Anche i principi piangono di fronte al mare

di IrethTulcakelume
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


PICCOLA PREMESSA: Questa storia è stata partorita da due menti malate geniali: la mia e quella di vitadiunalettrice, la mia fantastica beta che ringrazio con tutto il cuore per il suo supporto e i suoi consigli e correzioni e a cui dedico la long.

 

ANCHE I PRINCIPI PIANGONO DI FRONTE AL MARE

Capitolo I

 



Quella notte il cielo era sereno: la luna splendeva incontrastata, uniche sue rivali le stelle del firmamento, luminose come poche volte mi era capitato di vederle.
Sì, il cielo di Troia era sereno quella notte, ma non lo era il mio cuore. Sentivo come se un'ombra gravasse sul di esso, mi opprimesse, mi soffocasse.
Non sapevo bene per quale motivo, ma sentii il bisogno di uscire dalla mia tenda, forse la lieve brezza marina avrebbe donato un minimo di conforto al mio animo. Camminai lentamente attraverso l'accampamento Acheo: era strano come, dopo dieci anni, tutto fosse restato stranamente immobile e uguale a se stesso. Forse, l'unica cosa che era veramente cambiata in quei lunghi anni di guerra era il numero di uomini che non avrebbero mai fatto ritorno dalle loro famiglie, dai loro cari. Attraversando quel campo, che ormai era diventato la mia casa, pensai a quanto fosse ingiusto il Fato, a quante vittime le Moire avessero mietuto in quei dieci, lunghi, dannatissimi anni. Pensai che forse non ne valeva la pena, di rischiare la morte per un uomo che non portava rispetto a chi combatteva per lui le sue guerre, un uomo che aveva osato disonorarmi. In quella notte calma, però, i pensieri di rabbia erano lontani, relegati nei meandri della mia mente, come se avessero perso importanza. Ero divenuto insensibile a tutti i morti che stavo causando con la mia assenza prolungata dalla battaglia, forse il mio era davvero un cuore di ferro, come spesso mi ripeteva Patroclo in quei giorni di triste lutto per i miei compagni. Provavo un grandissimo affetto verso di lui, ma nemmeno le sue suppliche riuscivano smuovermi. Strano, addirittura ironico, come in quella strana notte di luna piena io non riuscissi a provare alcuna emozione. Solo un grande vuoto. Lasciato da cosa, non riuscivo a capirlo.
Continuai a camminare, dirigendomi verso la spiaggia, ad accompagnare il mio incedere lento gli unici suoni dei miei sandali di cuoio sulla sabbia fine, della lieve brezza notturna tra i miei capelli e del mare, con il suo andare avanti e indietro continuo, infinito. Mi ritrovavo spesso a invidiare il mare, sempre così costante, instancabile, non come me, che in quegli strani giorni di massacri non sapevo cosa fosse giusto e cosa non lo fosse.
Passeggiando lungo la riva, vidi in lontananza un'ombra, più una sagoma che una presenza ben definita. Era lontana, eppure riuscii a distinguere qualcosa di quella figura: era un uomo, alto, portava un lungo mantello che gli copriva anche il capo. Si stagliava, in piedi, di fronte a quel mare a me tanto caro, più simile a una statua che ad una persona in carne e ossa. Non rallentai né accelerai il passo: semplicemente, impassibile, proseguii il mio cammino. Mano a mano che mi avvicinavo, riuscivo a distinguere sempre maggiori dettagli: il profilo asciutto si intravedeva dietro al mantello, le braccia incrociate sul petto, qualche riccio, sfuggito al cappuccio, sbucava dalla stoffa spessa che indossava. Non mi sembrava che somigliasse a nessuno dei miei compagni, eppure mi pareva stranamente familiare.
Ormai l'avevo quasi raggiunto, pochi passi e avrei potuto sfiorarlo con le dita; potevo distinguere abbastanza chiaramente i suoi lineamenti. Ero ormai sicuro che non fosse un Acheo, ma la cosa non mi preoccupava minimamente. Riuscivo a sentire il suo respiro sincronizzato con la risacca del mare che, probabilmente, osservava da una vita.
Quando ero ormai a un paio di spanne di distanza da lui, l'uomo scrollò lievemente le spalle.
- È insolito per un principe Acheo passeggiare sulla spiaggia a notte fonda. Mi chiedo cosa ti porti qui.
Mi irrigidii di scatto, scosso da quell'affermazione.
- Come puoi sapere chi sono, Troiano?
Quello fece un sorriso beffardo, che nascondeva la profonda amarezza che ammantava le sue parole. - So riconoscere il passo del guerriero che terrorizza i miei uomini già solo con il proprio nome.
- I tuoi uomini? - Quindi quell'uomo era un comandante, ma avevo come l'impressione che non fosse un semplice generale... il modo di parlare, la posa sicura, erano segno di un qualcosa che andava ben oltre la mera istruzione militare.
- Sì, Achille, i miei uomini. Suppongo che si dica così quando si è al comando di una città.
Improvvisamente, tutto fu più chiaro. Un nome mi balenò davanti agli occhi; non ero stato capace di riconoscerlo solo perché abituato a vederlo con indosso una pesante armatura di bronzo, e non un semplice mantello. Ettore.
Stranamente, non sentii la minima ostilità verso il  comandante dei miei nemici. Forse perché mi ero reso conto, da ormai troppo tempo, che tra amici e nemici non c'era poi grande differenza. Solo una bandiera, un nome, un padre differenti, null'altro. Possibile che queste differenze così ridicole potessero provocare la morte di così tante persone? La risposta, seppur terrificante, la urlavano le troppe pire funebri erette in quei maledetti anni di battaglie senza senso di fronte all'immensità e alla crudeltà del Fato.
Restammo silenti per qualche istante, un lasso di tempo breve, eppure eterno in quella strana notte in cui le stelle risplendevano luminose.
- Sarà pur strano per un principe Acheo camminare lungo spiaggia a notte fonda, ma non vedo perché non dovrebbe esserlo per uno Troiano.
Ettore scosse il capo, una smorfia di disappunto a increspargli il viso. - Tu vuoi sapere troppe cose.
- Lo stesso può dirsi di te - gli risposi impassibile, una nota di sarcasmo nella voce.
- Su questo hai ragione. Io voglio sapere troppe cose... me l'hanno spesso rimproverato. - Ancora una volta, sul suo viso si dipinse quello strano sorriso. Sembrava voler farsi beffe degli altri, di sé, del Fato stesso, eppure percepivo un qualcosa di più profondo dietro quella smorfia di finto divertimento: una sorta mi malinconia si celava all'interno di quel sorriso, così colmo di sottintesi. Senza neanche accorgermene, iniziai a scrutare le sue labbra, per scoprire il mistero che esse nascondevano: mi persi a osservare la curva che formavano, e scoprii una piccola cicatrice sul labbro superiore, probabilmente ricordo di vecchie battaglie. Mi resi anche conto che, sorridendo, aveva alzato più l’angolo sinistro della bocca di quello destro.
Poco dopo, Ettore smise di sorridere, assumendo un’espressione indecifrabile. Anche se erano stati pochi, effimeri secondi, a me erano sembrati durare un’eternità, e mi dissi che forse avrei potuto restare così per sempre: in piedi, di fronte al mare, io ed Ettore. Due nemici, io l’invasore, egli l’assediato. Eppure, in quella notte, niente di tutto ciò sembrava avere senso. Forse perché il buio impedisce di vedere chiaramente, o forse perché è proprio il buio a farci vedere dove la luce splende più intensamente.
Ettore si girò verso di me, guardandomi negli occhi, e io sostenni il suo sguardo: avrei detto che avesse le iridi grigio-azzurrine, come il mare sotto la luna piena, ma non potevo esserne certo.
Un refolo di vento più forte degli altri mi scompigliò i capelli, portandomeli davanti al viso. Infastidito, tentai di scostarli, ma prima che potessi farlo da solo Ettore allungò la mano sinistra verso di me, portandomeli dietro un orecchio e sfiorando involontariamente la mia fronte. Restò qualche secondo a contemplare le sue dita scorrere tra le mie ciocche, e io lo guardai stupito, non sapendo bene come comportarmi di fronte a quel gesto che non sapevo come interpretare.
Quando sollevò lo sguardo sul mio viso, scosse la testa e si voltò nuovamente verso il mare, che continuava il suo continuo, infinito viaggio, sempre uguale e allo stesso tempo ogni volta differente. Anch’io feci lo stesso, ma quando Ettore smise di scrutare i miei occhi mi sentii come svuotato. Era una strana sensazione: sentivo ancora la traccia dei suoi polpastrelli sulla mia pelle, quasi fosse impressa a fuoco su di me, ed era come se quello che ci eravamo scambiati non fosse stato un semplice sguardo. No, era stato molto di più: nei suoi occhi avevo visto, celata dietro una maschera di indifferenza, la paura per la sua gente, la richiesta di un aiuto che però non sarebbe arrivato, non da me, e lo sapeva. Temevo e al tempo stesso speravo che anch’egli avesse visto qualcosa di più di due semplici iridi blu, che avesse visto qualcosa del vero Achille: quello che aveva paura, quello che non sapeva cosa fosse giusto e cosa fosse sbagliato, cosa falso e cosa reale, l’Achille che cercavo in ogni modo di nascondere alla vista di chi stava intorno a me. Solo una persona era riuscita a vedere quella parte di me, anche se avevo sempre cercato di nascondergliela per non farlo cadere nell’abisso insieme a me: Patroclo, l’amico di una vita, l’unico che avesse mai prestato orecchio alle mie paure senza additarmi come un vile, l’unico con cui non era necessario che io dimostrassi di essere forte se non lo ero davvero. Eppure, adesso, speravo che Ettore avesse scorto almeno un piccolo frammento di tutto ciò, anche se questo desiderio mi sembrava del tutto irrazionale. Anche se non lo conoscevo a fondo, avevo come la sensazione di potermi fidare di lui. Continuavo a ripensare al suo viso, ai suoi occhi, al suo sorriso… alle sue labbra. Scossi la testa, come per scacciare quei pensieri: non potevo pensare questo del mio nemico giurato. Anche se ormai per me nemici e amici non avevano più alcuna importanza in quanto tali, non sarebbe mai stato possibile essere filos di Ettore.
- Forse è il caso che vada adesso.
L’uomo di fianco a me mi guardò confuso, forse addirittura dispiaciuto delle mie parole, ma non potevo restare lì: pensare a ciò che non poteva essere mi faceva male, e non volevo soffrire più di quanto già non facessi in quel momento.
Gli rivolsi un ultimo sguardo a mo’ di saluto e mi voltai, dirigendomi verso l’accampamento. Mentre camminavo, mi assalì la sensazione che ciò che era accaduto quella notte fosse sbagliato, come se avessi tradito la fiducia di qualcuno, ma non riuscii a pentirmene: era come sentire caldo e freddo allo stesso tempo, non mi era mai capitata una cosa del genere prima di quel momento. Istintivamente mi venne da sorridere, e in quel momento non riuscii a pensare alle morti, al massacro che sarebbe certamente avvenuto il giorno dopo – come ogni giorno. Riuscii solo a vedere, come impressa nella mia mente, la figura di Ettore e quel suo sorriso che mi aveva così tanto affascinato.

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


PICCOLA PREMESSA: Chiedo umilmente perdono per il ritardo, ma non sono proprio riuscita a pubblicare prima! In questo capitolo entra in scena un personaggio che sinceramente a me sta simpatico, ma alla mia beta vitadiunalettrice (a cui dedico ovviamente il capitolo) sta abbastanza sulle balle. Ma cosa ti ha fatto? Va be', vi lascio al capitolo, spero che vi piaccia. Chiedo ancora scusa per il ritardo!
 


Capitolo II





Proseguii il mio cammino verso l’accampamento, e appena vi giunsi notai una figura entrare furtiva nella mia tenda. Mi accigliai e affrettai il passo, tra l’incuriosito e l’irato: chi osava introdursi nella mia tenda di notte e, come se questo non fosse sufficiente, in mia assenza?
Mi sembrò quasi di correre, i sandali che percuotevano il terreno sollevando un lieve pulviscolo, e quando arrivai esitai qualche istante di fronte all’entrata: e se non mi fosse piaciuto quello che avrei visto all’interno? Avevo come uno strano presentimento, ma mi dissi che in fondo non c’era nulla da temere.
Entrai scostando di poco la stoffa sottile che copriva l’entrata e mi feci avanti. L’interno era in penombra, appena rischiarato dalla luce della luna che filtrava dalle trame del tessuto della tenda.
Davanti a me, a pochi passi di distanza, la figura di un uomo voltato di spalle, in piedi, le braccia muscolose distese lungo i fianchi. I bicipiti erano appena accentuati dai pugni chiusi, in tensione, come in attesa.
Forse in mia attesa.
- Chi sei? Perché sei nella mia tenda?
Lo sentii ridere lievemente, una risata amara.
- Da quando il grande Achille non è più in grado di distinguere l’amico dal nemico?
Sentendo quelle parole che sapevano quasi di accusa mi irrigidii: riconobbi immediatamente quella voce, ma non capivo il perché di quel tono irrisorio, che sembrava nascondere sotto il sarcasmo un’amarezza più profonda.
- Da quando il suo più grande amico ha bisogno di introdursi nella sua tenda in piena notte?
Patroclo si voltò e camminò verso di me fino a quando i nostri nasi arrivarono quasi a sfiorarsi.
- Amico, Achille? Davvero siamo arrivati a questo punto? Sono diventato un amico. Bene. – Sputò quelle parole con una cattiveria che non gli era propria. Era deluso, amareggiato, stentavo a riconoscerlo: i suoi lineamenti, di solito così dolci, erano deformati in una smorfia quasi di disgusto. Non sapevo cosa lo avesse spinto a parlarmi in quel modo, e reagii nell’unico modo che conoscevo: creando una maschera dietro cui nascondermi, cercando di non fargli intuire la mia confusione. Sono davvero giunto a dover mentire persino a lui?
- E chi credevi di essere? Mi sembri un ragazzino capriccioso.
Alle mie parole, tanto malvagie quanto false, Patroclo scattò in avanti e mi tirò un pugno sulla guancia. Io non feci in tempo a ripararmi e caddi all’indietro, venendo subito sovrastato da lui, che riprese a tempestarmi di colpi: in faccia, sul collo, sul torace. E mentre lo faceva, lo sentii bisbigliare: - Chi credevo di essere? Chi credevo di essere? Mi fai pena.
Inizialmente, non riuscii a difendermi, né a contrastare i suoi pugni. Mi sembrava di essere caduto in trance, mentre Patroclo – Patroclo – mi sferrava un colpo dopo l’altro, come impazzito. Poi mi riscossi, bloccandogli i polsi tra le mani e guardandolo confuso: non capivo cosa gli stesse prendendo.
- Cosa stai facendo?
Lui continuava a dibattersi sopra di me, cercando di liberarsi, ma io non allentai la mia presa ferrea su di lui.
- Amico. – sibilò, quasi risentito.
– Sì, Patroclo. Amico. – Continuavo a non capire dove volesse arrivare con quella messa in scena, non si era mai comportato in quel modo e per quanto mi sforzassi non riuscivo a comprendere cosa avesse scatenato dentro di lui tutta quella rabbia.
Patroclo riuscì a sciogliere la mia presa sui suoi polsi e, accarezzandomi la guancia con una mano mentre portava l’altra tra i miei capelli, si sporse verso il mio viso.
 
Un refolo di vento più forte degli altri mi scompigliò i capelli, portandomeli davanti al viso. Infastidito, tentai di scostarli, ma prima che potessi farlo da solo Ettore allungò la mano sinistra verso di me, portandomeli dietro un orecchio e sfiorando involontariamente la mia fronte.
 
Prima che potessi fermarla, quell’immagine si stampò davanti ai miei occhi, come impressa a fuoco nella mia mente. Chiusi gli occhi qualche istante, forse per scacciare quel ricordo fin troppo vivido, forse per assaporarlo meglio un’ultima volta.
Quando li riaprii, vidi di fronte a me il viso di Patroclo, che si era finalmente addolcito un poco.
- Ti sbagli, Achille. Odisseo è un tuo amico, Aiace è un tuo amico, ma io non sono un tuo amico. Certo, a meno che tu non debba confessarmi le tue ultime avventure tra i letti dei nostri compagni, sono abbastanza convinto di potermi considerarmi ben più di un semplice amico. – Accompagnò le ultime parole con una risata appena accennata, e io gli sorrisi di rimando. Ecco dov’è il problema.
- Mm… le scenate di gelosia per una notte passata fuori dalla mia tenda non le avevo ancora viste in questi dieci anni. – Appoggiai dolcemente la mano sulla sua, ancora premuta sul mio viso.
 
…sentivo ancora la traccia dei suoi polpastrelli sulla mia pelle, quasi fosse impressa a fuoco su di me…
 
Ancora una volta, le immagini di pochi minuti prima in riva al mare mi sopraffecero, e io non potei fare nulla per impedirlo. Tentai di ignorarle.
- Sono sempre stato abbastanza bravo a nasconderlo, ma sono piuttosto geloso di te, e… vedi… in questi giorni ti vedo piuttosto pensieroso. Cerchi sempre la solitudine, sei scostante perfino con me, e non riusciamo più a parlare come prima.
Ridacchiai appena, rispondendogli malizioso: - Certo, scommetto che sono proprio le chiacchierate che ti mancano.
Patroclo mi guardò con uno strano luccichio negli occhi, che erano di una particolare sfumatura di azzurro, molto chiaro, limpido.
 
Ettore si girò verso di me, guardandomi negli occhi, e io sostenni il suo sguardo: avrei detto che avesse le iridi grigio-azzurrine, come il mare sotto la luna piena, ma non potevo esserne certo.
 
Ma anche mentre guardavo quegli occhi che per me erano sempre stati sinonimo di calma, di fiducia, di casa, mi sembrava di intravedere i suoi occhi, indecifrabili, freddi e caldi allo stesso tempo.
Adesso basta, sta diventando un tormento.
Tornai a concentrarmi su Patroclo, sulle sue mani premute sul mio viso, e abbozzai un sorriso dolce, passando una mano lungo la sua schiena.
 – Mm… forse non solo quelle. – Dopo che ebbe detto quelle parole, si abbassò su di me, e fece scontrare le nostre labbra in un contatto tenero, affettuoso, che mano a mano divenne più esigente. Presto le nostre mani iniziarono a vagare sul corpo dell’altro, e la situazione degenerò, sfuggendo al controllo di entrambi. Sono stanco di essere perseguitato dai tuoi occhi, devi sparire dalla mia mente.
Eppure, anche mentre facevamo l’amore – perché di questo si trattava con Patroclo, non semplice sesso, amore – davanti ai miei occhi chiusi si parava l’immagine di Ettore, e quasi mi dovetti trattenere dal gemere il suo nome mentre venivo. Mi sentivo un reietto, un traditore. Mi sentivo sporco.
Patroclo si addormentò tra le mie braccia, ignaro dei pensieri che si agitavano nella mia mente, il respiro regolare a solleticarmi il petto. Così innocente, così puro da riuscire a essere arrabbiato con me solo per pochi minuti. Ecco il ringraziamento di Achille per un amore sincero come il suo: i pensieri rivolti a un altro uomo, a un nemico, perfino durante un momento così intimo. Non ce la feci a guardare il suo viso così disteso e rilassato: mi alzai, cercando di fare meno rumore possibile, come un ladro che scappi da una casa dopo aver rubato qualcosa di immensamente prezioso. Ed era proprio quello che avevo fatto: avevo rubato l’ingenuità di Patroclo, e ora stavo fuggendo dalle mie azioni.
Mi misi una semplice tunica bianca, e andai verso la spiaggia. Mentre camminavo, mi accorsi di essere a piedi scalzi.
Non me ne importava.
Proseguii, e dopo alcuni minuti giunsi in riva al mare, quel mare blu che non mi aveva mai tradito nei momenti di maggiore sconforto.
Piansi.
 
***


Il sole era accecante, si infrangeva sulle migliaia di corpi sudati che si scontravano tra di loro in combattimento, rifulgeva di una luce quasi maligna.
Non riuscivo più restare immobile, avevo un assoluto bisogno di una valvola di sfogo, tutte quelle emozioni contrastanti dentro di me rischiavano di schiacciarmi sotto il loro peso. Quella mattina decisi di tornare a combattere, ma non avrei calpestato il mio orgoglio per la mia debolezza – perché era quello il vero motivo per cui ero finalmente tornato sul campo di battaglia. Ero debole, e l’unico modo che conoscevo per dimostrare – agli altri, ma soprattutto a me stesso – di non esserlo era combattere. In fondo era un pensiero molto egoista: massacrare degli innocenti solo per sfogare la mia rabbia e la mia frustrazione.
Come sono caduto in basso.
Per non farmi riconoscere avevo indossato delle armi semplici, raccattando i pezzi nell’armeria comune dell’accampamento, e avevo coperto accuratamente i capelli sotto l’elmo; quest’ultimo copriva anche buona parte della faccia, che altrimenti avrebbe facilmente rivelato la mia identità. Avevo atteso che buona parte dell’esercito andasse avanti, e poi mi ero buttato nella mischia, iniziando a menare fendenti a destra e a sinistra. Mulinavo la spada rabbioso, incurante di tutte le vite che stavo mietendo in quel mattino sin troppo assolato.
Non seppi dire quanto tempo fosse trascorso: ore, forse. Sentivo le gambe cominciare a farsi pesanti, e i nemici continuavano ad arrivare, come fossero infiniti.
Resistetti. Achille non si lascia sconfiggere dalla stanchezza, men che meno sul campo di battaglia.
Poi, lo vidi: la sua armatura rifulgeva come dotata di luce propria, quasi potesse fare a meno di quella soffocante e opprimente del sole, i capelli appiccicati alla pelle del viso per il sudore. Ettore.
Subito mi assalì la voglia malsana di raggiungerlo e di affrontarlo, e poi di fargli implorare che gli fosse risparmiata la vita sotto i colpi della mia spada: era colpa sua se tutti quegli strani sentimenti stavano facendo a pugni dentro di me per far sentire la loro voce su quella degli altri, era colpa sua se ero tornato sul campo di battaglia, venendo meno al mio voto di ignorare i combattimenti.
Mi lanciai contro di lui e ingaggiammo un feroce combattimento. Non c’era traccia di pietà sul suo viso: si batteva come una furia, era un combattente davvero formidabile, instancabile, stentavo quasi a reggere il ritmo dei suoi colpi implacabili. Iniziai a osservarlo mentre combattevamo, e mi accorsi che alla luce del sole i suoi occhi, che la notte prima mi erano parsi di un azzurro quasi tendente al grigio, sembravano color acquamarina, nettamente in contrasto con la chioma corvina.
Al ricordo di ciò che era accaduto poi, mi sentii cedere: era troppo ripensare a come mi ero comportato, a come mi ero sentito. Ebbi qualche istante di esitazione, e ciò fu sufficiente perché il mio avversario riuscisse a sopraffarmi: mi sbilanciò all’indietro, ma io, afferrandolo per un braccio, riuscii a trascinarlo per terra, facendolo rotolare nel pulviscolo di fianco a me. I nostri visi si avvicinarono per qualche secondo di troppo, e vidi nei suoi occhi la consapevolezza e la confusione: mi aveva riconosciuto. Il tempo sembrò fermarsi: Ettore non riusciva a capire come fosse possibile che io fossi lì a combattere, e perché non indossassi la mia armatura, e io non sapevo se avrei dovuto temere il fatto che avesse scoperto la mia identità.
Mi fissò intensamente ancora per qualche istante quando si sollevò in piedi, la spada nella mano destra, poi il suo viso tornò serio, la sua espressione indecifrabile, e si voltò, andando via e tornando verso la città. Io rimasi come inchiodato per terra da quello sguardo, poi raccattai la mia arma e fuggii.
Fuggii dalla piana troiana, da Ettore, dalla mia rabbia, dalla mia confusione. Perché mi aveva lasciato andare? Ormai aveva vinto, ero completamente alla sua mercé: non sarei nemmeno riuscito a difendermi, sopraffatto dal disgusto che avevo per me stesso. Eppure aveva lasciato che scappassi.
Giunsi alla mia tenda quasi senza accorgermene. Gettai per terra l’armatura e mi strappai l’elmo dalla testa, liberando la mia chioma dorata che andò a coprirmi gli occhi.
Urlai dalla frustrazione. Ma che cosa mi sta succedendo?



Dunque: l'ultima cosa, poi giuro che me ne vado. Volevo farvi vedere come più o meno mi immagino gli occhi dei personaggi (io AMO descrivere gli occhi!)



Gli occhi di Ettore me li immagino più o meno così:




Mentre quelli di Patroclo sono all'incirca così:



Va bene... allora ci vediamo al prossimo capitolo! Ciao!

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


PICCOLA PREMESSA: Chiedo nuovamente scusa per il ritardo nell'aggiornamento, ma ci sono stati dei contrattempi, ergo... ritardo! In questo capitolo ci avviciniamo all'altro protagonista della storia. L'abbiamo rivisitato nella nostra ottica... spero che vi risulterà interessante!
Come al solito, dedico il capitolo a vitadiunalettrica, la mia fantastica beta ritardataria!




 
Capitolo III




Faceva caldo. Faceva dannatamente caldo. Combattevo da ore, senza sosta. Avrei potuto smettere quando volevo: i miei soldati mi avrebbero coperto volentieri e io sarei potuto fuggire all’interno delle mura di Ilio, ma non me lo sarei mai perdonato. Ero stato educato in questo modo: prima la patria, poi la famiglia e con essa l’onore e la gloria; solo da ultimi i sentimenti, considerati quasi una vergogna. E poi, combattere era l’unico modo per non pensare.
Durante la notte non ero riuscito a chiudere occhio: avevo pensato a quella strana conversazione avuta con Achille, in riva al mare. Era stato strano vederlo in quelle vesti semplici, eppure l’avevo riconosciuto immediatamente: avevo passato dieci anni a osservarlo, a cercare punti deboli senza trovarli. Quella sera, però, mi era sembrato stranamente fragile: in quei pochi istanti in cui i nostri sguardi si erano incrociati, avevo letto nei suoi occhi una strana insicurezza, che non riuscivo ad associare alla figura statuaria del guerriero Acheo forte e risoluto.
Guardando gli occhi celesti di Achille mi ero reso conto di assomigliargli: non eravamo forse entrambi due comandanti? Non eravamo entrambi terrorizzati dall’idea di deludere chi aveva riposto la propria fiducia e la propria vita nelle nostre mani, ormai troppo avvezze a uccidere? Forse avremmo dovuto porre fine a quella guerra inutile che andava avanti da troppo tempo.
Ma non c’era spazio per quei pensieri, non mentre stavo lottando per la mia vita e per quella dei miei compagni nella piana troiana. Gli Achei sembravano instancabili, e sotto questo sole cocente mi era sempre più difficile continuare a combattere. Ad un certo punto, mi si parò di fronte un uomo: aveva un’armatura semplice, non capivo per quale motivo volesse rischiare la sua vita contro di me, il capo dei Troiani. Non aveva speranza. Iniziai a lottare contro di lui più furioso di prima, e mi accorsi che era un combattente formidabile: riusciva a rispondere a tutti i miei colpi, non avevo mai visto nessuno combattere in quel modo, anzi, forse solo uno.
Che fosse…? No, non può essere. Si è ritirato dai combattimenti.
Scacciai quei pensieri e mi concentrai sul duello. Dopo alcuni attimi, il mio avversario ebbe qualche istante di tentennamento: abbastanza perché io riuscissi a sbilanciarlo indietro e farlo cadere per terra, ma quello mi afferrò per il braccio e mi trascinò con lui. Riuscii a scorgere i suoi occhi da vicino, e i miei dubbi trovarono conferma in quelle iridi azzurro violacee che tanto mi avevano affascinato la sera prima.
Per qualche secondo rimasi immobile, nel pulviscolo, a guardare i suoi occhi, quasi potessi vedervi scritte le risposte alle domande che affollavano la mia mente. Poi mi riscossi e mi sollevai da terra, la spada stretta saldamente in pugno. Cercai di mascherare la mia confusione, erigendo un muro di impassibilità e indifferenza che sapevo non avrebbe retto ancora a lungo. Eppure, pur sapendo che ciò avrebbe minato il mio autocontrollo, non riuscii a impedire al mio sguardo di scorrere ancora una volta sul viso di Achille, anche se in gran parte coperto dall’elmo. La luce abbagliante del sole lo colpiva in pieno, mettendo in risalto il colore dei suoi occhi, irriproducibile perfino per il miglior pittore al mondo, forse la sola Atena sarebbe stata in grado di ricrearlo in una delle sue tele. Erano turchini, ma il loro colore mi ricordava più quello del cielo alle prime luci dell’alba, quando le nubi si striano di viola scuro, quasi blu.
Mi ridestai dai miei pensieri e mi voltai: se non fossi fuggito al più presto dal campo di battaglia probabilmente mi sarei lasciato uccidere in pochi minuti. Avvicinai uno dei miei generali e gli mormorai all’orecchio di coprirmi mentre tornavo in città. Fortunatamente non fece domande, e gliene fui grato.
Entrai in città quasi di soppiatto, cercando di lasciarmi alle spalle la confusione e il rumore della battaglia. Il silenzio che vi trovai mi fece scendere un peso sullo stomaco: le strade erano deserte, l’aria resa irrespirabile dall’afa era immobile, stagnante. Le porte delle case erano chiuse, e non si sentiva neanche un rumore provenire dal loro interno. Anche se erano ormai dieci anni che quello scenario si ripeteva, non riuscivo in alcun modo ad abituarmi alla sua vista: mi provocava sempre un’angoscia indicibile, impossibile da descrivere a parole. Ero cresciuto in quella città, avevo visto i suoi anni più belli, le fiere, i mercati, e ogni volta che vedevo la desolazione in cui versava, una parte del mio cuore si staccava irrimediabilmente, come se la vecchia Troia fosse ogni giorno più lontana. Non credevo l’avrei mai rivista come un tempo.
Camminai per le stradine deserte, finché giunsi alla parte alta della città, dov’era situato il palazzo di mio padre Priamo. Mi feci aprire le porte di legno massiccio ed entrai: a fare da guardia c’erano due soldati in armatura semplice sui diciassette, massimo diciotto anni. Quando mi videro varcare la soglia del palazzo mi rivolsero degli sguardi interrogativi, ma io li liquidai con un gesto del capo, cercando di non pensare che con la mia azione avventata avevo messo in pericolo anche loro, appena giovani uomini che non avevano mai visto Troia brillare del suo antico splendore.
Percorsi i corridoi senza una meta ben precisa, lasciandomi guidare dall’istinto: conoscevo ogni pietra, asse o nicchia di quel luogo, come se dopo tutti quegli anni che vi avevo passato fossero diventati una parte di me. Dopo un lasso di tempo indefinito mi ritrovai nelle mie stanze: non sapevo bene come ci fossi arrivato, mi ero lasciato condurre dalle mie gambe.
Sorrisi: il solo fatto di trovarmi tra quelle mura mi faceva sentire protetto. Era arredata con pochi mobili: il letto matrimoniale in fondo, appoggiato contro la parete; un armadio di legno scuro a sinistra, e a destra il porta armatura, a ricordarmi i miei doveri; una grande cassapanca di vimini di fianco all’armadio, in cui erano contenuti oggetti dei quali probabilmente non conservavo più memoria.
Andai verso il letto e mi sedetti sul bordo, i gomiti appoggiati alle ginocchia, la testa lievemente abbassata, e ripensai a ciò che era accaduto poco prima.
Ti sei ritirato dalla battaglia, sei un vigliacco, un ingrato. Non sei riuscito a difendere la tua patria, sei veramente inutile. La voce della mia coscienza, spaventosamente simile a quella di mio padre, mi fece accapponare la pelle. Ero stato un codardo, un egoista: avevo anteposto ai miei doveri i miei sentimenti, le mie insicurezze; avevo tradito la fiducia della mia gente.
Eppure, anche se il senso di colpa rischiava di schiacciarmi sotto il suo peso, non potevo fare a meno di pensare a quegli occhi pieni di disperazione che avevo visto sul campo di battaglia: mi avevano spaventato, perché in quegli occhi avevo visto me stesso, il me stesso che ora si era lasciato scivolare contro una parete e si era afferrato i capelli tra le mani, coprendosi le orecchie e facendo finta di poter escludere in quel modo tutto ciò che lo circondava.
Restai nelle mie stanze, in quella posizione, fino a quando il cielo divenne scuro e comparvero la luna e le stelle, luminose quasi quanto la sera prima.
Smettila di pensarci, sta diventando la tua ossessione, ti distrae dai tuoi doveri. Ancora quella voce nella mia testa, l’eco di quelle parole non ancora spenta dentro di me. Mi sentii sprofondare. Sapevo che quello che stavo provando era dannatamente sbagliato, che sarebbe stato l’inizio della fine, che mi avrebbe portato alla rovina, ma anche quando mi coricai per riposarmi, non riuscii a fare a meno di continuare a pensare a quegli spicchi di cielo che mi stavano trascinando nel baratro.
Che cosa mi sta succedendo?




Dunque: anche in questo capitolo, è necessario un chiarimento. Io vi giuro che ho passato dei pomeriggi a cercare un'immagine per gli occhi di Achille, ma non l'ho trovata! La più somigliante che sono riuscita a trovare è stata questa, ma voi immaginateli più sul viola:


Va be', ora me ne vado... ci vediamo al quarto capitolo!

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


PICCOLA PREMESSA: Dunque. Siamo al quarto capitolo, e le cose iniziano a scaldarsi. Non troppo, eh, che sti due sono lenti di comprendonio. Come al solito, dedico il capitolo a vitadiunalettrice e... a qualcun altro, che dovrà capire da solo (o da sola... chi lo sa?) il perché di questa dedica. Va be'... vi lascio al capitolo, che la storia parli da sola!

 

Capitolo IV




Ogni mio tentativo di dormire fallì miseramente. Ripensavo continuamente alla vergogna che provavo per le mie azioni, per ciò che sentivo, per ciò che volevo. Mi persi a osservare la tenda di lino, che si muoveva a causa del vento lieve di quella sera, lasciando intravedere dietro di sé la città di Troia e, poco lontano, il mare.
Già, il mare.
Quel mare che mi aveva sempre tranquillizzato, che riusciva sempre a cancellare l’inquietudine dal mio cuore. Perché in fondo io ero un debole, e cercavo di nascondere questa debolezza dietro il mio sorriso sarcastico, che mi dava l’impressione di aver scacciato tutte le insicurezze, tutti i dubbi. O che per lo meno la dava agli altri. L’unico con cui riuscivo a essere sincero era il mare, quel mare che era stato spettatore dei miei sfoghi, che aveva visto le lacrime che avevo sempre celato a tutti: un principe non deve piangere, deve essere forte, e io lo sarei stato per la mia gente.
Mi alzai dal letto cercando di non fare rumore per non svegliare Andromaca, placidamente addormentata al mio fianco. Stai tradendo anche la sua fiducia.
Uscii dalle mie stanze e percorsi corridoi, scale, e senza neanche accorgermene mi ritrovai a correre per i vicoli della città, e poi fuori, sulla piana, quasi come se stessi scappando.
Da cosa scappi, Ettore? Di cosa hai paura?
Vorrei saperlo anche io.
Quando finalmente giunsi in riva al mare, fu come se mi fossi liberato di un peso: ogni preoccupazione svanì, di fronte alla meraviglia che provavo ogni volta vedendo quell’immensa distesa blu. Un senso di liberazione così forte da farmi sembrare che tutto potesse andare nel verso giusto, che ogni cosa si sarebbe risolta da sola, senza che io mi dovessi mostrare più sicuro di quanto non fossi; un sorriso sincero si dipinse sul mio viso.
Mi guardai attorno, e ciò che vidi mi fece avere un tuffo al cuore: a pochissima distanza dall’acqua, accovacciato su se stesso, le gambe raccolte al petto e i capelli sciolti sulle spalle, c’era Achille. Il suo sguardo era puntato verso l’orizzonte, come se stesse aspettando un aiuto che però, a quanto pareva, stava tardando ad arrivare. Lo osservai per qualche istante, poi lui si voltò verso di me, e quello che vidi nei suoi occhi mi sconcertò: indecisione, confusione, paura. La stessa che provavo io, che avevo sempre provato: la paura di non sapere cosa fare, di non essere in grado di capire quale fosse la cosa giusta.
Avanzai verso di lui, guidato da qualcosa che neanche io comprendevo pienamente. Era come se lui fosse una calamita, e io un pezzo di ferro che non poteva fare altro che esserne attirato, senza poter opporre alcuna resistenza.
E io non volevo oppormi, ero stanco di combattere contro ciò che si muoveva all’interno del mio animo. Almeno per una volta nella mia vita volevo farmi guidare dalle sensazioni, senza badare alla ragione.
Lo raggiunsi e mi sedetti di fianco a lui, che cercò inutilmente di dissimulare un sorriso beffardo, riprendendo a guardare il mare dinnanzi a lui.
- Di nuovo qui, principe troiano? – sussurrò.
- Come te, d’altra parte. – Cominciai a giocherellare con la sabbia, prendendone qualche manciata e lasciandola cadere di nuovo.
- Mio malgrado, devo darti ragione. Qual buon vento ti porta qui? – mi domandò, una nota quasi di sarcasmo nella voce.
- Me l’hai domandato anche l’altra notte. Cosa ti fa pensare che ora ti risponderò? – Non sapevo perché, ma avevo paura della risposta.
- Io non lo penso, io lo so. – Si voltò nuovamente, e quando i suoi occhi violacei incontrarono  miei, seppi che aveva ragione.
Sospirai. – In realtà, è colpa tua.
Mi guardò stupito. – Colpa mia? E sentiamo, cos’avrei fatto?
Deglutii, e sfoggiai il migliore dei miei sorrisi ironici, quelli che indossavo quando arrivava l’ora di nascondere le mie emozioni. Bravo, Ettore, continua a fingere. Hai visto dove ti hanno portato le tue menzogne? Sei sicuro di star facendo la cosa giusta?
- Penso che ti faresti beffe di me se te lo dicessi.
Lui sollevò un sopracciglio. – Stupiscimi.
Lo guardai intensamente per qualche secondo, e lui resse il mio sguardo, anche se vidi una punta di indecisione nei suoi occhi. – Non riesco a fare a meno di pensare… - ai tuoi occhi – a una cosa… e in genere venire in riva al mare mi aiuta a schiarire le idee.
- E… se posso chiedere…
- Non puoi. – Non gli lasciai il tempo di continuare, sapevo che altrimenti sarei stato costretto a dirgli la verità, e non potevo espormi così tanto.
Il silenzio calò su di noi e ricoprì ogni cosa. Fu lui a spezzarlo. – Perché mi hai lasciato andare? Avresti potuto uccidermi, non sarei riuscito a difendermi, eppure hai permesso che scappassi. Perché?
Mi irrigidii all’istante, smettendo di giocare con la sabbia e guardandomi le ginocchia, senza sapere cosa fare. Cosa potevo rispondergli? Che non riuscivo più a vederlo come un nemico dalla scorsa notte? Che avevo visto me stesso in lui, quel giorno, sotto il sole cocente?
- Non lo so.
Achille mi afferrò per il braccio, facendomi voltare di scatto la testa. – Guardami in faccia, Ettore, e dimmi perché mi hai lasciato andare. – La sua voce era dura, il suo sguardo gelido. Ero stupito da quel gesto, tanto che restai immobile, senza sapere come reagire. Non riuscivo a parlare, come se la voce mi fosse rimasta bloccata in gola. – Riesco a capire quando una persona mi mente, e tu lo stai facendo in questo momento. Parla! – La voce gli si incrinò leggermente, lasciando trapelare un poco della sua insicurezza. Non sarebbe riuscito a nasconderla a lungo. Lo sapevo, perché l’avevo provato sulla mia pelle più volte.
- Io parlerò, ma tu smettila di fingere di essere più forte di quanto tu non sia. Lo so che è tutta una farsa, lo vedo dai tuoi occhi. Vuoi far credere di poter sopportare tutto, e forse con gli altri funziona, ma non con me. Anch’io capisco quando qualcuno mi mente, Achille, e ci riesco perché io stesso mento sempre. Sono un bugiardo, e forse faresti meglio a ricordartelo. – Lo guardai stanco, e mi stupii quando non ritrasse la mano dal mio polso, ancora inchiodato sulla sabbia. Mi guardò deglutendo, forse stupito dalle mie parole dure, forse… affascinato. Sì, leggevo anche questo nelle sue iridi: ammirazione. Sorrisi beffardo, ma Achille non tentennò, e sostenne il mio sguardo. Poi, la maschera d’impassibilità che aveva costruito cominciò a sbriciolarsi: vidi aprirsi ogni singola crepa, come se un potente terremoto lo stesse scuotendo alle fondamenta. Vidi la sua indifferenza cedere finalmente il passo alla confusione, e fu a quel punto che mollò la presa sul mio braccio, portando le mani alla testa, quasi come se in questo modo potesse estraniarsi da ciò che stava succedendo a entrambi.
- Non… non capisco più niente – cominciò a bassa voce, quasi sussurrando tra i denti. – Non capisco perché oggi sono tornato a combattere… - alzò la voce - Non capisco perché sono venuto qui stanotte sapendo che saresti venuto… - ancora - Non capisco perché non riesco più a vederti come un vero nemico… - e ancora – Non capisco perché questo – Si voltò di scatto, riafferrando il mio braccio, questa volta con più forza, e avvicinandosi pericolosamente al mio viso. Mi accorsi che tremava. – mi faccia stare bene. Ho solo bisogno di risposte, chiedo troppo forse?
Avevamo i respiri accelerati, i visi troppo vicini. Stava per succedere qualcosa dal quale non ci saremmo potuti tirare indietro, e avevo paura. Paura di ciò che vedevo negli occhi di Achille, paura di ciò che stava ruggendo dentro di me. Desiderio. Di quegli occhi, di quel corpo, di quelle labbra.
Spalancai gli occhi, terrorizzato. Non doveva succedere, era tutto sbagliato, io ero sbagliato. Mi ero illuso di essere pronto a seguire il mio cuore, ma mi sbagliavo. Mi alzai di scatto, senza dargli il tempo di capire cosa stesse succedendo, e corsi via. Via da quella spiaggia, da lui, dai miei sentimenti, da quello che provavo.
Attraversai incespicando tutta la piana, e mi accorsi che era la seconda volta in quella sera. In fondo, stavo facendo quello che mi riusciva meglio: scappare.
Continuai a correre a perdifiato, e mentre i miei piedi percuotevano il terreno sotto di me, sentii una lacrima solitaria scendere sul mio viso.
Io lo amo.
Ma quella notte, il mare non sarebbe stato testimone del mio pianto.




In questo capitolo non c'è bisogno di chiarimenti riguardo ai colori, se non mi sbaglio. Dunque, sarà meglio che mi tolga dalle scatole... ci vediamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


PICCOLA PREMESSA: Dunque, inizio scusandomi per il ritardo con cui è arrivato questo capitolo, ma mi farò perdonare: questo è più lungo degli altri. Qui le acque cominciano a scaldarsi... vi avviso, è un capitolo un po' incasinato. Ci sono due cambi di punti di vista (ergo tre punti di vista in tutto), sta a voi capire chi sono. L'ultimo è un personaggio che abbiamo già incontrato, ma di cui non ho mai sfruttato il punto di vista... credo che lo riconoscerete subito. Come al solito, dedico il capitolo alla mia beta vitadiunalettrice e vi lascio al capitolo... ci vediamo alla fine per le ultime cose.


 
Capitolo V

 


Se n’era andato. Se n’era andato lasciandomi sulla spiaggia, da solo con le mie paure, i miei dubbi, la mia confusione, ma se credeva che l’avrei lasciato fuggire così, si sbagliava. Volevo - pretendevo - delle risposte, e non gli avrei permesso di scappare ancora, come aveva fatto quella mattina, tornando in città non appena aveva capito chi ero. Mi alzai rapidamente e iniziai a rincorrerlo come se ne andasse della mia stessa vita, e forse era davvero così.
Guadagnavo terreno ogni secondo, ormai l’avevo quasi raggiunto. - Ettore! Fermati, Ettore! – urlai. Anche se ci avessero sentiti, non me ne sarebbe importato. L’unica cosa che contava, in quel momento, era capire. Sentendo la mia voce, Ettore rallentò e, dopo pochi istanti, si fermò. Io rimasi alle sue spalle, come in attesa che fosse lui a fare qualcosa, a voltarsi, a parlare. Avevamo entrambi il fiatone per la corsa, riuscivo a percepire il movimento irregolare del suo petto mentre cercava di riprendere a respirare normalmente. Restammo in quella posizione per un tempo che mi sembrò infinito, poi Ettore si girò verso di me, e le vidi. Calde lacrime solcavano il suo viso, ma lui sembrava non curarsene, come fossero di poco conto.
Mi avvicinai a lui, lanciandogli uno sguardo interrogativo. Faceva male guardare i suoi occhi, così pieni di disperazione, di un dolore così grande da non poter essere descritto a parole. – Perché piangi? – gli chiesi. Non sapevo perché, ma quando avevo visto il suo viso attraversato dalle lacrime, avevo sentito qualcosa dentro di me spezzarsi.
- P-perché… io, io non posso… non devo… - La voce gli uscì rotta, mentre le lacrime cominciavano a sgorgare più copiose di prima. Stava tremando, ma si impose comunque di calmarsi e di parlare. Quante volte hai dovuto nascondere i tuoi tormenti? – Ti… ti devo delle risposte. Oggi… stamattina… ti ho lasciato andare perché… anche se dovrei odiarti, dovrei essere il tuo acerrimo nemico… io… io non ci riesco, io non voglio che tu muoia. In fondo… quanto siamo diversi io e te? Anche tu ci hai pensato, lo so… e… io non riuscirei mai a ucciderti… non più.
Mentre parlava, la voce un po’ incerta che però riacquistava rapidamente il suo vigore mano, continuò a guardarmi. Più volte fui tentato di distogliere lo sguardo da quegli occhi, così pieni di dolore, di vergogna per ciò che stava dicendo, ma mi convinsi a non farlo. Non sarei stato così codardo da fuggire ancora da quei sentimenti che si dibattevano dentro di me per uscire dalla prigione in cui avevo tentato di relegarli, gli stessi sentimenti di Ettore. Quella sensazione di proibito, di sbagliato, continuava a gravare sui nostri cuori come un pesante mantello, come un cappio stretto intorno alle nostre gole, ma a me non importava.
Fu forse quando mi disse quelle parole, o quando continuammo ad avvicinarci quasi inconsciamente fino a sfiorarci, che compresi cosa avevo cercato di reprimere, non conoscendone la natura. Quella sensazione che provavo mano a mano che la distanza tra i nostri visi diminuiva inesorabilmente, o poco prima, sulla spiaggia, quando avevo afferrato il suo braccio e il solo contatto con la sua pelle mi aveva fatto accelerare il battito cardiaco. Era come la scorsa notte: caldo e freddo allo stesso tempo. Un connubio micidiale nelle nostre mani abituate a distruggere più che a costruire, a obbedire alla furia omicida di un duello più che alla calma dettata da un sentimento più profondo, più nobile dell’onore conquistato sul campo di battaglia al prezzo di litri e litri di sangue.
Mani che ora si stavano intrecciando, mani assassine che volevano provare ad amare. Fu un attimo, un secondo di troppo in cui scorgemmo negli occhi dell’altro gli stessi sentimenti, così sbagliati ma allo stesso tempo così forti da non poter essere altro che giusti: le nostre labbra si cercarono come due gemelle che finalmente si incontrano dopo anni di separazione, le mie dita corsero tra i suoi capelli, li accarezzarono, li strattonarono per portarlo ancora più vicino.
Ci staccammo a malincuore, entrambi con il respiro affannato. Ettore mi accarezzò la guancia. – Ci vedranno, siamo in mezzo alla pianura, chiunque potrebbe arrivare…
- Non mi importa. – Mi rigettai sulle sue labbra come se dovesse essere l’ultima volta, ed Ettore non oppose resistenza, nonostante l’insicurezza mostrata poco prima, ma anzi rispose con ardore, passandomi le braccia attorno alla vita. E tra quelle braccia forti, premuto contro il suo petto, mi sentii finalmente a casa, al sicuro. Erano mesi, anni, che non sentivo quella meravigliosa sensazione di calore e di felicità, e a quel pensiero sorrisi sulle sue labbra, staccandomi nuovamente e guardandolo in viso. Nei suoi occhi vidi le stesse sensazioni che stavo provando in quei secondi, che a me sembrarono eterni e allo stesso tempo fin troppo brevi, e seppi che quella notte non c’era giusto, non c’era sbagliato: c’erano soltanto Ettore e Achille. Un Troiano e un Acheo. Due nemici, era vero, ma anche due amanti; avevamo compreso ciò che si agitava dentro di noi, in quella lunga notte, sotto una luna circondata di stelle. Sembravano quasi volerci indicare la via, pensai.

 
***

Guardai Achille come se non ci fosse nulla di più importante al mondo, e gli sorrisi. In quel momento, sentii che non mi importava se qualcuno ci avesse visti. Che guardassero pure, e se avessero anche solo provato a impedirci di amarci, li avrei uccisi tutti. Achei o Troiani che fossero. Ma quei pensieri non tardarono a essere sostituiti da altri: non appena distolsi per qualche secondo lo sguardo dal viso di Achille, vidi in lontananza una figura immobile, come pietrificata. La riconobbi subito: era un guerriero Acheo che molto spesso avevo visto combattere a fianco di Achille. Si battevano schiena contro schiena, in perfetta sincronia, si proteggevano l’un l’altro in ogni battaglia. In quegli anni ero anche giunto a supporre che esistesse un legame ben più profondo dell’amicizia tra i due, un qualcosa che superava addirittura la filìa. Il mio cuore perse un battito: il solo pensiero di Achille insieme a qualcun altro mi fece rabbrividire, e sentii uno strano sentimento salirmi dal profondo del cuore: sì, era gelosia. In quel momento, però, mi sfuggiva il suo nome. Subito tornai a rivolgere la mia attenzione ad Achille, che mi stava lanciando uno sguardo interrogativo, come a domandarmi cosa ci fosse che non andava. Io non gli risposi, anzi lo baciai nuovamente e lui rispose con passione. Certo, l’avevo fatto perché per me, ormai, quelle labbra erano diventate indispensabili alla sopravvivenza al pari dell’aria, ma anche per un altro motivo: non volevo che si voltasse, non volevo che anche lui scorgesse quell’uomo poco lontano da noi. Temevo che, se l’avesse fatto, sarebbe corso da lui, lasciandomi solo.
Di nuovo.
Mi sentivo un po’ meschino, ma mentre le nostre labbra cozzavano tra di loro, un pensiero si fece largo prepotentemente nella mia testa. Forza, guardaci. Soffri vedendomi con lui, vero? Bene. Non mi interessa di te, non mi interessa se cercherai di portarmelo via. Lui è mio.
Mio.
Mio.
Questa parola rimbombò nella mia mente a lungo, in modo quasi ossessivo, come un’eco che fa fatica a placarsi. Poi un’idea, forse un po’ malsana, folle, mi balenò nella testa.
Interruppi il contatto tra le nostre bocche e gli sussurrai: - Devo andare, o si accorgeranno della mia assenza. Sono l’unico vero comandante che hanno, – ridacchiai – mi tengono quasi sotto sorveglianza.
Lui mi guardò facendo una smorfia di disappunto; sorrisi a quella vista. Possibile che in quel poco tempo il mio cuore si fosse già così tanto indebolito? Possibile che, in due soli giorni, Achille avesse infranto quasi senza sforzo i muri che avevo eretto in tutti quegli anni di bugie? La risposta era scritta a chiare lettere sul mio volto disteso.
- Mm… hai ragione.
Prima di voltarmi, gli lasciai un ultimo bacio a fior di labbra.
Sei un bugiardo.
Direi questa e mille altre bugie ancora, se dovessero servire a tenerlo con me.

 
***
E Seléne tòv erastòn filè estin, kai mónoi eròntes polemìa. (*)
 
No. Non ci credo, non è possibile. Queste frasi rimbalzarono nella mia mente. Cercavo di convincermi che quello che stavo vedendo fosse solo un’illusione, un’immagine prodotta dalla mia fantasia.
Quella notte avevo intenzione di seguire Achille, per capire cosa lo turbasse. Erano giorni che era come… distante da me: sembrava che un muro ci separasse, soprattutto dopo la notte precedente. Quando la mattina non l’avevo visto al mio fianco avevo fatto finta di niente, avevo tentato di persuadermi che fosse normale.
Anche se non era mai successo che Achille non restasse con me tutta la notte.
Avevo provato a fare finta di niente anche quando, cercandolo tutto il giorno per il campo Acheo, non ero riuscito a trovarlo. Ma quella sera, quando l’avevo visto incamminarsi verso la spiaggia, non avevo resistito all’impulso di seguirlo. Non capivo perché non mi avesse detto nulla, né quella notte né quella prima: non vi erano mai stati segreti tra di noi. E forse per il timore di ciò che mi stava nascondendo, lo seguii di nascosto, senza farmi vedere. Quando lo vidi sedersi in riva al mare, mi venne la tentazione di andare da lui e di chiedergli cosa ci fosse che non andava. Poi, un attimo prima che potessi avvicinarmi, vidi una figura sedersi accanto a lui. Non riuscivo a capire chi fosse: era buio, e la luce fioca della luna piena non era bastata a rivelarmi l’identità del suo interlocutore. Avevo atteso che se ne andasse, per poi chiedere spiegazioni ad Achille, ma l’uomo di fianco a lui a un certo punto si mise a correre, venendo prontamente inseguito. Io andai dietro di loro, sempre più confuso, poi lo sentii.
Quel nome.
- Ettore!
Non ricordavo cosa avesse urlato dopo: era bastata quell’unica parola per farmi perdere l’uso della razionalità. Non seppi grazie a quale miracolo riuscii a continuare a correre: forse la mia curiosità, in quel momento, superava anche la paura di ciò che avrei potuto scoprire se fossi andato avanti.
Li vidi avvicinarsi sempre di più, finché i loro visi si toccarono. Mi irrigidii di colpo. Non riuscivo a credere a ciò che stavo vedendo. Eppure, mano a mano che i secondi passavano, i miei dubbi si dissipavano, perdevano consistenza di fronte a ciò che si trovava davanti ai miei occhi, a pochi passi. Senza neanche rendermene conto, delle lacrime cominciarono a scendere sul mio volto. Mi sentivo impotente, usato… tradito. Ed ecco, dopo la disperazione, giungere la rabbia e il risentimento.
Ma chi vuoi prendere in giro? Non riuscirai mai a odiarlo, e lo sai.
Sì, lo sapevo. Amavo troppo e da troppo tempo Achille perché qualcosa potesse scacciare dalla mia mente quel sentimento così profondo, neanche un tradimento così palese.
Dopo alcuni minuti, li vidi allontanarsi l’uno dall’altro: Achille si diresse verso l’accampamento, mentre Ettore sembrava voler tornare in città, ma dopo essersi accertato che Achille fosse abbastanza lontano, cambiò direzione.
Sembrava che volesse seguirlo, ma poi deviò; solo in un secondo momento capii dove stava andando. Stava venendo verso di me. Non sapevo nemmeno cosa provare di fronte a lui: l’avevo appena visto baciarsi con Achille, con il mio Achille. Ormai, anche la rabbia era scomparsa, sostituita da un profondo disgusto verso me stesso: ero talmente schiavo dei sentimenti che provavo, che non ero neanche capace di gestirli.
Quando giunse di fronte a me, ci guardammo per un lungo istante, che mi sembrò infinito. Fu lui il primo a parlare – io non ci sarei mai riuscito, schiacciato dalla repulsione verso me stesso.
- Ci hai visti, non è così? – Più che una domanda, fu una frase sussurrata, che riuscii a cogliere solo grazie alla vicinanza. Annuii debolmente.
- Bene. Allora lascia che ti dica una cosa, – E in che modo potrei riuscire a impedirti di parlarmi? A stento riesco a frenare l’istinto di crollare, se c’è qualcuno che non devi temere, quello sono io. – te lo ripeterò solo una volta: stai. Lontano. Da. Lui. Mi hai capito?
Quella fu veramente la goccia che fece traboccare il vaso. Finalmente, in un modo che trovai quasi liberatorio, sentii la rabbia invadermi. Per una delle poche volte nella mia vita, il risentimento dentro di me era tanto forte da possedermi completamente: mi scorreva nel sangue, raggiungeva ogni singolo capillare, ogni organo.
Tuttavia, tentai di mantenere il controllo. – E sentiamo, chi saresti tu per farmi stare “lontano da lui”? – Lo dissi quasi con sarcasmo, la voce venata d’ira.
- Io? Io sarei quello che lo ama.
Non mi aspettavo quella risposta, non credevo che i suoi sentimenti fossero già giunti a questo punto. Quelle parole, però, scatenarono in me una risata che rasentava quasi l’isterico. – Tu? Tu lo ami? Tu non hai vissuto al suo fianco, tu non sai cosa vuol dire amare una persona per tutta la propria vita, dedicare ogni singolo momento a essa. No, Ettore, io non ti permetto di minacciarmi così, non ne hai alcun diritto.
Vidi negli occhi di Ettore che le mie parole avevano sortito il loro effetto: stava soffrendo, e io ne ero felice. Un senso di profonda soddisfazione mi pervase, ma dopo pochi istanti il suo sguardo tornò colmo di determinazione.
- Non mi interessa dei diritti di cui dici di poterti vantare. Io so quello che provo e so quello che prova lui. Quindi, e questa è l’ultima volta che te lo dico, vedi di stare attento a quello che fai.
- Altrimenti che fai? – gli chiesi in uno scatto di rabbia. Stavo iniziando a stancarmi di questo suo atteggiamento così sicuro. Perché tu non sei più sicuro di essere corrisposto.
Ettore mi guardò intensamente, poi scandì le sue parole chiaramente, imprimendovi un’enfasi che mi lasciò a bocca aperta. – Altrimenti ti ammazzo.
Dopo di ciò, si voltò e tornò verso la città a passo lento e cadenzato, quel passo che avevo imparato a riconoscere. Il passo di Ettore lo sterminatore. In quel momento, sotto quel cielo stellato, ebbi paura per la mia vita, perché avevo visto negli occhi di Ettore la determinazione di chi ama con tutte le proprie forze.



 
(*) Per chi non fa greco: La luna è amica degli amanti, e nemica di colore che amano da soli
Ehm... sì... mi piace il greco, tanto tanto tanto! *scappa mentre vitadiunalettrice le lancia dietro il GI e il Rocci contemporaneamente*
Va be', vi lascio... ci vediamo al prossimo capitolo!

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


PICCOLA PREMESSA: Dunque dunque dunque (dds piange)... questo capitolo mi sta molto a cuore. Da qui in poi ci sarà una svolta e, mi dispiace moltissimo dirlo, ma credo che tra tre... quattro capitoli, questa storia giungerà al termine. Ma non disperiamo! Deprimiamoci piuttosto per il capitolo... E' abbastanza incasinato, è tutto un rimbalzare da un punto di vista a un altro, quindi ho messo i nomi a ogni cambio. Volevo come al solito dedicare il capitolo alla mia beta vitadiunalettrice e a un'altra persona che capirà i motivi di questa dedica appena leggerà il capitolo.
Va be'... ciancio alle bande bando alle cance, vi lascio al capitolo!



 
Capitolo VI
 



Patroclo
Era tutto insopportabile, insostenibile… troppo. Stavo per scoppiare.
Appena Ettore se n’era andato, ero tornato nella mia tenda, forse per riflettere, forse per continuare silenziosamente la mia tortura auto-inflitta. Achille non era venuto a cercarmi.
Non dovresti stupirti, lui ora ama Ettore.
Ero davvero patetico: avevo preso a pugni tutto ciò che avevo trovato nella mia tenda fino a farmi sanguinare le nocche, non riuscivo a fermarmi – non volevo fermarmi. Non ero riuscito a smettere nemmeno quando mi ero accorto di essermi fratturato la mano sinistra, o quando calde lacrime avevano iniziato a solcare il mio volto, percorrendomi il pomo d’Adamo, andando a finire sul mio petto e perdendosi sul mio corpo, o bagnando il suolo.
Mi sentivo distrutto. Che cosa mi resta adesso? Che cosa mi rimane? Sono un nulla, a cui non è stato concesso di essere all’altezza del proprio amore, che cosa mi resta?(*) Queste domande continuarono a rimbombare nella mia testa, non c’era modo di scacciarle.
Mi fermai solo quando, troppo lacerato dal mio dolore, rimasi appoggiato con un pugno chiuso a un’anta dell’armadio, la testa china, gli occhi chiusi che non volevano vedere come mi stavo riducendo.
Scivolai per terra, portando la mia schiena contro la superficie legnosa. Mi addormentai così: premuto contro l’anta, le gambe lievemente piegate, le braccia abbandonate lungo i fianchi in una posizione scomposta.
Inaspettatamente, però, la notte mi riportò un po’ del coraggio e dell’orgoglio che avevo perso la sera prima. Mi sentivo sollevato, come se il tempo trascorso, per quanto ridotto, avesse allontanato ciò che avevo visto, rendendo i ricordi più nebulosi, meno reali.
Mi venne un’idea, forse folle, forse inutile. Prima che quello sprazzo di determinazione se ne andasse nuovamente lasciandomi da solo a combattere contro i miei sentimenti, mi recai nella tenda di Achille. Lo trovai che stava suonando la lira: avevo sempre amato ascoltarlo, mi infondeva una calma e una tranquillità che nient’altro era capace di darmi nei momenti di maggiore sconforto. E anche dopo ciò che avevo visto la scorsa notte, il dolce suono delle corde pizzicate mi fece sorridere. Restai a guardarlo per qualche secondo, come se dovesse essere l’ultima volta, e lui non si accorse della mia presenza, troppo concentrato sulla musica.
Quando terminò il brano, aprì gli occhi – li chiudeva sempre quando suonava – e mi vide. Il suo viso si distese in un sorriso tirato, falso, quasi colpevole, e in quel momento mi chiesi come avevo fatto a non accorgermi di come avesse cominciato a nascondersi dietro a una maschera anche con me. Mi fece male rendermene conto, ma feci finta di niente, mentendo. Dopo tutto, avevo imparato dal migliore.
- Cosa ti porta qui, Patroclo? – mi chiese.
La disperazione. – Devo parlarti. Sono settimane che manchi dalle battaglie, gli Achei ne risentono molto, Achille. Tanti dei nostri migliori guerrieri sono morti o giacciono gravemente feriti. Tutto questo non ti tocca minimamente?
Lui mi guardò con fare sconsolato, interrompendomi. – Mi hai già fatto mille volte questo discorso, cosa ti fa pensare che questa volta accetterò di tornare a combattere?
L’hai già fatto. – Aspetta, non voglio chiederti di riprendere gli scontri. Basterebbe che tu mi prestassi le tue armi e che io facessi credere di essere te. I nostri compagni sarebbero rincuorati e combatterebbero più fiduciosi, mentre i nostri nemici sarebbero terrorizzati pensando che tu sia tornato nelle nostre fila.
- No – mi rispose perentorio.
- Perché? – Perché vuoi togliermi la mia unica possibilità di riscatto? Indossare le tue armi sarebbe per me l’unico modo di sentirti ancora vicino…
- Rischieresti la tua vita. Non potrei proteggerti, non mi sento tranquillo a lasciarti combattere da solo – La sua voce era colma d’affetto… per un momento, riacquistai le speranze. Forse non tutto era perduto, non ancora.
Mi avvicinai a lui, ancora seduto con la lira stretta gelosamente tra le braccia, e gli sorrisi. – So badare a me stesso, non c’è bisogno che ti preoccupi per la mia incolumità. Sono cresciuto ormai, e sono stato addestrato dal migliore tra i guerrieri greci, no?
Achille sogghignò compiaciuto: in fondo gli piaceva essere elogiato. – Mm… forse potrei accettare, ma a una condizione.
- Tutto quello che vuoi – Ti darei tutto. L’ho già fatto, quindi che problema c’è?
- Dopo che avrai fatto scappare un po’ di Troiani, fermati e torna indietro. So che sei perfettamente in grado di combattere, ma non voglio mettere a repentaglio inutilmente la tua vita.
Il suo sguardo esprimeva tutta la sua preoccupazione nei miei confronti. Dopo qualche istante si alzò e mi venne incontro, abbracciandomi dolcemente, e io ricambiai la stretta.
- Torna da me, ti prego – mi sussurrò all’orecchio.
Sorrisi. – Va bene, tornerò. – Tornerò per te.
- Me lo prometti? – Rafforzò la stretta attorno alla mia schiena.
- Te lo prometto.
 
***

Achille
La richiesta di Patroclo mi aveva messo in difficoltà: non sapevo perché, ma avevo un cattivo presentimento. Tuttavia, la sua determinazione mi aveva convinto ad accettare, ponendo la condizione che tornasse dopo aver messo in fuga i Troiani.
Anche se riponevo grande fiducia nelle sue doti di guerriero, mi sentivo inquieto, come se un grosso peso gravasse sul mio petto.
Non potevi immaginare che quel peso non fosse sul tuo petto, ma sulla sua testa.
Cercai di scacciare quei pensieri, e imbracciai nuovamente la lira, come sempre facevo nei momenti di maggiore inquietudine. Iniziai a pizzicare le corde con lentezza: una melodia triste, insegnatami quando ero ragazzo, quando ancora vivevo a Ftia.
Era la canzone che Patroclo preferiva tra tutte.
 
***

Ettore
Un’altra giornata di combattimenti, un’altra alba tinta di sangue, un altro sole infuocato, soffocante. Quella sembrava essere una giornata come tutte le altre, una giornata dipinta di rosso da un pittore crudele. Poi, in lontananza, un nostro compagno urlò terrorizzato: - Comandante! Comandante! Achille è tornato in battaglia!
A quelle parole, mi lanciai nella direzione indicata dal soldato. Dovevo essere io il primo a giungere, altrimenti qualcuno avrebbe potuto ucciderlo. Non sapevo ancora come, ma dovevo salvarlo a tutti i costi: non potevo perderlo proprio ora che avevo capito di amarlo. Proseguii, finché non vidi un luccichio più forte degli altri risplendere tra le armature degli Achei: non c’erano dubbi, erano sicuramente le armi di Achille. Sembravano quasi emettere luce propria tanto rilucevano sotto il sole cocente. Combatteva come una furia, non si fermava un secondo, mieteva vittime tutto intorno a sé, quasi fosse animato da un’ira folle.
 
***

Achille
Il ritmo della canzone si fece più rapido, incalzante, come un guerriero che si lancia in battaglia sicuro della vittoria. Le note erano un continuo su e giù, i movimenti della mia mano si facevano sempre più rapidi, fino ad arrivare a un punto di sospensione. Mi fermai, le dita ancora tremanti a una distanza quasi infinitesimale dalle corde.

 
***
 
Ettore
Mi avvicinai sempre di più, quasi spaventato: c’era qualcosa che non andava. Non avevo mai visto Achille combattere in quel modo in quei dieci anni. Non era l’ira a costringerlo alla lotta, mi resi conto: era la disperazione, una disperazione cieca, e io non capivo il motivo di questo cambiamento improvviso. Cos’era mutato in quella notte? Che cosa aveva provocato in lui questa reazione?
Continuai a procedere, finché non gli fui di fronte. Allora capii: quegli occhi, quegli stramaledetti occhi, non erano i suoi. Erano di un azzurro glaciale, colmi di angoscia e allo stesso tempo di un freddezza matematica, calcolatoria, privi di quelle sfumature violacee che avevo imparato a riconoscere.
Ecco qual era il suo nome. Patroclo. Un macchina da guerra.
 
***

Achille
La canzone riprese il suo ritmo iniziale, lento e triste, ma con una sfumatura più angosciosa, quasi consapevole che presto avrebbe riacquistato la velocità di prima. Era uno dei momenti che più amavo: quel modo strascicato di procedere mi lasciava sempre a bocca aperta.

 
***

Ettore
Stava compiendo una strage, dovevo fermarlo: non gli avrei permesso di uccidere i miei uomini lasciandolo impunito. E poi… stava indossando le sue armi. Che diritti vantava su di lui? Come osava fare sfoggio di un oggetto così personale? Come osava fingere di essere Achille?
Sentii la rabbia montare dentro di me, come il cavallone di un onda che si alza imponente, e mi lanciai contro lui, ingaggiando un duello all’ultimo sangue. Mi riconobbe subito, e un sorriso compiaciuto si dipinse sul suo volto: credeva di avere la vittoria in pugno, difeso dalle divine armi di Achille.
Povero illuso.
Lo ferii più volte, la battaglia era equilibrata, ma a un certo punto lui mi colpì con la spada nella zona vicino all’addome, e io persi l’equilibrio, ma non cedetti. Rimasi in piedi, fermo, il busto lievemente piegato in avanti per il dolore, e resistetti.
Improvvisamente, sentii la ferita cicatrizzarsi; strabuzzai gli occhi, ma subito una voce profonda mi parlò. Sembrava provenire da ogni parte, come avesse il dono dell’ubiquità. Non temere, principe Troiano. Febo Apollo è dalla tua parte, l’Acheo non può torcerti un capello.
Guardai per qualche istante Patroclo. E ora come farai a vincere?

 
***

Achille
Di nuovo, la musica cessò. Una pausa più lunga dell’altra, più carica di tensione, quasi di aspettativa. Sfiorai con la punta delle dita alcune corde contemporaneamente, e sentii la tensione fluire nel mio sangue.

 
***

Ettore
Sentii una forza sconosciuta invadermi le membra, come un fuoco che divampa durante un incendio. Imbracciai la lancia con un sorriso soddisfatto dipinto sul volto, e in quel momento seppi che chi l’aveva disegnato era lo stesso artista sanguinario che aveva tracciato con il suo pennello le lunghe giornate colorate di rosso di quegli anni di assedio.
 
***

Achille
Le note incalzavano di nuovo, diventavano rapide, dolorose. La fine della canzone si stava lentamente ma inesorabilmente avvicinando. Pensai a Patroclo, e mi chiesi se stesse già tornando, se fosse riuscito nel suo intento. Poi, inevitabilmente, la mia mente corse a Ettore; sperai che stesse bene, che non fosse ferito gravemente.

 
***

Ettore
Mi avvicinai al mio avversario: il sangue gli colava dalle ferite che gli avevo inferto precedentemente.
- Cosa credevi di fare indossando le sue armi?
Schivò il mio colpo, ma riuscii comunque a ferirlo di striscio
- Ti avevo avvertito di stare attento a ciò che facevi la scorsa notte – sibilai, pieno di un risentimento che non avevo mai provato in vita mia. Forse non mi udì, ma non mi interessava: l’unica cosa importante era vedere il terrore cieco nei suoi occhi.
- TI AVEVO AVVERTITO! – Questa volta urlai, e mentre stringevo saldamente nella mia mano la lancia ero quasi in grado di vedere Atropo, l’ultima Moira, “l’inflessibile”, avvicinare le lame al filo della vita di Patroclo.
- E adesso, muori. – Affondai la punta della mia arma nel suo fianco, dove l’armatura lasciava scoperta la pelle. Cadde come un albero reciso alla base, troppo debole per reggersi da solo, colpito troppo in profondità per sopravvivere. Il sangue iniziò a sgorgare copioso dalla ferita mortale che gli avevo inferto, zampillava dalla sua bocca. Prima che la sua anima raggiungesse il regno di Ade, un ultimo sussurro lasciò le sue labbra screpolate. – Non sai a cosa vai incontro.
 
***

Achille
Con gli ultimi accordi, la canzone terminò, ma io esitai, come ogni volta, a lasciare la lira. La tenni tra le mani ancora per qualche secondo, cara compagna di giornate trascorse in solitudine tra le mura del palazzo di Ftia, poi la appoggiai sullo sgabello su cui mi ero seduto e mi avviai fuori dalla mia tenda.
C’era uno strano trambusto, gente che piangeva, che si strappava i capelli. Mi avvicinai correndo, e quello che vidi mi fece crollare in ginocchio.
Una sola domanda aveva trovato un varco nella mia mente colma di cieco dolore. Chi?
 
***
 
Ettore
Quando Patroclo morì il sole era alto, ma io sentii ugualmente un brivido correre lungo la mia schiena. Rimasi a lungo lì, immobile, anche quando portarono via il suo corpo esanime.
Aveva ancora gli occhi aperti.

 
 
 
 
 
(*) citazione tratta dall’episodio 67 di Saint Seiya “Battaglia senza vincitori”. Eh… niente, io ho una malattia per quell’episodio (e per quella canzone! Dai, sfido chiunque a non amare “Sorrow”, è meravigliosa), non potevo non trovare un buco per queste frasi. Anzi, sapete cosa faccio ora? Vi metto il link di questa canzone, perché io la amo e la amate anche voi. Io lo so. https://www.youtube.com/watch?v=43uPlJ4gVec

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