Là, dove sorge il sole

di radioactive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** epilogo ***



Capitolo 1
*** capitolo 1 ***


NOTE D’AUTRICE.

Ho preferito, almeno per questo capitolo, scrivere alcune cose a inizio della fan fiction – spero che non possa essere di troppo disturbo chiedere a voi lettori di dare una sbirciatina qui prima di iniziare la lettura di questa mini-long. Cominciamo! ~

Per l’Universo della fan fiction, ho ideato un mondo distrutto da guerre nucleari ed armi biotecnologiche. Non sono scesa molto su questo aspetto, non avendo conoscenze e studi appropriati. Inoltre, non volendo caricare ulteriormente questa storia, già di per sé ricca di «concetti», ho preferito raccontare un po’ il background nelle note d’autrice, onde evitare di far risultare la storia poco chiara.

Quello che state per leggere è una sorta di distopico post-apocalittico con elementi fantasy, ambientata quindi nel futuro di un futuro (scusate il gioco di parole!) lontano dal nostro.

Dopo la Guerra sopraccitata, nel Mondo (della fic, s’intende) si sono inseriti elementi magici «donati» da due divinità, riprendendo la evergreen dicotomia tra Bene e Male (base della storia), i quali verranno poi descritti nella fan fiction. Prima della Guerra, invece, è importante ricordare che la chirurgia estetica è arrivata a livelli quasi carnevaleschi: le persone si facevano impiantare denti da cane, piume, occhi “speciali” e altri particolari del genere – l’evoluzione scientifica ha permesso che queste caratteristiche diventassero genetiche e si insediassero nel DNA della persona, in modo da tramandarlo di generazione in generazione.

Le creature “magiche” classiche, mi dispiace dirlo, non sono molto presenti: vi sono le sirene (nella versione più… dark, per così dire, come quelle di Pirati dei Caraibi ed Harry Potter) e un'altra popolazione abitante delle foreste basate sugli elfi, ma in modo meno “regale”. Non tutte queste creature prenderanno il nome con cui le conosciamo noi, ma piuttosto verranno apostrofate come fossero i clan presenti in Naruto – il motivo verrà svelato durante la lettura, o, quantomeno, spero sia intuibile. Altre creature ricorderanno, per esempio, licantropi e vampiri, ma non sono andata oltre. La maggior parte delle “creature” (specie quelle “malvagie”), in tutti i casi, verranno chiamate “mostri” o “chimere”  per via della loro particolare condizioni.

Riguardo i dojutsu beh, diciamo che ho dovuto un po’ stravolgere la loro natura (e me ne dispiace) per farli rientrare nella trama. Il risultato è che il Byakugan come lo conosciamo in Naruto ha avuto nuovi “poteri” e mantenuto alcune caratteristiche (involontarie), ma lo ha solamente Hinata (scusami Neji!). Lo Sharingan, invece, è come se si fosse scisso in due: quello di Sasuke non ha nulla a che vedere con quello di Obito. Nella storia, hanno una radice completamente diversa che verrà esplicitata. Spero che questo non crei confusione.

All’inizio della storia Sasuke potrebbe apparire vagamente OOC, ma faccio appello al buon senso dei lettori e alla comprensione della situazione. Cercando di non fare spoiler, diciamo che in una situazione di stress come quella subita da Sasuke nella trama di questa piccola storia, reagire diversamente sarebbe stato molto difficile ma, soprattutto, molto più fuori caratterialmente di quanto lo sia con le scelte da me prese. Vorrei ricordare che Sasuke, davanti ad una situazione che gli ha sempre fatto paura, è stato zitto e buono senza muovere un muscolo… ed era anche abbastanza impanicato.

Sulle due divinità, invece, ho scelto volutamente di tratteggiare il loro fisico prendendo in considerazione due personaggi esistenti in Naruto, ma non sono basati in alcun modo sui caratteri dei personaggi sopracitati. Lo dichiaro qui perché so perfettamente che uno dei due Dei è assolutamente OOC, ma non sono partita con l’idea di usare quel personaggio come base. Se questo può creare problemi, mi dispiace!

 

Dovrei aver detto tutto, almeno riguardo la trama in sé.

Avrei voluto svilupparla meglio, ma avendo il limite di dieci capitoli (proprio per evitare che la storia fosse troppo complessa), ho fatto quel che potevo, e questo è il risultato. Personalmente, non mi dispiace affatto il prodotto che è uscito (dopo un mese di sudore, ahah XD) e spero possiate apprezzarlo anche voi!

Gli aggiornamenti saranno – salvo problemi – il martedì e il venerdì. Quindi: prossimo aggiornamento a venerdì 3 aprile.

Buona lettura!

 

radioactive,

 

 

 

 

 

 

storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 1

 

 

~

 

 

Ad ogni passo che faceva sentiva di star perdendo il controllo sul proprio corpo. L’aria iniziava a mancargli, facendosi più rarefatta fino a sembrargli inesistente. I polmoni si prosciugavano con una ferocia tale da chiudersi in dolorose fitte, si estendevano fino allo stomaco e poi sempre più giù, scivolando sui nervi delle gambe e sulle dita dei piedi.

Sasuke inciampò nella radice di una delle grosse querce e cadde a terra, proteggendosi il viso con le braccia mentre rotolava giù per quelli che gli parvero chilometri. L’ennesima fitta allo stomaco gli smorzò completamente il fiato, annebbiandogli la vista e prosciugandogli la gola. Impedendogli pure di urlare. Sentiva il grosso tronco sotto i propri addominali e le schegge della corteccia sotto le unghie, tanto cercava di aggrapparsi all’albero per non cadere ancora. Era un dolore allucinante, come se tutte quelle ferite si fossero aperte e venissero cicatrizzate all’istante con il ferro rovente. Sentiva la carne venire perforata, minuscoli nervi rompersi e vibrare, il dolore diventare fumo su una piaga aperta e scivolare all’interno del suo corpo come il bacio della morte. Era un bacio che faceva male. Era peggio dello stomaco a pezzi.

Scivolò a terra, incastrandosi tra due radici sterrate attorcigliate tra di loro, ansimando – ricordandosi di un cervo morente che aveva visto quando era ancora un bambino.

Sentiva un liquido caldo bagnargli le tempie e le mani, le gambe diventare acqua e sciogliersi assieme alla neve che ancora ricopriva la terra. Il muschio si mescolava al ferro e gli intorpidiva i polmoni.

L’ultima cosa che vide, prima di perdere conoscenza, fu il sole, frammentato dalle foglie degli alberi. La luce era talmente potente da penetrare quella ragnatela di rami, dividendosi in fasci arancioni che al tramonto rendevano la neve dorata, quasi preziosa.

Il sole, lì, solitario e in gabbia, era l’unica cosa a cui Sasuke riusciva a prestare attenzione.

Gli sembrava fatto di sangue.

 

 

L’aria quel giorno era particolarmente fresca e sapeva di fiori. Era un piacere vagare per la foresta con la primavera che si stava avvicinando.

«Sta’ attenta» disse Neji, prendendole la mano per aiutarla ad attraversare una radice sterrata, coperta dalla neve ghiacciata, «dovresti guardare a terra invece che il cielo, Hinata» le consigliò, lasciando che le dita della ragazza scivolassero via dalle sue.

«Non preoccuparti» lo rincuorò lei, «la foresta non potrebbe mai farmi del male, lo sai» e si appoggiò al tronco di un albero, sfiorandone inconsapevolmente le crepe della corteccia come se fossero le cicatrici sulle braccia di un bambino. Anche il muschio, di un verde brillante e irreale, fu soggetto alle sue attenzioni – a contatto con quelle dita, tutto sembrava diventare migliore, «non farebbe male a nessuno di noi» lo rincuorò.

«Non è la foresta che mi preoccupa» sospirò il cugino.

«E cosa, allora?». C’era sempre quella gentilezza, nella voce di Hinata, che sconvolgeva Neji –  così come sconvolgeva tutto la loro comunità. I suoi modi di fare sembravano sospesi nell’aria, tanto da farla sembrare un fantasma, una visione. Se avesse raccontato che Hinata non lasciava impronte sulla neve, tutti gli avrebbero creduto. Non c’era da stupirsi se la Dea aveva scelto lei.

Il ragazzo sospirò ancora, calciando un piccolo mucchietto di neve dura e brillante, «sto ancora pensando al tuo ultimo sogno» confessò, sedendosi con la schiena contro lo stesso albero che Hinata stava accarezzando – trattava qualsiasi cosa come se fosse una persona, come se fosse dotata di sentimenti e di anima.

«Dobbiamo solo prepararci a dovere, Neji» la voce di Hinata era vicina, vicinissima. Girando il capo, Neji si accorse che si era chinata alla sua altezza. Si perse per un attimo nei suoi occhi del colore della neve, con quelle sfumature lilla, chiarissime, che li impreziosivano, facendoli sembrare due perle. Nessuno aveva quelle sfumature, oltre a lei.

«E se la Dea si sbagliasse?» chiese, «se non avessimo abbastanza tempo? Non sappiamo nemmeno cosa dobbiamo affrontare!» e si lasciò scappare un grugnito, ammucchiando della neve tra i piedi come fosse un bambino.

Quella dita che aveva ammirato sulla corteccia si posarono sulla sua spalla, lentamente, e il corpo di Hinata affiancò il suo. Era una vicinanza che lo tranquillizzava e lo faceva stare bene – lo rendeva più sicuro di sé stesso e di un futuro migliore che, a quanto pare, sarebbe arrivato presto.  «La Dea ce lo dirà, Neji» gli disse piano, «me lo dirà», accarezzandosi le braccia, «devi solo crederci».

La voce di Hinata sparì piano, in un sussurro, mentre gli occhi di lei si fissavano in un punto lontano e non definito, che lui non riusciva a vedere. Osservò i lineamenti delicati di lei, i suoi capelli appoggiati alla spalla come le piume eleganti di un uccello nero. Aveva la bellezza delle creature dell’acqua, delle sirene, prima che diventassero pericolose e cannibali – e quella finezza, quell’eleganza delle donne ricche della città di un tempo, con le orecchie a punta e la pelle pallida. Hinata era fatta di neve che non si scioglieva mai.

«Neji» lo chiamò piano, «lì, avanti» disse, il suo respiro si faceva più corto e i nervi attorno ai suoi occhi si ingrossavano, disegnando una rete che sembrava volerle perforare la pelle. La Dea si manifestava sempre così, distorcendo quella bellezza in qualcosa di più mistico, inspiegabile, che neanche Hinata riusciva a controllare. «C’è qualcuno non molto lontano da qua, ai piedi della montagna» e poi tutto, nel suo volto, tornò normale. Gli occhi erano liquidi con quelle sfumature singolari e il viso leggermente arrossato. La mano, fredda, si era posata su quella altrettanto pallida di lui, «dobbiamo andare a vedere» gli comunicò, «sta morendo».

 

 

Si svegliò di colpo. Spalancò le palpebre e la bocca, senza produrre alcun suono. Attorno a lui vedeva bianco e poi, lentamente, i lunghi rami degli alberi, simili a dita scheletriche, si fecero spazio nella luce. Sembravano sul punto di afferrarlo, stringergli la gola e soffocarlo.

Avrebbe voluto urlare. Lo sentiva, sul fondo dello stomaco indolenzito, quel grido che raccoglieva tutti i brandelli della sua anima a pezzi e li convertiva in un lungo, rabbioso, lacerante suono. Immaginava, mentre il dolore si faceva più palese ad ogni angolo del suo corpo, quell’urlo diventare più liquido, caldo e amaro, simile al sangue. Se avesse urlato, gli uccelli avrebbero spiccato il volo – come facevano quando un albero crollava o si sentiva un rumore troppo forte.

«Non urlare».

Bastarono quelle parole a bloccarlo, a tenerlo immobile sul letto di foglie e brandelli di tessuto lacero e vecchio. Dentro di lui la rabbia scemò, intorpidendogli i muscoli. Fissò il cielo, mentre le dita degli alberi rimanevano in agguato, pronte a stringerlo ed ucciderlo.

«Come ti chiami?».

Sasuke girò lo sguardo, abbastanza da sentire quel dolore alla testa che aveva ignorato durante la sua fuga. Chiuse le palpebre provando a dominare quel bruciore che gli attanagliava le tempie. Riaprendo gli occhi, lentamente e con le ciglia incollate tra di loro, notò la figura seduta accanto a sé, come se fosse al suo capezzale – come se lui stesse morendo.

La pelle della sconosciuta, bianchissima, si confondeva con la neve alle sue spalle, risaltava nel verde del muschio e degli alberi, fino a scomparire sotto le vesti sporche di terra e sangue. Osservò il suo sorriso gentile, simile a quello di una madre – di sua madre – e quelle orecchie a punta che facevano capolino dai capelli che sembravano le tende della notte quando il sole scompariva dietro la montagna. Gli occhi sembravano privi di pupilla e lo fissavano, intrappolandolo in quelle sfumature lavanda, irreali.

Quella ragazza lo spaventava.

«Non toccarmi» sentenziò Sasuke, aveva il sapore del sangue sulle labbra e i nervi sembravano strapparsi ogni volta che provava a muoversi. Si mise a sedere comunque, soffocando l’ennesimo gemito di dolore mentre osservava la ragazza allungare una mano verso di lui. Sasuke spalancò gli occhi, sperando che il proprio sguardo fosse abbastanza per contrastare quello di lei. Appoggiò i talloni a terra, con una forza tale che sentì sotto il proprio peso la neve affossarsi e si tirò indietro, rifiutando un qualsiasi contatto con quella creatura di cui non conosceva ancora il nome.

«Non voglio farti del male» disse, ma Sasuke non capiva il senso di quelle parole. Non le concepiva, semplicemente. Più si rendeva conto della presenza che aveva davanti agli occhi, più ne era terrorizzato ed ogni cellula del suo corpo desiderava fuggire, riattraversare la montagna, piuttosto.

Una figura comparse tra gli alberi, dietro la sconosciuta. Stessi capelli, stesse orecchie, più macchie di sangue sui vestiti e gli occhi dello stesso bianco, ma senza le striature violacee. Quelle iridi si confondevano con la pelle, facendo assomigliare il viso ad una maschera di cera senz’occhi.

«È sconvolto» disse la ragazza, alzandosi da inginocchiata che era. L’altro prese la mantella che teneva sulle spalle – una pelliccia chiara – e gliela posò sulle spalle, piano, spostandole i capelli.

«È normale» sospirò l’altro, come se lui non ci fosse. Poi lo fissò, in quel modo così intenso, così trasparente, che Sasuke si sentì trapassato da parte a parte da quel nulla. E di nuovo il senso di sangue, di urla sul fondo dello stomaco che diventavano liquide e gli risalivano la gola come fossero bile da rigettare, bruciando tutto ciò che trovavano. «Hai un nome?» domandò il ragazzo, facendo un passo verso di lui.

Sasuke non aveva più la forza di muoversi, di respirare. Si lasciò cadere sulla neve fresca, sentendo i vestiti bagnarsi e i capelli diventare umidi. Il manto bianco sotto di lui recuperava con dita gentili il suo sudore freddo – era un dolore piacevole, che lo abbracciava piano, diventava persino caldo. Sentì le lacrime scendergli sulle guance e il vento tiepido del pomeriggio sferzargli il volto.

«Se non collabora morirà» sentì dire dal ragazzo, e poi dei passi nella neve.

Lontano, dall’altra parte della montagna, degli uccelli gracchiavano.

 

 

Non nevicava da un paio di giorni.

Era strano, constatò Naruto, dopo le settimane di neve, vedere il sole nel cielo – brillava di un bianco irreale, emanando luce fredda che congelava le ossa e il letto candido che ricopriva la neve e le radici sterrate in cui era inciampato più volte.

«Secondo te perché Kakashi ha sempre la faccia coperta?» bisbigliò, ritornando dritto, stando attento a dove metteva i piedi mentre si aggrappava al cappotto della ragazza al suo fianco, piantando poi gli occhi azzurri in quelli di lei, che ricordavano il prato adesso nascosto sotto la neve. L’attenzione non era abbastanza per non cadere.

Sakura si fermò di colpo, afferrando il braccio di Naruto per metterlo in piedi, prendendo le distanze da Kakashi e dal resto del gruppo di profughi, «non lo sai?» chiese sottovoce, «certo che sei proprio un cretino!» continuò.

Naruto scosse la testa, confuso, togliendosi i guanti e prendendo un mucchietto di neve con cui lavarsi le mani, era una bella sensazione, un’abitudine che aveva preso dall’amica. Sakura si guardava attorno come se avesse paura di raccontare quello che sapeva, come se qualcuno si fosse fermato ad ascoltare quello che aveva da dire. 

«Dicono che…» iniziò, bloccandosi subito dopo. Si strinse attorno al braccio di Naruto, tremando – per il freddo? – e si lasciò scappare un sospiro, «dicono che fosse amico di Obito, e che avesse…» e si passò una mano sulle labbra e sul naso, indicando la parte che Kakashi teneva nascosta, «un qualcosa, sul viso, un particolare che ad Obito interessava e…».

«Gliel’ha preso?» domandò senza delicatezza, e il viso di Sakura si contorse in una smorfia a metà tra il disgusto e il dolore immaginario.

«Non lo so» mormorò, riprendendo a camminare con Naruto sottobraccio, «nessuno lo sa. Ma gli ha fatto qualcosa, di sicuro…» e si fermò un attimo, espirando una nuvoletta di fumo bianco mentre un piccolo cumulo copriva il sole. «Nessuno lo ha mai visto in faccia» continuò, «e se lo conoscevano prima che Obito facesse quello che ha fatto… non lo hanno più riconosciuto, dicono anche che Kakashi non sia il suo vero nome» ogni volta che pronunciava quel nome – Obito – gli occhi di Sakura si chiudevano appena e le sue dita si stringevano al braccio di Naruto, solo per un istante. Quel nome aveva qualcosa di oscuro, un muro che lo divideva dal resto del mondo, lo rendeva minaccioso ed impenetrabile. Impossibile da affrontare.

Alcuni dicevano che Obito fosse il male in persona.

Non avevano torto, e Naruto lo sapeva bene.

Raggiunsero il gruppo senza dirsi più nulla, seguendo le orme che gli altri avevano lasciato – li superarono, ritornando a camminare dietro Kakashi. Sakura si sentiva come se avesse tradito la sua fiducia, raccontando  quella storia, e non aveva il coraggio di guardargli nemmeno la schiena, rigidamente dritta come al solito. Volgendo lo sguardo verso Naruto, invece, scorgeva negli occhi azzurri della curiosità nei confronti dell’uomo, e anche una malcelata tristezza, mai  superata, che riposava sempre in fondo a quei due pozzi di cielo.

Kakashi si fermò all’improvviso, facendola quasi sbattere contro le sue spalle. Si fermò di fianco a lui, mentre Naruto si metteva alla sua destra, guardandosi intorno con movimenti troppo veloci e confusionari, senza posare davvero lo sguardo su qualcosa. Dalle sue spalle, un brusio iniziava a diffondersi per la foresta, mettendola in agitazione.

«Che cosa c’è?» domandò a Kakashi, osservandolo respirare da sotto la sciarpa.

Prima che lui potesse rispondere, due grossi cespugli alla loro sinistra si mossero in modo troppo evidente perché fosse una brezza o un animale di piccola taglia. In un unico, fluido gesto, tre persone uscirono dall’intreccio di foglie e ghiaccio.

Sakura era incantata, non riusciva a distogliere lo sguardo da quella pelle bianca. Sembravano fatti di neve, come nati dal sangue versato sul manto candido su cui  loro marciavano da giorni.

«È lui» disse la ragazza al centro. Focalizzandosi su di lei, Sakura notò che attorno agli occhi bianchi le vene erano leggermente ingrossate e le sue guance iniziavano a prendere colore. Un ragazzo, poco più grande della giovane che aveva parlato, fece un passo avanti.

Sakura si sentì trascinare indietro mentre Kakashi la teneva per un braccio, mettendosi al suo posto. Naruto la affiancò subito, stringendole il polso in una morsa protettiva. «Cosa diavolo sono?» le domandò, assottigliando lo sguardo, cercando di sembrare quasi minaccioso.

«Chiediamo asilo» disse Kakashi, scandendo le parole e aprendo le braccia, mostrando di non avere nessun tipo di arma tra le mani. La sconosciuta sembrò sussultare e trattenere il respiro. Il rigonfiamento attorno ai suoi occhi sparì e il suo corpo barcollò un attimo – di fianco a Sakura, Naruto si mosse appena, agitato, forse preoccupato per lei?

«Abbiamo smesso di dare asilo ai nomadi» disse il giovane, quasi ringhiando, avvicinandosi di un altro passo. Le iridi vitree riflettevano la figura di Kakashi, immobile, come se il suo unico occhio bastasse a tenere a bada quello sguardo feroce e irreale, quasi selvaggio, dello sconosciuto.

«Neji» chiamò l’altra. Ora il viso di lei era dipinto con sfumature rosse, trasparenti come petali di rose, e gli occhi erano liquidi, assomigliavano a due perle viste oltre lo specchio dell’acqua. Tutto in lei aveva una sfumatura regale, di una bellezza che la faceva star male. Non immaginava ci fossero ancora creature degne di essere dette belle, nel Mondo. Si sentì male, ricordando il suo ventre incavato e gli spigoli del suo corpo – come presa in causa, colpevole di non essere bella, anche se nessuno aveva il tempo per pensare a quel tipo di cose. Osservando la ragazza, però, si accorse di come le sue braccia fossero magre, come le caviglie sembrassero due leggeri rami intenti a sostenere un mucchio di neve bagnata, pesante. Era gracile tanto quanto Sakura stessa, e debole. Il suo corpo non sembrava l’unica cosa che le sue gambe e i suoi piedi nudi dovessero sorreggere, un peso più grosso le gravava sulle spalle spigolose.

Sembrava tremare.

«Il ragazzo» disse a voce più bassa, indicando con la mano sottilissima oltre le spalle di Kakashi. Sakura si chiese come potesse sopravvivere una creatura così gracile nella foresta, come potesse addirittura muoversi senza spezzarsi.

Seguì con gli occhi lo sguardo di lei, immaginandolo come una linea rossa, visibile, che si faceva spazio nella tensione del momento, nel corpo di Kakashi che proteggeva loro due e le decina di fuggitivi dietro di loro.

«Ti chiami Naruto, vero?» domandò gentile. Di fianco a lei, Naruto aveva gli occhi spalancati, incatenati a quelli della sconosciuta, entrambi trattenevano il respiro.



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Capitolo 2
*** capitolo 2 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 2

 

 

~

 

 

Sakura gli diede una gomitata sul fianco, facendolo gemere. Nonostante il dolore, era riuscito a staccarsi da quegli occhi ciechi, annuendo forsennatamente alla sua domanda. Le guance iniziarono a bruciargli ed il sangue ad affluire al viso, dandogli l’impressione di prendere fuoco, di consumare tutto l’ossigeno che lo circondava e di negarlo ai suoi polmoni, impedendogli di respirare.

Kakashi sembrò cambiare completamente posizione nei confronti degli sconosciuti. «Che cosa volete da lui?» chiese, quasi minaccioso, alzando una mano verso di loro come se fosse pronto ad attaccare con pugni e graffi. Nonostante Naruto fosse felice che l’uomo si preoccupasse per lui, avrebbe voluto occuparsi personalmente di quella ragazza che lo cercava. Nessuno lo aveva mai desiderato – anzi. L’idea che qualcuno potesse in qualche modo interessarsi a lui lo incuriosiva. Perché lui?

Lo sconosciuto fece un passo in avanti, brandendo la lancia riesumata da un ramo e puntandola verso Kakashi, bloccandogli la mano con la propria arma. Dietro di sé, Naruto sentì un mormorio ed un «andiamocene!» arrabbiato ed impaurito. Avrebbe voluto prendere a calci chiunque avesse detto quella cavolata: non se ne andava nessuno.

«Vi possiamo offrire asilo» propose la ragazza, andando contro l’affermazione del compagno. Sembrava un fantasma anche quando parlava – se Naruto la fissava a lungo, non riusciva a cogliere i contorni del suo viso, e tutto il suo corpo si perdeva in un’evanescenza che non riusciva a spiegarsi. Tutto di lei rimaneva sospeso nell’aria, le sue parole volteggiavano come i fiocchi di neve.

«Hinata!» sibilò il ragazzo, i suoi occhi erano irremovibili, fermi nell’unico di Kakashi. Lo sconosciuto sospirò, senza abbassare lo sguardo, continuando a sfidare la mano dell’uomo.

Si chiamava Hinata, allora.

«Naruto» lo interpellò. Una scarica gli attraversò il corpo mentre quegli occhi si spostavano su di lui. Attorno al ragazzo scomparve tutto, anche Sakura che gli stringeva il cappotto lacero. Si liberò dalla presa dell’amica e affiancò Kakashi. Ebbe l’impulso di avanzare ulteriormente e accoccolarsi tra quelle braccia quasi trasparenti – lo avrebbe fatto, se l’uomo non l’avesse bloccato. Qualcosa lo costringeva ad avvicinarsi a lei e chiederle che cosa volesse da lui, cosa sapeva di lui.

Sentiva dentro di sé quella rabbia covata da tempo prendere forma, ribollire, venire assorbita dai suoi muscoli. Prendeva lentamente coscienza di sé stesso, della sua vita che gli sembrò improvvisamente vuota. E di quella ragazza, che sembrava conoscere di lui molte più cose di quanto ne sapesse lui stesso.

«Voglio capire che cosa vuole da me, Kakashi» disse all’uomo, prendendogli il polso, chiedendogli di lasciarlo andare con lo sguardo. Neanche la foresta respirava, il silenzio della neve era l’unica voce che riempiva le orecchie di tutti loro.

«Devi venire con noi» gli disse gentilmente, facendo un passo in avanti – le impronte che lasciava erano così sottili, così minime che Naruto non riusciva a spiegarsele, «dovete venire tutti quanti» continuò. Non smetteva di guardarlo negli occhi, nell’anima, scovando quei piccoli segreti che aveva gelosamente custodito per sé. Gli sembrava impossibile che quella ragazza mentisse.

«State scappando da Obito» sentenziò lo sfidante di Kakashi, abbassando l’arma, piantandola nella neve, «Hinata è in contatto con la Dea, ha detto che la battaglia è vicina» continuò.

Non fece in tempo ad andare avanti con il discorso che la piccola folla si aprì in due e un ragazzo si avvicinò a loro, camminando goffamente sulla neve. «Balle!» gridò, abbassandosi il cappuccio sulle spalle, liberando la propria zazzera spettinata. Le pupille, sottilissime, sfidavano quelle dei tre sconosciuti, «non c’è nessuna Dea! Se Obito vuole ammazzarci tutti lo può fare con uno schiocco di dita!» continuò, il cane bianco che lo affiancava abbaiò, scodinzolando vigorosamente di fianco al padrone, «è tutta una trappola di merda per prenderci ed ammazzarci, siete dei cannibali – come le sirene!» e si girò verso gli altri fuggitivi, cercando consenso negli altri occhi.

«Che ne sai tu, cane?» rispose acido il ragazzo, evidentemente infastidito dall’essere stato interrotto da qualcosa che, almeno secondo lui, erano frottole e nient’altro.

Un urlo lontano viaggiò nell’aria, «Kiba ha ragione!» diceva, ed il ragazzo annuì convinto, appoggiando la lingua sotto il canino troppo lungo per essere di una dentatura umana.

Qualcuno era ancora umano, tra di loro?

«La tua famiglia è morta, vero?» la voce di Hinata si fece spazio tra di loro, leggera. Diventava liquido nelle orecchie di chi la sentiva. Kiba trattenne il respiro, le pupille si allargarono appena. Il cane di fianco a lui si sedette e uggiolò, abbassando il muso. «Ti è rimasto solo Akamaru» continuò lei, dolce, dolcissima, faceva male sentirla.

«Che sai dei miei genitori?» la voce di Naruto coprì quel silenzio pesante,  lasciando il tempo a Kiba di digerire quelle parole e ritornare indietro, nascondendosi tra le persone per abbracciare il suo cane.

«Sono morti».

«Come?», prima che lei rispondesse, Naruto sentì dentro di sé le lacrime sbocciare come rose, dietro ai propri occhi, pronte a rigargli le guance sporche. Si era quasi pentito di essersi esposto in prima fila davanti a lei, che vedeva tutto, in un modo così puro e genuino e mistico che faceva venir voglia di urlare e scappare.

Hinata sospirò, abbassando lo sguardo, un brivido le mosse le spalle – assomigliava ad un ramo leggerissimo che vibrava sotto la neve troppo pesante da reggere. «Obito» gli disse, sottovoce, e una nuvola bianca uscì dalle sue labbra increspate e rosse per il freddo. Non c’era bisogno di aggiungere altro, da come lo aveva detto, con quelle lettere che sembravano tagliarle la gola quando le pronunciava, Naruto capì che sapeva esattamente come erano morti i suoi genitori.    

«Qua tutti hanno qualcuno che è morto per colpa sua» provò a dire Sakura, nella speranza di prendere una posizione e di chiarirsi lei stessa le idee. Il confronto con la ragazza le sembrava la cosa migliore per decidere se fidarsi o meno.

Si sentiva intorpidita, come dentro un sogno, e non riusciva a credere nella voce limpida di Hinata. «Non sappiamo nulla di voi» continuò, il freddo le entrava nei polmoni e le gelava le interiora, dandole l’impressione di dover vomitare, «magari state mentendo».

«Sono abitanti della foresta» Kakashi si intromise, abbassando lo sguardo verso la ragazza, «hanno la pelle chiara e le orecchie delle famiglie aristocratiche della città, non vedi?».

«Questo non significa che non mentano, anzi» continuò convinta lei, stringendosi maggiormente nel cappotto, come per proteggersi, «forse Kiba ha ragione, forse sono mostri e basta» continuò diffidente.

«Non siamo mostri!» ribatté il ragazzo, liberando la mano di Kakashi dall’arma e puntandola verso la ragazza. In un attimo, Naruto scattò in avanti, prendendo la punta del bastone con le mani, ringhiando come per sfidare l’altro.

«Neji!» la voce  di Hinata cristallizzò la scena, camminò in avanti e appoggiò una mano sul legno  e l’altra sulla spalla del ragazzo, guardandolo negli occhi. «Non si fideranno mai di noi se li attacchi così» continuò, sussurrando. Le dita della ragazza avevano sfumature violacee, strette attorno alla lancia, e Naruto si sentì in colpa per aver risposto a quella provocazione, costringendola ad esporsi così tanto.

Lasciò l’arma e fece un passo indietro, sentendo alle sue spalle Sakura sospirare e appoggiargli una mano sulla schiena, in tono di conforto e ringraziamento.

«Dateci un buon motivo per fidarci di voi» era la sentenza finale. Naruto parlò con il cuore in gola e il ricordo sfocato dei genitori, costruito sui blandi racconti degli altri. Dal canto suo, voleva davvero fidarsi di quella ragazza, degli abitanti della foresta, della Dea.

«E soprattutto di che guerra state parlando» aggiunse Kakashi, aggiustandosi la sciarpa e ritirando le mani sotto il mantello, «e come dovremmo combatterla, dato che non abbiamo armi né cibo. E siamo in inferiorità numerica rispetto ad Obito».

Prima che Neji o Hinata potessero rispondere una terza voce si levò, indistinta, dalla massa dietro le spalle dei tre: «Obito crea mostri dal niente! Li avete mai visti? Sono incubi che camminano, quelli!» e il suo commento ricevette un silenzioso assenso, ornato qua e là da teste basse e occhi lucidi, in preda a chissà quale ricordo lontano.

Le iridi di Naruto facevano parte di quelle, mentre l’azzurro brillante delle belle giornate lasciava il posto ad una nube grigia, liquida e pesante.

Hinata provò rancore verso sé stessa, verso il suo ruolo in tutta quella serie di avvenimenti: nonostante ciò che dicesse fosse dettato dalla voce e dagli occhi di un’altra persona, ben più grande e potente di lei, non riusciva a reggere il peso di quei fantocci di ossa e pelle a cui erano ridotti tutti quanti. Crollava, tutte le notti: abbracciata al legno e alle foglie e a quella coperta di lana sporca e umida che si congelava, quando calava il sole, assomigliando ad un telo fatto con aghi di pino e lacrime congelate.

Respirò profondamente, distogliendo gli occhi da Naruto, fissandoli a terra, nella quale riusciva quasi a vedere il proprio riflesso sulla neve. Sentì la mano di Neji, rassicurante come sempre, sfiorarle il braccio e le cicatrici che ricalcavano i ghirigori verdi e viola nei quali scorreva il sangue, e poi le sue dita afferrarle il polso in una presa rassicurante.

«Kaguya è colei che tutto vede e tutto sa» iniziò a raccontare, con le stesse parole con cui lo aveva detto prima a suo cugino e sua sorella, poi a tutti gli Hyuuga, «e mi ha scelta, non so perché, ma lo ha fatto» altro respiro, sentiva le dita tremarle e le gambe cederle. I corpi si appoggiavano alle sue spalle, concretamente, in un modo così vivo da farla vibrare ancora di più – il gelo le entrava nel corpo, nelle ossa, nell’anima.

«E ho visto tutto. Ho visto il Mondo prima delle bombe, ho visto la bellezza delle città illuminate nella notte, i giardini ben curati, gli animali protetti» e proseguì con quell’elenco di cose che facevano venir voglia di morire e rinascere nel passato: le case, i vestiti, il caldo e la sensazione di un materasso comodo sotto la schiena a pezzi. «Ho visto Obito, la sua…» le parole si bloccarono in gola, intrappolate in una ragnatela di ghiaccio, «…fissazione per… che cosa, poi? Per quel divertimento infimo di cambiare la natura umana, per cambiare sé stesso alla ricerca di un potere che alla fine gli è stato donato da qualcos’altro».

«Pensava che riunendo le persone sotto la sua ala avrebbe potuto riportare il Mondo al suo… vecchio splendore» borbottò Kakashi da sotto la lana che gli copriva le labbra. Parlava cautamente, senza sentimenti nella voce. E aspettava.

Hinata alzò gli occhi, incastrando il suo sguardo in quello dell’unico occhio dell’altro. Era nero, profondo, ed incredibilmente vuoto – come una caverna le cui pareti erano abitate da pipistrelli e ragni dagli occhi rossi. «Nessuno ha voluto seguirlo, e nessuno gli credeva» continuò lei, sospirando. Per un momento, si sentì incredibilmente vicino a quella povera anima, ma sapeva che non c’era pietà per qualcuno come lui.

«E allora ha deciso di usare l―» ma non riuscì a completare la frase.

«La forza» concluse Hinata, la voce ridotta ad una lastra di ghiaccio in frantumi, stanca. Le faceva così male doversi fare carico di quella storia, doverla raccontare come se fosse una fiaba. Ma era necessario per convincerli, si ripeteva mentalmente, per averli dalla sua parte, per far andare la storia nel senso giusto. «E ha pensato bene di aggiungere alle mutazioni genetiche la magia, praticamente sacrificandosi a Madara».

Un brusio riecheggiò nella nicchia in cui erano tutti radunati, bloccando il sentiero. Sembrava la voce della Terra che si lamentava nell’udire Madara, pregando agonizzante di non sentire più il nome di quel Diavolo.

Obito aveva gli occhi rossi di Madara.

«Gli Hyuuga erano una buona famiglia di città, molto grande, come tutte le famiglie ricche, del resto» s’intromise Neji, lasciando il tempo ad Hinata di respirare e calmarsi, «qualcuno, molto prima di noi, aveva deciso di volere gli occhi chiari e le orecchie simili a quelle degli elfi, di cui aveva letto nei libri» continuò, «non eravamo gli unici. Questa moda si era sparsa velocemente, soprattutto tra le famiglie più ricche».

«Come il ragazzo con il cane» mormorò l’altra, riferendosi a Kiba, «erano gli Inuzuka ad avere i segni rossi sul viso e le pupille strette» e ritornò nel silenzio, lasciando che ognuno riflettesse sulle proprie eventuali caratteristiche che li rendevano creature uniche nel loro essere – il colore di capelli innaturali, dita più lunghe del normale o addirittura una coda e orecchie di animali.

«Con i bombardamenti i nostri avi sono scappati tutti nelle foreste» e inspirò profondamente l’odore di pino e di neve, e quello più lontano del sangue, sempre presente, «erano molto religiosi, hanno pregato affinché si salvassero».

«E nel frattempo sono passati anni» concluse Naruto, lasciando che l’ennesima nuvola bianca si materializzasse davanti al suo viso, risalendo verso il cielo. «Gli Hyuuga non hanno mai perso la speranza?» domandò, curioso ed affascinato – ma sempre con quel desiderio di sapere di più su sé stesso. Sul perché lui.

«No» la risposta fu secca, precisa, tagliente. Era impossibile dubitare sulla veridicità di quell’affermazione, «e forse è per questo che Kaguya ci ha graziato con i suoi occhi» continuò, sfiorando la spalla di Hinata in un gesto protettivo, «abbiamo fatto un patto con la Dea, con la foresta, e tutte quelle popolazioni che si sono formate in seguito al disastro nucleare».

«Anche con gli animali» aggiunse la ragazza, «e le sirene. Ci stiamo riunendo tutti, abbiamo Kaguya dalla nostra parte…» la frase si interruppe in un gemito, simile ad un sospiro stanco, forse aveva freddo? Hinata continuò, cercando dietro le spalle di Kakashi Naruto, «abbiamo bisogno di te, Naruto. Tu hai la forza che manca a tutti noi» gli disse, e il ragazzo poté notare il suo ventre rientrare ed il petto alzarsi in un lungo inspirare un’aria che sembrava non bastarle, «con te dalla nostra parte, ci verranno svelati tutti gli altri misteri per vincere questa battaglia» e si sforzò di sorridere, «quando saremo tutti assieme, né il numero né le armi saranno un problema».

«E se perdiamo?» fu Sakura a concretizzare quel pensiero che sentiva aleggiare sopra di loro come una nuvola tossica. Sentì il proprio cuore perdere un battito nel pronunciare quelle parole – l’idea di morire in un’ipotetica guerra (come l’avevano chiamata) la spaventava. L’idea del proprio sangue sulla lingua e sulla neve la spaventata. Era terrorizzata dall’idea di morire, abituata com’era a sopravvivere. Per di più, non riusciva a capacitarsi di dover finire sotto il controllo degli esperimenti di Obito – che poteva volere dai suoi dannati capelli rosa?! – affiancato da una potente divinità malefica e vendicatrice di cui non aveva sentito mai pronunciare il nome, se non nelle storie dell’orrore.

Scetticamente, pensava che fossero tante storielle e nient’altro. Ma a forza di fuggire era diventata di pietra e, vedendo quei mostri dare fuoco alle case e alle persone, i suoi genitori mangiati vivi davanti ai suoi occhi, la storia di Kaguya e Madara sembrava così reale, così palpabile che era quasi sul punto di cedere. Naruto, inoltre, rigido come i tronchi che li circondavano, sembrava completamente assorbito da quelle parole, dalla figura sempre più eterea di quella certa Hinata, pronto a scattare ed afferrarla tra le braccia se potesse svenire da un momento all’altro, come un fiore caduto dagli alberi.

Nonostante Naruto guardasse Hinata, lei non ricambiava – non più. I suoi occhi erano fissi su Kakashi, come se cercasse di studiarlo, di capire cosa lo bloccasse lì, cosa lo spaventasse. «Tu sai che quello che stiamo dicendo è vero» disse poi, solenne, con una voce limpida, diversa da quel tono tremante che aveva assunto negli ultimi momenti, «sai che Obito sta facendo tutto questo grazie a Madara, e sai che Naruto ha il potere».

«Lo sapevi?!», l’intervento da parte del biondo era comprensibile, Kakashi se lo aspettava e, per questo, non si scompose.

«Lo immaginavo» gli rispose con sufficienza, «lo immaginava anche tuo padre» concluse, a voce più bassa.

«Obito ha provato a prendere anche te, vero?» domandò Hinata, facendo un passo incerto, liberandosi dalla presa di Neji, avvicinandosi al gruppo di nomadi, «e ti ha distrutto».

Kakashi sospirò, chiudendo l’unico occhio visibile, «io non sono importante» mormorò, «e ha distrutto più  gli altri che me, io sto bene».

Era una bugia.

«Prima degli altri Obito ha distrutto sé stesso» proferì Hinata, socchiudendo gli occhi. Il silenzio generale era rotto solo dal susseguirsi di tutti quei respiri, che erano vita alle orecchie di Hinata, dimostrazione che forse c’era ancora un po’ di speranza, un po’ di buono nel mondo.

Rimase così per qualche secondo, sentendo il calore liquido del sole scenderle sulle spalle e sfiorarle il collo e le mani. Nel buio che si era creato attorno a lei, vedeva piccole fiamme azzurre uscire allo scoperto, come cuccioli di cervi che, fidandosi di lei, si avvicinavano e cercavano qualche carezza amorevole.

Sotto le sue dita, il calore di un batuffolo di pelo si fece vivo, presente, sfiorandole anche le gambe – alzò le palpebre, osservando Akamaru ai suoi piedi che, proprio come quei cerbiatti, come quelle fiamme azzurre, cercava una coccola. Si chinò a terra, abbracciando per il collo l’animale, affondando il viso nel suo pelo bianco come lei e la neve, ascoltandolo mugolare come se volesse intonare una canzone.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Ben ritrovati, io cerco di essere puntuale (devo dire che da settembre a questa parte sono particolarmente in orario per tutto quello che faccio, chi mi segue anche su papavero radioattivo può confermare uwu)!

Che dire? Ho dato una sbirciata al capitolo prima di pubblicare (ho letto la storia quattro volte, capitemi se non la leggo una quinta XD)… qui si spiega un po’ il background della storia di Obito, a cui ho cercato di dare un “senso” abbastanza consistente in questa storia. Insomma, sì: mi serviva un super cattivo e Obito calzava a pennello… un po’ folle ma mosso da buone intenzioni… bah, chissà come lo vedete voi! XD

Ammetto che non è un capitolo molto movimentato, anzi, è molto discorsivo. Parlano un sacco, già. Vi invito a godervi questi dialoghi, perché sono molto stitica in fatto di discorsi e ho notato che nei capitoli a venire non parlano così tanto. Ho dato spazio anche ad un altro personaggio che rimarrà nel mio cuoricino per sempre e che, purtroppo, non comparirà più: Kiba! Ammetto che mi è piaciuto molto il modo in cui l’ho inserito ed il ruolo che Akamaru si è preso da solo (io non avevo deciso niente, lo giuro!) – dovrebbe essere interpretato come un segno d’assenso e di fiducia: se il cane si fida, possiamo fidarci tutti noi. Si sa che gli animali arrivano prima a certe cose rispetto agli umani, eh!

Parlando di personaggi a cui ho cercato di dare uno spicchio, in questo capitolo emerge decisamente di più Kakashi, con quel suo fare protettivo da padre che ho sempre visto in lui da quando era maestro del vecchio team 7, il suo cercare di essere (o sembrare) forte ecc… mi ha decisamente emozionato scrivere di lui in quel senso! Bello bello bello, bravo Kakashi ;____;

Anche se mi sto decisamente esaltando, voi non esitate a dirmi se avete pareri diversi sui personaggi o se sembrano fuori carattere ^^

Sono desolata dal fatto che questo capitolo sia un paragrafo unico… ma capirete che non era possibile dividerlo ;3; se la lettura risulta difficoltosa, provvederò anche a questo.

Grazie mille per aver letto!

 

Se ci sono errori di battitura perdonatemi, segnalatemeli se potete e li cambierò appena la storia sarà valutata dalla giudicia. Partecipando ad un contest, non ho intenzione di cambiarla fino a quando non sarà veramente conclusa, facendola leggere a voi così come è stata inviata ad ame tsuki.

Dopo tutto questo sproloquio senza senso, posso avvisare che il prossimo aggiornamento a martedì 7 aprile.

 

Grazie a tutti i preferiti e le seguite – e, ovviamente, anche a chi mi ha lasciato un commentino alla storia! ^^

(yingsu, con te facciamo i conti sempre in separata sede, ormai lo sai cuore *3*)

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 3
*** capitolo 3 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 3

 

 

~

 

 

Gli Hyuuga abitavano in una nicchia protetta dagli alberi e da qualche edificio che ancora si reggeva in piedi, nonostante i tetti fossero crollati al loro interno. Il sole veniva filtrato dalle foglie e dalle schegge di vetro ancora attaccate miracolosamente alle finestre – rendeva tutto più familiare, più intimo.

La Natura si stava mangiando quello spicchio di città, constatò Naruto, osservando i rampicanti intrecciarsi ai mattoni o i mobili all’interno degli abitacoli, travolti da un’onda di muschio brillante. Sembrava volesse riportare ogni cosa al suo stadio originale e aveva decido di iniziare da quel posto, probabilmente era una piazza.

«Voi vivete qui?» chiese retoricamente, approfittando della lontananza di Neji per affiancarsi ad Hinata. Osservò il ragazzo allontanarsi in una capanna di foglie tra due colonne di pietra semidistrutte, al suo interno vedeva una ragazza intenta ad appuntire diverse lance, avvolta in pesanti pellicce. Neji si chinò accanto a lei, abbracciandola forte, spostandole i capelli dal viso.

«Sì» la voce di Hinata lo riportò alla realtà. Si fermarono vicino ad un ramo sterrato e  lo invitò a sederle accanto. Naruto sia accomodò senza troppi complimenti, distendendo le gambe e allungando braccia  e schiena, mentre una serie di vertebre scricchiolavano, facendo sospirare. Crack crack crack. Era una bella sensazione stare seduto e riposarsi.

Seguì con lo sguardo il corpo di Hinata, nascosto dai vari strati di lana e pelliccia consunta. Le braccia, tuttavia, rimanevano esposte al freddo dai gomiti fino alle punta delle dita. Notò sui polpastrelli della ragazza un verde tenue, come se il muschio stesse iniziando a coprirla lentamente. La Natura si stava riprendendo anche lei?

Naruto si sentì soffocare, preso da una rabbia folle all’idea di vedere Hinata scomparire da lui prima ancora che avesse ricevuto delle risposte. Fuori controllo, senza pensare, allungò le proprie dita avvolte dai guanti e afferrò quelle di lei, che gli sembrarono così fragili da rischiare di rompersi nella presa indelicata di lui. Stalattiti trasparenti che al primo movimento brusco cadevano a terra. Erano così fredde da sembrare davvero di ghiaccio, pallide che quasi brillavano di luce propria – come se il sole le attraversasse.

Osservò le unghie rotte e le nocche in evidenza, quasi sporgenti. Girò i palmi di Hinata verso l’altro, del sudiciume si era insediato nella linea che congiungeva l’indice con il mignolo e nelle pieghe di quella pelle liscia e irreale per un ambiente del genere. Da dove era sbucata, lei? Naruto non poteva credere che vivesse in mezzo alla foresta, che su di lei convivessero bellezza e sporcizia in modo così armonioso, da far sembrare il brutto bello ed il bello semplicemente magnifico. La immaginò pettinata, pulita, avvolta in vestiti nuovi e adatti alla sua corporatura minuta, alla sua pelle bianca.

Non erano mai esistite creature come lei, se non nelle fiabe.

Seguì le braccia di Hinata, sembravano due tele bianche su cui viola e  verde e rosso giocavano assieme, creando strani ghirigori. E guardandole attentamente riusciva a notare quei punti in cui la pelle s’increspava in onde più scure, ruvide e grigiastre. Quelle cicatrici ricalcavano vene e arterie – alcune, addirittura, erano ancora rosse, Naruto si chiese come avesse fatto a non notarle prima. Seguì le sue spalle esili e il collo fine. Quando respirava riusciva a vederle chiaramente le clavicole e i tendini del collo. Le orecchie a punta avevano assunto quell’infantile color rosa che vedeva sul volto di Sakura quando le faceva alcune considerazioni di cattivo gusto. Velocemente, quella sfumatura si era intensificata ed estesa sulle guance della Hyuuga.

Si sentì in imbarazzo ad averla toccata così, senza permesso. Le lasciò i polsi, sentendo subito la mancanza di quella pelle sotto le proprie dita, e si mise le mani tra le gambe con la scusa di doverle scaldarle, desiderando solamente tenerle a bada. «Perché le tue braccia sono piene di cicatrici?» domandò, cercando di sembrare il più disinvolto possibile.

Hinata boccheggiò un attimo, abbassando gli occhi dopo averli piantati in quelli di Naruto come se si volesse aggrappare a quei pozzi blu. Respirò gonfiando il petto quanto più possibile, stringendosi il braccio con la destra. «Gli spiriti maligni fluttuano nell’aria e noi li respiriamo, così finiscono dentro di noi e nel sangue» iniziò a dire, Naruto colse un lieve sorriso all’angolo delle sue labbra, e una tristezza velata sulle sue ciglia, aggrappata lì, come se volesse andarsene da quel corpo, «e alla luna piena lasciamo che se ne vadano, li restituiamo a Kaguya in modo che possa purificarli».

Naruto non riuscì a fare altro che ad annuire. Immaginò il dolore della pelle scorticata con gli stessi cocci di vetro che rendevano liquida la luce del sole, e il sangue sgorgare da quelle ferite, macchiando la pelle di lei e degli altri con la stessa facilità con cui macchiava la neve ai loro piedi. «Dove sono gli altri?» domandò, concentrandosi su altro, evitando di viaggiare con la mente su quelle cicatrici che, di fatto, non lo riguardavano. Eppure le sentiva estremamente sue, come se le avesse anche lui: sulle braccia, sulle gambe, e sulla schiena – dove non riusciva ad arrivare con le proprie forze.

 

 

Sakura ebbe il permesso di girovagare nella piazza. La notizia di poter esplorare quel posto la esaltò, o almeno credeva le sarebbe servito a non pensare a tutta quella discussione avuta con Hinata, nella foresta. Lasciò il proprio bagaglio assieme a quelli del resto del gruppo e passò in rassegna tutti gli edifici a pezzi che racchiudevano in una bolla protettiva il luogo, cercando un buon posticino riparato dentro il quale passare la notte.

Le sembrò di tornare bambina, superando travi di legno e frugando in cassetti che quasi si sbriciolavano sotto le sue mani. Alcune lampadine erano ancora intatte – addirittura! Per un momento ebbe l’impulso di raccoglierle e portarle al resto del gruppo, ma preferì lasciare quei pezzi di tecnologia al loro posto. Recuperò piuttosto lenzuola e trapunte consumate dal tempo e dal muschio, in condizioni abbastanza buone da poter essere usate senza ritrovarsi qualche sfogo (se non peggio) sulla pelle.

Una piccola casetta scolorita e coperta di rampicanti si nascondeva tra le rovine di due edifici. Sakura attraversò le radici per terra, attenta a non inciamparci o incastrarsi con le lenzuola che teneva tra le braccia. Spostò con la spalla la porta ricoperta da liane e foglie per passare dall’entrata – come se fosse una vera casa – e si guardò attorno, cercando di tirare le somme sulle condizioni di quell’abitacolo.

Notò subito il muschio formatosi lungo tutto il perimetro della casa, dove il pavimento s’incontrava con le pareti; inoltre era rotto dal basso per colpa di grosse radici, Sakura dovette ammettere che quegli spuntoni le mettevano particolarmente ansia. Tuttavia, ad un primo sguardo, non sembrava in cattive condizioni. Le sembrò di scorgere anche un divano sotto un lenzuolo di rampicanti.

Poi, mentre si perdeva nei granelli di polvere che volteggiavano nei pallidi cilindri di luce che proveniva dai buchi sulle pareti, sentì il rumore del legno cigolare. Un animale? si chiese, e la prospettiva di cacciare non le dispiaceva: finalmente un po’ di carne! Non vedeva qualcosa di vivo e commestibile da giorni… All’improvviso, proprio come un animale, qualcosa la afferrò da dietro, squilibrandola e facendola cadere a terra.

Atterrò sulle trapunte mentre una morsa le intrappolava le spalle, schiacciandole verso il pavimento. Premeva e faceva così male che si sentì come un uccellino tra le mani di un uomo. Le stavano frantumando le ali e rompendo la gabbia toracica, le mancava il respiro. E poi scomparve tutto: sentì il peso andare via, i propri muscoli contratti rilassarsi improvvisamente ed uno spostamento d’aria alle sue spalle. L’ossigeno ritornò nei suoi polmoni mentre lei ansimava e tossiva, inspirando grosse boccate d’aria, quasi avesse fame di una vita che sembrava così vicino dall’esserle strappata via. Le macchioline rosse che le avevano annebbiato la vista se ne andarono, lentamente, dissolvendosi nei contorni sfocati della casa. Rotolò su sé stessa, sfregandosi gli occhi mentre cercava di liberarsi dalle coperte e rimettersi in piedi.

«Non sei una di loro».

Era una voce profonda, affilata. Le ricordava la notte e il volo dei corvi. Osò pensare che fosse anche malinconica, non molto diversa da quella di Naruto, in realtà, quando lo coglieva nel bel mezzo della notte a guardare le stelle o a ripensare a dei ricordi che non aveva. Associò quella voce al dolore alle spalle, allo sterno premuto contro il pavimento, ai polmoni incapaci di gonfiarsi. Rabbrividì, sentendo un conato di vomito soffocarla nuovamente. Ingoiò tutto, cercando l’aria per parlare.

«Degli Hyuuga?» domandò, la voce le uscì pungente, quasi retorica. Evitò di incontrare la figura del suo aggressore, cercando di recuperare la calma e la forza necessaria per affrontarlo, «ti pare faccia parte di loro?» concluse, e finalmente alzò gli occhi.

Se non fosse stato per quelle pupille scure, simili a due pezzi di carbone, lo avrebbe scambiato per uno Hyuuga. Aveva la stessa bellezza della neve, gli stessi capelli scuri e quel sorriso pallido e nascosto, piatto. Osservandolo meglio, in realtà, Sakura si rese conto che non sorrideva affatto, che il suo era a metà tra un ghigno di sfida ed un’espressione spaventata, simile a quella di un cucciolo. Sembrava paralizzato. Vedeva nella sua mano una piccola lama scheggiata ed opaca, non era nemmeno sicura tagliasse ancora. Un rivolo di sangue la oltrepassava per il lungo, scomparendo nella manica dello sconosciuto. Tremava.

«Sei ferito…» gli disse, apprensiva, abbandonando le coperte per avvicinarsi a lui. Più cercava di accorciare le distanze, più lui scappava. Nei suoi occhi vedeva una luce rossa, simile al fuoco, che gli bruciava il contorno delle iridi e sembrava distruggerlo, fargli male dall’interno. Erano tizzoni. Carbone ardente.

«Non ti avvicinare».

«Non voglio farti male» riprovò lei, e ancora un passo in avanti. Lo sconosciuto davanti a Sakura chiuse gli occhi e aggrottò la fronte – una fitta alla testa? –, inciampò su uno di quegli spuntoni del pavimento e cadde all’indietro.

Sakura non ragionò. Istintiva si avvicinò a lui, inginocchiandosi davanti al ragazzo che, da vicino, le ricordava un ramo sbattuto da un temporale, fragile come sembrava. Snello e debole uguale, tremava percosso da una pioggia invisibile ed impalpabile che Sakura non avvertiva, ma che rendeva la sua pelle ugualmente fredda. «Come ti chiami?» domandò, gentilissima, cercando di sfiorargli la mano ferita.

«Non toccarmi» disse lui, di nuovo. Le sillabe gli uscivano rotte dalle labbra, trattenute dai denti e da qualcos’altro di più profondo, sentimenti che lei non  capiva, racchiusi nello stomaco. Ogni respiro che faceva, profondissimo e tremante, sembrava fosse sul punto di romperlo dall’interno, come facevano quelle radici con la casa.

Sakura fu sul punto di insistere nuovamente, facendo ricorso a tutta la sua calma per convincerlo a fidarsi di lei. Il ragazzo chiuse gli occhi, distendendo i muscoli del volto. Smise di tremare e di respirare profondamente. In verità, sembrava non respirasse affatto. Ciondolò e cadde in avanti, Sakura si sporse per afferrarlo e fargli appoggiare la fronte sulla propri spalla. Aveva perso i sensi.

Le sembrò di aver appena trovato qualcosa di estremamente importante, qualcosa di fragile, così tanto che aveva l’impressione di sentire minuscole crepe sotto le proprie dita – come il pavimento rotto di quella casa. Gli pettinò i capelli, togliendogli affettuosamente le foglie incastrate tra le ciocche sporche. Gli massaggiò piano anche la schiena, con movimenti circolari e titubanti e respirò pianissimo per paura di svegliarlo.

Non sapeva molto di quello che era successo, né del suo aggressore, né di sé stessa. Non si pentiva delle sue reazioni, le sentiva conformi alla sua personalità: le aveva prese consapevolmente. Gli sfiorò la colonna vertebrale sotto la giacca e le maglie che indossava, sentendo sempre quella fragilità delle persone sole sotto le proprie dita. E non riusciva  a non pensare che tutto quell’affetto gratuito che gli stava dando, quei gesti delicati che difficilmente riusciva ad esternare – come faceva, in quel mondo, ad essere gentile? – fossero cose che lo sconosciuto non avesse mai ricevuto.

 

 

Per  un momento Sakura pensò di avvolgere il ragazzo nelle coperte che aveva recuperato e caricarselo sulle spalle. Ma il solo distenderlo a terra in un punto in cui il pavimento era stabile le risultò un’impresa titanica – era così debole! – e l’idea di attraversare mura cedute e radici sterrate con qualcuno sulla schiena  non la faceva saltare di gioia. Insomma, era un’operazione fallimentare già dalla sua progettazione.

Lo adagiò comunque a terra, coprendolo con la trapunta più pesante e strappando un lembo del lenzuolo per fasciargli la ferita alla base della mano, vicinissima alle pieghe del polso. Ripercorse la strada che aveva fatto per arrivare in quel posto, ritornando nella grande nicchia che odorava di erba e muschio. Cercò Kakashi e Naruto con lo sguardo, provando a sbirciare nei piccoli gruppetti che si erano formati sotto i tetti spioventi o le capanne di foglie e teli.

Naruto era lì: parlottava con Hinata, rossa in viso, e le sorrideva con una dolcezza strana, che faceva venire a Sakura una strana morsa allo stomaco. Non era gelosa della ragazza, non avrebbe mai potuto desiderare che Naruto le rivolgesse quelle attenzioni particolari. Era qualcos’altro a farla sentire in quel modo.

Le faceva male osservare il modo in cui il ragazzo riusciva a trovare spazio anche per qualcosa di vagamente simile all’amore. Tutti attorno a lei sembravano farlo. Quando Sakura aiutava Tsunade a far partorire le donne vedeva i genitori abbracciare il loro figlio e piangere di gioia. Si chiedeva tutte le volte come facessero le persone a mettere al mondo una nuova creatura, ad essere sicuri che bastasse il loro amore e la loro buona volontà per farlo crescere sano e felice.

Sospirò, sentendo i muscoli del petto e delle spalle rilassarsi, iniziando a camminare in direzione di un piccolo sentiero che si faceva strada tra due file di alberi spogli. Aveva bisogno di camminare, di metabolizzare il perché si sentisse così diversa, perché non trovasse nessuno con cui provare ad essere felice, lasciando cadere quella maschera di pietra che si era scolpita per sembrare indipendente e forte. Desiderò ardentemente essere stretta tra le braccia di qualcuno, ricevere quel calore umano che sapeva di promesse sussurrate e del profumo di lui – un lui che non conosceva. Che forse non esisteva nemmeno, considerando che l’ultima persona che aveva conosciuto aveva provato ad ucciderla.

«Dove stai andando?» la voce di Kakashi le arrivò lontana, quasi lattiginosa. Il suo corpo stava rifiutando di ascoltare le persone, di interagire con gli altri. Aveva bisogno di sé stessa solo per un momento, per confortarsi e dirsi che era solo questione di tempo.

«A fare un giro e cercare qualcosa da mangiare…» gli rispose, alzando una mano in aria in segno di saluto, senza nemmeno girarsi.

Non si era accorta nemmeno del momento in cui aveva iniziato a camminare, persa nei suoi pensiero com’era.

Chissà se lasciare quel ragazzo da solo sarebbe stata una buona idea.

 

 

Sai non si era mai sentito parte di quel gruppo di profughi. Lo avevano più volte accusato di essere un sognatore o, nei casi peggiori, un nullafacente. Tutto questo perché invece di pensare a dove trovare il cibo per mangiare, Sai preferiva pensare al colore delle foglie, classificare le varie tonalità di verde e cercare tra le cianfrusaglie delle rovine della Vecchia Città un po’ di carta. Sognava osservando la linea in cui il cielo e la montagna si univano in un abbraccio brillante, che gli faceva lacrimare gli occhi tanto forte era la luce all’alba o al tramonto.

A nessuno importava della sua abilità nel disegno. Nessuno si era interessato alla ricostruzione che aveva fatto del luogo in cui stavano, basandosi sulle rovine e sulla sua immaginazione. Solo suo fratello gli dava corda, lo spronava, gli diceva che la sua passione sarebbe stata elogiata (ed anche un po’ invidiata, scherzava) in un altro periodo. Ma non per questo doveva arrendersi, se disegnare lo faceva stare bene.

Ma suo fratello era morto.

Spostò la neve da un sasso e vi si sedette sopra, sospirando. Guardandosi attorno, non notava nulla che lo stimolasse abbastanza, e questo lo costringeva a pensare alla sua vita, a Yamato – l’unico che gli dava ancora un po’ di attenzioni – e a quanto desiderasse rinascere in un luogo in cui la carta fosse sempre stata a portata di mano, e i colori brillanti e reperibili in quei tubetti che aveva trovato una volta. Il rumore dell’acqua, cullata da quella leggerissima brezza primaverile, sembrava quasi una ninna nanna suonata appositamente per lui, per tranquillizzarlo da tutti quei ricordi che sembravano sempre più incubi ad occhi aperti.

«Chi sei?» era la voce del vento.

Aprì gli occhi, osservò quelle dita lunghe, del colore delle pesche, affondare sulla neve come se non temesse il freddo. Le braccia, flesse in una curva dolce, scomparivano nell’acqua che ora sembrava più limpida, cristallina, non biancastra e stagnante come prima. Le labbra della sirena rimanevano socchiuse, rosse e morbide come una rosa appena sbocciata, nata in un luogo diverso da quella montagna e da quel mondo. Immaginava la sua coda dondolare nell’acqua e sentì quel fuoco nascergli dallo stomaco e dilaniargli ogni muscolo, ogni nervo. Era un fuoco dolce, arancione e caldo come il sole di quel posto, quando nasceva e illuminava tutta la foresta. Avrebbe voluto disegnare quella creatura, catturare tutta quella bellezza e quelle sensazioni in un pezzo di carta ingiallita. Prendere il ritratto tra le mani, sfiorarlo per risentire il sole sulle dita e poi stringerselo al cuore.

«Sai» rispose, accennando ad un sorriso. Lei sorrise a sua volta e si intrappolò il labbro inferiore tra i denti leggermente appuntiti, non sembravano minacciosi, non potevano esserlo. Sul collo e sulle spalle, le branchie erano disegnate con un’unica linea sottile, si muovevano appena, rendendo la figura di quella ragazza un organismo così complesso, così vivo e speciale che Sai si sentì un ladro ad osservarla a lungo. «Tu? Come ti chiami?» e si appoggiò sulle ginocchia sulla neve, avvicinandosi appena verso la riva, chinandosi così tanto che sembrò quasi in quadrupedia.

La ragazza ritrasse le mani, spaventata, mosse le spalle e i capelli biondi volteggiarono nell’aria, come se l’acqua che li appesantiva non contasse.

Qualsiasi cosa lei facesse, anche solo respirare,  gli sembrava una dimostrazione della bellezza del mondo. Era così perfetta in ogni cosa che faceva… in un angolo del suo cervello, sapeva benissimo che probabilmente sarebbe morto. Ma che gli importava, ora?

«Ino» disse lei, con quella voce che faceva sbocciare i fiori sugli alberi. Si riavvicinò al bordo del laghetto, appoggiando ancora le dita sulla terra con la stessa delicatezza di un cerbiatto o di una margherita. Sai combatté contro la voglia di toccarle ogni falange, ogni centimetro di pelle, scoprire se il bacio di una sirena fosse così letale come dicevano, se affogare fosse davvero una morte dolce.

«È un bel nome» rispose, sorridendo ancora con quella gentilezza che aveva  imparato dalle cose attorno a lui, a cui nessuno dava importanza perché erano inutili, “perché non ti aiutano ad andare avanti” dicevano.

«Tu sei bello» ribatté, facendo leva sulle braccia, alzandosi dall’acqua per arrivare alla sua altezza. Sai fece scorrere lo sguardo sul suo corpo, su quei capelli biondi infinitamente lunghi che le coprivano i seni ed i fianchi, accarezzandole le squame che impreziosivano il basso ventre e scendevano lungo la coda.

«Che stai facendo?!».

Fu come sentire le unghie graffiare il vetro, sentì le mani di Ino sfiorargli le braccia nel momento in cui quella voce – potente, simile ad un tuono – interruppe quell’alchimia che si era creata tra di loro. Sai si girò verso il terzo incomodo, osservando Sakura avvicinarsi a lui, trafelata e scomposta. La presa sui polsi di lui scomparve e piccole gocce d’acqua gli colpirono il viso. Quando si girò verso il lago, Ino era sparita.

«Era una sirena, idiota!» continuò lei, preoccupata. «Ti avrebbe ucciso sicuramente…» disse, sicura delle sue parole. Non capiva.

«So cos’era…» le rispose senza interesse, rialzandosi da terra mentre le mani di Sakura si arrotolavano attorno al suo braccio, trascinandolo via per aiutarla a recuperare un certo qualcuno da una casa abbandonata.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Yeah

Insomma, sono successe un po’ di cose. (Oggi la tastiera funziona un po’ male, quindi mi scuso se ci saranno errori di battitura! ;3;)

Prima di tutto, il gruppo di Kakashi si è unito agli Hyuuga, i quali li hanno “accolti” nella piazza. A proposito del setting, mi rendo conto che le mie descrizioni non sono il massimo, ma preferisco (anche a livello di stile) soffermarmi più sui personaggi e sulle loro descrizioni che sullo sfondo in sé. In sostanza, ammetto che le descrizioni paesaggistiche sul post-guerre non sono da Oscar, ma spero sia chiaro che la vegetazione ha mangiato tutto e gli edifici ci sono ancora, in rovina ma ci sono. L’«esplorazione» di Sakura è servita anche un po’ a farvi rendere conto della situazione attuale, spero che non abbia annoiato troppo~

Il capitolo è un po’ più lungo dei precedenti, lo ammetto, e vi informo già che ci saranno capitoli lunghi circa il doppio dei primi due. Mi scuso immensamente ma non potevo tagliare la storia in modo diverso, spero mi possiate capire

Sappiamo che fine ha fatto Sasuke il capitolo precedente! Eheh, vedo anche ombra di SasuSaku! Ce la farà l’Uchiha a ritornare in sé? Bella domanda. Anche in questo capitolo, sono rimasta sconcertata dalla grande umanità che ho fatto uscire fuori da Sakura, più andavo avanti a scrivere più mi accorgevo che i suoi pensieri sarebbero stati i miei in una situazione analoga. Non lo so, dal mio punto di vista è stata una scoperta molto piacevole, spero che per voi sia stata altrettanto positiva ^^

Riguardo a Sai, anche questa è stata una apparizione più per spiegare altri dettagli del mondo (a cui tengo molto, lo ammetto) che per altro. Ma non volevo che sia lui che Ino avessero un ruolo talmente marginale nella storia, quindi vi consiglio di tenere d’occhio la Yamanaka che, proprio come Hinata, è una creatura dedita a Kaguya.

 

Prossimo aggiornamento a venerdì 10 aprile!

Come al solito, grazie del seguito e del supporto~

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 4
*** capitolo 4 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 4

 

 

~

 

 

Sakura bagnò il lembo di cotone, vi adagiò sopra le erbe tagliuzzate e il pesto di alcuni semi e  foglie, e poi fasciò la ferita pulita del ragazzo.

«L’ho trovato pochi giorni fa» spiegò brevemente Hinata, accucciata dall’altro lato del giovane, le braccia nascoste tra le cosce e il petto per tenerle al caldo, «era ferito alla testa e aveva qualche scottatura, viene dall’altra parte della montagna» continuò, sospirando appena. Allungò una mano per spostargli il labbro superiore verso l’alto, scoprendo il canino affilato, anche se non era lungo come quello degli Inuzuka, «è un Uchiha» le spiegò, rimettendo le mani al caldo, «quando provano forti emozioni i loro occhi cambiano».

Sakura trattenne il respiro, ricordando il bordo di quelle iridi bruciare come fosse carbone. Riusciva ad immaginarlo: il rosso sovrastare il nero, dare quella nota tragica a quello sguardo già di per sé espressivo, impaurito, troppo forte da sostenere. «Lo so» disse, quasi senza pensare, lo coprì con la vecchia trapunta lacera, rimettendo poi il vasetto con il macinato scuro nel proprio zaino, «le ho viste» disse, anche se non era totalmente vero.

«Si dice anche che fissandole a lungo si cade in un’illusione da cui non si può più uscire» sussurrò Hinata, alzando lo sguardo, «ma è una leggenda. Come era una leggenda che gli occhi degli Hyuuga potessero vedere attraverso le cose».

Sakura abbassò lo sguardo sul ragazzo, la sua pelle bianca stava lentamente riprendendo quella lucentezza che anche la neve aveva, rendendola più viva.

«In tutti i casi continuava a scappare, ma era troppo debole e sveniva dopo pochi metri, e poi noi lo riportavamo indietro» spiegò Hinata, alzandosi da terra mentre Neji ed un’altra ragazza, diversa dagli Hyuuga, si avvicinava. I tre si guardarono per un momento, dicendosi qualcosa con gli sguardi che né Sakura né gli altri presenti poterono capire.

«Magari ora che ha conosciuto qualcuno di diverso si fiderà…» commentò il cugino della ragazza, Naruto annuì al suo commento, incrociando le braccia, «è molto diffidente nei nostri confronti, crede che lo vogliamo mangiare» spiegò ancora.

«Lo avevo intuito» rispose lei, alzando il cappuccio del proprio cappotto, cercando poi nelle tasche i guanti da rimettersi, «lo credevamo anche noi, dopotutto» scherzò lei con un po’ di amarezza. «Aspetterò che si svegli» sentenziò.   

«È assolutamente necessario che si fidi» disse Hinata, più a sé stessa che agli altri, prima di andarsene accompagnata dal cugino e dalla terza ragazza di cui Sakura non conosceva il nome, ma che non aveva detto ancora una parola.

 

 

Il sole era già scomparso dall’altro lato della montagna quando il ragazzo diede segni di coscienza. Kakashi e Sai avevano abbandonato lei e Naruto al capezzale dell’Uchiha, lasciando a loro le coperte e un fuoco acceso con della legna messa da parte per alimentarlo.

«Secondo te perché è assolutamente necessario che si fidi?» domandò Sakura, ripetendo le esatte parole della ragazza mentre ravvivava il fuoco. Naruto era entrato subito in sintonia con Hinata – d’altronde, era naturale: gli Hyuuga, le sirene… avevano tutti qualcosa di magico, un’aura attorno a loro che brillava come un piccolo sole. Non rimanerne affascinati era difficile.

«Non lo so» rispose sinceramente lui, prendendo un ramoscello e iniziando a  punzecchiare il braccio del ragazzo, «siamo sicuri che non stia semplicemente morendo?».

«Non sta morendo, cretino!» lo rimbeccò lei, strappandogli la legna di mano.

«E come fai a saperlo?» scherzò Naruto, «hai dei poteri profetici anche tu? Kaguya ti ha reso una sua adepta?».

Sakura non seppe se prendersela o no per quel tono sarcastico, posò gli occhi sul ragazzo, stendendogli un’altra coperta addosso, «lo sento e basta» mormorò poi, senza riuscire a nascondere un minuscolo sorriso che costringeva l’angolo destro delle sue labbra a inarcarsi verso l’alto.

«Itachi».

Risentire quella voce fu un sollievo. Aveva  un tono così docile, così ferito ed indifeso che a Sakura venne voglia di abbracciarlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene.

«Itachi?» domandò Naruto, «chi è Itachi?».

«Magari un familiare…» rispose sottovoce, per paura di non disturbarlo ulteriormente. Lo osservò muoversi a destra e a sinistra, stringere le palpebre e le labbra e poi rilassare i muscoli del viso in un sospiro. Si scostò le lenzuola di dosso, affondando le mani nel letto di foglie e neve.

Sbatté piano le palpebre, prima di aprirle lentamente. Le iridi si confondevano con le pupille in un unico buco nero coperto da un velo di lacrime. «Stai tranquillo…» bisbigliò piano Sakura, facendo cenno a Naruto di allontanarsi un po’, «ci siamo visti prima, ricordi? Non sono una Hyuuga…».

Il ragazzo non disse niente. Rimase pietrificato mentre il velo che gli offuscava la visuale si condensava in due piccole gocce che gli rigarono le lacrime, unendosi alle foglie sotto di lui. Sakura gli asciugò premurosa il viso, come se fosse un bambino a cui aveva curato il ginocchio dopo essere caduto. «Come ti chiami?» gli domandò piano, ritornando a coprirlo con i teli sporchi, «hai un nome, no? Sei un Uchiha…».

Rimase in silenzio, aspettando che l’altro le desse una risposta. Per tutto l’arco di tempo in cui il silenzio regnava sovrano, Sakura non ruppe quel contatto visivo che avevano creato. Sentiva i brividi appesantirle il corpo, intorpidirle i muscoli e ghiacciarle le ossa lentamente. Aveva l’impressione di non sapersi più muovere, di aver piantato le radici lì, di fianco a lui.

«Sasuke» rispose, prima di chiudere gli occhi e girarsi di lato, dandole le spalle.

«Vado a chiamare Hinata?» domandò Naruto, senza irrompere violentemente nei pensieri di Sakura, come faceva di solito.

«No, no» rispose, scuotendo lentamente la testa, «Sasuke… che ti è successo?» e gli toccò piano il braccio, rimanendo delusa dal sentirlo sfuggente, mentre incastrava il capo tra le spalle e rifiutava il suo tocco. Non le rispose.

«Ci sarà una guerra, lo sai?» intervenne Naruto. Nessuna reazione. «Abbiamo bisogno di te» continuò, era vero? Sakura non lo sapeva con certezza, ma se Hinata aveva detto che era necessario che si svegliasse…

«È una guerra contro Obito» diede manforte lei, «per fargliela pagare per tutto quello che ha fatto… che ci ha fatto».

«Voi non sapete cosa mi ha fatto Obito» era il sibilo di un serpente. Iniettava veleno nelle orecchie di chi lo ascoltava. Sakura ricordò il dolore alle spalle e i polmoni schiacciati. Le mancò l’aria per un istante, uno solo, quel che bastava per rendersi conto che sarebbe stata un’impresa dura convincerlo a non scappare di nuovo e lasciarsi morire nella neve.

«A maggior ragione dovresti convincerti che siamo dalla tua parte, Sasuke» Naruto parlò prima che lei potesse formulare una frase, «Obito ha ucciso i miei genitori, ha…―» non riuscì a finire di parlare che Sasuke era balzato a sedere, tenendosi il polso della mano ferita, digrignando i denti mentre gli occhi riprendevano a bruciare, consumarsi e diventare rossi.

«Tu non sai niente» gli disse, ringhiando come un lupo, «Obito ha distrutto tutta la mia famiglia. Tutta quanta».

«Per i vostri occhi?» ribatté Naruto. Sapeva che cosa stava dicendo? Sakura rimase pietrificata, osservando quell’aurea che si era creata tra i due. Un campo di forza quasi palpabile, che li racchiudeva in una cupola di vetro impossibile da rompere.

Sasuke spalancò le palpebre, chiudendo le labbra in una linea sottile. Le iridi ricaddero in quella notte cupa e tranquilla. Abbassò lo sguardo, stringendo le coperte nella mano sana.

«Obito vuole qualcosa da tutti noi, Sasuke» disse Sakura, facendosi spazio in quel dolore e quella frustrazione in cui il ragazzo era intrappolato, «dobbiamo unirci se vogliamo liberarci dalla paura che―» e fu interrotta ancora da quella sua voce sottile come il ghiaccio.

«Voi non capite» proferì, «quello ha un esercito di mostri». Sakura sentì un filo di paura nelle sue parole, «e ha un Dio dalla sua parte, un Dio vero» continuò, la mano che stringeva le lenzuola iniziò a tremare, «e noi cosa abbiamo?».

Rialzò gli occhi. Rossi. Spiccavano in quella pelle lattea come sangue nella neve. Erano cerchi scarlatti, come boccioli di rosa sul punto di sbocciare. E li vedeva: quei tre puntini neri attorno alla pupilla, unico residuo del colore originale della sua iride. Sentiva il proprio corpo congelarsi e venire investito da una vampata di fuoco e poi congelarsi ancora, in un tormento infinito che le provocava dolore tutte le volte, rendendo i suoi muscoli terra bruciata e nient’altro.

Forse aveva ragione. Forse loro non avevano niente.

 

 

Sakura ritornò al laghetto doveva aveva trovato Sai con la sirena.

Era frustrata. Sebbene Sasuke non provasse più a scappare, non sembrava intenzionato a voler dialogare con lei o con qualcun altro. Kakashi si era offerto di fargli da guardia, per assicurarsi che non fuggisse nuovamente.

Aveva bisogno di ragionare. Si rigirò tra le mani un piccolo ramoscello coperto di brina, sedendosi sulla riva della lacuna. Che doveva fare? Si sentiva così in dovere nei confronti di Sasuke che lavarsene le mani era l’ultima opzione che voleva prendere in considerazione. Sapeva, nel suo profondo, che esisteva un modo per convincerlo, per fargli capire quanto lui fosse importante. Perché lei lo sentiva – sulla punta delle dita, nello stomaco e nel cuore – che lo era davvero. La sua presenza era assolutamente necessaria per vincere la guerra e riprendere a vivere in un modo nuovo, migliore.

Alzò gli occhi verso il cielo. I rami degli alberi spogli si allungavano verso l’alto, cercando di afferrare quei fasci di luce arancione che si intrecciavano a quelli viola e blu. C’era calore in quella luce, lo stesso calore dei sogni che la cullavano di notte, e della coperta calda sulle spalle. Sakura si accorse di quanto le mancasse il sole, di quanto ne avesse bisogno per sentirsi meglio.

Chiuse le palpebre, immaginando quella palla di fuoco baciarle la pelle scoperta del viso e del collo, fantasticò sulle tiepide giornate primaverili e quelle più calde della stagione estiva – quando il loro gruppo si spostava verso il mare e si crogiolavano nell’acqua, cercando qualche pesce da mangiare.

Il sole le sembrò proprio lì: al centro d quella cornice di dita scure e morte, che brillava come gli occhi di Sasuke, ma di un arancione più tenue, meno minaccioso. Non le sembrava possibile che il sole fosse tornato indietro solo per lei, per farsi vedere e rassicurarla. Scosse la testa, massaggiandosi gli occhi, chinando il capo per non guardare più il cielo.

«Certo, ci mancavano solo le allucinazioni» si disse, scherzando. Alzò le palpebre, rivolgendo lo sguardo verso lo specchio d’acqua.

La sirena che aveva sorpreso con Sai era di nuovo lì. Sakura non fece in tempo nemmeno a rendersi conto di quanto fosse bella che quella si era già avvicinata alla riva, «il sole» le disse in un sussurro, portando le mani fuori dall’acqua, tenendo tra le dita un fiore di loto, i petali erano di un azzurro irreale, «Hai visto il sole, vero?».

«Non so di cosa parli» rispose scettica lei, mentendo a sé stessa. Ci mancavano solo le domande enigmatiche da parte di una creatura potenzialmente pericolosa! Forse era tutto un’illusione data dal fatto che aveva fissato troppo a lungo Sasuke.

«Lo sai, invece» rispose l’altra, «hai visto il sole» e appoggiò il fiore vicino ai piedi di Sakura. I petali si congelarono all’istante, prima di sciogliersi come acqua e ritornare verso il lago, «Il loto risponde a te e a te soltanto e diventa acqua, non vedi?» sorrise Ino.

«Non so di cosa parli» ogni secondo che passava, Sakura si sentiva sempre di più sotto pressione. Che cosa stava dicendo, quella? E perché il loto si era sciolto? Dannazione, era sicura si fosse sciolto davvero! Osservò l’acqua scorrere verso la laguna e le foglie verdi che accudivano il fiore. Al centro, riposava una piccola lumaca senza guscio.

«L’Acqua mantiene la vita»  spiegò la sirena, «Katsuyu è come il sole, ed è lo spirito conservatore e ricostruttore».

Sakura non riuscì a non prendere la lumaca tra le dita, mossa da una volontà che non capiva. La appoggiò sul proprio palmo, sentendo lo strato di ghiaccio che la ricopriva sciogliersi. Non provò nemmeno a trattenere il sorriso nel vederla muovere le piccole corna e rimettersi in piedi.

«Katsuyu ti ha scelto» continuò Ino, «la Terra invece crea la vita, è il cielo ed il cielo è Gamakichi, lo spirito costruttore» e dall’acqua la sirena estrasse un altro fiore di loto, i petali dorati erano rimasti intatti quando si ritrovò davanti a Sakura. «E l’ultimo è Aoda, la luna ed il fuoco che trasforma e distrugge. Aoda è lo spirito distruttore».

Un altro loto comparse ai suoi piedi. I petali bianchissimi si confondevano con la neve.

Sakura guardò i due fiori e poi la lumaca che strisciava lentamente sul suo palmo. Che doveva farsene di quei due fiori?

«Sono tutti figli di Kaguya» spiegò Ino, «sono la manifestazione materiale della Grande Dea, un dono che Lei ha fatto per aiutarvi».

Se aveva a che fare con Kaguya, sarebbe andata a chiedere ad Hinata.

«Gamakichi e Aoda chi hanno scelto?» domandò, ma quando rialzò gli occhi la sirena era scomparsa. Sospirò, affranta, appoggiando la lumaca sulla propria spalla mentre raccoglieva i due fiori con ambo le mani, ritornando nella piazza.     

 

 

Gamakichi e Aoda. Gamakichi e Aoda. Sakura si ripeté continuamente quei nomi mentre ritornava dagli Hyuuga, attenta a non far cadere i fiori o la lumaca sulla propria spalla.

«Hinata!» disse, un po’ troppo ad alta voce, perché altri Hyuuga si girarono verso di lei, guardandola come se fosse pazza. Chiamò nuovamente la ragazza, mentre i suoi piedi camminavano automaticamente verso l’edificio dove Sasuke riposava sorvegliato da Kakashi.

L’Uchiha era sveglio e beveva qualcosa di caldo da una ciotola di terracotta.

«Sei sveglio!» Sakura non riuscì a trattenere un sospiro di sollievo nel vederlo così tranquillo e docile, probabilmente aveva parlato con Kakashi – parlare con Kakashi era una buona medicina, lo era stata anche per lei e Naruto.

Si sedette davanti a lui, appoggiando i fiori a terra per paura di tenerli ulteriormente in mano e rovinarli.

«Dove li hai trovati?» domandò  Kakashi. Sakura non fece in tempo nemmeno a rispondere che il fiore dai petali più chiari iniziò a consumarsi in un fuoco rosso, vivo e… freddo. Sakura osservava le fiammelle danzare a pochi centimetri dalle proprie gambe e non avvertiva nessuna vampata di calore. Nulla. Le lingue arancioni si scurirono velocemente, passando dalle sfumature dell’argento a quelle della notte, violacee e nere – iniziarono a prendere forma e consistenza. Sakura poté giurare che si stavano solidificando.

Sasuke allungò la mano sana sul fuoco scuro, gli occhi concentratissimi in quel gioco di ombre e, quando le dita sfiorarono le fiamme queste si abbassarono di colpo, cadendo a terra come un corpo morto e liberando una piccola nuvola di fumo nero. Il ragazzo lo scacciò via con la mano e un serpente si levò in alto, all’altezza degli occhi dell’Uchiha.

«Aoda» la voce uscì dalle labbra di Sakura contro la sua volontà. Osservò in silenzio Sasuke muovere il capo e il serpente seguirlo, mantenendo il contatto visivo.

«Chi?» domandò Kakashi, guardandolo, Sakura lo trovò parecchio confuso dalla situazione.

«È lo spirito distruttore» spiegò, prendendo tra le mani la sua piccola lumaca che, la ragazza non seppe spiegare come, era rimasta saldamente aggrappata alla sua spalla, «e questa è Katsuyu, lo spirito ricostruttore».

«Sono animali» ribatté l’uomo.

«Non sono animali» la voce di Sasuke si fece spazio nella conversazione. Aoda si era arrotolato su sé stesso, accomodandosi tra le gambe del ragazzo, «sono figli di Kaguya».

«Come fai a saperlo?» chiese Sakura, Katsuyu nel frattempo cercava di scendere dalle mani di Sakura, muovendo insistentemente le corna  in piccole circonferenze, puntando verso Sasuke. La ragazza allungò la piccola lumaca verso l’Uchiha, facendosi guidare dal movimento dell’animale, prese la mano del ragazzo e la appoggiò su palmo.

«Me lo ha detto Aoda» rispose lui, lasciando che Katsuyu facesse qualsiasi cosa stesse facendo. Aoda tirò su il capo, rimanendo a fissare l’altro spirito. La benda di cotone si sciolse dove la lumaca rilasciava la sua bava e la ferita che ricopriva iniziò a rimarginarsi, lentamente.

Lo spirito ricostruttore. L’acqua mantiene la vita.

«Aoda ti ha scelto, allora» commentò Sakura, riprendendo la creaturina tra le mani, osservando Sasuke pulirsi dalla bava con lo straccio caduto a terra, «ha voluto te e nessun altro».

«Mi ha scelto perché è lo spirito vendicatore» la sua voce era sottilissima, come al solito. Non era ghiaccio, no, era simile al sibilo del serpente, «e Katsuyu ha scelto te perché sei l’unica che ha lo spirito giusto per―» Sasuke fu bloccato dai passi di Hinata seguiti da quelli più pesanti di Neji e Naruto.

Sakura non ebbe bisogno di sentirlo concludere la frase. Sapeva già quello che voleva dire.

«Immaginavo che Kaguya li avrebbe mandati» sospirò Hinata, rasserenata, chinandosi vicino ai due per raccogliere il terzo fiore tra le mani, «ora, bisogna solamente che Gamakichi entri a far parte di questo mondo» e posò il loto ai piedi di un Naruto sconvolto e pallido davanti al serpente che dormiva comodamente tra le gambe di Sasuke.

Similmente alle altre due volte, i petali dorati si scurirono fino a diventare come la terra, sgretolandosi a causa di un vento incorporeo e muovendosi autonomamente, come se mani invisibili la stessero modellando, fino a formare la sagoma di un rospo.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Buongiorno

Intanto vorrei ringraziare immensamente chi segue questa storia, palesemente o no, mi fa un grande piacere sapere che qualcuno legge questi capitoli fino alla fine ^^

Poi~ volevo scusarmi con i vari errori che ci saranno da questo capitolo in poi (alcuni erano già presenti nel 3)… come avevo già detto, sto pubblicando la fanficiton così come l’ho mandata alla giudicia e, non essendo riuscita a rileggerla tutta, è probabile che ci siano degli errori. Se volete farmeli presente, fate pure!, la modificherò quando il contest sarà definitivamente concluso

Ma passiamo a questo capitolo!

Sasuke si è svegliato e ha già iniziato a fare l’antipatico… >3> ma direi che è giustificato. In questa AU è stato Obito a distruggere tutti gli Uchiha, Sasuke è riuscito a scappare perché gliel’ha permesso Itachi (prima scena del capitolo 1 ). Il perché? Beh, come detto nel capitolo stesso, per gli occhi degli Uchiha – come detto all’inizio del capitolo «si dice anche che fissandole [le iridi degli Uchiha] a lungo si cade in un’illusione da cui non si può più uscire». Capite bene che per uno come Obito questo può essere una cosa molto utile… ma alla fin delle finite si è trasformato solo in un massacro in cui Sasuke è riuscito a scappare. Lo Sharingan di Obito non ha nulla a che vedere con lo Sharingan degli Uchiha.

Mhn, altro punto su cui vorrei fare dei chiarimenti: Gamakichi, Katsuyu e Aoda. Per chi si è interessato un po’ di culture e religioni orientali, avrà colto che il Costruire, Distruggere e Conservare sono le divinità della Trimurti: Brahma, Shiva e Vishnu. Inizialmente l’idea era quella di usare Kurama come “spirito” che avrebbe portato Naruto a prendere le redini della situazione. Tuttavia, scrivendo, mi sono accorta dello spazio che stavo donando non solo a Naruto ed Hinata, ma anche a Sasuke e Sakura… considerando anche il loro ruolo nella Guerra finale, ho deciso – a malincuore – di sacrificare Kurama per prendermi gli altri tre ;____; Mi rendo conto che è una scelta disctutibilissima… ma ho voluto rischiare, anche questo fa parte del gioco ^^

Non ho ancora risposto alle recensioni del capitolo precedente e mi dispiace, cercherò di rimediare in settimana! Ma sono stati dei giorni un po’ pesante, e so che potete capirmi ;__;

 

Insomma, se prima non sapevate se uccidermi o meno… con questo capitolo mi sono condannata XD

Me ne vado che è meglio, dando appuntamento a martedì 14 aprile!

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 5
*** capitolo 5 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 5

 

 

~

 

 

La piazza era piena di vita. Quando erano solo gli Hyuuga, quello spazio infinitamente grande sembrava abbandonato a se stesso, facendoli sentire ancora più soli e decimati.

Poi era arrivata Kaguya, alimentava la loro speranza.

Dopo che Naruto e gli altri si erano uniti agli Hyuuga, nel giro di dieci giorni altri nomadi avevano fatto capolino nella loro radura, chiedendo asilo e un fuoco vicino al quale scaldarsi. Non era stato difficile convincere suo padre, Hiashi, a lasciarla fare. A lasciare fare la Dea. Li accolsero con quella gentilezza intrinseca nei loro movimenti, con un sorriso e un brodo di erbe selvatiche e funghi commestibili, raccontando a loro la storia di Obito, di Kaguya e Madara, della Guerra ormai alle porte.

Kaguya si era palesata più volte in quel periodo, indicando ad Hinata una grotta formatasi dopo il crollo di alcuni edifici, al suo interno vi erano delle coperte in buono stato ed alcuni vestiti. L’aveva avvisata, nel sonno, anche dei nuovi arrivati, in modo da darle il tempo di prepararsi in modo adeguato. L’ultimo suo ordine fu quello di chiedere alle Yamanaka – con cui Hinata aveva già stretto un buonissimo rapporto – del pesce, che loro cacciarono volentieri in cambio di fiori e rami di alberi per abbellire il loro mondo sottomarino.

Le neve si scioglieva lentamente. Su alcuni rami, dei fiori primaverili iniziavano a concretizzarsi in minuscoli boccioli rosa, mentre quelli della stagione fredda cadevano a terra ghiacciati e senza vita, lasciando spazio a qualcosa di nuovo.

Stava iniziando quel periodo in cui il sole e la neve si alternavano continuamente e ferocemente, e la pioggia si trasformava in un battito di ciglia in grossi fiocchi candidi, dando l’impressione di essere tornati agli inizi dell’inverno.

Ovunque lei guardasse, nella piazza, vedeva solo persone determinate e convinte, incuranti del clima poco stabile a cui andavano contro. Neji aveva mostrato ad alcuni il rito del perdono alla foresta, chiedendole scusa prima di sottrarre a questa rami  e pietre per costruire le armi necessarie – Tenten lo aiutava silenziosamente, sorridendo ogni tanto allo Hyuuga, come a dargli la forza e la pazienza necessaria.

«Chi è quella ragazza?» le aveva chiesto una volta Naruto, dopo aver intrappolato Gamakichi tra le mani, «quella che sta sempre assieme a Neji».

«Tenten» sorrise Hinata, indicando la giovane con il mento, «una ragazza che Neji ha trovato quand’era ancora bambina, mentre setacciava la foresta con suo padre, Hizashi» una storia prevedibile, dopotutto. Il modo in cui aveva detto il nome dell’altro HyuugaHizashi – aveva colpito Naruto come una carezza triste, un bacio che sapeva di amaro. Era morto, probabilmente.

«È cresciuta con una lupa, sai?» domandò retorica Hinata, assottigliando il sorriso in una linea finissima, come quella che divideva il cielo dal mare nel mezzogiorno, quando le due dimensioni sembravano volersi fondere in un unico azzurro, separati solo da quella riga, «per questo non parla molto» spiegò, «non sa farlo».

Naruto non disse più nulla.

Hinata fu soddisfatta anche della crescente fiducia che Sasuke riponeva in loro, nonostante si limitasse a scambiare qualche parola con Sakura e Naruto, e ogni tanto con Kakashi. Per il resto del tempo, se ne stava con Aoda a guardarlo negli occhi oppure maneggiava una vecchia lama in ottime condizioni che sembrava fosse comparsa dal nulla. Ogni tanto, dopo che Sakura gli parlava con quella voce delicata come i boccioli di rosa, Sasuke si alzava e andava verso Neji, aiutandolo con la costruzione dell’armamento.

Un giorno Sasuke sorrise, con quel sorriso sincero da bambino che aveva perso quel giorno in cui Hinata e Neji lo avevano trovato. Sorrise nel sentire Naruto urlare come un matto, in equilibrio su un piede mentre fissava Gamakichi parlare (con parole umane, s’intende) con Katsuyu come se nulla fosse. Andò a chiamare Sakura e, indicandole i due animali, la ragazza rise, dando a Naruto dell’idiota per essersi sconvolto così tanto. Era bello, come uno spiraglio di luce in una caverna – un po’ di felicità in quel via vai di armi e preparativi.

Si allenavano duramente, cercando di conoscere i propri limiti e superarli. Hinata capì perché Kaguya aveva scelto proprio loro tre, e sorrise nell’osservare il modo in cui apprendevano velocemente dagli Spiriti, come il loro sguardo cambiasse, consapevoli del perché stavano facendo quello che stavano facendo. Anche Sakura, che pareva la più diffidente, sembrava rendersi conto di quanto fosse importante anche il suo contributo. Passava il giorno a curare le ferite degli alberi, a chiudere i graffi che le persone si procuravano durante la giornata. Arrivava a sera sfinita, accucciata tra le coperte, davanti al fuoco. Era Sasuke a prenderla in braccio e portarla sotto un tetto, premurandosi di accendere un falò per aiutarla a scaldarsi.

Diventavano straordinariamente bravi, tutti quanti. Durante la cena, Neji la aggiornava sempre, parlando come se fosse un maestro soddisfatto del proprio lavoro. Diceva anche di essere preoccupato per Tenten, perché lei voleva andare in guerra. Tra una cosa e l’altra, una volta chiamò il gruppo di volontari «esercito», cedendo anche lui all’idea che la guerra fosse davvero imminente, e che forse avrebbero potuto vincere.

 

 

Il sole illuminava la radura con quei raggi dorati e tiepidi. Hinata si fermò sotto quella luce, stringendosi le braccia e alzando il viso verso la sorgente di quel calore. Adorava quel tepore leggero, trasparente – nell’aria umida e fredda sembrava che quella luce fosse fatta d’acqua, dandole l’impressione di essere coperta con un lenzuolo di sole.

Non aveva paura della Guerra. Non aveva paura di morire. Dopo tutte le fatiche che aveva passato, la spada di Obito o un suo mostro non le sembravano che sciocchezze.

Aveva semplicemente svolto il suo lavoro, ubbidito alla chiamata di Kaguya. Ed ora che tutto stava per finire non poteva che sentirsi sollevata. Aprì gli occhi, lentamente, cercando di mettere a fuoco il disco dorato, sfidandolo in un gioco di sguardi. Perse dopo pochi secondi e abbassò il viso sorridendo, massaggiandosi le palpebre per alleviare quel dolore leggero, caldo, che le bruciava appena i nervi degli occhi.

Intorno a lei, tutti i rumori scomparvero, sostituiti da un mormorio preoccupato e dal terreno che tremava, colpito ripetutamente da qualcosa di pesante, simile alla pietra. Non avevano molti cavalli, ma conoscevano gli animali abbastanza da poter dire che era un destriero in corsa. Per un momento, la sua testa immaginò un letto di terra squarciato da zoccoli neri come spade scure. Sembrava soffrire come un corpo dilaniato da una mannaia.

Hinata si girò, osservando il cavallo galoppare verso di lei, qualcuno da lontano la chiamava, invitandola  a spostarsi. Lo vedeva, ben distinto dal verde degli alberi e il bianco della neve. Era la notte che irrompeva violentemente nel giorno. La paura che si insinuava nei cuori dei bambini. Il destriero si arrestò davanti a lei, alzandosi sulle zampe posteriori. Qualcosa appoggiato sulla sua schiena rotolò sul corpo e cadde di fianco all’animale.

Nitrì. Alle sue orecchie, quel verso parve un ruggito spaventoso, le bloccò il cuore e congelò i polmoni. Non riuscì a staccargli gli occhi di dosso, mentre nuovamente si alzava sulle zampe posteriori, oscurando il sole con quella criniera addobbata di piccole ossa e pietre colorate e… falangi. Ad Hinata venne da vomitare, si strinse lo stomaco ed abbassò il viso, tappandosi la bocca. Alcune persone urlarono in risposta al verso del cavallo, costringendola a riprendersi.

«Calmo… calmo…» lo incitò lei, allungando una mano verso il muso dell’animale, rabbrividendo nel sentire il suo fiato caldo. Gli sfiorò il naso con premura, sentendolo calmarsi sotto le proprie dita.

«Hinata!» fu Neji a chiamarla, accucciato di fianco al cavallo, vicino a lui Tenten e Tokuma. Ai loro piedi, un corpo stava raggomitolato su sé stesso, mugolava di dolore e respirava così profondamente che la sua gabbia toracica sembrava sul punto di esplodere. Teneva le mani sulla testa, arpionandosi i capelli come se quel gesto bastasse a tenerlo in vita. Tra le ciocche scure, le dita erano intrise di sangue e sporche d’erba e terra.

Hinata si avvicinò, affidando le cure dell’animale a Tokuma. Si chinò vicino al cugino, aiutandolo a rigirare quel corpo in fin di vita. Lo riconobbe dai tratti finissimi, dagli occhi dal taglio sottile con la forma delle mandorle e da quel suo modo di tenersi tutto il dolore dentro, senza farlo uscire dalle sue labbra.

«Shikamaru…» fu un sussurro. Quel che bastò per fargli aprire gli occhi, abbastanza da metterla a fuoco e riconoscerla. Lentamente, il ragazzo fece scivolare le mani dai propri capelli, allungandole verso il petto. Hinata sentì un pugno colpirle lo stomaco ed un altro la schiena, tenendola in quell’equilibrio delicato che non le permetteva di cadere, di muoversi. Era appesa per un filo fatto di cocci di vetro, le entrava nella schiena e punzecchiava le sue vertebre, avvolgendola in un dolore atroce ma invisibile. Non riuscì a staccare gli occhi dalle corna mozzate di Shikamaru. I moncherini erano circondati da pelle scalfita e insanguinata – un lavoro fatto con crudeltà e nient’altro.

«Perché lo hanno fatto?» gli domandò in un sussurro, pianissimo. Aveva paura di rompersi e non voleva, non poteva. Resistette a quella voce, nel suo cervello, che le sussurrava che era colpa sua, che era stata lei a mandare Nara in ricognizione il giorno prima. Non si era preoccupata del fatto che non era rincasato, immaginando che fosse solo in ritardo, come suo solito. Gli aveva dato così tanto lavoro da fare – organizzare gli eserciti ed il piano di battaglia – che forse si era semplicemente addormentato da qualche parte, e lo avrebbe capito.

Ma non gli aveva chiesto di andare oltre alla montagna.

Inspirò profondamente, sentendo la mano del ragazzo aggrapparsi alla sua manica. Come Hinata, anche Shikamaru cercava di accogliere nel suo corpo una quantità spasmodica di ossigeno, troppa per le sue condizioni. Respiravano profondamente, assieme, cercando di farsi forza a vicenda, di non crollare davanti a tutti.

Neji, di fianco a lei, gridò di chiamare Sakura.

«Sono pronti» sospirò Shikamaru. La presa delle sue dita si faceva sempre meno forte, il sangue continuava a colare dai suoi capelli, bagnando l’erba e quel poco di neve che ancora era rimasta. Di nuovo quel contrasto di rosso e bianco tornava a tormentarla, «e sono impazienti. Obito sa» le disse. Il cavallo iniziò a camminare attorno a loro, agitando la coda. Li circondava in una barriera invisibile, creata dal suo corpo. Solo in un secondo momento, Hinata si accorse che al torace aveva una fune, e sul dorso aveva attaccate le corna da cervo di Shikamaru.

«Obito sa che ci stiamo preparando» sospirò, lasciando che il suo ultimo respiro si levasse in alto, verso il sole.

 

 

Il mondo era in bianco e nero.

Hinata avvertiva attorno a sé la consistenza pastosa e fredda del grigio. Era in un luogo in cui l’ossigeno non esisteva e, sebbene sentisse i proprio polmoni vuoti, non soffocava.

Attorno a lei i contorni neri degli alberi sembravano scarabocchi di un bambino sulle mura dei vecchi edifici. Le linee prendevano vita, mosse dal vento che però la trapassava, senza scompigliarle i capelli o farla rabbrividire. Si sentiva un fantasma impalpabile. O una viva in un mondo fantasma.

Camminando, la neve non le congelava i piedi.  Quella sensazione le mancava, quel dolore freddo che le ricordava di essere viva – di essere collegata a tutto quello che la circondava. Gli alberi intorno a lei si sciolsero in rivoli neri simili a lacrime. Quel fluido scuro si avvicinava a lei, lo sentiva: le bagnava le dita dei piedi, la inglobava lentamente come l’abbraccio della morte. E risaliva il suo corpo. Il tocco divenne una morsa insopportabile, troppo fredda per essere sofferta in silenzio – e pungeva, dannazione. Le trapassava la carne da parte a parte mentre continuava ad espandersi, sopra e sotto i suoi vestiti, si aggrappava ai capelli come se delle mani volessero strapparglieli. Ma non urlava, nel silenzio più assoluto, non riusciva a sentire nemmeno il proprio cuore battere.

Il dolore era così vivo che credette di morire davvero. Nonostante si ripetesse che erano solo sogni, sentiva quel liquido attorno a lei, dilaniarle la pelle e mangiarle la carne, brandello per brandello.

Sopra di lei, il cielo era di un bianco pallido e si confondeva con il sole. Nel suo corpo sentiva le lacrime crescere, lo stomaco a pezzi, il cuore impazzire. Ma tutto era silenzio, mentre il nero si scioglieva e si spargeva a macchia d’olio, facendo lo stesso rumore dei petali quando cadevano a terra o del sole mentre sorgeva.

Aprì gli occhi di scatto, sentendo la pesantezza delle viscere in subbuglio dentro di sé. Le faceva male tutto, dalle dita tese in avanti alle palpebre troppo spalancate. Suo padre la fissava con quelle iridi di ghiaccio che la trapassavano esattamente come nel suo sogno.

Neji le mise una coperta sulle spalle, stringendola da dietro per scaldarla.

«Cos’è successo?» la voce di Hiashi era acqua fredda che si congelava a contatto con la pelle, «cos’hai visto?».

Hinata sospirò, stringendosi la coperta al petto, abbassando lo sguardo fino a far incontrare il mento con il proprio sterno. Non voleva parlarne, non voleva dire a tutti quanti che non sapeva cosa significasse quella visione – in realtà, non sapeva nemmeno se gliel’avesse mandata davvero Kaguya, se era solo un’illusione della sua mente.

Era tutto così confuso che avrebbe voluto solo piangere, scaricando quella tensione e quel dolore che non aveva potuto buttare fuori nella foresta di poco prima.

«Niente» mentì, chiudendosi ancora di più in se stessa, cercando di essere forte abbastanza per resistere agli sguardi che sentiva su di sé, che la giudicavano e perdevano fiducia in lei. Perché si erano riuniti tutti intorno a loro?

«Non preoccuparti» le sussurrò Neji, e quando la sua mano incontrò la sua per un gesto di conforto, l’immagine della foresta che diventava lacrime riapparse di nuovo davanti a lei. E Neji era lì: immune a tutto quel nero liquido, il torace perforato da innumerevoli dita di sangue che gli sporcavano quella pelle di neve, i suoi occhi che si spegnevano piano, e il suo sorriso si congelava in quel momento eterno.

Rivide i suoi piedi sulla stuoia, le unghie rotte e il colore della terra a macchiarle le punta delle dita. Inspirò fino a sentire male alle costole, fuggendo dal tocco del cugino.

«Dobbiamo andare avanti» mormorò, incollando le sillabe che sentiva rotte prima di farle uscire dalle proprie labbra, «Se perdiamo fiducia in noi stessi verremmo sommersi da Obito» e si alzò, reggendosi sulle gambe fragili, tenendo ben stretta a sé la coperta come se fosse il suo unico appiglio. Come se fosse completamente sola contro il mondo.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Non mi sono dimenticata, no!

Siamo a circa metà della storia e, insomma, dalla morte di Shikamaru avrete capito che la guerra ormai è imminente ;) Capisco che molte persone sono innamorate del personaggio di Shikamaru e io l’ho presentato praticamente già morto, e un po’ me ne dispiace ;____; non vogliatemene!

Per il resto… beh, l’ho trovato un capitolo molto discorsivo: spiegava la situazione attuale, la storia di Tenten (che, personalmente, è una delle cose che ho adorato di più in tutta la stesura della storia) e si conclude con un’enigmatica visione di Hinata… che cosa sarà? Non vado oltre.

In quanto a lunghezza, beh, è un po’ meno lungo degli ultimi capitoli, si aggira attorno alle 2400 parole – lunghezza dei primi due capitoli, ma purtroppo è un “ritorno” temporaneo, presto ritornerò a straparlare D: Mi permetto di citare giropizza nella recensione che mi ha lasciato nel capitolo 4, dicendo che una scena particolare era risultata frettolosa. Purtroppo non posso che darle ragione. In realtà, temo di aver esagerato con l’incipit e di aver risolto tutta la storia in modo poco consono a quello che si meritava, facendo risultare gli ultimi capitoli un’accozzaglia di scene e nient’altro. Purtroppo ho dovuto fare i conti con un limite massimo di capitoli e parole e… insomma, anche questo fa parte del gioco. Sono perfettamente consapevole che questo penalizza molto la storia. Ho pensato anche di riscriverla in una versione “estesa” ma al momento non ho né il tempo né le forze né le capacità.

Per il momento, mi scuso per la piega alquanto mediocre che prenderà la storia – ma una long è anche questo e, riuscire ad essermi guadagnata la vostra fiducia fino a qui è un bel traguardo per me

 

Prossimo aggiornamento a venerdì 17 aprile!

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 6
*** capitolo 6 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 6

 

 

~

 

 

Shikamaru aveva detto che quel giorno sarebbe stato il migliore per iniziare la marcia verso l’altro lato della montagna.

Nonostante la morte di Nara ed il suo funerale per restituirlo alla foresta e a Kaguya, Hinata aveva fatto uno sforzo per mantenere il clima di cooperazione e determinazione che si era instaurato nell’ormai gigantesco gruppo. Assieme ai più anziani e ai bambini, si era premurata di cucire nuovi abiti ricavati dalle stoffe vecchie, ma ancora in buone condizioni per quelli che ormai vestivano stracci. Erano riusciti a completare tutti i preparativi in tempo, a cuocere un po’ di carne ricavata da alcuni animali cacciati e avevano proceduto anche alla raccolta di erbe e funghi per poterli cucinare in un futuro momento, durante una sosta.

Per l’occasione, Sakura si era tagliata i capelli.

«Senti…» la voce di Naruto si fece spazio tra i suoi pensieri, accantonandoli con cura. Era da un po’ che non parlavano assieme, si rese conto Hinata, e la cosa le dispiacque tantissimo. Chissà se per lui valeva lo stesso, «questo posto non ha un nome?» domandò.

La ragazza rimase stupita. Cosa significava quella domanda? In un primo momento le sembrò che fosse solamente una presa in giro, una qualche battuta che le stava sottoponendo. Ma il suo sguardo era talmente sincero che non poté fare a meno di pensare che la sua domanda lo fosse altrettanto. «Cosa intendi?» chiese allora, adottando quel metodo della spontaneità che Naruto tanto perseguiva, come se fosse una cosa naturale.

«Questo posto prima si chiamava Konoha» spiegò brevemente, sfiorando con le dita una parete ancora in piedi, coperta qua e là da rampicanti e muschio, «avete continuato a chiamarla Konoha o…» la domanda rimase sospesa, aggrappata a quei rami spogli e slanciati.

«Nessun nome» rispose, scuotendo leggermente la testa. Si fermò a lato del sentiero, tirandolo con sé per una manica. Alzò gli occhi, accompagnando lo sguardo con un dito, indicava il disco dorato che iniziava a scomparire dietro al montagna vicino a loro, «Il nostro riferimento è il sole» e disegnò nell’aria un arco che iniziava nell’orizzonte, oltre gli alberi, sul mare che abbraccia il cielo e finiva dall’altra parte della montagna. «Il sole fa questo movimento, durante la giornata» spiegò, e sorrise, facendo scendere il braccio lungo il fianco, «da quella parte il sole tramonta, e da questa sorge».

La semplicità di tutta quella storia, del sorriso di Hinata, dei suoi movimenti e del sole, gli regalarono un momento di felicità. La stessa sensazione nel vedere un fiore sbocciare tra la neve. Quella consapevolezza, arrivata di soppiatto e senza bussare, di essere sempre vissuto dove sorgeva il sole.  

 

 

Successe come un sogno.

Un fischio, seguito da un ruggito lontano, si avvicinava a lei e diventava sempre più reale, fendeva la notte ed il sonno in cui era immersa con lunghi artigli argento, sembravano fette di luna.

Hinata si svegliò di colpo, sentendo la terra sotto di sé tremare, costringendola ad alzarsi. Era avvolta da un movimento continuo di corpi, reggevano tra le braccia le loro sacche e le altre cose, mentre i fuochi venivano spenti uno dopo l’altro, immergendoli nel buio.

«Ci stanno attaccando!» era un urlo indefinito, proveniva dalle foglie della foresta, trasportata da quel vento gelido. Un altro grido e un corpo volò sopra la sua testa, le dita dello sconosciuto le sfiorarono i capelli e un liquido caldo finì sul suo viso e sui suoi vestiti. La mola che l’aveva quasi travolta cadde poco più in là, investendo un ragazzino che correva.

«Aiuto! Aiuto!» era una preghiera muta che nessuno sentiva. Hinata strinse le labbra, ingoiando quella sensazione di paura mista a vomito che aveva sul palato, sentendo scendere solamente del sangue lungo la sua gola. Era il sangue dello sconosciuto, quello che le era caduto addosso come se fosse stata pioggia.

Spostò il corpo dal più piccolo, facendolo rotolare sull’erba. Un enorme squarcio gli apriva la pelle sulla pancia. Vedeva i muscoli a brandelli impregnarsi di quel rosso vivo che brillava nella notte, vedeva le viscere muoversi assieme a quel respiro disperato.

«Hinata…» piagnucolò il ragazzo, aggrappandosi al vestito di lei mentre la Hyuuga si chinava dall’altro lato per vomitare, sporcandosi ancora i vestiti e i capelli. Avrebbe voluto abbandonarsi su quell’erba e quel leggero strato di neve, aspettando che le gambe smettessero di tremare come fossero rami sbattuti da un temporale. Faticava a respirare, la gola le bruciava e sentire il proprio petto lacerarsi ad ogni respiro non faceva altro che ricordarle quel corpo morto davanti a lei.

Il rumore del vento tagliato da artigli e ruggiti le colava nelle orecchie come acqua melmosa, come veleno, annebbiandole il cervello. Era tutto così confuso che avrebbe voluto urlare e fermare il tempo, far smettere ogni cosa per metterle in ordine una ad una.  Pulirsi dal sangue e dal vomito e cucire ogni lembo di pelle stracciato e buttato via come un vestito lacero.

«Hinata, dannazione, Hinata…» erano parole ovattate e senza senso. Il braccio che l’avvolgeva era troppo forte, troppo potente per combatterlo. Si lasciò sollevare come un fiore a terra, una foglia o un animale morto. E sentiva le lacrime scorrerle sulle guance, scavarle come avevano scavato a fondo quelle ferite nel corpo dell’uomo che era stato lanciato in aria come un sasso, sopra la sua  testa.

Kaguya non gliel’aveva detto, che sarebbe iniziata in quel modo.

Si strinse alla maglia di Neji, il vento le congelava le ciglia e le lacrime e il sangue, e niente di tutto quello sarebbe venuto via dal suo corpo. Era dentro di lei, aveva bevuto tutto: lacrime e sangue non suo. E lo sentiva nel suo stomaco, ribollire, venire assorbito dalle sue ossa.

«Stai qui» le disse con dolcezza, appoggiandola contro un muro freddo e umido. Il mormorio si univa al pianto leggero di alcune donne. Nel buio vedeva il verde degli alberi fuori la grotta illuminarsi dai raggi bianchi della luna, attorno a lei occhi bianchi brillare, avvolti da un velo di lacrime. Una luce verde avvolgeva le mani di Sakura, qualche metro più in là, verso il fondo della caverna.

Sulla montagna, invece, figure informi e nere si confondevano con la notte. E nonostante non potesse vederle in faccia, riusciva ad immaginare una sagoma ben definita, che con un dito ordinava a quei cani antropomorfi che li avevano attaccati di scendere giù a valle, e sbranarli come fossero cibo. Nella sua mente il volto deformato di Obito era ben distinto, chiaro come il riflesso di una persona sullo specchio dell’acqua ferma. E i suoi occhi fatti di sangue sembravano guardarla anche da lontano, lontanissimo, come se anche lui immaginasse che lei fosse lì, in quella grotta.

 

 

Non sapeva quanto fosse durata la battaglia. Aveva chiuso più volte gli occhi, mugolando per il dolore che le attanagliava lo stomaco mentre il sangue e la sporcizia iniziavano a congelarsi sui suoi vestiti e sulla sua pelle. La terra ancora tremava, supplicando che quella battaglia finisse in fretta, e che la lasciasse raccogliere i cadaveri e pulire i suoi alberi dal sangue versato.

I raggi freddi del sole iniziavano a farsi spazio tra le foglie dei sempreverdi, intorno a sé i lamenti erano cessati, lasciando il posto ad innumerevoli respiri resi pesanti dall’attesa e dal dolore che aleggiava sopra di loro. Hinata si aggrappò con le unghie sulla parete rocciosa ed umida, mettendosi in piedi, strisciando contro il muro per avvicinarsi a Sakura, appoggiata poco più in là.

«Tutto bene?» le chiese, con la maggior cautela e dolcezza che riuscisse a tirar fuori da se stessa, ancora con i nervi attorcigliati e la vista annebbiata da quel velo di lacrime che non riusciva a scivolare sulle sue guance, come se fosse stato congelato anche quello.

Sakura accennò ad un sorriso, annuendo piano mentre le faceva segno di sedersi accanto a lei, «Ci hanno colto alla sprovvista…» constatò a bassa voce.

«Mi dispiace» le parole le uscirono troppo veloci dalle labbra, senza darle il tempo di rendersi conto di quello che diceva, «se solo lo avessi previsto…» e all’improvviso non seppe più cosa dire. Abbassò lo sguardo, vergognandosi della sua inutilità. Aveva portato tutta quella gente in guerra e poi li aveva abbandonati, lasciando a Naruto e gli altri il compito di guidare un esercito al posto suo.

«Non potevi saperlo» la consolò, e la mano della ragazza le sfiorò la spalla. Sentì il calore di quella pelle color pesca attraversare la lana e scaldare il corpo, lentamente. «E poi se la stanno cavando benissimo» continuò, stringendo appena le dita attorno alla sua spalla prima di lasciarla. Raccolse dalla sue gambe una piccola lumaca, poco più grande di come l’aveva trovata la prima volta, e la porse ad Hinata, «Katsuyu si è scissa in varie… lumachine» e sorrise appena nel dire quel diminutivo, «sono rimaste con Gamakichi e Aoda per guarire le ferite degli altri».

«E ti dice quello che succede?» domandò, sfiorando il dorso dell’animale.

La ragazza annuì, mentre l’entrata della caverna incorniciava una rana gigantesca che si avvicinava a loro, affiancata da un serpente delle stesse dimensioni. Sopra di loro, alcuni uccelli volavano verso l’altro lato della montagna, e quella massa nera, indistinta, sulla cima dell’altura, ritornava da dove era venuta. 

Concentrandosi su quelle sagome, Hinata si accorse solo in un secondo momento della figura di Neji, sudato e sporco, che entrava nella caverna tenendo tra le braccia Tenten, ferita ad un braccio e con il sangue ad incrostarle i capelli d’ebano.  Lo osservò mentre posava la ragazza sul pavimento, spostandole le ciocche dal viso, pulendole le guance con le dita – Tenten respirava ancora, con il petto che si alzava ed abbassava lentamente. E le labbra di Neji si muovevano pianissimo, vicino al suo viso. Hinata riusciva a vedere le parole che le diceva, sentendosi una ladra a rubare quel momento. Abbassò gli occhi, distogliendo lo sguardo da quei segreti che non si sentiva degna di conoscere.

All’improvviso un leggero applauso si levò tra quelle mura, Kakashi, seguito da una manciata di uomini, entrarono nella grotta con lo sguardo fiero e le armi ben salde in mano, abbracciando le donne e i parenti che non avevano combattuto. Hinata si sentì sciogliere da quel tepore che aveva improvvisamente invaso quelle mura, nascendo in contemporanea con il sole.

Di fianco a lei, Sakura si alzò di scatto, rivelando di avere ancora un sacco di energia. Senza ragionare, era andata ad abbracciare Sasuke, ringraziando che fosse ancora vivo, perché anche lei sarebbe voluta andare a combattere con loro, ma sapeva che il suo posto era nelle retrovie, a curare i feriti. Lui non disse nulla, limitandosi a socchiudere gli occhi che da rossi ritornavano ad essere neri. Le posò una mano sulla schiena, però, e Hinata osservò quel movimento dolce delle dita che formavano piccoli cerchi sulla curva della colonna vertebrale dell’altra.

Naruto, dietro di tutti, sorrideva con la stessa luminosità di quel sole all’alba, girandosi indietro e facendo segno agli altri guerrieri di raggiungerli. Non guardava mai troppo a lungo quella scena che scaldava così tanto il cuore ad Hinata, nella grotta – piuttosto si concentrava sulle forme lontane dei nemici, sugli alberi scossi dalla brezza di fine inverno, su un punto indefinito del cielo che lei non sarebbe mai riuscita a raggiungere con gli occhi.

Si spostò lentamente, avvicinandosi a Naruto in silenzio, senza farsi vedere. Ad ogni passo, sentiva il terrore che aveva intrappolato lo stomaco in una morsa dolorosa sciogliersi, rinvigorendole le ossa. Riusciva anche a sorridere, alzando gli angoli delle labbra per crepare quella maschera di cera che rendeva il suo viso simile a quello di una bambina spaventata. Il grido muto di un morto che camminava. «Ce l’avete fatta» gli disse, sfiorandogli la spalla, lasciata scoperta da un taglio che strappò soltanto la maglia.

Naruto si girò, con quel sorriso sulle labbra contagioso, «hanno fatto male i loro calcoli» le disse, alzando un pollice in segno di vittoria, ritornando poi a guardare le persone marciare, stanche, nella foresta, «ci conviene scendere, non ci staremo mai tutti quanti, qui dentro». Le porse la mano, incurvata in una leggera conca, che le dava un senso di casa e di sicurezza, come se le sue piccole e lunghe dita fossero fatte per raggomitolarsi sul palmo di Naruto e lasciarsi avvolgere in una stretta calda e dolce.

«Come avete fatto a cacciarli?» chiese, appoggiando la mano libera sulla spalla di Naruto, aggrappandosi a lui per paura di scivolare e cadere mentre scendeva il pendio roccioso, coperto dalla rugiada del mattino.

Lo vide mantenere il sorriso fiero di poco prima, con il volto illuminato dal sole e gli occhi socchiusi, facendo sembrare le iridi due fette di cielo. Era come guardare in alto e scorgere un frammento di blu tra due fronde di due alberi diversi che si incontravano ed intrecciavano. «Li ho guidati io» disse  orgoglioso, indicandosi con il pollice, «Sasuke non parlava, io ero su Gamakichi gigante e le persone volevano sapere cosa fare…».

La forza. Hinata capì cos’era quella forza di cui Kaguya le aveva parlato. Quel fuoco rosso che brillava nello stomaco di Naruto, in modo vivo e splendente – diverso da quello più tenue ed azzurro degli Hyuuga o degli altri uomini. Naruto aveva fatto tanti sbagli durante quei giorni, detto tante scemenze – ma non si era mai tirato indietro, mai rifiutato di portare a termine un compito. E anche nel momento della Guerra lui era lì, in prima fila, a proteggere amici e persone di cui non sapeva nemmeno il nome.

«Sapevo che ce l’avresti fatta» rispose Hinata, sentendo il sangue imporporarle le guance, costringendola ad abbassare il volto per non farsi vedere. Si morse il labbro inferiore per trattenere un sorriso, mentre avvertiva gli occhi dell’altro su di sé. Si sentiva bene, una scarica elettrica le accarezzava la colonna vertebrale.

Era quella sensazione di essere viva, di essere notata e apprezzata. Come se il cielo si fosse accorto di lei, per una volta, e la guardasse con quegli occhi vivi che lei gli aveva sempre rivolto. Era una stella che brillava nella luce del giorno, invisibile, e alimentava la sua speranza lentamente, come si alimentano i fiori con l’acqua e le giuste cure.

«Ora non ci possiamo più tirare indietro» sospirò Naruto, crepando appena quell’immagine che Hinata si era costruita attorno a sé. Una goccia di pioggia che cadeva dall’azzurro sopra la sua testa, riportandola alla realtà.

Aveva ragione.

«Dobbiamo attraversare la montagna e stare pronti ad attaccare, in ogni momento» suggerì, accartocciando quella sensazione che l’aveva abbracciata per pochi secondi in un ricordo minuscolo, accantonandolo in un angolo dei suoi pensieri.

L’avrebbe tirato fuori in un altro momento, a guerra finita.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!

Ho saltato l’aggiornamento di venerdì 17 perché ho avuto molto da studiare per il giorno dopo, e davvero non sono riuscita a trovare mezz’oretta per scrivere le note e pubblicare ;_____; Inoltre, mi rendo benissimo conto che questo capitolo non vale assolutamente l’attesa, e ne sono ancora dispiaciutissima, più di prima

Per il resto… insomma, non saprei davvero cosa dirvi: è iniziata la guerra, basta. E finalmente c’è un po’ di azioni e____e i prossimi capitoli si concentreranno soprattutto sulle battaglie e sugli avvenimenti più importanti. Per causa di limiti in fattori di parole e per una mia incapacità di scrivere di guerra, ammetto che forse non saranno il massimo stilisticamente parlando, ma a voi – come sempre – l’ultima parola.

Mi preparo già in questo capitolo per dirvi che il prossimo (capitolo 7) sarà uno de più lunghi (forse il più lungo) della storia, che conta più o meno il doppio delle parole del capitolo medio! Che vi devo dire? Tenetevi il venerdì libero! Dato che il giorno dopo è festa, provvederò a pubblicarlo il prima possibile ^^

Per il resto, sono davvero felice che si stia avvicinando il finale ** In tutta onestà, mi piace moltissimo il contenuto dell’epilogo e non vedo l’ora di poterlo condividere con voi. Più vanno avanti i capitoli e più mi sento… come dire… sentimentale! Credo che potrei piangere quando dichiarerò questa storia conclusa!

 

Salvo morte improvvisa mia o del pc, il prossimo aggiornamento a venerdì 24 aprile!

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 7
*** capitolo 7 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 7

 

 

~

 

 

Avevano bruciato tutto.

Hinata e gli altri lo avevano già immaginato nel vedere le lunghe colonne di fumo levarsi in alto, scurendo il sole.

Non immaginavano, però, che avessero raso al suolo tutto il villaggio che si trovava ai piedi della montagna. Avevano spento le fiamme prima di ritirarsi, lasciando alcune case ancora in piedi, coperte di cenere e di polvere nera, ma almeno non erano crollate.

Neji e Kakashi si premurarono di verificare le condizioni delle baracche ancora in piedi: se fossero risultate stabili, sarebbero andate ai bambini e alle donne gravide, e nel caso fosse avanzato spazio, anche ai più anziani.

«Forse ci sono ancora dei feriti, da qualche parte…» constatò Sakura, girandosi da tutte le parti per scorgere una mano sotto le travi ed i cumuli di cemento, o un corpo ansante da qualche parte, «non si saranno certo fatti scrupoli ad evacuare la zona prima di…» e la frase le scemò in gola, osservando gli occhi iniettati di rosso di Sasuke. Si muovevano in ogni direzione, così velocemente che sembravano vibrare – piccoli spasmi involontari che lui non sapeva controllare.

Gli sfiorò il braccio, lentamente, guardandolo nel modo meno invasivo possibile. Sasuke non reagiva, mentre i suoi occhi diventavano sempre più intensi, più feroci, e lo caricavano di un’energia che rendeva qualsiasi cosa attorno a lui opprimente. Aoda era lo spirito vendicatore, le aveva detto.

«Sasuke…» lo chiamò piano, stringendogli il braccio in una morsa leggera.

«Era il mio villaggio» erano parole collegate tra di loro con una fluidità impressionante. Sakura pensava che avesse la voce rotta dalla rabbia, e che non sarebbe riuscito a dire qualcosa di comprensibile se non dopo il secondo tentativo. E invece era stato chiaro, sembrava avesse recitato il verso di una canzone, mentre i suoi occhi si erano fissati su  di una singola colonna di fumo, distinta dalle altre.

Non lo sentì nemmeno respirare, attorno a lui c’era un silenzio che sovrastava il trambusto del resto del gruppo.

Per un attimo il sole si oscurò, e un’indefinita massa scura scese dal cielo, veloce come se fosse un sasso gettato da una mano. Si schiantò contro la terra bruciata molto più in là, relativamente lontano dal complesso semidistrutto dalle case.

«Andiamo» gli disse, scuotendolo da quella rabbia cieca che lo attanagliava, tirandolo per la giacca per farlo muovere.

 

 

Ovunque era il caos più totale. Sakura riuscì a malapena distinguere le forme brute di quelle persone con il muso lupino, non provò nemmeno a tenere lo sguardo fisso sulle lunghe dita, simili ad artigli – non ne aveva il cuore. Quello che aveva visto di quei mostri le bastava. Le urla della gente uccisa da quelle unghie facevano il resto.

«Sakura!» la voce di Sasuke era una scarica elettrica, acqua fredda sui nervi. La risvegliava dalla sua paralisi e faceva scattare qualcosa in lei. Non c’era pena per quei lupi antropomorfi: non erano più umani. Non erano niente. Obito li aveva distrutti, aveva tolto loro quell’umanità di cui potevano ancora andare fieri.

Si avvicinò al ragazzo, sfilando dalla cintura sulla sua schiena le armi che avevano preparato. Era il momento, quindi. La guerra era davvero iniziata.

«Ti copro le spalle» gli disse, cercando di fronteggiare lo sguardo dell’altro. Sasuke le annuì, con quegli occhi rossi come il sole al tramonto. Scattò in avanti, mietendo la sua prima vittima con una velocità ed una semplicità che lei si sentì quasi minacciata da lui – come se potesse ucciderla. La sua lama colpì nuovamente una di quelle creature, ed il sangue gli coprì le mani, arrivando a sporcargli anche il viso di cera. Nessuna reazione.

Fu una successione strana di eventi. Sakura si muoveva e contribuiva alla battaglia come meglio poteva, spingendo la punta delle sue armi nei corpi dei mostri di Obito senza guardare, sperando solo di sentirli cadere a terra come un fantoccio vuoto. Attorno a sé, però, riusciva a vedere solo masse indistinte che si muovevano ed attorcigliavano, quasi ballassero su un letto rosso. Ricordò che, vicino al suo villaggio natio, c’era un roseto. Quando i fiori perdevano i loro petali, il giardino veniva coperto da un morbido lenzuolo vermiglio. Come gli occhi di Sasuke, come il letto su cui morivano i suoi compagni ed i loro avversari.

In tutto questo, il sole brillava in alto, come uno spettatore silenzioso di quella messinscena. Sakura avvertiva la sua presenza forte che premeva sulla sua coscienza, quasi lei dovesse fare quello che stava facendo per farsi giudicare da lui. I suoi raggi tiepidi s’infrangevano su tutto quel sangue, riproducendo lo stesso effetto che faceva sulle onde dell’acqua. Sul fiume, era uno spettacolo bellissimo, che la lasciava sempre senza fiato, come se piccoli pezzi di cristallo bianco e luminoso fossero caduti in acqua e rimanessero lì a galleggiare. Sul sangue, invece, quel bagliore non le produceva altro se non un senso di disgusto. Lei non era fatta per la morte, non era fatta per uccidere persone o animali che fossero – preferiva curare, portare su di sé il fardello del non essere riuscita a salvare qualcuno, piuttosto che portare la morte.

Ma non poteva tirarsi indietro, ora. Coloro che non combattevano erano al sicuro, e il resto del gruppo aveva bisogno di lei .

Trattenne il respiro, tenendo dentro di sé tutti quei ricordi inappropriati, quelle emozioni che la destabilizzavano, rendendola incapace di agire. Affondò di nuovo la lama nel corpo dell’ennesimo nemico, mentre la voce di una persona che non riuscì ad identificare le ordinò di abbassarsi, evitando così il colpo di un orrendo uomo-uccello coperto di squame.

Che bisogno c’era di ridurre altre persone in quello stato?

«Dov’è Naruto?» le urlò Sasuke, sovrastando il rumore intorno a loro, coprendo alcune grida. Si pulì il viso con la manica della camicia, storpiando gli schizzi di sangue in lunghe linee rosse, come se fossero delle ferite aperte sul suo volto, strisce di rosso sulla neve.

«Non lo so…» gli rispose, guardandosi attorno per cercare il terzo del gruppo. Per un momento ebbe paura che fosse morto, o che fosse rimasto con gli altri al villaggio distrutto.

«Starà bene» la confortò Sasuke, ritornando alla battaglia.

 

 

Affondò la punta della lama nel corpo sotto di sé, aspettando che la presa attorno alla sua caviglia si allentasse e poi sparisse definitivamente.

Un altro fuori.

Naruto alzò lo sguardo verso un edificio ancora integro. Vedeva, in piedi sul tetto di questo, due persone, entrambe con quegli occhi rossi, freddi, che lo facevano rabbrividire.

Un grido lo riportò alla realtà, ed un’altra chimera si avvicinò, correndo verso di lui. Naruto si preparò ad attaccare, tenendo la lancia con entrambe le mani. L’altro continuava ad avanzare verso di lui, mosso da una qualche forza bruta, una volontà che non gli apparteneva. Era distante solo qualche metro quando si fermò di colpo, aprendo le gambe ed abbassando le spalle, come se volesse mostrarsi minaccioso. I suoi occhi senza iridi brillavano di un bianco malato ed irreale, la bocca mostrava file infinite di denti appuntiti simili a quelli di uno squalo. Proprio come un animale, sbavava in modo incontrollato, sporcandosi sul viso e sul collo di quel viscidume che fece rabbrividire anche Naruto.

In tutti i casi non si spiegava quella frenata improvvisa. Progettava qualcosa? I due tizi sull’edificio gli avevano detto di fermarsi con il pensiero? Fu sul punto di scattare in avanti, quando dalla schiena dell’avversario fuoriuscirono lunghe braccia coperte di squame scure.

Prima che potesse reagire, notò le scaglie separarsi l’una dall’altra, lasciando intravedere la pelle rossa sotto di quelle. In quelle fenditure, Naruto notò sottili aculei formarsi, neri come le code di quel mostro. L’avversario allungò le mani per afferrare le punte, estraendole dal suo corpo come se lui fosse una sacca per contenere armi e nient’altro. Fuori dal suo corpo, i bastoni si presentavano in tutta la loro lunghezza, aumentando il loro diametro ed incurvandosi leggermente, assomigliando a degli artigli.

Un altro ruggito e la chimera lanciò contro Naruto gli aculei, costringendolo ad arretrare e schivarli, coprendosi il viso con le braccia. Non fece in tempo a riprendere fiato che un’altra ondata di spuntoni lo travolse, stavolta graffiandogli il fianco e la gamba in un taglio più profondo, costringendolo a chinarsi a terra.

Sapeva che la terza ondata stava arrivando, che lo avrebbe colpito in pieno, e che lui sarebbe morto per mano di un mostro senza nome né identità. Aveva fallito?

Qualcuno chiamò il suo nome, lontano, mentre la vista gli si annebbiava per via di un velo di lacrime che non riuscì a trattenere.

Il rumore della carne che si lacera. Pioggia di sangue sui suoi capelli e sulla terra, davanti a lui.

La roccia tremare ed altro rumore di corpi trapassati da qualcosa. Un tonfo sordo di mole che si schianta sul pavimento.

Alzò lo sguardo, osservando il volto di Neji pallidissimo, incorniciato da quei capelli scuri, simili a quelli di Hinata. E il rivolo di sangue che gli sporcava il mento, scomparendo nelle labbra livide.

Il dorso macchiato dagli artigli, sporchi del sangue del torace dello Hyuuga.

Lo vide barcollare sui suoi piedi e poi cadere sulle ginocchia. Naruto si allungò verso di lui per non farlo cadere in avanti. Avrebbe voluto chiamare Sakura, vederla materializzarsi davanti a sé e prendere Neji tra le sue mani miracolose, curarlo e riportarlo indietro, al villaggio, dove si sarebbe rimesso.

«Ormai è giunta l’ora…» mormorò Neji, debole, con il mento appoggiato sulla spalla dell’altro.

«Neji» era un sussurro senza senso, quello di Naruto. Sentiva gli artigli incastrati tra le budella di Neji premergli sul torace, come se volessero trafiggere anche lui. Sentiva la morte avvolgere il corpo dell’altro, lasciando un residuo di sé anche sulle punte delle dita del biondo.

«Naruto…» ribatté ansante, alzando un braccio per aggrapparsi alla maglia dell’altro, «ricorda che… sei responsabile non solo della tua vita» ed un sorriso che Naruto non poté vedere gli colorò il viso di un tenue rosa, come i primi fiori primaverili che ornano la strada ancora innevata, «a quanto pare anche la mia vita» si fermò per respirare, l’aria era impregnata dell’odore del sangue, «anche quella… era in mano tua». 

Gli occhi di Neji si socchiusero piano, riducendosi ad una fessura quasi invisibile, un coccio di vetro.  «Perché? Perché hai voluto fare un gesto simile?» Naruto non capiva: sapeva di non stagli simpatico, sapeva che Neji avrebbe fatto volentieri a meno della sua presenza contro Obito, e sapeva che lo sopportava solamente perché Hinata aveva fiducia in lui. Non avevano creato nessuno rapporto, nessun legame che potesse essere onorato con quel suicidio. «Perché ti sei sacrificato per me?» era un gesto senza senso, più Naruto lo teneva tra le braccia, più non riusciva a giustificarlo, «perché hai dato la tua stessa vita?».

 

 

Un ricordo sfocato davanti ai suoi occhi. Lui bambino, suo padre, suo zio Hiashi e pochi altri. La foresta rifletteva l’oro del sole in estate e le foglie cantavano assieme alle cicale, rendendo quella radura un luogo magico.

Poi un mostro, in relazione a Neji sembrava un gigante, un miscuglio di carne ed ossa sporgenti che gli facevano da armatura, coperto di muschio e squame. Lunghe fauci ed occhi gialli. Saltò addosso a Hiashi, che se ne liberò con un calcio. Si tenne il braccio graffiato, con gli occhi fissi su quella orrenda creatura. In un momento Hizashi avanzò, brandendo un ramo come se fosse la spada più potente al mondo – Neji pensò che potesse farcela, che potesse vincere contro quell’essere. Ma i denti dell’avversario affondarono sulla sua spalla, e le dita artigliate sprofondavano nella carne della schiena come se fossero un letto di piume.

«Scappate!» gridava, e guardava negli occhi il suo bambino, Neji, chiedendogli scusa mentre tratteneva i versi di dolore e provava a sorridergli.

Hizashi gli aveva detto che sarebbe stato un onore morire per proteggere la sua famiglia, i suoi compagni.

 

 

«Padre» chiamò piano, con al voce ormai rotta, scheggiata e sanguinante. Naruto sentiva il suo torace riempirsi d’aria sempre meno, saturo di sangue e morte, «finalmente riesco a capire la libertà che avete provato…» Neji si ricordò degli uccelli in volo che suo padre gli aveva mostrato, dicendogli che la libertà era un dono prezioso, e che loro lo sapevano bene – era la volontà nel voler afferrare quella libertà che aveva dato agli uccelli le ali, permettendogli di volare.

Tra gli Hyuuga era diffusa l’idea che gli spiriti delle persone morte felici si reincarnassero negli uccelli, che cantassero e si librassero in aria per donare la loro serenità a chi avevano amato in passato, stando vicino a queste persone anche dopo la morte.

Neji barcollò ancora una volta, mosso da un colpo di tosse. La leggera brezza che li aveva avvolti lo spinse all’indietro, mentre la vita lo abbandonava, rendendolo leggero come una foglia. Naruto lo prese appena in tempo, evitando che si scontrasse con la terra.

Neji non rispose alla sua domanda.

Sasuke lo aveva coperto per tutto quel tempo.  

Attorno a loro la fazione opposta si ritirò tra gli alberi, lasciando solo i sopravvissuti ed i cadaveri. Naruto non riusciva ad essere felice per quella vittoria, non la sentiva tale. Qualcuno era morto per lui, una morte senza senso che Naruto non riusciva ad accettare fino in fondo.

«Naruto» era il sussurro della morte che proveniva da lontano.

Naruto si girò, quei due occhi rossi bastarono per capire chi fosse. Neanche il mezzo volto deturpato del più giovane lo sconvolgeva o lo spaventava. Obito teneva le braccia incrociate e sorrideva. «Guardati un po’ in giro e dimmi che non permetterai a nessuno di morire» lo provocò. Nei suoi occhi vedeva qualcos’altro, qualcosa di diverso da quella malvagità che traspariva dalla curva sottile e sadica delle sue labbra, «ora che i tuoi compagni spirano tra le tue braccia, realizza bene la loro morte».

Naruto sentì un brivido scivolargli lungo la colonna vertebrale, corrodergli le ossa con acido verde e sangue, rendendolo molle ed inutile davanti a tutto quello. Sapeva che Obito aveva ragione.

All’entrata della foresta che non era stata incendiata, un’altra figura lo aspettava. Naruto riuscì solo a distinguere i capelli scuri, lunghi e disordinati e quello sguardo rosso e profondo, brillare come fossero gemme preziose. Obito si girò incamminandosi  vero la vegetazione. Aveva i passi leggeri dei morti, che se ne andavano in silenzio, lasciando nient’altro che una scia di sangue. Camminava sul sangue delle sue creature e dei compagni di Naruto e di Neji, senza che nessuno lo fermasse – come potevano farlo?

Scomparse nell’ombra degli alberi con l’altro uomo, lasciando a Naruto nient’altro che un corpo morto tra le braccia, ed una coscienza sporca di sangue.

 

 

Il volto di Hinata si spense come i fiori al calare del sole.

Naruto non riusciva a guardarla in faccia, mentre si avvicinava con gli altri al villaggio, tenendo il cadavere di Neji sulla schiena. Semplicemente non ci riusciva, sentiva la responsabilità della morte del cugino di lei in modo vivo e pesante, molto più del corpo che si portava sulle spalle.

Non si festeggiava la vittoria, non si festeggiava niente. Non c’era nessun morto da onorare, solo dolore da incassare, da tenere stretto al petto ed assorbirlo.

Vide le ginocchia della ragazza tremare e cedere, facendola inginocchiare a terra, e le sue labbra tremare, lasciandosi scappare quel nome in un sussurro leggero ed incrinato, bagnato di lacrime.

Neji.

Un urlo straziante che non proveniva dalle labbra di Hinata, seguito da passi sul terreno ed un pugno sulla guancia di Naruto che lo fece barcollare e perdere la presa sul corpo del ragazzo sulla sua schiena. Il sapore del sangue gli invase la bocca, mentre Neji cadde a terra e Sasuke interveniva appena in tempo per reggere la testa dello Hyuuga. Un altro pugno, stavolta indirizzato allo stomaco di Naruto, gli smorzò il fiato. Sentì i muscoli disfarsi, abbandonarlo come le foglie abbandonavano i rami in autunno. Un terzo colpo mentre Tenten continuava a piangere ed urlare, sempre al ventre. Lo costrinse a chinarsi a terra e arrotolarsi le braccia attorno al torace.

Tenten abbandonò il biondo per stringere a sé il corpo di Neji, gli sussurrava il suo nome vicino all’orecchio sordo, accarezzandogli i capelli mentre le spalle tremavano per i continui singhiozzi. Le sue lacrime lavavano via il sangue sul volto dello Hyuuga.

«Mi dispiace…» mormorò Naruto. Si sentiva colpevole per quel tono con cui Hinata cantava, piano. Non intonava le parole di fretta, anzi, sembrava che avesse tutto il tempo del mondo. Che Neji meritasse tutto quel tempo del mondo. La sentiva bloccarsi su alcune parole, cadere e singhiozzare per poi ripartire, ogni volta più lenta, più debole. Più rotta. Se l’avesse guarda attentamente, avrebbe visto minuscoli pezzi di lei staccarsi dalla sua pelle, condensarsi in parole e volare via nell’aria. Si sentiva un intruso a pensare a lei, a desiderare di abbracciarla e guarirle tutte le ferite del cuore, avrebbe voluto raccogliere le sillabe che non riusciva a pronunciare e dirle lui stesso, darle la forza che si meritava per andare avanti, per assorbire il colpo.

Ma niente. Naruto non aveva niente da darle. Solo un grande dolore. Strisciò quel poco che bastava per allontanarsi abbastanza da Tenten e potersi rialzare. Era colpevole, e lo stavano giudicando tutti come tale. Avevano perso Neji, colui che avrebbe di certo guidato gli Hyuuga dopo la morte di Hiashi, riportando la loro famiglia allo splendore di una volta. Si morse il labbro, sentendolo spezzarsi sotto i suoi denti e sanguinare.

«Big open land» era un sussurro spezzato, come mosso dalle onde di un fiume gelido. Naruto avrebbe voluto sparire mentre quelle parole gli scorrevano nelle orecchie, scendendogli in gola e nello stomaco. Era la voce di Hinata che si avvicinava a lui e a Tenten, accartocciata su Neji. Gli sfiorò la spalla, piano, in un gesto che lui non riuscì a capire. Come non riusciva ancora a capire la morte del ragazzo. «You hold the weight of the air in your hands» continuò, superandolo. Sentì le dita gelide di lei sfiorare per un attimo le sue, sporche di terra e sangue, gli facevano così male che sembravano rotte.

Era simile al rumore del mare dopo una tempesta, con le onde leggerissime che accarezzavano la sabbia sulla riva, portandosi via ogni volta qualcosa della spiaggia. Quella canzone faceva lo stesso con lei, rendendola sempre più sottile e trasparente, debole. Hinata aveva la consistenza di un ricordo mal custodito, di un oggetto logorato dal tempo e dall’incuria, caduto a terra e lasciato lì.

Si chinò vicino a Tenten, alzandole il viso dall’incavo del collo di Neji, chiudendo gli occhi del cugino con un movimento fluido della mano, in contrasto con quelle parole che ormai sembravano cocci di vetro lanciati nell’aria da una mano debole. Staccò piano la ragazza dal cadavere, lasciando che Sasuke recuperasse il fantoccio e se lo sistemasse sulla schiena, offrendosi silenziosamente di portarlo dentro le prime quattro mura integre che avesse trovato.

«Big open air» ogni parola che Hinata diceva, era una cellula del cuore di Naruto che moriva, consumandosi in lacrime. Perché non poteva fare niente, perché era impotente davanti a lei, come lo era stato davanti alla morte di Neji? «You feel the tickle of the trees on your chest» continuò lei, stringendo le spalle di Tenten  in un abbraccio, cercando di farsi forza da sola.

Non ce la faceva, Naruto lo vedeva, lo capiva.

Hinata voleva piangere, strapparsi il cuore dal petto e rimetterlo dentro la gabbia toracica di Neji, chiudergli tutte le ferite usando i propri capelli come filo, tappargli i buchi lasciati dagli artigli con la propria pelle.

Non meritava di morire, semplicemente, non meritava.

Il corpo di Neji fu posato sul legno marcio, Sasuke lasciò la stanza e vi entrarono solo le due ragazze e Hiashi.  Hanabi rimase con gli altri, trattenendo stoicamente il dispiacere e le lacrime per il cugino, con il quale non aveva legato come aveva fatto Hinata.

Fuori, un leggero mormorio si era tramutato in un coro leggero, ripetevano le parole che Naruto aveva già sentito dalle labbra di Hinata, continuando con i versi di quella nenia che sembrava una canzone d’addio. L’unico modo che avevano per rendere giustizia a Neji, probabilmente.

«And why did you go and waste it?».

Hiashi si chino sul corpo del nipote, tenendo le mani giunte sul suo torace. Non piangeva, ma si malediceva per non aver protetto il figlio di suo fratello, che era morto per salvargli la vita. Se ne stava lì, ripetendo quelle parole silenziosamente, senza nemmeno muovere le labbra, chiedendo scusa ad Hizashi, pregando che Kaguya trovasse un buon posto dove far riposare l’anima di Neji.

«The things that you know are making you a stone wall, stone fence».

Anche Tenten rimaneva silenziosa, in un angolo, stringendosi le gambe al petto mentre le lacrime le scavano le guance, e gli occhi trasformavano le sue iridi in una macchia indistinta. Come avrebbe fatto lei, senza Neji? Quanto sarebbe sopravvissuta senza la sua colonna portante, il suo spirito guida e protettore?

«Your story's so old, you just tend to keep them».

Il dolore in Hinata era ancora vivo, invece. Bruciava ogni nervo che trovava, ogni lembo di pelle o muscolo a disposizione. E dalle sue ceneri sorgevano fiori malati, piante già morte, e lacrime che le scorrevano sulle guance pallide, infrangendosi a terra e sulle sue mani ancora tremanti.

Hiashi si spostò, lasciandole lo spazio necessario per salutare il cugino. Gli sfiorò i vestiti lacerati e macchiati di sangue, sentendo il vuoto laddove era stato trapassato dalle dita di sangue che aveva visto nella sua visione. Era il nero che lo avvolgeva, lo sentiva, lo vedeva nei suoi occhi spenti, nei suoi capelli che gli incorniciavano il viso e le spalle come il lenzuolo della notte che voleva portarlo via da loro. Non respirava – se ne stava immobile, il petto non si alzava e abbassava in quel movimento naturale che Hinata amava vedere nelle persone e negli animali.

Era stata colpa sua? Hinata lo aveva visto, sere prima. Lo aveva visto morto nei suoi sogni, nel mondo in bianco nero di Kaguya – e allora perché non lo aveva fermato? Perché non lo aveva protetto come lui aveva sempre fatto con lei?

Ed ora piangeva al suo capezzale come se la notizia fosse totalmente inaspettata. No. Piangeva di rabbia verso se stessa per non aver prestato attenzione a quelle dita di sangue, allo sguardo vuoto di Neji, agli alberi d’inchiostro. Come avrebbe fatto senza di lui, che le teneva la mano quando dovevano attraversare la foresta? Era cresciuta con Neji come punto di riferimento, come modello di sopravivenza, di forza. Neji le aveva insegnato un sacco di cose, facendole compagnia quando i loro genitori uscivano a caccia o controllavano i dintorni della piazza. Era lui che le aveva insegnato la canzone che ora intonavano tutti per salutarlo, per pregare la foresta e Kaguya che prendessero con sé lo spirito di Neji.

«Long winding road» continuò, sperando che il suo fiato caldo e salato di lacrime potesse dargli la vita necessaria per tornare a respirare. Ma non succedeva niente. Neji era fatto di neve ghiacciata e sangue. Esattamente come l’inverno nella foresta. Gli sfiorò la spalla ed il collo nudo, dove la pelle era ancora liscia e non era stata messa alla prova dal fuoco o dagli animali o dalle cicatrici. Non sarebbe riuscita a tornare a casa e a guardare il luogo in cui vivevano senza pensare che quella tela l’aveva intrecciata Neji con le liane, che i bambini che raccoglievano i funghi erano stati addestrati da lui. Non avrebbe più visto il sorriso di Tenten mentre ballava sotto il sole o abbracciava Neji nell’acqua, mentre si facevano il bagno.

Si sentiva come se avesse tolto a Neji la possibilità di essere felice, ora che era consapevole di quanto lui amasse Tenten, e di quanto lei tenesse a suo cugino.

Neji era morto e lei non lo aveva salutato a dovere, non gli aveva sorriso come le piaceva fare, dandogli un po’ di felicità che lui faticava a trovare, che aveva solo in alcuni momenti con Tenten. Si sentiva mancare tutto, le viscere diventavano pesanti per poi scomparire il secondo dopo, lasciandole un senso di vuoto sanguinante dentro. E non poteva fare altro se non piangere, mugolare quelle parole rotte per non cedere alle urla e alla disperazione. Gli strinse i vestiti in una morsa che fece più male a lei che a Neji, osservando le proprie nocche sbiancarsi e poi diventare viola, le mani tremare per la troppa forza applicata e poi abbandonare il tessuto quando le dita del padre coprirono quelle di lei.

«Hinata…» la chiamò piano.

Hinata sapeva che Neji sarebbe morto e non aveva fatto nulla per evitarlo. Ed ora piangeva sul suo corpo come una bambina, sperando che qualsiasi cosa potesse farlo tornare in vita, che forse stava solo dormendo, che il freddo del suo corpo fosse solo apparente. Ma non succedeva niente. Avrebbe voluto alzarsi e scappare, fronteggiare lei stessa Obito e strappargli la pelle di dosso dalla rabbia… ma era troppo fragile. Troppo fragile per correre, per alzare le mani contro qualcun altro, per sopportare l’idea di uccidere qualcuno e guardarlo in faccia mentre la vita fuggiva da lui. Era troppo fragile perfino per parlare, senza riuscire a rispondere al padre, senza fare qualcos’altro al di fuori che intonare nel peggior modo possibile quel saluto ritmato, lento ed angosciante, che non faceva altro che peggiorare la situazione, il suo dolore, la consapevolezza della morte di Neji.

Niente sarebbe cambiato, qualsiasi cosa lei avesse fatto, niente lo avrebbe fatto tornare indietro.

Era volato via.

«You got a secret, but you won't share it».

Era il prezzo della Guerra.

Doveva aspettarselo.

No.

Si sentiva colpevole. Avrebbe dovuto impedire a Neji di prendere parte ai combattimenti, cercare di strapparlo dal suo destino.

Non si sfugge alle decisioni di Kaguya.

Non era stata Kaguya a deciderlo. Era stato Neji, di sicuro: Neji aveva salvato la vita a qualcun altro, non si sarebbe mai fatto cogliere di sorpresa, non sarebbe mai morto per un colpo del genere.

Questo non la faceva sentire meglio. Inspirò profondamente, sentendo l’aria fredda spaccarle i polmoni e congelarle il sangue. Si sentiva come se stesse morendo anche lei.

«Nessuno dovrebbe morire per una guerra del genere» mormorò, asciugandosi gli occhi con i palmi delle  mani, spostandosi indietro i capelli, cercando ossigeno fresco per potersi chiarire le idee. «Nessuno» continuò, abbassando lo sguardo su Neji un’ultima volta.

Madara è qui.

Il mondo attorno a lei diventò nero, ed una luce lontana iniziò a brillare, come una piccola stella.

Lasciami entrare.

Era il canto degli uccelli in primavera, una promessa lontana e dolce che parlava di un mondo migliore, di una vita serena dove sorge il sole.

Hinata. La chiamava con quella voce che sentiva da tempo, era una voce simile a quella di sua madre, morta anni fa. Era la voce del segreto della foresta.

Era Kaguya.

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Eh-eh! Devo ammettere che questo è stato uno dei capitoli che ho preferito scrivere durante tutta la stesura della storia. Ci tenevo particolarmente per rendere “omaggio” alla morte di Neji che, secondo me, nell’opera originale è stata trattata con i piedini. Ho voluto mettere in evidenza il dolore di Hinata, che invece sembra aver accettato amorevolmente la morte del cugino così, come se nulla fosse.

Questo capitolo 7, insomma, è un po’ lungo. Ho lasciato molto spazio all’introspezione per cercare di calare i lettori nel dolore e nell’angoscia che questa guerra sta portando.

Vorrei esplicitare tutte le motivazioni sul perché mi è piaciuto molto, moltissimo, ma non importa, davvero. Quindi niente, lascerò tutto a voi!

Volevo solo avvisare che:

§  Le battute durante la morte di Neji sono riprese dall’opera originale, alcune sono state omesse perché non c’entravano, altre leggermente modificate per l’occasione. Ho rivisto il video della morte di Neji sei volte per copiarle tutte e ho pianto tutte e sei ;____;

§  La canzone è di Gregory and the Hawk e si chiama Stone Wall, Stone Fence. Ho deciso di lasciare le parole in inglese perché secondo me più melodiche, anche se si perde la continuità “linguistica” della fan fiction… spero che l’inglese non sia un problema per nessuno ;3;

§  Per questo capitolo ho cambiato il separatore sempre in onore di Nejino, non vogliatemene!

 

Bene, per oggi è tutto, scusatemi il capitolo lungherrimo!

Noi ci vediamo il 28 aprile, con il capitolo 8!

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 8
*** capitolo 8 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 8

 

 

~

 

 

Quella nenia sconosciuta lo cullava dolcemente, come fossero braccia morte che lo stringevano, cercando di dargli un calore che non possedevano.

Naruto si sentiva un verme, ascoltando quella canzone che non gli apparteneva, che non si sentiva degno di ascoltare. Quel mondo non gli apparteneva. Forse nemmeno quella Guerra era sua. Le parole si fondevano con il dolore che aleggiava nell’aria, chiudendo tutti gli Hyuuga sotto una cupola lattiginosa, che rendeva i loro corpi un ammasso bianco e fluido, coperto di stracci e capelli neri, così lisci da sembrare lacrime.

Il sole brillava, ignaro della perdita che quel mondo aveva avuto, e gli uccelli volavano nel cielo ritornando a casa, in quella foresta che veniva di nuovo baciata dal tepore primaverile.

Neji, invece, non sarebbe mai più tornato a casa.

Gli altri si erano rifugiati nelle case più in là, Sakura era andata con loro per medicare i feriti, e Kakashi gestiva il trambusto, cercando di farlo diventare il più silenzioso possibile. Sasuke era sparito, volatilizzato nell’aria. E Naruto era rimasto solo, seduto su una pietra a guardare da lontano quel popolo decimato dal freddo e dalla fame dondolarsi lentamente, avanti ed indietro, accompagnando l’anima di Neji verso un luogo migliore.

Naruto non si accorse nemmeno che avevano finito di cantare. Quelle parole continuavano a rimbombargli nella testa, a renderlo sempre più fragile, così debole che sentiva che si sarebbe sgretolato pezzo dopo pezzo. Esattamente come un fiore, avrebbe perso i petali uno per uno, dall’esterno verso l’interno, lasciando così vulnerabile il suo cuore da osservarlo cadere a terra in silenzio.

Osservò, senza vedere realmente, gli Hyuga dividersi in due e aprirsi verso l’esterno, formando un piccolo passaggio tra di loro. Chinarono il capo e poi l’intero corpo, appoggiando la fronte contro il terreno umido e coperto di cenere. Quando il silenzio calò su di loro ed avvolse anche i pensieri di Naruto, il ragazzo mise a fuoco la scena. Osservò Hiashi avvicinarsi a lui, il viso come coperto da cenere grigia, mentre teneva delicatamente Tenten per una spalla. Torreggiava su di lui, chiuso su se stesso, seduto sulla pietra. Osservò il suo respiro condensarsi in una lunga nuvola bianca tremolante, e le labbra schiudersi in una brevissima frase, «vai di là» e lo superò, accompagnando la ragazza chissà dove.

Avrebbe dovuto? Non aveva voglia di salutare il cadavere di Neji, perché non lo avrebbe riportato in vita o lenito il dolore di Hinata. Hinata, il pensiero di quel viso di neve storpiato dal dolore gli fece male allo stomaco, contorcendogli le budella in un nodo che non sarebbe più riuscito a dissolvere.

Non voleva entrare in quella catapecchia, assolutamente. Ma quando lo realizzò era già a metà strada, con tutti gli Hyuuga ad osservarlo, a guardarlo in modo così profondo e penetrante che Naruto ebbe la sensazione che tutti fossero come Hinata, che tutti riuscissero a guardare i suoi peccati con quella chiarezza che nemmeno lui possedeva.

In quel momento ebbe la consapevolezza di non essere in grado di ripercorrere la sua storia, di delineare la sua personalità… perché non era nessuno. Quella sensazione di vuoto, dentro di lui, sembrò mangiarsi qualsiasi cosa – anche le briciole più piccole che si era costruito faticosamente, a cui si aggrappava tutte le volte che lo accusavano di essere un peso, di essere la causa della morte dei suoi genitori.

Respirò profondamente, cercando di trovare la forza in quell’aria viziata di morte e sangue, nella quale la cenere di case e bambini uccisi aleggiava e gli entrava nei polmoni. Più cercava di liberarsi da quella sensazione di oppressione, più si sentiva soffocare. Camminare stava diventando così difficile che per un momento Naruto credette di perdere l’equilibrio e di cadere a terra. Qualcuno lo avrebbe aiutato a tirarsi su?

Vai avanti.

Era la voce di Gamakichi. Da qualche parte, nel suo cervello, quel mormorio roco simile alla voce di un vecchio. Rimbombava nelle orecchie come un cuore che pompava troppo velocemente. Lo costringeva ad andare avanti, come lo aveva costretto a brandire il bastone e guidare tutte quelle persone in battaglia.

Socchiuse gli occhi, alzando il viso verso il cielo, beandosi di quel sole freddo che lo congelava lentamente, come se la morte lo stesse solamente sfiorando, facendogli pregustare il sapore del silenzio eterno, del sonno perpetuo.

Si dice che lo spirito della persona, quando il suo corpo muore, si reincarni in qualcun altro.

In cosa si sarebbe reincarnato lui?

«Non è stata colpa tua».

Era la voce di Hinata.

Aprì gli occhi, osservando la ragazza davanti a lui. Ferma, immobile, con i piedi nascosti dalla lunga veste che non ricordava indossasse. Osservò il suo viso spigoloso, beandosi di quella pelle dall’aria morbida, baciata dal sole. Le mani dritte, ferme lungo i fianchi. Naruto ricordava quelle dita tremanti dal freddo, le sue mani che si muovevano senza che lui decidesse di farlo e stringevano piano quelle di Hinata, per scaldarle. C’era un’aria diversa, intorno a lei. Un’aura potentissima, fatta di sole e di elettricità.

«Smettila di guardarmi così».

Erano gocce d’acido sulle ferite aperte, un dolore che lo avvolgeva lentamente, leggerissimo sulla pelle ma che diventava sempre più insopportabile mentre si faceva spazio tra i suoi muscoli ed i suoi nervi. Un sorriso illuminò il volto della ragazza, mettendo in mostra la cenere bianca di cui erano fatte le sue guance, e i nervi attorno agli occhi sembrarono raggi di sole tra le foglie. Colonne di luce che bagnavano la neve ghiacciata.

«Kaguya?» fu un sospiro sfuggito alle labbra. Naruto non si accorse di aver detto quel nome. Assottigliò lo sguardo, sentendo i muscoli del volto tendersi e diventare di pietra. Il silenzio della ragazza gli bastò come risposta, accompagnato da quel sorriso lineare e pulito, duro come se fosse stato scolpito sul marmo bianco. Non era Hinata.

Si avvicinò a lei con grandi falcate, temendo di perdere l’equilibrio e cadere a terra come un bambino. Pensò di afferrare il colletto dei vestiti dell’altra, strattonarla per convincerla a parlare più velocemente – ma arrivato vicino a lei non ebbe la forza nemmeno di sfiorarla, non si sentì degno di sporcare il corpo della Hyuga, di chiunque lo abitasse.

«Cosa hai fatto ad Hinata?» sibilò, sentendo la propria voce uscire come il sibilo di un serpente, letale.

«Lei ha deciso di farmi entrare».

Ora che Naruto aveva la piena consapevolezza di chi fosse lei, riusciva ad avvertire i cambiamenti nella voce di Hinata. Era più grave, più profonda, e lo avvolgeva in modo soffocante, lasciandogli nelle orecchie una specie di eco velenoso che lo intorpidiva ogni volta che diceva qualcosa.

Lasciarla entrare.

Kaguya era nel corpo di Hinata per volontà della ragazza.

«E…» non voleva pensarci, si sentiva talmente stupido a soffrire così tanto per l’assenza di Hinata che non aveva nemmeno il coraggio di  continuare quella frase, appesa sul fondo della gola, che voleva essere gridata.

«Tornerà?» fu Sakura a dare voce ai suoi pensieri, permettendogli di ricacciare indietro quelle parole e prendere parte alla discussione in modo più passivo. Non voleva, semplicemente non voleva fosse vero.

«Non è questo l’importante» rispose agghiacciante Kaguya, «l’ho scelta perché potesse servirmi su questa Terra, e se avessi avuto bisogno di un corpo il suo doveva essere disponibile».

Naruto sospirò. La mano di Sakura gli avvolse la spalla, la presa ferrea e calda si faceva sentire oltre i vestiti e la pelle, avvolgendogli il cuore.  «Avresti potuto guidarci come hai sempre fatto» disse, guardando verso il basso, cercando disperatamente di mantenere l’autocontrollo, di convincersi che quella che aveva davanti era una Divinità nel corpo di una ragazza.

«Ti sbagli» un tuono a ciel sereno, «Madara è qui».

Naruto ricordò quella figura di fianco ad Obito, sconosciuta, con quegli occhi di sangue che lo congelavano.

Un brusio si levò tra gli Hyuga dietro di loro, addirittura la presa ferrea e potente di Sakura sembrò vacillare un momento. Girandosi verso la ragazza, vide il verde dei suoi occhi macchiarsi di grigio, prendendo il colore dell’erba morta. Aveva paura? Naruto ricordò gli occhi di fianco ad Obito, collegandoli a quel nome e a tutte le storie che circolavano, alle notti di terrore e di sangue, alla voglia di una vendetta ingiustificata e di un potere assoluto, per il mero gusto di dominare su tutto.

«Che dovremmo fare?» anche Sasuke era arrivato al suo fianco, silenzioso come suo solito, nascosto nell’ombra. La sua presenza era rassicurante, nonostante non gli avesse messo una mano sulla spalla come Sakura – e la sua domanda del tutto legittima, togliendogli anche questa volta un peso dal cuore.

Kaguya sospirò, massaggiandosi una tempia con un movimento delle mani che cozzava con il ricordo che Naruto aveva di Hinata. Hinata non avrebbe fatto in quel modo, non avrebbe tenuto le spalle così dritte e non si sarebbe tirata indietro la frangia dei capelli con quei movimenti così bruschi.

«Voi dovete guidare tutte queste persone» rispose la Dea, aprendo le braccia per raccogliere tutti i presenti, come una madre amorosa vuole tenere sotto le sue ali i suoi cuccioli. Guardò ognuno di loro negli occhi, attentamente, sorridendo ad ogni anima che incontrava. Quel gesto rassicurò Naruto, per quanto potesse essere rassicurato, e l’idea di avere la presenza di Kaguya così vicina e attiva gli diede speranza di completare velocemente tutto quel trambusto.

Lei era lì ed il prezzo era stato Hinata.

Sospirò.

«E sconfiggere Obito» continuò, i piedi di Hinata avanzarono lentamente sulla cenere e sul legno bruciacchiato, leggeri come lo erano sempre stati. Naruto sentì un polpastrello sfiorargli la fronte ed uno il centro del petto, sullo sterno. Le dita di Hinata, mosse dallo spirito della Dea, erano fredde e morte, gli fecero quasi paura. «Vi ho affidato i miei figli per questo» disse, e la voce si fece più bassa, quasi dispiaciuta. Guardandola negli occhi vitrei, Naruto poté scorgervi un dispiacere, come se l’idea di aver mandato Gamakichi, Kaguya e Aoda in guerra fosse stato per lei un sacrificio enorme, come se i tre Spiriti fossero davvero suoi figli. La sentì inspirare profondamente, bisognosa di quell’aria umana e putrida che forse non aveva mai assaporato, non aveva mai sentito scendere lungo la gola come melma e morte, «la questione tra me e Madara è un’altra, non è affar vostro».

Naruto avrebbe voluto chiederle di cosa si trattasse, che forse potevano mettere assieme le forze e uscire vincitori da entrambe i problemi. Vivere felici, forse.

Ma ogni volta che pensava ad un futuro migliore, l’idea che Hinata non sarebbe più tornata lo congelava, facendolo assomigliare ad un bambino impaurito, che aveva appena scoperto di aver perso tutto.

Non c’era molta differenza dal Naruto di anni prima, dopotutto.

Sentì un caldo leggero, simile al tepore umano, scaldargli il cuore e la fronte. Partiva dalle dita della ragazza, lo cullava e lo purificava. Si sentiva proprio purificato: era la parola giusta. Sentiva il dolore e la tristezza andarsene, e di Hinata rimanevano solo i ricordi buoni, il suo sorriso ed i suoi occhi con quelle sfumature simile ai campi di lavanda che gli era capitato di attraversare una volta, da bambino. Sentiva le lacrime nascergli dietro agli occhi, spingere per uscire e congelarsi quando incontravano l’aria fredda del mondo, scorrergli lungo le guance e disperdersi con tutta la cenere e la polvere sotto di lui.

«Distruggere, Costruire e Conservare» la voce di Kaguya era lontana… no, non lontana, era dentro di lui. Gli parlava come se si fosse nascosta all’interno del suo cuore, come se fosse la narratrice di un sogno che stava vivendo in quel momento, «è questo il vostro compito».

Naruto riaprì gli occhi nel momento in cui le dita si staccarono dalla sua pelle, accompagnando quel semplice gesto delle palpebre con un sospiro. Osservò Kaguya spostarsi verso Sakura, guardando da spettatore la Dea posare le dita sulla fronte e sul cuore della ragazza. L’amica pianse, esattamente come aveva fatto lui, con quella semplicità delle cose belle e dei fiori che sbocciavano nella neve, lasciando scorrere da lei tutto il dolore e la rabbia che covava dentro.

«Non potete salvare Obito se non siete salvi voi» disse in un sussurro, lasciando una carezza alla guancia di Sakura, rassicurandola con un piccolo sorriso, prima di avvicinarsi a Sasuke.

I due si guardarono per un momento, lasciando Naruto interdetto. Perché quel trattamento speciale per l’Uchiha? Osservò gli occhi rossi del ragazzo, pieni di odio e di emozioni che Naruto non riusciva a comprendere totalmente.

«C’è tanto rancore in te…» sospirò la Dea, le mani lungo i fianchi, «tuo fratello, la tua famiglia…» disse, a voce così bassa che Naruto si sentì un ladro ad essere riuscito ad ascoltare quelle parole, pronunciate come se fossero un segreto tra Kaguya e Sasuke, «è comprensibile che Aoda ti abbia scelto».

«Obito li ha uccisi tutti» rispose Sasuke, sempre sottile e tagliente, mai scomposto, «non vedo perché non dovrei restituirgli il favore».

Veloce, senza fare rumore, tagliando l’aria con un movimento gentile, Kaguya appoggiò i pollici sulla fronte e sul petto di Sasuke, abbassando le palpebre e schiudendo le labbra. Respiravano entrambi in sintonia, come se stessero cantando assieme una canzone all’interno dei propri cuori.   

You got a secret, but you won't share it.

«La violenza non è la risposta giusta» disse la Dea, ed un’unica lacrima rigò il viso di vetro di Sasuke, facendolo assomigliare ad una finestra crepata, «il perdono… quello si che è difficile».

Sorrise, con quella dolcezza che aveva visto prima – quella di una madre – mentre lasciava andare Sasuke dopo avergli mostrato il segreto che li avrebbe condotti alla Vittoria. La Vittoria definitiva, il raggiungimento di tutti i loro desideri.

«Obito si può ancora salvare» continuò, facendo un passo indietro, ritornando ferma e distante, come una statua bellissima ed intoccabile, «ed è esattamente quello che farete domani».

«Domani?!» urlò Naruto, i piedi ben piantati a terra per la paura di vacillare e cadere, troppo scosso da quella notizia, «ma la guerra è appena iniziata!―» continuò, così nervoso da inciampare nelle parole e nell’aria che gli riempiva i polmoni, bloccandosi tra le frasi, «non siamo pronti… n–non…» all’improvviso non seppe più cosa dire.

«Ci serve più tempo…» provò ad essere ragionevole Sakura, e Naruto ringraziò che lei lo capisse così bene.

«Non vi serve tempo»  protestò la Dea, «avete tutto quello che vi serve per farvi strada nell’esercito di Obito, per raggiungerlo e redimerlo» ogni sua parola suonava come un ordine, una legge inviolabile a cui loro dovevano sottostare.  

«E dopo?» fu una voce lontana, di donna, proveniva dalle persone dietro di loro.

«Dopo vi darò quello che avete sempre desiderato» e rivolse i palmi delle mani verso il cielo, come in preghiera, «una vita in quel Mondo che non esiste più, un mondo migliore».

«Puoi farlo?» s’intromise Sasuke.

«Chi lo sa» scherzò Kaguya, incurvando le labbra verso l’alto, «ma vi posso garantire che i vostri sforzi non saranno vani» continuò, riprendendo quel velo di serietà che aveva indossato per la maggior parte del tempo, «vi ho mai delusi?».

Ha ucciso Hinata, però, pensò Naruto, preferendo non farglielo notare. Non ne valeva la pena, non voleva complicare le cose, non dopo aver praticamente servito la morte di Neji su un piatto d’argento e quasi litigato con la Dea. Se sottostare alle decisioni di Kaguya sarebbe servito a salvare il Mondo, a renderlo migliore, a dare una vita a tutte quelle persone e alle generazioni future, allora avrebbe ubbidito.

Hinata non sapeva nemmeno dare un nome al sentimento che lo legava a lei, e soprattutto non sapeva nemmeno se anche lei sentiva quel legame strano, elettrico. Non ne valeva la pena, si ripeté.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Insomma, mi dispiace tantissimo per aver saltato anche questa volta l’aggiornamento di martedì e per non aver ancora risposto alle recensioni. Ma lo sapete meglio di me che fine aprile/inizio maggio è un periodo terribile… tuttavia, dato che – esclusa questa – sono ancora due pubblicazioni da fare, mi impegnerò ad aggiornare con il capitolo nove martedì, in modo che per l’8 la storia sia conclusa.

Beh, che dire? Ho molta paura per questi capitoli finali, perché mi rendo conto che sono molto veloci e, forse per questo, poco apprezzabili. Sono perfettamente cosciente di aver dato un sacco di spazio alla prima parte, stringendo molto la seconda e sminuendo la «grandezza» della battaglia. Però, insomma… è inutile piangere sul latte versato, lascio a voi eventuali commenti.

Ammetto che la storia di Kaguya che appoggia i pollici sulla fronte e sul petto di Sasuke, Sakura e Naruto è un tributo grosso come una casa alla saga di Avatar (the last airbender & the legend of Korra). L’idea di redimere Obito invece che ucciderlo era già stata decisa, le modalità sono arrivate successivamente.

Un capitolo così “piatto”, nel bel mezzo di una guerra, non è proprio il massimo, lo ammetto. Spero solo che il capitolo successivo possa ripagare la mediocrità di questo. Alla fine pubblicare una long è avere completa fiducia nei lettori, che possono cambiare opinione su una fan fiction da un momento all’altro… io ripongo assoluta fiducia in voi e nel vostro giudizio ;)

Detto questo, mi scuso ancora per gli aggiornamenti mancati e le recensioni a cui risponderò il prima possibile!

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 9
*** capitolo 9 ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Capitolo 9

 

 

~

 

 

La mattina dopo si erano mossi all’alba, lasciando che le donne ed i bambini ed i vecchi si rifugiassero nel villaggio degli Uchiha distrutto, dove avevano poi bruciato il cadavere di Neji ed avevano passato la notte.

Kaguya aveva aiutato Sakura a curare tutti i feriti, in modo da dare più soldati per la battaglia.

«Nessuna guerra dovrebbe durare a lungo» aveva spiegato ai tre, dopo le medicazioni, mentre Sakura riposava accanto al fuoco e lei le lasciava alcune carezze sui capelli rosa, come se fosse sua figlia. «Non ci dovrebbero essere le guerre, in realtà» disse poi in un sospiro, raccogliendo le mani in grembo, «ma a volte sembra non ci sia altro modo per far cambiare le cose».

Aveva detto poco altro, quella sera, prima di coricarsi, non aveva nemmeno risposto alla domanda di Naruto sul perché trattasse Sakura come se fosse sua figlia, lasciandolo nel beneficio del dubbio. Forse perché è una donna come lei, si rispose semplicemente, provando a coinvolgere Sasuke nella questione che, però, lo rifiutò.

Attraversarono la foresta senza cercare di nascondersi. Kaguya camminava davanti a tutti, sfiorando gli alberi con la stessa gentilezza che usava Hinata. Naruto osservava un leggerissimo strato di brina formarsi laddove le dita della Dea toccavano la corteccia. Non gli sembrava un buon segno, anzi. Ma ormai era fatta: dubitare di Kaguya o rifiutarsi di fare quello che lei diceva non avrebbe portato a nulla.

E poi Hinata si fidava di lei.

 

 

Un fischio, la terra tremare e l’urlo di Kaguya che gridava qualcosa.

Poi gli alberi attorno a loro cadere ed altre grida. Rumore della polvere che ballava confusamente nell’aria gelida del mattino e poi un tuono lontano.

Versi di uccelli accompagnata da una marcia di infiniti piedi.

Naruto si coprì gli occhi con un braccio, cercando di non essere accecato dal pulviscolo. Osservando la scenda dopo la baraonda, notò che Aoda era già stato evocato e torreggiava sugli alberi ancora integri, scattando più volte verso l’alto mentre intrappolava tra i denti affilati uomini-uccello che esplodevano in brandelli di carne e cascate di sangue violaceo.

Sapore di fango ed erba, di sangue sulla bocca.

«Kaguya!» fu la prima persona che chiamò. In risposta un urlo mostruoso, che gli fece brandire la lama con cui era armato e girarsi di scatto. Si abbassò per evitare il colpo del nemico che correva verso di lui, scattando in avanti e colpendolo al centro del ventre. Cadde a terra agonizzante, ferito abbastanza gravemente da permettere a Naruto di lasciarlo morire da solo con i suoi dolori. Si aprì una piccola ferita sul polpastrello e, come aveva fatto Sasuke, evocò Gamakichi, sentendo la terra spaccarsi sotto di sé e la pelle rugosa della rana prendere il posto dell’erba e della neve ghiacciata.

Subito la visuale cambiò, dandogli la possibilità di osservare tutto dall’alto: la battaglia e i corpi cadere come sassi nell’acqua, il rosso mischiarsi con il sangue più scuro di alcuni de mostri, per poi dilagarsi in macchie scure sul terreno. Il rumore così assordante da sembrare silenzio. Il sapore del vento freddo che si sente sulla vetta di una montagna.

E Obito su un edificio, che li fissava e sorrideva sotto la sua maschera, teneva le braccia aperte e li aspettava, invitandoli alla morte.

«Sasuke, Naruto!» era Sakura che li chiamava dal basso. I due ragazzi si fissarono per un momento, prima di guardare giù in contemporanea. La ragazza si sbracciava e saltellava, mentre attorno a lei centinaia di piccole lumache sfrecciavano con una velocità incomprensibile, risalendo le gambe e la schiena degli uomini che combattevano con tutta la loro tenacia, coprendo con la loro bava le ferite, per rimarginarle al più presto.

Gamakichi allungò una zampa per farci salire la ragazza, posandola poi sul capo di Aoda, lasciando che Sasuke la stringesse vicino a sé con un braccio, per non farla cadere.

«A quanto pare è arrivato il momento» urlò agli altri due Naruto, sentendo improvvisamente le gambe molli, il cuore lento – troppo lento, quasi fermo, e le mani incapaci di reggere l’arma che teneva fra le dita. Sarebbe morto prima di arrivare da Obito.

«Incontreremo qualche ostacolo?» domandò Sakura, girandosi verso Sasuke, aspettando una risposta da uno dei due. Solo in quel momento, in mezzo alla polvere e alla morte, Naruto osservò come le guance dell’amica diventassero di un adorabile rosa pallido, come i petali di ciliegio in primavera, ogni volta che guardava Sasuke.

«Dal modo in cui Obito ci invita ad andare da lui?» scherzò l’Uchiha, mentre sfidava con lo sguardo, da lontano, il nemico. Le iridi copiarono il colore della terra, bagnandosi anche loro del sangue dei caduti.

«O la va o la spacca» mormorò Naruto, più a sé stesso che agli altri due. E Gamakichi iniziò a marciare verso l’unico edificio ancora in piedi.    

 

 

Si sentiva solo il gocciolare dell’acqua ed il freddo umido bagnare quella pelle che non le apparteneva.

«Da quanto tempo…». Una voce profonda ruppe il silenzio. Il suo eco invece risultava graffiante, lasciava segni scuri sulle pareti di quella grotta dimenticata da loro e dal mondo stesso.  «Mi chiedevo quando saresti venuta a prendermi» continuò, ed una leggera risata riempì la caverna, rendendo l’aria più liquida di quello che fosse già, più soffocante ed amara.

«Alla fine sono arrivata».

Si raccolse i capelli neri su una spalla, trattenendo il respiro. Sentiva i limiti umani su di sé, le barriere che quel corpo di neve, tenuto su dai rami di un albero come scheletro, impedirle di non sentire il dolore di polmoni bisognosi d’aria o il suono del cuore agitato che inglobava tutto il resto.

Il rumore metallico di pezzi di armatura che cozzavano contro le altre, una spada strisciare sulla roccia umida. «Perché vieni da me con un corpo del genere, Kaguya?» domandò, quasi offeso, incrociando le braccia al petto mentre usciva dall’ombra. Gli occhi brillavano come due piccoli soli al tramonto. «Perché sei così mortale?» c’era disprezzo nella sua voce, e una sicurezza folle che lo rendeva fragile agli occhi di lei. Doveva sentirsi intimorita? Conosceva bene Madara, abbastanza da capire che la sua forma divina, sulla terra, non valeva più del corpo di Hinata.

Lui aveva deciso di scendere nel Mondo come un Dio, lei aveva preferito altri metodi, più ortodossi e conformi alla richiesta che gli uomini le avevano lanciato.

Kaguya inspirò profondamente, stavolta beandosi della sensazione di pienezza che l’aria poteva darle mentre riempiva i polmoni del corpo che la ospitava. Afferrò le due lame che teneva alla cintura, brandendole con una sicurezza da soldato, «perché basta un corpo mortale a sconfiggerti». E si scagliarono l’uno contro l’altro, facendo tremare la terra, formando nubi scure nel cielo e lampi che illuminavano lo scenario di guerra come occhi che si aprivano e chiudevano in un istante, abbastanza per sbirciare quello che succedeva.

 

 

«Quindi siete voi che mi avete messo i bastoni tra le ruote».

Parlava con una sicurezza che faceva male, destabilizzava e rendeva impotenti. Nemmeno Sasuke sembrava impenetrabile a quella voce che pareva d’acciaio. Rimasero immobili, fissando quel movimento lento ed estenuante della mano guantata di Obito mentre si avvicinava alla maschera che indossava, sfilandosela lentamente.

Cadde a terra con un rumore sordo, accompagnato dal sorriso incomprensibile del nemico. Le rughe e le cicatrici che gli ornavano macabramente metà volto si mossero, seguendo gli angoli rivolti verso l’alto delle labbra.

«Cosa c’è?» chiese, riaprendo le braccia, «vi faccio paura?» domandò, facendo un passo in avanti, «vi faccio schifo?» continuò, abbassando la voce, rendendola sottile come una lama. Sasuke portò la spada davanti al petto, mettendosi in posizione d’attacco, pronto a sferrare qualche colpo. Con l’altro braccio teneva Sakura dietro di sé.

«Mi fai pena!» gli urlò con tono di sfida Naruto, «ti sei visto? Ridursi così per inseguire un sogno che non potrà mai essere realizzato…». Non fece in tempo a rendersi conto di quello che aveva detto che subito Obito si scagliò contro di lui, attaccandolo con una lama comparsa da chissà dove, che Naruto bloccò appena in tempo, vacillando e facendo un passo all’indietro.

«Non sono sogni irrealizzabili!» attaccò subito l’altro, allontanando la spada per sferrare un altro corpo, facendo arretrare ancora Naruto, «sono progetti ben studiati, accompagnati da un metodo efficace per riportare questo mondo al suo splendore di una volta!».

«Non è facendo esperimenti sulle persone e radendo al suolo villaggi per sottometterli al tuo volere che riporterai tutto a com’era prima!» fu Sakura ad intervenire, tenendo tra le mani un martello dall’aria pesante, ma con il quale riusciva a destreggiarsi bene. Si scambiò uno sguardo con Obito, velocissimo e pieno di odio, e in una manciata di secondi se lo ritrovò addosso.

Sasuke si mise in mezzo, caricando Obito come fosse un animale, rotolando con lui per terra, facendogli perdere la presa sulle proprie armi e bloccandolo con la propria lama, provocandogli ferite sui polsi e lungo le spalle, dove il ferro tagliava la pelle di lui.

«Hai ucciso tutta la mia famiglia» gli sibilò, premendo ancora di più la spada contro il corpo dell’altro, «hai ucciso mio fratello!» erano occhi rossi contro occhi rossi, e rivoli di sangue che bagnavano la lama di Sasuke e i polsi di Obito.

Itachi.

Sasuke.

Una voce gentile ed occhi di primavera che lo fissavano. Il profumo di Sakura gli arrivava alle narici come un miraggio. Non poteva esistere in un mondo del genere. E lui non doveva perdere il controllo, doveva mantenere la promessa fatta a Kaguya.

«E allora uccidimi se ti ho fatto così male!» lo provocò, sfidando la potenza delle mani di Sasuke, spingendo i polsi e le spalle contro la spada, «stai vincendo. Puoi farlo, puoi uccidermi, no?!» e scoppiò in una risata fragorosa, assordante, accompagnata dalla pioggia che iniziava a cadere copiosa e inaspettata, ed il buio che copriva il sole, avvolgendoli.

Sasuke mollò la presa, lasciando che Obito scattasse in avanti e gli afferrasse il collo. Presa debole, constatò, probabilmente data dai tagli profondi che aveva alle braccia.

Si liberò velocemente da quel tentativo di soffocamento, rotolando sul pavimento fino a ritrovarsi inginocchiato sulla schiena di Obito, che si dimenava e scuoteva le gambe per tentare di liberarsi.

Non c’era altro modo.

A volte la guerra è l’unica via possibile.

«Sakura!» la chiamò con una certa urgenza, e subito la ragazza gli andò in soccorso. Ad occhi chiusi e con un colpo secco per gamba, ruppe le ossa di Obito che urlò di dolore, coprendo i crack delle ossa in frantumi, appoggiando la fronte contro il pavimento ruvido e bagnato di pioggia.

Distruggere.

Sasuke gli afferrò i polsi rovinati, costringendo ad inginocchiarsi, premendo con i piedi sulle ossa rotte e i muscoli a brandelli, la pelle lacerata e sanguinante.

Lo sentiva a pezzi. Lo aveva già sentito a pezzi quando gli urlava ad un palmo dal viso, con quegli occhi pieni di follia, di sentimenti che Sasuke capiva perfettamente, ma che a differenza di Obito riusciva a tenere ordinati – e soprattutto controllati. Non aveva mai ceduto alla vendetta come aveva fatto lui, aveva sempre cercato di preferire la razionalità piuttosto che l’azione bruta ed incontrollata. Non avrebbe mai desiderato diventare come lui.

E più lo guardava, lo maneggiava  e lo bloccava, l’idea che Obito potesse liberarsi e iniziare a dare davvero del filo da torcere a tutti e tre lo spaventò. Fu solo un attimo, non abbastanza per fargli mettere in dubbio le loro capacità, la forza che Gamakichi, Aoda e Katsuyu avevano donato a loro.

Potevano farcela.

Naruto si avvicinò rapidamente, tirandogli il capo all’indietro, appoggiandogli sulla fronte macchiata di cicatrici indelebili il pollice. Sakura gli toccò il cuore con il polpastrello, sentendolo battere sotto quello strato di pelle ruvida, nascosta dagli abiti.

Costruire.

Naruto chiuse gli occhi, inspirando profondamente. L’acqua gli percorreva il viso come fossero lunghe dita di donna, fresche, che tentavano di lavar via dai suoi occhi tutto il dolore di una vita. Era l’ultimo sforzo: la sincronia del proprio cuore con quello lacerato di Obito, della propria anima con la sua, a brandelli.

Sentiva il dolore e la sofferenza di lui che lo consumava, entrava in Naruto e gli faceva provare la stessa rabbia, la stessa pressione, e per un momento gli sembrarono così ovvi tutti i sogni di Obito, che perdonarlo gli pareva la cosa più ovvia da fare.

Cercò di dare un po’ di sé ad Obito, di fargli vedere quei campi di lavanda, il sole incastrato tra i rami in fiore degli alberi, il riflesso dei fasci di luce sull’acqua. Erano le meraviglie di quel posto, anche se nessuno riusciva ad apprezzarle seriamente. La felicità che si trovava nelle cose piccole, poco distanti, in posti che sembravano irraggiungibili ma che invece erano lì, a portata di mano.

Conservare.

E poi successe. La necessità di sigillare il tutto, mettere la parola fine a tutta quella follia. Settimane di terrore, di villaggi distrutti per una manciata di secondi, per chiudere tutto il discorso, far ritornare tutto a com’era prima.

Prima di cosa, poi?

Sakura inspirò profondamente, nello stesso modo in cui aveva sentito fare Naruto prima. Vide le crepe del cuore di Obito, ben delineate e finissime, difficili da tappare – e minuscoli forellini decorare con perle scure quel muscolo che ora pompava sangue così lentamente che Sakura ebbe paura potesse morire tra le loro braccia.

Ma non doveva morire. Kaguya lo aveva detto, lo aveva mostrato: la morte di Obito non era necessaria per la fine della Guerra. La sua purificazione sarebbe stata molto più utile, molto pi giusta.

«Mi dispiace di averti spaccato le gambe» gli disse, sincera, mentre cercava di richiudere ogni crepa del suo cuore, con la stessa meticolosità con cui aiutava i bambini a rialzarsi dopo una caduta, con la stessa tenerezza con cui si era presa cura di Sasuke.

Quando riaprirono gli occhi pioveva ancora. Obito era diventato molle, come morto, tra le braccia dei tre. Lo adagiarono a terra, mentre una decina di piccole lumache risalivano velocemente le mura del palazzo e si univano in due esseri più grandi che provvidero ad appoggiarsi sulle gambe maciullate di Obito per rimettergliele in sesto.

Sakura si sedette a terra, barcollando avanti ed indietro per la stanchezza. Naruto la affiancò subito dopo, stampandosi un sorriso in faccia mentre Sasuke cercava di stare in piedi senza cadere, anche lui preso da quegli strani capogiri dati per la stanchezza di quello pseudo-rito che avevano appena portato a termine.

«E ora?» domandò Naruto, accorgendosi solo in quel momento che attorno a lui si sentiva solo la pioggia cadere. Erano spariti i versi, le grida, il rumore della carne lacerata e del sangue sulla terra. Non c’era più nulla, solo l’acqua.

Si mise a carponi, cercando di allungarsi oltre il bordo del condominio a pezzi per sbirciare il campo di battaglia.

Il corpo di Hinata si materializzò davanti a lui, i nervi attorno agli occhi ancora tesi e quel sorriso di ghiaccio delineava bene la persona che muoveva quel corpo.

«È stato più facile del previsto?» domandò, curiosa, avvicinandosi verso il corpo di Obito, avvolto qui e là dalla bava di Katsuyu che, lentamente, iniziava a fare effetto. L’uomo, doveva avere più o meno l’età di Kakashi, constatò Naruto in un secondo momento, respirava profondamente, come se dormisse. Gli occhi chiusi avevano le palpebre abbassate e rilassate, tipiche di chi fa bei sogni.

«Troppo facile» commentò Sasuke, «sembrava quasi che volesse essere ucciso» continuò poi, pulendo con il lembo della lunga giacca che indossava la lama della spada.

«Cosa è successo là fuori?» domandò Naruto, ritornando la sua lenta marcia verso il bordo del palazzo. Con suo dispiacere non riuscì a vedere nulla: aveva la vista inspiegabilmente offuscata e, a causa della pioggia, tutto attorno a lui era diventato fastidiosamente lattiginoso, come se una nebbia d’acqua gli censurasse qualsiasi cosa fosse successa di sotto.

«Ha importanza?» ribatté la Dea.

«Certo che ne ha!» protestò Naruto, alzandosi in piedi, «prima uccidi Hinata per usare il suo corpo e poi mi dici che non ha importanza se sono morti tutti o se non è morto nessuno dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?!». Ora che avevano salvato Obito, che avevano portato a termine la richiesta di Kaguya, ricevere delle risposte gli sembrava la cosa più semplice che lei potesse fare, dato che era la dea che tutto sa e tutto vede. E invece se ne stava lì, immobile, a fissarlo diventare sempre più pallido, sempre più sconvolto e sempre più debole, convinto di aver fatto le scelte sbagliate, di essersi fidato delle persone sbagliate.

«Non hai fatto tutto questo per me» gli rispose lei, cambiando il tono con quello più dolce e materno, «lo hai fatto per tutti quelli che desideravano vivere in un posto migliore».

«Un posto diverso da questo» continuò Sakura in un sussurro, «era quello che desideravamo tutti» disse, rivolgendosi a Naruto, «anche tu lo volevi, ricordi? Quando dicevi che saresti stato sicuramente più felice se fossi vissuto prima della Grande Guerra e delle armi nucleari…» non andò avanti nella spiegazione, lasciando che rievocasse da solo la storia fatta con i “se” che Naruto si era costruito.

Se fosse vissuto tempo prima, i suoi genitori non sarebbero morti.

Se fosse vissuto tempo prima, non avrebbe dovuto camminare così tanto per spostarsi continuamente e si sarebbe trovato un vero lavoro, qualcosa in cui essere bravo.

Se fosse vissuto tempo prima, forse avrebbe incontrato Hinata in circostanze diverse, avrebbe potuto conoscerla meglio, evitando di vederla sparire nel nulla.

Sasuke, nel suo profondo, ricordava i discorsi di Itachi su quel mondo prima della Guerra, e sorrideva nel pensare a quelle storie in cui tutti sapevano leggere e scrivere, c’erano strumenti musicali facilmente reperibili e vestiti caldi e cibo sempre a disposizione.

Kaguya aveva ragione: era il posto in cui tutti avrebbero voluto vivere.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Avrei voluto fare delle belle note a fine capitolo per questa conclusione, ma la verità è che sono strettissima con i tempi e non posso dilungarmi oltre.

Forse, è meglio così, lasciare i commenti a voi lettori è sempre la cosa migliore da fare ;)

Ringrazio chi l’ha seguita fino a qui, silenziosamente o no, chi mi ha fatto sapere cosa pensa della storia su EFP o su altre sedi. Mi avete dato una bella soddisfazione! Sono molto felice di aver scritto questa fan fiction, soprattutto dopo il feed-back positivissimo che mi avete dato, che non mi aspettavo proprio, considerando «Là, dove sorge il sole» troppo “strana”.

Insomma: grazie di cuore!

 

Ci sentiamo venerdì 8 maggio con l’epilogo! :*

 

radioactive,

 

 

 

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Capitolo 10
*** epilogo ***


storia partecipante al contest «Naruto versione Fantasy!»

indetto da ame tsuki sul forum di EFP.

 

 

 

 

 

LÀ, DOVE SORGE IL SOLE

 

 

 

 

 

Epilogo

 

 

~

 

 

Era in ritardo!

Naruto lo sapeva. Era certo che fermarsi a guardare i cartoni animati (nonostante la veneranda età di venti-e-passa-anni) lo avrebbe portato a perdere il tram, e quindi la perfetta coincidenza di trasporti pubblici che lo avrebbero condotto in università in perfetto orario.

Senza contare che la ciabattata che sua madre gli aveva rifilato quando lo aveva beccato sul divano – con ancora i pantaloni della tuta addosso invece che i jeans per la scuola, le otto meno venti sull’orologio e il sorriso sornione del biondo mentre fissava il televisore – gli faceva ancora male. Salì sul tram dopo quello che aveva perso, massaggiandosi la nuca colpita mentre si teneva con una mano alla sbarra di ferro in alto.

«Ce l’ho fatta!» disse una voce dietro di lui, con il fiatone che le faceva dire le parole a singhiozzo.

Gli sembrava una voce conosciuta, come se l’avesse sentita in televisione o all’università. Ma era troppo arrabbiato per gli scatti violenti di sua madre per pensarci, cercò le cuffiette nella tasca della giacca e osservò per tutto il tragitto il traffico, contando quante macchine gialle vedeva per poi dare il rispettivo numero di colpi sul collo di Sasuke.

 

 

Quando scese dal tram, arreso all’idea che avesse perso la prima lezione, Naruto confidava in una lunga e lenta passeggiata in attesa che scoccassero le dieci e trenta, in modo da seguire almeno la seconda spiegazione della giornata.

Prima che il tram ripartisse, qualcosa lo colpì alle spalle, come se fosse rimbalzato sul suo zaino. Un tonfo caduto a terra seguito da altri tre più pesanti. Di certo, non era qualcosa che poteva ignorare.

Si girò, quasi curioso, osservando una ragazza per terra, la borsa a tracolla aperta ed un paio di libri riversi sull’asfalto.

«Oddio, scusami!» si sbrigò a dire lei, rossa in viso, mentre Naruto si affrettava a salvare i libri dai passanti frettolosi, salvandoli da morte certa. Li richiuse e li tenne con una mano, mentre con l’altra la aiutava a tirarsi su.

«Figurati, capita di essere sbadati» gli sorrise lui, «anche io lo sono spesso» ed accennò ad una leggera risata, tenendole i libri ed il fascicolo che le era caduto.

«Comunque sono Naruto» si presentò, mantenendo quel sorriso che adorava regalare a tutti quanti, come se avesse la convinzione che potesse migliorare la giornata di chiunque, «E tu sei?…».

«Hinata».

Hinata.

Era un nome familiare, come un tassello mancante dei suoi ricordi, qualcosa di estremamente importante che lui non riusciva a ricordare.

«Hinata…» ripeté lui, tenendosi il mento tra il pollice e l’indice, «ci siamo già visti, per caso?» chiese, curioso.

La vide arrossire, incrociare il suo sguardo – chiarissimo, fatto di vetro – con il proprio e poi abbassare gli occhi, «no… credo di no» e si stringe i libri al petto. L’aveva messa a disagio?

«Che cos’hai lì?» domandò allora, cambiando completamente discorso, tentando di farla schiudere, renderla meno introversa di come si stava dimostrando. Gli bastava già Sasuke come bel tenebroso di poche parole!

«Uh?» Hinata si guardò in braccio, mostrandogli i titoli dei due libri, «i libri che devo restituire in biblioteca…» rispose, non capiva il perché di quella domanda.

«E quello?» continuò, allungando una mano verso il fascicolo sopra ai due libri, chiedendole con lo sguardo il permesso di prenderlo.

Hinata mise i due libri nella borsa, tenendo tra le mani solo i fogli rilegati che avevano catturato l’attenzione di quello che, nel bene o nel male, era uno sconosciuto. Eppure, qualcosa, nel profondo, le diceva che non era pericoloso.     

Si dice che lo spirito della persona, quando il suo corpo muore, si reincarni in qualcun altro.

«Una cosa che ho trovato in soffitta» gli disse, in tutta sincerità, decidendo di fidarsi di lui.

Se lo passò tra le dita come se fosse un oggetto raro, lasciandolo poi nelle mani di Naruto. Lo vide maneggiarlo con cura, sfogliarlo senza leggerlo e poi fissarsi sul titolo, scritto nero su bianco, al centro della pagina.

Nessun autore, nessun sottotitolo.

Solo una frase.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTRICE.

Siamo arrivati alla fine.

Questo epilogo, di 600-e-rotte parole, è una delle mie parti preferite di questa storia. Ammetto che poteva essere scritto molto meglio, ma l’ho buttato giù velocemente perché la scadenza del contest era molto vicina. ;) Tuttavia, la scena finale, quella del fascicolo che cade, è esattamente il modo in cui volevo che finisse la storia.

Che cosa significa? Lascio a voi tutta l’interpretazione. È tutta una finzione? Avete letto il contenuto di quel testo che Hinata ha trovato in casa? Sarei proprio curiosa di sapere la vostra versione ^^

La scelta di questo finale è molto emblematica. In realtà, io come persona sono molto attratta dai temi come la reincarnazione e il post apocalittico, cose che hanno avuto un ruolo fondamentale per questa fan fiction. Non potevo non «chiudere il cerchio» con l’epilogo.

Vorrei scrivere in queste note quanto mi ha fatto piacere vedere il seguito, i preferiti/seguiti/ricordate. Vorrei ringraziare tutte le persone che mi hanno dato un feed-back, piccolo o grande che sia, e ovviamente ame_tsuki per avermi dato la possibilità di concludere questa storia ;)

Vorrei spezzare una lancia in mio favore riguardo alla trattazione della guerra. So che non è stata la miglior descrizione bellica che avete letto e che sotto quel punto di vista manca di potenza e carattere. Ma ho preferito – per attitudini, diciamo, personali – concentrarmi sulla preparazione alla guerra (il prompt, penso di poterlo dire, La guerra contro creature mostruose è alle porte. Il/la/i protagonista/i è/sono il/i capo/i dell’esercito che dovrà sconfiggerle mi sembrava concentrato su altri aspetti) e sull’introspezione. In tutti i casi ora è conclusa ed io sono felicissima di averla scritta.

 

Grazie per essere arrivati fino a qui.

Risponderò alle recensioni il prima possibile maledetta maturità!

 

radioactive,

 

 

 

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