvinghiava alle corde
dell’altalena.
“Scendiiii!”
“Lasciamiiii!”
Continuarono nel loro
minuetto per
oltre due minuti. Minuti in cui i jeans del ragazzino divennero una
tavolozza di colori impensabili, e le mani dell’altra si
sbucciarono, costringendola a rovinare a terra portandosi con se
l’amichetto. Quando furono distesi, lei ricevette in testa il
contraccolpo del seggiolino dell’altalena con un sonoro
“TONG!”. Ovviamente pianse…
E
dall’altra parte del
parco, come consueta abitudine, giunse una voce che pressappoco diceva
così: “ROBERT cosa le hai fatto
stavolta?”
Quattro
anni dopo…
Sette e mezzo del
mattino. Colazione attorno al tavolo della cucina di casa Pattinson.
Robert era vestito di
tutto punto
con la camicia bianca immacolata stirata dalla madre il giorno prima, e
il nodo della cravatta ben centrato nel colletto… Spalmava
tranquillamente una manciata di marmellata di fragole su un fetta di
pane tostato con insolita tranquillità. Sembrava quasi che
spalmare marmellata fosse la sua unica preoccupazione, e il sorrisino
calmo sul viso lo rendeva estraneo a quell’atmosfera terrena.
Appoggiò
il coltello sul piatto con cura, fece per avvicinare la fetta di pane
alla bocca e…
“SPLAT!”
Fu il buio per un
istante. Un
lunghissimo istante che al ragazzo parve
un’eternità… sentiva il volto invaso e
appiccicoso
e la mano, ancora a mezz’aria, gli tremava violentemente.
“Ma
che…”
mormorò fra se, colmo di sgomento. Ma presto la
consapevolezza
lo raggiunse. Ingoiò l’amaro che pian piano gli
era
ribollito in gola e… aprì gli occhi verdi.
Dapprima
ciò che intravide fu solo una massa informe color rosso, le
ciglia sottili incollate fra loro, mentre nelle narici sentiva sempre
più l’odore dolciastro delle fragole.
Una risata repressa
giunse accanto a lui.
Robert si
irrigidì e quel
che rimaneva del pane venne distrutto nel pugno della sua mano, come un
misero granello di sabbia.
Ancora un risolino
strozzato.
“Io ti
uccidoooo!”
La sedia si
ribaltò a terra a mezzo metro dal tavolo con un fracasso
inimmaginabile.
Robert
scattò come una
vipera e corse dietro a quella che sembrava essere un piccolo
diavoletto dai capelli corti e spettinati. Rideva come una pazza.
“Io ti
prendo! Ti prendo e ti ammazzoooo!”
“Eh dai,
per così
poco?!” ribatté lei scansando un pugno e
rifugiandosi
sotto il tavolo, per poi sbucare dall’altro lato della
cucina.
“Sono stata un’incapace: hai ancora la camicia
pulita!”
“Tu…”
la
puntò con un dito il ragazzo, appoggiato al bordo.
“Tu… oggi non andrai a scuola…
viva!”
“Minaccia?”
sorrise allegra Charlotte.
“È
una promessa, perché ti uccido!”
Preso
dall’ira, il ragazzo
afferrò la prima cosa sulla tovaglia e la scagliò
contro
la giovane: ci mancò poco che la scatola del burro le
spaccasse
il naso.
“Che ti
prende? Come mai sei
così scorbutico stamattina?” lo canzonò
lei,
“Hai promesso a Sophie che avreste pranzato assieme? Il rosso
ti
dona sulle guanciotte… Sei sempre così pallido,
dimmi
grazie almeno!”
Un secondo. Un
misero, sciocco
secondo. Charlotte non fu abbastanza pronta e non bastarono i suoi
grandi occhi scuri sgranati a salvarla: il barattolo
dell’orzo le
arrivò dritto in viso, facendo “TONG!”.
“Ah-ah-ah…”
fu
la risatina di vittoria dall’altro lato del tavolo. Robert la
spiava seminascosto dietro il bordo con occhi traditori.
E se prima la ragazza
era allegra e gonfia di vittoria, quello che ne conseguì fu
il fini mondo.
Con uno strillo che
non invidiava
nulla ad una trivella, fece leva sull’unica sedia rimasta in
piedi e si lanciò sul tavolo fra le posate e i cereali, per
poi
gettarsi di peso addosso al nemico che la guardava terrorizzato dal
basso. Sembrava la reincarnazione della dea della guerra, coperta di
orzo in polvere.
Si presero per i
capelli e a pugni
sul naso, se ancora non erano rotti, si tirarono le guance e, mentre
Robert la prendeva per il colletto, lei lo strozzava con la cravatta.
“Chiedi
scusa!”
“Mi hai
picchiato con l’orzo!”
“Mi hai
rifatto con la marmellata!”
“E non mi
hai ancora chiesto grazieee!”
Continuarono per
almeno cinque minuti, quando finalmente
dall’altra stanza accorse un uomo dai capelli ramati, come
quelli di Robert, con la
camicia scomposta, la faccia trafelata e una mazza da baseball in mano.
Non appena scorse il motivo del baccano e si accorse che non erano
ladri, abbassò la mazza… alzò un
sopracciglio e
diede un colpo di tosse.
La magia si
spezzò e i due
si fermarono come colpiti da una scossa elettrica. Voltarono lentamente
il capo verso la porta… sfoggiarono un sorriso sbilenco e
falsa
aria innocente.
“È
colpa sua” aggiunse infine Char, indicando Robert, mentre
ancora lo teneva stretto per la cravatta.
Tre
anni dopo…
Ottobre. Il cielo era
cupo e il vento soffiava forte fra le piante che costeggiavano la via
di fronte a casa.
La strada era bagnata e il rumore umido che arrivava dal passaggio
delle auto che scorrono, rendeva insopportabile ogni singola
cosa…
Il portoncino blu di casa Sullivan era serrato e le tende alle finestre
erano tirate.
Dentro il silenzio
aleggiava in
ogni stanza, in ogni angolo nella penombra delle lampade a luce bassa.
Un silenzio pesante, un silenzio che scoppiava, scalpitava e bruciava
di dolore. Un silenzio che strillava e strideva lungo il corridoio, sul
tavolo della cucina… vicino ai quadri in soggiorno e dentro
lo
specchio nel bagno. Ovunque.
E quello stesso
silenzio
camminava. Strisciava sui gradini di legno della scala e sibilava
mentre percorre e sorpassava le porte della varie stanze, fino a
fermarsi di fronte all’ultima di colore bianco.
Due persone.
Immobili, una col
viso nascosto nel petto dell’altra, restavano muti accanto al
muro, il volto sfigurato dall’orrore e una sola domanda negli
occhi: “Perché?”
Il silenzio si
attorcigliava, si
arrampicava e stringeva i corpi delle due figure, facendoli gemere e
soffrire ancora di più. Una sofferenza che forse non si
sarebbero mai più cancellati dal cuore.
“Dov’è?”
Una voce scosse i due, mentre dalla fine delle scale comparve un
ragazzo alto e magro. “Dov’è Charlotte,
papà?” ripeté.
L’uomo scostò il viso dai capelli della moglie e
con un lieve cenno del capo indicò la porta bianca.
“N-non p-parla”.
Il ragazzo annuì. Represse un capogiro e dovette appoggiarsi
al muro.
“C-com’è successo?”
Sua madre ebbe un tremito e gemette. Fu il padre a rispondere una
seconda volta: sembrava invecchiato d’improvviso di
vent’anni e parlare gli costava molto più dello
stesso
respirare.
“Stavano tornando dalla conferenza. Quella del vecchio
professore
di Alice, ricordi?” domandò con occhi gonfi. Si
passò una mano sulla fronte e per poco Robert credette di
vederlo crollare a terra. “Hanno sbandato
sull’asfalto
bagnato… e… li hanno trovati contro un
albero… Non
c’è… stato…
nulla… da fare.
Io…”
Il ragazzo si avvicinò. “Va bene… basta
così”. Batté la mano sulla spalla del
padre
e… represse le lacrime.
Non poteva piangere.
Non poteva
soffrire, no, non poteva farlo. Non ora che stava per entrare da lei.
Ingoiò la paura e il vuoto che si allargavano a macchia
d’olio nell’animo, sempre più veloci e
voraci;
strinse le mascelle e batté un pugno sul muro, ignorando il
male.
Poi aprì
la porta. E la richiuse alle sue spalle.
La luce era spenta e
solo il filtrare della pioggia grigia illuminava la stanza di un colore
tetro e sinistro.
Il letto era intatto.
I libri
impilati sulla scrivania… I vestiti abbandonati come sempre
sulla sponda del piccolo divano rosso. Solo una cosa stonava in quella
calma apparente: una piccola cornice riversa al suolo con il vetro
infranto.
Il ragazzo si
passò una
mano tremante fra i capelli lunghi e spettinati e ricacciò
indietro un gemito. Il respiro gli strozzava la gola e sentiva
chiaramente il cuore morirgli nel petto.
Fece vagare lo
sguardo lungo la stanza, scrutando ogni angolo nelle penombra, fin
quando non la trovò.
“Char…”
mormorò.
Era rannicchiata a
terra, fra il
muro della finestra e il divano; la testa nascosta fra le ginocchia ed
un lieve dondolio interrotto.
Robert
avanzò a passo
strascicato. Oltrepassò la sedia della piccola scrivania,
superò il letto e si avvicinò a lei con
calma… Si
inginocchiò di fronte a lei con occhi arrossati e umidi, una
lacrima argentea che non era riuscito a frenare…
“C-char”
la chiamò con la voce rotta.
Lei continuava a
dondolarsi, a
cullarsi in quel silenzio rotto in lontananza dal rombo del tuono. Non
smetteva di abbandonarsi a quello stato di totale agonia, al rifiuto di
alzare il capo e aprire gli occhi di fronte all’evidenza.
Come un
graffio che, minuto e minuto, diventava sempre più lungo,
sempre
più profondo fino a scavare sotto la pelle e raggiungere il
cuore.
“Char”
chiamò ancora lui.
E lei dondolava.
Robert non poteva
sopportarlo. No.
Non poteva accettare l’idea di vederla ridotta in quello
stato,
spettro di se stessa, ombra di un ricordo che ancora gli riecheggiava
nelle orecchie e nella mente, frammento spezzato di un quadro che, fino
a quel mattino, continuava a sfoggiare colori vivaci ed accecanti.
“Char, ti
prego” gemette.
Allungò
una mano con
timore… fermandosi ad un soffio dalla sua testa. Chiuse gli
occhi verde azzurro e stanchi, cercando di svuotare la testa, e senza
riuscirci… le sfiorò i capelli.
L’incantesimo
si ruppe.
Charlotte
sollevò il capo, rivelando il suo volto.
“Oh…
tesoro” mormorò Robert.
Aveva le gote rosse e
sanguinanti,
forse si era graffiata. Due righe spesse di lacrime scivolavano lungo
il mento e sul collo, e gli occhi… i grandi occhi scuri
erano
dilatati e spettrali per l’orrore.
Si fissarono per un
lungo istante
senza dire nulla. La pioggia batteva ritmica sui vetri della finestra e
i tuoni erano ormai sopra la casa.
E infine, forse per
l’aver
trattenuto troppo a lungo un uragano di paura che piano la dilaniava, o
forse per il dolore che sempre di più realizzava concreto,
la
ragazza si scostò e si gettò di peso fra le
braccia di
Robert, stringendogli la maglietta e lasciandosi andare in uno grido
terribile.
“Va tutto
bene. Ci sono qui
io” disse lui, stringendola forte. “Va tutto bene.
Passerà… vedrai che passerà. Lo so che
fa
male… ma non devi lasciarti andare, non puoi. Non
voglio…
che muoia anche tu, resisti. Fallo per te. Fallo… per me. Io
non
me ne vado”.
E mentre sussurrava
le ultime parole, anch’egli pianse, rimanendo con lei sino al
mattino dopo.
Tre
anni dopo…
Charlotte
apparecchiava la tavola
per la cena. Allineava le posate accanto ai piatti canticchiando fra se
un motivetto allegro, fresco… simile ad una nenia dolce.
Si
allontanò per andare
verso il frigo e prendere l’insalata e gli affettati, poi
aprì il forno per ritirare la pasta appena cotta…
La
sfilò con cura, le mani fasciate dalle pattine, e la
appoggiò sui fornelli con aria soddisfatta.
“Nonna?
È pronto in tavola!” chiamò servendo da
bere e affrettandosi a portare il resto in tavola.
Ed era talmente
indaffarata e
concentrata che non si accorse dell’ombra che le
scivolò
dietro le spalle e, dopo averle circondato le spalle con un braccio, le
schioccò un bacio sulla guancia.
“Hei! Mi
fai il solletico” scivolò via lei, voltandosi e
incontrando uno sguardo colmo di affetto.
“Ciao”
“Ciao.
Quando sei tornato?”
“Dieci
minuti fa” rispose lui con un sorriso.
“Il solito,
sempre
all’ultimo minuto” alzò gli occhi al
cielo lei. Lo
allontanò poi con un buffetto e tornò a sistemare
in
tavola.
Dal corridoio nel
frattempo giunse
una voce arrochita ma ancora vispa, seguita da dei passi leggeri e
lenti, “Bambina, Robert è tornato?”
“È
qui nonna”
rispose Charlotte, “Siediti… adesso porto la
teglia”
aggiunse poi rivolta al ragazzo. E stava per dirigersi verso il piano
cottura, quando si sentì afferrare per il polso e fu
costretta a
girarsi.
I loro volti si
trovarono di nuovo
l’uno di fronte all’altro, lo sguardo intenso e
profondo di
lui contro quello interrogativo e pensieroso di lei.
“Rob…”
“Devo dirti
una cosa” sillabò quasi a fatica. Non accennava ad
abbassare gli occhi azzurri.
“N-no puoi
aspettare dopo cena?”
“No”.
Intercorse un nuovo
attimo di
silenzio, durante il quale la mano lunga ed affusolata del ragazzo
restava sempre stretta attorno al polso di Charlotte.
“Ho
deciso… di fare il provino”.
“Di
cosa?”
sospirò lei. Un nuovo lavoro. Una nuova partenza, lo sapeva
già. E ancora una volta, una parte di lei sarebbe morta.
“Di quel
film tratto dal libro di vampiri. Twilight…”
spiegò lui, abbassando ora lo sguardo. “Lo stavi
leggendo la settimana scorsa”.
Charlotte lo
osservò con un sopracciglio alzato.
“Dove
dovrai andare se ti prendono?”
“Non
è detto che mi prendano” rispose lui, sollevando
il capo.
“Dove…”
ripeté ferma.
Robert
sospirò afflitto, “In America…
probabilmente Vancouver”.
“Ne
parliamo dopo
cena” fu la risposta brusca ed improvvisa. La ragazza
cercò di divincolarsi, ma lui strinse ancora di
più.
“Mi fai male”.
“Voglio che
tu venga con me”.
Lei sgranò
gli occhi e sporse le labbra in un’espressione di sorpresa.
E stava giusto per
rispondere,
quando sua nonna entrò nella cucina con un sorriso posato
sul
viso e un’espressione felice: Robert non era suo nipote, ma
del
resto lo aveva visto correre e giocare con la piccola Charlotte sin dai
primi giorni di vita… che ormai, averlo sotto lo stesso
tetto,
era come dichiararlo suo.
“Ragazzo,
finalmente! È una settimana che non ti si vede!”
esclamò.
I due si
irrigidirono, la mano si
scostò dal polso ed entrambi si avvicinarono alla donna come
nulla fosse, mentre Charlotte ripeteva sussurrando “Ne
parliamo
dopo cena”.
....................................................................
piccolo
spazio per i ringraziamenti :)
> leghy
: come ogni volta il tuo sostegno, il tuo affetto... e la tua forza mi
danno una gioia ed una carica unica. beh... che gli altri possano
trarre insegnamento da quello che scrivo o dico, non lo so ^_^'' ma se
aiuta ad essere più sereni e credere maggiormente in una
causa
giusta... allora ben lieta di dare una mano. Grazie sorella, cm sempre
<3
>
millape
: ti ringrazio davvero tanto, e anche per il paragone con la Meyer,
troppo buona *_* spero che anche questo chap possa esserti piaciuto, un
bacione :)
>
armony_93
: tesoro. ho fatto solo quello che ritenevo giusto, ti ho detto la
verità: perchè davvero, credo che dare vita ai
propri
sentimenti, indirizzarli verso qualcuno... non importa che sia
presidente di chissà che o un medico, un mendicante o un
attore
(in queso caso), beh... credo sia la cosa più bella del
mondo.
Lui (e sto parlando del tuo lui) sarebbe raggiante se ti avesse
accanto, perchè sei semplice e pura, carica di forza e
amore...
Coraggio, non perdere mai la speranza. D'altro canto, siamo tutte qui;
lo dico io, ma lo può dire chiunque... Un bacione :)
>
Lady_Malfoy
: uhuuu... ciao Lady *__* ahi i brividabadibidi, hihiih... grazie per
aver letto e commentato, gentilissima <3
>
Railen
: beh tu ringrazierai me, ma... io ringrazio te per aver speso tempo
nel leggere e commentare *_* eh si, anche io a volte faccio il tuo
stesso errore, che vuoi farci xD yuuuuhuuuu!! ti intrigo,
mwahahahah, chissà nei prossimi chap allora, dehihih xD beh,
grazie ancora... il tuo commento mi ha resa davvero felice ;)
> Hermone
: avresti pagato per cosaaaaa??? O_o se mai Patty avesse davvero
assistito ad una cosa del genere, mi faceva rinchiudere in prigione, no
anzi... in terapia intensiva per psicopatici xD Oh, c'mon J, sei troppo
forte... Mi rendi sempre così importante, quando alle volte
mi
sento una gran perdente, susu... non farmi arrosssssssireeeeee *corre via rossa come un
pomodoro* Bando alle ciance, grazie. Grazie davvero. So
che quello che hai scritto viene dal cuore, e ti voglio bene
fratellino. <3
*beth*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** 02. vieni con me? ***
02
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 2° capitolo –
Vieni con me?
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Nota dell'autrice:
Hei! beh...
giusto per precisarlo ora, in questa storia Robert non avrà
sorelle. Non tanto perchè abbia qualcosa contro di loro, no
no
xD Piuttosto quanto perchè mi serviva "eliminarle"
per
focalizzare meglio l'attenzione su Rob e Char, in ambito
"amici-fratelli" e... gestire meglio il tutto! Non avendo sorelle,
è autorizzato a bisticciare con Char, ad assillarla, a
prenderla
in giro e risponderle male... e anche a coccolarla. Dorme fuori casa
per trovare compagnia, si confida sempre con lei... Insomma, quello che
i fratelli maggiori dovrebbero fare! baciii <3
2
“Vieni
con me?”
La
cena era giunta al termine. La pasta al forno fu un successo e la
compagnia di Robert, di ritorno da uno dei suoi innumerevoli
appuntamenti di lavoro, rese il momento ancora più
piacevole. I
tre risero e scherzarono, parlando della faticosa mattinata a scuola
della ragazza e della “simpatica” incompetenza del
professore di Matematica… dell’insopportabile
truccatrice
isterica a cui Robert aveva dovuto sottoporre la propria faccia,
controvoglia… e del carico di spesa, pesante come un
macigno,
che nonna Marie Anne aveva dovuto trascinare dal mercato sino a casa.
“Potevi
chiamarmi” commentò Charlotte, stringendo la mano
alla nonna.
“Bambina,
eri ancora a lezione…”
“Oh si
certo, buona
idea!” ridacchiò il ragazzo,
“Perché non
invitare anche il professore a pranzo? Potevi schiavizzarlo ai
fornelli” aggiunse, giocherellando con una mollica di pane.
“Spiritoso”
ribatté acida lei, “Io almeno mi rendo utile,
invece che farmi cotonare i capelli come una mammoletta
!”
“Non
è vero!”
rispose Robert con voce acuta. E toccandosi poi i capelli,
sibilò, “Lascia stare i miei
capelli…”
Charlotte
sbuffò scotendo la testa.
“Ti
è piaciuto la pasta, nonna? L’ho fatta come avevi
detto tu” chiese la giovane.
“Eccellente…
davvero
squisita. Quasi migliore della mia” commentò con
una
risatina la donna pulendosi l’angolo della bocca con il
tovagliolo. Appoggiò poi la forchetta e fece per alzarsi
prendendo la teglia.
“Aspetta!
Ferma” si alzò di scatto Charlotte,
“Faccio io…”
“Macché,
lascia
marmocchia… faccio io” si allungò a sua
volta sul
tavolo Robert, prendendo l’altro lato della teglia,
“Hai
cucinato tutta sera”.
“Ma tu hai
lavorato tutto il
giorno, non è il caso: farsi cotonare i capelli è
stancante. Non vorrei ti sciupassi troppo” disse lei tirando
dalla sua.
“Io non sono
stanco” gracchiò permaloso lui “Tu invece
hai una faccia da far paura… Matematica deve essere
stressante,
specie quando si ha un professore che dorme per i tre quarti della
lezione” continuò con un sorrisino provocatorio,
strattonando verso se.
“Certo che
farai anche l’attore, ma il bon ton
è ancora all’età della
pietra” ringhiò Char senza mollare la presa.
La nonna, seduta fra
i due, li
osservava facendo scattare la testa prima da un lato… poi
dall’altro. Una scena vista e rivista all’infinito,
specialmente ad ogni pranzo e cena che condividevano assieme, anche
se… questa volta vi era una lieve differenza:
l’oggetto
conteso non era lo scolapasta, ma la teglia della pasta al forno.
“Se sono
così rozzo, è colpa di chi da piccolo mi
picchiava troppe
volte con l’innaffiatoio da dietro i cespugli in giardino.
Temo
tu abbia avuto un cattivo effetto su di me!”
soffiò Rob.
“Robert,
togli quelle mani dalla teglia o prometto che ti picchierò
anche con quella!”
“Voglio
lavare i piatti! È un mio diritto!”
“No che non
lo è!”
“Li lavo io
se la cosa vi mette a disagio…” si intromise
tranquilla la nonna, le mani aperte sul tavolo.
“Non-se-ne…
parla… nemmeno… MOLLALAAAA!”
alzò la voce Charlotte.
E il ragazzo non ci
pensò
due volte: diede un ultimo strattone, prima guardare beato e sollevato
in pieno viso la ragazza, e poi disse “Come
desideri”.
Mollò la presa.
Beh…
inutile dire che, come
da manuale, la mora inciampò su se stessa e per poco non
fini
stesa a terra con la teglia per cappello. Fulminò con lo
sguardo
il nemico, mostrandogli i denti… pur senza fiatare: doveva
aspettarselo, da uno come lui per lo meno.
“Devo
finire di sistemare i
vecchi libri di tua madre nello studio, giovanotto” disse
d’un tratto Marie Anne, alzandosi dalla sedia con fatica.
“Sarà meglio che mi dia una mossa, o non
finirò
più…”
“Ti do una
mano: sono i libri di letteratura, vero?” si offrì
Robert, “Potrei leggerne qualcuno”.
“Volentieri”
sorrise la donna.
Lui si
scostò dal tavolo e,
passato un braccio attorno alle spalle della nonna, imboccò
il
corridoio con calma, mentre a bassa voce bisbigliava “Sorridi. Ho
vinto”.
Charlotte rimase per
qualche
istante ad osservare la porta oltre cui sua nonna e Robert erano
scomparsi, i capelli scomposti e la teglia ancora malmessa fra le
mani… Si morse un labbro, scoppiando poi in una risata
sommessa.
Era sempre così.
Afferrò
posate e bicchieri,
per poi sistemarli dentro la teglia e portare il tutto al lavandino;
fece scorrere l’acqua, annaffiò la pila di
stoviglie con
il detersivo e, rimboccandosi le maniche, prese a strofinare in
silenzio.
Era pressappoco una
settimana che Robert mancava da casa…
Era buffo vederlo
aggirarsi per il
soggiorno come fosse un perfetto estraneo, se si pensava che sin da
bambino trascorreva la maggior parte del suo tempo nel giardino di
Charlotte e Marie Anne, giocando a guardie e ladri con la
ragazza… o a picchiarsi con l’innaffiatoio, come
lui
stesso aveva rammentato quella sera.
Giorno dopo giorno,
momento dopo
momento, i due erano cresciuti fianco a fianco. Trascorrevano la notte
di Halloween a gironzolare per il quartiere mascherati da zucca e
scheletro, e naturalmente Robert non mancava mai di far spaventare
l’amica nascondendosi dietro i bidoni della spazzatura; alle
feste di Natale cantavano sotto l’albero, finendo poi con il
prendersi per i capelli per aggiudicarsi il regalo più
bello… L’ultimo giorno dell’anno si
lanciavano
addosso palle di neve, mentre alla fine degli anni scolastici, si
tuffavano nella piccola piscina gonfiabile montata dal signor Pattinson.
E la sera. Ogni
singola sera, il
ragazzo prendeva la chitarra sedendosi sotto il portico e augurava la
buona notte a Charlotte che già dormiva al piano di sopra.
Beh, non che Robert
non ricordasse
il proprio indirizzo di casa! Certo che no. Del resto abitava solo due
isolati più in là del numero 86, casa
Sullivan…
Ma… come
poter lasciar
sola, a combattere contro l’adolescenza e gli spettri del
passato, la propria amica di infanzia? Da quando James e Alice Sullivan
erano scomparsi in un incidente e la figlia aveva smesso di mangiare,
il ragazzo non si era posto limiti né aveva voluto sentir
ragioni, non si era preoccupato di rimproveri o dell’essere
troppo invadente: aveva raccolto le sue cose, aveva promesso che ogni
tanto sarebbe passato a trovare i genitori, e… si era
stabilito
a tempo indeterminato sul divano di casa di Charlotte, portandosi
appresso la sua chitarra e la sua collezione di cd di Van Morrison.
“Posso restare
vero?” aveva chiesto poggiando la sacca a terra
sotto lo sguardo scioccato della giovane, “Ma certo che posso
restare. Sciocco io a chiederlo! Allora, che si mangia?”
Charlotte
risciacquò i
bicchieri e li sistemò in fila su un ripiano.
Dopodiché,
incominciò con i piatti.
Era arrivato poi il
momento in cui Robert era cresciuto. Il cosiddetto momento solenne dei
capelli torturati dal gel… per far colpo sulle ragazzine. Le
veniva ancora da ridere, al solo pensiero.
E aveva smesso di
andare a scuola. O meglio, l’avevano
cacciato da scuola,
e solo Charlotte era a conoscenza delle strilla isteriche della signora
Pattinson, udibili solo dai pipistrelli in quanto ultrasuoni. Robert
aveva cominciato a recitare, quasi per gioco… ignorando il
broncio dell’amica quando era costretto a trascurarla per
dedicarsi allo studio di qualche piccola parte da interpretare.
I momenti spensierati
erano pian
piano scomparsi, lasciando spazio a responsabilità che
andavano
ben oltre al prendersi cura della propria bambola o peluche prima di
andare a letto.
E infine…
era arrivata quella
chiamata. Non che non vi fossero mai state offerte di lavoro davanti ad
una cinepresa, Robert ne aveva accettate in passato, ma
quella…
non era come le altre, e la ragazza sapeva che qualcosa sarebbe
cambiato. Lo annotò sul suo diario segreto: Robert era stato
scelto per interpretare un personaggio di rilievo nella celebra saga
cinematografica di Harry Potter, Cedric Diggory.
“Cosa fa di bello
Cedric, nella storia?” aveva chiesto la mora.
“Mhmm… si
fa ammazzare invece di godersi la coppa di fine torneo” aveva
annuito lui.
“Un idiota come te,
quindi” sorrise lei. “Non sarà
difficile”.
“Decisamente
no” rispose al sorriso Robert.
Erano passati quattro
anni da
allora, altre proposte, televisive e cinematografiche, erano state
presentate e accettate… e i due condividevano solo la
metà del loro tempo assieme. Incontrarsi in corridoio la
notte,
assonnati, uscendo dalla porta del bagno e chiedendosi come fosse
andata la giornata… oppure passandosi la scatola di cereali
la
mattina, prima di rivedersi soltanto a sera inoltrata o a distanza di
qualche giorno.
Una cosa tuttavia non
era cambiata. Robert dormiva ancora sul divano in soggiorno, con
accanto la sua chitarra.
Charlotte ripose i
piatti
nell’armadietto sopra il lavandino, attenta a non romperli.
Attaccò con la teglia, l’oggetto tanto conteso.
Sorrise.
Non aveva mai avuto
molto da
ridire sul lavoro di Robert. All’inizio l’aveva
accolta
come una scelta affrettata, forse un colpo di testa,
l’ennesimo
pretesto per farla arrabbiare dal momento che lei non sopportava di
essere trascurata dall’unico amico sincero… Poi,
man mano
che il ragazzo sgusciava via di casa, portandosi appresso copioni
nascosti nella sacca di scuola con aria innocente, beh…
aveva
cominciato a farci l’abitudine. La divertiva, in un certo
senso,
vederlo così concentrato su quel mucchio di fogli, quando si
rintanava nello studio accanto alla finestra, mentre trangugiava
l’ennesima tazza di caffè. Sembrava quasi che,
oltre alle
pagine da leggere, Robert cercasse un di più, una nota
invisibile ai bordi dei fogli o una qualche strana formula magica che
gli rivelasse la vera essenza del personaggio a lui destinato. Voleva
sapere, voleva scoprire, e lei rideva… sempre.
“Sembra che tu voglia
violentare quel povero pezzo di carta, Rob” lo
accusava a volte, nascondendo una risatina dietro una faccia scioccata.
“Violentare?”
chiedeva lui. “No.
Mi basta uno spogliarello veloce, non sono mica così
esigente. Quanto basta per rendermi un uomo felice”,
aggiungeva ad occhi chiusi con aria solenne.
E con il successo di
Harry Potter,
era arrivata anche la fama. Dapprima sottile e quasi fragile, e che con
il passare dei mesi portò il giovane a rimirare la propria
immagine sui piccoli giornali di pettegolezzi delle ragazzine. Era
diventato celebre. E naturalmente, con la celebrità, viene
sempre anche un’altra cosa: viaggiare.
“Dove
andrai?” chiedeva spesso Charlotte.
“Tokyo…
Un giretto di promozione. Vuoi che ti porti qualche giapponesina
impazzita di Cedric?”
“No grazie, le lascio
tutte a te” rispondeva lei con aria
terrorizzata. “Non
voglio rubarti il divertimento”.
“Cercavo solo di non
essere egoista e farti condividere i benefici del mio lavoro”
ribatteva lui offeso.
“Avere
giapponesi impazzite in giro per casa?”
“No.
Diventare fosforescenti per i flash dei fotografi. È
già sufficiente”.
Ed era volato via. E
così
sarebbe successo altre innumerevoli volte. Partendo da casa propria,
preparava il borsone con i vestiti freschi di bucato che la signora
Pattinson stirava, si metteva il berretto in testa, usciva e correva a
perdifiato sino al numero 86 in fondo alla via, e obbligava Charlotte
ad accompagnarlo all’aeroporto. Un rituale al quale ormai la
ragazza non si opponeva più.
Charlotte ripose la
teglia sul
tavolo ad asciugare. Prese poi uno strofinaccio e si asciugò
le
mani lentamente mentre lo sguardo vagava in un punto indefinito lungo
il bordo del lavandino, dove le gocce d’acqua insaponata
risplendevano sotto il fascio della lampada sul soffitto…
Sorrise assente. Un
sorriso amaro. Un sorriso stanco, che sapeva di ricordi del passato.
“Ho deciso…
di fare il provino” aveva detto. “Un provino per quel
film… Twilight”.
No, anche quella
volta… non
sarebbe stato diverso. Anche quella volta… lui avrebbe
esaminato
il copione, avrebbe preparato la sua borsa chiedendole dove fosse il
bagnoschiuma e la scatola dei cerotti. E non solo. Aveva parlato di
America. E di certo non si sarebbe trattato di una misera settimana di
assenza.
Sarebbe stato
sottoposto a dei
ritmi forzati, non si trattava di una semplice serie televisiva di sole
quattro puntate che andava in onda il pomeriggio su un canale qualsiasi
della rete Britannica. Ora si parla di un film a tutti gli effetti, e
lei lo sapeva bene…
Senza mettere in
conto che
diventando con grande probabilità il nuovo
“oggetto del
desiderio” delle ragazzine di mezzo pianeta, Robert avrebbe certamente patito
di fosforescenza a causa dei riflettori e degli scatti dei fotografi.
Beh…
forse, una volta
finite le riprese, pensò ingenuamente, lui sarebbe tornato a
casa e per un po’ sarebbe rimasto con lei e Marie Anne,
facendola
impazzire per il disordine che lasciava ovunque al suo passaggio e per
il frigorifero costantemente gonfio di cheeseburger. Ma era a casa. Che
fosse la propria o quella della ragazza, non importava. Seduto in
soggiorno o a gambe incrociate sul tappeto di camera sua. Era a casa.
Con un sorriso storto
si diede
mentalmente della sciocca per aver anche solo sfiorato l’idea
di
una simile e remota possibilità.
E mentre si dondolava
su un piede
con lo sguardo ancora assorto, un paio di braccia forti le circondarono
i fianchi e la strinsero.
“Finito di
lavare la
teglia?” sentì sussurrare fra i capelli. Robert
sorrideva.
Eppure lei non rispose, immobile e assente… persa in un
frammento di futuro che sapeva già non le sarebbe piaciuto.
“A che
pensi?” le domandò allora.
“A
niente” si riscosse
lei scotendo la testa. Cercò di sciogliersi
dall’abbraccio, ma lui strinse di più.
“Spiegami
il niente, allora”.
“Il niente
è fatto di niente, Rob” rispose, appoggiando la
testa sul suo petto.
“Si,
è vero. Ma
quando il niente viene evocato nella tua testolina,
c’è da
spaventarsi” sghignazzò piano. Tornò
poi serio.
“Cos’hai?”
Charlotte
sospirò e chiuse
forte gli occhi; poi li riaprì, mordendosi un labbro. Si
slacciò dalla presa del ragazzo e scivolò verso
il
soggiorno con aria grave. Accese una piccola lampada in un angolo,
accanto alla finestra, prese un libro dagli scaffali a muro e si
sistemò sul divano.
Robert la osservava,
appoggiato allo stipite della porta, a braccia incrociate ed un
sopracciglio alzato.
“Non
credevo che chiederti di farmi lavare i piatti avesse potuto farti
incupire a quel modo”.
“Non sono
affatto incupita” rispose lei, gli occhi puntati fra le
pagine.
“Allora
diciamo corrucciata”.
“Nemmeno
per idea”.
“Incazzata”
esordì infine lui. “Non è da me usare
termini del
genere, ma se la metti su questo piano…”
“No, non
sono nemmeno
incazzata” sorrise enigmatica Charlotte. Continuò
a
leggere distrattamente una mezza dozzina di pagine, sfogliandole
rumorosamente e con gesti bruschi, rischiando di strapparle. Il
silenzio calò fra loro, interrotto solo dal rumore della
carta e
dallo scorrere delle macchine sulla strada. Fu infine, quando non
potendo più sopportare lo sguardo intenso del ragazzo fisso
sulla propria fronte, che Charlotte chiuse il libro e lo
sbatté
sulle ginocchia. “Che c’è? Insomma che
vuoi?”
“Voglio
andare a letto senza
dover credere di essere accoltellato a notte fonda da una pazza che non
voleva farmi lavare una teglia”.
“Oh, questo
è davvero divertente…” gli fece una
smorfia di rimando.
“Non per
me, ci tengo alla pelle”.
Charlotte
sbuffò.
Cacciò il libro sul tavolino accanto al divano e si
passò
una mano sugli occhi stanchi. Era sempre stata una ragazza testarda e
in pochi riuscivano ad infrangere il suo mutismo se si trattava di un
momento in cui aveva piacere a restare sola. Peccato che una di quelle
poche persone si trovasse ora a meno di due metri da lei e non
accennava a veleggiare altrove.
“E va
bene… va bene” disse sconfitta. “Che
c’è?”
“Voglio
sapere di che morte devo morire”.
“Sta volta
nei guai ti ci sei messo da solo, mio caro. Io non
c’entro”.
Robert assunse un
espressione di sorpresa e inclinò la testa di lato.
“Colpa mia?”
“Beh…
Diciamo che,
sarebbe stato carino avvertirmi di tuoi certi spostamenti lavorativi,
prima di rimettere piede in casa. Avrei preparato del calmante da
prendere in caso mi fossero venute crisi di panico”
ridacchiò sarcastica. “Geniale specialmente
l’idea
di chiedermi di partecipare alla tua piccola avventura oltre
mare”.
Il ragazzo strinse le
labbra in
una smorfia di disagio e si guardò un istante la punta delle
scarpe. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato, anche se pensava che
lei l’avrebbe presa in maniera alquanto differente: non era
una
novità che lui si spostasse come un’orbita
impazzita
nell’universo del mondo cinematografico, cosa avrebbe dovuto
esserci di diverso questa volta? La destinazione?
“Hai sempre
detto che ti
sarebbe piaciuto andare in America” concluse il proprio filo
dei
pensieri a voce alta. “Pensavo di farti un piacere”.
“Come
scusa?” scosse la testa Charlotte, non seguendolo.
“Mi pare di
capire che il
tuo problema sia… partire. Viaggiare. Spostarti. Ma guarda
che
non è poi così male come sembra, dico
davvero”.
“Ok. Come
prevedevo: sei
fuori strada” sorrise. Si alzò e spense la luce
della
lampada prima di imboccare le scale, diretta in camera sua. Robert le
era dietro.
“Sai non
sei mai stata un
totale libro aperto per me, quando ti atteggi da prima donna”
commentò contrariato agitando le mani come
un’attricetta
da quattro soldi. “Se mi illuminassi sulle tue frustrazioni
da
post cena…”
“Pensavo di
essere stata già abbastanza loquace”, lo
interruppe Charlotte.
“Un
disegnino sarebbe gradito, in tal caso”.
Si fermarono davanti
alla porta
della camera della ragazza. Lei fece per aprire la porta, ma Robert le
bloccò la mano sulla maniglia e strinse. Le
piantò poi in
volto due occhi profondi come il mare.
“A me
piacciono gli scarabocchi, sono creativi”.
Charlotte lo
guardò con una
lieve ed improvvisa vena di rancore. Gli pizzicò il dorso
della
mano e approfittando dell’attimo di dolore
dell’amico,
entrò in camera.
“Non sono
arrabbiata per le
scelte che fai, Robert. Vorrei solo che mi avvertissi in tempo, quando
hai intenzione di coinvolgermi in queste, magari per un tempo
indeterminato, come suppongo che questa sia”.
“Quindi da
incazzata
passiamo ad arrabbiata” sorrise lui dalla porta,
“È
già una conquista”.
“Robert”.
“Si
è vero…” annuì abbassando il
capo, sentendosi colpevole. “Avrei dovuto dirlo”.
“Almeno fin
quando resterai in questa casa: devo sapere cosa cucinare per
cena”.
“Il
sarcasmo non lo apprezzo, sai” alzò un
sopracciglio.
“Puoi
spiegarmi che
succede?” chiese infine lei, sedendosi sul bordo del letto.
Stringeva fra le mani un vecchio pupazzo. Doveva averlo
dall’età di otto anni, un vecchio regalo di Robert
un
giorno alle giostre accanto al parco.
E dal canto suo, il
giovane, in
quel momento, sarebbe stato in grado di fare tutto, meno che guardarla
in faccia, non quando lei lo osservava con quegli occhi pari a pozzi
che lo risucchiavano sino al cuore.
“Eeehmmm…”
incominciò torturandosi i capelli. “Ricordi quando
la tua
amica, Julia, ti raccontava di aver letto quello strano libro sui
vampiri? Sarà stato un po’ di tempo fa, lo
ammetto”.
“Me lo
ricordo solo
perché continua a torturarmi con quell’assurdo
libro
ancora oggi” trattenne un gemito lei.
“All’inizio
pensavo
fosse una cosa idiota, farlo” riprese lui. “Il
provino
intendo. È stata Sarah, la mia manager, a
propormelo…
Aveva sentito dire di questo film basato su quel libro.
L’aveva
considerato particolare”.
“E mi pare
ovvio che abbia pensato a te, certo”.
“Guarda che
ci credevo meno di quanto ci possa credere tu ora! Smettila di
prendermi in giro”.
“Ti sto
ascoltando…”
Robert
incrociò le braccia
con aria scocciata. Non la sopportava quando si comportava a quel modo:
avevano fatto un patto, la decisione e le scelte di copioni, quindi
lavoro, erano una cosa di cui lei non si sarebbe occupata…
Altrimenti non gliene sarebbe andato a genio nemmeno uno.
“C’è
molto poco da aggiungere. Ho tentato per il provino. Tutto qui. Fine
della storia”.
“E per
quale personaggio hai tentato, se posso chiedere?”
“Non hai
letto il libro”.
“Posso
sempre cominciare a leggerlo domani. Julia non abita tanto
lontano”.
“Il
protagonista”.
“Quindi hai
puntato in
alto” comprese Charlotte. Giocherellò un poco con
il
pupazzo di pezza, poi chiese ancora, “Ha un nome questo
protagonista?”
“Edward
Cullen. E
perché tu possa saziare la tua curiosità, ti dico
anche
cosa è: un vampiro centenario che si innamora di
un’umana
particolare”.
“Una
simpatica love story, quindi…”
“Parla di
vampiri” alzò gli occhi al cielo Robert.
“Beh, i
vampiri non sono simpatici?”
“Dipende
dai punti di vista”.
Un lungo istante di
silenzio scese
su di loro, come una cappa di piombo in cui era difficile respirare.
Non si avvertivano rumori nella casa, la stessa Marie Anne si era fatta
invisibile, segno che doveva essersi ritirata in camera sua.
“E…
dal momento che
mi hai chiesto di venire con te in America, mi fa supporre che ti
abbiano affidato il ruolo”.
“Ecco
è… è in questo che
sono stato avventato e ti chiedo scusa” rispose in fretta
Robert,
facendosi rosso in volto per l’imbarazzo. Si passò
una
mano fra i capelli, tirandone le ciocche con nervosismo. “No,
non
è ancora una cosa certa, o per lo meno… Sarah
è in
contatto con la direzione del casting e aspetta una risposta: da quel
che ho capito, ho buone probabilità di passare e ottenere la
parte, ma non escludo un tiro mancino dell’ultimo minuto da
parte
di un usurpatore del mio traguardo”.
“Tieni a
questa parte?” rilanciò subito lei, fissandolo.
“Onestamente”.
Lui
abbassò lo sguardo e si
dondolò sui piedi per un poco, prima di rispondere sempre
tenendo il volto verso il basso.
“È
un ruolo come
molti altri. E io avrei anche bisogno di
lavorare…”
accennò ad un sorriso disarmante. “Certo,
è una
parte che mi intriga e mi incuriosisce più delle altre, lo
ammetto”.
Charlotte
annuì e si alzò dal bordo del letto per andare
alla finestra.
“In
più pare stiano
radunando un ottimo cast, e l’attrice che
interpreterà
Isabella, la protagonista, è già stata scelta:
è
formidabile”.
“Chi
è?”
“Kristen
Stewart: era in ‘Into
the Wild’, la ragazza con la chitarra”
esclamò lui, alzando la testa con un sorriso pari a quello
di un bambino felice.
“Oh, si, me
la ricordo… Non hai fatto altro che blaterare su quella
tizia per tre giorni interi”.
“Non
è vero!” gracchiò lui punto sul vivo.
“Quindi lo
fai più
per l’attrice che non per il ruolo, vero?” disse
infine
Charlotte voltandosi e sorridendo. “Le bugie non le sai
dire”.
“Beh…
ecco…” cercò di salvarsi lui. Ma
vendendo che non
c’era via di scampo dallo sguardo di fuoco
dell’amica,
abbassò il capo e confessò. “Si, lei
è una
delle ragioni per cui vorrei la parte, contenta ora?”
“Contenta
di sapere la verità, si”.
Restarono in camera
della ragazza
per un altro poco, in silenzio. Robert si dondolava sulle proprie
gambe, appoggiato allo stipite della porta e lo sguardo perso sulle
pieghe del tappeto. Charlotte seduta sul bordo della finestra chiusa,
il pupazzo fra le mani, e le labbra pallide.
Parlare del lavoro di
Robert
ultimamente stava diventando pesante, e dovettero riconoscerlo
entrambi. Beh, non tanto perché lei non approvasse le sue
scelte
o la voglia di fare (al di fuori delle singole opzioni per i personaggi
da interpretare), quanto piuttosto per il fatto che… man
mano
che il tempo passava, che il nome “Robert
Pattinson”
acquistava il suo prezzo, la crepa nel loro mondo in apparenza
indistruttibile, si faceva sempre più netta. Era agli inizi,
ovvio. Lui non era di certo una garanzia come poteva definirsi Orlando
Bloom, ma chissà perché Charlotte avvertiva una
strana
elettricità nell’aria. Una pressione diversa dalle
altre
volte. Quel film, “Twilight”, avrebbe portato un
vento che
non era certa fosse favorevole.
“Sei
pallida” disse ad un tratto Rob, guardandola.
Lei fece spallucce e
si passò una mano sul collo. “Sono solo
stanca”.
“Dovresti
riposarti di più, non stai mai ferma”.
“Qualcuno
deve pur farle le cose, non si fanno mica da sole”
ribatté secca.
E il ragazzo si morse
la lingua:
lui non c’era mai, e per quanto avesse detto che
l’avrebbe
sempre sostenuta, cominciava a tener meno fede alla promessa.
“Scusami…”
mormorò a capo chino.
“No.
Scusami tu. Non
è colpa tua” rispose Charlotte, scostandosi dalla
finestra. Andò verso l’armadio e tirò
fuori una
vecchia maglia scolorita che usava la notte per pigiama. “Tu
hai
il tuo lavoro, è giusto così…
Specialmente in
questo periodo”.
“Potrei
anche saltare qualche impegno e darti una mano”.
“Nemmeno
per sogno” si
sentì bofonchiare da dietro l’armadio.
L’anta poi si
chiuse e la mora andò verso il letto per scostare le
coperte.
“Va bene così. I patti erano questi. Mi avresti
aiutato,
ma senza togliere la priorità ai tuoi obblighi”.
“Ma vivo
qui con te” sbottò Rob.
“Che
differenza fa?”
“Fa
differenza eccome” ribadì lui, facendo un passo in
avanti.
“Possiamo
cambiare discorso, per favore?” chiese lei con un cenno
nervoso della mano.
“Sarebbe il
caso di farlo, invece. È parecchio che cerco di affrontarlo
e tu non lo vuoi mai finire”.
“Come se ci
fosse bisogno di farlo” lo guardò ad occhi
sgranati la ragazza.
“Senti…”
cominciò portandosi al centro della stanza e agitando le
mani
affusolate. “Io vorrei solo cercare di farti capire che la
colpa
non è mai se non sono sempre in casa. Mi sento…
egoista a
comparire come un ologramma una volta ogni tanto, ma credimi: non lo
faccio apposta”.
“Ma io lo
so”.
“No, non lo
sai”
alzò la voce lui. Succedeva di rado, ma quando perdeva la
pazienza, era un evidente segnale che c’era poco da
scherzare.
“Credi che non sappia quello che ti passa per la testa? Da
quanto
ti conosco? Ti ho praticamente visto nascere”.
“Robert…”
“Sta zitta,
per
favore” alzò un dito tremando. “Ammetto
di essere
pigro e di avere un mucchio di cose da fare. Ma è una scelta
che
non ho fatto solo io, in passato: se non ricordo male, anche tu eri
d’accordo! Se non ti andava bene, ora è tardi per
rinfacciarmelo. E non dire che non… non osare… io
lo so
che tu non sei contenta!” disse con una smorfia addolorata.
Charlotte lo
fissò con
occhi arrossati. Che stava succedendo? Che gli era preso tutto
d’un tratto? Ne era quasi spaventata.
“Perché dici
così?”
“Perché
vedo il modo
in cui mi guardi!” scoppiò il ragazzo.
“Vedo come mi
guardi quando rientro in casa, come fossi un estraneo”.
“Io sono
contenta quanto torni a casa, invece!” strillò di
rimando lei.
“Perché
puoi rimproverarmi!”
“Ma…
che…” scosse il capo incredula. “Mi hai
forse preso per tua madre?”
“Io volevo
anche dividere il
mio stipendio con te, per farmi restare qui!”
continuò
lui, con le mani sulle tempie. Stava andando a ruota libera, gli occhi
verde mare fissi sul pavimento e le labbra tirate. “Tu non
hai
voluto che lo facessi!”
“Perché
è il TUO stipendio, non il mio! Che razza di persona sarei
se lo facessi, me lo spieghi?”
“Una che
ascolta una volta ogni tanto!”
“Sei
diventato completamente
idiota? Robert che discussione è questa?” chiese
in
lacrime, gettando il pigiama sul letto e sedendosi a terra tremando.
“È
il discorso che tu non volevi ascoltare”.
“Come se
dovessi, vero? Stiamo risolvendo qualcosa?”
ringhiò rossa in volto.
“Almeno io
ho detto quello che dovevo”.
“Oh grazie
tante. Egoismo puro. Attento a cedermene troppo, potrei
scoppiare”.
“Smettila.
Ora!” la puntò di nuovo con un dito Rob.
“Stammi a
sentire”.
Charlotte si alzò di scatto e lo fronteggiò: un
metro e
sessanta contro l’altezza longilinea del ragazzo. Appena gli
fu
davanti lo colpì sul petto, “Se questa
è una crisi
di sfogo, ben venga, la accetto. Il lavoro è pesante e me ne
rendo conto. Non sono certo io quella che ti impedirà di
esternare quello che senti… Ma non è affatto vero
che io
ti guardo con rimprovero, per una scelta alla quale ho
acconsentito!”
“Mamma mi
guarda con meno odio quando le rompo le piante in giardino quando gioco
con il cane!”
“Basta…”
gesticolò lei, allontanandosi. Non voleva più
sentire.
“Posso
sapere almeno perché lo fai? Eh? Abbi il buon senso
di”
“Perché
ho paura che tu te ne vada!”
Il silenzio
calò
nuovamente, gelido e spietato. Ghiacciò ogni singola cosa
attorno a loro, insinuandosi sotto la pelle e scorrendo nel sangue. Un
brivido percorse i cuori di entrambi, immobilizzandoli per numerosi
attimi.
“C-che…”
cercò di ripetere a fatica Rob.
“Ho paura
che tu te ne vada,
un giorno o l’altro e non torni più. È
q-quello che
hai scelto, d’accordo… Ma è una cosa di
cui ho
paura ugualmente. E la colpa è mia… solo
mia”.
“Charlotte”
allungò una mano disarmato.
“Esci”.
“Per
favore”.
“Esci dalla
stanza, voglio dormire”.
Il giovane la
osservò con
le lacrime agli occhi per un breve attimo. Poi annuì e
facendo
due passi indietro, passò di nuovo per la porta e
sparì
nel corridoio. I suoi passi rimbombarono sulle scale in legno,
attraversarono la cucina svelti, fin quando si sentì la
porta
sul retro sbattere con violenza e poi più nulla.
Charlotte rimase
immobile nella
sua posizione raggelata per altri brevi minuti, mentre le lacrime le
scendevano senza sosta lungo le guance. Ma non appena sentì
il
pizzicare delle corde della chitarra provenire dal giardino, si
mosse… e corse verso la porta della camera e la chiuse
battendoci sopra i pugni con rabbia. Si allontanò poi come
se
fosse rimasta scottata e spogliandosi in fretta si infilò la
maglia oversize, spense la luce e si nascose sotto le coperte.
Pianse…
pianse così
tanto che a stento ricordava da quanto tempo non lo facesse. Gli occhi
le facevano male, le lacrime gonfiavano le palpebre e avevano
infradiciato la federa del cuscino… Ma lei non smise, con le
mani strette fra i capelli scomposti, seguitava a disperarsi scossa dai
tremiti.
Fu solo verso notte
fonda, che il
sonno la colse e Charlotte si rilassò e scivolò
nel mondo
dei sogni con un espressione sofferente e indifesa…
E mentre dormiva, la
porta della sua stanza si aprì piano piano.
Una figura alta
camminò
leggera sul tappeto, scostò le coperte dal letto e si
infilò accanto alla ragazza. Le cinse i fianchi con le
braccia
e, appoggiando il mento sulla sua spalla, sussurrò “Nemmeno io voglio
perderti...”...
E si
addormentò a sua volta.
.........................................................
spazio
per i ringraziamenti :)
Allora, che si dice?
Piaciuto? Si,
è un po' che non aggiorno, ma è stato un capitolo
un po'
sofferto, lo ammetto xD Spero comunque vi sia piaciuto!
Vi avverto... si
tratta di una
storia un po' particolare, e... spero che apprezzerete, del resto io
faccio sempre cose strane, no? XD
Ma passiamo ai
ringraziamenti:
Piccola Ketty
: ciao tesoro! sono davvero contenta che ti sia
piaciuto…
è una storia un po’ strana, sai xD spero ti sia
piaciuto
anche questo e… beh, quello che verrà! Un bacione
SweetCherry
: ahahahha!!! Si, la signora Pattinson che strilla dietro a Robby
Junior ha fatto scompisciare anche me xD Ma che vuoi farci, Rob dice di
se che fosse un bambino tranquillo, ma io sono sicura che, in
un’altra vita, per vendicarsi della sorella che lo vestiva da
femmina, avrebbe fatto un po’ il prepotente xD E la
nostra
Charlotte, qui, è in netto svantaggio! Grazie
mille per il
commento, un bacione!
Railen
: Ma chère, quel plaisir *-* Il tuo commento mi fa
arrossire… Beh, che dire? Faccio del mio meglio,
è una
fic che si rivelerà un po’ particolare,
vedrai…
spero di non arenarmi ^^’’ Sono contenta
che ti sia
piaciuto il chap passato, è stato divertente scrivere di
loro
bambini, e… beh, pensieroso per il momento
“dark”
della ragazza. Spero ti sia piaciuto anche questo *-* Un bacioneeee
Volevo anche
ringraziare coloro che hanno aggiunto la storia ai loro preferiti.
Ossia:
1 _ Leghy
2 _ Obsetion
3 _ Piccola Ketty
4 _ Railen
5 _ SweetCherry
6 _ vero15star
Grazie infinite a
tutti, anche ai lettori silenziosi!
Un bacione, alla
prossima…
*beth*
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** 03. chiamata ***
03
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 3° capitolo –
Chiamata
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
eeeeeh… sono imperdonabile lo so, ma…
l’università m’ammazza XD E
pensare che ho un
libro di 504 pagine (non solo quello) che mi fissa con aria di
rimprovero… ma potrà restare lì ancora
un pochetto
immagino :P Che dire? Capitolo che
m’è costato
un certo sforzo ed impegno, non è facile gestire emozioni
simili, spero di esserci riuscita e che non sia un emerito
scempio… *beth
prega intensamente che non le si tirino pomodori… ma nemmeno
altro*.
Da questo capitolo in poi si prevedono turbolenze e, piano piano,
l’entrata in scena di nuovi personaggi… Woooohaaa,
chi
saranno mai? Surprise!!
Ora vi lascio alla
lettura, ci si vede sotto per i ringraziamenti ;)
3
“Chiamata”
Il
sole colpì il
viso della ragazza attraverso le tende tirate, e lei
arricciò le
labbra in una smorfia annoiata. Tirò un po’ le
lenzuola
sopra la testa e si girò dalla parte opposta sbuffando.
Aveva dormito fondo.
O almeno era
quello che credeva. Non aveva sognato… il buio riempiva la
sua
testa, segno che lo stress della giornata prima le aveva offuscato i
sensi per tutta la notte.
Controvoglia
aprì piano un occhio e osservò la luce che
filtrava attraverso le lenzuola sopra la testa.
“Ho
solo paura che tu te ne vada… e la colpa è solo
mia”.
Serrò la
palpebra e strizzò entrambi gli occhi, cacciando il viso nel
cuscino.
“Lo
so che mi odi, conosco quello sguardo di rimprovero ogni volta che
torno a casa!”
Premette
più a fondo contro la federa e smise di respirare.
“Mi
hai scambiato per tua madre? Io non ti rimprovero affatto per una cosa
decisa assieme anni fa!”
“Io
volevo fare questo discorso da una vita e tu non hai mai voluto
ascoltarlo!”
Sentì le
orecchie farsi rosse e scoppiare.
“Ha
forse senso tutto questo?”
“Io
non sono contento di lasciarti sola, e tu non ti vuoi mai fare
aiutare!”
“Adesso
basta!”
“Ho
solo detto quello che dovevo”.
Charlotte
saltò fuori dalle
lenzuola gridando e si ritrovò seduta sul bordo del letto
con il
fiato corto. Si posò una mano sul petto e sentì
il
proprio cuore sbattere forte contro il torace, quasi l’avesse
avuto a contatto sotto le dita.
Alzò piano
il capo e, con
sua grande sorpresa, notò che nella sua stanza regnava il
silenzio più assoluto, interrotto solo dal lento ticchettio
della sveglia sul comodino… Nessuno stava parlando. Nessuno
litigava. Nessuno strillava. Solo echi di un ricordo appena passato.
Impiegò
ancora qualche
attimo per regolarizzare il proprio respiro e riacquistare la
lucidità. Si issò poi con fatica fuori dal
groviglio di
lenzuola e coperte, e si mise in piedi.
“Ho
solo detto quello che dovevo”.
Gemette. Si
portò una mano alla fronte e chiuse gli occhi con aria
sofferente.
Perché
avevano litigato?
Non capitava quasi mai… Certo, di pareri discordi ce
n’erano. Lei stessa doveva ammettere di essere parecchio
pignola
riguardo certi aspetti, oltre ad essere più permalosa di
Robert.
Ma a parte quello,
discussioni
come la sera precedente non ve ne erano mai state. O meglio…
il
vivere insieme, nella stessa casa e affrontare problematiche di vita
domestica, li spingeva spesso a prendersi per i capelli e solo grazie a
Marie Anne riuscivano a non strapparseli. Dannazione, si trattava di
sciocchezze risolvibili e ininfluenti…
Ma quella sera.
Quella appena
trascorsa, aveva un valore del tutto nuovo. Come una bomba che esplode
per metà, rimanendo nascosta sotto terra ancora per un
poco… aspettando di riecheggiare nel proprio clamore feroce.
E Charlotte lo
sapeva. Uno strano
presentimento, che vile strisciava sotto la pelle e si annidava
nell’animo, stringendolo sempre più forte. Una
sensazione.
Un’intuizione. O forse solo consapevolezza? È
più
facile restare nel dubbio e ignoranza che ammettere le cose, era una
storia vecchia come il mondo… Però lei sapeva.
Non
avevano gridato abbastanza e la discussione era finita troppo in
fretta. Gli occhi di Robert lampeggiavano a quel modo in rare
occasioni, e quando accadeva arrecavano dolore. E lo avrebbero fatto
ancora.
E lei stessa. Non era
in grado di
pensare. Come poteva? Da dove cominciare? Non avevano mai avuto una
vita da definirsi “normale”, con un neo attore a
zonzo per
casa… e lei con le sue manie di eroismo e tirarsi fuori dai
guai
senza farsi aiutare. Ridicolo.
Sarebbe capitato di
nuovo. Oggi.
Domani. Entro una settimana o un mese. Poco importava. Non ne aveva
voglia e aveva paura a guardarlo in faccia per rispecchiarsi nello
sguardo azzurro che, se infuriato, tagliava come una lama di ghiaccio.
Riaprì i
grandi occhi color
cioccolata e, passandosi una mano fra i capelli spettinati,
avanzò verso l’armadio strascicando i piedi. Fece
per
aprire le ante alla ricerca di vestiti puliti, quando…
qualcosa
attirò la sua attenzione. E si fermò, immobile.
Si girò
poi su se stessa
con uno scatto e piantò lo sguardo accanto al letto, verso
la
parte che dava vicino alla porta.
C’era un
calzino. Bianco. Con tre righe colorate. Enorme. E… non era
suo.
Allargò
gli occhi, e si
avvicinò circospetta. Si chinò a poca distanza e
stava
per dire “I calzini ora godono di vita propria e vagano per
casa?”, quando la porta si spalancò e una testa
arruffata
entrò nella stanza con aria preoccupata.
“Che hai,
che succede, stai bene? È entrato qualcuno dalla
finestra?”
Charlotte si
voltò a
guardarlo e la sua attenzione cadde sui suoi piedi. Uno era nudo,
l’altro aveva un calzino. Bianco. Con tre righe colorate.
Enorme.
Ed era del proprietario che ora la fissava interrogativo dallo stipite
della porta.
“Ha-hai
dormito qui, per caso?” chiese infine indicano il calzino.
Robert parve cascare
dalle nuove,
sbattendo contro la terra in maniera dolorosa a giudicare
dall’espressione. Si morse la lingua e annaspò per
qualche
istante.
“Beh…
Ecco, è possibile che… passassi di qua
e…”
“La domanda
è semplice: hai dormito qui?”
“Beh…
Si” ammise.
La ragazza
alzò un sopracciglio e spostò gli occhi sul
letto. Avevano dormito insieme.
Non era la prima
volta. Da piccoli
lo facevano spesso, finendo poi col ritrovarsi uno con tutte le coperte
e l’altra senza. Certo non si aspettava che quella notte lui
l’avesse rifatto.
“D’accordo”,
disse.
Si alzò e
andò verso
la finestra per aprirla. La luce la investì. Robert alle sue
spalle gettò un rapido sguardo nella camera, allungando il
collo, prima di stropicciarsi i capelli e bofonchiare qualcosa.
“Stai
bene?”, disse.
“Si.
Perché correvi?”
“Perché
ti ho sentito
gridare” annuì lui di rimando, guardandosi
nuovamente
attorno. Forse si aspettava di veder comparire un qualche uomo nero da
dietro l’angolo dell’armadio.
“Ho
gridato? Io?”
“C’è
qualcun altro nella stanza?”
“Tu”.
Robert socchiuse gli
occhi. “Sssi…
ma io sono appena arrivato”.
“Ah…”
si fece pensierosa Charlotte, “Allora no, non
c’è nessun altro”.
“Quindi hai
gridato”.
“Davvero,
quando?”
Gli occhi azzurri del
ragazzo si fecero più sottili, “Prima”.
“Oh…”
“Hai
picchiato la testa per caso?”
“Pure?”
sgranò gli occhi lei.
“La
scintilla dell’intelligenza stamattina ha fatto
cilecca”.
“Almeno io
non dimentico i calzini in camera degli altri” rispose,
assottigliando gli occhi a sua volta.
“Ma non
strillo alle nove del mattino, dimenticandomi di averlo
fatto”.
Si fissarono
guardinghi per lunghi
istanti senza dire una parola, il respiro leggero e il capo inclinato
di lato. Non occorreva dire nulla. Era sufficiente.
“Non ho
voglia”, disse poco dopo Robert.
“Di
cosa?”
“Lo
sai”.
Si. Lo sapeva. Non
aveva voglia di
litigare. Eppure, a giudicare dal colore tendente all’azzurro
fosforescente del suo sguardo, la ragazza avrebbe giurato il contrario.
Faticava a sostenerne il peso, quasi che l’altra
metà
della bomba inesplosa fosse nascosta dietro la superficie cristallina
verde mare. Ma lui non voleva litigare…
“Non ho
voglia”, disse a suo turno Charlotte.
“Di
che?”
“Oh, lo
sai…”
E si. Lo sapeva. Lei
era
così. Non voleva che le facesse del male. Non lui. Aveva
subito
troppa amarezza e maree di ricordi di agonia, senza che lui
l’affogasse alle prime luci del mattino. Avrebbe dovuto
proteggerla, non mortificarla. Forse scrollarla e aprirle gli occhi su
una visuale meno tetra, ma non inchiodarla con assurde preoccupazioni.
Il ragazzo
annuì e, dopo
aver fatto un respiro profondo, attraversò la stanza e
colmò la distanza che li separava. La prese per le spalle e
la
strinse a sé con forza, cacciandole il capo sul proprio
petto.
“Ho dormito
qui…
perché non volevo farti male a dire quello che ho
detto”
sussurrò. “Sono stato un idiota…
stupido…
irresponsabile… gentleman fallito e… pure
stronzo”.
“D-da
quando dici le parolacce?” bofonchiò lei da sotto
l’abbraccio.
“Da quando
me lo merito”.
“Io sono
stata molto più egoista di te”.
“Nah…”
scosse il capo lui. “Abbiamo raggiunto una splendida
parità”.
Charlotte sorrise e
strinse la maglietta fra i pugni, attirandolo più a
sé.
“Ti voglio
bene”.
“Anche se
ti ho detto che hai mancato la scintilla stamattina?”
“Si…
anche se hai detto che ho mancato la scintilla stamattina”.
“Allora ti
voglio bene anche io” sghignazzò baciandole il
capo.
Scesero in cucina per
fare
colazione, dopo che Robert recuperò il proprio calzino
bianco a
righe, e pure enorme, e dopo che Charlotte si diede una rinfrescata per
far riattivare la scintilla smarrita.
Era domenica e una
lunga giornata
li attendeva, nessun programma o appuntamento segnato sui post-it
attaccati al frigorifero. L’agenda del ragazzo era
abbandonata in
chissà quale angolo dello studio, probabilmente di
proposito, e
nessuno aveva intenzione di consultarla… E i libri di scuola
della giovane era rimasti rinchiusi nello zaino al piano di sopra.
“Dov’è
la nonna?” domandò lei guardandosi attorno.
“È
andata da una
vicina… ha detto che forse farà tardi per
pranzo”,
rispose Robert versandosi del latte nella ciotola. “Allora,
che
ti va di fare oggi?”
“Non
so…” si punzecchiò il naso lei,
“Che tempo fa?”
“Se quella cosa…
giallina grigina… che sta lassù in cielo, si
può
definire sole, allora…” azzardò con una
smorfia,
“Si può dire che non piove”.
Charlotte rise forte,
prima di esclamare, “Hei! Perché non mi accompagni
al mercato?”
“Al
che?”
“Mercato.
Sai quell’altra cosa
composta di bancarelle e piena di gente che va e viene”.
“Oh. E che
di solito compra cose…
che tu guarda, non sono mai inferiori al numero dieci?”
lagnò prima di alzarsi e andare verso il frigo per prendersi
del
succo. “E poi, cosa c’è di meglio dello
stuolo di
miliardi di voci femminili che ti sibilano nell’orecchio ‘Tu devi essere il
figlio di Richard e Clare! Ma come sei diventato grande! Fatti
abbracciare, tesorino!’… Un
pover’uomo non può suicidarsi in questo
modo”.
“Robert”.
“La
risposta è no, se non avessi capito: adoro le descrizioni
pittoresche abbinate alle mie motivazioni”.
“Melodrammatico,
ecco cosa sei”.
“No!”
alzò un
dito lui, con aria furba. “Eh eh! Sono uno che, se deve
vendere
la pelle, vuole qualcosa di più… mhmm…
di
più valoroso di un mercato femminile della domenica
mattina”, aggiunse cacciandosi una cucchiaiata di cereali in
bocca.
“Dimmi
piuttosto che hai paura, ti credo di più… tesorino”
gli fece l’occhiolino Charlotte.
Robert
alzò lo sguardo e la incenerì sul posto.
“Perché
devo venire?”
“Eh
dai… è un
secolo che non ci andiamo, lo sai” abbassò il capo
rabbuiandosi un attimo. Lo rialzò poi e aggiunse,
“E ci
sono cose davvero carine”.
“Hai detto
‘cose’ di nuovo” la puntò con
il cucchiaio e la bocca piena di cereali.
“Eh su, non
farti pregare. Per una volta tanto che mi va di uscire! Ti
prego”.
Non era esattamente
sua abitudine
farlo, ma… si. Quella volta lo fece. Sfoderò lo
sguardo
più acquoso e innocente che poté. Si
sentì davvero
stupida nel farlo, ma a giudicare dall’espressione sorpresa
di
Robert dovette constatare che aveva buone probabilità di
convincerlo.
“Charlotte…”
ringhiò Robert, sputacchiando cereali.
“Eh dai!
Piagnucoli sempre
dicendo che mi barrico in casa” ammise con una nota triste
nella
voce. Il ragazzo si mosse sulla sedia punto sul vivo da quella
affermazione. “Dovresti essere contento se chiedo di
scorrazzare
all’aria aperta, no?”
“Ma io sono
contento” annuì l’altro. “Ma
il mercato… NO”.
“Ti
prego!”
“Sono io a
pregarti” gemette lui.
“Mi stai
per caso facendo gli occhioni dolci, Pattinson?”
alzò un sopracciglio.
“Stanno
meglio a me, che non
a te” soffiò di rimando, “Con quella
faccia da
femminuccia stampata a francobollo sei davvero spaventosa…
Sei
più credibile quando mi guardi in cagnesco”.
“Io
non… guardo mai… in
cagnesco…” gracchiò Charlotte.
“Violenta”
sorrise Robert, schiacciandole subito dopo l’occhiolino.
La ragazza lo
fissò per qualche istante e poi poggiò le mani
sul tavolo per fare leva ed alzarsi.
“D’accordo”
disse, prima di andare verso il lavello e versare la fine della sua
colazione. “D’accordo, scusami. Non ti è
mai
piaciuto effettivamente, è vero” disse
sciacquandosi le
mani. “Nemmeno a… papà…
piaceva
andarci”.
Il ragazzo dai
capelli ramati ebbe
un sussulto sulla sedia e si diede mentalmente dell’idiota.
Perché lo era, perché avrebbe dovuto capire il
senso
profondo di una richiesta silenziosa e banale come quella.
“Devo
finire di studiare, in
effetti. Ne approfitto, così oggi pomeriggio finisco di
riordinare il soggiorno, e non dovrà farlo nonna”
annuì più a se stessa che al suono delle proprie
parole.
“Io…”
Charlotte si
voltò verso di lui e lo guardò interrogativa.
“Cosa?”
“S-sono uno
stupido”.
Lei parve pensarci un
attimo. “Beh non è una novità. Ma
riguardo a cosa stavolta?”
“Scusami”.
“Che hai
fatto?”
Non rispose.
Buttò
giù tutto d’un sorso la colazione, si
alzò e
aggirò il tavolo, cacciò la ciotola nel lavandino
e prese
per mano la ragazza.
“Andiamo”.
“Dove?”
“A
cambiarci”.
“Perché?”
squittì lei, strattonata per un braccio su per le scale.
“Usciamo”.
Si sentiva egoista.
Doveva
ammetterlo. Dannatamente egoista. E il perché era semplice.
Non
le piaceva costringere Robert a fare qualcosa che non gli andava a
genio, per di più se lei era consapevole di imbrogliarlo. Ma
quella mattina era stato più forte di lei.
Non era sua abitudine
mostrarsi
entusiasta nell’uscire, e specialmente di propria iniziativa,
ed
era capitato che in passato Robert avesse dovuto caricarla sulle spalle
per farle varcare la soglia di casa e metterla in macchina per uscire a
bere una birra con gli amici.
“Charlotte
sono dieci minuti
che sei chiusa in bagno!” gracchiò lui da dietro
la porta,
“Te ne do altri sette, e poi vengo a
prenderti…”
Lei
sbuffò. Non sapeva dare
una spiegazione logica al suo agire, o forse non c’era
proprio.
Semplicemente, le andava. Aveva voglia di scendere le scale, mettersi
il cappotto, varcare la soglia di casa e uscire all’aria
aperta,
sentire il freddo pungente del primo inverno sul viso scoperto e sapere
che, man mano che camminava, metteva spazio fra se stessa e il suo
rifugio.
“E fanno
quattro”, tuonò dal corridoio.
Chiuse i rubinetti
dell’acqua e si voltò verso lo specchio
incontrando il
proprio riflesso. Era cambiata. Non le piaceva ammettere di avere
ricordi di quando aveva sedici anni, ma lo rammentava alla perfezione:
un’estranea in confronto ad ora. I capelli castani, anche se
sempre gli stessi, adesso le parevano più spenti…
più anonimi. Gli occhi color cioccolato, la gioia di sua
nonna,
le avrebbe definite ora due pozze di acqua sporca di terra, senza
armonia. E il viso… mai passato inosservato, poteva
considerarlo
inespressivo.
Doveva quindi
meravigliarsi se non le andava mai di uscire? Si sentiva
così inutile d insignificante…
A dir la
verità nemmeno
quella mattina si sentiva diversa. E dunque? Cosa le prendeva? Cosa la
spingeva a trascinare il suo migliore amico al mercato, dopo lungo
tempo di reclusione? Forse lo sapeva, ma ammetterlo era troppo doloroso
che non il semplice immaginarlo…
Come se avesse
intuito la
confusione nel cuore della ragazza e col timore che potesse cambiare
idea da un momento all’altro, Robert fece irruzione nel bagno
strillando.
“Da da
daaan! Tempo
scaduto!” la prese per le braccia e, mentre lei gracchiava di
rimetterla a terra, se la caricò in spalla e si
avviò,
“I gentili passeggeri sono pregati di allacciare le cinture,
premurarsi di non sbattere la testa contro la ringhiera delle scale
mentre scendo… e di non arpionarmi la schiena nel tentativo
di
scendere, perché NON MOLLO LA PRESA! AHIA!”
Uscirono di casa
pochi minuti dopo, stretti nelle loro giacche a vento.
“Dovresti
legarli quei capelli, ti vanno dappertutto” disse Charlotte
passando una mano sul ciuffo dell’amico.
“A me
piacciono
così” fece spallucce lui, prima di chiudere a
chiave la
porta. Scesero in strada e si diressero verso il piccolo parco che
separava la zona abitata dal quartiere di negozi e, ovviamente, del
mercato.
Era una ricorrenza
non molto
recente, quella del mercato, pressappoco da quando i ragazzi avevano
dieci e dodici anni. Le loro mamme amavano recarsi fra quelle
bancarelle colorate e fermarsi a chiacchierare con le amiche al banco
della frutta o davanti all’esposizione di fiori secchi
intrecciati, per poi rincorrere i propri bambini che, senza ombra di
dubbio, si stavano contendendo una mela caramellata a suon di capelli
tirati. Era un’usanza di famiglia… un appuntamento
al
quale non si doveva mai mancare… ovvio, fatta eccezione per
i
papà, che trovavano puntualmente qualcosa di grande
importanza
da sbrigare.
Ma da quando i
signori Sullivan
erano passati a miglior vita, tre anni fa, Charlotte si era come
spenta. Aveva perso tutto. L’affetto. La fiducia. La voglia
di
sorridere. La voglia di vivere. E persino quelle piccole cose che
costellavano le sue giornate di ragazzina, erano bruciate. Svanite come
cenere ad un colpo grigio di raggio di sole. Aveva smesso di uscire di
casa. Aveva perso parte dei propri amici. Aveva smesso di mangiare.
Aveva smesso di dormire.
Da allora Robert era
piombato nel
suo soggiorno, dichiarando di rimanerci a vita. Otto mesi dopo la morte
di James e Alice, si era inventato di tutto per strappare alla ragazza
almeno un mezzo sorriso o uno sguardo poco più
acceso… La
svegliava la mattina col suono della chitarra. Le portava la colazione
a letto e, a volte, la rapiva da scuola per portarla al parco o al
centro commerciale per fare compere. Lui, che di shopping non poteva
nemmeno sentir parlare! Una volta, persino, aveva organizzato un
viaggio per due, in treno, sino al mare… per farle vedere la
spiaggia e le onde che si susseguivano nel loro lento moto, come una
cantilena antica.
E i suoi sforzi
avevano dato i
loro frutti. Dopo un anno e mezzo, Charlotte aveva ripreso a parlare
e… avevo riso. Fu festa grande. Le regalò un
piccolo
anello d’argento inciso, che lei non toglieva mai.
Erano tornate poi,
pian piano, le
vecchie abitudini: uscire il sabato sera in qualche pub con gli amici;
sperimentare ricette culinarie ai fornelli e… andare al
mercato
della domenica mattina. Solo che Robert riusciva spesso a svignarsela
in tempo, come ottimo erede delle tradizioni maschili.
Camminavano fianco a
fianco, ora.
Charlotte con la testa china e la mani affondate nelle tasche, lo
sguardo perso fra gli spazi delle pietre che componevano il marciapiede.
E il ragazzo la
osservava. Poco
dietro di lei, la fissava dall’alto e si domandava quanto
male
effettivamente era riuscito a farle la sera prima.
Charlotte era una
ragazza dal
carattere ribelle. Attaccabrighe e testardo, e lui aveva avuto modo di
provarlo in tutte le maniere possibili. Ma era anche vero che quando
occorreva, era la persona più sensibile e dolce che uno
potesse
desiderare di avere accanto. I suoi alti e bassi, insomma…
Una litigata rabbiosa
come quella,
beh… sarebbe stata una bazzecola per lei, niente
più di
un battibecco per il diritto di guardare il programma televisivo
preferito. Ma questo… anni fa. E lui avrebbe dovuto saperlo.
Era cambiata. O forse
era sempre la stessa. O forse, era entrambe le cose. Solo
più fragile e delicata.
Non è che
non apprezzasse
il suo lavoro di neo attore, sapeva che qualunque cosa fosse accaduta,
lei lo avrebbe spalleggiato e consigliato, nonostante fosse
evidentemente gelosa delle attenzioni che non poteva più
dedicarle. Solo… aveva paura. E più di lui.
I propri genitori,
prima o dopo,
ci devono lasciare… ma non in un incidente stradale. Non nel
fiore dell’adolescenza. Non senza prima aver detto
“mi
dispiace, ma ti devo lasciare”, o regalato una carezza o un
ultimo sorriso…
Marie Anne era
rimasta, una nonna
splendida, ma non con la forza di un tempo, nonostante a Charlotte
bastasse. Casa sembrava meno vuota e, quando la donna rideva, sembrava
di sentire ridere James da qualche parte nelle stanze. Alle volte il
dolore è l’unico modo per ricordare e conservare
quello
che ci è stato portato via ingiustamente. E questo, Robert,
avrebbe voluto che fosse capitato in una circostanza ben diversa.
Fece per aprir bocca,
dire
qualcosa come… “Fa meno freddo di quanto
pensassi” o
“In fondo non mi andava di stare in casa, il mercato non
dovrebbe
essere così terribile”, ma di colpo non seppe come
mettere
insieme le parole. La gola gli si era seccata.
Vederla sorridere e
abbassare meno
lo sguardo di fronte agli altri era ancora una conquista recente e vi
erano momenti in cui lei si chiudeva in camera per uscire con le guance
in fiamme e rigate di lacrime. Era come un fiore da curare con
attenzione e parsimonia… fragile come i boccioli al gelo
dell’inverno.
In realtà
nessuno gli aveva
chiesto o ordinato di assumersi un compito come quello,
perché
di conseguenze ne aveva comportate anche per lui. Seguirla, consolarla
e sostenerla l’avevano costretto alla reclusione per
parecchio
tempo: serate in casa, seduti sul tappeto circondati da fazzoletti
appallottolati e la testa di Charlotte sulla propria spalla,
anziché essere fuori a bighellonare per le strade con una
bottiglia di birra in mano in compagnia dei migliori amici.
Oppure… implorarla di mangiare mezzo piatto di pasta e
imboccarla, per poi vederla vomitare, piuttosto che lanciarsi patatine
fritte dal piatto in un fast food dove era solito pranzare con i vecchi
compagni di scuola.
Non era stato il
medico a prescriverlo. E oltretutto, da piccoli, loro si odiavano.
Terribilmente.
Robert sorrise e
pensò che non v’era motivo di dare
giustificazioni. A se stesso o ad altri.
La risposta era
semplice, quando implicita, quanto scontata e ovvia. “Perché
si”…
Banale. Poco
esplicativo. Breve.
Ma che importava? L’aveva fatto e, se avesse dovuto tornare
indietro, avrebbe ricompiuto ogni singolo gesto.
Il suo sorriso si
allargò.
Allungò il passo, afferrò il braccio della
ragazza che
camminava a testa china, la fece voltare e la strinse a se forte
inspirando a fondo il suo profumo.
Charlotte rimase
immobile per qualche istante prima di dire, “Che
c’è? Che ho fatto?”
“Ssshhh…”
rispose lui, con gli occhi chiusi e il mento sul suo capo.
Lei alzò
di poco lo sguardo per intravederlo con la fronte corrucciata, prima di
stringerlo sui fianchi a sua volta.
“Rob?”
“Sto solo
pensando
che… anche se non valgo poi così tanto come
persona, ho
fatto tutto quello che potevo per vederti tornare a
sorridere”
disse a fatica, “E giuro che lo rifarei da capo”.
Charlotte
esitò un istante. “Ho fatto qualcosa che non
dovevo?”
“No”.
“Sei ancora
arrabbiato con me?”
“No”,
sorrise lui ancora ad occhi chiusi.
“Perché
pensi di non valere tanto?”
“Beh…
onestamente
credo ci siano al mondo molte più persone intelligenti e
coraggiose di me” fece spallucce, “Era un modo per
giustificarmi, in maniera vile, se non ho fatto abbastanza per
te”.
E fu allora che la
ragazza si
sciolse di poco dall’abbraccio, gli passò una mano
sulla
guancia e disse, “Io dei grandi cervelloni non me ne faccio
niente. Vivo di semplicità”. Una lacrima le
solcò
il volto, “E mi sento in colpa ad averti costretto a dover
rinunciare a parte della tua vita per me… Nessuno ti aveva
chiesto di…”
“Ssshhh…
zitta, non dire niente” strinse gli occhi. “Non
dire niente”.
Le baciò
la fronte forte per poi stringerla ancora al petto.
“Va bene
così” aggiunse infine, “Va bene
così”.
Restarono abbracciati
ancora
qualche minuto, senza dire niente, prima che Charlotte gracchiasse
“Le pettegole ti aspettano!” per fargli tornare il
solito
sorriso sghembo.
Lo spazio verde che
li circondava,
fiancheggiato da alberi e panchine, andò pian piano
aprendosi in
una piazza incastrata fra due vie opposte, da cui si alzava un fracasso
e un cicaleccio simili a quello che Robert definì in pochi
secondi “Pollaio?”
“Cosa?”
Il ragazzo
strabuzzò gli
occhi e inchiodò i piedi a terra. Davanti a loro, si
estendeva
una miriade di bancarelle colorate, schiamazzi di bambini che si
rincorrevano fra i passanti e donne che patteggiavano i prezzi con i
venditori. Una visione bizzarra e accesa che invogliava al movimento,
allo spulciare oggetti particolari e insoliti fra un banco e
l’altro, chiunque avrebbe fatto volentieri due passi.
Beh…
chiunque eccetto il signor Pattinson junior.
“Ti senti
bene?” gli chiese Charlotte mettendogli una mano sul braccio.
“Casa”.
“Eh?”
Robert scosse il
capo, e cerco di
ritrovare il senno. Si sentiva stupido, poco più del solito
ad
essere onesti, ma quella situazione lo metteva terribilmente a disagio.
Era oltremodo più forte di lui.
“Oddio”.
Disse con gli
occhi ridotti al terrore puro. “È spaventoso.
No…
è più di spaventoso… è
viscido. È
infernale. È pullulante di donne…
e quando dico donne, intendo donne sposate”. Si
schiaffò
di colpo le mani sulle guancie. “La mia faccia. Non
sarà
più la stessa domani. Le pettegole si mettono sempre lo
smalto,
lo sai vero? Io lo odio. E poi stringono quando ti pizzicano sugli
zigomi: ma che vogliono, spremermi?”. Si portò poi
le mani
sullo stomaco. “Oddio. Vomito. Lo senti? È
l’omino
del mio stomaco che sta STRILLANDO all’omino del cervello di
fare
retro front…
No, non
è una cosa fattibile che io vada lì in mezzo, non
sono
eroico come dovrei. E poi… papà non
c’è mai
venuto, tranne quando mamma l’ha minacciato di farlo dormire
sul
divano per due settimane. Ma tu non puoi farlo perché io
già ci dormo sul divano. Perciò io me ne
vado”
disse facendo due passi indietro.
Charlotte, che era
rimasta in silenzio a fissarlo sconvolta per tutto il monologo, disse
“Hai finito?”
“NO!”
urlò lui. “NO! Voglio andare a casa!”
“Robert
sono… solo… donne…”
“Pettegole!”
“Da quando
hai così paura di loro?”
“Da quando
mamma mi ha
lasciato da solo con loro in soggiorno, seduto in mezzo alla signora
Figg e alla signorina Corks per mezz’ora! Non avevo
più le
guance alla fine della giornata!”
“Avevi
dieci anni, non puoi ricordatelo…”
sospirò insofferente Charlotte.
“Beh le mie
guance se lo ricordano! Me l’hanno detto loro!”
“Io…
giuro che non so
cosa dire” scosse la testa lei, incredula
dell’idiozia del
ragazzo. “C’era qualcosa nel latte di
stamattina?”
“Se ci
fosse stato, sarei molto più felice e magari
all’ospedale anziché qui!”
“Ma basta!
Non puoi inventarne una nuova ogni due secondi!”
“Casa…
ti prego…”
Charlotte lo prese
per mano e,
intrecciandola alla propria con forza, marciò verso il
mercato
colorato che li aspettava allegro e chiassoso.
E con sommo
dispiacere del neo attore vi rimasero per ben due ore!
Era come tornare
bambini, come
cacciare la testa dentro un’enorme bolla di sapone sulla cui
superficie venivano proiettate immagini appartenenti ad un vecchio
album di fotografie. Ripercorrere i piccoli vicoli fiancheggiati dalle
bancarelle, risentire nelle orecchie le voci mai cambiate delle signore
indaffarate… faceva ringiovanire di dieci anni. E non
potendo
fare a meno di sorridere, Robert si rivide bambino, con i jeans
arrotolati in fondo alla caviglia, correre di fronte a se stesso e
guidarlo attraverso un mondo che traspirava spensieratezza e
ingenuità.
Si fermò,
le mani nelle
tasche, ad osservare rapito la scia del proprio ricordo scivolare fra
la folla ridendo e ripetendo allegro “Ah Ah Ah! Questa volta
ho
vinto io, Charlotte! Il Re della giornata sono
io!”…
Si voltò
alla sua sinistra
dove la ragazza era intenta ad osserva strane collane colorate appese
ad un tendone, e abbozzò ad un sorriso sghembo
nell’immaginarla bambina e vivace come un pirata in miniatura.
Perché le
cose non potevano essere sempre così?, si chiese.
Ciò che
era accaduto non
poteva essere cambiato, ma era necessario rovinare anche quello che era
rimasto? E il problema, con suo enorme rammarico, derivava
più
da lui che non dalla giovane. La scelta di un lavoro così in
vista era il biglietto d’andata per un viaggio che non era
detto
avrebbe condotto alla meta desiderata.
Ma ormai era troppo
tardi, non
poteva più tirarsi indietro. “Una volta che hai
cominciato
a ballare, devi continuare a farlo” gli dicevano spesso
quando,
al lavoro, lo vedevano rattristito. Ma a che prezzo? Ballare da soli
non era affatto gradevole. E non perché lei non avrebbe
accettato di stargli accanto, ma perché… anche se
faceva
male ammetterlo… ormai erano su due strade diverse.
Abbassò lo
sguardo
passandosi una mano fra i capelli, mentre sentiva ancora il fantasma di
se stesso ridacchiare per poi vederlo infrangersi contro Charlotte che
ora gli stava di fronte.
“Ti senti
bene?”
Lui
sospirò e disse,
“Pensavo a quel giorno in cui avevo vinto al tiro a segno,
con le
pistole ad acqua… Ricordi?”
La ragazza sorrise ed
annuì.
“Tu ti eri
versata il catino addosso” aggiunse sogghignando.
“Beh…
diciamo pure
che qualcuno aveva aiutato il catino a rovesciarsi” si finse
falsa meditabonda lei, prima di sentire scoppiare a ridere
l’amico, che la abbracciò e insieme continuarono
il giro
del mercato.
Arrivò
l’ora di
pranzo ed i ragazzi fecero ritorno verso casa agitati e ancora
elettrizzati. Incontrarono Marie Anne carica di sacchetti di carta e
sportine colme di verdura che si avviava davanti a loro.
“Nonna, ti
aiuto!” la raggiunse la nipote.
“Bambina”
la
salutò la donna, “Ho approfittato per fare una
capatina al
mercato e fare la spesa” spiegò.
“Oh…
Si, anche noi
siamo… andati al mercato, si” annuì con
imbarazzo
l’altra, prima di allungare il passo con i sacchetti verso la
porta di casa.
Marie Anne, rimasta
indietro, si voltò sorpresa verso il ragazzo rimasto muto e
chiese, “Dove?”
E Robert
annuì.
“Sei
riuscito a farla uscire di nuovo, giovanotto?”
“A dire la
verità ha voluto uscire da sola”.
La nonna
strabuzzò gli occhi e li riportò sulla nipote ora
in casa, “Beh questo è…”
“Positivo”.
“Direi
splendido!”
esultò lei, “Non essere avaro di complimenti, lo
so che
sei molto più sollevato di me” commentò
avviandosi
a sua volta verso casa, con Robert alle calcagna per aiutarla a portare
il rimanente della spesa.
Il resto della
giornata trascorse
in soggiorno fra pagine di libri, lo strimpellare della chitarra e il
profumo dei biscotti di Marie Anne che giungeva dalla cucina. Charlotte
era accoccolata sul divano, nascosta sotto la coperta e con un libro di
scuola aperto sulle ginocchia, la matita morsicata in bocca e lo
sguardo concentrato.
“Fra poco
è Natale”.
Lei alzò
gli occhi. “Manca almeno un mese”.
“Si lo
so… dico solo che si avvicina” rispose
l’amico aggiustando una corda dello strumento.
“Hai voglia
di fare qualcosa in particolare?”
Robert la
guardò e fece spallucce, “Del tipo?”
“Non
saprei… una fuga di qualche giorno in un paese remoto del
mondo?”
“Giappone?”
“Troppo
lontano”.
“Antartide!”
“Ho
già il mio pinguino personale…” lo
prese in giro lei, “E fa troppo freddo”.
“Credo che
stare insieme sia
l’importante, giusto? Però possiamo invitare qui
Tom e la
tua amica Julia per la vigilia, se ti va”.
“Beh…
perché
no?” sorrise Charlotte prima di tornare al libro,
“Ma non
voglio quel tizio… come si chiama, Gabriel?”
Robert
scoppiò a ridere, “E perché mai?!
È simpatico!”
“Mi fissa
sempre”.
“Fissa…
qualcosa di
te, non te in particolare” cercò di soffocare le
risa il ragazzo.
“Non voglio
sapere cosa”.
“Peccato,
in fondo non è da biasimarlo” si finse offeso.
“Robert!”
E lui
scoppiò a ridere
nuovamente, mentre dalla cucina Marie Anne li chiamava dicendo che
erano pronti i biscotti. Non se lo fecero ripetere due volte e fecero
per precipitarsi verso l’altra stanza, quando il giovane
disse
“Mi sono tagliato con la corda, mi lavo le mani e arrivo: non
mangiare tutti i biscotti o Gabriel non ti guarderà
più!”, e scappò prima di ricevere un
calcio nel
sedere.
Si stava asciugando
le mani quando
sentì vibrare il cellulare, lasciato sul mobile nel
corridoio.
Credeva di averlo spento. Con una mossa fulminea scivolò
oltre
il bagno e afferrò l’oggetto affinché
non attirasse
troppo l’attenzione di Charlotte; poi tornò sui
propri
passi e si chiuse nello studio.
“Dannazione”
disse,
non appena lesse il nome lampeggiante sul display. Sospirò e
si
premette qualche secondo la narice del naso, prima di dire
“Pronto?”
Era Sarah, la sua
manager.
“Si sono in
casa… No,
casa di Charlotte… Infatti, ero fuori, sono tornato da
poco” precisò con una punta di acidità.
“Immagino che ci siano novità: è andata
male,
vero?” sembrava quasi augurarselo, come se di punto in bianco
quello stupido ruolo non avesse più alcuna importanza. Solo
lui
e quella donna sapevano che mesi prima aveva già tentato
l’audizione per Edward Cullen ma, al momento di mostrarsi, si
era
tirato indietro per paura. Quella ora era la seconda volta…
e in
cuor suo cominciava a maledire se stesso per averci riprovato.
“…
ah” mormorò infine.
Come se avesse
ricevuto un pugno
nello stomaco si lasciò andare e crollò sulla
sedia
accanto alla scrivania, portandosi una mano sul viso,
“Si…
sono ancora qui” annuì, e avrebbe voluto
aggiungere ‘purtroppo’.
“Certo,
ovvio, sono
più che contento!” esclamò.
“Come sarebbe a
dire non sembra: è solo che… avevo perso le
speranze,
sai… una produzione americana, è un colpo che non
abbiamo
mai tentato prima, devi darmene atto. … Davvero? Beh non
vedo
l’ora di conoscerla… A mamma e papà lo
dirò
stasera, passerò prima di cena…”.
Ed arrivò
una delle domande
alle quali non avrebbe mai voluto rispondere.
“Charlotte…
è… contenta. Si. Lei è… entusiasta
del progetto” sputò controvoglia. “Le
ho…
raccontato della trama e del personaggio, dice che non vede
l’ora
di vedermi sullo schermo… È sempre stata fiera,
dovresti
saperlo, lei si fida di me” aggiunse per poi mordersi la
lingua.
E giunse anche la
seconda domanda indesiderata, anche se fu lui stesso a porla.
“Quando
dobbiamo
partire?”. Strizzò gli occhi nel sentire la
propria voce
suonare così formale e atona. “…
così
presto?!”. Per poco il telefono non gli cadde di mano.
“… ma… Farei a mala pena Natale qui!
…si,
capisco sia una grande opportunità,
ma…”.
La sua voce si
raggelò
mentre sentiva discorrere quella della manager all’altro capo
della linea, quasi appartenesse ad un mondo al quale lui non avrebbe
mai e forse fatto parte completamente. Perché non lo voleva.
Perché non poteva. Perché non era come gli altri.
“Voglio
passare qui il
Natale” esclamò, come fosse un ordine.
“Non mi
importa, Kristen Stewart è americana, non è molto
lontana
da casa, scommetto! … Non mi interessa, trova un modo, per
favore! Sarah… te lo chiedo in
ginocchio…”
supplicò sull’orlo di una crisi isterica.
“…
d’accordo… il 26. Farò in modo di farmi
trovare
impacchettato e pronto per l’arrembaggio sulle nuove
terre”
cercò di sdrammatizzare, più per sollevare se
stesso che
non per rendersi simpatico.
“D’accordo.
Ci
sentiamo fra qualche giorno… Aspetto una tua chiamata, come
vuoi… Buona serata anche a te” disse chiudendo la
comunicazione, per poi aggiungere “E grazie per averla
rovinata a
me”.
E mentre era ancora
con il
cellulare sospeso a mezz’aria e lo sguardo perso oltre la
finestra nel tentativo di trovare un modo di dirlo alla ragazza, si
sentì risuonare nel corridoio la risata allegra di Charlotte
che
era venuta a cercarlo.
“Cosa le
dico ora?” si chiesa, prima che la porta dello studio si
aprisse con un tonfo.
“Hei! Che
combini? I biscotti li ho mangiati tutti, ahah!”
..........
Spazio
ringraziamenti :)
Ed eccoci qui! Allora
che ne
pensate? Fa schifo… ahahaha! Lo so,
l’università mi
ha bruciato anche l’unico neurone esistente responsabile
della
mia serietà, non ho più ritegnooo!! Cooomunque,
che
succederà ora al nostro Polletto Bobby e alla cara
Charlotte? E
che succederà alla Vigilia di Natale? Eheee…
nemmeno io
lo so, bwahahaha!!
I personaggi che
compariranno
più avanti sono… beh, non molto
“famosi” qui
sulla pagina delle fic, ma lo faccio proprio per questo: sono troppo
simpatici e meritano di essere “raccontati” XD
Ma
passiamo ora ai ringraziamenti:
Piccola Ketty:
wow… mi commuovi sai? *-* sono così contenta che
ti sia
piaciuto… Bobby è tenero, già, e mi
sembrava che
la scena finale gli si addicesse! Cioè… secondo
me lo
farebbe! Un bacione e spero che anche questo nuovo chap ti sia
piaciuto, baci!!
Satyricon:
ti ringrazio moltissimo per i complimenti! Felicissima che ti sia
piaciuta! E si… Charlotte è un po’
pazzerella:
arrabbiarsi per una teglia, solo lei poteva farlo xD un
bacione!!!
SweetCherry:
anche a te scoccia per Kris? Beh… mi sono ispirata a quando
lui
scherzava dicendo che lei era uno dei motivi per cui voleva fare il
film, che poi l’abbia detto seriamente non so deciderlo, ah
xD Spero che anche questo nuovo chap ti piaccia, mi spiace
per la
lunga attesa, spero di aver rimediato! Baci
Railen:
ehiiii!!! Wow, grazie, quanti complimenti *me arrossisce* …
e mi
fai ridere per la Stew, e so che mi picchierai fra qualche capitolo, ma
non ti spoilero troppo, buahahah! È un personaggio
enigmatico
kris, mi tornerà utile, sisi :) E…
Charlotte e Rob
sono… come dire… due pezzi opposti di un unico
puzzle ma
si completano, compensando uno con l’altra *oddio che
poetica* che mi dici di questo chap nuovo? Un bacione cara, e
grazieee <3
E un grazie anche a
tutti coloro
che sono lettori silenziosi e… per le nuove aggiunte ai
preferiti, siete nei miei cuori *-*
Inoltre, dato che non
credo di aggiornare per il 25, auguro a tutti un grandisssssimissssimo
NATALEEE! Auguroni, di cuore e spero che lo passiate
bene… in serenità, che ce la meritiamo un
po’ tutti direi ;)
Un bacione
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** 04. è tempo di crescere ***
04
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 4° capitolo –
È tempo di crescere
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Uuuuaaaahhhh!!! Beh dai, questa volta non è passato un
millennio dall’ultimo aggiornamento, visto che brava? *-*
Allooora, il capitolo, magari a voi non piacerà nemmeno un
po’, ma… a me si. A dire il vero non so
perché, ma vedere Robert sotto questa luce mi riempie il
cuore d’orgoglio e tenerezza. Magari non ci sono andata
vicino manco per un millimetro alla sua personalità,
chissà, io spero di si ;P
Non vaneggio
più e vi lascio alla lettura, ci vediamo sotto :)
4
“È
tempo di crescere”
Un momento.
Veloce. Rapido. E glaciale. Che penetra nella pelle. Raggiunge i nervi
e li annichilisce, per poi raggiungere la testa e tramortire il
cervello.
Dura un attimo. Passa in fretta. Ma è letale. Per la tua
coscienza. Per il tuo animo. E per quello che ne deriva dopo.
“Allora? Che ti prende?” lo guardò la
ragazza, interrogativa. “Niente più
biscotti?”
“S-scu… c-cosa?”
Robert la fissava come se fosse stata la prima volta che se la
ritrovava davanti. Come se fosse stata uno strano alieno disordinato,
piovuto dal cielo… o forse l’alieno era lui. E si
trovò d’accordo con la seconda ipotesi.
“Biscotti” alzò un sopracciglio
l’altra. “B-i-s-c-o doppia t e termina in i. Biscotti”.
“So cosa sono dei biscotti” scattò come
una molla lui, occhi socchiusi. “Che vuoi?”
“Vieni in cucina o ti ci devo portare di peso?
Perché sappi che non lo farò, ahah!”
Erano nel piccolo studio e Robert vi era rinchiuso dentro da almeno un
quarto d’ora, dopo aver detto che si sarebbe solo lavato le
mani… Charlotte si era preoccupata ed era andata a cercarlo,
aveva spalancato la porta con un sorriso tra il divertito e il
dispettoso per poi lasciare spazio ad un’occhiata preoccupata
nel vederlo con la testa china sulle ginocchia e le mani serrate fra
loro con forza.
“Non mi va di mangiare i biscotti” disse infine il
ragazzo.
“Oh. P-perché no?”
“Perché no” rispose, alzandosi in fretta
dalla sedia e superando l’amica.
“Ma fino a poco fa avevi detto che…”
“Quale significato della parola NO, non ti
è chiaro Charlotte? Non insistere” la
freddò lui, andando verso il soggiorno.
La mora rimase inchiodata al pavimento dello studio, fissando ancora il
punto in cui era sparito, mentre il tono acido e pungente con cui le
aveva detto ti tacere aleggiava ancora nell’aria. Ebbe un
tremito. Cos’era successo? Aveva detto qualcosa di sbagliato?
Forse non doveva confessare di avere un’antipatia per
l’amico di Robert? Alle volte, doveva ammetterlo, lei sapeva
di parlare senza riflettervi prima, non lo faceva apposta, era parte
della sua indole… Doveva averlo rifatto un’altra
volta quindi, doveva essere stata scortese.
“Non ne faccio mai una giusta, vero?”
sbuffò, passandosi una mano sul viso stanco.
“D’accordo… andiamo a chiedere
scusa”.
Attraversò il corridoio a grandi passi, gettò
un’occhiata a sua nonna seduta in cucina in silenzio e fece
per andare in soggiorno a discutere con il ragazzo quando…
“Senti, è probabile che io abbia detto qualcosa
che non andav…” ma si interruppe di colpo e
fissò con occhi sgranati la scena che le si parava davanti.
“Che… c-cosa stai facendo?”
“Non è evidente?” rispose Robert
chiudendo la zip della giacca. “Vado a casa”.
“M-ma… perché scusa? Sei a-arrabbiato
per quello che ho detto? Io non credevo che”.
“Per favore, falla finita” alzò la voce
di nuovo lui, prima di chinarsi a terra, sistemare la custodia della
chitarra e poi caricarsela in spalla. “Torno a casa
perché mamma e papà non mi vedono da quasi un
mese. Sarebbe il caso che siano messi al corrente della mia
esistenza”.
“Ma poi torni? Per cena, vero?” disse in fretta lei
con gli occhi lucidi.
Robert non rispose. Si cacciò la cuffia di lana scura in
testa e le passò accanto, dirigendosi verso la porta.
“Ciao Marie Anne…” disse, con un gesto
incerto della mano. La donna lo squadrò cupa senza dire una
parola, ma il suo silenzio ne valeva per mille. E il ragazzo, punto sul
vivo, abbassò il capo e fluttuò verso la porta.
“Robert!”
Non appena appoggiò la mano sulla maniglia, quella di
Charlotte si serrò sulla sua e la strinse. Rimasero immobili
entrambi, come congelati d’improvviso da un incantesimo.
“Ti ho fatto arrabbiare, dimmi perché?”
Lui le dava le spalle, non riusciva a vederla in volto, ma sapeva con
esattezza che era sull’orlo delle lacrime, la voce la
tradiva.
“Nessun perché. Torno solo a casa, è
mio diritto, no?”
“Perché non mi guardi in faccia?”
Avrebbe fatto meglio a non chiederlo. Robert si voltò e fu
come se un lampo avesse attraversato la stanza in quel preciso momento.
I suoi occhi… azzurro verde come
l’oceano… grandi e profondi… erano
l’esatto ritratto dell’ira. Bruciavano. Come una
scossa elettrica che prende allo stomaco e scuote con così
tanta forza che, per riuscire a resistere, bisogna solo ammettere di
essere deboli e distogliere l’attenzione. E così
Charlotte fece. Abbassò la testa e deglutì.
Lui la guardò dall’alto, senza cambiare
espressione, per qualche istante, smettendo persino di respirare. Poi,
come mosso da un’improvvisa agitazione che non poteva
più reprimere, si scollò dalla presa della
ragazza, girò la maniglia e disse, “No, non torno
per cena”.
Uno spostamento d’aria, la porta si chiuse con un tonfo e la
sua ombra sparì oltre i vetri dell’entrata. Poi
nulla.
“Bambina…”
Charlotte rimase con lo sguardo inchiodato alla porta. Quella stessa
porta che lui le aveva quasi sbattuto in faccia. Quella stessa porta
che ora, lei, cercava di non spalancare per poi correre in strada,
inseguirlo, tirargli un pugno sul petto e strillargli quanto lo odiasse.
“Bambina…”
Aveva sbagliato. Era vero, lei non rifletteva, specialmente quando era
stanca, e diceva cose che potevano ferire… lo sapeva, ma
oltre al chiedere perdono e quale fosse la ragione, cos’altro
poteva fare? Del resto, quante altre volte lui la trattava con
sufficienza e dispetto? La sera prima avevano litigato per colpa
sua… Era necessario, ora, farne una questione di stato se
lei aveva mancato di tatto?
“CHARLOTTE!”
La ragazza ebbe un sussulto e si voltò stranita verso sua
nonna, all’entrata della cucina.
“Che cosa c’è?”
“La porta ha una particolare attrattiva della quale sono
all’oscuro?”
Lei storse la bocca e roteò gli occhi, schioccando poi la
lingua con insofferenza.
“Dunque?”
“Che cosa, nonna?”
“La morale?”
Era chiedere un po’ troppo. Gli occhi della ragazza punsero e
si arrossarono di colpo e, prima che la voce le tremasse, disse secca,
“Nessuna morale. Ha detto che non torna per cena. Ha preso la
chitarra… Starà via un po’.
Cos’altro devo aggiungere?”
Detto questo partì alla volta delle scale, salendo i gradini
a due a due, strillando “Non ho fame, mangia pure quando
vuoi”. E per la seconda volta, un’altra porta
sbatté. Poi il silenzio.
Marie Anne sospirò lentamente, abbandonando il capo allo
muro e azzardò ad un sorriso triste.
Un passo, e poi un altro. Camminava da cinque minuti, ciondolando da un
lato all’altro del marciapiede, come fosse ubriaco o
sonnambulo… Svoltò poi l’angolo e,
appena trovò una panchina, lasciò cadere la
chitarra a terra e si sedette di peso.
Digrignando i denti, strinse le mani fra loro, sino a intravedere le
nocche sotto la pelle; si portò le gambe al petto serrandole
fra le braccia e… dopo due colpi di tosse…
cominciò a piangere.
Si dondolava come un bambino che cerca di distrarre
l’attenzione dal dolore che si propaga dall’interno
come una piaga, mentre continuava a ripetersi “Adesso
passa… andrà tutto bene… adesso
passa”.
Nascose il viso fra le ginocchia e strinse sulle tempie, impedendo ai
pensieri di scorrere nella mente, per fermare il flusso di confusione e
di ansia che lo assalivano come un’esplosione, come
un’eruzione che, tuttavia, non era stato lui a causare.
“Ti ho fatto
arrabbiare, vero? Dimmi perché!”
Tossì di nuovo e il pianto si fece più forte.
Slacciò la presa della mani e si coprì gli occhi,
ormai fradici, nascondendoli con vergogna.
“La regista
richiede la tua presenza sul set, in fretta, dovresti presentarti
là prima di Natale”, aveva detto
Sarah. E la sua voce ferma di donna indaffarata risuonava
così distorta e fastidiosa.
Lui era nello studio e Charlotte era entrata ridendo e richiamando la
sua attenzione. Cos’altro poteva fare? Cosa doveva dire?
Ammettere che aveva ricevuto il via per il mondo in cui lei non poteva
mettere piede?
“Perché
non mi guardi in faccia?”. E ancora, “Torni? Per
cena?”
Robert batté il pugno sulla panchina, prima di spalancare
gli occhi azzurri e cacciare un urlo straziato che avrebbe fatto
agghiacciare chiunque, per poi accasciarsi sullo schienale e tornare a
piangere.
Si. Piangere. Perché era tutto ciò che gli
rimaneva da fare...
Beh, in molti, probabilmente, in quell’istante avrebbero
potuto commentare: “Quel tizio è tutto strano!
Tanti problemi per cosa? Per una telefonata che frutterà
soldi? Un’infinità di idiozie, dovrebbe essere
contento!”
E da un lato era vero. Il nuovo progetto in cui stava per imbarcarsi
gli avrebbe fatto guadagnare soldi (quanto ancora non lo immaginava),
anche se lui non amava dare peso al denaro, non gli importava.
Ed era anche vero che, a livello professionale e d’avventura,
avrebbe fatto la conoscenza di nuove persone, in particolare una presso
cui coltivava una grande ammirazione… e non vedeva
l’ora di incontrarla.
E… era vero inoltre che sarebbe stata l’ennesima
prova che avrebbe fatto luce sul quesito che spesso si poneva: recitare
era davvero la sua vocazione?
Ma a parte questo? C’erano altre motivazioni positive? No.
“Poi
torni?”
Tossì più volte, portandosi le mani sulle
orecchie, ma sapeva che anche diventando sordo, quella voce piena
d’angoscia non se ne sarebbe andata. Veniva dal petto, veniva
dall’animo e non sarebbe sparita.
Si era comportato da perfetto idiota. Anzi, peggio, da criminale o da
truffatore. Provava vergogna e disprezzo per se stesso, provava
disgusto, provava rancore. Si sarebbe tolto la pelle di dosso se fosse
bastato a farlo sentire meglio…
“Dio… se potessi mi piglierei a pugni da solo.
Pattinson, quanto sei idiota”, ringhiò a se
stesso, trattenendo l’impulso di auto-colpirsi. E a giudicare
dallo stato delle cose, gli avrebbe fatto bene, alla coscienza e per un
po’ non avrebbe pensato ad altro che al dolore fisico.
Si alzò in piedi, le braccia sopra la testa e prese a
camminare avanti e indietro, come una bestia in gabbia.
“Potevo dirle: ha chiamato lei…
Sarah… e ha detto che devo partire…
presto” parlò in fretta, di fronte ad
un’immaginaria Charlotte. “Lei dice che deve
essere prima di Natale. Però io ho insistito per partire
dopo… prometto che partirò dopo”.
Si fermò davanti ad un albero e lo fissò,
“Lo so che non sei contenta, nemmeno io lo sono. Ma non posso
fare altrimenti, non è colpa mia. Non l’ho deciso
io! Io nemmeno volevo farlo quel dannato provino: lei mi ha convinto
a riprovarci! Si… quando mai le ho dato ascolto. Sono un
idiota, non dirmelo, lo so già” annuì
con vigore, all’albero. “Ti giuro, vorrei tirarmi
indietro, ma sarebbe un guaio! Un grosso guaio. Potrebbero venire a
cercarmi e prendermi. Io… io… non posso fare
diversamente” aggiunse poi, sfiorando la corteccia ruvida e
fredda della pianta.
“Scusami” mormorò infine con un filo di
voce e il viso rigato dalle lacrime.
Perché la verità era una sola. Di fronte alla
paura improvvisa, al panico che lo aveva afferrato, non sapendo se
vuotare il sacco e confessarle l’accaduto, aveva preso il
sopravvento la parte irrazionale di lui. Aveva preso il comando la
corazza, la difensiva… l’attacco. Non capitava
spesso, non lo sentiva necessario, tanto meno con la ragazza. Ma quella
sera si.
Glaciale. Estraneo. Micidiale come una stilettata al cuore. Lui stesso
provava dolore nel calarsi in simili sembianze e non vedeva
l’ora di scrollarsele di dosso. Ecco perché aveva
sbattuto la porta. Per allontanare da se quello che aveva appena
commesso… quello che era stato costretto a pronunciare.
Era… come se… avesse passato le mani attorno al
collo di lei e avesse stretto, fino a vederla stramazzare a terra, con
la parola “perché” sulle labbra.
Diede un pugno all’albero e tornò ad accasciarsi
sulla panchina, piangendo nuovamente.
In effetti, a vederla esternamente, ci si poteva domandare il
perché un ragazzo come lui, bello e fortunato, poteva porsi
così tanti problemi per una questione che, a quanto detto,
non dipendeva da lui. La giovane non avrebbe potuto capire? Era sua
amica, e gli amici sostengono le scelte difficili. E se così
non era, allora… non erano amici.
Robert rise amaramente, una risata che suonava ubriaca e malata.
Oh… si. Charlotte avrebbe capito. Charlotte
l’avrebbe appoggiato.
Cos’avrebbe risposto?
“Sono felice
per te, Robert. È una bella notizia, al secondo tentativo ce
l’hai fatta, visto? Vuol dire che hai talento…
Sono fiera di te”.
Certo. Una frase colma di orgoglio. E che equivaleva
all’ennesima condanna per lei. Alla preoccupazione, alla
solitudine, alla paura… e alla perdita. Poteva sorridere,
poteva mostrargli lo sguardo più colmo di ammirazione su
tutta quanta l’intera Terra, ma era proprio quello che lo
spaventava.
“Lei finge…” sussultò, il
volto arrossato e gli occhi gonfi.
Aveva vissuto abbastanza accanto a lei da sapere che non avrebbe mai
ammesso di essere triste, di provare dolore… Non avrebbe mai
messo in evidenza il vuoto che compariva magicamente ogni qual volta
lui annunciava che spariva per più di una settimana.
Sfrontatezza? Orgoglio? Capriccio? No.
“Paura…” mormorò con un
sorriso amaro Robert. “È solo dannata
paura”.
Si portò le mani sul viso e asciugò il sale delle
lacrime. Si premette la radice del naso e, con un saltello, si
alzò e sbuffò.
“Coraggio Bobby. Chi è autore delle proprie
disgrazie, sarebbe simpatico che evitasse di piangerci su… E
vale anche per te”. Si fermò, e
fissò l’albero con occhi sgranati. “Oh
mio dio. Stavo parlando con un albero. E l’albero mi
ascoltava. No… faceva
finta di ascoltarmi”. Scosse la testa
sospirando. “Casa. È meglio”.
E si avviò verso casa Pattinson con passo strascicato e la
chitarra ciondoloni sulla schiena.
Il campanello suonò e dopo pochi istanti un piccolo uragano
bianco a paffuto si precipitò giù dalle scale,
attraversò il corridoio e si schiantò
letteralmente sulla porta di casa. Patty.
“Patty tesoro, non siamo ad una corsa
motociclistica,coraggio”. Una donna sulla cinquantina giunse
dalla cucina, aprì la porta e gli occhi le tremarono per la
gioia, “Lo sapevo…”
“Ciao mamma” sorrise Robert.
Clare colmò la distanza fra loro e gettò le
braccia al collo del figlio, stringendolo forte come se da un momento
all’altro potesse scomparire. Di nuovo.
“Mamma non respiro”.
“Oh sta zitto Robert, dammi la soddisfazione di torturarti
prima che scappi un’altra volta”
sghignazzò divertita, prima di guardarlo in volto e dirgli,
“Bentornato”.
Lo invitò ad entrare e lo guidò nel soggiorno
tutta eccitata.
“Dai, dammi la giacca! E levati quel berretto dalla testa per
favore, sembri uno scappato di casa... Beh, effettivamente scappi
sempre di casa” parve pensarci su. “Richaaard! Tuo
figlio è tornato!”
“Mamma non strillare, i vicini ti sentono”
piagnucolò il ragazzo, mentre armeggiava con la custodia
della chitarra.
“I vicini servono proprio perché io possa
strillare, che gusto c’è se no?”
E Robert scosse la testa senza speranza. Sua madre non cambiava mai.
“Dov’è? Il fotomodello più
schizzato del mondo è tornato?” si
sentì dire dalle scale.
“Oddio ti prego…” riprese a gemere il
figlio.
E poco attimi dopo, un uomo brizzolato e dalla faccia simpatica fece la
sua entrata nel soggiorno. A giudicare dal modo di camminare e dallo
sguardo profondo, si capiva subito che, nonostante il parlare giovanile
e divertente, nascondesse una personalità tenace e che la
sapeva molto lunga…
Attraversò il soggiorno e abbracciò il figlio,
dandogli un’affettuosa pacca sulla schiena.
“Bentornato ragazzo”.
“Ciao papà” sorrise lui.
“Oddio, fa qualcosa! O mi toccherà cambiare la
tovaglia per l’ennesima volta!” strillò
d’improvviso la madre coprendosi gli occhi.
Robert si voltò e notò che Patty, piccola e un
terremoto vivente, stava addentando la tovaglia per attirare la sua
attenzione: un lavoraccio, poverina.
Il giovane sghignazzò, si chinò a terra e con un
gesto dolcissimo la prese in braccio e cominciò a lusingarla
su quanto fosse bella, quanto le fosse mancata e… quanto
fosse ingrassata.
“Ma cosa le date da mangiare?!” chiese sconvolto.
“Niente” rispose secca la madre.
“Come?!”
“Perché ruba dalla dispensa mentre siamo fuori: ha
deciso che preferisce il buffet - pret-à-porter invece della
solita e noiosa pasta e crocchette. È un cane intelligente,
dagliene atto Clare” commentò invece solenne suo
padre.
“Oh per favore!”
Robert rise.
Quanto gli erano mancati. Mamma. Papà. E cane. Tutti quanti.
E, se avessero avuto un nome o una parola, avrebbe detto che aveva
sentito la mancanza anche dei mobili… del divano…
del tappeto, della cucina e del bagno. E della sua stanza da letto.
Della sua musica. Della sua vita…
Fissò i quadri lungo le pareti, alcuni li aveva fatti lui,
altri sua madre, adoravano dipingere nel tempo libero. Quasi non se li
ricordava, o meglio… impossibile scordarli, ma cominciava a
dimenticare il vero senso di quella casa, di quella famiglia, ossia
l’amore che gli avevano trasmesso per tutto il tempo passato.
“Vuoi… andare in camera?” chiese
tranquilla Clare, mentre lo guardava.
Lui annuì, sempre rapito dai quadri. Poi, con Patty ancora
in braccio, si avviò per le scale e andò al piano
di sopra, i genitori che lo seguivano.
Una volta che fu alla fine del corridoio, si fermò, fece un
respiro profondo e aprì piano la porta… Camera
sua.
“Ti ho cambiato le lenzuola” disse sua madre,
appoggiando la chitarra accanto all’armadio.
“Le cambia ogni settimana” puntualizzò
il padre.
“Richard!”
“Perché?” chiese sorpreso il ragazzo.
La donna abbassò lo sguardo e arrossì, prima di
voltarsi dalla parte opposta e guardare fuori dalla finestra. Robert
non comprese…
Richard batté una mano sulla spalla del figlio e si fece
strada nella stanza, per poi andarsi a sedere su letto con uno sguardo
inequivocabile. E fu allora che Robert capì. Sua madre
cambiava le lenzuola e coperte, e scommise gli lavasse anche i vestiti
che non usava rinchiusi nell’armadio, per una sola ragione:
lo aspettava. Compiva quei sciocchi rituali che le davano la sensazione
che, prima o dopo, il suo ragazzo sarebbe tornato e loro avrebbero
potuto far finta di essere una famiglia felice, almeno per un
po’…
“M-mi… dispiace” disse, guardando la
madre con tristezza.
Lei annuì, tirando su con il naso. Si stirò il
maglione e con colpo di tosse si fece tornare il solito dolce sorriso
sul viso.
“Allora, cosa vuoi per cena?”
“Chiedigli almeno se si ferma, prima…”
si intromise Richard.
“Certo che si ferma!” lo zittì lei con
un’occhiataccia.
“Mi fermo” intervenne subito Robert.
“I-io… mi fermo. Si”.
“Oh bene! Hai visto? Lo sapevo!” esclamò
trionfante la donna, battendo il cinque con il figlio. “Ha
portato a casa la chitarra, vuol dire che resta. Vado di sotto, forse
riesco a cucinare qualcosa di speciale!” aggiunse con occhi
sognanti.
“E di commestibile… grazie”
commentò sconsolato il marito, ma lei non parve sentirlo,
già scomparsa al piano di sotto.
Robert mosse qualche passo in camera sua, e già gli sembrava
di essere entrato in un mondo diverso.
Le pareti azzurrine, tendenti al grigio, le aveva dipinte con il padre
anni prima, in un pomeriggio d’estate. Rise al ricordo del
cane, giunta per aiutarli, divenuta tutta blu per l’essersi
rotolata contro il muro.
Allargò lo sguardo e riscoprì l’enorme
scaffale colmo di cd, di dvd e di libri, per lo più vecchi e
sciupati, che avevano popolato la sua adolescenza e animato le sue
notti insonni. In particolare, notò, sulla sinistra,
nascosto sotto un mucchio di pastelli colorati e mazzi di carte, una
vecchia raccolta di poesie, le sue preferite. Era ancora lì,
nessuno l’aveva toccata, restava esattamente dove
l’aveva lasciata prima… di andarsene e trasferirsi.
“Cosa c’è?”
Il ragazzo sussultò e si voltò, con il cane
addormentato in braccio.
“Come?”
Il padre, la braccia attorno ad un ginocchio, e lo sguardo acceso e
attento, lo fissava come solo un buon uomo poteva fare.
“Che c’è che non va ragazzo?”
“Io?”
“No… Patty”.
“Niente papà. Sono solo…”
cercò di dire, un cenno distratto della testa.
“È strano ritrovare tutto quanto. Niente di
più. Sembra di essere immersi in un pozzo e scoprire che
sotto la superficie c’è un mondo dimenticato, un
mondo… che sembra nuovo e inesplorato, ma è
soltanto la rovina di quello che ci si è lasciati alla
spalle”.
Si avvicinò alla libreria e sfiorò il dorso
consunto dei volumi. Dio, quanto tempo c’aveva speso sopra
quelle pagine, chinato in avanti e gli occhi incollati alle
parole…
“Ma non è solo questo”, aggiunse Richard.
“Si, è solo questo”.
Ma l’uomo non disse altro. Aspettò che il figlio
si girasse, lo guardasse con aria interrogativa.
“Cosa papà?”
“Puoi nasconderlo a tua madre, ma non a me”.
“Perché devi sempre avere la convinzione che io
abbia qualcosa da nascondere?”
“Perché lo fai da quando hai sette anni”.
“E non è fattibile che io abbia perso quel
vizio?”
“Non direi, a giudicare da ora” sorrise lui.
Il ragazzo sbuffò, chiudendo gli occhi. Allargò
le braccia e fece scendere il cane, riluttante, e si sedette accanto al
genitore, sul proprio letto.
“Cosa vuoi sentirti dire?”
“Non ne sono convinto… ma credo la
verità” scherzò l’altro.
“E se non volessi dirla?” chiese, prima di alzare
il capo e piantare gli occhi azzurri in quelli del padre.
“Beh… in tal caso, penso che mi accontenterei
dell’essere felice di riavere il mio giovanotto in casa,
anche per la cena, e non chiederei nulla di più”
si aprì in un sorriso raggiante. “Sono un uomo
semplice, lo sai”.
Robert rise con uno sbuffo. Si passò una mano nei capelli e
poi la lasciò cadere di peso sulle ginocchia. Era stato
messo all’angolo, tanto valeva…
“Ha chiamato Sarah” disse, in un soffio.
“Oh, e chi è? Una nuova ragazza?”
“È la mia manager papà!”
alzò gli occhi al cielo lui.
“Ah! Beh allora chiamala “signora
manager”, non sono sempre al corrente di tutto io”,
ma si bloccò non appena il figlio gli fece un cenno deciso
con la mano di tacere.
“Sarah, la mia manager, ha chiamato stasera, meno di
un’ora fa. E… ha detto che ho passato il provino e
sono stato accettato per il ruolo del film di cui vi ho
parlato”.
Richard lo guardò, lo vide mentre si metteva le mani sul
viso e lo nascondeva, e non poté fare a meno di annuire
triste.
Ma non chiese se il ragazzo aveva intenzione di restare con loro, sino
al giorno della partenza, benché lo desiderasse
più di ogni cosa; non chiese quanto importante fosse quel
nuovo progetto… e non chiese nemmeno se lui era felice o
meno. No.
Chiese l’unica cosa che sapeva essere la stilettata al petto
di suo figlio.
“Lei lo sa?”
Robert alzò la testa di scatto e lo fissò
sbalordito.
“C-cosa…”.
“Ragazzo mio, sono vecchio abbastanza da vederci molto
più lontano di quel che vedi tu” sorrise
tranquillo. “Io e tua madre godiamo della tua presenza, anche
se è per poco… ma la nostra vita sta cominciando
a sfumare, l’età della scoperta
l’abbiamo superata da un pezzo. Preferiamo lasciare il mondo
a voi giovani. Non mi stupisco che il tuo primo pensiero
vada… a lei, anziché a noi”.
“Papà io non volevo assolutamente…
io… no! Io mi… Io mi preoccupo per voi!”
“Ma lo so. E lo sa anche tua madre. È stato carino
da parte tua venire da noi, ti ringrazio” e diede
un’occhiata al cane acciambellato sul tappeto, “E
anche Patty ringrazia. Ma… sono convinto che non tutti siano
al corrente della notizia”.
Robert sorse la bocca e riabbassò il capo.
“Lo sa?” incalzò il padre.
“No. Non lo sa”.
“E cosa aspetti?”
“Pensi che sia facile?”
“No, certo che no. Ma è più facile
tacere e trovare un modo per poi svignarsela senza essere scoperti, col
rischio di finire male… O è più facile
vuotare il sacco subito?”
“La differenza fra dire o non dire bugie”.
“In sintesi, si” fece spallucce l’uomo.
Il ragazzo si dondolò sul letto, prima di buttarsi
all’indietro con le braccia sopra la testa.
“Come pensi la prenderà?” chiese.
“Come pensi tu
che la prenderà?”
Lui sospirò, “Probabilmente mi dirà che
è felice per me”.
“E tu le credi?”
“Si. In parte”.
“E qual è l’altra parte?”
“Vorrebbe che non andassi”.
“E tu vorresti restare?”
Il silenzio scese per qualche istante, poi fu interrotto di nuovo.
“Si. Vorrei restare”.
“Bene! Allora fallo! Felice lei, felice tu… felici
noi!”
“Non posso! Io… non posso
papà”.
“Spiegami il motivo”.
Robert si alzò con uno scatto del bacino e si
appoggiò alla spalla del padre.
“Non è tanto una questione di lavoro o
diplomatica. È che voglio indipendenza. Voglio guadagnare
qualche soldo, voglio poter… dare qualcosa”.
“Un contributo” annuì Richard.
“Ti sei stufato di vivere a sue spese”.
“Si” si rabbuiò lui.
“Beh, è una buona ragione”.
“Vorrei fare qualcosa. Vorrei anche dimostrare che non sono
sempre il solito idiota che ci prova a farla stare meglio,
perché in fondo so… che non cambierà
mai” disse con occhi lucidi. Si voltò verso la
finestra e guardò il cielo scuro. “Ho spaccato il
mondo intero per lei, ho… rinunciato ad ogni cosa, e anche
se la vedo sorride o dire che sta bene, io lo sento. Sento quel dannato
e odioso pulsare sotto il suo petto che mi dice che il vuoto che si
è aperto anni fa, è ancora
lì”. Ora piangeva. “A che è
servito? A chi ha fatto più male? A lei? O a me?
Essere… impotente e nullo di fronte ad un qualcosa che io
non posso combattere, di fronte ad una voragine che la risucchia e la
strappa via dal mondo, la porta via da me. Come faccio a fermarla se
nemmeno lei si aiuta?” chiese con un lamento, rivolgendosi al
padre.
Richard lo guardava con l’affetto che gli brillava negli
occhi. Gli passò un braccio attorno alle spalle e lo scosse,
“È una battaglia persa. Non è la
guerra. Di tempo ce n’è ancora”.
“Non reagisce. Si sta avvinghiando come una pazza a”
“A te” completò per lui
l’uomo. “A te, ragazzo mio”.
Robert si sentì morire e si ripiegò su se stesso.
Nascose il capo fra le braccia e sussultò, “E io
me ne sto andando. Io parto”.
“Non è colpa tua”.
“Ho scelto io di fare il provino”.
“Hanno scelto loro di prenderti”.
“Papà!” sbottò da sotto la
felpa il ragazzo. “Non è questo il
punto…”
“E qual è allora?”
“E che non vorrei che facesse qualche pazzia!
Tipo… che mi seguisse in aeroporto, e si mettesse a
strillare che c’è una bomba sull’aereo
pur di non farmi partire!”
“Perché tu vuoi partire, giusto?” lo
incalzò nuovamente l’altro.
“NO!” si agitò il figlio. Ma poi si
irrigidì, si passò le mani nei
capelli… e poi annuì. “Si. Si voglio
partire”.
Richard annuì e sorrise. L’aveva ammesso alla
fine. “Oh. Bene. La verità”.
“Io non… ce la faccio più. Sono stanco.
Ma non fisicamente. È che non… riesco
più a pensare”.
“Robert per quanto io apprezzi quello che hai fatto per
quella bambina, non è giusto che tu debba recluderti ancora
a lungo. Hai solo vent’anni. Pensi di restare chiuso in
quella casa fino ai novanta?”
“Lei ha bisogno di me!” si voltò a
guardarlo, gli occhi rossi e gonfi.
“Lei è dipendente
da te! Lei vive per
te e di
te!” lo bloccò l’uomo. “Lei
non è più umana. L’hai detto anche tu:
non reagisce, perché sa che ci sarai sempre tu a tirarla in
piedi”.
“Mi aspetta sempre, ergo: non sono mai in casa”.
“Basta la consapevolezza che tu ci sia”.
“La sto ammazzando” si nascose di nuovo fra le
proprie braccia.
“L’hai aiutata fin che potevi e questo…
è per me davvero un motivo di grande orgoglio. Sono fiero di
te, ragazzo” mormorò Richard, accarezzandogli la
testa. “Ma è arrivato il momento che cammini con
le sue gambe”.
“Si ammazzerà”.
“Non credere che tua madre glielo permetta. Anche se non
abbiamo mai interferito più di tanto, Charlotte è
rimasta come una figlia per noi. Abbiamo lasciato campo libero per te,
ma ora è giusto che pensi a quello che è bene per
il tuo futuro”.
“È egoista questo”.
“Non sai nemmeno cosa vuol dire egoista” rise il
padre.
Il giovane tirò su con il naso ed inspirò
profondamente. Si passò le mani sul volto, tremando, e
cercò di svuotare la mente. Infine annuì, sapeva
che il padre aveva ragione, sapeva che, per quanto male facesse, per
quanto incomprensibile fosse, era arrivato il momento di camminare lui
per la sua strada… e Charlotte per la propria.
“Promettimi che non lascerai che faccia niente di
stupido”.
Ma non fu Richard a rispondere.
“Charlotte è come se fosse mia figlia.
L’ho cresciuta assieme ad Alice, e a James. Pensi davvero che
permetterei che si ritrovi sola?”, disse Clare, appoggiata
allo stipite della porta.
Entrambi i due uomini la guardarono sorpresi, chiedendosi da quanto
tempo stava effettivamente ascoltando.
“Quando glielo dirai?” chiese poi il padre.
“Domani o dopodomani. Devo pensare a come dirglielo.
Dovrò partire il giorno dopo Natale,
c’è ancora tempo, ma… voglio che si
abitui all’idea”.
“Saggia risposta. Vedrai che andrà tutto
bene”.
“Non dimentichiamo che Marie Anne, alla veneranda
età di ottanta anni, è l’unica
più in gamba di tutti noi!” esclamò
Clare.
E sia Robert che il padre risero. Una risata liberatoria.
“Andrà benone, figliolo!” gli diede una
pacca sulla schiena. “E ora andiamo a mangiare, ah! Che hai
cucinato di buono? Anzi no… non lo voglio sapere. Lo prendo
per il sapore che ha, voglio ignorare quello che in realtà
dovrebbe o potrebbe essere. Voglio vivere i miei ultimi minuti di vita
nell’ignoranza”.
“Poi ti chiedi da chi hai preso l’arte del
“vittimeggiare”, Robert?” chiese la
madre, prima di dare uno scappellotto al marito e guidarli
giù in cucina.
Pollo, uova e patate. Richard non ebbe molto di cui lamentarsi.
Mangiarono parlando del più e del meno, Robert voleva essere
aggiornato sulle ultime novità della famiglia, sui
pettegolezzi dei vicini, con sommo piacere della madre… E
raccontò anche qualcosa riguardo il nuovo progetto
“Twilight”.
“Così, sei un vampiro” lo
puntò con una forchetta Clare.
“Così sembra” fece spallucce lui.
“E hai i denti a punta? Sangue che cola dalla
bocca?” intervenne il marito, imitando una faccia agonizzante.
“Richard, è disgustoso quello che fai”
alzò un sopracciglio la moglie.
Ma il figlio scoppiò a ridere.
“Non lo so. Forse si, forse no. Ho letto parte del copione,
anche se credo ci saranno dei cambiamenti. Non sembra male. Forse un
po’ sdolcinato in alcuni punti… ma è
una love story”.
“Con un’umana” affermò ancora
la madre.
“Si! Kristen Stewart! Oh, mamma, non vedo l’ora di
conoscerla! È bravissima, credimi, penso sia… oh!
Penso sia una delle migliori alla sua età”
esultò il ragazzo.
“Richard smettila di guardare tuo figlio con quello
sguardo” ringhiò d’improvviso lei.
“No, non ci proverà con
l’attrice”.
“Papà!”
“Ma che ho detto?” si difese lui, mani alzate in
segno di resa.
“Non ce la faccio più…”
sospirò infine la moglie, poggiando la fronte sulla mano con
aria disperata, mentre il figlio rideva a più non posso.
“Quello che avrò difficoltà a fare
è cercare di essere il più fedele possibile al
personaggio” disse d’un tratto.
“Che intendi dire?”
“Leggevo che è un essere centenario, quindi ha una
conoscenza vastissima… oltre ad essere demoralizzato, che
tristezza. Ma come si fa ad essere centenario e depresso in un corpo di
un diciassettenne?”
Richard prese i piatti sporchi per portarli in cucina, “Hai
scelto la via dell’interpretazione, ragazzo? Agisci di
conseguenza”.
“Grazie papà, illuminante”
gracchiò in risposta mentre l’uomo spariva in
cucina.
“Perché non provi a rifletterci e scriverci
su?” gli suggerì la madre.
“Ossia?”
“Pensa. Rifletti. Ragiona. Leggi qualche libro di vecchi
autori… e appuntati le idee da qualche parte, poi mettile
insieme”.
“Potrei tenere un diario!” esclamò come
colto da un’improvvisa rivelazione. “Un diario
delle mie giornate e provare a vedere come possono riflettersi nel
personaggio”.
Clare gli strinse il braccio incoraggiandolo e, poi, insieme
raggiunsero Richard in cucina per riordinare le stoviglie.
“Cosa fai stasera?”chiese il padre, mentre
insaponava i piatti.
“È appena tornato a casa, insomma!”
strillò Clare.
“Avanti, non puoi pretendere che si chiuda in casa solo per
fare felici due rampicanti millenari come noi, no? Lascialo
uscire”.
“Io non pensavo di uscire. Volevo stare in camera a
riordinare un po’ le… idee. Se per voi va
bene” rispose poco dopo il ragazzo, passandosi una mano sul
collo con disagio.
“Come preferisci” annuì la madre.
“Ma domani ti voglio fuori, figliolo. Hai degli amici, ho
sbaglio? Tom è passato di qui stamattina, era in crisi
depressiva: ha bisogno di vederti quel buon diavolo, quanto tempo
è che non vi parlate?”
“Una settimana”.
“A noi ha detto un paio di giorni” dissero in coro
i genitori.
Robert ridacchiò di cuore. “Tom non sa
contare”.
“C’è il luna park, qui vicino, non
è grandissimo, ma non è male. Potreste farci un
salto, domani sera, che ne dici?”
Un attimo di silenzio scese nella cucina, interrotto solo dallo
scorrere dell’acqua nel lavandino e il tintinnio delle
bottiglie sistemate nel frigo. Robert si passò una mano fra
i capelli e poi sollevò lo sguardo verso il padre. Uno
sguardo incerto.
“E si… credo che sarebbe un’ottima
occasione per dire a Charlotte la verità” gli
rispose lui. “Parlane prima con Tom. Lui resterà
qui, no? Siete come tre fratelli, l’aiuterà lui al
posto tuo”.
E il figlio annuì triste, prima che la madre andasse verso
di lui e lo abbracciasse forte.
E scese infine la sera. Il cielo era tinto di un blu nero che faceva
pensare a quanto effettivamente fosse profondo l’universo e i
suoi spazi. Non c’erano stelle e solo la luna, sbiadita e
pallida, restava appesa lassù come un piccolo fanale.
Robert salì in camera, seguito dal cane, e si
gettò sul letto. Sospirò a fondo una volta, due
volte, tre volte. Non aveva voglia di pensare. Faceva troppo male. Si
riteneva colpevole, credeva di aver detto delle cose troppo egoiste e
cattive, che i suoi progetti di evasione e voglia di rendersi
indipendente fossero così meschini e ingiusti…
Eppure, in un angolo della propria coscienza, sentiva una flebile
vocina che gli sussurrava che in fondo il suo lavoro di angelo custode
era finito. Era tempo di maturare.
“Sembra tutto così sbagliato” disse,
fissando il soffitto.
Patty alzò la testolina e cominciò a uggiolare.
“Devo trovare il modo di dirglielo senza farla crollare.
Almeno questo glielo devo” sbuffò con ansia.
“Ma non oggi. Ci penseremo domani, vero?”
Con un colpo di schiena si tirò seduto e poi si
alzò diretto alla finestra. Osservò la luna per
qualche istante, guardò in fondo alla via sapendo che dietro
l’angolo c’era la sua seconda casa e poi
tirò le tende.
Andò verso l’armadio, cercò e
indossò una vecchia tuta per pigiama e, dopo aver augurato
la buona notte ai genitori, spense la luce, si rannicchiò
sotto le coperte che sapevano di pulito, con il cane acciambellato ai
suoi piedi, e si addormentò poco dopo con una lacrima che
gli rigava la guancia.
..........
Spazio
ringraziamenti :)
Alors? Che ve ne
pare? Pianto? Io si, lo ammetto, ho pianto mentre lo rileggevo, sono
sentimentale che ci volete fare?
È stato
divertente però scrivere di lui in questo modo, e ho trovato
altrettanto simpatico scrivere di mamy e papy Pattinson, li immagino
davvero così, oh povera me xD
Ma cosa
succederà ora? Eheh, lo scoprirete nella prossima puntata
del documentario “Pattinson Circus”, restate
sintonizzateeeee!!! *-*
Giusto
perché so che… alcune di voi amano, o odiano, a
prescindere (vero Leghy? Adesso mi picchia) il caro
Tom-Tommy… premetto che sarà più che
presente nel prossimo capitolo, eheh!
Ma passiamo ai
ringraziamenti ora.
>
Piccola Ketty:
wiiii, si sono tornata grazie, anche se il libro di italiano continua a
volermi assassinare, è una dura battaglia xD E…
dici che si amano? Davvero? Onestamente non lo so, sono due personaggi
che stanno agendo di vita propria, sono loro che scrivono, non io,
ahaha… Oddio, questo è inquietante! xD
Beh, vedremo che succederà, possiamo scommettere nel
frattempo, che dici? ;) Spero che anche questo nuovo chap ti sia
piaciuto, e ti ringrazio davvero tanto per i complimenti, sei troppo
buona! Un bacio.
>
Sweetcherry:
Ma dai non mi dire! Anche tu hai odiato la manager ed eri pronta a
scagliare saette come il nonno di Pollon? Io c’ero
ù_ù Ma tu guarda se quella megera
doveva rovinarmi il sacrosanto rito dei biscotti, ma vai! Coooomunque,
sta tranquilla, terrò a bada Kristen ;) Grazie per
aver letto, recensito, e spero che anche questo nuovo ti piaccia!
Baciiii
>
Leghy:
uhuuuuuu *___* Si è un idiota nella scena del
mercato. E il bello è che ce lo vedo pure, tu no? “le
mie povere guance non saranno più le stesse!”, ahahahaha xD Eh beh io lo
spero che sia una bella fic. Spero anche che piaccia… scrivo
in modo strano, lo sai, non sempre va a genio… e spesso
scrivo cose che non ci si aspetterebbe (vedi la fic su Twilight: quante
persone volevano linciarmi, secondo te, per quel che c’ho
messo dentro? xD ). Io però ce provo, poi si
vedrà… Grazie cmq, sei sempre fedele e mi
sostieni :3 Spero che anche questo ti sia piaciuto, e poi
è pieno zeppo di lui, dai… non può nun
stuzzicarte, ahahaha xD luv ya :3
Eeeeeee fine.
Grazie signore e
signori per la vostra magnifica attenzione. Spero che il prossimo
capitolo esca più decente e che continuiate a seguirmi,
scrivo anche per voi eh, paperelle ;P
Un bacioneeee
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** 05. taglio netto ***
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 5° capitolo –
Taglio netto
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Mio dio… sono ancora vivaaaaa O___o Non ci credo,
è stato un massacro questi giorni, pensavo seriamente che
l’atrio della mia università avesse un vortice che
mi risucchiava xD ahaha… no ok, sono seria: ho
avuto da fare. E in più sto capitolo m’ha reso il
rimanente della mia esistenza un vero inferno, mannnnacccccia
-.- Comunque, non temete, l’ho finito. Eh
beh, è strano, come al solito. Mi piace e non mi piace. Mi
piace Tommy (e so che molte lo odiano: no dai poverino *_*), mi piace
la scena finale… ma non mi piace l’atmosfera,
troooppo triste ç_ç (ok basta spoiler).
Nonostante questo, mo
le cose si fanno serie, Bobby ha fatto la sua scelta e Charlotte di
conseguenza. Nuovi personaggi all’orizzonte, si parteeeee xD
Ci vediamo sotto per i
ringrasssiamentzzzz :3
5
“Taglio netto”
Si girò su un fianco ed aprì gli occhi. Era
mattina. Lunedì.
Con uno sbuffo di insofferenza si stropicciò le palpebre e
si tirò su piano piano, tanto da scorgere Patty ancora
acciambellata ai piedi del letto.
“Buongiorno principessa” sorrise.
Stranamente ci impiegò poco ad alzarsi, lavarsi e gettarsi
una felpa sulle spalle; di solito passava più di
mezz’ora e sua madre doveva venirlo a reclamare con minacce
di morte.
Scese in cucina, strascicando i piedi e torturandosi i capelli come sua
abitudine. Era distrutto. Gli sarebbe piaciuto dire che quella notte
aveva avuto il sonno più fondo di un orso in letargo, ma di
fronte all’evidenza, a due occhiaie viola, non poteva di
certo negare: si era trovato a fissare il soffitto sino alle cinque di
quella mattina.
Da non stupirsi dunque se mancò di poco lo stipite della
porta della cucina, mentre era perso fra le sue miriadi di riflessioni,
o sogni ad occhi aperti…
“Wow. Ubriaco già alle prime luci del giorno, Bob?
La cosa ci sta sfuggendo di mano”.
Robert dovette impiegare due minuti buoni per abituarsi
all’ambiente circostante e mettere a fuoco la persona che gli
stava davanti.
“Buondì anche a te, amico” riprese la
voce, al di là della stanza.
Il neo attore sorrise e si sistemò sulla sedia. O meglio, crollò di peso
sulla sedia, con la testa sbattuta sul tavolo.
“Mi spaventi” sogghignò qualcuno.
“Buongiorno Tom”.
“Hai dormito bene, immagino”.
“Talmente bene che non me ne sono nemmeno accorto”.
“Scommetto che il soffitto di camera tua ora ha una crisi
esistenziale per essersi sorbito le tue infinite pare mentali tutta la
notte”.
E in risposta giunse un profondo grugnito dal bordo del tavolo.
“Come sospettavo” fece spallucce Tom. Prese poi la
caffettiera dai fornelli e, afferrata una ciotola piuttosto capiente,
ci versò tanto di quel caffè da riempire un
acquario di modeste dimensioni. Lo piazzò davanti al naso
dell’amico. “Ecco qua. Il nettare degli dei.
Serviti”.
L’aroma insistete della bevanda nera sgorgò dalla
tazza e solleticò l’olfatto del ragazzo, ancora
riverso sul bordo del tavolo… Gli punse il naso e gli fece
piegare i lati della bocca in un sorriso. Caffè.
Si mise dritto sulla sedia e prese la tazza. Forse era banale o da
tossicodipendente, ma lui adorava il caffè. Quella
sensazione che pervade la bocca quando il liquido scuro incontra le
papille gustative, poi scende nella gola e la brucia di
sapore… per poi arrivare allo stomaco e scaldarlo.
Celestiale. E d’altro canto, lo rendeva più
sveglio di quanto di solito non fosse, perciò aveva un buon
motivo in più per farne la propria droga personale.
“Grazie” disse con un cenno del capo.
“Hai delle occhiaie da far spavento”.
“Mi sono già visto allo specchio”
alzò un sopracciglio lui. “Che ci fai
qui?”
“Passavo di qua. E mia madre aveva bisogno di chiedere in
prestito una cosa alla tua, così mi ha spedito in missione.
Cose da donne immagino, non ho voluto indagare”
alzò gli occhi al cielo.
Tom era il migliore amico di Robert. Cresciuti insieme sin da quando
riuscivano a ricordarlo, avevano condiviso tutto, dalle magliette
rubate nei reciproci armadi alle lattine di birra, dalla macchina alla
sigaretta post riflessioni profonde… dalle delusioni di
cuore alle pacche sulle spalle per farsi forza. Un’amicizia
normale, un’amicizia come mille al mondo potevano essercene,
ma che per loro era tutto. Entrambi con un sogno nel cassetto,
diventare attori, entrare a far parte di uno scenario che li
affascinava e li ammaliava, come una danzatrice di fronte ai suoi
spettatori; avevano fatto sacrifici, a volte anche umilianti, ma la
resa non era nei loro piani.
Beh alle volte si chiedevano se il momento della loro gloria sarebbe
mai arrivato. Non una gloria pari a quella della folla impazzita mentre
ricevevano un Oscar. Quella era fantascienza, secondo loro. Si
accontentavano di un ruolo che desse spessore e un debole spiraglio di
luce sui propri nomi, sulle proprie persone. E no… Non era
per vanità. Forse un poco, ma lo facevano per passione.
Avere per le mani un mucchio di fogli di carta stampata dove si
susseguivano dialoghi e battute da ripetere poi ad alta voce, parole a
cui dare forma e colore, attimi da sigillare nel tempo e renderli
immortali. Far entrare il personaggio dentro se e permettere a se
stessi di dargli corpo e vita. Non importava se il ruolo era un pittore
di un quartiere di periferia o un alcolizzato che non vedeva
l’ora di tagliarsi le vene, o… un vampiro di
diciassette anni con crisi adolescenziali avrebbe presto detto Robert.
Non era quello che contava. Perché ciò che
valeva, era il sapore della vittoria. Il suono del “ce
l’ho fatta” che riecheggiava nel cuore e vi restava
per sempre.
Quello era recitare. Quello era crescere. Un modo insolito, si,
è possibile. Ma chi si strapazza da un personaggio
all’altro, per saperlo fare con classe, deve prima sapere
che, oltre al regista truccatrici e cameraman, ha a che fare con se
stesso, e sapersi domare o controllare non è un gioco da
ragazzi…
Ed ecco dunque cosa univa i due giovani. Passione. Dedizione. Speranza.
Fatica. E anche una buona dose di incoscienza. Ma se non si vivono
appieno i vent’anni, che prezzo ha la vita itera?
Erano fratelli. Erano alleati. Erano compagni. Erano Robert e Tom.
“Allora, chi ti ha tenuto sveglio stanotte, piccolo
Bobby?”
“Chi ti dice che sia qualcuno e non qualcosa?”
gracchiò l’altro, finendo il caffè
nella ciotola. “Avrei potuto avere il mal di
pancia”.
“E da quando ti accorgi di un mal di pancia mentre dormi? Di
solito ronfi talmente a fondo che nemmeno Charlize Theron vestita da
Cupido in gonnella potrebbe svegliarti, ergo: non era mal di
pancia”.
“Questo perché non era Jennifer Aniston, lei ha
più chances. E comunque poteva essere mal di gola”.
“Ma certo” si batté una mano sulla
fronte il ragazzo. “Come ho fatto a non pensarci prima! Ma se
hai mal di gola vuol dire che ti sei fatto una scampagnata in qualche
bar, e non mi hai chiamato, e hai deciso di darti alla pazza gioia,
pagandone poi le conseguenze. Si. Suppongo sia più
credibile” annuì con occhi chiusi ed aria
saccente. Anche se si affrettò ad aggiungere, “Ma
non pensare che voglia per forza conferirti l’immagine
dell’ubriacone! È che… ti si addice di
più. Mal di testa da post sbronza, che non un mal di
pancia” concluse Tom con un gesto confuso della mano.
Robert lo fissò con occhi sgranati e la bocca semi aperta
per lo stupore.
“Tu hai qualche serio problema, parola mia”.
“Oddio! Oh… oh… oooh! Penso che sia il
complimento più grande che tu mi abbia mai fatto fino ad
ora… Sono toccato” si colpì il petto
l’altro, con una smorfia commossa.
“Sei venuto per rendermi l’esistenza difficile,
già dal lunedì mattina?”
“Gli amici servono a questo”.
“Anche per essere la valvola di sfogo della mia ira, lo
sapevi?”
“Ehi! Adesso non ti allargare, ho solo fatto una
constatazione”.
“Che non mi è piaciuta affatto”.
“Eh… la verità fa male,
quant’è vero”.
Robert appoggiò la ciotola sul tavolo e fissò il
ragazzo che aveva davanti.
“Posso sapere - ”
“Perché non sto mai zitto?”
L’altro gli fece cenno di si con la testa ed un sorriso
tirato. Si era alzato da poco e aveva dormito male. La testa gli
scoppiava e continuavano a lacrimargli gli occhi arrossati. E per
giunta doveva sorbirsi il suo migliore amico che, a quanto pareva,
quella mattina, era più loquace di un bambino a cui avevano
tolto la parola per un mese.
“È un secolo che non ti vedo” rispose
infine, in propria difesa, Tom.
“Tom, è stata solo una settimana”.
“Perché invece quando ti vedo, sei molto presente,
vero?” ribatté lui cacciandosi una manciata di
cereali in bocca.
“Senti”. Robert sbatté la bottiglia del
latte sul tavolo, facendolo tremare, si alzò dalla sedia e,
facendo leva sugli avambracci, si portò in avanti e
fissò in cagnesco l’amico. “Se sei
venuto solo per farmi una ramanzina, quella è la porta,
vecchio mio. Fa come se fossi a casa tua: esci!”
“Di solito quando sono a casa mia… entro…
non esco” parve pensarci su l’altro.
“Cavolo! TOM!”
“Vabene, vabene, ho afferrato il concetto,
d’accordo?”
Robert inspirò profondamente e con calma si risedette, prese
la tazza e si versò del latte in silenzio.
“La verità è che sono venuto per vedere
come stavi” disse con un cenno del capo Tom. Un cenno di
resa. “Lo sai che quando non so da dove cominciare sparo una
marea di cazzate”.
Robert annuì, ma continuò a bere il latte.
“Ecco. Ad essere sincero non sapevo nemmeno se venire. Sai,
non volevo distruggere la tua bolla da eremita in missione di
salvataggio, probabilmente non eri a casa oggi…”
Risposta sbagliata. Robert alzò lo sguardo da sopra i bordi
della tazza e lo fissò con rabbia.
“D’accordo! Cazzata! Cazzata!”
portò le braccia avanti. “Però devi
ammettere, almeno questo concedimelo, che trovarti qui è
più difficile che chiedere a Babbo Natale di - ”
“Darti un cervello nuovo?” completò per
lui l’altro. “Si, hai ragione, è
impossibile”.
Robert si alzò e mise la stoviglia nel lavandino, poi
aprì il frigo e tirò fuori una scatola con un
avanzo di torta; si sedette e riprese a mangiare in silenzio.
“Come faccio a dire o… domandare qualcosa, se ho
paura di essere sparato con il laser che hai al posto degli occhi? Ecco
si! Quel laser!”
“Non necessariamente devi parlare, sai?”
“Dio, amico, ma che ti prende!” allargò
le braccia Tom, con aria rassegnata.
“Sono stanco”.
“Io non ti ho fatto nulla!”
“Tom è mattina! Sto facendo colazione!”
sputacchiò briciole di torta a destra e manca.
E fu l’ennesima inutile risposta nell’arco di
cinque minuti.
“Hei, dove vai?” chiese di colpo Robert, vedendo
sfrecciare l’altro in direzione della porta.
“Mi rendo utile: faccio come a casa mia ed esco! Ciao Bob,
stammi bene”.
“Hei no! No no, aspetta, frena!” gli corse dietro
lui, rovesciando la sedia a terra. Attraversò il corridoio a
grandi passi, lo bloccò sulla soglia di casa e gli si
piazzò davanti.
Era frustrato. Lo doveva ammettere. Era terribilmente giù di
morale, nero in viso, gli occhi gonfi e un tono di voce da fare invidia
a Sauron del “Signore degli Anelli”. Si reggeva a
stento in piedi ed ondeggiava come se, la notte prima, avesse davvero
fatto la maratona di tutti i bar di Londra. E se a questo aggiungiamo
la parlantina loquace dell’amico, gli risultava impossibile
mantenere un contegno tale da passare per umano dotato di sentimenti.
Si passò una mano fra i capelli disordinati e
sospirò, prima di chiudere gli occhi.
Non pensava che sarebbe stato così difficile. Crescere.
Abbandonare quello che da anni ormai era abituato a fare,
ciò che costituiva buona parte della sua vita, dei suoi
perché e delle sue azioni. Abbandonare quello che aveva
promesso di proteggere sino alla fine… abbandonare quello
che, ne era certo, lo rendeva la persona reale che era.
Tom gli poggiò una mano sulla spalla e inclinò la
testa per guardarlo meglio in volto.
“Hei”.
“Scusa” annuì Robert con un sorriso
triste. “Io… Sono stato un idiota. Non volevo,
scusami”.
“Non fa niente”.
“Torni dentro?”
“Ovvio che si! Devo assaggiare la torta”.
Tornarono in cucina e, per cercare di distrarsi, Robert chiese a Tom di
aggiornarlo su tutto quello che si era perso durante la settimana
passata. Niente di sconvolgete, ma lo aiutava a rimettersi in contatto
con il mondo che lo circondava e lo faceva sentire di nuovo completo.
Parlarono poi di una nuova offerta di lavoro per Tom, anche se il
giovane era ancora indeciso se considerarla o meno; accennarono ad
alcuni ruoli da interpretare di cui si vociferava e…
giunsero inevitabilmente all’argomento che Robert avrebbe
volentieri scansato. Ma del resto, oltre ad averne parlato con i propri
genitori, se non ne parlava con il suo migliore amico, il fratello che
non aveva mai avuto, chi altri avrebbe onestamente espresso il proprio
parere al riguardo? Nessuno.
“Che c’è?” chiese Tom, nel
vederlo assorto.
“Devo dirti una cosa”.
“Ti ascolto”.
“Mi hanno… accettato per il ruolo di Edward
Cullen, il vampiro di quel libro. Te ne avevo già
parlato”.
“Si, me lo ricordo”.
“Ha telefonato Sarah, vogliono che mi presenti dopo Natale,
anche se in realtà mi volevano prima delle feste”.
“Mi sembra una cosa sensata: il Natale si passa in
famiglia”.
“Starò via per un bel po’”.
“È una produzione americana. Un bel colpo.
È normale che tu stia via parecchio”.
Robert annuì. Poi scollò lo sguardo dal pavimento
e lo piantò in quello dell’amico, seduto di fronte
a lui.
“Perché non mi dici quello che pensi
davvero?”
Tom rise. “E cosa vuoi che ti dica? Che sono geloso marcio e
vorrei gonfiarti un occhio?”
“Adesso ti riconosco”.
“Naaah! Gli occhi pesti oggi li hai già di per te,
e il tuo faccino ti serve per metterlo sul grande schermo. Sai cosa mi
fa Sarah se ti picchio?”
“Potresti andarci tu al posto mio”.
“Io a fare il vampiro?” alzò la voce di
un’ottava l’altro. “No grazie, preferisco
Cedric Diggory”.
“Simpatico”.
“Cosa vuoi che dica, Bob?” fece spallucce. Si
tirò poi avanti con la sedia e si avvicinò
all’amico. “Sono fiero di te. So che è
il secondo tentativo, vero? E beh, se ci hai riprovato vuol dire che,
in un qualche modo, sarà un ruolo che avrà un
qualche scopo a noi ignoto. Chi lo sa? Devi attraversare un bel
po’ d’acqua per andare dall’altra parte.
Sarai lontano da qui. Sarai lontano da quello che sei abituato a
conoscere. Sarai lontano da questa casa. Sarai lontano da
noi” dedusse passandosi una mano fra i capelli corti e
spettinati. “Ma è quello che comporta,
giusto?”
“Fa… spavento”.
“Che cosa?”
“Tutto” rispose Robert abbassando lo sguardo. Aveva
gli occhi lucidi.
“Essere lontano da casa?”
“A prescindere. Abbiamo sempre detto che è il
nostro modo di crescere, in fondo è anche divertente se
riusciamo a prenderla per il verso giusto. Ma…”
“Ma questo è un bel salto”
completò per lui l’altro.
“C’è un sacco d’acqua oceanica
in mezzo, l’hai detto anche tu prima”.
Rimasero in silenzio per qualche istante, che parve durare
all’infinito.
Fu Tom a spezzarlo con un colpo di tosse.
“I tuoi che dicono?”
“Sono contenti” rispose atono Robert.
“Penso che siano già abituati all’idea
di non avermi quasi mai in casa. Un paio di mesi in più non
farà la grande differenza”. Grattava con il dito
una macchia immaginaria dal tavolo, come a voler pulire un pensiero
fisso che lo assillava.
“E… lei invece?”
Il ragazzo ebbe un sussulto e bloccò la mano. Anche se
quella domanda gli era stata posta la sera prima, dal padre, sentirla
nuovamente gli faceva lo stesso effetto: agghiacciante.
“Lei…”
“Charlotte”.
“Beh…” tentennò, riprendendo
a grattare sul tavolo.
Tom lo osservò per qualche minuto, e poi commentò
con un sorriso, “Non lo sa”.
“Si che lo sa!”
“Oh davvero? Allora cosa ti ha risposto?”
Robert alzò gli occhi azzurri e lo incenerì, ma
l’amico non parve accorgersene.
“Non lo sa, quindi” ripeté.
“Quando glielo dirai?”
“Non ne ho la più pallida idea”.
“Qualcuno dovrà pur farlo. Vuoi che glielo dica
io?”
“Tieni alla tua faccia molto meno che io alla mia”
rispose acido lui.
“No, è solo che ho più fegato di te,
Bob” fece spallucce, “E no, non mi rimangio
ciò che ho detto, stavolta. Perché ho ragione, e
lo sai anche tu”.
Robert annuì e batté con stizza la mano a palmo
aperto, facendo tremare le posate. Si passò poi entrambe le
mani sul volto e sospirò forte. Se pensava la chiamata fosse
il vero guaio da risolvere, si sbagliava di grosso: ammettere
l’evidenza non era più una fatica colossale,
dolorosa, si, ma non mortale. Era il
dopo che costituiva la minaccia contro cui non sapeva che
misure di sicurezza adottare. E adesso doveva trovare una via di
uscita… Non si aspettava di trovarne di rosee e facili, non
ci credeva, ma se non altro quanto bastava per non far crollare gli
anni passati in cui si era dedicato anima e corpo ad una crociata forse
già persa in partenza.
“A che pensi?”
“Ad un modo per non dovermi sentire in colpa nel dirle quello
che devo”.
“Ti preoccupi per te stesso?” esclamò
colpito Tom. “No! Non fraintendermi, è solo che
è la prima volta che la metti in secondo piano”.
“Perché so già quello che mi
dirà e ciò che farà” rispose
lui, scoprendosi ora il volto dalla mani. “E se lei crolla,
fra i due chi è che deve reggere? Io. Ma se sono sopraffatto
dai sensi di colpa, non credo di esserne in grado. Sono un essere umano
anche io”.
“Lo so”.
Restarono muti per un’altra manciata di minuti, ciascuno con
lo sguardo fisso su un punto indistinto della cucina, mentre la
lancetta dell’orologio accanto al frigorifero ticchettava
indisturbata.
“Quello che tuttavia non afferro è questo: tu vuoi
andare o… restare?”
Robert si voltò verso la finestra.
“Tutt’e due”.
“Oh fantastico. Adesso si che è un
problema” si lasciò andare sullo schienale
l’amico. “Il motivo?”
“Andare per… beh fare quello che vorrei diventasse
il mio futuro. Non mi interessa la grana, lo sai, non ci ho mai badato.
E poi questa mi sembra una buona opportunità, anche se la
giudico abbastanza assurda. Ma è una sfida, e la voglio
affrontare”.
“E restare?”
Ma non giunse risposta. Solo l’ennesimo sguardo ferito e
pieno d’agonia silenziosa, uno specchio azzurro mare
attraversato da lampi di buio e vuoto. Un vuoto che strillava paura e
incapacità di afferrare la situazione fra le mani, agire da
persona responsabile e fare un passo al di là del confine.
“Devo ricordarti che… nessuno di noi ha
più cinque anni, Bob?”
“E con questo? Che risposta è?”
“Lei deve crescere” lanciò secco e
asciutto Tom, fissandolo con quanta intensità era capace di
mostrare. E Robert ingoiò amaramente. Annuì, per
poi scuotere la testa vigorosamente.
“Si. Ma da sola. Sarà da sola”.
“Ha quasi vent’anni… non è
una bambina”.
“Parli come se la cosa non ti importasse
minimamente”.
“Hei! È come se fosse mia sorella, lo sai, vacci
piano con le parole”.
“Certo, come no?!” ringhiò velenoso lui.
“Tua sorella. Beh doveri tu in questi ultimi tempi?
Dov’eri due settimane fa, quando credevo che smettesse di
mangiare un’altra volta? E dov’eri quando a scuola
quel tizio ha cominciato a darle fastidio? E dov’eri
quando” ma Tom lo interruppe.
“Io c’ero Robert! O meglio, avrei voluto
esserci”. Ora era serio, non un piega di allegria sul volto.
“Io voglio preoccuparmi per lei. La accompagnerei anche a
scuola e la passerei a trovare tutte le sere, ma tu non me ne dai la
possibilità”.
“Come sarebbe a dire?!”
“Non te ne accorgi, vero? Hai eretto intorno a lei e a quella
casa una barriera, trasformando la tua e la vostra vita in una bolla
felice dentro cui non permetti a nessuno di entrare! Dio Santo, tu
non… Dannazione!” Tom si passò una mano
sui capelli e si appoggiò al tavolo. “Con
l’intenzione di farle del bene, di sollevarla dal peso che si
porta appresso da anni, tu… Robert… tu
l’hai reclusa”.
Arrivarono come due coltellate in pieno petto, affondando nella carne e
raggiungendo il cuore. “Tu
l’hai reclusa”.
La vista gli si annebbiò e credette di svenire.
“C-cosa?”
“Lo so che è difficile da capire, e lo
è per me riuscire a dirtelo senza rischiare di farmi
uccidere da te” ammise Tom, con lo sguardo affranto.
“Ma sono il tuo migliore amico, e queste cose devo dirtele.
Bob la cosa ti è sfuggita di mano. Io ti ammiro, e lo sai, e
ti stimo più di molti altri per quello che ti sei messo in
testa di fare: nessuno ti aveva obbligato, e non credo alla storia del
‘era scontato che lo facessi’, perché
è un’emerita cazzata. Ma ora, è
diverso. Per quanto tempo ancora vuoi andare avanti a leccarle le
ferite? Già di per se l’immagine che evoca
è ridicola, perché non ha più
diciassette anni! È orfana, d’accordo, ma quanti
orfani ci sono al mondo?”
“Sei blasfemo” sputò l’altro.
“No, sono realista! Pensa a chi non ha mai avuto un appoggio
con cui andare avanti, pensa a chi passa la vita da solo e fa di tutto
per non crollare! Beh lei non lo fa e non lo farà mai! Ci
scommetto quello che ti pare che la situazione ora comincerà
a peggiorare, probabilmente è già
successo… Lei non cambierà, non
cambierà mai! Non tornerà più a
sorridere!”
“Perché! Dimmi il perché!”
“Perché ci sei tu!”
Una terza coltellata arrivò secca, ma direttamente
all’anima. Ora era morto.
“Tom… mi stai…
ammazzando…” mormorò a stento. Aveva le
lacrime agli occhi e non se ne accorse.
“Lo so, e mi dispiace” gemette l’amico.
Gli strinse la mano. “Ma è la verità.
Hei, Bob…” si chinò in avanti e lo
osservò da sotto il ciuffo di capelli, “Ammiro
quello che hai fatto, e lo farò fino alla fine dei miei
giorni. Ma adesso… devi lasciarla andare. Le hai insegnato
come riprendere il cammino, ma se continuerai le darai solo false
speranze, perché per quanto tu lo voglia, non ci sarai in
eterno. E il lavoro che hai scelto è il primo ostacolo, e
lei se n’è già accorta”.
“Come lo sai?”
“Perché adesso sei qui. E non sa della telefonata.
Non te ne sei andato per un appuntamento o un intervista
dell’ultimo minuto. Te ne sei andato perché
qualcosa comincia a non funzionare, e prima o poi lo
capirà”.
Robert batté forte il pugno sul tavolo e scattò
all’indietro sbattendo la sedia. Attraversò il
corridoio e puntò alla porta di casa ma qualcosa, come una
barriera invisibile elettrica, lo fermò e lo fece deviare in
soggiorno. Ansimando, si addossò alla parete tappezzata di
fotografie.
“Bobby” lo rincorse l’amico.
“Non ce la faccio” rispose strozzato lui.
“Non ci riesco”.
Tom gli stava davanti e lo fissava. L’avrebbe abbracciato ma
sapeva che doveva rialzarsi con le proprie forze. Non era incuranza o
superficialità, ma se ora l’avesse sostenuto,
probabilmente avrebbe sortito l’effetto contrario: Robert si
sarebbe sentito al sicuro e avrebbe rimandato la cosa chissà
di quanto, lasciandola nel dimenticatoio, per poi agire
d’istinto alla fine. E allora si che sarebbe stato divorato
dai sensi di colpa.
Doveva reagire. Doveva ragionare. Ingrato o no che fosse, quello che
andava detto… era da dire, ne più ne meno.
Charlotte non era più una bambina, e probabilmente anche lei
aveva la sua buona dose di colpe: si era arresa, si era nascosta,
mentre affermava il contrario, e questo creava dolore a se
stessa… e a Robert.
Certo, loro non se ne sarebbero mai accorti, ma chi li osservava da
fuori, all’esterno della loro bolla dorata e magica, poteva
notare con dispiacere quanto precario quell’equilibrio fosse
ormai diventato.
“Senti. Odio dover fare la parte dell’insensibile,
ma qui la situazione sfugge di mano”.
“Oh davvero? E cosa proponi allora? Sentiamo!”
“Non prendermi in giro, sto solo cercando di correre ai
ripari. La bomba non è ancora scoppiata giusto?”
“Che intendi dire?” gemette Robert.
“Beh, potrebbero annunciare ora alla televisione che
l’amico di Harry Potter si imbarcherà per il Nuovo
Mondo fra i vampiri; lo sai, il gossip va di moda”.
“Cosa?” si strozzò di nuovo il ragazzo.
E lo sguardo d’orrore dipinto sul volto era
un’espressione unica.
“Tranquillo, non credo lo faranno. O meglio, non
ancora” si corresse Tom, voltandosi verso la televisione
spenta. “Charlotte guarda la tivù?”
“Ogni tanto. Marie Anne la accende quasi tutte le sere, ma
lei spesso sta in camera”.
“Bene, giocheremmo su questo fattore di vantaggio
allora” commentò con aria cospiratrice.
“E per tanto, dobbiamo trovare il momento giusto per lanciare
l’ancora di salvataggio ed evitare che il Titanic
affondi”.
“Cosa scusa?”, Robert cominciava a non seguirlo
più.
“Le devi parlare, ma come prima cosa… devi
incontrarla”.
“Torno a casa”.
“No no, fuori. Basta rinchiudervi, se non fosse che vi
conosco così bene, potrei anche farmi strane idee”.
“Ecco, non fartele. Rinchiudile e poi bruciale, razza
di…”
“Zitto Pattinson, sto organizzando un piano per tirarti fuori
dai guai, come sempre”.
“Pensavo volessi lasciarmi affondare nelle mie frustrazioni
da solo” sorrise cattivo di rimando.
“Oh ma è quello che farò, solo che ti
concederò l’onore di farlo con grande stile. Gli
amici servono anche per insegnarti come cadere, mantenendo integra la
dignità”.
“Che strano, io credevo che servissero proprio a NON farmi
cadere” si finse falso meditabondo.
“Che sciocchino, non è questo il caso. Cadrai
perché ormai è inevitabile”.
“Sempre realista, sta diventando
un’abitudine”.
“Sono concreto, è un problema, lo so…
dovrò trovare una soluzione anche a quello,
dannazione” mormorò sconsolato, scotendo la testa.
“Quindi verrai con me. Sarai lì quando glielo
dirò”.
“Mhmm, quale concetto del ‘cadrai da
solo’ non è ti chiaro?”
“Hai detto che mi aiuterai a farlo con stile!”
“Ossia che ti procurerò atmosfera e momento
adatti, ma oltre a quello io me ne chiamo fuori, d’accordo?
È la tua crociata, mio caro, non la mia”.
Si guardarono a lungo, con espressioni opposte l’una
all’altra: Robert da pazzo omicida in preda ad una crisi
esistenziale, e Tom da giovane Archimede che sta per risolvere il
quesito del secolo.
“In effetti…” commentò
infine, seguendo una propria scia di pensieri.
“Che cosa? Parli da solo”.
“No, riflettevo a voce alta. Comunque, penso di aver trovato
il buon pretesto per farla uscire”.
“Ossia?”
“Oh è molto semplice: il Luna Park. È
una cosa nuova, e divertente. La bomba verrà attutita da una
manciata di caramelle gommose e zucchero filato. E se sarà
pervasa da raptus rabbiosi, c’è sempre il tiro a
segno no? Sperando che non metta te al posto del bersaglio”.
“Il Luna Park” ripeté Robert.
“Lo dici perché ci credi, o perché vuoi
farti una scampagnata sulle montagne russe mentre io bollo in
pentola?”
“Entrambe le cose, mio caro, entrambe le cose”
sorrise l’amico. “Ma se non ti va, trovami posto e
pretesto migliore. Si accettano consigli al TUO problema”.
Robert sbuffò e si abbandonò sul divano. Tom
aveva ragione. Non v’era altra soluzione. Certo, la migliore
sarebbe stata tornare a casa e parlarle apertamente, mettendo ben in
chiaro le cose, senza spaventarla e senza, tuttavia, darle
“false speranze”, così come le aveva
definite prima l’amico. Ma… non ce la faceva. Lo
disgustava il solo pensiero. E forse perché, proprio come
era stato detto prima, guastare la bolla dorata che aleggiava attorno a
quella casa, alla loro
casa, era come distruggere anni di sacrifici. Piuttosto sarebbe morto.
“D’accordo”.
“Cosa?”
“Luna Park sia. Andiamo.”
“Grandioso!” batté le mani Tom.
“Vedrai, andrà meglio del previsto. Anche
perché, è buffo sai? Ti stai complicando la vita
per una cosa apparentemente così semplice, e la stai
complicando anche a me. È solo un piccolo discorso da
fare”.
“Solo perché sono sensibile”.
“Ti voglio bene anche per questo, lo sai”.
Robert sorrise e si scompigliò i capelli.
“Quando vuoi andarci?”
“Settimana prossima?”
“Stai scherzando”.
“No”.
“Ok, ripeto la domanda: quando vuoi andarci, entro questa
settimana?”
“Devo partire fra un mese, forse meno… Ho tutto il
tempo che voglio!”
“Non se ne parla”.
“Sabato”.
“Oddio, il fine settimana no! Allora si che sarai corroso dai
sensi di colpa, perché IO andrò in crisi
esistenziale se mi poi mi toccherà raccogliere i cocci di
entrambi, la domenica, toglitelo dalla testa! Non te lo
perdonerò mai!”
“Sempre il solito, vero?”
“Oggi”.
“Cosa? Nemmeno per sogno!”
“Andata. Stasera. Chiamo mia madre e le dico che resto da te
fino a domani mattina”, annuì Tom, spostandosi
verso il tavolino con il telefono. Ma Robert lo fermò e gli
piantò addosso due occhi terrorizzati.
“Ti prego”.
“Il lunedì è considerato dal mondo
intero il giorno più infausto fra tutti e sette.
È già osceno di per se, una notizia brutta come
questa è destinata a coronare l’inizio della
settimana. Accettalo. Le cose brutte e pietose si fanno il
lunedì, gli altri giorni sono sacri”.
“Questa perla di saggezza firmata Sturridge da dove
arriva?” lo scrollò in preda ad una crisi di
panico l’altro.
“Da una mia lunga e attenta analisi sul comportamento delle
persone durante i vari giorni della settimana, e ho scoperto che il
lunedì aleggiano molte più imprecazioni che non
il mercoledì, per esempio. E un attacco di follia assassina
da parte di Charlotte, non può che calzare a pennello con
oggi… avrà poi sei giorni per
smaltirlo”.
“Questa è la cazzata numero uno, paragonata a
quelle che hai detto prima”.
“Voglio solo che tu faccia quello che devi,
d’accordo?” si smascherò da solo Tom.
“Prima lo fai, e meglio è! Perciò dacci
un taglio, levami le mani di dosso e fammi chiamare la mamma o ti
illustro le mie teorie sul pensiero di uomini e donne in base ai vari
momenti del ciclo lunare, capito?!”
E come se avesse toccato un oggetto rovente o pieno di spine, Robert si
scollò dall’amico e fece due passi indietro. Lo
osservò comporre il numero, aspettare in linea e poi parlare
allegro con la madre. In sostanza, assisteva alla conferma della
propria condanna a morte senza più muovere un dito. Ma
poteva fare diversamente?
“Ecco fatto. Tutto a posto” disse infine Tom,
concludendo la telefonata.
E Robert annuì. Ormai era fatta.
“E ora?”
“Ora andiamo a pensare cosa cucinarci per il pranzo, nel
pomeriggio mi impossesserò della tua chitarra e infine
decideremo a che ora andrai a prenderla stasera”.
“Un piano perfetto, insomma”.
“Io faccio sempre tutto a regola d’arte,
Bob” rise forte l’amico, prima di scorrazzare in
cucina, seguito a capo chino dall’altro.
E mentre i due ragazzi svuotavano il frigorifero di casa Pattinson,
improvvisandosi cuochi degni dell’Astice, a casa Sullivan,
nel piccolo studio in fondo al corridoio, un cellulare
squillò e qualcuno rispose.
***
T-shirt. Camicia a scacchi rossi e blu. Jeans allacciati. Una
scarpa… due scarpe. Un sospiro. Scese le scale. Si
avvicinò alla porta. Guardò
l’attaccapanni che sembrava stesse emanando fuoco, ma era
solo una sua impressione. Sospirò di nuovo. Prese la giacca.
Infilò un braccio. Poi il secondo. Tirò su la zip.
“Bene, sei pronto! Fuori comincia a piovigginare, ma non
credo sia grave, smetterà a breve”
gongolò Tom battendogli una mano sulla spalla.
“Non credi che sarebbe il caso di lasciare perdere? Potrebbe
diluviare, no? Ci prenderemo un raffreddore tutti e tre”
cercò di convincerlo Robert, con aria finta preoccupata.
“Non mi incanti, vecchio mio, due gocce di pioggia non
possono fare che del bene ad una che l’ha vista cadere dal
cielo soltanto in televisione, o quasi. Non le farà male
uscire, una volta ogni tanto, perciò falla finita”.
E Robert sbuffò abbassando il capo. Non c’era via
di scampo.
“Senti, c’è…
c’è una cosa che vorrei dirti prima. Ci ho
riflettuto parecchio e vorrei che mi stessi a sentire”.
Tom si voltò a guardarlo. “Ti ascolto”.
“Ecco, ho apprezzato quello che hai detto stamattina. Vedi io
sono sempre stato così concentrato su quella che tu chiami
‘la mia missione’, da non rendermi conto che la
stavo trasformando in un legame morboso. Ho sempre pensato di agire per
il bene, che le mie attenzioni, che le mie premure e pressioni fossero
la cosa migliore da fare per farla reagire, quando invece…
la stavo solo costringendo a rinchiudersi in se, senza
accorgermene”.
“I-io… Bob io non volevo dire che - ”,
ma l’amico lo interruppe.
“Fammi finire”. Aveva il capo chino e gli occhi
nascosti dal ciuffo ribelle di capelli ramati. Probabilmente era
sull’orlo delle lacrime. “Non devi sentirti in
colpa per quello che hai detto, hai agito da amico. Si forse con il
metodo “Sturridge”, ossia con la
sensibilità di un rastrello, ma l’ho apprezzato.
Non sono in grado di vedere i miei errori da fuori. O meglio, non li
vedo quando c’è di mezzo lei. Ti
ringrazio”.
“N-non c’è di che” rispose
sorpreso Tom.
“Inoltre ho deciso che si, partirò. È
tempo che lo faccia. Ancora non riesco a credere di dirlo e pensarlo
con disinvoltura senza poi prendermi a schiaffi, ma è la
cosa giusta da fare”. Alzò infine il capo e
fissò il ragazzo. “È tempo di crescere
e, maledizione, non si può fare senza provare dolore e un
briciolo di rimorso”.
Tom lo guardò e provò compassione. Sapeva di non
aver avuto del tatto nel parlargli durante la loro discussione,
c’era andato pesante, ma non aveva avuto altra scelta. Robert
era un tipo sensibile, timido e sentimentale, avrebbe dovuto come
minimo cercare delle parole che non lo lasciassero tramortito. Si
maledisse per questo. Ma d’altro canto, per ironia della
sorte, quelle stesse parole l’avevano fatto ragionare, gli
avevano fatto luce dove per anni si era oscurato il vero disegno di
partenza: far tornare alla vita Charlotte. Perché seguirla,
aiutarla e sostenerla non significava solo rimboccarle le
coperte, metterle il tovagliolo al collo o asciugarle i capelli dopo la
doccia. Aiutarla significava darle una spinta e farle mettere il naso
fuori di casa, scrollarla quando si impuntava, ignorarla quando si
mostrava viziata, stringerla quando era al limite e sorridere con lei
quando le cose miglioravano. Tom era certo che, un tempo, Robert
facesse tutto ciò… ma col passare degli anni la
crociata era diventata un minuetto, un circolo vizioso e aveva perso il
suo vero scopo: lei era divenuta la bambola da rattoppare e lui la
sarta che si affanna a riattaccare i pezzi. E ora, finalmente,
l’aveva capito.
Sorrise e strinse la spalla all’amico. Si. Era orgoglioso di
lui, nonostante tutto. Per quello che aveva fatto. Prima e dopo.
Perché, anche se ultimamente aveva sbagliato inconsciamente,
aveva agito dove altri avevano girato il capo altrove ignorando il
problema, e ora era capace di riconoscere anche i propri errori.
“Promettimi solo una cosa”.
“Dimmi Bob”.
“Io parto. Ma giura su quello che ti pare, non mi importa
cosa, che… che anche se ci fossero trenta metri di neve e
dovessi prendere un carro armato per uscire di casa o… un
meteorite fosse in rotta per la terra, giura che - ”
“Si” concluse l’altro con un sorriso.
“Si, Robert. Avrò cura di lei”.
“Oh… d’accordo”.
“Bastava chiedere. L’arte del melodrammatico ti sta
prendendo un po’ troppo, amico”.
“Non sto scherzando”.
“Senti: la conosciamo da una vita. Forse tu più di
me, ma so benissimo che elemento da sbarco lei sia. E beh, credi
davvero che solo perché tu hai deciso di andare nel nuovo
mondo a giocare a ‘Pocahontas
e John Smith in versione moderna’ , io decida di
cancellarla dalla mia lista di persone degne della mia
tortura?”
“Pocahontas e John Smith…”
ripeté incredulo Robert.
“Il succo della questione: non sarò da lei tutti i
giorni, ma conta su di me. Sapremo cavarcela”.
E il ragazzo annuì.
“Ma a te, chi ci pensa?” disse però Tom.
“Che vuoi dire?”
“Posso contare sul fatto che ti comporterai da essere umano
civile e non fingerai di essere parte della tappezzeria o
dell’arredamento perché ti senti consumato dai
sensi di rimorso, tanto da non socializzare con nessuno?”
“Da quando fai lo psichiatra?”
“Preferisco abbandonare lei, e venire con te”.
“Non ti azzardare!” lo spinse spaventato. Ma Tom
gli bloccò il polso.
“Allora comportati bene. Dio! Sembra di parlare a mio figlio
il primo giorno di scuola: vai a spianarti la strada per il tuo futuro,
Bob! Non ha importanza se non spalerai montagne d’oro,
Pocahontas non aveva oro… solo pannocchie”.
“Oddio, ti prego…” piagnucolò
l’altro.
“Ma quel che conta, è che tu faccia esperienza,
che faccia vedere questo tuo bel faccino” esclamò
prima di prendergli le guance e stringerle facendolo urlare.
“Sveglia Bobby! Fa finta di non essere lo sfigato che sei e
datti una mossa! Porta quel tuo bel sedere tondo tondo davanti a casa
Sullivan, porta Cenerentola fuori di casa, falle la dichiarazione di
indipendenza e poi sparisci!”
Robert lo squadrò con occhi sconvolti convinto di avere di
fronte un essere demoniaco, ed era sul punto di piantargli addosso le
mani messe a croce esclamando “Esci da questo
corpo!”, quando decise che la soluzione migliore fosse
cacciarsi il berretto in testa e uscire.
“Io vado” disse pertanto, ficcandosi la cuffia
sulla fronte.
“Ciao e fa buon viaggio, mio caro” lo
salutò sostenitore l’altro. “E ricorda:
se ti trovi in difficoltà, tutto quello che devi fare
è - ”
“Sta zitto, non lo voglio sapere!”
strillò dal fondo della strada, prima di svoltare
l’angolo.
Camminò per un buon quarto d’ora. O forse era
mezz’ora. Fatto sta che aveva girovagato per metà
quartiere, quando avrebbe già dovuto trovarsi di fronte a
casa di Charlotte, e ora se ne stava appollaiato sulla panchina a
cinquanta metri di distanza e fissava, da lontano, il portoncino con
occhi distrutti.
Stava per farlo. Stava per parlarle. Stava per dirle la
verità. Sembrava così assurdo. Sembrava
così irreale. Per una stupida chiamata ed
un’unitile proposta di lavoro (ma forse non così
inutile), la sua vita aveva infine mostrato tutti i nodi che sarebbero
dovuti venire al pettine molto tempo prima. La domanda allora era: se
Edward Cullen non avesse bussato alla porta, lui… si sarebbe
accorto dell’equilibrio precario su cui danzavano lui e la
ragazza? Si sarebbe reso conto che la loro “bolla
dorata” non era altro che un’armatura contro il
mondo? Si sarebbe accorto che, con il tempo, sarebbe sparito anche lui,
nascosto sotto ideali ormai distorti?
Abbozzò ad un sorriso triste e si passò una mano
sulla fronte. Infondo, quella nuova offerta di lavoro, aveva cambiato
già molte cose senza che lui fosse ancora effettivamente
partito. Cos’altro gli serbava dunque? Presto
l’avrebbe scoperto.
Si alzò lentamente dalla panchina e si incamminò,
arrivando fino alle scale. Le salì un gradino alla volta,
deglutendo rumorosamente. Fece poi per bussare, quando si
ricordò di avere le chiavi di scorta in tasca; le prese e le
infilò nella toppa. Aprì infine la porta ed
entrò. E con sua enorme sorpresa… lei era
lì.
Lei era lì, in piedi di fronte all’entrata,
immobile, e lo stava fissando.
“C-charlotte…” disse lui avanzando di un
passo.
Lei rimase immobile.
“Hei” azzardò ad un sorriso di
circostanza. Entrò e si chiuse la porta alle
spalle.“Sono tornato! Hai visto?”
Lei non disse niente. La linea delle labbra dritta.
“Pensavo che… beh… visto che ieri sono
stato… come dire… un po’ brusco, ecco,
magari… potrei farmi perdonare portandoti al Luna Park. Che
ne dici?” sorrise. “Scegli tu i giochi da fare,
promesso! Hei viene anche Tommy, lo sai? Ci divertiremo un sacco,
però prenditi il capello, minaccia di piovere”.
Lei restava muta.
Robert deglutì e allungò una mano verso di lei,
seguito da un altro passo in avanti.
“C-che cosa c’è? Non parli. Hai litigato
con Marie Anne?”. Quanto si sentiva patetico. Continuava a
parlare a ruota libera, voleva spezzare quell’atmosfera che
faceva presagire nulla di buono.
Ma Charlotte non mosse un muscolo. Gli occhi scuri ridotti a due lastre
di carbone spento.
“Ah. Capisco. Probabilmente ce l’hai ancora con me
per come mi sono comportato” annuì, passandosi una
mano fra i capelli, “Hai ragione, sono un idiota, ma infondo
non sono stato via nemmeno tant - ”
“Questo è tuo” lo interruppe finalmente
lei.
Era stanca. Stanca di sentirlo parlare a vuoto. Stanca di vederlo
arrampicarsi sui vetri, per poi cadere con fracasso. Stanca di sentire
menzogne, una dietro l’altra. Stanca di essere presa in giro.
Stanca di essere trattata come se fosse stata una ragazzina
scema…
“C-cosa?”
“Questo”, e ne dirlo tirò fuori dalla
tasca dei jeans il cellulare del ragazzo e glielo porse.
Robert si ghiacciò sul posto, senza nemmeno avere la forza
di deglutire.
Il suo cellulare. Dannazione, credeva di averlo portato con se, invece
lo aveva lei. Quindi voleva dire che l’aveva lasciato nello
studio. Nello studio dove Sarah lo aveva chiamato. E se Charlotte ora
l’aveva in mano, voleva dire che l’aveva sentito
squillare, ma lui non aveva chiamato… e il numero lo avevano
solo lui e la manager.
“Merda…”
pensò. Lei… lo sapeva. Sapeva tutto.
“Prendilo o lo lascio cadere in terra”.
Con un gesto fulmineo, il ragazzo lo afferrò mentre
l’oggetto era già a metà strada fra la
mano di Charlotte e il pavimento. Alzò poi lo sguardo su di
lei ed ebbe paura.
“I-io…”
“Sta zitto”.
Fu peggio di una frustata in piena schiena. Si piegò al
colpo immaginario e strinse i pugni.
“N-non… io non posso stare zitto”.
“Non voglio sentire altre cazzate, per favore”
sputò secca lei. “Bella la scenetta di ieri dello
sbattere la porta. Era per dartela a gambe dopo che Sarah aveva
chiamato? Ottimo diversivo, i miei complimenti per la tua carriera
recitativa”.
“Non sapevo da che parte cominciare”.
“Non c’è nessun inizio. Bastava
dirlo”.
“Come se fosse facile…”
“Ho detto che è facile?”
Si fissarono a lungo, e l’unica cosa che si leggeva nei loro
occhi era odio. Odio da parte di Robert, verso se stesso, ed odio da
parte di Charlotte per essere stata così stupida e cieca.
Basta. Era ora di finirla.
“Devo partire” disse infine lui.
“Mi fa piacere”.
Tre parole. Dette con superficialità miste a piacere, come
se fosse stata contenta di vederlo sparire. Era davvero
così? Che ingrata. Che ne sapeva lei di quello che lui aveva
passato quella notte e la mattina, ad arrovellarsi la mente alla
ricerca di un modo per farle sapere le notizia il meno dolorosamente
possibile? Che ne sapeva lei? Di colpo si dimenticò dei
buoni propositi e la rabbia e la tensione presero il sopravvento.
Scoppiò a ridere. E le cose degenerarono.
“C-come… ah! Come diavolo fai a dire una cosa del
genere, si può sapere?!”
“Non alzare la voce” lo fulminò lei.
“Come fai ad essere felice di una cosa simile!?”
“Ho detto… non alzare la voce” si mosse
d’improvviso lei, puntandogli contro il petto.
Lui le prese la mano e gliela strinse abbassandola, “Io parlo
come mi pare…”
“Robert non provocarmi” strattonò, prima
di spingerlo via.
“Senti. Saltiamo i convenevoli e andiamo al sodo. Qui le cose
sono solo due: io parto e tu resti”.
“Grazie per avermi illuminato, genio”
ringhiò lei.
“Con una variante: io parto… tu vieni con
me”.
“Prego?”
Come? Gliel’aveva chiesto davvero? Diamine, se ne era
scordato. Non ne aveva fatto parola nemmeno con Tom, forse la sua
stessa coscienza gli aveva nascosto la soluzione più ovvia
al problema, ma perché? Non era allora quella più
giusta? Due sere prime gliel’aveva già domandato e
lei non aveva dato una risposta sicura.
“Non ho voglia di girarci intorno, e tanto meno fare
giochetti di parole. Te l’ho già chiesto. O vieni
con me… o resti qui”.
Che idiota. Se la propria coscienza gliel’aveva nascosta,
come soluzione, era perché andava contro tutto quello che
lui s’era riproposto: crescere, dare un taglio netto agli
spettri del passato, andare al di là del confine delle
proprie paure e respirare aria nuova… Vivere. Eppure, in
quel momento, gli era tornata alla mente la proposta.
Perché? Per metterlo alla prova. Avrebbe dovuto riflettere
prima di parlare. Ma ormai era tardi.
Charlotte chiuse gli occhi ed inspirò forte.
“Non essere insofferente, ragazzina. Ti sto chiedendo di ven
- ”
“Ho capito quello che hai chiesto!”
“Degnati di darmi una risposta allora!”
“La risposta la sai già. È
no”.
Gliela sputò quasi in faccia.
“Perché?”
“Non c’è un perché”.
“Dammi una spiegazione o ti ci porto legata, quanto
è vero che ti sto per prendere per i capelli”.
“Azzardarti a toccarmi…”
“Voglio sapere il perché!”
“Perché è la tua vita.
Perché è la tua
scelta. Perché è il tuo avvenire. Non
il mio. Io non c’entro niente. Né con la macchina
da presa, né con i copioni, ne con i tuoi futuri colleghi,
ne con i miliardi di soldi con cui ti seppelliranno. È
abbastanza?”
Robert la guardò con occhio ferito.
“Dimmi che quello che hai detto è frutto della mia
immaginazione”. Aveva gli occhi lucidi. “Come
sarebbe a dire che non fai parte del mio avvenire? È una
cosa che… io… cosa vuol dire che non
c’entri? Perché non dovresti?”
“Cito le tue parole Pattinson: quale significato della parola
‘no’ non ti è chiaro?”.
Lui assottigliò gli occhi ed una vena di cattiveria si
accese.
“Non ti sopporto quanto fai così”.
“Quando non ti do retta?”
“No quando fai la bambina, brutta stupida!”
Charlotte ammutolì. Come prego?
“Quando ti rifiuti di reagire, quando ti chiudi in te stessa,
quando spranghi la porta di casa e della tua testa, dannazione! Quando
ogni volta che si presenta una nuova occasione per reagire scappi e ti
nascondi! Quando io cerco di coinvolgerti nel mio mondo per farti
cambiare aria, per - ”
“IO HO PAURA!”
“E NON PENSI CHE IO NE ABBIA, EH?”. Ora era
furibondo. “Pensi che io non ne abbia? A prescindere! Non
averti con me, sapendo che sei a casa nello stato in cui
sei… O averti con me, con il terrore di far in modo che tu
ti senta a tuo agio, che tu reagisca senza scomparire da un momento
all’altro! Che razza di persona credi che io sia? Io ho paura
quanto te!”
“Tu non sai niente…” sibilò
lei, ad un centimetro dal suo volto. “Tu non sai niente di quello
che io ho visto e sofferto. Tu non sai niente di come ci
si sente… un rifiuto del mondo. Un essere senza padre e
madre… Lo volevi sapere come ci si sente? Adesso lo sai. Uno
scarto. E tu pensi che il tuo bel mondo fatato mi faccia tornare il
sorriso, eh?” sfoderò un ghigno cattivo.
“Illuso”.
“Non azzardarti mai più a dire che io non so
niente” soffiò a sua volta, quasi le sfiorava la
fronte, “Io ho visto tutto.
Io c’ero…
E se non ci fossi stato, tu saresti ancora in camera tua a nasconderti
dietro l’armadio, piangendo come un’orfana quale
sei”.
Ed arrivò. Secco. Rumoroso. Freddo.
Robert si portò una mano sulla guancia destra stringendosi
la zona lesa. E di colpo il suo volto si scurì e divenne
spaventoso. Non rifletté su quello che accadde dopo. Non
pensò. Agì.
Tirò uno schiaffo a sua volta a Charlotte, dritto
all’altezza dello zigomo.
Ma non erano più bambini, e la sua forza di uomo la
sbatté contro il muro facendola gemere per lo scontro con la
schiena. Le prese poi le mani e gliele torse, fissandola.
Piangevano, entrambi. Robert tremava nell’improvviso rendersi
conto di averla fra le mani in maniera così brutale, ma non
riusciva a lasciarla andare.
E lei, con il naso che aveva cominciato a sanguinare, lo guardava come
fosse lontano chilometri… come se fosse già
partito e davanti avesse un estraneo che aveva interesse a farle solo
del male.
“Vattene”.
“I-io…”
“Va via”.
Un minuto in più per fissarla, e poi scattò
all’indietro, aprì la porta e scappò,
mentre fuori aveva ormai cominciato a piovere.
..........
Spazio ringraziamenti :)
Weilà!! È fatta, woh… Quello scemo, mi
ha alzato le mani sulla mia Charlotteeee!!!! Eretico!!!! Brutto scemo! *si ricompone*
Beh non che lei non se la meritasse, ma insomma… Pattinson,
John Smith per caso prende a sberle Pocahontas con le pannocchie? No
che no! xD
Ecco, a proposito di quello, non ho idea di come mi siano venute in
mente certe scene su John e Poca, o meglio, non ho idea di come mi sia
venuto Tom. A me sta simpatico xD È un po’ scemo,
ma credo che sappia il fatto suo… anche se sarei curiosa di
sentire le teorie sulle fasi lunari, ahaha xD
A parte quello, se ci sono errori di orto sparsi qua e là,
perdonatemi… l’ho postato in fretta, domani passo
e ricontrollo :P Ma che ne pensate? Fa schifo? Lo
so che non è tanto da me chiederlo e implorare, ma stavolta
lo faccio: vi prego commentateeeeeeee!!! Vi supplico, desidererei
davvero tanto sapere che ne pensate, se vi fa schifissimo o…
solo schifo, o forse vi piace. Daiiii, siate buoni, lasciatemi almeno
una riga!! Vi faccio gli occhioni *___* eh? Gli occhioni
*____*
Ahahaha, ok basta o divento malefica xD
Passo a ringraziare le due che han commentato e mi scuso per il ritardo:
> Piccola Ketty:
sempre fedelissima, ti adorooo!!! :3 Aaaallora…
si, si amano. Cioè no… cioè boh xD Non
lo so, e non lo sanno nemmeno loro credo, il tempo ce lo
dirà TomTom prometto farà il bravo o gli sego
via le manine, ma confido che le tenga a casina, eheh! E Kris, si, ci
sarà. Voglio seguire un andamento abbastanza realistico e,
se pensiamo che “a
quanto pare”… Bob e lei stanno
insieme (così dicono, ma non si sa… blah), colgo
la palla al balzo e li metto anche qui, ma ce ne saranno delle belle,
buahahahaaaaaarrrgh!!! (non sono un’amante del
gossip, anzi tutto il contrario, ma mi serviva per la
storia… anche se non nego di sentirmi un po’ in
colpa ^^”). Di questo nuovo chap che mi dici? Baci
cara, grazie mille, sei sempre gentilissima e mi sostieni :3
> _Miss_:
Hei ciao, sei nuova!! Piacere di conoscerti e… contentissima
che ti sia piaciuta. Mi spiace di averti fatto aspettare, ma
l’uni mi ha inglobata XD Spero ti sia piaciuto anche questo
nuovo chap, e contenta anche che quello passato ti abbia commossa, vuol
dire che sono riuscita nell’intento! Un bacione :3
E… grazie anche a chi legge silenziosamente,
però…. *______________* (occhioni, daiii)
Un bacione
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** 06. saper aspettare ***
06
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 6° capitolo –
Saper aspettare
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Eeeeeh. Salve. Come va?
Si lo so. Sono
scomparsa. Sparita. Disappeared. E voi mi odiate, lo so…
L’uni mi ha
risucchiata definitivamente, non sto scherzando xD E…
diciamo anche che si sono aggiunte complicazioni, ma…
facciamo che ne parliamo dopo, sotto? Così vi lascio leggere
in santa pace…
Il capitolo
è sofferto, molto sofferto perché ho faticato in
maniera indicibile, e poi vi spiegherò il perché.
Vorrei solo una cosa:
perdono ç_ç
6
“Saper
aspettare”
Il
rumore di un piatto infranto, seguito dal tintinnio di posate che
cadevano a terra come una cascata. Lo scoppio dei mille vetri di un
bicchiere schiantato sul pavimento.
Tom era immobile nel
centro della cucina, con la bocca spalancata a dismisura e gli occhi
talmente dilatati da apparire alienati.
Gli cadde anche
l’ultima forchetta di mano, poi il silenzio regnò.
Dall’altra
parte della stanza, Clare era congelata accanto al frigorifero con la
teglia della pasta al forno ferma tra le mani. Fissava un punto
preciso, poco distante da lei, e la sua espressione avrebbe potuto fare
a gara con quella allucinata dell’ “Urlo”
di Munch.
E Richard. Fermo
nell’atto di sedersi, stringeva fra le dita lo schienale ed
era indeciso se accennare a sorpresa o scontento.
Nell’indecisione, optò per il silenzio e le labbra
serrate in una piega obliqua.
Ed infine. Robert. In
piedi davanti all’entrata della cucina.
Aveva uno zigomo
rosso. Gli occhi gonfi. Le occhiaie di quel mattino erano duplicate ed
avevano un colore violaceo. E sulle mani, sulle nocche e sui
polsi… c’erano dei segni. Rossi. Erano tagli.
Erano graffi. Erano nuove cicatrici.
Era tornato a casa.
Aveva aperto la porta. Era comparso nella stanza come uno spettro, o
una sorta di ologramma di se stesso, e senza dare modo di ricevere
domande, aveva semplicemente lasciato che dalla sua bocca uscisse come
un fiume in piena il resoconto di quello che era accaduto poco prima.
E ora, se ne stava
lì. Pietrificato contro lo stipite della porta, quasi
cercasse un appoggio per l’improvvisa stanchezza che lo
schiacciava.
Non disse una parola
di più. Non aggiunse altro. Non ne aveva la forza. Non ne
aveva il coraggio.
“T-tu…
tu…” cercò di riprendere
l’uso della voce Tom, dopo un tempo che parve interminabile.
“T-tu… tu l’hai…”
“Robert”
gemette la madre, con la teglia ancora fossilizzata fra le mani.
Ma lui non rispose.
Continuava a fissare il pavimento, fra la piastrella accanto al mobile
e quella subito dopo, dove solo lui riusciva a vedere quel
vortice… quel dannato buco che, ad ogni minuto che passava,
si allargava senza sosta e diventava nero, e dal profondo giungevano
sempre più alte le grida e le eco delle parole e dello
schiaffo che non cessava di bruciargli la pelle sul viso. Lo
schiaffo… lo risentiva, secco. Prima freddo, e poi caldo. E
di nuovo. Arrivava, colpiva e sfregiava. E ancora…
“Robert!”
Il ragazzo
sussultò e si sganciò dal fiume di ricordi che lo
stavano risucchiando nella follia. Alzò lo sguardo e si
trovò di fronte Tom.
“Ha-hai una
faccia che non… va bene”.
“Figlio
mio” gemette Clare.
“È
sempre quella… non è cambiata molto…
nell’arco degli ultimi venti minuti” rispose con un
tono inumano ed una estrema fatica. Sempre dovesse sputare sassi
roventi tanto contorceva il volto in una smorfia.
“Venti
minuti?” chiese l’amico. “Bobby
è passata l’ora di cena da un pezzo. Sei uscito
un’ora e mezza fa”.
Robert
alzò un sopracciglio e storse la bocca.
“Mi
prendi… in giro”.
Ma Tom scosse la
testa ed indicò l’orologio. Era passata ben oltre
l’ora e mezza. E il ragazzo, dopo aver constato che
effettivamente non era uscito da poco, si ghiacciò per
l’ennesima volta e tornò a guardare i propri
genitori e il migliore amico.
“Falla…
finita. Smettila… di fissarmi… in quel
modo… maledizione” ringhiò. Un ringhio
basso.
“C-così
come?” domandò Tom, facendo un passo indietro.
“Dio…
Tom… ho detto di piantarla”.
“Tesoro,
cerca di non agitarti, sei teso. T-togliti la giacca, e vatti a
stendere sul divano” cercò di avvicinarsi la
madre, toccandogli la spalla. “Io nel frattempo ti preparo un
po’ di tè”.
“Non
voglio… il tè” rispose con stizza,
scrollandosi di dosso la presa dolce della donna.
“Non… lo… voglio”.
“Ma…”
“Bobby,
dovresti cercare di calmarti, hai una brutta cer - ”
“LA VOLETE
PIANTARE DI DIRMI CHE HO LA FACCIA DI UN MANIACO!? BASTA!”
L’urlo
scoppiò nella cucina come un boato e si infranse sui muri,
facendo tremare i vetri. Clare fece ondeggiare la teglia per lo
spavento, mentre Tom schizzò indietro di dieci passi
appiattendosi contro i fornelli e ripetendosi che qualunque cosa fosse
accaduta, doveva restare muto.
E se i loro visi
erano divenuti pallidi, quello di Robert era livido, sfigurato in
un’espressione che lasciava trasparire dolore e frustrazione,
tanto da rimanere schiacciati dall’enorme peso che emanava;
era come se fosse sotto tortura, come se il carnefice fosse impegnato a
trapassargli la schiena e il petto con una lama di ghiaccio e lui non
potesse fare nulla per sottrarsi all’agonia…
Perché non si trattava di un essere in carne ed ossa da cui
fuggire, ma di un senso di colpa che, da dentro, strappava e lacerava
la carne facendogli riflettere su quanto ancora il dolore gli avrebbe
dato permesso di vita.
“D’accordo,
ora ne ho abbastanza”. Richard riaccostò la sedia
al tavolo e lo sorpassò. L’apprensione di sua
moglie e la parlantina di Tom non avrebbe portato da nessuna parte, se
non ad un ulteriore crollo emotivo del figlio e dei propri nervi, il
che avrebbe potuto rivelarsi un gran brutto affare visto che, come al
solito, doveva riportare lui l’ordine, ma del resto, era
l’uomo di casa. “In questo modo non otterremo un
accidente. Robert, dà la giacca a tua madre e viene in
camera”.
“Ho
detto… che non voglio” ringhiò il
figlio in posizione di difesa.
“Questa
è casa mia” gli si piazzò di fronte il
padre. “E fin quando resti sotto questo tetto e mangi alla
mia tavola, tu fai esattamente quello che dico io. Anche se vivi da
clandestino, resti sempre mio figlio. Perciò… ora
ti levi quella giaccia e vieni di sopra”.
E così
facendo strattonò la manica del ragazzo e lo costrinse a
spogliarsi; dopodiché lo guidò al piano di sopra
spingendolo con forza sulla schiena, lo fece sedere in camera sua sul
pavimento e chiuse la porta.
Tornò poi
sui suoi passi, facendo in fretta le scale, e andò in cucina.
“Richard!”.
Clare gli fu subito incontro.
“Sta bene.
O almeno… credo sia sotto shock” la
rassicurò il marito, facendole una carezza sul viso.
“Ha
picchiato Charl - ”
“Smettila
di ripeterlo, Clare: non cambierà le cose”.
“Ha d-dei
segni sulle mani”.
“Avrà
preso a pugni qualcosa” annuì l’uomo
fermandosi a riflettere.
“O
qualcuno” ipotizzò Tom.
“Tom, ti
prego” alzò la voce terrorizzata la madre,
all’idea del proprio figlio coinvolto in una rissa violenta.
E il ragazzo fu costretto a tornare al proprio silenzio meditativo.
“Bene, la
cosa è gestibile se nessuno di noi si fa prendere dal
panico, intesi? Io ora torno di sopra e vedo di scoprire che
è successo; Clare tu prepara qualcosa per farlo dormire un
po’. E tu Tom… va dalla ragazza e resta con
lei”, ordinò con tono secco Richard, prima di
andarsene.
“E se
piglia a schiaffi anche me e mi sbatte fuori di casa?”
“Ti ci
riaccompagno personalmente, puoi scommetterci”, fu la
risposta dalle scale.
“D’accordo,
ho capito l’antifona” commentò abbattuto
il giovane, prima di avviarsi verso l’entrata e prendere il
cappotto.
“Forse
dovresti portarle qualcosa” gli fu subito dietro Clare,
“Dei biscotti o… una fetta di dolce, per tirarla
su di morale, c-credi che lo apprezzerebbe?”. Era
sull’orlo delle lacrime.
“Senza
offesa, ma vuoi la mia morte?” chiese Tom mentre si legava la
sciarpa al collo. “Meglio non metterle oggetti fra le mani,
fin quando sono con lei, non credi?”
“Tom!”
“No, non li
vuole i biscotti” rispose annoiato aprendo la porta,
“Vuole solo che quell’idiota le chieda scusa, ma
questo non accadrà mai, perciò no… non
le serve nulla”. E detto ciò sbatté la
porta e la sua ombra scomparve nella notte, mentre la donna si
accasciava sul divano e si stringeva nella spalle chiedendosi cosa mai
stesse succedendo.
Nel frattempo, la
porta della camera di Robert si aprì e si richiuse. Nella
penombra che avvolgeva l’intera stanza, rischiarata solo
dalla flebile luce della lampada sul comodino, Richard si
avvicinò cauto, ma senza timore, al figlio, per poi sedersi
accanto a lui sul tappeto. Aspettò qualche istante, dando un
paio di colpetti di tosse per schiarirsi la voce e segnalare la sua
presenza; ma il ragazzo restava immobile, con lo sguardo azzurro
spiritato e le mani strette fra loro in una morsa arrossata e ferita.
“Beh,
giusto per fartelo notare: sono seduto qui accanto a te. E quando avrai
finito di crogiolarti nel limbo dei tuoi sensi di colpa e ritornerai su
questo pianeta, avvertimi…” disse il padre.
Scorsero pochi e
pesanti attimi, prima che ci fosse risposta.
“…
vattene”.
“No”.
“Non ho
voglia… di… parlare. Con nessuno. Va
via”. Chiuse gli occhi Robert, respirando con fatica.
“Invece
credo che parlerai, figliolo”.
“Perché…
ogni volta…
che faccio qualcosa… di sbagliato… e non voglio
parlarne… tu devi sempre… rendermi
l’esistenza… un… inferno?”
“Non lo
faccio sempre” scosse la testa l’uomo.
“Tutte…
le sante… volte…”
“Robert,
stammi a sentire - ” cercò di imporsi lui,
prendendolo per una spalla.
“Lasciami
stare!”
E al solo contatto,
il figlio scattò come una molla e si rannicchiò
in un angolo distante ai piedi del letto con un urlo disumano.
Fissò il padre con i grandi occhi azzurri sgranati e feriti:
un’occhiata di terrore misto ad agonia, un’occhiata
che nessuno, in quella casa, si sarebbe mai sognato di vedere un giorno
o l’altro… Si lasciò poi andare disteso
e cominciò a prendere a pugni il tappeto, mentre le lacrime
avevano ripreso a scorrere copiose sulle guancie.
Richard, per la prima
volta in vita sua, non seppe che fare. Rimase a guardarlo con impotenza
mentre lo vedeva contorcersi per il dolore dell’animo, mentre
colpiva a morte i suoi ricordi… Un padre che osserva il
proprio figlio autodistruggersi, senza muovere un dito, senza sapere
quale parola fosse quella magica per farlo tornare in se. Senza avere
il coraggio di riconoscere in quel ragazzo Robert.
“…
odio”.
L’uomo
alzò il capo e, con gli occhi lucidi, chiese,
“Dimmi”.
“…
odio”. E un altro pugno assestato al pavimento.
“Cosa
odi?”
“ME!”
“Perché?”
“I-io…
io l’ho… picchiata papà, io
l’ho…”
“Uno
schiaffo non è la fine del mondo. O… non era
soltanto uno?” domandò con un tremito nella voce.
Che avesse perso la ragione e la memoria stesse tornando poco a poco
rivelando l’accaduto?
“Come…
come… io no! Come potrei?!”. Robert si
alzò di scatto dal pavimento e smise di respirare.
Fissò il padre. Aveva gli occhi azzurro mare infuocati e
l’espressione spettrale. “Io non l’ho
picchiata”.
“Ne sono
convinto” annuì Richard, tuttavia più
sollevato, ma non lo disse. “Ti va di dirmi che è
successo?”
E alla sola idea, il
ragazzo riprese a contorcersi, aggrappandosi alle ginocchia come un
bambino indifeso.
“Non…
voglio…”
“E restare
in questo stato per tutto il tempo? Tanto vale vuotare il sacco, o ti
vergogni di me? Pensi che io non abbia mai preso a pugni
nessuno?”
“Non hai
mai… non hai mai picchiato la mamma”
commentò l’altro, tirando su col naso.
“No
beh… quello no”.
“Sono un
mostro”.
“Perché
hai la faccia gonfia e le mani rosse?” chiese indicandolo e
cambiando discorso.
Robert
guardò in giro per la stanza, prima di riuscire a
rispondere, “Mi ha tirato uno schiaffo”.
“Ah”.
“E
ho… preso a pugni… l’albero in fondo
alla via…”
“E lo
schiaffo te l’ha tirato prima o dopo l’av -
”
“Prima”
lo interruppe lui. Voleva che finisse di fargli domande. Non capiva?
Non vedeva il fuoco che bruciava dal petto sino alla testa, che lo
avvolgeva come un rogo assassino e che lo lasciava senza fiato? Non
vedeva i ricordi e le immagini dell’accaduto, riflesse nei
suoi occhi? Che senso aveva fargliele rivivere? Che senso aveva
costringerlo a sentirsi doppiamente meschino, doppiamente uomo senza
dignità, perché calpestata da se stesso?
“Quindi ha
cominciato lei”.
“Sono stato
io”.
“Ma lo
schiaffo l’ha tirato per prima lei. O…
c’è dell’altro?”
“A-abbiamo…
litigato”.
“E
perché?”
“Ha
scoperto tutto”.
“Tutto
cosa?”
“Tutto”
ammise con occhi colpevoli. “S-sarah… ha chiamato
sul mio c-cellulare. E lei ha risposto…”
“E
dov’era il cellulare?”
“Nello
studio. Io… io l’ho dimenticato”.
I nodi cominciavano a
venire al pettine. La manager aveva preceduto il figlio nel dare la
“lieta novella” e, evidentemente, aveva scelto il
momento meno opportuno, come da manuale. Dannata di una donna incapace,
pensò Richard, e per giunta a lui non era nemmeno mai
piaciuta, ora poteva liberamente odiarla senza rimorso.
“Charlotte
si sarà arrabbiata perché non sei stato tu a
parlarle per primo, giusto?”
“Era
furiosa”.
“Beh non
possiamo darle torto. E quel buon diavolo di Tom stava agendo di buon
senso a mandarti a confessare stasera stessa. Il fatto che quella serpe
ti abbia preceduto, è solo… beh…
sfiga?”
E Robert
abbozzò ad un mezzo sorriso involontario nel sentire il
padre parlare con un gergo giovanile.
“Oh, allora
sai anche sorridere!”
“No…”
ringhiò, prima di tornare cupo.
“Avanti,
non fare il tenebroso. Vediamo piuttosto di ricapitolare: sei andato
per vuotare il sacco, ma lei ne era già al corrente. Avete
litigato, lei ti ha tirato uno schiaffo e tu, da buon gentleman, non hai porto
l’altra guancia ma
hai percosso la sua” elencò sulle
dita l’uomo, “Quello che mi sfugge è:
quella bambina ti rivoltava come un calzino
all’età di dieci anni, ma ora… vederla
alzare le mani mi riesce un po’ diffic - ”
“L’ho
insultata…” ammise dolorosamente Robert senza
sapersi frenare, prima di affondare le unghie nei tagli e farsi male.
Trattenne un gemito. “Io… l’ho
insultata, papà. I-io… le ho…
detto…”, ma la voce gli morì in gola.
“Che cosa
le hai detto?”
“C-che…”
“Che?”
“Ecco
io…”, e si affondò le unghie nei tagli
un’altra volta.
“Vuota il
sacco, sono vecchio e non mi resta molto” cercò di
ironizzare lui, per alleviare l’atmosfera grave.
“Io le
ho… rinfacciato che è
un’orfana”.
Shock. Buio.
Silenzio. Glaciale.
Richard si
pietrificò sul pavimento e rimase con la mano, su cui
contava, sospesa nell’aria e lo sguardo paonazzo fisso sul
figlio. Gli ci vollero un paio di buoni minuti prima di riacquistare la
lucidità e il controllo di se stesso.
“C-che cos
- ”
“Non
l’ho fatto apposta, papà” pianse il
figlio, coprendosi il volto.
“E…
ti ha tirato solo
uno schiaffo?” chiese con la voce strozzata.
“Si!”
L’uomo si
passò una mano sulla fronte ed inspirò
profondamente nel tentativo di calmare la rabbia improvvisa che gli
saliva dal petto alla testa, come l’acqua in un bollitore. Si
costrinse a contare sino a dieci, prima di commettere atti troppo
impulsivi.
“Ringrazia…
di avere ancora la testa attaccata al collo, allora…
perché se ci fosse stato qualcun altro saresti al campo
santo, razza di bifolco che non sei altro!”. E se prima era
impotente davanti all’agonia del figlio, ora moriva dalla
voglia di arrossargli anche l’altra guancia. Non era un tipo
violento, ma non aveva cresciuto un camionista con la
sensibilità di un teppista alcolizzato, e sapere che Robert
mancava di rispetto, a prescindere, era una cosa che non tollerava, ne
mai l’avrebbe fatto.
“I-io…
mi dispiace” pianse ancora lui, dondolandosi sul posto.
“Sono
ancora sotto shock, e sei troppo lontano perché possa
tirarti io
uno schiaffo come si deve, ma questa… questa non la passi
liscia, Robert Thomas”.
“Papà…”.
“Smettila
di frignare, te la sei meritata, dannazione!”
sbraitò, prima di alzarsi e andare verso la porta. Ma non
fece nemmeno in tempo ad aprirla che la moglie la spalancò.
“Oddio,
Richard! Tom non è ancora tornato!”
“Certo, gli
ho detto di non tornare, ma che ne sapevo io?”
strillò. “Che ne sapevo della galanteria di tuo
figlio, eh? Chiedi un po’ a ‘mister
sensibilità in saldo’ che ha fatto! Chiediglielo!
Mi tocca andare a salvargli l’amico ora, o ci troviamo lui
senza testa, e questo per colpa TUA, sia ben chiaro!”
aggiunse indicando il figlio.
“Ti
prego…” gemette l’altro, sempre con le
mani sul viso e il dondolio incessante.
“Blaaah, io
ci rinuncio, quando tornerai ad essere un uomo, discuteremo della tua
punizione, anche a costo di farti saltare il giro turistico oltremare.
Ora vado a recuperare quel buon diavolo, maledizione!”. E
detto ciò si precipitò giù dalle
scale, prese la giacca ed uscì con la porta che sbatteva.
***
Tom era
già sulla via di casa quando il signor Pattinson lo
trovò, e a giudicare dall’aspetto e le parole
balbettate non doveva aver passato una mezz’ora serena.
Charlotte aveva dato
filo da torcere e Tom era stato costretto a farsi aprire la porta sul
retro da Marie Anne, ma fosse finita lì la
difficoltà… Una volta in casa,
l’uragano gelido lo avevo investito, gli aveva detto di
andarsene o avrebbe rimandato indietro il messaggero a metà
e il rimanente sarebbe stato seppellito in giardino. Ovvio, Tom aveva
cercato di mostrarsi gentile e di farle mantenere la calma, ma era
servito a ben poco.
La stessa Marie Anne
aveva convenuto che quello fosse il momento meno opportuno per farla
ragionare. L’aveva quindi accompagnato alla porta dicendo che
non era con lui che doveva prendersela, ma in quello stato non avrebbe
fatto distinzioni…
“Gran bel
lavoro” commentò quindi Richard a volto scuro.
Decisero di restare
fuori casa per un po’, passeggiando al parco poco distante, a
schiarirsi le idee, dato che aveva smesso di piovere e tirava soltanto
una brezza leggera.
“L’ha
combinata grossa stavolta, mi sa…”
abbozzò Tom.
“Grossa?”
esclamò Richard. “Grossa? Di dimensioni tali che
potrei levarlo dal mondo”.
“Da piccoli
si picchiavano sempre, però”.
“E questo
cosa significa? Ti ho sempre considerato dotato di buon senso, ma con
questa uscita perdi punti, Tommy”.
Il ragazzo fece una
smorfia prima di stringersi nelle spalle e prendere a passeggiare
distrattamente lungo il marciapiede.
“Non
è per lo schiaffo in se che sei arrabbiato, ma per quello
che lui ha detto, vero?”
“Mi chiedo
come gli sia venuta da dire una cosa simile. Come abbia potuto fino a
mai pensarla… Lui, soprattutto!”
“Beh…
forse un motivo c’è” disse Tom con un
cenno distratto del capo.
Richard si
voltò verso di lui e lo guardò con aria
interrogativa.
“Ossia?”
“Non ne
può più” disse asciutto
l’altro. “La verità è che ne
abbiamo parlato, di… questa faccenda, ecco. Lui si
è accorto di avere calcato troppo la mano con il suo
‘progetto di salvataggio’ e… beh penso
si senta in colpa per l’aver combinato un casino colossale, e
di conseguenza voglia fargliela pagare. A lei, intendo. La ritiene
responsabile almeno tanto quanto se stesso”.
“E quindi,
secondo te, avrebbe detto una carineria simile per vendetta”.
“Si. Ma
resta pur sempre una cazzata”.
“Tom!”
“V-volevo
dire, una cavolata…
si” sorrise.
Richard si
passò una mano fra i capelli e sospirò
profondamente, in preda allo sconforto.
“Ma
immagino che tu non sia d’accordo con me, vero?”
disse il ragazzo alle sue spalle.
“È
solo che è inquietante vedere il proprio figlio agire
secondo un… principio che non gli si addice”
mormorò triste l’uomo. “L’hai
mai visto agire per vendetta?”
“Tralasciando
le battute ironiche e cretine… no” scosse la testa
Tom, con la linea delle labbra obliqua.
Scorse qualche attimo
di freddo silenzio prima che Richard piantasse i piedi a terra e
alzasse lo sguardo verso il cielo con un lamento.
“No. Non lo
è”.
Tom lo
guardò con la fronte corrugata. “Che
cosa?”
“Non
è stata vendetta, Tommy”.
“Ah…
no?”
L’altro si
voltò e lo fissò, “No”.
“E…
quindi?”
“Rob
soffre. Quel che dici tu è vero, è consapevole
dell’aver sbagliato, nonostante cercasse di agire per il
bene. Si è accorto da tempo ormai che lei non
cambia… ma non vuole ammetterlo. Ferirla…
equivale a farle provare almeno la metà del dolore che lui
prova, suppongo”.
“Quindi
vendetta”.
“Disperazione,
Tommy! Robert non sa cosa voglia dire fare del male”.
“Ma
non… non ha alcun senso! Cavolo, c’è
l’ha forse?” allargò le braccia
incredulo il giovane. “Agire in quel modo solo per rendere
partecipe qualcuno al proprio tormento interiore, lo trovo alquanto
contorto, per non dire IDIOTA! Ci sono mille e uno modi per farsi
comprendere, e lui che fa? Alza le mani e offende in maniera gratuita!
Oh, forse non sarò la persona più indicata per
protestare, certo, ma anche
io ho un margine di possessiva protezione su Charlotte, e
la cosa non mi è andata molto a genio, sia
chiaro!” aggiunse puntandosi un dito al petto.
“Diavolo,
ragazzo” lo guardò sorpreso Richard,
“Sfogati!”
“Io ci
provo a fare la parte dell’amico che lo comprende e lo aiuta
a ragionare, ma se si oppone e preferisce la via del lato oscuro,
padrone di farlo! Ma che non coinvolga altri nella sua caduta verso i
bassifondi!”
“Potrei
interpretarlo come un disinteressamento verso il tuo migliore
amico” sorrise Richard, pur sapendo di non pensarlo davvero.
“Io
voglio… b-bene… a Bobby”
balbettò d’improvviso Tom, rosso fuoco in volto.
Si girò di poco per nascondere l’imbarazzo.
“È un idiota collaudato, ma lo sono anche io.
È solo che non capisco perché si debba impuntare,
perché dica di ascoltare agendo poi di testa sua, finendo
con il crogiolarsi nei propri sensi di colpa! Ha una valida
giustificazione, forse? Beh io non la vedo, mi spiace”.
“E da
quando, dimmi, si agisce col senno in amore?”
Se fosse stato un
vecchio film western, probabilmente non sarebbe stato insolito
l’alito di vento carico di sabbia del deserto e
l’immaginaria palla di sterpi rimbalzante ai lati della
strada, mentre Tom sgranava gli occhi e impiegava qualche minuto per
riacquistare coscienza ed esclamare “Come prego?”
Richard rise e gli
batté una mano sulla spalla con affetto.
“Non te ne
sei accorto”.
“Si.
Cioè… no. Cioè… di
cosa?”
E l’uomo lo
guardò con aria scontata e che non ammetteva dubbi. Il
ragazzo, dal canto suo, strizzò gli occhi e
arricciò i lati della bocca, mentre gli ingranaggi del
cervello stridevano e sbuffavano. Sospirò e annuì
abbassando il capo.
“Sono un
idiota”.
Richard rise per la
seconda volta. “No. Non lo sei”.
“Avrei
dovuto… insomma, si”.
“Alle volte
le cose più ovvie sono le più difficili da
ammettere o notare”.
Tom lo
guardò, un misto di tristezza e confusione. Si. Ne era
consapevole, probabilmente lo era sempre stato, solo che non si era mai
preso del tempo per considerarlo veramente, per far propria ed ovvia
quella realtà che, ad occhi esterni e disinteressanti,
appariva chiara come il sole.
“Ora
è un casino di livelli colossali” fu tuttavia
quello che riuscì a dire. Forse più per esprimere
i sentimenti che gli opprimevano il petto, che non lo stato delle cose.
“Abbastanza”.
“Un
momento… B-bobby è cotto di Charlotte?”
esclamò con voce stridula.
“Non
è quello che abbiamo appena detto?”
“Si
d’accordo, ma… dirlo a voce fa un altro
effetto” gracchiò, prima di essere scosso da un
tremito. “Brrr, brivido”.
“Io e
Claire non siamo mica nati ieri, ce ne accorgiamo molto prima dei
diretti interessati, sai” accennò con un sorriso
velato l’uomo. “Solo che non è detto che
si possa fare lo stesso ragionamento per lei”.
“In che
senso?”
“Non sempre
un sentimento è corrisposto”.
“Perché
non dovrebbe?”
“Puoi
arrivarci da solo, suppongo” sorrise Richard.
Il ragazzo si
massaggiò le tempie con forza. Dopo qualche attimo di
riflessione ipotizzò “Perché per lei
ormai è scontato averlo intorno, che non sa distinguere
cosa… possa provare per lui?”
L’uomo
annuì. “Più o meno. Vedi…
Robert da piccolo la odiava, più di ogni cosa al mondo, non
la poteva soffrire; e credimi, la maggior parte delle volte in cui
Charlotte si faceva male la colpa era sua, anche se lo negava come un
ladro” raccontò con una vena di nostalgia nella
voce. Fece qualche passo e con lentezza si sedette su una panchina
lì vicino. “Col tempo ha imparato ad accettarla, a
vederla come una componente della sua vita alla quale non poteva
più rinunciare. Sono cresciuti in simbiosi, tanto che alle
volte noi adulti ci chiedevamo chi fosse figlio di chi. Alice amava
Robert come fosse suo, e lo stesso valeva per Claire nei confronti
della bambina…”
“Ricordo
che la maggior parte delle foto d’infanzia li ritraevano
mentre si tiravano i capelli o si rotolavano sul giardino, ma non in
maniera amichevole. Me le ha fatte vedere Bobby”
annuì Tom.
“Erano
pestiferi in una maniera inimmaginabile. Ma si volevano bene”.
Il ragazzo
aspettò qualche istante, ascoltando il silenzio, prima di
chiedere, “Non capisco”.
“Non hanno
potuto scegliere” gli sorrise Richard, guardandolo in viso.
“Passata l’età della sciocca
rivalità di bambini, per loro è stato inevitabile
e normale imparare a volersi bene. Prendersi cura l’uno
dell’altra, preoccuparsi quando uno dei due stava
male… È come quando si compie un’azione
senza domandarsi il perché, pur sapendo che va fatta. Era
spontaneo, era vitale. Charlotte era la compagnia che Robert non poteva
avere, e viceversa. Non penso si siano mai soffermati a riflettere sul
fatto che, crescendo, le cose sarebbero cambiate”.
“Io…
odio fare la figura di quello non intelligente: ma non capisco cosa tu
voglia dire” si morse un labbro Tom, con aria mortificata.
E Richard rise.
“Le cose cambiano. Cambiano sempre. Se prima il loro era
affetto, premura, interesse come compagni di giochi… ora
è ben altro. Ora è - ”
“Amore”.
Quelle cinque lettere
aleggiarono nell’aria per un po’, prima che
l’uomo riprendesse a parlare.
“Bravo,
vedi che quando vuoi ragioni?” sorrise. “Sono
passati per l’età adolescenziale, come tutti, solo
che… lei non l’ha superata come avrebbe
dovuto”.
“Alice e
James”.
“Già”
annuì lui, facendosi triste d’improvviso. Non ne
parlava spesso, ma i due amici gli mancavano terribilmente, una ferita
che aveva ancora da rimarginarsi. “Robert ha agito come
avrebbe sempre fatto, gli è stato vicino, l’ha
curata… l’ha protetta. E come poi sia andata a
finire lo sai anche tu. Ma quel che non ha previsto è che
vivendo solo ed esclusivamente con lei, Charlotte sia diventata il
centro di ogni sua giornata, di ogni sua azione e perché, e
se Bobby aveva un sentimento da maturare, l’ha dedicato a
lei”.
“Ma ha
avuto altre ragazze. Intendo dire… lei non - ”
“Oh, ma
certo. Nina, Katie” annuì l’altro.
“Quelli sono stati amori adolescenziali, come ogni ragazzo, e
ringrazio il cielo che ci siano stati! Ma oltre a loro…
dimmi, chi altre guarda, ora? Charlotte è di più,
molto di più”.
“E questa
condizione, quello che lui prova, ti chiedi adesso se… sia
lo stesso anche per lei”.
“Esatto.
Bisognerebbe chiederlo a Marie Anne, ha buon occhio quella
donna” ridacchiò, “Ma è
facile che, se per mio figlio è amore latente, per lei sia
dipendenza morbosa. Alla fine, fra i due, è quella che ha
avuto più dolore da sopportare, non posso fargliene una
colpa. Così come non posso farne a Robert, ha agito solo
come meglio credeva… Sono state le circostanze che hanno
rovinato il tutto”.
Entrambi tacquero ed
ascoltarono le foglie correre sul marciapiede, trasportate dal vento.
“Ora che si
fa?”
“Bella
domanda”.
“Charlotte
non ha intenzione di vederlo”.
“Non mi
sorprende, ma non è un male. È meglio
così”.
“Non vuoi
che si chiariscano?” strabuzzò gli occhi Tom.
“E chiarire
cosa? È un discorso troppo complicato perché
possano discuterne a mente lucida e valutandone tutti gli
aspetti” scosse la testa lui. “Robert
partirà, e lei tornerà a fare la vita che deve,
con le proprie gambe. È giusto così”.
“Non
c’è il rischio che non si parleranno mai
più?”
“Pensi che
arriveranno ad un simile livello infantile?” chiese curioso
Richard.
“Beh…
io penso che se Bobby non chiederà scusa, sarà
davvero un problema, si!” commentò deciso Tom.
“Uno
schiaffo ed un insulto di quelle proporzioni non si cancella con una
parola soltanto, ragazzo”.
“Potrebbe
almeno provarci!”
“E dopo?
Mhmm?” l’uomo gli si avvicinò e gli
strinse le spalle, “Dopo che succederà? Lui
resterà comunque con il rimorso di averla sfiorata e
diventerà ancora più protettivo, mentre lei si
rinchiuderà ancora più in se stessa…
allontanandosi anche da quell’unica persona che poteva farla
tornare a sorridere. È una ferita troppo profonda quella che
Robert le ha inferto. Ha distrutto ogni cosa, non lo capisci?”
Tom represse un
gemito, mentre sentiva pungere le palpebre e la vista annebbiarsi. Non
era un gran sentimentale, ma vedere i suoi migliori amici distruggersi
a vicenda, graffiarsi l’animo e pugnalarsi alle spalle, per
via di un dolore passato che nessuno dei due aveva chiesto, lo faceva
sentire impotente e nullo. Era come quando si assiste ad una rissa da
dietro un muro trasparente che concede la panoramica, ma ti impedisce
di muovere un solo dito… mentre dentro di te acquisti la
consapevolezza che ormai ogni cosa ha perso il proprio equilibrio.
“Non voglio
che finisca così” mormorò.
“Nessuno di
noi lo vuole. Erano la cosa più bella del mondo, nonostante
fosse sbagliata per un verso… Ma da un certo punto di vista,
è un bene che sia successo: lei aprirà gli occhi,
e la rabbia che la gonfia le darà la forza per reagire.
Quella ragazza ha bisogno di tornare a vivere, Tom, e deve farlo con la
propria volontà, con il proprio cuore! Deve imparare che per
quanto male possa aver subito, ha ancora l’intera esistenza
davanti a se”.
Il ragazzo fissava il
cemento sotto di se, sentendo le parole di Richard scorrere nella
testa. Come poteva vederla così semplice? Come poteva
annullare un buco di dimensioni enormi ad un semplice “deve
imparare a cavarsela da se”? Lo considerava per
l’uomo maturo e coscienzioso che credeva che fosse, ma quella
sua sicurezza, quella sua convinzione che la scelta giusta da fare
fosse lasciare Charlotte a combattere da sola, non riusciva a
collegarla alla morale del solito Richard con cui aveva a che fare.
Com’era possibile? Forse solo lui, uno stupido ragazzo come
mille altri al mondo, riusciva a scorgere la grandezza e il nero che
avvolgevano la sua amica… Perché per quanto una
persona sia costretta a crescere e a reagire, lei era ancora una
bambina e probabilmente, in un angolo del suo cuore, lo sarebbe
rimasta. Per sempre.
Tom alzò
gli occhi sul padre di Robert, con un’improvvisa vena di
cattiveria, di animo ferito. Ma non appena incontrò lo
sguardo chiaro sul suo volto, allora capì.
Capì che
nonostante le parole suonassero decise, senza rimorso, dietro quegli
occhi c’era ben altro.
Richard si stava auto
convincendo. Oh si, credeva a quello che stava dicendo, senza dubbio,
ma più per farsi forza e augurarsi che le cose, anche se con
dolore, sarebbe andate per il meglio, che non per una mancanza di
affetto. Richard voleva vedere tornare a sorridere quella ragazza.
Voleva sperare che la tempesta prima o dopo sarebbe passata oltre,
lasciando spazio al sole.
“Io non la
lascerò sola”.
“Come?”
Tom aveva parlato
senza pensare. O meglio, l’aveva pensato, ma senza dar tempo
alla bocca di fermarsi.
Perché era
esattamente quello che intendeva fare. Prendere il posto di Robert.
“È
il mio turno, ora”.
“Per
cosa?”
“Prendermi
cura di lei”.
Richard
corrugò la fronte e tentennò, battendo le dita
sulla ginocchia.
“Non penso
sia l’idea migliore”.
“Non ho
intenzione di lasciarla
com’è…”
“Sostituire
la figura di Rob, è sbagliato, Tommy. Sia per quello che lui
rappresenta, sia perché le impedirai di evolvere”
cercò di spiegare l’uomo.
“Non
sarò Robert. Ne tanto meno il rimpiazzo di un babysitter
improvvisato” rispose deciso e con una nuova luce negli occhi
lui. Abbozzò ad un sorriso. “Sarò
soltanto io”.
L’altro lo
osservò per qualche istante, poi chiese, “E cosa
speri di ottenere?”
“Avere
indietro la mia migliore amica e veder nascere quella nuova. Non posso
lamentarmi”, sorrise.
“E come
intendi farlo?”
“Non come
ha fatto Bobby. Non sono mai stato d’accordo su quel punto di
vista. Ma… ce la caveremo. E poi, mi ha chiesto di badare a
lei, mentre lui sarà via. Perciò è
come se adempissi ai miei doveri di buon amico. Non puoi
impedirmelo”.
Richard si
schiarì la voce e si alzò in piedi. Si
ficcò le mani in tasca e guardò il cielo cupo
ancora una volta. Com’era strano il mondo e la sua gente.
“È
vero. Non posso”.
***
Passarono
tre giorni da quella sera e nessuno parlò più
della cosa.
Robert restava
rinchiuso in camera sua, permettendo soltanto al cane di entrare ed
acciambellarsi ai suoi piedi, in silenzio. Scendeva solo per il pranzo
e la cena, mantenendo un mutismo religioso e l’occhio fisso
in un punto indefinito di fronte a se.
A nulla era servito
il vano tentativo di sua madre di coinvolgerlo in qualche buffa
conversazione, riguardo i vicini, e lo stesso valeva per il padre che,
con meno comicità della moglie, cercava di farlo reagire
ponendogli domande sul suo nuovo ruolo di neo attore.
“Ti
interessa veramente?” gli chiese finalmente, a fine cena del
terzo giorno. Erano al dolce.
“Naturalmente”
annuì Richard, cercando di trattenere la gioia di sentir
parlare nuovamente il figlio.
“Perché?”
“È
il tuo lavoro. E suppongo il tuo futuro. Vorrei che me ne rendessi
partecipe”.
Robert
abbassò lo sguardo e prese a giocherellare con il pezzo di
torta nel piatto. Inclinò il capo di lato e storse la bocca
in una smorfia.
“È
curioso come… mi senta vicino a quel personaggio, ora
più che mai” mormorò assente.
I due genitori si
guardarono in silenzio. Poi riportarono l’attenzione sul
figlio.
“Agonia
centenaria. Innumerevole tempo a disposizione per riflettere.
Azioni… parole… immagini che si fermano e si
imprimono nella mente come vecchi tatuaggi, che so porterò
fino alla fine” sussurrava, sempre giocherellando con la
torta. Ma lo sguardo ora era acceso, e seguiva il significato di un
pensiero che solo lui riusciva a leggere. “E solitudine.
Solitudine che scava nel cuore… C’è
solo una differenza. Io un cuore ce l’ho, e batte ancora. E
fa male. Un male inimmaginabile”.
Scese il silenzio. E
anche la forchetta si fermò. Una lacrima cadde sul bordo del
piatto di ceramica bianca.
“Robert”.
“Devo
andare da lei, papà”.
Clare si
portò una mano alla bocca e cercò di reprimere il
pianto che sentiva nascente in fondo alla gola.
“Non credo
sia una buona soluzione, figliolo”.
“Buona o
meno, è quello che devo fare”.
“Le hai
tirato uno schiaffo, fisico, e morale”.
La forchetta cadde
nel piatto e anche se il rumore fu tollerabile, sembrò
aumentare di proporzione in maniera smisurata.
“Non mi
pare il caso di mettersi a discutere su questa faccenda” si
intromise Clare, nervosa.
“Perché
no, mamma?” si voltò verso di lei, il figlio.
“Non è quello che stavate aspettando? Che tornassi
a parlare? E di cosa vuoi che parli? Di quanto è buona la
torta? Si, è buona, sei contenta?”
“Il punto
della questione è che dopo quanto è successo, le
cose sono cambiate, Rob” disse il padre dall’altro
lato.
“E pensi
che non lo sappia?” rispose secco lui.
“Io penso
che potresti agire… in maniera… non
appropriata” cercò le parole più adatte
Richard, cercando di non lasciarsi influenzare troppo dalla
conversazione avuta con Tom, tre giorni prima.
“Non sono
un maniaco assassino. Non le metterò le mani addosso
un’altra volta. Non dovrai rinchiudermi in prigione o in un
ospedale psichiatrico, sta tranquillo”.
“Robert!”
strillò Clare.
“Si,
mamma?”
“Prendertela
con me e tua madre, a cosa devo l’onore?”
“Non me la
prendo con nessuno” scosse la testa Robert. “Ti
rassicuro su aspetti che temo tu possa storpiare nella tua mente troppo
fantasiosa”.
“Robert!”
“Cosa,
mamma?” si voltò di nuovo, con il sorriso tirato,
verso Clare.
Richard
sbatté il tovagliolo sul tavolo e si alzò.
“Vuoi andare a parlarle? Vacci. In fondo chiedere scusa
è un dovere da gentiluomo. È una cosa che ti ho
sempre insegnato”.
I due si guardarono,
in silenzio. L’odio che alimentava lo sguardo azzurro del
ragazzo si scontrava con quello impassibile del padre, fermo con i
palmi della mani appoggiati sul bordo del tavolo.
“Avanti.
Cosa aspetti? Vai”.
Robert strinse gli
occhi e tirò la linea della labbra. Ma non si mosse.
“Ho detto
di andare. Vuoi che ti apra la porta?”
Ma il giovane non
accennava a muoversi, bruciando sempre di più nel proprio
fuoco di rabbia che dentro avvampava come un rogo.
Fu alla fine, che
Richard sbuffò e fece spallucce con aria incurante.
“Pazienza.
Vuol dire che non era poi così importante”, e
dettò ciò si sedette di nuovo. “Posso
prendere un’altra fetta di dolce, Clare?”
La sedia alla sua
destra grattò con violenza sul pavimento e Robert si
alzò da tavola con uno scatto carico di frustrazione,
sorpassando il padre e abbandonando la cucina. Percorse il corridoio a
grandi passi e una volta di fronte alla porta di bloccò come
se avesse battuto contro una barriera invisibile. La vista gli si
annebbiò, bruciando gli occhi in maniera insopportabile. Si
aggrappò con una mano alla ringhiera e stringendo i denti,
oltrepassò l’entrata e si gettò a rotta
di collo su per le scale, per poi sbattere la porta di camera,
lasciando che il silenzio scendesse di nuovo.
“Perché
non vuoi che vada da lei?”
Clare aveva appena
servito una seconda fetta di dolce al marito e ora lo osservava da
dietro la frangia bionda.
“Non sono
io. È lui che non vuole”.
“Richard”.
“Cosa? Hai
visto no? Io gli do il permesso e lui non ci va, che vuoi da
me?”
“È
da te usare un tono sfacciato quando sai perfettamente che mentire con
me… non ti riesce” sorrise di rimando lei,
incrociando le braccia sul tavolo.
Il marito si
cacciò in bocca un pezzo di torta. “Tu
perché non vuoi che vada a chiedere scusa?”
“Io non
l’ho detto”.
“Ma lo
pensi”.
“Ti ho
posto la domanda per prima”.
Lui alzò
gli occhi al cielo e sospirò. “Anche se ci
andasse, lei non aprirebbe nemmeno la porta”.
“Ma tentare
non nuoce”.
“E
ritrovarcelo con il collo spezzato? Non che biasimi quella bambina, ma
il rischio c’è”.
“Ha
vent’anni, non è una bambina”.
“Visto?”
la puntò con un dito lui. “Se dici così
allora la pensi come me!”
“Non
è quello che ho dett - ”
“Detto,
certo. Però mettiamola così, ci sono due
possibilità: numero uno, lui chiede scusa, lei non accetta,
lui dorme sui gradini di casa di Marie Anne, fin quando non gli
verrà aperto, e siccome non
gli verrà aperto… morirà
di polmonite. Numero due” alzò il secondo dito.
“Lui chiede scusa, lei magicamente accetta, e lui
tornerà ad essere ancora più protettivo di prima,
perché no, magari mettendola anche sotto una campana di
vetro o dentro una bolla di decontaminazione come ho visto fare in un
dannato film, ieri. E poi? Avremo due decerebrati che si crederanno i
re del mondo, vivendo nel loro mondo di illusione, solo che uno
è mio figlio e, per quel poco che conta, vorrei
evitarlo!”
“Robert non
sta solo con Charlotte”.
“Ma ci
spende i tre quarti della giornata ultimamente, posso voler aspirare a
qualcosa di meglio per lui?”
“Non ti
interessa che lei abbia compagnia?”
“Ma
perché tutti dovete farmi la stessa domanda?”
allargò le braccia esasperato e allibito.
“Dannazione, mi interesso della crescita di una ventenne con
una crisi adolescenziale protratta, visto che nessuno qui ci
pensa!”
“Marie Anne
avrà preso la situazione in mano”.
“E allora
lasciamogliela! Lascia che se la gestisca da se! Io do il mio
contributo levando di torno mio figlio, d’accordo?”
“Non ti
capisco” scosse il capo la moglie, abbassando lo sguardo.
“No, non
vuoi capire, è diverso”.
Richard
posò la forchetta e si sporse verso la moglie.
“Se io
fossi rinchiuso dentro una gabbia sott’acqua e tu mi vedessi
affogare… se entrambi fossimo consapevoli
dell’amore che ci unisce… e se tu facessi di tutto
per aiutarmi ad uscire dalla gabbia, ma io non collaborassi…
forse perché non mi va di tornare a respirare, o forse
perché non parliamo più la stessa
lingua… e sapendo che tu non puoi rischiare
troppo… cosa faresti? Ti lasceresti affogare con me,
cancellando così anche quell’unico appoggio che
potrei avere, da parte tua, una volta che io sia riuscito a rompere la
gabbia, costringendo alla morte entrambi… o aspetteresti,
stringendo i denti, che io capisca e reagisca, per poi essermi accanto
e tornare in superficie? Ah. Dimenticavo: la gabbia è mia.
Fa parte di me. Sono io. Tu non puoi romperla, o uccideresti anche
me”.
I due si fissarono a
lungo, nella cucina silenziosa, dove solo l’orologio a muro
scandiva il passare del tempo. Si dissero cose mute che le parole non
avevano potere di realizzare e videro nel riflesso dello sguardo,
l’uno dell’altra, il dolore che li preoccupava e
incupiva. Ma una sola era la risposta.
“Ecco.
Visto?” disse infine Richard, cacciandosi un altro pezzo di
torta in bocca. “Ho ragione io. Dobbiamo aspettare.
Farà male, non sarà facile. Ma è
giusto così, almeno per ora”.
-----------
Spazio
ringraziamenti :)
Allooooora. Che ne
dite?
Bleah. Mi viene da
piangere da sola… ma per l’orrore
ç_ç
Ci ho messo non so
quanto a scriverlo. Poi a cancellarlo. Poi a riscriverlo. Poi a
ricancellarlo… Gaaaah, delirio!
Questo è
un capitolo più di… come dire…
passaggio. Abbiamo Rob, si, ma in maniera limitata, forse
perché volevo prendere la situazione da una prospettiva
diversa, per chiarire bene come stessero effettivamente le cose (un
occhio esterno), per poi lanciarmi nell’analisi interiore,
sia di lui, che di Charlotte (che arriverà ben presto). Ma
si sa, i primi capitoli sono sempre di assestamento; da ora in avanti
ci sarà più sostanza, yah yah
ù_ù
È stato
insolito scrivere di Rob arrabbiato-frustrato. Nel senso,
più del dovuto. Prima di tutto è un maschio, e
non tutti reagiscono allo stesso modo; secondariamente, è
una persona che considero emotiva e sensibile (non in senso cattivo,
sia chiaro), quindi una reazione simile credo ci stesse, pur non
volendo finire nell’eccessivo, tipo… mettersi a
minacciare madre padre e cane dicendo che si sarebbe lanciato dalla
finestra a mo di scoiattolo volante. Non so se mi spiego.
Divertente invece la
scena di Rich e Tom, sono stati due personaggi interessanti. Tom
l’ho voluto delineare un poco più infantile, che
non come quando era con Rob, ma solo per far risaltare la
maturità di Richard… (Tommy, perdono
ç_ç).
E il pezzo finale. Il
sarcasmo di Robert, a tavola, con la madre, non ha prezzo xD
“Si mamma? Buona la torta!”… ahahahha
XD Ok. Rido da sola.
Ma immagino che ora,
almeno per quelle che seguono, vogliate sapere che è
successo, vero?
*sospira
disperata, e si copre la faccia con rassegnazione*
Il problema
è uno. O forse tanti, ma che possiamo riassumere in uno solo.
Ossia: il fattore
Twilight-fan @_@
Ok, lo so che forse
non dovrei dirlo, forse molte di voi mi legheranno un sasso alla
caviglia e mi lanceranno giù da qualche ponte, mettendosi
poi a ballare in cerchio come i Pelagostos dei Pirati dei Caraibi 2,
ma… vi prego, lasciatemelo dire: il fenomeno RobSten mi sta
traumatizzando!
Oddio nelle ultime
settimane non sentivo parlare d’altro, per via della festa a
sorpresa per Kris e il tanto “rumoreggiato” anello!
E con Eclipse alle porte, non mi meraviglierei di sentire che la povera
Kris ha messo al mondo sette gemelli ù_ù Anche se
lei sostiene che sarà Rob a partorire, perché lei
non ha la minima intenzione di fare figli xD
Però.
Ferme. Mettiamo le cose in chiaro: io non è che…
non voglia che le persone ne discutano, anzi, sono felice per loro (sia
per i due piccioncini, se stanno davvero, che per le fans attorno),
ma… quando una cosa diventa di livello colossale, tanto che
il film di Ben-Hur mi scende di tre piedistalli, eh
c’è qualcosa che non va ù_ù
Ovunque andassi,
sentivo gente parlarne (non sto scherzando, qui è una cosa
mostruosa); dagli scaffali delle librerie, migliaia di occhi di
Pattinson mi fissavano (sia versione Robert, che versione Edward,
ohcccielo)… e qui su FB e internet, BOOM!
*strilla in preda ad un attacco di panico, e poi si lancia da sola dal
ponte* …
Ripeto, penso sia un
problema mio, perché sono una persona tendenzialmente
discreta, e già in passato avevo fatto nota riguardo la mia
contrarietà allo “spulciare nella vita privata di
Rob”…
Sono rimasta
traumatizzata, tutto lì. Non faccio colpe a nessuno, in
teoria.
E per scrivere questa
fic, avevo bisogno di sgombrare la mente e… mi sono ritirata
in esilio. E il capitolo infatti è sofferto
ç_ç
Mi perdonate?
Perdonoooo ç_ç
Vi prego, non
odiatemi, ho solo espresso un parere *no! non ti perdoneremo maiiii,
AVADA KEDAVRAAAA, gahahahaha!*
Ok, io vi amo lo
stesso, ahahah XD
Passiamo ai ringrasss:
_Miss_ : oddio.
Ti ho traumatizzata. O_O scusaaaaa!!! Perdonami!!! No beh in
realtà ci sono rimasta male anche io, quando lui ha alzato
le mani *pensa e riflette* il che non è un sintomo mio di
sanità mentale, perché sono io ad aver
scritto… ma è questa è
un’altra faccenda, XD Cooomunque, contenta che ti
sia piaciuto (ti è piaciuto, si?) e grazie per averla messa
nei tuoi preferiti *-* Spero che anche questo nuovo chap ti sia
piaciuto, e grazie per aver recensito, è importante pour
moi! un bacione :)
Piccola Ketty
: Si, Pattz, è un idiota. È
ufficiale. E Kris… bah, hai visto come la penso, no? Che
stiano o meno, preferisco restarne fuori, muahahaha XD E si,
userò il RobSten, in realtà, ma solo
perché mi “serve da copione”, diciamola
così, ma cercherò di essere meno invadente
possibile… Ma sarà curioso vederti
all’opera con le infamate gratis, ahahah! ^-^ Tom! Tommy
è adorabile *-* Così tenero e premuroso, direi
anche più sveglio di Pattz ù_ù
Chissà cosa farà ora, che vuole prendere la
situation in mano, mah… misssssteroooo!!!
Grazie per aver
recensito, sei sempre gentilissima, oltre che una fan della fic XD Mi
rende molto felice *-* Alla prox, bacio!!
E vorrei poi
ringraziare in massa, così sono tutte comprese e non
dimentico nessuno, coloro che l’hanno messa nei preferiti,
ossia:
Annina88
bella95
EmilyAtwood
Frytty
giulimpire
Leghy
Obsebtion
Piccola
Ketty
Railen
Satyricon
SweetCherry
vero15star
_Miss_
Bene. Che dire di
più? Grazie anche ai/alle silenziose/i e… vi scoccia se vi chiedo di
lasciarmi un commentino? Dai tiratemi su di moraleeeee,
vi pregoooo ç_ç Dai non vi faccio
compassione? *-*
Prometto di
aggiornare più spesso (si certo, come no… xD).
Ok, ci proverò, anche se ho gli esami alla porte (4libri di
italiano, più due di lettura e un saggio, yeaaahhhhh!!!).
Un
bacione e grazie ancora, :3
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** 07. indifferenza ***
07
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 7° capitolo –
Indifferenza
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note
dell’autrice: Mi volete
linciare. Lo so. O probabilmente non ve ne frega più un
accidente, e posso capirlo. Avrei anche un po’ di scuse in
mia
difesa ma… sono davvero ‘na caccola u.u
In realtà
sono in stato
comatoso per via degli esami (e non sto studiando abbastanza, va te che
esempio eccelso) e… ho intrapreso un progetto che mi ronzava
in
testa da almeno due anni (scritto) e che, se mi riesce di farlo almeno
decentemente, potrei anche azzardarmi a farne un lavoretto
serio…
Ma bando alle mie
cianfugnate. Ecco
il mio nuovo capitolo. È immensamente lungo, forse anche per
chiedervi scusa ç_ç Ci vediamo sotto?
7
“Indifferenza”
Dicono
che quando avvertiamo dolore, ci siano due scelte.
Abbracciarlo. Farlo
nostro.
Lasciare che penetri nel nostro cuore, permettendo che vi ci si annidi.
E aspettare con volto agonizzante, mentre strappa a brandelli le
emozioni e i ricordi, per poi rimodellarli assieme in una maschera di
orrore che ci perseguita giorno e notte. Ma siamo stati noi a
permetterlo, a concederglielo… e ben presto quel dolore
diventa
un compagno. Un compagno che ammettiamo silenziosi nella nostra vita.
La seconda scelta.
Chiudere gli
occhi. Smettere di respirare e circondarci di silenzio, lasciando che
l’unica parola a riecheggiare sia
“basta”. E
riprendere poi a vivere, all’insegna
dell’indifferenza.
Come un vestito fatto su misura, non troppo stretto ne troppo largo,
che ti protegge dai riflessi delle parole dette e delle immagini dei
momenti trascorsi… Si è immuni da ogni singolo
attacco
della memoria. Sordi ad ogni suono che giunge come un grido di guerra
antico. Ma ad un prezzo: se il vestito dovesse sgualcirsi, la barriera
verrebbe infranta e la mente… e il cuore nuovamente
torturati.
Non era facile
scegliere quale lato della medaglia contemplare.
Vivere con la
consapevolezza che il dolore scava a fondo e brucia, ma istruisce.
O vivere chiudendo
gli occhi su un passato da cancellare, e concentrarsi
sull’eventuale bene nascosto nel futuro.
Per un verso,
c’era da dire,
che su un fatto simile, l’unica cosa meritoria era davvero
seppellire il tutto sotto una pietra e lasciare che la terra scura si
cibasse di grida e lacrime. Perché continuare a rivivere
ciò che era così chiaro? Uno strappo. Una
cicatrice nel
disegno di pace e serenità, dipinto attorno a due persone
che si
amavano, anche se ciascuna alla propria maniera. Un taglio profondo
come può esserlo l’infinito universo, e non
perché
un litigio aveva il potere di disfare ciò che il sentimento
aveva unito… ma perché quello stesso sentimento
si era
ritorto contro, nascosto dietro un vessillo cattiveria e disperazione.
Quindi, cosa
scegliere?
Charlotte stava
riponendo
pigramente il libro di letteratura nello zaino, quando una sua
compagna, Nia, le si sedette accanto mangiucchiando un tramezzino.
Erano le undici e
mezza del
mattino ed erano in classe, la lezione appena terminata. Gli alunni
sgusciavano nel corridoio per sgranchirsi le gambe, mentre i
più
secchioni restavano incollati ai banchi, quasi fossero naufraghi
avviluppati al salvagente, a scambiarsi opinioni
sull’argomento
appena trattato dall’insegnante. Fissati.
Nia ingoiò
un pezzo di prosciutto, “Che terribile
frustrazione”.
La mora, poco
distante, fece spallucce ma non disse nulla.
“E poi si
lamentano di non
avere una vita sociale, accusando noi di
emarginarli…”
continuò Nia. “Pff! Ma con piacere! Io li emargino
eccome!
Piuttosto che finire così…” aggiunse
con una
smorfia di orrore e la bocca di nuovo piena di pane.
Non udendo tuttavia
risposta, si
girò verso l’amica e le diede un buffetto sulla
testa per
attirare la sua attenzione.
“Ahia”
borbottò Charlotte, massaggiandosi il punto offeso.
“Oggi sei
un po’
assente” la osservò l’altra con un
sopracciglio
alzato. “Beh, più del solito…”
“Non
è vero”.
“Certo che
si, tesoro. Stai
fissando il libro di letteratura da cinque minuti, e a meno che non
abbia una qualche dote nascosta a me sconosciuta…”
sorrise
lei. E Charlotte arrossì di colpo, cacciando definitivamente
il
tomo sul fondo dello zaino per poi richiuderlo. Inspirò a
fondo
socchiudendo gli occhi, prima di lasciare andare il capo sul banco.
“Non
ho… dormito molto, tutto qua”.
“Mhmm”
mormorò
Nia, sbirciandola da dietro la frangia bionda.
“Quindi…
anche il fatto che studi il doppio di prima, che quando pronunci
più di tre parole potrei aspettarmi di vedere crollare
questo
edificio per la gioia di ogni essere vivente esclusi gli emarginati,
e… che non rispondi più alle mie chiamate, lo
attribuisco
al non dormire, giusto?”
La mora
deglutì e serrò forte le palpebre.
“Hei, mi
stai ascoltando?”
Certo. Poteva
altrimenti?
Nia era
così. Amava investigare. Amava cospirare. Amava interrogare.
E amava ossessionarla.
Alta, bionda, con una
maledetta
frangia costantemente spettinata che rivelava gli occhi azzurri
più ipnotici che Charlotte avesse mai visto, ed un fisico
che
infiammava ogni creatura del sesso opposto. E si…
L’implacabile abitudine di ingozzarsi di tramezzini.
“Non
rispondo alle tue chiamate, eh?”
“Non che
prima lo facessi spesso”.
“Che
differenza fa, allora?” sorrise la mora.
E Nia rise allegra,
appallottolando il tovagliolo di carta.
Lei era
così. Un
concentrato di adrenalina, di irruenza, di energia e luce, che era
difficile non rimanerne travolti. Come un meteorite che ti colpisce in
pieno petto e ti spinge in una corsa all’indietro facendoti
dimenticare i momenti pensierosi, la durezza della vita… e
si,
Charlotte dovette ammetterlo, anche il senso della
responsabilità. Oh ma quello era stato un caso, si disse,
pensando alla volta in cui erano scappate da un supermercato con una
scatola di caramelle gommose. Beh, non scappavano di certo
perché temevano di perdere l’autobus, e il
cassiere dietro
di loro non le inseguiva per una maratona di piacere. Naturalmente la
colpa ricadde su Nia, Charlotte era solo una povera vittima,
così come le caramelle… che purtroppo andarono
restituite, per evitare qualcosa di serio.
“Che
c’è?” chiese ancora la bionda.
“Cosa?”
“È
evidente che c’è qualcosa che non va”.
La mora fece leva con
le mani sul
banco e si alzò. Passò fra la fila di banchi,
sorpassò “gli emarginati” e si
incamminò
verso la porta.
“Hei, senti
questa, ho un
nuovo giochino di società da proporti”
esclamò
fingendosi entusiasta, “Facciamo che, per oggi soltanto, non
mi
usi come cavia per sfogare la tua pazzia psicologica? Mhmm?”
le
chiese rivolgendole uno sguardo carico di speranza.
“Mai stata
più
entusiasta di ora, ma… ti rifarei la stessa domanda domani,
chérie” ghignò Nia, fissandola sadica.
“Allora…
per due giorni?” azzardò l’altra,
appoggiandosi al muro del corridoio.
“Puoi
andare avanti all’infinito… ma ho tutte le vacanze
di Natale, se preferisci”.
E Charlotte la
maledisse, prima di abbandonarsi sul pavimento e tapparsi gli occhi.
“Senti.
Perché non me lo dici e basta?”
“Perché
non ti fai gli affari tuoi?”
“Sei un
affare mio. Con le
tue onde negative, allontani tutti quanti dal nostro banco, e io non
riesco più ad interagire con anima viva”
borbottò
con aria triste Nia.
“Uhuh! Come
se la cosa ti interessasse …”
Lei parve incespicare
qualche
istante, prima di riaversi e “Non è questo il
punto.
Voglio che mi dici qual è il problema. Dico sul serio.
Ora”.
E fu allora, che
Charlotte
alzò la testa di scatto e, esaudendo il suo desiderio, le
piantò addosso uno sguardo profondo come una voragine,
mentre la
linea della bocca era dritta ed inespressiva. Non disse una parola. Si
limitò a fissarla. A riversarle addosso tutto quello che
sentiva, tutto quello che traspariva dal suo animo, nascosto
là
sotto il petto: il niente.
Cercò di
trasmetterle lo
spessore e la sostanza dei suoi pensieri, ma era come mostrare un
quadro ad un cieco, chiedendogli di ammirarne i colori: impossibile,
perché la vista non c’era. E i pensieri di
Charlotte non
c’erano.
Cercò di
farle comprendere
il suono delle parole che la memoria le scagliava addosso con forza
immane, ma non poteva… perché nella testa regnava
sovrano
l’unico rumore a cui ella aveva dato accesso: il silenzio.
Cercò di
farla partecipare
al dolore che avrebbe dovuto trapassare il cuore, ma non vi
riuscì, perché il dolore era rimasto fuori della
soglia
della sua sopportazione.
E se c’era
una cosa che a
Nia aveva sempre invidiato, era quel riuscire a bloccare il fiume di
agonie e disperazioni con un solo sorriso e un passo indietro di fronte
alle relazioni. Un tempo lo avrebbe considerato sbagliato e
distruttivo… ora era un toccasana.
“Non mi
dici niente?”
No ho nulla da dire,
avrebbe
risposto, ma nemmeno le parole uscirono dalla bocca, perché
il
suono era stato portato via nell’esatto momento in cui
Charlotte
aveva fatto la sua scelta. Nel momento cui aveva scelto il suo lato
della medaglia.
Deglutì a
fatica e si
trovò spiacevolmente la bocca e la gola asciutte, come se
avesse
ingerito un pugno di sabbia. Strinse di riflesso gli occhi nel
tentativo di impedire alle lacrime di colare lungo le guance, ma con
grande sorpresa si accorse di non averne… Non aveva
più
nulla da esprimere.
Nia la guardava,
rimasta in piedi
di fronte a lei, le mani puntate sui fianchi e l’espressione
interrogativa lampante. Non era una da gettare la spugna facilmente,
certo che no. Il mutismo ad oltranza dell’amica, quello
sguardo
vuoto e assente, per non parlare della propria ombra che si trascinava
dietro come fosse stata l’unica compagnia di cui avesse
bisogno,
erano durati anche troppo. Amava Charlotte, l’amava come una
sorella, se ne prendeva cura nonostante non fosse tipo da spendere
tempo per chi consumava il proprio piangendosi addosso… ma
quell’agonia inspiegabile non aveva più diritto di
esistere.
Non era a conoscenza
del suo
tormento, ma non ci voleva di certo una tripla laurea in psicologia per
capire che il motivo, o per lo meno uno dei possibili, era quell’altro.
Quello che Nia chiamava “il
mio rivale”.
La metà della figura che lei ricopriva, al maschile. Quello
che
vantava di avere più diritto su lei che non Nia stessa.
Robert.
Doveva ammettere di
non averlo mai
trovato particolarmente simpatico, ne che si fosse preoccupata di
impegnarsi ad accettarlo. Esisteva, nulla più. E non per un
particolare capriccio di gelosia, ma piuttosto
perché…
anche se poteva apparire fredda ed insensibile, aveva trovato inutile
ed inadeguata la premura con cui il ragazzo aveva protetto Charlotte,
portandola lontana dal mondo.
Non aveva mai
obiettato. Non
apertamente. Non si era mai opposta. L’amica sembrava
apprezzare
l’aiuto di Robert. Non si era mai intromessa. Charlotte non
doveva scegliere chi dei due seguire.
Si era limitata a
starle vicino
negli ambienti scolastici, nelle sporadiche uscite, ormai quasi nulle,
e a scrollarla quando la sentiva più dalla sua parte che non
ancorata come una cozza allo scoglio Pattinson.
Caramelle e libri
delle fiabe
avevano l’utilità di un sonnifero per lenire il
dolore, ma
non di cancellarlo. E Nia delle favole non sapeva che farsene,
perché Charlotte doveva svegliarsi, e non addormentarsi.
Ed ora, guardandola
seduta in
terra, con gli occhi vuoti e la mente silenziosa, poteva capire una
cosa soltanto: che era stata una stupida di dimensioni mastodontiche a
non averla rapita prima dalle braccia del “rivale”
ed aver
permesso che si arrivasse a tanto.
Beh… forse
non tutto era
perduto. Poteva sempre giocare l’uscita di scena del ragazzo
a
proprio favore. Del resto, Charlotte era molto meno complicata di quel
che sembrasse.
“Allora?”
“Mi sembra
di aver già detto abbastanza”, mugugnò
la mora, dal basso.
“Naturalmente”
commentò in risposta l’altra con fare sarcastico.
Doveva ammettere di
sentirsi
colpevole a criticare Robert per il suo operato. D’altronde
aveva
fatto quel che poteva, e non poteva giudicarlo per via della sua indole
pericolosamente romantica e sensibile, ma ora occorrevano un altro paio
di maniche. Non un sostituto, non una balia, non un amante. Ma
un’amica.
Nia
sospirò a fondo e
contò fino a dieci premendosi la base del naso, prima di
piantare i suoi occhioni azzurri sulla ragazza di fronte a se e dire,
“Alzati e vai in bagno. Aspetta finché non
torno”.
Charlotte la
guardò come se fosse un alieno con indosso un vestito da
sposa.
“Ho parlato
in lingua corrente, perché fai quella faccia?”
“La
lezione”.
“La tua
dedizione allo studio mi sta dando ai nervi, mia cara. Obbedisci. Da brava,
alza il fondoschiena, vai in bagno ed aspettami”,
ripeté
una seconda volta, ma con tono che non ammetteva più
repliche.
Cosa fare quindi se
non obbedire?
La mora si alzò veloce sotto lo sguardo a calamita
dell’amica per poi correre a nascondersi in bagno, mentre Nia
entrava in classe ed aspettava l’insegnante seguente: una
bugia.
Cos’altro di più sano e assolutamente meraviglioso
poteva
esserci dell’inscenare la parte della compagna preoccupata
per
l’alunna di salute cagionevole, con tanto di occhi lucidi e
parole balbettate? Offriva il pass per uscire di scuola prima e,
francamente, si stava annoiando da morire.
Afferrò la
propria borsa e
quella di Charlotte, salutò l’insegnante sempre
mostrando
il labbro tremulo, e sgommò in corridoio;
recuperò
l’amica ancora in stato confusionale e con lei
oltrepassò
il portone dell’edificio, per poi scendere in strada e
sfoggiare
un sorriso trionfante.
“Aaaah! Lo
senti, dolcezza?
Il profumo dell’evasione, è adorabile!”
si
voltò poi verso l’altra e aggiunse con aria grave
“Mi devi un favore… sommato ai cinquecento futuri
che, mi
sa, mi toccheranno”.
E prendendola sotto
braccio, si incamminarono verso la fermata dell’autobus.
Restarono
sull’autobus per
due isolati, ridacchiando dei tipi strani e curiosi che salivano e
scendevano, e lo facevano così forte che dovettero sorbirsi
le
critiche poco contenute di una signora piuttosto insolita che le
minacciava con lo sguardo vendicativo e la mano stretta attorno al
manico dell’ombrello. Se poté, Nia rise ancora di
più.
Scesero vicino ad
Oxford Street e
si mescolarono con la gente che scivolava veloce sul marciapiede mentre
tutt’attorno le decorazioni per il Natale imminente
scintillavano
immergendo la città in un’atmosfera surreale.
“Ma tu
guarda che
traffico” borbottò contrariata Nia, scansando un
pedone
che la travolse senza troppe smancerie, “Hei! Essere idioti
non
è una colpa, ma tu ne fai un abuso! Guarda dove
cammini!”
Charlotte era davanti
a lei e si guardava attorno con aria persa…
Tre
settimane. Tre settimane…
“Tre
settimane”
mormorò mentre contemplava senza vero interesse un manifesto
appeso in una vetrina. “Tre settimane…”
“Come?”
chiese l’amica, poco distante.
Era passato
così tanto tempo. Quasi non se ne era accorta. Non se ne era
voluta accorgere.
Aveva lasciato che i
giorni le
sfumassero sulla pelle come l’acqua evapora al sole in
silenzio,
senza lasciare più traccia se non un leggero alone sbiadito
ed
inodore.
Aveva lasciato che le
pagine del
proprio diario di vita venissero sfogliate dal vento e scritte dalla
polvere senza che lei interferisse per cambiare anche una sola parola.
Era rimasta a
guardare. Era
rimasta ad aspettare. Ad aspettare il silenzio. Ed era diventata
un’abitudine così piacevole, il barricarsi dietro
una
trincea di indifferenza, che quasi poteva dire che sarebbe stata la
scelta di vita più comoda e leggera.
Ma c’era
qualcosa che non
andava. Come un granello di sabbia che raschia sulla pelle asciutta e
ti irrita fino a quando non lo scacci con un colpo di mano, fino a
quando non ammetti l’evidenza che c’è.
Esiste. Il problema
esiste.
“Hai
intenzione di comprare
quel vestito?” le si avvicinò Nia.
“Beh…
è un bel vestito… un po’ corto. Un
po’
scollato… un po’ succinto… un
po’
costoso”.
“C-che?”
scrollò di colpo la testa Charlotte.
“Quello.
È un
vestito, sai?” chinò il capo verso lei
l’altra, con
aria di chi parla ad un’idiota.
“Lo so
cos’è”.
“Lo vuoi
comprare?”
“Nemmeno
per sogno!” sbuffò la mora.
“Perfetto!”
si
illuminò Nia battendo le mani, prima di prendere quella di
Charlotte e stringerla, “Perché ho visto una
giacca
stratosferica nel negozio laggiù, ieri, e non avevo nessuna
intenzione di aspettarti mentre provavi il vestito! Andiamo!”
E così
facendo la
trascinò con la forza di un carro armato in mezzo ai
passanti.
Si fermarono di fronte all’entrata e Nia stava per entrare
con
gli occhi che parevano quelli di un fumetto in preda ad un attacco di
felicità acuta, quando Charlotte la tirò per un
braccio e
disse seria “Perché siamo scappate da
scuola?”
“Perché
devo comprare la giacca”.
“Potevamo
farlo anche dopo”.
“Saresti
tornata subito a casa” annuì l’altra con
aria di chi la sa lunga.
“Bastava
chiedermelo”.
“Odio
essere ripetitiva, e
oh guarda! la risposta alle mie ultime tre proposte di uscire a fare
shopping è stata sempre quella: certo che no”.
“Non hai
risposto alla mia domanda”.
“La
giacca”.
“Nia”.
E Nia si
spazientì davvero.
Le si piantò davanti cacciando le mani sui fianchi e
sfoggiò tutto il suo terrore divino di super bionda con i
grandi
occhi azzurri a calamita.
“Stammi a
sentire, tesoro:
è Natale. No, tecnicamente manca una settimana, ma fatto sta
che
ho ancora metà lista dei regali da rimediare. Ma cosa
più
importante: non ho un regalo per me. E si, sono egoista e amo essere egoista
a Natale, perché mai una volta che uno azzecchi il regalo
giusto! Oltre a te, ma perché sono io a suggerirti sempre,
perciò non vale. Quindi…”
indicò
l’entrata, “Ora andiamo lì dentro, io do
nuovamente
un senso a questa giornata compiendo una buona azione nei miei
confronti, e tu. Tu finalmente potrai vivere come un essere umano:
gente” e allargò la mano attorno a se,
“Aria
aperta” e alzò l’indice verso il cielo,
“Luci,
decorazioni: Natale!” e sfarfallò le dita di
fronte al
viso di Charlotte, “E… maledizione, si,
divertimento. Sano
divertimento” concluse abbandonando le braccia lungo i
fianchi.
La guardò
come si guarda
una persona che rifiuta di lasciar emergere il buono che è
nascosto dentro, per il gusto di voler restare protetti nella proprio
stato di emarginazione dai sentimenti, dai legami… e dal
mondo.
“Quindi…
è per me” sospirò infine la mora.
“E per la
giacca”.
“Io non
costo come la giacca” sorrise Charlotte.
“Ma mi
costi l’emicrania, piccola” annuì Nia.
Charlotte
ridacchiò e
guardò il negozio, per poi lasciar correre gli occhi alla
gente.
Alle luci. Alle decorazioni. Al cielo grigio neve che minacciava
fiocchi bianchi grandi come batuffoli di cotone. Alla vetrina e al
negozio gremito di gente e colori. E a Nia.
“Mi
dispiace”.
La bionda fece
spallucce.
“E…
grazie”.
“Ringraziami
alla fine della
giornata. Perché sia ben chiaro, e lo dico ora e una volta
soltanto” e la fissò intensamente, tanto che
Charlotte
arretrò di un passo, “La favola della bella tormentata
è demodé e mi manda in crisi isterica. Odio le
lacrime di
autocommiserazione. Odio i silenzi che durano più di dieci
minuti ma fanno un fracasso peggio della mia maledetta lavatrice. Ed
odio, nessuno sa quanto io odi vedere la rassegnazione di fronte ad una
battaglia nemmeno iniziata”.
Charlotte
deglutì fissando il dito che Nia le aveva lentamente puntato
sul naso.
“Ora
è abbastanza chiaro?”
“Oh, certo
che si” sorrise subito lei.
“Bene!”
si
raddrizzò la bionda raggiante. “E adesso prega che
la mia
giacca sia ancora lì o ti toccherà inseguire chi
me la
scippata” esordì tirandola dentro il negozio.
***
Non aveva mai preso
sul serio
l’idea di farsi una vita. Una vita indipendente. Una vita in
cui
fosse lui a tagliarne i contorni e colorare gli spazi
all’interno
come più gli piacesse.
Non aveva preso in
considerazione
nemmeno il fatto che si… il tempo passava. Era come avere un
piano ben delineato nella testa, lì nascosto in qualche
angolo,
ma ben presente, e affidarsi a quello. Seguire una mappa che si svelava
solo giorno dopo giorno, e che lasciava il dubbio su quanto sarebbe
effettivamente accaduto in un futuro più lontano…
Perché no,
non bastava
appigliarsi a macchie di colore o melodie che frullavano nelle mente
dando quella sicurezza fittizia, che ti rendevano il re
dell’intero universo con una sola nota schiacciata sui tasti
del
pianoforte, o con una striscia di pittura su una tela. Certo,
dipingevano il mondo come un meraviglioso posto di promesse, di armonia
e spensieratezza, tanto da riuscire ad amare qualunque essere vivente,
anche il più rozzo e lurido.
Ma non era
così che doveva andare. E ora se ne rendeva dolorosamente
conto.
Era appoggiato alla
finestra della
propria camera, con lo sguardo perso oltre i vetri, sul giardino
infreddolito dove i propri genitori discutevano animatamente, la madre
appesa al modesto albero di Natale e Richard nascosto fra sei scatole
di addobbi sgargianti.
Robert
inclinò la testa di lato e trasse un profondo respiro. No,
non era così che doveva andare.
Attore un giorno.
Modello un altro. Musicista quello dopo… scrittore la notte.
E amico sempre.
Amava
l’idea di poter
dilettare la propria persona in più attività,
stare con
le mani in mano era una cosa che gli dava il tormento, che lo rendeva
isterico ed intrattabile. Gli piaceva riconoscersi capace di grandi
cose, di tante cose… di cose belle. Perché
l’arte,
che fosse musica poesia o canto o pittura, era un qualcosa che riempiva
l’animo e lo espandeva, rendendolo grande cento volte di
più, permettendo di essere sensibile anche al più
piccolo
cambiamento del tempo, dei sentimenti, della gente. Rendeva umani. E
rendeva potenti allo stesso tempo. Sapere capire… saper
comprendere… saper cogliere… saper amare.
Ecco
perché non era ancora
stato capace di mettere un punto, di mettere un
“perché” ed un conseguente
“ora si fa
così” alle sue mille occupazioni. Poteva
scegliere? Gli
piaceva ogni cosa.
Ed ecco anche
perché,
benché gli altri lo rimproverassero, e lui stesso avvertisse
l’errore, aveva scelto di aiutare la persona che amava tanto,
ma
nel modo che più gli si confaceva: proteggendola,
imbottendola
di pace e di armonia, di poesie e di musica. Perché era
quello
che era. Lui era una bomba di spartiti, colori e parole
d’inchiostro.
Sapeva che non era
corretto. Che
non era giusto, che non era opportuno. Ma non gliene era importato
nulla, ed aveva passato gli anni più belli…
benché
forse sbagliati.
Spostò lo
sguardo al cielo e notò quanto fosse grigio e freddo,
sarebbe venuto a nevicare.
Si ritirò
di poco dalla
finestra e si guardò alle spalle, accanto al letto: la sua
valigia restava lì ormai da una settimana, vuota, come a
chiedere “Allora,
si parte o no?”.
Robert si morse un
labbro e fece una smorfia di insofferenza. Decisioni.
Gli ci erano volute
tre settimane
insonni per capire che era un inconcludente ed un dannato romantico con
la testa farcita di fiori e promesse d’amore, così
come
aveva realizzato che l’unica medicina possibile era quella:
un
salto drastico. Uno strappo. Una bruciatura. Una pagina nuova.
Adorava le pagine
nuove, da
riempire e macchiare di inchiostro, ma chissà
perché
quella non gli andava a genio nel modo più
assoluto…
A sentire suo padre,
era stato un
bene che si fosse confinato in camera propria a meditare e riflettere
su quello che avrebbe dovuto costituire, se non altro, un ibrido di
progetto futuro, mentre secondo sua madre era stato un idiota fatto e
finito a non essere corso a chiedere scusa in ginocchio con tanto di
tre camion di rose al seguito come pegno di supplica.
Rob sorrise. Si,
forse la vena poetica l’aveva presa da Clare.
Batté le
mani sul davanzale
e si avvicinò al letto. Prese in mano una cartelletta
contente
documenti, fogli e scartoffie varie riguardanti la sua odissea oltre
mare. Li scorse l’uno dopo l’altro, nonostante li
conoscesse ormai a memoria, se li sognava di notte.
Li gettò
infine sul cuscino prima di lasciarsi cadere all’indietro sul
materasso.
“Dannazione…”
brontolò.
Il problema
è che lo
sapeva. Sapeva cosa doveva fare. O meglio, lo intuiva, lo prevedeva, lo
temeva. L’aveva già deciso. Aveva firmato la
propria
condanna molti giorni addietro anche se, a dire la verità,
se ne
rendeva drasticamente conto solo ora: accettare una cosa
perché
devi, non è lo stesso del realizzare che accadrà
davvero.
Sarebbe partito, e in fondo avrebbe dovuto anche esserne contento, la
sua carriera cinematografica ne avrebbe tratto vantaggio, a sentir la
manager, forse ancora più entusiasta di lui.
Ma allora
perché?
Perché la paura lo assaliva? Si certo, l’idea
dell’ignoto è una brutta bestia, ma per un artista
come
lui, l’ignoto è scoperta, è avventura e
novità. Beh la verità era che forse era un
artista, ma
ancora terribilmente inesperto.
Si girò a
pancia in giù e si guardò le mani.
Con un battito di
ciglia lo
rivide. Il colpo che la sua mano aveva sferrato a Charlotte, lei cadere
contro il muro e il sangue colare dal naso.
Nascose di riflesso
le mani sotto la coperta e sbuffò di frustrazione.
Si. Doveva fare
qualcosa. E per quanto era consapevole che avrebbe fatto male, andava
fatto. E lui l’avrebbe fatto.
“Richard,
maledizione,
quello è un nastro!” strillava Clare sventolando
un
nastrino sottile color rosso acceso, con aria minacciosa,
“Quello
invece è un fiocco!”
“E con il
nastro non puoi farci lo stesso un fiocco?” chiese tranquillo
e riflessivo il marito.
“NO!”
Robert scese le scale
con le mani
affondate nelle tasche della tuta e seguì il suono delle
voci
dei suoi genitori. Li trovò intenti ad addobbare il salotto
che,
per ora, sembrava il magazzino di un centro commerciale.
“Ma
perché dobbiamo mettere le decorazioni anche lì?
Chi vuoi che le veda?”
“Io!”
“Beh allora
falle da sola,
sono tre ore che ti passo palline di Natale e angioletti che sembrano
conigli coi boccoli, mi sono stancato… Oh, ciao
figliolo”.
Clare si
voltò di scatto e seguì lo sguardo le marito.
“Robert,
sei sveglio” esclamò allegra.
“Con tutto
il vostro… addobbare,
nemmeno un morto poteva dormire, mamma”.
Richard
ridacchiò e colse
al volo l’occasione per arruolare il figlio in
aiutante-addobbi,
per svignarsela in cucina e sferrare un attacco a sorpresa al dolce che
la moglie aveva sfornato quella mattina.
“Richard
non ti azzardare, chiudi il frigo!” strillò
tuttavia Clare dal soggiorno.
“Cosa devo
farci con questi,
mamma?” chiese Robert con aria afflitta, armeggiando con un
enorme gomitolo di striscioni dorati.
“Oh! Quelli
puoi metterli
attaccati alla ringhiera delle scale, o appenderli
all’entrata,
tesoro, come preferisci!” gioì lei tornando a
sistemare
stelline e angioletti.
Robert
rabbrividì. Non
aveva la benché minima intenzione di prendere chiodi e
martello
per poi arrampicarsi in cima alla porta e appendere
quell’enorme
agglomerato di paillettes: alta percentuale di precipitare dalla
scaletta, e certezza di battersi il martello sul dito.
Pilotò
senza dubbio verso la ringhiera delle scale.
“Papà?”
Dalla cucina si
sentì un tonfo e la porta del frigo richiudersi di scatto.
“Richard…”
ringhiò la moglie in soggiorno.
“Si
figliolo?”
“Ho…
pensato a quello
che mi hai detto” cominciò il ragazzo, mentre
cercava di
dare una forma ad uno degli striscioni, “Alla
valigia”.
Non poté
sentire il respiro
trattenuto della madre, ne poté vedere il sorriso storto sul
volto del padre. Continuò a parlare ignaro, “Penso
che tu
abbia ragione”.
“Sempre e
comunque”
disse il padre, ancora in cucina. Ora si sentì un rumore di
sportello della dispensa. “Ma stavolta a che ti
riferisci?”
Il silenzio
aleggiò nella
casa per qualche breve attimo, mentre Robert si arrabbiava con lo
striscione ed era ad un passo dal farne coriandoli.
Richard
scivolò via con
aria di chi ha trovato la marmellata, nascosta da Clare, e si
affiancò al figlio, parlandogli a bassa voce
affinché la
moglie non sentisse, “Intendi ragione sul fatto che la
valigia
è troppo piccola… o che non era poi tanto
sbagliato
restare a meditare su qualcosa di produttivo?”
Il ragazzo diede uno
strattone
all’addobbo e si ritrovò di colpo con due
striscioni
più piccoli per le mani; sospirò deluso, per poi
borbottare, “Tutte e due, papà, tutt’e
due le
cose”.
Ed il sorriso che
comparve sul
volto dell’uomo era fra i più raggianti e luminosi
che
Robert aveva mai visto. Si sentì un po’
contrariato, ma
del resto capì: lo faceva per lui, lo faceva per il suo
bene,
era pur sempre un genitore.
“Sono fiero
di te, ragazzo” gli disse, battendo una mano sulla spalla e
stringendogliela.
“Per la mia
scelta o per l’aver fatto a pezzi lo striscione della
mamma?”
“Beh…
entrambe le cose, credo” annuì l’uomo,
fissando con aria cattiva l’addobbo.
“Mi
serviranno due valigie allora”.
“Credo sia
il minimo: tua madre non ti ha rifatto il guardaroba mica per rendere
cenere il mio stipendio, sai?”
“Sono certo
che
l’avrai incoraggiata tu, per vedermi sloggiare il prima
possibile, vero?” commentò alzando lo sguardo
azzurro sul
padre. Non era di certo scemo.
“Beh…
diciamo che l’ho fatto per una buona causa” si
giustificò lui, grattandosi la nuca.
Dal soggiorno
arrivò acuta
la voce di Clare, “Cosa state confabulando di là,
voi due?
Robert non t’azzardare ad aiutare tuo padre nelle sue
crociate in
cucina!”
“No,
mamma…” rise il giovane.
“Che
fate?”
“Parliamo,
mamma”.
“Di
cosa?”
“Di addobbi
natalizi…”
“Come
procede la scala, tesoro?” trillò lei.
“Oh,
ehmm… ho
più materiale del previsto ora, gli striscioni si sono
moltiplicati” gemette Robert, guardando anche il secondo
addobbo
rompersi ad un ennesimo strappo.
“Si sono
cosa?!” strillò con voce più alta di
tre ottave la madre.
“Ma
che… li fanno di
carta velina?” ringhiò il ragazzo al padre,
cacciando il
rimanente sotto i piedi e pestandolo con rabbia.
“È
una cosa che mi è indifferente, addobbi e mobilio a tua
madre, cucina e prato a me”.
“E io che
c’entro con gi addobbi, scusa?”
“Sei
l’erede. Devi
saperti destreggiare con entrambe le cose: sei un asso in
cucina… nel ripulire i piatti. Devi eccellere anche
nell’addobbare, ragazzo” commentò
solenne Richard,
con l’aria di chi istruisce il figlio su
un’importante
lezione di vita o di morte.
“Credo che
non mi mancheranno affatto quando sarò via”.
“Mentre io
sarò costretto a sorbirmi quelli di
Pasqua…”
“Nella
buona e nella cattiva
sorte, papà” sogghignò di vendetta
Robert,
rammentandogli il giuramento del matrimonio.
“Figlio
ingrato” lo colpì affettuosamente al petto il
padre.
“Ma allora,
di che parlate?” riprese Clare dal soggiorno.
“Di eredi
mamma…”
“Di
che?!”
“A tuo
figlio serve un’altra valigia, donna”.
Seguì il
tonfo di un
oggetto che cade sul pavimento, e poi il silenzio. Un silenzio che
durò così tanto che i due uomini di casa si
guardarono
perplessi negli occhi, temendo che Clare si fosse strozzata con uno dei
nastri rossi, ed erano sul punto di avanzare verso il soggiorno, quando
la donna comparve sulla porta reggendo in mano un angioletto bianco.
Richard
abbassò lo sguardo e voltò il capo altrove. Aveva
capito…
Robert storse la
bocca e
sentì una morsa al cuore nel vedere la propria madre
piangere
copiosamente mentre stringeva un pupazzetto candido come se fosse stata
la sua ancora di salvezza.
“Un’altra
valigia…”
Il ragazzo
cercò di dire qualcosa, ma le lacrime stavano minacciando
anche lui e la voce gli morì in gola.
“Si certo,
quella che hai
preso è talmente minuscola che non basterebbe nemmeno
a…” ma si fermò, tirando su col naso e
guardando
l’angioletto. “Sai io non ho ancora avuto modo di
parlarti
Robert, riguardo a… questo”.
“Non ce
n’è bisogno, mamma” cercò di
andarle incontro lui. Ma Clare parve non sentirlo.
“Io
non… Io non sono
egoista, Robert. Forse non sarò la madre migliore, forse
avrei
dovuto spingerti a fare scelte più produttive e costanti,
forse… forse avrei dovuto vietarti delle cose e obbligarti a
farne delle altre. Forse…” ma si fermò
un istante
perché la voce le venne a mancare. Sospirò.
“È che ho sempre cercato di vederti felice, di
saperti
contento, entusiasta. E sapere… sapere che andartene
può
provocarti dolore, e che soffrirai per noi, e per… beh,
anche
per lei… ecco io pensavo non fosse giusto. Perché
dovresti?”
“Mamma”.
“La
verità è
che ho voluto nascondere l’ovvio. Tuo padre è
più
pratico in questo. Io sono una madre, non un sergente marines: sono
brava a fare torte e addobbare la casa, a spiare i vicini e a
strillarti dietro, a te e a quell’altra anima di Tom. Faccio
il
mio dovere. E avrei dovuto farlo anche ora” alzò
il capo e
mostrò i grandi occhi azzurri che Robert aveva ereditato.
Sorrise, “Perciò rimedio. Anche se in
ritardo”.
Una lacrima scivolo
lungo la guancia di Robert.
“Ti
aiuterò a fare la
valigia, o finirai col riempirla di pacchetti di sigarette e libri,
lasciando a casa quello che ogni buon cristiano si porterebbe in
primis” rise scuotendo l’angioletto.
Il ragazzo non si
trattenne
più, colmò la distanza che li separava e
abbracciò
di slancio la donna, stringendola a se, contro il proprio petto, e la
cullò.
“Mi aiuti
anche con le cose del bagno, vero?”
E Clare
alzò gli occhi al
cielo, prima di annuire e stringere il figlio, mentre Richard li
guardava commosso e con quel sorriso sghembo dipinto sul viso. Quella
era la sua famiglia, quella era la vera forza. Una forza che non si
sarebbe mai dispersa, che sarebbe rimasta viva in eterno, non importa
quanta distanza vi fosse stata fra loro, sarebbe rimasta.
Annuì col
capo, e con fare
risoluto si incamminò verso la cucina dicendosi che si, ora
la
fetta di dolce era davvero d’obbligo.
***
Era sfinita. Era
distrutta… era a pezzi.
Abbandonandosi alla
stanchezza,
Charlotte si lasciò cadere all’indietro sul letto
e
represse un gemito acuto di dolore.
“Oddio, i
miei piedi…”
Quattro ore. Quattro
maledettissime ore, e aveva cominciato a pregare che una voragine si
aprisse sulla strada e la inghiottisse permettendole di riposare in
santa pace.
“Io quella
strangolo, ma tu
guarda” gracchiò scalciando per togliersi le
scarpe, prima
di vederle volare attraverso la stanza. Rannicchiò le
ginocchia
al petto e si abbandonò di lato sulle coperte. Si, era
davvero
esausta.
“Devo rifarmi di tutte
le volte che mi hai dato buca, chérie: adesso
soffri” imitò la voce di Nia,
sbattendo gli occhioni al modo suo, “Soffri…
soffri un paio di cavoli, sono un invertebrato ora, accidenti a
lei” mugolò tirandosi a sedere con una smorfia.
Lanciò
un’occhiata
all’orologio. Non erano ancora le cinque e mancavano due ore
prima di cena. Un sorriso malefico le si allargò sulle
labbra:
si, poteva rubare due ore di sonno al pomeriggio, se le era meritate in
fondo. E prima che riuscisse a mettersi sotto le coperte, gli occhi le
si chiusero da soli e lei sprofondò in un sonno senza sogni.
Trascorsero quelli
che sembrarono dieci miseri minuti.
Dondolava. Avanti e
indietro, mentre una luce fastidiosa le violentava gli occhi ancora
chiusi.
“Hei…”
Charlotte
cercò di scacciare la luce con la mano ma colpì
solo l’aria; sbuffò infastidita.
“Bimba…”
Fece una smorfia che
esprimeva tutta la sua contrarietà e lentamente
aprì gli occhi. Non era contenta.
“Checccosac’è?”
“Ciao anche
a te” sorrise Marie Anne, smettendo di dondolarla sulla
spalla.
“Nonna
stavo dormendo” biascicò la ragazza.
“Oh, me ne
sono accorta: sono tre ore e mezza che dormi”.
“Sono
cosa?”
Fece uno scatto
alzando di colpo la testa per guardare la sveglia. Troppo in
fretta… le ossa scricchiolarono.
“Ah…
ah… ahia…”
“Vedo che
ti sei divertita con Nia” commentò allegra la
donna, seduta sul bordo del letto.
“È
una pazza”.
“Compere e
pettegolezzi a Natale è la cosa più salutare del
mondo, bambina”.
“Ma non la
schiavitù!” lanciò le braccia al cielo
l’altra, “Abbiamo inseguito la sua dannata giacca
per tutti
e tre i piani di quel maledetto negozio, e io spero solo che crolli
ora… adesso! E poi, poi sai che ha fatto?” si mise
a
sedere con gli occhi sgranati, “Ha aspettato che la poveretta
che
l’aveva presa andasse in camerino con un paio di pantaloni
nuovi,
e gliel’ha sfilata dal mucchio di roba ancora da
provare…
Poi mi ha fatto rifare i tre piani di scale ad una velocità
che
non penso sia umanamente concepibile; mi sono spalmata a marmellata sul
muro del secondo perché un deficiente aveva deciso che fosse
intelligente allacciarsi le scarpe a metà scala”
ed
esibì un livido rilevante sull’avambraccio destro,
“Abbiamo pagato io spero con soldi, e siamo uscite correndo
di
nuovo, nemmeno avessimo un Balrog alle calcagna… per poi
entrare
in un altro
negozio” concluse chiudendo gli occhi sofferente.
“Ve la
siete spassata, insomma” ridacchiò la nonna.
Charlotte
riaprì gli occhi scuri e la fulminò letteralmente.
“Oh non
fare quella faccia, è Natale… quasi”.
“E io non
voglio più vedere giacche per i prossimi sette anni, dico
sul serio”.
Marie Anne rise
forte, prima di alzarsi e puntarsi le mani sui fianchi.
“Allora,
che ne dici di
cenare? Cena cinese” fece l’occhiolino. E Charlotte
sentì che il mondo aveva di nuovo senso.
Non fecero in tempo a
sedersi a
tavola che la ragazza si era già riempita la bocca di riso
cantonese. Sospirò felice.
E felice lo era anche
Marie Anne.
Beh forse non per il livido sul braccio della nipote ne per
l’evasione da scuola, che Charlotte aveva distrattamente
biascicato, ma per il semplice motivo che ora, in quel momento, la
vedeva vivere. Stanca, acciaccata, ma con una giornata piena alle
spalle, dei ricordi in più da conservare e
un’amica che,
ne era certa, non l’avrebbe mai abbandonata. Si
appuntò
mentalmente di chiamare Nia e ringraziarla.
“Non lo
prendi quello,
vero?” bofonchiò Charlotte indicando un involtino
primavera. Marie Anne scosse il capo e glielo porse.
Non aveva proferito
parola
riguardo a quello che era accaduto tre settimane prima, nonostante non
ne fosse affatto contenta. Amava Robert come un figlio adottivo, ma
ritrovarsi con la nipote con il naso grondante sangue e i nervi a pezzi
non era esattamente il tipo di comportamento che poteva tollerare, a
prescindere dalle loro solite scaramucce. Aveva dovuto controllarsi e
fare due ore di training autogeno per non correre a pescare il ragazzo
e assestargli due schiaffoni, ma confidò nel buon senso di
Richard.
Il fatto poi che
avesse deciso di
non immischiarsi era dovuto ad una cosa molto semplice: dovevano
sbrigarsela da soli. Ovvio, se fossero arrivati alle mani una seconda
volta, sarebbe intervenuta, ma voleva credere che non si sarebbero
spinti a tanto… E inoltre, forzare Charlotte a discuterne,
era
come implorare una parete di granito di mettersi a ballare il tip tap:
assolutamente inutile.
L’aveva
tenuta sotto controllo durante tutto il mese, era tutto ciò
che si riteneva in grado di fare.
“Sono
contenta che tu sia uscita oggi” commentò infine.
La ragazza smise di
masticare un istante, “Mi fa… piacere,
nonna”.
“Pensi che
riaccadrà di nuovo?”
“Dipende”.
E la nonna
preferì non calcare la mano, avrebbe aspettato. Un passo
alla volta…
Parlarono del
più e del
meno, rubandosi dai piatti e aprendo le seconde porzioni ancora
inscatolate; la mora raccontò della noiosa lezione di
chimica e
della figuraccia che Nia le aveva fatto fare di fronte a Simon, uno dei
ragazzi più belli della scuola, come da manuale. Marie Anne
tornò indietro nel tempo, ai tempi del liceo e sorrise beata.
Finito di cenare,
sparecchiarono e
riposero gli avanzi nel frigo, per poi passare al lavello dove
iniziarono una piccola guerricciola con acqua e detersivo. E non erano
ancora al secondo piatto da lavare, che qualcuno suonò al
campanello.
Le due si guardarono.
“Aspetti
qualcuno?” chiese Marie Anne.
“Se
è Nia, mandala via, dille che non ho più i
piedi” ringhiò lei tornando a lavare i piatti.
La donna si
affrettò alla
porta e con suo sommo piacere sorrise al nuovo arrivato, pensando che
quel giorno era davvero la rivincita di tanti anni tristi.
“Bambina
guarda un po’ chi c’è?”
Charlotte
voltò di poco il capo, alle proprie spalle, e
un’espressione di sorpresa le si dipinse sul volto.
“Ah…”
“Ciao
scricciolo” la
salutò Tom. La osservò poi meglio, piegando il
capo di
lato, “Perché hai del sapone in testa?”
“Oh.
Io… la nonna…” incespicò.
“Ciao Tom”.
“Hai
già cenato ragazzo?” sopraggiunse la donna.
“Si grazie,
pizza!”
“Giacché
ti nutri solo di quella”.
“Non voglio
sconvolgere troppo il mio canale alimentare: sono una persona
delicata” sghignazzò lui.
“Lo
immagino” ribatté Marie Anne, alzando gli occhi al
cielo. Quel tipo non cambiava mai.
“Come mai
sei qui?” chiese Charlotte, mentre sciacquava un bicchiere.
Aveva un tono
scortese. Lo aveva
spesso quando lui era nei paraggi o era costretta a condividerci lo
stesso spazio, come adesso. Non che avesse nulla nei suoi confronti,
era un amico come un altro, ma… non era la sua faccia che
vedeva
quando si voltava a guardarlo, ma quella dell’amico che
avevano
in comune. E la cosa le provocava dolore.
“Passavo di
qua”.
“Casa tua
è dall’altra parte”.
“Non ero a
casa”.
“Compere di
Natale?” intervenne Marie Anne.
“Maledizione,
si: mamma mi
ha spedito a comprare i regali per la zia” e dicendolo
lasciò intendere tutto l’entusiasmo che aveva
provato nel
farlo: nessuno.
La ragazza continuava
a lavare i
piatti, ostinandosi a dare le spalle al giovane, e sia lui che la nonna
se ne accorsero. Si guardarono un istante, un lungo cenno di intesa,
d’altronde combattevano sullo stesso fronte. Fu Tom a
prendere
parola.
“In
realtà sono qui per requisirti”.
“Sei qui
per cosa?” si voltò allora Charlotte.
“Usciamo”.
La mora
allargò gli occhi e
serrò le labbra. Marie Anne si mise una mano davanti alla
bocca
per reprimere una risatina: quel ragazzo era davvero un temerario.
“E dove
vorresti andare, di grazia?”
“Oh,
è una sorpresa”.
“Non mi
piacciono le sorprese”.
“Pazienza,
a me un
sacco” sorrise allegro Tom, strofinandosi le mani. Peccato
che
non avesse notato il bicchiere in mano della ragazza, già
predisposto ad un lungo lancio attraverso la stanza.
Fu Marie Annie,
silenziosa, a levarglielo dalla presa e riporlo
nell’armadietto.
“Uscite?”
chiese.
“Non
credo”.
“Certo che
si”.
“Voglio
prima sapere dove andiamo”.
“Non penso
che Tommy voglia
portarti in un locale ad ubriacarti, vero caro?” si
assicurò la nonna, rivolgendo al giovane
un’occhiata
così feroce che avrebbe fatto abbandonare anche la
più
misera intenzione di fare uso di alcolici quella sera. Tom
deglutì.
“A-assolutamente
no” bofonchiò, “Solo zucchero
filato”.
“Zucchero
filato?” chiese Charlotte.
“Ottima
idea” commentò la donna. Aveva intuito la meta.
“Già.
Allora
vieni?” domandò ancora il ragazzo, ad un passo dal
mettersi in ginocchio. “Non c’è nulla di
pericoloso
in un posto dove vendono lo zucchero filato, te lo posso assicurare.
Vieni?”
Lei non seppe che
rispondere.
Era stanca, esausta.
Non si
sentiva più i piedi e voleva tornare a dormire. Ma non era
quello il punto. Perché la vera domanda era: sarebbero stati
soltanto loro due? Escluso lo zucchero filato, certo.
Tom parve intuire il
suo cruccio,
perché assunse un’espressione dolcissima e disse
“Una piccola rimpatriata con questo vecchio ubriacone,
stasera in
sciopero, che ti perseguita da due settimane. Puoi
concedermelo?”
Si, erano due
settimane. Non era
proprio sicura di essere contenta di averlo di nuovo accanto; certo,
era il secondo buon amico a cui teneva immensamente e che, doveva
ammetterlo, gli era mancato molto. Le mancavano le sue battutine
assurde e il modo di fare ironico e leggero, per non parlare delle sua
mania per la pizza. Le mancava Tom…
Ma da quando era
successo il fatto
tre settimane addietro, vedere lui era come vedere di riflesso anche
Robert, come se Tom si trascinasse dietro l’ologramma
dell’amico, che aleggiava a mo’ di fantasma, e
questo la
disturbava immensamente.
“Allora?”
Sospirò a
fondo. Beh, fatta
una pazzia quella mattina, evadendo, tanto valeva chiudere in bellezza.
Quasi non si riconosceva.
“D’accordo,
vada per lo zucchero filato” annuì.
“Grande!”
esultò Tom, lanciando un pugno in aria. “Ti
aspetto fuori,
fai in fretta!” e detto questo si eclissò in
corridoio ed
uscì.
Charlotte
scoccò un’occhiata alla nonna, e quella sorrise.
“Ti divertirai”.
Si incamminarono un
quarto d’ora dopo, a braccetto, diretti verso il parco.
“Allora,
com’è andata oggi a scuola?”
“La solita
noia”.
“Chimica?”
“E
matematica…” sbuffò sconsolata lei.
“Le due
migliori materie per concentrarsi su attività
extracurricolari”.
“Non…
credo di voler
davvero sapere cosa combinassi durante matematica” lo
guardò preoccupata, ma abbozzando ad un mezzo sorriso.
“Questo
perché non
sai cosa facevo a chimica, dolcezza” ricambiò lui
inarcando le sopracciglia con fare ammaliatore. E la ragazza non
poté fare a meno di ridere.
Voltarono
l’angolo e si fermarono. Si, era davvero una sorpresa,
dovette ammetterlo.
“Il Luna
Park!”
“E lo
zucchero filato, per servirla, madame” la guidò
allegro Tom all’entrata.
Pagarono il biglietto
e in pochi attimi si confusero con la folla di gente urlante e in
fermento.
Fu come tuffarsi in
una piscina
piena di pesci colorati in cui si diffondeva una musica da carillon:
era diverso. Non era abituata a frequentare i luoghi così
rumorosi, o meglio… non lo era da qualche tempo. Le luci, le
bancarelle e le persone che si accalcavano per fare la fila ai giochi o
comprare dolcetti e pupazzi, le attrazioni che sbucavano in ogni dove e
da cui provenivano strilla eccitate o terrorizzate, tutto quanto
sfociava in una girandola confusionaria ed opprimente che, poco dopo,
Charlotte fu costretta ad aggrapparsi al braccio di Tom con tutte le
proprie forze.
“Stai
bene?” le chiese subito il ragazzo, preoccupato.
“Io…
si. Si, sto
bene. Sono solo…” disse scuotendo la testa
evasiva.
“È solo che è un po’
diverso”.
Tom la
guardò e parve
capire. Forse aveva osato troppo a portarla lì.
“Vuoi
tornare a casa? Ti accompagno”.
“No.
No” lo rassicurò lei. “È ok,
mi piace”.
Non capì
se lo disse
più per non farlo dispiacere o se per un desiderio inconscio
di
restare fuori di casa. Quella era una giornata diversa dalle
altre… e come tale, decise di ragionare fuori
dall’ordinario.
“D’accordo.
Vuoi
provare qualche cosa?” propose il ragazzo, guardandosi
attorno.
“La casa degli orrori. La… strega impazzita.
Il…
che diavolo è? Oh, il bruco!”
“Da quando
ti piace il bruco?” rise lei.
“È
un pezzo di storia, mia cara. Potrei dire di preferirlo alle montagne
russe”.
“Pensavo
preferissi
la…” ed allungò il collo per leggere
l’insegna, “… casa dello squartatore.
Dio, non ci
entrerei nemmeno da fantasma là dentro”.
“Cuore
debole, fanciulla” ridacchiò autoritario lui.
“Parla
l’amico del bruco”.
“Ma tu non
volevi lo zucchero filato?”
Charlotte rise e gli
diede un
buffetto sulla spalla, prima che Tom la trascinasse alla bancarella dei
dolci con un “Sei una maledetta poppante”.
Restarono ad
osservare i mille
tipi diversi di dolci, tanto che si chiesero se alcuni fossero davvero
commestibili; arrivato il loro turno, presero due zuccheri filati
enormi e, soddisfatti, si incamminarono verso la ruota panoramica.
“Non soffri
di vertigini, vero?” le chiese Tom.
“Certo che
no”.
“Io
si”.
Charlotte si
voltò a guardarlo con aria divertita, “E cosa ci
saliamo a fare, scusa?”
Lui fece spallucce.
“Ma tu vuoi andarci… e poi ho lo zucchero filato
per consolarmi”.
Era davvero unico. E
ancora una
volta, la ragazza dovette riconoscere di quanto le fosse mancato. Era
arrivato dopo Robert, all’età di nove anni,
facendo subito
comunella con il ragazzo ed ereditando la sua mania di prenderla in
giro. Insieme erano davvero insopportabili, la peggior coppia di
bambini che il mondo avesse mai partorito… ma lei gli voleva
bene. Col tempo Tommy era diventato la parte divertente del duo, mentre
Robe era il lato sentimentale e artistico. Charlotte era la vittima,
l’eroina che li sopportava da mane a sera, ma che senza di
loro
avrebbe avuto l’infanzia più triste e solitaria di
tutti.
Ed averlo
lì ora, e
ripensare ai vecchi ricordi, come sfogliare un album di fotografie, la
faceva sentire diversa… Una sensazione estranea, che le si
infilava sotto la pelle come aghi roventi e cominciava ad incidere un
percorso nuovo. Uscire per un breve attimo dalla pozza
d’acqua
scura in cui era immersa da una vita, prendere un respiro
d’aria
e poi tornare sotto.
“Grazie
Tommy”.
“Uhm?”
“Grazie…”
ripeté lei, sorridendogli e stringendogli il braccio.
E Tom sorrise
sfiorandole una ciocca di capelli con occhi affettuosi. Anche a lui
mancava la sua vecchia Charlotte…
“Allora
vuol dire che facciamo la casa degli orrori?”
Si, era unico.
Si stavano quindi
avviando verso
la temibile casa degli spiriti, meditando di comprare
dell’altro
zucchero filato e spettegolando su quanta gente strana ci fosse in
giro, quando il ragazzo si fermò di colpo fissando un punto
davanti a se. Charlotte seguì la linea del suo sguardo e non
poté fare a meno di impallidire.
Robert era
lì. In piedi. Immobile. Vicino all’entrata della
casa degli orrori. E li guardava.
Il bastoncino pulito
cadde di mano alla ragazza, mentre il respiro le si era strozzato in
gola.
Sentì al
suo fianco Tom
irrigidirsi e biascicare qualcosa, ma lo sentiva distante. Sentiva
distante qualunque rumore attorno a lei, come se d’improvviso
fosse tornata ad immergersi nella piscina scura, puntando verso il
fondo. Cominciò a tremare.
Lui era
lì. Robert era lì…
Vedeva nitidamente la
distanza che
c’era fra loro, come un sentiero illuminato da un fascio di
luce.
Vedeva i suoi contorni stagliarsi contro la massa sfuocata che gli
scorreva accanto, riusciva quasi a scorgere i particolari del viso come
se lo avesse avuto a meno di un metro di distanza.
Indietreggiò
di un passo e si immobilizzò.
Istintivamente si
portò una
mano al viso, sfiorandosi il naso e vide, dall’altra parte,
il
ragazzo reprimere una smorfia e spostare il peso su un piede.
Cos’era? Dolore? Rabbia? Noia?
Lentamente
cercò di
riordinare i pensieri. Cercò di scacciare dalla mente il
ricordo
dell’accaduto, di liberare gli occhi dai flash che la
abbagliavano e di porre un filo logico a quel momento presente.
Perché sapeva che non era tanto il gesto compiuto a ferirla,
Robert l’aveva picchiata spesso da bambina, quanto
l’offesa… l’umiliazione. Il tradimento.
E per tre settimane,
si era
così affannata ad innalzare muri e pareti attorno a se
stessa, a
barricare ogni eco di ricordo, a cancellare anche la più
piccola
traccia che le avrebbe permesso di struggersi per l’onta e la
frustrazione, che l’avrebbe autorizzata ad interrogarsi e a
fare
congetture, che ora… averlo davanti, equivaleva a subire un
attacco a sorpresa al proprio castello di illusioni. E i ricordi
avevano fatto breccia, portandosi appresso i sentimenti.
Con rabbia Charlotte
si
voltò verso Tom, distante, chiedendogli in una muta domanda
se
fosse stato per caso tutto organizzato, se la trovata del Luna Park
altro non fosse che una messa in scena.
Ma Tom pareva
più sorpreso di lei, a giudicare dallo sguardo disorientato,
e non riuscì a proferir parola.
Robert la guardava.
La vedeva
torturarsi le mani. La vedeva aggrottare la fronte e mordersi il
labbro. E sorrise dentro di se. Non era cambiata affatto. Era sempre la
stessa quando si scontrava con emozioni che non sapeva
gestire…
sempre la stessa tavolozza di colori mescolati e frasi in rima
scombinata.
La vide poi sfiorarsi
il viso, e
non poté non reprimere una smorfia di dolore. Gli tremarono
le
mani e si morsicò la lingua.
La vide voltarsi
verso Tom e
intuì cosa volessi chiedergli: no, non era stata una messa
in
scena. Ma una maledetta coincidenza a cui lui non aveva saputo
resistere.
Era andato a casa di
Tom per
proporgli una serata in birreria, quando gli era stato detto che era al
Luna Park; non ci aveva messo molto a fare due più due. E
ora
eccoli lì.
Sulle prime aveva
dovuto reprime
l’istinto di ringhiare all’amico di mantenersi a
debita
distanza, aveva notato come le aveva sfiorato i capelli… si
era
sentito bruciare il petto.
Ma la sensazione che
l’aveva
pervaso non appena i propri occhi avevano incontrato quelli di lei, non
aveva eguali. Era come riappropriarsi di un qualcosa andato perduto e
gioire per averlo riottenuto, anche se per pochi istanti. Aveva
inspirato a fondo, beandosi di quel momento in cui i loro sguardi erano
rimasti incatenati, rabbia e sconcerto mescolati assieme in una cascata
di parole a cui non avrebbe saputo dar ordine, ma che lo
riempì
e gli scaldò il cuore.
Charlotte
aprì la bocca per dire qualcosa… ma non
uscì nulla, se non un gemito strozzato.
Cosa poteva dire? Gli
mancava da
morire, gli mancava vederlo girare per casa con i capelli peggio di un
covone di paglia, e la felpa storta. Gli mancava sentirlo suonare e
strillare che era stufo di vederla studiare. Gli mancava vederlo
dormire di traverso sul divano e ingozzarsi di panini, di notte in
cucina. Ma più di tutto gli mancava il modo in cui la
guardava,
in cui la abbracciava, stringendola a se dicendo che sarebbe andato
tutto bene.
Robert chiuse gli
occhi, per poi riaprirli e lasciare che una lacrima gli scendesse lungo
la guancia.
Aveva preso una
decisione pochi
giorni addietro, aveva scelto che cosa fare, aveva scelto per cosa
combattere. E vedere ora ciò che avrebbe lasciato alle
spalle
per sparire e costruirsi un futuro diverso, lo avvertì come
una
morsa insopportabile al torace e alla testa, tanto che si
piegò
di poco su se stesso sofferente.
Avrebbe voluto
parlarle, spiegarle
di come si sentisse cambiato ora, di come volesse affrontare la sua
vita, sotto una prospettiva diversa, avrebbe voluto renderla partecipe
del nuovo. Ma d’improvviso ogni buona intenzione era
scomparsa,
cancellata dalla paura, e i propositi a lungo meditati erano sfumati
lasciandolo con le spalle scoperte. Vedeva tutto e niente.
Era stato un errore
venire, si disse.
Indietreggiò
di due passi e poi sì volto deciso incamminandosi fra la
folla, verso casa.
Charlotte lo vide
farsi indietro e poi sparire fra la gente.
Ebbe paura. Era
lì, e un
attimo dopo era scomparso. I piedi le si mossero da soli, lanciandola
in una corsa che non aveva premeditato, scostando i presenti e cercando
disperatamente con lo sguardo attorno a se, nelle speranza di scorgere
la sagoma alta e slanciata del ragazzo. Volle chiamarlo ma ancora non
riuscì ad emettere nulla se non un sibilo distrutto.
E quando le fu chiaro
che di lui
non c’era più traccia, si lasciò
andare, incassando
il colpo al petto, e reclinando la testa accettando la sconfitta.
Tom le si
avvicinò, lo
sguardo indecifrabile. Le passò un braccio attorno alla
spalla e
la strinse a se, aspettando che si calmasse.
“Torniamo a
casa”, fu infine quello che Charlotte riuscì a
dire.
Aveva scelto
l’indifferenza… e ora il suo abito era stato
sgualcito e i ricordi erano tornati.
----------
Sproloqui
:)
Alloooors…
che ne dite? Sono successe un bel po’ di cosine eh!
Punto numero uno: so
che Charlotte
può sembrare na palla di depressione che vien voglia di
lanciarla giù da un ponte con tanto di masso attaccato al
piede,
e magari pure uno al collo… ma che volete che vi dica? Morti
mamy e papy, e con il migliore amico che ti piglia a schiaffi, qualche
complesso di inferiorità alla poverina posso anche
concederglielo, dai u.u
Comunque, stavolta
l’ho
fatta reagire, e da qui in poi ci proverà ancora…
forse
anche perché il gesto di Robert, benché non
premeditato,
è una scossa talmente forte che, inconsciamente, la
costringe a
risalire in superficie e darse ‘na svejata.
Nia. NIA! Io
adoro Nia. In realtà doveva chiamarsi Anne, ed essere la
versione sdolcinata di Biancaneve… ma poi, dannazione,
è
saltato fuori ‘sto mostro malefico, che non ho potuto fare
altro
che lasciarle campo libero xD *ok,
malattia mentale e perversa credere che i miei personaggi siano reali,
ma vabene lo stesso, è tutto a posto… u.u*
Tom.
Non linciatelo stavolta, c’mon! Ho sentito le vostre onde
negative mentre scrivevo dei piccoli gesti affettuosi che ha nei
confronti di Charlotte, e ho avuto paura @_@ Però, in sua
difesa, devo dire che almeno si sforza di essere simpatico, no?
E Bobby.
Il suo pezzo solitario è stato immensamente difficile,
perché, almeno per me, Robert è un personaggio
molto
complesso, e per tanto ho cercato di descriverlo nel modo che
più credo gli si avvicini: musica, parole e
colori…
E’ un punto cruciale, è una pagina nuova, ma che
va
affrontata non in modo banale. È stato difficile, ma spero
di
esserci riuscita ;)
E…
beh… per il prossimo capitolo ho in mente
un’ideuzza simpatica, eheh *ghigna malefica*
No. fermi…
a dire il vero
non sono sicura se la piazzerò nel prossimo o fra due *ci
pensa*
… boh?! xD Beh, vi dico solo che è un fatto
realmente
accaduto (a me) e mi sembrava potesse starci nel contesto…
vedremo!
passando
ai commenti:
Piccola Ketty:
Tesoro! Allora... si, Richard è un papà. L'ho
messo un
po' sul brutale, ma ho cercato di farlo agire da uomo e da genitore
più che da persona comprensiva per Rob. E si ancora,
Charlotte
è un po' pesante, lo ammetto, ma... poverina, capiamola (no
invece, linciamolaaa!!! gnahahah xD), ha avuto un po' di
scombussolamenti pissssicologici e ora non sa nemmeno da che parte
girarsi per scendere dal letto (no beh, forse quello no... ma ci va
vicina :P). Non è che lei non sia riconoscente a Bob, solo
che... lo dà per scontato, nel senso: lui c'è, e
non
concepisce l'idea che lui possa svolazzare altrove. ... che pensiero
contorto xD
A dirti la
verità, si,
l'idea iniziale era quella di far scappare Bobby senza dire niente a
nessuno, tranne che a mamy e papy. Ma poi ho pensato, e letto anche il
tuo commento, che se glielo facevo fare diventava una trincea di storia
con tanto di spade laser xD
Tommy, ehmmm... mi sa
che allora
in questo capitolo lo odierai ammmmorrrrteeee!! Dai tieni duro, pochi
capitoli e poi lo vediamo eclissarsi per un po', o almeno questi
dovrebbero essere i miei piani u.u
Kris, uhmm...
simpatica
antipatica, non lo so. E' strana. E la farò agire da persona
strana, fidati di me ;) Però te ne lascio un pezzo se vuoi
esercitarti con la mazza, ahahah XDD
Grazie cmq sempre per
aver recensito, sei gentilissima, e spero che anche questo nuovo chap
ti sia piaciuto!! E... ma sei genovese? x) bacioni :3
anniesomerhalder: cocca
^^ beh si... sta storia dello schiaffo mi sa che ha traumatizzato un
po' di persone e... mi spiace *scuote
il capo afflitta* ma secondo me ci stava,
cioè... era un toccasana per la storia e poi dai: Bob
è stressato a mille, quella non la pianta di fare la pianta
da soggiorno, mi sembrava legittimo piantarci un destro e un sinistro,
eh eh u.u Comunque tranquilla, ora le cose miglioreranno... con calma
per lei, ma lui va verso il nuovo mondo, ehehe *kristen in viiiistaaaa*
Grazie mille e spero che anche il nuovo chap ti sia piaciuto! kiss :3
In quanto al progetto
di cui parlavo prima.
Sto cercando di
pianificare
un’idea che coltivo da parecchi anni ormai, due o tre, e
finalmente mi sono decisa a lavorarci sopra seriamente. Non mi
aspettavo che fosse così difficile, probabilmente
perché
ho sempre visto gli altri mettere mano a imprese così
mastodontiche da non rendermi effettivamente conto di quanto sia
faticoso ed impegnativo. Comunque… mi porta via del tempo.
Oltre
agli esami, se ignoriamo il fatto che ho perso temporaneamente la
voglia di studiare *sessione
estiva, CREPA!*
Tutto questo sommato
al caldo.
Io so di non essere
una persona
costante nell’aggiornare, di fatti sono una più da
one-shot e via. E non perché non abbia a cuore quello che
scrivo, anzi. Più che altro perché scrivere di
persone
reali è una cosa delicata, non… facile. Il modo
in cui io
descrivo Bobby, benché per me sia abbastanza fedele,
potrebbe
essere in realtà lontano mille mila volte dal vero lui, e
non
faticherei a crederlo se me lo dicessero. Non ho la presunzione di
conoscerlo, benché mi farebbe piacere perché
è un
personaggio curioso (e che non associo a Cullen), e quindi scrivere
ogni volta un capitolo nuovo, con nuove scene, con nuovi dialoghi e
nuovi risvolti è come sviscerare il carattere di Robert e
reinterpretarlo a modo mio, giusto o meno che sia.
So anche che questo
mio aggiornare
sporadico mi porta via lettori/lettrici… l’ho
notato dal
calo di letture xD E mi spiace: sia perché lo avverto come
una
mia mancanza nei vostri confronti (perdono…) e sia
perché
io non so più che fare!!!
Perciò, se
vi va, battete
un colpo e dite che ne pensate, se abbandoniamo la nave o continuiamo
con l'avventura, eheh XD Inoltre finita l’estate dovrei
tornare
ad aggiornare anche settimanalmente u.u
Ditemi! Parlate!!
ç_ç
Inoltre, ringrazio:
Ello, epril68 e fringui, per averla aggiunta ai preferiti.
E ringrazio: alice
brendon cullen,
avaadore, baby90, BrandNewSibyl, Dark Angel 1935, DolcePotter, Eli2345,
Ello, fire and ice, giulimpire, memole_88, Twilly, _Miss_ .... per
averla aggiunta alle seguite ;)
E grazie naturalmente
a coloro che leggono in silence, yah :)
*col
capo cosparso di cenere, se ne va implorando ancora il perdono*
Ci vediamo al
prossimo chap, nella speranza di essere sopravvissuta agli esami -.-
Un
abbraccio miei divini *-*
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** 08. reazione ***
08
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 8° capitolo –
Reazione
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Un capitolo un po’ particolare, specialmente la prima
parte… ma spero di essere riuscita nell’intento e
che sia leggibile xD
Ci vediamo sotto,
bacio ;P
8
“Reazione”
Era
seduto sul muretto ed accordava la chitarra. La felpa blu scuro gli
cadeva larga sulle spalle e i capelli ancora bagnati dalla doccia gli
restavano incollati alla fronte, disegnando righe buffe.
Era
l’imbrunire, e i raggi rosso fuoco attraversavano il cielo
tingendo le nuvole di un rosa carico, mentre un vento leggero e freddo
scuoteva le cime degli alberi spogli, diffondendo una melodia
frusciante e malinconica.
Robert storse la
bocca mentre giocava con le corde dello strumento cercando
disperatamente la nota che poteva completare la piccola canzone che gli
passava per la testa da quella mattina.
Pizzicava le corde
con leggerezza, quasi le accarezzasse con grazia, facendole vibrare con
maestria. Canticchiava. Un mugolio basso e passionale che gli nasceva
dalla gola e saliva sino alla testa, riempiendogli la mente di immagini
colorate e dolci che accompagnavano la sua idea di musica…
Ci aveva pensato
spesso negli ultimi giorni. Probabilmente, una volta partito, non
avrebbe avuto più tanto tempo per dedicarsi alla sua
passione. Probabilmente era un errore portare con se la chitarra, era
una sorta di vessillo di un romantico fatto e finito, cosa di cui alle
volte si vergognava. Beh, non che la vena maschile gli mancasse, ma il
cedere al fiume dello stupore, della poesia e dell’armonia
era una cosa che da tempo aveva aggiunto alle sue debolezze perenni.
Fatto sta che decise di comporre e liberare il proprio spirito, prima
di salire sull’aereo e abbandonare dietro di se i ricordi.
“Uhmm…
no” borbottò, ripetendo un accordo, con il viso
rivolto verso il cielo e lo sguardo concentrato. La nota stonava. Un
fiore spento in mezzo ad un campo di girasoli. Doveva dargli colore.
Una figura
scivolò via dalla veranda e attraversò con calma
il giardino, per fermarsi dietro il ragazzo e ascoltarlo con la testa
inclinata di lato.
Era un piacere
ascoltarlo. Vederlo amare quello strumento come se fosse stato un
riflesso di se stesso, un fratello gemello, tanto da non stancarsi mai
dal confidarsi con lui ed averne la massima cura. In molti avrebbero
potuto dire che si, la musica è un interesse che va
coltivato e deve riempire gli spazi di una vita, ma farne un
attaccamento morboso poteva essere solo una mera perdita di
tempo… o un segno di debolezza, di rifugio da un evidente
stato emarginato. Ma per Robert non era così.
Si alzava la mattina
con nuove note che gironzolavano e canticchiavano nella mente, per poi
fare colazione ed averne altre che già componevano una nuova
canzone. Incontrava gli amici nel pomeriggio e attorno a loro disegnava
spartiti immaginari, mentre la sera legava melodie malinconiche attorno
ai confini del proprio mondo, aspettando il domani. Era come vederlo
spostarsi di continuo su scale e scivoli costruiti con macchie nere
d’inchiostro ed echi di vecchie e nuove melodie che
arrivavano dallo spazio che teneva nascosto dentro il petto; dove
camminava, dove rideva, dove piangeva, dove rifletteva… era
un piccolo pezzo di musica.
Richard lo
osservò imbronciarsi mentre bisticciava con
nell’esima nota. Suo
figlio. E presto sarebbe partito. Assieme alla sua amata
chitarra. Già gli mancava. Gli mancavano tutti e due.
“Ti ho
portato una tazza di tè” disse andandogli vicino.
Rob alzò
lo sguardo e abbozzò ad un sorriso. Posò la
chitarra sulle gambe e prese la tazza.
“Problemi
con la tua musa?” chiese ridacchiando l’uomo.
“Non trovo
il finale” bofonchiò affranto il ragazzo.
“Una
canzone nuova?”
Lui fece spallucce
storcendo la bocca. “Ne nuova ne vecchia…
è più un riassunto e un prologo messi
assieme”.
“È
molto bella”.
Rob rise,
“È un disastro!”
“Lo dici
sempre”.
“Beh…”
tentennò lui, osservando il tè nella tazza,
“Sono modesto”, concluse, guardando il padre con i
grandi occhi azzurro mare.
“Poco ma
sicuro. Hai preso da me” gli batté una mano sulla
spalla Richard. E il figlio rise.
Finita la tazza di
tè, la passò all’uomo e
riabbracciò la chitarra tornando a sfiorare le corde. Prima
o poi la fine l’avrebbe trovata… era una questione
di filosofia.
“Tua madre
ha finito il bucato e ha lanciato maledizioni per mezz’ora
per tutta la roba che ti ha comprato: penso che non sia molto contenta,
ora che la dovrà stirare” raccontò
Richard.
“Io le
avevo detto che la tuta e le due camicie bastavano”.
“Tu saresti
andato in pigiama”.
“Così
sarei già stato pronto per la sera… Sul set i
vestiti me li danno gratis, che senso ha spendere quando posso
risparmiare per cose più utili?”
commentò con un ghigno che non prometteva nulla di buono.
“Io spero
che… con la lontananza di Tommy, ti prenda una malinconia
tale da non toccare un singolo goccio di birra, non è
vero?”
Robert
alzò il viso con occhi sbarrati. Non diceva sul serio!
“Come
scusa?”
“Niente.
Tua madre mi ha detto di farti la ramanzina su ‘ Robert non deve
ubriacarsi e farsi riconoscere subito ’…
Ho adempito ai mie doveri di genitore” annuì
asciutto Richard, passandosi una mano fra i capelli. E il figlio rise
forte una seconda volta. Suo padre non sarebbe mai cambiato.
Passarono altri
lunghi istanti assieme, Robert suonando alla ricerca del finale perduto
e l’uomo seduto accanto a lui, con lo sguardo rivolto verso
il cielo ormai tinto di viola e blu con una linea sottile e quasi
impercettibile color corallo all’orizzonte.
Mancavano tre giorni
a Natale. E quattro alla partenza del ragazzo. Era come andare avanti
al rallentatore… o forse vi era l’illusione che il
tempo andasse più lento, per poter intrappolare ogni singolo
attimo nella rete di ricordi per poi ritagliarli e infilarli sotto il
cuscino, affinché facessero sempre compagnia. Ma i
cambiamenti prima o dopo avvengono, e quando si è
sull’orlo del grande salto, tornare indietro e trovare una
strada più semplice, è solo una grande perdita di
tempo: si chiude gli occhi, si inspira… e ci si lancia.
Erano pronti per il salto. O quasi…
“Hai preso
il regalo a tua madre?”
Robert
sbuffò. “Ho girato sei negozi. Sei! Ero tentato
dal comprarle un piccolo set di nanetti vestiti da Babbo Natale, da
mettere in giardino. Erano molto carini, con il berretto
luminoso”.
Il padre
avvampò sul collo per il terrore.
“Ma alla
fine ho preso qualcosa di più di pratico” lo
rassicurò con sorriso.
“Ero
già pronto a diseredarti, sai?”
“Tu che le
hai preso?”
“Ho
già speso metà della mia settimana ad addobbare
casa assieme a lei: non c’è prova
d’amore più grande, immagino”
commentò solenne.
“Economico
soprattutto”.
“Non per i
miei nervi…” ribatté funereo Richard,
ricordandosi d’improvviso degli angioletti grassi e palline
colorate sparse per il pavimento. Un incubo.
“Fra poco
arriverà Tom. Usciamo a prendere il regalo per sua mamma.
Penso sia più disperato di me… ma ho
già intenzione di abbandonarlo al quinto negozio se non
troviamo nulla” annuì con vigore a se stesso
Robert, come a rassicurarsi sul fatto che forse sarebbe sopravvissuto
allo shopping dell’ultima ora.
“Phoebe
è una donna semplice, non penso sarà
difficile”.
“Anche
mamma è semplice…”
“No, tua
madre vive nella semplicità quando sono io ad aggiustare le
cose, è un po’ diverso come punto di
vista” borbottò Richard, fissando con odio
l’albero di Natale poco distante che era stato costretto a
sistemare perché restasse in equilibrio.
Robert fu tentato dal
rispondere, ma la voce di Clare alle sue spalle glielo
impedì. I due uomini si irrigidirono sperando che non avesse
sentito nulla dei loro discorsi, in particolar modo il marito se voleva
arrivare sano e salvo sino alla cena.
“Oh, siete
qui! Tesoro, è arrivato Tom, ti aspetta in
soggiorno”.
“Grazie,
mamma” le sorrise lui, prima di vederla sparire
all’interno. Saltò giù dal muretto e
prese la chitarra, seguito subito dopo dal padre. Entrarono lasciandosi
dietro il freddo della sera.
“Cinque
negozi, eh?” scherzò Richard.
“Quattro
sono troppo pochi… e sei non se ne parla nemmeno: sono una
persona paziente e servizievole, do sempre un certo spazio alle persone
a cui voglio bene”.
Avevano raggiunto il
soggiorno, dove Tom li aspettava appollaiato sul divano e Clare correva
da un lato all’altro della stanza per sistemare alcune
decorazioni che, a suo parere, erano fuori posto. Richard
alzò gli occhi al cielo con un gemito.
“A chi
è che vuoi bene?” chiese curioso Tom, cogliendo la
fine del discorso.
“A
te” rispose Rob, appoggiando la chitarra sul tavolo.
“E…
è una cosa di cui devo aver paura?”
“Dipende”
sghignazzò l’altro con aria sadica. Tom si
spostò lontano da lui con aria terrorizzata.
“Bene,
giovanotti! Andate e cercate di non radere al suolo nulla, o mi
toccherà vendere le decorazioni di tua madre per saldare i
debiti, capito?”
“Richard!”
strillò Clare dall’altra stanza.
“Oh, ma
mica tutte eh… metà bastano per restaurare gli
Harrod’s” commentò acido lui. Si rivolse
poi al figlio, “Ti aspettiamo per cena?”
“No, non
credo, mangeremo qualcosa fuori” scosse la testa lui,
guardando poi l’amico.
“Uhm!
Italiano?”
“Nah,
messicano”.
“Ugh!
Cinese…”
“Ah,
francese”.
“Oh oh,
giapponese! Sushi…”
“MacDonal -
”
“E io sono
un monaco tibetano, si d’accordo” li
afferrò per le spalle Richard, ridendo sotto i baffi. Li
spinse verso la porta, “Andate dove vi pare, basta che
torniate a casa interi e con tutti i vestiti addosso. O almeno la
metà, le scarpe potete lasciarle in beneficenza”.
E fu dopo aver
allungato qualche soldo al figlio, che i due ragazzi uscirono
stringendosi nelle giacche e salutando il signor Pattinson.
“Tuo padre
è strano ultimamente”.
“Lo
è sempre a Natale”.
“Bontà
in saldo?”
“No.
È l’albero che mamma gli fa decorare tutti gli
anni in giardino”.
“Oh, brutta
storia”.
Camminavano da una
mezz’ora, dopo aver preso la metropolitana ed essere scesi a
Picadilly Circus. Era uno dei posti che più preferivano: per
la gente, per i rumori e i colori, per l’atmosfera, e per i
ristoranti e locali. Era una dei piccoli cuori di Londra, ed era anche
uno degli angoli dei loro ricordi e dove spesso amavano
tornare…
“Hai almeno una vaga
idea di cosa prendere a tua mamma?”
“Certo che
no” sorrise Tom, mentre adocchiava un take-away cinese con
occhi famelici. “Stamattina ha detto di volere un nuovo
spremiagrumi, ma tanto lo so che lo usa solo per ingozzarmi di
spremute: e io odio le arance. E poi ha detto che voleva un altro paio
di Louboutin… va a capire che c’entra con la
frutta”.
“È
solo un po’ confusa”.
“No,
è una donna” commentò lugubre il
ragazzo.
Vagarono fra le vie
illuminate parlando del più e del meno, gettando occhiate
curiose ai negozi e alle piccole bancarelle improvvisate per i vicoli,
alla ricerca di un qualcosa di degno per Phoebe: semplice o meno, donna
o confusa, qualcosa dovevano pur trovare, e l’umore di Tom
era decisamente sconfortato.
Decisero di spostarsi
in Oxford Street, dopo che Robert aveva saggiamente proposto di
comprarle qualcosa per la casa, originale ma pur sempre femminile, e
Urban Outfitters era l’unica fonte di salvezza.
Una volta entrati,
furono investiti da un’onda di persone impazzite, che si
strappavano dalle mani oggetti e vestiti, scarpe e soprammobili, quasi
fossero sul punto di azzannarsi e strapparsi i capelli: Natale? No, la
terza guerra mondiale… I due cercarono di farsi
largo fra la folla, pur non toccando nulla per timore di non ritrovarsi
più le dita.
“È
il terzo negozio in cui entriamo. Ne mancano ancora due,e poi sarai
libero” sorrise Tom, mentre curiosava delle lampade su uno
scaffale.
“Mi hai
sentito?”
“Quattro sono troppo pochi, e sei
non se ne parla nemmeno ” citò
l’amico con una risata, “Pensavo ti saresti fermato
al secondo in realtà. Mi sorprendi”.
“Sono una
persona servizievole” cercò di darsi tono Robert.
“No, sei
scemo, è diverso”.
“Posso
sempre andarmene, sai?” gracchiò in risposta
l’altro, offeso.
“Oh, io me
ne sarei già andato da un pezzo, Bobby”
sghignazzò lui.
Robert si
fermò e lo guardò, con le mani affondate nei
jeans e la bocca serrata. Lo osservò scansare due donne con
le braccia colme di vestiti e scarpe, prima di prendere cautamente in
mano una cornice in legno e fiori secchi. Lo
studiò…
Tommy era un ragazzo
a cui voleva bene. Un gran bene. Era il suo migliore amico. Era la voce
della verità, quando questa era troppo timida o troppo
scomoda per essere rivelata. Era l’occhio attento nelle
situazione in cui Robert sapeva di essere parziale e maledettamente
distratto. Era la spalla su cui battere il pugno nei momenti di sfogo e
il sorriso strafottente che risollevava il morale quando si credeva che
ogni cosa fosse una delusione.
Eppure, in quegli
ultimi giorni, Robert lo odiava. Lo avvertiva come una presenza
irritante. Lo percepiva come un estraneo capitato
all’improvviso nel suo acquario di felicità. E se
avesse dovuto dipingerlo, avrebbe usato colori troppo scostanti dai
propri perché potessero essere in sintonia. Era
Tom… e allo stesso tempo non lo era.
Abbassò il
capo, osservandosi la punta delle scarpe con una smorfia.
Aveva imparato di
recente che era inutile girare attorni ai problemi, assoldata la loro
presenza, perché equivaleva a prolungare l’agonia
e la confusione, portando all’infinito. E anche se gli doleva
ammetterlo, o meglio… trovava strano che potesse accadere,
lui, Robert, era geloso.
Si, dannatamente geloso.
“Hei,
Bobby: guarda questo, che te ne pare? È spaventoso, ma
magari alla mamma piace” gli urlò Tom da dietro
uno scaffale, alzando sopra la testa un enorme gatto in legno con due
lampadine al posto degli occhi.
Robert lo
guardò per un momento, prima di alzare un sopracciglio e
scuotere la testa con vigore.
“Si hai
ragione: è troppo bello e mi sentirei in colpa a sottrarlo
agli altri… credo prenderò
qualcos’altro” commentò il ragazzo,
sparendo dietro un paravento.
Geloso.
A dire la
verità, doveva riconoscere che se c’era qualcuno
da incolpare, quello era se stesso, e nessun’altro.
Perché era stato lui, in un momento di ansia e forte
preoccupazione per ciò che il futuro avrebbe comportato, ad
aver chiesto all’amico di occuparsi di lei. Di assicurarsi
che non sarebbe mai stata sola, che avrebbe avuto sempre una mano a cui
aggrapparsi per potersi rialzare, che avrebbe avuto sempre qualcuno
dietro di se, come un’ombra, a coprirle le spalle. Si, era
stata una sua preghiera.
E Tom aveva obbedito.
Aveva esaudito il suo desiderio. Non aveva colpa.
Il fatto poi che le
cose fossero precipitate, e che la separazione di Robert e Charlotte
fosse stata anticipata di un mese era attribuibile, ancora una volta, a
Robert… Tom aveva solo colto la palla al balzo, e da un
certo punto di vista aveva anche agito da amico, andando a sanare la
ferita dove lui aveva lasciato lo strappo. Tom era il salvatore.
Geloso.
“Oh mio D -
… no, questo è orrendo, non lo voglio nemmeno
vedere!” spuntò dal nulla una mano da oltre un
mucchio di coperte, sventolando un tappetino da bagno rosa shocking con
due antenne a molla a forma di cuore.
Robert strinse gli
occhi, ma non rispose.
Era stato insolito,
strano, diverso vederlo quattro sere prima assieme a lei, al Luna Park.
Era come guardare un quadro e notare una nota di colore troppo calcata
rispetto al resto dell’armonia della composizione, ed essere
l’unico ad accorgersene. Lei rideva e camminava con una mano
stretta attorno al suo braccio, mentre Tom le lanciava occhiate
protettive e la guidava attraverso la folla. In altri tempi, forse, non
l’avrebbe considerato un elemento disturbante, anzi: sarebbe
stato contento di vedere quanto affetto scorresse fra loro, e quanta
felicità il ragazzo riuscisse ad accendere in
Charlotte… ma per un solo ed unico motivo. In passato, lui,
Robert, c’era. Era presente giorno e notte nella vita della
ragazza, come un sogno ad occhi aperti che si protrae anche durante le
tenebre; considerato, visto… amato.
Ed ora era uno
spettatore. Spettatore di una vita che amava alla follia e che
osservava scorrere al di là di un vetro appannato e freddo.
“Credo che
le prenderò questo, è meno orribile delle altre
cose” tornò indietro Tom, reggendo un vaso di
medie dimensioni, rosso con dei disegni floreali sul bordo.
“Ha la mania dei fiori da mettere a centro tavola:
è una cosa utile, e femminile”.
Si ritrovarono
l’uno di fronte all’altro, occhi azzurri contro
occhi azzurro mare. Sorriso allegro contro bocca a linea dritta. Fronte
distesa contro sopracciglia corrugate.
La gente correva e
spingeva attorno, ma loro rimasero immobili, a fissarsi, con il vaso
rosso a mantenerli distanti.
Non occorreva un
veggente per intuire cosa turbasse Robert, e forse la stessa coscienza
dava profondi cenni di consapevolezza. Tom si morse un labbro e fece un
bel respiro.
“Credo…
che tu sia arrabbiato”.
Robert
allargò gli occhi e poi li strinse. Nella sua
semplicità, era minaccioso.
“Ed
immagino anche quale sia il motivo”.
“Non ne
voglio parlare” rispose tutto d’un fiato lui.
“Sarebbe il
caso”.
“No, non lo
penso”.
Tom lo
soppesò per un istante, poi guardò il vaso come a
cercarvi una soluzione alla tensione del momento. Perché si
comportava a quel modo, si chiese? Poteva comprendere la sua
possessività verso Charlotte, l’aveva sempre
dimostrata, ma perché mettersi sulla difensiva con lui? Lui
che non gli avrebbe mai fatto un torto nemmeno sotto tortura. Gli
vennero a mente le parole di Richard, riguardo i sentimento di Robert
verso lei… e ancora più non comprendeva
perché dovesse arrabbiarsi con lui, che di interesse non ne
aveva.
“Immagino
che il problema risalga all’altra sera, vero?”
“Ho detto
che non ne voglio parlare”.
“Volevo
chiederti di uscire con noi, ma poi ho pensato che come idea, non
brillasse di intelligenza”.
Una vena di rabbia si
accese negli occhi del neo attore e lui avanzò di un passo.
“Certo, la
mia presenza sarebbe stata di troppo, lo capisco”.
“È
brutto da dire, ma si”.
Ovviamente nessuno
dei due comprese che, pur usando le medesime parole, si stavano
muovendo su due concetti del tutto opposti. Robert si sentiva escluso
da un cerchio che rivendicava come proprio, mentre Tom cercava di far
riemergere la ragazza passo dopo passo anche se ciò
comportava l’assenza della figura dell’altro.
“Bene,
immagino che allora sarà in buone mani, quando non ci
sarò”.
“Cercherò
di fare del mio meglio, Bobby…” rispose teso Tom.
“Mi sembra
che ti stia già dando da fare al riguardo”.
“Per un
giretto al Luna Park?”
“So che
l’hai vista parecchio in questi giorni”.
“Sei stato
tu a chiedermi di tenerla d’occhio”
ribatté di colpo offeso il ragazzo, stringendo il vaso fra
le mani.
E Robert
incassò le spalle come se avesse ricevuto un colpo sulla
schiena. Fece un passo indietro e gettò
un’occhiata fugace all’uscita.
“Senti io
credo che… stiamo parlando di due cose diverse”
cercò di chiarire Tom.
“Stiamo
discutendo sulla stessa
persona” fu il ringhio in risposta.
“Ma con
intenzioni differenti” calcò il tono lui.
Robert
spostò l’attenzione dal pavimento affollato
all’amico alla sua destra. Lo guardò rabbioso.
“Che cosa
vuoi dir - ”
“Te la stai
prendendo per una ragione che non esiste!” scosse il capo.
“Mi stai considerando come una persona che potrebbe nuocerti
su un campo che… dannazione, nemmeno mi interessa!”
Il ragazzo
corrugò la fronte. Non capiva.
“Io voglio
bene a Charlotte” spiegò Tom. “E gliene
vorrò sempre. Ma è come se fosse mia sorella, o
una sorta di cugina molto stretta o… quello che ti pare. Mi
taglierei tutte e due le mani, se servisse, ma la cosa finisce qui. Non
sono disposto a ridurre a marmellata la faccia di chi le
incollerà gli occhi al fondoschiena per più di
due minuti, ne voglio diventare scemo per l’ansia causata da
crisi di possessività nei confronti suoi e di quelli che
invadono il suo spazio d’aria. Io non voglio… non
mi interessa. Non in quel
senso. Non
a me ”.
Robert lo
guardò con gli occhi stralunati, pietrificato, per lunghi
istanti, l’eco delle parole di Tom ancora vivo nelle orecchie.
Ebbe un tremito
improvviso lungo la schiena e sentì le ginocchia cedere
sotto il suo peso.
“I-io…”
balbettò.
“Non
importa. Non ha importanza” gli strinse una mano sul braccio
l’amico. “Ho capito”.
Robert
spalancò ancora di più gli occhi, se
poté, e gemette. Aveva
capito.
Come?
Perché? Nemmeno lui l’aveva realizzato. Nemmeno
lui riusciva a dirlo a parole o a tracciarlo nitido nella propria
testa. Era solo un pensiero che andava e veniva, che si portava sulla
scia di emozioni ballerine e stralci di parole e canzoni appuntate su
un quaderno. Nemmeno lui l’aveva capito.
“No”
fu tutto quello che riuscì a dire.
“Oh si
invece, ma tranquillo, se vuoi non ho capito niente. È lo
stesso per me”.
Il ragazzo scosse il
capo e si passò una mano sui capelli e sul viso con un
sospiro agonizzante. Gli mancava l’aria tutto d’un
tratto e quello spazio affollato gli stava dannatamente stretto.
“È
meglio se torno a casa” disse.
“Si. Io qui
ho finito, e non credo di avere abbastanza soldi per cenare
fuori” si dimostrò solidale Tom. “Nessun
problema, Bobby, ci sentiamo domani, se vuoi”.
Robert
inspirò ed annuì distrattamente. Si
voltò verso il giovane e con un cenno del capo lo
salutò, biascicando un “Ciao”, e a passi
svelti si disperse fra la gente.
***
Con la mano
intirizzita dal freddo, Nia aprì la porta di Starbucks e si
gettò dentro come un pupazzo a molla, seguita da Charlotte.
Erano congelate, da capo a piedi, le labbra livide e uno sconnesso
tremore in tutto il corpo: gran brutta idea la pista di pattinaggio.
“Oh…
oh oh… oh…” balbettò la
bionda, guardandosi le mani.
“T-tu…
t-tu… sei” cercò di indicarla la mora,
con occhi cattivi.
“Surg-gelata”
sorrise in risposta lei.
“Morta”.
“Eh…
no” scosse il capo Nia. “Ma uno a d-dieci che se mi
m-mandi f-fuori di nuovo… p-potrei esaudire il tuo
d-desiderio”.
Era la seconda volta
che la ragazza dagli occhioni azzurri rapiva Charlotte dalla calma
della sua cameretta e la costringeva a indossare qualcosa di carino,
per poi trascinarla giù dalle scale, scollarla dalla
ringhiera, e farle varcare la soglia, con una destinazione ben precisa:
pattinaggio sul ghiaccio e cioccolata calda. E sarebbe stata una
prospettiva più che allettante e assolutamente imperdibile,
se non fosse stato che Charlotte passò metà del
suo tempo spalmata sulla pista, con Nia che correva a raccoglierla,
travolgendo metà dei presenti come in una pista di bowling,
finendo a terra anche lei con un volo che aveva ben poco
dell’angelico. Un pomeriggio movimentato… ed era
tutta colpa di Nia, naturalmente.
“Cercavo
solo di riequilibrare la tua inutile
vena acrobatica” disse infine la bionda, mentre sorseggiava
una doppia cioccolata con panna.
“Sei molto
premurosa ultimamente” soffiò Charlotte da dietro
la propria tazza.
“Trovi,
vero?” sfarfallò gli occhi l’altra.
“Credo di avere un innato senso dell’altruismo,
effettivamente”.
“Mi
fraintendi. Cercavo di dissuaderti dalla tua crociata missionaria,
sai?”
“Oh, ma
come sei insensibile” mugolò, prima di cacciarsi
un muffin in bocca.
“Si, anche
la mia schiena ha raggiunto un livello
d’insensibilità unica. È curiosa come
cosa”.
“Cosa
è curioso?”
“Essere
ridotta a pezzi, ogni volta che hai modo di invadere il mio spazio
vitale”.
“Questo
perché hai sempre vissuto in un acquario, dolcezza:
è un problema non mio”.
“Oh…
ma come sei insensibile”
ripeté sarcastica Charlotte, facendole il verso. E Nia
cacciò la lingua con una risata così forte da
scuoterle i lunghi capelli dorati.
La mora mosse il capo
con aria sconsolata e guardò fuori dalla vetrata, osservando
la gente passare, avvolta in cappotti e sciarpe. Si muovevano come
formiche impazzite in un enorme prato illuminato, proteggendo fra le
braccia pacchi e scatole dai colori sgargianti, e tenendo lo sguardo
fisso davanti a se quasi avessero paura di perdersi se mai avessero
osato distrarsi… Buffo.
La vita delle feste
le tornava estranea. Negli ultimi anni non aveva avuto modo di
assaporarla a dovere, o almeno è quello che la coscienza le
suggeriva. Passava le sue giornate ad addobbare casa assieme alla
nonna, lasciando il giardino e l’albero a Robert, per poi
limitarsi a riempire l’atmosfera con canzoni e vecchi film in
bianco e nero. Quello era il Natale. Una piccola riunione di famiglia,
un incontro di cuori, una delicata manifestazione di affetto. Ma nulla
più…
Con
l’arrivo delle vacanze scolastiche, vedeva i proprio compagni
affannarsi ed eccitarsi all’idea delle grandi compere e corse
ai negozi per il centro, emozionarsi per i regali che pensavano
avrebbero ricevuto, specialmente da chi suscitava particolarmente il
loro interesse. Anche lei un tempo faceva parte di quella giostra
luminosa, poi… piano piano… era sfumata in una
piccola nuvola scura, lasciata in disparte, perché gettava
una vena troppo cupa su un’atmosfera così gaia.
Charlotte sorrise al
ricordo. Già.
Lei era il temporale.
Solo una persona, non
l’aveva abbandonata e anzi, sembrava preferire il gran
temporale che la caratterizzava alle luci e scintilli di festa del
resto della massa. Nia.
“A che
pensi?”
La ragazza bionda la
osservava con un sorriso sulle labbra rosse e piene e la testa
inclinata di lato. Era bellissima.
Charlotte non rispose
subito, alzando lo sguardo sui festoni accesi lungo i cornicioni degli
edifici e sugli alberi agli angoli delle strade. Pensare…
riflettere… ultimamente non faceva altro.
“Ho visto
Robert l’altra sera” disse, senza rendersene
realmente conto.
“Oh”.
“Dopo che
siamo tornate dallo shopping. Dopo la caccia alla tua bruttissima
giacca” aggiunse con una risatina, mentre Nia metteva il
broncio. “Tom è passato a prendermi e siamo andati
al Luna Park”.
“Oh.
Un’uscita a tre” commentò con aria
maliziosa la bionda.
Charlotte la
fulminò con lo sguardo. “Eravamo solo io e Tommy.
Robert… beh, lui… lui è…
era lì. Immagino fosse da solo”.
“E avete
parlato”.
“Uhm…
no”.
“Allora
perché raccontarmi l’episodio? ”
La mora storse la
bocca, e tornò a mescolare la propria cioccolata con aria
triste.
“Perché
non sapevo a chi dirlo, immagino”.
Nia
sospirò e poi allungò una mano a cercare quella
dell’amica. La strinse con forza.
“Tesoro io
penso che questa storia stia durando un po’ troppo, non
credi? Specialmente perché non sono al corrente di parecchie
cose. Godo di un’intelligenza al di sopra della norma, lo so,
ma ho i miei limiti” annuì con aria saccente. E
Charlotte non poté non reprime un timido sorriso.
Si. In fondo,
perché no? Perché non rivelarle quella che da
settimane le dava il tormento e le faceva scoppiare la testa? Del
resto, anche se la irritava essere schiacciata dalle troppe attenzioni
di Nia, la bionda stava solo cercando di dimostrarle che effettivamente
c’è un secondo modo di affrontare la
vita… Beh, forse non proprio con un criterio ortodosso, ma
era pur sempre godersela. E d’altro canto, oltre a lei,
pensò, non aveva nessun’altri. Tom ne era
già al corrente.
Strinse a sua volta
la mano della ragazza, fece un profondo respiro e dopo aver contato
fino a dieci, raccontò quello che aveva costituito lo
strappo fra lei e Robert.
Nia non mosse un
muscolo. La ascoltò in silenzio, fissandola senza battere
ciglio. Non diede modo di lasciar trapelare nemmeno la più
piccola reazione. Si concesse solo uno sbuffo trattenuto quando
arrivarono alla parte dello schiaffo reciproco, per poi tornare nel
mutismo.
Una volta che il
racconto terminò e la mano della mora tremava in quella
della bionda, Nia decise che ora poteva parlare.
“Hai
finito?”. Charlotte tirò su col naso e
annuì. “Ora capisco un bel po’ di cose.
Ci voleva tanto perché me le dicessi?”
“Non mi
andava”.
“Certo.
Tanto peggio per te che hai sofferto da sola, senza nessuno con cui
parlare. Alle volte mi chiedo se tu lo faccia apposta ad essere
così maledettamente imbranata. Ma forse è un
difetto genetico, non tutti escono sani dalla catena di
montaggio”.
“Per
favore…”
Nia lasciò
andare la mano e si abbandonò sullo schienale, guardando
fuori. Il quadro ora cominciava a lasciar scorgere i propri colori,
belli o brutti che fossero, si risaliva all’origine.
“Dovrei
parlare con Mr. Pattinson, per poter dare un’opinione
imparziale” disse dopo due minuti di silenzio.
“Nemmeno
per sogno! Non… oh no, non lo farai” si
agitò Charlotte, cercando di attirare la sua attenzione.
“Ho detto
che dovrei, non che lo farò, dolcezza. Non è mai
stato un ragazzo che mi sia andato particolarmente a genio, ma penso
che sia dovuto ad una questione di carattere e fegato”
rispose lei, sempre senza guardarla. Era strana. Era diversa. Era
seria. “Non ho mai approvato la sua linea di filosofia,
giacché ritengo che perdere tempo a nascondere una persona
sotto un cumolo di caramelle e orsacchiotti sia un evidente segno di
crisi esistenziale, sia per lui… che per te. Con
ciò non voglio dire che abbia sbagliato, solo... che non la
pensiamo alla stessa maniera”.
La mora socchiuse gli
occhi e mandò giù il groppo in gola che non
accennava ad andarsene.
“È
anche colpa mia… ho agito d’istinto, non ho
pensato prima di…”
Nia si
voltò e le piantò addosso i suoi grandi occhi
azzurri. “Vi siete comportati come due essere umani, dotati
di ormoni e neuroni dell’idiozia, non
c’è nulla di sbagliato, sai? Perché tu
non…” si fermò un attimo lasciandosi
andare in una risata amara, “Ah, tu non hai dato sfogo alla
tua vera personalità per anni, tesoro: hai messo la camicia
di forza alla tua adolescenza e ti sei sepolta viva. E così
facendo, hai permesso a quell’altro demente, di aggiungere
altra benzina sul rogo, credendo che fosse la sua missione nella vita.
Nemmeno fosse il Greenpeace e tu una foca in via
d’estinzione”.
“Non
è un discorso che mi va di ascoltare”
gracchiò Charlotte, scostando la sedia, ma Nia fu
più svelta e la afferrò per il polso
impedendole di alzarsi.
“Ma
qualcuno deve pur dirtele queste cose, non credi?” la
inchiodò. “Ti credevo più matura,
considerando gli arretrati di esperienza passata”.
“La cosa
non credo ti riguardi, non è vero?” si difese con
cattiveria Charlotte. Non voleva toccare argomenti che erano ancora una
ferita aperta e sanguinante.
“Mi
riguarda nella misura in cui tu eri la mia migliore amica, maledizione
a te”. E fu allora, che per la prima volta, la ragazza vide
il primo spiraglio di debolezza nella bionda. Era come scorgere un
enorme baratro sotto i piedi, nascosto da uno spesso strato di soffice
nebbia: c’è, ma non sempre si vede…
“Forse
dovresti trovare qualcun altro. Non credo di essere adatta al
ruolo” mugolò sotto pressione Charlotte.
Nia
scoppiò a ridere, sotto lo sguardo sconvolto
dell’altra. “Ahahah! Oh… dolcezza, non
ho mai sentito risposta più idiota di questa. E mi
piace…” aggiunse con aria sognante. “Non
sei tu a decidere a chi io debba rivolgere le mie attenzioni, non
t’azzardare mai più a dire una cosa simile. Ma a
parte questo, credo che, ritornando sull’argomento, abbiate
entrambi una buona e sana dose di colpa, ma la maggiore spetta a
te”.
“Come da
manuale”.
“Dovevi
pensarci prima”.
“Hai finito
di infierire? Credevo di trovare conforto… non la Santa
Inquisizione”.
“Oh ma
è questo il mio conforto: l’impatto con la
realtà. Trova qualcun altro che abbia una faccia come la mia
e ti dica quello che c’è effettivamente da dire,
senza mentire, e poi forse… potremmo riparlarne”.
“Non sei
divertente”.
“Io mi
trovo interessante. Ma è una questione di punti di vista,
tesoro. La vita è tutto un punto di vista. E anche voi
due… siete due inutili punti di vista. Lui pensa di aver
agito nel migliore dei modi, nemmeno fossi la rosa incantata della
Bella e la Bestia; mentre tu hai giocato a fare la pazza mentale,
crogiolandoti nelle sue attenzioni. Ma hai dimenticato una cosa: tra
sopravvivere e vivere… c’è una spessa
linea di differenza. Dico sul serio” annuì con gli
occhi accesi.
Era come ascoltare un
disco rotto. Una canzone che si ripete, e si ripete, e si
ripete… Aveva afferrato il concetto di Nia, glielo stava
riversando addosso come un secchio d’acqua bollente, ma
ciò non voleva dire che era intenzionata a restare ad
ascoltare ancora per molto. Non voleva. Le serviva tempo per
riflettere, per pensare… per capire. La considerava una che
scappa, che si nasconde, che si rifiuta di reagire? Era quello il
problema? Beh, lei aveva smesso di preoccuparsene molto tempo prima.
Dicono che la prima persona con cui siamo costretti a convivere, siamo
noi stessi, e se non impariamo ad accettarci, allora nessuno mai
incontrerà i nostri favori. Charlotte coesisteva con
un’idea di se, con un la realtà camuffata sotto un
ricordo lontano, un ricordo allegro, mentre il presente non lo era. E
allo stesso modo, viveva con un’idea di Robert… Lo
accettava senza metterlo in discussione, senza chiedersi se quello che
faceva fosse giusto o sbagliato.
Era vero. Tra vita e
sopravvivenza c’era una netta linea di differenza. Ma lei non
sapeva più distinguerla.
“Devo
pensarci”.
“A
cosa?” chiese Nia.
“A quello
che hai detto”.
“E cosa
c’è da pensare, di grazia? A quanto abbia
ragione?”
“È
difficile per me… è c-complicato”.
“No, tu vuoi che sia
complicato, perché essere ragionevole comporta uno sforzo e
sbattere la faccia contro il muro degli errori” disse secca.
“Un mucchio di persone accetta l’idea di avere il
naso rotto a furia di andare a sbattere, non vedo perché tu
debba essere diversa”.
“Forse è solo
un modo di essere che ho scelto?”
“No. È solo
la codardia più grande che abbia mai visto” le
strinse ancora più forte la mano.
“Senti…”
gemette Charlotte guardandola con le lacrime agli occhi, “Non
puoi accettarmi per come sono? Non penso cambierebbe le cose, non
più di quanto lo siano già. Non chiedo molto.
Vivi e lascia vivere”.
E la risposta di Nia
fu semplice, diretta, precisa. “No”.
Restarono sedute ad
osservare in silenzio la gente camminare fuori della vetrata.
Ordinarono un altro giro di cioccolata e muffin, senza scambiarsi una
parola. Solo la mano di Nia era rimasta saldata a quella
dell’amica.
Infine, quando ormai
l’ora di cena era passata da un pezzo, la bionda si rivolse a
Charlotte con una dolcezza insolita, innaturale.
“C’è
sempre tempo. C’è tempo per ogni cosa. Ma non
mollo…”
E detto questo,
andò a pagare per tutte e due, prima di prendere
l’altra sotto braccio e tornare a casa assieme.
----------
Sproloqui
Eeeee salve xD Come
andiamo? Le vacanze procedono? Io sono dispersa in un buco della
Francia, dove non c’è nemmeno il soleeee
ç_ç Sono più bianca di un coniglio
albino, che triste…
Questo capitolo
è nato un po’ controvoglia perché, in
principio, doveva essere tutto un’altra cosa, avrebbe dovuto
esserci un episodio movimentato, mentre invece si è piazzato
in primis questo: immagino sia un cosiddetto capitolo di transizione,
che serve a chiarire dei passaggi che, altrimenti, credo sarebbe
rimasti un po’ troppo abbandonati… e addio ai
personaggi xD
Bobby questa volta mi
ha spiazzato, lui e le sue paranoie, e Tommy non aiuta di certo! Lui e
il suo maledetto vaso per la mamma… u.u
Nia la adoro. E
Charlotte è una rompiscatole, ma le voglio bene lo stesso,
ahaha xD *malattia
mentale che peggiora, siiiii*
Non sono molto sicura
di come sia riuscito il capitolo, scrivere con un mal di testa da
Cavalcata delle Valchirie è un’impresa, ma volevo
postarlo lo stesso, perciò perdonatemi se ci sono degli
errori qua e là… domani passerò a
controllare, promesso *O*
Spero vi sia piaciuto
e che la storia non vi annoi troppo, sono un po’ i primi
capitoli per impostare bene il seguito, ci vuole un po’ di
pazienza ;)
Ringrazio tantissimo _Miss_
per il suo commento:
Tranquilla tesoro,
sono contenta che tu sia tornata, mi sei mancataaaa ^^ E una finalmente
che ama il mio Tommyyyyy!!! E diciamolo che non è
così malefico poverino, è solo un po’
strano :P Nia è una pazza, ma la adoro per quello, immagino
averla nella realtà, sai che roba? xD E si… ho
uno stile un po’… un po’
così. Scrivo lasciandomi prendere dalle emozioni, e rileggo
solo una volta finito, altrimenti perdo l’ispirazione e chi
la ripesca più? u.u L’importante è che
sia leggibile eh, ahah! Grazie per il sostegno, mi fa molto piacere e
spero che ti sia piaciuto questo nuovo chap! Un bacione ;)
Un grazie ENORME
anche ai lettori silenziosi, e a tutti coloro che l'hanno aggiunta ai
seguiti e ai preferiti *O*
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** 09. il muro crolla ***
09.
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 9° capitolo –
Il muro crolla
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Capitolo importante. Ma non dico altro perché corro a
nascondermi. Leggete leggete… poi vediamo se alla fine
sopravvivo o... meriterò la morte… :P
09
“Il muro
crolla”
“Credo
che per Natale ti regalerò sette confezioni di sigarette
formato famiglia…”
“Beh…
potrebbe essere solo una mia vana speranza, ma… sono
abbastanza convinto che le vendano anche in America”.
“Fa lo
stesso” fece spallucce Tom. “È un dovere
d’amico far si che tu parta con tutto il necessario per la
sopravvivenza”, annuì con fare convinto.
Robert scosse la
testa e inspirò a pieni polmoni l’odore e il
sapore del fumo. Guardava la neve cadere dal cielo, fuori dalla
finestra, come candido zucchero a velo sopra il mondo immerso nel
grigio e freddo invernale. C’erano solo le luci delle feste a
rischiarare quella foschia triste e malinconica e, in certi momenti,
Robert si chiedeva se ci fosse davvero qualcosa da
festeggiare…
Si. Certo. Una
ricorrenza religiosa, e la gioia e di stare con i propri cari;
incartare i pacchi regalo, con grande attenzione, pur sapendo che entro
pochi giorni quella stessa carta sarebbe andata in mille pezzi, per
l’impazienza di scoprire cosa celasse.
Ecco. Lui sentiva un
po’ così. Come un minuscolo pacchetto, ricoperto
di carta nera e lucida, con legata una piccola dedica che diceva “un pensiero per
l’avvenire”. E dentro, una scatolina
vuota che altro non aspettava che essere riempita. Riempita.
Riempita… Dio solo sapeva di che cosa, perché ora
come ora riusciva a pensare a tutto, e a niente.
“Alla fine,
il regalo per tua mamma, l’hai trovato?” chiese Tom
con voce un po’ troppo allegra. Lo osservava con la coda
dell’occhio, fingendo di allacciarsi distrattamente una
scarpa.
Robert si riscosse
dai suoi pensieri e spense la sigaretta nel posacenere sul tappeto.
“L’ho trovato una settimana fa, si. È un
vecchio quadro che aveva visto in un negozio
d’antiquariato”.
“Ti
sarà costato un rene”.
“No…
ma mi sono inginocchiato davanti al proprietario per chiedergli uno
sconto”.
Tom gli
batté una mano sulla spalla. “Un’opera
di bene. Ti prenderò otto pacchetti formato famiglia
anziché sette, promesso”.
Robert rise e gli
diede un buffetto sulla fronte, per poi tornare a guardare fuori dalla
finestra con aria assente.
“E
invece… i preparativi? Come vanno?” riprese
ostinato Tom.
“Uhm?”
fu il mugolio atono.
“La
valigia, Bobby”.
“Ah. Oh.
Beh… io… io, si. È pronta, mia mamma
la tiene di sotto nello studio, perché dice che dal nervoso
l’avrò disfatta cinquanta volte. Dice che sono una
ragazzina isterica”.
“Che sei
cosa?”
“Una
ragazzina isterica…” annuì Robert.
“Io direi
che sei solo di umore variabile” cercò di non
calcare troppo la mano lui, pur sapendo quanto fosse irritabile
ultimamente il ragazzo. “Ma d’altro canto, lo
sarebbero tutti. Ti capisco, e anche tua madre lo sa, solo che deve
abituarsi a sua volta”.
Il giovane
girò il capo e guardò negli occhi Tom, come a
leggervi un secondo significato, quelle parole non dette che lasciavano
una terribile scia di bruciato e amaro, prima di voltare la testa
un’altra volta e tornare a fissare la finestra. Sapeva di
essere insopportabile. Beh, lo era sempre stato, non c’era da
meravigliarsi che alla fine qualcuno glielo facesse notare; solo che
sperava di potervi porre rimedio, di poter ricucire quegli strappi che
sentiva ai bordi e al centro del proprio orgoglio, e invece…
non sapeva nemmeno da che parte cominciare. Era come avvertire il caos
nitido e fastidioso, distinguerne i colori e i suoni, ma non sapere in
che angolo confinarlo, a quale voce dare ascolto per prima, per
smorzarne la furia… C’erano idee e pensieri, e
piani e progetti, e promesse e rinnegazioni, tutto quanto affollava la
sua mente e, con un sospiro, si disse convinto che l’unico
regalo di Natale che avrebbe accettato sarebbe stato ancora un
po’ di tempo per capire e rimediare.
“Forse era
meglio che restassi a casa, oggi” disse
d’improvviso Tom. “Forse volevi restare un
po’ per i fatti tuoi, vero?”
Robert si
voltò di scatto con occhi sbarrati. “Come? No! No
no, io… io… Stavo solo pensando che…
che…” ma la frase sfumò nel nulla,
mentre i suoi begli occhi azzurro mare tornavano sul cielo innevato.
“Appunto.
Hai bisogno di pensare un po’ per conto tuo”
ribadì l’amico, stringendogli
l’avambraccio. “Passo domani se vuoi, è
la Vigilia, ma penso di riuscire a scappare prima che mamma mi chiuda
in cucina” sghignazzò all’idea, facendo
leva sulle ginocchia per alzarsi.
“No”
scosse la testa Robert, senza guardarlo. “Resta”.
Tom lo
guardò un attimo con aria dubbiosa, per poi annuire e
tornare seduto. Avrebbe voluto dire qualcosa, sparare una delle sue
solite “battute infelici”, così come le
chiamavano gli amici, giusto per smorzare quell’atmosfera
grave che rischiava di mandare in frantumi i vetri e la
porta… ma non gli venne in mente nulla. Riuscì
solo a tacere ed aspettare.
“So di non
essere stato particolarmente… di compagnia,
ultimamente” sorrise con amarezza Robert, fissando un punto
impreciso nel vuoto con aria triste. “E so anche che,
carattere psicopatico a parte, avrei potuto contenere, se non altro, i
miei malumori, almeno con te e i miei genitori, visto che…
beh… vi siete dati la pena di starmi vicino. Avrei dovuto
imparare da solo, dai miei errori, e invece ho continuato a restare con
la testa bassa”.
Tom
deglutì, ma non disse nulla. Robert continuò.
“Sai,
l’altro giorno papà mi ha detto che quando ero
bambino avevo la mania di correre a nascondermi dopo che avevo
combinato uno dei miei soliti disastri, e restavo nascosto fin quando
non mi convincevano che il danno non era poi così
grave… Ho pensato che fosse la cosa più stupida e
idiota che uno potesse fare, ma del resto ero un bambino; io sono
diverso ora, mi sono detto”. Fece una pausa mordendosi il
labbro e reprimendo una smorfia. “Ma è una bugia.
Sono sempre quello di allora, solo che ho smesso di nascondermi sotto
le scale o nella dispensa. L’abitudine è rimasta.
Io credo che… l’istinto a nascondere a me stesso
l’evidenza di un errore sia un’autodifesa
più forte di me. È come se il cervello strillasse
e mi nascondesse di colpo il sentiero per raggiungere
l’ovvio, che è lì. È proprio
lì. E lo vedo. Ma non so come arrivarci. O forse lo
so… ma non ne ho la forza. Giro attorno ai problemi,
cercando di renderli digeribili con ogni piccolo escamotage che trovo
nel vivere di ogni giorno, sperando che al grande impatto, possa fare
meno male” rise amaro, coprendosi la bocca un istante.
“Non ho voglia di tornare a rimuginare su vecchi argomenti,
non voglio tediarti, ma… ci ho pensato. E ci ho pensato
davvero. A quello che è successo prima e dopo, e a quello
che succederà ora. Perché oltre al passato,
è il futuro che mi spaventa: ho una base traballante, ed
è solo mia la colpa, e l’idea di…
di… saltare in un burrone dove l’unica cosa certa
è il denaro, anche se non è detto che sia molto,
beh, è una prospettiva che baratterei volentieri con
chiunque. Ma dipende tutto da me, come sempre. Ho fatto una cazzata
prima e ne farò delle altre. So quello che devo fare, ma
è solo una stupida teoria, e mi rode non sapere dove
appigliarmi effettivamente per riordinare il tutto, pur sapendo di
avere dei problemi da affrontare. E sai cosa?” disse
voltandosi a guardare l’amico. “Il problema di base
non è lei. Ne il lavoro. … il problema sono io.
Soltanto io”.
Tom
corrugò le sopracciglia con aria interrogativa, ma lo
ascoltò.
“Se fossi
stato una persona più solida, avrei agito diversamente con
lei, le… avrei se non altro detto che non si può
vivere rinchiusi in casa come se fuori ci fosse la seconda guerra
mondiale, e l’unico momento in cui ho avuto il coraggio di
accennare alla cosa, ho combinato un casino. Se fossi…
più sicuro di quello che voglio e di quello che potrei
meritarmi, non bazzicherei da un lavoretto all’altro e forse
ora non avrei così paura di prendere un aereo e andare ad
incassare un pacchetto di soldi, forse pochi, ma poco
importa… E se fossi più uomo, non avrei agito
come un dodicenne che non sa riconoscere un interesse del tutto innocuo
del proprio migliore amico verso… la persona che…
dovrei amare di più. E beh si, se fossi meno idiota,
l’avrei capito da un pezzo che non è una sorella.
Non per me” commentò con dolore, passandosi una
mano sugli occhi lucidi e rossi. “È tutto qui.
È tutto maledettamente qui. E dipende solo da me.
Perché è vero, quando dicono che una persona
è anche il riflesso di quello che pensa e dice, ma io sono
il primo con cui devo convivere e, fino ad ora, l’ho fatto
non come avrei dovuto”.
La neve continuava a
scendere, silenziosa e spettatrice di numerosi attimi del mondo che
avvolgeva, lasciandosi alle spalle un cielo grigio e solitario.
Tom
ascoltò per tutto il tempo, chiedendosi dove mai avesse
sbagliato. Perché se Robert, di punto in bianco, realizzava
e diceva di essere un errore vivente, allora lui, come amico, aveva
fallito il doppio: verso di lui, per non essergli stato vicino a
dovere, e verso se stesso per essersi illuso d’aver fatto
abbastanza. Ma Robert lo sorprese, lasciandolo colpito.
“Con questo
non voglio dire che… tu abbia colpa. Si forse nel riempirmi
la testa con le tue idiozie quotidiane, ma credo che siano state
quelle, in fondo, a farmi restare umano. Fosse per me vivrei in una
dimensione alternativa, Tommy… e ci ho portato me e lei, da
capo a piedi”, guardò l’amico.
“Lo dico perché so che ti stai scervellando per
prenderti la tua dose di colpa, ma non ne hai, o forse giusto un poco,
ma è irrilevante. È tutto ok, non sono arrabbiato
con te. Dovrebbe essere il contrario, immagino” aggiunse con
aria preoccupata.
Ma Tom non disse
nulla e fece l’unico gesto che gli venne spontaneo, che gli
venne dal cuore, che gli venne dall’amicizia.
Allungò il pugno e lo batté sulla mano di Robert,
per poi abbracciarlo forte e pensare che si, forse era arrabbiato,
forse era deluso, forse si sarebbe aspettato altro, ma avrebbe davvero
potuto? Nella vita si fanno così tanti errori. Ma
c’era ancora tempo per rimediare. E Bobby senza crisi
paranoiche, senza il suo reclinare la testa durante le lunghe
riflessioni, senza la risata rumorosa, senza il magone facile, senza la
sua musica, non era Bobby. E con errori o meno, lo apprezzava per
quello e avrebbe continuato a farlo.
***
Ed anche la Vigilia
passò, fra i suoi mille alberi di Natale scintillanti ormai
pieni di regali ai piedi e di decorazioni sulle fronde, fra chi aveva
scelto il pranzo e chi la cena per festeggiare in compagnia ed aveva
contato sino a mezzanotte per vedere spuntare il Natale per essere il
primo a salutarlo. L’aria era piena di auguri, strillati da
una strada all’altra, da un balcone ad un giardino,
dall’ascensore al pianerottolo, ovunque. La magia regnava, o
almeno quello era l’intento.
Charlotte scese le
scale canticchiando, la mattina del venticinque, con un cesto pieno di
cd di canzoni natalizie. Andò in cucina ed armeggiando con
il lettore per dieci minuti, lo convinse a partire e subito canti di
bambini si diffusero nella stanza con allegria.
“… silent
night, holy night… all is calm, all is bright ”
cantò Marianne spuntando dalla porta.
“Nonna!”
esclamò la ragazza, correndole in contro ed abbracciandola.
“Buongiorno e buon Natale!”
“Buon
Natale, bambina mia” ricambiò lei, stringendola
forte. “Hai dormito bene?”
“Si, e
tu?”
“Il solito
mal di schiena, ma oggi è festa: credo che lo
ignorerò” le schiacciò
l’occhiolino. “Hai già fatto
colazione?”
“Aspettavo
te” sorrise Charlotte.
“Coraggio
allora, muoio di fame!”
Mangiarono e
chiacchierarono sui pettegolezzi che la vicina aveva
“gentilmente” fornito a Marianne la sera prima,
quasi come a farne un dono di Natale; discussero sulla
quantità di compiti delle vacanze, che Charlotte
definì ingiusta, mentre la nonna la definì
appropriata, pensando con orrore ai suoi vecchi esercizi di latino e
algebra; ridacchiarono sui regali, pochi, che avevano comprato,
pensando alle facce di coloro che quel giorno li avrebbero aperti.
“Spero che
alla signora Cork serva un set da giardinaggio avanzato,
perché non avevo idea di cosa regalarle”
commentò affranta Marianne.
“Spero le
piaccia almeno il giardinaggio”.
“Vive in
simbiosi con le sue piante e parla agli alberi: o ha qualche
problema… o ama il giardinaggio, bambina”.
Discussero anche
riguardo la cena di quella sera, con una vaga tensione da parte di
Charlotte. Erano solite, le due, passare la Vigilia festeggiando da
sole, per poi trascorrere il Natale in compagnia della famiglia
Pattinson. Ma giusto il giorno prima, Clare, aveva telefonato dicendo
che, con enorme rammarico, avevano già un impegno: la
partenza imminente del figlio, senza contare ovviamente recenti e
spiacevoli avvenimenti, anche se omise di menzionarli.
E così si
erano ritrovate sole, ma del resto, non sarebbe stato molto diverso
dalle loro solite cene, negli ultimi mesi, solo un po’
più colorata e rumorosa.
“Che vuoi
che cucini?”
“Possiamo
ordinare qualcosa? Magari del take-away”.
“Bambina,
tu dovresti piantare una tenda sotto un tavolo del ristorante cinese.
Oh, avanti, non ho intenzione di crescere mia nipote a furia di
involtini e ravioli al vapore anche il giorno della nascita di Nostro
Signore!” esclamò la nonna, brandendo un cucchiaio
vittoriosa. “Lasagne. E ho deciso. Il verdetto è
dato”.
Passò il
resto della giornata a cucinare, impastare, infornare e decorare,
perché aveva deciso che una cena di Natale, anche se in due,
era pur sempre una super cena. Aggiunse alla lista una crostata alla
marmellata di fragole e biscotti alla vaniglia; si, di take-away, ne
aveva fin sopra la testa. Vivere con due ragazzi adolescenti in casa,
prima che Robert se ne andasse, la costringeva a vedere sempre il frigo
pieno di hamburgers, per uno, e di cibo cinese, per l’altra,
e con gran fatica li convinceva a nutrirsi di qualcos’altro
che non fosse pane tostato e riso cantonese. Ma era pur sempre
ragazzi… e il sorriso nel vederli così ingenui,
la rabboniva.
Charlotte, invece,
trascorse il pomeriggio in camera sua, distesa sul letto, con lo
sguardo rivolto verso il soffitto, una mano sulla pancia e
l’altra dietro la testa.
Aveva lasciato
passare ore, in silenzio, senza dire nulla, ascoltando il suono del
silenzio nella stanza, dello sbattere delle stoviglie di sotto in
cucina, delle ruote delle auto sulla strada innevata. Ed era rimasta
immobile, con gli occhi scuri puntati sul soffitto azzurro.
Sviava. Evitava.
Scavalcava. Eludeva. Ci provava. Eppure le parole di Nia le tornavano
alla mente come se l’avesse avuto accanto, lì con
lei su letto.
“
Tu vuoi che
sia complicato, perché essere ragionevole comporta uno
sforzo e lo sbattere la faccia contro il muro degli errori
”.
Andare a sbattere.
Cadere. Graffiarsi le mani. Tagliarsi la pelle. Sanguinare.
“Un
mucchio di persone accetta l’idea di avere il naso rotto a
furia di andare a sbattere, non vedo perché tu debba essere
diversa”.
Già. Cosa
c’era di diverso? Doveva essere diversa? Si. E no. Forse. Lo
era. E non lo era.
“C’è
sempre tempo. C’è tempo per ogni
cosa…”
Tempo. Tempo…
L’aveva visto trascorrere a lungo. Da quel giorno, anni
addietro, aveva scelto di uscire dalla strada sulla quale camminava con
aria spensierata, per attardarsi sul ciglio polveroso, finendo con il
sedersi ai bordi del marciapiede in un silenzio opprimente, aspettando.
Ma aspettando cosa?
Un segno? Un cambiamento? Una rivelazione?
Aveva vissuto gli
anni della sua infanzia nella più totale gioia,
all’insegna di quell’amore ed affetto riversato su
di se e donato agli altri, e mai si era posta il problema se, un
giorno, le cose sarebbero potute cambiate davvero. Il mondo
è vita, è allegria, è
amore… perché doveva essere diverso?
L’aveva
creduto. Ci era nata, in quell’universo fatto di piccole
cose, ma che nascondono un cuore colmo di fiducia e aspettative
brillanti. E l’aveva vissuto quanto bastava perché
ci si affezionasse, perché si abituasse all’idea,
perché la adottasse come linea di vita.
E quando si
costruiscono le proprie basi, le proprie fondamenta e i propri credo su
sogni che, poi, vengono spezzati come cristallo da forze che, su di
noi, hanno il potere della vita e della morte… beh,
l’unica domanda, in mezzo al marasma di emozioni, che viene
in mente è: e ora, che senso ha ricominciare, se poi
accadrà di nuovo?
E così,
aveva cominciato la sua crociata di rinunce, di privazioni, sia
materiali che di vita, di spirito. S’era costruita un muro
che le dava giusto quella sicurezza di essere ancora viva e che le
permetteva di lasciar entrare le uniche persone alle quali non avrebbe
mai potuto rinunciare, perché erano come
l’ossigeno: sua nonna, e lui. Robert. Il resto, era buio, era
il nulla, era vuoto.
Più ti
affezioni, più stringi, più ami… e
maggiore è il prezzo da pagare se te lo portano via.
Si convinse che
bastavano poche persone, ed in questo caso due, per riempire il mondo e
le proprie conoscenze ed orizzonti. Si convinse che non occorreva
essere in cima all’elenco telefonico delle amicizie dei vari
conoscenti. Si convinse che non era necessario vestirsi in maniera
curata, per attirare l’attenzione di qualcuno,
perché se così fosse stato, avrebbe comportato
attaccamento ed affetto… e lei non lo voleva. Non ne voleva
più.
E Robert…
Robert era Robert. Bambino pestifero da piccolo, sognatore a quindici
anni. Musicista a diciotto. Attore a venti. Ma restava sempre lui. Lo
stesso sguardo. Lo stesso sorriso. La stessa voce bassa e calda. La
stessa risposta strampalata ad ogni sua domanda. Era come un tatuaggio
marchiato sulla pelle di lei, poteva anche cambiare colore, ma restava,
faceva parte del sistema.
Eppure ora se ne
andava. Partiva.
Aveva impiegato due
ore, quel pomeriggio, per realizzare, per capire finalmente che, entro
poche ore, avrebbe preso un aereo e sarebbe sparito oltre le nuvole,
per atterrare in un posto dove lei non poteva andare.
Non avrebbe
più sentito la sua voce rimbombare dalle scale, ne dallo
studio al piano di sotto, se non, forse, a di là di una
cornetta, rimandandola indietro roca e metallica. E non avrebbe
più sentito la sua chitarra, ne la mattina, ne il pomeriggio
e ne la sera prima di andare a dormire.
Ogni particolare che
componeva il quadro del ragazzo, andò pian piano sfumando e
sgretolandosi, come un enorme mosaico che sotto colpi di piccone si
frantuma e cade a terra, prima di essere spazzato via dal vento.
L’avrebbe perso.
E i recenti
avvenimenti. Episodi così banali alla vista, per come li
definiva Nia, così infantili, ma che per lei, ed era certa
anche per lui, assumevano un significato tangibile ed indelebile. Erano
sempre stati legati da un doppio filo, circondati da
un’atmosfera che rifletteva la gioia di uno, gettandola
sull’altra, e viceversa; il reciproco dispetto, da bambini,
che era cambiato e sviluppato in fiducia e profondo affetto, aveva
fatto si che entrambi si fondessero in un’unica persona,
tanto che a vederli con occhio esterno, si sarebbero potuti dire
gemelli, tralasciando l’aspetto fisico. Ruotavano attorno
allo stesso nucleo di emozioni, divenendo l’una il sostegno
dell’altro, la spalla su cui piangere, il polso fermo e
l’obiettività reciproca dove e quando uno dei due
diveniva improvvisamente cieco. Un compenso… un
equilibrio… un’armonia che arrivava diretta ed
inconscia, ma che c’era. Viveva e pulsava, come un cuore
unico ed in comune. E la sola idea che parte di quel cuore dovesse
dividersi, che dovesse separarsi e addossarsi ad un altro appiglio, era
come morire. Era soffocare, era soffrire.
Lei lo sapeva bene, e
per questo soffriva doppiamente. Aveva permesso che lui restasse, che
non l’abbandonasse mai, che fosse presente. Aveva permesso
che si prendesse cura di lei, aveva permesso che entrambi provassero
affetto. Aveva concesso il legame, e ora… lui se ne andava. Uno strappo…
Non era mai stata una
ragazza sciocca o sprovveduta, ne particolarmente infantile o
capricciosa, ma da quando i genitori erano morti, era diventata
ossessivamente possessiva sulle uniche e poche cose che aveva deciso di
tenere, e Robert era una di quelle. E l’idea che ora uno
stupido lavoro lo portasse via da lei, lontano dal suo sguardo e dal
suo abbraccio, la mandava ai folli.
Ma non solo. Non gli
rivolgeva la parola da giorni e settimane, rinchiusa prima nello
sgomento, poi nell’indifferenza ed infine nel rimorso.
Perché, a dirla tutta e con sincerità, anche lei
aveva la sua bella fetta di colpa: scappava da una vita, ed era
scappata dall’evidenza anche questa volta.
L’evidenza che a spingerlo ad agire con rabbia erano state la
sua ostinatezza ed arroganza, di lei, una cosa che Robert non aveva mai
tollerato, a prescindere. L’aveva provocato dando voce al
proprio terrore inconscio di vederlo partire e non fare ritorno, aveva
parlato riversandogli addosso con veemenza le proprie preoccupazioni,
quando invece sarebbe bastato chiedergli “Cosa vuoi che
faccia?”
Lui stesso le era
andato incontro dicendole di seguirlo, di non lasciarlo. Ma quella foga
e irruenza nel parlarle, le avevano fatto pensare che fosse una sorta
di ripiego per pietà, e lei la pietà non la
poteva sopportare… specialmente la sua.
Inutili e stupidi
malintesi, ma che avevano contribuito a coronare il sogno
d’orrore e a porre un muro sporco e freddo fra loro. Lei era
la cieca e l’indifferente, e lui, benché pochi lo
sapessero, era il tormentato e il vigliacco. Un’accoppiata
vincente se in sintonia, ma devastante se divisi. E ora lo stavano
sperimentando entrambi sulla loro pelle.
Charlotte si mise a
sedere sul letto e sospirò, trattenendo le lacrime di
rabbia, verso se stessa, e verso le circostanze.
Lo stava perdendo per
una stupida questione di orgoglio e paura… Ma anche pur
sapendo cosa fare, non trovava la forza per riavvicinarlo a se, ne
sapeva se lui era disposto a volerla indietro.
Si lasciò
andare nuovamente sulle coperte e soffocando il pianto nel cuscino, si
addormentò pochi minuti dopo.
Fu il profumo della
crostata e il cantare di sua nonna a svegliarla due ore dopo, giusto in
tempo per la cena.
Ci impiegò
un poco per alzarsi e darsi un contegno, prima di scendere al piano di
sotto e trovare Marie Anne intenta ad apparecchiare. Si
sentì un’ingrata.
“Nonna.
Nonna scusa, mi sono addormentata, potevi chiamarmi” la
raggiunse, prendendole le posate di mano.
“Oh, ma ho
appena finito di cucinare… sarei salita a chiamarti entro
poco” sorrise lei, ma entrambe sapevano che non
l’avrebbe fatto.
Apparecchiarono
canticchiando canzoni di Natale, servendosi a testa un’enorme
porzione di lasagna fumante: aveva l’aspetto più
buono del mondo, ed il sapore era ancora meglio.
Brindarono con una
vecchia bottiglia di spumante, tenuta da parte per le occasioni, e
mangiando di gusto la crostata di fragole e i biscotti alla vaniglia
dalle mille forme.
“Questo
cos’è?” chiese la ragazza alzando un
biscotto dalla forma indefinita.
“È
un pesce rosso”.
“Avrei
detto una coccinella” rise l’altra.
“Era il
sesto pesce rosso che impastavo, e dal momento che non volevo mettere
su un acquario, ho deciso di farlo senza coda: mi sta quasi
più simpatico degli altri” fece spallucce Marie
Anne. Charlotte rise più forte e mangiò il pesce
rosso senza coda.
Si ingozzarono di
dolci fino a scoppiare, tanto che decisero che, siccome era festa e
vacanza anche per loro, avrebbero lasciato i piatti a bagno nel
lavandino e li avrebbero lavati il mattino dopo. Decisero quindi per un
bel film in bianco e nero, sdraiate sul divano, ed era proprio quando
la ragazza stava infilando il DVD nel lettore che il telefono
squillò.
“Oh,
sarà la signora Corks che mi ringrazierà per il
set da giardinaggio” esclamò Marie Anne. Si
alzò e andò a rispondere. Sbucò poi
dall’altra stanza pochi minuti dopo, con uno strano sorriso
sul volto, “Bambina, è per te!”
Charlotte si
voltò lentamente verso la donna, indecisa se scoprire o no
chi fosse a reclamarla. Decise infine di andare in contro
all’ignoto e andò a rispondere.
“Pronto?”
“Yoho! Buon
Natale, tesorino!”
La mora chiuse gli
occhi e sospirò. “Buon Natale anche a te,
Nia”.
“Oh…
non mi dire che hai tenuto quel muso lungo per tutta la cena,
vero?”
“Non ho
nessun muso” ribatté subito scocciata. Quella
ragazza aveva l’assurdo potere di irritarla con due parole. O
forse era lei che era troppo suscettibile.
“Bene!
Tanto meglio! Ti è piaciuto il regalo che ti ho
fatto?” si sentì trillare dall’altro
capo della cornetta.
“Non ho
ancora aperto i regali”.
“Come
sarebbe a dire!” fu stavolta il tuono che fece tremare la
linea. Charlotte allontanò istintivamente il telefono
dall’orecchio.
“È
tradizione di famiglia aprirli la sera di Natale…”
“Beh
è una tradizione un po’ bislacca: soffrire tutto
il giorno chiedendosi cosa ci sia nei pacchetti, quando puoi aprirli la
mattina!”
“La cosa
sembra turbarti…” sorrise Charlotte.
“Avete solo
uno strano senso di masochismo che non comprendo: dannarsi per due
settimane a comprare regali, e poi aspettare fino all’ultimo
per aprirli” sbuffò sconsolata la bionda.
“Allora, ti piace il mio?”
“Nia, non
l’ho aperto”.
“Beh,
allora aprilo!”
La mora
sospirò profondamente e promise che appena messa
giù la cornetta l’avrebbe aperto, e il giorno dopo
l’avrebbe chiamata per ringraziarla.
“Oh no, non
occorre che mi chiami domani, ci vediamo dopo”.
Un attimo di silenzio
scese fra le due, durante il quale Charlotte smise di respirare, e la
bionda represse un risolino.
“Credo di
non aver capito. Ma deve essere un disturbo della linea: abbiamo
incrociato la conversazione di qualcun’altro”.
“No no, hai
capito bene invece, tesoro! Passo a prenderti, fra mezz’ora.
Usciamo”.
“Eh?”
“Usciamo…
varchiamo la porta di casa… oltrepassiamo la
soglia… abbandoniamo il nido…”
“Si va
bene, smettila, ho capito” la frenò lei.
“Posso chiedere perché?”
“È
Natale! Che motivo deve esserci, scusa?”
“Io
non… posso. Io… il Natale lo passo in famiglia,
Nia. Non…” cominciò a balbettare
Charlotte, voltandosi istintivamente verso Marie Anne che la osservava
dalla porta della cucina a braccia conserte. In una muta preghiera le
lanciò un’occhiata che diceva tutto: fammi restare a casa, non voglio
uscire. Ma la donna fu irremovibile e continuò
a fissarla.
“Nonna”
mormorò allora la ragazza.
“Non voglio
essere usata come scusa per farti rinchiudere in casa. Quando eri
piccola ho passato ben più di una sera di Natale in casa,
senza di te. Che differenza può fare una in
più?”
“Ma…”
Nia la
zittì intromettendosi, dall’altra parte del
telefono. “Visto? Adoro tua nonna. Passo a prenderti tra
mezz’ora allora, d’accordo? E apri quel dannato
regalo, ti servirà per uscire!” e dettò
ciò sbatté giù la cornetta prima che
la ragazza avesse modo di ribattere.
Charlotte rimase
immobile per qualche minuto ad ascoltare il tu-tu della linea
morta. Infine riagganciò con una lentezza tale che fece
pensare che il telefono pesasse un quintale.
“D’accordo. Esco, come volete”.
Andò in
soggiorno dove c’era l’albero e si
inginocchiò per prendere il regalo di Nia. Era
un’enorme pacco ricoperto di carta argento e disegni azzurri,
con un fiocco blu ed una piccola dedicata legata accanto: “È uno
schianto, e l’ho scelto io. Buttalo in fondo
all’armadio e te ne ritroverai altri sei a Natale prossimo.
Con affetto, Nia”.
La ragazza represse
un brivido di terrore e si domandò se, aprire o no la
scatola, fosse davvero una buona idea.
“Non penso
sia nulla di esplosivo, bambina. Dai, vediamo che
c’è dentro” la incoraggiò la
donna, alle spalle.
Ancora qualche attimo
di esitazione, e la carta argento venne strappata. Man mano che il
colore panna della scatola si intravedeva sotto, Charlotte dovette
ammettere che quella sottile vena di curiosità ed
infantilismo, che pervade tutti quanti al momento
dell’apertura dei doni, stava contagiando anche lei. Con un
sorriso gettò via la carta e il nastro, aprì la
scatola… e rimase a bocca aperta.
“È
bellissimo” commentò Marie Anne.
Un vestito. Color blu
scuro e fatto di tulle, con una fascia morbida a coprire una spalla
soltanto, per poi scendere in una scollatura a cuore e fasciare i
fianchi in un tubino delicato e femminile.
“Oh mio
Dio”.
“Avrà
speso un patrimonio” le batté sulla spalla la
nonna.
“È
pazza…” continuò con
sgomentò l’altra, tenendo alto il vestito fra le
mani. Era come in ipnosi, e fissava l’indumento con occhi
sbarrati. Era bellissimo, nessun’ombra di dubbio, ma averlo
significava metterlo, a prescindere dalla minaccia di Nia, e quello
andava decisamente contro i suoi propositi di passare inosservata.
“Spero che
il tuo regalo sia all’altezza di questo, bimba” la
prese in giro Marie Anne.
“Un paio di
scarpe su cui ha lasciato una scia di bava peggio di venti
lumache… spero che le piacciano davvero. Non so mai cosa le
piaccia”. Ed era vero. Per quanto si sforzasse di tenersi
lontana da legami e relazioni, le risultava piuttosto impossibile,
specialmente negli ultimi giorni, restare insensibile agli interessi di
Nia. Che poi questi fossero confusi era un altro paio di maniche.
“Le
piaceranno sicuramente, vedrai. Su, ora corri a metterti il vestito e a
darti una pettinata; fra venti minuti la pazza sarà
qui”.
Senza neanche farselo
ripetere due volte, Charlotte andò di sopra pur continuando
a tenere il vestito a debita distanza da se. Era ancora in tempo per
farlo a pezzettini o dargli fuoco, si disse, lamentando un terribile
incidente, ma una vocina in un angolo del petto le rammentò
della minaccia della bionda… E quando Nia minacciava, poi
agiva. E così, con il terrore di trovarsi
l’armadio zeppo di vestiti succinti, la ragazza represse un
gemito e si cambiò.
A dire il vero,
passarono ben più di venti minuti e ancora restava di fronte
allo specchio a fissarsi con le sopracciglia corrugate, quando la porta
della stanza si spalancò facendola voltare con uno strillo.
“Ma
è meraviglioso!”
La pazza era
arrivata. Come un tornado attraversò lo spazio che le
separava e afferrò l’amica per le braccia
facendola girare su stessa, ammirando il capolavoro.
“È
assolutamente perfetto, e ho azzeccato pure la taglia! E quel colore ti
sta d’incanto, lo sapevo che quell’altro era troppo
scuro e quello rosso fuoco era troppo sensuale per te, mi saresti
svenuta sul colpo, aprendo il pacchetto, tesoro. Ma guarda un
po’… ti fa un fondoschiena che mezza fauna
femminile ammazzerebbe per averlo, altro che chirurgia estetica,
ah!”
“Ma…”
avvampò Charlotte, coprendosi con le mani il sedere.
“Oh non
fare la timida: come te lo sto guardando io, lo faranno tutti quelli
che incontreremo stasera, dolcezza” le schiacciò
l’occhiolino lei.
“Oh
mio…”
“Dio,
già. Non è pazzesco? E non stare a ringraziarmi!
Il tuo regalo è stato stratosferico, ma naturalmente non
potevi sbagliare: mi piacevano tutte le scarpe del negozio!”
esultò Nia, sfoggiando un paio di decolté nero
scamosciato con piccoli strass applicati sul retro del tallone e lungo
il tacco. Erano splendide. “Però queste erano
candidate al secondo posto”.
“Sono
contenta che ti piacciano” ammise l’altra
arrossendo un poco. Si sentiva in imbarazzo.
“Altroché!
Ma ora, dolcezza, che ne dici di… staccarti dalla cornice
dello specchio, muovere i piedini attraverso la tua stanza, fare le
scale e varcare assieme l’uscio di casa?”
Charlotte si morse un
labbro e fece un passo indietro. No, davvero non se la sentiva. Non
conciata a quel modo: elegante o meno, avrebbe voluto gettare
all’aria quel vestito e mettersi un paio di jeans e una
felpa. A che pro stuzzicare chi poi non aveva intenzione di considerare?
Nia parve intuire il
suo stato d’animo e le poggiò una mano sul
braccio, “Hei, che succede? Sei bellissima, che vuoi di
più? Certo, io avrei messo un paio di tacchi da urlo su quel
vestito, ma… rimedieremo al prossimo regalo, che dici? Ora
andiamo, si fa tardi”.
Non fece in tempo a
replicare, che si trovò trascinata giù per le
scale con il polso stretto nella morsa della bionda, tanto che le venne
voglia di attaccarsi al corrimano e restarci avvinghiata sino alla fine
della serata. Ma il pensiero sfumò, sostituito da una figura
inaspettata, seduta sul divano con una bella tazza di cioccolata calda
in mano.
“Eccoci
qua” esclamò Nia, saltellando nel soggiorno,
scuotendo la voluminosa chioma dorata. “Non è
splendida?”, chiese facendo cenno all’amica dietro
di lei.
Marie Anne si
alzò dal divano e si avvicinò alla nipote,
abbracciandola. “È davvero bellissimo, bambina,
Nia ha scelto bene”, ed aggiunse sussurrandole
all’orecchio, “Vedrai che ti divertirai”.
Charlotte ebbe un
altro tremito all’idea di uscire e fece per cercare lo
sguardo confortante della nonna, quando qualcun altro espresse il suo
parere.
“Sei uno
schianto, bambolina. Dovrò picchiare un sacco di pretendenti
stasera, immagino. Ma che amico sarei, se no?”
commentò fiero Tom.
Gli occhi della mora
divennero di colpo terrorizzati al solo pensiero di uomini che le
gironzolavano attorno e la sfioravano e, nuovamente fece un passo
all’indietro scuotendo la testa.
“Oh mio
Dio…”
“Che? Che
ho detto?”
“Niente,
lascia perdere!” si intromise Nia, afferrando il cappotto
dell’amica e cacciandoglielo sulle spalle,
“È solo un po’ impressionabile, ma ora
le passerà. Forza, andiamo!”
I tre ragazzi
salutarono Marie Anne, chi meno convinta degli altri, e dopo essersi
coperti con giacche e sciarpe, varcarono finalmente la soglia di casa e
uscirono in strada.
***
La notte era fredda e
spazzata da un leggero venticello, ma le luci quella sera scintillavano
più che mai.
Sembrava che
l’intero mondo fosse sceso per le vie e si sentisse
più vivo e gaio, quasi volesse trasmettere la propria
allegria a chiunque. Gruppi di ragazzi correvano qua e là
ridendo e chiacchierando, coppie di adulti si salutavano scambiandosi
auguri e abbracci calorosi, mentre i piccoli cantanti di strada si
fermavano agli angoli delle strade lasciando che le proprie voci
armoniose scivolassero sulle onde di quell’atmosfera festosa.
Era Natale.
I tre ragazzi
camminarono sino alla metropolitana, saltando sul primo vagone diretto
a Piccadilly, confondendosi con la folla di gente rumorosa. Scesero con
fatica, tra spintoni e gomitate, e pochi minuti dopo assaporarono
l’aria aperta e allegra del quartiere.
“Oh!
È favoloso! Adoro il Natale!” batté la
mani Nia, guardandosi attorno come una bambina di fronte ad un negozio
di giocattoli. “Dobbiamo assolutamente andare di fronte
all’Odeon e salire su quell’aggeggio della
morte!”
“Come
scusa?” chiese sulle spine Charlotte. “Nia - oggetto della
morte”: nella sua mente erano due parole che
associate erano altamente pericolose.
Tom le
circondò le spalle con fare protettivo, “Hanno
allestito un Luna Park in miniatura per il Natale, e
c’è anche un gioco che fa girare le persone a
testa in giù. È interessante”.
“È
spaventoso”.
“È
adorabile!”
“Come
no… andate pure, vi aspetto giù”
sorrise ironica cercando di scacciare l’immagine di lei a
testa in giù, appesa come un salame, ed un vestitino
striminzito a metterle in mostra le gambe. “Non ci
sarà mica posto per tutti e tre”.
“Quello che
soffriva di vertigini ero io, o sbaglio?” le chiese allora
dispettoso Tom.
Lei si
voltò di scatto pronta per una risposta con i controfiocchi,
quando le venne in mente una domanda che non aveva ancora avuto modo di
porre. “Ma tu che ci fai qui?”
“Chi?”
“Tu”.
“Ah. Io eh?
Beh io… io…” boccheggiò per
qualche minuto, mentre le sopracciglia della mora si corrugavano
terribilmente. “Ero venuto ad accertarmi che avessi aperto il
mio regalo di Natale, già”.
“Mi avete
rapito, non ne ho aperto neanche uno”.
“Io
però il tuo l’ho aperto!”
esclamò contento il ragazzo aprendo la giacca e la felpa,
mostrando la maglietta nera con un buffo pinguino disegnato sopra.
“Mi piace molto, grazie”.
E in tutta risposta,
Charlotte arrossì facendo un gesto distratto col capo e
voltando lo sguardo altrove.
Era fuori. In mezzo
alla gente. La sera di Natale. Era strano, ma in quegli ultimi giorni
si era promessa di restare da sola, nel suo muto silenzio, di
dimenticarsi del dolore che voleva trafiggerle il cuore come una
stilettata velenosa, di scordarsi che al di fuori delle mura di casa
era in corso una festa. Eppure, andando contro ogni sua previsione, ben
due persone erano schizzate nella sua esistenza, stravolgendola e
scombussolandole l’ordinario. E quelle due stesse persone,
ora, stavano una accanto a lei, e l’altra poco distante a
scattare fotografie agli alberi addobbati. Nia e Tom…
Era come tracciare
una linea netta e precisa su un foglio bianco, dritta e senza ostacoli,
e ricevere d’improvviso un colpo alle spalle che costringe la
mano a spostare la matita in una curva… e poi
un’altra, ed un’altra ancora, riempiendo sempre
più spazio sul foglio, fino a colmarlo di cerchi e linee
ondulate.
Lo trovava insolito,
lo trovava irritante, lo trovava diverso, lo trovava estraneo, lo
trovava dubbioso. E fosse dipeso da lei, probabilmente, avrei
continuato a disegnare linee rette ed angoli spigolosi.
Certo. Quello che
diceva Nia, l’essere in continua fuga, aveva la sua base di
verità, lo sapeva. Ma quando ti abitui ad uno stile di vita
è difficile abbandonarlo di punto in bianco, facendo finta
che sia la cosa più bella in assoluto. Occorre tempo,
occorre pazienza, e per lei i fatti stavano capitolando troppo in
fretta. O almeno era quello che pensava.
“Ti senti
bene?” le chiese Tom, stringendo la prese sulle spalle.
La ragazza
alzò lo sguardo su di lui e poi lo richiuse, appoggiando
d’istinto il capo nell’incavo del suo collo. Aveva
paura. Ne aveva tanta. Si sentiva un pesce fuor d’acqua e non
sapeva come dirlo per non fare la figura della stupida.
“Hai
freddo?” chiese di nuovo il giovane.
Nia smise di fare
fotografie e si voltò verso di loro con sguardo attento. Che
avesse osato troppo a farla uscire la sera di Natale? Del resto era una
ricorrenza che si passava in famiglia. Ma quella ragazza ne aveva solo
un vago ricordo, storpiato da mille fantasie, aveva bisogno di
crearsene una nuova. L’idea poi di portarla fuori proprio
quella sera aveva trovato subito appoggio in Tom, che Nia aveva
incontrato per caso nel negozio doveva aveva comprato il vestito per
Charlotte. L’unione fa la forza, dicono, e i due avevano
deciso di giocare il tutto e per tutto.
“Vuoi che
ti dia la mia cuffia?” domandò una terza volta
Tom, sfiorandole la testa. Ma Charlotte scosse la testa, restando
accoccolata sul petto del giovane.
“Beh, che
fate lì impalati, tesorini? Che ne dite di trovare un locale
abbastanza rumoroso e metterci a sedere? Adoro i vestiti corti, ma le
mie gambe non la pensano allo stesso modo”
gracchiò Nia, riponendo la macchina fotografica.
“Bella
l’idea dei tacchi, mi congratulo, bionda. Sulla strada sporca
di neve, è una mossa da manuale”.
“Ti
aspettavi che uscissi con le racchette da eschimese, per
caso?” sbatté le ciglia lei.
“Sarebbe
stato insolito, ma l’avrei apprezzato: avresti colto se non
altro la mia attenzione” sghignazzò lui.
“Purtroppo
per te, non è nei miei piani futuri cogliere i tuoi
favori” sorrise radiosa Nia, battendogli una mano sulla
spalla. “E ora, questo dannato locale?”
Passeggiarono per un
po’, Nia a braccetto con Charlotte e Tom con il braccio
attorno alle spalle della seconda, ciascuno con
un’espressione diversa dipinta sul volto: euforia, tensione,
serenità.
Trovarono infine un
piccolo locale poco distante da una delle vie principali, da cui
giungevano musica e risate a tutto volume, il posto ideale per un
po’ di sano divertimento, disse convinta la bionda, prima di
trascinare gli altri due all’interno. Non era molto spazioso,
ma sembrava confortevole: la carta da parati color panna e i numerosi
quadri in bianco e nero appesi alle pareti, i tavoli e le sedie in
legno scuro e i lampadari candidi dal soffitto.
“Laggiù!
Se ci stringiamo, ci stiamo” indicò Tom in fondo
alla stanza, guidandole attraverso il dedalo di gente già
comodamente seduta. Ed infine, anche loro ebbero modo di sistemarsi.
“Non
è male, ha un qualcosa di spirituale”
sentenziò Nia, guardandosi attorno con gli occhioni azzurri.
Tom rise per via della sua espressione, mentre Charlotte
annuì dicendo che era davvero un posto carino.
“Ordiniamo
da bere?” chiese il ragazzo.
“Offri tu
naturalmente” sorrise Nia, piegando la testa con fare
ammiccante.
“Perché
dovrei?”
“Sei il
cavaliere della situazione”.
“Avevi
detto che non volevi cogliere i miei favori. Perché adesso
ti interessa?”
“Oh ma
quanto sei difficile!”
Pattuirono per il
classico pagamento individuale a proprie spese; ordinarono e
ridacchiarono nel vedere il cameriere ondeggiare come una banderuola
con il vassoio in bilico fra i presenti accalcati. Brindarono e si
lanciarono in una fitta conversazione sulle terribili settimane, delle
corse ai regali, che precedevano il Natale. Un vero incubo, e Charlotte
aveva buona ragione di lamentarsi, specialmente per una pazza corsa
dietro una stupida giacca. Nia le fece una linguaccia, mentre Tom
sghignazzava divertito.
Restarono nel locale
per un’ora intera. Il tempo sfumò così
velocemente che a stento se ne resero conto.
Fra battutine
pungenti tra Nia e Tom e le risate via via più rilassate di
Charlotte, la serata prese una piega piacevole e allegra, proprio come
ai vecchi tempi, solo con una differenza. Al posto della ragazza
bionda, avrebbe dovuto esserci Robert.
Bastò una
lieve inclinazione della voce di Tommy, distratto a discutere con il
cameriere, che Charlotte vi riconobbe la stessa intonazione del timbro
caldo e basso del ragazzo, e si incupì al ricordo. Non era
una vera festa senza di lui, senza il suo ridere a crepapelle e lo
spintonarsi con Tom, senza il suo “Birraaa! Birra per favore,
cameriere!” e senza il suo “Pausa
sigaretta… ho bisogno di intossicarmi i polmoni”
detto con fare autoironico. Come un’insegna a caratteri
cubitali dove l’ultima lettera resta spenta e vuota, gettando
un effetto mancante. E a loro mancava proprio un’ultima luce
per rendere il gruppo più luminoso.
Charlotte
passò il dito sul bordo del bicchiere e pensò che
non solo Robert non era fra loro, ma che domani sarebbe sparito
definitivamente. Di bene in peggio…
“Un penny
per i tuoi pensieri, dolcezza” le sussurrò
all’orecchio Nia.
“Solo un
vecchio ricordo” scosse la testa lei.
“Vuoi
condividerlo con me?”
“Pensavo ne
avessi abbastanza delle mie lamentele” sorrise allora,
voltandosi a guardarla in viso.
“Dipende
dal tono con cui le affronti. I ricordi sono belli, ma restano
ricordi… non sono il presente”.
La mora storse la
bocca e sospirò a fondo, tornando a giocare con il
bicchiere. Tom discuteva ora animatamente con il cameriere e
c’era da chiedersi se sarebbero arrivati alle mani.
“Ti manca,
vero?”
La domanda
arrivò netta e Charlotte incassò le spalle
reclinando il capo verso il petto.
“Beh non
occorre che mi rispondi, lo so. È evidente”
continuò Nia. Le passò una mano fra i capelli con
fare affettuoso. “E sai a dirti la verità, volevo
chiedergli di uscire con noi stasera. E stranamente anche Tom era dello
stesso parere”.
La ragazza si
voltò colpita. “Dici sul serio?”
Nia annuì.
“Solo che poi Tom mi ha detto di avergli telefonato e di non
averlo trovato in casa. Immagino fosse fuori con la famiglia”.
“A-avranno
voluto festeggiare in grande… per via di domani”
commentò triste lei.
“Si.
È possibile” le strinse la mano la bionda.
“Mi dispiace”.
“Anche a
me” sorrise amara reprimendo le lacrime.
“Posso fare
qualcosa? Una telefonata dell’ultimo minuto?” si
offrì disponibile l’amica, comprendendo il dolore
della ragazza. Ma quella non fece a tempo a rispondere, che Tom
batté le mani sul tavolo con forza mentre fissava in
cagnesco il cameriere andare via.
“Brutto
nano malefico! Ma tu guarda!”
“Che cosa
c’è ora?” chiese d’improvviso
stanca Nia.
“Vuole che
sloggiamo. Dice che hanno più clienti del solito e il tavolo
gli serve! Nemmeno a pagarlo a peso d’oro ce lo
lascia… brutto decerebrato” soffiò
inviperito.
“È
comprensibile, non farti salire la pressione, tesoro” lo
additò Nia.
“E che
facciamo allora, sentiamo?”
“Usciamo e
cerchiamo un altro locale, no? Sono solo le undici e
mezza…”
“Sempre se
troviamo posto” disse Charlotte.
“Beh,
restando seduti, non troveremo un bel niente: alza il fondoschiena
bellezza, usciamo, forza!” la esortò Nia.
“E tu baldo giovane corri a pagare, ti aspettiamo
fuori”.
Ed era talmente
arrabbiato che Tom non diede minimamente peso al costo accollato a sue
spese. Pagò, continuando a litigare con il cameriere, si
cacciò il portafoglio in tasca e raggiunse le due ragazze
che lo aspettavano accanto alla porta.
“Da che
parte?” chiese Charlotte, guardandosi attorno con aria poco
convinta.
Proprio di fronte
all’entrata s’era radunata una calca rumorosa, fra
chi aspettava il posto all’interno del locale, e chi invece
era uscito per prendere una boccata d’aria. Peccato che
alcuni di loro non brillassero di sobrietà e cantassero ad
alta voce con schiamazzi ed urli.
“Oh, gente
allegra” alzò un sopracciglio Nia.
“Meglio
togliersi di qui, attraversiamo” disse serio Tom.
“Vieni” aggiunse, prendendo per mano Charlotte e
Nia per un braccio, e tirandosele dietro. Si incamminarono attraverso
la folla, restando i più vicini possibile, il giovane in
testa.
“Hei
ragazzo, sei in compagnia eh?” disse uno di un gruppetto,
vedendoli sfilare a poca distanza. “Perché non ce
ne lasci una, non sono troppe due? La bionda non è
male!”, e a lui si unì una grassa risata che
puzzava d’alcool, proveniente dal resto della combriccola.
Nia fece per
ribattere, con un diavolo per capello, ma Tom le diede uno strattone
continuando a tirare dritto, “Sta zitta e cammina”.
Marciarono
silenziosi, le due ragazze con lo sguardo basso e le gote arrossate,
fino all’altro lato del marciapiede dove si fermarono tirando
un sospiro di sollievo.
“Beh un
po’ di rissa è quello che ci vuole no?
È pur sempre una bizzarra manifestazione di
sentimenti” fu tutto quello che riuscì a dire Nia
qualche minuto dopo, forse più per dar sfogo alla tensione
accumulata che non per l’averlo pensato davvero. Odiava
terribilmente le persone senza controllo per colpa
dell’alcool, aveva visto troppa gente perdere la testa per un
vizio simile.
“Se mai
dovessero picchiarsi, noi resteremo qui” commentò
tranquillo Tom. “E tu soprattutto starai zitta”.
“Come
prego?” lo fulminò subito Nia, andandogli a pochi
passi di distanza.
“Ok, forse
è meglio se chiamiamo un taxi e torniamo a casa,
vero?” si intromise Charlotte saltando fra i due con un finto
sorriso di circostanza. Era tesa anche lei, pur non sapendoselo
spiegare. Era stanca.
“Si, forse
è meglio. Qui dietro c’è Oxford Street,
possiamo prenderlo lì” annuì Tom.
“D’accordo.
Andiamo da qu - … Aspetta… Hei ma quello lo
conosco, è un mio vecchio amico! Accidenti, che ci fa
qui?!” disse d’un tratto la bionda, distanziandosi
di un paio di metri e raggiungendo un ragazzo alto e bruno che, al
vederla, la abbracciò con entusiasmo.
Dall’altra
parte della strada, nel frattempo, le urla si erano fatte
più alte assieme a qualche imprecazione, tanto che un paio
di camerieri del locale erano usciti per chiedere di abbassare la voce.
Charlotte osservava
la scena con sguardo tra il preoccupato e lo spaventato, mentre
spostava nervosa il peso da un piede all’altro. Si sentiva
fuori posto, si sentiva a disagio e scoperta, e quella situazione di
equilibrio precario la metteva in un’agitazione interiore
tale da farle tremare la schiena.
Due braccia la
cinsero da dietro, e la voce di Tom le arrivò dritta
all’orecchio.
“Sta
tranquilla. Non è niente. È normale che a Natale
ci sia qualcuno un po’ allegro. Anche io e Bobby alle volte
ci scoliamo qualche birra e canticchiamo vecchie
filastrocche” sorrise. “Si beh, forse non
così” aggiunse alludendo alle strilla della gente.
“Pensi che
- ”
“Ci
sarà una rissa? Nah… E anche se fosse noi ce ne
saremo già andati. Sempre se la tua amica non ha intenzione
di andare ad abbracciare tutto il mondo per fare gli auguri di buone
feste …” commentò acido alzando gli
occhi al cielo. Ma un urlo più forte proveniente dalla folla
di fronte a loro coprì il resto della frase.
Ben presto altra
gente sobria scivolò via dalla massa ubriaca, unendosi ai
tre sul marciapiede, con un’aria scocciata e tesa. La
situazione si stava effettivamente scaldando, e non passò
molto che dal centro della calca si sentì l’eco di
uno botto seguito da un grido di rabbia. Qualcuno strillò
con veemenza e alcune figure cominciarono a spintonarsi con forza.
“Ma
che…” si strozzò Charlotte.
“Ok. Ora
ritengo sia il caso di andare. Dov’è quella
pazza?” si guardò attorno Tom, spostandosi tra i
presenti. Teneva sempre per mano la ragazza. “Nia? Hei, cara,
sentì un po’, manderai delle cartoline a chi
ancora non ha goduto dei tuoi auguri: andiamo. Adesso”.
Come dovuto ad un
colpo di bacchetta, la situazione degenerò in un lampo,
così come era iniziata. Dando le spalle alla strada,
Charlotte si sentì spingere d’improvviso da una
coppia di giovani ragazzi che la oltreppassarono e scapparono in un
vicolo; fece appena in tempo a girare la testa per scorgere che anche
quelli che erano sul marciapiede con lei si stavano muovendo di corsa,
allontanandosi sempre di più dall’entrata del bar.
Una terza persona la
spinse nella foga, e lei volò dritta sulle spalle di Tom.
Lui l’afferrò al volo, prima di cacciare
un’imprecazione colorita.
“Corri!”,
fu tutto quello che la ragazza riuscì a sentire.
Avvertì la propria mano stretta in quella di Tom, che la
tirava attraverso i presenti in corsa, mentre con gli occhi cercava
disperata Nia, non trovandola.
Era infine quasi
arrivati in fondo alla via, ritenendosi salvi, quando delle grida
arrivarono più forti e, senza aspettarselo, uno
scoppio improvviso riecheggiò sul muro sopra le loro teste,
mentre un pioggia di vetri, con l’effetto di una bomba,
schizzò contro di loro e i presenti.
Charlotte
strillò, mentre Tom cadde a terra. La ragazza
cercò di coprirsi il viso con le mani, ma reagì
troppo tardi. Il collo e la guancia erano in fiamme. Chiamò
il giovane accanto a se, ma pochi secondi dopo si ritrovò a
terra senza volerlo, e sbatté la testa. I suoni le giunsero
lontani e presto la vista lasciò lo spazio al buio.
----------
Spazio
sproloqui :)
Da da daaaannnn!!
E qui partono i
fischi: ma
perchèèèèè
l’hai troncato
cosììììì!!???
Bruttaaaaa!!! T_T
Si lo so, sono un
essere malefico, gnahahah!!
Ma ho due buoni
motivi: 1)
adoro la suspance *_* ... 2)
in realtà doveva esserci ancora un pezzettino, ma dopo una
sofferta riflessione, ho deciso di lasciare il capitolo prossimo solo
ed esclusivamente per i due piccioncini u.u E ci sarà da
piangere dalla commozione ç_ç Io piango
già ora…
Ok basta esaltarsi,
parliamo di cose serie: che ne pensate di questo nuovo chap?
Movimentato eh? Ricordate quando avevo detto che avrei inserito un
episodio tratto da un’esperienza vissuta? Bene,
l’ho messo, ed è proprio il finale con la rissa,
solo che è avvenuto in circostanze un po’ diverse
e non così drastiche, non per me se non altro: Londra,
capodanno… gente un po’ alticcia e sopratono che
comincia a litigare in mezzo alla folla, e di colpo volano bottiglie di
vetro, da un gruppo all’altro. Una è seriamente
scoppiata in faccia ad uno che, immagino, non c’entrasse
nulla… a me ne è scoppiata solo una sul piede, ma
niente di grave (avevo gli stivali nuoviiii, aaargghhhhh!!!) xD
Però mi sembrava interessante inserirlo, specialmente per
quello che avverrà nel capitolo seguente.
Che altro dirvi?
Spero di aver reso un po’ di giustizia al personaggio
co-protagonista di Bobby, Charlotte. Sin’ora
l’abbiamo vista sempre sulle sue, tormentata, forse anche
più di lui, schiva ed acida… ma mai senza
arrivare fino in fondo al perché del suo comportamento; per
lei ho assunto una descrizione iniziale abbastanza distaccata, almeno
per ora, perché è un personaggio evasivo, che si
sofferma poco sui suoi sentimenti, per paura di soffrire: con la
partenza di Bobby, però, è costretta a pensarci,
oltre al fatto che Nia è un bel chiodo fisso con i suoi
interventi di salvataggio realistico. Viene quindi a galla il vero
motivo del “freddo” che c’è
nella protagonista… ed ecco, in questo chap, il resoconto
(alleluja!!) di tutto quanto quello che prova.
Non è
cattiva. Non è nemmeno stupida, anzi. È solo
molto provata. E ora la sua dolce metà platonica prende il
volo e sparisce nel Nuovo Mondo. Io sarei depressa eccome, XD
Aggiungo inoltre che si... lo so ç_ç Sta storia
ha un'inzio abbastanza triste? Oh, mica succedono sempre le cose belle
u.u Ma non ho intenzione di far rimanere i personaggi in uno
stato vegetativo, certo che no :P
Passando
ai ringraziamenti :
BrandNewSibyl : hei,
ciao ^^ benvenuta! Ti ringrazio innanzitutto per aver deciso di
commentare, mi fa davvero piacere :3 Riguardo al fatto che la storia
non sia tra le popolari… beh… posso avanzare
un’ipotesi: siamo davvero in MOLTE a scrivere di Robert,
tanto che penso che, ormai, gli argomenti da tirare in ballo siano
pressoché esauriti. Probabilmente anche il mio è
“demodé”, non saprei xD ...Di
conseguenza, la mia storia, così come molte altre, passano
in secondo piano, o perché sono partite in ritardo o
perché ormai ci sono già delle scrittrici
affermate e assegnate a Bobby. u.u A dirti comunque la
verità, io sono una delle prime ad aver scritto su di lui,
quando ancora non c’era il suo nome nella lista dei
personaggi da scegliere. Ho cominciato con una storia fantasy,
coinvolgendolo, ma fermandomi al secondo capitolo, vuoi
perché era un argomento per me delicato… vuoi
perché nell’arco di poco tempo è
scoppiato il BOOM di Pattinson, che m’è passata la
voglia. Sono tornata poi con questa storia (oltre ad altre due
one-shot, sempre su di lui), e… beh… si, non
è particolarmente gettonata. Ma a me fa piacere lo stesso
scriverla, perché mi piace l’idea di dar voce ad
un ragazzo che ritengo normalissimo, se non un po’ imbranato
e sentimentale, che spesso viene dimenticato e scambiato per Edward
Cullen, personaggio per personalmente odio come non mai. Naturalmente
non nego che sapere cosa voi ne pensiate, di quello che scrivo, sia per
me davvero importante: chi scrive, ha sempre bisogno di un resoconto,
ma va bene anche così ^^ …A parte
ciò, sono molto contenta che la storia ti piaccia e che io
sia riuscita a far combaciare bene personaggi e relazioni; Tom e Bobby
sono due asini, e li adoro alla follia… pensa poi se fossero
davvero così, deliriooo *-* Ti ringrazio per esserti fermata
a commentare e spero che anche il nuovo chap ti sia piaciuto!! E scusa
se sono stata prolissa, ma mi sembrava giusto spiegarti ;P Un bacione :3
_Miss_ : tesoroooo!!
Come andiamo? Le vacanze, todo bien? xD Eh si, Bobby ce
l’ha fatta *fascio
di luce divino dal cielo con l’alleluja* È
un po’ tardo il giovincello, ma alla fine penso che siamo
tutti un po’ allocchi in amore. Riguardo a Charlotte, ho
scritto il pezzo dedicato a lei proprio pensando a te, sai? Spero di
aver fatto un po’ più di chiarezza :) Nia
è una draga… la sposerei se potessi, e subitoooo!
*O* E il Natale così lo vorrei pure io… ma penso
che sia Londra a fare tutta sta magia: organizziamo viaggio pullman di
pellegrinaggio per l’anno prox? xD Guido ioooo!!! Ti
ringrazio tantissimo per aver commentato :3 Spero che anche questo chap
ti sia piaciuto! Baci ^-*
Ringrazio anche tutti
coloro che sono lettori silenziosi, vi adoro, e quelli che
l’hanno aggiunta ai preferiti ;)
Un
bacione, al prox chap!! :D
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** 10. inizio ***
10.
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 10° capitolo –
Inizio
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Eccomi! Chiedo perdono, ma sono stata via una settimana e…
uffa, qua in montagna la connessione prende ogni 2 per milleeee
T_T Ad ogni modo. Come promesso, un capitolo solo per
Roberto. E Char ovviamente ;D
10
“Inizio”
Il
tempo scorreva e la gente continuava a festeggiare, inebriata dalla
dimensione di allegria che aleggiava ovunque come una coltre luminosa.
La notte magica stava
per finire e tutti si affannavano come per godersi sino
all’ultimo l’entusiasmo che il giorno dopo sarebbe
stato un ricordo, bello e brutto.
E per qualcuno,
quella volta, non sarebbe stato un ricordo a tinte piacevoli…
Da quando il buio la
inghiottì, Charlotte venne sollevata di peso dal suolo e,
mentre qualcuno le gridava in viso di riaprire gli occhi, un paio di
braccia forti la prendevano in braccio, prima di condurla in un taxi
sparato alla velocità della luce fra il traffico di Londra.
Tom la teneva
stretta, con il viso segnato da un linea rossa. Schegge di vetro
incastrate in un taglio sulla fronte, ma lui pareva non sentire nemmeno
il dolore, un eco lontano, mentre schiaffeggiava il viso pallido delle
ragazza.
Nia, seduta accanto a
loro, gridava come un’ossessa al conducente di schiacciare
quel maledetto acceleratore se non voleva ritrovarsi legato al tetto
della macchina senza pantaloni. Era tesa, era spaventata, ero
terrorizzata… ma non lo dava a vedere. Non poteva. Non
voleva. Perché nonostante l’amica fosse priva di
sensi e non potesse sentirla, avvertiva dentro di se il bisogno di
tenerla al sicuro mostrandosi forte e senza paura.
Passarono venti
minuti rintanati nel taxi, mentre l’ansia saliva come una
febbre tanto che, arrivata al limite, Nia afferrò la mano
libera di Tom e la strizzò nella propria facendo gemere il
ragazzo.
Fu quando arrivarono
in prossimità del pronto soccorso che la ragazza mora
riaprì gli occhi con un singhiozzo, facendo saltare come un
pupazzo a molla la bionda e il giovane che la teneva in braccio.
Varcarono il cancello dell’edificio e, appena ferma la
vettura, schizzarono fuori.
“È
tutto ok. Non è niente. Sei ancora tutta intera”
gracchiò Tom, mentre portava Charlotte attraverso le porte
scorrevoli.
“N-non…
mi sento più… la tes-ta”
mugolò lei.
La voce di Nia
arrivò feroce alle spalle del ragazzo. “Sei un
idiota! Dovevamo chiamare un’ambulanza!”
Tom represse un moto
di rabbia, mentre la lue dell’interno scoppiò come
una bomba, accecandolo. Ambulanza voleva dire confusione, caos e
rumore. Voleva dire shock. Charlotte avrebbe resistito alla cosa, dopo
mesi che non metteva il naso fuori di casa? Certo che no.
Tre ore. Tre
lunghissime ore.
Divisi per strade
diverse, Nia rimase abbandonata su una sedia anonima in un corridoio
infinito e candido all’inverosimile, con lo sguardo azzurro
gonfio di lacrime e la borsa gettata fra i piedi. Stupida. Idiota. Deficiente. Continuò
per mezz’ora a chiamarsi nei modi più svariati, o
meglio… ad insultarsi, perché forte era la
convinzione che se non si fosse allontanata per quei pochi minuti a
salutare un vecchio amico, ora sarebbero già stati a casa a
stendere la prossima lista di regali di Natale. Se non si fosse
allontanata, non sarebbero stati costretti a restare rinchiusi in
stanzette che puzzavano di disinfettante da far venire il capogiro. Se
non si fosse allontanata, le cose… sarebbero state
più semplici. Già, ma quando mai lo sono, si
disse.
Tom era scomparso con
un’infermiera che sembrava la reincarnazione di Hagrid di
Harry Potter, dopo che gli era stato diagnosticato che era illeso, a
parte un paio di tagli sulla fronte ed uno sullo zigomo. Poteva
andargli peggio.
E Charlotte. Beh la
cosa era diversa. Il colpo ricevuto alla testa, per colpa di un uomo
cadutole addosso di peso, le aveva fatto perdere i sensi, complice lo
sbattere contro il cemento della strada. Nulla di grave, dissero.
Probabilmente una bella collezione di bernoccoli e lividi, ma nulla
più. Ovvio, senza contare i piccoli tagli disseminati sulla
fronte e sul collo. Ferite di guerra le avrebbe chiamate Nia, davano
l’aria da temeraria, avrebbe aggiunto con malizia…
Ma di essere divertente, la ragazza, non ne aveva la minima voglia.
Ed era illesa. Nia
era illesa, se non un livido sulla spalla. E si odiava. Forse non
più tanto per l’essere stata irreperibile quando
occorreva, Tom le aveva ripetuto alla nausea che sarebbe successo
comunque, ma lei non gli credeva. Si odiava perché per una
volta in cui compiva una buona azione, in cui portava
un’amica sola e repressa a riabbracciare il mondo, la vita le
dava un colpo in testa. Letteralmente. Si poteva essere più
sfigati?, pensò.
E con il pensiero di
una nuova fatica per convincere l’amica a non richiudersi in
se stessa per quell’esperienza, la bionda
abbandonò il capo sulle ginocchia e pianse in silenzio.
Quando le porte
luminose del pronto soccorso si riaprirono e Tom uscì
tenendo Charlotte per i fianchi, e Nia con una mano sulla spalla
dell’amica, erano ormai le tre di notte passate.
Presero il primo
taxi, diretto a casa Sullivan, e durante il tragitto nessuno disse una
parola. Il silenzio aleggiava, troppo fragile perché
qualcuno si prendesse la responsabilità di romperlo per
primo, nonostante tutti e tre avessero più che qualcosa da
dire.
La vettura si
fermò e, ad un cenno di Nia, attese in strada mentre i
ragazzi sparivano in casa.
“Marie
Anne!” urlò Tom aprendo con le chiavi di
Charlotte. “Scendi subito!”
Accesero tutte le
luci e si sistemarono in cucina, storditi e con gli occhi stralunati.
Tom aprì il frigo e tirò fuori la scatola del
latte, bevendo col rischio di strozzarsi e sputacchiando dappertutto.
“Ti pare il
caso?” ringhiò Nia, e Charlotte alzò un
sopracciglio a mo’ di conferma.
“Ringrazia
che non ho preso la birra” commentò acido lui.
Rumore dalle scale,
passi affrettati, e Marie Anne fece la sua comparsa in cucina avvolta
in una vestaglia panna e con i capelli argentei scarmigliati.
L’espressione mista tra il sorpreso e il preoccupato non
lasciava dubbi al fatto che fosse stata in pena tutta la sera. Povera
donna.
“Ma cosa
diamine - ” cominciò.
Nia le strinse una
mano, ed ignorando le urla di Tom per raccontare lui
l’accaduto, fece un breve riassunto, mentre dietro di lei
Charlotte restava seduta a tavola con lo sguardo perso nel vuoto.
Marie Anne
ascoltò e, gettando poi un’occhiata veloce a tutti
e tre, pensò che poteva andare molto peggio e ritrovarsi ora
seduta ai piedi di tre letti in ospedale. Le risse per alcool, in
quelle circostanze, erano molto pericolose, lo sapeva bene, e dovevano
ritenersi fortunati… beh, nei limiti del possibile.
Sospirò e abbracciò Nia ringraziandola. La bionda storse la
bocca reprimendo il senso di colpa e pochi minuti dopo scomparve nel
taxi, diretta a casa e con una cicatrice in più nel cuore.
“Beh,
ragazzo... quante ferite di guerra hai tu?” cercò
di sdramatizzare la donna fissando con occhio indagatore Tom.
Passò poi le braccia attorno alla nipote e le strinse le
spalle.
Per tutta risposta
lui alzò un ciuffo di capelli e mostrò i piccoli
punti sulla fronte. “Non è niente… Non
dovrei essere molto più brutto di quanto lo fossi prima. O
forse più bello” aggiunse con un ghigno.
Marie Anne scosse il
capo, chiedendosi come facesse ad essere così anche in
momenti di tensione. Si voltò verso la nipote e le chiese
come si sentisse.
“Mi fa un
po’ male la testa” rispose lei dopo due minuti che
parvero secoli. Era assente. Era dispersa oltre un confine che solo lei
vedeva, e gli occhi scuri erano velati di un’ombra che
prometteva nulla di buono.
Tom aprì
la bocca per dire qualcosa ma la richiuse mordendosi un labbro.
Dannazione perché doveva essere così complicato,
perché? Si stavano divertendo, sproloqui della bionda a
parte, ma perché allora il mondo aveva deciso di giocare al
tiro al bersaglio proprio quella sera, perché?
Scosse la testa e
rimettendo la bottiglia del latte in frigo, disse che andava in bagno.
Sparì sulle scale, tirandosi dietro la porta.
Rimaste sole, Marie
Anne girò attorno al tavolo e si sedette accanto alla
nipote, aiutandola a sfilarsi il cappotto. Le prese poi una mano e con
l’altra le sfiorò il viso, osservandole con
tristezza le piccole ferite sulla fronte e sul collo. Storse la bocca
in una smorfia.
“Ti senti
bene?” chiese con dolcezza.
Charlotte mosse gli
occhi scuri su di lei e la guardò. Poteva sentirsi bene?
Poteva anche solo pensare di avvicinarsi all’idea di
benessere? Poteva? Che razza di domanda era?
Marie Anne
incassò l’occhiata della ragazza e
riprovò. “È stato un bello spavento.
Posso immaginarlo. E… mi dispiace. V-vuoi che…
posso fare qualcosa che ti aiuti ad avere meno male?”
La ragazza continuava
a guardarla, ma non vedeva nulla. Non vedeva altro che le immagini
della scena che aveva vissuto poche ore addietro. Al rallentatore. Poi
veloci. Poi di nuovo lente e pesanti, dolorose, come se avessero dovuto
essere marchiate a fuoco, per imprimersi nella memoria. E ancora
veloci, fulmine.
“Bambina…”
la chiamò Marie Anne, scuotendole la mano.
“Hei”.
Charlotte parve
risvegliarsi per un istante dal suo tormento, istante in cui Tom
riapparve nella stanza.
“Bene
io… io credo che sia il caso che torni a casa. Mamma mi ha
già chiamato due volte. Potrei rimpiangere la rissa se non
mi sbrigo a tornare” disse con una vena di ironia.
“Vuoi che
ti riaccompagni? Prendo la macchina” si offrì la
donna, alzandosi.
“Nah.
Faccio due passi… ho bisogno di un po’
d’aria” annuì convinto lui.
Spostò poi l’attenzione sulla ragazza, immobile.
Le si avvicinò piano e le si portò davanti,
inginocchiandosi. I loro occhi, cioccolato contro azzurro, si
scontrarono e si incatenarono per lunghi attimi e Tommy
pregò perché, almeno parte della sicurezza che
voleva trasmetterle, potesse pervaderla e non farle perdere quel poco
di fiducia che era riuscita a conquistare.
Non sapeva cosa dire.
Probabilmente non c’era nemmeno nulla da dire. Il silenzio,
alle volte, cura molte cose.
La guardò
ancora un attimo, e poi le mise le braccia attorno alle spalle e la
strinse a se. La cullò piano, sentendola rabbrividire
appena, e le posò un leggerissimo bacio sulla fronte.
Si alzò e
salutando Marie Anne con un abbraccio veloce, disse che si, sarebbe
andato diritto spedito a casa.
“Dove vuoi
che vada? Ho già dato prova più che a sufficienza
del mio coraggio e bontà. E Natale era ieri”
sghignazzò, per poi correre in strada e sparire dietro
l’angolo.
Le due restarono in
cucina, immerse in un silenzio che aveva ben poco del rassicurante.
Come se ci fosse stata una bomba nucleare nascosta da qualche parte
sotto il pavimento della stanza, con il rischio che al minimo passo
falso…
La donna si
affannò a preparare del latte caldo per la ragazza, per
farla rilassare, cosa che naturalmente lei rifiutò con un
solo scrollare del capo. Non le importava. Non ne aveva bisogno. Non lo
voleva.
Marie Anne era sul
punto di alzare un poco la voce e costringerla a berne almeno un sorso,
giusto per avere un segno che non stesse crollando in un stato
depressivo, quando un battere furioso sulla porta le fece sobbalzare
entrambe, come punte da una scarica elettrica.
La nonna
aggrottò la fronte e il suo pensiero volò subito
al ragazzo appena uscito, forse di nuovo nei guai, e corse ad aprire
alla porta.
Fu come se il sole
fosse entrato improvvisamente nella stanza. Come se i mille alberi
delle strade avessero deciso di espandere le loro luci a tutte le case,
inghiottendole. Come se la bomba nascosta sotto il pavimento fosse
esplosa e il boato fosse ancora racchiuso fra le pareti.
La testa di Charlotte
si voltò di scatto e i suoi occhi si incollarono a quelli
azzurro mare più profondi che potesse ricordare.
Robert stava
lì. Impietrito sulla soglia della cucina, con i capelli
spettinati, la felpa al contrario e la giacca storta e respirava
affannato. Aveva corso. Le mani rosse e fredde, strette a pugno.
Allargò
gli occhi in un’espressione tramortita mentre li posava sulle
ferite seminate sulla pelle della ragazza ed emise un respiro
strozzato. Non calcolò più nulla.
Coprì la
distanza che li separava e sollevò di peso Charlotte dalla
sedia stringendola come se potesse scomparire da un momento
all’altro nel nulla. La strinse sentendo i propri muscoli
tendersi al massimo nelle braccia e nella schiena. La strinse sentendo
lei rimpicciolire sotto la propria possessività. La strinse
sentendo che il proprio cuore riprendeva a battere con calma.
E Charlotte pianse.
Come un tappo tolto dal rubinetto, fece un respiro strozzato e
riversò ogni cosa in lacrime, bagnando la felpa del ragazzo.
Strinse i pugni attorno al suo torace. Strinse la giacca col rischio di
strappargliela. Strinse i denti schiacciando il viso contro il petto
rischiando di soffocare. Strinse come se fosse stata l’unica
cosa in grado di fare.
Il cuore batteva.
Quello di lui da affannato a sempre più calmo…
sempre più tranquillo. Quello di lei, da ghiacciato a
sconvolto, da legato a sciolto. Contrasto e diverso. Differenze che
andarono a compensarsi in una sola nota, in un solo suono. Il suono di
un battito che riprendeva il suo ritmo equilibrato, la sua dimensione
bilanciata e unica. Divisi e insieme.
Robert chiuse gli
occhi e baciò i capelli della ragazza, inspirando con una
smorfia l’odore di disinfettante che nascondeva il suo, buono
e pulito.
Tornare a respirare.
Tornare e riprendersi quel pezzo di se stesso che aveva relegato in un
angolo. Sapeva di agire per istinto. Sapeva di agire per conto di un
senso che aveva ignorato a lungo. Ma cosa importava saperlo in quel
momento?
“Rob?”
La voce di lei
arrivò confusa e attutita dalle sue braccia che la
circondavano. Avrebbe allentato la presa, ma l’idea che
potesse sfuggirgli lo mandava in iperventilazione.
“Sono
qui”.
Due parole. Due
semplici parole, ma che ebbero l’effetto di un calmante, di
un grande respiro liberatorio dopo ore di agonia e nervi tesi
all’inverosimile. Una certezza. Una promessa che dettava
sicurezza. Lui era lì e, poco ma sicuro, nemmeno una
minaccia armata l’avrebbe smosso.
La ragazza
serrò più forte le mani sulla sua giacca e smise
piano di piangere, lasciando spazio ad un sorriso silenzioso.
Nel sentirla
tranquilla, Robert si scostò di poco, pur tenendola a se, e
lasciò che il suo viso tornasse ad essere illuminato dalla
luce della lampada. La guardò riaprire gli occhi bagnati e
tirare su col naso arrossato. La fissò tanto da riuscire a
vederle direttamente nell’anima, tanto da sentirsi bruciare
all’idea di riaverla di nuovo. Con una mano le
passò gentilmente le dita sulla guancia umida e
cancellò le lacrime saline. Sorrise. Il solito sorriso
sghembo.
Charlotte lo guardava
di rimando, con una luce diversa negli occhi… un misto fra
sollievo e dolore. Era combattuta. Era pensosa. Ma più di
tutto era felice. Si. Maledettamente felice. Perché poteva
negarlo quanto volesse, poteva impuntarsi fino allo stremo, ma la
verità era che adesso, si, aveva smesso di avere paura. Non
si chiese nemmeno come lui fosse piombato da un momento
all’altro lì, nella sua cucina – anche
se ne aveva una vaga idea – era un dettaglio che non era
degno della minima attenzione.
Robert le
passò un dito sul collo con aria triste.
“Ti fa
male?”
Lei storse la bocca.
“Un po’…”
Lui spostò
la testa di lato con un piccolo lamento. “Hai… hai
avuto paura?”
Gli occhi scuri di
lei si spensero per un attimo. “Si”.
La schiena fu scossa
da un tremito e il ragazzo la strinse di nuovo con forza, ignorando il
gemito di lei per il gesto affrettato. Scosse la testa con vigore e i
suoi occhi azzurro mare parvero prendere fuoco.
“Sono un
idiota. È colpa mia. Dovevo uscire con voi”.
Un classico.
Accusarsi. Sapeva che non era giusto, ma non poteva evitare di farlo.
“Sarebbe
successo comunque” bofonchiò nascosta lei.
“E magari ti saresti fatto male anche tu”.
“Perché
eravate lì? Tom non ha visto che era il caso di levare le
tende?” chiese con aria piccata.
“Non
è colpa sua… Lui mi ha protetto. Non arrabbiarti
con lui” fu la risposta in favore dell’amico.
Robert sentì il petto ardere e strinse i denti.
“Beh con
qualcuno dovrò pur arrabbiarmi, ti pare?”
Charlotte
ridacchiò. Ecco il suo Rob. Sempre pronto a dar libero sfogo
al primo pensiero che gli passava per la testa, non era per nulla
cambiato.
“Sto bene.
Non è… niente” cercò di
suonare rassicurante. “Adesso
sto bene”.
Restarono abbracciati
nel mezzo della cucina, senza nemmeno accorgersi della scomparsa di
Marie Anne al piano di sopra, e con il solo rumore
dell’orologio a scandire il tempo.
Erano tornati nel
loro mondo, nella loro bolla felice, ma… con una
consapevolezza diversa.
Era come quando ci si
rende conto di percorrere la stessa strada fatta in precedenza, per
correggere l’errore, ma con una mente diversa, con una prospettiva
diversa. Conoscere i limiti e saperli definire, vederli e sapere che
oltre c’è dell’altro che non andava
ignorato.
Mentre la teneva
stretta, Robert realizzò definitivamente che quella era
l’ultima volta che l’avrebbe vista prima di partire
per l’oltre mare, o almeno… l’ultima
volta prima di chissà quando.
E Charlotte comprese
che il tempo delle favole era finito. Lo aveva capito vedendo lui in
partenza e da quel piccolo e spiacevole episodio avvenuto quella sera.
Pensò che il proprio ritorno nel mondo avrebbe potuto essere
meno brutale e più incoraggiante, nemmeno qualcuno
l’avesse progettato a tavolino, ma del resto chiedere troppo
e ottenere il doppio era una cosa che suonava inutile e per i
sognatori.
Sospirò e
deglutì aprendo gli occhi.
“Scusa”
disse.
Robert
sgranò gli occhi e smise di respirare per un paio di
secondi. “Come?”
Lei lo
ripeté. “Scusa”.
“Cosa
scusa? Perché scusa? Mica l’hai fatto apposta a
farti centrare dal tiro a segno” le rispose guardandola in
faccia con aria di rimprovero.
“No. Scusa
per… essere stata… difficile” ammise
con fatica. Le costava immensamente, ma andava fatto. “Scusa
per averti provocato. È colpa mia”.
La tristezza scese di
colpo sul viso del ragazzo, spegnendo i suoi bei occhi accesi.
“Sono io a chiedere scusa. Non avrei comunque dovuto alzare
le mani”.
“Lo
schiaffo è partito da me”.
“È
diverso” scosse la testa lui. “Non dovevo toccarti
a prescindere”.
“Non avrei
dovuto alzare la voce… ed impuntarmi. Sono sempre
così… così” cercò
di spiegarsi, mentre si torceva le mani sul petto di lui.
“Ah! Così idiota. Avevo paura che mi volessi
per…”
Robert
aspettò che finisse, ma non finì.
“Per… che cosa?”
“Per
pietà” alzò gli occhi lei, feriti.
“Avevo paura che volessi portarmi con te solo
perché sono una stupida… emarginata e…
orfana.
Si” disse reprimendo un groppo alla gola.
Il ragazzo la
guardò come avesse avuto davanti un alieno.
“Q-questa è la stronzata più grande che
tu abbia mai detto, da quando sei nata, lo sai vero? C-come…
come ti viene in mente di - ”
“Era paura,
Rob! Soltanto paura, che anche seguendoti ti avrei perso lo stesso.
Saresti andato oltre una soglia che io non sono ancora in grado di
superare” scosse la testa con vigore. “Era solo
questo”.
“Ti pare
che io sia più forte di te? Lo pensi sul
serio…” disse sconsolato e per nulla convinto lui.
Al momento era tutto meno che forte. Preparato forse, ma non forte.
“Sei quello
che parte. Io resto in casa” annuì lei.
Lui chiuse gli occhi
ed inspirò per reprimere la risposta avventata.
“D’accordo, vabene, ok, non è
importante. Non è importante” sbottò
tornando a stringerla a se e posandole il mento sulla testa.
“Non è importante”.
Ma dal basso, giunse
la richiesta, “Ma mi perdoni allora?”
Riaprì gli
occhi azzurri e fissò un punto oltre loro. “Tu
riusciresti a perdonarmi lo schiaffo?”
Charlotte
rabbrividì e rispose dopo un po’. “Penso
di si”, ma entrambi sapevano che ne uno, ne l’altra
l’avrebbero mai dimenticato. Come un vaso che si crepa,
mantiene la sua bellezza, ma è più fragile ed
esposto ai colpi ferrei. “Ma tu mi perdoni si o no?”
E Robert
ridacchiò baciandole i capelli, “Sei una
scema”.
Erano quasi le cinque
e l’alba cominciava a fare capolino fra la nebbia che si
levava ovunque.
Era un po’
tardi per mettersi a dormire ed era troppo presto per rimettersi a
correre per i mille impegni imminenti della giornata. Rob
scoccò un’occhiata all’orologio a muro.
“Sono le
cinque”.
La ragazza si
corrucciò. “Ed è il
ventisei…”
E lui sarebbe
partito. Nel primo pomeriggio, volo prenotato, in compagnia di Sarah,
due valigie e la chitarra chiusa nella sua custodia di pelle nera
consunta. Ritorno a data ignota.
“Forse
è meglio che vada…” mormorò
lui, pur non scollando le braccia dalla sua posizione. Gli facevano
male, e le gambe tremavano per lo sforzo, ma lo ignorava.
“No!”
scattò come una molla Charlotte. “O
meglio… se vuoi”.
Lui
corrugò la fronte.
“Puoi
restare a dormire” spiegò timidamente lei,
abbassando lo sguardo.
“Uhmm. Beh
qualche ora di sonno effettivamente non mi farebbe schifo. Ma camera
tua è troppo lontana, e le scale sono infinite. Prenoto il
divano”.
“Già,
perché di solito dove dormi?” rise la mora,
tirandolo ora verso il soggiorno.
Arrivati nella
stanza, Robert si lanciò di peso sui cuscini e assunse
un’espressione sfinita, da povero lavoratore sfruttato;
scalciò le scarpe attraverso la stanza, senza preoccuparsi
di dove fossero andate a finire; sfilò giacca e felpa e si
nascose sotto la sua coperta blu, conquistata dopo dure lotte
all’ultimo ciuffo di capelli molti anni prima, per poi far
sbucare il naso e allungare una mano in direzione della giovane.
Charlotte
alzò gli occhi al cielo con uno sbuffo, cercando inutilmente
le scarpe che aveva appena visto schizzare come due missili e sparire
chissà dove; si levò le ballerine, appoggiandole
ai piedi del tavolino, e raggiunse il ragazzo sotto la coperta. Robert
in compenso, le cedette buona parte dei cuscini e la aiutò e
poggiare il capo lasciando le ferite libere da impicci, e
controllandogliele ogni secondo che passava con aria critica. Spensero
la luce sul mobile accanto al divano e il buio inghiottì la
stanza.
“Ahia…”
“Che
vuoi?”
“Quello era
il mio piede” ringhiò Charlotte.
“Ehmbè?
Colpa tua che l’hai messo sotto il mio. Spostalo”.
“Il divano
è il mio”.
“Nemmeno
per sogno”.
Un tonfo e una pacca
risuonarono, seguito da un gemito.
“Oddio, ho
una costola in meno!” strillò Robert.
“E io un
timpano in meno, demente, voltati quando strilli!”
Un altro tonfo e un
rumore di stoffa strappata.
“Ahia il
collo” gemette seriamente la ragazza.
Ma lui non parve
sentirla. “Hai… strappato…
la… mia
coperta?”
Silenzio.
“Robert auto
controllo… Robert autocontrollo…”
cominciò a ripetersi lui, con le dita che premevano la
radice del naso. “Ti odio e sei una pazza”.
“Sono
ferita, lasciami in pace!”
Il ragazzo
inspirò e si promise di mantenersi calmo. “Ti ho
appena chiesto scusa. Sono una brava persona, ignorerò
quello che hai fatto”.
“Ma tu
guarda!”
“Zitta.
Dormi”.
“Brutto -
”
“Dormi!”
Continuarono a
litigare per i seguenti cinque minuti, tirandosi i capelli e dandosi
pizzicotti e calci, nonostante Robert cercasse di sfiorarle le ferite
il meno possibile, e non smisero fin quando Charlotte crollò
addormentata sul suo petto, e lui decise che era troppo stanco per
restare sveglio a guardarla, anche se l’avrebbe voluto.
Reclinando il capo su quello di lei, sorrise e si addormentò.
***
Gente. Caos. Il
rumore delle rotelle dei trolley trascinati sul pavimento lucido. I
passi di gente in corsa. Gli spintoni di chi era di fretta. Il cercare
i passaporti nelle borse colme di oggetti. I pannelli luminosi con
destinazioni, partenze e arrivi. Gli altoparlanti che riempivano
l’aria con la loro voce gracchiante.
Poco distante dal
check-in, appoggiato ad una colonna con un giornale in mano, Richard
sfogliava distrattamente le ultime notizie, il viso stanco e
l’espressione triste. Il grande giorno era arrivato. E doveva
ammetterlo, nelle ultime ventiquattro ore le cose erano cambiate ancora
una volta, ma tutto sommato doveva dirsi abbastanza soddisfatto.
Girò
l’ennesima pagina con non curanza, e Tom fece capolino da
sopra la sua spalla.
“Morti,
sparatorie, massacri e tragedie varie?” chiese annoiato.
“La dose
quotidiana da tutto il mondo. Vuoi che ti legga qualcosa,
caro?”
“Nah
grazie. Sono facilmente impressionabile” scosse il capo con
vigore. “Bobby dov’è?”
“Sua madre
lo sta rimpinzando di merendine da nascondere nello zaino”
rispose sempre non curante Richard, sfogliando il giornale.
“Oh. Credo
che non lo salverò, Clare oggi fa paura. La bimba
dov’è?”
Richard allora
alzò lo sguardo e fissò un punto vicino a loro,
oltre una panchina. “Là”.
La ragazza sedava a
gambe incrociate su una delle panchine metalliche sistemate nella
grande sala d’attesa, lo sguardo rivolto ai grandi finestroni
che davano sulle piste dove gli aerei si stagliavano con immensi
gabbiani candidi.
Piangeva, e non si
premurava di nasconderlo. Si disse che le cose per lei erano
così cambiate nell’arco di poco, che una lacrima
in più non sarebbe risultata strana agli occhi degli altri.
E d’altro canto, non sapeva come impedirselo. Di piangere.
Fissava con aria
malinconica i passeggeri che si avviavano ai grandi veicoli alati e
immaginava di vederli sparire oltre le nuvole, destinati
chissà dove. Immaginava i loro discorsi durante il viaggio
per scacciare la noia. Immaginava il cielo che avrebbero visto, se
fossero riusciti a vedere l’alba o il tramonto, una volta
arrivati. Immaginava il loro atterraggio e chi li avrebbe aspettati.
Una mano le si
posò sulla spalla e sobbalzò. Alzò il
capo sopra di lei e Tom le sorrise.
“Che
fai?”
“Guardo”.
“Che
cosa?”
“Gli
aerei”.
Il ragazzo la
guardò come se fosse stupida, ma poi sorrise di nuovo.
“Ti compro un modellino se vuoi”.
Charlotte chiuse gli
occhi e gli tirò un pugno sulla spalla.
“Come va la
tua fronte?” chiese poco dopo lei.
“Brucia un
po’ e i punti tirano. Ma niente che non possa sopportare. La
tua?”
“Brucia…
e i punti tirano un po’, ma è
sopportabile” disse facendogli il verso. “Il collo
fa più male” aggiunse sfiorandosi il cerotto.
“Passerà”
le rispose tranquillo il ragazzo. E lei annuì.
Dall’altra
parte del salone, la figura ciondolante ed assonnata di Robert si fece
strada fra la folla, accompagnato dalla madre con le mani cariche di
merendine e lo sguardo paonazzo.
Al vederli Richard si
nascose ancora di più dietro il giornale, mentre Tom
ridacchiò e Charlotte si ammutolì.
Il neo attore
raggiunse l’amico e gli mimò con le labbra la
parola “aiuto”, con un cenno rivolto alla madre.
Tom
sbuffò. “Buone le merendine, avrete reso felice il
negoziante, almeno”.
“Oh zitto,
Tom. Deve pur mangiare qualcosa in aereo, non può morire di
fame” lo rimbeccò Clare.
“Mamma”
gemette Robert con l’aria di chi ha affrontato la questione
una trentina di volte. “Ci danno la colazione, il pranzo e
forse anche la cena, a bordo… Non morirò di fame”.
“Sciocchezze.
Non si sa mai quello che ti danno” gli sventolò la
mano sotto il naso lei. “Dov’è tuo
padre?”
“In
incognito dietro il giornale, laggiù” lo
additò sadico Tom. Clare seguì
l’indicazione e sparì con le merendine ancora in
braccio.
Robert riprese a
respirare nel vedere la madre sparire e si spalmò sulla
panchina, lasciandosi andare contro la spalla di Charlotte.
“Uffa”.
“È
il suo modo di dimostrarti che ti vuole bene, Bobby. Sii
comprensivo” lo bacchettò Tom.
“Sono tre ore che la
ascolto strillare che non ho preso abbastanza calzini e camicie di
ricambio, e un’ora
che sto rinchiuso dentro quell’inutile negozio di maledette
merendine alla pesca, tanto che sono diventato allergico alle pesche!
Direi che sono un pochino più del comprensivo”
ringhiò strozzato lui.
“Sei un
po’… teso…”
osservò Tom.
E Robert fece per
tirargli un calcio, ma Charlotte gli passò un braccio
attorno alle spalle e gli intimò di starsene buono e a
cuccia.
Restarono a
ciondolare nel salone per un’interminabile ora, Robert con le
gambe allungate sulla panchina e la testa contro la spalla di
Charlotte, lei con i piedi appoggiati alla panchina di fronte e Tom che
le slacciava e riallacciava le stringhe delle All Stars.
Non chiacchieravano
molto, a parte il chiedere che ore fossero e se i signori Pattinson
fossero ancora presi a litigare per un qualche ignoto motivo. Non
c’era molto da dire, e se ci fosse stato non sarebbero state
parole allegre. Addii… saluti… abbracci e
sventolare di mani.
Si erano
già detti tutto e niente, quella stessa mattina,
ritrovandosi con le occhiaie più brutte che il mondo avesse
mai visto, e gli occhi più stanchi della storia. Si erano
guardati e si erano detti buongiorno. Ma era un buongiorno diverso.
Era un buongiorno che
sapeva di perdita
per Charlotte. Una coltellata a pieno petto, che incideva e tagliava
sino allo stomaco, togliendole la voglia di scherzare per smorzare la
tensione. Un buco che si allargava come una voragine, mentre lei
pregava per non caderci dentro e sparirvi definitivamente.
Era un buongiorno a tinte spente per
Robert. Come se di colpo tutte le luci del mondo si fossero spente, ad
eccezione di una, che gli illuminava il cammino davanti a se, e gli
rammentava quello che andava fatto. Dolore e sconfitta, per
ciò che aveva imparato a capire ed amare, e che troppo
presto era costretto a lasciare.
Ed era un buongiorno sordo per Tom.
Appena sveglio aveva rinunciato alla solita musica che gli dava la
carica, preferendo la radio spenta ed anonima. Non voleva parole
estranee nella sua testa, non ora che a fatica riusciva a contenervi le
proprie, perché sapeva, che al momento di vedere scomparire
l’amico al di là delle porte scorrevoli, avrebbe
dovuto fargli forza con qualche frase di circostanza… e lui
non aveva la più pallida idea di cosa dirgli.
L’aria si
spezzò e la voce gracchiante dell’altoparlante
annunciò il volo.
Tutti e tre i ragazzi
smisero di respirare.
Gli occhi di Tom
scattarono su Robert. Quelli di Robert scattarono sul riflesso di
Charlotte nella grande vetrata di fronte a lui. E quelli di Charlotte
volarono al tabellone delle partenze.
Bene. La giostra
aveva ripreso a girare e ora si andava in carrozza.
Tom si
passò le mani fra i capelli e sospirò rassegnato.
“Rooob!
Robert!”. Clare arrivò correndo, con Richard
dietro. “Rob, il volo. Forza, alzati!”
Il figlio le
gettò un’occhiata contrariata e con lentezza si
alzò dalla panchina e raccolse lo zaino.
“Sbrigati”
riprese la madre.
“Clare,
l’aereo non scapperà nell’arco di cinque
minuti. Lascialo respirare” le mise una mano sulla spalla il
marito. “Tu però, ragazzo, non diventare
paralitico proprio ora. Coraggio”.
Il gruppetto si
trascinò a passo rallentato sino alla barriera del check-in,
dove una piccola coda già attendeva il proprio turno. Robert
la guardò con una smorfia, poi si voltò e rimase
in silenzio.
Non abbracciatemi tutti assieme,
avrebbe voluto dire, nel vedere che nessuno si faceva avanti per
salutarlo, ma in fondo poteva capirlo. Il primo che l’avrebbe
fatto avrebbe segnato a fuoco l’evidenza della partenza.
Tuttavia fu Clare a
rompere l’incanto, singhiozzando e gettandosi fra le braccia
del figlio, stringendolo convulsamente.
“Mi
raccomando! Mi raccomando sta attento e comportati bene” lo
puntò con un dito.
“Si
mamma”.
“Incontrerai
un sacco di persone, non fidarti di tutti. Pensa prima di parlare, hai
capito?”
“Si
mamma”.
“E non
cacciarti subito nel primo bar che trovi, per cortesia, non bruciare
quel briciolo di educazione che ti ho dato!”
“Si
mamma” annuì sfinito lui, abbassando il capo.
Clare lo
abbracciò di nuovo e gli disse che gli voleva bene.
A lei si
sostituì Richard, con gli occhi lucidi, che strinse
silenzioso il figlio, prima di dargli un buffetto sulla guancia con il
monito di limitarsi alla decenza, il resto bastava che lo facesse con
la miglior discrezione possibile.
“Lui
è discreto. Ha imparato da me” commentò
Tommy, sorpassando Richard. Si portò davanti
all’amico e gli sorrise. Si guardarono per qualche minuto,
senza dire nulla, entrambi con le lacrime agli occhi e la gola che
premeva per il pianto. Infine, tirando su col naso, Tom
scrollò le spalle e abbracciò di slancio
l’amico, “Stammi bene, Bobby”.
Robert lo strinse e
serrò gli occhi. “Rispondi al telefono o sei un
uomo morto, Sturridge”.
“Ti
manderò una tabella con i miei orari di
reperibilità” scherzò il ragazzo,
“Tu cerca di non fare l’idiota. O mi
toccherà venire a salvarti”.
“Tanto
prima o dopo vieni, no?” fu la domanda, quasi una preghiera.
“Prenota
già la stanza”.
Sciolsero
l’abbraccio e si batterono le mani sulle spalle, con una
breve risata di tensione.
E poi Tom
lasciò il posto a lei.
Robert la
guardò. Era più minuta di quanto avesse mai
notato e ora la trovava così piccola e fragile, sotto la
felpa blu che le aveva lasciato. Aveva i capelli spettinati e gli occhi
stanchi. Le sopracciglia aggrottate e il mento che tremava. E il
ragazzo pensò che fosse perfetta.
Inclinò la
testa di lato e lei gli si avvicinò. Gli altri tre, come
coordinati, si fecero da parte, lasciandoli soli quanto bastava.
“Come va il
collo?”
“Meglio”
mentì lei. “La costola?”
“Sopravviverò
anche senza”.
Charlotte rise e si
passò una mano sugli occhi. Dio, perché stava
succedendo? Voleva mettersi a gridare, a minacciare che ci fosse una
bomba sull’aereo o qualche altra stupida idiozia pur di
inchiodare il ragazzo al pavimento. Ma ovviamente non c’era
nulla da fare.
Alzò lo
sguardo e incontrò quello devastato azzurro mare, e
sentì il cuore cederle.
“C-cerca
di… essere il meno possibile te stesso” disse,
“O sarà la fine di tutti”.
“Come
incoraggiarmi con parole di conforto. Tom è un mago in
confronto”.
“Sono solo
previdente”.
“Sei
bisbetica, è diverso”.
Lei cacciò
la lingua e scosse la testa abbassandola.
Robert sentiva il
petto dilaniarlo dal dolore che sembrava scoppiare da dentro e stava
per dire qualcosa, ma una voce al di là del check-in lo
interruppe, facendolo arrabbiare.
“Robert! Muoviti!”.
Sarah sventolava la mano e lo richiamava all’ordine, ma
scomparve ancor prima che lui potesse lanciarle dietro lo zaino con
tutte le merendine alla pesca.
Tornò con
l’attenzione sulla ragazza e vide che si torturava le mani
con ansia. Non voleva vederla così, non ce la faceva. Si
avvicinò di un passo.
“Beh. Il
capo chiama, non voglio commettere atti impropri”
commentò contrariata Charlotte.
Era il momento.
Arrivi ad un punto in cui tirare la corda non serve più, in
cui puoi anche metterti a pregare ogni santo e oracolo possibile, ma le
cose hanno preso la loro piega e puoi solo restare a guardare. Una
consapevolezza che faceva male come sale su una ferita aperta, ma che
Charlotte sapeva sarebbe diventata la sua regola di vita. Avrebbe
imparato a convivere con parte dei propri pensieri al di là
dell’oceano, a parlare senza avere timore di sbagliare e
senza l’appoggio di qualcuno dietro, a mostrarsi di nuovo al
mondo senza l’ombra di un protettore che le ripeteva che, si,
lui c’era.
Avrebbe imparato a
considerarlo un uomo adulto, capace di discernere e di agire secondo le
proprie scelte e conseguenze. Avrebbe imparato a vederlo come un
oggetto conteso fra le mille creature sulla faccia della terra, lei
unica capace di capirlo fino in fondo. Ed avrebbe imparato che
c’era posto per entrambi, divisi e separati, senza che
fossero un unico cuore.
Alzò lo
sguardo cioccolato sul ragazzo e con il sorriso più sincero
disse “Buon viaggio, Rob”.
E al vederla
così sicura di se, una luce che arrivava di riflesso da
lontano e di cui non sapeva spiegarsi la provenienza, vederla
così diversa anche se per pochi istanti, Robert
mollò lo zaino a terra e la tirò a se.
“Sei una
stupida. Una stupida” le soffiò
all’orecchio. Piangeva.
“Grazie”.
“Ti avevo
detto di venire, perché hai pensato che ti volessi solo per
un capriccio?” pianse, stringendole la felpa. “Sei
una stupida”.
Lei
deglutì, con il viso ormai fradicio di lacrime.
“È il tuo percorso, non il mio”.
“Che
risposta del cavolo”.
“Andrà
tutto bene, Rob. Andrà tutto…” ma la
voce le si spezzò.
Robert la
sollevò e la prese in braccio, “Ti odio”.
“Non
è vero” sorrise, cacciando il viso nella spalla di
lui.
“Ascolta
Tom. Fosse che ha capito che può usare anche il cervello, a
volte. Capito?”
“Tu non
bere”.
La scostò
di poco e la guardò dritta in volto. “È
di te che mi preoccupo! Maledizione… s-smettila di isolarti,
per favore. Ho… paura. Smettila di nasconderti, ti
prego”.
Piangeva senza
preoccuparsene, lasciando che i grandi occhi azzurro mare diventassero
liquidi e profondi, tanto da perdersi.
Poteva forse
rispondergli di no? Con il respiro rotto dai singhiozzi, lei
annuì e abbozzò ad un sorriso.
Robert la strinse a
se ancora un attimo, inspirando a pieni polmoni il suo profumo di
pulito, imprimendosi a forza nella memoria ogni singolo attimo
trascorso, ogni singola parola detta o urlata, ogni singolo gesto
compiuto, per rabbia o affetto. Registrò nella mente il
suono della sua voce, quando strillava, quando cantava, quando rideva,
quando sussurrava e quando piangeva. “Ti voglio
bene”, disse, pur sapendo quanto minime e inferiori fossero
quelle tre parole al confronto di quello che davvero provava.
La lasciò
scivolare di nuovo in piedi; poi, prendendole il viso fra le mani,
posò le labbra sulla sua fronte, premendo con forza e
avidità, e, senza guardarla più in viso, si
allontanò, raccolse lo zaino e andò a completare
la coda. Fece il check-in e, a spalle curve, sparì al di
là delle porte scorrevoli.
----------
Spazio
sproloqui
Et voilat!
Eh eh…
allora? Che mi dite? State piangendo? Io si. Che ci crediate o no, ho
pianto (un pochino eh…) mentre scrivevo
dall’abbraccio di Tom in giù, e "Your Call" dei
Secondhand Serenade di certo NON
aiuta... no... T_T
È stato un
capitolo stranamente facile da scrivere. Forse perché erano
già diversi capitoli che volevo scrivere un qualcosa del
genere, cioè carico di emozioni e fatti per i nostri due
eroi… o forse perché in questi giorni ho un
disperato bisogno di affetto che penso mi mangerei sacchetti di
zucchero e caramelle gommose fino a diventare l’omino
michelin >_>
Comunque, da questo
capitolo in poi le cose si fanno più difficili
perché in parte voglio recuperare un po’ il tempo
perduto, siamo indietro: siamo a Twilight, vi rendete conto?
O.° *brava carlotta, genio…*
Perciò alcuni capitoli è possibile che avranno
degli scorci temporali più veloci, magari frammenti o altro,
giusto per arrivare, se non pari, almeno al periodo di
Eclipse… Ci saranno episodi importanti fra New Moon,
Remember Me e blablabla, ma vedrò di conciliare il tutto,
anche perché… wow… ora posso usare
più personaggi, siiiiiiiiiiiiii!!! *.* E chissà
che non mi arrivi anche qualcuno di interessante, eh? *mente malefica,
sa già cosa fare…*
Passando
ai ringraziamenti:
_Miss_ : cara,
figurati, è stato un piacere… e mi sembrava
giusto farlo ;D Si. Lo so, penso che almeno i tre quarti dei lettori si
aspettassero Bobby seduto sul divano, era abbastanza matematico, dai!
Ma io… sono cattiva, ahah, e non faccio mai le cose come
dovrei XD
Tom francamente lo
adoro. Cioè continuo a notare l’odio nei suoi
confronti, ma oh: ma che vi ha fatto poverino? Come si può
non amarlo? Tra lui e Nia poi, c’è da mettersi le
mani nei capelli, ma sorvoliamo…
Mi spiace se hai
aspettato un po’, ma qui la connessione mi sa che mi arriva
dalla Groenlandia T_T Spero di essermi fatta perdonare però,
anche se è un po’ triste. Ti ringrazio comunque,
sei dolcissima e gentilissima, sempre sempre, e… dammi tempo
di tornare a casa e poi ci arrangiamo coi contatti, eh? Bacio cara *.^
Bene. Un mega grazie
anche a chi legge in silenzio e a quelli che l’hanno aggiunta
a preferiti e seguite.
Al prossimo chap!
Baciooo ;*
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** 11. un freno alle parole ***
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 11° capitolo –
Un freno alle parole
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
Ed ecco il nuovo chap con Bobby oltre marrrr!! :D Porello, mi fa un
po’ pena, ma è giusto che il ragazzo si faccia le
ossa. E chissà che combina invece la pazza a
casa…
Ci vediamo sotto, come
sempre ;)
11
“Un
freno alle parole”
Dicono che
più ti ripeti una cosa, più mormori le parole che
compongono un’idea, più ti incidi nella mente che
doveva andare in una determinata maniera, hai buone
probabilità di crederci, di convincerti che si, forse era
l’unica via.
Dicono che per quanto
tu possa sperare ad occhi chiusi, con un pugno stretto attorno
all’eterno desiderio, i miracoli non crollino dal cielo come
caramelle senza che tu non lo voglia davvero. Devi giocare la tua
parte, devi sussurrare al destino che c’è almeno
un motivo valido per cui una certa cosa debba accadere o
meno…
Ma dicono anche che,
alle volte, il destino è sordo. O ci sente benissimo, a
seconda dei casi. Solo che cammina su una strada parallela alla nostra
e vede il mondo sotto una prospettiva diversa da come la contempliamo
noi. E il problema sta proprio lì. Che anche pregando,
implorando e sperando, la maggior parte delle volte non capiamo. E ci
feriamo.
E ci sono diversi
tipi di ferite. Da arma da fuoco. Da sbadataggine casalinga. Da
colluttazione fra bulletti di scuola. Da pollice verde schizzato. Da
cuoco amante dei fornelli. Da lavoratore infaticabile…
Ciascuna con la propria storia e con il proprio rimedio. Tutte tranne
una. La ferita all’animo. Perché per quante vite
si possano attraversare, per quante volte si possa apprendere cosa
è giusto e cosa è sbagliato, non è mai
abbastanza per quell’ennesima che ti lascia in ginocchio come
se fosse la prima. Un ciclo che si ripete, un storia vecchia come il
mondo e odiata dai tre quarti di esso, ma che non cambierà
mai.
E anche quella volta,
non sarebbe cambiata per Robert. Non sarebbe cambiata per Tom. E non
sarebbe cambiata per Charlotte.
Legati a tre fili,
uniti in un unico nodo, ma sparpagliati su differenti piani con una
luce individuale a schiarire l’orizzonte.
Naturale.
L’illusione che le cose sarebbero andate come sperato, come
un giuramento che si fa da bambini, “amicizia per sempre,
sino alla morte”, nemmeno fosse un sigillo in
grado di fermare l’aldilà, era un credo che si
portava dentro il petto come un amuleto. Era lì. Lo vedevi.
Lo sentivi e lo adoravi. Ma sapevi che per quanto invogliassi il
riflesso a darti ragione e sollievo, era soltanto un modo per scacciare
l’evidenza e la coerenza. Che le cose cambiavano.
Cambiavano sempre.
Una girandola colorata che si spostava, che girava e sobbalzava ai
colpi di un vento che non sarebbe mai stato uguale, che non avrebbe mai
rispettato le regole, perché regole non ve
n’erano, che non avrebbe mai ascoltato nessuna lamentela per
sorda e muta che fosse, che non si sarebbe mai fermata, ne per se
stessa ne per il mondo intero…
Abbattersi, forse,
era l’unica via d’uscita. O probabilmente, imporsi
e giocare a proprio favore i colori della vita era l’unica
alternativa. “La vita non è tutte rose e
fiori”: i colori restavano, ma avevano le spine, e dipendeva
solo dal modo di raccogliere il fiore, dall’ignorare il
dolore ed imparare di conseguenza ad evitarlo o ad essere
più forte.
Erano passate due
settimane dal ventisei Dicembre.
Le immagini
registrate nella memoria scorrevano ancora come un film interrotto.
Robert che
raccoglieva lo zaino. Robert che baciava Charlotte sulla fronte. Robert
che schivava la gente al check-in. Robert che chiudeva gli occhi ed
oltrepassava le porte scorrevoli. Robert che spariva fra le nuvole.
Due settimane e
sembrava ancora il primo giorno. Due settimane e Charlotte sentiva
ancora il profumo del ragazzo sulla propria pelle. Due settimane e
l’eco del “ti voglio bene” sussurrato
risuonava senza sosta come campane alla fine del mondo.
Avesse voluto
mentire, avrebbe detto che stava assimilando la cosa e se ne stava
facendo una ragione, che non era così terribile come si
aspettava, sarebbe tornato indietro prima o dopo. E a voler essere
sinceri, invece, doveva ammettere che non aveva dormito per quattro
giorni di fila.
Si svegliava nel
cuore della notte con il fiato corto e gli occhi sbarrati con la
convinzione di sentirlo chiamare al piano di sotto, o di sentirlo
suonare nella veranda sul retro, lui e la sua stupida chitarra.
Lo vedeva muoversi
negli specchi del corridoio, dell’armadio e del bagno, per
poi voltarsi su se stessa di scatto nella muta speranza che fosse
già tornato, in un improvviso cambio di programma, quando
invece era l’abitudine a farle immaginare le sue espressioni
e cenni del capo.
Si aspettava di
trovare il solito disordine, scarpe e calzini sparsi come relitti per i
pavimenti delle stanze; il dentifricio schizzato sul lavandino e sullo
specchio; le magliette mescolate alle proprie; la scatola del latte
puntualmente dimenticata sul tavolo della cucina, assieme al barattolo
del caffè; i fogli degli spartiti seminati come coriandoli
in ogni angolo possibile… E invece l’ordine
regnava – nei limiti del possibile – il bagno
restava pulito, così come i pavimenti e il tavolo della
cucina; i vestiti erano piegati e ordinati nei ripiani e negli angoli
v’era il nulla se non la polvere.
Segni. Evidenza.
Lui non c’era. Non era tornato. E sarebbe stato
così per un pezzo.
Oh. Lui aveva
mantenuto la promessa. Una volta atterrato, appena passata la dogana e
i controlli di routine, non aveva nemmeno ripreso a respirare, che
già armeggiava con il cellulare e componeva il numero di
casa Sullivan e contava i secondi che passavano prima di sentire un
boato scoppiare dall’altra parte della cornetta.
“PRONTO!”
“Sono io! Sono
arrivato!” aveva sorriso, pur sapendo che non
l’avrebbe visto.
“Oddio,
sei tu! Stai bene? C-com’è andato il volo? Cosa
fai or – RIDAMMI IL TELEFONO!”
E Robert aveva storto
la bocca interrogativo.
“Dammi
qua! … pronto? Hei Bobby! Allora com’era il volo?
Le hostess ti hanno trattato a dovere? Non devo lavare
nessun’onore? Lo faccio volentieri se occorre!”
“Tempismo
perfetto Tom, meno di ventiquattrore e già mi rimpinzi delle
tue perle: casa non mi manca per niente” aveva riso il
ragazzo, con il cuore colmo di gioia.
Non sei era nemmeno
chiesto cosa ci facesse l’amico a casa di Charlotte, anche se
aveva una mezza idea: la regola del “non lasciarla
sola” vigeva, almeno per i primi giorni, e malgrado la
gelosia, doveva ammettere che gliene era grato.
Erano rimasti al
telefono per mezz’ora, con Robert che rideva come un
disperato, i piedi in America, e Charlotte e Tom che si strattonavano
la cornetta a vicenda, seduti sul divano con il cielo di Londra fuori
della finestra.
Non si badava a
spese, per così dire, nonostante il sopracciglio di Marie
Anne si incurvasse un po’ troppo mentre adocchiava i minuti
scorrere, e quelle telefonate si ripetevano di continuo, come se il
ragazzo fosse sempre stato lì e la sua immagine oltre oceano
fosse solo un dipinto.
Raccontava della
piccola camera d’albergo che gli avevano dato per le prime
due notti, senza intrattenitrice aggiuntiva come aveva dovuto chiarire
a Tom, ed immaginando l’espressione disgustata di Charlotte;
aveva descritto poi la roulotte, piccola ma confortevole, poco distante
dal set vero e proprio… e, naturalmente, aveva parlato di
tutto il resto: della regista, una bomba esplosiva intrappolata in un
corpo da donna adulta; di alcuni co-protagonisti già
incontrati e che, a sentirlo, non sembravano così male; del
trucco che gli avevano dovuto sperimentare sulla faccia, nemmeno fosse
stato una lavagnetta cancellabile e riscrivibile; insomma,
un’altra vita, che sapeva di nuovo, di diverso… di
lontano.
“Eh dimmi,
lei l’hai vista? Com’è?” aveva
chiesto Tom, all’ora di pranzo mentre si ingozzava di
patatine fritte in cucina, Charlotte alla sua destra che giocava con il
tubetto della maionese. “Hai già fatto
conoscenza?”
“Lei chi?”
si era sentito dall’altra parte.
“Lei. La
tua Bella… Isabella… o come diavolo si
chiama”.
E un’ombra
scura era passata sul volto di Charlotte. Un’ombra veloce e
sfuggevole, ma che Tommy era riuscito lo stesso a cogliere e a
chiedersene il perché.
“Oh.
Oh… Kristen”
rispose Robert, “Certo.
È un po’ che la vedo, sai? Oggi abbiamo fatto la
prova costumi: caspita è minuscola, e ha un’aria
così… così…”
“Sexy?”
E di colpo, Charlotte
schiacciò un po’ troppo forte il tubetto, e il
tappo salto via attraverso la cucina.
“Stavo
per dire introversa. È difficile parlarle. Non sembra una
molto socievole… o forse lo è, ma non le sto
simpatico”.
“Questione
di punti di vista” lo aveva rassicurato Tom.
“È
strana. Diversa da come me l’aspettavo”.
“Chiedigli
com’è il tempo” si era allora intromessa
la ragazza mora, fissando con aria contrariata il punto
dov’era scomparso il tappo.
Tom l’aveva
guardata per un istante con aria confusa, poi aveva ripetuto la domanda
all’amico.
“Il
tempo? Uhmm… piove. E fa freddo.
Perché?”
“Niente.
Qualcuno sta sviluppando un interesse per le previsioni meteorologiche
in maniera ingiustificata”.
“Non
è vero”.
“Chi?”
“Nessuno”
aveva bofonchiato Tom, schivando uno scappellotto sul collo.
“Piantala!”
“Charlotte
è lì?”
“Sono
seduto sulla tua sedia in cucina, in casa sua, si”.
“Leva
le chiappe e passamela”.
Erano svariati gli
argomenti, a seconda della giornata, così come lo era la
voce del ragazzo. Una volta era stanco, una volta era entusiasta,
l’altra era elettrizzato o confuso, ma più
passavano i giorni, e più si poteva notare la sicurezza che
prendeva tono e la curiosità che risuonava nelle sue
riflessioni. Era un mondo diverso, e facilmente lo si poteva immaginare
con la sua espressione da dolce irresponsabile con il sorriso stampato
sul viso e la risata pronta, la maschera che calava sempre, come una
cortina su un palcoscenico, ma che faceva sempre centro,
perché disarmava… perché metteva nella
posizione di unirsi alla sua allegria.
E passate quelle due
settimane, ne era seguita una terza in cui le chiamate erano diminuite.
La giustificazione? Intense riunioni di gruppo e lunghe discussioni con
la scrittrice riguardo ogni singolo personaggio; Robert era il
protagonista, e le sue ore d’aria erano ridotte
drasticamente, cancellate da colloqui e interazioni con regista,
autrice e sceneggiatrice. Per non parlare del legame che il ragazzo
aveva dovuto avviare con la tanto nominata Kristen, o Isabella che dir
si voglia, che a detta sia di Robert che di Tom, era
un’attrice a dir poco straordinaria per la sua giovane
età…
A poco erano servite
le minacce silenziose e i lunghi sguardi assassini rivolti a Tom quando
si lasciava andare in commenti e consigli poco ortodossi circa un
“sii te stesso amico, lascia andare il Robert che
è in te” con un aggiunta più seria di
“Beh… vedi il lato positivo: se andate
d’accordo, la sopporterai fino alla fine, se è
bisbetica rimpiangerai il giorno in cui hai accettato di firmare il
contratto, vecchio mio”.
Non che Charlotte
avesse qualcosa da ridire al riguardo, o meglio… non
necessariamente: comprendeva la difficoltà di intesa, non
sempre fra persone mai viste prima e con cui si è forzati a
lavorare a lungo scattava la scintilla, ritrovandosi poi a bighellonare
per il set come amici di prima asilo. Ma era anche vero che le
pressioni di Tom e i risolini isterici di Robert dall’altra
parte della cornetta, erano di un livello a dir poco insopportabile.
Trovò una sola spiegazione al riguardo: che gli uomini erano
tutti maledettamente uguali. Cameratismo e tanta sfacciataggine.
Giunsero di quel
ritmo sino alla fine del mese, quando Charlotte aspettava per
l’appunto una nuova chiamata, mentre era sdraiata sul letto,
intenta a sfogliare il famoso “Twilight” con aria
corrucciata e le mani nervose.
Il cellulare
squillò. Lei mise il segno al libro e si voltò a
guardare lo schermo luminoso, accanto a lei, sulla coperta. Era lui.
“Pronto?”
“Ciao”.
“Hei…
sei sotto le grinfie di chi, ora?”
“Uhmm…
ho appena liquidato la truccatrice, improvvisando una lunga corsa
disperata verso la porta del bagno. Devo averla convinta,
perché non mi ha inseguito: attore mica per
niente”.
“Hanno cura
di te, Rob, cerca di essere accomodante” lo prese in giro con
un risolino lei.
“Non dopo quello che
mi hanno fatto oggi” gracchiò il
ragazzo.
“E cosa ti
avrebbero fatto, sentiamo?” sospirò Charlotte,
pronta all’ennesima lamentela. Di storie truci sulla
truccatrice ne aveva a miliardi, poteva scriverci un libro intero e
vivere di rendita.
“No.
È troppo… i-imbarazzante”.
“Oh, ora me
lo dici! Cos’è, ha provato su di te il lipgloss
effetto bagnato, all’ultima moda? Ti hanno messo il mascara
glitter? Anzi, perdonami la domanda: da quando i vampiri brillano al
sole? Cioè, tu brilli al sole? Non fatico a comprendere
l’attrattiva che quella povera truccatrice ha per te, sai?
Potrà sbizzarrirsi a pasticciarti la faccia” e
schiarendosi la voce e assumendo un cipiglio severo, imitò
la voce di Tom. “Vedi il lato positivo della cosa, Bobby: un
donna che ti massaggia la faccia tutto il giorno, è una cosa
per cui tutto il mondo darebbe via il proprio migliore amico. Anche se
è brutta, le puoi sempre mettere un sacchetto in testa, ah
ah aaah”.
Robert
sospirò un paio di volte, chiedendosi se Tom le avesse fatto
il lavaggio del cervello, prima di dirle con grande umiliazione, “Mi ha fatto la
ceretta alle sopracciglia”.
Un attimo di silenzio
intercorse sulla linea, per poi venire interrotto da un singulto. E un
secondo. Anzi era più un respiro strozzato. E ancora.
Assomigliava ad una risata. Si, una risata mal trattenuta, che nel giro
di poco scoppiò in un boato che costrinse Robert ad
allontanare il telefono dall’orecchio.
“Grazie eh.
Si si, grazie, bella comprensione”.
Charlotte rideva come
un’ossessa. Accidenti, se c’era una cosa che Rob
odiava, era l’essere femminile o essere trattato da tale,
come ad esempio essere costretto a farsi la barba con cura, quando lui
adorava lasciarsi cancellare mezza faccia dal disordine, oppure
l’avere troppe mani che gli cospargevano guance e naso di
creme ed esfolianti. Le sopracciglia, quindi, dovevano essere un duro
colpo all’orgoglio. Uno si sarebbe preoccupato se si fosse
sentito dare dell’impotente con rabbia, ma Robert era
diverso. Lui si preoccupava… delle sopracciglia.
“Naturale,
certo. Io te lo dico e tu ridi, m-mi sembra il miglior conforto che uno
dovrebbe ricevere, giusto? Che stupido, perché non te
l’ho detto prima, eh!?”
Charlotte soffocava e
batteva il pugno sul cuscino come una matta, mentre si immaginava la
faccia del ragazzo rossa e solcata da macchie rosse e residui di
ceretta. Uno spettacolo.
“Ma
allora hai finito?!”
“Oddio…
ahahahah!”
“Ma tu
guarda…” grugnì, per poi
aggiungere, “FINISCILA!”
Da
quell’ultima volta, le settimane presero a volare. Gli
impegni si intensificavano, il lavoro portava via gran parte del tempo,
e la stanchezza si prendeva il resto. Le chiamate scemavano,
raggiungendo un ritmo di un paio durante i sette giorni, con
l’esclusiva del weekend.
Era difficile, ma
Charlotte accettò silenziosamente il compromesso. Poteva
diversamente?
Era la sua vita, era
il lavoro che aveva scelto, e si sentiva già
un’ingrata per il costringerlo implicitamente a telefonarle
per renderla partecipe di un qualcosa a cui lei stessa aveva
rinunciato, figurarsi il rimproverargli della carenza di chiamate.
Sentiva la
soddisfazione crescente e l’orgoglio che si nascondevano
sotto le parole del ragazzo e i discorsi che facevano: orgoglio per
l’essere parte di un progetto in grande e
“straniero”, per l’indipendenza che pian
piano arrivava e si legava al suo cuore come una nuova musica. Stava
crescendo, stava cambiando, stava maturando… e lo stava
facendo lontano da lei.
Perché
nonostante sentisse la sua mancanza, era questo il vero dolore di
Charlotte: che lui diventasse un altro senza che lei potesse
accorgersene, senza che potesse vederlo, senza che potesse esserne
partecipe. Passavi parte della giovane vita a condividere ogni sorta di
emozione, sentimento ed affetto, dall’imparare ad allacciarsi
le scarpe al riconoscere la differenza fra passione ed amore, e
poi… la prima grande svolta, quella che ti catapultava nel
mondo degli adulti, lui la affrontava da solo. Certo, circondato di
nuovi compagni d’avventura, ma senza i vecchi. Lei e Tom
erano rimasti indietro, erano rimasti a guardare un film a cui non
appartenevano più, e Charlotte era convinta che
così come lei soffriva, anche Tom ne pativa, pur
nascondendolo dietro risate e battutine piccanti.
Era così.
Era naturale. Amavano Robert. E soffrivano. E parlarne, purtroppo,
serviva a poco, ed era già successo.
“Pensi
che… si trovi bene, là?” aveva chiesto
una sera la ragazza, mentre mangiavano pizza davanti al televisore.
“Perché
non dovrebbe?” aveva risposto atono Tom, fissando lo schermo.
“Non
è sempre facile. Alle volte… beh… non
si sa bene come… fare”.
“Imparerà
alla svelta” fu la risposta. “È quello
che ha scelto. Deve farci i conti”.
Charlotte
l’aveva guardato perplessa, scrutando l’espressione
diversa che aleggiava sul viso di solito allegro del ragazzo. Lui aveva
posato la pizza e si era voltato, piantandole in volto gli occhi
azzurri.
“Non ho
risposta. Cosa vuoi che ti dica? Ha fatto una scelta, è
l’ho rispettata. Ha scelto di camminare su una strada diversa
dalla mia. E l’unica cosa che posso fare è sperare
che sappia quello che fa. È il mio compito. Credere e
aspettare. Non posso fare altro”, ed aveva ripreso a mangiare
la pizza guardando la televisione.
Soffriva. E Charlotte
ora glielo leggeva a chiare lettere addosso. Mostrava la facciata
spensierata, quella che da anni erano abituati a vedere e sopportare,
ma sotto c’era altro: anche Tom stava crescendo. Maturava la
consapevolezza che prima o dopo i percorsi si dividono, ciascuno si
assume le proprie responsabilità e decide di abbandonare
parte della vecchia vita per fare spazio alle novità. E lui,
Tom, faceva parte di cosa? Del vecchio… o poteva restare a
fare parte anche del nuovo?
Charlotte gli aveva
messo una mano sul braccio e aveva detto, “Non si
è dimenticato di noi”.
Ma lui non aveva
risposto.
***
Dei passi risuonarono
sul selciato ghiaioso e raggiunsero una piccola scaletta, per infilarsi
dentro un abitacolo non troppo ampio e chiudersi una porticina alle
spalle. Una mano s’allungò su un interruttore e la
luce rischiarò una semplice zona soggiorno, da cui si
scorgeva il letto nella stanzetta accanto.
Robert
sospirò passandosi una mano sui capelli. Appoggiò
la giacca sul ripiano accanto alla porta, si avvicinò al
letto e si lasciò cadere sul materasso. Era stanco.
Terribilmente stanco. Più per l’emozione che non
per l’effettiva giornata di lavoro. Era stata abbastanza
tranquilla, una scena nella mensa della scuola, dove aveva fatto cadere
una mela almeno un miliardo di volte, prima di afferrarla come da
copione, e poi un’altra, in una serra dove faceva un caldo
infernale e dove, per giunta, l’avevano obbligato a tenere
addosso il cappotto. Era scoppiato dal caldo, merito dei tre quintali
di trucco immacolato sul viso se non era apparso il suo rossore, almeno
serviva a qualcosa quella dannata tortura.
Si passò
una mano sulla faccia con una smorfia affranta, e la lasciò
ricadere sulle coperte.
Era ora di cena. E
non aveva fame. Lui che non smetteva mai di mangiare.
Aveva una strana
stretta alla bocca dello stomaco, che gli attorcigliava la pancia e gli
dava il nervoso. Erano giorni che l’aveva, ad essere sinceri,
ma era più facile ammetterlo dopo un po’, per
sminuire la debolezza, piuttosto che crollare ad ammettere la
verità in pochi attimi.
Con
un’occhiata al soffitto pensò a suo padre, con il
suo cipiglio severo, che gli diceva “Non ammettere le cose
come stanno, figliolo, complica solo le cose. Cosa ti ho insegnato,
diamine?!”
Abbozzò ad
un sorriso, per poi lasciarlo sparire al ricordo di cosa effettivamente
lo rattristava.
Aveva chiamato Tom,
il giorno prima, per la solita chiacchierata… e
l’aveva trovato spento, cupo, privo della solita allegria.
Aveva spostato l’orecchio dal telefono ed aveva controllato
il numero sullo schermo per essere sicuro di parlare con il vero
Sturridge.
“Non ho niente.
Perché, che ho che non va?” aveva
chiesto.
“Sei…
diverso”.
“Non
è vero”.
“Non hai
ancora detto una parolaccia…”
“Sto
mangiando, Robert”.
“Certo.
Dovevo… immaginarlo” aveva annuito a capo chino
lui. “Scusami”.
Non era vero. E lo
sapeva. Lo sapeva lui. E lo sapeva Tom. Ma nessuno dei due
l’avrebbe mai ammesso. Anche perché infondo non
c’era nulla da ammettere: erano divisi, erano separati e
lontani. Punto. Non condividevano le idiozie quotidiane, non si
prendevano in giro a vicenda e non chiacchieravano più con
la solita tranquillità. C’era sempre il telefono,
ovvio, ma non era decisamente la stessa cosa.
Robert pensava che il
colpo più duro sarebbe arrivato con la separazione da
Charlotte, ma si sbagliava se credeva che sia lui, che Tom, non ne
avrebbero risentito. Uno sciocco. Certe cose le speri e ti auguri che
non accadano, ma succedono e basta…
Represse un gemito ad
un crampo allo stomaco, prima di scattare a sedere come una molla sul
letto. Avevano bussato?
Un secondo colpo alla
porta gli diede conferma, e lui andò ad aprire.
Un ragazzo abbastanza
alto e dal fisico asciutto e longilineo, con una buffa chioma
spettinata di capelli biondi, lo guardava allegro muovendo la mano in
un cenno di saluto.
“Heilà”.
“Oh…
Jackson”.
Il ragazzo
alzò un sopracciglio. “Ed immagino che tu sia
lieto di vedermi”.
“Altroché”
sorrise Robert. Non lo conosceva da troppo, ma era il primo che gli era
andato a genio… Riservatezza e carattere brillante allo
stesso tempo, un carisma ed uno sguardo che diceva molto di
più che non un intero discorso da cerimonia.
“Non ti ho
visto a cena. Tutto bene?”
“Oh
si… io… ero un po’ stanco”
fece un cenno evasivo Robert.
“Certo,
capisco”.
Jackson
inclinò la testa di lato con un accenno di sorriso.
L’altro, ancora in cima alle scalette con l’aria
impacciata, scrollò le spalle, “V-vuoi entrare?
Non so…”
“No, ero
solo passato a vedere come stavi”.
“D’accordo”.
“Anche Ash
era preoccupata”.
“Mi
dispiace” arrossì Robert.
“Nah, ci
vediamo già fin troppo sul set, che dici?”
Si guardarono
entrambi un momento, e poi ridacchiarono sollevati. Erano alle prime
armi: di giorno attivi sul set, fra un corsa e un dialogo recitato; la
vita reale era diversa, ad un passo dalla scena cinematografica, ma
nettamente più rigida… occorreva una certa dose
di buona volontà e coraggio per abbattere
l’imbarazzo.
“Si…
credo di si”.
Jack sorrise.
“Domani sera però usciamo a bere qualcosa. Sei dei
nostri?”
“Oh certo,
si, volentieri” annuì il ragazzo.
“Kellan ha
dato un’occhiata nei dintorni oggi, sai… aveva la
giornata libera. Dice che c’è un localino niente
male, piccolo, ma con buona musica. Immagino sia meglio che restare
rinchiusi nella serra per due ore”.
“Oddio…
la serra” si batté una mano sulla faccia Robert.
“Dio, non me lo ricordare”.
“Ashley mi
ha quasi portato via di peso, per colpa del caldo: per essere un
vampiro che sopporta ogni cosa, non sono stato molto convincente.
Salvato da una donna per giunta” ridacchiò.
Rob fece una smorfia
divertita e si passò una mano fra i capelli.
“Beh,
allora buona notte. Ci si vede domani mattina” lo
salutò Jackson.
“Si, certo.
A domani” fece un cenno lui. E l’altro fece due
passi indietro prima di incamminarsi sul selciato e sparire dietro
l’angolo.
La porta della
roulotte si chiuse; Robert si spogliò con lentezza e
assenza; si diede una lavata e, infilata una vecchia maglia di Tom,
spense la luce e si cacciò a dormire, pensando che forse
sarebbe dovuto andare a cena, allontanare i cattivi pensieri e
considerare che in quel posto doveva restarci ancora per parecchio
tempo.
Il mattino dopo,
così come i seguenti, Rob si svegliò con lo
spiraglio di luce tenue che passava attraverso le tende e il suono
snervante della sveglia, accanto al letto. Si rigirava sul materasso
mugolando e sbuffando, affondando il viso nel cuscino. Le sveglia
continuava a suonare, ma lui litigava con le coperte, ancora vagante
nel mondo dei sogni, con una frase mormorata inconsapevolmente sulle
labbra, “Piccola,
spegni la sveglia”. Abbracciava il
cuscino e lo stringeva forte, socchiudendo gli occhi ed inspirando un
profumo che ricordava nei sogni, fin quando… piano piano si
rendeva conto di accarezzare un pezzo di stoffa impregnato del proprio
odore e di fumo. Tirava allora una manata addosso alla sveglia, e con
un sospiro sconfitto fissava il soffitto ripetendosi quanto fosse
stupido ed illuso.
Quello che accadeva
poi, stava diventando la sua routine e, per quanto all’inizio
fosse difficile, cominciava ad abituarsi. Pensò che se si
trovava lì, con un oceano di distanza da casa, era solo per
una propria scelta, una svolta a cui lui stesso aveva dato diritto di
vita… cosa costava, dunque, vedere il lato positivo nascosto
fra le righe e affrontarlo a pieno petto? Beh, dovette ammetterlo, gli
costava parecchio.
Lui era una persona
fondamentalmente socievole e, per certi versi, maledettamente imbranata
e fiduciosa, tanto che, spesso, gli amici lo riprendevano dicendogli
che avrebbe dovuto passare più tempo con la bocca chiusa,
piuttosto che finire con qualche delusione in più alle
spalle.
Ma era più
forte di lui. Parlava e riversava tutto quello che la sua mente gli
proponeva, condivideva e poneva sul palmo della mano le proprie idee e
punti di vista, quasi a dimostrazione che lui si fidava, che lui
metteva a nudo i propri pensieri, senza vergogna. Cosa c’era
in fondo da nascondere? Per come la vedeva lui, era più
semplice mettere le carte in tavola subito, piuttosto che rincorrersi
una vita per una briciola di conoscenza. E forse era anche per quello
che si ritrovava con elementi come Tom alle calcagna: gente con
un’insana vena di follia in corpo, ma che di vendersi per una
maschera di finzione costruita con arte nemmeno a parlarne.
“… pochi ma buoni”, si diceva, e lui ci
credeva.
Dove stava quindi il
problema?
Beh… il
problema stava in tutto. O forse niente, pensò. Fosse stato
per lui, avrebbe elargito consigli e riflessioni filosofiche da mane a
sera a tutti i presenti, sarebbe rimasto in piedi fino a notte tardi
per discutere anche delle cose più inutili e sciocche,
avrebbe raccontato ciò che più lo spaventava e lo
rallegrava, senza riserve, con l’innocenza di un
bambino… Ma poteva permetterselo?
Facce nuove e occhi
bassi o fissi in punti vuoti gli scorrevano davanti, giorno e notte,
come fotografie strappate da un album a colori forti e spenti. Era come
tuffarsi di colpo in un mare in cui l’acqua sa di sale e
zucchero, in cui le onde sono blu e gialle, in cui la corrente tira a
destra e a sinistra… In poche parole, il mondo. Pensava che
nel suo piccolo circolo londinese avesse potuto assaggiare una buona
fetta di vita, e forse così era, ma il ritrovarsi davanti
un’esperienza tale gli fece comprendere che, per quanto credi
di aver dato tanto alla tua esistenza, lei ti stupisce sempre, ogni
giorno che passa.
E Robert era stupito.
Sorpreso. Dal silenzio ponderato e gli occhi profondi di Jackson, dalla
risata chiassosa di Kellan, dalla dolcezza non troppo ingenua di
Ashley, dalla schiettezza di Nikki e dalla riservatezza ossessiva di
Kristen. Era stupito e disarmato da quello che ciascuno di loro
proponeva e richiedeva. Era stupito e pensieroso di fronte a quello che
riteneva giusto concedere loro riguardo se stesso. E non
perché fosse colpito da una sindrome di egoismo, ma
perché… aveva paura.
Gli ci vollero due
settimane per capirlo. Per ammettere che la sua era paura, mista ad
insicurezza e precauzione. Era come confrontarsi per la prima volta con
un alieno, piombato dal cielo, e che gli diceva con un sorriso
“Ciao! Sei circondato di estranei e ciascuno di loro
può mentirti e prenderti in giro, può dirti la
verità e fidarsi. Non ci sono margini di errore, e
l’evidenza superficiale non basta.
L’ingenuità non ti salverà, ma ti
condannerà. Buon divertimento!”.
Si sentiva insicuro,
perplesso e stracciato. L’istinto gli diceva di giocare se
stesso in tutto e per tutto, era ciò che gli avevano
insegnato, che senso aveva fare il contrario? Ma quella vocina,
nascosta Dio sa dove, gli ripeteva di frenare, di rinchiudere la
maggior parte della propria allegria e rilasciarla un poco alla volta,
come una stella che aumenta la sua intensità man mano che
cala la sera.
Non si era mai
fermato a riflettere sul fatto che sarebbe potuto accadere. O meglio,
lui e Tom l’avevano considerato, ma lungi dal ritrovarsi in
mezzo e, come da manuale, non sapere cosa fare.
Rideva spesso, quando
era da solo, dicendosi che era un idiota. Fatto e finito. Chi si
sarebbe mai fatto problemi su una questione così banale come
interagire con un gruppo nuovo di amici? Già… ma
lui era Robert. Ed era un maestro in paranoie, non si aspettava di
cambiare in pochi giorni, solo perché il sole americano gli
tingeva il panorama con colori più attraenti, giusto?
E così i
giorni passavano, Dicembre sfumò in Gennaio… e
Robert passava le sue giornate fra battute celate sotto
l’aspetto di un vampiro adolescente con il cuore colmo del
più grande sentimento del mondo, e l’indecisione
di non reprimere se stesso dietro una cortina di finzione e freddezza,
ereditata da un’insicurezza che non si aspettava di avere e
con la quale non riusciva a dialogare.
***
Era una mattina a
fine mese, fredda e ghiacciata, con il sole coperto di nuvole, quando
il cellulare squillò nella borsa di scuola.
Charlotte salutava i
compagni di classe e si avviava lungo il corridoio che portava
all’uscita con passo trascinato. Aveva due profonde occhiaie
segnate, come se il trucco fosse colato in una macchia bizzarra; i
capelli erano spettinati e scomposti, e lo sguardo assente. Robert non
chiamava da una settimana, e lei non aveva dormito.
Stava giusto
schivando un ragazzo in corsa, nemmeno fosse un centometrista
impazzito, quando si accorse della suoneria che proveniva dalla tasca
dello zaino. Non si fermò nemmeno a pensare chi potesse
essere, strattonò la cerniera e rispose senza respirare.
“Sono
io, ciao”.
La ragazza
deglutì e sorrise chiudendo gli occhi.
“Ciao…”
Robert
sospirò dall’altro capo del telefono e si
torturò i capelli. “So
che… s-sarai arrabbiata. È un pezzo che non mi
faccio sentire, ma… ecco io… ero in una zona dove
il cellulare ha deciso di abbandonarmi e il lavoro mi ha letteralmente
schiavizzato. Scusami”.
“Non sono
arrabbiata!” saltò come una molla lei. Forse lo
era, ma sentirlo cancellava ogni precedente sensazione.
“Oh…
d’accordo. Meglio così allora” ridacchiò
più sollevato. “Sei
a scuola?”
“Sto
uscendo. È saltata l’ultima lezione…
professore assente” fece spallucce lei.
“La
solita fortuna. Che fai ora?”
“Beh, penso
che… andrò a casa e - ”, ma non
riuscì a finire la frase perché un bolide la
colpì in pieno, facendola gridare, avvinghiandosi al suo
braccio come una cozza.
“Ciao
splendore!”
Charlotte chiuse gli
occhi inspirando a fondo, mentre stringeva con forza il cellulare nella
mano.
“Cos’è
stato? Sei caduta?” chiese allarmato Robert.
“No…
n-non è niente” bofonchiò la ragazza.
Ed aggiunse con un grugnito rivolto alla persona accanto a lei,
“Ciao Nia”.
“Con chi
parli? È il disertore? Oh bell’amico, è
una settimana che è scomparso” gracchiò
dispettosa la bionda, prima di allungarsi verso il telefono ed urlare
un forte “Ciaooo!”
Un gemito
arrivò dall’altro capo e Robert impiegò
qualche minuto a rispondere. “Ho
perso l’udito”.
“Nia che
vuoi?” chiese irritata la mora, fulminando la ragazza con uno
sguardo omicida.
“Oh, stare
un po’ con te, dolcezza. Perché?”
rispose lei sfarfallando gli occhioni.
“Abbiamo
già condiviso cinque ore… non è
sufficiente?”
“Uhmm…
no. Anche perché ho una notizia strepitosa da
dare” trillò, stritolandole il braccio.
“E
chissà perché, ho paura”.
“Ma chi
è?” chiese impaurito Robert.
“Nessuno”
rispose Charlotte scrollandosi Nia dal braccio senza riuscirci.
“Oh
bell’ingrata, tesoro! Ma soprassiederò la tua
insolenza e ti dirò che…” disse
avvicinando il proprio viso allegro a quello dell’amica, la
quale si ritrasse spaventata, “… siamo invitate ad
una festa!”
Charlotte la
fissò ad occhi sgranati e chiese se la cosa doveva avere
rilevanza per lei.
“Certo che
si, sciocchina, perché non dovrebbe!” le aveva
tirato una guancia Nia, ignorando l’urlo di dolore.
“Ma stavolta devi ringraziare la fata Turchina, lì
al telefono, è merito suo”.
La ragazza
fissò prima la bionda e poi il cellulare, senza riuscire a
comprendere. Festa? Che festa? Anche se ci fosse stata, era oltremare,
forse, e Nia si aspettava che prendesse un aereo solo per una dannata
festa?
“Rob…”
“A prescindere da chi
tu abbia in parte, metti una debita distanza tra me e lei, per
favore” gemette il ragazzo. “Comunque ho sentito
quello che ha detto, non che mi sia risultato difficile. Stavo
chiamandoti apposta per dirtelo”.
“Per dirmi
che cosa?”
“Sono stato invitato
ad una festa, domani, lì a Londra. Niente di sconvolgente,
è più un raduno di giovani attori emergenti e
qualche figlio di papà annoiato. Ci andrei, se
potessi… ma è ovvio che no”
rise. Tacque un attimo poi riprese, come se stesse pensando a qualcosa,
“Ho girato
l’invito a Tom”.
Charlotte
spostò lo sguardo su Nia, ancora avvinghiata al suo braccio
e con gli occhioni blu accesi. “E tu come fai a
saperlo?”, le chiese.
“Della
festa? Oh, mi ha chiamato Tom, no?”
“Pensavo che chiamasse
te, in realtà” aggiunse Robert.
“Beh, come
al solito sono l’ultima a sapere le cose” disse lei.
“Tesoro,
è irrilevante il messaggero, conta la sostanza: andiamo alla
festa”.
“Non usare
il plurale, Nia”.
“Come
sarebbe a dire?”
“Non vuoi
andare?” domandò Robert. Non che si
aspettasse una risposta diversa.
“Perché
dovrei? Non sono ne attrice, ne figlia di papà annoiata. Se
Tom vuole andare, non sarò io ad impedirglielo”
rispose secca lei.
Robert
sospirò, mentre Nia corrugò la fronte.
“Che razza di risposta, tesoro”.
“F-forse stare sempre
in casa… Forse dovresti uscire, un po’. Alla fine
è solo una festa” azzardò
il ragazzo con tono improvvisamente stanco.
Charlotte
continuò a camminare. Sorpassò il cancello della
scuola, raggiunse il marciapiede e attraversò la strada,
diretta alla fermata dell’autobus, sempre con
l’amica cucita al braccio.
Aveva la mente
annebbiata. La notizia l’aveva colpita in pieno come un treno
merci. E, a suo avviso, aveva almeno due motivi per rifiutare: il primo
era passare una serata possibilmente piacevole in compagnia di Tom e
Nia sapendo che con loro avrebbe dovuto esserci Robert, era lui
l’invitato… e il secondo, non meno rilevante, era
la brutta esperienza di Natale che alle volte le tornava ancora alla
mente. Certo, sapeva che c’erano scarse
probabilità che un cosiddetto “figlio di
papà” le tirasse una bottiglia in testa, ma la
paura e la diffidenza restava, infilata sotto la pelle, mescolata al
sangue e impressa nel petto. Si sentiva stupida e codarda, cominciava a
riconoscerlo, dannazione, lo sapeva… ma non riusciva a
cacciare fuori la forza di volontà.
“No”
disse, fermandosi.
Robert non disse
nulla, e lei si chiese se avesse sentito. Nia, in parte a lei,
alzò gli occhi al cielo, e borbottò qualcosa.
“Cosa?”
chiese Charlotte.
“Tanto
valeva che non te lo dicessi: era meglio rapirti e
imbavagliarti”.
“Oh, si,
certo, ho visto l’ottimo risultato l’ultima volta,
già”.
E quella fu una delle
poche volte in cui Charlotte vide la rabbia cieca mescolarsi negli
occhi della ragazza bionda. L’azzurro
s’incupì, come inghiottito da una macchia di
colore buio. Nia mollò istintivamente il braccio
dell’amica.
“Naturalmente.
È stata colpa mia. L’ho programmato a dovere.
È stato delizioso”.
Charlotte si morse la
lingua e sentì il sapore del sangue in bocca. Stupida, la
solita stupida.
“N-no…
non intendevo quello… non è stata colpa
tua” biascicò impallidendo.
Nia la fissava con
aria truce, e non disse nulla.
“Non serve a niente
prendertela con la tua amica” disse
d’improvviso Robert, tanto che la mora sussultò
sentendo la sua voce. “Non
è colpa di nessuno, lo sai. È
soltanto… Dio, è soltanto una stupida festa,
Charlotte, per favore. Se non vuoi andare, non andarci, ma
non… non fare così, ti prego”.
E se avesse potuto,
lei si sarebbe morsa la lingua un’altra volta. Succedeva
sempre così, parlava dando libero sfogo alla propria
frustrazione e paura, come un fiume in piena, senza che si curasse di
arginarlo in tempo per impedire di ferire chi le stava attorno. Non che
fosse sua intenzione offendere Nia o addossarle la colpa, ovvio.
“Scusa…”
disse, chinando il capo con aria abbattuta.
“Devo andare ora. Sono
le cinque del mattino, qui, e i ragazzi hanno appena finito di fare
casino… sono stanco. Domani ho la giornata piena” disse
lui, la voce stanca e tirata. “Ci
sentiamo appena ho un minuto libero”.
“Rob
io… mi disp - ”
“Fai
quello che ritieni giusto. Io non posso obbligarti in nulla”.
Nessun saluto,
nessuna promessa. Robert interruppe la chiamata, lasciando che il
silenzio inondasse la mente della ragazza, rimasta immobile e con il
cellulare ancora incollato all’orecchio. Le ci volle un
po’ prima di abbassarlo e rimetterlo nella tasca dello zaino.
Fantastico. Non una,
ma due persone era riuscita a ferire nell’arco di pochi
secondi. Doveva ammetterlo, stava diventando una maestra.
Si girò
con lentezza verso Nia, e sobbalzò nel vedere che non aveva
abbandonato il suo sguardo carico di ferocia.
“Mi
dispiace”.
“No, non
è vero”.
“Si. Si,
dico sul serio”.
“No.
Perché se lo fosse, avresti avuto la decenza di pensare
prima di parlare” alzò la voce l’altra.
“Dico, credi che mi diverta? Pensi che sia stato uno sballo
vedere pezzi di bottiglia volare come riso ad un matrimonio, e vedere
poi te e quell’altro salame di Tom bucherellati in faccia
come gruviera? Non ne abbiamo mai parlato, perché pensavo
che, ormai, la cosa fosse assodata… Evidentemente mi
sbagliavo”.
“Non ti sto
dando la colpa!”
“Non a
parole, ma lo pensi”.
“No! Io
non… non…” ma non finì,
girando su se stessa e mollando un calcio al palo della fermata
dell’autobus, mettendosi le mani nei capelli.
Ingoiò il groppo in gola e voltandosi di colpo verso Nia,
disse “Mi dispiace!”
Lei la
guardò, specchiandosi nei suoi grandi occhi scuri, velati di
tangibile desolazione. Riusciva a palpare il conflitto e la paura che
la animavano da dentro, come se fossero stati i suoi secondi vestiti.
L’avrebbe abbracciata, avrebbe colmato la distanza che le
separava e l’avrebbe stretta a se, se non fosse stato che,
così facendo, Charlotte non avrebbe mai imparato a frenare
la lingua, e che lei aveva ancora l’orgoglio ferito.
Si sentiva
responsabile, era vero, lo aveva sempre pensato. Ma sentirselo dire a
bruciapelo e con astio dalla migliore amica, era una cosa che non si
era aspettata.
“Mi
dispiace…” ripeté la mora con gli occhi
lucidi.
Nia
corrugò la fronte e scacciò una ciocca di capelli
dalla fronte. “E vabene” sbuffò,
“Vabene”.
“Non penso
che sia colpa tua, non l’ho mai pensato. E so che
è solo une festa” disse sventolando una mano,
“Ma per me… per me è tutto dannatamente
uguale”.
“Beh, non
lo è. Niente è mai uguale”.
“Per me lo
è”.
“Dovrai
abituarti all’idea che non lo è,
tesorino” pestò un piede Nia. “E ora,
ascolta per bene: io voglio andare a quella maledetta festa, e tu
vieni. Voglio ballare, voglio bere e voglio vedere il luccichio degli
occhi dei maschi sopra il mio vestito. Voglio godermela, chiaro? E tu
sarai esattamente dove sarò io, non resti a casa”.
“Ma…”
“Non ho
intenzione di ripeterlo!” strillò, attirando
l’attenzione dei passanti. Le si avvicinò di
qualche passò e le puntò un dito sul naso.
“Osa solo opporti, e giuro
che ti ci porto in biancheria intima. E non è detto che sia
la tua, casta e da bambina innocente”.
Charlotte
strabuzzò gli occhi. No, non stava scherzando. Nia non
scherzava mai.
E così,
reprimendo un gemito di sconfitta, annuì all’amica
e si preparò mentalmente all’imminente festa del
giorno dopo.
----------
Spazio
sproloqui:
Oddio la minaccia di
Nia alla fine O.°
Giuro che me la sono
immaginata a maxi schermo e ho allontanato il computer da me con aria
terrificata! *e la
cosa… è grave*
Ma bando alle
ciance.......
È un
capitolo che segna un po’ l’inizio
dell’avventura vera e propria, ho gettato le basi, e
improntato un po’ i personaggi su strade diverse, vediamo che
ne viene fuori! xD
L’idea
della festa la stavo macchinando da un pezzo, e ho almeno un paio di
personcine da piazzarci, tra cui una che… resterà
con noi un pochino, immagino *-*
Passando ai
ringraziamenti:
_Miss_ : oddio no!
come sta l’occhio??!! O__O Le zanzare sono delle creature
inutili e barbare, sanguisughe zannute e assassineee!! Te lo dicono la
mia coscia e il mio polpaccio che sono crivellati di bozzi bordeaux
ç_ç … Parlando seriamente:
uhmmm… no. Non poteva dirle “ti amo”
anche se sarebbe stato maledettamente romantico. Dirlo avrebbe
comportato uno sconvolgimento trooooppo grande per lei e per lui, e mi
andava troppo avanti con la storia, ma non vuol dire che non glielo
dica eh! ;) Sono io a ringraziare te, per il sostegno costante che mi
dai! Sei sempre gentilissima, e spero che anche questo chap ti sia
piaciuto… è abbastanza Rob-riflessivo, spero non
annoi! baci :3
Ello: Oh, ciao! xD
Woh, ti ringrazio, mi fai troppo felice, credimi! *va in brodo di giuggiole*
Cerco di dare a ciascuno il proprio spazio, di renderli il
più umani possibile, anche se porta ad odiarli, o a delle
contraddizioni… noi ci contraddiciamo spesso xD Sono
contenta che il capitolo passato ti sia piaciuto e spero che anche
questo faccia centro! Un bacione :)
Grazie anche a tutti
quelli che leggono e a chi l’ha aggiunta ai preferiti!
Un bacione, dolce
notte a tutti e alla prossima,
beth
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** 12. nuovo ***
Titolo: ~ and I’ll be
Remembering you
Genere: Romantico,
Sentimentale
Autrice: carlottina
Capitolo: 12° capitolo –
Nuovo
Personaggi: Robert
Pattinson più un nuovo personaggio di mia pura invenzione
Note dell’autrice:
hei hei heiiiii!!! Eccomiii!! Oddio, scusatemi, scusate scusate scusate
scusate!! Lo so, è un secolo che non aggiorno, ma vi giuro,
non avete idea de casino di robe da fare @_@ una volta iniziata,
l’università mi ha letteralmente
schiavizzato… povera me, avrei potuto piantare una tenda col
sacco a pelo in aula e restare lì T_T Coooomunque,
non zinzaniamo in quisquiglie, vi lascio al chap che, vi anticipo,
è bello lunghetto per farmi perdonare u.u Ci si vede dopooo!
;)
12
“Nuovo”
“E…
taglia!”
La telecamera si
abbassò, tagliando la scena. Robert distolse lo sguardo da
Kristen e scoppiò a ridere, facendo un passo indietro. La
ragazza scosse la testa sbuffando divertita.
“Perfetta!
Era splendida ragazzi! Ancora una volta e poi siamo a posto!”
Robert si
appoggiò al bus giallo nascondendo la faccia fra le mani.
Non riusciva a smettere di ridere, era rosso acceso in volto e la sua
voce arrivava stridula e gracchiante.
“Robert!”
lo canzonò Kristen.
“O-ddio…”
sputacchiò lui. “Quello ades-so scende dal pullman
e mi piglia a schiaff…” cercò di dire
prima di essere interrotto di nuovo da una seconda risata rumorosa.
“Oh si,
davvero divertente: chiunque riderebbe come un dannato
all’idea di farsi raddrizzare la faccia, Pattinson”
gli diede un pugnetto sulla spalla lei.
Robert
inspirò e cercherò di calmarsi. Avevano appena
finito di girare una scena, conseguente a quella della famosa serra,
dove il vampiro Edward Cullen consigliava caldamente a Bella di tenersi
lontana da lui: una sorta di minaccia velata, per così dire,
ma che, a quanto pare avrebbe aggiunto un alone di mistero in
più sulla piccola love story che stava nascendo…
“Devi mostrarti deciso e freddo, distaccato. Sfoggia il tuo
sguardo intimidatore, ragazzo, devi farmi tremare dietro la
telecamera!” gli aveva detto la regista, Catherine, dandogli
un pizzicotto sulla guancia.
Sguardo intimidatore?
Lui? Era rimasto a fissarla per un paio di buoni minuti chiedendosi se
per caso si fosse davvero resa conto con che persona avesse a che fare:
poteva chiedergli di comporre poesie e improvvisare per
un’ora di seguito cascate di note al pianoforte…
poteva implorarlo di sedersi sotto casa Swan e mugolare serenate al
chiaro di luna a Kristen, ma atteggiarsi da bruto… beh,
dannazione quella era roba per il resto del cast maschile! Anche
impegnandosi, non ce l’avrebbe mai fatta, e la cosa poteva
suonare ridicola, lo sapeva.
“Hei?”.
Kristen gli sventolò una mano davanti alla faccia.
“Uhm?”
mugugnò lui, riprendendosi dalle fila dei suoi pensieri.
“Cosa?”
“L’hai
fatto di nuovo”.
Robert
corrugò la fronte in una domanda silenziosa. Fatto cosa?
“Bolla”
sorrise lei con un sopracciglio alzato. “Ti sei rinchiuso
un’altra volta nella tua bolla. La faccia da pensatore
tormentato ne è la prova… ti stai calando troppo
nella parte”.
“Pensare fa
bene” fece spallucce lui.
“E a che
pensavi?”
Il ragazzo si
strofinò un occhio, maledicendo mentalmente le lenti a
contatto, per poi appoggiare la testa al bus giallo.
Pensare. Ultimamente
non faceva altro. Pensare…
Strinse le labbra e
puntò lo sguardo sulle nuvole grigie e gonfie, sembravano
batuffoli di cotone imbevuti di pittura cupa, quasi che qualcuno si
fosse divertito a lanciarle nel cielo dopo averle affogate in
secchielli di vernice… Assomigliava al cielo di Londra, ad
essere sinceri. La stessa umidità, la stessa luce offuscata,
lo stesso vento che scuoteva le fronde degli alberi, sembrava quasi di
essere a casa. Ma lui lo sapeva che per quanto nell’aspetto
potesse ricordarglielo, il cielo che vedeva ogni giorno fuori della
finestra di casa aveva una malinconia propria, rifletteva storie
diverse. Poteva sembrare un pensiero patriottico e carico di
pregiudizio, forse, ma in fondo, si disse, quando si rivolge verso
l’alto la maggior parte dei propri sogni, delle proprie
preghiere, desideri e pianti, alla fine si impara a riconoscere a pelle
il mondo che scorre sopra la propria testa. E quello non era il cielo
di Londra. Quella non era casa.
Si grattò
la fronte e gli venne in mente la domanda di Kristen. “A cosa
pensi?”
Pensare. Dio,
ultimamente non faceva altro. Si bloccava, in continuazione, ogni
pretesto era buono per soffermarsi anche sulla più piccola
cosa e lasciare che la mente galoppasse a briglia sciolta seguendo
strade confuse e infinite.
Si alzava pensando.
Lavorava pensando. Mangiava pensando. Si lavava pensando. E poteva
giurare di continuare a pensare anche mentre dormiva. E la cantilena
riprendeva ogni nuovo giorno.
Si metteva in coda per
la colazione, al mattino, e si soffermava sui riflessi che il cucchiaio
mandava con la luce dei neon, per poi passare alla tazza bianca che
riempiva con i cereali e il latte, e domandandosi se avesse dimenticato
qualcosa, quando ripeteva quella stupida azione da ormai un mucchio di
giorni, avendola imparata a memoria. Mangiava fissando il tavolo, come
se d’improvviso fare colazione avesse perso
d’importanza, e chiedendosi quali costumi avrebbe dovuto
indossare prima di andare sul set, di che colore sarebbe stata la
camicia, di che taglio sarebbero stati i pantaloni, lui… che
dei vestiti non gli era mai importato granché, se non che
fossero caldi e comodi. E quando arrivava in camerino, con la sua
andatura ciondolante e gli occhi azzurro mare fissi sulla punta delle
scarpe, ecco che si perdeva nuovamente interrogandosi sulla vita
fittizia che avrebbe dovuto adottare per il resto della giornata;
pensava a quanto Edward gli assomigliasse, o meglio… a
quanto poco gli assomigliasse. Una seconda pelle che gli si incollava
addosso, che scendeva sul collo, sulla schiena, sulle braccia, sullo
stomaco e sulle gambe, un’armatura pesante quintali, che
esteriormente altro non erano che una t-shirt, una giacca ed un paio di
jeans. Eppure lui la differenza la sentiva.
Un vampiro nato da
carta e inchiostro, ma che si stava rivelando un rompi capo
più arduo del previsto perché, per quanto gli
piacesse ammetterlo, lo stava mettendo a confronto con un qualcosa che
aveva deciso di non affrontare. Non ancora. Ed ogni mattino lui era
lì. Edward era lì che lo attendeva, diviso sugli
appendini del camerino, ma che si rimodellava non appena Robert lo
lasciava scivolare sopra di se.
Trucco e vestiti,
lenti a contatto e gel nei capelli. Un personaggio. Un fantasma. Ma era
una fantasma che scavava sempre di più nella sua testa, che
gli graffiava sotto la pelle della nuca e lo strattonava per le spalle
facendogli rivolgere gli occhi al cielo, e chiedere “Stai
facendo la cosa giusta?”. Non era romanticismo, non era
coraggio, non era altruismo, era un confronto con se stesso. Lo metteva
con il viso al muro ogni giorno, e ad ogni ora, facendogli crescere nel
petto un’ansia che non credeva di aver mai provato; non
riusciva più a vivere al momento, gustando
un’esistenza tranquilla, ma perdendosi nell’affanno
di quello che ancora doveva venire… perché aveva
paura. Si sentiva come una casa senza fondamenta, senza supporto,
consapevole che i muri prima o dopo sarebbero crollati al suolo,
riflettendo sul disastro in arrivo, ma incapace di progettare una
soluzione.
Edward Cullen, e tutto
quello che ne derivava, era ormai il suo flagello. Perché
per riuscire a cucirselo indosso e manovrarlo secondo i propri voleri,
doveva accettare prima di convivere con se stesso… e ancora
non c’era riuscito. E la personalità vuota e
fittizia di Edward aveva la meglio, facendolo perdere.
“È
solo un personaggio” mormorò, guardando il suolo.
“Come?”
chiese Kristen.
Robert
scrollò la testa ed alzò lo sguardo azzurro mare
su di lei. Una nota grave in un’atmosfera allegra.
“Niente”.
“Hai detto
qualcosa” annuì lei.
“Riflettevo
a voce alta” sorrise lui, per sviare la sua attenzione.
“Quante volte pensi che ci farà rifare la
scena?”
“Forse una
volta soltanto, oggi è parecchio su di giri…
è probabile che ci faccia staccare prima”.
Lui annuì
scostando un sassolino con la punta della scarpa, mentre la voce di
Catherine giungeva da dietro la telecamera gridando di rimettersi in
posizione e ripetere la scena.
Robert si
scostò dal bus di malavoglia e seguì Kristen
all’entrata della serra, da dove avrebbero ripreso a recitare
il copione. Attesero l’eco del “Si gira!”
nell’aria, e il ragazzo guardò la giovane calarsi
nei panni di Bella Swan ancora una volta… la
osservò camminare impacciata, i capelli lunghi castano
cioccolato che le ricadevano sulle spalle, la corporatura
minuta… il collo incassato nelle spalle, quasi si aspettasse
un peso enorme pioverle addosso dal cielo. Timore. Diffidenza.
Assottigliò
gli occhi chiari e, senza rendersene conto, lasciò che ai
capelli di Kristen e alla sua andatura si sostituissero
un’altra chioma folta color cioccolato ed un altro incedere
del passo. Un altro sguardo e un altro sorriso.
Robert
deglutì e gli ci vollero due minuti abbondanti prima di
riuscire a sentire la regista sbraitare dall’altra parte del
parcheggio, notare Kristen che gli andava incontro battendo le mani per
attirare la sua attenzione, e qualcuno della troupe che gli batteva
sulla spalla con insistenza.
“Che
c’è?” chiese confuso.
“Hei!
Scoppia la tua bolla, Rob, e prestaci Cullen ancora per un paio di
minuti” lo richiamò Kristen con espressione
perplessa. “Tutto a posto? Ti senti bene?”
“Si,
perché?” rispose lui facendo un cenno a Cat che
aveva recepito il messaggio. Ora era lucido.
“Sei un
po’… pallido” rispose la ragazza.
“Nel senso… sei davvero bianco, trucco a
parte”.
“Meglio,
allora, no? È più realistico” fu tutto
quello che riuscì a rispondere.
Ripeterono la scena da
capo, per una volta soltanto, ed infine Catherine diede il segnale di
fine riprese della giornata e spedì tutti a fare una doccia
e riempirsi la pancia a cena.
E come da manuale,
Robert andò nella sua roulotte, pensando ai vestiti puliti
che avrebbe indossato, ora che si era scollato Edward di dosso, al
bruciore immaginario che sentiva sulla pelle del collo e delle spalle.
Entrò nella sua piccola abitazione e, lavandosi,
pensò a cosa avrebbe mangiato per cena, così come
quando arrivò a cena, cominciò ad interrogarsi su
cosa avrebbe fatto appena avrebbe finito di mangiare… Sempre
un passo più avanti del momento vissuto, sempre in corsa su
un binario in discesa, come se il presente fosse stato troppo fragile e
il futuro prossimo avesse rappresentato una base a cui aggrapparsi.
“Amico, sei
sicuro di sentirti bene?”
Kellan gli
batté una mano sulla schiena e Robert sputò un
pezzo di pane nel piatto rischiando di soffocare.
“Di sicuro
ora ha rischiato di andare al creatore, Kell”
sghignazzò Jack, dall’altra parte del tavolo.
“Non hai una
bella cera, Rob” disse convinto il ragazzone.
Robert gli rivolse uno
sguardo bieco e si schiarì la voce riprendendo a respirare
normalmente.
“Forse
dovresti chiedere un giorno di riposo” disse Jack.
“Catherine è abbastanza concessiva”.
“Sto bene,
sono solo un po’ stanco”.
“Hai una
brutta cera, Rob…” ripeté Kellan.
“L’hai
già detto, mi sembra, no?” gracchiò
infastidito Robert. Si portò una mano alla fronte.
“Ok. Hai un aspetto da far schifo”
mimò il concetto allora l’altro.
“Così è più
chiaro?”
“Tatto da
pachiderma, Kell, una perla rara” disse Jack, alzando un
sopracciglio e complimentandosi con l’amico.
“Ma almeno
ora ha capito” sorrise allegro lui. Si rivolse poi al ragazzo
in parte a lui. “Perché hai capito,
vero?”
Robert
inspirò a fondo e batté le mani sul tavolo.
“Vado a letto”.
Si alzò dal
panca con uno scatto così veloce che a stento credette di
essere già in piedi. Kellan allargò le braccia
sorpreso come a dire “Ma che ho detto?”, mentre
Jackson gli applaudiva le mani in silenzio con fare da rimprovero.
Robert
attraversò la grande sala adibita a mensa, scansando il via
vai di gente, gli occhi sempre fissi al pavimento. Metteva un piede
dietro l’altro, ma man mano che avanzava verso
l’uscita, sentiva il pavimento sprofondare sotto la suola
delle scarpe, come se d’improvviso si fosse trovato a
camminare sull’acqua, sentendosi risucchiare verso il basso.
Scrollò la testa e i suoni arrivarono distorti, confusi,
come ringhi e ruggiti, e i colori esplosero in una girandola di luci
che gli violentarono gli occhi, prima di scemare sempre più
velocemente nel buio.
Sentì le
ginocchia scrocchiare e cedere, trascinandolo verso il basso.
Agitò le braccia alla ricerca di un appiglio, ma lo spigolo
di un tavolo si allontanava da lui nemmeno lo stessero levando di
proposito. E poi arrivò: il colpo secco alla spalla e il
freddo sul viso, e poi il buio.
***
Charlotte osservava il
proprio riflesso allo specchio con espressione indecifrabile. Sbatteva
gli occhi ripetutamente, come a capacitarsi che quella fosse la
realtà e non una mera illusione frutto di un incubo. Si
passò una mano sulla guancia, sfiorandola con la punta delle
dita incerte, inarcando le sopracciglia con fare perplesso.
Era sera, e mancava
un’ora alle nove. Un’ora alla festa,
pensò silenziosamente senza avere il coraggio di dirlo ad
alta voce.
Dopo che Robert aveva
interrotto la loro telefonata, la mattina prima, e dopo che Nia
l’aveva minacciata delle peggiori torture qual’ora
avesse anche solo osato opporsi al partecipare alla festa, Charlotte si
era disfatta cervello e mente alla ricerca di un piano, di una via
d’uscita per mandare in fumo quella che sembrava dover essere
la serata più bella della loro vita, o almeno questo era
quello che Nia ripeteva di continuo nelle ultime
ventiquattrore…
Una bugia. Una scusa.
Un’inutile e banale sciocchezza, ma che andasse a distruggere
l’equilibrio di quella giornata che pareva perfetta per
conciliare l’uscita serale. Charlotte le aveva pensate
proprio tutte: dal fingere una febbre improvvisa o un mal di stomaco
fulminante, al far cadere accidentalmente un fiammifero su
metà dei proprio vestiti, ed ovviamente il come e il
perché erano del tutto casuali, certo… Oppure
prendere le forbici e dare un taglio drastico e improponibile ai lunghi
capelli castani; mettersi a correre sulle scale, per poi arrivare in
cima e fingere uno strillo di dolore per simulare una caviglia slogata.
E queste erano solo le scuse di base.
Spostò lo
sguardo sulla scollatura del vestito. Mai si sarebbe sognata di
indossare quel… quel… beh, quella cosa. Poteva
anche essere un modello dell’ultimo grido, ed effettivamente
faceva strillare, ma non di certo per l’estasi del bon ton, o
almeno non per lei.
Fu una sorta di magia,
o miracolo, se il suo impulso di strapparselo di dosso venne stroncato
sul nascere dalla porta che sbatteva alle sue spalle. Charlotte
sobbalzò e si voltò con l’espressione
colpevole.
Nia era di fronte a
lei. La guardò a lungo, ed intensamente, con gli occhioni
azzurri che risplendevano di una luce strana, insolita. “Non
stavi cercando di ridurmi il vestito in un gomitolo di cotone,
vero?”
“Uhm…
c-che?”
“Metti la
mani ben in vista, chérie”.
“Io n- non
ho fatto niente”.
“Certo.
Naturalmente. Ma preferisco prevenire il male, piuttosto che
curarlo” sorrise la bionda, avvicinandosi con passo deciso e
piantandosi di fronte all’amica, pugni sui fianchi. Fece
scorrere l’attenzione su e giù, lungo la figura
della mora, ed infine annuì con fare convinto e soddisfatto.
“Perfetto”.
“C-che
cosa?”
“Il vestito,
Charlotte, il vestito” roteò gli occhi lei.
“È…
stretto”.
“Deve essere
stretto”.
“…
e c-corto”.
“Altrimenti
l’avrebbero chiamato pantalone,
non credi?”
Charlotte
abbassò gli occhi sul proprio petto fasciato in modo
evidente e represse un gemito, mordendosi la lingua. Si sentiva nuda,
come se non ci fosse stato nemmeno quel leggero vestito rosso a
coprirla. Rabbrividendo, si strinse le braccia attorno al busto e
strinse le spalle.
Nia piegò
la testa di lato e assottigliò gli occhi.
“È soltanto un vestito. Non si metterà
a morderti nel bel mezzo della festa” disse, probabilmente
intuendo il suo timore.
“È
che… non sono… a-abituata a metterne di
così - ”
“Così
appariscenti? Oh, lo so” sorrise l’altra, facendo
spallucce. “E forse avrei dovuto aspettare prima di
mummificarti in un bocconcino come questo, ma… beh, chi mi
dice che riuscirò a stanarti da camera tua
un’altra volta? Meglio approfittarne, ora che posso, dato che
ho anche la benedizione della Fatina Azzurra oltre mare”.
“Che
c’entra adesso Robert?”
“C’entra…
c’entra sempre, purtroppo” mormorò
triste Nia. Il suo bello sguardo si rabbuiò per un istante,
all’idea di come sarebbero potute essere le cose se lui fosse
stato lì, in quel momento. Sarebbe riuscito a farla uscire
con una parola soltanto? O forse avrebbe sorriso e avrebbe detto che la
cosa migliore era farla decidere da sola, dandole così il
permesso di nascondersi sotto il letto? Nia allungò una mano
verso una ciocca scomposta dell’amica e sorrise. Dannazione.
Lei stava facendo il possibile, e le sembrava così assurdo
che, per due linee di pensiero del tutto differenti e contrastanti, la
sua e quella di Robert, una persona dovesse cadere in una confusione
totale, già di per se complicata in partenza. Eppure,
entrambi avevano agito per il bene. Erano soltanto ragazzi. Facevano
quel che potevano…
“Che
cos’hai?” chiese Charlotte vedendola silenziosa,
come di rado accadeva.
La bionda le
sistemò una ciocca dietro l’orecchio e sorrise
triste. “Niente”.
L’altra
corrugò la fronte e fece per parlare ma Nia la
zittì andando a prendere una scatola scura, tirandone fuori
un paio di scarpe a tacco basso, in raso nero. Le scartò e
gliele sventolò sotto il naso dicendo “Visto?
Niente trampoli! Giusto perché non voglio passare
l’intera serata a raccoglierti dal pavimento”.
Passarono poi al
trucco, fra suppliche, spintoni oltre la porta del bagno e lo sguardo
feroce di Nia, ed infine, dopo aver raccolto i lunghi capelli castani
in piccolo fermaglio, la bionda riuscì a sedersi sul letto
sbuffando come una locomotiva.
“Santo
cielo: mi costi come due ore di lavori forzati”
sbraitò afferrando dei cleanex dal comodino e cacciandoseli
sotto le ascelle, “E ti ho messo solo del fondo tinta,
nemmeno ti avessi minacciato con una trebbiatrice!”
“Mi
dà fastidio! Perché non te lo metti da
sola?!”
“E mi
toccherà rimettermelo, perché mi è
colato da tutte le parti per la fatica che mi hai fatto fare!”
Continuarono a
strillare per i seguenti dieci minuti, tanto da non sentire il
campanello suonare, Marie Anne chiamare dal piano di sotto e da non
accorgersi che, ora, qualcuno restava sulla porta della stanza, a
braccia incrociate, e osservava la scena con un sorriso malandrino
stampato in faccia.
Fu solo per una
piccola pausa dagli strilli che lei due si voltarono verso
l’intruso, il quale indietreggiò di un passo e
disse “No… perché avete smesso? Era
divertente”.
“Che cosa
vuoi, Tom?!” sbottò Charlotte, portandosi
istintivamente un braccio davanti al petto.
“Il giullare
della Fatina Azzurra è arrivato, che onore”
ringhiò Nia, gli occhi fiammeggianti.
“Autista,
prego… Il ruolo del buffone lo lascio tutto a te, dolcezza,
non potrei mai competere” sorrise di rimando Tom, facendo
arrabbiare ancora di più Nia.
Il ragazzo si
voltò poi verso Charlotte, posandole lo sguardo addosso con
dolcezza, per poi dirle “Sei bellissima”.
“G-grazie”
arrossì violentemente lei.
“Il vestito
l’hai scelto tu?”
“L’ho
scelto io, perché?” sbottò Nia.
“Mi era
parso…” sorrise di nuovo lui, prima di avviarsi
verso le scale. “Sono le nove meno dieci, sarà
meglio andare, e vi conviene darvi una mossa, perché non ho
intenzione di venirvi a salvare da un eventuale rapitore mentre ve la
fate a piedi, perché non vi aspetto
più!”
Nia inspirò
a fondo, premendo la radice del naso e imprecando mentre cacciava una
manciata di cleanex nella borsetta. Diede uno scossone a Charlotte che
fissava il cappotto con aria spiritata, glielo cacciò sulle
spalle, ed indossato il proprio, seguirono entrambe Tom fuori. Salirono
in macchina e si avviarono alla festa tanto discussa.
Arrivarono alle nove e
un quarto, in una viuzza poco distante dal centro di Londra, una zona
senza dubbio di lusso, a giudicare dalle macchine parcheggiate e dai
giardinetti curati a regola d’arte.
Tom
parcheggiò in una via parallela, mentre un SUV nero lucido
sfrecciava loro accanto diretto alla festa.
“Perché
non è venuto un autista a prenderci?” chiese Nia,
aprendo la portiera ed uscendo. “Pensavo che fosse
inclusa”.
“La mia
guida ti turba, zuccherino?” rispose Tom.
“Una volta
sono venuti a prendere Robert a casa, per una festa” disse a
bassa voce Charlotte, stringendosi nel cappotto.
Tom fece una smorfia,
mentre inseriva l’antifurto. Si incamminò, con le
ragazze al seguito, e passò un braccio attorno alle spalle
di Charlotte. “Si, potevamo avere l’autista,
ma… pensavo fosse più divertente andare per conto
nostro” disse, abbassando lo sguardo sulla ragazza.
La mora lo
guardò sorridendo, prima di appoggiargli il capo sulla
spalla e sussurrare “Grazie”.
Pochi minuti dopo
erano all’entrata. Doveva essere una delle villette
più grandi nei paraggi, e la siepe che circondava la
proprietà nascondeva un giardino molto grande e incantevole.
C’erano lanterne sistemate lungo tutto il sentiero in pietra
grigia e appese agli alberi sparsi, e gettavano una luce aranciata e
calda tutt’attorno. Si intravedeva anche il profilo di una
piscina, illuminata, non molto distante, probabilmente dove la festa
cominciava già ad accendersi.
Un gruppetto li
superò avviandosi verso la villa, tra risate e gridolini,
mentre un altro SUV si fermava alle loro spalle facendo scendere altra
gente.
“Interessante…”
mormorò Nia, con lo sguardo sfavillante. Tom
ridacchiò. “Bene, andiamo!” aggiunse
poi, partendo in quarta sui suoi tacchi dodici.
Erano a
metà del vialetto quando lei e il ragazzo si resero conto
che Charlotte era rimasta indietro, immobile al cancello e li osservava
con aria perplessa. Si fermarono.
“Bimba?”
disse Tom, tornando indietro.
“Oddio, e
adesso che c’è?” sospirò
invece Nia passandosi una mano sulla fronte e pensando che, si, quella
sarebbe stata una serata davvero lunga. Raggiunse gli altri due.
“Hei, cosa c’è che non va?”
“Niente…”
“Bene!
Quindi andiamo” disse sorridendo e prendendole la mano,
tirandola. “A meno che tu non voglia entrare dalla finestra,
per quanto possa essere originale, la porta è
l’unica chance. Coraggio dolcezza”.
“N-non…
a-aspetta, Nia… Lasciami!” strillò
Charlotte strattonando la presa.
“Nia
lasciala, smettila” si intromise Tom. Vedendo poi che la
ragazza non mollava il polso della mora, si intromise a sua volta.
“Adesso basta!”
“Stammi bene
a sentire Thomas Sidney
Jerome Sturridge” fiammeggiò la
bionda. Ora era arrabbiata. Sul serio. “Eh si, so il tuo nome
per intero, non guardarmi come se fossi la sfigata che ha inventato la
bomba nucleare, mezzo mondo sa come diamine ti chiami! Apri bene le
orecchie perché ho deciso di dare sfogo alla mia ira proprio
ora, proprio qui, perciò goditi la cosa fino in fondo: sono
mesi che ho umiliato la mia pazienza e sfrattato le mie buone abitudini
mondane per darmi al volontariato! Non che non sia stata
un’esperienza divertente e istruttiva, oh… il mio
karma mi ringrazia ogni santo giorno…”
assottigliò gli occhi. “Ma sfacchinare come se mi
fossi iscritta a tempo indeterminato al club dei sostenitori della
cause perse, sbattere la testa contro il muro perché sarebbe
molto più produttivo che continuare a smuovere una persona
che ha deciso che è molto più soddisfacente
giocare alla damigella in pericolo, beh… NE HO
PIENI I COGLIONI!” strillò facendo sussultare due
che passavano sul vialetto. Si girò e puntò un
dito contro Charlotte. “Perché ti piaccia o no,
lui non è qui. Lui non c’è e non ci
sarà fino a quando diamine deciderà di respirare
un po’ d’aria. Fattene una ragione! Non
c’è la faccia di Robert Pattinson stampata
sull’intero globo, il mondo non gira attorno a
lui… e tu sei rimasta con i ragazzi cattivi. Io”
disse indicandosi, e poi indicò Tom, “E questo
povero sfigato che, per quanto spari stronzate, è molto
più utile di Mr.Vampiro disperso chissà
dove”.
“Nia, adesso
bas - ” cercò di interromperla lui.
“ZITTO! Non
ho ancora finito” gli mise una mano sulla bocca.
“Quindi, Charlotte. O accetti il fatto che, per quanto una
persona possa aver passato l’inferno nella sua vita,
può anche trovare il modo per risalire, magari sforzandosi
di essere anche una
persona migliore… per se, e per gli altri, proprio come un
qualcosa di ecologico: felice tu, felici noi, felice il mondo. Che cosa
credi, brutta egoista? Di essere l’unico essere umano ad aver
avuto una tragedia famigliare? Quanti bambini credi ci siano al mondo
senza genitori? Uhm? Orfani.
Si Charlotte, orfani… devi imparare a dirla quella
stramaledetta parola! Perché è quello che sei, e
mi dispiace… ma lo sei. Ma a differenza di altri, che
superano la cosa, crescono e hanno una famiglia a loro volta, tu fai
finta che sia la storia di un altro, e non la tua! Merda, lo vuoi
capire, si o no? Perché in caso contrario, lascia che te lo
dica, sei la delusione più grande con cui io abbia mai avuto
la simpatica fortuna di andare ad impantanarmi…” e
lo disse con le lacrime agli occhi, con i grandi occhi azzurri trafitti
da una lamina di dolore e disperazione. Il bel viso attraversato da una
smorfia di amarezza e rimpianto. “E detto
ciò… mi sono divertita abbastanza. La festa
è per di là, io me ne vado a casa.
Ciao”.
Nia
sorpassò Tom. Sorpassò Charlotte.
Attraversò il cancello in un ondeggiamento di stoffa e
capelli biondi lucenti. Girò l’angolo e
sparì nel buio.
Charlotte e Tom
rimasero immobili, statue di sale, nel mezzo del vialetto. Almeno tre
coppie di invitati gli passarono accanto, chiacchierando e spensierati.
Fu quando la musica si levò più alta dalla villa
che i due cominciarono a riprendere possesso delle proprie
facoltà mentali.
Tom storse la bocca ed
inarcò un sopracciglio, fissando le mattonelle.
Charlotte sbatteva gli
occhi ripetutamente, mentre cercava di dire qualcosa.
Tom
irrigidì il collo e alzò il viso verso il cielo.
Charlotte si morse il
labbro e lasciò cadere una lacrima lunga la guancia.
Tom inspirò
e, lentamente, portò l’attenzione sulla ragazza di
fronte a lui.
Charlotte
deglutì e strinse i pugni, ripetendosi che Nia era
effettivamente scomparsa.
“I-io…”
cercò di dire lei.
Il ragazzo sembrava
diverso. Un’espressione mai comparsa sul suo viso, che gli
dava un’aria adulta, seria, priva di dolcezza, priva di
bonarietà, assente da ogni traccia di ilarità.
Gli occhi azzurro chiaro erano immobili e graffiavano come uncini.
“Nia non
sarà di certo la prima candidata al concorso internazionale
del bon-ton,
e detto da me non è un complimento” disse
asciutto. “Ma ha semplicemente detto quello che io da mesi
non sono riuscito a dire a chiare lettere. E per quanto possa far male
sentirtelo ripetere, ha detto la verità”.
Charlotte chiuse gli
occhi, mentre le lacrime le si staccavano dalle ciglia come perle
argentee, cadendo al suolo. Riusciva quasi a percepirne la loro
silenziosa caduta, come un grido agghiacciante che si infrangeva in
mille pezzi sulle mattonelle fredde. Riaprì gli occhi scuri
e li posò sul ragazzo.
E a sua volta, sul
viso le comparve un’espressione fra lo sgomento e la
decisione, fra lo stupore e la durezza, fra l’angoscia e la
determinazione. Una via di mezzo. Un posto nascosto fra due mondi che
continuavano a strattonarla, cercando di conquistarla e portarla con
se, come una terra senza bandiera, una terra di battaglie sanguinose,
una terra calpestata e in ginocchio e che, prima o poi, avrebbe dovuto
scegliere a quale partito dare una chance.
“Verità”
ripeté atona.
“Pensi di
star facendo molto, di sforzarti. Ma non è così.
E se stai per chiedermi con che diritto parlo così, ti
rispondo dicendoti che se ti importasse almeno la metà di
tutto quello che è stato fatto, probabilmente Robert sarebbe
un attore affermato da tempo, io non sarei qui, e tu e Nia sareste alla
festa già da un pezzo. E questo solo per quanto riguarda
stasera. Ma non occorre che allarghi le tue visuali, penso di essere
già abbastanza chiaro, non è vero?”
Charlotte non rispose
ed abbassò il capo. Guardò poi le finestre
illuminate della casa e pensò alla gente
all’interno, sembravano divertirsi.
“Ho perso
memoria di come ero un tempo…” disse a bassa voce.
“Hai voluto
dimenticarlo. Perché fa troppo male ricordare”.
“È
un modo di difendersi, come tanti altri”. Aveva una voce
strana, roca e cupa, come un ricordo che, avvinghiato alla gola, altro
non aspettava che venire alla luce.
“Difesa
contro cosa? Contro chi? Contro di me? Contro Bobby?”
“Ogni
cosa…”
Il silenzio scese. Le
lacrime avevano smesso di scendere, congelate come cristalli sulle
guance arrossate.
“Non ho mai
voluto farti del male” mormorò Tom.
“Ogni
sentimento, ogni attenzione, ogni cura, ogni… affetto, mi ha
ferito. Il vuoto ti riempie il petto per un evento che non hai chiesto,
e disperatamente ti affanni per colmarlo perché
l’assenza del calore ti fa sentire spoglia, nuda ed
insignificante. Ma quando ne hai accumulato tanto da scoppiare, ti
rendi conto che… no… non puoi. Perché
godere dell’interesse, della protezione e del sostegno di
qualcuno se poi, per piani da noi non premeditati, si viene cancellati
senza nemmeno avere il tempo di dire addio? Solo una persona
tremendamente forte e pazza potrebbe farlo. E io non sono forte. E non
sono pazza”.
“Non
è vero”.
Charlotte fece
scattare gli occhi su di lui. “L’hai detto anche
tu. Se lo fossi, le cose sarebbero diverse da un pezzo”.
Tom scosse il capo e
le si avvicinò di un passo. Allungò la mano e le
sfiorò i capelli.
“Tu sei
forte. Lo sei sempre stata” le sorrise. “Sai
perché io e Bobby ti prendevamo sempre in giro da piccoli?
Perché sapevamo che per quanto ti arrabbiassi, alla fine non
ti importava… perché sapevi il fatto tuo, eri
già ritagliata nel tuo mondo indistruttibile. E lo sei
ancora adesso: sei la persona…” la voce gli
tremò e deglutì ricacciando indietro le lacrime.
“Sei una delle persone più straordinarie che io
abbia mai incontrato. Avresti potuto demolire un grattacielo da piccola
con la sola forza dello sguardo, e non oso immaginare cosa potresti
fare ora. Quando sorridi è come se la stanza si illuminasse
di luce propria. Quando io e Bobby abbiamo un pensiero o un dispiacere,
e sentiamo la tua voce… pensiamo che si, alla fine non
è poi tutto uno schifo, c’è ancora
qualcosa per cui vale la pena lottare. E questo perché siamo
uniti, e lo siamo sempre stati: amici,
Charlotte. È questo. Soltanto questo. La forza
dell’affetto, della devozione e della solidarietà.
È per questo che Robert s’è cucito
addosso il tuo dolore. L’ha stampato sui muri di casa propria
per condividerlo, perché potesse essere di conforto a te! Ha
ritagliato la sua vita attorno alla tua, ha scelto di combattere anche
oltre un confine che io definirei eccessivo, ma…
l’ha fatto lo stesso. E di certo non per diletto
personale”. Ormai piangeva, senza preoccuparsene.
“Ed è lo stesso che io e quella disgraziata stiamo
facendo. Perché quando un amico crolla, noi affondiamo con lui.
Quando un amico soffre, noi
piangiamo con lui. Quando un amico strilla, noi ascoltiamo. E
tu l’hai sempre fatto… tempo fa. Ora era il mio
turno. Quello di Bobby e Nia. Ma non… n-non…
approfittarne, ti prego. Perché è logorante,
è dannatamente distruttivo agire vedendo che quello che sto
facendo non serve a niente. Perché io non ho altro! Dio
io… io non altro! Non ho altro da darti se non
l’aiuto di un povero scemo, e credimi, Nia pensa lo stesso, e
Robert pure”. Le passò una mano sul viso,
togliendole le lacrime. “Il tempo per piangere è
finito. Il sole non è poi così brutto”
disse sorridendo.
E Charlotte pianse.
Gli gettò le braccia al collo e lo strinse come se avesse
potuto scomparire da un momento all’altro. Sentì
il suo petto schiacciarsi contro lo sterno e le braccia di Tom serrarsi
contro la sua schiena e sollevarla da terra. Pianse. Piangevano.
Mormorò “Mi dispiace”. Lo
sussurrò così tante volte che era divenuta una
filastrocca. Perché in fondo era vero, quando una persona
affonda, porta con se ciascun’anima che almeno una volta le
ha sorriso e le ha teso la mano. E lei, di affetto, ne aveva ricevuto
in quantità immane, solo… doveva imparare ad
apprezzarlo di nuovo.
“Mi
dispiace, Tom” singhiozzò. “Mi
dispiace”.
“Non
importa. Va tutto bene” la cullò lui.
“Le cose cambieranno, cambiano sempre”.
“Cambiano
troppo in fretta”.
“Sono solo
schifosi punti di vista, tesoro. Punti di vista”.
“Mi manca,
Tom. Mi manca… vorrei che fosse qui”.
Tom sorrise e le
accarezzò la testa. “Anche io”.
“Io non ho
mai voluto che lui… che lui si distruggesse per stare vicino
a me, non l’ho mai voluto. E sono un’ingrata!
Io… io vorrei che fosse qui e riuscire a dirgli almeno per
una volta che lo so. Che mi dispiace!”
“Non
è una questione di volere o non volere. È
un’azione di affetto, tesoro. Di amore” disse lui
guardandola. “L’ha fatto per te. E
credimi… lo sa che ti dispiace. Altrimenti non
l’avrebbe fatto”.
Charlotte fece una
smorfia sconfitta. “… non c’è
stato nemmeno per Capodanno. Ho dovuto sentirlo attraverso un dannato
telefono, mentre mi faceva gli auguri, quando… quando tutti
gli altri anni lo festeggiavamo tutti assieme. Vive cose che io non
avrò modo di condividere, non potrò dargli il mio
appoggio, così come tu non potrai! Io…”
“Basta
così, basta così” disse il ragazzo,
tornando a stringerla a se. “Non occorre tirare fuori tutto
in questo modo, serve solo a farti agitare e stare male.
Basta… Lo so che è brutto, lo so che è
dura, lo è anche per me. Non credere che non mi manchi!
Diamine, sto diventando un santo per colpa della sua brillante idea di
andarsene, mi tocca essere responsabile, e quello responsabile era
lui!” disse ridacchiando per smorzare la tensione.
“Ho cercato di non pensarci i primi tempi, ripetendomi che
era giusto che se la cavasse da solo, che un po’ di
lontananza gli avrebbe fatto bene, eppure sono stato il primo a
rimanere fregato, come te, perché… mi manca.
È come un fratello, e odio il fatto di non essergli vicino,
a prescindere da qualunque sia l’occasione. E ho paura che le
cose possano cambiare a tal punto da dividerci troppo. Ma è
successo. È andata. Prima o poi si cambia. Sempre.
È lo scopo di ciascuno di noi… Lui sta cambiando
per se. Io cambio in seguito ad una sua azione, e tu cambierai a tua
volta. E forse cambierà anche la tua amica bionda, lo spero.
Ma i cambiamenti non devono farci paura, o saremmo ancora
all’età della pietra, non credi?”
Si guardarono ancora
un istante, azzurro contro castano cioccolato, e poi Tom fece una
linguaccia e lei rise,
forte, col viso
rivolto al cielo, la risata più bella del mondo, assieme ad
un amico.
“Ah.
Grandioso. Io mi incazzo come iena e, appena torno, voi ridete come
Hansel e Gretel davanti alla casetta di marzapane”.
Charlotte e Tom si
voltarono di scatto verso il cancello. Nia se ne stava di fronte a
loro, a braccia conserte, il naso rosso e la faccia indescrivibile.
“Oh guarda.
L’effetto boomerang del senso di colpa, bentornata
dolcezza”.
“Fa
silenzio” ringhiò Nia. Ma non fece in tempo a dire
altro che Charlotte si sciolse dall’abbraccio di Tom e le
corse in contro saltandole addosso in una morsa stritolatrice.
“Sono contenta che sei tornata”.
Nia assunse
un’espressione confusa e sorpresa; guardò Tom in
cerca d’aiuto e ricevette una fulminata assassina pari ad una
minaccia implicita di ricambiare l’abbraccio e smettere di
lanciare critiche gratis.
E così fu
tempo per la seconda riconciliazione. Una festa tanto odiata, e
così tanto amata allo stesso tempo. E la serata non era
ancora finita.
“D’accordo…
vabene, vabene, ho capito, adesso smettila, chérie, ho un
orgoglio da mantenere, intese?” si scollò
Charlotte di dosso. La osservò con affetto, mascherato sotto
un cipiglio scocciato. “Ho il fondo schiena ibernato, le
orecchie e le mani perse in un’altra dimensione, e non ho
camminato per due quartieri su questi dannati tacchi a spillo per non
baciare nemmeno lo zerbino di quella stupida cazzo di villa, capito?!
Muovetevi, tutti e due!”
***
All’interno
si scoppiava. Il riscaldamento doveva essere al massimo,
perché non appena entrarono, i tre si tolsero i cappotti di
dosso e slacciarono i primi bottoni della camicia e si fecero aria con
le mani.
“Oh
Gesù… è un forno”
borbottò Nia, sistemandosi l’orlo del vestito
striminzito.
“Un punto a
favore di chi ha organizzato la festa: risparmiano sul tempo che uno
impiegherà a spogliarsi… La cosa si prospetta
interessante” commentò Tom, guardandosi attorno
alla ricerca di chissà cosa.
“Tieni per
te le tue riflessioni maschili selvagge, Thomas Sidney
Jerome” sbuffò lei.
Tom si
voltò lentamente verso di lei, con occhi lampeggianti.
“Tom”.
“Uhm? Oh,
Thomas. Tom. Sidney. Jerome. Fa lo stesso, no?” sorrise
provocatoria.
Lui strinse i pugni.
“Bisbetica”.
“Non hai
idea di quanto” allargò il sorriso lei.
E sarebbe finita
nuovamente in lite se, “Ok! Promemoria per Nia: Thomas
Sidn… cioè, Tom,
odia il romanzo di secondi nomi che si porta appresso”
esclamò Charlotte saltando come una molla fra i due.
“È una persona riservata, Nia”.
La bionda
spostò lo sguardo sull’amica, la fissò,
poi lo riportò sul ragazzo che era sul punto di incenerirla
con la forza della volontà.
“D’accordo”, disse. E lo disse ghignando
silenziosamente.
Charlotte
sospirò, mentre Tom si incamminò verso una porta
a doppi vetri dove stava un uomo in giacca e cravatta, auricolare
all’orecchio e i bicipiti più grossi che Nia
avesse mai visto.
“Prego”
disse questo.
“Tom
Sturridge” rispose Tom, allungando una busta bianca, che
l’uomo scartò prontamente tirandone fuori un
invito in carta stampata. “E loro?” aggiunse con un
cenno alle due ragazze.
“Sono con
me, su richiesta personale del signor Pattinson”
annuì Tom, allungando una seconda busta, che
l’uomo aprì e controllò. Attimi di
lungo silenzio, prima che una fitta lista di nomi venisse controllata
due volte e la porta a doppi vetri venisse aperta.
“Vi auguro
una buona serata” disse l’uomo.
“Altrettanto”
lo salutò Nia.
Si ritrovarono in una
hall ampia e piastrellata in marmo, che dava su due gradinate laterali,
le quali portavano ad un salone inondato di luce e colori. Lungo le
ringhiere erano affissi mazzi di rose bianche e rosa, l’odore
dolciastro dei fiori sospeso ovunque tanto da far venire il capogiro.
“Hai
capito?” commentò piacevolmente sorpresa Nia,
affacciandosi al balconcino che dava sulla sala. Charlotte la
raggiunse, e le poggiò il capo sulla spalla.
“Pensi che incontreremo qualcuno di famoso?”
“Uhm?
Oh… non lo so, immagino di si” rispose la mora.
“Pensavo
fossi informata su questo genere di cose: hai un neo attore che ti
scorrazza in casa…”
“Robert non
mi ha mai portato alle feste. Non gli piace… mettersi in
mostra in situazioni simili” fece spallucce lei, guardando di
sotto con aria perplessa.
“Quel
ragazzo è davvero fatto al contrario” scosse la
testa la bionda. Charlotte sorrise.
“Allora,
bambine. Scendiamo? Non vi porto in braccio” le
chiamò Tom da metà scala. E le due lo
raggiunsero, Charlotte prendendolo sottobraccio.
“Thomas, a
rapporto” gli sibilò nell’orecchio Nia.
“Che cosa
vuoi?”
“Chi
è presente? Chi c’è? Che cosa si fa? A
che ora ci rinchiudono? Datti da fare, dimmi qualcosa!”
“Il Signore
ha voluto darti occhi e mani, con mio sommo dispiacere, vedi di
arrangiarti da sola, che dici?”
“Attento Sidney, non
provocarmi…” ringhiò Nia.
“Hei,
guarda… quello l’ho già visto da
qualche parte” li interruppe Charlotte, indicando un ragazzo
impegnato in una conversazione. Era alto, slanciato, capelli folti e
scuri.
“Oh…
mio… Dio”. Il vocabolario di Nia si ridusse
notevolmente, per lo shock.
“Chi
è?” chiese confusa Charlotte.
“Uhm?”
borbottò Tom voltandosi a guardare. “Dove? Ah.
Quello è Ben! L’hai visto perché ha
appena finito di girare… aspetta cos’è?
Oh si, le Guerre di Narnia, o qualcosa del genere”.
“Cronache di Narnia,
Cronache, razza di blasfemo” sibilò Nia. Era
visibilmente accaldata, le guance in fiamme e lo sguardo lucido e
acceso. “Beh che fai lì impalato? Renditi utile,
presentacelo!”
“Ma
com’è possibile che tu sia diventata di colpo
disabile? Devo portarti più spesso alle feste!” le
sorrise Tom. “Arrangiati!”
“Tu!”
guardò allora Charlotte.
“Ah no, io
non conosco nessuno e se sapessero che conosco Robert, non…
credo né che farei una bella figura non conoscendo nessuno
qui dentro, né ne uscirei viva dai pettegolezzi”
scosse il capo Charlotte.
“D’accordo
facciamo così” le prese per le braccia Tom.
“Andate in giro da sole, io vado a parlare con una persona,
affari di lavoro, le feste servono anche a questo, ci vediamo fra una
mezz’oretta, d’accordo? E per favore, dai un
tranquillante ai tuoi ormoni, perché se Charlotte finisce
spennata, giuro che andrai a fare compagnia alle rose sul cornicione:
è abbastanza chiaro come concetto, bionda?”
E fu così
che le due si ritrovarono sole, circondate da una marea di gente
sconosciuta, vestita in abiti di alta sartoria, scintillio di
paillettes e strass, morbidezza di raso e cotone pregiato, profumo di
dopobarba ed eau de
toilette femminile… Charlotte chiuse gli occhi
per un secondo, aggrappandosi al braccio di Nia, ripetendosi che poteva
farcela. Era solo una stupida festa, era solo caos. Erano solo calore e
rumore. Erano solo risate e discorsi accesi. Era solo divertimento.
Cercò di scavare a fondo nella sua testa, fra i suoi
ricordi, tuffandosi fra le mille immagini d’adolescenza, alla
ricerca di un appiglio che le rammentasse come ci si comportasse, che
le ridesse la sicurezza che sapeva di possedere, ma che era finita in
un mare di polvere. Tom aveva ragione. Lei era sempre la stessa, basta
solo ammetterlo ed accettarlo.
“Ti senti
male? Hai bisogno d’aria?” le chiese Nia, vedendola
impallidire.
“N-no. Sto
bene. È solo che non ho l’abitudine… ma
posso farcela. È come andare in bicicletta dopo parecchio
che hai smesso, giusto?” cercò di sorridere. E
forse fu quel sorriso timido a stringere il cuore della ragazza,
accanto a lei.
“Andrà
benone, è solo una festa chiassosa. E ci sono io”
le disse stringendola. “E no, non era una minaccia, non
stavolta”.
Gironzolarono facendo
la slalom fra persone impegnate a bere o in una conversazione al
blackberry, fra gruppi di uomini e donne lanciati in discorsi
incomprensibili, fra camerieri dalle facce scolpite nel marmo e il
braccio fermo con i loro vassoi colmi di cibo. Rimasero abbagliate
dallo sfarzo e dall’eleganza che trasudavano da ogni singolo
angolo di quella villa, quasi fosse una melodia lussuriosa che
scivolava nell’aria fondendosi ed impregnandosi i presenti.
Man mano che passavano in parte ad un invitato, Charlotte aveva
l’impressione di sentirsi minuscola ed insignificante, quasi
che tutti fossero divenuti d’improvviso dei gigante e lei
altro non fosse che una formica, col rischio di restare schiacciata.
Sentì la testa girarle, ma provò a non pensarci.
“Che ne dici
se andiamo fuori?” chiese Nia. E l’altra
annuì prontamente. Aveva bisogno d’aria.
Il giardino era
immenso, ed inondato di luce tanto da non percepire la differenza
dall’interno all’esterno. Una piscina enorme e dai
bagliori azzurri attirò la loro attenzione. Attorno ai suoi
bordi v’erano concentrati quelli che probabilmente erano la
gioventù della festa di quella sera. Ragazzi fra i venti e i
trent’anni, vestiti fra l’elegante e
l’originale, fra il ricercato e il minimalistico. Ridevano,
chiacchieravano, facevano brindisi, fermavano i camerieri per prendere
altro champagne, si spintonavano amichevolmente, sospiravano e
flirtavano… Ragazzi. Giovinezza.
“E
così abbiamo trovato la nostra riserva di caccia standard,
tesoro” sorrise Nia, passandosi involontariamente la punta
della lingua sulle labbra. Si portò poi una mano sulla bocca
e guardò Charlotte, “Ma direi prima di andare a
prendere qualcosa da bere, mai correre… ho bisogno di
riflettere prima”.
“E nei tuoi
piani è contemplata anche la mia sopravvivenza,
si?”
“È
al primo posto, chérie, sempre” le
strizzò l’occhio lei, prima di portarla al piano
bar. Il ragazzo dietro il bancone le salutò con un sorriso
accecante e voce roca. “Due baileys con ghiaccio,
grazie” ordinò Nia sorridendogli. Si
voltò poi rivolta all’amica, “Partiamo
con qualcosa di leggero”.
“Guarda che
so cos’è” borbottò lei,
offesa.
“Bene!
Doppio giro allora, dolcezza!” rise forte l’altra.
Restarono sedute al
bancone assaporando la loro crema di whisky ed intavolando una fitta
conversazione con il barista che Nia aveva prontamente coinvolto,
finendo con lo scoprire che si chiamava James, che aveva ventiquattro
anni, che era americano e quella era la terza festa importante a cui
partecipava come barista. Un gran affare, così pareva.
Charlotte
giocherellava con il bicchiere, passandovi il dito sul bordo, ed
ascoltando distrattamente Nia flirtare allegramente con il barista.
Aveva perso il filo del discorso da un pezzo ormai, sentiva
l’ansia e la tensione scorrerle addosso come un secondo
vestito, ma allo stesso tempo era troppo distratta e assente per
riuscire a preoccuparsene davvero. Galleggiava in un misto di emozioni
che, si disse, forse si era addormentata e quello che stava vivendo non
era altro che un sogno dai colori troppo accesi e i suoni assordanti.
Guardò il
fondo del bicchiere e le sfumature del liquido cremoso e leggermente
alcolico. Dio, da quanto non beveva? La sua ultima festa in grande
stile era stata ad un compleanno, quello di Tom per la precisione.
Ricordava ancora i nomi degli invitati, lei stessa aveva compilato la
lista e mandato gli inviti… “Sei più
brava di me nelle pubbliche relazioni, manda tu le lettere, non vorrai
che il povero Robert finisca per invitare qualche strana pazza maniaca,
vero?” le aveva sussurrato all’orecchio Rob, quel
giorno, implorandola di aiutarlo nella gestione della festa a sorpresa.
Charlotte sorrise, se
l’era dimenticato… Stava dimenticando come fosse
il suono della voce di Robert, come fossero i suoi occhi, come fossero
le sue mani e il suo modo di camminare ciondolante. Erano connotazioni
impresse nel cuore, ma che la memoria e l’abitudine
richiamavano con disperazione per timore che finissero cancellate. Ne
aveva bisogno. Avvertiva la sua mancanza come un graffio fondo sulla
gola, aveva persino smesso di guardare le loro fotografie assieme,
avrebbe arrecato solo dolore… Sentirlo per telefono
cominciava a non bastare, cominciava ad essere riduttivo, come
l’ora d’aria per un carcerato, e le minime mail
mandate erano quasi inesistenti, Rob non amava scrivere a computer. Era
come avere un diario le cui pagine sparivano e si cancellavano con il
passare del tempo e, per quanto lei si sforzasse di fissare le parole,
esse fluttuavano nell’aria lasciandola con un pugno di cenere
in mano.
Si portò
una mano alla fronte e sospirò. Si, forse era davvero il
momento di cambiare e pensare ad altro. In quel modo non andava,
inutile girarci attorno.
“Ciao”.
Charlotte quasi
lasciò il bicchiere a terra. Si voltò alla sua
sinistra e incontrò gli occhi azzurri più grandi
e cristallini che avesse mai visto, dopo quelli di Nia.
“C-ciao”.
Era un ragazzo. Non
doveva avere più di vent’anni, pensò
Charlotte. Aveva dei lineamenti duri ma ingentiliti dal sorriso pieno e
lo sguardo giovane. Il ciuffo biondo gli cadeva scompigliato sugli
occhi, nascondendoli in parte e dandogli un’aria
interessante… Lei lo guardò, legandosi a quegli
occhi che era certa di aver già visto, a quel volto che era
sicura di aver già incontrato, lo guardò come si
guarda un’opera d’arte, come si osserva un fiore
particolarmente perfetto, dimenticandosi completamente di avere
l’uso della parola.
Fu lui a riportarla
alla realtà, sorridendo di nuovo e offrendole la mano,
“William, piacere”.
***
La luce era soffusa.
Non c’erano rumori. Sentiva caldo.
Robert aprì
a fatica gli occhi, sentendo le palpebre pesanti come fossero macigni.
Li strizzò un paio di volte prima di riuscire ad abituarsi
alla penombra in cui era immerso.
Era a letto,
notò, nella sua roulotte. Era sotto le coperte e con addosso
solo la sua vecchia t-shirt. Alzò un sopracciglio: o aveva
fatto tutto da solo, o… qualcuno l’aveva portato
lì e l’aveva spogliato. Cercò di
mettersi a sedere ma un improvviso capogiro lo costrinse ad incollarsi
al cuscino, implorando perché la stanza smettesse di girare.
“Oh, sei
sveglio!”. Una voce femminile gli arrivò
all’orecchio e ci impiegò un po’ prima
di focalizzare Kristen, seduta sul bordo del letto.
“C-ciao…”
“Come ti
senti?”
“Uhmm…
come se fossi in caduta libera da un palazzo di settecento
piani” mormorò lui massaggiandosi la fronte
dolorante. “Che è successo?”
“Non te lo
ricordi?” chiese sorpresa lei. “Sei svenuto. Mentre
eravamo a cena”.
“Grandioso”.
“Eri ancora
vicino a Kellan quando sei caduto, ma non abbastanza perché
riuscisse a prenderti al volo. Hai… ehmm…
sbattuto la faccia, temo” borbottò lei, quasi si
sentisse in colpa.
“Come
minimo. Sono riuscito anche a fratturarmi una gamba o incrinarmi una
costola, nel caso? Le fortune vengono sempre tutte assieme”
biascicò lui.
Kristen rise.
“No, eroe. Solo un livido sulla tempia, ma
passerà”.
Restarono in silenzio
per un po’, poi Kristen raggomitolò le gambe sul
letto. “Vuoi qualcosa da mangiare?”
“No,
grazie”.
“Dovresti.
Ultimamente mangi molto poco”.
“Tu dici? E
come fai a dirlo?” chiese lui alzando la testa per guardarla.
“Me ne
accorgo” annuì lei, per nulla imbarazzata.
Robert rise e
tornò ad appoggiarsi sul cuscino. “Vabene.
Mangerò qualcosa dopo”.
“Meglio
così, perché Jackson è appena andato a
rubare dalla cucina apposta per te”.
“Jack era
qui?”
“E anche
Kellan. Se ne sono andati cinque minuti fa… Ma non credo che
la cucina sopravviverà a lungo con Kell nei paraggi e senza
guinzaglio” commentò solenne lei.
Robert rise di nuovo,
sentendo la testa girare forte, ma non vi badò.
Tossì un paio di volte, sentendo la gola secca come se
avesse ingerito carta vetrata e cercò di rimettersi a
sedere. Puntò i gomiti e con una smorfia unica
ballonzolò sul cuscino, dovendosi limitare a sollevare solo
la schiena. Kristen al vederlo con la faccia distrutta, i capelli
ramati sparati per aria e la maglietta storta scoppiò a
ridere gettando la testa all’indietro.
“Ma come sei
simpatica” borbottò Robert girando la faccia
altrove per l’imbarazzo.
“Oh andiamo,
dovresti vederti, sembra che ti sia passato un tornado in
testa!” rise lei coprendosi la bocca con la mano.
“È
il fascino dell’uomo trasandato, sai?”
“Oh ohooo,
ceeerto” si batté la fronte Kristen, annuendo come
se Robert avesse appena rivelato una verità assoluta. Si
fissarono poi per qualche istante, prima di scoppiare entrambi a ridere
nuovamente.
E ridevano ancora
quando Jackson entrò nella roulotte con un cestino di vimini
ed un fazzoletto rosso legato in testa, nemmeno fosse stato la nonna
di Cappuccetto Rosso. Saltellò come un bambino nel
vedere che Robert era ancora tutto d’un pezzo e
sfoggiò il bottino di guerra che, a detta sua, con tanta
fatica era riuscito a sottrarre alla razzia che Kellan stava attuando
in cucina.
“È
peggio di un panzer, giuro”.
“Per non
parlare dei suoi eccelsi gusti culinari” alzò le
sopracciglia Kristen.
Robert
scartò il suo panino, e fece spallucce. “Per me
è uno a posto”.
La ragazza
ridacchiò, “Per te, tutto il mondo è
buono, tesoro”. E lui sorrise in tutta risposta addentando il
panino.
“Come ti
senti? Va un po’ meglio?” chiese Jackons,
appoggiato al comodino.
“Beh,
la stanza ha smesso di girare, e ora vedo una Kristen
anziché due… quindi si, direi che va molto
meglio, grazie”annuì lui con aria sollevata.
Kristen dal canto suo
gli tirò un pizzicotto sul braccio con aria offesa.
“Dopo che sono rimasta qui a vegliarti tutto il tempo? Bel
ringraziamento!”
“Un
gentleman modello, vero? Lo so” sorrise Rob.
Restarono a
chiacchierare per poco più di una mezzoretta, Robert
accoccolato fra le lenzuola e il cuscino, Kristen appoggiata al muro ai
piedi del letto e Jackson appollaiato sul comodino. Si scambiarono
vecchi aneddoti e ricordi dell’infanzia, parlarono di quanto
effettivamente il lavoro fosse quasi una riunione di famiglia, tanto
l’atmosfera era rilassata ed accogliente, e rifletterono sul
fatto che, forse, il pezzo forte doveva ancora venire con il tour di
promozione.
“Sarà
interessante” disse Kristen, guardandosi le unghie.
“Lo dici con
un entusiasmo che potrebbe uccidermi” le rispose Robert. E
Jack annuì.
Lei fece spallucce.
“Non ho mai amato particolarmente le feste e i discorsi
ufficiali… È il lato dark del lavoro che
scarterei volentieri”.
“Il lato
dark…” le fece eco Robert cercando di capirla.
“Recitare
è solo una questione di giornate lavorative, di corse avanti
e indietro sul set, di… battute recitate a
memoria” cercò di spiegarsi allora lei, agitando
le mani. “Scegli i personaggi, c’è
quello in cui ti immedesimi meglio e quello che devi convincere a
collaborare con la tua personalità. È questo il
lavoro dell’attore: perché i tours di promozione e
le feste, allora?”
“Perché
se no nessuno verrebbe a vedere il film?” le giunse in aiuto
Jackson.
“Si chiama
promozione apposta, Kris” concordò Robert.
Osservava la ragazza torturarsi le mani e sbattere le palpebre
ripetutamente, come se fosse a disagio o come se stesse cercando di
esprimere un concetto non semplice.
“Ho solo
detto che non mi piace, non che non debbano farla”
cacciò la lingua lei, prima di nascondere la faccia dietro
un ciuffo di capelli.
Jackson scosse il capo
e scese dal comodino. “Donne, chi le
capisce… ha la mia stima” rise scompigliando i
capelli di Kris. “Andiamo, lasciamolo dormire. Cat ha detto
che puoi prenderti un paio di giorni di riposo Rob, e io ne
approfitterei. Passiamo a trovarti domani a pranzo”.
“Grazie,
per…” disse lui, indicandosi lo stomaco alludendo
al panino, “Buona notte”.
“Dormi
bene” lo salutò Jack, scendendo i gradini ed
uscendo.
“Cerca di
riposare, d’accordo?” si alzò dal letto
Kristen. Gli andò vicino e gli diede un bacio leggero sulla
fronte. “Ci vediamo domani”.
“Cosa volevi
dire, prima?”
La ragazza si
fermò e lo guardò in viso. Sospirò.
“Solo che… mi terrorizza l’idea che le
persone si aspettino da me sempre di più di quello che in
realtà io possa dare. Io sono io, non posso inventare
qualcosa che non sono. La recitazione è solo un
lavoro”.
“Beh,
è più semplice di quello che credi allora,
no?” le sorrise lui. “Riconoscerai a colpo
d’occhio chi riesce a considerarti per la pazza che sei,
tralasciando la moltitudine di facce che hai indossato sul grande
schermo. Io lo prenderei come un vantaggio… non come una
cosa di cui dispiacersi”.
Kristen
soppesò le sue parole e parve pensarci su, mordendosi un
labbro. “Si, forse è
così…” si strinse nelle spalle.
“Buona notte, Rob”.
“Buona
notte. E grazie per avermi fatto compagnia”.
Lei
sventolò la mano in saluto e sparì al di fuori
chiudendo la porta della roulotte.
Il ragazzo rimase nel
letto a fissare il soffitto così a lungo che perse la
cognizione del tempo. Aveva la mente sgombra, come se qualcuno gli
avesse fatto il lavaggio del cervello e gli avesse resettato la
memoria. L’unica cosa che ricordava era il suo nome, ma diede
colpa alla stanchezza. Si, doveva prendersi un paio di giorni di
riposo.
Volse
l’attenzione all’orologio sul comodino. Erano solo
le otto di sera, eppure si sentiva così stanco, doveva aver
fatto un bel volo perché ogni parte del corpo gli faceva
male. Pensò a quella volta che era in bicicletta, a come
aveva guardato distrattamente la vetrina di una biblioteca, per poi
trovarsi a tre metri da terra e poi con la faccia contro il cemento del
marciapiede. Ricordava ancora lo strillo di sua madre, da brividi.
Ridacchiò
all’idea, passandosi la mano fra i capelli. Dio, quanto era
imbranato.
“Sei
sempre il solito! Ho appena messo a posto, non ci vuole una laurea per
camminare in linea retta senza radere al suolo ogni cosa, Rob! Va in
cucina, sciò!”
La voce di Charlotte
gli scoppiò nella testa, come una granata, e si
portò istintivamente le mani alle orecchie, tappandole.
Inspirò a fondo più volte, ripetendosi di
calmarsi, che era solo stress e stanchezza, che una notte di sonno gli
avrebbe fatto bene, si meritava un po’ di riposo. Ma poi si
ricordò della festa, dell’invito che aveva ceduto
a Tom, per quella sera, e del fatto che Charlotte aveva detto di si.
Avrebbe partecipato all’evento.
Non riuscì
più a reprimere l’impulso che gli faceva scoppiare
la testa, afferrò il cellulare sul comodino, compose un
numero in fretta, ed attese.
“Pronto?”
“Ciao
Tom”.
----------
Spazio
sproloqui
Oh my god! Ce
l’abbiamo fatta! O.o
Wellà
dolcezze, la bellezza di ben quattordici pa.gi.ne.! Pensavo di
spezzarvele a metà a dir il vero, ma poi ho considerato che
avete atteso fin troppo e così l’ho tenuto intero
e… nel prossimo chap, avremo ancora la festa *-*
Allora, che dire? Sono
successe un po’ di cosine interessanti: Nia è
esplosa a mo di bomba ad orologeria, tosta la biondina 0.o Ci sono
rimasta male io nello scrivere… Tommy è sempre
Tommy, so che il suo momento di serietà può
stonare un po’ con il suo carattere da simpaticone, ma penso
che ci stesse, alla fine tutti abbiamo il nostro attimo di riflessione;
ma vedo che poi s’è ripreso a meraviglia, quindi
è tutto ok… xD
E Charlotte.
Accendiamo un cero, s’è svegliataaaa!
L’ha capita, la fanciulla, ci voleva il fungo atomico di Nia,
o qua dormivamo ancora sugli allori u.u Per non parlare della
Fata Turchina oltre mare: che dite, la vediamo l’intesa fra
lui e Kristina, o… non la vediamo? Uhm?? Ah io lo so come va
a finire… u.u Ma voi, che mi dite?
Ultima cosa da
aggiungere, avete visto che ho già introdotto due nuovi
personaggi, anche se uno è solo nominato: Ben… e
William. Ok, Ben è quel divino Apollo di Barnes *-* Ma Will?
Dai che lo sapeteee! Vi anticipo che avranno entrambi un ruolo nella
storia, Will più di Ben… Ma ne arriveranno altri!
;)
E ora
passiamo ai ringraziamenti:
Ello:
ehilà! Cara, perdonami, ho fatto aspettare un
sacco, eh? ^^’’ Ti ringrazio per aver letto fin
qui, e si… le amiche come Nia sono un vero toccasana,
chiunque ne abbia una è da considerarsi davvero fortunato!
Oh beh, anche se a Nia un corso di diplomazia male non farebbe eh xD
Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto! Un bacione e grazie ;)
Cherie Lie: ciao :)
prima di tutto mi scuso per l’enorme ritardo.
Secondo… Grazie infinite. I tuoi commenti mi fanno sempre
capire che quello che scrivo non passa inosservato, e non
perché io voglia acquistare particolare
popolarità o meno, ma perché quello che cerco di
trasmettere altro non è che l’idea che persone
come loro, attori, sono esattamente come noi. Con sofferenze, pensieri,
frustrazioni, dubbi e paure. Probabilmente sono persone che sono ancor
più complessate di noi stessi, che erigono facciate e
comportamenti a mo di difesa, e, allo stesso tempo, ci invidiano per la
nostra libertà… Sono contenta che questa storia
ti piaccia e ti faccia emozionare, e ti ringrazio enormemente per il
tuo sostegno *-* Spero che anche questo capitolo ti sia piaciuto,
nonostante il ritardo. Un bacioneee! :)
_Miss_: ciao
bambolina, come andiamo? Allora, ricapitoliamo: Tom si, è un
bonaccione, un “casinaro”, un po’
strafottente a volte, ma penso sia uno dei personaggi più
sensibili in assoluto nella storia, un po’ come Nia, e a cui
sono molto affezionata :) Comunque, Tom si, soffre per la mancanza di
Robert, e anche in questo capitolo lo dice, così come Robert
ne patisce la lontananza, sono cresciuti assieme, è un
po’ come dividere due gemelli… Charlotte dal canto
suo, è si sulla buona strada per continuare senza di lui, ma
aveva bisogno che qualcuno glielo dicesse a chiare lettere: un conto
è saperlo ma non ammetterlo veramente, e un conto
è sentirselo dire e accettarlo ;) E ora che
succederà? Kristina mi par di capire che non incontra i tuoi
favori… ma non temere, non incontra nemmeno i miei, vedremo
che fare di lei xD Un bacione e grazie per il commento :)
E ora, grazie infinite
a chi l’ha aggiunta fra i preferiti e seguiti, grazieee!!
Ci vediamo al prossimo
chap, spero di aggiornare in fretta xD
beth
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=306514
|