Un cadere sul proprio letto.

di FightClub
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Arrancando. ***
Capitolo 2: *** Rumore ***



Capitolo 1
*** Arrancando. ***


Arrancando, ci si rende conto, quanto il camminare, perfettamente dritti ed in piedi sia utile e gratificante. Ci si rende soprattutto conto che le strade di qualsiasi città, anche le più pulite, sono tappezzate di uno strato non troppo spesso di gas e smog insopportabili da respirare. Non tanto perché nocivi, quanto perché nauseabondi. Per non parlare del fatto che, girare per la città, di notte, senza un cane per strada, e con due ferite aperte che buttano sangue, non aiutano di certo a non infettare la salute già precaria. E la cosa divertente. Era che non aveva idea di come fosse arrivato a quel punto. Perché ricordava a mala pena di essere tornato a casa.
“Casa”.
Diciamo che era tornato nella piccola casetta affittata a primo piano di una palazzina di Central City. E si era reso conto di essere tanto stanco e infastidito dalla giornata nuovamente persa, che aveva del tutto smarrito il senno. Perché non era tanto il “cosa” fare. Era quel groppo in gola che rimaneva, ogni giorno, quando tornando a casa, vedeva Al, sorridente e felice, nel suo nuovo corpo tutto nuovo e brillante. Lo aiutava. Gli ricordava ogni stramaledetto giorno che andando in biblioteca, trovava interessanti notizie. Che ci erano vicini. Che non doveva preoccuparsi, perché, sarebbe anche arrivato il suo turno. Perché tutti prima o poi, nella vita, vengono ripagati del dolore subito.

E più, giorno dopo giorno, lo ripeteva, più la voglia di sparire, di picchiare selvaggiamente qualcosa o qualcuno, lo assaliva ogni notte. Nei sogni, si lasciava andare allo spirito animalesco che lo attanagliava. Sognando di uccidere, di ammazzare, di squartare, chiunque si facesse vivo. Non avrebbe mai ammesso, che una volta, anche se una soltanto, la vittima di tanta crudeltà, era stato proprio il fratellino. Sorrideva. E nel sogno, continuava a sorridere pure mentre veniva ucciso a suon di pugni. Ma solo pugni. Per bearsi di sentire le ossa della mano ancora di carne, rompersi insieme alla mandibola degli assassinati. E la mattina, quanto meno, il risveglio era piacevole. Si sentiva beato dell’avere avuto l’onore di spaccare la faccia ad un paio di persone.
Era proprio quello stramaledetto ritorno a casa che non gli calava giù. Per carità, oltre al nervosismo, il cuore era anche ricolmo di gioia nel riavere accanto il fratellino tornato normale. Il risentire il calore vicino di lui. La voce non più metallica ma normale. E pure se era decisamente più alto di lui. Non gli importava. Erano quei due arti da bambola che lo riempivano di rabbia. Ogni giorno. Ogni volta che studiando, facendo prove ed esperimenti, credeva di avere trovato una soluzione, e invece faceva un passetto indietro. Era la rabbia, nel non provare dolore, se per sbaglio toccava una pentola bollente. O qualcuno gli pestava accidentalmente il piede. Era quel non sentire nulla che lo stava facendo uscire fuori di testa. E la goccia che fece traboccare il vaso, fu proprio quando, al ritorno da un'altra giornata passata al quartier generale, a studiare, entrando in casa si indirizzò alla propria stanza. Inciampò, involontariamente, in una scarpa lasciata per terra e nel tentativo di recuperare l’equilibrio, si aggrappò alla libreria davanti a se. Ma questa gli cadde di sopra e lui, nel vano tentativo di salvarsi la pelle, cadde a terra. Ma non c’era da preoccuparsi. Proprio per quella che si chiama fortuna, fini soltanto il braccio di metallo sotto la scaffalatura.
“Sei stato fortunato”. Già le sentiva le parole di Al, o di Winry. “Vedi, forse non è tanto male avere un braccio come il tuo .. no? Immagina ne avessi avuto uno di carne.. sai che dolori?” E poi avrebbe concluso con una risata tranquilla. Per cercare di mostrarsi simpatico con il fratello. Quell’occasione fece scattare una molla dentro la testa del maggiore degli Elric. Era quel “doversi sentire fortunato”. Fortunato di cosa? Di  fare paura ai bambini, quando riuscivano ad intravedere il braccio meccanico?
No, si disse, questa volta , per una volta dopo tanto tempo, era il dolore che cercava. Il disperato bisogno di sentire, e di sapere, che da quel braccio avrebbe sentito nuovamente qualcosa.
Per questo quando cercò di ricordare la successione dei fatti, e si rese conto che il dolore lancinante lo stonava, sorrise felice. Sorrise come avrebbe fatto un folle.

Così, a sangue freddo e cuore caldo e tachicardico, prese la saggia decisione di togliersi tutto. Ma non soltanto il braccio. Davvero tutto.

Partì dalla gamba, strappandola via, insieme alla stoffa dei pantaloni. Urlando per il dolore, e piangendo di gioia, per un dolore che non sentiva da tempo.
E non era come quello del collegamento dei nervi.
Era quello di come quando ti pungi per sbaglio con uno spillo. Soltanto molto più forte.
Il sangue prese a zampillare presto, ad esplodere, del tutto quando riuscì a strappare via tutto. I fili e gli allacciamenti fatti con cura da zia Pinako e da Winry. Tutto. Il sangue si espanse per terra, allargandosi come cerchi nell’acqua. Si, pensò, finalmente dolore. Dolore vero.
Ma non era finita.
Spogliatosi di fretta, con foga della giacca e della camicia, portò la mano sana, sulla spalla metallica, e chinandosi  in avanti, già seduto in terra, preparato al dolore, prese a tirare. Ringhiando i denti. Lasciando che pian piano, percepisse la sensazione della carne che veniva strappata insieme all’arto meccanico. E così, poco dopo, si ritrovò davvero senza più la gamba e senza il braccio.
Era vivo.
Si sentiva vivo finalmente.
Urlava.
Nemmeno se ne era accorto, eppure ora che la mente rimaneva qualche secondo in silenzio riusciva a sentirsi. Stava urlando dal dolore. Ed il sangue intanto, andava ad allargarsi. Come Blob. Un film visto chissà quando giorni addietro. E poi rise, reggendosi il sangue della spalla con la mano sana. Rise e ringhiò. Strizzò gli occhi. Cavolo quanto faceva male. Ma rise nuovamente, buttando un colpo di tosse, e sgranando gli occhi, mentre il volto diventava cianotico. E si guardò intorno. Sangue. Gli automail intorno a lui, con tutti i fili sparsi e galleggianti sul sangue. C’era voluto un anno, molti anni addietro, per installarli, e lui in nemmeno dieci minuti li aveva rotti. Staccati. Strappati.
Sgranò gli occhi.

“Cosa ho fatto?” Un sussurro. Flebile. Di chi con agonia torna per un attimo alla lucidità. Aveva appena distrutto anno intero di sofferenza e duro lavoro. E adesso? Quanto ci sarebbe rivoluto. Avrebbe avuto la stessa forza di superare un nuovo intervento?
E intanto il volto impallidiva sempre di più, mentre la ragione faceva violenza sulla follia manifestatasi. Ed aggrappandosi ad un mobile, cercò di tirarsi su. Arrancava, mentre la tempie pulsavano con forza, a causa del sangue che andava scemando dentro il suo corpo. Non si stava nemmeno premurando di fermare l’emorragia. Acchiappò il primo ombrello che vide, decidendo di usarlo come bastone. Ed arrancò velocemente fuori casa. Salendo in macchina. Guidando. Sapendo già dove andare. Sicuro che di lui si ci poteva fidare.
“Al.. Al non deve saperne nulla.. nono.. lui.. lui risolverà tutto.. nemmeno.. nemmeno si accorgeranno di quello che è successo.. si sistemerà tutto.. Maledizione.. sto.. sto parlando da solo..”
Sfrecciava nel traffico. Curandosi solo di non fare incidenti, complicato visto che la vista prendeva a fare cilecca e lui, continuava a parlare solo nella vettura. La mano sana andò a cozzare contro il clacson, con rabbia.
“Maledizione, parlo, maledettamente da solo!” Sbottò strizzando gli occhi e lasciando scivolare via lacrime di una lucidità che stava tornando inesorabilmente troppo in fretta.
Girò alla secondo traversa, infilandosi in una stradina buia. Di lì scorse subito l’entrata di servizio della casa in cui si stava dirigendo. Si preparò alla frenata. Già l’accensione, era stata tutto un programma con un piede soltanto. Aveva usato l’ombrello in sostituzione, ficcandoselo nella ferita, visto che l’unica mano rimasta doveva occuparsi di tenerla sullo sterzo.
Ma la lucidità se ne andò via in fretta, e l’ombrello scivolò via in orizzontale.
Frenò direttamente senza premere la frizione. E la macchina inchiodò con un suono rimbombante e lasciando che la fronte andasse a sbattere in avanti.
Ringhiò ancora una volta dal dolore. Mentre il sedile era ormai impregnato di sangue. E le labbra del volto si facevano viola. Le tempie pulsavano, reclamando sangue al cervello.
Ma non sveniva.
“Che cosa ho fatto?!” Piangeva tenendo la testa indietro, lasciando che la coda dei capelli, si sfilacciasse. Singhiozzava.

 

Era appena rincasato. Altra giornata stressante e stancante. Un po’ turbato dall’aria che si respirava in questi giorni al quartier generale. Sarà che una testa bionda con la coda, era rimasto alquanto in disparte da quasi una settimana. Rinchiuso nella camera del laboratorio, come uno scienziato pazzo. Mai l’aveva visto così attivo nello studio. Più di quanto lo faceva quando studiava per il suo fratellino. E forse era anche giusto così. Anche se non ne parlavano, si percepiva che era stanco un po’ dalla sua situazione. E di certo non poteva biasimarlo. Questo è sicuro. L’unica cosa che lo preoccupava erano le poche attenzioni avute. Già era stato divertente scoprire la strana attrazione tra loro. Ma scoprire che già si era spenta lo rendeva appena inquieto. Per questo, preso dai mille pensieri, quando sentì l’improvvisa frenata proveniente dalla porta sul retro, ci mise un po’ per capire proveniva davvero da lì.
Sbuffò.
Già più volte c’erano stati incidenti a causa di quel vicoletto. Che tutti scambiavano per una via, mentre invece non era altro che un vicolo ceco. Ed alcuni erano finiti schiantati contro il muro. Mai nessun morto. Solo tanti spaventi. Come quello che si sarebbe preso da lì a poco. Quando riconobbe subito la macchina di Ed.
Sgranò appena gli occhi riconoscendolo dal finestrino e sgranando gli occhi.
Nemmeno fece il giro per arrivare al lato del guidatore. Si era lanciato dal lato che si presentava, ed aveva aperto lo sportello, catapultandosi dentro la macchina, portandogli due dita al collo. Gesti meccanici. Riconoscendo le labbra violacee di un cianotico.

Fullmetal.. !” Esclamò. Aveva la tachicardia a mille il ragazzo. Il cuore reclamava sangue. Più sangue, che purtroppo andava perdendo troppo in fretta perché se ne potesse rigenerare dell’altro.

 “Non volevo.. lo giuro, non volevo.. “ Singhiozzò il biondo, prendendo ancora la mano sana sulla ferita aperta del braccio. E scuoteva il capo, strizzando gli occhi. La testa rivolta leggermente indietro. Disperato.

“Se stato tu?” La voce di Roy Mustang tremò per un attimo come non gli succedeva da tempo, mentre guardava il sangue esplodere copioso.

Ma Edward non rispose. Serrò i denti ed emise un grugnito. L’uomo preferì tralasciare a dopo le domande, soltanto lo trascinò fuori dall’auto, stringendolo a se, ed entrando in casa, mentre altro sangue continua a sgocciolare ovunque.
“Non dirlo ad Al.. ti prego.. non dirglielo.. “ Mormorò il giovane alchimista mentre veniva adagiato sul letto del colonnello che rimase interdetto a quella frase. Come faceva a nascondere una cosa simile. Ma non disse nulla. Solo corse al bagno, raccattando garze, disinfettante, ago e filo. Tornò con il fiatone. Non per avere fatto chissà quale corsa, ma per il troppo, davvero troppo sangue che Ed stava perdendo in quello stato confusionale in cui si trovava. Pulì le ferite, tamponando con le lenzuola e con degli asciugamani, mentre il bordo frastagliato della pelle della ferita diventava violaceo. Infettato.
“Ed, rimani sveglio, eh?”
Mormorò Roy lanciando uno sguardo supplichevole al ragazzo, che rimase a fissare il soffitto con sguardo vacuo. Le labbra semi schiuse, e lui che continuava a tamponare la ferita della gamba, mentre quella del braccio, sembrava scemare poco a poco.

“Ti giuro che non volevo.. “Mormorò il biondo muovendo di poco la mano sana verso la spalla bendata stretta.
“Che diavolo significa, non volevo?” Sbottò improvvisamente Mustang sgranando gli occhi dalla preoccupazione. “E poi anche.. non... non avessi voluto.. insomma.. “ Scosse la testa ringhiando mentre bendava del tutto il moncherino della gamba e si dirigeva a versarsi del Whisky. Bevve tutto d’un fiato e tornò vicino il letto, osservando Edward ancora cianotico.
Ed…” Chiamò in un sussurro il colonnello fissando il corpo immobile dell’alchimista più giovane. Il petto immobile. Tutto immobile. Nemmeno il sangue fuoriusciva più. Ed il moro si ritrovò ad indietreggiare mentre capiva che quel gesto folle del più piccolo aveva preso la strada più sbagliata che ci potesse essere. Indietreggiò sino a trovarsi dietro le spalle il muro e la paura ed il terrore presero il sopravvento. Come quando in quei film dell’orrore ci si spaventava del cadavere perché si sa che da un momento  all’altro, avvicinandosi, il corpo del morto si sarebbe rialzato improvvisamente destando le urla di tutti. E invece lui indietreggiava. Consapevole che in questo caso. Nessun cadavere si sarebbe rialzato. Nessuno spavento imminente. Un cadavere sul proprio letto.

FIRST END.

SPROLOQUIO:Credo proprio avrò di parlare per molto.
In pratica parlerò più qui che nella storia appena sopra letta da voi, credo.. cioè.. presumo.

Volevo ringraziare le numerose Mail che mi sono arrivate che chiedevano del piccolino che ho dato alla luce di nome Oreste. Questo esserino di 3.22 Kg (della serie questi me li gioco all’otto) è nato sano e forte. Tutto è andata placidamente bene e più passano i giorni più mi rendo conto di amarlo. Povero il mio compagno che si sente messo in disparte. Ma vabè.. ù.ù per ora ho occhietti soltanto per il mio bamboccio, che ho già deciso di crescerlo viziato!
Addirittura m’è arrivata una mail con su chiesto :”Lo chiami Edward?” O__O

D’accordo la passione per i fumetti e per il resto XD ma vi giuro che non ci avrei mai pensato a chiamarlo o Edoardo o Roy o Alfonso XD… il mio Orestino mi basta e mi avanza come nome ù.ù Già ho dovuto fare a botte con la madre del mio compagno che esigeva di chiamarlo come suo marito, dunque il nonno del padre di mio figlio.

Comunque! A parte questo, mi scuso se non ho potuto commentare le fan fic che in questo periodo sono uscite e dunque relativi capitoli. A parte leggerle come storie della buona notte ad Oreste non è che poi rimanesse tanto tempo per commentare eh? Comunque mi premurerò di commentare da oggi in poi, anche perché mi stavo facendo una certa nomina eh?  Ù__ù sono quasi quasi di tutto rispetto ahaha! ^^

Ma passiamo allo strazio di qui sopra.

STORIA: Dunque questo primo capitolo che farà parte di una raccolta di al massimo.. mm.. cinque o sei capitolo, è un modo per “studiare” meglio Ed e il rapporto con la sua “menomazione”
Se così possiamo chiamarla.. poi non vorrei vedermi arrivare addosso pentole °__°

A dire il vero avrei voluto scrivere qualcosa sulla nascita, in onore del mio piccolo.
Ma visto che immaginarmi un Edward con le doglie è alquanto straziante, e di trisha so BEN poco. Ho preferito buttarmi su qualcosa che avevo scritto già da un pezzo.
Dal primo capitolo non si evince troppo di cosa tratta la storia, ma vi assicuro che questa è la prima che scrivo con un senso ù.ù

Ghghg.

.

Vi auguro a tutti buone feste e buone vacanze.

Un bacio da Marina ^____^

 

 

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Capitolo 2
*** Rumore ***


Credits:FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved. Nessun aggiornamento, solo qualche modifica al testo. Rumore.

 

“Perché lo hai fatto?”
Roy mi fissa col suo sguardo serio. Ostentando disapprovazione e preoccupazione mentre i suoi occhi mi scrutano. Non per tutto c’è una motivazione in fondo. Non so perché l’ho fatto né tanto meno perché mi dispiace tanto non esserci riuscito. La vita a volte è semplicemente tanto, troppo pesante. Se sforzo un po’ la vista riesco a vedere un tubo dal diametro di un centimetro e mezzo uscire fuori dalle mie labbra, tenuto fermo da del nastro adesivo bianco. Ai piedi del letto, sulla stessa linea del mio naso posso intravedere Al. Ha gli occhi rossi di chi ha pianto fino poco prima.
“Ed, guardami …”
Non mi è concesso nemmeno nascondermi dietro uno sguardo o il silenzio. Il sensore del mio battito accelera lievemente prima di tornare stabile. Sempre lo stesso suono. Sempre la stessa cadenza. Sempre la stessa nauseante storia. Io che studio. Io che cerco, io che combatto ed alla fine mi ritrovo sempre con lo stesso pugno di mosche. Fosse stato un pugno di lenticchie avrei anche potuto rivenderlo.
“Perché lo hai fatto?”
Lo ripete. Me lo ripeterà sino a quando non avrà la sua fottuta risposta. Perché pure gli dessi quella vera non gli basterebbe. Vuol sentirsi dire che sono pazzo. Che ho perso la testa, che non lo farò mai più e che ho bisogno d’aiuto. Ma non è così. Non ho bisogno di aiuto. Non voglio nessuno accanto a me. Io e la mia solitudine andiamo d’amore e d’accordo. Volevo soltanto togliermi quel metallo.
Roy sospira abbassando la testa ed intrecciando le mani prima d’alzarsi. Mi fissa dall’alto. Deve aver pianto anche lui.
“Hai riportato delle ferite gravi, Acciaio …” Non mi fai paura. “… Strappando via l’automail della gamba sinistra hai anche distrutto i nervi principali che servivano per farlo muovere. In pratica pure te ne si costruisse un altro non servirebbe a nulla. In quanto alla spalla hai perso molto sangue, e si è infettata andando in cancrena … i medici temono che non supererai la notte … 
Sto per morire. Quali dolci e soavi parole quelle che sento. Morirò. Morirà qui ogni centimetro di me. Chiudo gli occhi e non so perché. Per quale strano motivo,  piango.
Con la mano sinistra, quella sana, cerco tremante il blocchetto e la penna. Alphonse, puntuale, si alza di scatto reggendomi gli appunti così che possa agilmente, per modo dire, scrivere. Poche parole. Poche lettere.
-Non voglio più soffrire-
Al esplode a quel punto.
“Non vuoi più soffrire?!” Sbotta tornando a singhiozzare. “… così lasci che gli altri soffrano per te?! Sei un egoista Niisan! Un egoista! Se tu muori tanta gente piangerà ed anche io piangerò. Winry piangerà. Tutti piangeremo e soffriremo e ti avremo sulla coscienza per sempre! Io ti avrò sulla coscienza per non avere capito! Sei un egoista! Egoista!” Urla quell’ultima parola lanciando via il blocchetto degli appunti ed uscendo. Sbatte la porta. Silenzio. Chiudo gli occhi. Non voglio più vedere la luce del giorno.

Sopravvivo alla notte. Ed anche la notte successiva e quella dopo ancora. Passa una settimana, il tubicino ficcato in gola lo tolgono da un giorno all’altro. Posso parlare, ma non parlo. Non ho voglio di dire nulla. Non voglio ascoltare le parole confortanti di nessuno. Men che meno quelle dello psichiatra. Roy Mustang viene a trovarmi tutti giorni allo stesso orario. Mi racconta un po’ di come Hughes lo tormenta con le foto della sua bambina ormai quasi adolescente. Di Riza, che non gli permette un ritardo di nemmeno un minuto. Mi racconta tutto. Convinto che la quotidianità delle sue azioni mi sproni a voler tornare a farne parte. Ma non voglio far parte di niente e di nessuno. Voglio soltanto silenzio. Tanto silenzio. E tutti invece stanno lì a parlare, a mostrare il loro dispiacere, a dirmi cosa dovrei fare, come dovrei comportarmi. Mi dicono che saranno sempre lì per qualsiasi bisogno. E allora perforatemi i timpani non voglio più sentirvi.

Due settimane dopo sono fuori la terapia intensiva, finisco in una stanza con un comodino e dei fiori dentro un vaso. Le tende azzurre e la stanza color lillà. Il colonnello ha convinto Al a tornare a casa per dormire quella notte nel sul letto. Dice che starà lui a sorvegliarmi.

Quando di notte tutto è silenzio ed il colonnello è uscito dalla stanza, convinto che io dorma, per prendersi un caffè o qualcosa che lo tenga sveglio, io agisco. Le orecchie mi fanno male. Stanno ancora lì sempre a parlarmi. Lo psichiatra poi, è logorroico. Mi spiega come le prime fasi della depressione siano l’isolamento, la mal nutrizione ed il poco sonno. E continua a chiedere, chiedere e chiedere. Parlare, parlare, parlare. La mano sana trema ancora una volta ed il mio secondo gesto folle si svolge nel silenzio. Quando allungo il braccio verso il comodino, ed acchiappo la penna. Quando me la spingo dentro l’orecchio sinistro. E’ come se accoltellassi. Come se stessi uccidendo. Come quando, fuori di testa, picchi qualcuno. Il sangue comincia a sgorgare. Ma non m’interessa. Voglio soltanto silenzio. Ed è in quel silenzio d’oro che l’urlo di disapprovazione di Roy mi prende alla sprovvista. Credevo che le macchinette fossero più lontane. Mi ferma. Mi blocca e getta via per terra la penna.
“Maledizione, Ed.. “ Ringhia. Non è arrabbiato con me, ma con se stesso. Per avermi lasciato solo quel minuto che è bastato per agire indisturbato. Tiene il polso del mio braccio con una mano, mentre con l’altra pigia il tasto per chiamare l’infermiera. Mi volta la faccia.
“Cazzo.. Ed … cazzo … perché.. perché?” La voce gli trema mentre io ricado con la testa sul cuscino. Le coperte macchiate di rosso.
“Tutto è.. troppo rumoroso …” Parlo a fatica. La gola mi brucia per quello sforzo mentre continua a guardarmi sgomento. Il tempo in questa stanza è fermo. Non c’è alcun modo di contare i secondi. I giorni o i mesi. Sono soltanto il susseguirsi di avvenimenti e gesti malati come questi che mi lasciano intendere quanto tempo sia passato e quanto lontano sia dalla realtà.

E’ passata una settimana. Ancora una. Sono stato legato al letto e chi mi viene a trovare non porta più con se né una rivista né un mazzo di fiori. Al viene ogni giorno tutti i giorni. Anche se non lo dice, so perfettamente che avrà odiato il colonnello per non avermi tenuto sott’occhio. Lo so io come lo sanno tutti. E la cosa per certi aspetti mi diverte. Lo psichiatra cerca in ogni modo di farmi parlare spronandomi con domande stupide. Ho capito d’avere davanti uno stupido quando ha chiesto che rapporto avessi con mio padre e che influenze sessuali serpeggiassero dentro la mia mente. Cominciano a credere che goda nel provocarmi dolore? Che stupidi.
Chiudo gli occhi in questa mattina fredda. Il paesaggio fuori è bianco. Ha nevicato praticamente tutta la notte senza mai smettere un secondo. Ho sentito il suono della neve cadere sulle strade sino da qui. A quanto sembra quella penna non è riuscita a fare danni. Per cui ancora la notte non riesco a dormire come vorrei.

E in un pomeriggio, mentre fingo di dormire coricato su di un fianco, con Al seduto davanti a me che stringe la mia mano, Roy Mustang si presenta con un pacco regalo. Ha sulla faccia il sorriso. Come se avesse la soluzione in mano.
“Tirati su, Acciaio..” Il suo tono divertito lascia intendere che soltanto mio fratello è l’unico imbecille che crede ancora che io dorma. Per cui apro lentamente gli occhi. Pian piano comincia a darmi fastidio anche la luce. Passo da un fianco a supino mentre Al continua a non volermi lasciare la mano.
Il colonnello scuote in una mano il pacchetto. Rumore di oggetti piccoli. Ancora rumore. Non si aspetta che dica qualcosa. Scarta il regalo, sempre che lo sia, al posto mio e ne tira fuori un piccolo mangia dischi.  A dire il vero non ne avevo mai visti di così piccoli.
“Le tue notti insonni stanno per finire …” Allarga il petto tutto orgoglioso dell’idea che ha appena avuto e poi ci mette dentro un disco nero lucido.
Inizialmente è soltanto un suono gracchiante ed indefinito, poi lentamente, con cautela, come se temesse di farsi ascoltare, la musica viene fuori. Un violino. Le note di un pianoforte ed un flauto. Tre strumenti compongono la melodia. Rimango lì immobile. Mentre il respiro mi si fa regolare, allo stesso ritmo lento e dolce della musica. Passano meno di pochi minuti quando mi perdo nel buio dei miei sogni.

 

“Crede che lo dovrei portare a Reesempool?”
Al mi si affianca in questa sera d’inverno. E’ quasi natale, ed io sto qui in ospedale a fare da balia ad uno stupido nano. Mi volto a fissare il fratello minore, appunto del nano, il quale mi guarda di rimando aspettando una risposta. Povero piccolo Elric. Destinato a non godere della sua pace e del suo corpo.
“Credo dovrebbe deciderlo lui..” Rispondo mostrando la mia disapprovazione nel prendere decisioni così affrettate.
“Non sono sicuro sia in grado di … come dire, Decidere..” Si tortura le mani il minore senza avere la forza di guardarmi negli occhi.
“Allora aspetta che lo sia …”
“Sempre se tornerà ad esserlo …”
Una smorfia sul mio volto a sentire le sue parole.
Alphonse tuo fratello ha solo bisogno di tempo, starà bene …”
Lo vedo indeciso, non mi crede e la cosa mi fa perdere le staffe. Ma non lo lascio a vedere.
“Vai a casa … sei stanco anche tu … vedrai che acciaio starà buono come un agnellino …”
Riluttante annuisce prima di sparire oltre il corridoio per raccattare le sue cose in camera del fratello.

 

Quando apro gli occhi la luce della stanza mi ferisce. Fuori il paesaggio continua ad essere innevato e la voce del colonnello mi prende alla sprovvista. Ma senza infastidirmi.
Finalmente…” Sospira divertito. Mi volto a fissarlo. “Ben svegliato, Acciaio …” Sorride adesso.
“Quanto ho dormito?” Domando stropicciandomi gli occhi con l’unica mano che mi è rimasta. Noto in lui un’espressione stupita. La mia voce risulta calma, tranquilla.
“Trentadue ore …”
“Wow …” Annuisco cercando di mettermi seduto, lui si alza dalla sedia accanto al letto e mi sorregge la schiena aggiustando i cuscini dietro di me. Rimaniamo in silenzio per qualche secondo.
“Lo so che … era una balla quella dei nervi … non è vero che non potrò più farmi impiantare l’automail…
Ridacchia grattandosi la punta del naso. “Lo so che lo sai.. speravo di farti sentire abbastanza in colpa da rinsanire..”
Sbuffo un risolino ed il mio stomaco brontola a gran voce.
“Ti porto il pranzo?” Mi chiede lui ed annuisco ancora una volta. Per cui si stiracchia. Al non è in stanza evidentemente anche lui mandato via a riposare. Chissà che non abbia dormito trentadue ore come me.
“Mi lascia solo? Non teme che possa fare qualcosa di stupido?” Domando. Lui si blocca e scuote la testa.
“Bentornato Acciaio…” Pronuncia soltanto uscendo dalla stanza e sparendo oltre il corridoio.

SECOND END

Angolo off: Ho scritto un secondo capitoletto di questa storia che realmente non aspetta né un vero inizio né una vera fine. Soltanto immagini, sprazzi di un futuro folle ed inventato che potrebbe esistere e come no.  Ad essere sincera mi ha ispirato tanto leggere alcune doujinshi di una ragazza giapponese che crea storie divine, doujinshi su FMA, lei si chiama SEINA RIN, in arte IDEA. La storia in particolare è PRECIOUS WONDER #2
Cmq spero la storia vi piaccia, scritta nei buchi della giornata, quei pochi che rimangono ringrazio tutti per gli auguri, Oreste cresce a vista d’occhio :)

 

Baci ed alla prossima.

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